Sing
for me.
Dean
chiuse gli occhi per un istante, un solo minuscolo istante che
bastò
a regolarizzare il respiro e far sparire quel leggero tremolio della
sua voce roca, voce che ogni volta faceva vibrare gli occhi di Gin,
che si chiamava come un superalcolico, ed esattamente come un
superalcolico faceva girare la testa a chiunque si soffermasse a
guardarla, con quei capelli biondi e gli occhi color ghiaccio.
«Gin,
non piangere».
Non
piangere Gin, non piangere, non piangere, so che non piangerai ma io
te lo dico lo stesso, perché non intendo “non
piangere adesso”,
non voglio che tu pianga neanche dopo, quando io sarò
già (fin
troppo) lontano e tu sarai da sola nel buio della tua stanza e
sentirai l'odore del sesso di cui l'abbiamo impregnata; lascia che
pianga solo io, nel vagone di questo treno che puzza di sudore e
tabacco.
«Dean,
non te ne andare» sussurrò, la voce flebile e le
mani intrecciate
appena sotto il petto, guardandolo negli occhi color cioccolata.
«Dimmi che che non mi lasci».
Dimmi
che non sono sola, Dean, dimmi che non te ne andrai per sempre anche
tu, come tutti gli altri, come chiunque, dimmi che non è
vero quel
che penso, dimmi che non sono io a non andare bene, dimmi che su quel
treno non ci sali più, dimmi che ad Amburgo ci andrai solo
quando
potrò venirci anch'io.
Chiudere
gli occhi non bastò, questa volta, ed in effetti non
bastò mai più,
per il resto della loro vita, perché entrambi sapevano
– sapere,
questo è terribile, se sai non hai scampo, non
c'è santo che tenga,
non puoi neanche sperare il contrario, perché tu sai,
e allora non c'è immaginazione, non c'è
ottimismo, non c'è
religione, non c'è speranza – che Dean e Gin, da
quel momento,
sarebbero solo stati due nomi in rima e non più due amanti,
di
quelli che tu ti fermi a guardarli ipnotizzato, e tutto quello che
pensi è “Quanto cazzo sono
belli?”.
«Amburgo
non è poi così lontana»
tentò Dean, incerto – si può dire con
convinzione qualcosa di cui non si è, di fatto, convinti?
–
stringendo forte i fianchi morbidi di Gin, su cui sarebbero a breve
nati i segni delle sue dita – fisico corrispondente di segni
invisibili che invece non se ne sarebbero andati mai.
Sospirò,
Gin. «Sono milleduecentosettantaquattro chilometri, ne
abbiamo già
parlato. Neanche posso permettermi il treno, e poi...».
Discorso
che non finì mai, il suo, neanche nella sua mente,
perché proprio
non voleva pensarci, mentre Dean ci pensò fin troppo, tutto
in
quell'esatto momento in cui la voce della ragazza – sua
ancora per
qualche labile secondo – tremò appena.
È
la stanchezza, Dean, non sono triste, davvero, non guardarmi
così,
non angosciarti per me, non tentare di captare ogni mio segnale di
debolezza, pensa a baciarmi un'ultima volta, e fa che duri il tempo
necessario perché tu perda il treno e decida di non
aspettare
l'altro.
«Senti,
so che a te i discorsi troppo dolci fanno venire l'orticaria, ma io
probabilmente prenderò il tifo su questo treno, devo sapere
che tu
sarai qui a grattarti le braccia per par condicio, quindi ascoltami,
okay?» chiese, fissandola serio.
Lei
mosse appena la testa, su e giù, e sollevò
l'angolo destro della
bocca, appena, con gli occhi lucidi e la mente annebbiata.
«Credo di
poter fare uno sforzo, per questa volta».
«Per
me sei dappertutto, Gin, e sei l'unica al mondo capace di farmi
sentire che non sono solo, e so che partendo adesso sarò
solo per
sempre, anche con centinaia di gente intorno, anche se un giorno
dovessi tornare qui a Liverpool dalla mia famiglia, perché
non
sarebbe più la stessa cosa, e come già ti ho
detto non posso
esserti fedele per sempre...» si fermò, il tempo
di una risata
isterica ed appena udibile, il tempo di avvicinarsi di più
ai suoi
occhi, facendo sfiorare i loro nasi, incollando i loro corpi dal
ventre in giù, accarezzando delicatamente il suo corpo fino
ad
arrivare ad intrecciare le dita a quelle di Gin. «Ma te lo
giuro,
amore, te lo giuro, non accarezzerò nessuna come ho
accarezzato te,
a questo farò attenzione, davvero, e a nessuna
scriverò poesie
sulla pelle, te lo prometto. Sarai per me infinita ed onnipresente,
anche con questi fottuti milleduecento chilometri tra i coglioni,
anche se non ti vedrò ma-».
