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Autore: Mary P_Stark    20/12/2011    3 recensioni
PRIMA PARTE DELLA SAGA DI OCCHI DI LUPO. Il regno di Enerios è sull'orlo della guerra con il suo nemico storico, Vartas. Solo il suo principe ereditario, Aken di Rajana, e una ragazza-lupo, Eikhe di Nestar, potranno salvare il loro regno dalla distruzione. Ma non solo per difendere le loro terre, i due giovani dovranno lottare. Anche per difendere il loro amore che, tra le gelide lande dei Monti Urlanti, è divampato come fuoco scarlatto. Incuranti della differente estrazione sociale che li separa, dei loro stili di vita così diversi e del segreto misterioso che si cela dietro gli occhi di lupo di Eikhe, i loro cuori si toccheranno nel momento di maggior pericolo.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Occhi di Lupo Saga'
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20.

 

 

 

 

 

Se Aken aveva pensato di poter portare avanti con cuor leggero la promessa strappata al padre, dovette ricredersi quasi subito.

Impedire a se stesso di uscire dalle mura di Rajana, fu più penoso e difficile di quanto lui stesso non avesse in un primo momento pensato, o sperato.

Per salvare Eikhe dalla lama di un coltello, o dalla freccia di un franco tiratore, Aken avrebbe pagato anche mille volte lo stesso prezzo, ma il suo cuore dovette fare ben presto i conti con l’inedia e lo sconforto.

Il respiro delle montagne innevate, che racchiudevano come uno scrigno metà del suo animo, gli mancava con la stessa intensità con cui percepiva la mancanza fisica di Eikhe.

Il ricordo del fruscio del vento fra le fronde dei faggi, o tra i rami secolari dei pini da resina, lo risvegliavano di soprassalto la mattina, pieno di un desiderio che non avrebbe mai più potuto soddisfare.

Neppure le intense ore di lettura, contrapposte a estenuanti allenamenti con la spada, lenirono la sua fame di Eikhe, il suo bisogno fisiologico di vederla, di toccarla, di odorarla.

Di avere tutto, di lei.

Ma oltre a lei, avvertiva la mancanza delle montagne, degli odori penetranti che scivolavano tra le piante, la mattina, quando il sole bagnava coi suoi raggi la rugiada sulle foglie e il terreno umido.

Cuore e anima erano tra i monti impervi che scorgeva all’orizzonte e che, con le loro cime seghettate, coloravano di bianco e nero l’orizzonte terso di quei mesi estivi e caldi.

Silenzioso spettatore del suo lento ma inesorabile declino, Ruak chiese più volte al fratello, almeno nei primi mesi di quella autoimposta prigionia, perché avesse deciso di non andarsene.

Mai, una sola volta, Aken rispose alle domande del fratello.

Il giovane erede, che pure giunse a odiare il padre per le imposizioni cui l’aveva costretto, non disse mai al fratello la causa prima di quel volontario esilio.

Non avrebbe mai permesso che i suoi sentimenti personali influenzassero la stima, e l’affetto, che Ruak provava per il loro comune genitore.

Non potendo fare altro, fece di un’arma il silenzio e di uno scudo il suo malumore, costringendo ben presto il fratello minore a desistere dall’impresa di scoprire la verità.

Ruak non avrebbe mai dovuto scoprire cosa lo spingesse a rinchiudersi all’interno della sua stessa casa, impedendosi di respirare, di vivere, di amare colei che lo aveva conquistato.

Sua unica consolazione in quel mare di inedia in cui aveva voluto, e dovuto, sprofondare per salvare Eikhe, fu il giovane figlio di Iruna.

Sin dall’inizio di quella sua reclusione forzata, la sua domestica personale aveva notato il malumore del proprio principe, e il suo sguardo sempre puntato a nord, verso i monti impervi e canuti.

Nulla era valso allo scopo di scoprire la verità. Domandare, sussurrare gentilmente spiegazioni, impuntarsi con cipiglio militaresco.

