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Autore: My Pride    22/06/2011    2 recensioni
I understand that there’s probably a link between our worlds, even if it may be twisted in ways that are cruel at times and kind at others.
The world is inside of you.

Avete mai sentito parlare di esperienze pre-morte? Io ero stato uno di quelli che non aveva mai creduto a cose del genere, o almeno fino a quando non era capitato proprio a me.
È alquanto bizzarra la velocità con cui sembrano cambiare i punti di vista, certe volte. E altrettanto strambo è il modo in cui eventi di questo tipo, per quanto rari, ti precipitino addosso, lasciandoti letteralmente senza fiato. Non si è mai certi di ciò che la vita ti riserva finché non ti accadono le cose più impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile verità dell’essere.
[ Prima classificata al contest «Scacco matto!» indetto da Fe85 ]
[ Prima classificata allo «Slash e Femslash contest!» indetto da MistyEye ]
[ Prima classificata al contest «Romance in pain» indetto da LoveSomebody ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Breaking the World Series ~ Bonus Track' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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ATTO III: IPOTETICA LONDRA › ANNO E MESE IGNOTI
OMBRE DI MISTERO
 
    La placida atmosfera che regnava nel salotto e il buon odore del the caldo - il più buon Jackson Earl Grey
[1] che avessi mai bevuto - mi donavano un senso di quiete così profondo che quasi me ne meravigliavo, dato il mio ritrovarmi in un luogo e in un tempo sconosciuti.
    Avevo rimandato quel mio cercare di darmi almeno un punto di riferimento o una data, ascoltando invece la storia che aveva da raccontarmi Stephen su quella miniera di cui aveva parlato. Suo padre, un ricco mercante inglese che aveva fatto fortuna in poco tempo grazie alle sue particolari doti linguistiche, da giovane era riuscito ad impossessarsi di una miniera con i soldi ricavati dalla vendita delle sue merci. L’aveva fatto più per un capriccio che per vera utilità, aveva detto, ma le cose si erano ben presto svolte in suo favore: nei meandri della miniera aveva trovato più del semplice carbone - il diamante che avevo visto nello studio di Steve ne era la prova inconfutabile - e i suoi averi erano aumentati a dismisura, permettendogli di vivere nel lusso sia prima che dopo il matrimonio. Aveva in seguito lasciato la proprietà al figlio più giovane, Stephen, incaricando il maggiore di occuparsi dei restanti beni. La cosa che Steve non era riuscito a capire era stata l’inspiegabile morte di suo fratello, Sean, e anche il referto medico non aveva riscontrato niente. Stephen sospettava difatti che a toglierlo di mezzo fosse stata sua moglie Margaret, ma non aveva prove per incastrarla.
    «Dunque adesso questa Margaret vorrebbe mettere le mani anche sulla miniera», commentai fra me e me, soffiando sulla tazza di the prima di sorseggiarne un po’. «E poi dicono che le donne non sono avare», soggiunsi sarcastico, sebbene ci fosse ben poco da scherzare. Se era stata realmente lei ad uccidere il marito e a farla franca, c’era davvero da aver paura nel ritrovarsela sulla propria strada. E quel tipo identico a Stephen sembrava pensarla esattamente allo stesso modo, anche se quelle costatazioni le avevo tenute per me senza pronunciarle ad alta voce.
    «Margaret ha sempre voluto più di quanto non avesse già», disse, guardando distrattamente il drago sul tavolino anziché me, come se quel pezzo di bronzo significasse per lui più di quanto credessi. «
È nata in una ricca famiglia che non le ha fatto mai mancare niente fin da quando era bambina, almeno finché la sua casata non è caduta in rovina. Per lei è stata una manna dal cielo conoscere e sposare Sean». Parlare del fratello sembrò portare la malinconia sul suo volto, ma cercò di scacciarla con un sentimento che per lui parve ancor più forte: l’odio. «Gli ha tolto pian piano tutto, persino la ragione e la vita. Sono più che certo che sia stata lei, ma la mia sola parola non basta ad accusarla, senza contare poi lo stuolo di avvocati che paga profumatamente per difenderla. Quelli che ho cacciato prima erano Paul, uno dei migliori che può permettersi, e Samantha, la sua fidata segretaria. Cercano ancora di convincermi a cederle la miniera, ripetendomi che se lo facessi mi pagherebbero una cifra esorbitante».
