Serie TV > Flor - speciale come te
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Autore: Danicienta    25/12/2011    3 recensioni
Non sono mai stata soddisfatta dal finale della serie, per questo motivo ho deciso di inventarmi una storia tutta mia, dove a narrare i fatti sarà la nostra protagonista Flor. Buona Lettura!
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Te lo prometto, Papà

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«Flor …»
Lentamente aprii gli occhi.
Un sole primaverile, dai brillanti raggi dorati, m’illuminò il viso, disegnando davanti a me un’enorme distesa di fiori colorati.
Mi alzai e cercai di sistemarmi la gonnellina rosa e arancio.
La brezza delicata mi accarezzò i capelli, dolcemente accoccolati lungo la mia schiena.
«Flor …» mi voltai all’indietro. Nulla, solo un piccolo cespuglio di iris celesti, che il sole bagnava con la propria luce.
Mi avvicinai a passo felpato.
Quei piccoli boccioli blu sembravano così preziosi e brillanti in quella luce quasi incandescente.
«Flor …» sentii nuovamente.
Aguzzai lo sguardo verso uno dei fiorellini.
Era così delicato il suo profumo e così vivo il suo colore … lo colsi, stringendolo delicatamente tra le mie dita. Era una vera e propria esplosione di colori, un arcobaleno com’erano soliti ricordare i greci ed era proprio vero.
Il dorato dei petali, allungati e disposti a ventaglio, donavano a quel suo delicato blu opaco, una lucentezza in più, mentre il verde dei gambi giocherellava animatamente con i raggi del sole.
«Flor …» mi guardai intorno, alla ricerca di quella voce, ma il panorama che mi si offriva era soltanto un semplice prato. Vedevo solo fiori di ogni genere e colore, percorrere la distesa e poi salire, lungo la collina e circondare con il loro profumo ogni albero e cespuglio.   
Improvvisamente la mia attenzione fu catturata da un’ombra che a passo lento scendeva dalla collina.
 Sforzai gli occhi, cercando di individuarne l’identità, ma la luce del sole era troppo forte e fui costretta a chiuderli «Flor … - continuò la voce, questa volta più delicata – cara, mia piccola Flor – i raggi si fecero più tenui e finalmente riuscii a mettere a fuoco l’immagine. Quella che poco prima credevo fosse un’ombra, ora aveva preso le sembianze di un uomo.
Un uomo tozzo, dal corpo robusto e particolarmente massiccio mi sorrideva timidamente. Indossava un abito formale, con tanto di giacca e cravatta, che non riuscivano di certo a nascondere la pancia leggermente gonfia.
Il viso era leggermente corrugato in un’espressione docile, serena, quasi delicata, ma che non ne occultava il pallore e le occhiaie violacee, sottostanti agli occhi celesti. Un cappello di lusso, tipicamente classico, gli copriva interamente il capo, impedendomi di vedere oltre quello che era il suo volto –come sei bella. Bella e fresca, come ti ho sempre immaginata … Dolce e mite come tua madre, impulsiva e ambiziosa come me, un miscuglio di magia ed emozioni come una rosa dal colore del pesco – sospirò –Ti ho sempre sognata ed ora eccoti qua, ti stavo proprio aspettando e non sai da quanto tempo, ma ora che parte della verità è venuta a galla ho trovato il modo di incontrarti – si portò lentamente una mano al capo e con un certo tremolio, si tolse quello che era il cappello di lusso.
Mi coprii la bocca sconcertata. Non credevo a quello che stavo vedendo.
Scioccata, indietreggiai, mentre focalizzavo il mio sguardo sulla macchia rossa, disegnata sulla parte sinistra della fronte, quella chiazza purpurea, simile ad una voglia che avrei riconosciuto ovunque. Quella stessa chiazza che ogni giorno vedevo crescere sul mio viso, nella stessa posizione –Non avere paura – sussurrò l’uomo, i cui capelli bianchi erano talmente corti da farlo sembrare calvo – La paura è questione di un attimo, poi passa, lasciando il posto a ciò che è la realtà – indietreggiai sempre più spaventata - La verità è tanto più difficile da sentire quanto più a lungo la si è taciuta. Per lei si piange, si litiga, si soffre e talvolta ci si rende infelici, ma ricorda, piccola Flor, è meglio una verità dannosa che un errore utile, poiché il dolore durerà solo per qualche istante, mentre la verità porterà ad altre conoscenze, quali la felicità … » avrei riconosciuto quelle parole ovunque.
