That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Chains - IV.006
- Paternità
Meissa Sherton
74, Essex Street, Londra - ven. 31 dicembre 1971
Immersa in una soffice coltre immacolata, Londra
si stava preparando all'ultima notte dell'anno, una notte di balli,
feste e allegria; un turbinio di fiocchi volteggiava lieve sopra Essex
Street, la luce sempre più tenue, mentre nel parco, in fondo
alla strada, la neve danzava già al chiarore giallognolo dei
primi lampioni accesi, sempre più fitta, convincendo anche
gli ultimi ritardatari ad affrettare il passo. Scorrevo lo
sguardo su quel piccolo angolo di mondo fuori della finestra, senza
neppure vederlo, seduta sul divano, nella semioscurità della
mia stanza, tutte le candele lasciate spente, le gambe cinte dalle
braccia e la testa appoggiata alle ginocchia, i capelli sciolti sulla
faccia, a schermare tutto quello che avevo intorno, la mia vita. Di
quella casa, non volevo più vedere niente, non volevo
più sentire niente. Avevo già visto e sentito
troppo, in quei giorni.
Dall'altra parte della strada, seguii Edmund Flannery nel suo cappotto
più elegante: aprì la porta lasciando passare i
due figli vestiti come bambole e la moglie impellicciata, se la
richiuse alle spalle e si avviò con gli altri, rapidamente,
verso il taxi che si avvicinava pigro, illuminando con i fari un
volteggiare sempre più insistente. Entrando
nell'auto, l'uomo alzò gli occhi verso le nostre finestre,
un'espressione stordita impressa nello sguardo, chissà se si
stava domandando il motivo per cui quella casa, rimasta disabitata per
anni, nel giro di pochi giorni aveva ospitato un via vai continuo di
persone, molte delle quali dai modi e dall'aspetto quanto meno
eccentrici. Si calzò meglio il cappello in testa e
sparì nel taxi, probabilmente pronunciando il nome di un
locale in cui si sarebbe tenuto un elegante veglione, proprio
nell'attimo in cui Dilly, l'Elfa che aveva preso il posto di Kreya
nella cura di noi ragazzi, arrivò tutta trafelata per
spazzolarmi i capelli e vestirmi per la festa: benché non
avessi alcuna voglia di muovermi dal mio divano, sapevo che dovevo
lasciarla fare, non avevo forza per reagire, né la voglia di
aprire un altro fronte di discussioni in famiglia.
E ce n'erano state, in quei giorni, in casa nostra, talmente frequenti,
assurde, improvvise, che a volte avevo dubitato che quelli fossero i
miei familiari, tanto diverso il loro atteggiamento da quello abituale,
o che stessi vivendo un orrendo incubo da cui prima o poi mi sarei
svegliata. Erano ormai giorni, però, che non
riuscivo a svegliarmi. Mi ero isolata spesso nel buio della mia stanza,
nei miei pensieri, allontanandomi da quelle stranezze, era diventato il
mio nido, il mio porto sicuro, al punto che sarei rimasta lì
per sempre, solo lì riuscivo ancora a nutrire una qualche
speranza, avrei rinunciato persino a vedere Sirius e Regulus, quella
sera, pur di non dover affrontare il mondo là fuori.
Non m'importava più nemmeno che quella fosse, in teoria, una
delle giornate che più avevo atteso nella mia vita, con
ansia e speranza: per anni avevo pregato gli dei che una ragazza
legasse il suo destino a quello di Lucius Malfoy, liberandomi
così da un futuro senza amore e senza felicità,
deciso quando ancora nessuno di noi era nato. E quella sera,
finalmente, Narcissa Black avrebbe compiuto il miracolo, mi avrebbe
resa definitivamente libera, fidanzandosi con l'odioso
Lucius. Eppure, non riuscivo a essere felice, a sorridere: nei
miei sogni, infatti, avevo sempre brindato a quel fidanzamento con una
marea di succo di zucca per poi tuffarmi tra le braccia di Mirzam, che
mi baciava dicendomi “Hai
visto? Dovevi solo esprimere un desiderio, e questo si sarebbe
avverato... ”. Ora, però, anche se
esprimevo il desiderio di avere mio fratello lì al mio
fianco...
Mirzam...
Una lacrima mi scese sulla guancia, rapida l'andai ad
asciugare... Non solo mio fratello non era al mio fianco, ma
non sapevo quando né se l'avrei mai rivisto. E non
potevo nemmeno piangere, papà s’incupiva ancora di
più, quando ci vedeva piangere...
Dilly andò alla finestra e provò a chiudere le
tende, io la pregai di non farlo, non volevo... Poteva
spazzolarmi i capelli e vestirmi, ma doveva permettermi di continuare a
guardare fuori da quella finestra, dovevo controllare la
strada. Prima o poi, nel buio, ero convinta che sarebbe
apparsa una figura alta ed elegante, che avrebbe consumato rapido e
deciso gli ultimi metri di marciapiedi, sotto gli alberi spogli e per
le scale, muovendosi leggero e sicuro sulla neve e sul ghiaccio,
avrebbe bussato alla porta, sarebbe entrato, avrebbe inondato quella
casa triste e buia con la sua risata, con la sua voce e infine mi
avrebbe stretta a sé, dicendomi che era tutto un errore, che
non era vero niente, che non mi avrebbe lasciata mai.
Mirzam...
Nonostante quello che stava accadendo, benché non fossi
più una bambina e sapessi che quelli erano solo stupidi
sogni, benché mi fosse chiaro che non aveva più
senso illudersi, né pregare, sentivo di dover attendere,
ancora e ancora, con fiducia e speranza, dovevo credere in Mirzam,
nonostante tutto, perché se mio fratello avesse sentito che
anch’io dubitavo di lui, non sarebbe più
ritornato, e allora, il mio mondo e la mia famiglia si sarebbero
davvero persi per sempre. La realtà che avevo
sentito dalla voce di mio padre, spiandolo dal buio del sottoscala,
mentre parlava con Emerson, mi aveva tolto il fiato: Mirzam non sarebbe
più tornato, non l'avrei più
rivisto. Perché secondo mio padre Mirzam ci
aveva... Non riuscivo a pronunciare quella parola, non ci
riuscivo, troppo irreale, incomprensibile, devastante: non era
possibile, no, in nessun modo era possibile che fosse quella la
verità… Era impossibile che Mirzam ci
avesse tradito. Altrettanto impossibile, però, era che mio
padre mentisse o si sbagliasse. Non sapevo che cosa fare, non
sapevo in che cosa e a chi credere. E soprattutto, tremavo
all’idea che, se fosse stata quella la verità, un
giorno tra loro ci sarebbe stata una resa dei conti ed io avrei dovuto
decidere da che parte stare.
Come posso scegliere? Come posso scegliere tra mio fratello e mio padre?
Mi sedetti, esausta, mentre Dilly iniziava a intrecciarmi i capelli, la
mente lontana da lì. Avevo passato gli ultimi
giorni in quella casa, da quando eravamo stati dimessi dall'ospedale di
Inverness ed eravamo tornati a Londra, com’era già
deciso da prima del matrimonio; avevo sperato che per la convalescenza
saremmo ritornati a Herrengton, ma nostro padre, con una freddezza che
non gli conoscevo e che all’inizio non avevo compreso, aveva
chiuso la questione dicendo che la sua decisione era quella, che non
c'era altro da aggiungere e che né io né mio
fratello avevamo più l'età per fare i capricci.
Sentirlo così distante era stato sconvolgente, aveva
talmente tante preoccupazioni che passava con noi pochissimo tempo, e
anche quando era davanti a noi, sembrava non vederci: all'inizio avevo
temuto che stesse ancora male, solo un po' per volta i tasselli erano
andati al loro posto. Nostra madre, da parte sua, aveva fatto
di tutto per isolarci dal mondo esterno, aveva nascosto o distrutto i
giornali, e con la scusa che io e mio fratello dovevamo riprenderci
dall'incidente, aveva limitato le visite di amici e parenti al minimo
indispensabile: sembrava non rendersi conto che di lì a
pochi giorni saremmo tornati a scuola, e allora quella
realtà che non voleva affrontare con noi, ci avrebbe
travolti senza mediazione, senza filtri, con tutta la cattiveria che i
nostri compagni ci avrebbero gettato addosso. Alla fine, non
erano comunque riusciti a nasconderci niente: poco per volta avevamo
compreso che gli uomini del Ministero nutrivano su di noi e su Mirzam
molti sospetti riguardo al disastro che era accaduto al
matrimonio. Rigel, all'inizio, non aveva reagito, aveva
mantenuto un atteggiamento freddo, distaccato, si era chiuso in uno
strano silenzio ma poi, sempre più spesso, improvvisamente,
esplodeva in risposte acide e risentite verso i nostri genitori, anche
verso nostra madre, lui che a dir poco la adorava. Io non
capivo. Nostro padre per un po’ aveva mantenuto la
calma, aveva cercato di evitare di rispondergli, poi il clima era
diventato via via sempre più intollerabile, con
papà che aveva cercato delle spiegazioni, e Rigel che si
chiudeva in un silenzio sempre più
impenetrabile. Dallo sconcerto, si era passati rapidamente al
nervosismo e ormai, negli ultimi due giorni, temevo che Rigel si
sarebbe messo nei guai, guai seri, stavolta: non riuscivo nemmeno a
immaginare cosa sarebbe successo se, per punizione,
l’avessero mandato a… Avevo pianto, anche se
cercavo di trattenermi, non riuscivo a evitarlo, non potevo sopportare
che si dicessero quelle cose su Mirzam, né l’idea
che il Ministero ce l’avesse con nostro padre…
Quando mi ero resa conto di come mi guardava papà quando
piangevo, mi ero sentita ancora peggio e mi ero imposta da sola di
farmi forza, di calmarmi, ma non era semplice: lo vedevo che anche lui
stava male, che anche lui soffriva per Mirzam, anche se cercava di non
farlo vedere, anche se cercava di mostrarsi duro e implacabile, quella
storia l’aveva ferito profondamente. Soffriva anche
per le risposte di Rigel e per le mie lacrime... e, con la mamma,
sentivo che discutevano pressoché ogni notte. Non capivo
come la nostra famiglia si fosse ridotta in quello
stato… E non potevo accettare che fosse tutta colpa
di mio fratello.
