Dopo più
diun mese, riesco a postare il nuovo capitolo. Prima di lasciarvelo
leggere però, vorrei dirvi alcune cose.
Questo mese, è stato uno dei più difficili.
Quando si perde una persona cara, tutto sembra non avere più
alcun significato e ci si chiede che senso ha continuare. Non voglio
assolutamente tediarvi con i miei problemi o con le mie preoccupazioni.
Quindi abbandono qui il campo personale, lasciandolo tale. Solo avrete
notato che non ho più il mio account facebook e che alcune
storie sono state eliminate dal mio account Efp. Su questo punto non ho
molto da dire, solo che attraversando una certa fase dove tutto mi
sembrava sbagliato, ingiusto, dove qualsiasi cosa facessi mi sembrava
vuota, ho pensato che liberarmi di Efp e delle mie storie mi avrebbe
fatto sentire meglio. Non eliminerò assolutamente
nè I colori del vento, nè Busker (che non so
ancora quando riprenderò), nè The butterfly
effect, su questo potete stare tranquille.
Per quanto riguarda I colori del vento, non ho alcun capitolo pronto,
quindi dovrete avere un pò di pazienza, spero comunque di
non farvi più aspettare così tanto. Detto questo
vi lascio al capitolo, spero possiate perdonarmi. Grazie di cuore a
tutte voi. Questo capitolo lo voglio dedicare a tutte le lettrici che
non hanno mai smesso di sperare in un mio ritorno.
Nessun accompagnamento musicale, questa volta lascio scegliere a voi.
Lua93.
16
8
Aprile 2003
Il
respiro
regolare di Edward s’infrangeva sui miei capelli, mentre un
suo braccio intorno
alla mia vita mi attirava più vicino al suo corpo. Le luci
dell’alba
scivolavano sul vetro della finestra, disegnando strane ombre sul
pavimento
grigio. Per tutta la notte, le braccia di Edward erano rimane arpionate
sui
miei fianchi, non permettendomi di allontanarmi dal suo corpo neppure
per un
secondo. Mi aveva stretta a sé, fin quanto la stanchezza non
aveva preso il
sopravvento, e assopendomi avevo avvertito il calore della sua labbra
sul mio
viso.
Jasper non
era rientrato nel dormitorio, così Edward mi aveva obbligato
a rimanere con lui,
almeno, fino all’alba. E ora che, il suo profumo era
diventato parte della mia
pelle, il sole faceva la sua comparsa all’orizzonte. Non ero
ancora pronta ad
abbandonarlo,
lasciare le sue forti braccia per ritornare nella vita reale, fuori da
quelle
quattro mura che avevano assistito alla nostra unione.
Sollevai la
testa dal suo petto, osservando il suo volto rilassato. Le palpebre
chiuse,
come sipario di un sogno, le labbra leggermente socchiuse ancora gonfie
per i
troppi baci. Feci scivolare le sue braccia dal mio corpo, posandole sul
materasso. Scattai una fotografia immaginaria di quel momento.
L’immagine di
Edward quella mattina sarebbe rimasta per sempre nei miei ricordi,
così come le
sensazioni provate durante la notte. Avevo toccato il paradiso tra le
sue
braccia, mentre intorno a noi il deserto ci separava dalle porte
dell’inferno.
Mi rivestii
velocemente, senza fare troppo rumore. I nostri abiti erano sparsi un
po’
ovunque, e ridacchiai nel ritrovare la mia maglietta sul letto intatto
del
Sergente. Stavo per infilare le scarpe quando mi sentii osservata.
Sollevai la
testa, incontrando gli occhi chiari di Edward che mi scrutavano
assonnati.
«Dove stai
andando?» Mi domandò sussurrando, la voce ancora
impastata dal sonno.
Mi avvicinai,
accarezzando con la mano la sua guancia, «è
l’alba», risposi con un sorriso.
