Te
lo prometto, Papà
Lentamente
aprii
gli occhi.
Un sole
primaverile, dai brillanti raggi dorati,
m’illuminò il viso, disegnando davanti a me
un’enorme distesa di fiori colorati.
Mi alzai e cercai
di sistemarmi la gonnellina rosa e arancio.
La brezza
delicata mi accarezzò i capelli, dolcemente accoccolati
lungo la mia schiena.
«Flor
…» mi voltai
all’indietro. Nulla, solo un piccolo cespuglio di iris
celesti, che il sole bagnava con la propria luce.
Mi avvicinai a
passo felpato.
Quei piccoli
boccioli blu sembravano così preziosi e brillanti in quella
luce quasi incandescente.
«Flor
…» sentii nuovamente.
Aguzzai lo
sguardo verso uno dei fiorellini.
Era
così delicato il suo profumo e così vivo il suo
colore … lo colsi, stringendolo delicatamente tra le mie
dita. Era una vera e propria esplosione di colori, un arcobaleno
com’erano soliti ricordare i greci ed era proprio vero.
Il dorato dei
petali, allungati e disposti a ventaglio, donavano a quel suo delicato
blu opaco, una lucentezza in più, mentre il verde dei gambi
giocherellava animatamente con i raggi del sole.
«Flor
…» mi guardai intorno, alla
ricerca di quella voce, ma il panorama che mi si offriva era soltanto
un semplice prato. Vedevo solo fiori di ogni genere e colore,
percorrere la distesa e poi salire, lungo la collina e circondare con
il loro profumo ogni albero e cespuglio.
Improvvisamente
la mia attenzione fu catturata da un’ombra che a passo lento
scendeva dalla collina.
Sforzai
gli occhi, cercando di individuarne l’identità, ma
la luce del sole era troppo forte e fui costretta a chiuderli «Flor
… -
continuò la voce, questa volta più delicata
– cara,
mia piccola Flor – i raggi si
fecero più tenui e finalmente riuscii a mettere a fuoco
l’immagine. Quella che poco prima credevo fosse
un’ombra, ora aveva preso le sembianze di un uomo.
Un uomo tozzo,
dal corpo robusto e particolarmente massiccio mi sorrideva timidamente.
Indossava un abito formale, con tanto di giacca e cravatta, che non
riuscivano di certo a nascondere la pancia leggermente gonfia.
Il viso era
leggermente corrugato in un’espressione docile, serena, quasi
delicata, ma che non ne occultava il pallore e le occhiaie violacee,
sottostanti agli occhi celesti. Un cappello di lusso, tipicamente
classico, gli copriva interamente il capo, impedendomi di vedere oltre
quello che era il suo volto –come
sei bella. Bella e fresca, come ti ho sempre immaginata …
Dolce e mite come tua madre, impulsiva e ambiziosa come me, un
miscuglio di magia ed emozioni come una rosa dal colore del pesco –
sospirò –Ti ho
sempre sognata ed ora eccoti qua, ti stavo proprio aspettando e non sai
da quanto tempo, ma ora che parte della verità è
venuta a galla ho trovato il modo di incontrarti – si
portò lentamente una mano al capo e con un certo tremolio,
si tolse quello che era il cappello di lusso.
Mi coprii la
bocca sconcertata. Non credevo a quello che stavo vedendo.
Scioccata,
indietreggiai, mentre focalizzavo il mio sguardo sulla macchia rossa,
disegnata sulla parte sinistra della fronte, quella chiazza purpurea,
simile ad una voglia che avrei riconosciuto ovunque. Quella stessa
chiazza che ogni giorno vedevo crescere sul mio viso, nella stessa
posizione –Non
avere paura –
sussurrò l’uomo, i cui capelli bianchi erano
talmente corti da farlo sembrare calvo – La
paura è questione di un attimo, poi passa, lasciando il
posto a ciò che è la realtà –
indietreggiai sempre più spaventata - La
verità è tanto più difficile da
sentire quanto più a lungo la si è taciuta. Per
lei si piange, si litiga, si soffre e talvolta ci si rende infelici, ma
ricorda, piccola Flor, è meglio una verità
dannosa che un errore utile, poiché il dolore
durerà solo per qualche istante, mentre la verità
porterà ad altre conoscenze, quali la felicità
… » avrei riconosciuto
quelle parole ovunque.
L’uomo
dalla chiazza rossa stava ripetendo le stesse frasi che per anni avevo
letto nel diario di mia madre, frasi che più volte erano
state firmate da un certo Alberto.
Spalancai gli
occhi sbalordita.