L’uomo dalla chiazza rossa stava ripetendo le stesse frasi che per anni avevo letto nel diario di mia madre, frasi che più volte erano state firmate da un certo Alberto.
Spalancai gli occhi sbalordita.
Quell’uomo non era solo il riflesso che vedevo in acqua, no, lui era Alberto, mio padre «Diciamo che l’acqua mi ha sempre affascinato» mi sorrise dolcemente.
Mi guardai intorno sempre più scioccata. Non capivo ciò che stava accadendo, mi sentivo come intrappolata in una bolla senza ossigeno, confusa, intorpidita, spaventata, neanche io sapevo come ben definirmi.
Sentivo solo il sangue ribollirmi nelle vene ed il cuore accelerare ad ogni secondo. Solo una certezza in questo caos: sapevo chi era mio padre.
«Fatine – chiamai le burlone di turno – so che è un altro dei vostri scherzi, quindi saltate fuori e  fatevi vedere!» Alberto scoppiò in una sonora risata «Oh, sicuramente le fatine di tua madre centrano in tutto questo» mi portai le mani ai fianchi «Non lo trovo per niente divertente, Signore»
«Non chiamarmi Signore, così mi fai sentire vecchio e alla mia età non è certamente un complimento. Sai chi sono e mi piacerebbe che mi prendessi in considerazione» camminò nella mia direzione. Mi portai le mani alle tempie, massaggiandole in cerca di un po’ di tranquillità «Sono così confusa, così perplessa, ho i fliquity che mi stanno dando al cervello ed è tutto così strano!»
«Shhh, so come ti senti e so anche che tutto questo è difficile da accettare, ma presto farai chiarezza in te stessa e tutto riprenderà colore – rise divertito - è inutile che chiami le tue fatine, non verranno – mi prese dolcemente le mani ed incentrò i suoi occhi celesti nei miei – Mi dispiace che tu stia vivendo tutto questo, ma devi sapere che prima o poi, nella propria vita, una persona è tenuta ad affrontare la realtà – le sue mani tremavano ed erano estremamente fredde – è una battaglia, Flor – nei suoi occhi un brillio speciale, quasi magnetico, era come se Alberto splendesse di luce propria – una battaglia che dovrai vivere e vincere, una battaglia che si chiama vita – il suo tocco era dolce, così delicato da cancellare quell’angoscia che si era creata nel mio cuore, così soave, da riaccendere in me quella speranza che si era spenta poco prima – Devi credere che la vita … »
«Sia davvero degna di essere vissuta –continuai io, stringendo di più le sue mani - e il tuo crederci aiuterà a rendere ciò una verità. Perché se ami la vita, la vita ricambia il tuo amore , papà» con frenesia ripetei le parole che più volte avevo letto. Alberto mi sorrise, per poi accarezzarmi dolcemente il viso «E’ stato tutto un inganno, mio piccolo Fiore, sta a te sciogliere quelli che sono i nodi, ma promettimi una cosa» gli occhi iniziarono a brillarmi di lacrime. Mio padre era un uomo speciale, ma soprattutto sincero. Era incredibile quanto uno sguardo potesse descrivere un’anima «Cosa, papà?»
«Perdona, sii felice, e non dubitare mai dell’Amore, perché è la cosa più sincera che esista al mondo» lo abbracciai, liberandomi di quel pianto che da troppo tempo ormai trattenevo «Te lo prometto, papà» mi stampò un lieve bacio sul capo.


“Sta a te sciogliere quelli che sono i nodi” le parole del sogno turbinavano nella mia mente come spirali impazzite, mentre rigiravo tra le dita la fotografia che Eduardo mi aveva consegnato qualche settimana prima.
Cosa si poteva capire da una semplice fotografia in bianco e nero?
Meno che niente, considerando il fatto che delle due donne protagoniste riconoscevo solo mia madre. Il suo sorriso era inconfondibile: ne avrei potuti vedere altri mille, che il suo non me lo sarei mai scordata.
Mia madre era una persona incredibile: mai una lacrima, mai una lamentela, mai una smorfia di dolore, perfino il giorno in qui se n’era andata, lo aveva fatto con un sorriso sulle labbra.
Dove trovava quella forza di sorridere, di continuare a sperare, pur sapendo che la vita le aveva dato una disgrazia dopo l’altra?
