20.
Se Aken aveva pensato di
poter portare avanti con cuor leggero la promessa strappata al padre, dovette
ricredersi quasi subito.
Impedire a se stesso di
uscire dalle mura di Rajana, fu più penoso e difficile di quanto lui stesso non
avesse in un primo momento pensato, o sperato.
Per salvare Eikhe dalla lama
di un coltello, o dalla freccia di un franco tiratore, Aken avrebbe pagato
anche mille volte lo stesso prezzo, ma il suo cuore dovette fare ben presto i
conti con l’inedia e lo sconforto.
Il respiro delle montagne
innevate, che racchiudevano come uno scrigno metà del suo animo, gli mancava
con la stessa intensità con cui percepiva la mancanza fisica di Eikhe.
Il ricordo del fruscio del
vento fra le fronde dei faggi, o tra i rami secolari dei pini da resina, lo
risvegliavano di soprassalto la mattina, pieno di un desiderio che non avrebbe
mai più potuto soddisfare.
Neppure le intense ore di
lettura, contrapposte a estenuanti allenamenti con la spada, lenirono la sua
fame di Eikhe, il suo bisogno fisiologico di vederla, di toccarla, di odorarla.
Di avere tutto, di lei.
Ma oltre a lei, avvertiva la
mancanza delle montagne, degli odori penetranti che scivolavano tra le piante,
la mattina, quando il sole bagnava coi suoi raggi la rugiada sulle foglie e il
terreno umido.
Cuore e anima erano tra i
monti impervi che scorgeva all’orizzonte e che, con le loro cime seghettate,
coloravano di bianco e nero l’orizzonte terso di quei mesi estivi e caldi.
Silenzioso spettatore del
suo lento ma inesorabile declino, Ruak chiese più volte al fratello, almeno nei
primi mesi di quella autoimposta prigionia, perché avesse deciso di non
andarsene.
Mai, una sola volta, Aken
rispose alle domande del fratello.
Il giovane erede, che pure
giunse a odiare il padre per le imposizioni cui l’aveva costretto, non disse
mai al fratello la causa prima di quel volontario esilio.
Non avrebbe mai permesso che
i suoi sentimenti personali influenzassero la stima, e l’affetto, che Ruak provava
per il loro comune genitore.
Non potendo fare altro, fece
di un’arma il silenzio e di uno scudo il suo malumore, costringendo ben presto il
fratello minore a desistere dall’impresa di scoprire la verità.
Ruak non avrebbe mai dovuto
scoprire cosa lo spingesse a rinchiudersi all’interno della sua stessa casa,
impedendosi di respirare, di vivere, di amare colei che lo aveva conquistato.
Sua unica consolazione in
quel mare di inedia in cui aveva voluto, e dovuto, sprofondare per salvare
Eikhe, fu il giovane figlio di Iruna.
Sin dall’inizio di quella
sua reclusione forzata, la sua domestica personale aveva notato il malumore del
proprio principe, e il suo sguardo sempre puntato a nord, verso i monti impervi
e canuti.
Nulla era valso allo scopo
di scoprire la verità. Domandare, sussurrare gentilmente spiegazioni,
impuntarsi con cipiglio militaresco.
Aken si era trincerato
dietro un secco ‘non ho nulla’, ogni
qual volta Iruna gli aveva chiesto i motivi dei suoi lunghi silenzi e dei più
cupi pensieri.
Le sue interminabili
occhiate perse verso l’orizzonte, i suoi infervorati studi – cui mai si era
sottoposto con così tanta assiduità – e le sue sfiancanti lezioni di scherma, erano
rimasti un mistero per tutti.
Agli albori dell’autunno,
però, Iruna si stancò di vedere il suo principe ridotto all’ombra di se stesso.
Dopo aver ragionato non
poche ore sulla sua idea – e averne menzionato a Kannor, l’attendente di Aken –
la donna decise di condurre a palazzo il figlio di soli quattro anni.