Quell’uomo
non era solo il riflesso che vedevo in acqua, no, lui era Alberto, mio
padre «Diciamo
che l’acqua mi ha sempre affascinato» mi sorrise dolcemente.
Mi guardai
intorno sempre più scioccata. Non capivo ciò che
stava accadendo, mi sentivo come intrappolata in una bolla senza
ossigeno, confusa, intorpidita, spaventata, neanche io sapevo come ben
definirmi.
Sentivo solo il
sangue ribollirmi nelle vene ed il cuore accelerare ad ogni secondo.
Solo una certezza in questo caos: sapevo chi era mio padre.
«Fatine – chiamai le
burlone di turno – so che
è un altro dei vostri scherzi, quindi saltate fuori
e fatevi vedere!» Alberto
scoppiò in una sonora risata «Oh,
sicuramente le fatine di tua madre centrano in tutto questo» mi portai le mani ai
fianchi «Non
lo trovo per niente divertente, Signore»
«Non
chiamarmi Signore, così mi fai sentire vecchio e alla mia
età non è certamente un complimento. Sai chi sono
e mi piacerebbe che mi prendessi in considerazione» camminò nella
mia direzione. Mi portai le mani alle tempie, massaggiandole in cerca
di un po’ di tranquillità «Sono
così confusa, così perplessa, ho i fliquity che
mi stanno dando al cervello ed è tutto così
strano!»
«Shhh,
so come ti senti e so anche che tutto questo è difficile da
accettare, ma presto farai chiarezza in te stessa e tutto
riprenderà colore – rise
divertito - è
inutile che chiami le tue fatine, non verranno – mi prese
dolcemente le mani ed incentrò i suoi occhi celesti nei miei
– Mi
dispiace che tu stia vivendo tutto questo, ma devi sapere che prima o
poi, nella propria vita, una persona è tenuta ad affrontare
la realtà – le sue mani
tremavano ed erano estremamente fredde – è
una battaglia, Flor – nei suoi
occhi un brillio speciale, quasi magnetico, era come se Alberto
splendesse di luce propria – una
battaglia che dovrai vivere e vincere, una battaglia che si chiama vita – il suo tocco
era dolce, così delicato da cancellare
quell’angoscia che si era creata nel mio cuore,
così soave, da riaccendere in me quella speranza che si era
spenta poco prima – Devi
credere che la vita … »
«Sia
davvero degna di essere vissuta –continuai io,
stringendo di più le sue mani - e il
tuo crederci aiuterà a rendere ciò una
verità. Perché se ami la vita, la vita ricambia
il tuo amore , papà» con frenesia ripetei le
parole che più volte avevo letto. Alberto mi sorrise, per
poi accarezzarmi dolcemente il viso «E’
stato tutto un inganno, mio piccolo Fiore, sta a te sciogliere quelli
che sono i nodi, ma promettimi una cosa» gli occhi iniziarono a
brillarmi di lacrime. Mio padre era un uomo speciale, ma soprattutto
sincero. Era incredibile quanto uno sguardo potesse descrivere
un’anima «Cosa,
papà?»
«Perdona,
sii felice, e non dubitare mai dell’Amore, perché
è la cosa più sincera che esista al
mondo»
lo abbracciai, liberandomi di quel pianto che da troppo tempo ormai
trattenevo «Te
lo prometto, papà» mi stampò un
lieve bacio sul capo.
“Sta
a te sciogliere quelli che sono i nodi” le parole del sogno
turbinavano nella mia mente come spirali impazzite, mentre rigiravo tra
le dita la fotografia che Eduardo mi aveva consegnato qualche settimana
prima.
Cosa si poteva
capire da una semplice fotografia in bianco e nero?
Meno che niente,
considerando il fatto che delle due donne protagoniste riconoscevo solo
mia madre. Il suo sorriso era inconfondibile: ne avrei potuti vedere
altri mille, che il suo non me lo sarei mai scordata.
Mia madre era una
persona incredibile: mai una lacrima, mai una lamentela, mai una
smorfia di dolore, perfino il giorno in qui se n’era andata,
lo aveva fatto con un sorriso sulle labbra.
Dove trovava
quella forza di sorridere, di continuare a sperare, pur sapendo che la
vita le aveva dato una disgrazia dopo l’altra?