Eppure lei era lì, con i suoi boccoli dorati e i suoi occhi vivaci a sorridere alla fotocamera, abbracciata a quella Maria Bonita, anche lei sorridente, in posa sul portico della casa di Esperanza. I capelli scuri, tagliati leggermente a caschetto, donavano al suo viso una certa rotondità. In effetti, un po’ tutto il suo corpo era abbastanza “rotondo” e quelle curve che cercava di nascondere sotto un golfino nero, seguivano perfettamente il taglio della veste presumibilmente bianca a pois scuri. Scrutai il volto della donna: le sue labbra carnose disegnavano più un ghigno che un sorriso. Mi incentrai negli occhi della donna e un brivido mi percorse la schiena.
Un sguardo vendicativo, oscuro, che lanciava fiamme d’ira da entrambe le pupille.
Solo una volta nella mia vita avevo incrociato due occhi simili, il cui risentimento traboccava ovunque.
Occhi attenti come quelli di una Tarantola, occhi severi e oscuri come quelli di Crudelia Demon, occhi furenti e misteriosi come quelli di Maria Laura Torres Oviedo, la madre di Delfina.
Mi alzai dalla panchina del parco che avevo occupato poco prima.
L’immagine di Titina, intenta nel testarmi una nuova pettinatura, irruppe nei miei pensieri.
«Tua madre mi scrisse spesso di un’amica conosciuta poco tempo prima della tua nascita. Disse che l’aiutò molto nella gravidanza, pochi aggettivi, una brava persona, un’anima generosa e un’amica confortante ... e poi sparì nel nulla. Mi ricordo ancora quando ironicamente mi scrisse di una parrucca che quella donna era solita portare. Per non parlare del suo strano modo di vestire in lutto, sempre nero, bianco, nero. Avrei giurato che me la paragonasse a Mortisia Addams»
Voltai la foto, dove una calligrafia delicata marcava in nero la scritta “Beba e Margie 1984”
Malala conosceva mia madre, l’aveva sicuramente frequentata, ma da lì a pensare che fosse Maria Bonita, non riuscivo proprio ad immaginarmelo. La strega maggiore era alta, magra, slanciata,  di portamento elegante, al contrario Maria Bonita, era il completo opposto e per quanto potessero avere in comune la parrucca ed un amore insensato per il colore nero, fisicamente non si somigliavano neanche un po’.
Tranne per lo sguardo.
Quegli occhi avrebbero messo inquietudine a chiunque, anche al leone più affamato della savana!
Sul fatto che Malala centrasse in tutto questo non v’era dubbio, conosceva mia madre e questo era già un dato di fatto. Il problema stava nel capire se la Strega Maggiore avesse mai incontrato Maria Bonita e se si, persuaderla a trovarla.
In gioco c’era la mia identità.
Era giunto il momento di svelare il mistero di una verità taciuta da ormai vent’anni.


«Signorina Fazarino?» alzai il viso dal tessuto che stavo lavorando. Un uomo di mezza età, in pantaloni beige e camicia nera entrò nel capannone mi alzai e, come di consuetudine argentina, gli stampai due leggeri baci sulle guancie «Sì, sono io»«Sono Fabricio Alquila, l’organizzatore della serata “Polvo de Estrellas”, posso parlarle? - gli indicai il divano in pelle rossa al centro dello stanzone – stava lavorando ai costumi di scena?» chiese l’uomo poggiando lo sguardo ai tessuti sparsi qua e la per il suolo «Diciamo di sì – sorrisi – la nostra band gioca molto sulla fantasia»
«La fantasia è alla base di tutto, soprattutto della musica – un’espressione divertita si disegnò sul viso affusolato dell’uomo, marcando ancora di più quelle che erano le rughe dell’età – però tal volta bisogna essere anche realisti e rimettere i piedi a terra» Alquila estrasse da una cartelletta un plico di fogli e un paio di riviste «E’ successo qualcosa con il concorso?» chiesi preoccupata «Oh no – scosse il capo – il concorso è programmato tra due settimane. Sono venuto per farle firmare i permessi per la privacy. Il comitato organizzativo ha votato per formalizzare la serata, quindi ci saranno fotografi, giornalisti e gazzettieri del mensile del quartiere. Come sa, la nostra intenzione sarebbe poi, oltre quella di includere un contratto discografico, anche di finalizzare il tutto ad enti benefici. Dato che i vostri volti non rimarranno sconosciuti, non vorremmo che voi partecipanti vi alteraste al vedervi tra le prime pagine del “Pasaje news” che per tanto poco noto che sia, pur sempre un giornale rimane»
«Mi sembra corretto. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, c’è così tanta gente permalosa in giro …» Alquila mi passò una penna «E’ lei la capogruppo?»