Non appena Aken lo vide
accanto a Iruna, piccolo e timido e aggrappato alle lunghe gonne di panno della
madre, il principe si aprì in un sorriso spontaneo.
Piegatosi su un ginocchio
per guardarlo meglio negli occhi, esordì dicendo: “Ciao, Meyor. La mamma mi ha
tanto parlato di te. Io sono Aken.”
Il bimbo, dai folti riccioli
biondo cenere e gli occhi nocciola, lo fissò con autentica sorpresa, non
aspettandosi di certo che il potente principe di Rajana conoscesse il suo nome.
Mordendosi timoroso il
labbro inferiore, sussurrò: “Ciao.”
Il sorriso del principe si
allargò e, dopo aver lanciato uno sguardo a Iruna, che assentì, allungò le
braccia in direzione del bambino per prenderlo in braccio.
“Che ne dici se io e te
andiamo a fare un giro per il palazzo, così lasciamo lavorare in pace la mamma?
Temo che le saremmo solo d’intralcio, se restassimo nella mia stanza a
gironzolare senza fare nulla.”
Il bambino fissò la madre da
sopra la spalla del principe e Iruna, annuendo gradevolmente, disse: “Resta
pure con il principe, Meyor. E’ un uomo buono, e ti tratterà bene.”
Meyor allora annuì fiducioso
e, tornando a guardare il volto del principe, intenerito dal suo sguardo
innocente, domandò: “Hai una spada?”
Iruna se ne uscì con
un’esclamazione esasperata mentre Aken, scoppiando a ridere, annuiva al
ragazzino, incamminandosi lungo le scale per raggiungere la sala d’armi della
sua famiglia.
Osservandoli compiaciuta
mentre scendevano le scale, parlottando tra di loro con il cameratismo tipico dei
maschi – anche se capire gli strafalcioni di Meyor doveva essere un dramma –
Iruna sorrise più serena.
Già sul punto di entrare
nelle stanze del principe, sobbalzò per la sorpresa quando vide comparire da
una porticina laterale la figura nivea della regina Anladi.
Sin da quando i principi
erano tornati dalla guerra, l’estate appena conclusasi, Anladi aveva deciso di
utilizzare il colore bianco, solitamente usato per celebrare eventi di somma
importanza, per ogni suo abito.
Allo stesso modo, e con una
certa dose di divertimento, aveva ‘imposto’
la stessa cosa anche alla figlia Melantha.
Per quanto belli fossero i
suoi vestiti, però, il sorriso spento che, ormai da mesi, si apriva come un
fiore morente sul viso infinitamente elegante della regina, rendeva il
tentativo di festeggiare la vittoria una mera utopia.
La regina era triste, molto
probabilmente per il figliastro, ma a nessuno era dato sapere perché il
principe Aken fosse di umore così nero, o perché la consorte di re Arkan fosse
così sofferente.
Inchinandosi in fretta non
appena si riprese dallo shock, Iruna esalò compitamente: “Mia regina,
buongiorno. Non immaginavo voi foste qui.”
Allargando leggermente il
sorriso, che non raggiunse mai gli occhi cerulei, Anladi le afferrò gentilmente
le mani per farla risollevare.
Gentilmente, poi, le disse:
“Dubito vi sareste mai aspettata che la vostra regina comparisse dal corridoio
solitamente usato dalla servitù.”
Arrossendo suo malgrado di
fronte a quello sguardo così tenero – e, soprattutto, per le loro mani ancora
giunte – Iruna sorrise appena, replicando: “No, non me lo sarei mai aspettata,
lo ammetto. Avevate bisogno dei miei servigi, mia Signora?”
Volgendo lo sguardo verso la
scala ora sgombra e silenziosa, Anladi scosse il capo, pensierosa.
“E’ vostro figlio, il bimbo
che Aken aveva in braccio, vero?”
