Nickname: OperationFailed
Titolo: Not a case. A person
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson, Mycroft Holmes, altro
personaggio
Rating: Pg13
Avvertimenti: Pre-slash,
angst
Conteggio
parole:
2499 ( fiumidiparole )
Riassunto: Mycroft consegna una
lettera a Sherlock, dopo anni dalla sua scrittura. E’ di
Sherrinford Holmes.
Ma chi è
Sherrinford, e cosa simboleggia nel trionfo di allegorie che
s’intrecciano in questa storia?
Note:
Questa
fic partecipa allo sherlockfest_it e, a discapito del prompt,
non ha nulla di romantico.
I sottointesi sono
più delle parole, perciò drizzate le antennine e
impegnatevi, scoprirete in fondo se li avrete captati *w*
E vi prego, se non
avete voglia di una lettura un minimo impegnativa, non leggete.
Prompt: Sherlock/John, such
a big, big heart
Disclaimer: I
personaggi di John Watson, Sherlock Holmes e Mycroft Holmes non mi
appartengono, per loro fortuna, in quanto sono stati ideati da Sir.
Arthur Conan Doyle, senza il quale noi non saremmo qui a consumarci
cuore e cervello. Sherrinford Holmes appartiene al già
citato Doyle ed a William S. Baring-Gould, autore di
“Sherlock Holmes of Baker Street: A life of the world's first
consulting detective”. Londra appartiene a se stessa. Questa
fanfiction non è a scopo di lucro (anche perché
ci guadagnerei ben poco) e non intende offendere la
sensibilità di nessuno.
Aveva
dimenticato qualcosa? Controllò le buste salendo gli scalini
di Baker Street, ripassando mentalmente quel che mancava in casa.
E’ consigliato, comunque, guardare dove si mettono i piedi,
in particolar modo quando si è alle prese con una rampa di
scale, ma forse nessuno si è mai preso la briga di dirlo a
John Watson, quando era ancora un bambino. Il dottore, perso a contare
le bottiglie di latte e i pacchi di uova – per
assicurarsi di aver preso tutto –
inciampò nello spigolo di uno scalino, ritrovandosi in
ginocchio sulla spesa. Con un’imprecazione, si
risollevò in piedi e controllò le buste, illese
grazie a chissà quale miracolo. Impegnato a cercar le
chiavi, scomparse nei meandri di tasche che sembravano avere la stessa
magica proprietà della borsa di Mary Poppins, John non si
accorse che il portone gli si era aperto davanti, occupato da una
figura imponente, appoggiata in tutta la sua altezza ad un ombrello a
punta.
«John»
lo salutò Mycroft, inclinando il capo in un gesto di
cortesia. Il dottore, le mani occupate dalle buste alla rinfusa,
schiuse le labbra in un sorriso stupito, ebete persino, talmente era
meravigliato di vederlo.
«‘Giorno
Signor Holmes. Qual buon vento?»
«Sono
passato per un saluto» rispose alzando le spalle.
Il giorno in
cui Mycroft Holmes sarebbe “passato per un saluto”,
sarebbe stato probabilmente l’ultimo vissuto dal pianeta
Terra, e John lo sapeva. La spesa però gli pesava, e
oltrepassò la soglia diretto alla cucina, non prima di aver
lanciato un saluto rivolto al divano. Nessun segno di vita dal cervello
che vi era appollaiato in cima.