    Ascoltai attento, certo, ma quando Stephen smise di parlare aggrottai le sopracciglia. «Non credi che eviteresti eventuali guai, se lo facessi per davvero?» buttai lì, venendo fulminato all’istante dai suoi profondi occhi verdi.
    «Non le darò più niente di ciò che appartiene alla mia famiglia».
    «Ti interessa più quella stupida miniera e quei diamanti che le conseguenze?»
    Qualcosa nelle mie parole irritò quello Stephen, che si alzò in piedi così di scatto che le cosce sbatterono contro il tavolino, ribaltandolo. Il drago restò pressoché illeso, ma la tazza e la teiera si ridussero in mille pezzi, impregnando di the la costosa tappezzeria. Un vero peccato. «Pensi davvero che mi stiano a cuore quelle pietre, ciarlatano?» rimbeccò, con gli occhi ardenti di sacro furore. «Quella dannata miniera è l’unica cosa che mi è rimasta di mio padre, e non mi importa se per te è così difficile da capire».
    La furia con cui pronunciò quelle parole fu violenta come uno schiaffo in pieno viso. Sembrava che il simbolo rappresentato da quella miniera - ovvero l’ultimo legame con suo padre - per lui contasse mille volte più di tutti i diamanti presenti nelle profondità di essa. E la cosa mi fece sorridere. Dentro di lui, nei recessi del suo cuore, albergava davvero qualcosa di Steve. «Come posso aiutarti?» gli domandai dunque, ritrovandomi a chinarmi io stesso per rimettere il tavolino in piedi e poggiare la mia tazza su di esso. Mentre ero intento a raccogliere anche i cocci, sentii quegli occhi verdi puntati su di me, poi un lungo sospiro che suonò afflitto.
    «Non puoi», mormorò sottovoce Stephen, chinandosi a sua volta per aiutarmi. «Semplicemente, non puoi».
    Avrei voluto ribattere dicendo qualcosa, ma lasciai perdere non appena vidi l’espressione mesta che era apparsa sul suo viso, quasi le avesse provate tutte e si fosse ormai arreso. Io, però, mi rifiutavo di credere che fosse così. Se ero capitato lì un motivo doveva esserci, dunque avrei trovato un modo per aiutare Stephen. O almeno lo speravo.
    Nel radunare gli ultimi pezzi, non mi resi conto che avevo cominciato ad osservare ogni minimo movimento di quel sosia, come se ogni suo gesto andasse ben oltre alla semplicità che dimostrava di possedere. Potei persino affermare di esserne rimasto quasi rapito, e la cosa riuscì a spaventarmi più di tutta quell’assurda situazione. Era da troppo tempo che avevo cominciato a guardare Steve con quegl’occhi, e non mi sembrava per niente giusto. Quando quello Stephen ricambiò il mio sguardo mi affrettai a distoglierlo, concentrandomi solo nel recuperare qualche ultimo coccio prima di alzarmi in piedi. Mi sentivo accaldato, quasi fossi arrossito, ma non era possibile, no? Forse avevo semplicemente preso freddo, essendo rimasto disteso sulla neve, e i sintomi si stavano manifestando proprio in quel momento. Già, non c’era altra spiegazione.
    «Al tappeto ci penserò domani», mi riscosse la voce di Stephen. «Per il momento ci conviene riposarci in vista della giornata che ci aspetta».