Prima che
potessi allontanare la mano dal suo viso, Edward l’afferro e
attirandomi verso
il suo corpo mi fece cadere nuovamente sul letto.
«Non mi
sembrava di averti dato il permesso», disse mettendosi
seduto. Le sue braccia
mi avvolsero i fianchi e sollevandomi mi fece sedere sulle sue gambe.
Data la
scomoda posizione, allungai le mie intorno al suo bacino.
Sospirai
incrociando le braccia dietro il suo collo, «lo sai meglio di
me che devo
andare».
Sorrise
avvicinando le sue labbra alle mie, «stavi andando via senza
neppure avvisarmi».
Borbottò contrariato, accarezzando con la mano il mio viso.
«Non volevo
svegliarti», mi giustificai accorciando la breve distanza che
ci separava,
facendo congiungere le nostre labbra. Edward approfondì il
bacio, chiedendo
accesso alla mia bocca con la sua lingua. Portai le mani su i suoi
capelli
scompigliati, sfiorando la sua intimità con la mia. Edward
ringhiò e per
punizione mi morse il labbro inferiore.
«Ahi»
mi
lamentai accarezzando con la lingua il punto dolente.
Lui sorrise
compiaciuto, «così impari a provocarmi».
«Non ti
stavo
provocando», dissi tracciando con l’indice della
mano i tratti del suo viso.
Edward
inarcò
un sopracciglio, «davvero?»
«Se avessi
voluto provocarti, avrei fatto questo», dissi maliziosamente
facendolo sdraiare
sul letto. Rimasi seduta sul suo bacino, dondolandomi leggermente,
chinandomi poi per baciargli il patto.
«Non male
dottoressa», gemette assecondando i mie movimenti,
«ma non sei ancora ai miei
livelli». Aggiunse con un sorriso sghembo capace di mandarmi
in tilt il
cervello. In pochi secondi capovolse le posizioni, schiacciandomi con
il suo
corpo al materasso, con i gomiti si reggeva per non pesarmi troppo.
L’osservai
ammaliata, seguendo il percorso intrapreso dalle sue labbra lungo tutto
il mio
collo. Infilò una mano sotto la maglietta, accarezzandomi il
ventre piatto.
«Edward»,
gemetti stringendo i suoi capelli.
Rise e senza
darmi il tempo di controbattere mi sfilò la maglia, cercando
i gancetti del
reggiseno sulla schiena.
«Secondo me
sei troppo vestita», disse sfilandomi il reggiseno. Mi
accarezzò lentamente il
petto fino a raggiungere i miei seni. Mi morsi il labbro per non
lasciarmi
sfuggire un nuovo sospiro di piacere.
«Non abbiamo
tempo», farfugliai aiutando le sue mani a sfilarmi il jeans.
Edward
sollevò la testa, guardandomi con desiderio, «ieri
sera è stato tutto così
affrettato che non mi sono reso conto di non aver usato la
protezione».
Mi allungai
per baciarlo e lui mi lasciò fare, godendosi il calore del
mio corpo nudo sotto
il suo.
«Prendo la
pillola», gli risposi prendendo fiato.
Sembrò
sollevato e senza aggiungere altre parole, entrò nuovamente
in me, per la
seconda volta. E per la seconda volta mi sentii persa. Le sue spinte
erano
lunghe e lente, mi avvolgevano completamente, inondandomi di illustre
piacere. Con
le mani accarezzava
tutto il mio corpo, stringendomi. Le sue spinte si fecero sempre
più veloci,
sempre più profonde. Pensai di stare impazzendo, mi
manteneva in bilico senza
permettermi di scoppiare.
«Per
favore»,
gemetti mordendogli la spalla.
Sentii Edward
ridacchiare, «per favore cosa?» si stava prendendo
gioco di me, la sua voce
divertita rimbombò nella mia testa.
Spinsi il
bacio contro il suo, e lo sentii ringhiare, imprecando sotto voce. Lo
feci
un'altra volta e continuai a farlo fin quando al limite mi
portò al culmine del
piacere, seguita immediatamente da lui.