John
rinunciò ad appoggiare le buste sul tavolo,
poiché il caos che vi regnava sopra non avrebbe neppure
permesso di ospitare uno spillo. Andò quindi davanti al
frigo, tentennando un istante prima di aprirlo. Niente teste per
fortuna quel giorno, solo scaffali vuoti e molto più freddi
del normale. Quante volte gli aveva ripetuto che quella non era una
cella frigorifera, e che piuttosto che riempirla di residui umani
sarebbe stato meglio rifornirla di cibo! John infilò le
buste nelle scaffalature, senza nemmeno curarsi di fare ordine. Ci
avrebbe pensato più tardi. Tornò in salotto per
salutare Mycroft, ma lui non c’era già
più. Vederlo a Baker Street era tanto sconcertante quanto
raro, conoscendone la natura. Per questo John si voltò verso
il divano, pronto a chiedere spiegazioni. Su di esso meditava Sherlock
Holmes, lo sguardo fisso innanzi a sé, impegnato a rigirarsi
una lettera tra le mani. Se non fosse stato per quel gesto,
lo si sarebbe potuto scambiare per una statua. Non era tanto un
movimento ansioso, quanto più quel riflesso incontrollabile
che ci agita quando si è alle prese con un tizzone ardente.
Tentava solo di salvarsi la pelle dalle ustioni, Sherlock.
«Avevano
finito l’acido salicilico…»
tentò John.
Parlare ad un
muro sarebbe stato più produttivo, e il dottore si chiese
per un istante se avesse acquistato d’improvviso il dono
dell’invisibilità, visto che lo sguardo di
Sherlock lo trapassava, intento a catturare chissà cosa in
chissà quale dimensione.
«Va
tutto bene?» chiese poi, facendo un passo avanti. Attese una
risposta per qualche secondo, poi sollevò le sopracciglia e
andò in cucina a sistemare. Un atteggiamento simile non era
di certo cosa a cui il dottore era estraneo, specie se il detective era
alle prese con un caso.
John
uscì di casa, andò in ambulatorio,
passò in banca e comprò un paio di pizze, ma al
suo ritorno, Sherlock era nella stessa, identica posizione del mattino.
La sola differenza era nella lettera, usata ora da Sherlock per
grattarsi il capo.
«Sei
lì da otto ore. Non dovresti mangiare, o alzarti, o andare
in bagno?»
Ancora,
nessuna reazione. John lo guardò di traverso, indeciso se
fosse stato il caso di arrabbiarsi o preoccuparsi. Solo dopo essere
andato in cucina ed aver addentato un quarto di pizza – ed
erano passati diversi minuti – una voce si levò
dal divano.
«Le
hai contate?»
Sherlock
appoggiò i piedi scalzi sul tappeto con un movimento fluido.
La voce era
arrochita dal silenzio, e quando John la sentì, quasi si
strozzò con il boccone che stava masticando.
«Cough–cosa?»
biascicò, entrando in salotto.
«Le
ore»
John
alzò le spalle. «Ho solo pensato che facendo, che
so, una passeggiata, arriveresti prima alla soluzione»
«A
questo non c’è soluzione, John»
Il dottore lo
guardò, chiedendosi se davvero potesse esistere un caso
irrisolvibile per Sherlock Holmes. Rispostosi che no, non era possibile
– e che comunque Sherlock non l’avrebbe mai ammesso
– decise di cominciare a preoccuparsi. Facendo il giro del
divano, John si sedette per terra a gambe incrociate, in fondo ai piedi
di Sherlock, e lo guardò negli occhi. Nulla di diverso su
quel volto così caro ed enigmatico. Sherlock, da parte sua,
ignorò John e ruotò il capo, come per sgranchirlo.
«Stento
a crederci, Sherlock. Non ci crederei nemmeno se lo vedessi con i miei
occhi»
«Non
un caso» rispose l’altro con voce tagliente,
«una persona.»
John ebbe il
buon senso di non proferir parola, nonostante non fosse
d’accordo con Sherlock, che era un abile osservatore, al
quale nessun gesto sfuggiva, nessun pensiero. Cosa – chi, a
quel punto – era in grado di eludere il suo genio e risultare
irrisolvibile?
«Si
chiamava Sherrinford e ha fatto parte di ogni giorno della mia
vita»
Una pausa
s’insinuò tra le labbra di Sherlock, che a mento
alto fissava il nulla. La fierezza gli raffreddava il volto, gli occhi
erano un mare di piombo. Le braccia, abbandonate in grembo, ne
spezzavano l’immagine rigida, come alghe senza forze in
balìa dell’oceano. John incrociò le
braccia sulle gambe del coinquilino e vi poggiò sopra il
capo, teso in lunghezza quanto più possibile. Non voleva
farsi sfuggire quello che stava per raccontargli Sherlock, qualunque
cosa fosse.