    Alzai immediatamente lo sguardo su di lui, forse un po’ stupito. «Mi permetti di restare?» gli chiesi, sentendo il sorriso fiorire pian piano sulle mie labbra. In fin dei conti non era un cattivo ragazzo.
    Stephen fece appena un rapido cenno con il capo a mo’ di affermazione, sebbene non ne sembrasse particolarmente contento. «Pur non credendo alla tua storiella, mi hai raccontato particolari su di me che solo Sean, pace all’anima sua, conosceva», disse, e nei suoi occhi scorsi un luccichio che, per un lungo momento, lo fece apparire un bambino. «E poi ha cominciato a nevicare, per quanto vorrei liberarmi di te non posso spedirti là fuori a quest’ora tarda», soggiunse sarcastico, «per di più con quei vestiti leggeri».
    Mi venne naturale fargli un mezzo inchino. «Sono onorato di questa tua offerta, in fondo per te sono un perfetto sconosciuto», ribattei. «Vorrei poter fare qualcosa per sdebitarmi e aiutarti con...»
    «Aye, aye, tutto quello che vuoi», tagliò corto senza lasciarmi continuare, poggiando i cocci sul tavolino. «Se avrai voglia di chiacchierare, lo faremo domattina a colazione; adesso lascia sul tavolo quel che resta del mio servizio da the e seguimi, ti mostro la stanza degli ospiti».
    Senza replicare feci quanto mi era stato detto, seguendolo per l’ennesima volta in quella serata. Ci inoltrammo nello stesso corridoio che avevamo già percorso due o tre volte, andando poi verso le scale che portavano al piano di sopra. Al muro potei vedere appese un paio di fotografie che ritraevano probabilmente la sua famiglia, ma non ce n’era nemmeno una in cui compariva la figura di sua madre. Ce n’era una che raffigurava lui e quello che supposi suo fratello da bambini, in piedi accanto al tronco di quella che sembrava una grande quercia secolare; c’era poi una foto di un uomo dalla folta e curata barba, forse suo padre, seduto dietro ad una scrivania con un’espressione austera dipinta in volto; l’ultima li ritraeva tutti e tre insieme in uno spazio chiuso, probabilmente un ufficio, tutti e tre sorridenti e con i segni del tempo ben visibili sui lineamenti dei loro visi. Ma in nessuna compariva la grazia di una figura femminile.
    «Mia madre è morta mettendomi al mondo, e mio padre non ha voluto lasciare per casa foto che gliela ricordassero». La voce pacata e bassa di Stephen, così vicina al mio orecchio, mi fece trasalire. Volsi lo sguardo verso di lui, umettandomi le labbra e provando a chiedergli come avesse fatto ad intuire cosa stavo per domandargli, ma lui mi precedette. «Ho pensato che ti stessi chiedendo perché non ci fosse nessuna fotografia di lei, data l’attenzione con cui fissavi quelle cornici».
    Mi sentii arrossire ancora una volta. Portandomi una mano dietro alla testa, mi grattai appena il collo. «Scusa, non volevo impicciarmi», farfugliai a disagio.
    Stephen mi superò, afferrando il corrimano e adocchiando a sua volta le foto, tornando poi a guardare dinanzi a sé come se volesse lasciarsi alle spalle quei momenti passati. «
È storia vecchia, continua a salire».
    Sospirai, ma obbedii, continuando però a guardarmi intorno come se volessi ricordare ogni singola cosa lì presente. Quella casa, per quanto fosse diversa da quella che ero solito vedere, mi piaceva. Oltre alle svariate cianfrusaglie - bambole di porcellana, cavalli intagliati nel legno e quelle che sembravano piccole statuette da collezione - riposte sugli scaffali o sui ripiani più alti dei mobili, facevano bella mostra di sé gli oggetti più costosi e disparati che avessi mai visto, dalle semplici lampade d’antiquariato - che mi ricordarono tra l’altro di domandare dove mi trovassi e che anno fosse - a rappresentazioni di mezzi busti dallo stile vagamente romano.
