Nostalgic flavor of black tea
Per Inghilterra non
c’era niente di meglio per cominciare la giornata di un buon
thé nero dall’aroma intenso - il Kenilworth era il suo preferito, anche se spesso beveva il Nuwara Eliya o altri ancora.
Andare in cucina e mettere il bollitore sul fuoco era la prima cosa che faceva ogni mattina appena si alzava dal letto.
Mentre l’infuso era
sul fornello, il suo aroma si spandeva nella stanza ed oltre, invadendo
completamente la casa, mettendo il padrone piuttosto di buon umore.
Il thé era
l’unica cosa che era in grado di preparare senza rischiare
l’avvelenamento: quando si trattava di cucinare non era capace di
fare nient’altro che schifezze immangiabili.
Per questo faceva sempre colazione solo ed esclusivamente con la sua amata bevanda.
Da quando America era
diventato il suo fratellino, Inghilterra aveva preso l’abitudine
di iniziare la giornata assieme a lui: aveva smesso di preparare il
servizio da thé sul tavolino della veranda adiacente la cucina
ed aveva cominciato ad apparecchiare il tavolo nella stanza suddetta,
visto che era più spazioso, adatto ad ospitare più
d’una persona.
In realtà alla
giovane colonia non piaceva affatto la bevanda e a stento riusciva a
patirne perfino l’odore; tuttavia, si sedeva comunque a tavola
col più grande a far colazione - provando a mangiare ciò
che Inghilterra si offriva di cucinargli con tutto l’impegno e la
caparbietà che aveva.
Incredibilmente apprezzava
anche ciò che per l’inglese non era etichettabile nemmeno
col termine di “mangiabile” - anzi, sembrava addirittura entusiasta di mangiare cosa gli preparava il maggiore, per cui quest’ultimo non vedeva motivo di privarlo di ciò.
Da un momento di solitaria
tranquillità in compagnia di una tazza di thé, la
colazione si era trasformata in un momento di pace e serenità
“familiare” durante il quale i due fratelli discutevano di
un po’ tutto con amorevole comprensione e affetto.
Col passare del tempo, però, cominciarono ad arrivare i primi attriti, che via via divenivano sempre più assidui.
Le discussioni tra i due si
accendevano sempre più di frequente ed ogni argomento diventava
pian piano una polveriera pronta ad esplodere non appena gli si fosse
presentata a cospetto una miccia accesa.
La colazione si
trasformò gradualmente in una specie di battaglia volta a far
prevalere le proprie idee su quelle dell’altro.
La situazione degenerò sempre più finché non giunsero al cosiddetto “punto di rottura”.
La Guerra d’Indipendenza Americana.
Da quando Alfred si era
dichiarato indipendente - fatto accaduto circa cinque mesi prima - al
mattino in casa di Inghilterra regnava un silenzio piuttosto strano,
quasi surreale. Il padrone non si era ancora abituato al non veder
più l’americano gironzolare per casa durante la sera o
sentire la sua voce mentre giocava in giardino.
Arthur, comodamente ed
elegantemente seduto al tavolino nella veranda - al quale aveva fatto
ritorno dopo la separazione dal “fratello” - osservava la
cucina sovrappensiero, sorseggiando il suo thé mattutino -
stavolta era un Panyong, una varietà dal sapore decisamente dolce che però non gli dispiaceva affatto.
Quel particolare thé
gli rievocava alla mente reminiscenze che in quel periodo avrebbe
desiderato lasciare sepolte nei recessi più remoti e profondi
della sua memoria: il Panyong era il thé che aveva bevuto più spesso quando con lui c’era ancora la giovane colonia.
Se si concentrava
abbastanza riusciva ancora a udire il rumore dei passi strascicati di
Alfred che si presentava a colazione mezzo rintontito dal sonno, con i
capelli arruffati e lo scollo della camicia del pigiama storto,
spostato verso una spalla.
Inghilterra bevve un altro
sorso mentre seguiva con lo sguardo l'ombra di un America assonnato
che, sbadigliando, prendeva posto a tavola per mangiare un piatto di
uova e pancetta che solo lui osava definire “squisite”.
Kirkland scosse la testa.
«Appartiene ad un passato ormai lontano. Smettila di rivangare queste cose!» si rimproverò, mentre beveva un altro sorso di thé.
Osservandone il colore intenso, gli riapparve alla mente la volta in cui Alfred provò ad assaggiare il Panyong.
Quand’era più
giovane l’americano era solito assaggiare i nuovi tipi di
thé che vedeva bere al suo fratellone, ma poi crescendo aveva
perso l’abitudine anche a causa del divario di gusti che si era
aperto tra loro.
A lui il thé non
piaceva, men che meno quelli dal sapore deciso e l'aroma forte come i
thé neri. Arthur alla fine aveva dovuto farsene una ragione.
La volta del Panyong
l’inglese la ricordava bene: il giovane Jones aveva assunto
un'espressione disgustata e aveva storto la bocca in una buffa smorfia.
«Bleah, è troppo dolce...!» aveva esclamato con gran disappunto.
