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Autore: Terre_del_Nord    11/06/2011    8 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is'
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That Love is All There is
Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Chains - IV.006 - Paternità

IV.006


Meissa Sherton
74, Essex Street, Londra - ven. 31 dicembre 1971

Immersa in una soffice coltre immacolata, Londra si stava preparando all'ultima notte dell'anno, una notte di balli, feste e allegria; un turbinio di fiocchi volteggiava lieve sopra Essex Street, la luce sempre più tenue, mentre nel parco, in fondo alla strada, la neve danzava già al chiarore giallognolo dei primi lampioni accesi, sempre più fitta, convincendo anche gli ultimi ritardatari ad affrettare il passo. Scorrevo lo sguardo su quel piccolo angolo di mondo fuori della finestra, senza neppure vederlo, seduta sul divano, nella semioscurità della mia stanza, tutte le candele lasciate spente, le gambe cinte dalle braccia e la testa appoggiata alle ginocchia, i capelli sciolti sulla faccia, a schermare tutto quello che avevo intorno, la mia vita. Di quella casa, non volevo più vedere niente, non volevo più sentire niente. Avevo già visto e sentito troppo, in quei giorni.
Dall'altra parte della strada, seguii Edmund Flannery nel suo cappotto più elegante: aprì la porta lasciando passare i due figli vestiti come bambole e la moglie impellicciata, se la richiuse alle spalle e si avviò con gli altri, rapidamente, verso il taxi che si avvicinava pigro, illuminando con i fari un volteggiare sempre più insistente. Entrando nell'auto, l'uomo alzò gli occhi verso le nostre finestre, un'espressione stordita impressa nello sguardo, chissà se si stava domandando il motivo per cui quella casa, rimasta disabitata per anni, nel giro di pochi giorni aveva ospitato un via vai continuo di persone, molte delle quali dai modi e dall'aspetto quanto meno eccentrici. Si calzò meglio il cappello in testa e sparì nel taxi, probabilmente pronunciando il nome di un locale in cui si sarebbe tenuto un elegante veglione, proprio nell'attimo in cui Dilly, l'Elfa che aveva preso il posto di Kreya nella cura di noi ragazzi, arrivò tutta trafelata per spazzolarmi i capelli e vestirmi per la festa: benché non avessi alcuna voglia di muovermi dal mio divano, sapevo che dovevo lasciarla fare, non avevo forza per reagire, né la voglia di aprire un altro fronte di discussioni in famiglia.
E ce n'erano state, in quei giorni, in casa nostra, talmente frequenti, assurde, improvvise, che a volte avevo dubitato che quelli fossero i miei familiari, tanto diverso il loro atteggiamento da quello abituale, o che stessi vivendo un orrendo incubo da cui prima o poi mi sarei svegliata. Erano ormai giorni, però, che non riuscivo a svegliarmi. Mi ero isolata spesso nel buio della mia stanza, nei miei pensieri, allontanandomi da quelle stranezze, era diventato il mio nido, il mio porto sicuro, al punto che sarei rimasta lì per sempre, solo lì riuscivo ancora a nutrire una qualche speranza, avrei rinunciato persino a vedere Sirius e Regulus, quella sera, pur di non dover affrontare il mondo là fuori.
Non m'importava più nemmeno che quella fosse, in teoria, una delle giornate che più avevo atteso nella mia vita, con ansia e speranza: per anni avevo pregato gli dei che una ragazza legasse il suo destino a quello di Lucius Malfoy, liberandomi così da un futuro senza amore e senza felicità, deciso quando ancora nessuno di noi era nato. E quella sera, finalmente, Narcissa Black avrebbe compiuto il miracolo, mi avrebbe resa definitivamente libera, fidanzandosi con l'odioso Lucius. Eppure, non riuscivo a essere felice, a sorridere: nei miei sogni, infatti, avevo sempre brindato a quel fidanzamento con una marea di succo di zucca per poi tuffarmi tra le braccia di Mirzam, che mi baciava dicendomi “Hai visto? Dovevi solo esprimere un desiderio, e questo si sarebbe avverato... ”. Ora, però, anche se esprimevo il desiderio di avere mio fratello lì al mio fianco...

    Mirzam...
   
Una lacrima mi scese sulla guancia, rapida l'andai ad asciugare... Non solo mio fratello non era al mio fianco, ma non sapevo quando né se l'avrei mai rivisto. E non potevo nemmeno piangere, papà s’incupiva ancora di più, quando ci vedeva piangere...
Dilly andò alla finestra e provò a chiudere le tende, io la pregai di non farlo, non volevo... Poteva spazzolarmi i capelli e vestirmi, ma doveva permettermi di continuare a guardare fuori da quella finestra, dovevo controllare la strada. Prima o poi, nel buio, ero convinta che sarebbe apparsa una figura alta ed elegante, che avrebbe consumato rapido e deciso gli ultimi metri di marciapiedi, sotto gli alberi spogli e per le scale, muovendosi leggero e sicuro sulla neve e sul ghiaccio, avrebbe bussato alla porta, sarebbe entrato, avrebbe inondato quella casa triste e buia con la sua risata, con la sua voce e infine mi avrebbe stretta a sé, dicendomi che era tutto un errore, che non era vero niente, che non mi avrebbe lasciata mai.

    Mirzam...

Nonostante quello che stava accadendo, benché non fossi più una bambina e sapessi che quelli erano solo stupidi sogni, benché mi fosse chiaro che non aveva più senso illudersi, né pregare, sentivo di dover attendere, ancora e ancora, con fiducia e speranza, dovevo credere in Mirzam, nonostante tutto, perché se mio fratello avesse sentito che anch’io dubitavo di lui, non sarebbe più ritornato, e allora, il mio mondo e la mia famiglia si sarebbero davvero persi per sempre. La realtà che avevo sentito dalla voce di mio padre, spiandolo dal buio del sottoscala, mentre parlava con Emerson, mi aveva tolto il fiato: Mirzam non sarebbe più tornato, non l'avrei più rivisto. Perché secondo mio padre Mirzam ci aveva... Non riuscivo a pronunciare quella parola, non ci riuscivo, troppo irreale, incomprensibile, devastante: non era possibile, no, in nessun modo era possibile che fosse quella la verità… Era impossibile che Mirzam ci avesse tradito. Altrettanto impossibile, però, era che mio padre mentisse o si sbagliasse. Non sapevo che cosa fare, non sapevo in che cosa e a chi credere. E soprattutto, tremavo all’idea che, se fosse stata quella la verità, un giorno tra loro ci sarebbe stata una resa dei conti ed io avrei dovuto decidere da che parte stare.

    Come posso scegliere? Come posso scegliere tra mio fratello e mio padre?

