Appoggiato
su di un cuscino di velluto.
Con le ali leggermente dispiegate, la testa reclinata su una spalla.
Il
trapezista lo guardava in silenzio.
A gambe incrociate davanti a lui, una mano appoggiata accanto al suo
piccolo corpo, due dita a sfiorarne la coda.
Il
corvo era una statua bluastra
affondata nel velluto argenteo. Il suo becco grigiastro era
dischiuso. Accanto all’ala sinistra, la prima piuma.
C’era
uno squarcio su quella spalla,
là dove la piuma nera si era staccata. Dallo squarcio si
irradiava
una luce violenta e chiarissima, che illuminava il trapezista in viso
e faceva luccicare i suoi occhi da gatto, di quel colore azzurro
vetro tanto chiaro da sembrare bianco.
La
tenda faceva calare un’oscurità
confortevole attorno a loro. Copriva tutti i sei metri di quel
piccolo tempio, tranne che sopra il cuscino di velluto; il Pagliaccio
non aveva voluto sentire ragioni, quella piccola porzione di tela
doveva dare sul cielo. Le nuvole temporalesche dell’isola vi
danzavano dentro, strette in quel quadrato, come sforzandosi di
rientrarvi per sbirciare.
Il
trapezista allontanò la mano dalla
coda del corvo e raccolse la piuma. Se la portò alle labbra,
ne
accarezzò la forma, poi la infilò in una tasca
dei suoi larghi
pantaloni.
Si
alzò senza far rumore ed
indietreggiò fino ad uscire all’aria aperta. Solo
dopo aver
scostato la tenda dell’ingresso e poggiato i piedi nudi
sull’erba
dell’accampamento si voltò, dirigendosi verso la
sua roulotte.
La
mezza ondata di applausi si fermò
al gesto del Pagliaccio, e mentre gli assistenti liberavano il palco
lui si sistemò comicamente il microfono in una narice.
-
Ed ora - fiatò, e la prima fila
scoppiò a ridere - lo spettacolo di un professionista.
Silenziosamente,
le funi calarono in
mezzo ai trampolini. Il tamburino dai capelli a punta iniziò
la
rullata. Le luci rotearono sul pubblico e abbagliarono il Pagliaccio,
che immobile allargava le braccia e con quell’ampio gesto
indicava
dietro di sé.
Kamala
lo vide arrivare mentre
arrostiva della carne sul fuoco. Era discostata dagli altri, con le
sue poche valigie e l’attrezzatura della danza del fuoco
sparsa
accanto lei. Appoggiata ad un tronco, tendeva sulle fiamme una mezza
bistecca. Quando il trapezista le si avvicinò e si sedette
sul
giaciglio di pelli davanti a lei, gli fece cenno di avvicinarsi e lo
fissò con aria complice.
-
Shht, eh - mormorò. Alzò un lembo
del panno che copriva una macchina voluminosa e scoprì la
porta
aperta di una gabbia di acciaio.
All'ombra
del panno, il ghepardo del
circo ricambiò immobile lo sguardo del trapezista, con gli
occhi che
riflettevano il fuoco. Kamala gli grattò la testa
amorevolmente e
gli mise tra i denti un brandello di bistecca.
-
Non una parola - raccomandò al
ragazzo. Quindi ravvivò il fuoco, nascondendo di nuovo il
felino
dietro la stoffa.
-
Ti farà a pezzi - osservò Ghabi con
la sua voce profonda. Era uscito dalla roulotte e si era appoggiato
alla scala di ferro che usavano per il loro numero. Kamala si strinse
nelle spalle e si gettò indietro i capelli intrecciati.
Ghabi, per
nulla sorpreso dalla reazione, continuò pacifico ad
accarezzarsi la
barba. Poi si sedette accanto al trapezista.
Il
fuoco scoppiettante riluceva sulla
pelle color tizzone dei due africani. Entrambi gli offrirono da bere,
ma come sempre lui rifiutò. Mangiò invece il loro
pane, e ascoltò
Kamala snocciolare la sua giornata, col ghepardo accoccolato contro
le ginocchia.
Quando
ebbe finito, Ghabi finì di
masticare la carne e si volse verso di lui. Gli fece un sorriso con i
suoi proverbiali denti bianchi.
-
E cosa ci racconti, Jama-sayed?
