Erano trascorse due
settimane di quella che sembrava essere calma piatta. La calma
apparente di sabbie mobili pronte a risucchiare il suo mondo.
Erik aveva sentito le ore, i giorni scivolargli via dalle mani come
acqua mentre disponeva tutto per la sua ribalta e spiava cautamente i
preparativi per la messa in scena della sua opera che i direttori
avevano cominciato ad allestire, seguendo con estrema precisione le sue
indicazioni. I sarti stavano realizzando i costumi secondo i modelli
che aveva fatto recapitare ad Andrè e Firmin, gli scenografi
stavano costruendo le scenografie che lui aveva personalmente
disegnato: un inferno di cartapesta, specchi e legno.
Lo spettacolo sarebbe stato pronto entro un mese ma i direttori non
avevano ancora deciso quando proporlo al pubblico. L'ombra scura che i
tragici avvenimenti di Capodanno avevano gettato sul teatro sembrava
ancora avvolgere l'Opera Populaire quasi sbiadendo la
luminosità dei suo stucchi, rovinando la seta dei suoi
tendaggi e lo splendore dei suoi marmi.
Il Fantasma dell'Opera aveva deciso e organizzato ogni cosa nei minimi
dettagli, ma non sapeva ancora cosa avrebbe fatto dopo. Non si era mai
dato troppa ansia per il suo futuro, ma quella mattina, osservando
Christine che riposava tranquilla, avvolta tra le lenzuola, si
ritrovò a pensare che doveva cominciare a costruire tutte le
certezze che non aveva mai avuto. Avrebbe voluto vederla sempre
così, serena, placida e meravigliosamente sua...
La fanciulla si mosse senza svegliarsi, girandosi su un fianco e
cercando nel sonno l'uomo che non era più steso accanto a
lei.
Erik scrisse rapidamente un biglietto per i due impresari, ordinando
perentoriamente che uno dei violinisti dell'orchestra venisse
sostituito perché troppo vecchio.
Nel frattempo Christine si svegliò, rimase qualche minuto a
letto crogiolandosi nelle sensazione piacevole del caldo sotto le
coperte e del profumo delle erbe aromatiche lasciate a bruciare nel
braciere sul pavimento di pietra, poi si alzò avvolgendosi
in una vestaglia.
Erano bastati pochi giorni perché l'intesa tra lei e Erik
divenisse perfetta, tanto da non provare più alcun
imbarazzo, alcuna ritrosia, alcuna incertezza: la perfezione che hanno
tutti gli amori appena nati, destinata a consolidarsi o a sfumare con
il tempo. Ma per loro quell'amore sembrava essere l'unico destino
possibile da vivere, anche se il loro orizzonte era denso di nuvole
basse e di miraggi che avrebbero richiesto enormi sforzi per essere
tramutati in realtà.
La ragazza raggiunse Erik chino sul suo scrittoio. Lui non l'aveva
messa a parte dei suoi piani, non di ogni cosa almeno,
perché se lei avesse saputo cosa davvero stava tramando non
lo avrebbe assecondato in quella che certamente le sarebbe sembrata una
pazzia troppo rischiosa.
L'uomo le cinse la vita esile con un braccio e la strinse a
sé appoggiando il capo sul suo petto, la ragazza gli
accarezzò i capelli e sospirò,
«Devo andare...» disse in tono triste. Lui non
rispose, lo sapeva già.
Ci sono sogni contemplati con così tanto ardore, con
così tanta insistenza da sembrare delle vere e proprie
premonizioni. Ogni volta che lei lo lasciava per tornare ai piani
superiori, Erik immaginava un futuro in cui avrebbero avuto una casa,
una famiglia, una vita propria da costruire. E ci pensava
così intensamente da credere che il sogno si sarebbe
avverato già il mattino seguente. Ma ogni giorno rotolava
pigro verso un domani sempre uguale, spingendo la felicità
completa sempre un po' più lontano della sua portata.