Mi sedetti, esausta, mentre Dilly iniziava a intrecciarmi i capelli, la mente lontana da lì. Avevo passato gli ultimi giorni in quella casa, da quando eravamo stati dimessi dall'ospedale di Inverness ed eravamo tornati a Londra, com’era già deciso da prima del matrimonio; avevo sperato che per la convalescenza saremmo ritornati a Herrengton, ma nostro padre, con una freddezza che non gli conoscevo e che all’inizio non avevo compreso, aveva chiuso la questione dicendo che la sua decisione era quella, che non c'era altro da aggiungere e che né io né mio fratello avevamo più l'età per fare i capricci. Sentirlo così distante era stato sconvolgente, aveva talmente tante preoccupazioni che passava con noi pochissimo tempo, e anche quando era davanti a noi, sembrava non vederci: all'inizio avevo temuto che stesse ancora male, solo un po' per volta i tasselli erano andati al loro posto. Nostra madre, da parte sua, aveva fatto di tutto per isolarci dal mondo esterno, aveva nascosto o distrutto i giornali, e con la scusa che io e mio fratello dovevamo riprenderci dall'incidente, aveva limitato le visite di amici e parenti al minimo indispensabile: sembrava non rendersi conto che di lì a pochi giorni saremmo tornati a scuola, e allora quella realtà che non voleva affrontare con noi, ci avrebbe travolti senza mediazione, senza filtri, con tutta la cattiveria che i nostri compagni ci avrebbero gettato addosso. Alla fine, non erano comunque riusciti a nasconderci niente: poco per volta avevamo compreso che gli uomini del Ministero nutrivano su di noi e su Mirzam molti sospetti riguardo al disastro che era accaduto al matrimonio. Rigel, all'inizio, non aveva reagito, aveva mantenuto un atteggiamento freddo, distaccato, si era chiuso in uno strano silenzio ma poi, sempre più spesso, improvvisamente, esplodeva in risposte acide e risentite verso i nostri genitori, anche verso nostra madre, lui che a dir poco la adorava. Io non capivo. Nostro padre per un po’ aveva mantenuto la calma, aveva cercato di evitare di rispondergli, poi il clima era diventato via via sempre più intollerabile, con papà che aveva cercato delle spiegazioni, e Rigel che si chiudeva in un silenzio sempre più impenetrabile. Dallo sconcerto, si era passati rapidamente al nervosismo e ormai, negli ultimi due giorni, temevo che Rigel si sarebbe messo nei guai, guai seri, stavolta: non riuscivo nemmeno a immaginare cosa sarebbe successo se, per punizione, l’avessero mandato a… Avevo pianto, anche se cercavo di trattenermi, non riuscivo a evitarlo, non potevo sopportare che si dicessero quelle cose su Mirzam, né l’idea che il Ministero ce l’avesse con nostro padre… Quando mi ero resa conto di come mi guardava papà quando piangevo, mi ero sentita ancora peggio e mi ero imposta da sola di farmi forza, di calmarmi, ma non era semplice: lo vedevo che anche lui stava male, che anche lui soffriva per Mirzam, anche se cercava di non farlo vedere, anche se cercava di mostrarsi duro e implacabile, quella storia l’aveva ferito profondamente. Soffriva anche per le risposte di Rigel e per le mie lacrime... e, con la mamma, sentivo che discutevano pressoché ogni notte. Non capivo come la nostra famiglia si fosse ridotta in quello stato… E non potevo accettare che fosse tutta colpa di mio fratello.
Il giorno precedente, all'alba, senza preavviso, eravamo stati svegliati dall'arrivo di dieci Aurors capitanati dal signor Crouch che, nonostante tutte le obiezioni di nostro padre, avevano perquisito la casa da cima a fondo, soffermandosi e buttando per aria persino le nostre stanze, interrogando per ore i nostri genitori. Crouch aveva anche tentato di interrogare me e Rigel, solo Alastor “non so cosa”, un Auror dalla fluente chioma leonina, dai modi spicci e la voce rude, era riuscito con estrema difficoltà a convincerlo che eravamo piccoli e non gli servivamo a niente, e alla fine quell'orribile uomo ci aveva lasciati in pace, anche se non ci aveva mai perso di vista. Emerson era arrivato, come nostro legale, solo a metà mattina, benché fosse stato convocato subito, in tutta fretta, si era scusato per il ritardo ma non aveva saputo dare una motivazione credibile, lasciando mio padre piuttosto interdetto, bastava guardarlo in faccia per capire che si chiedeva dove diavolo si fosse nascosto e perché non avesse risposto nemmeno a voce all'invio del Patronus, alla fine, però, l'urgenza del momento non gli aveva permesso di indagare sull’accaduto e si erano chiusi nello studiolo a parlare di questioni legali. La mamma era riuscita a convincere i Ministeriali a farci restare nella sala da pranzo, la zona più tranquilla della casa, sotto il controllo di una giovane Auror donna: doveva essere una nata babbana perché di tanti che erano in quella casa, era l’unica a vestire alla babbana in maniera credibile, cercò di metterci a nostro agio, ci disse che erano semplici controlli di routine, che il Ministero voleva solo assicurarsi che Mirzam fosse l’unico responsabile di quanto stava accadendo. Mia madre l'aveva fulminata con lo sguardo, sentendola pronunciare il nome di nostro fratello in quel modo, e da quel momento smise di trattarla con il cortese distacco dimostrato fino a quel momento per chiudersi in un silenzio carico di rancore; la donna capì di aver commesso un errore, il peggiore, proprio di fronte a noi ragazzi, troppo tardi e a sua volta non le restò che rimanere in silenzio per l’imbarazzo. Quando all’arrivo di un ministeriale molto giovane, la mamma apprese che altre due squadre stavano cercando di nuovo documenti e manufatti a Herrengton e Amesbury, sbiancò e la sentii imprecare sottovoce, quando però la fissarono insospettiti, si ricompose rapidamente e con tutta l’altezzosità che riuscì a rimettere insieme in pochi istanti, si lamentò che “barbari com’erano”, le sarebbero serviti schiere di Elfi e settimane di lavoro per rimettere in ordine il disastro che “quei bifolchi” stavano facendo nella sua casa. Io annuii comprensiva, ma dalla faccia di Rigel, si capiva che non credeva affatto fosse quello il motivo del suo malcontento.
Ciò che aveva però sconvolto e allarmato di più nostro padre, era stata la visita dei tre Decani della Confraternita, la sera precedente: appena erano arrivati, papà li aveva condotti senza tante cerimonie nel suo studio e aveva gettato dei Muffliato potenti per non farci sentire nulla, ma le lacrime che la mamma raccolse in tutta fretta con le dita, cercando di non farsi vedere, erano state più eloquenti di qualsiasi parola o spiegazione. Tutti cercavano Mirzam, sia gli uomini del Ministero, sia la Confraternita, tutti pretendevano da lui delle spiegazioni, tutti si chiedevano perché il suo Elfo avesse versato il vino che aveva avvelenato mio padre, perché non si fosse presentato a Inverness quando la mamma l'aveva chiamato, perché Burgin si ostinasse a dire di avergli venduto un pericoloso manufatto, un Athame che era stato usato in numerosi agguati. Soprattutto, però, doveva spiegare il suo legame con gli uomini del Signore Oscuro: mentre tutto il resto poteva esser giustificato o interpretato in qualche altro modo, molti testimoni avevano assistito alla sua fuga dall’arresto grazie ai Mangiamorte, che avevano attaccato i frequentatori del Paiolo e ferito un Auror. Ciò che interessava la Confraternita, invece, era appurare i fatti di Maillag avvenuti la notte stessa, a Natale: Fear era stato ritrovato ferito gravemente sulla spiaggia a poca distanza dalla casa di mio fratello, da una squadra di Aurors che lo stavano cercando, e da lì portato in ospedale. Davanti agli occhi increduli di nostro padre, il vecchio aveva raccontato di essere stato attaccato da Mirzam, e che mio fratello, ormai in fuga, aveva rubato la fiamma di Habarcat. I Decani avevano pazientato per giorni, avevano atteso una mossa di mio fratello, infine erano venuti a casa nostra, da nostro padre, per chiedergli senza altri indugi se Mirzam dovesse essere considerato un traditore della Confraternita, o se fosse stato nostro padre a dargli l'incarico di spostare la fiamma in altro luogo e in quel caso perché. La mamma non poteva non piangere, anche senza sentire le parole esatte di nostro padre, perché nessuno di noi aveva risposte o giustificazioni da dare, nostro padre non sapeva niente delle intenzioni di mio fratello. Non lo potevo vedere oltre quella porta, davanti al caminetto, ma lo riuscivo a immaginare, seduto sulla poltrona, anzi affondato nella sua poltrona, la testa tra le mani, gli occhi persi nel fuoco, la voce che gli moriva tra le labbra. Quando se n’erano andati, dopo diverse ore, Rigel ed io eravamo stati convocati per un rapido e asettico saluto, Reginald McFigg aveva teso la mano per salutare la mamma, lei era scoppiata a piangere e lui le si era avvicinato di più, per farle coraggio, lei allora gli aveva bisbigliato qualcosa all’orecchio e il Decano, rattristato aveva detto semplicemente “Capisco”.

    “Signorina pronta per scendere...”

Guardai Dilly che, tutta ossequiosa, reggeva davanti a me uno specchio all'altezza del viso per farmi ammirare i capelli intrecciati sulla testa e annodati con nastri argentati, poi lo inclinò così che osservassi l'abito, lungo e semplice, di due diversi toni di verde con piccoli inserti argentati, le maniche lisce e lunghe, il corpetto attillato, anche troppo per i miei gusti. Sarei voluta sprofondare nell'oblio, non andare a quella festa, né in qualsiasi altro posto. Non dissi nulla, però, presi anche il mantello scuro che l’Elfa mi porgeva e mi affacciai sul corridoio, e di colpo il cuore mi accelerò impazzito, quando mi resi conto che dal piano di sotto salivano urla e rumori di sedie rovesciate a terra. Tentai di arrivare alle scale per capire cosa stesse accadendo, ma per poco non fui travolta da Rigel che con pochi balzi emerse dalle scale e come un fulmine si barricò dentro la sua stanza; dietro di lui, nostro padre, infuriato, gli intimava di fermarsi. Rimasi sull’arco della porta, impietrita, mio padre si voltò verso di me, la porta di Rigel era già chiusa da un incantesimo: vidi che mi osservò fugace, doveva aver notato che stavo per piangere, il suo volto s’illuminò di sentimenti diversi, rabbia, dolore, delusione, ed io, incapace ormai di trattenermi, scivolai di nuovo nella mia stanza, silenziosa e oscura come un’ombra.

***

Alshain Sherton
74, Essex Street, Londra - ven. 31 dicembre 1971

    “... Io non ci vengo a quella stupida festa!”
    “Ti ho detto di fermarti! Rigel!”

