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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Prologo: so close no matter how far *** Capitolo 2: *** Capitolo 1: There's no place I can be since I found Serenity *** Capitolo 3: *** I've been around for a long, long year *** Capitolo 4: *** I don't see what anyone can see in anyone else but you *** Capitolo 5: *** Sailors fighting in the dance hall *** Capitolo 6: *** Lost in a verse of a sparrows carol - parte 1 *** Capitolo 7: *** Lost in a verse of a sparrows carol – parte 2 *** Capitolo 8: *** We can roll ourselves over when we’re uncomfortable *** Capitolo 9: *** But in the end it doesn't even matter *** Capitolo 10: *** Love is clockworks, and it’s cold steel *** Capitolo 11: *** I sit and watch as tears go by *** Capitolo 12: *** Hold your breath and count to ten (parte prima) *** Capitolo 13: *** Hold your breath and count to ten (parte seconda) *** Capitolo 14: *** Touching you makes me feel alive *** Capitolo 15: *** We need water and maybe somebody's daughter *** Capitolo 16: *** I don't feel right when you're gone away *** Capitolo 17: *** Silence is all you'll be *** Capitolo 18: *** I think I thought I saw you try *** Capitolo 19: *** Reminds me of childhood memories *** Capitolo 20: *** You see I'm falling in the vast abyss *** Capitolo 21: *** I’ve killed a million pity souls *** Capitolo 22: *** To what you receive is eternited leave *** Capitolo 23: *** Take my hand now, be alive *** Capitolo 24: *** 'Til then I walk alone *** Capitolo 25: *** If I had a heart *** Capitolo 26: *** Epilogo: don't you know this tale ***
Capitolo 1 *** Prologo: so close no matter how far ***
1Salve a tutti, come va? Questa storia prende il via, oltre
che il suo personaggio principale, da una serie di storie che ho
scritto qualche tempo fà e a cui sono particolarmente
affezionata. Silevril, protagonista di questa storia è proprio
il figlio dei due protagonisti della mia serie precedente, ovvero
Alatariel ( parente di Feanor e invischiata in tutta la faccenda dei
Silmaril ) e Aeglos ( del polopo di Olwe di Alqualonde, a cui nè
Feanor nè i Silmaril hanno portato proprio quello che si dice
giovamento). Dopo svariate vicende, parecchio rancore, un numero
imprecisato di fughe e rincorse, nonchè due esili, i due sono
riusciti a capire come stare insieme conciliando il loro grande amore
con la voglia di sgozzarsi a vicenda, facendo pure un figlio che porta
lo stesso nome del Gioiello di Feanor. Ecco, questa è la storia di
Silevril, con nuovi personaggi e pochi o nessun rimando particolare
alla serie "madre", quindi potete leggerla tutti, anche senza conoscere
il resto (nessuno vi vieta però di fare un salto sul Narn o Alatariel ar Aeglos ). Spero di ritrovare vecchie
conoscenze e di farne di nuove, con l'invito sempre di dirmi tutto
ciò che non funziona e/o eventuali errori. La Terra di Mezzo e i personaggi
tolkeniani non appartengono a me, scrivo senza scopo di lucro e bla bla
bla, mentre invece Silevril e gli altri sono interamente miei quindi se
volete usarli chiedetemelo e ne possiamo parlare con piacere. Buona
lettura!
Prologo: So close no matter how far [1]
Silevril sospirò pesantemente, guardando la porta di casa sua
come se fosse un Drago dei Tempi Remoti. Probabilmente, si disse, un
Drago sarebbe stato decisamente più facile da far ragionare
rispetto a sua madre.
Avevano avuto un'altra, violenta, lite quella mattina e ormai non ne
poteva più di lei, della sua arroganza e di quell'invisibile,
eppure inespugnabile, laccio che lei aveva legato al suo polso. Si
sentiva stanco di lottare ogni giorno con la donna che l'aveva messo al
mondo, stanco di quello scontro di volontà che nessuno dei due
riusciva mai a vincere, stanco di essere ancora in balia di lei e delle
sue lacrime e delle sue suppliche.
Prigioniero di quella casa da troppo tempo, come un bambino tenuto in
punizione per una marachella, solo che lui, ormai, non era più
un bambino da molti anni.
Alla fine si costrinse a girare la maniglia e ad aprire la porta, entrando accompagnato dai raggi del sole morente.
Alatariel era lì, seduta su una piccola sedia di legno e paglia,
le mani strette a pugno ed il volto rigato di lacrime. Non si mosse
quando lo sentì, ma Silevril riuscì a scorgere molto
chiaramente il suo sguardo indurirsi.
< Non avevi detto che non saresti mai più tornato? >
Eccola, la voce sprezzante e acida che aveva imparato ad associare al
dolore. Credeva di poterlo ingannare, ma si sbagliava: nessuno, nemmeno
il suo sposo Aeglos, la conosceva profondamente quanto lui, nessuno era
stato più legato a lei di quanto lo fosse stato lui. Aveva
memoria di essere stato nel suo grembo, ricordava i pensieri di lei
nella sua testa ancora prima di avere coscienza di sè, ne aveva
sentito la paura e il dolore per tutto il tempo e anche ora, pur non
essendo più connessi mentalmente ma due individui distinti, ne
percepiva sempre l'anima come nessun altro.
< Le mie intenzioni non sono mutate, madre, > le disse, < ma
io non sono te e non scompaio nel nulla, lasciando coloro che mi amano
nello sconforto e nel dubbio. >
La vide tremare e seppe che quella freccia, seppur lanciata a malincuore, aveva colto nel segno.
Aveva soppesato a lungo quel sentimento di rancore che provava verso di
lei, non avrebbe voluto arrivare a tanto, ma tutti quegli anni passati
senza di lei, senza sapere dove fosse, se sarebbe mai tornata erano
ancora impressi a fuoco nella sua memoria... era solo un bambino,
all'epoca, e tutto ciò che aveva desiderato era l'abbraccio di
sua madre.
Alatariel si voltò verso di lui, le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure.
< Non hai nessun diritto di dirmi questo, Silevril! >
sibilò quasi, furiosa < Non capisci e non capirai mai, non
sei come tuo padre. >
< No, > sospirò < ma non è vero che non capisco. >
Si sedette accanto a lei e la guardò dritta negli occhi.
< Nessuno ti ha mai capita quanto me, ma è per questo che devi lasciarmi andare. Lasciami andare. >
< Oh, Silevril > Alatariel trattenne un singhiozzo e si
tappò la bocca con una mano. < Ho trovato la pace solo grazie
a te, tu mi hai riportato alla vita e se vai via, in quale abisso
ricadrò? Tornerò ad essere quella di un tempo? >
< No, perchè non sono stato io a liberarti, non vi è
mai stata alcuna catena. Sei ciò che sei, Alatariel. >
L'elfa lo guardò intensamente, soppesando le sue parole alla
ricerca di un significato più profondo, nascosto sotto la
superficie, ma non ve n'era alcuno. Probabilmente, e Silevril ne era
quasi certo, Alatariel non avrebbe mai accettato il suo desiderio di
lasciare quella casa, troppo egoista per ammettere che suo figlio ne
aveva un disperato bisogno. Era sempre stata quella la sua maledizione,
sua e di coloro che la circondavano: lei amava di un amore possessivo
ed insano, un'esclusività morbosa che la portava ad odiare la
compagnia di chi tanto agognava... allora andava via, spariva per anni,
solo per poi ritornare come se niente fosse successo, con un sorriso ed
una lacrima.
< Ascolta, madre, > sispirò, cercando di affrontare
l'argomento con quanta più calma possibile, < non vado via
per colpa tua, o almeno non solo per colpa tua. Sai cosa vuol dire
desiderare qualcosa di più, desiderare di poter viaggiare e
impegnare la propria mente in qualcosa! >
< Lo so, > appariva sconfitta, quasi rattrappita, eppure il suo
sguardo era alto e fiero, lo trafiggeva in un modo che gli ricordava la
sua lontana infanzia, < e non voglio fermarti, non davvero.
Hai vissuto qui per trecento anni ed io... io non sono sempre stata con
te e so che non riesci a perdonarmelo, così come tuo padre.
Avete tutto il diritto di accusarmi e, credimi, io stessa mi accuso di
cose ben peggiori, ma sono fatta così ed Aeglos ha imparato a
conviverci. > Si bloccò e gli prese la mano, stringendogliela
talmente forte da fargli male.
< Ho paura, Silevril, > disse, < ho paura perchè prima
che arrivassi tu la mia vita stava scivolando pericolosamente in un
abisso di oblio e disperazione. >
< Non accadrà di nuovo. > Ne era assolutamente certo. Suo
padre aveva parlato a lungo della loro storia, in quei giorni desolati
in cui lei non c'era, aveva tentato di spiegare ciò che un
bambino non avrebbe mai potuto comprendere, ma adesso era diverso,
adesso sapeva e capiva ed era sicuro di una cosa: lo spirito infuocato
che animava sua madre era ancora potente, nonostante tutto, ed era
forgiato dello stesso fuoco che albergava anche detro di lui e non si
sarebbe mai enstinto.
< Come lo sai? > sbottò e lui sorrise.
< Non riesci a sentirti, madre? Sei forte e nulla ti
abbatterà. Hai Aeglos con te, vedrai che riuscirai a farlo
impazzire ancora a lungo. >
Allora rise; era cristallina ed allegra, la stessa risata che aveva
accompagnato i suoi giorni più felici e fu come un buon augurio.
< Pace fatta tra noi, mio adorato Silevril? >
< Pace fatta, madre > rispose, sporgendosi ad abbracciarla.
***
Aeglos era stato tentato di entrare non appena suo figlio aveva
varcato la porta di casa, ma si era trattenuto. Non era giusto
intromettersi, doveva lasciare che le cose si spiegassero tra loro due
soli, anche se probabilmente si sarebbero offesi e picchiati. Gli
veniva quasi da ridere a quel pensiero: sua moglie era l'essere
più testardo di Arda, questo lo sapeva bene, ma suo figlio, pur
nella sua calma controllata e in quella disinvolta spacconeria, non era
da meno.
Per questo si sorprese non poco quando lo vide uscire sorridendo
appena, chiudendosi la porta alle spalle e traendo un gran sospiro.
Non appena lo vide, Slevril gli andò incontro e si sedette al
suo fianco, con la chiena poggiato contro il largo tronco di pino che
cresceva d'avanti la loro casa.
< È stato più facile di quel che pensassi. >
< Davvero? Questa mattina ho sentito le vostre grida fin sul ponte del Giuramento e adesso mi dici che è tutto risolto? In un lampo? >
L'elfo più giovane sorrise di sbieco, chiudendo gli occhi e
inclinando la testa all'indietro per poggiarsi di più
all'albero. Aveva sempre un'espressione austera, come quella di
Alatariel, ma quando sorrideva Aeglos riusciva a rivedere se stesso
negli angoli della bocca che non si sollevavano mai abbastanza, pur
trasmettendo uno scintillio di sincera gioia agli occhi chiari.
Non l'aveva mai confessato a nessuno, ma era grato ai Valar che suo
figlio non avesse gli occhi scuri e impenetrabili di sua madre, occhi
inquietanti e freddi; Silevril gli somigliava intensamente nell'aspetto
e nel carattere più di quanto non si rendesse conto egli
stesso... no, non avrebbe mai smesso di ringraziare i Valar e il grande
Iluvatar per quello.
< Non riesci mai a capire come prenderla, ada. > Lo spiegò
come se fosse un dato di fatto. < Bisogna lusingarla, dirle che
è forte e meravigliosa e che tutto si risolverà per il
meglio. >
< Credimi, Sil, ho passato mille e mille anni lusingando tua madre,
ma non è servito a molto. La verità che tu sei l'unico
che riesce a farla cedere e a sapere cosa dire. A volte, mi sembra di
rivedere Finarfin, anche lui era l'unico a riuscire a farla ragionare.
>
Risero insieme. Era una cosa a cui Aeglos si era abituato e a cui
sarebbe stata dura rinunciare: suo figlio gli aveva regalato la pace,
una felicità troppo profonda che mai avrebbe potuto immaginare,
aveva riportato Alatariel da lui, aveva quietato il suo tormento e
allontanato i fantasmi di un passato che entrambi erano stati incapaci
di lasciarsi alle spalle prima del suo arrivo.
Avrebbe sentito così tanto la sua mancanza!
Il pensiero di non vederlo ogni giorno, di non prendere il mare con lui
la mattina per poi tornare al tramonto o di non sentirlo più
cantare d'avanti al fuoco le sere d'inverno, era doloroso.
Lo guardò e strinse le labbra.
< Non temere, padre, > Silevril si era accorto del suo turbamento
e aveva smesso di sorridere < non è un addio! >
< No? >
Le parole erano amare, ma era arrivato il momento di pronunciarle
perchè sapeva, anche se Silevril non aveva detto nulla, che il
mare era il vero motivo per cui lasciava quella casa... lo sapeva
perchè aveva visto la chiamata nel mare nei suoi occhi e l'aveva
riconosciuta... lo sapeva perchè il mare chiamava anche lui ad
un viaggio che non avrebbe mai potuto compiere ma che Silevril poteva e
doveva affrontare presto.
Dovette leggergli quei pensieri chiari come in un libro perchè lo fissò negli occhi, serio.
< Non lascerò la Terra di Mezzo, adar, senza essere tornato
da voi prima. Lo giuro. Non me ne andrò senza aver detto addio a
te e ad Alatariel. >
***
L'alba faceva capolino attraverso
la tenda sottile e bianca che copriva la vetrata affacciata sul mare.
Il Golfo di Dol Amroth si stendeva placido e appariva quasi incendiato
dai raggi rossi del sole.
Silevril stava davanti alla porta e teneva per le briglie un bel
cavallo grigio, alto e slanciato, figlio di quello che sua madre gli
aveva portato da Rohan molti anni addietro. I suoi genitori erano in
piedi di fronte a lui e si tenevano per mano; Alatariel sembrava quasi
aggrappata al braccio di suo marito, ma non piangeva e i suoi occhi
erano duri e freddi come sempre, nonostante un lieve sorriso le
increspasse le labbra.
< I miei pensieri saranno rivolti costantemente a te, mio amato Silevril, > disse.
Non riuscì a fare a meno di posarle un bacio sulla guancia: lei
appariva così fragile, un cristallo pronto ad infrangersi, ma
sapeva che non era così.
Aeglos stava al fianco della donna che amava e i suoi occhi erano lucidi, eppure sorrideva anche lui.
< Aa’ menle nauva calen ar’ ta hwesta e’ ale’quenle, ion nin,[2] > sussurrò, < namaarie. >
< Namaarie. >
Salì a cavallo e lo spronò al galoppo.
Fu felice che nè Alatariel nè Aeglos lo avessero visto piangere.
Note: [1]primo verso della meravigliosa "Nothing else matters" dei Metallica
[2]possano le tue strade essere verdi e possa il vento accompagnarti, figlio mio
Capitolo 2 *** Capitolo 1: There's no place I can be since I found Serenity ***
2.
Capitolo 1: There's no place I can be since I found Serenity
< Dieci pezzi d'argento, è la mia ultima offerta. >
Galmoth si voltò appena di lato e sputò in terra, per poi tornare a guardare l'uomo che gli stava di fronte.
< Dieci pezzi, Lannon? > ringhiò, afferrandolo per la
collottola, < Maledizione! Lo sai da dove viene questo tabacco, eh?
Lo sai? Erba pipa, Lannon, capisci quello che ti sto dicendo? Maledetta
erba pipa dalla terra dei maledetti Mezzuomini! Ho dovuto risalire
l'Anduin fino a Osgiliath, pagare i carovanieri e ritornare qui, il
tutto sotto gli occhi di maledettissimi soldati di Gondor... e tu mi
vuoi dare solo dieci pezzi d'argento? >
Lo strattonò e l'uomo cadde, ma si rialzò subio dopo, un ghigno stampato sulla bocca storta.
< Potrebbe persino dispiacermi per te, Galmoth, ma in realtà
non me ne frega niente. Inoltre, se non ti liberi subito della merce,
qualcuno potrebbe iniziare a fare domande scomode. >
Galmoth strinse i denti. Lannon aveva il coltello dalla parte del
manico e lo sapeva, facendoglielo pesare in maniera sfacciata e
palesemente compiaciuta.
Si voltò verso Laer alla sua destra, spostata un po' indietro,
in una domanda silenziosa, anche se sapeva perfettamente cosa poteva
passare per la mente della ragazza: cacciagli un coltello, in gola,
Galmoth, e facciamola finita. Avrebbe potuto farlo facilmente, in fondo
gli scagnozzi di Lannon lo odiavano e probabilmente l'avrebbero persino
aiutato con il colpo di grazia. Sarebbe potuto fuggire e tornare alla Stella portandosi dietro ben più di dieci pezzi d'argento e forse anche qualche uomo.
< Sta bene, Lannon, > disse infine, a denti stretti, < dammi i tuoi schifosissimi soldi e prenditi la merce. >
Potè sentire lo sguardo di Laer puntato sulla sua nuca, uno
sguardo che lo avrebbe incenerito come l'alito di un Drago, se solo
avesse potuto.
Due uomini si avvicinarono alla cassa aperta, la chiusero e la
portarono via, in una specie di retro bottega, mentre Lannon allungava
una mano e gli porgeva un sacchetto sudicio, tintinnante di monete: le
dieci monete d'argento.
Misero prezzo per aver quasi rischiato la vita, si disse.
Fece un cenno, e Laer si fece avanti, prese il denaro e lo nascose nella camicia.
< Maledetto te e il tuo onore, Galmoth! >
Laer doveva trattenersi per non urlargli contro in mezzo alle strade
affollate del porto di Dol Amroth. Aveva le guance rosse di collera e
la lunga treccia di capelli castani fremeva come se fosse un
prolungamento della ragazza stessa, come se avesse vita propria.
< Potevamo farlo fuori e quelli ci avrebbero anche detto grazie! >
< Sì, sì, lo so, ma... >
Sbuffò senza lasciarlo continuare e accelerò il passo,
balzando poi agilmente sul piccolo camminatoio improvvisato e infine
sul ponte della Stella Marina. Galmoth la seguì più lentamente, senza riuscire a
nascondere un soorriso. Quella ragazza era davvero impossibile,
nonostante fosse il miglior primo ufficiale che chiunque potesse
mai desiderare: era efficiente e precisa, cresciuta praticamente in
mare e con un'eccellente senso degli affari. Era perfetta, se si
evitava di soffermarsi troppo su quanto fosse bisbetica e saccente...ma
a lui andava bene così, dopo tutto, anzi, ne era diventato quasi
dipendente da quando, tre anni prima, a soli vent'anni, l'aveva presa
con sè. Laer era stata il primo membro del suo nuovo equipaggio,
il modo che aveva trovato per ricominciare daccapo e le voleva bene
come a una figlia.
La raggiunse sotto coperta e la trovò seduta al tavolo nella sua
stretta cabina. Gli dava le spalle e non si voltò quando lo
sentì entrare, ma continuò imperterrita a scrivere
qualcosa su un foglio.
< Non potevo ucciderlo, lo sai. >
Lei sospirò pesantemente, posò la penna e si voltò a guardarlo, lo sguardo addolcito.
< Lo so, l'onore, il Re e bla bla bla, cosa credi, che non ti conosca? >
Galmoth rise di gusto e lei lo seguì, finchè non ebbero entrambi le lacrime agli occhi.
< Ascolta, > disse Laer dopo una pausa di silenzio, < non
posso essere in collera con te perchè non hai ucciso un uomo,
come potrei? La mia è stata una reazione esagerata, scusami. >
< Sei fatta così, > fece un gesto come a dire che non gli
importava, < perchè credi che continui a portarti con me
ovunque, Laer? Mi diverti e sei imprevedibile, in più non hai
tutti i torti. > Gamoth ghignò, < Lannon è un
bastardo è glie li avrei dovuti far ingoiare i suoi pezzi
d'argento. >
Laer scrollò le spalle, tornando a srivere sul suo foglio.
< La prossima volta, Galmoth. >
***
Aveva percorso, in poco più
di due ore, a cavallo la Via che attraversava tutta la costa fino a Dol
Amroth e che passava proprio accanto alla casa in cui aveva vissuto per
tutta la sua vita. Era andato molte volte a Dol Amroth, per lo
più aveva camminato per le vie del mercato e ammirato lo
splendente porto che, a detta di suo padre, era tanto simile a quello
di Alqualonde da far male, ma quella volta attraversare l'arco di
pietra che costituiva la porta principale della Città, fu come
entrarci per la prima volta.
Si sentiva strano, giovane e fragile, ma anche pieno di una strana
sensazione di euforia. Aveva pianto e riso, durante la via, e non
sapeva più quale altra emozione far affacciare per prima. Era
sopraffatto e impaurito come un bambino.
Smontò dal cavallo e lo condusse per le briglie attraverso le
strade affollate, il cappuccio grigio argenteo calato sul capo.
Si diresse direttamente al Pescatore una locanda piccola e accogliente che aveva frequentato molte volte ma in cui non si recava da quasi cinquant'anni.
L'insegna raffigurava un uomo su di una piccola barca stilizzata e la
scritta era verde e azzurra. Una giovane donna bionda e carina serviva
ai tavoli e gli sorrise dolcemente non appena entrò e si
scoprì il capo.
< Salute a te, sire. > Disse gentilmente, avvicinandosi, <
posso portarti del latte e del pan di spagna? Il tavolo vicino alla
finestra è libero se desideri sederti. >
Silevril le sorrise a sua volta, scuotendo appena il capo.
< Nessun "sire", nè latte. Solo dell'acqua e un buon posto per il mio cavallo, resterà qui molto a lungo. >
La ragazza lo lasciò e lui si avvicinò al bancone, dove un ragazzo gli diede un grosso bicchiere colmo d'acqua.
Era così tanto tempo che non si trovava tra gli uomini che si
sentiva quasi spaesato! Gli sembrava di essersi svegliata da un lungo
sonno, fatto di sogni stellati e opprimenti, un mondo che non era
quello reale.
Riusciva quasi a capire il desiderio che spingeva sempre sua madre a
fuggire via da loro, eppure non poteva fare a meno di chiedersi
perchè avessero scelto quell'isolamento. Non c'era nessuno nei
pressi della loro casa, se non il mare e i prati, nulla se non il
sentiero che si immetteva sulla Via e su cui quasi nessun viaggiatore
si incontrava.
Suo padre viveva nella malinconia, nel continuo rimpianto per la sua
patria perduta, degli amici lontani e dei suoi fratelli morti e sua
madre... sua madre non aveva bisogno di nessuno se non di se stessa e
dello sposo che cercava in modo così ossessivo.
Ma lui sarebbe presto morto, ne era certo ormai.
Bevve tutto d'un fiato ed espirò, lasciando che la sua vita passata scivolasse via da lui come acqua piovana.
La stalla era appena di fianco alla locanda. Pagò due monete di
rame allo stalliere e poi si avvicinò a Laurel, suo amico da
ormai molti anni.
< Namarie, mellon nin, > lo salutò, baciandolo sul muso
vellutato, < qui sarai accudito e amato e avrai una buona vecchiaia.
Non ci rivedremo, ma sappi che ti ho voluto bene. >
L'animale strusciò il muso contro di lui, in segno di saluto e Silevril lo baciò di nuovo.
Ok, eccomi qui. Primo capitolo
mini, in realtà volevo inserirsci anche l'incontro tra Silevril
e Galmoth, ma non mi piaceva e ho preferito tenere il capitolo
così, seppur breve. Questa volta il titolo del capitolo è
un verso della bellissima "Ballad of Serenity", la sigla di Firefly. La
Stella Marina e il suo
equipaggio sono ispiati infatti alla Serenity e al suo equipaggio,
protagonisti di questo telefilm magnifico del maestro Whedon. Se
l'avete visto avete tutto il mio appoggio e sappiate che vi sono vicina
(sfogatevi pure), se non l'avete visto VERGOGNATEVI.
Detto questo, vi lascio, abbracciando Hary e Saralasse che hanno recensito (grazie ragazze!)
Capitolo 3 *** I've been around for a long, long year ***
3.
I've been around for a long,
long year
Camminare per le vie del
porto gli stava mettendo addosso una sensazione inaudita di
nostalgia: sentiva ora più che mai la mancanza di Aeglos, gli
sembrava quasi di sentire la sua voce bassa che gli chiedeva un
parere su un certo tipo di fune, o su una rete, oppure che esprimeva
ad alta voce apprezzamenti su una nave che aveva catturato il suo
sguardo. Non si era mai recato lì da solo e aveva quasi paura
(o forse una segreta speranza) che gli bastasse voltare la testa per
scorgere Il Giuramento ormeggiata poco distante.
Silevril
sospirò pesantemente e si tolse il cappuccio, lasciando che i
raggi luminosi del sole gli accarezzassero il viso. Era piacevole,
quel calore estivo, non troppo caldo ma avvolgente. Nell'aria c'era
l'odore del mare, il forte sentore di salsedine, quello acre di pesce
che sempre si può percepire nei porti... amava quell'odore e
in quel momento lasciò che lo inebriasse, portando via con sè
quei sentimenti con cui non voleva avere a che fare.
Erano passati
molti anni da che era stato lì l'ultima volta, ma il porto di
Dol Amroth non era cambiato affatto: un ampio piazzale bianchissimo e
affollato di botteghe sembrava quasi allungarsi, come qualcuno che si
è appena svegliato da un lungo sonno, verso il mare,
protraendosi in lunghe banchine illuminate dal sole a cui erano
ormeggiate imbarcazioni di tutti i tipi, dalle piccole barche a remi
di isolati pescatori, a pescherecci dalle immense vele, fino ai
maestosi velieri da guerra con il grande cigno di Dol Amroth dipinto
sulla fiancata.
E poi, improvvisamente, la vide.
Era una nave
abbastanza piccola e compatta, simile a un peschereccio, con lo scafo
scuro e le vele ingiallite dal tempo; se ne stava un po' in disparte,
come se non volesse farsi notare o come se gli altri la
isolassero.
"Contrabbandieri" si disse e sorrise tra sè.
Eppure non gli importava a chi appartenesse, non gli importava se
infrangeva la legge o se era un peschereccio come tanti altri, non
gli importava cosa commerciava o se semplicemente era una nave di
pirati.
Era la nave più bella che avesse mai visto, più
bella del Giuramento che aveva lasciato dietro di sè,
ormeggiata nella piccola baia dietro casa sua, semplicemente il suo
cuore era rimasto intrappolato tra le vele di quell'imbarcazione
malridotta.
Suo padre avrebbe detto che era un colpo di fulmine e
avrebbe avuto ragione, non aveva mai desiderato qualcosa più
ardetemente.
Galmoth tirò un'altra boccata di fumo
dalla sua pipa e sospirò. Quei mezz'uomini ci sapevano fare,
nonostante la loro erba pipa fosse stato probabilmente il peggior
affare della sua vita. Era di pessimo umore, come ogni volta che si
ritrovava a dover aspettare la marea giusta al porto di Dol Amroth,
circondato dalle grandi navi del Principe. Era una specie di tortura
guardarle, splendide e maestose nel sole del sud, con il cigno bianco
sulla fiancata e le vele spiegae al vento. Sbuffò e una nuvola
di fumo salì sulla sua testa per poi dissolversi
immediatamente nella brezza marina.
< Ehi, Galmoth! >
Laer
lo chiamò e lui si riscosse, voltandosi leggermente verso la
ragazza.
< Guarda lì. > Indicò con il dito il
molo poco distante e lui la seguì con lo sguardo,
rimanendo basito.
Un ragazzo era dritto immobile proprio davanti
alla Stella e la guardava intensamente. Anzi, non un ragazzo,
ma un elfo!
Non c'erano dubbi, nonostante non lo vedesse poi
benissimo: solo gli elfi avevano quel modo di stare in piedi, quasi
piegandosi al vento, e solo gli elfi avevano quella corporatura
slanciata nonostante fossero maschi.
< Cosa vorrà? >
Laer era incuriosita almeno quanto lui. Si limitò ad alzare le
spalle e ad avviarsi verso il camminatoio improvvisato, scendendo
infine sulla banchina proprio accanto all'elfo.
< Cosa vuoi? >
gli domandò, un po' bruscamente.
L'elfo smise di guardare
la sua nave e si voltò verso di lui, investendolo con uno
sguardo brillante e magnetico. Galmoth vacillò, ma non lo
diede a vedere, limitandosi a stringere un po' di più la presa
sulla pipa.
< Questa nave è tua? > chiese l'elfo.
<
Puoi scommetterci che è mia. >
< Allora, > l'elfo
si aprì in un sorriso cordiale, < suppongo che debba
rivolgermi a te. Il mio nome è Silevril. >
< E
quindi? >
< Voglio che tu sia il mio capitano, se questa
nave è tua. >
Galmoth osservò con sguardo
inquisitore l'elfo che gli stava di fronte: era nato e cresciuto a Dol
Amroth e lì non era raro imbattersi nei Priminati e conoscerne
anche qualcuno, ma quel Silevril aveva qualcosa di diverso, come un
fuoco latente in lui. Non era come i Silvani che sempre più
spesso salpavano da lì, diretti alle loro terre al di là
del mare, riusciva a percepirlo chiaramente: riconosceva un elfo di
alto lignaggio, quando lo vedeva.
< Dici che vuoi metterti al
mio servizio? >
< Desidero solo il mare e la compagnia degli
uomini, inoltre, la tua nave è meravigliosa. >
Galmoth
rise, strofinandosi il mento sporco di barba non rasata.
< Sei
un elfo ben strano, Silevril. >
< Strano? Forse, anche se ho
avuto come metro di paragone solo mia madre e mio padre. Credimi,
loro sì che sono strani. >
Silevril si voltò di
nuovo a guardare la nave che gli stava di fronte e per un secondo non
si mosse, rapito.
< Io sono Galmoth. > Disse l'uomo
all'improvviso e gettò uno sguardo fugace al ponte, dove Laer
li stava osservando con interesse. L'elfo seguì il suo
movimento e scorse la ragazza poggiata al parapetto con le braccia
incrociate.
< Quindi? >
Galmoth si riscosse
improvvisamente.
< Quindi cosa? >
< Sono parte del tuo
equipaggio? >
Gamoth lo guardò stralunato, gli occhi
spalancati e la bocca leggermente aperta. Era sfacciato, con quel
modo di porsi come se ogni cosa gli fosse dovuta, come se sentisse
che nessuno poteva negargli niente, eppure lo affascinava per quella
strana sensazione di ineluttabilità che aveva accompagnato
l'intero loro incontro.
< Ci serve un timoniere, > gli disse
semplicemente e il sorriso dell'elfo si fece ancora più
ampio.
Laer osservava dal ponte senza riuscire a sentire molto
di quello che i due si dicevano. Galmoth la preoccupava, si muoveva
in modo strano ed era piuttosto evidente la curiosità che
l'elfo suscitava in lui, ma la cosa peggiore era che la cosa era
ricambiata. L'elfo si sporgeva in avanti, oscillando verso l'uomo
impercettibilmente, come se volesse ascoltare meglio e, ogni volta
che guardava la Stella, sembrava tremare.
< Ci serve un
timoniere, > sentì dire a Galmoth e lei si riscosse
improvvisamente.
< Ehi, Galmoth! > gridò per avere la
sua attenzione, < Sono io il timoniere! >
Con uno scatto e
un balzo si ritrovò sulla banchina, accanto ai due.
Galmoth
le mise un braccio attorno alle spalle e ghignò.
< No,
mia cara, tu sei il primo ufficiale. >
< Ma ho sempre
guidato io questa nave! >
< Da oggi la porterà lui.
Si chiama Silevril. >
Laer alzò leggermente il capo per
poter guardare l'alta figura dell'elfo che le stava davanti per la
prima volta. Notò subito che aveva gli occhi chiari, dello
stesso azzurro del mare estivo, limpido e pulito, con impercettibili
sfumature smeraldine. Erano occhi profondi e sinceri, quasi
incastonati nel viso spigoloso e leggermente abbronzato e che
sembravano ancora più chiari per contrasto con i capelli
corvini. Era bello, pensò, bello come nessun altro uomo lei
avesse mai visto a Dol Amroth o da nessun'altra parte e per un attimo
non seppe cosa dire e serrò le labbra.
Galmoth si accorse
del suo turbamento e sghignazzò, ricevendo subito una gomitata
in pancia.
< Bene, > disse infine, ritrovando la lucidità,
< allora che si muova, la marea si avvicina e siamo pronti alla
partenza. > Guardò l'elfo e sorrise sarcastica, < non
riusciremmo a lasciare il porto, senza timoniere. >
Voltò
le spalle ai due e tornò sulla Stella.
<
Quell'adorabile creatura è Laer, il mio primo ufficiale.
>
Silevril rise tra sè, seguendo Galmoth sul ponte della
Stella Marina . La ragazza sembrava più giovane di
quanto in realtà non fosse ed era particolare, con quella
lunga treccia castana e le lentiggini ancora visibili nonostante il
sole. E gli ricordava sua madre con quel fare indisponente.
<
Questa, > cominciò l'uomo con un ampio gesto della mano, <
è la Stella Marina, è una nave piccola e siamo
solo in sei, compreso te, e siamo... commercianti. >
Silevril
sorrise all'esitazione del capitano. Aveva sentito un'istintiva
fiducia nei suoi confronti e sapeva che anche per lui era stato lo
stesso.
< Siete contrabbandieri. > Affermò con
naturalezza.
L'uomo scoppiò in una fragorosa risata e Laer
al suo fianco invece lo guardò sospettosa. Un ragazzo accorse
sul ponte e guardò la scena interrogativamente.
<
Capitano? > domandò perplesso, pulendosi le mani su di un
panno lercio.
< Non preoccuparti, Beregond, > disse Galmoth
tra le risa, < l'elfo sa il fatto suo. Sarà il nostro
timoniere e nel frattempo scoprirò qualcosa di più su
di lui e sul perchè mi abbia praticammente puntato e quasi
obbligato a prenderlo a bordo. Silevril, lui è il nostro
guaritore. >
Il ragazzo agitò la mano in segno di saluto
e Silevril gli sorrise. Gli stava già simpatico, con quel bel
volto sincero e acceso di stupore di chi è convinto che la
vita sia sempre e solo meravigliosa. Un sognatore, si disse, come e
più di quanto non lo fosse egli stesso dopo i lunghi anni
della sua vita.
< Salpiamo allora? > Laer li interruppe
sbuffando. < Devo ricordarti che più a lungo rimaniamo qui
più a lungo rischiamo la forca? Timoniere, cosa ne dici di
farci vedere se effettivamente sai usarlo, un timone? >
Galmoth
lo condusse sul cassero, piccolo ma abbastanza rialzato, da cui si
aveva una buona visuale sia della prua che dei lati. Un'ottima
posizione da cui governare una nave piccola e veloce come quella.
Appena toccò il timone, la nave rispose immediatamente e, una
volta mollati gli ormeggi, la Stella virò completamente
e Silevril la fece voltare, volgendo la prua al mare aperto. Non vi
erano molte altre navi nelle vicinanze, tutte ormeggiate nella parte
più interna, e l'imboccatura del porto era ampia e costruita
perchè vi passassero anche i velieri più massicci.
Silevril lo aveva fatto decine di volte, ma la Stella rispondeva
al suo tocco come mai Il Giuramento aveva fatto e con il vento
a favore si ritrovò fuori in pochi minuti.
La risata di
Galmoth fu fragorosa e la pacca che gli assestò sulle spalle
lo fu ancora di più.
< Incredibile! > esclamò.
<
Non ho fatto altro negli ultimi trecento anni. > rispose lui.
Lo
guardò scendere, ancora ridendo, e affiancarsi a Laer che
stava poggiata a prua.
Silevril respirò a fondo, lasciando
che la brezza marina, ora più forte di quella che si poteva
percepire sulla terra ferma, gli scompigliasse i capelli che si
riversarono in avanti a nascondere il viso.
< Non ho intenzione
di fare altro per il resto della mia vita, > affermò e le
sue parole si persero nel vento.
Eccomi
qui, nuovo capitolo e inizio ufficiale dell'avventura per il nostro
Silevril e per l'equipaggio della Stella del Mare! Abbiamo avuto
l'incontro tra Galmoth e Silevril, tra Silevril e Laer e anche una
prima occhiata a Beregond, il dottorino a cui sono piuttosto
affezionata. Un bacio a Elothiriel, Hary e Saralasse che hanno
commentato, ragazze fatemi sapere cosa ne pensate eh. Devo davvero
dirvi da quale canzone è presa la frase del titolo? No, dai, è
troppo facile! Una action figure di Silevril a chi indovina.
Adesso
faccio un po' di pubblicità e vi invito ad andare a leggere la
drabble pubblicata nel fandom di Sherlock(BBC), nuova di zecca!
The
clock ticks life away. It's so unreal.
Capitolo 4 *** I don't see what anyone can see in anyone else but you ***
I
don't see what anyone can see in anyone else but you
Laer aveva passato gli
ultimi quattro
giorni facendo un'unica cosa per tutto il tempo: aveva fissato
ininterrottamente il nuovo arrivato.
Aveva la sgradevole
sensazione che
l'elfo, oltre ad averle irrimediabilmente rubato il ruolo di
timoniere – e, francamente, quello era sempre stato il suo
ruolo preferito – trovasse anche estremamente divertente far
finta di non averla vista mentre lo fissava.
Era bravo, questo doveva
ammetterlo,
guidava la Stella con una leggerezza incredibile e
la nave
rispondeva a ogni minimo tocco, come se lui riuscisse a leggerle
nella mente. Aveva ragione quando diceva di aver passato tutti la sua
vita in mare, l'elfo sembrava molto più a suo agio,
più
se stesso, lì piuttosto che quella mattina sulla banchina
del
porto.
Laer ne era affascinata e
indispettita
allo stesso tempo... e lo trovava vergognosamente attraente, cosa che
la indisponeva ancora di più.
< Dannato elfo!
> borbottò,
facendo trasalire Beregond che stava poco distante, chino su un
pesante tomo pieno di figure di erbe e fiori.
Si voltò per
scendere sotto
coperta e passò accanto al ragazzo, urtandolo e buttandolo
quasi in terra.
< Scusa, Laer!
> mormorò
quello, ma la ragazza non lo degnò di uno sguardo, lasciando
il ponte in un ondeggiare ostinato della sua treccia castana.
Galmoth aveva osservato la
scena da
lontano, sghignazzando. Si avvicinò al ragazzino, aiutandolo
a
raccogliere da terra le sue cose, e il suo sguardo sembrò
per
un attimo animarsi di gioventù.
< Stai tranquillo,
Barry, vedrai che
le passerà. >
< Signore? >
< Le donne, Barry!
Sono come spiriti
maligni e, credimi, nessuno spirito è peggio di Laer!
>
< Beh, >
Beregond sorrise e il
suo viso da impacciato si fece furbo, < mio zio diceva che nulla
rende l'uomo una nullità più di una bella donna,
signore. >
< E la nostra Laer
lo è,
anche se, e i Valar mi siano testimoni, farebbe impazzire chiunque
anche se fosse brutta. >
Galmoth si
raddrizzò e porse
l'ultimo rotolo di pergamena che aveva raccolto al ragazzo di fronte
a lui.
< Vai, Barry, e
portami una
bottiglia di vino. >
Guardò il
giovane allontanarsi,
appesantito dai rotoli e dai libri che portava in braccio. Scosse le
spalle e si avviò lungo il ponte, salendo infine i pochi
gradini che lo portavano sul cassero e affiancandosi all'elfo.
Silevril sorrideva appena,
le mani
fermamente posare sul timone come se non si fosse accorto dell'uomo.
< Credo che non
dorma la notte
pensando a te, elfo. >
< Ho sempre avuto un
notevole
fascino > commentò serafico Silevril e Galmoth
scoppiò
a ridere.
< Sai cosa intendo,
> disse
l'uomo tra le risa, < è convinta che tu ci stia
nascondendo
chissà quale segreto e tu ti diverti a stuzzicarla. >
Silevril si
voltò, puntando
quegli occhi esageratamente chiari su di lui. Si sentiva sempre a
disagio, sotto quegli occhi, forse l'unica cosa di lui a non essere
spigolosa e dura.
< Mi piacete, voi
Uomini, Galmoth.
Sono solo pochi giorni che sono qui, ma non posso fare a meno di
sentimi vicino a te e agli altri... e Laer mi affascina. >
< Laer è
impossibile! >
L'elfo rise di gusto,
tornando a
guardare il mare davanti a sé.
< Tranquillo, amico
mio, non intendo
corteggiarla né sposarla, se è questo che ti
preoccupa.
>
Non era affatto questo a
preoccuparlo,
anzi, era convinto che sarebbe stato molto più auspicabile
rispetto a ciò che stava avvenendo realmente.
Galmoth conosceva Laer da
quando era
solo una bambina, da quando il padre di lei era ancora vivo e lui non
aveva ancora perduto il proprio onore. Non era cambiata affatto e
sotto quell'aspetto capricciosamente mascolino, riusciva ancora a
scorgere la ragazzina... e la ragazzina si era presa una cotta per
l'elfo.
Ovviamente non lo avrebbe
detto a
Silevril e, per tutti i Valar, tremava al solo pensiero di farne
parola con la diretta interessata. No, doveva ignorare quella stupida
vocina che lo spronava a fare una scenata da padre geloso e far finta
di nulla.
Avevano ben altre cose da
fare.
< Bene
così, > diede una
pacca sulla schiena dell'elfo, < ceneremo dopo il tramonto, Conn
sta preparando pesce arrosto e patate. >
< Non vedo l'ora!
> rispose
sorridendo ancora.
Quell'elfo sorrideva
davvero in modo
strano.
La sala da pranzo della
Stella Marina
era in realtà una stanzetta appena più ampia
della
cuccetta del Capitano, l'unico ad averne una oltre a Laer. Al centro,
sotto un lampadario polveroso, vi era un vecchio tavolo traballante,
ma tutto sommato in buone condizioni, contro cui erano disposti degli
sgabelli e qualche sedia. Su un lato, non molto distante, una porta
chiusa da una tenda sottile dava sulla cucina, il regno incontrastato
di Conn.
Beregond scese gli scalini
che dal
ponte portavano sotto coperta e poggiò rumorosamente i suoi
libri sul tavolo, beccandosi un'occhiata infastidita da parte di Laer
seduta poco distante.
< Devi proprio fare
tutto questo
chiasso, Barry? >
< Non saprei,
signora, non sono
capace di fare altrimenti! >
< Tze! > la
ragazza roteò
gli occhi, accompagnando così lo schioccare della lingua.
Barry sapeva diventare l'essere più dispettoso della Terra di
Mezzo, ingannando tutti con quell'aspetto da bambino impaurito.
< Che ci fai qui?
Lasciami sola! >
< Il Capitano vuole
del vino. Hai
visto Conn? >
Laer non rispose,
limitandosi a
chinarsi maggiormente sul diario su cui stava scrivendo. Beregond
aveva notato che negli ultimi giorni il suo primo ufficiale stava
lunghe ore a scrivere su quel quaderno decrepito, riempiendolo di una
scrittura fitta che non riusciva mai a decifrare.
Moriva dalla voglia di
sapere cosa
c'era scritto, ma non glie lo avrebbe chiesto nemmeno sotto tortura.
Alzò le spalle e
la lasciò
sola, entrando in cucina. Subito l'aria satura di ogni tipo d'odore,
dall'aglio all'olio sfritto, lo inebriò, stordendolo
leggermente.
Conn se ne stava in un
angolo,
strofinando vigorosamente una pentola e fischiettando un motivetto.
< Ehilà,
Conn! >
< Mae govannen,
Barry! Come andiamo?
>
L'uomo gli rivolse un gran
sorriso al
di sotto dei lunghi capelli scarmigliati. Conosceva qualche parola di
elfico e non perdeva mai occasione di ricordarlo a chiunque, persino
all'elfo e quando si era complimentato per l'ottima pronuncia, le
orecchie di Conn avevano assunto un'accesa colorazione rossa.
< Il Capitano chiede
del vino, ne
hai rimasto un po'? >
< Vino? Riferisci al
capitano che
dovremmo bere birra, non vino come dei maledettissimi signorotti di
corte! >
< Lo sai che al
Capitano piace il
vino. >
< Le abitudini son
dure a morire
vero? E non si può cancellare ciò che si
è
semplicemente cambiando compagnie. >
Beregond annuì
pensieroso. Conn
gli era sembrato sempre molto, molto saggio.
Galmoth si accese la pipa,
scrutando
pensieroso l'orizzonte: entro quella notte sarebbero arrivati ad
Umbar, sfruttando il favore delle tenebre per attraccare senza troppe
domande. Non che nella terra dei Corsari si usasse sottoporre degli
onesti marinai ad un interrogatorio, ma lui preferiva evitare del
tutto gentaglia come pirati, corsari e guardie corrotte. Sperava solo
che il suo carico lo stesse aspettando già al porto,
così
da poter ripartire subito.
Si strofinò il
mento, tirando
una lunga boccata.
Galmoth non se n'era
accorto, ma
Silevril lo stava osservando. Era affascinato, quasi irretito
dall'espressione a volte allegra a volte malinconica che intravedeva
sul volto dell'uomo, era affascinato dalle righe che gli
attraversavano il volto, così diverse dalla pelle liscia e
morbida di Laer, o da quella riarsa dal sole di Beregond e dagli
altri strani tipi che facevano parte dell'equipaggio.
Non era mai stato a
così stretto
contatto con i Mortali e non poteva fare a meno di sentirsi
emozionato come un bambino e doveva ammettere di apprezzare la loro
presenza quasi più di quanto apprezzasse quella di suo padre.
Erano diversi, erano
gioviali anche se
apparivano anziani e spesso si era ritrovato a chiedersi quanti anni
avesse Galmoth... o Laer.
Irrimediabilmente i suoi
pensieri
andavano a Laer. Si era divertito nel far finta di nulla mentre lei
lo osservava guidare la Stella con cura e maestria, percependo la di
lei invidia come se fosse una lama puntata nei suoi reni.
Quella ragazza lo divertiva
immensamente e in un certo senso gli ricordava sua madre, come forse
era stata un tempo.
La verità
è che non si
era mai sentito più felice, mai come in quel momento, mentre
Galmoth faceva anelli di fumo e Laer, con la lunga treccia castana
che ondeggiava ad ogni suo passo, si faceva stringere nell'abbraccio
del capitano.
