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Autore: My Pride    27/06/2011    2 recensioni
I understand that there’s probably a link between our worlds, even if it may be twisted in ways that are cruel at times and kind at others.
The world is inside of you.

Avete mai sentito parlare di esperienze pre-morte? Io ero stato uno di quelli che non aveva mai creduto a cose del genere, o almeno fino a quando non era capitato proprio a me.
È alquanto bizzarra la velocità con cui sembrano cambiare i punti di vista, certe volte. E altrettanto strambo è il modo in cui eventi di questo tipo, per quanto rari, ti precipitino addosso, lasciandoti letteralmente senza fiato. Non si è mai certi di ciò che la vita ti riserva finché non ti accadono le cose più impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile verità dell’essere.
[ Prima classificata al contest «Scacco matto!» indetto da Fe85 ]
[ Prima classificata allo «Slash e Femslash contest!» indetto da MistyEye ]
[ Prima classificata al contest «Romance in pain» indetto da LoveSomebody ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Breaking the World Series ~ Bonus Track' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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ATTO IV: LONDRA › ANNO APPROSSIMATIVO 1985
LA FINE DEL SOGNO
 
    Erano trascorsi quasi dieci giorni dal mio arrivo in quella città così simile a Londra, e ancora non ero stato in grado di ritornare alla mia epoca in nessun modo.
    Nel tempo passato con quello Stephen, avevo parzialmente imparato a conoscerlo per quello che era e non per quello che credevo che fosse, e, sebbene tra noi ci fossero ancora delle incomprensioni e dei momenti in cui pensava che io straparlassi, sembrava stesse cominciando a rendersi conto che, seppur in un’altra vita, in un altro tempo o in un’altra dimensione, ci conoscevamo più di quanto lui volesse ammettere a se stesso. Era ancora scettico, però, esattamente come la prima mattina in cui ci eravamo ritrovati a fare colazione insieme; eravamo usciti come aveva annunciato lui, poi, incontrandoci con un certo Dawson Morrison, un vecchio avvocato che un tempo aveva lavorato per la famiglia O’Neal. Aveva blaterato per ore ed ore con Stephen senza che io capissi un accidenti di niente.
    Io ero stato costretto a seguirlo solo perché non si fidava a lasciarmi solo in casa - e a ragione, avrei detto -, e di spostare la data per incontrare quel tipo neanche a parlarne. Così ero rimasto seduto su una poltrona ad ascoltarli ciarlare senza potermi però muovere, quasi fossi stato un bambino di tre anni o un detenuto agli arresti domiciliari. Quando tutto era finito, avevo ringraziato l’Onnipotente per l’aver fatto terminare quello strazio, guadagnandoci un’occhiataccia da Stephen prima che mi guidasse al Cafè in cui andava sempre a pranzare. E a distanza di dieci giorni, durante i quali non erano mancate nuove minacce, ci trovavamo ancora una volta lì per far colazione. La bella insegna che recitava Illusions, dreams and farplane
[1] era spenta, ma riusciva comunque ad attirare talmente tanti clienti grazie ai suoi colori sgargianti che quasi me ne meravigliavo.
    Seduti a quello che avevo scoperto essere il solito tavolo di Stephen, scrutavamo entrambi il menù in silenzio, non volendo impelagarci momentaneamente in nessun tipo di discussione. Fuori aveva ricominciato a nevicare, e candidi fiocchi cadevano ad imbiancare le strade e i marciapiedi, cogliendo impreparate le persone che non avevano ancora trovato riparo. In quel Cafè dal gusto un po’ retrò si stava decisamente bene, invece, e l’atmosfera creata dal chiacchiericcio degli altri clienti e il calore che si diffondeva nel locale erano confortanti.
    «Cosa vi porto oggi, Steve?» Janet, la giovane cameriera che lavorava all’Illusion fino alle cinque del pomeriggio, si era accostata al nostro tavolo e sorrideva raggiante, stringendo a sé penna e blocchetto mentre fissava Stephen con occhi sognanti. Avevo capito sin dal primo sguardo che stravedeva per lui, ma il diretto interessato sembrava non averci fatto caso o non curarsene affatto. Con dispiacere della ragazza, c’era da aggiungere.