Aken si era trincerato dietro un secco ‘non ho nulla’, ogni qual volta Iruna gli aveva chiesto i motivi dei suoi lunghi silenzi e dei più cupi pensieri.

Le sue interminabili occhiate perse verso l’orizzonte, i suoi infervorati studi – cui mai si era sottoposto con così tanta assiduità – e le sue sfiancanti lezioni di scherma, erano rimasti un mistero per tutti.

Agli albori dell’autunno, però, Iruna si stancò di vedere il suo principe ridotto all’ombra di se stesso.

Dopo aver ragionato non poche ore sulla sua idea – e averne menzionato a Kannor, l’attendente di Aken – la donna decise di condurre a palazzo il figlio di soli quattro anni.

Non appena Aken lo vide accanto a Iruna, piccolo e timido e aggrappato alle lunghe gonne di panno della madre, il principe si aprì in un sorriso spontaneo.

Piegatosi su un ginocchio per guardarlo meglio negli occhi, esordì dicendo: “Ciao, Meyor. La mamma mi ha tanto parlato di te. Io sono Aken.”

Il bimbo, dai folti riccioli biondo cenere e gli occhi nocciola, lo fissò con autentica sorpresa, non aspettandosi di certo che il potente principe di Rajana conoscesse il suo nome.

Mordendosi timoroso il labbro inferiore, sussurrò: “Ciao.”

Il sorriso del principe si allargò e, dopo aver lanciato uno sguardo a Iruna, che assentì, allungò le braccia in direzione del bambino per prenderlo in braccio.

“Che ne dici se io e te andiamo a fare un giro per il palazzo, così lasciamo lavorare in pace la mamma? Temo che le saremmo solo d’intralcio, se restassimo nella mia stanza a gironzolare senza fare nulla.”

Il bambino fissò la madre da sopra la spalla del principe e Iruna, annuendo gradevolmente, disse: “Resta pure con il principe, Meyor. E’ un uomo buono, e ti tratterà bene.”

Meyor allora annuì fiducioso e, tornando a guardare il volto del principe, intenerito dal suo sguardo innocente, domandò: “Hai una spada?”

Iruna se ne uscì con un’esclamazione esasperata mentre Aken, scoppiando a ridere, annuiva al ragazzino, incamminandosi lungo le scale per raggiungere la sala d’armi della sua famiglia.

Osservandoli compiaciuta mentre scendevano le scale, parlottando tra di loro con il cameratismo tipico dei maschi – anche se capire gli strafalcioni di Meyor doveva essere un dramma – Iruna sorrise più serena.

Già sul punto di entrare nelle stanze del principe, sobbalzò per la sorpresa quando vide comparire da una porticina laterale la figura nivea della regina Anladi.

Sin da quando i principi erano tornati dalla guerra, l’estate appena conclusasi, Anladi aveva deciso di utilizzare il colore bianco, solitamente usato per celebrare eventi di somma importanza, per ogni suo abito.

Allo stesso modo, e con una certa dose di divertimento, aveva ‘imposto’ la stessa cosa anche alla figlia Melantha.

Per quanto belli fossero i suoi vestiti, però, il sorriso spento che, ormai da mesi, si apriva come un fiore morente sul viso infinitamente elegante della regina, rendeva il tentativo di festeggiare la vittoria una mera utopia.

La regina era triste, molto probabilmente per il figliastro, ma a nessuno era dato sapere perché il principe Aken fosse di umore così nero, o perché la consorte di re Arkan fosse così sofferente.

Inchinandosi in fretta non appena si riprese dallo shock, Iruna esalò compitamente: “Mia regina, buongiorno. Non immaginavo voi foste qui.”

Allargando leggermente il sorriso, che non raggiunse mai gli occhi cerulei, Anladi le afferrò gentilmente le mani per farla risollevare.

Gentilmente, poi, le disse: “Dubito vi sareste mai aspettata che la vostra regina comparisse dal corridoio solitamente usato dalla servitù.”

