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ATTO V: ST. CHARLES ›
AGOSTO 2001
EPILOGO O
PROLOGO?
Ricordavo
che avevo cominciato a piangere. E non per paura che
quella
donna mi sparasse, nay, non era stato affatto per quello. Piangevo per
Stephen,
quello Stephen che aveva lo stesso volto del mio miglior amico.
Era
morto dinanzi ai miei occhi senza che io potessi far nulla per
impedirlo,
nemmeno grazie a quel mio
dono di poter vedere gli avvenimenti futuri,
che non era servito a niente nel momento del bisogno. Stephen adesso
non c’era
più, e la colpa era mia. Solo mia.
Ad occhi chiusi, con le lacrime
che sgorgavano copiose e mi rigavano le guance, mi accasciai su me
stesso e cominciai
a dondolarmi avanti e indietro a braccia conserte, sussurrando
più e più volte
il suo nome come se potesse servire a riportarlo in vita. Troppo
immerso nella mia
sofferenza, non mi ero nemmeno accorto che i miei mormorii erano
cresciuti di
intensità e che qualcuno aveva cominciato a scuotermi, quasi
volesse cercare di
risvegliarmi da un lungo sonno. Se era quella donna, Margaret, a
scuotermi, che
ragione aveva di farlo? Avrebbe potuto benissimo togliermi di mezzo in
quel
momento, approfittando del mio attimo di debolezza. Conoscevo troppe
cose per
essere lasciato in vita, lo sapevo io come lo sapeva anche lei. Quegli
scossoni, però, sembrarono continuare, e ad essi si erano
aggiunte due o più
voci che credevo di conoscere, sebbene provenissero da molto lontano e
giungessero
alle mie orecchie basse e ovattate.
Fu con una certa difficoltà
che
riuscii ad alzare le palpebre, come se avessi tenuto gli occhi chiusi
per lungo
tempo. La mia visuale si ridusse pian piano da un unico punto bianco ad
una
distesa candida, intervallata da due sagome scure di cui non riconobbi
i
lineamenti. Sentii però intorno a me dei mormorii concitati
e quelli che
parvero sospiri di sollievo, poi dei passi che si allontanavano sempre
più
prima di sparire del tutto. La sola figura che rimase
cominciò a farsi più
nitida a poco a poco e, nonostante non riuscissi ancora a figurarmi il
volto,
fui più che certo che quella che mi aveva appena sfiorato
fosse una mano.
«Jonathan... oddio,
Johnny»,
sussurrò ancora quella voce strozzata, quasi si stesse
trattenendo dal
piangere. «Grazie al cielo hai aperto gli occhi».
Mi sentivo la testa pesante e mi
sembrava di respirare a fatica; avevo un forte dolore al costato, come
se
qualcuno mi avesse da poco sferrato un pugno, e anche il braccio
sinistro
sembrava un ricettacolo di sofferenza. Ci misi una manciata di minuti
buoni a
capire che quello che mi osservava con tanta apprensione era Steve, e
che
quello in cui mi trovavo era un letto d’ospedale dalle coltri
bianche.
Ricordava così maledettamente quel giardino innevato...
Nel rammentare ciò provai a
scattare a sedere, dandomi dell’idiota non appena sentii una
fitta lancinante
alle costole mentre Steve mi rimetteva giù, inveendomi
contro e dandomi del
cretino. Beh, non me la sentivo proprio di dargli torto.
«Dove... dove sono?»
chiesi con un fil di voce, sentendomi la gola secca. Che cosa diavolo
era
successo? Quel che ricordavo era Margaret che ci attendeva in salotto,
il
momento in cui lei tirava fuori la pistola, Steve a terra colpito al
petto... «Tu»,
sussurrai nel momento stesso in cui il mio cervello riuscì a
mettere insieme
quei pensieri, «tu sei appena morto».
«Che stronzate vai
dicendo?»
rimbeccò lui con una nota lievemente isterica.
«Sei tu che hai rischiato di
morire, idiota! Io e i ragazzi ti abbiamo aspettato allo stadio per
ore, anche
dopo la partita».
Allo stadio? La partita? Cercai di
pensare con più lucidità, ma mi risultava
piuttosto difficile, specialmente non
riuscendo a capire come fossi finito lì. «Tu sei
morto», ripetei insistente,
conscio di ciò che avevo visto. A meno che non fossi tornato
al mio tempo,
quello doveva essere soltanto un sogno. «Stavo... stavo
venendo a casa tua
quando è successo», bisbigliai lamentoso fra me e
me, affondando la testa fra i
cuscini. «È
successo di nuovo, io sono sparito e sono stato sbalzato nel
giardino dell’altro te stesso, poi tu sei... tu sei morto
e...» non riuscii a
continuare, sia a causa delle lacrime che minacciavano di farmi morire
la voce
in gola, sia per la mano di Steve - così calda, viva, rassicurante
- che
mi carezzava dolcemente i capelli.