Non so
proprio che altro dire se non che mi scuso: mi scuso perché
dopo che vi ho fatto aspettare un'eternità vi ritrovate con
un
capitolo di sole due pagine e mezzo dove non succede niente di
niente. Scusate, ma il blocco dello scrittore misto alla sessione
estiva alle porte mi ha infilato in un vicolo cieco da cui non riesco
a uscire. Spero almeno che non faccia tanto pena.
Capitolo 5 *** Sailors fighting in the dance hall ***
Sailors
fighting in the dance hall
Il porto di Umbar, sudicio e
stracolmo, era costantemente pattugliato da soldati di Gondor,
intenzionati a mantenere una parvenza di ordine in quello che era
stato per anni ritrovo di pirati.
Galmoth si guardò
intorno con circospezione, cercando di nascondersi il più
possibile e diede un segno di intesa in direzione di Laer. La ragazza
annuì e indicò con la testa un punto alla sua destra in
cui Galmoth riuscì a scorgere l'uomo che stava aspettando.
Accanto al suo primo
ufficiale, l'elfo incappucciato sembrava ancora più alto di
quanto già non fosse e spiccava come se fosse stato illuminato
da una torcia. Non era stata una buona idea portarlo con loro, ma
Silevril aveva insistito con un cipiglio inflessibile e, per qualche
strana ragione, lui non era riuscito a dirgli di no.
< Tirati più su quel
cappuccio, maledizione! > l'apostrofò in un sibilo roco, <
Sei troppo riconoscibile e un elfo in mezzo al porto di Umbar
attirerebbe l'attenzione su di noi. >
Silevrl sorrise, serafico.
< Non temere, Capitano, so
essere silenzioso come un alito di vento, tanto da diventare
invisibile. >
< Sì, ma brilli al
buio come una maledettissima lucciola. >
< Smettetela voi due! >
Laer era stizzita e fremeva di irritazione. < Il nostro cliente si
avvicina. >
Galmoth si voltò e
vide l'uomo, basso e tarchiato, che gli si avvicinava. Non appena fu
arrivato a pochi passi abbassò il cappuccio, lasciando che una
massa di capelli neri e sporchi gli ricadessero sulle spalle,
incorniciando una faccia dalla pelle scura e il naso storto.
< Sei Galmoth? > chiese
con voce gracchiante.
< Sono io. Ho ricevuto il
tuo messaggio, sei giorni fa' a Dol Amroth. >
< Ne sono sicuro, il mio
signore è sempre efficiente. >
< Ebbene? Mi era stato
promesso qualcosa. >
L'uomo ghignò,
scoprendo i denti stranamente bianchi, nonostante alcuni mancassero.
Aveva un ghigno malefico, pensò Silevril, e strinse il pugnale
che portava sotto il mantello, ma l'uomo non sembrava avere cattive
intenzioni.
< Niente Rum, Ammiraglio,
c'è altro di cui parlare. >
Galmoth arretrò di un
passo, come se l'uomo l'avesse schiaffeggiato, Laer invece estrasse
una corta daga che teneva legata alla cintura e la puntò alla
gola dello sconosciuto.
< Chi sei tu? >
domandò, la voce gli uscì simili a un ringhio.
Galmoth fu rapido nel
riprendersi e afferrò il braccio della ragazza, facendole
abbassare la lama.
< Non qui > , disse
piano, guardandosi intorno circospetto.
< Chi è il tuo
Signore? > domandò poi.
< Lo chiamano Il Falco
Bianco, ma mi ha detto che forse tu lo conosci meglio come Baran. >
Galmoth spalancò gli
occhi.
< Baran? >
< Così dice, ma a
me sembra un nome molto stupido. Il Falco gli si addice di più,
lui vede lontano e più di chiunque altro. Lui è
praticamente la legge, a Umbar. >
Galmoth serrò le
labbra, pensieroso. Non credeva che avrebbe mai più sentito
quel nome, nella sua vita, eppure il destino lo portava ancora una
volta sulla strada da cui era dovuto fuggire. Poteva essere una
trappola, si disse, attirarlo lì a Umbar promettendogli affari
vantaggiosi per poi rivelarsi...d'altronde doveva ammettere che se
avesse saputo prima chi avrebbe dovuto incontrare non ci sarebbe mai
andato.
Una piccola parte di lui,
però, desiderava rivedere il suo vecchio amico con tutto il
cuore.
< Portami da lui. >
< Ma che fai? > sbottò
Laer, < Non vedi che è una trappola? >
< No, non lo è. >
La voce di Silevril era
tranquilla, come se si fosse limitato a commentare il tempo.
< Cosa ne sai tu? >
< Perchè credi
abbia insistito tanto nel venire oggi? > l'apostrofò
l'elfo, < pensi che mi piaccia il puzzo di Umbar? Leggere nelle
menti degli uomini e nei loro cuori, ecco cosa posso fare. >
La spinse leggermente in
avanti, imponendole di seguire il Capitano per le vie del porto. Laer
era contrariata e non lo nascondeva, ma in un certo senso Silevril ne
era divertito.
< Leggi la mia mente,
elfo? >
< Certo che no, cosa ti
salta in testa? Non posso sapere cosa stai pensando, nessuno può
farlo, ma le emozioni degli uomini come l'odio, o l'inganno, sono
facili da vedere per chi ha avuto centinaia di anni per studiarle. >
La superò, sfiorandole
un braccio appena prima di entrare nella locanda al cui interno erano
appena spariti Galmoth e l'altro uomo. Laer tremò appena, ma
Silevril se ne accorse e il sorriso gli morì sulle labbra.
Baran era seduto a un tavolo
in disparte e sorseggiava birra da un boccale incrostato di
sporcizia. Galmoth gli era seduto di fronte, in silenzio.
Era l'uomo più strano
che Silevril avesse mai visto, con i capelli biondissimi tanto da
sembrare bianchi, il viso perfettamente rasato e un unico occhio
azzurro e penetrante. Portava una benda bianca, perfettamente pulita,
a nascondere la cavità oculare vuota ed ogni aspetto della sua
persona era curato. Poteva sembrare un principe, se si fosse
premunito di bere da un bicchiere di cristallo e in una stanza più
ordinata.
Gli puntò addosso
l'occhio non appena si fu avvicinato a Galmoth, ma lo spostò
subito su Laer al suo fianco, studiandola attentamente. Lo trovò
fastidioso, tanto che avrebbe voluto strapparglielo a mani nude,
quell'occhio brillante e arguto.
< Sei cresciuta, piccola
Laer, dall'ultima volta che ti vidi. Eri una bambina, ma ora sei una
donna. >
< Non mi ricordo di te,
Falco. >
La ragazza sembrava tremare
di rabbia repressa e Silevril si sentì stranamente orgoglioso
di lei, della sua furia e di come riusciva ad apparire superiore.
Baran rise, una risata
allegra.
< Sì, eri una
bambina impertinente anche allora. Avevo due occhi ed ero un
cavaliere, uno di quelli di cui forse qualcuno canterebbe. >
Spostò nuovamente lo sguardo su Galmoth che era rimasto
immobile per tutto il tempo, senza dire una parola. < Mi sei
mancato, amico mio. >
< Non avrei mai creduto di
rivederti un giorno, Baran. Avevo giurato che ti avrei ucciso, che
avrei vendicato il tuo tradimento. >
< E invece eccoti qua, un
rinnegato che si guadagna da mangiare con il piccolo contrabbando.
Rum ed Erba-pipa? Quando mi hanno detto cosa facevi non potevo
crederci. >
< Molte cose sono cambiate
> Galmoth sospirò pesantemente.
< Ma non io. >
< No, non tu, e nemmeno
io. Sono quello di un tempo. > Ghignò. < Non credevo
però che ti saresti portato dietro la tua figlioccia, né
un elfo! >
Silevril non si scompose.
Aveva osservato attentamente quello strano uomo, studiato i suoi
lineamenti longilinei e l'unico occhio chiaro, che sembrava brillare
alla luce rossastra della taverna.
< Mi piace l'avventura, >
asserì, serafico.
Baran rise ancora, talmente
forte da far girare un paio di marinai seduti ad un tavolo poco
distante, ma che subito tornarono a parlottare tra loro.
< Mi piaci, elfo. Ho
sempre apprezzato la tua gente, i secoli vi rendono saggi, ma non vi
tolgono l'impudenza della giovinezza. Avevo degli amici come te,
qualche anno fa', anche se > lo squadrò, < non erano proprio
come te. Tu sei diverso. >
< Mi piace pensare di
essere più bello. >
Laer si rilassò,
permettendosi un sorriso a quella battuta.
Galmoth però rimase
serio, adombrato.
< Cosa vuoi, Baran? >
< Mi chiamano il Falco
Bianco adesso, non ti sembra un bel nome? > Prese un sorso di
birra e si pulì con la manica. < Hanno il senso
dell'umorismo, qui a Umbar e apprezzano chi ha perso un occhio in
battaglia, così come chi sembra conoscere le cose in maniera
soprannaturale. Ho informatori, naturalmente, piccoli uccellini che
mi portano notizie da ogni angolo di Gondor, mentre io gestisco il
traffico della merce. Sono sempre stato bravo, nel comando. >
< Parli veramente troppo,
Falco, per essere un pirata e un ladro, > sbottò Laer,
spazientita.
< E tu parli troppo in
ogni caso! Ascolta, > continuò rivolgendosi a Galmoth,
chinandosi leggermente in avanti, < mi sono arrivate delle voci,
voci da Dol Amroth e dal palazzo del Principe. Alphros potrebbe darci
una grande ricompensa se gli riportassimo ciò che ha perduto,
potrebbe persino decidere che, tutto sommato, tu non sei un
traditore. >
< Ciò che ha
perduto? >
Baran si fece indietro,
distendendosi sulla sedie, la schiena poggiata e le gambe allungate
sotto il tavolo. Non aveva perso il suo sorriso inquietante per tutto
il tempo, ma in quel momento esso si fece più aperto.
Silevril sentì Laer
che gli si avvicinava, un piccolissimo movimento quasi impercettibile
che la portava verso di lui. Avrebbe voluto prenderle la mano e
stringerla, ma non lo fece. Entrambi trattenevano il respiro.
< Cosa sai di ciò
che chiamano Il Tesoro di Ulmo? >
Il silenzio era opprimente,
mentre la Stella ondeggiava placida sulle acque calme del porto. Conn
e Beregond erano seduti uno di fronte all'altro al vecchio tavolo
sgangherato, mangiando una minestra densa e calda. Al loro fianco,
Forlond, se ne stava a braccia conserte. Era un uomo dalla pelle scura
e silenzioso, inoltre – questo Beregond l'aveva sempre
giudicato spaventoso – non aveva mai messo seriamente piede a
terra. Sulla nave era chiamato “il mercenario”, ma
Beregond aveva il sospetto che nessuno avesse mai avuto il coraggio
di dirglielo in faccia.
< Quindi, Forlond, >
disse Conn tra un boccone e l'altro, < non ci aspettavamo che
fossi già di ritorno, ma va bene, ci servono sempre braccia
forti. >
L'uomo grugnì in
risposta, ma Conn non si scoraggiò, posò il cucchiaio
nel piatto vuoto, si ravviò i lunghi capelli biondi e sporchi
e prese una mela.
< Il Capitano sarà
contento di rivederti, soprattutto se le notizie che porti
dall'entroterra sono buone come sembrano a me. Abbiamo un nuovo
arrivato, un elfo. >
Forlond spalancò
leggermente gli occhi, unico segno di stupore che mostrò.
< Non mi piacciono gli
elfi. >
< Un tipo strano, >
continuò il cuoco, < ride più di chiunque altro io
abbia mai visto ed è ancora più strano perchè la
sua faccia sembra di marmo, seria come una maledetta statua. >
< Al capitano piace >
si intromise Beregond, dimenticandosi per un attimo il timore che il
piglio severo dell'uomo gli incuteva.
Forlond rise e prese un sorso
di vino.
< Già. Scommetto
che anche il nostro grazioso primo ufficiale apprezza. >
Si alzò strisciando
rumorosamente la sedia sul pavimento di legno e si avviò verso
la scala che portava sulponte senza aggiungere altro.
Conn finì di mangiare
la sua mela, bagnandosi la barba rada con il succo che gli colava
dalle labbra. Era sempre stato divertito da Forlond e dai suoi modi
da guerriero misterioso. In realtà riusciva a vedere l'uomo
semplice e opportunista dietro quell'apparenza... non vi era da
temere da lui finchè si poteva pagarlo.
Silevril trattenne
Laer per un braccio, costringendola a rallentare l'andatura e
affiancarsi a lui, mentre Galmoth quasi correva per le vie del porto,
puntando sulla Stella a ritmo
di marcia.
<
Di cosa parlava il Falco Bianco? > le chiese, chinandosi
leggermente verso di lei per poterle parlare all'orecchio.
<
É
solo una voce che circola da secoli sui Principi di Dol Amroth. >
<
Ma Galmoth ci crede, a giudicare da come ha reagito alle parole di
Baran. >
Il
Capitano era rimasto impietrito, come se qualcuno l'avesse trafitto
con una lama al cuore, per poi alzarsi di scatto e fuggire dalla
Taverna mentre lui e Laer non avevano potuto fare altro che corrergli
dietro, inseguiti dalla risata del Falco Bianco.
<
Senti, Silevril, > sibilò la ragazza, costringendolo a
fermarsi per poterlo guardare negli occhi. Doveva tenere il collo
piegato e la testa all'insù mentre lui guardava in basso,
tanto era minuta. A Silevril pareva una bambina. < Conosco Galmoth
sin da quando avevo sei anni e quando mio padre è morto, lui mi
ha presa con sé nonostante fosse pericoloso per entrambi.
Eppure non mi ha mai parlato del Tesoro di Ulmo, né di ciò
che potrebbe significare al di là delle antiche leggende. >
<
Quali leggende? >
Laer
interruppe il contatto visivo, tornando a guardarsi intorno, a
disagio.
<
Te lo dirò, ma non ora e non qui. Non è un buon posto,
il Porto di Umbar, e noi dovremmo affrettarci, vieni. >
Lo
prese per mano e si avviò verso le banchine, senza rendersi
minimamente conto di quanto quel gesto lo avesse turbato.
Eccomi
qui, sono tornata! Finalmente si etra nel vivo della vicenda e dovrei
veramente imparare a fare meno capitoli introduttivi... alla fine
però non ci riesco a mi piacciono le storie che se la prendono
comoda. Inoltre ben due nuovi personaggi in questo capitolo: Baran,
detto il Falco Bianco, e Forlond, l'ultimo membro dell'equipaggio,
nonché il mercenario che ogni nave di contrabbandieri deve
avere, nonché versione riveduta del mitico Jayne di Firefly
che, come vi ho già detto, è lo spunto per la mia
Stella Marina.
Mille
grazie a Morwen_Eledhwen e alla cara Hareth che hanno recensito
(anche se per il momento Hary s che ha il mio affezionato e
imperituro odio XD).
Prossimo
aggiornamento probabilmente a settembre perchè me ne vado in
cavanza dove non c'è internet, perciò haloa,
arrivederci, namarie!
P.S
il titolo del capitolo scorso non l'ho detto ma era preso
dall'omonima canzone che si trova nel film Juno,
mentre il presente capitolo prende titolo da un verso di Life
on Mars?
di David “dio” Bowie.
Capitolo 6 *** Lost in a verse of a sparrows carol - parte 1 ***
Lost
in a verse of a sparrows carol – parte 1
Se avesse potuto avere una moneta per ogni occhiata fugace
lanciata da Laer alla sua volta, Silevril sarebbe diventato ricco, ne
era certo. La ragazza era sempre stata strana, ma negli ultimi giorni
sembrava addirittura impazzita, anche se non poteva certo dire che
raggiungeva i livelli di follia del loro Capitano.
Galmoth era tornato sulla Stella come una furia, sbraitando
l'ordine di spiegare la vela e allontanarsi, senza minimamente
rendersi conto della presenza di Forlond. Il Mercenario aveva
grugnito e poi aveva eseguito l'ordine, senza mai smettere di
masticare foglie amare.
Non avevano fatto che poche leghe, quando si erano nuovamente
fermati. La costa era ancora in vista, vicina e tangibile, ed il mare
era piatto come una tavola quasi volesse facilitare la loro
permanenza lì.
Il Capitano aveva guardato pensieroso il porto che si erano
lasciati dietro, per poi chiudersi nella sua cabina sbattendo la
porta.
Erano passati tre giorni e non era mai uscito, limitandosi ad
aprire appena la porta quando Conn gli portava da mangiare.
Silevril passava tutto il giorno sul ponte, a volte scherzando con
Beregond, più spesso osservando il mare aperto che pareva
chiamarlo ogni giorno di più. Si sentiva inquieto, lì
bloccato, e la cosa che lo inquietava maggiormente erano le occhiate
di Laer.
Lo guardava intensamente per ore, qualsiasi cosa lei stesse
facendo, poi, all'improvviso, scuoteva la testa e un lampo di
ostilità attraversava i suoi occhi castani.
Senza contare che ogni qualvolta lui nominava il Tesoro di Ulmo,
lei lo apostrofava stizzita: “Ti ho detto che te ne parlerò,
elfo, ma non qui. Smettila di chiederlo, è un ordine!”
Sospirò e si andò a sedere accanto a Beregond,
intento a leggere un pesante volume sulle erbe curative.
< Interessante? > chiese.
< Non particolarmente, > il ragazzo scrollò le spalle
e lo chiuse con un tonfo sordo, < a Dol Amroth non si trova mai
niente di decente. Quando vivevo a Minas Thirith, mi bastava adare
alla biblioteca delle Case di Guarigione per avere i libri che mi
servivano. >
< Sei gondoriano, Barry? > era sorpreso.
< Sì, nato e cresciuto nella Cittadella, > Beregond
sorrise, facendo risaltare i denti bianchi sul volto abbronzato.
< Sono nato anch'io a Minas Thirith, lo sai? >
< No! Davvero? >
< Davvero! Mia madre si trovava lì perchè vi
erano numerose incursioni di Orchi, all'epoca, e il rifugio degli
Elfi Silvani nell'Ithilien era stato distrutto, così nacqui
alle Case di Guarigione. >
< E tua madre era fuggita dall'Ithilien? >
< No, lei era arrivata da nord e fu attaccata nei pressi del
Pelennor. Per fortuna Finrod Felagund arrivò a salvarla,
altrimenti io non sarei qui. >
< Conosci Finrod Felagund? >
La voce di Laer, roca e leggermente seccata, li fece voltare
entrambi.
< No, mia signora, ma mia madre era stata sua amica nei Tempi
Remoti, prima delle Guerre del Beleriand. >
< Sei uno degli Alti Elfi dell'Ovest! >
Era impressionata e non riuscì a nasconderlo. Silevril
sorrise, compiaciuto.
< Mio padre è uno dei Sindar dei Porti, mia madre una
Noldo. >
Parlare di lei era facile, come non avrebbe mai creduto, nessuna
fitta dolorosa, nessun rimpianto, solo affetto, ed Alatariel era una
persona infinitamente facile da amare.
< Ne parli come una grande donna, > Laer gli si sedette
accanto.
< Ho molte cose da fare, > scattò su Beregond,
allontanandosi con espressione sorniona, espressione che a Silevril
non sfuggì...ma Laer era così vicina, spalla contro
spalla, che proprio non gli importava di cosa pensasse Barry o nessun
altro.
< Mi piacerebbe conoscerla. >
Il momento finì e Silevril scoppiò a ridere forte,
tanto che i suoi occhi si riempirono di lacrime.
< Ti odierebbe! >
L'espressione di Laer si corrucciò, piccata.
< Perchè dovrebbe odiarmi? >
< Perchè sei impertinente, dici sempre ciò che ti
passa per la testa, le risponderesti per le rime e soprattutto perchè
hai messo gli occhi sul suo unico figlio. >
La ragazza avvampò, ma la sua espressione si fece ancora
più tirata.
< Anzi, no, > riprese Silevril tra le risa, < vorrei
davvero vedervi, faccia a faccia. Valar, probabilmente vi uccidereste
a vicenda oppure, e tremo al solo pensiero, potreste persino
diventare amiche. >
< Non sono io a essere impetinente, elfo, ma tu. Hi dimenticato
che io sono il tuo superiore nel momento esatto in cui hai messo
piede sulla Stella e hai continuato a tartassarmi di domande.
>
< Domande del tipo “cos'è il Tesoro di Ulmo?”
> tornò seriò.
Il tornare così bruscamente sull'argomentò la
spiazzò e Laer non seppe cosa dire.
< Perchè tanto mistero? Immagino sia una storia di
pirati, di dobloni d'oro e fanciulle rapite, ma il Capitano sembra
averla presa male e tu non vuoi dirmi niente. >
La ragazza si alzò e cercò di andare via, ma
Silevril fu più veloce e la afferrò per il polso,
bloccandola.
< Sono stufo, mia signora, dopo tre giorni fermo qui potrei
diventare pazzo o pericoloso, perciò per favore parlami. >
< Va bene, va bene! > si liberò con uno strattone e
si risedette.
< Dato che sei così intelligente e colto, saprai
sicuramente le storie che si raccontano sulla Casa di Dol Amroth, di
come una delle ancelle dell'elfa Nimrodhel abbia sposato i signori
del luogo e che quindi sangue elfico scorre nelle vene dei Principi.
>
Silevril annuì. Conosceva la storia perchè era
sempre stata una delle sue preferite e suo padre gli aveva cantato
molte volte la triste vicenda di Nimrodhel e Amroth. Glie l'aveva
insegnata Legolas Verdefoglia, diceva, e cantarla gli ricordava il
suo amico lontano. Era solo un bambino, ma aveva amato la voce di suo
padre e le tristi note di quell'amore tragico.
< Nimrodel fu perduta e Amroth si gettò in mare,
gridando il nome della fanciulla che amava con tutto se stesso. Un
triste racconto. >
< Vero, ma si dice anche che Amroth diede alla sua amata un
pegno, un gioiello di grande bellezza e potere proveniente
direttamente dal lontano Ovest e che Nimrodel affidò a
Mithrellas, la sua più fidata amica e sua dama di compagnia,
la stessa che giunse presso il mare e che sposò il Principe
Imrazor, dando origine alla Stirpe. >
Silevril guardò Laer sorpreso, una nuova luce sembrava
illuminare la ragazza che lui aveva considerato sì
affascinante e piacevole, ma anche di poca cultura.
< Sei piena di sorprese, mia signora, > disse, < non
credevo che conoscessi così profodamente l'antica storia. >
< Fu Galmoth a insegnarmi, quando mio padre era ancora in vita.
>
La ragazza distolse lo sguardo, imbarazzata da quell'inatteso
complimento. Silevril si era ritrovato ad amare queste sue
contraddizioni, come riusciva a essere timida e insolente allo stesso
tempo, sempre pronta alla risposta rude quanto all'arrossire.
< E quel gioiello è il Tesoro di Ulmo, vero? >
< I marinai lo chiamano così perchè è
dello stesso colore del mare e perchè si dice che sia stato
forgiato con le acque del grande Mare stesso. >
Silevril si voltò: i passi del Capitano, nonostante fossero
stati silenziosi, erano per lui perfettamente udibili. Galmoth si era
avvicinato a loro e se ne stava con le braccia conserte e
l'espressione sofferente, una barba vecchia di tre giorni nascondeva
il mento e lo faceva apparire vecchio.
< Non è una leggenda. >
Parlò con voce roca, una voce che non veniva usata da un
po', si disse Silevril. Si sentiva spaesato in quel momento, tra
l'imponente figura dell'uomo, capelli e barba neri striati di grigio,
e la ragazza minuta al suo fianco, con la lunga treccia castana e
piccole lentigini sul naso, come un estraneo tra loro.
Non sapeva nulla degli Uomini e non capiva le loro leggende,
perchè per gli elfi vi erano sempre stati solo fatti...storia
antica, guerre, amori e gioielli donati da qualcuno che avrebbe
saputo la verità con certezza.
< Non capisco > disse, ed era vero.
< Esiste davvero il Tesoro di Ulmo, elfo, ha la forma di una
goccia d'acqua e se lo guardi la vastità degli abissi ti si
presenterà avanti agli occhi, e chi lo possiede può
governare il mare. >
< No, Capitano, questo è solo ciò che voi
credete. >
Laer si accigliò, balzando quasi in piedi e affiancandosi a
Galmoth. I suoi occhi scintillavano di rabbia repressa e delusione.
< Vedi perchè non volevo dirti niente? Voi elfi siete
così, credete di possedere la verità assoluta perchè
siete nati mille e mille anni fa. E tu, Silevril? Tu quando sei nato?
>
Senza aspettare risposta girò i tacchi e andò via,
lasciandolo impietrito come se l'avesse schiaffeggiato.
< Donna impossibile, > mugugnò Galmoth, scuotendo il
capo senza però sorridere.
< Ascolta, elfo, tu sei libero di credere ciò che vuoi,
ma io ho visto quel Gioiello, io ho navigato con il Principe e quando
lui lo indossava non vi erano mareggiate, né tempeste o
bonaccia, solo il giusto vento con la giusta marea. Ed ora siamo qui,
bloccati senza un alito di vento, mentre Baran si fa beffe di me. Sa
perfettamente che io andrò a recuperare il Gioiello, così
come io sono certo che lui conosce il luogo in cui si trova. >
L'uomo sospirò pesantemente.
< Vieni, andremo io e te, ma devo vedere Baran, devo sapere
cosa ha visto l'occhio del Falco Bianco. >
***
Eccomi qui dopo le vacanze
che spero voi tutti abbiate passato piacevolmente. Questo capitolo ed
il successivo dovevano essere una cosa sola, ma poi ho deciso di
rivedere il seguito, quindi intanto vi posto la prima parte.
Il titolo è un verso di Swanheart dei Nightwish.
Capitolo 7 *** Lost in a verse of a sparrows carol – parte 2 ***
Lost
in a verse of a sparrows carol – parte 2
Baran era ancora una volta
seduto a sorseggiare birra scura, interamente vestito di bianco e con
un sorriso smagliante e leggermente storto. A Silevril, quell'uomo
piaceva ancora meno dell'ultima volta che l'aveva visto. Strinse le
labbra in un cipiglio severo, le braccia lungo i fianchi ed i muscoli
tesi, pronti a scattare.
< Lo sapevo che saresti
tornato, Ammiraglio, > stava dicendo a Galmoth, seduto anch'egli
con una birra di fronte.
L'uomo era teso come la corda
di un liuto, Silevril lo capiva chiaramente, ma sfoggiava comunque un
sorriso affascinante e cordiale, lo stesso che aveva riservato a lui.
< Non mi hai detto tutto,
Baran, e lo sai. Chi ha rubato il Tesoro di Ulmo? E come fai tu a
sapere dove si trova? >
L'unico occhio del Falco
Bianco brillò e per una frazione di secondo si spostò
su Silevril, prima di tornare a concentrarsi sul Capitano, ma quel
movimento non sfuggì all'elfo.
Chiunque egli fosse, quel
Baran era scaltro, probabilmente manipolatore e infido, un tipo di
cui non ci si poteva fidare, nonostante le apparenze.
Avrebbe preferito che Laer
fosse con loro, la ragazza era un'ottima osservatrice ed era lesta
con il pugnale.
< Non hai ancora capito,
Galmoth? Io ho orecchie in ogni taverna, in ogni antro, in ogni strda
di Umbar e da Umbar partono molte navi, così come molte navi
approdano. Sento tutto ciò che devo sentire e il mio occhio
vede qualsiasi cosa ci sia da vedere...ed ho molto denaro. >
Si fermò per bere un
lungo sorso, per poi leccarsi le labbra, un gesto che a Silevril fece
venire la pelle d'oca.
< Il Tesoro si trova a
Minas Tirith. >
< Perchè qualcuno
dovrebbe portare quella pietra a Minas? Non c'è il mare. >
< Diciamo che è un
ottimo posto per nascondersi, anche perchè nessuno andrebbe
mai a cercare un ladro nella Città, meno di tutti un ladro
marinaio! Inoltre il controllo del Mare, a discapito del Principe di
Dol Amroth, è un grosso vantaggio quando si sta programmando
un colpo di stato. >
Galmoth posò il suo
boccale, il respiro trattenuto.
< Capisco. >
< Io no. >
Silevril si avvicinò
al tavolo, incrociando le braccia al petto.
< Quanto sai di politica,
elfo? >
Silenzio.
< Come immaginavo. Non
tutti sono d'accordo con la politica del Re, soprattutto per quanto
riguarda il non sfruttamento dei territori a ovest delle Montagne
Nebbiose. L'Erba Pipa dei Mezzuomini può essere importata, ma
non piantata qui da noi, con l'effetto che i suoi costi sono
proibitivi, lo sai, il contrabbando di erba pipa è
remunerativo, soprattutto per quanto riguarda il contrabbando dei
suoi semi. Molta gente crede che questo divieto sia stupido e che i
Mezzuomini in fondo possano venire a contatto con gli Uomini come
tutte le altre razze. >
< Re Estel non lo
permetterebbe mai, fu suo nonno a promuovere questa legge e lui
intende rispettarla. >
Baran sorrise e il suo
sorriso sembrò scintillare di una luce sinistra.
< Per questo c'è
chi crede che un nuovo Re che abbia a cuore gli interessi dei
mercanti sia necessario. >
< Immagino che tu sia uno
di loro! > la voce di Silevril vibrò di rabbia repressa.
< Io? Oh, no, certo che
no. Non mi importa chi siede sul trono di Gondor, né
certamente mi interessano mere questioni d'oro e argento. Ciò
che voglio è riportare la preziosa gemma nelle mani del suo
legittimo proprietario, Alphros di Dol Amroth...e ovviamente ottenere
qualcosa in cambio. >
Galmoth si mosse, a disagio,
sulla sedia, ma Silevril si fece più vicino, abbassandosi per
trovarsi faccia a faccia con Baran, il Falco Bianco di Umbar.
< Chi ha rubato il Tesoro
di Ulmo? >
< Sono stato io,
naturalmente, chi altri? >
Laer odiava sentirsi
osservata, era una sensazione che le aveva sempre procurato uno
spiacevolissimo senso di colpa, come se in lei vi fosse qualcosa di
profondamente sbagliato, o come se avesse appena fatto qualcosa di
indescrivibilmente grave.
Sotto gli occhi del suo
equipaggio, occhi che la scrutavano o semplicemente la guardavano
senza vederla realmente, si sentiva nuda.
C'era Beregond, con
un'espressione indecifrabile sul volto giovane e Conn, con i capelli
biondo sporco e i lineamenti duri da Rohirrim.
Infine Laer posò lo
sguardo su Forlond: il mercenario era l'unico che la fissava
direttamente, gli occhi scuri che parevano brillare alla luce del
sole.
Deglutì pesantemente e
si costrinse a parlare, tentando di assumere una voce sicura di sé.
< Sapete meglio di me che
il Capitano non riuscirà a dire di no. >
< No, non ci riuscirà,
che lui sia maledetto! > esclamò Conn.
< Io lo seguirò,
accada quel che accada, voi siete liberi di andare, ma dovrete farlo
prima che lui torni. >
< Andrà su tutte le
furie. >
< Sì, ma gli
passerà, Silevril saprà calmarlo. >
< L'elfo? > Forlond
rise, un suono gutturale che le mise i brividi. < Cosa può
saperne un elfo del Tesoro di Ulmo o di Galmoth? L'ho osservato e
sono certo che quell'elfo è uno sprovveduto con una gran puzza
sotto il naso. >
Laer si irrigidì.
< Galmoth si fida di lui e
anch'io. Sarà anche un petulante pallone gonfiato, Forlond,
non lo nego, ma c'è qualcosa in lui che smuoverebbe le
montagne... credimi, tu non c'eri quando è arrivato. >
< No, ma me l'hanno detto,
che il Capitano sembrava una verginella alla sua prima cotta, tutto
paroloni e moine... >
< Basta così. >
Laer si alzò in piedi,
le mani strette a pugno e le guance infuocate dalla rabbia.
< Non so nulla più
di quanto vi ho detto, ma al suo ritorno il Capitano saprà il
dove e il perchè. Andate via ora se non volete avere nulla a
che fare con il Principe di Dol Amroth e il Tesoro di Ulmo. >
Nessuno si mosse.
< Dove dovrei andare? >
Beregond scrollò le spalle, < non ho altra casa che questa,
altra famiglia che voi. >
< Ed io, > soggiunse
Conn, < ormai sono abituato a questa cucina. Inoltre, mia signora,
non riuscirei mai a privarmi della tua dolce presenza. >
Laer sorrise al Rohirrim,
grata dei suoi modi galanti. Aveva davvero bisogno di queste
frivolezze in quel momento.
Prese un respiro profondo,
per poi voltarsi verso Forlond.
< Allora? Sei arrivato da
poco dopo una lunga assenza, rimarrai? >
L'uomo si alzò e le
andò vicino, sovrastandola con la sua altezza.
< Finchè sarò
pagato, io sono l'uomo di Galmoth. >
Silevril sentì una
cieca furia montare dentro do sé, quasi un fuoco che gli
bruciava nelle vene. Quell'uomo era un essere viscido e infido, un
manipolatore e un assassino della peggior specie... come potevano lui
e Galmoth essere amici? Avrebbe voluto ucciderlo con le sue mani.
< Ti disgusto, elfo? >
Baran era divertito.
< Più di quanto
possa esprimere a parole. >
Baran rise, una risata gelida
che sapeva di disprezzo.
< Conosco quelli come te,
quelli della tua razza. Credete di essere puri e saggi, credete che
chiunque sia al di sotto del vostro livello, ma sapete cosa vi dico?
Vi macchiate le mani di sangue come chiunque altro. Sei stato
concepito nel sangue, elfo, riesco a vederlo chiaramente come vedo
che hai i capelli neri. >
Silevril rabbrividì,
ma non lasciò che quello stato d'animo trasparisse da lui. Si
accigliò, perchè Baran pareva scrutargli dentro e
conoscere le sue più segrete paure.
< Non mi interessa cosa
pensi del mio timoniere, Baran. > La voce di Galmoth era pacata,
leggermente roca. L'uomo sembrava invecchiato di molti anni, stanco,
ma attento.
< Come trovo il Tesoro? E
cosa ci guadagno? Questa è la domanda che ti pongo. >
< Il gioiello si trova a
Gondor, nascosto. Potrai arrivare alla Città via fiume fino
alla Piana del Pelennor, una volta lì dovrai entrare a piedi.
>
< Come? >
< Chiunque può
entrare a Minas Tirith in tempo di pace, inoltre > gettò
un'occhiata a Silevril, < hai con te un elfo e questo potrebbe
rivelarsi utile. Il Capitano delle Guardie della Cittadella è
Finrod Felagund, uno degli Alti Elfi dell'Ovest, è pericoloso
e scaltro e non dovrà sapere assolutamente nulla di ciò
che accadrà. >
Galmoth annuì e
Silevril represse a stento uno sbuffo. Quella faccenda non gli
piaceva affatto e l'ultima cosa che voleva era favorire un colpo di
stato sotto gli occhi del grande Finrod Felagund. Sentiva come una
voce nella sua testa che continuava a ripetergli quanto quello fosse
sbagliato.
< Và a Minas
Tirith, > continuò il Falco Bianco < e aspetta, un mio
uomo che conosce la tua faccia ti contatterà. Di lui puoi
fidarti, è lui che custodisce il Tesoro di Ulmo e lui te lo
consegnerà, allora non dovrai fare altro che riportarlo da me.
>
< Non hai risposto alla
mia seconda domanda. >
Baran si sporse in avanti,
gli occhi chiarissimi fissi in quelli scuri di Galmoth. Silevril si
ritrovò a trattenere il respiro senza nemmeno accorgersene.
< Io e te, amico mio,
riporteremo il Tesoro di Ulmo al Principe e in cambio avremo di nuovo
il nostro titolo e le nostre navi, nonché la grazia per il
tradimento di cui ci siamo macchiati. Cosa te ne pare? >
Galmoth rimase qualche
istante in silenzio, infine iniziò a ridere, dapprima piano,
poi sempre più forte, finchè la sua risata diventò
fragorosa.
< Oh, Baran, sei sempre
stato il più furbo, ma questa volta hai superato ogni mia
aspettativa. Amico mio, riavrai le tue navi ed io le mie. >
Strinse la mano dell'uomo
vestito di bianco e uscì.
Silevril si affrettò a
seguirlo, calandosi il cappuccio sulla testa.
Camminava al suo fianco per
la strada affollata, stringendosi nel mantello per proteggersi
dall'aria fredda e dalla sensazione di gelo che lo attanagliava.
Non voleva rovesciare il
Governo di Gondor, non voleva favorire i piani ancora non troppo
chiari di Baran, eppure voleva con tutto il cuore aiutare Galmoth...
ma in fondo, lo sapeva cosa voleva davvero? Si sentiva svuotato e
fragile, frastornato da tutta quella vita che non aveva mai
conosciuto, dai complotti politici di un Re a cui non doveva alcuna
fedeltà, dalla volubilità degli Uomini, dai sentimenti
constrastanti che lo facevano dubitare di se stesso.
Tutto ciò che aveva
chiesto era poter andare per mare, sentire la brezza tra i capelli e
il sapore salmastro sulle labbra, essere libero dal giogo di
Alatariel e vivere la sua vita prima che il richiamo dell'Ovest lo
costringesse a lasciarsi tutto alle spalle.
Aveva amato la Stella
Marina sin dal primo istante, nonostante fosse poco più
che una barca per pescatori con un solo albero, nonostante la sua
vela sporca e il fatto che fosse una nave di contrabbanderi...
l'aveva amata e amava il suo equipaggio, la risata burbera del
capitano, Beregond e i suoi libri sulle erbe, Conn che conosceva
l'elfico, persino Forlond e la sua aria truce...e Laer, bisbetica,
permalosa e adorabile.
Si strinse ancora di più
nel mantello.
< Cosa stai pensando,
Silevril? >
La voce di Galmoth era
talmente bassa che solo lui avrebbe potuto udirla.
< Pensavo a noi e alle
scelte che mi hanno condotto qui, pensavo al fatto che non mi fido di
Baran. >
< Ah. > Galmoth
sospirò. < Non devi preoccuparti di questo. Baran è
sempre stato un personaggio eccentrico, a cui piace apparire
inquietante e misterioso, ma è un uomo d'onore ed è un
mio amico. >
< Beleg fu ucciso dal suo
migliore amico Tùrin per un errore, mio padre vide con i suoi
occhi un elfo di nome Mornon uccidere suo fratello. Non fare questo
errore, Galmoth, non fidarti di Baran solo perchè si proclama
tuo amico. >
Erano arrivati al Porto e si
riusciva già a vedere la Stella ormeggiata un po' in disparte.
Galmoth aumentò il passo per raggiungerla più
velocemente, ma Silevril non lo fece e rimase indietro, avvicinandosi
più lentamente.
Poteva tornare a casa quando
voleva, sarebbe bastato dirlo. A Umbar poteva comprare un cavallo o,
se non fosse stato in grado di pagarlo, sarebbe comunque potuto
tornare a piedi. Immaginò casa sua, piccola e accogliente, con
il grande pino che si ergeva lì davanti e il mare sotto lo
strapiombo, con la Giuramento ormeggiata nella baia. Suo padre
l'avrebbe portata fuori per andare a pesca e avrebbero cantato
insieme, mentre sua madre probabilmente avrebbe pianto
Sarebbe potuto essere
Silevril lì, ancora un po', in pace, prima di andare all'Ovest
e nessun intrigo l'avrebbe mai fatto dubitare di se stesso.
Silevril oltrepassò la
banchina, arrivando alla Stella Marina quando Galmoth era
ormai sotto coperta.
Laer era seduta sul cassero e
non appena lo vide lo salutò con la mano, sorridendo.
Ricambiò il suo saluto
e gli parve che quello fosse il momento in cui la sua vita veniva
decisa, come all'interno di una vecchia storia dei Tempi Remoti, in
cui si trovava al bivio tra l'andare avanti e il tornare indietro.
< Ehi, Silevril! >
gridò Laer < Conn ha cucinato uno sformato di verdure
fresche, se non ti sbrighi a salire mangerò anche il tuo
piatto! >
Con un sorriso, Silevril salì
a bordo.
Oddio
santissimo, ce l'ho fatta! Questa seconda parte è stato un
parto tra il fatto che non avevo mai tempo per scriverla e il fatto
che non sapevo come scriverla!
Comunque,
credo che riuscirò ad aggiornare più spesso ora dato
che la sessione d'esami è finita, non vi prometto un capitolo
a settimana perchè non so se riuscirei a tener fede, ma almeno
un capitolo ogni quindici giorni dovrei farcela.
Ok,
allora, detto questo buona giornata e lasciate una recensione!
Capitolo 8 *** We can roll ourselves over when we’re uncomfortable ***
We
can roll ourselves over when we’re uncomfortable
Laer chiuse il suo diario e uscì sul ponte, strizzando
appena gli occhi a causa della luce abbagliante del sole mattutino.
La Stella Marina avanzava lentamente, lasciandosi
trasportare dal vento che non riusciva a contrastare del tutto la
corrente impetuosa dell'Anduin. Alcuni gabbiani seguivano la nave,
gridando e a volte scendendo in picchiata accanto alla prua, tornando
poi a librarsi in aria con la loro preda nel becco.
Erano ormai due giorni che risalivano il fiume ma Minas Tirith
sembrava ancora lontana miglia e miglia, tanto si muovevano con
lentezza.
Laer sospirò, chiedendosi quanto ancora sarebbe riuscita a
sopportare la vista delle due rive spoglie. Si scosse leggermente e
si avviò verso il cassero dove Silevril se ne stava, simile a
una statua antica, con le mani sul timone e lo sguardo perso nel
vuoto. L'elfo la vide avvicinarsi ma non si mosse, limitandosi a
sorridere di sottecchi, atteggiamento che a Laer faceva venire una
gra voglia di schiaffeggiarlo; sembrava sempre sapere qualcosa che
lei ignorava e in più i suoi occhi si animavano
incredibilmente, rendendo il contrasto con i lineamenti impassibili e
affilati ancora più inquietante... eppure non poteva fare a
meno di trovarlo bello, misterioso e affascinante.
Si accigliò, irritata da quei pensieri infantili e ben
consapevole che Silevril era riuscito a leggerglieli tutti in faccia
come se lei li avesse scritti a chiare lettere in un libro.
< Oggi la corrente è particolarmente forte, > disse
cercando di assumere un tono naturale e di riprendere il pieno
controllo del suo corpo.
< Già, > Silevril la guardò < ma il vento
sembra essere aumentato ed è una buona cosa. Potremmo arrivare
alla Città domani, o al massimo dopodomani, se continua così.
>
< Vorrei avere un veliero, come quello che portò Re
Elessar alla Battaglia del Pelennor. >
Non sapeva perchè avesse detto una cosa del genere e se ne
vergognò. Non era una bambina ma la sola presenza dell'elfo la
faceva sentire piccola e insignificante. Troppe sciocchezze uscivano
dalla sua bocca.
< La nave di mio padre è simile a questa, > le
rispose Silevril, < e non vorrei mai qualcosa di diverso. I grandi
velieri sono utili per andare in battaglia, ma sono piccole navi come
questa che permettono di passare inosservati ed è proprio ciò
che noi dobbiamo fare. >
Laer annuì, rimanendo in silenzio.
Guardò per qualche minuto Beregond seduto a prua, intento,
come sempre, a leggere qualche grosso tomo.
Forlond se ne stava poco distante, in piedi a fumare.
< Avevo pensato di andarmene > disse improvvisamente
Silevril, interrompendo il silenzio. < Mi ero detto che tutto
questo non mi riguardava, che non volevo immischiarmi in situazioni
che comprendono un colpo di stato e un finto furto. >
Laer alzò la testa per poterlo guardare in faccia.
Sembrava pensieroso, anche se era sempre difficile dirlo con
certezza quando si trattava di interpretare le emozioni sul viso di
Silevril.
< Ma hai cambiato idea, > asserì.
< Sì. Ho cambiato idea. > Silevril si voltò e
un ghigno apparve sul suo volto fino a quel momento serio. < Non
mi vedi per caso? >
Laer sbuffò, infastidita.
< Ti ricordo che sono il tuo superiore su questa nave, stupido
elfo indisponente! Non ti è permesso prendermi in giro. >
Silevril rise a quelle parole, allegro.
< Scusa, mia signora, > disse, < non ti mancherò
mai più di rispetto. >
Lei gli diede un pugno sula spalla, offesa, e scese dal cassero,
buttandosi dietro la schiena la lunga treccia con un gesto stizzito.
Odiava quel suo modo di fare, il disprezzo per le regole e
l'autorità, il suo essere continuamente beffardo anche quando
lei tentava di avere una conversazione seria con lui.
Non riusciva veramente a capire se il suo fosse uno scherzo o se
davvero la considerava solo una bambina da burlare... in fondo,
quanti anni aveva lui? Non glie l'aveva chiesto, ma per quanto
giovane potesse essere rispetto a quelli della sua razza, sarebbe
sempre stato troppo vecchio per lei.
Silevril la guardò andare via innervosita e ridacchiò
tra sé: non aveva intenzione di offenderla, anzi, trovava
estremamente divertente parlare con lei, si sentiva a proprio agio
come mai gli era capitato con nessun altro. Laer era schietta,
semplice, vera e adorava il modo che aveva di mettere il broncio per
un nonnulla.
Anche se lo preoccupava che gli facesse così tante domande
senza rendersi conto che invece alcune di queste lo mettevano a
disagio... non voleva dirlo che era rimasto perchè l'aveva
vista là sul ponte della Stella, perchè lo aveva
chiamato assolutamente certa che lui sarebbe risalito a bordo.
No, davvero, non voleva proprio dirglielo perchè si era
accorto del modo in cui lei lo guardava, di come la sua presenza la
mettesse in agitazione ma di come cercasse comunque la sua compagnia.
Non avrebbe mai permesso a se stesso di darle una falsa speranza,
un'illusione di qualcosa che non poteva e non doveva assolutamente
essere, perchè Laer era solo una fanciulla di ventiquattro
anni e non doveva pensare a lui come ad altro che un amico.
Silevril non voleva l'amore e non voleva che altri si
innamorassero di lui, perchè se c'era una cosa che aveva
imparato è che l'amore è sofferenza.