La
sua domanda aleggiò attorno al falò
per qualche istante. I rumori del circo che si addormentava
arrivavano a loro attutiti oltre le fiamme. Kamala si era avvolta in
una coperta e prendeva sonno appoggiata al petto di Ghabi, mentre il
ghepardo si agitava nervoso nella gabbia ora chiusa.
Il
trapezista socchiuse gli occhi
giocherellando con un ramoscello ardente, si strinse la sua collana
d’osso e prese fiato. Poi iniziò a raccontare.
Le
storie del trapezista avevano
stregato tutti, uomini e donne, persino gli elefanti non barrivano
quando nel cerchio del palco risuonava la sua voce bassa e
tranquilla. I bambini si addormentavano, gli spettatori sorridevano
ai suoi inviti, le sue parole cullavano le crisi della donna cannone
e l’ira del mangiafuoco. Era per le sue storie che il
Pagliaccio
l’aveva preso con sé, all’inizio di
settembre, quando la poggia
era arrivata. Era stato due giorni dopo la caduta della stella che il
Pagliaccio aveva raccolto.
Era
arrivato sotto un ombrello
malconcio, vestito solo di una camicia a righe e dei jeans
sfilacciati, con la barba sfatta e i capelli lunghi che poi gli
avevano tagliato. Si erano chiusi per un’ora
nell’ufficio, il
clown e quel giovane dagli occhi da gatto. Quando erano usciti, il
ragazzo faceva parte della loro compagnia. E la sua presenza era
stata immediatamente evidente: aveva praticamente reinventato lo
spettacolo. Cambiato i numeri, il loro ordine, i loro componenti;
aveva modificato le coreografie e disegnato i costumi, adattandoli al
genio del suo estro, divagando in risposta alle domande degli altri,
senza mai spiegarsi, senza mai giustificare; ma soprattutto aveva
parlato con tutti loro, e tutti aveva ascoltato, fino a diventare la
presenza incostante, dall’attenzione onnipresente, che tutti
avevano conosciuto.
Era
stravagante. Lo guardavano da
lontano gettare sassi nella piscina e abbracciare il cane che glieli
riportava. Talvolta se ne stava ore a fissare il vuoto. Gli avevano
portato libri, ma non sapeva leggere, o non voleva darlo a intendere;
lo avevano interrogato, ma lui aveva sorriso, sorriso soltanto. Era
taciturno, tuttavia correva con la bambina del domatore, le pettinava
i capelli e le dava un bacio per farla addormentare; lasciava che il
nano gli dipingesse il viso, pazientemente chiedeva scusa se il
giocoliere lo accusava di intralciare i suoi allenamenti; imparava a
mangiare la spada, a tirare i cerchi, a gettarsi senza paura dai
trampolini. Era gentile ed aggraziato; rimaneva spesso solo, ma non
si allontanava mai da nessuno. E nessuno lo chiamava mai per nome.
“Il
trapezista” dicevano,
“Jama-sayed”, principe-salto, a volte lo chiamavano
il
mangiafuoco e la domatrice. Il Pagliaccio, quando aveva bisogno di
lui, cercava “quel ragazzo”. Nessuno sapeva come si
chiamasse, ma
in un circo non era certo una novità.
Però
sapeva danzare.
Appeso
al trapezio, con gli addominali
tesi, il costume stretto sulla pelle, un cavo - all’inizio- ,
attaccato alla schiena, poi se l'era tolto - l'oscillazione, la
spinta, il salto, la coreografia; era una figura disegnata in mezzo
al vuoto, un guizzo di muscoli e un racconto di posizioni e capriole,
un cavaliere dell’aria, con una mano aperta ad afferrare una
sbarra
sottile e l’altra immobile ad accarezzare il suo mondo
invisibile,
il suo cielo di luci là sospeso sul palco, sugli spettatori,
sugli
amici, sulle bocche aperte delle signore e gli sguardi vigili degli
uomini. E i volti dei bambini all’improvviso si facevano
attenti,
quando quel ragazzo diventava un drago, e le proiezioni sul telo che
aveva dietro di lui si trasformavano in un tornado di nuvole e bestie
mitiche, con quella musica che lo accompagnava, saliva, scendeva,
seguiva i suoi salti, il suo ritmo, e ancora i nastri, che lo
facevano vorticare sopra i leoni di Kamala che spiccavano balzi sotto
di lui – il muso dipinto, le unghie tagliate - e le ballerine
ad
ondeggiargli affianco, appena un istante, poi via; era di nuovo solo
lui, appeso al suo trapezio, con un sorriso sicuro sulle labbra, gli
occhi da gatto chiusi, che apriva poi soltanto quando scendeva nel
turbinio del nastro in mezzo al palco, lento, col candore di una
nuvola, giù sulla sabbia smossa dalle fiere, davanti al
pubblico
attonito, con la musica che si spegneva al sussurare dolce di un
violino sempre più debole, come il tocco di una piuma sul
pavimento
lucido di qualche palazzo di cristallo, con la semplicità di
un
falco che torni al suo nido chiudendo le ali come un delicato
ventaglio…
Il
Pagliaccio aveva il viso scuro. La
coda dei suoi lunghi capelli grigi gli scendeva da una spalla, sopra
il costume che portava sempre, giorno e notte, con la pioggia e con
il sole. Guardava la lettera davanti a lui, la lettera dello
spettacolo, di quello che poteva essere la loro fortuna. Oltre la
lettera c’era una piuma. Dietro la piuma, lo sguardo fermo
del
trapezista.
