Once upon a time in Forks...

di CassandraLeben
(/viewuser.php?uid=42554)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduction ***
Capitolo 2: *** On a rainy day ***
Capitolo 3: *** On this bed I lay, loosing everything... ***
Capitolo 4: *** I can put back all the pieces. They just might not fit the same… ***
Capitolo 5: *** Go ahead, Make your choice! ***
Capitolo 6: *** Sometimes I feel I'm gonna break down and cry ***
Capitolo 7: *** On the ground I lay, motionless in pain… ***
Capitolo 8: *** You are the one for me ***
Capitolo 9: *** An emptiness began to grow… ***
Capitolo 10: *** There's no way out of this dark place ***
Capitolo 11: *** It's a talent that I always have possessed ***
Capitolo 12: *** Wake me up, I'm livin' a nightmare ***
Capitolo 13: *** leave behind the world you know ***
Capitolo 14: *** So superficial, so immature ***
Capitolo 15: *** The cruellest dream? reality... ***
Capitolo 16: *** Alas, ‘twas not ment to be ***
Capitolo 17: *** It was all Just a lie ***
Capitolo 18: *** Miserable, lonely and depressed (Pathetic) ***
Capitolo 19: *** Of all the things I hid from you I cannot hide the shame ***
Capitolo 20: *** Far across the distance and spaces between us ***
Capitolo 21: *** You broke a promise and made me realise it was all just a lie ***
Capitolo 22: *** I’m wondering will I ever see another sunrise? ***
Capitolo 23: *** He says: close your eyes. Sometimes it helps. ***
Capitolo 24: *** I led you with hopeless dreams. ***
Capitolo 25: *** How can I expect you to forgive? ***
Capitolo 26: *** I feel alive, when you are beside me ***
Capitolo 27: *** Love don't give no indication, love don't pay no bills ***
Capitolo 28: *** something will come to take away the pain ***



Capitolo 1
*** Introduction ***


Once upon a time in Forks…

C’era una volta a Forks…

 

Introduction

 

Bella’s Pov

 

Amare…
Amare significa tutto e niente allo stesso tempo.
Tutto, perché l’oggetto del tuo amore rappresenta la tua intera esistenza, il tuo motivo di vita, il tuo desiderio totalizzante.
Niente, perché all’infuori di lui  null’altro esiste per te.
E se la tua vita stessa è amore, l’oggetto della propria passione è chi di più fortunato possa esistere.
Per me, all’epoca, era proprio così.
Io, ero stata una ragazza estremamente fortunata.

 A diciotto anni si è giovani, ingenui, idealisti…
Si sarebbe disposti persino a morire per la gloria, per la causa, per amore…
Per quest’ultimo io, Isabella Marie Swan, avevo deciso di rinunciare ai battiti del mio cuore innamorato.
E tutto sarebbe stato più semplice, più lineare, meno appariscente, se non fosse stato per il mio fidanzato. Già, perché per lui condannarmi ad un’eterna vita da creatura mostruosa era un sacrificio non indifferente. Un sacrificio a cui io avrei dovuto ovviare sacrificando qualcos’altro a me caro quanto a lui la mia umanità:  il mio nubilato! In fondo, era questo il compromesso.
E così, senza che me ne fossi resa veramente conto, una notte in cui eravamo soli a casa sua, quando davanti a noi il futuro era incerto e tempestato di pericoli, avevo accettato il suo anello, la sua proposta di matrimonio e il suo bacio ardente di passione. Mi ero ritrovata fidanzata con matrimonio a data da destinarsi appena pochi giorni prima dell’attacco dell’esercito di Victoria.

E tra un esercito di neonati intenzionato ad uccidermi e il matrimonio, ciò che temevo di più era proprio questo.

Quando però, finalmente, le nostre vite sembravano finalmente tornate alla normalità (sempre che possa essere normale una vita condivisa con un vampiro) dovetti decidermi ad affrontare la realtà: mi aspettava la cerimonia. Alice era riuscita a spuntarla e io avrei dovuto subire le conseguenze del suo entusiasmo. L’aggettivo sfarzoso mi rimbombava fastidiosamente in testa ogni volta che pensavo alla cerimonia e all’abito bianco che avevo già provato un centinaio di volte in appena due settimane.

Ancora un mese e mezzo e sarei diventata la signora Cullen.
Altre due o tre settimane e sarei stata finalmente all’altezza di Edward. Anch’io bellissima ed indistruttibile come tutti i vampiri.
I compromessi hanno però dei risvolti positivi. Una volta diventata sua moglie Edward non avrebbe più potuto tirarsi indietro. Avrebbe dovuto adempire ai suoi obblighi matrimoniali.

Finalmente mi avrebbe amata nel corpo e non più solo nell’anima…

Solo il pensiero di fare l’amore con lui riusciva a farmi sopportare Alice e la sua irrefrenabile voglia di giocare alla barbie-sposina-vestita-di-bianco-perché-ancora-vergine (gioco di società in cui lei, Esme e Rosalie erano le truccatrici costumiste, sarte, fioraie parrucchiere ed io la barbie-cavia-umana).
Piuttosto che stare con loro, avevo preferito volare con Edward fino a Jacksonville e dare di persona la notizia del mio imminente matrimonio a mia madre, sperando che la prendesse abbastanza bene, proprio come aveva fatto Charlie.
Entrambi i miei genitori si erano dimostrati delle persone comprensive, desiderose solo di vedermi felici e disposte a vedermi sposata a soli diciotto anni proprio in nome di questa felicità.

Ed in realtà, nonostante tutto, ero davvero felice. Stavo per avere tutto ciò che avevo sempre desiderato: Edward, indissolubilmente ed eternamente legato a me quanto io a lui.

Dato che però a certe persone non è concesso vivere contenti e spensierati, il destino mi sottrasse il futuro che tanto duramente io ed Edward stavamo costruendo.

Me lo sottrasse intenzionato a non restituirmelo mai più.


 

 

 

Salve a tutte!

Lo so, lo so… mi sono fatta attendere…
Scusate se non ho aggiornato l’altra mia ff ma sono totalmente in crisi per il finale. Non riesco a scriverlo. Ho cestinato tutte le brutte che avevo scritto.
Non credo ci metterò moltissimo quindi, abbiate fede!
Per quanto riguarda msn, non riesco più a trovare la password e sono mesi che non lo apro. Mi spiace se qualcuno mi avesse contattato senza ricevere una risposta. Se volete contattarmi usate la mail di Efp… quella (ora che sono tornata a casa) la guardo spesso.
Scusate per l’inconveniente.
Spero che questa storia vi appassioni.

Ci saranno intrighi, pazzie, delusioni, speranze, amore, ancora amore, sesso, tenerezza, tristezza, speranza, paura, avventura, malinconia … insomma, una buona insalata di sentimenti condita con un po’ di suspance e un pizzico di ironia come solito nei miei lavori (il mio marchio di fabbrica: La cassandra.S.P.A. lancia il suo nuovo prodotto.)

Spero mi seguirete in tante e che in tante apprezziate questa mia nuova “impresa”

Le recensioni sono il sale della vita (di quella degli scrittori dilettanti per lo meno XD) quindi non abbiate scrupolo a dirmi che ne pensate. Un abbraccio a presto,

Cassandra

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** On a rainy day ***


on a rainy day 1

Per quante mi conoscessero già, eccomi tornata!So che è da un bel po’ che non mi faccio vedere ma non ho proprio avuto la possibilità di lavorare al PC ultimamente…
Per chi non mi conosce, benvenute sulle mie pagine, scritte irrimediabilmente di notte, nelle quali racconto storie avventurose, e (sforzandomi di non sforare nel rosso) romantiche con protagonisti i personaggi della Meyer (talvolta con aggiunte mie)
Spero gradirete questa mia storia che, come le due precedenti, sarà lunga ma (mi auguro) vi saprà conquistare. 
Non resterete deluse se vi aspettate colpi di scena e una buona vecchia storia in stile Cassandra.

Per gli aggiornamenti, non so ogni quanto riuscirò a pubblicare ma cercherò di essere costante e metodica.
(lo so, lo so, mancha l’“ultimo” capitolo de Con ogni singolo battito del mio cuore ma quella storia è così importante per me che non ho il coraggio di finirla!!! Quasi due anni della mia vita!!! Non preoccupatevi, la finirò, quando troverò la forza psicologica per farlo… chiedo perdono.)
Un bacio e a presto, seguitemi in tante e lasciate un segno del vostro passaggio facendomi sapere se la storia suscita il vostro interesse.

PS: questo capitolo è un po’ lungo in quanto è il primo.  

                                                      Cassandra

                                                                                            cap 1:                                                                                 

On a rainy day
In un giorno di pioggia…

Bella’s POV

 

Pioveva.
Quella maledetta mattina pioveva a dirotto.

Non che a Forks, stato di Washington, la pioggia rappresentasse una novità…
Il solo piccolo, insignificante problema era il fatto totalmente trascurabile che mi stessi per sposare!
Alice, seduta di fianco a me sulla sua porche gialla, non faceva altro che lamentarsi:
< Spero proprio che non piova il tredici! Come facciamo se no? >
< Come farai tu. > sottolineai io. < Lo sai che a me andrebbe benissimo sposarmi in cinque minuti in comune. Sei tu quella che vuole la cerimonia in giardino. >
< Bella, non sai cosa stai dicendo! Fra cent’anni mi ringrazierai per aver reso memorabile il giorno più importante della tua vita.
Questo tempo impossibile… non vedo se pioverà! È troppo instabile. Per sicurezza dovremo organizzarci in modo da poter tenere la cerimonia al chiuso. Ho sempre odiato i gazebo. Tanto vale farla direttamente in casa invece che in giardino… a meno che il tempo non migliori. Ma lo saprò per certo solo tre giorni prima… >
Continuò a blaterare mentre io affondavo nel comodo sedile in pelle. Mi strinsi nel cappotto e, assonnata, sbirciai fuori dal finestrino. Erano appena le sette e mezza e Port Angels si stava svegliando nel tiepido mattino di metà luglio. Alice mi aveva buttata giù dal letto alle sei e mezza con la scusa di dover portarmi a scegliere le bomboniere. Le BOMBONIERE! Come se a me importasse qualcosa!

Spinta fuori di casa a calci da Charlie, non avevo potuto far altro che sedermi e aspettare che Alice mettesse in moto. Perché Edward non era mai nei paraggi quando avevo davvero bisogno che mi salvasse? Altro che Victoria, altro che Volturi… Alice era un pericolo per la mia sanità mentale ed emotiva!
Mi accorsi che eravamo arrivate perché notai un’insegna preoccupante: una sposa sorridente altra due metri e avvolta da tulle bianco.
< Bene Bella, eccoci qua. >
Istintivamente serrai le mani intorno al sedile, quasi a non voler uscire.
< Bella, non fare la sciocca. Vedrai, non ci metteremo molto. Il negozio apre tra un’ora. Adesso ti porto a fare colazione. Edward mi ha tanto raccomandato… >
A quelle parole mi illuminai. < Lo hai sentito? >
Sospirò e, tenendomi saldamente per un braccio mentre mi tirava fuori dall’auto, mi disse: < Questa notte. Ha detto che è riuscito a prendere due puma e che per colpa di Emmett un terzo è fuggito. Si stava divertendo ma ha anche detto che avrebbe preferito trascorrere la notte con te. > Mi squadrò e poi disse: < Bella, ricorda che è troppo tardi per cambiare il colore dell’abito, quindi vedi di non fare cavolate prima del matrimonio… >
Sospirai e la rassicurai: < Alice, fossi in te non mi preoccuperei. Edward non cederà adesso che ha quasi vinto. Non ci sarà bisogno di rinunciare al bianco. Resterò “intatta” ancora per… oddio, ormai solo due settimane! >

Rise vedendomi avvampare e mi trascinò fino ad una sala da the. La pioggia batteva veloce ritmicamente contro il suo ombrello gigantesco. Mi ricordava il suono del mio cuore quando Edward mi baciava.

Quando, alle nove, il negozio di articoli da sposa aprì, io ed Alice eravamo già davanti all’ingresso. La mia migliore amica e quasi sorella non riuscì a infondermi il suo entusiasmo e trascorsi la maggior parte del tempo annuendo a caso e facendomi i fatti miei. La commessa credeva che la sposa fosse Alice!
Dopo che ebbi scelto la bomboniera (o meglio, dopo che Alice mi ebbe mostrato quella che le piaceva di più e avermi costretto a dire “sì”) lasciai mia “sorella” a prendere gli accordi con le commesse ed uscii. Tremai quando sentii dire: < centodieci pezzi >
Quante persone aveva osato invitare?!
Una coltre spessa di nubi oscurava il cielo ma per lo meno aveva smesso di piovere.
Appena pochi metri più avanti avevo visto una libreria. Pensai di dare un’occhiata alla vetrina in attesa che Alice mi raggiungesse. In fondo si trattava solo di attraversare la strada…
Infilai le mani in tasca e, dopo aver rivolto un ultimo sguardo all’insegna “Sposa di classe”, decisi di andarmene da quel luogo di torture.

Riuscii a fare però solo pochi passi.

Mi trovavo proprio in mezzo alla strada quando, improvvisamente, un’auto uscì da un incrocio a destra. Correva a tutta velocità sull’asfalto bagnato.
Tutto durò una manciata di secondi appena. Troppo poco perché persino Alice potesse aiutarmi.
Venni accecata dall’auto per un istante e poi cercai di tornare indietro ma le mie gambe non rispondevano.
Feci appena in tempo a portarmi le braccia sopra al capo in un infantile tentativo di proteggermi e poi sentii un suono acuto e spaventoso.

Il guidatore, accortosi di me, aveva cercato di sterzare.

Ma l’asfalto era bagnato e lui perse il controllo del veicolo.
Di quei momenti ricordo solo la luce accecante, e il dolore terribile nel momento in cui l’auto colpì il mio corpo. Rimbalzai sul cofano e ruppi il parabrezza.
Sentii alcuni vetri tagliarmi la pelle delle braccia, della schiena. Il colpo mi aveva bloccato i polmoni, non riuscivo a respirare.
Rotolai a terra, di lato, e vidi l’auto correre a tutta velocità prima di schiantarsi contro un palo. Un altro botto. La testa, a quel ulteriore suono, cominciò a pulsare. I suoni erano ovattati, come se le voci che gridavano intorno a me venissero da lontano. Troppo lontano perché io potessi raggiungerle.
Mi ritrovai a terra, incapace di muovermi. Vedevo delle sagome accalcarsi intorno a me. La pioggia intorno al mio corpo formava delle pozze rosse come rubini…
Mi accorsi di star respirando di nuovo solo perché ogni volta che il mio petto si gonfiava delle fitte terribili mi percorrevano il costato. Rantolai cercando di parlare.
Tra tutte quelle voci che si susseguivano vorticosamente intorno a me, improvvisamente ne distinsi una, più vicina delle altre. Qualcuno piangeva inginocchiato di fronte a me.

Alice tremava e mi chiamava. Erano le sue le mani gelate che mi accarezzavano il capo?

< Bella! Bella! Non preoccuparti. Non è niente. Non è niente. Ti prego, rispondimi. Riesci a sentirmi? Isabella! >
Ripeteva queste frasi come un disco rotto. Non l’avevo mai vista così preoccupata.
I suoi occhi stavano perdendo la tonalità dorata in favore di quella nera.
In quel momento tanto assurdo, tanto sbagliato, la prima cosa che riuscì a sussurrare fu: < Alice… i tuoi occhi… hai sete… >
< Bella! Oddio Bella… non preoccuparti. Edward sta già tornando. Gli ho appena telefonato. E Carlisle sta arrivando. Adesso ti portiamo all’ospedale… > Sentivo le sue dita cercare di pulirmi il viso, liberandolo da quella sostanza calda e viscosa che mi impastricciava la pelle.
Cercai di muovermi, non capendo a cosa si riferisse ma lei mi bloccò a terra con le sue mani gelide. < Cerca di restare ferma. Ti prego, non muoverti… Oddio! Oddio! Ma com’è potuto succedere? Perché non ho visto… Bella, mi dispiace, mi dispiace! È colpa mia, solo colpa mia. Edward non mi perdonerà mai! Avrei dovuto… mi dispiace, mi dispiace… >
Nel frattempo altri rumori, altrettanto assordanti, si sovrapposero alle urla. Un fastidiosissimo suono elettronico mi dilaniò i timpani prima di cessare, a pochi metri da me.
Vidi, prima di chiudere gli occhi, Alice allontanarsi, tenuta per le spalle da uno sconosciuto vestito di giallo fosforescente e poi senti altre mani, calde, posarsi sul mio viso.

< Ehi? Signorina? Mi senti? Se mi senti rispondimi. Mi senti? > qualcuno mi stava tenendo il polso e toccandomi la gola. Mi aprirono gli occhi.

Sbattei le palpebre, colpita da una luce improvvisa e poi sussurrai: < Sì… la sento. >
< Bene. Adesso ti portiamo via da qui. Ricordi come ti chiami? >
Ci pensai un attimo prima di rispondere… < Sì. Bella… >  
In quel momento venni sollevata da terra e appoggiata su qualcosa di morbido. Quel movimento mi fece girare la testa ed ebbi un conato di vomito. Mi vergognai ma il signore gentile che continuava a parlarmi mi sussurrò: < Non preoccuparti tesoro, non preoccuparti. >
Mi lagnai dicendo che mi faceva male ovunque e lui, accarezzandomi il volto mi rassicurò: < Bella, va tutto bene. Fra poco non sentirai niente. > poi, facendomi aumentare il mal di testa, urlò a qualcun altro:
< Possiamo portarla via. La ragazza con i capelli neri viene con noi. >
Non cercai neanche di capire le sue parole.
Il capo pesante mi si poggiò di lato e vidi delle chiazze di sangue nel punto in cui mi ero trovata fino a qualche attimo prima.
Il dolore, che fino a qualche istante prima attanagliava il mio corpo, stava lentamente scemando in favore di un torpore strano ed innaturale.

Qualcosa di freddo mi venne appoggiato sul viso. Mi resi conto di avere gli occhi chiusi ma le palpebre erano troppo pesanti per cercare di riaprirli. I suoni mi giungevano sempre più attenuati fino a scomparire nell’oscurità che mi circondava.

 

 

Edward’s POV

< Edward, fare così non servirà a niente… >
< Carlisle! tu non capisci! Non ti rendi conto? >
< Edward, mi rendo esattamente conto della situazione. Lo sai perfettamente. Proprio come sai che non ha senso trattare Alice in questo modo. Non te lo permetto. Non se lo
merita. >
< Ma sarebbe bastato che fosse stata un po’ più attenta! Sa benissimo che Bella è… è… come ha potuto perderla di vista? Era troppo impegnata con i suoi stupidi giochetti per la festa! Ti rendi conto? Bella non la voleva nemmeno la cerimonia! Avrei dovuto darle retta. Sono stato così egoista da costringerla a fare come volevo io! E Alice? Se solo fosse stata un po’ più moderata…
Carlisle! Bella non voleva tutto questo! È solo colpa mia. Mia e di Alice! Possibile che non sia riuscita a vedere ciò che stava per accadere? Certo, era troppo impegnata nei preparativi di quello stupido party per pensare all’incolumità di Bella… >
< Edward, per favore, adesso smettila. Alice è già abbastanza turbata. Da quando le hai urlato contro, quattro giorni fa, non ha più detto una parola. Jasper è disperato. >

< E io allora? E IO ALLORA? Bella è in coma! Ti rendi conto! >

< Ci sono speranze che si ristabilisca. Bella è stabile. Le ferite che ha riportato non sono così gravi da pregiudicare la possibilità di un suo possibile recupero… >
Gli impedii di proseguire. Alzai il viso dalle lenzuola e lo fissai con rancore.
< Come sarebbe a dire non gravi! > Gli urlai ormai fuori di me. Sapevo che lui non voleva offendermi, che stava solo cercando di farmi ragionare, di rassicurarmi. Ma Bella giaceva esamine sul letto davanti a me, coperta di punti, con quattro costole incrinate, un trauma cranico e ferite sulla schiena e sul viso, oltre al braccio ingessato. Il sangue che macchiava le bende mi faceva riardere la gola. Ormai l’odore di quello delle trasfusioni era svanito. Da quando ero arrivato in ospedale non aveva dato segni di vita se non quando aveva sbattuto le palpebre, il primo giorno.
Indicai con un gesto della mano la mia fidanzata. La rividi negli occhi di Carlisle: Lui cercava di guardarla in modo obbiettivo, come ad una paziente e non come ad una figlia. Stava analizzando la flebo collegata al suo braccio così come la mascherina sul volto. Il tubo che aveva in gola non pareva sconvolgerlo come invece sconvolgeva me. Per lui era solo uno strumento per aiutare una paziente a restare in vita.
Io vedevo solo la donna che amavo giacere sul letto bianco di un grande ospedale.
Cercai di reprimere la mia rabbia e affondai di nuovo il volto tra le sue lenzuola. Con la fronte le sfiorai il braccio, caldo e profumato.
< Edward, quello che intendo dire… > ma poi si bloccò. Ascoltai i suoi pensieri… “Edward, lo sai benissimo quali erano, anzi sono, i desideri di Bella. Se la situazione dovesse peggiorare, o non migliorare in un tempo ragionevole, la cambieremo. Ti aiuterò. Non sarai costretto a farlo da solo. Il suo cuore è forte. Vedrai, non dovrete separavi.”
Rabbrividii all’idea che Bella dovesse abbandonarmi.
Annuii lentamente senza sollevare il capo. Sottovoce sussurrai: < scusa, sono fuori di me. È così sbagliato tutto questo… >
“sta arrivando Charlie. Cerca di controllarti.” Pensò prima di sedersi sul piccolo divano vicino alla porta.
Pochi istanti dopo il padre di Bella bussò piano alla porta.
< Avanti. >
< Permesso… >
< Entra pure Charlie. >
< Carlisle, Edward… >

Quando fece il mio nome, alzai leggermente il capo per salutarlo e notai sul suo volto i segni della stanchezza. Si era rifiutato di prendere delle ferie al lavoro. Diceva che lo aiutava a distrarsi. Appena smontava, veniva in ospedale a controllare la situazione. A giudicare dal suo aspetto, non aveva dormito molto negli ultimi quattro giorni. Reneé e Phil,che si erano precipitati a Forks non appena li avevamo avvisati di quanto era accaduto, alloggiavano a casa sua. Reneé veniva tutti i giorni ma non riusciva a restare per più di una mezzora. E poi, Phil non voleva che lei si agitasse troppo perché aspettava un bambino. La notizia avrebbe dovuto essere una sorpresa per Bella. Reneè aveva aspettato apposta per dirglielo di persona, quando sarebbe venuta da noi per il matrimonio. Adesso, lo stress dell’incidente rischiava di compromettere la gravidanza e lei passava quasi tutto il giorno a casa, a letto. Carlisle prima di venire in ospedale andava sempre a controllarla ed anche Esme si fermava da lei spesso, per farle compagnia e rassicurarla.
Charlie prese la sedia e la trascinò vicino al letto, sul lato opposto al mio. Prese la mano di Bella e poi chiese: < Qualche novità? >
Mi riappoggiai alle lenzuola mentre mio padre cominciò a fargli il resoconto della giornata. Con la mano che non stringeva quella di Bella, cominciai ad accarezzarle il viso facendo attenzione a non toccarle i tagli. Mi appoggiai il palmo della sua mano sulla guancia e inspirai profondamente il suo odore.
< Edward… Edward… > Charlie mi stava chiamando.
< Sì? >
< Perché non vai a casa a riposarti un po’?  hai un aspetto tremendo. Sono sicuro che Esme non approvi questo tuo comportamento. Non puoi compromettere la tua salute per… >
< Per chi? Per Bella? Certo che posso. > Charlie non aggiunse altro ma nei suoi pensieri stava analizzando le mie occhiaie violacee. Una piccola parte della mia mente si rese conto della sete bruciante che mi attanagliava. Per quanto ancora avrei resistito? Non importava. Non potevo neanche pensare di lasciarla, nemmeno per poche ore.
Quando ormai era notte inoltrata, lo sceriffo si alzò dalla sedia e, dopo aver baciato Bella sulla fronte, si congedò con un “ A domani” spento e triste. Quando si fu richiuso la porta alle spalle, Casrlisle si alzò in piedi e mi venne vicino. Poggiando la mano sulla mia spalla, mi sussurrò: < Edward, io vado. Ti raggiungerà Emmett, insieme a Jasper. Ci vediamo domani mattina. >

Annuii distratto mentre lui raggruppava le sue cose e si metteva la giacca. Uno stupido gesto umano per salvare le apparenze.
< Esme e Rosalie verranno domattina. Anzi, fra qualche ora. > constatò guardando l’orologio.
< Ci vediamo dopo. >
< A dopo. Ti chiamo se ci fossero novità. > Bisbigliai. Lui annuì con il capo e poi uscì.
Rimasto solo con Bella, nel silenzio della camera spoglia, ascoltai i battiti del suo cuore, il sangue che pulsava caldo ed invitante nelle sue vene, le gocce della flebo rincorrersi…
Alla millesima goccia, Emmett aprì entrò nella stanza. Mi salutò con un cenno del capo e poi si sedette dove qualche ora prima si era sistemato Charlie. Jaz si appoggiò al muro.

< Edward > incominciò Emmett serio. < Dobbiamo parlarti. >
risposi senza sollevare lo sguardo dal viso di Bella. Le tenevo ancora la mano.
< Edward, guardami. È importante. > Sollevai lo sguardo, a malincuore. Contemporaneamente, sentii il potere di Jasper inondare la stanza. Non mi opposi. Mi avrebbe aiutato a calmarmi un po’, a calmare la rabbia dentro di me. 
< Edward, siamo venuti a parlarti perché crediamo che sia importate che tu sappia cosa pensiamo. Ne abbiamo discusso a lungo, tutti insieme a casa, e siamo tutti d’accordo.
Che ne diresti se la portassimo a casa da noi? > ed indicò Bella con il capo. < Carlisle è disponibile a  prendersi cura di lei, sotto il profilo medico. Aspetteremo qualche settimana, tanto per non destare sospetti, e poi tu la trasformerai. Carlisle la dichiarerà morta e diremo a Charlie che sarebbe meglio non vederla nella bara. Che sarebbe meglio ricordarla com’era… con l’aiuto di Jaz, non sarà difficile convincerlo. Al funerale ci sarà la bara chiusa e nessuno sospetterebbe nulla.
E poi ce ne andremo. >
Scossi veementemente la testa.
< Edward, lo diciamo per te, per lei. Sai che potrebbe non riprendersi più. Ha picchiato il capo, molto forte. Non ha dato segni di ripresa. Non ha molte speranze di risvegliarsi dal coma… >
< Emmett, ci sono persone che si risvegliano dopo anni! > sibilai tra i denti. Ero tornato a fissarla, a fissare le sue labbra socchiuse. Alla mascherina che aveva sostituito il tubo per respirare.
< Vuoi farle questo? Vuoi aspettare anni? Sai bene cosati direbbe se ora fosse presente. Ti direbbe che sei impazzito. Ed avrebbe ragione. Vuoi che si risvegli a trent’anni, con un corpo che non sarebbe più il suo? Vuoi che non si riconosca più allo specchio? E poi, ammesso anche che possa risvegliarsi, più in là si sveglierebbe, più difficile sarebbe per lei tornare ad una vita normale. Il suo corpo farebbe fatica e lei dovrebbe rieducarlo a muoversi e a fare tutto,persino mangiare. Per cosa poi? Perchè tu la morda qualche settimana dopo? Non credo che ti permetterebbe mai di farle un simile torto. E poi, lo sai anche tu. Alice non vede segni di ripresa. Mordila adesso e vedrai che lei ti dirà che hai fatto la cosa giusta. Il veleno la guarirà. Guarirà tutto. E sarete felici. >

Era sincero e mentre parlava evocava delle immagini molto vivide nella sua mente. Sapevo che aveva ragione ma non riuscivo ad ammetterlo a me stesso.
< Emmett, no. Voglio aspettare. Almeno un po’. C’è più di una possibilità che si riprenda, che si risvegli in un tempo ragionevole. >
< Ma perché aspettare? Carlisle è pronto a trasferirla a casa già da domani. >
< Emmett, noi ci dobbiamo sposare. >
< E dov’è il problema? Vi sposerete dopo! > sbottò incrociando le braccia. < Facciamo così, tu aspetti chessò, un mese? Se fra un mese le sue condizioni non saranno migliorate, la portiamo a casa. Aspettare di più sarebbe inutile. >
< Emmett… > < No, basta. A casa sono tutti d’accordo con me. Domani mattina Esme e Rose verranno a darci il cambio. Carlisle sarà qui di turno. Jaz tornerà a casa da Alice e tu verrai con me a caccia. E non dire di no. Dovresti guardarti in faccia. Ne hai troppo bisogno per poter aspettare ancora. In questo posto c’è troppo sangue umano libero per poter resistere a lungo. > e mentre diceva così, pensò alle bende insanguinate di Bella.
< Emmett, adesso non riesco a pensare con lucidità. Se poi la portassimo a casa e lei avesse una crisi? Carlisle non dispone di una sala di rianimazione in salotto. Magari più avanti, tra un po’. E per la trasformazione, tutto quello che hai detto è giusto ma io voglio aspettare, ancora un po’. >
< Però domani ci vieni a caccia. Almeno su questo non devi starci a pensare a lungo. >
Annuii stanco, sperando che così mi lasciasse in pace.
Non disse più nulla e nella stanza calò il silenzio. Quando l’orologio segnò le sei e mezza e fuori si intravedevano i primi raggi di luce, un’infermiera entrò nella camera e ci chiese di uscire perché doveva controllare Isabella. Fuori ci aspettavano Esme e Rose. Rosalie fissava il pavimento mentre Esme mi veniva incontro. Mi abbracciò e dopo avermi scostato i capelli dal viso pensò: “non può ridursi così. Spero che Emmett lo abbia convinto ad uscire per cacciare.”
< Non preoccuparti mamma. Sto bene. Appena l’infermiera ce lo permette, torno dentro insieme a voi. La sete è più che sopportabile. > e accennai un sorriso. Emmett sbuffò e sussurrò: < Io ci ho provato ma evidentemente non mi ascolta. >  < Scusa Em, non ce la faccio ad andarmene. >
Lui mi strinse la spalla comprensivo e poi si allontanò insieme a Jasper.
Non appena l’infermiera uscì, ritornai da Bella. Alle due di quel pomeriggio anche Charlie ci raggiunse. Lui ed Esme parlarono a lungo e mia madre gli ripeté il discorso che Emmett aveva fatto a me quella notte. Per lo meno, la parte sul trasferimento era uguale. Ovviamente non  poteva rivelargli cosa realmente stessero progettando.
Carlisle passò per la visita quel pomeriggio e constatò che non erano ravvisabili miglioramenti e l’espressione sul volto di Charlie si fece ancora più addolorata e stanca.
Anche nei giorni successivi le ore si susseguirono senza cambiamenti, senza risposte.

Venti giorni dopo l’incidente, io ed Esme eravamo seduti vicino al letto di Bella mentre Carlisle controllava i macchinari. Esme le strinse la mano e poi si alzò per andare a fare una telefonata a casa.
Si chiuse la porta alle spalle ed io mi chinai a baciare la guancia a Bella.
Le ripetei le stesse parole che le sussurravo da quando l’avevano portata in ospedale: < Bella, amore… mi senti? Bella? Bella… non preoccuparti amore, ci sono qui io. Non avere paura. >
Chiusi gli occhi e appoggiai il capo sul cuscino. Ero stanco. Devastato.
Poi, improvvisamente, avvertii un lieve movimento. le dita della sua mano si strinsero intorno alle mie. Alzai immediatamente la testa. Carlisle si era subito avvicinato.
Ricominciai a chiamarla, questa volta con una nuova energia nella voce: < Bella, Bella? Mi senti. Riesci a stringermi ancora la mano? Bella? Bella? >

E a quel punto lei sbatté gli occhi. Una, due, tre volte. forse non riusciva ad adattarsi alla luce. Piegò il capo di lato, come per schivarla. Le accarezzai la guancia con mano tremante. E a quel punto mi vide. Sussurrò: < Ahia… >
< Bella, sono Carlisle, mi senti? > lui era già chino su di lei. Le puntò una luce negli occhi che le teneva aperti. Lei cercò di chiuderli, infastidita. < I valori sono tutti normali. Sembra recettiva. Bella? Bella? Come ti senti? Riesci a parlare? >
Confusa, Bella muoveva lentamente il capo da me a mio padre. Tossì due volte cercando di parlare. < Mi fa male, il petto, la testa. > sussurrò molto lentamente, con voce arrochita. La sua mano, stretta alla mia, tremava.

Mi sentivo euforico, felice, in preda ad una gioia profonda e quasi incontenibile. Mi stava parlando. Si era svegliata. Sempre tenendole la mano sulla guancia le dissi: < Non preoccuparti. È comprensibile che tu sia agitata. Va tutto bene. Adesso chiamiamo Charlie. Era così in pena… >
A quelle parole parve riacquistare lucidità. Socchiuse gli occhi e mi fissò prima di mormorare: 
< Charlie? Che ci fa qui Charlie? Dovè la mamma? Cos’è successo? >

Interdetto, le sorrisi. < Bella, Charlie ci vive qui e tua madre vive a Jacksonville, con Phil. Ma adesso anche loro sono qui. >
Confusa, aggrottò le sopraciglia. < Come sarebbe a dire che Charlie vive qui? e poi, noi abitiamo a Phoenix, in Arizona.Non a Jacksonville… Dove sono? > con entrambe le mani le accarezzai febbrilmente il volto, sistemandole i capelli dietro le orecchie. La mascherina sulla sua bocca era tutta appannata dal suo respiro agitato.
< Bella, cosa dici? Tu non… > Carlisle mi impedì di continuare intromettendosi nella conversazione. Parlava con voce calma, serena e tranquilla. Non mostrava alcun segno di tensione.
< Bella, sei in ospedale. Sei a Forks. Anche tua madre si trova qui. Hai avuto un incidente. oggi è il nove agosto del duemilanove. Sei stata in coma per dieci giorni. Adesso andiamo a chiamare i tuoi genitori. Saranno qui tra breve. > Bella ci guardava in preda alla confusione. Mentre le parlava, Carlisle le stringeva delicatamente la mano. Lei chiuse gli occhi e poi disse: < Ho freddo. la mano è fredda. >
Rimanemmo in silenzio per alcuni attimi e poi disse: < Mi dovete dimettere. Devo andare al matrimonio. devo andare al matrimonio. Non posso mancare. >
Il suo battito cardiaco cominciò ad accelerare. Stava entrando nel panico. La sua voce era bassa e roca, affaticata.
< Non preoccuparti, tesoro. Il matrimonio è rimandato. Non agitarti per questo. Charlie sta arrivando. Esme ha sentito che eri sveglia ed è corsa a chiamarlo. Tra poco sarà qui. >
Quasi senza rendersene conto, lei sussurrò: < Charlie è qui? ma il matrimonio… il matrimonio… >
< Bella, non preoccuparti del matrimonio. Lo faremo tra un po’, quando starai meglio. Non importa. >
Mi chinai per baciarle la fronte e sentii il suo cuore impazzire. Anche il monitor, con il suo bip sordo, se ne accorse.
Nonostante fosse così pallida, arrossì.
< wow… > la sentii bisbigliare, trasognata e sorrisi.
In quel momento Esme chiamarmi dal corridoio. nessun umano avrebbe udito il suo sussurro.
< Bella, devo uscire per qualche minuto. Vado da Esme. È qui, fuori dalla porta. È felicissima che tu ti sia svegliata. Carlisle adesso ti visiterà meglio. Non voglio essere d’impiccio. Sarò da te non appena avranno finito. >
Mi fissò ancora, con lo stesso sguardo confuso e rapito di poco prima e poi balbettò imbarazzata: < Va bene… >

Mentre mi chiudevo la porta alle spalle, sorridendo ad Esme, la sentii sussurrare di nuovo, con voce debole e stanca: < Wow >

 

                                                                                                                                            

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** On this bed I lay, loosing everything... ***


Vi avevo detto che non sapevo quando avrei postato… ma che alla fine lo avrei fatto! Ed eccomi qui, con un nuovo capitolo per voi.
In queste vacanze mi sono portata avanti con la storia e ho scritto alcuni capitoli che pubblicherò prossimamente.
Ora vi lascio e torno a scrivere un po’.
VI lascio con un’ultima nota: Entreremo nel vivo della storia tra qualche capitolo. Abbiate fiducia. Se avrete un po’ di pazienza, sono cerca che verrete catturate dalla trama (o almeno lo spero!)
Ciao e a presto
PS: i capitoli sono presi da alcune canzoni. Non so se tutti i cap avranno titoli in inglese ma per ora l’idea è questa.
                      Erika

 Cap 2

On this bed I lay, loosing everything…
Su questo letto giaccio, perdendo ogni cosa…

                                                                                                    
Bella’s POV

Mi girava la testa e non capivo bene dove mi trovassi.

Certo, ero in ospedale. Lo avevo intuito dai macchinari, dalla mascherina, dal gesso al braccio e dal bellissimo dottore davanti a me.

La luce era troppo forte e mi dava fastidio. Chiusi gli occhi e nella mia mente rividi il ragazzo che era appena uscito dalla stanza. Era bello da mozzare il fiato. Così bello da non sembrare vero…
Non riuscivo a pensare. La testa pulsava e ogni respiro mi procurava delle fitte al petto.
< Isabella? > Mi sentii chiamare. Aprii lentamente gli occhi e vidi il dottore chino su di me.
< Bella, riesci a restare sveglia? Hai sonno? >

Deglutii e poi cercai di dare una risposta coerente alle sue domande. < No, non ho sonno… > mormorai poi aggiunsi: < Ha detto che avete rimandato il matrimonio… mamma dov’è? le voglio parlare? Non posso rovinarle la festa. >
Avrei voluto fargli capire quanto fossi arrabbiata con me stessa ma la voce mi usciva flebile e priva di intonazione. Mi sentivo intontita.
L’uomo si sedette vicino al letto e poi cominciò a parlarmi con voce tranquilla. < Bella, tua mamma sta arrivando. Le hanno appena telefonato. Non preoccuparti. Tu non hai nessuna colpa. Ti ricordi quello che ti ho detto poco fa? Vuoi che te lo ridica? >

Pensai alle parole di poco prima, quando c’era il ragazzo. Mi resi conto di non ricordarle. Ricordavo solo… solo lui che mi guardava… e che avevano rimandato il matrimonio…

< Sì, per favore. >  
< Va bene. Allora, oggi è diciannove agosto del duemilanove. Ti trovi all’ospedale di Forks. Hai avuto un incidente. Mentre attraversavi la strada un auto ti ha investita. Sei stata in coma per alcuni giorni. Ma non credo che ci siano danni permanenti. Eseguiremo dei controlli appena ti sentirai meglio. >
Tacque ed io cercai di fare mente locale. Incidente, Forks, duemilanove.

Le cose non mi tornavano.