Eppure lei era
lì, con i suoi boccoli dorati e i suoi occhi vivaci a
sorridere alla fotocamera, abbracciata a quella Maria Bonita, anche lei
sorridente, in posa sul portico della casa di Esperanza. I capelli scuri,
tagliati leggermente a caschetto, donavano al suo viso una certa
rotondità. In effetti, un po’ tutto il suo corpo
era abbastanza “rotondo” e quelle curve che cercava
di nascondere sotto un golfino nero, seguivano perfettamente il taglio
della veste presumibilmente bianca a pois scuri. Scrutai il volto della
donna: le sue labbra carnose disegnavano più un ghigno che
un sorriso. Mi incentrai negli occhi della donna e un brivido mi
percorse la schiena.
Un sguardo
vendicativo, oscuro, che lanciava fiamme d’ira da entrambe le
pupille.
Solo una volta
nella mia vita avevo incrociato due occhi simili, il cui risentimento
traboccava ovunque.
Occhi attenti
come quelli di una Tarantola, occhi severi e oscuri come quelli di
Crudelia Demon, occhi furenti e misteriosi come quelli di Maria Laura
Torres Oviedo, la madre di Delfina.
Mi alzai dalla
panchina del parco che avevo occupato poco prima.
L’immagine
di Titina, intenta nel testarmi una nuova pettinatura, irruppe nei miei
pensieri.
«Tua
madre mi scrisse spesso di un’amica conosciuta poco tempo
prima della tua nascita. Disse che l’aiutò molto
nella gravidanza, pochi aggettivi, una brava persona,
un’anima generosa e un’amica confortante ... e poi
sparì nel nulla. Mi ricordo ancora quando ironicamente mi
scrisse di una parrucca che quella donna era solita portare. Per non
parlare del suo strano modo di vestire in lutto, sempre nero, bianco,
nero. Avrei giurato che me la paragonasse a Mortisia Addams»
Voltai la foto,
dove una calligrafia delicata marcava in nero la scritta “Beba
e Margie 1984”
Malala conosceva
mia madre, l’aveva sicuramente frequentata, ma da
lì a pensare che fosse Maria Bonita, non riuscivo proprio ad
immaginarmelo. La strega maggiore era alta, magra, slanciata,
di portamento elegante, al contrario Maria Bonita, era il completo
opposto e per quanto potessero avere in comune la parrucca ed un amore
insensato per il colore nero, fisicamente non si somigliavano neanche
un po’.
Tranne per lo
sguardo.
Quegli occhi
avrebbero messo inquietudine a chiunque, anche al leone più
affamato della savana!
Sul fatto che
Malala centrasse in tutto questo non v’era dubbio, conosceva
mia madre e questo era già un dato di fatto. Il problema
stava nel capire se la Strega Maggiore avesse mai incontrato Maria
Bonita e se si, persuaderla a trovarla.
In gioco
c’era la mia identità.
Era giunto il
momento di svelare il mistero di una verità taciuta da ormai
vent’anni.
«Signorina
Fazarino?» alzai il viso dal
tessuto che stavo lavorando. Un uomo di mezza età, in
pantaloni beige e camicia nera entrò nel capannone mi alzai
e, come di consuetudine argentina, gli stampai due leggeri baci sulle
guancie «Sì,
sono io»«Sono Fabricio Alquila,
l’organizzatore della serata “Polvo de
Estrellas”, posso parlarle? - gli indicai il divano in
pelle rossa al centro dello stanzone – stava
lavorando ai costumi di scena?» chiese l’uomo
poggiando lo sguardo ai tessuti sparsi qua e la per il suolo «Diciamo
di sì
– sorrisi – la
nostra band gioca molto sulla fantasia»
«La
fantasia è alla base di tutto, soprattutto della musica –
un’espressione divertita si disegnò sul viso
affusolato dell’uomo, marcando ancora di più
quelle che erano le rughe dell’età –
però tal volta bisogna essere anche realisti e rimettere i
piedi a terra» Alquila estrasse da una
cartelletta un plico di fogli e un paio di riviste «E’
successo qualcosa con il concorso?» chiesi preoccupata «Oh
no
– scosse il capo – il
concorso è programmato tra due settimane. Sono venuto per
farle firmare i permessi per la privacy. Il comitato organizzativo ha
votato per formalizzare la serata, quindi ci saranno fotografi,
giornalisti e gazzettieri del mensile del quartiere. Come sa, la nostra
intenzione sarebbe poi, oltre quella di includere un contratto
discografico, anche di finalizzare il tutto ad enti benefici. Dato che
i vostri volti non rimarranno sconosciuti, non vorremmo che voi
partecipanti vi alteraste al vedervi tra le prime pagine del
“Pasaje news” che per tanto poco noto che sia, pur
sempre un giornale rimane»
«Mi
sembra corretto. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è
meglio, c’è così tanta gente permalosa
in giro …» Alquila mi
passò una penna «E’
lei la capogruppo?»