«Beh, io sono la cantante principale, non so se questo vale anche come capogruppo» l’uomo alzò un sopraciglio brizzolato «Credo proprio di sì. Se è d’accordo con la privacy, le chiederei un piccola firmetta qui» mi indicò una x in fondo alla pagina «Cioè che se io firmo, la band verrà fotografata e filmata?»
«Esattamente, semplice, no?» mi sorrise «Semplicissimo»
Una volta firmato, mi mostrò le riviste che poco prima aveva estratto dalla sua cartelletta «Le ho portato l’articolo che la prossima settimana uscirà sul giornale locale» sbarrai gli occhi «Perché? Devo firmare anche questo?» Alquila scoppiò in una sonora risata «Certo che no! Si ricorda le fotografie che le abbiamo scattato insieme alla sua band?»
Qualche giorno prima un tal Francisco era venuto al capannone con una di quelle macchine fotografiche professionali. Si era presentato ai nostri occhi increduli con un cappellino colorato e un enorme borsone di pelle nera e, mettendosi in un angolino dello stanzone, aveva montato in quattro e quattr’otto un set fotografico, compreso di sala trucco (una sedia con un bauletto pieno di trucchi) e camerino (un posticino ricavato dallo stand dei vestiti).
«Sì – sorrisi al ricordare come quel giovanotto dal borsone di Mary Poppins, scattava flash a più non posso – sì, me le ricordo»
«Il fotografo le ha passate alla redazione del giornale locale che ha preparato quest’articolo degno di uno Saint-Vincent!» alzai un sopraciglio «Un che?»
«Oh, non perdiamo tempo in chiacchiere, e guardi qui – mi passò la rivista – Questi sono i direttori musicali, gli organizzatori d’eventi e gli sponsor scelti per la pubb…»
«Sì, sì, non perdiamo tempo in chiacchiere – Alquila mi osservò stupefatto – Lei mi sta dicendo che io e i ragazzi andremo su un giornale?» chiesi con la voce tremante dall’emozione, mentre con frenesia iniziai a sfogliare le pagine della rivista «Sì è così, ma attenzione, così la rompe …» mi fermai proprio quando ai miei occhi balzarono le immagini della mia band.
Era incredibile quanto fossimo affiatati.
In una foto apparivo abbracciata a Bata, che sosteneva le sue bacchette di legno a mo’ di sfida. In un’altra Clara e Nata intorno ad un microfono con le bocche spalancate, pronte per cantare, poi c’era Facha travestito da gallo che più che innamorato sembrava sofferente e accigliato ed infine quella di gruppo, dove uniti più che mai, sorridevamo a più non posso, lasciando trasparire l’emozione che ci attorniava «E non è ancora finita, signorina» Alquila voltò la pagina seguente.
Mi portai una mano alla bocca.
Una fotografia mi ritraeva sorridente nel vestito blu che la mia cara Zia Titina mi aveva regalato per il Natale passato «E’ incredibile» riuscii a malapena a sussurrare, mentre i miei occhi erano alla ricerca di ogni minimo dettaglio.
Era un primo piano che nel suo piccolo occupava l’intera pagina e ne ero io la protagonista dai capelli sciolti al vento. Il vestito mi cadeva perfettamente tanto da farmi sembrare una vera e propria modella, addolcita da quella scarpetta indaco che mi accerchiava il collo in una forma così elegante e soave da cancellare l’espressione malinconia che avevo disegnata in viso.
«Il redattore l’ha trovata talmente fantastica che non ha potuto non dedicarle un tale spazio. Cosa ne pensa?» la vista mi si annebbiò lievemente di lacrime «E’ incredibile …» sussurrai.
Mi chiedevo cosa avessero pensato i miei genitori se mi avessero vista su quella rivista. Cosa avesse detto mia madre, cosa avesse fatto mio padre … sicuramente sarebbero stati felici, ora dovevo renderli orgogliosi, vincendo il concorso, solo così li avrei uniti ancora una volta, dopo che inganni e passato li avevano divisi.