< Incidente? > Chiesi in un sussurro.
< Sì. L’auto procedeva a velocità sostenuta e non è riuscita a frenare sull’asfalto bagnato. Ricordi? >
Cercai di scuotere la testa ma il movimento mi provocò un conato di vomito.
< Non preoccuparti. È normale che il tuo cervello non abbia registrato quei momenti. >
Rimanemmo in silenzio per alcuni minuti e poi io aggiunsi: < Scusi… > < Sì? > < Ha detto che è Agosto, del duemilanove. > < Sì > rispose cauto, squadrandomi.
< Non credo. Non è possibile. È novembre. Novembre duemilasette. Mia mamma e Phil si devono sposare fra una settimana, il 15 novembre… novembre. > La mia voce tremava e sentivo che stavo per perdere il controllo del mio respiro. Non poteva essere il duemilanove. Non poteva. Questo significava che… < Quanto sono rimasta in coma? >
Avvicinò la sedia al letto e mi prese la mano tra le sue, gelide, facendo attenzione ai tubicini attaccati alla mia pelle. Non so perché ma quel contatto non mi impressionò, sebbene la sua pelle fosse gelida e in qualche modo dura, in qualche modo innaturale.

< Bella, adesso voglio che mi ascolti, con calma. Oggi è il diciannove agosto duemilanove. Hai avuto l’incidente il 31 luglio. Sei rimasta in coma per circa venti giorni. >

< Ma non può essere! Siamo nel duemilasette! Mia mamma si sta per sposare… e poi, cosa ci faccio a Forks? No, no no no! È tutto sbagliato! > Sentivo il panico crescere dentro di me. Avevo cominciato ad urlare. I polmoni premevano contro le costole provocando fitte acute ed intense, cercai di muovermi e ciò aumentò il dolore. La testa mi girava. Vidi il dottore premere qualcosa alla mia destra e poco dopo un senso di calma mi invase, diramandosi dalle mie vene. Mi sentii annebbiata.
< Ti ho aumentato i tranquillanti. Adesso ti sentirai meglio. > Attese che mi calmassi e poi proseguì: 
< Bella, qual è l’ultima cosa che ricordi? Riesci a raccontarmi? Se preferisci, possiamo continuare tra un po’. >
< Io e Reneè siamo andate a cercare le bomboniere questa mattina. Mamma si riduce sempre all’ultimo. Alla fine ha scelto dei pacchettini di raso color crema con un fiocco di seta rosato. E poi ha fatto l’ultima prova dell’abito… Siamo andate a vedere la squadra di Phil giocare ieri >
< E poi? Non ricordi altro? > < No… le ho detto,oggi siamo andate a cercare le bomboniere… >
< Va bene. Non preoccuparti. Probabilmente è una questione temporanea. > 
< Ma se oggi… vuol dire che non mi ricordo quanto, due anni? > Sentivo che avrei dovuto essere terrorizzata ma non ci riuscivo. Tutto mi sembrava inconsistente.
< Come ti ho detto, sono certo che tra poco comincerai a ricordare. >
< No, no… non può essere. E poi, hanno rimandato il matrimonio. Lo ha detto lui. > rimasi in silenzio alcuni istanti, pensierosa, e poi aggiunsi: < Ma se mamma e Phil si sono già sposati, di chi era il matrimonio di cui parlava quel ragazzo? >
Parlando di lui mi sentii arrossire. Era stata la prima persona che avevo visto una volta riaperti gli occhi e mi sentivo rapita dal suo sguardo. Sembrava così felice, e allo stesso tempo affaticato,ed era così bello. Il mio cuore cominciò a battere più veloce al suo pensiero.

< Non credo tu debba preoccupartene ora. Perché invece non mi dici come ti senti? Avverti dolore adesso? Senso di nausea? Capogiri… >

Incominciai a descrivergli come mi sentissi, a rispondere alle sue domande. Mi visitò ma le sue mani fredde non mi facevano rabbrividire. Non conoscevo quel dottore ma mi sentivo a mio agio con lui. Aveva chiesto ad un’infermiera di venire ad aiutarlo. Quella donna mi guardava e sembrava molto curiosa. Ad un certo punto, mentre mi misurava la pressione, lui mi avvisò: 
< Credo siano arrivati i tuoi genitori. Vado a parlare con loro un attimo. Millie, assicurati che la signorina Swan non si agiti. Sarò subito di ritorno.
Ci vediamo fra un po’ Bella. > E poi uscì. 
Tesi le orecchie per cercare di ascoltare ma non udii niente. solo la flebo e il bip del monitor che controllava il mio corpo.
Attesi paziente che tornasse ma il tempo continuava a passare senza che la porta si aprisse. 
Persino l’infermiera cominciava a preoccuparsi. La vedevo agitarsi sulla sedia. Evidentemente aveva di meglio da fare e le scocciava dover rimanere a farmi da baby-sitter…
Osservai il soffitto e pensai al bel ragazzo di prima. Alla sua pelle diafana, al suo sguardo, ai suoi occhi neri. Mi suscitò tristezza il suo sguardo stanco. Mi sembrava ingiusto che dovesse essere triste. Volevo che fosse felice. Era un sentimento irrazionale che non riuscivo a spiegarmi.
Proprio mentre ero persa in questi pensieri, scivolai nel sonno.
Non so per quanto dormii ma, quando riaprii gli occhi, l’infermiera mi avvisò che Il Dottor Carlisle era già venuto a controllarmi e che, vedendo che stavo dormendo, aveva preferito lasciarmi riposare. Lo rintracciò sul cerca-persone e dopo poco la porta si aprì ed entrò il dottore. Era solo. L’infermiera salutò ed uscì in fretta. Appena la porta fu chiusa, il dottore mi disse: < Bella, i tuoi genitori sono qui fuori e sono ansiosi di vederti. Vuoi che li faccia entrare? >
Rimasi in silenzio, preoccupata. Lui mi venne vicino e mi rassicurò: 
< Ho spiegato loro la situazione. Non devi avere paura. sono certo che si sistemerà tutto. Vuoi vederli? >
< Sì… va bene. È solo che è così strano. Non riesco a capire, a ricordare. Non ricordo più nulla. Mi sento spaesata. Due anni della mia vita? Come è possibile? >
< A volte succede… > Manteneva un tono pacato ma dietro a quella maschera serena intravidi una nota di panico. < Allora vado a dire loro di entrare. >
Non appena aprì la porta, Reneè e Charlie entrarono, lentamente, seguiti da Phil che teneva mia madre per mano. Fu lei la prima a parlare. Si sedette accanto a me e, accarezzandomi il viso, mi salutò: < Ciao tesoro. Finalmente hai riaperto gli occhi. > i suoi erano bagnati di lacrime.
< Sto bene mamma. Mi spiace di avervi fatto preoccupare. >
< No, no… sta tranquilla. > quasi non riusciva a parlare. Si intromise Charlie a quel punto e mi poggiò la mano sulla spalla.
< Carlisle ci ha detto che… che non ricordi. Non preoccuparti. Ci prenderemo cura noi di te. Sono sicuro che risolveremo tutto. > Annuii lentamente per farlo felice e lui sorrise. Era un sorriso stanco e tirato.
Rimasero con me per molto tempo. Sembrava che sentirmi parlare fosse per loro fonte di gioia estrema. Forse negli ultimi due anni i rapporti tra i miei genitori erano migliorati più di quanto non sperassi a giudicare da come si comportavano. Reneè era appoggiata alla spalla di Charlie mentre Phil le carezzava la schiena. Sembravano tutti molto uniti. Più di quanto non lo fossero stati due anni prima.
Finalmente il dottore, Carlisle, suggerì di lasciarmi riposare e li convinse ad uscire. Mi faceva piacere vederli ma la testa mi faceva male e sentivo uno strano senso di spossatezza.

Appena mi lasciarono sola chiusi gli occhi che mi bruciavano.

Non volevo dormire. Cercavo solo di riposarmi un po’. Non mi accorsi che qualcuno era entrato finché non sentii una mano gelata rimboccarmi le coperte.
Spalancai gli occhi di scatto. Lui era lì, vicino a me. Splendido e tormentato. Gli occhi neri cerchiati da profonde occhiaie violacee.
< Scusami. Non volevo svegliarti. >
La mia bocca era secca, forse a causa dell’emozione. Mi schiarii la voce e pigolai: < Non mi hai svegliata. Non preoccuparti. >
Sorrise debolmente. < Hai sete. > non era una domanda. Prese un bicchiere e lo riempì d’acqua poi mi tolse la mascherina. < Vieni. Ti aiuto. > fece scivolare un braccio sotto la mia schiena e mi sollevo dolcemente, quel tanto che bastava perché le mie labbra arrivassero al bicchiere. Mi sorreggeva la testa. Bevvi a brevi sorsate. Quando allontanò il bicchiere, protestai.
< Non esagerare. Devi bere poco e spesso. Riabituare il tuo corpo. >
Mi persi nei suoi occhi e rimasi imbambolata a fissarli, annegandoci.
< Ehi? Ehi? Ci sei? > mosse la mano davanti al mio volto ed io mi ripresi. < Ops, scusami. Mi ero un attimo persa. > Confessai rossa di vergogna. Ridacchiò e scosse il capo. Dietro alle apparenze, sembrava distrutto e arrabbiato. Ne era una prova il pugno chiuso. Le vene risaltavano sulla sua pelle diafana. Era teso.
Nonostante non lo conoscessi, mi sentivo a mio agio con lui. Se non fosse stato che mi faceva venire le farfalle nello stomaco, avrei detto che stare vicino a lui era la cosa più naturale del mondo.
< Ehm… >
< Sì, Bella? >
< Mi spiace dovertelo chiedere, ma… > < Ma? Non preoccuparti. Chiedimi tutto. >
< Tu… > < Io… > < Tu chi sei? > Sospirò e fece un respiro profondo.
Vedevo tutto il dolore trasparire dai lineamenti delicati del suo viso.

< Io mi chiamo Edward. Edward Cullen. >

Ero imbarazzata. Sapevo che lui sperava che mi ricordassi di lui. Lo vedevo chiaramente dal modo in cui mi guardava. Ma non era così. Non mi ricordavo di lui. Uccidere la sua speranza era doloroso ma inevitabile.

< Piacere. Io sono Bella, ma questo credo tu lo sappia già. > e abbozzai un sorriso.

< Sì. Lo so. > mi accarezzò il braccio non ingessato e poi aggiunse: < Sono così sollevato di vedere che finalmente tu sia sveglia.  Sentirti parlare… disperavo di poter udire ancora la tua voce. >
Il suo modo di parlare, il suo atteggiamento, mi ricordavano un principe delle favole. Le sue parole rievocavano scenari antichi. Non sembrava affatto un ragazzo di… di…
 < Scusa, quanti anni hai? >Chiesi un po’ confusa  e lui ridacchiò come se avessi fatto una battuta. < La tua età. Anzi, ho compiuto diciannove anni da poco.
L’8 di giugno. > < E eri, cioè, sei a scuola con me? > < Sì. Frequentavamo alcuni corsi insieme. > < Ah, beh… ma, ora che ci penso, se sono passati due anni… significa che ho già finito il Liceo. A meno che non mi abbiano bocciata. > < Non preoccuparti. Non sei stata bocciata. Hai preso il diploma dopo aver passato gli esami con quasi il massimo dei voti. E se proprio vuoi saperlo, stai per andare al college. >
< Davvero? Oddio, sono già così grande da andare al college! È tutto così strano… >
< Mi rendo conto che tu ti senta confusa. È del tutto normale. Non deve essere facile per te. Vorrei sapere cosa si agita nella tua testa in questo momento. > Lo sentii sussurrare anche “ in questo come in ogni altro ” ma forse era solo il frutto della mia immaginazione.
< Sì, se fosse possibile leggere nella mente altrui. >
< Già, se fosse possibile. > E sorrise.
< Se vuoi saperlo, in realtà non capisco neanche io. Cerco di sforzarmi, di ricordare… ma sinceramente l’ultima cosa che vedo sono le bomboniere che Alice ha scelto per il matrimonio. >

Alzò gli occhi di scatto e mi trapassò con lo sguardo. < Alice? > sussurrò.
< Eh? Come scusa? Reneè... > lo corressi io.
Si avvicinò di più a me e prese la mia mano tra le sue.
< Però hai detto Alice. > < Davvero? Non credo. Non conosco nessuno che si chiami Alice. Anzi, tre compagne del mio corso di chimica a Phoenix. Ma non siamo amiche. Forse mi sono solo confusa. >

Rassegnato, volle che gli descrivessi le bomboniere. Mi parve sinceramente deluso quando lo ebbi fatto. Un lampo di vita però gli attraversò lo sguardo quando gli raccontai di un tipo che avevo visto e che mi sembrava carino. In realtà, quel modello in particolare mi ricordavo di averlo visto in un negozio diverso. Non quello dove ero stata quella mattina (anzi, la mattina di due anni prima) ma in un altro, con una grande sposa all’ingresso per sponsorizzare il punto-vendita. Il giorno in cui c’ero  pioveva. Un miracolo per Phoenix. Questo però non glielo dissi.  

Dopo alcuni momenti di silenzio, mi chiese: < Ti metto a disagio? >
< No. Perché? >
< Beh, non ricordi niente di questi ultimi mesi. Mi chiedevo quindi se magari la mia presenza ti mettesse in soggezione. >

No. Stare vicino a lui mi trasmetteva calma. E lui mi infondeva sicurezza.

< No. Però, visto che siamo in argomento, mi diresti … chi sei? >
< credo che tu non voglia che ti ridica il mio nome. > < No. Vorrei qualcosa di più. >
< Noi, noi… > Sembrava soffrisse. < Noi stavamo insieme. >
Mi sentii pervadere da una gioia profonda. Non avrei mai sperato che lo avrebbe detto. Come era riuscita una ragazza normale e maldestra come me a conquistare un ragazzo come quello?  Poi però mi accorsi che aveva detto “ Stavamo ”. mi sentii invadere dal panico. Percepivo il suo sguardo attento su di me. 
Cercando di mantenere la calma, sussurrai: < Stavamo? >
< Sì. Ci siamo lasciati. Circa un mese fa. Otto giorni prima dell’incidente. > < Davvero? > Domandai addolorata ed incredula. Poi però feci mente locale. Era ovvio che lui
mi avesse lasciata. Non avrei dovuto farmi illusioni.
< Mi sembri delusa. > E mentre lo diceva sembrava come compiaciuto. Addolorato, ma compiaciuto. < Sembra che ciò ti faccia piacere. > sussurrai acida, sebbene l’istinto primario fosse fargli gli occhi dolci.
Immediatamente la sua espressione si fece indecifrabile. < Non direi. > il silenzio cadde nella stanza, opprimente e soffocante. Alla fine mi sforzai e chiesi: < Perché ci siamo lasciati? >
< Abbiamo parlato a lungo. Stiamo per andare al college. Le nostre strade si sarebbero divise lo stesso. Tantovaleva che ci salutassimo da amici. 
In questo modo entrambi … > Sembrò reprimere un nodo in gola < entrambi avremmo potuto cominciare una nuova vita al college. Senza più legami con il passato. Avremmo potuto… crescere. > E mentre parlava sembrava facesse fatica a pronunciare certe parole. La sua voce si ruppe su “ crescere ”.
Chiusi gli occhi e sospirai. La mia solita fortuna. Un ragazzo come quello non era solo bello. C’era molto di più. Era così gentile, così dolce. Doveva essere per forza speciale. Lo si capiva da ogni piccola cosa. Dal modo in cui si muoveva, da quello con cui parlava. Dal suo sguardo profondo che sapeva vedere oltre il visibile. I suoi occhi mi penetravano e mi sentivo completamente in sua balìa.

Ad occhi chiusi bisbigliai: < Mi hai lasciato tu. >
< No. > < Non è vero. >  < E perché diresti ciò? > < Perché io non avrei mai avuto la forza e il coraggio di lasciare una persona come te. >
< Come puoi dirlo? Non mi conosci neanche, adesso. >
< Sì, hai ragione. Però sento, nel cuore, che tu sei speciale. >
Senza preavviso, delle labbra fredde e lisce mi accarezzarono la fronte. Il respiro mi morì nel petto e il mio cuore impazzì.
Mi cinse il corpo con le braccia. Lo sentivo tremare impercettibilmente.

E, bassissimo, udii un sussurro quasi inconsistente. < Devo lasciarti andare. Lo faccio per te. Perdonami. >

Non ero sicura che avesse pronunciato davvero quelle parole. Forse erano solo il frutto della mia immaginazione.
< Perché adesso non ti riposi un po’? >
< Quando mi risveglierò sarai svanito, come in un sogno? >
< Sono rimasto qui fino ad adesso e resterò fino a che non ti avrò visto completamente ristabilita. >
< Quindi, non sei stato tu a lasciarmi. >
< Vedo che sei rimasta testarda. Comunque, ti ho già detto che la nostra è stata una scelta condivisa. >

< Stai cercando di non ferirmi? > < No. Se proprio vuoi saperlo, sei stata tu ad insistere per questa decisione. Noi stavamo bene insieme ma, effettivamente, avevi ragione. Alla fine, la decisione l’abbiamo presa entrambi. Andremo in college diversi. Tu andrai a Darthmouth, io a Syracuse. Saremo lontani. Avremmo perso i contatti. Ci saremmo innamorati di altri e di un amore più maturo. Ci saremmo traditi a vicenda e ne avremmo sofferto. Avremmo finito per soffrire a causa di una storia adolescenziale a cui non avevamo saputo porre fine quando era il momento giusto. La nostra è stata la scelta migliore. >

< E allora, se non stiamo più insieme, perché tu sei qui? > il mio tono di voce non era acido. Sembrava più, come dire, rassegnato.
Mi accarezzò le guance. < Sono qui perché tu per me sei importante. Importantissima. E io ti voglio bene comunque. Anche se non stiamo più insieme, c’è ancora tanto affetto che ci lega. Ero sinceramente preoccupato per te. E sono molto felice di vedere che ti sei ripresa. Non potevo fare finta di niente. per questo ti sono restato vicino. E sono certo che tu avresti fatto lo stesso con me. >
< Sì. Credo proprio di sì. Io sento di provare qualcosa per te, anche se non mi ricordo... >
< Davvero? > Sembrava compiaciuto.
< Sì. Non so cosa sia. Sai, mi dovrai spiegare come posso averti detto che era meglio lasciarci. >
< Perché? Non mi credi? >
< Diciamo che mi sembra impossibile. Ecco. E tu mi sembri irreale. Poi, probabilmente mi stai prendendo in giro… com’è possibile? E inoltre, hai detto che andrò a Darthmouth. Darthmouth!
Se anche mi avessero ammessa, non potrei mai permettermi le rette. Quindi è evidente che sto ancora dormendo è questo è un sogno perverso. >
< Nessuno ti prende in giro e, finalmente, sei sveglia. Ti sei svegliata e questo è il mondo reale. >

Mi sorrideva rassicurante. Le sue mani scorrevano leggere sulla mia pelle. Il contatto con la sua pelle fredda era piacevole. Mi dava sollievo.
< Hai ancora sete? >
< Sì. Un po’. > < Hai un po’ di febbre. Appena qualche linea. Dopo lo dirò a mio padre. >
< Tuo padre? > Gli chiesi prima che mi aiutasse a bere, mentre mi sollevava il capo e mi sorreggeva con le sue braccia. Aspettò che bevesi alcuni sorsi d’acqua e poi mi spiegò: < Carlisle, il dottore che ti tiene in cura. È mio padre. Adottivo. >
Avrei voluto fargli domande, avere risposte. Mi incuriosiva almeno quanto mi affascinava. Avrei voluto chiedergli dei suoi genitori, del suo passato… ma temevo di ferirlo. Era chiaro che soffriva perché non mi ricordavo di lui. E poi, non volevo essere indiscreta.

Mi aiutò ad adagiarmi di nuovo sul cuscino. Le costole pulsavano. Cercai di sistemarmi meglio nel letto scomodo. Ogni posizione mi risultava fastidiosa. Lui cercò di accomodarmi le coperte e il cuscino. Poi mi slacciò la mascherina che penzolava sul mio petto. Dalla prima volta che mi aveva aiutato a bere, non me la ero più rimessa. Lo ringraziai e lui sorrise. Poggiata ai cuscini, chiusi gli occhi.

< Bella, credo che dovresti dormire. >
< Sì. Va bene. Però… >
< Però? >
< Vorrei che prima mi dicessi una cosa. >
< Prego, chiedi pure. > Mentre parlava mi accarezzava i capelli. Lo sentii armeggiare con i macchinari vicino al mio letto. E immediatamente sentii di nuovo un senso di torpore proprio come quando Carlisle mi aveva aumentato la morfina.
< Mi stai drogando per farmi dormire… > mi lamentai con voce stanca.
Lo sentii ridacchiare. < Era questo che volevi chiedermi? > Scossi la testa ma mi fermai subito perché il movimento mi dava la nausea. Si avvicinò. Sentii il suo respiro gelido sfiorarmi la pelle, accarezzarmi. < E allora cosa volevi chiedermi? > Aveva appoggiato la fronte sulla mia.
< Quanto tempo siamo stati insieme? >
< Un po’. >
< Tipo? >
< 12 mesi totali, ma non continuativi. C’è stata una pausa di  7 mesi. Io e la mia famiglia ci eravamo trasferiti per un po’ a Los Angeles l’inverno scorso. Ci siamo messi insieme la prima volta più di un anno e mezzo fa. >
< Beh, è stato un bel periodo? >
< Avevi detto una domanda. Questo mi sembra un intrerrogatorio. Non sapevo volessi diventare uno sceriffo. >
< Dai, per favore. Rispondimi. > sentivo la bocca impastata.
< Sì. È stato un bel periodo. Molto bello. > stava sorridendo. Lo capivo dal modo in cui parlava.
La sua voce di velluto mi accarezzava, a pochi centimetri dal mio orecchio. Il suo volto era vicinissimo al mio.  
< E ci siamo amati? >
< Sì. Molto. >
< Scusa se ti chiedo anche questo ma… oddio, è imbarazzante. >
< Non essere imbarazzata. Puoi chiedermi tutto. > dato che non parlavo, mi strinse la mano per incoraggiarmi.
< Mi stai facendo impazzire. Ti prego. Lo sai che non sopporto che tu non mi dica cosa pensi. >
< Lo so? >
< Sì, o almeno, lo sapevi. > la sua voce era così piena di dolore che socchiusi gli occhi per scrutarlo.
< Mi spiace. > cercai di alzare il braccio per accarezzargli il viso ma ciò mi provocò delle fitte alle costole e sentii i punti dei tagli sulla schiena che tiravano. Grazie alla morfina riuscii comunque a sollevarlo fino a sfiorare con la mano la sua guancia. Si appoggiò con la guancia al palmo della mia mano, poggiando la sua sulla mia, e lo vidi inspirare profondamente, poggiando il naso sulle vene del polso. < Non è colpa tua. E, anche se non sembra, io sono felice adesso perché ti sei svegliata. Questo mi basta per essere felice. Ma adesso, dimmi cosa volevi chiedermi, per favore. > Prese la mia mano e riaccompagnò il mio braccio sulle lenzuola.
< Va bene. Ecco, fino a quando abitavo a Phoenix, io non ho mai… Noi, noi abbiamo mai… > il mio cuore batteva furioso e il monitor impazziva.
< Fatto l’amore? > concluse la frase con un sorriso ed io avvampai. < No. No. Non saprei come poter spiegarti il perché, adesso come adesso. Posso solo dirti che non
avevamo ancora avuto l’opportunità. Ma eravamo comunque molto… intimi. > 
Rimanemmo in silenzio a fissarci negli occhi. Poi, senza preavviso, si chinò e mi diede un bacio a fior di labbra. Io dischiusi le mie in un gesto del tutto naturale nonostante non avessi mai baciato nessuno, perlomeno a mia memoria. Sentii il suo respiro nella mia boccia. Sentii la mia schiena arcuarsi e uno strano fremito nello stomaco. Quando le sue labbra si sollevarono dalle mie, sollevai il capo dal cuscino rincorrendole me le sue mani mi costrinsero a restare sdraiata. Sentivo il bisogno fisico di stare con lui.

< Adesso devi riposare. Se non ti rassegni a questo fatto e non ti metti a dormire, Carlisle non mi permetterà più di rimettere piede in questa stanza. > Vide qualcosa nel mio sguardo che lo convinse a rimangiarsi quanto aveva appena detto, e a farlo in fretta. < Ehi, ehi. Stavo scherzando. Non dicevo per davvero. Dai, non piangere… >  parlava velocemente e quasi non capivo le sue parole. Le sue mani asciugavano le mie lacrime.

I respiri troppo veloci mi faceva girare la testa. E i singhiozzi mi fecero tornare il dolore al petto.

Edward aumentò la dose di calmanti e a quel punto le mie palpebre cedettero. Chiusi gli occhi.
Cercai di parlare ma avevo la bocca impastata. Riuscii a dirgli: < Resta. Resta con me ancora questa notte. Stammi vicino. > e poi tutto svanì al tocco delle sue labbra sulla mia guancia e delle sue mani intorno alla mia.  Sentii la sua voce. Mi sussurrava: < Per questa notte, per una notte ancora . E per un’altra notte ancora. Io sarò sempre con te. Per tutte le notti che vorrai. >



 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** I can put back all the pieces. They just might not fit the same… ***


Salve a tutte!

Spero che la storia vi piaccia.
Fra poco le cose si faranno molto… movimentate per i nostri cari vampiri-umani!
Portate pazienza un altro po’!

PS: Il povero Edward è molto frustrato e combattuto in questi capitoli. È anche un po’ incoerente e si comporterà in modo un po’ irrazionale. Perdonatelo. È proprio il caso di dirlo, in questo punto della storia è proprio un povero (in senso metaforico) vampiro!

Buona lettura e grazie per i bellissimi commenti che mi avete lasciato!
Aggiornerò presto!

 ps: I titoli dei capitoli(tratti da delle canzoni) li traduco in italiano ma, e chiedo scusa, mi prendo delle piccole libertà di traduzione!

      Erika

Cap 3

 I can put back all the pieces. They just might not fit the same…
Posso rimettere insieme tutti i pezzi.
Questi però potrebbero non sistemarsi più come prima…

 

Mi risvegliai nel solito letto d’ospedale e lui era ancora lì, seduto al mio fianco. Mi teneva la mano, come sempre.

< Ciao. Come ti senti? > mi domando dopo che ebbi sbattuto le palpebre due volte.
< mh, bene, più o meno. > risposi cercando di mettermi seduta. Mi aiutò cingendomi con un braccio e sollevandomi delicatamente il busto mentre mi sistemava i cuscini dietro alla schiena, così da permettermi di appoggiarmici.

Negli ultimi venti giorni, ovvero da quando mi ero risvegliata dal coma, lui era sempre stato lì al mio risveglio.

Restava con me e mi teneva compagnia nelle lunghe e noiose giornate che trascorrevo in ospedale, in tutti i momenti in cui non ero impegnata nelle visite o nei colloqui con Carlisle. Pareva non annoiarsi mai. Passava il tempo raccontandomi dei due anni di cui non ricordavo niente, rispondeva ad ogni mia domanda sebbene a volte mi accorgessi che non mi diceva tutto. Mi descriveva cose succedeva fuori, nel mondo, mentre io ero relegata lì dentro.  Secondo Carlisle avrei potuto presto tornare a casa ma avrei dovuto stare tranquilla ancora per un po’, finché non rifossi ristabilita del tutto. Mi avevano già tolto il gesso al braccio e le costole stavano molto meglio. Mi avevano tolto la maggior parte dei punti e, a parte dei mal di testa improvvisi e lancinanti, mi sentivo abbastanza bene. Certamente meglio dei primi giorni.

Il mio umore comunque non era dei migliori. Mi sentivo spaesata. Perdere due anni della propria vita rende molto insicuri. Non sapevo come comportarmi con le persone che mi circondavano. Mi sentivo inadeguata. Per di più non avevo niente da fare, tutto il giorno in ospedale, immobilizzata a letto a guardare la pioggia scivolare sul vetro della finestra. L’unica cosa che rendeva le mie giornate sopportabili era la presenza costante di Edward. A lui poi la pioggia piaceva. Mi aveva detto che lui amava i giorni nuvolosi ma non mi aveva voluto dire il perché. Pensai che a Forks doveva trovarsi bene. Pioveva sempre. Era per questo che io odiavo tanto quella piccola città.
Da quando mi trovavo lì c’era stato un solo giorno di sole. E quel giorno Edward non era venuto. Era stata l’unica volta che al mio risveglio mi ero ritrovata sola.
E sebbene sapessi che non ne avevo alcun diritto, quella mattina mi sentii gelosa di Edward. Mi ritrovai a pensare a cosa stesse facendo. Senza volerlo, me lo immaginai insieme ad una ragazza, intento a passeggiare per un parco sotto al sole. Quel pensiero mi aveva intristito sebbene fossi consapevole che Edward aveva diritto ad una vita.

In fondo, ci eravamo lasciati.

Volevo sperare che non fosse così ma spesso temevo che mi facesse compagnia in ospedale perché magari si sentiva in colpa o in dovere di farlo.
Quando glielo chiesi esplicitamente, lui si era quasi offeso… poi l’aveva buttata sul ridere e mi aveva detto che non aveva niente di meglio da fare che stare lì con me. Ma mentre mi diceva quelle parole, i sui occhi ardevano. Non di rabbia ma di determinazione. Da quella volta non ne avevamo più parlato.

A parte quell’unico giorno di sole, Edward era sempre rimasto con me. Spesso venivano a trovarmi i suoi familiari, in particolare una ragazza simpatica dai capelli neri e spettinati. Mi pare si chiamasse Alice.

A volte venivano anche i nostri compagni di classe. Io non li riconoscevo. Mi limitavo a sorridere e ad accettare i fiori ed i regali che mi portavano. Charlie veniva tre volte al giorno, prima e dopo essere andato al lavoro e nella pausa pranzo. Lasciava al vicesceriffo l’ufficio e correva da me. Non lo avevo mai visto così felice. Ogni volta che varcava la porta della mia camera, un sorriso enorme gli illuminava il volto. Edward mi confidò che, mentre ero in coma e temevano che non mi risvegliassi più, lui aveva smesso di mangiare. Era rimasto traumatizzato.
Adesso che ero fuori pericolo era come se fosse rinato.

Reneè veniva meno spesso di Charlie, e sempre accompagnata da Phil ed Esme, la madre adottiva di Edward. Lui e Carlisle mi spiegarono che anche lei, come Charlie, era rimasta sconvolta da quanto mi era successo e la sua salute ne aveva risentito. Per questo doveva restare il più possibile tranquilla e non stressarsi. Di certo l’ospedale non era il luogo migliore per evitare lo stress.

Oltre alle visite di parenti ed amici non avevo molto da fare. I primi giorni avevo dovuto usare una carrozzina per spostarmi e mi ero sentita molto in soggezione. Era stato Edward a spingermi. Ad accompagnarmi, qualunque cosa facessi, c’era sempre lui. Edward. Edward.

Scoprii ben presto che non potevo fare a meno di pensare a lui, così gentile, premuroso, dolce, bellissimo…

Cominciai a convincermi che forse lo avevo davvero lasciato io. Come avrei potuto spiegare altrimenti la sua dedizione, le sue attenzioni, il suo affetto? Solo se fosse stato ancora  innamorato di me mi sarebbe rimasto vicino a quel modo. Ma più mi convincevo di essere stata io a lasciarlo, più ciò mi sembrava impossibile. Come avrei potuto lasciare lui? cosa mai mi avrebbe dovuto passare per la testa di così folle da convincermi a lasciaro?

Se all’inizio, appena risvegliata, mi era sembrato un ragazzo speciale, adesso ero certa che lo fosse. Che anzi fosse molto più che straordinario. In quei giorni trascorsi insieme nella mia camera d’ospedale avevo imparato a conoscerlo, a cogliere ogni espressione del suo volto, a leggere il suo linguaggio del corpo. mi veniva naturale, come respirare. Era una sensazione strana, surreale. Sebbene di lui non ricordassi nulla, mi pareva di conoscerlo da una vita. Mi bastava uno sguardo per capire cosa pensasse, cosa volesse.
Avevo imparato presto a pensare ad alta voce. Quando gli dicevo cosa mi passava per la testa, lui mi pareva così contento che non avevo il coraggio di smettere di raccontargli i miei pensieri.
Lui mi ascoltava, attento e  interessato anche se gli argomenti non erano certo dei più interessanti.
 

Un pomeriggio, mentre fuori ovviamente pioveva, mi chiese: < A cosa stai pensando? >
Imbarazzata, arrossii e scossi la testa. < Non voglio dirtelo. >
Sorrise della mia reazione e disse: < E dai, dimmelo. Non lo dirò a nessuno. >
< No, non insistere. >
< Se non me lo dici, penserò che sia una cosa terribile, sicuramente peggiore di quella a cui tu stai pensando realmente > e mentre diceva quelle parole, lo vidi intristirsi come se si fosse ricordato di qualcosa. Ebbi la sensazione che forse quella conversazione era già avvenuta.
< Non credo che tu voglia saperlo. >
< Lascia decidere a me. > e mi guardò fisso negli occhi, ipnotizzandomi. Con la mano mi sfiorò la guancia.
< Per favore. > mi sussurrò avvicinando il suo volto al mio. Potevo cogliere ogni sfumatura dei suoi occhi dorati.
Poggiai la mia mano sulla sua di modo da impedirgli di allontanarla dal mio viso.
< Edward… > gli sussurrai conscia di essere arrossita. Rimase in silenzio, aspettando che proseguissi.  Chiusi gli occhi e sospirai. Chinai il capo in avanti ed appoggiai la mia fronte sulla sua. Il mio cuore cominciò a battere più velocemente.
< Bella, c’è qualcosa che ti preoccupa? Non ti senti bene. Vado a chiamare il medico di turno. > mi chiese ansioso, accarezzandomi i capelli con la mano libera, ansioso. L’altra era ancora poggiata sulla mia guancia, stretta tra le mie dita.
< No. Va tutto bene. Sto bene. > cominciai a perdere il controllo del mio respiro, che accelerava.
< Sicura? > non sembrava convinto.
< Sì… >
< Bella, io vado a cercare un dottore. >
< No. Non andare. > gli dissi e feci passare il braccio libero, che era stato quello ingessato, dietro al suo collo nel tentativo di tenerlo vicino a me.
< Bella, mi fai preoccupare. >
< Edward… sono… sono… > la bocca era secca e non trovavo le parole.

Feci scivolare la mia fronte sulla sua guancia, sulla sua spalla ed infine poggiai il capo nell’incavo del suo collo. La sua pelle mi pareva dura e fredda, quasi fosse pietra.
Mi cinse le spalle ed incrociò le braccia dietro la mia schiena.

< Bella, che c’è? perché piangi? > Mi domandò in preda al panico. Non mi ero accorta che gli occhi mi si erano riempiti di lacrime. Cominciò a dondolarmi lentamente, come se cercasse di calmarmi.
Con il volto nascosto nel suo maglione, pigolai: < Edward, sono innamorata di te. >
Si irrigidì immediatamente. Poi cercò di allontanarmi da se. Mi aggrappai a lui nel tentativo di contrastare il suo rifiuto.
< Bella, per favore. > mi implorò con gli occhi colmi di dolore.
Mi allontanò da lui e mi prese le mani nelle sue. < Bella, voglio che tu ora mi ascolti attentamente. Ti prego. Non odiarmi. >
< Non potrei mai odiarti. Ma ti prego, ascoltami tu. Io ti amo. Scusami se ti ho ferito quando ti ho lasciato. Perdonami. Non lasciarmi tu. Davvero. Ti amo. Sento di amarti, dal profondo del mio cuore. Ti prego, perdonami per qualsiasi cosa io ti abbia detto, per qualsiasi cosa io ti abbia fatto. Io ti amo. Perdonami. Perdonami e tienimi con te. >
< Bella, non hai niente di cui perdonarti, non mi hai ferito. Ci siamo lasciati e su questo non possiamo tornare indietro. Non è colpa di nessuno. Io ti voglio bene. Ti sono molto affezionato ma non possiamo più stare insieme. Non posso tenerti con me perché tu devi essere libera. Libera da un legame di cui non ricordi nulla. Non possiamo più stare insieme. >
< Perché no? >
< Bella… > Mi fissò negli occhi a lungo prima di parlare di nuovo. Sembrava combattuto, alla ricerca di un motivo per dirmi di no.
< Bella, non possiamo. Andremo al collegge… non ci vedremo più. >
< No, non importa. Potremo vederci nei week.end. posso venire da te. Non ti chiedo di rinunciare allo studio. Io lavorerò mentre tu andrai all’università. Ma almeno staremo insieme. Ti chiedo solo di permettermi di restare con te. >
< Bella, non c’è niente da discutere. > Mentre parlava, mi accarezzava i capelli con gentilezza infinita. Mi pulì il viso dalle lacrime. < Non piangere. Ti prego. >
< Non mi vuoi più. >sussurrai. Ero talmente addolorata che non riuscivo neanche più a singhiozzare.
< No. No. Non dirlo neanche. >
Abbassai il capo e chiusi gli occhi. Mi sentivo male. avevo la nausea e mi sentivo respinta.
< Cosa ti ho fatto di così orribile da non meritarmi una seconda opportunità? > sussurrai con voce flebile.
Le sue mani abbandonarono il mio viso. Quasi ringhiò: < Bella, non sei tu il problema. Tu non hai fatto niente. >

Poi, con l’indice, mi costrinse ad alzare il capo. Lacrime silenziose mi pesavano sulle ciglia. Con un gesto improvviso del capo mi allontanai da lui. E in quel momento, mentre tenevo ancora gli occhi chiusi così forte da farmi venire il mal di testa, sentii le sue labbra gelide contro le mie. Si muovevano prima lente e delicate poi sempre più vigorose e desiderose.

Le sue mani scivolarono lungo la mia schiena. Arrivarono ai miei capelli e le sue dita vi si intrecciarono impedendomi di allontanarmi da lui.
Ero stata colta di sorpresa e il mio corpo aveva reagito agli impulsi senza che il mio cervello potesse elaborare quanto stesse accadendo.
Ritrovai le mie mani dietro al suo collo. Mi strinsi di più ad Edward e sentii il mio corpo, coperto solo dalla vestaglia d’ospedale, aderire al suo. Il mio respiro accelerò. Il cuore cominciò a pompare sempre più veloce il sangue nelle mie vene. Lo sentii affluire alle guance e dipingermele di rosso.
Sentii il materasso piegarsi e mi accorsi che anche Edward si era portato sul letto. Sentii il suo ginocchio sfiorarmi e mi accorsi che si era messo a cavalcioni su di me. Sentivo il mio corpo ardere sotto le sue mani gelate. Rispondeva alle sue carezze inarcandosi, sussultando, ardendo.
Ansimavo al tocco delle sue carezze. Ora eravamo entrambi sdraiati ma non avvertivo minimamente il peso del suo corpo sul mio. Continuò a baciarmi passando dalle labbra al collo e dal collo alle labbra. Ed io fremevo ogni volta che il suo respiro mi lambiva.

Divenne quasi violento da quanto mi stringeva a se. Le costole cominciarono a pulsare a causa del respiro fuori controllo ma ero così stordita dal bacio che non me ne curai. Ero troppo occupata a stringermi a lui, a pensare a lui...  
Non mi resi conto di quando il bacio ebbe termine. So solo che, ad un tratto, mi ritrovai seduta sulle sue ginocchia a piangere nell’incavo della sua spalla, cullata dalle sue braccia che mi sostenevano. Stava sussurrando una melodia dolce e  delicata. Ero certa di averla già sentita ma non ricordavo quando. Questo scatenò l’attaccò di panico. Non era stato il primo dal mio risveglio ma tutti gli altri ero riuscita a reprimerli.
Questa volta lasciai scorrere le lacrime, la paura e il disagio. Mi abbandonai alle braccia di Edward scossa dai singhiozzi mentre mi mancava il respiro.
Lui non disse nulla. Si limitò ad accarezzarmi e stringermi a sé, baciandomi la fronte e il capo.
Qualcuno bussò alla porta.
Edward cercò di allontanarmi da sé e di farmi riadagiare sui cuscini.
Io mi strinsi di più a lui. Cercavo di fermare gli ansiti. Non volevo perdere il controllo di me stessa ed avere un crisi di panico tra le sue braccia.
Bussarono ancora ed Edward poggiò le sue mani una sul mio capo l’altra sulla mia schiena.
< Avanti > disse senza una particolare inflessione della voce. Chiusi gli occhi.
La porta si aprì e si richiuse poi dei passi mi avvisarono che qualcuno si era avvicinato al letto.
< Edward, non volevo disturbare. >
< Non preoccuparti, Carlisle, non ci disturbi. Bella è un po’ triste oggi. > e con quelle parole mi strinse un po’ di più a sé.