    Stephen alzò piano gli occhi dal menù e guardò me prima di spostarsi verso di lei, sorridendo appena in risposta per pura e semplice cortesia. «Per me il solito», disse, guardando nuovamente me subito dopo. «Tu cosa prendi?» mi chiese, e mi affrettai ad abbassare ancora una volta gli occhi sul menù per dare una scorsa alle cibarie.
    «Credo che prenderò la specialità della casa», annunciai, al che Janet si abbassò un po’ verso di me, ma solo dopo aver controllato attentamente che il capo non guardasse.
    «Detto fra noi, quella roba fa schifo», bisbigliò, nascondendosi la bocca con una mano per far sì che non la notassero. «Ti consiglio il bacon o le uova strapazzate. Sono decisamente più commestibili».
    Mi accigliai, ma mi sforzai di abbozzare un sorriso. «Vada per le uova, allora», rettificai, e lei si strinse contro i piccoli seni il blocco per gli appunti, accennando con il capo ad un saluto e facendo a Stephen quello che mi sembrò un occhiolino.
    Sebbene una minuscola parte di me si stesse rodendo il fegato di gelosia ingiustificata, mi lasciai sfuggire uno sbuffo ilare. «Tra voi non è successo niente o fai solo finta per non farla finire nei guai?» domandai con il tono più distratto che riuscii a trovare, ma ne uscì solo una pessima imitazione. Sembrava più il rimprovero di una moglie al marito che aveva appena guardato il sedere d’un’altra donna.
    Sollevando un sopracciglio e sistemando come se nulla fosse il colletto del giaccone che indossava - si era rifiutato di toglierlo anche se l’interno del Cafè era piuttosto caldo -, Stephen mi rivolse il primo sorriso malizioso e sarcastico che gli avessi visto da quando avevo messo piede in quell’universo parallelo. «Perché non provi a indovinarlo con i tuoi poteri, ciarlatano?» rimbeccò, tornando a studiarsi tranquillo il menù sebbene non ce ne fosse per niente bisogno. Un modo come un altro per dirmi di tenere la bocca chiusa, supposi. Forse - anzi, sicuramente, mi corressi - quelle mie scenate che puzzavano un po’ di gelosia erano fuori luogo.
    Janet tornò una quindicina di minuti dopo con tutto ciò che avevamo ordinato, compresi due bei caffè amari che offrivano come omaggio ad ogni cliente. Posò dinanzi a noi le rispettive pietanze, salutandoci ammiccante prima di scattare verso due tavoli più in là, dove una coppietta la stava richiamando con una mano. Nuovamente soli, o almeno per così dire, io e Stephen ci concentrammo solo sul nostro cibo, evitando ancora una volta qualsiasi tipo di conversazione.
    Fu una colazione noiosa e silenziosa, quella. Non parlammo nemmeno di come avremmo potuto agire riguardo a Margaret, come se quella, per il momento, dovesse restare una questione arginata. Eppure il tempo passava e noi non facevamo nessun progresso, mentre lei continuava a mandare i suoi messaggi enigmatici e le sue convocazioni per Stephen, alle quali lui non presenziava mai. Io ero ancora dell’idea di raccontare tutto alla polizia, specialmente da quando avevano tentato di sparargli e in seguito di investirlo - era successo quasi sei giorni addietro -, ma quello stupido era convinto che così facendo avremmo solo peggiorato la situazione. Non ero naturalmente d’accordo e cercavo di fargli cambiare idea da ormai dieci giorni, senza però ottenere nessun risultato considerevole. E più aspettavamo, più quelle sensazioni negative che imperversavano nel mio animo continuavano. Davanti ai miei occhi, ormai sempre più spesso, scorrevano frammenti di visioni che mi mostravano solo scene confuse e sfocate, come se si trattasse di una vecchia pellicola che non sarebbe mai più tornata nitida come un tempo. E più quelle visioni si presentavano, più la mia ossessione di porre fine a quella storia aumentava, spingendomi a divenire sempre più pressante nei confronti di Stephen.
