Missing
Memories
Parte
seconda
Point
of view
-Carlisle-
«Profumo. Dolce, profumo.
Quello della vaniglia, innocente, e del latte fresco, delicato. Bianco.
Ma non era né l’uno né
l’altro. No, quel profumo era caldo, vivo. Si spandeva piano,
lentamente, pulsava appena, ma c’era, potevo sentirlo.
Lavoravo all’ospedale di Vancouver ormai da qualche anno, ma
quando quella mattina presi servizio mi accorsi che c’era
qualcosa di diverso tra le mura dei reparti. Tutto era impregnato di un
odore che mi era terribilmente familiare, eppure la mia mente non
voleva saperne di riesumare il ricordo al quale era legato.
Avevo scelto Vancouver perché era una città nuova
per me, non ci avevo mai vissuto prima, e mi era sembrata perfetta come
meta, abbastanza lontana e assai dissimile dal posto dal quale ero
fuggito.
Columbus.
La mia espressione cambiò all’istante.
Il profumo che mi tormentava prese finalmente forma; un volto, una
folta chioma castana, uno sguardo amabile color cioccolato, un sorriso
gentile e, infine, quel nome tanto sospirato.
Esme.
Si trovava lì, in quell’ospedale.
Perché a Vancouver? Non poteva avermi trovato, non avevo
lasciato la minima traccia, nessuna informazione sulla mia nuova
residenza.
Le avevo detto addio anni addietro ed era stato già doloroso
all’epoca; non avrei sopportato una seconda separazione, non
avrei avuto la forza necessaria per allontanarmi ancora da lei.
Dovevo andarmene, subito. La tentazione di poterla rivedere era forte,
irresistibile, ma la mia forza di volontà andava ben oltre
il mio desiderio egoistico. Già una volta l’avevo
salvata dal mio inferno, e l’avrei salvata ancora.
Aprii la finestra del mio ufficio, deciso a voler cambiare quel destino
così ingiusto, a mettere fra me e l’angelo bianco
più miglia possibili, per lei, per il suo bene, la sua
felicità… ma non lo feci.
Il profumo si era affievolito fin quasi a svanire del tutto.
C’era qualcosa che non andava. Conoscevo fin troppo bene
quella sensazione.
Esme… non stava bene.
Il pensiero che si trovasse lì per problemi di
salute mi colpì come un pugno in pieno petto.
Se davvero era così, non si trattava di una semplice e
innocua freddura.
Esme stava morendo.
Uscii dal mio ufficio quasi scardinando la porta, lottando contro me
stesso per mantenere un’umana capacità di
movimento. Camminavo veloce, tutto ciò che mi potevo
concedere.
«Dottor Cullen…».
«Non adesso!».
Mi allontanai dal mio reparto e dalle infermiere che mi cercavano;
seguivo il debole profumo di Esme, ormai dimentico di tutti i buoni
propositi che avevo per lei. Volevo solo raggiungerla, ora.
Avevo paura.
Per la prima volta nella mia lunga vita immortale, avevo paura.
Terrore di perderla, sì, perché anche se
l’avevo abbandonata non l’avevo mai persa davvero.
Finché ci fosse stata lei al mondo, io avrei ancora potuto
vivere di amore e di speranze, un piccolo bagliore di luce
nell’immensa oscurità del mio dolore.
Esme.
Senza di lei, sentivo che avrei perso la ragione. Sarei morto dentro
senza mai perire davvero, e questa era una condanna che non sarei
riuscito a sopportare.
Scesi le scale a due a due, ancorato a Esme con la mente e con il
cuore, pregando Dio di non portarmela via, di darle una
possibilità di salvezza.
Varcai la porta dell’obitorio senza quasi rendermene conto.
Non è morta,
Esme. Non è morta, non ancora.
La sua dolce fragranza era flebile, sovrastata dal pungente odore di
corpi senza vita, ma era presente come l’ossigeno
nell’aria.
La luce del sole non raggiungeva quella stanza, resa ancora
più lugubre dalle barelle accostate al muro, le lenzuola
tirate a coprire i volti delle persone il cui cuore aveva appena smesso
di battere. Tutti tacevano. Tutti, tranne uno.
Oh, com’era debole il suo pulsare… Il mio udito di
vampiro, seppur cento volte più sviluppato di quello umano,
faticava a percepirlo.
Mi avvicinai a quel lettino coperto, le mie mani afferrarono
convulsamente il telo bianco, esitando, poi mi costrinsi a scostarlo.