Sconvolta
rimasi senza fiato, il corpo che ancora tremava.
Edward mi
baciò a lungo, riempiendomi il viso, il collo e i seni di
baci.
«Adesso puoi
andare», disse con un sorriso soddisfatto.
Gli diedi un
pugno sulla spalla, «idiota». Borbottai alzandomi.
Abbracciandomi
mi strinse nuovamente avvolgendomi questa volta completamente,
«deve rimanere
un segreto».
«Lo
so»,
dissi rassicurandolo, baciandolo dolcemente. Poi entrambi iniziammo a
vestirci
sotto lo sguardo divertito dell’altro.
«Dimmi una
cosa, finirà?» Gli chiesi sedendomi sul letto una
volta vestita. Lui stava
ancora abbottonando la camicia, quando mi rispose.
«Io non
voglio che finisca, e tu?» Domandò leggermente
imbarazzato. Mi chiesi che fine
avesse fatto il tenente Cullen e chi fosse quell’uomo che mi
fissava
spaventato.
Scossi la
testa, «neppure io». Ammisi e lui sorrise.
Sarebbe stato
sempre così tra di noi, mi avrebbe mostrato il suo vero
sorriso solo quando
saremmo rimasti soli. Mi avrebbe potut0 amare completamente solo dentro
quella
stanza?
Quando uscii
dal suo dormitorio, stando attenta a non farmi vedere da nessuno,
raggiunsi
direttamente la mensa, ritrovandola quasi piena.
Angela dietro
il bancone stava servendo il caffè ai soldati di turno,
ridendo e scherzando
con loro. La raggiunsi, facendomi riempire una tazza.
«Ti trovo
particolarmente bella questa mattina». Sorrise Angela,
versandomi il caffè.
Feci
spallucce prendendo una brioche, «ho dormito bene».
«Si
vede»,
concordò, «sembri felice, è forse
successo qualcosa?» mi domandò con aria
indagatrice.
Scossi la
testa, bevendo un sorso di caffè, «sai dopo tutto
quello che è successo con
Jacob, questa notte mi è sembrato di riprendere a respirare,
se capisci quello
che voglio dire».
«Sicura di
aver solo respirato?» mi chiese con un sorrisetto malizioso,
intimorita da quel
suo tono di voce mi ritrovai ad annuire cercando di capire.
Ridacchiò,
«carina quella macchia rossa sul collo».
Provai a
nascondere la prova incriminante con i capelli, sotto il suo sguardo
divertito,
sperai con tutto il cuore che non mi chiedesse nulla e per mia fortuna
fu
quello che fece. Mi sorrise semplicemente dicendomi che
l’amore mi stava bene.
«L’amore
fa
bene a tutti».
«Si, ma a te
dona particolarmente».
Mi voltai
cercando un tavolino libero per poter fare colazione in
tranquillità. I ragazzi
quella mattina erano piuttosto silenziosi, meno ansiosi rispetto ai
giorni
precedenti.
Non avevo
chiesto ancora informazioni su Baghdad, temendo in
una risposta negativa.
Con Peter avevo legato particolarmente, dal giorno in cui aveva portato
in
ospedale la piccola Nadira. Era cambiate così tante cose nel
frattempo. Il
tempo pareva essersi cristallizzato, non esisteva più alcun
orologio capace di
gestire le ore che scorrevano all’interno della base. Tutto
intorno a noi
sembrava eterno, e i giorni che trascorrevamo in compagnia della paura,
sembravano non avere fine. Non esisteva più alcun tempo
esteriore, la teoria di
Bergson in quelle
terra non aveva alcun significato. Un giorno composto di sole
ventiquattro ore
poteva durare il doppio, così come tutto poteva durare un
solo secondo.
Un tocco
leggero sulla spalla, mi fece sobbalzare, distraendomi dai miei
pensieri.