Il giorno precedente, all'alba, senza preavviso, eravamo stati
svegliati dall'arrivo di dieci Aurors capitanati dal signor Crouch che,
nonostante tutte le obiezioni di nostro padre, avevano perquisito la
casa da cima a fondo, soffermandosi e buttando per aria persino le
nostre stanze, interrogando per ore i nostri genitori. Crouch
aveva anche tentato di interrogare me e Rigel, solo Alastor
“non so cosa”, un Auror dalla fluente chioma
leonina, dai modi spicci e la voce rude, era riuscito con estrema
difficoltà a convincerlo che eravamo piccoli e non gli
servivamo a niente, e alla fine quell'orribile uomo ci aveva lasciati
in pace, anche se non ci aveva mai perso di vista. Emerson era
arrivato, come nostro legale, solo a metà mattina,
benché fosse stato convocato subito, in tutta fretta, si era
scusato per il ritardo ma non aveva saputo dare una motivazione
credibile, lasciando mio padre piuttosto interdetto, bastava guardarlo
in faccia per capire che si chiedeva dove diavolo si fosse nascosto e
perché non avesse risposto nemmeno a voce all'invio del
Patronus, alla fine, però, l'urgenza del momento non gli
aveva permesso di indagare sull’accaduto e si erano chiusi
nello studiolo a parlare di questioni legali. La mamma era
riuscita a convincere i Ministeriali a farci restare nella sala da
pranzo, la zona più tranquilla della casa, sotto il
controllo di una giovane Auror donna: doveva essere una nata babbana
perché di tanti che erano in quella casa, era
l’unica a vestire alla babbana in maniera credibile,
cercò di metterci a nostro agio, ci disse che erano semplici
controlli di routine, che il Ministero voleva solo assicurarsi che
Mirzam fosse l’unico responsabile di quanto stava accadendo.
Mia madre l'aveva fulminata con lo sguardo, sentendola pronunciare il
nome di nostro fratello in quel modo, e da quel momento smise di
trattarla con il cortese distacco dimostrato fino a quel momento per
chiudersi in un silenzio carico di rancore; la donna capì di
aver commesso un errore, il peggiore, proprio di fronte a noi ragazzi,
troppo tardi e a sua volta non le restò che rimanere in
silenzio per l’imbarazzo. Quando
all’arrivo di un ministeriale molto giovane, la mamma apprese
che altre due squadre stavano cercando di nuovo documenti e manufatti a
Herrengton e Amesbury, sbiancò e la sentii imprecare
sottovoce, quando però la fissarono insospettiti, si
ricompose rapidamente e con tutta l’altezzosità
che riuscì a rimettere insieme in pochi istanti, si
lamentò che “barbari
com’erano”, le sarebbero serviti schiere di Elfi e
settimane di lavoro per rimettere in ordine il disastro che
“quei bifolchi” stavano facendo nella sua
casa. Io annuii comprensiva, ma dalla faccia di Rigel, si
capiva che non credeva affatto fosse quello il motivo del suo
malcontento.
Ciò che aveva però sconvolto e allarmato di
più nostro padre, era stata la visita dei tre Decani della
Confraternita, la sera precedente: appena erano arrivati,
papà li aveva condotti senza tante cerimonie nel suo studio
e aveva gettato dei Muffliato potenti per non farci sentire nulla, ma
le lacrime che la mamma raccolse in tutta fretta con le dita, cercando
di non farsi vedere, erano state più eloquenti di qualsiasi
parola o spiegazione. Tutti cercavano Mirzam, sia gli uomini
del Ministero, sia la Confraternita, tutti pretendevano da lui delle
spiegazioni, tutti si chiedevano perché il suo Elfo avesse
versato il vino che aveva avvelenato mio padre, perché non
si fosse presentato a Inverness quando la mamma l'aveva chiamato,
perché Burgin si ostinasse a dire di avergli venduto un
pericoloso manufatto, un Athame che era stato usato in numerosi
agguati. Soprattutto, però, doveva spiegare il suo
legame con gli uomini del Signore Oscuro: mentre tutto il resto poteva
esser giustificato o interpretato in qualche altro modo, molti
testimoni avevano assistito alla sua fuga dall’arresto grazie
ai Mangiamorte, che avevano attaccato i frequentatori del Paiolo e
ferito un Auror. Ciò che interessava la
Confraternita, invece, era appurare i fatti di Maillag avvenuti la
notte stessa, a Natale: Fear era stato ritrovato ferito gravemente
sulla spiaggia a poca distanza dalla casa di mio fratello, da una
squadra di Aurors che lo stavano cercando, e da lì portato
in ospedale. Davanti agli occhi increduli di nostro padre, il vecchio
aveva raccontato di essere stato attaccato da Mirzam, e che mio
fratello, ormai in fuga, aveva rubato la fiamma di Habarcat. I
Decani avevano pazientato per giorni, avevano atteso una mossa di mio
fratello, infine erano venuti a casa nostra, da nostro padre, per
chiedergli senza altri indugi se Mirzam dovesse essere considerato un
traditore della Confraternita, o se fosse stato nostro padre a dargli
l'incarico di spostare la fiamma in altro luogo e in quel caso
perché. La mamma non poteva non piangere, anche
senza sentire le parole esatte di nostro padre, perché
nessuno di noi aveva risposte o giustificazioni da dare, nostro padre
non sapeva niente delle intenzioni di mio fratello. Non lo
potevo vedere oltre quella porta, davanti al caminetto, ma lo riuscivo
a immaginare, seduto sulla poltrona, anzi affondato nella sua poltrona,
la testa tra le mani, gli occhi persi nel fuoco, la voce che gli moriva
tra le labbra. Quando se n’erano andati, dopo
diverse ore, Rigel ed io eravamo stati convocati per un rapido e
asettico saluto, Reginald McFigg aveva teso la mano per salutare la
mamma, lei era scoppiata a piangere e lui le si era avvicinato di
più, per farle coraggio, lei allora gli aveva bisbigliato
qualcosa all’orecchio e il Decano, rattristato aveva detto
semplicemente “Capisco”.
“Signorina pronta per
scendere...”
Guardai Dilly che, tutta ossequiosa, reggeva davanti a me uno specchio
all'altezza del viso per farmi ammirare i capelli intrecciati sulla
testa e annodati con nastri argentati, poi lo inclinò
così che osservassi l'abito, lungo e semplice, di due
diversi toni di verde con piccoli inserti argentati, le maniche lisce e
lunghe, il corpetto attillato, anche troppo per i miei
gusti. Sarei voluta sprofondare nell'oblio, non andare a
quella festa, né in qualsiasi altro posto. Non
dissi nulla, però, presi anche il mantello scuro che
l’Elfa mi porgeva e mi affacciai sul corridoio, e di colpo il
cuore mi accelerò impazzito, quando mi resi conto che dal
piano di sotto salivano urla e rumori di sedie rovesciate a
terra. Tentai di arrivare alle scale per capire cosa stesse
accadendo, ma per poco non fui travolta da Rigel che con pochi balzi
emerse dalle scale e come un fulmine si barricò dentro la
sua stanza; dietro di lui, nostro padre, infuriato, gli intimava di
fermarsi. Rimasi sull’arco della porta, impietrita,
mio padre si voltò verso di me, la porta di Rigel era
già chiusa da un incantesimo: vidi che mi osservò
fugace, doveva aver notato che stavo per piangere, il suo volto
s’illuminò di sentimenti diversi, rabbia, dolore,
delusione, ed io, incapace ormai di trattenermi, scivolai di nuovo
nella mia stanza, silenziosa e oscura come un’ombra.
***
Alshain Sherton
74, Essex Street, Londra - ven. 31 dicembre 1971
“... Io non ci vengo a quella
stupida festa!”
“Ti ho detto di fermarti!
Rigel!”