«Domani andrà meglio...»
pensò l'uomo, anche quella mattina.
La corda tirata troppo a
lungo si era spezzata.
No, non adesso,
maledizione!
Madame Giry prese un grande respiro e si impose di continuare a
camminare. Si tastò il petto tracciando con la punta del
dito la forma del crocifisso del rosario di perle che portava
all'interno del corsetto: Dio non poteva abbandonarla proprio ora.
Si appoggiò al muro e continuò a mandare
faticosamente un piede avanti all'altro.
Devo solo stendermi.
Devo solo riposare.
Mancavano pochi metri per raggiungere la porta della sua stanza eppure
il corridoio sembrò dilatarsi davanti ai suoi occhi mentre
la vista le si appannava. Fece ancora qualche passo sempre
più traballante su gambe sempre più malferme.
Un'improvvisa vampata di calore le salì dal petto al volto
con una scia di rossore che si stendeva dalla scollatura del corsetto
fin sopra alle gote che un attimo dopo sbiancarono di colpo.
Le ginocchia le cedettero come cardini troppo usurati e lei non
sentì altro che il ronzio del suo respiro affannato nelle
orecchie mentre cadeva sul pavimento. Poi fu solo il buio, lampi strani
che fluttuavano dietro le sue palpebre serrate e poco dopo la voce
lontana, lontanissima, di una ballerina che la chiamava in tono
agitato. La sua mente rispose, i suoi pensieri dissero che andava tutto
bene, ma le parole non presero forma sulle sue labbra smunte, il suo
corpo non si mosse, rigido e inerme sul pavimento.
Christine cercava di
scacciare la preoccupazione del futuro beandosi della gioia del
presente, del profumo di Erik sulla sua pelle, del ricordo della notte
appena trascorsa tra le sue braccia. Ogni mattina, molto presto,
sgusciava via dalla Dimora sul Lago e tornava nei suoi alloggi. Nessuno
se ne era mai accorto, persino Bertrand ormai aveva smesso di darle il
tormento visto che con quell'ultima recita nell'ufficio dei direttori
si era guadagnata l'approvazione di quell'uomo tanto detestabile che
aveva smesso di sospettare di lei.
Alexandre invece le era parso inquieto e ansioso. In quelle due
settimane le aveva chiesto più volte di fargli incontrare
Erik ma lei si era sempre rifiutata. Temeva che lui avrebbe potuto
considerarlo un tradimento, un azzardo troppo grande e troppo rischioso
per la sua sicurezza, e allo stesso tempo temeva che vedendoli insieme
non sarebbe più stata in grado di mantenere il segreto che
ancora non poteva essere rivelato. Quel segreto al quale cercava di non
pensare perché per il suo giovane cuore diventava
più pesante e spinoso giorno dopo giorno.
La fanciulla raggiunse la sua stanza e sgattaiolò
prudentemente dentro, fece una rapida toiletta e pensò che
avrebbe potuto riposare ancora un paio d'ore.
Si era appena sistemata i capelli quando qualcuno bussò
violentemente alla sua porta,
«Christine! Apri, Christine!» esclamò la
voce sottile e agitata che la fanciulla riconobbe essere quella di
Cloudine, una sua compagna del collegio. Le aprì la porta e
la scrutò perplessa,
«Cosa c'è?» le chiese preoccupata
notando che il viso lentigginoso della sua coetanea era arrossato per
l'agitazione e gli occhi erano lucidi di pianto.
«Meg mi ha chiesto di chiamarti...»
spiegò la ballerina concitata. «Madame Giry... ha
avuto un malore, poco fa... non si è ancora
ripresa».
Christine sussultò. La notizia fu come uno schiaffo in pieno
viso per lei. Si precipitò fuori dalla stanza insieme alla
sua compagna e corse agitata verso la stanza di Eloise.
Aprì la porta con una spinta sgraziata e vide la donna
esanime stesa nel suo letto, con Meg seduta al suo capezzale che
tentava disperatamente di trattenere le lacrime mentre era circondata
dalle altre ballerine che cercavano di rincuorarla con frasi di
circostanza mormorate a mezza voce.