«Posso averne delle copie?» chiesi con insistenza. Alquila mi sorrise «Ma certo, signorina»


Poche ore prima, avevo chiamato Matias, per raccontargli tutto per filo e per segno. Il poverino non aveva capito neanche una parola del mio discorso, così preoccupato della mia esuberanza mi aveva dato appuntamento al suo appartamento di vìa Campo, una piccola stradina alla periferia del barrio Villa Mitre, nel centro di Buenos Aires.
Matias abitava in un condominio tranquillo, di quelli alti ed impotenti, con tanto di portieri, per di più simpaticissimi e ascensori metallizzati a porte scorrevoli. Se non avessi saputo che quell’edificio di cubi incastrati tra di loro, dotati di balconi più simili a terrazze e finestre di forme strane era un palazzo, lo avrei sicuramente scambiato per una scultura abbandonata da un pittore piuttosto smemorato.
Non mi meravigliai quando all’entrata i due portieri Gustavo e Delmar, con tanto di tesserino di d’identità, mi confermarono la presenza di Matias, in fin dei conti il mio carissimo amico era sempre stato noto, fin dall’infanzia per i suoi gusti del tutto raffinati, raffinati ed eleganti come la sua personalità. Quando lo avevo nominato ai custodi, rispettivamente marito e moglie, notai nascere su quei loro visi leggermente longevi un dolce sorriso.
Gustavo inarcò le sue sopraciglia grigiastre, mormorando sorpreso «Il Signor Ripamonti riceve sempre poche visite»
Ed era vero, soprattutto quando non si era mai liberi, a causa di un tuo capo, spesso irritato e nevrastenico, che ti sottopone quotidianamente ad ore ed ore di lavoro incondizionato.
Se la sua non era una vita da poche visite, non mi sarei mai meravigliata  di vedere un asino volare.
«L’avvocato è sempre così occupato – continuò poi la moglie – ma a quanto pare non lo sarà ancora per tanto» Delmar mi sorrise maliziosamente.
Intuite le sue allusioni, negai il più velocemente possibile con il capo «Oh no, io e Matias siamo solo due vecchi amici d’infanzia»
«Già, due buoni vecchi amici - Matias raggiunse la portineria e dopo avermi stampato un lieve bacio sulla guancia, si rivolse ai due anziani – Gustavo, Delmar, è arrivato qualcosa per me?» l’anziano si chinò lievemente ad afferrare un pacco incartato che poi depositò sul bancone «E’ arrivato questo, Signore» Matias storse il naso «Fammi indovinare, Fritzenwalden s.p.a?» l’uomo sorrise «La medesima»
«Beh, intanto vi ringrazio – prese il pacco, gettandogli un’occhiata fugace – a più tardi Signori Tocos, buona giornata»
I due coniugi ci salutarono con un cenno di capo.
Sentivo i loro occhi seguirci ad ogni nostro passo. Odiavo essere al centro dell’attenzione, mi faceva sentire a disagio, soprattutto quando sapevo che stavano proprio parlando di me.
Quando finalmente anche le porte dell’ascensore si chiusero, sospirai sollevata. Matias pulsò il bottone del settimo piano.
Sbiancai all’eventualità di dover fare le scale … "Un altro proposito per il Natale"pensai. Dovevo assolutamente ringraziare l’ideatore degli ascensori con una bella torta farcita al cioccolato … un così grande gesto non poteva di certo essere trascurato. Non era da tutti giorni aiutare gente bisognosa, progettando oggetti di una simile utilità e per la torta ... beh, nessuno la poteva rifiutare!
Gettai l’occhio al pacco che Matias portava stretto sotto il braccio «Non ne aveva abbastanza di caricarti in ufficio? Adesso si da pure il permesso di torturarti a casa?» bofonchiai «Parli di Federico?»
«Il medesimo – ironizzai, ripetendo le parole del portiere – Ma non ti annoi mai a stare con un tipo così isterico?» Matias sorrise «Dici così per quello che è successo tra di voi» abbassai il viso per nascondere il mio rossore «No, ti sbagli! – incrociai le braccia – Lo dico perché lo penso veramente»
«Flor, ti conosco e so bene come sei fatta, quindi non provare a mentirmi»
«Beh, a quanto pare non mi conosci abbastanza – le porte dell’ascensore si aprirono, lasciando intravedere un corridoio lungo e stretto, sulle cui pareti spuntavano delle applique di ogni genere e forma – comunque non sono venuta per parlare di quel … »cercai un insulto nel mio vocabolario degno di quel ghiacciolo senza cuore «Freezer?» mugugnò divertito Matias. Lo fulminai con lo sguardo «No, Fritzenwalden!» Matias rise divertito dal mio isterismo cronico, poi, una volta raggiunta la porta 1025, inserì le chiavi nella serratura e l’aprì.