Non mi ascoltò, anzi, con un paio di balzi,
superò tutta la rampa di scale, io sentivo già
prudermi le mani, avevo sempre più difficoltà a
mantenere quella calma e pacatezza che, da giorni, Deidra m'implorava
di conservare. Arrivai al corridoio anch'io, in tempo per vedere la
porta della sua stanza che mi veniva sbattuta in faccia, inghiottii
un'imprecazione e cercai di distendere, per l'ennesima volta, la voce
in un tono risoluto, ma non troppo aggressivo.
“Apri la porta,
Rigel!”
“Vai al diavolo, tu e tutti i
tuoi dannati Black!”
Lo sentii pronunciare, rabbioso, uno degli inutili incantesimi di
chiusura che poteva conoscere alla sua età, io repressi le
minacce che mi erano già salite in gola e sospirai sempre
più esasperato, presi la bacchetta, mentre con la coda
dell'occhio mettevo a fuoco Meissa, almeno lei già pronta
per uscire, sulla porta della sua stanza, prossima alle
lacrime. Salazar, ci mancava pure che si mettesse a piangere
un'altra volta!
“Apri la porta Rigel... te lo
ripeto per l'ultima volta, non farmi arrabbiare più di
quanto già non sia!”
Come risposta, dalla stanza uscì della musica babbana
sparata a tutto volume: indispettito, cercai di placarmi pensando che
almeno avevo scoperto che fine avesse fatto il giradischi di Mirzam;
strinsi le dita con più forza attorno alla bacchetta,
scaricando sul legno la rabbia che mi si era appiccicata addosso negli
ultimi giorni, la puntai contro la porta e bisbigliai un innocuo
Alohomora, sentii la serratura scattare ed entrai, dopo un attimo, il
tempo di calmarmi del tutto. Nel caos che regnava là dentro,
nella penombra della stanza illuminata appena dal riflesso di un
lampione, misi subito a fuoco la sagoma di Rigel in piedi accanto alla
finestra, girato verso di me: mi aspettava, mi sfidava, a illuminare
occhi simili ai miei solo il lumino rosso di una
sigaretta... Babbana. Doveva essersi persino arrischiato a
frugare tra le mie cose, su in mansarda, per essere sicuro di farmi
imbestialire, sapeva che non doveva entrare là dentro senza
il mio permesso. Se credeva di farmi cadere nelle sue
provocazioni, però, si sbagliava di grosso!
“Quella porcheria ti fa male
al sangue... ”
Mi avvicinai, gli passai di fianco, andai alla finestra e l'aprii,
rabbrividii per il gelo che penetrava dalla città ammantata
di neve, ma fu utile a snebbiarmi la mente e a ricambiare l'aria
consumata, vidi che tremava, ma strinse i denti e non si scompose, era
proprio intenzionato a portare avanti a lungo quella sua prova di
forza, ed io sarei stato altrettanto caparbio.
“... e questa musica
è troppo alta!”
Rigel piegò appena le labbra, in un sorriso che
più che altro era una smorfia, e il volume della musica si
alzò di quasi il doppio, io ricambiai il sorriso, poi gli
smaterializzai sigaretta e giradischi, entrambi spenti, fuori della
stanza; ottenuto finalmente il silenzio, scostai la sedia dalla sua
scrivania e lo invitai a sedersi con un cenno della mano; lui,
testardo, rimase immobile al suo posto, gli occhi fissi nei miei,
l'aria irridente di chi cerca in tutti i modi di farti incazzare.
“Perché perdere
tempo a parlare con me, quando hai i tuoi cari Black che ti
aspettano? Mandami a Durmstrang una benedetta volta e
facciamola finita! Dici sempre che vuoi farlo, no? Fallo! Lo voglio
anch'io, qualsiasi cosa pur di non... vederti più!”
La voce alta e decisa si era incrinata solo sulle ultime due parole,
quasi avesse combattuto fino all'ultimo con se stesso, prima di cedere
e soffiarmele contro, mettendoci tutta la sua voglia di essere cattivo,
fare del male, prima di tutto a se stesso, per guadagnarsi finalmente
quello schiaffo che voleva strapparmi dalle mani da giorni, senza
riuscirci, Merlino solo sapeva dove trovassi la forza di resistere e
fermarmi in tempo. Non avevo ancora ben chiaro
perché fosse così determinato nella
volontà di farmi arrabbiare e mettersi nei guai, torturato
da qualcosa che riguardava quello che ci stava capitando, certo, ma
solo in parte. Non si poteva andare avanti così... Era
normale che Rigel avesse una qualche reazione a quella sequela di
fatti, orribili per un adulto, figuriamoci per un ragazzino; era anche
normale che la sua fosse una reazione rabbiosa, sia per quello che gli
era successo, sia perché, nonostante tutto, sapevo quanto
fosse legato a Mirzam. Inoltre era mio figlio e anch'io ero
stato alquanto insofferente verso mio padre a tredici anni... Eppure...
doveva esserci qualcosa di più e, Merlino mi era testimone,
in un modo o nell'altro ne sarei venuto a capo, a costo di passare
tutte le festività di Hogmanay chiuso con lui in quella
stanza, perché non potevo lasciarlo tornare a Hogwarts, di
lì a due giorni, senza avere chiaro che cosa gli passasse
per la testa, non avrei permesso che le vicende scolastiche mettessero
in secondo piano quella situazione, lasciandola sedimentare, inasprire,
in silenzio. Avevo già commesso quel tipo di errore con
Mirzam, anni addietro, e non l'avrei ripetuto.
“Sono io che decido se
mandarti a Durmstrang, oppure no... e lo sai... non sono
certo i capricci a condizionarmi nelle scelte... voglio sapere che cosa
ti passa per la testa in questi giorni, Rigel... e non usciremo da qui
finché non me l’avrai detto... ”
“Tutto qui? Puoi uscire anche
subito, allora... Mi pare piuttosto chiaro che cosa mi passa per la
testa! Non ne posso più di te, di tutti voi!”
Lo disse con calma, implacabile, fiero, pronto a subire la mia collera,
ma io non feci né dissi nulla, mi limitai a schiarirmi la
voce, aspettando che continuasse. Il silenzio calò
tra di noi, a lungo. Attesi paziente, studiandolo con
attenzione, mentre mio figlio faceva la stessa cosa: probabilmente si
aspettava che perdessi subito le staffe, accadeva spesso tra noi, il
fatto di non reagire come al solito l'aveva messo in
difficoltà e, era chiaro, non riusciva a decidersi sulla
strategia da adottare a quel punto. Tra i miei figli, Rigel era sempre
stato quello più sfuggente, con lui avevo sempre avuto un
rapporto strano, altalenante, per certi versi superficiale, non c'era
stata mai quell’intimità di pensiero che avevo
sempre condiviso con Meissa o quella complicità tipica
dell'infanzia che avevo vissuto con Mirzam, prima dei nostri scontri
esistenziali. Era quello che più mi assomigliava, sia
fisicamente, sia per il carattere, ma nemmeno la comune passione per il
Quidditch era riuscita a limitare quella sua strana timidezza nei miei
confronti, tanto da farlo confidare sempre e solo con sua madre, tanto
da convincermi che, da bambino, Rigel avesse paura di me, o a essere
più ottimisti, mi considerasse una leggenda del Quidditch di
cui essere orgoglioso, certo, ma nulla di più. Al
contrario dei suoi fratelli, non ero riuscito nemmeno ad appassionarlo
alle Leggende del Nord, anzi spesso era insofferente e persino
sarcastico, le considerava solo stupide anticaglie e si assoggettava ai
principi delle Rune con molta più difficoltà dei
suoi fratelli... Anche in questo era identico a me alla sua
età: veneravo mia madre, non condividevo i barbosi interessi
di mio padre, non sopportavo mio fratello perché si gloriava
di incarnare tutti quei principi cui dovevo assoggettarmi controvoglia,
esasperandomi ancora di più... Eppure ero convinto
di non aver seguito le orme del mio vecchio, avevo fatto di tutto per
non essere il solito padre Slytherin, non avevo favorito lo scontro tra
i miei figli, non avevo imposto loro le mie scelte, né avevo
cercato di indirizzare le loro... Se con Rigel, ultimamente, mi ero
ritrovato a fare il rompiscatole severo, non era per i precetti, per
l'onorabilità e il decoro della famiglia, l'avevo fatto
perché ero preoccupato per lui, perché ero suo
padre e dovevo insegnargli che non tutto ciò che si vuole
è lecito, che ci sono dei limiti che non si possono
superare…
Invece, da quando a Hogwarts ha conosciuto Rabastan
Lestrange… Mio figlio, spesso e volentieri, va
oltre… Troppo.
