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ATTO II: LUOGO SCONOSCIUTO
› ANNO E MESE IGNOTI
SBALZI
IMPREVISTI DAL PRESENTE AL PASSATO
Nell’avvertire
il gelo che mi aveva avvolto, in un primo momento pensai di essere
morto
davvero. Era così che doveva sentirsi chi era da poco
passato a miglior vita,
probabilmente: investito da un freddo pungente per il resto
dell’eternità.
Mi abbandonai in quel falso
calore che aveva cominciato ad arrossarmi la pelle del dorso di una
mano, ma fu
proprio nel costatare ciò che capii di essere ancora vivo.
Come poteva essere
possibile che il mio corpo provasse ancora qualcosa, se ero morto? Mi
costrinsi
ad alzare maggiormente gli occhi, riuscendo a vedere appena lo scorcio
di una
villetta a due piani con uno di essi, poiché
l’altro era praticamente sommerso
insieme a metà viso nella neve. Un momento... neve?
Mi
drizzai a sedere di scatto,
sentendo tutti i muscoli indolenziti dolere da impazzire e le ossa
scricchiolare
sinistramente prima di provare a riscaldarmi come potevo e mettere a
fuoco il luogo in cui mi ero ritrovato. Era senza alcun dubbio un
giardino - e si
vedeva anche che era ben tenuto, nonostante lo strato di neve ivi
presente
-, uno dei più grandi che avessi mai visto in vita mia: i
cespugli di rose, ormai secchi per il freddo, erano sistemati ai lati
di una pergola ricoperta da un sottile strato di brina e un fitto
reticolato di rampicanti, sui quali facevano bella mostra di
sé
bozzoli di un qualche tipo d'insetto; accanto ad un alto muro ricoperto
di muschio marroncino, inoltre, pareva esserci quello che aveva tutta
l'aria di essere un ruscelletto congelato, e non potei evitarmi di
sollevare un sopracciglio prima di concentrarmi sulla villetta. Era di
un bianco immacolato come la neve circostante, con le imposte delle
finestre di un azzurro freddo come il cielo d’autunno e il
tetto
spiovente sul quale si intravedevano foglie secche, palle da basket e
un pezzo di grondaia. Sembrava quasi in stile
britannico, ma cosa ci faceva una villa del genere a St. Charles?
La
consapevolezza di ciò che era accaduto mi colpì
come uno schiaffo: l’incidente
aveva automaticamente innescato uno di quei miei strambi viaggi nel
tempo, e
forse non avrei nemmeno dovuto meravigliarmi. Viaggiavo fra
quegl’universi
paralleli come se prendessi un aereo, volando da un capo
all’altro del mondo
senza una meta precisa. Secondo il mio analista, dal quale avevo smesso
di
andare da ben cinque mesi, quelle esperienze erano tutte causate
puramente
dallo shock: avevo rischiato di morire, dunque adesso la mia mente
tentava di
convincermi che tali visioni fossero realtà
anziché semplice immaginazione.
Però io sapevo che non era affatto così. Sapevo
ciò che avevo visto e
provato sulla mia pelle, ed una fantasia non sarebbe mai stata in grado
di
provocare sensazioni e paure simili, di farmi assaporare la fragranza
dell’uva
appena trasformata in vino o l’acre odore della cenere nel
vento. E anche il
freddo provocato dalla neve e dalla bassa temperatura era reale, in
quel
momento.
Poggiai
le mani in quel soffice
manto bianco per darmi una spinta e rimettermi in piedi sulle gambe
malferme,
muovendo incerto qualche passo per vedere se riuscivano a reggermi. Non
dovevo
essere rimasto svenuto là fuori da molto, giacché
avevo
ancora abbastanza
sensibilità nella maggior parte del mio corpo. La
neve che
si era insinuata nella
mia giacca a vento aveva già cominciato a sciogliersi a
contatto
con il calore
della mia pelle, e fu con una certa difficoltà che percorsi
il
perimetro del
giardino alla ricerca di una via d’uscita. Altrove, magari,
avrei
potuto
concentrarmi abbastanza per riuscire a tornare a casa prima ancora di
capire
dove fossi capitato e in che periodo, anche se non sempre mi riusciva.