Arrossendo suo malgrado di fronte a quello sguardo così tenero – e, soprattutto, per le loro mani ancora giunte – Iruna sorrise appena, replicando: “No, non me lo sarei mai aspettata, lo ammetto. Avevate bisogno dei miei servigi, mia Signora?”

Volgendo lo sguardo verso la scala ora sgombra e silenziosa, Anladi scosse il capo, pensierosa.

“E’ vostro figlio, il bimbo che Aken aveva in braccio, vero?”

“Sì, mia regina” arrossì copiosamente Iruna prima di aggiungere: “Vedete, pensavo che…”

Interrompendola con un sorriso disarmante e ferocemente triste, Anladi sussurrò: “Pensavate di distrarlo dalla sua tristezza, dico bene?”

Annuendo suo malgrado – non sapendo davvero come la regina avrebbe interpretato il suo gesto – Iruna sospirò e ammise: “Mi è parsa una buona idea. Mi si straziava il cuore a vedere vostro figlio così triste, così ho pensato che la vista di un bambino potesse, come dire, rallegrarlo un po’. Ho chiesto anche il parere di Mastro Kannor, prima di portarlo, e anche lui mi era d’accordo con me.”

“Kannor è un buon amico, per mio figlio, e credo anche voi, Iruna” assentì Anladi, inclinando leggermente il capo a osservarla con attenzione. “Non posso che ringraziarvi per la vostra gentilezza e, se mai questo esperimento dovesse funzionare, vi prego, conducete ancora vostro figlio qui a palazzo.”

“Sarò lieta di ripetere la visita, se scoprirò che il mio intento ha dato dei frutti” annuì Iruna, sorridendo gentilmente ed esibendosi in un elegante cenno del capo. “Devo troppo, a vostro figlio, per non tentare il tutto e per tutto perché si rassereni almeno un poco.”

Stringendo con più forza le mani di Iruna, che non aveva mai lasciato andare, Anladi esalò un sospiro affranto e abbandonò infine la presa.

“Se dovesse in un qualsiasi modo aprirsi con voi, per favore, ditemelo. Vorrei tanto saperlo in grado di aprirsi con qualcuno, visto che pare non voler parlare neppure con il fratello.”

“Ci sarò sempre, per il principe. Anche se vorrà parlarmi dei suoi problemi” annuì Iruna prima di sgranare gli occhi di fronte alle lacrime a stento trattenute di Anladi.

Dopo un attimo di tentennamento, la regina lasciò andare le mani della domestica per scivolare silenziosamente dietro la porta che conduceva ai corridoi della servitù.

Stringendosi le mani al petto, Iruna sussurrò tra sé: “Cos’è mai successo, a questa famiglia?”

***

“Ma è grossa. Si usa davvero davvero?” esalò sorpreso Meyor, fissando a occhi sgranati Aken che, con un sorriso divertito, gli stava mostrando la sua enorme spada da guerra.

Ben più alto del bambino, il grande spadone di Aken era saldamente nella mano del possente guerriero quando, sulla porta della sala d’armi, comparve la figura della regina.

Fissandola vagamente sorpreso, mentre Meyor si incuneava tra le sue gambe per la timidezza, il principe sorrise in segno di benvenuto alla madre.

Con un leggero cenno del capo, la invitò silenziosamente a entrare.

“Buongiorno, madre. Avevi bisogno di me?”

“No, mio caro” scosse il capo la donna, avvicinandosi alla coppia prima di sorridere al bimbo, ancora nascosto dietro le possenti gambe del figliastro. “E tu, bel bambino, chi sei?”

Ridacchiando del profuso rossore che salì alle gote di Meyor, Aken ripose in fretta la spada con un agile movimento del polso e, dopo un attimo, accolse tra le sue braccia il bambino. 

“E’ il figlio di Iruna, la mia governante personale. Ha pensato di portarlo a palazzo per farmelo conoscere. Era già da qualche tempo che me ne parlava.”

