La musica nel cuore

di sayuri_88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***











 





1 parte

 

Nella musica "industriale" è immanente l'irreversibilità del tempo. Essa è musica entropica, musica che si distrugge da sé. La musica leggera è la fattispecie dell'autodissolvimento della musica. E tuttavia è l'unica forma di musica che ha senso per tutti.

( Manlio Sgalambro, La conoscenza del peggio, 2007 )

 

  
« Sono qui da quattro anni e cosa ho ottenuto? Niente. Sono rimasta l’assistente dell’assistente del capo » sbottai mentre conficcavo un cucchiaio nella vaschetta di gelato di nocciola - una vaschetta da due kili - e ne raccoglievo uan bella porzione per poi aprire la bocca e ficcarcelo dentro. Quando lo tolsi il gelato, sembrava una piccola duna del deserto.
« Che devo fare? » mi lagnai alzando lo sguardo per guardare negli occhi la mia coinquilina, placidamente appollaiata sul bracciolo del divano vicino alla mia testa che sembrava completamente indifferente al mio problema.
« Tu si che non hai problemi » borbottai finendo il gelato rimasto sul cucchiaio. Presi il cucchiaino dal piattino, sistemato sul tavolino, e dopo averlo riempito, glielo porsi. L’ingorda non se lo fece ripetere due volte e lo leccò tutto.
« Adesso me lo dai un consiglio? »
La sua risposta fu un lungo e acuto miagolio.
« Coca-Cola, tu si che sei di grande aiuto » mormorai alla gatta che stanca dei miei sproloqui, saltò giù dal suo alto giaciglio, e a passo lento si trascinò in camera da letto, certamente per appisolarsi sopra il cuscino che ormai era diventato suo.
E così, stanca e disillusa dalla vita, me ne andai a letto, sperando che il giorno dopo si rivelasse migliore.
Purtroppo quando mi risvegliai, non era cambiato nulla.
 
« Buon girono, Angela » salutai la segreteria già all’opera dietro alla scrivania. La ragazza mi salutò con un cenno del capo senza smettere di parlare al telefono.
Come quello degli assistenti, il lavoro da segretaria è il peggiore di sempre. Probabilmente gli schiavi nell’antica Roma erano trattati meglio.
Recuperai una scatolina di cartone dalla borsa e gliela lasciai vicino al telefono e le si illuminarono gli occhi. Ogni volta che mi dilettavo a preparare qualche dolce ne portavo sempre qualcuno alle mie amiche alla casa discografica. Erano poche effettivamente, la concorrenza era molto agguerrita ma con Angela, Jessica e Rose, avevo creato una solida e duratura amicizia.
Lasciai una scatolina a ognuna di loro, sapevo che amavano la mia cucina ed era per quello che ogni sabato me le trovavo sul pianerottolo di casa, con una buona scorta di vino, affamate e pronte a divorare qualsiasi cosa preparassi.
Cucinare aveva il potere di rilassarmi, quindi, quando ero stressata e avrei voluto spaccare il mondo con la prima cosa che mi capitava tra le mani, mi mettevo ai fornelli e cucinavo qualche dolce, giusto per addolcirmi, che poi avrei condiviso con le mie amiche o se no addio linea.
 
Terminato il giro, raggiunsi la mia scrivania piena di fogli e foglietti vari, tutti avevano la stessa calligrafia, disordinata e spigolosa.
Sbuffai.
James, mi aveva lasciato un sacco di lavoro da fare mentre lui era in giro a “scoprire nuovi talenti”, traduzione: era a casa della sua fidanzata a scoprire suoi nuovi talenti, che comprendevano loro due e il letto o qualsiasi altra superficie che ritenessero adatta.
Lessi distrattamente i diversi post it, erano le solite cose: Contratti, rapporti, l’agenda di Masen da sistemare…
Ma per far iniziare bene la giornata c’era una cosa che non dimenticavo mai di fare, recuperai i documenti richiesti e raggiunsi il piccolo piano bar, dove mi versai una generosa tazza di caffè per darmi la carica per affrontare quella lunga giornata. Come ogni giorno vi trovai già Jake, tranquillamente seduto su uno degli sgabelli a sorseggiare la sua tazza. Lavorava già alla C-Major quando arrivai io, eravamo andati subito d’accordo e da qualche tempo avevo iniziavo a considerarlo più di un semplice amico.
Spesso quando lo vedevo parlare con qualche ragazza, una rabbia non mia mi saliva in gola e a volte avevo l’impressione che da un momento all’altro sarebbe esplosa come una fiammata dalla mia bocca, per incenerire la malcapitata.
Parlammo per qualche minuto poi, assieme a plico di fogli mi diressi nell’ufficio del capo. Ovviamente era ancora deserto, la scrivania piena di porta CD e cassette e la parete dietro di essa piena di dischi di platino e d’oro.
Girai attorno al tavolo e mi accomodai alla sua poltrona e, dopo aver terminato il mio lavoro, mi lascia andare su di essa e guardando fuori dall’ampia finestra che dava sul lago Michigan e i grandi grattacieli che un tempo avevano il primato di essere i più alti degli Stati Uniti ma che hanno poi dovuto cedere il primato alla Grande Mela. Era una cosa che facevo sempre quando non c’era nessuno. Certo, se lo avesse saputo, sarei morta appena l’avesse scoperto.
Me ne stavo seduta su quella poltrona di pelle nera, immaginando che un giorno ne avrei avuta una tutta mia, in uno studio tutto mio e magari in una casa discografica tutta mia. Pensavo in grande? Beh… Sognare non aveva mai ucciso nessuno.
« Ho sbagliato studio? » sobbalzai quando sentì la voce del mio capo provenire dalla porta spalancata. Se ne stava poggiato sullo stipite della porta, in una mano reggeva una tazza di caffè fumante mentre l’altra era infilata nella tasca dei pantaloni, nella più classica delle posizioni sexy di tutti i film che avevo visto.
I capelli erano scompigliati come se si fosse appena svegliato dopo una notte molto impegnativa - e probabilmente era così -, in faccia aveva quel fastidioso sorriso sghembo, che metteva in mostra una dentatura bianca, probabilmente risultato di molte sbiancature. Indossava una camicia azzurra con i primi bottoni slacciati, le maniche arrotolate fino ai gomiti, e dei jeans chiari ne fasciavano le gambe toniche.
Masen guardò la targhetta attaccata alla porta con sguardo fintamente curioso ed io avrei voluto che sotto di me si aprisse uan voragine che m’inghiottisse all’istante.
« Ah no è mio. Edward Masen, » lesse « presidente della casa discografica e tu sei Isabella Swan, l’assistente dell’assistente del suddetto presidente e la tua scrivania è… dov’è la tua scrivania? » disse sempre con tono sarcastico guardandosi attorno.
« Mi… mi dispiace » balbettai alzandomi subito dalla sua poltrona e tornando dall’altra parte della scrivania mentre lui occupò posto dove poco prima c’ero io. « Stavo sistemando i suoi contratti, i rapporti settimanali, aggiornando la sua azienda e ammirando la sua vista. » me ne uscì alla fine, per smontare un po' la tensione.
Masen da canto suo non mi degnava di uno sguardo, troppo intento a bere il suo caffè e controllare i fogli di uno dei contratti. Forse si aspettava che me ne andassi, infatti, mi guardò aggrottando se sopracciglia quando realizzò che non lo avevo fatto.
« C’è altro? »
Sì, c’era dell’altro. Erano tre giorni che mi portavo dietro un CD che volevo sottoporgli. La sera, spesso giravo per locali assieme a Rose e Jessica, spesso c’era anche Angela, quando non era impegnata con il suo ragazzo, Ben.
« Senta… » iniziai raccogliendo tutto il coraggio « io avrei un paio di gruppi che vorrei davvero lei sentisse  » ma mi bloccai quando vidi il suo sguardo esasperato mentre poggiava la tazza di caffè sul tavolo di vetro. Il rintocco che ne seguì risuonò come una marcia funebre nella mia mente.
« Ho i postumi della sbornia, sette linee telefoniche che suonano e una ragazza che non capisce che è stata solo una questione di una notte… »
«Ho afferrato il concetto » lo interruppi incassando il colpo e dandogli le spalle feci per uscire dalla stanza.
« Swan, » mi richiamò e io mi voltai speranzosa.
Il mio capo mi squadrò da capo a piedi prima di dire « sei carina » commentò facendomi arrossire, tanto da assomigliare a un peperone, a causa del complimento inatteso e soprattutto per l’inopportunità della cosa. 
« Slacciati un bottone e ti faccio partecipare alla scelta mattutina dei nomi ».
Lo guardai come se fosse pazzo e sperai con tutta me stessa di aver capito male.
« Un bottone e una canzone » ripeté confermando che avevo capito bene la sua richiesta.
Avevo sempre odiato certi mezzucci per attirare l’attenzione e ottenere favori e mi ero promessa di non cedere mai ma il peso dei quattro anni d’insuccessi e di fallimenti, mi piombò addosso come un macigno da cento tonnellate come succede in quei cartoni giapponesi. Era la mia occasione, la prima dopo quattro lunghi anni.
Intrappolai il labbro inferiore tra i denti e liberai un bottone dalla sua asola, lasciando così intravedere i bordi neri in pizzo del mio reggiseno in rosa antico. Misi le mani suoi fianchi e attesi mentre mentalmente m’insultavo e mi prendevo a testate per il mio cedimento.
Dopo averlo fatto, me ne ero subito pentita.
« Portami un’aspirina » disse con un sorriso malizioso e riportando gli occhi sui fogli.
Senza aggiungere altro me ne andai e tornai alla mia scrivania e la prima cosa che feci, fu chiudere il bottone, poi aprì il primo cassetto della piccola scrivania e ne astrassi un CD, quello per cui avevo ingoiato i miei principi.
Quella sarebbe stata la prima e ultima volta, promisi che non l’avrei mai più fatto. 

 

 Oggi l'arte musicale, complicandosi sempre più, ricerca gli amalgami di suoni più dissonanti, più strani e più aspri per l'orecchio.
Ci avviciniamo così sempre più al suono-rumore.

( Luigi Russolo, L'arte dei rumori, 1913 )

 
«It's Friday, Friday
Gotta get down on Friday.
Everybody's lookin' forward to the weekend, weekend.
Friday, Friday 
Gettin' down on Friday.
Everybody's lookin' forward to the weekendMasen spense lo stereo liberando le mie orecchie da quel fastidioso rumorio. Cavolo ma come facevano a definirla musica?
Il mio sguardo corse subito a James che sorridente presentava la sua candidata - non riuscivo nemmeno a definirla cantante e candidata era il termine meno offensivo che mi era venuto in mente.
« Si chiama Rebecca Black. Ha un programma in tv tutto suo di grande successo, per il marketing è un enorme potenziale ».
« Già ma le sue canzoni sono uno schifo » obbiettò Masen e fui perfettamente d’accordo con lui. Era bello ma almeno non stupido.
« È giovane e sexy e i ragazzi stravedono per lei, sarebbe un platino sicuro » insistette James, certo di quello che pensava. Soldi, soldi, soldi… questo era il solo problema ma lì si stava parlando di musica!
« Io avrei una band » intervenni alzando a mezz’aria il CD del mio gruppo. James mi fulminò con lo sguardo ma non ci diedi peso. Avevo dovuto slacciare un bottone per essere lì, quindi mi avrebbero dovuto ascoltare.
« Perché no? Non potrebbe essere peggio » accettò il capo e carica di una nuova speranza, sostituì il CD di James con il mio.
« È un ragazzo che ha un grosso seguito in internet e le sue canzoni sono geniali » dissi entusiasta mentre premevo il tasto di avviamento.
« Is it really necessary /
Every single day
/ You’re making me more ordinary / In every possible way /
This ordinary mind is broken /
You did it and you don’t even know /
You’re leaving me with words unspoken /
You better get back because /
I’m ready for more than this /
Whatever it is
Baby, I hate days like this caught in a trap /
I can’t look back /
Baby I hate days like this when it rain and rain
And rain and rain…** ».
Masen bloccò la riproduzione e dopo qualche minuto di religioso silenzio, da parte di tutti quelli nella sala riunioni, pronunciò il suo verdetto.
Avevo atteso, piena di aspettative, certa che non avrebbe potuto dire di no al mio cantante. Insomma era mille volte meglio eppure quando parò tutte le mie speranze mi erano crollate addosso come un grande castello di carte spazzato mia dalla prima folata di vento.
« Vada per la tua attricetta » disse facendo esultare James che con sguardo di superiorità mi ricordò qual’era il mio posto in quel luogo.
« Swan, perché non ci porti il pranzo? »
 
« Non ci posso credere… » dissi con un tono di voce abbastanza alto « insomma, ha preso quella… quella che nemmeno sa cosa sia una nota e ha rifiutato il mio artista! »
Il mio interlocutore era Rose che seduta a fianco di Emmet, il tecnico del suono, discutevano della canzone che il loro artista stava cantando nella sala di registrazione.
« Rose, mi ascolti » cercai di attirare la sua attenzione.
La mia amica sbuffò e girandosi mi riservò uno sguardo apprensivo.
« Bella, non poi farci nulla. Si sceglie chi può portare più soldi e per quanto concordi con te, purtroppo ho avuto la sfortuna di incontrarla, non possiamo farci nulla ».
« Rose ha ragione, Bella » interviene Emmet smettendo di trafficare con il mixer.
« Ma non è giusto » mugugnai lasciandomi cadere sul divanetto addossato alla parete.
« C’est la vie» fu l’illuminate parere della mia amica.
 
Stavo giocherellando con il mio cupcake mentre ripensavo alla giornata trascorsa. Avevo appena spento il computer dopo aver tentato di ascoltare almeno tre canzoni di quelle presentate. Non lo avessi mai fatto, era tremenda non c’erano altre parole per descriverla, avevo spento il computer ancora prima che finisse la seconda canzone.
Avevo sputato addosso ai miei principi e non era servito a nulla. Non avevano accettato il mio artista per prendere una ragazzina che rappresentava lo stereotipo della bella e stupida.
Ora potevo capire Viola Fields che in “Quel mostro di suocera” all’inizio del film attaccava la cantante vestita in stile country e con solo due stelline sui capezzoli. Era avvilente rendersi sempre più conto di dove stavamo andando a finire.
 
« A che pensi, Swan? » mi girai di scatto. Edward Masen stava venendo verso la mia scrivania e non riuscì a trattenere la rabbia e la delusione che avevo covato per tutta la giornata. La lasciai libera.
« Penso che aveva ragione sull’artista che ha scritturato oggi. Quindi perché l’ha fatto? »
Masen si appoggiò alla scrivania e incrociò le braccia al petto.
« Da quanto sei a Chicago? Di dove sei? »
« Sono di Forks, Stato di Washington, e sono qui da quattro anni » i suoi occhi lampeggiarono per un momento, poi tornarono attenti.
« Quattro anni… e perché sei venuta? »
« Volevo scoprire e lanciare nuovi gruppi che avrebbero cambiato la vita a qualcuno, come quelli che hanno cambiato la mia ».
Masen si aprì nel suo famoso sorriso sghembo e scosse la testa, divertito, anche se gli occhi si adombrarono.
« Ah… sei una di quelle… una volta lo ero anch’io » disse usando un tono amaro presto sostituito da quello spavaldo che più lo caratterizzava « poi ho aperto gli occhi. Se si chiama show business ci sarà un motivo. Dobbiamo fare soldi » terminò scandendo ogni singola parole.
« Anche se il prodotto fa schifo… » mormorai disgustata dalla politica che governava il mondo della discografia.
« Soprattutto » concordò con un sorriso saccente. « Mi spiace deluderti ma mi risulta che il Rock and Roll non può salvare il mondo ».
E  fu come se un’ape mi avesse punto sul sedere perché quello non lo potevo proprio accettare. Mi alzai dalla mia sedia, poggiando il cupcake sulla scrivania, e mi piazzai davanti a lui ergendomi in tutto il mio metro e sessantacinque e lo fronteggiai.
« Vede io non sono d’accordo, entri in qualsiasi locale e guardi i ragazzi negli occhi. Cercano qualcosa in cui credere e sono convinta che la musica li possa aiutare ».
« È per questo che sei ancora l’assistente dell’assistente. » rispose lui con fervore « Vanno nei locali perché hanno avuto una giornataccia e vogliono solo divertirsi. Ubriacarsi e portarsi a letto qualcuna ».
Mi chiesi da dove venisse tutto quel cinismo, lui stesso aveva confessato che c’era stato un tempo in cui credeva nelle mie stesse idee e doveva essere successo qualcosa per fargli cambiare opinione.
« Isabella » disse in un sospiro, « sei la più intelligente e capace qui dentro, secondo me, » confessò lasciandomi piacevolmente stupita « ma andresti più avanti se riusciresti ad accettare il lato commerciale del nostro lavoro e stare al gioco ».
« Forse a me non interessa stare al gioco  ».
« Ma l’hai fatto per venire alla riunione » ed ecco la frecciatina « Slaccia anche gli altri e probabilmente mi soffierai il posto ».
« Un giorno avrò il suo posto, Signor Masen » dissi sicura di me « ma non così ».
Avrei fatto strada, poco ma sicuro, ma mettendo la musica al primo posto non avrei più fatto compromessi per guadagnare più soldi.
Il mio capo mi guardò assottigliando gli occhi prima di scuotere la testa sconsolato. Si raddrizzò e riprese il suo atteggiamento spavaldo.
« Allora divertiti nei locali stasera. Assistente dell’assistente » disse e sotto il mio sguardo curioso si chinò verso di me. Per un momento pensai che volesse baciarmi ma invece recuperò il cupcake e dopo averlo osservato per un po' ne addentò un pezzo.
« Buono » biascicò continuando a masticare « l’hai fatto tu? »
« Sì ». 
« Beh… se questo lavoro ti va male saprai che fare ». 

La prima cosa per fare musica è non fare rumore.

( José Bergamin )

 

 

 

Il giorno dopo la sveglia non suonò e così mi ero presentata al lavoro in ritardo, anche a causa della mia moto che non ne aveva voluto sapere di accendersi ed ero stata costretta a usare la bici.
La giornata passò lenta e monotona mentre portavo avanti e indietro caffè, scatole di ciambelle, fascicoli vari e così discorrendo fino alle sette di sera, quando finalmente uscì. La gioia durò poco perché appena misi la bici sul marciapiede con mio disappunto, iniziò a cadere una goccia dopo l’altra fino a che non scese il diluvio.
Tornare a casa in bici con quel tempaccio era fuori discussione, come minimo avrei fatto un incidente. Così guardandomi attorno riconobbi in lontananza l’insegna al neo di un locale che, all’inizio della mia vita qui a Chicago, frequentavo spesso quando ancora non avevo la mia moto e quindi mi fermavo a mangiare per non mettermi a cucinare a sera tarda.
Era un locale abbastanza piccolo che come sottofondo metteva della musica orribile e a volume troppo alto per permettere una conversazione decente e che ti causava un tremendo mal di testa. Una volta ero pure andata dal proprietario per dirgli di spegnerla perché così avrebbe di certo guadagnato clienti.
Ecco, quella deve essere stata l’ultima volta che avevo messo piede in quel locale.
Una delle ragazze dell’agenzia mi aveva detto che avevano cambiato gestione e che avevano istallato anche un piccolo palchetto dove, chi voleva, si poteva esibirsi.
Legai la bici a un palo riparato dalla tettoia del palazzo e sollevai la giacca per coprirmi la testa e correndo attraversai la strada per ripararmi sotto un terrazzo, prima di riprendere a correre fino al locale.
Quando entrai, a causa dello sbalzo di temperatura mi venne la pelle d’oca. Una leggera musica di sottofondo permetteva alla gente di parlare tranquillamente e non era per nulla fastidiosa.
Mi guardai attorno, studiando il nuovo arredamento. Piccole lampade che cadevano dal soffitto illuminavano ognuna un tavolino di legno al cui centro era sistemato un cartoncino, che doveva essere il menù. Addossato alla parete di fondo, in posizione centrale, un piccolo palco su cui era sistemato uno sgabello e un microfono.
Presi posto vicino ad esso e ordinai da mangiare ripensando alla giornata appena trascorsa.
Non era stata certo la peggiore. Il primato, l’aveva il mio primo giorno di lavoro.
Quel giorno mi ero svegliata prestissimo, volevo essere puntuale e presentabile. Solo che l’universo sembrava essere contro di me. Coca-Cola mi aveva graffiato la mano quando avevo cercato di salutarla con una carezza, poi appena uscita mi sono fermata al bar vicino alla fermata del pullman per prendere un caffè per iniziare bene la giornata. Quando poi era arrivato, circa cinque minuti dopo, questo era già pieno di lavoratori che iniziavano anche loro una lunga giornata lavorativa, stavo per mettere il piede sul primo gradino quando un uomo scese a razzo, venendomi letteralmente contro e macchiandomi la camicia di caffè e scottandomi. L’infame non si era fermato, era corso via senza nemmeno guardarmi o scusarsi. Gli avevo lanciato così tante imprecazioni ed epiteti poco lusinghieri, senza contare le maledizioni, che gli avranno fatto fischiate le orecchie per molti giorni.
Così, ero dovuta tornare indietro, cambiarmi, e con disappunto avevo visto il mio petto completamente rosso - potevo vedere il segno del mio reggiseno - a causa della scottatura. Ero poi tornata alla fermata ed ero riuscita a prenderne uno volo ma non era finita lì, quando ero in prossimità della mia fermata, un bambino un po' troppo vivace mi aveva scambiato per un foglio da disegno e aveva lasciato due scie colorate, di due pennarelli indelebili, lungo la mia manica. La madre si era scusata in mille modi.
Scesa dal pullman ero corsa verso l’ingresso della casa discografica, arrivatavi di fronte, mi fermai per riprendere fiato e sfortuna volle che un piccione o qualche altro uccellaccio mi usò come bersaglio, lasciandomi i suoi escrementi sulla testa e sulla spalla. Avevo osservato quella sostanza viscosa bianca per minuti interminabili. Sembrava che la sfortuna ce l’avesse con me per non so quale motivo.
Per colpa di tutto l’incatenarsi di questi episodi, arrivai con un quarto d’ora di ritardo al lavoro e quindi ero stata richiamata appena avevo messo piede nell’ufficio di James, l’assistente di Edward Masen il capo della C-Major, che con una faccia disgustata mi aveva ordinato di andare in bagno a darmi una sistemata.
Il capo non era ancora arrivato, si presentò un’ora dopo, fresco e profumato, guardando i suoi dipendenti dall’alto del suo piedistallo.
Era un uomo affascinante quanto sfrontato nei modi, consapevole del suo aspetto e dell’effetto che faceva ed era pronto a usarlo e sfoggiarlo. I belli dominano la società, questo era risaputo.
Il suo obiettivo era fare soldi, dovevo solo convincerlo che si poteva fare soldi anche con buona musica. Forse sarebbe stato un guadagno che sarebbe arrivato col tempo, ma avrebbe avuto il sapore della bellezza e sarebbe stato il risultato di un buon lavoro, un lavoro che sarebbe riuscito a trasmettere un messaggio e magari una speranza. La musica poteva salvare il mondo, di questo ne ero convinta.
 
« Ciao, sono Alice Brandon e suonerò una mia canzone per voi » una voce bassa, amplificata dal microfono, mi riportò alla realtà.
Era una ragazza minuta dai capelli neri, occhi azzurri e dallo sguardo gentile, doveva avere all’incirca diciotto anni.
Sistemò meglio la chitarra sulle gambe e con il plettro iniziò a suonare, pochi secondi e la sua voce si diffonde nella sala. Leggera e soffice come un batuffolo di cotone.
La ascoltai incantata e quando ebbe finito la sua esibizione, la avvicinai.
Scoprì che non era poi così giovane come credevo, si era appena diplomata all’università di Chicago, lavorava in uno studio commerciale, anche se il suo sogno era proprio quello di cantare. Ci ritrovammo a parlare per ore, della musica, dei gruppi emergenti e in molte cose potevamo dire che avevamo lo stesso punto di vista.
Scoprì in Alice una ragazza molto esuberante e piena di entusiasmo, il suo carisma e la sua faccia acqua e sapone avrebbero potuto fare molta strada, ne ero certa. Bisognava solo convincere del fatto anche il capo.
Facile.
Sabato sera, obbligai le ragazze a seguirmi al bar, avevo chiesto ad Alice quando avrebbe partecipato ancora e lei mi aveva segnalato quella data.
Attesi per tutta l’esibizione, tesa, come una corda di violino e mi rilassai solo dopo che Rose disse che aveva potenziale, così anche Jessica che trovava la sua musica emozionante, ma entrambe concordarono nel dire che non l’avrebbero mai scritturata. Non era il genere richiesto.
Questo la sapevo anch’io, ed era per quello che volevo farlo diventare il genere richiesto.
 
Non persi tempo e all’inizio della settimana successiva cercai di parlare con Masen, ma questi con una scusa o per un'altra, riusciva a svignarsela.
« Due bottoni e potrei ascoltarti » mi disse la terza volta che riuscì a braccarlo in ascensore, a metà settimana.
« Se lo scordi. Queste sono molestie sessuali sul posto di lavoro. Potrei denunciarla, sa? » lui sghignazzò mandandomi ancora più in bestia. « Sono seria ».
L’ascensore si bloccò e le porte si aprirono.
« Oh, lo so. Purtroppo nessuno le darebbe retta. La sua parola, contro la mia » e se fece per allontanarsi ma lo bloccai per un braccio, appena fuori dall’ascensore, obbligandolo così a tornare a prestarmi attenzione.
« Senta, qui sotto c’è un bar dove la gente si può esibire e c’è questa ragazza che davvero merita di essere ascoltata ».
« Non stiamo cercando cantanti, ora come ora ».
« Ma quella Rebecca l’avete presa » obbiettai. Ricordavo ancora quando fece il suo ingresso come una grande Diva.
« Isabella, è encomiabile il tuo impegno e dedizione ma non sei pagata per fare il talent scout, okay? » e così mi lasciò in mezzo al corridoio, con l’umore sotto i piedi, a guardarlo andare via.
 
Eravamo in pausa pranzo, c’eravamo sistemate in terrazza e avevo appena raccontato i miei tentatiti falliti di far ascoltare le canzoni di Alice a Masen o anche solo a James. Angy fu la prima a proporre un’idea.
« Io suggerisco di bucargli la ruota della macchina e con una scusa lo porti da Alice ».
« No, dico. Hai visto la sua macchina, Angy? » intervenne Jessica dopo aver soffiato fuori il fumo della sigaretta.
« Su questo le devo dare ragione. Non basterebbero tutti gli stipendi che prenderò fino alla mia morte per ripagare i danni ».
« Devi solo insistere ».
« È tre gironi che insiste, Rose ».
« E dimmi, tu che proporresti, Jess? » disse l’altra sprezzante.
« Beh… alla vecchia maniera » e il tono malizioso che aveva assunto la sua voce non preannunciava niente di nuovo. « Ci provi e te lo porti a letto e ottieni il contratto ».
Diretto, semplice e pulito.
« Non andrò a letto con Masen per far scritturare qualcuno. Non mi adatterò al sistema » dichiarai con fervore.
« Già, lei non si chiama Jessica Stanley » rispose acida Rose. C’era da dire che le due non erano mai andate molto d’accordo. Avevano due caratteri completamente opposti che spesso le portavano a discussioni molto animate. Era un incontro di pugilato ma con le parole.
E quella che avevano stipulato era una pace armata. 
Jessica non rimase offesa dal commento, era una che se ne fregava di quello che gli altri pensavano di lei. La ammiravo per quello, andava dritta per la sua strada e faceva quello che voleva senza curarsi di altri.
« Edward Masen, non mischia il lavoro con la vita privata. È la sua prima regola » continuò Rose.
« Scusate ma la mia idea? Io la trovo fantastica. Certo non deve sapere che sei stata tu » insistette Angela, più che convinta che la sua idea fosse quella più giusta.
 
