Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: My Pride    18/06/2011    2 recensioni
I understand that there’s probably a link between our worlds, even if it may be twisted in ways that are cruel at times and kind at others.
The world is inside of you.

Avete mai sentito parlare di esperienze pre-morte? Io ero stato uno di quelli che non aveva mai creduto a cose del genere, o almeno fino a quando non era capitato proprio a me.
È alquanto bizzarra la velocità con cui sembrano cambiare i punti di vista, certe volte. E altrettanto strambo è il modo in cui eventi di questo tipo, per quanto rari, ti precipitino addosso, lasciandoti letteralmente senza fiato. Non si è mai certi di ciò che la vita ti riserva finché non ti accadono le cose più impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile verità dell’essere.
[ Prima classificata al contest «Scacco matto!» indetto da Fe85 ]
[ Prima classificata allo «Slash e Femslash contest!» indetto da MistyEye ]
[ Prima classificata al contest «Romance in pain» indetto da LoveSomebody ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Breaking the World Series ~ Bonus Track' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Breaking_2

ATTO II: LUOGO SCONOSCIUTO › ANNO E MESE IGNOTI
SBALZI IMPREVISTI DAL PRESENTE AL PASSATO
 
    N
ell’avvertire il gelo che mi aveva avvolto, in un primo momento pensai di essere morto davvero. Era così che doveva sentirsi chi era da poco passato a miglior vita, probabilmente: investito da un freddo pungente per il resto dell’eternità.
    Mi abbandonai in quel falso calore che aveva cominciato ad arrossarmi la pelle del dorso di una mano, ma fu proprio nel costatare ciò che capii di essere ancora vivo. Come poteva essere possibile che il mio corpo provasse ancora qualcosa, se ero morto? Mi costrinsi ad alzare maggiormente gli occhi, riuscendo a vedere appena lo scorcio di una villetta a due piani con uno di essi, poiché l’altro era praticamente sommerso insieme a metà viso nella neve. Un momento... neve?
    Mi drizzai a sedere di scatto, sentendo tutti i muscoli indolenziti dolere da impazzire e le ossa scricchiolare sinistramente prima di provare a riscaldarmi come potevo e mettere a fuoco il luogo in cui mi ero ritrovato. Era senza alcun dubbio un giardino - e si vedeva anche che era ben tenuto, nonostante lo strato di neve ivi presente -, uno dei più grandi che avessi mai visto in vita mia: i cespugli di rose, ormai secchi per il freddo, erano sistemati ai lati di una pergola ricoperta da un sottile strato di brina e un fitto reticolato di rampicanti, sui quali facevano bella mostra di sé bozzoli di un qualche tipo d'insetto; accanto ad un alto muro ricoperto di muschio marroncino, inoltre, pareva esserci quello che aveva tutta l'aria di essere un ruscelletto congelato, e non potei evitarmi di sollevare un sopracciglio prima di concentrarmi sulla villetta. Era di un bianco immacolato come la neve circostante, con le imposte delle finestre di un azzurro freddo come il cielo d’autunno e il tetto spiovente sul quale si intravedevano foglie secche, palle da basket e un pezzo di grondaia. Sembrava quasi in stile britannico, ma cosa ci faceva una villa del genere a St. Charles?
    La consapevolezza di ciò che era accaduto mi colpì come uno schiaffo: l’incidente aveva automaticamente innescato uno di quei miei strambi viaggi nel tempo, e forse non avrei nemmeno dovuto meravigliarmi. Viaggiavo fra quegl’universi paralleli come se prendessi un aereo, volando da un capo all’altro del mondo senza una meta precisa. Secondo il mio analista, dal quale avevo smesso di andare da ben cinque mesi, quelle esperienze erano tutte causate puramente dallo shock: avevo rischiato di morire, dunque adesso la mia mente tentava di convincermi che tali visioni fossero realtà anziché semplice immaginazione. Però io sapevo che non era affatto così. Sapevo ciò che avevo visto e provato sulla mia pelle, ed una fantasia non sarebbe mai stata in grado di provocare sensazioni e paure simili, di farmi assaporare la fragranza dell’uva appena trasformata in vino o l’acre odore della cenere nel vento. E anche il freddo provocato dalla neve e dalla bassa temperatura era reale, in quel momento.

