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ATTO III:
IPOTETICA LONDRA › ANNO E MESE IGNOTI
OMBRE DI
MISTERO
La
placida atmosfera che regnava nel salotto e il buon odore del the caldo
- il
più buon Jackson Earl Grey [1]
che
avessi mai bevuto - mi donavano un senso di
quiete
così profondo che quasi me ne meravigliavo, dato il mio
ritrovarmi in un luogo
e in un tempo sconosciuti.
Avevo rimandato quel
mio cercare di darmi almeno un punto di riferimento o una data,
ascoltando
invece la storia che aveva da raccontarmi Stephen su quella miniera di
cui
aveva parlato. Suo padre, un ricco mercante inglese che aveva fatto
fortuna in
poco tempo grazie alle sue particolari doti linguistiche, da giovane
era riuscito ad
impossessarsi di una miniera con i soldi ricavati dalla vendita delle
sue
merci. L’aveva fatto più per un capriccio che per
vera utilità, aveva detto, ma
le cose si erano ben presto svolte in suo favore: nei meandri della
miniera
aveva trovato più del semplice carbone - il diamante che
avevo visto nello
studio di Steve ne era la prova inconfutabile - e i suoi averi erano
aumentati
a dismisura, permettendogli di vivere nel lusso sia prima che dopo il
matrimonio. Aveva in seguito lasciato la proprietà al figlio
più giovane,
Stephen, incaricando il maggiore di occuparsi dei restanti beni. La
cosa che
Steve non era riuscito a capire era stata l’inspiegabile
morte di suo fratello,
Sean, e anche il referto medico non aveva riscontrato niente. Stephen
sospettava difatti che a toglierlo di mezzo fosse stata sua moglie
Margaret, ma
non aveva prove per incastrarla.
«Dunque adesso questa Margaret
vorrebbe mettere le mani anche sulla miniera», commentai fra
me e me, soffiando
sulla tazza di the prima di sorseggiarne un po’. «E
poi dicono che le donne non
sono avare», soggiunsi sarcastico, sebbene ci fosse ben poco
da scherzare. Se
era stata realmente lei ad uccidere il marito e a farla franca,
c’era davvero
da aver paura nel ritrovarsela sulla propria strada. E quel tipo
identico a
Stephen sembrava pensarla esattamente allo stesso modo, anche se quelle
costatazioni le avevo tenute per me senza pronunciarle ad alta voce.
«Margaret ha sempre voluto
più di
quanto non avesse già», disse, guardando
distrattamente il drago sul tavolino
anziché me, come se quel pezzo di bronzo significasse per
lui più di quanto
credessi. «È
nata in una ricca famiglia che non le ha fatto mai mancare niente
fin da quando era bambina, almeno finché la sua casata non
è caduta in rovina.
Per lei è stata una manna dal cielo conoscere e sposare
Sean». Parlare del
fratello sembrò portare la malinconia sul suo volto, ma
cercò di scacciarla con
un sentimento che per lui parve ancor più forte:
l’odio. «Gli ha tolto pian
piano tutto, persino la ragione e la vita. Sono più che
certo che sia stata
lei, ma la mia sola parola non basta ad accusarla, senza contare poi lo
stuolo
di avvocati che paga profumatamente per difenderla. Quelli che ho
cacciato
prima erano Paul, uno dei migliori che può permettersi, e
Samantha, la sua
fidata segretaria. Cercano ancora di convincermi a cederle la miniera,
ripetendomi che se lo facessi mi pagherebbero una cifra
esorbitante».
Ascoltai attento, certo, ma quando
Stephen smise di parlare aggrottai le sopracciglia. «Non
credi che eviteresti
eventuali guai, se lo facessi per davvero?» buttai
lì, venendo fulminato
all’istante dai suoi profondi occhi verdi.
«Non le darò
più niente di ciò che
appartiene alla mia famiglia».
«Ti interessa più
quella stupida
miniera e quei diamanti che le conseguenze?»