    Dopo aver finito di mangiare, sorseggiai il caffè con una certa ansia, facendo saettare gli occhi a destra e a manca con fare guardingo, quasi mi aspettassi di veder piombare in quel Cafè un qualche pericolo per l’incolumità di quello che era ormai diventato il mio protetto. In altri momenti sarebbe stato divertente passare del tempo con Steve - il mio Steve, rettificai -, ma la situazione in cui io e quel sosia ci eravamo ritrovati non era di certo una delle migliori.
    «Se hai finito, possiamo andare», disse Stephen di punto in bianco, controllando il proprio orologio. «Oggi faccio volontariato in ospedale e non posso arrivare in ritardo».
    Ingollai un altro sorso di caffè, sollevando al tempo stesso un sopracciglio per rendere palese il mio scetticismo. «Fai volontariato?» gli domandai, lasciando trasparire dalla mia voce anche un pizzico di ammirazione. «Pensavo che, con tutti i soldi che avessi, te ne stessi tutto il giorno seduto su una poltrona in ufficio a dirigere chissà quale grande azienda».
    Steve sbuffò ilare, alzandosi in piedi mentre afferrava al tempo stesso il portafoglio dalla tasca interna del giaccone. «Diamine, mi sembra di sentir parlare mio padre, pace all’anima sua», constatò sarcastico. «Lavorare in ospedale, anche se occasionalmente, mi fa sentire... bene. In un ufficio appassirei senza aver mai fatto qualcosa per chi ne ha davvero bisogno».
    Per quanto morissi dalla voglia di farlo, lui non mi permise di aprir bocca, quando terminò; lasciò sul tavolo i soldi per pagare il conto, allontanandosi dal tavolino che avevamo occupato fino a quel momento per avviarsi verso l’uscita, senza farmi cenno di seguirlo né tanto meno richiamandomi per impormi di darmi una mossa. Non seppi perché lo fece, ma quello di cui fui certo fu ben altro: l’ospedale, per Stephen, era tutta la sua vita. E lo costatai anche quando ci ritrovammo dinanzi all’edificio stesso - di una maestosità tale da renderlo impressionante, con quel grande giardino e gli alberi sempre verdi innevati -, dove lui sembrò così diverso dallo Stephen che avevo visto fino a quel momento. Assegnato al reparto di pediatria, quando si ritrovava in compagnia dei bambini sembrava diventare una persona completamente diversa: rideva con loro, scherzava, cercava di tener alto il morale giocando o mostrando semplici trucchi di prestigio, incantando loro e anche me. Sally, una bambina sordomuta di quasi otto anni, sembrava essere quella che più si era legata a lui. Stephen aveva imparato il linguaggio dei segni per parlarle e capirla, instaurando con lei un rapporto speciale e profondo che andava avanti da due anni, ormai. La considerava come una sorellina da proteggere, e più lo vedevo muovere le mani e parlare a gesti, in quel momento, più non riuscivo a capacitarmi di quel suo lato che pareva dolce e sensibile. Forse con il mio Steve crederlo sarebbe stato più facile.
    Come gli altri volontari, passai le restanti ore ad occuparmi a mia volta dei bambini, raccontando loro storie fantastiche o grandi classici della letteratura. Mi inoltrai con loro nel tetro castello della Bestia, e seguendo i passi di Belle riuscimmo a spezzare l’incantesimo che gravava sul principe; ci immergemmo negli oceani più profondi, vivendo la tragica storia di una giovane sirenetta innamorata di un umano; cademmo insieme ad Alice nella tana del Bianconiglio, bevendo il the dal Cappellaio Matto e fuggendo dalle guardie di carta della regina di cuori, spaventati dalla consapevolezza che lei volesse tagliarci la testa; solcammo i mari alla ricerca del misterioso tesoro, intonando canzoni piratesche insieme al giovane Jim; volammo oltre i cieli di Londra, librandoci nelle correnti in compagnia di Peter Pan, che ci scortò all’Isola che non c’è dove conoscemmo pirati, indiani e bimbi sperduti
[2] ; e più raccontavo, più le espressioni allegre, stupite, spaventate e divertite dei bambini mi facevano sentire un piacevole calore all’altezza del cuore. Stephen si era persino preso volontariamente l’incarico di farmi da interprete per la piccola Sally, i cui occhi luminosi ed estasiati mentre narravo tramite Steve erano valsi più di mille parole.