E pure
tentare di chiamare Steve era da escludere: ero ben conscio del
fatto che non avrebbe preso campo, anche se infilai comunque la mano
nella tasca dei pantaloni per afferrare il cellulare e sperare in un
miracolo. Il no signal
lampeggiante, però, mi fece sospirare pesantemente.
Continuai a camminare mentre mi
passavo le mani sulle braccia, volgendo lo sguardo nei dintorni.
C’erano
cespugli innevati ovunque, e se non fossi stato ancora sconvolto per
quel nuovo
incidente avrei persino perso tempo a rimirare la bellezza di quel
giardino. Quando sentii lo scatto d’un’arma da
fuoco,
però, mi immobilizzai all’istante e
alzai le mani sopra la testa, esattamente come avevo visto fare in uno
di quei
film polizieschi che spesso e volentieri ci propinava Dean, il
più giovane del
quartetto.
«Si volti lentamente e tenga
le
mani ben in vista», mi intimò una voce familiare,
e nonostante lo
scombussolamento non ci misi molto ad associare il tono ad un volto:
quella era
senza alcun dubbio la voce di Stephen. Così mi voltai di
scatto,
ritrovandomi faccia a faccia con il mio miglior amico e un fucile a
canne mozze
a separarci nel mezzo.
«Steve, sono io,
Johnny», dissi immediatamente, troppo
confuso e infreddolito per formulare qualche altro pensiero coerente.
La bocca del fucile, però,
non si
mosse di un millimetro. «Non conosco nessun
Johnny», replicò Steve, con una
voce pacata e glaciale che non gli avevo mai sentito tirar fuori.
«Lei è nella
mia proprietà, signore, e le consiglio di andarsene prima
che le pianti una
pallottola in corpo».
«È uno
scherzo, Steve?»
«Sulla difesa dei miei beni
non scherzo
mai,
signore», sibilò lui, assottigliando lo sguardo.
«Non so chi le abbia
detto il mio nome, ma se è stata mia cognata a farlo e a
mandarla qui, può
anche dire a quella puttana succhiasangue che da me non avrà
un soldo».
Feci per aprir nuovamente bocca e
replicare, ma mi zittii ancor prima di farlo. Come avevo fatto a non
rendermene
conto immediatamente? Eppure la soluzione era sempre stata
così semplice!
Quello che avevo dinanzi non era Steve, ma probabilmente un suo qualche
lontano
bisnonno. Ricordavo che c’erano stati ben tre Stephen, nella
famiglia O’Neal,
ma non avrei mai pensato che prima o poi il mio subconscio mi avrebbe
portato
proprio da uno di essi. Più guardavo quel volto,
però, più non potevo fare a
meno di credere che quello fosse proprio il mio miglior amico: era
identico a
lui in tutto e per tutto, dal taglio corto e ordinato dei capelli
castani agli
occhi quasi a mandorla d’un verde intenso; persino il fisico
asciutto era il
suo. Che fossi finito in un qualche universo parallelo,
anziché nel passato?
Avevo bisogno di saperlo.
Abbassai le braccia lungo i
fianchi molto lentamente, vedendo Stephen - o almeno quello che
supponevo fosse
Stephen - seguire con lo sguardo ogni mio minimo movimento mentre mi
teneva
ancora sotto tiro. Cercai di assumere l’aria più
innocua che possedevo, il che
non era per nulla facile visto il mio metro e ottanta scarso.
«Non mi manda
nessuno. Sono qui solo per caso, lo giuro».
«Och, e sentiamo, allora, anche
scavalcare il muro e il filo spinato è stato un
caso?»
Boccheggiai come un pesce fuor
d’acqua. Dannazione! Avrei dovuto pensare anche a quel
piccolissimo particolare prima di aprir bocca. Mi presi tutto il tempo
di cui
potevo usufruire - dunque appena qualche secondo, giacché
vedevo quello Stephen
cominciare a perdere la pazienza - scendendo a patti con me stesso e
optando
per una mezza verità. «So che potrà
sembrarle assurdo, signor O’Neal, ma io
sono una sorta di chiaroveggente», cambiai approccio, e mi
parve persino
piuttosto strano dare del lei a Steve. «Ho avuto una visione
su di lei e...»