«Beh,
io sono la cantante principale, non so se questo vale anche come
capogruppo» l’uomo
alzò un sopraciglio brizzolato «Credo
proprio di sì. Se è d’accordo con la
privacy, le chiederei un piccola firmetta qui» mi indicò una
x in fondo alla pagina «Cioè
che se io firmo, la band verrà fotografata e
filmata?»
«Esattamente,
semplice, no?» mi sorrise «Semplicissimo»
Una volta
firmato, mi mostrò le riviste che poco prima aveva estratto
dalla sua cartelletta «Le
ho portato l’articolo che la prossima settimana
uscirà sul giornale locale» sbarrai gli occhi «Perché?
Devo firmare anche questo?» Alquila
scoppiò in una sonora risata «Certo
che no! Si ricorda le fotografie che le abbiamo scattato insieme alla
sua band?»
Qualche giorno
prima un tal Francisco era venuto al capannone con una di quelle
macchine fotografiche professionali. Si era presentato ai nostri occhi
increduli con un cappellino colorato e un enorme borsone di pelle nera
e, mettendosi in un angolino dello stanzone, aveva montato in quattro e
quattr’otto un set fotografico, compreso di sala trucco (una
sedia con un bauletto pieno di trucchi) e camerino (un posticino
ricavato dallo stand dei vestiti).
«Sì
–
sorrisi al ricordare come quel giovanotto dal borsone di Mary Poppins,
scattava flash a più non posso – sì,
me le ricordo»
«Il
fotografo le ha passate alla redazione del giornale locale che ha
preparato quest’articolo degno di uno
Saint-Vincent!» alzai un sopraciglio «Un
che?»
«Oh,
non perdiamo tempo in chiacchiere, e guardi qui – mi
passò la rivista – Questi
sono i direttori musicali, gli organizzatori d’eventi e gli
sponsor scelti per la pubb…»
«Sì,
sì, non perdiamo tempo in chiacchiere – Alquila mi
osservò stupefatto – Lei mi
sta dicendo che io e i ragazzi andremo su un giornale?» chiesi con la voce
tremante dall’emozione, mentre con frenesia iniziai a
sfogliare le pagine della rivista «Sì
è così, ma attenzione, così la rompe
…» mi fermai proprio quando
ai miei occhi balzarono le immagini della mia band.
Era incredibile
quanto fossimo affiatati.
In una foto
apparivo abbracciata a Bata, che sosteneva le sue bacchette di legno a
mo’ di sfida. In un’altra Clara e Nata intorno ad
un microfono con le bocche spalancate, pronte per cantare, poi
c’era Facha travestito da gallo che più che
innamorato sembrava sofferente e accigliato ed infine quella di gruppo,
dove uniti più che mai, sorridevamo a più non
posso, lasciando trasparire l’emozione che ci attorniava «E
non è ancora finita, signorina» Alquila voltò
la pagina seguente.
Mi portai una
mano alla bocca.
Una fotografia mi
ritraeva sorridente nel vestito blu che la mia cara Zia Titina mi aveva
regalato per il Natale passato «E’
incredibile» riuscii a malapena a
sussurrare, mentre i miei occhi erano alla ricerca di ogni minimo
dettaglio.
Era un primo
piano che nel suo piccolo occupava l’intera pagina e ne ero
io la protagonista dai capelli sciolti al vento. Il vestito mi cadeva
perfettamente tanto da farmi sembrare una vera e propria modella,
addolcita da quella scarpetta indaco che mi accerchiava il collo in una
forma così elegante e soave da cancellare
l’espressione malinconia che avevo disegnata in viso.
«Il
redattore l’ha trovata talmente fantastica che non ha potuto
non dedicarle un tale spazio. Cosa ne pensa?» la vista mi si
annebbiò lievemente di lacrime «E’
incredibile …» sussurrai.
Mi chiedevo cosa
avessero pensato i miei genitori se mi avessero vista su quella
rivista. Cosa avesse detto mia madre, cosa avesse fatto mio padre
… sicuramente sarebbero stati felici, ora dovevo renderli
orgogliosi, vincendo il concorso, solo così li avrei uniti
ancora una volta, dopo che inganni e passato li avevano divisi.
«Posso
averne delle copie?» chiesi con insistenza.
Alquila mi sorrise «Ma
certo, signorina»
Poche ore prima,
avevo chiamato Matias, per raccontargli tutto per filo e per segno. Il
poverino non aveva capito neanche una parola del mio discorso,
così preoccupato della mia esuberanza mi aveva dato
appuntamento al suo appartamento di vìa
Campo,
una piccola stradina alla periferia del barrio Villa
Mitre,
nel centro di Buenos
Aires.