Cercai di ricompormi e mi scostai da lui. Mi asciugai gli occhi con il dorso della mano e mi appoggiai ai cuscini. Carlisle mi sentì il polso e sorrise.

Diede un’occhiata ai monitor e poi mi scostò i capelli dalla fronte. < Sei un po’ tesa? Non dovresti agitarti. Adesso ti somministro dei leggeri calmanti. > poi guardò Edward e, sorridendogli, gli disse: < Se non riesci a contenere la tua influenza negativa, dovrò proibirti di venire a trovare le mie pazienti. >
Edward non rispose, limitandosi a fissarmi negli occhi. Mi strinse la mano e poi disse: < è meglio che io ora vada. Carlisle deve visitarti e tu hai bisogno di stare tranquilla. Credo che abbia ragione lui. Non ho una buona influenza sulla tua salute. > e rise sommessamente come se avesse fatto una battuta. Lo sentii sussurrare: < Non l’ho mai avuta. >
< Tornerai presto? >
Mi accarezzò la fronte. < Vado giù a prendermi un caffè, telefono ad Esme e poi torno da te. Ovviamente, aspetterò che tu e Carlisle abbiate finito. >
< Ti aspetto. >
< Non preoccuparti. Se, dopo aver parlato con Carlisle, ti senti stanca e vuoi dormire, non sforzarti di restare sveglia per me. >
Mi baciò la fronte e poi uscì. Le sue vene bluastre risaltavano sulla sua pelle diafana mentre stringeva i pugni tremanti.

Dopo che Carlisle mi ebbe visitato, mi fece alcune domande. Cercò di capire se avessi cominciato a ricordare. Mi domandò di persone di cui non avevo mai sentito parlare, di luoghi che non avevo mai visto. Lo faceva ogni giorno. Era una terapia. Sperava in questo modo di riattivare la mia memoria.

Mi chiedeva che sensazioni provassi relativamente a certe immagini che lui evocava. Dovevo dirgli tutto ciò che provavo immaginandomi quanto lui mi descriveva.

Copripiumino e federe color oro? Mi trasmettevano una sensazione di pace. Ma non sapevo il perché.
Odore intenso di incenso? Inquietudine. Ma non me lo sapevo spiegare.
Colore del sangue? Un’ansia generalizzata e conati di vomito. Non sapevo perché…
Una città medievale europea? A quell’immagine quasi andai in iperventilazione. Sentii le lacrime formarsi agli angoli degli occhi.

Carlisle mi mise le braccia intorno alle spalle. < Bella, forse è meglio se ci fermiamo per oggi. Tieni, bevi un po’ d’acqua > e mi passò un bicchiere che aveva appena riempito. Bevvi a piccoli sorsi. Quando ebbi scacciato del tutto quel senso di paura irrazionale, dissi: < Ok, sto bene. Possiamo ricominciare. >
< Sicura? >
Annuii vigorosamente e lui sospirò. < Ve bene. Allora continuiamo… > e ricominciò a parlarmi. A descrivere odori, oggetti e vestiti che mi davano strane sensazioni, inspiegabili.

Mantelle nere? Paura.
Motociclette? Senso di libertà, euforia e allo stesso tempo solitudine.
Tenda da campeggio? Freddo e senso di perdita. Mi faceva venire in mente la neve e il vento.

Dopo circa un’ora, quando ormai ero esausta, Carlisle appoggiò la mia scheda, su cui appuntava ogni mia reazione, sul comodino.
< Secondo lei sto facendo progressi? > chiesi speranzosa.
< Bella, sfortunatamente non credo che ci siano stati miglioramenti rispetto al nostro precedente colloquio. Non devi però essere triste. Dopodomani ti dimetteremo. Tornerai a casa. Io verrò molto spesso. Almeno tre volte al giorno per controllarti. E non sarai mai sola. >
Vide la mia espressione sconsolata e si affrettò ad aggiungere: < Non preoccuparti. Continueremo la terapia. Anzi, credo che in un ambiente a te familiare potrebbe sortire effetti migliori. >
Annuii, poco convinta. < Quando sarò a casa, anche lui verrà a trovarmi? > Non ebbe bisogno che specificassi a chi mi riferissi.
< Bella, fra poco comincerà il semestre. Abbiamo già contattato il direttore. Ci ha assicurato che, visti i gravi motivi addotti, saranno lieti di averti con loro l’anno prossimo, nel caso tu non te la senta di frequentare questo anno accademico. Edward invece partirà per Syracuse… >
< Quindi non verrà più a trovarmi? >
< Non ho detto questo. Però devi tener presente che fra una settimana partirà. Lui sarebbe disposto a restare ma sono convinto che non sarebbe una buona idea. >
Restammo in silenzio per alcuni minuti finché lui non aggiunse: < Bella, posso sapere una cosa? >
Lo guardai e sussurrai: < Certo… chieda pure. > < Cosa provi per mio figlio? Per Edward? >
Cominciai a tormentarmi le mani. < Ecco, vede, io credo di… di… > Mi sentii arrossire ed abbassai lo sguardo. < …di essere… innamorata di lui. Anche se non ricordo niente di ciò che c’è stato tra noi prima… prima dell’incidente. Quello che so lo devo ai suoi racconti sulla nostra relazione. E davvero non so spiegarmi come io abbia potuto lasciarlo. È un ragazzo così speciale. E, davvero, io penso che potrebbe ancora funzionare tra noi. Io, io lo amo. >
< Bella, grazie per essere stata sincera con me. E comunque, a me risultava che vi foste lasciati di comune accordo. >
< Adesso posso farle io una domanda? >
< Certo. >
< Cosa prova Edward realmente per me? >
< Beh, questo credo tu debba chiederlo a lui. >
< Sì, ma lui è sempre così criptico. Mi sembra sempre che mi nasconda qualcosa. E poi soffre. Lo vedo. Sembra che voglia trattenere i suoi sentimenti. Io vorrei sapere cosa davvero lui provi. Anche se potrebbe ferirmi. Io non so nemmeno se resta qui con me in ospedale perché mi ama ancora o perché si sente in dovere, in obbligo di stare con me. >
< Io non posso dirti cosa lui provi per te ma una cosa la so per certo. Lui non ti resta vicino perché si sente in obbligo. Non sai quanto io ed Esme abbiamo provato a convincerlo a riposarsi un po’ mentre eri in coma. Ma lui non ci ascoltava. Non ha lasciato il tuo letto per giorni. Lui ti vuole ancora bene. Non sono io a dover dire se è amore ma lascia che ti dica una cosa: lui non ti ferirebbe mai e qualunque cosa lui faccia, la fa pensando solo al tuo bene. >
Mi strinse la mano, come se volesse consolarmi. Cercai di sorridere, combattendo contro l’impulso di piangere tra le sue braccia così paterne. < Bella, adesso devo andare. Fra poco arriverà qualcuno a tenerti compagnia. >
Si alzò e mi lasciò sola.

Lo sentii bisbigliare da dietro la porta. Stava parlando con qualcuno. Qualcuno che era molto arrabbiato.
Mi sdraiai e chiusi gli occhi, girandomi su un lato in modo da dare la schiena alla porta.
Cercai di capire cosa stesse accadendo nel corridoio. Tutto inutile. Percepivo solo dei sussurri indistinti. Adesso era Carlisle a sembrare adirato. Poi, il silenzio.
Non mi accorsi che qualcuno era entrato finché delle dita gelide non mi accarezzarono la nuca.
Finsi di dormire.

Chiunque fosse, mi rimboccò le coperte e mi passò la mano gentilmente sulle spalle.
Rabbrividii al contatto della sua pelle fredda contro quella del mio collo.
< Dormi. Dormi e non preoccuparti. > poi si chinò e mi baciò proprio sotto l’orecchio.
Mi girai sull’altro lato in modo da nascondere il viso nel suo petto.
Cominciò a canticchiare una melodia molto dolce. Ero certa di averla già sentita. Mi prese la mano e me la strinse con delicatezza. Faceva scorrere il suo pollice sul dorso della mia mano. Strinsi le dita intorno alle sue. Rimasi ad ascoltarlo cantare. Senza volerlo scivolai nel sonno.

Lo sentii dirmi che mi amava ma, probabilmente, in quel momento sognavo già.

E le sue labbra gelide sulla mia fronte erano solo un desiderio così ardente da parermi vero.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Go ahead, Make your choice! ***


Lo so che è da un po’ che non mi faccio viva ma sto studiando per gli esami. Tra Maggio e Giugno ne ho 4 o 5 (dipende da quanto riesco a studiare…)

Ringrazio chi legge, chi recensisce e in generale tutte voi che apprezzate il mio lavoro.
Questo cap è un po’ così… strano. Sto solo preparando il terreno per gli avvenimenti futuri che, poveri Bella ed Edward, saranno molto movimentati.
Ciao e a presto
Credo di aggiornare in settimana. Tendenzialmente pubblicherei venerdì.
PS: Lo so,non ci speravate più… ma sappiate ho cominciato la fine (scusate il gioco di parole) dell’altra mia ff  Con ogni singolo battito del mio cuore ! La pubblicherò non appena ne sarò soddisfatta!
Ciao e grazie a tutte

 

Cap 4

Go ahead, Make your choice!
Va avanti. Fa la tua scelta!

Edward’s Pov

< Edward, sei tu che hai fatto questa scelta e ora devi mantenerla. Oppure, se non te la senti più, devi dircelo chiaro e tondo. Non possiamo andare avanti così. Noi dobbiamo sapere cosa vuoi fare, veramente. E anche Bella. Non puoi dirle una cosa e comportanti esattamente all’opposto. Devi essere coerente, altrimenti rischi di peggiorare la sua situazione. >

Io e Carlisle stavamo discutendo, per l’ennesima volta.

Eravamo nel suo studio. Lui seduto alla scrivania ed io sul divano. Una scena che si ripeteva spesso, ultimamente.
Da quando Bella si era risvegliata era stato un susseguirsi di contrasti. Carlisle cercava solo di farmi ragionare ma non era facile. Certe volte mi sembrava di stare per impazzire.
Avevo lasciato Bella, addormentata, con Charlie. Lui era arrivato circa un’ora prima del solito. Si era preso un permesso per poter stare un po’ di più con la figlia.
Prima di andarmene, mi ero chinato per darle un bacio a fior di labbra. Le avevo sussurrato di nuovo, proprio come quando si era appena addormentata, che l’amavo e poi me ne ero uscito. Sapevo che mio padre mi attendeva nel suo studio.

< Carlisle, è così difficile… Non ce la posso fare. Lei è così indifesa. Sono… combattuto. >
< Edward, lo so ma devi farti forza. Lei adesso ha bisogno di vederti deciso. Devi essere un punto di riferimento per lei. Sai che cosa mi ha detto? Che ti vede soffrire. E si tormenta per questo. Devi essere forte, e un po’ più distaccato. Davanti a lei non mostrare le tue debolezze. >
< Io non ci riesco. Non riesco a sopportare tutto questo. La amo. La amo più di me stesso eppure non posso neanche baciarla. Non riesco a starle lontano eppure, quando sono con lei, mi devo trattenere. La posso a malapena sfiorare! Da quando ha riaperto gli occhi, l’unico mio desiderio è stringerla tra le braccia. Stringerla a me e sentire il calore del suo corpo, la sua voce chiamarmi. Le sue labbra sulle mie… >
< Beh, a quanto pare, non è rimasto un desiderio. Pensi che non vi abbia sentiti? >
Abbandonai il capo sullo schienale del divano.
< Carlsile, non capisci? Ci amiamo. Io la amo e voglio sposarla. Non mi importa se non ricorda niente. la aiuterò a ricordare, la aiuterò in tutto. >
< Edward, lo so quanto tutto ciò sia difficile da accettare ma devi farti forza . Ti ricordi quello che mi dicesti quando si svegliò? Quando ci rendemmo conto dell’entità dell’amnesia? Avevi ragione. Questa è la tua seconda opportunità. Non puoi tornare indietro proprio adesso. Tu hai preferito che avesse un futuro da umana. Questo ti rende onore. Se volevi restare con lei nonostante l’amnesia, avresti dovuto essere sincero fin dall’inizio. >
< Sì, lo so. Ma in quel momento credevo che non mi amasse più, che non si ricordasse di amarmi. E invece, lei mi ama ancora, anche se non sa perché! >
Sospirò e cercò di assumere un atteggiamento neutro e conciliatore, persuasivo. < Hai la possibilità di lasciarle vivere la sua vita. Di vederla felice e senza minacce ad incombere su di lei. È l’opportunità in cui non  speravi più. Resterà umana. Crescerà. Avrà dei figli. La sua vita sarà piena e felice e … completa.
Tu, adesso, hai la possibilità di lasciarla andare. È un gesto molto generoso. Sarà libera. E noi, spariremo. Il tempo cancellerà ogni ricordo che ha di noi. La memoria umana è molto semplice da corrompere… >
Non proseguì. < La memoria… quella che Bella non ha più. >
< Sai cosa intendo. E poi, meno resterai con lei adesso, più velocemente potrà lasciarsi alle spalle il tuo ricordo. Sarà come avrebbe dovuto essere. Ti ricorderà come una cotta adolescenziale.
Magari, fra trent’anni, penserà a te vedendo sua figlia presentarle il suo ragazzo. E sorriderà pensando a quanto era stata giovane quando aveva amato te.
Ma è così che dovrebbe essere. So che è difficile da accettare ma, se il mondo fosse davvero quello che sembra, questo sarebbe il corso naturale degli eventi. >
< Lo so, lo so. Devo lasciarla andare. > cercavo di convincermi che fosse la cosa giusta.
Si alzò dalla poltrona su cui era seduto e mi strinse una spalla.  
< Carlisle, io non so proprio come fare. So che la cosa giusta sarebbe lasciarle credere che ci siamo lasciati e che la nostra era stata una storia come tutte le altre.
Importante certo ma sempre pur una storia adolescenziale.
Lo so ma non posso fare a meno di desiderare che lei ricordi tutto e che mi urli in faccia che sono impazzito. Vorrei così tanto tornare in camera sua e trovarla a parlare con Alice del matrimonio. Vorrei vederla, spazientita per le idee bizzarre di Alice, lanciare in aria cataloghi di abiti da sposa e incrociare le braccia borbottando di voler andare a Las Vegas a sposarsi in tuta da ginnastica… >

Mi rannicchiai su me stesso e scacciai Carlisle con un gesto irruento. Mi presi la testa tra le mani e cominciai a dondolarmi avanti ed indietro.
< Io adesso vado da lei e le dico tutto. Le spiegherò chi sono realmente. Le dirò del nostro matrimonio, dei nostri progetti… le chiederò se mi vuole ancora sposare e poi… >

Carlisle mi afferrò le spalle e mi costrinse ad alzare lo sguardo.

< Non lo farai. Non oseresti. Edward. Tu devi fare quello che è meglio per lei. Dopodomani la dimetterò. Per una settimana continuerai ad andare da lei, a casa di Charlie. Ne abbiamo già discusso. Ogni giorno ti tratterrai un po’ meno e poi, fra una settimana, fingeremo che tu sia partito. Le telefonerai ma con il passare dei giorni le telefonate si faranno più rade. Io mi prenderò cura di lei. Reneè e Phil hanno detto di voler restare a Forks fino a che Bella non sarà del tutto guarita. E quando Bella starà meglio, andrà con lo loro a Jacksonville. Vivrà con sua madre in Florida. Persino Charlie, che di certo non è felice a vederla andar via, sa che è giusto così.  È questa la cosa migliore per lei. Tieni presente che nei suoi ricordi lei non è mai venuta a vivere qui.
I suoi ultimi ricordi sono di quando viveva ancora a Phoenix. Riprenderà la sua vita da lì, dal momento in cui sua madre ha sposato Phil. È quello che dentro di te tu hai
sempre sperato.
Perché se no, l’anno scorso, te ne saresti andato? Volevi che ti dimenticasse e che fosse al sicuro. Adesso hai l’opportunità che ciò si avveri. Devi solo trovare il coraggio di fingere davanti a lei. So che è doloroso ma è anche così difficile?
È così difficile mentirle per il suo bene, se la ami realmente? >
Sospirai, sconfitto.Dovevo mettere da parte i miei desideri e pensare al bene della donna che amavo.
Sapevo di aver ideato io quel piano. Sapevo che era la cosa giusta da fare ma ugualmente non riuscivo a darmi pace. La parte più egoista di me mi diceva di alzarmi e correre da Bella, inginocchiarmi di fronte a lei e implorarla di fuggire con me.

Carlisle intuì i miei pensieri.

< Sai che shock sarebbe se tu ora le dicessi la verità su di noi? Probabilmente penserebbe che sei pazzo ma, se dovesse crederti, sarebbe terrorizzata e sconvolta. E poi, metteresti la sua vita in pericolo. >
< Lo so. Lo so. Scusami ma a volte mi sembra davvero di impazzire. È tutto così assurdo.
< Spero solo che, anche in futuro, possa ricordarsi almeno un po’ di me. Almeno di questi giorni che abbiamo trascorso insieme... > sussurrai sconfitto.
< Non preoccuparti di questo. Anche se nei suoi ricordi tu sarai stato con lei solo per un mese, non credo ti dimenticherà mai. >
< Sai cos’è che mi addolora di più? > 
sussurrai coprendomi il volto con le mani.
Lui si sedette di fianco a me e mi cinse le spalle con il braccio.
< Lei è convinta di avermi lasciato e di avermi offeso così tanto da impedirmi di amarla ancora. O che io l’abbia lasciata perché lei non era abbastanza per me.
È convinta che la odi e che le rimanga vicino per compassione. Ti rendi conto? E per questo soffre.
Continua a dirmi che altrimenti torneremmo insieme. Mi ha implorato di perdonarla e di ritornare con lei. Ti rendi conto? Perdonarla! E di cosa? Di aver perso due litri e mezzo di sangue in un incidente che poteva costarle la vita? Di essersi rotta le ossa schiantandosi contro un parabrezza? O di aver picchiato la testa sull’asfalto bagnato mentre Alice era troppo intenta a decidere il colore del pizzo delle bomboniere? Oppure magari di aver vomitato addosso al paramedico mentre le costole le perforavano gli organi interni? > Stavo totalmente perdendo il controllo della mia voce.
< Non so, dimmi tu? io non so proprio come dirle che non ha niente da farsi perdonare, che non è stata scorretta nei miei confronti ma lei davvero non mi crede. È convinta di avermi ferito in modo irreparabile. >
< Se ti può consolare, oggi abbiamo parlato un po’ di questo. Ho provato a convincerla che le cose non stanno così. >
Mi mostrò i suoi ricordi. Cercai di non concentrarmi sulla parte in cui lei diceva di amarmi senza neanche sapere il perché.
In quel momento qualcuno bussò alla porta.
Era Charlie. lo riconoscemmo dal passo, dal respiro, dal modo di bussare.
< Prego, entrate. > disse Carlsile fingendo di non sapere chi fosse.
Charlie entrò, ci squadrò e poi sospirò mesto. < Scusate, non volevo disturbare. L’infermiera mi ha detto che vi avrei trovato qui… >
< Nessun disturbo Charlie. prego, accomodati. > gli disse mio padre alzandosi dal divano ed indicandogli una poltrona. Charlie ringraziò ma disse che non si sarebbe intrattenuto a lungo.
< Sono solo venuto a cercarvi perché Bella si è svegliata. Era molto agitata. Credo abbia avuto un incubo. Piangeva e faceva fatica a respirare. Le infermiere le hanno somministrato dei calmanti ma ho preferito venirvi a chiamare. Inoltre, cercava te. > mi disse volgendo lo sguardo verso di me.
< Va bene. Dai Edward, andiamo. O, se preferisci, tu ci puoi raggiungere dopo. Nel caso tu voglia stare un po’ solo. >
Scossi il capo e li seguii per i corridoi dell’ospedale fino ad arrivare dinanzi alla camera di Bella. L’infermiera passò a Carlisle la sua cartella clinica e poi entrammo.

Lei era lì, sdraiata a letto. Fissava la pioggia che si infrangeva contro il vetro della finestra.
< Ciao Bella. Tuo padre mi ha detto che non ti sei sentita molto bene. Adesso come va? >
< Bene, grazie. Dottore, scusi se l’ho disturbata. >
Carlsile le andò vicino e le sentì il polso. Mentre la controllava le rivolse un sorriso sereno e tranquillizzante.
< Non preoccuparti di questo. Ero nel mio studio a riempire scartoffie. Mi hai dato l’opportunità di fuggire. > Mio padre abbozzò una risata a cui Bella rispose con un sorriso spento.
Charlie si era seduto sulla sedia vicino al letto e le aveva preso la mano mentre Carlsile proseguiva con la visita.

Bella voltò il capo e mi vide, impalato vicino alla porta.

< Ciao. > sussurrò stanca. Vidi i suoi occhi lucidi e notai la manica della camicia da notte bagnata. Mi avvicinai e la salutai anche io. < Ciao. >
< Sono contenta che tu sia qui. > mi disse in un sussurrò poi chiuse gli occhi e sospirò.
Carlisle fece segno a Charlie di raggiungerlo fuori e il padre di Bella le disse: < Bells, io e Carlisle dobbiamo parlare un secondo. > Carlisle aggiunse: < Se hai bisogno, basta che tu prema il solito pulsante rosso collegato al mio cercapersone. >
Charlie le diede un bacio sulla guancia ed entrambi uscirono, lasciandomi solo con lei.

Mi sedetti sul bordo del letto, ben attento a non toccarla.
< Ho avuto paura, prima. Ho fatto un brutto sogno. Charlie si è agitato e ha mobilitato tutto l’ospedale. Non era necessario che vi disturbaste a venire. >
Le sorrisi prendendole la mano tra le mie. Era calda. Un po’ più del normale, 37.2. Lo avrei comunque riferito a Carlisle dopo.
< Vuoi raccontarmi il tuo incubo? > Le domandai conciliante, volgendo il capo verso di lei e fissandola negli occhi, sempre sorridendole.
< Non me lo ricordo più. > mi rispose.
< Menti. Te lo leggo in faccia. Non sei mai stata brava a dire bugie. >
Chiuse gli occhi e quasi sorrise. < Non ti si può nascondere niente. >
< Parrebbe di no. > confermai io, ironico. < Se però non vuoi raccontarmelo, non ti obbligo mica. >
< Ecco, vedi… era un sogno così strano. Non so neanche perché lo definirei incubo. >
< Lo hai raccontato a tuo padre? > chiesi innocentemente. Se fosse stato così, sarei corso a spiare i pensieri di Charlie.
< No… mi vergognavo. Però, se proprio vuoi, te lo racconto. >
< Magari ti aiuta, parlarne con qualcuno. > la incoraggiai io. Lei annuì.
< Eravamo io e te, nel bosco. Qualcuno ci inseguiva. Non so chi fosse. Io avevo paura. tu mi prendesti in braccio e cominciasti a correre. Correvi così velocemente che sembrava volassimo.
Poi improvvisamente raggiungevamo la tua famiglia e con loro c’erano delle figure senza volto. Indossavano lunghe tonache nere. E nell’aria c’era un forte odore d’incenso.
Quelle persone mi mettevano i brividi e tu mi stringevi forte, dicendomi di non avere paura. loro però vennero verso di noi e ci minacciarono. Stava per succedere qualcosa di terribile.
In quel momento mi sono svegliata. >
Sentii il mio stomaco chiudersi. Aveva appena sognato l’arrivo dei volturi dopo l’attacco dei neonati di Victoria e nemmeno se ne rendeva conto. E non avrebbe mai dovuto sognarlo.

Nel silenzio che era calato, percepivo chiaramente il suo cuore battere un po’ più veloce del normale.  Bella deglutì e poi ricominciò a parlare.
< Lo so che detto così sembra una cosa stupida ma era tutto così reale. E poi, anche se te l’ho raccontato in due secondi, il mio sogno mi è sembrato lunghissimo. E avevo così tanta paura da non riuscire quasi a respirare. Inoltre, sentivo molto freddo. >
Cercai di sdrammatizzare. < Credo che il freddo sia dovuto alla febbre. Appena qualche linea che però ti ha un po’ scombussolata. Per il resto, non mi sembra affatto un sogno stupido. >
< Sai, credo di essermi lasciata influenzare dalla terapia. >
La guardai perplesso e lei si affrettò ad aggiungere: < Oggi con Carlisle ho fatto un po’ di esercizi per la memoria. Lui ha citato mantelli neri ed incenso. Nel sonno devo averli collegati. È proprio una stupidata. A pensarci ora, a mente lucida, mi sembra impossibile essermi spaventata per così poco. > una risatina isterica sfuggì alle sue labbra.
< Dai, l’importante è che ora tu ti senta più serena. >
< Mi ha fatto bene parlarne. Mi ha fatto capire che in realtà non era un sogno così pauroso. Grazie. >
Poi nessuno dei due parlò più. Restai in camera con lei a lungo, in silenzio. Ci limitavamo a tenerci per mano, senza dire niente. Le sue palpebre tremavano mentre cercava di combattere contro i tranquillanti. Alla fine cedettero e lei chiuse gli occhi.
Pian piano il suo respiro si trasformò in un leggero russare. La osservai dormire a lungo, finche il mio cellulare non vibrò.

Era Alice. Mi aveva mandato un messaggio in cui mi diceva di raggiungerla nell’ufficio di Carlisle.

Lì trovai la mia famiglia al completo.
< Edward, ho ascoltato il racconto di Bella. > mi disse mio padre dopo che mi fui seduto vicino ad Emmett..
< Carlisle, ma cosa ti è saltato in mente? Proprio quelle cose dovevi descriverle? > ero infuriato. Cercai di non alzare la voce.
< Ho solo cercato di capire quanto l’amnesia fosse forte. Lei non ricorda niente ma certe cose le suscitano delle reazioni emotive. È per questo che, insieme a Charlie e Reneè, ho deciso di farle assumere degli antidepressivi. Non sono molto forti ma l’aiuteranno ad allontanare i brutti pensieri e le brutte sensazioni che prova pensando a determinate cose. Con queste… > e mostrò un flacone di pastiglie < si sentirà meglio, più serena. Dormirà più tranquillamente e non avrà incubi. In questo modo non si manifesteranno i ricordi spiacevoli sotto forma di sogni. Ovviamente, ai suoi genitori ho risparmiato la parte dei ricordi insopportabili inerenti ai Volturi. In effetti, sono bastati tutti gli altri eventi spiacevoli occorsi in questi due anni a convincerli a farle assumere le pastiglie. >
< Non credi sia eccessivo? Sono comunque antidepressivi… >
< Lo so. Però, oltre agli incubi, devi tener conto del suo stato di inquietudine. Ha perso due anni della sua vita. Si sente persa, spaesata. Con queste medicine non avrà più attacchi di panico e si sentirà più pronta ad affrontare il mondo di fuori. Le depressioni sono frequenti anche in casi più normali del suo, dopo un coma e un’amnesia. È lei… lei sta già mostrando i primi sintomi. È meglio agire fin da ora per evitare che la cosa degeneri. Inoltre, finché rimane a Forks mi prenderò cura io di lei ma poi andrà da uno psicologo.>
La sua arringa non faceva una piega. E poi, non ero io a dover decidere per lei.
< Reneè e Charlie sono d’accordo davvero? >
Lui annuì.
< Beh, allora non sarò certo io ad oppormi. Sebbene non mi sembri molto corretto nei suoi confronti. >
Alice si intromise nella nostra discussione: < Edward, quelle pastiglie le impediranno di ricordare certe cose… che potrebbero metterla in pericolo. In questo modo proteggiamo sia lei che noi. A Jacksonville andrà da uno psicologo che l’aiuterà a superare il trauma della perdita della memoria. Abbiamo già contattato alcuni specialisti. Reneè ha già parlato con due di loro. E poi, tu non vuoi che si senta male e viva con la paura che le venga un attacco di panico magari mentre prende un tram o fa la fila per la mensa, vero? Tu vuoi che lei abbia una vita normale. >
Alzai le mani oltre la testa, in segno di arresa. < Va bene, va bene. Ma cosa le direte? >
< Che le ho prescritto delle pillole che l’aiuteranno a combattere lo stato d’ansia. E, a ben vedere, è proprio così. >
Esme mi si avvicinò e mi strinse in un abbraccio materno.
< Edward, la tua è stata una decisione molto difficile ma anche saggia e generosa. Siamo tutti molto fieri di te, e del tuo coraggio. >
Evidentemente Carlisle non le aveva detto dei miei tentennamenti.
< Non sono coraggioso. Sono solo disperato. E poi, non sono ancora sicuro di averla presa questa decisione.> replicai io appoggiandomi alla sua spalla.

Non sapevo se sarei stato realmente in grado di lasciarla andare via da me. 

Qualche ora dopo, quando ormai stava facendo sera, andai nel parcheggio a salutare Phil e Reneè.
Il pancione cominciava ad intravedersi sotto al maglione e Reneè era molto stanca nonostante si fosse trattenuta con Bella solo per un’ora, durante la quale sua figlia aveva dormito.
< Edward, domani non vengo in ospedale. Devo preparare la casa per il ritorno di Bella. >
Phil sorrise divertito. < In realtà, ragazzo, ti dico io come finirà: Lei rimarrà seduta sul divano a darmi ordini e io sistemerò la casa per il ritorno di Bella. > Mentre diceva queste parole si chinò a baciare Reneè sulla guancia. Con la mano le accarezzò il pancione.
< Insomma, sono la donna incinta. Ho il dovere di stare seduta sul divano. Tu invece sei l’aitante sportivo della famiglia. Considera che ti sto permettendo di restare in forma. >
Entrambi ormai ridevano. Era chiaramente percepibile la loro felicità. Da quando Bella si era risvegliata, Phil si sentiva di nuovo in diritto di gioire per la gravidanza di Reneè, e lei lo stesso.
Li salutai e rimasi a guardare l’auto scomparire nella pioggia.
Mentre rientravo, vidi Charlie nella sala d’attesa. Aspettava me. Glielo leggevo nel pensiero.

Mi avvicinai e lui si alzò, sorridente e felice.

< Edward, vorrei parlarti. Posso offrirti un caffé? >
< No grazie. Ma parliamo pure. > mi sedetti e lui fece altrettanto. 
Teneva in mano una busta bianca. Se la rigirava tra le dita. Era a disagio.
< Edward, io ti devo ringraziare. Sei stato davvero un bravo ragazzo. Un bravo fidanzato per Bella, nonostante tutto. > e con la mente tornò ai mesi della mia assenza e alla depressione di sua figlia.
< E poi, in questi giorni così duri per tutti, tu hai dimostrato davvero una grande forza d’animo.
Inoltre, ti sono debitore. >
< No, non deve esserlo, ispettore. >
< Invece sì. Io sono sempre stato contrario al vostro matrimonio. Siete così giovani. Avevo paura che commetteste lo stesso errore mio e di Reneè… però ero disposto ad accettarlo se questo era ciò che davvero desideravate. Ed è per questo che ti sono grato. Dato quello che è successo, tu avresti potuto accanirti sulla storia del matrimonio, dire tutto a Bella e convincerla a sposarti comunque.
Ma non l’hai fatto. >
Sospirai e lui aggiunse:
< Pensi che non me ne sia forse accorto? Il modo in cui ti guarda, in cui pronuncia il tuo nome… Si è innamorata di te, di nuovo. Sarebbe bastata una tua parola e lei avrebbe fatto qualsiasi cosa tu le avessi detto.
Ma tu non te ne sei approfittato e, anzi, hai deciso di fare la cosa migliore per lei. Dirle che non stavate più insieme deve essere stato molto doloroso per te. È per questo che ti ringrazio.
Perché davvero ami mia figlia. E me lo hai dimostrato in ogni istante in queste ultime settimane.
Sei un ragazzo molto maturo, e molto in gamba per la tua. Spero davvero che tu possa essere felice nella vita. Te lo meriti. >
< Grazie ispettore, ma non credo di meritarmi la sua gratitudine. Ho provocato molti disastri e arrecato grandi sofferenze ad Isabella da quando stiamo insieme. Era mio dovere comportarmi come ho fatto. Se avessi seguito il mio cuore, adesso Bella avrebbe la fede al dito. L’avrei sposata nella cappella dell’ospedale il giorno stesso in cui ha riaperto gli occhi. >
Charlie mi diede una pacca sulla spalla e sorrise. < Sei davvero un bravo ragazzo. E sono felice che tu abbia seguito la testa invece che il cuore. Hai fatto la scelta giusta.
 Ah, a proposito, volevo darti queste. Sono delle foto di te e Bella. Quelle più “compromettenti”… > e sorrise timido.

Nella sua mente vidi quelle che aveva scelto di darmi. Tutte quelle dei preparativi del matrimonio e tutte quelle scattate a casa mia.
< Ho pensato che fosse meglio che lei non le vedesse. Sono quelle scattate in quest’ultimo periodo oppure a casa tua. Sai, così non c’è il rischio che… >
… che le scatti qualcosa nella testa che la spinga a ricordare. Continuai io mentalmente.
Annuii in silenzio, stringendo la busta al petto.
< Beh, adesso è meglio che io vada. Ci vediamo domani. >
< A domani ispettore. >
< Mi raccomando, cerca di dormire un po’. > mi consigliò prima di uscire. La sua mente stava analizzando le mie occhiaie violacee e il colorito cereo della mia pelle. Lo
accompagnai alla porta.

Appena sentii la sua auto partire, mi sedetti su una poltroncina e aprii la busta.
Osservai le foto con mano tremanti, una ad una.
E ogni immagine era una coltellata inferta al mio cuore immobile e morto ma ugualmente sanguinante.
Io la amavo.
Però, con l’ultimo briciolo di lucidità, mi resi conto che dovevo fare il suo bene.
Dovevo permetterle di essere libera e felice… e umana.
Forse esisteva davvero un Dio tanto buono da avermi concesso la possibilità di lasciarla vivere.
Dietro di me Carlisle mi poggiò una mano sulla spalla in modo paterno.
< Allora, hai fatto la tua scelta? > mi domandò senza rimprovero.
Annuii lentamente.
< Sì. >

L’avrei lasciata andare.

Che altro avrei potuto fare?

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Sometimes I feel I'm gonna break down and cry ***


5

Eccomi qui. ho aggiornato oggi perché, terra terra, avevo un po’ di tempo (fra 15 minuti viene il ragazzino delle ripetizioni di latino. Troppo poco tempo per fare qualsiasi cosa ma abbastanza per pubblicare!) e il pc acceso.

Ho appena finito di scrivere il cap 11 ma, per quanto riguarda Con ogni singolo battito… ho cancellato quanto avevo scritto perché non mi soddisfaceva. Adesso lo riscrivo e vedo se riesco a far uscire qualcosa di decente.
Volevo rispondere alle recensioni ma non ne ho avuto il tempo (non era preventivato pubblicare oggi) quindi vi manderò delle mail!
Ciao e al prossimo cap. credo posterò nel week-end.

Ps: dal cap 9, succederanno delle cose per le quali spero non mi impiccherete. Non pensavo neanch’io di essere così sadica e che quel personaggio fosse così… perfido! Cominciate già a pensare che non volete ammazzarmi così, quando avrò postato quei cap, sarete abbastanza padrone di voi da non uccidermi (PS: non è Edward) 

Grazie a tutte per i bellissimi commenti. Ora vi lascio così vado a prendere il dizionario e la grammatica. à che gioia…
Un grazie particolare alla talentuosa Keska!
Ciao,
          Erika

 Cap 5

Sometimes I feel I'm gonna break down and cry
Qualche volta mi sembra di essere
sul punto di crollare  e di scoppiare a piangere.

 

Bella’s POV 

< Bella, tira su il finestrino. Rischi di ammalarti. >

Piccole gocce di pioggia si infrangevano sul mio volto. Alcune mi lambirono le labbra. Sapevano di buono, di fresco, di libertà…
< E dai, per favore. È così bello sentire l’aria sul viso. Mi sembra di essere così… così libera.
E questo odore di muschio e di montagna. Mi piace tantissimo. È come correre nei boschi. >
Non continuai notando, nello specchietto retrovisore, l’espressione affranta di Edward.
Eravamo sulla sua auto, una volvo davvero bella, e lui mi stava riaccompagnando a casa. Io ero seduta al posto del passeggero mentre mio padre sul sedile posteriore.
Charlie, non avendo visto il viso di Edward, mi prese in giro. < Sai, quando sei arrivata qui non sopportavi tutto questo. Dicevi che era tutto troppo verde e bagnato. Sono contento che adesso tu apprezzi la natura rigogliosa di Fork. >
< Sì. Evidentemente ho imparato ad amare questo posto, anche se è tutto così verde, bagnato e scivoloso. > abbozzai una risata ma loro due si incupirono. Evidentemente pensarono all’incidente. Quello di cui non ricordavo niente… Sapevo solo quello che mi era stato raccontato e cioè che un’auto aveva sbandato sull’asfalto bagnato e mi aveva più o meno centrata. Rabbrividii pensando a quanto mi dovesse aver fatto male. Appena risvegliata, imbottita di morfina e a venti giorni dall’incidente, mi ero sentita malissimo. Quello probabilmente era stato niente rispetto al momento in cui mi ero schiantata contro il parabrezza o sull’asfalto.
< Tutto bene? > mi chiese Edward, a cui non era sfuggito il mio fremito.
< Sì… mi è solo venuto freddo. > sussurrai appoggiandomi allo schienale. Lui alzò il finestrino ed accese il riscaldamento.
< Tra poco siamo arrivati. >
< Sì, lo so. Dov’è la casa di mio padre me lo ricordo ancora. > risposi acida più del dovuto.
Alla seconda curva, riconobbi il viale che portava a casa di Charlie. non era cambiata da come me la ricordavo.
Il bosco lambiva ancora le case e la piccola villetta appariva un po’ cupa. Certamente era colpa dei colori spenti di quel luogo. Le nubi spesse e dense non lasciavano filtrare molta luce…

Eppure, mi piacque, più di quanto ricordassi. Mi sembrava “ casa ” come non era mai successo.  

Edward parcheggio con particolare maestria nel vialetto posizionando velocemente l’auto in modo che il muso desse sulla strada. Il tutto in poche e precise manovre. Sembrava un guidatore molto esperto. Anche lungo il tragitto avevo avuto quest’impressione.
Prima che avessi slacciato la cintura lui era già alla mia portiera. Me la aprì e mi aiutò a slacciarmi le cinture di sicurezza. Il braccio mi faceva ancora un po’ male e Carlisle mi aveva raccomandato di non sforzarlo e di non compiere torsioni o gesti innaturali.