Non ebbi il tempo di continuare,
poiché vidi lo scetticismo sul viso di Steve tramutarsi
nell’ombra del
sospetto. Si avvicinò rapidamente lasciando profondi solchi
nella neve,
piantandomi la canna del fucile fra le costole e strappandomi un
lamento. «Lo
ripeterò ancora una volta», sibilò.
«Chi ti manda e perché?»
Le formalità erano scomparse, e a
quanto pareva non mi aveva creduto. Ma chi avrebbe potuto dargli torto?
Non
sapevo come cavarmela, adesso, e quel tipo sembrava sempre
più intenzionato a
spappolarmi il cervello e a togliermi di mezzo. Cosa c’era
sotto? E, per l’amor
del cielo, in che razza di guaio mi ero cacciato? A salvarmi fu il
suono del
campanello dall’altro lato della casa, ma
l’occhiata che Steve mi lanciò mi
raggelò ancor più della neve che mi arrivava alle
caviglie. «Vieni dentro con
me senza fare scherzi, ciarlatano», mi intimò.
«Con te non ho ancora finito».
Avrei voluto dirgli che non ero
affatto una minaccia, ma sapevo che non mi avrebbe creduto; mi limitai
dunque a
star zitto e, prima di entrare in casa, quello che avevo ormai
cominciato a
considerare il gemello cattivo di Steve mi perquisì. E
dovetti
purtroppo
ammettere a me stesso che mi imbarazzai ad ogni suo tocco o palpata che
fece per
controllare che non avessi armi nascoste. Perché, tra tutte
le
persone che avrei potuto incontrare in quella maledettissima epoca, mi
era capitato proprio un parente di Steve con la sua stessa faccia?
C'era qualcuno, lassù, che doveva avere un perverso senso
del
divertimento. Entrammo infine in casa, e il calore
all’interno fu talmente piacevole che sospirai
involontariamente
di sollievo
mentre mi toglievo la giacca a vento ormai fradicia.
«Non metterti
comodo», mi
apostrofò sprezzante. «Appena mi sarò
occupato di quegli scocciatori,
dovrai chiarirmi un paio di cosette».
Annuii automaticamente, non avendo
ancora il coraggio di aprir bocca. Seguii con gli occhi la figura
di Stephen mentre spariva oltre la soglia, e me ne restai immobile a
torcermi
le mani. Perché mai quell’incidente aveva fatto in
modo che capitassi lì e
sembrava non essermi ancora dato tornare indietro? Doveva per forza
esserci un motivo, ne ero sicuro. O forse volevo convincermi che fosse
così. Approfittai
di quei minuti in cui fui lasciato solo per guardarmi intorno, forse
stupendomi
persino un po’ per il gusto di quello Stephen, bisnonno o
meno che fosse. Mi
trovavo in un salotto ampio e confortevole, dove facevano bella mostra
di sé una
poltrona e due divani beige dai cuscini variopinti; tra di essi si
trovava un
tavolo di legno finemente intarsiato, e le uniche cose che lo
ingombravano erano solo la statua di un drago di piombo e
un vaso di fiori; sul muro di destra, esattamente accanto a una
libreria
colma di libri, era stato costruito un caminetto di mattoni in cui il
fuoco che
riscaldava l’ambiente scoppiettava allegro e caldo, e al di
sopra di esso era
stato appeso un quadro piuttosto grande
che
rappresentava un paesaggio
notturno
con strane forme a spirale in cielo [1].
Non
essendo mai stato molto
interessato all’arte, non avevo la minima idea di cosa fosse
o chi l’avesse
dipinto, però dovevo ammettere che era abbastanza bello e
catturava l'attenzione. Il resto del salotto
era arredato con piccoli lumi e diverse statue, nonché
piante sempre verdi che
abbellivano l’ambiente.
Era così diverso dal caos che
regnava quasi sempre nella piccola casetta di Steve, quello. Quasi mi
mancavano
le lattine di birra e coca-cola all’angolo del televisore di
32'' poste a formare
una piramide che si ingrandiva sempre di più, la miriade di
riviste di Play-Boy
accatastate sotto la finestra della sua stanza per sorreggere il
davanzale
ormai quasi a pezzi che non aveva intenzione di far aggiustare, e la
grande
videoteca dove custodiva gelosamente la saga di Star Wars insieme ai
restanti film che amava.
