Mad Tea Party

di Vitani
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** La Rosa dell’Inverno s’è svegliata ***
Capitolo 4: *** Il petalo del Giglio Bianco che si schiude ***
Capitolo 5: *** Il Contatto del Giglio e della Rosa ***
Capitolo 6: *** Il Nuovo Contatto del Giglio e della Rosa ***
Capitolo 7: *** L'Amicizia del Giglio e della Rosa ***
Capitolo 8: *** Il Giglio Bianco che insegue il Sole ***
Capitolo 9: *** L'Attesa della Rosa ***
Capitolo 10: *** L'Incontro del Giglio e della Rosa ***
Capitolo 11: *** La Notte del Giglio e della Rosa ***
Capitolo 12: *** La Proposta della Rosa ***
Capitolo 13: *** I Sogni di una Rosa ***
Capitolo 14: *** Il Destino del Giglio Bianco ***
Capitolo 15: *** Intermezzo - Biancaneve e i Sette... Nani ***
Capitolo 16: *** Il Giglio Bianco e la Farfalla ***
Capitolo 17: *** I Cinque Petali della Rosa ***
Capitolo 18: *** Divertimento di un Giglio Bianco ***
Capitolo 19: *** Il Gioco della Rosa dell'Inverno ***
Capitolo 20: *** Le Confessioni del Giglio Bianco ***
Capitolo 21: *** Le Perplessità della Rosa dell'Inverno (e i Ventidue Anni del Giglio Bianco) ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


- Mad Tea Party -

Disclaimer: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo


- Mad Tea Party -



PREFAZIONE



Mad Tea Party nasce come “opera omnia”, un’opera con cui Vitani abbandona per un po’ Saiyuki e si trasferisce di nuovo nel regno del jrock.

Un regno sconfinato, ma anche fonte di nuove e notevoli ispirazioni data la spesso arcinota eccentricità di alcuni suoi membri di spicco.

Questa storia, che probabilmente sarà articolata in venticinque capitoli al massimo, forse anche di meno, parte dalla molto ambiziosa quanto rischiosa idea di inquadrare qualcosa come quasi vent’anni di carriera artistica ma soprattutto di affetti.

Premetto che il mio obbiettivo è quello di creare una storia che sia leggibile e godibile da tutti, anche da chi non conosce il mondo del jrock.

Mana mi perdoni, ma ho intenzione di trattarlo quasi fosse un mio personaggio originale… (sa quanto lo amo, spero che chiuda tutti e due gli occhi! XD)

Infatti, il protagonista principale sarà Mana, coadiuvato dall’onnipresente Gackt (e sì, non è necessario dire che si tratta di una yaoi, vero?).

Mana che verrà preso dall’età di circa ventidue anni (si parla dei primi anni ’90) fino ai giorni nostri (in cui si presume che abbia trentasei, trentasette anni).

Man mano che si andrà avanti verranno aperti piccoli scorci sul loro passato, sul loro modo di pensare, insomma, quello che voglio sono dei personaggi “a tutto tondo”, presi a 360 gradi, nei loro punti di forza e di debolezza.

Molto sarà frutto di ipotesi e deduzioni basate su interviste, testi, perché no anche voci di corridoio (sono proprio queste a far speculare più di tutti, spesso e volentieri).

Ho intenzione, per tutto quello che è certo, di attenermi quanto più possibile alle mie fonti per ciò che riguarda gli avvenimenti.

Per quanto riguarda il finale, lo ho più o meno in mente anche se probabilmente sarà soggetto a cambiamenti in corso d’opera. Dipende tutto da come si metteranno le cose, anche perché prevedo che questi personaggi non saranno del tutto semplici da gestire. Spero che riusciranno ad essere vivi.

Prima ho parlato di “opera omnia”, e ora spiego il perché: come forse saprete, ho già scritto alcune oneshot su Mana e Gackt, ma mai un’opera così lunga. Addirittura pensavo che dopo “Decima Croce”, ultima in ordine cronologico, avrei smesso di scrivere su di loro. Invece, m’è balzata in mente l’idea di una fanfiction lunga che fosse leggibile anche come original e riassumesse quello che per me furono Mana e Gackt, e forse quello che saranno. Insomma, dirò tutto quello che ho da dire, poi non so se mi sentirete più parlare di loro. Quel che è certo è che ne avrò per un bel po’ con questa fanfic, quindi ci terremo compagnia per parecchio! ^^

Spero che mi seguirete in questo tè di matti, se tutto va bene ce la godremo alla grande!!

Vitani

(2 Febbraio 2007)

PS. Un augurio a Ukyo Kamimura, alias Kami, nato il 1 Febbraio 1972 e morto il 21 Giugno 1999 a soli ventisette anni. Stammi vicino anche tu.

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Capitolo 2
*** Prologo ***


- Mad Tea Party -

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PROLOGO

 

Buonasera, Londra! Chi vi parla è un uomo ricco e di buon gusto!

- si toglie il cappello e s’inchina all’antistante platea -

Chi sono io? Io non ho un nome, ma se proprio volete potete chiamarmi V. Oh, so che non siamo a Londra, e no, certo che V non è l’iniziale dell’autrice, come vi viene in mente?

Io sono un povero e sciocco intrattenitore qui venuto a rallegrare lorsignori con questa piccola storia che mi appronto a raccontare.

Ordunque sedete, sedete, accomodatevi e siate lieti, preparatevi una tazza di tè ed entrate nel nostro bosco delle meraviglie, smarrendovi come la piccola Alice in un mondo fatto di sogni e di colore, dove niente e quello che sembra e quello che è reale non lo è.

Entrate nel mondo dello specchio!

Pensate con calma a ciò che volete, perché sarà lunga la nostra epopea e parlerà di anni, anni, anni di tormenti e di un amor quasi cavalleresco fra una dama e un cavaliere.

Chi è la dama e chi il cavaliere io non lo so, ma non a caso le mie parole scelto ho.

Simile ad una fiaba è questa storia, dove la dama e il cavalier rincorrono l’amore con solerzia, pronti in nome di esso a dare tutto. Si leggeranno lacrime, amore, risate e fremiti di gelosia, d’angoscia e di paura. Saranno tormentosi i nostri canti, piene di gioia le risate, e se malinconia occuperà il cuore, ci basterà cantare una canzone.

Oh, ecco, è pronto il tè! E fintanto che lo sorseggiate, quieterò le vostre domande che già insorgono.

Chi sono i protagonisti, chiederete: ebbene sono due, più i comprimari.

Un ragazzo ed un ragazzo son la dama e il cavaliere, anche se, come già detto, chi sia l’uno e chi sia l’altro non c’è dato di scoprire.

L’uno è Mana, oscuro e dolce, simile per bellezza ad uno spicchio di luna piena in primavera, dalle chiome nere, fulgenti come ali d’un corvo contro il vento, ed occhi anch’essi neri come abissi.

L’altro è Gackt, principe dalle chiome corte d’autunno e dagli occhi del color delle nocciole.

Fu per destino che s’incontrarono e per destino s’incontreranno ancora, finché resteranno a risuonare le note di questa mia canzone.

Benvenuti, dunque, nel Bosco Delle Meraviglie.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** La Rosa dell’Inverno s’è svegliata ***


- Mad Tea Party -

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ATTO PRIMO, SCENA PRIMA

-

La Rosa dell’Inverno s’è svegliata

 

 

Indolente, svogliato come un gatto contro il sole di mezzogiorno rimaneva lì, fermo immobile e simile in tutto e per tutto al manichino di legno di una boutique. Portava dei pantaloni da ginnastica larghi e tutti lisi, di uno sfatto color blu violaceo. Si guardò i piedi nudi, piccoli come quelli di una ragazza. Strano ma vero, gli piacevano i suoi piedi. Anche se non li mostrava quasi mai.

Doveva prendere un paio di calzini, o si sarebbe buscato un bel raffreddore. Era gennaio pieno, e non faceva esattamente un caldo tropicale. Ah, non gli andava di alzarsi, stava troppo bene adagiato mollemente su quel suo divano foderato di pelle candida come un antico romano sul triclinio.

I suoi nerissimi occhi a mandorla osservavano con assurda ipnotizzata contemplazione uno di quei suoi due piedini, che aveva sollevato fino a poterselo toccare con le dita. Nemmeno gli altri aveva voglia di vedere.

«No, no, no», mormorò curiosamente giocherellando con quel piede pallido come il latte, scuotendo meccanicamente la testa come un bimbetto in inesplicabile atto capriccioso.

«Io con Tetsu ho chiuso, chiuso, chiuso.»

Arricciò le labbra sottili – di un rosa che sembrava finto ma non lo era – in una smorfietta di disappunto. Era dunque tutto destinato a concludersi così in fretta?

«Ah, ma se non è neanche cominciato!»

Saltò su velocemente come una molla, rimanendo seduto a gambe incrociate e dondolandosi avanti e indietro avanti e indietro e guardando il soffitto bianco del suo appartamentino di Tokyo. Era difficile mantenersi facendo musica.

Si soffiò la folta frangia nera fuori dagli occhi, senza avere la minima voglia di scansarsela con le mani che teneva intirizzite sotto i piedi, e rabbrividì di freddo dentro un maglione bianco che portava.

Ributtandosi giù lungo disteso sul divano – accidentaccio, ma da quando era diventato così pigro? – pensò di andare a prendere una coperta, un plaid, un po’ di paglia, qualsiasi cosa che l’avesse intiepidito un pochino. Aveva acceso il riscaldamento? Oh yes, sir. E aveva pure la notevole fortuna di sopportare meglio il freddo del caldo. Che cosa voleva di più dalla vita?

Una tazzona di latte caldo coi biscottini, ecco cosa voleva.

Si risollevò seduto con la stessa soffice rapidità di un serpente che striscia sulla sabbia – immobilizzandosi per un singolo istante come sopraffatto da un pensiero – e si grattò la testa pensosamente, mentre la sua lingua andava ad inumidire le labbra un po’ insecchite.

C’erano tante cose che doveva fare, doveva anche pettinarsi i capelli, quei lunghi capelli che guai se si fossero rovinati! Erano un po’ il marchio di fabbrica del suo insano e imprevedibile senso della ribellione, le sue chiome.

Lunghe, lunghe, lunghe, ondulate per via della treccia in cui le raccoglieva, morbide, morbide, morbide come quelle di una principessa. Oh be’, solo che erano nere.

Nere, nerissime, corvine, come avrebbe potuto averle una strega cattiva – o perché no, pure Biancaneve – gli correvano giù fino alle cosce e quello di cui andava fiero era che erano tutte sue e originali, niente extensions.

Scattò in piedi all’improvviso, e per fortuna che abitava da solo, si infilò le pantofole e diresse i suoi passi verso la cucina.

Per la famosa tazzona di latte che aveva la precedenza anche sul capello in quel momento.

Lungo il pur breve tragitto passò davanti a un grosso specchio da parete, dalla fine cornice intarsiata in legno scuro, e dapprima lo ignorò poi tornò mortificato sui suoi passi e si fermò.

Si guardò.

Occhio scuro nero peggio del capello, sguardo brillante, brillante il cervello. Inarcò le sopracciglia a cercare tutti quei suoi lievi difettucci visibili che conosceva abbastanza bene da saper evitare. Forse ventitre anni erano ancora davvero troppo pochi per le rughe, specie per un orientale. Ma in fondo, meglio prenderle per tempo le cose.

Si portò due dita – che erano corte, erano tozze, ma sapeva bene quant’erano in gamba – alle labbra.

«Bacio, Mana-chan.»

E schizzò via.

 

Venti minuti dopo – e s’era infilato un paio di innocui calzini bianchi mentre aspettava che il latte si scaldasse – stava sorseggiando con un certo qual senso dell’eleganza quel suo buonissimo latte bollente da una tazzona di Doraemon.

La grossa testa blu del gattone salutava allegramente dal lato esterno della tazza (e il manico era blu), mentre lui, Mana, si inghiottiva due seducenti pasticcini al cioccolato.

Oh, adorava i dolci lui! Anche perché fondamentalmente non aveva problemi di linea, altrimenti li avrebbe adorati un po’ di meno, temeva.

Ma lui era un bel ragazzo magro, dalla pelle candida come la neve, gli occhi neri e i capelli neri.

E, cosa più importante, aveva ventitre anni e davanti una vita intera.

Volle accendere la televisione, stranamente. Non la guardava mai, poco gli piaceva. Un poco di zapping, giusto quel tanto che bastava a fargli sgranchire le dita coperte a mezzo da un paio di guanti neri tagliati all’altezza della prima falange.

Chiuso.

Lo schermo del televisore tornò nero pece. Sempre meno dei suoi capelli, comunque.

Prese un’altra sorsata, sentendo il bollente liquido incendiargli esofago e stomaco e benedicendolo in via diretta per quell’ondata di calore.

Se ne stava accucciato su un cuscinotto grosso soffice e spumoso, col tendaggio delle chiome ondulate a guardargli le spalle e gli occhi che vagavano meravigliosamente lucidi su quella che era casa sua. Pensò di avere del cioccolato sulle labbra, e le premiò con una lieve pressione del polpastrello dell’indice proprio al centro del labbro inferiore. Era rimasta effettivamente una piccola orma marroncina che leccò via immediatamente, quietamente sbrigativo e lezioso.

C’era così tanto silenzio… oh, era naturale, e a lui piaceva. Stava bene così, principe meraviglioso del suo meraviglioso regno. Né altri principi né principesse c’erano a turbarlo, no.

Giusto il pensieruccio ignobile e relegato in un angolo delle bollette da pagare. Non che spendesse chissà quanto, essendo da solo; tv non ne vedeva quasi mai, se si escludevano le videocassette, i programmi di cucina e ogni tanto i cartoni animati. Se capitava pure qualche film. Più che altro cucinava, cucinava, cucinava e leggeva shoujo manga.

Ah, e collezionava pupazzetti di Doraemon. Ne aveva piena la casa, era una cosa che aveva portato avanti fin dall’infanzia quella.

Poggiò la tazza vuota sopra un tavolino basso – l’avrebbe lavata più tardi quella, e portò via il vassoietto coi pasticcini.

Calava presto la sera d’inverno, la vedeva insinuarsi nel cielo inseguendo il tramonto, silenziosa e tenace come un leopardo blu screziato del grigiognolo delle nubi che il vento gli aveva spruzzato addosso. Un paio di mesi ancora e sarebbero stati ventiquattro anni. Per chi pochi, per chi troppi.

Fu stiracchiandosi che guadagnò di nuovo il piccolo salotto, divertendosi a inarcare il suo corpo per sciogliere ogni vertebra.

Passò davanti allo specchio, e allora i suoi occhi neri si fermarono, puntando qualcosa di nero come loro, poggiato crudelmente e solitario contro una parete dalle parti della porta d’ingresso.

Sì, sì. L’avrebbe suonata, la sua chitarra, una chitarra nera di cui aveva riempito il bordo di scrittine e ghirigori azzurri in occasione dell’ultimo live della sua band, e che da allora non aveva più ripulito. Ci aveva scritto sopra “Malice Mizer”, disegnato un paio di croci, due riccioli, altre cosette stupide.

E sì, i Malice Mizer erano la sua band. Sua, ma proprio sua, e la cosa lo inorgogliva non poco.

Gli venne da sorridere, e in effetti lo fece, e guardando al soffitto fu ancora grato di quella sua solitudine. Una casa – quella casa – per fortuna era riuscito a comprarla in qualche modo (anche grazie all’aiuto finanziario dei suoi, doveva ammetterlo) ma ancora non aveva finito di pagarla.

Oltre ad una carriera musicale in fase di avviamento, comunque, portava avanti anche qualche lavoro occasionale. Doveva pur arrivare a fine mese in qualche modo, per quanto la sua notevole mente gli ululasse che ben presto sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe potuto mantenersi solo con la musica. Fino a quel momento s’era sempre fidato del suo cervello e gli era sempre andata bene. Bastava continuare su quella strada, che c’era di difficile?

Si guardò con una breve occhiata fuggevole le mani dalle dita corte e tozze, con le unghie smangiucchiate ma non troppo e smaltate di nero. Un lampo, breve breve, di incertezza nelle iridi nere e poi un sospiro. Andò a prendere in mano la chitarra, soppesando la paletta e provando due o tre accordi senza amplificatore. Anche se non provava più con gli altri da qualcosa come un mese e mezzo, non voleva dire che non suonasse.

Collegò il piccolo, rettangolare amplificatore da una ventina di watt che usava per suonare in casa e che ovviamente era sempre lì nei paraggi, regolò i pick-up e ripassò la sua scaletta di composizioni.

Ah, doveva accordarla.

La poggiò stancamente sul divano, e filò a cercare uno dei suoi diapason. Preferiva usare ancora quello di strumento, pur se non sapeva bene il perché. Forse solo perché gli piaceva un mondo quel “tlin” assolutamente puro e cristallino che emetteva il diapason.

Quando finalmente il plettro sofficemente toccò le corde ed esse emisero il suono che erano effettivamente deputate a emettere, la prima canzone che gli venne in mente fu “Gogo no sasayaki”. Roba sua quella canzone, come del resto quasi tutti i brani della band, testi a parte. Lui, Mana, non scriveva. Era per la composizione che era portato, e molto, e fortuna che se ne era accorto presto.

La provò una volta, due, la terza la lasciò perdere a metà, sopravvenutogli in mente l’allettante pensiero di ascoltarsi Bach. Nutriva verso quel compositore un interesse che andava al di là della mera adorazione: era stato il compagno della sua infanzia, forse già da prima che uscisse dal grembo di sua madre, con lui era venuto su nella prima adolescenza, lui aveva imparato ad amare più di tutti fra i compositori classici.

A lui si ispirava.

Sospirò di subitaneo piacere quando le note del Clavicembalo ben temperato iniziarono a risuonare per la stanza, chiuse gli occhi e si allungò pigramente sul divano abbracciando la chitarra e facendo penzolare i piedi fuori dalla sponda.

Forse si sarebbe addormentato, forse no. Poteva dormire ovunque e in qualunque momento, lui, e quasi ci sperò. Invece quei pozzi neri che aveva per occhi restarono immoti e fedeli a fissare il soffitto bianco di quell’appartamento, mentre lui si perdeva dietro ad un piccolo pensiero pungolante che gli rodeva il cervello e che gliel’avrebbe torturato finché non avesse trovato una soluzione.

Quel piccolo pensiero aveva un nome, era un nome: Tetsu.

Tetsu Takano era più piccolo di lui di un paio d’anni, era il loro vocalist o per meglio dire lo era stato, con particolare attenzione per il verbo al passato. Lo avevano reclutato poco dopo la formazione della band, dopo averne ascoltato più di uno (e aver pure tentato di far cantare il loro bassista): belloccio, con una buona voce vibrante, suonava la chitarra e scriveva testi piuttosto affascinanti. Avrebbero dovuto lavorarci, ma poteva andare ed era andato in effetti, per un paio d’anni. Fino a un mesetto e mezzo prima in realtà, quando lui, Mana aveva finalmente deciso di dargli il benservito. Oh, non che si fosse trattato di un improvviso eccesso di rabbia, anzi tutt’altro… si parlava di qualche mese di accurati pensieri, di parole, di ascolti, di prove. Lui ci aveva ragionato e ragionato e ragionato, cercando di dare un senso logico a quel che la sua acuta mente andava partorendo, tentando di comprendere cosa effettivamente fosse quel tarlo d’insoddisfazione che sempre più spesso lo portava ad arricciare le labbra in una poco dissimulata smorfia quando udiva Tetsu cantare.

Intanto i Malice Mizer ingranavano: piano, ma ingranavano. Nel corso di quei due anni avevano sfornato le prime demotape, poi s’erano prodotti il primo album, “Memoire”, e una versione deluxe dello stesso. Cominciavano ad essere noti nel giro delle livehouse, e ogni volta riempivano i palcoscenici, per quanto piccoli fossero, di piante e decorazioni varie tanto che alla fine sembrava che si stessero esibendo in una giungla camuffata da presepe – per via delle lucine intermittenti attraverso cui si muovevano, sia chiaro. Avevano un giro di fans, e anche se i soldi scarseggiavano c’era comunque soddisfazione.

In tutti, ma non in lui, non più. Non era quello il livello a cui aspirava. Lui voleva volare in alto, e sentiva di poterci riuscire, ne aveva quasi la certezza, aveva i suoi sogni, la sua volontà, la stessa che l’aveva spinto da Hiroshima – la sua splendida ma provinciale città natale – prima ad Osaka e poi a Tokyo.

Tuttavia… tuttavia ogni volta che guardava e sentiva Tetsu cantare, gli balzava in testa quella piccola fetida turlupinante idea – forse – che lui non fosse quello che cercava. Che lui non fosse quello che avrebbe permesso ai Malice Mizer, alla sua band, al suo sogno di prendere il volo. Sempre più aspramente l’aveva redarguito, ogni qualvolta non riuscivano ad armonizzarsi, sempre più indifferentemente l’aveva guardato. Finché non gli aveva definitivamente detto basta, un mese e mezzo fa.

Ci ripensava osservando, scrutando perennemente quel soffitto bianco senza che sulla sua pelle color latte comparisse una ruga, un segno d’espressione. Appena appena un solco di disappunto gli aveva attraversato la fronte in una perfetta linea verticale esattamente in mezzo alle sopracciglia delicatamente inarcate, anch’esse nere e nette come se tratteggiate a china.

Aveva esposto la sua band a un rischio notevole, questo lo sapeva. Aveva premuto, aveva oppresso più o meno in silenzio finché il cantante non se ne era andato, aveva lasciato i Malice Mizer senza una voce che fosse una proprio nel momento in cui iniziavano ad avere quel pochino di visibilità che magari li avrebbe lanciati.

Che poteva dire per scusarsi? Oh, ma lui non voleva affatto scusarsi. Anzi, la sua pelle il suo cuore e l’istinto gli avevano solo comunicato per tempo che con Tetsu non avrebbero mai oltrepassato un certo limite. Sì, era certo di aver fatto più che bene a seguire quel suo principesco, avvolgente desiderio.

Ora bisognava solo trovare qualcuno che raccogliesse il testimone. Qualcuno a cui i requisiti che aveva tessuto stessero bene addosso come una seconda pelle. Qualcuno che per stare con loro, con lui, ci fosse nato.

Si morse quietamente le sottili labbra rosa, senza badare al piccolo solco che vi lasciò impresso.

Perché no, qualcuno che i suoi desideri li condividesse… e che capisse che loro non erano fatti per stare in quel mondo, ma che il mondo se lo sarebbero creati a piacimento, l’avrebbero modellato su misura attorno alle loro cinque figure come sarti perfetti.

Il suo sguardo nero calò placido come calava la sera, su uno dei dipinti appesi al muro. Brillarono, luccicarono di sorniona beatitudine i suoi occhi.

Non era preoccupato, per questo riusciva a starsene così quietamente disteso su un divano, a guardare con occhi intenti un quadro fatto da lui stesso. Amava rappresentare ciò che credeva sarebbe stato in futuro, e in quel futuro vedeva una stella, una decadente, luminosa, più che mai splendida stella.

Si portò due dita alle labbra, le sollevò finché si stagliarono scure contro il candore del soffitto e in ciò che vedeva, a voce bassa lasciò un sussurro: «Bacio, Mana-chan.»

Viveva nel futuro che si sarebbe creato, ragazzo ventitrenne di Hiroshima, dai lunghi capelli neri e dalle pupille color del buio, che guardava allo specchio un viso un po’ da ragazza con gli stessi occhi di un amante e di un estraneo, che viveva di assurdi passatempi e che assorbiva il colore di un dipinto stando steso su un divano, con una chitarra fra le braccia.

Lui era l’angelo, lui era il demonio.

Lui era Mana.

 

 

- continua -

 

N.d.A. Bene, benissimo. Dopo aver terminato il primo capitolo ho già la certezza di essere entrata in un tunnel da suicidio. Cercare di inquadrare Mana non si può, ci ho quindi provato molto poco. Un po’ vanitoso, un po’ innocente, un po’ primadonna, un po’ smaliziato, un po’ ingenuo, un po’ arrogante, sognatore, passionale, egoista. Tempo per modificarlo un po’, così come per tornare su certi punti che vorrei approfondire, dovrei averne in abbondanza in seguito. Mi auguro comunque che lo gradirete!

 

(con tante scuse ad Alan Moore)

Vitani

 

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Capitolo 4
*** Il petalo del Giglio Bianco che si schiude ***


- Mad Tea Party -

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ATTO PRIMO, SCENA SECONDA

-

Il petalo del Giglio Bianco che si schiude

 

 

Rovente, bruciante, corrosiva come la maledetta ruggine, sentiva quella sensazione nello stomaco, come se qualcuno glielo stesse raschiando con la carta vetrata. Eppure buttò giù, buttò giù, buttò giù ancora fin dove poté. Lui non era inferiore a nessuno in niente, neppure in quello.

Neppure nella più tragica e invereconda bevuta con gli amici che ricordasse.

Gli avevano infilato un altro bicchiere in mano, che roba era, rhum, whisky, birra, tutte e tre le cose assieme? Non ci capiva nulla di nulla di nulla, a malapena distingueva i colori, figuriamoci il sapore! La sua bocca era ormai un unico, umido, straordinariamente pastoso ammasso di saliva.

La aprì, la richiuse, parlò o per meglio dire miagolò qualcosa – non essendo del tutto incline a pronunciare parole di senso compiuto – tracannò ciò che c’era di alcolico nell’immediato raggio delle sue dita, si sentì andare definitivamente a fuoco e allora tentò di stringere le labbra  sapendo che avrebbe vomitato.

Porca troia, ma come c’era finito in quel locale?

Cercò di trovare una risposta, vagò nei meandri del suo cervello che la nebbia aveva spappolato in una fanghigliosa gelatina organica. Frattanto il liquore gli vagolava giù per lo stomaco e nelle zone attigue, arrivando fino alla pelle sottoforma di un abbondante strato di sudore.

Sentiva un caldo mortale, allucinante.

«You, ti voglio bene!» sentì qualcuno dire. Ah, no, era lui che aveva parlato.

Vide o meglio credette di vedere il ragazzo altissimo che aveva seduto accanto – con una birra chiara in una mano e l’altra che gesticolava proprio al suo indirizzo – ridacchiare e rispondere: «Anche io ti voglio bene, Satoru

Satoru… lui si chiamava Satoru? Ah, temeva proprio di non ricordarselo.

Scoppiò a ridere di sguaiata beatitudine, agitando una mano contro You e sputacchiando alcol ovunque. Sì, forse era andata che aveva accettato una di quelle sfide di bevute – perché lui non perdeva mai, mai, mai, rifiutava anche solo di concepirla la sconfitta! – e in effetti non s’era ancora dato per vinto, continuava a buttar giù tutto quello di cui gli riempivano al bicchiere, principalmente per inerzia che non per altro.

Ahia, questa era vodka secca… quanto gli mancava per crollare? No, non sarebbe crollato.

Ovunque attorno a lui vedeva solo e solo facce che ridevano ma non capiva perché.

«Voglio andare in bagno…» rantolò a fatica, mentre il mondo nella sua testa gironzolava bel bello per gli affari suoi lasciandolo completamente stordito e stupefatto.

«Ti odio, ti odio », biascicò svenevolmente agitando la testa senza neanche sapere verso chi «E mi chiamo… Gackt… Gackt Camui, non Sa… toru

Anche gli altri avevano bevuto, anche se non riusciva bene a ricordare quanto. Meno di lui, probabilmente. Sicuramente.

Vide quel gigante di You, ragazzo alto e magro dalla faccia inspiegabilmente cavallina girarsi verso di lui e si costrinse a spalancare gli occhi per metterlo a fuoco, cosa che in ogni caso gli riuscì solo in parte.

«Satoru…»

«…Gackt…»

«Va bene, Gackt,» You gli stava parlando? E perché mai, se a malapena riusciva a sentirlo? Perché le parole gli arrivavano così piano e lente come ippopotami obesi? «ascoltami, tu ti chiami Satoru Okabe e sei nato ad Okinawa nel 1972, ok?»

Strusciò la testa contro il piano umido di alcol del tavolo, imbrattandosi festosamente i capelli un po’ lunghi che recentemente aveva tinto di castano: «Sono nato… nel 1500… in Norvegia.»

Seppe che You ci aveva rinunciato quando non sentì più alcun urlo diretto verso le sue povere orecchie martoriate. Ci avrebbe lasciato lo stomaco, questa era la volta buona che ci rimetteva lo stomaco, doveva vomitare cazzo! Cazzo cazzo cazzo!

Forse l’aveva detto ad alta voce, perché tutti s’erano girati a guardarlo. Forse aveva urlato, e il locale era strapieno di gente. Era marzo inoltrato, ma a Kyoto quell’anno faceva ancora freddino, anzi diciamo un freddo della miseria, pure se lui in quel momento aveva talmente caldo che si sarebbe spogliato.

Si chiamava Gackt CamuiSatoru Okabe all’anagrafe e nella mente dei suoi genitori – ed era un affascinante ragazzo robusto di ventun'anni coi capelli lisci – e gli arrivavano alle spalle –  tinti di castano, gli occhi di un bel color marrone scuro, palese eredità di un suo nonno europeo.

In quel momento era sulla strada di casa, accompagnato in macchina da You – per fortuna che esisteva quel ragazzo e per fortuna che la polizia non li aveva ancora beccati – e stava ad occhi chiusi con una tempia spalmata contro il finestrino, cercando un qualche irraggiungibile sollievo al continuo martellio del suo cervello in rovina.

«Certo che te la sei presa proprio grossa la sbronza stavolta!» gli stava dicendo You. A lui di tutto ciò che aveva detto arrivò solo la melliflua risatina finale. Si accucciò meglio sul sedile con una smorfia dolorosa sulle labbra carnose, cercando di evitare che lo stomaco ne soffrisse troppo.

Poté permettersi l’emissione di un ultimo, liberatorio, estremo rantolo di dolore solo dopo che il suo amico se ne fu andato – non prima di averlo scaricato sul letto del suo appartamento. Lui aveva preteso che spegnesse tutte le luci, perché con la testa in quelle condizioni traumatiche – mal di testa da metabolizzazione-sbronza-colossale – non avrebbe sopportato neppure il più piccolo rumore. Massimo massimo la lucina fioca e carezzevole di una candela che però non era  del tutto sicuro di essere in grado d’accendere.

Fu improvviso come una cannonata istantanea e deflagrante in pieno deserto quello stramaledetto suono che dopo avergli fatto tirar giù mezzo aldilà in forma di poco eleganti imprecazioni lo costrinse ad arrancare stoicamente verso il bordo del letto, verso quell’accidenti di telefono che un qualche deficiente gli stava facendo squillare nel mezzo della notte quando ogni essere dotato di ragione se ne sarebbe stato a dormire.

«Pronto…»

Gli costò una fatica immane strascicare quella parola con una bocca impastata che a malapena riusciva ad aprire.

«Pronto, Satoru! Ubriaco eh? Sono Takeshi

Era una voce allegrissima quella che stava ascoltando, e sentiva dall’altra parte un casino non indifferente e della musica alta, molto alta, forse chiunque fosse era in un karaoke… poi si ricordò di Takeshi, un suo amico trasferitosi a Tokyo per motivi di studio.

«Che cosa vuoi?»

Gackt roteò maldestramente le pupille nel buio, ricollegando quella voce ad una cespugliosa massa di capelli crespi, e infine ad un viso – certo, non che gli ettolitri di alcol che gli stavano sbudellando allegramente le vene in quel momento lo aiutassero. L’altro stava ridendo, e di riflesso pure Gackt cominciò a ridacchiare senza accorgersene.

«Ti ricordi di quel mio amico di cui ti ho parlato, quello che sta qui a Tokyo, Mana?»

Si concentrò a fatica su quelle tre parole: “amico”, “Tokyo”, “Mana”. Ci rifletté – o quanto meno ci provò mirabilmente – e gli venne in mente che una volta Takeshi gli aveva fatto vedere il cd di un suo amico che aveva conosciuto a un concerto e che aveva una band a Tokyo.

Malamente riuscì a dire di sì, che se lo ricordava. Più o meno.

In realtà l’unica cosa che gli veniva in mente era l’immagine sfocata di un ragazzo più o meno della sua età, che portava una notevole ma stravagante parrucca di boccoli marroni e un cappellone bianco che aveva dell’assurdo. L’aveva visto sul libretto di un album, però non ricordava il titolo né di che genere fosse.

«Vedi, l’ho incontrato qualche giorno fa e m’ha detto che il gruppo è in pausa da qualche mese per problemi col vocalist, dice che ne cercano un altro, posso mandargli una tua cassetta?»

«Fa’ come ti pare…»

Manco ci aveva pensato, semplicemente stava capendo poco o nulla di quello che l’altro gli stava dicendo, e le sue parole erano simili a tante gocce di pioggia che si sfracellavano una dopo l’altra sulle sue orecchie senza che distinguesse un suono che fosse uno.

«Gli posso dare anche il tuo numero di telefono?»

«Dagli tutto quello che ti pare, buonanotte.»

Quando chiuse gli occhi, presumibilmente solo dopo aver lanciato il telefono – che era andato a schiantarsi contro la parete con un tonfo sordo che aveva svegliato l’intera palazzina, s’era dimenticato del suo amico e s’era dimenticato di Mana.

 

Gli occhi li riaprì probabilmente qualche ora dopo – era mattino, in ogni caso – senza ricordare nulla o quasi di ciò che era accaduto poco prima.

Voleva bere, ah, voleva qualcosa, acqua, latte… qualsiasi cosa fosse stata fresca e avesse potuto recargli un po’ di sollievo.

La sua testa sembrava un campo militare saccheggiato. Un emerito squallido inutile amorfo casino e nient’altro. Ebbe comunque piacere di notare che le funzioni corporali basilari le eseguiva ancora.

Riuscì a trascinarsi in qualche modo fino alla cucina, avvolto in un plaid a righe colorate anche se aveva dormito vestito, e socchiuse gli occhi quando se li trovò investiti dai raggi di un sole già alto e primaverile. Oh, almeno lui era allegro.

Tirò fuori una bottiglia di latte e se lo bevve senza neanche il disturbo di versarlo in una tazza; stava morendo disidratato, poteva anche permetterselo, credeva.

Mentre si stava ripulendo la bocca col dorso della mano gli venne in mente uno straziante stralcio della conversazione avuta la sera precedente: ecco il perché del telefono fracassato ai piedi della parete!

Si ricordò di aver parlato con Takeshi, che aveva mandato a qualcuno – ma a chi? – la sua cassetta. La demotape l’aveva registrata coi Cain’s Feel, la band che avevano formato lui, You e il loro amico Ren lì a Kyoto, e conteneva quattro brani: “Lie”, “Etude”, “Marine Blue No Kaze Ni Dakarete” e una versione più lunga della stessa.

Eppure era strano, lui non credeva di essere un grande talento con la voce: non era certo malvagio, ma aveva la voce troppo bassa – anche se, doveva ammetterlo, il suo registro s’era ampliato di parecchio da quando aveva cominciato a fare pratica decentemente. Tuttavia, se la cavava molto meglio, decisamente meglio, col piano e con la batteria.

Decise che sì, era il caso di andare a farsi una bella doccia rigenerante (o almeno sperava che lo fosse). La sera aveva parecchio da lavorare, ed era il caso che fosse in forma. Pregò che You non gli telefonasse per le prove mentre era sotto la doccia, perché l’avrebbe scocciato doverlo richiamare.

Sorrise, pensando a quel ragazzo: era un grande chitarrista, sempre allegro e paziente ma dotato di un carisma incredibile. L’aveva conosciuto una sera, osservandolo esibirsi in un locale, e poi se l’era all’improvviso ritrovato davanti quando aveva lavorato in uno studio di registrazione; ebbene, era proprio grazie a lui se aveva cominciato come vocalist, lui che l’aveva tartassato e tormentato dandogli una settimana di tempo per fare pratica con la voce, finché alla fine non aveva acconsentito – sempre per quel suo intramontabile ed insopprimibile gusto per le sfide.

Aveva pure avuto il coraggio di dirgli che avrebbe dovuto cominciare prima, quello sfrontato!

Erano giorni così, giorni tranquilli, giorni che lui divideva fra le prove della band e il lavoro in un casinò, lavoro che gli rendeva abbastanza da permettergli una vita dignitosa anche senza l’aiuto dei suoi. I primi soldi che era riuscito a mettere da parte li aveva spesi con sua somma soddisfazione per una Ferrari rossa: quella era la sua vera passione, le auto sportive, meglio se straniere (mai, mai gli erano piaciute le auto giapponesi…).

Infine, quando la quiete di quel tempo tranquillo venne sconvolta, quando il solitario telefono abbandonato accanto al letto squillò, non in quel giorno ma in un altro ancora, non era You.

Non era You, era qualcuno che non si sarebbe mai aspettato di sentire.

Qualcuno che non aveva mai conosciuto.

 

 

- continua -

 

N.d.A. Secondo capitolo, secondo personaggio: Gackt Camui. Ci tengo a dire che il personaggio di Takeshi è farina del mio sacco, anche se è vero che Mana e Gackt hanno un amico in comune che li ha presentati. Non hanno mai detto niente di più su di lui, comunque. Sono invece personaggi reali You e Ren, che hanno collaborato con Gackt anche durante la sua carriera solista. Anche i Cain’s Feel sono realmente esistiti. Aggiungo che in realtà non c’è alcuna fonte certa che confermi che il nome di Gackt sia Satoru Okabe, ma così vogliono le sacrosante Voci di Corridoio XD. Per quanto riguarda le abitudini e i trascorsi di Gackt, avrò modo di ritornarci in seguito e in maniera più approfondita, anche perché tra lui e Mana c’è da buttarci giù un’enciclopedia… spero che vi sia piaciuto il capitolo! Un grazie a Narciso per il suo commento! ^_^

 

Vitani

 

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Capitolo 5
*** Il Contatto del Giglio e della Rosa ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -

 

ATTO PRIMO, SCENA TERZA

-

Il Contatto del Giglio e della Rosa

 

 

Era da un piccolo interminabile minuto che teneva sollevata la cornetta bianca del suo telefono. Sembrava indeciso su come utilizzarla, se farci ciò che effettivamente era necessario, cioè portarsela all’orecchio, oppure farne il suo nuovo antistress personale.

S’era svogliatamente, mollemente avvolticciolato attorno a una delle sue tozze dita una ciocchina di quei suoi incommensurabili capelli lucenti come ossidiana nera, e ci giocava con una certa volontaria e palese distrazione mentre aspettava.

Aspettava, già, ma che cosa?

I suoi obliqui occhi scuri vennero illuminati un istante da un brillio di gioia maldestra. Oh, aspettava semplicemente il momento, quello che avrebbe sentito come buono per telefonare, per chiamare quel tale Satoru.

Takeshi gli aveva detto che il “tale Satoru” lavorava in un casinò, arguiva quindi che fosse preferibile non chiamarlo troppo tardi, o avrebbe rischiato di non trovarlo.

Stava accucciato su un bracciolo del divano, col telefono in grembo, era passato a tamburellarsi una guancia con una mano – i capelli dopo un po’ lo annoiavano – e con l’altra tallonava ancora stretto l’apparecchio.

Alla fine decise di dar tregua per un po’ al suo avversario e andò alla toilette a prendere un paio di elastici, il pettine a denti radi e quello a denti fini.

Tornò, si sedette con cura deliziosa, badando a non sciupare gli eleganti pantaloni neri che indossava, e iniziò a sciogliere pian piano i nodi di quel mezzo metro  al minimo  di chiome che curava giornalmente.

Ci mise una mezz’ora solo a fare quello, e si ricordò del suo caro telefono che attendeva paziente il secondo round solo dopo che ebbe raccolto i capelli in una lunghissima trecciona ondeggiante che si avvolgeva sul divano in stile serpente a sonagli.

I suoi occhi neri si posarono poi di nuovo sull’apparecchio, e le sue labbra rosee si socchiusero in una smorfietta assorta che aveva qualcosa di tenero. Studiò con attenzione quell’aggeggio, posando di nuovo le dita sulla cornetta con delicatezza e picchiandola un poco, quasi si fosse trattato di un nemico senziente e pericoloso.

Poi le sue sopracciglia nettissime e scure si inarcarono in un movimento curiosamente involontario, e con uno scatto fulmineo e feroce tirò su da un tondo tavolinetto in legno giusto accanto al divano il foglio su cui aveva appuntato quel numero di telefono.

Lo compose, con dita incredibilmente sciolte e rapide (quando avrebbe creduto di metterci un’eternità!), e attese, attese, e la sua unica espressione di disagio fu un rapidissimo e quasi istantaneo morsetto alle labbra.

Lui l’aveva ascoltata, quella cassetta, e anche molto attentamente, una volta, poi due, poi tre. Per farsene un’idea, principalmente, visto che non era interessato a ricevere delusioni penose per il suo cuore e per le sue orecchie delicate, oltre che per la sua pazienza – elemento questo di cui aveva sempre avuto la spiacevole tendenza a difettare.

Ricordava solo vagamente il momento in cui la sua mano aveva infilato la cassetta nello stereo premendo il tasto play: quello che rammentava fin troppo bene invece era che – povero stolto infame! – s’era blandamente voltato e allontanato per andare a prepararsi una merendina mentre le prime note gli giungevano alle orecchie.

S’era immobilizzato lì, subito, immediatamente, con la schiena ancora leggermente ingobbita nell’atto di camminare, e le sue sopracciglia scure s’erano incrinate in quel modo delizioso che gli faceva apparire una rughetta nel mezzo di una fronte liscia come la porcellana.

I suoi occhi neri s’erano fatti attenti, ed era rimasto per molti interminabili minuti in piedi come un fesso ad ascoltare una voce che cantava da uno stereo. In altre circostanze si sarebbe dato dell’imbecille, ma non quella volta. Quella volta qualcosa di indeterminabile l’aveva bloccato, qualcosa che s’era risvegliato in lui mentre la musica gli solleticava la mente.

Aveva alzato lo sguardo fino ad uno degli innumerevoli specchi di casa sua e aveva visto se stesso stare lì a labbra socchiuse, con le braccia appoggiate al divano con forza elegante, e i suoi occhi neri come l’ombra gli erano parsi d’un tratto lucenti ed incredibilmente acuti, pronti.

Allora aveva capito di aver trovato qualcosa. Qualcosa lo aveva colpito in quella voce, gli aveva attraversato il corpo e aveva messo in moto la sua mente, dicendogli di ascoltare, obbligandolo ad ascoltare.

La demo era finita all’improvviso, troppo all’improvviso, e lui aveva represso un brivido e aveva incredibilmente sorriso suo malgrado, mentre una gocciolina solitaria di sudore gli serpeggiava muta lungo una tempia.

Il silenzio aveva ristagnato, lui aveva ancora quell’espressione rapita nel viso, e batteva le palpebre con l’ossessionata ansia febbricitante di un malato. In realtà voleva solo seguire un pensiero, stava cercando di stare dietro a un suo pensiero che gli attraversava la testa con la velocità di un fulmine e la potenza di un tornado e stava minacciando di spappolargli il cervello se non lo intercettava in tempo. Era una sensazione che quasi aveva dimenticato, e che ora gli stava invadendo cuore e polmoni, ed ogni singola membra.

Cielo, gli era mancata. Gli era mancata immensamente.

Allora l’aveva saputo, l’aveva saputo con certezza matematica, ineliminabile, che i giorni dell’indolenza e della noia erano finiti. Aveva saputo che il tempo era giunto, che doveva rimettersi in moto, riprendere la sua ricerca senza fine.

Il suo istinto glielo stava dicendo, urlando, gridando incessante che quella forse era la volta buona, che non se la doveva lasciare scappare per nessuna ragione al mondo perché se non avesse tentato se ne sarebbe certamente pentito in futuro.

E lui non voleva pentirsi di nulla, voleva vivere in modo da non doverlo fare mai, mai, mai, a costo di andare contro tutto e tutti tranne che se stesso. Mai e in nessun caso sarebbe andato contro ciò che s’era creato, contro ciò che era. Mai Mana sarebbe andato contro Mana.

Attese fino al quarto, quinto squillo, col cuore che gli andava a mille peggio di un bambino che aspetta un regalo, e si diede intimamente dello stupido, sussurrandolo poi a mezza bocca, con una mano che fluttuava a ravviarsi la frangia in un gesto nervoso quasi involontario.

Non doveva farsela sfuggire quell’occasione, il suo intuito glielo sussurrava ora selvaggiamente sottoforma di una strana aspettativa angosciosa mista ad un’eccitazione innocentemente infantile.

Per carità, il cantante non era perfetto, anzi avrebbe avuto molto da lavorare sulla sua voce un po’ imprecisa e bassa, però… come dire, l’aveva anche potente, piena e in un certo qual modo sensuale e ricca.

Fu al sesto squillo che udì la cornetta venire sollevata e sobbalzò di subitanea ed immotivata sorpresa rischiando quasi di lasciar cadere la sua.

« Pronto, qui è Satoru Okabe… »

Era lui, dall’altra parte dell’apparecchio.

A Mana tremarono un poco le labbra, poi chiuse gli occhi, li aprì di nuovo e in simultanea prese fiato.

« Chi parla? », stava chiedendo impazientemente il ragazzo, di cui lui non riusciva ad immaginare in alcun modo il viso.

« Mi chiamo… sono Manabu Satou… »

« Uh? »

« Sono Mana. »

Ottenne solo un disagevole, asfissiante, ridondante silenzio che parve volerlo soffocare uccidendo tutte le sue speranze, e nei suoi occhi si fece strada un lievissimo e palese moto di sconcerto. Quell’imbarazzo non lo abbatté, non bastò e anzi lo spinse ad aprire la bocca e a parlare di nuovo: « So che conosci Takeshi, lui mi ha fatto ascoltare una tua cassetta e ho deciso di telefonarti, spero di non avere disturbato. »

Ancora silenzio, ma il chitarrista percepì chiaramente che all’altro capo del filo qualcosa si stava rianimando. Tamburellò impazientemente le dita sul tavolino in legno, ascoltandone il ritmo – altro suo viziaccio di cui non si sarebbe mai liberato e di cui non gli interessava liberarsi – questo, va detto, anche se i suoi amici avrebbero continuato a maledirlo fino all’eternità per quanto rompeva loro le scatole.

Poi l’altro ragazzo, Satoru, finalmente rispose.

« No, nessun disturbo figurati! Anzi, Takeshi mi aveva parlato di te ora che ci penso! »

…ora che ci penso? Mana inarcò una delle sue nettissime sopracciglia, appena un pelo irritato da quella frase. Strano, eppure aveva sempre creduto di essere uno che in un modo o nell’altro si ricordava. Si lasciò sfuggire un leggero, accennato sospiro, più per sfogare in qualche modo quella piccola e pungolante irritazione che non per farsi coraggio, e continuò: « Sì, be’, volevo soltanto complimentarmi con te, trovo che tu abbia una voce molto interessante. »

Lo sentì ridere con allegria e ancora una volta ne fu un poco sconcertato, accigliandosi appena senza neppure rendersene conto.

« Interessante? » gli stava chiedendo Satoru.

Mana annuì a se stesso, poi ricordò di stare parlando al telefono e rispose di sì, che la trovava piuttosto particolare.

« Davvero? » Satoru gli sembrò genuinamente sorpreso « Pensa che a me invece la mia voce non piace affatto, anche se non sei il primo a dirmi che non è malvagia. »

Non era il primo…? La cosa non gli piacque, non gli piacque affatto, oh nossignore. Capì che qualcosa doveva fare, o il ragazzo gli sarebbe scappato prima ancora che lo catturasse ed era un’evenienza che doveva prevenire a tutti i costi. Lui, Satoru Okabe, era probabilmente quello che gli serviva e non ne avrebbe più trovato un altro così se se lo lasciava sfuggire. Lo sentiva fin troppo chiaramente per confondersi, quindi o dava retta al suo istinto o faceva meglio a rinchiudersi e non farsi più vedere.

« Ecco, vedi… » ci pensò su, poi optò per un comportamento più diretto « in realtà se ti ho chiamato c’è anche un altro motivo. Penso che tu lo sappia, ho una band. Ci siamo già prodotti un paio di album, ma al momento siamo in pausa per via di alcuni problemi col cantante, che in ogni caso se ne è già andato. Io ne sto cercando un altro, perché… perché io non voglio smettere, non mi voglio fermare ora. Non voglio. »

Aveva abbassato gli occhi e socchiuso le palpebre, esalando involontariamente quell’ultima frase in un sospiro che sapeva d’amaro e d’acido nella sua bocca come se avesse ingoiato dell’arsenico. Lui non si sarebbe fermato, mai. Mai sarebbe andato contro se stesso, mai fin quando avesse avuto sentimenti, anche se la ragione l’avesse abbandonato molto prima lui sarebbe andato avanti fin quando avrebbe potuto. Lui non era fatto per essere una persona qualunque, non ne aveva la stoffa, anche se quante innumerevoli volte l’avevano esortato, quasi supplicato a provarci, ad essere uno qualsiasi!

Ma lui era Mana, solo Mana, e chi era Mana non lo sapeva e se lo chiedeva sempre e sempre ogni volta che i suoi occhi raggiungevano uno specchio e vi vedeva la sua immagine riflessa, spesso senza riconoscersi. Mana era un uomo, ma cos’era un uomo? Era questa la sua domanda, e invano viaggiava verso la risposta attraverso il mare in tempesta del mondo in cui viveva, sapendo che non l’avrebbe trovata mai, e stupidamente andando lo stesso avanti. Lui degli uomini vedeva la malizia e la miseria, e attraversava le onde di quell’oceano infuocato ed infido con solo i suoi Malice Mizer.

Ma una mareggiata aveva spezzato lo scafo, un petalo s’era staccato inabissandosi in un’acqua stagnante di bonaccia, per colpa in buona parte sua sì, non lo negava né era in alcun modo pentito. Dovevano ritrovare il vento, dovevano ripartire, e lui sapeva, sapeva che con Tetsu si sarebbero infranti al primo scoglio. Era stato lui, proprio lui la mareggiata.

Silenzio, da parte di Satoru, e Mana seppe che non era buon segno.

« Mi dispiace, Mana-san – posso chiamarti così? – ma vedi, io ho già la mia band qui a Kyoto e… »

Mana tacque, ma prima che se ne accorgesse di nuovo già parlava, con una voce bassa e flebile e tuttavia determinata, la voce di uno che non avrebbe mollato.

« Okabe-san, non ti chiedo di essere il nostro nuovo vocalist, so che hai già il tuo gruppo e non vorrei mai costringerti a lasciare, soprattutto visto il fatto che noi stiamo a Tokyo e tu hai la tua vita a Kyoto… però sai, ascoltandoti e dando uno sguardo ai tuoi testi, ho pensato di avere di fronte una persona piuttosto singolare e come dire… volevo parlarti almeno una volta. Anche solo per farti i complimenti. »

Non s’era accorto, Mana, di quanto il suo tono fosse andato vicino a una supplica.

« Ti ringrazio,  » si sentì rispondere « mi ha fatto molto piacere conoscerti, davvero. Takeshi mi ha parlato bene di te, e prometto che ascolterò il tuo album appena ne avrò l’occasione. Anzi, se mi lasci il tuo numero di telefono ti faccio sapere cosa me ne è sembrato, che ne dici? »

Un sorriso si formò d’improvviso sulle sue sottili labbra rosee: « Volentieri. »

Glielo lasciò, e mentre dettava una ad una le cifre pregava, pregava il dio del destino di esaudirlo, di esaudire le richieste di lui che alla fine era solo un piccolo, insignificante uomo che voleva raggiungere il sole.

« Grazie! » Satoru continuava a ridere, aveva la voce allegra da bambino, e lui pure continuava a sorridere suo malgrado, sinceramente contento anche solo di avergli parlato.

« Be’… che dire, spero di risentirti. »

« Sicuramente! A presto, Mana-san. »

« A presto, Okabe-san… »

Attese che fosse l’altro a metter giù la cornetta per primo, poi lo fece a sua volta e s’accorse che era viscida di sudore come le sue mani. In effetti l’agitazione non gli era ancora passata del tutto, accidenti a lui. Che ci poteva fare se era timido? Sospirò e si sedette, poggiando i gomiti sulle ginocchia e tenendo la testa abbassata, pensando che aveva già fatto anche troppo. La palla l’aveva lanciata, ora poteva solo aspettare e sperare. In ogni caso, era fortunato: se c’era qualcosa che superava la sua timidezza, be’ quella era la sua volontà.

Ah, voleva farsi un tè, un buon salutare tè verde per calmarsi i nervi e poi una bella doccia calda.

C’era giusto un nuovo shampoo ai frutti di bosco che non aveva ancora provato…

S’alzò in silenzio, la treccia nera che contrastava col morbido maglioncino bianco incrociato in vita che aveva indossato, latteo appena poco più della sua pelle, e con un singolo movimento sciolse il laccetto che lo teneva chiuso.

Ormai poteva anche mettersi una tuta, quel genere di abbigliamento gli dava coraggio solo in determinate occasioni… e l’occasione era finita, passata, trascorsa.

Si voltò un’ultima volta verso il telefono ora silente e i suoi occhi lucenti erano arrossati appena un poco mentre i suoi denti mordevano nervosamente le labbra senza che lui se ne rendesse conto.

Pregava, pregava, senza accorgersene pregava.

Pregava che avessero finalmente trovato un futuro.

 

 

 

- continua -

 

N.d.A. Ecco finalmente il terzo capitolo, spero che lo abbiate gradito! A proposito, lo dedico a Maharet, Giovanni e Simone che mi hanno fatto taaaanto felice! *__* Grazie ragazzi! :-*** (un bacione per ciascuno XD)

Comunque sia, ho notato che questa fic mi riesce bene solo su pc e non so perché… per fortuna che ora, udite udite, ho il PORTATILE! Nel prossimo capitolo vedremo come si comporterà Gackt riguardo alla richiesta di Mana. Accetterà la sua proposta o non si renderà conto di chi ha veramente di fronte?

 

Vitani

 

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Capitolo 6
*** Il Nuovo Contatto del Giglio e della Rosa ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -

 

ATTO PRIMO, SCENA QUARTA

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Il Nuovo Contatto del Giglio e della Rosa

 

 

Satoru Okabe, ormai universalmente conosciuto – nella sua cerchia di amici beninteso –  come Gackt Camui, abbassò la cornetta e chiuse sistematicamente gli occhi quasi si fosse trattato di un gesto in lui connaturato.

Si trattava di poco più che una melodrammatica caricatura del viso magnificamente teatrale col quale aveva impietosamente scaricato molte delle sue ex ragazze, avrebbe detto anche “molti dei suoi ex ragazzi”, non fosse stato per il fatto che con gli uomini le smorfie del suo bel volto ben di rado funzionavano.

Chiuse il telefono e perse qualche istante a rendersi pienamente conto delle implicazioni della telefonata che aveva appena ricevuto.

Tra le righe gli era in sostanza stato offerto un lavoro a Tokyo, la capitale dei sogni.

Immediatamente – cioè non appena fu in grado di elaborare tutte le prospettive delle miriadi di possibilità che gli si stavano aprendo davanti – un sorriso che andava dall’uno all’altro orecchio stirò all’inverosimile quelle sue labbra carnose.

Ma… e se si fosse trattato di uno scherzo? Se quel Mana non fosse stato davvero chi diceva di essere? No, non era possibile. Conosceva Takeshi, e poi gli era parso un concentrato incredibilmente pauroso di ritrosia e determinazione come nessuno dei suoi amici era.

Gli era piaciuto da matti il tono con cui aveva affermato di “non volersi fermare”.

Guardò il biglietto su cui aveva appuntato il numero di telefono che quel tipo gli aveva lasciato, e fu quasi tentato di richiamarlo subito giusto per vedere se avrebbe risposto davvero lui. Chissà perché, sospettava che gli avrebbe fatto prendere un accidente se l’avesse richiamato sul serio, quindi desistette quasi immediatamente.

Cominciavano a dolergli le mandibole, ma proprio non riusciva a togliersi quel sorriso disastrosamente ebete dalla bocca quindi decise di tenerselo, tanto male non gli faceva.

Si sedette di schianto sul letto, prima a gambe incrociate, poi ne allungò una e se la portò dritta sopra la testa giusto per fare un po’ di stretching (pure quello poi male non faceva, non a lui almeno). Tra le altre cose suo padre gestiva una palestra di arti marziali, quindi lui era particolarmente ferrato in almeno una decina di stili di combattimento differenti, mosse mortali comprese, ovviamente. Sì, era elastico, sciolto, forte come un cavallo selvaggio, lui! Non aveva proprio niente da invidiare a nessuno, a nessuno!

Rise ad alta voce come un bambino. Cos’è, non aveva forse il diritto di sentirsi lusingato per quella inaspettata proposta che aveva ricevuto?

Se poi l’avrebbe accettata, be’ quello era tutto un altro paio di maniche. Tanto per iniziare aveva già la sua band e tanto per finire non sapeva nulla né di quel Mana né del suo gruppo e non aveva tempo né voglia di lasciare il suo lavoro sicuro a Kyoto e muoversi verso un’incognita che non sapeva neppure se avrebbe mai funzionato.

Ah, decise che si sarebbe preso tutto il tempo che gli era necessario per riflettere, fossero anche state ere geologiche intere. Per prima cosa avrebbe ascoltato il loro album, anche se quell’idiota patentato di Takeshi s’era dimenticato di lasciargliene una copia. L’unica era telefonargli e chiedergli il titolo, visto che lui proprio non se lo ricordava.

Sospirò spazientito, sollevò di nuovo la cornetta del telefono e compose il numero dell’amico sperando di non trovarlo sbronzo come al solito.

Il telefono squillò a vuoto per quella che gli parve una mezz’ora buona, e infine il deficiente si palesò per quel che era rispondendo giusto un secondo prima che cadesse la chiamata.

« Takeshi, sono Satoru! »

« Ah, ciao Sacchan, scusa ma stavo dormendo. »

« Non ci ero minimamente arrivato, guarda. »

Takeshi aveva la stessa gioviale voce di sempre mentre gli parlava, e a Gackt quasi sembrò di vedere la pagliaccesca faccia di quel sorriso ambulante di ragazzo.

« Be’, che cosa c’è? » gli stava domandando Taka-chan – come ogni tanto si divertiva a chiamarlo lui.

« Mi ha chiamato quel tuo amico, Mana… »

« Ah sì? Me l’aveva detto, ma timido com’è non ci credevo che l’avrebbe fatto sul serio! Che ti ha detto? »

Satoru alzò un sopracciglio, omettendo volontariamente che appunto per quello ancora non aveva finito di domandarsi come cavolo facesse quel Manabu ad essere amico di uno scapestrato di tale ignominiosa fatta.

« Niente di che, si è presentato e mi ha parlato della band, ed è per questo che ti ho telefonato. Mi servirebbe il nome del loro album, gli ho promesso che l’avrei ascoltato! »

« Quanto sei tenero, addirittura gliel’hai promesso? »

« Poche storie e dammi il titolo! »

Takeshi rise maldestramente per cinque minuti pieni, sopraffatto dall’ilarità per la stranezza di tutta quella situazione: da una parte il suo sregolatissimo, adoratissimo, esaltatissimo, pazzo amicone Sacchan – ops no, Gackt Camui nato in Norvegia nel 1500 – dall’altra il timidissimo, bellissimo, assurdissimo, genialissimo altro suo amico Mana-chan. Se il suo intuito vedeva giusto, ne sarebbero uscite delle belle da quella coppia di pazzi scatenati.

« Comunque dimmi: che farai, accetti vero? »

Era quasi contento per entrambi, doveva dirlo.