Essendo io una persona razionale preferì seguire il consiglio di Rose e ogni giorno cercavo di convincere Masen ad ascoltarmi.
Il punto di svolta arrivò il mercoledì sera della settimana dopo. Stavo uscendo dalla C-Major per tornarmene a casa a sfogare la mia frustrazione in una coppa di gelato alla nocciola.
La mia forza di volontà stava cedendo, una settimana e mezzo e non ero riuscita a convincere Masen a sentire Alice, ero incapace di convincere le persone a fare qualcosa, ero inadatta per fare quel lavoro, che al contrario richiedeva ingenti doti persuasive.
Alla faccia dell’oroscopo che diceva che quel giorno ci sarebbe stata una grande svolta nella mia vita.
Ma si sa, a volte il destino agisce per vie misteriose.
« No! Cazzo, no » la soave e delicata voce di Masen, che vicino alla sua macchina, faceva avanti e indietro come un animale in gabbia, bloccò i miei passi.
Alla casa discografica non c’era nessuno. Solitamente era Angela a chiudere ma quel giorno era l’anniversario di fidanzamento e mi aveva chiesto di chiudere al suo posto. Masen, invece, che di solito usciva molto prima, si era attardato per non so quale motivo ed era rimasto in ufficio fino all’orario di chiusura.
Quindi c’eravamo solo io e lui.
« Tutto bene, Signor Masen? » chiesi avvicinandomi.
« Ti sembra che vada tutto okay? » sbottò fulminandomi con lo sguardo. Deglutì vistosamente. Faceva paura con quegli occhi assottigliati fino ad assomigliare a due fessure, che sembravano lampeggiare di rosso e il viso contratto in una smorfia rabbiosa. Con un forcone e una coda rossa, sarebbe stato un perfetto diavolo.
« Scusa, » disse sospirando e riservandomi uno sguardo rammaricato « tu non c’entri nulla » disse guardando la macchina. La guardai anch’io ma non trovai nulla di strano. Perché era così arrabbiato?
« Che è successo? »
« La gomma » e la indicò « è sgonfia. Ora devo chiamare un caro attrezzi e  aspettare chissà quanto ».
Un brivido mi corse lungo la colonna vertebrale. Era un caso che proprio qualche ora prima Angela parlava di bucare la gomma della macchina di Masen per convincerlo a venire al locale?
Sperai con tutto il cuore che la mia amica non c’entrasse nulla con quel piccolo episodio, insomma lei era quella tranquilla e composta che non superava mai il limite di velocità e che non parcheggiava mai in divieto di sosta, nemmeno se si trattava di due minuti!
Come si dice, presi la palla al balzo e cercai di sfruttare l’occasione, mentalmente ringraziando la mia amica - se davvero c’era lei dietro tutto ciò - e giocai le mie carte sperando che fossero quelle vincenti.
« Beh… intanto potrebbe venire al locale. Ho fame e le posso offrire qualcosa. È là, non è distante » e con un gesto nervoso della mano indicai alle mie spalle.
« Il famoso bar » mormorò sogghignando e lanciandomi un’occhiata eloquente. Alzai le spalle e sorrisi annuendo.
« Non ti arrendi, vero?  »
« Arrendersi, non è una parola contemplata nel mio dizionario » ed era irrilevante che pochi minuti prima stessi accarezzando proprio quell’idea. Mi scrutò per qualche minuto, sospirò sconfitto e recuperò la giacca dalla sua macchina.
« Andiamo » si limitò a commentare mentre si incamminava verso l’uscita del parcheggio.
 
« So che può sembrare trasandato come posto e mi creda, prima era anche peggio, ma vedrà che non se ne pentirà » dissi quando, entrati del locale, il mio capo aveva fatto scorrere il suo sguardo per tutto il locale con disappunto.
« Mai giudicare un libro dalla copertina? » mi chiese con un sopracciglio alzato e il suo sorriso sghembo a piegargli le labbra.
« Esattamente, mi segua ».
Ci sistemammo in un punto abbastanza appartato e rimanemmo in silenzio fino a che una cameriera non venne a ritirare le nostre ordinazioni.
« Allora, Isabella » fu lui a rompere il ghiaccio. Io ero troppo nervosa per parlare, nemmeno si trattasse di un appuntamento galante.
« Bella, lo preferisco » dissi.
« Okay, Bella, parlami di questa ragazza ».
Si sistemò meglio sulla sedia poggiando i gomiti sul tavolo e il mento sulle dita intrecciate.
« Si chiama Alice e lavora in uno studio commerciale… »
« Impiegata commerciale? Oddio, sono così noiosi… posso solo immaginare le sue canzoni ».
« No » e quasi lo urlai, diversi clienti si erano girati a guardarmi come se fossi matta.
« Scusate » bisbigliai con un sorriso imbarazzata. Al mio fianco sentivo il mio capo sghignazzare e quello rendeva la cosa ancora più umilinte.
« Dicevo… » dissi schiarendomi la gola  e tornando a guardarlo « le sue canzoni sono magnifiche e per nulla noiose. Ha una voce pazzesca che sono sicura, la porterà lontano ».
Parlai con tutto l’entusiasmo che possedevo, ero convinta che Alice potesse farcela se solo le si fosse data una possibilità.
Masen, mi ascoltava in silenzio e con sguardo attento che, se da una parte mi tranquillizzava, perché voleva dire che mi stava prendendo seriamente, dall’altro mi spaventava, perché non riuscivo a capire che gli passasse per la testa.
Non passò molto prima dell’arrivo di Alice che mi raggiunse subito e lui fece una cosa che mi stupì. Si alzò e strinse la mano della ragazza e si risedette solo quando Alice prese posto. Chi si alzava più quando arrivava una donna? Non succedeva dai tempi di Jane Austen!
Ripresami, lo presentai come un amico che mi stava facendo compagnia. Le dissi di unirsi a noi e lei accettò con gioia.
« Perché non gli hai detto chi sono? » mi chiese una volta che la ragazza si allontanò per raggiungere il bar.
« Perché non voglio darle false illusioni visto quello che lei pensa sulla musica e il suo scopo nella società ».
Incassò il colpo con un accenno di sorriso « e voglio che lei la conosca, credo che la aiuterà a capire anche la sua musica ».
Edward, sembrò voler aggiungere qualcosa ma il ritorno di Alice bloccò qualsiasi altro tentativo di tornare sull’argomento.
A un certo punto il suo telefono suonò, la chiamata durò poco e da parte sua ci furono solo dei monosillabi, terminata, si concentrò su Alice.
Le fece diverse domande, sembrava quasi un colloquio di lavoro, ma anche la ragazza fece molte domande: dove c’eravamo conosciuti, da quanto ci conoscevamo, che lavoro faceva Edward, se aveva una ragazza.
Era stato divertente, soprattutto la prima domanda.
« Gli ho rovesciato del caffè addosso » io.
« Uscita con amici comuni » lui.
Ovviamente Alice ci aveva guardato disorientata.
« Una mia amica doveva conoscere un ragazzo e mi aveva portato con lei perché anche l’altro era assieme a un amico, Edward, appunto. Io ero in coda per le ordinazioni e quando mi sono girata per andarmene, sono andata addosso a lui. Che poi ho scoperto essere l’amico » spiegai arrampicandomi su per gli specchi. Fortunatamente Edward confermò la mia storia e Alice sorrise divertita senza mettere in dubbio le mie parole.
Parlammo ancora un po' prima che Alice fosse chiamata. Per tutta l’esibizione alternai lo sguardo tra il mio capo e Alice come se stessi guardando una partita di tennis. Il primo aveva lo sguardo attento ma non faceva trasparire nessuna emozione. Gli piaceva? Che cosa pensava? Tra quanto si alzerà e imboccherà l’uscita senza più voltarsi?
Tante domande che mi assalirono anche dopo il termine dell’esibizione seguita da un piccolo e timido applauso, visto che già un altro aveva già preso posto sul palchetto e pronto a iniziare la sua esibizione.
 
« Allora? » chiesi una volta che rimanemmo soli. Eravamo fuori dal locale e Edward si era acceso una sigaretta, per mio disappunto.
« Non è male… » e lasciò la frase in sospeso.
« Ma non è quello che il mercato vuole » terminai per lui con tono amaro. A che serviva impegnarsi, cercare di dare qualcosa di bello agli altri se poi ti trovavi ad affrontare un muro di cemento armato? Mi sarei sfasciata la testa a furia di testate e non avrei ricavato nulla se non un trauma cranico.
« Ci devo pensare » disse per poi recuperare il suo cellulare. « Salve, avrei bisogno di un taxi a Baker Street, dieci » disse. « Come nessun taxi è disponibile? » la sua voce era leggermente alterata e la cosa, ne ero certa, non avrebbe influito positivamente sulla sua decisione su Alice.
« La posso accompagnare io » intervenni bloccando la sua risposta al centralino.
« Non fa nulla, sono a posto grazie e buona serata » borbottò alla cornetta e riattaccò senza aspettare risposta.
« Bene, allora andiamo ».
« Ma la macchina? Non doveva aspettare il carro attrezzi? » ricordandomi il motivo per cui ero riuscita a trascinarlo al locale.
« Il tizio mi ha chiamato prima e gli ho detto di portarla alla concessionaria ».
Probabilmente si riferiva alla chiamata a monosillabi, ma era un buon segno, no? Avrebbe potuto andarsene, infondo non aveva promesso di ascoltare Alice. Aveva deciso di rimanere.
Così correndo raggiunsi il mio capo e lo scortai fino al parcheggio.
« Scusa e quello che sarebbe? » mi chiese lui fermandosi e guardando dubbioso la mia bellissima moto.
« Il mio mezzo » risposi orgogliosa mentre recuperato il casco dal portaoggetti glielo porgevo. « Ecco a lei il casco da imbranato ».
Mi osservò con un sopracciglio alzato ma lo accettò senza proteste.
« Non farà questo effetto su di me. Allora? » mi chiese dopo aver indossato il casco bianco.
« Mi spiace ma è infallibile » dissi con tono fintamente dispiaciuto. Misi anch’io il casco e salì sulla moto e la accesi.
Bugiarda! Ero una bugiarda! Stava benissimo, era un vero schianto.
« Sembra vecchia » fu il suo commento mentre lo sentivo prendere posto dietro di me.
« È una Vespa 150GS VS5 del 1959 ».
« Ti sarà costata molto » commentò mentre ingranata la prima mi apprestavo ad uscire dal parcheggio. Le sue mani andarono subito ai miei fianchi, stringendoli con delicatezza. Non avevo mai portato un uomo in giro con la mia Vespa, era un po' imbarazzante. Ancora di più se quell’uomo era il mio capo.
« No, era di mio nonno. L’hanno sistemata e me l’hanno regalata quando mi sono trasferita qui, ci ha messo qualche mese ad arrivare ma alla fine è arrivata. Da che parte? »
« A destra, al semaforo a sinistra e dritta fino a Roosvelt Sreet. Mesi? » mi chiese con un tono di voce altro per superare i rumori della strada.
« È arrivata dall’Italia ».
« Ma non sei di Forks? ».
« Mio padre, mi madre è di Como, dove ha la villa George Clooney, per intenderci » spiegai.
« Quindi lo conosce… » scherzò lui.
« Certamente, l’ha anche invitata a casa sua una volta e quando ha saputo di me mi ha detto di andare a trovarlo la prima volta che sarei andata in Italia ».
 
La casa di Masen si trovava a mezz’ora di strada dalla casa discografica, nel quartiere più lussuoso della città. Ovviamente.
Il suo appartamento era collocato in un grande edifico moderno e dall’aspetto molto lussuoso aveva persino una Hall con omino in divisa.
« Eccoci arrivati » dissi quando mi fermai davanti al cancello.
« Grazie » disse scendendo e dopo essersi tolto il casco, me lo porse « Buona serata, Bella ».
« Anche a lei » e mi diede le spalle per raggiungere il cancello che scattò con un clik metallico, « Signor Masen! » lo richiamai obbligandolo a voltarsi ancora verso di me. Scesi e raggiunsi il cancello, dove mi attendeva l’uomo con sguardo curioso. Quello era l’ultimo turno ed io mi stavo giocando l’ultima carta, sperando che si rivelasse quella vincente.
« Ha detto che un tempo lei credeva nelle stesse cose in cui credo io, ecco vorrei che provasse a ritornare quel ragazzo amante della musica mentre decide del futuro di quella ragazza ».
Rimase in silenzio scrutandomi, forse alla ricerca di qualche ombra nella mia determinazione ma il sospiro che emise mi fece supporre che non trovò nulla.
« Ci proverò » promise e sorrisi felice. Quello mi bastava.
« Grazie e ancora buona notte ».
« Anche a te ».
Indietreggiai qualche passo senza voltarmi, ma ovviamente il mio senso dell’equilibrio doveva metterci lo zampino in qualche modo, così misi male il piede e per poco con caddi con il sedere per terra.
« Tutto bene? » mi chiese ignaro del mio precario equilibrio.
« Sto bene, benone. Nessun danno » dissi imbarazzatissima, raggiungendo il mio mezzo a passo sostenuto e partendo a tutto gas immergendomi nelle strade più vive che mai di Chicago. Attorno a me le luci dei semafori, delle insegne e dei lampioni, sfrecciavano creando scie luminose e multicolori simili all’arcobaleno. Sorrisi fiduciosa mentre davo gas per godere appieno del vento sul mio viso.
 
Anche una tempesta inizia con una singola, piccola, goccia di pioggia e forse, quel giorno, rappresentava la mia goccia che avrebbe dato inizio a una tempesta che avrebbe portato molti cambiamenti.






 
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Ehi! Ciao a tutti quelli che sono arrivati fino a qui. Questa volta ho imparato la lezione, la storia è già conclusa così non dovete aspettare ere prima di un aggiornamento ( lettori: chi ti dice che ci interessa, io: sigh ). La storia prende spunto da un episodio di One tree hill, la biondina che lavora alla casa discografica e poi si licenzia per tornare a casa e aprirne una sua, e i primi dialoghi tra Bella e Edward sono ispirati a quello. Le canzoni sono, la prima di Rebecca Black, se andate su youtube e la ascoltate credo che concorderete con me nel dire che è orribile ( viva Glee che l'ha resa più bella^^) la seconda è di Mika! il povero ragazzo è stat rifiutato da molte casa discografiche prima di vedere il suo primo CD in vendita. Saranno tre capitoli e forse degli extra, quelli non li ho ancora fatti perchè dipenderanno da come verà accolta questa storia.
Spero di leggere qualche vostro parere. Ciao!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


















 

2 parte

 

A che cosa faccia appello la musica in noi è difficile sapere; è certo però che tocca una zona così profonda che la follia stessa non riesce a penetrarvi.

( Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, 1973 )


 

Era passata una settimana e Masen ci stava ancora pensando.
Io vivevo nell'ansia e avrei potuto aprire una pasticceria, tanti erano i dolci che per l'insonnia avevo preparato.
Anche il mio capo ne approfittava e cosi avevo iniziato a portare una fetta in più per lui, visto che finiva sempre per mangiare la mia.
Alla mattina quando mi recavo nel suo ufficio gli lasciavo il dolce del giorno con una frase di qualche musicista famoso sulla musica, sperando che aiutasse a far riemergere il lato più sentimentale del mio capo.
Non aveva mai detto nulla ma quando spiavo la sua reazione, aveva sempre un sorrisino, la prima volta era stupito, aveva alzato lo sguardo per cercarmi e quando mi aveva inquadrato, me l'aveva mostrato incuriosito. Io avevo semplicemente sorriso e alzato le spalle per poi riprendere il mio lavoro.
« E sta funzionando? » mi chiese Jake portandosi la tazza di caffè alla bocca.
« Non lo so, lo spero » dissi poggiando la testa sul palmo della mia mano « anche se il suo silenzio non mi fa ben sperare ».
« Non devi perdere la speranza. Se era un no secco, credimi, te lo avrebbe già detto » cercò di rassicurarmi e riuscì nel suo intento. Aveva ravvivato quella fiammella che ancora bruciava testarda.
Forse gli avevo insinuato il dubbio, non azzardavo nello sperare in uno sviluppo positivo.
« Sì, hai ragione, me lo avrebbe già detto ». Jacob sorrise e mi cinse le spalle sorridente. Arrossì per quel gesto spontaneo e intimo.
« Così ti voglio, Bella ».
 
Il messaggio del mio capo mi lasciò interdetta. Erano le cinque di sera e lui mi chiedeva di raggiungerlo al bar dove lo avevo portato per ascoltare Alice. Subito mi preoccupai, non mi aveva spiegato nulla, era stato lapidario. “Ora, al bar. EM”
Nessuno avrebbe pensato positivo al mio posto e così temendo di poterlo irritare se avessi fatto tardi corsi giù per le scale e mi precipitai dall’altra parte della strada.
Entrai e mi guardai attorno. Nell'ombra, a uno dei primi tavoli, scorsi il profilo del Signor Masen seduto a sorseggiare un bicchiere di birra mentre ascoltava Alice che trasudava felicità da tutti i pori.
Quando la ragazza mi vide, mi fece segno di raggiungerli attirando cosi l'attenzione dell’uomo che mi seguì fino a che non arrivai al loro tavolo, si alzò proprio come aveva fatto con Alice al primo incontro.
« Bella, non mi avevi detto che eri nel settore della musica e che lui era il tuo capo » non era un’accusa la sua, il tono era divertito, nemmeno una punta di risentimento per la bugia, ma la guardai lo stesso sbattendo le palpebre diverse volte prima di rispondere.
« Scusami, solo che non volevo darti false speranze ».
Perché aveva confessato tutto?
Il mio sguardo doveva essere molto eloquente poiché indusse il Signor Masen a intervenire.
« Bella voleva essere sicura di avere qualcosa di concreto prima di parlarti ».
Io ero bloccata, resa muta dal significato di quelle parole. Qualcosa di concreto prima di parlarti.  Voleva dire che…
« Si, lo capisco e forse sarei stata anche più nervosa sapendo di star facendo un provino davanti al proprietario della C-Major ».
« Non ne hai motivo. Sei bravissima » intervenni dopo essere rinsavita dal mio stato catatonico.
« Grazie, Bella e anche a lei Signor Masen per questa opportunità. Non sa quanto le sono grata ».
« Non ringraziarmi ora, c’è molto da fare prima di poter fare un album » le disse. Avrei tanto voluto pestargli i piedi con un tacco a spillo per il poco tatto che aveva usato e che rischiava di buttare il morale di Alice a terra. Fortunatamente la ragazza non sembrò risentirne.
« Ne sono consapevole e non la deluderò » affermò, « ora, però, dovete scusarmi ma devo andare. Ho una cena di famiglia e mia madre mi uccide se arrivo con un minuto di ritardo ».
Certamente, appena arrivata, avrebbe comunicato la nuova notizia, ancora prima di dire “ciao”, pensai. Mi aveva detto che sua madre non aveva mai creduto in una sua carriera canora, non che non credesse in lei ma perché sapeva gli ostacoli che la figlia avrebbe dovuto affrontare.
« Bene, allora rimaniamo d'accordo per dopo domani all’una al Monini, discuteremo meglio davanti a un buon piatto di spaghetti » disse il mio capo che ne frattempo si era alzato e stringeva la mano della ragazza. Sembravano Davide e Golia tanto era la differenza di altezza.
« Perfetto, a domani » ci salutò Alice e se ne andò, felice e spensierata. La seguì con lo sguardo poi lo stridio della sedia al mio fianco mi fece girare verso il Signor Masen.
« La scritturerai? » chiesi stupita e felice.
« Un singolo e un album.La seguirai tu »disse spiazzandomi completamente.
« Davvero? Ma sono solo l’assistente dell’assistente ».
« Sei tu che l’hai scoperta… »
Non potevo crede alle sue parole, insomma da quattro anni avevo aspettato quel momento e finalmente era arrivato. Se era un sogno, avrei ucciso chiunque mi avrebbe svegliato. Fui presa dall’entusiasmo, dalla smania di mettermi subito al lavoro. Dovevo dimostrare quello che valevo e non dovevo perdere tempo. Avevo già delle idee in testa e avevo bisogno di un taccuino su cui scrivere o ero certa che grazie alla mia memoria di ferro arrugginito avrei dimenticato tutto prima di mettere piede in casa.
« Ti assumerai tutte le responsabilità. Rischi anche il licenziamento se tutto questo sarà un inutile spreco di tempo e denaro ».
Tentennai per un momento. Io avevobisogno di quellavoro ma ogni cosa avevail suo rischio e per quella ne valevala pena.
« No, non lo sarà. Grazie, Signor Masen »e in uno slancio di estraniazione del mio entusiasmo lo abbracciai. Il suo profumo di colonia mi colpì subito. Era buono, speziato e gradevole. Molti uomini usavano immergersi in prodotti tanto forti da essere nauseanti dopo qualche minuto ma il suo era leggero e per nulla nauseante.
« Emh… Bella? » farfugliò picchiettando sul braccio.
« Oddio, scusi » dissi imbarazzata dall’ennesima figuraccia. Anche lui sembrava provare le stesse emozioni ed era strano vederlo in quello stato. Insomma era sempre così tutto di un pezzo che era insolito, per me e per chiunque credo, vederlo con le guance rosse. « Mi spiace » mi scusai ancora.
« Nulla » disse dopo essersi schiarito la gola « Se avrà successo potremmo parlare del suo futuro alla C-Major e a un tuo avanzamento ».
« Okay, ora è meglio che vada » balbettai recuperando tutta la mia roba. « Buona continuazione, Signor Masen » e scappai senza sentire la sua risposta.
 
« E poi sei scappata? Oddio, Bella queste figure le puoi fare solo tu » disse Jessica tenendosi la pancia per le troppe risate. Anche le altre non erano da meno. Fortunatamente eravamo in pausa pranzo ed eravamo sulla terrazza, altrimenti tutto il piano le avrebbe sentite.
« Lo so, Dio che faccio quando lo vedo? » dissi nascondendo il viso tra le mani. La mattina non si era fatto vedere e in cuor mio speravo che non si facesse vedere nemmeno nel pomeriggio.
« Rilassati non succederà nulla. Era solo un abbraccio. Quello su cui ti devi focalizzare è Alice e il suo singolo ».
Rosalie la più pragmatica di tutte.
« La mia occasione » mormorai trasognate. Quasi non ci speravo più e poi eccola lì, nascosta in un bar in cui ci sono finita per caso, per curiosità.
« Sono felice per te, Bella » disse Angela abbracciandomi « te lo meriti ».
Ricambiai mostrandole tutto il mio affetto.
« Quindi direi che bisogna festeggiare. Domenica a pranzo tutte da Bella a mangiare » aggiunse liberandosi.
« Scusa ma se sono io la festeggiata non dovrei lavorare! » obbiettai.
« Cosa? E poi chi cucina? » fu la sua reazione sconcertata.
« È bello sapere che sei mia amica solo per il cibo » le dissi assottigliando lo sguardo con fare fintamente offeso.
« Oh, lo sai che non è solo per quello » borbottò lei sinceramente dispiaciuta.
« Lo so Angela » la rassicurai.
« Ma dimmi. Com’è? Ha i muscoli tonici e guizzanti come sembra? » ovviamente Jessica doveva interessarsi a quello. Lei era un po' la Samantha del nostro gruppo. Gli autori di Sex and the City si devono essere ispirati a lei.
« Beh… è decisamente messo bene » dovetti ammettere anche se un po' imbarazzata a ripensare a quando gli sono saltata addosso. Nemmeno un grammo di grasso a coprire quei fasci di muscoli tonici. Poi era meglio non parlare del suo profumo, mi era rimasto attaccato ai vestiti e per tutta la sera non la smisi di annusarli. Sembravo una maniaca ma nonostante ne fossi cosciente, continuavo a tenere il mio maglione attaccato al naso. Anche la mattina dopo, quando ormai credevo fosse sparito, perché non poteva rimanere attaccato l’odore per così tanto tempo, e con quella intensità, lo ripresi per sentire se c’era ancora. E sì, alcune note del profumo impregnavano la stoffa leggere dal mio maglione. E ancora, come una maniaca, lo annusai.
 
« Allora sei pronta? »
« Pronta per cosa? »
Ero seduta alla mia scrivania e stavo finendo di sistemare alcuni contratti prima della pausa pranzo quando il mio capo spuntò, bello come il sole, al mio fianco facendomi prendere un accidenti.
« A pranzo, con Alice. Ci devi essere anche tu » rispose serafico « muoviti, ti aspetto in macchina » disse e si diresse verso gli ascensori entrando nel primo libero. Rimasi per un momento a fissare le porte dell’ascensore che si erano chiuse davanti alla figura del mio capo e lentamente il mio cervello elaborò la nuova notizia. Rapidamente presi giacca e borsa e corsi giù per le scale. Fortunatamente eravamo solo al terzo piano.
« Sei lenta, ragazzina » disse quando presi posto nel sedile accanto al suo.
« E ragazzina da dove salta fuori? » domandai stizzita. Girai la testa per guardarlo, indossava un paio di occhiali da sole e la luce che entrava dal finestrino della portiera illuminava il suo profilo, creando come un’aura attorno a lui.
« Quanti anni hai? » chiese sviando la mia domanda.
« Ventotto ».
« Quindi sei una ragazzina in confronto a me » mi spiegò e credo che trovasse un certo gusto a definirmi “ragazzina”.
« Perché lei ne ha quanti, cinquanta? Li porta bene » dissi sarcastica, facendolo scoppiare in una sonora risata.
« No, ne ho trentatre ».
« Allora non posso dirle che li porta bene » dissi con tono dispiaciuto. Scosse la testa divertito e si sistemò gli occhiali da sole mormorando a mezza voce un “ragazzina impertinente”.
 
Parlammo del tempo, della città, del traffico. Cose banali, insomma, il giusto per riempire il silenzio nell’abitacolo. Impiegammo tre quarti d’ora ad arrivare al ristorante, ci avremmo impiegato di meno se non fosse stato per le macchine che intasavano le strade.
Quando entrammo nel locale, arredato in modo semplice e sobrio, pensai che probabilmente un solo piattino per gli antipasti costasse come il mio stipendio mensile.
Alice ci stava già aspettando seduta a un tavolo vicino alla grande vetrata che dava sulla strada e leggeva il menù. Il piede batteva sul pavimento a ritmo serrato e per quanto potesse sembrare tranquilla, quel piccolo particolare tradiva tutto il suo nervosismo.
Si agitò ancora di più quando vide il Signor Masen e si esibì in un sorriso nervo ma parve tranquillizzarsi appena realizzò la mia presenza al suo fianco.
Durante il pranzo non parlai molto, fu il Signor Masen a spiegarle quello che aveva in mente. Il singolo, l’album e la partecipazione a un concerto dove si sarebbero esibiti diversi gruppi e cantanti famosi e non per beneficenza.
Io avrei seguito Alice, assistito alle registrazioni, avrei fatto quello per cui avevo deciso di trasferirmi a Chicago.
Rose si era subito proposta per aiutarmi a fare i primi passi, lei era una veterana del settore e avrebbe potuto darmi molte dritte, avevo chiesto a Emmet di occuparsi del suono ma era troppo impegnano con altri artisti e così Jessica era stata ben felice di salire a bordo.
La mia cantante si congedò dopo aver bevuto il caffè, la sua pausa pranzo stava finendo e lei doveva essere al lavoro prima del suo capo. Anche la mia stava finendo, ero l’assistente e se James avesse avuto bisogno, io dovevo essere presente, ma quando glielo feci notare, il Signor Masen liquidò la faccenda con il fatto che da quel momento fino alla fine della collaborazione con Alice, lei aveva la priorità.
« E poi James non dirà nulla sapendo che stavi con me per una questione di lavoro » concluse la sua arringa mentre gentilmente mi teneva la porta aperta per uscire.
« Questo è abuso di potere » gli feci notare.
« Perché non usarlo quando lo si ha? E poi mica sto preparando un colpo di stato. Ma passando a cose più serie: com’era la cucina? » mi chiese ed io trattenni a stento un sorriso. La cosa era davvero seria.
« Buona » dissi tentennando, non volevo certo offenderlo quando aveva pagato tutto lui.
« Un pranzo da duecento dollari lo definisci solo buono? »
« Cosa! » gracchiai sconvolta. « Ma è una ladrata! Oddio, mi si è bloccata la digestione » dissi portando le mani alla pancia. Era nauseante pensare a quanto potesse spendere lui per un pranzo mentre io dovevo accontentarmi del minimo indispensabile e solo poche volte mi concedevo lo sfizio di spendere qualcosa in più per me.
« Duecento dollari non sono molto per un ristorante del genere e il Monini è considerato il miglior ristorante di cucina italiana della città. Tu sei mezza italiana, che ne dici? È vero? »
« Quello che so è che solo un italiano può preparare un vero pranzo italiano. Ci sono locali in cui fanno vera cucina italiana e paghi quindici dollari a persona, ma preferisco prepararmi le cose a casa, per i tempi che corrono, sono sicura di ciò che mangio ».
« Questo è vero, i dolci che porti sono ottimi » si complimentò mandando il mio ego alle stelle. Amavo quando la gente mi faceva i complimenti per la mia cucina.
« Lo so, e non sono brava solo con i dolci ».
« Modesta ».
« È il mio secondo nome, Signor Masen ».
Lui ridacchiò e mi lanciò una veloce occhiata prima di ritornare a guardare la strada.
 