Addolcendo ulteriormente i tratti del volto, Anladi carezzò con un dito il mento del bambino, mormorando: “Sei un bimbo davvero molto carino. Mio figlio ti sta facendo fare un giro del castello?”

Meyor si limitò ad annuire e la donna, scrutando da sotto le ciglia folte il sorriso benevolo di Aken, rivolto unicamente al bambino, sospirò impercettibilmente prima di chiedere: “Pensate che potrei unirmi a voi? Non ho nulla da fare, e mi sto annoiando molto.”

Sollevando con non poca sorpresa un sopracciglio nell’osservare il volto apparentemente tranquillo della madre, Aken asserì: “Ci onoreresti, madre. Tu che ne dici? La prendiamo con noi?”

Meyor annuì ancora, stringendosi al collo di Aken prima di sussurrare: “E’ bella!”

Ridacchiando, il principe annuì.

“Sì, lo so, ho una bella mamma. Come te, del resto. Siamo fortunati, non ti pare?”

Che padre magnifico saresti, figlio mio!, pensò tristemente Anladi, affiancando il figliastro nell’uscire dalla sala d’armi.

Sapeva fin troppo bene cosa lo costringesse a palazzo, e a cosa avesse rinunciato pur di ottenere dal re la promessa di non essere obbligato a sposarsi, e dare così un erede a Enerios.

Conosceva ogni parola di quel maledetto accordo, e le si spezzava il cuore al pensiero di non poter far nulla per dare una mano ad Aken per liberarsi di un simile fardello.

Purtroppo per lei e per il figlio maggiore, non aveva alcun potere decisionale.

Da sempre, fin da quando era stata condotta da Arkan all’età di sedici anni, Anladi non aveva mai avuto voce in capitolo su nessuna decisione.

Era stata scelta per la sua avvenenza e per il suo alto lignaggio, pochissimo tempo dopo la morte della prima moglie del re e madre del principe ereditario.

Come un prezioso animale da fiera, era stata esposta su un palco e comprata dal miglior offerente.

Era a conoscenza del fatto che sua figlia Melantha avrebbe subito la stessa sorte e, forse anche per questo, l’aveva cresciuta piena di vizi.

Era straziata all’idea che, per la maggior parte della sua vita, sarebbe stata null’altro che un trofeo nelle mani del nobile di turno che l’avesse presa in sposa.

Certo, spesso era intrattabile e superficiale, ma non se la sentiva di rimproverarla, soprattutto sapendo cosa covava in sé in realtà.

Melantha era tutt’altro che una sciocca ma, per sopravvivere in quella Corte piena di veleni, aveva dovuto impersonarla spesso e volentieri.

Allo stesso modo, non se la sentiva di rimproverare Aken per la sua decisione di voltare le spalle alla famiglia per vivere isolato da tutti, pur se accanto a loro.

Come poteva rifiutargli un simile sfogo, dopo quello a cui aveva dovuto rinunciare?

Perché chiedere al padre di raggiungere Eikhe di Nestar, se non per un solo motivo?

La parola amore non era mai stata detta in sua presenza, ma aveva aleggiato per ore nello studio di suo marito quando, dopo il furioso litigio tra lui e il figlio, lei era entrata per sapere cosa fosse successo.

Arkan si era rivolto a lei con parole di fiele, accusandola di non averlo educato nel modo giusto, di non aver badato a imprimere nella mente di Aken il rispetto per il suo lignaggio e per il nome che portava.

Anladi, sempre più confusa, aveva chiesto spiegazioni in merito, venendo così a scoprire dello scellerato patto stretto dai due uomini.

Nulla era valso, né le sue accorate preghiere, né il suo fiero cipiglio di fronte allo sguardo adamantino del marito.

Si era presa uno schiaffo in difesa del figlio, e questo era stato l’unico risultato ottenuto.

Da quel giorno, aveva osservato con timore sempre crescere il lento ma inesorabile declino del figlio, senza poter fare nulla per alleviarlo.