«Era
speciale. Troppo. Aveva nel petto quel cuore che non mi è
mai appartenuto veramente. Un cuore doppio»
John
impallidì appena, incassando il capo tra le spalle.
«Questo
significa che voi eravate–»
«–fratelli»
Il dottore
sollevò il capo, guardò fin dentro gli occhi di
Sherlock, per cercarci la verità – o meglio,
l’anima. Quella però era nascosta da qualche parte
in fondo a lui, forse dietro una costola, o dentro a qualche vena.
Fingendo di non esistere.
«Non
me l’hai mai detto!»
Sherlock si
accigliò appena, forse rincorrendo un ricordo lontano, forse
irritato dall’interruzione di John.
«Non
me l’hai mai chiesto. Sherrinford Holmes, appena
più vecchio di me. Un miocardio grande almeno quanto il suo
genio. E ti assicuro che la sua intelligenza andava ben oltre quella
mia e di Mycroft»
John
boccheggiò. Più intelligente di Sherlock,
più intelligente di Mycroft?
«Cosa
è successo?» gli chiese, ormai calamitato dal
racconto del coinquilino. Sherlock, da parte sua, parlava come se fosse
stato impegnato nell’analisi di un cadavere, con la
distaccata obiettività di un medico legale. Non
un’inflessione in quella voce atona, che poteva fare
concorrenza ad una mitragliatrice, tale era la velocità con
cui sparava le parole. Esaminava la situazione, esponeva i fatti,
pareva quasi pensasse ad alta voce.
«La
stenosi aortica sopravalvolare non è esattamente una cosa da
nulla, dovresti saperlo»
John stava per
interromperlo, ma Sherlock lo precedette.
«Parlavo
di miocardio grande non a caso. Il suo aveva dimensioni doppie rispetto
a quelle di un giovane adulto in normali condizioni di salute»
«M–ma
esistono i trapianti, le–»
«Il
coefficiente di rischio era elevato, e lui non ci teneva
particolarmente a vedersela con un rigetto. Quando i medici gli
proposero l’intervento, lui sorrise e disse loro che non
aveva tempo per le scemenze. Io non mento quando dico che non ho un
cuore. L’aveva lui per entrambi, e con la sua morte io sono
rimasto senza»
John gli
strinse un ginocchio, forse voleva dargli un po’ di conforto,
forse il conforto lo cercava per se stesso. Rimasero un po’
in silenzio, sospesi nella condizione di galleggiamento che sempre
avvolge il ricordo di un triste passato.
«Inizialmente
era come noi. Correva e giocava e rideva e faceva tutte quelle cose
stupide tipiche dell’infanzia. Un cuore grande è
un cuore lento, però. Ha smesso di correre. Poi di
camminare. Mycroft inventava casi e io li risolvevo, così da
distrarlo e – soprattutto – farlo ridere un
po’. Sherrinford diceva che eravamo divertenti, ridicolmente
ciechi… Per un po’ ci guardava sbattere contro i
muri come pipistrelli senza sonar– come diceva lui
– poi ci rincorreva con la sedia a rotelle,
gridandoci che eravamo troppo lenti e ottusi e lanciandoci qualsiasi
oggetto avesse a portata di mano. Credo di avere ancora la cicatrice
della vecchia sputacchiera del nonno, da qualche parte dietro
l’orecchio»
Un sorriso
tradì la tensione di John, che con la mente rincorreva
quelle immagini radiose. Nascose poi il volto contro le gambe di
Sherlock, che gli immerse una mano tra i capelli. Non c’era
traccia di veemenza in quel gesto, che sembrava piuttosto
l’agonia di una formica risucchiata dalle sabbie mobili.
«Andavate
d’accordo?»