    Poggiai le mani in quel soffice manto bianco per darmi una spinta e rimettermi in piedi sulle gambe malferme, muovendo incerto qualche passo per vedere se riuscivano a reggermi. Non dovevo essere rimasto svenuto là fuori da molto, giacché avevo ancora abbastanza sensibilità nella maggior parte del mio corpo. La neve che si era insinuata nella mia giacca a vento aveva già cominciato a sciogliersi a contatto con il calore della mia pelle, e fu con una certa difficoltà che percorsi il perimetro del giardino alla ricerca di una via d’uscita. Altrove, magari, avrei potuto concentrarmi abbastanza per riuscire a tornare a casa prima ancora di capire dove fossi capitato e in che periodo, anche se non sempre mi riusciva. E pure tentare di chiamare Steve era da escludere: ero ben conscio del fatto che non avrebbe preso campo, anche se infilai comunque la mano nella tasca dei pantaloni per afferrare il cellulare e sperare in un miracolo. Il no signal lampeggiante, però, mi fece sospirare pesantemente.
    Continuai a camminare mentre mi passavo le mani sulle braccia, volgendo lo sguardo nei dintorni. C’erano cespugli innevati ovunque, e se non fossi stato ancora sconvolto per quel nuovo incidente avrei persino perso tempo a rimirare la bellezza di quel giardino. Quando sentii lo scatto d’un’arma da fuoco, però, mi immobilizzai all’istante e alzai le mani sopra la testa, esattamente come avevo visto fare in uno di quei film polizieschi che spesso e volentieri ci propinava Dean, il più giovane del quartetto.
    «Si volti lentamente e tenga le mani ben in vista», mi intimò una voce familiare, e nonostante lo scombussolamento non ci misi molto ad associare il tono ad un volto: quella era senza alcun dubbio la voce di Stephen. Così mi voltai di scatto, ritrovandomi faccia a faccia con il mio miglior amico e un fucile a canne mozze a separarci nel mezzo.
    «Steve, sono io, Johnny», dissi immediatamente, troppo confuso e infreddolito per formulare qualche altro pensiero coerente.
    La bocca del fucile, però, non si mosse di un millimetro. «Non conosco nessun Johnny», replicò Steve, con una voce pacata e glaciale che non gli avevo mai sentito tirar fuori. «Lei è nella mia proprietà, signore, e le consiglio di andarsene prima che le pianti una pallottola in corpo».
    «
È uno scherzo, Steve?»
    «Sulla difesa dei miei beni non scherzo mai, signore», sibilò lui, assottigliando lo sguardo. «Non so chi le abbia detto il mio nome, ma se è stata mia cognata a farlo e a mandarla qui, può anche dire a quella puttana succhiasangue che da me non avrà un soldo».
    Feci per aprir nuovamente bocca e replicare, ma mi zittii ancor prima di farlo. Come avevo fatto a non rendermene conto immediatamente? Eppure la soluzione era sempre stata così semplice! Quello che avevo dinanzi non era Steve, ma probabilmente un suo qualche lontano bisnonno. Ricordavo che c’erano stati ben tre Stephen, nella famiglia O’Neal, ma non avrei mai pensato che prima o poi il mio subconscio mi avrebbe portato proprio da uno di essi. Più guardavo quel volto, però, più non potevo fare a meno di credere che quello fosse proprio il mio miglior amico: era identico a lui in tutto e per tutto, dal taglio corto e ordinato dei capelli castani agli occhi quasi a mandorla d’un verde intenso; persino il fisico asciutto era il suo. Che fossi finito in un qualche universo parallelo, anziché nel passato? Avevo bisogno di saperlo.
    Abbassai le braccia lungo i fianchi molto lentamente, vedendo Stephen - o almeno quello che supponevo fosse Stephen - seguire con lo sguardo ogni mio minimo movimento mentre mi teneva ancora sotto tiro. Cercai di assumere l’aria più innocua che possedevo, il che non era per nulla facile visto il mio metro e ottanta scarso. «Non mi manda nessuno. Sono qui solo per caso, lo giuro».
    «Och, e sentiamo, allora, anche scavalcare il muro e il filo spinato è stato un caso?»
    Boccheggiai come un pesce fuor d’acqua. Dannazione! Avrei dovuto pensare anche a quel piccolissimo particolare prima di aprir bocca. Mi presi tutto il tempo di cui potevo usufruire - dunque appena qualche secondo, giacché vedevo quello Stephen cominciare a perdere la pazienza - scendendo a patti con me stesso e optando per una mezza verità. «So che potrà sembrarle assurdo, signor O’Neal, ma io sono una sorta di chiaroveggente», cambiai approccio, e mi parve persino piuttosto strano dare del lei a Steve. «Ho avuto una visione su di lei e...»
    Non ebbi il tempo di continuare, poiché vidi lo scetticismo sul viso di Steve tramutarsi nell’ombra del sospetto. Si avvicinò rapidamente lasciando profondi solchi nella neve, piantandomi la canna del fucile fra le costole e strappandomi un lamento. «Lo ripeterò ancora una volta», sibilò. «Chi ti manda e perché?»

