Giugno
1988
Il
bambino osservò la sua misera valigia con aria circospetta: era
sicuro che la signorina Quinn, la sua assistente sociale, ci avesse
ficcato dentro un sacco di inutile paccottiglia che lui aveva cercato
inutilmente di scartare. Gli aveva messo dentro dei giocattoli.
Assurdo.
«Allora,
siamo d'accordo» esclamò l'assistente sociale, con un gran sorriso.
Diede una pacca sulla spalla di Edmund, che aveva molto l'aria di
essere una spinta, e poi allungò il modulo verso il signor Sunset
per farglielo firmare. «Qualsiasi cosa succeda...» cominciò a
dire, quasi a disagio. «Non spaventatevi, davvero. Edmund sa essere
un bambino adorabile, quando vuole».
Sembrava
proprio che stesse cercando di indorare la pillola. Ma la signora
Sunset, una corpulenta donna di mezz'età, non sembrava affatto
intimorita. «Non si preoccupi, signorina Quinn. Abbiamo cinque
figli, di cui uno adottato e uno in affido. Sappiamo come cavarcela
con i bambini» rivelò con una strizzata d'occhio.
La
signorina Quinn fece un sorrisetto di circostanza e si affrettò a
riporre il modulo firmato tra i documenti. La signora Sunset pareva
anche una donna simpatica e aperta, forse avvezza ad avere marmocchi
per casa, ma non aveva la più pallida idea di quanto potesse essere
strano Edmund Burke.
«Allora,
sei pronto, Eddy?» esclamò la signora grassoccia, allungando la sua
mano verso di lui. Aveva un sorriso solare e aperto che Edmund trovò
assolutamente fastidioso. Non c'era proprio niente da sorridere nel
passare l'estate in un cottage di campagna in mezzo a una marea di
frastornanti mocciosi che avrebbe dovuto considerare suoi fratelli.
«Vedrai,
ti piacerà. Abbiamo anche un cane. Ti piacciono gli animali?»
domandò gentilmente la signora.
Edmund
incrociò le braccia al petto, per far capire che non aveva nessuna
intenzione di darle la mano. «Solo i serpenti» rispose atono.
«Ah»
commentò la donna, con un sorrisetto. «Be', ci saranno anche
quelli... siamo in campagna, no?»
«Allora,
ehm, bene» intervenne l'assistente sociale, nel tentativo di
interrompere l'imbarazzante conversazione sui serpenti.
Prima
che i coniugi Sunset ci ripensassero.
«Buona
estate, Edmund. Ci rivediamo a settembre» esclamò con un tono che
voleva essere convinto.
Edmund
le rivolse un sorriso che era sinceramente inquietante per un bambino
di nove anni. Faceva rabbrividire, per la precisione.
Cielo,
fa che resistano almeno una settimana! pensò sconsolata la
signorina Quinn, osservando le tre figurine che lasciavano
l'orfanotrofio.
Durante
il viaggio in macchina la signora Sunset cercava inutilmente di fare
conversazione con Edmund. «Io mi chiamo Juliet e lui Andrew, ma puoi
chiamarci mamma e papà, ovviamente, se ti va» gli disse, voltandosi
verso il sedile posteriore con un gran sorriso.
«Signore
e signora Sunset andranno benissimo» rispose Edmund, con le braccia
incrociate e lo sguardo torvo.
La
donna grassoccia scoppiò a ridere. «Oh, ma è così formale!»
esclamò divertita. «Ci avevano detto che eri un ometto rispettoso.
Ma, vedrai, quest'estate sarà uno spasso» continuò, ammiccando
nella sua direzione. Per un attimo le parve di vedere un lampo di
maliziosa furbizia balenare negli occhi azzurri del bambino, ma fu
una frazione di secondo, poi tornarono limpidi e quieti.
La
bocca sottile di Edmund si allargò in un sorriso. «Ne sono certo».
Almeno
per me.
La
casa della famiglia Sunset era un tipico cottage irlandese a due
piani, immerso nelle colline e circondato dal nulla. Un piccolo
ruscello, un orto, un albero di albicocche e le galline. Tutto finiva
lì.
I
figli erano davvero cinque: un maschio e una femmina più grandi che
sembravano essere intorno ai sedici anni, un ragazzino di colore con
una massa di capelli ricci, una biondina slavata con l'aria da dura e
un cappellino da baseball calato storto sugli occhi, e un bambino che
poteva avere circa la sua età. Erano tutti schierati davanti a casa,
pronti ad accogliere il nuovo fratellino.
«Ciao»
lo salutò il più grande, con un sorriso. «Io mi chiamo Peter».
«Io
Rose» si presentò la seconda figlia.