« Veramente… penso di no. Mi dispiace, ma per ora non me la sento proprio di mollare tutto quello che ho qui. E poi, in fin dei conti a Tokyo cosa mi si offre? Questa band - »

« I Malice Mizer », lo corresse Takeshi.

« Va bene, questi Malice Mizer non sono neppure famosi, e che garanzie di successo avrebbero se anche io ne diventassi il vocalist? »

Quelle parole bastarono e avanzarono a far tacere pesantemente Takeshi, tanto che Satoru, sopraffatto dalla ridondanza che quel silenzio aveva nel suo cuore, quasi si sentì in colpa per averlo ferito, il bastardello!

« Comunque l’album si chiama “Memoire”, » soggiunse finalmente dopo un po’ il ragazzo, con lo stesso tono mogio e ferito di un bambino a cui si rifiuta un capriccio « e lasciami dire che per me sbagli di grosso a pensarla così. Dov’è finito il Satoru che si butta a cuor leggero in ogni sfida che gli si presenta davanti? »

Fu in quell’istante che anche Gackt, per la prima volta, se lo domandò.

Era da un po’, in realtà, che aveva perso quella carica esplosiva che fino a quel momento l’aveva sempre portato in avanti, verso nuove scoperte, verso ogni tipo di competizione, sia a livello personale sia in qualunque altro frangente. Ora non gli andava di rischiare, almeno per un po’ non gli sarebbe andato più.

« Intanto ho detto a Mana che li avrei ascoltati, questo non vedo perché non farlo, per il resto si vedrà, va bene? »

« Come preferisci Sacchan, ma sappi una cosa: io sono seriamente convinto del fatto che tu e Mana-chan potreste veramente arrivare in alto se collaboraste. Sono convintissimo delle tue possibilità come cantante, e sono convintissimo anche delle sue capacità. Dagli almeno una chance, va bene? Promettilo a me questo. »

Gackt sorrise: alla fine, quel ragazzo aveva sempre avuto il potere di suscitargli una indescrivibile tenerezza.

« Sì, stai tranquillo Taka-chan, non lo eliminerò senza nemmeno averlo conosciuto un po’. »         

« Bravo honey, così si fa, e non ti azzardare mai più a chiamarmi con quel nomignolo o la prossima volta che ci vediamo ti infilo una bomba a mano sai perfettamente dove e mi diverto ad osservarti mentre deflagri. »

« Sono questi i momenti in cui mi viene in mente che dovrei adorarti, in ogni caso mi farò sentire. Ciao e grazie mille! »

Riuscì a troncare la conversazione solo dopo altri tre minuti di saluti e raccomandazioni, le due ore successive le impiegò invece per vestirsi ed infilarsi in un negozio di dischi allo scopo di procurarsi quel famoso album “Memoire”.

Strano ma vero, lo trovò sul serio. Non ci avrebbe mai sperato.

Ascoltò il cd mentre era in macchina e andava a prendere You e gli altri, e decise che sì, erano interessanti.

Lui era un pianista più che eccellente e di musica se ne intendeva abbastanza; aveva ascoltato innumerevoli brani e si era fatto le ossa su numerosi generi differenti, senza aggiungere che sapeva suonare praticamente ogni strumento musicale esistente – ebbene sì, aveva cominciato la sua carriera musicale suonando la tromba.

Eppure… come dire, erano di una particolarità che travalicava addirittura la stranezza. In quelle canzoni sentì, – dietro al rock, dietro al basso, dentro quell’organismo portante e straordinariamente potente che erano le due chitarre – ebbene lui poté respirarvi l’essenza di una struttura profondamente classica, qualcosa che aveva dell’incredibile e che raramente se non addirittura mai aveva sentito altrove. C’era un eco barocco in ognuna di quelle note, in ogni singolo pizzico delle dita sulle corde della chitarra.

Parcheggiò la sua Ferrari di fronte alla palazzina in cui viveva You e mentre aspettava continuò ad ascoltare e riascoltare, con gli occhi scuri larghi per quell’emozione che l’aveva preso tutto a un tratto. Sì, gli piacevano, decisamente gli piacevano.

Si chiese chi ci fosse dietro a tutta quella costruzione di melodie, per la prima volta provò un minimo desiderio di conoscere davvero quelle persone, chiunque esse fossero.

Mentre aspettava prese in mano la custodia dell’album e sfogliò il libretto, cercando di far collaborare la sua memoria riguardo a quale fosse Mana.

Uh, eccolo là. Se non ricordava male era quello con la parrucca assurda e il cappellone altrettanto assurdo coi gigli sopra. Anche gli altri, in ogni caso, a guardarli dalle foto non sembravano male.

In quel momento You gli bussò al finestrino, e Gackt gli aprì lo sportello per farlo entrare.

« Ciao You! »

« Ciao Satoru! Come va oggi? »

« Bene perché? »

« Perché mi sembri straordinariamente assorto. Ti sei sbronzato pure ieri sera ben sapendo che oggi abbiamo le prove? »

Gackt guardò l’altro ragazzo sbattendo le palpebre, per una volta genuinamente sorpreso dalle sue illazioni.

« No no, guarda che non ho bevuto affatto. »

You gli sorrise amabilmente mostrando grossi denti da cavallo.

« E allora illuminami, che ti prende? »

« Stavo soltanto ascoltando questi », rispose Gackt passandogli il libretto.

You lo prese con la punta delle dita, non si poteva mai sapere in cosa ci si sarebbe imbattuti con Satoru, e lo esaminò con somma attenzione.

« Malice Mizer? E chi sono? »

« Una band indie di Tokyo, un mio amico mi ha presentato il chitarrista, questo qui. »

Si sporse e gli indicò con un dito il “ragazzo coi gigli sopra” che poi era Mana.

« Non sono male per niente », aggiunse poi.

You sgranò gli occhi mentre scrutava con immane perplessità quel piccolo quadrato di carta stampata.

« Ma com’è conciato? »

Gackt mise in moto, guardando la strada ancora con gli occhi incredibilmente lontani e pensosi, elemento che contribuì a mettere in allarme You poiché significava invariabilmente che al suo  migliore amico stava passando qualcosa per la testa.

« Ah non chiedermelo, me lo sto domandando da due ore e ancora non ci sono arrivato. »

Di nuovo You lo guardò. Era serio, sembrava incredibilmente concentrato ma ogni tanto un sorrisetto beffardo gli appariva sul viso. Non gli pareva per nulla in vena di scherzare quel giorno. Da parte sua, il lettore dell’auto stava continuando a mandare a ripetizione quelle canzoni, e Gackt provò ad immaginare se stesso come vocalist di quel gruppo senza tuttavia riuscirci.

« Sono loro questi? » chiese You.

Lui annuì solo per cambiare discorso, dopo qualche miserevole istante.

« Sai You, » iniziò « ho parlato con Mana al telefono, prima. Sembra un tipo strano, ma non mi ha fatto una cattiva impressione. Takeshi ha garantito per lui, in sostanza. »

You non gli mise fretta, attese che continuasse; lo conosceva abbastanza bene per sapere che quando assumeva quell’espressione voleva parlare.

« Mana non me l’ha chiesto direttamente, ma tra le righe m’ha fatto capire che… insomma, che gli interessa avermi come cantante. Quello vecchio se n’è andato, sai, così per ora il gruppo è in pausa. »

Gackt, di fronte all’inaspettato quanto sospetto silenzio ottenuto come risposta alzò gli occhi verso l’amico, che dopo quelle parole lo scrutava con gli occhi larghi. Comprese immediatamente quale fosse l’origine dei dubbi di quel pezzo di pane di ragazzo che rispondeva al nome di You, e gli sorrise apertamente dandogli una sonora pacca sulla spalla.

« Tranquillo, non accetterò. Non ci penso proprio a lasciare i Cain’s Feel! »

Già, neanche per idea ci pensava…

Neanche per idea.

 

Tornò a casa che era notte fonda, erano le tre del mattino minuto più minuto meno, e non gli interessava. Sentiva ancora gli echi insopprimibili di quella musica rimbalzargli dentro le orecchie, anche dopo ore al casinò, ed era una sensazione così viva ed imperante che sentiva di non poter aspettare un altro giorno. Per cui lo fece, e non gliene fregò nulla di che ora fosse.

Compose il numero, il telefono squillò a vuoto, e lui tamburellava con le dita l’apparecchio mentre il sudore gli velava la fronte senza che potesse far nulla per contrastare quell’ansia rabbiosa che lo stava spingendo a compiere quell’azione così dannatamente insensata nel cuore della notte.

Non ci poteva fare proprio niente, niente, niente.

Sentiva solo che doveva, altrimenti non avrebbe trovato pace.

C’era una cosa che assolutamente era necessario che gli domandasse, una cosa che l’aveva roso scavando nel profondo fin quando non s’era reso conto con una punta di dramma che sì, era stato colpito, centrato alla grande.

Inaspettatamente la cornetta venne sollevata al secondo squillo.

« Pronto? »

Fu una voce maschile, piuttosto bassa ma morbida e appena venata d’allarme, vista l’ora presumibilmente, a rispondergli. Era la voce che lui voleva sentire.

« Mana », lo chiamò impaziente, quasi con affanno, poi cedette e la voce gli si ruppe e rimase in silenzio con totale incertezza, senza più sapere neanche cosa aveva fatto, perché l’avesse fatto e che cosa volesse ottenere. Semplicemente respirò, attendendo di calmarsi un poco, e con quella stessa pazienza Mana aspettò e non gli chiese nulla, e lui gliene fu immensamente grato. C’era una cosa, una cosa che gli doveva domandare, una cosa per scoprire la quale non aveva avuto modo di indugiare.

« Tu che cosa vuoi creare? »

Fu rapido come un fulmine, un puro flash della sua mente, l’immagine celata nel silenzio dell’altro capo del filo.

Lui la scorse nitidamente, per un singolo attimo.

Nel bianco candido dei suoi pensieri, c’era il sorriso angelico di quel ragazzo.

Come se fosse stato lì con lui, Mana gli stava sorridendo.

 

 

- continua -


N.d.A. Ebbene? Che ve ne pare di questo capitolo? A me non dispiace, devo dirlo, straordinariamente questa fic per ora non mi ha deluso. Ma siamo ancora all’inizio, comunque, e credo proprio che verrà addirittura più lunga delle mie previsioni iniziali (se non decido di accorciarla andando avanti). Ringrazio davvero tutti coloro che hanno commentato, in particolare Kelly Kee, il cui commento mi ha fatto davvero piacere. Sono felicissima che Mana – il mio personaggio intendo – piaccia anche a chi non lo conosce e non conosce le sue abitudini, penso che sia il miglior complimento che mi si possa fare. Grazie mille!(Ora sono curiosa di sapere cosa ne pensate del mio Gackt :P Ha una grossa nota di merito sto ragazzo: a descriverlo mi fa morire dalle risate!) Ultime due cosette: colonna sonora di questo capitolo assolutamente No Pains No Gains dall’album Voyage Sans Retour. E per finire, le ultime righe vogliono omaggiare una delle cose di Mana che si ha la possibilità di vedere solo dal vivo: il suo sorriso, che mai si vede in foto, che si vede sempre dal vivo e che è davvero qualcosa di splendido, dolce tanto da risultare commovente (chiedetelo a me, che ogni volta che sorrideva rischiavo di piangere e forse ho pianto sul serio per quant’era tenero… e lo so che è difficile credermi, io stessa prima di vederlo non avrei mai detto che potesse raggiungere tali livelli di amorevolezza in un sorriso… insomma, ha un sorriso che scioglie i sassi, prendetemi in parola!)

@Sesshoudany: Uh, sono felice che questa storia ti piaccia tanto, e come al solito mi fai arrossire >///< ß me più timida di quanto non sembri…

@Narciso: Giusta osservazione quella che hai fatto tu! J E’ una cosa su cui ho puntato molto, la diversità di descrizione nei capitoli di Gackt e in quelli di Mana, e sono felice che la cosa si noti. Il fatto è che Mana e Gackt sono diversi, e ho deciso che se potevo rendere la loro diversità in questo modo, tanto valeva provarci!

 

Vitani

 

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Capitolo 7
*** L'Amicizia del Giglio e della Rosa ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -

ATTO PRIMO, SCENA QUINTA

-
L’Amicizia del Giglio e della Rosa

 

 

 

« Tu che cosa vuoi creare? »

Ristette in silenzio, lasciando che quell’entità sopraffina ristagnasse, e intanto sulle sue labbra rosee era apparso un sorriso, un sorriso che non era di trionfo ma di pura gioia e quel sorriso avrebbe potuto possederlo un angelo.

Era così incredibilmente superfluo badare all’ora di quella telefonata, e così incredibilmente sufficiente che fosse arrivata! Davvero, forse non aveva atteso altro.

Rispose qualcosa a voce bassa, qualcosa che suonava simile ad un’incantevole formula magica.

« Voglio creare un sogno che sia il mondo, per far diventare il mio mondo un sogno. »

Pronunciò quelle parole senza che il sorriso che così teneramente gl’ingentiliva il viso vacillasse o si spegnesse.

Ascoltò, quasi con incantato affetto gustò la soffusa reazione che quel suo sortilegio generò: nessuna, alcuna parola si fece avanti dalle labbra di Satoru ma per lui fu come udire il canto di quel ragazzo armonizzarsi con le sue melodie. Ormai sapeva, sapeva. Mana aveva sempre visto lontano ed era più che convinto ormai d’essere a un passo dal raggiungimento del suo scopo ultimo: avere quel ragazzo.

« Ah… » strano a dirsi, c’era all’improvviso una sottile forma d’imbarazzo nella voce di Satoru, che pareva non sapere più cosa digli, dopo quell’appassionato primo appello. Il sorriso ora largamente divertito del giovane Manabu s’ampliò estendendosi morbidamente anche ai suoi occhi di lucida ossidiana nera, senza che potesse far nulla per impedirlo: allora davvero l’aveva chiamato a quell’ora assurda solo per domandargli quello.

Gli parve di poter scorgere l’espressione di quel sublime imbarazzo nei lineamenti di Satoru, certamente avrebbe potuto farlo… se solo avesse saputo che volto aveva. S’accontentò perciò di percepire quella titubanza adorabile nella voce bella e piena di quel ragazzo.

« Scusami per l’ora… non avrei dovuto disturbarti. »

Oh, nessun disturbo ovviamente, voleva il caso che lui fosse perfettamente sveglio mentre il telefono squillava. E se anche avesse dormito non gliene sarebbe importato nulla di nulla. C’era una cosa che ai suoi occhi, neri del più scuro ebano, contava più di tutto in quel momento: aver catalizzato l’attenzione di Satoru Okabe. Quello soltanto era per lui un motivo di gioia sufficiente a giustificare ampiamente persino una sveglia inattesa alle tre e mezzo del mattino.

« Non devi preoccuparti, Okabe-san, non mi hai assolutamente disturbato. Alle quattro mi sarei alzato in ogni caso. »

Eppure c’era ancora timidezza nella sua, di voce, mentre proferiva quella risposta pacata, tranquilla come invece il suo cuore non era affatto. Aveva dovuto compiere un immane sforzo per non sussurrare, tentando di mostrarsi sicuro di sé quando invece forse tremava, pur se era felice di sentire quel ragazzo che poteva rappresentare per lui il futuro.

« Davvero? Come mai? »

C’era sincera curiosità nel tono di Okabe e Mana ridacchiò sommessamente, mentre il divertimento per quella conversazione nel pieno della notte stava iniziando ad entrargli delicatamente nel sangue.

« Vado a fare jogging attorno al quartiere, la mattina presto. Non mi piace granché fare sport, ma quella di correre è un’abitudine che ho conservato dal liceo. Facevo pallamano, sai. »

Non seppe mai bene per quale ragione avesse scelto di imbastire quel singolare dialogo proprio con quell’argomento, seppe soltanto che funzionò, e che Satoru rise di cuore sentendolo.

« Pallamano? Come mai proprio pallamano? »

Mana alzò le spalle come se si stesse rivolgendo ad uno dei suoi specchi, e i suoi occhi obliqui intercettarono ciò che stava piegato e parcheggiato dietro di lui su una sedia, alias la sua tuta da ginnastica. Effettivamente lui era ancora in vestaglia – vestaglia rigorosamente blu, of course – ma l’aveva davvero preparata perché andava a fare jogging tutte le mattine. I suoi capelli nerissimi, arricchiti come sempre dalla regolare ondulazione della treccia in cui li legava ogni giorno, erano ancora tutti spettinati e in parte aggrovigliati, perché s’era appena svegliato.

Pensò un po’ a quella domanda, poi risolse che la risposta era una sola e fissò il pavimento con occhi lontani rispondendo con voce tenue come se stesse pronunciando una verità ineluttabile.

« Perché tutti gli altri la snobbavano. »

Incredibile a dirsi, dopo aver parlato gli venne da ridere.

« Capisco. »

La voce di Satoru invece suonava sempre allegra, allegra quanto la sua era tranquilla, come se nulla al mondo fosse in grado di scuotere la felicità di quel ragazzo.

Udendo quella ispostine insoddisfacente Mana fece una smorfietta con le labbra come se non ci credesse davvero a quella presunta comprensione, cosa che era effettivamente dannatamente probabile. Cambiò magistralmente discorso, preferendo conoscere il suo avversario prima d’esporsi: c’erano particolari di se stesso che non era granché interessato a rivelare.

« E tu invece, Okabe-san? Che mi racconti di bello? »

« Di bello niente di particolare. In questo periodo vivo una vita talmente ordinaria che a malapena me ne rendo conto. Ah, solo una cosa… non c’è bisogno che mi chiami per cognome, Satoru va benissimo! Anzi, se vuoi puoi fare come tutti i miei amici qui a Kyoto e chiamarmi Gackt. »

Un guizzo di luce scintillò negli occhi scurissimi di Mana, occhi in cui distinguere iride e pupilla era impossibile: lui li spalancò appena e il suo cipiglio s’accigliò un poco, mentre socchiudeva le labbra con una certa naturale perplessità. Cercava di capire quanto ci fosse di serio in ciò che stava sentendo, e il sospetto che ce ne fosse molto conferiva a quel gioco un che di sfizioso che intrigò Mana. Resse il gioco.

« Gackt? »

La voce di Satoru era pregna di ogni possibile sfumatura d’allegria, sembrava nato per essere felice, tanto che quasi lo invidiò. Oh, ma non durò più di un istante. Lui non avrebbe mai invidiato nessuno, finché fosse vissuto. Poteva invidiare solo se stesso.

« Sì, Gackt! Gackt Camui, nato nel 1500 in Norvegia, vampiro! »

Tornò il tenue, angelico sorriso sulle sue labbra di quel rosa così tenero eppure così intenso, senza che lui se ne rendesse minimamente conto. Era sempre più deliziosamente estasiato.

Dèi del cielo, forse veramente, finalmente aveva trovato qualcuno in grado di tenergli testa! Lo comprese, lo capì, volle andare avanti fino in fondo.

« “La grandezza della musica”, eh? Bel nome, signor Camui. »

« Te ne sei accorto? »

Sembrava sorpreso. Mana invece non lo era affatto: gli piaceva giocare alle interpretazioni. Gli rilanciò la palla senza attendere oltre.

« Già. Io invece se dovessi essere nato da qualche parte sarei nato a Parigi, ma purtroppo per questa vita non è andata così e sono di Hiroshima. »

« In effetti si sente un po’ l’accento del sud quando parli. »

Ecco, questa era una cosa che non gli piaceva: fu totalmente involontario, ma si portò una mano alle labbra in un gesto di sconcertato dramma e trattenne il fiato per qualche istante come se non avesse voluto parlare di nuovo. L’accento era un punto debole di cui era conscio fino alla disperazione.

« Cielo, davvero? »

Aveva gli occhi larghi e per un buon minuto si sentì la pressione sotto i piedi. Che figura meschina aveva appena fatto?

« Già. Ma non è poi così pesante, stai tranquillo. »

« È che sono anni che cerco di stroncare il mio accento, sai purtroppo ha la brutta tendenza a stonare orribilmente con il mio stile. »

Chiunque avrebbe potuto credere che quelle parole proferite velocemente e con fin troppa inconsapevole agitazione fossero soltanto una presa in giro di quell’animo giocoso che era in fondo Mana: purtroppo invece non lo erano affatto. Erano serie.

« Hai un modo di parlare molto elegante, comunque. »

« Lo so. Appunto. Trovo orripilante parlare un giapponese elegante contaminato da un accento così… provinciale. »

Aveva alzato un po’ il tono della voce, ancora senza accorgersene, ancora senza comprendere come parlare gli fosse diventato d’un tratto naturale come il respirare stesso. Quella conversazione lui non riusciva più minimamente a controllarla.

« Ma Hiroshima non è poi così provincia, è un capoluogo di prefettura! »

« Che c’entra quello… è una questione mia interiore, ecco. E poi in confronto a Tokyo, sempre provincia è. »

S’era quasi imbronciato come un bambino. Quasi.

« Vai sempre a fare jogging a quest’ora? »

« Sì. »

Avrebbe tanto voluto piantarla lì, così, ma il suo desiderio più impellente non era quello: non lo era affatto. Capì di dover andare avanti, di non voler chiudere così, allora parlò ancora: stava solo a lui lasciare che quella conversazione non avesse termine.

« Mi alzo alle quattro o alle cinque al più tardi. Tendo a dormire poco la notte, comunque. Poi se capita dormo durante il giorno, quando mi viene sonno. »

Che letto in altri termini diventava “posso dormire ovunque e sempre”. Di questa caratteristica Mana andava fiero, e poi il sonno era sonno e non ammetteva repliche.

« Pensa che a me invece basta dormire due o tre ore per notte e sono a posto! Quando non riesco a dormire prendo un libro e studio. »

Mana stava seriamente pensando che quella fosse una fortuna, ma prima di parlare a sproposito si concentrò sulla seconda delle frasi che Satoru/Gackt aveva pronunciato.

« E cosa studi? »

« Ecco, mi piace studiare le lingue straniere, vorrei impararne almeno una decina! Il coreano già lo conosco. »

« Accidenti, io invece mi limito a un po’ d’inglese e a due parole in fila di francese. »

Fu lì che il muro crollò la prima volta. Mana rise. Rise. Compostamente prima, poi più liberamente, e la sua stessa risata suonò alle sue orecchie dolce come quella di un bambino. Quel Satoru lo stava invariabilmente contagiando con la sua spontaneità, doveva dargliene atto.

« Tornando alle cose serie, ho ascoltato l’album. »

Uh, finalmente s’era giunti al punto cruciale. Deglutì, sbatté le palpebre, si preparò. Poteva fare poco altro.

« Ah sì? Verdetto? »

« Mi ha colpito molto, sul serio. Le canzoni chi le ha composte? »

« Quasi tutte io, alcune anche l’altro chitarrista, Közi. »

« Davvero? Complimenti, sei bravissimo! Non sto scherzando, c’è… c’è… »

Satoru si fermò, all’improvviso e inspiegabilmente, e le nettissime sopracciglia di Mana s’aggrottarono in un modo che stava a metà fra l’immensamente sorpreso e il tetramente accigliato.

« Sì? »

Volle incitarlo a continuare.

« Tu conosci bene la musica classica, vero? In quelle canzoni c’era… c’era qualcosa di classico sotto ogni singola nota. E l’ho trovato davvero splendido, interessante. In molti possono provare a mescolare la musica classica al rock, ma tu lo fai in maniera veramente particolare. »

Di nuovo, sorrise come se non fosse stato in grado di far altro. La sua mente gli creava davvero preoccupazioni inutili che in futuro avrebbe fatto discretamente bene ad evitare. La sua voce si sciolse, tornò a fluire libera come il suo pensiero immenso, e lui parlò con imbarazzata timidezza. Tutti quei complimenti lo stavano stordendo, e forse era pure arrossito. Che bambino stupido era!

« Be’, ti ringrazio. Vedi, i miei sono insegnanti di musica e io sono cresciuto con la classica. Mi hanno insegnato a conoscerla e ad amarla pur non sapendo nulla della teoria che c’è dietro. Si può dire che ho imparato prima a suonare il piano che a camminare, anche se all’inizio la vivevo molto come una costrizione. »

« Anche a me successe così. I miei non insegnano, ma fin da quand’ero piccolissimo mi misero davanti il pianoforte e mi dissero “suona”. Anzi, me lo imposero. Mi facevano studiare con maestri severissimi, e mi spiace dirlo ma arrivai a odiare il piano. Continuai a rigettarlo fino a quando un mio compagno di scuola non mi portò a casa sua, dove mi fece ascoltare come suonava. Era talmente bravo che rimasi sconvolto e pensai “non gli devo essere inferiore”. Anche se in effetti lo ero e pure parecchio. »

Mana gongolò e i suoi occhi scintillarono, mentre si poggiava una mano sulla guancia e sospirava appena con soffice leggerezza. E così era anche competitivo il ragazzo… non ci mise molto a comprendere quale potesse essere stata la sua reazione.

« Fammi indovinare: ti ributtasti a studiare e a suonare come un forsennato. »

Gackt rise.

« Già. »

Al che Mana sorrise a sua volta, delicatamente, e gli parlò a voce bassa, in un monologo lento che suonava più rivolto a se stesso che non all’altro ragazzo.

« Io invece non ho mai smesso, e penso che non smetterò mai. Il piano è una parte di me come lo è la chitarra, non potrei immaginare me stesso senza di loro. »

Stava parlando di simili questioni ad un estraneo, stentava a crederci, lui sempre così restio a parlare di se stesso! Eppure sapeva, senza comprender bene i come o i perché, che Gackt lo capiva, lo poteva capire e forse era il solo che ci fosse mai riuscito davvero. Perché di cose in comune ne avevano, nonostante tutto. Lui aveva capito che quel Satoru era speciale dal momento in cui aveva ascoltato la sua voce, e forse… forse per Gackt era stato lo stesso.

« Quando hai iniziato a suonare la chitarra? »

« Avevo quindici anni, più o meno. Sai, i miei me ne avevano comprata una acustica quando avevo detto loro di voler imparare a suonarla, ma io l’ho sempre aborrita… anche se va detto che ora la suono, ogni tanto. Alla fine me ne comprai una elettrica coi miei risparmi. »

« Ci credi che io invece a quell’età inorridivo all’idea di fare parte di una band? La consideravo un’attività da stupidi. »

Le sopracciglia scure di Mana s’inarcarono per la somma sorpresa. Ringraziò il cielo che Camui avesse cambiato idea in tempo per godersela, una band.

« Accipicchia, e cos’è che ti ha traviato, Gackt Camui? »

« È stato un chitarrista! »

Ecco, quello sì che lo sorprese. Forse i chitarristi avevano davvero qualche potere speciale, allora! Riuscì a malapena a trattenere un’esclamazione sorpresa; forse era il caso che iniziasse sul serio a credere di far parte di una qualche schiatta dalle pericolosissime e aliene potenzialità ipnotiche, giunta sulla terra apposta per traviare povere menti innocenti che li consideravano stupidi… sì, come no, leggeva troppi manga.

« Ma dai, sul serio? »

« Sì, ora suona nella mia band, i Cain’s Feel! Si chiama You, è davvero bravo! Magari un giorno riesco a presentartelo! »

« Volentieri. »

Mana avrebbe quasi voluto incontrarlo sul serio per dimostrare a Satoru e a chiunque altro che tra lui e quel You che non aveva mai visto né sentito non c’era storia. Almeno sul piano della classe. Che avesse troppa fiducia in se stesso? Oh no, era solo un po’ vanitoso, che c’era di male? Aveva ben più di un motivo per esserlo, in fondo. Inevitabilmente finì per gettare uno sguardo alle lunghissime ciocche nere che gli scendevano giù per le spalle.

Continuarono su quel tono per un’eternità o per un tempo che a lui parve tale. Gackt non la smetteva più di parlare e Mana gli stava dietro con straordinario agio. Più di una volta scoppiò a ridere di fronte all’assurdità di qualcuno dei racconti di Satoru e altrettante volte controllò che ore fossero.

« Ma lo sai quanto stai spendendo? », gli disse nel bel mezzo di una risata appena soffocata « È da un’ora che stiamo parlando! »

« Se credi che me ne importi qualcosa ti sbagli di grosso! »

« No, io non sbaglio mai! »

« Se è per questo neanche io! »

Scoppiarono di nuovo a ridere entrambi come due perfetti scemi, e tale Mana si sentiva in quel momento.

Scoprì con gioia che non gli interessava.

« Senti, facciamo così: ti richiamo io domani, cioè… insomma, tra qualche ora! »

« Ok, va benissimo. Facciamo verso l’ora di pranzo? Mi trovi di sicuro! »

« Va bene, a dopo. »

Fu a malincuore che mise giù. Veramente, dannatamente e totalmente a malincuore. Quel ragazzo lo faceva divertire. Sì, decisamente gli piaceva. Ora restava da controllare un’ultima cosa: che faccia avesse. Anche se c’era la possibilità che questo Mana non lo scoprisse mai, tutto dipendeva da come sarebbe andata quando quella cosa, diventare il nuovo vocalist dei Malice Mizer, gliel’avesse proposta ufficialmente.

L’avrebbe richiamato, come desiderava, ma ora… ora era il momento di infilarsi la tuta e andare a fare la sua corsetta mattutina. Fu con somma attenzione che tolse la vestaglia blu, ripiegandola e poggiandola delicatamente su una sedia al tavolo della cucina. Ecco il bello dell’abitare da soli, il potersi vestire dove e quando si voleva senza nessuno che brontolasse, specialmente se quel qualcuno era sua madre. Quando si fu tolto anche la camicia da notte – deliziosa, bianca coi nastrini blu e le maniche lunghe e gli orli rifiniti di pizzo (elemento questo che poteva vantarsi d’aver inserito lui) – s’infilò la tuta da ginnastica e si preparò una colazione nutriente ma leggera, principalmente a base di yogurt: alimento che mangiava a quintali, senza alcun eufemismo.

La tuta gli stava larga, e faceva apparire le sue gambe magre e dritte come pali. Poco gli importava, erano pur sempre le cinque del mattino: l’avrebbero visto solo i gatti randagi che gironzolavano per il quartiere.

Uscì, chiudendo bene a chiave la porta, poi scese le scale di corsa senza fare un rumore di troppo e s’avventurò per il quartiere ancora deserto, appena rischiarato dalla luce dei lampioni che parevano riflettersi nel cielo violaceo che precedeva l’alba. L’aria era pungente, frizzante a quell’ora, e gli inondava quasi con dolore i polmoni che si stringevano e s’allargavano al ritmo della sua corsa. Era vero, odiava fare sport lui, ma correva come una lepre selvatica e soprattutto teneva a se stesso e alla sua forma fisica. Aveva una linea da mantenere, nei suoi quarantanove chili di peso per un metro e settantatre d’altezza c’era sempre quel fondamentale chiletto che impediva alla bilancia di raggiungere il cinque. Chiletto che Mana era totalmente interessato a non prendere per nessuna ragione.

Così tutte le mattine, poco importava che tempo facesse, anche sotto una bufera di neve lui avrebbe corso almeno una mezz’ora. In un certo senso lo aiutava a sfogarsi, lasciando libero il suo notevole, inarrivabile cervello: era respirando che sentiva tornargli, pompata nel cuore assieme al sangue e all’ossigeno, anche quella sua ispirazione geniale che lo trascinava come un’onda e che così spesso aveva condotto le scelte che agli occhi degli altri apparivano così avventate e prive di futuro. Come quella di trasferirsi a Osaka prima, poi definitivamente a Tokyo rinunciando a qualsiasi tipo di avvenire certo e buttandosi in quel vortice senza ritorno che era la sua musica.

Ascoltò il ritmo dei suoi piedi che battevano l’asfalto, così simile a quello del suo cuore che pulsava, al ritmo del suo respiro e del fiato che gli usciva a sbuffi dalle labbra sottili e socchiuse, affannato, certo, ma libero come il pensiero che gli vorticava nella mente, inondandolo d’ebbrezza e sogni. Poi guardò: guardò gli alberi attorno a lui, guardò il cielo violaceo sopra la sua testa, oltre i tetti dei palazzi che aveva attorno. Certe volte gli veniva voglia di raggiungerlo, quel cielo, spiccando il volo come un angelo. Se non era lui, sarebbe stata la sua musica: la sua musica avrebbe raggiunto i confini del mondo, la sua chitarra avrebbe parlato all’umanità intera, che avrebbe vissuto i sogni di un ragazzo di ventiquattro anni quale era lui, e che per questo e solo per questo l’avrebbe amato. I suoi capelli neri volteggiavano a sobbalzi dietro di lui, legati in una coda bassa che aveva lasciato andare qualche ciocca, che ora s’agitava viva come uno splendido serpente nero.

Non c’era nessuno e tutto era deserto, nessuno avrebbe visto Manabu e Manabu non avrebbe visto nessuno. Era ciò che desiderava, starsene in solitudine, perché di altro non aveva bisogno.

E poi sarebbe tornato a casa, lanciandosi a razzo e rigorosamente a piedi su per le scale, si sarebbe esercitato col trucco e sarebbe pian piano venuta l’ora di pranzo, quando avrebbe preparato il riso al curry e avrebbe finalmente telefonato a Satoruops, a Gackt Camui.

Questo pensava Manabu Satou, mentre il cielo violaceo già schiariva sotto l’influsso del sole accecante che nasceva.

 

 

- continua -

 

N.d.A. Questo capitolo può sembrare incredibilmente inutile, lo so. In realtà non lo è così tanto, perché, se analizzato bene, contiene tutti gli elementi caratteriali che porteranno i due verso il loro futuro, che chi sa la storia dei Malice Mizer già conosce (e per tutti quelli che non sanno cosa succederà, resistete che ci arriveremo! :P).

In questa storia comunque niente è messo a caso, neanche la più piccola parola! U_U (autrice sicura di se stessa…………..).

Strano ma vero questa storiellina finora mi ha soddisfatto ampiamente, spero di potermi tenere su questi livelli fino alla fine! ^^

 

 

Vitani

 

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Capitolo 8
*** Il Giglio Bianco che insegue il Sole ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -

ATTO PRIMO, SCENA QUINTA
-
Il Giglio Bianco che insegue il Sole

 

 

 

 

Satoru Okabe detto Gackt Camui se ne stava disgraziatamente stravaccato sul suo letto in foggia simile più ad una disseccata alga marina che ad una creatura umana. Stava lì quasi non fosse stato in grado di far altro che guardare il soffitto dell’appartamento in cui viveva.

Era giorno sì, doveva essere quasi pomeriggio e questo lo intuiva appena appena dalla luce che gli filtrava dalle tende scure della camera. Aveva chiuso la porta dell’appartamento quand’era rientrato? Proprio non ci aveva fatto caso.

Si tastò meticolosamente una faccia che non sarebbe piaciuta a nessuno, gonfia come se gli ci avessero iniettato del lievito, e quasi non se la sentì sotto le dita il che era un brutto, bruttissimo segno.

Si sarebbe quasi alzato e trascinato fino al bagno se solo il consueto mal di testa post-sbronza gli avesse dato un microbo secondo di tregua. Solo quello odiava del bere, solo quello.

Tutta colpa d’un pezzo di stronzo che gli aveva rigato la macchina.

Poi si lamentavano che quand’era ubriaco diventava violento!

Ebbene sì, diventava violento e adorava fare a botte e non a caso quello che gli aveva dato addosso quella notte s’era ritrovato col naso rotto e forse pure con qualcosa d’altro di rotto.

Non badava mai a quanto male faceva, lui, che di stazza era pure piuttosto robusto. Non ci badava mai, tanto le ferite fisiche guarivano. Erano quelle del cuore a dar problemi, e quanti problemi!

Ogni tanto gli capitava ancora di pensare a quella graziosa ragazzetta coreana che era stata sua moglie per così poco tempo e che gli aveva pure insegnato un po’ della sua lingua.

Ah già, perché lui era stato sposato… anche se per un periodo così effimero che gli era sembrato un istante. A diciannove anni aveva fatto il passo, praticamente un anno dopo l’aveva lasciata; le voleva bene, sì, forse le avrebbe sempre voluto bene, ma fra loro qualcosa s’era inceppato molto presto. Lei non sopportava i fans che lui iniziava ad avere ed era sempre più stressata, e lui non poteva sopportare di sentirsi legato.

E così fine, puff, tutto svanito e lui non se ne era pentito. Lei sarebbe rimasta un bel ricordo e nulla più.

Quando provò ad alzare un braccio s’accorse che formicolava, la cosa gli piacque poco ma non se ne curò poi molto desideroso com’era d’andare a tuffare la testa nella doccia o anche solo di sbatterla sul muro. Neppure quei cazzo d’analgesici gli facevano più effetto ormai, e quasi poteva vederlo il giorno in cui sarebbe passato ai narcotici dritto e filato come uno shinkansen.

Doveva telefonare a You e dirgli che quel giorno delle prove non se ne faceva nulla, poco importava quanto il suo amico ci tenesse a costringerlo; già che c’era avrebbe chiamato anche Mana visto che, strano ma vero, quel giorno ancora non s’erano sentiti.

Era il caso di mangiar qualcosa?

Di tutte le cose da fare che aveva non ne fece neppure mezza e se ne rese conto solo quando il sole ebbe cambiato posizione dirigendo quel sottile traslucido rivoletto luminoso che filtrava dalle tende giusto sui suoi occhi scuri, costringendoli ad aprirsi con somma beatitudine mentre il loro padrone tirava giù una bestemmia. Ormai il pomeriggio era finito e lui l’aveva passato nel niente quando al minimo avrebbe dovuto fare un po’ di ginnastica salutare.

La fece subito, pregando che gli passasse il mal di testa. Fortunatamente il suo appartamento era abbastanza largo da permettergli almeno lo stretching.

Sorrise un po’, tanto quanto glielo permetteva la sua bocca tumefatta, e pensò che poi avrebbe mangiato qualcosa e chiamato Mana.

Erano due settimane e più che si sentivano assiduamente, anche una volta al giorno, e stavano al telefono per ore ed ore ed ore arrivando a parlare degli argomenti più assurdi, dagli animali domestici ai manga.

Gackt era stato felice di notare che Mana aveva perso del tutto con lui quel tono d’affranta timidezza che all’inizio quasi gli aveva impedito di parlare: sentiva ormai che stavano diventando buoni amici, anche se non s’erano neppure mai visti e forse non l’avrebbero fatto mai.

Inoltre nell’aria veleggiava ancora intatta quella proposta, ma Mana non gli aveva quasi più accennato nulla al riguardo e a lui del resto poco importava d’informarsi. Probabilmente non avrebbe accettato, questo era chiaro, non poteva permettersi lasciare così i suoi amici e tutta la sua vita. Sarebbe stata una cosa da veri stupidi, e lui era ben convinto di non esserlo, inoltre You e Ren non gliel’avrebbero perdonata se mollava ora; nel caso, poi, avrebbe fatto felice solo quell’idiota di Takeshi… quindi non ne valeva la pena.

Doveva smettere assolutamente di pensarci o avrebbe finito per logorarsi senza che si fosse giunti a nulla, sempre che a qualcosa si dovesse effettivamente arrivare e di questo non era per niente certo. Volle infine fare una doccia e con passi lenti si diresse verso la stanza da bagno del suo appartamento, arredata semplicemente con piccole ma graziose piastrellette bianche lucide. Chiuse la porta alle sue spalle, legno di noce chiaramente, e si spogliò. Aveva un bel corpo Gackt, dotato di una muscolatura forse fin troppo possente a causa dei continui allenamenti cui si sottoponeva. Che fosse stato il caso di buttar giù qualche chilo? Non si pose minimamente il problema, occupato com’era a controllare le escoriazioni e i lividi che s’era procurato con la rissa di quella notte. L’ultima di tante tante e tante altre spossanti ma assurdamente e magnificamente gratificanti lotte che l’avevano preceduta. Amava le sfide lui, e quello che l’avrebbe battuto ancora doveva nascere.

L’acqua tiepida gli fece sulle ferite più male di quel che pensava, ma strinse i denti e tenne duro: desiderava ardentemente darsi una ripulita dopo che una parte di quella lunga notte l’aveva passata a vomitarsi l’anima per i calci allo stomaco che aveva ricevuto (ma li aveva anche ampiamente restituiti).

Gli sembrava d’avere il volto fatto di una tumida gelatina polposa, ma non emise un gemito e non si lamentò affatto. Erano tutti cazzi suoi alla fine, e cazzi soprattutto di quelli che l’avevano provocato dopo averlo fatto bere. Era andata che al solito aveva bevuto troppo, al solito due o tre avevano trovato un pretesto qualsiasi per attaccare briga (la sua sacrosantissima intoccabile - da altri - Ferrari rossa), – va detto che quand’era sbronzo tosto bastava un nonnulla a mandarlo veramente ma veramente in bestia – al solito You e gli altri avevano cercato di fermarlo, al solito era finita in un lago di ossa rotte e sangue che sgorgava dovunque.

Lui ovviamente non s’era rotto nulla, era troppo robusto e allenato nel combattimento perché delle mezze tacche di ragazzini potessero anche solo sperare di spezzargli un dito, ma qualche goccia di sangue l’aveva persa comunque. Anzi pure parecchio, ma non gliene era fregato nulla. Aveva solo pensato a filare prima che chiamassero la polizia, sempre che l’avessero chiamata – nessuno di loro voleva finire il galera, era chiaro.

Cercò di lavarsi via il sangue dal viso senza premere troppo, ma visto che non si sentiva la faccia la cosa si rivelò più impegnativa del previsto. Sputò nella doccia e per un istante fu convinto d’avere perso un dente, cosa fortunatamente non vera.

Non avrebbe avuto un aspetto decente per qualche giorno almeno, cazzo cazzo cazzo e ancora cazzo! Gli inconvenienti delle lotte, quelli.

Uscì dalla doccia solo molti interminabili minuti dopo e s’avvolse un asciugamano rosso attorno alla vita.

I capelli lunghi gli gocciolavano sopra le spalle e fu con passo un po’ malfermo che s’avviò verso la sua camera alla ricerca di qualcosa di confortevole da infilarsi addosso.

Optò per una semplice maglietta bianca e un paio di pantaloni di cotone viola scuro.

Fu mentre si frizionava energicamente i capelli che sentì suonare il campanello più volte, un sonoro ritmo martellante che solo uno You piuttosto agitato era in grado di tenere.

Ci pensò su e decise che s’era dimenticato di dirgli delle prove, tra le altre cose. Si odiò profondamente.

 

« Come diamine ti sei ridotto? »

Questo e solo questo gli disse You quando fu salito e gli ebbe posato sopra i suoi occhi neri un po’ troppo larghi. Gackt fu quasi tentato di sbattergli in faccia la porta in modo da farlo assomigliare un po’ a lui, ma alla fine si trattenne ragionando che in effetti doveva essere proprio conciato male se glielo diceva il suo amico che tutte le sante o quasi notti che si trovava a vivere lo vedeva ubriacarsi e fare a botte.

« Scusa, ho scordato di dirti che non venivo alle prove. »

Si sentì una vera merda quando l’altro gli rispose che era solo venuto per controllare come stava.

« Sei andato a farti visitare da un medico? »

Satoru quasi sputò.

« Nah, sai che odio gli ospedali e i dottori. »

Meglio che non ci pensasse, meglio che non lo facesse, già si sentiva salire il sangue alla testa. Quelle non erano cose che gli piaceva rivangare e che temeva lui stesso e tanto gli avevano fatto desiderare di morire.

Aveva contratto le pupille e la testa gli pulsava dolorosamente, ma fece finta di nulla fin quando You non parlò di nuovo, con la voce preoccupata e gli occhi socchiusi.

« Ti sei almeno dato una disinfettata? »

Poté solo scuotere il capo, allora You lo accompagnò a sedersi e andò in bagno a prendere l’occorrente per la medicazione. Quelle ferite potevano anche essere roba da nulla, ma per You era sempre meglio non prenderne sottogamba nessuna: in effetti, ogni tanto Gackt pensava che quel ragazzo avesse lo spirito del crocerossino.

Non si mosse e non disse nulla per tutto il tempo che You fu occupato con la sua faccia, e fu solo a metà della medicazione che sentì squillare ripetutamente il telefono. Forse You l’aveva anche avvertito, ma lui era così perso nei suoi pensieri da non aver sentito.

Corse in camera e sollevò la cornetta, capendo all’improvviso di chi poteva trattarsi.

« Pronto? Qui Satoru Okabe. »

C’era un velo d’impazienza nella sua voce, e colui che parlava all’altro capo del filo l’aveva probabilmente colto.

« Ehilà Satoru, ti trovo bene! »

Era solo il suo datore di lavoro, un signore con cui tra l’altro aveva un buonissimo rapporto. Quasi ringhiò per la delusione. Ovviamente lui lo sapeva, del resto aveva avuto la bella idea di litigare proprio nel parcheggio del casinò.

« Sì ma… se non le dispiace, questa sera preferirei non venire al lavoro. Sa, non sono in condizioni molto presentabili. »

« Yukimura-san ha detto che si accollerà il tuo turno di stasera, a patto che la prossima volta lo sostituisca tu. »

« Sarà fatto, signore. »

Fu lieto di aver risolto anche quella faccenda, almeno dal punto di vista lavorativo poteva tirare un sospiro di sollievo e nessuno dei clienti avrebbe visto che brutta faccia aveva.

You lo raggiunse in camera da letto.

« Era il tuo capo? »

Gackt sorrise, per quel poco che gli riusciva.

« Sì, e per stasera sono esonerato. »

« Molto bene, vedi allora di usarla per riposarti questa sera, e non per qualcuna delle assurde attività che ti tengono sveglio. »

« Guarda che io faccio assurde attività proprio perché non dormo. »

You aveva aperto la bocca per replicare, ma prima che potesse farlo il telefono suonò di nuovo.

« Pronto? »

« Ehi signor vampiro! Vi trovo piuttosto avvilito stasera! »

Contrasse la bocca e dopo qualche secondo fu scosso da una terrificante risata che gli fece incredibilmente male al petto. Era proprio Mana-chan stavolta.

« Il vampiro oggi fa un po’ fatica a parlare… »

« E come mai? »

« Ecco, ho fatto a botte stanotte. »

« Cielo! E come ti senti? »

Sorrise e quasi gli sembrò di poterlo vedere portarsi una stupita mano alla bocca.

« Ehm… mi hanno spappolato un po’ la faccia ma per il resto sto bene. Sono robusto io, ce ne vuole per mettermi ko! »

Ottenne un lungo, interminabile buon mezzo minuto di silenzio profondo dall’altra parte, quasi che il suo giovane interlocutore fosse rimasto congelato dall’indefinibile sconcerto.

Infine le sue orecchie captarono un timido sussurrante mormorio di quella voce maschile e un po’ bassa che così poco aveva da spartire con le apparenze del suo proprietario.

« …io invece di solito le prendevo. »

Ecco: quello lo sorprese, per quanto nel tono di Mana vi fosse solo l’aria di una vaga constatazione.

« Come? »

« Be’, non sono tanto portato per le lotte. Sono un po’ mingherlino e al liceo quei gruppi di teppisti che non aspettavano altro che fare guai mi facevano paura. Anche se io stesso sembravo un teppista. »

E due sorprese.

« Tu?! Ma dai Mana, non scherzare! »

« Non sto scherzando. »

Non ci poteva credere. Che teppista sarebbe mai stato uno che parlava con quell’eleganza?

« Be’ sai, dalle foto che ho visto sembri proprio un bravo ragazzo. »

Lo sentì ridacchiare in quel suo tenero e docile modo sommesso.

« Forse non sono proprio un bravo ragazzo. »

La dissimulata veemenza che colse dietro quelle parole lo sorprese fino a fargli strabuzzare gli occhi. Comunque rise e continuò a parlargli, lieto anche solo d’averlo sentito di nuovo.

« Facciamo così: quando ci vedremo ti proteggerò io! »

« Perché, c’incontreremo un giorno? »

« Un giorno sicuramente! Non so ancora quando, però. »

Sorrise ancora e non s’accorse di You che lo stava osservando con sguardo preoccupato. Gackt aveva un’espressione luminosa tutto ad un tratto, e nemmeno lui pareva essersene accorto. Sapeva con chi stava parlando, sapeva che avrebbe parlato all’infinito e sapeva anche che di lui s’era completamente dimenticato. Nella sua mente, You non esisteva più almeno finché avrebbe parlato con quel Mana.

Tornò allora in salotto in silenzio e lo aspettò di là, ben consapevole che ci avrebbe messo molto tempo. Passò difatti una mezz’ora buona prima che Gackt tornasse, una mezz’ora in cui You l’aveva sentito ridere e scherzare col tono gioviale che aveva solo coi suoi migliori amici, con lui, con Ren.

Quando lo vide arrivare gli offrì uno dei suoi larghi sorrisi, desiderando intensamente nascondere lo sconforto che l’aveva preso d’improvviso: il timore, la quasi certezza ormai, che Gackt Camui se ne andasse abbandonandoli per sempre. Per quanto non facesse che proclamare il contrario, per quanto ribadisse che i Cain’s Feel lui non li avrebbe lasciati mai.

« Chi era? » gli domandò.

« Era Mana! Sai, quel chitarrista di cui ti avevo parlato una volta. »

« Ah sì, mi ricordo. Vi sentite spesso? »

« Sì, quasi tutti i giorni. »

Gackt rideva come un bambino, lui tentava disperatamente di non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e, perché no, dall’odio verso quel chitarrista sconosciuto che il loro Satoru lo stava portando via, intrappolandolo piano piano nella sua tela di ragno. Gackt pareva non fare minimamente caso ai suoi sentimenti, o quantomeno fingeva meravigliosamente di non accorgersene.

« Sai, è molto schivo e timido all’inizio ma se impari a conoscerlo è una persona molto graziosa. O almeno così mi sembra, non posso dire di più perché non l’ho neanche mai visto e non so che effetto mi farebbe di persona. »

« Be’, ma mi sembra che tu sia interessato a scoprirlo o sbaglio? »

C’era dell’acido, in quelle parole? Gackt lo guardò; lo guardò come interrogativamente, il sorriso gli sparì dal volto macellato e alzò le spalle, voltandosi per andare a prendere qualcosa da bere.

« Mah, penso di averlo detto tanto per dire. »

 

Sì, l’aveva detto tanto per dire, e due settimane dopo lo pensava ancora, mentre gironzolava nei dintorni di Kyoto imbarcato senza meta sulla sua Ferrari. Aveva a dire il vero un paio di giorni liberi, ma visto che You e gli altri lavoravano tutti, lui non aveva di meglio che quello da fare. Fu proprio in quel giorno, solo in quel momento e non più tardi, che il telefono che aveva fatto installare in macchina squillò.

Lo fece ripetutamente per una due e tre volte, infine lui rispose ed era Mana.

« Che stai facendo di bello? »

Ancora quella strana mescolanza di bambinesca euforia e pacatezza che sentiva ogni volta che parlava con lui.

Gackt sorrise, torcendo appena le labbra piene, perché non aveva niente da fare.

Non aveva niente da fare e fu così, solo per impulso che lo disse, con sul volto un ghigno beffardo che sapeva tanto di sfida.

« Sto guidando verso Tokyo per incontrare Mana. »

Ancora e di nuovo, gli apparve negli occhi il sorriso angelico di quel ragazzo: come se fosse stato lì con lui.

E pensò che, presto, con lui lo sarebbe stato davvero.

 

 

- continua -


N.d.A. Forse ci siamo. Rullo di tamburi, squillo di trombe, se Mana non mi si mette a fare il bastardo (come ha ahimè già fatto, ringraziate lui se siamo al quinto capitolo e questi ancora si parlano solo per telefono!) al prossimo capitolo si incontranooo!!! Comunque sia, vedremo come reagiranno i nostri due ragazzi di fronte a questo evento: Gackt conquisterà Mana col suo savoir faire o Mana si rinchiuderà come un riccio dietro lo scoglio della sua timidezza?

E ci sarà di mezzo anche il povero Takeshi… che forse sarà quello che ai due dovrà dare la spinta! Riuscirà questo povero ragazzo, mia principale pedina, a uscire vivo dallo scontro di questi due titani(anche se va detto che al momento non lo sono ancora)? Io prego per lui, povera stella! XD

Ringrazio tutti i lettori e i commentatori, purtroppo finora questa storia non ha avuto il riscontro che speravo ma preferisco tenermi questi “pochi ma buoni”! :P Per fortuna che ci siete! Spero comunque che aumenterete di numero perché qui la cosa è una landa desolata come poche… XD

 

 

Vitani

 

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Capitolo 9
*** L'Attesa della Rosa ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -

ATTO PRIMO, SCENA SETTIMA
-
L’Attesa della Rosa

 

 

 

 

Tamburellò, tamburellò e tamburellò impazientemente quelle sue cortissime dita dalle unghie alquanto mangiucchiate sul tavolino di legno, reggendo con la sinistra la cornetta del telefono e continuando con la destra quella nevrotica produzione di rumore.

Fino a qualche istante prima aveva avuto stampato sulla faccia un sorrisetto d’ineguagliabile soddisfazione che avrebbe fatto impallidire – o arrossire – chiunque avesse guardato quel ragazzo senza conoscerlo.

Peccato che dopo aver lasciato trascorrere qualche minuto d’inebetita contentezza il suo cervello sempre in interminabile e costante movimento avesse avuto la stupefacente idea di bloccarsi con un piccolo e quanto mai inatteso tilt.

Lui aveva allargato un poco i lucidi occhi neri e aveva preso a fissare le mattonelle del pavimento, cercando di ricostruire l’ordine logico di quel reticolo di quadrati e non riuscendo a venire a capo di nulla. S’era toccato con mano flebile le vaporose ciocche ondulate di capelli che gli scendevano giù lungo il torace e infine se ne era avvolticchiata una attorno a quella stessa mano, tirando un pochino.

Un’acquosa gocciolina di sudore gli era scesa giù lungo le guance pallide fino al mento, e lui se l’era ripulita coi polpastrelli e aveva serrato le palpebre sospirando e sedendosi sul divano buttando la testa all’indietro, restando così in silenzio ed immobile come una statua.

Eccolo là che rispuntava, quel suo accidenti di stramaledetto nervosismo! Aveva battuto a terra i suoi piedini candidi avvolti dalle pantofole pelose rigorosamente blu e aveva aggrottato le sopracciglia, ascoltandone il ritmico suono soffuso. Doveva calmarsi santo cielo, calmarsi! Non aveva senso essere così ansiosi per un semplice incontro! Si trattava solo di far conoscenza con un amico di Takeshi, in fondo… Takeshi, già!

Era proprio a lui che stava telefonando in quel momento, aspettando alquanto impazientemente che rispondesse visto che come al solito ci stava impiegando ere geologiche intere.

All’ottavo insistente squillo, finalmente, lo sventurato rispose.

« Pronto? Qui Takeshi… »

A Mana, che pure non aveva atteso altro, tremò la mano che reggeva la cornetta e pure la voce, che gli mancò all’improvviso al pensiero di ciò che sarebbe accaduto all’incirca tre ore più tardi.

Dopo un interminabile mezzo minuto buono sentì Takeshi scoppiare a ridere e gli venne da arrossire. Quasi s’arrabbiò. Pure in giro lo prendeva ora?

« Sei Mana-chan? » si sentì domandare.

Avrebbe potuto rispondere di sì, avrebbe potuto farlo e tutto sarebbe finito lì come era giusto che fosse, invece per sua sfortuna l’unica cosa sensata che balenò fuori dalla sua mente intasata furono due lamentose allarmate ed allarmanti parole proferite con un’urgenza che spaventava.

« Taka… aiutami! »

Fu forse la sola volta che a Takeshi capitò di restare a corto di frasi.

« Mana… ti ha aggredito un maniaco? »

Silenzio.

L’unico suono che Takeshi fu in grado di udire dall’altro capo del filo fu uno scricchiolio di colossale potenza, generato dalla mano di Mana che s’era serrata contro il piano del tavolo con una forza e un crack conseguente che avevano dell’abnorme.

« Giuro… che se non fai qualcosa aggredisco io te! »

Ecco, erano quelli i momenti in cui il bellissimo e normalmente tranquillo Mana faceva davvero paura. Erano i momenti in cui dalla regale ugola di quel suo elegantissimo e minuto amico sbucava fuori un vocione di portata monumentale che faceva rabbrividire le spine dorsali di chiunque fosse nelle vicinanze, quello stesso amorevole e disinvolto tono di quando il ragazzino se ne usciva con qualche brano dei suoi adorati Motley Crue.

« Tu spiegami che succede, almeno morirò avendoci capito qualcosa! »

Mana pensò o ci provò con ammirevole coraggio, continuando a scorticare il tavolo con delle unghie che non aveva e producendo ugualmente un sonoro grat grat simile a quello di un cane che scava sul legno.

« Gackt… »

Esalò quella parola come se avesse dovuto sputare un polmone.

« Ah, lo scemotto! Che ha combinato? »

Takeshi pareva essersi notevolmente tranquillizzato, avendo evidentemente notato che la voce di Mana aveva perso la poco rassicurante nota cimiteriale di qualche istante prima ed era tornata normale.

« Viene… »

« Ah sì, quello viene dappertutto! È un suo viziaccio, sapessi quante volte ho provato a dirgli di farla finita… »

L’immensa indescrivibile fortuna di Takeshi fu che in quel momento fra lui e Mana ci fossero il filo del telefono e mezza Tokyo, poiché altrimenti la prima mossa del chitarrista sarebbe stata sfoderare tutta la sua forza e sfracellargli contro la schiena il ben noto e ormai grattatissimo tavolinetto di legno.

« Tu, razza di animale le cui aspirazioni non transitano oltre il suo naso, ora taci e stammi bene a sentire! »

« Io ti starei pure a sentire se tu ti decidessi a sparare una frase sensata. »

Un sospiro spazientito e il ritorno della voce da ruggito furono più che sufficienti ad avvertirlo che Mana aveva veramente i nervi a fior di pelle.

« Dunque… Satoru Okabe, Gackt Camui, lo scemotto, chiamalo come ti pare ma comunque lui… sarà qui a Tokyo fra circa tre ore. »

« Ma dai? Allora sei riuscito a incastrarlo? »

« Ancora no, viene solo a trovare me. »

« E quindi? »

Mana alzò gli occhi neri al soffitto, nel mentre stritolandosi una ciocca di capelli con quella solita mano sudata che di starsene buona al suo posto proprio non ne voleva sapere.

« Quindi ci siamo dati appuntamento a Shinjuku, e al resto penso che tu possa arrivarci perfettamente da solo. »

« Vediamo, ti conosco e ho sentito abbastanza da poter asserire che sei andato nel panico come tuo solito, sbaglio? »

« Il tuo sopraffino intuito animale ha sempre il potere di sconvolgermi. E comunque frena, quando ho intercettato Yu-ki non ero affatto nel panico. »

« Suvvia, smettila con queste tue battutine intrise di venefico sarcasmo, sai che con me non attaccano. E scommetto ciò che vuoi che quando ti sei infilato nel backstage quella volta ti tremavano le ginocchia. »

« Pensala come ti pare, ma devi venire con me. E non azzardarti a fare qualcuno dei tuoi commenti idioti che già immagino che stessi pensando. »

Takeshi sospirò, come se già avesse saputo che sarebbe finita in quel modo.

« Senti, è inutile che sospiri. Io non l’ho mai visto, come lo riconosco secondo te, dall’odore? »

« Quanta gente a Tokyo ha una Ferrari? »

« Che? »

« Ecco, lui ha una Ferrari. »

« Ho capito, resta il fatto che io lì da solo non mi ci  presento! Sono stato abbastanza chiaro? »

« Ma che timidone che sei, te l’ha mai detto nessuno che sei adorabile quando fai così? »

« Piantala. »

E Taka la piantò sul serio, merito dell’amorevole voce cimiteriale.