    Le formalità erano scomparse, e a quanto pareva non mi aveva creduto. Ma chi avrebbe potuto dargli torto? Non sapevo come cavarmela, adesso, e quel tipo sembrava sempre più intenzionato a spappolarmi il cervello e a togliermi di mezzo. Cosa c’era sotto? E, per l’amor del cielo, in che razza di guaio mi ero cacciato? A salvarmi fu il suono del campanello dall’altro lato della casa, ma l’occhiata che Steve mi lanciò mi raggelò ancor più della neve che mi arrivava alle caviglie. «Vieni dentro con me senza fare scherzi, ciarlatano», mi intimò. «Con te non ho ancora finito».
    Avrei voluto dirgli che non ero affatto una minaccia, ma sapevo che non mi avrebbe creduto; mi limitai dunque a star zitto e, prima di entrare in casa, quello che avevo ormai cominciato a considerare il gemello cattivo di Steve mi perquisì. E dovetti purtroppo ammettere a me stesso che mi imbarazzai ad ogni suo tocco o palpata che fece per controllare che non avessi armi nascoste. Perché, tra tutte le persone che avrei potuto incontrare in quella maledettissima epoca, mi era capitato proprio un parente di Steve con la sua stessa faccia? C'era qualcuno, lassù, che doveva avere un perverso senso del divertimento. Entrammo infine in casa, e il calore all’interno fu talmente piacevole che sospirai involontariamente di sollievo mentre mi toglievo la giacca a vento ormai fradicia.
    «Non metterti comodo», mi apostrofò sprezzante. «Appena mi sarò occupato di quegli scocciatori, dovrai chiarirmi un paio di cosette».
    Annuii automaticamente, non avendo ancora il coraggio di aprir bocca. Seguii con gli occhi la figura di Stephen mentre spariva oltre la soglia, e me ne restai immobile a torcermi le mani. Perché mai quell’incidente aveva fatto in modo che capitassi lì e sembrava non essermi ancora dato tornare indietro? Doveva per forza esserci un motivo, ne ero sicuro. O forse volevo convincermi che fosse così. Approfittai di quei minuti in cui fui lasciato solo per guardarmi intorno, forse stupendomi persino un po’ per il gusto di quello Stephen, bisnonno o meno che fosse. Mi trovavo in un salotto ampio e confortevole, dove facevano bella mostra di sé una poltrona e due divani beige dai cuscini variopinti; tra di essi si trovava un tavolo di legno finemente intarsiato, e le uniche cose che lo ingombravano  erano solo la statua di un drago di piombo e un vaso di fiori; sul muro di destra, esattamente accanto a una libreria colma di libri, era stato costruito un caminetto di mattoni in cui il fuoco che riscaldava l’ambiente scoppiettava allegro e caldo, e al di sopra di esso era stato appeso un quadro piuttosto grande
che rappresentava un paesaggio notturno con strane forme a spirale in cielo [1]. Non essendo mai stato molto interessato all’arte, non avevo la minima idea di cosa fosse o chi l’avesse dipinto, però dovevo ammettere che era abbastanza bello e catturava l'attenzione. Il resto del salotto era arredato con piccoli lumi e diverse statue, nonché piante sempre verdi che abbellivano l’ambiente.
    Era così diverso dal caos che regnava quasi sempre nella piccola casetta di Steve, quello. Quasi mi mancavano le lattine di birra e coca-cola all’angolo del televisore di 32'' poste a formare una piramide che si ingrandiva sempre di più, la miriade di riviste di Play-Boy accatastate sotto la finestra della sua stanza per sorreggere il davanzale ormai quasi a pezzi che non aveva intenzione di far aggiustare, e la grande videoteca dove custodiva gelosamente la saga di Star Wars insieme ai restanti film che amava.
    Scossi immediatamente il capo. Non era il caso di pensare a cose ridicole come quelle, in quel momento. Seguii
di soppiatto quello Steve per dare un’occhiata e vedere che fine avesse fatto, inoltrandomi nel disimpegno; mi ritrovai ben presto in un vasto ingresso corredato con altre piante e fiori di ogni genere, e Stephen era fermo sulla soglia della porta d’entrata, quasi volesse bloccarla per non far entrare quei nuovi arrivati.
    «Mi sembrava di avervi già detto che non mi interessa», stava dicendo a braccia conserte. Aveva abbandonato il fucile con il quale mi aveva minacciato accanto ad un mobiletto poco distante, abbastanza nascosto perché non si vedesse, ma fin troppo vicino in caso di necessità. Quella era forse gente pericolosa? Oppure era semplicemente un pazzo che avrebbe potuto alzare un'arma da fuoco e puntarla contro chiunque?
    «Verrebbe gestito tutto con la massima cura, signor O’Neal», ribatté una voce femminile, fredda e autoritaria. Avrei scommesso che fosse una segretaria, e il mio non era stato un commento dalle mire sessiste, giuro. «Lei stesso ha detto di non avere il tempo materiale per occuparsene come si dovrebbe».
    «Quella miniera appartiene alla mia famiglia da generazioni, e legalmente il contratto porta il mio nome», replicò Steve in tono schietto. «Il fatto che Sean sia morto non autorizza Margaret a costringermi a venderla a lei. Tornatevene a casa e dite a quella stronza che avrà quella miniera solo dopo aver strappato il contratto dalle mie fredde dita», ciò detto sbatté senza tanti convenevoli la porta in faccia a quei due nuovi venuti, mettendo il catenaccio e dando quattro mandate alla serratura. Quando si accorse che lo fissavo da poco distante, fece scroccare le nocche di entrambe le mani. «Adesso direi che tocca a lei, signore», soggiunse con falsa formalità.
    Indietreggiai rapidamente, alzando le mani in segno di resa. «Non ci sarà bisogno di ricorrere alla violenza, signor O’Neal», tentai di convincerlo, giacché non sembrava intenzionato ad ascoltarmi. Chiunque fossero quelle persone che aveva appena cacciato, avevano solo fatto in modo che si infuriasse ancora di più.
    «Hai predetto anche questo o l’hai solo supposto?» mi sbeffeggiò, mettendo praticamente per iscritto che non aveva mai creduto alle mie parole. E fino ad un anno addietro non gli avrei assolutamente dato torto.
    Giacché le formalità non erano tornate, pensai che stessi per ritrovarmi seriamente nei guai. E non avevo bisogno del mio particolare dono per rendermene conto. Era fin troppo palese, anche senza guardare in viso il buon vecchio Stephen. «So bene che lei è una brava persona che non farebbe mai del male a qualcuno, signor O’Neal, e non ho bisogno di nessun potere paranormale per esserne a conoscenza».
    Lui si accigliò un po’, e forse fu per quel motivo che il suo volto sembrò quasi addolcirsi. «E dopo questo complimento», mimò le virgolette con due dita per enfatizzare la parola, «dovrei per caso crederti?»