Non avrebbe permesso a Laer di fare questo a se stessa, non a lei
che aveva imparato a considerare la sua più cara amica.
Serrò le labbra, scacciando quei pensieri dalla testa: non
era da lui farsi tante domande e non era da lui non trovare le
risposte
Probabilmente era solo uno stupido che si era sopravvalutato per
tutta la sua vita.
Laer scese sotto coperta e trovò Galmoth esattamente dove
pensava che fosse: il Capitano era seduto al tavolo e fissava una
cartina di Minas Tirith come se lì ci fosse scritto il più
grande mistero della Terra di mezzo.
Si sedette di fronte a lui e l'uomo alzò lo sguardo,
riservandole quel sorriso che lei aveva sempre amato.
< Sei turbata,Galmoth? > gli chiese.
< Ci sono cose che avrei dovuto dirti prima e che ho paura di
dirti. >
Allungò una mano a toccare il braccio della ragazza.
< Il vero motivo per cui mi accusarono di tradimento e... il
mio rapporto con Baran. >
Laer trattenne quasi il respiro, una spiacevole sensazione di
disagio le attanagliava le viscere.
< Silevril non si fida di lui e io nemmeno, ma non hai voluto
portarmi con voi e ora fai ciò che lu ti ha chiesto. Non
capisco. >
Galmoth le prese la mano, stringendola tra le sue... mani enormi
che l'avevano sempre fatta sentire protetta.
C'era un'espressione strana sul volto dell'uomo, un'espressione
che la spaventò.
< Baran è sempre stato il mio migliore amico ed io
credevo che fosse morto. Ho sacrificato tutto per lui, mia cara, il
mio onore, la mia famiglia, la mia flotta... tentò di uccidere
Alphros di Dol Amroth, ma io lo fermai facendolo fuggire. Fui
accusato per quel crimine, come sai, e persi tutto. In seguito seppi
che il mio amico, Baran, era morto...ma ora lui torna e mi parla del
Tesoro di Ulmo. >
Galmoth la guardò negli occhi, un fuoco latente che covava
nel suo sguardo. Laer si sentì tremare d'impazienza.
< Come posso dirgli di no? Questo è ciò che ho
sempre desiderato e forse...forse se riportassi il Tesoro di Ulmo al
Principe potrei riavere indietro il mio buon nome e smetterla con
questa vita. >
La ragazza si scostò bruscamente, facendo scivolare via la
mano da quella di lui. Lo guardò come si guardano i pazzi, con
gli occhi sgranati e la bocca aperta.
Era incredula.
Galmoth le aveva sempre detto che non sarebbe mai tornato da
coloro che l'avevano disprezzato, le aveva detto che l'unica nave che
avrebbe mai voluto comandare nella sua vita era la Stella.
Si sentiva tradita e adirata, piena di risentimento.
< Mi stai davvero dicendo che ti mischierai con traditori
meschini che complottano per rovesciare il Re? Solo per un uomo che
ti aveva fatto credere di essere morto, un uomo per il quale hai
perso tutto, per il quale anch'io ho perso tutto! O te ne sei
dimenticato, Galmoth? Non ti ricordi che anche sulla mia testa pende
una taglia da fuorilegge perchè mi hai portato con te? Cosa
farò io, eh, me lo dici? >
< Laer... >
< No! > si alzò di scatto, rovesciando la sedia. <
Non mi fidavo di Baran e ora non mi posso fidare nemmeno di te! Aveva
ragione Silevril aveva ragione a voler andare via. >
< Allora andatevene! > Galmoth sbottò, alzandosi in
piedi e alzando la voce. Sulla nave cadde il silenzio sulla prima
litigata tra Capitano e Primo Ufficiale che chiunque dell'equipaggio
riuscisse a ricordare.
Con una sferzata della mano destra Laer gettò in terra la
mappa che Galmoth stava esaminando, gli diede le spalle e salì
le scale per uscire sul ponte.
Non era quello che avrebbe voluto sentire.
Silevril le si avvicinò, cercando di farla ragionare, ma
lei lo spinse via con un grido.
Non poteva accettare nulla di tutto quello che Galmoth le aveva
detto. Le sembrava passato un secondo da quando era bambina e Galmoth
era l'Ammiraglio della Flotta del Principe, da quando aveva indossato
quell'armatura scintillante bianca e argentea, con il cigno fiero sul
petto. Si ricordava come l'aveva protetta quando si era ritrovata da
sola, dopo che suo padre era morto e si ricordava anche di come fosse
stato accusato da tutti di aver complottato per uccidere il
principe... ed ora veniva a sapere che era stato solo per proteggere
un essere infido come Baran.
Non riuscì a trattenere le lacrime e scoppiò in
singhiozzi. Cos'avrebbe fatto se Galmoth fosse morto? O se avesse
davvero riportato il Tesoro di Ulmo al suo legittimo proprietario,
rientrando così nelle sue grazie? Lei sarebbe stata comunque
la ragazzina che era fuggita con lui, una donna di malaffare, la
ladra... e sarebbe stata sola.
Nemmeno si rese conto del momento esatto in cui Silevril l'aveva
abbracciata, ma lo strinse, agrappandosi a lui e bagnando le sue
vesti di lacrime. Voleva essere una bambina per un po', non le
importaca più di cosa lui potesse pensare.
Era caldo quell'abbraccio, si disse, rassicurante come non credeva
possibile. Lui sapeva, ovviamente, aveva sentito tutto, non aveva
dubbi in merito, ma stranamente glie ne fu grata.
< Non preoccuparti, Laer, > le sussurrò all'orecchio,
< le tue sono le paure di una figlia e lui è il padre che
non vorresti perderere. >
Erano soli sul ponte. Aveva l'impressione che fossero tutti
fuggiti da lei, per non vederla piangere, come se li avrebbe
scottati.
Silevril, invece, era rimasto e la sua presenza era come un porto
sicuro.
< Mi ha nascosto così tante cose. >
< Reagisci in modo violento alle cose, te l'ha mai detto
nessuno? >
L'elfo si allontanò leggermente e si abbassò un po'
per guardarla in faccia. Aveva un sorriso tenero e gli occhi gli
brillavano.
Era talmente bello che Laer non riusciva a ragionare.
< A volte è difficile rinnegare una vecchia amicizia,
anche se quell'amico si è comportato in modo meschino. Galmoth
non può serbare rancore, per questo- >
Ma non lo lasciò continuare. Si alzò sulle punte dei
piedi e lo baciò, aiutandosi a farsi più vicina
mettendogliuna mano dietro la nuca.
Lo costrinse a dischidere le labbra, a lasciare che le loro lingue
si toccassero. Sentiva il sapore delle lacrime che aveva versato, ma
anche quello di lui.
Se doveva sentirsi per forza così ferita, che almeno ci
fosse qualcosa di positivo in quella faccenda, poi, una volta a Minas
Tirith, sarebbe andata via per la sua strada e avrebbe detto addio a
Galmoth e alle sue bugie... ma si sarebbe portata dietro il ricoro
delle labbra di Silevril e, maledizione, ne sarebbe valsa la pena.
Sono abbastanza
soddisfatta di questo capitolo e alla fine non ce l'ho fatta a non
farli baciare. Ok, diciamo che Laer gli è zompata addosso e
possiamo darle come scusante che era un po' sconvolta perchè
Galmoth è un cazzaro (ma io ti voglio bene lo stesso, Galmy,
anche se sei lo zerbino di Baran).
Insulto libero
per Galmoth nelle recensioni, si prega però di contenere
l'ormone, c'è ancora da vedere come va a finire qui, che io
son sadica mica poco! Lo sapete, no, che il mio cuore è
raggrinzito come quello del Grinch!
Recensite che poi
mi sento sola (anche se lo so che tanto l'unica a seguire sta storia
è Hareth, ma solo perchè io faccio parte dello Zaal fan
club)
P.S. Questa volta
il titolo del capitolo è un verso di Paradice Circus,
dei Massive Attack che io amo troppo per non inserirli un po'
ovunque.
Capitolo 9 *** But in the end it doesn't even matter ***
but in the end it doesnt even matter
But in
the end it doesn't even matter
Minas Tirith si ergeva imponente e candida, adagiata sul
fianco del Mindolluin come se vi fosse placidamente abbracciata. I sette
livelli sembravano continuare fino all’infinito e la Torre di Echtelion,
modellata a immagine della prua di una nave, contribuiva a quel fascino insieme
maestoso e intimo.
Silevril avrebbe potuto rimanere con l’immagine di quella
città negli occhi fino alla fine del mondo, berla come acqua di montagna, ma
Galmoth era impaziente e lo occhieggiava nervoso ogni volta che si fermava
sulla via che attraversava la piana del Pelennor fino al Cancello.
< Maledetto Elfo, > lo sentiva borbottare tra sé,
spazientito. L’uomo era stato a Minas Tirith decine di volte e non riusciva a
capire la meraviglia di chi invece non ne conservava memoria alcuna.
< Non crucciarti, capitano, continua per la tua strada.
>
< Rimarrai indietro! >
< La Città è ben visibile, > Silevril rise, < non
mi perderò di certo. >
Galmoth borbottò e aumentò l’andatura.
Era nervoso e Silevril credeva che avesse addirittura
pianto, ma non pensava fosse una buona idea farglielo presente. Avevano
aspettato che il sole fosse ben alto sull’orizzonte, prima di sbarcare e
attraversare la strada che portava al Cancello dal piccolo, e poco usato, porto
della Città.
Laer era sparita, andata via durante la notte, e Galmoth
voleva essere sicuro che fosse ormai fuori dalla loro portata quando fossero
arrivati davanti alle guardie del Cancello. A nulla erano valse le preghiere di
Silevril, la ragazza si era inferocita anche con lui quando si era detto
convinto delle scelte di Galmoth.
Ripensare a ciò che era successo lo metteva a disagio,
ancora gli sembrava di sentire le labbra di Laer su di sé, il sapore salato
delle sue lacrime ma anche la sensazione morbida del suo corpo minuto che lo
stringeva. Non aveva ricambiato, non ne era stato capace e adesso se ne pentiva
amaramente… aveva la sensazione che l’ira della ragazza ne fosse uscita
accresciuta da quel rifiuto e che l’andare via fosse una fuga anche da lui.
Si sentiva come svuotato, era rimasto per lei, ma ora era
andata via e lui si ritrovava incastrato con Galmoth nei suoi loschi affari…
per cosa? Non era davvero riuscito ad abbandonare il Capitano… si sentiva
confuso.
Aumentò il passo per raggiungere finalmente le porte. Il
grande Cancello di Minas Tirith, in Mithril con rifiniture d’argento, era
aperto e due guardie lo sorvegliavano, una lunga lancia in mano ma
l’espressione distesa.
< Salute a voi, viaggiatori > dissero
nell’accoglierli, < siete liberi di entrare. >
Improvvisamente videro Silevril e i loro occhi si aprirono
di stupore: < Molti anni sono passati da quando uno degli Eldar è venuto a
Minas Tirith, ne siamo lieti. >
Silevil sorrise.
< Siamo davvero pochi, ormai, a Est del Mare ed io non
ero mai venuto a visitare la più splendida delle città degli uomini. Sono nato
qui, però, e ne sono felice. >
< Il nostro Capitano della Guardia è un elfo, > disse
la guardia, < il grande Finrod Felagund che di sicuro conoscerai. >
L’uomo si inchinò leggermente, scostandosi per farli
passare, < Due volte benvenuti, stranieri. >
Silevril entrò, seguito da Galmoth, che gli si avvicinò e lo
prese per un braccio.
< Sei un maledetto ruffiano, elfo, adesso non passeremo
mai inosservati. >
< Oh, andiamo, Capitano, ogni giorno uomini e donne
attraversano quei cancelli, ma un elfo? Non sarei mai potuto entrare non visto,
così almeno sarò benvenuto. >
Scosse la testa, con fare saccente.
< E poi ciò che ho detto è vero, voglio visitare la città
in cui sono nato mentre tramiamo colpi di stato. >
Galmoth lo zittì bruscamente, guardandosi intorno
circospetto, ma nessuno stava ad ascoltare: donne si affrettavano lungo le vie
e tra le botteghe, uomini erano seduti sugli usci chiacchierando allegramente,
bambini giocavano nei cortili… nessuno badava a loro, solo, a volte, qualcuno
guardava sbalordito Silevril, per poi passare oltre.
< Baran ha detto che un suo uomo ci avrebbe contattati
una volta arrivati a Minas > sussurrò Galmoth, senza smettere di guardarsi
intorno.
Era agitato, nervoso, e sudava copiosamente. Sembrava
aspettarsi un colpo improvviso alle spalle.
< Stai calmo, Capitano. > Silevril sbuffò appena, <
Baran segue ogni nostro passo da quando abbiamo lasciato Dol Amroth, lo sento.
Non riusciremo a trovare il suo contatto nemmeno se cercassimo in ogni bettola
della città, nel frattempo ti consiglio di godere della bellezza del luogo.
>
L’elfo aumentò il passo, seguito da Galmoth.
Il marinaio avrebbe davvero voluto essere furioso per la
sfacciataggine e il sangue freddo dell’altro, ma tutto ciò a cui riusciva a
pensare era che lo trovava stranamente rassicurante. Stava sviluppando una
pericolosa forma di amicizia nei suoi confronti e il fatto che si fidasse così
di lui fin dal primo istante era inquietante ai suoi occhi.
Lo seguì mentre camminava spedito per le vie affollate della
capitale di Gondor, incurante di essere alto e splendente nella luce del
mattino, oggetti di sguardi increduli e mormorii. Maledetto lui, maledetto il
suo stupido egocentrismo! Gli aveva detto di tenere il cappuccio, di
nascondersi, di non attirare l’attenzione, ma lui sembrava al contempo ignaro e
vanitoso.
Si fermò improvvisamente e per poco non vi sbattè contro.
< Perché siamo venuti qui? >
< Qui è dove sono nato, Galmoth. >
Lo aveva chiamato per nome, riflettè, ma no gli dava
fastidio. Guardò il portone delle Case di Guarigione e il volto sereno
dell’elfo mentre era perso in ricordi lontani.
< Avevo raccontato a Laer della mia nascita, >
mormorò, come a se stesso, < speravo quasi di trovarla qui.. speravo… >
Improvvisamente si riscosse e lo guardò, un nuovo sorriso
sul suo volto eternamente giovane.
< Nulla. >
Fece per incamminarsi di nuovo, ma Galmoth lo bloccò.
< Grazie > disse.
< Per cosa? >
< Volevi andare con lei, credi ancora che Laer abbia
ragione, che io sia uno stupido a seguire Baran, che lui mi abbia solo usato in
passato e che sia stato crudele a non dire nulla a lei quando decise di venire
con me. >
Silevril tacque, attendendo che l’uomo continuasse.
< Sono egoista, Silevril, anche adesso vorrei che Laer
non avesse mai scoperto nulla, che continuasse a credere che io sia solo stato
vittima di un complotto… >
L’elfo sorrise, riprendendo a camminare, salendo ancora
verso il settimo livello della Città.
< Forse sono un egoista anch’io > disse infine con una
scrollata di spalle, < hai difeso il tuo amico, anche se sapevi che non lo
meritava. Io avrei fatto lo stesso.E
sono rimasto perché amo la Stella Marina
e non voglio lasciarla, anche se questo comporta aiutare un assassino a
manovrare un colpo di stato. >
Oltrepassarono l’ultima porta e furono nella grande piazza,
al cui centro l’Albero Bianco era in fiore.
Due guardie erano in piedi ai due lati, mentre alcuni
cittadini si fermavano a guardare prima di continuare i loro affari.
Silevril si diresse verso le mura e si appoggiò al
parapetto: la Piana del Pelennor si stendeva tutta davanti a lui e in
lontananza sul Fiume, alcune piccole imbarcazioni fluviali se ne stavano
placidamente alla fonda.
Silevril aguzzò lo sguardo, cercando di distinguerela Stella,
ma era difficile anche per lui esserne sicuro da quella distanza.
Galmoth gli si accostò, guardando anche lui verso il fiume
lontano, ma i suoi occhi non riuscivano a scorgere altro che figure indistinte
sull’acqua.
Poco distante da loro, una delle guardie della cittadella,
con l’elmo d’argento in testa e un mantello bianco agitato dal vento, sembrava
persa nella contemplazione del paesaggio.
Galmoth la guardò per un po’, poi si volse verso l’elfo al
suo fianco.
< L’ho capito subito, non appena ti ho visto: sei davvero
strano. Pensavo che quelli della tua razza fossero tutti dediti alla giustizia,
impegnati al massimo per essere il più eterei possibile, ma tu hai una
concezione di bene e male del tutto personale. >
< Non posso dirti molto degli altri “della mia razza”, ma
ciò che so su coloro che mi hanno dato la vita propende più sul fare ciò che si
ritiene giusto in quel momento, anche se forse non lo è. >
Galmoth rise, dandogli una pacca sulla spalla.
< Ascolta, Silevril, > disse < c’è una locanda al
primo livello, una di quelle bettole che invoglia solo marinai e vagabondi,
vado a vedere se hanno un posto per noi e attenderemo insieme, egoisticamente.
>
Galmoth lo lasciò solo e lui si chinò leggermente in avanti,
appoggiando le braccia conserte al piano di pietra chiara.
Ripensò a come era cambiata la sua vita in così poche
settimane, a come era fuggito da qualcosa per poi ritrovarla dentro di sé e
accettarla completamente. Gli sembrò di poter finalmente capire sua madre, ma
più di ogni altra cosa capiva perché suo padre aveva sempre atteso: non
gl’importava che Laer fosse lontana o vicina, sentiva che quella ragazza gli
era entrata dentro senza possibilità di tornare indietro.
Avrebbe davvero dovuto ricambiare quel bacio, si disse, e
infischiarsene di qualsiasi remora morale sulla loro diversa natura e altro. Se
ne stava pentendo amaramente e, quando chiudeva gli occhi, la sua fantasia
volava, costruendo immagini allettanti di come sarebbe potuta finire làsul ponte della Stella se lui si fosse lasciato andare.
Con un sospiro si rimise dritto e fece per andarsene, ma per
poco non andò a sbattere contro la Guardia che prima guardava la Piana.
Si era avvicinata silenziosamente e ora lo guardava da sotto
l’alto elmo coronato d’ali bianche, i lunghi capelli agitati dal vento e il
volto sporco di barba appena accennata e gli occhi penetranti di una luce
antica.
< Non ho potuto fare a meno di udire il tuo amico chiamarti
Silevril, > disse la guardia con uno sguardo stranissimo che a Silevril mise
tristezza, < e ho dovuto conoscerti. Sono Finrod Felagund, figlio di
Finarfin. >
La bocca di Silevril si aprì in un sorriso sghembo che
sembrò deformargli i lineamenti in qualcosa di infantile.
< Lo so. >
Non ci speravate più, vero? E invece rispunto quando meno ve
l’ spettate, giusto in tempo per rovinarvi il Natale! No, dai, la verità è
che ho avuto che fare con l’incubo di qualsiasi persona si diletti in questo
passatempo lavoro, ovvero il temibile BLOCCO DELLO SCRITTORE e non c’era davvero
verso per fortuna Tolkien è venuto in mio soccorso e tra la rilettura annuale
del la Trilogia e la visione de Lo Hobbit (l’avete visto vero? Non è un
capolavoro? Sì, sì, lo è!) sono riuscita a uscirne e qu eccomi qui! Buon Natale
a voi tutti che mi leggete (v ho visto, voi, piccoli numeretti nella mia pagina
di gestione storie) e soprattutto a quelle gran donne di Morwen_Eledhwen,
Elfa e Hareth che mi recensiscono anche, per tutte voi anche una foto di Silevril nudo
che si copre le pudenda con un cappellino da Babbo Natale, fatene buon uso!
* Il titolo del
capitolo è un verso di In The End dei Linkin Park
Capitolo 10 *** Love is clockworks, and it’s cold steel ***
Ad
Hareth, che mi ha praticamente stolkerato per farmi riprendere questa
storia, ma che ha creato la saga di Alagos e quindi come faccio a non
perdonarla?
Love
is clockworks, and it’s cold steel
Laer
si era svegliata all'alba, mentre tutti ancora dormivano, e si era
avviata a passo svelto verso Minas Tirith. Ci aveva messo più
di quanto avesse ipotizzato per arrivare ai cancelli della Città
e il sole iniziava a farsi caldo, costringendola a boccheggiare
leggermente. Si sentiva stanca, nonostante tutto, e le dolevano i
piedi come se avesse camminato per miglia e miglia. Gli occhi le
bruciavano e se li sentiva gonfi, come sul punto di esplodere. Era
furiosa con se stessa perché aveva pianto fino ad
addormentarsi, perché si era comportata come una bambina
stupida, perché stava scappando da Galmoth anche se non
avrebbe voluto, perchè la sensazione di tradimento era
talmente forte da farle male al petto. A questo si sommava la
vergogna per ciò che era accaduto con Silevril, quel bacio che
non era riuscita a trattenersi dal dargli a al quale l'elfo non aveva
risposto, rimanendo lì fermo come un pezzo di legno.
Si
diede mentalmente della stupida per aver pensato, anche solo per un
attimo, che uno come Silevril avrebbe mai potuto provare qualcosa per
lei e la fastidiosa sensazione di essere una ragazzina immatura si
acuì.
Ora
si trovava per le strade tortuose e bianche di Minas Tirith senza la
più pallida idea di cosa fare o dove andare, dato che era
stata nella capitale di Gondor solo un'altra volta in precedenza e in
compagnia di Galmoth, senza comunque fermarsi lì che poche
ore.
Mangiare
qualcosa, si disse, sì, butta giù un boccone e cerca un
passaggio. Già, ma per dove? Dol Amroth era stata la sua
patria, quando suo padre era vivo e lei era una bambina che giocava
ad essere la principessa degli elfi. Ricordava casa sua, piccola e
accogliente, in una delle vie acciottolate che conducevano al porto,
non troppo distante dal Palazzo perchè suo padre si occupava
delle stalle e dei cavalli del Principe. Ma poi suo padre era morto e
lei era andata ad abitare nella grande casa di Galmoth, quell'amico
che era diventato un grande Capitano e poi Ammiraglio, che le aveva
insegnato ogni cosa, che l'aveva portata con sé sul ponte di
quella imponente nave dalle vele bianche dove lei aveva giurato
eterno amore al mare. Era sembrato così ovvio, così
naturale, fuggire con lui, che era così nobile e ingiustamente
accusato.
Si
asciugò rabbiosamente una lacrima dalla guancia.
Galmoth
le aveva mentito, Galmoth aveva difeso un essere spregevole e le sue
malefatte, Galmoth aveva meritato la condanna e l'aveva trascinata
nel baratro assieme a lui, l'aveva fatta diventare una reietta e una
ladra.
Non
sarebbe mai più potuta tornare a Dol Amroth e rivedere le
strade acciottolate della sua casa d'infanzia, non da donna libera.
Si
sentiva sola al mondo e senza futuro, non sapeva dove andare e non
riusciva a trovare nemmeno l'ombra di una taverna in cui mangiare
qualcosa.
Svoltò
l'angolo e si ritrovò in una piccola piazza di mattoni
bianchi. Su di un lato vi erano alcune bancarelle che vendevano
tessuti colorati e molte donne vi si affollavano, chiacchierando
allegramente, al centro stava una piccola fontana tonda, e l'acqua vi
zampillava da una statua a forma di drago posta nel mezzo.
Laer
si sedette sul bordo e si limitò a fissare la vita che
scorreva sotto i suoi occhi: donne e uomini intenti alle loro
occupazioni quotidiane, bambini che giocavano, alcune guardie di
ritorno da qualche turno di guardia che si dirigevano verso le loro
case.
Le
sembrava di vedere Galmoth in ogni angolo, in ogni volto che
incrociava. Era scappata via da lui, voleva essere certa che non si
sarebbero incontrati e voleva andare via da Minas Tirith il più
velocemente possibile perché sapeva che lui era diretto
proprio in città. Aveva il terrore di incrociarlo per caso.
E
improvvisamente pensò a Silevril, quello stupido elfo che
l'aveva fatta sentire una sciocca, che la guardava ogni volta con
quell'aria di quieta supponenza ma che sapeva esattamente cosa dire
in ogni momento.
Forse,
se fosse stata meno impulsiva e meno accecata dalla sua stessa
attrazione fisica, avrebbe potuto avere in lui, se non un alleato,
almeno un confidente.
Silevril
dava l'impressione di riuscire a far ragionare chiunque, di portare
solo ragionevolezza. Chissà, forse sarebbe riuscito a trovare
una soluzione, tra lei e Galmoth.
Invece
gli era praticamente saltata addosso. Il ricordo la faceva ancora
tremare di vergogna e, con suo grande disappunto, di desiderio.
Scosse
la testa. Doveva scacciare questi pensieri, doveva smettere di
ricordare Silevril e i suoi incredibili occhi azzurri, ancora più
chiari sotto i capelli corvini e i lineamenti come scolpiti nella
pietra...
Si
alzò di scatto, facendo volare via spaventati alcuni piccioni.
Seguì le guardie lungo una strada che aveva l'aria di essere
una via importante, arrancando dietro di loro, scendendo sempre di
più verso l'anello più esterno, finché non le
vide infilarsi in un piccolo locale seminascosto, in una traversa
laterale.
Laer
entrò e rimase un momento come imbambolata sulla porta. Era in
una piccola osteria accogliente, con una quindicina di tavoli di
legno decorati con tovaglie colorate e un bancone con alti sgabelli.
Due cameriere, giovani e graziose, facevano su e giù portando
vassoi carichi di cibo e boccali, sorridendo ai clienti e rispondendo
ai loro saluti. C'era un'atmosfera familiare e gioiosa, molto diversa
da quella delle bettole in cui era solita frequentare nei porti di
Umbar o Dol Amroth, piene di sporcizia e uomini ubriachi.
Si
avvicinò cautamente al bancone e una donna dalla pelle chiara
e i capelli nerissimi raccolti in una crocchia le sorrise.
<
Ciao, tesoro, cosa ti porto? > le chiese con una vocina acuta e
squillante.
<
Ehm... > Laer si guardò intorno, arrampicandosi sull'alto
sgabello e lanciando occhiate intorno. < Voglio quella, > disse
indicando una zuppa densa e profumata al tavolo dietro di lei, < e
un bicchiere di vino. >
La
donna le fece l'occhiolino e si mise le mani sui grossi fianchi.
<
Non sei un po' giovane per il vino, cara? >
<
Forse, > rispose sorridendo a sua volta, < ma lo berrò
ugualmente. >
La
locandiera scrollò le spalle e si allontanò, per
tornare poco dopo con una coppa di vino rosso che posò di
fronte alla ragazza.
<
Non sei di Minas Tirith, vero? > domandò. < Hai un
accento del sud molto marcato, ragazza mia, > aggiunse in risposta
all'occhiata interrogativa di Laer.
<
Sto cercando un passaggio, sapete dove posso trovarne uno? >
<
Un passaggio per dove? >
<
Non è importante > Laer aggitò una mano
distrattamente, < un posto qualsiasi andrà bene. >
La
donna posò i bicchieri che stava asciugando e lo straccio,
avvicinandosi un po' di più a lei con piglio deciso. A Laer
piaceva l'espressione che aveva assunto, ma se ne sentiva anche un
po' spaventata senza sapere bene perché.
<
Ascolta, sei solo una ragazzina e mi ricordi tanto mia figlia, perciò
ti darò un consiglio spassionato: hai l'aria di una che sta
scappando, non negarlo lo vedo che è così, non sono
nata ieri sai? >
Laer
sbuffò.
<
La locandiera che dà consigli di vita è un luogo comune
> disse < e nemmeno dei miei preferiti. >
Quella
alzò le mani, senza smettere di sorridere.
<
Come vuoi, bambina, io volevo solo dirti che scappare non serve a
niente di niente, che l'unica via è andare dal bellinbusto che
ti ha spezzato il cuore e fargli rimpiangere di essere nato. >
Laer
la guardò sbattendo le palpebre qualche secondo, prima di
realizzare di cosa stessero parlando, infine scoppiò a ridere.
<
No, no, non si tratta di questo... per i Valar, non ho il cuore
spezzato... >
<
Mmmm... >
<
Non per amore, almeno. >
Laer
tornò seria e si mise in bocca la prima cucchiaiata della
zuppa che, nel frattempo, la locandiera le aveva messo di fronte;
sapeva di funghi, patate e rosmarino, un sapore malinconico e
meraviglioso. Deglutì e bevve un po' di vino.
<
L'uomo che ha infranto i miei sogni era molto più che il mio
innamorato. >
Finrod
Felagund aveva creduto che tutte le sue ansie, i suoi rimpianti e le
sue paure appartenessero ormai al passato, aveva creduto di essere
come rinato, che il suo spirito fosse di nuovo sano.
Ma
stava fissando il fantasma di un qualcosa che aveva sperato di poter
seppellire per sempre e gli sembrava ingiusto... ingiusto e crudele.
Silevril.
Sorrideva
alzando solo un lato della bocca, ma non appariva sardonico, quanto
piuttosto infantile, di un'innocanza disarmante e affascinante. I
capelli gli ricadevano sulle spalle scompigliati e lui sembrava
sapere esattamente quale fosse l'effetto che facevano, una
consapevolezza evidente e sfacciata che Finrod non aveva mai visto né
in Alatariel, né in Aeglos.
Eppure
Silevril era come la copia vivente di entrambi, con quegli occhi
chiarissimi e azzurri ereditati da suo padre, ma freddi e distanti
sotto i capelli corvini e i lineamenti affilati.
Avrebbe
seriamente potuto perdersi in lirismi... ah, Finarfin avrebbe riso
nel sentirlo parlare così.
Ma
non riusciva davvero a evitare di studiare quel volto tremendamente
familiare, anche se sconosciuto, e di averne paura, perché
quello che stava accadendo era che avrebbe voluto abbracciarlo per
l'eternità.
Era
facile innamorarsi di Silevril, pensò, come d'altronde lo era
innamorarsi di Alatariel.
<
Sai, > disse infine, < io ti ho visto nascere. >
<
Mia madre me lo ha detto. >
Silevril
si inchinò leggermente.
<
Desideravo molto conoscerti, Finrod Felagund, ho amato le storie che
narravano delle tue gesta e sapere che tu eri presente alla mia
nascita, che grazie a te sono sopravvissuto, mi fa sentire onorato. >
Parlava
lentamente, come se improvvisamente si sentisse incerto.
<
Tua madre... ah, Silevril, ho pregato con tutto me stesso di non
rivederla mai più, ma poi tu arrivi e parli di onore, delle
mie gesta ed io non so come reagire. >
Improvvisamente
lo abbracciò. Era stato improvviso e inaspettato, ma quando lo
fece seppe di non aver aspettato altro fin da quando aveva sentito il
nome Silevril: voleva abbracciarlo, come un tempo aveva abbracciato
Alatariel.
Quando
infine si allontanò, il giovane elfo che aveva di fronte gli
apparve diverso, più reale, più simile a quel piccolo
fagotto che non aveva mai tenuto tra le braccia, un bambino
aggrappato a sua madre e che era per lei unico appiglio. Ma rimaneva
comunque irraggiungibile, ed era questa la sua maledizione:
desiderava amare Silevril ma non ci sarebbe mai riuscito.
Lui
lo stava fissando in silenzio, soppesando, forse studiando le sue
espressioni. Vi era tenacia in quello sguardo e per la prima volta vi
scorse l'immagine di Aeglos chiara e nitida, come se fosse proprio lì
al posto del figlio.
C'era
sempre quel vago sorriso sulle labbra dell'elfo.
Finrod
sospirò. Tutto era troppo spaventoso, maledettamente
affascinante e incredibilmente doloroso, ma qualcosa lo spingeva
verso Silevril.
Mamma
mia, è passato più di un anno da quando ho pubblicato
l'ultimo capitolo di questa storia, spero davvero che non mi abbiate
abbandonato tutti (me lo meriterei, effettivamente). Comunque, sono
di ritorno, perché Silvril non è mai uscito dai miei
pensieri e perchè non potevo lasciare incompiuta la prima
storia interamente su di lui, quindi eccomi qua con questo nuovo
capitolo, un po' cortino vero, ma devo riprendere la mano e trovare
il tempo tra i vari impegni che la VitaVera mi impone.
A
questo punto, dopo tutto questo tempo, le vicende probabilmente
prenderanno una piega diversa da quella che avevo immaginato
all'inizio, non saprei dirlo con sicurezza, la scaletta è
ancora in fase di revisione ed è piena di cancellature, in
ogni caso vedremo. Grazie a tutti voi che siete rimasti fedeli.
P.S.
il titolo del capitolo è un verso di Love is
Blindness degli U2 (ma
ultimamente sono in fissa con la cover di Jack White che è
altrettanto splendida).
Capitolo 11 *** I sit and watch as tears go by ***
I
sit and watch as
tears go by
Non
si ricordava di quanto potesse essere intensamente meravigliosa Minas
Tirith al tramonto, quando le sue case e le sue mura candide si
tingevano di rosso, come se l'intera città andasse a fuoco, e
le persone diventavano improvvisamente frenetiche, correndo di qua e
di là, cercando di sbrigare i loro affari prima che fosse
buio. In quei momenti la capitale di Gondor sapeva essere magica,
quasi che il retaggio della sua discendenza elfica la trasformasse in
qualcosa che normalmente non era.
Galmoth
si ritrovava ad amare quella città non sua, a desiderare di
potersi fermare lì, di avere una piccola casa in uno degli
anelli più esterni, confortevole e non troppo grande, con un
caminetto in pietra e una finestra che dava sulla strada, una moglie
amorevole ai fornelli che inondava le stanze con i profumi della
cena... e Laer. Non riusciva a immaginare la sua vita senza di lei,
senza la sua lunga treccia castana e le sue lentiggini, senza la sua
voce squillante da bambina che rispondeva stizzita a qualche
provocazione o che lo rimproverava. Sentiva un vuoto dentro di sé
e aveva paura di poterci precipitare dentro e perdersi.
Sentire
la sua voce, osservarla senza essere visto, era troppo dolce per non
approfittarne, rimanendo nell'angolo più isolato di quella
piccola osteria, mentre la ragazza stava seduta al bancone e rideva
con la proprietaria, come se non ci fosse alcun problema.
Chi
era lui per pretendere che Laer fosse triste? L'aveva tradita, le
aveva mentito, non poteva avere il suo dispiacere, non se lo
meritava.
Persino
quella piccola gioia, spiare da lontano, era un piacere per cui si
sentiva in colpa, ma non glie ne importava nulla. In quel momento
voleva solo riempirsi gli occhi con l'immagine di lei per un'ultima
volta.
L'indomani
sarebbe andato in cerca degli emissari di Baran, si sarebbe preparato
a macchiare definitivamente il proprio onore per riprendersi la sua
vecchia vita, ma ora importava solo la ragazza che era tutto il suo
mondo.
<
Quindi, > disse Finrod osservandolo intensamente da sopra il
bicchiere, < cosa ti ha portato a Minas Tirith? >
Silevril
bevve un sorso di vino. Si sentiva trafitto dallo sguardo dell'elfo
che gli stava di fronte, dalla potenza del suo spirito millenario.
<
Volevo vedere le Case di Guarigione, > mentì, < il luogo
in cui sono nato. >
Felagund
posò il bicchiere lentamente, con una strana espressione negli
occhi, come se sapesse che qualcosa non andava, ma questo pensiero
non gli si era ancora affacciato in maniera chiara alla mente.
<
Vuoi dire che intendi vederle prima di lasciare la Terra di Mezzo, >
disse infine.
<
Volevo attraversare il Mare, sì, ma ora non ne sono più
sicuro. >
Finrod
alzò un sopracciglio, sorpreso.
<
No? Eppure hai lasciato tua madre e tuo padre per questo. >
<
Non è destino di tutti? >
<
Non sai con chi stai parlando, forse? La mia famiglia è tutto
per me, e nella mia famiglia i legami di sangue sono sempre stati
importanti... mio padre ha sacrificato tutto per suo padre e suo
fratello, nonostante ciò che poi ne è seguito. >
<
Andarmene non è stato un abbandono. Ma non potevo più
rimanere. >
<
Ah! >
Finrod
sospirò pesantemente.
<
Ecco, è come temevo. È
sempre così,
con lei, e lo temevo. Ascoltami, Silevril, so cosa si prova a voler
fuggire da Alatariel e so cosa si prova a non riuscire a farlo. >
<
No! > Silevril gridò quasi. Non credeva che Finrod Felagund
potesse travisare le sue parole a quel modo, era stato così
impegnato a non tradirsi, a non tradire Galmoth e il vero motivo per
cui era a Minas Tirith, da aver dato un'impressione sbagliata. La
cosa lo turbava più di quanto avrebbe pensato perchè
desiderava ardentemente l'amicizia e la stima di quel potente signore
degli elfi, ma non ne avrebbe potuto sopportare una dettata
dall'incomprensione.
<
No, sire, non è come credi. Io amo mia madre, la amo più
di quanto si possa spiegare a parole, ma non è lei il motivo
che mi spinge a dubitare. >
<
Ah, Silevril, non ti rendi conto di quanto tu sia simile ad Aeglos.
Appena ti ho visto mi sei sembrato la versione
maschile di Alatariel, mi sei sembrato esattamente come lei era in
Aman prima che l'oscurità piombasse su di noi e lei era
giovane e allegra... ma mi sbagliavo e di lei non hai il colore dei
capelli e una certa freddezza nei lineamenti. Ti guardo negli occhi e
scorgo Aeglos, lo sento quando parli, sei lui nel modo in cui ti
muovi e osservi il mondo intorno a te, nel modo in cui sei combattuto
tra la volontà di essere onesto con me e il dovermi nascondere
la verità. Hai la forza incredibile di tuo padre e come lui
non capisci perchè quando parlo di Alatariel non riesco a
parlarne bene. Mi dispiace, Silevril, ma ci sono cose che non sai e
tua madre mi ha ferito più di quanto io possa perdonare. >
<
Mia madre fa del male a coloro che ama e non se ne rende conto. >
<
No, lei lo sa benissimo, ma non le importa. >
Questa
volta fu Silevril a sospirare.
<
Non se ne rende conto, non davvero. Non sa quanto profondamente
riesce a far male perchè non sa quanto profondamente è
amata. Perdonami, sire, ma non hai mai capito Alatariel se credi che
lei sia crudele, no, lei è fragile e sola e fugge da coloro
che ama perchè, da qualche parte dentro di lei, pensa che sia
l'unico modo per farsi amare.
Naturalmente
queste cose lei non le comprende, ma io sono stato in lei e il suo
spirito è dentro di me, ricordo i suoi pensieri quando ancora
non ero nato e tra noi due vi è un legame che non riesco a
spiegare. Ed io sono lei e sono Aeglos, eppure non sono nessuno dei
due. >
<
Lo so, percepisco loro due in te, ma Aeglos è più forte
in te e tu non pensi ad altro che al mare. >
<
Sì, ci penso, ne sono quasi ossessionato. Il mare ha popolato
i miei sogni per troppo tempo, ma ora non più. >
Improvvisamente
Finrod rise e la sua risata parve strana a Silevril: era roca,
esitante, come se non ridesse spesso. Era bella, pensò.
<
E così siamo tornati al punto di partenza, mio caro Silevril.
Perchè non vuoi più andare a ovest? >
<
La mia situazione è cambiata. Ho conosciuto gli uomini, mi
sono legato ad alcuni di loro... non lo credevo possibile, eppure li
amo come non ho mai amato prima. Ho guardato quella nave e ho sentito
che era per me, che era il mio destino, che era la cosa più
bella che - > si interruppe improvvisamente.
Finrod
si era chinato in avanti e lo stava fissando. Si sentì
invadere da quello sguardo e non poteva sottrarsi.
La voce dell'elfo gli rimbombava nella testa.
Quale
nave, Silevril?
Galmoth
era così intento a osservare ogni più piccolo movimento
di Laer, cercando contemporaneamente di non farsi vedere da lei, che
non si accorse della donna che gli si era avvicinata, non prima che
questa sbuffasse sonoramente.
<
Non ho tutta la sera, tesoro. >
Le
rivolse lo sguardo, come svegliato improvvisamente. Era una bella
donna, nonostante non fosse più giovanissima, sui
quarant'anni, dalla pelle lattea come quella di una gran dama, i
capelli corvini racolti in una crocchia, alta e statuaria.
Sarebbe
davvero potuta passare per una signora di nobile nascita, se non
fosse stato per le sue mani callose o i lineamenti duri da popolana.
Non
riuscì a evitare a se stesso di trovarla attraente, pur in uno
stato d'animo come il suo.
La
donna seguì il suo sguardo e sorrise sarcastica notando Laer
seduta al bancone, intenta ad addentare con poca grazia un pezzo di
pane.
<
Carina, vero? > ammiccò, < ma non credi di essere un po'
troppo anziano per lei? >
<
Dici? >
<
Potresti essere suo padre. >
Una
risata amara sfuggì dalle labbra di Galmoth. Aveva voglia di
piangere in quel momento, ma tutto ciò che riusciva a fare era
lasciarsi andare all'amarezza.
<
Forse hai ragione, > disse.
Lanciò
un'ultima occhiata verso Laer e la vide posare due monete accanto al
suo piatto, ormai vuoto, e uscire dal locale senza guardarsi intorno.
Sospirò,
sentendo il groppo che aveva in gola farsi più pesante. Si
rivolse alla donna con un tono secco e incredibilmente lugubre.
<
Portami una bottiglia del tuo miglior vino del Lebennin. >
Vide
Silevril irrigidirsi, chiudersi come uno di quegli instetti che si
appallottolano su se stessi appena vengono sfiorati.
Tentava
di scrutare nella sua mente ma era difficile, il muro di
impenetrabilità che il giovane elfo aveva eretto, senza
nemmeno rendersene conto, era solido come le mura di Minas Tirith.
Era
straordinario come riuscisse a fare una cosa del genere e questo non
fece che aumentare l'amore che nutriva per lui.
Finrod
non riusciva a controllarsi, era completamente in balia di quel
giovane, del tutto preda del fascino che Silevril sembrava emanare
intorno a sé. Era spaventato dalla sua intrusione mentale,
mentiva spudoratamente, voleva nascondergli a tutti i costi i
pensieri del suo cuore, ma ogni cosa in lui esprimeva sicurezza,
sfontatezza e una punta quasi impercettibile di crudeltà.
Oh,
era tutto ciò che Alatariel avrebbe voluto essere, tutto ciò
che Aeglos non era potuto diventare, schiacciato dal suo stesso
masochismo. Silevril era il figlio della follia ed era di una
luminosità che Finrod non aveva mai visto prima, come se la
luce dei dei due Alberi fosse impressa dentro di lui.
Voleva
sapere, voleva conoscerlo, voleva che gli dicesse la verità.
Perché
sei qui? Perché non sei andato all'Ovest?
<
Non sei stato del tutto sincero con me, Silevril, > continuò
ad alta voce, < hai conosciuto degli uomini, mi dici, uomini che
ti hanno fatto dubitare del tuo proposito, che ti hanno fatto venire
qui. Chi sono questi
uomini? Dove sono? >
L'elfo
si passò nervosamente una mano tra i capelli con un gesto
meccanico.
<
Li ho lasciati a Dol Amroth, credevo che venire qui dove sono nato mi
avrebbe aiutato nel chiarirmi le idee. >
Menzogne,
mezze verità, nient'altro.
Finrod
sospirò, versandosi dell'altro vino e bevendolo d'un fiato. Lo
feriva il fatto che non volesse aprirsi con lui, che non volesse
parlargli dei suoi dubbi e del suo amore per gli uomini. Era
pur vero, ricordò
dolorosamente, nonostante la vicinanza che sentiva, nonostante il suo
amore, che per
Silevril lui era poco più che un estraneo, una leggenda emersa
dai libri di storia e dai racconti pieni di odio di sua madre.
E
vi era anche la possibilità che il motivo per cui Silevril era
lì, per cui non voleva parlare degli uomini che aveva
conosciuto o di se stesso, era che i suoi propositi non erano dei più
puri.
Finrod
rabbrividì a quel pensiero, ma non riusciva a far andare via
la sensazione che Silevril avesse ereditato da sua madre il gusto
nell'infrangere la legge.
<
Spero di reincontrarti presto > gli disse, forzando un sorriso.
Il
giovane lo ricambiò, visibilmente sollevato; nonostante la
freddezza dei suoi lineamenti non lasciasse trasparire nulla, i suoi
occhi sembravano gridarlo.
Si
alzarono e Silevril si inchinò leggermente.
<
Sono felice di averti conosciuto, sire. >
<
Voglio che tu mi consideri sempre tuo amico, ti ho visto nascere e
conoscere ora colui che sei diventato mi riempie di gioia. >
Gli
si avvicinò e lo baciò sulla guancia.
<
Namarie, Silevril, > disse e lo guardò uscire dalla porta
con una stretta al cuore.
Cosa
stava facendo?
Il
sole era tramontato dietro il Mindolluin, lasciando il posto a una
luna luminosa nella sera chiara e fresca, piena di stelle. Molte
fiaccole illuminavano le strade e ancora qualche abitante di Minas
Tirith si attardava alla loro luce rossastra, camminando in fretta
verso casa o dirigendosi ridendo verso una delle cantine delle
cerchie più esterne.
Laer
si strinse nel mantello, rabbrividendo leggermente per il venticello
pungente che giungeva da nord e si insinuava fin dentro le sue ossa,
come piccole lame appuntite. La padrona della locanda in cui aveva
mangiato le aveva consigliato un piccolo albergo, tenuto da un suo
parente, nella prima cerchia, dove avrebbe potuto trovare un letto e
anche un buon cavallo l'indomani mattina ed era proprio lì che
si stava dirigendo. Continuava a guardarsi intorno, terrorizzata
dall'idea di trovarsi faccia a faccia con Silevril o, peggio,
Galmoth. Desiderava solo dormire e dimenticare per qualche ora la
delusione.
Era
così concentrata in questo proposito che non si accorse quasi
dell'uomo che gli stava davanti fin quando questo non l'afferrò
per un lembo del mantello.
<
Qualche moneta, signore, qualche moneta per un pover'uomo che muore
di fame? >
<
Non ho monete per te > rispose brusca, cercando di divincolarsi,
ma il mendicante le bloccò il passaggio, guardandola storto da
sotto i capelli lunghi e incrostati di sporcizia.