Neppure Ruak era riuscito nell’intento di sradicarlo da quell’inedia tremenda, di cui però non conosceva le cause, se non in parte.

Lasciando perdere quei pensieri quando raggiunsero le scale, Anladi si lasciò aiutare dal figliastro a discendere, finché non raggiunsero il cortile interno di palazzo.

Da lì, lo strano trio percorse la sua ampiezza con passo tranquillo, dirigendosi verso le stalle reali.

Sotto gli occhi sgranati dalla sorpresa di Meyor, il principe presentò quindi al bambino il suo enorme stallone da guerra, Eskatt.

Poggiatolo delicatamente sulla sua imponente schiena, Aken lo tenne per una mano, domandandogli: “Non credi sia un bellissimo animale?”

“Bello! Sì!” esclamò Meyor, aprendosi in un sorriso radioso.

Il principe vi rispose con trasporto e Anladi, mordendosi un labbro per non scoppiare in lacrime proprio dinanzi a loro, se ne uscì dicendo: “Vorresti imparare a cavalcare, piccolo Meyor?”

Il bambino la fissò sorpreso per alcuni attimi prima di annuire e Aken, scrutando la madre con fare dubbioso, disse: “Potrei insegnargli io. Tanto, di tempo ne ho in quantità.”

“Proprio quello che speravo” sussurrò la regina, prima di raccogliere le gonne e aggiungere: “Vado a parlarne con Iruna per essere certa che vada bene anche a lei, poi faremo portare qui uno dei pony che abbiamo nella nostra tenuta di campagna. Penso che per lui andrà benissimo.”

“Sì… madre” acconsentì Aken, assottigliando le iridi smeraldine nello studiare il suo viso leggermente pallido.

Affrettandosi a distogliere lo sguardo da quello fin troppo acuto del figlio, Anladi si scusò con entrambi, ritirandosi in grande stile e uscendo dalla stalla a passo veloce.

Era certa che, se fosse rimasta un solo attimo di più assieme a loro, sarebbe crollata.

Non appena fu al riparo dalla vista del figlio, la donna si appoggiò stancamente contro la parete della stalla.

Con un singhiozzo strozzato, si coprì la bocca con la mano per soffocare qualsiasi ansito la sua gola avesse deciso di lasciarsi sfuggire per la troppa debolezza.

Era solo questo che poteva fare per il figlio? Acconsentire a che divenisse l’allenatore di un bambino?

A quanto pareva, sì.

Sperava solo che Iruna fosse d’accordo con l’idea che le era balzata in mente in un momento di follia, e la aiutasse a trasformare quella prigione dorata che era divenuta il palazzo, in qualcosa di più sopportabile, di più umano.

***

Sorseggiando del buon vino mentre, con fare noncurante, piluccava dal proprio piatto alcuni acini d’uva dall’aspetto invitante, Ruak se ne uscì dicendo: “Allora, è vero che darai lezioni d’equitazione al figlio della tua governante?”

Levando lo sguardo dal proprio piatto per scrutare il viso ora arrossito di sua madre, Aken ammiccò all’indirizzo della donna, celiando: “La nostra illustre genitrice pensa sia una buona idea, forse per non farmi diventare un vecchio irascibile e dalla parlata volgare.”

Ridacchiando nel poggiare il bicchiere di peltro sul piccolo tavolo di legno dove si erano raccolti per un frugale pasto – il re era impegnato alla Tavola Grande con alcuni emissari del Reame di Karton – Ruak ghignò: “Sei già un vecchio irascibile, quindi non credo tu abbia speranze.”

“E’ il bimbo con cui stavi passeggiando nei giardini oggi pomeriggio?” si informò Melantha, spezzando una pagnottella di pane sul suo piatto.

Scrutandola curioso – era raro che gli rivolgesse domande senza il suo consueto tono puntiglioso – il fratellastro annuì, asserendo atono: “Sì, era lui.”