Improvvisamente con un suo battito di mani, la luce si accese «Wow – esclamai scioccata – Tute, ma che …»
«Carino, vero? - Matias posò le chiavi sull’angoliera in legno dell’ingresso – Tecnologia allo stato puro»
Ero sconcertata.
Sapevo che Matias aveva una predisposizione per tutto ciò che era considerato moderno, ma non credevo che la sua per così dire attualità lo avesse portato ad avere certi poteri «Dammi il numero di quel potente mago che ti ha fatto tutto questo? – sibilai, mentre ispezionavo accuratamente ogni piccolo dettaglio dell’abitazione.
«Beh, appena lo trovo te lo darò»
Era un piccolo appartamento di città, anche se in realtà di piccolo aveva ben poco, considerando l’imponente divano bianco che dominava il centro del salotto. C’era poi la  cucina, che occupava interamente la parete retrostante il sofà, dove un’isola in candido marmo lucente, spuntava come un fungo, per fungere da tavolo. Sfiorai con le mani la statua in ebano scuro che accantonava il divano.
Feci una smorfia leggermente schifata al comprovare l’identità della figura «Non posso credere che tu ce l’abbia ancora» mugnai, ricordandomi l’ignoto dal capo gigante e pelato che ero solita vedere all’ingresso della vecchia casa dei genitori di Matias. Quella statua, se statua si poteva chiamare con quell’espressione da cane bastonato che si ritrovava, mi aveva sempre suscitato una certa inquietudine per via di quei suoi due occhi grandi e terribilmente rabbiosi che sembravano sempre  dire Toccami e ti ammazzo!
A quel ricordo, ritrassi mortificata la mano.
Riconoscendo probabilmente il mio gesto, Matias scoppiò in una sonora risata «Voleva rivederti – ironizzò, mentre maledicevo in silenzio – Eh dai, Florchu, non fare quella faccia, accomodati e fa’ come se fosse casa tua» vidi Matias togliersi il cappotto color fuliggine ed appoggiarlo al divano «Con quel coso che mi fissa?» dissi puntando il pelato arrabbiato «Raul è innocuo – feci una smorfia sotto le risate di Matias – Vuoi qualcosa da bere?» negai velocemente con il capo «Prima parlo, prima mi tolgo dallo sguardo assassino del tuo amico»
Entrambi prendemmo posto sul divano, incredibilmente morbido «Allora, mi vuoi dire cos’è questa storia che hai trovato tuo padre?» Matias incentrò il suo sguardo preoccupato nel mio. Curvai le labbra disegnando un abbondante sorriso «Si chiama Alberto – Tute inarcò le sopraciglia per farmi continuare – e l’ho sognato!» sbarrò gli occhi confuso «Lo hai sognato?!»
Gli raccontai per filo e per segno il sogno, cercando di essere il più precisa possibile, a causa dei continui fliquity infiammati d’euforia che mi offuscavano completamente petto e mente. Ad ogni mio gesto frenetico, Matias annuiva zitto, zitto e quando terminai, lo vidi poggiare la schiena al divano e fissare a braccia conserte il vuoto «Era lui – esclamai ancora emozionata – e aveva una macchia proprio qui, come me» dissi indicando la piccola chiazza marcata sulla mia fronte.
Matias storse le labbra in una smorfia «Flor, è un’assurdità – spalancai gli occhi incredula  -  non puoi fidarti di un sogno! I sogni solo l’interpretazione del nostro inconscio, quello che solo noi vogliamo vedere»
«Non è vero – scossi il capo – Io so che è lui, lo dice mia madre» strinsi la gonna in fantasia che indossavo con rabbia «Flor – Matias sospirò tristemente, poi, prendendomi le mani, incentrò i suoi occhi azzurri nei miei – tua madre non c’è più, è … è ora che tu te ne faccia una ragione» gli occhi cominciarono a brillarmi «E’ da tempo che so che mia madre è morta, Matias, ma non per questo non la ritrovo nel mio cuore, ogni volta che la cerco. Tute, cerca di capirmi, ho appena scoperto che Eduardo non è mio padre, ho passato due settimane infernali ed ora, che finalmente vedo uno spiraglio di luce in tutto questo buio, non ti fidi di me?» Matias dondolò il capo «Io mi fido di te, Florchu – mi accarezzò dolcemente il viso – è dei sogni che non mi fido. Il fatto è che … - si portò una mano al mento pensieroso – sono sogni e basta» gli sorrisi rassegnata «Questo è quello che pensi tu, ma io ci credo e so che l’uomo del sogno è mio padre – sospirai – è il mio sesto fliquity che me lo dice, capisci?» Matias mi sorrise, poi spostò lo sguardo al pelato testa di legno «Che ne dici, Raul, diamo retta a quella pazza di Flor?» mi gettai tra le braccia di Matias «Grazie,Tute sei un vero amico» mi scostò leggermente «Ma ad una condizione - accigliai il viso – domani andremo in ospedale ad informarci sulla tua nascita, magari questo Alberto ha lasciato qualche documento» lo fissai confusa, ancora tra le sue braccia «Cosa intendi?»