«Va tutto bene, Johnny, va
tutto
bene», mormorò comprensivo, come una madre che
rassicurava il figlio. «Hai
subito un grande shock e sei rimasto privo di conoscenza per ore,
è normale che
tu adesso sia confuso. Vado a prenderti un po’
d’acqua e vedo di chiamare un
dottore, okay?» soggiunse poi, scostandomi qualche ciuffo
dalla fronte. «Tu, però, cerca di calmarti e di
fare un bel respiro. È
stato soltanto un brutto
sogno», mi carezzò ancora una volta la testa come
se fossi un bambino,
regalandomi un sorriso raggiante prima di dirigersi verso una porta che
sulle
prime non avevo visto, sparendo oltre la soglia.
Rimasto solo, cercai di rimettere
insieme i pezzi mancanti dei miei pensieri. Ero partito alla volta
della casa
di Steve e avevo avuto un incidente prima di compiere quel mio viaggio
che mi
aveva sbalzato fuori dal continuum spazio-temporale, dunque poteva
anche essere
plausibile che, tornando indietro, mi avessero trovato in auto privo di
sensi e
avessero pensato che fossi svenuto a causa dello shock; il particolare
che non
quadrava, però, era ciò che mi aveva detto Steve:
come poteva essere possibile
che, secondo lui, dovevamo vederci allo stadio? Quello era successo
più di un
anno addietro, e... frenai di botto il flusso di quei miei pensieri,
sgranando
di poco gli occhi. Ero tornato a quel momento oppure era stato tutto un
sogno?
Qual era la verità, perdio? E se davvero era stato tutto un
sogno, perché
sembrava ancora così nitido e reale? Più ci
pensavo, più mi scoppiava la testa.
Passai il resto del tempo a
riflettere su tutto, cercando di capire quante cose avessi
già vissuto e
visto, forse nel vano tentativo di convincere me stesso che non era
stato tutto
un sogno: volgendo lo sguardo alla finestra, potevo vedere le stesse
tende
azzurre con quella macchiolina gialla che si muovevano pigramente al
vento; il
letto vuoto accanto a me, sfatto e dalle lenzuola bianche, con il
cuscino riverso un po’
verso il basso; persino i
fiori sul
comodino li conoscevo, e non avevo bisogno di contare le rose per
essere certo
che fossero precisamente dodici. Però c’era
qualcosa che mancava, e non ci misi
molto a capire cosa: non vedevo più quei sottili fili che di
tanto
in tanto dardeggiavano dinanzi ai miei occhi, dunque qual era la
verità? Dirlo
sarebbe stato difficile, e ancor più quando
rientrò Steve, seguito da Dean. Stan, il più
grande del gruppo,
reggeva in una mano il filo di quattro palloncini azzurri con
decorazioni rosse
e gialle, ed anche quella fu un’immagine che ricordai
d’aver già visto.
All’appello mancava solo Matthew, il fratello di Stan.
«La prossima volta veniamo a
prenderti noi per portarti in campo, Juggernaut»,
provò a sdrammatizzare Dean
mentre Steve posava accanto ai fiori il bicchiere d’acqua che
aveva portato. «Non
si può però dire che tu non faccia onore al tuo
soprannome».
«Lascialo in pace per cinque
minuti, Dean», lo apostrofò Stan. «Si
è appena svegliato, non ha bisogno del
tuo sarcasmo».
«Lodati siano gli
airbag!»
esclamò
Dean in risposta, e lo vidi alzare le mani per rivolgere i palmi aperti
al
soffitto. Mi venne da ridere, ma mi trattenni solo perché
quando ci provai
sentii nuovamente dolore al costato.
Dunque mi limitai a sorridere, ma,
prima ancora che riuscissi a dire qualcosa, fui preceduto da Steve, che
zittì
gli altri due con tono falsamente arrabbiato, come se volesse
più spronarli a
darmi pace che a richiamarli. Stan e Dean scrollarono appena le spalle
e, dopo
aver legato i palloncini al letto, Stan mi salutò
trascinandosi dietro Dean,
che oppose finta resistenza mentre agitava una mano verso di me.
Quando restammo soli, Stephen
volse lo sguardo verso di me, abbozzando un sorrisino.