Scossi
immediatamente il capo. Non era il caso di pensare a cose ridicole come
quelle,
in quel momento. Seguii di
soppiatto quello
Steve
per dare un’occhiata e vedere che fine avesse fatto,
inoltrandomi nel
disimpegno; mi ritrovai ben presto in un vasto ingresso corredato con
altre
piante e fiori di ogni genere, e Stephen era fermo sulla soglia della
porta
d’entrata, quasi volesse bloccarla per non far entrare quei
nuovi arrivati.
«Mi sembrava di avervi
già detto
che non mi interessa», stava dicendo a braccia conserte.
Aveva
abbandonato il
fucile con il quale mi aveva minacciato accanto ad un mobiletto poco
distante,
abbastanza nascosto perché non si vedesse, ma fin troppo
vicino
in caso di necessità.
Quella era forse gente pericolosa? Oppure era semplicemente un pazzo
che avrebbe potuto alzare un'arma da fuoco e puntarla contro chiunque?
«Verrebbe gestito tutto con la
massima cura, signor O’Neal», ribatté
una voce femminile, fredda e autoritaria.
Avrei scommesso che fosse una segretaria, e il mio non era stato un
commento
dalle mire sessiste, giuro. «Lei stesso ha detto di non avere
il tempo
materiale per occuparsene come si dovrebbe».
«Quella miniera appartiene
alla
mia famiglia da generazioni, e legalmente il contratto porta il mio
nome»,
replicò Steve in tono schietto. «Il fatto che Sean
sia morto non autorizza
Margaret a costringermi a venderla a lei. Tornatevene a casa e dite a
quella
stronza che avrà quella miniera solo dopo aver strappato il
contratto dalle mie
fredde dita», ciò detto sbatté senza
tanti convenevoli la porta in faccia a
quei due nuovi venuti, mettendo il catenaccio e dando quattro mandate
alla
serratura. Quando si accorse che lo fissavo da poco distante, fece
scroccare le
nocche di entrambe le mani. «Adesso direi che tocca a lei,
signore», soggiunse
con falsa formalità.
Indietreggiai rapidamente, alzando
le mani in segno di resa. «Non ci sarà bisogno di
ricorrere alla violenza,
signor O’Neal», tentai di convincerlo,
giacché non sembrava intenzionato ad
ascoltarmi. Chiunque fossero quelle persone che aveva appena cacciato,
avevano
solo fatto in modo che si infuriasse ancora di più.
«Hai predetto anche questo o
l’hai
solo supposto?» mi sbeffeggiò, mettendo
praticamente per iscritto che non aveva
mai creduto alle mie parole. E fino ad un anno addietro non gli avrei
assolutamente
dato torto.
Giacché le
formalità non erano
tornate, pensai che stessi per ritrovarmi seriamente nei guai. E non
avevo
bisogno del mio particolare dono per rendermene conto. Era fin troppo
palese, anche senza guardare in viso il buon vecchio Stephen.
«So bene che lei
è una brava persona che non farebbe mai del male a qualcuno,
signor O’Neal, e
non ho bisogno di nessun potere paranormale per esserne a
conoscenza».
Lui si accigliò un
po’, e forse fu
per quel motivo che il suo volto sembrò quasi addolcirsi.
«E dopo questo complimento»,
mimò le virgolette con due dita per enfatizzare la parola,
«dovrei per caso
crederti?»
In quello era uguale allo Steve
originale: cocciuto e testardo fino all’ultimo.
«Senti», cominciai, lasciando a
mia volta da parte ogni tipo di formalità, «so per
certo che se fossi stato
sicuro delle mie cattive intenzioni mi avresti sparato
all’istante, invece
siamo ancora qui tutti e due a chiacchierare»,
soggiunsi.
«Sarò lieto di
raccontarti tutto, se me ne darai la possibilità».