« Dunque avete appuntamento per le sei di stasera. »

« Sì, sì, sì. . »

« Facciamo così, passo da te un’oretta prima e andiamo a prendere il treno, ok? »

« Ok. »

« E stai calmo, che Camui non ti mangia. Anche se è un mezzo maniaco… »

Takeshi era lì per chiudere la chiamata, tranquillissimo come una colomba felice, quando il mormorio di una vocetta flebile ed incerta dall’altra parte lo trattenne.

« Taka… »

« Che c’è? »

« …che mi metto? »

 

Venti minuti di consigli dopo, Mana mise giù un telefono completamente viscido di sudore. Aveva ormai pochissimo tempo, doveva agire o non se lo sarebbe perdonato finché campava.

In piedi, voltò lentamente il viso pallido dagli occhi neri verso uno degli specchi, scrutando come interrogativamente la figura snella che vi vedeva riflessa, incorniciata fino alle cosce dagli ondulati capelli di ebano.

« Forza, Mana-chan. »

Lo disse a se stesso come se parlasse a qualcun altro, pieno di un’incertezza che a parole non avrebbe mai potuto esprimere. Forse solo con la musica.

D’istinto prese la chitarra e si gettò sul divano accucciandovisi con le ginocchia sollevate, stringendo lo strumento e provando accordi silenziosi a testa bassa, con gli occhi aperti e totalmente adombrati dalla frangia, senza neppure preoccuparsi di collegare il jack al piccolo amplificatore che usava in appartamento. Poco gl’importava di suonare in quel momento, gli bastava sentire fra le mani la chitarra, che gli dava una sicurezza che altrimenti non avrebbe mai posseduto. Alzò lo sguardo, a labbra socchiuse.

« Sappi, Mana-chan, che ci devi provare. Ci devi provare o te ne pentirai a vita, stanne certo. »

Allora s’alzò in piedi con uno scatto, lasciando la chitarra abbandonata ad occupare il divano, e se n’andò in camera da letto quasi correndo.

Il primo passo era decidere cosa indossare: ci metteva sempre secoli e tutto doveva essere perfettamente abbinato, perfino la biancheria. Forse avrebbe dovuto piantarla con tutta quella cura feticista per l’abbigliamento… si poneva problemi che, sospettava, non sfioravano neppure le donne. Però non si sarebbe mai odiato, non più. Aveva passato anche troppo tempo a detestarsi, e non voleva smettere di provare quel po’ d’amore per se stesso che da qualche anno gli scaldava il cuore ogni volta che si guardava.

Scelse un paio di pantaloni neri a sigaretta, femminili e stretti in modo da slanciarlo e dare risalto alle sue splendide gambe tornite dalle quotidiane corse mattutine. S’era comprato un armadio ampio, con un’immensa specchiera nelle ante centrali che gli risultava utilissima quando voleva specchiarsi per intero, per la prova degli abiti.

Aveva il torace sottile e il fisico acerbo come quello di un adolescente, sottolineato dal candore di una pelle che sembrava risplendere tanto era bianca. Era primavera, ma non era ancora abbastanza caldo da andare in giro in abiti estivi, quindi optò per una magliettina color panna a collo alto priva di maniche a cui abbinò un maglioncino di morbida lanetta nera incrociato in vita e allacciato ai fianchi con dei deliziosi nastrini di velluto. Al collo fermò una spilla a forma di rosa nera, pensando che poteva bastare. Dei guanti non c’era bisogno, forse sarebbe sembrato troppo scostante nei confronti di Satoru e non voleva, visto e considerato che si conosceva ed era ben consapevole di essere timido.

Agli occhiali da sole però non avrebbe rinunciato: o si truccava o indossava quelli, altrimenti col cavolo che usciva di casa, e ormai di truccarsi come si deve non aveva più tempo.

Le scarpe, avrebbe messo quelle alte di vernice nera, col cinturino e il tacco color legno e il fiorellino sulla fibbia, che gli arrivavano alla caviglia e nascondevano appena l’orlo dei pantaloni.

Passò a strecciarsi i capelli con somma cura, spazzolandoli ripetutamente fino a farli scintillare d’argento, e li legò in una coda bassa da cui lasciò sfuggire volontariamente qualche ciocca.

Era stato bravissimo: quando Takeshi suonò il suo campanello gli mancava solo un velo di gloss sulle labbra rosa e aveva pure avuto il tempo di farsi una cioccolata calda.

« Splendido come sempre », rise Takeshi quando lo vide.

« Grazie, sei un tesoro, ora andiamo. »

Con una certa fretta Mana lo spinse fuori dalla porta e giù per le scale fino a che non si ritrovarono in strada.

« Aspetta un attimo, » disse Taka mentre Mana inforcava quei discutibili occhiali da sole talmente grandi che bastavano a coprirgli una buona metà del viso « chi era quello che poco fa moriva dal nervosismo? »

Manabu non gli rispose nulla, semplicemente lo scrutò attentamente da dietro le lenti scure e disse pacatamente: « Sappi, animale, che io confido in te. »

Il ragazzo dai cespugliosi capelli scuri rise nuovamente: « Non mi permetterei mai di insinuare che la tua fiducia sia mal riposta, Mana-chan, ma non potrò certo parlare per te in eterno! Sei tu a doverlo conoscere, non io. »

Il suo amico dalle chiome corvine chinò silenziosamente il capo senza replicare, e Takeshi indovinò – indovinò, perché dietro quei giganteschi quadrati neri non si scorgeva niente di niente – che in effetti lo sprovveduto a quel particolare non doveva proprio, minimamente avere pensato.

S’avviarono a piedi verso la stazione più vicina, uno camminando irrigidito e spedito su dei tacchi più alti di lui, l’altro ridendo sguaiatamente e pensando che se ne sarebbero viste delle belle.

Sì, se ne sarebbero viste davvero delle belle.

 

- continua -

 

N.d.A. Spiacente… Mana ha fatto il bastardo, come temevo… ^^;;; e mi ha anche anticipato che probabilmente continuerà a fare di testa sua fino a una fine che è ancora mooolto lontana, visti i tempi dei due principessi qui. In ogni caso, non so voi ma io mi sono divertita come non mai a scrivere questo capitolo e spero che vi divertiate anche voi a leggerlo. Mi ha divertito scrivere di un Mana andato completamente in crisi isterica da pre-appuntamento, e mi diverte parlare con Takeshi che è il mio unico rampino all’ego di due personaggi che altrimenti vanno e vengono per conto loro e come preferiscono. Finora la cosa non mi dispiace, perché la loro vivacità ha solo abbellito la storia infilando certe scene che io da sola giuro non avrei mai pensato. Al prossimo capitolo comunque si incontrano davvero, questo ve lo posso garantire! >_< La pianteranno finalmente di boicottare la loro autrice! Colonna sonora di questo capitolo: assolutamente “Ma Cherie” (ai misciu mi, per intenderci XD). Mi scuso ancora per aver potuto lavorare solo a questo capitolo, ma giugno per gli universitari come molti di voi sapranno è davvero un mese DI MERDA. Sto piena di esami e ancora per un po’ non riuscirò ad avere respiro. Torno a ringraziare i vari lettori (parecchi, ho scoperto XD) e commentatori sia manifesti che in incognito (pochi, ma ci accontentiamo XD) per la loro assiduità nel seguire la fanfiction, fatto che ci sprona (parlo anche a nome dei due principessi e di Taka-chan) a dare sempre il meglio!

Un salutone da

 

 

 

Vitani, Mana, Gackt & Taka

 

 

 

PS. Parlo dei miei personaggi ovviamente, non di quelli veri PURTROPPO :P

 

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Capitolo 10
*** L'Incontro del Giglio e della Rosa ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -

ATTO PRIMO, SCENA OTTAVA
-
L’Incontro del Giglio e della Rosa

 

 

 

Fece per tre, ben tre inquantificabili volte quel giro assurdo che ogni volta lo portava ad allontanarsi ed avvicinarsi asimmetricamente al luogo dell’appuntamento. Non è che non sapesse come comportarsi, no… no. Lui era assolutamente sicuro di se stesso. Mai, mai sarebbe indietreggiato davanti ad un ostacolo, anche se quell’ostacolo era di carne ed ossa e aveva i capelli neri. E poi perché diamine considerare Mana un ostacolo? Era un amico di Takeshi per non dire un suo amico, quindi per quale motivo avrebbe anche solo dovuto minimamente pensarlo come tale?

Il rumore della chiave che girava e spegneva il motore dell’auto gli rimbombò nelle orecchie come un tuono prima d’un temporale, e i suoi piedi gli parevano tavole di piombo che aderivano all’asfalto della strada con tanto inaspettato trasporto che quasi se ne preoccupò. Quasi, perché a dirla tutta si stava già incamminando verso la stazione davanti alla quale era atteso.

Portava un completo grigio scuro e avanzava con quel suo solito e irraccontabile portamento baldanzoso che a malapena gli faceva perder tempo a guardarsi intorno. Non che ci fosse molto da vedere, a parte palazzi e palazzoni e centinaia di migliaia di persone diverse che camminavano come tante piccole irritanti formichine impazzite.

Si drizzò sul suo metro e ottanta e voltò la testa in giro per vedere di scorgere qualche volto familiare, ma lì per lì non notò proprio nulla di interessante. Non c’era Mana, che del resto lui pure non avrebbe saputo riconoscere troppo bene avendolo visto solamente in foto, e non vedeva neppure Takeshi. Si chiese davvero come avrebbero potuto vedersi in mezzo a quella confusione e convenne con la sua coscienza d’essere stato un pazzo una volta di più a lasciarsi guidare dal suo scriteriato istinto da guerrafondaio.

Emise un sospiro abbattuto, e proprio mentre stava per tornare sui suoi passi udì una voce che tanto gli suonò come un faro piantato lì apposta per lui.

« Ehi scemotto! Dove stai andando? Guarda che noi siamo qui! »

Si girò con un robotico e lento movimento della testa e come prevedeva vide un ragazzo più basso di lui che si sbracciava come un deficiente in mezzo a quel casino, ululando a pieni polmoni al suo indirizzo di modo che più di una signora lo guardò stranamente nel passargli vicino.

Diede intimamente dell’idiota a quel cespuglio di capelli scuri con la bocca più larga del resto del viso, e desiderò altresì accopparlo con le sue stesse mani. Solo che non era arrivato fino a Tokyo per quello, assolutamente no. Vicino a Takeshi - perché ebbene sì era proprio lui - non vide tuttavia nessuno che potesse anche solo vagamente somigliare a Manabu. Non poté far a meno di essere sottilmente preoccupato dalla cosa, però Taka aveva parlato al plurale, quindi…

« Ciao imbecille! Ti trovo bene! »

Tuttavia rise e s’avvicinò al ragazzo e appena l’ebbe a portata di mano gli rifilò una sonorissima e disastrosamente dolorosa pacca sulla spalla, perdendo pure tempo ad osservare i dintorni con un occhio per vedere se gli riusciva di identificare il motivo della sua presenza lì.

« Non ti preoccupare, Mana c’è. Sta solo facendo il timido. »

Al solito. Takeshi era un sacrosantissimo deficiente, parole sante quelle, ma aveva anche un intuito da fare invidia a un cane, e perciò lui attese, senza fare altro perché non c’era altro da fare. Restò immobile, insieme a tutta la gente di quel luogo in cui pure l’aria sembrò all’improvviso attendere che qualcuno facesse la prima mossa e poco importava chi sarebbe stato.

Poi Taka alzò infine la testa al cielo e parve ululare al vento con un sorrisetto divertito che quasi inquietò Satoru. Quasi.

« Ehi Mana-chan! Piantala di nasconderti, su. Non è il momento di fare il bambino. »

Fu in quel momento, solo allora e non prima, che Gackt scorse una persona immobile agli angoli del suo campo visivo, una persona che prima non c’era o che forse era sempre stata là poggiata a una delle colonne della stazione a guardarlo fissamente dietro degli enormi occhiali da sole neri. Forse era vera la seconda e forse lui era stato così sciocco da non notarla, ingannato dal desiderio evidente di quella persona, che non aveva voluto essere vista fino a quel momento.

Gli era parso una donna, così di primo acchito, invece era ormai certo che fosse lui, quello non poteva essere altri che Mana. Gli sembrò oltremodo bizzarra quella sua istintiva certezza, ma ancor più assurdo gli parve il pensiero che ne seguì: quel ragazzo, dio santo, puzzava di genio.

Non seppe indicare con precisione quale vocina del suo cervello glielo sussurrò, seppe solo che lo pensò e ne prese atto nell’istante medesimo in cui Mana si staccò dalla colonna e venne verso di loro, a passi piccoli e nascostamente incerti. Era la cosa più immensamente strana in cui si fosse mai imbattuto: finché era stato immobile l’aveva scambiato per una donna, ora che s’era mosso non avrebbe potuto più farcela neppure volendolo e ancora di nuovo non afferrava il perché. Forse era solo una delle sue tante impressioni sbagliate e certamente non poteva andargliela a rivelare. Che figura ci avrebbe fatto?

Attese in silenzio, s’aspettò che lo salutasse, che gli dicesse un “buongiorno” e poi se ne sarebbero andati da qualche parte tutti e tre e finalmente avrebbero potuto fare conoscenza di persona in santa pace. Eppure Mana non gli parlava, non spiccicava una parola. Perché non gli parlava? Perché si limitava a guardarlo dietro le scure lenti di occhiali da sole più grandi di lui? Si ravviò i capelli castani un po’ lunghi con una mano, con una solerzia quasi imbarazzata che palesava un nervosismo che all’inizio non aveva sentito… lui? Lui, Gackt Camui, era imbarazzato e per giunta a causa di qualcuno che conosceva, perfino? Ah, stava dannatamente perdendo colpi. Gli ci voleva decisamente una grossa, salutare e benedetta bevuta.

Finalmente, dopo un tempo per lui imprecisato – non doveva essere stato molto in ogni caso – Mana diede segni di vita. Lui capì che l’avrebbe fatto ancor prima che il suo braccio si muovesse, perché Takeshi poteva pure avere l’istinto del cane, ma lui aveva dalla sua una percezione straordinaria. Mana si tolse gli occhiali da sole – un movimento incredibilmente fluido e vivace che per un singolo istante lo intimorì – e lui poté finalmente scorgergli il volto. Vide due occhi a mandorla un po’ piccoli su un viso forse appena troppo largo, ed erano neri. Così neri come mai ne aveva visti altri, brillavano d’una vitalità così straordinariamente intensa che ne fu sconcertato ed affascinato insieme. In quell’istante comprese che Manabu Satou aveva in sé delle capacità che con gli anni non avrebbero potuto far altro che accentuarsi e comprese pure quella che sarebbe stata la sua risposta se mai quella questione, il vocalist, fosse stata ripresentata.

« Non sembri un musicista. »

Mana glielo disse con assoluto candore e innocenza, allargando appena le iridi nero pece e parlando tranquillamente e adagio, con una sicurezza invidiabile in quella voce che suonò incredibilmente composta alle sue orecchie. In effetti, stava indossando un completo elegante e se n’era quasi dimentica.

Poi Takeshi scoppiò a ridere, improvvisamente e sguaiatamente come al solito, prendendolo a  pacche sulle spalle.

« Oddio… ha ragione, sembri un capo della yakuza! »

« Ma sta’ zitto tu! »

Però non ne poté fare a meno, di unirsi alla risata a sua volta, e fu felice di vedere che perfino nel viso di Mana s’era formato un sorriso tenue, quel medesimo timido sorriso che tante e tante volte gli era sembrato di vedere ma che aveva sempre solo immaginato.

« Allora? Dove vogliamo andare? »

Fu proprio Mana a domandarlo, e Takeshi parve cogliere la palla al balzo.

« Io me ne torno a casa! »

Bastò, notò Gackt con sconcerto, un’unica pallida mano di Manabu poggiata istantaneamente sul retro della sua maglietta a bloccarlo, irrigidendolo peggio del morso di un serpente a sonagli. Stava stringendo molto forte, Mana, senza dir nulla.

« Che vuoi da me? Il cavaliere te lo sei trovato mi pare! »

Quella della povera vittima Taka era un’ultima difesa disperata, e Mana di tutta risposta rafforzò la presa così che a Gackt parve finalmente sensato intervenire.

« E dai Taka! In fin dei conti io e te non ci vediamo da un secolo! »

« Ma ci sentiamo sempre, e questo mi basta e avanza! »

« Non fare il timido! »

« Veramente l’unico timido qui è quello che mi sta stritolando la maglietta! »

Fu questione di un istante, quella singola asserzione fu più che sufficiente a fare in modo che Mana lo mollasse, ancora senza proferire una parola che fosse stata una. Gackt osservò divertito Takeshi dare una pacchetta sulla spalla anche a Mana.

« Facciamo così, stasera vengo a cena da te! Così siamo contenti tutti quanti, compreso il mio stomaco! »

Un risolino salì alle labbra di Satoru quando s’accorse che Mana aveva riagganciato con evidente infantile divertimento la maglietta di Taka, e solo in quel momento gli venne in mente che lui pure non aveva ancora spiccicato parola con quel ragazzo.

« Be’, » fu inaspettatamente proprio Mana che parlò, d’un tratto girandosi a guardarlo con una punta di mesta inquietudine nei luminosi occhi neri « vogliamo fare un salto a casa mia? »

Lo disse alzando le spalle con una noncuranza che sorprese Satoru, come se per lui non avesse avuto importanza il fatto che, a dispetto delle ore trascorse al telefono, loro due fossero praticamente estranei.

Taka alzò a sua volta le spalle: « D’accordo! Camui, hai la macchina tu? »

Lui si trovò solo a poter annuire, prima ancora di rendersi conto di ciò che quella domanda implicava.

 

Poco dopo erano saliti tutti e tre sulla sua Ferrari, Mana davanti assieme a lui e Takeshi dietro, il maledetto fetentissimo…

« Sai, io conosco questo scemo da quando andavamo al liceo, pensa che palle! »

Takeshi sghignazzava beatamente sdraiato sui sedili posteriori dell’auto, elemento quello che stava alquanto contribuendo a far saltare i nervi di Satoru, senza contare poi le stronzate che il ragazzo aveva iniziato a sparare a raffica di lì a qualche minuto.

Mana gli stava seduto accanto in perfetto silenzio, guardando fisso la strada con quei suoi acuti occhi nerissimi – non s’era più rimesso gli occhiali da sole – e limitandosi a dargli ogni tanto innocue indicazioni come “qui svolta” o “continua dritto”. Anche Gackt stava perfettamente muto, incapace di trovare qualsiasi cosa da dirgli. Non che non avesse argomenti, per carità, eppure… non riusciva ad intavolare un discorso che fosse uno.

E intanto Takeshi continuava a raccontare aneddoti più o meno veri e assurdi, quasi tutti che coinvolgevano Satoru. Era in quei momenti che lo detestava, ma davvero tanto tanto tanto.

« …e poi ha rotto il naso con un pugno a due di loro e… »

« Taka? Finiscila. »

« Spiacente bello, la mia lingua non prende ordini da te. Massimo massimo da Mana-chan… che è cento volte più charmant di te. »

« Eh? Cosa vorresti dire?! »

S’era involontariamente voltato verso Takeshi, che spaurito lo spinse con un ceffone a guardare la strada.

« Taci e guida, che sei pericoloso. »

Rimase ancora in silenzio, con le sopracciglia corrugate in una smorfia di puro e crudele disappunto, quando un lievissimo ma deciso ticchettio su una sua gamba lo fece sobbalzare. Roteò appena gli occhi a guardare Mana, vide che sorrideva. Fu con un divertito occhiolino e un cenno della mano che Manabu lo invitò a restare in silenzio e prese fiato.

« Takeshi, smettila… o niente cena stasera. »

Un lungo, febbricitante e spaurito brivido gli sconvolse le vertebre una per una quando sentì quella voce. Era una death voice perfetta, incredibilmente potente. Guardò per un istante Mana e scorse sul suo viso un ghignetto di palese e gioiosa soddisfazione.

« La voce cimiteriale no, Mana, ti prego mi metti l’angoscia! »

Fu la prima volta che sentì ridere quel ragazzo dai lunghissimi e ondulati capelli neri, la prima volta che sentì la sua risata incredibilmente composta ma libera. Capì che nella risata di quel ragazzo c’era sempre quella strana eleganza che poteva essere un artificio come una consuetudine, e di nuovo si convinse di non aver davanti una persona qualunque.

« Ecco come lo controllo », lo sentì dire « Gli faccio troppa paura quando parlo così! »

E rise di nuovo.

« Oh, siamo arrivati! »

Gackt accostò davanti a una modesta palazzina bianca, con un piccolo giardino, un’abitazione talmente normale che quasi si sentì deluso.

« Bene! » disse Taka saltando giù dall’auto « Ora, se voi due principi me lo permettete, io me ne tornerei a casa. Ci vediamo questa sera, ti va bene se passo verso le nove? »

« Certamente. »

Mana sorrideva ancora ma, notò Gackt, teneva le braccia conserte attorno alla vita, con una mano a sfiorargli un fianco e l’altra a sorreggergli il gomito. Salutarono Takeshi, l’uno alzando una mano e l’altro facendogli ciao ciao, infine si guardarono in silenzio. Manabu non sorrideva più, ma gli indicò con un cenno del capo il portone e s’avviò su per le scale.

Gackt lo seguì, notando il passo incredibilmente leggero con cui Mana saliva i gradini nonostante ci fosse l’ascensore. Evidentemente c’era abituato, e lui del resto non aveva alcuna difficoltà a tener dietro a quel passetto fugace da ballerino, allenato nel combattimento e robusto com’era.

Quel che lo sorprese, quando finalmente entrò dopo tre rami di ripidissime scale, fu la quantità di specchi che trovò appesi per casa, specchi di tutte le dimensioni, di ogni genere. Era un tipo vanitoso, dunque… e non aveva mica tutti i torti ad esserlo. Aveva dei bei lineamenti, tutto sommato, ed era più che evidente che la sua persona la curava molto. Lo vide poggiare con delicatezza gli occhiali da sole su un tavolinetto vicino all’entrata, dopo essersi tolto le scarpe. Lo imitò.

« Se vuoi appendere la giacca, l’appendiabiti è lì. »

Mana gli indicò un armadietto accanto all’ingresso, vicino alla scarpiera.

« Grazie. »

Satoru lo raggiunse poco dopo e vide che aveva iniziato a trafficare con un gigantesco impianto stereo nel salotto.

« Me lo sono fatto portare da casa dei miei, » gli disse Mana quando s’accorse d’essere osservato « è un mio caro amico. Io non vivo senza musica. »

Fu con un sorriso che posò una delle sue mani, che a Gackt parvero incredibilmente piccole, su uno degli altoparlanti. Sì, ancora una volta non era stato tradito dal suo intuito: Manabu Satou era un ragazzo affascinante, suo malgrado. Aveva davvero la stoffa per diventare qualcuno.

« La ascolti la classica? »

Gackt sorrise ed annuì.

« Sì, studio pianoforte da parecchio tempo quindi me ne intendo abbastanza. »

« Io pure. Difatti ecco là l’altro mio amico. »

Gli indicò qualcosa dietro le sue spalle, Gackt si girò e vide un piano verticale. In quello stesso momento le note di un pianoforte cominciarono a spandersi per la stanza, ma dallo stereo.

« Questo è l’Allegro del concerto brandeburghese numero quattro, di Bach. Lui è da sempre il mio preferito… »

Lo disse sussurrando con quella sua voce un po’ bassa, Mana, quasi avesse temuto di sciupare il suono di quell’arrangiamento per pianoforte. Socchiuse le palpebre, appena mostrando l’iride nera, poi si girò un attimo e vide che lui stava ancora in piedi.

« Ma che fai? Siediti! »

Gli indicò con un sorriso il posto al suo fianco, dando una leggera pacca sul divano.

« Vieni a goderti il momento. »

Gackt gli ubbidì senza storie, e mentre si sedeva perse qualche istante ad osservare il ragazzo che gli stava accanto e che aveva chiuso ancora gli occhi. I capelli, legati in una coda bassa, gli scendevano morbidi come onde su una delle minute spalle, piccole come quelle di una ragazza. Stava ascoltando, teneramente rinchiuso in un sogno, e le sue dita tenevano perfettamente il tempo con quelle del musicista. Anzi, di uno dei due musicisti, perché evidentemente si trattava di un brano eseguito a quattro mani.

Allora lo imitò, sedendosi accanto a lui e chiudendo gli occhi, e stette bene, così in pace come da molto tempo non s’era sentito più. Neppure il suo cuore sentiva più ma solo la musica, solo quelle note che parevano stillare come gocce di pioggia e fluire dolcemente e fresche come l’acqua di sorgente, meravigliose.

« Dopo, » glielo chiese così, senza neppure guardarlo e sottovoce come se avesse temuto di parlare « mi fai sentire come suoni? »

« Certo… »

Schiuse infine le palpebre, si girò verso il ragazzo al suo fianco e vide che gli aveva puntato un occhio saldamente addosso, nero e sfolgorante come l’ossidiana. Da quanto tempo lo stava guardando? Da quanto? Non riusciva a rendersene conto e con orrore scoprì di non riuscire a preoccuparsene.

« Che c’è? »

« Niente. »

Poi fu con un unico scatto di un corpo incredibilmente sottile ed agile che Mana s’alzò, stiracchiandosi e scuotendo più volte la testa.

« A proposito, se ti serve il bagno è l’ultima porta in fondo », gli indicò il corridoio che s’apriva di fronte all’atrio d’ingresso, nella parete opposta. Gackt si guardò ancora una volta attorno e rifletté che i soldi non dovevano mancare neppure a lui: ricordò che Mana gli aveva detto una volta che i suoi erano insegnanti di musica, quindi doveva appartenere a una famiglia piuttosto benestante. Perché s’era spinto fino a Tokyo, allora? Ah, di nuovo aveva partorito una sciocchezza degna solo di lui: non avrebbe neppure avuto bisogno di domandarglielo né di pensarci. Naturalmente per il sogno che tutti i musicisti possedevano, più o meno interrato nel fondo del loro cuore: sfondare.

« Senti, ti va di andare a trovare Közi? È un altro dei membri della band, te lo presento! Abita qui vicino, ci mettiamo cinque minuti. »

Si domandò in breve se fosse il caso di pensare che quell’improvvisa proposta fosse un modo per evitare di rimanere con lui da solo, più per disagio che per timidezza. Allora annuì, sorridendogli.

« Perché no? »

« Se hai la pazienza di aspettare due minuti, mi cambio! »

« Ti cambi? »

Mana non gli rispose, semplicemente gli accennò di sì col capo e schizzò nel corridoio con la velocità di un piccolo tornado.

Lui restò in salotto, ad attendere immobile, e per i circa dieci minuti che aspettò, continuò ad ispezionare la stanza con un certo interesse. Era una casa piuttosto semplice, in verità: niente di troppo sfarzoso, solo quell’incomprensibile quantità di specchi e qualche mazzo di fiori sopra i mobili. C’erano delle foto, probabilmente della famiglia di Manabu: suo padre, sua madre, una ragazza che data la somiglianza poteva essere sua sorella… sì, avevano le stesse labbra sottili. C’era una chitarra poggiata al muro, piena di scrittine e ghirigori che doveva essere quella che usava sul palco. S’avvicinò poi al pianoforte, sollevando il coperchio e passando le dita sulla tastiera, in silenzio. Era un bello strumento, niente da ridire in proposito. Non seppe resistere alla tentazione, e suonò qualche accordo.

Fu allora e solo allora che lo sentì arrivare correndo trafelato come una tempesta, fermandosi sull’uscio del corridoio. Gackt alzò gli occhi e l’osservò: s’era sciolto i lunghissimi capelli neri, che gli ricadevano ondeggianti attorno al corpo come un manto, vide che s’era infilato una lunghissima gonna nera che terminava in un buon centimetro di pizzo, e che lo guardava. Lo guardava con una strana, indecifrabile smorfia impercettibile delle labbra socchiuse, come se avesse voluto parlare senza aver saputo tuttavia che cosa dire. Se ne sorprese, fu quasi certo d’averlo irritato, anche se quel viso bianco come porcellana lavorata non mostrava nulla o quasi, in quel momento. Solo gli occhi s’erano appena allargati, solo e solo quelli.

« Scusami, » disse allora Gackt richiudendo il coperchio « avrei dovuto chiederti il permesso. »

« Non fa niente. »

« Sicuro? »

« Sì. »

Poco dopo, proprio di fronte alla porta d’ingresso, Mana s’immobilizzò dopo essersi infilato un paio di innocui zoccoletti bianchi e sembrò pensare a qualcosa: s’incantò per qualche secondo, poi si girò verso di lui di nuovo e gli sorrideva. Quel sorriso timido e dolce.

« Andiamo? »

Satoru gli sorrise a sua volta, per poi avviarsi assieme a lui.

 

Parcheggiò la sua macchina un paio di quartieri più in là. Mana era stato in silenzio tutto il tempo, aprendo bocca semplicemente per indicargli la direzione. Gackt l’osservò suonare il campanello e disse a quel tale che rispose, Közi, che l’avrebbero aspettato di sotto.

Quello che uscì qualche minuto più tardi fu un ragazzo apparentemente così ordinario che Gackt se ne stupì. Aveva i capelli tinti di biondo che gli arrivavano appena sopra le spalle e un accenno di baffi. Camminava con la schiena curva, con un passo incredibilmente rapido e disarticolato, e indossava una felpa grigio chiaro e un paio di jeans larghi. Ricordò che Mana, durante una delle loro tante telefonate, gli aveva accennato al fatto che un membro del gruppo stava provando a farsi crescere i baffi. Doveva essere lui.

Fu proprio la reazione di Mana a sorprenderlo: appena lo vide gli corse incontro quasi saltellando, urlando un “ciao Közi” e abbracciandolo forte fin quasi a stritolarlo.

L’altro ragazzo rise.

« Ciao Mana-chan! Ti trovo bene! »

« Come al solito, tu invece sei dimagrito. Fumi troppo! »

Közi a quel punto si girò finalmente a guardare Gackt: anche lui aveva un bel viso, pur se dai tratti molto più marcati e virili rispetto a quelli di Manabu.

« Questo è Koji Hagino, in arte Közi, chitarrista e qualche volta seconda voce! »

Mana rideva quando glielo presentò, questo non sfuggì a Gackt. Be’, del resto che s’aspettava? Che Mana si comportasse con naturalezza con lui, che conosceva appena?

« Piacere, io sono Satoru Okabe, detto Gackt Camui. »

« Ho ascoltato la tua cassetta. Complimenti, sei bravo! »

« Grazie mille. E prego, sali pure! »

Közi prese posto nel sedile posteriore e chiuse la portiera, mentre Mana tornava diligentemente a sedersi davanti.

« Posso fumare in macchina? » domandò Közi armeggiando nelle tasche della felpa per trovare l’accendino. La sigaretta ce l’aveva già in bocca, pareva essere proprio un tipo parecchio sfrontato e la cosa lo interessò e innervosì al tempo stesso.

« Se ti chiedo di non fumare, tu non fumerai? »

Non seppe perché gli rispose in quel modo, sinceramente non lo capì, e realizzò quel che aveva detto solo quando rimasero in perfetto silenzio tutti e tre. Közi sbuffò e Gackt guardò verso la strada, mettendo in moto il motore. Non ebbe bisogno di girarsi verso Mana per capire che aveva chinato il capo. Aveva rimesso gli occhiali da sole, quindi della sua espressione capiva poco, ma comprendeva bene il suo imbarazzo.

« Dunque… » iniziò, così per rompere il ghiaccio « Conoscete qualche posto interessante dove andare? »

« Ah, io non ne ho idea », rispose Közi.

« Neppure io », fu la risposta di Mana – data, parve a Satoru, più per adeguarsi all’altro che non per una vera e propria convinzione personale.

Restarono di nuovo in silenzio. Gackt odiava quell’atmosfera così pesante, voleva trovare qualcosa di cui parlare ad ogni costo.

« Se non sbaglio, qui a Tokyo c’è la sede centrale dell’Ohm Cult, no? »

« Chi, quei pazzi che hanno lanciato del gas velenoso sotto la metropolitana di Aoyama? »

Decisamente, quel Közi era molto più loquace di quanto non fosse Mana in quel momento.

« Già! Andiamo a vederla? »

« Vuoi forse arruolarti tra le loro fila? »

Közi rise forte a quella prospettiva, e senza volerlo pure lui si ritrovò a ghignare di rimando.

« Perché no? »

Stava facendo sera rapidamente, il riverbero del sole al tramonto tra i palazzi investiva la loro auto che sfrecciava per le strade semideserte . Gackt aveva indossato pure lui un paio d’occhiali da sole che aveva lasciato nel portaoggetti della Ferrari, in modo da non rischiare di venire abbagliato.

« Satoru-san? Ma a quanto stai andando? »

Közi s’era sporto verso di lui e osservava la sua guida con palese interesse misto a una certa inesprimibile inquietudine.

« Vado troppo veloce? Comunque mi puoi chiamare Gackt, lo fanno tutti i miei amici. »

« Ok… »

« So che ho un modo un po’ spericolato di guidare, me lo dicono tutti anche questo! »

Gackt ridacchiò un po’, poi continuò: « Tranquillo, non ci schiantiamo. So quel che faccio, più o meno. E me ne accorgerei se stessi per morire. »

Colse appena l’occhiata che gli lanciò Manabu a quella frase, senza tuttavia commentare nulla.

Per sua fortuna Közi non pareva interessato ad approfondire quel discorso.

« Il nostro Mana-chan invece è tranquillo e silenzioso eh? Io scommetto però che si sta divertendo, adora le auto da corsa! »

« Sul serio? » Gackt sgranò gli occhi e prese una curva a gomito a cento all’ora rischiando di volare sopra lo spartitraffico. Per fortuna che a quell’ora il numero di auto era limitato e non rischiavano di ammazzare troppa gente…

« Be’… » fu il solo commento di Mana « Diciamo che mi piacerebbe comprarmene una se un giorno le mie finanze me lo permetteranno. Siamo una band indie, per ora i soldi sono quelli che sono… »

« Per cui, produttore, datti da fare! » lo apostrofò Közi.

« Cosa cosa? I Malice Mizer li produci tu? »

« Io insieme ad una mia parente che mi ha fornito il capitale. Comunque sì, ho una mia casa discografica. »

« Produci altri artisti? »

« No. Oh, siamo arrivati. »

Gli parve che Mana volesse a tutti i costi evitare l’argomento musica, almeno con Közi presente, e non capì bene il perché, cosa avesse da tergiversare tanto. Aveva paura di sentire la sua risposta, forse? Paura di illudersi? O il suo era solo un modo per tastare il terreno?

Rimasero in macchina, senza scendere e senza dire una parola, mentre la notte incombeva in quel giorno un po’ fresco di inizio primavera, e mentre gli uomini negli uffici della Ohm Cult lavoravano come formiche. Li vedevano dalle finestre illuminate, a sfacchinare come bestie, e si chiesero forse se anche loro sarebbero finiti così in futuro, oppure no.

Loro erano così, tre ragazzi neppure ancora amici, neppure ancora nulla. Senza saper che dire, restarono in silenzio e dopo una mezz’ora tornarono a casa.

 

Lui e Mana rientrarono che mancava un’ora all’appuntamento con Takeshi.

« Se vuoi ti preparo un bagno, » gli disse Mana « sarai stanco dopo il viaggio. »

« No, tranquillo. Mi basta una doccia. »

« Allora io comincio a preparare. Ti piace il curry? »

« Certo! »

« Gli asciugamani puliti sono sul ripiano appena fuori dalla doccia, per i vestiti ti va bene se ti presto qualcosa io? Tempo di lavare i tuoi. »

« Ma dai, non preoccuparti! Non c’è bisogno che ti disturbi tanto! »

« Nessun disturbo. Anzi, mi fa piacere che tu sia qui, davvero. »

Gackt sorrise. Desiderava davvero lavarsi e tornare presentabile, a dire il vero.

Mentre faceva la doccia sentiva distintamente il rumore delle pentole e di Mana che ciabattava per la cucina spostando piatti e piattini. Aveva l’udito molto acuto, lui, e riusciva a sentire anche cose che agli altri esseri umani talvolta sfuggivano.

Quando uscì dal box doccia, grondante acqua, trovò i vestiti che gli aveva lasciato Mana: un paio di pantaloni sportivi larghissimi, una felpa e pure la biancheria. Era un ragazzo meticoloso, non si lasciava sfuggire proprio nulla.

Dopo essersi vestito s’affacciò un attimo in cucina per domandare a Mana se aveva un phon per i capelli. Quasi rise quando vide che s’era legato i suoi in una coda alta e aveva infilato un grembiulino celeste tutto pizzi.

« Oh certo, il phon! Scusami, te lo prendo subito! »

In quel momento suonò il campanello e certamente era Takeshi che s’era preso qualche minuto d’anticipo. Mana aprì la porta, se lo trovò davanti e si guardarono. Taka guardò Mana, poi spostò lo sguardo su Satoru che si stava frizionando i capelli con un asciugamano, poi di nuovo su Mana in versione “casalinga indaffarata”, restando in silenzio. I due seppero che stava per spararne una, ne furono consapevoli nel momento stesso in cui videro delle rughe formarsi sulla sua fronte. Stava pensando, e quello non era mai un buon segno. Mana si premunì cominciando a tirar fuori una delle sue scarpe col tacco altissimo.

« A quanto vedo avete fatto passi avanti rispetto a qualche ora fa… »

Takeshi ebbe appena il tempo di scorgere Mana sollevare la scarpa e atteggiarsi in una minacciosa posizione di lancio.

« Non ti mancherò. Lo sai. »

E Takeshi non seppe resistere a quella voce così tenera, amorevole e ruggente. Fulmineo si sciolse, avvicinandosi all’ignaro Manabu e abbracciandolo stretto con tale scioglievole melassa che a Gackt quasi venne da vomitare.

« Mana-chaaan, ti adoro! »

Così facendo facilitò il compito a Mana, che la scarpa non ebbe neppure bisogno di lanciarla.

« E ringrazia che i tuoi capelli ammortizzano qualsiasi urto! » gli urlò il ragazzo prima di tornare verso la cucina.

Da là lo sentirono chiamare, qualche minuto dopo, proprio mentre s’erano tranquillamente accomodati in salotto e stavano chiacchierando del più e del meno come – finalmente – due bravi e vecchi amici che si rincontrano dopo anni di latitanza.

« Venite, ho preparato! »

Entrambi s’alzarono, e Takeshi consigliò a Gackt di dare un’annusata per aria, tanto per rendersi conto di quali fossero le doti culinarie di Mana. Lui lo fece, e subito l’aroma un po’ forte e speziato del curry gli inondò le narici.

« L’hai preparato tu? » domandò a Mana mentre si sedevano a tavola.

« Certo! Ogni singolo ingrediente è stato selezionato da me! »

« Un giorno dovrai insegnarmi come si fa, è spettacolare! »

Takeshi, che stava sollevando del riso dalla sua ciotola, rimase coi bastoncini a mezz’aria e l’espressione perplessa.

« Cavoli, fai già progetti a lungo termine, eh Sacchan? »

Nel dire questo gli lanciò il riso che teneva fra le bacchette facendoglielo finire nel piatto.

« Ma si può sapere di che t’impicci tu? »

Taka stava per replicare, ma il suo intervento venne bloccato sul nascere dalla funerea percezione dell’ombra funesta di Mana e di quella della sedia che il ragazzo dai capelli neri aveva sollevato, pronto a fracassarla in testa al malcapitato amico.

« Sono spiacente, Gackt, se ti troverai costretto ad assistere a scene di violenza gratuita, ma posso assicurarti che non c’è altro modo. »

« No problem, succede anche a me di volerlo pestare ogni tanto. »

« E ora veniamo a noi, Takeshi. A casa mia non si spreca il cibo. Sappi che se usi ancora un solo chicco di riso per i tuoi innominabili giochetti ti costringo a mangiarlo dal secchio della spazzatura. »

Ed era spaventoso.

Inutile dire che, quella sera, Takeshi fece il bravo.

 

 

 

- continua -

N.d.A. Un capitolo che mi ha fatto penare questo, mi scuso infatti se è giunto così tardi ma tra esami e caldo non ho avuto proprio tempo di lavorarci. Un po’ più serio per i canoni di Gackt, questo anche per via di Mana che altrimenti penso si sarebbe rifiutato di apparire… ^^; se mi sciopera lui è la fine. Comunque, finalmente ce l’hanno fatta visto? Si sono incontrati, la miccia è stata accesa e d’ora in avanti potranno scatenarsi! Ci tengo a precisare che il nome di Közi me lo sono bellamente inventato, non essendoci alcuna notizia riguardo a quale potrebbe essere il suo vero nome. Tanto d’ora in avanti non mi servirà più, lo chiameranno tutti col suo nome d’arte. Takeshi continua ad essere la vittima della situazione e il mio principale inviato all’interno di Mad Tea, povero ragazzo, e finalmente mi sono potuta togliere una soddisfazione: dipingere il caro Mana in versione casalingaaa!! Ahahahahah!!!

Spero davvero che abbiate gradito il capitolo nonostante il caldo che mi ha castrato l’ispirazione, e scusatemi ancora una volta per la lunghissima attesa!

 

Vitani

 

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Capitolo 11
*** La Notte del Giglio e della Rosa ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -

ATTO PRIMO, SCENA NONA
-
La Notte del Giglio e della Rosa

 

 

 

 

Incedeva silenziosamente per il corridoio di casa sua, muovendosi sulla punta di due piedini inciabattati in un paio di pantofole blu, ascoltando ed interpretando con trepida attenzione ogni singolo rumore che alle sue orecchie capitava di udire. Mica lo sapeva come mai si stesse facendo tutti quegli scrupoli nel suo territorio… ma che gli diceva la testa? Un mare di assurdità forse, però… segui il tuo intuito, si disse, seguilo e tientelo bello stretto.

Svicolò agilmente per il corridoio fino a raggiungere l’armadio dove teneva i futon e se ne caricò sulle spalle uno che andò a piazzare accanto al letto in camera sua. Aveva come la sensazione che non avrebbero dormito molto, ma la tenne per sé. Non era una persona tanto sconsiderata.

« La cena è stata di tuo gradimento? »

Glielo chiese con un tenue sorriso sulle sottili labbra rosee non appena Gackt Camui varcò la soglia di quella stanza, guardandosi intorno con curiosità evidente e comprensibile. Lui da parte sua l’osservava con una punta d’inquieto divertimento negli occhi neri e lucenti: alla fine dei conti lo conosceva appena e ancora gli risultava difficoltoso inquadrarlo. Oh, ma a quella sfida non si sarebbe certo tirato indietro.

« Certo! Era tutto buonissimo! Come hai imparato a cucinare? »

« Principalmente esercitandomi sul campo. Sai, quando i miei restavano fuori per lavoro toccava a me far da mangiare anche per la mia sorellina. »

« Hai una sorella? »

Accennò appena di sì con un lento movimento del capo, invitando intanto il suo ospite a sedersi accanto a lui sul letto.

« Si chiama Hinako, ha tre anni meno di me. Ha fatto contenti i miei, volevano tanto una femmina. »

« Sai, anche io ho una sorella! Più grande, però. Si chiama Mari, e si è presa molta cura di me quando… »

Ecco, il greve improvviso silenzio che aveva seguito quelle parole non era normale. Gli era parso in effetti che Satoru odiasse il silenzio, e allora perché adesso…?

Quando Mana lo guardò, senza parlare e senza mettergli alcuna fretta, vide che non sorrideva più. S’affrettò quindi a cambiare argomento, conscio d’aver involontariamente toccato una corda che forse era meglio non stimolare. Poco gli importava dei segreti di quel ragazzo, non erano minimamente affare suo.

« Allora? Cosa suoniamo di bello? »

Chiaramente si sentì addosso gli occhi marrone scuro di Gackt e a sua volta alzò su di lui un paio di luminose ed innocenti iridi di un nero profondo, che lo scrutarono in palese attesa di un suo qualsiasi cenno affermativo. C’era un qualcosa di ignominiosamente furbo nel sorriso flebile che stava ravvivando quel suo viso dal candore di porcellana, e la cosa suonava straordinariamente inquietante perfino a lui stesso. Da secoli non provava più un tale divertimento.

Corrugò un poco le nettissime sopracciglia nere e distolse lo sguardo puntandolo con insistenza verso la porta e intanto dondolandosi con lentezza bambinesca sul letto avanti e indietro.

« Avevamo deciso di suonar qualcosa, no? Su allora, fammi sentire come te la cavi. »

S’alzo in piedi sulle lunghe e belle gambe fasciate da normalissimi pantaloni larghi di tessuto felpato, candidi e da uomo, tutto pregno di quella sotterranea vitalità che era così disordinatamente incongrua col ragazzo calmo e tranquillo che pareva a prima vista.

« Usiamo la tastiera però, che se suono il piano a quest’ora come minimo entro domani gli altri condomini m’hanno già denunciato. Purtroppo per me non ho altre case oltre a questa. »

« Hai pure la tastiera? »

« Ovvio. »

« Comunque, Mana, lasciati dire una cosa. »

« Sì? »

A sua volta Gackt s’era alzato in piedi e lo osservava sorridendo, dall’alto in basso e forte dei quasi dieci centimetri di altezza che li separavano. Manabu riusciva alla perfezione a sentire la presenza imponente di quella figura dietro le sue spalle, anche senza voltarsi.

« Io col pianoforte non me la cavo, io sono un genio! »

A quelle parole finalmente si girò lentamente, tenendo alta la testa e squadrandolo con tale attenzione da indurlo quasi a fremere, corrucciando un poco il suo sorriso dolce in una smorfietta di pura e semplice determinazione che – lo vide bene – ebbe quasi il potere di impensierire Satoru. Quel ragazzo aveva parlato seriamente pur se dietro una volontaria maschera bonaria, e così anche la risposta che lui gli diede fu più che seria.

« Anche io. »

Con incredibile indolenza s’afferrò una spalla, massaggiandosela per qualche istante come a voler sciogliere i muscoli, poi lasciò i suoi splendidi capelli ondulati liberi dall’elastico che fino a quel momento li aveva trattenuti. Scosse un paio di volte la testa e andò a prendere lo strumento, una Yamaha, sistemandolo in salotto.

Mentre controllava rapidamente la tastiera non parlò né alzò gli occhi, ben cosciente che Gackt lo stava guardando senza perdersi una sua sola mossa. Gli avrebbe accordato l’onore d’esibirsi per primo, anche per poter saggiare quanto realmente valesse quel tipo. Lui era ben sicuro delle proprie, di abilità, e almeno si sarebbe potuto regolare. E poi… c’era dell’altro sotto, a voler dire tutta la verità: si stava divertendo e pure parecchio, e quello era uno splendido segno. Mai e poi mai si sarebbe abbassato a collaborare con qualcuno che lo annoiava, piuttosto preferiva andare avanti da solo.

« Posso accendere quelle candele? » gli domandò Gackt, avendo evidentemente notato i due o tre candelabri che amorevolmente avevano trovato parcheggio nel suo salotto « Sopporto poco la luce dei lampadari. »

« Certo, fai pure. »

Lui accese la tastiera regolandone attentamente il volume mentre Camui si dava da fare con le candele. Ben presto l’intera stanza fu pregna di quella densa luce aranciata che scaldava, e morbidi guizzi d’oro e rosso scivolarono come fiamme riflesse sulle sue chiome d’ebano quando infine s’alzò tornando a guardare l’altro.

« Prego, tutta tua. »

Nell’aria era l’odore dolciastro della cera.

« Sul serio? »

I suoi occhi a mandorla si chiusero mentre esalava una parola morbida come un sospiro.

« Certo. »

Si fece da parte e il suo sguardo corse rapidamente alle candele e al suo riflesso in uno specchio, poi indietreggiò un poco e si sedette silenziosamente sul divano accavallando con morbidezza una gamba e ignorando quella tenera inquietudine. Stupì invece se stesso per quell’aria professionale, e per fortuna che Camui gli dava le spalle mentre lui lo guardava poggiandosi leggermente il mento su una mano candida.

Non per niente, nel suo piccolo anche lui era un produttore. Lo tenne d’occhio mentre si sgranchiva le dita, leggermente inarcando le sopracciglia e con un sorrisetto d’eccitazione sul viso che gli fece pensare a quanto tempo era trascorso dall’ultima volta che aveva provato quel brivido di indescrivibile attesa che gli faceva presagire con precisione infallibile che stava per fare una grande scoperta. Una ciocca di capelli rotolò morbidamente davanti ai suoi occhi e lui se la tolse con un soffio che gli storse appena le sottili labbra rosa. Stava solo attendendo che cominciasse.

Quando infine attaccò, Mana non ebbe neppure il tempo di essere deluso dalla scelta: il Chiaro di Luna di Beethoven… avrebbe anche potuto permettersi qualcosa di più insolito. Immediatamente notò che stava sviluppando la melodia su un tono basso, e non fu necessario che se ne domandasse il motivo. L’ascoltò ripetere due volte il tema principale, alzando il tono e velocizzando il tempo, e infine arrangiare una variazione e concludere il tutto scattando con una rapidissima marcetta che evidentemente stava improvvisando. Il suo sorriso s’ampliò e prima d’accorgersene si ritrovò a battergli il tempo con le dita perfettamente e senza alcun timore di sbagliare. Gli succedeva sempre così, la musica la sentiva a malapena ormai: aveva un modo tutto suo di percepirla, un modo che andava al di là dell’udito e del ritmo ed era incredibilmente più vitale e pulsante.

Satoru Okabe si prese un’intera mezz’ora per suonare e Mana gliela concesse senza nulla da obiettare. Non sbagliava, non sbagliava: sentendo quella musica aveva provato la stessa inebriante sensazione di quando aveva ascoltato quella sua voce così bassa e potente. Sentì la sua musica nelle orecchie, scintillante, tenne vigilmente d’occhio le mani di Camui controllando le dita una per una e osservandone lo scorrere, poi guardò gli occhi di quel ragazzo e vide che erano lucidi e rapiti e ogni tanto si chiudevano per l’estasi. Quel ragazzo stava sudando e lui socchiuse i suoi occhi neri: vedevano la stessa armonia, ormai ne era certo.

Rise e gli batté le mani fortemente quando smise.

« Bravissimo! »

Ed era bravo sul serio, accidenti. Tecnica e concentrazione che avevano dell’impressionante, peccato che lui nel suo piccolo non fosse affatto da meno. Suonava da quando aveva memoria, la musica era stata parte di lui sempre.

S’alzò in piedi e si stiracchiò, scuotendo il capo come un gatto appena sveglio e si mosse verso la tastiera pensando a cosa poteva suonare. L’illuminazione lo attraversò fulminea e a lui venne l’idea mentre prendeva in mano un pacco di spartiti che stava in un ripiano accanto al muro. Se lo ricordava bene, ma non sapeva se sarebbe riuscito a suonarlo tutto a memoria ed era decisamente meglio non rischiare.

Edvard Grieg, il Concerto per Pianoforte in La minore, era stata la sua scelta. Le prime note dell’Allegro Molto Moderato furono per lui come un riscaldamento. Fu con forse addirittura troppa lentezza che le suonò, per un istante senza badare neppure al tempo. Sembrava quasi che si stesse addormentando, ma il suo era solo quel torpore dei sensi che precedeva lo scatto. Lo sapeva bene, lui che era capace di passare ore ed ore su un singolo accordo, provando infinite combinazioni e tornando indietro e riprovando, cercando di trovare la precisa armonia che cercava. Aveva molta e molta strada da fare ancora e ne era cosciente, mai si sarebbe fermato.

Respirò una e due volte a fondo con gli occhi neri socchiusi, poi definitivamente li chiuse e finalmente sentì la musica. Il ritmo l’aveva alla fine pervaso ed erano solo lui e quel battito che tanto facilmente assimilava a quello del suo cuore. La musica era il suo cuore. Era parte di lui quanto lo era il sangue e forse anche di più, perché il sangue gli aveva donato un’esistenza comune a molti, ma era stata la musica a farlo diventare ciò che era.

Fu con quella sola percezione nella mente che si buttò a capofitto nell’Adagio, gettando solo ogni tanto brevi occhiate nella penombra allo spartito e affidandosi alla sua memoria per il resto. Non sapeva se Camui lo stesse guardando o meno, e gliene interessava poco o nulla. Per lui l’importante era riuscire a suonare. Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso quando finalmente concluse il Concerto. Seppe solo che in quel preciso istante gli venne la bislacca idea di mettere di nuovo mano alla tastiera e di inserire l’organo.

Le candele giacevano ormai consunte e quella stanza era quasi completamente buia se si eccettuava il lieve fulgore dei lampioni all’esterno. Non gli saltò in mente neppure per un istante di accendere la luce, tanto non gli sarebbe più servita.

La Toccata e Fuga in D minore, quella sì che la conosceva perfettamente a memoria!

Avrebbe potuto suonarla con tale precisa compiutezza da parere quasi Bach in persona, immaginando il battito di ogni singola nota prima ancora d’eseguirla, eppure non gli piaceva più così. Era diventato talmente bravo che imitare e copiare non lo stimolava più, per quanto ovviamente impossibile gli fosse raggiungere il suo modello. Non se ne rese neppure conto quando cominciò a variare la melodia, seguendo il suo estro e i suoi desideri ma restando fedele all’ossatura che aveva sotto le dita, quella di Bach. Continuò a suonare seguendo il fluire dei suoi sensi, rapidi e sciolti come l’acqua e incalzanti come una piena, fino a che non ne fu pieno. La musica cessò così naturalmente, quando si sentì completamente sazio e ristette con gli occhi alzati al soffitto e le labbra socchiuse accontentandosi di solamente respirare. Gli formicolavano le dita e lui adorò e maledisse quella sensazione che precedeva l’inevitabile ritorno al reale.

Gli volevano ricordare ch’aveva un corpo, che non era un suono e neppure un sogno, che era un uomo.

« Cielo! »

D’improvviso sbarrò gli occhi e si girò verso Gackt, scattando come se si fosse svegliato in quell’attimo: « Quanto ti ho fatto aspettare? Scusami, mi sono fatto prendere la mano! »

Si stupì nel vedere che gli stava sorridendo.

« Stai tranquillo, per me è stato solo un piacere ascoltarti! Sei stato stupendo! »

« Grazie. »

Attendendo si guardarono, per quel poco che riuscivano a vedersi.

« Non so tu, ma io non ho sonno. »

Era la sacrosanta verità quella che Mana gli disse, per davvero gli era passato tutto il sonno che poteva aver avuto in quella notte. Era stato troppo, troppo il divertimento.

« Oh, io non ho quasi mai sonno. Sono piuttosto insonne. »

Quella risposta lo rallegrò un poco.

« Io pure non ci vado leggero, anche se poi puoi vedermi addormentarmi ovunque e a qualsiasi ora. Quando mi prende sonno io dormo. »

« E fai bene! »

Gackt rise apertamente e Mana andò a sedersi accanto a lui e gli parlò senza quasi guardarlo in viso, conscio che se doveva dirgli qualcosa era giunto il momento di farlo.

« Bene, se ora vogliamo passare a cose più serie… se hai qualche domanda, fai pure. Chiedi tutto quello che vuoi. »

Qualche secondo di nuovo silenzio trascorse, ed entrambi udirono solo i reciproci respiri.

« Mana, io… »

« Sì? »

« Che cosa posso fare io per i Malice Mizer? »

Non s’era aspettato quella domanda così a bruciapelo e lo scrutò, voltandosi verso di lui con gli occhi seri.

« Dalla mia ottica di leader e produttore del gruppo, io penso che tu potrai fare molto, se lo vorrai. »

« Perché hai voluto proprio me? Neanche mi conoscevi, e in Giappone ci sono centinaia di buoni vocalist su cui avresti potuto contare. »

« Lo so, e non credere che non abbia ascoltato nessun altro prima di contattarti. Però sai… è stata la tua voce. Quando ho sentito la tua cassetta, la tua voce mi ha trasmesso qualcosa. È stato questo a farmi capire che tu potresti essere quello che cerco, e ne sono ancora convinto, per quanto non potrò averne la certezza finché non ti avrò definitivamente messo alla prova. »

« Ma se io non dovessi accettare sarebbe stato tutto inutile. »

Mana gli sorrise allora, e fu quasi certo d’averlo sorpreso.

« Be’, non direi. Alla fine siamo diventati amici, o no? Quindi vada come vada non sarà stato poi tutto così inutile! »

« E dimmi, i Malice Mizer… cosa sono? »

« Cinque scemi. »

Mana rise nel vedere l’espressione curiosamente e drammaticamente perplessa di Gackt a quell’uscita, poi s’alzò in piedi ancora ridacchiando e andò ad accendere un altro paio di candele facendosi dare in prestito l’accendino da Satoru. Avvicinò la linguetta di fuoco a uno stoppino e l’osservò affascinato accendersi facendo ballare la piccola fiamma come un essere vivente, infine lanciò di nuovo l’accendino al proprietario, che lo afferrò al volo e se lo ripose in tasca. Utilizzando quella che già ardeva, accese anche le altre.

« O cinque fratelli, dipende dai punti di vista. »

Si voltò verso Gackt poggiando le mani sulla cassettiera cui erano posati i candelabri e sorridendo con dolcezza, coi neri occhi lucenti screziati dell’oro delle candele.

« Vedi, noi non abbiamo alcun legame eccettuata la voglia di fare musica. Veniamo da ambienti distinti, da famiglie e situazioni differenti. Io per esempio sono di Hiroshima, Yu-ki è di Fukuoka, Kami di Ibaragi, Közi di Niigata, l’unico di Tokyo era Tetsu. Qui noi siamo praticamente soli, ma possiamo credere in noi come gruppo. Siamo una famiglia, siamo diversissimi gli uni con gli altri ma siamo comunque uniti dalla musica. È un legame che credo più forte anche di quello di sangue, perché i parenti non te li scegli, gli amici sì. »

Gackt annuì in silenzio e Mana proseguì.

« Sai, alle volte penso che se mi fossi comportato in maniera diversa i miei sarebbero stati più felici. Ho dato loro molti dispiaceri e temo di non avere ancora finito. »

« Anche per me è stato così », sussurrò Gackt, sorprendendolo. Manabu inarcò un poco un sopracciglio, ma decise di non indagare. Satoru gli sembrava restio a parlarne e lui non voleva in alcun modo metterlo a disagio.

« Se ti interessa, ho una videocassetta con la registrazione del nostro ultimo concerto con Tetsu. Vuoi darci uno sguardo? »

Glielo chiese intuendo che era ora di cambiare discorso, e lo vide sorridere di nuovo.

« Certo, volentieri! »

Mana aprì un cassetto scorrevole e passò le mani sulle custodie delle videocassette, principalmente registrazioni di anime – Barbapapà e Doraemon su tutti – e programmi di cucina. Oh, eccola lì la videocassetta dello “Cher de Memoire. L’aveva guardata molte volte, per scovare le imprecisioni, per capire come migliorare e poi… perché ne sentiva la mancanza. Sì, voleva tornare ad esibirsi, non ne poteva più di restare inattivo in quel modo atroce che gli sfiancava e logorava la mente e il corpo.

« Sono stato io a dare il benservito a Tetsu », disse a Gackt mentre gli si sedeva accanto e prendeva in mano il telecomando del televisore.