<
Nemmeno un po' di pane? >
Laer
si stava spazientendo e tentò di spostarlo con un braccio, ma
quello la afferrò. Fece per voltarsi e cambiare strada, ma un
altro uomo glie lo impedì, arrivandole alle spalle.
Era
alto e aveva il volto nascosto da un ampio cappuccio.
Ci
mise qualche secondo a realizzare di essere intrappolata e che
sicuramente quei due non erano veri mendicanti ma piuttosto briganti
che le tendevano un'agguato.
Non
ricordava di aver mai avuto tanta paura in vita sua. Sembravano
giganti in confronto a lei e la presa del primo sul suo polso era
ferrea.
<
Non ho denaro con me > disse, sperando che l'avrebbero lasciata
stare una volta sfumata la possibilità di una rapina.
Si
guardò freneticamente intorno ma improvvisamente la città
sembrava essere diventata deserta e i pochi ritardatari scomparsi.
<
Non è il denaro che vogliamo da te, ragazzina. >
Il
sorriso sul volto sudicio dell'uomo era percepibile anche se non lo
vedeva. L'altro rimaneva immobile e nascosto dietro il cappuccio.
Laer
agì in un attimo, tirò una gomitata e si chinò
per estrarre il pugnale che teneva nello stivale, poi si voltò
e con un gesto rapido sfregiò la guancia del finto mendicante
che con un urlo cascò all'indietro.
Si
mise a correre più veloce che potè, ma il secondo
bandito, quello alto e in ombra, scattò veloce alla sua
rincorsa e in pochi sedondi la raggiunse, tappandole la bocca con una
mano.
Laer
lo morse a sangue, ma quello la schiaffeggiò, facendola
rovinare a terra, stordita alla violenza di quel colpo. Il suo
pugnale era caduto lontano da lei e l'uomo lo prese.
Era
durato tutto pochi minuti e nessuno era accorso, nessuna casa si
affacciava su quella strada.
I
suoi assalitori avevano scelto bene il luogo dell'agguato.
Tentò
di rialzarsi, ma la testa le girava e i due le si avvicinarono, l'uno
con il grosso taglio sanguinante sul volto furioso, l'altro ora con
il cappuccio abbassato che lasciava vedere un'espressione dura e
impassibile.
<
Non provare a gridare > le disse < o dovrò farti del
male. >
<
Non ho denaro con me, non ho nulla che possiate volere. >
Le
veniva da piangere, si sentiva indifesa e nuda senza il suo pugnale e
doveva fare molta fatica per concentrare le parole oltre il ronzio
che sentiva nella testa.
<
Oh, ma certo che c'è qualcosa che possiamo volere da te, cara
Laer. >
L'uomo
alto si avvicinò ulteriormente, chinandosi verso di lei con un
sorriso freddo che le diede i brividi.
<
Sì, davvero > ridacchiò l'altro.
Un
secondo colpo e Laer non vide né udì più nulla.
Eccomi,
sono viva e vegeta! Questo capitolo mi ha fatto penare non poco ma
alla fine è arrivato e ne sono persino soddisfatta. Come al
solito grazie a tutti, chi legge e chi recensisce, mi fa sempre tanto
piacere. Alla prossima!
P.S.
il titolo è un verso della meravigliosa As tearso go by
degli Stones
Capitolo 12 *** Hold your breath and count to ten (parte prima) ***
Hold
your breath and count to ten (parte prima)
Laer
si svegliò di soprassalto, bagnata fradicia e tremante, legata
a una sedia con delle corde robuste. Si sentiva rabbrividire.
Intorno
a lei vi era una luce fioca, solo un paio di lampade a olio in un
angolo, nessuna finestra a indicare se fosse notte o giorno.
I
due uomini che l'avevano rapita erano in piedi davanti a lei. Uno
reggeva un secchio vuoto, evidentemente glie lo aveva svuotato
addosso per svegliarla, l'altro, quello alto, se ne stava poco più
indietro a braccia conserte.
<
Ti consiglio di rimanere calma, Laer, urlare non ti servirà a
nulla e renderà solo tutto più difficile. >
Laer
annuì. Aveva paura, ma il cieco terrore che l'aveva assalita
nel momento del rapimento era scomparso e si sentiva incredibilmente
lucida. Ogni suono le arrivava amplificato, ogni singolo dettaglio
della stanza si imprimeva nella sua mente. Osservò suoi
rapitori: uno dei due aveva ancora addosso i vestiti da mendicante, i
capelli lunghi e luridi, un ghigno volgare sulla bocca sottile;
l'altro era alto e biondo, lo si sarebbe potuto definire di
bell'aspetto, con la barba rada e gli occhi azzurri limpidi... era
lui che le faceva più paura.
<
Cosa volete da me? > chiese. La voce le uscì più
ferma di quanto pensasse, quasi dura.
<
Tu ci chiedi cosa vogliamo? > disse quello, con l'accento
leggermente ruvido tipico di Rohan.
Rise.
< Andiamo, Laer, sei una ragazza sveglia, non insultarmi
fingendoti ingenua. >
Si
avvicinò, chinandosi su di lei. Riusciva a sentire il suo
fiato sul collo.
<
Dov'è, Laer? Dov'è il Tesoro? >
<
Non so di cosa tu stia parlando. >
Il
malrovescio le arrivò forte e inaspettato, seguito dalla mano
forte dell'uomo che le afferrava la treccia. Le tirò la testa
all'indietro violentemente e il dolore al collo le fece venire le
lacrime agli occhi.
<
Dov'è il Tesoro di Ulmo? > chiese ancora.
La
lasciò andare con uno strattone e si voltò verso il suo
compagno.
<
Riempi il secchio > disse calmissimo.
Laer
riflettè rapidamente: chi aveva il Tesoro? Baran, o i suoi
uomini... e Galmoth? Avrebbe potuto benissimo dire tutto quello che
volevano sapere, se solo Galmoth non fosse stato coinvolto. Per un
istante il pensiero di tradirlo, di fargliela pagare, le attraversò
la mente, ma non era vendetta che voleva... non sapeva nemmeno lei
cosa volesse, se non che in quel momento desiderava essere altrove.
I
secchio fu riempito e il rohirrim estrasse un lungo coltello e le si
avvicinò.
<
Stai ferma o lo userò per sventrarti dalla pancia alla gola >
minacciò.
Tagliò
le corde che la immobilizzavano alla sedia e le prese i polsi,
tenendoli con una presa ferrea nella sua mano. Si sentiva minuscola,
una bambola di pezza in mano a un gigante.
L'altro
uomo prese le corde e le legò nuovamente i polsi dietro la
schiena. La strattonarono finchè non si ritrovò sulle
ginocchia, il secchio pieno d'acqua e ghiaccio davanti a lei nero e
spaventoso.
Laer
ci mise un attimo a capire cosa sarebbe successo e tentò di
divincolarsi, ma i due uomini la tenevano stretta.
<
Stai calma. Laer! Guardami! > il rohirrim le prese il viso e la
costrinse a guardarlo. < Non voglio farti male, ragazzina, ma tu
devi dirmi dov'è il Tesoro di Ulmo. >
<
Non lo so > rispose, il panico che minacciava di farla uscire
fuori di testa.
<
Sì, sì, lo sai, io so che lo sai. >
La
voce dell'uomo era estremamente calma e aveva l'effetto di
terrorizzarla più che se lui avesse gridato.
<
No, non lo so... no! >
Le
spinsero la testa nel secchio, immergendola completamente nell'acqua.
Era gelida e sembrava che mille lame le investissero la faccia. Tentò
di gridare, ma inghiottì lunghe sorsate. Si sentiva soffocare.
Le
sembrò di restare sotto per ore intere e quando credeva che
sarebbe stato troppo, la tirarono su. Respirare fu meraviglioso e
allo stesso tempo fu una sofferenza insopportabile quasi quanto
affogare.
<
Dov'è il Tesoro di Ulmo? >
Laer
respirò rumorosamente. Non si sentiva più il naso a
causa dell'acqua ghiacciata e ogni respiro faceva male.
Non
era pronta e non aveva preso fiato, quando la rispinero sott'acqua.
Tentò di reagire, ma aveva le mani legate e i due uomini erano
molto più alti e più forti e la tenevano talmente
stretta che non riusciva praticamente a muoversi.
Sapeva
che aveva bisogno di respirare, ogni muscolo del suo corpo gridava
per la carenza di ossigeno. Il tempo sembrava passare con una
lentezza incredibile e la sua mente si estraniava sempre più
da se stessa, finchè tutto finì nuovamente e lei
respirava di nuovo, anche se aveva iniziato a tremare violentemente
per il freddo.
<
Non voglio farti male, Laer, > ripeté il suo aguzzino con
la stessa voce calma e l'accento di Rohan così anacronistico
su di lui, < ma devi dirci dove si trova. Non esiste niente di più
importante, capisci? Il futuro dipende da te, da quello che deciderai
di fare. >
<
Non ho idea di dove si trovi il Tesoro di Ulmo > ansimò. La
voce era rauca e la gola le bruciava. < Non so nemmeno che aspetto
ha questo maledetto Tesoro di Ulmo! >
L'uomo
sospirò, poi la lasciò andare e si alzò in
piedi. L'altro prese il secchio e uscì da una porta che Laer
non aveva notato.
<
Non siamo noi i cattivi, ragazzina, mi dispiace dover arrivare a
questo. >
Si
avviò verso la porta, ma prima di chiudersela alle spalle si
voltò.
<
Ne vale davvero la pena? Pensa a questo. >
La
porta si chiuse e un suono metallico indicò che era stata
bloccata con dei catenacci.
Laer
rimase sola sul pavimento, le mani legate dietro la schiena, fradicia
e tremante.
Era
rimasto per tutta la notte in giro per la Città, senza una
meta precisa, mentre i suoi pensieri vagavano. A un certo punto
credeva di essersi addormentato, perchè di fianco a lui c'era
sua madre: “Non puoi fidarti di Finrod Felagund” diceva
“sei stato uno sciocco ad aprirti così con lui”
“Non
volevo che sapesse” aveva ribattuto e alle sue orecchie la
frase suonò come il capriccio di un bambino “ma lui era
così potente!”
Non
ricordava cosa avesse risposto sua madre, ma aveva sentito
distintamente la sua risata che lo derideva.
Alla
luce limpida del primo sole, quei sogni gli apparivano grotteschi e
irreali, solo una delle visioni ad occhi aperti che la sua mente gli
mandava per farlo riposare, unite alla mancanza spasmodica che
sentiva per Alatariel.
Si
sentiva ansioso per quello che era accaduto, ma non poteva
soffermarsi a pensarci. Doveva trovare Galmoth, avevano qualcosa da
fare e prima avrebbero risolto la questione con gli uomini di Baran,
prima avrebbe lasciato quella città. Era già stanco di
Minas Tirith, aveva creduto di poterla amare, ma tutta quella roccia
lo opprimeva e desiderava il mare.
La
strada che portava alle mura era ancora semideserta per via dell'ora,
solo alcuni soldati si dirigevano stanchi verso la colazione dopo una
notte di guardia e qualche contadino la attraversava diretto verso le
porte, per raggiungere i campi coltivati sul Pelennor e sulle pendici
del Mindolluin.
Quando
arrivò sul camminatoio, si diresse verso il punto in cui si
erano lasciati la sera prima, cercando di non pensare a Finrod, di
scacciare quel desiderio inconscio di vederlo ancora.
No,
era pericoloso, non doveva nemmeno pensarci, avrebbe potuto mettere
in pericolo Galmoth e tutti gli altri, forse persino Laer, anche se
era molto probabile che la ragazza fosse già andata via da
Minas Tirith.
Si
appoggiò al parapetto in pietra e i suoi occhi spaziarono
sulla piana sottostante, attraversata dall'Anduin. Il Grande Fiume
sembrava costellato di diamanti, e sforzando la vista gli sembrava
quasi di scorgerne la foce in lontananza.
<
Sei dannatamente prevedibile, elfo. >
Silevril
sorrise quando Galmoth gli arrivò alle spalle.
<
Ti ho aspettato per molte ore prima di rendermi conto che nessuno dei
due sapeva dov'era l'altro. Alla fine ho smesso di aspettare e sono
andato a dormire. >
<
Sapevo che era inutile, Capitano, sapevo che mi avresti trovato da
solo. >
Si
voltò.
L'uomo
lo scrutò attentamente, assumedo un'espressione seria.
<
Hai un aspetto orribile, elfo, hai dormito? >
<
Noi non abbiamo bisogno del sonno dei mortali > ribatté, <
mi sento perfettamente bene, la tua è solo un'impressione. >
Aveva
mentito e lo sapeva, ma non voleva parlare dei suoi sogni, del suo
incontro con Felagund e di come poteva aver compromesso ogni cosa. Il
pensiero di aver deluso il suo Capitano era niente in confronto a
quello di aver deluso il suo amico. Non voleva vedere lo sguardo di
Galmoth che lo giudicava debole.
Silevril
si affiancò all'uomo, prendendo a guardare le pianure del
Pelennor, i campi coltivat che si stendevano per miglia nella foschia
del mattino, l'Anduin scintillante al sole.
Da
qualche parte nascosta alla vista, la Stella se ne stava placida e
tranquilla, aspettando loro due. Avrebbe voluto lasciare tutto e
tornare sulla nave. Prendere Galmoth e semplicemente navigare,
navigare come faceva con suo padre, senza alcuna meta, solo per il
gusto di farlo, per il piacere di sentire il mare intorno a sé
e le onde sotto la chiglia. Dimenticare tutto, ecco cosa voleva.
Ma
Galmoth non avrebbe mai acconsentito e, più di qualsiasi altra
cosa, persino del Mare, voleva la compagnia di quell'uomo.
***
Eccomi qui! Sono viva,
sì, non temete, è che il tempo per scrivere è
talmente poco e io sono talmente schizzinosa sotto questo punto di
vista che non riesco mai a mettermi con la giusta predisposizione
d'animo e il giusto silenzio, inoltre sono una che scrive di notte e
tra esami, vita sociale (!) e il computer che mi abbandona proprio è
difficile.Quindi, dato che probabilmente andrò avanti così
ancora un mesetto ho deciso di dividere questo lungo capitolo in due
parti, dato che la prima parte è pronta da un bel po', vediamo
quando riesco a farvi avere anche la seconda.
P.S. il titolo questa
volta è preso dalla bellissima “Skyfall” di Adele.
Capitolo 13 *** Hold your breath and count to ten (parte seconda) ***
Hold
your breath and count to ten (parte seconda)
Forlond
inspirò fumo dalla lunga pipa che tringeva tra le labbra, in
silenzio, l'espressione corrucciata e le braccia conserte.
Non
riusciva a trarre piacere nemmeno dalle sue migliori foglie di
Pianilungone, quelle che teneva gelosamente conservate e che tirava
fuori solo nelle occasioni speciali. E quella, maledizione, era
un'occasione speciale.
Corrente
a sfavore, vento contrario, e la maledettissima Cair Andros proprio
davanti a lui, con le sue rocce aguzze che si stagliavano minacciose
sul pelo dell'acqua a ricordargli quanto l'Anduin fosse infido. Lui
detestava il fiume con tutto se stesso.
Una
ciotola di zuppa bollente entrò di prepotenza nel suo campo
visivo, facendolo sobbalzare. Conn era accanto a lui e gli porgeva
quella che aveva tutta l'aria di essere la miglior zuppa dell'intera
carriera culinaria di quel dannato Rohirrim, eppure Forlond al solo
guardarla si sentiva rivoltare le budella. Grugnì.
<
No, no, no, > disse Conn, con il suo accento leggermente
strascicato, < devi mangiare, mellon nin. >
<
Preferisco fumare, > ribatté Forlond, e per dare maggiore
enfasi alle sue parole sbuffò altro fumo proprio nella ciotola
che l'altro gli porgeva.
<
Sei un uomo che porta rancore, lo sai vero? >
<
Certo che lo so, e toglimi questa dannata brodaglia da sotto il naso!
> Allontanò bruscamente il braccio del Rohirrim,
rovesciando il contenuto della ciotola sul ponte della Stella
Marina.
<
Quel bastardo di Galmoth se ne va in giro a tramare colpi di stato e
mi manda a Nord per proteggere la sua bagnarola, come se fossi un
mozzo qualsiasi! >
Conn
scosse la testa, poggiò di lato il piatto ormai mezzo vuoto, e
gli si avvicinò, appoggiandosi con disinvoltura sulla sua
spalla.
<
Sì, e ti paga anche un bel gruzzolo per questo, altrimenti te
ne saresti già andato da un pezzo. Ho torto, Forlond? >
Il
mercenariò ghignò e un dente d'oro luccicò nel
suo sorriso storto.
<
Sei un maledetto bastardo di uno stalliere, Conn. >
Il
volto del cuoco era aperto e gioviale, sotto i lunghi capelli biondi.
<
Lo so, mellon nin, anche io ti voglio bene. >
Gli
tolse la pipa di bocca e diede una lunga tirata a sua volta.
<
Hai sempre il tabacco migliore, devo dartene atto. >
Forlond
glie la strappò via dalle mani, riprendendosela con uno
strattone, ma stava sorridendo.
<
Bastardo e ladro anche. >
Conn
rise.
Il
problema di Galmoth in quel momento è che avrebbe davvero
desiderato sapere cose passava per la testa di quell'elfo, ma cercare
di decifrare cosa stesse pensando o provando era praticamente
impossibile.
Aveva
sì l'aspetto di uno a cui avrebbbe fatto bene una bella
dormita, ma per il resto avrebbe potuto essere una statua di marmo
per quanto poco espressivo risultava.
Era
una cosa che lo faceva impazzire, e che allo stesso tempo lo
stuzzicava come non mai. Decise che avrebbe svelato il mistero
Silevril, perchè altrimenti avrebbe pensato a Laer e non era
sicuro di potercela fare.
Poi
notò la ragazzina. Non più di una bambina, dieci anni
al massimo, piccola e sporca, che li osservava intensamente senza
nemmeno tentare di nascondersi.
<
Sì > disse Silevril, < ci sta guardando e si sta
chiedendo se siamo davvero noi. >
<
Leggi anche nel pensiero ora, elfo? >
Silevril
non si prese nemmeno la briga di rispondere, lo liquidò
semplicemente con un sorrisetto dei suoi, uno di quelli che volevano
dire tutto e niente e che Galmoth ormai associava al suo amico.
<
Bene allora > disse infine, prendendo l'iniziativa, < dato che
non vuoi dirmi nulla faremo a modo mio. >
Si
avvicinò alla ragazzina a passo deciso, ma quella non si mosse
nè distolse lo sguardo.
<
Cos'hai da guardare, piccola? > le chiese.
Lei
alzò un sopracciglio.
<
Sto cercando un uomo di nome Galmoth e mi avevano detto che era
accompagnato da un elfo che si dava delle arie. Non ho visto molti
elfi io, cercavo di capire se lui si dava delle arie oppure no. >
<
E cos'hai concluso? >
<
Non lo so, non ne sono sicura. >
<
Ma io sono Galmoth. >
La
ragazzina lo fissò per alcuni secondi, studiandolo dalla testa
ai piedi, poi lanciò un rapido sguardo a Silevril che, nel
frattempo, si era avvicinato a loro.
<
Seguitemi > disse infine e, voltandosi senza aggiungere altro,
iniziò a camminare a passo svelto verso la parte più
interna della Cittadella.
Galmoth
la seguì, Silevril al suo fianco, con il cappuccio sul capo,
silenzioso.
Minas
Tirith, nel suo cerchio più alto, era come un labirinto di
viottoli stretti, fatti di pietra, dove il sole sembrava non riuscire
a penetrare mai del tutto.
Salirono
e scesero molte scale, passarono sotto archi di pietra bianca,
attraversarono piccoli cortili su cui si affacciavano molte case,
fino a che non si ritrovarono davanti a un portoncino di legno
massiccio.
La
ragazzina bussò tre volte di seguito e poi una quarta, più
lentamente. Attesero, il silenzio che faceva risaltare le voci della
città che sembravano echeggiare per quelle viuzze.
E
poi, finalmente, la porta si aprì e loro entrarono in quella
che era, senza ombra di dubbio, una casa da ricchi.
<
Seguitemi > disse gentilmente un giovane valletto, vestito
finemente di velluto bianco. Li precedette lungo un corridoio
illuminato da molti candelieri, fino a una porta elegante. Il giovane
entrò, lasciandoli soli in quella che sembrava un'anticamera.
Galmoth
si voltò e vide gli occhi dell'elfo saettare in ogni
direzione, come se tentasse freneticamente di memorizzare ogni
particolare dei muri, del soffitto, del pavimento. Aveva le labbra
serrate.
<
Stai calmo > gli intimò in un sibilo, < sei teso come un
maledetto arco! >
Silevril
lo fissò.
<
Niente è come mi ero aspettato, > disse, < questa casa
è... > si interruppe di scatto appena il valletto tornò.
<
La signora vi aspetta, > annunciò, tenendo la porta aperta.
Galmoth
entrò per primo e per poco non gli venne un colpo.
Silevril
trattenne il respiro, sentendosi quasi mancare.
La
donna che gli stava di fronte era bellissima, di una bellezza che non
aveva mai visto e che non credeva possibile: non era eterea e dura,
come sua madre, non era solare come Laer, non era nemmeno prorompente
come quella che aveva notato in molte delle donne di Dol Amroth...
l'unica parola che gli veniva in mente era ammaliante.
Non
riusciva a smettere di guardarla, non riusciva a respirare, si
sentiva la bocca secca come se non bevesse da giorni, poteva solo
guardarla, guardare i boccoli rossi che le incorniciavano il viso,
come una fiamma dotata di vita propria, lunghi e morbidi, e la pelle
diafana, gli occhi verdissimi e le labbra piene e leggermente rosate.
Teneva
tra le braccia un gatto dal pelo folto e candido, che faceva
pigramente le fusa con il muso poggiato su una sua spalla.
<
Benvenuti, miei ospiti, sono Rùth > disse con un sorriso, e
la sua voce era dolce come miele e melodiosa, < ero ansiosa di
incontrarvi. Galmoth, ho sentito a lungo parlare di te e credo che
non potrei essere più felice di vederti finalmente di persona.
> Rùth sorrise e Silevril vide la mascella di Galmoth
irrigidirsi.
Poi
lei si voltò dalla sua parte e gli si avvicinò.
<
Silevril, un nome insolito, portartore di grande speranza o grande
dolore. Lunghe e sanguinose guerre sono state combattute per i
Gioielli di Fëanor, >
appoggò una piccola mano affusolata sul suo braccio e gli
parve rovente, < sono sicura che con una tua sola parola tu
potresti scatenare una guerra ancora più violenta... ah, se
solo lo volessi potresti avere chiunque ai tuoi piedi e governare sui
cuori della gente. >
Improvvisamente
si allontanò da lui e si mise a sedere su un divano, spostando
il gatto dalla spalla al grembo, senza che l'animale smettesse mai di
fare le fusa.
<
Ma vi starete chiedendo perchè siete qui. > Il tono di voce
di Rùth cambiò e divenne pratico, più adulto e
meno sognante. Silevril si sentì come risvegliato da un
incantesimo.
<
Immagino che tu sia il contatto di Baran in Città, > disse
Galmoth. La sua voce era roca e, Silevril lo sapeva, anche lui era
ancora scosso dallo stato di trance in cui la bellezza della loro
ospite li aveva gettati.
<
Baran è un amico leale, un uomo a cui affiderei la mia stessa
vita, > disse lei, < lui ha rubato il Tesoro di Ulmo per me ed
io glie lo renderò... dopo aver raggiunto i miei scopi,
naturalmente. >
<
I tuoi scopi? Rovesciare il Re, favorire gli interessi dei mercanti
di Erba Pipa, non mi sembra il genere di scopi che una signora possa
coltivare. >
Rùth
rise, un suono cristallino che riaccese l'incantesimo. Non riusciva a
staccarle gli occhi di dosso e riusciva a sentire il respiro
affannoso di Galmoth accanto a lui, a indicare che anche il suo
Capitano faceva molta fatica a concentrarsi su qualcosa che non fosse
la straordinaria bellezza della donna.
<
Il denaro è uno scopo comune a molti, mio adorato Galmoth, ed
io non sono che una portavoce di un movimento più ampio. >
<
Perchè siamo qui, mia signora? > si intromise Silevril. Si
sentiva inquieto, completamente abbagliato da quella donna tanto da
dubitare di se stesso. Voleva andare via da quella stanza,
allontanarsi da lei, anche se il solo pensiero gli provocava una
sofferenza quasi fisica.
Il
gatto bianco aveva preso a fissarli con i suoi occhi blu, come se
volesse scrutare le loro anime.
<
Il Tesoro di Ulmo non è più in mio possesso, ormai, ma
è stato rubato. Aihmé, non conosco l'identità
del ladro, ma molte opposte fazioni si contendono il suo potere. >
<
Governa il Mare e governerai Gondor > mormorò Galmoth.
<
Esatto. > Ruth rivolse il più dolce dei sorrisi verso di
loro. < Torna con il Tesoro, Gamoth, portalo da me ed io te ne
farò dono, che tu possa restituirlo al Principe in cambio
delle tue navi. E tu, Silevril, qualsiasi cosa brami il tuo cuore io
ti darò. Tornate da me con il Tesoro di Ulmo e il nuovo Re di
Gondor vi ricompenserà. >
Rùth
tacque e la porta alle loro spalle si aprì quando entrò
lo stesso valletto di prima.
<
A presto, miei Signori. >
Era
un congedo. Silevril seguì Galmoth nel corridoio da cui erano
venuti, una sensazione di perdita che si faceva largo in lui. Gli
sembrava di aver perduto qualcosa di inestimabile, ora che Rùth
era da un'altra parte, e i suoi sensi di colpa tornarono a farsi
sentire, così come lo sgradevole seppur violento desiderio di
rivedere Finrod Felagund. Per lunghi e meravigliosi minuti non c'era
stato altro che Rùth nella sua mente, i capelli rossi e la
curva del viso, la sensualità delle sue labbra. Eppure era
come se non riuscisse a ricordare esattamente come fosse fatta,
nonostante non fossero passati che pochi istanti da quando aveva
lasciato la sua presenza.
Uscirono
in strada e si incamminarono fianco a fianco verso la piazza
dell'Albero Bianco, in silenzio.
Infine
fu Galmoth a parlare per primo.
<
Cosa ne pensi, elfo? >
<
Non so cosa dirti, Capitano, se non che lei era bellissima. >
<
Bellissima? > Sbuffò, < non ho mai visto niente di più
bello in tutta la mia miserabile vita, ma mi ha spaventato a morte. >
Silevril
alzò un sopracciglio, ma non rispose.
<
Ho i brividi al solo pensiero, non so come puoi startene lì
tutto impettito, ma come accidenti vi fabbricano a voi, eh elfo? >
<
Ho provato inquietudine, > disse infine, lentamente, < in un
certo senso mi ha ricordato... no, lascia perdere. >
<
Chi? >
<
Nessuno. >
No,
non era assolutamente così, era solo che lui non riusciva a
dissociare l'idea di bellezza da lei, non riusciva a vedre nessuna
donna senza che il pensiero di lei gli si palesasse alla mente. Se ne
vergognava, ma non riusciva ad evitarlo, una delle troppe maledizioni
che sua madre scagliava su chi aveva avuto a che fare con lei.
Era
però innegabile che non si era mai sentito così
inquieto eppure in pace come con Alatariel e ora con Rùth...
che incantesimo era mai questo?
<
Mi sembrava di essere incatenato a lei, > ricordò, <
qualsiasi cosa mi avesse chiesto, io l'avrei fatta. >
<
E continuava ad accarezzare quel gatto. Te lo giuro, elfo, non ho mai
voluto qualcosa come essere quel dannatissimo gatto. >
Già,
si disse Silevril, mentre un brivido gli attraversava la schiena,
facendogli drizzare tutti i peli del corpo, poi c'era il gatto.
Laer
si sforzò di non battere i denti, invano. Tremava da capo a
piedi, dopo essere stata ancora una volta immersa nell'acqua gelida,
senza che riuscisse a smettere. Il freddo le penetrava fin dentro le
ossa, ma doveva assolutamente smettere di battere i denti.
Non
sapeva da quanto tempo fosse lì, potevano essere ore, giorni,
persino mesi, tutto ciò che poteva dire era che i suoi
rapitori erano venuti tre volte e ogni loro visita aveva significato
acqua gelida e un bruciore intenso ai polmoni che dubitava sarebbe
mai scomparso, ma di una cosa era sicura, ovvero che non c'erano mai
stati rumori.
Quando
sentì il clangore delle spade e voci confuse, Laer trattenne
il fiato. Potevano essere nemici, potevano essere i suoi salvatori,
poteva accaderle di tutto, ma non aveva scelta. Quando era bambina e
la morte di suo padre le dava gli incubi, Galmoth le accarezzava i
capelli e le diceva di contare fino a dieci, che in quel lasso di
tempo ogni cosa sarebbe andata a posto. Quando era bambina funzionava
e, dopo dieci secondi, i suoi incubi sparivano nell'oblio.
Ora
era adulta, ma non si era mai sentita tanto indifesa e impaurita
prima, come se fosse ancora quella bambina in preda agli incubi.
Laer
trattenne il fiato, chiuse gli occhi, e iniziò a contare.
Eccomi!
Salve a tutti, se è rimasto qualcuno a seguire questa storia
(sì dai, qualche numerino nella casella delle visite ci sta)
si inizia a entrare nel vivo (e finalmente, direte voi), mi è
persino tornata la voglia i scrivere, cosa non da poco dato che è
più o meno un anno che ero psicologicamente bloccata. Magari
fatevi sentire, che qualche motivazione in più non fa mai
male, che ne dite?
Capitolo 14 *** Touching you makes me feel alive ***
Touching
you makes me feel alive
Estrasse
la lama dal ventre dell'uomo che giaceva ai suoi piedi. Non avrebbe
voluto ucciderlo, ma non aveva avuto altra scelta. Due dei suoi
soldati stavano legando il secondo uomo che si dibatteva imprecando.
La
casa era grande e vuota e non vi era nessun altro oltre quei due, ma
Finrod Felagund sapeva bene che quello non era che l'apice, che vi
era molto altro da scoprire. Quella casa era solo un gioco di ombre e
lui si era fatto trasportare dalla fretta, dal desiderio di fare
qualcosa, ma così facendo si era fatto sfuggire l'occasione di
andare più a fondo.
Cosa
stava succedendo in quella Città?
Scese
le scale verso le cantine, formate da un corridoio che dava su tre
diverse stanze chiuse da pesanti porte di legno massiccio.
Le
aprì cautamente, ma le prime due erano vuote. Si diresse verso
l'ultima, in fondo, con la spada sguainata davanti a sé che
brillava leggermente nel buio. Era chiusa.
Con
un colpo secco dell'elsa frantumò la serratura e diede un
calcio al battente, che si aprì di scatto con un cigolio
sinistro.
Finrod
rimase lì, come immobilizzato, fissando la figura della
ragazza rannicchiata sul pavimento, le mani sulle orecchie e gli
occhi chiusi. Sembrava trattenere il respiro e quando le si avvicinò
lei parve ritrarsi, anche se non si era mossa. La illuminò con
la lampada che prese dalla parete.
Era
molto giovane, anche se non avrebbe saputo dire quanto esattamente,
con lunghi capelli ramati raccolti in una treccia scomposta e la
pelle del viso pallida e coperta di efelidi. Era bagnata fradicia e
tremava visibilmente.
Si
accovacciò di fronte a lei, scostandole le mani dalla testa e
la ragazza aprì gli occhi, fissandolo come se non riuscisse a
credere a ciò che vedeva.
<
Non aver paura, > le disse dolcemente, < sono il Capitano delle
Guardie della Cittadella, sei al sicuro con me. >
La
ragazza continuava a fissarlo, senza parlare e senza muoversi.
Dietro
di lui sentì i passi dei suoi uomini che entravano a loro
volta.
<
Datemi un mantello > ordinò, e subito uno di loro si fece
avanti.
Lo
passò intorno alle spalle della ragazza e la strinse,
riscaldandola. Le sue braccia sembravano pezzi di ghiaccio e le
labbra erano bluastre.
<
Come ti chiami? > le chiese.
Lei
non rispose, ma dalle sue labbra uscì un lungo sospiro e
poggiò la testa contro di lui.
La
prese in braccio, leggera come una bambina, e si voltò verso
l'uscita.
<
Laer > mormorò la ragazza, flebile.
<
Laer? >
<
Mi chiamo Laer. >
Improvvisamente
il suo intero corpo si rilassò e la sua testa gli si abbandonò
contro il petto. Non avrebbe saputo dire se fosse svenuta o,
semplicemente, caduta addormentata.
Era
passato così tanto tempo da quando aveva tenuto qualcuno tra
le braccia in quel modo, così tanti secoli di dolore e
sofferenza senza mai toccare un altro essere vivente nel modo in cui
stava toccando lei.
Non
stava uccidendo, non stava combattendo, semplicemente la teneva tra
le braccia e lei aveva fiducia e Finrod sentì le lacrime
pizzicargli gli occhi.
Si
sentì se stesso per la prima volta dopo tanto tempo.
Aveva
sognato di baciarla.
Non
era un sogno elfico, non era lo stato onirico indotto da Lòrien,
ma un vero sogno mortale e la sensazione di realtà che gli
aveva provocato era stata quasi dolorosa.
La
baciava e Laer era piccola, morbida e abbandonata tra le sue braccia.
Era curvo in avanti e la ragazza teneva il viso sollevato, le braccia
intorno al suo collo, completamente protesa verso di lui, e lui
l'abbracciava stretta e le restituiva quel bacio che non le aveva
dato quando era stata lei a fare il primo passo.
Riusciva
a sentire la bocca morbida di lei, la sua lingua calda, i capelli
chiari che gli solleticavano le guance. Bastava che aprisse gli occhi
per poter contare le sue lentiggini.
E
improvvisamente non era più Laer che stava baciando, era Rùth,
bellissima e fatale. Sentiva il peso leggero della donna su di lui, i
suoi seni contro il petto, le unghie che lo graffiavano attraverso la
casacca e lui che continuava a baciarla e baciarla con una voracità
disarmante. Silevril si sentiva vorace, insaziabile, la costringeva a
schiudere le labbra e le insinuava la lingua nella bocca,
assaporandola come se lei non fosse altro che vino speziato. Rùth
gli slacciava la casacca, le sue mani sembravano roventi contro la
pelle nuda della schiena, forti e impossibili da allontanare anche se
la sua volontà fosse stata così forte da desiderare
che quel tocco cessasse.
Lo
avvolgeva nel suo incantesimo, finché non si era sentito
sprofondare in un desiderio come non ne aveva mai conosciuti. La
voleva come non aveva mai voluto nient'altro nella sua vita.
Si
era svegliato di soprassalto, sudato e ansimante, con la sensazione
di averla ancora lì e il suo intero corpo in subbuglio. Era
buio nella piccola stanza che condivideva con Galmoth e l'uomo era
profondamente addormentato nel letto accanto al suo, solo il suo
respiro che spezzava il silenzio della notte.
Silevril
si passò una mano sugli occhi, tentando di allontanare la
sensazione di desiderio insoddisfatto che lo attanagliava. Aveva
passato la giornata seduto a un tavolo con Galmoth, bevendo vino e
pianificando il da farsi, finché non si era ritrovato a sera
confuso dalle decine di nomi della nobiltà gondoriana e
pericolosamente vicino all'ubriachezza.
Non
sapevano chi avesse il Tesoro di Ulmo, ma avevano ristretto il campo
a un uomo di nome Telemnar, membro del consiglio del Re, e un tale
Falstaf, rappresentante del Re del Mark a Godor.
Galmoth
aveva suggerito di includere nei loro sospetti anche il Capitano
delle Guardie, ma Silevril si era opposto con tutto se stesso: mai e
poi mai avrebbe creduto Finrod Felagund capace di tradimento.
L'uomo
aveva riso. Secondo lui chiunque avrebbe potuto fare qualsiasi cosa
per denaro.
Era
andato a letto sfinito, nemmeno dopo giorni passati in mare si era
mai sentito tanto stanco, ma la sua stanchezza era nello spirito più
che nel corpo. Sentiva la mancanza di sua madre e di suo padre, un
dolore quasi fisico che lo attanagliava e lo lasciava nel dubbio,
sentiva la mancanza di Laer, della sua risata impertinente, dei suoi
occhi allegri e delle lentiggini che la facevano apparire ancora più
infantile, del suo cipiglio imbronciato e della sua voce leggermente
roca.
E
poi c'era il desiderio sconvolgente di Rùth, e di rivedere
Finrod e il terrore di aver rovinato ogni cosa con Galmoth.
Si
girò su un fianco, stringendosi di più nelle coperte di
tela ruvida, e chiuse gli occhi.
Domani,
si disse, domani alla luce del sole ogni cosa acquisterà una
nuova dimensione e io sarò il solito Silevril... e basta con
il vino.
La
ragazza se ne stava distesa nel letto e le coperte la facevano
sembrare ancora più minuta, quasi una bambina. Era talmente
pallida che le efelidi sul suo viso risaltavano come se fossero state
disegnate da una mano esterna, dello stesso colore castano ramato dei
lunghi capelli sparpagliati sul cuscino.
Non
era bella, eppure guardandola Finrod non avrebbe potuta trovarla più
affascinante, così innocente e spaventata, con un fuoco
nascosto in lei che riusciva a percepire in modo tangibile.
Aprì
gli occhi e ci mise qualche istante per mettere a fuoco la stanza e
lui, seduto proprio lì accanto.
Le
sorrise, rassicurante.
<
Stai tranquilla, > le disse, < sei al sicuro qui. >
<
Dove mi trovo? > domandò. La sua voce era incerta,
gracchiante. Tossì e il suo intero corpo fu scosso da uno
spasmo che la fece annaspare e lacrimare.
Finrod
le passò un bicchiere d'acqua e la aiutò a bere, finché
non riuscì a riprendere fiato.
<
Questa è casa mia > riprese, < ti ho portata qui quando
ti ho trovata nei sotterranei di una casa appartenente a dei
traditori. Avevi la febbre molto alta e una brutta tosse che ci
metterà molto a passare. >
La
ragazza lo fissò per qualche minuto, in silenzio, prima di
parlare.
<
Siete un elfo > asserì.
<
Sì, il mio nome è Finrod e comando la Guardia della
Città. >
Lei
non reagì a quel nome, segno che non doveva aver sentito mai
parlare di lui. Per un meraviglioso momento si sentì talmente
sollevato da aver voglia di abbracciarla, ringraziarla per quella
libertà inattesa. Era stato riconosciuto per tutta la sua vita
e conoscere qualcuno che lo avrebbe visto per ciò che era
realmente, senza pregiudizi, era qualcosa che non avrebbe mai
sperato.
<
Mi hai detto di chiamarti Laer. Giusto? >
Annuì.
<
Hai idea del perché ti tenevano prigioniera, Laer? >
<
Un mio caro amico è un elfo. >
<
Perché eri lì, Laer? > insistette, ma lei sembrava
non sentirlo.
<
Ah, ma lui non è come voi, non è regale né
gentile, ma sarcastico e antipatico... ma è così
bello... sì, Silevril è così bello... >
Finrod
sussultò.
Possibile
che tutto fosse intrecciato in quel modo tanto improbabile? Era una
fortuna per lui o solo un diverso modo di essere ancora giocato dal
destino? Il pensiero di Silevril era quasi insostenibile, il
desiderio di averlo lì, di poter parlare ancora con lui, era
una sofferenza fisica. Non voleva pensarci, non poteva lasciarsi
andare a quella fascinazione sognante... avere Silevril non
significava nulla, non gli avrebbe portato Alatariel, non sarebbe
stato lo stesso, era inutile.
Ma
lo desiderava e non riusciva a smettere.
Laer
non lo guardava, immersa nei suoi pensieri, immersa nel ricordo di
Silevril.
Finrod
tentò di riprendere il controllo di sé e
incredibilmente ci riuscì.
<
Mia cara, ascoltami, > le spostò uno ciocca di capelli
dalla fronte e la costrinse gentilmente a guardarla negli occhi,<
perché eri in quella casa? >
La
ragazza lo guardò con gli occhi spalancati, improvvisamente
consapevole di dove si trovasse e delle parole che le venivano
rivolte.
<
Non lo so > disse.
<
Cosa volevano da te? >
<
Non lo so. >
<
Ti hanno fatto delle domande? >
Improvvisamente
lo sguardo vigile di Laer si fece spaventato e lei sembrò
rattrappirsi sotto le coperte.
<
Mi hanno spinto la testa sott'acqua... credevo che sarei morta! E il
gelo... il gelo... >
Ansimò
e con un singhiozzo soffocato iniziò a piangere.
Finrod
l'attirò a sé e lei gli si abbandonò contro il
petto. Una bambina, non era che questo, una fragile e tenera creatura
mortale che si nascondeva dietro un'apparenza dura e selvaggia.
Era
così evidente la menzogna, eppure lei era convinta della sua
impenetrabilità, sicura di averlo ingannato, di avergli
nascosto la verità. Lei sapeva più di quanto non
dicesse e gli tornarono in mente le parole di Silevril.
<
Non pensarci più, > la rassicurò, < puoi rimanere
qui finché non sarai guarita, finché non deciderai di
andartene. >
Desiderio
di un legame, di amore, ecco cosa scorgeva in lei.
La
baciò sulla fronte calda per la febbre e capì che si
sarebbe fidata di lui, che lo avrebbe fatto anche se non lo
conosceva.
Molto
meno pericolosa di Silevril, si disse. Sarebbe stato facile amarla,
proteggerla, scoprire cosa stava accadendo senza ferirla... no, mai
avrebbe ferito quella fragile creatura.
Salve
a tutti! Torno a voi con un capitolo che giustifica l'innalzamento di
rating che forse avrete notato, da giallo ad arancione, sia per la
scena abbastanza hot del sogno di Silevril sia perché alcune
cose potrebbero prendere una piega decisamente meno casta andando più
avanti [sente donne svenire in
sottofondo].
A
proposito di risvolti inaspettati, non pensavo di dare una
connotazione così slash al rapporto tra Finrod e Silevril, ma
quando sono andata a rileggerlo mi sono resa conto che effettivamente
c'è dello slash in questo mondo, padron Frodo... non è
totalmente voluto, ma a quanto pare è destino e chi sono io
per cambiare le cose? D'altronde sappiamo bene che Finrod ha gusti
strani, insomma guardate Alatariel!
Bene,
detto questo non mi resta che darvi appuntamento alla prossima e
comunicarvi che il titolo di questo capitolo è un verso della
splendida Slept so Long,
dalla colonna sonora (bellissima) del film Queen
of the Damned film
assolutamente DEMMERDA che vorrebbe essere tratto dal capolavoro di
Anne Rice. Vi consiglio di ascoltare la colonna sonora perchè
merita, e di leggere il libro, ma sevi amate lasciate perdere il
film.
Capitolo 15 *** We need water and maybe somebody's daughter ***
We
need water and maybe somebody's daughter
Laer
rimase per un momento spiazzata, quando aprì gli occhi. Si era
aspettata di trovare il soffitto di legno della sua minuscola cabina
a bordo della Stella, il mormorio sommesso delle onde contro
lo scafo, il suono del vento sulla vela, la risata roca di Galmoth,
il canticchiare allegro di Conn in cucina.
Si
trovava in una stanza dall'alto soffitto bianco, perfettamente
stuccato. Un sottile raggio di sole penetrava attraverso le imposte
semichiuse e si posava sul copriletto di stoffa pregiata in cui era
avvolta. Accanto al letto, un vaso con una pianta che Laer non aveva
mai visto prima.
Si
sentiva spossata, accaldata e sudata come se un braciere le avesse
dato calore per ore e ore in primavera. Respirava male e le doleva la
gola, inoltre il senso di stordimento che provava le faceva
sospettare che l'aria le fosse mancata più di una volta mentre
dormiva.
Tossì
e l'intero suo corpo fu scosso da quel gesto. Scattò a sedere,
tentando freneticamente di riprendere fiato, ansimando e lacrimando,
finché non riuscì a smettere di tossire, inspirando di
forza con un sibilo acuto.
Chiuse
gli occhi per un istante, ritrovando se stessa dopo quell'eccesso di
tosse che l'aveva scombussolata.
Quando
spostò le coperte per mettersi seduta, si rese conto di
indossare una camicia da notte dalle maniche corte che le copriva a
stento le ginocchia.
Improvvisamente
la porta si aprì, facendola sobbalzare, e un uomo entrò
con un sorriso sul volto giovane.
No,
si corresse, non era un uomo, era l'elfo, l'elfo che l'aveva salvata
e portata a casa sua, l'elfo che le aveva fatto delle domande che
ricordava confusamente e il cui nome aveva dimenticato del tutto.
Eppure
c'era qualcosa di incredibilmente mortale in quel volto, qualcosa che
Silevril non aveva nella sua bellezza eterea.
Quell'elfo
poteva sembrare un uomo, non un ragazzo, ma un adulto poco più
giovane di Galmoth.
Solo
gli occhi erano diversi, occhi profondi e brillanti, antichi come
Laer non ne aveva mai visti, occhi che avrebbero potuto leggerle fin
dentro l'anima.
Ma
l'elfo stava sorridendo e i suoi potenti occhi erano dolci mentre si
posavano su di lei.
<
Laer, > disse a mo' di saluto, < sono felice di vedervi in
piedi, mia signora. Questa mattina la febbre vi ha abbandonato del
tutto e non volevo disturbare il vostro sonno. Avete però una
brutta tosse e non sarà facile mandarla via. >
Le
si fece incontro e la guardò dall'alto.
<
Su quella sedia vi è un abito per voi. Non ho moglie, né
figlie, ma una vicina me lo ha gentilmente prestato e si occuperà
di lavare i vostri. >
Una
smorfia sofferente deturpò i suoi lineamenti per un attimo.
Sembrava gentile e solo, nonostante tutto. Aveva pensato che gli elfi
fossero tutti maliziosi e indifferenti come Silevril, trovarne uno
che le parlava con gentilezza e si prendeva cura di lei la commosse e
la sorprese.
<
Grazie, signore > disse, sforzando la voce ancora molto roca. <
Perdonatemi, > aggiunse, distogliendo lo sguardo, < non ricordo
il vostro nome. >
<
Sono Finrod > disse lui, esitando un attimo, come se il suo nome
gli provocasse grande vergogna, < Capitano delle Guardie della
Cittadella. >
Sospirò
pesantemente.