«Matthew è andato a
chiamare un medico», mi disse semplicemente.
«Intanto ci ho pensato io ad
informare Tony dell’accaduto».
Tony era stato il mio allenatore
quando giocavo a baseball, ma mi rifiutavo di credere che fossi tornato
indietro o che fosse stato tutto un semplice sogno. «Tony sa
già quel che è
successo», mi convinsi cocciuto, facendo arcuare a Steve le
sopracciglia. «I legamenti
del mio braccio sono ormai fuori uso e non potrò
più giocare».
«Cosa stai dicendo,
Johnny?»
rimbeccò lui, accigliato.
«Tutto questo è
già
accaduto»,
insistetti, cominciando a guardarmi freneticamente intorno mentre
cercavo di
ricordare cosa fosse successo in quell’esatto momento la
prima volta che avevo
vissuto quella scena. Quando ci riuscii, aggiunsi, «Tra non
molto entrerà il
dottore, mi comunicherà che il mio braccio è
andato e che non potrò più giocare
a baseball», e detto ciò attendemmo in silenzio,
come se nessuno dei due
volesse rompere quella bizzarra quiete con parole inutili e domande
superflue.
Nulla di ciò che avevo detto,
però, accadde, e io ne restai sorpreso. Com’era
possibile che mi fossi
sbagliato? Il medico era sì venuto, pochi minuti dopo, ma mi
aveva solo detto
che avrei potuto lasciare l’ospedale il giorno seguente, non
avendo subito
gravi lesioni a parte qualche graffio al viso e dei lividi su petto e
schiena.
L’incidente non era stato violento ed avevo perso i sensi
solo a causa dello
spavento, a suo dire. E non potei fare a meno di pensare che
ci fosse
qualcosa di sbagliato, in tutto ciò. Ricordavo un incidente
mortale, un
incidente in cui la mia mustang si era quasi accartocciata e io avevo
rischiato
di morire poiché il mio cuore aveva smesso di battere per
quasi un minuto. Non
potevo aver immaginato anche quelle cose.
«Sentito il gran capo,
Juggernaut?» mi richiamò la voce di Steve, e
quando mi voltai verso di lui lo
vidi sorridere. «Domani potrai tornartene a casa. Per il
momento cerca di
riposare e di non pensare più a quel brutto sogno. Adesso
è tutto finito».
Adesso
è tutto finito.
Ripetei più e più volte nella mia mente quelle
parole come se cercassi di
convincere me stesso che fossero vere, non riuscendo però a
capacitarmi di
quanto fosse accaduto fino a quel momento. Era stato davvero tutto un
sogno?
Avevo forse visto il futuro? Se così era stato, non avrei
permesso che niente
di ciò che avevo veduto si avverasse, né tanto
meno che Stephen morisse senza
che io potessi far nulla per impedirlo.
Eravamo padroni del nostro destino
e non ci saremmo fatti piegare da esso, affrontandolo invece con
spavalderia e
coraggio. E se ciò che avevo da poco vissuto era destinato
ad accadere
realmente, un giorno, avrei fatto in modo che le cose si svolgessero
diversamente. Parola di Jonathan Wilson.
Non
si è mai certi di ciò che la vita ti riserva
finché non ti accadono le cose più
impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde
nel suo ventre
l’orribile verità dell’essere, e, quando
alla fine scopri questa verità, concentrarsi
sullo scorrere del tempo diventa snervante. Vedi le stagioni che
passano, gli
anni che corrono via veloci come un treno sulle rotaie, lo sfiorire
della
giovinezza che pian piano lascia spazio all’età
della saggezza. Lo sai, lo
percepisci, te ne rendi persino conto, ma quasi ti rifiuti di
accettarlo. A me
era successo proprio questo.
Di tanto in tanto faccio persino dei
sogni in cui rivivo il mio primo incidente, quello in cui avrei dovuto
essermi
rotto un braccio. Sono alla guida della mia mustang, la radio trasmette
Stand by me
di King e
accanto a me c’è anche Steve, che la canticchia
tranquillamente sottovoce.
Ridiamo e scherziamo come due liceali, ma quel momento viene interrotto
dalle
luci accecanti di un’altra autovettura dinanzi a noi, che ci
viene addosso ad
una velocità disarmante; Steve ha appena il tempo di urlarmi
qualcosa e
sterzare lui stesso, poi quello che mi circonda è solo il
buio totale. La parte
peggiore del sogno è lo scenario di morte e desolazione che
mi si presenta
davanti subito dopo: fiamme sull’asfalto,
sangue sul cruscotto e sui sedili, qualcuno che grida in modo
disarticolato e le sirene delle ambulanze che squarciano il silenzio
della notte.