La mano di
Sherlock fermò la sua avanzata. John e le sue domande
idiote…
«Noi
Holmes ci detestiamo, è una tradizione di famiglia.
Sherrinford, poi, aveva una particolare concezione della sfera emotiva,
totalmente contrastante con la mia. Più adatta ad un
sentimentale come te. Sosteneva che fosse di vitale importanza
l’emozione provata dall’assassino e dalla vittima
al momento dell’omicidio, e che ancor più
importante fosse il coinvolgimento emotivo di colui che analizza il
caso. Era incredibilmente intelligente, ma su questo fronte non sono
mai riuscito a fargli aprire gli occhi. Era un tale testardo!»
Sherlock
sentì sulla pelle l’ombra di un sorriso
– attraverso il tessuto dei pantaloni. Erano le labbra di
John, schiusesi dopo aver sentito la sua ultima affermazione. Sherlock
sembrava il bue che dice cornuto all’asino!
Il dottore
inspirò il profumo del detective, e l’aria che
andava nei polmoni faceva male. Quel giorno faceva male, il volto
rigido di Holmes faceva male, la fragile e impalpabile natura umana
faceva male. Granelli di polvere che vogliono fermare il vento, umani
che lottano e lottano come titani, senza possibilità di
riuscita.
John era ormai
pervaso dal desiderio di vedere quel terzo Holmes, teso nel bisogno di
sfiorarne il volto di pellicola, come se accarezzare Sherrinford gli
avrebbe fatto scoprire di più su Sherlock.
«Hai
una fotografia?»
Sherlock
ritirò la mano dai capelli di John – mietendo
qualche vittima nella ritirata – e la strinse a pugno,
nascondendola tra le pieghe del divano, accanto alla busta ancora
sigillata.
«Non
mi serve. Non corro il rischio di dimenticarlo,»
John
sollevò il capo e fissò lo sguardo sul viso di
Sherlock. Con uno slancio, si tirò su dal pavimento e rimase
in ginocchio, le gambe non più incrociate sul tappeto.
Appoggiò una mano sul polso di Holmes e continuò
a guardarlo senza capire, in attesa.
«lo
vedo tutti i giorni,»
Sollevatosi
del tutto da terra, John si alzò in piedi, appena inclinato
verso Sherlock. Soffriva, dietro quegli occhi d’acciaio lui
soffriva – credeva John. Vedeva ancora il fratello, lo
scorgeva ogni giorno in allucinazioni ed immagini sfocate. Era
comprensibile. Il suo cuore, il dolore, la mancanza…
«nello specchio...»
La mano di
John mollò la presa, il braccio scivolò via con
un suono pieno di silenzioso sconvolgimento. Si lasciò
cadere sul divano, accanto a Sherlock. Questa volta Watson aveva capito
troppo in fretta per poterlo digerire. Il sangue gli picchiava nelle
tempie, la testa gli girava come calzetti in una lavatrice.
«Gemelli…»
sussurrò, sfinito.
«Due
gocce d’acqua, sì»
C’era
silenzio tra le pieghe di Baker Street. Il tacito sconcerto di un cuore
impazzito, il freddo ricordo di riccioli identici. Furono molte le
bolle d’aria che John Watson dovette inghiottire per
riemergere dall’immagine di due paia d’occhi grigi,
duri e luccicanti come perle in mezzo al cielo.
«Perché–perché
non mi hai mai detto nulla?»
Con un gesto
secco e del tutto improvviso, Sherlock si alzò, la busta
bianca stretta in mano. Percorse la stanza sino alla mensola del
camino, dove lanciò la lettera con un gesto stizzito.
John
seguì a bocca aperta il suo repentino cambio
d’umore.
«Non
ero a conoscenza delle tue doti di stregone»
ribatté seccamente Sherlock.