    Mi dispiacque quando arrivò il momento di lasciare l’ospedale. Non mi ero più sentito così utile da quando avevo smesso di giocare a baseball, e la cosa mi rendeva felice come non lo ero più stato da tanto. E forse fu proprio quel sorrisetto inebetito che era spuntato sulle mie labbra a richiamare l’attenzione di Stephen, che mi picchiettò distratto una spalla come se volesse riportarmi alla realtà.
    Ci eravamo allontanati dall’ospedale solo di una ventina di metri, e intorno a noi si vedeva il vasto giardino che lo circondava, con i suoi alberi spogli e i cespugli ormai innevati che a primavera sarebbero stati un sicuro spettacolo. «Te la sei cavata bene», mi disse Stephen quando tornai con i piedi per terra. «Ci sapevi davvero fare, con i bambini. Hai moglie e figli, a casa?»
    Avrei risposto alla leggera se il mio cervello non avesse riattivato gli ingranaggi, facendomi capire per bene il senso di quella frase. Mi affrettai dunque ad agitare entrambe le mani in risposta, guardandolo stralunato. «Assolutamente no!» esclamai, nemmeno avesse appena detto un’eresia. E fu vedendo la sua espressione accigliata che cercai di fare pace con la mia boccaccia, provando a riformulare correttamente la risposta. «Nay, non ho famiglia», dissi in tono più calmo. «Però mi sono sempre piaciuti i bambini».
    «Quindi non c’è nessuno che aspetta il tuo ritorno?» mi chiese ancora, e nell’osservare quei suoi occhi verdi - così profondi, scintillanti e immoti - fui quasi tentato di rispondere semplicemente «Ci sei tu». Fortunatamente per me, però, mi trattenni, sebbene la voglia di farlo scorresse come fuoco vivo nelle mie vene.
    «Non è importante», tagliai lì il discorso, affrettando il passo per uscire il prima possibile da quel giardino. Attraversai il cancello senza attendere che Stephen mi seguisse, cosicché fu costretto a correre per raggiungermi, scalpicciando sulla ghiaia del vialetto.
    Mi si accostò quando ci ritrovammo entrambi fra le strade di quella bizzarra città così simile a Londra. «Perché parli in questo modo?»
    Perché? Semplice: pur preoccupandosi per me, probabilmente Steve non avrebbe provato la stessa ansia che avrei provato io se fosse sparito per giorni interi. Forse era stupido, ma continuavo ad aspettarmi che Steve si comportasse come un amante premuroso anziché come un amico fidato. Dio, mi facevo pietà da solo per quel lato del mio carattere. «Se te lo dicessi, non mi guarderesti più con gli stessi occhi di adesso».
    «Potresti provarci comunque, Juggernaut».
    Gli attimi di silenzio che passarono dal momento in cui lui pronunciò quella semplice frase parvero interminabili. Fermo e spaesato in mezzo al marciapiede, a ridosso di un paio di villette dai giardini coperti da un manto di neve, non ebbi il coraggio di voltarmi verso Stephen per guardarlo negli occhi, ma incredulo gli chiesi: «Come mi hai chiamato?»
    Percepii distintamente la tensione impadronirsi dei muscoli del suo corpo, come se ognuno di essi, tendendosi fino allo spasimo, fosse divenuto teso come una corda di violino e avesse provocato un suono stridulo che mi permise di sentirli. «Jonathan. Come altro avrei dovuto chiamarti?» ribatté, ma il suo tono sembrava incerto, come se nemmeno lui si fosse reso conto delle sue stesse parole. Era mai possibile che in realtà la mia mente avesse fantasticato, e che quel tono fosse dovuto allo stupore del mio quesito? Avevo forse immaginato tutto, dunque? La testa mi doleva ad ogni congettura, e continuare a pensarci non giovava come avevo creduto. Forse la soluzione più semplice era che stavo pian piano impazzendo.
    Abbassai le palpebre e mi portai entrambe le mani al capo per massaggiarmi le tempie con due dita, traendo un lungo sospiro. «Niente, niente. Lascia stare», gli dissi semplicemente, troncando così quella conversazione senza che Stephen replicasse o cercasse di far pressione per costringermi a parlare.