Quando mi sveglio, ho sempre le
lacrime agli occhi e la frase «I
won’t be afraid just as long as you stand by me»,
l’ultima strofa che
Steve ha cantato prima che il mondo ci crollasse addosso, mi vortica
insistentemente nella testa, peggiorando soltanto la situazione e
mostrandomi
ancora una volta gli occhi sbarrati e vuoti di Steve. Però
la verità è che la parte più
profonda di me lo sa fin troppo bene cos’è
successo. Il mio miglior amico era morto un paio d’anni prima
ed io avevo inconsciamente
insabbiato l’accaduto,
rifugiandomi in quel mondo fatto di nebbie e di ricordi per non
rammentare ciò
che avevo veduto e vissuto, mescolando il reale
all’immaginario, fondendo la verità alla bugia.
Ed
è portando questi fiori su quella tomba bianca e senza nome
che ancora me lo
domando: può essere davvero possibile distinguere un sogno
dalla realtà? Perché
io forse sto ancora sognando, e se così fosse... per favore,
non svegliatemi.
Lasciatemi continuare a sognare.
BREAKING THE WORLD
FINE
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata scritta per il contest
“Scacco
matto!” indetto
da Fe85, e si
è
classificata Prima.
Ammetto che è
stata piuttosto travagliata. Nata senza una
vera e propria trama di
base, capisco
poi benissimo che essa possa presentarsi piuttosto strana agli occhi
del lettore. Lo era anche per me mentre la stendevo, sul serio. L'unica
cosa che c'è da spiegare è la divisione
comportata da questi simboli ❦※❧ giacchè
la trama risulterebbe ancor più incasinata se non buttassi
giù due righe in queste note ora che la storia è
conclusa.
Quelle due parti sono unite e
rappresentano la chiave centrale di tutto il racconto, in
realtà. Diciamo che
si possono considerare come il vero e proprio prologo/epilogo sul quale
la
storia si basa, e che esso metta qualche dubbio in più al
lettore: è stato sul
serio solo un sogno fatto da Jonathan, quello iniziale, o lui
è rimasto così
scioccato dall’accaduto che ha immaginato tutto, incluso il
suo amico Stephen
ancora in vita e tutto ciò che ne concerne? Il suo
subconscio, anche tramite i riferimenti che
spargeva ovunque - il nome del Cafè, tanto per dirne uno -, ha
forse cercato
di fargli capire che qualunque cosa cerchi di fare il suo amico
è destinato a
morire, o forse anche quella era una prova? Spetta soltanto a chi legge
capirlo
e deciderlo.
Chiusa questa piccola
parentesi, vi lascio al commento della giudice e spero vivamente che
sia piaciuta e che seguirete anche lo spin off di questa storia su cui
sto lavorando.
GIUDIZIO
Grammatica
e Sintassi: 9/ 10
Ti ho penalizzato leggermente perché non mi sono imbattuta
in errori gravi, bensì di distrazione.
-“Là fuori avrò perso il tempo dei
minuti che passavano.”→ “il conto dei
minuti”;
-“Sarei persino scoppiato in una risata isterica se non mi
fossi
trovato a telefono proprio con lui.”→ “al
telefono”;
-“quegl’universi”→ trovo che
l’apostrofo stoni, usa tranquillamente la forma per esteso;
-“un ricco mercante inglese che aveva fatto fortuna in poco
grazie alle sue particolari doti linguistiche”→
“in
poco tempo”;
-“Fu il picchiettare di nocche contro legno che mi
richiamò”→ “contro il
legno”;
-“si lasciò sfuggire uno sbuffò
palesemente”→ “uno sbuffo”;
-“ Fu una colazione noioso”→
“noiosa”;
-“specialmente da quando avevano tentato di
spararlo”→ “sparargli”;
-“ Come gli altri volontari, decidi di passare le restanti
ore ad
occuparmi a mia volta dei bambini”→
“decisi”;
-“E anch’io mi rifiuta di credere a ciò
che i miei
occhi mi stavano mostrando.”→
“rifiutai”;
Per il resto tutto perfetto, comprese la punteggiatura e la sintassi.