Mi porse la mano e mi aiutò ad uscire dal veicolo. Mi strinse il braccio intorno al bacino e con l’altro mi sostenne la schiena. Io arrossii e Charlie ci ignorò, precipitandosi un po’ troppo di fretta dentro casa. 
< Grazie… > sussurrai imbarazzata dal momento che Edward,mentre procedevamo lungo il vialetto, sosteneva quasi tutto il mio peso.
< Di niente. > Mi guidò verso l’ingresso e poi, senza che riuscissi a distinguere i suoi movimenti, mi afferrò per il bacino. Mi ritrovai in cima ai quattro gradini dell’ingresso, in veranda, nel giro di un battito di ciglia.
< Vieni, aspetta qui. > e mi fece appoggiare contro la ringhiera. Mi aprì la porta e,  tenendomi per mano,mi condusse in casa.
L’ingresso era buio e silenzioso. Mi strinsi a lui che mi accarezzò la guancia. Mi guidò fino al divano. < Ecco, siediti. > Mi disse ed io mi accomodai sul divano.  Vidi che si allontanava e gli chiesi: < Dove vai? >

< Vado a prenderti un bicchiere d’acqua. Torno subito. >

Si muoveva nella camera buia con naturalezza. sembrava conoscere benissimo la disposizione dei mobili. Mi chiese quante volte fosse stato in casa mia ed arrossii. Dentro casa faceva caldo e mi tolsi la felpa. Proprio in quel momento si accese la luce e degli applausi mi fecero sobbalzare. Mi portai la mano al cuore che batteva velocissimo.
Sentii mia madre che mi diceva: < Bentornata piccola! > e poi altri applausi.
Confusa osservai le persone che si erano affrettate ad entrare nella stanza.
Continuavano a dire il mio nome e a sorridere felici, applaudendo. Tutto quel fracasso mi faceva venire il mal di testa. Cercai di sorridere anche io per non sembrare scortese sebbene non riconoscessi circa la metà di quelle persone.
Mia mamma si sedette accanto a me sul divano e mi baciò la guancia.

< Bella, tesoro, ti abbiamo organizzato una piccola festa per augurarti il bentornato. Esme ha anche preparato una torta… > e sorrise speranzosa. Io feci altrettanto solo per farla felice.

Una festa… sai che bello.

< Bentornata a casa, Bella. > Cinguettò Alice prendendomi le mani.
< Tieni. Questi sono per te. > mi disse Rosalie porgendomi dei fiori. Notai che non era l’unico mazzo. Ce ne erano altri tre sul tavolo.
< Grazie. > dissi imbarazzata. Li presi e li annusai. Fresia e rose.
Tutti i fratelli di Edward mi vennero vicino e mi fecero gli auguri di pronta guarigione. Mi diedero baci sulle guance e strette di mano. Io a malapena sapevo i loro nomi mentre loro,sicuramente, sapevano tutto di me. Questo mi faceva sentire a disagio.
Quando tutti loro mi ebbero salutato, fu il turno di Esme. Sebbene non dimostrasse più di venticinque anni, la madre adottiva di Edward aveva un’aria molto materna, soprattutto nei miei confronti. Quando tutti i Cullen mi ebbero salutato, appoggiai i fiori di Rosalie sul tavolino vicino al divano. In quel momento incrociai lo sguardo di un ragazzone enorme, dalla carnagione scura e i corti capelli neri. Sicuramente era di La Push. Ricordai che era venuto a trovarmi il giorno dopo il mio risveglio, insieme a Billy,l’amico di mio padre.

Poverino. Era finito su una sedia a rotelle dopo un incidente in auto.
Ringraziai di nuovo la mia piccola buona stella che mi aveva permesso di camminare ancora.
Il giovane era poggiato al muro e mi fissava. Avrebbe dovuto intimorirmi per la sua stazza e il suo sguardo frustato ma non fu così. Mi alzai e mi avvicinai a lui. Con la coda dell’occhio vidi Edward abbassare il capo e andare velocemente in cucina. Il volto livido.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena ed ebbi l’impressione di aver capito cosa fosse successo tra noi. E mi vergognai moltissimo. Lo avevo tradito con quel ragazzo? Mhm… L’indiano sembrava troppo grande per me. Dimostrava circa ventotto anni. Io ne avevo appena diciassette. No anzi… diciannove. Beh… in effetti non sarebbe stato poi tanto più grande di me…

Scossi il capo. Non poteva essere. Mi sistemai i capelli dietro l’orecchio, in imbarazzo.
< Ciao Bells. > la sua voce era profonda, roca. Mi emozionò.
< Ciao. > deglutii e poi proseguii: < Tu sei il figlio di Billy? > si avvicinò e mi accarezzò la testa.
< Sì. Sono Jacob. Sono venuto a trovarti, in ospedale. Ricordi? >
< Sì. Ma scusa, se sei il figlio di Billy… non dovresti essere più piccolo di me? >
< In effetti è così. Sto per compiere diciassette anni  infatti. >
< Oddio, ma sei così… >
< Grosso? > mi incoraggiò lui.
< Sì, in effetti sì. Non volevo offenderti. >
< Non preoccuparti. Sai, tu non te lo ricordi ma noi di solito passavamo il nostro tempo in questo modo. Ridendo e litigando. >
Vicino a lui mi sentivo a mio agio, proprio come mi succedeva quando stavo con Edward. Strano. Di solito con i ragazzi ero sempre una frana e non riuscivo mai ad essere me stessa.
< Comunque, devo dire che non li dimostri diciassette anni. > gli dissi osservandolo meglio.
< Sì, lo so. E sappi che non è la prima volta che me lo dici. Però, noi di La Push, ci sviluppiamo piuttosto presto. Anche i miei amici sono piuttosto cresciuti per la loro età. >
Mi appoggiai anche io al muro, sospirando. Non ero più abituata a restare in piedi.
< Se sei stanca, possiamo sederci sul divano. >
< No. Sono stata seduta fino ad adesso. In ospedale non mi facevano fare niente. >
Lui non aggiunse niente.
< Eravamo molto amici, vero? > lo capivo dalla calma che provavo a stargli vicino.
< Sì. Molto. >
< Posso chiederti una cosa? >
< Dimmi pure. >
< Forse ti sembrerò sgarbata ed inopportuna ma, davvero, devo sapere. È così difficile non sapere… Però non vorrei offenderti. >
< Non mi offenderai. Cosa vuoi sapere? >
< Però devi essere sincero. >
< Sarò sincero. Te lo prometto. >
< Noi eravamo solo… amici? >
Sorrise mesto e chinò il capo. < Sfortunatamente sì. Io avrei voluto che fossimo qualcosa di più ma tu mi hai sempre considerato solo come un amico. Il tuo migliore amico ma pure sempre solo un amico. >
Ero sollevata. Perché, in effetti, per lui provavo attrazione. Un’attrazione diversa da quella che sentivo nei confronti di Edward, questo è vero, ma pur sempre abbastanza forte da farmi dubitare della mia integrità morale.
< Grazie. >
< E di che? > mi domandò un po’ curioso.
< Di essere stato sincero. Di essere stato mio amico. E, in ospedale, di non avermi trattato come se fossi malata quando sei venuto a trovarmi.. >
< Beh, so che a te non piace sentirti al centro dell’attenzione. > Sorridemmo entrambi. < Ti ho trattato come faccio sempre. E poi, poteva andarti peggio. > io guardai Billy ed annuii, quasi vergognandomi di poter camminare mentre lui era bloccato sulla sedia a rotelle. Jacob invece mi osservava e pareva volesse scrutare nel profondo della mia anima. Stringeva i pugni che tremavano.
< Ehi Bella, siamo tutti molto felice di vederti fuori dall’ospedale. > mi disse un ragazzo biondo (si chiamava Mike, credo) e un po’ sgraziato che si era avvicinato. Dietro di lui un gruppetto di ragazzi che, mi aveva detto Edward, erano miei compagni di liceo. Riconoscevo alcuni di loro. Quelli che erano venuti a trovarmi in ospedale.
Una delle ragazze si chiamava Jessica ma non mi stava troppo simpatica. Quell’altra, Angela, mi sembrava gentile. Ce ne era uno, Tyler mi pare si chiamasse, che era molto scosso. Lui continuava a scuotere la testa e a ripetermi che ero proprio sfortunata con le auto. Chissà perché…
E poi la bionda platino. Quella non mi era piaciuta neanche un po’ quando era venuta a trovarmi. Non aveva smesso di fissare me ed Edward e di analizzare ogni cosa della mia camera d’ospedale. L’avevo sentita bisbigliare una frase poco carina all’orecchio di un ragazzo, mi sembra si chiamasse Erik. Edward in quell’occasione aveva stretto il pugno e sibilato qualcosa tra i denti. Non avevo capito cosa stesse dicendo ma ero certa che fosse estremamente adirato.
Mi ero chiesta perché fosse venuta a trovarmi se poi non aveva fatto altro che fare commenti sgradevoli. Mi posi la stessa domanda là, nel salotto. Tutti i miei ex compagni, lei compresa, mi vennero vicino e mi diedero un bacio sulla guancia. Si intrattennero poco per fortuna. A parte quella chiamata Angela, gli altri mi sembrarono un po’ finti…  Fui felice quando, dopo appena dieci minuti,il ragazzo biondo, Mike, disse: < Bella, noi adesso andiamo. Il dottor Cullen non vuole che ti stanchi troppo. Speriamo che tu possa presto… >
Non completò la frase. Si morse la lingua come se avesse fatto un’enorme gaffe. Io sorrisi, facendo finta di niente, e ringraziai per gli auguri ed i fiori. Li salutai con la mano dalla finestra.
< Contenta che te se ne siano andati? >  Mi chiese il ragazzo di La push.
< Beh, mi ha fatto piacere che siano venuti a trovarmi ma preferisco stare tranquilla. Non mi piace molto la confusione. E ultimamente ho sempre mal di testa. >
< Ne hai parlato, di questo mal di testa, con dottor Canino? >
< Come scusa? > gli domandai, sicura di non aver capito bene il nome.
Lo vidi illividire e mordersi il labbro. In quel preciso momento Edward comparve come dal nulla.
< Jacob. Credo che sia meglio che Bella si riposi un po’. > mentre diceva queste cose, Edward fulminò Jacob con lo sguardo. Nonostante i suoi capelli ramati non arrivassero nemmeno alle spalle del giovane indiano, Edward pareva sovrastarlo. Gli sibilò qualcosa di incomprensibile e poi mi cinse la vita, guidandomi verso il divano.

Mia mamma mi tagliò una fetta di torta e mi porse il piatto. Lei teneva il suo sulle ginocchia. Mangiammo insieme, in silenzio.

Quando lei ne prese una seconda fetta, disse: < Questo bimbo mi farà ingrassare a dismisura. >

Phil, seduto vicino a lei, le disse: < Mi piacerai comunque, lo sai. >
La guardai allibita. < Mamma? > Lei sorrise birichina, poi mi prese le mani. Le brillavano gli occhi.
< Oh, Bella. Non sapevamo proprio come dirtelo. È una bellissima notizia. Aspetto un bambino. Avrai un fratellino. Non è meraviglioso? Sai, non te lo abbiamo detto prima perché non volevamo agitarti. Ma è una cosa splendida! >
Ero totalmente inebetita. Mia madre incinta? Oddio! Questa cosa era davvero sorprendente. Mi lasciai abbracciare da lei e poi le baciai le guance.
< Oh, mamma! Sono così contenta per voi! >
< Pensa come saremo felici tutti e quattro a Jacksonville! Ho gia pensato a dove fare la stanza del piccolo. Sarà la stanza attigua alla tua, nella mansarda. Non preoccuparti, tu avrai un bagno personale lo stesso. Ti piacerà la casetta che io e Phil abbiamo comprato. Quando sei venuta a trovarci, ti era piaciuta molto… > La lasciai parlare non ascoltandola più. Avrei avuto un fratellino. Sì, mi sarebbe piaciuto molto.
Ma aveva anche detto che saremmo andati a Jacksonville. E quindi non avrei avuto più speranze di rivedere Edward…
Jacob venne a salutarmi spingendo la carrozzina di Billy mentre ero ancora intontita dai miei pensieri.
Si chinò a baciarmi la fronte e all’orecchio mi sussurrò: < Spero che tu ti diverta a Jacksonville. Se torni qui a Forks per le vacanze, fammi uno squillo. Magari ci facciamo un giro insieme. Ti farò visitare La Push. >
< Ok. A presto Jacob. > risposi educata. Lui sorrise mesto e mi disse: < A presto Bells. >
Mio padre li aiutò a scendere i pochi gradini della veranda e poi tornò dentro.

In casa adesso erano rimasti soltanto i Cullen e la mia famiglia.
I fratelli di Edward chiacchieravano tranquilli. Reneè e Phil discutevano sul colore delle pareti della camera del mio fratellino e Charlie era andato a rispondere al telefono.
Cercando di non farmi notare,mi alzai dal divano e sgattaiolai al piano di sopra. Prima di entrare in bagno gettai un occhio nella mia stanza. C’erano un sacco di cose che non riconoscevo. E poi c’erano anche alcune cose che dovevo essermi portata da Phoenix. Riconobbi il mio vecchio beauty-case (che pareva molto più sgualcito di quanto mi ricordassi) e i miei pantaloni della tuta poggiati sulla sedia a dondolo. La mia collezione di dischi era notevolmente aumentata. Non potei non notare il PC portatile che faceva bella mostra di sé sulla scrivania, vicino ad un I-pod dall’aspetto estremamente moderno e ad una fotocamera digitale nuova fiammante.

Senza badarci troppo entrai nel piccolo bagno e mi chiusi la porta alle spalle dando due giri di chiave.

Mi osservai allo specchio, con attenzione. Non mi sembravo molto diversa rispetto a quella che ricordavo di essere. Sì, i capelli erano un po’ più lunghi… anzi, decisamente più lunghi. Per il resto ero sempre io. A parte il pallore. Ero sempre stata molto chiara di carnagione ma il colore della mia pelle adesso aveva un qualcosa di malato, di opaco. E poi c’erano le cicatrici. Alcune erano vecchie come quella sulla fronte. Almeno sette punti a giudicare dalla lunghezza. C’era quell’altra sul braccio. Risaliva almeno a qualche mese prima. Era lunga e dalla forma strana. Notai anche quella a forma di mezzaluna sulla mano. Non ricordavo assolutamente come mi fossi procurata tutte quelle ferite.

E poi c’erano quelle piccole cicatrici ancora violacee sulle guance, sulla fronte, sul collo, sulle braccia… quelle risalivano a un mese e mezzo prima. Me le ero procurate nell’incidente con le schegge di vetro o contro l’asfalto. Per fortuna che non potevo vedermi la schiena e tutte le abrasioni che c’erano.

Mi passai una mano sul viso. Carlisle diceva che le cicatrici dell’incidente, quelle più piccole e simili a tagli, sarebbero scomparse del tutto nel giro di qualche settimana e che non avrei dovuto preoccuparmi. Per quelle più evidenti avrei dovuto aspettare ancora un po’ ed applicare la crema due volte al giorno. Mi aveva però assicurato che sarebbero svanite anche quelle.
Sarebbero svanite come i miei ricordi…
Rimasi a fissare il mio riflesso a lungo. Dentro di me sentivo un vuoto freddo ed incolmabile.
Non volevo partire.
Non volevo lasciare Forks e non volevo lasciare Edward. Mi sentii sola. Terribilmente sola.
E avevo paura.
Non sapevo cosa fosse successo nei quasi due anni precedenti e questo mi faceva sentire totalmente insicura. Non sapevo che tipo di persona fossi diventata,  come passassi le mie giornate, com’erano i miei voti a scuola…

Ma soprattutto non sapevo se avrei mai potuto convincere Edward a tornare da me.

Perché, nonostante, per quanto potessi ricordare, lo conoscessi da solo un mese e mezzo, non sapevo come avrei fatto a vivere senza di lui.

Mi ero innamorata irrimediabilmente di quel ragazzo e non avevo mai provato niente di simile per nessun altro. Mai.
Sapevo che con lui avrei potuto essere felice.
Ma soprattutto, sentivo la necessità di averlo vicino. Mi faceva sentire protetta, al sicuro, amata.
Sapere che sarei andata a vivere a Jacksonville e che molto probabilmente non lo avrei più rivisto era intollerabile. Non avrei mai sopportato di vederlo partire di lì a tre giorni.

Sapevo che in quel preciso momento mi sarei completamente sgretolata, perdendo il mio punto di appoggio. Perdendo Edward…

La sola idea mi faceva star male. Mi girava la testa.
Sentii un forte dolore al petto. Avevo la nausea. Riuscii a malapena a spostarmi sul water prima di vomitare. Mi sentii in colpa. Povera Esme, la sua torta era così buona e io… il mio pensiero venne spazzato via da un altro violento attacco.
Quando, con i gomiti poggiati alla tazza, i miei conati non potevano espelle più niente, i singulti cominciarono a rivoltarmi lo stomaco ormai vuoto. Colpi di tosse mi scuotevano il corpo. mi feci forza e mi alzai in piedi. Le mie gambe tremavano. Raggiunsi il lavandino e mi sciacquai la bocca. Avvertivo il sapore di bile sulla lingua. Mi faceva sentire peggio.

 Riuscii ad aprire l’acqua e prima mi sciacquai la bocca poi il viso. La testa mi pareva scoppiare. Era pesante. Sentivo che il sangue vi si era concentrato nello sforzo dei conati e a causa della posizione. Alzai lo sguardo e vidi il mio volto arrossato. Gli occhi erano rossi e notai i capillari rotti. Ero orribile. I capelli, bagnati d’acqua e lacrime, mi rimanevano appiccicati al viso.
Mi colava il naso e mi mancava l’aria. Ansimavo.
Cercai di lavarmi ancora il viso come se così potessi allontanare da me la paura e i dubbi.
Mi sciacquai il volto diverse volte e poi mi asciugai tamponandolo con l’asciugamano.

Senza volerlo indietreggiai fino a sfiorare con la schiena il muro. Non volevo vedere, non volevo sentire.

Se mi fossi guardata di nuovo allo specchio avrei avuto la certezza che, alla fine, anche io ero andata in pezzi come una bambolina di vetro troppo fragile, scivolata dalle mani di qualcuno non troppo attento…

Qualcuno che non era stato capace di frenare in tempo su una strada bagnata… 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** On the ground I lay, motionless in pain… ***


cap 6

(scusate, avevo per sbaglio cancellato, pensavo di aver messo una cosa sbagliata e invece no.-> cervello fritto)
Sono in stra-ansia da esame… lunedì incombe… penso che correrò a studiare
Buona lettura

Ps: Keska, sei troppo buona! E brava
Pps: queste sensazioni sotto descritte, so che potranno sembrarvi magari esagerate ma sappiate che in realtà sono vere e reali. Mi ci sono documentata a lungo. 
Un bacio 

            Erika

Cap 6 

On the ground I lay, motionless in pain…
Giaccio sul pavimento,
immobile e in preda alla sofferenza…

Bella's POV

Sentivo che stavo perdendo il controllo su di me. Mi mancava il respiro e le lacrime avevano ricominciato a scorrere lungo le mie guance,assorbite dall’asciugamano che ancora tenevo sul volto.

Avevo paura e mi sentivo sola. Terribilmente sola.

Le gambe cominciarono a tremarmi e io mi lasciai scivolare contro il muro del bagno fino a ritrovarmi seduta per terra. Oramai singhiozzavo, accovacciata nell’angolo tra la vasca e il muro, di fronte al lavandino e allo specchio. Raggomitolata per terra non ero più costretta a vedere il mio riflesso nello specchio. Mi rannicchiai su me stessa nel tentativo di farmi piccola piccola, di ripararmi dal mondo esterno, di proteggermi. Con un braccio mi coprii il volto, con l’altro strinsi di più le gambe al mio petto. Nel far questo mi girai. La schiena era appoggiata alla vasca e le punte dei piedi sfioravano il muro lungo il quale mi ero accasciata prima. Fissavo, senza realmente vederlo, il mobiletto del bagno affianco al gabinetto, alla destra della porta.
In questo modo, raggomitolata nell’angolino, mi sentivo un po’ più protetta.
Era tutto estremamente irrazionale eppure mi sembrò l’unica soluzione possibile. In quella posizione cercai di evitare che i pezzi in cui mi ero frantumata si disperdessero. L’asciugamano giaceva abbandonato accanto a me.
Tra i singhiozzi mi resi improvvisamente conto che qualcuno bussava ansiosamente alla porta.

Vidi la maniglia muoversi ma ovviamente non potevano aprire dato che avevo chiuso a chiave.

< Bells? Bells? Mi senti? Bells? È chiuso a chiave. Apri. Bells? Riesci a sentirmi? Aprimi per favore. Mi stai facendo preoccupare. > Era la voce di Charlie, in preda al terrore.
Serrai gli occhi e non risposi. Non volevo sentire nessuno. Non volevo vedere nessuno.
I colpi alla porta si fecero più energici e io cominciai a singhiozzare più forte. Ormai il respiro era totalmente fuori controllo e mi girava la testa. Sentivo uno strano formicolio alle gambe e alle braccia. Mi sembrava che un mattone pesante fosse schiacciato contro al mio petto. Soprattutto però, non riuscivo assolutamente a muovermi. I miei ansiti riempivano il piccolo bagno.
I colpi forsennati di Charlie si interruppero e per qualche istante sentii solo i miei singhiozzi e i miei gemiti. Qualcuno sussurrava qualcosa dietro alla porta. Sentii dei passi allontanarsi lungo le scale.  Poi, di nuovo, qualcuno bussò. I colpi erano meno ravvicinati e più fermi.
< Bella. Apri per piacere. >  Era la voce di Carlisle, autoritaria e gentile allo stesso tempo.
Sentendola, cominciai a singhiozzare più forte e mi parve di soffocare.
Lui smise di battere alla porta e, mantenendo lo stesso tono di voce suadente e sereno, mi disse: < Bella, ti sei chiusa nel bagno. Non posso entrare se non mi apri. Ti prometto che non entrerà nessun altro. Voglio solo accertarmi che tu stia bene. So che sei spaventata adesso. Ma ti assicuro che non hai niente da temere. >
In quel momento sentii mio padre gridare dal piano inferiore: < Carlisle, ho trovato la chiave di riserva. > e poi distinsi i suoi passi pesanti salire di corsa le scale. Si scambiarono poche parole veloci poi Charlie scese nuovamente le scale.

Non riuscivo più a controllare i singulti che oramai mi bloccavano il respiro. Non sentivo più le gambe e le mani. Ero intorpidita. Avevo freddo.
Carlisle ricominciò a parlare. < Bella, mi senti? Ho mandato via Charlie e gli altri. Ci siamo solo tu ed io adesso. Riesci a parlarmi? Posso entrare? Se vuoi, mi siedo qui e aspetto che tu mi apra. >
Non lo ascoltavo più. Mi strinsi di più su me stessa. Ero immobile, per terra. Il respiro fuori controllo stava facendo impazzire il mio cuore. Sentivo il battito rimbombarmi nella testa.
Mi immaginai gli altri, i miei genitori e la famiglia di Edward, al piano di sotto tutti intenti a pensare a me, parlare di me, a compatirmi.
Io non volevo questo. Non lo volevo. Desideravo che nessuno si accorgesse della mia assenza e adesso invece erano tutti preoccupati per me. Non volevo che succedesse questo.
Avrei voluto sparire, svanire… avrei voluto aver sbattuto più forte contro il parabrezza. Avrei voluto essere morta.
In tutto il tempo in cui avevo elaborato questi pensieri, Carlisle aveva continuato a parlare. Non lo avevo minimamente ascoltato.
Adesso però la sua voce tornò alle mie orecchie ed io tremai. Tremai di paura e vergogna.
< Bella. Sono preoccupato. Tu non mi rispondi. Voglio solo accertarmi che tu stia bene. Se non mi apri tu, aprirò con la chiave di riserva. >
Attese che rispondessi ma io non riuscivo a fare altro che singhiozzare.
< Mi dispiace ma devo entrare. Adesso apro la porta. >
E così dicendo udii un rumore metallico.
< Sto aprendo la porta. >
Socchiusi gli occhi e, senza scostare il braccio con cui mi coprivo il volto, vidi la chiave dorata cadere sulle piastrelle rosse del pavimento. Tintinnò con suoni lievi e cristallini in quei suoi rimbalzi strozzati e poi rimase ferma, immobile.
Carlisle aveva inserito la chiave di riserva nella toppa.
La girò piano. Ci fu rumore. Un cigolio…
< Eccomi, sto entrando. > la sua voce era sempre calma e pacata.
Poi la porta scattò.

La intravidi socchiudersi e serrai gli occhi, come se non potendo vedere lui, allora lui non potesse vedere me. Immediatamente lui la chiuse alle sue spalle perché sentii un sonoro tonfo.

Due istanti dopo era già in ginocchio affianco a me.
< Bella? Bella? > Le sue mani erano delicate e discrete. La sua voce autoritaria ma tranquillizzante.
Mi costrinse ad allontanare le braccia dal volto. Nonostante avessi cercato di voltarmi e di dargli la schiena, non riuscii nel mio tentativo. Le sue braccia fredde erano forti e mi impedivano qualsiasi movimento. Mi sentii in trappola.

La mia reazione fu per me inspiegabile.

Come una vera cretina cominciai a scalciare e urlare. Gli gridavo di lasciarmi, di non toccarmi. I miei strilli acuti di sicuro avrebbero solo attratto ulteriormente l’attenzione. E questa considerazione non fece che aumentare la mia ansia, e di conseguenza il tono delle mie urla.
Non mi accorsi che era entrato qualcun altro, forse perché le mie grida coprivano ogni altro suono, ma poi mi resi conto che con noi c’era anche Edward. Cercava di tenermi fermo il capo. Mi stavo facendo male sbattendo da tutte le parti. Mi muovevo con gesti inconsulti. Le ferite alla schiena mi dolevano.
< Carlisle? > Chiese Edward allarmato.
< Ha una crisi isterica. E prima credo che abbia avuto un attacco di panico. Prendi la siringa che c’è nell’astuccino dentro la mia borsa. Nella terza tasca interna. È il suo calmante. >
Sentii Edward armeggiare con qualcosa vicino alla mia testa.
Siringa? Aghi? Cominciai a tremare violentemente. Ansimavo senza più lacrime. Le  mie urla erano state soffocate da un altro conato di vomito. Edward ora cercava di tenermi ferma e mi sussurrava parole confortanti all’orecchio, per tranquillizzarmi.

Quando gli spasmi del vomito si furono calmati, cercai di divincolarmi dalle loro prese ferree  per rannicchiarmi di nuovo su me stessa.
< Edward, è in iperventilazione. > disse Carlisle cercando di farmi mettere supina e contemporaneamente di sollevarmi le gambe.. Edward, il cui volto era sopra il mio sebbene girato al contrario, mi asciugò gli occhi dalle lacrime con le sue dita gelide. Mi resi a malapena conto che mi teneva la testa tra le ginocchia.
< Bella, guardami negli occhi. Guarda me. > Non sentivo più il mio corpo. Non riuscivo a muovere volontariamente i muscoli. Gli spasmi non mi avevano ancora del tutto abbandonata.
Cercai di obbedire, tentando di ignorare la presa di suo padre sul mio braccio. Poi sentii la punta di ferro penetrare nel muscolo del mio avambraccio. Cercai di allontanare il braccio ma la presa salda di Carlisle mi impedì di muoverlo. Nei punti in cui mi stavano stringendo con le mani l’indomani sarebbero comparsi dei grossi lividi violacei.
Lentamente, sentii le forze abbandonare il mio corpo. tutto mi parve inconsistente.
La mia rabbia, la mia solitudine, le mie paure, la mia ansia.
Ricominciai a respirare normalmente e qualche minuto dopo mi resi conto di essere davvero sdraiata sul pavimento del bagno.
Era stato tutto reale… oddio, che vergogna. Avrei voluto sollevare il braccio per coprirmi il viso. Impedire a Edward e Carlisle di vedermi, di giudicarmi. Ma il braccio era troppo pesante e io mi sentivo stanca. Stanchissima.
Era successo tutto per davvero? Avevo davvero perso il controllo di me stessa in quel modo?
Com’era possibile? Ero davvero io, quella sdraiata per terra?
Mi sembrava di guardarmi dall’alto. Mi sentivo distaccata.  No, non potevo essere io… io non perdevo il controllo in quel modo. 
Quello che era successo non poteva essere vero… era assurdo...
Sbattei di nuovo le palpebre. Il braccio mi pulsava.

< Bella? Bella, piccola… adesso ti portiamo di là. > mi sussurrò Edward chinando il capo in modo da sfiorare il mio naso con il suo. Mi teneva ancora ferma. La mia testa era ancora tra le sue ginocchia e le sue mani mi immobilizzavano i polsi. Mi teneva le braccia alzate rispetto al corpo.
Mi resi conto che avevo i piedi poggiati sulla borsa di Carlsile. Cercai di toglierli ma lui me lo impedì facendo una leggera pressione con il braccio destro sotto alle mie ginocchia.

< Non preoccuparti. Resta così ancora un po’. Questa posizione permette un maggiore afflusso di sangue al cervello, al cuore… non preoccuparti della borsa. >

La sua mano sinistra era posata sulla mia gola. Mi stava prendendo il battito.
Cercai di voltare il capo ma Edward me lo impedì. Per fortuna…
Anche il solo tentativo mi provocò un altro attacco di nausea.

< Stai ferma per un po’. >
< Edw…ard. >
< Sht, sht. Non preoccuparti. Non piangere. >

Chiusi di nuovo gli occhi. Ero stanca. Terribilmente stanca.
Avvertii appena le mani gelide di Carlisle passarmi un asciugamano bagnato sul volto. Stava cercando di lavarmi un po’ la faccia. L’acqua era calda. Piacevole.
Edward mi teneva ancora le braccia alzate e ormai sentivo un fastidioso formicolio propagarsi dalle dita verso il mio corpo.
< Edward… pizzica… >
Probabilmente capì a cosa mi riferissi e ridacchiò. < Porta pazienza ancora qualche minuto. >
< Ho freddo. Sei freddo. >
< Tu invece sei un po’ troppo calda per i miei gusti… > mi sussurrò poggiando le labbra sulla mia fronte sudata. La sua bocca indugiò per alcuni istanti sulla mia pelle.
Inarcai la schiena involontariamente e lasciai scivolare la testa all’indietro mostrando il collo. Era una reazione involontaria del mio corpo al suo bacio casto.
Lo sentii chiaramente digrignare i denti.
Mi baciò la pelle sottile sulla giugulare ed io fremetti, gemendo. Mi mordicchiai il labbro inferiore.
Il mio corpo rispondeva agli stimoli senza aspettare le direttive del cervello. Non era da me comportarmi in un modo tanto sfacciato e disdicevole.
Solo in quel momento, con quel gesto della testa, mi accorsi che mi avevano messo un asciugamano morbido e ripiegato su se stesso sotto al capo. Ecco perché non mi doleva. O per lo meno, ecco perché non sentivo il duro delle piastrelle sotto alla testa. Per il resto il capo mi faceva un male atroce. Ogni suono lo sentivo amplificato. Ogni movimento mi destabilizzava e se provavo ad aprire gli occhi cadevo preda delle vertigini.
Pigolai: < Ho freddo. sono scomoda… >
Udii Carlisle dire: < Mi sembra si sia calmata. Portiamola in camera. >
Avrei tanto voluto che fosse Edward a sollevarmi ed invece mi resi conto di essere tra le braccia salde di Carlisle. Lui mi strinse al petto, protettivo, e poi uscì sul pianerottolo. Mi aveva sollevato come fossi una bimba piccola, come se non pesassi niente. un suo braccio era sotto le mie ginocchia, con l’altro mi sosteneva la schiena. La mia testa giaceva inerme sulla sua spalla.

Intravidi Charlie ed Alice e sapevo che, se non avessi nascosto il viso nel petto di Carlisle, avrei visto anche gli altri osservami ansiosi. Tante statue di cera sul pianerottolo.

Ma non volli vedere. Non volli sentire.  Chiusi gli occhi così forte da farmi aumentare il mal di testa. Mi rifugiai sul petto di Carlisle che mi coprì il capo con la mano, come se volesse proteggermi. Camminava lentamente, per non darmi scossoni e non farmi stare peggio.

Sentii una porta chiudersi dietro di me.

Socchiusi gli occhi. Eravamo nella mia stanza, buia.
Il dottore mi portò a letto. Qualcuno aveva scostato le lenzuola ed il piumino. Mi adagiò delicatamente ma io non volevo mollare la presa dal suo maglione.
< Non lasciatemi… > sussurrai afona. Sentivo la necessità di piangere ma le lacrime non uscivano.
Le sue dita gelide sciolsero la presa precaria delle mie.
Mi accorsi che un altro paio di mani mi stava rimboccando le coperte. Edward.
< No… > mi lamentai. < Non posso andare sotto le coperte vestita. >
< Non preoccuparti di questo. Domani cambieremo le lenzuola. Il maglione bagnato e le scarpe te li ho tolti prima. E poi, questi vestiti comunque non sono sporchi. Li hai usato solo per tornare a casa. Guarda che la mia Volvo è pulita! > cercava di essere spiritoso ma la sua voce era tesa.
Non mi ero accorta che mi avesse tolto le scarpe.
Mi voltai un pochino per poterlo guardare ma, nel buio, distinsi solo la sua sagoma.
< Bella, credo che dovresti riposarti un po’. Che ne dici? Sei stanca? >
Bella forza. Certo che ero stanca. Mi avevano riempito di calmanti. Avrei voluto urlarglielo ma dove avrei trovato la voce?
Mi limitai ad annuire, lasciando che le palpebre si chiudessero.
Edward teneva ancora la mano sul piumino. Mi stava lisciando le coperte. Che gesto stupido…
E dolce.
Gliela afferrai prima che potesse allontanarsi. Sebbene la mia forza fosse simile a quella di un sospiro, lui non cercò di liberarsi dalla mia presa. Anzi, si sdraiò al mio fianco, sopra alle coperte.
Cercai di spostarmi di lato per fargli spazio ma lui me lo impedì prima che i movimenti mi facessero girare la testa.
< Non preoccuparti. Ci sto. Sei così piccola… >
Mi teneva la mano mentre mi accarezzava la fronte. Lo udii canticchiare una ninnananna.
Mi accovacciai contro di lui che mi strinse in un abbraccio protettivo.
Mi sembrava un gesto così naturale, come se lo avessi ripetuto migliaia di volte.
Inebetita, sorrisi.
< A cosa pensi? > mi chiese interrompendo la canzone.
< Mhmm, a … te... >
Ridacchiò ma non percepii alcuna gioia nella sua risata.
< Ti sei calmata? > domandò preoccupato. Mi accarezzava la schiena. Rabbrividì e lui mi coprì meglio.
< Sì. Adesso sì. Grazie. > sussurrai stanca, poi aggiunsi: < Che figura che ho fatto… >
< Non dirlo neanche. Nessuno è qui per giudicarti. Noi tutti vogliamo solo che tu stia bene. È non hai fatto nessuna brutta figura. Sei spaventata, disorientata, impaurita. È normale che tu reagisca in modo negativo. Quello che è successo è colpa nostra. Non avremmo dovuto lasciarti sola. >
< Ma io volevo stare da sola. >
Posò le sue labbra delicatamente sulla mia fronte. Con voce tormentata mi sussurrò:
< Bella, a volte ciò che si vuole e ciò che è giusto sono cose totalmente diverse.
Ricordalo per sempre, e ricordatene quando ti verrà voglia di giudicare il comportamento apparentemente irrazionale di qualcuno. 
Talvolta bisogna mettere da parte i sentimenti per fare il bene delle persone a cui vogliamo bene.. se vogliamo loro bene sul serio. >
< Mi fai paura. > sussurrai nervosa. Ma anche questa ansia era impalpabile a causa dei tranquillanti.
Lo sentii mormorare tra sè: < Sarebbe la prima volta. > e poi, a voce più alta, mi disse: < Perché? >
< Perché… > ero stanca e le parole mi uscivano pesanti dalla labbra.
Parlare era già una gran fatica di per sé. Essere coerente era uno sforzo estremamente impegnativo . Cercare di rimanere lucida un’impresa impossibile.
Mi lasciai andare e parlai senza remore o freni,sebbene con voce flebile, dicendogli senza censure cosa davvero pensassi, e provassi. Io ero un fiume in piena e le mie parole si rincorrevano nella corrente.
< Perché sembra che tu ti stia convincendo a lasciarmi.
Anche se non lo vuoi.
Sembra che tu stia cercando di persuadere me che lasciarci sia la scelta migliore. Ma io so che entrambi non vogliamo questo.
Io ti amo.
Ti amo davvero.
Non so cosa ci sia stato davvero tra noi. Quando mi racconti mi nascondi un sacco di cose. Non conosco te ma conosco me. So che non avrei fatto certe cose che hai detto che ho fatto per i motivi che hai addotto tu. E poi, tu non sei quel mostro che ritieni di essere.
Io l’ho visto. Cosa credi?
Ho visto che ti odi. E questo non è giusto.
Ma se anche ti odi, ci sono pur sempre io, che ti amo tanto. >

Avrei voluto continuare ma non riuscivo più a muovere le labbra.

Prima di precipitare nel sonno, balbettai: < Io ti amo tanto…
E anche tu… anche tu ami… me. Anche se lo nascondi… io … io… lo sento…
Perché io ti amo, davvero… ti amo tanto… > poi non ebbi più la forza di continuare.

Non ero neanche certa di aver sussurrato quelle ultime parole.
Rimase in silenzio ma percepii ugualmente il suo corpo tremare.
Afferrai l’ultima delle coperte che mi coprivano e, lentamente, l’adagiai sulle sue spalle.
Lui, in silenzio, ci si strinse e poi si accovacciò vicino a me, tenendomi stretta.
Il suo respiro freddo mi accarezzava le sopracciglia e il motivetto triste e straziante che stava bisbigliando senza voce mi cullò finché non persi completamente coscienza di me stessa.

E le sue labbra che mi lambivano le guance, il collo, l’orecchio, il mento e le palpebre. le sue labbra sulle mie erano sicuramente il frutto della mia immaginazione, nonostante fossero fredde come ghiaccio…

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** You are the one for me ***


Salve a tutte. Premetto che questa premessa (scusate la figura etimologica) la sto scrivendo l’8 di aprile alle 2.24 di mattina (momento in cui ho terminato il capitolo).
Volevo avvisarvi che, sebbene Edward sembri comportarsi da idiota e da vero strXXXo, lui è mosso dalle migliori intenzioni.
E non abbiate timore. Questa è una storia Edward/Bella quindi non preoccupatevi se, alla fine del cap sembra che vada tutto a rotoli.
Un’altra cosa. Sebbene non ce ne sia ancora stata molta, in questa storia ho inserito molta azione e una notevole dose di “perversione” nel senso che sarò un po’ sadica nei confronti della povera Bella, la quale comunque alla fine tirerà fuori i cosiddetti e cercherà di rimettere a posto la sua vita.
Spero che il cap sia di vostro gradimento. Continuate a seguirmi speranzose. I colpi di scena non mancheranno.
Erika

 Spero vi piaccia…
 
Cap 7

Bella's POV

 

You are the one for me
Tu sei quello giusto per me

 

 Guardavo la pioggia cadere lenta e leggera sulle alte cime dei pini piegati dal vento.
Tenevo il capo poggiato al vetro della finestra e sentivo freddo ma non avevo voglia di muovermi.
Le casse dello stereo che non ricordavo di aver comprato diffondevano una delle canzoni composte da Edward.
Prima di partire mi aveva regalato molti CD che aveva inciso lui stesso. Era un bravissimo pianista. Restavo ad ascoltare le sue composizioni per ore, chiusa in camera mia.
In quei due anni cancellati dalla mia mente dovevo essere diventata una fanatica di tecnologia dati gli accessori che mi ero ritrovata in camera.
PC portatile, uno stereo super tecnologico, un I-pod… anche un cellulare ultimo modello. Sinceramente, a me quelle cose non interessavano. E forse non mi avevano interessato poi tanto neanche prima, dato che sembravano praticamente nuove. Ero diventata così superficiale da comprare cose che poi in realtà neanche usavo? Sperai di no.
Mi ero ritrovata tutte quelle chicche tecnologiche in camera al mio rientro e adesso non sapevo neanche come fare ad usarle. L’I-pod non l’avevo neanche toccato sebbene, secondo Edward, dentro ci fossero tutte le mie canzoni preferite e persino le sue stesse composizioni.
Il PC portatile era rimasto chiuso sulla scrivania. Chissà dov’era finito il mio buon vecchio catorcio gigante, compagno di tante estati piovose?
L’unico strumento con il quale avevo deciso di combattere e vincere era stata la fotocamera digitale.
Frugando per casa mi ero infatti accorta che c’erano pochissime foto con me ed  Edward. Prima che partisse lo avevo obbligato a lasciarsi fotografare da me. Lui aveva ceduto solo a patto che nelle foto ci fossimo entrambi. La povera Esme ci aveva scattato centinaia di foto in appena due giorni. Temevo che le sarebbe venuta l’ernia al dito… 

Il giorno della sua partenza, lui era venuto a trovarmi.
Seduti sul divano, avevo fatto delle foto a noi due con l’autoscatto. Io tra le sue braccia, io seduta sulle sue ginocchia, appoggiata al suo petto.
Ad una in particolare ero molto affezionata. A tradimento mi ero girata di colpo e lo avevo baciato sulle labbra proprio nell’attimo in cui scattava il flash.
La foto era venuta bene. L’avevo fatta stampare e adesso si trovava sul mio comodino, nascosta tra le pagine di “Orgoglio e pregiudizio”.