Matias abitava in
un condominio tranquillo, di quelli alti ed impotenti, con tanto di
portieri, per di più simpaticissimi e ascensori metallizzati
a porte scorrevoli. Se non avessi saputo che quell’edificio
di cubi incastrati tra di loro, dotati di balconi più simili
a terrazze e finestre di forme strane era un palazzo, lo avrei
sicuramente scambiato per una scultura abbandonata da un pittore
piuttosto smemorato.
Non mi
meravigliai quando all’entrata i due portieri Gustavo e
Delmar, con tanto di tesserino di d’identità, mi
confermarono la presenza di Matias, in fin dei conti il mio carissimo
amico era sempre stato noto, fin dall’infanzia per i suoi
gusti del tutto raffinati, raffinati ed eleganti come la sua
personalità. Quando lo avevo nominato ai custodi,
rispettivamente marito e moglie, notai nascere su quei loro visi
leggermente longevi un dolce sorriso.
Gustavo
inarcò le sue sopraciglia grigiastre, mormorando sorpreso «Il
Signor Ripamonti riceve sempre poche visite»
Ed era vero,
soprattutto quando non si era mai liberi, a causa di un tuo capo,
spesso irritato e nevrastenico, che ti sottopone quotidianamente ad ore
ed ore di lavoro incondizionato.
Se la sua non era
una vita da poche visite, non mi sarei mai meravigliata di
vedere un asino volare.
«L’avvocato
è sempre così occupato –
continuò poi la moglie – ma a
quanto pare non lo sarà ancora per tanto» Delmar mi sorrise
maliziosamente.
Intuite le sue
allusioni, negai il più velocemente possibile con il capo «Oh
no, io e Matias siamo solo due vecchi amici
d’infanzia»
«Già,
due buoni vecchi amici - Matias raggiunse la
portineria e dopo avermi stampato un lieve bacio sulla guancia, si
rivolse ai due anziani – Gustavo,
Delmar, è arrivato qualcosa per me?» l’anziano si
chinò lievemente ad afferrare un pacco incartato che poi
depositò sul bancone «E’
arrivato questo, Signore» Matias storse il naso «Fammi
indovinare, Fritzenwalden s.p.a?» l’uomo sorrise
«La
medesima»
«Beh,
intanto vi ringrazio – prese il
pacco, gettandogli un’occhiata fugace – a
più tardi Signori Tocos, buona giornata»
I due coniugi ci
salutarono con un cenno di capo.
Sentivo i loro
occhi seguirci ad ogni nostro passo. Odiavo essere al centro
dell’attenzione, mi faceva sentire a disagio, soprattutto
quando sapevo che stavano proprio parlando di me.
Quando finalmente
anche le porte dell’ascensore si chiusero, sospirai
sollevata. Matias pulsò il bottone del settimo piano.
Sbiancai
all’eventualità di dover fare le scale
… "Un
altro proposito per il Natale"pensai. Dovevo
assolutamente ringraziare l’ideatore degli ascensori con una
bella torta farcita al cioccolato … un così
grande gesto non poteva di certo essere trascurato. Non era da tutti
giorni aiutare gente bisognosa, progettando oggetti di una simile
utilità e per la torta ... beh, nessuno la poteva rifiutare!
Gettai
l’occhio al pacco che Matias portava stretto sotto il braccio
«Non
ne aveva abbastanza di caricarti in ufficio? Adesso si da pure il
permesso di torturarti a casa?» bofonchiai «Parli
di Federico?»
«Il
medesimo
– ironizzai, ripetendo le parole del portiere – Ma
non ti annoi mai a stare con un tipo così
isterico?» Matias sorrise «Dici
così per quello che è successo tra di
voi»
abbassai il viso per nascondere il mio rossore «No,
ti sbagli!
– incrociai le braccia – Lo
dico perché lo penso veramente»
«Flor,
ti conosco e so bene come sei fatta, quindi non provare a
mentirmi»
«Beh,
a quanto pare non mi conosci abbastanza – le porte
dell’ascensore si aprirono, lasciando intravedere un
corridoio lungo e stretto, sulle cui pareti spuntavano delle applique
di ogni genere e forma – comunque
non sono venuta per parlare di quel … »cercai un insulto nel mio
vocabolario degno di quel ghiacciolo senza cuore «Freezer?» mugugnò
divertito Matias. Lo fulminai con lo sguardo «No,
Fritzenwalden!» Matias rise divertito
dal mio isterismo cronico, poi, una volta raggiunta la porta 1025,
inserì le chiavi nella serratura e
l’aprì.