« Davvero? »

« Sì. Non era in grado di darmi quel che gli chiedevo, non più. Non è che non sapesse cantare, solo… lo faceva adeguandosi a stilemi che io invece voglio superare. Questo è un live dello scorso dicembre. »

Lo vide annuire in silenzio.

« Ah, ti dispiace se prendo la chitarra? Non faccio rumore, ma almeno mi ripasso un po’ di canzoni. »

« Ma scherzi? È casa tua, fai come vuoi! »

« Grazie. »

Gli lanciò di rimando un altro tenue sguardo d’intesa, poi si sentì in dovere d’aggiungere qualcosa: « Ah, e non far caso al fanservice. Essenzialmente comunque ci sono io che volo in braccio a un po’ di gente, nulla di più. »

« Ah, fate anche fanservice? »

Quella certa dimostrazione di finta ingenuità provocò a Mana  un piccolo moto di apprensione che s’espresse soltanto tramite l’impensato corrugarsi delle sue sopracciglia. S’era bloccato a metà di un passo, girando un poco verso Gackt il volto sorpreso e un pelo assorto con le labbra corrucciate e gli occhi che d’improvviso parevano due stranamente enormi e tondi globi di un nero splendente.

« Camui… mi hai visto? »

Non aggiunse altro, perché l’espressione un filo imbarazzata di Satoru lo indusse a credere che aveva capito o almeno afferrato il concetto. Se uno col suo aspetto non faceva fanservicebe’, allora il fanservice non esisteva. Era un modo come un altro per divertirsi, farsi notare e far notare anche la band, quindi non ci vedeva nulla di male a scherzare col suo corpo.

« Comunque niente di più, ribadisco. Non collimerebbe col mio personale concetto di eleganza. »

Già, perché lui di eleganza ne aveva da vendere e se lo dimostrò una volta di più scoccando un’occhiata al se stesso d’uno dei tanti specchi.

Ridacchiò un poco, prese la chitarra e tornò a sedersi accavallando di nuovo le gambe.

« Io sono quello coi capelli neri legati, l’altro col cappello da vedova e la permanente da zitella come puoi vedere è Közi, quello alla batteria è Kami e il tipo che sembra un vecchio e a cui starò spesso in braccio è Yu-ki, il bassista. Közi è stato il primo che ho conosciuto quando mi sono trasferito qui a Tokyo, pensa che quel pazzo ha mollato il liceo ed è venuto qui insieme a un amico senza il becco di un quattrino! Per un pezzo abbiamo suonato assieme in un’altra band, i Matenrow, io però ero il bassista. Yu-ki invece lo vidi esibirsi insieme a un altro gruppo a un live, il suo stile mi piacque subito e quella sera stessa mi infilai nel backstage e andai a reclutarlo per i Malice Mizer. Kami invece l’ho barattato col nostro vecchio batterista, tale Gaz, che non mi piaceva minimamente. A conti fatti ci ho guadagnato. »

S’accorse che Camui lo scrutava con una certa palese perplessità nell’espressione, allora gli rivolse un sorrisetto di puro divertimento: « Eh sì, la compravendita di uomini è la mia specialità. Certe volte mi viene il sospetto di essere la reincarnazione di un mercante di schiavi. »

Si voltò verso di lui e il suo sorriso – che aveva ormai davvero dell’inquietante – s’ampliò: « Non ti preoccupare, sei finito in buone mani. »

Ciò che ricevette in cambio fu un ghignetto seguito da un’occhiata di sbieco.

« Non lo metto in dubbio. »

Sommessamente rise di rimando e prese in mano la chitarra, la stessa che suonava nel live, e per un po’ si dimenticò di Gackt Camui. Per un po’ rimasero solo lui e le canzoni e nessuna parola venne più proferita. Lui stava con gli occhi socchiusi e bassi, senza più sorridere anzi con le labbra chiuse e teneramente assorte nel dar vita alle sue melodie, non curandosi altro che delle sue dita sulle corde. Sbagliò poco, perché di quelle canzoni conosceva ogni singola nota.

Ogni tanto le canticchiava, sottovoce e pure se non sapeva cantare, con una faccetta divertita che avrebbe fatto invidia a un bimbo. Gli occhi di Gackt su di sé li percepì solo di sfuggita e se ne interessò poco.

In quella giungla di colore che stava percorrendo il nastro registrato, in quel palcoscenico strettissimo adorno di fiori e piante, dalle ambigue luci rosse e dalle fatate sfumature azzurrognole screziate d’arancio, c’era tanto di lui e tanto di loro, che vi si muovevano sopra suonando come ossessi e giocando come bambini a fare i vampiri e ballando il valzer avvolti in costumi ricavati un po’ dovunque riciclando vestiti. Ogni tanto ci si metteva pure lui a fare taglia e cuci, non lo negava, specie se si trattava di riadattare vecchi abiti.

« Per quanto riguarda la tua domanda di prima, » smise per qualche istante di suonare e inframmezzò alle note le sue parole « i Malice Mizer sono il mio sogno. Sono una musica che travalica il suono, che si scioglie in un’immagine, che ricrea il mondo a modo nostro trasformandolo in un luogo in cui possiamo vivere. »

« Un luogo in cui possiamo vivere? »

Annuì decisamente.

« Mh. Io voglio un posto dove poter essere me stesso, dove suonare senza dovermi omologare ad uno stile, men che meno a quello che sta andando di moda ora. La musica non è un vestito da copiare, la musica è istinto e cuore prima che teoria. »

Ravviò con un gesto nervoso delle mani alcune lunghe ciocche della sua ondulata chioma corvina, sospirando.

« È vero. La musica è qualcosa di semplicemente troppo grande per poter essere espresso a parole, è qualcosa che deve venirti da un punto al di là della ragione. Per questo la parola non la può esprimere, ma può soltanto appoggiarvisi cercando di imitarne il ritmo. »

« Sì. Un ritmo che mescola elementi diversissimi fra loro ma perfettamente complementari. Una melodia rock per esempio non sarebbe più se stessa senza il basso o la chitarra. »

Ancora un lieve tenue silenzio interrotto solo dai suoni della videocassetta, e loro restavano seduti l’uno accanto all’altro immobili come statue viventi. Poi un sussurro da parte di Gackt Camui, che ridestò in Mana la speranza.

« Mana… »

« Sì? »

« Noi… pensi che possiamo farcela? »

« A fare che? »

« Possiamo riuscire a cambiare radicalmente la scena musicale di questo paese? »

Un sorriso.

« Certo. »

Mana s’alzò in piedi.

« Visto quello che ho sentito, io e te ce la possiamo fare di sicuro. »

Non aggiunse altro, si limitò ad allontanarsi verso il corridoio. Non ebbe modo né volle chiedergli nulla di più. Il video del concerto era quasi finito e lui guardò l’ora nell’orologio che ticchettava sulla parete, erano le quattro. Era ancora un po’ presto, ma…

« Vado a fare una corsetta, tu se vuoi va’ pure a dormire. »

« Una corsetta? Vai a correre tutte le mattine a quest’ora? »

« Sì, be’, solitamente a dire il vero verso le cinque, cinque e mezzo… ma ora più ora meno, cosa cambia? »

« Dai, ti accompagno! »

Mana sgranò gli occhi neri e rimase di sale, incredulo. Ma faceva sul serio?

« Sicuro? »

« Certo che sono sicuro! »

« Mica posso permetterti di raffreddarti! »

« Andiamo, non sono così delicato! Almeno prendiamo un po’ d’aria! »

« Sì, l’aria gelida delle quattro del mattino! »

 

E, cielo, uscirono davvero nell’aria gelida delle quattro del mattino, avvolti in un paio di felpe ciascuno ed entrambi presi a correre come forsennati intorno ad un quartiere ancora deserto, colla volta celeste che si tingeva di viola e le stelle che s’appressavano a scomparire.

Correvano fianco a fianco in silenzio, intenti solo a respirare, fissando le nuvolette di fiato che uscivano dalle loro bocche appena dischiuse.

Con la coda dell’occhio Mana percepì più che vedere l’accelerazione improvvisa di Gackt, udì il suono regolare delle sue scarpe battere sul marciapiede. Anche quella sfida non poté non accettarla.

Scattò a sua volta con la rapidità una lepre e si fece strada fendendo quell’aria tagliente che gli faceva dolere i polmoni fino a soffocarlo, affiancandolo quasi senza sforzo.

Ancora nel quieto, immobile silenzio, lui lo raggiunse.

 

 

 

- continua -

N.d.A. Terminato anche il nono capitolo di Mad Tea Party! Spero che abbiate gradito anche se come al solito non succede poi molto. Comincio a precisare che i nomi delle due sorelle Mari e Hinako sono inventati! Nel prossimo capitolo riusciremo forse a sapere che cosa farà Gackt… anche se io so bene che in realtà lo sapete già tutti voi lettori! :D Mi piacerebbe inoltre far fare un’altra comparsata a Takeshi, e magari tirar fuori un nuovo capitolo di pura imbecillità che ogni tanto ci vuole! A occhio e croce, comunque, conterei un altro paio di capitoli e poi l’entrata nel secondo atto! ;)

 

Un bacio

Vitani

 

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Capitolo 12
*** La Proposta della Rosa ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO PRIMO, SCENA DECIMA
-
La Proposta della Rosa

 

 

 

 

 

Lo sentì con tutta la forza che poteva avere un mare, lo sentì portarsi a lui vicino con la rapidità di un sogno e quando voltò lentamente la testa vide che lui era lì, che gli correva accanto come il vento freddo di quell’alba che aveva tinto il cielo di viola.

Non c’era niente a fermarlo, nulla ad arrestare la vita di quel ragazzo dai capelli lunghi e neri come l’ebano e le gote pallide arrossate dal gelo e dall’affanno, mentre il fiato condensava in morbide nubi sottili corrompendo la trasparenza dell’aria sottile.

Non si fermavano ancora, per molto tempo andarono dritti per la loro strada in quel quartiere deserto, senza neppure guardarsi in viso, e poi tornarono a frenarsi davanti all’ingresso, e il tempo attorno a loro ricominciò immobile come se il sole non dovesse sorgere mai, oscurato dal calore della nebbia. Insieme arrivarono, senza che uno di loro vincesse quell’implicita sfida che s’erano lanciati.

Gackt rise e finalmente concesse ai suoi occhi di vederlo, mentre entrambi stavano immobili a recuperare il respiro.

« Complimenti, sei molto veloce. »

Mana teneva chiusa dietro le palpebre l’ossidiana nera dei suoi occhi, limitandosi a seguire l’ansito del suo petto che s’alzava e s’abbassava veloce come il battito d’un cuore. Gli abbozzò un sorriso, tuttavia, un sorriso tenue come un soffio.

« Anche tu. »

E Gackt Camui restò zitto, fermo, a riprendere coscienza di se stesso fissando con distrazione la levigatezza delle mattonelle del marciapiede e cercando d’ignorare lo sguardo di Mana che si sentiva puntato addosso con la stessa infallibile precisione con cui sempre quel ragazzo l’aveva guardato.

Non poté farlo, come calamitati i suoi occhi nocciola puntarono quelli del chitarrista, nei quasi si leggeva ancora l’ombra della gioia. Non capiva a cosa pensava, eppure era certo d’essere parte integrante di quel suo mondo a lui ignoto, e improvvisamente fu scosso dalla certezza che avrebbe dato tutto pur di poterne scoprire almeno un poco.

« Andiamo su? Ridotti come siamo è meglio se ci facciamo una doccia. »

Annuì, senza più la forza per parlare, e lasciò stancamente che Manabu gli facesse strada.

Fu solo seguendolo che si soffermò a guardare la sua figura slanciata, e per la prima volta si chiese quale forza quel corpo nascondesse. Si chiese da dove derivasse la sicurezza che quel ragazzo pareva possedere.

« Mana? »

Lui era già sulle scale ma sentendo il suo nome si bloccò, girandosi a guardarlo con le labbra rosa e sottili socchiuse e appena immobili come quelle scolpite d’una statua. Avrebbe voluto domandarglielo, aveva quella domanda che gli premeva nel petto, però non ci riuscì. Non seppe mai perché, quelle semplici parole gli rimasero bloccate nella gola.

« Niente, non ti preoccupare. »

L’osservò tornare su rapidamente e dopo qualche istante gli andò dietro.

 

« Se vuoi farti una doccia vai pure prima tu, » gli disse Mana prendendo degli asciugamani da un cassetto « io intanto preparo qualcosa per colazione. »

« Grazie. »

« Poi ti lascio dei vestiti puliti sopra la cassettiera accanto al lavandino. L’asciugacapelli invece sta sopra la mensola, dove l’hai visto ieri. »

« Ma sei sicuro che non ti sto dando troppo disturbo? »

« No, non preoccuparti. E poi non ho quasi mai ospiti, quindi mi sto divertendo! »

Oh be’, se a parlare era quel viso dai lineamenti d’angelo, allora poteva pure crederci. Non gli replicò niente perché non ne sentì il bisogno, e si diresse piuttosto verso la stanza da bagno in fondo al corridoio.

Si lavò velocemente, frizionando con energia il suo corpo muscoloso, perché non gli andava che Mana aspettasse. Solo per poco si godette il calore dell’acqua sulla pelle, cavando fuori dagli occhi le gocce semplicemente sbattendo le palpebre, poi uscì, si vestì e s’asciugò sommariamente i folti capelli castani.

La scena del giorno prima si stava ripetendo, di nuovo lo sentiva muoversi agilmente in giro per la cucina a trafficare con pentole e scodelle, e gli venne ancora da sorridere.

Si stiracchiò, poi aprì la porta e s’affacciò giusto in tempo per vedere Mana sfaccendare come un ossesso col grembiule addosso. Solo e solo quando suonava l’aveva visto altrettanto a suo agio, mentre si muoveva quasi fosse stato posseduto dalla musica, ed era una meraviglia.

« Eccomi », lo salutò.

L’altro si girò come una molla e lo accolse con uno dei suoi graziosissimi, brevi sorrisi.

« Hai fatto presto! »

Gackt si guardò attorno, notando come fosse già tutto quasi pronto.

« Anche tu! »

Glielo disse quasi scherzando, ma Manabu si limitò ad alzar le spalle quasi che per lui fosse stata cosa ovvia.

« Be’… io vado a farmi la doccia, tu comincia pure senza di me altrimenti si fredda tutto. »

Ecco, quello lo sorprese.

« Ma scherzi? Dai, ti aspetto! »

Ma non scherzava, Mana, non scherzava affatto e lo capì quando lo guardò con quegli occhi neri e lucenti pieni di una strana severità che non seppe a cosa attribuire e che lo colpì appena come una piccola scossa. Fu smorzata ancora da un sorriso come se mai fosse esistita, e Mana s’allontanò sparendo dal suo sguardo come un sogno.

Lui restò in piedi immobile e rimase per un attimo perfino incapace di pensare, a guardare il tavolino apparecchiato chiedendosi che cosa quel ragazzo voleva davvero che lui facesse. Non riusciva del tutto a capirlo, e quell’elemento lo spaventava. Era sempre stato bravo a capire la gente, lui…

Decise in ogni caso di fare quel che gli era stato detto e si sedette, cominciando a mangiare. Era tutto squisito, esattamente come la cena della sera prima, e d’improvviso Satoru pensò a quanto gli sarebbe piaciuto mostrargli che anche lui nel suo piccolo ai fornelli non era malvagio. Sì, se mai se ne fosse presentata l’occasione – cosa che gli sembrava alquanto impossibile visto che il giorno dopo sarebbe tornato dritto a Kyoto e forse Mana non l’avrebbe rivisto mai più...

Dopo una ventina di minuti lo sentì aprire la porta del bagno, allora – non seppe mai perché – scattò in piedi e lo raggiunse.

« Mana, ascolta…! »

Ciò che aveva da dire gli rimase bloccato nel petto trasformandosi in un’esclamazione muta di stupore che riuscì ad esprimere solo con gli occhi. Mana gli stava di fronte, appena uscito dalla doccia, e la sua figura sottile era avvolta in un enorme asciugamano candido che gli lasciava scoperte le spalle bianche. Aveva la pelle che profumava di frutta, e nello sguardo una luce di sorpresa che gli animò di guizzi d’argento il nero corvino dell’iride.

« Che c’è? »

Glielo chiese continuando a fissarlo, pareva imbarazzato se non leggermente spaurito, e lo guardava con gli occhi a mandorla sgranati mentre la piccola mano libera saliva a frizionare i capelli lunghissimi e umidi che gli ricadevano giù lungo la schiena e sul tessuto dell’asciugamano.

Fu uno e solo il pensiero che attraversò fulmineo la mente di Gackt mentre lo guardava e che altrettanto rapido se ne andò quasi volando: era incredibilmente bello.

« Ecco… volevo… sapere se posso usare il telefono. »

Biascicò la prima fetentissima scusa che il suo cervello momentaneamente disattivato partorì sul momento, peraltro balbettando come un imbecille.

« E chi vorresti chiamare a quest’ora del mattino? Comunque prego, fai pure con comodo. Io intanto vado a vestirmi. »

« Ok… »

Camui Gackt non si girò a guardarlo correre verso la sua stanza, rimase con gli occhi torti verso il pavimento fino a che la porta non si chiuse alle spalle del chitarrista, e solo allora parve muoversi e realizzare che ancora – di nuovo – aveva fatto la figura dell’idiota.

Comunque si mosse, e andò in salotto prendendo il telefono e componendo il prefisso di Kyoto. Visto che aveva detto di dover telefonare, tanto valeva farlo per davvero.

Fu una tenera ma assonnata voce femminile a rispondere all’altro capo del filo, dopo una prolungata sequenza di squilli a vuoto.

« Pronto? »

Prese un sospiro, cercando nella sua mente un motivo qualunque per giustificare quella chiamata all’alba.

« Pronto, Kyoko? Sono Satoru. »

Un istante di silenzio.

« Oh… ciao, Satoru! Ma… perché telefoni a quest’ora, è successo qualcosa? »

« Scusami, è che non riuscivo a dormire e volevo sentire la tua voce. »

Una risatina, sottile e deliziosamente stupita.

« Non mentire, stupido! »

« Non sto mentendo. Dormivi? »

« Sì, come tutta la gente di questo mondo te escluso. »

No, gli venne da pensare, perché a dir la verità in quel momento erano in due ad esser svegli. Tese l’orecchio e udì il lontano vibrare sonoro dell’asciugacapelli.

« Dove sei ora? »

« A Tokyo. »

« Come a Tokyo? E ci sei andato senza dirmi nulla? »

« Be’… »

Se in quel momento stava a Tokyo era solo per stramaledettissimi affari suoi e lei non aveva alcun diritto di impicciarsi.

Anche se era la sua ragazza.

« Comunque per domani sarò di ritorno, ciao. »

Senza tante altre parole le chiuse la cornetta in faccia, e rimase con le mani poggiate sul telefono quasi avesse avuto paura che squillasse.

Inaspettatamente tornò Mana, qualche minuto dopo. Si stava spazzolando i capelli con delicatezza, stando bene attento a non tirarli, e luccicavano come se venati di diamante.

S’era vestito di bianco, un paio di semplici pantaloni e una maglietta a maniche lunghe, e stava ad osservarlo tranquillo come se nulla fosse accaduto.

« Hai chiamato la tua ragazza? »

Quella domanda così schietta postagli direttamente dalla voce di quel ragazzo ebbe l’assurdo potere d’inquietarlo profondamente. Annuì, ma solo perché non poté fare altro.

« Sì, ma… non la vedo molto spesso. È sempre impegnata col lavoro e abbiamo orari del tutto differenti, ci incontriamo quasi solo nei fine settimana. »

Mana rise, come se avesse intuito il motivo di quella giustificazione.

« Ops, immagino quindi che si sarà arrabbiata con me ora. »

I begli occhi nocciola di Gackt si spalancarono a scrutare il chitarrista.

« Eh? »

« Be’, avevi questi giorni liberi e io ti ho portato via da lei. »

C’era stato un istante in cui al posto del cuore aveva avuto un solo nero fottutissimo enorme buco.

« Oh… non preoccuparti, sono stato io a voler venire da te in fondo. »

Mana s’avvicinò, sedendosi comodamente sul divano accanto a lui.

« Più tardi chiamerò Kami, il batterista della band. Gli ho parlato di te ed era ansioso di ascoltarti. »

« E quindi? Devo improvvisarvi uno spettacolo? »

Una semplice, sbrigativa alzata di spalle e una risata, coronate e definite da una breve luce di divertimento nello sguardo.

« Pensavo piuttosto di andare al karaoke tutti e tre. »

 

Lì per lì aveva quasi creduto che Mana stesse scherzando, ma era stato con altrettanta rapidità che aveva capito che invece diceva proprio sul serio. E alla fine perché no, sarebbe stato divertente!

Quella mattina, più o meno verso le dieci e mezza, furono entrambi disturbati dal suono del citofono. Stavano parlando, come al solito, seduti su quel divano di pelle bianca come se mai si fossero mossi da lì a partir dall’alba, perché forse non s’erano mossi davvero, e sentire quel rumore fu per loro come risvegliarsi da un sonno.

Mana s’alzò sbattendo le palpebre e Gackt gli vide ancora quel suo sorriso delizioso, mentre andava a rispondere e parlava.

« Ciao Kami, sempre puntuale mi raccomando! »

Alzò un sopracciglio nel vedere Mana che si buttava ad abbracciare un ragazzone imponente quasi quanto lui, ridendo come un bambino nonostante la palese ironia della frase con cui l’aveva accolto.

« Ho ritardato solo di cinque minuti, non rompere! »

Il giovane ricambiò l’abbraccio, poi lo lasciò andare e parve finalmente accorgersi di lui. Si guardarono, e Satoru scorse in quel tipo un che di dolce che lo colpì. Forse era solo il suo sorriso, un sorriso incredibilmente diverso da quello di Mana, un sorriso talmente luminoso che avrebbe aperto il cielo.

« Io sono Ukyo Kamimura detto Kami, piacere! »

Gli strinse la mano, sentendola forte e sicura a contatto con le sue dita. Quel ragazzo era piuttosto alto e robusto, aveva i capelli lunghi fin sotto le spalle come i suoi e tinti di un castano sbiadito molto chiaro, il volto largo e squadrato e gli occhi un po’ piccoli ma irresistibilmente dolci. Occhi che s’illuminarono curiosamente mentre lo scrutava.

« Fai wrestling o qualcosa del genere? »

Oh, a quanto pareva i membri di quella strana band denominata Malice Mizer erano tutti accomunati da quell’insolito senso dell’umorismo…

« No, ma mio padre gestisce una palestra di arti marziali. Mi chiamo Satoru Okabe, per gli amici Camui Gackt. »

Sobbalzò nel vedere la testa di Mana spuntare all’improvviso da dietro le spalle di Kami. A quanto pareva il chitarrista stava impazientemente aspettando che finissero di presentarsi.

« Bene, ora che sono finiti i convenevoli che ne dite di muoverci? »

Gackt osservò in silenzio Ukyo, che continuava a ridere come un bambino davanti alla palese fretta di Manabu.

« Ma come Mana, sono appena arrivato! Non mi offri neanche un tè? »

« Non abbiamo tempo, se proprio ci tieni te lo faccio quando torniamo. »

Si stava già infilando un paio di corti guanti neri e pareva indaffarato a cercare gli occhiali da sole.

Kami non parve badare a quella rispostaccia, si limitò a ridacchiare di nuovo girandosi a guardarlo mentre rivoltava il salotto con la precisione di un ladro d’appartamento, cercando pure sotto i cuscini candidi del sofà.

« Ogni tanto fa così, » disse allora a Gackt « ti consiglio di non sorprenderti. Quando si mette in testa qualcosa non cambia idea facilmente. »

« E quindi è meglio accontentarlo? »

Kami gli fece l’occhiolino.

« Vedo che hai capito al volo. »

Oh be’, vedendo il piglio da soldato con cui Mana si stava infilando il cappello, contraddirlo non gli sarebbe venuto neppure pensato.

 

Era con una sorta di divertita perplessità che Satoru stava osservando i lunghi capelli neri del chitarrista. Ondeggiavano quasi avessero avuto vita propria mentre Mana gli camminava davanti rapido come un fulmine. Pareva che si stesse dando parecchio disturbo per evitare i mucchi di folla che lo investivano a scaglioni come bombe. Ukyo invece procedeva accanto a lui con relativa tranquillità, senza lasciare che il sorriso gli sparisse dalle labbra e alzando ogni tanto gli occhi a guardare il cielo azzurro screziato a intermittenza da qualche nube bianca.

Anche Gackt si guardava attorno, spaesato a mezzo dagli enormi palazzi di Shinjuku e soprattutto da quell’immane flottaglia umana che veniva avanti stile battaglione e che Mana si dava tanto da fare per scansare.

Per il resto, lui e Kamimura stavano parlando del più e del meno. Quello era un ragazzo davvero simpatico e alla mano, e gli raccontò in breve della sua famiglia e di come si fosse trovato a passare ai Malice Mizer, appena un anno prima.

« Dopo essermi trasferito a Tokyo da Ibaragi ho suonato per un po’ in una band, i Kneuklid Romance, ma dopo una serata venni contattato da Yu-ki, che mi parlò dei Malice e mi chiese se volevo entrarci. »

Quel ricordo fece sorridere Kami, e per un istante i suoi occhi splendettero come diamanti.

« Lì per lì io rifiutai, non mi andava granché l’idea di essere un rimpiazzo. Fino a che, poco tempo dopo, mi trovai direttamente Manabu di fronte. »

Stavolta il suo sguardo corse ridendo verso quel sottile tornado di chiome nere che ancora camminava davanti a loro col passo nervoso di un generale, cercando di eludere meglio che poteva tutti gli esseri umani che si trovava di fronte.

« Penso che sappia bene anche tu che a Mana per qualche strano motivo è difficile dire di no. Ha dei modi un po’ discutibili certe volte, ma è una brava persona e soprattutto ha qualcosa che ti affascina. Non ti saprei dire cosa, ma quando te lo trovi davanti pensi di doverlo seguire. Un po’ come se fosse la chiave dei tuoi sogni, come se con lui tu avessi la certezza di arrivare esattamente dove desideri. »

Uh, lo capiva. Lo capiva magnificamente, proprio lui che da quella persona era stato sedotto al punto che per un istante aveva desiderato mollare tutto quel che possedeva per corrergli dietro. Era stato solo un momento, e gli era parso di vedere un miraggio del futuro.

« Nel nostro gruppo le decisioni le prendiamo tutti insieme, ognuno ci mette del suo, ma in linea di massima ad avere l’ultima parola è sempre lui. Punta ad arrivare in alto come me, Yu-ki e Közi, e a stargli vicino inizi davvero a credere di potercela fare. Lui il nostro futuro lo vede chiaro, ed è per questo che a te ci tiene tanto. Non sai quanto ci ha parlato di te in questo periodo, esaltato come un bambino. »

« Insomma gli serve la mia voce, eh? »

« Be’, si è convinto di avere bisogno proprio di te. E anche se gli dirai di no, non mollerà tanto facilmente. È timido, ma ti assicuro che ha gli artigli e morde pure! »

E allora quella specie di amicizia che era nata tra loro era solo dovuta al desiderio di Mana di avere per sé la sua voce? No, non lo sapeva il perché ma non ci credeva proprio. Alla fine, Takeshi e Manabu erano amici pure se Taka era stonato come una campana e sparava solo stronzate.

Frattanto, avevano infilato tutti e tre la porta di un karaoke.

 

Mana s’era seduto su uno dei divanetti nella loro cabina, togliendosi gli occhiali scuri e rivelando un cipiglio irritato che fece sorridere Kami. Il ragazzo gli si avvicinò, sedendosi accanto a lui e scuotendogli divertito una spalla con la mano.

« Che c’è, Mana-chan? Sei nervoso? »

Le nere sopracciglia corrugate di Mana non si stesero di un millimetro, anzi rimasero aggrottate in linea col malumore del loro proprietario.

« Troppa gente, troppa troppa troppa gente. »

Gackt lo sentì ruminare quelle parole col fervore febbrile di un fedele devoto, e la cosa quasi lo incuriosì.

Kami dal canto suo ridacchiò, battendo leggermente una mano dietro la schiena di Mana.

« Dai, non ci puoi fare niente anche se c’è gente! »

« Non è necessario che tu cerchi di consolarmi. »

« Gli esseri umani non sono così male, Mana-chan. Prova a dar loro una chance! »

« Sarà… a me la presenza di troppi miei simili innervosisce e basta. »

Detto quello ordinò ad Ukyo di andare a prendere da bere e lanciò a lui il microfono, che gli finì tra le mani dritto come se ci avesse mirato di proposito.

Con una nota di puro sconcerto Satoru osservò la meticolosità con cui quel concentrato di elettricità che era diventato Manabu Satou scorreva col telecomando i titoli delle canzoni sullo schermo del televisore.

Poco dopo - giusto mentre Kami stava tornando - lo sentì biascicare nel silenzio un sottilissimo ma inequivocabile “che palle”.

Proferito con tutto il sacrosanto scazzo che una persona poteva avere nell’anima.

Mana alzò gli occhi verso Kami con una disperazione che aveva del teatrale.

« Non c’è niente che posso cantare… mi fa tutto schifo! »

« Ti fa tutto schifo? »

« Perché diamine nei karaoke al giorno d’oggi trovi solo stupide canzonette pop che tutt’al più possono piacere alle liceali? »

Kami gli si avvicinò e senza tanti complimenti lo abbracciò coccolandoselo come avrebbe fatto col suo cane.

« Manabu, Manabu… il nostro povero punk incompreso… »

Non fece in tempo a finire la frase che Mana gli rifilò un cazzotto giusto sulla bocca dello stomaco, facendo annaspare il pur ben piazzato Kamimura – che però scoppiò a ridere subito dopo e si rifugiò a sedere sul divanetto di fronte a quello su cui era stato Mana.

« Non provare a sfottermi, caro il mio chitarrista fallito. La pagheresti molto cara. »

« Non ne ho la minima intenzione, signor dio dei plettri. »

Mana lasciò correre e Kami continuò a sorridere, mentre Gackt si godeva quel siparietto che aveva qualcosa di incredibilmente comico. Almeno fin quando gli scintillanti e neri occhi a mandorla di Mana non si puntarono su di lui con un lampo di irata determinazione che gli fece battere il cuore per l’ansia.

« Tu! Mollami quel microfono! »

Lo apostrofò proprio in quel modo, e fu con un misto di trepidazione e sorpresa nel nocciola delle iridi che lui si trovò inaspettatamente a ubbidirgli, tirandogli quel povero microfono che Mana afferrò e strinse come se da quello fosse dipeso il suo onore.

Infine, con l’indescrivibile e inequivocabile rumore di uno schianto, uno dei piedi di Mana andò a posarsi dritto sul tavolinetto dove di lì a poco sarebbero dovuti finire i loro drink.

Mancò poco che rompesse il tavolo con quel calcio.

Inutile… Gackt stava iniziando a provare nei confronti di quel ragazzo qualcosa che somigliava vagamente al timore reverenziale. Ora sì che capiva perché era amico di Takeshi!

« Statemi bene a sentire, ragazzi. »

Nel silenzio improvviso che seguì, quella sua profonda ma bella voce morbida echeggiò come un comandamento.

« Da ora in avanti, la musica la farò io. »

E iniziò a cantare, così, senza musica.

Era una canzone straniera, solo dopo avrebbe saputo che era Angel of Death degli Slayer.

Si girò verso Kami e vide con quanto affetto lo stava guardando, mentre con le mani gli batteva il tempo sul piano del tavolo e lo osservava dimenare la testa come un pazzo simulando il suono di una chitarra invisibile che in quel momento non aveva tra le mani.

Era un grande. Era semplicemente grande.

Non sentirono aprirsi la porta, e Mana continuò a cantare a squarciagola.

« Angel of Death, monarch to the kingdom of the dead, infamous butcher, Angel of Death… »

Parve accorgersi della presenza di un cameriere solo dopo che quest’ultimo ebbe depositato tre birre chiare e qualche snack sul tavolo per poi andarsene augurando loro buon divertimento.

Mana seguì quel suo armeggiare col microfono fermo a mezz’aria, osservandolo con gli occhi dilatati come fosse stato un alieno, accompagnandolo alla porta con un ultimo sguardo di imbarazzo inconfessabile e con la certezza di avere fatto una figura di merda non indifferente.

In silenzio abbassò il piede e la testa e spense il microfono, non prima d’essersi ravviato dietro la testa le lunghissime ondulate chiome nere arruffate causa headbanging selvaggio – poi poggiò il microfono sul tavolo e lo fece rotolare delicatamente e in perfetto silenzio verso Gackt.

« Camui… canta. »

Lui prese il microfono e sorrise, ben felice di dirgli di sì, mentre Mana si stappava una birra.

Kami gli scelse una canzone, lui aprì la bocca e prese fiato, certo che se avesse cominciato non avrebbe più smesso. In realtà aveva una certa trascendentale paura che sarebbero rimasti tutti di nuovo in silenzio come il giorno prima, e non voleva. Se poteva evitarlo cantando, allora avrebbe proseguito fino a rimanere senza voce.

Cantarono tutti, comunque, e risero come bastardi. Perfino Mana, a cui il secondo giro di birre aveva sciolto incredibilmente la lingua.

Come bambini, risero fino a non poterne davvero più.

E poi uscirono e se ne andarono tutti e tre a mangiare sushi.

 

Rimasero in giro fino a sera, come tre buoni amici che non avevano un problema e nulla da fare al mondo.

I lampioni si stavano accendendo quando tornarono verso l’appartamento di Manabu, che camminava accanto a Gackt in silenzio mentre Kami li seguiva qualche passo indietro.

Il batterista guardava le spalle di Mana col sorriso, senza parlare, perché Mana aveva qualcosa da dire a Satoru e lui lo sapeva.

Era un qualcosa a cui il giovane Mana s’era preparato da molto tempo, con quella stessa meticolosità scrupolosa e tenace con cui aveva dato la caccia ad ognuno di loro, cercando gli elementi migliori per quello che a suo parere sarebbe stato il miglior gruppo dell’intero Giappone e di tutta l’Asia.

Kami sapeva quanto profondamente Mana ci tenesse e desiderava aiutarlo in ogni modo, perché arrivare in alto era ciò che volevano entrambi. E per riuscirci, Mana aveva bisogno di Gackt Camui. Poteva immaginare quanto stesse battendo il cuore al suo amico.

Lo vide fermarsi e si fermò anche lui, poggiandosi al muro bianco di un palazzo e accendendosi una sigaretta in silenzio.

Satoru percorse qualche passo ancora prima di rendersi conto che Mana era rimasto indietro, e solo allora si girò a guardarlo e vide i suoi capelli illuminati dalla luce tenue di un lampione appena acceso. Vide che s’era tolto gli occhiali, e che teneva un po’ china la testa.

Per un istante la sua pelle provò di nuovo il brivido del vento freddo di quella mattina, quando avevano corso entrambi, insieme.

Quando Mana alzò lo sguardo, per un solo interminabile secondo lui si fermò a fissare quegli occhi neri come ossidiana che lo scrutavano immensamente brillanti, e allora capì che voleva dirgli qualcosa. Lo capì dalla lacerante, profonda titubanza celata dietro quegli occhi. Capì che era qualcosa a cui Mana teneva più che alla vita.

« Camui… »

L’incertezza nella voce gli durò un istante, indugiò un solo attimo sulle labbra rosee e sottili poi sparì dietro un sospiro.

« Gackt Camui, ora ascoltami bene. »

Non avrebbe perso una sola parola neanche se avesse voluto.

« D’ora in avanti la musica la faremo noi. »

Insieme.

Fu quella la parola che restò sospesa nell’aria senza che né lui né Mana avessero il coraggio di pronunciarla.

Fu ancora la voce di Mana a raggiungerlo, senza che lui facesse nulla. Teneva la testa alta, e Gackt lo guardava in cuor suo ben sapendo già cos’avrebbe detto. Pensò alle parole di Kami, ore prima. Pensò al fascino di quella persona, alla prima volta che l’aveva vista, a ciò che gli aveva mostrato in quei soli pochi giorni. Pensò…

« Te lo chiedo ufficialmente, Satoru Okabe. Vuoi diventare il vocalist dei Malice Mizer? »

Soffiò, ancora e di nuovo, il vento freddo della sera.

 

 

 

 

- continua -

N.d.A. Ho fatto uno strappo a quel che m’ero imposta, con questo capitolo. Uno strappo enorme. L’ho fatto per Mana-chan, che di stare inattivo non ne poteva più e mi stava rompendo l’anima da giorni. Se in questo lungo periodo non avete visto capitoli di Mad Tea Party, è perché al momento questa fanfic sarebbe sospesa. Non per mancanza di ispirazione o altro, ma per il fatto che sto revisionando un mio romanzo nella speranza di mandarlo a qualche editore e dedicarmi anche alla fic mi rallenterebbe troppo il lavoro. Indicativamente, posso dire che la pausa di Mad Tea Party durerà ancora fino ad aprile, dopodichè potrò tornare a lavorarci senza problemi.

Spero che abbiate gradito il capitolo e vi anticipo che alla fine del primo atto mancano solamente due capitoli!

Grazie a tutti

 

Vitani

 

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Capitolo 13
*** I Sogni di una Rosa ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO PRIMO, SCENA UNDECIMA
-
I Sogni di una Rosa

 

 

 

 

Era stato sul punto di credere che gli avrebbe detto di no, ammise di averlo fatto mentre finiva di struccarsi col latte detergente e un batuffolo di cotone in mano, e ammise anche di avere sperato che gli dicesse subito di sì invece di tergiversare.

Invece quello aveva proprio tergiversato, accidentaccio a lui.

Si picchiettò il viso tamburellando col cotone sulle dita e quasi rabbrividì per la piccola sensazione di freddo che gli trasmise il liquido profumato sulla pelle candida. Annusò un poco l’aria, quel coso sapeva di narciso e gli pareva un pelo troppo dolce, ma era troppo preso a pensare ad altro per badarci e sospirò mentre si passava il batuffolo sul volto.

C’era un che di incredibilmente molesto e seccante in quella faccenda, se erano quelli i due aggettivi buoni per descrivere Satoru Okabe.

In quel momento l’immagine di quel ragazzo gli stava schiantata dietro agli occhi come se ce l’avesse avuto davanti e la cosa gli metteva un inesauribile nervoso. Mai avrebbe detto di poter essere schiavo di un’immagine che non fosse stata la propria.

Be’, forse schiavo era una parola un po’ grossolana che mal descriveva il suo pensiero. Non ci poteva fare molto, però.

Passò al tonico, che gli faceva pizzicare un poco gli occhi ma gli rinfrescava la pelle come un balsamo, e intanto continuava a dialogare fra sé e sé mormorando e mugugnando come un fanciullo che sogna.

Non aveva fallito, assolutamente no, ossessivamente ne rimuginava mentre guardava il suo riflesso allo specchio coi suoi occhi neri e scintillanti.

C’era infatti un sorriso stampato sulle sue labbra, un sorriso di puro trionfo.

Curiosamente sapeva di esserci riuscito e di avere accalappiato quella preda con la stessa facilità con cui avrebbe saputo di riuscire a vederci.

Tornò con la mente alla sera prima, a quando gli aveva detto quelle parole che erano suonate a lui come una profezia e che l’avevano costretto a sputarsi un pezzo di cuore mentre le pronunciava. Gli aveva detto che la musica l’avrebbero fatta loro, insieme. E Satoru lo aveva guardato con gli occhi larghi e il respiro rotto, quasi che non avesse saputo come replicare. Era rimasto in silenzio, a lungo, mentre il vento che s’era alzato pareva giocare a portarsi via i capelli di Mana, confusi nella nera notte del cielo e guizzanti dell’argento dei lampioni. E poi… lasciami qualche giorno per pensarci, gli aveva detto, solo qualche giorno.

E l’aveva lasciato dicendogli che sarebbe stato lui a farsi vivo.

Mana esalò un breve sospiro, perché quella mezza giornata che l’aveva separato dal momento della dipartita di Camui era stata segnata per lui da uno stato di attesa che aveva dell’elettrico.

Aspettava la conferma definitiva, e andò in cucina a mangiarsi un biscottino al cioccolato con ancora la fascia per capelli sulla testa e la bottiglia di tonico in mano. Se la stava portando a spasso come un animaletto domestico e la mollò solo quando crollò giù stravaccato sul divano stile manichino coi piedi che gli penzolavano giù dalla sponda.

Guardò il telefono e storse gli occhi. Aveva una mezza idea di telefonare a lui sapeva chi, ma… forse non era il caso.

Tirò su il telecomando dal tavolino e fece un po’ di zapping a tempo perso perché non c’era niente che gli interessasse guardare, poi finalmente si tirò su di nuovo e compose un numero all’apparecchio telefonico.

Era sera sì, ma poco importava.

Tanto chi sapeva lui era sveglio di sicuro… un ghignetto sardonico gli attraversò le labbra rosa in un breve lampo di divertimento.

« Pronto? »

Come s’aspettava aveva parlato una voce maschile, più alta e sottile della sua.

« Comandante Oscar François De Jarjayes, è desiderato a Versailles. »

« …ma vaffanculo! »

Mana scoppiò a ridere. Quel cretino non s’era ancora abituato alle sue prese in giro.

« E dai, Kacchan! Scherzo, lo sai! »

Un istante di silenzio all’altro capo del filo.

« E non mi chiamare Kacchan! »

« Ma se ti chiamo Kami-chan ti confondo con Kami-chan! »

Uno sbuffo, un piccolo sbuffo a metà tra lo scocciato e il deliziato.

« Sì, va bene… che cosa desiderate a quest’ora, Mia Adorata Principessa? »

« Desidero che tu mi stia a sentire, Lady Oscar: ho il vocalist! »

« Ma dai? E chi avresti reclutato stavolta? Pensavo che dopo Takano ci avessi messo una pietra sopra! »

Non poté trattenere un brivido d’irritazione nel sentire quel nome che di lì a qualche mese era stato in grado di fargli venire più di un’orticaria nervosa da arrabbiatura non sfogata.

« Tetsu è acqua completamente passata morta ed evaporata. Questo è forte sul serio! »

« E sentiamo, che avrebbe di speciale? »

Ci pensò su e gliene vennero tre.

« Primo: è fuori come un balcone. Secondo: canta bene. Terzo: è pure belloccio. »

« E suppongo che per te quella interessante sia la prima… »

Quello scriteriato con cui stava parlando era uno dei suoi pochi e migliori amici, un ragazzo che sembrava idiota ma non lo era affatto. O quasi. Si chiamava Yuuji Kamijo o Kamijo e basta, e aveva qualche anno meno di lui. S’erano incrociati per caso dopo una serata dei Malice Mizer in una livehouse, e lui era una sua sottospecie di fan… un fan coi capelli tinti di biondo e pieni di boccoli in perenne estensione e un visetto che se si truccava pareva tutto meno che giapponese.

La cosa interessante è che anche lui aveva buone possibilità come vocalist ma s’era sempre rifiutato di lavorare con Manabu, con un faccino sorridente e un pelo di strafottenza di troppo. Voleva creare una band sua, aveva sempre detto, perché a lavorare con Mana avrebbe finito per odiarlo e quindi era meglio che tenessero le loro strade ben separate almeno su quel frangente. A Mana quella schiettezza era piaciuta ed aveva sorvolato perfino sulla velata offesa circa i suoi metodi che ci stava spalmata dentro. Non era mica colpa sua se quando lavorava era perfezionista dittatoriale e voleva averla sempre vinta…

Pertanto, Kamijo si era accontentato di essere solo il roadie dei Malice Mizer e Mana non gli aveva chiesto di fare altro. Solo che ora che non erano più in attività lui aveva perso il lavoro e ogni santo giorno non mancava di ricordargli che dal suo rendimento dipendeva la vita da povero di un diciannovenne. Avrebbe fatto prima ad assumerlo come galoppino, già che c’era, ma lui si sarebbe rifiutato con quel suo sorriso sulle labbra senza manco dargli il tempo di finire la frase. Lo faceva morire dal ridere.

« Perché parlare con te è sempre così potentemente inutile? »

Ancora un istante di quel silenzio da tragicommedia che stava rischiando di fargli scoppiare una vena.

« Perché le tue parole sono legge, Mia Adorata Principessa. »

Ogni tanto pensava che sarebbe stato il caso di farlo tacere per sempre.

« In ogni caso, caro il mio Lady Oscar, vieni qui subito! »

« Esci tu. »

Era il caso di farlo tacere per sempre.

« Ma mi sono appena struccato, non rompere! »

« E allora infilati quello schifo di occhiali da sole che ti ritrovi ed esci! Andiamo a farci un sushi per festeggiare! »

« Se non la pianti di offendere gli occhiali da sole te li caccio in gola! »

 

Ma era uscito davvero, alla fine. Era insospettabilmente incapace di opporsi alla verve di quel moccioso e tollerava la situazione in certa misura, perché erano più uniche che rare le persone che riuscivano a tenergli testa.

Si incontrarono alla solita stazione di Shinjuku e mentre passeggiavano Kamijo non gli chiese nulla circa quel nuovo vocalist che sosteneva di avere trovato. Gli camminava vicino vestito praticamente in tuta pure se era sera, coi boccoli biondi raccolti sulla testa con un mollettone che dio solo sa dove l’aveva pescato, sempre col sorriso sulle labbra.

C’era un locale di sua conoscenza dove servivano ottimo sushi, a quanto pareva ci lavorava un suo amico, quindi lo costrinse a scarpinare finché non furono arrivati proprio lì.

Entrarono, si sedettero e ordinarono nella più totale compostezza, pur se Kamijo dovette accontentarsi di una ben misera Coca-Cola e non smise un secondo di guardare gelosamente la birra di Mana – che dal canto suo si divertì a sfottere quel “bambino” finché non ne poté più.

« Siamo sotto al limite d’età per gli alcolici, eh, caro il mio cuccioletto? »

« Se non la pianti io in gola ti ci caccio quella birra e te ne faccio scolare a litri finché non crolli per terra ubriaco e rantolante come un disperato con la cirrosi all’ultimo stadio. »

E poi, lui l’alcol lo beveva eccome, sai che gli fregava di essere minorenne? Mana comunque non pareva volerne sapere di smetterla di sventolargli la bottiglia di birra sotto al naso.

« E quindi? Dai Principessa, racconta, che povero sventurato hai irretito stavolta? »

« Un vampiro. »

Mana lo guardò mentre strabuzzava incredulo gli occhi scuri, falsamente ingenuo quanto spudoratamente divertente.

« Cazzo! Roba di lusso! »

« Non usare simili termini volgari, bimbetto. »

« Ma se li usi pure tu! Guarda che ti ho sentito! »

« Io sono un adulto e posso sproloquiare quanto voglio. »

Mana distolse lo sguardo, talmente intento a sistemarsi le lunghe chiome nere mentre parlava che non s’accorse neppure di Kamijo che rapidissimo gli fregò un sorso di birra dalla bottiglia.

« Comunque avanti, racconta! Chi è il Principe stavolta? »

Manabu parve pensarci un po’ prima di rispondere, come se stesse vagliando il modo adatto per presentare la nuova conquista.

« Oddio, non mi ha ancora dato la risposta definitiva, veramente… ma quasi certamente sarà un sì. »

« Cioè vi siete scambiati una promessa di matrimonio? Che carini! »

Il sorriso sornione che permeava il volto di Yuuji Kamijo non si mosse di un millimetro mentre osservava beato gli occhi neri e lucenti di Manabu puntarsi su di lui guardandolo come se avesse appena bestemmiato.

« Si chiama Satoru Okabe, in arte Gackt Camui, e vive a Kyoto. »

« Ed è un vampiro? »

« Così dice lui. »

« Ecco un altro bel tomo, insomma… e sentiamo, cos’ha di tanto speciale? Per avere interessato te che sei il campione dell’indifferenza, qualcosa sotto deve starci di certo. »

« Ecco… l’ho conosciuto tramite quel mio amico, Takeshi, che mi ha fatto ascoltare una sua demo. Bisognerà lavorare sulla sua voce e sulla sua immagine, ma ha potenzialità e un grande carisma e sono convinto di poterlo sgrezzare quel che basta per farlo diventare un diamante. »

« Oh-oh, siamo sicuri di noi, eh Mia Adorata Principessa? »

« Io non  mi sbaglio mai, Kacchan. Ricordatelo sempre. »

E Kacchan sorrise, di nuovo.

« E di te che mi dici? » gli domandò Mana, mentre veniva loro servito il sushi.

Kamijo sembrò pensarci seriamente, e rispose solo dopo aver masticato accuratamente un pezzetto di sushi di tonno e averne inzuppato l’altro nella salsa di soia.

« Dunque… a parte che ho diciannove anni e per colpa tua che hai silurato Tetsu Takano mi sono ridotto a campare facendo consegne a domicilio, tutto come al solito. Sto cercando componenti per la mia band e metto annunci su annunci, visto che non ho la tua fortuna nell’acchiappare al volo nuovi elementi. »

« Io ho il destino dalla mia! E poi scusa… a te piaceva Tetsu? »

« Non particolarmente. »

« E allora perché te la prendi tanto a cuore la sua sorte scusa? »

« Se lui era rimasto io non ero disoccupato. »

« Se vuoi ti prendo come vocalist, sei ancora in tempo. »

Lady Oscar lo ringraziò con un elegante gestaccio del dito medio.

« Lo sai come la penso al riguardo, no? Dimmi quello che vuoi ma io con te sul palco non ci salgo manco morto. Mi spremeresti come un limone senza lasciare manco la buccia. »

« Avanti, non la fare così lunga… »

Mana addentò una fettina di salmone, per un istante sopraffatto dal gusto delicato del pesce crudo.

« Se mi andrà bene, non sarai disoccupato ancora per molto. »

Poi il suo sguardo si fece lontano, non prestò più attenzione neppure al sapore del sushi che aveva in bocca, evitò di incrociare gli occhi scuri di Kamijo e perse il volto nella luce arancione di una lampada appesa lì vicino, mentre ne leggeva gli ideogrammi senza quasi riuscire a capirli.

« Tu sai che cosa voglio io… lo sai meglio di chiunque altro, Yuuji. »

Sì, Yuuji poteva immaginarlo. Mana gliel’aveva detto tante e tante volte cos’era quello che desiderava eppure lui non si sarebbe mai stancato di sentirglielo ripetere.

« Voglio che il mio sogno… possa diventare il sogno di tutti. Voglio ricrearmi il mondo come lo desidero, e per farlo devo arrivare il più in alto possibile. E quel tipo… Gackt, intendo… lui può essere le mie ali e io le sue. E se siamo giunti entrambi a questa conclusione… perché non provarci, allora? Assieme a lui i Malice Mizer possono arrivare a livelli che con Tetsu avrebbero potuto solo sognare, io lo so. Lo sento incredibilmente bene e non ho intenzione di arrendermi ora. Non getterò la spugna mai, poco importa quante volte dovrò cadere. »

Già, non gli interessava, eppure Kamijo riusciva a capire che per uno col carattere di Mana non sarebbe stato affatto semplice se le cose si fossero davvero messe male. Non dubitava comunque che quel ragazzo avrebbe avuto la forza di rialzarsi qualunque cosa gli fosse accaduta. Non era davvero spavaldo come appariva, ma aveva un carisma fuori dal comune. Per quello i suoi compagni lo rispettavano anche se quando lavorava era un despota che metteva bocca su tutto. Perché era uno che aveva un sogno, era uno che per quel sogno lottava, che avrebbe dato ogni cosa in nome loro e che senza sarebbe stato morto come una bambola uccisa.

« Ieri sera… quando gli ho chiesto di diventare dei nostri… avevo la voce che mi tremava. »

E anche in quel momento la voce gli tremava, a Manabu Satou che se ne stava con la testa poggiata mollemente sulle braccia come ubriaco e gli occhi lontani accanto a un sushi che forse non aveva più voglia di consumare. No, Mana non era un robot. Era una persona meravigliosa. Era una persona che amava e soffriva come e più di un essere comune, perché lui riusciva a vedere il vero delle cose e non sempre quelle che scorgeva erano cose belle. Era una persona che amava la vita, e che in fondo in fondo amava pure le persone.

Per questo Yuuji Kamijo lo guardava, e sorrideva.

 

 

 

 

- continua -

 

 

N.d.A. Bene… se dio vuole, con un po’ di anticipo Mad Tea Party è ripartita e potrà proseguire con una certa regolarità. Io come al solito mi esprimo poco, perché ormai saprete che non sono mai o quasi convinta di quel che scrivo. Il capitolo è un po’ breve, e avrei voluto forse dare più spazio a certe cose. Comunque… presumo vada bene così. Vi faccio notare inoltre la guest star d’eccezione: Kamijo dei Lareine, amicone storico di Mana, che comparirà in Mad Tea spesso e volentieri e mi è diventato il re dei fetenti! Mana lo chiama Lady Oscar perché lui è la sua reincarnazione! :P (E non so se avete notato quanto gli somiglia…)

 

Vitani

 

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Capitolo 14
*** Il Destino del Giglio Bianco ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO PRIMO, SCENA DUODECIMA
-
Il Destino del Giglio Bianco

 

 

 

 

E così se ne era tornato a Kyoto da bravo reduce e senza protestare e senza tantomeno sapere cosa ne sarebbe stato della sua vita da quel momento in avanti.

Quando Mana aveva parlato e gli aveva fatto la proposta s’era sentito il cervello in frantumi e qualche uccello gli doveva aver beccato via le briciole perché non pareva che sarebbe tornato a posto tanto presto.

Continuava a pensarci, aveva continuato a pensarci mentre guidava lungo la via di casa e ci rimuginava ancora adesso che era rientrato e si stava preparando una cena più che mai frugale.

Pure lo stomaco gli aveva chiuso, quel chitarrista maledetto. Non riusciva a mangiare da quanto lo pensava.

E che cazzo, manco fosse stato una bella donna!

In un flash subitaneo quanto potentemente inarrestabile gli venne in mente l’effimera immagine di quel ragazzo che usciva dal bagno avvolto nell’asciugamano, e di come quel suo piedino candido fosse guizzato via rapido come un serpente quand’era fuggito nella sua stanza lasciandolo basito come un povero idiota quale effettivamente temeva di essere.

Si ravviò con una mano i lunghi capelli castani piluccando il cibo senza convinzione e s’accese una sigaretta fumandola come se fosse stata l’ultima.

Doveva decidere, assolutamente.

Sputò il mozzicone.

Come se ci fosse stata una qualche decisione da prendere, lui sapeva quello che avrebbe fatto con la certezza con cui sapeva di voler rivedere quel matto di un Manabu.

Voleva spaccare tutto, aveva il bisogno viscerale di fare a pezzi qualcosa che non fosse stato il tavolo della cucina o la tenda del salotto, voleva… risentirlo.

Cazzo!

Ma telefonargli voleva dire dovergli dare una risposta… e lui… quella risposta la sapeva, in cuor suo. La sapeva ma gli mancava ancora la coscienza per pronunciarla.

Doveva sistemare delle cose e doveva ultimare più di una follia, sapeva che era una follia ma se pensava agli occhi neri e scintillanti di quel ragazzo si sentiva in grado di compierne qualcuna più del necessario e la cosa lo preoccupava e lo inquietava in più misure.

Batté più volte il piede sul pavimento come se una decisione fosse stata lì lì per piombargli dal cielo dritta nel piatto con gli avanzi e fu quasi certo che nel caso l’avrebbe buttata nella spazzatura pure quella.

La cosa da tenere presente era una, sempre una. Quello che voleva fare lui, Satoru Okabe maledettissimo. Alla fine c’era la sua vita in ballo, la sua sola fottutissima inutile vita che ogni tanto avrebbe abbandonato volentieri. Eppure… un’occasione come quella non era da sprecare. Non aveva mai pensato di trasferirsi a Tokyo prima, aveva già un lavoro fisso che gli rendeva bene e una band con cui fare qualche live per passare il tempo. Ma arrivare a…

La musica la faremo noi due, insieme.

Chiuse gli occhi ed ignorò una goccia solitaria di sudore freddo che gli percorse rapida una tempia.

Non ci sarebbe voluto molto.

Era una pazzia, una pazzia!

Con quel pensiero in mente si mosse, prese le chiavi della macchina e s’avviò per andare al lavoro.

Mentre metteva in moto la Ferrari, comunque, il lavoro era l’ultimo dei suoi pensieri.

 

« Capo, io… mi licenzio. »

Il suo datore di lavoro lo stava guardando basito come dopo un brutto scherzo, peccato che lui non stesse scherzando affatto.

Avevano sempre avuto un bel rapporto loro due, e senz’altro quella decisione sputata così all’improvviso doveva sembrargli un’assurdità.

« Che vuol dire che ti licenzi, Satoru? »

« Vuol dire quello che ho detto. »

Erano nell’ufficio del suo capo, uno o due piani più in alto del casinò dove Satoru aveva lavorato fino a un paio di secondi prima. Lui teneva gli occhi bassi, inspiegabilmente temendo d’avere fatto una volta di più una sciocchezza ma certo che fosse ormai tardi per pentirsi. E poi, alla fine… aveva deciso di mettere il suo destino in moto, perché d’aspettare la morte s’era stancato da tempo.

« E per quale motivo? »

Sbatté un paio di volte le palpebre e sollevò leggermente le iridi nocciola a guardare quell’uomo che gli aveva parlato incredibilmente senza alcuna rabbia, e la cui voce pacata gli portava soltanto curiosità, dietro allo sgomento.

« Perché… vado a Tokyo. A cercare di sfondare come musicista. »

L’uomo, che gli stava seduto di fronte, restò in silenzio come a voler ponderare quella possibilità. Conosceva abbastanza bene Okabe da sapere quanto fosse grande la sua passione per la musica e quanto fosse altrettanto enorme il suo carisma.

« Hai già un’idea su come muoverti, una volta a Tokyo? »

« Ecco… un mio amico ha un gruppo, e cercano un vocalist. Sembra che io gli vada a genio, e ha praticamente deciso di reclutarmi. »

« E tu che ne pensi? È poco più di un sogno, un azzardo rispetto a tutto quello che hai ora. Sei sicuro di volerlo lasciare così? »

Non gli stava chiedendo di non andarsene. Non lo stava facendo.

Prese un sospiro.

« Sì. »

Se gli avessero domandato che certezze aveva, ebbene in quel momento ne aveva una sola: voleva rivedere Manabu Satou. Voleva rivederlo e percorrere il sentiero che lui gli aveva spianato, fosse anche stata una sciocchezza non avrebbe avuto rimpianti a buttarcisi. Era il ragionamento di un pazzo e ne era consapevole, poiché ad occhi esterni solo un cretino avrebbe lanciato al vento quel che lui possedeva per  infilarsi in un’impresa apparentemente senza capo né coda e soprattutto che non gli garantiva alcun futuro.

Però… voleva credere che a spingerlo verso Mana fosse stato il destino.

Quello stesso destino che gli aveva insegnato a cogliere le occasioni non appena gli si offrivano.

« Se tu ne sei convinto, allora va bene. »

Trattenne il fiato.

« Satoru, io ti conosco abbastanza bene da sapere quanto profondo sia il tuo desiderio di andartene, in fondo. Tu sei un ragazzo molto in gamba e sono certo che saprai cavartela. L’importante è che tu non perda mai di vista te stesso, qualsiasi cosa ti succeda. »

Gli parlava come un padre, quell’uomo, come quel padre che lui in un certo qual senso non aveva mai avuto. Avrebbe dovuto andarsene, sì, avrebbe dovuto farlo.

Eppure una cosa sentì di dovergliela, a quell’uomo che continuava a sorridergli nonostante i suoi occhi dicessero tutt’altro.