Non mi ascoltò, anzi, con un paio di balzi, superò tutta la rampa di scale, io sentivo già prudermi le mani, avevo sempre più difficoltà a mantenere quella calma e pacatezza che, da giorni, Deidra m'implorava di conservare. Arrivai al corridoio anch'io, in tempo per vedere la porta della sua stanza che mi veniva sbattuta in faccia, inghiottii un'imprecazione e cercai di distendere, per l'ennesima volta, la voce in un tono risoluto, ma non troppo aggressivo.

    “Apri la porta, Rigel!”
    “Vai al diavolo, tu e tutti i tuoi dannati Black!”

Lo sentii pronunciare, rabbioso, uno degli inutili incantesimi di chiusura che poteva conoscere alla sua età, io repressi le minacce che mi erano già salite in gola e sospirai sempre più esasperato, presi la bacchetta, mentre con la coda dell'occhio mettevo a fuoco Meissa, almeno lei già pronta per uscire, sulla porta della sua stanza, prossima alle lacrime. Salazar, ci mancava pure che si mettesse a piangere un'altra volta!

    “Apri la porta Rigel... te lo ripeto per l'ultima volta, non farmi arrabbiare più di quanto già non sia!”

Come risposta, dalla stanza uscì della musica babbana sparata a tutto volume: indispettito, cercai di placarmi pensando che almeno avevo scoperto che fine avesse fatto il giradischi di Mirzam; strinsi le dita con più forza attorno alla bacchetta, scaricando sul legno la rabbia che mi si era appiccicata addosso negli ultimi giorni, la puntai contro la porta e bisbigliai un innocuo Alohomora, sentii la serratura scattare ed entrai, dopo un attimo, il tempo di calmarmi del tutto. Nel caos che regnava là dentro, nella penombra della stanza illuminata appena dal riflesso di un lampione, misi subito a fuoco la sagoma di Rigel in piedi accanto alla finestra, girato verso di me: mi aspettava, mi sfidava, a illuminare occhi simili ai miei solo il lumino rosso di una sigaretta... Babbana. Doveva essersi persino arrischiato a frugare tra le mie cose, su in mansarda, per essere sicuro di farmi imbestialire, sapeva che non doveva entrare là dentro senza il mio permesso. Se credeva di farmi cadere nelle sue provocazioni, però, si sbagliava di grosso!

    “Quella porcheria ti fa male al sangue... ”

Mi avvicinai, gli passai di fianco, andai alla finestra e l'aprii, rabbrividii per il gelo che penetrava dalla città ammantata di neve, ma fu utile a snebbiarmi la mente e a ricambiare l'aria consumata, vidi che tremava, ma strinse i denti e non si scompose, era proprio intenzionato a portare avanti a lungo quella sua prova di forza, ed io sarei stato altrettanto caparbio.

    “... e questa musica è troppo alta!”

Rigel piegò appena le labbra, in un sorriso che più che altro era una smorfia, e il volume della musica si alzò di quasi il doppio, io ricambiai il sorriso, poi gli smaterializzai sigaretta e giradischi, entrambi spenti, fuori della stanza; ottenuto finalmente il silenzio, scostai la sedia dalla sua scrivania e lo invitai a sedersi con un cenno della mano; lui, testardo, rimase immobile al suo posto, gli occhi fissi nei miei, l'aria irridente di chi cerca in tutti i modi di farti incazzare.

    “Perché perdere tempo a parlare con me, quando hai i tuoi cari Black che ti aspettano?  Mandami a Durmstrang una benedetta volta e facciamola finita! Dici sempre che vuoi farlo, no? Fallo! Lo voglio anch'io, qualsiasi cosa pur di non... vederti più!”

La voce alta e decisa si era incrinata solo sulle ultime due parole, quasi avesse combattuto fino all'ultimo con se stesso, prima di cedere e soffiarmele contro, mettendoci tutta la sua voglia di essere cattivo, fare del male, prima di tutto a se stesso, per guadagnarsi finalmente quello schiaffo che voleva strapparmi dalle mani da giorni, senza riuscirci, Merlino solo sapeva dove trovassi la forza di resistere e fermarmi in tempo. Non avevo ancora ben chiaro perché fosse così determinato nella volontà di farmi arrabbiare e mettersi nei guai, torturato da qualcosa che riguardava quello che ci stava capitando, certo, ma solo in parte. Non si poteva andare avanti così... Era normale che Rigel avesse una qualche reazione a quella sequela di fatti, orribili per un adulto, figuriamoci per un ragazzino; era anche normale che la sua fosse una reazione rabbiosa, sia per quello che gli era successo, sia perché, nonostante tutto, sapevo quanto fosse legato a Mirzam. Inoltre era mio figlio e anch'io ero stato alquanto insofferente verso mio padre a tredici anni... Eppure... doveva esserci qualcosa di più e, Merlino mi era testimone, in un modo o nell'altro ne sarei venuto a capo, a costo di passare tutte le festività di Hogmanay chiuso con lui in quella stanza, perché non potevo lasciarlo tornare a Hogwarts, di lì a due giorni, senza avere chiaro che cosa gli passasse per la testa, non avrei permesso che le vicende scolastiche mettessero in secondo piano quella situazione, lasciandola sedimentare, inasprire, in silenzio. Avevo già commesso quel tipo di errore con Mirzam, anni addietro, e non l'avrei ripetuto.

    “Sono io che decido se mandarti a Durmstrang, oppure no...  e lo sai... non sono certo i capricci a condizionarmi nelle scelte... voglio sapere che cosa ti passa per la testa in questi giorni, Rigel... e non usciremo da qui finché non me l’avrai detto... ”
    “Tutto qui? Puoi uscire anche subito, allora... Mi pare piuttosto chiaro che cosa mi passa per la testa! Non ne posso più di te, di tutti voi!”

Lo disse con calma, implacabile, fiero, pronto a subire la mia collera, ma io non feci né dissi nulla, mi limitai a schiarirmi la voce, aspettando che continuasse. Il silenzio calò tra di noi, a lungo. Attesi paziente, studiandolo con attenzione, mentre mio figlio faceva la stessa cosa: probabilmente si aspettava che perdessi subito le staffe, accadeva spesso tra noi, il fatto di non reagire come al solito l'aveva messo in difficoltà e, era chiaro, non riusciva a decidersi sulla strategia da adottare a quel punto. Tra i miei figli, Rigel era sempre stato quello più sfuggente, con lui avevo sempre avuto un rapporto strano, altalenante, per certi versi superficiale, non c'era stata mai quell’intimità di pensiero che avevo sempre condiviso con Meissa o quella complicità tipica dell'infanzia che avevo vissuto con Mirzam, prima dei nostri scontri esistenziali. Era quello che più mi assomigliava, sia fisicamente, sia per il carattere, ma nemmeno la comune passione per il Quidditch era riuscita a limitare quella sua strana timidezza nei miei confronti, tanto da farlo confidare sempre e solo con sua madre, tanto da convincermi che, da bambino, Rigel avesse paura di me, o a essere più ottimisti, mi considerasse una leggenda del Quidditch di cui essere orgoglioso, certo, ma nulla di più. Al contrario dei suoi fratelli, non ero riuscito nemmeno ad appassionarlo alle Leggende del Nord, anzi spesso era insofferente e persino sarcastico, le considerava solo stupide anticaglie e si assoggettava ai principi delle Rune con molta più difficoltà dei suoi fratelli... Anche in questo era identico a me alla sua età: veneravo mia madre, non condividevo i barbosi interessi di mio padre, non sopportavo mio fratello perché si gloriava di incarnare tutti quei principi cui dovevo assoggettarmi controvoglia, esasperandomi ancora di più... Eppure ero convinto di non aver seguito le orme del mio vecchio, avevo fatto di tutto per non essere il solito padre Slytherin, non avevo favorito lo scontro tra i miei figli, non avevo imposto loro le mie scelte, né avevo cercato di indirizzare le loro... Se con Rigel, ultimamente, mi ero ritrovato a fare il rompiscatole severo, non era per i precetti, per l'onorabilità e il decoro della famiglia, l'avevo fatto perché ero preoccupato per lui, perché ero suo padre e dovevo insegnargli che non tutto ciò che si vuole è lecito, che ci sono dei limiti che non si possono superare…

    Invece, da quando a Hogwarts ha conosciuto Rabastan Lestrange… Mio figlio, spesso e volentieri, va oltre… Troppo.