Improvvisamente
con un suo battito di mani, la luce si accese «Wow
–
esclamai scioccata – Tute,
ma che …»
«Carino,
vero? -
Matias posò le chiavi sull’angoliera in legno
dell’ingresso –
Tecnologia allo stato puro»
Ero sconcertata.
Sapevo che Matias
aveva una predisposizione per tutto ciò che era considerato
moderno, ma non credevo che la sua per così dire attualità
lo
avesse portato ad avere certi poteri «Dammi
il numero di quel potente mago che ti ha fatto tutto questo? – sibilai,
mentre ispezionavo accuratamente ogni piccolo dettaglio
dell’abitazione.
«Beh,
appena lo trovo te lo darò»
Era un piccolo
appartamento di città, anche se in realtà di
piccolo aveva ben poco, considerando l’imponente divano
bianco che dominava il centro del salotto. C’era poi
la cucina, che occupava interamente la parete retrostante il
sofà, dove un’isola in candido marmo lucente,
spuntava come un fungo, per fungere da tavolo. Sfiorai con le mani la
statua in ebano scuro che accantonava il divano.
Feci una smorfia
leggermente schifata al comprovare l’identità
della figura «Non
posso credere che tu ce l’abbia ancora» mugnai, ricordandomi
l’ignoto dal capo gigante e pelato che ero solita vedere
all’ingresso della vecchia casa dei genitori di Matias.
Quella statua, se statua si poteva chiamare con
quell’espressione da cane bastonato che si ritrovava, mi
aveva sempre suscitato una certa inquietudine per via di quei suoi due
occhi grandi e terribilmente rabbiosi che sembravano sempre
dire Toccami
e ti ammazzo!
A quel ricordo,
ritrassi mortificata la mano.
Riconoscendo
probabilmente il mio gesto, Matias scoppiò in una sonora
risata «Voleva
rivederti
– ironizzò, mentre maledicevo in silenzio
– Eh
dai, Florchu, non fare quella faccia, accomodati e fa’ come
se fosse casa tua» vidi Matias togliersi il
cappotto color fuliggine ed appoggiarlo al divano «Con
quel coso che mi fissa?» dissi puntando il pelato
arrabbiato «Raul
è innocuo – feci una
smorfia sotto le risate di Matias – Vuoi
qualcosa da bere?» negai velocemente con il
capo «Prima
parlo, prima mi tolgo dallo sguardo assassino del tuo amico»
Entrambi
prendemmo posto sul divano, incredibilmente morbido «Allora,
mi vuoi dire cos’è questa storia che hai trovato
tuo padre?» Matias
incentrò il suo sguardo preoccupato nel mio. Curvai le
labbra disegnando un abbondante sorriso «Si
chiama Alberto
– Tute inarcò le sopraciglia per farmi continuare
– e
l’ho sognato!» sbarrò gli
occhi confuso «Lo
hai sognato?!»
Gli raccontai per
filo e per segno il sogno, cercando di essere il più precisa
possibile, a causa dei continui fliquity infiammati d’euforia
che mi offuscavano completamente petto e mente. Ad ogni mio gesto
frenetico, Matias annuiva zitto, zitto e quando terminai, lo vidi
poggiare la schiena al divano e fissare a braccia conserte il vuoto
«Era lui – esclamai
ancora emozionata – e
aveva una macchia proprio qui, come me» dissi indicando la
piccola chiazza marcata sulla mia fronte.
Matias storse le
labbra in una smorfia «Flor,
è un’assurdità – spalancai
gli occhi incredula - non
puoi fidarti di un sogno! I sogni solo l’interpretazione del
nostro inconscio, quello che solo noi vogliamo vedere»
«Non
è vero – scossi il
capo – Io so
che è lui, lo dice mia madre» strinsi la gonna in
fantasia che indossavo con rabbia «Flor
–
Matias sospirò tristemente, poi, prendendomi le mani,
incentrò i suoi occhi azzurri nei miei – tua
madre non c’è più, è
… è ora che tu te ne faccia una ragione» gli occhi cominciarono a
brillarmi «E’
da tempo che so che mia madre è morta, Matias, ma non per
questo non la ritrovo nel mio cuore, ogni volta che la cerco. Tute,
cerca di capirmi, ho appena scoperto che Eduardo non è mio
padre, ho passato due settimane infernali ed ora, che finalmente vedo
uno spiraglio di luce in tutto questo buio, non ti fidi di
me?»