Ogni volta che Deidra lo abbracciava e lo baciava non potevo non
ricordarmi come si fosse in parte creata tra noi quella situazione:
quando avevo rischiato di perderli tutti e tre, quando avevo rischiato
di perdere il mio Mirzam e con lui la donna che era la mia vita,
durante quel maledetto attacco dei babbani, io mi ero come
spento. Quel maledetto giorno di tredici anni prima, la nostra
vita aveva all’improvviso subito una battuta d'arresto, la
strada che avevamo intrapreso aveva deviato, e per quanto tutti
avessimo lottato a lungo e duramente per riprendere il controllo,
spesso continuavamo a viverne le conseguenze. Anche ciò che
stava succedendo a Mirzam, era una conseguenza di quel
giorno. Mi ero sentito responsabile e, a lungo, mi ero chiuso
in me stesso, avevo ripreso il controllo solo con l'aiuto e il sostegno
di Orion, ma intanto, alla nascita di Rigel la felicità era
ancora offuscata da insicurezze e timori; da parte sua, Deidra aveva
reagito al pericolo diventando ancora più possessiva con i
ragazzi, tanto che nei primi mesi di vita di Rigel non l'aveva lasciato
un secondo, non voleva separarsi da lui, neppure per metterlo tra le
mie braccia... Ed io mi sentivo troppo debole e colpevole per
oppormi a quella scelta, legittima certo, ma profondamente irrazionale
e dannosa. Rigel era l'unico dei nostri figli di cui si era
occupata pressoché da sola, ed io l'avevo lasciata fare, non
perché non m’importasse di lui, anzi, Merlino solo
sapeva con quanta disperazione avessimo cercato quel secondo
figlio... Non volevo fare nulla che la potesse turbare,
perché vedevo quanto quel bambino, giorno per giorno,
riuscisse a ridarle il sorriso, la sicurezza, la
serenità... Sembrava nato per riaccendere in noi la
voglia di vivere. Sentivo che non dovevo impormi, che dovevo aspettare
che lei trovasse la forza, il coraggio, il desiderio di mettermi Rigel
tra le braccia, ed io dovevo essere pronto a prendermi di nuovo le
responsabilità della mia famiglia, senza farmi schiacciare
ancora dal senso di colpa. Rigel aveva significato rivedere il
sorriso sulle labbra di mia moglie e la sicurezza nei miei occhi, per
entrambi era stato un tornare alla vita, ancor più di vedere
Mirzam fuori pericolo. Senza quel figlio, lo sapevamo
entrambi, non saremmo più stati una vita sola, Meissa,
Wezen, Adhara non sarebbero mai nati. Quelle mie mancanze
iniziali, però, avevano lasciato un segno sul rapporto tra
Rigel e me, ed anche sul suo carattere: soprattutto dopo il suo
ingresso a Hogwarts, avevo iniziato a rendermi conto dell'errore,
eravamo stati troppo permissivi, e Rigel a volte aveva atteggiamenti
esagerati, per questo, soprattutto negli ultimi tempi, di fronte alle
sue intemperanze e alle note di biasimo che arrivavano dalla scuola,
ero stato costretto a reagire, con rigore maggiore del mio solito, e
questo forse aveva contribuito a confonderlo ancora di più.
“Non ti abbiamo insegnato a
mentire, Rigel, tantomeno a scappare di fronte alle
difficoltà... ”
“Io non sto scappando da
niente... ”
Mi guardò con odio, sibilando e scandendo le parole, sapevo
quanto fosse orgoglioso, sapevo che avrei ottenuto la verità
pungolandolo, piuttosto che minacciandolo.
“Ah no? Te ne stai qui, in
questa stanza buia, saltando su come un bambino capriccioso, cercando
di farci arrabbiare solo per esser allontanato… Come lo
chiameresti tutto questo, se non scappare? Se non è
così... spiegami tu cosa stai facendo, perché
è questa l'impressione che mi dai... ”
Mi fissò, poi mi ringhiò contro
“vaffanculo” e come una furia cercò di
recuperare la porta e sfuggirmi di nuovo, io lo precedetti e gli
impedii di uscire, lo trattenni per le spalle, lui si
divincolò, tirando pugni scomposti come faceva da piccolo,
così rabbioso da perdere la capacità di
controllare le sue reazioni, contenere magia ed energia: fece volare
via tutto ciò che c'era sulla sua scrivania scagliandomelo
contro, per difendermi mollai la presa e lui mi sfuggì,
ritirandosi di nuovo presso la finestra, come una belva in
trappola. Mi avvicinai lentamente, fissandolo negli occhi, la
voce bassa e pacata.
“Falla uscire questa rabbia,
Rigel! Liberatene... Qualunque cosa sia, lascia che ti aiuti...
”
“Certo! Aiutami come
stai aiutando Mirzam! Io ti odio! Volevi la verità? Io ti
odio! Ti odio!”
“Rigel!”
Mi aveva dato le spalle, avvolgendosi quasi nella tenda, risoluto e
muto, mi avvicinai ancora fino a essergli a un passo, gli accarezzai un
braccio e chiusi la mano sul suo gomito, invitandolo a voltarsi,
cercò ancora di divincolarsi, non voleva che mi avvicinassi,
che vedessi che stava per scoppiare a piangere.
“Lasciami! Ti ho detto che
devi lasciarmi! Lasciami… ”
Non lo lasciai, anzi, lentamente lo feci voltare verso di me e lo
strinsi al mio petto, fece ancora resistenza, finché, per la
tensione, la stanchezza, la paura, si lasciò andare, si
lasciò abbracciare, lasciò persino libere lacrime
e singhiozzi contro il mio petto, mentre gli accarezzavo la schiena, e
poco per volta, non fui più l'unico ad abbracciare, sentii
le sue braccia cingermi la vita, il suo volto affondarmi addosso, come
da bambino, le rare volte in cui, vincendo la sua ritrosia, mi correva
incontro, per dirmi che aveva battuto Mirzam volando sulla
scopa. Gli passai una mano sui capelli, stavo per cedere
anch’io: nei giorni passati in ospedale, l'avevo sempre
osservato a distanza, dalla soglia della sua camera, non mi ero
avvicinato a controllare di persona come stesse, troppo forte il senso
di vergogna e di colpa per quanto era accaduto, per la mia
incapacità di difenderlo... Avevo permesso ancora una volta
ai miei errori di formare un muro tra noi... Ora era
lì, tra le mie braccia, un cucciolo fragile, preda della
frustrazione di quei giorni, della rabbia repressa, del dolore e della
paura per suo fratello... Ero stato uno stupido, preoccupato
com'ero delle conseguenze legali per la nostra famiglia e per la
Confraternita, in tutto quel caos, non mi ero fermato ad ascoltarlo,
mai, dopo tutto quello che era successo, dopo quanto aveva fatto in
prima persona, per farsi notare era stato costretto ad abbandonarsi a
quegli atteggiamenti assurdi. Avevo finto di non vedere le sue
richieste di essere ascoltato.
“Hai ragione ad avercela con
me... non sono stato in grado di proteggerti o aiutarti... sono stato
uno stupido, ho lasciato che la paura e il senso di vergogna
prendessero il sopravvento... ho permesso che tutto il resto venisse
prima... invece di stare al tuo fianco e dirti quanto sono orgoglioso
di te, di quello che hai fatto per tutti noi... Ci hai salvati tutti
Rigel... hai appena tredici anni ma hai avuto il coraggio che uomini
adulti non avranno mai... sei stato... ”
“Credi davvero che m'importi
qualcosa di tutto questo? Credi davvero che sia sentirmi dire
“bravo” quello che mi serve? Quello che voglio da
te? Tu di me non hai capito niente! Niente!”
Si staccò da me, ero rimasto spiazzato, tremava, le mani
serrate a pugno e mi fissava.
“Guardami in faccia e dimmi
come hai trovato il coraggio di permetterlo?”
“A cosa ti riferisci,
Rigel?”
“Come hai potuto permettere a
Fear di mettersi in mezzo e mentire?”
“Fear? Che cosa vuoi dire? Io
non ti capisco... ”
“Sai benissimo di cosa parlo!
Sai benissimo che mio fratello non ha fatto niente, che Fear sta
mentendo, che Mirzam non ha rubato e non ha cercato di uccidere
nessuno… Non ha tradito nessuno!”
Lo guardai, raggelato, cercando di mantenere il controllo della
situazione, ma riuscii a balbettare appena il suo nome.
“Perché?
Perché permetti che lui vada via così! Che si
dicano certe bestemmie su di lui?”
Non sapevo che cosa dirgli, come reagire, non avevo certo la forza di
mentire su Mirzam con un attacco così diretto; lo fissai...
non capivo che cosa stesse accadendo… o meglio, cercavo di
ricacciare indietro un orrendo sospetto e la paura fottuta di essere
stato scoperto. Possibile che sapesse la
verità? E come faceva a saperla? Cercai di
fingere la calma, di cambiare discorso, pur sapendo che stavo
commettendo un altro errore.
“Se vuoi parlare di
Mirzam… capisco che tu sia sconvolto, lo siamo
tutti… ma secondo me sarebbe più utile che
parlassimo di te, di come stai, di come ti senti… io sono
convinto che col tempo…”
“Lo vedo che hai paura di me,
cosa credi? Vuoi sapere come l’ho scoperto? Ti ho sentito...
vi ho sentiti... tu e la mamma... quella sera in ospedale... Non
lascerò che Mirzam esca dalle nostre vite! Non
permetterò che sia lui a pagare per tutti! Che di lui si
dica che ci ha tradito, quando ha fatto tutt’altro... Come
fai a permetterlo? Come? Come puoi far credere a Meissa una cosa del
genere? Che lui faccia parte di quelli che hanno provato a ucciderci!