La fanciulla bionda teneva il capo sollevato, le spalle ritte contro lo
schienale della sedia, nella stessa posa dignitosa e sicura propria di
sua madre. Anche in quel momento era chiaro quanto si somigliassero,
quanto fossero entrambe forti e decise, pronte ad affrontare il mondo a
testa alta anche nei momenti più difficili.
Eloise era sempre stata una specie di roccia a cui tutti si erano
aggrappati nei nei loro momenti peggiori, e adesso vederla in quel
letto fu per Christine un vero colpo al cuore. Una certezza che credeva
essere dura come il diamante si era infranta come un cristallo che
aveva rivelato tutta la sua fragilità e il mondo della
giovane sembrò vacillare davanti a quella scoperta: nessuno
è invincibile.
La fanciulla abbracciò Meg e le fece posare la testa sulla
sua spalla. Anche se non erano consanguinee, le due giovani erano come
sorelle, entrambe legate a quella donna dallo stesso immenso e
incondizionato affetto filiale.
«Abbiamo già mandato a chiamare il
dottore,» disse la ragazza bionda con la voce incerta per il
pianto che minacciava di tracimare oltre i suoi begli occhi nocciola,
«ma tu... dov'eri? È un bel po' che non riuscivano
a trovarti»,
Christine si morse il labbro sentendosi colpevole ed egoista.
Così presa dal suo mondo e dalle sue nuove esperienze
sembrava essersi dimenticata degli altri. Si rimproverò di
non essere stata abbastanza attenta da notare quanto la stanchezza e le
preoccupazioni avevano provato l'anima forte di Eloise che infine era
giunta al limite e aveva ceduto.
Il dottore giunse dopo una decina di minuti, fece annusare alla donna
il contenuto di un fiala e lei sollevò debolmente le
palpebre, riacquistando con lentezza coscienza del mondo attorno a
sé, della sua stanza, del volto di Christine chino su di
lei, della mano tremante di sua figlia stretta attorno alla sua.
«È stato un collasso» concluse il
dottore. «Niente di cui preoccuparsi, ma deve stare a riposo
per i prossimi giorni. Cercate di tenerla lontana da affanni e
preoccupazioni, un altro colpo del genere potrebbe non essere
così innocuo»
«Toccherà legarla al letto!»
borbottò Meg pensando al carattere ostinato di sua madre,
alla stessa testardaggine che faceva parte anche del suo modo di essere.
«Staremo molto attente» rispose Christine
ringraziando il medico e accompagnandolo verso l'uscita.
Per quel giorno Eloise rimase a letto. Mangiò poco e non
disse nulla, ma dietro ai suoi occhi stanchi si celavano
un'infinità di pensieri che avrebbero continuato a
strapazzarle il cuore finché tutti i problemi che
circondavano lei e le persone che le stavano care non si sarebbero
appianate.
*
Quella notte Christine non andò a far visita a Erik. Si
incontrarono furtivamente nel pomeriggio, mentre lei tornava dalla
sartoria dove era stata a farsi prendere le misure per il costume che
avrebbe dovuto indossare per il Don Juan Trionfante. Lei gli aveva
raccontato cosa era accaduto quella mattina ad Eloise e gli aveva detto
che quella notte sarebbe rimasta a vegliare su di lei per permettere a
Meg di riposare e di riprendersi dallo spavento.
Durante il pomeriggio Alexandre e Raoul erano stati a far visita a
Madame Giry per informarsi della sua salute, poi erano tornati ad
occuparsi ognuno dei loro affari.
Con il Fantasma dell'Opera che pareva essersi rabbonito e con Eloise
allettata, il teatro sembrava essere una grossa carcassa di marmo e
velluto priva di anima, anche se nessuno sembrava disposto ad
ammetterlo.