S’inchinò, e con le lacrime agli occhi urlò: « Grazie mille di tutto! »

Quella notte la trascorse insonne, come al solito, a girovagare per Kyoto e a perdersi fra le tenui luci notturne dei templi e delle vie e fra i rami stormenti degli alberi di ginkgo per poi alzare gli occhi al cielo a guardare le stelle che in silenzio illuminavano la volta nera come pece.

Avrebbe avuto altre questioni da sistemare a giorno fatto, questioni che riguardavano le persone che per lui erano più importanti della vita.

Doveva parlare con Ren, con You, con Kyoko… e con sua sorella.

 

Fu proprio a lei che telefonò per prima l’indomani, lei che abitava ancora ad Okinawa coi loro genitori.

« Pronto, Mari? »

Come aveva pregato, rispose immediatamente proprio lei. Gli parve sorpresa, anzi certamente lo era visto che non erano neppure le sette del mattino. Dalla voce, l’aveva svegliata lui con la sua chiamata.

« Satoru? »

Era piuttosto raro che lui telefonasse, quasi sempre accadeva il contrario. Era sempre lei a cercarlo, e ogni tanto i suoi quando si ricordavano di avere ancora un figlio.

« Sì, sono io. Papà e mamma sono svegli? »

« No, stanno ancora dormendo. »

« Allora parla sottovoce e non dir loro che ti ho telefonato. »

« Che succede? »

Lui rimase in silenzio, e nella voce della sorella si espanse una nota d’allarme.

« Satoru, che succede? »

Aveva due anni più di lui, Mari, e fin da quando erano piccoli gli era sempre stata accanto ed era stata la sua famiglia. Non l’avrebbe mai ringraziata abbastanza.

« Mari, io vado a Tokyo! »

« Cosa? »

« Non urlare! E non dire niente a mamma e papà! »

« Che vuol dire che vai a Tokyo? Così all’improvviso? Dove sei adesso? »

« Sono ancora a Kyoto, ma conto di partire appena potrò. Vado a fare il cantante, sorellona! »

Più ne parlava più se ne convinceva: era inutile, ormai era in pista e doveva ballare fino alla fine.

« Aspetta un secondo… spiegati meglio. »

Un ghignetto apparve sulle sue labbra carnose mentre pronunciava le frasi che avrebbero dovuto convincere sua sorella della bontà della causa.

« Un mio amico ha una band a Tokyo e ha bisogno di un cantante, così mi ha chiesto se mi andava di entrare nel suo gruppo. »

« E tu hai accettato? »

« Sì. »

« Ma chi è questo amico? »

« Si chiama Mana. »

Chiaramente un nome d’arte, poté leggere il disappunto nel silenzio che seguì il sospiro di Mari, in quel modo suo fratello le stava precludendo ogni possibilità di rintracciarlo se per caso avesse voluto farlo.

« Ascolta… fai come vuoi. Tanto so che non potrei fare niente per trattenerti. Però… solo una cosa. Chiamami quando ti sarai sistemato, non farmi stare in pensiero. »

Satoru sorrise. Anche quando s’era trasferito a Kyoto, aveva sorpreso tutti riuscendo a cavarsela meravigliosamente a dispetto dei suoi traumi passati.

« Non preoccuparti, di soldi ne ho parecchi da parte e non dovrei avere problemi, e mi troverò un altro part-time finché la band non ingranerà. »

« Sei sicuro che non vuoi che ne parli a mamma e papà? »

« Sicurissimo. E tanto non gliene fregherebbe comunque nulla. »

« Avanti fratellino, sai che non ti voglio sentire parlare così. »

« E perché, non è la verità forse? In ogni caso… lasciamo perdere dai. Mi faccio vivo io appena posso. Ciao Mari, ti voglio bene. »

Mise giù, tenendo fede una volta di più a quella brutta abitudine che non consentiva agli altri di replicare e che lasciava sempre a lui l’ultima parola, quella che decideva tutto.

Ora… le faccende da sistemare erano ridotte a due.

E sarebbero state le più dure e difficili.

Sospirò, andando alla finestra ed aprendola per assaporare un poco l’aria ancora fresca del mattino di Kyoto, in quell’appartamento che di lì a pochi giorni avrebbe lasciato.

Si sedette sul davanzale, e s’accese mestamente una sigaretta lanciando giù verso la strada un fiammifero spento.

 

L’aveva chiamata domandandole di vedersi per una questione urgente, e ora la stava aspettando appostato fuori dal palazzo dell’ufficio dove la sua ragazza lavorava.

Era quasi ora di pranzo, sperava che sarebbe riuscita a liberarsi per parlargli.

Come desiderava, la vide uscire vestita con la divisa della sua ditta e uno zainetto in mano. Correva verso di lui come se fosse stata l’ultima volta che lo vedeva.

« Satoru! »

Lui la abbracciò un poco, dandole un lieve bacio sulle labbra. Kyoko era una ragazza della sua stessa età, piccola e graziosa e con la bocca tonda che pareva quasi un cuoricino. Era sempre stata gentile con lui, anche se stavano insieme da poco più di un anno, e ora lui avrebbe finito per ferirla forse irrimediabilmente. Come avrebbe fatto anche con gli altri, con Ren, con You… forse li avrebbe persi tutti quanti, per sempre.

« Ciao, devo parlarti. »

Eccolo, andava dritto al sodo.

« C’è un posto dove ci possiamo sedere? »

Lei lo portò nel cortile interno del palazzo, su una panchina in pieno sole che per un istante gli abbacinò gli occhi con la sua lucentezza. Forse era stata colpita dal suo sguardo serio, lui che di solito aveva sempre il sorriso sulle labbra e la spavalderia addosso. E Satoru, ora, non sapeva bene come parlare.

« Ti ricordi quando ti ho telefonato dicendoti che ero a Tokyo? »

Kyoko parve sorpresa, e alzò il viso verso di lui.

« Sì. »

Di contro, lui le sue iridi nocciola le abbassò sul lastricato e sull’erba scintillante del prato del cortile.

« Ero a casa di un mio amico, che ha una band. »

« Sì… »

Lei lo conosceva, sapeva bene quanto amasse la musica, quanto ci tenesse, che genere di vocalist fosse. Sapeva bene quanto in realtà il suo sogno fosse di vivere cantando.

Lei, forse, stava immaginando quali sarebbero state le sue prossime parole, perché insistentemente cominciò a fissare i suoi piedi, stretti in piccoli mocassini marroni.

« Mi ha chiesto di diventare il suo vocalist. »

« E tu hai accettato? »

« Sì. Lavorare con lui è quello che desidero. »

Chissà poi perché. Ancora se lo chiese. Chissà poi perché…

« E quindi… »

Sì, lo sapeva, glielo sentì nella voce che si ruppe.

« Quindi mi trasferisco a Tokyo. »

« Ma… e noi? »

Non c’erano mai state promesse di matrimonio fra loro, assolutamente. In verità dopo il fallimento del suo precedente matrimonio, lui pensava proprio che quel passo non l’avrebbe fatto mai più. E non avrebbe mai avuto neppure bambini, mai.

« Tu… non puoi venire con me, vero? »

Non le chiese di seguirlo per forza, anzi parve perfino a se stesso che volesse fare di tutto per dissuaderla, per distaccarsi da quella gentilissima creatura che aveva le lacrime agli occhi.

Era una cosa impossibile, lo sapevano entrambi.

Lei non poteva in alcun modo lasciare il suo lavoro, una carriera in azienda già avviata, per seguire in una capitale sconosciuta il suo ragazzo che voleva volare dietro ad un sogno. Era impossibile.

La osservò scuotere la testa, dai sottili capelli neri legati in un codino sul capo.

« No… non posso. »

Prevedibile, in ogni sua forma quel rifiuto era stato prevedibile.

« E allora… ci lasciamo? »

Fu crudele. Fu immensamente spietato e crudele come avrebbe potuto esserlo un bambino nello strappare le ali a una libellula, le sputò in faccia la verità con tutto l’impassibile candore che la sua voce in quel momento piatta riuscì a mantenere. Perché la lasciava, poi? Perché rinunciava a un anno e più di momenti gradevoli ma non felici, di tranquillità apparente, di routine e di noia perfino? Perché?

Per la sola immagine di un ragazzo, per la sola visione di un sogno, per una scia di capelli neri che correvano nel vento scuro della notte accanto a lui e insieme a lui raggiungevano un punto che non riusciva a vedere.

Per un’altra persona.

Una persona dai capelli come l’ombra e la pelle come il marmo, che gli aveva spalancato le porte di un mondo che lui non aveva mai neppure osato immaginare, che quel mondo lo scorgeva come incantato ed abbagliato da un’estasi profonda che lo trascinava verso il mare di se stesso.

Mana quel mondo ce l’aveva dentro, era lui quel mondo, era lui quel mare insondabile profondo e potente come una tempesta, e che tuttavia Satoru sentiva di voler attraversare, per lasciarsi trasportare dove la sua corrente avrebbe voluto.

Non ce la faceva.

Doveva tornare da lui, ad ogni costo, da quello che da qualche giorno era il centro dei suoi pensieri. Gli pareva incredibile che quel ragazzo fisicamente tanto più piccolo e gracile di lui potesse apparirgli tanto grande, e avrebbe dato qualunque cosa per poterlo in qualche modo raggiungere. Solo standogli vicino poteva riuscirci.

Kyoko non gli disse nulla, solo gli voltò le spalle e Satoru vide che stava singhiozzando leggermente. Provò a toccarla allungando una mano, ma questa venne violentemente schiaffeggiata via.

« Non pensare che non ti ami… » le disse, soltanto.

Solo che, evidentemente, non era il loro destino.

 

Ciò non gli impedì di sentire un magone allo stomaco per tutto il giorno seguente. Solo una cosa era rimasta a preoccuparlo, una cosa che nella sua bocca aveva tutto il sapore di un tradimento, uno sporco fottuto tradimento.

Doveva dirlo a Ren, e a You, ai suoi due adoratissimi fratelli di spirito.

Li avrebbe visti la sera, sarebbero usciti come al solito per farsi una bevuta in giro per locali. Solo che lui non avrebbe avuto molto da bere.

Si preparò in silenzio, senza ascoltare un briciolo di musica, indossando una di quelle giacche bianche che gli piacevano tanto. Ad essere sinceri, non sapeva se avrebbero capito. Li stava abbandonando, stava mollando i Cain’s Feel, quella band che per lui aveva rappresentato così tanto. Si sentiva un codardo, uno stronzo maledetto e un egoista e lo era sul serio, cazzo!

Poteva solo sperare che non gliel’avrebbero fatta pesare troppo, ma un lato di se stesso continuava a sussurrargli che si meritava qualunque insulto gli avrebbero scaricato addosso.

Suonò più volte il campanello di casa sua, e quando aprì lo accolse il viso sorridente di You e gli crollò ancora la terra sotto i piedi.

Pensò a Mana allora, come a un pensiero consolatorio.

« Ciao, Camui Gackt! Dove sei sparito per ben tre giorni? »

Eccolo là, dritto dritto nel tasto che non si sentiva ancora pronto a toccare. Sorrise, o se ne sforzò.

« A Tokyo… »

« A Tokyo? »

Annuì.

« A trovare quel chitarrista mio amico, te ne avevo parlato… »

« Sì! »

Il sorriso di You non si spense, perché evidentemente davvero non sospettava nulla.

« Ecco… quando sarà arrivato anche Ren, devo dirvi una cosa. »

Ancora riusciva a fingere di sorridere, anche quando l’angoscia stava rischiando di fargli venire le lacrime agli occhi.

« Che c’è? »

Non ebbe il coraggio di guardare You in faccia, quel coraggio gli mancò all’improvviso, e solo allora il suo amico parve comprendere che sotto quell’apparentemente innocua uscita serale c’era dell’altro.

Salì in macchina con You, caricarono Ren e s’avviarono al solito locale.

Fu col cuore in gola che Gackt parlò, dopo qualche giro di birra che sperava fosse abbastanza per sciogliergli la lingua. Fu col cuore in gola che li guardò entrambi, che riassunse loro quei tre giorni che aveva vissuto come in un sogno, ma ancora non riuscì a decidersi a pronunciare le parole “vi lascio”. Gli sarebbero costate un pezzo di cuore e quel pezzo l’avrebbe rimpianto per sempre.

« E come sono questi ragazzi allora? » stava domandando Ren.

Camui sorrise, quasi timidamente.

« Molto… divertenti. Sono divertenti e strani. Diversi da tutte le altre persone che conosco. »

« E Takeshi che dice? È un sacco che non si fa sentire! »

« Lui è il solito stronzo, non vale manco la pena stare a parlarne… »

« Che hai? Com’è che non ti va di parlare? Proprio a te! »

Satoru non rispose, non subito. Più semplicemente si limitò a fissare il suo bicchiere di birra ghiacciata, osservando la schiuma che si diradava piano piano e le piccole scie di bolle che salivano lungo il vetro freddo del boccale.

« È che… io… come la prendereste se vi dicessi che voglio diventare il loro vocalist? »

Rimasero immobili, attoniti entrambi e lo fissarono per molti secondi senza alcuna parola. Gackt chiuse gli occhi, quasi temendo di essere picchiato. Invece, inaspettatamente, Ren gli diede una leggera pacca sulla spalla.

« Per te i Cain’s Feel erano un gioco? »

Alzò lo sguardo, sorpreso.

« No! I Cain’s Feel rimarranno una parte di me per sempre. E tornerò, se coi Malice Mizer non andrà. »

« Quindi per te saremmo una ruota di scorta? »

Ma Ren non lo guardava negli occhi.

« Ren… »

Rimasero in silenzio tutti e due, perché Satoru non si sentiva in diritto di dir nulla, né di replicare in qualche modo. Sarebbe stato ingiusto ed impossibile per lui cercare di spiegar loro che cosa era stato l’incontro con Mana, che cosa gli aveva trasmesso stare vicino a quella persona… avrebbero dovuto vederlo, e parlarci. Solo allora si sarebbero resi conto di quanto era grande, come se ne era accorto lui, come se n’era accorto quell’istinto che l’aveva attirato verso quella persona come un pezzo di ferro verso una calamita e come una falena verso la luce. Avrebbe voluto che lo vedessero. Il sole che aveva attirato Icaro alla morte.

« Io… ve li farò conoscere prima o poi… »

Inaspettatamente, si trovò circondato dalle lunghe braccia di You, che lo strinse forte un solo attimo per poi lasciarlo andare.

« Qualunque cosa tu fai la fai sempre fino in fondo. Se vai a Tokyo ricordati che ci siamo anche noi, mi raccomando! E soprattutto… questi Malice Mizer, portali fino al cielo! »

Aveva ancora il sorriso sulla bocca carnosa dai denti un po’ grossi, You, e fu guardando il suo migliore amico negli occhi che tornò ad abbracciarlo, e che sentì le lacrime scivolargli per la prima volta lungo le guance.

Forse non avrebbe mai più suonato con loro, forse sarebbero rimasti divisi per sempre, forse sotto sotto stavano covando l’odio. Ma erano i suoi amici, e lui di loro si fidava e si sarebbe fidato sempre. Non l’avrebbero abbandonato. Non l’avrebbero abbandonato mai.

A questo pensò per tutta la notte, ancora insonne come sempre, fumando la solita sigaretta e guardando le solite stelle che nel cielo buio di Tokyo non splendevano così luminose e si domandò in silenzio cosa lo attendeva il giorno dopo, trovandosi inaspettatamente a sperare in un mattino che s’approssimava contro la scia di fumo della sigaretta e pareva che gli illuminasse il futuro.

Pareva una strada, quella scia, la strada che avrebbe percorso il suo destino.

 

 

 

 

- Fine Primo Atto –

 

 

N.d.A. Solo un appunto… è finito il primo atto! E al prossimo vi aspetta una sorpresa!

 

Vitani

 

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Capitolo 15
*** Intermezzo - Biancaneve e i Sette... Nani ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


INTERMEZZO

 

 

 

 

Io so che lorsignori son tediati ormai da un sì lungo favellar. Vedo invero il pubblico alzarsi e chiacchierar, io spero attorno all’opera, ma poiché l’ora s’appressa in cui l’atto cambierà, io voglio offrirvi, com’è bene che sia, un intermezzo degno d’ogni lode.

Giunta a un quarto è la commedia, s’entrerà presto nel vivo, ma prima che all’intrigo, or cederò l’armi alla risata.

Ecco a voi, con reverenza, il mio racconto.

 

 

 

 

 

 

 

BIANCANEVE E I SETTE… NANI

 

***

 

 

 

 

 

 

DRAMATIS PERSONAE

 

 

* Biancaneve – Mana (Satou Manabu)

* La Matrigna (Okabe Satoru)

* I Sette Nani (guest star: Seth from Moi Dix Mois)

* Il Principe (Satou Manabu)

* Lo Specchio – Oscar (Kamijo Yuuji)

 

…e tutti gli altri.

 

 

 

 

 

 

 

 

La nostra storia inizia col cadere dell’inverno, venendo giù dal cielo con la neve e soffice come il cotone in pieno boccio.

C’era una volta una splendida regina che in silenzio cuciva e cuciva seduta accanto alla finestra del castello. Proprio mentre osservava il volteggiare dei candidi fiocchi di neve, un ago la punse e tre gocce di sangue caddero a terra, spiccando nella neve come boccioli di rose rosse.

« Oh, come sarebbe bello avere una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come il legno d’ebano della finestra! »

Poco tempo dopo diede alla luce una figliola (?) bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l’ebano, e la chiamò Mana. Aveva pensato a Biancaneve, ma era leggermente troppo lungo. Alla bambina (?) comunque quel nome non piaceva, e come ringraziamento lanciò alla sua mamma una maledizione dall’effetto istantaneo che ne provocò la morte a nemmeno un giorno dal parto.

Passò un anno e il re si risposò, con una moglie estremamente bella – pur se un po’ mascolina in verità e con le labbra esageratamente grosse – e col brutto vizio di guardarsi sempre e ad ogni ora del giorno nel suo specchio incantato. E c’era un motivo, se non poteva farne a meno!

Per dir le cose come stavano, il nome dello specchio era Oscar: al suo interno girovagava infatti un bel ragazzo (?) dai principeschi boccoli biondi e l’aria da attore consumato. E la regina novella, diciamoci la verità, rimirava lui più che se stessa.

Ogni scusa era buona per importunare la splendida entità che dimorava nello specchio, perfino quando la domanda da fargli era ogni singolo giorno la medesima.

« Specchietto, specchietto, favella: del regno chi è la più bella? »

E allora il baldo giovine alzava lo sguardo, magari sollevando al tempo stesso un bel bicchiere di vino rosso, e la osservava senza cogliere il luccichio malevolo degli occhi color nocciola della un po’ troppo mascolina donna – così come lei non coglieva la rassegnazione dell’unico occhio azzurro che vedeva. Perché Oscar voleva mostrare il suo bellissimo profilo mentre si ravviava i lunghissimi boccoli biondi, e mentre lo faceva prese fiato e sputò la solita invariabile risposta che soddisfaceva sempre quella mucca di donna.

« Nel regno, maestà, tu sei quella. »

Non che ci credesse realmente, e lo dimostrava l’accuratezza con cui stava spennando un povero giglio che il suo specchio rifletteva poco lontano. Oscar aveva ben altro a cui pensare che soddisfare la vanità di una regina che da vantarsi aveva proprio poco. In verità era palesemente attento a che i suoi boccoli non si rovinassero… il freddo dell’inverno gli provocava le doppie punte.

La regina… comunque era felice, perché sapeva che il suo splendido baldo ed oltremodo affezionato (?) Specchio Oscar diceva la verità.

Tuttavia, un tarlo rodeva la sua mente da vecchia carriola rischiando di far precipitare i topini che faticosamente la tiravano giù lungo un baratro oscuro.

Passava il tempo, e la giovane Biancanev… pardon, la giovane principessa Mana cresceva sempre più e diveniva incommensurabilmente bella, come e più del più bel fiore del regno. A sette anni il suo splendore ricordava quello della gelida luna, e i suoi capelli d’ebano rilucevano del guizzo dell’argento.

Non le restava quindi che l’ultima risorsa: interpellare di nuovo il caro Oscar.

« Specchietto? »

Nessuna risposta, solo un ricciolo biondo che veniva ravviato coscienziosamente dall’altra parte dello specchio.

« Specchietto? »

La voce alquanto profonda e vagamente in falsetto della regina venne bellamente ignorata da parte del grazioso giovinetto che dimorava dall’altra parte del vetro, il quale pareva tutto affaccendato a scrutare nessuno sapeva cosa oltre il riflesso di una finestra della torre.

« Oscar? »

Buttò su un occhietto azzurro lui, mentre con indolenza sollevava la testa e schioccava le labbra.

« Sì? »

« Ho bisogno che tu mi dica una cosa, mio servo. »

Nel silenzio di quelle parole rumoreggiò un crack simile a un tuono. S’era crepato un angolo dello specchio. Quanto, quanto profondamente avrebbe desiderato Oscar poterle dire quel che realmente pensava di lei!

« In confronto alla cara e leggiadra principessa Mana, maestà, mi dispiace rendervi noto che siete una racchia. Scorfano. Balena. »

E si mise a fischiettare, volteggiando per la stanza e canticchiando con leggiadria “Non più andrai farfallone amoroso, notte e giorno d’intorno girando…”. Almeno finché non gli cedettero le gambe e non precipitò a terra, sconvolto da un tremore forzato che sembrava quello di un terremoto. Allora gli occhi li alzò tutti e due e si trovò davanti una regina in atteggiamento da wrestler professionista che stringeva due pugni grossi come meloni ed emetteva un fumo verdastro dalle orecchie. Gli cascò un ricciolo sugli occhi.

Col passare dei giorni e delle notti gli vennero pure le occhiaie, perché quella non ne voleva proprio sapere di dormire e passava ogni sacrosanta ora di ogni sacrosanta giornata a cicaleggiare su e giù di qua e di là con passo marziale per una stanza che a momenti avrebbe avuto il solco dei suoi piedi sulla pietra del pavimento. E non lo faceva dormire! No no, doveva parlare! Come uccidere quella, come uccidere quell’altra, come far fuori quel capolavoro di squisita bellezza che era la sua figliastra! Ci aveva perso la ragione, e Oscar poteva solo pensar con rammarico alla sua quiete perduta.

Finché una notte non le venne un’idea, ululò un “CI SONO!” e crollò addormentata come una pera cotta.

L’indomani mattina Oscar poté privilegiatamente assistere a un’interessante conversazione che ebbe luogo proprio nelle stanze della regina. Aveva chiamato un cacciatore lercio e zozzo che faceva ribrezzo al suo gusto raffinato, ma si limitò a sistemarsi i guanti bianchi e ad aguzzare ogni tanto l’orecchio.

« Ascolta, cacciatore. Devo affidarti un incarico. Io quella bambina non la voglio vedere mai più, deve sparire, sparire, sparire, eclissarsi, autodistruggersi. Tu devi ammazzarla e portarmi qui il fegato e i polmoni come prova della sua morte. »

Oscar arricciò un labbro. Qual crudele e febbrile disgusto per il suo animo candido! Quella donnaccia era una strega, a voler privare il mondo di cotanta beatitudine per l’occhio!

Il cacciatore obbedì e condusse la bimba (?) – vestita con un adorabile abitino bianco tutto pizzetti merletti e nastrini – lontano lontano, nel bosco.

Ma quando estrasse un coltellaccio poco affilato per farla fuori, la bimbetta (?) dai capelli neri iniziò a piangere e strillare: « Non mi uccida, la prego caro cacciatore non mi uccida! Fuggirò via nella foresta e non mi farò vedere mai più, ma per favore mi lasci andare! »

Era troppo bella, e quelle lacrime di puro dolore avrebbero impietosito un sasso.

« Vai pure, povera piccina… »

Lei non se lo fece ripetere e schizzò via come un razzo sgambettando su di un paio di zeppe mignon e tirandosi su le sottane con rapidità consumata. Corse corse e corse mandando a quel paese il cacciatore che intanto le stava sicuramente augurando la morte per mano di qualche schifosa bestiaccia feroce.

Proprio il cacciatore intanto stava tranquillamente sgozzando un cinghialetto che passava di lì per caso, e di cui portò polmoni e fegato alla cara regina che se ne stava contenta e fregata a sorseggiare un tè verde alla menta, ben certa che il suo piano malefico non avrebbe avuto interruzioni.

Certamente, polmoni e fegato di cinghiale le sarebbero stati più salutari che non un boccone di carne umana…

Ora, la dolce principessa Mana girovagava tutta sola per il bosco spaventoso, guardandosi attorno con la circospezione di un giovane lupo e ringhiando sommessamente a ogni rumore sospetto che udiva… fosse stato anche solo quello prodotto dalle sue zeppe chilometriche sopra i rami secchi.

Le venne in mente una sola cosa da fare: correre.

Ma si sarebbe rovinata il vestito, oh che dilemma!

Già lo vedeva il tulle disintegrarsi fra le spine di rovi, fra le fauci di bestie affamate che desideravano solo nutrirsi della sua carne e portarle via tutto ciò che possedeva! Oh, come avrebbe fatto senza la sua bellezza? Come sarebbe vissuta? Non lo poteva immaginare.

Però infine guardò la luna e i suoi occhi neri scintillarono.

Era quasi un oltraggio alla sua innata pudicizia, ma c’era poco da fare.

Si tolse il gonnellino di tulle e se lo issò su una piccola spalla, mostrando un paio di mutandoni rigonfi con uno strano logo che finiva in Moitié stampato sulle chiappe in bella vista. Glieli aveva regalati la nonna di Cappuccetto Rosso.

Prese un respiro, poi due, poi tre.

Sbuffò.

E corse.

Si schiantò giù da un dirupo.

Rotolò lungo la china di una montagna.

Fece un girotondo in mezzo ai rovi.

…ma al momento di precipitare fra le mani di un nugolo di fans vogliosi e pronti a tutto, la cara Bianca… Mana attuò la sua tecnica segreta: afferrò la gonna di tulle e se la allargò sopra la testa, paracadutandosi sopra centinaia di mani affamate che non desideravano altro che spogliarlo di ogni brandello di stoffa che aveva indosso – specie i mutandoni della Nonna – e allungò una zampetta armata di zeppona, che atterrò con millimetrica precisione sopra ogni testa inchiodandone due al terreno a ogni passo. Sarebbero rinate sotto forma di zombie e ci avrebbe giocato ai videogiochi al grido di “ammazziamoli tuttiiii!”.

Superata la Palude Melma Umana, la tenera (?) principessa (?) rise allegramente e si spazzolò via il sudiciume dalla pelle candida come la neve.

E di nuovo schizzò via sulle gambette mentre una folata di vento le drizzava la gonna di tulle che si era rimessa, lasciando in bella mostra tutto quello che ci stava sotto.

Scostando le ultime frasche s’imbatté in una radura, e in mezzo alla radura stava una casetta.

Era così graziosa e piccina picciò che pareva la casetta di marzapane di Hansel e Gretel, ma nessuno l’aveva avvisata di aver sbagliato fiaba e così si convinse di essere in errore.

Aprì la porticina, che cigolò un poco, e si trovò in un antro buio.

Non c’erano luci?

Si domandò se ci fosse qualcuno, ma a giudicare dal silenzio pareva proprio di no.

Cercò a tastoni qualsiasi cosa potesse anche solo vagamente illuminarla sul posto in cui era finita, ma alla fine ci rinunciò.

Come mise piede all’interno, una strana musica salì dal niente e la avvolse. Una potente voce maschile cantava, e parve al suo orecchio raffinato di distinguere in mezzo ai cupi arabeschi gotici delle note una potente voce maschile cantare un ritornello che suonava tanto come “D – I – X – DIX”. Doveva essere finita a casa del capo di una setta satanica.

Come ipnotizzata la principessina ripeté quelle parole, e d’improvviso una luce rossa riempì l’intero ambiente.

Davanti a lei c’era un carrello della spesa. Piiiiccolo piccolo. Così piccolo che non ci arrivava neanche se si chinava. Provò a spostarlo con un piede e quello si mosse, schiantandosi contro una parete e facendo cadere da una mensola una pila di sette riviste raffiguranti in copertina sette maschioni molto nude look.

La povera piccola arrossì pudicamente.

Il crollo delle riviste provocò in ogni caso anche il crollo di quel che stava sopra, ovvero di una strana catasta di aggeggi che aveva visto prima soltanto nella stanza delle torture del castello: frustini, catene e qualcosa che somigliava vagamente a un cappuccio da boia.

Decise che forse era meglio cambiare stanza.

Oh, qui c’era una cucina, una piccola deliziosa cucina che apparentemente non aveva nulla di anormale, con una piccola tavola rettangolare apparecchiata per sette.

Lei aveva tanta fame e tanta sete, così piluccò un po’ d’acqua e di cibo da ogni piattino e bicchierino.

C’erano delle verdure, le più buone e saporite verdure che avesse mai assaporato in vita sua.

Fu quasi convinta che fossero ravanelli. Ma non le erano mai piaciuti i ravanelli.

Dopo essersi rifocillata e risistemata le sottane, la principessa s’appressò ad un’altra camera.

Aprendola si trovò ancora davanti una luce tenue ma molto rossa e quello che pareva essere una sorta di immenso lettone matrimoniale a dodici piazze più baldacchino coperto da una strana e lugubre coperta nera con pizzi e merletti.

Era incredibilmente moscio a salirci su.

Bianc… Mana si trovò a sprofondar giù di un mezzo metro, ma la cosa la divertì tanto che cominciò a ridere e saltellare come una bambina quale in effetti era finché non si addormentò, candida candida come il giorno in cui era venuta al mondo.

Le parve giusto di sentire uno squittio e un sibilo prima che nella sua mente entrasse il buio.

Qualche ora dopo, e il sole era già calato da un bel po’, tornarono i padroni di casa.

Erano i sette nani, che scavavano i minerali dai monti. O no?

In verità erano sette persone tutte uguali coi capelli rossi e neri sparati verso l’alto e qualche treccina rosso acceso che sbucava giù lungo i fianchi. Erano anche belli, bassi ma dalle splendide proporzioni e con un viso angelico dagli occhi azzurri e uno bendato.

E coltivavano verdure in un orticello vicino alla casetta.

Entrarono in casa con passo marziale da pantere, belli come il sole, e i sardonici e sensualissimi ghignetti parevano proclamare al mondo “Siamo i Sette Seth”.

Accendendo le luci – rosse – s’accorsero però che qualcosa non andava.

C’erano delle cose che decisamente non erano come le avevano lasciate.

Le riviste per esempio… e tutti i gioiellini che erano imbarcati lì sopra. Qualcuno aveva necessariamente spostato il tutto… ma chi?

« Non io. »

« Non io. »

« Non io. »

« Non io. »

« Non io. »

« Non io », ripeterono sei dei Seth.

Il settimo Seth comunque pensò bene di intrufolarsi a controllare in camera da letto, e come sospettava ci trovò addormentata sopra la bella principessa Mana, sprofondata amorevolmente nel materasso.

Subito chiamò gli altri, che accorsero zampettando sopra zeppe chilometriche e in più che mai allegri completini neri in pvc.

« Che bella bambina! »

Erano tutti e sette così felici che nessuno fece obiezioni a lasciare il lettone a lei, pure se avevano solo quello. Semplicemente si ritirarono tutti e sette in un angolo, con l’ultimo Seth che dormì un’ora a turno sopra agli altri nani.

Al mattino, Mana si svegliò. Il suo viso venne inondato dai raggi del sole nascente, e con fatica aprì tutti e due gli occhi neri e si sollevò a sedere riuscendo a far sporgere la testa oltre il materasso e oltre i multipli strati di tulle del suo vestitino bianco.

Non scorse niente di strano a prima vista, ma d’improvviso udì un rumore, come di qualcosa che strisciava contro uno dei suoi piedini dalle calzette di pizzo candido.

Abbassando lo sguardo, si dipinse sul suo volto amabile una smorfia una smorfia d’orrore che avrebbe rivaleggiato con quella del quadro d’un ben noto pittore a nome Munch.

C’era infatti accanto a lei sul letto un enorme pitone albino che a giudicare dalla pancia aveva pure appena mangiato e pareva ben disposto ad addormentarsi sulle sue gambe come un cucciolotto coccoloso.

Ecco dunque cos’era stato il sibilo che aveva sentito prima di addormentarsi, non se l’era sognato!

Pur di non guardare girò la testa, e con suo enorme stupore si trovò davanti a un ammasso di carne e pvc che sembrava umano solo vagamente.

Non ebbe tempo di domandarsi cosa diavolo fosse quella schiera di gambette e mani che vedeva.

Strillò.

Forte.

Un acuto che finì per tramutarsi in uno strano ruggito da death voice, che fece tremare i vetri, svegliare il pitone, squittire i molti topi che popolavano la casettina, crollare uno sopra l’altro tutti e sette i Seth – che si svegliarono dopo aver rischiato di finire strozzati dai loro stessi capelli.

Sette occhi azzurri si allargarono – perché uno era bendato –, sette bocche si spalancarono e sette teste si inclinarono.

« E tu chi sei? »

Sette voci lo domandarono all’unisono.

« Mi… mi chiamo Mana. »

« E che ci fai qui? »

Ella raccontò che la sua matrigna voleva farla uccidere, ma il cacciatore le aveva lasciato salva la vita e poi aveva corso tutto il giorno finché aveva trovato la casina.

« E voi chi siete? » chiese infine.

« Siamo i Sette Seth. »

Stessi occhi, stessa voce, stessi vestiti, uno accanto all’altro come dei soldatini.

« Sette gemelli? »

« No, sette cloni. »

Ignorarono la sua faccia stupidamente stupita giudicandola potentemente sciocca.

« Comunque se vuoi curare la casa, cucinare, lavare e dar da mangiare a Rossa, puoi rimanere qui e non ti mancherà nulla. »

« Chi è Rossa? »

Sette cenni del capo indicarono il grosso pitone ancora appollaiato nei paraggi.

« E cosa mangia? »

« I sorci che trovi in cantina. »

La questione non allettava particolarmente la povera principessa, che diciamocelo non amava particolarmente i sorci, ma se doveva scegliere tra l’essere ammazzata e l’ammazzare un topo preferiva la seconda opzione di buon grado.

« Vi ringrazio… resto qui. »

Cominciò quindi la sua nuova vita da casalinga acchiappatopi, ogni tanto le toccava pure spazzare il pavimento con Rossa attorcigliata addosso in modalità pseudo-strangolamento e alla fine le faceva pure male la schiena, e fu più di una volta costretta a sorvolare sugli strani aggeggi che dissotterrava da sotto i tappeti e che i nani sembravano gradire particolarmente.

Loro se ne andavano a coltivare le loro verdure e la lasciavano tutto il giorno da sola.

La mattina, prima di partire, le ricordavano di non lasciar entrare nessuno e di stare attenta alla matrigna che sicuramente non ci avrebbe messo molto a scoprire dove stava nascosta.

Proprio la cara vecchia e mascolina matrigna era comunque bella e affaccendata a spazzolarsi i capelli castani, più che soddisfatta dopo aver mangiato quelli che credeva essere gli organi della sua mai troppo amata splendida figliastra Mana.

Era di nuovo lei la più meravigliosa bellezza del regno, e solo questo contava.

Non era più nemmeno il caso di interpellare Oscar, o forse…

« Oscaruccioooo? Avanti, parla: chi è la più bella del regno? »

“Oscaruccio” avrebbe tanto desiderato il pensionamento. Per la verità, pure se non avesse saputo che la principessa Mana, luce dei suoi candidi occhioni azzurri, era ancora viva… be’ avrebbe detto a quella specie di travestito che era viva solo per farle dispetto. Purtroppo però la maledizione che vincolava il caro Oscar allo specchio lo obbligava pure a dire solo la verità…

« Regina, sei tu qui la più bella. Ma al di là dei sette monti, nella casa dei Sette Seth, Mana lo è più di te. »

La regina inorridì.

Sapeva che lo specchio non mentiva mai, così capì che il cacciatore l’aveva ingannata e che la principessa era ancora viva. E allora pensò di nuovo a come fare per ucciderla, perché dire che stava crepando d’invidia era un puro eufemismo.

Pensa e ripensa, con grande orrore di Oscar che temette di perderci la vista, gli venne in mente di travestirsi da vecchia commerciante. Si truccò, almeno in quello era brava, si coprì di stracci e prese alcuni tra i suoi abiti più pregiati e le stoffe più preziose, e si mise di buona lena in cammino.

Superò faticosamente i sette monti e giunse nei pressi della casetta dei sette nani.

La osservò, senza notare nulla di strano all’esterno, ma sulle sue labbra fin troppo carnose si dipinse un ghigno malefico. La fanciullina non avrebbe resistito alla sua merce…

Bussò alla porta tirandoci un pugno fin troppo forte che a momenti la buttò giù, ma non si tratteneva, non si tratteneva!

« Roba bella! Chi compra? Chi compra! »

La principessa Mana s’affacciò dalla finestra: « Che cos’avete da vendere? »

« Tanti begli abiti e accessori! Roba bella! »

Tirò fuori un bel bustino nero e damascato, palesemente di fattura pregiatissima. Alla giovane principessa s’illuminarono gli occhi, neri come l’ebano, e un sorriso percorse le sue labbra rosse. Pensò che quella vecchia poteva pure farla entrare, alla fine ci avrebbe messo poco a stenderla tirandole una scarpona zeppata in testa…

Aprì la porta e comprò il bel bustino che la commerciante le aveva mostrato.

« Bambina, vieni qui che ti aiuto ad allacciarlo! »

Lei, brava povera piccola ingenua, ci cascò.

Si mise davanti alla corpulenta vecchia mercante, lasciando che cominciasse a stringere i lacci.

« Ahahahahah! »

La vecchia tirò.

Strinse quel laccio con tutta la dannata forza che le sue braccia possedevano, ridendo come una bastarda e con gli occhi iniettati di sangue.

Biancan… Mana sbiancò, roteò gli occhi, crollò a terra.

Morta?

« Ormai non sei più la più bella, voglio vedere i vermi divorarti! Ahahahahah! »

Quando si fece sera, i Sette Seth ritornarono camminando come al solito baldanzosi sulle chilometriche zeppe. Nel trovare la porta aperta corsero all’interno temendo di essere stati derubati, poi agghiacciarono nel vedere la loro cara principessa lì svenuta.

La sollevarono, poi videro il bustino, e allora lo tagliarono e lei parve riprendere a respirare leggermente, e le sue guance si colorirono un poco.

I sette cloni si fecero raccontare l’accaduto, poi le dissero: « La vecchia non era altri che la regina. Stai in guardia e se non ci siamo anche noi non fare entrare nessuno. »

La piccola principessa fece segno di avere capito.

La regina, comunque, dopo essere tornata al suo castello non perse tempo e andò ad interrogare il caro Oscaruccio, certa di ottenere stavolta la risposta che desiderava.

« Specchietto, specchietto, favella! Del regno chi è la più bella? »

Il caro Oscaruccio emise un sospiro rassegnato e smise di ripassarsi il rossetto quel tanto che bastava per sillabare attentamente la solita minestrina riscaldata: « Regina, qui la più bella sei tu, ma al di là dei sette monti, nella casa dei sette nani, Mana lo è molto di più. »

Nell’udir quelle parole non riuscì a trattenere un singhiozzo, s’accasciò malamente su una sedia e lì rimase, paralizzata dal terrore che quella bambina fosse immortale. Ma no, non poteva esserlo. Evidentemente i Sette Seth erano arrivati in tempo per salvarla. Ah, ma l’avrebbe rovinata! Eccome se l’avrebbe rovinata!

Non ci mise molto a ricordare un piccolo particolare… la principessa era in una casa di uomini, e certamente avrebbe desiderato un bell’oggettino femminile, qualcosa di grazioso con cui pettinare le sue lunghe e belle chiome nere…

Prese quindi un bel pettinino d’argento, uno dei suoi, e stette una notte intera a preparare una venefica miscela in cui lo lasciò due giorni ad intingere.

Infine grazie al suo camaleontico trasformismo riuscì a prendere le sembianze di un’altra vecchia commerciante. Nessuno sarebbe stato tanto ingenuo da cascarci due volte. Nessuno tranne la sua amatissima adoratissima veneratissima figliastra.

E così, la scena si ripeté: la regina travestita superò i sette monti e innumerevoli colline e raggiunse la casetta dei Sette Seth.

« Roba bella! Roba bella! » gridò davanti alla porta.

Be’, non aveva mai brillato in originalità.

La principessa s’affacciò sentendo quelle urla che avevano del forsennato: « Mi dispiace, non posso far entrare nessuno! »

« Ma puoi guardare! »

La vecchia strega tirò su il pettinino d’argento avvelenato, che scintillò nel sole.

Un gingillino talmente incantevole che gli occhi neri di Mana s’illuminarono appena lo videro.

« Aspettate, vi apro! Quello voglio comperarlo! »

E molto stupidamente lasciò entrare la matrigna.

« Ora voglio acconciarti per bene i capelli. »

Altrettanto stupidamente la lasciò fare. La travestita… le prese una ciocca di capelli fra le mani, crepando nel mentre d’invidia perché quelle chiome avrebbe voluto averle lei, la sistemò e la fissò sulla testa della giovane col pettinino. Al che, il veleno agì immediatamente. La povera fanciulla boccheggiò e cadde giù come un sacco nel suo abitino bianco, priva di sensi.

« Uahahahahahahahahah! »

La risata maligna e infinita della regina avrebbe svegliato un orso in letargo provocando una valanga.

« Meravigliosa quanto candida fanciullina, per te è finita! »

E se ne andò, dalla gioia camminando sulle punte come una ballerina in tutù.

Per fortuna della candida fanciullina e per sfortuna della regina travestita, era sera e i Sette Seth sarebbero tornati di lì a poco.

Arrivarono infatti dopo un po’, e se la videro ancora distesa a terra come morta. Poiché erano sette e non erano scemi, compresero subito che c’era dietro lo zampino della malvagia matrigna.

Dopo aver cercato in tutti i posti noti ed ignoti, dopo aver appurato che la principessa Mana era in realtà un principesso, dopo aver pensato a come sfruttare quell’inattesa scoperta, dopo aver deciso che il problema non era nei suoi attributi mancanti o presenti, s’accorsero finalmente del pettinino avvelenato. Lo tolsero, e subito il principesso incriminato riprese colore.

Quando fu rinvenuto/a, lasciarono che narrasse loro l’accaduto e l’ammonirono di nuovo a non lasciar entrare nessuno per nessuna ragione. Pensarono pure che l’unica fosse mettere quella creatura in catene ad una sedia, almeno non avrebbe fatto danni… ma scartarono l’idea nell’osservare il visetto angelico della creaturina in questione. Non era un uccellino da tenere in gabbia quello…

E al solito, per la terza volta la scenetta si ripeté.

La regina tornò al castello e la prima cosa che fece, prima ancora di togliersi le scarpe, fu mettersi davanti al povero Oscar e fargli la solita, trita e ritrita domanda.

« Oscar, avanti dimmi: chi è la più bella del regno? »

Solo che al posto di Oscar stavolta c’era un mangianastri, perché il boccoluto impostore se n’era andato in vacanza in chissà che angolo del mondo che veniva riflesso nello specchio, e aveva lasciato solo un biglietto con scritto che chiedeva la liquidazione.

« La più bella qui sei tu, ma alla casa dei Sette Seth Mana lo è molto di più. »

Un brivido percorse l’ampia schiena della regina, che tremò ancora per la collera.

« Oscar! Dove te ne sei andato? »

Ma Oscar proprio non c’era più. Ebbene, come al solito se la sarebbe cavata da sola.

In silenzio, badando bene di non esser vista da nessuno, scese giù per una scala a chiocciola fino a un sotterraneo conosciuto soltanto da lei.

« Quella ragazza deve morire, dovessi rimetterci la vita pure io! »

In quel sotterraneo teneva tutti i suoi libri di stregoneria e tutta la sua immensa collezione di veleni. Ne prese uno particolarmente potente e ne versò poche gocce in una mela che aveva portato con sé. Subito, la metà avvelenata divenne di un bel rosso rubino che avrebbe confuso anche gli occhi di un corvo. E per finire… un travestimento che l’avrebbe resa veramente irriconoscibile!

« Ahahahahahah! »

Prese un libro da uno scaffale, scorse le pagine e preparò un intruglio che trangugiò tutto di un fiato.

Il suo corpo venne avvolto da una luce dorata.

Quando infine ne uscì, dopo minuti di inenarrabili e sguaiate risate, aveva l’aspetto del fortunatamente assente specchio Oscar che se l’avesse vista si sarebbe frantumato in direttissima.

Felicissima, volteggiò un paio di volte piroettando in quel nuovo corpo e indossò un cappotto nero con lamine d’oro puro, muovendo la testa appositamente per far ondeggiare i serpeggianti boccoli biondi.

E così andò, fluttuando pure lei su un paio di zeppe alte un chilometro, con indosso un cappellaccio che aveva dissotterrato da un armadio.

Quando arrivò alla casa dei sette nani la trovò esattamente come l’aveva lasciata l’ultima volta.

Bussò, Mana s’affacciò alla finestra e quando “lo” vide arrossì.

« Non posso lasciare entrare nessuno, i Sette Seth me l’hanno proibito! »

« Ma dolce damigella, sono solo un ignaro viandante! »

Un ignaro viandante vestito in quel modo?

« Avrei da domandarvi un’indicazione. »

La matrigna sputò la prima idiozia che le venne in mente, cercando quanto più possibile di mantenere un’espressione serena, compassata e solo un poco vagamente snob.

Le chiese in che direzione stava il castello, e dopo aver appurato che doveva tornare nella direzione da cui era venuta, finalmente si presentò la sua occasione.

Tirò fuori la bella mela e la mostrò alla principessa con gli occhi azzurri che luccicavano d’emozione.

« Per ringraziarti della tua gentilezza voglio offrirti questa mela. »

Caso volle che la principessa Mana fosse una gran golosa di mele, cosa che ovviamente la regina sapeva benissimo.

Per cui non si sorprese quando le iridi nere della fanciullina s’allargarono con curiosità.

« Mi… mi dispiace, non posso accettare nulla. »

Ah, ma la voce della piccolina aveva tremato!

« Oh, suvvia! Non è avvelenata! Guarda, ne mangio io metà! »

Sbrigativamente tagliò la mela in due e inghiottì un morso dalla metà bianca, porgendo intanto alla principessa quella color rubino.

A quel punto, Mana non aveva decisamente più motivi per rifiutare l’invito di quel baldo giovane.

Prese la metà rossa e diede un morso.

E morì.

« Ahahahahahah! »

Echeggiò ancora una volta la spumeggiante risata della donna travestita, che posò gli occhi di Oscar sul cadavere con gaudio supremo.

« Bianca come la neve, nera come l’ebano e rossa come il sangue! Non ti salverà più nessuno ormai! »

Prima che l’incantesimo scadesse tornò al castello, dove riprese le sue nerborute sembianze originarie e se ne andò davanti allo specchio.

Dove Oscar era tornato e aveva la bocca spalancata e gli occhi larghi e la fissava come un idiota pietrificato.

« Oscar, Oscar, caro Oscar… dimmi, chi è la più bella del regno? »

Il pietrificato provò a muovere la bocca.

Ci provò con tutte le forze che aveva.

Ma l’unico rantolo schifato che riuscì ad emettere fu un “tuuuu…” con lo stesso vigore di un telefono che squilla a vuoto.

E finalmente, l’invidia che aveva bruciato il cuore della regina trovò pace e fine.

Questo perché lo specchio Oscar, con scatto felino ed abile mossa, le aveva indicato di girarsi e s’era staccato dal muro di scatto cascandole addosso ed accoppandola come sacrosantamente meritava.

Intanto i Sette Seth erano ritornati alla loro dimora, e avevano trovato ancora l’incantevole creatura priva di conoscenza. Avrebbero dovuto esserci abituati, ma stavolta pareva più morta del solito.

La palparono da cima a fondo ma non trovarono niente che non andasse.

Cavolo, era morta davvero.

Brevemente si domandarono a vicenda come fare a seppellirla, poi ad uno ad uno venne a tutti e sette l’illuminazione.

Entrarono in casa e ne uscirono con un’enorme bara nera foderata di velluto rosso utilizzata precedentemente per dio solo sa cosa, le diedero una spolverata e ci misero dentro la povera sventurata principessa.

Ci scrissero sopra, a chiare lettere, il nome MANA e lasciarono la bara in una radura, rimanendo giorno e notte a vegliarla insieme agli animaletti del bosco, a qualche scimmia di mare e al pitone Rossa.

Caso volle che molto tempo dopo passò di lì un principe.

Un ragazzo non troppo mascolino, anzi bello più di una donna, con gli occhi azzurri e i capelli neri e un po’ lunghi scartati sulle spalle, col portamento fiero e regale di un re, vestito completamente di nero, con una lunga giacca, un fiocco bianco annodato al collo ed eleganti guanti candidi.

« Sono il principe Mana », disse ai Seth « Come mai leggo il mio nome su quella bara nera? »

« Perché lì dentro giace la principessa Mana, crudelmente uccisa col veleno dalla sua matrigna. »

Impietosito dalla storia, l’aitante principe Mana scese da cavallo e scoperchiò la bara, desideroso di vedere in volto la sua omonima.

Meraviglia delle meraviglie, era identica a lui ed ancora bellissima!

« Ascoltate, cari nani! Vogliate donarmi questa bara, così che io possa onorare in eterno questa splendida dama! »

I Sette Seth si misero in fila uno accanto all’altro e lo guardarono con l’unico occhio visibile e ghignando.

« Perché dovremmo? »

Facevano un po’ paura, seducenti com’erano.

« Oh, ve ne prego! »

Allora ci pensarono, si chiusero in cerchio e tennero concilio. C’erano cose che quel principe poteva fare per loro… perché no, anche con loro magari…

Gli fecero segno di chinarsi e gli sussurrarono all’orecchio le loro condizioni.

Quello li guardò un’altra mezza volta e acconsentì, senza manco dar la parvenza di averci pensato. E chi ci avrebbe mai pensato?

Concluse le trattative, il principe Mana ordinò ai servi che erano con lui di prendere la bara in spalla.

Lui avrebbe pernottato alla casetta dei nani.

Mentre i servi trasportavano la bara, però, uno di loro inciampò su una radice.

Crollò a terra trascinandosi dietro pure l’altro.

La bara prese il volo.

Si scoperchiò.

E ne uscì Mana, pesantemente abbigliata con un completino di pvc nero che poteva appartenere solo ai Seth e che infatti le andava inguinale. Un paio di calze di pizzo nero e due stivalotti alti fin sopra al ginocchio completavano l’opera, mentre i lunghi capelli neri erano stati aggiustati in codine ai lati della testa, da cui partiva qualche miliardo di treccine.

La principessa, il principesso o quel che era si guardò intorno con sguardo glaciale, ancheggiando sensualissimamente mentre incedeva come una spogliarellista consumata.

« Certo che quella mela faceva proprio schifo! »

Fu il solo commento che fece.

 

 

 

 

 

FINE

 

 

 

 

 

Orsù, ved’io che lorsignori applaudono! Avete dunque gradito l’ingenua mia novella? Oh, vogliate perdonarmi s’io non sono un genio a raccontar certe romanze. E sì, certamente mi vedrete in volto un giorno!

Ma dopo il lieto intermezzo, è giunta dunque l’ora di tornar a raccontar dei nostri eroi, e di come il loro incontro mise in moto la ruota del destino.

Ordunque ci incontreremo ancora, al suon delle campane dell’inizio dell’atto secondo del Tè dei Matti.

 

 

V.

 

 

 

 

 

 

 

N.d.A. Uh… che dire, questo è stato un capitolo di mezzo sclero e delirio, è il mio primo tentativo di scrivere una parodia o quel che è, io spero tanto che anche se non vi è piaciuto almeno non vi abbia fatto manco proprio schifo… devo ancora capire come se ne scrive una!

Per l’ultima scena, vi invito a tenere presente il live di Bara No Seido. La ritroverete tale e quale!

Ci rivediamo, comunque, nel secondo atto di Mad Tea Party. L’atto del divertimento!!

 

Vitani

 

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Capitolo 16
*** Il Giglio Bianco e la Farfalla ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO SECONDO, SCENA PRIMA
-
Il Giglio Bianco e la Farfalla

« Fuori da questa casa! »

La porta gli si chiuse di fronte con uno sbam la cui forza ebbe dell’incredibile. E poi, calò il silenzio.

Satoru Okabe rimase lì, basito e con gli occhi nocciola larghi come due vassoi da pesce lucidati da poco. Guardò quell’ammasso di legno beatamente serrato che pareva sorridergli goduriosamente e sfotterlo alquanto, e sospirò. Era la terza volta in due settimane che si ripeteva quella scena, ormai non aveva più senso neppure che provasse a supplicarlo.

Quell’essere s’era infine rivelato per quel che era: un demonio.

Uno splendido infingardo fuori di testa vulcanico esagitato elegantissimo demonio.

In verità c’era un motivo se lui in quel momento era stato bellamente schiantato sul pianerottolo come un secchio d’acqua sporca in un mulino abbandonato, e supponeva che avrebbe pure dovuto abituarcisi.

Stava per alzarsi quando d’improvviso la porta s’aprì e un effimero quanto luminoso barlume di speranza fece capolino in una testa che ne aveva già abbastanza.

Sorrise, e di tutta risposta si trovò squadrato da un paio di lucenti occhi nerissimi e sarcastici che facevano il paio con la smorfia di sufficienza che curvava appena le sottili labbra rosa di un certo inarrivabile chitarrista di sua conoscenza.

Ci sperò, infantilmente ci sperò.

Ma si limitò a dover evitare le sue scarpe, che gli furono tranquillamente lanciate contro a tutta forza quasi fossero state zuccherini.

« Non voglio gente fra le palle mentre faccio le pulizie. »

Quello fu l’ineffabile, raffinatissimo saluto di Manabu Satou.

E la porta, con un altro quietissimo sbam, si chiuse di nuovo e trincerò dentro l’adorabile Mana alle prese con aspirapolvere e straccio da bravo casalingo.

A lui non rimase che tirarsi su, alzare i tacchi e uscire da quel palazzo talmente ordinario da deludere quasi.

Due settimane erano appunto trascorse dal giorno del suo repentino trasferimento a Tokyo, dal giorno in cui s’era presentato con le valigie davanti alla porta di casa di Manabu e dal giorno in cui la loro un pelo assurda partnership aveva avuto inizio.

Dal giorno in cui quell’assordante sospetto che gli aveva bombardato la mente fin dal primo istante – che Mana fosse ben più di un semplice bel viso con incastonati due onici per occhi – aveva infine trovato conferma.

Mestamente e con le spalle curve scese le scale, dando un rapido saluto alla signora del pianerottolo di sotto, una simpatica vecchietta ancora convinta che Mana fosse una ragazza e lui suo fratello.

Non c’era proprio niente da fare, più approfondiva la sua conoscenza più quel chitarrista aveva il potere di sconvolgerlo. E dire che lui aveva sempre pensato di essere strano a più di un livello… ma mai quanto quel ragazzo che certe volte riusciva a essere isterico quanto una casalinga frustrata. Pensare che prima di andarci ad abitare non l’avrebbe mai detto!

Quello era esattamente uno di quei giorni, ovvero il sacrosanto pomeriggio che Manabu aveva deciso di impiegare per fare le pulizie.

Lui s’era offerto più di una volta di dargli una mano, visto oltretutto che stava a casa sua quasi a sbafo – no, quello non era del tutto esatto, in verità un venalissimo Mana aveva subito messo in chiaro che finché fosse rimasto lì avrebbero diviso tutte le spese – ma Mana l’aveva letteralmente sbattuto fuori a suon di calci e minacce.

Oh be’, se si divertiva così tanto a passare la scopa, meglio per lui.

Satoru Okabe proprio non lo capiva, questo perché Satoru Okabe odiava dichiaratamente quel genere di faccende che per lui erano solo una fonte di noia inusitata.

Ebbene, che poteva farci? Era una persona che preferiva di gran lunga vivere all’aperto che non chiusa dentro quattro mura. A casa sua ci tornava quasi esclusivamente per dormire dopo le quasi quotidiane sbronze – che fottuto alcolizzato che era… aveva il vino nelle vene, altro che sangue!

Quando fu sotto il portone d’ingresso sospirò, chiedendosi che poteva fare per ingannare un po’ il tempo. Strano a dirsi, avrebbe creduto che Tokyo fosse una città più… stimolante, da un certo punto di vista. Non che non lo fosse, però… gli sembrava solo piena di gente. Piena fino all’inverosimile di cordoni di gente che viveva stipata su se stessa e senza nemmeno guardare negli occhi il proprio vicino, gente che vedeva solo e soltanto il proprio essere, senza essere animata da uno scopo, da un desiderio. Senza essere viva.

Sì, forse era stato quello a colpirlo, di Mana. Quella luce che gli aveva visto dentro agli occhi. Quel sogno che vi era apparso scintillando.

E quella visione non l’avrebbe cambiata con nient’altro al mondo.

Suo malgrado, stava sorridendo. Decisamente era ora che facesse due passi, in modo da cambiare aria e senza gettare ghignando lo sguardo su in alto verso i balconi del palazzo, quasi a voler sentire il ronzio sonoro dell’aspirapolvere che quel piccolo pazzo forse stava utilizzando.

Non gli andava granché di star da solo, non era un tipo asociale lui e non era per l’isolamento. Certe volte gli mancava davvero, la sua sconclusionata banale combriccola di amici, quegli scemi che aveva mollato senza tanti complimenti a Kyoto veleggiando in cerca del successo.

Certo, li sentiva per telefono quasi tutte le sere, ma… ma non era la stessa cosa. Gli mancava quella loro assurda e devastante presenza fisica, quell’amicizia senza pretese che solo loro sapevano dargli.

Li avrebbe invitati tutti quanti a raggiungerlo per qualche giorno, una volta che si fosse sistemato. Non per altro, ma se l’avesse fatto prima Mana l’avrebbe fucilato sul posto.

Per un singolo istante gli balenò in zucca la curiosa idea di telefonare a Takeshi, ma bastò mezzo secondo a farlo ricredere circa la proponibilità di un’ipotesi del genere. Se avesse chiamato Taka-chan – a cui per carità voleva un gran bene – quello avrebbe cominciato a parlare parlare e parlare e avrebbe continuato a parlare fino a sera e lui si sarebbe ritrovato con un mal di testa colossale da sbornia di parole.

Fu con quell’idea in mente che entrò in una cabina telefonica e compose un numero.

S’era scritto su un foglio i numeri di telefono di tutti i membri della band, così in caso di emergenza e visto che comunque anche per ragioni di unitarietà era bene secondo Mana che facessero conoscenza il prima possibile.

E guai a contraddire il capo supremo dei Malice Mizer, per quanto Közi riuscisse abbastanza bene a fare la sua parte in tal senso.

Il telefono squillò a vuoto per un po’, poi una particolare e marcata voce maschile rispose: « Qui Kamimura, chi parla? »

« Ciao Kami, sono Gackt! »

Il batterista parve un po’ sorpreso – piacevolmente sorpreso – di sentirlo.

« Oh ciao Gackt! Qual buon vento? »

« Ecco, hai da fare? »

« No, sono a casa perché? »

« Senti, ti va di fare un giro? »

Kami ci pensò su per qualche istante.

« Perché no? C’è anche Mana-chan? »

« No, sta facendo le pulizie. »

Inaspettatamente, Satoru lo sentì scoppiare a ridere. Una risata lunghissima, che pareva non dover finire più.