«Zitto!»
lo interruppe, posandogli i polpastrelli sulle labbra carnose.
«Non
lo dire, non lo dire mai, mai in mia presenza, non lo dire, non ti
azzardare, non ci voglio pensare. Per me tu domattina sarai qui, e se
non ci sarai penserò di star sognando, e che prima o poi mi
sveglierò. Vivrò nell'incubo andando avanti,
sposandomi magari,
avrò figli che puzzeranno di vomito e mi
preoccuperò di lavare, ma
con la convinzione che prima o poi mi sveglierò con te
accanto».
Dean
chiuse gli occhi, frustrato. «Così non va,
così proprio non va.
Non aspettarmi, non tornerò. Non tornerò,
maledizione, mettitelo in
testa».
«Io
ti aspetterò, e chi se ne importa se non tornerai. Io ti
aspetterò,
mettitelo in testa».
La
attirò a sé, facendo rabbiosamente combaciare le
loro labbra,
impeto dolce ed iracondo – disperato.
«Non
è poi la fine del mondo» sussurrò sulle
sue labbra, senza
allontanarsi troppo.
Chiamarono
il suo treno e si staccò, controvoglia, afferrando le
valigie con le
braccia coperte dal suo pullover verde.
A
Gin tremarono le ginocchia, e quasi quasi anche i polmoni.
«Non te
ne andare» pregò, voce rotta dalla presenza di
lacrime invisibili
sulle sue guance arrossate dal freddo.
«Chiudi
gli occhi, amore. Non lo guardare il treno, non guardare me che ci
salgo sopra. Cantami una canzone, cantamela, io sono qui e l'ascolto,
tu tieni gli occhi chiusi finché non senti il silenzio.
Canta,
amore. E non lo dire addio, mi raccomando, perché io lo so
ed è
anche per questo che ti amo, ti
amo perché a te gli addii fanno male alla gola.
Tu “addio” non dirmelo, canta».
Prese
un respiro profondo e chiuse gli occhi, concentrandosi sui lineamenti
di Dean che sperava di non dimenticare mai, immaginando le sue
braccia attorno al suo corpo, immaginando le sue labbra nell'incavo
del suo collo, immaginando i suoi capelli in contatto con il suo
volto – sarebbe dovuto essere reale ancora per un po', solo
un po'.
Poi,
semplicemente, cantò, e nel disperato fischio che il treno
emise
qualche istante prima di dilaniarle completamente l'anima
trovò il
perfetto compagno di un duetto che la colse completamente
impreparata, così come entrambi sarebbero stati impreparati
alla
vita nei mesi a seguire, troppo abituati a contare sul suono del
respiro dell'altro per regolarizzare il proprio.
Dean
la osservava muovere le labbra chiare seduto al suo posto, le valigie
sul sedile accanto, e con la tempia sinistra posata al finestrino
strinse le labbra per non piangere, chiedendosi se fosse veramente
giusto andare ad Amburgo, specie senza di lei, e come un mantra
iniziò a ripetersi che sarebbe passata, passa sempre tutto,
sarebbe
passato anche il dolore causato dalla consapevolezza d'aver lasciato
quell'anima su sei milioni a più di mille chilometri di
distanza,
del tutto consapevolmente.
«Non
mi dimenticare» mormorò, pur sapendo che lei mai
l'avrebbe sentito,
nel preciso momento in cui Gin scoppiò a piangere, tremando
sotto il
peso di qualcosa troppo grande, e Dean sorrise appena.
Quanto
sei bella, amore.
Sì,
sono viva.
No,
evidentemente non sono morta.
Sì,
siete autorizzati a picchiarmi e lanciarmi pomodori.
Sono
imperdonabile, lo so, ma io e la scrittura abbiamo un po' litigato.
Ora siamo tornate in buoni rapporti, comunque, quindi spero che il
prossimo ritardo (perché sì, ci sarà
un altro ritardo) sia un po'
meno grave di questo.
Bòn,
che dire? Questa shot è triste, forse fin troppo, ma dopo
tre cose
dolci e carine ci stava.
Detto
ciuò, spero vi piaccia e che abbiate
voglia di farmi sapere
qualcosa.
E
se non avete voglia pace, però insomma.
Un
abbraccio, non sapete quanto mi siete mancate. Mancati. Mancate.
Siete
tutte donnine? D:
Human_ (che pur vivendo a due minuti
dal mare è ancora bianca come una mozzarella).
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