    In quello era uguale allo Steve originale: cocciuto e testardo fino all’ultimo. «Senti», cominciai, lasciando a mia volta da parte ogni tipo di formalità, «so per certo che se fossi stato sicuro delle mie cattive intenzioni mi avresti sparato all’istante, invece siamo ancora qui tutti e due a chiacchierare», soggiunsi. «Sarò lieto di raccontarti tutto, se me ne darai la possibilità».
    Stephen sembrò valutare quella proposta, sollevando di poco il sopracciglio come se farlo potesse aiutarlo a pensar meglio mentre mi sondava da capo a piedi con lo sguardo. Non fu per niente piacevole, dovetti ammetterlo: sembrava un serpente che aveva appena messo i suoi occhi vitrei su un topolino spaventato. E anche se non ero piccolo quanto il topo, mi sentivo altrettanto insignificante sotto lo sguardo di quelle iridi verdi. «Ti do dieci minuti», asserì infine, e quasi mi lasciai sfuggire un sospiro per lo scampato pericolo. «Ti converrà essere convincente nel raccontare la tua storia».
    Convincente... bella roba. Fino a otto mesi prima mi sarei preso per pazzo anch’io! E scambiare se stessi per dei folli visionari non era una così gran cosa, sul serio. Cercai comunque di raccontare a Stephen la nuda e cruda verità, sentendomi quasi in dovere di farlo poiché il volto che stavo osservando era pur sempre quello del mio miglior amico. Accennai all’incidente, al mio ritrovarmi nel suo giardino per puro caso, dissi persino qualcosa di vago sui miei viaggi nel tempo , concentrandomi per la maggior parte su quel mio essere in grado di captare i segnali del mondo circostante. Più parlavo, però, più sembrava che Stephen diventasse sempre più sospettoso, come se si stesse chiedendo da quale manicomio ero scappato. Ma di certo non potevo biasimarlo: mi sarei rinchiuso in una casa per matti anch’io. Mentre continuavo a raccontare, arricchendo pian piano tutto con gran dovizia di particolari, vedevo Stephen fissarmi a braccia conserte, lasciando che la curiosità prendesse il sopravvento di quell’aria guardinga che aveva acquisito al principio. Fu quasi doloroso constatare quanto quella nuova espressione fosse simile a quella che avevo visto sul volto del mio amico Steve quando gli avevo raccontato per la prima volta di cosa fossi capace dopo l’incidente.
    Quando finalmente terminai, quel tipo mi fece cenno di seguirlo ancora una volta, guidandomi lungo il disimpegno per svoltare poi a sinistra. Ci ritrovammo in quella che sembrava essere una stanza dal soffitto a volta, corredata con tanto di piccole finestre ad arco che di giorno avrebbero di sicuro avuto un aspetto meno tetro di quello, specialmente con il sole che le illuminava piacevolmente. Non potei non lasciarmi sfuggire un piccolo fischio nel vedere com’era stata arredata: sulla sinistra, esattamente accanto ad un vecchio scrittoio colmo di pergamene che sembrava in legno di noce, c’era una teca su un piedistallo che sorreggeva quella che, diamine, sembrava avere tutta l’aria di essere una copia della punta della lancia di Longinus
[2]; facendo più attenzione, si poteva benissimo notare che quella teca non era sola, anzi. Sette teche contenenti altrettanti manufatti - cinque dei quali non avevo mai visto - erano disposte sul lato destro della stanza, divise da lunghi arazzi dai colori cupi. Come nel soggiorno e nell’ingresso erano presenti piante e fiori, che riuscivano almeno a dare un tocco più morbido e meno spartano all’arredamento.