Ogni volta che Deidra lo abbracciava e lo baciava non potevo non ricordarmi come si fosse in parte creata tra noi quella situazione: quando avevo rischiato di perderli tutti e tre, quando avevo rischiato di perdere il mio Mirzam e con lui la donna che era la mia vita, durante quel maledetto attacco dei babbani, io mi ero come spento. Quel maledetto giorno di tredici anni prima, la nostra vita aveva all’improvviso subito una battuta d'arresto, la strada che avevamo intrapreso aveva deviato, e per quanto tutti avessimo lottato a lungo e duramente per riprendere il controllo, spesso continuavamo a viverne le conseguenze. Anche ciò che stava succedendo a Mirzam, era una conseguenza di quel giorno. Mi ero sentito responsabile e, a lungo, mi ero chiuso in me stesso, avevo ripreso il controllo solo con l'aiuto e il sostegno di Orion, ma intanto, alla nascita di Rigel la felicità era ancora offuscata da insicurezze e timori; da parte sua, Deidra aveva reagito al pericolo diventando ancora più possessiva con i ragazzi, tanto che nei primi mesi di vita di Rigel non l'aveva lasciato un secondo, non voleva separarsi da lui, neppure per metterlo tra le mie braccia... Ed io mi sentivo troppo debole e colpevole per oppormi a quella scelta, legittima certo, ma profondamente irrazionale e dannosa. Rigel era l'unico dei nostri figli di cui si era occupata pressoché da sola, ed io l'avevo lasciata fare, non perché non m’importasse di lui, anzi, Merlino solo sapeva con quanta disperazione avessimo cercato quel secondo figlio... Non volevo fare nulla che la potesse turbare, perché vedevo quanto quel bambino, giorno per giorno, riuscisse a ridarle il sorriso, la sicurezza, la serenità... Sembrava nato per riaccendere in noi la voglia di vivere. Sentivo che non dovevo impormi, che dovevo aspettare che lei trovasse la forza, il coraggio, il desiderio di mettermi Rigel tra le braccia, ed io dovevo essere pronto a prendermi di nuovo le responsabilità della mia famiglia, senza farmi schiacciare ancora dal senso di colpa. Rigel aveva significato rivedere il sorriso sulle labbra di mia moglie e la sicurezza nei miei occhi, per entrambi era stato un tornare alla vita, ancor più di vedere Mirzam fuori pericolo. Senza quel figlio, lo sapevamo entrambi, non saremmo più stati una vita sola, Meissa, Wezen, Adhara non sarebbero mai nati. Quelle mie mancanze iniziali, però, avevano lasciato un segno sul rapporto tra Rigel e me, ed anche sul suo carattere: soprattutto dopo il suo ingresso a Hogwarts, avevo iniziato a rendermi conto dell'errore, eravamo stati troppo permissivi, e Rigel a volte aveva atteggiamenti esagerati, per questo, soprattutto negli ultimi tempi, di fronte alle sue intemperanze e alle note di biasimo che arrivavano dalla scuola, ero stato costretto a reagire, con rigore maggiore del mio solito, e questo forse aveva contribuito a confonderlo ancora di più.

    “Non ti abbiamo insegnato a mentire, Rigel, tantomeno a scappare di fronte alle difficoltà... ”
    “Io non sto scappando da niente... ”

Mi guardò con odio, sibilando e scandendo le parole, sapevo quanto fosse orgoglioso, sapevo che avrei ottenuto la verità pungolandolo, piuttosto che minacciandolo.

    “Ah no? Te ne stai qui, in questa stanza buia, saltando su come un bambino capriccioso, cercando di farci arrabbiare solo per esser allontanato… Come lo chiameresti tutto questo, se non scappare? Se non è così... spiegami tu cosa stai facendo, perché è questa l'impressione che mi dai... ”

Mi fissò, poi mi ringhiò contro “vaffanculo” e come una furia cercò di recuperare la porta e sfuggirmi di nuovo, io lo precedetti e gli impedii di uscire, lo trattenni per le spalle, lui si divincolò, tirando pugni scomposti come faceva da piccolo, così rabbioso da perdere la capacità di controllare le sue reazioni, contenere magia ed energia: fece volare via tutto ciò che c'era sulla sua scrivania scagliandomelo contro, per difendermi mollai la presa e lui mi sfuggì, ritirandosi di nuovo presso la finestra, come una belva in trappola. Mi avvicinai lentamente, fissandolo negli occhi, la voce bassa e pacata.

    “Falla uscire questa rabbia, Rigel! Liberatene... Qualunque cosa sia, lascia che ti aiuti... ”
    “Certo!  Aiutami come stai aiutando Mirzam! Io ti odio! Volevi la verità? Io ti odio! Ti odio!”
    “Rigel!”

Mi aveva dato le spalle, avvolgendosi quasi nella tenda, risoluto e muto, mi avvicinai ancora fino a essergli a un passo, gli accarezzai un braccio e chiusi la mano sul suo gomito, invitandolo a voltarsi, cercò ancora di divincolarsi, non voleva che mi avvicinassi, che vedessi che stava per scoppiare a piangere.

    “Lasciami! Ti ho detto che devi lasciarmi! Lasciami… ”

Non lo lasciai, anzi, lentamente lo feci voltare verso di me e lo strinsi al mio petto, fece ancora resistenza, finché, per la tensione, la stanchezza, la paura, si lasciò andare, si lasciò abbracciare, lasciò persino libere lacrime e singhiozzi contro il mio petto, mentre gli accarezzavo la schiena, e poco per volta, non fui più l'unico ad abbracciare, sentii le sue braccia cingermi la vita, il suo volto affondarmi addosso, come da bambino, le rare volte in cui, vincendo la sua ritrosia, mi correva incontro, per dirmi che aveva battuto Mirzam volando sulla scopa. Gli passai una mano sui capelli, stavo per cedere anch’io: nei giorni passati in ospedale, l'avevo sempre osservato a distanza, dalla soglia della sua camera, non mi ero avvicinato a controllare di persona come stesse, troppo forte il senso di vergogna e di colpa per quanto era accaduto, per la mia incapacità di difenderlo... Avevo permesso ancora una volta ai miei errori di formare un muro tra noi... Ora era lì, tra le mie braccia, un cucciolo fragile, preda della frustrazione di quei giorni, della rabbia repressa, del dolore e della paura per suo fratello... Ero stato uno stupido, preoccupato com'ero delle conseguenze legali per la nostra famiglia e per la Confraternita, in tutto quel caos, non mi ero fermato ad ascoltarlo, mai, dopo tutto quello che era successo, dopo quanto aveva fatto in prima persona, per farsi notare era stato costretto ad abbandonarsi a quegli atteggiamenti assurdi. Avevo finto di non vedere le sue richieste di essere ascoltato.
   
    “Hai ragione ad avercela con me... non sono stato in grado di proteggerti o aiutarti... sono stato uno stupido, ho lasciato che la paura e il senso di vergogna prendessero il sopravvento... ho permesso che tutto il resto venisse prima... invece di stare al tuo fianco e dirti quanto sono orgoglioso di te, di quello che hai fatto per tutti noi... Ci hai salvati tutti Rigel... hai appena tredici anni ma hai avuto il coraggio che uomini adulti non avranno mai... sei stato... ”
    “Credi davvero che m'importi qualcosa di tutto questo? Credi davvero che sia sentirmi dire “bravo” quello che mi serve? Quello che voglio da te? Tu di me non hai capito niente! Niente!”

Si staccò da me, ero rimasto spiazzato, tremava, le mani serrate a pugno e mi fissava.

    “Guardami in faccia e dimmi come hai trovato il coraggio di permetterlo?”
    “A cosa ti riferisci, Rigel?”
    “Come hai potuto permettere a Fear di mettersi in mezzo e mentire?”
    “Fear? Che cosa vuoi dire? Io non ti capisco... ”
    “Sai benissimo di cosa parlo! Sai benissimo che mio fratello non ha fatto niente, che Fear sta mentendo, che Mirzam non ha rubato e non ha cercato di uccidere nessuno… Non ha tradito nessuno!”

Lo guardai, raggelato, cercando di mantenere il controllo della situazione, ma riuscii a balbettare appena il suo nome.

    “Perché? Perché permetti che lui vada via così! Che si dicano certe bestemmie su di lui?”

Non sapevo che cosa dirgli, come reagire, non avevo certo la forza di mentire su Mirzam con un attacco così diretto; lo fissai... non capivo che cosa stesse accadendo… o meglio, cercavo di ricacciare indietro un orrendo sospetto e la paura fottuta di essere stato scoperto. Possibile che sapesse la verità? E come faceva a saperla? Cercai di fingere la calma, di cambiare discorso, pur sapendo che stavo commettendo un altro errore.

    “Se vuoi parlare di Mirzam… capisco che tu sia sconvolto, lo siamo tutti… ma secondo me sarebbe più utile che parlassimo di te, di come stai, di come ti senti… io sono convinto che col tempo…”
    “Lo vedo che hai paura di me, cosa credi? Vuoi sapere come l’ho scoperto? Ti ho sentito... vi ho sentiti... tu e la mamma... quella sera in ospedale... Non lascerò che Mirzam esca dalle nostre vite! Non permetterò che sia lui a pagare per tutti! Che di lui si dica che ci ha tradito, quando ha fatto tutt’altro... Come fai a permetterlo? Come? Come puoi far credere a Meissa una cosa del genere? Che lui faccia parte di quelli che hanno provato a ucciderci! Sai quanto è affezionata a lui!”
   