Inghilterra
sorseggiò altro thé, spostando lo sguardo dalla cucina al
giardino dietro di sé nel tentativo di volgere ad altro
l'attenzione dei suoi pensieri, senza successo: anche in quel giardino
conservava ricordi di America.
«Devo smetterla di pensare a lui» si disse, scuotendo la testa «Non ho motivo di torturarmi così! Ormai non è più qui!».
Si domandò
perché continuasse a pensarlo, nonostante i mesi che erano
trascorsi dalla loro separazione. Non erano più vincolati dal
rapporto “madrepatria-colonia”, eppure per qualche motivo
non riusciva a dimenticarlo.
Quella volta era stato il
thé a ricordarglielo, ma gli succedeva anche con altre cose,
come una stanza, l’assenza di un oggetto.
L’inglese bevve
ancora qualche sorso, gli ultimi rimasti nella tazzina, sforzandosi di
cancellare qualsiasi pensiero dalla sua testa, miracolosamente
riuscendoci.
In quello stesso momento
sentì picchiare vigorosamente sulla porta, come se chiunque ci
fosse dall'altra parte stesse cercando di sfondarla a mani nude - un
compito alquanto arduo, considerato che era piuttosto spessa e di
quercia.
Con uno scarto di qualche secondo udì una voce familiare gridare: «Inghilterra! Inghilterra!».
Poco mancò che l’interessato soffocasse sentendosi chiamare.
«America...?!» esclamò tra sé e sé, stupito: cosa era venuto a cercare?
Era davvero giornata: prima
non riusciva a distogliersi dai ricordi che conservava di lui, poi
quest’ultimo veniva di persona a cercarlo - a casa, per di
più: non si era più fatto vivo da quando si era
dichiarato indipendente, per cui era ancor più sorprendente quel
suo ritorno.
Chissà, magari era tutta colpa del Destino che, malvagio, si divertiva a giocare con lui.
L’inglese
tossicchiò, alzandosi e tornando dentro la cucina, posando la
chicchera ed il correlato piattino su un ripiano.
Prese fiato e coraggio e si
diresse verso il soggiorno, mentre la voce di Alfred ancora risuonava
al di sopra dei suoi poderosi colpi sull'uscio.
«Okay, ho capito! Arrivo!».
Quando andò ad
aprire e si trovò di fronte America, Inghilterra rimase senza
parole. Non per la sorpresa - anche se era tanta - bensì
perché non sapeva proprio cosa dire.
Le loro abitudini e il loro
modo di pensare era completamente differente, in aggiunta al fatto che
erano cinque mesi che non si vedevano.
In quel periodo -
constatò Inghilterra con una punta d’astioso risentimento
- sembrava che Alfred fosse cresciuto ancora, superandolo di netto in
altezza.
L’americano gli
sorrideva dall’alto in basso in un modo che l’inglese non
avrebbe esitato a definire idiota, però sembrava che anche la
sua loquacità fosse stata superata e messa a tacere dalla
tensione del momento.
Nessuno dei due si
aspettava un rincontro così presto - se cinque mesi potevano
essere definiti un tempo “breve”.
Dopo qualche secondo di
tombale silenzio, Inghilterra si ricordò d’essere impalato
sulla porta di casa, così si decise a parlare.
«Che vuoi?»
esordì, scorbutico come al solito, deviando altrove lo sguardo:
proprio non riusciva a tollerare di dover alzare gli occhi per guardarlo in faccia.
America fece per replicare, ma l’altro lo interruppe: «Se è una cosa lunga, vieni dentro».
E gli voltò le spalle senza attendere risposta, avviandosi verso il soggiorno.
Alfred fece capolino all’interno, poi oltrepassò la soglia e seguì il padrone di casa.
Era passato del tempo
dall’ultima volta che era stato lì, eppure non era
cambiato proprio niente: l’arredo era tale e quale a quello dei
suoi ricordi.
Non appena giunse nel soggiorno, un odore che riconosceva distintamente gli giunse al naso.
«Questo è Panyong»
constatò senza pensare, collegando immediatamente l’aroma
a quello percepito innumerevoli volte tempo addietro.
Quell’odore
risvegliò in lui una profonda sensazione di nostalgia per la sua
infanzia che fino ad allora non aveva mai provato. Era strano trovarsi
nel luogo dov’era stato cresciuto e desiderare di ritornare
indietro ai tempi di quand’era piccolo, prima della sua
dichiarazione d’indipendenza.
Inghilterra si sorprese che se ne ricordasse ancora, visto il suo astio manifesto per la bevanda.
«Sì, lo stavo
bevendo prima» lo liquidò in fretta, senza tante
cerimonie, mettendosi a sedere ad un’estremità del divano.
Alfred prese disinvoltamente posto al capo opposto, piegandosi poi in avanti per appoggiare i gomiti sulle ginocchia.
Cadde un altro imbarazzante silenzio, che stavolta fu l’ospite a spezzare.
«Inghilterra, devo dirti una cosa».
Parlò rapidamente e con il brio che Arthur aveva imparato a riconoscere come caratteristico della sua voce.