Stephen sembrò valutare
quella
proposta, sollevando di poco il sopracciglio come se farlo potesse
aiutarlo a
pensar meglio mentre mi sondava da capo a piedi con lo sguardo. Non fu
per
niente piacevole, dovetti ammetterlo: sembrava un serpente che aveva
appena
messo i suoi occhi vitrei su un topolino spaventato. E anche se non ero
piccolo
quanto il topo, mi sentivo altrettanto insignificante sotto lo sguardo
di
quelle iridi verdi. «Ti do dieci minuti»,
asserì infine, e quasi mi lasciai
sfuggire un sospiro per lo scampato pericolo. «Ti
converrà essere convincente
nel raccontare la tua storia».
Convincente... bella roba. Fino a
otto mesi prima mi sarei preso per pazzo anch’io! E scambiare
se stessi per dei
folli visionari non era una così gran cosa, sul serio.
Cercai comunque di
raccontare a Stephen la nuda e cruda verità, sentendomi
quasi in dovere di
farlo poiché il volto che stavo osservando era pur sempre
quello del mio
miglior amico. Accennai all’incidente, al mio ritrovarmi nel
suo giardino per
puro caso, dissi persino qualcosa di vago sui miei viaggi nel tempo ,
concentrandomi per la maggior parte su quel mio essere in grado di
captare i
segnali del mondo circostante. Più parlavo, però,
più sembrava che Stephen
diventasse sempre più sospettoso, come se si stesse
chiedendo da quale
manicomio ero scappato. Ma di certo non potevo biasimarlo: mi sarei
rinchiuso
in una casa per matti anch’io. Mentre continuavo a
raccontare,
arricchendo pian piano tutto con gran dovizia di particolari, vedevo
Stephen
fissarmi a braccia conserte, lasciando che la curiosità
prendesse il
sopravvento di quell’aria guardinga che aveva acquisito al
principio. Fu quasi
doloroso constatare quanto quella nuova espressione fosse simile a
quella che
avevo visto sul volto del mio amico Steve quando gli avevo raccontato
per la
prima volta di cosa fossi capace dopo l’incidente.
Quando finalmente terminai, quel
tipo mi fece cenno di seguirlo ancora una volta, guidandomi lungo il
disimpegno
per svoltare poi a sinistra. Ci ritrovammo in quella che sembrava
essere una
stanza dal soffitto a volta, corredata con tanto di piccole finestre ad
arco
che di giorno avrebbero di sicuro avuto un aspetto meno tetro di
quello,
specialmente con il sole che le illuminava piacevolmente. Non potei non
lasciarmi sfuggire un piccolo fischio nel vedere
com’era stata arredata:
sulla sinistra, esattamente accanto ad un vecchio scrittoio colmo di
pergamene
che sembrava in legno di noce, c’era una teca su un
piedistallo che sorreggeva
quella che, diamine, sembrava avere tutta l’aria di essere
una copia della
punta della lancia di Longinus [2];
facendo più attenzione, si poteva benissimo notare che
quella teca non era
sola, anzi. Sette teche contenenti altrettanti manufatti - cinque dei
quali non
avevo mai visto - erano disposte sul lato destro della stanza, divise
da lunghi
arazzi dai colori cupi. Come nel soggiorno e nell’ingresso
erano presenti
piante e fiori, che riuscivano almeno a dare un tocco più
morbido e meno
spartano all’arredamento.
«Cavolo, questa stanza sembra
uscita direttamente da quelle di Lara Croft [3]»,
mi
ritrovai a dire fra me e me, non riuscendo a nascondere lo stupore. Al
che Stephen mi guardò,
sollevando un sopracciglio.
«Da cosa?»
domandò, e avrei dovuto aspettarmelo. Se
ero tornato indietro nel tempo come credevo, Tomb Raider non poteva di
certo essere uno dei film o dei
videogiochi preferiti di quel sosia.
«Niente, pensavo solo fra me e
me», liquidai la questione, giacché non era
importante ai fini di quella nostra
conversazione, se così potevamo chiamarla. Avevo intenzione
di sfiorare tutto
ciò che potevo e sperare che avessi una delle mie visioni,
cercando così di
capire il motivo per cui d’un tratto ero stato spedito fin
lì. Che c’entrasse
forse quella miniera a cui aveva accennato quello Stephen?
L’unico modo per
saperlo era per l’appunto sperare che il mio potere non mi
deludesse.