Quello stesso giorno, quello in cui partì, era successa una cosa che mi aveva infuso un briciolo di speranza.
Prima che mi salutasse ed eravamo già sulla veranda, io gli avevo detto:
< Beh, quando ci saranno le vacanze di Natale e tornerai a trovare i tuoi genitori, potremmo vederci. Anche se ora vado a Jacksonville, il natale lo trascorrerò qui con Charlie… >
Il mio tono speranzoso tradiva una certa isteria.
Lui aveva sorriso mesto e mi aveva confidato: < Non credo tornerò per natale. E poi, quest’anno dovrai restare a casa. Sarà appena nato il tuo fratellino. Vuoi lasciarlo in balia di Reneè? Povero piccolo. Sei proprio una donna crudele. > cercava di scherzare e di alleggerire la situazione. Sospirai, sconfortata. < Quindi non tornerai. >
< No. > Mi squadrò a lungo e poi, accarezzandomi la guancia e obbligandomi a sollevare lo sguardo, mi disse: < Non essere triste. Ti prego. >
Cercai di sorridere. Vidi Carlisle abbassare il finestrino della Mercedes. Aspettava che ci salutassimo poi avrebbe accompagnato Edward all’aeroporto. Forse temeva che Edward arrivasse tardi, a giudicare da come ci squadrava.
< Credo che tuo padre voglia dirti che sei in ritardo. > gli sussurrai. In realtà non volevo che se ne andasse. Probabilmente lui lo intuì.
< Non preoccuparti per questo. Qualche minuto in più non mi farà perdere l’aereo. >
Mi carezzava i capelli, fissandomi negli occhi.
Quel saluto era carico di tensione, e di disperazione.
Con il gesto più repentino che mi riuscisse mi misi in punta di piedi e gli gettai le braccia intorno al collo.

Se fino a quel momento avevo cercato di trattenermi, in quell’istante mi lasciai completamente andare, incurante del fatto che Carlisle ci vedesse.

Mi avventai sulla sua bocca socchiusa. Baciai le sue labbra aggrappandomi ai suoi capelli. Mi aspettavo che lui mi respingesse ed invece le sue mani gelide mi afferrarono prima il bacino poi si insinuarono sotto il maglione. Si adattarono immediatamente ai miei fianchi. Con le dita mi accarezzava la colonna vertebrale.
Gentilmente mi avvicinò di più al suo corpo.
Per evitare di farmi rimanere in punta di piedi, mi afferrò per la vita e mi appoggiò sul corrimano. Seduta sulla ringhiera, incrociai le gambe dietro alla sua schiena. Non osavo sfilare le mani dai suoi capelli per timore che così lui allontanasse il suo viso dal mio.
Le sue labbra si muovevano tormentate. Scesero lungo il mento e poi sul collo. Arrivarono alla mia clavicola e lì indugiarono per alcuni istanti. Risalirono poi seguendo una linea immaginaria che giungeva fin sotto all’orecchio. Per scherzo me ne succhiò il lobo ma io, già abbastanza surriscaldata dalla sua foga dei suoi gesti, ebbi un fremito che non gli sfuggì.  Lo sentii sorridere mentre mi obbligava a reclinare il capo. Sentii la sua lingua sul mio collo. Non riuscii a trattenermi, incurvando la schiena ed emettendo un gemito.
Le sue labbra tornarono sulle mie. Mi baciava avidamente, come se non fosse mai sazio di me.
Mi strinse sempre di più a sé. Il mio corpo si adattò perfettamente al suo.
< Edward > ansimai quando portò di nuovo le labbra sulla mia clavicola.
Sorridevo. Le labbra mi si tendevano senza che io neanche dovessi sforzarmi.
Ero felice. Felice per davvero.
In quel momento sentivo che lui mi amava ancora. Ero ormai sicura di aver convinto anche lui di questo.
Perché se non mi avesse amata, non mi avrebbe baciata in quel modo. Non mi avrebbe stretta a se con gesti tanto spasmodici… come se temesse di perdermi.
< Edward > ansimai ancora, cercando di riconquistare lucidità. In quel momento infatti era il mio corpo a comandare.
Allontanò le labbra dalla mia pelle per sussurrare: < Sì? > e poi riprese a baciarmela.
< Edward, non andartene. Resta con me. >
< Non posso. > rispose laconico. Adesso stava inspirando l’odore dei miei capelli.
< E allora verrò io. Mi troverò un lavoretto. Non sarò un peso per te. e non tirare in ballo i miei studi. Sai che quest’anno non frequenterei comunque. Devo fare la terapia. >
Lui taceva, cullandomi.
< Non farmi questo. Ti supplico. > ero arrivata a pregarlo. Mi sarei inginocchiata se non fossi stata ancora avvinghiata al suo bacino, seduta sulla balaustra.
< Bella, lo sai che non possiamo. Siamo due amici che stanno per andare in college diversi. Non rovinare un bel saluto con delle pretese inesaudibili. >
< Questo non è il bacio di due amici che si salutano. > gli feci notare io, poggiandomi sul suo petto.
< No, hai ragione. Non lo è. > Mi coprì le spalle con la giacca che si era appena sfilato.
< E allora che cos’è? > domandai sconfortata.
< Questo… > e mi costrinse ad alzare il viso posando un dito sotto al mio mento. Si chinò a baciarmi in modo persino più ardente di prima.

Dopo molti battiti del  mio cuore impazzito allontanò le sue labbra dalle mie e confessò:
< Questo, Bella, è un bacio di addio tra due amanti. >
< Un addio? > domandai con voce tremula, sull’orlo di una crisi di pianto.
< Sì. Un addio. >

Non avevo la forza di accettare quelle parole devastanti e tornai ad appoggiare la testa sul suo petto, cercando di nascondere le lacrime ed inzuppandogli il maglione. Mi accomodò meglio la sua giacca.
< Significa che non ci vedremo mai più. > la mia non era una domanda.
< Bella, sono certo che a Jacksonville ti innamorerai di un altro e, quando fra qualche anno ci rincontreremo per caso, rideremo insieme ripensando a questa discussione. >
< Non mi potrò mai innamorare di nessun altro. Sarò come una vedova. > sussurrai mesta.
La sua voce era divertita ma io lo sentivo teso, sotto le mie mani. 
< E allora vorrà dire che sarai la vedova più invitata a uscire di tutta Jacksonville. Ti consolerai in fretta con qualche giovane ed aitante ragazzo della Florida. Tutto bello abbronzato… >
Cercava di metterla sul ridere ma per me tutto quello era un vero e proprio dramma.
< E tu? ti consolerai in fretta? > domandai acida.
< Chissà? Chi può dirlo? >
Venni investita da un moto di rabbia e gelosia. Cominciai a battere i pugni sul suo petto.
Sentii il polso scrocchiare. Ahia.
Edward mi impedì di continuare afferrandomi gli avambracci e portandosi i miei pugni al viso.
Se avessi avuto libertà di movimento, gli avrei tirato un ceffone.
Lui invece, impassibile cominciò a baciarmi le nocche.
Piangevo di rabbia e disperazione. Incavolata nera gli gridai: < Se fin dall’inizio avevi deciso di tagliare tutti i ponti con me, posso sapere perché in queste settimane sei stato così… così… >
Non trovavo le parole. Gli unici aggettivi che mi venivano in mente per descriverlo erano: Adorabile, gentile, dolce… innamorato.
< Hai ragione. Mi sono comportato nel modo sbagliato. Se fossi stato più distaccato, ora non soffriresti in questo modo. È solo colpa mia. Te ne prego, perdonami. Ti ho lasciato coltivare delle speranze insane. Ne sono rammaricato. Perdonami. >
Passarono alcuni minuti in cui l’unico rumore era il fruscio del vento tra gli alberi.
Carlisle era ancora in auto ad aspettare, dimenticato da entrambi.

Riacquistai un minimo di contegno e mi sforzai di dire:
< Prima, quando mi baciavi, o quando hai detto che era un bacio tra due amanti… o in tutti questi giorni… mi sei sembrato molto… coinvolto. Tu, tu mi ami ancora. >
< Bella, prima dell’incidente ne abbiamo parlato a lungo. So che non ricordi ma avevamo deciso che, con il college, avremmo chiuso la nostra relazione. Te l’ho già detto milioni di volte. Dobbiamo crescere. Non possiamo restare ancorati ad una storia di fidanzatini del liceo. >
< Neanche se questa storia adolescenziale è così intensa? >
< Bella, credimi. Troverai l’uomo giusto per te. Ti meriti di meglio di me. >
Sembrava davvero che credesse a ciò che diceva. Le sue parole erano intense e cariche di dolore.
Mi costrinse ad alzare lo sguardo e a fissarlo negli occhi.
< Bella, io non potrei mai darti tutto quello che ti meriti. Io sono l’uomo giusto per te. >
Nei suoi occhi leggevo la sincerità. Era convinto di quello che diceva.
Scossi il capo in segno di dissenso.

< Non è vero. Ti sbagli. Tu sei l’uomo perfetto per me. >
Mi si stava rivoltando lo stomaco.
Lui era l’uomo perfetto per me. Ero io, io stupida, sciocca, goffa, imbranata, maldestra,incapace Bella a non essere la ragazza giusta per lui.
La cosa che mi fece più male in quel momento fu che, in fondo, lo avevo sempre saputo.
Ero sempre stata consapevole di non essere alla sua altezza.
Aveva ragione a non volermi più con sé.
Sebbene, forse, fosse ancora innamorato di me, aveva capito che io non avevo nulla da offrirgli. Era per questo che quello era un addio.
Non voleva più dover essere costretto ad avere a che fare con me, una volta entrato al college.
Anch’io mi sarei vergognata se avessi dovuto presentare una come me ai miei compagni di università e dire loro che era la fidanzata.
Potevo biasimarlo se, una volta al college, volesse qualcosa di più di me? Qualcuno migliore di me?
No. Non potevo biasimarlo di certo…
Inghiottii ma la mia bocca era secca.
< Bella, non piangere, per favore. >
< Tanto, a te che te ne frega? Te ne stai andando. Non mi vedrai mai più. >
Lo vidi illividire.
< Non voglio che tu viva tutto questo in questo modo. Io voglio che tu sia felice. >
La sua voce fremette quando pronunciò l’ultima frase.
Chinai il capo per non essere costretta a guardarlo.
< Tuo padre ti sta aspettando. Vai o perderai l’aereo. >
< Sei adirata nei miei confronti. > una semplice constatazione.

Ebbene sì. Ero arrabbiata con lui. Molto arrabbiata. Ma anche molto,molto innamorata.

< Sei stato uno stupido. >
< Sì. Hai ragione. >
Ero combattuta. Volevo cacciarlo via e stringermi a lui. Le lacrime mi rigavano le guance. Me le asciugai con il dorso della mano. < Perderai l’aereo. Vai. >
< Non preoccuparti. > guardò l’orologio. < Sono in anticipo. Ho costretto Carlisle ad uscire molto presto di casa perché volevo restare un po’ qui a parlare con te. > Mi accarezzava le guance.
< Parlare… tsè. > lo presi in giro, sforzandomi di sorridere. Lui ne parve molto compiaciuto.
< Più che parlare, io direi che abbiamo fatto i cattivi ragazzi un po’ sporcaccioni. >
< Sì, in effetti sì. > ridacchiò lui. < Bella, io non so cosa tu stia pensando, e ti assicuro che ciò è assolutamente frustante, quindi ti chiedo di essere sincera con me. Lo sarai? >
Ipnotizzata dal suo sguardo profondo mi accorsi di star annuendo.
< Bella, promettimi che cercherai di preservare sempre la tua salute e la tua incolumità. >
Rimasi un po’ spiazzata da quella sua richiesta.
Irritata cercai di chiedergli: < Perché mai… >
< Dimmi solo che lo farai. Che non farai mai nulla che possa metterti in pericolo. Non potrei sopportare di sapere che ti metti in pericolo. >
< Ok… ok. Se ci tieni tanto te lo prometto. >
< Per davvero? Sei sincera? >
< Sì. Sono sempre sincera con te. > gli risposi spontanea.
Sorrise mesto. Si chinò in avanti per baciarmi la fronte. Io chiusi gli occhi e cercai di fissare per sempre nella mia mente il suo buon profumo, la dolce sensazione delle sue labbra sulla mia pelle.
Si staccò da me e mi soffiò tra i capelli.
< Credo di dover proprio andare adesso. > Annuii ormai senza più speranze.
< Dai, vieni. Ti aiuto. > e mi afferrò la vita. Mi appoggiai a lui mentre mi faceva scendere dalla balaustra e tornare in piedi per terra.
Faceva freddo ed oramai era da un bel po’ che eravamo lì fuori. Certo, mentre mi baciava ero troppo accaldata per accorgermene ma adesso, complice forse anche il freddo che sentivo nel mio cuore, tremai. Mi sistemai meglio il maglione e mi accorsi di avere ancora indosso la giacca di Edward. < Oh… mi stavo dimenticando di ridarti la giacca… >
Feci per restituirgliela ma lui mi bloccò il polso. < Tienila tu. >
Lo fissai e poi fissai la giacca. Era bella, calda, molto costosa. Non potevo certo accettarla. E poi, era da uomo.
< Edward, non posso tenerla. E poi, mi dici che me ne faccio? È da uomo. >
< Potresti tenerla come ricordo. Come mio ricordo. >
Ci pensai su un attimo. Aveva il suo profumo. Quello che adoravo tanto. Quello che aveva il potere di realizzare ciò che non sempre le pillole erano in grado di fare: tranquillizzarmi.
In ospedale mi ero abituata ad addormentarmi con Edward accanto. Forse la giacca me lo avrebbe ricordato. Forse non era poi una cattiva idea.
< Va bene. Ma anche tu dovrai accettare qualcosa di mio. >
Sorrise dubbioso per poi fare una faccia sconvolta quando vide che mi sfilavo il maglione.
Sotto avevo solo il reggiseno.
Per un attimo pensai di dargli quello ma poi preferii optare per il maglione.
< Bella! Ma che fai? Prenderai freddo. ti ammalerai! >
< Dai, non fare il rompiscatole. Prendi questo. > e gli porsi il maglione. Lui lo prese tra le mani e lo strinse a sé.
< Va bene ma adesso copriti. >
Gli feci la linguaccia e mi misi il suo giaccone. < Contento? >
< Molto. Anche non mi dispiaceva quello che vedevo prima. >
< Scemo. >
< Sì. Lo so. > nella sua voce c’era molto più dolore di quello che mi sarei aspettata.
Lo abbracciai e lui mi strinse a sé. < Vado. >
< Chiamami. >
< Lo farò. Ma ora vai in casa o ti ammali sul serio. Hai preso le tue medicine? >
Forse era una mia impressione ma sembrava che lui stesse cercando di procrastinare il momento della separazione.
< Sì. Anche se mi fanno sentire molto stanca. >
< Beh, è normale. Non smettere di prenderle. Adesso magari potresti tornare dentro e farti una dormitina. >
< Chiamami quando atterri. > gli dissi cambiando discorso. Non volevo pensare al dopo, a quando mi sarei ritrovata da sola in camera mia.
< Certo. Allora… stammi bene. >
< Anche tu. >
Mi strinse delicato il volto tra le sue mani e mi sfiorò le labbra con le sue, per un istante brevissimo.
< Mi raccomando. Fa la brava. > e così dicendo, si voltò e percorse il vialetto incurante della pioggerellina che aveva cominciato a cadere. Io rimasi lì a fissarlo.
Intravidi Carlisle dietro al finestrino abbassato. Teneva un giornale sul volante. Mi salutò con la mano ed io feci lo stesso.Lui lo avrei rivisto l’indomani, per la terapia. Chissà quando avrei rivisto Edward. Sperai che non fosse come diceva lui.
Mai… che brutto avverbio.
Edward salì in auto, sul sedile posteriore. Abbassò anche lui il finestrino e mi gridò: < Vai dentro o ti ammali! > ma io rimasi fuori ad osservare l’auto sparire lungo la strada costeggiata dal bosco e dalle villette.

Quel pomeriggio, circa cinque ore dopo il nostro saluto, mi telefonò. Per rispondere al telefono corsi giù dalle scale alla massima velocità consentita dal mio equilibrio precario. Ovviamente caddi e mi feci male. Charlie rispose al telefono e rise quando mi venne a portare il telefono e mi vide a terra, ai piedi delle scale.
Edward mi chiese, preoccupato: < Bella? Bella tutto bene? >
< Sì… sono solo caduta scendendo le scale. >
< Sei proprio impossibile. Hai già infranto la promessa. >
< Come scusa? >
< Ma sì. La promessa. Mi hai giurato che avresti fatto attenzione alla tua salute. >
Stavo per controbattere che lui mi incalzò: < Ti sei fatta male? dove hai picchiato? >
< non mi sono fatta niente. mi fa solo un po’ male la caviglia. Ho poggiato male il piede mentre scendevo. >
< è gonfia? La senti pulsare? >
< Edward, piantala di essere così ansioso. Sto bene. >
< Se vuoi, telefono a Carlisle e gli dico di venire a darti un’occhiata. >
< Non è assolutamente necessario. E comunque, Carlisle mi odierà ormai. Domani deve già venire. Oggi che è riuscito ad evitarsi la scocciatura di prendersi cura di me, vuoi obbligarlo tu? >
< Bella, non parlare così. > sembrava quasi… adirato…
< Tu non sei una scocciatura. Lui è il tuo medico. È felice di poterti aiutare. Oggi non è venuto solo perché doveva portarmi in aeroporto. >
< Sì… ok. > Cambiai discorso. < Com’è andato il viaggio? >
< Bene. Molto tranquillo. Adesso sono sul pullman che mi porterà nel campus. Tu che stavi facendo? Sei riuscita a riposarti un po’? >
Mi vergognai della mia risposta. < Ero in camera mia. Stavo ascoltando… della musica. > Risposi evasiva. Non volevo ammettere che era un suo cd. Non volevo fargli sapere che mi mancava già, in un modo impossibile. < No. Non sono riuscita a dormire. Ero un po’… agitata. >
< Mh, capisco. Magari domani dillo a Carlisle, così ti cambia la dose dei tranquillanti. >
< Va bene… > lo dissi solo per farlo contento. Io non glielo avrei detto di certo. Avrebbe capito subito che la causa del mio disagio era la lontananza di suo figlio.
< Ora devo andare. Ci sentiamo. Ti chiamo io. >
< Va bene. A domani. >
Ci fu un attimo di silenzio e poi lui, imbarazzato, mi disse: < Non so se domani riesco a chiamarti. Ho un sacco di cose da fare… magari dopodomani. >
< Ah… ok. A dopodomani allora. > la mia delusione era facilmente riconoscibile.
< Perfetto. Scusa ma devo davvero riattaccare adesso. Ciao Bella. >
< Ciao. > sussurrai ed attesi che lui riattaccasse. Io non ne avevo il coraggio.
Sì. Era proprio come temevo io. Adesso che era al college, non voleva più avere a che fare con me.
Forse, la ragazza semplice ed anonima andava bene finche si restava in una squallida e piovosa cittadina di provincia. In un importante università privata avrebbe avuto bisogno di una ragazza che fosse più simile a lui. Bella, ricca e perfetta.

Sì… io non ero la ragazza giusta per lui sebbene lui fosse il ragazzo giusto per me.

Riposi il telefono e, zoppicando, tornai in camera mia. Schiacciai play e mi sedetti sul letto con lo sguardo volto alla finestra. Osservavo le gocce di pioggia cadere e desiderai trovarmi lì fuori sotto il temporale. Lì nessuno avrebbe notato che stavo piangendo.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** An emptiness began to grow… ***


Salve a tutte.
Temo che ci sia stato un piccolo ed innocente equivoco!
Il cap nove è il prossimo (quello in cui… sì, beh, insomma…) e non questo che invece è l’8 anche se su EFP risulta il 9. colpa dell’introduzione o cap 0. Scusatemi!
Grazie a tutte per i commenti.

Fatemi gli auguri che venerdì prox ho un esame. Letteratura italiana dal 1200 al 1900. e ho appena finito Dante!!!!! Come farò??????????
Aiuto…

Ps: questo cap è un po’ così… diciamo di transizione. Mi serviva per la storia.

A proposito: no, non preoccupatevi, Edward non dirà di stare con un’altra e per quanto riguarda i Volturi, io li adoro e li ficco sempre ovunque. Cara Momob (che piacere risentirti) mi hai spoilerato!!!E pensare che proprio in questo cap…

Cap 8

An emptiness began to grow…
Un senso di vuoto incominciò a crescere…

Edward’s POV

< Alice, se vuoi torna pure a casa. Non sei costretta a farmi compagnia. >
“ Non sono qui per te. sono qui per lei ” pensò mia sorella mentre entrambi ce ne stavamo appollaiati sul ramo di un pino nel bosco, a trenta metri di altezza e a duecento dalla casa di Bella. Da lì si vedeva la sua stanza. Si vedeva lei.
“ tutto questo è molto stupido ”
< Sì. Lo so. >
“ E puerile. ”
< So anche questo. >
< E allora perché non corri da lei? >
< Perché non posso. Ho preso la mia decisione e non posso più tornare indietro. >
< Cavolate. Va da lei e dille la verità. Dille che non sei mai partito. Che era tutta una scusa. Che sono due settimane che la spii e la sorvegli, che la proteggi notte e giorno. Che di notte la guardi dormire e la ascolti mentre ti chiama dopo esserti intrufolato in camera sua. >
< Alice, ti rendi conto di cosa stai dicendo? Mi denuncerebbe. E avrebbe tutto il diritto di farlo. >
< Chi, Bella? Non ti denuncerebbe nemmeno se ti vedesse mentre commetti un omicidio. Ti adora. È innamorata di te almeno quanto tu lo sei di lei. >
< Ciò non cambia nulla. Sto facendo tutto questo per il suo bene. Ha la possibilità di vivere come se non fossi mai esistito. Non voglio sottrarle il futuro, di nuovo. >
< Sai una cosa? Se la vecchia Bella avesse saputo cosa sarebbe successo e cosa tu avresti fatto ti avrebbe dato dello stupido e ti avrebbe detto di non comportarti come stai facendo tu ora. Ti urlerebbe di essere uomo e di non dire cavolate riguardo ad anime perdute e futuro sottratto. Tu la conosci. Sai che se fos… >
< Basta. Smettila. È inutile questa discussione. Quello che dici è corretto ma è altrettanto corretto quello che dice Carlisle. Lei ha il diritto di vivere felice. >
< Edward. > mi riprese severa mia sorella. Poi con un gesto della mano mi indirizzò lo sguardo verso la casetta dello sceriffo. < Guardala. Ti sembra felice? > la sua voce era triste.
Bella giaceva sdraiata sul letto ed osservava il soffitto. Invece che con la coperta, si copriva con il mio giaccone. Stava ascoltando la mia ninnananna.
< praticamente passa le sue giornate in questo modo. Ti sembra sano? >
< Alice, è solo perché si è slogata la caviglia scendendo le scale. Non pretenderai che zampetti per casa tutta allegra. Deve restare a riposo. >
Alice sbuffò. Mi tirò fuori il cellulare e compose il numero di quello di Bella, poi mi passò il telefonino. < Dai, chiamala. Ieri non le hai neanche telefonato. >
< No.Meglio di no.Sto cercando di far passare sempre più tempo tra una telefonata e quella successiva.Vorrei che lei si abituasse pian piano al fatto di non sentirci più >
< Ma se ti stai logorando dalla nostalgia e non vedi l’ora di parlare. Io la chiamerei subito. >
< Fortuna volle che non sia impulsivo quanto te. >
< Edward… se tu le volessi bene ora correresti da lei. Non puoi lasciarla lì sdraiata nel letto a consumarsi dal dolore. >
< Alice, lei è forte. Carlisle si sta occupando di lei. Charlie la segue come non ha mai fatto e Reneè la sta aspettando a Jacksonville. Avrà tutto l’amore del mondo. Non le serve più il mio. >
< Ciance! Ha bisogno del tuo amore più di quello di chiunque altro. Sai cosa non le serviva? Tutta quella roba che le hai comprato. Il PC, l’I-pod, il cellulare… pensi forse che sarà felice quando scoprirà che c’è un conto a suo nome con più soldi di quelli che i suoi genitori guadagneranno in tutta la loro vita? Non era di queste cose che aveva bisogno. >
< Quei soldi le serviranno per andare a Darthmouth e vivere serena per tutta la vita, senza doversi mai preoccupare di arrivare a fine mese. Charlie le racconterà che quei soldi sono il risarcimento dell’uomo che l’ha investita. Hai visto anche tu come andrà a finire il processo. Le daranno solo centomila dollari come risarcimento. Non sono pochi, ma con quelli non avrebbe neanche potuto pagarsi college e terapie a Jacksonville. Nel giro di alcuni anni li avrebbe finiti e poi?

I suoi soldi sarebbero terminati prima che lei fosse riuscita a risolvere i suoi problemi. >

< Charlie non li voleva quei soldi. Quando ha scoperto quel conto, ha fatto di tutto per restituire i soldi a chi lo avesse aperto. >

< Bella è maggiorenne e lui non può rifiutare niente a nome suo. E poi, la mia è stata una donazione anonima. Lei non saprà mai chi è che le ha aperto quel conto. >

< Ma se lo immaginerà. >
< Quando capirà, saranno passati anni dall’ultima volta che ci saremo parlati. Probabilmente, comunque, penserà che è stato l’investitore, sopraffatto dal rimorso. >
< Non è con quei soldi che la farai felice. >
< Ma è l’unica cosa che posso darle. Una sicurezza economica. Lo so che non basta. Lei meriterebbe di più.Se ci fossimo sposati, sarebbe stato così. Avrebbe avuto tutto. Continuerò a versarle soldi. Farò in modo che non le manchi mai niente, come se fossi ancora vicino a lei. >
< Edward, le mancherai tu. >
< Mi dimenticherà > risposi cercando di autoconvincermi.
< Non credo potrà dimenticarti. E poi,sappi una cosa riguardo al rimanere a letto… la caviglia non centra niente. Lei è depressa. E se la lasci così, non farà altro che peggiorare. >

Non risposi. Quelle di Alice non erano il riassunto delle sue visioni ma delle semplici supposizioni.
Del futuro di Bella non riusciva a scorgere niente. lei era ancora troppo indecisa.
Smise di parlarmi e cominciò a fissare Bella, ignorandomi. Dopo dieci minuti, nei quali cui mi riversò il suo risentimento tramite i suoi pensieri, premetti il pulsante verde La chiamata partì.
Alice, al mio fianco, mi sorrise compiaciuta e mi si accoccolò affianco, appoggiandosi a me.
Il telefono squillava. Squillava.
Osservai Bella che, sdraiata a letto, fissava il suo cellulare, che vibrava, poggiato sul comodino.
Poi, con uno scatto, lo afferrò. Guardò il numero e poi rimase immobile per alcuni secondi. Tanto bastò perché scattasse la segreteria.
Riattaccai. La vidi asciugarsi gli occhi con la manica della felpa che aveva indosso.
Si sdraiò di nuovo, coprendosi il volto con il braccio. Teneva ancora il telefono in mano.
Schiacciai di nuovo il verde e il suo telefono riprese a squillare.
Sobbalzò e, dopo aver visto che ero ancora io, attese qualche istante prima di rispondere.
Poi avvicinò l’apparecchiò all’orecchio e premette la cornetta verde.
< Pronto? > la sua voce era rauca. La vidi stringersi nel mio giaccone.
< Pronto Bella? Sono Edward. Ti disturbo? >
< No. Non mi disturbi. Stavo leggendo. > A quelle parole Alice mi fulminò con uno sguardo e mi sibilò: < Sentito? Depressione. > La zittii con un gesto della mano.
< Cosa leggevi? >
< Niente di importante. > rispose evasiva.
< Sei a casa? >
< Sì, perché? >
< Perché così ti chiamo lì. Va bene? >
< Ehm… si certo. Lasciami il tempo di scendere. Sai com’è, la caviglia… >
< Menomale che avevi detto che non ti eri fatta niente! >
< La mia solita fortuna. > le sue parole erano amare. < Comunque, Carlisle mi ha detto che già da domani posso smettere di usare le stampelle. Il tutore non so… >
< Sono contento. È sempre noioso dover camminare appoggiandosi alle stampelle ma, se senti che ti affatichi troppo, continua ad usarle. Non credo che a Carlisle servano. Puoi restituirgliele quando sarai guarita del tutto. Ora scendi dai. Ti richiamo tra dieci minuti. >
< Va bene. A dopo. > mi disse prima di riattaccare.
Poi si voltò di lato dando la sedia alla finestra. Rimase in quella posizione per circa quattro minuti poi, lentamente,si portò a sedere. Afferrò le stampelle e poi uscì. Si muoveva lentamente.
Prima che ricomparisse in salotto passarono molti minuti.
Lasciai che prendesse il cordless dalla cucina e che si sedesse sul divano. Con il telefono in mano cominciò a sistemarsi i capelli. Un gesto inconscio.
La chiamai. Rispose al primo squillo.
< Edward? > Domandò. Avevo utilizzato l’opzione numero privato. Non volevo che si accorgesse che la chiamavo ancora dal mio cellulare. Volevo che mi credesse in casa mia, nel campus.
Chiamarla a casa era una scusa per farla muovere un po’, per farla almeno scendere al piano di sotto, sebbene non volessi ammetterlo di fronte ad Alice.
< Sì. Sono io. Allora, com’è stato questo tuo ultimo quarto d’ora? >
< Come quello precedente. Noioso. > rispose ironica. < Allora, come ti trovi a Syracuse? >
< Non posso lamentarmi. Il posto è… interessante. Ma non siamo ancora entrati nel vivo del semestre. La gente è simpatica. >
< E le ragazze? Sono carine? >
< Alcune sì, altre non molto. Ma per adesso non mi interessano. Devo pensare allo studio. >
< Beh… medicina è un corso impegnativo. Comunque, non uscire con la prima che te lo chiede. Scegliti una in gamba. Le oche non fanno per te. >
< Ne terrò conto. Tu invece? Come sono lì le tue giornate? >
< Piovose… come sempre. >
< Insomma, Forks non si smentisce mai. >
< Parrebbe di no. Quando sarò a Jacksonville potrò dirti qualcosa di diverso. Da piovose a umide. Sai che bello! Però lì almeno c’è il sole. >
< Sono sicuro che ti piacerà. >
< Speriamo. >
La conversazione durò a lungo. Più di quanto avrei voluto. In quel modo non si sarebbe mai abituata alla mia assenza. Eppure non potevo fare a meno di sentire la sua voce. Sentirla parlare mi dava sollievo. E poi, quando era al telefono con me sorrideva, rideva. Sembrava felice. Speravo che, con il tempo, avrebbe potuto fare altrettanto senza di me.

Quando, un’ora e mezza dopo, Charlie rientrò dovetti interrompere la telefonata. All’ispettore serviva il telefono.
< Allora ci sentiamo. > le dissi dopo che Charlie le aveva urlato di riagganciare.
< Va bene. Se vuoi ti chiamo… magari domani. > mi sussurrò speranzosa.
< No, domani non posso. A dire la verità, ho un sacco di roba da fare. Fino a sabato temo di non avere un minuto libero. Ti chiamo io. >
< Ok. Allora aspetto una tua chiamata. Divertiti. >
< Anche tu. e cerca di dormire. Dalla voce mi sembri un po’ stanca. E non sforzare troppo la caviglia finché non sarai completamente guarita. >
< Va bene mamma. Obbedirò. > mi prese in giro.
< Ci si sente. Saluta Charlie. >
< E tu i tuoi fratelli. Buona università. >
Anche questa volta fui io a riattaccare.

< Soddisfatta? > domandai ad Alice.
< Non fare il cretino. Guardala. Guarda Bella. Le hai illuminato la giornata. Certo, finché non le hai detto che prima di sabato non la richiamerai. Ti rendi conto che oggi è lunedì? >
< Alice… >
< Sì, lo so. Vuoi che si abitui gradualmente. Sai quante volte me lo hai ripetuto? Comunque, ogni volta che la chiami lei mi sembra stare meglio. >
Ignorai quello che diceva. < Perché ora non mi lasci in pace e vai a stressare qualcun altro? >
< Antipatico. Dì la verità. Vuoi che ti lasci solo così puoi spiare la tua ex promessa sposa. Sei un guardone. >
< Non l’ho mai osservata nei momenti non opportuni. >
< Sì, sì… come no. Divertiti questa notte ad intrufolarti in camera sua. >
< E vattene! > Mi fece la linguaccia e, pensando a Jaz, saltò leggiadra dall’albero. Quando mi voltai stava già sfrecciando verso casa. Agitò la mano in segno di saluto e poi svanì nel fitto del bosco.

Rimasi a fissare Bella. Era rimasta seduta sul divano. Si teneva le ginocchia. Si sdraiò e Charlie le chiese: < Tutto bene? >
< Sì papà. Non preoccuparti. >
Lui buttò un occhio all’orologio e disse: < Dovresti prepararti. Carlisle ha finito il turno venti minuti fa. Fra meno di un quarto d’ora sarà qui. non vorrai farti trovare in pigiama. >
Svogliatamente, Bella rispose: < Tanto, che differenza fa. È il mio dottore. Mi ha curato lui. Mi ha vista nuda un sacco di volte. non credo che si scandalizzerà molto per il mio pigiama. >
< Fa come preferisci. Adesso vado da Billy così potrete stare tranquilli. >
< Va bene. Allora ci vediamo dopo. >
< Passo a prendere una pizza mentre torno indietro? >
Bella si strinse nelle spalle. < Se ne hai voglia sì. Se no preparo qualcosa. Non è un problema. >
< Beh, vedrò. Al massimo mangio da Billy. A te non dispiace, vero? >
< No, non preoccuparti. Io mi faccio una pastina. Ho un po’ di acidità di stomaco. >
< è per colpa della partenza? >
Bella si incupì. < Sì, forse. >
< Bells, piccola, se non vuoi andare a Jacksonville nessuno ti costringe. Certo, forse sarebbe per te salutare ma se vuoi rimanere, io sono felice di tenerti con me. >
< Grazie papà ma ormai ho già preparato tutto. Quasi tutte le mie cose sono già nelle valige. E hai anche già prenotato il biglietto. Inoltre, non voglio dare un dispiacere alla mamma. >
< Non devi preoccuparti di questo. Tua madre non si offenderebbe. E per il biglietto, quello non è un problema. >
< No… davvero. Forse mi farà bene andare via. Allontanarmi da tutto questo. Dalla pioggia, dalle nuvole… > la sua voce perse di consistenza e lei chiuse gli occhi.
< Se è quello che vuoi, è giusto che tu parta ma sappi che, se cambiassi idea, questa casa è sempre aperta. Puoi tornare quando vuoi qui dal tuo vecchio. >
< Grazie papà. > Lui arrossì.
< Adesso è meglio che vada altrimenti Billy mi accuserà di non aver visto con lui la partita. Ci vediamo dopo Bells. Se hai bisogno, chiamami. Terrò il telefono sempre acceso. >
E così dicendo uscì, lasciando Bella sola in casa.

Due giorni dopo io ero lì, seduto tra i rami di un albero a cento metri da casa sua.
Volevo vederla più da vicino, per l’ultima volta.
Charlie stava mettendo le ultime valige in macchina. Bella era seduta in veranda, proprio dove l’avevo baciata e dove avevo quasi perso il controllo di me. Quel giorno ero stato sul punto di dirle tutto. Di me, di noi, del matrimonio… mi ero trattenuto per un pelo. Sentire il suo corpo caldo e morbido sul mio, il suo respiro nella mia bocca, le sue labbra delicate sulle mie, le sue mani tra i miei capelli… era troppo difficile respingerla quando la desideravo così tanto.
Alla fine mi ero imposto di sciogliere il nostro abbraccio, la mia presa sul suo fragile corpo ed ero riuscito a ricompormi.
Le avevo detto addio. Le avevo promesso che non ci saremmo più rivisti… o che, perlomeno, che lei non avrebbe più rivisto me. Io non potevo fare a meno di andare davanti a casa sua e fissarla, nella sua quotidianità, compiere i piccolo gesti normali che lei rendeva sensuali ed innocenti.
Sebbene più volte mi fossi sentito male pensando a quanto, in un certo senso, questa situazione fosse fin troppo simile a quanto accaduto la prima volta che l’avevo lasciata, mi ero sempre ripromesso che questa volta sarebbe stato tutto diverso.
Ci sarebbe stata la sua famiglia con lei. Avrebbe ricevuto attenzioni ed amore, sarebbe stata protetta.
Quel giorno però, davanti a casa sua, sapevo che quella sarebbe davvero stata l’ultima volta in cui mi fosse concesso vederla.
Per prima cosa, non avrei potuto seguirla a Jacksonville. Il sole mi avrebbe impedito di uscire di casa.
Secondariamente, adesso io avevo un conto da pagare. Un debito molto gravoso da onorare.
Dovevo riscattare la vita di Bella. La sua libertà.
L’indomani sarei partito.

Avevo già predisposto tutto. Ascoltato i consigli di mio padre e i singhiozzi di mia madre. Mentre spigavo loro la mia decisione, Rosalie ed Emmett erano rimasti silenziosi, attoniti. Appena ero uscito di casa per tornare da Bella loro due erano andati in camera loro a fare l’amore. Nei pensieri di entrambi lessi la paura reciproca l’uno di perdere l’altra, come era successo con me e Bella, e il desiderio di rimanere insieme, per sempre.
Alice e Jasper si erano allontanati non appena la decisione di partire aveva preso corpo nella mia mente. Due giorni prima del mio annuncio ufficiale. Avevano salutato gli altri mentre io non c’ero senza dare spiegazioni dettagliate.
Lei mi aveva scritto una lettera. Mi aveva assicurato che tutto sarebbe andato secondo i miei piani. Lei lo aveva visto.
E mi diceva anche che mi voleva bene, che le sarei mancato ma che doveva allontanarsi perché io non sapessi dove fosse, così da non rendersi reperibile da loro.
Già… loro.