    Ha sentito... tutto... Ha sentito quello che ho detto a sua madre di Mirzam, del nostro disperato tentativo di metterlo in salvo... ma con l’irruenza dei suoi tredici anni non si rende conto delle conseguenze, non capisce che era l’unica soluzione possibile per salvarci tutti, e che il suo atteggiamento è pericoloso proprio per Mirzam.

    “Se, come dici, hai sentito, sai anche che cosa ha fatto tuo fratello per tutti noi e sai che devo proteggerlo dal Signore Oscuro… non c’è più tempo per trovare un’altra soluzione… ma farò di tutto perché non sia per sempre, Rigel, te lo prometto…”
    “Non è vero... ho sentito bene la mamma che diceva “Dobbiamo dirgli addio” e poi si è messa a piangere!”
    “Rigel, ascolta... io capisco che…”
    “No... non voglio ascoltarti... avresti potuto trovare un milione di soluzioni diverse… avresti potuto farti aiutare dal Ministero per metterlo al sicuro… avresti potuto dire almeno alla Confraternita che non ha fatto niente!”
    “C’è un traditore nella Confraternita, Rigel… e i seguaci del Signore Oscuro sono infiltrati da tempo nel Ministero… Non posso fidarmi di nessuno…”
    “Ti fidi di Fear, però… ti fidi di un vecchio pazzo che ha quasi fatto morire me e Mirzam e Sile… per non parlare della nonna… e se fosse lui la spia? Te lo sei mai chiesto?”
    “Non è Fear… non temere… so che è stravagante, ma ti posso assicurare…”
    “No, non m’interessa quello che dici… non fai altro che dire bugie, sempre e solo bugie! Come quando ci propini le tue belle storie delle Terre del Nord, su quanto Salazar sia stato buono e generoso con noi, su quanto Habarcat protegga la nostra famiglia... Dimmi… cosa fa davvero Habarcat per noi? Cosa? Ecco cosa fa per noi!”

Mi mostrò le mani, gli occhi pieni di lacrime, gliele presi, le guardai: Deidra mi aveva già parlato di quel dettaglio, delle Rune che sembravano stranamente pallide sulla pelle di nostro figlio, non avevo idea di cosa significasse, né quali sarebbero state le conseguenze di un mutamento del genere, sapevo solo che nessuno prima di lui, nessuno che non fosse l’erede riconosciuto di Hifrig, era mai sopravvissuto al tocco di Habarcat, e nessuno senza l’anello poteva assoggettarla al suo volere. Che Rigel fosse ancora vivo era un miracolo che nessuno di noi, nemmeno tra i Decani riusciva a spiegarsi….

    “È questa la protezione di Habarcat? Rispondimi, è questa? Che cosa sono io adesso? Chi sono?”
    “Habarcat non si è mai comportata così, Rigel… nessuno mai è uscito vivo da una situazione del genere… io non so cosa significhi, non so quali conseguenze avrai per quelle Rune così velate, ma non dire che Habarcat non ti ha protetto, perché se sei vivo, è stata lei a concedertelo…”
    “Per quanto mi riguarda… io non sono in debito con la tua Fiamma… chi mi ha salvato è stato Mirzam!”
    “Hai ragione, è stato lui, con il suo coraggio, a salvarci tutti… allora capirai da te che è per lui che devi smettere di fare il bambino, Rigel! Se vuoi ripagare il debito che hai con lui, devi permettermi di aiutarlo e la strada per farlo, mi spiace, è questa… Odiami se vuoi, se ti fa sentire meglio… ma non permettere che il tuo odio e il tuo dolore siano un danno per Mirzam. Non devi dire a nessuno quello che sai, me lo devi giurare, Rigel, me lo devi giurare e accettare di essere Custode di questo segreto o lasciare che io agisca sulla tua mente e sui tuoi ricordi, per impedirti di tradirci…”

Mi guardò spaventato, all’improvviso consapevole dell’errore che aveva appena commesso, mi aveva rivelato il suo segreto e ora doveva scendere a patti con me, proprio con me, perché era troppo piccolo, ingenuo e fragile per tenere un segreto simile, soprattutto nei sotterranei di Serpeverde, quella che da anni ormai era la culla in cui si formavano le schiere dei seguaci del Lord.
   
    “Non usciremo di qui fino a che non mi avrai dato una risposta: scegli se preferisci mantenere la coscienza della verità e aiutarmi consapevolmente… o lasciare che risolva le cose da me, che ti faccia dimenticare… non hai altra scelta, Rigel… l’hai visto con i tuoi occhi cosa sono capaci di fare per strapparti un’informazione… l’hai sentito sulla tua pelle che persone sono… ed io sono pronto a tutto per proteggere ciò che amo… ”
    “Io ti odio!”

Mi guardò con occhi pieni di lacrime, consapevole che non c’era altra via d’uscita, io sospirai e lo strinsi a me, mentre quelle parole gli morivano sulle labbra, ormai trasformate in singhiozzi
.

***

Mirzam Sherton
località segreta, Shetland - ven. 31 dicembre 1971

Era terminata un'altra giornata, anche se non lo capivo dal calare del buio: laggiù, in quella profonda grotta oscura, non era possibile accorgersi del naturale alternarsi della luce e dell'oscurità, e si rischiava di perdere rapidamente il concetto stesso del tempo. A dire il vero, sentivo di essere già sulla strada buona per diventare pazzo. Capivo l'alternarsi dei giorni dalla luminosità di Habarcat, mi ero reso conto che diventava più oscura di giorno, di notte, invece, rifulgeva di una brillante luce verde, pura, cristallina. Avevo chiesto a Fear il motivo, ma non avevo ricevuto risposta, così avevo continuato a osservarla da solo, anche perché in quell’esilio non avevo molto altro da fare: avevo finito con lo scoprire più cose sulla sacra fiamma in quei pochi giorni, che in anni e anni di contatto continuo. Mi chiedevo perché la potessi vedere e toccare senza l'ausilio del mantello che Fear le aveva gettato addosso per prenderla: il vecchio non dava risposte, diceva solo che non era sufficiente questo fatto per potermi riconoscere come suo custode, forse Habarcat semplicemente reagiva sentendo in me lo stesso sangue che aveva assorbito da mio padre nei riti, o quello che aveva rubato a mio fratello. Avevo cercato in mille modi di farmi spiegare da Fear che cosa fosse davvero successo a Rigel, non capivo che cosa significasse quando diceva che si era “sacrificato” per salvare quanti erano a Herrengton la notte del mio matrimonio, e per questo lo odiavo sempre di più, perché m’impediva di allontanarmi da lì, di tornare dalla mia famiglia, di scoprire come stavano i miei fratelli. E mi sentivo impazzire, oltre che per la prigionia e i dubbi, per la consapevolezza che mi avesse tessuto addosso una storia crudele e vigliacca, e che tutti ci stavano credendo.

    Mio padre è consapevole che tutto questo è un inganno o anche lui e i miei fratelli sospettano che li ho traditi? Che ho realmente rubato Habarcat per consegnarla al Signore Oscuro?

Mi mettevo le mani nei capelli e solo la paura di svegliare Sile m’impediva di scoppiare a piangere, per i nervi, per la disperazione, per l'assurdità di tutto quello che stavamo vivendo, di cui a volte perdevo il senso... per i silenzi di Fear... Il vecchio non rispondeva, mai, mi chiedevo se non volesse o piuttosto non potesse, a volte avevo il dubbio che nemmeno lui avesse ben chiare le conseguenze dei piani assurdi che aveva approntato. Ero disperato. Sì, disperato... disperato per me e soprattutto per Sile. Quando la vedevo tornare dalla lunga giornata passata con Fear, sfinita e distrutta, a fare non sapevo bene cosa, mentre io ero rimasto tutto il giorno accanto a Habarcat a studiare ammuffiti libri pieni di Rune antiche e provare antiche formule senza che la Fiamma reagisse in alcun modo, mi sentivo ancora più depresso e insofferente. Sile si consumava, ed io mi dimostravo inutile ancora una volta. Se Fear ci aveva portato lì perché dimostrassi che c’era un legame tra me e la Fiamma, dopo oltre una settimana non ne avevamo ricavato niente, a parte che mi consentiva di toccarla senza provare a uccidermi… E soprattutto, paranoico e sospettoso come stavo diventando, in quelle lunghe giornate passate da solo, mi stavo chiedendo perché fosse tanto urgente trovare un nuovo custode per Habarcat, temevo che le condizioni di mio padre fossero peggiorate e che Fear come al solito mi nascondesse la verità.