Sai quanto è affezionata a lui!”
Ha
sentito... tutto... Ha sentito quello che ho detto a sua madre di
Mirzam, del nostro disperato tentativo di metterlo in salvo... ma con
l’irruenza dei suoi tredici anni non si rende conto delle
conseguenze, non capisce che era l’unica soluzione possibile
per salvarci tutti, e che il suo atteggiamento è pericoloso
proprio per Mirzam.
“Se, come dici, hai sentito,
sai anche che cosa ha fatto tuo fratello per tutti noi e sai che devo
proteggerlo dal Signore Oscuro… non c’è
più tempo per trovare un’altra
soluzione… ma farò di tutto perché non
sia per sempre, Rigel, te lo prometto…”
“Non è vero... ho
sentito bene la mamma che diceva “Dobbiamo dirgli
addio” e poi si è messa a piangere!”
“Rigel, ascolta... io capisco
che…”
“No... non voglio
ascoltarti... avresti potuto trovare un milione di soluzioni
diverse… avresti potuto farti aiutare dal Ministero per
metterlo al sicuro… avresti potuto dire almeno alla
Confraternita che non ha fatto niente!”
“C’è un
traditore nella Confraternita, Rigel… e i seguaci del
Signore Oscuro sono infiltrati da tempo nel Ministero… Non
posso fidarmi di nessuno…”
“Ti fidi di Fear,
però… ti fidi di un vecchio pazzo che ha quasi
fatto morire me e Mirzam e Sile… per non parlare della
nonna… e se fosse lui la spia? Te lo sei mai
chiesto?”
“Non è
Fear… non temere… so che è
stravagante, ma ti posso assicurare…”
“No, non m’interessa
quello che dici… non fai altro che dire bugie, sempre e solo
bugie! Come quando ci propini le tue belle storie delle Terre del Nord,
su quanto Salazar sia stato buono e generoso con noi, su quanto
Habarcat protegga la nostra famiglia... Dimmi… cosa fa
davvero Habarcat per noi? Cosa? Ecco cosa fa per noi!”
Mi mostrò le mani, gli occhi pieni di lacrime, gliele presi,
le guardai: Deidra mi aveva già parlato di quel dettaglio,
delle Rune che sembravano stranamente pallide sulla pelle di nostro
figlio, non avevo idea di cosa significasse, né quali
sarebbero state le conseguenze di un mutamento del genere, sapevo solo
che nessuno prima di lui, nessuno che non fosse l’erede
riconosciuto di Hifrig, era mai sopravvissuto al tocco di Habarcat, e
nessuno senza l’anello poteva assoggettarla al suo
volere. Che Rigel fosse ancora vivo era un miracolo che
nessuno di noi, nemmeno tra i Decani riusciva a spiegarsi….
“È questa la
protezione di Habarcat? Rispondimi, è questa? Che cosa sono
io adesso? Chi sono?”
“Habarcat non si è
mai comportata così, Rigel… nessuno mai
è uscito vivo da una situazione del genere… io
non so cosa significhi, non so quali conseguenze avrai per quelle Rune
così velate, ma non dire che Habarcat non ti ha protetto,
perché se sei vivo, è stata lei a
concedertelo…”
“Per quanto mi
riguarda… io non sono in debito con la tua
Fiamma… chi mi ha salvato è stato
Mirzam!”
“Hai ragione, è
stato lui, con il suo coraggio, a salvarci tutti… allora
capirai da te che è per lui che devi smettere di fare il
bambino, Rigel! Se vuoi ripagare il debito che hai con lui, devi
permettermi di aiutarlo e la strada per farlo, mi spiace, è
questa… Odiami se vuoi, se ti fa sentire meglio…
ma non permettere che il tuo odio e il tuo dolore siano un danno per
Mirzam. Non devi dire a nessuno quello che sai, me lo devi giurare,
Rigel, me lo devi giurare e accettare di essere Custode di questo
segreto o lasciare che io agisca sulla tua mente e sui tuoi ricordi,
per impedirti di tradirci…”
Mi guardò spaventato, all’improvviso consapevole
dell’errore che aveva appena commesso, mi aveva rivelato il
suo segreto e ora doveva scendere a patti con me, proprio con me,
perché era troppo piccolo, ingenuo e fragile per tenere un
segreto simile, soprattutto nei sotterranei di Serpeverde, quella che
da anni ormai era la culla in cui si formavano le schiere dei seguaci
del Lord.
“Non usciremo di qui fino a
che non mi avrai dato una risposta: scegli se preferisci mantenere la
coscienza della verità e aiutarmi
consapevolmente… o lasciare che risolva le cose da me, che
ti faccia dimenticare… non hai altra scelta,
Rigel… l’hai visto con i tuoi occhi cosa sono
capaci di fare per strapparti un’informazione…
l’hai sentito sulla tua pelle che persone sono… ed
io sono pronto a tutto per proteggere ciò che
amo… ”
“Io ti odio!”
Mi guardò con occhi pieni di lacrime, consapevole che non
c’era altra via d’uscita, io sospirai e lo strinsi
a me, mentre quelle parole gli morivano sulle labbra, ormai trasformate
in singhiozzi.
***
Mirzam Sherton
località segreta, Shetland - ven. 31
dicembre 1971
Era terminata un'altra giornata, anche se non lo
capivo dal calare del buio: laggiù, in quella profonda
grotta oscura, non era possibile accorgersi del naturale alternarsi
della luce e dell'oscurità, e si rischiava di perdere
rapidamente il concetto stesso del tempo. A dire il vero,
sentivo di essere già sulla strada buona per diventare
pazzo. Capivo l'alternarsi dei giorni dalla
luminosità di Habarcat, mi ero reso conto che diventava
più oscura di giorno, di notte, invece, rifulgeva di una
brillante luce verde, pura, cristallina. Avevo chiesto a Fear
il motivo, ma non avevo ricevuto risposta, così avevo
continuato a osservarla da solo, anche perché in
quell’esilio non avevo molto altro da fare: avevo finito con
lo scoprire più cose sulla sacra fiamma in quei pochi
giorni, che in anni e anni di contatto continuo. Mi chiedevo
perché la potessi vedere e toccare senza l'ausilio del
mantello che Fear le aveva gettato addosso per prenderla: il vecchio
non dava risposte, diceva solo che non era sufficiente questo fatto per
potermi riconoscere come suo custode, forse Habarcat semplicemente
reagiva sentendo in me lo stesso sangue che aveva assorbito da mio
padre nei riti, o quello che aveva rubato a mio fratello. Avevo cercato
in mille modi di farmi spiegare da Fear che cosa fosse davvero successo
a Rigel, non capivo che cosa significasse quando diceva che si era
“sacrificato” per salvare quanti erano a Herrengton
la notte del mio matrimonio, e per questo lo odiavo sempre di
più, perché m’impediva di allontanarmi
da lì, di tornare dalla mia famiglia, di scoprire come
stavano i miei fratelli. E mi sentivo impazzire, oltre che per
la prigionia e i dubbi, per la consapevolezza che mi avesse tessuto
addosso una storia crudele e vigliacca, e che tutti ci stavano credendo.
Mio padre è consapevole che tutto questo è un
inganno o anche lui e i miei fratelli sospettano che li ho
traditi? Che ho realmente rubato Habarcat per consegnarla al
Signore Oscuro?
Mi mettevo le mani nei capelli e solo la paura di
svegliare Sile m’impediva di scoppiare a piangere, per i
nervi, per la disperazione, per l'assurdità di tutto quello
che stavamo vivendo, di cui a volte perdevo il senso... per i silenzi
di Fear... Il vecchio non rispondeva, mai, mi chiedevo se non
volesse o piuttosto non potesse, a volte avevo il dubbio che nemmeno
lui avesse ben chiare le conseguenze dei piani assurdi che aveva
approntato. Ero disperato. Sì,
disperato... disperato per me e soprattutto per Sile. Quando
la vedevo tornare dalla lunga giornata passata con Fear, sfinita e
distrutta, a fare non sapevo bene cosa, mentre io ero rimasto tutto il
giorno accanto a Habarcat a studiare ammuffiti libri pieni di Rune
antiche e provare antiche formule senza che la Fiamma reagisse in alcun
modo, mi sentivo ancora più depresso e
insofferente. Sile si consumava, ed io mi dimostravo inutile
ancora una volta. Se Fear ci aveva portato lì
perché dimostrassi che c’era un legame tra me e la
Fiamma, dopo oltre una settimana non ne avevamo ricavato niente, a
parte che mi consentiva di toccarla senza provare a
uccidermi… E soprattutto, paranoico e sospettoso
come stavo diventando, in quelle lunghe giornate passate da solo, mi
stavo chiedendo perché fosse tanto urgente trovare un nuovo
custode per Habarcat, temevo che le condizioni di mio padre fossero
peggiorate e che Fear come al solito mi nascondesse la
verità.