“Sì, mia regina” arrossì
copiosamente Iruna prima di aggiungere: “Vedete, pensavo che…”
Interrompendola con un
sorriso disarmante e ferocemente triste, Anladi sussurrò: “Pensavate di
distrarlo dalla sua tristezza, dico bene?”
Annuendo suo malgrado – non
sapendo davvero come la regina avrebbe interpretato il suo gesto – Iruna
sospirò e ammise: “Mi è parsa una buona idea. Mi si straziava il cuore a vedere
vostro figlio così triste, così ho pensato che la vista di un bambino potesse,
come dire, rallegrarlo un po’. Ho chiesto anche il parere di Mastro Kannor,
prima di portarlo, e anche lui mi era d’accordo con me.”
“Kannor è un buon amico, per
mio figlio, e credo anche voi, Iruna” assentì Anladi, inclinando leggermente il
capo a osservarla con attenzione. “Non posso che ringraziarvi per la vostra
gentilezza e, se mai questo esperimento dovesse funzionare, vi prego, conducete
ancora vostro figlio qui a palazzo.”
“Sarò lieta di ripetere la
visita, se scoprirò che il mio intento ha dato dei frutti” annuì Iruna,
sorridendo gentilmente ed esibendosi in un elegante cenno del capo. “Devo
troppo, a vostro figlio, per non tentare il tutto e per tutto perché si
rassereni almeno un poco.”
Stringendo con più forza le
mani di Iruna, che non aveva mai lasciato andare, Anladi esalò un sospiro affranto e abbandonò infine la presa.
“Se dovesse in un qualsiasi
modo aprirsi con voi, per favore, ditemelo. Vorrei tanto saperlo in grado di
aprirsi con qualcuno, visto che pare non voler parlare neppure con il
fratello.”
“Ci sarò sempre, per il
principe. Anche se vorrà parlarmi dei suoi problemi” annuì Iruna prima di
sgranare gli occhi di fronte alle lacrime a stento trattenute di Anladi.
Dopo un attimo di
tentennamento, la regina lasciò andare le mani della domestica per scivolare
silenziosamente dietro la porta che conduceva ai corridoi della servitù.
Stringendosi le mani al
petto, Iruna sussurrò tra sé: “Cos’è mai successo, a questa famiglia?”
***
“Ma è grossa. Si usa davvero
davvero?” esalò sorpreso Meyor, fissando a occhi sgranati Aken che, con un
sorriso divertito, gli stava mostrando la sua enorme spada da guerra.
Ben più alto del bambino, il
grande spadone di Aken era saldamente nella mano del possente guerriero quando,
sulla porta della sala d’armi, comparve la figura della regina.
Fissandola vagamente
sorpreso, mentre Meyor si incuneava tra le sue gambe per la timidezza, il
principe sorrise in segno di benvenuto alla madre.
Con un leggero cenno del
capo, la invitò silenziosamente a entrare.
“Buongiorno, madre. Avevi
bisogno di me?”
“No, mio caro” scosse il
capo la donna, avvicinandosi alla coppia prima di sorridere al bimbo, ancora
nascosto dietro le possenti gambe del figliastro. “E tu, bel bambino, chi sei?”
Ridacchiando del profuso
rossore che salì alle gote di Meyor, Aken ripose in fretta la spada con un
agile movimento del polso e, dopo un attimo, accolse tra le sue braccia il
bambino.
“E’ il figlio di Iruna, la
mia governante personale. Ha pensato di portarlo a palazzo per farmelo
conoscere. Era già da qualche tempo che me ne parlava.”
Addolcendo ulteriormente i
tratti del volto, Anladi carezzò con un dito il mento del bambino, mormorando:
“Sei un bimbo davvero molto carino. Mio figlio ti sta facendo fare un giro del
castello?”
Meyor si limitò ad annuire e
la donna, scrutando da sotto le ciglia folte il sorriso benevolo di Aken,
rivolto unicamente al bambino, sospirò impercettibilmente prima di chiedere:
“Pensate che potrei unirmi a voi? Non ho nulla da fare, e mi sto annoiando
molto.”