-
Che c’è? - chiese con un filo di
voce appena. Si strofinò un occhio, spostando i suoi
occhiali a
mezzaluna.
Il
trapezista non gli rispose. Accennò
al cielo, espirò con calma. - Sta cambiando il tempo.
Il
Pagliaccio fissò ancora la lettera,
distratto. La piuma dietro di essa era scomparsa. C’era mai
stata?
La cercò altrove sulla scrivania, ma non la vide.
L’aveva sognata.
-
Lo so, lo so - mugugnò, alzandosi
dalla poltrona. Versò del succo d’arancia al
ragazzo, che
ringraziò a bassa voce. - Ti ha mandato Kamala?
-
Garuda. E dice che “ormai c’è
più luce che bestia”. Qualsiasi cosa voglia dire -
rispose il
trapezista con una nota disorientata nella voce.
Il
Pagliaccio fissò il giovane negli
occhi con attenzione. Mentiva: lui sapeva il significato di quelle
parole. Ne ebbe la certezza quando l’altro gli
ricambiò lo sguardo
con un’occhiata confusa.
Ma
poi rivide la piuma accanto alla
lettera bianca. Da dove veniva? Allungò una mano per
prenderla.
-
Ma che fai ? - fece il trapezista
mentre la mano del Pagliaccio raschiava la scrivania. L’uomo
afferrò la lettera con risentimento, prima di guardare di
nuovo il
trapezista in volto. Si contraddisse.
Il
ragazzo aveva una faccia troppo
serena per mentire. Si era sbagliato. E la piuma non c’era.
Aveva
visto male due volte.
-
Vai, vai - lo congedò.
Il
trapezista uscì dalla roulotte
senza dire altro, giocherellando con una piuma nera che teneva tra le
dita.
Garuda
attendeva che gli portassero da
mangiare, la testa china sul suo libro. Aveva passato sulla sedia da
campo verde all’ingresso del piccolo tempio la prima
metà del
pomeriggio, saltando il pranzo. I suoi occhi gialli indugiavano su di
una parola sconosciuta che aveva un suono terribilmente bello,
sebbene non la sapesse pronunciare correttamente. Era arrivata dalla
terra delle foreste solo otto mesi prima.
Il
trapezista le diede una voce
imboccando il breve sentiero di alberi che dall’accampamento
portava al piccolo tempio. Garuda
lo osservò avvicinarsi. Una treccia bruna gli cadeva vicino
allo
zigono da sopra una tempia, e terminava in una graziosa perlina blu
che bene si abbinava con il colore dei suoi occhi. Opera di qualche
bambino del circo. Alzò una mano e la sventolò
sopra il suo libro.
-
Mi dai il cambio? - chiese
speranzosa.
L’altro
scosse la testa.
-
Comunque sia, io devo mangiare. -
Issandosi su dalla sedia, e sgranchendosi le gambe con un movimento
complesso, la contorsionista lo salutò con un bacio sulla
guancia.
Tornò all’accampamento con l’indice in
mezzo a quel volumetto
spesso.
Il
trapezista alzò lo sguardo al cielo
dove infuriavano le nubi. L’umidità era aumentata
e la temperatura
pure.
Si
infilò nella tenda del tempietto,
facendo frusciare il pavimento di tela sotto i suoi piedi nudi.
Ogni
notte, la dea piangeva. Le Apsaras
le vorticavano attorno, riempiendola di attenzioni, cullandole le
ginocchia, accarezzandole i lunghi capelli d’ebano. Ma la dea
possente, avvolta nella sua veste bianca, continuava a piangere.