“E’ carino” replicò la principessa, scrollando leggermente le spalle.

Aken assottigliò le iridi di smeraldo, fissandola da sotto il pesante mantello di ciglia scure.

Notando il suo pallore e le mani leggermente tremanti, le chiese con tono insolitamente premuroso: “Non ti senti bene, sorella?”

“Come?” esalò lei, sobbalzando leggermente a quelle parole.

Il suo cipiglio mutò in sospetto e, scrutando un momento la madre con aria pensierosa, chiese torvo: “Si parla di un eventuale matrimonio di Melantha, nella sala accanto, madre?”

Annuendo debolmente, Anladi sorrise comprensiva alla figlia, che reclinò il capo a scrutare il piatto, praticamente intonso, come se vi fossero nascosti i segreti del mondo.

“Il re di Karton desidera una moglie di nobile lignaggio per suo figlio Mynias, così hanno mandato un rappresentante del sovrano perché si discutesse di un’eventuale unione” mormorò spiacente Anladi, non sapendo come affrontare lo sguardo adamantino del figliastro.

“E io non ne sono stato informato” commentò asciutto Aken, aggrottando la fronte.

Da tempo si occupava soltanto del commercio interno di merci e servizi, preferendo non avere a che fare con il Concilio della Corona e la gilda del Ministero degli Esteri che, di fatto, si occupavano di tutt’altro.

Aver lasciato fuori dalla porta gli Affari Esteri e Interni, però, gli aveva negato la possibilità di venire a conoscenza di quella notizia, che suo padre si era ben guardato dal comunicargli.

E così volevano maritare Melantha.

Non che la cosa lo sorprendesse, ma gli sembrava maledettamente presto.

Aveva diciassette anni appena compiuti, ed era ancora troppo infantile per essere messa al fianco di un uomo per divenirne la moglie.

A onor del vero, però, il principe Mynias era persona degna di nota, oltre  che gentile con il prossimo.

Lui stesso ne era stato amico e compagno, durante il suo apprendistato presso la corte di Karton, ove regnava suo padre.

Allungando una mano in direzione di quella della sorella, ne sfiorò il dorso con dita leggere e, nel vederla sobbalzare per la sorpresa, le sorrise benevolo.

“Conosco Mynias da tempo, Melantha, ed è un uomo buono e cortese. Se nostro padre accetterà di darti in moglie a lui, sarà una buona unione. Non finirai in mano a un orco.”

Mordendosi un labbro per non piangere – dopotutto, era una principessa fin nel midollo, e certe debolezze erano bandite, in pubblico – Melantha annuì e disse con voce flebile: “Com… com’è, lui?”

Maledetta legge!, pensò tra sé il principe, imprecando all’indirizzo di suo padre e di tutti i suoi predecessori.

Era una crudeltà costringere a simili matrimoni giovani donne come la sorella, senza la benché minima conoscenza di ciò che le attendeva!

Imponendosi la calma, Aken accostò la propria sedia a quella della sorella.

Volgendosi completamente verso di lei, le disse con la massima onestà: “Mynias è un guerriero e perciò, come me, ha subito diverse ferite, in passato. Una lo ha sfregiato su una guancia, ma i dottori sono stati molto bravi a ridurre al minimo il danno. In ogni caso, la ferita è visibile e, forse, potrebbe urtare un po’ la tua sensibilità di fanciulla.”

Nell’annuire compita, Melantha si lappò nervosamente le labbra, sussurrando: “Non è… non è un problema.”

Ammirando i suoi tentativi di apparire tranquilla, il fratellastro le afferrò quindi la mano per stringerla nella propria e, accarezzandola con lenti passaggi delle dita nel tentativo di calmarla progressivamente, continuò dicendo: “Naturalmente, come qualsiasi altro principe, è stato educato al rispetto del gentil sesso, ma si aspetta anche la più totale sottomissione da parte della sua futura moglie.”