Qualcosa nelle mie parole
irritò
quello Stephen, che si alzò in piedi così di
scatto che le cosce sbatterono
contro il tavolino, ribaltandolo. Il drago restò
pressoché illeso, ma la tazza
e la teiera si ridussero in mille pezzi, impregnando di the la costosa
tappezzeria. Un vero peccato. «Pensi davvero che mi stiano a
cuore quelle
pietre, ciarlatano?» rimbeccò, con gli occhi
ardenti di sacro furore. «Quella
dannata miniera è l’unica cosa che mi è
rimasta di mio padre, e non mi importa
se per te è così difficile da capire».
La furia con cui pronunciò
quelle
parole fu violenta come uno schiaffo in pieno viso. Sembrava che il
simbolo
rappresentato da quella miniera - ovvero l’ultimo legame con
suo padre - per
lui contasse mille volte più di tutti i diamanti presenti
nelle profondità di
essa. E la cosa mi fece sorridere. Dentro di lui, nei recessi del suo
cuore,
albergava davvero qualcosa di Steve. «Come posso
aiutarti?» gli domandai
dunque, ritrovandomi a chinarmi io stesso per rimettere il tavolino in
piedi e
poggiare la mia tazza su di esso. Mentre ero intento a raccogliere
anche i cocci, sentii quegli occhi verdi puntati su di me, poi un lungo
sospiro
che suonò afflitto.
«Non puoi»,
mormorò sottovoce Stephen, chinandosi a sua
volta per aiutarmi. «Semplicemente, non puoi».
Avrei voluto ribattere dicendo
qualcosa, ma lasciai perdere non appena vidi l’espressione
mesta che era
apparsa sul suo viso, quasi le avesse provate tutte e si fosse ormai
arreso.
Io, però, mi rifiutavo di credere che fosse così.
Se ero capitato lì un motivo
doveva esserci, dunque avrei trovato un modo per aiutare Stephen. O
almeno lo
speravo.
Nel radunare gli ultimi pezzi, non
mi resi conto che avevo cominciato ad osservare ogni minimo movimento
di quel
sosia, come se ogni suo gesto andasse ben oltre alla
semplicità che dimostrava
di possedere. Potei persino affermare di esserne rimasto quasi rapito,
e la
cosa riuscì a spaventarmi più di tutta
quell’assurda situazione. Era da troppo
tempo che avevo cominciato a guardare Steve con quegl’occhi,
e non mi sembrava
per niente giusto. Quando quello Stephen ricambiò il mio
sguardo mi affrettai a
distoglierlo, concentrandomi solo nel recuperare qualche ultimo coccio
prima di
alzarmi in piedi. Mi sentivo accaldato, quasi fossi arrossito, ma non
era
possibile, no? Forse avevo semplicemente preso freddo, essendo rimasto
disteso
sulla neve, e i sintomi si stavano manifestando proprio in quel
momento. Già,
non c’era altra spiegazione.
«Al tappeto ci
penserò domani», mi
riscosse la voce di Stephen. «Per il momento ci conviene
riposarci in vista
della giornata che ci aspetta».
Alzai immediatamente lo sguardo su
di lui, forse un po’ stupito. «Mi permetti di
restare?» gli chiesi, sentendo il
sorriso fiorire pian piano sulle mie labbra. In fin dei conti non era
un
cattivo ragazzo.
Stephen fece appena un rapido
cenno con il capo a mo’ di affermazione, sebbene non ne
sembrasse
particolarmente contento. «Pur non credendo alla tua
storiella,
mi hai
raccontato particolari su di me che solo Sean, pace all’anima
sua, conosceva»,
disse, e nei suoi occhi scorsi un luccichio che, per un lungo momento,
lo fece apparire un bambino. «E poi ha cominciato a nevicare,
per
quanto vorrei liberarmi di te non
posso spedirti là fuori a quest’ora
tarda»,
soggiunse sarcastico, «per di più
con quei vestiti leggeri».