Sconsolata, gettava la testa indietro e dai suoi begli occhi scendeva
una lacrima, una sola, che le cadeva sulla guancia diafana e dal
mento si staccava, per cadere giù, oltre la balaustra del
palazzo
d’argento, sulla schiena delle nubi, che si gonfiavano come
punte
da un veleno e pregne di pioggia baluginavano sulle terre, gettando
ombre minacciose di pioggia e muggendo in rombi lontani.
Disposta
ordinatamente sul palco del
circo, la compagnia chiacchierava sottovoce in un brusio musicale che
sovrastava il ticchettare delle gocce sul tendone.
Kamala
accarezzava i suoi leoni
allungando le mani dentro le gabbie, i giocolieri improvvisavano
passaggi e acrobazie con gli orecchini delle ballerine e Garuda, con
i piedi accanto alle orecchie, ripeteva tra sé e
sé una frase
complessa del suo libbricino.
Il
Pagliaccio si presentò dopo un
minuto. Li salutò brevemente come faceva nelle occasioni
ufficiali,
lasciando che tutti notassero che le gote rosse del suo trucco
mancavano, e che al loro posto si vedevano due guance lucide
sovrastate da ampie occhiaie. Forse il suo viso naturale lo faceva
più vecchio di quanto volesse, ma nessuno glielo fece notare.
Il
trapezista era appeso al suo
attrezzo a testa in giù, due spanne sopra la testa dei suoi
compagni, gli occhi azzurro pallido fissi davanti a sé.
Il
brusio si spense. Il Pagliaccio
prese fiato e allargò le braccia.
-
Ce l’abbiamo. E’ fatta, lo
spettacolo si farà.
Il
brusio esplose di nuovo. Qualcuno
applaudì. Le ballerine scoppiarono all’unisono in
una risatina di
gioia.
Erano
passate otto settimane.
All’arrivo della stella erano un circo di provincia. Il
giorno dopo
il primo spettacolo, le convocazioni e le lettere di invito. E
così
via. Più gente entrava nella grande tenda a strisce,
più il tempo
si faceva scuro. Più incassi ingrassavano le cassaforti del
Pagliaccio, più quella creatura alata nel tempietto scuriva
le sue
piume. Poi aveva iniziato a perderle. Il Pagliaccio se ne era
liberato. Lo spettacolo era stato un fiasco. Lungi dal credere nelle
coincidenze, la stella era stata recuperata e rinchiusa in un
tempietto di tela, caldo e confortevole, sorvegliato con cura.
Ed
era arrivata quell’ultima sera.
Nell’anfiteatro
dell’Impero
Circense, addobbato a festa sotto l’acquazzone più
violento
dell’ultimo secolo, con dodicimila anime sugli spalti e le
televisioni di tutte le isole a riprendere ogni loro acrobazia.
Nel
tempietto nascosto dietro le
quinte, Garuda si addormentò.
Le
Apsaras ballavano attorno ad
un’anfora di creta.
Legate
alle loro dita, lunghe ragnatele
di oro e nuvole. Il fruscio dei loro vestiti leggeri era un canto che
risuonava nel palazzo degli dèi. Si guardavano con la
frenesia sui
visi, si sfioravano e poi fuggivano via, compiendo il rituale
melodioso per curare la loro regina.
Muovendo
le mani intrecciavano i fili
gli uni con gli altri e li spingevano nell’anfora. Al ritmo
della
loro danza, mille e mille raggi di sole venivano rinchiuse in quella
fragile prigione di creta.
All’improvviso
tutte si gettarono
sull’imboccatura del vaso. La più piccola
posò il dito per
chiuderlo, e le altre strattonarono i loro fili. La luce si
ritirò
dentro l’anfora, frizzando come schiuma.
Perfettamente
coordinate, le Apsaras
alzarono la più piccola di loro e la trasportarono verso
balaustra
del palazzo d’argento. Il sole pulsava dentro la creta.
La
dea smise di piangere là accanto.
Alle sue spalle, gli dèi si erano radunati, alteri e
spigliati ma
con un guizzo di curiosità ad attraversare i loro volti
perfetti.
Era
chiuso tra le quattro pareti di
tela. Non gli era mai sembrato così soffocante come in quel
momento.
Il
corvo di fronte a lui si contorceva
piano. Agonizzava in un letto di piume. La luce che irradiava era
quasi insopportabile, e baluginii di colore iniziavano ad insidiarsi
in quella luminosità aliena.