La mattina seguente Christine lasciò la stanza di Eloise che
aveva riposato tranquillamente tutta la notte e che aveva riacquistato
colorito.
La fanciulla si recò nella sua camera e si vestì
per uscire. Indossò un pesante mantello di seta scura e
prese un mazzo di fiori che qualcuno aveva lasciato in un vaso,
dopodiché scese nelle stalle.
In mezzo a tutto quel trambusto si erano tutti dimenticati che quello
era il giorno del suo compleanno.
La giovane pagò un cocchiere con una manciata di monete
mentre il sole non ancora del tutto sorto colorava il cielo di Parigi
di riflessi rosati nascosti da una fitta foschia.
«Alla tomba di mio padre, per favore» disse la
ragazza salendo sul calesse e stringendosi un po' più forte
nel mantello per proteggersi dal freddo pungente.
La strada di campagna che portava al cimitero poco fuori il centro
cittadino era piena di pozzanghere e sterpaglie ricoperte di brina. La
foschia serpeggiava sulla ghiaia dando l'impressione che che ogni cosa
fosse sospesa da terra, persino il calesse di legno lucido e nero
sembrava fluttuare percorrendo sentieri immaginari nell'aria.
Il cocchiere si fermò davanti a un grande cancello di ferro
arrugginito.
«Vi aspetto sotto a quegli alberi, mademoiselle»
disse mentre la ragazza scendeva, poi si
allontanò con le ruote che cigolavano
sulla ciottolato.
Christine percorse le vie delimitate da lapidi e monumenti funebri
pensando che al mondo esistevano anime troppo luminose e colorate per
riposare in un posto tanto tetro. Suo padre era una di queste.
Il mausoleo dove riposava Gustave Daae era una costruzione squadrata di
mattoni con il tetto a spiovente, chiusa da una grata di ferro battuto
e preceduta da una scalinata di pietra. Era privo di statue e
ornamenti, solo una scritta con il cognome del musicista in lettere in
bassorilievo campeggiava sulla facciata spoglia.
Christine mise i fiori in un vaso che appoggiò davanti al
cancello e si inginocchiò a terra a pregare.
Pregò così intensamente da non sentire il tempo
trascorrere e il freddo quasi la stordì avvolgendola in un
bozzolo che sembrava tenerla separata dal mondo.
Fu solo quando sentì il suono di un violino che la giovane
si scosse. Non riuscì a individuare il punto da cui
proveniva la musica, per un attimo pensò persino di essersi
suggestionata. Chi poteva mai essere lì nascosto a suonare
per lei?
Erik...
«Erik...» mormorò la giovane mentre
sulle sue labbra affiorava un sorriso intenerito.
Il suo Angelo della Musica, il suo più caro amico e il suo
unico amore era lì a suonare per lei la musica di suo padre:
non avrebbe potuto ricevere regalo di compleanno più bello.
Non voleva nemmeno che lui si mostrasse, voleva che le lasciasse
l'illusione che quella musica fosse una magia scesa dal cielo solo per
lei.
La fanciulla chiuse gli occhi rapita da quella melodia, dalle
sensazioni dolci che le suscitava, ma all'improvviso una voce
tuonò tra la nebbia strappandola a quella magia,
«Christine!» qualcuno gridò il suo nome
e la musica cessò di colpo.
La ragazza sobbalzò e si voltò per vedere
Alexandre che avanzava rapido verso di lei. Quasi non fece in tempo a
riconoscerlo che una figura ammantata di nero si calò
giù dal tetto della cappella e le piombò davanti
nascondendole la sagoma del giornalista che stava per raggiungerla.
Christine riconobbe il profilo di Erik in piedi, di spalle davanti a
lei che sguainava una spada con un ruggito rabbioso.
«No...» mormorò la ragazza talmente
colta di sorpresa da non riuscire a muoversi.
«Maledetto ficcanaso» sibilò Erik mentre
il vento freddo gli gonfiava il mantello.