Cominciai a vagare per quella
stanza sotto gli occhi attenti di Stephen, che sembrava controllarmi
come per
timore che potessi rubare qualcosa e scappare. Toccai di tutto, dalle
semplici
cataste di fogli bianchi ai libri stipati sui piccoli ripiani,
sfiorando ogni
cosa con la punta dei polpastrelli. Niente mi dava però la
sensazione che
dovesse accadere qualcosa, ma ero certo che ciò che cercavo,
sebbene non
sapessi ancora cosa, si trovava senza alcun dubbio in quella stanza.
Avanzai cauto, quasi fossi cieco,
aggrappandomi a tutto ciò che mi capitava a tiro senza
più badare a Stephen,
poiché fissarmi sulla sua presenza avrebbe soltanto infranto
la mia già scarsa
concentrazione. Fu quando giunsi accanto alla scrivania che sentii come
una
scossa elettrica corrermi lungo la schiena, e volsi lo sguardo in
direzione di
Steve per osservarlo in viso. «Hai qualcosa di importante,
nei cassetti dello
scrittorio?»
Lui sollevò un po’
un sopracciglio
e sembrò rifletterci, dando vita ad una di quelle scrollate
di spalle che
potevano significare tutto o niente. «Tagliacarte, fogli,
qualche documento...
cose pressappoco inutili». La sua voce aveva assunto un tono
svogliato, quasi
si fosse stancato di fare il cattivo ragazzo. D’altronde
l’ora era quel che
era, da quanto potevo constatare guardando il quadrante del pendolo.
«Il
contratto non è lì, se è
ciò che mi stai chiedendo».
Annuii fra me e me prima di
riprendere quel mio giro di ronda, avvicinandomi ad una delle teche per
sfiorarne appena la superficie. Mi soffermai ad osservare
ciò che vi era
conservato all’interno, percorrendo con lo sguardo ogni
particolare di quello
splendore: era il più bel diamante su cui fossi mai riuscito
a mettere gli
occhi, e mi ricordava tanto quello del vecchio film “La
pantera rosa [4]”
a
causa del colore che lo caratterizzava e dell’incisione al
suo interno. Ma fu
proprio nel continuare a fissare quella pietra che cominciai ad
avvertire
quella familiare sensazione di formicolio alla testa, come se mille
insetti mi
stessero strisciando lungo il corpo e sottopelle. C’era
decisamente qualcosa
che non quadrava, in quella storia. «Credo che
dovrà spiegarmi per filo e per
segno quella faccenda della miniera, signor O’Neal».
[1] Il
quadro
al quale si fa riferimento è la “Notte
stellata” di Van Gogh, realizzata nel
1889 su una tela di 78 x 92 e conservata a New York. Su tale dipinto
viene
rappresentata per l’appunto una notte stellata sulla
città di Saint Rémy, in
Francia. La tela nella storia,
essendo più grande rispetto all’originale,
è ovviamente solo una riproduzione.
[2] Detta
anche
Lancia del Destino, è la lancia con cui sembrerebbe sia
stato trafitto Gesù
dopo la crocifissione.
Il manufatto in questione è solo una riproduzione,
naturalmente, ed è stato
preso in considerazione a causa di una frase che il protagonista
principale
della storia pronuncerà in seguito. Essa viene anche citata
in film come Constantine, Hellboy, Il
Conquistatore di
Shambala e in videogiochi come Tomb Raider e Final Fantasy X.
[3] Eroina
del
videogioco Tomb Raider, uscito per la prima volta nel 1996, sviluppato
da Core
Design rilasciato dalla Eidos Interactive.
È
stato tratto anche un
film uscito nel 2001 - di cui è stato fatto anche un seguito
nel 2003 -, in cui
Lara è interpretata da Angelina Jolie. La frase a cui si
accennava precedentemente era questa.
[4] Diretto
da Blake Edwards, “La pantera rosa”
è un
film del 1963 dove vengono raccontate le vicende
dell’ispettore Clouseau
all’inseguimento del ladro gentiluomo Charles Lytton e di suo
nipote George,
che ambiscono ad impossessarsi del grande diamante denominato pantera
rosa
poiché al suo interno sembra esserci incisa una pantera. Il
film ha avuto anche
un remake uscito nel 2006, del quale è stato fatto un
seguito nel 2009.
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