Impossibile
Dimenticare
Quale
gioia per una giovane madre apprendere di essere rimasta incinta. Un
figlio che si sviluppa dentro di me, una nuova vita così
legata alla tua, un nuovo individuo da proteggere e da amare sin dai
primi istanti.
Avevo
ventitre anni quando il medico mi disse che aspettavo il mio primo
bambino.
Ma
non potevo sapere che quasi al termine della gravidanza, un errore
umano avrebbe sgretolato in mille piccoli pezzi, impossibili da
ricostruire, la fonte della mia felicità.
Yelena è tornata di fronte alla sua
casa, come ogni anno, nel giorno del ricordo.
Non è sola. Altre persone si
ritrovano su quelle strade ormai deserte e lasciate di nuovo alla
natura, che incontrastata è tornata a prendere
ciò che è suo.
Non possono rimanere troppo, il pericolo non
è cessato, ma non riescono neanche a non adempiere a quello
che ormai sembra essere diventato una sorta di rito al quale
è difficile non partecipare.
I loro volti sono scavati, come se il dolore
fosse tornato con violenza; i loro occhi sono umidi, pronti a far
affiorare di nuovo quelle lacrime difficili da trattenere.
Quella che un tempo era la loro
città, ora è un deserto in cui le radiazioni
ancora rischiano di fare del male.
Yelena non ha paura.
Yelena ha già perso tutto.
A lei hanno già fatto molto male.
Il terrore è scomparso dal suo
cuore, la paura dai suoi occhi. La tristezza riaffiora ogni volta, ma
è facile da trattenere.
La rassegnazione ormai alberga in lei unita,
però, alla speranza che le nuove generazioni non commettano
gli stessi errori del passato; che altre vie vengano prese, ora che le
scoperte sono avanzate, ora che è possibile ragionare e
comprendere le cose, le informazioni, le tragedie quando ancora non
è troppo tardi.
Yelena sospira, guardando la sua modesta casa
dove un tempo era felice e sognava un futuro pieno di gioia accanto al
suo uomo e al bambino che portava in grembo.
Ora non è rimasto che un involucro
di ricordi. Una costruzione decadente che rimane in bilico tra la morte
e la vita, così come ogni cosa in quel luogo.
Sembra di essere in un luogo in cui la
realtà e l’altro mondo si congiungono.
Quella che un tempo veniva chiamata
“città dei fiori” ora
l’appellano “città fantasma”.
Il passaggio dalla vita alla morte. Qualcosa
che ha vissuto anche lei nel suo cuore.
Non si muove. Sembra essersi fossilizzata
dinanzi alla sua casa ma, dopo poco, volta lo sguardo verso
l’involucro ormai pericoloso che dovrebbe proteggerli da
un’ulteriore fuoriuscita di radiazioni.
Lo fissa ininterrottamente per qualche minuto,
mentre una sola domanda, una sola parola compare come una luce nella
sua mente piena di ombra: Perché?
Un tocco sulla spalla la spinge a girarsi, ma
non sobbalza. Chi ha perso tutto, riesce a non lasciarsi prendere
troppo dalla paura.
Osserva Irina, un’anziana signora
con gli occhi umidi, che la guarda con comprensione, prima di dirle di
andare.
Il tempo è finito.
Non è una visita di piacere, una
sorta di turismo come quello che le persone curiose, o malsane,
vogliono fare in quel luogo. No, il loro è un ritorno ai
ricordi, perché nulla va dimenticato, soprattutto le
catastrofi.
Bisogna
imparare sempre dagli errori del passato, per non ripeterli nel
presente.
Yelena lo ha imparato, ma quante persone
riescono davvero a comprenderlo?
Annuisce lievemente con il capo ad Irina e,
dopo aver lanciato un ultimo sguardo verso la sua casa, si appresta a
seguire il resto del gruppo all’uscita.
Prima di andarsene, una volpe le attraversa la
strada, spingendola a fermarsi un poco.