«Beh, qualcosa che parli della tua adozione, una carta che affermi la tutela di Eduardo e Margarita» mi morsi il labbro nervosa, ritornando a stringere la gonna, questa volta con meno ferocia «Matias, c’è una cosa che non ti ho detto – Matias sospirò preoccupato – Mio padre, Alberto, è sposato» Tute strabuzzò gli occhi perplesso «Questo complica le cose» annuii «Lo so»


Matias chiuse la porta a chiave, pigiò il bottone dell’ascensore e quando raggiungemmo il piano terra lo bloccai «Un momento» Matias mi osservò preoccupato «Ti sei ricordata ancora qualcosa?» gli lanciai un’occhiata decisamente molto scaltra «Sì, non credo che sia stato tu a fare tutto quello?» dissi puntando in alto con il dito «Tutto quello cosa?»
«L’appartamento, Tute. Non mi inganni sai, per quanto tu sia elegante e raffinato, non arriveresti mai ad essere così perfetto»
«Flor! – mi riprese per poi lasciare ricadere le spalle in un gesto del tutto remissivo – D’accordo – iniziò a frugare nella tasca del suo cappotto, poi mi porse un bigliettino bianco, che afferrai di scatto – Ecco il nome del mago» spalancai gli occhi «Nicolas?!»
«Già, proprio lui! Altro che hacker associale, quel ragazzo è un vero e proprio designer, ci sa fare con i disegni e le planimetrie virtuali»
«Virtuali?» sibilai scioccata «Sì, gli arredatori di oggi, usano il computer per progettare case e stanze varie, hanno un programma apposta. Sweet Home 3D, credo si chiami, è uno sballo!» esclamò divertito Matias, mentre riuscivo a malapena a sorridere.
Altro che ragazzo associale dai fervidi complessi di solitudine (definizione spudoratamente copiata da Martin), il poverino altro che lavorare, sgobbava tutto il giorno, dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina per realizzare un suo sogno.
E noi che lo avevamo giudicato male “Devo sostituire il Laukar e fargli avere quello della speranza, sono sicura che lo aiuterà”, pensai.
«Flor? – mi riprese Matias, agitando una mano davanti il mio viso – Andiamo?» annuii.
Ci incamminammo verso l’uscita del palazzo a braccetto, solo come due amici affiatati potevano fare «E per Maria Bonita, cosa faccio?» chiesi poi a Matias, dopo aver salutato i portinai con un piccolo movimento del capo «Beh, la foto è un inizio, posso risalire a qualcosa»
«E poi?»Matias mi sorrise «E poi si vedrà» mi accoccolai a lui per ripararmi dal vento gelido di dicembre.
Ci stavamo dirigendo alla sua macchina quando sentii Matias allentare il passo fino a bloccarsi «Tedesco, cosa ci fai qui?» il mio cuore sobbalzò ad incontrare gli occhi incredibilmente dorati di Federico.
Con il suo cappotto grigio era poggiato al cofano della macchina con un plico di fogli tra le mani. Aveva la cravatta blu perfettamente annodata ed i capelli caramellati erano leggermente scossi dal vento.
Un brivido mi percorse l’intero corpo.
«Flor?» chiese inarcando un sopraciglio «Federico» lo salutai io, stringendomi a braccia conserte nel mio giubbotto viola. Federico si ricompose e con pochi passi ci raggiunse «Cosa ci fai tu qui?» chiese portando il plico sotto il braccio, mentre i suoi occhi fissavano imperterriti i miei.
