Breaking_1
[
Prima classificata al contest «Scacco
matto!» indetto da Fe85 ]
[ Prima classificata
allo «Slash e Femslash contest!»
indetto da MistyEye ]
[ Prima classificata al contest «Romance
in pain» indetto da LoveSomebody ]
[ Terza classificata
al «Reverse
contest» indetto da hiromi_chan ]
Titolo: Breaking
the World
Autore: My
Pride
Fandom: Originali
› Sovrannaturale
Pezzo Scelto: Torre
- Parola:
Malinconia
- Canzone:
Le persone inutili
- Fenomeno
atmosferico: Neve
Tipologia: Racconto
breve suddiviso in cinque capitoli
Genere: Drammatico,
Sentimentale, A tratti
vagamente introspettivo, Malinconico, Vagamente - o forse anche troppo
- nonsense
Avvertimenti: Vagamente
Slash
Rating:
Giallo / Arancione
Beta Reader:
No
Introduzione: Non si è mai certi di
ciò che la vita ti riserva
finché non ti accadono le cose più impensabili.
Il mondo è come un antro oscuro
che nasconde nel suo ventre l’orribile verità
dell’essere.
«Si volti lentamente e tenga
le mani ben in vista», mi intimò una voce
familiare, e nonostante lo
scombussolamento non ci misi molto ad associare il tono ad un volto:
quella era
senza alcun dubbio la voce di Stephen.
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
This
work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
I
understand that there’s probably a link
between our worlds.
Even
if it may be twisted in ways that are
cruel at times and kind at others.
The
world is inside of you.
Avete
mai sentito parlare di esperienze pre-morte? Io ero stato uno di quelli
che non
aveva mai creduto a cose del genere, o almeno fino a quando non era
capitato
proprio a me.
È
alquanto bizzarra la velocità
con cui sembrano cambiare i punti di vista, certe volte. E altrettanto
strambo
è il modo in cui eventi di questo tipo, per quanto rari, ti
precipitino
addosso, lasciandoti letteralmente senza fiato. Non
si è mai certi di ciò che la
vita ti riserva finché non ti accadono le cose
più impensabili. Il mondo è come
un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile
verità dell’essere.
ATTO I: ST. CHARLES
› SETTEMBRE 2002
IL
PRELUDIO DELLA FINE
Una
delle poche cose che mi mancavano della stagione estiva era il canto
delle
cicale. Ero stato un giocatore di baseball professionista per quattro
anni, e
adesso io, Jonathan Wilson, volevo soltanto godermi la pensione
anticipata come
si conveniva ad un uomo che aveva lavorato duramente per raggiungere il
proprio
obiettivo. L’estate, però, mi ricordava anche il
sogno che ero stato
costretto ad abbandonare così prematuramente.
Era
a ciò che pensavo mentre,
sorseggiando un caffè freddatosi ormai da svariati minuti,
me ne stavo seduto
su una sdraio malmessa che tenevo in giardino. Con lo sguardo puntato
verso il
cielo ancora azzurro e la mente persa nei ricordi, osservavo le foglie
rosse e
gialle che si staccavano dai rami degli alberi, mulinando docilmente
nel lieve
venticello autunnale prima di cadere a colorare il cortile.
Mi
scostai qualche ciuffo di
capelli che mi era ricaduto a nascondermi gli occhi, massaggiandomi il
braccio
sinistro in un gesto così naturale che ormai sembravo non
farci più nemmeno
caso quando lo compivo. Da quando era accaduto quel brutto incidente
era
passato più di un anno, e da quel momento non avevo
più avuto il coraggio di
prendere in mano una palla. La cosa peggiore era che il baseball mi
mancava. Il
mio miglior amico, Stephen O’Neal, mi ripeteva di continuo di
non pensarci,
poiché così non facevo altro che farmi
più male di quanto avessi bisogno. E
Stephen sapeva il fatto suo. Lo conoscevo da quando era un tappo di
sughero di
soli sette anni, e già allora sembrava avere
un’aria da uomo vissuto difficile
da trovare sul viso di un bambino così piccolo. Sua madre
era morta quando lui
aveva solo sei anni, e suo padre, un ubriacone violento che aveva
sempre
sperperato i loro fondi in whisky scadente, aveva fatto la sola cosa
buona in
tutta la sua vita affidandolo a sua sorella. Stephen aveva
così vissuto con sua
zia fino ai diciott’anni, ma non aveva mai rimpianto il suo
passato. Come venticinquenne,
adesso, era fiero della sua vita: una bella casa, una buona educazione,
una zia
che l’aveva cresciuto come un figlio e l’impiego
che aveva sempre sognato.