Esme era lì, stesa e immobile, livida e sporca di sangue
rappreso su tutto il volto e sulle vesti strappate.
Cosa ti è
accaduto, angelo mio?
Il suo viso era bello, angelico, esattamente come lo ricordavo, ma
dolorosamente provato, troppo stanco per appartenere a lei, alla mia
piccola Esme.
Una smorfia di mestizia mi increspò le labbra. Ormai era una
donna, la mia Esme. La ragazzina che si era rotta una gamba per aiutare
due bambini era solo più un lontano ricordo, come quel bacio
che mi aveva donato e che ancora custodivo con estrema cura tra le mie
memorie.
Strinsi dolcemente la sua mano tra le mie, fredda e inerte, e me la
portai alle labbra, posando un lieve bacio sul dorso.
La sua pelle era violacea, la sua bocca, una volta rossa come le
ciliegie di maggio, era pallida e screpolata. Col tatto percepivo il
suo sangue scorrere nelle vene, lento, insufficiente, mentre il suo
respiro era quasi impercettibile.
«Aiutami, Signore. Cosa posso fare per salvarla?».
La mia voce era irriconoscibile, così roca e soffocata. Se
soltanto avessi potuto, avrei iniziato a piangere.
Nessuno avrebbe aiutato la mia Esme. Tutti pensavano che fosse morta,
ormai. E lo era, lo sarebbe stata presto.
Non puoi lasciarmi,
Esme, ti prego.
Non potevo supplicarla di restare, quando io stesso le avevo voltato le
spalle anni prima. Che razza di ipocrita!
«Non costringermi a farlo, Esme, ti scongiuro! Svegliati, ti
prego… svegliati…».
Niente.
Il destino mi stava ponendo di fronte ad una scelta troppo dolorosa da
dover prendere: donarle una vita d’inferno, con me, o
lasciarla morire.
Appoggiai la fronte al suo petto, abbracciandola, ascoltando il suo
cuore che spirava faticosamente gli ultimi battiti. In un modo o
nell’altro, si sarebbe fermato comunque.
Non potevo, non avevo la forza di lasciarla andare. Io amavo Esme. Era
l’unica donna per cui avrei mai potuto provare quel sacro
sentimento. L’unica per cui ero disposto a commettere
peccato. E lo commisi, perché nessun prezzo da pagare
avrebbe eguagliato il dolore di quella perdita.
«Perdonami, Esme», mormorai a fil di voce.
Le accarezzai una guancia e i capelli, poi le affondai i denti alla
base del collo, dove la giugulare riusciva ad avere ancora qualche
spasimo, così da permettere al mio veleno di invadere
più velocemente tutto il corpo, e il cuore.
Il suo sangue era l’apoteosi di tutto quel dolce profumo che
ancora riusciva ad emanare, un sapore così afrodisiaco da
minacciare il mio saldo autocontrollo, ma non abbastanza da farlo
cedere.
Mai avrei permesso a me stesso di pensare a Esme come a del cibo
perverso.
Mi staccai dalla sua gola per incidere i polsi e le caviglie. Il veleno
agiva più rapidamente e, di conseguenza, più
indolore se penetrava da più punti; avevo commesso
l’errore di non farlo con mio figlio Edward, quando lo
trasformai, ed era stato orribile.
Rimasi con Esme per tutto il resto della giornata, nascosti in un
magazzino, lontano da tutto e da tutti, in attesa che la notte
scendesse sulla città così da poterla trasportare
a casa senza destare il minimo sospetto.
Era una gioia poter sentire il suo cuore battere così
frenetico, segno che il veleno stava agendo in tempo, ma sotto la
felicità per averla salvata dall’oblio stava
nascendo un senso di colpa che, sapevo, non si sarebbe mai
più estinto.
Point of view
-Esme-
Dolore. Atroce dolore.
Un attimo prima nemmeno esistevo, l’attimo dopo ero sveglia,
di nuovo me stessa, e urlavo.
Era come avere il fuoco vivo dentro; ogni fibra del mio corpo bruciava,
avvolta da fiamme invisibili, mentre i muscoli si contraevano e
distendevano, facendomi dimenare.
Non sentivo nulla, se non dolore.
La mia pelle aveva perso sensibilità con
l’esterno. Ero solo certa di essere sdraiata,
perché non avrei assolutamente avuto la forza di sorreggermi
in piedi.
I miei occhi erano spalancati, ma non vedevano realmente. Colori,
miscugli indistinti. Ambra.
C’erano suoni, tanti, sovrastati dalle mie urla insistenti.