La fauna e la flora sembrano aver occupato
quel posto ormai lasciato dagli umani.
Yelena ora è sola.
C’è un altro deserto da
affrontare, prima di tornare alla vita.
Un altro luogo dove la morte risiede.
Il cimitero è pieno di lapidi,
molti i morti da quel terribile giorno in cui accadde il disastro
nucleare peggiore della storia.
Ma tra le tante, ce ne è una
bianca, dove è facile notare il volto di un neonato.
Una mano scende rapida a sfiorare quel volto
sereno, quei piccoli occhi che sembrano osservare il mondo con
confusione e meraviglia, e quella testa troppo grossa per un bambino di
appena un giorno…
Una lacrima scende dai suoi occhi. Dinanzi a
lui non riesce più a trattenersi.
Il suo bambino. Il suo piccolo angelo
innocente.
La sua fonte di vera gioia.
Una gioia sgretolata per colpa di uno stupido
errore umano.
26
Aprile 1986
È
notte quando Yelena sente il piccolo muoversi dentro di lei, dandole un
calcio. Si sveglia di colpo, impaurita, prima di sorridere
all’irruenza del suo bambino.
Sarà
un piccolo calciatore, pensa tra sé.
Dopo
poco torna a dormire, tranquilla, pensando a quando potrà
tenerlo finalmente tra le mani.
Yelena,
come tutti gli altri abitanti di Pripyat, non immagina minimamente che
quella notte, a seguito di un test privo di sicurezze nella centrale
nucleare adiacente alla città, è fuoriuscita una
nube radioattiva i cui venti hanno trasportato nei territori vicini.
Al
mattino Yelena si sveglia tranquilla, come il resto della
città.
La
vita riprende nella sua solita routine, come una ruota che gira senza
sosta.
C’è
chi addobba la piazza per la festa imminente del primo maggio, chi
controlla con sguardo vigile i bambini che giocano felici nei cortili,
e nulla lascia presagire eventi tragici.
In
fin dei conti, dall’alto tutto tace.
Ben
trentasei ore dopo l’incidente, una serie di autobus giungono
a Pripyat. Tutti vengono invitati a lasciare le loro cosa a gran
velocità.
Yelena,
come il resto della popolazione, non riesce a prendere che poche cose,
prima di seguire il marito in uno degli autobus.
È
spaventata e confusa, ma gli stessi sentimenti si scorgono nei visi
degli altri passeggeri. C’è chi chiede ai militari
se e quando potranno tornare nelle loro case; la risposta sembra essere
positiva, anche se non accadrà presto…
…
ma non sanno che il presto si tramuterà in mai.
Yelena
si stringe al marito e posa una mano sul pancione, come se volesse
proteggere il suo bambino ed essere, allo stesso tempo, protetta dal
suo amato.
Dal
finestrino osserva Pripyat farsi via, via, più lontana, fino
a trasformarsi in un puntino e poi… il nulla.
Un
mese dopo Yelena è in ospedale.
Suo
figlio sta per nascere e il suo cuore sembra impazzire
dall’immensa felicità.
Presto
potrà tenere il suo esserino tra le braccia, quel bimbo
tanto amato e voluto.
Il
parto non si presenta facile; i medici propendono per il cesareo.
Yelena
avrebbe voluto un parto naturale, ma cede per amore del suo bambino, in
fondo per lui farebbe qualsiasi cosa.
Ora
tutto procede con più tranquillità, fino a quando
il piccolo viene alla luce, urlando il suo saluto al mondo.
Ma
il mondo non è stato carino con lui, e ciò si
nota negli sguardi seri dei medici e in quelli spaventati delle
infermiere.
Laddove
dovrebbe esserci gioia, c’è paura e sgomento,
oltre a un’insolita tristezza.
Il
mondo è stato crudele con lui, infierendo su quel suo
piccolo e povero corpicino.
Yelena
lo guarda e lo shock la fa rimanere senza parole.