    «Cavolo, questa stanza sembra uscita direttamente da quelle di Lara Croft
[3]», mi ritrovai a dire fra me e me, non riuscendo a nascondere lo stupore. Al che Stephen mi guardò, sollevando un sopracciglio.
    «Da cosa?» domandò, e avrei dovuto aspettarmelo. Se ero tornato indietro nel tempo come credevo, Tomb Raider non poteva di certo essere uno dei film o dei videogiochi preferiti di quel sosia.
    «Niente, pensavo solo fra me e me», liquidai la questione, giacché non era importante ai fini di quella nostra conversazione, se così potevamo chiamarla. Avevo intenzione di sfiorare tutto ciò che potevo e sperare che avessi una delle mie visioni, cercando così di capire il motivo per cui d’un tratto ero stato spedito fin lì. Che c’entrasse forse quella miniera a cui aveva accennato quello Stephen? L’unico modo per saperlo era per l’appunto sperare che il mio potere non mi deludesse. Cominciai a vagare per quella stanza sotto gli occhi attenti di Stephen, che sembrava controllarmi come per timore che potessi rubare qualcosa e scappare. Toccai di tutto, dalle semplici cataste di fogli bianchi ai libri stipati sui piccoli ripiani, sfiorando ogni cosa con la punta dei polpastrelli. Niente mi dava però la sensazione che dovesse accadere qualcosa, ma ero certo che ciò che cercavo, sebbene non sapessi ancora cosa, si trovava senza alcun dubbio in quella stanza.
    Avanzai cauto, quasi fossi cieco, aggrappandomi a tutto ciò che mi capitava a tiro senza più badare a Stephen, poiché fissarmi sulla sua presenza avrebbe soltanto infranto la mia già scarsa concentrazione. Fu quando giunsi accanto alla scrivania che sentii come una scossa elettrica corrermi lungo la schiena, e volsi lo sguardo in direzione di Steve per osservarlo in viso. «Hai qualcosa di importante, nei cassetti dello scrittorio?»
    Lui sollevò un po’ un sopracciglio e sembrò rifletterci, dando vita ad una di quelle scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente. «Tagliacarte, fogli, qualche documento... cose pressappoco inutili». La sua voce aveva assunto un tono svogliato, quasi si fosse stancato di fare il cattivo ragazzo. D’altronde l’ora era quel che era, da quanto potevo constatare guardando il quadrante del pendolo. «Il contratto non è lì, se è ciò che mi stai chiedendo».
    Annuii fra me e me prima di riprendere quel mio giro di ronda, avvicinandomi ad una delle teche per sfiorarne appena la superficie. Mi soffermai ad osservare ciò che vi era conservato all’interno, percorrendo con lo sguardo ogni particolare di quello splendore: era il più bel diamante su cui fossi mai riuscito a mettere gli occhi, e mi ricordava tanto quello del vecchio film “La pantera rosa
[4]” a causa del colore che lo caratterizzava e dell’incisione al suo interno. Ma fu proprio nel continuare a fissare quella pietra che cominciai ad avvertire quella familiare sensazione di formicolio alla testa, come se mille insetti mi stessero strisciando lungo il corpo e sottopelle. C’era decisamente qualcosa che non quadrava, in quella storia. «Credo che dovrà spiegarmi per filo e per segno quella faccenda della miniera, signor O’Neal».