«Kevin»
aggiunse quello di colore.
«Will»
ringhiò la ragazzina tosta. Edmund ghignò: aveva anche il nome da
maschio. Forse era la contrazione di qualcosa di terribile come
Willhelmina.
«Josip»
concluse l'ultimo, con un leggero accento slavo.
«Edmund»
si presentò a sua volta il bambino.
La
ragazzina tosta ridacchiò. «Santo cielo, il nome l'hai rubato ad un
romanzo di Jane Austen?» gli chiese con un ghigno.
«E
tu all'ultimo ragazzo che hai scuoiato?» la rimbeccò Edmund. Odiava
il suo nome e odiava quando gli altri lo prendevano in giro per come
si chiamava.
«Suvvia,
ragazzi, cercate di essere carini con Ed e di farlo sentire a casa»
intervenne la madre, con un leggero tono di rimprovero. Ma, a
giudicare dai sorrisi falsi e disinteressati che Edmund si vide
rivolgere, i figli non sembravano affatto dell'idea.
Quella
sera la cena fu piuttosto caotica. Edmund, che adorava la solitudine
e il silenzio, si sentì come travolto da una mandria di rinoceronti
impazziti.
Quando
fu finalmente libero, si rifugiò nella cameretta di Josip, dove era
stato aggiunto un letto per lui, e si rannicchiò in un angolo a
leggere “Le metamorfosi” di Kafka. Era talmente concentrato che
quasi non si accorse che tutta la banda Sunset si era catapultata
nella stanza.
«Ci
sono un paio di cosette che dobbiamo mettere in chiaro, Ed»
sentenziò Peter, il più grande. Edmund mise il libro da parte con
aria scocciata, ma non si alzò dall'angolino in cui si era
rintanato: non voleva dimostrare ai ragazzi Sunset di dare importanza
alla faccenda.
«Allora.
Primo: non si entra nelle camere degli altri senza bussare» recitò
Peter.
«Secondo:
non si prendono le cose degli altri senza chiedere» aggiunse Kevin,
il ragazzo di colore.
«Terzo:
quando vengono le mie amiche non ti devi impicciare» rincarò la
dose Rose.
Will
si fece avanti di un passo con aria strafottente. «Quarto: siccome
tu sei l'ultimo arrivato, tocca a te pulire il bagno al primo piano
tutte le mattine» decretò in tono perentorio.
Peter
allora le mise una mano sulla spalla e la fece retrocedere sulla
linea del fronte Sunset. «Vedi, Ed, siamo in tanti e ci vuole un
certo ordine. Tra di noi, così, per regolarci. Non pensare di andare
a piagnucolare da mamma e papà» concluse Peter, in un tono che
voleva essere affabile. «Tutto chiaro?»
A
Edmund ricordava tanto un lager. Annuì lentamente, fissando i suoi
occhi azzurri in quelli di Peter. Era una sfida aperta.
Peter
non si scompose minimamente. «Ottimo, allora» esclamò, battendo le
mani, come se fosse stato raggiunto un difficile accordo diplomatico
tra nazioni rivali. Il fronte Sunset batté in ritirata, tranne
Josip, ovviamente, che si trovava già in camera sua. «Buona notte»
salutò Peter, prima di sparire e chiudere la porta alle sue spalle.
Edmund
rimase a fissare con astio il punto dove era scomparso per parecchi
secondi. Avrebbe voluto dargli fuoco con lo sguardo.
«Non
hanno niente contro di te, sai» gli rivelò Josip, preparando il
letto per andare a dormire. «Fanno così con tutti, l'hanno fatto
anche con me. Solo che tu sei l'ultimo arrivato»
«E
sarò anche il primo ad andarmene» mormorò Edmund, raggomitolandosi
sul letto a leggere.
«Ti
conviene metterti il cuore in pace, sai. Ci devi stare qui tutta
l'estate» gli rispose Josip. Sbadigliò e poi si infilò sotto le
coperte. Per un attimo vide un'inquietante espressione brillare sul
volto del nuovo arrivato, ma forse era solo un gioco della lampada
sul comodino.
Edmund
si lasciò sfuggire un sorriso. «Tu lo credi».
L'erbetta
era umida e gli solleticava i piedi nudi. L'aria fresca e piacevole
gli si infiltrava sotto il pigiama, provocandogli dei brividi lungo
la schiena. Era buio, c'era silenzio, solitudine. Si stava
magnificamente.
Edmund
allargò le braccia, chiuse gli occhi, si lasciò invadere da quella
piacevole sensazione di nulla eterno, di serenità.
Fu
allora che lo sentì. Un sibilo, emesso da un piccolo serpentello di
campo che strisciava nell'erba davanti a lui. Edmund adorava i
serpenti: aveva un certo feeling con quegli animali, un'empatia
particolare. Riusciva a capirli, a parlare con loro.