«Buongiorno,»
mi sorrise Alice, sedendosi, «a cosa stavi pensando
così intensamente?» mi
domandò dando un morso al suo cornetto riscaldato.
«Al
tempo».
«Al
tempo?»
Annuii
giocherellando con la tazza ormai vuota, «hai presente la
teoria di Bergson?»
«La
distinzione tra il tempo interiore e quello esteriore?»
Chiese confusa,
passandosi una mano tra i corti capelli.
«Esattamente,
pensavo semplicemente che in queste terre questa teoria non vale poi
molto,
giusto?»
«Concordo,
pensa, sono incinta da soli due mesi e già mi sento come se
dovessi partorire
da un giorno all’altro». Rispose facendomi ridere.
Aveva questo
modo di fare Alice che, riusciva sempre a farti stare bene, in un modo
o
nell’altro.
«Ti sentirai
molto meglio quando tornerai a casa», le dissi per
tranquillizzarla, ma
qualcosa nelle mie parole sembrarono ferirla, perché il suo
bel sorriso si
spense. «Alice, è tutto okay?»
«Vorrei
rimanere qui, è possibile?» mi chiese ignorando la
mia domanda. I suoi grandi
occhi chiari erano fissi nei miei, un velo trasparente le copriva la
naturale
luminosità.
Scossi la
testa, «tesoro lo sai che non si può»,
cercai di spiegarle i motivi di quella
difficile decisione, ma lei sembrava non volermi ascoltare.
«Guarda che
se rimani qui, diventa tutto più complicato, e io non sto
parlando solo della
guerra. Sai cosa significherebbe per Jasper veder nascere il proprio
bambino in
questa terra desolata?» Allungai la mano per stringere forte
la sua, «lo so che
sei terrorizzata. Lo so che non vorresti lasciarlo solo, che lo ami
come non
credevi possibile e che lasciarlo significherebbe lasciare anche un
pezzo di te
qui con lui. Ma tu devi essere forte, per entrambi. Devi essere
coraggiosa per
la splendida creatura che porti in grembo», sospirai,
sperando che le mie
parole potessero calmarla in qualche modo.
«E se lui
non
dovesse tornare, se lui suo figlio non potesse vederlo mai
più?» la sua voce
era un sussurro lontano, qualcuno si voltò incuriosito nella
nostra direzione.
La costrinsi
ad alzarsi e a seguirmi fuori dalla mensa. All’esterno le
temperature erano
notevolmente cresciute, il sole era già alto in cielo e i
suoi raggi caldi
bruciavano sulla pelle.
Ritornammo
nel nostro dormitorio, dove trovai entrambi i nostri letti disfatti.
Alice mi
spiegò che Jasper non aveva voluto dormire con lei,
perché temeva di darle
fastidio dato le dimensioni dei materassi. Voleva che il suo bambino
riposasse
bene. Sorrisi stringendola in un abbraccio.
«E secondo
te, un uomo così, non farebbe di tutto per tornare a
casa?» Le domandai in un
sussurro.
Alice mi
fissava disorientata, poi finalmente riuscii a convincerla, e
aiutandola con il
borsone, iniziammo a rimettere dentro tutti i suoi vestiti.
«Tu mi
prometti che starai attenta?»
Annuii,
«certamente».
«Va bene, mi
hai convinta. Però c’è una cosa che
devi assolutamente dirmi», disse e questa
volta sulle sue labbra nacque un pericolosissimo sorrisetto malizioso.
Ridacchiai
sedendomi sul letto, «sai che non ti dirò neppure
una parola, vero?»
Mise il
broncio, cercando con i suoi occhi di intenerirmi, ma io ero
irremovibile.
«Okay non
chiederò nulla, però qual cosina me la devi
dire», mi fissò con aria
indagatrice avvicinandosi,
«quante
volte?»
Sbuffai
sollevando gli occhi verso il soffitto bianco,
«due».