    O addirittura…

Guardai Sile, addormentata, al mio fianco, fisicamente esausta, almeno quanto io lo ero mentalmente. Non era questo genere di vita che avevo sognato per noi, non era in quella grotta che dovevamo stare in quel momento: se avevo contato bene i giorni, quella doveva essere la notte di Hogmanay, e noi saremmo dovuti essere a qualche festa, a ballare, sotto le stelle, facendoci ammirare da tutti, vestiti di un amore più luminoso di qualsiasi gioiello. E invece… Hogmanay era da sempre la festa più noiosa tra quelle della Confraternita, anche l’avevamo spesso passato a casa di quel maledetto traditore di Emerson e…

    Come ha fatto a imbrogliarci tutti? E soprattutto… Fear ha detto anche a mio padre la verità su di lui? O se ne guarda bene, perché magari è una delle sue tante bugie, e la vera spia è proprio lui? E se in realtà mi avesse rapito e mi stesse costringendo a legarmi a Habarcat, solo per consegnarmi al Signore Oscuro e…? No, devo smetterla di seguire questa linea di pensieri, devo smetterla o diventerò pazzo, devo smetterla o sarà la fine per tutti...

Non era facile, la mente vagava in una sequela infinita di pensieri contorti, in cui le mie beghe attuali, le preoccupazioni per la mia famiglia e il pensiero di Sile si fondevano e si alternavano: ricordavo l’ultima festa di Hogmanay, la passeggiata nella neve, il modo di comportarsi, strano, di Warrington che per enigmi mi aveva via via svelato la verità su Sile, la mia vita che, appena un anno prima, era riuscita a ritornare su dei binari che sembravano condurre verso la pace e la felicità. Che cosa ne era stato di tanti progetti? Avevo al mio fianco Sile, vero, ma non era questo che volevo per lei, non era vivere come dei disperati, in fuga, senza un futuro, nelle mani di quel vecchio pazzo, quello che io le avevo offerto chiedendole di sposarmi. Non era così che dovevamo affrontare l’inizio del nuovo anno, finalmente sposati.
Sile si mosse appena, stringendosi ancora di più a me, tra le mie braccia: dormire insieme era l'unica concessione che il vecchio ci aveva fatto, solo di notte potevamo stare insieme, potevo vivere un minimo di casta normalità con lei, almeno di notte potevamo dormire abbracciati, parlarci, cercare di farci forza l'uno con l'altra, raccontarci quello che avevamo imparato, quanto c’eravamo sentiti soli, separati l’uno dall’altra. Mi chiedevo se per concentrarci nei nostri compiti fosse davvero necessario che stessimo sempre lontani o piuttosto Fear cercasse solo di impedirci di stare insieme come marito e moglie; a volte, isterico, ridevo di lui, delle sue fobie, delle sue fisse, mi chiedevo come potesse solo pensare che, in quel delirio, in quella continua preoccupazione, con lui che ci stava sempre addosso come un carceriere, con il Signore Oscuro che ci dava la caccia, potessimo pensare a un erede... Sospirai, chiedendomi per l’ennesima volta che diavolo di vita le avessi donato: era questo il mio solo pensiero, un pensiero che spegneva ogni altra idea, ogni altro desiderio, ogni altra necessità. Come potevo desiderare di mettere al mondo un altro innocente, se il suo destino sarebbe stato restare chiuso con noi in quell’assurda gabbia di dolore e paura?

    Che diavolo di vita ti ho donato, Sile?
 Come fai a non odiarmi? La mia assoluta incapacità, la mia stoltezza, la mia testardaggine ci hanno portato a questo.

Il mio folle amore per lei si era tradotto in un’atroce scelta, tra morire subito per mano del Lord, o farsi consumare, giorno per giorno da quel vecchio malefico, senza che io potessi impedirlo. Di sera, quando tornava da me, mi salutava con un sorriso e alcuni dei suoi baci più appassionati, come se avesse atteso quel momento per tutto il giorno, come se tutta la fatica potesse essere annullata in quell’abbraccio ed io allora, invece di essere felice, sentivo ancora di più quanto non meritassi niente. Mi alzai, facendo piano per non svegliarla, girai lentamente intorno al fuoco, m’inoltrai nel buio, fino all'imboccatura della grotta, verso quella specie di sacco in cui dormiva Fear, lo chiamai piano, avvisandolo della mia presenza, un paio di notti prima mi aveva scaraventato contro la parete e mi aveva quasi rotto un braccio, perché non mi ero annunciato e lui temeva costantemente un attacco dai Mangiamorte. Sibilai il suo nome poi mi accucciai a terra, in attesa che mi desse ascolto, la testa che già mi scoppiava.

    “Che cosa diavolo vuoi? Torna a dormire, o domani sarai un morto che cammina!”
    “Non farò nulla domani, e nemmeno Sile lo farà, se non mi dici quello che voglio sapere... ”
    “La vita è tua Sherton, se vuoi morire, fai pure, ammutinati, fai come diavolo ti pare, come hai sempre fatto... guardati, guarda dove ti ha portato la libertà che ti ha sempre concesso tuo padre! Continua a vivere così se preferisci…”
    “Le conosco le tue chiacchiere e sappi che mi hanno stancato… dimmi cosa le fai, dimmi perché la stai stremando in quel modo… devi stremare me, devi allenare me, sono io che dovrò combattere, non lei... ”

Il vecchio si sollevò sbuffando, un volto in cui traspariva solo disgusto per me ed esasperazione, si passò la mano sul volto e si scansò i capelli dalla faccia, poi con un ghigno sordido mi sputò addosso tutta la scarsa stima che aveva per me.

    “Mi dispiace sapere che non puoi goderti una mogliettina focosa e appassionata, milord… ma quello che conta adesso è farla sopravvivere, non assicurare a te un balocco con cui ingannare la noia della notte! Se proprio non puoi farne a meno, ricordati come ti sfogavi a quattordici anni!”
    “Ti prenderei volentieri a calci in culo per tutte le stronzate che dici, vecchio! Voglio sapere perché la stai sfinendo così, che senso ha stremarla così… senza conoscenze di Magia Oscura sai bene che non avrebbe scampo con gli uomini di Milord!”
    “Cosa credi che le stia insegnando, ragazzino? Ricette di cucina? Se ci troveranno, gli uomini di Milord non faranno sconti a nessuno… se non saprà difendersi, sarà un rischio per la tua vita e per la mia… quando le avrò insegnato quello che ho già insegnato a te e che quell’inutile scuola del Mistero si guarda bene dal farvi conoscere, ti unirai a noi, così insegnerò a entrambi qualche trucchetto più… avanzato… Contento? Non rompermi più e torna a dormire… se davvero ci tieni a lei, cerca di renderti utile studiando i libri che ti ho portato…”
    “Non vedo a cosa mi serva conoscere le leggende di Mastro Cuilen, Decano della Confraternita… se sono passati mille anni dalla sua morte…”
    “È stato uno dei più potenti Maghi della Confraternita, e soprattutto era il Decano che guidava le Terre quando arrivò Salazar… i suoi scritti sono utili a conoscere dettagli importanti…”
    “Se è davvero tanto importante, non credi che il buon Corvonero Emerson abbia già fatto ricerche approfondite? Che vantaggio credi di ricavarne?”
    “Chiediti piuttosto quanti svantaggi avrai tu a non sapere ciò che lui sa… e ti assicuro, che quell’uomo ormai sa molto più di quanto immagini…”

Lo fissai, aveva ragione, ma si sbagliava di grosso se credeva mi accontentassi di questo.

    “Che cosa ti costa darmi le risposte che voglio? Cosa c’è? Non ti fidi di me? Non pensi che sapere quale sia il tuo vero progetto potrebbe rendermi più utile? E perché non vuoi dirmi come stanno Rigel e Meissa?”
    “Sono fuori pericolo, sono tutti fuori pericolo… e ti credono un traditore… sei contento adesso? Ti senti meglio adesso? Pensa a te stesso e a Sile, lascia perdere quello che hai alle spalle, perché non lo riavrai mai ed è solo un inutile dolore per te…”

Strinsi le mani a pugno… Una voce in me urlava che non era vero, che Fear diceva così solo per spingermi a non pensare più a loro… per farmi del male e costringermi a reagire… non si rendeva conto che non era quella la strada, che davanti a sé non aveva una persona capace di reagire, ma solo di…

    “Non ho mai avuto stima per te, ragazzo, lo sai, non potevo avere stima per qualcuno che metteva nei guai se stesso con degli stupidi errori ogni momento… ma ora è diverso… tu sei diverso e stavolta c’è anche lei… intendo prepararvi per una missione: sei costretto alla fuga, a nasconderti, a non vivere una vita normale… senza uno scopo, ti conosco, non ne usciresti vivo, tanto meno sano di mente… Fidati di me, e oltre a salvare te stesso e Sile dal Signore Oscuro, dimostrerai la tua innocenza a tutti… e potresti avere una possibilità… di tornare a casa…”
    “Come?”