«Ti ascolto» replicò con tono indifferente e annoiato, una leggera sfumatura irritata di sottofondo.
Jones si volse a guardarlo senza essere ricambiato.
Gli dava fastidio non essere degnato d’attenzioni, ma sapeva che ben presto lo sarebbe stato - eccome se lo sarebbe!
«Inghilterra... mipiaci».
Esitò un attimo
prima di pronunciare le ultime due parole, ma queste poi gli
scivolarono tra le labbra con una rapidità impressionante, tanto
che all’inglese occorse qualche momento per analizzarle,
separarle e - infine - comprenderle.
Quando l’ebbe fatto, però, la sua espressione cambiò radicalmente.
«EEEEEH?!?!».
Sobbalzò,
ritraendosi verso il bracciolo del divano a lui più vicino, nel
tentativo di mettere quanta più distanza possibile tra sé
e l’americano.
«Cosa stai dicendo?! Siamo due maschi!» esclamò, allucinato, paonazzo per la vergogna e la rabbia.
Avrebbe voluto inveirgli
contro con più forza, ma non riusciva a trovare
nient’altro da dirgli. Il tumulto d’emozioni che
s’era alzato all’improvviso dentro di lui non aveva altro
modo d’esprimersi se non attraverso quelle poche parole.
America si alzò in
piedi, guardandolo dritto negli occhi con una determinazione che
l’ex madrepatria gli aveva visto in volto ben poche volte - forse
solo durante la guerra.
«Non m’importa» sentenziò, facendo un passo verso di lui.
Altri seguirono subito quel primo.
Arthur sentì il cuore palpitare ad un ritmo sempre più forsennato man mano che la distanza tra loro si accorciava.
«Sono indipendente e posso fare quello che voglio» continuò l’ex colonia «E a me... piaci, Inghilterra».
Stavolta non esitò
più di tanto a pronunciare quel fatidico “piaci”,
ribadendo quanto aveva asserito poco prima.
Ormai non c’era che un’esigua distanza a separarli.
L’inglese scosse la
testa come se con ciò potesse allontanare fisicamente
l’americano, ma non oppose la minima resistenza effettiva al suo
inesorabile avvicendamento.
America si piegò su
di lui, imprigionandolo nell’angolo del divano che il più
grande si era scelto volutamente come rifugio e lo afferrò per
il colletto della camicia, attirandolo a sé.
«C-cosa diavolo...?!» cominciò Arthur, vedendo il suo viso avvicinarsi.
Il suo cervello ronzava
senza fornirgli nessuna idea, mentre il cuore in petto era in procinto
di squarciargli il torace tanto forte batteva.
Senza riuscire ad impartire
alcun comando al proprio corpo, si limitò semplicemente a
chiudere gli occhi, come se tutto ciò fosse un brutto sogno che
sarebbe scomparso se avesse cessato di seguirlo.
Però non
sparì niente: le labbra di America sfiorarono dolcemente le sue,
ricercando una sua reazione con una certa decisione.
Alfred captò sulla
bocca dell’inglese un forte sentore di quel disgustoso thé
dolce il cui odore impregnava l’aria della casa, però fece
del suo meglio per cercare d’ignorarlo.
Arthur oppose resistenza in un primo momento, ma poi si abbandonò a lui, rispondendo timidamente al bacio.
In un fugace flash
l’ex madrepatria comprese che forse quel continuo pensare alla
sua ormai ex colonia era dovuto ad un sentimento che non sapeva di
provare nei suoi confronti - o, più probabile, che si era
inconsciamente reso conto di provare ma aveva tentato in ogni modo di
nascondere a sé stesso.
Ciò non voleva dire
che amava incondizionatamente e devotamente America, ma solamente che
prendeva atto di provare ancora affetto verso di lui - anche se era un
affetto differente da quello che lo legava a lui come fratello e molto
più forte.
Kirkland si rilassò
nel suo angolino, sporgendosi verso l’altro, impedendogli di
cadergli addosso: America stava esercitando una certa pressione su di
lui.
Quando si separarono,
Inghilterra si rannicchiò nel suo “rifugio” sul
divano, come se desiderasse ardentemente di sparirci dentro.
Le sue guance erano color
porpora e i suoi occhi esprimevano un imbarazzo profondo. Sembrava
vergognarsi di quel che aveva appena fatto, oppure si sentiva solamente
confuso.
Alfred gli sorrise e, con tutta la naturalezza del mondo, ribadì: «Mi piaci».
«Ho capito!» borbottò Arthur, stufo di sentirselo ripetere, guardando altrove «Non sono sordo».
«Forse... anche tu mi piaci» sussurrò a voce ancor più bassa, ostinandosi a non guardarlo.
Forse era qualcosa di
ignoto ai due, o forse era proprio il profumo di quel particolare tipo
di thé nero, ciononostante ambedue, in quel momento, sentirono
sbocciare in cuor loro il desiderio che tutto potesse aggiustarsi, che
il loro rapporto potesse tornare ad essere come un tempo.
E che quello strano amore potesse aiutarli almeno un po’ in tal senso.
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