O addirittura…
Guardai Sile, addormentata, al mio fianco, fisicamente esausta, almeno
quanto io lo ero mentalmente. Non era questo genere di vita che avevo
sognato per noi, non era in quella grotta che dovevamo stare in quel
momento: se avevo contato bene i giorni, quella doveva essere la notte
di Hogmanay, e noi saremmo dovuti essere a qualche festa, a ballare,
sotto le stelle, facendoci ammirare da tutti, vestiti di un amore
più luminoso di qualsiasi gioiello. E
invece… Hogmanay era da sempre la festa
più noiosa tra quelle della Confraternita, anche
l’avevamo spesso passato a casa di quel maledetto traditore
di Emerson e…
Come ha fatto a imbrogliarci tutti? E soprattutto…
Fear ha detto anche a mio padre la verità su di
lui? O se ne guarda bene, perché magari
è una delle sue tante bugie, e la vera spia è
proprio lui? E se in realtà mi avesse rapito e mi
stesse costringendo a legarmi a Habarcat, solo per consegnarmi al
Signore Oscuro e…? No, devo smetterla di seguire questa
linea di pensieri, devo smetterla o diventerò pazzo, devo
smetterla o sarà la fine per tutti...
Non era facile, la mente vagava in una sequela infinita di pensieri
contorti, in cui le mie beghe attuali, le preoccupazioni per la mia
famiglia e il pensiero di Sile si fondevano e si alternavano: ricordavo
l’ultima festa di Hogmanay, la passeggiata nella neve, il
modo di comportarsi, strano, di Warrington che per enigmi mi aveva via
via svelato la verità su Sile, la mia vita che, appena un
anno prima, era riuscita a ritornare su dei binari che sembravano
condurre verso la pace e la felicità. Che cosa ne
era stato di tanti progetti? Avevo al mio fianco Sile, vero, ma non era
questo che volevo per lei, non era vivere come dei disperati, in fuga,
senza un futuro, nelle mani di quel vecchio pazzo, quello che io le
avevo offerto chiedendole di sposarmi. Non era così che
dovevamo affrontare l’inizio del nuovo anno, finalmente
sposati.
Sile si mosse appena, stringendosi ancora di più a me, tra
le mie braccia: dormire insieme era l'unica concessione che il vecchio
ci aveva fatto, solo di notte potevamo stare insieme, potevo vivere un
minimo di casta normalità con lei, almeno di notte potevamo
dormire abbracciati, parlarci, cercare di farci forza l'uno con
l'altra, raccontarci quello che avevamo imparato, quanto
c’eravamo sentiti soli, separati l’uno
dall’altra. Mi chiedevo se per concentrarci nei nostri
compiti fosse davvero necessario che stessimo sempre lontani o
piuttosto Fear cercasse solo di impedirci di stare insieme come marito
e moglie; a volte, isterico, ridevo di lui, delle sue fobie, delle sue
fisse, mi chiedevo come potesse solo pensare che, in quel delirio, in
quella continua preoccupazione, con lui che ci stava sempre addosso
come un carceriere, con il Signore Oscuro che ci dava la caccia,
potessimo pensare a un erede... Sospirai, chiedendomi per
l’ennesima volta che diavolo di vita le avessi donato: era
questo il mio solo pensiero, un pensiero che spegneva ogni altra idea,
ogni altro desiderio, ogni altra necessità. Come
potevo desiderare di mettere al mondo un altro innocente, se il suo
destino sarebbe stato restare chiuso con noi in quell’assurda
gabbia di dolore e paura?
Che
diavolo di vita ti ho donato, Sile? Come fai a non odiarmi? La mia assoluta incapacità, la mia
stoltezza, la mia testardaggine ci hanno portato a questo.
Il mio folle amore per lei si era tradotto in un’atroce
scelta, tra morire subito per mano del Lord, o farsi consumare, giorno
per giorno da quel vecchio malefico, senza che io potessi impedirlo. Di
sera, quando tornava da me, mi salutava con un sorriso e alcuni dei
suoi baci più appassionati, come se avesse atteso quel
momento per tutto il giorno, come se tutta la fatica potesse essere
annullata in quell’abbraccio ed io allora, invece di essere
felice, sentivo ancora di più quanto non meritassi niente.
Mi alzai, facendo piano per non svegliarla, girai lentamente intorno al
fuoco, m’inoltrai nel buio, fino all'imboccatura della
grotta, verso quella specie di sacco in cui dormiva Fear, lo chiamai
piano, avvisandolo della mia presenza, un paio di notti prima mi aveva
scaraventato contro la parete e mi aveva quasi rotto un braccio,
perché non mi ero annunciato e lui temeva costantemente un
attacco dai Mangiamorte. Sibilai il suo nome poi mi accucciai
a terra, in attesa che mi desse ascolto, la testa che già mi
scoppiava.
“Che cosa diavolo vuoi? Torna
a dormire, o domani sarai un morto che cammina!”
“Non farò nulla
domani, e nemmeno Sile lo farà, se non mi dici quello che
voglio sapere... ”
“La vita è tua
Sherton, se vuoi morire, fai pure, ammutinati, fai come diavolo ti
pare, come hai sempre fatto... guardati, guarda dove ti ha portato la
libertà che ti ha sempre concesso tuo padre! Continua a
vivere così se preferisci…”
“Le conosco le tue chiacchiere
e sappi che mi hanno stancato… dimmi cosa le fai, dimmi
perché la stai stremando in quel modo… devi
stremare me, devi allenare me, sono io che dovrò combattere,
non lei... ”
Il vecchio si sollevò sbuffando, un volto in cui traspariva
solo disgusto per me ed esasperazione, si passò la mano sul
volto e si scansò i capelli dalla faccia, poi con un ghigno
sordido mi sputò addosso tutta la scarsa stima che aveva per
me.
“Mi dispiace sapere che non
puoi goderti una mogliettina focosa e appassionata, milord…
ma quello che conta adesso è farla sopravvivere, non
assicurare a te un balocco con cui ingannare la noia della notte! Se
proprio non puoi farne a meno, ricordati come ti sfogavi a quattordici
anni!”
“Ti prenderei volentieri a
calci in culo per tutte le stronzate che dici, vecchio! Voglio sapere
perché la stai sfinendo così, che senso ha
stremarla così… senza conoscenze di Magia Oscura
sai bene che non avrebbe scampo con gli uomini di Milord!”
“Cosa credi che le stia
insegnando, ragazzino? Ricette di cucina? Se ci troveranno, gli uomini
di Milord non faranno sconti a nessuno… se non
saprà difendersi, sarà un rischio per la tua vita
e per la mia… quando le avrò insegnato quello che
ho già insegnato a te e che quell’inutile scuola
del Mistero si guarda bene dal farvi conoscere, ti unirai a noi,
così insegnerò a entrambi qualche trucchetto
più… avanzato… Contento? Non rompermi
più e torna a dormire… se davvero ci tieni a lei,
cerca di renderti utile studiando i libri che ti ho
portato…”
“Non vedo a cosa mi serva
conoscere le leggende di Mastro Cuilen, Decano della
Confraternita… se sono passati mille anni dalla sua
morte…”
“È stato uno dei
più potenti Maghi della Confraternita, e soprattutto era il
Decano che guidava le Terre quando arrivò
Salazar… i suoi scritti sono utili a conoscere dettagli
importanti…”
“Se è davvero tanto
importante, non credi che il buon Corvonero Emerson abbia
già fatto ricerche approfondite? Che vantaggio credi di
ricavarne?”
“Chiediti piuttosto quanti
svantaggi avrai tu a non sapere ciò che lui sa… e
ti assicuro, che quell’uomo ormai sa molto più di
quanto immagini…”
Lo fissai, aveva ragione, ma si sbagliava di grosso se credeva mi
accontentassi di questo.
“Che cosa ti costa darmi le
risposte che voglio? Cosa c’è? Non ti fidi di me?
Non pensi che sapere quale sia il tuo vero progetto potrebbe rendermi
più utile? E perché non vuoi dirmi come stanno
Rigel e Meissa?”
“Sono fuori pericolo, sono
tutti fuori pericolo… e ti credono un traditore…
sei contento adesso? Ti senti meglio adesso? Pensa a te stesso e a
Sile, lascia perdere quello che hai alle spalle, perché non
lo riavrai mai ed è solo un inutile dolore per
te…”
Strinsi le mani a pugno… Una voce in me urlava che
non era vero, che Fear diceva così solo per spingermi a non
pensare più a loro… per farmi del male e
costringermi a reagire… non si rendeva conto che non era
quella la strada, che davanti a sé non aveva una persona
capace di reagire, ma solo di…
“Non ho mai avuto stima per
te, ragazzo, lo sai, non potevo avere stima per qualcuno che metteva
nei guai se stesso con degli stupidi errori ogni momento… ma
ora è diverso… tu sei diverso e stavolta
c’è anche lei… intendo prepararvi per
una missione: sei costretto alla fuga, a nasconderti, a non vivere una
vita normale… senza uno scopo, ti conosco, non ne usciresti
vivo, tanto meno sano di mente… Fidati di me, e oltre a
salvare te stesso e Sile dal Signore Oscuro, dimostrerai la tua
innocenza a tutti… e potresti avere una
possibilità… di tornare a
casa…”
“Come?”