<
Vi prego, Laer, vestitevi e raggiungetemi nella stanza accanto, vi è
del cibo per voi e mentre mangeremo, parleremo. Sono molte le domande
che il mio dovere mi impone di farvi e domani vi condurrò dal
Re. >
Laer
strabuzzò gli occhi, sorpresa.
<
Dal Re? Perché? Non ho fatto niente di male, desidero solo
andare per la mia strada. >
Finrod
la fissò, improvvisamente duro, e Laer si sentì
investita dal suo sguardo. Ogni traccia di gentilezza svanita da lui.
Ma
non durò che pochi secondi, prima che l'elfo chiudesse gli
occhi con rassegnazione.
<
Mi dispiace, non vi è altro modo di dirlo: non siete
prigioniera, Laer, ma non siete nemmeno libera. Vi trovate in casa
mia perché quando vi ho trovata eravate febbricitante e
necessitavate di cure, altrimenti vi trovereste in una delle stanze
della Torre di Echtelion in questo momento. >
Laer
lo fissò, d'un tratto consapevole di cosa stava succedendo e
della sua posizione. Strinse le labbra ma non rispose.
<
Lavatevi, vestitevi e venite a mangiare con me, non desidero altro,
potremo parlare ma vi giuro che non insisterò. >
Si
voltò per uscire, ma appena prima di chiudersi la porta alle
spalle le lanciò un'occhiata penetrante, poi la lasciò
sola.
Si
alzò.
Vicino
la finestra c'era un catino di porcellana finissima, sottilmente
decorato, quel genere di cose che Laer ricordava di aver visto nella
sua infanzia, quando si era intrufolata nelle stanze del Palazzo di
Dol Amroth, mentre suo padre lavorava nelle scuderie. Nemmeno Galmoth
aveva mai posseduto oggetti così pregiati, lui che era stato
Ammiraglio della Flotta del Principe.
Si
lavò il viso, piacevolmente sorpresa di trovare l'acqua calda.
Il
vestito preparato per lei era semplice, di cotone liscio, con le
maniche troppo lunghe e lo scollo a “V”. La gonna la
copriva completamente, ma era certa che su una donna più alta
di lei avrebbe calzato alla perfezione. Il color ruggine la faceva
sembrare ancora più pallida e malaticcia, sensazione acuita
dai suoi capelli lunghi e scompigliati, ancora leggermente ondulati
per essere sempre rimasti stretti nella sua solita treccia, ma non
aveva nulla per legarli.
Era
passato moltissimo tempo dall'ultima volta che aveva indossato un
vestito che non fossero i suoi vecchi e consunti abiti da marinaio ed
era bello poter sentire le gambe nude contro la stoffa della gonna, i
capelli che le scendevano sulla schiena.
Si
chiese scioccamente se Silevril l'avrebbe potuta trovare più
carina vestita così, ma ne dubitava. Chissà a quali
sfolgoranti bellezze era abituato quell'elfo... lo odiò un
po'.
Si
infilò gli stivali, i suoi vecchi stivali di pelle consumata
sulle punte, e uscì dalla stanza. La casa non era molto grande
e trovò facilmente la piccola sala da pranzo, con un tavolo di
legno chiaro a cui stava seduto l'elfo, mangiando del pane.
Si
voltò quando la sentì arrivare e le sorrise
gentilmente, nonostante il suo sorriso fosse sempre venato di
tristezza.
Laer
si accomodò di fronte a lui, dove su un piatto vi era a sua
volta pane bianco, marmellata, frutta e, lì accanto, un
bicchiere di latte.
Iniziò
a mangiare, sentendosi lo sguardo dell'elfo addosso.
<
Sentite, > disse, precedendolo, < so cosa volete chiedermi. Non
conosco quegli uomini, non so perché mi hanno rapita, io me ne
stavo per i fatti miei e volevo solo trovare un passaggio per
andarmene. >
<
Per andare dove? > chiese lui.
<
Nel Lebennin, a Rohan, non lo so, non mi importa. >
Scrollò
le spalle con noncuranza, ormai sapeva soltanto che doveva
allontanarsi da Minas Tirith, dove il pericolo di incontrare Galmoth
era troppo grande, e naturalmente a Dol Amroth non poteva tornarci.
<
Riconosco qualcuno che scappa, quando lo vedo > disse l'elfo,
sorridendo appena, < da cosa scappate, così giovane? >
<
Non da cosa, ma da chi. Scappo da qualcuno che è stato come un
padre per me e che non mi ha raccontato nulla se non bugie. >
Non
sapeva perché lo aveva detto, ma era impossibile non
confidarsi con lui, con quell'elfo antico e sconosciuto. Irradiava
potenza e Laer riusciva a sentirla come se una corrente di aria calda
la investisse, ma era piacevole e faceva venire voglia di
affidarcisi.
<
Quegli uomini, > disse improvvisamente, senza pensarci, <
quelli che mi hanno rapita, mi chiedevano qualcosa. Chiedevano
“dov'è?” ma io non sapevo cosa rispondere. >
L'elfo
si sporse un po' di più verso di lei.
<
Cosa? Cosa cercavano? >
Una
parte di lei voleva dirgli tutto, aprirsi, fare in modo che lui
fermasse quella pazzia, ma sapeva che avrebbe significato la rovina e
la prigione per Galmoth e il solo pensiero la faceva star male,
nonostante tutto.
<
Non lo so, > mentì, < non lo hanno detto. >
La
ragazza aveva ripreso a mangiare, apparentemente tranquilla. Era
brava a mentire, tanto che non riusciva a essere davvero sicuro che
ci fosse altro dietro le sue negazioni.
Non
sapeva come prenderla, quella fanciulla. Quando l'aveva vista per la
prima volta le era sembrata giovanissima, fragile, ma in qualche modo
fredda, invece guardandola ora la si sarebbe detta semplicemente una
ragazzina affamata e un po' pallida, dopo essere stata malata, piena
di gioviale calore tipicamente umano. Era impertinente, in un certo
senso, nel suo modo di porsi, ma era certo che avrebbe raggiunto una
nuova pacatezza con gli anni. I lunghi capelli sciolti le davano
un'aria un po' selvaggia.
Si
sentiva protettivo nei suoi confronti e per la prima volta nella sua
vita si chiese come sarebbe stato avere una figlia, una creatura che
gli apparteneva completamente, con cui poter essere pienamente se
stesso. Una parte della sua mente, quella in cui era annidata la sua
follia più profonda, si chiedeva come sarebbe potuta essere
una figlia sua e di Alatariel.
Respinse
immediatamente quel pensiero, prima che si affacciasse sulla
coscienza, prima che il suo viso potesse rifletterlo. Non poteva
permettere a se stesso di sprofondare ancora una volta nella follia,
non ora, non quando il Male stava prendendo il sopravvento su ogni
cosa. Doveva rimanere saldo, doveva rimanere se stesso.
Prese
un respiro profondo.
<
Sta succedendo qualcosa in questa città, qualcosa di oscuro,
qualcosa che se non viene fermato porterà alla fine della
Stirpe del Re. > Fece una pausa e vide Laer che ricambiava il suo
sguardo. < Laer, voi dovete dirmi la verità: cosa sapete
del Tesoro di Ulmo? >
<
Galmoth! > l'urlo dell'elfo lo fece voltare appena in tempo per
evitare la lama che stava per entrargli nella schiena. Con la destra
deviò il pugnale, mentre con la sinistra sferrava un pugno
sulla mascella dell'uomo che gli si era avventato contro.
Sferrò
un calcio e sentì le costole sotto il suo stivale
scricchiolare e incrinarsi. Era veramente molto che non faceva a
botte con qualcuno, ma fu lieto di constatare di non essersi
totalmente rammollito.
Alzò
la testa e vide Silevril scansare con agilità una lama,
sorridente e sardonico come sempre, uno scintillio di crudele
derisione negli occhi chiari.
Fece
cadere il suo avversario con uno sgambetto e gli fece perdere i sensi
sferrandogli un calcio sul viso. Spietato e violento.
Galmoth
guardò il suo avversario che si contorceva sul pavimento e
pensò a come sarebbe stato sentire le ossa del cranio
dell'uomo sotto il suo stivale, ma lui non era il tipo.
Ci
pensò Silevril al posto suo.
<
Dovresti essere più cinico, Capitano, i lamenti di quell'uomo
stavano per farci scoprire. >
Si
guardò intorno, nella penombra di quella stanza. Tutto intorno
a loro c'era solo lusso, tanto che Galmoth si sentì a disagio,
una sensazione che gli capitava solo quando, nella sua giovinezza,
era stato convocato dal Principe nelle sue stanze per ricevere
ordini.
<
Qui non c'è niente, Capitano, > disse Silevril.
<
Deve esserci, non ci sono dubbi. Tutte le nostre ricerche portano qui
e nessuno è più bravo di me quando si tratta di trovare
qualcosa da rubare. >
L'elfo
scrollò le spalle.
<
Certo, il comitato di benvenuto era scarno, ma il fatto che ci fosse
indica che hai ragione. >
Ma
Galmoth non lo ascoltava più. Aveva visto quello che stava
cercando e si sorprese di non essersene accorto prima.
C'era
una fanciulla rannicchiata in un angolo, tremante, e al suo collo,
inconfondibile, il Tesoro di Ulmo.
La
pietra sembrava oceano incastonato nel vetro e conferiva a quella
ragazza una bellezza eterea e senza pari.
<
Non ti faremo del male, > le disse, avvicinandosi, < dacci la
pietra. >
<
Non sapete quale errore state commettendo, > disse lei, e pure
nella sua paura manteneva una imponente dignità.
<
Se è un errore ne pagheremo le conseguenze, > disse
Silevril con noncuranza. Quando Galmoth aveva parlato si era accorto
a sua volta della fanciulla nell'angolo e si era avvicinato.
Mentre
diceva così, si chinò e con un gesto secco strappò
il monile dal collo della fanciulla, un gesto che Galmoth trovò
sconvolgente.
Avrebbe
voluto dirgli qualcosa, ma non ci riuscì.
La
fanciulla si era trasformata in acqua sotto i suoi occhi e di lei non
rimaneva che il pavimento bagnato.
Il
fatto che io sia riuscita ad arrivare al giro di boa della storia è
un piccolo miracolo, dato il blocco che mi affligge da due anni a
questa parte, ogni capitolo che scrivo è praticamente un parto
e arrivata a questo punto posso tirare un sospiro di sollievo e
sperare che il resto sarà non dico in discesa ma quantomeno
più facile.
Detto
questo vi lascio con il solito disclaimer e questa volta il titolo
del capitolo è un vero di “Water” dei The
Who,sul significato recondito
vi lascio fare le vostre ipotesi.
Capitolo 16 *** I don't feel right when you're gone away ***
I
don't feel right when you're gone away
Il
dolore fitto e lancinante gli attraversò il braccio e gli
arrivò dritto al cervello, esplodendo in lampi di luce
accecante che gli offuscarono la vista. Probabilmente gridò,
ma non ne era sicuro.
Aprì
gli occhi, ma attorno a lui non c'era niente se non eternità,
bianca come un vuoto infinito in cui non esisteva più lo
spazio.
Silevril
aveva la sensazione che il suo corpo non fosse davvero in quel luogo,
nonostante riuscisse a vedere con chiarezza le gambe, le mani e tutto
il resto.
Percepiva
se stesso come non era mai accaduto, come se lo fosse per la prima
volta e completamente.
Di
fronte a lui comparve una donna. Semplicemente era lì, ma fino
a un istante prima era sicuro di essere solo... anche se in realtà
la sua convinzione vacillava.
I
capelli bruni della donna si spandevano in ogni direzione, sembravano
non avere una fine, e man mano divenivano indistinti, evanescenti,
come acqua.
La
donna gli sorrise e tese una mano verso di lui in un gesto di invito,
ma dai suoi occhi sgorgavano lacrime argentee che brillavano di una
luce soffusa, come se fossero fatte di cristallo.
<
Vieni, Silevril, > lo chiamò, ma la sua bocca non si mosse.
< Vieni da me >.
Era
bella e triste, irresistibile come un sogno, ma stranamente reale. Le
andò incontro e le prese la mano che lei aveva teso; la
sensazione di calore che emanava era reale e contrastava con tutto il
resto.
<
Chi sei? > le chiese.
<
Non lo sai? > la sua voce era rotta di pianto, straziante.
<
Sento di conoscerti da sempre > e nel momento esatto in cui lo
disse, si accorse che era vero, che quella donna era dentro di lui,
in qualche modo.
<
Custodiscimi nel tuo cuore, Silevril, le mie lacrime ti
accompagneranno. >
La
donna iniziò a svanire, allontanandosi da lui come portata via
dalla corrente, i capelli che si spandevano intorno come
avvolgendolo.
<
Aspetta! > gridò, tentando di afferrarla, < Dimmi chi
sei! >
<
Sono la Signora di ogni Mare > disse, scomparendo, < custodisci
il mio cuore nelle tue mani. >
Silevril
si lanciò verso l'ultima immagine di lei, ma invano. Non ne
rimaneva che un vago sentore, come di brezza sulla battigia.
<
Uinen > sussurrò, ma lei era andata via.
Era
accaduto tutto talmente velocemente che non era riuscito nemmeno a
prendere fiato. La fanciulla si era liquefatta proprio davanti ai
suoi occhi stupefatti non appena l'elfo aveva afferrato il gioiello
dal suo collo. Lui si era gettato in avanti, ma il grido dell'elfo lo
aveva bloccato e aveva fatto appena in tempo ad afferrarlo mentre
cadeva come fulminato.
Lo
aveva chiamato per nome, in preda a un cieco terrore, ma Silevril
giaceva immobile e come morto senza apparente motivo, con gli occhi
semichiusi e vacui.
Aveva
provato a scuoterlo, ma non aveva ottenuto alcuna reazione.
Nessun
battito, nessun alito di vita, nulla che facesse pensare che l'elfo
fosse ancora vivo.
Galmoth
aveva sperimentato un senso di smarrimento totalmente nuovo, una
sensazione che lo avveva gettato nel panico.
<
Non pui morire, stupido elfo, > aveva gridato, < non così,
dannazione! >
E
poi, dopo un tempo che gli parve innaturalmente lungo, Silevril aprì
gli occhi e inspirò violentemente, per poi iniziare a tossire,
come un annegato.
Galmoth
era così sollevato che avrebbe voluto picchiarlo, invece lo
strinse in un abbraccio.
<
Maledetto elfo! Stupido idiota! Mi hai fatto prendere un colpo! >
Silevril
sorrise, gli occhi lucidi per la mancanza di fiato, ma uno scintillio
sarcastico sempre presente.
<
Non è facile liberarsi di me > disse, tra un colpo di tosse
e l'altro.
<
Cosa ti è successo? >
L'elfo
alzò la collana che aveva in mano e guardò il gioiello:
la pietra a forma di goccia splendeva di un azzurro intenso, che
cambiava sfumatura a seconda dell'angolazione, come acqua racchiusa
in un involucro di vetro scintillante.
Il
Tesoro di Ulmo irradiava bellezza e potere nelle mani di Silevril.
<
È stato come essere colpiti da un fulmine, un attimo ero qui e
il dolore era insopportabile e l'attimo dopo ero... beh, non so
esattamente dov'ero, ma lei era lì. >
L'elfo
fissava la pietra pensieroso.
Galmoth
lo scrutò, come se potesse leggergli la mente, ma non disse
nulla, attendendo che lui continuasse.
<
Uinen... >
<
Di cosa diamine stai parlando? >
<
Ha detto “custodisci il mio cuore nelle tue mani”...
Galmoth > improvvisamente si voltò a guardarlo, < questa
pietra non appartiene a Ulmo, ma a Uinen. >
Silevril
lo guardava come se si aspettasse una reazione da lui, ma Galmoth non
sapeva come reagire. Quel nome aveva fatto parte di racconti a lungo
dimenticati, di leggende della sua infanzia, favole che parlavano di
Elfi e Divinità di tempi antichi che nella sua mente non
potevano essere reali. Quale uomo aveva mai visto le Potenze
dell'Ovest? Cosa poteva saperne lui?
<
Ascolta, Silevril, > disse, mentre entrambi si alzavano in piedi,
< non è cosa che ci riguardi. Noi portiamo la pietra a
Rùth, lei fa quel che deve fare, poi io torno a Dol Amroth con
il Tesoro e mi riprendo il favore del Principe. Non mi interessa
nient'altro. >
L'elfo
sembrava quasi non sentirlo. Osservava la pietra come se quella gli
stesse parlando, poi sospirò e se la mise al collo,
nascondendola sotto la casacca.
Non
appena l'ebbe indossata vacillò, ma quando Galmoth fece un
passo verso di lui, lo respinse.
<
Sto bene, Capitano, > sorrise, < riesco a percepirne il potere
e per un attimo mi ha sopraffatto, ma ora è passato. >
<
Dalla a me, se vuoi. >
<
No, lei l'ha affidata a me e la terrò io per il momento. >
Uscirono
silenziosamente dal palazzo vuoto. Nessuno era accorso, nessuno si
era minimamente accorto di nulla e la Città continuava la sua
vita come al solito, nonostante gli uomini morti per mano loro.
Galmoth
sapeva che non sarebbe passato poi molto prima che qualcuno li
trovasse, ma a quel punto chi poteva risalire a loro due?
Gli
tornò alla mente Silevril e la dura efficienza con cui aveva
ucciso. Sicuramente anche nel caso remoto in cui la loro posizione
fosse stata in pericolo, quell'elfo non sarebbe stato una preda
facile.
Aveva
acquistato ai suoi occhi un'aura di misticismo che un po' lo
spaventava e un po' lo affascinava, ma allo stesso tempo riusciva a
percepirne chiaramente la giovinezza.
Arrivarono
sull'uscio della casa di Rùth e bussarono con circospezione
prima tre volte e poi una quarta, per poi entrare velocemente non
appena la porta si aprì.
Il
valletto che li aveva accolti la volta precedente li condusse in una
piccola stanza finemente arredata, dove la luce che passava
attraverso le tende semitrasparenti donava al tutto un'atmosfera
irreale.
Rùth
era lì, vestita con semplicità, interamente di bianco,
con i capelli rossi fiammanti lasciati sciolti sulle spalle, di una
bellezza assoluta che lo lasciò stordito. Un gatto altrettanto
candido faceva le fusa tra le sue braccia, mentre un altro, tutto
nero, era seduto ai suoi piedi.
<
Non vi aspettavo così presto, > disse e la sua voce
squillante fu persino più armoniosa di quanto ricordasse.
Galmoth
avrebbe voluto annullare quei metri che li separavano e affondare le
mani tra quei capelli, baciare le sue labbra morbide. Voleva
prenderla lì, in quella stanza, in quel momento, incurante di
tutto, se non dell'incantesimo della sua voce.
<
Vi avevo sottovalutato. >
Posò
il gatto sul pavimento e si avvicinò a lui, per poi
accarezzargli dolcemente una guancia.
<
Caro Galmoth. >
Strinse
la mascella a quel tocco, tentando invano di dominarsi. Lei sapeva
cosa provocavano in lui quei tocchi? Lo tormentava di proposito?
Aveva la sensazione che fosse così, ma in un certo senso la
cosa lo eccitava maggiormente.
Quando
si voltò verso Silevril, Galmoth si accorse di aver trattenuto
il fiato per tutto il tempo in cui lei gli era stata vicino.
<
Ah, Silevril, > disse Rùth, andando verso l'elfo, <
appena ti ho visto ho capito che eri diverso, ho capito che tu avevi
il potere necessario. Chiunque possegga il tesoro di Ulmo può
governare i mari, o almeno così dicono, e chi governa il mare,
governa Gondor. Ma chi può farlo? >
Si
sporse verso l'elfo e lo attirò a sé, baciandolo con
delicatezza a fior di labbra.
Galmoth
era affascinato dalla propria gelosia, dal desiderio improvviso di
ferire l'elfo e fargli più male possibile. Sapeva che non
poteva essere reale, osservava le sue sensazioni dall'esterno e non
riusciva a distogliere lo sguardo da lui che baciava Rùth.
E
poi fu troppo.
Uscì
quasi correndo finchè non si ritrovò in strada,
rimanendo accecato dalla luce del sole e dalla gente che viveva la
propria vita ignara di tutto.
L'incantesimo
era passato e in lui rimaneva solo un vago senso di delusione.
Solo
con lei, in una stanza che sembrava uscita da un antico racconto,
Silevril non riusciva a pensare lucidamente, troppo preso dal
desiderio che Rùth accendeva dentro di lui.
Riusciva
a sentire il Tesoro di Ulmo contro il suo petto, freddo e pulsante,
una pietra che sembrava quasi viva. Il cuore di Uinen... cosa poteva
significare?
Sapeva
che Rùth gli avrebbe chiesto la gemma, in fondo erano quelli i
patti ed era giusto, prima a lei, prima per fare qualsiasi cosa
quella fazione doveva fare e poi a Galmoth, per riprendersi il suo
onore. Lo sapeva, ma non voleva separarsi da quel gioiello che teneva
ora contro di sé.
<
Lo so, mio adorato, che vorresti fuggire via con il Tesoro di Ulmo, >
disse Rùth, la sua voce soave come sempre.
<
Non ne capisco il motivo > ammise ad alta voce, suo malgrado, <
non mi interessa di quanto accade a Gondor. >
<
Ah, Silevril, mio caro, > Rùth gli si avvicinò
maggiormente e gli accarezzò i capelli, < sappiamo entrambi
che non è quello il problema, vero? Colei che spande il suo
volere sulle onde ti ha parlato e tu non riesci a non pensare a lei.
Lo capisco. >
Lo
baciò delicatamente su una guancia, lasciandogli una traccia
che sembrava rovente.
<
Ma non è che un'illusione. Dobbiamo far presto, perché
Felagund è ormai su di noi e presto verrà da me ed io
non ho il potere di combattere contro di lui. >
<
Come conosci le intenzioni di Finrod Felagund? >
<
Conosco molte cose in questa Città. >
Lo
sguardo di Rùth si fissò nel suo, intrappolandolo.
Un
gatto gli passò tra le gambe, strusciandosi su di lui,
sbattendo la testa contro il suo polpaccio.
La
sensazione del pelo morbido dell'animale lo fece rabbrividire e
dovette deglutire a vuoto.
Rùth
era così vicina che poteva vedere le venature delle sue iridi
verde chiaro.
<
Non permetterò a Felagund di farti del male, > le disse.
Tutta
la fascinazione che aveva provato nei confronti dell'elfo sembrava
svanita, un ricordo lontano, quasi un sogno dimenticato. Era
consapevole che per un breve, intenso, istante lo aveva amato, aveva
desiderato la sua compagnia, ma era come se quei sentimenti fossero
di qualcun altro.
Il
Tesoro di Ulmo pulsò più forte contro il palmo della
sua mano quando se lo tolse dal collo e lo mise a quello di Rùth.
Lei
lo accarezzò con le dita, ma non distolse lo sguardo da lui.
Silevril
annullò completamente la distanza che lo separava da lei e la
baciò.
Ogni
cosa era come l'aveva sognata, la bocca di Rùth morbida contro
la sua, i suoi riccioli di fuoco, la pelle serica del collo, i suoi
seni che premevano contro di lui.
La
voleva, come non aveva mai voluto nient'altro. Le aprì la
bocca e le accarezzò la lingua con la lingua, cercando in ogni
modo di impossessarsi di lei, della sua essenza, di ciò che
era.
Eppure
sapeva, dentro di lui, che in realtà era lei a possederlo, a
trarre da lui forza, e più la baciava, più il suo
desiderio cresceva e resisterle diventava impossibile.
C'era
solo Rùth e lei prendeva da lui ogni cosa.
Ma
non gli importava.
Si
sentivano solo i gabbiani e il mormorio dell'acqua contro la chiglia,
tutto il resto era silenzio e pace, rotto dal suono secco di vetri
infranti.
Il
vino che stava bevendo macchiò il ponte, ma a lui non
importava altro che di sorreggerla.
Non
capiva cosa era accaduto, ma i morsi del panico gli strinsero
spiacevolmente lo stomaco.
Lei
era pallida e tremante, gli occhi sbarrati, il viso impassibile come
sempre, ma a lui non era nescessario leggerla, la conosceva troppo
bene e da troppo tempo per farsi ingannare dalle apparenze.
Raramente
un tale sconvolgimento aveva attraversato quello spirto inquieto.
<
Che succede? > le chiese, ansioso.
Lei
si voltò a guardarlo, scossa e impaurita.
<
Qualcosa dentro di me si è spezzato. >
Aeglos
guardò Alatariel negli occhi, chiedendole silenziosamente di
non dire quello che stava per dire, ma erano speranze vane.
<
Lui è andato via, > esalò, la voce rotta dal pianto,
< il mio legame con Silevril si è spezzato. >
Non
riesco a crederci nemmeno io, eppure eccomi qui con il nuovo capitolo
dopo poco più di due settimane. Comunque, so di aver provocato
stravolgimenti psichici e morti ormonali con la comparsa a sorpresa
di Aeglos, ma oh, donne, non potevo avvertirvi prima. Spero che
stiate tutte bene. Il titolo di questo capitolo è un verso di
“Broken” di Seether, che è anche un richiamo a
'Saesa omentien lle' in cui era Aeglos a cantare questa canzone in
uno dei suoi tipici momenti emo depressivi. Qui l'autoreferenzialismo
si da via come il pane.
Ora,
sapete che sono solita salutarvi alla maniera vulcaniana, perciò
permettetemi di dedicare il capitolo al grandissimo Leonard Nimoy, un
uomo che per me è stato molto più che semplicemente
Spock, più di un attore che amavo, ma un vero esempio di
umanità, un amico, anche se lui non sapeva nemmeno che
esistessi. Grazie, Leonard, non ti dimenticherò mai.
Rumore
di vetri infranti, il tonfo sordo di una sedia che veniva
scaraventata in terra. Ad Aeglos sembrava che ognuno di quegli
oggetti gli venissero gettati addosso.
Aveva
girato la prua verso la piccola gola davanti casa sua e aveva
ricondotto Il Giuramento a riva più velocemente
possibile. Tremava, mentre stringeva il timone.
Alatariel
era rimasta immobile per tutta la durata del tragitto, poi, non
appena era rientrata in casa, aveva iniziato a distruggere ogni cosa
le capitasse a tiro.
Prendeva
i biccheri e le coppe e li lanciava contro il muro con metodicità,
prendeva a calci tavoli e sedie con una furia cieca. Lo spaventava
come non era mai capitato prima.
<
Alatariel, > tentò di attirare la sua attenzione, ma
inutilmente.
L'afferrò
per le spalle e la circondò con le braccia, stringendola. Lei
tentò di divincolarsi debolmente, ma lui la strinse di più,
finchè non si lasciò andare contro di lui.
Non
gli era mai sembrata così piccola e fragile, così
giovane.
Alatariel
singhiozzzava come una bambina contro il suo petto e lui non sapeva
cosa fare, il panico che minacciava di sopraffarlo.
<
È accaduto
qualcosa di terribile, > la sentì dire con voce flebile, <
lo percepisco dentro di me come se fosse corporeo. >
Non
le rispose. Come poteva? Sentiva che se avesse aperto bocca sarebbe
crollato e non poteva permetterlo. Doveva rimanere in sé,
almeno lui.
Alatatiel
si scostò leggermente e lo guardò, le lacrime che le
bagnavano le guance e il mento, gli occhi arrossati; un tale
sconvolgimento non lo aveva mai visto prima sul suo viso e ogni segno
della sua solita impassibile freddezza sembrava non esserci mai
stato.
<
Aeglos... >
<
Non dire nulla, ti prego > la interruppe.
Lei
lo guardava con occhi sbarrati, terrorizzata.
<
Come puoi saperlo? Come? Per tutti i Valar, Alatariel, come puoi
saperlo? >
<
Silevril ed io siamo sempre stati connessi, sentivo i suoi pensieri,
sentivo il suo spirito ed il suo cuore sin da quando era solo una
cosa minuscola dentro di me... non esiste più nulla e ora
sento solo il vuoto. Oh, Aeglos, non capisci? Non vedi cosa questo
significhi? >
No,
non riusciva ad accettarlo, non riusciva nemmeno a immaginare l'idea.
Alatariel si sbagliava, doveva esserci un'altra spiegazione.
Alatariel
si stava sgretolando e aveva l'impressione che se avesse soffiato lei
sarebbe svanita.
Scosse
la testa e le voltò le spalle.
<
Devo trovarlo, devo scoprire cos'è successo. >
<
Aeglos... >
<
Se è partito con una nave da Dol Amroth potrei scoprire dove
era diretto, potrei raggiungerlo... >
<
Aeglos... >
Non
l'ascoltava. No, doveva credere in qualcosa, in una spiegazione
alternativa, non poteva arrendersi. Lui non aveva sentito nulla, non
aveva quel legame speciale, ma Silevril era suo figlio, parte di lui,
sangue del suo sangue. Non poteva permettere che una sensazione
negativa mandasse in pezzi la sua vita.
<
Aeglos! >
Alatariel
gridò e lui si immobilizzò.
<
Aeglos, Silevril è morto! Ah! >
Gemette.
Si accartocciò su se stessa, le mani che le graffiavano la
faccia. In ginocchio sul pavimento, il sague che le colava attraverso
le dita e i capelli che la nascondevano come un manto, Alatariel non
sembrava più la donna che conosceva.
Era
uno spettacolo orribile e l'orrore che provava avrebbe potuto
sopraffarlo finchè non avrebbe iniziato a strapparsi i capelli
anche lui.
Si
inginocchiò di fronte a lei e la prese tra le braccia, la
baciò sui capelli.
<
No, mia sposa, mia splendida e forte Alatariel, non è questo
che è accaduto. > La baciava e la cullava contro di sé
e lei tremava, ma almeno aveva smesso di gemere come se fosse in
agonia.
<
Andrò a cercarlo, anzi, andremo insieme, e lo troveremo e lo
salveremo se è ciò che dovrà essere fatto. Non è
morto. >
E
mentre lo diceva arrivava a crederci.
Non
poteva sentire i pensieri di suo figlio, non aveva mai potuto, non
nel modo in cui lui era legato a sua madre, ma poteva comunque
sentirselo dentro.
Gli
tornò alla mente la prima volta che aveva posato gli occhi su
di lui, un esserino piccolo e indifeso con un ciuffo di folti capelli
scuri: aveva appoggiato la fronte sul suo petto e aveva pianto e in
quel preciso istante aveva capito che la sua vita apparteneva a lui.
Ne
era sicuro, nel momento stesso in cui Silevril avrebbe esalato
l'ultimo respiro anche lui, Aeglos, avrebbe smesso di vivere.
Se
respirava ancora allora, da qualche parte, lo faceva anche suo
figlio.
Quello
non era Silevril, Galmoth ne era assolutamente certo.
Non
che ci fosse qualcosa di diverso nell'elfo, camminava come al solito,
parlava come al solito, eppure non appena era uscito da quella stanza
Galmoth aveva avuto un brivido.
Stavano
tornando alla locanda in cui avevano dormito e lui lasciava che
l'elfo camminasse davanti. Era allegro, tanto che sembrava quasi un
ragazzino, con i capelli neri e fluenti sulle spalle, le mani nelle
tasche dei calzoni e la voce squillante.
Era
allegro e Galmoth sapeva che il motivo era Rùth, era quei
lunghi minuti che aveva trascorso solo con lei. Non riusciva a essere
nemmeno geloso, non riusciva a pensare a nient'altro che alla
sensazione di paura che provava in quel momento.
Silevril,
il suo amico Silevril...
Improvvisamente
l'elfo si voltò e lo investì con la potenza del suo
sguardo: nessun luccichio sarcastico nei suoi occhi, niente. Non
riconosceva l'essere che gli stava di fronte.
<
Sei stranamente silenzioso, Capitano, > disse Silevril, < non
sei contento? Rùth ha ciò che vuole e presto potrai
avere indietro la tua carica. >
<
Sì, > tentò di sorridere, < ma pensavo... >
<
Non dovresti pensare così tanto, >lo interruppe l'elfo,
secco.
<
Pensavo > continuò con insistenza, < che forse non ne
vale la pena. Insomma, cosa sappiamo veramente di Rùth e del
suo piano? Credi veramente che dietro tutto ciò ci siano i
mercanti di Erba Pipa? >
Silevril
sbuffò e fece per continuare per la sua strada, ma Galmoth lo
afferrò bruscamente e lo fece voltare di nuovo verso di lui,
avvicinandosi.
<
Quella donna non mi convince, elfo! > Sibilò, < Non è
chi dice di essere e tu... beh, tu ti sei fatto coinvolgere anche più
del necessario! >
<
E tu? Tu chi sei per dirmi queste cose? >
Silevril
lo guardava torvo, minaccioso, e Galmoth lasciò immediatamente
la presa, come se si fosse scottato.
<
Stai tranquillo, Capitano, il Tesoro di Ulmo è in buone mani.
>
L'elfo
riprese a camminare per la sua strada, ma lui non lo seguì
subito. Era stato uno stupido, si disse, ed ora se ne rendeva conto.
Aveva perso quanto di più vicino a una figlia avesse mia
conosciuto e ora stava perdendo un amico, tutto per sogni di gloria
ristorata e le parole di un affabulatore come Baran.
Aveva
messo in moto qualcosa di oscuro e pericoloso in quella città
che non aveva niente a che vedere con le corporazioni dei mercanti, e
doveva fare qualcosa, mettere le cose a posto.
Doveva
trovare Laer, se era ancora in città, elaborare un piano.
Doveva
riavere ciò che si era lasciato sfuggire.
Lanciò
un'occhiata rapida verso Silevril e vide che era ancora di spalle,
probabilmente convinto che lui lo stesse seguendo. Sicuro che l'elfo
non lo vedesse, scartò di lato, in una strada che si
intrecciava a quella su cui si trovava, e sparì tra la folla
pomeridiana.
Le
Cascate di Rauros erano ormai lontane e contava di riuscire a
scorgere i prati del Lebennin prima di quanto avesse previsto.
Forlond ringraziò ancora una volta la corrente che rendeva il
viaggio verso sud almeno due volte più veloce di quanto era
stato quello verso nord.
Il
ragazzo, Barry, lo guardava con sguardo accusatorio, ma in fondo non
gli importava gran chè, poteva anche andarsene per la sua
strada una volta arrivato a Umbar o a Dol Amroth... non aveva ancora
deciso in quale porto dirigersi.
<
Non credi che sia stata una decisione da vero bastardo, mellon nin? >
La
voce canzonatoria di Conn fu accompagnata dalla solita scodella
fumante. Possibile che quel rohirrim non uscisse dalla sua angusta
cucina se non per rifilargli la sua brodaglia accompagnata da
commenti sgraditi?
<
Se pensi che me ne sarei stato a Rauros ad aspettare i comodi di
Galmoth, non mi conosci per niente! >
<
Rimani comunque un bastardo > rispose l'uomo, alzando le spalle e
sedendosi accanto a lui.
Forlond
soffiò sulla sua zuppa e ne prese una cucchiaiata.
<
Se sapevi che avrei rubato la nave e me ne sarei andato, perchè
non hai avvertito Galmoth? > chiese infine.
<
Prima di tutto perchè non ne era così sicuro e poi
perchè nemmeno io avevo troppa voglia di rimanere a Rauros ad
aspettare. Possiamo sempre tornare a riprenderlo tra qualche tempo. >
Forlond
rise forte: forse l'avrebbe fatto davvero, solo per vedere la faccia
del Capitano nel vederli tornare a recuperarlo.
Salve
a tutti, miei adorati! Sono tornata con un capitolo per la verità
un po' corto, ma vi assicuro che è stato alquanto faticoso da
scrivere, alatariel ormai mi sta trascinando nel vortice della sua
follia e risalirne non è affatto facile, rischio sempre di
rimanerci intrappolata dentro. Comunque, alla fine sono sopravvissuta
quanto bastava per arrivare alla fine del capitolo.
Questa
volta il titolo del capitolo è particolare, perchè è
un verso della splendida Abigail's
Song una
canzone che fa parte della colonna sonora di A
Christmas Carol speciale
di natale del Doctor Who, composta da quel Maestro assoluto che è
Murray
Gold
(davvero, è nel mio olimpo dei compositori mondiali con Ennio
Morricone e Hans Zimmer) e cantata daKatherine
Jenkins,
mezzo-soprano gallese dalla voce celestiale. Avvero, ascoltatela
perchè è straordinario, vi lascio anche il link.
Capitolo 18 *** I think I thought I saw you try ***
I
think I thought I saw you try
Every
whisper Of
every waking hour I'm
choosing my confessions Trying
to keep an eye on you Like
a hurt, lost and blinded fool, fool Oh
no, I've said too much I
set it up
Laer
uscì con passo incerto, leggermente frastornata, ma lui non la
seguì. Rimase nella grande sala del trono, incapace di muovere
un muscolo.
<
C'è qualcosa che vuoi dirmi, Finrod, lo vedo nei tuoi occhi. >
Il
Re sorrise dolcemente e poggiò il mento sulla mano,
rilassandosi sul suo seggio.
Aveva
rughe sottili intorno agli occhi e qualche filo d'argento tra i
capelli, ma l'espressione era sempre la stessa, l'identico sorriso di
quando era un ragazzino.
Estel
era Re di Gondor da solo dieci anni ma non era più giovane da
molto tempo e Finrod riusciva a vedere la saggezza e la spossatezza
della vecchiaia in lui, ben celata dietro il vigore. Suo padre aveva
tratti elfici, ma lui non ne portava traccia alcuna e questa era una
caratteristica che Finrod apprezzava sempre in un uomo.
<
C'è qualcosa che non mi convince in quella ragazzina >
disse al Re, incrociando le mani dietro la schiena.
<
È collegata a questi ribelli e ai sediziosi che minacciano la
pace di Gondor. >
<
No, Sire, è qualcosa di più. Non credo che questo
tradimento sia frutto dell'insoddisfazione di un gruppo di mercanti,
né di nobili scontenti. C'è il male nascosto tra le
pieghe di quanto sta accadendo e sento il mio cuore farsi freddo e
vuoto al solo pensiero. >
Il
Re non rispose, rimase silenzioso, attendendo che l'elfo continuasse
a parlare, ma Finrod non riusciva a districare i suoi pensieri e le
sue sensazioni.
Era
da molto tempo che non avvertiva il tocco dell'oscurità sulla
sua anima e si era dimenticato quanto riuscisse a farlo sentire
inadeguato... ogni volta che aveva sfidato il Male aveva perso. Era
morto in molti modi e ognuno di essi era stato orribile e lo avevano
reso la creatura fragile che era ora.
Si
era rifugiato in quel precario equilibrio per riconquistare la sanità
mentale, ma bastava appena uno spiffero perché ogni cosa
intorno a lui crollasse, disfacendosi come neve al sole.
Sentiva
il pericolo dell'abisso che si apriva proprio dinanzi a lui e lo
percepiva tanto più intensamente quando Laer era con lui... lo
aveva sentito ancora più profondamente in compagnia di
Silevril, ma non poteva ammetterlo nemmeno a se stesso.
Sospirò,
sconfitto, e chiuse gli occhi per un istante, prima di parlare.
<
Scoprirò chi e cosa si nasconde dietro tutto questo, non
temere. >
<
So che sarà così, mio signore Felagund, mi fido di te
come di nessun altro. >
Il
Re gli sorrise, le piccole rughe intorno agli occhi che si facevano
più profonde, conferendogli dolcezza. Per un secondo ridivenne
il bambino che era stato molti anni prima, quando si erano esercitati
insieme con la spada e con l'arco.
<
Tornerà la luce a Minas Tirith, Estel, e non permetterò
a nessuno di farti del male, > disse, in un impeto di dolcezza
paterna verso di lui.
Si
inchinò e uscì senza aspettare la risposta. Non ve ne
era bisogno.
Aeglos
attizzò il fuoco con un ramo abbastanza lungo, senza voltarsi.
Poteva sentire il respiro leggero di Alatariel accanto a lui, i suoi
occhi che lo trafiggevano, ma si impose di ignorarla.
Poco
meno di ventiquattro ore di viaggio separavano la sua casa sulla
scogliera da Dol Amroth, di cui ne aveva percorse la metà, ma
gli erano parse come settimane intere, oppresso dal silenzio doloroso
di sua moglie che cavalcava al suo fianco. Non si erano detti nemmeno
una parola, solo ogni tanto la sentiva tirare su col naso e sospirare
pesantemente. Lui invece era riuscito a rimanere impassibile, come
svuotato, e per questo si sentiva pericolosamente in bilico sull'orlo
della totale follia.
Si
alzò in piedi e fece per andare a stendersi poco distante. Non
aveva bisogno di dormire, ma aveva deciso comunque di fermasi per la
notte di modo da arrivare in città di prima mattina.
Non
appena si mosse, Alatariel lo afferrò per il polso.
<
Aspetta. > disse. La sua voce era roca, gracchiante, a causa del
pianto.
Si
voltò e vide che lei lo stava guardando a occhi spalancati,
nessuna traccia di sentimento nonostante fossero cerchiati di rosso.
<
Dormi, > le disse, < riposa per un po' e domani ti sentirai
meglio. >
La
sua bocca tremò e si assottigliò, in un tipico segno di
collera.
<
Perché stiamo andando nella città degli uomini? Cosa
speri di trovare, Aeglos? >
La
sua voce era come una lama affilata.
<
Non è morto, lo so, lo sento. Avremo sue notizie, lo
troveremo, lo salveremo. >
Improvvisamente
lei rise. Era una risata crudele e priva di qualsiasi allegria, tanto
che gli fece male.
<
Sei uno stupido. >
<
No > rispose secco, liberandosi dalla sua stretta con un gesto
brusco, < sei tu la stupida se ti arrendi così facilmente.
>
<
Non c'è più nulla di lui in questo mondo, Aeglos! >
esclamò.
Ebbe
un gesto di stizza e distolse lo sguardo da lui, perdendosi nel
fuoco.
<
A volte vorrei che Legolas fosse qui, lui capirebbe. Tu, invece, ti
ostini a contraddirmi in ogni cosa. > Sospirò. < Il
vuoto dentro di me è talmente profondo che mi sembra di
impazzire, > si guardò la mano destra aperta, assorta, <
sento il dolore della mia vecchia bruciatura come se me la fossi
fatta ieri. Non sai cosa significa per me, non lo hai mai capito e
non ti è mai interessato davvero, tutto ciò che il
Silmaril è stato e ciò che Silevril ha comportato. Lui
non è solo mio figlio, Aeglos, lui è il mio giuramento
mantenuto e ora che mi è stato strappato via esso è
tornato a bruciare. Brucio e non riesco a pensare ad altro. >
Alzò
di nuovo lo sguardo su di lui. La sua pelle sembrava di fiamma,
accesa dal riverbero del fuoco, e i suoi occhi gli apparivano neri
come pece e illuminati di stelle.
<
Mi offendi, Alatariel, > le disse, duro, < se credi di poter
vantare un amore maggiore nei confronti di mio figlio! E ti sbagli se
credi che Legolas ti capirebbe, anzi, è più probabile
che lui ti considererebbe pazza. No, io capisco che vuoi dire, ma mi
rifiuto di assecondare ancora una volta la tua ossessione! >
<
La mia ossessione dici? > Scosse la testa e si alzò in
piedi. Lo circondò con le braccia e parlò nel suo
collo. < No, mio amato Aeglos, una maledizione. >
Si
scostò nuovamente e lo guardò negli occhi.
<
Silevril è morto > sussurrò < ed io... io devo
raggiungerlo. >
La
schiaffeggiò.
Alatarel
barcollò e si appoggiò a lui, ma Aeglos la scosse con
violenza per le spalle.
<
Stupida! > Gridò, < Non dire queste cose! >
<
Devi accettarlo e dire addio a entrambi! >
<
No! > la schiaffeggiò ancora. Voleva che la smettesse,
voleva che reagisse, voleva che facesse qualsiasi altra cosa che non
fosse dire quelle parole.
<
Vuoi andartene? > gridò < Perché non sgattaioli
via nella notte come fai sempre? Vattene, ma poi torna, capito?
Torna! >
Fu
come un crack e qualcosa dentro di lui si spezzò. Lacrime gli
bagnarono le guance e gli appannarono la vista.
Non
riusciva a ragionare, sapeva solo che l'idea di perdere Silevril era
insopportabile e che se avesse perso anche lei sarebbe impazzito.
Voleva colpire ogni parte di lei finché non si fosse
rimangiata tutto, anche se la conosceva troppo bene per sperare che
fosse davvero utile.
Alatariel
si era fatta schiaffeggiare da lui senza muovere un muscolo, come se
capisse che era ciò che gli serviva.
E
alla fine si gettò tra le sue braccia e lei lo strinse
intrecciando le mani nei suoi capelli. Il profumo di lei era
inebriante, il suo corpo era come una roccia in un fiume in piena.
<
Non farlo, Alatariel, > la supplicò.
La
sentì tremare appena, poi si scostò per baciarlo sulle
labbra.
<
Non dipende da me, mio caro, amato Aeglos, non è mai davvero
dipeso da me e tu questo non lo hai mai capito. >
Lo
baciò ancora e con un dito raccolse una delle sue lacrime.
Anche lei piangeva, ma il suo volto sembrava di pietra.
<
Ti seguirò > disse infine, < ma ho paura che la tua
speranza sia vana. >
<
Potrebbe essere come dici. In quel caso, allora, sarò io a
seguirti. >
Quando
Finrod la raggiunse provò lo strano istinto di gettarsi tra le
sue braccia.
Si
sentiva così sola che avrebbe voluto piangere, sì,
piangere disperatamente tra le braccia di quell'elfo dall'aspetto
umano e dagli occhi scintillanti.
Aveva
in sé il fascino di Silevril e la forza di Galmoth e lei
sentiva la mancanza di entrambi come una presenza fisica che
l'avviluppava completamente.
Si
avviarono verso l'uscita e poi nella piazza, dove l'Albero Bianco
brillava alla luce della luna.
Finrod
le camminò accanto, silenzioso, per qualche minuto, poi,
improvvisamente, le circondò le spalle con un braccio.
Laer
alzò lo sguardo verso di lui, ma lui non la stava guardando:
camminava perso nei propri pensieri, pallido e malinconico. L'istinto
di stringerlo si fece ancora più forte e non riuscì a
resistere, passandogli a sua volta un braccio attorno alla vita.