Mi venne naturale fargli un mezzo
inchino. «Sono onorato di questa tua offerta, in fondo per te
sono un perfetto sconosciuto», ribattei. «Vorrei
poter fare
qualcosa
per sdebitarmi e aiutarti con...»
«Aye, aye, tutto quello che
vuoi»,
tagliò corto senza lasciarmi continuare, poggiando i cocci
sul tavolino. «Se
avrai voglia di chiacchierare, lo faremo domattina a colazione; adesso
lascia
sul tavolo quel che resta del mio servizio da the e seguimi, ti mostro
la
stanza degli ospiti».
Senza replicare feci quanto mi era
stato detto, seguendolo per l’ennesima volta in quella
serata. Ci inoltrammo
nello stesso corridoio che avevamo già percorso due o tre
volte, andando poi
verso le scale che portavano al piano di sopra. Al muro potei vedere
appese un
paio di fotografie che ritraevano probabilmente la sua famiglia, ma non
ce
n’era nemmeno una in cui compariva la figura di sua madre. Ce
n’era una che
raffigurava lui e quello che supposi suo fratello da bambini, in piedi
accanto
al tronco di quella che sembrava una grande quercia secolare;
c’era poi una
foto di un uomo dalla folta e curata barba, forse suo padre, seduto
dietro ad
una scrivania con un’espressione austera dipinta in volto;
l’ultima li ritraeva
tutti e tre insieme in uno spazio chiuso, probabilmente un ufficio,
tutti e tre
sorridenti e con i segni del tempo ben visibili sui lineamenti dei loro
visi.
Ma in nessuna compariva la grazia di una figura femminile.
«Mia madre è morta
mettendomi al
mondo, e mio padre non ha voluto lasciare per casa foto che gliela
ricordassero». La voce pacata e bassa di Stephen,
così vicina al mio orecchio,
mi fece trasalire. Volsi lo sguardo verso di lui, umettandomi le labbra
e
provando a chiedergli come avesse fatto ad intuire cosa stavo per
domandargli,
ma lui mi precedette. «Ho pensato che ti stessi chiedendo
perché non ci fosse
nessuna fotografia di lei, data l’attenzione con cui fissavi
quelle cornici».
Mi sentii arrossire ancora una
volta. Portandomi una mano dietro alla testa, mi grattai appena il
collo.
«Scusa, non volevo impicciarmi», farfugliai a
disagio.
Stephen mi superò, afferrando
il
corrimano e adocchiando a sua volta le foto, tornando poi a guardare
dinanzi a
sé come se volesse lasciarsi alle spalle quei momenti
passati. «È
storia
vecchia, continua a salire».
Sospirai, ma obbedii, continuando
però a guardarmi intorno come se volessi ricordare ogni
singola cosa lì
presente. Quella casa, per quanto fosse diversa da quella che ero
solito
vedere, mi piaceva. Oltre alle svariate cianfrusaglie - bambole di
porcellana,
cavalli intagliati nel legno e quelle che sembravano piccole statuette
da
collezione - riposte sugli scaffali o sui ripiani più alti
dei mobili, facevano
bella mostra di sé gli oggetti più costosi e
disparati che avessi mai visto,
dalle semplici lampade d’antiquariato - che mi ricordarono
tra l’altro di
domandare dove mi trovassi e che anno fosse - a rappresentazioni di
mezzi busti
dallo stile vagamente romano.
Fu il picchiettare di nocche contro
legno che mi
richiamò, e alzando lo sguardo vidi Stephen indicarmi una
stanza
sulla destra. «Qui è dove dormirai», mi
informò. «Più avanti
c’è la mia
camera.
Se mi segui ti do un cambio, così potrai farti anche una
doccia
e levarti quei
vestiti fradici da dosso».