«Ce ne
saranno altre?» Mi chiese inarcando un sopracciglio.
«Spero
proprio di si».
Quel giorni
rimasi in ospedale più del previsto, cercando di terminare
alcune pratiche che
avrei dovuto consegnare a Edward il giorno dopo. Il brutto
dell’ospedale da
campo stava proprio nelle scartoffie. Mentre negli ospedali in America
dei
documenti se ne occupava l’amministrazione, qui ero costretta
a fare anche il
loro lavoro. Le cartelle erano rimaste incomplete a causa di Jacob. Mi
ero
perse più di un giorni di lavoro e ora dovevo recuperare.
Kristen e Jessica
erano tornate nei loro dormitori, con me era rimasta solo Alice, che
contro la
mia volontà mi aveva chiesto di poter lasciare il lavoro
solo qualche ora prima
di partire.
Il suo aereo
sarebbe partito tra soli due giorni e lei non voleva assolutamente
rimanere con
le mani in mano durante quelle quarantotto ore.
Non avevo
ancora visto Edward, non sapevo come si sarebbe comportato in pubblico,
probabilmente mi avrebbe ignorato come al solito, per non destare
sospetti.
Alice passò
dal mio ufficio trascinandosi dietro un carrello pieno di lenzuola
sporche, mi sollevai
dalla sedia con l’intento di aiutarla, ma un enorme boato
bloccò entrambe.
Raggiunsi
Alice lungo il corridoio, cercando di capire l’origine di
quel rumore.
«Che
cos’è
stato?» Mi domandò voltandosi dall’altra
parte del corridoio.
Scossi la
testa, «sembrava provenire dall’esterno».
«Un attacco
alla base?» la sua voce si spezzò mentre
pronunciava quelle parole.
«Non
credo».
Lasciammo il
carrello dentro il mio ufficio e chiudendo la porta a chiave, uscimmo
dall’ospedale da campo, cercando di capire cosa fosse
successo.
Nell’aria
fresca della sera, vicino all’ingresso della base vi era un
carro armato, due
uomini stavano parlando con Edward, Jasper era dietro di loro.
Ordinai a
Alice di rientrare dentro l’ospedale, per non lasciare i
pazienti da soli, promettendole
che l’avrei raggiunta immediatamente.
I soldati si
radunarono intorno al carro armato, alcuni spaventati, altri
incuriositi.
Garrett mi raggiunse con due grandi falcate mentre raggiungevo il
Tenente.
«Che cosa
è
successo?» Chiesi spaventata.
Garrett
aumentò il passo, «si tratta di Baghdad».
«Di cosa
stai
parlando?»
Il soldato si
fermò in mezzo al campo, si guardò intorno
preoccupato, poi avvicinandosi al
mio viso abbassò la voce, «lei non sa nulla
dottoressa, okay?»
Annuii, non
riuscendo a muovere neppure un muscolo. La sensazione che qualcosa di
brutto
fosse accaduto aveva avvolto il mio corpo in una bolla.
«Oggi alcune
truppe inglesi hanno occupato Bassora, contemporaneamente a Baghdad un
carro armato ha colpito
l’hotel
Palestine, dove alloggiavano alcuni giornalisti», mi
spiegò cercando di non
farsi vedere dagli altri soldati.
Lo bloccai
per un braccio prima che potesse allontanarsi, «cosa
c’entra tutto questo con
la nostra base?» La mia voce uscì più
isterica di quanto volessi.
Garrett
sbuffò,
liberandosi gentilmente dalla mia misera stretta, «significa
che la situazione
in città sta peggiorando, gli inglesi hanno bisogno di un
aiuto americano più
massiccio. Si deve fermare la rivolta prima che la situazione
peggiori».