Unirmi ai Volturi era il prezzo da pagare.

Sebbene Bella non ricordasse nulla. Non potevo rischiare.
Sarei andato a Volterra e lì avrei offerto la mia dote in cambio della libertà di un umana che non ricordava più nulla di loro.
Avrei lavorato per loro e tagliato i ponti con la mia famiglia. forse li avrei sentiti di tanto in tanto, per telefono. Carlisle mi aveva promesso che sarebbe venuto a trovarmi, qualche volta. In fondo, lui e Aro erano comunque amici.

Io ormai mi ero già rassegnato. Avrei lavorato per loro per il tempo necessario poi, quando Bella fosse morta, l’avrei seguita.

Pensando a queste cose la osservai salire in auto. Camminava bene. Non le doleva più la caviglia.
Ne fui sollevato. Indossava la mia giacca e tra le mani aveva un libro. “ Orgoglio e pregiudizio ”.
Notai che, dalla copertina, spuntavano i bordi di una foto. Si sedette sul sedile posteriore, essendo quello anteriore occupato da una borsa a tracolla.
Fui tentato di seguirli fino all’aeroporto per guardarla un’ultima volta ma capii che non se avessi assecondato questo mio desiderio non avrei resistito neanche all’impulso di seguirla a Jacksonville.
Dovevo essere abbastanza forte da controllarmi.
Charlie mise in moto. Uscì dal vialetto e si immise sulla stretta strada urbana. La sua auto si allontanava sempre di più portando via Bella da me.
Poco prima che svoltasse e svanisse, Bella si voltò di scatto e puntò gli occhi verso la foresta, nella mia direzione.
Il suo sguardo penetrante parve insinuarsi tra gli alberi fino a raggiungermi.
E in quel momento distinsi chiaramente sulle sue guance le lacrime.
L’auto scomparve ed io, frustrato, mi intrufolai nella sua camera, lasciandomi pervadere dal suo profumo.
Notai che aveva lasciato sulla sedia a dondolo alcuni vestiti che tanto a Jacksonville non avrebbe utilizzato. Dei maglioni pesanti ed una giaccia.
Rimasi sdraiato nel suo letto a lungo, fino al ritorno di Charlie.

Quando lo sentii chiudersi la porta alle spalle e sospirare, capii che era giunto il momento di andarmene. Charlie, in preda alla nostalgia, pensava infatti di venire a dare un’occhiata alla stanza di Bella.

Come un idiota, afferrai i due maglioni e scappai, stringendoli a me.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** There's no way out of this dark place ***


Ok, sono le 4.46 di mattina del 19 aprile 2010. Invece di sturiare per l’esame o dormire, ho scritto tutta la notte questo capitolo. Lho scritto di getto, trasportata dalla sacra ispirazione e, vi avviso, è uscita una cosa stranissima, totalmente inaspettata. Uno sviluppo della trama totalmente non previsto determinato dalla mia serata trascorsa a studiare russo.
NB: io non studio lingue all’università. È solo per passione. Insomma, ho passato la serata ad analizzare una canzone inquietante: “Takogo kak Putin” una canzoncina insidiosa che ti resta in testa e che fa propaganda. Immaginate di chi parla!
Cmnq, a parte questo, AVVISO IMPORTANTE: questo cap è molto crudo, oserei dire violento. Non tanto per quello che descrivo in sé e per sé ma per la tematica affrontata. Non è certo da rating rosso ma volevo comunque avvisarvi. Non uccidetemi.
Questo storia è… in un certo senso più matura delle mie precedenti e affronterò molti temi “scottanti” che però, sfortunatamente, fanno parte della nostra quotidianità.
Cercherò di fare del mio meglio.
PS: ovviamente la storia avrà anche dei momenti più “rilassati” ma, nel complesso, a Bella ne succederanno davvero di tutti i colori… poverina. Dovrà cercare di essere forte.
Ciao e a presto.
                                   Erika
23/05/10 Bene, sto postando. Spero proprio non mi lincerete. Chiedo scusa in anticipo.
Baci e buona lettura!
Scusate se è un po’ più lungo del normale. Non potevo proprio dividerlo

PPS: Edward tornerà? e Bella ricorderà? insomma, io non posso spoilerare e non posso dirvi che Edward tornerà. sarebbe più appropriato dire che sarà Bella a ... 

 Cap 9

There's no way out of this dark place
Da questo luogo oscuro non c’è via d’uscita

 

 

< Bella, è pronta la cena! Vieni che se no si fredda. Noi non ti aspettiamo. > mi urlò Phil dal piano di sotto. Il suo tono era autoritario.

Controvoglia, mi alzai dal letto e mi infilai le ciabatte.
< Arrivo. > gli gridai di rimando aprendo la porta. Andai a sciacquarmi il viso nel mio piccolo bagno, a destra della mia stanza.
La mia cameretta si trovava nella mansarda, di fronte a quella che sarebbe stata del mio futuro fratellino. Al piano di sotto c’erano la camera da letto di Reneè e Phil, uno studio e un bagno.
Al piano terra c’erano la cucina con la sala da pranzo, il salotto e un altro bagno. Questa villetta era molto carina. Mi piaceva. Cera spazio a sufficienza per mantenere le distanze. Mia madre e Phil erano troppo occupati a preoccuparsi della gravidanza per prendersi troppa cura di me. Il che era un bene. Non volevo essere sempre al centro dell’attenzione. Certo, erano sempre gentili e disponibili. Phil mi accompagnava e mi veniva a prendere dallo psicologo sebbene mi ricordassi perfettamente come si guidi. Mi accompagnava persino in ospedale, due volte a settimana, per la terapia e per i controlli. Si erano impegnati per trovarmi un corso di musica (era l’unica cosa che mi sentissi di fare. Musica… avevo scelto di suonare il pianoforte…) che potessi frequentare in modo da non restare sempre a casa. Insomma, cercavano di tenermi impegnata. Non capivano quanto, nonostante tutto questo, mi sentissi sola.
Scesi le due rampe di scale e raggiunsi il piano terra.
Mia mamma, con il suo bel pancione, mi sorrideva seduta a tavola. Phil cucinava per noi. Certamente era più bravo di Reneé. Salutai entrambi. Lui portò in tavola il pane e qualcos’altro.
Mi sedetti e cominciai a mangiare, non curandomi troppo di cosa stessi mangiando.
< Allora Bella, com’è andata questa mattina? > Mi chiese Phil mentre portava in tavola il timballo.
< Bene. > risposi laconica. Non mi andava che si intromettesse in questo modo nella mia vita privata. Quello che succedeva dallo psicologo non era affar loro.
< Non essere così scorbutica, Bella. Phil vuole solo essere carino con te. > mi riprese mia madre.
< Non preoccuparti, Reneé… non importa. Non lo fa con cattiveria. > Odiavo quando Phil parlava come se io non fossi presente. Per di più mia madre gli dava corda!
< Grazie Phil. Sei così caro… >
< Ti amo. Tu sei la mia adorata panciona! >
E a quel punto li persi completamente, e loro persero me. Cominciarono a parlare di quanto si amassero e di quanto fossero felici insieme e così via.
Mi venne la nausea.
Mangiai piano senza realmente assaporare il cibo. Avevo mal di testa. Come sempre, da quando mi ero risvegliata.
Quando ebbi finito la mia porzione di timballo,una voce seccata mi fece ritornare coi piedi per terra.
< vuoi anche il secondo? >
< No Phil, non preoccuparti. Non ho molta fame. Anzi, adesso credo che andrò in camera a leggere qualcosa. >
< Va bene. Io e Reneè andiamo al cinema dopo cena quindi non aspettarci alzata. >
Annuii mentre mi allontanavo dal tavolo. Li sentii ricominciare con le loro smancerie e mi affrettai su per le scale.
Mentre ero sdraiata a letto a fissare il soffitto, Phil si affacciò alla mia porta.
< Bella? >
< Sì? >
< Noi usciamo. Ci vediamo domattina. >
< Va bene. >
Fece per andarsene poi però si bloccò e mi disse: < Ah, ricordati di prendere le tue medicine. >
< Sì, non preoccuparti. > Poi lo sentii scendere le scale a passo veloce. Rimasi in ascolto e, quando sentii la porta d’ingresso sbattere e la macchina partire, mi alzai.
Andai in bagno ed aprii il cassetto delle medicine.
Lì, in bella mostra, la mia scatolina con gli antidepressivi.
Ne presi una compressa tra le dita. Rimasi a fissarla a lungo. Ormai erano due mesi che le prendevo. Due mesi da quando avevo lasciato Forks. 
Ed erano passati ormai ventisette giorni dall’ultima telefonata di Edward.
Prendere quelle pastiglie non mi faceva sentire meglio come avevo sperato quando avevo cominciato ad assumerle.
Sì, forse non facevo più tanti incubi, forse ora avevo meno paura del mondo e non mi mancava più l’aria quando pensavo ai miei due anni perduti però ero sempre e comunque triste e non mi serviva a niente parlare con lo psicologo o prendere quelle maledette e stupide pillole.
Improvvisamente,le mie dita mi parvero fatte di burro. Non so cosa mi spinse a farlo ma mollai la presa sulla compressa e la lasciai cadere nel lavandino. Rimbalzò per qualche istante e poi io aprii l’acqua. Vidi la  pillola venir risucchiata e poi inghiottita nell’acqua.
Mi sentii sollevata.
Mi osservai allo specchio e notai, sconcertata, che stavo sorridendo.
Ad un’occhiata più precisa notai come fossi… sciupata.
Cominciai a pettinarmi con delicatezza per sistemarmi i capelli e poi mi misi una crema idratante sul viso.
Senza che ce ne fosse motivo, carica di un entusiasmo immotivato, decisi di farmi la ceretta, poi mi feci una doccia calda che sciolse tutti i miei muscoli. Mi asciugai i capelli e poi li pettinai di nuovo, lentamente e con dolcezza, senza strapparli.
Passai un’ora abbondante nel bagno e quando uscii, mi sentivo più padrona di me stessa.
Più consapevole di me.

Mi infilai il pigiama (ovvero la mia amata tuta) e andai a dormire. Sotto il lenzuolo, cercai di mantenere la calma conquistata ma questa non durò. L’inquietudine che sempre mi assaliva nel momento di coricarsi mi parve farsi ancora più acuta e ben presto mi accorsi di tremare. Dentro di me sentivo freddo ed una sensazione di vuoto tanto opprimente da essere soffocante. Andai a prendermi una coperta sebbene non facesse freddo lì a Jacksonville. Il mio tremore non era certo determinato dalla temperatura.
Sapevo che quella era solo una reazione psicosomatica e che non potevo stare così perché non avevo preso la pillola. Ero solo una questione psicologica.
Mi raggomitolai su me stessa cercando di lasciar fuori dalla coperta soltanto la testa. Cercai di eseguire gli esercizi di respirazione che mi aveva insegnato Carlisle e, poco alla volta, mi calmai.
Chiusi gli occhi e cercai di focalizzare la mia attenzione su qualcosa di piacevole.
Il mio pensiero corse ad Edward. Sapevo che mi facevo solo del male in quel modo. Dovevo cercare di non pensare a lui, proprio come lui non pensava più a me.
Di questo ne ero certa.
Avevo contato prima le ore, poi i giorni, infine le settimane dalla sua ultima, veloce telefonata.
Mi era arrivata una cartolina però.
Mia mamma, leggendola, aveva commentato: < Che pensiero gentile. È proprio carino a ricordarsi di te. >
Io avevo annuito cercando di non far notare il mio dolore. Mentre riponevo la cartolina però avevo notato come mia madre avesse abbracciato Phil che, prontamente era corso a sostenerla.
Lui l’aveva accompagnata in camera loro senza parlare e poi, aveva chiuso la porta.
Senza farmi notare li avevo seguiti. Seduta sulle scale sentii chiaramente Reneé piangere e Phil tentare di consolarla. Avrei pianto anche io, se solo avessi saputo per cosa.
Quel ricordo mi fece contrarre lo stomaco.
Ero così… così… adirata.
Con un calcio allontanai la coperta e mi alzai in piedi. Strinsi i pugni e feci quello che il mio corpo mi chiedeva.
Urlai. Urlai più forte che potei. Afferrai il cuscino e lo sbatti contro all’armadio poi lanciai anche la coperta. Continuavo ad urlare camminando per la stanza. Erano grida catartiche, di liberazione.
Crollai in ginocchio portandomi i pugni sul capo.
Urlai. Urlai fino a sgolarmi, fino a non aver più fiato nei polmoni.
Urlai finché le lacrime non mi inondarono il volto e bagnarono il parquet.

Mi ritrovai sdraiata per terra, tra le lacrime, a singhiozzare. il viso bagnato. Dovevo soffiarmi il naso. Avrei voluto avere Edward vicino in quel momento, come in ogni altro.
Mi faceva male la testa. Mi girai supina. Osservai il soffitto in silenzio per qualche istante e poi, di nuovo in preda alla rabbia ricominciai ad urlare. Incavolata nera, alzai il braccio destro e battei il pugno sul pavimento con tutta la forza che avevo in corpo.. Un rumore assordante. Poi il dolore, acuto e lancinante. Mi faceva male la mano.
< Merda. > sussurrai. Non pensavo che mi sarei fatta male. Poggiai il polso sul mio petto. Il dolore si era acuito.
Con le lacrime agli occhi mi portai a sedere ed esaminai la mano stretta ancora in un pugno. Sembrava tutto a posto.
Mi misi in piedi poggiando il peso sull’altro braccio. Ero un disastro. Riuscivo a farmi male in tutti i modi possibili ed immaginabili.
Andai in cucina e misi del ghiaccio sul polso incriminato. Fu una bella sensazione.

Stranamente, la sensazione del freddo del ghiaccio (ovviamente dentro un sacchettino e poi avvolto in un panno) sulla mia pelle mi faceva sentire bene. Mi trasmetteva pace e tranquillità. Non so perché ma mi ricordava Edward. In effetti, le sue mani erano sempre fredde. Era un particolare che non mi era sfuggito. Più volte ero stata sul punto di chiedergli se per caso fosse malato ma mi ero sempre trattenuta, nel timore di offenderlo.

Con il polso ancora dolorante e sempre a contatto con il ghiaccio andai in sala per guardare un po’ di TV.
L’accesi e mi resi conto che era presto. C’era il notiziario delle 8.00.
Da quando vivevo a Jacksonville andavo a letto prestissimo. Effettivamente, da quando ero l’ì non è che facessi un granché. Psicologo, ospedale, corso di musica, letto… wow, che vita emozionante.
Seduta sul divano cercai di concentrarmi sulle notizie.
Cinicamente, dissi tra me e me con finto entusiasmo: < Vediamo un po’ chi è morto oggi o dove siamo andati a far la guerra questa settimana. >
Guardai i telegiornali svogliatamente mentre il dolore al polso non sembrava assolutamente scemare,anzi, sembrava aumentare. Lo sentivo pulsare. Faceva un male cane. Cercai di ignorare quel dolore. In ospedale ero stata molto peggio. E poi, se lasciavo il braccio immobile non sentivo dolore. Questione di qualche ora e mi sarebbe venuto un livido. Fine della storia.

Senza accorgermene credo che mi addormentai dal momento che, improvvisamente, mia madre mi svegliò con un mezzo urlo.

< Tesoro! Mio Dio ma cosa ti è successo? >
Intontita, sbattei le palpebre. La TV era accesa ed io ero accoccolato sul divano, la mano infortunata, stretta sempre nel pugno, poggiata sul petto.
< Mamma? > sussurrai inebetita e con la voce impastata.
< Tesoro, ma cos’è successo? >
Mi ripresi un pochino e notai che fissava la sacca del ghiaccio e il panno che, mentre dormivo, erano caduti a terra.
< Oh, non è niente… sono solo… caduta… > cercai di giustificarmi imbarazzata. Phil, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Sbuffò e si chinò su di me. Sembrava adirato sebbene cercasse di mascherarlo.
< Sei caduta? > la sua voce era asciutta e seccata.
< Sì? >
< E cos’hai picchiato? Cos’è che ti fa male? >
< Il polso. > gli sussurrai. Sapevo che, come allenatore, di traumi se ne intendeva.
< Dai, fammi vedere. >
< Non è niente. > cercai di svicolare io ma lui, proditoriamente, mi afferrò la mano.
Cercò di farmi distendere le dita ed io gridai. Quasi ci provasse gusto, mi afferrò le dita e mi costrinse a distendere il palmo nonostante io gridassi e cercassi di divincolarmi.
< Mhm… >
< Pensi sia grave? > chiese mia madre ansiosa.
< Beh, ne ha viste di peggio. Ma temo che dovremo andare all’ospedale. >
< Oddio, vado a preparare la macchina. >
Sia io che Phil, contemporaneamente, le dicemmo: < No! > ma per due motivi diversi.
Lui non voleva che lei si affaticasse, io non volevo andare all’ospedale.
Alla fine vinse Phil, in tutti i sensi. Convinse Reneé a restare a casa e a bersi una tisana mentre lui trascinava me al pronto-soccorso.
In auto, quando ormai eravamo già lontani da casa, mi colse di sorpresa con una voce gelida che mi fece gelare il sangue nelle vene.
< Isabella. > sussurrò senza voltarsi per guardarmi.
Non risposi, sorpresa dal tono della sua voce.
< Isabella, devi smetterla di comportarti come una mocciosa. > Incredula, rimasi a fissarlo. Vidi i pugni stretti intorno al volante. Stava tremando, di rabbia.
< Devi piantarla. Ormai sei adulta. Hai diciannove anni. Possibile che ti comporti ancora come una bambina. Fai attenzione a quel cazzo che fai. Possibile? Appena dimessa dall’ospedale, di sloghi la caviglia e adesso… questo! Ti lasciamo sola un minuto e tu ti fratturi il polso? Sai che fatica ho fatto per convincere Reneé a lasciarti da sola? Ti rendi conto che sono più di due mesi che io e lei non passiamo qualche momento solo tra noi. Ci sei sempre tu in mezzo!
Io la capisco, sei sua figlia e ti vuole bene. Ma così non può andare avanti. Lei si sta uccidendo di preoccupazione a causa tua! Anche l’incidente. Se tu fossi stata più attenta tutto questo non sarebbe successo e tu ora saresti fuori dai coglioni quel riccastro di Cullen. E non ci stresseresti l’anima con le tue paturnie adolescenziali. Tua madre è incinta. I.N.C.I.N.T.A. di mio figlio. E non voglio che si rovini la gravidanza a causa della tua stupidità.
Mi va bene averti in casa, prendermi cura di te e tutto il resto ma sappi che lo faccio solo perché me lo ha chiesto lei. È stata lei ha chiedermi di essere carino con te e io lo sono, perché la amo e voglio che sia felice. Punto. Non lo faccio per te. e sappi che, quando sarà nato il bambino, non ti permetterò di rovinarci la vita. Tu sei la sorella, ed è giusto che stiate insieme, un po’. Ma mi aspetto che tu, il prima possibile, parta per il collegge. Con tutti i soldi che ti ritrovi adesso, sono certo che potrai comprarti una casa ovunque tu voglia. Se vorrai venire da noi per le vacanze o qualche week-end, per me è ok, ma fa il favore di crescere e di farti una vita tua lontano da noi.
Non ti voglio tra le palle vita natural durante.
Ti ricordi perché te ne eri andata a vivere in quel lurido cesso di Forks? Eh? Almeno questo te lo ricordi? Perché non volevi compromettere la nostra vita
matrimoniale.
Ecco, l’unica scelta minimamente intelligente della tua vita. Andare a vivere con quell’ottuso di tuo padre. Reneé ha proprio fatto uno sbaglio quando lo ha sposato. Quello è stato uno sbaglio, proprio come lo sei stata tu. avrebbe dovuto abortire. Si sarebbe risparmiata una miriade di problemi e non sarebbe stata costretta a mantenere i rapporti con Charlie. tu sei stata solo un intralcio nella sua vita. >
Piangevo. In silenzio piangevo mentre le sue parole insensate affondavano nella mia carne lacerandomi. Quello che aveva detto era vero. Ero un peso, uno sbaglio. Se non fossi mai nata sarebbe stato meglio per tutto. Ero un errore…
Mi sentii inutile e desiderai tanto poter nascondermi nel petto di Edward.
Senza dire altro, Phil parcheggiò davanti al pronto-soccorso.
Si staccò la cintura ed era già con la portiera aperta quando, con voce acida, mi disse: < Che vuoi? Perché non ti muovi. Voglio tornare a casa il prima possibile. Pensi che mi piaccia stare qui a perdere tempo con te? >
< Stronzo. > sussurrai con le lacrime agli occhi.
< Che hai detto? >
< Ho detto che sei uno stronzo. > Gli gridai tra i denti.
Per un attimo non ci vidi più.

Sentii il suono dell’impatto del suo palmo sulla mia guancia e poi la testa cominciò a girarmi. Sbattei le palpebre e, tra i tanti coriandoli dorati che danzavano davanti a me, intravidi Phil, il volto viola per la rabbia.
Mi urlò: < Non permetterti mai più di rivolgerti a me in quel modo. Mi devi rispetto. Capito? >
Alzò la mano pronto a colpirmi di nuovo. Io di rimando gli gridai: < Vaffancu... >
Ma lui mi colpì di nuovo, impedendomi di terminare. Sentii il capo sbattere sullo schienale.
Il colpo mi aveva colpito in pieno il viso. La pelle bruciava. L’avevo sentita lacerarsi là dove lui portava la fede.
Tenni gli occhi chiusi ma ciò non impedì alle lacrime di scivolare, veloci ed abbonanti, lungo le mie guance. Mi rannicchiai su me stessa con il polso dolorante stretto al petto.
Lo sentii sbattere la portiera. Sussultai impaurita. Poi sentii la portiera del passeggero aprirsi e lui mi afferrò il braccio sano, costringendomi ad uscire. 
Con voce irata mi disse: < Non frignare. Non sei mica una mocciosa. Se ti avessero dato qualche manrovescio in più da piccola ora non saresti la stupida irresponsabile che sei. > Mi squadrò e poi aggiunse: < Non ti posso portare dentro così. Penserebbero che ti ho picchiata. Dovremo aspettare che… >
Questa volta fui io ad impedirgli di terminare dicendogli: < Perché? Tu cosa hai fatto? Mi hai picchiata. 
Appena torno a casa lo dico a Reneè che razza di bastardo sei. vediamo se non ti lascia. >
Mi arrivò un altro ceffone così forte da farmi barcollare. Dovetti appoggiarmi alla macchina per non cadere a terra. Sentivo le gambe tremare.
< Non provarci nemmeno o giuro che è la volta che ti pesto sul serio. Hai capito? >
< Hai ragione. Non lo dico solo a Reneé. Io ti denuncio direttamente! > gli gridai ormai fuori controllo.
La sua mano si abbatte su di me, prendendomi la guancia e l’orecchio. Mi colpì così forte che caddi carponi davanti a lui.
Aveva molta forza nelle braccia, da bravo giocatore di Baseball.
Ansimavo mentre sentivo l’orecchio pulsare e fischiare. Le guance erano in fiamme. Mi obbligò ad alzarmi e, sbattendomi contro l’auto, avvicinò il suo volto al mio. Mi sussurrò: < Tu non dirai niente a nessuno. Hai capito. >
Mi afferrò la mano ferita, stringendola con forza. Urlai accecata dal dolore e, se lui non mi avesse costretto a restare in piedi, sarei caduta a terra per il male. mi lasciò la mano e mi afferrò il collo, ed io cominciai ad ansimare. Mi mancava il respiro.
Sussurrò: < Resterà una cosa tra te e me. Chiaro? Altrimenti giuro che ti pesto a sangue. > Alzo ancora una volta la mano ma io, piagnucolando e cercando di coprirmi il volto con il braccio sano, lo implorai: < No, va bene. Non lo dico a nessuno. Ho capito. Ho capito. Non è necessario. Non è necessario. > Avrei voluto chiedere aiuto ma il parcheggio era deserto. Per un istante sperai di vedere arrivare Edward sulla sua volvo argentata e sterzare di colpo. Assurdo.

Mi lasciò andare e mi trascinò in un bagno pubblico. Mi costrinse a lavarmi il viso. Notai i segni rossi delle sue dita impressi sulla mia pelle. Le sue impronte delle sue dita formavano una striscia sul mio collo. Non riuscivo a smettere di piangere. Il taglietto sulla guancia sanguinava. Mi pulii con una mano sola, facendomi scorrere l’acqua sul viso.
Dopo un quarto d’ora, quando ormai i segni rossi se ne erano andati, Phil mi afferrò per la manica e mi costrinse a seguirlo fino al pronto-soccorso. Il taglietto non sanguinava più ma era ancora ben visibile. Lui ne era contrariato. < Se ti chiedono qualcosa, quello te lo sei fatta cadendo. >
Non risposi e lui alzò la mano, aperta, in segno di minaccia. Mi affrettai ad annuire mentre ancora piangevo. L’odore d’ospedale mi chiuse lo stomaco. Avrei voluto piangere ma avevo paura.
Nella mia testa continuavo a gridare: < Edward, aiutami. Edward… >

Aspettammo a lungo (c’era una discreta fila) e mia madre chiamò più volte. lui era gentilissimo. Le sussurrava smancerie rassicurandola e dicendole che stavo bene. L’ultima volta lei, apprensiva, volle però parlare con me lo stesso. Lui, contrariato, me la passò fulminandomi con lo sguardo.
< Bella, piccola, come stai? > < Bene, non preoccuparti. Tra poco è il nostro turno. Tra poco saremo a casa. Ci vediamo dopo. > < Sì. Va bene. Ah, piccola, ricordati di dire al dottore dell’incidente. Quello è lo stesso braccio che ti eri rotta. > < Sì lo so, non preoccuparti. Ora ti passo Phil. Vuole parlare con te. > sussurrai cercando di non lasciar trapelare niente dalla mia voce incerta e tremante.
Parlarono ancora per qualche minuto e poi nella saletta calò di nuovo il silenzio.
Alla fine fu il nostro turno. Avevo ancora le lacrime agli occhi. Sperai che il medico credesse che fossero dovute al dolore al polso. 
Phil insistette per entrare con me.
Fu lui a parlare per primo: < La mia figliastra si è fatta male cadendo. Temo si sia rotta il polso. Ne vedo tanti così all’allenamento. > Io mi limitai ad annuire, a capo chino. L’ortopedico confermò i miei timori.
< Signorina, temo che lei si sia fratturata lo scafoide. Ovviamente, per essere sicuri, servirà la lastra…> Passò dieci minuti illustrandomi cosa fosse lo scafoide e a spiegarmi la terapia. Avrei dovuto tenere il gesso per quaranta giorni. Di nuovo. Dopo circa un’ora, appurato il danno, il dottore mi sistemò la mano strappandomi un urlo di dolore. Poi, mentre stava per montare il gesso, insistette per rimanere solo con me e, nonostante Phil non fosse d’accordo, alla fine dovette cedere. Quando fummo soli, mentre il gesso si asciugava, il dottore mi domandò: < Isabella, se hai qualcosa da dirmi, io ti ascolto. Ho guardato la tua cartella e, a parte l’incidente d’auto, sei stata ricoverata spesso e hai riportato numerose fratture nel corso del tempo. Molte, per una ragazza giovane e sana. > Mi fissava ma io tenevo sempre il capo chino. Mi costrinse ad alzarlo e mi disse: < Se sei stata maltrattata, devi denunciare. >
< Non sono maltrattata. La mia vita è fantastica. > In effetti, prima di quella sera, nessuno mi aveva mai toccata con un dito. E tutte quelle fratture erano tutte merito mio. Quindi, quella, era la verità in un certo senso.
< e questo taglio? > domandò inquisitorio.
< Anche quello me lo sono fatta cadendo. Non deve preoccuparsi per me. Adesso posso andare? >
Lui mi fissò per nulla convinto ma poi fu costretto a dirmi: < Sì. Torna tra quaranta giorni per togliere tutto. Se hai problemi, di qualunque tipo, chiamami. io sono il dottor Barnacle. Chiedi pure di me. > la sua voce era strana. Preoccupata. < Ricordati di passare in accettazione a firmare le carte per la dimissione. E non sforzare il braccio, intesi? Se senti dolore, prendi degli antidolorifici. Hai l’elenco di quelli che puoi assumere insieme agli psicofarmaci. >
< Sì. Grazie, dottore. > gli dissi prima di affrettarmi ad uscire. Sentii il suo sguardo seguirmi.

Trovai Phil davanti all’ingresso. Mi aspettava.
< Allora? >
< Allora cosa? > gli chiesi senza particolari inflessioni nella voce.
< Che ti ha detto di così privato? >
< Mi ha chiesto se fossi stata maltrattata. > gli risposi sincera, sperando di fargli paura.
Lo vidi illividire e capii che la mia non era stata una grande idea. 
< E tu che gli hai detto? >
< Che non era così. Sono brava a mentire. > E senza aggiungere altro salii in macchina.
Tornammo a casa nel più completo silenzio. Solo quando aveva già parcheggiato nel garage, un attimo prima che aprissi la portiera, afferrandomi di nuovo per il collo mi sibilò: < Non dire niente a nessuno o giuro, e dico sul serio, che ti pesto a sangue. Io sono una brava persona. Nessuno ti crederebbe se tu mi denunciassi. Crederebbero tutti che ti eri inventata tutto o che avevi avuto delle allucinazioni. Anzi, sai cosa faccio? Ti ammazzo di botte e poi nascondo il tuo corpo in una schifosa palude. Potrei dire che ti sei persa, che soffri di amnesia, che deliravi e che sei scappata di casa, confusa. Ti cercherebbero senza riuscire a trovarti e nessuno penserebbe a me. >
Rimasi in silenzio, terrorizzata dalle sue parole. Lui capì che avevo paura e rincarò la dose:
<  Il tuo corpo finirebbe mangiato dai coccodrilli e nessuno ti ritroverebbe mai. >
Se voleva spaventarmi, ci era riuscito benissimo.
Singhiozzai e promisi: < Non dirò niente a nessuno. Te lo giuro. >
Mi carezzò la testa e poi disse: < Brava. Vedi che se vuoi sai essere una persona responsabile? Ora va in casa e fila in camera tua. Non ti voglio più vedere fino a domani. >

Obbedii senza fiatare. Arrivata in camera, mi chiusi dentro a chiave. Sentii Phil parlare con mia madre. Le stava spiegando quello che aveva detto il dottore e lei scoppiò a piangere. Da quando era incinta, a causa degli ormoni, aveva il pianto facile.
Sperai che Phil l’indomani non me la facesse pagare per quel pianto e, piangendo a mia volta, mi nascosi sotto la coperta, rannicchiata a letto. Il viso mi bruciava ancora, là dove lui mi aveva colpita. Mi sentivo umiliata, fragile e sola. Tanto sola. Nascosi il volto sotto il cuscino.
In quel momento vidi il cellulare, che avevo dimenticato sul comodino, lampeggiare. Lo presi e mi accorsi che c’erano ventuno chiamate senza risposta. Riconobbi il numero. Edward.

In quello stesso istante, il telefonino vibrò. Senza pensarci, in un gesto automatico, schiacciai il tasto verde per accettare la chiamata.

Avrei voluto dire qualcosa ma non riuscii a fare altro che gemere.
< Pronto? Bella? Ci sei? Bella? >
Mi schiarii la voce. < Sì, Edward. Ci … sono. > Mi dovetti interrompere a causa dei singhiozzi.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** It's a talent that I always have possessed ***


Lo so. Ci ho messo una vita a postare…
Ho avuto esami da preparare (cavolo, sono terribili. Appena ne dai uno, devi già prepararne altri due.) problemi vari ed eventuali etc etc.
Non vi voglio tediare con le mie vacanze non troppo felici e liquido tutto con un: speriamo l’anno prossimo vada meglio.
Sto ricominciando a scrivere dopo un periodo di pausa e, vi avviso, le cose stanno prendendo una piega un po’ drammatica.
As always, il finale è già pronto. Sono i vari particolari che mi vengono in mente ad arricchire il nucleo centrale. Molto spesso nascono da “pezzi non riusciti che però mi piacciono e riciclo”… non so se rendo l’idea.
Un grazie a tutte voi che con pazienza mi seguite.
Amo questa storia e spero possa piacervi ora che entrerà nel vivo. Fra un po’ il ritmo si farà incalzante.

Buon Agosto!

Dedico questo capitolo a Francesca. Grazie per tutto. Non era mio diritto abusare così della tua disponibilità. Sei stata davvero il mio BA. 

 

It's a talent that I always have possessed
È un talento che ho sempre avuto

 

Edward’s POV

 < Edward, io chiamerei Bella se fossi in te. >
< Carlisle, non voglio darle false illusioni. Voglio che mi dimentichi del tutto. >
< Alice mi ha telefonato. Si e rotta la mano tirando un pugno al pavimento in una crisi isterica. Anche Reneé mi ha telefonato sai? A lei Bella ha detto di essere caduta. Dovresti chiamarla. >
< Vedrò quello che posso fare. Adesso devo andare. Mi raccomando, salutami tutti. E se senti Jaz e Alice, salutameli tanto. Di ad Alice che le voglio bene. E abbraccia Esme. Dille che qui sto bene. Ah, mi raccomando, da un bacio in fronte a Rose da parte mia. Dai una pacca sulla spalla ad Emmett>
< Non preoccuparti, anche noi ti vogliamo bene e ti pensiamo ogni istante. Cerca di riguardarti. >
< Sì. Ci proverò. >
< Quando posso richiamarti Edward? >
< Non saprei. Aro non è molto contento di queste nostre telefonate. A meno che non succeda qualcosa di grave, aspetta che sia io a richiamarti. >
< Va bene. >
< Adesso devo andare. >
< Sì. Allora, a presto figliolo. >
< A presto. Scusami, Carlsile, per tutto… > poi riattaccai.

Mi sistemai la mantella grigia sopra ai miei abiti scuri e poi riposi il telefono.
< Tutto bene? > mi domandò Gianna in italiano. Sapeva che io lo parlavo fluentemente.
< Certo > le risposi gelido, nel suo idioma. < Grazie per avermi passato la telefonata. >
< Oh, non preoccuparti. È stato un piacere. Se avessi bisogno di qualcosa, non esitare a chiedere. >
Mi fece l’occhiolino ma io mi limitai ad annuire, silenzioso. Mi avviai lungo il corridoio che, dall’ufficio di Gianna, portava alla sala d’ingresso. Lì imboccai il terzo corridoio a destra, quello dalle pareti di velluto verde, e lo percorsi per cento metri, aprii una porta nascosta e salii una rampa di scale. Mi ritrovai nella torretta dove Aro mi attendeva. Quella era la sala da lui destinata alla meditazione. Dalle piccole finestre si poteva osservare la città, le persone che, come formiche, si affrettavano per le viuzze di quella borgo antico.

Aro era seduto sul suo trono di legno e avorio. Gli occhi chiusi e il capo reclinato. Jane gli era accoccolata sulle ginocchia e pareva fargli le fusa. Sorrideva beata accarezzando il volto di Aro, solcato dai segni dei millenni che gli erano scivolati addosso.
< Edward, ragazzo mio. Allora? Chi ti ha cercato? > mi domandò senza mutare la sua posizione.
Non volevo parlare ad alta voce e quindi mi avvicinai. Gli porsi la mano e lui l’afferrò senza stupirsi del mio atteggiamento. Lesse i miei ricordi e, senza scompormi, mi domandò: < Vuoi telefonarle? >
< Non saprei. > risposi sincero. Che senso avrebbe avuto mentire? Lui conosceva già la risposta.
< Tu vuoi chiamarla. > questa volta la sua fu un’affermazione. < Per me va bene. Chiamala pure. Sei così passivo da quando sei qui. Devo sopportare tutta la tua sofferenza. Mi sentirei meglio se tu fossi un po’ più sereno. Telefonale. Ti do il permesso. >
Lasciò andare la mia mano. Chinai il busto in un inchino. Feci tre passi camminando all’indietro in segno di rispetto poi mi voltai e ripercorsi la strada che mi aveva portato alla torre.
Lungo le scale udii distintamente Aro,rivolto a me, pensare: “ Quando avrai finito, non tornare. Io e Jane saremo occupati per un po’. Sai com’è, ragazzo mio. A certi impulsi non si può imporre comando alcuno. Dovresti soddisfare i tuoi. Scegli la ragazza che più ti aggrada. Tutte ti si concederebbero senza indugio. E tu lo sai bene quanto me. Non logorarti l’animo con quell’insulsa umana. Sei il mio pupillo. Puoi avere tutto quello che vuoi. ”

Inghiottii quelle parole cercando di mantenere la calma.
Come se non mi fossi accorto di come tutte le vampire della sua piccola reggia mi guardassero. Probabilmente era stato lui stesso ad istruirle. 
Dovevano tentarmi, cercare di soggiogarmi, di farmi cedere. Il più grande desiderio di Aro era che mi innamorassi di una delle sue “ragazze”. In questo modo mi avrebbe tenuto legato a sé per sempre. La cosa più seccante era che quelle stupide oche erano pronte a sgozzarsi pur di infilarsi in camera mia. 
Erano così… bramose, sinceramente attratte da me da rendermi la vita impossibile. 
La peggiore di tutte era Haidi. Sembrava fermamente convinta di potermi conquistare.
Sapevo inoltre che, oltre all’attrazione fisica nei miei confronti, erano interessate a me perché diventare la mia donna avrebbe significato entrare nelle grazie più sincere di Aro. Chiunque fosse riuscita a conquistarmi avrebbe avuto la gratitudine di Aro, e quindi sarebbe stata ricoperta di privilegi. Insomma, ero un ottimo partito.
Sbuffai a questa idea. Proprio in quel momento due giovani vampire davvero belle, che avanzavano nella direzione opposta alla mia, mi passarono vicine nello stretto corridoio. Stavano raggiungendo Aro per unirsi alle “danze” come le definiva lui. Sebbene la sua preferita fosse Jane, non disdegnava certo la compagnia delle altre ragazze.

Le due, in abiti succinti, ridacchiarono quando i nostri corpi si sfiorarono in un brevissimo contatto. Nelle loro menti lessi la speranza di avermi colpito. Le ignorai proprio come ignorai le loro risatine.
Si affrettarono, correndo lungo il corridoio di pietra, scuro e freddo.
Oche. Ecco cos’erano. Stupide oche.

“non uscire con la prima che te lo chiede. Scegliti una in gamba. Le oche non fanno per te.”
Le parole di Bella mi tornarono alla mente, tormentandomi.
Lei. Lei faceva per me.

Affrettai il passo e raggiunsi il corridoio dalle pareti di velluto verde. Lo percorsi e raggiunsi lo studiolo di Gianna. Lei fu piacevolmente sorpresa di vedermi, di nuovo. Mi salutò ammiccante e mi domandò: < Allora? Posso fare qualcosa per te? >
< Sì. Dovrei usare il telefono. Il mio telefono. Devo chiamare negli U.S.A. >
< Certo, nessun problema. Adesso te lo abilito. >
Trafficò per qualche minuto con un cellulare. Inserì la mia scheda e mi porse il telefonino. Una delle clausole per il mio trasferimento a Volterra era stata proprio quella inerente ai contatti con il mondo esterno. Tutto doveva passare per l’“ufficio”. Ogni telefonata, ogni lettera in uscita o in entrata doveva essere annotata su un registro. Queste precauzioni valevano solo per me. Aro voleva tenermi sotto controllo. Gianna era stata ben felice di doversi occupare di questa mansione. Le avrebbe permesso di entrare in contatto con me. Nei suoi pensieri la vidi esaminare ogni parte del mio corpo visibile ai suoi ottusi occhi umani.  La ignorai e composi il numero di cellulare di Bella.