    Arrivammo dinanzi al cancello della sua villetta alle otto passate, con il sole che era ormai tramontato da un bel pezzo. Le uniche luci provenivano dalla lampadina sotto il portico di Stephen e dai lampioni disposti strategicamente su entrambi i marciapiedi che portavano alle case, ma non bastavano ad illuminare perfettamente la zona circostante, rendendola fredda e tetra più di quanto non lo sembrasse già. Era come se ogni ombra, suono o fruscio venisse irrimediabilmente stravolto, facendomi sentire come un bambino che ha paura di vedere se ci sono mostri sotto il letto. Avrei voluto cercare in quello Stephen la rassicurazione che mi occorreva, però sapevo che non avrei potuto farlo proprio perché lui non era il mio Steve. L’aveva ampiamente dimostrato appena poche ore addietro.
    Una volta aperto il cancello, attraversammo il vialetto lasciando profondi solchi nella neve che lo ricopriva come una sottile lastra di ghiaccio, e io ringraziai di aver indossato le scarpe adatte. Le mie solite nike sarebbero servite veramente a poco, lì. Stephen spalancò la porta di casa e premette l’interruttore, ed entrambi venimmo subito investiti dalla morbida e confortante luce arancione dell’ingresso, per quanto ci avesse accecati a causa di tutto quel tempo passato nella semioscurità. Mi liberai del cappotto rabbrividendo, sfregando fra loro le mani mentre con la coda dell’occhio seguivo i movimenti di Stephen, diretto verso il soggiorno come suo solito; affrettai il passo per raggiungerlo, ma lo trovai impalato a pochi metri da una delle poltrone e mi accigliai. Facendo qualche passo avanti, mi apprestai a chiedergli che cosa avesse, ma venni preceduto da una calda voce femminile che esordì con un: «Ce ne hai messo di tempo per tornare a casa, Steve».
    Non compresi subito da dove provenisse quella voce dalla cadenza così sensuale e smielata, vedendo poi una fluente chioma fulva fare capolino dallo schienale della poltrona rivolta verso il caminetto. Il viso che mi ritrovai ad osservare apparteneva alla donna più bella che avessi mai visto: non aveva quella bellezza tipica delle top model o delle ragazze di Play-Boy che ero abituato ad osservare, bensì quella delle donne d’altri tempi giovani e colte, di quelle che per apparire splendide non avevano bisogno di trucchi pesanti, ma solo di un velo di rossetto sulle labbra morbide e piene; i capelli, legati in un’alta crocchia composta, erano di un rosso acceso, simile a quello delle foglie d’autunno o degl’ultimi bagliori d’un sole morente. Ma erano gli occhi ad attirare maggiormente l’attenzione: d’un marrone così scuro d’apparire quasi nero, quegl’occhi nascondevano nei loro recessi un qualcosa d’indefinito e spaventoso, ma al tempo stesso così profondo ed ammaliante da lasciare sconcertati.
    Stephen, che non sembrava esserne rimasto abbagliato quanto me e se ne stava in disparte, serrò le labbra in una linea sottile al dir di quella donna. «Margaret», cominciò pacato, mettendomi così al corrente di chi ella fosse. «Chi ti ha dato il permesso di entrare in casa mia? Ma, soprattutto, come sei entrata e cosa ti ha spinto a presentarti di persona?»
    La risata di quella donna fu come acqua cristallina precipitata a valle dalla più alta sorgente rocciosa, uno scampanellio piacevole e terrificante. «Non credi sia ovvio, mio piccolo Steve?» lo schernì. «Le lancette corrono, tic tac».
    «Esci immediatamente da qui», le ordinò Stephen, e, mentre li ascoltavo, non potevo fare a meno di darmi dello stupido per non aver previsto quell’incursione. I miei pensieri sui sentimenti che provavo per Steve mi avevano offuscato la mente, e non mi avevano permesso di rendermi conto in tempo del pericolo imminente. Ero stato un perfetto idiota.
    Fu proprio in quel mentre che quella donna parve accorgersi anche della mia presenza, perdendo di poco d’occhio Stephen per voltarsi verso di me e sbattere le lunghe e graziose ciglia scure, rivelando la sua palese perplessità. «E tu chi saresti, di grazia?» mi domandò con cortese stupore, sebbene non avesse mancato di far trasparire dalla sua voce una nota educata. Beh, su quel punto era una vera signora.