«Ciao,
piccolino» sibilò nella notte. La sua voce aveva un che di
serpentesco quando parlava con quelle bestie. Non se lo sapeva
spiegare, ma riusciva a capirle.
«Vendicami»
rispose quello, strisciando contro i suoi piedi.
Edmund
si inginocchiò e allungò la sua mano verso l'animaletto, come se si
trattasse di un grazioso cagnolino da accarezzare. «Vendicarti,
perché?» gli domandò, sfiorando con un dito la testolina
viscida della bestiola.
Il
serpente sembrò guardarlo dritto negli occhi. «La mia casa.
Distrutta» sibilò in risposta.
Edmund
capì immediatamente che doveva essere stata Will, con il gusto di
fare qualche stupido scherzo all'animaletto, a distruggergli la tana.
Certe volte i bambini sapevano essere davvero cattivi.
Ma
Edmund di più.
«Ti
vendicherò» promise, mentre una malvagia prospettiva si
delineava nella sua mente. Un sorriso perfido si allargò sulle sue
labbra.
«ODDIO!
Vai via, brutta bestiaccia!» strillò proprio in quel momento la
signora Sunset, brandendo una scopa per cacciare il serpente.
Sembrava folle e terrorizzata assieme.
«No!»
esclamò Edmund, proteggendo il suo piccolo amico dalla furia della
donna.
«Allontanati,
allontanati, Eddy! Ci penso io!» gridava quella, svegliando con le
sue urla il resto della famiglia.
«Sali»
ordinò Edmund al serpente, emettendo sibili sinistri. Si alzò da
terra, mentre la povera bestiola si avvolgeva intorno alla sua gamba
nuda, strisciando sotto il pigiama finché non raggiunse il ventre
del bambino e vi si avvinghiò.
La
signora Sunset rimase pietrificata dal terrore, con la scopa levata
in aria. Non sapeva se era peggio l'idea che una biscia strisciasse
sulla pelle nuda del bambino o l'espressione feroce che quello le
rivolse.
«Edmund,
fai scendere quel serpente da lì» intervenne il signor Sunset,
apparso in pigiama e vestaglia al fianco della moglie.
Edmund
gli puntò i suoi occhi addosso. «Non dovete fargli del male, lui è
mio amico» replicò con un tono di voce forte. Era un ordine, senza
dubbio.
Il
signor Sunset annuì accondiscendente. «Va bene, Ed, ma tu fallo
scendere».
Edmund
rimase immobile per una manciata di secondi, ma alla fine si
inginocchiò e poggiò una mano a terra. «Scendi» sibilò
rivolto al serpente, che strisciò lungo il suo braccio fino a
raggiungere l'erba. Prima di sparire, si voltò verso di lui. «Sarai
vendicato» gli promise Edmund, in tono serio.
«Quel
coso... quella biscia...» borbottò la signora Sunset, incredula.
Sembrava che il bambino riuscisse a comunicare con la bestiola ed era
assurdo il modo in cui quella sembrava obbedire ai suoi ordini
sibilati al vento.
Edmund
si alzò nuovamente in piedi. «So parlare con i serpenti. Loro... mi
trovano, mi sussurrano cose».
La
signora Sunset rabbrividì.
Il
signor Sunset osservò il cupo cielo notturno sopra le loro teste e
infine mormorò: «Torniamo dentro».
Per
tutto il giorno successivo, la famiglia Sunset lo lasciò in pace.
Avevano assistito tutti alla scena con il serpente, che era stata
francamente inquietante, e non volevano avere nulla a che fare con
quello squilibrato. Così, Edmund poté progettare la sua vendetta in
tutta tranquillità.
Il
piano aveva un duplice scopo: vendicare il serpente, come promesso, e
convincere i signori Sunset a riportarlo all'orfanotrofio al più
presto. Non che quel luogo rappresentasse qualcosa di positivo, ma
almeno là tutti lo consideravano strambo e lo lasciavano in pace a
leggere.
Quella
sera, terminata la cena, Edmund sgattaiolò fuori. «Venite, miei
amici!» sibilò con aria eccitata. Arrivarono a frotte, da ogni
tana, da ogni buco. Il suo esercito. Edmund sorrise malefico. «È
ora di ricambiare la gentilezza di questi umani» ghignò,
voltandosi verso il cottage.
Entrò
in ingresso con passo deciso, come un vero conquistatore.
«Che
cosa...?» cominciò a dire Rose, la secondogenita.