La giovane si sporse appena oltre la sua spalla per vedere che
Alexandre si era fermato ai piedi della scalinata,
«Aspettate» disse guardando il Fantasma con aria
ferma ma conciliante. «Voglio solo parlarvi. Non siete
così crudele da combattere contro un uomo disarmato, vero
Erik?».
Il Fantasma vacillò. Gli faceva sempre uno strano effetto
sentir pronunciare il suo nome da qualcuno tanto era disabituato ad
ascoltarlo. Sentirsi chiamare per nome da qualcuno gli dava l'illusione
di essere parte del mondo come qualsiasi uomo normale, tuttavia si
chiese come faceva quel ragazzo a sapere come si chiama e si
voltò verso Christine guardandola stupito e leggermente
contrariato.
«Erik, ti prego...» sussurrò lei.
«Cosa vuoi?» borbottò verso il ragazzo
senza che la sua espressione minacciosa si addolcisse e senza abbassare
la spada.
Alexandre si tenne cautamente a distanza, tuttavia lo guardò
diritto negli occhi.
«Voglio sapere cosa state architettando» disse.
«Ero convinto che tu fossi coraggioso ragazzo, ma adesso devo
dedurre che sei completamente pazzo» rispose l'altro.
«Forse, ma non sono l'unico» replicò il
giornalista con una nota di velata ironia nella voce.
Erik restò a guardarlo incredulo. Era davvero coraggioso e
sprezzante. Ed era stato onesto, in un certo senso: avrebbe potuto
portarsi dietro Bertrand o dei gendarmi ma non lo aveva fatto. Era
stato onesto o forse incauto perché, se non fosse stato per
Christine, Erik lo avrebbe ucciso senza pensarci nemmeno un attimo.
Quel ragazzo lo metteva a disagio, il disagio di un cuore che ha
vissuto la sua intera esistenza nella paura e si ritrova davanti a uno
spirito capace di non lasciarsi intimorire. Perché Alexandre
aveva avuto paura, ma non aveva mai permesso che la paura lo
allontanasse dai suoi scopi.
«Quali che siano le mie intenzioni, non ti
riguardano» concluse il Fantasma abbassando la guardia mentre
Christine tratteneva il respiro.
«Perché siete così convinto che al
mondo non c'è nessuno che possa comprendervi?»
insistette Alexandre.
«Proprio tu me lo chiedi? Tu che mi stai braccando come un
cane in casa mia!» esclamò Erik.
«Io sto solo cercando la verità»
«La verità? Ah, per voi altri la verità
è solo ciò che volete vedere. È facile
gridare al mostro quando qualcuno non vede le stesse cose che
vede la gente»
«Voi non siete un mostro». Il ragazzo
scandì la frase lentamente, contro il vento gelido e contro
lo sguardo del suo interlocutore fermo nel suo.
«Se lo credi davvero, Alexandre, lasciami in pace. Lo dico
per il tuo bene» concluse il Fantasma con la voce incrinata
dallo stupore che cercava di non far trapelare.
I due rimasero a fissarsi per lunghi secondi, come a tentare di
scandagliare l'uno i pensieri dell'altro per tentare di capire quale
strana alchimia li faceva sentire così vicini nonostante
fossero nemici, poi Christine avanzò timidamente accanto a
Erik e gli posò la mano sul braccio.
«Forse dovresti ascoltarlo» gli mormorò.
«Provare a fidarti di lui. Lui è...»
«Che cosa?»
«È una brava persona».
Erik sospirò e scese le scale rinfoderando la spada. Si
fermò accanto al ragazzo e si voltò a guardarlo,
«L'unica verità è che voglio vivere la
mia vita, Alexandre» dichiarò con voce ferma.
«E sono disposto a tutto per riuscirci».
Ciò detto il Fantasma si allontanò a grandi
passi, il suo mantello continuò a frusciare tra il nevischio
e la nebbia mentre la sua imponente figura veniva avvolta dalla foschia
per poi sparire come se la sua presenza fosse stata solo l'illusione di
pochi minuti.