Sapevo che
non mi avrebbe detto nient’altro, così decisi di
raggiungere direttamente
Edward, per chiedere informazioni più dettagliate, ma quando
mi ritrovai a
pochi metri da lui, i suoi occhi verdi riflettevano solo rabbia. Stava
parlando
con i suoi soldati e riuscii a capire solo qualche parola. Il carro
armato era
ripartito, innalzando un enorme nube di sabbia. Jasper
ordinò ai soldati di
prepararsi, nel giro di ventiquattrore avrebbero dovuto smantellare
tutto. Il
sangue mi si gelò nelle vene, e l’agitazione
iniziò a prendere il sopravvento.
Tenni lo
sguardo fisso sul volto di Edward, non si era ancora accorto di me. Le
sue mani
si torturavano i capelli, la sua voce però era ferma. Il suo
abituale
autocontrollo riuscì a calmare i ragazzi che, obbedirono ai
suoi ordini senza
controbattere. Quando rimase solo, sollevò la testa e fu in
quel momento che i
nostri occhi s’incontrarono. Lo raggiunsi cercando di
ignorare il tremolio
delle mie gambe.
Edward mi
afferrò poco gentilmente costringendomi a seguirlo, lontano
da occhi indiscreti.
«Che sta
succedendo?» Gli chiesi cercando di mantenere la sua stessa
velocità, «perché
dovete smantellare il campo? Intendi tutto l’accampamento,
anche l’ospedale?»
Mi trascinò
dietro un dormitorio, guardandosi intorno, poi, senza darmi il tempo di
controbattere, mi ritrovai le sue labbra umide sulle mie. Fu un bacio
violento,
i suoi denti torturarono le mie labbra, la sua bocca mi riempiva
completamente. Le sue mani
si strinsero intorno ai miei fianchi, stringendomi in un abbraccio
soffocante.
Mi permise di riprendere fiato solo per qualche secondi, prima di
ritornare
prepotentemente sulle mie labbra. Strinsi le mani intorno alle sue
spalle,
cercando un appiglio per non cadere. Le sue mani, invece, salirono sui
miei capelli,
trattenendomi la testa ben salda contro la sua. Fu uno di quei baci che
non
avrei mai pensato di provare, totalizzante, completo. Le sue labbra si
muovevano decise sulle mie. Lo capii solo dopo che si fu allontanano
che, quel
bacio, era stato la sua valvola di sfogo.
Entrambi
cercammo di riprendere fiato, i nostri sguardi si cercavano, intimoriti.
«Hanno
bisogno di me e dei miei ragazzi a Baghdad, questo accampamento
verrà
smantellato» mi spiegò ancora ansante,
accarezzandomi il viso, «tu e il resto
della tua equipe tornerete in America, insieme agli altri
volontari».
Mi
pietrificai, cercando di rielaborare le sue parole, strinsi
convulsamente le
mie mani sulle sue.
«Questo
significa che ti devo lasciare?»
Lui annuì,
voltando la testa per controllare che nessuno ci avesse visto.
«Partirete
domani all’ora di pranzo, la situazione in città
è più grave di quanto
pensassimo».
«Edward,
cosa
accadrà?» Gli domandai appoggiando il capo al suo
petto, ascoltando il battito
del suo cuore. Una nuova consapevolezza si era fatta strada in me. Ora
potevo
capire il sentimento che provava Alice nel dover lasciare il proprio
uomo nel
bel mezzo dell’inferno. Non sarei riuscita a sopportarlo. Non
ne sarei stata in grado.
«Non lo
so»,
disse stringendo la presa sul mio corpo, «non lo
so».
Non rimase a
lungo insieme a me, nel giro di qualche minuto mi aveva di nuovo
abbandonato, dovendo
occuparsi di tutta la trasferta, mi disse comunque, di raggiungerlo nel
suo dormitorio
quella sera. Prima di andarsene mi baciò nuovamente,
dolcemente, senza foga. I
suoi occhi potevano nascondere al mondo intero le sue paure, ma non ai
miei,
non dopo quello che avevamo condiviso. Non dopo aver capito di amarci.
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