Quella premura mi fece sorridere,
forse perché mi ricordò davvero il mio amico
Steve, o forse perché da un tipo
come lui - mi aveva puntato contro un fucile solo poche ore prima,
perdio! -
non me lo sarei mai aspettato. «Grazie ancora, sul
serio», mi sentii in dovere
di dirgli, vedendolo annuire distratto prima di continuare ad
attraversare
tranquillo il disimpegno, afferrando ben presto la maniglia della porta
di
un’altra stanza. La sua, supposi.
Quando lo vidi sul punto di
spalancarla, però, la calma che mi aveva animato fino a quel
momento sfumò come
se non fosse mai esistita, e un brivido mi corse lungo la schiena,
mettendomi
subito in agitazione. Ebbi appena il tempo di aprire la bocca per
metterlo in
guardia, prima che il fragore dello sparo di un’arma di
grosso calibro e di una
finestra che andava in mille pezzi rompessero il silenzio che regnava
in casa,
assordandoci entrambi. Stephen si gettò di lato per evitare
di essere colpito
da un secondo proiettile, accostandosi contro il muro prima di
lasciarsi
scivolare lungo di esso. Incredulo, raggelato e spaventato, dovetti
ricorrere a
tutta la mia forza di volontà per convincere le gambe a
muoversi anche solo di
poco, facendo incerto qualche passo in quella direzione, senza riuscire
ad
aprir bocca. Gli occhi verdi e dilatati di Stephen si puntarono su di
me, ma
anche lui restò in silenzio, arrischiandosi a sporgersi un
po’ oltre lo stipite
della porta per valutare la situazione. Però
dall’interno non provenne nessun
altro suono, dunque si alzò; mentre lui controllava la
camera e cercava di
capire il punto esatto da cui avevano sparato, io mi soffermai sui fori
di
proiettile sul muro, esattamente dove poco prima c’era
Stephen. Aveva rischiato
maledettamente grosso.
«Quella stronza è
passata alle maniere
forti», lo sentii dire dall’interno della stanza, e
fu con fare guardingo che
entrai a mia volta, quasi mi aspettassi di vedere un sicario sbucare
fuori
dall’armadio. Però quella spiacevole sensazione
che mi aveva colto poco prima
era scomparsa, e oltre alla finestra rotta e quelli che sembravano due
mattoni
non c’era nient’altro.
Con il cuore che ancora batteva
furente nel petto, domandai: «Che vuoi dire?»
Stephen non rispose subito, ma
sventolò un biglietto. «Era legato a quella
pietra», mi disse, indicando quella
poco distante dalla finestra. «“Questo era solo un avvertimento.
La regina nera
ha fatto la sua mossa, sta al re bianco giocare, adesso”»,
si lasciò sfuggire
uno sbuffo palesemente disgustato, appallottolando il foglio prima di
comprimerlo nel palmo di una mano. «Devo ammettere che mi
aspettavo un metodo
più elegante da una signora come lei», soggiunse
sarcastico, forse per
sdrammatizzare.
Deglutii senza nemmeno rendermene
conto. «Sei certo che sia stata lei?» gli chiesi,
dandomi dello stupido da solo
per quel quesito, e lui difatti si lasciò sfuggire una falsa
risata.
«E chi altri potrebbe mai
essere
stato? Anche il biglietto parla chiaro».
Feci qualche altro passo verso di
lui, togliendogli quella palla di carta da mano prima di guardarlo in
viso con
fare deciso. «Allora devi chiamare la polizia».
«E a cosa
servirebbe?» mi domandò
in risposta. «Questa non è nemmeno la
calligrafia di Margaret, anche se è esattamente
ciò che avrebbe scritto
lei. La accuserei nuovamente senza prove e la polizia non prenderebbe
neanche
in considerazione il caso. Ha troppi poliziotti corrotti dalla sua
parte,
quella puttana».