Una
per una, le piume vennero prese dal
trapezista. Quando le ebbe tutte addosso a sé, il ragazzo
espirò
pesantemente e tuffò il viso sopra il corvo.
Aprì
la bocca.
Dalle
sue labbra moventi non usciva
alcun suono, ma lentamente quella macchia bianca che era il corvo
iniziò a prendere forma. Là una mano, qua dei
fianchi. Il seno. Il
collo. Le piccole orecchie. Le ciglia chiuse. Il trapezista si
allontanò leggermente, continuando a boccheggiare in quella
lingua
muta. Ancora molte piume erano rimaste attaccate al corpo sgraziato
del corvo. Dietro di esse, dentro quella gabbia di forma animale, si
intravedeva una donna, una fanciulla, rannicchiata su se stessa, come
addormentata. Il suo corpo sembrava tremare e confondersi con quello
dell’uccello. Sformarlo. Mutarlo impercettibilmente.
Quando
Garuda vide quella
trasformazione, e corse subito ad avvertire il Pagliaccio, il
trapezista era già dietro le quinte.
-
Non te ne andare - supplicò il
Pagliaccio. Era fermo davanti al cuscino, investito dalla luce.
Spaventato dalla figura che stava formando. Si rivolgeva al corvo, a
quella stella piumata che aveva fatto la sua fortuna.
Garuda
era in attesa.
Il
Pagliaccio sospirò ansioso. – Non
c’è nulla da fare – si disse.
– Nulla da fare.
Chiamò
Garuda e le chiese di portarla
via (era una lei, ormai, una bella lei nelle spoglie di un corvo,
persino lui l’aveva capito). Lontano da loro, in qualche
posto
abbandonato; e che pregasse il suo dio delle foreste di assisterli
tutti, perché non sapeva cosa aveva fatto.
La
prima parte era andata bene, pensò
il Pagliaccio. Applausi e risate. Ovazioni. Il lanciatore di coltelli
aveva lasciato tutti senza respiro. Garuda era tornata in anticipo.
L’aveva lasciata sulla scogliera più remota
dell’isola, aveva
detto così.
Il
Pagliaccio si fidava. Pensò così,
mentre dietro di lui il trapezista compariva sul palco.
Era
sull’orlo. Alle sue spalle, un
scia di piume arruffate dal vento.
Aveva
le spalle imperlate di brina, e
la brezza fredda la faceva rabbrividire. Gli occhi le annegavano nel
vuoto della scogliera. Cento metri e più a separare quel
picco dalle
onde possenti e infuriate che frustavano gli scogli sotto di lei. La
risacca era violenta e la sua eco di spruzzi sembrava un gemito di
dolore, come se il mare schiaffeggiasse quelle sponde.
Tuttavia
il movimento dei flutti la
chiamava. Così come la chiamava sensualmente la voce del
vento,
sibilante, glaciale, ma familiare come un fratello; così
come il
cielo temporalesco, che con i suoi lampi le illuminava a tratti il
viso delicato, la toccava nel profondo, come se le leggere gocce di
pioggia che scendevano lungo il suo corpo fossero lacrime spese
proprio per lei.
L’intorpidimento
di quel corpo era
nauseante, il peso delle membra quasi intollerabile e il candore di
quella sua pelle bianca, troppo bianca, troppo mortale,
un marchio troppo vergognoso perché lei potesse sopportarlo.
Decise
di liberarsene. Timidamente
stese una gamba che teneva stretta al petto. Il suo piede sottile
tastò l’aria dell’abisso.
Attaccata
alla spalla le rimaneva
un’unica, tenebrosa piuma di corvo.
Il
trapezista era vestito con ampie
stoffe colorate. Si inchinò mentre i fari lo investivano.
Il
Pagliaccio finì di presentarlo e si
voltò, allontanandosi da lui indietreggiando. Lo
guardò negli
occhi, in quegli occhi da gatto, azzurri e sbiaditi come un vetri
levigati dalle maree. E per la prima volta si accorse che il ragazzo
era cieco.
Il
trapezio si alzò con il giovane
elegantemente in equilibrio sulla sbarra. Si bloccò a
metà del suo
percorso.
Un
grande tuono scosse il tendone,
ammutolendo il pubblico.
Il
trapezista allargò le braccia. Il
tessuto del suo vestito si sfaldò come fosse fatto di fumo,
e due
grosse ali nere si spiegarono al posto delle sue braccia.