<
Non so spiegarne il motivo, > gli disse piano, < ma mi fido di
voi, sire Felagund. >
Lui
si fermò e la fissò a occhi spalancati.
La
sorpresa nei suoi occhi era commovente e Laer si chiese se mai, nella
sua lunga vita, quell'elfo fosse stato amato da qualcuno.
Si
sentiva stupida, ancora una volta vittima del fascino di qualcuno che
aveva appena conosciuto, ma non riusciva a farne a meno.
Non
sapeva nemmeno lei cosa provava, se era riconoscente, se ne era
spaventata o attratta o se con lui si sentiva protetta.
<
Laer, > sussurrò lui, mettendoglisi di fronte e
afferrandola per le spalle, < non permetterò a niente e
nessuno di farti del male. >
<
Lo so, mio signore. Voi mi avete salvata. >
Si
sentiva una perfetta idiota, ma non riusciva a pensare lucidamente,
con quello sguardo addosso.
<
Ma devi parlare, mia piccola, coraggiosa Laer, devi dirmi tutto ciò
che sai. >
I
suoi occhi erano profondi, come un pozzo di cui non si scorge la
fine.
Così
belli e gentili... non ne aveva mai visti di simili.
<
Devi dirmi cosa sta succedendo >.
Non
riusciva a vedere nient'altro che lui, la sua bellezza potente e
antica, la sua purezza e la sua sofferenza. Avrebbe voluto stringersi
a lui per sempre, dimenticare il rifiuto di Silevril, dimenticare
quanto Galmoth l'avesse delusa... dimenticare quanto avrebbe voluto
non essere mai scesa dalla Stella.
Finrod
le stava parlando, ma le sue labbra non si muovevano. La sua voce era
come velluto nella mente.
<
Il Tesoro... > gli disse infine, come in un sogno.
<
Il Tesoro? >
<
Il Tesoro di Ulmo > sussurrò, come se stesse confidando il
suo segreto più intimo.
Il
gatto si leccò una zampa distrattamente, per poi rivolgere la
sua attenzione alla sua padrona, il pelo folto e bianco che sembrava
scintillare alla luce delle candele. Sentiva ancora l'odore dell'elfo
nella stanza, come di mare in un giorno di tempesta.
Era
un odore che gli faceva venire fame.
La
sua padrona era seduta a poca distanza da lui e si pettinava i
capelli, canticchiando a bassa voce, poi i suoi occhi incontrarono
quelli del gatto e lo fissarono per qualche minuto.
<
Ci siamo quasi, mio caro, > disse.
Il
gatto si alzò e le andò incontro, strusciandosi contro
di lei.
<
Seguilo. Il suo cuore è mio, ma il suo spirito è forte
e ho paura di non riuscire a sopraffarlo. >
Miagolò
e lei gli sorrise.
Si
avviò a passo svelto verso l'uscita, inoltrandosi poi per le
strade di Minas Tirith.
Amava
i vicoli tortuosi di quella città, amava i suoi tetti di
pietra bianca dove, di notte, era facile mimetizzarsi,
attraversandoli come un'ombra, invisibile se non per un luccichio
fugace dei suoi occhi gialli.
Percepì
la presenza dei suoi compagni intorno a lui e drizzò la coda,
radunandoli.
Nove
figure uscirono dall'ombra, nere come la pece, a esclusione degli
occhi.
Gli
si radunarono intorno, in attesa. Lui li guardò a uno a uno,
incatenando le loro menti alla sua, comunicando con loro in quel
linguaggio segreto che solo i gatti conoscono.
Seguire
l'elfo. Seguire l'altro umano. Amare solo e soltanto la padrona.
Un
guizzò nell'oscurità, la coda di uno di loro che si
muoveva fulminea da una parte all'altra.
Il
gatto rimase immobile, mentre gli altri andavano via, silenziosamente
come erano venuti, disperdendosi nella notte profumata di Minas
Tirith.
Ma
salve, miei adorati e silenziosi lettori che ormai sarete andati
tutti via!
Prometto
sempre che aggiornerò più spesso e ogni volta passano
mesi e mesi, perciò questa volta sto zitta.
La
storia intanto avanza, io sembro aver superato il blocco dello
scrittore e Hareth sarà davvero felice di aver visto Alatariel
presa a ceffoni dal caro Aeglos. I miei personaggi li amo tutti senza
eccezioni, ma devo dire che scrivere di quei due pazzoidi schizzati
mi diverte sempre in modo particolare e prima o poi uno
strizzacervelli sarà in grado di capire cosa non va in me.
Vi
lascio come al solito dicendovi che titolo e strofa sono presi da
“Losing my religion” dei R.E.M., colonna sonora di questo
capitolo.
Capitolo 19 *** Reminds me of childhood memories ***
Reminds
me of childhood memories
Atalariel si svegliò
di soprassalto, spalancando gli occhi tanto in fretta da farsi quasi
male. La luce della luna l'accecò.
Si mise a sedere,
avvolgendosi maggiormente nella coperta di lana che la proteggeva
dall'aria fredda della notte.
Aeglos dormiva
accanto a lei, il respiro regolare e sereno così tipico di
lui. Era nudo e la curva delle sue natiche la ipnotizzava, le sue
spalle la invogliavano a toccarlo, ad accarezzarlo, ma non lo fece.
Dopo il loro litigio, dopo quella promessa di morte che si erano
scambiati, avevano fatto l'amore come mai era capitato prima.
Era stato disperato,
era stato violento e sterile, per la prima volta in migliaia di anni
tra loro vi era stata solo nuda passione. Non aveva sentito lo
spirito di Aeglos unirsi al suo, non aveva sentito la sua mente, ma
solo il suo corpo, caldo e sudato.
Si era addormentata,
stanca e triste, senza che quel rapporto le avesse portato alcun
giovamento.
E aveva sognato.
Ricordava ancora la
pelle incredibilmente bianca di Uinen, i capelli che si diramavano in
ogni direzione, la voce eterea che le parlava. Non riusciva a
ricordare cosa si fossero dette, ma il senso di vuoto che provava si
era leggermente attenuato, come se il solo sognare la Maia le avesse
per un attimo fatto dimenticare che Silevril non c'era più,
che lo spirito di suo figlio era scomparso da Arda.
Allungò una
mano e infilò le dita tra i capelli biondi di Aeglos, per poi
scendere sulla schiena, seguirne il contorno. Quando arrivò
alle natiche si accorse che lui era sveglio e la stava guardando di
sottecchi, con la testa girata verso di lei. I suoi occhi brillavano
nella notte ma erano colmi di amore.
Che essere
meraviglioso era! Sembrava che non fosse accaduto nulla tra loro,
sembrava solo un'altra notte passata nella loro casa sulla scogliera,
o sotto le fronde dell'Ossiriand, tanti anni prima.
< Non ti fermare
> le disse, quando lei ritrasse la mano.
Si sdraiò
contro di lui, coprendo entrambi con la coperta. Lo circondò
col braccio e con la gamba, mentre Aeglos le afferrava gentilmente
una ciocca di capelli e ci giocherellava.
Si sentiva rilassata
e al sicuro, così stretta contro di lui, pelle contro pelle.
< Devi avere
fede, Alatariel > disse Aeglos a bassa voce, in tono intimo.
< Ci provo, ma
nella mia mente lui non c'è più e questo mi terrorizza.
>
< Lo so, credimi.
Ma non posso pensare a una tale eventualità e nel profondo sai
che ho ragione. >
La guardò per
un secondo con un sorriso negli occhi.
< Ma non lo
ammetterai mai. >
Le scappò una
risata, che ben presto sfociò nelle lacrime.
Aeglos gli si fece
più vicino e la baciò.
< Ti amo, per
questo. >
Rimasero così
per un po'.
Alatariel riusciva a
sentire il respiro di suo marito su di sé, lo vide chiudere
gli occhi e rilassarsi.
< Ho sognato
Uinen, > disse infine, a bassa voce, quasi avesse paura che
qualcun altro potesse sentirla.
< Mi ha parlato
di Silevril > continuò, < ma non riesco a ricordare cosa
mi ha detto. >
Ora Aeglos era
sveglio, all'erta.
< Come sai che
era Uinen? >
< Perché
la vidi, molti anni fa, nella mia giovinezza in Tìrion. I suoi
capelli erano come i fiumi e la sua pelle candida come la sabbia di
Alqualonde. >
< Credo di averla
sognata anch'io... ma non l'ho riconosciuta. La Signora di ogni Mare
mi ha parlato ma io non l'ho ascoltata. >
Aeglos pianse,
silenziosamente e con compostezza, trasmettendole un dolore enorme,
in un modo che lei gli aveva sempre invidiato.
Questa volta fu lei
a baciarlo.
< Sai cosa vuol
dire questo, mio amato? Che forse avevi ragione e una speranza c'è
ancora. Forse Uinen tornerà da noi e ci parlerà.
Andiamo a Dol Amroth. >
< So che non ci
credi davvero, Alatariel, ma ti ringrazio lo stesso. >
Si abbracciarono e
Aeglos affondò il viso tra i suoi capelli, perdendocisi.
La luna era ancora
alta, ma l'alba non era lontana e già si sentiva qualche
allodola cantare in lontananza.
Ma avevano qualche
ora, ancora, per rimanere in quel limbo di sollievo che l'aveva
avvolta, prima di scostare la coperta e tornare al cupo terrore che
no, non c'era alcuna speranza ed il vuoto era totale.
Lì, stretta
nell'abbraccio di Aeglos, riusciva quasi a credere di poter
conservare la sua vita... la vita di entrambi.
Nascosto dietro un
angolo, Galmoth si sentiva talmente impaziente che avrebbe preso a
calci la porta.
Non era stato
difficile trovare quella casa, dato che praticamente chiunque in
città la conosceva, persino gli ubriachi e i mendicanti che
infestavano le stradine della cerchia esterna. Si era aspettato un
grande palazzo, uno di quelli che i generali del Principe si facevano
costruire appena a ridosso del porto, dove il sole riverberava
sull'acqua e rendeva il panorama mozzafiato. Anche lui aveva avuto
una casa come quella, pensò con una nota di rammarico.
Invece il grande
Finrod Felagund abitava in una piccola casa modesta, appartata, con
un portoncino rosso e una quantità spropositata di vasi e
fiori. Un gatto nero era seduto lì sul lato e sembrava fissare
proprio Galmoth con aria attenta, muovendo a scatti la coda.
L'intero quadro gli
metteva voglia di ridere.
Proprio quando aveva
deciso di raccogliere il coraggio e bussare, la porta si aprì
e l'elfo uscì di casa. Era molto diverso rispetto agli elfi
che aveva visto a Dol Amroth ed era molto diverso da Silevril:
sprigionava un potere latente, ma irresistibile. Era antico e Galmoth
poteva sentirlo come tangibile, una sorta di aura che si irradiava da
lui, dalla sua figura slanciata e dalle sue movenze eleganti.
Aveva lunghi capelli
biondo cenere, sciolti sulle spalle, con solo una sottile treccia nel
mezzo. Indossava la divisa delle Guardie della Cittadella e l'Albero
Bianco sembrava risplendere di luce propria.
Guardò il
gatto e quello fuggì via, spaventato.
Galmoth fece per
avvicinarsi di soppiatto, allungando un braccio per poter attirare la
sua attenzione con discrezione, ma non fece in tempo.
Con uno scatto
fulmineo, l'elfo gli afferrò il polso e gli torse il braccio
dietro la schiena, immobilizzandolo contro il muro.
< Non ti conosco
> disse in tono perentorio, < ed io conosco tutti in Minas
Tirith. Chi sei? >
< Mi chiamo
Galmoth, > rispose, cercando di ignorare il dolore alla spalla, <
ho qualcosa da discutere con te, Sire >
Lo fece voltare, ma
gli impedì qualsiasi movimento bloccandolo ancora contro il
muro.
< Sto ascoltando
> sibilò.
< Sono sicuro che
tu ti stia chiedendo cosa sta succedendo in Città. Beh, potrei
saperne qualcosa. >
Finrod lo fissò
in silenzio per qualche secondo, finché Galmoth non dovette
abbassare lo sguardo.
< Perché
vieni da me a dirmi questo? >
< Silevril. >
L'elfo sembrò
sbiancare di colpo, tanto che Galmoth si chiese se non sarebbe
svenuto lì sul posto, ma si riprese abbastanza in fretta.
< Come lo
conosci? >
< Siamo amici. So
che vi siete incontrati sulle mura qualche giorno fa e lui ne è
rimasto turbato. Cercava di nasconderlo, naturalmente, ma era
piuttosto palese che non riuscisse a pensare ad altro che al vostro
incontro. >
< Non capisco. >
< Silevril è...
beh, non so cosa gli sia successo, ma credo che sia in guai seri. Sta
succedendo qualcosa di molto sinistro in questa città e
Silevril ci è dentro fino al collo. Devi aiutarmi! >
Rimasero in silenzio
entrambi, solo i suoni della città che lentamente tornava alla
vita dopo il riposo notturno. Una campana suonò l'inizio del
primo turno di guardia della nuova giornata.
Finrod si allontanò
leggermente da lui, lasciandolo andare, per poi passarsi le mani sul
viso con costernazione.
Disse qualcosa in
elfico a mezzavoce che Gamoth non capì, ma aveva l'impressione
che l'elfo stesse parlando più con se stesso che con lui.
Improvvisamente era sembrato vecchio come un uomo, ma fu solo
un'ombra passeggera, prima che tornasse a essere quello di prima, in
tutta la sua possanza.
< Non parliamone
qui, > disse infine, rivolgendosi direttamente a Galmoth, <
vieni in casa. >
Lo introdusse in
quello che era un piccolo ingresso con un appendiabiti su cui posò
il mantello, poi lo precedette in un'ampia stanza con un tavolo in
legno e semplici sedie in vimini.
< Siedi pure, e
attendimi qui. Devo mandare a dire che non sarò presente
questa mattina sulle mura. >
Con un cenno della
mano gli indicò di accomodarsi, poi uscì velocemente.
Rimasto solo, seduto
nella sala da pranzo dell'elfo più antico della Terra di
Mezzo, Galmoth si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto quel
tempo, come se Finrod lo avesse tenuto sotto una specie di
incantesimo.
Poi un rumore di
passi. Non poteva essere lui, era appena uscito, inoltre i passi non
provenivano dall'ingresso ma dalla parte più interna della
casa.
Che Finrod Felagund
avesse una moglie? Dei figli? Non sapeva nulla di lui.
I passi si
avvicinavano e una voce femminile chiamava il nome dell'elfo.
Galmoth agghiacciò
e si alzò bruscamente, mentre la ragazza entrava nella stanza.
< Sire Felagund?
Non eravate usc- >
Si bloccò a
metà frase, immobile sul ciglio della porta.
Galmoth dovette
trattenersi dal correre verso di lei, dal prenderla tra le braccia e
stringerla.
< Laer... >
sussurrò.
Non gli era mai
sembrata così bella, con la treccia che le scendeva
morbidamente sulla spalla destra, i capelli un po' più
simili a fili di rame di come li ricordava, il semplice vestito a
maniche lunghe e collo alto che faceva risaltare le lentiggini sul
suo viso.
Non vedeva Laer
indossare un vestito da anni, da quando era una ragazzina che sognava
di essere la principessa degli Elfi e se ne andava in giro
spensierata per la casa di quell'amico di suo padre che la cresceva
come fosse figlia sua. Era stata così allegra in quei giorni e
ora appariva triste e sola.
< Cosa ci fai
qui, Galmoth? > gli domandò in modo secco, quasi duro.
< Io? Cosa ci fai
tu qui, piuttosto. Non dovevi andartene chissà dove? >
Laer scostò
la treccia con un gesto stizzito della mano e incrociò le
braccia al petto.
< Non devo certo
dare conto a te di quello che faccio e di dove vado. >
Galmoth sorrise
senza volerlo: eccola, quella nota di infantile capriccio che aveva
sempre sfoggiato quando qualcosa la contrariava. Era sempre stata
viziata, ma come avrebbe mai potuto negarle nulla? Anche adesso, se
gli avesse chiesto di andarsene, probabilmente lo avrebbe fatto.
< Vedo che vi
conoscete. >
La voce di Finrod li
fece sobbalzare entrambi.
< Per favore,
lasciate da parte le vostre divergenze. Galmoth, raccontami cosa è
accaduto a Silevril. >
< Silevril? >
interruppe Laer, ansiosa.
Finrod la guardò,
chiedendole gentilmente ma con fermezza di lasciare le domande a
dopo.
< Laer mi ha
raccontato del tesoro di Ulmo e del vostro incontro con un uomo
chiamato Baran. >
< Dovevamo
recuperare la gemma per consegnarla al capo della Corporazione dei
mercanti. Baran ci aveva detto che i mercanti sono scontenti perché
a causa della legge che impedisce agli uomini di entrare nella
Contea, il commercio di Erbapipa è in forte crisi. Vogliono il
Tesoro per usare il suo potere sull'acqua, per scatenare l'Anduin
contro la città, rovesciare il Re e prendere loro il potere.
Questo ci ha detto Baran ed io non ho fatto domande, anche se nulla
di quanto mi stava dicendo mi convinceva. >
< Lui ti ha
promesso qualcosa. >
Non era una domanda,
ma un'affermazione. Gli occhi dell'elfo si piantarono nei suoi.
< Mi ha detto che
una volta sul trono di Gondor, io avrei potuto riprendere ciò
che mi era stato ingiustamente tolto: il mio grado di Ammiraglio
della Flotta del Principe, le mie navi ed il mio nome. >
Si voltò
verso Laer, rivolgendosi direttamente a lei.
< Ho perso tutto
per proteggere un uomo che si è rivelato indegno di fiducia e
amicizia, volevo tornare indietro non per me, ma per te, Laer, volevo
che tu tornassi a vivere in una casa, volevo che la tua unica
preoccupazione fosse quale vestito indossare, con quale dei giovani
di Dol Amroth danzare ad una festa. Volevo solo bellezza e gioia per
te. >
< Preferivi che
io ti credessi un criminale, piuttosto che uno sciocco? > chiese
lei, la voce rotta. < Mi hai mentito per tutti questi anni e poi
ti sei fidato di nuovo di lui e ora... ora... >
< Cosa centra
Silevril in tutto questo? > li interruppe Finrod, riportando
l'attenzione su di sé.
< Il capo della
Corporazione è una donna di nome Ruth. Lei ha... diciamo una
certa influenza sugli uomini. >
Galmoth si mosse, a
disagio nel ricordare l'effetto che la bellezza conturbante di Ruth
aveva avuto su di lui.
< Quando lei è
nella stanza, è come se ogni altra cosa perdesse importanza.
Desideri solo lei, poterla toccare, poterla baciare... >
< Descrivimela, >
ordinò brusco Finrod.
< Ha gli occhi
verdi e lunghi capelli rossi. Sono molto ricci, ma non credo che il
colore rosso sia naturale perché è incredibilmente
acceso, come una fiamma viva. Ed è bellissima. Non ho mai
posato gli occhi su una donna più bella e la sua voce è
come un incantesimo. Volevo averla a tutti i costi, ma lei ha scelto
Silevril e nel momento esatto in cui lo ha fatto io sono stato
libero.
Ma Silevril ne era
totalmente soggiogato. Ha preso il Tesoro di Ulmo, lo ha portato da
lei e poi sono rimasti soli per un po' di tempo. Quando è
uscito lui era... diverso. >
< Diverso come? >
Galmoth rifletté
un attimo, prima di rispondere.
< Non posso dire
di conoscerlo bene, in fondo non è molto che ci siamo
incontrati, ma ho capito qualcosa di lui: è arrogante,
sprezzante, forse crudele, ma non è senz'anima, questo mai.
C'è qualcosa in lui, uno spirito forte, credo, anche se non
sono un esperto di queste cose. Quando è tornato dal suo
incontro con Ruth, quello spirito era sparito e di Silevril non era
rimasto che l'involucro. >
Rimasero in
silenzio.
Laer sembrava offesa
da tutta quella situazione ed evitava lo sguardo di Galmoth.
Cosa stava pensando?
Anche in tutta
quella faccenda, con la preoccupazione per Silevril e la soggezione
che Finrod Felagund gli incuteva, non riusciva a non pensare a Laer.
Le era mancata così tanto che vederla ora era come riprendersi
dopo una malattia, quando si esce di casa per la prima volta e ogni
cosa sembra nuova e l'aria più pulita e fresca. Aveva sentito
la mancanza dei suoi capelli, del suo naso, della sua voce, di quando
lo sgridava e di quando ridevano insieme. Era la sua bambina e
l'amore che provava in quel momento rischiava di farlo scoppiare a
piangere come un idiota. Voleva rimanere solo con lei e parlarle,
voleva che lo perdonasse.
< Ecco cosa
faremo > disse d'un tratto Finrod, riportandolo bruscamente alla
realtà.
Silevril, sì,
prima dovevano salvare Silevril e poi avrebbe potuto chiarirsi con
Laer.
< Devo trovare
Silevril, perciò tu, Galmoth, mi indicherai dove si trova
questa Ruth. Devo parlare con lui, ma non posso farmi vedere da lei,
non ancora, non prima di scoprirne di più. La Guardia della
Città sta già indagando, su mio ordine, perciò
li manderò lì a sorvegliarla. Non posso combatterla,
chiunque ella sia, se Silevril è con lei, non ho abbastanza
potere e potrei ferirlo. No, non posso farlo. >
L'elfo sospirò,
poggiando i gomiti al tavolo e passandosi le mani sugli occhi.
< Cosa farò
io? > chiese Laer.
Aveva un'aria di
sfida, dietro alla timidezza con cui si rivolgeva a Finrod.
< Nulla. Non puoi
fare nulla, mia dolce Laer. >
L'elfo le sorrise e,
incredibilmente, lei annuì. Le si leggeva in faccia la
delusione e la rabbia, ma non osò controbattere.
Con una certa punta
di rammarico, Galmoth pensò alla lunga lotta verbale che
avrebbe dovuto sostenere se nella stessa situazione ci fosse stato
lui a dare gli ordini.
< Lo porteremo
qui, > aggiunse Finrod, < allora potrai esserci più
utile di ciò che credi. >
Si voltò
verso Galmoth che, nel frattempo, si era alzato.
< Andiamo. >
Si avviò
verso l'ingresso e Galmoth, dopo aver scambiato un'ultima occhiata
con Laer, lo seguì.
Il sole riverberava
sull'acqua chiara e tranquilla del porto di Dol Amroth, dove le navi
dal grande cigno bianco se ne stavano alla fonda come grosse ninfee.
Non veniva lì
da molti anni, ma nulla era cambiato, continuava a essere pervaso da
bellezza e serenità, simile più di qualsiasi altro
luogo su Arda alla sua perduta Alqualonde.
Alatariel al suo
fianco si abbassò il cappuccio , lasciando che la brezza le
scompigliasse leggermente i capelli.
Le dita di lei
intrecciate alle sue tremavano leggermente, ma il suo viso appariva
come al solito impassibile.
< Ci saranno
decine di navi, > gli disse, < non troveremo mai qualcuno che
ha notizie di Silevril. >
< Un elfo qui non
deve essere passato inosservato, inoltre sono assolutamente certo che
Silevril non abbia nemmeno preso in considerazione queste navi. >
< No, dobbiamo
trovare quelle più piccole. >
< Una nave da
poter sentire sotto le mani, con cui poter parlare. >
< Una nave che
assomiglia al Giuramento. >
Aeglos
si voltò verso di lei, per darle un leggero bacio a fior di
labbra.
<
Andiamo, > disse.
Lei
si rimise il cappuccio e insieme si avviarono verso la parte più
isolata del porto, dove non più di cinque imbarcazioni a un
solo albero ondeggiavano placide nel mattino soleggiato.
Allora,
che ne dite, sto migliorano? Non è passato così tanto
tempo dall'ultimo capitolo e questo è pure più lungo
della mia media, oltre a presentare un raro esemplare di Aeglos nudo.
Quello era per Hareth, a proposito, glie lo avevo promesso perché
ha fatto di me una bambina felice per l'eternità. Devo
ammettere che mi sono divertita a scrivere questo capitolo, sia
perché ogni tanto Alatariel ed Aeglos riescono a condividere
momenti di intimità senza psico drammi, sia perché
adoro il pov di Galmoth, che è una mente semplice e schietta e
non si fa troppe pippe mentali. Galmoth, ti vogliamo bene. Beh, che
vi devo dire, lasciatemi una recensione, o voi numerini silenziosi
sulla mia pagina di gestione storie. Palesatevi, che vi voglio
conoscere e alla fine sono pure una personcina simpatica.
Lunga
vita è prosperità.
Thiliol
*il
titolo è un verso di “Sweet child o' mine” dei
Guns 'N Roses
Capitolo 20 *** You see I'm falling in the vast abyss ***
You see I'm
falling in the vast abyss
I
capelli di Rùth sfiorarono il viso in una carezza
sensuale, mentre si muoveva su di lui. Le sue mani gli accarezzavano il petto,
lo graffiavano, e lei era così bella da togliere il fiato. Silevril
ansimò e un grido roco gli uscì dalla gola senza che riuscisse a fermarlo, ma
Ruth gli mise una mano sulla bocca per zittirlo.
Gli
sembrava che il suo intero essere si riversasse in lei, non esisteva altro che
quella donna e il desiderio che provava alla sua vista, al suo pensiero.
Credeva di impazzire e poi tornava indietro, aggrappandosi tenacemente a un
barlume di razionalità, all'immagine di ciò che aveva amato nella sua vita, al
ricordo del corpo minuto di Laer contro il suo.
Come
aveva potuto desiderare Laer? Eppure sapeva che, nel
profondo, desiderava ancora la ragazzina dal viso pieno di lentiggini e non la
donna dalla bellezza gelida che era su di lui.
Lo
sapeva, ma non riusciva ad afferrare quel pensiero in mezzo al tumulto dei suoi
desideri.
Rùth si tese e gridò, accasciandosi poi su di
lui. Gli diede un veloce bacio sulle labbra e si alzò, lasciandolo solo sul
letto. Si sentiva infreddolito e vulnerabile, avrebbe voluto che tornasse,
avrebbe voluto trattenerla e ricominciare tutto daccapo, ma non osava.
La
donna ancheggiò verso la finestra che si apriva su un cortile interno e aprì i
vetri, facendo entrare il gatto bianco che subito le saltò in grembo.
Lo
baciò sul muso morbido e quello iniziò a fare le fusa rumorosamente, fissando Silevril con occhi azzurri e brillanti.
Rùth ridacchiò, come se il gatto le avesse
appena detto qualcosa di divertente.
<
Avremo presto visite, mio amato Silevril, > disse,
lasciando andare il gatto e coprendosi con una vestaglia di seta nera.
<
Il tuo amico Galmoth ha chiesto aiuto nientemeno che
a FinrodFelagund in
persona. Stanno venendo qui. >
Al
nome di Finrod qualcosa sembrò stringerglisi
intorno alla gola. Non aveva mai provato nulla di simile a ciò che il Noldo aveva provocato in lui, un misto di senso di colpa e
fascinazione. Voleva fare colpo su di lui, voleva che quell'essere così antico
e potente lo ammirasse. La consapevolezza che lo aveva visto nascere lo
rendevano quasi timido.
Per
un momento ci fu solo Finrod nella sua mente e si
sentì pienamente se stesso, ma svanì preso. Rùth gli
si era avvicinata e gli aveva scostato i capelli dalla fronte, immergendo le
sue dita sottili e pallide come se volesse strapparglieli.
Rabbrividì
a quel contatto.
<
Non riusciranno a separarci, amore mio, > le disse.
<
No, > rispose lei, < mai. >
Accarezzò
la gemma a forza di goccia intorno al collo di Silevril
e lui avvertì distintamente il suo potere tremare a quel tocco. Gli parve di
vedere una donna che piangeva, con i lunghi capelli corvini sparsi intorno a
lei.
Chiuse
gli occhi e un dolore accecante lo fece piegare in due, mentre la donna
continuava a piangere e i suoi capelli lo avvolgevano, soffocandolo.
Gridò
il suo nome.
Il
dolore era accecante e Alatariel si accasciò,
aggrappandosi ad Aeglos al suo fianco.
Uinen piangeva e i suoi capelli l'avvolgevano
come i tentacoli di un mostro marino.
Silevril!
Aprì
gli occhi sul porto di DolAmroth
colmo di gente, nessuno che aveva fatto caso ai due stranieri incappucciati
inginocchiati sul selciato, uno di fronte all'altro.
<
Cos'è successo? > Aeglos la guardava preoccupato
da sotto il cappuccio.
Lei
gli restituì lo sguardo, confusa. Non aveva idea di cosa fosse accaduto, né del
motivo, ma ne era rimasta atterrita e sconvolta. Tremava visibilmente mentre si
stringeva a suo marito. L’antica bruciatura alla mano pulsava.
<
Non lo so... io... credo di aver visto Uinen... >
Si
scrollò di dosso la sensazione di sogno che l'aveva assalita.
<
Non guardarmi così > disse stizzita, alzandosi, < non so cosa vuol dire.
>
<
Hai sentito Silevril. >
Non
era una domanda, ma un'affermazione, e questo la fece infuriare. Voleva
crederci così disperatamente che non riusciva a essere sicura di nulla. Cosa ne
sapeva Aeglos? Lui non era legato allo spirito di suo
figlio, non riusciva a capire quale vuoto si fosse spalancato dentro di lei da
quando quel legame si era rotto. Si diceva sicuro che non fosse morto e lei
voleva crederci, ci sperava con tutta se stessa, ma quel vuoto rimaneva,
spaventoso e implacabile.
Aveva
sentito la presenza di Silevril, aveva visto Uinen abbracciarlo e piangere, ma era durato talmente poco
che non poteva essere certa non si fosse trattato solo della sua disperazione.
<
Ho sentito... > si interruppe. < Andiamo, manca ancora una nave. >
Gli
allungò una mano, invitandolo a prenderla nella sua.
Aeglos non si mosse e sembrò scrutarla torvo per
un secondo, poi infine sospirò.
<
Vedremo, > disse solo, prendendola per mano.
Aprì
gli occhi e Rùth lo stava fissando.
<
Cos'hai visto? > chiese perentoria.
<
Ho visto Uinen > rispose, fuggendo il suo sguardo.
Sì,
aveva visto la Signora del Mare, ma non solo. Aveva sentito la sua presenza
tangibile come se fosse in quella stessa stanza, reale e sicura. Qualcosa
dentro di lui però gli impediva di dire a Rùth che
aveva sentito sua madre come se lei fosse stata lì, più potente di quanto il
loro legame non fosse mai stato prima.
<
Il tesoro di Ulmo ha reagito al tuo tocco e ne è
rifuggito, > aggiunse infine, tornando a posare gli occhi su di lei. <
Non poi toccare la Gemma e non puoi usare i suoi poteri, ma non ne capisco il
motivo. >
<
Non devi preoccuparti di questo. > Rùth sorrise
dolcemente, quasi innocentemente. < Non tutti possiedono il potere
necessario a controllare le acque, ed è per questo che ti ho scelto. >
Lo
attirò a sé e lo baciò. La sua lingua era calda e avvolgente e Silevril se ne sentiva inebriato. Desiderava di più,
desiderava poterla avere subito, possederla totalmente, o sarebbe impazzito.
Le
aprì la vestaglia e la strinse, facendola sdraiare sulla schiena e attirandola
sotto di sé. La sentì ridere di lui e quella risata lo infiammò, facendogli
perdere la capacità di pensare razionalmente.
Non
c'era più né Finrod né Uinen
nei suoi pensieri. Alatariel sembrava solo il ricordo
perduto della sua infanzia, qualcosa di evanescente che sapeva di lunghe attese
e di infelicità.
Contava
solo Rùth ormai.
Dalla lunga pipa uscivano piccoli rivoli di fumo che si
perdevano nell’aria umida. Forlond prese una boccata
profonda, trattenendola nei polmoni per qualche secondo, godendosi quel sapore
leggermente aspro che solo la miglior Foglia dei Mezzuomini
sapeva regalare.
Espirò lentamente
e il suo campo visivo fu invaso dal fumo che aveva soffiato dalla sua stessa
bocca, profumato e fragrante.
“Guai” pensò
tra sé, aggrottando le sopracciglia.
Le due
figure incappucciate erano abbastanza vicine alla Stella, eppure non riusciva a sentire una parola di ciò che si
dicevano, bisbigliando tra loro, le teste che quasi si toccavano.
Avrebbe
voluto vedere i loro volti, ma era impossibile, stretti com’erano in quegli
ampi mantelli grigi che li coprivano completamente, dalla testa ai piedi.
Spuntavano solo le punte di morbidi stivali di pelle oltre l’orlo.
Gli
stranieri erano alti uguali, entrambi più alti sia di lui che di Conn, che pure aveva la stazza possente dei Rohirrim. Si erano avicinati di
soppiatto, tanto che Forlond non li aveva visti
finché non se li era ritrovati di fronte, a pochi passi da dove la cima teneva
saldamente ormeggiata la Stella alla banchina.
Anche il
ragazzino si era accorto di loro e li scrutava di soppiatto oltre i suo grosso
libro. Aveva quasi una mezza idea di mandarci lui a parlare con loro, almeno si
sarebbe finalmente reso utile, ma la sua coscienza si svegliava sempre nei
momenti meno opportuni.
Prese
un’altra boccata di fumo, ma si accorse con disappunto di aver consumato
l’intera pipa. Basta, non li sopportava più.
< Avete
intenzione di rimanere lì impalati tutto il giorno o mi dite che accidenti
volete? > ringhiò brusco.
I due si
guardarono brevemente, poi quello a sinistra fece un passo avanti e si abbassò
il cappuccio. Una folta chioma, bionda e scompigliata, sembrò brillare come una
fiamma viva sotto i raggi luminosi del sole, lasciando però intravedere due
eleganti orecchie a punta.
Forlond
sbuffò. Elfi… lui odiava gli elfi!
Aveva
l’aspetto di un ragazzo e il naso e gli zigomi screpolati dalla salsedine,
tipici dei marinai. Almeno era un marinaio e non qualche principe caduto di
città sconosciute! Con i marinai, quantomeno, Forlond
ci sapeva parlare.
< Il mio
nome è Aeglos, > disse l’elfo, con voce limpida,
< ammiravo la vostra nave. >
< Mi
chiedevo, > continuò con noncuranza, quasi sorridendo, < se qualche altro
elfo abbia ammirato la vostra nave come sto facendo io. >
< Un
sacco di gente ammira la mia nave, non posso stare a guardare a tutti le
orecchie! >
Forlond
prese altro tabacco dalla tasca e lo mise nella pipa, pigiandolo per bene.
Dall’altra tasca sfilò un fiammifero e accese, tirando una lunga e profonda
boccata di soddisfazione.
L’altra
figura incappucciata sbuffò sonoramente e si fece avanti, scoprendo a sua volta
il capo.
Disse
qualcosa nella sua lingua e il suo compagno si girò a guardarla, rispondendole
nello stesso idioma.
Forlond
tentò di inspirare altro fumo, ma si rese conto di avere la gola chiusa e la
bocca secca. Quella donna, quell’elfo femmina, era senza dubbio l’essere più
meraviglioso su cui avesse mai posato lo sguardo: aveva lunghi capelli
nerissimi, legati sulla nuca con un laccio, tirati affinché il lungo collo
sinuoso e le orecchie rimanessero scoperti; aveva la pelle bianca e gli occhi
chiari, anche se da quella distanza non avrebbe saputo dirne il colore reale,
ma erano straordinariamente belli e freddi e quella donna sembrava scolpita nel
marmo.
Immaginò di
prenderla tra le braccia, immaginò di baciare le sue labbra e di vederla
sciogliersi contro di lui. Immaginò che fosse sua, mentre un desiderio
bruciante lo investiva, gli toglieva improvvisamente la capacità di pensare.
Non riusciva
a concentrarsi su quanto lei gli stava dicendo, in tono brusco.
< Cosa?
>
< Stupido
mortale! > disse la donna, accompagnando le sue parole con un gesto di
stizza.
Il suo
compagno sembrava abituato a quegli scatti d’ira e con un unico fluido gesto le
prese la mano.
< Stiamo
cercando nostro figlio, > disse l’elfo, < anche lui avrebbe trovato
questa nave meravigliosa e potrebbe avervi chiesto un passaggio. Ha i capelli
neri, gli occhi del colore del mare e si chiama Silevril.
>
Forlond non
lo ascoltava. E così quella bellezza fulgida era la moglie del marinaio… che spreco! La delusione per le sue fantasie così
repentinamente spente gli faceva venire voglia di mandarli via in malo modo, ma
quello stupido ragazzino si intromise.
< Silevril, certo che lo conosciamo! >
La donna si
voltò di scatto, dedicando tutta la sua attenzione a Barry, puntando i suoi
begli occhi sul ragazzo, come se volesse leggergli dentro.
< Lo
conoscete? Quando lo avete visto l’ultima volta? > chiese e a Forlond sembrò di sentire una punta di emozione nella sua
voce.
< Quattro
giorni fa, mia signora. Lo abbiamo lasciato assieme al Capitano a MinasTirith, avevano delle
faccende da sbrigare e Silevril voleva visitare la
città. >
Beregond
posò il suo libro e si sporse leggermente verso i due.
< Voi
siete sua madre, vero? Parlava moltissimo di voi, sapete, diceva sempre che
siete stata una madre strana. > Si interruppe e arrossì. < Non voglio
insinuare niente, signora, è quello che dice Silevril
e anche lui è parecchio strano, un elfo diverso da quelli delle storie e delle
leggende. Laer pensava fosse insopportabile. >
< Laer? >
< Sì,
signora, è il nostro primo ufficiale… o almeno, lo
era prima che lei e il Capitano litigassero. >
< Fai
silenzio! > lo apostrofò Forlond, ponendo fine al
discorso.
L’elfo
guardava ansiosamente sua moglie, cogliendo chissà quale pensiero o emozione in
lei. Da parte sua, Forlond non riusciva a decifrare
nulla di lei e questo lo rendeva nervoso ancora più di quanto già non facesse
la sua bellezza.
< Dovete
portarci a MinasTirith
> disse infine l’elfo.
< Perché
dovrei? >
< Perché
questa nave non è vostra > rispose con un vago sorriso, < e perché il
vostro capitano vi sta aspettando credendo che voi siate altrove. >
Forlond non
disse nulla, guardando i due stranieri, marito e moglie, con sguardo torvo.
Aveva l’impressione che lui ti leggesse dentro come un libro aperto, che dietro
lo sguardo limpido e il sorriso vagamente derisorio si nascondesse una mente
acuta e pericolosa. Non si fidava di lui e ne aveva paura.
D’altro canto
la sola vista di lei gli faceva andare più stretti i calzoni e risultava
davvero difficile disobbedire agli istinti più impellenti del suo corpo.
< Vi
costerà molto, > li avvisò.
<
Pagheremo quanto ci richiederai. >
< Domani
dobbiamo essere a MinasTirith,
mortale. >
La donna
salì agilmente sulla Stella mentre
parlava e gli passò accanto. Il mantello sfiorò le sue spalle, lasciando dietro
di sé un vago profumo sensuale. Suo marito ridacchiò, accorgendosi delle
occhiate che le aveva lanciato.
Balzò a bordo
anche lui e gli si fermò di fronte.
< Non ti
conviene pensarci, credimi, lo dico per te. Sono Aeglos,
comunque, e mia moglie è Alatariel. >
La sua
minaccia aleggiò ancora nell’aria mentre l’elfo andava a presentarsi a Barry e
a Conn, che nel frattempo era salito sul ponte e
chiedeva se qualcuno volesse mangiare qualcosa prima di partire.
Questo capitolo ha rischiato di non
venir mai pubblicato, ma sono riuscita a recuperarlo dall’aere,
ho fatto aggiustare il pc e sono persino riuscita a
trovarci un titolo. Cose che solo un paio di settimane fa pensavo impossibili.
Solo grazie a puro culo potete godere della scena lime con protagonista Silevril e dei bollenti spiriti di Forlond.
Io, da parte mia, ho imparato la lezione e da oggi in poi salverò sempre le
bozze suine drive.
Capitolo 21 *** I’ve killed a million pity souls ***
I’ve killed a
million pity souls
Non c’era luna quella sera e le strade di MinasTirith erano buie e
silenziose. FinrodFelagund
sforzò la vista per poter distinguere i suoi compagni nelle tenebre: l’uomo, Galmoth, appariva nervoso, ma sembrava ben addestrato nel
gestire la tensione, mentre Laer, nonostante
l’indubbia capacità nel maneggiare i suoi piccoli pugnali affilati, dimostrava
tutta la sua inesperienza. I suoi uomini, tre in tutto, erano naturalmente i
migliori che Gondor avesse da offrire.
Conosceva bene quella casa, ricordava quando vi abitavano
alcuni lontani parenti di Faramir, sovrintendente di Gondor ai tempi di Elessar. Vi si
era recato egli stesso alcune volte, anni e anni prima, quando Eldarion era solo un ragazzo innamorato di una delle figlie
di quel Signore e supplicava il suo amico e mentore di accompagnarlo. Non era
mai riuscito a negare nulla a quel giovane, così simile a Beren
da fargli male.
Adesso le luci erano spente, a eccezione di una flebile
proveniente da una delle finestre al piano superiore.
La porta si aprì e con un cenno Finrod
indicò ai suoi uomini di rimanere silenziosi. Silevril
uscì, con le mani in tasca e i capelli spettinati sul viso, ma appena ebbe
fatto pochi passi si fermò, all’erta, guardandosi intorno con circospezione,
fino a fermare lo sguardo nel punto esatto in cui si trovavano nascosti.
Infine sorrise, leggermente sardonico, spostandosi una
ciocca di capelli scuri dalla fronte.
< So che sei tu, mio signore Felagund!
> disse con voce chiara, tanto che risuonò nella notte silenziosa.
Finrod ordinò cautamente agli
altri di attendere e uscì dall’ombra, mostrandosi alla luce tenue di una
lanterna pubblica.
< Ero ansioso di rivederti. >
Sembrava sprezzante, quasi impertinente, ma Finrod riusciva a sentire il nervosismo nella sua voce.
< Buonasera, Silevril. >
Si sentiva a sua volta imbarazzato. Non sapeva cosa dirgli.
Voleva abbracciarlo, ma non ne aveva il coraggio.
Silevril lo stava guardando, in
attesa, ed era impossibile dire cosa gli stesse passando per la testa, cosa
stesse pensando… in quel momento assomigliava a sua
madre in modo così vivido che Finrod si sentì
pervadere dalla frustrazione. La voce gli uscì dura e forse sgarbata.
< Devi venire con me. >
< Perché? >
Nella sua domanda c’era una paura indefinita. Non riusciva a
capire che effetto avesse su di lui, non riusciva a capire nemmeno se fosse
effettivamente il ragazzo che aveva conosciuto poco prima. L’immagine del
neonato che era stato un tempo, indifeso eppure in un certo senso più
consapevole di qualunque altro bambino avesse mai visto, gli affiorò
prepotentemente alla memoria.
Ricordava di averlo preso tra le braccia, ancora viscido di
sangue, paonazzo e piangente, mentre sua madre si chiudeva in un mutismo
spettrale.
Che cosa c’era nella sua mente allora? Che cosa c’era
adesso?
Deglutì, anche se non aveva più saliva.
< Se non verrai con me di tua iniziativa, sarò costretto
ad arrestarti. >
Sembrò considerare la cosa. Appariva spaventato, giovane e solo,
con i capelli sul viso.
< Rùth lo aveva previsto >
disse quasi a se stesso.
Finrod tacque, non sapendo cosa
dire. Sentiva le tre guardie ancora nascoste dietro quel muro che lo stavano
fissando, pronte a scattare al suo minimo cenno. Sentiva i pensieri confusi
dell’uomo, Galmoth, come se glie li stesse
sussurrando all’orecchio e non facevano che acuire il suo disagio.
Quello che aveva davanti non era Silevril,
ma allo stesso tempo sembrava se stesso forse per la prima volta.
Un rumore improvviso lo fece quasi sobbalzare. Si voltò e
vide Laer che era avanzata verso di loro.
Aveva ancora l’abito verde che indossava da quella mattina e
sembrava quasi una principessa delle fiabe, con la treccia ramata, le
lentiggini sul viso e tutto il resto. Ma portava una cintura e due pugnali
erano nei foderi legati ad essa.
Silevril la guardava ad occhi
spalancati, esterrefatto e affascinato.
< Laer? >
La sua voce appariva ora del tutto diversa, forse più roca,
forse più adulta di prima.
< Che ti è successo, eh, elfo? Sembri un maledetto
fantasma! >
Laer parlava con noncuranza,
facendosi avanti. Finrod avrebbe voluto spingerla
via, proteggerla, ma si trattenne perché Silevril
reagiva a lei come non aveva reagito a nient’altro.
< Dai, vieni con
noi, parliamo. > La ragazza indicò il ciondolo al collo dell’elfo, che Finrod non aveva notato. < Quello è il motivo di tutta
questa storia? Carino, ma non so se vale la tua anima, che ne dici? >
Silevril si voltò verso la casa,
improvvisamente inquieto.
< Zitta! > sibilò, abbassando la voce.
< Silevril! > lo chiamò Finrod, con voce imperiosa.
Non poteva più attendere oltre, rimanere lì era troppo
pericoloso, almeno finché non avesse capito con chi aveva a che fare.
Percepiva chiaramente un grande potere nascosto in quella
casa, e soprattutto sentiva quello contenuto nella gemma attorno al collo di Silevril come un’onda scatenata dall’essere stata indicata.
Gli si avvicinò e lo afferrò per un braccio e lui si fece
incredibilmente condurre via, seguito da Galmoth e
dalle guardie.
Attraversarono una serie di vicoli poco illuminati e poi
andarono su, verso la Cittadella. Alla porta che immetteva al sesto livello si
fermarono e Finrod congedò le guardie. Rimasero solo
loro quattro e silenziosamente, sempre tenendo fermamente la mano di Silevril, si diressero verso casa sua.
Quando entrarono, lo lasciò e accese tutte le luci del
piccolo atrio che gli faceva da ingresso.
Galmoth e Laer
stavano guardando Silevril, ma Silevril
non guardavanessuno in particolare,
sorrideva appena giocherellando con una ciocca di capelli, arrotolandola
attorno a un dito per poi lasciarla andare e ricominciare daccapo.