Matias dondolò il capo «Io
mi fido di te, Florchu – mi
accarezzò dolcemente il viso –
è dei sogni che non mi fido. Il fatto è che
… -
si portò una mano al mento pensieroso – sono
sogni e basta» gli sorrisi rassegnata «Questo
è quello che pensi tu, ma io ci credo e so che
l’uomo del sogno è mio padre – sospirai
– è
il mio sesto fliquity che me lo dice, capisci?» Matias mi sorrise, poi
spostò lo sguardo al pelato testa di legno «Che
ne dici, Raul, diamo retta a quella pazza di Flor?» mi gettai tra le braccia
di Matias
«Grazie,Tute sei un vero amico» mi scostò
leggermente «Ma
ad una condizione - accigliai il viso
– domani
andremo in ospedale ad informarci sulla tua nascita, magari questo
Alberto ha lasciato qualche documento» lo fissai confusa,
ancora tra le sue braccia «Cosa
intendi?»
«Beh,
qualcosa che parli della tua adozione, una carta che affermi la tutela
di Eduardo e Margarita» mi morsi il labbro
nervosa, ritornando a stringere la gonna, questa volta con meno ferocia
«Matias,
c’è una cosa che non ti ho detto – Matias
sospirò preoccupato – Mio
padre, Alberto, è sposato» Tute
strabuzzò gli occhi perplesso
«Questo complica le cose» annuii «Lo
so»
Matias chiuse la
porta a chiave, pigiò il bottone dell’ascensore e
quando raggiungemmo il piano terra lo bloccai «Un
momento» Matias mi
osservò preoccupato «Ti
sei ricordata ancora qualcosa?» gli lanciai
un’occhiata decisamente molto scaltra «Sì,
non credo che sia stato tu a fare tutto quello?» dissi puntando in alto
con il dito «Tutto
quello cosa?»
«L’appartamento,
Tute. Non mi inganni sai, per quanto tu sia elegante e raffinato, non
arriveresti mai ad essere così perfetto»
«Flor!
–
mi riprese per poi lasciare ricadere le spalle in un gesto del tutto
remissivo –
D’accordo –
iniziò a frugare nella tasca del suo cappotto, poi mi porse
un bigliettino bianco, che afferrai di scatto – Ecco
il nome del mago» spalancai gli occhi «Nicolas?!»
«Già,
proprio lui! Altro che hacker associale, quel ragazzo è un
vero e proprio designer, ci sa fare con i disegni e le planimetrie
virtuali»
«Virtuali?» sibilai scioccata «Sì,
gli arredatori di oggi, usano il computer per progettare case e stanze
varie, hanno un programma apposta. Sweet Home 3D, credo si chiami,
è uno sballo!» esclamò
divertito Matias, mentre riuscivo a malapena a sorridere.
Altro che ragazzo
associale dai fervidi complessi di solitudine (definizione
spudoratamente copiata da Martin), il poverino altro che
lavorare, sgobbava tutto il giorno, dalla mattina alla sera e dalla
sera alla mattina per realizzare un suo sogno.
E noi che lo
avevamo giudicato male “Devo
sostituire il Laukar e fargli avere quello della speranza, sono sicura
che lo aiuterà”, pensai.
«Flor?
–
mi riprese Matias, agitando una mano davanti il mio viso – Andiamo?» annuii.
Ci incamminammo
verso l’uscita del palazzo a braccetto, solo come due amici
affiatati potevano fare «E
per Maria Bonita, cosa faccio?» chiesi poi a Matias,
dopo aver salutato i portinai con un piccolo movimento del capo «Beh,
la foto è un inizio, posso risalire a qualcosa»
«E
poi?»Matias
mi sorrise «E
poi si vedrà» mi accoccolai a lui per
ripararmi dal vento gelido di dicembre.
Ci stavamo
dirigendo alla sua macchina quando sentii Matias allentare il passo
fino a bloccarsi «Tedesco, cosa ci fai qui?» il mio
cuore sobbalzò ad incontrare gli occhi incredibilmente
dorati di Federico.
Con il suo
cappotto grigio era poggiato al cofano della macchina con un plico di
fogli tra le mani. Aveva la cravatta blu perfettamente annodata ed i
capelli caramellati erano leggermente scossi dal vento.
Un brivido mi
percorse l’intero corpo.
«Flor?»
chiese
inarcando un sopraciglio «Federico»
lo
salutai io, stringendomi a braccia conserte nel mio giubbotto viola.
Federico si ricompose e con pochi passi ci raggiunse «Cosa
ci fai tu qui?» chiese portando il plico
sotto il braccio, mentre i suoi occhi fissavano imperterriti i miei.