Come da accordi il giorno dopo iniziò il nostro lavoro. Ci trovavamo alla sera, dopo le cinque quando né io né Alice dovevamo lavorare e potevamo concentrarci senza essere disturbate. Lavorammo sulla canzone, il Signor Masen voleva un pezzo nuovo entro al fine della settimana. Sì perché io avrei gestito tutto, ma poi doveva essere lui ad accettare le mie scelte.
E così iniziammo anche noi a passare del tempo insieme, era bello lavorare con lui allo stesso piano. Era professionale, preciso, attento.
Di Edward Masen, sapevo che prima di dirigere la società aveva lavorato come produttore e si era fatto le ossa, mentre il padre dirigeva la casa discografica. Aveva molto da insegnare a una alle prime armi come me.
Restava in sala registrazione mentre Alice parlava ed io la aiutavo, silenzioso ma attento ma quando arrivava quel fatidico momento, quello che cantanti e scrittori temevano più di tutto, il fatidico “blocco dello scrittore” Edward faceva distrarre Alice, parlava di altro o usciva per poi tornare con frullati, yogurt dalle strane combinazioni, gelati o quando la situazione si faceva critica ci portava fuori a passeggiare sul lungo mare.
Per quanto può sembrare facile scrivere una canzone non lo è, dietro a ogni singola parola, come in un libro, c’è tanto sudore e fatica. Da parte del cantante, del produttore, del tecnico del suono, dei musicisti. Fortunatamente i tentativi del capo si rivelavano efficaci e una volta tornati in sala eravamo super cariche.
Così tra risate e impegnative sessioni di registrazioni, nel giro di due settimane, avevamo scritto una canzone - e altri testi erano pronti per l’album - e avevamo anche una base per il singolo, anche se ancora da perfezionare.
Scoprì che Alice era una stacanovista al lavoro e quello si rivelò molto utile perché le permise di chiedere dei gironi di ferie, che ci permisero di dedicare interi giorni alla registrazione delle canzoni e al loro perfezionamento.
Il giorno del concerto era fissato per la fine del mese di maggio e quindi avevamo ancora due settimane per prepararci. L’evento sarebbe servito per sondare il terreno e lanciare il disco. Battere il ferro finché è caldo aveva detto il Signor Masen ed ero d’accordo con lui.
 
Il ventitré maggio eravamo pronte per la prova del fuoco.
« Oddio, ho paura e se dovesse andare male? E se faccio schifo? » dire che fosse agitata era un eufemismo. Alice era terrorizzata.
Ci trovavamo dietro le quinte del concerto e dopo la cantante che si stava esibendo sarebbe toccato a lei.
Anch’io ero nervosa, in un certo senso era come se dovessi salire su quel palco e cantare di fronte a tutte quelle persone assieme a lei.
« Alice, non andrai male » la rassicurai « immagina il pubblico in mutande, a teatro aiuta per alleggerire la tensione ».
La mia professoressa di teatro me lo diceva sempre prima di uno spettacolo.
« In mutande… » non pareva molto convinta. Iniziò ad annuire e si fece seria « okay » mormorò « immaginarli in mutande » disse prendendo un respiro profondo.
« Nervosa? »
Il Signor Masen, apparve al suo fianco, pantaloni nero camicia bianca e gilet nero. Stava benissimo
« Immagino il pubblico in mutande » esordì la mia cantante sparendo poi verso il buffe per mangiare qualcosa.
« Mutande? » chiese lui stranito.
« Per calmare il nervosismo » gli spiegai « la Signora Martin diceva che era il metodo migliore per recitare davanti alla gente ».
Alla sua espressione confusa aggiunsi qualche particolare che potesse aiutarlo a capire di chi stessi parlando.
« Facevo teatro al liceo e la Signora Martin era un’attrice mancata che insegnava per sfornare nuovi talentuosi attori. Probabilmente l’hai vista in 90210 sa serie originale, ha fatto la comparsa. Quello è stato il suo miglior ingaggio e anche l’unico ».
« Chi non sa fare, insegna » fu la sua saggia risposta.
Edward Masen non era lo stronzo che credevo. Era severo sul lavoro, chiedeva sempre il massimo e spesso e volentieri gli avrei tirato qualcosa in testa ma mi aveva aiutato molto con Alice e aveva aiutato la stessa cantante quando questa andava in crisi, mostrando un lato che non avevo mai visto. C’era un bravo ragazzo nascosto sotto la scorza di uomo bastardo del lavoro.
« Ed ora siete pronti per una nuova scoperta. Una nuova voce del soul bianco, al pari di… ».
Il cuore schizzò in gola quando la chiamarono, non ascoltai la sua presentazione troppo elettrizzata.
« Fate un bell’applauso ad Alice ».
Mi passò al fianco ed io le sorrisi incoraggiante e con entrambi i pollici in su.
 
Alice fu strepitosa con i ballerini che ballavano attorno a lei e alla fine della sua esibizione mi misi a battere le mani e saltellare come una bambina al Luna Park, scatenando l’ilarità del mio capo.
Anche Alice si unì a me quando, fatti i ringraziamenti, tornò dietro gli spalti.
« Oddio, Bella hai visto? Ero così nervosa ma quando è iniziata la musica, tutto è andato al suo posto. E hai visto come hanno applaudito alla fine? » parlava a macchinetta e non avevo cuore di frenare il suo entusiasmo. Presto fu chiamata dai giornalisti che si lanciarono su di lei come avvoltoi e sopravvisse solo grazie all’intervento del Signor Masen che li tenne a bada.
« Niente male, ragazzina » esordì il capo raggiungendomi « alcuni programmi televisivi e radiofonici mi hanno contattato. Usare i social network si è rilevato molto fruttuoso e con questo concerto abbiamo attirato l’attenzione » mi rivelò mandandomi in brodo di giuggiole.
« Ne ero certa. Alice è stata bravissima » affermai mentre osservavamo Alice mentre veniva intervistata da un giornalista della MTV.
« Lo ammetta » dissi già pronta a godermi la vittoria. Gli lanciai una rapida occhiata ma lui aveva lo sguardo fisso davanti a se, per nulla toccato dalle mie parole.
« Non so di cosa stai parlando » ribatté lui serafico.
« Forza, lo ammetta. Alice avrà successo e porterà anche tanti soldi alla C-Major con la sua musica non richiesta dal mercato » cantilenai avvicinandomi a lui e sorridendo sorniona.
« Okay, forse avevi ragione » concesse prima di riservarmi un’occhiata storta, « ma non montarti la testa ».
« No, ovviamente » garantì ma dentro di me stava succedendo tutto il contrario. Ero così felice di avergli dimostrato quello che valevo e di avergli buttato in faccia il talento di Alice.
« È presto per lasciarsi andare ai festeggiamenti, vedremo come andrà il CD » disse riuscendo ancora una volta a smontare il mio entusiasmo.
« Non riesce per una volta a pensare positivo? »
« Sono realista, Bella. Per me contano i fatti » disse girandosi per guardarmi in faccia.
 
Nelle settimane seguenti Alice si ritrovò a girare per stazioni radio, televisive e feste facendosi conoscere, intanto i lavori per finire il disco, avanzavano a regime serrato e una settimana prima del termine di scadenza avevamo finito di registrare l’ultima traccia.
« Ed ecco a te il Master » disse con tono solenne Jessica come se fosse la regina d’Inghilterra che consegnava una medaglia al valore a un suo suddito. Beh… la solennità era quella.
Il mio primo master, mio e di Alice, nostro. Rappresentava un traguardo, la vittoria di una sfida che ci vedeva perdenti in partenza.
« Oddio, le mani mi tremano, Bella prendilo tu » mi chiede Alice guardando con occhi luccicanti di gioia l’oggetto che contiene tutte le canzoni del primo album.
« Ora, Edward mi ha chiesto di portarglielo quando avevo finito » iniziò Jessica mentre indossava la giacca « ma ho un appuntamento e sono già in ritardo ».
« Oh, lo porto io se vuoi » mi proposi entusiasta di poter passare ancora un po' di tempo con il mio bambino. Sì, era strano ma quel Cd era stato un parto e ti ci affezioni. « Poi casa sua è nella mia direzione ».
« Davvero? » mi chiese conferma. Il suo tono ha un non so che di sospetto, e non ci misi molto a capire che probabilmente il suo intento era proprio quello di scaricare il lavoro su di me.
« Sì ».
« Grazie, sei la migliore. Allora vado. Buona serata ragazze » e uscì correndo, senza un tentennamento, anche se indossava dodici centimetri di tacco.
« Bene, vado anche io, devo andare dalla parte opposta e chissà quando arrivo » disse Alice accompagnando la frase con uno sbadiglio. Erano le nove di sera e avevamo lavorato tutto il giorno senza fermarci nemmeno un attimo.
Scendemmo insieme e ci salutammo davanti alla macchina di Alice, una mini nera e sul tettuccio la bandiera inglese. In onore delle sue origini, mi aveva detto quando gli avevo chiesto il perché.
 
Arrivai sotto casa del mio capo in poco tempo e con in mano il master del CD di Alice suono il campanello.
« Sì? » la voce di Masen arriva metallica dal citofono.
« Sono, Bella ho il master… » nemmeno il tempo di terminare la frase che il cancello scattò.
« Sali, ultimo piano » disse e poi non sentì più nulla. Così entrai coprendo con poche falcate il piccolo e stretto vialetto per poi fare velocemente la breve scalinata e spingere con tutta la forza che avevo la grande porta di vetro e raggiunsi gli ascensori, grandi come quelli che si trovano nei centri commerciali.
Arrivata davanti alla porta, indugiai qualche secondo prima di suonare il campanello. Mi chiedevo come potesse essere la casa di un uomo sulla trentina, single e benestante.
Pochi secondi e la porta si aprì.
« Ciao, ragazzina » sbuffai nel sentire quel nomignolo che mi faceva sentire una bambina piccola e non una donna grande e vaccinata.
« Salve, Signor Masen. ho portato il master, Jessica si scusa ma aveva un impegno ed io ero già di strada » spiegai.
« Grazie, ti va di entrare? Ti offro qualcosa » mi propose ed io accettai anche se con un po' di titubanza. Sapevo che le intenzioni non erano quelle di portarmi nella sua camera da letto, ma era da molto tempo che non rimanevo sola con un uomo in casa sua e di sera.
Ma tutto passò in secondo piano quando una volta che la mia vista fu libera di spaziare dove volesse, mi persi a osservare la casa.
« Io stavo bevendo del vino, va bene? » gli sentì dire.
« Sì » mormorai con voce estasiata. La cosa lo fece ridere ma non m’interessava così come non m’interessava il fatto di aver accettato di bere alcool a stomaco vuoto. Bella, non iniziamo bene, mi ammonì il mio grillo parlante ma lo zitti subito.
La prima cosa che colpiva era il grande camino al centro che d’inverno certamente riusciva a riscaldare l’ambiente cacciando il freddo della città. Poi c’era la grande libreria che da terra arrivava fino al soffitto, tanti, anzi tantissimi scaffali pieni di libri.
C’era anche la scala per raggiungere i ripiani più alti.
Essa divideva il grande salone da un’altra ala, forse la zona musica visto che un bellissimo piano a coda, nero e lucido, faceva bella mostra di se.
Quando ero piccola, avrei voluto imparare a suonarlo ma dovetti accontentarmi della chitarra, i costi erano eccessivi e ai tempi non potevamo permettercelo. Non che poi le cose siano cambiate molto.
Nel salotto, il protagonista assoluto era un grande divano a forma di elle, affiancato da due poltroncine e al centro un tavolino rotondo di legno di noce.
Faretti infissi lungo le pareti proiettavano la loro luce tutto attorno creando giochi di luci e ombre, perfettamente studiati.
Sulla sinistra la cucina. In una casa era la zona che preferivo e con quella, era stato amore a prima vista.
Moderna e lineare, con un piano cottura gigantesco, e tutto era curato nei minimi dettagli. Tremavo al solo pensiero di quanto la doveva aver pagata.
Già m’immaginavo a cucinare lì, mi vedevo preparare le lasagne con quel magnifico forno di produzione tedesca, impastare la pasta sul piano di lavoro di marmo. Non esageravo nel dire che avrei potuto avere un orgasmo al solo guardarla.
La frequentazione di Jessica non mi faceva bene. Per nulla.
Tornai a far scorrere lo sguardo attorno e cercai di immaginarmi la casa di giorno. Le grandi vetrate sul tetto e lungo le pareti dovevano illuminare tutta la casa e il bianco delle pareti avrebbe riflesso la luce donando luminosità.
Potevo dichiarare senza dubbi che quella era la casa dei miei sogni.
« Ti piace? » la sua voce mi fece sobbalzare. Mi ero quasi dimenticata della sua presenza.
« Cosa? »
Mi girai e me lo trovai più vicino di quanto pensassi.
« La casa » disse con tono divertito e con i calici in mano indicò tutto attorno con un gesto stanco.
« Sì, è molto bella anche se si nota la mancanza di tocco femminile ».
« Per il momento non ce n’è bisogno » disse porgendomi un calice pieno di vino bianco.
« E quando sarà il tempo? Quando sarà stempiato e pronto per la pensione? » scherzai accettando il bicchiere. « Grazie » e ne bevvi un sorso.
Il sapore gradevole e leggermente frizzante mi risvegliò le papille gustative e subito ne bevvi un altro sorso, ipnotizzata dal suo sapore.
« No, ma per ora non rientra nelle mie priorità. Voi donne direste “è perché non hai trovato la donna giusta, quando la troverai, vorrai mettergli subito l’anello al dito per impedire ad altri di rubartela”, almeno così dice mia madre. Ma lei è reduce dal suo terzo divorzio. Non so quanto vale » commentò bevendo anche lui una sorsata generosa.
« Guardati pure in giro ».
« Non vorrei essere invadente » mormorai ma i mie occhi non la smettevano di guardare in giro e i mie piedi non vedevano l’ora di muoversi per scoprire nuovi posti ancora nascosti.
« Non ho cadaveri nascosti. Fai pure » disse con un sorriso allegro. Gli occhi erano leggermente lucidi e si muoveva a rallentatore, segno che si era già versato qualche bicchiere di troppo.
Non me lo feci ripeter un'altra volta e continuando a sorseggiare il vino superai il camino per spiare quello che sembrava un piccolo studio. C’erano dei divanetti addossati alla parete e un tavolo di cristallo, circondato da sedie di legno finemente decorate.
« Ti va di ascoltare con me il Cd? » urlò e senza pensarci risposi di sì. Quella sarebbe stata una tranquilla serata passata ad ascoltare musica.
Tornai in salotto e mi accorsi che una scala, vicino all’ingresso portava al soppalco da cui si vedeva un piccolo salottino, con anche una piccola libreria e quella che doveva essere la camera da letto. Quella parte della casa era meglio che mi rimanesse nascosta.
Si avvicinò al lettore e inserì il CD facendolo partire. La musica aveva iniziato a diffondersi nell’aria, grazie anche a delle casse sparse per la casa.
Si sedette sul divano e picchiettando al posto vicino a lui mi disse di sedermi. Feci come mi chiese e in silenzio ascoltammo una canzone dietro l’altra sorseggiando il buonissimo vino che mi aveva offerto.
 
« Allora, come è venuto? » mi chiese quando iniziò la quinta canzone. Lo guardai di sbieco mentre finivo di bere.
« Beh può sentire lei… » risposi non capendo la sua domanda. Sorrise e si stravaccò sul divano girando la testa per guardarmi. Quella sera era più tranquillo come se avesse lasciato i freni e avesse deciso di superare i limiti di velocità.
« Sì, ma vorrei sentire il tuo parere ».
Io mi girai nella sua direzione, raccolsi le gambe poggiandole sul cuscino e, dopo aver bevuto un altro sorso di vino, risposi.
« Possiamo definirla acerba, è la sua prima esperienza dopo tutto, ma è molto buono, certamente migliore di molti. In Italia c’è un modo di dire “nessuno nasce maestro” e Alice credo abbia fornito un’ottima prova di se. Bisogna solo vedere come cresce. Signor Masen… ».
« Chiamami Edward, Bella » mi interruppe.
« Okay, Edward » dissi ma mi suonò strano chiamarlo con il nome di battesimo. Quattro anni a chiamarlo Signor Masen si facevano sentire. « È strano chiamarla così » mormorai sovrappensiero.
Bevvi un altro sorso di vino per poi affrettarmi ad aggiungere la mia spiegazione.
« Cioè voglio dire per me lei è sempre stato il Signor Masen… non che non mi piaccia il suo nome » mi affrettai a spiegare prima che pensasse male.
« Questione di abitudini e dammi del tu, intesi? ».
« Intesi » e quello era ancora più strano.
« Ancora? » mi chiese piegandosi in avanti con la bottiglia.
« Oh, no. Non ho ancora fini… o mamma » stavo per dire che ne avevo ancora nel bicchiere ma non era così, avevo bevuto tutto senza accorgermene. « Okay » dissi avvicinando il mio bicchiere.
Avrei dovuto fermarmi, una persona coscienziosa l’avrebbe fatto. Purtroppo per me, non ero una persona che reggeva l’alcool e già con secondo bicchiere la mia testa si era fatta leggere e mi aveva resa sorda alla voce della mia coscienza. E poi quel vino era davvero buono. 
« Dicevi? » chiese, per poi versarsi un po' di vino e berne un generoso sorso.
« Dicevo, sono certa che avrà un grande successo che crescerà nel tempo » e lo guardai con un sorriso fiducioso prima di assumere un espressione preoccupata. « Tutto bene, Edward? »
Sogghignò e si stravaccò sul divano, un braccio sullo schienale e la testa poggiata sopra. Lo imitai ritrovandomi pericolosamente vicina a lui ma non me ne preoccupai, in quel momento non mi sembrava che ci fosse qualcosa di male.
Lui limitò ad annuire senza smettere di fissarmi. I suoi occhi erano verdi e non lo avevo mai notato, non era un verde acceso, avevo sempre creduto che fossero marroni, invece solo attorno alla pupilla c’erano delle pagliuzze color nocciola.
Erano belli, per quanto non avessero nulla di speciale, erano semplici, banali occhi verdi ma mi trasmettevano calore e sicurezza.
Il mio cuore prese a battere a ritmo serrato e deglutì cercando di liberarmi di quel groppo in gola. La situazione si era ribaltata, avevo paura per quello che sarebbe potuto succedere, ma allo stesso tempo fremevo dalla voglia che succedesse.
« There’s a fire starting in my heart / Reaching a fever pitch, / it’s bringing me out the dark / Finally I can see you crystal clear / Go head and sell me out / and I'll lay your shit bare ».
« Ecco, questo sarà il singolo » mormorai senza distogliere gli occhi dai suoi a pochi centimetri dai miei.
« There’s a fire starting in my heart / Reaching a fever pitch / And its bring me out the dark* ».
Era una situazione strana e rischiosa. Il mio cervello se ne rendeva conto ma elaborava la reazione lentamente, forse era meglio dire che era in pausa, non ragionava. Non feci nulla, rimasi ferma ad attendere quello che sarebbe arrivato. Edward iniziò ad avvicinarsi, sapevo, dovevo, spostarmi, era il mio capo e sarebbe stato un problema se qualcosa fosse successo, ma non lo feci.
L'unica cosa che vedevo erano i suoi occhi, le sue labbra sottili e dischiuse da cui arrivava il suo respiro caldo e dal leggero sentore di vino.
Rimasi con lo sguardo nel suo e fui io a eliminare completamente le distanze quando mancavano pochi centimetri.
Era un bacio cercato, avido e umido, le nostre lingue si cercavano, si rincorrevano a ritmo della musica di Alice.
Un basso gemito nasce nella sua gola e muore nella mia bocca, la mia mano corre al suo collo spingendolo maggiormente verso di me, sfiorai e poi strinsi i capelli soffici e freschi.
Edward mi prese per i fianchi, portandomi sopra di lui. Io, invece che resistere lo assecondai posizionandomi a cavalcioni su si lui. Sentivo la stoffa del mio vestito alzasi fino a metà coscia. Le mani di Edward vagavano sulle mie gambe alzandolo ancora di più.
Sentivo la sua eccitazione crescere, eco della mia che bruciava nel mio basso ventre.
« Ti andrebbe di vedere il sopra? » mormorò con voce roca senza però allontanare le sue labbra dalle mie.
« Molto » mormorai. Una volta salite le scale, non mi fece fare nessun giro turistico ma d'altronde lo sapevo perfettamente.




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Allora? Che ve ne pare? Bella ha avuto la sua occasione e Alice è stata accolta più che bene dal pubblico. Basterà? Che combineranno i nostri due protagonisti... un pò alticci e soli soletti al piano di sopra?
Spero di leggere qualche vostro commento.
La canzone è quella di Adele "Rolling in the deep" che personalmente trovo molto bella.

Grazie mille per le 10 reensioni al primo capitolo davvero non me ne aspettavo così tante! scusate il ritardo nel risponedere ma ho avuto molto da fare. Grazie anche ai lettori silenziosi e tutti quelii che hanno messo la storia tra le preferite, ricordate e seguite!
Vi ricordo la mi apagina
facebook per avvisi, anticipazioni o se volte chiedermi qualcosa,...
Ora scappo o se no perdo il treno^^ 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***





3 parte

La musica è l'unica lingua veramente internazionale. Un lied di Schubert, di Schumann o di Hugo Wolf non è tedesco. È umano.

( Charles Régismanset, Nuove contraddizioni, 1939 )

 

 

Era buio quando mi risvegliai. Ancora nell’incoscienza del sonno mi mossi nel letto, stiracchiandomi come Coca-Cola quando si svegliava. Il lenzuolo accarezzava la mia pelle dandomi una bellissima sensazione di benessere. C’era però qualcosa di strano, il materasso era troppo morbido e anche il cuscino, tanto che lo abbracciai come se fosse un peluche.

Ieri sera era stata una serata strana. Edward era stato così affabile e mi era piaciuto chiacchierare con lui, i bicchieri di vino di cui ormai avevo perso il conto avevano aiutato a sciogliere il ghiaccio, solo che avevo un buco enorme nella memoria e il mal di testa che mi stava torturando non era di grande aiuto.

Com’ero tornata a casa? Ma bastò che il mio olfatto registrasse una fragranza conosciuta e la nebbia che offuscava i miei ricordi si schiarì. Come tante diapositive che venivano proiettate una dietro l’altra, tutto tornò a galla. Io non avevo mai lasciato la casa di Edward e quello in cui ero distesa non era il mio letto!

Timidamente alzai il lenzuolo per vedere le mie condizioni e la realtà dei fatti mi colpì come un pugno in pieno viso. Tutto si poteva spiegare in una semplice e concisa frase: Io e il mio capo nello stesso letto a fare sesso.

« Oddio, no, no, no. Non è possibile » fu la mia litania. Nascosi il viso sotto il cuscino e voltai il capo verso il lato che avrebbe dovuto occupare il mio capo. Non c’era, era freddo, segno che si era alzato da tempo.

Che cosa avevo combinato? Non era da me fare quelle cose, l’avevo fatto una volta ed era stato così imbarazzante e squallido che mi ero ripromessa di non fare più cavolate di quel genere. C’era da dire che l’alcool aveva avuto la sua parte e mi aveva annebbiato il giudizio. Io l’avevo baciato, ero stata io a dare inizio a tutto. Valutai l’ipotesi di sgattaiolare fuori senza farmi vedere, cosa inoltre improbabile, e presentare io stessa la lettera di dimissioni per evitare che fosse Edward a cacciarmi a calci nel sedere. Certo che però lui non si era tirato indietro, anzi… era andato ben oltre le mie aspettative e quelle di Jessica.

Scacciai dalla mente i discorsi della mia amica, e le sue considerazioni, dicendomi che non era il momento più adatto per valutare le dimensioni della sua terza gamba, per dedicarmi al trovare una soluzione a quello sbaglio.

Sì, perché andare a letto con il mio capo, era stato un errore dalle dimensioni catastrofiche. Ne ero certa, avremmo parlato come persone adulte e avremmo trovato una soluzione. Almeno speravo.

Uscì dal letto come mamma mi aveva fatto e raccolsi tutto il mio coraggio assieme ai miei vestiti e mi chiusi in bagno. Un bagno che era grande come la zona giorno, cucina e salotto, del mio appartamento.

Sulla destra due lavandini e un grande specchio che copriva tutta la parete, sul lato opposto una doccia con la porta in vetro, e dietro a un divisorio una grande vasca idromassaggio e i servizi igienici. Repressi l’invidia che provavo in quel momento e mi lavai cercando di sistemarmi alla bell’e meglio.

Quando finalmente scesi, l’orologio segnava le due e trenta del mattino.

Trovai Edward seduto su uno degli sgabelli della cucina a sorseggiare una tazza di caffè. Tossì per palesare la mia presenza. Lui alzò lo sguardo e accennò un sorriso, non sembrava stupito, probabilmente mi aveva sentito andare in bagno, e nemmeno infastidito dalla mia presenza. Era un buon segno, no?

« Caffè? » mi chiese con tono pacato.

« Sì, grazie ».

Alla mia risposta si alzò e raggiungere la macchina. Recuperò una tazza e dopo averla riempita di quel liquido nero fumante, me la porse.

« È stato un errore, concordi con me? » dissi sedendomi su uno sgabello lontano dal suo. In qualche modo cercavo di creare delle distanze.

« Perfettamente, quindi non dovrà più succedere » concordò Edward « ammetto di essere attratto ma non voglio mischiare lavoro e il privato, altrimenti… »

« Ci sarebbero troppi casini » conclusi per lui anche se non potei impedire alle mie labbra di piegarsi in un sorriso - prontamente nascosto dalla tazza - e anche gonfiare il petto. Infondo conoscevo la sua politica e il fatto che abbia fatto uno strappo alla regola con me mi elettrizzava. Finimmo di bere il caffè in religioso silenzio e quando ebbi terminato, me ne andai.

In mente la promessa che una cosa del genere non riaccadesse più.

 

Si sa però, che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e alla prima ne è seguita una seconda, una terza, una quarta e via discorrendo. Non c’era più l’alcool da incolpare per non esserci riusciti a fermare. Mi chiamava adducendo alla scusa di Alice o qualche compito, ed io non riuscivo mai a dire di no.

 

 

Però la situazione aveva avuto un risvolto positivo, mi aveva aiutato a capire quello che davvero provavo per Jake. Insomma se ne ero davvero innamorata non mi sarei mai prestata a fare del sesso, del buon sesso occasionale, con qualcun altro. E quando lo vedevo con qualche ragazza, non sentivo più quel prurito alle mani che invece mi prendeva sempre prima.

Avevo capito di aver scambiato del semplice affetto per qualcosa di più, forse per il fatto che non avevo un uomo da due anni. Non che non abbia avuto pretendenti ma perché, dopo il primo appuntamento, massimo terzo, troncavo il rapporto. Certe volte era la scintilla a mancare, altre perché erano così fissati con il lavoro che non parlavano d’altro ma il più delle volte era perché volevano una notte e via mentre io cercavo qualcosa di più stabile.

Perché con Edward è una cosa stabile?

Il mio grillo parlante me lo chiedeva sempre e aveva ragione, tra noi non c’era nulla di più ma, ogni volta che m’impuntavo di andare a casa sua e parlare e porre fine al quella situazione, finivamo a rotolarci nel letto.

Non ero quel genere di ragazza da rapporti occasionali, ero sempre stata convinta che lo avrei fatto solo con il mio ragazzo ma non mi pentivo di quello che c’era con Edward e non me ne vergognavo.

A un certo punto, avevamo anche iniziato parlare, quando stesi sul letto, stanchi ma appagati, cercavamo di riempire il silenzio del "momento dopo". Gli avevo raccontato cose su di me che non avevo detto mai a nessuno e lo stesso fece lui. Senza nemmeno accorgercene avevamo superato una linea di non ritorno.

Il punto era che nessuno dei due lo aveva ancora capito.

Non sapevo cosa fossimo, certo non una coppia, forse potevamo entrare nella categoria “amici di letto”, ma non m’interessava. Eravamo solo noi e quello bastava.

Sguardi rubati, sorrisi maliziosi scandivano la mia giornata lavorativa, temevo che prima o poi qualcuno se ne sarebbe accorto ma, non facevo nulla per mettere un punto definitivo alla cosa. Eravamo arrivati anche a farlo in una sala registrazione, non avevo nemmeno dovuto trattenermi dal non urlare perché la stanza era insonorizzata e nessuno avrebbe potuto sentirci.

 

Confessai la tresca alle mie amiche durante il nostro solito pranzo del sabato, un mese dopo che tutto era iniziato. Non ci girai intorno altrimenti, conoscendomi, sarebbe arrivato Natale ed io non avevo ancora trovato le parole per dirlo. Si stavano complimentando con me per il dolce quando avevo sganciato la bomba. Tutte erano rimaste con la bocca aperta e Angela per poco non si strozzò con l’acqua che stava bevendo.

 

 

« Tu e il Signor Masen? » mi chiese dopo essersi ripresa.

« Sì ».

« E ce lo dici senza prepararci psicologicamente? » intervenne Jessica sistemandosi meglio sulla sedia e sporgendosi verso di me con sguardo acceso dalla curiosità. Non prometteva nulla di buono. Avrebbe voluto i dettagli, anche quelli più insignificanti.

« È una bomba del sesso? Com’è messo? Come lo avete fatto? » appunto…

« Jessica queste sono cose private. Non mi sembra il caso… » tentati sperando che presa da compassione chiudesse il discorso, purtroppo stavo dimenticando chi era il mio interlocutore.