    Fu il picchiettare di nocche contro legno che mi richiamò, e alzando lo sguardo vidi Stephen indicarmi una stanza sulla destra. «Qui è dove dormirai», mi informò. «Più avanti c’è la mia camera. Se mi segui ti do un cambio, così potrai farti anche una doccia e levarti quei vestiti fradici da dosso».
    Quella premura mi fece sorridere, forse perché mi ricordò davvero il mio amico Steve, o forse perché da un tipo come lui - mi aveva puntato contro un fucile solo poche ore prima, perdio! - non me lo sarei mai aspettato. «Grazie ancora, sul serio», mi sentii in dovere di dirgli, vedendolo annuire distratto prima di continuare ad attraversare tranquillo il disimpegno, afferrando ben presto la maniglia della porta di un’altra stanza. La sua, supposi.
    Quando lo vidi sul punto di spalancarla, però, la calma che mi aveva animato fino a quel momento sfumò come se non fosse mai esistita, e un brivido mi corse lungo la schiena, mettendomi subito in agitazione. Ebbi appena il tempo di aprire la bocca per metterlo in guardia, prima che il fragore dello sparo di un’arma di grosso calibro e di una finestra che andava in mille pezzi rompessero il silenzio che regnava in casa, assordandoci entrambi. Stephen si gettò di lato per evitare di essere colpito da un secondo proiettile, accostandosi contro il muro prima di lasciarsi scivolare lungo di esso. Incredulo, raggelato e spaventato, dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per convincere le gambe a muoversi anche solo di poco, facendo incerto qualche passo in quella direzione, senza riuscire ad aprir bocca. Gli occhi verdi e dilatati di Stephen si puntarono su di me, ma anche lui restò in silenzio, arrischiandosi a sporgersi un po’ oltre lo stipite della porta per valutare la situazione. Però dall’interno non provenne nessun altro suono, dunque si alzò; mentre lui controllava la camera e cercava di capire il punto esatto da cui avevano sparato, io mi soffermai sui fori di proiettile sul muro, esattamente dove poco prima c’era Stephen. Aveva rischiato maledettamente grosso.
    «Quella stronza è passata alle maniere forti», lo sentii dire dall’interno della stanza, e fu con fare guardingo che entrai a mia volta, quasi mi aspettassi di vedere un sicario sbucare fuori dall’armadio. Però quella spiacevole sensazione che mi aveva colto poco prima era scomparsa, e oltre alla finestra rotta e quelli che sembravano due mattoni non c’era nient’altro.
    Con il cuore che ancora batteva furente nel petto, domandai: «Che vuoi dire?»
    Stephen non rispose subito, ma sventolò un biglietto. «Era legato a quella pietra», mi disse, indicando quella poco distante dalla finestra. «“Questo era solo un avvertimento. La regina nera ha fatto la sua mossa, sta al re bianco giocare, adesso”», si lasciò sfuggire uno sbuffo palesemente disgustato, appallottolando il foglio prima di comprimerlo nel palmo di una mano. «Devo ammettere che mi aspettavo un metodo più elegante da una signora come lei», soggiunse sarcastico, forse per sdrammatizzare.
    Deglutii senza nemmeno rendermene conto. «Sei certo che sia stata lei?» gli chiesi, dandomi dello stupido da solo per quel quesito, e lui difatti si lasciò sfuggire una falsa risata.
    «E chi altri potrebbe mai essere stato? Anche il biglietto parla chiaro».
    Feci qualche altro passo verso di lui, togliendogli quella palla di carta da mano prima di guardarlo in viso con fare deciso. «Allora devi chiamare la polizia».
    «E a cosa servirebbe?» mi domandò in risposta. «Questa non è nemmeno la calligrafia di Margaret, anche se è esattamente ciò che avrebbe scritto lei. La accuserei nuovamente senza prove e la polizia non prenderebbe neanche in considerazione il caso. Ha troppi poliziotti corrotti dalla sua parte, quella puttana».