«Attaccate!»
ordinò Edmund, alzando le braccia davanti a se. Almeno un centinaio
di serpenti si riversarono in casa, sul pavimento di terracotta,
sulle pareti. Una moltitudine di esseri disgustosi strisciò ai piedi
di Edmund, si avvinghiò sui mobili, risalì il divano, sibilò verso
la famiglia Sunset. Una piccola biscia di campo si arrampicò lungo
il corpo del bambino, sotto i vestiti, e si posizionò a spirale
intorno al suo braccio destro.
Era
una scena apocalittica. L'intera famiglia Sunset strillò e si fiondò
verso le porte per scappare, ma queste sbatterono violentemente e si
chiusero magicamente a chiave. Rose spinse violentemente su e giù la
maniglia, in preda al panico, ma questa non si aprì. Erano in
trappola.
«Aiuto!»
gridò la signora Sunset, come se qualcuno potesse udirli.
«Edmund,
smettila!» lo implorò il signor Sunset, cercando di essere
ragionevole.
Il
volto di Edmund era una maschera di durezza. «Will ha distrutto la
tana di questo serpente, per dispetto. Ci ha buttato dentro i sassi,
l'ha quasi ucciso» spiegò con una voce forte, perentoria. «Ora
provate quanto è bello che qualcuno vi distrugga la casa».
«Non
è vero, non è vero!» gridò Will, in preda al terrore. «Io non ho
fatto niente!»
«MENTI!»
gridò Edmund, irrigidendosi e stringendo le mani a pugno. «Chiedi
scusa per quello che hai fatto!»
«Io
non ho fatto niente!» replicò Will, scoppiando a piangere.
Edmund
ringhiò. Gli bastò volerlo, e le due finestre del salotto
semplicemente esplosero, schizzando proiettili di vetro dappertutto.
«Chiedi scusa!» ordinò, con un'espressione folle che gli
attraversava il volto.
E
finalmente Will capitolò; si accasciò a terra e gridò: «Va bene,
va bene! Scusa!»
Edmund
rilassò i muscoli e tornò sereno. Tutti i serpenti si
tranquillizzarono e poi si radunarono strisciando ai suoi piedi.
Edmund sorrise angelico, ma i suoi occhi azzurri erano un pozzo di
oscurità.
«Visto
che non era difficile?»
Edmund
attraversò il cortile dell'orfanotrofio con evidente soddisfazione.
Reggeva la sua piccola valigia in mano e aveva un'aria estremamente
trionfante.
La
sua assistente sociale, invece, aveva il morale a terra. Avevano
resistito due giorni, i signori Sunset, prima di riportare Edmund e
bagaglio all'orfanotrofio, con tanto di espressione terrorizzata e
voci tremanti. Tutte le volte la stessa storia.
«Questo
bambino è malvagio!» squittì la signora Sunset, con gli occhi
sgranati. Tutti i suoi buoni propositi riguardo all'estate e al “noi
sappiamo come cavarcela con i bambini” erano spariti.
«Sul
serio, dovreste farlo ricoverare in manicomio» rincarò la dose il
signor Sunset, restituendo alla signorina Quinn le carte firmare per
la riconsegna del “pacco”.
Edmund
osservò i coniugi Sunset che si allontanavano con evidente
soddisfazione. La sua espressione era meschinamente beffarda.
«Santo
cielo, Burke, perché per una volta non ti comporti come tutti gli
altri bambini?» sbottò la signorina Quinn, esasperata.
Edmund
le rivolse un sorriso innocente. «Perché io non sono come loro»
rispose senza scomporsi troppo. «Io sono diverso».
E
non immaginava neanche lontanamente quanto diverso.
Eccoci
qui!
Questa
storia l'ho scritta per prima, ma cronologicamente doveva essere
l'ultima, posta a chiusura della piccola raccolta dedicata
all'infanzia dei tre protagonisti.
Se
le altre storie erano tenere e carine, questa trovo che sia
francamente inquietante! Il piccolo Edmund non ha nulla di dolce!
Ahahah! È l'unico che sa già indirizzare la sua magia e sfruttarla
per punire chi gli fa del male. Vi ricorda qualcuno, magari? ;-)
L'idea
dell'affido estivo mi è venuta in mente ripensando ai bambini
dell'est che d'estate vengono in Italia a fare le vacanze ospitati da
qualche famiglia. La povera signorina Quinn tenta ogni volta di
spedire Edmund a fare una di queste vacanze, ma tutte le volte è la
stessa storia: le famiglie affidatarie riportano indietro il pacco in
fretta e furia... chissà perché!
Va
be', spero che questa piccola raccolta vi sia piaciuta! Io, più che
altro, mi sono divertita a scriverla e spero vi aver divertito un po'
anche voi!
Alla
prossima occasione!
Beatrix
B.
|