« Capisco, capisco! Fammi indovinare, ti ha buttato fuori di casa! »

« Ma dai, allora l’ha fatto anche con te? »

« Lo fa con tutti. Comunque se mi dai dieci minuti esco e ti raggiungo. Dove sei? »

« Davanti al minimarket vicino casa, hai presente? »

« Sì, ci vediamo lì! »

« A dopo. »

Ukyo Kamimura, il batterista dei Malice Mizer, giunse dopo poco.

Come da programma, Satoru Okabe non avrebbe saputo spiegare con certezza cosa l’aveva colpito di quella persona. Era molto diverso da tutti i suoi amici, Kami. Non era particolarmente casinista, anzi era pure tranquillo, e nonostante la voce profonda e il corpo piazzato aveva il sorriso e i modi di un angelo. E gli piacevano da matti le farfalle, con la loro delicatezza. Ogni tanto diceva che Mana gliela ricordava, una farfalla. O una libellula. Un insetto con le ali trasparenti.

Ma quando Gackt gli domandò il motivo di quel paragone, lui si limitò ad alzare le spalle sorridendo.

« Allora? Che vogliamo fare? » gli domandò « Hai un posto che vuoi vedere in particolare? »

« Non saprei… »

« Facciamo un giro a Shinjuku? »

« Perché no? »

E ci andarono davvero a Shinjuku, tanto non avevano di meglio da fare per ammazzare la noia.

Per lungo tempo s’aggirarono per quel quartiere tanto noto e sovraffollato di ragazzi e turisti, e mentre Gackt si guardava attorno una nuova e strana sensazione lo sorprese. Per la prima volta in due settimane si trovò a provare nostalgia. Nostalgia per Kyoto, per quella terra piena di piante e di verde.

Da quando era a Tokyo aveva visto solo gente. Gente e palazzi enormi, luminosi, brulicanti di persone e di vita. Ma non un solo albero, un prato. Pareva che in quella città tanto popolosa, tanto artificiale, di natura non ce ne fosse più bisogno.

« Kami… »

« Sì? »

« …io non ne posso più. »

Non gli sfuggì affatto l’occhiata vagamente allarmata e perplessa che il batterista gli lanciò, quasi a voler dire che lo compativa. Oh be’, in effetti s’era trasferito a Tokyo da due sole settimane, e se cominciava tanto presto a lamentarsi non era messo poi tanto bene.

« Che c’è? »

Era una domanda che gli era evidentemente stata posta così per scrupolo, poiché Ukyo Kamimura era ben lontano dal volerlo urtare in qualche modo.

« Nostalgia di casa? » aggiunse il batterista tanto per dire, notando che Satoru non pareva voler rispondere.

« Non proprio… diciamo nostalgia di un aspetto di casa. »

« Uh? »

« Be’, sai… Kyoto è una città piena di alberi. Di viali, di parchi… insomma, c’è un sacco di natura. Ma qui a Tokyo mi sembra che se ne siano tutti dimenticati. Mi sembra che tutti camminino senza guardarsi in faccia, che parlino a se stessi senza nemmeno vedere se qualcuno li ascolta. »

Kami, con suo grande sconcerto, all’udir quelle parole rise forte.

« Sei ancora spaesato, è normale che parli così. Le prime volte Tokyo fa quest’effetto un po’ a tutti noi poveri provinciali. »

« Santo cielo, ma davvero non esiste un parco da queste parti? Io rischio di uscirne pazzo se non vedo un albero! »

E Kami scoppiò di nuovo a ridere, a momenti piegandosi in due in mezzo alla strada.

« Comincio a capire perché Mana ha tanto insistito per averti nella truppa! »

Gli riuscì di biascicare solo quelle parole, ma intanto i suoi piedi avevano preso una direzione ben precisa. Senza più dire una parola, proseguendo col passo di un soldato, si trascinò dietro Camui Gackt fino a lui solo sapeva dove.

« Non sapevo dove altro portarti e questo è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Scusami se fa schifo. »

Ukyo glielo disse continuando a sorridere pacatamente come se non gli fosse interessato fare altro, tenendosi le mani in tasca e lasciando che il venticello primaverile gli scompigliasse i capelli tinti di castano.

Gackt si guardò attorno.

« Che razza di posto è? »

« Lo Shinjuku Central Park. Un buco di giardinetto da pochi soldi come puoi vedere, ma gli alberi ci sono, un tempietto pure e idem le fontane. A conti fatti non è che gli manchi nulla. Certo, niente a che vedere con lo Shinjuku Gyoen, quello sì che è un parco di lusso! Difatti è sempre pieno di turisti. Fattici portare da Mana, un giorno o l’altro. »

Fecero due passi nei viali sotto gli alberi, poi si sedettero su una panchina e a Gackt sembrò di tornare a respirare, poco gli importava quanto fosse grande quel parco. Ci mise un po’ a tornare a parlare, prima prese tempo per inalare l’odore degli alberi, dell’acqua delle fontane, e la luce del sole sulle foglie che li sovrastavano.

« Chissà se Manabu ha finito con le pulizie… »

In verità, quasi aveva paura di tornare a casa.

Kami gli sorrise di nuovo, come se su quell’argomento l’avesse saputa parecchio lunga.

« Stai tranquillo, vedrai che quando tornerai stasera ti accoglierà una bella cena abbondante che Mana-chan ti servirà evitando di guardarti in faccia, e quando tu gli chiederai a cosa siano dovuti quei manicaretti ti risponderà che gli era semplicemente avanzato del tempo. Scommettiamo? Fa così anche con noi, se si deve far perdonare per qualcosa ci prova a colpi di nabe e crocchette! E ci riesce puntuale. »

Anche Satoru si trovò a sorridere a quel punto, perché in cuor suo se lo immaginava fin troppo bene.

« Che dicevi prima, a proposito del fatto che hai capito come mai Mana mi ha voluto nella truppa? »

« Perché sei fuori come un balcone. Come tutti quanti noi. »

Camui ridacchiò appena.

« È la prima volta che una persona che conosco da poco me lo dice tanto direttamente. »

Gli veniva irrimediabilmente, incredibilmente da ridere. Kami però dovette fraintendere, perché si scusò.

« Mi spiace se ti sono sembrato fuori luogo, ti assicuro che non era mia intenzione. »

« Ma scherzi? Stai tranquillo, amico. »

Parve che sentirsi chiamare in quel modo non dispiacesse a Kami, che si rilassò sulla panchina su cui stavano ed emise un breve sospiro, spostandosi qualche ciocca di capelli dagli occhi sorridenti.

« Vado a prendere da bere, vuoi qualcosa? »

« Un tè freddo, grazie. Poi ti restituisco i soldi. »

« Non ci pensare neppure. »

Ukyo si alzò e tornò poco dopo, tenendo nelle grandi mani un paio di lattine apparentemente gelate prese da un distributore poco lontano. Per sé aveva preso un caffè freddo, e gli lanciò l’altra lattina che gli finì direttamente fra le dita come fossero state una calamita.

« Grazie. »

« Figurati. »

Bevvero per un po’ in silenzio, rimanendo seduti sotto quegli alberi e sotto quel vento fino a che il cielo non iniziò a scurire un poco nei giorni ancora freschi di aprile.

Fu ancora Kamimura a parlargli, come se le sue preoccupazioni le avesse intuite col pensiero.

« Andrà bene, non ti preoccupare. Certo, all’inizio potrebbe esserci qualche problema, ma andrà tutto bene vedrai. Se Mana ti ha scelto un motivo c’è. Sai, lui non è esattamente il genere di persona che si avvicina al primo tizio che vede per la strada e se lo porta in casa a cantare per lui. Questo penso che tu l’abbia capito. »

Camui annuì in silenzio.

« Ora avanti, vai! Torna a casa e vai a gustarti la cena che ti ha preparato quello scemo, anzi già che ci sei salutamelo! »

Gackt si alzò in piedi allora, e Kami gli diede una pacca sulla spalla.

« Non avere paura di Mana-chan, non ti ammazza! »

« Non ti preoccupare. Ti assicuro che in quanto a testa dura non sono da meno di lui! »

« Be’, almeno non rischi di diventare il suo schiavo. »

« Già… comunque, Kami? »

« Sì? »

« Grazie davvero per la compagnia, mi hai salvato la giornata. Non avrei saputo cosa fare altrimenti! »

« Ma figurati, anzi se vuoi compagnia chiama quando ti pare! »

« Grazie, ci si sente prossimamente allora! »

« Sì, arrivederci! »

E mentre s’allontanava a passo svelto dallo Shinjuku Central Park, lasciandosi alle spalle la figura un po’ imponente di un batterista che sarebbe divenuto il suo migliore amico di sempre, Satoru Okabe in arte Gackt Camui guardò un’ultima volta il cielo leggermente coperto di nubi che s’approssimava ormai al tramonto.

Mana non gli aveva dato le chiavi di casa. Neanche una copia.

Quasi a voler dire che se sloggiava di lì alla svelta e gli restituiva il suo habitat avrebbe fatto cosa gradita. Lui a dire la verità non aveva ancora nemmeno cominciato a cercar casa – si doveva prima ambientare, diritto suo sacrosanto – ma quella cosa era meglio non dirla al chitarrista… avrebbe solo rischiato di rimanere senza derrate alimentari per qualche settimana, causa crescita improvvisa ed incondizionata di lucchetti alle maniglie di dispensa sportelli e frigorifero. E l’idea di campare di ramen istantanei e di cestini precotti del supermercato non lo allettava granché. E nemmeno quella di cenare e pranzare fuori tutti i giorni. No, decisamente era meglio tralasciare certi aspetti della sua nuova esistenza a Tokyo quando parlava col fin troppo imprevedibile Mana-chan. Davvero, di primo acchito un caratterino del genere non l’avrebbe mai minimamente sospettato. E poco c’era da fare ormai, la frittata stava allegramente cocendo in padella.

Suonò il campanello e per un istante il silenzio che udì lo preoccupò alquanto.

Poi qualcosa si mosse dall’altra parte della porta, il che significava che la sua buona sorte – che a quanto pareva si chiamava Manabu Satou – non l’aveva ancora abbandonato.

« Sei tornato? »

Fu con quelle quattro sordide ed irritate sillabe che il suo momentaneo coinquilino lo accolse, lasciandolo tuttavia libero di mettere piede nell’appartamento.

« Sì, ho fatto un giro con Kamimura. A proposito, ti saluta. »

« Grazie, poi lo richiamo. »

Fu in quel momento che Gackt annusò per la prima volta nell’aria un certo prorompente odore squisito di cibo.

Mana stava facendo attentamente la ronda fra la porta della cucina e il salotto, il che probabilmente significava che non voleva che si avvicinasse. Lui non lo fece.

« Ascolta, se per te va bene questo fine settimana affittiamo una sala prove e cominciamo a esercitarci. »

« Non c’è problema. »

Poi il chitarrista dagli occhi neri gli porse un pacchetto di fogli, che Camui prese con una certa inquietudine sulla punta delle dita.

« Che sono? »

Un semplice, istantaneo e punitivo sguardo di quel volto contornato di capelli neri, e un ordine impartito da quelle labbra rosa e sottili un po’ lucide di burro di cacao.

« Imparale. »

Erano le canzoni dei Malice Mizer, dei Malice Mizer di Tetsu.

« Ne preparerò altre prima delle nuove serate che faremo, ma per le prove queste sono più che sufficienti. »

« Non posso portare i fogli coi testi alle prove? »

« È che voglio vedere quanto ci metti a ricordartele. »

E così oltre a essere un despota quel ragazzo era anche una strana specie di sadico che si divertiva a vedere le sue formiche sgobbare. Ma alla fine, forse era lui quello che lavorava più di tutti.

« Andiamo a mangiare, su. »

Inaspettatamente, Mana lo toccò. Gli diede un lievissimo, appena percettibile tocco su una delle spalle larghe, che gli sembrò incredibilmente una carezza. Un tocco gentile che per un singolo quanto inquantificabile istante gli lasciò i brividi addosso.

Accadde tutto esattamente come Kami gli aveva predetto.

La cena di quella sera fu incredibilmente abbondante, aveva comprato perfino del sushi.

Gli venne da ridere. Santo cielo, per la contentezza gli stava venendo da ridere.

Lo guardò, osservò mentre si sedeva quella figura sottile che se ne stava a fissarlo poggiata con le spalle allo stipite della porta, osservò per un attimo le ciocche nere che gli si appoggiavano alle braccia avvolte come un’edera, e quindi gli sorrise.

Con dolcezza, gli sorrise.

« Grazie. »

Allora lo vide girarsi, dandogli in quel modo le spalle, per una sorta di inconsueto imbarazzo e per quella timidezza che per quanto s’atteggiasse non gli riusciva in alcun modo di nascondere. Avrebbe dato il mondo per poterlo vedere in volto, in quel momento.

« Be’, che stai aspettando? Mangia, no? »

Non replicò niente a quelle parole, non rispose a quella persona che stava in piedi su quelle assurde pantofole pelose blu. Non lo fece perché non poté, sopraffatto da una dolcezza che fu improvvisa quanto imprevedibile, quanto inarrestabile. Una dolcezza che era di Mana, e che lo lasciò incapace di ogni cosa.

E fu di nuovo allora che, con altrettanto affetto, gli sorrise.

Non importò che lo vedesse, non importò che lo sentisse.

Di nuovo, lo sussurrò.

« Grazie… »

- continua -



N.d.A. Mi scuso se ci ho messo un po’ a terminare questo capitolo, e purtroppo devo annunciarvi che la storia potrebbe continuare per un po’ a ritmo rallentato. Il motivo è sempre il solito: esami. Purtroppo l’università non perdona, e giugno e luglio sono praticamente off-limits per quanto riguarda il tempo libero da utilizzare per scrivere. Spero che abbiate gradito il primo capitolo di questo nuovo atto, non è nulla di così speciale ma funge un po’ da tappeto introduttivo per il crescendo che sarà questo secondo atto.

Vitani

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Capitolo 17
*** I Cinque Petali della Rosa ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO SECONDO, SCENA SECONDA
-
I Cinque Petali della Rosa

Giunti che furono davanti alle porte dell’ancora chiusa e modesta sala prove che avevano affittato, Manabu Satou guardò Gackt Camui. Pareva insospettabilmente tranquillo, strano per uno che aveva passato una notte intera a gorgheggiare tenendolo inesorabilmente sveglio e scazzato a battergli il tempo e a correggerlo le – non troppo numerose, lo ammetteva – volte in cui sbagliava attacco o tono.

D’altra parte Mana non voleva minimamente che Satoru imitasse quel Tetsu di cui s’era tanto gioiosamente liberato. E che senso avrebbe avuto silurare quell’incapace altrimenti?

Tamburellò per terra con un piedino candido attrezzato di scarpotta nera coi lacci. Gli altri non erano ancora arrivati. E dire che s’era tanto raccomandato di essere puntuali! Tamburellò ancora, spostando il peso sull’altra gamba.

Camui pareva non avere un problema al mondo, osservava l’esterno della sala prove come se non avesse mai visto un muro e ogni tanto posava gli occhietti nocciola e luminosi su un cielo percorso da qualche nube grigiognola che s’andava espandendo promettendo pioggia per le ore successive.

E lui, lui era nervoso?

No, non c’era manco motivo di porsela una domanda del genere.

Mana era preparato a raddrizzare qualsiasi, sottolineava qualsiasi evenienza anche solo vagamente storta.

Solo una non aveva messo in conto.

Camui lo guardò finalmente, con un leggiadro sorriso che avrebbe fatto impallidire pure Buddha e…

« Sei nervoso? »

Ecco, in quel momento spezzò col piede un ramo e la sola risposta che s’udì fu il crack che fece.

« Assolutamente no », aggiunse poi.

Per fortuna sua e del mondo intero, Gackt parve aver capito l’antifona e non gli chiese più niente ammutolendo di botto. Ebbe quasi paura di averlo offeso. Quasi.

Ancora una volta si chiese dov’erano quegli altri tre scemi che mancavano all’appello. Se si lavorava si lavorava, e bisognava essere puntuali, ma niente, loro proprio sembravano non volerlo capire quel dettaglio insignificante che poi tanto inessenziale per lui non era.

Poi vide Camui sbracciarsi da lontano a salutare qualcuno, e gli venne in mente che le uniche persone che conosceva erano quelle che lui gli aveva presentato. Si girò, e in effetti stavano arrivando gli altri tre… no, quattro scemi.

« Sacchaaaaaaan! »

Inarcò un sopracciglio largamente lavorato di pinzetta. Certamente Takeshi sapeva sempre come farsi riconoscere anche a qualche chilometro di distanza. Però mancava alquanto di classe.

Anche il malcapitato Satoru pareva essere del suo stesso avviso, perché come vide o meglio sentì il tornado umano Taka-chan pararsi sulla sua strada fece un dietro front fenomenale e si diede a correre in mezzo alla via, inseguito di gran carriera dalla massa di capelli cespugliosi corredata di sorriso.

« Ma dai! Non ci vediamo da tanto! Non sei contento di rivedermi? »

« No! Appiccicoso come sei, meno ti vedo e meglio sto! »

Mana osservò con una certa perplessità il povero Takeshi fermarsi di botto nell’udire quelle parole un pelo avvilenti. Lo osservò con altrettanta esitazione voltarsi verso di lui con gli occhi larghi e guardarlo. Takeshi lo guardava. Come un cane speranzoso che fissa il padrone.

E capì che avrebbe fatto meglio ad alzare i tacchi pure lui.

« Mana-chaaaaaaaan! »

S’irrigidì all’istante.

« Che vuoi. »

Non era una richiesta, era una minaccia. Cosparsa di abbondantissima inquietudine e di qualche brivido gelido lungo la schiena.

« Satoru è cattivooo! »

Quel ragazzo aveva il quoziente intellettivo di un’insalata riccia.

Ciò non tolse che quando se lo vide schizzare nella sua direzione col passo marziale di uno struzzo in piena savana gli venne in mente che era meglio filare.

E filò.

Si buttò a correre dietro alla schiena di Camui zompettando ogni dieci passi per vedere dove cavolo stava quella cimice umana di un ragazzo e tirando spinte in avanti per far smuovere Gackt a cui le risate stavano facendo perdere la verve.

Girarono, lui girò.

Rigirarono e lui girò.

Scivolarono a zigzag fra Yu-ki e Kami e quello poveracci li travolse.

Non fece neppure in tempo a compatirli, perché andò a schiantarsi di piatto contro l’ampia schiena del suo nuovo vocalist e nemmeno se ne rese conto.

Ma perché s’era fermato, quell’idiota? Se lo chiese mentre si massaggiava il naso.

E furono inutili gli improperi che aveva in mezzo alla bocca, perché vennero soffocati dal calorosissimo abbraccio dell’insalata riccia, che gli balzò alle spalle braccandolo come un cacciatore e se lo spupazzò un po’ contro ogni suo più infimo desiderio.

Poi rimase fermo così, con le braccia avvolte a strozzo attorno al suo collo.

« Mi lasci? »

« No. »

Strano ma vero la sua fortuna fu Camui, che stava parlando con un tizio che s’era affacciato dalla porta chiusa della sala prove.

« Avevamo prenotato una stanza », stava dicendo Gackt « A nome Satou. »

E il tizio li fece entrare.

E fu solo una delle tante meschine ed improponibili figure di merda che avrebbero collezionato nel corso degli anni.

« Si può sapere chi l’ha portato qui? »

Additò Taka-chan, che aveva tirato fuori dallo zaino una birra e se la stava sbevazzando senza problemi alla facciaccia sua.

Tutti, alias Kami, Yu-ki e Közi, alzarono lenti lenti le spalle come a dire che non ne sapevano niente. A lui non importò. Si sistemò tranquillo a braccia conserte, osservandoli con una faccia beata che per loro significava un’unica parola: guai.

Stavano già iniziando a sudare freddo, quando la fonte delle loro sventure – alias Takeshi – si fece stoicamente avanti per salvare loro il culo.

« E dai Mana-chan, non essere arrabbiato. Ho saputo da Közi che facevate le prove e ho deciso io di unirmi al gruppo di mia spontanea volontà. Voglio assistere al debutto di Sacchan! »

C’era un che di inestricabilmente genuino nell’essere spudoratamente fetente di quel ragazzo, e Manabu non riuscì a ribattergli niente di convincente. Alla fine, era quasi contento di vederlo.

Per cui si limitò a un sospiro e a una minaccia.

« D’accordo, se proprio ci tieni puoi restare qui a guardare. Ma bada bene di non fare casino o ti faccio fuori a calci. »

« Non sono così stupido da essere colpito da un tuo calcio. »

Ah, era pure velenoso il tipo.

« Mi stai sfidando? »

« Non oserei mai, Mana-sama. »

Sbuffò un poco. Non era il caso di stare ancora a discutere con l’insalata riccia, non avevano abbastanza tempo da perdere per godersela.

« Facciamo così, tu ora ti siedi lì buono in un angolo e stai zitto e tranquillo, afferrato il concetto? »

Takeshi annuì e si raggomitolò zitto e chiotto in un angolo fra una cassa e un tamburo. Una buona posizione per finire sordi.

Decise di ignorarlo, tanto la cosa interessante era che non facesse troppo casino – il che forse da uno come Taka era aspettarsi un po’ troppo.

Lì vicino c’erano Közi e Kami che ancora erano piegati in due dalle risate per via della scenetta di poco prima, la quale sarebbe probabilmente parsa comica anche a lui se solo non ci fosse stato dentro in prima persona… Yu-ki invece stava più prosaicamente accordando il basso, e Manabu lo adorò per quella dimostrazione di maturità che visto il generale andazzo aveva dell’incredibile.

« Bene, ragazzi. Vogliamo cominciare? »

Quello lo disse dopo aver metodicamente sistemato gli amplificatori e le chitarre, tirato fuori un buon numero di plettri di scorta ed essersi asciugato il sudore delle mani sui pantaloni.

Perché – e quella era cosa da ricordare sempre – Mana non era nervoso. Mana non era mai nervoso, dal suo viso non sarebbe trasparsa una ruga di nervosismo manco a pagarla però in compenso gli stavano sudando copiosamente le mani.

Era la loro prima prova con la loro formazione. Doveva andare bene, tassativamente.

« Satoru, ti dispiace se prima facciamo una prova noi con la musica? »

L’aveva chiamato per nome.

« No, fate pure. »

Senza più fiatare si misero tutti ai loro posti, con Gackt che diligentemente li osservava come uno scolaretto attento. Probabilmente voleva vedere fino in fondo il guaio umano in cui era andato a cacciarsi.

Attese che Kami battesse il tempo.

Lui lo fece, come al solito con il solito sorrisetto gioioso a ravvivargli la mascella pronunciata.

Attese, attese, attese. Gli sembrò di non poterne più di fare quello.

Mosse nervosamente le dita corte e tozze sulla tastiera – perché per quella canzone all’inizio gli toccava suonare quella – e prese un grosso e profondo respiro.

Attaccò.

Ci mise davvero il cuore in quelle prime note, ce lo mise tutto ma proprio tutto.

Solo che poi il suo orecchio raffinato captò qualcosa che proprio non avrebbe dovuto sentire ma neanche di sfuggita.

Captò un errore nell’attacco di Közi.

« Che stai combinando? »

Quel poveraccio di un altro ragazzo non fece in tempo nemmeno a guardarlo stranito.

« Che vuol dire “che sto combinando”? »

« Hai attaccato troppo presto! »

« Davvero? Io non me ne sono accorto! »

« Mi stai dando del sordo, Koji? »

E ancora una volta fu il loro angelo custode Ukyo Kamimura a rivelarsi una manna dal cielo.

« Dai ragazzi, non litigate. È da tanto che non proviamo assieme, certi errori possono capitare no? »

Nessuno dei due gli rispose, si scambiarono soltanto una lunga occhiata a metà tra l’umanamente scazzato e il genuinamente perplesso. Poi, evidentemente, dovettero risolvere che il batterista aveva ragione e difatti si rimisero al lavoro sui propri strumenti senza controbattere.

Ciò non tolse che prima di riuscire a suonare una canzone in maniera decente dovettero ricominciarla da capo almeno cinque volte. Erano messi davvero tanto male? Dannazione, avendo continuato ad esercitarsi per conto suo, Manabu non se ne era reso minimamente conto. Andando avanti così, ricominciare sarebbe stata più dura del previsto. Dovevano mettersi sotto, non c’era altro da fare.

« Dalla prossima settimana, si viene qui a provare almeno tre giorni su sette! »

« Tre giorni? »

Mana si guardò attorno, scuotendo appena le lunghe chiome nere con una leggera punta di stizza e asciugandosi col dorso della mano la fronte appena un po' sudata. Era stato, incredibile ma vero, il bassista Yu-ki a lasciarsi sfuggire quell’affermazione a mezzo sconvolta. Avrebbe giurato che sarebbe stato Közi a metterci bocca, tanto per cambiare. Oh, comunque il suo commento non avrebbe tardato a farsi vivo.

« Ti ricordo, caro capo, che noi poveracci dobbiamo anche lavorare. »

Eccolo lì infatti. E a pensarci bene non aveva tutti i torti, lui pure a forza di fare il nullafacente avrebbe finito per prosciugare tutto il denaro che aveva da parte.

« Devo ricordarvi, ragazzi, che io ho scommesso tutto sulla nostra band? Sono il nostro produttore, non ve lo dimenticate, e non accetterei mai un’eventuale perdita. Saremo i migliori in futuro, mi avete sentito? La miglior band di tutto il Giappone! »

Tanto più che avevano trovato anche il loro pezzo da novanta… guardò Satoru Okabe con la coda dell’occhio. Se ne stava seduto vicino a Takeshi, entrambi stranamente senza aprir bocca.

« Camui. »

Lo chiamò, e quello gli lanciò uno sguardo interrogativo con quei grandi occhi color nocciola che aveva.

« Tocca a te. Te la ricordi Seraph, voglio sperare. »

Il cantante non accennava a muoversi, e toccò a Takeshi svegliarlo con una pacca sulla spalla degna di un cinghiale.

« Avanti Sacchan! Voglio vedere di cosa sei capace! »

Sacchan” allora sorrise e si tirò su, rispondendo nel contempo a Manabu.

« Sì, l’ho imparata. Però per scrupolo ho portato i fogli con me… non ti voglio far perdere tempo. »

« Bravo ragazzo. »

Già, era proprio bravo. Glielo dimostrò non appena s’attaccò all’asta del microfono e cominciò a cantare. Da parte sua, non poté far altro che confermare il giudizio che s’era già fatto da tempo. Era in gamba, con buone capacità vocali che senz’altro sarebbero andate solo migliorando col passare degli anni. E in più anche in quanto a presenza scenica prometteva bene. Già, decisamente un buon investimento, restava solo da vedere che frutti avrebbe dato una volta sistemato su un palco vero e proprio, Takeshi gliene aveva parlato bene, poiché l’aveva visto un paio di volte esibirsi col suo gruppo a Kyoto. E lui era ben certo che i Malice Mizer a questo altro gruppo non avessero proprio niente da invidiare.

Uno dopo l’altro provarono tutti i brani del repertorio di Tetsu, e lui fu ben felice di notare che quel ragazzo in così poco tempo era riuscito ad interiorizzarli tutti quanti. Certo c’erano ancora delle imprecisioni e parecchio lavoro da fare, ma poco importava. L’avrebbe fatto lavorare come uno schiavo in modo che fosse stato pronto a ricominciare con le serate entro l’autunno. E avrebbe anche trovato il tempo per comporre nuovi brani. Ce l’avrebbe fatta di sicuro, senza problemi. Anzi, ce l’avrebbero fatta tutti e cinque assieme.

Uscirono tutti e sei sfiniti dalla sala prove che era ormai sera.

« Stiamo fuori a mangiare? Che ne dite? » propose Yu-ki.

Acconsentirono tutti, tanto non avevano di meglio da fare per quel giorno. C’era solo il solito, piccolo problemino

« Io ho voglia di okonomiyaki. »

« Io di pesce. »

« Io di pizza. »

« Carne. »

« Ramen. »

Ah, ma perché sempre in quel modo doveva finire? Tutte le sante volte che si ritrovavano tutti assieme non sapevano dove andarsene a mangiare e finivano per starsene in cerchio in mezzo alla strada a guardarsi interrogativamente come cani attorno a un osso.

« Tu che dici, Satoru? »

Era stato Kami a interpellarlo, perché quel ragazzo aveva pensato bene di tenersi fuori dalla disputa. Meglio non mettersi contro i Malice Mizer quando avevano fame, in effetti…

« A me va bene tutto. »

« E dai, che ti costa scegliere? Ci sarà pure qualcosa che ti va, no? »

« Fermi tutti! »

Ullallà, Taka-chan aveva deciso di mettersi in moto a quanto pareva, e aveva stroncato ogni discussione sul nascere.

« Ora si va a cercare il primo locale che troviamo e mangiamo lì, ok? »

Ebbene sì, dovette ammettere che quando ci si metteva l’insalata riccia aveva mordente. Si ravviò le folte ciocche di capelli corvini legandole con un elasticone blu che aveva portato con sé e si mise a camminare di buon passo dietro al suo amico, invitando gli altri a seguirlo con un cenno del capo.

« Andiamo, su. Non è proprio ora di metterci a litigare per certe idiozie. »

Perché sì, era proprio un’idiozia. Ma quell’idiozia era stata solo un modo per scaricare la tensione di prima, alle prove, ed era stata per buona parte colpa sua e lo sapeva.

Ma che ci poteva fare se aveva un carattere troppo intransigente? Di certo non gli interessava cambiarlo.

Si immisero nella via principale, e camminando camminando raggiunsero proprio un ristorantino italiano – con sua grande gioia, ma riuscì a contenerla dietro l’impassibilità di una faccia da schiaffi da manuale.

« Stasera pizza », disse.

Eh sì, avevano proprio mangiato la pizza. Il problema era che non s’erano fermati certo lì!

Dopo essere usciti dal ristorante s’erano fermati in un locale apparentemente di intima conoscenza di Yu-ki e s’erano messi a bere sakè fino a non poterne più. Il tempo non avrebbe saputo proprio quantificarlo, ma se n’erano andati dal locale a notte fonda. Quello se lo ricordava, e lui era uno degli conciati meglio. Strano ma vero, anche Kami e Takeshi s’erano dati una regolata – forse prevedendo di dover trascinare a casa gli altri tre poi…

In quel momento lui, Takeshi e Gackt Camui stavano faticosamente salendo le scale del palazzo dove abitava, diretti al suo appartamento.

La questione era solo una… il succitato Gackt Camui non si reggeva in piedi, e Mana e Takeshi erano altrettanto sulla buona strada nel rotolare giù dalla rampa. Sbandando uno da una parte e uno dall’altra riuscivano a tenersi dritti in qualche modo, ma tirare su quel bisonte muscoloso di un Camui non era cosa esattamente facile, non tanto per Taka quanto per Mana, che di muscoli aveva in generale sempre un tantino difettato, anche se la forza non gli mancava.

Avrebbe dovuto metterlo a dieta. Sì , finché fosse rimasto a casa sua, avrebbe sottostato ai suoi ordini!

Riuscirono, ansanti e barcollanti, a raggiungere la porta di casa. Lui ci mise un po’ ad infilare la chiave nella serratura, e la prima cosa che fece quando arrivarono fu schiantare se stesso sul divano e Camui sul pavimento.

Quello stava praticamente dormendo, figurarsi!

« Ce l’hai un anti-sbronza? »

Takeshi glielo stava domandando con tutta la scioglievolezza che la sua voce petulante riusciva a tenere in condizioni non normali.

« Ho mal di testaaa… e la panciaaa… »

Ah, domandò a tutti gli dèi del cielo che facessero tacere l’insalata riccia molto a lungo, perché pure lui quanto a mal di testa non scherzava. Fortuna che di analgesici ne aveva a tonnellate, perché poteva pure non sembrare ma era uno che se c’era da darsi alle pazze gioie alcoliche non rifiutava mai.

Sospirò e andò in cucina a prendere la medicina per Taka-chan e un tè caldo per sé – non stava ancora così male da dover ricorrere ai farmaci – e quando tornò vide che lo stronzetto s’era appollaiato sul divano al posto suo.

« Alzati! »

« No. »

« Alzatiii! »

Lo fece alzare di forza, tirandolo su seduto dopo avergli agguantato con una mano il capoccione riccio, e si sedette accanto a lui.

« Tieni. »

Gli porse la medicina e un bicchier d’acqua per mandarla giù.

Quello obbedì senza fiatare, ed entrambi fissarono come ipnotizzati Satoru Okabe che ronfava beato e tranquillo sul pavimento sotto di loro, e che si sarebbe svegliato il giorno dopo ridotto a uno straccio.

« Meglio che dormi qui anche tu stanotte, Takeshi. Puoi apparecchiarti qui in salotto se vuoi, ma prima dammi una mano a trascinare questo energumeno in camera. »

Takeshi fece tanto d’occhi, evidentemente non era abituato a essere chiamato per nome dal Despota Supremo Mana-chan.

« Come mai tutta questa gentilezza? »

« Non fare complimenti, tanto lo so che sei un genio dell’adattamento. »

Aveva eluso la sua domanda, e quello doveva essersene anche accorto, perché gli sorrise molto stupidamente.

Fortunatamente non gli chiese altro, evitandogli un fastidiosissimo terzo grado, e lo aiutò senza storie a tirare quell’altro sul suo futon in camera.

Una volta lì, Mana lo rispedì in salotto e lo lasciò a dormire sul suo amato divano candido.

Lui dal canto suo guardò Gackt Camui, e neppure si svestì.

Tanto, quella notte non avrebbe dormito affatto.

- continua -

N.d.A. Un lieve ritardo nell’aggiornamento, dovuto agli esami e a ragioni di forza maggiore… leggi un temporale che mi ha messo fuori uso il modem… spero di poterlo mettere online a breve, e spero anche che vi piaccia. Io intanto, più scrivo e più mi domando dove vogliono arrivare questi ragazzi. Boh… tanto vale andare avanti e far parlare loro, credo! Buona lettura a tutti!

Vitani

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Capitolo 18
*** Divertimento di un Giglio Bianco ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO SECONDO, SCENA TERZA
-
Divertimento di un Giglio Bianco

Si svegliò la mattina dopo senza ricordare come ci fosse arrivato su quel futon, solo con un mal di testa allucinante. Doveva essere passata da poco l’alba. Ah, accidenti! L’emicrania da sbronza l’avrebbe riconosciuta fra mille, e avrebbe pure dovuto averci fatto l’abitudine da un pezzo, dannazione! Invece no, no, no, sempre lì a soffrire come un dannato!

Per lui tirarsi a sedere fu come trascinare il peso di un carro armato a mani nude. Che razza di fetente era! Più si ripeteva di smettere e meno riusciva a mantenerlo quel proposito!

Emise un gigantesco sospiro, e ascoltò per un istante il canto primaverile degli uccelli appena svegli fuori dalla finestra. La camera era ancora in penombra, e dovette abituarsi prima di riuscire a vedere qualcosa.

…camera?

La camera di chi? Accidenti a lui, era la volta buona che da sbronzo era finito in qualche letto sconosciuto!

Sbatté le palpebre, lentamente, e si stropicciò gli occhi.

No… quella stanza la conosceva.

Conosceva il basso, la chitarra e le bambole e la mensola coi pupazzetti di Doraemon ordinati sopra. Conosceva anche il letto che aveva accanto e la persona che ci stava stesa sopra, apparentemente addormentata.

No, dormiva davvero, lo capiva dalla regolarità del suo respiro.

Si mosse, facendo piano per non rischiare di svegliarlo.

Manabu non s’era neppure svestito, ma s’era addormentato ancora con addosso gli abiti che aveva portato il giorno prima.

Ah, la sua testa era proprio distrutta, e peggio ancora gli sembrava che gli avessero buttato dell’acido nello stomaco. S’era sempre dimenticato di chiedere a Mana dove teneva le medicine, da bravo idiota quale era. Avrebbe mai smesso di maledirsi da solo?

Comunque si tirò su – non senza più d’uno sforzo, a dire il vero – e riuscì ad infilare la via giusta per il salotto e la cucina malgrado la luce ancora rarefatta che filtrava dalle finestre.

Non ebbe neppure il tempo di assaporare il piacevole silenzio che quelle quattro mura possedevano a quell’ora, perché quel silenzio venne bruscamente interrotto da quello che sembrava essere il russare assordante di un animale.

E quell’animale temeva proprio di sapere chi era.

A mano a mano che s’avvicinava, infatti, l’intensità del rumore aumentava in modo esponenziale ed inquietante. Con un rapido dietro-front s’armò del cuscino del suo futon e fu finalmente pronto ad affacciarsi dalla sponda del divano.

Quello che vide aveva davvero del disgustoso.

Takeshi s’era legato parte dei capelli in una specie di codino da cane da compagnia che lo faceva somigliare ad un barboncino col pelo più liscio del normale, e se ne stava stravaccato su quel povero divano in una maniera che dire oscena era poco. E russava.

Pregò per lui che si svegliasse prima di Mana, che se lo beccava in quel modo erano guai grossi per lui. Avrebbe potuto dire di aver finito di vivere. Gli schiantò senza complimenti in faccia il cuscino e quello non provò neppure ad aprire gli occhi, semplicemente grugnì e si rivoltò come un fusillo. Aveva il sonno di una roccia, non di un uomo.

Satoru rise sottovoce, poi il suo sguardo venne attratto da una cosa che stava nel tavolinetto accanto al divano: un bicchiere d’acqua, un medicinale e un bigliettino scritto inequivocabilmente dal cerebroleso dormiente Taka-chan che diceva “antisbronza! ^__^”.

Inutile, a quel cerebroleso lui avrebbe eretto un monumento.

Dopo aver preso l’analgesico, era tornato a buttarsi sul suo futon. Non si sarebbe riaddormentato, lo sapeva, e anche Mana si sarebbe svegliato di lì a poco. Ormai aveva imparato a conoscerlo, e sapeva che alla passeggiatina al mattino presto non rinunciava in nessun caso.

E per lui accompagnarlo era diventata la norma. Tanto nessuno dei due riusciva a dormire di notte.

Si sedette senza rumore sul letto e lo guardò, sembrava tranquillo. Non si era tolto dalle palpebre la matita nera che ci aveva messo il giorno prima, che gli era colata fin sotto gli occhi macchiando di nero anche il cuscino.

Gli venne da sorridere.

Aveva lo stesso sonno tranquillo di un bambino appena nato, stava voltato su un fianco ed immobile, come una tiepida statua vestita di stoffa.

Fu involontario, senza rendersene conto gli toccò appena una spalla.

Poi tolse la mano, per non disturbarlo, e se ne andò in bagno a sciacquarsi la faccia.

Era inutile, una volta sveglio di starsene buono proprio non se ne parlava.

Quando ritornò, lo trovò che s’era svegliato.

Stava seduto sulle coperte e lo guardava come se stesse cercando di ricordare chi fosse.

In quegli occhi neri c’era un pensiero, non avrebbe saputo dire quale, e i capelli d’ebano e sciolti gli cadevano dietro la schiena come un manto corvino venato dei riflessi d’argento della luce.

Provò l’istinto di dirgli qualcosa, qualunque cosa, perché quello sguardo era tanto intenso da provocargli un disagio che non avrebbe saputo esprimere.

Incredibilmente, venne preceduto.

Le labbra rosee del ragazzo che aveva di fronte s’aprirono ed egli sussurrò una domanda, con forse una nota di preoccupazione sincera.

« Come ti senti? »

Allora ricordò di stare soffrendo dei postumi di una sbornia.

Perché, santo cielo, per un istante se n’era bello che dimenticato.

« Meglio, Takeshi mi ha lasciato una medicina sul tavolo in salotto. »

Mana comunque pareva non ascoltarlo già più, e aveva buttato le sue lunghe gambe giù dalla sponda del letto con incredibile indolenza.

« Lui dorme ancora, scommetto? »

« Già… e lo farà per parecchio temo. »

« Poco male. »

S’era alzato sui piedi scalzi e aveva tirato fuori uno specchio da un cassetto, guardandocisi dentro con fare spudoratamente assonnato.

« Ah, accidenti! »

S’allargò un attimo le palpebre con le dita come se avesse voluto sondarsi le pupille.

« Ho dimenticato di struccarmi, guarda che disastro… »

Dov’era poi tutto quel disastro, Gackt Camui non poteva fare a meno di domandarselo.

« Comunque… mangiamo qualcosa, svegliamo il deficiente e lo riaccompagniamo a casa, va bene? »

Annuì, tanto era stato già ribadito che alla passeggiatina del mattino non si rinunciava mai manco da sbronzi o quasi.

Se ne andarono in cucina a consumare una colazione alquanto buttata lì a forza, tanto nessuno dei due aveva lo stomaco in vena di collaborazione estemporanee.

Svegliare l’altro a calci fu uno sfogo ben più gradito.

« Ahiahiahi! Ma si può sapere perché ce l’avete con me? »

« Perché ci fa male lo stomaco! »

« Ma fa male anche a me! »

Povero Taka-chan… era decisamente uno dei prossimi candidati alla santità, perché dopo quella battuta si alzò in piedi e andò a poggiare le mani sulle spalle di Manabu come se avesse voluto consolarlo per qualche motivo.

« Mana, Mana… avrei dovuto saperlo che questo sarebbe stato il prezzo da pagare per aver potuto passare la notte sul tuo sacro divano e per aver avuto il privilegio di svegliarmi rimirando la tua superba bellezza! »

Camui inarcò un sopracciglio, a metà tra il sorpreso lo schifato e il rassegnato. Ma ci faceva o c’era sul serio quello squilibrato?

Manabu poi s’era irrigidito come un baccalà essiccato e a occhio e croce aveva assunto pure lo stesso colorito non esattamente sano. Segno probabilmente che il suo sistema nervoso era sull’orlo del cedimento strutturale, per la centesima volta di quella giornata che sarebbe rimasta negli annali come il colmo della demenzialità umanamente raggiungibile.

« Sei… sei serio? »

Il povero chitarrista lo stava domandando a Takeshi che ancora non gli aveva mollato le spalle e sorrideva beato o beota – tanto per cambiare – mentre Mana lo guardava con un’espressione impagabilmente indecifrabile e a mezzo sconvolta e con gli occhi stranamente spalancati.

Il re della fetenza allora ghignò: ma lo fece in un modo talmente furbo e irraggiungibilmente maligno da farli spaventare per davvero tutti e due.

« No. »

E gli fece una linguaccia.

Ecco, ora sì che faceva bene a fuggire sul serio. Satoru s’allontanò di qualche passo in modo da lasciare il campo libero – anche perché a dirla tutta non aveva voglia di rischiare la vita – perché quella scena se la voleva godere per bene.

Sarebbe scoppiata l’apocalisse di lì a pochi istanti, ormai conosceva abbastanza bene Mana da saperlo e da sapere anche che era meglio premunirsi e trovare riparo nel primo luogo adatto allo scopo.

Tuttavia, e se ne stupì, vide che Manabu manteneva la calma. Un self-control invidiabile per un ragazzo tranquillo ma capace di sbottare come un vulcano attivo non appena qualcosa non corrispondeva alle sue aspettative.

Lo guardò incuriosito mentre s’avvicinava a un vaso di gigli sopra una cassettiera e toglieva i gigli. Poveri fiori.

Dopodichè il chitarrista si voltò con fittizia incuranza e malvagia eleganza e lanciò il vaso a schiantarsi a tutta birra in testa al malcapitato e temerario Takeshi.

« Non lo evitare. »

L’unico, tassativo ordine che gli diede.

Be’, andava detto che i capelli crespi del povero Taka-chan ammortizzarono bene il colpo.

« Ah, ma perché ogni volta che tu sei nei paraggi questa casa deve diventare il regno della stupidità? E dire che io sono una persona tanto tranquilla e seria! »

Ah, e così lui era quello serio… a Gackt scappò da ridere ma ebbe l’ottimo senso di trattenersi per non rischiare di fare la stessa fine di quello che da quel momento in poi avrebbe soprannominato “Mister Coraggio”.

« Ora usciamo. »

Manabu Satou era evidentemente rientrato nella fase dittatoriale.

« Ma come? » si lamentò Takeshi « Mi neghi anche la colazione? »

« Già, e scordati di venire a cena da me per i prossimi tre mesi. »

Uh, si andava sul pesante!

« Stronzo… »

Taka-chan lo sibilò quell’insulto, sottovoce ma non abbastanza per le orecchie bioniche di Mana, che captavano qualsiasi ingiuria rivolta al loro proprietario nel raggio di almeno cento metri.

« Che hai detto? »

« Niente. »

Quell’ormai famoso e riecheggiato insulto venne rimangiato da Mister Furbizia con la prontezza di riflessi di una faina a caccia e rimase a pendere nel nulla dell’aria come un piccolo invisibile fantasmino errante.

Per puro dovere di cronaca, i tre alla fine uscirono.

« Credo che Takeshi ti odierà per tutta la vita. »

Satoru Okabe in arte Gackt Camui stava ridendo come quel babbeo che probabilmente era.

« Tu dici? »

Manabu Satou detto Mana gli camminava svogliatamente accanto guardandolo mentre si sbudellava piegato in due per le risa sul marciapiede deserto.

Era ancora presto, circolavano quasi solo i mezzi pubblici, ma presto le strade si sarebbero animate di gente. Lavoratori, studenti, casalinghe che andavano a fare compere.

La città sarebbe tornata ad essere piena di vita come sempre.

In quel momento una giovane studentessa in divisa, evidentemente mattiniera, passò accanto a loro.

« C’è un liceo da queste parti? » domandò Gackt.

« A quanto pare sì », rispose Mana con noncuranza.

« Tu l’hai finito il liceo? »

« Ovvio, i miei mi spellavano se mollavo. E cosa anche più importante mi avrebbero tagliato i fondi per i prossimi cent’anni della mia esistenza. Anche se ammetto di averlo proposto una volta, ma ti assicuro che dopo non ho più ripetuto l’esperienza. La cosa positiva era che a scuola facevo quel che mi pareva. Mi annoiavo, principalmente. »

« Allora eravamo in due. »

« Mi sa che tutta la nazione la pensava come noi. »

Satoru rimase in silenzio.

« Anche se oddio… meglio la scuola di una casa di cura. »

Come sospettava, dopo quell’uscita si sentì gli occhi penetranti di Mana incollati addosso.

« Tu dici? »

Annuì.

« Dico, dico… »

Già, lo diceva per esperienza… provata sulla sua stessa pelle quando era ancora un bambino.

« Sei stato in una casa di cura? »

Evidentemente Manabu glielo aveva chiesto così, tanto per dire e certamente senza cattive intenzioni. Del resto non erano cose che accadevano tutti i giorni. Però… la risposta era sì. Quando aveva solo sette anni, quando dicevano che lui vedeva i demoni.

I suoi genitori non l’avevano mai amato.

E lui a quella domanda non rispose.

« Oggi si va a fare shopping. »

Mana lo sorprese con quelle sei parole poco dopo che avevano finito di pranzare.

« Va bene… »

Satoru aveva risposto così a quel solito amorevole ordine perentorio, mentre ancora stava giocherellando assorto con le bacchette con cui aveva mangiato. Tanto dire di no a Manabu Satou non avrebbe sortito alcun effetto e lo sapevano bene tutti ormai.

« Ah, ci sarà anche un mio amico, Kamijo Yuuji. È stato il roadie dei Malice Mizer finché abbiamo fatto le serate con Tetsu, insisteva a dire che vuole tanto conoscerti. »

« Certo, non c’è problema. »

Oddio in verità non era esattamente vero che non ci fosse problema, Gackt gli aveva detto una balla ma sperava che il chitarrista ci sarebbe passato sopra. A dirla tutta lui in quel momento si stava misurando con una certa piccola e alquanto inesprimibile paura di incontrare l’ennesimo amico di Mana.

Questo naturalmente perché non aveva idea di che esemplare si sarebbe trovato davanti stavolta.

Poteva davvero succedere di tutto, e la sua ambientazione in quella città multiforme e a tratti alienante che era Tokyo era consistita quasi esclusivamente nel girare come una trottola dietro a Mana, che coi suoi ritmi allucinanti aveva finito per contagiare pure lui. Ormai non c’era mattina che non lo accompagnasse a correre, non c’era giorno che non provavano assieme, non c’era sera che non passavano a parlare. Strano, per una persona timida come Manabu. Ma ne avevano di cose in comune, incredibilmente. Ne avevano tantissime.

La musica su tutte. E se anche avessero avuto solo quella, sarebbe stato lo stesso.

Per questo lui, poiché era con Mana, di quello strano mondo in cui s’era trovato non aveva paura. Degli amici di quel pazzo sì, non credeva di avere poi tutti i torti in fondo… ma tutto il resto dell’umanità non aveva più ragione di temerlo.

Ormai era cresciuto.

Non era più il bambino che parlava col demonio.

Eppure, ogni tanto, di notte i suoi genitori li sognava ancora.

« Satoru? »

La voce del chitarrista lo riscosse, e quando mosse la testa si trovò davanti un preoccupato sguardo d’ossidiana che in altre circostanze l’avrebbe intimorito.

« Sì? »

Fece quella piccola domanda a Mana con gli occhi sgranati, chiedendosi forse con un lieve affanno che cosa davvero quel ragazzo dagli occhi neri avesse capito di lui e delle circostanze che l’avevano portato lì a Tokyo. Lui non voleva che Manabu lo venisse a sapere, non in quel momento almeno.

« Tutto bene? »

Come al solito, sempre discreto e sempre temendo di dire una parola di troppo. Mana non s’impicciava degli affari altrui a meno che non lo riguardassero direttamente, e quel lato del suo carattere aveva imparato davvero ad apprezzarlo. Ogni tanto gli capitava anche di aver bisogno di riservatezza.

« Sì, tutto bene. »

« Abbiamo appuntamento con Yuuji davanti alla statua di Hachiko tra un’ora, quindi sbrigati a prepararti. »

Ah già, la statua di Hachiko. Quel cane che anche dopo la morte del padrone aveva continuato ad aspettarlo anni e anni e che era stato omaggiato con un monumento. Il quale era a sua volta diventato il luogo d’incontro più famoso di Shibuya.

« Ok. »

S’alzò in piedi un po’ svogliatamente, infilando la porta della camera di Mana quasi senza guardare e tirando fuori dal suo bagaglio un paio di jeans e una maglietta bianca senza troppe pretese. Figurarsi se gli andava di vestirsi, in quel momento.

Passò in bagno e si pettinò i lunghi capelli castani – che stavano crescendo a vista d’occhio – mettendoci un po’ di gel e poi lasciando la stanza libera per Manabu che invece era perfettamente in grado di trascorrerci ore.

Proprio lui gli aveva chiesto o si poteva dire quasi comandato di lasciarseli allungare, asserendo che per il loro stile e per quel che aveva in mente potevano starci. A quanto pareva aveva ordinato la stessa cosa a Kami e non per ultimo a se stesso, per quanto i suoi splendidi capelli già gli raggiungessero tranquillamente i fianchi stretti.

E tuttavia non s’era ancora degnato di rivelare a nessuno cos’era di preciso quella cosa che aveva in mente. Qualcosa di devastante o giù di lì, probabilmente.

« Io ho finito », disse quasi urlando in direzione della cucina, dove Mana aveva evidentemente finito di rassettare.

Come prevedeva, se lo trovò a schizzargli di fianco col suo passo soldatesco prima ancora di aver finito la frase, dritto sparato verso il bagno.

Allora sorrise: eh sì, ormai lo conosceva…

Mana uscì da quella stanza all’incirca una mezz’oretta più tardi, pulito e profumato come se appena uscito da un bagno termale. E probabilmente almeno la doccia se l’era fatta sul serio. S’era avvolto attorno alla vita un asciugamano e vagava per casa come un fantasma dalla pelle candida, a cercare chissà che nascosto fra le pieghe delle tende e i cuscini del divano.

Fu in quella tenuta che Gackt Camui se lo vide spuntare da dietro la porta della camera, e quasi se ne sconvolse.

Riuscì a mantenere un tono indifferente quel tanto che bastava per guardarlo fisso come un ebete senza ritenerla una discreta figura di merda. E senza neanche accorgersi che Mana intanto aveva preso a scrutarlo a sua volta come domandandosi che diamine avesse. Non aveva forse mai visto un uomo a torso nudo? E come faceva lui poi a spiegargli l’ovvia opzione che nella fretta aveva dimenticato di prendere l’asciugamano grande?

« Mi allunghi quei vestiti che ho lasciato sul letto? »

Bastò il tono leggero e quasi sarcastico di quella domanda a far ritornare Camui al reale, e quasi balbettando una scusa gli passò gli abiti che quello andò a infilarsi in bagno senza degnarlo più di uno sguardo.

Santo cielo… per un istante – e dovette ammetterlo – se l’era vista davvero brutta.

Quel ragazzo era di una bellezza che aveva dell’assurdo, e quel torace sottile e circondato dalle ciocche bagnate di capelli neri gli aveva ricordato la neve dell’inverno illuminata dalla luna, dai capezzoli simili a rose che in quel pallore erano fiorite ed incantevoli come rubini.

E si diede da solo dell’idiota e dell’emerito demente.

Da quando si lasciava andare a certe stupide considerazioni? Per non parlare di quell’imbarazzo inspiegabile che l’aveva colto, inspiegabile almeno quanto l’irriproducibile pensiero da poesia romantica vecchio stile che l’aveva appena seguito. Mica era la prima volta che vedeva un ragazzo nudo.

Già… non era la prima volta ma c’era andata molto vicino.

Lui era diverso, semplicemente diverso.

E quella singola parola continuò a girargli per la mente anche mentre andavano verso la statua del cane fedele Hachiko, mentre il chitarrista gli camminava accanto con quei suoi soliti occhiali da sole e una gonna lunga e nera addosso e di tanto in tanto pareva scrutarlo quasi nervoso come a voler capire cos’era che lo distraeva tanto.

Se avesse conosciuto l’identità di quel qualcosa, non dubitava che Mana si sarebbe posto qualche domandina in più.

Tuttavia, fortunatamente, non aveva ancora il potere di leggergli nella mente.

Non poteva capire che, in quel momento, la mente di Satoru Okabe era tutta per lui.

Per Manabu Satou.

Yuuji Kamijo era già lì, Gackt lo riconobbe senza neppure il bisogno che Mana glielo indicasse.

Mentre s’avvicinavano vide infatti davanti alla statua del cane Hachiko qualcosa che somigliava vagamente ad un ragazzo. Non più di quanto somigliasse ad un ragazzo la creatura che in quel momento aveva accanto e che camminava sopra un paio di zattere chilometriche in formato stivaletto. La cosa che colpì Satoru non fu tanto la tonnellata di boccoli lunghi e biondissimi di quel tizio o il fatto che evidentemente non si trattava di una parrucca… fu il fatto che nonostante l’abbigliamento palesemente signorile che fasciava un corpo piuttosto esile non del tutto dissimile – e ti pareva! – da quello di una ragazza, il tipo lì stava masticando chewing-gum con la grazia di un teppistello.

Poi si girò dalla loro parte, evidentemente accorgendosi di Mana, perché lo salutò alzando il braccio.

« Bonjour Honey! »

Manabu non lo degnò che di un cenno del capo e la sua testolina rimase leggermente inclinata da una parte come segno di apparente perplessità e di mille speranze infrante.

Gli occhi neri del ragazzo che aveva di fronte si posarono poi su di lui, Satoru, osservandolo con quel che pareva sommo divertimento.

« Io sono Yuuji Kamijo, molto piacere. »

« Io Satoru Okabe, piacere mio. »

Si strinsero la mano come due occidentali, e a Gackt – non seppe mai di preciso perché, poi – la schiettezza di Kamijo piacque subito. Anche se non sarebbero mai diventati amici stretti.

« Quando ti degnerai di guardarmi, Mana-chan? »

Il diciannovenne ex-roadie si stava ora palesemente rivolgendo agli occhiali da sole indossati da Mana, il quale ancora non l’aveva degnato di una singola parola.

Perfino Gackt pareva perplesso da quell’atteggiamento, ok che Mana era taciturno ma rimanere così sulla difensiva anche con un suo amico apparentemente stretto gli sembrava alquanto insolito persino per un riccio arrotolato come lui.

Kamijo comunque si dimostrò immediatamente per quel che era: un essere incapace di venire scalfito dalla subdola e in qualche caso inavvertibile ironia sagace di Mana.

Difatti scoppiò a ridere, forte.

« Sei sempre più divertente, caro il mio alienato! »

Non diede ancora peso all’ennesima mancata risposta del chitarrista e allora si girò ridacchiando verso Satoru, in uno scintillio di boccoli biondi che aveva del paranormale.

« Devi sapere che questa persona mi vuole così bene che non riesce ad esprimerlo e allora sta zitto direttamente. »

« Chiudi quella fogna, bimbetto. »

Eccolo, alla fine s’era svegliato a quanto sembrava. Kamijo non gli risparmiò un ghignetto sardonico che aveva dell’inquietante.

« La bella addormentata nel bosco si è degnata di scendere a colazione, finalmente! »

« Abbi rispetto per quelli più grandi di te, ragazzino. »

Ma quel ragazzino in particolare non pareva essere interessato a mettere un freno alla sua lingua, con grande sconforto di un Manabu che ne veniva perseguitato di continuo.

Fu così che Gackt, mosso da uno strano sentimento di comprensione mista a pietà, lo salvò in corner attirando l’attenzione del teppistello camuffato da pulzella.

« Mana mi ha detto che volevi conoscermi, come mai? »

Ancora un sorrisetto non privo di malizia da parte di quel ragazzino un poco più basso di lui, che lo fissò con una certa curiosità e senza timore nelle iridi scure.

« Be’, semplicemente volevo vedere il viso del vocalist che ha tanto sconvolto Mana-chan. Prima che tu ti trasferissi qui non ha fatto altro che parlarmi di te, e non nego che la cosa mi ha incuriosito e alquanto indispettito… sai, nel mio piccolo anche io sono un vocalist. O meglio, lo sarò appena avrò trovato i componenti per la band che voglio formare. »

Fece due passi in avanti prima di continuare, e Satoru s’accorse che portava scarponi zeppati più che simili a quelli di Mana.

« Non fraintendere… non voglio prendere il tuo posto. Ho scelto io di mia iniziativa di non lavorare con Mana, ho timore che stare sullo stesso palco assieme a lui mi ucciderebbe. »

« Perché ti ucciderebbe? »

Il ragazzo si limitò a sistemarsi uno dei boccoli, evitando di guardare negli occhi Camui.

« Semplicemente perché abbiamo idee differenti e andiamo per strade separate. Io e lui finiremmo per scontrarci se dovessimo lavorare assieme, perché come puoi vedere io non sono incline a dargli spago. Non riuscirebbe a essere il mio despota. »

Poi finalmente alzò lo sguardo e lanciò un bacio in direzione di Mana, che dal buio angolo del suo silenzio non s’era perso una battuta ed anzi era stato più di una volta lì lì per lanciare la sua borsa contro quel genio di oratoria che era quella specie di boccoluta donzella – quel pensiero pronunciato con un’ovvia dose di sarcasmo acido malcelato.

« Ma non ti preoccupare honey, tu sei e resti uno degli esseri umani che più adoro in assoluto. »

« E tu sei e resti uno dei maggiori bambocci dell’universo, marmocchio. »

« Ti voglio bene in un modo che non puoi neanche immaginare. »

« Non lo voglio immaginare! »

« Comunque… Okabe-san? »

Yuuji si voltò di nuovo verso Gackt con sempre quello scintillio di chiome bionde sotto il sole, e Gackt si trovò improvvisamente a sudare freddo. Oh be’, chiunque avrebbe sudato freddo vedendo come quella furia teneva testa a una personalità suo malgrado dirompente quale era Satou Manabu.