Le
Apsaras si mossero tutte insieme in
un unico, breve gesto. Gettarono l’anfora sul tetto del cielo
ridendo compiaciute.
Il
sole ruggì di contentezza da
qualche parte là nell’infinito, e con un sonoro
rumore di cocci
infranti la coltre delle nubi ruppe la creta.
I
raggi luminosi esplosero come frecce
senza coda in tutte le direzioni, concentrandosi verso il basso.
Fendettero le nuvole nere come lance scagliate dall’alto e
spesse
ferite di luce si aprirono nella distesa di cielo coperto.
Con
due battiti delle grandi ali, il
trapezista si era portato a pochi metri dal soffitto della grande
tenda a strisce.
Bastò
che il suo sguardo cieco ne
percorresse la lunghezza perché la stoffa si squarciasse
facendo
irrompere il temporale, con la sua tempesta di raggi, dentro il circo
e sugli spalti.
Mentre
il giovane pronunciava il suo
nome ad alta voce, dodicimila sguardi puntati sul suo viso, la
creatura sulla scogliera si tuffò.
E
nel circo lo udirono tutti. La voce
del trapezista risuonò chiara e senza eco, emergendo da un
fremito
di tutto il suo corpo.
«
Iride! » disse il trapezista. E poi
lo urlò. E lo disse ancora. E continuò a gridarlo
sopra gli ultimi
ruggiti della tempesta, finché le sue belle labbra non
sembrarono
tutt'uno con quella parola, e la sua bocca colpita da spasmi continui
che venivano seguiti da quel nome.
L’ultima
piuma sulla scogliera cadde
come sulla scia di un’esplosione. La volta celeste si
illuminò di
colpo. Sopra il palco, il trapezista scomparve nel nulla con uno
schiocco.
Gliel’aveva
sussurrato tutti i
giorni, incessantemente, con il sottofondo della pioggia a cantare
sotto le sue parole e l’eco dei tuoni a farlo sussultare.
Aveva
giaciuto nel tempietto, cieco e invisibile, con le labbra secche per
il troppo recitare incessante di quell’unica parola, Iride,
Iride,
Iride, giorno dopo giorno, senza mancare una sola volta, mentre il
tempo si faceva sempre più scuro e la fortuna del circo
cresceva. Ad
ogni sillaba, ad ogni lettera il suo guscio sgraziato si indeboliva e
quel mantra incessante giorno per giorno ne staccava le piume. Giorno
per giorno la spogliava della sua prigione. Col solo ausilio delle
parole di un cieco. Col solo ausilio del suo nome. Ma era il suo nome
ad esistere per essere pronunciato o era Iride dal rapido volo ad
esistere in sua virtù ?
Con
le sue ali d’oro e la tinta
colorata della sua lunga chioma, Iride percorse il cielo,
irradiandone ogni angolo della sua luce. Trafisse la pioggia e la
mutò in cristalli di colore che caddero a terra
infrangendosi in
mille sfumature differenti, come se per ciascuna lei avesse scelto
una tonalità, e a ciascuna dato un nome. Il suo corpo si
confondeva
con il suo manto cangiante e il calore del suo sorriso si
insinuò
negli sguardi che incrociarono il suo passaggio. Descrisse un arco ma
non si fermò. L’orizzonte era la sua meta, e
là, oltre i confini
della vista terrena, sorgeva quel palazzo d’argento.
Affondò il
viso nell’abbraccio di sua madre e gli dèi le si
affollarono
attorno, accorati e gentili, dandole carezze e sfiorandole la chioma.
Le
pareti della dimora degli dèi
rilucevano dei colori dell’arcobaleno. Iride sorrideva a
tutti.
-
E allora -, chiesero gli dèi, - come
sono gli uomini?
-
Buffi - rispose Iride - chiamano
l’arcobaleno prima che arrivi il sole.
Da wikipedia: Iris, o Iride, è una dea dell'Olimpo, messaggera degli dei e personificazione dell'arcobaleno. A differenza di Ermes, la "rapida" Iride non appartiene al culto ellenico, ma solo al mito. Svolge il suo compito di messaggera grazie a grandi ali d'oro con le quali corre rapida a portare gli ordini di Zeus. È citata nell'Iliade, in cui si legge: Zeus padre dall'Ida... incitò... Iris dall'ali d'oro a portare in fretta un messaggio. (Omero, Iliade, VIII, vv.397 e sgg.)
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