Voltai lo sguardo
in un’altra direzione, per evitare quel tremendo contatto
«Sono con un mio amico, non vedi?» mi agganciai a Matias in
modo affettivo, provocando una scintilla nello sguardo dorato del
Freezer «E
due amici escono di casa abbracciati?» il suo tono era
maledettamente seccato. Con la coda dell’occhio osservai
Matias passare in rassegna ognuno di noi e, battere il piede destro con
fare preoccupato. Istintivamente lo strinsi ancora di più
come per tranquillizzarlo, poi spostai l’attenzione a
Federico che aspettava titubante una mia risposta.
Gli sorrisi «Beh,
non vedo che cosa ci sia di strano» mi fulminò
con lo sguardo «Due
amici non si abbracciano» mugugnò a
denti stretti.
Mi scostai
leggermente da Matias «Non
tutta la gente è fredda come te» se non ci fosse stato
Federico, probabilmente mi sarei sbellicata dalle risate per quel tono
così arrogante che avevo adottato.
«Per
lo meno io non vado in giro ad abbracciare tutta la gente che
incontro» portai furiosa le
braccia ai fianchi, avvicinandomi di pochi centimetri a lui
«Ah sì?» Federico fece lo stesso e
in men che non si dica, i nostri respiri si incrociarono
«Sì» tuonò lui
risoluto.
Saette e fulmini
partivano ed arrivavano dai nostri sguardi.
Non
c’erano parole, solo fuoco e fiamme, ribollire prima nei miei
e poi nei suoi occhi. Vedevo il miele fremere in quelle sue pupille
assetate di sangue: se io ero furiosa, lui lo era di più «Che
c’è, Fritzenwalden, sei geloso?» sussurrai con un piccolo
sorrisino sulle labbra. Il sussulto di Federico fu quasi impercettibile.
Matias si
schiarì la voce imbarazzato «Ehm,
Tedesco, come mai sei qui?» Federico ed io ci
ricomponemmo contemporaneamente. Sentivo le guance accaldate ed il
cuore ancora palpitarmi per i pochi minuti prima.
Non volevo
ammetterlo, ma quel gelido del Freezer non mi sarebbe mai stato
indifferente. Forse neanche una testa di cocco caduta in testa, mi
avrebbe fatto scordare quegli occhi dorati.
Gettai lo sguardo
a Federico, anche lui leggermente arrossato, e lo vidi passarsi una
mano nervoso per i capelli, poi sospirò «Come
mai sono qui?
– Matias gli sorrise di soppiatto, mentre, il Freezer gli
mostrava il plico di fogli – sono
arrivati questi in azienda. Erano abbastanza importanti e ho deciso di
farteli avere prima di domattina»
«Non
ne hai abbastanza di torturarlo al lavoro? Devi anche seguirlo fino a
casa?»
ero furiosa, anzi, i nervi a fior di pelle che avevo erano furiosi.
Se Matias non lo
avesse fermato, a quell’ora avrei saputo tutta la
verità.
Fremevo di
conoscere il verdetto finale, perchè la gelosia si sa, si
prova solo quando nel cuore batte un sentimento importante. Non mi
importava se quello stupido di Federico non avrebbe mai ammesso
ciò che provava nei miei confronti, ma saperlo ed avere una
certezza mi avrebbe risolto una parte di problemi. Lo scopo? Beh, lui
amava Delfina ed io … io, beh io non so cosa o chi ero, ma
il mio scopo era semplice e molto arduo: stuzzicarlo fino
all’esasperazione e poi chissà, forse solo
così i suoi veri sentimenti sarebbero venuti a galla.
Federico mi
gelò con lo sguardo, poi ritornò a fissare
Matias, consegnandogli i documenti «Guardali
e fammi sapere
– si voltò per far ritorno alla sua macchina, ma
si bloccò, rigirandosi nuovamente – domani
sera io e Delfina usciremo a cena, se vi va potete venire, non ci fa
altro che piacere» chiusi gli occhi fino a
ridurli a piccole fessure.
Cosa aveva in
mente?
«Ehm,
io veramente …» Matias
balbettò confuso. Lo fermai, stringendogli il polso «Ci
saremo»
Nota Autrice:
Salve
a tutti!
Ecco a voi un
piccolo pensierino per il Natale: un capitolo sotto l'Albero
...è il mio regalo per voi, tutte quelle quelle persone che
leggono e recensiscono la mia storia e alle quali voglio dire un Grazie
di cuore!
Vi auguro un
felicissimo Natale, da passare allegramente con la vostra famiglia!
Dani
PS:
Ricordatevi
che Natale è sempre, purchè viva in
ogni nostro sorriso ...
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