« Al diavolo Bella, sono cose che si devono condividere con le amiche » obbiettò lei ma in mio aiuto soggiunse Angela che non aveva nessuna intenzione di scoprire le doti nascoste del suo capo. Non sarebbe più riuscita a guardarlo in faccia.

« Rose? Tu non hai detto nulla » dissi quando rimanemmo sole. Le altre due erano andate in salotto per guardare la loro puntata di Grey's anatomy.

« Che ti devo dire? » disse con un tono calmo che mi fece gelare sul posto, riuscendo a farmi sentire sbagliata. Se mi avesse urlato contro, avrebbe fatto meno male. « Ti devo dire che è okay o che stai facendo un enorme cazzata? Che sei diventata la… » ma si bloccò prima di terminare la frase guardandomi dispiaciuta.

Indurì lo sguardo e sprezzante mi ersi in tutta la mia statura, per quello che mi permetteva.

« Che cosa Rose? Perché non completi la frase? »

Rose abbassò lo sguardo e prese un respiro profondo.

« No, Bella non lo sei mi dispiace per quello che ho detto, non lo pensavo davvero, è la preoccupazione per te che parla… »

« Sono grande e vaccinata ».

« Sì, ma questo non è da te e ho paura che quando tutto finirà sarai tu quella distrutta e io non voglio vederti ridotta male per colpa di Masen ».

Potevo capirla, erano le mie stesse preoccupazioni, io non ero una che riusciva a separare amore e rapporto fisico, e l’apprensione di Rose che prima o poi sarei caduta nella rete era più che comprensibile. Edward era intelligente e simpatico e galante, qualsiasi donna sarebbe caduta ai suoi piedi ma fino a quel momento ero riuscita a mantenere tutto sotto controllo ed ero fiduciosa.

« Rose non ti devi preoccupare, so quello che faccio. Se le cose inizieranno a sfuggirmi di mano, la smetterò » la rassicurai e anche se non ne era molto convinta sorrise e insieme raggiungemmo le altre in salotto, ignare del nostro piccolo battibecco.

« A proposito, Angela? »

« Dimmi ».

« Tu hai mai bucato volontariamente delle gomme di un auto? »

« Che domande sono? Certo che no. Perché? »

« Nulla » risposi indifferente.

Potevo fidarmi?

 

Così continuai a vedere il mio capo al di fuori dell’ambito lavorativo e tra un’incontro e l’altro erano passati due mesi durante i quali era successo molto.

 

 

Il primo disco di Alice aveva avuto un buon successo, più di quello che pensassi ed erano in molti a chiederla come ospite in programmi sempre più importanti.

Ero felice per lei e già iniziavo a sperare in un secondo disco soprattutto dopo che Edward, durante una delle nostre serate mi aveva confessato che voleva discutere con il padre per stipularle un contratto che le avrebbe permesso di pubblicare altri due album con la C-Major.

Quella notizia mi aveva riempito di gioia e apprensione. Edward Senior Masen aveva lasciato la direzione della casa discografica al figlio ma spesso e volentieri continuava a mettere il becco nella società. In fondo erano soci alla pari nella gestione.

Quello che mi preoccupava maggiormente era che il padre era la versione più vecchia e arcigna del figlio. Un uomo che aveva come obbiettivo guadagnare il più possibile.

 

“ Non bisogna origliare ”. Quella era la prima cosa che le madri insegnano ai figli ed io da piccola non davo ascolto alla mia. Ecco perché mi trovavo con un bicchiere poggiato sulla porta della sala riunioni a cercare di capire quello che padre e figlio si stavano dicendo.

 

 

Purtroppo quello che captavo erano poche frasi e per nulla incoraggianti.

« Non andremo avanti » aveva detto il Signor Masen Senior a un certo punto.

« Perché? È molto buono. Hai visto le vendite, certo non sono altissimi, visto che il budget a disposizione era limitato ma con un giusto investimento… »

« Edward, quello che ci interessa è l’incasso che si ricaverà. I vestiti che hai addosso li pagano quei cantati che hai definito spazzatura. Non è un bel ringraziamento ».

« Papa lo capisco benissimo ma anche Alice porterà incassi e darà maggior spessore alla C-Major ».

« Il primo ha avuto successo ma prima o poi queste cose stancano ».

 

Colui che non può contare su alcuna musica dentro di sé, e non si lascia intenerire dall'armonia concorde di suoni dolcemente modulati, è pronto al tradimento, agli inganni e alla rapina: i moti dell'animo suo sono oscuri come la notte, e i suoi affetti tenebrosi come l'Erebo. Nessuno fidi mai in un uomo simile.

( William Shakespeare, Il mercante di Venezia, 1594/97 )

 

Ascoltando i pochi frammenti del loro discorso avevo capito cosa intendeva Edward quando mi parlava di suo padre. Con un uomo così anch’io avrei accantonato i miei sogni, ormai dei ruderi a furia di essere presi di mira da mio padre, e sarei diventata come lui.

Edward voleva solo essere apprezzato, cercava di trovare l’approvazione de padre e questa l’aveva trovata ignorando quello che lui provava per convertirsi al credo paterno.

Ma stava cambiando, pensai con un sorriso, aveva iniziato a riscoprire i suoi sogni e i suoi desideri, lui stesso me lo aveva confessato additando la mia testardaggine come causa primaria.

Io ero felice di averlo aiutato.

 

Dei rumori di sedie che stridevano sul pavimento, mi fecero scattare e per poco non mi cadde il bicchiere di mano. Corsi a nascondermi dietro la porta del bagno delle donne, lì vicino, e vi rimasi finché non sentì la voce autoritaria del padre di Edward allontanarsi. Sbuffai irritata, poiché persa com’ero nei miei pensieri, mi ero persa la parte finale del loro discorso. Che avranno deciso? Mi chiesi poco prima che la porta fosse spalancata con un tonfo, rivelando la figura elegante di Edward che, appena incrociato il mio sguardo si aprì in un sorriso sghembo.

« Bella, che ci fai nel bagno degli uomini? »

Rimasi interdetta dalla sua domanda. Era lui ad aver sbagliato, quello era il bagno delle donne.

Quando glielo feci notare, ridacchiò e m’indicò il piccolo cartellino appeso sulla porta e poi quello della porta a fianco. Sul primo c’era il disegno di un uomo in giacca e cravatta mentre sulla seconda una donna con indosso un vestito anni sessanta.

Senza troppe gentilezze mi trascinò dentro fino a farmi entrare in un bagno.

« In quattro anni non ti ho mai visto indossare tante gonne o vestiti come in questi ultimi mesi » mormorò prima di abbracciarmi e chiudermi le labbra con le sue, senza darmi il tempo di rispondere. Proprio quando stavo per ricambiare, ripresami dalla sorpresa, lui si staccò, lasciandomi insoddisfatta, e riprese a parlare. « Anche se la volta delle autoreggenti non la batte niente ».

Ridacchiai prima di baciarlo. Era stato quando mi aveva trascinato nella sala registrazione. L’unica volta che c’eravamo lasciati andare così tanto al lavoro.

« Qualcuno ha detto che gli piace quando li indosso » mormorai maliziosa, quando ci staccammo per prendere aria.

« Sai che mi tenti così » o sì che lo sapevo. Li indossavo solo per quello.

Per quanto avessi altro per la mente, molto probabilmente erano le stesse cose che passavano per la sua testa, prima dovevo chiedergli com’era andata a finire la chiacchierata. Mi staccai e lo guardai negli occhi cercando di ignorare quella nota di desiderio che leggevo nel suo sguardo.

« Che ha detto tuo padre? »

Edward sbuffò.

« Tu si che sai come rovinare certi momenti » disse per poi raggiunse il lavandino. Aprì l’acqua e si sciacquò il viso.

« Per quello ci hai già pensato tu chiudendoci nel bagno » gli dissi con un cipiglio indispettito e incrociai le braccia al petto. « Non è propriamente un luogo romantico per una coppia ».

Lui alzò lo sguardo sorpreso ed io lo ricambiai con uno incuriosito.

Perché gli si era rizzato il pelo?

 

Lo raggiunsi.

« Tutto bene? » chiesi poggiando la mano sul suo braccio. Indossava solo una maglietta a maniche corte e la pelle bruciava sotto la mia. Lui si scostò come scottato lasciandomi interdetta dal suo bizzarro comportamento.

« Sì, scusa, ora devo andare » borbottò asciugandosi velocemente le mani. « Cercherò di convincere papà per il contratto con Alice, quando si sarà calmato » promise, « ora come ora non mi darebbe retta »  non feci nemmeno in tempo a chiedergli cosa fosse successo che si avvicinò e mi lasciò un veloce bacio sulla guancia prima di sparire dalla mia vista, come Beep Beep che scappava da Willy il coyote.

Rimasi interdetta da quel cambio repentino di umore, e per diverso tempo rimasi a guardare la porta che continuava a cigolare avanti e indietro. Solo quando si fermò, mi decisi a uscire ma una brutta sorpresa mi attendeva.

« Isabella, hai sbagliato bagno a quanto vedo » esordì la voce melliflua di James. Non aveva gradito il mio colpo di stato con Alice e da quando avevo iniziato a lavorare come sua produttrice, aveva cercato di rendermi la vita un inferno.

« Ora capisco perché hanno preso Alice » sogghignò in un modo che mi diede sui nervi. James non mi era mai piaciuto e lo sopportavo solo perché mettermi contro di lui avrebbe voluto dire licenziamento.

« Ah si e perché? » chiesi usando un tono fintamente curioso.

« Beh… sei stata furba. Andare con il capo è stata una mossa geniale » raggelai a quell’accusa, che poi tanto accusa non era visto che era la verità ma Alice non era stata presa per quello. Lei era brava, se lo meritava.

« Come ti permetti? Alice è stata presa perché è brava e ha talento al posto delle tue cantanti da strapazzo che non sanno nemmeno cosa sia una scala musicale ».

« Certo, certo… » liquidò la faccenda con fare da superiore « ma la prossima volta vieni da me, non andare a sprecare le tue doti con Masen, io sono disponibile a venirti in contro » le ultime frasi le sussurrò al mio orecchio provocandomi tanti brividi lunga la colonna vertebrale, ma non certo di piacere all’idea della sua proposta.

La mia vista si fece rossa e poco dopo vidi James coprirsi la guancia con una mano e guardarmi prima sorpreso e poi con un sorriso diabolico. Solo dopo mi accorsi della mia mano che tremava e del palmo era completamente rosso, tanta era la forza che avevo usato per colpirlo. Gli avevo dato uno schiaffo ma non mi era bastato. Gliene avrei voluto dare altri mille per avermi offesa, per aver offeso Alice e infangato Edward con le sue accuse.

« Non avvicinarti a me. Mai più, sappi che mio padre è sceriffo e credimi quando ti dico che so usare benissimo un fucile da caccia se è necessario » lo minaccia con la voce che sembrava più il sibilo di un serpente.

« Abbiamo gli artigli vedo » mormorò lui senza nessun timore come se non credesse a nessuna parola. Se avesse fatto un passo falso, se ne sarebbe reso conto di quanto invece ero seria.

Un’ultima occhiata e se ne andò, scomparve dietro la porta del bagno.

Tutta l’adrenalina scomparve ed io iniziai a tremare come una foglia mentre a passo incerto mi recavo al piano in cui lavoravo. La prima a vedermi fu Angela che mi chiese cosa fosse successo. La tranquillizzai dicendo che sarei andata a casa prima poiché non mi sentivo bene. Non disse nulla, solo di riposare.

Passarono i giorni e Edward non si fece più sentire, lo vedevo al lavoro, quelle poche volte che veniva, ma non riuscivo mai ad attirare la sua attenzione. Al telefono neanche a parlarne. Era passata più di settimana e non capivo cosa fosse successo.

Pensavo di riuscire a parlargli all’inizio della nuova ma non si fece vedere. Un viaggio di lavoro che sarebbe durato qualche giorno, era stata la telegrafica risposta del signorino, erano le due di notte quando me lo inviò. Non disse altro, nessuna spiegazione del perché aveva ignorato i messaggi e tutto il resto e la cosa mi aveva fatto imbestialire. Il primo istinto era stato quello di mandargli un messaggio molto chiaro al riguardo ma, alla fine, avevo optato per l’indifferenza, più efficace di mille parole.

Ripensavo e ripensavo al nostro ultimo incontro nel bagno e niente mi aiutava a capire che cosa fosse successo.

Mi mancava, e non solo per il sesso, mi mancava il suo tocco, la sua bocca, mi mancava parlare con lui, ridere con lui, scambiarci giudizi su quel film o su quel programma televisivo, insomma mi mancava tutto e i sogni che popolavano le mie notti non aiutavano.

« Bella, ci sei? » la domanda della mia amica mi fece riprendere contatto con la realtà.

« Scusa mi sono distratta. Dimmi ».

« Sono nervosa per la cena con Emmet. Mi piace davvero tanto, non voglio fare figuracce perché spero tanto che funzioni tra noi » confessò con un sorriso innamorato sulle labbra. Emmet McCarty era riuscito nell’impresa impossibile. Aveva fatto sciogliere come un ghiacciolo al sole, la bella quanto algida Rosalie. 

« Sareste davvero una bella coppia » le dissi a cuore aperto. Erano belli insieme e l’allegria di Emmet, il suo carattere estroverso avrebbero giovato alla mia amica.

Ma quella frase, appena pronunciata, aveva fatto scattare qualcosa.

Non è propriamente un luogo romantico per una coppia…

Coppia: una parola, tre sillabe e sei lettere, che mi fecero comprendere quello che avrebbe dovuto essere chiaro da tempo. Avevo definito il mio rapporto con Edward come coppia.

Tutto era scivolato dalle mie mani come sabbia, ero caduta nella rete e l’illusione di essere riuscita a evitare l’irreparabile era caduta.

« Rose sono stata una stupida » mormorai guardando la mia amica disperata. Lo avevo fatto scappare, inconsciamente gli avevo confessato che mi ero innamorata o che comunque ero sulla buona strada.

« Bella? Che vuoi dire? »

Era ovvio che lei non capisse, prima parlavamo del suo primo appuntamento o poi io iniziavo una tragedia.

« Avevi ragione. Me ne sono innamorata e lui l’ha capito. È per questo che m’ignora » mormorai ripensando alle patetiche scuse che propinava quelle poche volte che riuscivo a parlargli.

Rosalie mi abbracciò, il mio viso era poggiato sulla sua spalla, cercava di trasmettermi il suo calore e la sua vicinanza.

« Vuoi che resti? Dico a Emmet di fare un altro giorno… » disse mentre mi accarezzava la schiena.

Mi sentivo rifiutata, gettata via come carta usata che non poteva più essere riciclata e per quanto avessi bisogno di parlare con qualcuno e passare la serata in compagnia non avrei permesso alla mia amica di rovinarsi la serata con il ragazzo che amava. Lei che lo aveva.

Feci un respiro profondo e ripresi il controllo di me stessa. Ero una donna matura che affrontava le avversità a testa alta, non era più la ragazzina vittima del acne che si rintanava a casa a ogni delusione amorosa, per quelle poche che avevo avuto.

« No, ho solo bisogno della mia vaschetta di cioccolato » mormorai alzandomi dal divano e correndo in cucina a recuperare il gelato.  

« Che me faccio di Edward Masen se ho Ben e Jerry*? » dissi tra me e me recuperando la vaschetta dal frizer.

Come chiamata la mia gatta fece la sua comparsa in cucina proprio quando recuperando i cucchiai. Presi anche una tazzina e tornai in salotto.

Avevo bisogno di affetto e tenerezza e in mancanza di un uomo la cioccolata era il miglior rimedio, come afferma anche Renée Zellweger in “Abbasso l’amore”.

 

 

Film che in quel momento mi sarebbe stato molto utile per capire come una donna potesse fare sesso senza sentimenti, proprio come gli uomini. Per mia fortuna faceva parte della filmologia che avevo in casa. Lo recuperai sotto lo sguardo incuriosito di Rose, lo inserì nel lettore e ripresi posto accanto alla mia amica.

Come sottofondo i miagolii di disapprovazione della gatta che elegantemente si sedette tra me e Rose anche se non la smetteva di far volare le sue zampette verso al ciotola.

Misi qualche cucchiaio nella ciotola e la sistemai davanti alla gatta che tra mille fusa si mise a leccare con ingordigia il contenuto.

« Mi fai compagnia mentre aspetti Emmet? » gli chiesi porgendole un cucchiaio.

« Non devi nemmeno chiederlo, Bella. Sicura che non ne vuoi parlare? » tentò lei accettando la posata.

« No, voglio vedere il film. Spiega come fare sesso senza sentimenti. Al momento ne ho molto bisogno ».

Scosse la testa e rimase in silenzio, aveva capito che quando m’impuntavo su qualcosa non mi smuovevo più. Bisognava prendermi in un momento di calma quando potevo ragionare.

 

« L’amore è una distrazione ».

« Ma se le donne dovessero smettere di innamorarsi sarebbe la fine della razza umana ».

« Niente affatto ho detto che le donne devono astenersi dall’amore e non dal sesso ».

 

« Ben detto Barbara, vedi lei ha capito tutto dalla vita » dissi rivolta alla mia amica che mangiava il suo gelato senza dire nulla. Anche se le accuse le leggevo tutte nei suoi occhi.

Te la sei andata a cercare, sembrava urlarmi.

 

« Perché non sono la medesima cosa? »

 

« Visto? L’uomo ragiona solo con la protuberanza che ha tra le gambe e basta ».

Rosalie alzò gli occhi al cielo mentre mangiava il suo gelato.

Intanto il film andava avanti, la protagonista stava spiegando il suo metodo a tre livelli per arrivare a comportarsi come gli uomini. Spiegando la sua soluzione.

« La cioccolata » dissi sovrastando la voce della protagonista « è la chiave di tutto ».

La cioccolata provocava le stesse reazioni che si provavano nell’atto sessuale. Nessun problema, mangi, godi e sei felice, in pace con il mondo.

« Bella non fare di un erba un fascio. Tu ti sei cacciata in questo guaio » disse con voce seria.

Mi sembrava strano che non avesse ancora detto quello che pensava. Come potevo darle torto? Aveva ragione da vendere.

Io mi ero cacciata in quella situazione, lei mi conosceva bene e sapeva che prima o poi per me la cosa sarebbe evoluta.

Abbassai lo sguardo per la veridicità delle sue parole.

« Sì, ma il pensare che lui mi abbia in qualche modo circuito mi fa sentire meglio » le risposi facendola sorridere.

« Bella, parla con lui, Masen sembra una preda braccata dal cacciatore quando è in ufficio ».

La guardai stranita. A me non sembrava impaurito.

« Forse anche per lui è lo stesso, forse anche lui si è accorto di aver superato un certo punto e di averne paura ».

« Sai, » iniziai per poi mangiare un po' di gelato « tu hai sbagliato lavoro » e la indicai con il cucchiaio sporco « dovevi fare la psicologa ». 

Rose ridacchiò e mi spintonò, cosa che non fu molto gradita da Coca-Cola che soffiò infastidita.

« Comunque non credo proprio che lui sia impaurito » dissi senza distogliere lo sguardo dallo schermo. Era come in quel film di qualche anno prima, “La verità è che non gli piaci abbastanza” dove nelle scene iniziali, le amiche cercavano di rassicurare la protagonista con quello che lei voleva sentirsi dire.

Sentì Rosalie accarezzarmi il braccio. Ricambiai con un piccolo sorriso, contenta di avere un’amica come lei.

Guardammo il resto del film con i miei commenti di sottofondo, la mia amica sopportò i miei scatti in silenzio fino alla fine e solo verso le diedi di sera si congedò per raggiungere Emmet.

« Bella, non avrai intenzione di continuare se si dovesse ripresentare alla tua porta, vero? » mi chiese prima di uscire.

« No, parlerò prima con lui e se per lui non c’è nulla chiuderò la faccenda e andrò oltre » le dissi e lei più rassicurata se ne andò.

 

Sarei riuscita mantenere la mia promessa? Ne ero innamorata e si sa, quando si ama, spesso e volentieri, una donna mette l’orgoglio sotto i piedi.  Se fosse capitato a me, avrei resistito… è così che dicevo sempre quando sentivo le mie amiche parlare dei loro problemi o quando nei film la donna cedeva, appena l’uomo tornava.

Se fosse capitato a me, avrei resistito… già ma ora che mi trovavo in quella situazione non ne ero poi tanto sicura. Fortunatamente avevo ancora tutta la domenica e il lunedì per organizzare un piano di azione che mi avrebbe fatto uscire da quella situazione.

« Bene, Coca-Cola, siamo rimaste tu ed io ».

Alla la gatta non sembrava interessare, l’attirava di più la vaschetta di gelato da cui stava mangiando. Aveva fatto cadere la vaschetta che avevo poggiato sul tavolino ed vi si era infilata dentro nel tentativo di leccare il contenuto rimasto sul fondo.

Sembrava una di quelle foto buffe che si trovavano su internet con gatti o cani in situazioni strane.

« Sei un disastro » borbottai.

Raggiunsi il tavolino e recuperai la vaschetta e per poco non scoppiai a ridere svegliando tutto il piano. Coca-Cola era completamente ricoperta di gelato fino alla pancia.  La presi in braccio e la portai al lavandino dove, con l’aiuto di uno straccio cercai di ripulirla.

Avevo appena finito quando il suono del campanello mi fece sobbalzare guadagnando così un graffio sulla mano da parte di Coca cola che spaventata dal mio gesto improvviso era fiondata in bagno a nascondersi.

« Chi è? » dissi cercando di darmi un tono sicuro e vagamente intimidatorio.

In quel momento mi maledì per aver rifiutato la proposta di comprare una porta con lo spioncino, ma ero giovane e ingenua quando ero arrivata a Chicago e a Forks non ne avevamo mai avuto bisogno di certi mezzi per proteggerci da eventuali malfattori.

« Sono Edward » mi rilassai all’istante ma durò solo un momento perché fui presa dal panico. Che dovevo fare? Potrei fare finta di nulla e non aprire… ma ormai avevo parlato e sapeva che ero sveglia.

« Bella? » mi richiamò preoccupato non vedendo aprire la porta.

« Sì! » e quasi lo urlai « aspetta un momento non sono presentabile » esclamai raggiungendo la camera da letto dove recuperai una leggera vestaglia a chimono, che mi copriva fino a metà coscia, e poi gli aprì senza avere la minima idea di come mi sarei dovuta comportare.

Forse l’indifferenza sarebbe stata la mossa migliore, comportarmi come quando non sapevo nemmeno cosa provavo.

« Ehi, straniero sei tornato? » e mi stampai un gran sorriso in faccia. Edward invece tentennò, sembrava quasi imbarazzato, erano poche le volte che lo avevo visto in quello stato. Era una parte di se che non mostrava mai a nessuno e che lo faceva assomigliare a un bambino bisognoso di coccole.

Tutta la rabbia scemò nel nulla e rimase solo il desiderio di abbracciarlo come se fossi stata la fidanzata di un marinaio che dopo mesi vedeva il suo uomo tonare a casa.

L’amore è una distrazione diceva Barbara nel film e in quel momento le stavo dando pienamente ragione. Non m’importava che fosse sparito per una settimana senza farsi sentire e nemmeno che quella prima mi aveva quasi ignorato e non m’importava che forse non provava quello che sentivo io, che per lui nulla era cambiato da quando avevamo iniziato. L’amore mi stava dicendo di cancellare con una spugna tutto quello che era successo.

Edward non rispose subito, troppo concentrato a sottopormi a un esame a raggi X. Lo vidi deglutire e dentro di me gongolai per l’effetto che gli facevo nonostante tutto. Avrei potuto giocare con lui, fargli veder quello che si era perso. Finalmente alzò lo sguardo fissandolo nel mio ma non era quello che mi aspettavo.

« E tu così saresti presentabile? » disse con sguardo torvo. Sobbalzai per la sua domanda inattesa. « Che facevi se non ero io? » continuò. Adesso avanzava diritti che non aveva?

« Primo ti sei annunciato, quindi sapevo benissimo che eri tu e secondo non sono la tua fidanzata su cui puoi far valere i tuoi diritti » obbiettai. Edward strinse la mascella e chinò il capo.

« È vero » soffiò rialzando lo sguardo, come se il fatto che io non fossi la sua ragazza lo infastidisse molto.

« Soprattutto dopo essere sparito per una settimana » terminai accompagnando il tutto con uno sguardo torvo.

Lui addolcì lo sguardo tanto da sembrare imbarazzato e continuò « scusa se non mi sono fatto sentire per un po' ma avevo delle cose da fare » rispose e sembrava davvero dispiaciuto. Sorrisi e alzai le spalle in segno di non curanza.

« Non preoccuparti, non devi giustificarti » invece si che doveva, obbiettai nella mia mente.

Aveva visto qualcun’altra? Se la era portata a letto? Nello stesso letto dove lo avevamo fatto più di una volta o nella vasca?

« Entra » gli dissi facendo spazio per lasciarlo passare. Entrò e si guardò attorno come se fosse la prima volta.

« Senza di me questo posto è peggio di un porcile. Sei la solita casinista » disse guardandomi con un sorriso furbo. Gonfiai le guance, indispettita. Non si faceva sentire e poi appariva dal nulla e criticava il mio modo di tenere la casa. Forse c’erano troppe felpe, stracci, libri e riviste sparsi un po' ovunque, ma a me piaceva così. Era un appartamento vivo.

« Sei tu che sei un perfettivo maniaco dell’ordine ».

Ed era vero, quando veniva a casa mia negli ultimi tempi, si era messo a riordinarla. Alla mattina quando mi svegliavo trovavo il salotto ripulito dalle schifezze che avevo  lasciato in giro. Nemmeno una macchia di grasso sul lavandino. 

« Beh… ma tu sei un tornado, guarda qua… » mormorò recuperando un paio di ballerine nascoste sotto una delle poltrone del salotto.

« Senti io nel caos trovo il mio ordine, va bene? Quindi tieni i tuoi commenti per te » ed ero davvero arrabbiata, mi sembrava di sentire mia madre quando entrava nella mia stanza. Edward in risposta rise e scosse la testa. Solo lui ci trovava qualcosa di divertente.

Aprì la finestra che dava sul terrazzo e lasciò le scarpe fuori, poi la richiuse.

« Lo so, per questo sei la mia casinista preferita » disse con una sincerità disarmante che mi lasciò ferma davanti alla porta ancora aperta a boccheggiare.

Imbarazzata, gli diedi le spalle e la chiusi, un gesto che compì con lentezza, per darmi il tempo di ordinare le idee.

« Sai sono stato a Forks » disse di punto in bianco. Che ci era andato a fare? « I miei nonni materni vivevano lì e mi hanno lasciato la loro casa. Ogni estate passavo un mese da loro ».

« Anche io sono di Forks ».

« Lo so ».

« Non ti ho mai visto » mormorai mentre dimezzavo la distanza tra di noi e con un gesto della mano li indicai di accomodarsi. Edward si sfilò la giacca con un gesto fluido, deglutì quando vidi i suoi muscoli dell’addome tendersi.

« Se per questo nemmeno io » rispose, « li raggiungevo a luglio ». Si sedette proprio dove poco prima c’ero io.

« Io andavo da mia madre a Jacksonville nello stesso periodo » confessai.

« Peccato, mi sarebbe piaciuto conoscere la Bella adolescente ».

Mi accomodai stringendo le gambe al petto e poggiano la testa sulle ginocchia.

« Non ti sei perso nulla. Non sono cambiata molto » bugia, ma non potevo dirgli la verità « ma chi sono i tuoi nonni? Magari li conosco, anzi certamente li conosco. A Forks tutti sanno tutto di tutti ».

Ero arrabbiata con lui visto che si era presentato di notte dopo una settimana di silenzio e propinandomi una scusa che alla fine non lo era, ma ero una persona civile e avrei rispettato le regole della cortesia.

« Carlisle Cullen e Esme Platt ».

« Il Dottor Cullen? » chiesi conferma, anche se di Cullen c’era solo lui e, infatti, Edward annuì « Non sai quante volte mi abbia ricucito dalle mie cadute ».

« Era davvero bravo » disse con tono triste.

« Mi spiace per la sua morte. Era davvero una brava persona » mormorai con un sorriso amaro. Il Dottor Cullen era morto quando frequentavo il secondo anno di College, ero in piena sessione esami e non ero riuscita a tornare a casa a dargli l'ultimo saluto. Esme, povera donna lo aveva seguito un anno dopo. Non potevano stare separati.

« Anche a me è per lui che ho iniziato a suonare il piano, lo adorava » mi disse guardando fuori dalla finestra dove le luci dei lampioni illuminavano creando un gioco di luci ed ombre sugli edifici e gli alberi che costeggiavano il viale. Però il suo sguardo non guardava nulla di tutto ciò, Edward era perso nei ricordi dal retrogusto amaro.