[1] Il quadro al quale si fa riferimento è la “Notte stellata” di Van Gogh, realizzata nel 1889 su una tela di 78 x 92 e conservata a New York. Su tale dipinto viene rappresentata per l’appunto una notte stellata sulla città di Saint Rémy, in Francia. La tela nella storia, essendo più grande rispetto all’originale, è ovviamente solo una riproduzione.

[2] Detta anche Lancia del Destino, è la lancia con cui sembrerebbe sia stato trafitto Gesù dopo la crocifissione.
Il manufatto in questione è solo una riproduzione, naturalmente, ed è stato preso in considerazione a causa di una frase che il protagonista principale della storia pronuncerà in seguito. Essa viene anche citata in film come Constantine, Hellboy, Il Conquistatore di Shambala e in videogiochi come Tomb Raider e Final Fantasy X.

[3] Eroina del videogioco Tomb Raider, uscito per la prima volta nel 1996, sviluppato da Core Design  rilasciato dalla Eidos Interactive. È stato tratto anche un film uscito nel 2001 - di cui è stato fatto anche un seguito nel 2003 -, in cui Lara è interpretata da Angelina Jolie. La frase a cui si accennava precedentemente era questa.
 
[4] Diretto da Blake Edwards, “La pantera rosa” è un film del 1963 dove vengono raccontate le vicende dell’ispettore Clouseau all’inseguimento del ladro gentiluomo Charles Lytton e di suo nipote George, che ambiscono ad impossessarsi del grande diamante denominato pantera rosa poiché al suo interno sembra esserci incisa una pantera. Il film ha avuto anche un remake uscito nel 2006, del quale è stato fatto un seguito nel 2009.


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori. 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: My Pride