Non rispondeva. Rimasi quasi un’ora nello studio di Gianna tentando di contattarla. La segretaria pareva molto soddisfatta dalla mia presenza e non mi fece alcuna domanda.

All’ennesimo tentativo, finalmente rispose. Sollevato, feci per parlare ma la sentii gemere.
Preoccupato, le chiesi: < Pronto? Bella? Ci sei? Bella? >
Lei tentò di schiarirsi la voce e poi cercò di parlare. < Sì, Edward. Ci … sono. > ma si dovette interrompere a causa dei singhiozzi.
< Bella, piccola. Calmati, ti prego. Ti prego. Cerca di respirare. >
< Sì… scusami. Che figura… > cercò di ricomporsi ma la sentii soffiarsi il naso.
< Bella? Cos’è successo? Mi ha telefonato Carlisle. tua madre gli ha detto che sei caduta e che ti sei fatta male alla mano. >
A Bella morì il respiro in gola. < Cosa? Reneé ha telefonato a Carlisle? Oddio! > stava per perdere il controllo.
< Bella, calmati. Non è successo niente… > Lei, dall’altro capo del telefono, piangeva sommessamente. < Bella, per favore, vuoi dirmi che diavolo è successo? > Attesi finché lei non fu in grado di nuovo di parlare. < Sono scivolata. Ho picchiato la mano. Il dottore mi ha detto che mi sono fratturata un osso. Devo portare il gesso per un po’… >
< Quale osso? >
< Oh… ehm… non mi ricordo. È scritto sul referto. Mi pare centrasse con le barche… Scafo-qualcos’altro. Scafino? Scafetto? >
< Scafoide? >
< Sì. Ecco. Quello. >  Diamine. Possibile che non riuscisse a non farsi male.
< Quaranta giorni di gesso. > constatai e lei sospirò: < Già. >
Adesso non singhiozzava quasi più. Ogni tanto la sentivo però soffiarsi il naso. Sicuramente stava ancora piangendo, in silenzio.
< Bella? >
< Sì? >
< Vuoi dirmi perché piangevi prima? >
La sentii trattenere il respiro per alcuni istanti. Poi, cercando di mantenere la voce ferma, disse: < Mi faceva male la mano. >
< Sei sicura? Sai che mi puoi dire tutto. >
< Che senso avrebbe? Tanto tu sei lontano migliaia di chilometri! A che cosa servirebbe? Tu non puoi farci niente! > stava quasi urlando.
< Bella? Non dire così. Parlamene, ti prego. Cosa succede? >
< Per parlare c’è già lo psicologo. Se ti interessava così tanto, non mi avresti respinta a quel modo. Ed io, come una stupida… > ricominciò a piangere. Era adirata con me. Come potevo darle torto? Oltretutto, soffriva. Ma non voleva confidarmi il motivo. Avrei voluto esserla vicino ed abbracciarla.  < Per favore, non pensare queste cose. Io ci tengo che tu sia felice. >
< Ah sì? > mi domandò acida, poi rimase in silenzio. Dopo qualche minuto in cui la lasciai piangere, mi disse: < Scusami. Non dovevo dirti quelle cose. Non te le meriti. Sono proprio una cretina. Mi dispiace. Tu non hai colpe in tutto questo. È solo colpa mia… solo colpa mia. >
< Bella, mi dici cos’è successo? > la mia voce, calma e suadente, mascherava il mio stato d’animo. Stavo impazzendo di angoscia.
< Non è successo niente. io e Phil abbiamo litigato. Tutto qui. >
Phil. Nei giorni trascorsi a Forks avevo analizzato i suoi pensieri. Non apprezzava molto Bella. La considerava una sorta di intralcio nella sua relazione con Reneé. Temeva che tramite Bella, sua moglie potesse riavvicinarsi a Charlie. Ma a parte questo, Bella gli era indifferente. Amava però Reneé abbastanza da sopportarne la figlia. Non pensavo però che avrebbero litigato. Credevo che lui avrebbe assecondato sua moglie e sarebbe stato gentile con Bella.
< Perché avete litigato? >
< Mah… perché sono sbadata. Lui mi ha… mi ha… > la sua voce tremò e poi lei cominciò a singhiozzare di nuovo.
< Bella, cos’è successo? > sentii la rabbia diffondersi nel mio corpo. Se le aveva torto anche solo un capello lo avrei fatto a pezzi con le mie mani. < Cosa ti ha fatto? > La mia voce era dura e tagliente.

Lei sussultò alle mie parole e capii di aver colto nel segno. Sentii i miei muscoli tendersi.
< Lui mi ha… mi ha… > non riusciva a terminare la frase.
< Bella, io ti vengo a prendere. Qualunque cosa ti abbia fatto, non avere paura. Ti riporto a Forks. >
< No! > gridò lei terrorizzata. < Non devi. Lui mi ha solo… sgridata, ecco. Mi ha rimproverata. >
Non le credetti.  La conoscevo troppo bene. < Menti. Non vuoi dirmi la verità. >
< E tu che ne sai? Senti Edward, basta. Non parliamone più. Mi spiace di averti fatto preoccupare. Speravo che tu non lo venissi neanche a sapere. È davvero una cosa da nulla. Sono caduta e mi sono fatta male. Phil ha fatto bene a sgridarmi. Io sono solo … un errore. >
< Bella, quello che dici non ha senso. Tu non sei un errore. Cosa significa? >
< Niente,intendevo dire che faccio sempre casini.Faccio preoccupare sempre tutti.Sono una frana. >
Non volevo che pensasse a sé in quei termini. Cercai di portare il discorso su un argomento che mi premeva molto. < Hai preso le tue medicine? > Mi sembrava troppo agitata.
< Sì. Le ho prese, non preoccuparti. >
< Ti fanno ancora venire sonnolenza? >
< Un po’. >
< Bella, io voglio che tu mi faccia una promessa. > le dissi perentorio. Lei non disse nulla.
< Mi devi giurare che mi telefonerai. Se succede qualcosa, qualsiasi cosa, tu mi devi telefonare, mandare un messaggio… ed io verrò ad aiutarti. Me lo prometti? Se non trovi me, puoi chiamare Carlisle, Esme, chiunque di noi. E noi verremo ad aiutarti. >
Lei esitò per qualche istante e poi, un po’ più rilassata, sussurrò: < va bene. >
< Edward… >
< Sì? >
< Posso chiederti perché mi hai chiamato, oggi? >
< Ero preoccupato per te. >
< Sì, ma perché oggi? Perché non ieri, o l’altro ieri, o in uno qualsiasi di questi ventisette giorni? >
< Perché Carlsile mi ha detto che eri finita in ospedale con una frattura. >
Ridacchiò. < Quindi, se mi rompo qualcos’altro, mi telefonerai ancora? >
< Non dire cavolate. Non provarci nemmeno. Ricordi cosa mi promettesti prima della mia partenza? >
< Mi hai fatto promettere un sacco di cose. > Sembrava più serena.
< Lo sai a cosa mi riferisco. Avevi detto che avresti fatto attenzione a non farti male. >
< Sì. Lo so. Mi sei mancato. Tanto. > Avrei voluto confidarle quanto lei fosse mancata a me ma avrei solo peggiorato la situazione.
La sentii sospirare, imbarazzata. < Edward… >
< Sì? >
< Ti sto facendo spendere un capitale. >
< Non dire cavolate. >
< Senti, mi chiedevo se tu… potessi cantare un po’… per me, al telefono. Sono un po’ agitata e quello mi farebbe sentire meglio. >
Sorrisi. Avrei voluto stringerla a me, cullarla, abbracciarla, baciarla. cantarle all’orecchio tutte le melodie che avevo composto per lei. Ad ogni sua parola il mio proposito di lasciarle vivere la sua vita lontano da me vacillava sempre di più. La volevo, la desideravo. Avevo il bisogno fisico di lei. E lei di me.
Non le risposi neanche, cominciando a canticchiare.
< Grazie. > sussurrò pianissimo e, dal tono della sua voce capii che sorrideva. La sentii sdraiarsi sul letto.
Quasi un quartodora  dopo le chiesi: < Bella, ci sei ancora? >
Ridacchiò. < Sì. Scusa ma mi ero incantata. Sei proprio bravo,sai? E poi, sentire la tua voce mi fa sentire così bene… grazie. >
< Di nulla. Mi fa piacere sapere di aver potuto aiutarti. >
Gianna, che aveva continuato a fissarmi incantata per tutto il tempo (elaborando pensieri poco carini verso la destinataria della mia canzone,cioè Bella) ora scattò in piedi. Sentii Felix dietro di me.
< Bella, adesso devo andare. Mi dispiace. >
< Mi richiamerai presto? >
< Lo sai che in questo modo peggiorerei solo le cose. Io non ti voglio dare false speranze. Voglio che tu possa contare su di me, come amico. E che tu ti rivolga a me in caso di necessità. Per qualsiasi cosa. Anche fra anni. Non importa. Se avrai bisogno di me, io correrò da te, ma solo se è per qualcosa di importante. Ma non chiedermi di richiamarti presto. Per favore. Dobbiamo cominciare a vivere le nostre vite, indipendentemente l’una dall’altro. >
O meglio, io avrei vissuto pensando costantemente a lei ma lei doveva riuscire a liberarsi del mio ricordo.
< Mi richiamerai, però. Vero? >
< Sì. Te lo prometto. E se tu dovessi avere dei problemi, o avessi bisogno di me, chiamami. lascia un messaggio in segreteria. Ti richiamerò io. >
< Va bene. > sentii che si stava incupendo.
Felix, alle mie spalle, sbuffò.
< Bella, ora devo andare. Cerca di riposare. > In Florida era notte, in quel momento.
< Va bene. Grazie, di tutto. >
< Prego, anche se non ho fatto proprio niente. Dormi bene. > prima che riattaccassi la sentii mormorare “ ti amo ” a voce così bassa che un umano non l’avrebbe sentita. Quando ormai non c’era più linea sussurrai: < Anche io. >

 < Allora, finito di fare il fidanzatino al telefono? > Mi domandò sprezzante Demetri. < Aro ci attende. Stanno per raggiungerci degli ospiti e ti vuole al suo fianco.
Annuii e li seguii fino alle stanza di rappresentanza. Un’ala del palazzo in cui i Volturi accoglievano gli ospiti di riguardo. Entrai nel più ampio dei saloni di quella parte del palazzo.
Aro, Marcus e Caius erano seduti sui loro troni di legno con intarsi d’oro e madreperla. Questi troni erano poggiati su alti piedistalli che facevano apparire le loro figure ancora più imponenti.

Aro, seduto al centro, mi fece cenno di avvicinarmi. Mi inchinai e poi lo raggiunsi, nel mezzo della sala scarsamente illuminata. Il pavimento in marmo pareva riflettere i guizzi delle candele disposte in migliaia di candelabri nella enorme stanza. Gli arazzi alle pareti rappresentavano scene di balli, una dama con unicorno e una battaglia sanguinosissima.
< Vieni, figliolo, vieni. Prendi pure posto qui, vicino a me. >
Mi posizionai alla sua sinistra e gli porsi il palmo della mano, come lui voleva.
Con profondo disgusto lo vidi leggere tutto quello che io e Bella ci eravamo detti.
< Oh, Edward, Edward… sei ancora troppo innamorato di quella insulsa umana… come fare a farti cambiare idea? Vedrai, quando sarà morta per te sarà tutto più facile. La vita umana non è poi tanto lunga. Fra al massimo settant’anni sarà morta e tu sarai libero. E sono certo che non sentirai nemmeno la sua mancanza. È inutile che tu ora pensi di suicidarti. Sono certo che fra trent’anni non ti ricorderai neanche più di lei. >

Alec annunciò che gli ospiti stavano raggiungendo il palazzo e Aro disse: < Ma adesso basta parlare di queste quisquilie. Ragazzo mio, mi raccomando. Sai quanto apprezzi la tua dote. Vaglia tutti i loro pensieri, intrufolati nelle loro menti. Temo che stringerò la mano solo dell’ambasciatore. Vorrei conoscere il più a fondo possibile anche i pensieri di tutti gli altri delegati. Concentrati e dimostrami la tua bravura. >
Trasudava compiacimento mentre parlava. Da quando ero venuto a Volterra, non aveva fatto altro che gongolare. Pur di avermi lì aveva accettato senza dir niente le mie condizioni sulla vita di Bella. In fondo, per lui, quella era solo una insulsa umana…
< Edward! >  la sua voce mi riportò all’ordine. < Figliolo, concentrati. >
< Sì, Aro. > e cercai di focalizzare la mente sulla spaventata delegazione russa che era venuta a far visita ai volturi.

La mantella grigia mi pesava addosso più di mille catene.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Wake me up, I'm livin' a nightmare ***


Salve a tutte, sto postando da una connessione offerta gentilmente dalla regione autonoma del trentino, ascoltando De Andrè (un malato di cuore e Un medico)
Vi saluto sperando che la storia vi stia prendendo. Ho scritto fino al cap 15-16.
Temo che sforerà nel rosso. Al max cambio il rating.
A puro titolo informativo, potete dirmi quante di voi, essendo minorenni, non potrebbero più leggere la storia nel caso divenisse “rossa”.
Un abbraccio, buone vacanze!
Ps: non prendetevela a male se tratto Bella con tanta crudeltà. Sarà ampiamente ripagata!

Cap 11   

Wake me up, I'm livin' a nightmare
Svegliatemi, sto vivendo un incubo

 

 Bella1s POV

 

Osservai la pillola, l’ennesima, vorticare nell’acqua prima di sparire, inghiottita e risucchiata dallo scarico.

Era passato poco più di un mese da quando avevo smesso di prenderle. Quella era la trentaquattresima che finiva nello scarico del lavandino. Mi sentivo allo stesso tempo in colpa e fiera di me.

In colpa perché sapevo perfettamente di star facendo qualcosa di stupido che andava contro tutto quello che avrei dovuto fare, interrompendo una terapia volta al mio benessere psichico, fiera perché in questo modo dimostravo a me stessa di essere abbastanza forte da liberarmi di qualcosa che, me ne rendevo conto, mi impediva di essere del tutto lucida.

Non lo avevo detto a nessuno. Né alla psicologa, né al mio dottore. Tantomeno a Reneé.

Avevo paura che mi obbligassero a prenderle. Ero terrorizzata di venir rinchiusa in uno di quei centri speciali dove ti obbligano ad assumere i medicinali e dove ti rimbambiscono fino a convincerti che lo fanno per il tuo bene.

Non che prenderle fosse così male. prima, quando ogni giorno assumevo la medicina, tutto era un po’ più semplice. Mi sentivo più tranquilla. Le cose mi preoccupavano meno. Non sentivo la paura assalirmi all’improvviso, senza motivo. Però, avevo sempre sonno. Mi pareva che i miei riflessi fossero meno attivi. Non mi sentivo molto lucida, ero sempre intontita e poco recettiva.

Adesso, invece, mi sentivo molto più padrona di me, delle mie scelte, delle mie azioni… dei miei pensieri.

Certo, avevo attacchi di panico improvvisi ma avevo imparato a dominarli. Dovevo sdraiarmi se ne avevo l’opportunità oppure andare in un angolo tranquillo vicino ad una finestra aperta e concentrarmi sul respiro. Mi dovevo imporre di fare sospiri regolari. Non mi dovevo lasciar sopraffare dal mio corpo impazzito.

A volte mi capitava che mi girasse il capo o che avessi le vertigini. In quei casi dovevo sedermi e aspettare. Il mal di testa era ormai una parte integrante della mia vita.

Anche di questo non avevo detto niente a nessuno. L’unica volta che ne avevo accennato a Reneé, lei si era preoccupata da morire. Ci avevo messo mezz’ora per convincerla che non ero in punto di morte.

Certo, adesso che non prendevo più le pastiglie il dolore per l’assenza di Edward sembrava più acuto e bruciante. Più reale. La paura e l’insicurezza che mi veniva dai miei due anni perduti poi era diventata quasi soffocante.
Sapevo che gli antidepressivi servivano anche a questo, a tenere sotto controllo quel dolore…
Lo sapevo ma preferivo tenermi tutte le mie sofferenze piuttosto che rimanere in quella nuvola di inesistente e fittizio benessere derivato dagli antidepressivi.
Avevo imparato a tenermi le cose per me. Mi evitato moltissimi problemi in questo modo.
Insieme al mal di testa, mi tenevo per me anche il comportamento di Phil. Da quella sera nel parcheggio dell’ospedale, avevo cercato di evitare ogni contatto con lui. Quando ci incontravamo per caso, tenevo il capo basso.
In questo modo però mi resi conto di avergli trasmesso involontariamente un messaggio, quello sbagliato. Era convinto di avermi totalmente sottomessa. Sfortunatamente, mi accorsi presto che era proprio così. Non riuscivo a tenergli testa, a reagire. Davanti a Reneé, non aveva mai detto niente di sgradevole nei miei confronti ma, se lei era a distanza tale da non sentire, non perdeva occasione di rimproverarmi, di farmi notare quanto fossi pigra, inutile…

E per due volte mi aveva picchiata.

 La prima volta, mentre mia madre riposava sulla poltrona in salotto, avevo fatto cadere dei piatti che, nell’impatto con il pavimento, si erano frantumati in migliaia di pezzi che erano schizzati per tutta la cucina in un frastuono assordante.
I piatti mi erano scivolati dalle mani come se queste fossero fatte di burro.
Non ero riuscita ad impedire che cadessero. La mia mano era ancora ingessata. Non ero molto libera nei movimenti.
Mia madre si era svegliata di colpo, spaventata dal rumore improvviso, e aveva avuto delle contrazioni. Phil aveva fatto venire il dottore a casa e, dopo aver appurato che Reneè e il bambino stavano bene, mi aveva fatto una scenata terribile. Mia madre era in camera loro in quel momento e non poteva sentirci perché ascoltava la musica per rilassarsi.
Phil mi gridò dietro che ero un’irresponsabile e che non mi rendevo conto di quanto fosse precaria la salute di Reneé.
Ad ogni occasione mi ripeteva che il mio incidente aveva rischiato di compromettere la gravidanza di Reneé che, e su questo non c’erano dubbi, non era più tanto giovane e che quel bambino era un piccolo miracolo. Un miracolo a cui lui non era disposto a rinunciare per colpa della mia stupida incapacità.
Quella volta poi, dato che era ormai entrata nell’ottavo mese, avrebbe rischiato di avere un parto prematuro, se le contrazioni non si fossero fortunatamente fermate.
Avevo cercato di ribellarmi, di dirgli che era stato un incidente, che ero dispiaciuta…
Lui aveva continuato a gridarmi dietro tutte le solite cattiveria.
Esasperata, avevo reagito.
Gli avevo urlato che non poteva trattarmi così solo perché mi erano scivolati i piatti.
Gli avevo tirato dietro la prima cosa che avevo trovato sul bancone della cucina in preda alla rabbia e alla frustrazione per il suo atteggiamento. Un mandarino.
Lui, colto alla sprovvista dalla mia reazione inaspettata,reagì d’istinto.
Il primo colpo lo scansai ma lui mi afferrò per il polso sano, impedendomi di scappare. Il secondo lo presi in pieno viso nel tentativo di divincolarmi.
Nel silenzio della cucina risuonò lo “ sciaff ” sordo della sua mano sul mio volto.
Rimasi immobile per alcuni istanti poi, lentamente , mi portai la mano alla guancia dolente. Mi fissavo i piedi, incapace di muovermi.

Era stato… umiliante.

Lui era rimasto a fissarmi per alcuni minuti, continuando a stringermi il polso con forza.
Mi sarebbe rimasto il livido. I segni sul collo ci avevano impiegato una settimana a sparire, dopo l’incidente del parcheggio. Avevo portato un foulard per nasconderli.
Dopo circa un minuto avevo strattonato il polso per far si che lui mi lasciasse ma lui strinse più forte. Capii che era pronto a colpirmi di nuovo e tesi tutti i muscoli del mio corpo in attesa del colpo, che arrivò proprio come mi ero aspettata. Poi mi lasciò andare il polso. Mi tremavano le ginocchia. Ero del tutto inerme. Indietreggiai fino a toccare il frigorifero con la schiena. Mi ero lasciata scivolare ed ero caduta in ginocchio. Mi coprii il volto sotto il suo sguardo accusatore. Serrai gli occhi e mi rannicchiai su me stessa.
Mi urlò: < Se le succede qualcosa, se succede qualcosa a mio figlio, sta sicura che non te la lascerò passare liscia! >
Tra i singhiozzi, cercai di normalizzare il respiro. Quando riaprii gli occhi, lui se ne era andato.
Appoggiandomi al lavello mi rimisi in piedi. Ancora tremante, raggiunsi il tavolo e mi sedetti sulla sedia. Scoppiai a piangere poggiando il capo tra le braccia incrociate.
Mi sentivo sola, inutile, sbagliata.
In quel momento mi chiesi se quello che Phil mi aveva fatto, per la seconda volta, fosse un motivo abbastanza grave da poter giustificare una telefonata ad Edward. Poi pensai che avrei dovuto spiegargli tutto. Mi vergognavo di me, della mia incapacità di reagire. Sicuramente poi Edward si sarebbe arrabbiato con me perché non prendevo le pillole. Lui inoltre, avrebbe detto a mia madre sia delle pillole sia di Phil. Lei ne sarebbe rimasta sconvolta. Non volevo farla stare male, mettere in pericolo il mio fratellino. E poi, non volli neanche pensare a cosa mi avrebbe fatto Phil…
No… non potevo chiamarlo. Mi alzai e corsi in camera mia. Passando davanti alla loro stanza, sentii Phil dire a Reneé che andava tutto bene. Che non era successo niente. inghiottii la bile e corsi a chiudermi nella mia stanza a piangere.

La terza volta in cui aveva alzato le mani su di me era stata molto meno eclatante.
Mi aveva spintonato facendomi cadere per terra perché io, invece che ascoltare le sue ennesime critiche, gli avevo voltato le spalle ben decisa a non ascoltarlo più.
Mi aveva colpito sulla schiena ed io ero caduta in avanti ma, avendo ancora la mano ingessata, non avevo potuto mettere le mani avanti. Avevo picchiato la fronte su una gamba del tavolo.
Mia madre, entrando in sala e vedendomi con il volto sporco di sangue, aveva costretto Phil a portarmi in ospedale per farmi dare dei punti. Era terrorizzata che avessi un trauma cranico. Inizialmente temetti che lui mi avrebbe picchiato ancora, una volta in auto, ma Reneé insistette per accompagnarmi anche lei. Mi godetti le sue carezze e i suoi abbracci davanti allo sguardo irato di Phil.
Perché quello che lui non avrebbe mai capito è che io ero figlia di Reneé e lei mi amava tanto quanto amava il loro bimbo non ancora nato. E lui, non poteva farci niente.
Quando finalmente mi medicarono, l’infermiera rise vedendomi e facendomi sedere sul lettino.
< Signorina, lei è la nostra più affezionata cliente, sa? Abbiamo tolto il gesso solo ieri. >
< Già… è un po’ sbadata. > concordò mia madre stringendomi in un abbraccio affettuoso.
Mi fecero fare delle lastre e, quando constatarono che non c’erano danni, mi rispedirono in pronto soccorso per i punti di sutura. Mia mamma era adesso molto più tranquilla. Non faceva altro che sorridere.
Mi venne la pelle d’oca quando però vidi che il dottore che doveva darmi i punti era l’ortopedico che mi aveva curato il braccio. Evidentemente, era di turno in pronto-soccorso. 
Guardò Phil, guardò me e poi guardò Reneé.
< Signorina, era da un po’ che non ti facevi vedere. Addirittura ventiquattro ore. Adesso ti faccio una piccola anestesia e poi ti metto i punti. >
Il suo tono sembrava scherzoso ma mi allarmò. Mia madre sorrise vedendo che mi ero irrigidita.
< Bella, non avrai ancora paura degli aghi? Con tutti gli esami che hai fatto? > e mi strinse a sé per rassicurarmi. Io non dissi niente. certo, gli aghi mi facevano paura ma adesso era dal dottore e da quello che avrebbe potuto dire che ero terrorizzata. 
Lui osservò la mia ferita e mi domandò con voce normale: < E questo come te lo sei fatto? >
< è caduta contro al tavolo. > Rispose mia madre al posto mio.
Lui mi osservò ma io non alzai lo sguardo. Non volevo guardarlo negli occhi.
< È così? Sei caduta? >
Io annuii. Lui non aggiunse altro ed esaminò meglio la mia ferita. L’infermiera mi aveva lavato via tutto il sangue e il taglio in fronte era adesso ben visibile. Mi fece l’iniezione e presto sentii tutta la zona intorpidita.
< Bene, adesso devo ricucire la ragazza. Signora, forse è meglio che aspetti fuori. Non vorrei che si agitasse, sebbene sia una cosa da nulla. >
Mia madre si alzò dalla sedia, mi baciò la guancia e poi disse: < Sì, ha ragione. Tutto questo sangue mi ha fatto venire un po’ di nausea. Magari vado a prendermi una cioccolata al bar. Ti aspetto lì, Bella. Va bene? >
Le feci il segno “ O.K. ” con le dita e lei ridacchiò.
< Vieni con me, Phil? >
< Preferirei restare qui. se si sente male, almeno non sarà da sola. > ecco il punto. Non voleva lasciarmi sola con il dottore. Aveva paura?
< Non si preoccupi. > gli disse acido il medico. < Ho una laurea in medicina. Se si sentisse male sarei perfettamente in grado di occuparmi di lei. >
L’infermiera lo guardò sorpresa dal tono di voce velatamente aggressivo ma non disse nulla e andò nell’ambulatorio affianco, pronta a prendersi cura del prossimo paziente.
Phil, controvoglia, seguì Reneé e si chiuse la porta dell’ambulatorio alle spalle.

< Cadi spesso. > Constatò il dottor Barnacle quando restammo soli.
< Già. > risposi, sempre intenta a fissarmi la punta delle scarpe.
Mi toccò la fronte ma non sentii le sue dita sulla mia pelle.
< Direi che l’anestesia ha fatto effetto. Adesso però, che tu lo voglia o no, devi alzare lo sguardo perché altrimenti non posso metterti i punti.
Senza dire niente, alzai il capo e, senza incrociare i suoi occhi, mi misi a fissare il soffitto.
< Non sei una molto loquace, vero? > mi domandò mentre bucava la mia pelle con l’ago e cominciava a ricucirmi. Feci per asserire ma lui mi bloccò la testa con l’altra mano.
< No, no. Non muoverti. Devi restare immobile. Se vuoi rispondermi, dovrai parlare. >
< Non ho molto da dire. Tutto qui. Sì, è vero. Cado spesso. >
< Va tutto bene? >
< Sì. La mia vita è fantastica, ma questo gliel’ho già detto credo. >
< Come ti sei procurata questa ferita? >
< Sono caduta. >
< Tua madre adesso è al bar. Lui non c’è e non può sentirti. non è più il caso di mentire. >
< Io non mento. Sono davvero caduta. >
< Sei caduta da sola? > Domandò allora, cercando di penetrare le mie difese.
< Sì. Sono inciampata nel tappeto e sono caduta. >
Rimase in silenzio e sentii il suono del filo che passava attraverso la carne, sentii i nostri respiri.
< Ecco. Ho finito. I punti si riassorbiranno da soli. Se senti dolori, vertigini o per qualsiasi problema,torna in ospedale. D’accordo? >
< Sì. Grazie. > Mi aiutò a scendere dal lettino e controllò come camminassi.
< Isabella… > mi disse mentre afferravo la mia borsa e la felpa.
<  Sì, dottore? >
< Non aspettare che sia troppo tardi. So che non è facile, ma non puoi lasciare che ti venga fatto del male. >
< Non capisco a cosa si riferisca. Comunque, grazie, per tutto. Spero di rivederla fuori da queste stanze asettiche la prossima volta. > gli dissi sulla porta.
< Me lo auguro anche io. Riguardati. >
Io annuii e mi chiusi la porta alle spalle.

Non andai subito al bar. Prima passai dal bagno e notai che non il taglio era meno grave di quanto non mi fosse sembrato all’inizio.
 Durante il viaggio di ritorno rimanemmo tutti silenziosi . mamma aveva insistito per sedersi dietro con me. Phil guidava tenendo gli occhi fissi sulla strada. L’atmosfera era carica di tensione.
Da quel giorno, i rapporti fra me e lui divennero ancora più tesi e quando lui mi rivolgeva la parola, lo facera per insultarmi o offendermi, anche se solo quando mia madre non poteva sentirlo.
Io cercavo di non reagire ai suoi insulti, alle sue cattiverie. Ovviamente, dopo che mi aveva mandato a sbattere con la fronte contro al tavolo, facevo attenzione a non voltargli le spalle mentre mi parlava. Non volevo dargli il pretesto di lamentarsi di me. Cercavo di stargli il più lontano possibile. Durante il giorno, quando non ero dalla psicologa o al corso di pianoforte, andavo al parco, o in biblioteca…  cercavo di tenermi occupata, di stare lontano da lui.
Una volta a settimana andavo al cinema.
Cercavo di evitare di spendere troppi soldi e quindi al cinema ci andavo di mercoledì pomeriggio, quando c’era lo sconto. Ero io inoltre che andavo a fare la spesa, cercando di rendermi utile.
Un paio di volte, quando Reneé doveva fare delle visite per il bambino, mi ero offerta di accompagnarla. Mi avrebbe fatto piacere e sapevo che ne avrebbe fatto anche a lei.
Bastò però uno sguardo severo di Phil a costringermi a restare a casa.
Accompagnare mia madre in ospedale, andare a comprare le cose per il piccolo, preparare la cameretta… questi erano compiti che spettavano a lui, il padre, e non a me, la sorellastra. Lui doveva andare con mia madre. Io non ne avevo il diritto secondo lui.
Me lo aveva urlato contro un martedì, quando mia mamma doveva andare a fare l’ultima visita ginecologica prima del parto, previsto per il lunedì successivo.
Fu quella mattina che, per la prima volta, sentii l’impulso di fargli del male. avrei voluto picchiarlo, colpirlo… ferirlo.
Volevo impedirgli di rovinarmi la vita. Ma cosa avrei potuto fare?
Non si può certo denunciare una persona perché quest’ultima ti guarda male, perché ti dice che a vent’anni ti vuole vedere al college o perlomeno via di casa, perché ti dice che ormai sei grande e non devi più comportarti come una mocciosa. Perché ti ha tirato un paio di ceffoni…
A che titolo avrei potuto dire che aveva fatto qualcosa di male?
Ero io che ero entrata nelle loro vite senza permesso. Era colpa mia.
Quei pensieri mi facevano sempre gelare il sangue nelle vene.
Mi facevano sentire tutto il peso della mia inutilità e le mie insicurezze si facevano così opprimenti da divenire insopportabili. Mi sentivo soffocare e il mal di testa aumentava esponenzialmente. Decisi di farmi un bagno caldo.
Sebbene mi fosse dispiaciuto molto non poter esser andata con Reneé, il vantaggio di avere Phil fuori di casa era che potevo starmene un po’ tranquilla. Prendermela con comodo.
Di solito, se stavo nella vasca per più di mezz’ora, bussava con forza alla porta dicendo che ero una perdigiorno e che non avevo neanche la decenza di mascherarlo.
Quel martedì mattina, senza di lui, rimasi a mollo nell’acqua per più di un’ora.
Una volta uscita dalla vasca, mi asciugai lentamente. Quando ormai avevo già infilato la biancheria, mi osservai allo specchio.

Quella ero io.  Fragile ed inerme giovane donna.

Mi chiesi cos’avessi che non andasse. Il mio corpo non era quello di una modella ma mi chiesi se fosse poi davvero così brutto. Le cicatrici inoltre non si vedevano quasi più.
E allora perché non andavo bene per lui?
Perché Edward non mi voleva più, di questo ero convinta.
Lo avevo capito anche dalla sua ultima telefonata, quella sera… da quel giorno non mi aveva più richiamata. Erano passate quasi sei settimane.
Mi aveva detto di chiamarlo solo in caso di emergenza, di lasciare un messaggio in segreteria. Significava che non voleva che lo chiamassi e lo trovassi, altrimenti avrebbe lasciato il telefono acceso. Probabilmente ne aveva comprato un altro che usava per amici e familiari…
Sconfortata, mi sedetti sul bordo della vasca.
In quell’istante avrei voluto tirare un pugno anche a lui. A Edward che si vergognava di me, ad Edward che non si accontentava di me adesso che andava al College…
A Edward, per io quale io non ero abbastanza…
Volevo fare male alle persone che mi avevano ferita. Fu in quel momento che capii.

Non erano loro il problema. Ero io.

Mi alzai di scatto e scesi le scale. Aprii lentamente la porta del bagno di mia madre e di suo marito.
Frugai nel cassetto sotto al lavandino e trovai quello che cercavo.
Le lamette di ricambio del rasoio di Phil. Corsi nel mio bagno e mi chiusi la porta alle spalle con due mandate di chiave.
Sebbene una parte di me sapesse che tutto ciò era profondamente stupido e sbagliato, l’altra parte della mia anima mi spronava a provare, a dare prova a me stessa del mio coraggio.
Poggiai la lametta sull’avambraccio del braccio sano.
La luce del sole illuminava la pelle mettendo il risalto le minuscole cicatrici che mi ero procurata nell’incidente.
Nessuno avrebbe notato un paio di taglietti in più.

Feci pressione e, lentamente, incisi. 

Sentii freddo in quel punto. Niente di più. Forse un po’ di dolore. Poco. All’inizio non uscì nemmeno sangue.
Allora incisi di nuovo, un punto un po’ più in giù. Anche qui, poco dolore e niente sangue.
Ripetei l’operazione per altre cinque volte. alla sesta pensai che, forse, non esercitavo abbastanza forza. Tutti gli altri taglietti erano poco più che graffi. A malapena qualche goccia era riuscita ad emergere in superficie.
Premetti di più. Troppo. Questa volta sentii male e il sangue cominciò a scendere in un rivolo che raggiunse il polso.
Spaventata ed orgogliosa di me allo stesso tempo, mossi il braccio velocemente come se l’aria potesse calmare il bruciore.
Aprii l’acqua e sciacquai la lametta. Quando tornai a guardarmi il braccio, notai che i taglietti che prima mi parevano insulsi adesso erano incrostati di sangue. Sciacquai anche il braccio e il contatto con l’acqua mi provocò un notevole bruciore. Più di quanto mi sarei aspettata.
Lavai via il sangue.
Mi dava una strana soddisfazione quel mio coraggio. Fare del male a me mi diede soddisfazione come se ne avessi fatto a Phil. Mi fece sentire un po’ meno inadatta…
Ormai non sanguinavo quasi più. Tamponai con un po’ di carta igenica. Tranne l’ultimo, i tagli erano molto sottili e quasi non si vedevano.
Sentii il bisogno di farlo ancora. Di provare di nuovo. Se pensavo alla rabbia che provavo dentro di me per non essere accettata, per essere stata abbandonata, per ritrovarmi privata di una parte della mia vita, mi risultava facile premere sulla pelle quella sottile lametta d’acciaio. Era un gesto semplice ma liberatorio.
Lo ripetei altre volte, diventando sempre più audace. Pensando a Phil, alle sue urla, incidere la mia pelle era semplice e liberatorio.
 Queste nuove incisioni erano più lunghe e profonde rispetto alle precedenti. Mi accorsi subito che, se muovevo la lama velocemente, non mi accorgevo neanche di essermi tagliata. E il sangue non sgorgava subito. Ci voleva qualche secondo prima che la pelle si macchiasse di rosso.
Sentivo il braccio indolenzito. Provai a premere sui tagli e provai dolore, acuto e bruciante. Faceva molto più male ora che non all’inizio.
Quel dolore fisico mi distraeva dalle mie sofferenze interiori.
Poggiai di nuovo la lama sull’avambraccio.
Improvvisamente mi resi conto di quello che stavo facendo e lasciai andare la lama, che cadde nel lavandino macchiato da tante minuscole goccine di sangue.
Mi diedi della stupida idiota e pulii tutto dopo aver lavato il braccio e averci messo sopra della carta igenica, che tenevo premuta sulle feritine, per evitare che il sangue macchiasse i vestiti. Ad ogni pressione sentivo il dolore sollecitare le mie terminazioni nervose.

Il dolore mi faceva capire che ero viva. Era, nonostante tutto, una bella sensazione.

Ero sul punto di gettare la lametta nella pattumiera ma, qualcosa di perverso in me me lo impedì. La presi e la nascosi dentro alla scatolina per i tappi per le orecchie.
Sentii l’auto di Phil parcheggiare in garage e corsi in camera mia ad infilarmi una maglietta a maniche lunghe.

Nessuno doveva sapere di questa cosa.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** leave behind the world you know ***


cap 12

Lo so, lo so…
Storia strana, comportamenti apparentemente inspiegabili etc etc.
Eppure, proprio quando si è in situazioni assurde ci si comporta in modo sconsiderato.
Quindi perdonate la mia Bella dagli atteggiamenti un po’ tanto autolesionisti. È un modo (sbagliato) di reagire. A volte però si è così fragili che non si riesce a reagire nel modo appropriato.
Non bisogna essere troppo intransigenti. Siate ospitali nelle vostre menti e non giudicate gli altri con troppa semplicità. Anche chi si fa del male. C’è sempre un perché a quello che fanno, anche se ciò che fanno è sbagliato. per favore.  
Qui quello in questione è un personaggio che non esiste nemmeno su carta (al massimo nella memoria del mio pc e sui nostri schermi.) ma ci sono persone reali, la fuori, che soffrono veramente e spesso non siamo in grado di cogliere i segnali del loro disagio.

Ma ora basta parlare di cose pesanti.

Bella non si suiciderà e, per quante me lo avessero chiesto, sì, recupererà la memoria, ma a piccole dosi. 
E questo creerà notevoli casini, oltre a quelli in cui lei stessa, per talento naturale,incapperà.
Per quante ritenessero il comportamento di Phil esagerato, sappiate che purtroppo cose simili succedono davvero. Anche troppo spesso.
(piccola esortazione a denunciare la violenza in famiglia. la più insidiosa. Lo so… guardo troppo il programma AMORE CRIMINALE… )
 
Allora, sappiate che non riesco a smettere di ascoltare Neutron Star collision, How to save a life, lampi tou ouranou(la canzone del gobbo di notre dame in greco moderno. Quella di quasimodo prima e frollo dopo) e tante altre canzoncine allegre! Quindi il mio scritto ne risente. Ma non preoccupatevi, a me piacciono i lieto-fine, anche se molto combattuti!
Un bacio a tutte e scusate se non rispondo alle mails. Internet qui prende solo dai miei cucini di tipo 6* grado e mi scoccia andare a rompere. Quindi centellino le visite col pc e mi limito a postare in tre secondi.
Ps: Keska, devo assolutamente parlarti della tua storia!!!!!!

cap 12

Leave behind the world you know
Lasciati alle spalle il mondo che conosci…

 

 
Bella’s POV

 
< Bella? Bella tesoro? > Mi chiamava mia madre. Scesi velocemente le scale e la trovai seduta sul divano ad aspettarmi. Mi sorrise appena mi vide e mi fece segno di sedermi accanto a lei.