« Sì, Kamijo-san? »

« Non devi preoccuparti, oggi non sono qui con l’intenzione di esaminarti. Tutt’altro. »

« Ah no? »

« Mana non ti ha detto nulla? »

« Cos’avrebbe dovuto dirmi? »

Kamijo Yuuji allora si mosse, iniziò a camminare, poi si girò e li guardò e fece loro una smorfia.

« Che andiamo a fare shopping. »

Poi aggiunse, vedendo che Satoru non accennava a capire dove stesse il problema: « Abbiamo bisogno di qualcuno che ci porti le borse! »

Quella sera, quando tornarono a casa, Satoru Okabe poteva dirsi veramente sfinito. Molto più che da un giorno intero di prove, molto più che da una settimana intera senza dormire, molto più che da un mese di guida ininterrotta a bordo della sua Ferrari che aveva lasciato parcheggiata sotto casa. Era stato terrificante.

Ora capiva come mai Mana era stato tanto reticente nel confessargli le vere motivazioni della loro uscita con quel tornado diciannovenne a boccoli. Andare in giro con quei due era qualcosa che andava vicino ad un’odissea da action movie.

Era stato trascinato in tutti e sottolineava tutti i centri commerciali della zona nessuno escluso e costretto ad aspettare ore intere mentre quelli si accapigliavano su che cappello stava meglio con che guanti e se era meglio comprare una giacchina ricamata col pizzo bianco o con quello nero o peggio se il tacco sarebbe andato di moda l’anno dopo. Una volta risolti tutti questi dilemmi esistenziali s’erano portati via abbastanza roba da aprirci un negozio e l’avevano rifilata tutta a lui.

E dire che non andavano neppure sempre in giro vestiti da donna… cosa dovessero farsene di tutta quella roba era un mistero per lui.

Così come era un mistero dove li avessero nascosti i soldi per comprare tutto quell’armamentario così squisitamente femmineo quanto apparentemente inutile.

Alla fine, tuttavia, s’era divertito e pure parecchio. Quel Kamijo era un’altra personalità interessante, anche se con Mana sembravano il giorno e la notte. Forse per quello stavano sempre a battibeccare, anche se si vedeva che c’era sotto qualcosa di simile a un’amicizia molto stretta.

E poi gli era piaciuta quell’aria di sfida con cui l’aveva salutato, prima di tornare al suo appartamento.

“Non voglio sentirti cantare ora,” gli aveva detto “voglio vedere quello che sai fare su un palco, e guai a te se fallisci. Non far pentire Mana di averti scelto.”

Aveva colto, dietro al suo tono, una nota di preoccupazione sincera nei riguardi del chitarrista.

Era evidente che per tutti loro, per tutti quei pochi esseri che potevano ritenersi suoi amici, quella persona contava molto più di quanto l’apparenza non tradisse.

“Sei preoccupato per Mana?” gli aveva domandato allora.

Yuuji Kamijo semplicemente gli aveva sorriso, sornione e simile a un gatto dal pelo biondo come l’oro.

“Affatto. È solo che prima voi Malice Mizer vi rimettete in sesto prima questo diciannovenne squattrinato ritroverà la sua fonte principale di introiti. Sono il vostro roadie, non ve lo scordate.”

E s’erano salutati, con quelle parole.

E con la promessa, da parte di Gackt, che la sfida sarebbe stata bene accolta e vinta.

- continua -


N.d.A. Capitolo dai trascorsi un po’ travagliati questo, al solito causa studio, causa caldo e causa lentezza mia… perdonatemi… spero che lo abbiate gradito!

Vitani

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Capitolo 19
*** Il Gioco della Rosa dell'Inverno ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO SECONDO, SCENA QUARTA
-
Il Gioco della Rosa dell’Inverno

 

 

 

 

Stava rapidamente giungendo alla conclusione che avrebbero dovuto farlo santo, rapidamente e possibilmente con immediata possibilità di venerazione. Per quanto non fosse cattolico, guardare i quadri dei santi era divertente quasi quanto leggerne le storie che spesso e volentieri erano di un macabro che aveva del disgustoso.

Manabu Satou stava pensando quelle cose mentre stava tanto per cambiare disteso sul divano a sfogliare quello che aveva l’aria di essere un volumone sulla storia dell’arte occidentale. Ribadiva, lo interessava guardare i quadri. Magari anche farsi cucire un bel vestitone stile rinascimentale non sarebbe stato poi così male… ad avere i soldi o le capacità per farlo ovviamente.

E lui be’, in quel momento decisamente difettava della capacità di fare qualsiasi cosa.

Faceva caldo.

Per essere giugno, specialmente, c’era un’umidità che aveva effetti a dir poco disastrosi sulla sua salute complessiva.

Primo: gli si scombinavano i capelli e non riusciva a tenerli a bada in alcun modo se non tenendoli accuratamente legati.

Secondo: sudava (e questo per quanto si sforzasse di stare immobile il più possibile proprio per evitarlo).

Terzo: aveva la pressione bassa. Il che significava che quando l’umidità raggiungeva quei livelli da paranoia gli veniva un mal di testa atroce e non riusciva in alcun modo a fare altro se non stendersi con una pezza umida sulla fronte ansando a tratti come un cane accaldato.

Paragone ben poco signorile ma tant’era la pesantezza del suo respiro in quel momento.

Sentì la porta di casa aprirsi e gli venne da pensare che da quel punto di vista fosse una fortuna che dopo quasi tre mesi che s’era trasferito, Satoru Okabe detto Gackt Camui non se ne fosse ancora andato. In generale gli pareva che quel parassita a casa sua ci avesse piantato definitivamente le tende o quantomeno avesse intenzione di farlo e stesse attendendo solo il momento appropriato per comunicargli la notizia. Notizia che ovviamente lui aveva tutto l’interesse a non ricevere. Certo, c’erano anche momenti in cui la sua presenza gli faceva spudoratamente comodo – leggasi quando si trattava di andare a fare la spesa con quel caldo soffocante – ma in generale avrebbe preferito toglierselo alla svelta dal territorio. Anche perché era un casinista non da poco.

In ogni caso, almeno finché la temperatura non calava poteva decisamente restare e fargli da donna di servizio.

Se lo guardò comparire di fronte carico di tre buste della spesa piene e sudato come un ghiacciolo in mezzo al deserto. Quasi gli fece pena. Quasi.

« Poggia pure tutto in cucina, » gli disse « al resto penso io. »

« Ma dai, ti do una mano! »

Per la prima volta Mana si chiese se non ci fosse qualcosa dietro al suo essere tanto servizievole.

In ogni caso, la cucina era il suo regno assoluto e non-si-toccava. Lui solo poteva tutto, lì dentro.

« Lascia perdere, faccio io. »

S’alzò in piedi e s’infilò le pantofole, liquidandolo in quel modo definitivamente.

Certo, sistemare la spesa non era esattamente il modo migliore per combattere l’emicrania, ma almeno l’avrebbe distratto e gli avrebbe fatto passare un paio di minuti in mezzo al caldo che incombeva e che lui tentava di tenere strenuamente fuori da casa sua.

L’ambiente aveva in effetti assunto col caldo delle sfumature che avrebbero fatto impallidire un vampiro. Tendaggi pesanti rigorosamente blu alle finestre, qualsiasi luce spenta e tapparelle perennemente serrate in modo da non far filtrare neanche uno di quei salutari raggi luminosi che venivano dal sole cocente.

« Tu se vuoi vai a farti un giro. »

« Ma sono appena tornato! »

Era tornato e gli aveva portato il caldo in casa. Ridacchiò, quasi godendo a comandarlo come un animaletto domestico. Certe volte davvero gli sembrava poco più di quello.

« Piuttosto mi faccio un sonnellino! »

Insomma, somigliava ad un cane anche mentre si metteva a pisolare sul divano.

A proposito, perché doveva pisolare proprio sul – suo – divano? Quello era il suo posto di diritto e nemmeno quello si toccava!

In ogni caso, risolse che non era il momento per farsi prendere da isterismi da zietta in menopausa. Avrebbe fatto la persona di classe e avrebbe terminato di mettere a posto la spesa, e poi… gli giunsero rispettivamente un leggero russare dal divano e una vampata di calore dall’esterno.

Volle scagliare una maledizione ma non seppe a chi dei due, se al gatto parassita che gli dormiva sul divano o al caldo che gli piegava le spalle, e così la maledizione rimase a vagabondare come uno spirito errante appena fuori dalla sua bocca.

Con molta, anzi con estrema nonchalance, si sedette in fondo al divano osservando con scetticismo i piedi di Gackt Camui.

No, non intendeva passare alla tortura del solletico, sapeva che il fetentissimo non lo soffriva.

Avrebbe tentato qualcosa di più sottile, forse… per quanto la prospettiva facesse accapponare la pelle alla sua timidezza.

Sospirò leggermente e gli poggiò una manina tozza su una spalla, delicatamente ma facendo abbastanza forza da farlo mugolare nel sonno.

« Camui… »

Lo chiamò col preciso intento di svegliarlo, e intanto si lasciò metodicamente scivolare lungo una spalla una manica della T-shirt larga e sgualcita che portava per stare in casa. Oh, faceva un caldo mortale, poteva permetterselo anche lui di mettere una T-shirt vecchia o no?

Il gatto parassita aprì un occhio: « Che c’… »

Le parole gli morirono evidentemente ed incontrastabilmente in gola.

Mana non era uno stupido. Oh no che non lo era. Era anzi una delle creature più paurosamente furbe dell’intero creato quando ci si metteva. E in quel momento l’anima del creato stava ghignando goduriosamente assieme alla sua, lo sapeva quanto sapeva di starsi divertendo un mondo come il gran bastardo che in virtù era – questo sempre quando ci si metteva.

Satoru Okabe in arte Gackt Camui s’era trovato davanti un Mana in maglietta slabbrata e scivolata alquanto, che gli faceva gli occhioni da cerbiatto sbattendo le palpebre sulle iridi nere e lucenti con la professionalità consumata di una maestrina.

« Camui… »

« S… sì? »

Manabu inclinò appena la testa di lato, pareva appositamente per mostrargli quell’unico piccolo neo che aveva sul collo. Ringraziò i capelli legati che in quell’impresa stavano facendo la loro parte. Guardò quel povero fesso e lo vide deglutire, in stato di evidente agitazione.

« Per prima cosa, smetti di guardarmi il collo… sei imbarazzante. »

Gackt per tutta risposta non distolse lo sguardo, no. Chiuse gli occhi. Il chitarrista alzò lievemente un sopracciglio passato di fresco di pinzetta, tuttavia non si scompose anzi lasciò che la mano che ancora indugiava sulla spalla del vocalist gli andasse a finire dritta dritta sul petto.

Oh, quanto sublimemente stronzo era! Avrebbe dovuto smetterla di lodarsi in quel modo, gli faceva male all’ego.

« E poi, tesoro… »

Lo vide sgranare gli occhi come uno che ha appena visto la morte in volto, e gli angoli della sua bocca si curvarono deliziosamente verso l’alto a formare un sorriso di puro e sadico giubilo. Volle toccare il fondo della stronzaggine, e gli piazzò una mano ad altezza chiappa.

Temette di vederselo crepare lì così.

« …scendi immediatamente giù dal mio posto! »

Fu la mano ad altezza chiappa la fulminea artefice della fine.

Lo sollevò.

Lo spostò.

Lo schiantò.

Di sotto e di pancia e con un botto che ebbe del pirotecnico.

E lui rise.

Rise di brutto, rise finché non gli rimase più aria nei polmoni e mentre si sistemava la manica della maglietta, finché gli fece male tutto, dalle costole alla faccia. Dio, gli stavano venendo giù le lacrime!

Gackt Camui si risollevò che lui stava ancora ridendo, e Mana vide solo che gli lanciava un’occhiata a metà tra lo stizzito e il colpevole. Stranamente non ottenne da lui altro commento se non uno stanco “bel modo di far alzare la gente”.

Non seppe bene dire perché, ma gli venne il desiderio di chiedergli scusa. Così, all’improvviso, e nonostante non gli fosse ancora morto il sorriso sulle labbra.

Quando aprì la bocca per parlare, però, non fu per quel motivo.

« Ascolta… », tergiversò un poco, come se stesse tentando di trovare le parole « Ti va di uscire io e te da soli stasera? »

Non capì perché l’avesse detto, e anche in futuro avrebbe potuto giurare di non avere compreso mai cosa fosse stato quell’istinto.

S’alzò in piedi e s’allontanò a piccoli passi, puntando verso il bagno.

Camui s’era seduto per terra e lo osservava incredulo.

« Dove vai? »

Non si voltò.

« A lavarmi le mani. »

Alzò la “mano ad altezza chiappa” e la sventolò per mostrargliela, poi disparve.

Senza ammettere mai che era stato per l’imbarazzo.

 

Se solo ripensava a quello che aveva combinato quel pomeriggio si dava del cretino. Ma del cretino forte. Il re dei cretini. Ma visto che la parola l’aveva data e visto che la situazione gli aveva creato una sorta di disagio postumo, era il caso che rimediasse.

Così s’era trovato ad uscire con uno che pareva non avesse aspettato altro per secoli. O almeno, questa era l’impressione – pregava sbagliata – che gli davano quegli occhioni color nocciola stranamente luccicanti. Boh, da un certo punto di vista magari faceva quasi tenerezza.

Non che avessero fatto niente di che, comunque: una semplice passeggiata e poi avevano deciso dove andare a cena. Per meglio dire, l’aveva deciso lui e aveva optato per un ristorante italiano di sua intima ed approfondita conoscenza.

Era un posto piuttosto tranquillo come piaceva a lui, e cosa ancora più importante i cuochi erano italiani. Non tutti certo, ma l’interessante era che ci fosse qualcuno che sapeva come si cucinava un piatto di pasta.

Aveva avuto modo di notare con sua grande sorpresa che Satoru era un tipo che preferiva mangiare alla giapponese. Non l’avrebbe mai detto in realtà, ma a quanto sembrava il ragazzo non era molto ferrato in cucina estera. Il che per i canoni di Manabu Satou era necessariamente un limite da oltrepassare al più presto.

« Ma davvero non hai mai mangiato italiano prima? » gli domandò quando si furono seduti a uno dei tavoli.

« Sì che l’ho già mangiato… solo che come ti ho già detto quando stavo a Kyoto avevo abbastanza da fare da non avere tanto tempo da spendere girando in locali. E aggiungi che dovevo mettere da parte i soldi per la Ferrari. »

« Sì, come no… tutte scuse. »

« Non sono scuse! »

Mana si versò un goccio di vino rosso e porse a Gackt la bottiglia.

« E non te la prendere dai! Tanto ci penserò io a colmare questa tua lacuna. »

Bevve un sorso, poi lo guardò da sotto la sua frangia nera.

« Vedi, io fondamentalmente sono un cuoco. E per saper cucinare devi prima di tutto saper mangiare, secondo me. Si può dire che sono un buongustaio. »

E modestamente vantava una linea invidiabile per uno che aveva fatto del cibo una componente fondamentale della sua vita. Merito del fatto che era un salutista… alcol a parte…

« Be’, e allora signor buongustaio? Cos’avete da consigliarmi? »

Mana guardò per un istante il menù che ancora avevano sott’occhio, poi se lo mise sotto al naso e scrutò Gackt, che da parte sua lo fissò senza capire.

« Pasta alla puttanesca », sillabò semplicemente.

Lo sguardo di Satoru fu da manuale, e fu esattamente quello che Mana aveva previsto. Lo sguardo di uno troppo perplesso anche solo per ridere.

« E dai, non spaventarti. Guarda che è solo un nome, non ti avvelena! »

A lui sì che stava venendo da ridere invece! Benedisse l’aria condizionata che l’aveva un po’ rimesso al mondo.

« E con cosa è fatta? »

Tossì un paio di volte come a volersi schiarire la voce.

« Io direi che c’è dentro una puttana lessata… e scusami la volgare terminologia da bassifondi. »

Gackt sbatté la fronte sul tavolo.

« Certo che la tua acidità certe volte ha del leggendario eh? »

« Sei tu che me le metti in bocca e comunque fidati che è buona! Per dirla brevemente ci sono olive, pomodoro, acciughe, peperoncino, aglio e altre cose… niente carne e soprattutto niente umani. »

« Per carità, prendiamo quello che vuoi tu. »

« Quello era sottinteso. »

 

Alla fine avevano ordinato due porzioni di quella, e Mana aveva insistito per proseguire con un arrosto di carne mista. Inutile aggiungere che Gackt a fine cena si stava leccando i baffi e Mana si stava scolando con soddisfazione l’ennesimo bicchiere di vino rosso ben fresco.

E no, non era alticcio… solo leggermente brillo, perché stava iniziando a ridacchiare e se ne rendeva conto a malapena.

Captò solo di sfuggita le parole di Satoru: “Ora non ci conviene andare a casa?”

Ma che scherzava?

Quella era un’eresia, una bestemmia!

Una… la pura fantasia di un folle senza ritegno né criterio! Andare a casa? Ma se la serata era appena cominciata! Voleva stare fuori fino al mattino lui!

Infatti gli propose i nomi di altri due o tre locali della zona – dove si vendeva molto alcol ovviamente –  e alla fine si avviarono quasi in pellegrinaggio.

Anche se forse, e ci rifletté poi, per una singola volta sarebbe stato meglio aver dato retta a Gackt Camui.

Insomma… perlomeno si sarebbe risparmiato una notevole incavolatura e un mal di testa che rivaleggiava per intensità con l’ulcera nervosa che sicuramente gli sarebbe venuta prima o poi se continuavano a mettere alla prova la sua già scarsa e provata pazienza in quel modo assurdo.

Era accaduto tutto dopo il secondo locale.

A ben pensarci, una volta Satoru gliel’aveva pure accennato che quando beveva diventava violento e che bastava poco a farlo esplodere come una coca sbattuta. Be’… supponeva fosse stata colpa sua esserselo dimenticato.

Erano usciti dal locale dopo un ulteriore paio di birre – da aggiungersi ed era chiaro a un altro non ben precisato numero di bevande alcoliche precedentemente ingerite – e ovviamente avevano trovato il solito gruppetto di cretini che non vedevano l’ora di attaccare briga.

In particolare, parevano avere preso particolarmente a cuore Mana e il suo aspetto tanto attraente quanto squisitamente femmineo. In parole spicce l’avevano scambiato per una femmina – e che femmina! – e la cosa li aveva resi più spocchiosi ed indigesti di un pezzo di pane vecchio con la muffa.

« Ehilà, dove state andando così di fretta voi due? »

E giù a fischi. Erano tre idioti talmente insignificanti che non solo non si distinguevano l’uno dall’altro ma che neanche la loro madre avrebbe voluto tanto erano deficienti. E Satoru Okabe, forte per carità di tutta la sua stazza nonché della sua tanto proclamata forza fisica, s’era fermato e li aveva guardati molto storto. E i tre scemi ovviamente non l’avevano piantata.

Uno, in vena evidentemente di una morte precoce, aveva messo addirittura una mano sulla spalla del vocalist.

« Bello, perché non ci lasci per un po’ la tua sorellina? »

E trafila di commenti troppo volgari per essere ripetuti o tanto meno ricordati dalla mente signorile di Manabu Satou, che invano aveva pregato Gackt con gli occhi di lasciar stare e aveva tentato di trascinarlo via.

Quello – e a questo punto non avrebbe saputo dire chi fra i quattro fosse quello con meno cervello – era rimasto lì. Ma non solo, no! Aveva pure risposto!

« Ripeti un attimino quello che hai detto, sacco di merda che non sei altro. »

Ecco, erano giunti decisamente alla frutta. Possibile che non ci arrivasse che a lui non importava nulla né di quei tre né del fatto che lo scambiassero per una femmina, per sua sorella o per qualunque altra cosa?

« Come mi hai chiamato? »

Un sorrisetto caustico da parte di Gackt Camui, e l’annunciata Apocalisse infine giunse.

Gackt non sprecò il fiato, semplicemente si tolse la sua mano di dosso mollandogli un cazzotto in pieno viso, e quello dovette sentirlo tutto perché per un pelo non volò a terra.

E i due compari prima lo ressero, poi si scagliarono addosso al vocalist con l’evidente quanto giustificato intento di riparare all’offesa subita.

Peccato per loro – e Mana lo sapeva perfettamente – che Gackt in quel momento fosse più che in forma: in forma e ubriaco.

Lui si fece da parte, schiacciandosi contro il muro del locale e guardando la scena con un filo di noia. Tanto poteva scommettere che Satoru avrebbe stravinto. Il pensiero che magari avrebbe potuto scapparci il morto, che qualcuno avrebbe potuto farsi male seriamente, che Gackt gli serviva, che come leader avrebbe dovuto impedirgli azioni sconsiderate, be’ quel pensiero non lo sfiorò minimamente. O se lo fece, lui lo liquidò con una grattatina al naso. Aveva in testa troppo alcol per ragionare, così rimase a guardare la scena. Tanto una parte o l’altra avrebbe perso prima o poi. E tanto la posta in gioco era lui, quindi nel caso bastava che se la battesse a gambe levate come era tanto bravo a fare.

Gli giunse il rumore di un pugno, poi di un calcio.

Accidenti ma Camui era una bestia! Menava botte senza sforzo e con una velocità sorprendente.

Allora era vero tutto quello che gli aveva raccontato circa il padre e la palestra di arti marziali! E lui che aveva pensato fossero balle! Invece quello stava sfondando la cassa toracica di uno dei tre deficienti senza manco stancarsi e anzi ridendo da vero stronzo. Rimase a guardarlo con gli occhi larghi, ragionando brevemente su quanto fosse diventato volgare ultimamente.

Poi, si sentì afferrare d’improvviso una manica.

Era uno dei tre deficienti.

Per la precisione, il primo a essere steso dal cazzotto del vocalist.

Lo guardò come se avesse avuto davanti un batterio, biascicando con le labbra semichiuse senza sapere manco che dire. Forse era lo schifo che gli aveva bloccato la parola. Quel tipo puzzava di alcol come una distilleria.

« Allora bella figa? Andiamo a divertirci insieme? »

…gli venne una e una sola risposta. Col cazzo!

La sua mano, la solita imprevedibile mano colpevole di tanti misfatti, scattò.

Fu più forte di lui, gli partì. E fu con uno sbam! colossale che si schiantò dritta dritta in faccia a quel rifiuto a cui Camui aveva rotto il naso. Oh, quale fu la sua felicità in quel momento!

Evidentemente l’alcol gli aveva annebbiato i sensi più del previsto.

Così tanto da fargli udire un sibilo acuto che si materializzò proprio davanti ai suoi occhi mentre si girava di colpo per puro istinto. Evitando un coltellino a serramanico che finì per crollare a terra ai suoi piedi.

Chi era quel… quel coglione patentato che aveva tirato fuori quel giocattolo?

Ora sì che qualcuno rischiava di farsi male e…

La vide.

Per terra, sul cemento nero del marciapiede, illuminata d’argento dalla luce sterile e fredda di un lampione. Immobile e morta accanto al coltellino, a terra.

Una… una ciocca dei suoi capelli di ebano.

Inorridì, e alzò una mano verso la sua testa.

Era troppo tardi per riparare il danno.

Troppo tardi…

D’improvviso si trovò di nuovo contro il muro, riparato dal corpo di Gackt che gli si era messo davanti – tanto per fare il figo, avrebbe pensato in un altro momento. Ora aveva solo quella povera piccola innocente ciocca morta a terra nella testa, molto spiacente.

« Giù le mani dalla mia ragazza! »

Alzò gli occhi, finalmente.

Giù… giù le mani da cosa?! Da cosa di chi?!

Di quello che accadde dopo i presenti e i posteri avrebbero solo ricordato un sussurro. Un sussurro appena udibile.

« Camui… »

Gackt si girò a guardare un Mana a testa bassa, dallo sguardo disperso nelle oscurità della frangia.

« Che c’è? »

Qualcuno doveva fermare quell’idiota. Andava assolutamente fermato.

Non importava se sarebbe costato la morte di qualcuno.

« Camui… »

Non fu la parola in sé a terrorizzare.

Fu il tono. Tanto amorevolmente avvolgente quanto mortalmente lugubre.

Cimiteriale! Quella era l’espressione.

Satoru Okabe detto Gackt Camui vide troppo tardi la ciocca nera per terra.

Satoru Okabe detto Gackt Camui ricordò in ritardo quel che gli era uscito detto.

Satoru Okabe detto Gackt Camui comprese troppo tardi che era ora di cominciare a scappare.

Gli occhi di Mana scintillarono, e il silenzio che calò fu pesantissimo.

Incontrastabile.

Potente.

Crack.

Il suono di una delle scarpe di Mana, posata sopra al coltellino e che stava cercando di romperlo con tutta la forza.

Poi Mana lo raccolse fra le dita, lo guardò per un istante e il suo volto venne illuminato dai riflessi argentei della lama.

Silenzio.

« IO VI AMMAZZO TUTTIIIIIII!!!!!! »

Il coltello schizzò dalle sue mani inesorabilmente diretto verso le palle di quello che l’aveva infastidito e le mancò di poco beccando invece in pieno un tombino che lo ingoiò come una bocca spalancata, poi Mana diresse tutti i suoi sforzi verso una sedia che stava lì accanto e la raccolse la sollevò e la lanciò con la precisione di un siluro radiocomandato verso qualunque cosa si muovesse nel raggio di qualche chilometro quadrato.

Non fu la testa di Gackt Camui ad essere colpita, perché lui fu abbastanza lesto da scansarsi.

Non fu neppure quel povero cretino col naso rotto.

Toccò a uno degli altri due, che crollò svenuto per terra con qualcosa tipo un trauma cranico e forse anche qualche pezzo di cervello in meno – anche se Mana era del parere che più piccolo di così non sarebbe comunque potuto diventare.

Ah, ma avrebbero pagato! Oh se avrebbero pagato! Il valore di ogni suo capello gli sarebbe stato restituito a peso d’oro o lui li avrebbe caricati di mazzate tutti quanti fino a che nemmeno il dna sarebbe rimasto uguale!

L’unico dei tre rimasto più o meno sano guardò Gackt Camui con uno strano sconforto negli occhi.

« Nervosetta la tua ragazza. »

Gackt lo osservò di rimando provando una pietà altrettanto strana. Per se stesso ovviamente, mica per loro.

« Non puoi neanche immaginare quanto. »

« STATE ZITTIIII!!!! »

Camui scansò un’altra sedia, l’altro non ce la fece.

 

Si sentì trascinare via di peso per un braccio, e ululò invano che voleva restar lì a riprendersi i suoi capelli perduti. No, no, noo non poteva venire costretto a lasciare lì una parte così importante della sua persona!

« Camui mollami! »

Ma Camui non aveva proprio intenzione di ubbidirgli a quanto pareva. Stavano continuando a correre come due forsennati per le vie di Shibuya senza sapere minimamente che ora fosse e alla ricerca disperata di un taxi visto che l’ultimo treno era probabilmente passato da ore.

« Sarebbe arrivata la polizia, e farci arrestare ubriachi è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno adesso! »

Oh be’, non aveva tutti i torti alla fine dei conti.

« Ah ma allora un po’ di cervello ce l’hai anche tu in quella testaccia! »

« Ma che hai, la sbornia cattiva? »

Sbornia cattiva? E perché? Chi era lo sbronzo?

Lui a dire il vero si sentiva le gambe a malapena e a forza di correre gli stava venendo un gran sonno…

« Camui, frena… »

Ma Camui frenò probabilmente solo dopo due o tre isolati e solo perché i polmoni di entrambi stavano minacciando di scioperare e abbandonarli a loro stessi. Shibuya era un quartiere sempre zeppo di gente anche a quell’ora della notte, e le luci dei negozi ricordavano una grande giostra multicolore e multiforma. Specie a quei suoi occhi di ebano che in quel momento stavano aperti a malapena come per costrizione. Guardò Gackt, che invece pareva non risentire per nulla del sonno. Ah, ma certo… lui era un vampiro…

« Andiamo a dormire… » sussurrò.

Sentì a malapena che Satoru gli metteva un braccio attorno alle spalle per aiutarlo a sostenersi, e lo ringraziò mentalmente anche se in altri frangenti l’avrebbe solo allontanato stizzito.

« E dove pretendi di andare a dormire? »

Sollevarono entrambi lo sguardo di fronte alle insegne che avevano davanti. Insegne che indicavano, senza possibilità di dubbio, Maruyama-cho.

Alias, il quartiere dei love hotel.

Si guardarono entrambi per un istante, vagamente scettici all’idea. Ma come dire, non sembravano esserci tante altre soluzioni a portata di intuito.

Mana indicò l’hotel che avevano di fronte con un cenno del capo.

« Qui. »

 

 

 

- continua -

 

 

N.d.A. Dopo un ritardo dovuto principalmente a problemi personali, ecco il nuovo capitolo. Io ho solo un appunto da fare: non mi sono mai divertita tanto a scrivere qualcosa. Spero che abbia divertito anche voi quanto ha divertito me, anche se il risultato non è quello che speravo.

 

Vitani

 

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Capitolo 20
*** Le Confessioni del Giglio Bianco ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO SECONDO, SCENA QUINTA
-
Le Confessioni del Giglio Bianco

 

 

 

 

Si buttò sul letto di schianto e mai altro letto gli era parso tanto morbido in vita sua. Annusò con calma le lenzuola linde e gli venne da ridere e probabilmente lo fece da quel candido idiota che era. Oddio non ci poteva credere di essere in una stanza chiusa e soprattutto di avere Mana che si faceva la doccia nella stanza accanto. E naturalmente stava pensando certe cose perché aveva bevuto e ovviamente quando beveva non rispondeva più di se stesso. Non del tutto, perlomeno.

Mana gli aveva detto di voler fare la doccia per smaltire la sbronza, e lui non è che avesse tanti motivi per dubitarne. Alla fine, non erano finiti lì per fare chissà cosa. Per quanto in quella situazione ci fosse una certa ambiguità di fondo che lo disturbava.

E in più, lui la sbronza proprio non l’aveva smaltita in alcun modo. Chiuse gli occhi. Accidenti, che nottata si preannunciava… ma se si azzardava a toccare Mana anche solo da lontano veniva giù l’inferno poco ma sicuro, e lui non voleva ancora morire. Non in quel momento almeno.

Sentì dei passi e un rumore di ciabatte battere il pavimento rivestito di moquette color crema dell’albergo, e buttò là un occhio stanco in tempo per vedere Manabu uscire dall’altra stanza coi capelli neri e chilometrici ancora umidi e avvolto in uno degli accappatoi bianchi che erano in bagno. Si costrinse a richiudere quell’occhio subito dopo, non tanto per il mal di testa quanto perché aveva l’orrendo presentimento di stare per arrossire come un peperone e la cosa poco gli piaceva. Avrebbe sensibilmente detestato sentirsi tanto succube di un’altra persona in altre circostanze. Eppure sentiva che invece a quella persona in particolare avrebbe permesso qualunque cosa, e quella certezza sicura e così repentina lo sconcertava tanto quanto lo colpiva. Perché la accettava come un qualcosa di totalmente naturale, come uno stato di cose di cui era consapevole e che non gli interessava o non aveva motivo di cambiare.

Si chiese quanto a lungo sarebbe durata quella strana specie di infatuazione, perché sì, alla fine di quello si trattava.

Ripensò per un singolo istante alla prima volta che l’aveva visto e a come quella figura solitaria che pareva mischiarsi col mondo e allo stesso tempo uscirne e staccarsene quasi fosse venuto da un altro tempo e da un altro luogo l’avesse attirato all’inverosimile, fin da subito.

« Tutto a posto? » si sentì domandare.

Era a posto?, si chiese.

Suppose di sì, tutti i suoi arti erano al loro posto e ciò valeva anche per il suo stomaco – lo capiva dai segni di squilibrio imminente che gli dava – ma non poteva dir lo stesso del suo cervello. Quello stava ancora evidentemente pasteggiando in abbondanza a birra e champagne.

Oh, ma non aveva bevuto champagne.

No?

Non era tanto certo di ricordarlo.

Vide per un istante una luce vorticosa.

Strinse gli occhi come a volerla far sparire. Voleva farla sparire. Gli provocava brutti pensieri.

Annuì con l’entusiasmo di uno che non ci crede affatto.

« Sì… »

« Non mi sembri del tutto convinto. »

Manabu Satou voleva forse fare del sarcasmo?

« Secondo te… come faccio a essere convinto di qualcosa in queste condizioni? »

Tentò di sollevarsi un poco puntellandosi su un gomito ma il coraggioso tentativo gli riuscì solo in parte e si ritrovò di nuovo lungo disteso sul letto. Solo più vicino di qualche centimetro al culo di Mana che se ne stava lì seduto, nella fattispecie.

« Come siamo flosci, Camui. »

Ora te lo faccio vedere io se sono floscio, fu il tremolante pensiero che corse dietro due iridi color nocciola per un istante attraversate da un lampo di consapevolezza tale da far spavento.

Vide Mana girarsi, alzare un sopracciglio con scarsa convinzione e sollevarsi di nuovo in piedi iniziando a passeggiare per la stanza. Non sbandava neanche un pochino, eppure Gackt poteva dirsi quasi certo che avesse bevuto quanto lui o giù di lì.

Ma come cavolo faceva a essere tanto in forma? Gli aveva fatto bene la corsa, o la sbroccata di prima? Satoru Okabe sentiva che avrebbe potuto passare l’intera nottata a chiederselo.

E in verità – e questa è una cosa che il sunnominato Satoru Okabe avrebbe ignorato per sempre – Mana stava meglio non per qualche sua abilità trascendentale ma semplicemente perché subito prima di entrare in albergo aveva inventato una scusa e s’era allontanato trotterellando sulle sue zeppe fino all’angolo di strada successivo, provvedendo una volta lì a liberarsi dei “materiali in eccesso”… tradotto, a vomitarsi pure l’anima. L’anima, il fegato, le budella e qualsiasi altra cosa fosse stata toccata da quel che si era ingurgitato quella sera.

Ecco perché ora stava meglio.

« Vai a farti una doccia anche tu, dopo ti sentirai un po’ più a posto. »

Sì, come se avesse avuto la minima voglia di alzarsi.

E poi, cos’era quella vena di compassione insita nel tono di voce di quella serpe malefica del sarcasmo?

« Non mi va. »

« Ma puzzi. »

Avesse potuto, probabilmente si sarebbe alzato e l’avrebbe strozzato sul posto. Ma da quand’è che era diventato tanto irriverente? Prima non era certo in quel modo! O forse in verità era ancora sbronzo?

Bah, aveva decisamente rinunciato a capire qualcosa di quel ragazzo.

Molto tempo dopo avrebbe detto che assieme formavano un ritratto quanto mai squilibrato.

E be’, forse non era semplice vedere assieme un ragazzo dai capelli lunghi e castani alto e robusto come un lottatore di wrestling e una creatura seducente dalle chiome lunghissime e nere abboccolate con meticolosa cura, che gli sedeva accanto con una postura a metà tra il viziosamente scomposto e il superbamente elegante.

« Parla per te, che ti sei bevuto una distilleria di whisky! »

Una smorfietta che curvò appena le sottili labbra rosa.

« Non vedo come potrei puzzare, visto che mi sono appena lavato. »

« Ah sì? Fammi sentire l’alito! »

E Gackt si alzò con uno scatto, o ci provò. Tutto il suo corpo spasimò nello sforzo di tirarsi su fino a raggiungere Mana e per un istante poté anche dire di avercela fatta.

Fu lì lì per esultare, ma a Manabu bastò spostarsi di un centimetro per vanificare le sue speranze.

Crollò come un sacco con la testa e le braccia penzolanti giù dalla sponda del letto.

Rimase in silenzio.

« …Camui? »

« …sto per vomitare. »

E nei suoi occhi gli sembrò di vedere Mana sollevare perplesso un sopracciglio.

 

« Ora va meglio? »

Oh be’, poteva forse dire di stare meglio dopo essere stato trascinato di peso fino al bagno ed essere stato riportato più o meno traballando fino al letto, per poi finirci schiantato sopra modello pacco da scaricare?

Ebbene sì, stava meglio.

Non certo per merito di Mana, che a dispetto dell’eleganza che decantava aveva dei modi molto più rudi di quel che appariva. Se stava meglio era solo perché finalmente il suo stomaco aveva accettato – o almeno sembrava – di dargli un momento di tregua. Certo dopo aver fatto tutto quello che voleva e come gli pareva.

« Ora sì che ci vorrebbero Takeshi e le sue medicine antisbronza… »

Rantolò quella frase in un sospiro e fu certo di essersi giocato il fegato.

« Ma poi ci romperebbe la testa a suon di chiacchiere. »

Anche quello era vero, dovette dare di nuovo atto che Manabu aveva ragione. Il chitarrista s’era di nuovo seduto esattamente al punto di prima, e non dava segno di volersi muovere. Satoru avrebbe giurato che quella schiena che vedeva fosse la schiena di un chitarrista ventiquattrenne sommamente imbarazzato da quella situazione nel complesso ma che tentava disperatamente di non darlo a vedere.

Così lui semplicemente lo fissò, fissò quelle ciocche nere di ebano che gli scendevano lungo la schiena sperando che preludessero a un minimo segno di vita del loro proprietario.

« Che hai da guardare? »

Sospirò e chiuse di nuovo gli occhi nocciola. Non gli sfuggiva niente…

« Non ti stendi? »

Calò il silenzio.

Più che evidente che a Mana non andava di rispondere e che la questione di dormire con lui la considerava alquanto pruriginosa per non dire scomoda. Della serie, da sbronzi può anche andare tanto dopo ti scordi di tutto, ma in lui era ritornato già l’autocontrollo. Fin troppo.

« Be’ comunque sei stato davvero forte prima, poco ci mancava che ammazzassi pure me! »

E finalmente, Manabu Satou si girò a guardarlo.

Dapprima con sconcerto, poi con una luce di vaga rimembranza in fondo alle iridi nere.

« Perché, chi stavo ammazzando? Non me lo ricordo bene. »

Oh, dèi del cielo.

Il trauma doveva essere stato proprio profondo se aveva già rimosso tutto.

Oppure aveva davvero fatto tutto quel macello sotto la spinta delle Malefiche Particelle Alcoliche – e sperava di sì visto che lui stesso aveva rischiato di finire spiaccicato sotto qualche tavolo – e se aveva rimosso tutto non era stato per il trauma ma per il semplice effetto di una riottenuta sobrietà.

Quale che fosse la situazione, decise che non era il caso di rivelargli che aveva una ciocca di capelli di meno.

Da dove l’aveva tirata fuori quella forza poco prima Gackt se lo stava ancora domandando, ma comunque era questione di vita o di morte (sua) che Mana non sclerasse in quel momento e in quella stanza. Decise per cui di soprassedere anche sulla questione “si dorme o non si dorme”.

Tanto lui non avrebbe dormito in ogni caso, soffriva di insonnia.

« Be’, che facciamo? » domandò, tanto per stemperare un po’ l’atmosfera.

« Detta da te questa suona quasi come una proposta oscena. »

Ecco, e ora chi era l’idiota dei due? Ancora non ce l’aveva chiaro.

Tossicchiò un paio di volte poi si puntellò su un gomito e lo guardò da sotto in su con un sorrisetto falso e ingenuo stampato sulla sua splendida – modestamente – faccia da schiaffi.

« E se ti dicessi che lo è tu che faresti? »

Mana con sua grande delusione non parve minimamente impressionato da quello sfoggio di feromoni maschili a potenza massima.

« Ti direi di starmi lontano perché io coi miei amici non ci scopo e con te men che meno. »

« Come siamo drastici. »

« Non è questione di essere drastici è questione che è vero. »

E a quel punto a Gackt Camui venne un sospetto.

Un sospetto atroce.

Probabilmente aveva preso un grosso granchio a ritenere che a Mana fosse passata la sbornia.

Tirò su col naso e restò perfettamente immobile come se d’improvviso il chitarrista si fosse trasformato in un qualche strano gigantesco serpente a sonagli.

E Mana lo guardò di nuovo.

Con sul viso un ghignetto sardonico che lo spaventò più di mille altre risse come quella di prima.

Gackt sudò disperatamente freddo. Forse s’era andato a cacciare in una situazione che alla lunga avrebbe preferito davvero evitare.

Poi Mana gli fu addosso, rapidissimo.

Lo schiacciò contro il materasso e lui si ritrovò con la testa sprofondata tra i cuscini rendendosi conto solo in quel momento di stare esattamente sull’orlo di un precipizio. Ma esattamente a un passo dall’andar di sotto.

« Naa… non va, te l’ho detto che sei floscio. »

Non si chiese dove lo stesse toccando e soprattutto con cosa. Solo giurò che non avrebbe più toccato una goccia d’alcol per… una settimana? Anzi no due erano meglio.

Intanto quel demonio maledetto con gli occhi neri gli stava ancora appiccicato addosso come un polipo e lo stava scrutando con un certo sottile e beffardo interesse che sottintendeva che i guai non erano ancora terminati.

« Senti ma… io ti piaccio? »

Oh cazzo. Oh cazzo. Oh cazzo oh cazzo oh cazzo merda e cazzo un’altra volta!

« No perché sai… certe volte ho come l’impressione che tu mi stia diciamo… corteggiando. »

Quella non era un’affermazione del tutto errata.

« Be’… magari sì. »

Un lampo di rabbia nell’iride nera gli fece capire che la risposta non era aggradata a un Mana sempre più in là con la testa.

« Che vuol dire magari sì? Guarda che ti riduco all’impotenza razza di mentecatto! »

E Gackt ebbe la fulminea intuizione di spostarsi. Si drizzò seduto più rapidamente che poté evitandosi una colossale scalciata di Mana diretta in modo evidente alle sue parti basse.

Il crack che fecero le doghe del letto fu qualcosa di spettacolare.

Evidentemente tanti anni di arti marziali a qualcosa erano serviti… specie se si trattava di combattere la più splendida creatura che avesse mai visto mentre era sbronza e potentemente inacidita.

« Mana… calmati, su. »

« Dammi una risposta chiara e io mi calmo. »

E che gli doveva rispondere, che gli piaceva ma non era niente di serio?

Ora era lui che stava tornando sobrio.

« Senti, facciamo così. Ora tu ti stendi e ti riposi un pochino, va bene? »

« Sì, così finisco violentato. »

« Veramente è passato il periodo in cui scopavo tutti i giorni. »

« Minchia, allora avevo ragione che sei un porco. »

Ma che era, a quel ragazzo si scatenava pure il turpiloquio oltre alla vena perversa quando beveva?

« Ti ho anche detto che mi è passata mi pare. Quel periodo della mia vita per tua informazione non ha superato la soglia dei vent’anni. »

« Tsk. »

Tsk?

Mana gli sembrò all’improvviso più docile, quasi che fosse stato disposto a ritrattare. Ma non ci credeva. Finché non gli vedeva passare chiaramente la sbronza non avrebbe creduto più a niente. Così stette ad osservarlo con una punta di sospetto quando lo vide arretrare fino al bordo del letto e alzarsi in piedi sistemandosi la cintura dell’accappatoio attorno alla vita.

Gli parve per un istante che stesse minacciando di levarselo quell’accappatoio.

Allora si chiese per la prima volta chi stesse giocando a corteggiare chi.

E capì per intuito che la risposta non era così semplice né così scontata.

La cosa lo preoccupò di striscio.

Aveva ben altro a cui pensare in quel momento.

Tipo osservare Mana che schizzava di nuovo di corsa verso il bagno sussurrando un “mi sento male” strascicato e tenendosi le mani premute davanti alla bocca.

Per qualche minuto regnò il completo silenzio, e Gackt si sarebbe pure preoccupato se non l’avesse sentito tirare lo sciacquone poco dopo. Almeno era ancora vivo, non era svenuto e non era inciampato scivolando con le ciabatte sul tappetino del bagno e rompendosi la testa contro il lavandino.

Si diede un cazzotto in faccia. Certo che lui pure non scherzava in quanto a immaginazione.

Quando Mana tornò, massaggiandosi leggermente le tempie con una mano, si guardarono.

« Ah, sto di merda », disse Mana.

« Non ti si addicono le parolacce », rispose Gackt.

« E a te non si addicono espressioni come “mi si addice”. »

D’improvviso, scoppiarono a ridere.

Come due grossi, enormi, indiscutibili cretini.

Poi, non seppe mai bene perché, Camui si fece più serio. Iniziò a guardare la lampada sul soffitto, pensando a quella luce luminosa e vorticante che poco prima gli aveva sconvolto lo sguardo e la mente e ricordando quante altre volte l’aveva vista prima.

Sì, era accaduto la prima volta quand’era piccolo.

Quando aveva sette anni.

« Tu… ti è mai capitato di pensare di morire? »

Lo chiese a Manabu quasi tanto per dire e nemmeno certo di ottenere una risposta. Anzi, forse qualcun altro l’avrebbe presa per la domanda di uno scemo in piena sbornia triste.

Mana attese qualche secondo prima di rispondere, ma gli parve più un silenzio di riflessione che non un’imbarazzata presa in giro.

« Forse sì. E chi è che non ci ha mai pensato una volta nella vita? »

« Io stavo per annegare nel mare di Okinawa. Avevo sette anni. »

Il chitarrista non replicò nulla, semplicemente gli si sedette vicino sul letto e finse di perder tempo a sistemarsi a random lunghe ciocche di capelli neri.

« Non ricordo il perché, so solo che a un certo punto mi mancò la sabbia sotto i piedi e che la corrente era fortissima. E che per quanto respirassi, mi entrava dentro solo acqua. E avevo tanta paura, tantissima. »

Non interpretò il silenzio di Mana in alcun modo, semplicemente continuò.

« E… a un certo punto non sentii più niente, neanche un suono. E una sensazione di calore avvolgente mi circondò, come un abbraccio. Come se mi stessi addormentando. Sapevo che sarei morto, ma era incredibilmente bello essere sollevati in quel modo dal dolore e dalla paura. E a quel punto apparve… una luce. »

« Luce? »

« Sì… una luce fulgida e brillante che si muoveva come roteando su se stessa. »

E quella era stata solo la prima di tutta una lunga serie di volte in cui quella medesima luce gli era apparsa, e lui aveva capito che compariva quand’era vicino alla morte. E per un motivo o per un altro, lui vicino alla morte c’era stato spesso da quel giorno nel mare di Okinawa.

« E da quel momento… ora non ci crederai, ma… ho iniziato a vedere delle cose. »

Si voltò per un istante verso Mana, solo per vedere che non lo guardava ma se ne stava tranquillo e seduto ad ascoltare, con gli occhi bassi e battendo solo le ciglia di tanto in tanto.

« Erano cose… cose morte. Io non riuscivo più a distinguere le persone vive da quelle che non lo erano più. E ci parlavo, perfino. E la gente se ne stupiva all’inizio, ma poi mi prendeva per pazzo. »

Ancora lo scrutò, come a voler cercare anche nel suo sguardo la conferma che lo credeva un cretino, un folle. Ma Mana semplicemente chinò il capo e inarcò le sopracciglia leggermente, invitandolo a continuare. Non pareva sconvolto, né altro. Anzi – e Gackt non avrebbe saputo dire se era l’effetto della troppa birra – sembrava un poco divertito da quel racconto.

« Una volta parlai con mio zio, morto da tempo, e quando i miei mi chiesero con chi stavo parlando e glielo dissi, loro risero. Però io penso che semplicemente avessero paura di affrontarmi. Crescendo l’ho imparato, che gli adulti finché possono cacciano la testa sotto la sabbia. Finché non vedi va tutto bene, finché non te ne accorgi non c’è niente che non va. Però a me sembra solo un modo di fare dettato da una sorta di codardia dilagante, non so se mi spiego… non do la colpa di quel che mi successe ai miei genitori solo perché probabilmente avrebbero reagito tutti così al posto loro. »

« Che ti successe? »

Satoru corrugò appena la fronte e chiuse per un attimo gli occhi. Tutto quel parlare gli stava facendo venire mal di testa, eppure mai come in quel momento aveva sentito il bisogno di raccontare quelle cose a qualcuno. Se non altro, a quanto sembrava Mana era disposto a starlo a sentire senza ridere.

« Alla fine cominciai a essere considerato un “bambino mentalmente disturbato”. La gente parlava di me, e io ad essere sinceri non capivo un granché bene. Avevo sette anni e vedevo i morti. Solo che proprio per questa ragione io la vita non ho mai capito cosa significhi. Invece mi sono sempre interessato alla morte, proprio perché volevo capire. »

« E che cosa c’è da capire? »

« Uh? »

Manabu lo fissava con appena un velo di apprensione su un viso dal trucco sfatto ma apparentemente attento e vigile.

« Voglio dire, io credo nella reincarnazione, nelle vite precedenti, negli spiriti, credo a tutto quello che mi può rendere la vita interessante. E alla fine penso che la morte non abbia tanto senso andarsela a cercare, tanto gira che ti gira arriva da sola. E si muore una volta sola. Per cui basta aspettare e avrai tutte le risposte che ti pare, non credi? »

Scoppiò a ridere, passandosi una mano sul volto stanco.

« Oddio, forse non sono tanto da me certi discorsi. »

E invece magari erano proprio da lui.

Gackt se n’era accorto subito, che Mana faceva tanto il sostenuto ma sotto sotto era molto meno ghiacciolo di quel che appariva. Sempre che su di lui non si stesse sbagliando di grosso, s’intendeva.

« Comunque, continua. »

E Gackt continuò, obbedendogli senza protestare.

« Be’, per farla breve… un giorno, a dieci anni, ebbi un collasso. Crollai per terra con fortissimi dolori al ventre senza riuscire a muovermi. »

Ricordava benissimo quel dolore, ricordava la paralisi, ricordava come ogni minima fibra del suo corpo fosse stata tesa fino allo spasimo nel tentativo disperato di contrastare il male o quantomeno di impedire al se stesso bambino di morire soffocato.

« Sono stato portato all’ospedale e visitato in ogni parte, ma le cause di quella crisi rimasero sconosciute. Mi dissero che probabilmente avevo una qualche sorta di malattia infettiva, e mi isolarono. Isolarono un bambino di dieci anni. »

Ed era stata tremenda, la solitudine di allora. Isolato, confinato, lasciato in un reparto d’ospedale che somigliava piuttosto a una prigione.

« E sai, Mana, qual era la cosa più tremenda dello stare lì? Che ogni singola volta che facevo amicizia con un bambino del reparto di pediatria, quel bambino moriva. Erano tutti come me, casi disperati, bambini che non potevano fare altro che aspettare la morte e che era come se non fossero mai nati. Parlando con loro o anche solo guardandoli aggirarsi imprigionati nei corridoi del reparto, o perfino immaginandoli a consumarsi nelle loro stanze, spesso pensavo “quel bambino domani morirà” e il giorno dopo sentivo i passi delle infermiere andare giù fino alla hall e allora sapevo che uno dei miei amici era morto. Quello era l’inferno, Mana. Era l’inferno. »

Gli si spezzò per un attimo la voce e allora riprese fiato limitandosi a respirare profondamente per qualche istante. Non era così piacevole ripensare a certi eventi, nemmeno per lui. Avrebbe tanto voluto poterli dimenticare per sempre.

« Mi chiesi perché ero anormale e alla fine capii che “normali” erano persone come i dottori, persone che i miei consideravano corrette. E iniziai a comportarmi un po’ come loro. Venni dimesso dopo qualche giorno. »

Non che per lui fosse mai cambiato davvero qualcosa, comunque. Semplicemente, aveva sacrificato la sua felicità alla propria sopravvivenza.

« So che è sbagliato e che probabilmente fu un errore. Ma io in quell’ospedale non ci volevo ritornare. »

« Be’, è comprensibile direi. »

Non c’era traccia di pietà nella voce di Mana, anzi c’era una sorta di vaga e incomprensibile tenerezza. Quel che era certo era che non lo stava in alcun modo compatendo, e gliene fu immensamente grato.

« Sempre per questo motivo ho deciso che non avrò mai figli. Ora non ne sono sicuro, ma credo che queste capacità si trasmettano coi geni. E se avessi un figlio con le mie stesse capacità e dovesse passare quello che ho passato io, non lo sopporterei. Assolutamente non voglio che i miei geni siano replicati altrove. »

Mana non gli rispose, probabilmente perché quell’argomento non lo interessava.

Gackt allora si alzò a sedere, sistemandosi meglio accanto a lui.

Probabilmente sarebbe stata ancora molto lunga quella notte, visto anche il fatto che Mana aveva preso a guardarsi le corte unghie smangiucchiate e non sembrava essere particolarmente interessato a metterci del suo in quel lungo racconto autobiografico che stavano mettendo su.

E tuttavia, dopo qualche minuto di silenzio proprio lui parlò.

« Non c’è che dire. Sei interessante. Ma interessante davvero. »

Gli fece perfino un occhiolino, cosa che inquietò ed incuriosì un pelo Satoru, e tornò a pensare che in Mana c’era qualcosa di davvero temerario ed incosciente a tratti. C’erano momenti – come quello – in cui aveva gli stessi occhi meravigliosi di un bambino, quelli che lui invece aveva perso troppo presto.

Il chitarrista s’alzò in piedi, e Gackt lo guardò armeggiare con le ante degli armadietti della stanza. Avevano preso quella più economica ma comunque il minimo indispensabile c’era.

« Avevo ragione. »

Fu la schiena di Mana a parlargli, mentre si chinava a raccogliere qualcosa che gli era caduto a terra.

« Sei esattamente la persona di cui avevo bisogno. »

Gackt si soffermò a guardare una volta di più quei suoi splendidi capelli di ebano che coscienziosamente venivano ravviati ancora e ancora dietro le orecchie, e di nuovo gli scappò un sospiro. Cielo se era bello… sì, Mana era bello e lui era completamente andato.

Ah, ma probabilmente erano soltanto i fumi dell’alcol che ancora indugiavano da qualche parte del suo cervello. Si ricordò en passant che lui con quella persona ci doveva suonare in una band e che – santo cielo – non era il caso di farci altro.

« Che dici, ce la facciamo una tazza di tè? »

Mana s’era girato tirando su due tazze e mostrando il bollitore che era dentro uno degli armadietti. Ah, altro che tazza di tè…

Satoru si costrinse a girarsi dall’altra parte per non guardarlo.

« Ehi! »

Niente da fare, Mana scherzava col fuoco e la cosa divertente era che manco se ne accorgeva.

« Sto parlando con te, Camui. »

Stava iniziando a piacergli perfino quel modo sdegnoso e vagamente irritante con cui pronunciava il suo “cognome” quando aveva le palle girate. E tutto ciò era spaventoso. Spaventoso e pericolosissimo.

All’improvviso se lo ritrovò davanti, in accappatoio e che lo guardava fisso con ancora in mano quelle due tazze da tè.

E insomma… era incantevole quanto la tentazione che il serpente aveva offerto ad Eva nella religione cristiana. E santo cielo, lui a quella mela un morsettino gliel’avrebbe dato volentieri.

« Non vedo perché no », mormorò.

E la stessa cosa l’aveva mormorata una certa vocina maligna dentro di lui che tanto di buon grado avrebbe fatto tacere in altre circostanze. No, non era così fesso. Non ancora. Forse.

Sentì appena i passi di Manabu che s’allontanava di nuovo, presumibilmente per andare a fare quel tè.

S’alzò in piedi.

Sospirando lo seguì e quando gli fu alle spalle gli toccò un braccio, costringendolo a girarsi fino a guardarlo.

« Tu prima… hai detto che con i tuoi amici non ci faresti mai niente, vero? »

« Esatto. »

Si osservarono per un istante e negli occhi luminosi di Mana lesse una certa aggressività che covava forse un disagio ben più profondo e malamente espresso.

« Io invece ho scordato di dirti una cosa al riguardo. »

« Cioè? »

« Che io i miei amici li bacio. »

E lo baciò davvero, afferrandogli con forza un polso sottile perché non potesse scappare. Ma sbagliava, perché Mana non ci provò nemmeno a scappare.

Fu un bacio lungo, pur senza un reale trasporto da parte del chitarrista.

Quello Gackt lo sentì perfettamente, che Mana non era né particolarmente sorpreso né particolarmente scocciato. Pareva anzi che se lo stesse aspettando.

Era così, probabilmente, e Satoru trovò il coraggio di abbracciarlo perfino.

Tanto, qualsiasi cosa fosse accaduta erano ubriachi.

Non avrebbero ricordato più nulla, l’indomani.

Più nulla.

 

 

 

- continua -

 

N.d.A. Come al solito mi trovo a dovermi scusare per il ritardo con cui posto questo capitolo, dovuto più che altro a esami universitari + problemi personali che mi avevano castrato l’ispirazione. Ma Madama Ispirazione (© Caleb XD) s’è rifatta alla grande in questi ultimi tre giorni tenendomi su a scrivere fino alle quattro del mattino, forte anche della mia ormai ben nota insonnia quasi perenne. Insomma, questo capitolo è forse un po’ meno demente del precedente, nonché forse più sconcio a causa dei pensieri turpi di Gackt Camui (riuscirà a tramutarli in realtà?), però contiene comunque alcuni passi da tener presenti. In primis, ho voluto raccontare un po’ dell’infanzia di Satoru, argomento su cui avevo glissato nei capitoli precedenti ma che ha certamente un suo perché nel dare spessore al personaggio. Poi, con questo capitolo dovrebbe concludersi la prima metà del secondo atto, e di fatto finire la parte più strettamente introduttiva della storia. Le basi sono state gettate, la band c’è, i sentimenti pure, il morale è alto e i personaggi sembrano anzi più collaborativi di quello che avrei sperato. Ringrazio tutti coloro che hanno recensito la fan fiction finora e colgo l’occasione per rassicurarli che la storia continuerà e verrà regolarmente portata a termine. Il finale ce l’ho in mente, resta solo da vedere quando ci si arriverà. Io tenterò di attenermi al ritmo iniziale di un capitolo al mese, e se eventualmente ci saranno ritardi cercherò di contenerli il più possibile.

Mi scuso di nuovo e vi invito a recensire (le vostre recensioni mi aiutano a galvanizzare i personaggi che così collaborano ancora meglio e scusate se è poco! :P).

Grazie di cuore a tutti.

 

 

Vitani

 

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Capitolo 21
*** Le Perplessità della Rosa dell'Inverno (e i Ventidue Anni del Giglio Bianco) ***


- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO SECONDO, SCENA SESTA
-
Le Perplessità della Rosa dell’Inverno (e i Ventidue Anni del Giglio Bianco)

 

 

 

 

Ci godè. Ah, se ci godè.

Poté dire di averci goduto come un porco. Tutto ciò senza falsi pudori e allarmismi di sorta.

Ci godé quando la porta si chiuse, ascoltò con soddisfazione somma e lurida il movimento regolare di quella grossa e pesante tavola di legno che scorreva inesorabile su cardini ben oliati. Sul volto un sorriso di trionfo e giubilo che avrebbe fatto invidia a quello di un generale tornato vittorioso da una guerra.

Un solo, sonoro ed invidiabile SBAM!

Il suo tenero cuore cantò. Di pura gioia, naturalmente.

E sul suo appartamento calò il silenzio.

Finalmente, dopo settimane di chiacchiere, di casino e di Takeshi piantato a casa sua per non dire di solitudine praticamente zero, il silenzio.

Tornò a godersela e lo fece schifosamente e con particolare zelo.