“Aken…” sussurrò leggermente contrariata Anladi, senza però avere il coraggio di levare il capo per guardarlo.

“Sbaglio, madre?” replicò scettico lui. “Ricorderò male, ma il mio precettore mi disse più volte che una moglie irrispettosa andrebbe battuta. Cosa che trovo del tutto assurda, ma questo si insegna, nei grandi regni.”

Anladi preferì non dire nulla e Melantha, impallidendo leggermente, gli chiese: “Credi… mi batterebbe?”

Ridacchiando senza allegria, Aken scrollò le spalle e celiò: “Melly, certe volte dovresti essere battuta davvero, ma solo per la tua totale mancanza di assennatezza. Devi ricordare di pensare, prima di parlare. L’essere una principessa non ti dispensa dall’usare il cervello e, visto che so che tu ne hai uno ben sviluppato, usalo.”

Non sapendo se essere più stupita dall’uso di quel nomignolo, che Aken non utilizzava mai, o furiosa per quello che aveva detto subito dopo, Melantha fissò il fratellastro senza riuscire ad aprire bocca.

Il giovane ne approfittò per aggiungere: “Mynias non sarà mai crudele con te, se è questo che temi, ma ha ricevuto la mia stessa educazione, e sai cosa ci si aspetta dai principi come me, giusto?”

Reclinando il capo, Melantha annuì mogia e ripeté a memoria ciò che le era stato insegnato fin da piccola.

“Che siano inflessibili quando non vengono rispettate le regole, anche se a trasgredirle fosse la stessa moglie.”

Con un lieve sospiro, Aken si avvicinò a lei e, poggiando la fronte contro quella di Melantha, che sospirò per la sorpresa, le disse sommessamente: “Parlerò io stesso con Mynias e gli dirò di trattarti bene, pena un mio castigo severissimo, ma anche tu devi fare la tua parte, e non lasciarti andare a inutili infantilismi, d’accordo?”

“Cosa dovrei fare?” sussurrò lei, afferrando la mano libera del fratellastro prima di chiudere gli occhi, quasi avesse paura di ascoltare le sue parole.

“Sii la donna che so albergare dentro di te. Rendi fiera te stessa, prima di noi tutti, e diventa la principessa reale che sei” disse con orgoglio Aken, staccandosi da lei e sfiorando il bracciale su cui brillava l’occhio di lupo che le aveva regalato Eikhe.

Anche la sorellastra lo guardò e, annuendo con forza, lo coprì con la propria mano, stringendo fin quasi a sbiancare le nocche.

Sbattendo poi furiosamente le ciglia, ora inumidite di lacrime che non avrebbe mai versato in loro presenza, mormorò roca: “Una… principessa reale. Tutto qui?”

Abbozzando una risatina, Aken replicò: “Già, tutto qui. Una sciocchezza, no?”

“Sì, una sciocchezza” annuì lei, levandosi poi dallo scranno con grazia contegnosa. 

Imponendosi poi una riverenza degna di tale nome, sussurrò: “Con il vostro permesso, mi ritiro.”

“Permesso accordato” annuì il fratello maggiore, levandosi in piedi e prendendole una mano per baciargliela con galanteria.

Melantha non ebbe il coraggio di guardarlo e, con un fruscio di stoffe, uscì dalla stanzetta lasciando dietro di sé il suo dolce profumo e l’amaro delle lacrime che avevano cominciato a scorrere sulle sue gote.

Tornando a sedersi, il giovane si versò una dose generosa di vino, che bevve in un sol sorso e, dopo un momento di imbarazzato silenzio, disse atono: “Sarà una brava moglie, per Mynias.”

“Grazie, Aken” sussurrò Anladi, abbozzando un sorriso al figlio.

Non riuscendo in alcun modo a rispondere a quello sguardo, lui si limitò a mormorare: “Se potrò evitarle una sofferenza, lo farò. Non è giusto che soffra anche lei.”

A questo, Anladi non seppe replicare.

 

 

  
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