Sollevando con non poca
sorpresa un sopracciglio nell’osservare il volto apparentemente tranquillo
della madre, Aken asserì: “Ci onoreresti, madre. Tu che ne dici? La prendiamo
con noi?”
Meyor annuì ancora,
stringendosi al collo di Aken prima di sussurrare: “E’ bella!”
Ridacchiando, il principe
annuì.
“Sì, lo so, ho una bella
mamma. Come te, del resto. Siamo fortunati, non ti pare?”
Che padre magnifico saresti, figlio mio!, pensò tristemente Anladi, affiancando il figliastro
nell’uscire dalla sala d’armi.
Sapeva fin troppo bene cosa
lo costringesse a palazzo, e a cosa avesse rinunciato pur di ottenere dal re la
promessa di non essere obbligato a sposarsi, e dare così un erede a Enerios.
Conosceva ogni parola di
quel maledetto accordo, e le si spezzava il cuore al pensiero di non poter far
nulla per dare una mano ad Aken per liberarsi di un simile fardello.
Purtroppo per lei e per il
figlio maggiore, non aveva alcun potere decisionale.
Da sempre, fin da quando era
stata condotta da Arkan all’età di sedici anni, Anladi non aveva mai avuto voce
in capitolo su nessuna decisione.
Era stata scelta per la sua
avvenenza e per il suo alto lignaggio, pochissimo tempo dopo la morte della
prima moglie del re e madre del principe ereditario.
Come un prezioso animale da
fiera, era stata esposta su un palco e comprata dal miglior offerente.
Era a conoscenza del fatto
che sua figlia Melantha avrebbe subito la stessa sorte e, forse anche per
questo, l’aveva cresciuta piena di vizi.
Era straziata all’idea che,
per la maggior parte della sua vita, sarebbe stata null’altro che un trofeo
nelle mani del nobile di turno che l’avesse presa in sposa.
Certo, spesso era
intrattabile e superficiale, ma non se la sentiva di rimproverarla, soprattutto
sapendo cosa covava in sé in realtà.
Melantha era tutt’altro che
una sciocca ma, per sopravvivere in quella Corte piena di veleni, aveva dovuto
impersonarla spesso e volentieri.
Allo stesso modo, non se la
sentiva di rimproverare Aken per la sua decisione di voltare le spalle alla
famiglia per vivere isolato da tutti, pur se accanto a loro.
Come poteva rifiutargli un
simile sfogo, dopo quello a cui aveva dovuto rinunciare?
Perché chiedere al padre di
raggiungere Eikhe di Nestar, se non per un solo motivo?
La parola amore non era mai
stata detta in sua presenza, ma aveva aleggiato per ore nello studio di suo
marito quando, dopo il furioso litigio tra lui e il figlio, lei era entrata per
sapere cosa fosse successo.
Arkan si era rivolto a lei
con parole di fiele, accusandola di non averlo educato nel modo giusto, di non
aver badato a imprimere nella mente di Aken il rispetto per il suo lignaggio e
per il nome che portava.
Anladi, sempre più confusa,
aveva chiesto spiegazioni in merito, venendo così a scoprire dello scellerato
patto stretto dai due uomini.
Nulla era valso, né le sue
accorate preghiere, né il suo fiero cipiglio di fronte allo sguardo adamantino
del marito.
Si era presa uno schiaffo in
difesa del figlio, e questo era stato l’unico risultato ottenuto.
Da quel giorno, aveva
osservato con timore sempre crescere il lento ma inesorabile declino del
figlio, senza poter fare nulla per alleviarlo.
Neppure Ruak era riuscito
nell’intento di sradicarlo da quell’inedia tremenda, di cui però non conosceva
le cause, se non in parte.
Lasciando perdere quei
pensieri quando raggiunsero le scale, Anladi si lasciò aiutare dal figliastro a
discendere, finché non raggiunsero il cortile interno di palazzo.