Il fuoco magico era acceso, non era troppo freddo, e l'ambiente era nella completa oscurità, eccetto quel poco di luce che illuminava il giaciglio in cui ancora riposava Sile: ammirai i suoi capelli scomposti sulla coperta, la curva leggera del suo collo. In un solo istante immaginai una festa di Hogmanay, nella sala grande di Herrengton, io accanto a mio padre, che m’incideva il palmo con una lama e poi andava a scrivere il nome di mio figlio sotto il mio, sul sacro arazzo degli Slytherin. Abbassai lo sguardo, cercando di trattenere le lacrime che mi bagnavano già gli occhi. Ero proprio un debole. Fear mi fissò, comprese i miei pensieri di quel preciso istante, ma non mi guardò con un ghignetto sordido dei suoi, né con compassione, anzi si avvicinò ancora di più a me, appoggiò le labbra al mio orecchio e bisbigliò alcune parole, parole che si tessevano a formare frasi totalmente assurde. Mi scostai da lui, incredulo, le immagini di una normalità familiare di nuovo spente e ricacciate nei luoghi più reconditi dell’anima: non poteva dire sul serio, non poteva essere quella la missione che aveva intenzione di darci… Non c’erano nemmeno prove che non fosse solo il frutto di una fantasia… Solo una favola per bambini…

    “Tu sei pazzo, Fear…”
    “Può darsi… ma fidati di me, e i nomi dei tuoi figli saranno sotto il tuo, su quell’arazzo a cui non riesci a non pensare…”

***

Rodolphus Lestrange
Nocturne Alley, Londra - ven. 31 dicembre 1971

    “Mi dispiace, Milord... la situazione... ”

Il ghiaccio si spezzava sotto il peso del mio corpo, gli stivali fendevano la neve, lasciando impronte nervose nei vicoli di Nocturne Alley, sbuffai alle mie spalle, all’indirizzo di Walden, perché si muovesse, mentre Augustus, al mio fianco, sembrava non avesse di meglio che osservarmi di continuo.

    “Allora la smetti da solo o vuoi che te la faccia smettere io? Non è serata!”

Augustus alzò le mani in segno di resa e rimase due passi indietro, ma continuavo a sentirmi gli occhi puntati in mezzo alle spalle, mentre aprivo la porta del “Drago nero” e m’infilavo nell’atmosfera sulfurea e calda del locale. Ci avviammo come al solito al secondo piano, nella stanzetta che il gestore ci riservava per quelle che immaginava fossero serate a base di alcol e sesso, e che invece era diventato il quartier generale in cui stilavamo i piani di battaglia per rendere reali i desideri di Milord. Walden era quello che ci consentiva di mantenere la facciata, gli davo sempre il compito di occuparsi delle femmine, di sceglierle e portarcele di sopra, nello stato mentale in cui mi trovavo sarei stato capace di ucciderlo se ne avesse combinata una delle sue, quindi era meglio se mi fosse stato fuori dalle... Augustus si tolse il mantello e con esso il travestimento che usava per avventurarsi, lui uomo avviato a una brillante carriera al Ministero, in quelle bettole malfamate, poi si mise seduto accanto al caminetto, ravvivando il fuoco con un colpo di bacchetta ed estraendo due bicchieri e una bottiglia di ottimo Firewhisky, che portava sempre nella sua tasca porta tutto. Perché “non ci si deve scordare mai di essere ciò che siamo, nemmeno nella peggior topaia di Nocturne Alley!”
Io, invece, l’’unica cosa che volevo, quella notte, era scordarmi chi fossi. Era serata di festa a Manchester, a casa di Cygnus, Bella era lì, con Narcissa e i genitori ad annoiarsi a una pacchiana serata di festa, il faraonico fidanzamento di Cissa e Lucius Malfoy… non aveva obiettato quando le avevo comunicato che non sarei stato presente, anzi, nel suo sguardo avevo visto quella che poteva essere ammirazione, o forse solo invidia per me, che ero libero di andare dove volessi. Lei, ancora convalescente, no…

    “Dovresti stare calmo, sai? Sembra quasi che ti abbia appena messo le corna tua moglie!”

Augustus si mise a ridere, versando la mia dose di whisky nel bicchiere e offrendomela, io con un colpo gli feci schizzare via il bicchiere dalle mani e, furioso, lo sollevai via dalla sua sedia e lo scaraventai contro il muro, restandogli addosso, la bacchetta puntata alla giugulare, affondata di mezzo centimetro nella carne.

    “Se non vuoi pulire con la lingua questo pavimento fetido, Rook, ti consiglio di pensarci due volte prima di riempirti la bocca con il nome di mia moglie…”
    “Cazzo ma… ti vuoi… dare… una calmata! Lo sai… non volevo… dire… voglio… solo dire… lasciami, non… riesco a… respirare…”

Mollai appena la presa e vidi il suo volto lentamente ritornare a un colorito normale, io avevo sempre il respiro corto, il cuore a mille, il sangue che pulsava alle tempie, ero pronto a scagliarmi su di lui, o su chiunque altro, per qualsiasi assurdo motivo mi fosse venuto in mente.

    “Non te la dovresti prendere più di tanto, Rodolphus… ha tradito tutti, non ha tradito solo te… ci ha fregati tutti… anche Milord!”
    “Per tua informazione, a me non frega un cazzo di…”
    “No, lo so, hai ragione… non te ne frega… però dammi retta… sfogati, si vede che sei al limite… non sono stati giorni facili per te… Approfittiamo della serata libera, dai… no, niente donne né alcool, serve roba forte stanotte, molto forte… una bella caccia al babbano, ci stai? Come quella volta che a Little Hangleton…”
    “Non c’ero quella volta a Little Hangleton… e non so che farmene di giochini che possono andar bene a quello smidollato là sotto…”

Mi versai un bicchiere di whisky e mi lasciai attrarre dalle fiamme nel caminetto, girai ancora una volta il liquido ambrato nel bicchiere, e mi rividi appena poche ore prima, seduto davanti al fuoco spento, nel salone più grande del mio palazzo, completamente immerso nelle tenebre, la testa affondata tra le mani, un cerchio pesante, opprimente, le parole, quelle parole che mi esplodevano del cervello.

*

    “Mi dispiace, Milord... la situazione... è irreversibile…”
    "No, non è possibile... non è accettabile..."

Mi ero alzato, avevo represso a stento la voglia di devastare tutto, di nuovo, di bruciare tutto, sentivo le membra pesanti come se mi fossi sfinito con la magia, fino a esaurirmi come non avevo mai fatto. Invece avevo passato tutto il giorno... Giorno? Era giorno o notte ormai... che cos’era? Aveva  ancora senso il tempo? Avevo passato un tempo infinito sprofondato su quella poltrona, davanti a quel caminetto, le tende tirate, a scolarmi tutti gli alcolici che c'erano in casa... Chiedendomi che senso avesse a quel punto… Che senso avesse vivere…

    “Mi dispiace, Milord... la situazione... è irreversibile… non c'è nulla che possiamo fare...”

Avevo urlato, di nuovo, ancora, avevo lanciato il bicchiere contro il mobile, l'unica vetrina ancora integra si era frantumata e miriadi di schegge erano volate in tutte le direzioni, tanto vicine a me, da sentirle, penetrarmi la carne, ferirmi, il calore del sangue che scivolava dai tagli sulle guance.

*

Senza accorgermene, le dita erano di nuovo salite al viso, a ripercorrere le ferite che mi ero procurato appena qualche ora prima, vidi Rook che, in imbarazzo, abbassava gli occhi: ecco perché non faceva altro che fissarmi… era per le ferite che avevo sul volto.

    “So che non sono affari miei… ma si può sapere che cazzo hai fatto alla faccia? Sei caduto? Ti hanno pestato? Ti sei sbronzato?”

Lo fissai, ironico, lo sguardo alterato, da pazzo, ghignai.

    “Hai detto bene, Rook, questi non sono affari tuoi…”
    “D’accordo, ma allora spiegami, perché siamo qui: non abbiamo da compiere alcuna missione per il Lord, non vuoi andare a puttane, non vuoi andare a caccia… che cosa diavolo vuoi fare?”

Lo fissai, ma in realtà nemmeno lo vedevo.