John si
arrese, evitando di cercare un senso nei gesti del coinquilino. Le sue
rispostacce avevano l’effetto di un secchio d’acqua
gelata, lasciandolo spesso incapace di ribattere. Aveva scoperto cose
incredibili quella sera, e forse proprio per quello John
evitò lo scontro. Rimase sul divano, aspettando che le idee
diventassero meno rumorose. Lasciando vagare gli occhi per
l’appartamento, il suo sguardo
s’incagliò nella lettera che Holmes aveva
abbandonato così sgraziatamente. Era tutto il giorno che se
la teneva stretta, e John era certo che centrasse con la storia di
Sherrinford. Non poteva essere altrimenti.
«Non
la leggi?» gridò rivolto alla cucina, in cui
Holmes si era rifugiato.
Tra il
clangore di vetro e pentole, Sherlock rispose che sarebbe stato
superfluo.
«So
già cosa c’è scritto»
«E
io posso leggerla?»
«Non
c’è motivo per cui tu lo faccia»
Il tono di
Sherlock non ammetteva repliche – come sempre – e
John deglutì. Anche qualche parola andò
giù con la saliva, e fu forse una fortuna. Si strinse la
gola con una mano e allungò il collo, in cerca
d’aria, poi scivolò fino al petto e vi si
fermò sopra, esitante. Spinse un po’ sul cuore, e
quello rispose. Era lì, pronto a fare il lavoro di due. Se
Sherlock non aveva più un cuore, John gli avrebbe prestato
metà del suo. Almeno quella sarebbe stata una buona scusa
per stare sempre l’uno accanto all’altro.
«Allora,
vogliamo andare a farla questa passeggiata?»
Sherlock
comparve sulla soglia, impegnato ad allacciare l’ultimo
bottone del cappotto. Era sconcertante la velocità con cui
poteva scomparire e riapparire, perfettamente vestito, scarpe ai piedi,
sciarpa in mano, preghiera muta nelle labbra appena incurvate
dall’ombra di un sorriso. John si alzò con fatica
dal divano, fatica non tanto fisica quanto più mentale ed
emozionale. Raccolse la giacca da una sedia e guardò il
coinquilino. L’altro lo fissò in risposta, e negli
occhi c’era la tempesta. Venti fortissimi che
s’intrecciavano, lottavano e scivolavano via, sconfitti. E
negli occhi si vedeva la forza, e il genio, e per un istante
– il tempo del bagliore fuggevole di una lucciola infuocata
– l’anima. John sorrise, come per dirle
“ben arrivata!”. Poi il portone si chiuse alle loro
spalle, e la lettera rimase sul camino. Rimarrà
lì per molto tempo, sarà coperta di polvere,
altre carte, vecchi orologi e nuovi pensieri.
La
verità è che Sherlock Holmes provava per quelle
parole sigillate lo stesso anelito ansioso che ha l’uomo nei
confronti delle fiamme. Bramoso di sfiorarla, è bloccato
però nel timore di bruciarsi, conseguenza naturale ed
inevitabile, prezzo da pagare per una carezza al calore. Impaurito
dalla carne che diventa cenere, e dalle parole che diventano tizzoni
ardenti.
La
verità è che Sherlock Holmes non aveva letto
quella lettera – non l’avrebbe mai fatto
– perché che aveva paura del puzzo dolciastro di
ferite da inchiostro.
“Mio caro Sherlock,
Prima o poi arriverà
questo momento.
Non vorrei privarti del tuo
cuore, ma sono certo che potrai affittare un po’ di spazio
nel petto di qualcun altro…
Ricordi quando–
_
Rieccomi qua! Se si
tratta di rompere le scatole io sono sempre in prima linea :D
Bando alle ciance, partiamo subito con le note (:
1. Non so dire con
certezza come sia nata questa fanfic, ma ricordo che tra i vapori
dell’acqua calda della doccia ho intravisto Sherlock e John
che parlavano, quest’ultimo chiedendo una fotografia.
Sherlock gli rispondeva che non ne aveva bisogno, non avrebbe mai
potuto dimenticarlo. E da qui, la mia mente ha fatto il resto.