Da lì, lo strano trio
percorse la sua ampiezza con passo tranquillo, dirigendosi verso le stalle
reali.
Sotto gli occhi sgranati
dalla sorpresa di Meyor, il principe presentò quindi al bambino il suo enorme
stallone da guerra, Eskatt.
Poggiatolo delicatamente
sulla sua imponente schiena, Aken lo tenne per una mano, domandandogli: “Non
credi sia un bellissimo animale?”
“Bello! Sì!” esclamò Meyor,
aprendosi in un sorriso radioso.
Il principe vi rispose con
trasporto e Anladi, mordendosi un labbro per non scoppiare in lacrime proprio
dinanzi a loro, se ne uscì dicendo: “Vorresti imparare a cavalcare, piccolo
Meyor?”
Il bambino la fissò sorpreso
per alcuni attimi prima di annuire e Aken, scrutando la madre con fare
dubbioso, disse: “Potrei insegnargli io. Tanto, di tempo ne ho in quantità.”
“Proprio quello che speravo”
sussurrò la regina, prima di raccogliere le gonne e aggiungere: “Vado a
parlarne con Iruna per essere certa che vada bene anche a lei, poi faremo
portare qui uno dei pony che abbiamo nella nostra tenuta di campagna. Penso che
per lui andrà benissimo.”
“Sì… madre” acconsentì Aken,
assottigliando le iridi smeraldine nello studiare il suo viso leggermente
pallido.
Affrettandosi a distogliere
lo sguardo da quello fin troppo acuto del figlio, Anladi si scusò con entrambi,
ritirandosi in grande stile e uscendo dalla stalla a passo veloce.
Era certa che, se fosse
rimasta un solo attimo di più assieme a loro, sarebbe crollata.
Non appena fu al riparo
dalla vista del figlio, la donna si appoggiò stancamente contro la parete della
stalla.
Con un singhiozzo strozzato,
si coprì la bocca con la mano per soffocare qualsiasi ansito la sua gola avesse
deciso di lasciarsi sfuggire per la troppa debolezza.
Era solo questo che poteva
fare per il figlio? Acconsentire a che divenisse l’allenatore di un bambino?
A quanto pareva, sì.
Sperava solo che Iruna fosse
d’accordo con l’idea che le era balzata in mente in un momento di follia, e la
aiutasse a trasformare quella prigione dorata che era divenuta il palazzo, in
qualcosa di più sopportabile, di più umano.
***
Sorseggiando del buon vino
mentre, con fare noncurante, piluccava dal proprio piatto alcuni acini d’uva
dall’aspetto invitante, Ruak se ne uscì dicendo: “Allora, è vero che darai
lezioni d’equitazione al figlio della tua governante?”
Levando lo sguardo dal
proprio piatto per scrutare il viso ora arrossito di sua madre, Aken ammiccò
all’indirizzo della donna, celiando: “La nostra illustre genitrice pensa sia
una buona idea, forse per non farmi diventare un vecchio irascibile e dalla
parlata volgare.”
Ridacchiando nel poggiare il
bicchiere di peltro sul piccolo tavolo di legno dove si erano raccolti per un
frugale pasto – il re era impegnato alla Tavola Grande con alcuni emissari del
Reame di Karton – Ruak ghignò: “Sei già un
vecchio irascibile, quindi non credo tu abbia speranze.”
“E’ il bimbo con cui stavi
passeggiando nei giardini oggi pomeriggio?” si informò Melantha, spezzando una
pagnottella di pane sul suo piatto.
Scrutandola curioso – era
raro che gli rivolgesse domande senza il suo consueto tono puntiglioso – il
fratellastro annuì, asserendo atono: “Sì, era lui.”
“E’ carino” replicò la
principessa, scrollando leggermente le spalle.
Aken assottigliò le iridi di
smeraldo, fissandola da sotto il pesante mantello di ciglia scure.