    Rifiutando di credere che si stesse arrendendo a quel modo, senza nemmeno provare a continuare a combattere, mi infervorai. «Ma non puoi nemmeno aspettare che quella donna faccia qualcosa di peggio, dannazione!» esclamai, lasciandomi sopraffare dalle mie emozioni e dal sentimento che da un po’ di tempo a quella parte avevo cominciato a provare per il mio miglior amico. Nonostante sapessi che quello non era lo Steve che conoscevo, il mio cuore si rifiutava di lasciare che gli eventi si rincorressero.
    Quel mio comportamento, però, fece solo accigliare Stephen. Mi afferrò la mano con cui stringevo il foglietto appallottolato che gli avevo tolto e mi costrinse a guardarlo attentamente in viso, aggrottando le folte sopracciglia scure. «Perché ti interessa così tanto la mia incolumità?» mi domandò, e dal tono che utilizzò apparve piuttosto sospettoso. In altri momenti non gli avrei dato torto - in fin dei conti per lui ero un tipo che non aveva mai visto e che gli era piombato in casa d’improvviso -, ma la mia mente continuava a comparare la sua figura a quella del vero Steve, aggiungendo persino l’avvenimento a cui era scampato solo pochi minuti prima.
    Mi umettai le labbra senza rispondere, quasi stessi cercando inutilmente le parole giuste per farlo. Cosa mai avrei potuto dirgli? Sebbene gli avessi raccontato dei miei viaggi, non avevo affatto accennato che lui fosse identico al mio miglior amico, e mi ero tenuto ben alla larga dal dirgli che provavo più di quel semplice tipo di affetto nei suoi riguardi. Mi avrebbe sbattuto fuori a calci o mi avrebbe sparato sul serio, se lo avessi fatto. Optai dunque per una mezza verità. «Se ti succedesse qualcosa... non potresti più difendere la miniera dalle grinfie di Margaret, giusto?» gliela misi su quel piano, vedendolo accigliarsi. «Concedimi dunque di preoccuparmi per la tua vita».
    Stephen rimase senza parole, ma mi lasciò andare, facendo giusto un passo indietro come se volesse ristabilire le distanze. Sembrava quasi scombussolato e non riuscii a capirne il perché, ma lui non si degnò di darmi nessuna spiegazione. Si diresse solo verso un mobiletto in noce per aprire uno dei cassetti, tirando fuori un pigiama a righe che persino da lontano sembrava pesante, caldo e confortevole. Quando agguantò anche l’intimo, ripose tutto uno sopra l’altro prima di portarmelo e porgermelo senza garbo. «Prendi», bofonchiò, e io allungai una mano senza farmelo ripetere due volte. Non volevo farlo incazzare più di quanto non sembrasse già. «Il bagno è in fondo al corridoio, seconda porta sulla destra. La colazione è alle otto. Alle nove andremo ad incontrare una persona, quindi vedi di farti trovare pronto. Non ammetto ritardi. Oh, un
’ultima cosa». Mi gettò uno sguardo più che eloquente, talmente serio che, ne ero certo, sarebbe stato capace di trapassarmi lanima, se avesse potuto. «Sappi che non ho intenzione di lasciarle fare ciò che vuole né di scappare. Non sono il tipo di persona che fugge dinanzi alle cose». Con quell’ultima nota diplomatica, Stephen indicò che, almeno per lui, quella nostra conversazione si poteva definire chiusa.
    Si prospettava davvero una lunga nottata, sempre se non fossi riuscito a tornare a casa prima dell’alba. E io, purtroppo, avevo cominciato a non esserne più tanto sicuro.






[1] Uno dei the più famosi in Inghilterra. Il suo sapore e il suo aroma si distinguono grazie all’aggiunta di un olio estratto dalla scorza di bergamotto. Il nome deriva dai Jacksons di Piccadilly, che ne rivendicarono la paternità.


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