< Silevril > lo chiamò con
fermezza e quello si voltò finalmente a guardarlo, < parlaci di Rùth. >
Rivedere Silevril era stato
piuttosto strano, sembravano passati anni, e invece erano solo pochi giorni.
L’elfo sembrava smarrito a tratti, come se non capisse bene cosa Finrod gli stesse dicendo, come se stesse cercando di
ritrovare il segno in una conversazione di cui ci si è persi un pezzo.
Ma Laer non riusciva a staccargli
gli occhi di dosso e si sentiva una perfetta idiota a pensare a quanto fosse
perfetto con i capelli scuri scarmigliati e gli occhi chiari che sembravano
liquidi.
Galmoth sicuramente doveva sapere
cosa stava pensando, perché la guardava con un’aria un po’ stranita che le fece
venire una nostalgia acuta di loro due e del rapporto che avevano perso.
Ma non era il momento ora.
Finrod stava parlando e lei cercò
di concentrarsi sulle sue parole.
< C’è grande potere in lei, posso sentirlo anche a
distanza, > stava dicendo.
< Perché parli di qualcosa che non conosci?> scattò Silevril.
< Non capisci? Il suo incantesimo su di te ti rende cieco
e sordo! Sei succube della sua magia! >
Silevril sembrava offeso. Si voltò
verso Galmoth, con un sorrisetto ironico.
< Sei geloso, Galmoth? Perché
lei ha voluto me e non te? Ho visto come la guardavi, sentivo il tuo desiderio.
Tu volevi lei, volevi possederla lì al momento e non ti importava che io fossi
presente. Sto forse sbagliando? >
Galmoth era a disagio.
< No. No, non sbagli… ma non
era reale, nulla di ciò che stai provando lo è. >
< Dici così perché non sei stato con lei, ma io sì, io ho
potuto assaggiare le sue labbra, toccare la sua pelle. Lei mi ha donato tutta
se stessa e ha preso ogni cosa da me. >
Laer sbiancò e per un attimo la
stanza si riempì di macchie nere che vorticavano nel suo campo visivo.
Silevril la guardò sorridendo
crudelmente, quel tipo di sorriso che di solito usava per canzonarla e che
aveva sempre trovato affascinante, ma che ora era soltanto orribile.
< Povera, piccola Laer! Fa
finta di essere una grande guerriera, ma è solo una bambina. >
< Basta! >
Finrod parlò con una voce che non
sembrava la sua, tanto era profonda. Silevril si
zittì come se lo avesse schiaffeggiato e lo fissò negli occhi, il corpo che
tremava come di freddo.
A Laer veniva da piangere, ma si
trattenne. Sentì la mano di Galmoth nella sua e la
strinse forte, aggrappandovisi come aveva fatto tante volte da bambina, quando
quell’uomo forte era stato tutto il suo mondo.
Finrod andò incontro a Silevril e gli afferrò le spalle.
< Io… > Silevril
balbettava < Io non lo so, mio signore, cosa mi è successo. Il desiderio di
lei è indescrivibile, ma non trovo più me stesso tra le sue pieghe. Anche mia
madre è perduta per sempre… >
I due elfi si guardarono in silenzio, intensamente.
Laer non riusciva a capire cosa
intendesse dire Silevril, ma ne era ugualmente
turbata. Si fidava di Finrod e la preoccupazione nei
suoi occhi la metteva profondamente a disagio.
< Che dici del Tesoro di Ulmo?>Interloquì Galmoth,
spezzando quel contatto visivo prolungato.
Silevril sembrò accorgersi solo in
quel momento della sua presenza e si portò una mano al collo.
< Non lo so, ma lei non ha potuto toccarlo. Ne era quasi
spaventata, ha detto che solo io posso incanalarne il potere, ma non so cosa
significhi. >
< Chi controlla il potere della gemma, può governare il
Mare, così si dice a DolAmroth,
> disse Galmoth.
< Non il Mare soltanto, > rispose Silevril,
< ma tutte le acque. Il Gioiello appartiene ad Uinen
e Lei mi si è mostrata quando l’ho toccato. >
Finrod annuì, pensieroso.
<Uinen è la Signora di tutti i Mari e di tutte le acque ed
ama i Teleri più di chiunque altro. Per questo si è
mostrata a te e per questo tu puoi usarne il potere. >
Laer non riuscì più a trattenersi.
< Perché stiamo qui a discutere? > sbottò <
“Governare le acque” vuol dire tutto e niente, ma comunque non è affatto
qualcosa che mi preme scoprire. Galmoth, prendi la Stella e torniamo a DolAmroth, il Tesoro di Ulmo è
proprietà del Principe e tu lo sai! >
< La Stella non
è qui. >
< Come sarebbe a dire? >
< Ho ordinato a Forlond di
andare verso Rauros e attendermi lì, ma se lo conosco
bene a quest’ora se ne sarà tornato a DolAmroth, o a Umbar, in cerca di
merce da trasportare. >
Maledicendo mentalmente Forlond e
i suoi metodi, Laer incrociò le braccia e lanciò uno
sguardo storto verso Galmoth.
Non lo aveva ancora perdonato, ma era bello averlo lì e
l’idea impulsiva di lasciarlo e andarsene le sembrava molto meno piacevole di
quando l’aveva formulata.
< In ogni caso non è così semplice. Devo scoprire chi è
questa Rùth e quali sono i suoi poteri. Con o senza
la Gemma, la sua minaccia verso Gondor è ormai
palese, inoltre Silevril è ancora sotto il suo
incantesimo, qualsiasi esso sia. Non c’è che una sola soluzione. >
Tornò a rivolgersi a Silevril, lo
sguardo improvvisamente triste.
< Aminhiraetha,
mellonin, > disse piano, nella sua lingua.
E prima che Laer riuscisse anche
solo a formulare un pensiero coerente, FinrodFelagund aveva estratto un pugnale.
Alatariel trasalì.
Non sapeva perché, ma aveva sentito qualcosa che l’aveva
attraversata come un fulmine, facendole rizzare ogni pelo del corpo.
Si strinse maggiormente nel mantello e si calò ancora di più
il cappuccio sul capo, tentando di ignorare lo sguardo insistente dell’uomo al
timone.
Non le aveva tolto gli occhi di dosso per tutto il giorno e Aeglos si era dimostrato estremamente divertito per questo.
Era infuriata, perché Aeglos sembrava avere ancora
del buon umore, nonostante tutto, mentre lei non riusciva a trovare
dell’ottimismo nel vortice di disperazione in cui era caduta.
Voleva credere a quello che si erano detti, voleva credere
che il vuoto che le si era spalancato dentro non significasse nulla, ma dopo
duecento anni si sentiva privata violentemente di una parte di sé fondamentale.
Si voltò appena quando Aeglos la
raggiunse sul ponte. Sembrava a suo agio su quella nave, circondato da mortali,
quando lei invece non riusciva a sopportarne la presenza, come se tutti loro
non facessero altro che osservarla continuamente, giudicarla, chiedersi quanto
ci avrebbe messo a crollare definitivamente. Tentava di mantenersi ferma, ma
era al limite.
< Devi stare tranquilla, > disse Aeglos,
con calma serafica.
Guardava MinasTirith
che si faceva sempre più vicina, puntellata di luci ancora accese nonostante l’alba
imminente.
< Riesco a sentirlo, Alatariel,
lo percepisco come se fosse fisicamente accanto a me, ora. >
< Vorrei davvero poterti credere. >
< Devi. >
< Il nostro legame è spezzato. >
Aeglos le prese il viso tra le
mani, costringendola a guardarlo in faccia. Il suo sguardo era serio e intenso,
la catturò, facendole dimenticare l’uomo che li stava guardando, il Rohirrim sotto coperta, il ragazzino che dormiva in un
angolo del ponte, facendole dimenticare persino se stessa.
< Ascoltami attentamente: devi fidarti di me, fidarti che
Silevril è vivo, che ha bisogno di noi. Non so cosa sia
successo, ma qualcosa di oscuro è all’opera e solo non perdendo la speranza,
noi e lui, questa cosa potrà essere sconfitta. Devi smetterla, Alatariel, smetterla di credere che ogni cosa nella vita
sia sofferenza, smetterla di credere di non meritare nient’altro. >
La baciò, a lungo e profondamente, senza lasciarla. Era
arrabbiato, lo percepiva chiaramente dall’irruenza del suo tocco, ma in qualche
contorto modo la rabbia di Aeglos aveva sempre avuto
il potere di calmarla. Era innamorata di quella rabbia, forse, più di qualsiasi
altra parte di lui.
Se ne andò via, tornando sotto coperta, lasciandola sola con
l’uomo bruno dallo sguardo persistente, intento a fumare la sua lunga pipa.
MinasTirith
era ormai ben visibile nella foschia che precede l’alba.
***
Eccomi eccomieccomi! Con questo
capitolo un po’ di transizione ci avviamo verso la parte finale di questa
storia, quindi siate fiduciosi che ci arriviamo!
Il titolo è un verso
di “Slept so long” dei Korn,
canzone veramente meravigliosa, ascoltatela perché merita, noi ci vediamo al
prossimo capitolo.
Capitolo 22 *** To what you receive is eternited leave ***
To what you receive is eternited leave
Finrod estrasse il pugnale con un movimento rapido, quasi
felino. Sapeva che avrebbe dovuto spostarsi, difendersi in qualche modo, ma non
riusciva a muovere nemmeno un muscolo, la sua mente era come intrappolata in un
ciclo in cui il volto serio e bello di Finrod Felagund si sovrapponeva a quello
delicato, fanciullesco, di Laer… e poi diventavano entrambi Alatariel, con gli
occhi scuri come il mare di notte che lo fissavano con delusione.
Cosa hai fatto, Silevril?
Attese di essere trafitto, perché alla fine era giusto così,
perché sapeva benissimo, così come lo aveva capito lo stesso Finrod, che
qualsiasi cosa fosse rimasta in lui era ben lontana da qualsiasi possibilità di
salvezza e che aveva perduto se stesso nell’esatto momento in cui aveva varcato
la soglia della casa in cui si trovava Rùth.
Ma il colpo non arrivò.
Ci fu una luce accecante e uno scoppio che fece volare
Finrod contro il muro. Sentì il suo grido, ma non poteva fare niente per lui.
Laer e Galmoth erano per terra, l’uomo faceva scudo alla
ragazza con il proprio corpo e guardava alla sua destra.
Silevril seguì il suo sguardo e quel qualcosa che lo aveva
tenuto bloccato sembrò sciogliersi, allo stesso modo di una cima quando si
lascia il porto.
Era Rùth ed era proprio di fronte a lui, con una mano alzata
davanti a sée quel sorriso seducente a
cui non poteva resistere. Ma era diversa: i ricci rosso fuoco erano scomparsi,
cadevano sulla sua schiena scomposti, lisci e di un nero spento, quasi grigio,
il suo corpo formoso e invitante appariva rattrappito, magro come qualcuno che
non mangia da settimane e la veste nera che indossava ne amplificava il
pallore. Eppure era lei e il suo viso era bello come sempre e il sorriso lo
teneva avvinto.
Corse da lei e la prese tra le braccia, baciandola a lungo.
Non sapeva cosa stava facendo, non capiva cosa quella donna rubasse dal più
profondo di lui, ma non gli importava.
< Amore mio, mio amato Silevril, > disse lei, con voce
di miele.
Finrod era poco distante e si rialzava a fatica, tenendosi
una spalla dolorante.
< Silevril, allontanati da lei! >
Istintivamente i suoi piedi lo portarono verso l’elfo, il
comando era troppo diretto, troppo forte… il tocco
della mano di Rùth sul suo polso che lo tratteneva sembrava bruciare.
C’era potenza, in Finrod Felagund, e alla sua voce non
poteva sottrarsi.
Rùth alzò di nuovo la mano e ne scaturì una luce intensa.
Laer gridò.
Ma Finrod non ne veniva toccato, anzi, sembrava lui stesso
brillare ancora più luminoso di Rùth, tanto che Silevril dovette coprirsi gli
occhi; la figura dell’elfo era sfolgorante e i capelli dorati rilucevano come
stelle.
Si gettò a terra di fronte a quella visione, con le mani
sopra la testa. Il ciondolo attorno al suo collo sembrò diventare rovente e lui
urlò più forte che poteva, finché non gli fece male la gola.
< Elbereth, salvami! > si
sentì gemere, ma la luce aumentò e il ciondolo era ormai come lava contro il
suo petto.
Chiuse gli occhi e le figure scintillanti di Finrod e di
Rùth vennero sostituite con quella di Uinen. Era vestita di azzurro e piangeva.
Le sue lacrime inondavano la stanza, mentre i suoi capelli si diramavano in
ogni direzione, avvolgendolo, soffocandolo. Non riusciva a respirare, non
riusciva a sopportare la vista delle lacrime della Maia, ma aveva paura che
riaprendo gli occhi si sarebbe trovato di nuovo di fronte alla potenza di
Finrod e alla luce che veniva da Rùth.
< NO! > gridò più forte che poté e Uinen scomparve.
Sentì Rùth che veniva sbalzata via e lentamente aprì gli
occhi. Finrod era tornato il solito elfo dalle sembianze fin troppo umane, con
la sua divisa da gondoriano e i lungi capelli biondo
cenere, mentre Rùth era accasciata sul lato opposto, svenuta e bellissima, con
i suoi ricci rossi e i seni pieni.
< Galmoth, vieni, aiutami a legarla, > disse l’elfo
ansimando leggermente, < Laer, corri al presidio della porta al primo
livello e porta qui tre guardie. >
Laer ubbidì, ma mentre usciva lanciò uno sguardo verso
Silevril, ancora inginocchiato sul pavimento, con le mani alla testa e il volto
sconvolto.
Finrod e Galmoth sollevarono Rùth e le legarono i polsi
prima di adagiarla su una sedia.
< Cosa è successo qui? > domandò Galmoth. La sua voce
era roca e nervosa.
< La magia di questa donna è antica e malvagia, ho dovuto
usare tutto il mio potere per sovrastarla. Sono passati molti e molti anni da
quando vidi qualcosa del genere e comunque mai in altri che nei servi di Morgoth. Ma in Gondor c’erano
Uomini che praticavano la magia e la negromanzia…Numenoreani Neri, li chiamavano. >
Finrod si voltò e si accorse di lui, ancora per terra, con
le mani sulla testa e le lacrime agli occhi, ansimante.
Lo guardò a lungo, stringendo le labbra, prima di
avvicinarsi e accovacciarsi di fronte a lui, faccia a faccia.
Riusciva a sentirne il profumo, lieve come brezza di terra.
Finrod gli prese le mani, scostandogliele delicatamente, e
poi posò il palmo contro la sua guancia. Il suo tocco era caldo e soffice.
< Silevril, > lo chiamò piano, come se si stesse
rivolgendo a un bambino, < puoi sentirmi? >
Sì, avrebbe voluto dire, ti sento, ma non riesco a parlare.
Si sentiva paralizzato, la testa ancora piena della visione
di Uinen, le orecchie che fischiavano dopo tutte quelle urla.
Lo sguardo di Finrod si spostò sulla pietra al suo collo,
ora fredda e inanimata. Fece per toccarla, ma cambiò idea e ritrasse la mano,
sospirando pesantemente e tornando a concentrare la sua attenzione su Rùth e su
Galmoth che controllava i nodi ai suoi polsi.
Si alzò, ma con uno scatto Silevril gli afferrò il polso,
impedendogli di allontanarsi.
< No, > sussurrò, < ci sei solo tu tra me e… qualsiasi cosa mi stia portando via. >
Finrod si sedette sul pavimento, scrutandolo.
< Cos’hai visto? >
< Lei mi ha baciato e ha preso qualcosa da me… Finrod, anche ora la desidero con ogni muscolo del mio
corpo, anche se la mente è altrove, anche se la mente vuole…altro… >
< Altro? > chiese, ma Silevril lo ignorò.
< Uinen ha tentato di salvarmi, ma non ci è riuscita >
rise amaramente, < sono sempre stato fin troppo testardo e avevo la
presunzione di essere indistruttibile. >
Mise una mano dietro la nuca del Noldo,
avvicinando i loro visi finché le fronti non si toccarono.
< Vorrei che mio padre fosse qui, vorrei poter sentire lo
spirito di mia madre dentro di me, vorrei non desiderare di uccidere te e
Galmoth e Laer solo perché me lo ha chiesto lei … vorrei cheil potere del Tesoro di Ulmo
non mi corrodesse dall’interno… >
< Puoi opporti. Dammi la collana. >
< No. > Si allontanò con un sospiro, < Non capisci,
mio signore? Ormai è legata a me, Uinen mi ha parlato. Devo solo trovare la
forza di non volgerla al male. >
Finrod lo fissò, senza parlare. Il viso dell’elfo era
stanco, terribilmente umano. Gli sembrava di fissare un mortale nella seconda
metà della sua vita, con rughe profonde sulla fronte, fili argentei tra i
capelli, la traccia appena visibile della barba sulle guance e sul mento. Ma i
suoi occhi erano antichi e percepiva il loro potere come una mano sulla spalla.
Non sapeva cosa gli passava per la testa, ma sentiva che
avrebbe dovuto appigliarsi a qualcosa, una qualunque, per ricordarsi che era
Silevril e che non era perso tra le ombre dei capelli di Uinen o nel corpo
caldo di Rùth.
Finrod era lì, lo attraeva fatalmente, si sentiva legato a
lui da qualcosa che non sapeva spiegarsi, a metà tra la paura e il desiderio.
Lo afferrò ancora per la nuca, con forza, ma lui gli
resistette. Aveva le pupille leggermente dilatate e una minuscola goccia di
sudore sopra il labbro.
< No > lo sentì sussurrare, < non è questo il modo.
>
< Allora sono perduto. >
Chiuse gli occhi e le lacrime gli rigarono il volto.
Galmoth cercava di rimanere chinato il più possibile sulla
donna, stringendo le corde attorno ai polsi e alle caviglie, facendo di tutto
per non guardare verso i due elfi. Se ne stavano accovacciati sul pavimento,
vicini come amanti, con le fronti che si toccavano.
Pensava a Laer e al modo in cui aveva guardato Silevril fin
dal primo momento della loro conoscenza, come diventava rossa quando l’elfo la
stuzzicava con battutine sarcastiche. Era felice che non fosse presente e si
augurò che quei due la smettessero prima del suo ritorno.
Era ovvio che Silevril non era in sé e il ricordo dello
sguardo che gli aveva lanciato poco prima gli dava ancora i brividi. Non
credeva che avrebbe potuto avere paura di lui, invece era rimasto quasi
paralizzato dal terrore.
Una parte di lui si chiedeva se Rùth non avesse
semplicemente risvegliato qualcosa che l’elfo aveva sempre avuto dentro.
Il cigolio della porta di ingresso e un rumore sordo di
passi annunciarono il ritorno di Laer.
Finrod Felagund sembrò destarsi improvvisamente e si
allontanò con un movimento brusco da Silevril, scattando in piedi e lasciando
l’altro che rimase nella stessa posizione, con il volto bagnato di lacrime.
Laer entrò seguita da tre uomini con la divisa delle Guardie
della Cittadella.
Con uno sguardo confuso videro prima la donna svenuta e
legata sulla sedia, poi l’elfo piangente sul pavimento, infine fissarono il
loro comandante.
< Questa donna è a capo dei ribelli che stavamo cercando,
> disse Finrod in fretta, < è pericolosa e non deve essere assolutamente
lasciata da sola o slegata. Per nessun motivo dovete ascoltare le sue parole,
se potrà vi ucciderà, sono stato chiaro? >
Quelli annuirono.
< Galmoth, ti prego, rimani qui a vigilare su di lei. Il
sole è già alto e io devo riferire ciò che ho scoperto al Re. Laer, aiutami a
portare Silevril con noi. >
Galmoth osservò mentre Laer si inginocchiava di fronte a
Silevril e gli prendeva la mano.
< Vieni, > disse dolcemente, come se si trovasse di
fronte un bambino piccolo. Lui la guardò stupito per un secondo, poi la
riconobbe e sorrise.
< La piccola Laer, > disse.
< Sì, proprio lei. Dai, alzati, andiamo dal Re, lui saprà
cosa fare. >
Con grande stupore di Galmoth, Silevril si alzò e si asciugò
gli occhi. Sembrava perfettamente normale, il solito elfo con il viso da
ragazzo e gli occhi di ghiaccio che aveva imparato a conoscere e amare.
Si scambiò una fugace occhiata con Laer, mentreuscivano insieme a Finrod, un’occhiata che
voleva dire stai attenta ma che
sembrò diventare una specie di saluto.
Un brivido gli attraversò la schiena, mentre guardava la
treccia della ragazza sparire oltre la porta.
La sala del trono non era come l’aveva immaginata. C’era
bianco dappertutto, accecante sotto il sole del mattino che entrava dalle
finestre. Si sentiva come in un sogno ad occhi aperti e se per un istante era
riuscito a ritrovare la lucidità – gli occhi verdi e limpidi di Laer, le sue
lentiggini su tutto il viso, la voce un po’ più bassa di come ci si potrebbe
aspettare da una ragazzina come lei – ora l’aveva perduta nuovamente.
Il Re stava parlando con Finrod.
Finrod lo chiamava Estel, lo
guardava con l’amore di un padre, gli spiegava che qualcosa di oscuro era
all’opera.
Beruthiel,
diceva, i Numenoreani
Neri sono tornati, vogliono il trono degli Uomini, ma non riusciva davvero
a seguirli.
Sentiva la gemma pulsare e se chiudeva gli occhi, Uinen era
lì, e Rùth era lì (Beruthiel? Avrebbe forse dovuto
sapere di chi si stava parlando?) e lo tiravano ognuna verso una direzione.
Era un po’ come essere diviso in due, un po’ come non sapere
davvero se si è buoni o cattivi.
Solo tu puoi
riportarmi a casa
Solo tu puoi usare la gemma, sollevare l’Anduin
su MinasTirith
Silevril, riportami a DolAmroth, vieni con me
Entrambe parlavano nella sua testa come se stessero
sussurrando nelle sue orecchie ed era meraviglioso e terribile.
Si portò una mano alla gola, afferrando il ciondolo a forma
di goccia. Era freddo come l’acqua profonda le mattine d’inverno, quando si
tuffava dalla scogliera per dimenticare che sua madre era andata via, nuotando
finché non gli mancava il respiro, finché non si sentiva intirizzito fin dentro
le ossa.
Si piegò su se stesso e, istintivamente, cercò Laer al suo
fianco. La ragazza gridò qualcosa, lo sorresse quando si accasciò, incapace di
distinguere la realtà dalle voci nella sua testa.
La sentì pronunciare il suo nome, sentì Finrod accorrere,
seguito dal Re, mentre una luce azzurra accecante li avvolgeva. Avrebbe voluto
aprire gli occhi, ma non ci riusciva.
< Silevril è perduto nelle profondità del Mare > si
udì dire, ma avrebbe anche potuto essere tutto un sogno.
Non era riuscita a mettere nemmeno un piede sulla banchina
di legno, prima di finire in acqua.
L’Anduin sembrava impazzito,
grosse rapide si erano formate improvvisamente sulle sue acque normalmente
tranquille, gettando nel panico i marinai, rovesciando le imbarcazioni che
scaricavano le merci sui Campi del Pelennor. Onde
alte il doppio di lei si abbatterono sul porto, trascinando tutti tra i flutti
fangosi.
Alatariel tentò di aggrapparsi a qualcosa, ma invano. Gridò
il nome di Aeglos, ma la mano di lui era scivolata via dalla sua quando l’acqua
si era abbattuta su di loro.
La Stella Marina
si rovesciò. Sentiva le urla intorno a lei e non poteva farci nulla.
Riemerse a fatica, annaspando per trovare aria, per poi
essere sommersa di nuovo e ancora lottare per respirare.
Si sentì afferrare e trascinare verso riva con decisione.
< Ti tengo! > gridò Aeglos, aggrappato ad una delle
strutture in pietra del molo.
A fatica riuscì a tirarsi fuori e si ritrovò tra le braccia
di suo marito.
< Stai bene? > chiese frenetico, nel panico, < Sei
ferita! > le toccò la nuca e guardò ad occhi sbarrati il sangue sulle dita.
< Non è nulla, Aeglos, solo un graffio. >
Si abbracciarono e l’elfo sembrò quasi volerla soffocare nell’impeto.
< Non spaventarti, non mi sono fatta nulla. >
La verità, anche se tentava di rassicurarlo, era che il
terrore per un attimo l’aveva sopraffatta esattamente come aveva sopraffatto
lui. Aveva creduto di perderlo, in mezzo a una tale furia.
Le onde continuavano ad abbattersi su di loro, mentre si
alzavano e si allontanavano correndo verso i cancelli della Città. Decine di
uomini e donne correvano con loro, urlando e spingendo.
Per un secondo il pensiero del ragazzino, Barry, e dell’uomo
di Rohan la fecero quasi inciampare e sarebbe caduta
se Aeglos non l’avesse sostenuta. Forlond era anch’egli sparito nel Grande
Fiume quando la Stella si era
ribaltata. Si scoprì a pregare i Valar perché fossero
vivi, tutti e tre.
Avrebbe voluto piangere.
Rùth era in piedi di fronte a lui. I tre soldati giacevano
morti intorno a lei, come macabre decorazioni.
Era bellissima e terribile e lo stava guardando con occhi di
fuoco.
Era successo tutto talmente in fretta: Rùth aveva aperto gli
occhi e aveva pronunciato strane parole; gli uomini di Gondor,
prima che Galmoth potesse muovere anche un solo muscolo, avevano rivolto la
loro spada contro se stessi e si erano trafitti, poi Rùth si era alzata,
nessuna corda a tenerle i polsi e le caviglie, il suo irresistibile sorriso e i
boccoli invitanti sui lati del viso.
< Mio caro Galmoth, > aveva detto con voce di miele,
< che stupido sei stato a sottovalutarmi. Finrod Felagund è accecato da se
stesso e non capisce nient’altro che non sia il suo potere. Ma io ho la magia
dell’Oscuro Signore dentro di me. >
Sollevò una mano con il palmo verso l’alto e fece comparire
dal nulla una sfera di nera oscurità.
Un gatto bianco era dietro di lei, con sguardo maligno. Da
dove fosse entrato, Galmoth non avrebbe saputo dirlo, sempre che l’animale non
fosse sempre stato lì.
< Sì, mio caro, > disse Rùth al gatto, rispondendogli
come se quello avesse parlato a parole, < Ogni cosa è al suo posto. >
Lanciò la sfera di oscurità con un movimento fluido proprio
contro di lui, immobile e senza via di fuga.
Quando lo colpì, le tenebre scesero anche su di lui.
Al Cancello la calca bloccava il passaggio e la gente
spingeva per entrare.
L’Anduin continuava ad ingrossarsi
e presto le sue acque avrebbero invaso anche la prima cerchia della Città,
trascinando via i suoi abitanti.
Fradicia e sanguinante, si teneva aggrappata a suo marito,
terrorizzata al solo pensiero di essere separata da lui di nuovo. Aveva perso
suo figlio, perdere anche lui sarebbe stato troppo da sopportare.
Improvvisamente Aeglos lanciò un grido.
La folla guardava verso l’alto, puntando il dito verso la
parte più alta della Città, dove le mura si fondevano con la piazza e
assumevano la forma della prua di una nave.
Una figura solitaria era lì in piedi, in bilico sul ciglio
dello strapiombo, le braccia sollevate sopra la testa da cui si sprigionava un
bagliore azzurro intenso, che si diramava fino al Fiume.
Alatariel riconobbe i suoi capelli neri spettinati, la
figura asciutta, la postura sprezzante da ragazzino. Il suo cuore mancò un
battito e si strinse ancora di più contro l’elfo che le stava accanto.
< Silevril, > sussurrò Aeglos, incredulo.
***
In questo capitolo è
successo di tutto, talmente di tutto che ho il fiatone. Ho preso in prestito il
titolo, ancora una volta, dai miei amati Massive Attack,
in particolare dalla splendida “Splitting the Atom”. A volte mi chiedo se la connessione tra il titolo e
il capitolo la capisco solo io nella mia mente contorta o se alla fine ci
capite qualcosa anche voi…più probabile la prima
ipotesi. A presto!
Il
fragore minacciava seriamente di assordarla mentre correva dietro Finrod. L’elfo si era gettato all’inseguimento di Silevril, muovendosi con una rapidità che Laer non aveva mai visto prima, trascinandola con sé, le
dita ferme sul suo polso.
Anche il
Re di Gondor si era catapultato fuori dal Palazzo,
nella piazza dell’Albero, facendo cenno alle guardie di seguirlo.
Quando
raggiunsero Silevril, lui se ne stava in piedi sullo
strapiombo, la gemma scintillante alzata, con una luce azzurra che lo
circondava.
Laer corse verso di lui, liberandosi
dalla presa di Finrod e ignorando i suoi
avvertimenti. La Piana del Pelennor era invasa di
acqua, l’Anduin vorticava e strabordava
con la violenza di un Olifante imbizzarrito, travolgendo la gente che tentava
di fuggire disperatamente verso i livelli più alti della Città.
Le ci
vollero pochi istanti per capire che non ci sarebbe stato scampo, che l’acqua
avrebbe continuato ad alzarsi, riversandosi dal Mare all’Anduin
e poi alla Piana, sommergendo MinasTirith e tutti i suoi abitanti.
Riusciva
a sentire le urla e gli scrosci fin dall’ultima cerchia.
Silevril se ne stava immobile, ignorando
tutto ciò che lo circondava, con le spalle rigide. Non poteva vederlo in
faccia, ma la sua postura indicava una grandissima tensione.
Finrod l’afferrò e la trascinò
indietro, lontano da Silevril.
<
Lasciami! > Tentò di divincolarsi, invano.
< Non
sappiamo come potrebbe reagire! > Gridò l’elfo, e Laer
riuscì distintamente a sentire la sofferenza nella sua voce.
Una
risata allegra li fece voltare di scatto e videro Rùth,
libera e bellissima, nonostante l’incantesimo che le aveva modificato l’aspetto
fosse sparito.
Aveva i
capelli neri ed era pallidissima, ma gli occhi, neri anch’essi, erano
penetranti e crudeli… affascinanti.
<
Dov’è Galmoth? > le chiese, tentando di non
balbettare, mentre il panico si impossessava di lei.
Rùth la ignorò e si rivolse a Finrod, sorridendogli ammaliante.
< Non
è meraviglioso? Silevril ha il Mare nell’anima come
nessun altro abbia mai incontrato prima e tu lo sai, lo senti. >
Finrod si irrigidì, stringendo il polso
di Laer ancora di più.
< E
c’è dell’oscurità in lui, il tocco della maledizione di Mandos,
un odio che nemmeno lui sapeva di possedere e che lo corrode internamente. >
Rùth sorrise. < È questo che ti attrae in lui,
giusto? >
<
Silenzio! >
Finrod aveva parlato senza alzare la
voce, ma Rùth vacillò come se lui l’avesse spinta .
Il sorriso sulle labbra di Rùth svanì per un attimo,
ma tornò subito appena si voltò verso il Re di Gondor,
che se ne stava in piedi tra le sue guardie.
< Estel > lo chiamò < speranza…ma che speranza credi di
avere, Sire? >
Il Re
fece un cenno alle sue guardie, che avanzarono verso Rùth,
che mosse la mano di scatto.
Gli
uomini gridarono, come consumati dal fuoco, e si accasciarono. Le loro urla
ferirono le orecchie di Laer anche più di quelle
degli uomini travolti dall’acqua.
Finrod trattenne il respiro.
< Morgoth> disse,
e quella parola sembrava un insulto.
< Il
mio Signore mi dona forza, un piccolo assaggio del suo infinito potere. >
< Beruthiel, > disse Finrod, con
tono imperioso, < fermati. >
La donna
si immobilizzò e il suo sorriso si trasformò in un ringhio.
Laer sapeva che la voce di Finrod aveva potere, ma aveva paura che non potesse
bastare.
<
Libera Silevril! >
Rùth rise forte, schernendolo, pur
senza riuscire a muovere un muscolo. Quella risata le mise i brividi e dovette
ricacciare indietro le lacrime.
Non c’era
speranza, pensò.
< Non
sto facendo assolutamente nulla a Silevril. >
Era
vero.
L’elfo
era ancora immobile, come se nulla di quanto fosse successo lo avesse
minimamente toccato.
Lo
chiamò piano e lui, incredibilmente, si voltò appena, guardandola. I suoi occhi
chiari erano lucidi, come se anche lui stesse faticano per trattenere le
lacrime, ma per il resto il suo viso non faceva trasparire nulla.
Finrod lasciò la presa sul suo polso
per avvicinarsi a Rùth, mentre anche il Re di Gondor si avvicinava cautamente alla donna. La magia nera
era ancora nell’aria come pioggia, se ne poteva sentire quasi l’odore.
E Laer si mosse verso Silevril.
Sentiva che toccandolo, avrebbe potuto risvegliarlo, farlo ragionare.
Ma in
quel momento un grido lo fece sussultare e Silevril
si girò di scatto.
Due
figure correvano verso di lui, bagnate e sporche di fango. Erano un uomo e una
donna e quest’ultima aveva gridato il nome di Silevril
con la forza della disperazione.
Finrod aveva a sua volta sussultato,
perdendo per un attimo il controllo di se stesso, il tempo necessario perché Rùth si liberasse dalla sua influenza tanto da potersi muovere.
Fece un
movimento flessuoso della mano verso il Re e l’uomo si curvò in avanti,
sputando sangue.
Sentì Finrod gridare disperatamente il nome del suo Re e
sguainare la spada. Con una violenza di cui non lo credeva capace, trafisse Rùth.
La donna
cadde e il suo sangue si sparse intorno a lei, rosso e viscido…
normalissimo sangue umano, anche se lei sembrava non esserlo.
Sulle
sue labbra continuava ad aleggiare un sorriso di miele.
Silevril guardava la scena impietrito,
tenendo stretto a sé il Tesoro di Ulmo, che brillava
azzurro attraverso le sue dita.
I due
elfi non avevano badato a Finrod, alla morte di Rùth o del Re. Avevano corso fino a ritrovarsi accanto a Laer.
Silevril li guardava e nei suoi occhi si
accese una scintilla d’odio.
< Silevril, > disse la donna, < devi fermarti, la Città
sta morendo! >
Tentò di
toccarlo, ma la luce che lo circondava la respinse, bruciandola. Il volto della
donna era duro, nonostante le lacrime. Sembrava una statua di marmo su cui
qualcuno avesse versato dell’acqua e la somiglianza con l’impassibilità che
tanto l’aveva attratta in Silevril era evidente.
L’uomo
al suo fianco guardava Silevril con tristezza e
meraviglia.
<
Torna in te, Silevril. >
Sembrava
pregarlo.
< Non
toccatelo! >
Era Finrod, ancora accovacciato vicino al suo Re, con il volto
sofferente.
< Non
immischiarti, Finrod, >disse l’elfo, con una durezza che sorprese
tutti.
< Ti
prego, Aeglos, ascoltami. Quello che hai davanti non
è tuo figlio. >
Laer si sentì vacillare. I tre elfi
si guardavano e tra loro passò una comprensione antica, che lei non riusciva a
raggiungere. Sembravano tre statue e ciò che li circondava, il Re, Rùth riversa nel suo stesso sangue, persino Silevril, non li toccavano davvero.
<
Nessuno di voi capisce, > disse infine, sorprendendo anche se stessa.
La
guardarono tutti.
Si girò
e Silevril, in piedi sul parapetto delle mura, con
l’acqua vorticante sotto di lui e la luce sfavillante della pietra nelle sue
mani, sembrava ancora più alto, ancora più meraviglioso di quanto non fosse di
solito.
Sapeva
di essere solo una ragazzina, sapeva di non avere niente in comune con lui, ma
lo amava e questo era un fatto. Non c’era alcun motivo, in realtà lo trovava
anche antipatico e pieno di sé, ma non riusciva a farci nulla.
Cercò
automaticamente Galmoth con lo sguardo, chiedendo la
sua approvazione, un consiglio su ciò che stava per fare, ma l’uomo non c’era e
il pensiero di cosa era potuto accadergli minacciava di gettarla nel panico più
assoluto.
< Silevril? > lo chiamò piano e lui la guardò.
Prese
coraggio.
<
Stai facendo un vero casino qui, elfo, non te ne accorgi? >
Tentava
di apparire noncurante, ma la sua voce tremava leggermente.
< Non
riesco a fermarla, Laer, > disse lui, < Uinen è troppo potente. >
<
Credi che lei voglia la distruzione di MinasTirith? > domandò, come se quella domanda fosse del
tutto casuale, < La morte di persone innocenti? >
< No,
> tentennò, ansimando appena, < vuole essere liberata dal potere di Morgoth. >
< Rùth è morta, Silevril. >
L’elfo
sembrò accorgersene solo in quel momento. Spostò lo sguardo al corpo della
donna, sporco di sangue e abbandonato, poi a Finrod,
distogliendolo immediatamente, come se fosse doloroso. Infine vide i suoi
genitori e una lacrime gli bagnò la guancia.
< Alatariel…Aeglos… >
I due
non si mossero.
E poi Silevril guardò Laer.
< Sto
morendo, Laer, > disse e il suo corpo iniziò a
tremare violentemente, <la magia
nera di Rùth mi ha corroso dall’interno e continua a
diffondersi come un cancro. Aiutami. >
L’elfo
le tese la mano, con la catena a cui era appeso il Tesoro di Ulmo intrecciata alle lunghe dita sottili.
Senza
nemmeno pensare a cosa stava facendo, Laer si sporse
verso di lui e intrecciò le dita con le sue.
< Sii
vivo, > sussurrò, e quando le loro dita si incrociarono la luce azzurra
della gemma avvampò, avvolgendoli entrambi, per poi sparire.
Il rombo
dell’acqua che sbatteva contro le mura cessò.
Silevril la guardò per un attimo, come se
la vedesse per la prima volta, poi gli si rovesciarono gli occhi all’indietro e
cadde su di lei.
Alatariel gridò.
Finrod si era dimenticato di quanto
fosse difficile guardarla, di quanto fosse doloroso, eppure non riuscì a fare a
meno di correre verso di lei, lasciando il corpo di Estel
a terra.
Lei e Aeglos avevano preso Silevril
dalle braccia di Laer e Alatariel
era china su di lui.
Chiamava
il nome di suo figlio con voce rotta.
Finrod si accovacciò a sua volta su Silevril e gli prese il polso, gelandosi improvvisamente
quando non sentì pulsazioni.
Alatariel sbiancò, lasciandosi cadere tra
le braccia di Aeglos, anche lui bianco come non lo
aveva mai visto. Laer piangeva con una mano sulla
bocca, incapace di distogliere lo sguardo.
Finrod si sentiva come svuotato, la
testa leggera, il pollice ancora sul polso di Silevril.
Cosa
provava?
Si
sentiva stordito da quanto aveva perduto. Immagini di Estel
bambino, che cavalcava per i campi del Pelennor, si
sovrapponevano alsorriso sghembo che Silevril aveva la prima volta che si erano visti.
Aveva
perso il suo passato e il suo futuro in pochi minuti e non riusciva a provare
niente.
E poi,
improvvisamente, lo sentì. Un battito.
< Silevril! > esclamò, sorpreso.
L’elfo
spalancò gli occhi e gli afferrò la mano che aveva sul polso. Stringeva ancora
il Tesoro di Ulmo, e la pietra era tornata ad
assomigliare ad acqua liquida.
< Uinen mi ha parlato, > disse piano, rivolgendosi
direttamente a Finrod, ignorando gli altri.
<
Cosa ti ha detto? > gli chiese, cercando di non farsi distrarre dal tocco
delle sue dita. Sembravano schegge di ghiaccio e lo bruciavano.
Silevril non rispose, ma si mise a
sedere, guardando per la prima volta sua madre e suo padre.
<
Perché siete qui? > domandò, come un ragazzino ribelle.
A Finrod veniva da piangere per il sollievo di sentirlo
parlare di nuovo con quel misto di saccenza e tono
scanzonato.
Alatariel lo abbracciò e Aeglos strinse entrambi, mentre Laer
li guardava improvvisamente timida.
La
ragazza si alzò e lui la raggiunse, mettendole un braccio intorno alle spalle.
La vide asciugarsi gli occhi di nascosto, sperando che lui non la vedesse
debole.
<
Sapevo che c’era ancora qualcosa di lui, > disse piano, senza guardarlo,
< ma non ero sicura che io sarei bastata a riportarlo indietro. >
< Sei
sempre stata tu, il suo faro nelle tenebre. >
Laer alzò le spalle, non convinta.
<
Vado a cercare Galmoth. >
Finrod la guardò allontanarsi a passo
svelto, mascherando il misto di delusione per non essere stato il primo
pensiero di Silevril e ansia per la sorte di suo
padre.
Il corpo
di Estel era ancora lì, poco distante da quello di Beruthiel, entrambi così umani da far male. Si avvicinò
alla donna e la guardò per un attimo, cercando dentro di sé un senso di colpa
che non trovò, e poi il volto nobile di Estel, con
gli occhi chiusi e un leggero rivolo di sangue sul mento.
Si
inginocchiò e gli posò un bacio sulla fronte, mentre altri soldati accorrevano
nella piazza e il brusio della folla scampata all’inondazione si faceva più
insistente.
< Namarie, mellonin > disse.
Aveva
detto addio a talmente tanti amici che il dolore poteva arrivare a sopraffarlo,
eppure non era mai riuscito a rinunciare a quel dolore.
Silevril si stava alzando in piedi,
aiutato dai suoi genitori.
Mentre
lo guardava, pensò che la sua maledizione era proprio quella, amare sempre chi
non poteva avere. Suo padre avrebbe detto che questo poteva far capire molte
cose su di lui… probabilmente aveva ragione.
Questa storia avrei potuto
benissimo chiamarla “Le sfighe di Finrod” e nessuno
avrebbe obiettato nulla. Il buon Estel, figlio di Eldarion figlio di Elessar, ci
abbandona e il povero Finrod non impara mai dai suoi
errori, mentre Laer svolge il ruolo di donna
salvifica che morivo dalla voglia di inserire da qualche parte da anni e che
finalmente sono riuscita a mettere in una mia storia (certo Alatariel
di salvifico non ha mai avuto nulla). Se volete sapere cosa accaduto a Galmoth e al resto della ciurma, ma soprattutto chi
sceglierà Silevril tra i suoi molti spasimanti,
appuntamento al prossimo capitolo.
Lunga vita e prosperità,
Thiliol
P.S. il titolo di oggi è un verso
di “Forsaken” dei Korn
Dedicata ad Hareth, che ha trovato il suo Aeglos
e ne ha fatto suo marito. Mi raccomando, almeno tu non scappare di casa a
intervalli regolari!
‘Til then I walk alone
Quando
aprì gli occhi non riuscì subito a mettere a fuoco ciò che lo circondava e dovette
sforzarsi, cercando di non pensare alla sensazione che il cervello stesse
tentando di uscirgli dalla testa attraverso gli occhi e le orecchie. Sentiva
dolore in ogni punto del suo corpo, gli facevano male le braccia, le gambe,
persino i capelli sembravano attaccati al suo cranio con i chiodi.
Quando
finalmente la sua vista si schiarì non riconobbe il soffitto, bianco e liscio,
di semplice intonaco. Non era sulla Stella,
questo era certo, e non era nemmeno nella stanza che aveva condiviso con Silevril alla locanda, o in casa di FinrodFelagund.
Non
riusciva a ricordare esattamente cosa fosse successo, sentiva unicamente la
vaga certezza che Rùth fosse l’ultima cosa che aveva
visto. Il ricordo di quegli occhi, quelle labbra, quel corpo… Non poteva perdercisi,
non quando il solo atto di ricordare acuiva il suo già terribile mal di testa.
Mosse
lentamente un braccio, posato sul copriletto, e fu difficilissimo anche solo
spostarlo di pochissimi centimetri.
Qualcosa
gli impediva di muoverlo, qualcosa di morbido e caldo e pesante.
Una mano.
Abbassò lo
sguardo e il cuore gli si strinse. Laer era
addormentata, seduta su una sedia di legno, piegata in avanti, con la testa sul
letto e la destra che stringeva la sua mano sulla coperta. Respirava piano, con
la bocca leggermente aperta, i capelli che sfuggivano in modo disordinato dalla
treccia e le nascondevano appena il viso.
Le
lentiggini risaltavano come se fossero di fuoco sulla pelle pallida e le davano
un’aria da bambina, così familiare che a Galmoth
veniva da piangere.
Laer era lì, era viva, era con lui.
Rimase a
fissarla, senza parlare, senza svegliarla, esattamente come aveva fatto tante
volte quando era bambina, come faceva ancora sulla Stella, quando lei non lo vedeva. Assomigliava così tanto a suo
padre che, all’inizio, Galmoth l’aveva guardata
perché così riusciva a sentirsi un po’ più vicino a quell’amico perduto, ma man
mano che la guardava, aveva iniziato a farlo solo per lei, per la sensazione di
pace e calore che lo invadeva.
L’aveva
vista cambiare da bambina a donna senza mai staccare gli occhi da quel viso e
aveva rischiato di perderla perché era uno sciocco.
Strinse
appena le dita attorno al suo palmo e quel movimento la scosse, svegliandola.
Appariva
leggermente confusa, come se il sonno l’avesse colta di sorpresa, si mise
seduta e infine vide Galmoth che la guardava
sorridendo, sveglio e stanco.
< Galmoth! > esclamò, il sollievo ben udibile, < sono
così contenta! Per tutti i Valar, credevo di averti
perso! >
Gli si
gettò letteralmente addosso, strappandogli un gemito.
< Mi
dispiace > disse, ritirandosi, < ti ho fatto male? >
< Non
c’è bisogno che sia tu a farmi male, > rispose Galmoth,
la voce ancora impastata, < ho dolore in ogni singolo punto del mio corpo.
>
< Come
ti senti, a parte i dolori? >
< A
parte i dolori sto bene… beh, sono stanco come se avessi camminato per miglia e
miglia per poi essere calpestato da una guarnigione intera a cavallo, ma
immagino che me la caverò. >
Laer gli fece un gran sorriso e il suo
volto si illuminò.