Il fuoco magico era acceso, non era troppo freddo, e l'ambiente era
nella completa oscurità, eccetto quel poco di luce che
illuminava il giaciglio in cui ancora riposava Sile: ammirai i suoi
capelli scomposti sulla coperta, la curva leggera del suo
collo. In un solo istante immaginai una festa di Hogmanay,
nella sala grande di Herrengton, io accanto a mio padre, che
m’incideva il palmo con una lama e poi andava a scrivere il
nome di mio figlio sotto il mio, sul sacro arazzo degli
Slytherin. Abbassai lo sguardo, cercando di trattenere le
lacrime che mi bagnavano già gli occhi. Ero proprio
un debole. Fear mi fissò, comprese i miei pensieri
di quel preciso istante, ma non mi guardò con un ghignetto
sordido dei suoi, né con compassione, anzi si
avvicinò ancora di più a me, appoggiò
le labbra al mio orecchio e bisbigliò alcune parole, parole
che si tessevano a formare frasi totalmente assurde. Mi
scostai da lui, incredulo, le immagini di una normalità
familiare di nuovo spente e ricacciate nei luoghi più
reconditi dell’anima: non poteva dire sul serio, non poteva
essere quella la missione che aveva intenzione di
darci… Non c’erano nemmeno prove che non
fosse solo il frutto di una fantasia… Solo una
favola per bambini…
“Tu sei pazzo,
Fear…”
“Può
darsi… ma fidati di me, e i nomi dei tuoi figli saranno
sotto il tuo, su quell’arazzo a cui non riesci a non
pensare…”
***
Rodolphus Lestrange
Nocturne Alley, Londra - ven. 31 dicembre 1971
“Mi dispiace,
Milord... la situazione... ”
Il ghiaccio si spezzava sotto il peso del mio corpo, gli stivali
fendevano la neve, lasciando impronte nervose nei vicoli di Nocturne
Alley, sbuffai alle mie spalle, all’indirizzo di Walden,
perché si muovesse, mentre Augustus, al mio fianco, sembrava
non avesse di meglio che osservarmi di continuo.
“Allora la smetti da solo o
vuoi che te la faccia smettere io? Non è serata!”
Augustus alzò le mani in segno di resa e rimase due passi
indietro, ma continuavo a sentirmi gli occhi puntati in mezzo alle
spalle, mentre aprivo la porta del “Drago nero” e
m’infilavo nell’atmosfera sulfurea e calda del
locale. Ci avviammo come al solito al secondo piano, nella
stanzetta che il gestore ci riservava per quelle che immaginava fossero
serate a base di alcol e sesso, e che invece era diventato il quartier
generale in cui stilavamo i piani di battaglia per rendere reali i
desideri di Milord. Walden era quello che ci consentiva di mantenere la
facciata, gli davo sempre il compito di occuparsi delle femmine, di
sceglierle e portarcele di sopra, nello stato mentale in cui mi trovavo
sarei stato capace di ucciderlo se ne avesse combinata una delle sue,
quindi era meglio se mi fosse stato fuori dalle... Augustus si
tolse il mantello e con esso il travestimento che usava per
avventurarsi, lui uomo avviato a una brillante carriera al Ministero,
in quelle bettole malfamate, poi si mise seduto accanto al caminetto,
ravvivando il fuoco con un colpo di bacchetta ed estraendo due
bicchieri e una bottiglia di ottimo Firewhisky, che portava sempre
nella sua tasca porta tutto. Perché “non ci si deve
scordare mai di essere ciò che siamo, nemmeno nella peggior
topaia di Nocturne Alley!”
Io, invece, l’’unica cosa che volevo, quella notte,
era scordarmi chi fossi. Era serata di festa a Manchester, a
casa di Cygnus, Bella era lì, con Narcissa e i genitori ad
annoiarsi a una pacchiana serata di festa, il faraonico fidanzamento di
Cissa e Lucius Malfoy… non aveva obiettato quando le avevo
comunicato che non sarei stato presente, anzi, nel suo sguardo avevo
visto quella che poteva essere ammirazione, o forse solo invidia per
me, che ero libero di andare dove volessi. Lei, ancora
convalescente, no…
“Dovresti stare calmo, sai?
Sembra quasi che ti abbia appena messo le corna tua moglie!”
Augustus si mise a ridere, versando la mia dose di whisky nel bicchiere
e offrendomela, io con un colpo gli feci schizzare via il bicchiere
dalle mani e, furioso, lo sollevai via dalla sua sedia e lo scaraventai
contro il muro, restandogli addosso, la bacchetta puntata alla
giugulare, affondata di mezzo centimetro nella carne.
“Se non vuoi pulire con la
lingua questo pavimento fetido, Rook, ti consiglio di pensarci due
volte prima di riempirti la bocca con il nome di mia
moglie…”
“Cazzo ma… ti
vuoi… dare… una calmata! Lo sai… non
volevo… dire… voglio… solo
dire… lasciami, non… riesco a…
respirare…”
Mollai appena la presa e vidi il suo volto lentamente ritornare a un
colorito normale, io avevo sempre il respiro corto, il cuore a mille,
il sangue che pulsava alle tempie, ero pronto a scagliarmi su di lui, o
su chiunque altro, per qualsiasi assurdo motivo mi fosse venuto in
mente.
“Non te la dovresti prendere
più di tanto, Rodolphus… ha tradito tutti, non ha
tradito solo te… ci ha fregati tutti… anche
Milord!”
“Per tua informazione, a me
non frega un cazzo di…”
“No, lo so, hai
ragione… non te ne frega… però dammi
retta… sfogati, si vede che sei al limite… non
sono stati giorni facili per te… Approfittiamo della serata
libera, dai… no, niente donne né alcool, serve
roba forte stanotte, molto forte… una bella caccia al
babbano, ci stai? Come quella volta che a Little
Hangleton…”
“Non c’ero quella
volta a Little Hangleton… e non so che farmene di giochini
che possono andar bene a quello smidollato là
sotto…”
Mi versai un bicchiere di whisky e mi lasciai attrarre dalle fiamme nel
caminetto, girai ancora una volta il liquido ambrato nel bicchiere, e
mi rividi appena poche ore prima, seduto davanti al fuoco spento, nel
salone più grande del mio palazzo, completamente immerso
nelle tenebre, la testa affondata tra le mani, un cerchio pesante,
opprimente, le parole, quelle parole che mi esplodevano del cervello.
*
“Mi dispiace, Milord... la situazione... è
irreversibile…”
"No, non è possibile... non è accettabile..."
Mi ero alzato, avevo
represso a stento la voglia di devastare tutto, di nuovo, di bruciare
tutto, sentivo le membra pesanti come se mi fossi sfinito con la magia,
fino a esaurirmi come non avevo mai fatto. Invece avevo
passato tutto il giorno... Giorno? Era giorno o notte ormai...
che cos’era? Aveva ancora senso il
tempo? Avevo passato un tempo infinito sprofondato su quella
poltrona, davanti a quel caminetto, le tende tirate, a scolarmi tutti
gli alcolici che c'erano in casa... Chiedendomi che senso
avesse a quel punto… Che senso avesse
vivere…
“Mi dispiace, Milord... la situazione... è
irreversibile… non c'è nulla che possiamo
fare...”
Avevo urlato, di nuovo,
ancora, avevo lanciato il bicchiere contro il mobile, l'unica vetrina
ancora integra si era frantumata e miriadi di schegge erano volate in
tutte le direzioni, tanto vicine a me, da sentirle, penetrarmi la
carne, ferirmi, il calore del sangue che scivolava dai tagli sulle
guance.
*
Senza accorgermene, le dita erano di nuovo salite al viso, a
ripercorrere le ferite che mi ero procurato appena qualche ora prima,
vidi Rook che, in imbarazzo, abbassava gli occhi: ecco
perché non faceva altro che fissarmi… era per le
ferite che avevo sul volto.
“So che non sono affari
miei… ma si può sapere che cazzo hai fatto alla
faccia? Sei caduto? Ti hanno pestato? Ti sei sbronzato?”
Lo fissai, ironico, lo sguardo alterato, da pazzo, ghignai.
“Hai detto bene, Rook, questi
non sono affari tuoi…”
“D’accordo, ma
allora spiegami, perché siamo qui: non abbiamo da compiere
alcuna missione per il Lord, non vuoi andare a puttane, non vuoi andare
a caccia… che cosa diavolo vuoi fare?”
Lo fissai, ma in realtà nemmeno lo vedevo.
