Secondi,
minuti, forse ore che sono qui, su questa sedia, a fissare il vuoto.
Anche
il mio respiro, anch’esso, mi pare un’offesa. Rompe
il silenzio, scandisce lo scorrere del tempo.
Era
inevitabile, lo sapevo fin dall’inizio. L’ho sempre
saputo.
Sarebbe
accaduto ancora, prima o poi, ma adesso che il momento è
arrivato, non sono pronta.
Ascolto
i rumori, attutiti, che provengono dalla camera da letto.
Lì,
dove nemmeno mezz’ora fa ci siamo amati.
“Devo andare. Mi
dispiace” mi ha detto ed io sono scoppiata in
lacrime.
I suoi
occhi si sono incupiti, forse … forse
s’è sentito anche in colpa. Le sue braccia mi
hanno avvolta, stretta al suo petto, ed io avrei voluto urlare con
tutto il fiato che avevo in corpo.
Non andare. Resta. Avrei
voluto supplicarlo.
Anche qui hai una famiglia.
Anche noi abbiamo bisogno di te, della tua forza, del tuo sostegno.
Eppure dalle mie labbra non è scivolata via nemmeno una
parola.
Ci
siamo amati. I nostri corpi uniti hanno pronunciato tutto quello che,
invece, dalle nostre labbra avrebbe soltanto lasciato ferite aperte.
Un
rumore, alle mie spalle. E’ lui.
Non mi
volto, non ne ho la forza. O forse il coraggio.
E’
silenzioso nei movimenti, come nel temperamento è pacato.
Entra
in punta di piedi, un ospite in una casa che non ha mai sentito davvero
sua.
No, la
sua casa non è questa. La sua vera famiglia non è
qui.
E lui
ora deve andare da loro.
«Quando
hai l’aereo?» domando asettica, ma molto civilmente.
«Tra
un’ora» risponde a voce bassa.
Un’ora!
Cosa può accadere in un’ora che gli faccia
cambiare idea? Che decida di restare, qui, per sempre, liberandomi dal
senso di precario, di bilico in cui verso, praticamente ogni momento
vissuto con lui?
Attimi
rubati, frammenti di una vita incompleta, sempre sospesa tra due mondi.
Noi e
loro.
Quando
le sue mani sfiorano le mie spalle, esitanti, leggere, come a voler
tastare il terreno, come a chiedere anch’esse scusa, il
respiro si blocca nel mio petto, lo stomaco si contrae, la vista si
appanna.
Signore,
non farmi piangere. Ti prego.
«Stai
bene?» chiede, leggermente teso.
Annuisco.
Non mi fido della mia voce.
Le dita
di una sua mano scivolano in una carezza lieve che raggiunge il collo,
alla base del quale, si chiudono, stringendo appena un po’.
«Non
hai mai imparato a mentire» sussurra inclinando il capo verso
la mia nuca, il suo respiro che mi solletica l’orecchio.
Stringo
le labbra tra loro, con forza, perché so di non avere
diritto ad esprimere il mio dolore.
E’
sbagliato. E’ crudele.
Per
lui, per coloro che lo aspettano e che non sanno che, in questo momento
un cuore sta soffrendo.
«Ho
avuto un pessimo maestro» mormoro, ma, nonostante i miei
sforzi, la voce si incrina ugualmente.
Sento
il sorriso nascere sulle sue labbra che premono sui miei capelli.
E
allora, chiudo gli occhi, per dare modo ai miei sensi di fotografare
quest’attimo per tutti quelli a venire dove lui
sarà solo un ricordo nella mia memoria.
La sua
voce, il suo profumo, la sua presenza.
Il suo
braccio si allunga oltre l’altra spalla, e mi illudo che
possa tenere insieme i pezzi di me che si frantumano ogni volta che va
via.
Tanti
pezzi. Sempre più piccoli, sempre meno rinsaldabili.
Un
istante ancora e l’abbraccio si allenta, il suo corpo si
distacca.
«E’
ora» dice e reprimo il lamento che l’animale ferito
dentro di me vorrebbe emettere.
Non
adesso. Non ora.
Mi alzo
dalla sedia, ma non riesco a guardarlo negli occhi.
Lo
precedo fuori dalla cucina. All’ingresso, in terra, il suo
borsone.
Distolgo
rapidamente lo sguardo, mi avvio dal lato opposto.
Mi
fermo, in corrispondenza della porta di legno bianca appena socchiusa,
e mi sposto di lato.
Una
scena già vista, un copione già scritto.
I suoi
passi, dietro di me, silenziosi come al solito. Mi supera, con
delicatezza apre di più la porta.
La
stanza in penombra è rischiarata dalla lampada notturna sul
comò che getta ombre calde e confortanti sulla piccola
culla, dove un angelo, ignaro delle brutture della vita, dorme sogni
tranquilli.
Si
avvicina, e ad ogni passo che fa, il mio cuore si stringe un
po’ di più.
Resta
fermo, in piedi dinnanzi a quel lettino dove suo figlio giace quieto.
Sta
pregando per lui.
Lo fa
ogni volta.
Una
carezza a sfiorare i suoi capelli e poi si raddrizza, per percorrere
velocemente a ritroso quella strada che all’andata era stata
molto più lunga.
Quando
mi passa davanti, l’espressione del suo viso è
tirata.
Restano
solo il corridoio e la porta d’ingresso, adesso, prima che la
distanza lo porti via da noi e il tempo inizierà a
cristallizzare in un’immobilità ritardata.
Dobbiamo
salutarci.
Quando
mi guarda, lo vedo. Il bisogno di essere lasciato libero, la
necessità di avere la mente sgombra, il cuore sereno.
Prende
il borsone, lo carica in spalla, aspetta.
Aspetta
che lo lasci andare via.
E
allora mi avvicino più che posso, con il corpo, con il
cuore, col sorriso.
Sulle
punte dei piedi, mi aggrappo al suo collo, lo stringo con tutta la
forza che ho e gli sussurro all’orecchio: «Vai,
amore mio. Salvane più che puoi»
Va via,
così, mio marito.
Con un
borsone grigio di Medici Senza Frontiere e un biglietto aereo.
Destinazione:
Giappone.
NOTA
DELL’AUTRICE:
Questo racconto breve
è stato scritto per
l’iniziativa “Autori per il
Giappone”.
Il vincolo era di
scrivere un paio di cartelle, non di più
(circa quattromila battute, ovvero anche gli spazi) con un piccolo
margine di elasticità e di inserire un riferimento alla
tragica situazione del Giappone nel marzo di quest'anno.
Grazie per aver letto XD
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