Mi battei una mano sulla fronte stizzita « Che pessima padrona di casa non ti ho chiesto se vuoi qualcosa da bere. Acqua, caffè, birra…? »

« Della birra va benissimo » disse e si passò una mano sul viso con fare stanco. Recuperai la birra per me e per lui e tornai in salotto. Mi ringraziò e dopo averne bevuto un sorso, lanciò la bomba.

« E ho conosciuto tuo padre ».

« Cosa! »

« Un po’ burbero ma simpatico » se avesse saputo cosa faceva con sua piccola non sarebbe stato molto cordiale.

« E spiegami, come hai fatto a incontrarlo? Ti sei fatto arrestare? »

« Se te lo dico perderei tutto il mio mistero » ammiccò. « Mi hanno anche raccontato qualche aneddoto sulla tua infanzia e adolescenza » e per poco non mi strozzai alla sua affermazione. Lo guardai letteralmente terrorizzata, da piccola ero un peperino che non stava mai fermo e ne avevo combinate di cotte e di crude.

« Non è vero, papà parla con il primo estraneo che incontra » dissi assottigliando lo sguardo, certa che fosse una burla.

« È vero, ma come hai detto tu a Forks tutti sanno tutto di tutti ».

« Spara, che ti hanno detto? »

Il signorino prese tempo come a voler creare l’atmosfera e, in effetti, non stavo più nella pelle per sapere che cose gli avevano raccontato le male lingue di Forks.

« Primo, non sapevo fossi una piromane bruciare i capelli di Billy con la candela o allagare il bagno perché volevi fare una piscina per fare i tuffi visto che non potevi uscire per la neve ».

« Avevo nove anni quando l'ho incendiato ed è stato un incidente e per la piscina ne avevo quattro. Chi te l’ha detto? »

« Il tuo amico Mike New… qualcosa  ».

M’infiammai a quella rivelazione, quel piccolo traditore del mio migliore amico, voltagabbana, Giuda, e probabilmente sarei potuta andare avanti con insulti ben peggiori se un’altra coltellata alle spalle da parte del mio amico assente ma più che mai presente in quel momento.

« E ne avevi quindici quando al campeggio con la scuola hai inserito la spina del ferro da stiro  nel generatore togliendo la corrente a tutti o alla riserva... ».

« Okay, basta » dissi saltandogli letteralmente addosso e iniziando a fargli il solletico.

« No, Bella fermati » cercò di implorarmi quando riusciva a recuperare abbastanza fiato.

« Ve la siete cercata Signor Masen ».

« Bella, dovrò punirti » ritentò cercando di liberarsi di me, solo che io quando volevo ero peggio di un koala, di una scimmietta o dell'edera, ero meglio del super attak.

« Bene, l'hai voluto » disse per poi abbracciarmi e alzandosi di scatto dal divano, obbligandomi in quel modo a desistere dalla mia vendetta e aggrapparmi a lui con tutte le forze per non cadere.

« Mettimi giù, subito » gracchiai dimenandomi. « Aiah… » mi lamentai quando Edward mi lasciò un pizzicotto sulle natiche.

« No, ti avevo avvisata. Ora sarai punita » disse con tono che doveva essere fermo ma che non nascondeva una nota di divertimento.

Io non soffrivo il solletico, se non in un punto e lui lo aveva scoperto.

Mi buttò sul letto e mi prese i piedi intrappolandoli tra il braccio e il fianco e iniziò a farmi il solletico sulla pianta dei piedi.

Le preghiere non erano servite a nulla.

« O… o mamma » ansimai quando finalmente mi lasciò libera. Sentivo le guance accaldate che mi dolevano per le troppe risate, così come la pancia.

« Così la prossima volta impari » disse anche lui con il fiato corto. Si alzò dal letto e mi guardò con le mani sui fianchi. Un sorriso divertito e sincero sulle labbra e gli occhi lucidi. In quel momento il desiderio di averlo vicino era forte.

L’amore è una distrazione, dannatamente vero ma una bellissima distrazione.

Allargai le gambe e il suo sorriso prese una sfumatura maliziosa. Lo ignorai e stesi le braccia, invitandolo a venire da me. Lentamente appoggio il ginocchio sul materasso che si piegò sotto il peso. Poggiò le mani ai lati del mio busto e si chinò su di me fino a far scontrare che nostre labbra in un bacio lento, umido e delicato. Le mie mani corsero al suo viso, lo accarezzai, la fronte, gli zigomi, il mento per poi scendere sul collo fino ai suoi capelli, morbidi e setosi proprio come li ricordavo.

« Bella » soffiò sulle mie labbra per poi sfiorare con le sue il mento e il collo fino a scendere suoi miei seni, per quello che la canotta permetteva.

« Mi sei mancata da matti » disse mentre ripercorreva il percorso in salita. Con una mano nel frattempo scioglieva il nodo della vestaglia e lasciava che la sua mano malandrina s’intrufolasse sotto la canotta.

Io respiravo a fatica preda dei brividi e sensazioni che mi trasmetteva. Avrebbe potuto fare quello che più lo aggradava ed io non avrei mosso un dito per fermarlo.

« Non ti sono mancato? »

« Molto » riuscì a dire poco prima che il suo bacino si scontrasse con il mio ed io venivo pervasa dal desiderio di lui. Annullai tutto, tranne lui e la necessità di sentirlo in me.

In quel momento non m’importava che lui avesse fatto lo stronzo, che non si era fatto sentire e che dovessi essere arrabbiata con lui.

Liberai i bottoni dalle loro prigioni e presto tutti i vestiti superflui furono scaraventati a terra per la sua ilarità. La sua mania di ordine era ben presente anche in quei momenti. Sistemava i vestiti sulla sedia e poi mi raggiungeva a letto, se all’inizio ero rimasta allibita poi l’avevo presa sul ridere e spesso e volentieri lo canzonavo. Poi, certo, lui sapeva come azzittirmi proprio come in quel momento…

 



* Ben e Jerry è la marca di gelato più famosa in America, tra poco arriverà anche in Italia.




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Eccomi! Scusate il ritardo ma quando sono tornata mamma stava guardando Hachiko, è finito ora, e non potevo ignorarlo^^ è un bellissimo film se non lo avete visto ve lo consiglio. Allora questo doveva essere l'ultimo come avevo detto ma rileggendo mi sono accorta che erano 20 pagine e passa e ho deciso di dividerlo. L'ho detto sulla pagina FB ma per chi non mi segue lì lo scrivo anche qui.
Per il capitolo vi lascio ancora una volta a bocca asciutta ma nel prossimo mi faccio perdonare : )
Grazie 1000 alle 12 ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo, *O* mai ricevute così tante, e tutti quelli che hanno messo tra le seguite, preferite e ricordate la storia e anche quelli che leggono silenziosamente.

p.s: perdonate eventuali errori perchè ho avuto poco tempo per correggere e sitemare. 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Hola! Eccomi come promesso a postare l'ultimo capitolo^^ Chiedo perdono per eventuali errori ma non ho avuto molto tempo per correggere.
Buona lettura e ci vediamo sotto.





4 parte

 La musica è la tua propria esperienza, i tuoi pensieri, la tua saggezza. Se non la vivi, non verrà mai fuori dal tuo strumento.

( Parker Charlie )






L’orologio segnava le dieci del mattino e Edward dormiva tranquillamente a pancia in giù nel mio letto, completamente ignaro del fatto che Coca-Cola fosse placidamente appollaiata sulla sua schiena. La mia gatta non aveva preso bene quell’intrusione, quando si era vista rubare il posto nel mio letto la prima volta lo aveva graffiato sulla guancia e le sue imprecazioni non avevano minimamente scosso Coca-Cola che al contrario si era messa a leccarsi le zampe dopo aver ripreso possesso del suo cuscino. Avevamo dormito solo nel mio lato, dividendo il cuscino, anche se io ero comodamente sistemata sul suo petto. Da quella volta, Edward aveva iniziato a chiudere la porta lasciando la gatta fuori.

 

 

Stavo finendo di montare la panna quando due braccia forti mi cinsero la vita e un paio di labbra mi lasciarono un bacio leggero sulla spalla scoperta.

« Buon giorno, dormiglione » dissi girando solo il viso. Edward aveva gli occhi semiaperti e lo sguardo trasognato di chi si era appena alzato dal letto. Sorrise e mi lasciò un bacio leggero sulle labbra.

« Giorno » biascicò con voce impastata « Che combini? » mi chiese per poi puntare lo sguardo sulla ciotola davanti a me.

« Pancake » e indicai la torretta di frittelle vicino ai fornelli « con panna e fragole o sciroppo d’acero se preferisci… »

« Mmm… ho già l’acquolina in bocca ».

« Ma mica sono per te » dissi usando un tono serio e fuggendo dalla sua presa con la ciotola di panna in mano. In un primo momento mi guardò spaesato e fece correre lo sguardo per il salotto cercando l’ospite misterioso. Intanto io ero arrivata dall’altra parte del tavolo e lo guardavo divertita. Divertimento che scomparve per essere sostituito da uno sguardo tutt’altro che innocente.

Indossava solo i boxer dandomi così una perfetta visuale del suo torace ampio con una leggera peluria rossiccia che scendeva fino all’inguine sparendo dietro l’elastico delle mutande, le mani correvano tra i suoi capelli tirandoli indietro e mettendo in bella mostra le braccia toniche, i muscoli gonfi in tensioni.

Una dolce tortura per i miei ormoni.

Ebbi il tempo di alzare lo sguardo e togliermi l’espressione da depravata che certamente aveva preso possesso del mio viso e riacquistare un minimo di contegno prima che Edward si girasse per puntare i suoi occhi su di me. Sorrideva sornione.

« Ah sì, e per chi sarebbero? » chiese reggendomi il gioco.

« Beh… » iniziai mentre poggiai il contenitore sul tavolo e ci versassi dentro le fragole tagliate a pezzetti « per un ragazzo che qualche volta si presenta a casa mia di sera e con cui faccio del fantastico sesso ».

« Sesso fantastico? » mi chiede con tono malizioso. Io annuisco e per provocarlo ancora di più sensualmente, o meglio cercando di esserlo, porto il cucchiaio sporco di panna alla bocca per pulirlo.

Sorrise, consapevole che lo stavo spudoratamente provocando e la cosa sembrava piacergli perché continuò. « E chi sarebbe, no perché io sono sempre stato di la nel letto con te ».

« Tu, io sono venuta di qua e lo abbiamo fatto selvaggiamente sul piano dietro di te. È più eccitante con la finestra ».

Edward lanciò un’occhiata interessata dietro di se, prima di tornare a guardare me.

« Con la finestra? » chiese usando un tono basso e molto roco. Annuì riempiendo un altro cucchiaio e portandolo alla bocca.

Era un gioco che mi piaceva molto e non avevo nessuna intenzione di interrompere. Edward aggirò il tavolo senza rompere il nostro gioco di sguardi. I suoi lampeggiavano e può sembrare patetico e da romanzetto rosa da quattro soldi, ma in quel momento i suoi occhi sembravano un mare in tempesta.

« Sai il brivido di essere visti da qualcuno e denunciati per atti osceni ».

« E questa sarebbe una tua fantasia? » domandò quando ormai era un passo da me.

« Che fantasia, l’abbiamo fatto davvero! » obbiettai, fintamente indignata, prendendo un po' di panna con un dito e sporcandogli il naso e la bocca. Spalancò gli occhi sorpreso ma presto una luce quasi diabolica li attraversò come un lampo.

« Questo non dovevi farlo » disse prima di avventarsi su di me, coinvolgendomi in un bacio che sapeva di panna, fragole e lui.

Mi sollevò obbligandomi a cingere i suoi fianchi con le gambe.

« Adesso vediamo chi è più bravo » mormorò avviandosi verso il piano cucina su cui si affacciava la finestra.

Mi poggiò sopra e subito la mia pelle si riempì di brividi per il contatto freddo con la superficie ma subito sono sostituiti da quelli dovuti all’eccitazione e al desiderio che provocava la situazione.

« Edward, no, se ci vedessero »

La mia era una flebile protesta, al mio corpo non interessava che qualcuno ci vedesse. Uno strappo mi fece interrompere il nostro bacio, lui alzò le spalle, come se fosse stato normale strapparmi le mutandine. Un calore al basso ventre mi diceva che lo volevo da morire, la pelle bruciava contro la sua e ogni suo tocco corrispondeva a un mio tremito ma nonostante l’eccitazione, la mia mente ancora lucida mi urlava di darmi un contegno. Solo quando diventammo una cosa sola, tutte le reticenze uscirono dalla mia bocca assieme a un grido di sorpresa.

« Al diavolo tutto gli altri » mormorai e sorrisi prima di avventarmi su di lui. Anche la mia mente aveva ceduto.

Che guardino pure, mi dissi prima di eliminare tutto il mondo tranne l’uomo che mi stava amando con passione e seguendo solo l’istinto. C’era stata poca delicatezza e tenerezza a differenza della sera prima ma mi era piaciuto così tanto che quando ci fermammo ansanti e sudati avrei voluto ricominciare subito.

« Allora, questo tizio può reggere il confronto con me? » annaspò sorridendo in modo provocatorio. Mi strinse con forza contro il suo petto ed io gli cinsi il collo con le braccia.

« Nemmeno tra un milione di anni » risposi sapendo di spedire il suo ego fino ai confini dell’universo. Mi baciò ancora, con le labbra tese in un sorriso, vero, luminoso come poche volte gli avevo visto.

Nella mia mente si ripeteva una sola parola, o meglio due, “era geloso” e la cosa mi fece gongolare di felicità. Rose non avrebbe urlato come una matta per esserci ricascata e l’idea di non aver sbagliato a farlo entrare nel mio letto si faceva sempre più forte.

« Oh c’è una signora che ci guarda scioccata » esordì e io impaurita lanciai uno sguardo alle mie spalle. Sulla terrazza del palazzo opposto al mio, una signora di mia conoscenza che stava stendendo i panni e ci guardava paonazza.

« Oddio la Signora Morgan. Spostati, andiamo via da qui. Dio che imbarazzo, ma che ti è saltato in mente? » io ero nel panico e lui rideva come un matto. Lo schiaffeggia sul petto ma questo non fece altro che aumentare la sua ilarità. « Non c’è nulla da ridere ».

Perché non avevo reagito con più forza? Non avrei più il coraggio di guardarla in faccia quando l‘avrei salutata la mattina passando davanti alla sua panchina.

« Perché? » chiese lui serafico « Ha imparato qualcosa, solo perché non è più nel fiore degli anni, non vuol dire che non si possa divertire ».

« Edward! » gracchiai colpendola sulla spalla, tuttavia mi unì alla sua ilarità.

Lui sghignazzò e con me ancora ancorata ai suoi fianchi, raggiunse la camera da letto, mentre mi rigiravo tra le mani le mie mutandine, o meglio quelle che erano delle mutandine, con fare sconsolato visto che erano le mie preferite.

« Suvvia te ne comprerò altre uguali a quelle » disse quando si rese conto che il mio broncio era dovuto al piccolo intimo

« Erano un regalo delle ragazze » il mio tono sembrava quello di una ragazzina che non aveva ottenuto il regalo che voleva.

Arrivò al letto e lentamente si chinò per farmi sdraiare, Edward rimane sopra di me e poggiò i gomiti ai lati del mio corpo per non pesarmi e mi guardò con un piccolo sorriso sulle labbra che ricambiai felice. Senza guardare lancia il pezzo di stoffa a terra.

Si lasciò scivolare al mio fianco ed io che sentì la mancanza del contatto col suo corpo, mi girai a pancia in giù e gli cinsi la vita con un braccio poggiando la testa sul suo petto.

Edward, ci coprì con il lenzuolo e iniziò ad accarezzarmi la schiena.

« Se stai tentando di farti perdonare, sappi che ci stai riuscendo alla grande » mormorai e il suo petto fu scosso dalle risa.

« Perdonare? Credevo che ti fosse piaciuto, a meno che non abbia frainteso i tuoi gridolini e tutto il resto ».

« Si ma abbiamo fatto un film porno davanti a un adorabile vecchietta ottantenne… ci poteva rimanere secca ».

« O per favore non era un porno il nostro… »

« Certo perché tu sei un esperto ».

« Confesso di aver visto la mia dose di porno durante la fase adolescenziale come ogni adolescente che si rispetti dopotutto e poi quella signora Morgan ha solo da imparare da noi ».

« Questo è vero… » concordai. Ormai le sue carezze stavano avendo effetto e non riuscivo a rimanere arrabbiata dopo la sua scenetta. Un miagolio ci distrasse dal nostro teatrino. Coca- Cola fece il suo ingresso a passo felpato, saltando sul letto e piazzandosi tra di noi, dopo essersi strusciata su me e Edward, in attesa di coccole.

Si sistemò meglio sul letto alzandosi leggermente tanto da permettermi di abbracciarmi ed io mi ritrovai con il capo poggiato sulla sua spalla. Coca-Cola non perse tempo e si sistemò sul grembo di Edward pronta a godersi una buona dose di coccole.

« Sai, stavo pensando a quel cantante che mi avevi proposto e che avevo rifiutato per l’attricetta di James » disse di punto in bianco mentre accarezzava la gattina. Lo stavo facendo anch’io ma mi fermai alla sua affermazione.

Emisi un verso di disgusto al ricordo di quel giorno, ancora non avevo digerito la faccenda.

« Tu si che sai come rovinare un momento » lo canzonai per poi riprendere a coccolare la gatta. Mi strinse più a se e posò il capo sulla mia testa e potei percepire le sue labbra che si distendevano in un sorriso.

« L’ho contattato » disse a bruciapelo.

« D…davvero? » chiesi scostandomi da lui per osservarlo in viso. Era serio, quindi il suo non era uno scherzo. La speranza iniziò ad annidarsi nel mio cuore.

« Sì, ieri mi è arrivato il demo di una sua nuova canzone. È molto bella » continuò.

« Hai detto anche questo a tuo padre? »

Mi girai a pancia in sotto e sistemai le braccia sotto il mio petto e reggendomi sui gomiti gli prestai la mia totale attenzione. A nominare il genitore, il suo viso si rabbuiò e lasciò cadere la testa sul cuscino.

Era il primo segno di una brutta notizia…

Con il braccio mi strinse più a se e la sua mano non smise mai di accarezzarmi la pelle, come se cercasse qualcosa dentro di me che potesse dargli forza.

« Sì, » e sospirò pesantemente, senza guardarmi negli occhi, « non ne vuole sapere » e la sua risposta buttò il mio morale a terra.

Era amareggiato, proprio come me, non riuscivo a capire che cosa passasse per la testa di Edward Senior Masen. L’unica cosa che sembrava comprendere erano i soldi, i soldi e ancora i soldi. Io non potevo accettarlo e Edward, che, dopo anni in cui lo aveva assecondato, aveva iniziato a ricredere nella musica vera iniziava a ridar voce alle sue idee.

Poi parve rianimarsi, mi rivolse uno sguardo fiducioso e mi accarezzò una guancia.

« Così l’ho mandato a un mio amico. Recentemente ha messo in piedi una nuova casa discografica e sta cercando talenti. Dopo averlo ascoltato, ne era entusiasta e gli ho anche parlato di te, vuole incontrarci e chissà magari ti proporrà di lavorare per lui ».

« Ti vuoi liberare di me? » dissi con un tono divertito ma con il cuore che iniziava a sanguinare. Che avevamo fatto ieri sera e prima? Un sesso d’addio?

In ogni caso non avevo intenzione di mostrargli quanto la cosa mi ferisse, ero sicura che prima fosse geloso e gelosia è sinonimo d’interesse. Non dovevo arrivare a conclusioni affrettate.

Edward si raddrizzò facendo scappare la gatta ai piedi del letto, di cui in quel momento m’importava ben poco, e prese il mio viso tra le mani ghiacciandomi con uno dei suoi sguardi magnetici e ipnotici che neanche a volerlo potevi evitare.

« No, certo che no, ma puoi avere la tua occasione. Vuoi essere l’assistente dell’assistente per sempre? Questa è un’occasione più unica che rara e alla C-Major non potresti averla » disse amaramente. Sembrava aver letto dietro il mio falso sarcasmo, nemmeno le ragazze avevano ancora imparato a capirmi così bene. 

Circondai il suo collo con le braccia e lo obbligai ad abbassarsi su di me e lo baciai. Il nostro momento fu interrotto dal rumore stridente del suo cellulare.

« Dovresti cambiare suoneria, davvero » borbottai allontanandomi di mala voglia. Lui ridacchiò e usci dal letto per recuperare la sua giacca in salotto. Non si premurò di rivestirsi, andò in giro come mamma lo aveva fatto e non potei non sorridere a quell’intimità creatasi tra noi. Niente imbarazzo o disagio.

« Ehi… Aro, stavo giusto pensando a te » esclamò la sua voce allegra.

Incuriosita, mi alzai anch’io ma non usci nemmeno dalla stanza che Edward era già davanti a me con il telefonino all’orecchio e sghignazzava per qualche battuta fatta dal suo interlocutore.

« No mi spiace Aro… per quella questione del demo ne ho parlato con Bella… » assottigliai lo sguardo quando mi chiamò in causa « Sì, a pranzo, oggi? Vederci oggi a pranzo? » e la domanda era rivolta a me. Annuì e feci per recuperare qualcosa per fare una doccia, per iniziare a prepararmi, ma il braccio forte e caldo di Edward mi bloccò per la vita schiacciandomi contro di lui.

Dalla cornetta del telefono sentivo la voce squillante e allegra dell’uomo. Era la mia occasione? Edward ne era più che convinto ma per quando avessi voluto condividere il suo entusiasmo quattro anni passati a lavorare nella sua casa discografica mi avevano aperto gli occhi sul mondo della musica di oggi, strappando quel velo idilliaco con cui avevo coperto quel mondo durante la mia adolescenza. Quello non voleva dire che mi sarei fatta sfuggire l'occasione.

« A mezzogiorno è perfetto. Allora ci vediamo al Brighort. A dopo Aro e salutami tua moglie » aspettò la sua risposta e riattaccò.

« Bene, a pranzo incontreremo Aro, quello della Volturi. Contenta? » chiese vicino al mio orecchio.

« Sì, un po' nervosa » dissi.

« Non devi, Aro è una magnifica persona. Ora andiamo a farci una doccia » e detto ciò mi sospinse verso il bagno senza che io riuscissi a opporre alcuna resistenza.

« Rilassati, Bella » mi disse per quella che doveva essere la millesima volta da quando eravamo saliti in macchina per raggiungere il ristorante.

« Non ci riesco, okay? » risposi continuando a torturare le mie povere dita. Come aveva detto prima, alla C-Major non avrei avuto la mia occasione ed io volevo a tutti costi averne una, dimostrare quello che sapevo fare ma la mia determinazione non aveva impedito all’ansia di fare capolino della mia mente aprendomi scenari per me disastrosi.

Edward fermò la macchina davanti all'ingresso di un Club, uno tra i più prestigiosi della città e lasciò le chiavi a uno dei convergé, e entrammo. Lui era fresco come una rosa, tranquillo mentre io ero tutto l'opposto, sudore freddo scivolava lungo la mia fronte, mani ghiacciate e appiccicose. Al mio fianco percepivo il divertimento del mio accompagnatore e la cosa non faceva che irritarmi maggiormente.

Quando entrammo nella grande sala da pranzo, iniziai  a stirarmi il vestito nervosamente per eliminare possibili difetti e a prendere profondi respiri per calmarmi.

Sentì la mano del mio accompagnatore poggiarsi sulla mia schiena, in un certo senso mi rilassai a quel contatto - averlo a fianco mi dava una certa sicurezza -, si chinò verso il mio orecchio e automaticamente inclinai il capo verso di lui

« Tranquilla, sei bellissima e preparata. Non si farà sfuggire una come te » e mentre lo diceva, eravamo arrivati al tavolo, dove un signore distinto, dai capelli neri come gli occhi, un viso magro e appuntito, aspettava leggendo con attenzione il Chicago Tribute.

« Aro » lo salutò Edward. L’uomo alzò lo sguardo e sorrise affabile quando incrociò le nostre figure. Chiuse il giornale sistemandolo al suo fianco e si alzò venendoci in contro.

« Ragazzo mio che piacere vederti » e chiuse il mio accompagnatore in una stretta calorosa, accompagnato da diverse pacche sulla spalla.

« E questa deve essere Isabella » continuò dopo aver sciolto l’abbraccio. Prese la mia mano ed eseguì un perfetto baciamano. « Piacere di conoscervi ».

« Il piacere è mio Signor Volturi ».

« Oh, dammi del tu e chiamami Aro. Posso chiamarti Isabella? » mi chiese mentre mi scostava una sedia per farmi accomodare.

« Mi chiami pure Bella, tutti mi chiamano così ».

« Nome non fu mai più che azzeccato » disse con un’occhiata maliziosa a Edward che asserì con il capo. Lo scambio di battute non fece altro che imbarazzarmi ma ebbe anche l’effetto di tranquillizzarmi. Aro, sembrava una persona molto simpatica e alla mano. Sperai che la mia prima impressione fosse quella giusta.

« Bene, direi di ordinare qualcosa da mangiare e poi possiamo passare agli affari » e detto ciò aprì il menù che il cameriere aveva lasciato al suo fianco.

Il pranzo fu piacevole e il cibo ottimo così come la compagnia. Aro era un uomo dalla mente aperta e pronta a sperimentare qualsiasi cosa, fece domande sulla mia vita, i miei studi e i miei progetti. Poteva sembrare un ficcanaso ma il suo modo di parlare, di coinvolgerti, era così calmo e allegro che gli avresti detto anche il tuo peggior segreto senza accorgerti.

« Direi che possiamo passare alle cose serie ora » annunciò Aro dopo essersi pulito la bocca con il tovagliolo. « Ho ascoltato il demo che Edward mi ha mandato. Il ragazzo ha potenziale, un ottimo potenziale direi ».

« Sono felice che la pensi così Aro. Jasper ha un grosso seguito nel web e l’ho incontrato prima di presentare il demo alla C-Major. Sarebbe un grande cantante se solo gli si desse la possibilità ».

« Beh, non si può dire che tu non metta entusiasmo nel tuo lavoro. Vero Edward? »

Accennai una risata leggermente isterica. Il mio capo sapeva bene quanto potevo essere insistente una volta che mi ero impuntata un obbiettivo.

« Oh no. È molto testarda quando vuole qualcosa » e mi guardò con fare allusivo.

« Proprio quello che cerco per la mia casa discografica. Devi renderti conto che però siamo agli esordi, dobbiamo farci strada con le unghie e con i denti. Sei in questo ambiente da molto, quattro anni a detta di Edward e quindi sai di che parlo ».

Oh sì, che lo sapevo bene.

« Ma tu... » disse indicandomi con l'indice lungo e sottile, « tu sento che hai le carte giuste. Insomma hai scoperto due potenziali star e messo un po’ di giudizio nella testa di questo ragazzaccio » aggiunse sogghignando verso Edward che chinò il capo.

Ragazzaccio era la parola giusta per definire il mio capo. « Sai, sono un vecchio amico di famiglia, ho visto crescere questo ragazzo e ti posso dire che era da molto che non si dava una spolverata. Ti devo ringraziare » boccheggiai sotto quella sua accusa maliziosa e anche Edward si grattò la nuca imbarazzato.

Aro, non curante di ciò, ricominciò a parlare, spiegandomi i compiti che mi spettavano, l'organizzazione. Edward aveva ragione, rifiutando avrei sprecato una grossa opportunità.

« Alla luce di tutti questi fatti, sarei onorato di averti a bordo. Che te ne pare? »

« I... Io sono lusingata davvero. Sarà un onore lavorare con te » accettai senza nessun dubbio a offuscare la mia decisione.

Ci congedammo mezz'ora dopo con la promessa che mi avrebbe contattato entro una settimana per definire e firmare il contratto. Edward era raggiante, era forse più felice di me.

Mi propose di passeggiare un po’, prima di tornare a casa, e così ci ritrovammo a camminare sul lungomare, né troppo vicini da sembrare una coppia che si fa una passeggiata romantica, né troppo lontani da sembrare due perfetti estranei che si ritrovano a dividere lo stesso pezzo di strada.

Passeggiamo in silenzio, persi nei nostri pensieri, interrotto qualche volta da qualche frase stupida o osservazione sul paesaggio o sulle persone. Edward sembra nervoso e più di una volta l'ho visto aprire bocca per poi ripensarci, come se non sapesse come iniziare un discorso. La cosa mi metteva in agitazione. In un certo senso sentivo che c'entravo io e temevo di scoprire quello che voleva dirmi.

« Scusami se sono stato un perfetto stronzo » alla fine decise di iniziare il sui discorso con una frase che fece nascere il sorriso sulle mie labbra. Pensai che non dovesse essere una cosa brutta, almeno per me.