Una voce che non riconobbi.
Dolore, dolore, troppo
dolore.
Il fuoco abbandonò i miei arti, che ricaddero inerti. Adesso
infiammava al centro del mio petto, mozzandomi il respiro.
Rimase lì, a consumarsi lentamente come una candela accesa,
e quando finalmente si spense, liberandomi dal bruciore insopportabile,
mi spensi anch’io.
Abbracciai la morte come una bambina poteva abbracciare la sua mamma,
con una sorta di felicità, di sollievo che non provavo
più da molto tempo. E fu buio eterno.
Assenza.
Suoni, immagini, sensazioni. Assenza totale.
Fluttuavo in uno spazio indefinito, nero, buio, profondo, senza meta
alcuna.
Intorno a me c’era il nulla, il vuoto assoluto. Nemmeno io
avevo più una consistenza.
Non provavo niente. Né paura, né angoscia, ma
nemmeno pace e tranquillità. Di quell’assenza
facevo parte anche io.
«Esme».
Una parola, un nome. Così
lontano…
«Esme!».
Di nuovo, più deciso.
Ero io, Esme? Sì, quello era il mio nome. Adesso lo
ricordavo.
All’improvviso fu percezione, e io iniziai a prendere una
forma, ad occupare quello spazio che prima neanche esisteva.
«Apri gli occhi, Esme».
Una voce. Dolce, pensai. Calda.
E fu di nuovo sensazione.
«Apri gli occhi!».
Un ordine privo di significato.
L’attimo prima galleggiavo in un denso nero,
l’attimo dopo ogni cosa ebbe una forma, una massa, un colore,
una ragione di esistere.
Un telo bianco che si chiamava soffitto, una macchia dorata al centro,
il lampadario, e due pietre ambrate incastonate in un ovale perfetto.
Ambra.
«Respira, Esme».
Due linee piene, le labbra di un viso, si mossero.
Da un momento all’altro, i miei polmoni si espansero, e
l’aria riprese a circolarmi in corpo.
Però era diverso. Non mi diede alcun sollievo.
Sentivo di non averne davvero bisogno.
Aprii la bocca perché ricordavo di poter parlare, ma non vi
uscì niente.
«Riprovaci», m’impose l’uomo.
Sì, era un uomo.
Lo guardai meglio, soffermandomi sui lineamenti. Osservarlo mi
procurava una sensazione strana, un misto tra disagio e gioia, sollievo
e dolore, nostalgia e confusione.
Corrugai la fronte. Mi era… familiare.
Boccheggiai, mentre delle lettere lampeggiavano nella mia mente.
«Carlisle».
Bastò pronunciare quel nome, e i ricordi di tutta una vita
mi piombarono addosso, schiacciandomi in un mare di tristezza e mesta
malinconia.
Trasalii, stringendo convulsamente qualcosa di solido, qualcosa che
scoprii essere la sua mano. La mano di Carlisle, del mio vecchio
dottore di Columbus, del mio primo amore; quell’uomo a cui
avevo donato il mio primo bacio, e tutto il mio cuore. Quello stesso
uomo che se n’era andato, lasciandomi al mio destino.
C’era stato il matrimonio, la guerra, il sesso, la
violenza… poi, la fuga, la gravidanza, il parto…
e la morte, quella di mio figlio e la mia.
«Sono… viva», mormorai, incredula. Ma
forse, mi sbagliavo.
Erano anni che non rivedevo Carlisle, e trovarlo così, bello
e giovane come all’epoca, che mi sorrideva
dolcemente… Oh, era il Paradiso!
«Sì, sei viva, Esme», mi disse. La sua
espressione si colmò di una gioia immensa e la sua mano
lasciò la mia per carezzarmi la guancia. «Sei
viva», ripeté.
Avevo dimenticato la splendida sensazione che mi procuravano i suoi
tocchi. Chiusi gli occhi per un istante, beandomi di quel momento come
se potesse essere l’ultimo, vivendolo e assaporandolo per
tutta la sua durata, ma quando tornai a guardarlo, lui era
lì, ancora vicino, ancora con le dita sulla mia pelle.
«Se non sono morta, voi perché siete qui? Sto
forse sognando?».
Lui rise appena, scuotendo la testa. «È tutto
vero, Esme».
Sbattei le palpebre, confusa. «Ma io ricordo di essermi
gettata dalla rupe… di essere caduta in
mare…».