Voltai lo sguardo in un’altra direzione, per evitare quel tremendo contatto «Sono con un mio amico, non vedi?» mi agganciai a Matias in modo affettivo, provocando una scintilla nello sguardo dorato del Freezer «E due amici escono di casa abbracciati?» il suo tono era maledettamente seccato. Con la coda dell’occhio osservai Matias passare in rassegna ognuno di noi e, battere il piede destro con fare preoccupato. Istintivamente lo strinsi ancora di più come per tranquillizzarlo, poi spostai l’attenzione a Federico che aspettava titubante una mia risposta.  
Gli sorrisi «Beh, non vedo che cosa ci sia di strano» mi fulminò con lo sguardo «Due amici non si abbracciano» mugugnò a denti stretti.
Mi scostai leggermente da Matias «Non tutta la gente è fredda come te» se non ci fosse stato Federico, probabilmente mi sarei sbellicata dalle risate per quel tono così arrogante che avevo adottato.
«Per lo meno io non vado in giro ad abbracciare tutta la gente che incontro» portai furiosa le braccia ai fianchi, avvicinandomi di pochi centimetri a lui «Ah sì?» Federico fece lo stesso e in men che non si dica, i nostri respiri si incrociarono «Sì» tuonò lui risoluto.
Saette e fulmini partivano ed arrivavano dai nostri sguardi.
Non c’erano parole, solo fuoco e fiamme, ribollire prima nei miei e poi nei suoi occhi. Vedevo il miele fremere in quelle sue pupille assetate di sangue: se io ero furiosa, lui lo era di più «Che c’è, Fritzenwalden, sei geloso?» sussurrai con un piccolo sorrisino sulle labbra. Il sussulto di Federico fu quasi impercettibile.
Matias si schiarì la voce imbarazzato «Ehm, Tedesco, come mai sei qui?» Federico ed io ci ricomponemmo contemporaneamente. Sentivo le guance accaldate ed il cuore ancora palpitarmi per i pochi minuti prima.
Non volevo ammetterlo, ma quel gelido del Freezer non mi sarebbe mai stato indifferente. Forse neanche una testa di cocco caduta in testa, mi avrebbe fatto scordare quegli occhi dorati.
Gettai lo sguardo a Federico, anche lui leggermente arrossato, e lo vidi passarsi una mano nervoso per i capelli, poi sospirò «Come mai sono qui? – Matias gli sorrise di soppiatto, mentre, il Freezer gli mostrava il plico di fogli – sono arrivati questi in azienda. Erano abbastanza importanti e ho deciso di farteli avere prima di domattina»
«Non ne hai abbastanza di torturarlo al lavoro? Devi anche seguirlo fino a casa?» ero furiosa, anzi, i nervi a fior di pelle che avevo erano furiosi.
Se Matias non lo avesse fermato, a quell’ora avrei saputo tutta la verità.
Fremevo di conoscere il verdetto finale, perchè la gelosia si sa, si prova solo quando nel cuore batte un sentimento importante. Non mi importava se quello stupido di Federico non avrebbe mai ammesso ciò che provava nei miei confronti, ma saperlo ed avere una certezza mi avrebbe risolto una parte di problemi. Lo scopo? Beh, lui amava Delfina ed io … io, beh io non so cosa o chi ero, ma il mio scopo era semplice e molto arduo: stuzzicarlo fino all’esasperazione e poi chissà, forse solo così i suoi veri sentimenti sarebbero venuti a galla.
Federico mi gelò con lo sguardo, poi ritornò a fissare Matias, consegnandogli i documenti «Guardali e fammi sapere – si voltò per far ritorno alla sua macchina, ma si bloccò, rigirandosi nuovamente – domani sera io e Delfina usciremo a cena, se vi va potete venire, non ci fa altro che piacere» chiusi gli occhi fino a ridurli a piccole fessure.
Cosa aveva in mente?
«Ehm, io veramente …» Matias balbettò confuso. Lo fermai, stringendogli il polso «Ci saremo»



Nota Autrice:

Salve a tutti!
Ecco a voi un piccolo pensierino per il Natale: un capitolo sotto l'Albero ...è il mio regalo per voi, tutte quelle quelle persone che leggono e recensiscono la mia storia e alle quali voglio dire un Grazie di cuore!
Vi auguro un felicissimo Natale, da passare allegramente con la vostra famiglia!

Dani

PS: Ricordatevi che Natale è sempre, purchè viva  in ogni nostro sorriso ...
  
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