Vede
crollare tutti i suoi sogni e la sua gioia.
Guarda
quella testolina deformata e non riesce a reprimere un urlo: non di
paura, ma di pura rabbia contro il mondo, contro quegli uomini e i loro
stupidi test nucleari che hanno reso il suo bambino malformato.
Passato
quel primo momento di sconforto, l’amore materno subentra e
Yelena tende le braccia verso la sua creaturina. Lui, seppur
malformato, è suo figlio, il sangue del suo sangue, parte di
lei.
Lo
stringe con delicatezza a sé, accarezza quella testolina
troppo grande per un neonato e lo bacia.
Calde
lacrime escono dai suoi occhi, mentre coccola il suo primo e unico
figlio, a cui ripete spesso parole magiche come a volergliele imprimere
nella mente e nel cuore.
“Ti
voglio bene.”
Mikhail
non riesce a superare la prima settimana di vita.
Yelena
non riesce a credere che il suo bambino sia morto.
Per
molti giorni smette di parlare e di mangiare, se non quel poco per non
seguirlo nella morte.
Con
il tempo riesce a emergere da quell’oscurità che
l’ha avviluppata con forza, grazie all’amore
immenso di suo marito e dei suoi familiari.
Tuttavia
prende la decisione di non provare più ad avere figli.
Altre
donne sono rimaste sterili o hanno perso i loro figli dopo le prime
settimane di gravidanza; altri bambini sono nati con malformazioni ben
più gravi del suo piccolo.
Non
vuole più rischiare. Non è giusto far soffrire un
bambino.
26 Aprile 2011
Venticinque anni sono passati ma
c’è chi ancora grida ad alta voce di creare nuove
centrali nucleari, perché esse sono il futuro per il mondo.
Ma queste cose possono essere comprese, forse,
solo da chi ha affrontato di persona un evento tragico come Chernobyl,
o da chi è particolarmente sensibile e di
mentalità aperta da ascoltare, guardare, informarsi prima di
parlare.
A persone come Yelena, lo scoppio della
centrale nucleare, e la conseguente fuga di radiazioni hanno ucciso
l’unico figlio che tanto desiderava ma anche la sua stessa
vita e il suo futuro.
Per lei il nucleare è un passato
difficile ancora da accettare. Un passato che si deve comprendere per
non compiere ancora gli stessi errori.
Yelena, sola davanti alla tomba del suo
bambino, gli dona un ultimo saluto mentre il giorno volge al termine.
Solleva lo sguardo verso il cielo;
all’orizzonte il sole sta tramontando, lasciando sfumature
che tendono dal rosso al violaceo.
Guardandolo sorride lievemente, confidando
nella tenue speranza di un futuro migliore per tutti.
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Un piccolo omaggio-ricordo a un evento tragico avvenuto a Chernobyl
esattamente nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 1986.
Non ero ancora nata, ma mancavano pochi mesi alla mia
nascita, e seppur l'abbia scoperto più tardi, questa
tragedia mi è entrata nel cuore ed è impossibile
dimenticare. Come poterlo fare, in fondo?
Non sto a dire troppo sul discorso Nucleare,
perché non è questo il luogo dove parlarne, ma
quello che penso a riguardo si riflette anche nella storia.
I nomi e la vicenda sono tutti frutto di fantasia,
seppure bambini malformati siano nati realmente a causa di quelle
maledette radiazioni.
Pripyat, come saprete, era una città adiacente
alla Centrale. Un tempo veniva chiamata Città dei Fiori -
come ho scritto anche nella storia - ora viene vista come una vera e
propria Città Fantasma.
Che dire. Non so neanche se l'ho scritta bene, ma questi
sono i casi in cui non bado molto all'aver scritto tutto perfetto. Sono
storie che nascono dal cuore e vogliono essere una sorta di omaggio a
eventi tragici che non dovrebbero più ripresentarsi.
Tutto qui. Ho già detto troppo.
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