Notando il suo pallore e le
mani leggermente tremanti, le chiese con tono insolitamente premuroso: “Non ti
senti bene, sorella?”
“Come?” esalò lei,
sobbalzando leggermente a quelle parole.
Il suo cipiglio mutò in
sospetto e, scrutando un momento la madre con aria pensierosa, chiese torvo:
“Si parla di un eventuale matrimonio di Melantha, nella sala accanto, madre?”
Annuendo debolmente, Anladi
sorrise comprensiva alla figlia, che reclinò il capo a scrutare il piatto,
praticamente intonso, come se vi fossero nascosti i segreti del mondo.
“Il re di Karton desidera
una moglie di nobile lignaggio per suo figlio Mynias, così hanno mandato un rappresentante
del sovrano perché si discutesse di un’eventuale unione” mormorò spiacente Anladi,
non sapendo come affrontare lo sguardo adamantino del figliastro.
“E io non ne sono stato
informato” commentò asciutto Aken, aggrottando la fronte.
Da tempo si occupava
soltanto del commercio interno di merci e servizi, preferendo non avere a che
fare con il Concilio della Corona e la gilda del Ministero degli Esteri che, di fatto, si occupavano di tutt’altro.
Aver lasciato fuori dalla
porta gli Affari Esteri e Interni, però, gli aveva negato la possibilità di
venire a conoscenza di quella notizia, che suo padre si era ben guardato dal
comunicargli.
E così volevano maritare
Melantha.
Non che la cosa lo
sorprendesse, ma gli sembrava maledettamente presto.
Aveva diciassette anni
appena compiuti, ed era ancora troppo infantile per essere messa al fianco di
un uomo per divenirne la moglie.
A onor del vero, però, il
principe Mynias era persona degna di nota, oltre che gentile con il prossimo.
Lui stesso ne era stato
amico e compagno, durante il suo apprendistato presso la corte di Karton, ove regnava suo padre.
Allungando una mano in
direzione di quella della sorella, ne sfiorò il dorso con dita leggere e, nel vederla
sobbalzare per la sorpresa, le sorrise benevolo.
“Conosco Mynias da tempo,
Melantha, ed è un uomo buono e cortese. Se nostro padre accetterà di darti in
moglie a lui, sarà una buona unione. Non finirai in mano a un orco.”
Mordendosi un labbro per non
piangere – dopotutto, era una principessa fin nel midollo, e certe debolezze
erano bandite, in pubblico – Melantha annuì e disse con voce flebile: “Com…
com’è, lui?”
Maledetta legge!, pensò tra sé il principe, imprecando all’indirizzo di suo padre e di
tutti i suoi predecessori.
Era una crudeltà costringere
a simili matrimoni giovani donne come la sorella, senza la benché minima
conoscenza di ciò che le attendeva!
Imponendosi la calma, Aken
accostò la propria sedia a quella della sorella.
Volgendosi completamente
verso di lei, le disse con la massima onestà: “Mynias è un guerriero e perciò,
come me, ha subito diverse ferite, in passato. Una lo ha sfregiato su una
guancia, ma i dottori sono stati molto bravi a ridurre al minimo il danno. In
ogni caso, la ferita è visibile e, forse, potrebbe urtare un po’ la tua
sensibilità di fanciulla.”
Nell’annuire compita,
Melantha si lappò nervosamente le labbra, sussurrando: “Non è… non è un
problema.”
Ammirando i suoi tentativi
di apparire tranquilla, il fratellastro le afferrò quindi la mano per
stringerla nella propria e, accarezzandola con lenti passaggi delle dita nel
tentativo di calmarla progressivamente, continuò dicendo: “Naturalmente, come
qualsiasi altro principe, è stato educato al rispetto del gentil sesso, ma si
aspetta anche la più totale sottomissione da parte della sua futura moglie.”
“Aken…” sussurrò leggermente
contrariata Anladi, senza però avere il coraggio di levare il capo per
guardarlo.