Ora per prima cosa si sarebbe messo su una bella tazza di tè nero aromatizzato al cioccolato anche se faceva un caldo talmente bastardo che il suo primo desiderio in occasioni normali sarebbe stato buttarsi dritto dentro al frigo e farsi casa lì stile vecchio sarcofago.

Poi ci avrebbe aggiunto tanto per gradire due o tre bignè alla crema di sua esclusiva creazione e avrebbe mandato due accidenti alla linea gustandoseli nella sua ritrovata e mai tanto amata Santa Pace.

Ah, che bella era la vita…!

Creek.

creek?

C’era qualcosa in casa sua che emetteva quel tale curioso rumore da unghia che raschiava su una lavagna?

Non gli risultava.

Creek… creek.

Non stava vedendo nessuno dei suoi amati film dell’orrore.

S’era forse rotta la tubatura della doccia?

Creek… creekcreek.

Sì, era decisamente meglio che s’alzasse e controllasse.

Quando tuttavia si sollevò in piedi pronto a far cessare con le buone o con le cattive la fonte del disturbante e sottilmente inquietante rumore, lo sguardo gli cadde su un paio di borsoni stracolmi poggiati alla bell’e meglio nell’atrio.

Creek, creek, creek.

Sospirò e si diresse verso la porta di ingresso con passo debole. Pareva che il qualcuno che aveva appena sbattuto fuori di casa non avesse intenzione di arrendersi tanto presto. Eppure non gli risultava di avere abbandonato un animale…

Il suono veniva proprio da dietro la porta chiusa.

Afferrò la maniglia, l’abbassò, tirò.

Si trovò davanti uno sguardo tanto luccicante di speranza che quasi lo abbacinò. Oh per gli dèi del cielo! Due occhi nocciola lo implorarono da sotto in su. Come quelli di un cane che vuole l’osso.

« Mana! Allora ci hai ripensato! »

Camui stava accucciato davanti alla porta di casa. Camui gli aveva grattato la porta. Come un maledetto cane, come un maledettissimo cane che vuole la sua ciotola di cibo quotidiana e non ce l’ha. E ora lo guardava. Lo guardava.

Lo guardava.

Lui, semplicemente, ricambiò lo sguardo e non parlò.

Non parlò ma in compenso sollevò entrambi i borsoni con una facilità che ebbe del paranormale e glieli tirò dietro badando bene di schiantarglieli dritto in direzione della testa e pregando che ci si soffocasse.

Gli andò male, Camui li evitò spostandosi di qualche passo e senza manco alzarsi.

« Pessima mira, Mana-chan. »

« Modera i termini. »

Con nonchalance chiuse la porta.

« Manaaa! Ti prego ti prego ti prego fammi entrare! »

Il rantolante lamentoso guaito che gli giunse fortunatamente ovattato dagli spessi centimetri di puro legno che li separavano bastò comunque a provocargli un accenno di mal di testa. Ma no, lui non l’avrebbe fatto entrare, oh no!

Aprì la porta.

« Mana ti adoro! »

“Mana ti adoro” aveva fra le mani un giornale arrotolato. Accuratamente arrotolato.

E per Gackt fu troppo tardi.

Come si slanciò in avanti per abbracciarlo sotto l’onda di un subitaneo impeto affettuoso e letale, così l’inamovibile Mana alzò un singolo braccio, quello col giornale, col movimento fluido e sinuoso di un cobra sputatore che sferra il colpo decisivo. E più o meno col medesimo grado di acidità.

« A cuccia! »

Calò. Inesorabile e letale come una sferzata di vento dell’artico calò quel pezzo di carta arrotolato dritto in faccia a Camui, che non fece in tempo ad emettere gemito.

« Sono stato fin troppo gentile con te. È ora che inizi a camminare con le tue gambe, Satoru Okabe, visto che l’intraprendenza non ti manca. E come ultimo regalo, tieni. »

Gli porse con garbo il giornale arrotolato, sospettando peraltro vista la sua faccia che poche altre persone avessero avuto l’ardire di dirgli frasi del genere in precedenza.

Quella che gli aveva dato, in effetti, era una simpatica rivistina piena di annunci di affitti che – sospettava – sarebbe tornata molto utile al suo vocalist.

« E mi raccomando, non prendere freddo stanotte. Se ti viene il mal di gola sono cazzi. »

Sì, e con ogni probabilità gli sarebbe preso il mal di gola e sarebbe stata solo colpa sua che l’aveva cacciato fuori di casa, povero cucciolo! Gli venne da ridere alla sola idea e sospettò che una mezza risata gli fosse pure uscita solo quando vide Gackt guardarlo con una faccia a metà tra l’incredulo, l’implorante e l’incazzato nero. Ah be’, affari suoi.

« Oh, ma visto il caldo che fa sarà difficile che tu ti prenda un malanno, vero? »

Glielo disse con sul volto un sorriso di tenerezza talmente spudoratamente falso che per un attimo ebbe voglia di farsi schifo da solo. Solo un attimo, per inciso.

Ciò detto, si girò chiudendosi la porta alle spalle e ridendo sonoramente, lasciandosi dietro un ragazzo di ventidue anni dai lunghi capelli castani e dall’ugola d’oro che probabilmente gli stava tirando dietro qualche maledizione.

Si fece il tè, lo zuccherò abbondante come piaceva a lui e si mise i due pasticcini su un piattino.

Ora si cominciava a ragionare!

Si scostò con una mano le lisce chiome nere legate in una coda, che ondeggiarono mentre si sedeva sul ben noto divano bianco.

Mancava ancora qualcosa.

S’alzò di nuovo e s’avvicinò con passo svelto allo stereo che teneva sopra un mobile dall’altra parte del salotto. Tirò giù un CD dalla cima di una paccata che stava lì accanto e lo inserì alzando il volume al massimo. Pochi istanti dopo l’aria di quell’appartamento e probabilmente anche di quelli accanto fu satura della ben nota e riconoscibile linea di basso di Burn dei The Cure. E lui se la suonò tutta gozzovigliando al centro della stanza con fra le braccia un invisibile basso fatto d’aria. Doveva ripassare anche con quello, sì, doveva.

Se lo ripeté mentre fingeva di suonare.

« “ ‘Oh don't talk of love’  the shadows purr, murmuring me away from you…” »

Ahia, lo aspettavano i bignè! Non aveva tempo per mettersi a canticchiare come un dilettante!

Andò a sedersi per la trecentesima volta e ne assaggiò uno.

Gli erano usciti bene stavolta, al terzo tentativo. Non dolci da stomacare e la crema era densa al punto giusto. Bene bene, avrebbe dovuto premiarsi.

 

"Don't talk of worlds that never were

The end is all that's ever true
There's nothing you can ever say
Nothing you can ever do... "

 

Prese un sorso di tè, che s’era ormai freddato al punto giusto. Deglutì lentamente. Quell’album ce l’aveva particolarmente a cuore. E come mai? Risposta semplice e quanto mai ovvia.

Il Corvo era uscito solo da qualche mese, lui ovviamente era andato a vederlo e s’era tirato dietro tutta la combriccola – tranne Takeshi e la sua schifosa abitudine di chiacchierare invece di guardare i film ritrovandosi poi a dover chiedere un riassunto che nessuno era in grado di dargli, perché grazie a lui del film nessuno ci aveva capito nulla. Era uscito dalla sala con gli occhi a cuore, e quella sera era stata conseguenza logica ed imperante andare a procurarsi la colonna sonora, con gli altri che l’avevano seguito perché lasciarlo da solo quand’era esaltato in quel modo non se ne parlava.

Oh, c’erano i The Cure, gli Stone Temple Pilots, i Nine Inch Nails e i Pantera tra gli altri. Bastava? A lui sì. Dei Pantera s’era perfino regalato Far Beyond Driven per il compleanno, gentili loro che avevano fatto uscire l’album giusto pochi giorni prima.

Fra l’altro, ora che ci pensava, doveva anche leggersi il secondo volumetto de Il Sigillo dell’Ariete Rosso. Non gli andava di alzarsi ma per amor del sapere lo fece.

Il reparto manga di casa sua si trovava in corridoio e occupava in totale un paio di mensole belle lunghe. E – non si vergognava a dirlo – era nutrito da una folta schiera di shoujo. Gli piacevano in particolare quelli pubblicati su Hana To Yume e non disdegnava Betsucomi, ma riviste non ne comperava fondamentalmente perché preferiva leggersele a scrocco e tenersi i volumi da collezionare. Facevano bella figura e davano un tocco di colore contro il bianco del muro.

Tirò giù il manga che cercava, dalla caratteristica costina bianca in cima e il resto grigioverde. Storse il naso. Strano, di solito ai manga di Hana To Yume mettevano il blu.

Era ancora con il naso immerso fra le pagine, sbragato sul divano come solo nei suoi momenti migliori sapeva fare, e stava per l’appunto producendosi in un applauso a Merediana, la protagonista che finalmente aveva trovato il coraggio di liberarsi dalle grinfie del malvagio oltreché bellissimo dottor Jezebel Disraeli, quando suonarono alla porta.

Lo stereo stava mandando i Pantera.

Sulle prime pensò che forse il cane guaente, ops, Camui Gackt.

Tuttavia, da sotto le note della cover di The Badge e sopra – incredibile! – i ruggiti di Phil Anselmo, udì distintamente una voce chiamarlo.

« Mana-chan! Apri, sono Közi! »

Sempre uno ce n’era, sempre uno!

Quando aprì la porta aveva la testa china di lato e una smorfia accigliata sulle labbra sottili.

« Koji », disse.

Közi, momentaneamente tornato Koji Hagino causa Diavolo Per Capello di Mana – che poveraccio si voleva solo godere un po’ di solitudine, c’è da dargliene atto – si guardò attorno inarcando leggermente le sopracciglia.

« Ti si sente fin dal pianterreno. »

« Buono a sapersi. »

Közi rise.

« Ti ho preso nel momento sbagliato? »

« I miei momenti oggi sarebbero stati tutti sbagliati, per cui uno vale l’altro. »

Abbassò comunque la musica e fece segno all’amico di accomodarsi.

« Ti porto il tè, aspetta un attimo. »

« No, niente tè grazie! Meglio una bella birra ghiacciata se ce l’hai. »

Naturalmente ce l’aveva.

Gliela portò e si sedette accanto a lui, scrutandolo con una certa aria indagatrice. Közi comunque se la prese comoda, scolandosi due lunghe sorsate di birra prima di parlare.

« Fa un caldo assurdo oggi, eh? »

« Viva i condizionatori. »

Algido come la morte e nessun altro modo per descriverlo.

Koji non si lasciò impressionare.

« E allora come mai il tuo lo tieni spento? »

« Fa male alle ossa tenerlo acceso tutto il giorno come fai tu. »

 « Ma sentilo il vecchietto! »

« Ne riparleremo quando avrai ottant’anni e l’artrite ti avrà piegato come una fisarmonica. »

« Ma io ho caldo adesso, mica fra sessant’anni! »

Manabu Satou non era tipo da abboccare a simili tranelli, per cui continuò a scrutarlo e non rispose. Decise invece di cominciare a farle lui le domande.

« Che ci fai qui? »

« Uh? »

« Non sei certo venuto a parlare del meteo. E nel caso fosse così, be’ se non te ne sei accorto i ciliegi sono fioriti e sfioriti da un bel pezzo, ergo fa caldo, c’è il sole e continuerà a esserci il sole. »

Közi rise di nuovo e bevve un altro sorso.

« Ho saputo che hai sfrattato il vocalist. »

Mana si irrigidì e drizzò ben bene le orecchie. E così il ragazzo era già andato a lamentarsi e a diffondere malignità sul suo conto eh? Bene, buono a sapersi anche quello. Se la legò al dito.

« Dì pure che il vocalist si è sfrattato di suo pugno. »

Non batté ciglio e guardò l’amico che finiva la birra, poi s’alzò per andare a buttare la bottiglia vuota. Quando tornò, l’espressione sorniona del biondo chitarrista che lo osservava non s’era ancora spenta.

« E allora? Cos’ha combinato? »

Mana rimase in silenzio.

« Ha allungato le mani? »

« Semplicemente ho deciso che era ora che si trovasse casa per affari suoi invece di stare a rompere a me. »

« Non lo facevo tanto fesso. »

« Hai sentito quello che ti ho detto? »

« Ha allungato le mani ed è per questo che tu l’hai cacciato in fretta e furia. Giusto? »

Se Hagino Koji era riuscito a non sorprendersi fino a quel momento, lo fece certamente in quel medesimo istante. Osservò il viso di Manabu cambiare espressione, passare da una sorta di quieta stabilità al principio di una madornale incazzatura e infine al vuoto. Al più totale, indescrivibile e inarrivabile vuoto. Lo sguardo che campeggiava nelle iridi nere di Mana solitamente tanto luminose era quello di uno che a pensare ci sta provando sul serio ma pensa che ti pensa non arriva a nulla. Era uno sguardo che fissava l’aria come se quella avesse avuto le risposte che cercava, e sulle sue labbra campeggiava la medesima smorfia irritata con cui aveva cacciato Gackt Camui un paio d’ore prima e aperto la porta a lui poco dopo.

Dopo minuti e minuti di silenzio, minuti nei quali Közi aveva curiosato un po’ per tutta la stanza e soprattutto per la collezione di CD e vinili, da quelle labbra uscì infine un debole biascichio.

« Mal di testa mal di testa mal di testa mal di testa… »

Sopracciglia corrugate e sguardo innegabilmente perso.

« Cioè, tu ieri notte ti sei preso una botta colossale eh? »

Se possibile quel paio di sopracciglia sottili e curatissime si corrugò ancora di più.

« Non mi parlare di botte. Di nessun tipo. »

« Va bene, come vuoi. Comunque lui non mi ha detto nulla eh. Me ne ha parlato Kami: mi ha telefonato poco fa e stava ridendo fino alle lacrime come un dannato bastardo. Ora Satoru sta da lui a quanto pare. »

E bravo Okabe, l’aveva reso il mostro della band con le sue scenette lacrimose.

« Dì a Ukyo di cacciarlo immediatamente se non vuole essere costretto ad aprire la porta a me nelle prossime quarantott’ore. »

« Ho come la sensazione che Kami si sappia difendere meglio di te, sai? »

Mana non colse l’ironia.

« Quello è una specie di mostro delle arti marziali, combatte come un professionista. Voleva fare a botte perfino con Yuuji, figurati. »

« Con Kamijo? »

Manabu annuì lentamente, senza smettere di guardare fisso e drammaticamente torvo l’aria che aveva di fronte.

« Andiamo bene. »

Era vero. Andavano proprio, magnificamente bene.

 

Il caldo lo stava facendo stramazzare. Ma quanto, quanto, quanto era maledettamente calda Tokyo?

Oddio, Hiroshima era a sud e pure lì non è che si stesse chissà quanto meglio. Però era umido, talmente umido che come si faceva una doccia e usciva era di nuovo sudato e se ne doveva fare un’altra. E come se non bastasse ci mancavano i negozi coi loro cavolo di condizionatori sparati tipo cella frigorifera, che appena ci entravi ti ibernavi e quando uscivi il raffreddore era assicurato. Si trattenne dal dire di peggio.

E quei tre mentecatti che erano i restanti musicisti della band, sì tre perché Camui non contava, che l’avevano sbattuto a fare compere con quel caldo soffocante e con un sole che minacciava di scioglierlo a ogni passo e non s’erano manco degnati di accompagnarlo!

La cavalleria è morta, pensava Mana, è talmente morta che quando qualcuno se ne ricorderà penserà che c’entrino le cavallette invece delle buone maniere. E le cavallette domineranno la Terra.

Inforcò meglio gli occhialoni da sole sul naso, calandosi il cappello sulla fronte e procedendo al passo più rapido che le temperature da fornace gli consentivano.

Che cos’è che l’avevano mandato a comprare poi? Dei fuochi d’artificio.

Sì, dei fuochi d’artificio di quelli che uno qualsiasi di loro tre scemi avrebbe potuto comperare in un Combini. Ma no, avevano dovuto mandarci lui. E per cosa poi?

Perché era luglio, avevano detto, era estate, e si doveva festeggiare andando a fare un giro in spiaggia, e che estate era senza fuochi d’artificio? L’estate di un branco di sfigati.

Come se a lui fosse davvero importato qualcosa di quella stagione del cavolo. Solo da piccolo si era divertito a raccogliere gusci di cicala durante il periodo della muta, ma i suoi buoni rapporti col periodo estivo finivano decisamente lì.

Faceva caldo, e lui il caldo non lo sopportava. Già quella sarebbe stata una motivazione sufficiente. Ma no, non bastava ancora, perché al caldo s’aggiungeva il fatto che sudava come un bastardo e gli toccava cambiarsi millemila volte al giorno in più di quanto non facesse già di solito. Infine, se si scottava erano guai perché gli restavano pellicine e ustioni anche per mesi.

Ergo, evitare. Evitare come la peste.

Ma evidentemente era proprio destino che gli andassero tutte storte.

Cercò di riacquistare una sua dignità comprando senza discutere i fuochi che gli avevano chiesto, poi decise che non ce la faceva più nemmeno a fare shopping per cui prese il treno e se ne tornò a casa.

Era fissato per dopodomani, dunque.

Il quattro luglio.

 

Una volta tornato, accendere il condizionatore fu esattamente la seconda cosa che fece. La prima era stata accasciarsi sul divano e respirare un po’ d’aria fresca.

Sul treno ci aveva pensato, comunque, e d’un tratto la questione fuochi d’artificio non gli pareva più così malsana. Alla fine si sarebbe pure divertito, sospettava.

Perché, per quanto strano potesse sembrare a un osservatore esterno, lui era uno che di suo si divertiva con poco. E una bambinata come i fuochi d’artificio era esattamente quello che sarebbe bastato ad esaltarlo alla grande. Solo che si guardava ben bene dall’ammetterlo.

« Ah… », sospirò « Devo avvisare anche Takeshi e Kamijo. »

Sì, buonanotte. Avrebbe pensato più in là anche a quello.

E buonanotte fu davvero, perché qualche minuto dopo stava ronfando come un angioletto.

 

« Etciù! »

Starnutì.

Quella era la maledizione che gli aveva tirato addosso Camui, ne era sicuro quanto del suo naso che colava. Non aveva contato gli starnuti, ma era almeno al centesimo di quella serata decisamente da dimenticare.

E la mattina dopo avevano anche le prove accidentaccio, e lui sapeva perfettamente che non era il caso che le saltasse. Però insomma… poteva immaginare quanto l’avrebbe sfottuto Közi, mentre Yu-ki e Kami se la sarebbero ridacchiata sotto i baffi. E GacktbeGackt era meglio non immaginarselo neppure.

Ci pensò su con dovizia di energie e per lunghi minuti silenziosi, e dopo almeno altri dieci starnuti optò per una telefonata al suo caro amico Koji Hagino. Pregando di non doverlo declassare dopo la conversazione.

Si sentì rispondere al sesto squillo, perché quello scemo di un chitarrista non rispondeva mai prima del sesto squillo. In casa sua la musica era anche più a palla che a casa di Mana, quindi Közi aveva tutti i motivi per prendersela comoda. Non sentiva niente che andasse al di là del rimbombo di qualche brano industrial sparato da far tremare i vetri alle finestre.

« Pronto? »

Tossicchiò un poco prima di parlare, come per enfatizzare ciò che stava per dire.

« Sono Manabu. Domani non vengo alle prove. »

Dall’altro capo del filo gli giunse un silenzio che fu imbarazzante in modo quasi vergognoso.

« Che ti prende? Non è da te saltare le prove. »

Di nuovo si schiarì un pelo la voce, più per nascondere lo sforzo inumano che gli costava dire quell’unica parola che per reale necessità.

« …raffreddore. »

Biascicò quel termine più rapidamente che poté e pregò che l’amico avesse capito tutto tranne quello.

Ancora una volta calò il silenzio, cosa che non gli fece presagire niente di buono.

« Ahahahahah! »

Közi stava ridendo. E ciò fece capire a Manabu Satou che quel ragazzo voleva proprio essere declassato. Doveva tenerci proprio tanto, a giudicare da quanto se la stava spassando.

« E poi chi era che doveva arrivare a ottant’anni piegato come una fisarmonica? »

Mana si rifiutò anche solo di commentare. Semplicemente attese.

Peccato che lo scroscio d’ilarità di Közi durò parecchio, perfino più di quanto Mana si sarebbe aspettato. Fortuna volle che il suo self-control per una volta non lo avesse abbandonato.

« Hagino, cerca di darti un contegno. »

« Capisco, capisco. Vuoi essere in forma per dopodomani, vero? »

Anche qualora fosse stato davvero così, non l’avrebbe mai ammesso neanche sotto la tortura del solletico.

« Voglio solo evitare di appestare tutta la band. »

« Hai comprato quello che ti avevamo chiesto? »

« Secondo te per quale ragione sono ridotto così? »

« E che ne so, magari qualcuno ti ha tirato il malocchio. »

Mana scosse il capo, tirando su col naso. Quello era fin troppo probabile.

« Andrò a farmi esorcizzare. »

Közi ridacchiò un’altra volta.

« Accidenti a te e alla tua mania di chiamare la gente per cognome quando ti incazzi! »

Chiuse silenziosamente gli occhi neri.

« Non sono arrabbiato », mormorò.

« Però in questo momento ce l’hai a morte con te stesso. »

Sì, era vero. Perché avrebbe saltato le prove e perché s’era ammalato come il primo dei cretini. E, in qualche misura, anche per aver cacciato Camui di casa.

Inutile, Közi era proprio il suo migliore amico. Lo capiva meglio di tutti e su questo c’era poco da obiettare. Lo salutò e mise giù la cornetta, per poi andarsi a sedere sul divano con un sospiro.

Alzò lo sguardo e guardò torvo il condizionatore.

« Accidenti a te », sussurrò.

Lo spense.

 

La mattina di due giorni dopo aveva due occhiaie color piombo che toccavano terra.

Certo, s’era trattato di un banale colpo di freddo, sarebbe bastata una giornata di riposo al caldo – ed era sufficiente spalancare una mezz’ora le finestre per avere il caldo – e il raffreddore sarebbe sparito con la velocità con cui era arrivato.

Questo se Mana fosse stato una persona dalla mente lineare.

Peccato che Mana non fosse una persona dalla mente lineare. Proprio per niente. Era anzi una persona di quelle che per certi versi facevano di tutto per complicarsi l’esistenza con le loro stesse mani, così tanto per vivacizzarsi un po’ le giornate.

Difatti Manabu Satou non era andato alle prove. Non era andato alle prove ma in compenso se ne era uscito di casa alle cinque del mattino, coperto solo da una maglietta a maniche corte e dai pantaloni della tuta. S’era guardato attorno con tutto il febbrile distacco di un’anima che sta per andarsene al fronte e aveva infilato una mascherina bianca a coprirgli bocca e naso, poi s’era legato per due volte i capelli – la coda era storta verso destra –, s’era sistemato le scarpe da ginnastica e aveva goduto del fresco che ancora indugiava nell’aria limpida prima dell’alba.

Era ancora notte nera, con tanto di stelle a luccicargli in giù dal cielo. Le aveva guardate ed era stato colto dalla tentazione di salutarle facendo loro un ciao con la mano.

Aveva fatto loro ciao con la mano, s’era stiracchiato ed era partito.

Ad attenderlo il suo solito giro dell’isolato mattutino, sempre di corsa e sempre quando il resto del mondo ancora dormiva. Il che era una balla, perché qualche deficiente in giro in realtà lo beccava sempre.

Un semplice raffreddore non l’avrebbe fermato di certo.

Dopo aver sistemato quella faccenda, se ne era tornato al suo appartamento e s’era fatto una doccia. Poi s’era reso conto di avere mal di testa e di stare rabbrividendo. Il che era sottilmente anomalo e in qualche misura allarmante. Aveva preso il termometro.

Il responso era stato presto dato: qualche linea di febbre, ebbene sì.

Dopo avere inarcato uno splendido sopracciglio che iniziava a necessitare di una sfoltita, aveva sputato una maledizione diretta a un punto imprecisato della sua camera da letto. Cielo, stava iniziando a diventare volgare come quei bruti che aveva per compari.

Comunque, e questo andava detto, non s’era perso d’animo. C’erano volte infatti in cui il suo pragmatismo verso le vicissitudini dell’esistenza raggiungeva i livelli di guardia. Quella era una di queste volte. Senza lamentarsi oltre aveva preso una garza adesiva fredda, se l’era appiccicata alla fronte, s’era preparato da mangiare e aveva ingoiato due aspirine per poi infilarsi nel letto come un bravo bambino.

Tutto questo senza battere ciglio e mentre fuori faceva già un caldo allucinante.

Proprio mentre stava per addormentarsi, però, era squillato il telefono. Con previdenza se l’era portato accanto al letto perché di alzarsi non se ne parlava proprio, non con la debolezza che si sentiva addosso. Aveva allungato una mano pallida oltre il bordo del letto e aveva risposto.

Era sua madre, Ayaka Satou. Sempre con tempismo perfetto.

« Ciao Manabu, come stai? »

Male stava, e aveva avuto la netta sensazione che a sentir quelle parole gli fosse calata la pressione.

« Bene, mamma. »

Si era costretto a dirlo, ma probabilmente le parole gli erano uscite più strascicate di quanto non avesse voluto.

« Che ti prende? Hai la voce rauca. »

Aveva tossicchiato un poco.

« Raffreddore. »

« A luglio? »

Sua madre era parsa sorpresa.

« Perché, non si può? »

Non c’era assolutamente bisogno che ci si mettesse anche lei a rammentargli la sua stupidità.

« Hai preso qualcosa? Che so, un’aspirina… »

« Sì. »

Ne aveva prese due.

« Mangi regolarmente? »

« Sì. »

E poi, in un attimo di risvegliata vanità, aveva aggiunto: « Cucino meglio di te e lo sai benissimo. »

« E le cose come vanno? Col gruppo, dico. »

Mana s’era girato nel letto, mettendosi supino.

« Abbastanza bene. Ho trovato un nuovo vocalist, tra poco dovremmo ricominciare. »

« Ah sì? E che tipo è? »

« Si chiama Satoru Okabe, è di Okinawa. »

« Okinawa? Da così lontano? »

« Io non venivo certo da vicino. »

Quella donna non avrebbe mai potuto ribattergli su niente, c’era poco da fare. Del resto, Mana da qualcuno doveva pure avere preso. Da lei, nella fattispecie.

« Poi vi farò sapere quando faremo il primo live con la nuova formazione. So bene che a te e papà non importa nulla della mia musica, ma fatelo sapere alla sorellina nel caso volesse fare un salto. »

« E cosa ti fa pensare che la spediremmo fino a Tokyo? »

« Venire a trovare il fratellone non è una scusa sufficiente? E poi siamo seri, Hinako ha quasi ventun’anni e il fatto che abbia scelto un’università a Hiroshima non cambia il fatto che ormai s’è fatta la sua vita come me la sono fatta io. Io alla sua età ero a Osaka a suonare. »

Tutto quel parlare gli stava seccando la gola.

« Sì… suppongo che tu abbia ragione. »

La voce di sua madre s’era fatta seria, Mana l’aveva notato subito e non aveva ribattuto oltre.

Era perfettamente consapevole d’essere stato la pecora nera di famiglia e in larga parte d’esserlo ancora, e non gradiva che quel suo status gli venisse rammentato.

« Be’, dovevi dirmi qualcosa? »

« Uh? »

« Perché hai chiamato? »

« Non posso telefonare per sapere come sta il mio primogenito che non torna mai a casa? »

Manabu aveva esalato un sospiro, chiudendo gli occhi e passandosi il dorso della mano sulla garza che aveva appiccicata in fronte.

« Sì, puoi, puoi. Ora però se non ti dispiace stavo per mettermi a letto. »

« Riguardati, mi raccomando. »

« Sì. Ciao, ma’. »

Aveva buttato giù con uno schianto senza manco controllare di aver riagganciato come si deve, s’era girato su un fianco dando le spalle al telefono e non aveva parlato più.

Infine, dopo un sonno irrequieto durato qualche ora, s’era svegliato che era pomeriggio e aveva ricordato di avere qualcosa da fare.

Ci aveva pensato su, guardando il soffitto con gli occhi lucidi per la febbre.

Ci aveva pensato su e s’era alzato.

 

Quelle occhiaie spaventose erano per l’appunto il risultato degli strapazzi del giorno precedente. Aveva dovuto darci una bella mano di correttore e nonostante tutto ancora si vedevano. Perlomeno, comunque, la febbre era passata e anche il raffreddore sembrava aver deciso di dargli una tregua. Per il resto aveva optato solo per un po’ di fondotinta, giusto in modo da uniformare l’incarnato che altrimenti avrebbe avuto un colorito a metà tra il cinereo e il giallognolo.

Erano circa le dieci di una splendida mattinata estiva piena di sole e di belle speranze quando si presentò nella nuova tana di Gackt Camui, ossia casa Kamimura, indossando una T-shirt degli Slayer sopra un paio di pantaloni neri e piuttosto larghi e corredando il tutto con un paio di bracciali borchiati e gli immancabili occhiali da sole. Questi ultimi parevano leggermente fuori posto nel complesso, ma chiedere a Mana di levarseli con quel sole sarebbe equivalso a chiedere a un asino di volare. I capelli li aveva raccolti sopra la testa con una grossa pinza, in modo da tenerseli lontano dal collo. Poco sotto l’informe massa nera delle chiome facevano capolino le cinghie di un piccolo zainetto, che aveva certamente ritenuto più pratico vista la situazione, e in mano gli spuntava un cappello alla pescatora del solito splendido colore nero.

Era quello che avrebbe altrimenti definito “abbigliamento informale”.

Sfortuna volle che ad aprire la porta fosse Satoru Okabe detto Gackt Camui.

Che lo guardò.

Mana ricambiò l’occhiata senza abbassare la testa di un solo millimetro.

« Ciao! » lo salutò Gackt, con gli occhi un po’ larghi per la sorpresa. Era evidente che non se l’aspettava di vederlo lì a quell’ora del mattino.

« …ciao. »

Fortunatamente in quel momento s’affacciò Kami, che si stava spazzolando i lunghissimi capelli color mogano.

« Ciao Mana! Come stai? »

Il chitarrista si batté le mani sulle cosce, e nel farlo una ciocca di capelli neri gli cadde sugli occhi. La soffiò via.

« Ancora in piedi, come vedi. »

« Sono contento. Devo ammettere che ieri ci hai fatto preoccupare tutti, già è raro che ti ammali, figurati saltare le prove! »

Mana inarcò un sopracciglio, poco convinto.

« Tutti? »

Kami sorrise, in quello strano modo rassicurante che solo a lui riusciva tanto bene.

« Sì, anche questo qui! » e diede una pacca sulle spalle a Gackt, ridendo.

Manabu rimase interdetto. Mai quanto Satoru, comunque.

« Mi dispiace », disse comunque guardando altrove.

« Poco male, l’importante è che tu ti sia ripreso. »

Ukyo lo fece accomodare e gli offerse qualcosa da bere, che Mana accettò di buon grado mentre si levava gli occhiali.

Gackt intanto stava guardando il chitarrista come se lo stesse vedendo per la prima volta.

« Mi spieghi che ci fa lui qui? » chiese a Kami.

« La mia presenza ti è forse sgradita, Camui? »

Mana sprigionò quel commento caustico con un sogghigno sul bel volto, osservando di striscio il vocalist che tentava di legarsi gli ormai lunghi capelli castani con scarsi risultati.

« Dai qua. »

Non seppe bene perché, ma si alzò in piedi e gli prese l’elastico dalle mani. Indugiò un poco prima di andare a legargli i capelli, e socchiuse le palpebre.

« Non sei abituato a portarli lunghi, eh? »

Gackt sorrise.

« Già… »

Mana chiuse gli occhi.

« Ecco fatto. »

Gli sistemò le ciocche e si rimise seduto, senza rivolgergli un solo altro sguardo e osservando invece il bicchiere ormai vuoto che aveva fra le mani.

Perché qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte, e non era neppure certo che fosse successo alcunché, probabilmente Mana lo aveva già perdonato.

Sì, doveva essere davvero così.

 

« Mi dite cosa diavolo state organizzando tutti quanti? »

La voce di Gackt Camui suonò alle sue orecchie come una specie di rantolo incredulo.

Le teste di Mana, Kami, Yu-ki e Közi si girarono a guardarlo.

« Ah, non te l’avevano detto? »

« Ma dai, che strano. »

« Scusaci, mi sa che ce ne siamo dimenticati. »

Mana si limitò ad ascoltare quei commenti bevendo sorsate del tè ghiacciato che gli aveva gentilmente dato Kami, a cui tra l’altro era stato rifilato il compito di preparare i cestini del pranzo visto che Manabu non si sentiva bene. Il chitarrista era quindi pronto a scommettere che alla fine sarebbero stati costretti a buttarsi sui bento preconfezionati del supermarket.

Ringraziò il cielo di averci pensato per tempo e di aver preparato al volo qualche onigiri, tanto per stare sicuro che qualcosa da mangiare l’avrebbero avuto.

« Oggi andiamo al mare! » stava dicendo Közi « Viste le belle giornate, ci siamo detti, perché non staccare un po’ e andare a farci un giro verso Daiba? »

Ah, la faccia di Camui era tutta un programma. I suoi livelli di incredulità stavano evidentemente toccando il fondo. Sorrise.

« Per caso non ti va? »

« Oh… no, va benissimo figuratevi. Solo che… ecco, non me l’aspettavo. »

« Be’, suppongo che ogni tanto non sia male prenderci un giorno di vacanza tutti assieme. »

In quel momento, tuttavia, un sospetto s’impadronì della mente di Mana. Sospetto che in breve divenne certezza. E in quel medesimo istante, il campanello suonò.

Fu come se l’avessero pugnalato, quel suono gli rimbombò nel cervello assieme a un brivido.

« Oh, » disse Kami « questo deve essere Takeshi. »

…per l’appunto.

La sua prima tentazione fu di darsela a gambe non appena il batterista s’alzò per andare ad aprire. Sarebbe stato certo poco coraggioso, ma…

Lo fece.

Fu ostentando una nonchalance che non aveva affatto che si mise in piedi, dicendo che “doveva andare in bagno”. Un paio di secondi più tardi era già svicolato con l’agilità di un gatto e s’era tolto di torno rapido come il demonio.

Accidenti a lui! Tra tutto quello che era capitato, s’era dimenticato di chiamare sia Takeshi che Yuuji. Il problema era che gli altri… gli altri… un momento! Se lui s’era dimenticato di chiamarlo, che diavolo ci faceva Takeshi lì? Poco ma sicuro l’avevano avvertito i ragazzi.

Il che voleva dire che lui era nei guai. Non tanto con Taka, no, con lui se la sarebbe potuta cavare offrendogli una birra. Era Kamijo il problema. Kamijo che era un marmocchietto diciannovenne orgoglioso e vanesio come pochi e col carattere testardo e opportunista di una primadonna votata agli affari. In parole spicce una vipera. Una vipera che tollerava affronti e mancanze ancora meno di lui, cosa che aveva sempre avuto il sommo potere di impensierirlo un poco. Crescendo sarebbe diventato un gangster o un abilissimo impresario, poteva scommetterci.

In entrambi i casi, qualcosa di pericoloso.

Ogni tanto ci scherzavano sopra, dicendo che se si fossero messi in società avrebbero potuto fondare la più grande impresa criminale del Giappone. Peccato che se si fossero messi in società, al 90% si sarebbero scannati a vicenda dopo il primo giorno.

Aprì la porta del bagno e ci si chiuse dentro a chiave proprio mentre Takeshi entrava. S’appoggiò contro piastrelle di un delicato color lillà e inspirò forte. In quella stanza c’era un buonissimo odore di profumo, come del resto un po’ dappertutto a casa di Ukyo Kamimura. Andava matto per i profumi, quella era una cosa che sapevano tutti.

Mana si sedette sul bordo della vasca da bagno e attese allungando le orecchie. Poteva udire il vociare allegro di Takeshi un paio di stanze più in là, e gli parve che avesse chiesto anche di lui.

Poco dopo, infatti, la voce penetrante di Yu-ki giunse da dietro la porta: « Avanti Mana, esci. Takeshi dice che non è arrabbiato e vuole salutarti. »

Poteva fidarsi? Socchiuse gli occhi neri.

In quel momento sentì avvicinarsi una seconda persona, che dalla sopraffina risata inconsulta comprese essere proprio Taka-chan.

« Avanti, Mana! Fai il bravo! Mi hanno detto che stavi male, voglio vedere come stai! O sei tanto impresentabile da desiderare sotterrarti dentro un bagno? »

In effetti non avevano poi torto. E soprattutto… lui non era mai impresentabile. Se si escludevano due occhiaie color piombo che toccavano terra.

Si controllò sommariamente allo specchio: il correttore teneva.

Quel fattore aveva fondamentale importanza e poteva garantirgli un discreto controllo di sé nel caso la situazione gli fosse sfuggita di mano. E non se lo augurava.

Sospirò e girò la chiave, lentamente.

Poi abbassò la maniglia e aprì.

« Buongiorno, honey. »

 

Arretrò.

Arretrò alla massima velocità di reazione che la sorpresa e le sue gambe gli consentirono.

Avrebbe dovuto saperlo! Avrebbe dovuto immaginarlo, percepirlo, qualsiasi cosa dannazione!

Invece aveva aperto la porta e se l’era trovato di fronte come l’ultimo dei fessi.

Un ragazzo alto esattamente quanto lui, non un centimetro di più né uno in meno, con un ghigno sardonico e mortifero stampato in una faccia la cui espressione preludeva la dannazione dei sette inferni. Un ragazzo dalla cui testa pendeva una chioma fatta di lunghi, biondi, abbacinanti boccoli perfettamente rifiniti e portati sciolti lungo tutta la schiena. Un ragazzo che lo fissava con occhi scuri che dicevano “te la faccio pagare”.

« …c-ciao Yuuji… »

Il sorriso di Kamijo, se possibile, s’ampliò.

« Honey, sei stato cattivo. Vi riunite tutti assieme per una gita al mare e non dite nulla al vostro roadie? »

Mana sospirò, infine decise che era ora di reagire. Si drizzò meglio sulla schiena e sogghignò guardandolo con una certa nota di divertito allarme negli occhi d’onice. Nonostante tutto, il giorno in cui avrebbe perso contro Yuuji Kamijo era ancora ben lontano e probabilmente non sarebbe manco mai arrivato.

« Perdonami, mi è passato di mente. »

Il che era la pura verità, tra le altre cose. Kamijo inarcò un sopracciglio, senza perdere un briciolo di quel sorrisetto un pelo strafottente che tanto gli si addiceva.

« Be’ per fortuna nei Malice Mizer c’è gente con una memoria più buona della tua, caro il mio Manabu. »

« Suonatelo tu l’Impromptu di Reinhold a memoria, e poi dimmi se la mia non è buona. »

« La tua è buona solo per quanto riguarda le sette note e le loro combinazioni. »

« Sempre meglio della tua che funziona solo se si tratta di contare il denaro. »

Inaspettatamente, Kamijo scoppiò a ridere.

« Hai ragione, lo ammetto. Ma comunque non mi pare il caso di stare qui a discutere, sbaglio o abbiamo qualcosa da festeggiare? »

Stavolta era lui ad avere ragione, decisamente. Ed era già abbastanza tardi, se perdevano ancora tempo non avrebbero festeggiato proprio un bel nulla.

« Camui! »

Ruggì quel nome con l’intenzione di impartirgli un ordine ben preciso.

« S-sì? »

Poteva scorgere la sagoma di Gackt che s’era affacciato solerte dall’altra stanza probabilmente per non perdersi un minuto della scena che stava rapidamente prendendo corpo. Si mise a braccia conserte e gli latrò un altro ordine. Tanto per ribadire una volta di più che con lui non si discuteva e che non accettava responsi negativi.

« Prendiamo la tua macchina e ce ne andiamo tutti a Daiba. Ovviamente guidi tu. »

« Cosa? Ma non ci stiamo tutti e sette su una Ferrari! »

« Caso volle che Taka abbia la macchina, giusto Taka? »

Takeshi annuì.

« Perfetto, quindi Yuuji e Közi salgono con lui, mentre io Kami e Yu-ki saliamo con Gackt. »

Poi guardò i due amici, accorgendosi che lo stavano osservando un pelino perplessi.

« Qualche problema? »

Scossero entrambi la testa in sincro e a Mana quasi scappò da ridere.

« Se non vi fidate porgete le vostre rimostranze al guidatore. »

Detto ciò inforcò gli occhiali e li abbandonò a loro stessi.

Avrebbe avuto tempo più tardi per sentirli lamentarsi.

 

Partirono che erano le undici passate e Mana si ritrovò silenziosamente a pregare che non ci fosse troppa gente in circolazione. Speranza vana, probabilmente. S’era seduto con garbo sul retro lasciando senza protestare a Kami il posto accanto a Satoru, perché se c’era una cosa che aveva imparato da che lo conosceva, Gackt aveva l’abitudine di guidare come un pazzo. E lui a stare davanti ancora non si fidava, ma proprio per nulla. Ukyo invece pareva divertito e continuava a ridacchiare, chiedendo a quell’invasato di un vocalist ragguagli su questo o quel comando della Ferrari.

E c’era qualcos’altro che non gli quadrava. Si guardò attorno.

C’era troppo sole sulla sua testa.

Porc…! Camui aveva avuto la geniale idea di togliere la capotte!

Si voltò ad osservare Yu-ki seduto al suo fianco, con solo una gocciolina di agitato sudore freddo a scendergli lungo una tempia. O era per il caldo? Sembrava tranquillo.

Sembravano tutti tranquilli.

E Gackt partì, sgommando come un idiota.

Esattamente come Manabu aveva temuto.

Si appoggiò al sedile e chiuse gli occhi e ricominciò a pregare perché non ci fossero troppe curve, altrimenti sarebbe finito schiantato addosso a Yu-ki un metro di strada sì e l’altro pure con o senza cintura di sicurezza.

Ringraziò il cielo d’essersela messa, o sarebbe già volato fuori dall’auto da un bel pezzo ritrovandosi con le chiappe sull’asfalto.

D’improvviso udì una specie di click, e la massa corvina dei suoi capelli che inevitabilmente si scioglieva e gli ricascava contro le spalle. L’istinto gli disse di alzare una mano per tentare di afferrare la pinza sfuggita, ma quando alzò gli occhi la sentì sganciarsi del tutto e precipitare con orrore sulla strada sottostante.

Si girò, afferrandosi con le mani allo schienale del sedile e frustando clamorosamente Yu-ki con un paio di lunghe ciocche nere mosse alla velocità della luce.

« No! »

Ukyo si voltò, leggermente preoccupato, proprio mentre la pinza andava a sgretolarsi sotto le ruote del camion che passava dietro di loro.

« Che succede? »

Mana stava fissando il camion come fosse stato un assassino, e al tempo stesso si sentiva lui stesso un assassino. Sì, verso quel cretino di un guidatore dai lunghi capelli castani che girava per la città come se stesse andando su un ottovolante prendendo le curve a duecento all’ora.

« La mia pinza! »

Quello che gli uscì dalle sottili labbra rosee fu tuttavia un sussurro talmente flebile e lamentoso che gli altri non poterono non scoppiare a ridere.

« Kami, tu non hai un elastico a portata di mano vero? »

« Nulla, mi dispiace. Ma comprerai una pinza nuova appena arriviamo. »

Diede un’indicazione a Gackt e svoltarono a destra.

Stavolta Manabu s’aggrappò allo sportello.

« Ma non puoi guidare con un po’ più di delicatezza? »

Gackt gli rispose con un ghignetto divertito che lo mandò letteralmente in bestia.

« Spiacente. »

Poi raggiunsero un rettilineo, e accelerò di nuovo.

I capelli di Mana presero il volo, andando a fare da coda ai sedili posteriori e muovendosi come a ondate contro l’azzurro del cielo. Per fortuna stava andando tanto forte, almeno non si sentiva il caldo. Non si sentiva il caldo ma c’era la luce, e fu quella che lo costrinse a chiudere definitivamente gli occhi scuri e ad appoggiarsi meglio sul sedile.

Stava bene, incredibile a dirsi.

Così bene che finì a ridere assieme agli altri, assieme a Kami, assieme a Yu-ki e assieme a quell’idiota di un Camui.

Che naturalmente non perse tempo e ne propose una delle sue.

« Al mio tre tutti su con le braccia! Uno! Due! Tre! »

E i tre scemi gli ubbidirono, ridendo fino alle lacrime e lasciando le braccia a ciondolare nel vento assieme all’aria.

E la macchina slittò allegramente per il rettilineo perché i tre scemi in realtà erano quattro e Camui se ne stava a ridere come uno stupido assieme a loro e a tutto pensando tranne che a guidare, con le mani in alto come se avessero dovuto sparargli.

E rideva, rideva. Ridevano tutti e la macchina sbandava.

« Gackt tu no! »

La raddrizzò Kami, dando una bottarella al volante.

« Camui, tieni quelle mani sul volante! »

Mana chiuse gli occhi di nuovo e ancora rise, fino a che non si trovò con le mascelle doloranti e le lacrime sotto le ciglia.

Allora sospirò e li aprì e quando alzò finalmente lo sguardo al cielo lo vide azzurro e terso.

E ci si perse.

 

Scese dalla macchina che gli pareva di essere reduce da otto ore di montagne russe, ma s’era divertito. Il tragitto per fortuna non era stato particolarmente lungo. La spiaggia artificiale di Daiba, infatti, si trovava esattamente sulla baia di Tokyo.

Takeshi e gli altri li raggiunsero pochi minuti dopo e appena scesi dall’auto li guardarono come fossero stati degli alieni.

« Ho idea che vi siate divertiti lungo il viaggio o sbaglio? »

Erano stati Kamijo e il suo sorrisetto sardonico a salutarli in quel modo, con un improbabile scintillio di chiome bionde.

« Satoru lasciati dire che guidi come un teppista. »

Questo era stato Takeshi, che tuttavia sghignazzava esattamente come Közi.

« Tuttavia anche noi ci siamo divertiti parecchio, vero Közi caro? »

Kamijo s’avvicinò al chitarrista e gli scoccò un’ostentata carezzina su una guancia, lanciando al contempo un’occhiatina a Manabu.

Che tuttavia aveva ben altro a cui pensare che non i flirt estivi dei suoi migliori amici.

Puntò dritto per la via dei centri commerciali, si infilò nel primo che trovò e quando ne uscì aveva fra le mani non una ma tre pinze per capelli nuove di zecca.

« Erano in offerta », si giustificò.

Come se ne avesse avuto bisogno.

« Oh che bello, dammene una! »

Non fece in tempo a captare la frase che Yuuji Kamijo gli strappò una pinza dalle mani con la rapidità di un fulmine e la usò per sistemarsi parte dei boccoli color dell’oro.

Mana lo guardò.

Lo guardò torvo.

Non fu necessario aggiungere altro, perché Kamijo captò immediatamente il messaggio.

« Ops, dimenticavo. »

Con passo svelto e un sorriso s’avvicinò a Mana, e con la stessa letale prontezza di sempre gli stampò un bacino sulla guancia.

« Grazie. »

A Mana non fu mai chiaro dove trovò quella volta l’autocontrollo per non afferrargli il collo e tirarglielo per fargli fare la fine del gallinaccio giallo canarino di cui aveva evidentemente il cervello.

Probabilmente riuscì a resistere soltanto perché Kami lo dirottò in tempo dai suoi propositi di guerra prendendolo a braccetto e indirizzandolo verso un altro centro commerciale.

 

Il pomeriggio lo trascorsero naturalmente a fare shopping, in particolare razziando una ben fornita profumeria e un negozio di dischi.

« C’è lo Zepp Tokyo qui a Daiba, vero? » chiese Gackt.

« Già », rispose Közi.

« E un giorno noi ci suoneremo », si sentì in dovere di precisare Mana.

« Ammazza quanto siete limitati. Io punto al Nippon Budokan. »

Si voltarono tutti.

Verso Kamijo, che li osservava con fare distratto mentre succhiava un ghiacciolo al limone.

« Tu stai zitto, bimbetto. »

« Dì la verità, Manabu honey, tu hai paura che diventiamo rivali perché sai che sono più bravo di te. »

« Ma sentitelo,sto marmocchietto: non ha ancora imparato a parlare e già sproloquia! »

Intanto si stava facendo finalmente sera e una lieve brezza s’era alzata rendendo meno soffocante il caldo umido. Solo allora, quando il sole finalmente era calato dietro l’orizzonte, si decisero ad andare verso la spiaggia.

Che naturalmente era piena di gente.

Per fortuna di Mana e del suo sistema nervoso che odiava le folle, trovarono un angolo abbastanza appartato e si piazzarono lì con teli e stereo portatile.

« Certo che il mare di notte è una meraviglia! » disse Yu-ki.

Annuirono tutti, respirandone l’odore salmastro e guardando quell’orizzonte di onde nere senza riuscire quasi a distinguerlo da un cielo altrettanto scuro.

Tirarono fuori gli stuzzichini che non avevano ancora mangiato, fra cui gli onigiri di Mana. Il quale li divise con solerte efficienza e lasciò il più piccolo a Kamijo.

Fatto ciò si sedette, inforcò gli occhiali da sole e guardò un orizzonte nero che più nero non si poteva.

Come riuscisse a vederci qualcosa era un autentico mistero.

Anche gli onigiri gli erano venuti buoni, pensò mentre ne masticava uno.

« Mana-chan! »

Non si voltò sentendo la voce querula di Takeshi che lo chiamava, ma continuò a masticare il suo onigiri mettendoci più metodo del necessario.

« Te li sei ricordati i fuochi d’artificio? »

Annuì lentamente, poi cacciò indietro una mano e frugò nel suo zainetto estraendone una bustina di plastica bianca che passò a Koji.

Poco dopo avevano tutti in mano un paio di stelline dal lungo manico coperto di polvere pirica che scintillavano d’oro e di rosso e di verde man mano che venivano accesi.

« Che estate è senza fuochi d’artificio? » chiese Kami sorridendo.

L’estate di un branco di sfigati, gli rispose Mana col pensiero.

Alzò al cielo i suoi, uno d’oro e uno verde. Non si vedevano stelle quella sera, tanto valeva che ce ne aggiungesse un paio lui.

Guardò le scintille, ipnotizzato.

Fino a che non ebbero bruciato tutta la polvere e non si spensero, lasciando solo cenere.

Allora si intristì un poco, e prima che fosse troppo tardi guardò Yuuji e gli fece un cenno col capo. Quello gli strizzò l’occhio e si alzò, poi andò a mettersi di fronte a Gackt. Stava in piedi davanti a quel mare nero, dandogli le spalle e coi boccoli dorati che luccicavano un po’ alla luce lontana dei lampioni.

« Bene. Visto che sono l’unico qui degno di essere il protagonista, ho deciso di chiedere la parte per me. »

Fece un inchino solenne.

Quando cominciò, lo seguirono in coro.

« Happy Birthday to you, happy birthday to you, happy birthday dear Gackt, happy birthday to you! »

Tutti tranne Gackt ovviamente, che era rimasto basito a guardarli e stava con gli occhi larghi e una mano ferma a mezz’aria come se fosse stato bloccato nel mezzo di una frase.

« Buon ventiduesimo compleanno Gackt! »

« Auguri! »

Satoru non accennava a voler proferire parola, ma Mana lo vide passarsi una mano sugli occhi.

« Sacchan? » lo stava chiamando Takeshi  « Tutto a posto? »

Gli diede un paio di pacche sulle spalle e Gackt annuì.

Tuttavia anche da dietro gli occhiali da sole Mana riuscì a vedere benissimo che Satoru Okabe stava piangendo per la gioia. Sorrise di rimando.

« Uhm, Sacchan? »

Takeshi non sembrava disposto a mollare l’osso tanto presto. S’era seduto accovacciato di fronte a Camui e lo stava ad osservare con gli occhi curiosi di un cane fedele.

Satoru a sua volta lo guardò.

« Sì? »

« Abbiamo anche il dolce. »

 

Tornarono a casa che era notte tarda.

Gackt, vai a capire per che accidenti di motivo, aveva accompagnato lui per ultimo e s’erano fermati a parlare sotto il palazzo, davanti quel portone che tante volte li aveva visti uscire la mattina presto per andare a fare jogging sotto la luna.

Manabu non gli stava dicendo granché a dire il vero, e in linea di massima evitava il suo sguardo. D’improvviso pareva che gli scottasse.

« Ti sei divertito oggi? »

Sentì quella domanda come se venisse da mille miglia lontano.

« Sì », rispose.

Gackt Camui stava sorridendo.

« Io non so davvero come ringraziarvi, ragazzi. Davvero, mi… è stata una delle feste di compleanno più belle ed inaspettate della mia vita. »

« Che esagerato. »

« Ma è la verità! »

Di nuovo il sorriso di Gackt, come provò ad alzare gli occhi. Fortuna che non s’era tolto gli occhiali da sole.

« Puoi… tornare a stare da me se ti va. »

Come previsto, chiedergli scusa era al di là delle sue forze.

« Naa, non fa niente. Da domani comincerò a cercare casa per conto mio. Era anche ora, no? Non ti preoccupare Mana. »

Oh, ma lui non si preoccupava, non si preoccupava affatto. Quello che Satoru Okabe combinava era affare suo soltanto finché poteva nuocere ai Malice Mizer. Per il resto, lui era libero come l’aria.

Eccolo quel sorriso disarmante, di nuovo.

Poi Gackt gli si avvicinò.

Lentamente gli pose una mano attorno alle spalle e se lo attirò contro.

Mana trattenne il fiato. Aveva pensato di salutarlo e scappare in casa, sì, l’aveva pensato. Ma di nuovo sorprendentemente non mosse un muscolo e anzi respirò il profumo che aveva Gackt forse per la prima volta. Era di Dior, sicuramente.

Quella certezza tanto bizzarra gli donò un’inaspettata sicurezza, quel tanto che bastava da fare un passo indietro e scostarsi il vocalist di dosso.

« Ora è meglio che vada », mormorò.

Gackt annuì e lo salutò con un cenno della mano.

Sorrideva ancora, lievemente. Che avesse preso il vizio da Yuuji? L’idea gli fece paura.

Poi ricordò una cosa all’improvviso. Accidenti, di nuovo gli era passato del tutto di mente!

« Camui! »

Satoru s’era già incamminato verso la macchina, ma sentendosi chiamare si fermò e lo guardò. C’era un’ombra di apprensione nei suoi occhi nocciola, che si dissipò mentre lo osservava frugare dentro lo zaino con tutta la furia data dall’impazienza.

Manabu non alzò lo sguardo, nemmeno per sogno.

Alla fine trovò quello che cercava: un sacchettino di carta, che lanciò a Gackt con la sua solita ineguagliabile precisione. Lui l’afferrò al volo senza problemi. Ottimi riflessi.

Conteneva una croce, un pendente che aveva le forme d’una semplice ma bella croce d’argento, levigata ed elegante quanto bastava ma anche brillante come la lama di un coltello.

« Il mio regalo per il tuo compleanno. »

Già. Stava male ed era uscito soltanto per comperarglielo, non avrebbe mai capito in che moto di follia improvvisa e suicida.

Gackt aveva sgranato gli occhi, incredulo.

« Grazie! »

Fece per avvicinarsi, ma Mana lo bloccò in tempo alzando entrambe le mani.

« Alt alt alt! Non farti contagiare da quel malefico scriteriato di Kamijo! »

Satoru gli concesse un ultimo, splendido sorriso.

« Allora farò così. »

Si portò due dita alle labbra e gli lanciò un bacio.

« Grazie. »

Poi s’allontanò, e Mana gliene fu enormemente grato.

Almeno non avrebbe potuto vedere quant’era arrossito.

S’avviò verso l’ingresso mantenendo un’andatura normale e attese di udire il rombo ben noto della Ferrari che partiva.

Infine aprì il portone, se lo serrò alle spalle e  lentamente ci si appoggiò contro.

Quindi chiuse gli occhi e si portò due dita alle labbra.

« Ma di nulla. »

 

 

- continua -

 

 

 

N.d.A. Se dovessi iniziare a scusarmi per il ritardo non la finirei più, per cui stavolta non mi scuso. Ringrazio tutti i commentatori per le recensioni, è anche grazie a voi se questa storia continua ancora oggi dopo ben due anni! Come potete vedere comunque la storia procede, Gackt è cotto a puntino e Mana piano piano sta iniziando a subire gli effetti di quello che pare diventerà un corteggiamento serrato. E in più c’è lo spettro di quella notte in albergo a gravare sullo spirito del povero chitarrista, pur se probabilmente la verità resterà sepolta per sempre sotto l’oblio dell’alcol.

Infine, ho due o tre cose da puntualizzare circa questo capitolo.

Primo: come avrete notato ho cambiato il nome di Közi con quello che si ritiene sia il suo nome reale. Inoltre, di Hiroki ne arriverà un altro in futuro quindi meglio non avere doppioni!

Secondo: puntualizzazione circa le riviste che nomina Mana nel capitolo, perché per chi è fuori dall’ambito manga potrebbero non essere riferimenti immediati. Hana to Yume e Betsucomi sono due riviste di shoujo manga pubblicate dalle case editrici Hakusensha e Shogakukan. Hana to Yume è famosa per i suoi manga di stampo romantico/dark/gotico, è difatti quella che pubblica Kaori Yuki (di cui tra l’altro è il manga che legge Mana in questo capitolo, uscito proprio nel 1994). L’altra invece ha ospitato autrici come Chie Shinohara ed è tra l’altro la rivista di “Banana Fish”, lo splendido manga di Akimi Yoshida che è il preferito di Gackt. Comunque, di norma queste riviste escono a cadenza settimanale, bimensile o mensile e sono usa e getta. Ossia le compri, le leggi e le butti. I manga in volumetto escono solitamente a cadenza trimestrale, semestrale e via dicendo, e sono quelli che vengono tenuti da collezionare.

Terzo: i “combini” di cui parla Mana, alias Convenience Store, sono una catena di supermercati a basso costo aperti 24 ore su 24.

Quarto: le date. Sto facendo un casino colossale. Per ricapitolare, la storia parte a fine 1993, con Mana che quindi ha 23 anni e non 24 come ho detto io – ma correggerò non temete. Ora siamo invece a luglio del 1994, quindi Gackt e Mana hanno rispettivamente 22 e 24 anni. Nonostante un po’ di bordello e svariate cose da correggere nei capitoli scorsi, riuscirò a riprendere le fila con le date facendo partire le attività “serie” dei Malice Mizer nel 1995. Perdonatemi per queste sviste!

Quinto ed ultimo punto: la croce che Mana regala a Gackt. L’ho fatta apparire troppo presto a dire il vero, perché Gackt comincerà a portarla solo in epoca “Merveilles”. Tuttavia mi ci stava, quindi mi sono concessa una licenza. Di questa croce (che potete vedere al collo di Gackt in vari photoset di Illuminati ad esempio) si sa poco. Si sa soltanto che gliela regalò un membro dei Malice Mizer e che continuò a portarla per un anno dopo la separazione. Basta e avanza.

A questo punto, inoltre, avrei un favore da chiedere a voi lettori. Avrei bisogno che mi scriviate delle domande che volete rivolgere ai personaggi. Come fossero attori di un film o di uno spettacolo, persone reali insomma. Domande di qualsiasi genere, da quelle stupide a quelle serie e dirette a qualsiasi personaggio. Mi serviranno comunque molto in là con la fanfic, quindi avete tutto il tempo per pensarle! Vi ringrazio per la collaborazione, e spero che questo capitolo vi piacerà!

 

 

Vitani

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