Stile e Lessico: 10/10
Attenzione ai gerundi che a volte appesantiscono la struttura della
frase come in questi due casi:
-“Mi drizzai a sedere di scatto sentendo tutti i muscoli
indolenziti
dolere da impazzire e le ossa scricchiolare sinistramente, tentando al
tempo stesso di riscaldarmi come potevo e mettere a fuoco il luogo in
cui mi ero ritrovato.”;
-“ regalandomi un sorriso raggiante prima di dirigersi verso
una porta che sulle prime non avevo visto, sparendo oltre la
soglia”.
Stile fluido, scorrevole ma ricercato allo stesso tempo,
unito ad un lessico eterogeneo e particolareggiato rappresentano una
delle carte vincenti di questa storia. Una menzione speciale alla tua
capacità descrittiva per quanto concerne gli ambienti e le
sensazioni
dei protagonisti, nonché alla cura che hai dimostrato nel
destreggiarti
tra varie epoche e nazioni: tra le tue righe, infatti, ho ritrovato
molti elementi della cultura americana, nonché di quella
inglese.
Evocativo anche il riferimento al quadro di Van Gogh.
Trama/
Originalità: 20/20
Onestamente, non so da dove cominciare ad elencarti ciò che
mi è
piaciuto di più di questa storia. Tutto può
bastare? Ho amato ogni
singola parola, ogni singola frase, introduzione compresa ed
è proprio
su di essa che si è calamitata la mia attenzione.
Ho deciso di premiarti assegnandoti il massimo punteggio
perché hai saputo metterti in gioco, sperimentando qualcosa
di
innovativo e originale, ed era proprio
l’originalità che mi aspettavo
emergesse dai vostri racconti.
A mio parere, il punto di forza di questa storia, oltre
l’ottima padronanza lessicale, è proprio il velo
di mistero che la
permea, lasciando libera interpretazione al lettore, che da semplice
spettatore si trasforma in un vero e proprio
“critico” che avanza le
sue ipotesi riguardo l’evolversi della vicenda. Inoltre, non
manca quel
sottile velo di ironia che vivacizza il tutto, mantenendo vivo
l’interesse. In alcuni passaggi, ho avuto quasi
l’impressione che i
personaggi fossero delle marionette, vittime ignare di un gioco crudele
e guidate da una mano invisibile; non so spiegartelo, ma mi sembrano
parte di un progetto più grande di loro. Da amante dei
dettagli quale
sono, mi è piaciuta anche l’impostazione grafica e
la tua spiegazione
riguardo al simbolo usato che si ricollega alla storia.
Tuttavia, devo farti i complimenti anche per il modo in cui
hai trattato la neve, richiamandola spesso nella storia, persino nel
“presente”. La malinconia è provata sia
da Steve nel momento in cui
racconta del fratello deceduto, sia da Johnny quando ripensa alla sua
carriera ormai finita. Effettivamente, per la questione dei mondi
paralleli ho pensato ad un probabile collegamento con Final Fantasy, ma
tu hai saputo rendere tuo questo concetto, personalizzandolo.
E’ buffo,
inoltre, notare che le parti si siano invertite: nel
“presente” è Steve
ad essere protettivo nei confronti dell’amico, mentre nel
“passato” è
esattamente il contrario. Il sosia di Steve (oddio, che casino XD) hai
i modi di fare di un orso: è burbero, scostante e, non
essendo bravo a
parole, preferisce agire coi fatti. Johnny, invece, è
inizialmente
intimorito da ciò che gli accade intorno, e ne acquista la
consapevolezza col progredire della vicenda, così come
capisce che i
suoi sentimenti nei confronti dell’amico sono mutati.
Passiamo
brevemente a parlare di Margaret: intrigante la tua scelta di far
pronunciare a lei, un personaggio secondario, la frase
“Scacco matto!”,
anche se in quel frangente è proprio lei ad avere il
coltello (o
meglio, la pistola) dalla parte del manico. Con pochi ma essenziali
passaggi sei riuscita a rappresentarla sapientemente, mostrando la sua
sagace crudeltà.
Giudizio Personale:
5/5
Come
si evince dalla valutazione, ho amato la tua storia, tanto che non sono
riuscita a staccare gli occhi dallo schermo durante la lettura, curiosa
di scoprire il modo in cui si dipanasse la trama e la conclusione.
Ciò
che è successo a Johnny è stato un sogno?
E’ la realtà? Chi può dirlo…
La confusione che tanto disorienta il lettore è
ciò che ti
spinge a proseguire nella lettura e ad affezionarti ai tuoi personaggi,
a parteggiare per loro. Nulla è scontato, nulla è
banale, questa storia
sprizza originalità da tutte le righe.
Punteggio: 44/45
Alla prossima ♥
_My Pride_
Messaggio
No
Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
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