«È tutto finito, adesso», mi
spiegò, negando ancora con la testa. «Non
soffrirai più, Esme, te lo prometto. Ora posso farlo, posso
giurartelo. D’ora in avanti e per
l’eternità, ci sarò io a proteggerti,
se tu lo vorrai».
Avevo sognato quelle parole per un tempo che mi sembrava infinito, e
ora che quella bocca, quella voce le pronunciava, mi sentivo come se
qualcuno ― o lui, proprio lui ― avesse forzato la serratura
della gabbia nella quale avevo sempre vissuto, e per la prima volta mi
sentii libera. Libera di vivere, libera di amare, di essere finalmente
me stessa.
«Mi avete… salvata», sussurrai,
saturando il mio tono di immensa gratitudine.
Non mi importava come, perché tutto fosse accaduto. Non mi
importava del passato, di quello che era successo. Ci sarebbe stato
tempo per tutto, in futuro. Ora, volevo solo vivere quel presente che
avevo tanto agognato.
Gli portai le braccia al collo senza più nessuna inibizione.
Entrambe le sue mani corsero ad accarezzarmi la schiena, mentre
avvicinavo il mio viso al suo, ma quella volta fu diverso.
Non fu veloce, né improvviso come lo era stato la prima
volta.
No, adesso entrambi sapevamo cosa stava per succedere, e non ci
sarebbero stati ripensamenti.
Nessuno sarebbe fuggito, quella volta.
Fu Carlisle a baciarmi, adesso, a unire le nostre labbra in un tocco
carico di significati, di sentimento, di passione… di un
amore represso per troppi anni.
Il mio, ma anche il suo. L’avevo sempre saputo.
Fu un’esplosione di baci passionali, profondi, intervallati
dalle sue sole parole, dal suo enorme dispiacere. «Perdonami,
Esme… per tutti questi anni… per averti
abbandonata… perdonami».
Oh, ma io non dovevo perdonarlo. Non l’avevo mai incolpato di
nulla.
Lo strinsi di più a me, rispondendo ai baci con foga,
dimostrandogli che non portavo alcun rancore nel cuore, ma soltanto
quell’immenso desiderio che avevo di lui.
«Resta con me, Esme. Ti voglio accanto fino alla fine dei
giorni, angelo mio».
Risi di gioia a quelle parole, e lui con me, abbracciandomi forte come
nessuno mai aveva fatto.
E lì, avvolta da quelle braccia, premuta contro il corpo
dell’uomo che amavo, quel passato tanto doloroso sembrava non
essere mai esistito, così fosco e confuso nella mia mente e
così in contrasto con la felicità che stavo
provando.
Lì, in quel momento, seppi che non stavo vivendo il lieto
fine di una storia tragica, bensì l’inizio di
qualcosa di molto più grande.
D’ora in avanti, avrei vissuto per davvero.
Fine
Et
voilà!
Ora, posso dichiarare conclusa Missing Memories.
Mi fa strano dirlo xD
C'è un po' di nostalgia nelle mie parole, perché
nonostante fosse nata come long-fic breve, resta sempre una storia alla
quale ho dedicato molti sentimenti, e con la quale ho condiviso tante
emozioni.
Riconosco di non essere molto portata per i capitoli conclusivi. In un
modo o nell'altro, li rovino sempre. Ma ho davvero impegnato tutta me
stessa per scriverlo, e spero ne sia valsa la pena :)
Spero di avervi soddisfatto come autrice, di avervi trasmesso il
più possibile, di avervi fatto commuovere e sospirare. Spero
di essere stata all'altezza delle vostre aspettative. E spero mi
seguirete ancora.
In questo ultimo capitolo c'è stato qualche riferimento alla
one-shot "Angelo bianco" da parte di Carlisle, e ve la linko nel caso
non l'abbiate ancora letta e abbiate nostalgia di questa coppia (Angelo bianco).
Ho ancora molto da dire su Carlisle ed Esme, di certo non è
finita qui :) Ho già in progetto di scrivere una one-shot
molto tenera e magari un po' più ricca di passione su di
loro, che andrà a far parte della serie di Missing Memories.
E magari, qualcos'altro. Non lo so. Andrò dove l'ispirazione
mi porterà :)
Ringrazio tutti coloro che hanno seguito questa storia, che l'hanno
saputa apprezzare, e ringrazio le ragazze che mi hanno sostenuta
dall'inizio alla fine. Non posso vantare un numero esorbitante di
lettori, ma posso vantarne la qualità, di sicuro :) Siete
stai e sarete sempre importanti per me. Grazie di tutto, davvero.
Un bacio e buon sabato a tutti!
Hilary
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