Rifiutando di credere che si
stesse arrendendo a quel modo, senza nemmeno provare a continuare a
combattere,
mi infervorai. «Ma non puoi nemmeno aspettare che quella
donna faccia qualcosa
di peggio, dannazione!» esclamai, lasciandomi sopraffare
dalle mie emozioni e
dal sentimento che da un po’ di tempo a quella parte avevo
cominciato a provare
per il mio miglior amico. Nonostante sapessi che quello non era lo
Steve che
conoscevo, il mio cuore si rifiutava di lasciare che gli eventi si
rincorressero.
Quel mio comportamento, però,
fece
solo accigliare Stephen. Mi afferrò la mano con cui
stringevo il foglietto
appallottolato che gli avevo tolto e mi costrinse a guardarlo
attentamente in
viso, aggrottando le folte sopracciglia scure.
«Perché ti interessa così tanto
la mia incolumità?» mi domandò, e dal
tono che utilizzò apparve piuttosto
sospettoso. In altri momenti non gli avrei dato torto - in fin dei
conti per
lui ero un tipo che non aveva mai visto e che gli era piombato in casa
d’improvviso -, ma la mia mente continuava a comparare la sua
figura a quella
del vero Steve, aggiungendo persino l’avvenimento a cui era
scampato solo pochi
minuti prima.
Mi umettai le labbra senza
rispondere, quasi stessi cercando inutilmente le parole giuste per
farlo. Cosa
mai avrei potuto dirgli? Sebbene gli avessi raccontato dei miei viaggi,
non
avevo affatto accennato che lui fosse identico al mio miglior amico, e
mi ero
tenuto ben alla larga dal dirgli che provavo più di quel
semplice tipo di
affetto nei suoi riguardi. Mi avrebbe sbattuto fuori a calci o mi
avrebbe
sparato sul serio, se lo avessi fatto. Optai dunque per una mezza
verità. «Se
ti succedesse qualcosa... non potresti più difendere la
miniera dalle grinfie di
Margaret, giusto?» gliela misi su quel piano, vedendolo
accigliarsi. «Concedimi
dunque di preoccuparmi per la tua vita».
Stephen rimase senza parole, ma mi
lasciò
andare, facendo giusto un passo indietro come se volesse ristabilire le
distanze. Sembrava quasi scombussolato e non riuscii a capirne il
perché, ma
lui non si degnò di darmi nessuna spiegazione. Si diresse
solo verso un
mobiletto in noce per aprire uno dei cassetti, tirando fuori un pigiama
a righe che
persino da lontano sembrava pesante, caldo e
confortevole. Quando agguantò anche
l’intimo, ripose tutto
uno sopra l’altro prima di portarmelo e porgermelo senza
garbo. «Prendi»,
bofonchiò, e io allungai una mano senza farmelo ripetere due
volte. Non volevo
farlo incazzare più di quanto non sembrasse già.
«Il bagno è in fondo al
corridoio, seconda porta sulla destra. La colazione è alle
otto. Alle nove
andremo ad incontrare una persona, quindi vedi di farti trovare pronto.
Non
ammetto ritardi. Oh, un’ultima
cosa».
Mi gettò uno sguardo più che eloquente, talmente
serio
che, ne ero certo, sarebbe stato capace di trapassarmi l’anima,
se avesse potuto. «Sappi
che non ho intenzione di lasciarle fare ciò che vuole
né
di scappare. Non sono il tipo di persona che fugge dinanzi alle
cose». Con quell’ultima nota
diplomatica, Stephen indicò che, almeno per lui, quella
nostra
conversazione si poteva definire chiusa.
Si prospettava davvero una lunga
nottata, sempre se non fossi riuscito a tornare a casa prima
dell’alba. E io,
purtroppo, avevo cominciato a non esserne più tanto sicuro.
[1] Uno
dei the più famosi in Inghilterra.
Il suo sapore e il suo aroma si distinguono grazie
all’aggiunta di un olio estratto dalla scorza di
bergamotto. Il nome deriva dai Jacksons di Piccadilly, che ne
rivendicarono la paternità.
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Farai felici milioni di
scrittori.
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