*
Mi rivedevo come fuori
di me, con la mano alla cintola, il vecchio davanti a me, mi aveva
guardato pallido di terrore, dovevo avergli messo una paura fottuta, un
terrore vero, penetrante, quale non l'avevo mai messo a nessuno,
nemmeno quando mi presentava nero come la morte, con una maschera
d'argento in faccia, a reclamare la vita degli uomini per il mio
Signore... Ora per chi reclamavo la vita? Di chi
dovevo reclamare la vita? Era tutta colpa mia... tutta colpa
mia...
"Mi dispiace, Milord..."
Come un ossesso ero
uscito dal salone, avevo corso a piedi nudi, le vesti lacere, su un
tappeto di cristalli, mi ero ferito ma non mi era importato niente,
avevo salito le scale, un ramo, poi un altro, fino a raggiungere la
camera da letto. Erano giorni ormai che lei non dormiva
lì, che Bellatrix non divideva il mio letto, eppure quella
stanza era piena di lei, del suo profumo, del suo calore, della sua
passione... Di quella passione finta all'inizio, una passione
diventata via via sempre più ribelle, selvaggia,
viva… E ora? Che cosa eravamo diventati ora? Ora
che grazie a me possedeva l'unico gioiello che avesse piacere di
portare sulla pelle, un gioiello che non doveva essere appoggiato, ma
inciso, marchiato, impresso nella carne, indelebile, fino alla
morte? Era solo una donna, una dannata donna, che non mi
rispettava, che mi derideva, che stava lì, in quel letto,
nel mio letto, solo per ottenere qualcosa in cambio... che fosse un
Marchio Nero o la mia umiliazione, o il suo piacere, quando ne aveva
voglia. Che cos’era ora quello che provavo per lei,
se non un’insulsa ossessione, una follia? Che cosa
m’importava ormai di lei? Di lei che… Di
lei che non poteva più darmi nemmeno l'unica cosa che mi
servisse veramente?
“Mi dispiace, Milord... la situazione... è
irreversibile… non c'è nulla che possiamo fare...
vostra moglie non può più avere
figli…”
Ero rimasto di sasso,
gelido come la morte, per poco non ero crollato a terra. Sapevo che
nessuno mi avrebbe giudicato se l'avessi ripudiata... ero nel giusto...
Sapevo che mio padre avrebbe fatto di tutto perché mi
decidessi a divorziare, e poi cercassi subito un’altra donna
che mi desse l’unica cosa che ci serviva… Ma io
sarei morto piuttosto che cacciarla via…
Calmo, gli avevo chiesto
chi altri lo sapesse, il vecchio guaritore mi aveva guardato come se
fossi impazzito, poi immaginando che fosse una normale reazione emotiva
alla notizia che mi aveva appena dato, si era tranquillizzato e aveva
annuito quando gli avevo fatto capire che non volevo glielo dicesse,
desideravo che mia moglie lo sapesse da me... Sorrisi quando
mi tranquillizzò, nessun altro sapeva, lo ringraziai per
tutto ciò che aveva fatto per noi, ma quando gli diedi la
mano per salutarlo, mi avvicinai a lui tanto da suggerirgli di deviare
lungo il fiume, mentre si dirigeva a casa per pranzo, e che,
incidentalmente, doveva inciampare sul greto e scivolare nelle acque
gelide del fiume. E morire assiderato. Il vecchio,
con lo sguardo vacuo, aveva annuito ed era uscito dal maniero, io avevo
preso del firewhisky e mi ero andato a sedere sulla poltrona, al buio,
rimuginando, piangendo, distruggendo, devastando, imprecando.
*
“Andiamo a teatro,
Rookwood…”
“A teatro? Che cosa dici? Vuoi
andare a caccia di babbani acculturati? Manca un’ora a
mezzanotte, qualsiasi spettacolo sta finendo e…”
“E gli spettatori stanno
uscendo alla spicciolata nelle strade buie e silenziose della Londra
babbana… Questa sera si tiene una rappresentazione molto
importante… a cui ho saputo, grazie a te, dovrebbe aver
partecipato anche qualcuno di molto importante per il nostro
mondo…”
“Non starai davvero pensando
di…”
“Non vuoi fare un inatteso
regalo di buon anno al nostro caro Milord?”
Ghignai, mentre Augustus mi guardava incredulo, il suo volto prendeva
colore, a mano a mano che comprendeva che non stavo affatto scherzando.
“È troppo
pericoloso, Lestrange… sarà pieno di guardie
babbane, oltre che di uomini del Ministero…”
“Se non fosse pericoloso, non
avrebbe senso provarci…”
“No… tu sei fuori
di testa… non so cosa tu abbia… ma questa
è una follia… non puoi davvero pensare di fare un
attentato al Ministro solamente in due…”
“Anche da solo, se
è per questo… se sei così vigliacco da
volertene tornare alle sottane di tua moglie, la gloria sarà
tutta mia! Non c’è problema!”
Ripresi il mantello e lo indossai, estrassi una boccetta dalla tasca e
ingurgitai il contenuto, attesi che la pozione facesse effetto,
contorcendomi appena per il disgustoso sapore della Polisucco e per le
alterazioni che avvenivano nel mio corpo. Mi osservai allo specchio,
avevo l’aspetto di un insulso ometto di mezza età,
di mio conservavo solo l’altezza, le vesti e la stessa
corposità, Augustus, con un sospiro poco convinto, si rimise
il travestimento e mi fu dietro, scendemmo per le scale secondarie e
uscimmo sul vicolo del retrobottega, poi ci smaterializzammo e di
corsa, avanzammo in mezzo alla neve che riprendeva a scendere via via
sempre più fitta. Quando arrivammo, Longbottom non aveva
ancora iniziato a scendere i gradini del teatro, era appena fuori
l’ingresso e parlava con alcune persone, non ebbi
difficoltà a riconoscere suo figlio e sua nuora, Augusta,
c’era pure un ragazzino sui dieci anni, doveva essere suo
nipote, insieme a diverse altri personaggi che, dal modo di vestire,
dovevano essere solo degli stramaledetti babbani. Un senso di
rifiuto e odio mi prese, al pensiero che una delle famiglie purosangue
più illustri del nostro mondo si abbassasse a familiarizzare
con la feccia al punto da sembrare gente come loro. Fu un
attimo, mi guardai intorno, c’erano molte persone che
sicuramente erano Aurors o uomini della sicurezza babbana, avanzai,
muovendomi facilmente grazie al mio aspetto poco appariscente, poco
minaccioso. Augustus era più incerto, gli feci un
cenno e si allontanò da me, percorse la piazza come se non
mi conoscesse, per intervenire o distrarre gli Aurors, se fosse stato
necessario. Io camminai ancora, una guardia mi chiese che cosa
volessi, io, balbettando appena, gli dissi di aver dimenticato
all’ingresso il mio ombrello e l’uomo, dopo avermi
scrutato un po’, mi fece cenno di passare…
Stupidi babbani!
Salii i gradini, erano stati spazzati solo quelli centrali, quindi
avvicinarmi non era un problema, oltrepassai il gruppetto, osservai con
cura il Ministro, mi resi conto che a proteggerlo da vicino
c’erano meno uomini del solito. Mi avviai verso
l’oscurità dell’ingresso, mi avvicinai
al portiere, con la scusa di chiedere un’informazione gli
sibilai all’orecchio un maleficio e l’uomo rimase
in stato catatonico al suo posto; a quel punto avevo finalmente le
spalle coperte, controllai per l’ultima volta la mia preda,
poi, senza farmi notare, con un colpo di bacchetta feci crollare a
terra uno dei due bracieri ai lati della porta, i pochi astanti furono
colti di sorpresa, proprio mentre, dall’altro lato della
strada, Rookwood lanciò una serie d’incantesimi
che sembravano colpi di fucile provenienti da vari punti della piazza,
gettando nel panico le poche persone rimaste sulla scalinata e
costringendole a spingersi verso di me, nel vano tentativo di cercare
rifugio all’interno del locale. Con passo rapido,
nella confusione, non ebbi problema ad avvicinarmi a Longbottom prima
che tre uomini del suo seguito si staccassero dalle altre guardie
rimaste sulla scalinata per rispondere agli inesistenti cecchini sui
tetti dei palazzi prospicienti, in mezzo alla calca gli fui di fianco,
lo chiamai, perché si voltasse e rallentasse il passo, mi
guardò, cercò di capire se e dove mi avesse
conosciuto, il figlio cercò di trascinarlo via,
invano. Era troppo tardi: la mano che reggeva la bacchetta a
pochi centimetri dal suo fianco, gli avevo già sussurrato la
mia sentenza, con il più innocente dei miei ghigni, ad
appena un centimetro dalla faccia. Poi, mentre tutti gli altri
continuavo a trascinarsi verso l’interno, rallentai il passo
e in breve mi ritrovai di nuovo vicino al portiere,
nell’angolo più buio da dove mi smaterializzai,
proprio mentre Augusta Longbottom urlava, vedendo il suocero crollare a
terra.
Morto.
*continua*
NdA:
Vi ringrazio per le letture, recensioni, preferenze, ecc ecc. Ci
leggiamo dopo la pausa estiva. In bocca al lupo per gli
impegni scolastici/universitari e buone vacanze! A presto.
Valeria
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