2. Chi è
Sherrinford Holmes? Faceva parte della cricca di nomi presi in
considerazione da Doyle per il suo consulting detective. E’
diventato poi un ipotetico fratello maggiore, mai apparso nel
canone. William Baring-Gould lo utilizzò in seguito
nella biografia "Sherlock
Holmes of Baker Street". Qui viene svelata
l’utilità del personaggio di Sherrinford: i
genitori degli Holmes pare fossero signorotti di campagna. Il fratello
maggiore avrebbe quindi avuto il dovere di occuparsi della casa, e
l’esistenza di Sherrinford liberava Mycroft da questo
obbligo, permettendogli così di avere il ruolo che noi tutti
conosciamo.
3. Nella fanfiction,
la data della morte di Sherrinford non è specificata, ma
nella mia testa risale già a parecchi anni prima rispetto a
quanto narrato, diciamo intorno ai vent’anni di Sherl.
Mycroft consegna la lettera a Sherlock solo ora perché sa
che prima non l’avrebbe letta, e che forse non la
leggerà mai. Potete pensare che gliela dia in occasione
dell’anniversario della morte, ma potrebbe anche essere un
giorno qualsiasi.
4. Il comportamento
di Sherlock potrebbe esservi apparso troppo freddo e distaccato. Io non
credo sia così. Sta raccontando, esponendo i fatti, e che
Sherrinford sia suo fratello non ha importanza, in quel momento. Questo
non significa che a Sherlock non manchi. Checché ne dicano,
anche lui è umano e in quanto tale preda facile delle
emozioni. E’ l’approccio con esse che differisce
rispetto a tutti gli altri esseri umani. E’ tra le righe che
si coglie l’affetto che provava per il gemello. Sherlock dice
che è stato parte di ogni giorno della sua vita, che era
importante, e che si faceva rincorrere e lanciare oggetti pur di farlo
divertire. A chi altri credete che lo avrebbe permesso? Bisogna
rendersi conto della grandezza della confessione di Sherlock:
Sherrinford era il suo cuore. E’ anche questo il motivo che
lo spinge ad affermare di non averne uno, ed è questo che fa
tremare John dalla voglia di dirgli “puoi fare a
metà con il mio”.
John, invece, non si accorge immediatamente che c'è qualcosa
di diverso. Dà per scontato che Sherlock sia alle prese con
un caso, e questo è il motivo per cui tarda tanto a prestae
attenzione a Sherl.
Tutto questo discorso sottintende però che Sherlock, prima
della morte del fratello, fosse diverso rispetto ad ora. Prima un cuore
ce l’aveva anche lui, ora non più. Potete
immaginare la differenza tra i due periodi? Credo sia questo il motivo
che lo spinge verso John: il dottore è il primo palpito che
il detective sente nel petto dopo una lunga assenza. Con lui
è come avere nuovamente un cuore.
Da non dimenticare poi il legame fortissimo che lega due gemelli, e che
se spezzato si porta via qualcosa con sé, sempre e per
sempre.
5. «Questo significa che
voi eravate–»
John, sentite le premesse, crede che Sherlock stia per parlargli di un
amante. Sherl immagina che, come al solito, il dottore sarebbe andato
fuori strada, e non gli dà neppure il tempo di parlare,
bloccandolo sul tempo.
6. La stenosi
aortica sopravalvolare è una malattia congenita che colpisce
il miocardio, curabile con un intervento di cardiochirurgia valvolare.
Sherrinford non ha intenzione di sottoporvisi, scegliete voi il motivo.
Perché ne ha paura, perché non gli interessa
continuare a vivere, perché la malattia è in uno
stadio così avanzato che non ha possibilità di
riuscita? A voi la scelta ;)
7. Sherlock salta a
piè pari il racconto dell’angoscia di quei giorni.
“Ha smesso di correre. Poi di camminare.” Due
immagini visive che alludono a un mare di cose. Ma è
Sherlock che parla, mica un sentimentalone qualunque.