    La guardai incerto, facendo scorrere lo sguardo dai suoi occhi di pece a quelli verdi di Stephen, quasi stessi chiedendo il suo permesso per risponderle. Quella donna mi trasmetteva una strana sensazione, la stessa che avevo provato nello sfiorare la maniglia della mia macchina. Era come se Margaret fosse avvolta da un’aura oscura che offuscava tutto il resto, facendo sì che mi sentissi inquieto come se avessi a che fare con uno psicopatico pronto ad accoltellarmi. Decisi però di togliermi il dente e risponderle per le rime, ma Stephen alzò un braccio e fece un cenno nella mia direzione, zittendomi. «Non occorre che tu sappia chi è», le sbottò contro, e io stornai bruscamente lo sguardo verso di lui.
    «Non ho bisogno che sia tu a parlare per me, Steve», replicai secco, enfatizzando il suo nome e venendo così fulminato da una sua occhiataccia.
    «Sta’ zitto e vedi di tirarti fuori da questa storia».
    «Ci sono dentro fino al collo, invece».
    «Tu non c’entri niente, adesso fa’ silenzio».
    «Discordia fra le file, Steve?» esordì sarcasticamente Margaret, intromettendosi senza remore nella nostra discussione. «Se tu e il tuo amichetto avete finito di chiacchierare, direi che potremo passare alle cose serie... non credi anche tu?»
    La rapidità con cui Stephen distolse lo sguardo da me per puntarlo verso di lei fu impressionante. Fece poi due passi nella sua direzione, incombendo sulla sua esile figura come un titano. «Io e te non abbiamo nulla di cui parlare, Margaret».
    «Ah, no?» fece lei, portandosi due dita alle labbra per accarezzarsi distratta quello inferiore, il viso rivolto in alto per far sì che i suoi occhi incrociassero quelli del suo interlocutore. Non potevo vederla con precisione, ma mi sembrava che quelle polle scure scintillassero di un qualcosa che sfociava quasi nella follia. «Mi risulta che tu abbia ricevuto la cortese visita dei miei legali, non è così?»
    «Non so di cosa tu stia parlando», ribatté fermamente lui.
    «Certo che lo sai, caro Stephen». Il tono pacato con cui aveva parlato fino a quel momento stava scomparendo pian piano, lasciando spazio ad una cadenza piuttosto irritata. «Ma hai deciso di ignorare deliberatamente la cosa, chiudendoti nella piccola utopia che ti sei creato. Adesso però è tempo di saldare il conto... la partita sta per concludersi».
    Non seppi perché, ma il modo in cui proferì quelle ultime parole fu capace di farmi rabbrividire da capo a piedi più del freddo pungente proveniente da fuori, rizzandomi i peli sulla pelle. Provai quindi a richiamare Stephen per farlo indietreggiare, ma né lui né Margaret sembrarono prestarmi attenzione. Era come se si trovassero entrambi in un mondo costruito appositamente per loro, un mondo fatto di inganni, intrighi e pianificazioni di mosse, quasi stessero entrambi giocando una pericolosa partita a scacchi. Però non mi arresi, avvicinandomi io stesso per strattonare Stephen, incassando le colorite imprecazioni che rivolse al mio indirizzo mentre tenevo lo sguardo fisso su Margaret. «Le converrebbe fare quanto detto poco fa e lasciare questa casa, signorina», cercai di persuaderla, tentando di essere il più cortese possibile e di evitare al tempo stesso di fare in modo che il senso di inquietudine dentro di me scemasse.
    Il sorriso che Margaret mi rivolse, però, fu solo capace di far divampare ancora una volta quella sensazione, come se fosse un fuoco addormentato sotto le ceneri. La vidi scostarsi dal viso qualche ciuffo ribelle di capelli rossi che era sfuggito alla crocchia, sistemandosi la borsetta sottobraccio e lisciandosi il bel vestito nero che indossava. «Dunque è così, caro Stephen?» chiese, scostando lo sguardo verso di lui così lentamente da risultare snervante. «Tu e il tuo amichetto volete che me ne vada a mani vuote, senza nemmeno che mi sia presa una piccola fetta di ciò che mi spetta?»