“Sbaglio, madre?” replicò
scettico lui. “Ricorderò male, ma il mio precettore mi disse più volte che una
moglie irrispettosa andrebbe battuta. Cosa che trovo del tutto assurda, ma
questo si insegna, nei grandi regni.”
Anladi preferì non dire
nulla e Melantha, impallidendo leggermente, gli chiese: “Credi… mi batterebbe?”
Ridacchiando senza allegria,
Aken scrollò le spalle e celiò: “Melly, certe volte dovresti essere battuta davvero, ma solo per la tua totale mancanza
di assennatezza. Devi ricordare di pensare,
prima di parlare. L’essere una principessa non ti dispensa dall’usare il
cervello e, visto che so che tu ne hai uno ben sviluppato, usalo.”
Non sapendo se essere più
stupita dall’uso di quel nomignolo, che Aken non utilizzava mai, o furiosa per quello che aveva
detto subito dopo, Melantha fissò il fratellastro senza riuscire ad aprire
bocca.
Il giovane ne approfittò per
aggiungere: “Mynias non sarà mai crudele con te, se è questo che temi, ma ha
ricevuto la mia stessa educazione, e sai cosa ci si aspetta dai principi come
me, giusto?”
Reclinando il capo, Melantha
annuì mogia e ripeté a memoria ciò che le era stato insegnato fin da piccola.
“Che siano inflessibili
quando non vengono rispettate le regole, anche se a trasgredirle fosse la
stessa moglie.”
Con un lieve sospiro, Aken
si avvicinò a lei e, poggiando la fronte contro quella di Melantha, che sospirò
per la sorpresa, le disse sommessamente: “Parlerò io stesso con Mynias e gli
dirò di trattarti bene, pena un mio castigo severissimo, ma anche tu devi fare
la tua parte, e non lasciarti andare a inutili infantilismi, d’accordo?”
“Cosa dovrei fare?” sussurrò
lei, afferrando la mano libera del fratellastro prima di chiudere gli occhi,
quasi avesse paura di ascoltare le sue parole.
“Sii la donna che so
albergare dentro di te. Rendi fiera te stessa, prima di noi tutti, e diventa la
principessa reale che sei” disse con orgoglio Aken, staccandosi da lei e sfiorando
il bracciale su cui brillava l’occhio di lupo che le aveva regalato Eikhe.
Anche la sorellastra lo
guardò e, annuendo con forza, lo coprì con la propria mano, stringendo fin
quasi a sbiancare le nocche.
Sbattendo poi furiosamente
le ciglia, ora inumidite di lacrime che non avrebbe mai versato in loro
presenza, mormorò roca: “Una… principessa reale. Tutto qui?”
Abbozzando una risatina,
Aken replicò: “Già, tutto qui. Una sciocchezza, no?”
“Sì, una sciocchezza” annuì
lei, levandosi poi dallo scranno con grazia contegnosa.
Imponendosi poi una
riverenza degna di tale nome, sussurrò: “Con il vostro permesso, mi ritiro.”
“Permesso accordato” annuì il
fratello maggiore, levandosi in piedi e prendendole una mano per baciargliela
con galanteria.
Melantha non ebbe il
coraggio di guardarlo e, con un fruscio di stoffe, uscì dalla stanzetta
lasciando dietro di sé il suo dolce profumo e l’amaro delle lacrime che avevano
cominciato a scorrere sulle sue gote.
Tornando a sedersi, il
giovane si versò una dose generosa di vino, che bevve in un sol sorso e, dopo
un momento di imbarazzato silenzio, disse atono: “Sarà una brava moglie, per
Mynias.”
“Grazie, Aken” sussurrò
Anladi, abbozzando un sorriso al figlio.
Non riuscendo in alcun modo
a rispondere a quello sguardo, lui si limitò a mormorare: “Se potrò evitarle
una sofferenza, lo farò. Non è giusto che soffra anche lei.”
A questo, Anladi non seppe
replicare.
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