8. «lo vedo tutti i
giorni,» dice Sherlock, e come al solito John
non capisce. Pensa che Sherl si stia sbottonando, pensa che alluda a
delle allucinazioni. Crede che veda il fratello per la mancanza. La
questione è molto più semplice ed agghiacciante:
Sherlock vede Sherrinford semplicemente perché i due hanno
lo stesso aspetto. “Like two peas in a pod”, ovvero
Come due piselli nello stesso baccello, che noi traduciamo con Come due
gocce d’acqua. Per questo John si alza per andargli
più vicino, per consolarlo, e poi ricade accanto a lui sul
divano, privo di sostegno, sconvolto. Non se lo sarebbe mai aspettato.
E voi?
9. «Andavate
d’accordo?»
No, ora ditemi. John poteva fare una domanda più idiota? Non
perché la risposta sia ovvia – anche se
effettivamente, come gli ricorda Sherlock, lo è –
ma piuttosto perché è una domanda cretina. Il tuo
BF ti dice che aveva un gemello e tu gli chiedi se ci andavi
d’accordo? xD John! Io gli avrei detto che so, che mi
dispiace, che è tristissimo, che doveva essere bello avere
un gemello, che… Boh! Sta di fatto che la domanda di John
è stupida, stupida! xD
Anche questo però ha la sua spiegazione. John è
incredulo e balbetta le prime cose che gli passano per la mente,
comportamento più che comprensibile. Dai, per questa volta
John è scusato…
10. «Non ero a conoscenza
delle tue doti di stregone»
Quel che intende Sherlock è che, anche avendone parlato a
John, la situazione non sarebbe cambiata. Non avrebbe riportato in vita
il fratello e Sherlock glielo fa notare con il suo solito tono
tagliente.
11. La particolare
concezione della sfera emotiva di Sherrinford cui Sherlock fa
riferimento è molto semplice, anche se non sembrerebbe.
Sherl considera le emozioni granelli di sabbia che rovinano gli
ingranaggi della sua mente finissima, Sherrinford no, anzi! E come
poteva essere altrimenti, con quel cuore grande in petto?
12. Sherl finge di
aver già letto la lettera. Dapprima non può
separarsene, la rigira tra le mani come un tizzone ardente. Poi la
nasconde tra le pieghe della poltrona, ha bisogno di raffreddarsi le
dita o rischia di prender fuoco. Infine, la abbandona tra il disordine
di Baker Street. Per quale motivo mente a John, e a se stesso?
Stesso
discorso per l’anima, nascosta tra qualche costola come se
giocasse a nascondino. Sherlock è indifferente alle vite
umane con le quali gioca, per esempio, Moriarty, e se ne frega di tante
altre cose di cui normalmente ci si preoccupa. Ma un’anima ce
l’ha lo stesso, nascosta da qualche parte, che finge di non
esistere, che trattiene il respiro.
13. E per
finire… Sherrinford è l’incarnazione di
qualcosa che in Sherlock spesso viene negata, annegata. Sapete dirmi
cosa simboleggia Sherrinford, e qual è di conseguenza il
ruolo di cui John è investito? *prega che qualcuno
capisca*
Ringrazio tutti
quelli che sono arrivati illesi fin qui, tutti coloro che maledirannorecensiranno
e seguiranno, ricorderanno, preferiranno, odieranno. Ah,
quest’ultima opzione non esiste? Dovremmo proporla ad
Erika…
Ringrazio anche coloro che hanno
letto-recensito-preferito-ricordato-seguito la mia ultima fic sul
fandom, Black
Out. Siete stati carinissimi ^^
Infine, dedico questa fanfictioncosa
alla persona che meno sopporto al mondo, a quella che mi fa
più incazzare, che mi fa venir voglia di uccidere e di
distruggere. Questa fic la dedico a me stessa.
... E per
coloro che masticano l'inglese, nel prossimo capitolo trovate i
dialoghi in lingua ^^
Una sorta di director's cut, con la musicalità
impareggiabile della meravigliosa lingua anglosassone <3
La storia di fatto è finita, quello che trovate nel capitolo
successivo è solo una chicca che personalmente amo
*w*
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