Quanto a me, invece, in confronto a lui mi sentivo un emerito fallito
nonostante tutto.
Scossi la
testa, alzandomi una volta per tutte; ripensare a Stephen mi
aveva
fatto ricordare che per quella sera ci erano tutti organizzati per
vedere la
partita a casa sua, nessun amico escluso. Avevo dunque poche ore per
prepararmi
e partire alla volta di Sun Valley Lake, distante un’ora e
mezza circa da
Charwood Street, ovvero dove abitavo io.
Avrei anche dovuto preparare una
piccola valigia, giacché Stephen mi aveva invitato a restare
a dormire come
quando eravamo dei ragazzini. La cosa mi faceva sorridere e mi
imbarazzava al
tempo stesso, forse perché da un po’ di tempo a
quella parte avevo cominciato a
vedere in Steve qualcosa di più di un semplice amico.
Scacciai anche
quei pensieri ed aprii
la porta a vetri per entrare, passando accanto al telefono riposto sul
piccolo tavolinetto
in legno di noce che avevo avuto in regalo da uno dei miei amici lo
scorso
compleanno. Matthew, l’artefice di quel piccolo scherzo, se
così lo si voleva
chiamare, aveva commentato con un divertito «Tra tutte queste
cianfrusaglie,
manca qualcosa che può servirti davvero» e aveva
così deciso di regalarmi quel
tavolino intagliato. Regalo eccentrico, proprio come chi
l’aveva comprato. Mi
fermai davanti all’apparecchio,
squadrandolo con attenzione mentre mi domandavo se non fosse il caso di
disdire
l’appuntamento con il quartetto novantanove [2].
Quello
strambo nome era nato così, una sera di quasi tre anni
addietro: un po’ troppo
ubriachi avevamo stupidamente sommato le nostre età ed era
nato quell’assurdo
gioco di numeri.
Scossi
ancora una volta la testa,
che frattanto aveva cominciato a dolermi come ormai capitava da quando
avevo
avuto quell’incidente, allungando una mano per prendere la
cornetta e comporre
il numero di Stephen, ma proprio in quello stesso momento il telefono
squillò,
facendomi trasalire. Nervoso, io? Alzai
titubante il ricevitore,
accostandolo all’orecchio. «Pronto?»
pigolai, con il tono basso di un bambino
che chiede al padre di controllare se ci sono mostri
nell’armadio.
La voce squillante di Stephen
fu
come un trapano elettrico contro le pareti del mio cervello.
«Ehi, tutto okay? Hai
una voce...» di sottofondo si udivano altre voci maschili,
schiamazzi, risate e
quello che sembrava essere un film di guerra di serie B.
Mi
portai una mano alla fronte e
scossi la testa, rendendomi conto solo in un secondo momento che
Stephen non
poteva vedermi. Così aggiunsi: «Ero fuori,
avrò preso freddo», mezza bugia, ma
cosa importava? Se avessi detto la verità ne avrei ricavato
solo una ramanzina
in stile paterno.
Un
piccolo sbuffo si insinuò nel
crepitio della cornetta. «Vedi di non ammalarti. Tu sei
l’anima della festa,
Juggernaut [3]».
A
quel dire sospirai. «Lo sai che
i giorni in cui venivo chiamato così sono finiti,
Steve», ribattei,
picchiettando distratto sul legno del ripiano. «Piuttosto,
come mai hai
telefonato?»
«Io
e i ragazzi ci chiedevamo che
fine avessi fatto».
Sollevai un sopracciglio. «E
perché mai?»
«Come
sarebbe a dire perché?» mi
domandò, e dal suo tono fui quasi certo che, se avessi
potuto guardarlo in
viso, in quel momento, l’avrei visto con gli occhi sgranati.
«Ti aspettavamo
un’ora fa!»
Stava
forse scherzando? A quel mio
muto quesito, mi ritrovai a gettare una rapida occhiata
all’orologio appeso al
muro, esattamente accanto alla libreria ormai stracolma di libri e
tante di
quelle cianfrusaglie da risultare inguardabile. Le lancette segnavano
orribilmente le sei e mezzo del pomeriggio. Possibile che fossero
passate le
cinque e io non me ne fossi minimamente accorto? Mi ritrovai a
sospirare
ancora. «Scusa, Steve», mormorai poi.