Passammo davanti a un piccolo chiosco di gelati e Edward comprò due coni, si rifiutò di accettare la mia parte e si allontanò a passo svelto obbligandomi a corrergli dietro, leggermente instabile sulle zeppe.

Avevamo percorso qualche metro e ci eravamo seduti a una delle tante panchine che davano sul mare quando Edward prese a parlare.

« Questa settimana sono successe un sacco di cose e avevo bisogno di rimanere da solo ma non è stato corretto ignorarti. Ti dovevo almeno qualche spiegazione ».

« Non fa nulla, infondo non sono certo la tua ragazza a cui devi delle spiegazioni... » risposi nascondendo l'amarezza che provavo. Perché era quello che volevo ma sapevo che non sarebbe mai successo. Edward non era un Don Giovanni - lui stesso lo aveva ammesso - erano poche le donne con cui era stato, ma non amava i legami seri e che richiedevano un certo impegno da parte sua.

« Prima ti sarei piaciuto. Ero simpatico, molto socievole, piacevo a tutti, anche grazie al mio aspetto aitante... ».

« e soprattutto per la tua modestia... » lo schernì. Edward ridacchiò.

« Anche... Ero un bravo ragazzo, poi mio padre fece di tutto per smontare i miei sogni e le ragazze di cui mi innamoravo mi piantavano per lo stronzo di turno... »

« E cosi sei diventato tu lo stronzo di turno... » conclusi per lui.

« Già, patetico, vero? »

« Molto ».

« Ehi, dovresti dire di no e rassicurarmi... »

« A volte la verità fa male » affermai con un sorriso sornione stampato in faccia.

« Ma mi piaci anche così » ammisi, consapevole di entrare in un campo minato. « Non sei male quando ti lasci conoscere ».

Il sorriso che mi riservò era raggiante e splendente come il sole che capeggiava sulle nostre teste.

« Che ne dici di provarci? Tu ed io » disse di punto in bianco lasciandomi completamente stupita. La bocca aperta, la lingua fuori per leccare il gelato che aveva iniziato a gocciolarmi sulle mani.

« Come? » ero certa di aver capito male.

« Di provare a frequentarci apertamente, alla luce del sole. Ora che lavorerai con Aro non sei più una mia dipendente » sembrava teso, come se la mia reazione lo avesse spiazzato, ma era più che legittima. Le sue parole insinuarono in me un grande dubbio.

« Quindi mi prende solo perche io possa uscire con te e non per quello che so fare? » tutte quelle belle parole erano bugie?

Edward spalancò gli occhi e si rizzò a sedere piantando i suoi occhi nei miei.

« No, certo che no. Quello che Aro ha detto, è tutto vero. Anche se devo dire che quello di poterci frequentare apertamente è stato il mio primo pensiero. Dopo, però » specificò. Si girò per buttare il gelato non ancora finito nel cestino poco distante e tornò di fronte a ma con dare serio.

 D’improvviso, la voglia di gelato era sparita lasciando un senso di vuoto d aria. Il battito schizzò alle stelle e la panchina aveva iniziato a essere scomoda.

«Bella, credo... anzi no. Tu mi piaci, molto. Non so se è amore, credo sia presto per dire ciò ma mi piacerebbe darci una possibilità » e si fermò per farmi digerire le sue parole. Il cuore batteva sempre più forte. Una parte di me sapeva a che si riferisse, l'altra, più tragica e negativa diceva che era impossibile.

« Stai scherzando? » fu la mia uscita dopo diversi minuti di silenzio.

« No, non scherzo su una cosa del genere ma se per te non è lo stesso e la cosa è rimasta al piano puramente fisico. Lo accetto, prometto che non t’infastidirò pi...  »

Non lo la sciai finire. Lascia cadere il gelato a terra e prendendolo per le guance lo obbligai a spingersi verso di me e gli chiusi la bocca con la mia.

« Zitto, stai dicendo un mondo di cavolate » mormorai a pochi centimetri dalle labbra. Edward sorrise e quella volta fu lui a eliminare le distanze. Non incontrò nessuna resistenza da parte mia, anzi, artigliai i suoi capelli per spingerlo ancora di più vero di me.

« Credo sia il caso di andare in un posto più appartato » disse con voce roca e gli occhi lucidi di eccitazione. Si guardò attorno e continuò. « Stiamo dando spettacolo ».

Effettivamente tutti i passanti ci lanciavano diverse occhiate, chi maliziose, chi divertite o infastidite.

« Già, meglio andare prima che ci arrestino per atti osceni in luogo pubblico » concordai.

Mi porse la mano e abbracciati riprendemmo a camminare parlando della grossa opportunità datami da Aro e del mio sogno di aprire una casa discografica tutta mia.

« Cosa facciamo ora? » gli chiesi quando arrivammo alla macchina.

« Potresti invitarmi a casa tua » propose ammiccante.

« Non so se voglio » risposi con tono dubbioso.

« Beh… posso sempre lasciarti davanti a casa tua e io ti potrei seguire » ribatté con un sorriso che non lasciava nulla di sotto inteso.

« Vedremo » mormorai quando salì in macchina. Il viaggio fu silenzioso. Edward non la smetteva di alternare lo sguardo tra me e la strada, dal canto mio, imperterrita, osservavo il panorama sfrecciare dal finestrino ma il suo sguardo era così penetrante che non potevo non percepirlo e la cosa mi divertiva parecchio. C’era qualcosa di frizzante in questo nostro gioco di silenzi e sguardi nascosti, il tutto avvolto dall’alone del desiderio.

 

 

Quando finalmente parcheggiò sotto casa mia, lo guardai trovando proprio quello che mi aspettavo.

Sorrisi, provocandolo e scesi dalla macchina lanciandogli una veloce occhiata maliziosa. Non se lo fece ripetere due volte e scese anche lui seguendomi a pochi passi di distanza mentre aprivo il cancello e percorrevo il piccolo vialetto d’ingresso.

A metà strada mi fermai e di riflesso anche i suoi passi cessarono, girai la testa guardandolo di sottecchi e lui era lì a sorridermi sghembo e, desiderosa di continuare quel nostro gioco, mi voltai e ripresi a camminare per poi fermarmi solo quando ebbi raggiunto la porta d’ingresso giusto il tempo di aprirla e senza preoccuparmi di tenerla per lui e iniziai a salire le scale. La porta non si chiuse subito, segno che era riuscito a entrare e quando i suoi passi risuonarono sugli scalini, iniziai a correre fermandomi a ogni pianerottolo per guardarlo mentre con scatti degni di un velocista recuperava terreno. Ridevo quando la mancanza di fiato me lo permetteva e gioì quando finalmente raggiunsi il mio piano. Presi in considerazione la possibilità di iniziare a praticare jogging per migliorare la mia pessima resistenza ma il pensiero com’era venuto se ne andò. Ero troppo una scansafatiche per farlo davvero.

Edward fu dietro di me in poco tempo, solo che lui, a differenza di me, sembrava appena uscito dalla doccia, se non per quel lieve strato di sudore sulla fronte e il viso un po' accaldato.

Beh, lui ogni mattina andava a correre ed era più allenato di me che al contrario preferivo dormire il più possibile.

« Sembriamo due ragazzini » dissi mentre riprendevo fiato.

« Lo siamo ancora, non siamo poi così vecchi » disse in risposta. Mi appoggiai alla porta e con le mani dietro la schiena lo osservai squadrando ogni centimetro del suo corpo.

« Le piace quello che vede Signorina Swan? » iniziò mentre lentamente eliminava l’esigua distanza che ci separava. Alzai il viso per osservarlo e sorrisi mentre gli circondavo il collo con le braccia.

« Molto, Signor Masen » soffiai sulle sue labbra prima che queste si avventassero fameliche sulle mie.

 

 

Era passata una settimana e mezza da quando avevo firmato il contratto e avevo dato le mie dimissioni. Avevo cercato una nuova assistente e l’avevo istruita su quelli che sarebbero stati i suoi compiti. Si chiamava Jane, era appena uscita dall’università ed era più che entusiasta di iniziare quel lavoro gramo. Per certi versi mi ricordava me il primo giorno di lavoro, esaltata e con l’idea del mondo ancora innocente e fiabesco.

La C-Major mi sarebbe mancata. Per quattro anni era stata la mia casa, certo anche causa di profonde crisi depressive ma mi aveva vista crescere, maturare ed era sempre li che avevo incontrato l'uomo più importante della mia vita in quel momento. Edward.

Quell'uomo cinico e disilluso che aveva ricominciato a credere nella musica.

Ringraziavo ogni giorno Jessica per avermi dato la possibilità di andare a casa sua e di iniziare così la nostra storia.

"Ti amo" spesso quelle due parole erano state sul punto di uscire dalla mia bocca ma mi ero sempre morsa la lingua in tempo. Avevo paura di spaventarlo pronunciando quelle parole che significavano un coinvolgimento profondo e una visione ben definita del nostro futuro. Certo non eravamo più come all’inizio, in cui non sapevo come definirci, avevamo chiarito che lui mi piaceva ed io piacevo a lui e che avremmo provato, ma da qui a dire quelle due paroline credevo che da parte sua ci fosse ancora molta strada.

Solo una volta glielo confessai, quando eravamo tornati dall’incontro con Aro, Edward era rimasto da me e mentre lo osservavo dormire quelle parole mi erano scivolate fuori. In risposta lui si era girato dandomi le spalle e aveva iniziato a russare piano. Confesso che in un primo momento c’ero rimasta male e quando lui si era svegliato la mattina dopo, non gli avevo rivolto la parola per un po'.

 

 

Subito dopo l'incontro con James, le voci di una nostra possibile relazione erano iniziate a girare e spesso giungevano alle mie orecchie frammenti di discorsi interrotti proprio quando facevo il mio ingresso. Certo mi dava fastidio ma cercavo di non curarmene proprio per non dare loro la conferma che cercavano e quel viscido poteva dire quello che voleva ma Alice se lo era guadagnato ed io avevo lavorato sodo per ottenere quello che avevo e in ogni caso, entro breve non lo avrei più rivisto, lui e tutta la schiera di oche e comare che popolavano l’ufficio e non sarebbe più stato un mio problema.

Quello che non avevo calcolato era il fatto che queste potessero giungere alle orecchie del capo. Dovetti confessargli tutto, anche dell'incontro nel bagno con James e delle sue allusioni.

Dire che era indiavolato non spiegava tutta la rabbia che trasudava da ogni poro. " Gli spacco il muso" aveva affermato in un impeto di rabbia. Alla fine non aveva fatto gesti pericolosi ma dal giorno seguente aveva dato inizio all'operazione “torturare James”. Lo aveva tartassato di lavoro, togliendogli quasi tutti i privilegi di cui aveva goduto fino a quel momento, e gli stava sempre con il fiato sul collo per mettergli ansia.

Per quanto potesse sembrare abuso di potere, e quindi era una cosa scorretta, non potei negare di aver gioito nel vederlo andare nel panico e ascoltare i rimproveri di Edward davanti a tutto lo staff, a volte anche per un motivo che non dipendeva direttamente da lui.

 

Venerdì arrivò in fretta, così il mio ultimo giorno di lavoro, e a sorpresa i miei, ormai ex colleghi, avevano organizzato una piccola festicciola dopo l'orario di chiusura per salutarmi come si deve. C’erano tutti, persino quelli della sicurezza e il custode, che più di una volta mi aveva visto stare in ufficio fino a tarda ora per completare quello o quell’altro progetto.

Non ero riuscita a non piangere quando, uno a uno, i miei amici erano venuti a salutarmi.

Con Rose, Angela, Jessica, e forse anche Jake, avrei certo mantenuto i contatti ma altri li avrei persi, come Lauren o Mike, certo, loro ero invece felice di lasciarmi alle spalle. Primo tra tutti, James.

 

 

« Ecco l'ospite d’onore. Perché te ne stai nascosta? »

Jake fece il suo ingresso nella sala registrazione, dove mi ero rifugiata per stare un po' da sola. La stessa sala che aveva visto me e Edward lascarci andare senza preoccuparci del pericolo di essere scoperti. Quella mi sarebbe certamente mancata.

« Stanno tutti  bevendo e divertendosi, non avranno notato la mia assenza ».

« Io si, » affermò avanzando di qualche passo nella sala. « Mi mancheranno i tuoi manicaretti alla mattina e il non vederti schizzare per tutto il piano ». Entrambi liberammo una leggera risata.

« Beh, per la seconda parte a me un po’ meno » dissi ripensando alle maratone che avevo dovuto fare.

Ero attratta da Jake ma nulla in confronto a quel sentimento totalizzante e unico che prepotente mi spingeva verso Edward. Guardai il mio amico e solo un leggero formicolio allo stomaco fu quello che provai. No, non c'era confronto.

« Ma la C-Major mi mancherà moltissimo e anche voi mi mancherete » gli dissi mentre mi spostavo tra gli strumenti, sfiorandoli e provocando di tanto in tanto qualche suono sconnesso.

« Bella… » la voce di Jacob mi arrivò vicino all’orecchio e il suo alito caldo. In quel momento non ci diedi peso e onestamente non mi ero accorta della sua vicinanza e così il mio stupore era giustificabile quando una volta che mi girai per ascoltare quello che aveva da dire, trovai il suo viso a pochi centimetri dal mio e non ebbi nemmeno il tempo di spostarmi che le sue labbra furono sulle mie.

Quante volte lo avevo sognato quel momento nell’ultimo anno ma dopo ciò che era successo, non c’era nulla di peggiore di Jacob che mi baciava.

No, non doveva succedere.

Non ci misi molto a riprendermi dallo stupore e con garbo lo allontanai. In bocca avevo il suo sapore, dolce e fruttato. Non era quello che volevo, io volevo sentire solo quello speziato e pungente di Edward.

Edward! Con terrore realizzai che lui era fermo dall’altra parte del vetro con espressione ammutolita e non si premurava di nascondere la delusione. Lo vidi uscire a passo di carica e sebbene il primo istinto era quello di corrergli dietro e dirgli che non lo avevo tradito visto che non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello, rimasi ferma davanti all’altro ragazzo.

Dovevo chiarire con Jake, dovevo chiudere la questione.

« Jacob senti… » iniziai senza nemmeno conoscere le parole giuste per servirgli un due di picche. Anche lui aveva visto il suo capo uscire furibondo e dalla sua espressione era chiaro che aveva capito.

« Avevo notato che le cose erano cambiate nell’ultimo periodo » mi bloccò lui con tono amareggiato. « Ho tergiversato per timore e ora ho perso il treno » disse rivolgendomi un sorriso amaro.

« Mi spiace » fu l’unica cosa che riuscì a dire.

« No, non scusarti. Vai da lui e chiarisci o mi renderà la vita impossibile sul lavoro » aggiunse per stemperare la tensione. Abbozzai un sorriso e lo abbracciai riconoscente.

« Vado » mormorai. Mi alzai in punta di piedi e gli lascia un bacio sulla guancia. Magra consolazione per lui ma era tutto quello che potevo offrirgli. « Grazie per aver capito ».

Liquidai il più velocemente possibile i colleghi che mi si piazzavano davanti con la scusa di non stare bene e ignorai le domande sul perché il capo era uscito come se fosse un toro scatenato. Non si prospettava facile spiegargli quello che aveva visto.

Come una furia spalancai la porta d’ingresso e lo cercai nel parcheggio, con la giacca in mano si era incamminato lungo il marciapiede, lasciando la macchina parcheggiata al suo solito posto.

« Edward! Aspetta! Lasciami spiegare ».

Una risata amara arrivò dalla sua direzione. Non si fermò e non si degno nemmeno di girasi verso di me.

« Non c’è nulla da spiegare, Isabella » mi fece male il fatto che usò il mio nome per intero come aveva fatto per quattro anni, mi faceva tornare indietro a quei momenti quando eravamo due competi estranei, « ci vedo benissimo e so quello che stavate facendo, grazie » fu la sua risposta sarcastica.

« No, è stato lui a baciarmi » dissi prendendolo per un braccio e obbligandolo a girarsi verso di me « quando mi sono girata me lo sono trovato davanti e mi ha baciato. Io non ho potuto fare nulla, ma l’ho allontanato subito ».

« Oh, si, ho visto » sempre più sarcastico.

«  È vero. Okay? Ero… mi ha preso in contro piede e non ho reagito subito ma questo non vuol dire che abbia ricambiato o apprezzato » terminai ansante. Avevo messo tutta l’enfasi e la determinazione che avevo. Doveva credermi.

« Basta stupidaggini. Torna dal tuo bello » ringhiò strattonando e liberandosi dalla mia presa. Riprese a camminare sempre più lontano da me.

Una fitta di dolore mi attraversò il cuore, perché non aveva fiducia in me dopo che avevamo deciso di provarci seriamente?

Lo detestavo per quello che aveva insinuato. Perché doveva essere così idiota’

« Edward Masen! » urlai mentre con le lacrime agli occhi lo rincorrevo per prenderlo a sberle. Letteralmente.

« Bella! » disse stupito quando il primo schiaffo raggiunse il suo braccio e continuò a chiamarmi per smetterla mentre io prendevo di mira il suo petto, la sua testa, il collo, insomma tutto quello che potevo raggiungere e presto si aggiunsero anche i calci. Sfogavo la mia amarezza, il mio dolore e anche il mio amore deluso.

Edward cercava di difendersi come meglio poteva, braccia alzate, testa bassa e indietreggiava per allontanarsi da me. Solo che io non ero d’accordo dal lasciarlo stare.

« Perché devi essere così stupito, scemo! » urlai lanciando l’ultimo schiaffo sull’avambraccio dell’uomo che avevo di fronte. Stanca, mi fermai per riprendere fiato anche se i singhiozzi non mi davano tregua.

Alzò lo sguardo esitante quando capì che non avevo più intenzione di colpirlo.

« Anzi no, » aggiunsi alzando le bracci al cielo, « sono io la stupida, la scema che s’innamorata un’idiota di nome Edward Masen. Dio, non avevo detto ti amo a nessuno ma l’ho detto a te! Dormivi quando l’ho fatto, ma è irrilevante. L’ho comunque fatto ».

L’avevo fatto, l’avevo confessato ma che serviva se lui mi credeva capace di andare con il primo che capita nonostante quello che c’eravamo detti nell’ultima settimana?

Progetti buttati al vento e parole vuote.

« Cosa? » disse incredulo, alzando la testa di scatto. Non ci badai ripresi possesso di me, decisa a rinchiudermi in casa con uan grossa quantità di gelato a farmi compagnia.

Lo amavo ma in quel momento me lo stava rendendo difficile.

« E ora me ne vado. Quando avrai ritrovato il tuo cervello, chiamami » lo avvisai e a testa alta girai i tacchi per tornare al parcheggio e recuperare la mia Vespa.

Con il senno di poi avrei capito la sua reazione, era vero che ci frequentavamo da mesi ma era stato senza impegno, solo da una settimana c’eravamo messi in gioco ma in quel momento non ci pensavo nemmeno, quello che pensavo era solo che lui era saltato subito alle conclusioni sbagliate senza esitazione.

Passai una mano sulla bocca per pulirmi, il sapore di Jacob era ancora nella mia bocca e non faceva altro che ricordarmi cosa era successo. Lo avrei strozzato assieme al suo compare.

Ero quasi all’ingresso del parcheggio quando mi sentì strattonare indietro.

« Ehi, ma che diamin… » la mia protesta venne soffocata da un paio di labbra carnose che conoscevo fin troppo bene e anche quel sapore speziato e pungente che volevo.

Mi lasciai andare ma la consapevolezza di quello che c’era stato prima, mi ricordò le sue parole e tentai di divincolarmi ma la sua presa me lo impediva.

« Ti amo » disse quando si staccò da me. « Scusami se sono stato idiota, ma vederti con Black. Non credevo di essere così geloso ».

Tutta la rabbia si scioglie di fronte alla sua confessione per essere sostituita da un calore che cresceva a ogni battito del mio cuore.

« Edward, io non ho… » mi interruppi cercando di ricacciare indietro il magone ma non ebbi bisogno di continuare perché lui capì.

« Lo so, lo so,… » ripeteva come una litania, annuendo. « Non ne saresti capace » mormorò infine con dolcezza.

« Quelle due paroline » perché non avevo più il coraggio di dirle ora che l’adrenalina era scesa sotto i livelli della norma, « non devi dirle perché l’ho fatto io ».

Edward sorrise dolcemente e mi accarezzò le gote arrossate.

« Ti amo ed è un dato di fatto e non ti lascerò a nessun Jacob Black del mondo » confessò facendomi nascere un sorriso estatico. « Ora dammi le chiavi della tua Vespa che devo farmi perdonare e convincerti a farmi restare » continuò alzando la mano con il palmo aperto e uno sguardo che prometteva molte cose.

Alzai la mano, lasciando che le chiavi penzolassero in aria e ondeggiassero come un pendolo. Pochi attimi e le lascia andare.

 

 

Facemmo l’amore, con calma, Edward, si muoveva sopra di me mormorando parole dolci mentre il mio corpo reagiva a ogni contatto. Per la prima volta facemmo l’amore con la consapevolezza di quello che provavamo l’uno per l’altra. E quando lui ci accasciò al mio fianco con un sorriso smagliante, mi accoccolai contro di lui, godendo delle sue carezze, parlando, ridendo e scherzando per poi ricominciare tutto daccapo.

 

 

« Sì, direi che puoi restare ».




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Ed eccoci all'ultimo capitolo di questa breve storia. Spero che vi sia piaicuta e che l'abbiate amata come l'ho amata io mentre la scrivevo. I vostri commenti mi hanno sempre riempito di gioia e vi ringrazio una a una per le bella parole che mi avete lasciato.
Ringrazio anche chi ha letto in silenzio e anche chi in futuro leggerà di questi due e magari deciderà di lasciare un pensierino del suo passaggio. GRAZIE INFINITE!

All'inizio parlavo di extra, che li avrei fatti solo se la storia fosse stata apprezzata e visto il rande numero di recensioni degli scorsi capitoli : ) molto probabilmente un primo extra arriverà presto, è solo abbozzato e forse sarà anche l'ultimo visto da diversi punti di vista - non so bene devo ancora organizzarlo. Ce ne saranno altri? Dipende da voi, se c'è qualche episodio che volete che sia raccontato o altro fatemelo sapere in un commento o sulla pagina
FB.

Credo di aver finito, spero di leggere qualche vostro commento a questo ultimo capitolo^^


 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Eccomi con l'ultimo capitolo di questa storia, è stato duro da scrivere, non perchè mancassero le idee, ma perchè non volevo scrivere la parola fine a questa storia, mi ha dato tanto, voi mi avete dato tanto, e ogni volta che aprivo Word le parole mancavano sempre.
Grazie anche ai lettori silenziosi e tutti quelii che hanno messo la storia tra le preferite, ricordate e seguite ma soprattutto a quelle che hanno speso due minuti del loro tempo a lasciarmi un commento. Grazie 1000!
Ora vi lascio al capitolo.

P.S: Avete partecipatò all'iniziativa di ieri? Purtroppo io no, l'ho scoperto solo quando era quasi mezzanotte, penso che sia stata una bellissima idea e nella pagina FB del sito ho letto di motli che grazie a ciò hanno scoperto nuove storie e nuovi autori. E' stata una bella idea e spero che tutti, me compresa, si imegneranno in futuro a lasciare qualche recensione in più, positiva/nevativa ma costruttiva che possa aiutare chi scrive a migliorare e cresce.


 

 





Alice
 
« Alice, lui è Aro ».
Bella mi presentò al proprietario della Volturi Record. Un uomo che poteva essere definito eccentrico, ma forse era in quello che stava il suo fascino e la sua simpatia.
« Piacere, Signor Volturi. Sono onorata della possibilità che mi sta dando » dissi veramente grata a quell’uomo che aveva permesso al mio sogno di continuare a vivere.
La proposta di Bella era arrivata inattesa ma questo non minò la mia felicità. Nonostante che alla C-Major le cose non erano andate come previsto il mio percorso non era ancora terminato.
“Si chiude una porta, si apre un portone” mi disse Isabella quando mi annunciò che la casa discografica non intendeva investire su di me.
« Chiamami Aro e non mi devi ringraziare sono già un tuo fan. La tua esibizione è stata magnifica e quando Bella mi ha chiesto un contratto per te, non ci ho pensato due volte. Mi spiace per Edward ma si è fatto scappare un vero talento » mi elogiò. Arrossì imbarazzata, non ero abituata a ricevere tutti quei complimenti.
I miei genitori non avevano fatto altro che demoralizzarmi e se non fosse stato per la mia sorellina Cloe, che si era sempre considerata la mia prima fan, avrei già chiuso nel cassetto, in fondo in fondo per non vederlo mai più, il mio sogno.
« Credimi lo so » intervenne comparendo al fianco della mia produttrice che con occhi scintillanti salutò il suo fidanzato.
« Ciao, ragazzaccio ».
« Ciao, sbadata ».
Si salutarono per poi scambiarsi qualche effusione da perfetta coppia innamorata.
« Oh… i due piccioncini » li schernì Aro bonario prima di tornare serio e ricordare alla sua dipendente che erano in mezzo all’ufficio. I due si staccarono, Bella imbarazzata mentre l’altro scoccò un’occhiata maliziosa al mio nuovo capo.
Li invidiavo a morte. Da quanto nona avevo un ragazzo? Troppo tempo.
Erano usciti allo scoperto solo dopo che Bella si fu trasferita alla nuova casa discografica e ne ero rimasta piacevolmente stupita quando lo venni a sapere. Le sue amiche già sapevano e il fatto che non me ne avesse parlato, inizialmente mi aveva lasciato con l’amaro in bocca ma non gliene facevo una colpa. La conoscevo da pochi mesi mentre quelle ragazze da anni, loro erano un gruppo in cui io mi ero intromessa solo di recente.
« Bene, sono felice, due mesi e già ho due promettenti stelle del firmamento musicale ».
« Chi è l’altro? » chiesi curiosa. Bella non mi aveva parlato di altri artisti.
« Anche lui è stato scoperto da Bella » continuò Aro guardando la ragazza con orgoglio.
« Oh si, sono certa che ti piacerà » intervenne l’interessata. « Arriverà dopodomani e vedrai avrete modo di fare conoscenza ».
 
Il giorno dopo Bella aveva deciso di iniziare a incidere qualche traccia e così passammo tutta la mattina e il pomeriggio dentro la sala registrazione, sessioni spezzate solamente da una breve pausa per il pranzo.
Concentrata com’ero sulla canzone, non mi accorsi che qualcuno aveva affiancato la mia produttrice al mixer e solo quando mi tolsi le cuffie e alzai lo sguardo oltre il vetro, mi scontrai con un paio di occhi azzurri come un cielo primaverile.
Sorrise, creando delle piccole fossette sulle guance e mi salutò con un gesto della mano. Ricambiai incerta e imbarazzata. L'attenzione del ragazzo venne catturata da Bella che si era alzata e gli stava parlando con entusiasmo. Dietro di loro Edward che, intercettato il mio sguardo, mi salutò. Isabella seguendo il suo sguardo smise di parlare con lo sconosciuto e a grandi gesti m’incitò a raggiungerli. Poggiai le cuffie sul leggio e li raggiunsi. A differenza della sala in cui ero, quella affollate da voci diverse tra loro che creavano una cacofonia disarmonica di toni.
« Alice, » mi chiamò  subito Isabella. « Ti presento Jasper. Doveva arrivare questa sera ma ha anticipato... fortuna che Edward fosse libero ».
Accennai un sorriso divertito. Edward anche se fosse stato bloccato in una riunione importante avrebbe mollato tutto per aiutarla.
« Ciao, piacere di conoscerti » la voce bassa e melodiosa del ragazzo catturò la mia attenzione come fa la luce con le falene. Senza l’ostacolo del vetro e con l’illuminazione potevo studiare meglio il suo viso. Dei folti capelli riccioluti biondo miele, che mi ricordavano una chioma di leone, incorniciavano un viso dai lineamenti decisi. Gli occhi erano di un castano nocciola, caldi ed espressivi. Era alto e magro ma dalla leggera maglietta che indossava guizzavano muscoli tonici e ben modellati. In una parola era assurdamente bello e chissà quante ragazze erano cadute ai suoi piedi sotto l’effetto del suo fascino. Io stavo già subendo i primi effetti perché il mio cuore perse un battito e la gola mi si seccò togliendomi la voce. Deglutì cercando di dare un po' si sollievo a quell’arsura e ripresi un minimo di contegno.
« Ciao, » soffiai stampandomi in faccia un sorriso, « io sono Alice. Il piacere è tutto mio » e gli strinsi la mano. La sua era grande tanto che la mia mano sembrava quella di una bambina e la sua presa forte e decisa aveva un non so che di rassicurante.
« Il piacere è tutto mio » disse « sei bravissima, davvero. Hai una voce da mozzare il fiato ».
E ancora il mio cuore prese a battere come un tamburo colpito da un batterista impazzito.
 