< Credevo
che fossi morto, quando ti ho trovato sul pavimento a casa di Finrod. Tutti quegli uomini accanto a te lo erano e tu… eri
così freddo! > Rabbrividì.< Rùth ti ha risparmiato. >
< Forse
credeva di avermi ucciso. >
< No,
se avesse voluto ucciderti lo avrebbe fatto. >
Rimasero
in silenzio per un po’.
< Dove
sono? > chiese infine Galmoth, < Cosa è
successo? >
< Sei
alle Case di Guarigione. Tre giorni fa Rùth si è
liberata, ti ha quasi ucciso e ha attaccato la sala del trono. Silevril appena l’ha vista… non so che genere di potere
quella donna avesse, Finrod ha tentato di
spiegarmelo, ma io non so nulla dell’Antico Nemico, degli Anni Oscuri e di
queste cose. Quello che so è che Silevril ha usato il
potere del Tesoro di Ulmo per riversare il Mare nell’Anduin e inondare la Città. >
Galmoth sospirò. Lo aveva immaginato,
aveva capito cos’era successo nell’istante in cui aveva aperto gli occhi. Non
era stato in grado di fermarlo, aveva avuto paura dell’elfo, non avrebbe dovuto
nemmeno permettergli di rimanere solo con Rùth.
< Non è
colpa tua, > lo rimproverò la ragazza, come se gli avesse letto nel
pensiero, < non è colpa di nessuno, se non di Rùth.
Ed ora il Re è morto e decine e decine di persone sono morte nell’inondazione…
e la Stella… >
Galmoth si sentì attorcigliare lo stomaco.
< La Stella cosa, Laer?
>
< Tutte
le navi che erano al porto sono state distrutte. >
La voce
della ragazza tremava.
Riusciva
ancora a ricordare di quando, subito dopo essere caduto in disgrazia agli occhi
del Principe e aver perduto tutti i suoi averi, era andato al porto, con Laer che lo seguiva anche se era già grande abbastanza da
poter avere una vita sua. Ricordava della nave, piccola e mal ridotta,
attraccata accanto a quella per cui Laer stava
contrattando. L’aveva vista e l’aveva amata di un amore immediato e viscerale,
ignorando le parole del venditore, le parole di Laer
che gli chiedeva se era pronto a chiudere l’accordo.
Aveva
speso tutti i soldi che gli rimanevano per la Stella Marina, nonostante le proteste della ragazza, senza mai
pentirsene.
Ed ora non
esisteva più.
<
L’equipaggio? > Aveva paura della risposta.
< Sono
riusciti a salvarsi, > disse Laer e lui tirò un
sospiro di sollievo, < anche se Conn si è rotto
una gamba e probabilmente dovrà camminare con un bastone per il resto della sua
vita. Forlond ha qualche graffio e Barry sta benone,
lo hanno preso a lavorare qui, alle Case di Guarigione. >
Laer lo guardò, in attesa che lui
facesse la domanda che sapeva di dover porre, prima o poi.
< Silvril? >
Aveva
quasi paura a chiedere di lui. Non voleva pensare al viso dell’elfo, al nulla
che aveva visto nei suoi occhi, alla voce tagliente che lo aveva fatto sentire
come un bambino tremante. Aveva guardato dentro di lui e ci aveva scorto
un’ombra che lo aveva terrorizzato nel profondo.
< Sta
bene, > disse Laer, piano, < è tornato quello
di sempre. >
Non
rispose. Non riusciva a dire a Laer ciò che pensava
veramente, cioè che Rùth non aveva rubato l’anima
dell’elfo con un incantesimo, ma aveva semplicemente aperto una porta per
permettere alla sua vera essenza di fuoriuscire.
Non poteva
dire questo a sua figlia, così evidentemente innamorata di Silevril
da non riuscire ad andare oltre l’immagine che ne aveva fatto nella sua mente.
< Sai,
> disse lei, improvvisamente, < sono stata io. Silevril
stava in piedi sulle mura, a distruggere tutto, a delirare di Uinen, di potere e chissà che altro, ed io sapevo che mi
avrebbe ascoltata, sapevo che avrei potuto toccarlo. Gli ho preso la mano e lui
è tornato in sé. >
Lo guardò,
aspettandosi probabilmente che lui dicesse qualcosa, ma Galmoth
rimase in silenzio.
La
stanchezza era ormai parte di lui e faticava a tenere gli occhi aperti, mettere
insieme una risposta per Laer era troppo difficile in
quel momento.
< Ti
lascio riposare, > disse, alzandosi di scatto e lasciando la stanza.
Il suono
della porta che si chiudeva dietro di lei risuonò come un colpo di martello
nella sua testa dolorante.
Non sapeva
perché, ma si era ritrovato seduto al tavolo in casa di Finrod,
con una tazza fumante di un qualcosa che non aveva mai assaggiato prima. “Tè”,
lo aveva chiamato l’elfo che se ne stava di fronte a lui, in silenzio e senza
guardarlo, gli occhi persi nella stessa bevanda calda.
Silevril ne prese un altro sorso: era amaro
e intenso, gli provocava una strana sensazione nelle vene, come se piccole
scosse lo attraversassero velocemente.
<
Contiene al suo interno una sostanza eccitante, > disse Finrod,
quasi casualmente, < ma per qualche strano motivo, io lo trovo estremamente
rilassante. >
Non
rispose e il silenzio si allargò tra loro fino a divenire quasi fisico.
Erano tre
giorni che non vedeva l’altro e li aveva passati rimuginando, inquieto, finché
non aveva preso il coraggio a due mani ed era andato a casa sua. Si maledisse
mentalmente, perché ora era lì e non sapeva cosa dire, l’unica cosa certa era
che staccare gli occhi da lui era impossibile.
<
Voglio rimanere qui, con te. >
Finrod alzò di scatto la testa,
piantandogli addosso uno sguardo severo. Silevril si
mosse a disagio sulla sedia, ma il Noldo era
implacabile, lo faceva sentire nudo.
< No.
>
<
Perché no? > la voce gli uscì come un lamento.
Finrod sospirò e posò la tazza sul
tavolo, alzandosi e andandogli davanti. Prese una sedia e si sedette di fronte
a lui.
Il suo
volto era liscio e senza età, ma la fronte era aggrottata e tra i capelli si
intravedevano sottili fili d’argento, quasi che la vecchiaia mortale lo stesse ormai raggiungendo. Il potere che emanava era pari
solo alla fragilità che stava dimostrando.
<
Odieresti rimanere qui, > disse e quando Silevril
fece per controbattere lo zittì, < No, anche se adesso pensi che mi sbaglio,
so che è così. C’è il mare in te, Silevril, ne hai un
bisogno disperato e tenerti qui sarebbe orribile da parte mia. >
Si bloccò
un attimo e gli mise una mano dietro la nuca, avvicinando le loro fronti. Con
l’altra mano prese la sua tazza e l’appoggiò sul tavolo.
Silevril era come ipnotizzato da quegli
occhi, dalla sensazione del suo respiro così vicino.
< Non
riuscirei mai a lasciarti andare, se ora rimanessi qui. >
< Non
puoi decidere per me. >
< Sì
che posso, > sorrise appena, < sei giovane ed arrogante ed hai ereditato
la mancanza di buon senso da entrambi i tuoi genitori. Deciderò io per te. >
Si sporse
leggermente e gli posò un bacio sulle labbra.
Fu appena
uno sfiorarsi, prima che Finrod interrompesse il
contatto.
< Ho
sempre amato chi non avrebbe mai potuto ricambiare > disse, alzandosi in
piedi.
Qualcosa
scattò in lui, come una voce che gli gridava di fare qualcosa, di non lasciare
che quella sensazione svanisse. Avrebbe potuto dirgli che non era vero, che lo
amava, che non lo avrebbe mai lasciato, ma sarebbe stata una menzogna.
Eppure
aveva bisogno di Finrod, di saziare quel desiderio,
di zittire quella voce, di cancellare una volta per tutte l’immagine dell’elfo
che aveva avuto in testa fin dal loro primo incontro.
Non sapeva
cosa provasse, né se provasse effettivamente qualcosa, sapeva soltanto che Finrod era lì e che non c’era altro da fare se non quello.
Gli
afferrò il polso, tirandolo a sé con forza, poi quando fu vicino gli prese la
casacca, attirandolo ancora.
Lo baciò,
ma non fu come il precedente, non fu un tocco né leggero né breve.
Si spinse
verso di lui, immobilizzandogli il volto, forzando le sue labbra ad aprirsi e,
sorprendentemente, non trovò resistenza. Finrod
sapeva di tè e miele e le loro lingue si accarezzavano.Silevril gli mise
una mano nei capelli e li tirò leggermente, l’altro gli afferrò gentilmente le
guance per tenerlo fermo.
Avrebbe
voluto rimanere così per sempre, ma non fu possibile. L’elfo lo allontanò
bruscamente, ansimando come dopo una lunga corsa, lo sguardo un pozzo di
sofferenza.
<
Questo, > disse con voce rotta, < non sarebbe mai dovuto accadere. >
Lo fece
alzare, quasi di peso, soffermandosi un momento di troppo prima di lasciare la
presa.
Silevril avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma,
così come era arrivato, il desiderio si era spento e tutto ciò che rimaneva era
il fascino che quell’elfo, così antico e così mortale, esercitava su di lui.
Sentiva
solo il vuoto dentro e Finrod sembrò capirlo subito.
< Te
l’avevo detto, no? > gli sorrise, triste.
Cosa
poteva aggiungere?
Si morse
un labbro, mentre lo oltrepassava e si avviava verso la porta, lasciandolo da
solo, le tazze di tè ancora calde sul tavolo, come una promessa.
Si chiuse
la porta alle spalle, gli occhi che gli bruciavano per la fatica di trattenere
le lacrime. Perché piangere? Era forse un bambino?
Non riuscì
a farne a meno e si asciugò le guance con rabbia, avviandosi lungo la strada,
verso la locanda in cui alloggiava.
Aveva
davvero creduto… cosa? Che cosa aveva provato per Finrod?
Una parte di lui voleva tornare indietro e costringerlo a tenerlo con lui, ma
era flebile e stava svanendo.
Sentiva
ancora il suo sapore in bocca.
< Se
fossi rimasto, non avrei potuto sopportarlo, > disse una voce alle sue
spalle.
Si voltò
di scatto, sorpreso di trovare suo padre lì, come in agguato nell’ombra.
< Mi
seguivi? >
<
Naturalmente. >
Aeglos sembrava tranquillo, noncurante,
mentre lo raggiungeva e camminava al suo fianco.
< Perché
mi seguivi, Adar? Non lo sai che sono ormai un
bambino grande? > Sorrise di sbieco, mascherando l’amarezza sotto una patina
di ironia.
<
Perché non potevo lasciarti fare ciò che volevi fare, > rispose laconico,
< e non mi fido di FinrodFelagund
su queste cose. Ho visto cosa c’è tra di voi, ho letto il desiderio nei vostri
occhi. >
Gli
afferrò un polso, fermandosi e costringendo Silevril
a guardarlo in faccia.
Aeglos sembrava stanco come non mai,
aveva delle escoriazioni su uno zigomo e le labbra pallide, ma gli occhi erano
quelli di sempre.
< FinrodFelagund è intrappolato in
un riflesso, > disse, < l’ombra di un amore che non potrà mai essere e
tu, Silevril, sei innamorato del potere. >
< Non
devi preoccuparti per me, > si divincolò bruscamente dalla stretta di suo
padre, < era solo un’illusione. Ma non potrete controllarmi per sempre, non
potere continuare così. Tu e Alatariel dovete
lasciarmi andare! Perché siete qui? >
Tutta
l’amarezza, la rabbia, la stanchezza di quei giorni gli si riversarono addosso
in quell’istante. Avrebbe voluto colpire Aeglos,
fargli capire che la sua presenza era come una corda che lo legava.
Ma Aeglos lo bloccò di nuovo, costringendolo in un abbraccio.
Erano passati tre giorni e non si erano ancora toccati, non dopo
quell’abbraccio disperato sulle mura, subito dopo che tutto era finito.
Come ogni
volta, non riuscì ad evitarsi di ricambiare, perdersi nell’abbraccio
rassicurante di suo padre.
< Ho
temuto che fossi morto. >
< Ma
non lo sono,ogni cosa è andata per il meglio. >
< Torna
a casa, con me, con tua madre. >
Lo stava
supplicando, quasi soffocandolo in quell’abbraccio disperato.
< Lo so
che ti ho spinto ad andare via, che ho finto di appoggiarti, ma mentivo. >
< No, adar, non posso tornare nella vostra bolla di ossessioni e
sensi di colpa. >
Aeglos si irrigidì.
< Sì,
padre, non fingere di non capire, > disse Silevril
scostandosi, < non capite che mi avete ucciso con il vostro amore? Cerco di
fuggire e voi mi seguite fin qui, a MinasTirith, perché credevate che fossi morto? Non vi avevo
forse giurato che sarei tornato? Tu e mia madre vivete in questo vortice di amore
malsano ed io non posso più farne parte. >
Guardò suo
padre e per la prima volta in vita sua non riuscì a decifrarne l’espressione,
sembrava una statua, lui che di solito era un libro aperto. Lo aveva ferito
così profondamente?
Sentiva
come mille lame nel petto. Sofferenza, in ogni parte del suo spirito.
Ma non
poteva fare altro, non aveva nessun altro mezzo per potersi distaccare da tutto
quello, non quando la lontananza fisica non era servita a nulla, non quando la
cosa che desiderava di più era proprio ciò che suo padre gli chiedeva.
Era grato
che sua madre non fosse lì, non sarebbe mai riuscito a dire a lei ciò che stava
dicendo ad Aeglos.
Per un
attimo desiderò rifugiarsi sotto lo sguardo potente di Finrod,
ma poi quel pensiero svanì e sentì sulle labbra il ricordo delle labbra di Laer.
<
Prendi tua moglie e vattene, Aeglos, > asserì
infine, < torna a casa nostra, sulla scogliera. Io vi troverò lì, prima di
attraversare il Mare, lo giuro, ma ora devo poter vivere. >
Gli voltò
le spalle e se ne andò, lasciandolo come impietrito sulla strada, il ricordo
della sua infanzia che sbiadiva al sole.
Le lacrime
che aveva non erano abbastanza.
***
Avete avuto il bacio tra Silevril e Finrod, avete avuto un
momento padre/figlio molto fluff e uno molto angst,
insomma si può dire che ce n’è per tutti i gusti. Ci avviamo alla conclusione,
il prossimo capitolo sarà l’ultimo di questa storia e poi epilogo, spero che
prima o poi voi numeretti silenziosi vi farete sentire. Io comunque continuo a
salutarvi e augurarvi lunga vita e prosperità!
P.S. il titolo è un famosissimo
verso di “Boulevards of brokendreams” dei Green Day
Silevril se ne stava appollaiato
sull’albero maestro come un uccello, con lo sguardo perso lontano nella
corrente dell’Anduin.
Era un
grosso mercantile, molto diverso dalla Stella,
e Laer si ritrovò a pensare che non fosse assolutamente
adatto a quell’elfo dai modi tanto spicci.
Quando si
avvicinò lui la udì e si voltò a guardarla, con un sorriso sincero sul viso
tirato.
Non lo
vedeva dai funerali del Re e non gli parlava da quando lo aveva richiamato
dall’Ombra, lì sulle mura di MinasTirith, ormai una settimana prima. Sentiva la sua mancanza
come una bruciatura sulla pelle.
< Sei
venuta a salutarmi, piccola Laer? >
Sorrise e
scese agilmente, come un gatto, atterrandole proprio di fronte. Laer alzò la testa per guardarlo, maledicendosi per
l’improvvisa timidezza che l’aveva colta.
< Stai
andando via, quindi? > gli chiese.
<
Domani partirò con questi gentili signori, per nuove fantastiche avventure!
>
Scherzava
e la prendeva in giro, come sempre. Era un qualcosa che la faceva impazzire,
arrabbiare… e che amava profondamente.
<
Pensavo che saresti tornato con tua madre e tuo padre. >
Il suo
viso si indurì.
< No, è
una cosa che non posso fare, > improvvisamente tornò a sorridere, con aria
furba, come un bambino dispettoso < sono grande ormai, no? >
< Galmoth non si è ancora ripreso > disse lei, un po’
indecisa su come affrontare l’argomento per cui l’aveva cercato, < rimarrò
qui con lui e poi Finrod ci scorterà a DolAmroth. Il Tesoro di Ulmo tornerà al collo del Principe e Galmoth
riavrà il suo titolo di Ammiraglio. >
< Alla
fine Baran aveva ragione > osservò Silevril con amarezza, < abbiamo tutti fatto quello che
voleva lui e ne abbiamo ottenuto ciò che ci aveva promesso. >
< Non
proprio, > lo rimbeccò, < Baran voleva la
distruzione di Gondor e non l’ha ottenuta. >
<
Forse. >
Rimasero
in silenzio qualche istante. Silevril la stava
guardando attentamente, quasi studiandola. Laer non
riusciva ad alzare lo sguardo per guardarlo in faccia, preferendo continuare a
fissare un punto imprecisato del pavimento di pietra della banchina.
Avrebbe
voluto essere più intraprendente, ma quando si trattava di Silevril
tutto il suo carattere sembrava scomparire e lei si sentiva come quando aveva
dieci anni: una bambina.
Ma non
poteva rimanere lì senza far nulla, non quando il rischio di perderlo era così
grande, così reale… Silevril su una nave, chissà dove
nella Terra di Mezzo, senza che lei riuscisse a rintracciarlo… no, era
insopportabile anche solo l’idea.
Inspirò
profondamente e alzò la testa di scatto, pronta a confessare tutto.
Ed
improvvisamente Silevril la baciò.
Si era
chinato su di lei e le aveva afferrato saldamente il viso con la mano, con
l’altra le aveva avvicinato i fianchi ai suoi e la baciava con una forza tale
da sconvolgerla.
Si
aspettava che sapesse di mare, di salsedine e sole, ma la verità è che non
sentiva alcun sapore, nulla se non la morbidezza delle sue labbra e le loro
lingue a contatto. Gli si aggrappò con la disperazione di un naufrago, come se
stesse per affogare. Si alzò in punta di piedi per raggiungerlo un po’di più,
per non perdersi niente di quel bacio che era tutto ciò che aveva desiderato.
E
poi Silevril la sollevò, quasi tirandola di peso su
di sé, con una violenza che avrebbe dovuto sconvolgerla ma che invece acuiva le
sensazioni che stava provando.
Desiderio
e ancora desiderio e tutto ciò che comprendeva iniziava e finiva in Silevril.
Non
riusciva a respirare e la testa iniziò a girarle vorticosamente.
<
Laer… >
Silevril pronunciava il suo nome, con il fiato
corto.
D’un
tratto si bloccò, allontanandosi bruscamente, ansimando.
Aveva
il volto paonazzo, i capelli scarmigliati e appariva ancora più bello del
solito.
La
guardava sconvolto, come se perdere il controllo in quel modo fosse qualcosa
che non aveva mai sperimentato. Laer non stentava a
crederci.
<
Sono innamorata di te, > disse.
Non
c’era un motivo preciso per cui aveva scelto proprio quel momento, ma in
qualche modo le parve appropriato.
Per
un momento l’elfo sembrò andare in pezzi, sciogliendosi come la cera di una
candela. La sua espressione era sofferente, ma gli occhi chiari sembravano
inanimati… il Silevril di sempre, quello che aveva il
controllo, quello che appariva costantemente come una bellissima statua di
marmo.
<
Non avresti mai dovuto dirmi questo, > disse, e la sua voce era rotta e
disperata.
<
Dovevo provarci, > gli rispose, < almeno prima della tua partenza, per
sapere se c’è una possibilità per noi. >
<
Una possibilità? > Era incredulo. < Quale possibilità potrebbe mai
esserci per noi? >
<
Non mi importa che sei immortale. >
<
Credi che sia questo il problema? Oh, dolce, ingenua, Laer!
Sono un essere egoista e preferirei stare con te anche per poco piuttosto che
non averti mai. >
<
Allora che problema c’è? >
Silevril la guardò un secondo e quello
sguardo la fece rabbrividire.
<
Non posso amarti, Laer. >
Le
sembrò che tutto il suo sangue defluisse dal volto, lasciandola svuotata.
<
Ti desidero intensamente… > le si avvicinò per accarezzarle una guancia,
< e tengo a te come credo di non aver mai fatto con nient’altro in tutta la
mia vita. >
<
Ma non sei innamorato di me. >
Mentre
lo diceva le parole le risuonavano alle orecchie come una campana stonata…
c’era qualcosa di terribilmente sbagliato.
<
Io… > esitò, < la verità è che non credo di poterci fare nulla. >
<
Ma sei innamorato di FinrodFelagund.
>
Avrebbe
voluto sbattergli in faccia quelle parole con violenza, ma ne uscì solo un
lamento disperato.
Silevril si ritrasse, come se lo avesse
schiaffeggiato, pallido sotto la pelle scurita dal sole.
<
Quello che c’è tra me e Finrod è… complicato. Non lo
so cosa provo per lui, non posso spiegarlo. > Sospirò pesantemente, < Ma
so cosa provo per te e non posso cambiarlo in quello che tu vorresti. Non posso
amarti come vorresti, Laer, non ne sono capace. >
Il
dolore che provava si trasformò in confusione. Lui dovette leggerglielo in
faccia perché continuò:
<
Sono nato e cresciuto in un amore che tu non riesci nemmeno a immaginare. Ho
visto la sofferenza, ho visto quanto possa essere distruttivo. Non sono in
grado di fare lo stesso, non riuscirei mai a soffrire per amore, non sarei mai
disposto a sacrificare me stesso per te, per quanto in questo momento tu sei
tutto ciò che desidero. >
La
guardava supplicante, voleva che lei capisse, ma la verità è che quello che
diceva non aveva alcun senso.
<
Se credi che l’amore sia sofferenza, Silevril, se
credi che distrugga ogni cosa, allora non hai capito niente. >
Fece
per toccarla, ma lei si allontanò bruscamente e lui rimase con un braccio a mezz’aria,
proteso.
Lo
guardava e quella bellezza che l’aveva attratta le sembrava ora grottesca, su
quel volto che non faceva trapelare alcuna emozione.
<
Com’è possibile che sotto questo aspetto tu non provi niente? >
<
Non credo di essere capace di amare qualcuno, Laer.
>
Credeva
davvero a quanto stava dicendo, era questo che la feriva più di ogni altra
cosa. In lui c’era un’anima vuota e fredda che le metteva i brividi e che non
riusciva a smettere di amare.
Non
gli rispose, non lo salutò, semplicemente gli voltò le spalle, lasciandolo lì
sul molo, con le sue convinzioni e le sue ferite, portandosi dentro i pezzi del
suo cuore infranto.
Guardò
Laer allontanarsi e respinse l’impulso di correrle
dietro. A cosa sarebbe servito? Non poteva darle ciò che lei voleva, non ne
avrebbe ricavato altro che una vita sprecata e un cuore spezzato. No, non
poteva assolutamente permettere a se stesso di fare
questo a Laer, nemmeno se la desiderava in un modo
tanto travolgente. Si era stupito di come il suo corpo aveva reagito alla sua
presenza, di come l’aveva baciata senza nemmeno stare a pensare a cosa stava
facendo. Quel piccolo momento di lucidità necessario
ad allontanarla gli era costato uno sforzo enorme.
Avrebbe
voluto che il mercantile partisse in quel momento, sarebbe stato molto più
semplice resistere alla tentazione di raggiungere Laer
e pregarla di riprenderlo con sé, che ciò che aveva detto non era vero, ma
doveva aspettare la mattina successiva, quando tutto l’equipaggio fosse stato
pronto.
Si
sentivano molte voci, nel piccolo porto fluviale che collegava MinasTirith al resto della Terra
di Mezzo, ma a lui sembrava di sentire unicamente il martellare del cuore nel
petto, il respiro che gli rimbombava nelle orecchie.
Si
mosse un labbro e, con un gesto di stizza, si ravviò i capelli che gli
ricadevano sugli occhi.
Voleva
trovare Galmoth, salutarlo, prima di partire, ma era
molto probabile che Laer fosse corsa proprio da lui.
A dire la verità, l’ultima volta che lo aveva visto, il giorno prima, aveva
avuto l’impressione che l’uomo si fosse raffreddato nei suoi confronti,
mettendolo profondamente a disagio. Aveva ferito anche Galmoth,
unico amico che avesse mai avuto. Complimenti, Silevril!
<
Non incolpare te stesso dei sentimenti altrui. >
La
voce di sua madre sembrava portata dal vento sul fiume. Aveva tentato in ogni
modo di evitarla, di fingere che lei non fosse lì, che qualsiasi cosa fosse
accaduta tra lui e Aeglos non avesse niente a che
fare con lei, ma non era mai facile impedire ad Alatariel
di fare quello che voleva.
Si
voltò.
Era
sulla banchina, con i suoi vestiti da viaggio sgualciti e i lunghi capelli
corvini legati stretti sulla nuca, l’immagine che nella sua infanzia aveva
significato un misto di delusione e sicurezza. Perché sua madre era andata via
tante volte, ma era sempre ritornata.
<
Naneth. >
<
Mi è sembrato di correrti dietro per tutta la settimana, figlio, alla fine ho
deciso di intrappolarti in un luogo in cui non potevi fuggire. >
Non
riuscì a reprimere un sorriso, a cui lei rispose. La raggiunse e l’abbracciò,
abbandonandosi tra le sue braccia come quando era bambino, lasciando che la
madre gli accarezzasse i capelli, gli sussurrasse all’orecchio che lo amava.
Alla
fine staccarsi da lei fu quasi doloroso.
<
Non posso appoggiarmi a te ogni volta che qualcosa non va come vorrei, >
disse, senza però lasciarle la mano, < quello che ho detto a mio padre era
vero. >
<
Hai riversato su di lui una rabbia e una violenza che non si meritava, > la
voce di sua madre era severa, < lo hai ferito più di quanto immagini. Non lo
sai quanto profondamente ti ami? >
<
Perché devi sempre rigirare le mie parole? > la lasciò, nervoso. < Perché
interpreti il bisogno di indipendenza come un rifiuto? Per voi amore è
possesso, non si riesce a uscire da questo circolo vizioso. >
Silevril sospirò pesantemente.
<
Iluvatar sa quanto vorrei amarvi di meno, ma non mi è
possibile. Finché rimarrò con voi, finché voi continuerete a cercarmi, non sarò
mai libero. Tutto il mio essere anela a questo, non capisci? >
Alatariel lo guardava con occhi leggermente
sbarrati, confusa.
<
Naneth, > addolcì la voce, < è bastato vederti
un minuto perché immagini di noi due e mio padre nella nostra casa sulla
scogliera mi inondassero la mente. L’altro giorno, Aeglos
mi ha appena sfiorato e io volevo tornare con voi. >
<
E sarebbe così terribile? > Alatariel sembrava
così giovane, così indifesa. Sua madre sapeva usare le sue armi in maniera
spietata e perfetta.
<
Sarebbe meraviglioso e sbagliato. Non mi fa bene stare lì, non mi fa bene il
rimanere fuori dal mondo. Quando eri giovane, madre, hai vissuto la tua vita,
hai lottato, sbagliato, sofferto. Non saresti ciò che sei ora se fossi rimasta
in casa, con tuo padre, se Feanor non ti avesse
strappato via a forza da casa tua. >
Lei
strinse le labbra, come se il nome di Feanor la
facesse arrabbiare, ma la sua espressione era impassibile. Eppure Silevril la conosceva, riusciva a scorgere la
consapevolezza in lei, la comprensione che Aeglos non
era riuscito a dargli. Sua madre era d’accordo con lui e lottava contro se stessa per ammetterlo, per superare l’istinto che le
imponeva di tenere suo figlio il più vicino possibile.
<
Per questo hai spezzato il cuore di quella ragazza? >
La
domanda lo scioccò.
<
Non pensavo avessi sentito. >
<
Non ho potuto evitarlo, > disse lei, < quando sono arrivata voi eravate,
beh… > si interruppe un momento, come se l’idea di suo figlio che baciava
un’altra donna non l’avesse mai lontanamente sfiorata. < Ho sentito ciò che
le hai detto, Silevril, > continuò e c’era un tono
duro nella sua voce, < è stato crudele e ingiusto. >
<
Ma vero. >
Fu
come se l’avesse schiaffeggiata. Alatariel vacillò.
<
Credi sul serio di non essere in grado di amare? >
<
L’amore è distruzione, naneth, come puoi chiedermi di
fare questo a Laer? >
<
Se pensi questo, mio amato figlio, allora è meglio che la tua amica doni il suo
cuore a qualcun altro. >
Silevril guardò sua madre, senza riuscire a
credere alle sue orecchie: ad Alatariel, Laer piaceva.Certo,
non lo avrebbe mai ammesso, ma era così e la delusione era dipinta sul suo viso
chiara e lampante.
Non
riusciva a sopportarlo.
<
E naturalmente Finrod è innamorato di te, >
continuò lei, implacabile, < chissà perché… Figlio mio, fin dal momento in
cui sei nato sei stato amato con una tale intensità, e tu rifuggi questo amore
per testardaggine e vendetta contro di me. >
<
Non tutto gira intorno a te, madre. >
<
Oh, ma nel tuo mondo è così, vero? Ogni cosa che ti capita è colpa mia, perché
non ti ho amato abbastanza, perché ti ho abbandonato, perché non ti ho portato
con me. Se avessi avuto un cuore avresti capito che
io e tuo padre ti amiamo più di quanto sia
anche lontanamente descrivibile a parole, che se andavo via era perché ti
amavo… non te lo ha forse spiegato, Aeglos? >
Alatariel aveva le guance rigate di lacrime,
ma era furiosa come mai l’aveva vista prima in vita sua. Gli faceva quasi
paura.
<
Ah, Silevril, porti il nome della più bella gemma su
Arda e sei l’unica cosa che mi ha salvata dalla morte, l’unica cosa che separa
me e Aeglos dalla perdizione e dall’oblio, ma non te
ne rendi conto. Ed io sono stanca di cercare di fartelo capire. >
<
Il tuo non è amore, madre, è costrizione. >
Alatariel si avvicinò a lui e lo baciò su
una guancia, delicatamente.
<
Ognuno ama come può. >
Si
voltò con un ultimo sguardo e si allontanò da lui, verso la strada che
riportava in Città.
Rimase
ad osservarla per un po’, finché non scomparve alla sua vista, lasciandogli
addosso un senso di inquietudine, la sensazione di essersi sempre affannato a
capire qualcosa che era sotto i suoi occhi.
Ma
Alatariel si sbagliava, non aveva mai dubitato del
suo amore, o di quello di suo padre, nemmeno per un istante, semplicemente non
riusciva ad accettarlo, non riusciva a contenerlo, sentendosi legato a loro
come uno schiavo in catene. Questo però lei non poteva capirlo.
Il
cielo era ancora scuro, tranne sul filo dell’orizzonte, dove il sole stava
sorgendo. Aveva passato una notte insonne, tormentato dal ricordo delle labbra
di Laer, dalle parole di suo madre, dall’espressione
ferita di Aeglos. Avrebbe voluto chiudere gli occhi,
sprofondare in un sogno fatto di Mare e Stelle, cullato dalla voce dolce di Uinen come gli era capitato quando aveva il Tesoro di Ulmo al collo.
La
Maia sembrava sempre così benevola con lui, nonostante avesse profanato la sua
Gemma per portare la distruzione sulla città. Si sentiva in colpa, per quello che
era successo, per i morti che aveva provocato, ma soprattutto per la sconcertante
sensazione di aver perso troppe cose in una volta sola.
Aveva
creduto di essere buono, una persona migliore di quanto i suoi genitori fossero
mai stati, ma non era così e questo gli faceva male. Chissà, forse mandare via Laer in quel modo era stata una cosa buona, in fin dei
conti. Meritava di avere accanto qualcuno in grado di amarla veramente, non un
elfo con l’oscurità dentro di sé e il pensiero del Mare come unico scopo.
Guardò
distrattamente gli uomini attorno a lui che si affannavano nello spiegare vele
e sciogliere cime, mentre il capitano urlava ordini con voce potente. Era un
uomo alto e magro, dalla pelle abbronzata e la barba bionda che contrastava con
il capo calvo.
Non
gli aveva quasi rivolto la parola e questo Silevril
lo aveva apprezzato enormemente: nessun contatto, nessun pericolo di rovinare
la vita a qualcun altro.
La
nave si staccò lentamente dalla riva, puntando con la prua verso sud, pronta a
raggiungere il centro dell’Anduin e a sfruttarne la
corrente per arrivare il prima possibile a Umbar.
La
banchina si allontanava e la Città con essa, bianca e imponente sulle pendici
del Mindolluin, una vera meraviglia eretta dalle mani
degli Uomini. Doveva assolutamente tornare a MinasTirith, prima di attraversare il Mare, e non solo per
poterla visitare. Finrod era lì e in fondo al cuore
desiderava il suo tocco ancora una volta… ma poteva aspettare. La Terra di
Mezzo era grande e meravigliosa, piena di luoghi in cui andare.
Guardò
verso riva un’ultima volta e spalancò gli occhi, sorpreso. Galmoth
se ne stava in piedi dove poco prima era ormeggiato il mercantile e ansimava a
causa della corsa. Il vento gli scompigliava i capelli, facendolo sembrare più
giovane.
Mise
le mani a coppa intorno alla bocca e gridò:
<
Maledetto elfo! Potevi aspettare che almeno ti salutassi! >
Silevril scoppiò a ridere e lo salutò con
la mano.
<
Lo sai che mi piace essere imprevedibile! > gli urlò di rimando e lo vide
scuotere la testa, divertito.
Man
mano che l’Anduin scorreva, Galmoth
diventava sempre più piccolo quasi fino a scomparire del tutto.
Appena
prima che nemmeno i suoi occhi di elfo potessero più scorgerlo, la sua voce gli
arrivò bassa, ma chiara.
<
Ti infilzerò con un pugnale! >
Ah,
ne era assolutamente sicuro, come poteva passarla liscia dopo aver spezzato il
cuore della ragazza che l’uomo amava come una figlia? Ma, stranamente, quelle
parole suonavano come un grazie, anche se non avrebbe saputo dire con esattezza
per cosa.
***
E così siamo arrivati alla fine,
ogni storia è chiusa e naturalmente tutto finisce in modo agrodolce. Silevril rifila un sonoro due di picche alla povera Laer, ma prende un sonoro schiaffone morale dalla cara
mammina, che come ti manda a cagare Alatariel nessuno
mai. Credetemi, far affondare la shipSilevril/Laer è stato doloroso
anche per me *le lanciano pomodori in faccia*
Ma rimanete tutti dove siete,
perché manca ancora l’epilogo, prima di salutare Silevril
e soci, quindi alla prossima e come sempre lunga vita e prosperità.
Thiliol
P.S. il titolo della canzone è un
verso di “If I had a heart” di Fever Ray, canzone
meravigliosa, ascoltatela.
Capitolo 26 *** Epilogo: don't you know this tale ***
Epilogo: Don'tyouknowthis tale
30 anni dopo
Era stata lontana quasi un anno, cavalcando come se fosse
inseguita, tentando inutilmente di colmare il vuoto che le si era spalancato
dentro.
Aeglos aveva fatto tutto ciò che
aveva potuto, ma lui stesso soffriva quella perdita atrocemente e le loro liti
minacciavano spesso di sfociare in vere e proprie risse.
Quando era andata via, suo marito portava ancora i segni sei
suoi graffi sulla guancia e lei aveva uno zigomo scorticato.
Ricordava quando tra loro era stato così, violenza e
rancore, intervallati da momenti di abbandono e passione, fino a che la
situazione diveniva insostenibile, fino a che la lontananza non era più un suo
capriccio, ma l’inevitabile conclusione. Era stato anni e anni prima, quando il
Silmaril sembrava ancora una promessa che poteva
essere mantenuta, quando Silevril non era ancora
giunto a portare la pace nelle loro vite.
Ma poi ogni cosa era andata in frantumi e ciò che erano riusciti
a raggiungere si era dissolto tra le pieghe della perdita.
Non aveva più visto suo figlio, non aveva più sentito nulla
su di lui, non lo percepiva più come era stato tra loro fin dal suo
concepimento.
Non sapeva perché avesse deciso di fermarsi a DolAmroth, forzandosi di
ignorare la mancanza acuta di Aeglos, a solo un
giorno di cammino dalla città dei cigni, ma era stato come un richiamo a cui le
era impossibile resistere.
La porta della città era di marmo bianco come la ricordava,
affollata di gente che andava e veniva, con due guardie in cotta di maglia
scintillante ai due lati. C’era una piccola stazione, nient’altro che una
stalla e una locanda, dove lasciò il suo cavallo prima di entrare.
Le vie di DolAmroth
le erano sempre sembrate incredibilmente simili a quelle di Alqualonde
nella sua giovinezza, quando le attraversava altera, con la spilla della casa
di Fёanor
sul petto.
Ma quelle volte c’era Aeglos ad
attenderla al porto.
Quando finalmente arrivò al portone che stava cercando,
esitò. Era una casa imponente, di solida pietra, con uno stemma raffigurante
una stella marina e un gabbiano in lontananza, con sfondo azzurro.
Bussò e un ragazzo le aprì, scrutandola con aria stupita.
Quando gli disse chi stava cercando, la fece entrare e
l’accompagnò in una biblioteca non molto grande, ma straripante di libri,
lasciandola poi sola.
Quella casa era quanto di più diverso si potesse aspettare,
ma in un certo senso era anche accogliente e diceva moltissimo della sua
proprietaria.
Quando infine la donna entrò dalla porta, Alatariel pensò che quella casa, quella libreria, persino
il domestico dall’aria gentile che l’aveva accompagnata, fossero
incredibilmente appropriati a lei.
Era molto invecchiata, rispetto alla ragazzina di cui aveva
memoria, ma i lunghi capelli intrecciati erano ancora rossicci e brillanti, le
lentiggini ancora presenti sotto i vivaci occhi castani e la sua figura
risultava snella, pur se non tonica come un tempo.
Alatariel era sempre attonita,
quasi intimorita dalla vecchiaia mortale, ma Laer
sembrava ancora una ragazzina sotto l’aspetto di donna matura.
Portava un abito semplice, di lino leggero, bianco e
azzurro, ma ai piedi, notò con un moto di orgoglio inspiegabile, calzava degli
stivali di cuoio usurati.
Quando la vide, Laer si bloccò,
come folgorata, sorpresa di vederla lì, mentre i ricordi la investivano come
una mareggiata.
< Ciao, Laer, > le disse,
con un leggero sorriso. La donna non rispose, rimanendo immobile dove si
trovava, ancora incapace di riprendersi dallo shock.
< So perfettamente che sono l’ultima persona sulla Terra
di Mezzo che ti aspetteresti di vedere, > continuò, < ma non ho potuto
fare a meno di venire. Non so nemmeno se ti ricordi di me. >
< Voi - > la voce le uscì gracchiante, si interruppe e
la schiarì prima di ripetere, < Voi siete la madre di Silevril.
>
Ebbe un fremito, nel pronunciare quel nome.
Alatariel espirò di sollievo.
< Non ero sicura che ti ricordasti di lui.>
Lo sguardo di Laer si animò
improvvisamente, scuotendola dal suo stato di meravigliato stupore.
< Silevril è stato il mio primo
amore, > disse, < e mi ha spezzato il cuore. Ho sofferto fino a credere
che sarei morta, per colpa sua. Dimenticarlo? Come potrei? >
La guardò, d’un tratto dura.
< Perché siete qui, mia signora? >
Alatariel non rispose, limitandosi
a guardare quella che un tempo era stata una ragazza innamorata. Aveva creduto
di poter significare qualcosa nella vita di suo figlio, ma il cuore di Silevril era duro e freddo, ferito da un desiderio troppo
profondo da domare.
Anche lei aveva bruciato di quello stesso fuoco, ma poi era
arrivato Aeglos e in qualche modo era riuscito a
domarlo, a smettere che bruciasse insopportabilmente.
Sperare che Laer potesse essere la
stessa cosa, per suo figlio, si era rivelato solo deludente.
< Non so perché sono venuta, esattamente. Laer, > la ragazza – la donna- sussultò nel sentirsi
chiamare così apertamente per nome, < so che non ho più sentito una
connessione con mio figlio e tu lo hai richiamato dalla tenebra in cui era
sprofondato. Hai toccato qualcosa in lui e voglio parlarti. >
Sospirò.
< Credevo di essere riuscita a penetrare attraverso un
muro di sarcasmo, attraverso il suo viso di pietra, ma la verità è che se anche
l’ho fatto, sotto non ho trovato niente. Senti la sua mancanza, ma non
l’allevierai parlando con me, io non conosco più Silevril,
se mai l’ho conosciuto. >
< No, non lo conosci, perché altrimenti sapresti che ciò
che ti disse non è reale, che era me che voleva ferire. >
< Forse, ma non cambia le cose. Sono stata arrabbiata con
lui per molto tempo, nonostante Galmoth mi dicesse
che era inutile, che era meglio così, che non avevo bisogno di un maledetto elfo con problemi caratteriali,
come lo definiva lui. Galmoth ne aveva paura, ma
continuava ad amarlo e sentiva la sua mancanza… come me. >
Laer distolse lo sguardo e camminò
verso la finestra, scostando appena la tenda per guardare fuori.
< Sarò sempre innamorata di Silevril,
anche se non vorrei. È la mia maledizione. >
Richiuse la tenda e tornò a guardarla, con un leggero
sorriso sul volto su cui si stagliavano rughe sottili.
< Ma alla fine Galmoth aveva
ragione e Silevril non è diventato altro che un
ricordo. Mio marito non sa nemmeno che è esistito, non sa che un tempo l’ho
amato e che se venisse, qui e ora, la tentazione di lasciare lui, i miei figli,
tutto ciò che ho conquistato in questi anni, sarebbe fortissima. >
< Davvero lasceresti tutto per Silevril?
Farei qualsiasi cosa per impedirtelo, Laer, perché
getteresti via la tua vita. >
< Non mi conoscete, signora, come potete parlarmi così
sulla base di un incontro di trent’anni fa in cui non ci scambiammo una parola?
Di voi so soltanto ciò che Silevril mi disse. >
< Che sono meschina, terribile, che abbandonavo lui e suo
padre per mesi? >
< Che il vostro amore è veleno, che lo tenevate
intrappolato e legato a voi. Pensavo che fosse colpa vostra, se lui mi aveva
respinta. >
Alatariel serrò le labbra.
Perché era andata lì? Quella donna non aveva alcuna notizia
di Silevril, non riusciva a sentirlo più di quanto ci
riuscisse lei, ma a differenza sua era riuscita ad andare avanti.
D’altronde, non aveva che pochi anni, una vita fugace, prima
di sparire per sempre dal Mondo.
Laer rise.
< Siete così simile a lui che mi sembra quasi di
rivedermelo davanti. Ma i suoi occhi erano più espressivi, azzurri come il mare
d’estate. >
< Perdonami, Laer, > disse,
spegnendo le sue risa, < non sarei mai dovuta venire qui. Mi piaci, credimi
quando ti dico che non è una cosa che accade sovente, ma qualcosa in te mi fa
rimpiangere che tra noi non possa esserci altro che questo incontro tardivo.
>
< Addio, Alatariel, > la
donna la chiamò per la prima volta per nome e, detto da lei, sembrava dolce,
< mi ha fatto piacere vederti e parlarti. >
Mentre il ragazzo di prima la riaccompagnava alla porta, Laer la rincorse brevemente, prendendole una mano per farla
voltare e le posò un leggero bacio sulla guancia.
< Quando rivedrai Silevril,
> le disse all’orecchio, < digli che sono felice e che anche Galmoth lo è stato fino all’ultimo istante della sua vita.
Nessuno di noi crede che lui non può amare, di questo siamo sempre stati tutti
sicuri. >
La lasciò e quando si ritrovò nelle affollate strade di Alqualonde, in qualche modo il suo cuore era più leggero.
Aveva pensato a quella ragazzina così spesso da cristallizzarla nella sua forma
fanciullesca, ma ora che l’aveva vista era come se fosse diventata tutto a un
tratto reale. Silevril poteva essere stato crudele,
ma almeno non aveva rovinato quella giovane vita.
Montò sulla sua cavalcatura e accarezzò il pelo dell’animale
sotto di sé, morbido come seta, poi gli ordinò di correre, beandosi del vento
sulla faccia.
Sapeva di salsedine e sabbia. Sapeva di Aeglos.
Poteva tornare a casa più leggera, nonostante il vuoto. E in
ogni caso, c’erano le braccia di Aeglos ad
accoglierla, a colmare almeno un poco la mancanza che sentiva dentro… fino al
prossimo litigio, almeno… non aveva importanza, non l’aveva avuta mai.
Sperò che prima o poi Silevril
potesse capirlo.
Fine
***
E con questo epilogo
si chiude anche “Il Tesoro di Ulmo”. Non è stato
facile portare avanti questa storia, credo ve ne siate accorti tutti dalla
frequenza schifosamente bassa con cui ho aggiornato, ma in compenso spero di
avervi regalato un qualcosa di piacevole da leggere e che abbiate amato questi
personaggi almeno la metà di quanto li ho amati io. Silevril naturalmente
tornerà, la sua storia è appena cominciata, quanto a Laer
e Galmoth potrebbero tornare come flashback o missing moment, ma nulla è sicuro. Certo è che tornerò
sicuramente dopo l’estate con una raccolta di missingmoments quindi aspettatemi.
Voglio ringraziare la
mia cara Hareth, sempre puntualissima nel recensire
accompagnata come sempre dai ‘suoi’ (Alatariel, tuo
figlio forse dovresticercarlo a casa di Cristereb, te lo dico). Grazie infinite anche a Elfa, Calhin, Feanoriel, Morwen_Eledhwen, ElanorEliniel e Saralasse per aver
recensito, spero che vogliate tornare a dirmi la vostra.
Grazie anche a
Floffy_95, Amarie, Hayley_Chan,
ildragodoro, lithnim222000 e Tsukie
per aver inserito questa storia tra le seguite.
E infine grazie a
tutti quei lettori silenziosi, piccoli numerini sul
mio conta visite, mi raccomando fatemi sentire la vostra voce che male non fa.
Vi saluto come al
solito dicendovi che il titolo dell’epilogo è presa da “Beauty and the beast” dei Nightwish, mi piace
pensare che qualcuno di voi abbia potuto scoprire un brano o un artista che
prima non conosceva.
Buone vacanze, miei
cari, lunga vita e prosperità.