«Là fuori avrò perso il conto dei
minuti
che passavano».
Si
susseguirono poi attimi di
silenzio, come se dall’altro capo del telefono Stephen stesse
pensando
intensamente a qualcosa. Io trattenni stupidamente il fiato mentre
attendevo
una sua qualsiasi parola, sentendolo infine imprecare a denti stretti
con il
suo forte accento canadese, che veniva fuori solo quando stava perdendo
la
pazienza. «È
successo di nuovo, vero?»
Ci
misi un po’ a capire che cosa
intendesse, forse ancora convinto che avesse capito che avevo
ricominciato a
pensare al baseball. Sarei persino scoppiato in una risata isterica se
non mi
fossi trovato al telefono proprio con lui. «Nay, Steve, non
è successo», attesi
una qualsiasi replica, ma, non giungendo, dissi: «Parola di
boy scout. Sai
bene che te lo direi».
Steve borbottò
fra sé e sé qualcosa che
non riuscii a capire, però subito dopo domandò:
«Nessuna attività paranormale,
quindi?»
«Nessuna
attività paranormale»,
confermai, facendogli il verso e rassicurandolo al tempo stesso, dato
il
sospiro di sollievo che si lasciò sfuggire.
«Né brevi visioni sul futuro né
tanto meno qualche strambo viaggio nel tempo».
In
realtà non predicevo il futuro,
anzi, tutt’altro; ciò che io ero in grado di fare
era captare ogni singola
percezione o molecola nell’aria e trasformarla poi,
attraverso ad un
processo molto simile a quello che operava sulle particelle
subatomiche, in una
sorta di visione che mi permetteva di conoscere anticipatamente gli
eventi
prima che essi si manifestassero. Forse era per quel motivo
che la capacità
di vedere quel filo
conduttore veniva spesso
scambiata per
chiaroveggenza dalle poche persone che ne erano a conoscenza.
Ciò
che davvero mi spaventava - e
che avevo confidato soltanto a Steve - erano i flashback sul passato
che avevo.
Ero capace di rivivere interi attimi senza che nella realtà
fosse passato un
solo secondo, a meno che non mi capitasse all’improvviso. A
quel punto potevano
scorrere ore quanto qualche minuto, ed erano quelli i momenti che mi
terrorizzavano di più. Mi si aprivano dinanzi agli occhi
piccole finestrelle su
epoche antiche, o momenti nell’età moderna che non
ero stato però io a vivere.
L’ultima volta che era accaduto mi ero ritrovato sulla East
Coast, davanti alla
porta di una certa Tiffany.
Fortunatamente
erano passati due
mesi da quelle mie ultime visioni. Tutto ciò era cominciato
il giorno
dell’incidente: mi trovavo in auto, quel tardo pomeriggio di
un anno addietro, e
stavo percorrendo
la statale che portava a St. Louis per l’ultima partita di
campionato.
Ricordavo ancora che stavo ascoltando una canzone di Ben E. King prima
che quel
camion sbucasse letteralmente dal nulla e mi venisse addosso,
travolgendo la
mia vecchia mustang. Era stato soltanto per miracolo che non ero morto
sul
colpo, secondo i medici, ma da quel momento il mio cervello aveva
cominciato a
funzionare nel modo sbagliato. All’inizio avevo pensato che
si trattassero di
semplici visioni provocate dallo stato confusionale in cui mi ero
ritrovato;
poi avevano cominciato a farsi sempre più frequenti ed
ossessive, e, parlandone, Steve mi aveva consigliato di andare da un
bravo psichiatra per
affrontare
il trauma. Non era però servito a niente e quelle visioni
erano continuate, e
ad esse si erano aggiunti quegli strani viaggi tra epoche passate e
presenti
che avevano fatto sì che iniziassi a preoccuparmi davvero
della mia salute
mentale, specialmente dopo essermi ritrovato nella Francia
rinascimentale. Ci
avevo passato solo poche ore lì, certo, ma erano state le
più lunghe di tutta
la mia vita.
Sebbene
avessi tentato in tutti i
modi di disfarmi di quel potere che mai avevo voluto ottenere, mano a
mano che
tali fenomeni si presentavano avevo però imparato a
controllarli in minima
parte; ormai era da molto che convivevo con quel peso sulle spalle, e
avevo
capito che potevo soltanto accettarlo. Spesso
e volentieri avevo pensato
di sfruttare quel dono per tornare indietro e poter giocare nuovamente
a
baseball, ma non sarebbe cambiato assolutamente niente: il braccio che
avevo
sempre utilizzato per lanciare le mie palle ad effetto era ormai
andato, e
ripiombare in quei tempi non avrebbe fatto altro che farmi vivere
un’utopia. I
giorni del baseball erano finiti, dovevo mettermelo bene in testa.