 
Bella
 
Erano passati due anni e mezzo da quando era iniziato tutto. Il rapporto con il mio ormai ex capo andava a gonfie vele, certo c’erano stati alti e bassi, spesso siamo arrivati vicinissimi al punto di rottura ma sempre abbiamo ritrovato la nostra strada e non abbiamo smesso di lottare per noi e per i nostri sogni.
Quella sera, nonostante la mia reticenza, Edward era deciso a uscire a cena. A ogni costo.
« Ed, no chissà quanto ti sarà costato... » dissi rimirandomi ancora nel grande specchio della camera del mio ragazzo. Stavo davvero bene, dovevo ammetterlo ma non potevo accettare un regalo così costoso e lui lo sapeva bene. Non per altro c'eravamo dati un tetto massimo di spesa. Quello lo superava do molto.
« Facciamo così, io lo tengo nell'armadio e quando lo vuoi lo vieni a prendere » propose.
Certo non sarebbe cambiato nulla, lui non lo avrebbe mai indossato ma quel compromesso mi faceva sentire meno in colpa.
« Beh... Così può andare » accettati con un sorriso. Edward soddisfatto fece scivolare il suo sguardo sul mio corpo e poi mi baciò incitandomi a finire che rischiavamo di arrivare in ritardo. Sarebbe stata anche una scena romantica se non fosse stato per la pacca sul mio fondoschiena prima di scendere.
 
Aveva prenotato al Brighort. Dopo il giorno in cui avevo conosciuto Aro, c'eravamo tornati poche volte.
Il cameriere ci guidò lungo la sala principale fino a una più piccola rispetto a quella centrale dove stavano solo altre tre coppie.
Edward appariva agitato e qualche volta si distraeva dalla nostra conversazione per rifugiarsi in un mondo tutto suo.
«Tutto bene? » gli chiesi quando tornò al tavolo dopo essere sparito in bagno per dieci minuti buoni.
« Benissimo » rispose allentandosi la cravatta e cercando di abbagliarmi con uno dei suoi sorrisi sghembi ma gli riuscì male. « Che ne dici se facciamo portare il dolce? »
Mi scurì in viso, mi stava davvero preoccupando e gli sarebbe convenuto sputare il rospo, il prima possibile.
« Edward, che sta succedendo? »
Edward prese un profondo respiro e lasciato sul tavolo il tovagliolo che si stava sistemando sulle ginocchia si alzò per mettersi al mio fianco. Mi porse la mano, era fredda e sudaticcia, e mi fece alzare.
Si chinò a baciarmi le labbra e si inginocchiò davanti a me estraendo dalla tasca dei pantaloni una scatolina in velluto. Portai le mani alla bocca aperta in una grande "O" di stupore.
« Sai meglio di me che in certe cose sono un disastro quindi vado subito al punto. Isabella Swan, mi faresti l'onore di diventare mia moglie? »
Attorno a noi sentivo il borbottio degli altri clienti, le loro risate ma arrivavano ovattate come se Edward ed io fossimo chiusi dentro una bolla. Alternavo lo sguardo tra Edward e l'anello mentre sentivo il mio cuore battere sempre più forte e il respiro si faceva irregolare mentre cercavo di trattenere le lacrime di gioia.
Vedevo il suo nervosismo, l'ansia che prendeva possesso del suo volto ma nonostante potessi porre fine ai suoi timori dicendo le paroline che aspettava e che cercavano di uscire dalla mia bocca come una valanga rimasi in silenzio. Volevo godermi il momento, imprimermi nella memoria tutti i particolari.
« Bella, so che ami tenermi sulle spine » disse liberando una leggera risata che non nascondeva una nota isterica. « Ma sono già abbastanza nervoso... ».
Ridacchiai e non fidandomi della mia voce annuì con vigore.
« È un sì? »
Annuì ancora e soffiai un sì tanto flebile che feci fatica pure io a sentire e tremante per l'emozione gli porsi la mano, chiaro invito a infilarmi l'anello.
Attorno a noi la gente iniziò ad applaudire e a congratularsi ma io fissavo la mano di Edward che faceva scivolare l'anello sul mio dito.
Quando ebbe fatto, alzai la mano all'altezza del viso e ne ammirai la fattura. Era semplice con un piccolo rubino al posto del diamante. " È rosso, come l'amore, la passione,... È il simbolo perfetto per il matrimonio " gli dissi un giorno davanti alla vetrina della gioielleria più famosa di Chicago dopo aver ascoltato due amici che discutevano su quale fosse l'anello adatto.
« Te ne sei ricordato » mormorai abbassando la mano per guardarlo. Era raggiante e per poco non mi misi a piangere per l'ondata di emozioni che mi stava travolgendo. Portai le mani al suo collo e lo baciai. Fu un bacio bagnato dalle mie lacrime di gioia.
« Ti amo tanto » soffiai senza smettere di dargli veloci baci a stampo. Sorrise e dopo un ultimo bacio più profondo si allontanò per chiamare un cameriere per il dolce e lo champagne.
Felice mi guardati attorno e la signora di mezza età che occupava il tavolo più vicino al nostro si sporse verso di me e disse:
« Signorina lei è davvero fortunata, le auguro tanti anni felici come quelli che abbiamo passato io e il mio Jeffrey » e nel dirlo guardò con amore l'uomo seduto di fronte a lei. « I cinquanta anni più belli della mia vita » commentò l'uomo ricambiando lo sguardo.
Annuì e dentro di me sperai anch’io di arrivare alla loro età ancora innamorati come il primo giorno.
Uno scoppio alle mie spalle mi fece sobbalzare. Edward era tornato e al suo fianco un cameriere stava versando lo champagne in due flute.
« Bella, non ti siedi? » mi chiese il mio futuro marito. Edward si era già seduto, la sedia era ancora leggermente lontana dal tavolo, quello che bastava per fare quello che avevo in mente. Gli sorridi birichina e presi posto sulle sue gambe facendogli nascere un sorriso divertito.
« Sono troppo felice e non ho intenzione di staccarmi da te per il resto della serata » mi giustificai.
« Beh... Io non mi lamento » disse sogghignando. Lo baciai per l'ennesima volta, ebbra di felicità.
« Emh… il piatto della signorina dove lo metto? » ci chiese il cameriere che ci aveva portato il dolce.
« Li metta entrambi qui. Grazie » gli rispose Edward sistemandomi meglio sulle sue gambe.
Finimmo di cenare così, con noi che ci imboccavamo a vicenda tra baci e risate. Per certo posso dire che fu una delle serate più belle della mia vita. A pensarci bene le più belle le ho vissute con Edward.
Chi l’avrebbe detto che avrei avuto tutto quello che cercavo dalla vita? Dopo tutte le cadute, i bocconi amari finalmente mi potevo godere la mia felicità.
Il lavoro dei miei sogni? Lo avevo. La casa dei miei sogni? L’avevo - o meglio era di Edward ma quelli erano dettagli. L’uomo dei miei sogni? Ecco… Edward non era proprio l’uomo che immaginavo al mio fianco quando fantasticavo sul matrimonio. Lui era molto meglio.
 
Quando arrivammo davanti alla porta del suo appartamento, mi disse di aspettare. La mia mente romantica aveva già collegato la cosa a una qualche sorpresa ma quando aprì la porta non vidi un corridoio di candele accese che portava al caminetto  dove scoppiettava un bel fuocherello. Rimasi un po’ delusa ma durò poco perché mi prese in braccio.
« Benvenuta a casa, futura Signora Masen » dissi sorridente. Mi aggrappai al suo collo e ridacchiai.
« Non ti sembra di anticipare un po' troppo le cose? Dopo che saremo sposati dovresti portarmi in braccio… »
« Sì ma non guasta fare un po' di pratica » si giustificò facendo un passo dentro la casa. Chiuse la porta con il sedere e senza farmi scendere poggiò le chiavi della macchina sul tavolino all’ingresso e salì le scale per raggiungere la camera da letto.
« Aspetta » lo bloccai quando mise piede sul primo scalino. Mi guardò aggrottando le sopracciglia.
« Ti sei dimenticato di suonare ».
Suonava sempre qualcosa prima di andare a dormire ed io adoravo guardarlo mentre concentrato pigiava con maestria i tasti bianchi e neri. Aveva un non so che di eccitante.
« Giusto » concordò e tornò sui suoi passi.
« Mi faresti ascoltare la nuova composizione? » gli chiesi eccitata all’idea di scoprire cosa avesse scritto di nuovo. Ci lavorava da mesi: “Fino a che non sarà terminata, non la ascolterai” ma speravo che, con quello che era successo un’ora prima, si fosse abbastanza ammorbidito da dirmi di sì questa volta. A Edward s’illuminarono gli occhi di gioia, sembrava un ragazzino.
« Sei fortunata che l’abbia finita proprio ieri ».
Mi depositò sullo sgabello del piano e si sistemò al mio fianco. Alzò il coperchio, tolse la tela e dopo un bacio a fior di labbra iniziò a suonare.
Una musica dolce, lenta si diffuse nell’aria. Ogni nota trasudava di magia e amore, la musica accelerò in un crescendo di emozioni tanto travolgenti che mancò poco che mi mettessi a piangere.
« Ti piace? » per la prima volta in quattro anni in cui mi sottoponeva tutte le sue nuove creazioni, vidi l’esitazione e il timore oscurare il verde dei suoi occhi.
« È semplicemente stupenda » mormorai subito convinta.
« Davvero? » i timori si erano dissipati e al loro posto c’era una gioia innocente a illuminargli il volto. Annuì con vigore e mi strinsi al suo braccio, poggiando la fronte sulla sua spalla.
Una sua mano corse ai miei capelli accarezzandoli mentre l’altra mi circondava la vita e il suo alito mi solleticava la pelle dell’orecchio.
« È la nostra storia fino ad oggi e la speranza per un futuro che ci vede ancora insieme fino alla fine ».
« Quando ti ho conosciuto non avrei mai pensato che avessi questo lato così romantico » gli dissi senza trattenere una leggera risata. Lui m’imitò e sciogliendo l’abbraccio si alzò, invitandomi a fare lo stesso.
« È tutta colpa tua. Sei tu l’unica colpevole » ma non c’era nessuna nota di accusa nella sua voce, era felice e anche riconoscente. Spesso mi aveva detto che con me si sentiva rinato, ma lo diceva dopo aver fatto l’amore e avevo sempre pensato che lo dicesse trasportato dalle sensazioni appena provate ma guardarlo lì, in quel momento non potevo che credergli ed essere orgogliosa per quello che avevo fatto.
Ridacchiai e obbediente lo seguì fino alle scale. Spense la luce e salì i gradini illuminati da piccole lucette al neon.
« Beh… sono pronta a scontare la mia pena » dissi imprimendo una nota maliziosa nella voce. Edward si girò schioccandomi uno sguardo acceso di desiderio.
« La prendo in parola Signorina Swan » mi rispose poco prima di entrare in camera. Mi guidò sul letto e mi fece sedere.
« Sembra un sogno sai? » gli dissi una volta che mi adagiò sopra le lenzuola. Edward mi lanciò uno sguardo incuriosito mentre faceva scendere lentamente la zip del mio vestito.
« Che intendi? »
« Due anni fa non avrei mai immaginato di arrivare a questo punto. Avere il lavoro dei miei sogni, essermi ritagliata il mio angolino nel mondo della musica e avere te » gli spiegai mentre anch’io mi davo da fare nel liberare i bottoni della sua camicia dalle loro asole.
Sorrise e mi baciò mentre faceva scendere l’abito ammassandolo attorno ai miei fianchi, alzai il sedere per permettergli di togliermelo e poi lo fece scivolare a terra, seguito presto dei sui vestiti.
« Se è un sogno allora ucciderò chiunque ci svegli » disse prima di coprire le mie labbra con le sue. Presto la camera si riempì di sospiri, gemiti, frasi sconnesse e lenzuola che frusciavano via. Sembrava quasi una melodia.
« Anche questa è musica » disse sulla mia spalla poco prima di uscire da me. Non sopportavo di sentirlo lontano anche se di pochi centimetri e così lo abbracciai, « ma è uno spartito che suonerai solo per me e con me » terminò cercando di nasconde la sua gelosia e la camera si riempì delle mie risate.
« Sei l’unico musicista che voglio, credo di averlo dimostrato » lo rassicurai con un bacio e alzando la mano su cui faceva bella mostra di se l’anello di fidanzamento, per poi guardarlo fintamente minacciosa. « Nemmeno tu però devi suonare altri strumenti ».
Sogghignò e con un gesto fluido tornò sopra di me. Mi baciò sulla bocca per poi scendere sul collo, sul mio sterno e sulla pancia, provocandomi mille brividi di piacere.
« Non c’è problema, sei l’unica che voglio » disse prima di continuare la sua discesa e riportandomi sulle vette più alte del piacere.
 
« È un po' grande ma va bene »disse la me vestita in bianco e riprodotta nello schermo mentre osservava la fede al dito. L’Edward di fronte a lei, perfetto nel suo abito da cerimonia, la guardò preoccupato. Si era voluto occupare lui delle fedi, a me era stato proibito vederle o anche solo accennarle nei nostri discorsi. Quel giorno le vidi per la prima volta.
Mentre osservavo i noi del video continuare la cerimonia iniziai a giocherellare con la fede. Mi lasciai sfuggire un risolino al ricordo di quello che era successo. Edward alle mie spalle mi strinse più a se e mi baciò l'orecchio senza staccare gli occhi dal video. Anche lui sorrise divertito.
« Oh mi sa che sono sbagliati… è piccolo per te » disse la me del video mentre osservava l'altro tentare di infilarsi l'anello dopo i miei numerosi tentativi falliti.
« Non entra… »borbottò l'Edward del televisore.
« Mi sa che sono scambiati »disse Aro, il testimone di Edward. In quel momento, ricordai divertita, ero indecisa se urlare contro la sbadataggine del marito e del suo testimone o ridere, unendomi alla risata generale degli ospiti.
Alla fine ci scambiammo le fedi e il resto della cerimonia si svolse come da programma e il giorno dopo partimmo per la luna di miele. Due settimane in Australia da cui eravamo tornati qualche giorno prima, felici, rilassati e abbronzati.
Al nostro ritorno avevamo trovato il video della cerimonia e così avevo inviato tutti a cena per vederlo assieme.
« Bel lavoro, Emmet » mi congratulai con il ragazzo della mia amica. Il ragazzo strizzò l'occhio e portò un braccio attorno alle spalle di Rose stringendola al suo petto.« Grazie Bella ma non posso prendermi tutto il merito, anche Rose ha fatto qualcosina » disse ricevendo in risposta uno sguardo indispettito dalla ragazza.
« Direi che ho fatto più di un qualcosina. Chi ha scelto la musica, le foto, i pezzi di filmato… ».
« Okay, tesoro, siamo a pari merito. Tu sei la mente ed io il braccio » e la zittì con un bacio e dalla reazione della mia amica dedussi che era ben accetto.
« Grazie a entrambi, è stupendo » disse Edward. Gli lasciai un fugace bacio sul mento e mi alzai dal divano per raccogliere le tazzine di caffè sparse sul tavolino e la ciotola di gelato di Coca-Cola.
« Non dovete ringraziare ma se proprio ci tieni non rifiuterei un bell’aumento » disse scatenando grasse risate. Ridendo raggiunsi la cucina e inizia a lavare quel disastro che era diventato la mia cucina.
« Ci hai provato ma accontentati dei ringraziamenti » sentì rispondere da mio marito. Marito… era così bello pensarlo, dirlo.
Recuperai un paio di guanti gialli e gommosi e armata di spugna iniziai a strofinare e sciacquare.
« Ehi, Signora Masen » la voce soffice e calda di mio marito, l’ho già detto che amavo ripeterlo?, mi arrivò bassa e roca all’orecchio. Le sue braccia mi cinsero la vita stringendomi al suo corpo. Sorrisi di riflesso e poggia la testa sulla sua spalla. Tutta la stanchezza del giorno venne fuori, liberata da un lungo sospiro.
« Stanca? » mi chiese lasciandomi un bacio tra i capelli.
« Tanto, ma mi sono divertita molto ».
Sentì il rumore di una pila di piatti che venivano poggiati sul tavolo e quando mi girai trovai faccia a faccia con Rose.
« Noi andiamo Bella. Grazie della bella serata ».
« Oh, andate di già… » dissi triste. Ero stanca e volevo solo andare a letto e addormentarmi tra le braccia di mio marito ma mi dispiaceva vederli andare via. Era da due settimane che non le vedevo.
« Sì, è tardissimo e siamo tutti stanchi, soprattutto tu ».
Mi liberai dei guanti e della presa di mio marito e andai ad abbracciare la bionda.
« Notte Rose e grazie di tutto » la salutai baciandole la guancia. Rosalie sorrise e, dopo aver salutato anche Edward, richiamò il suo ragazzo.
« Forza scimmione è ora di andare a nanna ».
« Notte, Bella. Capo, ci vediamo domani mattina » ci salutò Emmet, gioviale come sempre.
« Ciao, Emmet ».
« Ciao a domani ».
« Finalmente soli » soffiò quando chiuse la porta alle sue spalle. Gli occhi erano rossi e i capelli erano un ammasso informe tante erano le volte che li aveva scompigliati. Gli andai incontro e lo abbracciai, strofinando il viso sul suo petto. Subito le sue braccia corsero a stringere i miei fianchi.
« È stata una bella serata » disse e io annuì, « ma sono felice che se ne sono andati » mormorò scostando i capelli lasciando il mio collo in bella vista e iniziò a lasciarvi piccoli e languidi baci. Sogghignai e mi lasciai andare alle sue attenzioni. Anch’io iniziavo a essere molto felice che se ne fossero andati.
« Allora, Signora Masen che programmi ha per il resto della serata? »
« Non saprei. Qualche idea Signor Masen? »
Mi girai e gli cinsi i fianchi riservandogli uno sguardo languido.
« Beh... » e fece finta di pensarci mentre con una mano birichina liberò uno a uno i bottoni della mia camicetta. « Io qualcuna ne l'avrei... »
E dovetti ammettere, dopo la sua lunga ed esaustiva spiegazione pratica, che erano davvero delle idee molto ma molto interessanti tanto che gli chiesi di rispiegarmele dall'inizio.
« Bella » mormorò. Il suo respiro caldo sui miei capelli.
« Mmm... » mugugnai ancora immersa nelle magnifiche sensazione che io e mio marito avevamo appena condiviso.
« Dici che è troppo presto per pensare a un bambino? »
Ecco quella era la domanda che non mi sarei mai aspettata.
Come se fossi appena stata colpita da una secchiata di acqua ghiacciata mi alzai di scatto sconvolta. Non ne avevamo mai discusso, nemmeno lo avevamo accennato.
« Da dove ti è salata fuori questa idea? »
Edward pareva imbarazzato nell'intraprendere quel discorso ma deciso. « É da un po’ che ci penso. Ti ricordi quella famiglia che abbiamo conosciuto il terzo giorno della nostra luna di miele? »
« Certo » erano una giovane coppia con un piccolo di un anno. Era così dolce e per un secondo mi ero immaginata al posto di Olly con il mio bambino e il fatto che ci aveva pensato anche lui mi fece nascere un piccolo sorriso.
« Ecco da quella sera non riesco a togliermi dalla mente l'immagine di te con il pancione, poi con il nostro piccolo tra le braccia, vederlo fare versetti strani, compiere i suoi primi passi, dire le sue prime parole,... » cullata dalle sue parole immaginavo quello che lui mi descriveva e mi piaceva quello che vedevo. Diventare madre, un piccolo tutto mio. Mio e di Edward.
« Allora? Non sei obbligata, la mia è solo un’idea e abbiamo tutto il tempo per goderci la vita da novelli sposi e poi pensare a un marmocchio per casa » disse ma nei suoi occhi traspariva tutto l'opposto. Lui voleva quel piccolo e dopo tutto quello che mi aveva detto il desiderio di maternità era sbocciato come un fiore in primavera.
Senza rispondergli mi alzai e sotto il suo sguardo curioso recuperai una scatolina bianca. Gli occhi di Edward si spalancarono. Era la scatola delle pillole anticoncezionali.
Sorridendo mi avvicinai al cestino e le lasciai cadere.
 
 
Alice
 
« Una canzone assieme? »
Erano passati più di due anni e se mi si passa l’espressione, sia io che Jasper avevamo fatto il botto. Entrambi avevamo ricevuto dischi di platino, oro e più o meno tutti i premi possibili. Ero così soddisfatta della mia vita, della mia carriera. Quello che mi mancava era un uomo con cui condividere la mia gioia.
Le cose con Jasper non erano partite come avevo sperato all’inizio. Entrambi all’inizio delle nostre carriere e con l’obiettivo di realizzare il nostro sogno non avevamo dato spazio ad altro. Poi erano iniziate le piccole storielle con il batterista o l’attore conosciuto durante un programma, in compenso si era creata una buona amicizia.
« Sì, siete entrambi molto famosi e sarebbe una bella mossa pubblicitaria ». eravamo ospiti a casa di del Signor Masen, per una cena di lavoro ma più informale di una in un ristorante chic. Ovviamente aveva cucinato Bella. Avevo sempre stimato Edward ma avevo il sospetto che la cucina non fosse il suo ambiente naturale.
« Edward, non è solo una mossa pubblicitaria » lo interruppe Bella poggiando il bicchiere sul tavolo e facendo dondolare il liquidi rosso e corposo all’interno. « Il terremoto è una cosa seria. Questa canzone serve per raccogliere fondi. Andrà tutto in beneficenza ».
« Certo » concordò « ma dovete tener conto anche dell’aspetto economico… » insistette.
« Ragazzi, entrambi avete ragione » si frappose, come un arbitro che metteva fine a un incontro di box, Aro. Io e Jasper eravamo rimasti spettatori passivi.
« Allora, tu che ne pensi? » mi chiese lui mentre lanciava uno sguardo divertito al battibecco degli altri tre commensali. « Ci stai? »
« Perché no? È per una buona causa » dissi girandomi verso di lui.
« Sì è vero. Sarà bello lavorare assieme ».
« Lo credo anche io ».
Il progetto prevedeva la creazione di un intero album con canzoni scritte da cantanti americani e raccoglieva ogni tipo di musica, Pop, County, Dance, Rock, insomma, tutto. Ci sarebbe poi stato un concerto a New York, dove si sarebbero raccolti altri fondi, voleva dire un mese intero di lavoro serrato ma quando salì, accompagnata da Jasper sul palco che dava su Central Park tutte le notti in bianco, i ritmi serrati per arrivare a quella sera pronti vennero cancellate come il gesso sulla lavagna dopo essere stata pulita alla fine delle lezioni.
« Bravissimi » trillò Bella quando tornammo dietro le quinte. Un nuovo gruppo era salito al nostro posto e il presentatore li stava intervistando.
« Grazie, Isabella » la ringraziò, Jasper.
« Quante volte te lo devo dire di chiamarmi Bella » sbuffò lei. Jazz alzò le spalle e sorrise sbarazzino.
« Lo so, ma mi piace di più Isabella » spiegò e io ridacchiai. Lo faceva solo perché sapeva che a Bella il suo nome completo non andava molto a genio, una sua cugina italiana si chiamava come lei e a detta della mia amica era così odiosa che aveva voluto eliminare ogni associazione possibile con la con sanguigna. A partire dal nome.
« Lasciamo perdere, ci sono quelli di MTV che vi vogliono intervistare. Forza andate! » ci liquidò con un gesto rapido della mano.
 
« O mamma, sono così stanca » mormorai poggiando  gomiti sulla balaustra che  circondava la piscina del Club in cui si stava svolgendo la cena per la chiusura del concerto. Il tutto era finito a mezzanotte ed io avevo avuto il tempo di cambiarmi nel mio camerino per poi essere sballottata in una macchina, con vetri oscurati, e portata al ristorante. Ammetto che ne ero stata felice, a pranzo avevo mangiato solo un panino e la sera non ci vedevo più dalla fame *.
Mi liberai delle scarpe con il tacco che dopo tutte quelle ora stavano uccidendo i miei piedi e alzai la testa verso il cielo, chiudendo gli occhi per godere della brezza fresca della sera.
« Alice? » sentì qualcuno chiamarmi ma non aprì gli occhi e non risposi sperando che l’intruso se ne andasse ma non ebbi quella fortuna.
« Alice, stai bene? » li spalancai sorpresa quando riconobbi la voce di Jasper. Voltai il capo e lui era in piedi pochi metri da me. Sorrisi per tranquillizzarlo.
« Tutto bene, solo un po' di stanchezza ».
Sorrise e si passò una mano sul viso, anche lui era stanco e come me probabilmente non vedeva l’ora di coricarsi nel proprio letto e dormire un giorno intero.
« Stando a quello che ha detto Aro. Tra le vendite del CD e del concerto hanno raccolto molti soldi da spedire alle zone terremotate » disse fermando al mio fianco e imitando la mia postura.
« Già, sono felice di essere stata in qualche modo utile. Hanno perso tutto… non so come avrei reagito se fosse capitato a me » dissi tornando a guardare il cielo nero su cui sembravano riflettersi le luci dei mille e più grattacieli alti come la torre di Babele.
« Nemmeno io, hanno mostrato così tanta forza e voglia di ricominciare che sono davvero ammirevoli ».
Dopo quel piccolo scambio di battute rimanemmo in silenzio fino a che non iniziò a fare freddo, Jasper si accorse del mio disagio e sotto il mio sguardo curioso si tolse la giacca e mi coprì. Il cappotto era così grande che mi arrivava alle ginocchia.
« Grazie » dissi riconoscente e subito dopo mi ritrovai a ridacchiare al pensiero che quell’indumento fosse come un prode cavaliere che mi difendeva dal freddo che come un drago attentava alla mia vita.
« Fa ridere anche me » disse Jasper con un sorriso.
« Oh, nulla… sciocchezze » liquidai la cosa facendo prendere al suo viso una sfumatura imbronciata.
« Vuoi sentire qualche mia sciocchezza? » mi chiese con ritrovato sorriso. Ridacchiai e poggiando la testa sul palmo della mano destra gli prestai tutta la mia attenzione.
« Spara ».
« Bene, allora quando… » e iniziò a narrarmi una serie di episodi della sua infanzia, della scuola e via dicendo che lo aveva visto cacciarsi nei guai più disparati. Io non potevo che ridere dall’inizio alla fine tanto che la pancia mi doleva e le guance mi urlavano pietà.
« Che ne dici di rientrare si sta facendo freddo e gli altri si chiederanno dove siamo finiti »
« Si è meglio, tu poi sei solo in camicia » dissi sentendomi un po' in colpa, stava prendendo freddo per colpa mia.
« Non preoccuparti, la mia infanzia l’ho passata in Alaska. Questa arietta non è nulla » commentò con una scollata di spalle.
Il salone era ormai semi vuoto, erano rimasti solo quelli che avevano una camera nel Club. Con lo sguardo cercai Bella ma né lei né il suo fidanzato erano presenti segno che erano già saliti alla loro camera. La notizia del loro fidanzamento mi aveva riempito di gioia, sentimento che non aveva fatto che crescere quando la futura sposa mi aveva chiesto di essere una delle sue damigelle.
« Alice, Jasper dove eravate finiti? » Aro avanzò verso di noi. Nonostante l’ora tarda aveva un aspetto magnifico come se si fosse appena svegliato.
« Eravamo fuori a prendere un po' d’aria » spiegai mentre restituivo la giacca a Jasper. Qualche fotografo girava ancora per la stanza e mi ritrovai a pensare se qualcuno avesse fatto qualche foto a me e al biondo mentre ridevamo e scherzavamo.
« Bene, beh è ora che mi ritiri anche io. Buona notte ragazzi, domani mattina si partirà alle dieci ricordatelo » e si congedò.
« Un ultimo drink? » gli domandai speranzosa. La stanchezza sembrava essere volata e anche Jasper sembrava essersi risvegliato così accettò e ci dirigemmo al bar.
Passare il tempo in sua compagnia era stato bello. Durante la produzione della canzone e del concerto eravamo stati assieme quasi ventiquattro ore al giorno e quello ci aveva avvicinato ancora di più facendoci diventare molto intimi. Più di una volta c’eravamo trovati a superare il limite dell’amicizia ma una volta io, una volta lui c’eravamo tirati indietro ma quella sera, dopo l’ennesimo drink, e piccoli sfioramenti di mano, braccio, che tanto innocenti non erano, la mia mente era così annebbiata da perdere ogni inibizione o freno. Sarebbe stata una cosa di una notte? Sarebbe iniziata una relazione duratura? Rischiavamo di rovinare la nostra amicizia? Avremmo rovinato tutto? Avevo trovato una sola risposta a tutte quelle domande: chi se ne frega. Volevo cogliere l’attimo al resto ci avrei pensato il giorno dopo.
Quelli erano i miei pensieri mentre l’ascensore saliva lentamente al quarto piano dove stava la mia camera, lui era al quinto. Eravamo appoggiati alla parete di fronte alle porte, uno a fianco all’altro nonostante l’ascensore fosse molto grande.
Al quarto piano ascensore si bloccò facendomi sobbalzare e le porte scorrevoli si aprirono e quello era il momento della nostra separazione o dell’attuazione del mio piano. Anche quella sera avevo ricevuto segnali contrastanti da parte di Jasper, forse anche lui si era fatto le mie stesse domande e timori. Era una situazione di stallo così appena uscì dall’ascensore mi girai e presi l’iniziativa.
« Jasper, ti va di farmi compagnia questa notte? »
spalancò gli occhi stupito ma poi sorrise
« Sì » accettò e bloccò con un gesto rapido le porte che si stavano chiudendo e uscì dall’ascensore.
 