    Quella sua costatazione strappò a Stephen un’amara risata. «Qui non c’è niente per te, Margaret. Quel pezzo di carta a cui aneli così disperatamente resterà qui. Per quel che mi riguarda, puoi anche andare a fare in culo».
    Nel sentirlo, un mesto sospiro sfuggì dalle labbra di Margaret, e, dopo aver stretto a sé la piccola pouchette e abbassato le palpebre dalle lunghe ciglia, guardò nuovamente Stephen con quei suoi profondi occhi neri. «Sappi che mi ci hai costretta tu», asserì, infilando una mano nella borsetta per tirar fuori una pistola con una destrezza unica, con la stessa abilità con cui un prestigiatore tirava fuori un coniglio dal cilindro. Una calibro 22, una vera arma per signore, apparve quasi per magia nelle mani di Margaret, che divaricò le gambe come se si stesse preparando a far fuoco.
    Io e Stephen indietreggiamo e trattenemmo esclamazioni di stupore e terrore, tenendola d’occhio con una sincronia che quasi mi parve impossibile. «Metta giù la pistola,» la esortai, alzando lentamente le mani per rivolgere i palmi verso di lei, come se volessi spingerla ad abbassare la canna, pericolosamente puntata su di me. «Non è necessario, mi creda».
    «Che intenzioni hai, Margaret?» domandò invece Stephen, con un’ombra di preoccupazione nella voce sommessa. E come dargli torto? Ero terrorizzato anch’io.
    Lei, però, non parve dare ascolto a nessuno dei due, facendo saettare lo sguardo dall’uno all’altro con fare stralunato. «Mi ci hai costretta tu», ripeté, e nonostante la sua espressione la sua voce suonò piatta e incolore. «Sei stato tu a dire che avrei dovuto strappare il contratto dalle tue fredde dita, ed è esattamente ciò che ho intenzione di fare», puntò la pistola contro di lui. «Scacco matto, Stephen. Fine della partita».
    Nel silenzio in cui la casa era immersa, la detonazione risultò assordante. Il susseguirsi degli eventi sembrò quasi come vedere un film a rallentatore: vidi il proiettile sputato fuori dalla canna fumante della pistola; il sorriso sardonico e folle dipinto sulle labbra di Margaret; Stephen che tentava di scartare di lato per evitare il colpo, gettandomi a terra con uno spintone mentre mi urlava qualcosa di disarticolato. Tutto parve finito, ma cantai vittoria troppo presto: un altro sparo risuonò cupo alle nostre orecchie, seguito dalla voce suadente di Margaret.
    Nella momentanea sordità, riuscii a sentirla a malapena, ma non furono le sue parole ad attirare la mia attenzione, bensì il modo in cui Stephen si premeva una mano sul petto, senza fiato. Quella stessa mano se la portò poi dinanzi al viso, osservando il sangue che la macchiava come se non se ne capacitasse. E anch’io mi rifiutai di credere a ciò che stavo osservando con completo orrore, terrorizzato.
    «Steve!» urlai con tutto il fiato che avevo in gola, così tanto da infiammarmi le corde vocali, vedendo gli occhi sbarrati di Stephen fissarmi per un’ultima volta prima che lui cadesse riverso al suolo. Boccheggiante e stravolto dal dolore, ebbi appena il tempo di voltarmi di scatto in direzione di Margaret prima che il mio mondo si riducesse unicamente alla bocca della sua pistola.





[1] Anche se il nome sembra del tutto casuale - farplane è ad esempio il modo in cui viene chiamato l’Oltremondo in Final Fantasy X -, sarà possibile capirlo solo dopo aver finito di leggere l’intera storia, o almeno quella è l’intenzione.

[2] Le opere prese in considerazione, in ordine come sono state citate, sono le seguenti: “La Bella e la Bestia” di Jeanne-Marie Leprince (1757) ; “La sirenetta” di Hans Christian Andersen (1836) ; Alice in Wonderland” di Lewis Carrol (1865) ; “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson (1883) e “Peter Pan” di James Matthew Barrie (1902).  Ognuna delle storie citate ha la trama originale non riveduta dalla Walt Disney.


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