«Johnny?» La voce di
Stephen mi
giunse lontana e ovattata, e mi ritrovai a sbattere le palpebre come se
mi
fossi appena destato da un lungo sonno. Ero
decisamente fuori fase, quel
giorno.
«Ci sono, Steve, ci
sono».
«In teoria, forse»,
ironizzò. «Ti
avevo chiesto se sei ancora dei nostri o se preferivi restare a casa, a
titolo
informativo. Lo capirei, se così fosse».
Dalla sua voce traspariva premura,
e sorrisi proprio perché non poteva vedermi. «Fate
finta che sia già lì,
ragazzi», scherzai anch’io, strappandogli uno
sbuffo divertito.
Dopo
vari convenevoli ed ultimi saluti riagganciammo, e io mi diressi in
camera per
recuperare la prima valigia che riuscii a trovare. Misi al suo interno
il
cambio per un paio di giorni, arraffando poi anche una giacca a vento
prima di
imboccare il corridoio che dava sull’ingresso.
Dovetti scostare dal
mobile parecchie riviste
sportive per
riuscire a trovare le chiavi sepolte sotto di esse, ma una volta
afferrate
uscii di casa e bloccai la serratura, avanzando verso la mia auto.
Giacché la
mia Mustang del ’73 - una bella bambina rosso fiammante di
5800 cc di
cilindrata alla quale parecchie persone avevano messo gli occhi
addosso, facendo sì che mi guadagnassi le loro antipatie -
era
stata ridotta ad un catorcio, ero stato
costretto a
sostituirla con una Cadillac Eldorado usata di un bel nero brillante.
Non era
come la mia piccolina, certo, ma ci avrei ben presto fatto
l’abitudine.
Non
appena sfiorai la maniglia
lucente della portiera, però, fui colto da un orribile
presentimento e
allontanai la mano di scatto, quasi mi fossi appena ustionato. Avevo il
respiro
velocizzato e persino gli occhi spalancati. Cosa poteva mai significare
quella
sensazione? Da cosa stava cercando di mettermi in guardia? La paura
ritornò ad
insinuarsi prepotentemente nel mio animo, e mi ritrovai a stringermi le
braccia
al petto in un gesto di protezione, avvertendo brividi di freddo
corrermi lungo
la spina dorsale.
Riuscii
ad entrare in macchina
solo quando mi calmai. Era stato piuttosto difficile, in
verità, ma farmi
fermare da una delle mie sensazioni era da escludere. Forse il fatto
che si
fossero ripresentate dopo due mesi avrebbe dovuto farmi pensare, ma
purtroppo
non fu così; misi in moto e partii alla volta di Sun Valley
Lake, guidando
ininterrottamente per quarantacinque minuti mentre il sole cominciava a
calare
all’orizzonte. Fu
proprio nel prendere la svolta a destra che accadde
l’irreparabile: non vidi in
tempo l’auto che sfrecciava verso di me, ma tentai di ruotare
il volante e
sterzare per evitare che mi finisse addosso. Prima che andassi a
sbattere
contro l’albero che mi si parò dinanzi, ebbi
appena il tempo di proteggermi il
viso con le braccia, vedendo il mondo intorno a me divenire nero come
la pece.
Il presentimento che avevo avuto si era concretizzato.
[1] Titolo
di una doujinshi
del circolo Rock’n’dolles rilasciata nel dicembre
del 2006, e fa parte per
l’appunto della “Breaking the World
series” composta da tre volumi.
Anche le frasi in
corsivo sotto al titolo sono tratte da quella stessa doujinshi.
[2] È
un richiamo a Final Fantasy X che non ho
resistito ad inserire, ed indica un cocktail che può venir
creato grazie al
Turbo di uno dei personaggi del gioco, ovvero Rikku.
Il nome è nato davvero
perché sommando le età dei protagonisti della
storia il totale dava
novantanove.
[3] Termine inglese usato
per indicare una forza inarrestabile, reale o metaforica. Deriva
dal Sanscrito Jagannātha, ovvero “Signore
dell’Universo”, ed è uno
dei molti nomi della divinità Krishna, dalle
antiche
scritture Veda indiane.
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Farai felici milioni di
scrittori.
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