*

Mi rivedevo come fuori di me, con la mano alla cintola, il vecchio davanti a me, mi aveva guardato pallido di terrore, dovevo avergli messo una paura fottuta, un terrore vero, penetrante, quale non l'avevo mai messo a nessuno, nemmeno quando mi presentava nero come la morte, con una maschera d'argento in faccia, a reclamare la vita degli uomini per il mio Signore... Ora per chi reclamavo la vita?  Di chi dovevo reclamare la vita? Era tutta colpa mia... tutta colpa mia...

    "Mi dispiace, Milord..."

Come un ossesso ero uscito dal salone, avevo corso a piedi nudi, le vesti lacere, su un tappeto di cristalli, mi ero ferito ma non mi era importato niente, avevo salito le scale, un ramo, poi un altro, fino a raggiungere la camera da letto. Erano giorni ormai che lei non dormiva lì, che Bellatrix non divideva il mio letto, eppure quella stanza era piena di lei, del suo profumo, del suo calore, della sua passione...  Di quella passione finta all'inizio, una passione diventata via via sempre più ribelle, selvaggia, viva… E ora? Che cosa eravamo diventati ora? Ora che grazie a me possedeva l'unico gioiello che avesse piacere di portare sulla pelle, un gioiello che non doveva essere appoggiato, ma inciso, marchiato, impresso nella carne, indelebile, fino alla morte? Era solo una donna, una dannata donna, che non mi rispettava, che mi derideva, che stava lì, in quel letto, nel mio letto, solo per ottenere qualcosa in cambio... che fosse un Marchio Nero o la mia umiliazione, o il suo piacere, quando ne aveva voglia. Che cos’era ora quello che provavo per lei, se non un’insulsa ossessione, una follia? Che cosa m’importava ormai di lei? Di lei che… Di lei che non poteva più darmi nemmeno l'unica cosa che mi servisse veramente?

    “Mi dispiace, Milord... la situazione... è irreversibile… non c'è nulla che possiamo fare... vostra moglie non può più avere figli…”

Ero rimasto di sasso, gelido come la morte, per poco non ero crollato a terra. Sapevo che nessuno mi avrebbe giudicato se l'avessi ripudiata... ero nel giusto... Sapevo che mio padre avrebbe fatto di tutto perché mi decidessi a divorziare, e poi cercassi subito un’altra donna che mi desse l’unica cosa che ci serviva… Ma io sarei morto piuttosto che cacciarla via…
Calmo, gli avevo chiesto chi altri lo sapesse, il vecchio guaritore mi aveva guardato come se fossi impazzito, poi immaginando che fosse una normale reazione emotiva alla notizia che mi aveva appena dato, si era tranquillizzato e aveva annuito quando gli avevo fatto capire che non volevo glielo dicesse, desideravo che mia moglie lo sapesse da me... Sorrisi quando mi tranquillizzò, nessun altro sapeva, lo ringraziai per tutto ciò che aveva fatto per noi, ma quando gli diedi la mano per salutarlo, mi avvicinai a lui tanto da suggerirgli di deviare lungo il fiume, mentre si dirigeva a casa per pranzo, e che, incidentalmente, doveva inciampare sul greto e scivolare nelle acque gelide del fiume. E morire assiderato. Il vecchio, con lo sguardo vacuo, aveva annuito ed era uscito dal maniero, io avevo preso del firewhisky e mi ero andato a sedere sulla poltrona, al buio, rimuginando, piangendo, distruggendo, devastando, imprecando.
   
*

    “Andiamo a teatro, Rookwood…”
    “A teatro? Che cosa dici? Vuoi andare a caccia di babbani acculturati? Manca un’ora a mezzanotte, qualsiasi spettacolo sta finendo e…”
    “E gli spettatori stanno uscendo alla spicciolata nelle strade buie e silenziose della Londra babbana… Questa sera si tiene una rappresentazione molto importante… a cui ho saputo, grazie a te, dovrebbe aver partecipato anche qualcuno di molto importante per il nostro mondo…”
    “Non starai davvero pensando di…”
    “Non vuoi fare un inatteso regalo di buon anno al nostro caro Milord?”

Ghignai, mentre Augustus mi guardava incredulo, il suo volto prendeva colore, a mano a mano che comprendeva che non stavo affatto scherzando.

    “È troppo pericoloso, Lestrange… sarà pieno di guardie babbane, oltre che di uomini del Ministero…”
    “Se non fosse pericoloso, non avrebbe senso provarci…”
    “No… tu sei fuori di testa… non so cosa tu abbia… ma questa è una follia… non puoi davvero pensare di fare un attentato al Ministro solamente in due…”
    “Anche da solo, se è per questo… se sei così vigliacco da volertene tornare alle sottane di tua moglie, la gloria sarà tutta mia! Non c’è problema!”

Ripresi il mantello e lo indossai, estrassi una boccetta dalla tasca e ingurgitai il contenuto, attesi che la pozione facesse effetto, contorcendomi appena per il disgustoso sapore della Polisucco e per le alterazioni che avvenivano nel mio corpo. Mi osservai allo specchio, avevo l’aspetto di un insulso ometto di mezza età, di mio conservavo solo l’altezza, le vesti e la stessa corposità, Augustus, con un sospiro poco convinto, si rimise il travestimento e mi fu dietro, scendemmo per le scale secondarie e uscimmo sul vicolo del retrobottega, poi ci smaterializzammo e di corsa, avanzammo in mezzo alla neve che riprendeva a scendere via via sempre più fitta. Quando arrivammo, Longbottom non aveva ancora iniziato a scendere i gradini del teatro, era appena fuori l’ingresso e parlava con alcune persone, non ebbi difficoltà a riconoscere suo figlio e sua nuora, Augusta, c’era pure un ragazzino sui dieci anni, doveva essere suo nipote, insieme a diverse altri personaggi che, dal modo di vestire, dovevano essere solo degli stramaledetti babbani. Un senso di rifiuto e odio mi prese, al pensiero che una delle famiglie purosangue più illustri del nostro mondo si abbassasse a familiarizzare con la feccia al punto da sembrare gente come loro. Fu un attimo, mi guardai intorno, c’erano molte persone che sicuramente erano Aurors o uomini della sicurezza babbana, avanzai, muovendomi facilmente grazie al mio aspetto poco appariscente, poco minaccioso. Augustus era più incerto, gli feci un cenno e si allontanò da me, percorse la piazza come se non mi conoscesse, per intervenire o distrarre gli Aurors, se fosse stato necessario. Io camminai ancora, una guardia mi chiese che cosa volessi, io, balbettando appena, gli dissi di aver dimenticato all’ingresso il mio ombrello e l’uomo, dopo avermi scrutato un po’, mi fece cenno di passare…
  
    Stupidi babbani!

Salii i gradini, erano stati spazzati solo quelli centrali, quindi avvicinarmi non era un problema, oltrepassai il gruppetto, osservai con cura il Ministro, mi resi conto che a proteggerlo da vicino c’erano meno uomini del solito. Mi avviai verso l’oscurità dell’ingresso, mi avvicinai al portiere, con la scusa di chiedere un’informazione gli sibilai all’orecchio un maleficio e l’uomo rimase in stato catatonico al suo posto; a quel punto avevo finalmente le spalle coperte, controllai per l’ultima volta la mia preda, poi, senza farmi notare, con un colpo di bacchetta feci crollare a terra uno dei due bracieri ai lati della porta, i pochi astanti furono colti di sorpresa, proprio mentre, dall’altro lato della strada, Rookwood lanciò una serie d’incantesimi che sembravano colpi di fucile provenienti da vari punti della piazza, gettando nel panico le poche persone rimaste sulla scalinata e costringendole a spingersi verso di me, nel vano tentativo di cercare rifugio all’interno del locale. Con passo rapido, nella confusione, non ebbi problema ad avvicinarmi a Longbottom prima che tre uomini del suo seguito si staccassero dalle altre guardie rimaste sulla scalinata per rispondere agli inesistenti cecchini sui tetti dei palazzi prospicienti, in mezzo alla calca gli fui di fianco, lo chiamai, perché si voltasse e rallentasse il passo, mi guardò, cercò di capire se e dove mi avesse conosciuto, il figlio cercò di trascinarlo via, invano. Era troppo tardi: la mano che reggeva la bacchetta a pochi centimetri dal suo fianco, gli avevo già sussurrato la mia sentenza, con il più innocente dei miei ghigni, ad appena un centimetro dalla faccia. Poi, mentre tutti gli altri continuavo a trascinarsi verso l’interno, rallentai il passo e in breve mi ritrovai di nuovo vicino al portiere, nell’angolo più buio da dove mi smaterializzai, proprio mentre Augusta Longbottom urlava, vedendo il suocero crollare a terra.

Morto.


*continua*



NdA:
Vi ringrazio per le letture, recensioni, preferenze, ecc ecc. Ci leggiamo dopo la pausa estiva. In bocca al lupo per gli impegni scolastici/universitari e buone vacanze! A presto.
Valeria


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