Bella
 
Già tre anni erano passati da quando avevamo deciso di avere un bambino. Tre anni di tentativi, di maratone di sesso, per non perdere nemmeno un’occasione, e terapie mediche o “spirituali”, come le definiva Edward, non avevano portato a nulla se non tanto sconforto per entrambi. Le visite mediche cui c’eravamo sottoposi dicevano che non avevamo nulla, e i dottori sostenevano che era solo questione di tempo e che quando meno ce lo saremmo aspettato quel bambino sarebbe arrivato. Noi potevamo solo sperare.
 
Eravamo agli inizi di febbraio e da qualche settimana che la mattina, e spesso anche durante il giorno, mi ritrovavo china sul water di casa o dell’ufficio a rimettere quello che avevo mangiato, le nausee sembravano essere diventate le mie migliori amiche ed ero soggetta a repentini cambi di umore e voglie assurde.
Subito la speranza si era accesa dentro di me ma non mi ero lasciata sopraffare dalla gioia temendo che, come del resto le altre volte, fosse un falso allarme. Mi fiondai in farmacia e scioccai la commessa quando alla cassa mi presentai con otto test di gravidanza. Volevo essere sicura del risultato.
Dieci minuti dopo ero seduta sul water con i test uno in fila all’altro, sul bordo del lavandino, in attesa del risultato. In quel momento mi ritrovai a pregare tutti gli dei possibili e immaginabili implorandoli di far uscire un esito positivo. Avevo impostato il cronometro del cellulare e fissavo lo schermo, convinta che così i minuti sarebbero scorsi più velocemente ma invece sembravano rallentare facendosi beffe di me e della mia sete di conoscenza. Dopo quelle che mi sembrarono ore il timer si illuminò e iniziò a vibrare, segno tangibile che il tempo era scaduto.
Con mani tremanti li feci passare uno a uno.
« Grazie, grazie, grazie,… » urlai saltando sul posto. L’urlo disumano aveva richiamato Carmen, quando ero entrata di corsa, come un tornado nell’ufficio non le avevo lasciato il tempo di dire o fare nulla, ero direttamente andata in bagno chiudendo a chiave la porta e impedendo a chiunque di entrare.
« Bella, ora apri questa porta mi sto davvero preoccupando » disse bussando con decisione. « Bella! » mi richiamò ancora.
Raccolsi tutti i test e li infilai in borsa alla rinfusa e spalancai la porta spaventando la mia amica.
« Bella, mi vuoi dire che succede? » mi chiese tra lo scioccato e il preoccupato. Sentivo un fiume di lacrime scendere lungo le mie guance ma un sorriso estatico mi piegava le labbra. Forse, anzi certamente, le sarò sembrata una pazza ma ero così felice che piangevo di gioia.
Dovevo andare da mio marito, subito.
« Ti spiego dopo. Prima devo andare da Edward » e come una furia mi fiondai nell’ascensore poco prima che le porte si chiudessero. Lungo tutto il tragitto non riuscivo a smettere di sorridere e piangere mentre mi accarezzavo la pancia fantasticando sul nostro futuro da quel momento in avanti. I più mi guardavano storto, come se fossi una pazza, ma come facevano a non capire quello che mi era successo? Mi sembrava di avere un grande cartello, con una gigantesca freccia luminosa che puntava verso di me, che diceva: aspetto un bambino.  
 
Arrivai davanti alla C-Major dopo aver incitato il guidatore del bus ad accelerare o se non poteva, almeno a saltare tutte le fermate che mancavano alla mia e feci di corsa gli scalini perché non avevo tempo per aspettare l’ascensore. Pessima scelta se si teneva conto che non praticavo alcun tipo di sport e così a metà della secondo rampa iniziai ad arrancare ma finalmente arrivai al piano che mi interessava. A grandi falcate e con il cuore in gola, per lo sforzo e per la gioia, percorsi il corridoio dove i miei vecchi colleghi mi salutarono e tentarono di fermarmi per quattro chiacchiera ma riuscì a districarmi e a arrivare davanti alla porta dove facevano bella mostra di se il nome di mio marito in lettere maiuscole nere.
« Bella! Che ci fai qui? » mi chiese sorpreso per poi guardarmi allarmato. « Che succede? Perché piangi? » mi assalì con un fiume di domande appena mi vide.
Senza rispondergli mi avvicinai alla scrivania dove era seduto. Si alzò e girò attorno alla scrivania e si fermò al mio fianco.
« Amore, mi sto davvero preoccupando » era comprensibile visto lo stato in cui mi ero presentata e il fatto che non volessi dargli spiegazioni. Come tutti quelli che ho incontrato sulla strada probabilmente credeva che io fossi impazzita.
Alla rinfusa, feci cadere i test sulla scrivania e gliene mostrai due, uno in ogni mano.
« Guarda! » trillai finalmente. A primo acchito Edward non capì, poi, quando realizzò quello che avevo in mano, li conosceva bene visto le volte che li avevamo usati, spalancò gli occhi per lo stupore. Nei suoi occhi passarono una infinità di emozioni: speranza, gioia, incredulità, amore. Quegli occhi verdi che tanto amavo erano una cacofonia di emozioni che, mano a mano che gli facevo vedere gli altri test, prendeva il soppravvento su di lui e presto ci ritrovammo stretti un abbraccio.
« Sei incinta, incinta! Saremo genitori! » singhiozzò senza vergognarsi di farsi vedere a piangere. M’issò e mi fece girare. Lacrime e risate si mischiarono ai nostri baci e alle nostre frasi sconnesse che cercavano di trasmettere tutta la gioia che provavamo all’altro.
Il nostro bambino era arrivato, finalmente.
 
« Jess che stai facendo? » chiese gioviale la mia me di quattro anni prima dallo schermo.
« È per i vostri figli, così potrete rivedere il giorno del vostro matrimonio tutti assieme e ti renderai conto della cavolata che hai fatto nello sposarti con chiappe d'oro... Sarai ingrassata di dieci chili e avrai i capelli  unti e stopposi e delle unghie orribili ... »rispose Jess, bellissima nel suo abito color avorio. Jessica era per il single a vita, solo storie brevi e poco significative ma sembrava che recentemente qualcuno gli aveva fatto venire qualche dubbio.
« Bella, perché piangi? »
Recuperai un altro fazzoletto dalla scatola e con disappunto constatati che quello era l'ultimo. In due ore avevo consumato cento fazzoletti.
« Bella... » mi richiamò Edward, questa volta preoccupato.
« Eravamo bellissimi quel giorno » mugugnai tra i singhiozzi « Ero così felice » e mi girai a guardarlo. Mio marito intanto era arrivato al divano e si era seduto al mio fianco stringendomi nel suo caldo abbraccio.
« Perché piangi allora? »
« Sono gli ormoni » borbottai e sentì il suo petto scosso dagli spasmi di una grassa risata.
« Ehi, non si ride di una donna incinta » ringhiai. Ecco un altro cambio di umore provocato dagli ormoni. Edward smise subito di ridere e mi abbagliò con un sorriso malizioso.
« Non riderei mai della madre di mio figlio ».
« Figlia, te l'ho detto sarà una bambina » sentenziai alzandomi dal divano per buttare la scatola di Kleenex e raggiunsi la cucina. Avevamo deciso di aspettare, volevamo che il sesso del bambino fosse una sorpresa e ognuno si era fatto un proprio film mentale. La maggioranza era dalla parte del padre della mia piccola, “si vede dalla forma della pancia” dicevano, ma io ero fortemente convinta che fosse una bambina.
Una mamma certe cose le sente…
Buttai la scatola e una voglia matta di biscotti mi assalì e non volevo certo che mia figlia nascesse con una voglia a forma di biscotto con le gocce di cioccolato e M&M così aprì l’armadietto dove aveva messo la scatola dei biscotti ma questa è vuota. Iniziavo a preoccuparmi perché la gravidanza sembrava avermi portato via la memoria. Era mai capitato che una donna in attesa perdesse la memoria a breve termine?
Continuai a cercare ma sembravano essersi volatilizzati.
« Dove sono finiti i biscotti? » gracchiai quando, dopo cinque minuti buoni di ricerca non li trovai. Era impossibile che fossero spariti, li avevo cucinati la sera prima. Poi un lampo di genio illuminò la mia mente.
« Quali biscotti? » mi chiese con fare disinteressato quella fogna del mio compagno. Fermo davanti all’isola mi guardava con l’espressione più innocente di tutte. Che grande attore.
« Non fare il finto tonto » ringhiai. Ero una donna incinta di sei mesi in piena crisi perché non riusciva a soddisfare la sua voglia di biscotti.
« Okay, avevo fame, stiamo per avere un bambino devo mangiare di più » si giustificò sapendo di essere alle strette.
« Guarda che sono io quella che ha tuo figlio nella pancia! Io sono giustificata a mangiare tanto, tu no, guarda che pancetta ti sta venendo » dissi indicando con un cipiglio di disappunto il lieve strato di grasso che la maglietta evidenziava. La adoravo ma certe volte rimpiangevo la bella tartaruga che aveva un tempo.
« È colpa tua che cucini dei manicaretti da leccarsi i baffi » rispose infastidito dal mio appunto. Da quando mi ero trasferita a casa di Edward, dopo il matrimonio, non facevo altro che cucinare, cucinare e cucinare.
« Prima la nostra ginnastica mi teneva in allenamento ma adesso che mi dai buca la maggior parte delle volte questo è il risultato » e mi pizzicò un fianco facendomi sussultare. Ridacchiai e iniziai a giocherellare con la sua pancetta.
« A me piace, è soffice e coccolosa » dissi. Subito mi bloccò ed io scoppiai a ridere a crepapelle. Edward in certe cose era peggio di una donna. Bloccò la mia ilarità con un bacio mozzafiato.
 
Da quando ero rimasta incinta, non lo avevamo fatto spesso e solo nei primi mesi, poi la pancia era comparsa e con lei tutti i fastidi. Non ci riuscivo, non so perché ma ogni volta che lui provava a fare qualcosa, lo bloccavo perché onestamente alla fine della giornata mi trovavo senza forze, stanca, con i piedi che dolevano, il mal di schiena e l'unico desiderio che avevo era quello di dormire pregando che la piccola non si mettesse a scalciare come un cavallo imbizzarrito.
Poi anche lui aveva smesso di provarci e se ero io ad accennare un certo tipo di approccio mi stroncava sul nascere e mi ritrovavo a bocca asciutta, ciò aveva fatto nascere in me quell’insana idea di non essere desiderabile. Era falso, insomma, Edward non mi aveva mai dato nessun segnale in quella direzione, semmai tutto il contrario. Avevo perso il conto di tutte le volte che mi aveva detto che ero ancora più bella per la gravidanza. Ogni volta che mi guardava, leggevo solo amore e felicità, quindi non si era andato a cercare qualche amante che potesse soddisfarlo e che, soprattutto, non aveva perso interesse per me.
Tutte le mie amiche mi avevano detto che era normale per una donna incinta ma dicevano che non dovevo preoccuparmi perché mio marito mi amava.
C’è da dire che, come me, anche lui era stanco, per tutte le volte che lo avevo svegliato nel mezzo della notte, per andare a comprare una pizza, un hamburger o un gelato, le mie scenate imprevedibili e senza senso per cose futili, le liti con il padre che si erano intensificate e poi il lavoro, lo sottoponevano a uno stress continuo.
« Non vedo l’ora che il piccolo nasca per tornare a praticarla. Ho molto da recuperare ».
« Possiamo recuperare ora, non dobbiamo aspettare ».
« Bella per me non è un problema aspettare » disse carezzandomi una guancia. Gli rivolsi uno sguardo interrogativo. Perché dovrebbe aspettare? Ero lì che volevo farlo…
« Edward, se non vuoi farlo devi solo dirlo… » spalancò gli occhi come se avessi detto un’eresia.
« Scherzi? Questi tre mesi sono stati un inferno, dovevo fare forza su me stesso per tenere le mani a posto ».
« Perché mi respingevi, allora? » gli chiesi con una punta infastidita nella voce.
« Credevo lo facessi pensando che ne avessi bisogno io e non perché lo volessi tu… » si giustificò. Alzai un sopracciglio davanti alla sua logica contorta e senza fargli male gli diedi una sberla sul braccio.
« Volevo davvero farlo » ribattei indispettita dal fatto di aver perso fantastiche serate per le sue paranoie. « Più di una volta ho creduto che mi rifiutassi per via della pancia, delle mille e più smagliature,… ».
« Ma che dici? Sei più bella che mai così, se fosse stato per me, saremmo stati a letto per tutto il tempo ». Quella rivelazione mi aveva fatto ritrovare il sorriso e allacciando le braccia attorno al suo collo iniziai a solleticare al pelle del viso con la punta del naso alternato al tocco della mia bocca. Mio marito, dal canto suo, si godeva le mie attenzioni che stavano avendo l’effetto desiderato. Potevo sentire il suo desiderio di me premere contro il mio ventre e la mia mente stava già viaggiando verso la camera da letto immaginando quello che avremmo fatto. “Piccola di mamma chiudi gli occhietti e non sbirciare” dissi rivolta alla bambina, prima di porre fine al mio gioco e baciare mio marito cercando di trasmettere tutta la voglia che avevo di lui.
« Quindi non ti devo fermare? » mormorò roco staccandosi appena ma non aspettò una mia risposta perché tornò a vezzeggiarmi. Tenni gli occhi socchiusi per godermi ogni parte del suo viso.
« No, questa volta no » soffiai sulla sua bocca e non passò molta prima di vedere i suo occhi accendersi di malizia. Sorrise e non ci pensò due volte a prendermi in braccio ma fece solo qualche passo prima di fermarsi.
« Oddio, tesoro, asp… aspetta » disse facendomi scendere. Si stiracchiò la schiena e si massaggiò nella zona dell’osso sacro.
« Che succede? » gli chiesi con tono preoccupato e accompagnando con una mano i suoi gesti.
« Nulla, ma non sono più tanto giovane » borbottò con un sorriso di scuse.
« Stai dicendo che sono diventata pesante? » e gli riservai un’occhiataccia, era incredibile come, in un nanosecondo, fossi passata dal desiderare di fare l’amore con il mio compagno per tutta la notte al volergli tirare una padellata in testa.
Edward spalancò gli occhi spaurito e si affrettò a calmarmi.
« Certo che no. Sono io che ho perso il mio smalto » ma i miei ormoni erano già entrati in azione e mi stavano travolgendo con un’ondata di amarezza e commiserazione.
« Sì, sono grassa » mugugnai per poi liberare un lungo e acuto singhiozzo che preannunciava un pianto che poteva concorrere con la stagione delle piogge in un paese tropicale.
 « No, no, no, no,… » cercò di calmarmi, « porti il nostro bambino dentro di te. Non sei grassa ».
Purtroppo quella sera non concludemmo nulla, mio marito era troppo preso a calmare la mia ennesima crisi ormonale ma dalla sera dopo ci impegnammo a mantenere la promessa di recuperare tutto il tempo perso.
 
Jane Elisabeth Masen nacque il ventinove settembre con una settimana di ritardo rispetto alla scadenza, pesava tre chili e mezzo ed era in piena salute. Edward non era rimasto male per le sue aspettative infrante, “ tanto il prossimo sarà un maschietto ” aveva detto quando, una volta rimasti soli nella camera dell’ospedale gli avevo chiesto se gli dispiacesse non aver avuto il suo primo componente della squadra di basket.
Si era innamorato subito ed era stato difficile per l’infermiera recuperarla dalle sue mani per pulirla. Da quel momento in poi, mio marito divenne super geloso della sua principessina e quando di notte inizia a piangere era lui che insisteva per andare ed io li guardavo, poggiata allo stipite della porta della sua cameretta nella nuova casa, ammaliata ed era sempre con un po’ di nostalgia che ripensavo a quei momenti.
 
Eravamo nel giardino sul retro dell'asilo Mille fiori. I piccoli della classe " margherita " erano seduti in cerchio e noi genitori eravamo dietro ai nostri rispettivi pargoli. Jason, tra le mie braccia si agitava felice. Con i suoi capelli biondi e occhi castani mi guardava amorevole. Quante volte avevo desiderato che il tempo si fermasse e lui rimanesse il piccolo esserino che avevo tra le braccia, non volevo che crescesse come sua sorella e si allontanasse da me, com’era giusto che fosse.
« Bene, bambini ora uno alla volta vi alzate e leggete quello che avete scritto sull'amore » la Signorina Morrison richiamò l'attenzione dei bambini, furono pochi quelli che fecero come gli fu detto, gli altri continuarono a urlare e parlare e giocare tra loro.
Amavo mia figlia ma stare tutto il giorno circondata da bambini dai tre anni ai sei, era improponibile. Sarei impazzita e le maestre dell'asilo avevano tutto il mio rispetto e la mia stima per riuscire ad arrivare a fine giornata con la salute mentale intatta.
« Jane, ascolta la maestra. Siediti » la richiamò Edward. Nostra figlia stava parlando animatamente con la sua amichetta del cuore Maria ma appena sentì la voce del padre, come richiamata dal pifferaio magico, si sedette a gambe incrociate e lo sguardo verso la maestra. I riflessi ramati dei suoi capelli rispendevano sotto la luce del primo pomeriggio e i suoi occhi verdi, come quelli del padre erano grandi e rispecchiavano la gioia di essere lì con i suoi amici. Le gote ancora rosse per le corse e le risate.
Quando finalmente calò il silenzio, la maestra riprese la parola.
« Bene. Benji, inizia tu ».
« L’amore è quando mamma dà a papà il pezzo più buono del pollo» tutti i genitori scoppiarono a ridere e applaudirono mentre quelli di Benji si scambiavano un bacio a fior di labbra.
« Bravissimo. Janette tocca a te » continuò la signorina. Una bambina di colore con i capelli raccolti in tante treccine si alzò e un po' imbarazzata lesse il suo foglietto.
« L’amore è quando la ragazza si mette il profumo, il ragazzo il dopobarba, poi escono insieme per annusarsi » disse scatenando con la sua innocenza un’altra risata da parte nostra.
È così bello il mondo visto con gli occhi di un bambino. Nessun inganno, bugia o cattiveria. Noi viviamo di abitudini, ci facciamo guidare dalle convenzioni e ci perdiamo il bello della vita, le sue meraviglie. I bambini no, sanno andare oltre i muri che noi adulti ci costruiamo, loro ti regalano affetto senza chiedere nulla in cambio, noi invece non facciamo nulla se non abbiamo un tornaconto, siamo sempre in attesa e non siamo capaci di vivere il presente.
 
Presero la parola altri due bambini e poi fu il turno di mia figlia. Jane, si alzò sistemandosi il vestitino e recuperato il foglietto dalla tasca, lo aprì e lesse con la sua voce allegra e squillante di una bambina di quattro anni che lasciava una tazza di latte e un piatto di biscotti la vigilia di Natale per Babbo Natale e che metteva il dentino sotto il cuscino per la Fata dei Denti. « L’amore è quando papà fa il caffè per mamma e lo assaggia prima per assicurarsi che sia buono».
Io e mio marito non riuscimmo a trattenere un tenero sorriso.
Edward posò la mano sul mio ginocchio e lo strinse. Lo guardai di riflesso, sorrideva orgoglioso della sua principessa.
Jane si girò sorridente e piena di aspettative.
« Bravissima, Tesoro » dissi baciandole la fronte e anche Jason mostrò il suo apprezzamento agitando le manine in alto ed emettendo versetti gioiosi. Edward dopo di me le schiacciò il nasino tra il pollice e l'indice scatenando la risata di nostra figlia.
Portai la mano alla bocca e cercai di non piangere. Stava crescendo così in fretta, sembrava l'altro ieri che avevo passato dodici ore in travaglio perché voleva farsi attendere e sembrava solo ieri che aveva fatto il primo passo e detto la prima parola.
« Ehi, ragazzina, non piangere » sussurrò mio marito al mio orecchio prima di lasciarvi un bacio.
Scossi la testa e sorrisi poggiando il capo sulla spalla di Edward che con un braccio destro mi avvolse le spalle, con la mano sinistra invece iniziò a giocare con nostro figlio.
Dieci minuti dopo, finita la canzone dell'estate, il cerchio si era sciolto e iniziarono i saluti di rito per le vacanze estive.
Parlammo con diversi genitori che nel corso dell’anno avevamo conosciuto alle riunioni e alle feste e con cui si avevamo instaurato una bella amicizia. Alla fine, riuscimmo ad arrivare anche alla Signorina Morrison, che era letteralmente asserragliata dai bambini.
« Jane, buone vacanze » salutò mia figlia appena fu il nostro turno. « Mi mancherai sai ».
Come risposta Jane abbracciò le gambe della signorina e si lasciò sfuggire una lacrimuccia. Erano lontani i tempi in cui si aggrappava alla mia gonna per non andare all'asilo.
« Signora Masen, congratulazioni per il nuovo arrivato. È un vero amore » mormorò accarezzando con delicatezza la guancia paffuta del mio piccolo. Aveva solo tre mesi ed era così piccino che assomigliava a una bambola. Jason gorgogliò, segno che apprezzava quelle inattese ma gradite attenzioni. « Sono così belli quando hanno questa età ».
La signorina, allora, si rivolse a mia figlia che nel frattempo era riuscita a convincere il padre a farla stare sulle sue spalle.
« Jane, sei contenta dell’arrivo del fratellino? » le chiese la maestra. A Jane s’illuminarono gli occhi, come sempre quando si parlava del nuovo membro della famiglia.
« Siiiiii » trillò la piccola saltellando sulle spalle del padre che inutilmente le diceva di calmarsi. « Lo abbiamo fatto proprio bello, vero? »
« Tutto merito di mamma e papà » disse Edward facendole fare sul saltino. Jane rise accasciandosi maggiormente sulla testa del padre.
« Un po' anche mio che sono stata nel mio lettino » disse lasciando di stucco, me, suo padre e la maestra.
« Chi te lo ha detto? » dire che Edward fosse più sorpreso o divertito dalla sua risposta non lo saprei dire.
« Zio Emmet, ha detto che se volevo che arrivasse il fratellino dovevo stare buona, buona nel lettino ».
« Farò quattro chiacchiere con Emmet, domani » commentò burbero Edward. Ridacchiai e feci scivolare il braccio attorno alla sua vita e la strinsi attirando la sua attenzione.
« Suvvia non ha detto nulla di male e alla fine è vero » intervenni difendendo il marito della mia amica.
« Non può trattare di certe cose con la mia principessina » obbiettò serio sospirai rassegnata e scambia una occhiata complice con la maestra. In fondo un padre è sempre geloso della sua bambina.
 
Dondolando sulla poltrona girevole guardavo il paesaggio dalla finestra. Lo studio era in mezzo alla città e il lago era solo una strisciolina in lontananza spezzata dal susseguirsi dei grattacieli ma era bello lo stesso lo spettacolo che mi si presentava davanti.
C’ero riuscita, stavamo andando avanti, a piccoli passi c’eravamo fatti un nome e ogni giorno era una nuova soddisfazione per me e gli altri.
A trentasette anni potevo dire di essere una donna pienamente soddisfatta della sua vita familiare, sentimentale e lavorativa:
Edward era un compagno di vita fantastico, certo non erano tutti i gironi rose e fiori ma come si dice “l’amore non è bello se non è litigarello”. Jane e Jason crescevano perfettamente in salute, viziati come non mai dai nonni e li amavo ogni giorno di più, così come crescevano le mie preoccupazioni tipiche di una mamma chioccia che vorrebbe proteggere i suoi pulcini da tutto e da tutti. Mi ero scoperta essere una vera e propria mamma italiana.
Infine, l'avventura con Aro si era conclusa due anni dopo la nascita di Jane, quando avevo trovato un locale adatto e avevo ricevuto i finanziamenti necessari dalla banca che mi avevano permesso di aprire una casa discografica tutta mia. Mia, solo mia, ero il capo di me stessa. Alice mi aveva seguito una volta che avevo preso la mia decisione e che il contratto con la Volturi Record si era concluso.
Ero così fiera dei traguardi che avevo raggiunto.
 
« Bella, John è tornato e Molly è pronta con le bozze del video di Alice » la voce di Edward arrivò forte e chiara alle mie spalle. Non aveva bussato, come al solito, ma non era necessario. Solo gli altri dovevano bussare, giusto per precauzione mia e di Edward per quelle volte che ci lasciavamo un po’ troppo andare.
Era il bello di lavorare assieme.
Dopo la nascita di Jason, quasi tre mesi fa, aveva mollato il padre e la C-Major e mi era stato di grande aiuto. Edward Senior Masen non si era mai più fatto sentire ne vedere ma onestamente non ne sentivamo la mancanza, semmai tutto il contrario. Edward era più sereno e felice, alla sera non tornava a casa con lo sguardo duro e stanco ma una parte di me sperava che suo padre si ravvedesse e cercasse di riavvicinare il figlio ma, fino a quel momento, non era successo nulla e Jason non aveva mai conosciuto il nonno paterno di persona, solo Jane aveva avuto l’onore di vederlo  un paio di volte.
Ci pensavano quelli materni a riempire quel vuoto che dal giorno del matrimonio venivano spesso a trovarmi, e le visite si intensificarono con la nascita dei bambini, quella di Jason determinò il definitivo trasloco dei miei. I bambini li adoravano, non sarebbe potuto essere il contrario visto che li viziavano come non mai. Tutto quello che proibivano a me, lo concedevano a loro senza remore.
« Okay, chiama gli altri tra cinque minuti iniziamo la riunione » dissi.
« Certo, capo » rispose con tono da militare.
« Questa cosa mi piace » esclamai girando la poltrona verso il mio interlocutore e sogghignai incrociando le mani sotto al mento.
« Cosa? » mi chiese curioso.
« Il fatto che sia io a dare gli ordini, sono il Boss ora » e spingendo indentro la poltrona mi alzai per raggiungerlo.
« Già, i ruoli si sono invertiti e a proposito, anch’io avrei un gruppo da proporre ».
« Mmm… beh slacciati un bottone… » gli proposi con fare civettuolo.
« Come? » mi chiese stranito.
« Un bottone, una canzone e forse ti farò partecipare alla riunione » mormorai suadente giocando prima con il primo e poi con il secondo bottone della sua camicia. Lo sguardo spaesato fu sostituito da uno pieno di desiderio e passione. Mi circondò la vita con un braccio e mi fece scontrare con il suo petto. La pancetta coccolosa era sparita per la sua gioia.
Il bello del nostro rapporto? Tutti i giorni erano come il primo.
 


* Pubblicità della fiesta^^
Le frasi lette dai piccoli e quella di Jane alla fine sono prese da una pagina Fb dove mamme o altri parenti caricano le perle di saggezza dei loro figli o nipoti,...
 

°            FINE              °

 



Fine, questo è proprio l'ultimo capitolo, spero di aver soddisfatto le vostre aspettative. non è molto scoppiettante ma sono sotto esami e l'umore è quello che è, per citare un'altra autrice che a sua volta ha citato Charlie Brown " anche le mie ansie hanno delle ansie" e di cui vi suggerisco la storia che sto seguendo: Miracles Theatre fateci un salto è davvero divertente.

In questo extra ho inserito il punto di vista di Alice, spero vi sia piaciuto, è grazie a lei se i due si sono avvicinati quindi mi sembrava doveroso darle voce^^ Nel suo spazio ho accennato alla situazione dei terremotati e spero che nessuno prenda male la decisione di inserire nel capitolo questa situazione, ho voluto solo mettere per iscritto i miei pensieri. Queste persone hanno perso molto ma continuano a dimostrare una forza d'animo davvero ammirevole.

Bella e Edward dopo anni di tentativi quando meno se lo aspettavano hanno avuto il loro bambino e poi un altro e ora possono dire di essere uan famiglia felice e unita. La rottura di Edward con il padre credo fosse inevitabile, avevano due punti di vista così diversi che non potevano coesistere, la questione però rimane aperta, si riavvicineranno? lascio a voi immaginare come andrà.

Ringrazio ancora tutti per avermi seguito in questa avventura e se non vi siete ancora stancati di me fate un salto nella altre mie storie. I nuovi lettori sono sempre accetti : )

Vi ricordo la mia pagina facebook per avvisi, anticipazioni o se volte chiedermi qualcosa,...


 

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