Io la assecondai e le diedi anche un bacio sulla guancia.
Le chiesi: < Allora mamma, com’è andata? >
< Oh, Bella, sono così felice. Il dottore dice che va tutto bene. Mi ricoverano lunedì. Il parto cesareo è previsto per mercoledì. Dovrebbero tenermi dentro quattro, cinque giorni. Non di più. Il bambino sta bene e presto potremo abbracciarlo. Non è meraviglioso? >
Mi sforzai di sorridere. Se tanto mi dava tanto, Phil non mi avrebbe permesso neanche di sfiorarlo il bambino.
< Mi dispiace solo che dovrò stare lontana da casa tanto a lungo. Non vorrei lasciarti sola. >
Mi rivolse uno sguardo di scuse.
< Ma cosa dici mamma! Non puoi mica far nascere il bambino in casa! > esclamai fingendo disapprovazione. Poi aggiunsi: < Non devi preoccuparti per me. So badare a me stessa. E poi, ti verrò a trovare talmente spesso che ti sembrerà di essere a casa. >
< Ci conto, Bella. >
In quel momento entrò Phil. Baciò mia madre sulle labbra e poi, rivolgendosi a me, mi disse: < Tu, preparati. Tra un’ora comincia il corso di pianoforte e sei ancora in pigiama. >
< Sono già le due? > chiesi smarrita. Avevo perso il conto del tempo, nel bagno.
Reneé ridacchiò. < Sì tesoro. Se non ti sbrighi a prepararti, farai tardi. >
< Già. Ok vado a vestirmi e poi esco. > ero già sulle scale quando Reneè mi chiese: < Hai mangiato? Vuoi che ti prepari un panino? >
Mi accorsi di essere a stomaco vuoto. La cosa che mi sorprese fu che non avevo fame. Appoggiai le dita sulle ferite al braccio. Quel dolore mi aveva appagata.
< No, mamma, non preoccuparti. Ho mangiato qualcosa prima. Grazie! > e poi scappai in camera.
Scelsi una maglietta a maniche lunghe. Mi infilai il primo paio di Jaens e le vecchie scarpe da ginnastica. Zainetto in spalla, gridai un “ Ciao ” e poi schizzai fuori di casa.
C’era sciopero dei mezzi quel giorno e quindi avrei dovuto andare a piedi. Una bella passeggiata di tre quarti d’ora.

Arrivata alla scuola, in anticipo, mi sedetti nella hall.
Il mal di testa mi aveva assalita lungo il tragitto e mi attanagliava. Sapevo che mi sarebbe durato tutto il giorno.
Tirai fuori un libro dallo zaino e cominciai svogliatamente a leggere. Dovevo combattere contro la tentazione di tastarmi il braccio, di rievocare il dolore. Dovevo tenere la mente impegnata. Solo che, leggere con quell’emicrania era quasi impossibile.

< Toc Toc. > fece qualcuno tamburellando le dita sulla mia spalla. Trasalii e mi voltai verso il ragazzo biondo alla mia sinistra.
< Eih! Allora ci senti! > sorrise. < Ciao. Tu sei del corso di pianoforte, vero? >
Mi limitai ad annuire. Non mi piaceva la gente che si avvicinava troppo a me. Ero sempre sulle difensive.  Dato che non proferivo parola, lui aggiunse:
< Ciao, io sono Jason. > mi porse la mano ma, dato che io non feci altrettanto, fece finta di niente e se la passò tra i capelli biondi. Cercò di catturare la mia attenzione dicendomi: <  Frequento il tuo stesso corso. Tu sei Isabella. Vero? >
< Ah… sì. Sono Bella. Non ti avevo mai notato, al corso. > risposi gelida. Sperai che quella conversazione finisse il più in fretta possibile. Perché non mi potevano lasciare in pace?
< Beh, sei sempre così concentrata…anche se siamo solo in sei, mi è sembrato che tu non notassi nessuno. mi chiedo come tu abbia fatto in questi giorni, con la mano ingessata. >
Mostrai la mano di nuovo libera e mi limitai a dire: < Problema risolto. Comunque, mi limitavo a prendere appunti e a suonare come potevo. La professoressa Williams è stata molto disponibile e mi ha dato una mano. >
Lui annuii. Era in evidente imbarazzo. Anche io. Fortunatamente altre quattro persone, quasi contemporaneamente, entrarono nell’ingresso. Li riconobbi di viso. Erano i nostri compagni.
Stava per cominciare la lezione. La porta dell’aula della signorina Williams si aprì e noi entrammo.
< ragazzi, oggi facciamo un po’ di teoria quindi prendete pure posto ai banchi. >
Il ragazzo, Jason, si sedette vicino a me. Cattivo segno.
Alla mia sinistra lui, alla mia destra il muro.
Fu una lezione molto lunga. Troppo. Cercavo di ignorare le occhiate del ragazzo come avevo sempre fatto ma lui era così insistente da irritarmi a morte.
Fortunatamente,anche quell’agonia finì.
Appena ci fu permesso, mi alzai e infilai lo zaino.
< Hai fretta di tornare a casa? > Mi domandò Jason.
< Un po’. > risposi scettica, fissandolo.
Non potei evitare di fare il confronto con Edward. Certo, anche questo biondino era carino ma…
I suoi occhi grigi erano anonimi. Gli zigomi troppo pronunciati. I capelli troppo corti. Era più basso di Edward di almeno mezza spanna. E le sue mani non mi piacevano.
Quelle di Edward erano lunghe e affusolate ma allo stesso tempo forti e protettive.
Cercai di reprimere il pianto e, istintivamente, serrai la mano intorno al braccio ferito, provocandomi dolore. Fu questo a risvegliarmi dalla trance.
Notai che Jason mi squadrava. Sembrava compiaciuto dal mio indugiare sul suo viso. Mi affrettai a distogliere lo sguardo e, riprendendo il filo interrotto dei miei pensieri, aggiunsi: < Sai, c’è lo sciopero dei mezzi e devo tornare a piedi. Non vorrei arrivare ad orario di cena. >
< Se vuoi… >
Il cellulare vibrò nella mia tasca e gli feci segno di aspettare. Santo cellulare salvatore.
Era Reneé.
< Ciao. Hai finito? > mi chiese premurosa.
< Si mamma,altrimenti non avrei potuto risponderti. >
Ridacchiò. < Hai ragione. Allora, tutto bene? >
< Sì, dai. Come al solito. Sto uscendo adesso. Sarò a casa tra un’oretta. Non ho voglia di correre. >
< Bella, sei sicura che non vuoi che Phil ti venga a prendere? >
< No mamma, non preoccuparti. Torno a piedi. Mi faccio una passeggiata. >
< Come vuoi. Se per strada ti senti stanca, chiamami. ti veniamo a prendere. Non voglio che ti sforzi troppo. >
< Ok. Non preoccuparti. Ci vediamo tra un’oretta. Ciao. >
< Ciao piccola. >

Riagganciai e sospirai. L’ultima cosa che volevo era che Phil mi venisse a prendere.
< Tutto a posto? > chiese Jason. Mamma mia quanto era insistente.
< Sì. Ho solo una madre super-apprensiva. >
< Ti stavo dicendo, se vuoi, posso riaccompagnarti a casa io. Ho la macchina. >
Il mal di testa, che non mi aveva abbandonato un secondo, mi assalì con forza, come un’onda che si infrange improvvisamente su una scogliera. Un’ondata di dolore.
Dovetti sedermi.

< Ehi, tutto ok? >
< Sì. Scusa. Ho solo avuto un giramento di testa. Mi succede, a volte. >
< Dall’incidente? > mi chiese con nonchalance. Alzai lo sguardo e lo fulminai.
< Come fai a saperlo? > domandai acida. Io non volevo che nessuno ne sapesse niente. volevo che rimanesse un segreto.
Fece spallucce e disse: < Mio padre è il direttore della scuola. Tua madre, quando gli è venuta a parlare per iscriverti gliene ha parlato. È saltato fuori a cena, una sera. Mi ha solo detto che una mia compagna di pianoforte che si era trasferita quest’anno dallo stato di Washington aveva avuto un brutto incidente d’auto e che era salva per miracolo. Ho pensato che fossi tu. le altre ragazze del corso le conosco da due anni… >
Mentre lui continuava a blaterare, un sorriso amaro mi si formò sulle labbra.
“ Viva per miracolo? ” Sì… come no. Avrei preferito morire.
< Ehi, allora? Posso accompagnarti? > fece lui per richiamare la mia attenzione. Poi aggiunse: < non ti sarai mica offesa, vero? Mi spiace. Pensavo che non ti avrebbe dato fastidio che io sapessi… >
< No, non preoccuparti. Ma tu non dirlo a nessuno. Non mi piace farlo sapere in giro. Per il passaggio… > fosse stata una situazione normale avrei educatamente rifiutato e me ne sarei tornata a casa da sola ma il mal di testa era sempre più forte e non ero sicura di riuscire a tornare a casa. Per questo gli dissi: < Sì, va bene. Grazie. >
Lui sorrise e, insieme a me uscì. Con la mano mi indicò una decappottabile rossa tirata a lucido. Brillava nel sole del mezzo pomeriggio. Si vedeva lontano un miglio che lui ne andava fiero.
Sì era bella ma… sinceramente a me di auto non importava molto.
Sembrò deluso dalla mia assenza di commenti.
< Ti piace? >
< Sì. È molto carina. > Mi limitai a rispondere. Mi ricordava quella di Rosalie, la sorella maggiore di Edward. Un giorno lei, Esme ed Alice erano venute a trovarmi a casa con la sua macchina. L’auto di Rose mi piaceva molto di più, per quanto potesse piacermi un’automobile.
Mi sedetti al posto del passeggero e mi allacciai la cintura.  Lui prese posto al volante. Abbassò il tettuccio.
< Allora, dove ti porto? >
< Va benissimo se mi lasci qui. > e gli indicai un punto sulla cartina virtuale del suo navigatore satellitare.
< Casa tua è lì? > Mi chiese dubbioso. Gli avevo indicato un parco.
< No, ma non è distante. >
< No, dai. Se ti riaccompagno a casa, voglio farlo per bene. Dimmi dove ti devo lasciare. >
Avevo troppo mal di testa per discutere e cedetti. Gli diedi l’indirizzo e poi chiusi gli occhi, poggiando il capo sullo schienale.
< Tutto a posto? Sei pallida. >
< Sì. Scusa. È solo un po’ di emicrania. Non mi è ancora passata. >
Ci pensai un po’ su. Da quando avevo smesso di assumere gli psicofarmaci l’intensità dei miei mal di testa era aumentata in maniera esponenziale. A volte erano così forti da causarmi conati di vomito o da costringermi a letto.
< Se vuoi rallento. >
< No. No. Non preoccuparti. Ti sto già facendo perdere troppo tempo. > e poi, se fosse andato più piano, ci avremmo messo di più ad arrivare e non avevo voglia di stare con lui.
Voltai il capo e un moto di delusione mi attanagliò il cuore quando mi accorsi che la pelletteria della vettura aveva un odore sgradevole. Anzi no, non sgradevole. Semplicemente, non era quello che mi aspettavo, che avrei voluto. Quello della Volvo di Edward.

< Eccoci arrivati. >
Aprii gli occhi e mi accorsi con sorpresa che eravamo davanti a casa mia. Era stato molto veloce.
< Grazie. Sei stato molto gentile. Scusa per il disturbo. >
< Nessun disturbo. Anzi, è stato un piacere. > e mi fece l’occhiolino. Uscii dall’auto e presi le chiavi. < Se vuoi, passo a prenderti domani. >
Mi si gelò il sangue nelle vene. Improvvisamente nella mia mente, a quelle parole, tornò un’immagine di me ed Edward, in una mensa. Lui mi porgeva la stessa domanda. Le mie ginocchia tremavano.

< Così non devi aspettare l’autobus. > cercò di giustificarsi Jason. evidentemente avevo una faccia sconvolta.

< No, non preoccuparti. >
< Dai, mi fa piacere. Hai visto poi che ci abbiamo messo pochissimo? Appena dieci minuti. In autobus ci avresti impiegato almeno mezz’ora, più l’attesa. Passo a prenderti alle tre meno un quarto. >
< No, davvero. Domani non posso. Prima di venire al corso devo andare a fare una visita e non so se faccio a tempo a tornare a casa o se vengo direttamente a scuola. >
Lui annuì e poi mi disse: < Va bene, allora sarà per un’altra volta. Ci vediamo domani, Bella. Ti aspetto a scuola. > e schizzò via, lasciandomi impalata nel vialetto con le chiavi in mano.
Mi ripresi dall'attimo di smarrimento e andai ad aprire la porta.
Reneé era in cucina. Fu sorpresa di vedermi. Le spiegai del passaggio e lei, con un’occhiata furbetta ed indagatrice che però mascherava un velo di tristezza, mi chiese: < Lui ti piace? >
< No. Niente di che. È solo un compagno di corso. >
Rimasi un po’ con lei a chiacchierare ma il mal di testa si fece così acuto che, appena ne ebbi l’opportunità, la salutai ed andai in camera mia. Chiusi le tende e cercai di riposarmi, al buio.

Tutto inutile. Dopo mezz’ora in cui non ero riuscita a prendere sonno, mi alzai e andai al mio armadio. Piegata con cura, in una scatola, la giacca di Edward. La presi e tornai a letto stringendola a me. Mi nascosi sotto le coperte e inspirai profondamente il suo profumo.
Mi ritrovai a piangere senza capirne il motivo. Avrei voluto venir inghiottita dall’oscurità, avrei voluto sparire, morire.
Abbracciata alla giacca di Edward, desiderai con tutta l’anima di averlo lì con me.
I miei singhiozzi andarono pian piano smorzandosi e, alla fine, mi addormentai.
Prima però di perdere la cognizione della realtà, mi rividi in un bosco sconosciuto ma, nonostante ciò familiare. Edward era lì, davanti a me bellissimo e immobile.
Forse era un sogno… Mi teneva le mani sulle spalle e mi sussurrava: < A modo mio ti amerò sempre… vorrei chiederti un favore, però, se non è troppo: non fare niente di insensato o stupido. Proseguirai la tua vita senza interferenze da parte mia. Sarà come se non fossi mai esistito. Addio, Bella. Fai attenzione… >
Non lo vidi baciarmi la fronte. Ma, come in tutti i sogni, sapevo che lo aveva fatto. Forse avevo chiuso gli occhi. Sì, per forza. Tutto era buio. Quando li riaprii, sempre nel sogno, lui non c’era più…
Tremai mentre il mio cuore gelava.
No, non era un sogno. Era un incubo.
Quella notte non ci fu altro che buio. E freddo, tanto freddo.
 

La sveglia suonò e mi risveglio di colpo, con un sussulto.
Com’era possibile? Era già mattina?
Mi alzai a sedere e notai i segni rossi che macchiavano la maglia. Inizialmente mi spaventai. Alzai la manica e vidi i tagli incrostati di sangue.Ebbi un conato di vomito che riuscii a reprimere in fretta.
Mi tornarono in mente i tagli, la lametta, il sangue… sì, era successo tutto, per davvero.
Mi afferrai il braccio e strinsi. Dolore. Andai in bagno a lavarmi e mi cambiai. Sciacquai la manica sporca di sangue. Non volevo che qualcuno la trovasse. Applicai dei cerotti sulle ferite e scesi al piano terra.

< Ciao mamma. > dissi entrando in cucina. Lei mi sorrise e, carezzando il pancione, si alzò e mi venne incontro per abbracciarmi. < Ciao piccola. >
Ricambiai l’abbraccio. < Perché non mi hai svegliato ieri sera? > domandai.
< Oh, tesoro, Phil mi ha detto che ha provato a chiamarti ma che tu dormivi della grossa. Non volevamo disturbarti e ti abbiamo lasciato dormire. >
Oh… Phil, che gentile da parte sua farmi saltare la cena. Avevo i crampi allo stomaco per la fame. Forse perché il giorno prima non avevo neanche pranzato.
< Se vuoi ti preparo delle frittelle. >
< No, mamma, non preoccuparti. Mi mangio qualcosa così… >
Andai in cucina e affogai un sacco di cereali nel latte. Mentre guardavo fuori dalla finestra, masticando lentamente, ripensai al ragazzo biondo. No, non poteva reggere il confronto con Edward, non solo a livello fisico. Edward però non sarebbe tornato da me e io me ne dovevo fare una ragione. 
Non potevo passare la mia vita a macerarmi nel dolore per lui…
“Oh si che puoi, lo sai che sarà così.” Mi disse una vocina perfida ma sincera. La coscienza.
No. Non potevo. Dovevo reagire. Jason sembrava carino, gentile, interessato. Perché avrei dovuto respingerlo? Non mi meritavo anche io una nuova vita, come quella che si stava creando Edward al college?
Lavai la tazza e mi preparai per uscire. Dovevo essere in ospedale per le dieci. Avevo l’ennesima visita di controllo.
Mia mamma, tenendosi il pancione, mi salutò con la mano mentre io mi allontanavo lungo il vialetto.

Quando finalmente i medici mi lasciarono andare, era troppo tardi per tornare a casa. La lezione di pianoforte sarebbe cominciata di lì a tre quarti d’ora. Appena il tempo per raggiungere la scuola. Fortuna che mi ero portata dietro il mio zainetto.
Lungo la strada l’emicrania mi assalì più volte, costringendomi ad appoggiarmi agli steccati o ai muri delle case. I dottori mi avevano detto che, dopo gli incidenti come il mio, poteva succedere. Io ovviamente non avevo detto loro che erano aumentati a dismisura da quando avevo smesso di assumere gli psicofarmaci.

Arrancando, raggiunsi la scuola e mi sedetti sugli scalini. La porta d’ingresso si aprì e mi sentii chiamare.
< Bella? Tutto bene? > Era la voce di quel ragazzo, Jason.
Mi sforzai di allontanare il dolore dal viso e, voltandomi verso di lui, sorrisi.
< Sì. Non preoccuparti. Ho solo camminato molto e sono stanca. >
Il suo volto si fece furbetto e sorrise speranzoso. < Beh, se vuoi, ti porto indietro io, dopo. Non puoi certo andare in giro in queste condizioni. Sei pallidissima. Sicura di stare bene? >
< Sì. Tutto ok. >
Mi alzai ed entrai. Mi posò il braccio intorno alla vita. Non reagii a quel contatto indesiderato. La sua pelle era…calda…
Ignorai i pensieri che improvvisamente m’assalirono.  Io ed Edward che ci baciavamo nella mia veranda, l’ultimo giorno in cui l’avevo visto.
Non dovevo pensare a lui. Alzai lo sguardo e sorrisi a Jason.
< Si, va tutto bene. > e poi gli poggiai la mano sulla sua.

 

Piccola nota a piè di pagina: Io ODIO Jason… poverino. Lo tratterò malissimo. Cioè. Bella lo tratterà malissimo XD

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** So superficial, so immature ***


Salve a tutte. So che è passato un sacco di tempo dal mio ultimo aggiornamento ma gli esami mi stanno prosciugando!
Posto questo cap sperando che voi tutte passiate un felice Natale.
Durante queste vacanze cercherò di rimettermi in pari con i cap perduti! (tra l’altro, quelli che avevo scritto sono stati cancellati dal reset del pc , sigh…)
Beh, buona lettura e buon Natale
Spero che il cap vi piaccia!

              Erika

Cap 13

                                       So superficial, so immature
                                                                                  Così superficiale, così immaturo

 

 < Bene ragazzi, adesso vorrei sentire voi. Uno alla volta. Emily, comincia tu. >
La signorina Williams cercò di risollevare l’attenzione costringendoci a suonare un pezzo ciascuno.
Emily, una ragazza mora non troppo alta, andò al piano e, dopo un profondo sospiro, cominciò ad agitare le mani sulla tastiera.
Mamma mia che baccano. Avrei tanto voluto che la piantasse e lasciasse in pace la mia povera testa. Mi faceva così male che avevo i conati di vomito. Mi presi il capo tra le mani, poggiandomi sul banco.
< Isabella? Vuoi venire tu? > mi domandò con un tono da rimprovero la professoressa.
Alzai lo sguardo e la fissai.
< Allora? Aspettiamo che faccia notte? >
< Scusi, posso andare in bagno? > chiesi con un filo di voce.
Lei mi squadrò e poi, sempre studiandomi, mi rispose: < Sì, va bene. Ma quando torni suoni tu. >
< Va bene, torno subito. > sussurrai alzandomi in piedi e lasciando la stanza.
Una volta nell’ingresso, mi diressi in bagno. Il pavimento e le pareti mi parevano ondeggiare, come se fossimo su una nave. Sentivo i muscoli del corpo indolenziti. Sentivo il sangue pulsare rumorosamente attraverso le mie vene. La testa mi girava.
Mi appoggiai al muro con la mano per sostenermi, arrancando verso il bagno.
Raggiunsi la porta ma, quando fu il momento di abbassare la maniglia, la mia mano non riuscì ad afferrarla. La vidi sempre più lontana da me finché non chiusi gli occhi.

Un battito di ciglia. Un rumore sordo.

Vidi una scogliera e acqua, tanta acqua… un mare in tempesta sotto di me, sopra di me, intorno a me, dentro di me, dentro ai miei polmoni. Non potevo respirare. Acqua gelida che mi impediva di muovermi scientemente, costringendo i miei muscoli a contrarsi in spasmi involontari.

Sbattei le palpebre e mi accorsi che il soffitto era perpendicolare al mio sguardo. Stavo fissando il lampadario. Un attimo dopo sentii delle porte sbattere e della gente urlare.

Mani calde mi sfioravano il volto. < Isabella? Isabella? >
Voltai il capo. Non volevo ascoltarli. Avevo mal di testa. Poggiando le mani a terra, cercai di alzarmi a sedere ma qualcuno me lo impedì. Riconobbi la voce della signorina Williams. Mi diceva di rimanere ferma e non alzarmi.
< Sono caduta. > cercai di giustificarmi ma nessuno pareva realmente ascoltarmi.
Sentii che parlavano di chiamare l’ambulanza. Quelle parole mi donarono la lucidità.
Se mi avessero ricoverata, o anche solo visitata, si sarebbero accorti delle ferite sul  braccio e avrebbero scoperto che non prendevo le pillole. Alle visite di controllo come quella della mattina, non mi facevano quel tipo di esami. Per questo non se ne erano accorti. Ma se mi avessero fatto un check-up completo, non avrei potuto mentire.
Mi drizzai a sedere nonostante molte mani cercassero di trattenermi a terra.
< Bella? Forse sarebbe meglio che tu restassi sdraiata… >
Mi voltai di scatto in un attimo di auto-illusione. Alla mia destra non c’era chi mi desideravo.
Jason era inginocchiato vicino a me. Sembrava preoccupato. Sentii il mio cuore stringersi per il dolore. Chiusi gli occhi, afferrandomi la maglietta lì dove sentivo il dolore per la solitudine.
< Isabella, torna a sdraiarti. L’ambulanza sarà qui fra poco. Abbiamo già chiamato a casa tua. Tuo padre sta venendo qui. >
“ No! No no! ” urlai nella mia testa. Tutto sbagliato. Non dovevano chiamare l’ambulanza, non dovevano chiamare Phil!
Mi lasciai riaccompagnare con la schiena sul pavimento. Qualcuno mi avevo appoggiato una felpa sotto al capo. Mi ritornò in mente Carlsile nel mio bagno a Forks. Mi aveva messo la sua valigetta dotto le gambe e un asciugamano sotto la testa.  Ed Edward, lì accanto a me, a tenermi le mani.
Cercai di trattenere la crisi di panico e di controllare il respiro ma non potei fermare le lacrime.

 Quando Phil arrivò, mi trovò seduta sul divanetto nell’ufficio del preside. Jason era seduto su una poltrona vicino alla scrivania di suo padre che, tutto preoccupato, continuava a chiedere rassicurazioni ai paramedici. Avevo rifiutato di esser portata in ospedale e avevo mostrato loro i documenti che mi avevano consegnato quella mattina in ospedale. Attestavano che stavo bene e, in quanto maggiorenne in grado di intendere e di volere, non potevano costringermi a seguirli.
Si dovevano limitare a visitarmi in loco, controllando che non fossi in pericolo.
Il mio patrigno entrò nell’ufficio e, senza dire una parola, mi fissò con uno sguardo indecifrabile.
Un paramedico mi stava misurando la pressione in quel momento.
Appena vide Phil, il preside gli andò incontro.
< Oh… per fortuna che è arrivato. Sua figlia si è sentita male all’improvviso. I medici dicono che sta bene, per fortuna. >
Il paramedico mi tolse tutta l’imbragatura per misurare la pressione e mi fissò negli occhi prima di dirmi: < Sembrerebbe tutto a posto. Ora come ti senti? >
< Bene. > risposi in imbarazzo. Il mal di testa era diminuito progressivamente e ora era quasi assente. Si rivolse quindi a Phil, per spiegargli la situazione.
< Signor Dwyer, credo che la ragazza adesso stia bene… è svenuta ed è rimasta priva di coscienza per qualche minuto. Stando a quanto ha riferito la sua professoressa, non rispondeva agli stimoli. La chiamavano ma lei non rispondeva in alcun modo. Dopo circa quattro minuti ha aperto gli occhi e piegato il capo. >
Oh… non ricordavo di essere svenuta. Ovviamente, non espressi questo pensiero ad alta voce.
Il giovane continuò: < Probabilmente non è nulla di grave. Ci ha detto di aver saltato due pasti e probabilmente è stato questo a causarle la debolezza e il mancamento ma, dati i precedenti, sarebbe meglio trasferirla in ospedale per ulteriori accertamenti. Isabella però non vuole saperne. Forse lei potrebbe convincerla. È per la sua salute. >
Phil mi squadrò con sguardo attento e poi rivolse un sorriso sereno all’uomo davanti a lui.
< No, preferisco portarla a casa. In un ambiente sereno e tranquillo. Se si dovesse sentire male, la porto io al pronto soccorso. > poi, rivolgendosi a me, mi disse sprezzante: < Sei fortunata che abbia risposto io. Non vorrai certo far impensierire tua madre in questo momento? Ma che cosa ti viene in mente? >
Avrei voluto gridargli dietro che non era colpa mia, che non avevo deciso io di cadere in corridoio e che non volevo essere causa di ansie per mia madre. Avrei voluto ma non ne ebbi la forza.
Mi limitai a tenere il capo chino e a fissarmi le scarpe.
Quando i paramedici me lo permisero, mi alzai in piedi e seguii Phil in auto. Salutai tutti con un cenno della mano prima di chiudermi l’auto alle spalle.
Non aprii bocca per tutto il tragitto e Phil fece altrettanto.
Solo quando ormai eravamo in prossimità di casa nostra mi rivolse la parola.
Prese un respiro profondo e, dopo avermi fissato negli occhi, disse:
< Isabella, ti pregherei di andare in camera tua. Reneé ha bisogno di tranquillità. Le ho detto che la tua insegnante era assente e che ti sarei venuto a prendere quindi, se dovesse chiederti qualcosa, tu dovrai dirle questo.
Mi aspetto un comportamento responsabile da parte tua. Intesi? >
Non risposi. Uscii dal veicolo sbattendo la portiera e mi misi a correre. Non volevo dargli il tempo di farmi qualcosa. Scappai su per le scale fino ad arrivare in camera mia. Mi chiusi dentro con due mandate di chiavi.
Sola.  
Avevo ancora mal di testa e quindi decisi di andare a sdraiarmi.
Fissai a lungo il soffitto cercando di creare figure immaginarie nella polvere che danzava sopra di me, illuminata dai tiepidi raggi del sole del tardo pomeriggio.
Granelli minuscoli. Danzavano leggeri. Vorticavano furiosi e inconsistenti rincorrendosi nell’aria.
Avrei voluto essere come loro.
Libera.
E invece ero rinchiusa in una prigione senza sbarre da cui però non potevo evadere.

Quando i crampi allo stomaco si fecero insopportabili, mi decisi ad andare in cucina.
Era ormai sera.
Mia madre e Phil erano seduti a tavola.
Stavano controllando gli esami.
Di lì a due giorni Reneé sarebbe stata ricoverata e presto sarebbe nato il mio fratellino.
Quando Reneé mi vide, sorrise.
< Bella, piccola. È quasi pronto. Hai fame tesoro? >
< Sì. >
Vedendo che non ero molto gradita a Phil, aggiunsi: < Senti, mentre aspetto, vado in salotto a guardare un po’ di TV… >
< Va bene cara, ti chiamiamo quando è pronto. Ah, a proposito di chiamare, ha telefonato un tuo compagno. Vero Phil? Hai risposto tu. >
< Sì… > si intromise lui. < Credo abbia detto di chiamarsi Jason… voleva che tu lo richiamassi. Mi ha lasciato il suo numero. >
Si frugò in tasca e ne estrasse un foglietto. Me lo porse. Io lo afferrai riluttante. Lui poi mi disse gelido: < Evita di dare il nostro numero di casa in giro. Dagli il tuo cellulare. Non abbiamo bisogno di essere disturbati da mocciosi impertinenti. > sembrava… offeso.
Mia madre gli accarezzò il braccio. < Su, Phil, non preoccuparti. La telefonata non mi ha svegliato. Stavo solo riposando sul divano… >
Mi allontanai prima che potesse dirmi qualche altra cattiveria.
Ci mancava solo Jason. Che cavolo voleva da me? E poi, perché diavolo suo padre gli aveva dato il mio numero? Non erano forse dati riservati?
Sbuffando, composi le cifre sull’apparecchio e aspettai. Non ero entusiasta di parlare con lui ma dovevo dirgli di non telefonare più a casa. Non volevo che Phil si arrabbiasse con me perché Jason era idiota. Inoltre, dava fastidio anche a me…
Al terzo squillo, rispose.
< Pronto? >
< Sì, pronto, sono Isabella… >
< Ah, ciao Bella! >
< Ehm… ciao… senti, mi ha detto Phil che hai chiamato… >
< Sì. Volevo sapere come stessi. Quindi, come stai? >
< Mhm… meglio. Grazie. >
La conversazione si faceva imbarazzante. Sperai che il supplizio finisse in fretta.
< Beh, visto che stai meglio… volevo chiederti… >
< Sì? > ti prego, non chiedermi di uscire, non chiedermi di uscire, non chiedermi di uscire…
< Se domani sera ti andava di uscire con me. > disse tutto d’un fiato.
Ecco, lo aveva chiesto. Rimasi in silenzio per alcuni istanti.
< Ehi? Ci sei ancora? >
< Oh… sì, ci sono. Dovrei chiedere a mia madre. Sai, dopodomani la ricoverano e magari vuole avermi a casa. > questo in gergo vuol dire no ma evidentemente lui non capì dato che disse:
< Ah, ok. Chiediglielo pure. Rimango in linea. >
Cosa? Ma diamine…
Riposi la cornetta sul divano e, lentamente, andai da mia madre.
Le spiegai la situazione cercando di farle capire che volevo che mi dicesse di no ma lei fu entusiasta della proposta.
< Ma certo tesoro che puoi andare! Oh, sono così felice che tu esca un po’. 
Te l’avevo detto che avresti fatto amicizia. Basta che torni per le 11. so che è presto ma sai… > e si massaggiò il pancione < Sono un po’ in ansia e vorrei saperti a casa. >
Mi avvicinai e le strinsi le mani. < Va bene. Tornerò presto. >
Trascinando i piedi tornai in salotto, presi la cornetta e spiegai il tutto a Jason.
Se a casa non ci fosse stato Phil, gli avrei detto di no ma era meglio uscire con Jason che restare lì con lui.
< Però alle 10 e mezza devo essere a casa. >
< Oh, così presto… bhe, immagino che tua madre  non voglia negoziare. >
< Ehm, no. >
< Va bene. Allora passo domani alle 9. ti porto in un posto vicino a casa tua. Vedrai. Ti piacerà. >
Evitai di rispondere a quest’ultima sua affermazione. La risposta era negativa. Lo sapevo già.

 < Bella? Tesoro… >
Mi madre bussava alla porta di camera mia.
Sistemai meglio la manica leggera del coprispalle sul braccio incerottato e poi dissi:
< Entra pure mamma. È aperto. >
Lei aprì timidamente la porta e poi, lentamente, entrò. Andò a sedersi sul letto.
< Oh, Bella, come ti sta bene quel vestito. >
< Grazie. >
Non mi ricordavo di averlo comprato. Ovviamente.
non rientrava esattamente nei miei gusti. O meglio, in quelli che erano stati i miei gusti due anni prima. In effetti, quasi tutti i vestiti che facevano parte del mio guardaroba mi sembravano estranei alla mia personalità. Dovevo essere cambiata molto a Forks.
E poi, erano così cari. Avevo visto una gonna uguale alla mia in una vetrina e mi era preso un mezzo coccolone. Come avevo potuto spendere così tanto? E le scarpe poi… da quando amavo il tacco 12?
Mi sistemai i capelli e, facendo la giravolta, chiesi: < Allora? Come sto? >
Due lacrimucce si formarono agli angoli degli occhi di mia madre. < Stai benissimo. E quel blu ti dona molto. Sei proprio carina. Questo Jason è fortunato ad uscire con te. >
Non volevo smorzarle l’entusiasmo e quindi non le dissi nulla. Mi limitai ad infilare un bracciale d’argento con un cuoricino di vetro. Quel ciondolo mi piaceva davvero tanto. E poi il cuoricino rifletteva la luce in milioni di raggi colorati. Era liscio… freddo… bellissimo.

< Beh, mamma… sono già le 9. è meglio che io vada. >
Si alzò in piedi e mi abbracciò stretta. < Bella, mi raccomando, torna presto, e non fare cavolate. E mi raccomando, non bere. Lo sai che con le medicine non puoi assumere alcol. >
< Sì, mamma, lo so. Non preoccuparti. E sarò a casa per le 11. >
La accompagnai lungo le scale. Non si fidava troppo a scendere per via del pancione. Non vedeva dove metteva i piedi.
Quando fummo davanti alla sua camera, le dissi: < Ci vediamo dopo. >
Poi lei mi baciò in fronte e io scesi l’ultima rampa di scale.
Phil, seduto sul divano a guardare una partita di baseball mi ignorò ed io mi guardai bene dal salutarlo. Quando fui nel vialetto, notai la macchina di Jason. Lui era al volante, felice come una pasqua, e mi faceva segno di salire.
Io, remissiva, mi accomodai al posto del passeggero senza mostrare particolare entusiasmo.
Parlò per tutto il breve tragitto fino al locale. Quando arrivammo parcheggiò e poi mi prese la mano, guidandomi fino all’ingresso. Quel contatto era per me fastidioso e avrei provveduto ad interromperlo il prima possibile.
Una volta dentro ci accomodammo ad un tavolo.
Suonavano del blues.
Dato che io non avevo voglia di bere (anche se avrei potuto dato che non prendevo più gli psicofarmaci ) e lui non poteva assumere alcol perché doveva guidare, finimmo a sorseggiare due aranciate come dei poveri quindicenni che vogliono sentirsi grandi.
Finimmo a parlare delle cose più banali.
< Allora Bella, come ti trovi qui? >
Mentire, mentire… sempre mentire. < Bene. >
Tantovaleva fingere in grande stile. < Jacksonville è proprio una bella città. Mi ci trovo benissimo. >
Ok, forse avevo esagerato.
< Sono contento. Anche a me piace. >
Allungò pericolosamente la mano verso la mia ed io mi affrettai ad alzarmi in piedi per schivare il pericolo. < Senti, vado un secondo in bagno. >
Mi pulsava la testa. La musica era troppo alta. Forse bagnandomi il viso e i polsi mi sarei sentita meglio.
Scappai alla toilet lasciandolo interdetto al tavolo.
Passai un quartod’ora abbondante poggiata contro il muro del bagno. Se non fosse stato per il via-vai di tutte quelle ragazze, sarebbe stato un luogo silenzioso. Un luogo in cui avrei potuto stare tranquilla.
La testa continuava a pulsare, senza darmi tregua.
Tenevo gli occhi chiusi.
Mi lasciai scivolare fino a sedermi sul pavimento, la schiena contro il muro.
< Anne, non trovi che Marie oggi indossi delle scarpe davvero carine? >
< Oh, sì… l’avevo notato anch’io, Kate. E hai visto come la guardava Matt? È cotto di lei… >
Chiacchiere, chiacchiere. Futili e noiose.
Quelle ragazze mi passavano davanti senza degnarmi di uno sguardo.
Troppo impegnate a vivere il loro presente per preoccuparsi di me.
Di me che non ricordavo il mio passato e che per questo mi sentivo perduta.

 Quando tornai, era lì che mi aspettava. Non feci in tempo a sedermi che lui si alzò, cingendomi la vita con il braccio.
< Tutto bene? Mi sembri pallida. >
Colsi al balzo l’occasione.
< Effettivamente, non mi sento molto bene. Non è che mi riaccompagneresti a casa? >
< Ma certo. Dai, andiamo. > e mi condusse alla macchina.
Il viaggio fu breve e, quando parcheggiò nel vialetto, l’orologio segnava le dieci meno un quarto.
< Scusa se ti ho fatto finire la serata così presto. >
< Non preoccuparti. > poi sorrise incoraggiante. < A me è piaciuto. >
Chinai il capo e feci per uscire quando lui mi posò la mano sulla mia.
< Magari possiamo uscire domani. Che ne dici? >
Mi girava la testa, volevo tornare a casa. Gli risposi quasi senza pensare.
< Va bene. Ci sentiamo domani. >
< Ok. Ti chiamo io. > sprizzava felicità da tutti i pori.
Evitai di rispondere e, uscendo dall’auto, mi limitai a salutarlo con un cenno della mano prima di rifugiarmi oltre la porta di ingresso.
La casa era immersa nell’oscurità.
Mi tolsi le scarpe e, cercando di non far rumore, Sali le scale lentamente.
Temevo di svegliare mamma, o Phil, e di scatenare una reazione violenta di quest’ultimo.
Quando fui davanti a camera loro, indugiai e tesi l’orecchio.
Silenzio.
Troppo silenzio.
Mi avvicinai ancora di più, per cercare di udire i loro respiri. Non fosse mai che un pazzo fosse entrato e li avesse uccisi entrambi fracassando loro la testa con una mazza da baseball. Non che mi sarebbe dispiaciuto se tale sorte fosse toccata a Philip… ma mia madre non doveva esserne coinvolta, e nemmeno il mio fratellino innocente.
Nessun suono. Neanche il fruscio delle coperte.
Un po’ in apprensione, feci per bussare ma, non appena poggiai il pugno sulla porta questo si aprì.
E vidi che nella camera non c’era nessuno.
Le lenzuola erano per terra, davanti al letto. I vestiti sparsi ovunque.

E il pavimento era bagnato…

 Il bambino aveva deciso di nascere proprio mentre io ero con quell’idiota di Jason.
Afferrai il cellulare e composi il numero di Phil.
Il telefono squillò a vuoto.
Non poteva, o più probabilmente non voleva, rispondermi.
Sentii le lacrime salirmi agli occhi.
Ci tenevo così tanto ad esserci, a tenere la mano a mia madre in un momento così importante, ad esserle vicino… e lui invece non me lo aveva permesso.
Avrebbe potuto chiamarmi o mandarmi un messaggio invece che farmi trovare la casa vuota.
Non riuscii a trattenere i singhiozzi e corsi al piano di sopra.
Stavo per entrare in camera mia quando una forza malsana mi spinse al bagno.
Non c’era bisogno di chiudermi dentro. Non c’era bisogno di fare tutto in silenzio.
Ero sola.
Questa volta davvero sola.
Afferrai la lametta che tenevo nascosta dietro allo smalto bianco e la osservai risplendere alla luce della lampada.
Poi infierii sul mio braccio cercando di assaporare ogni goccia di dolore, chiedendo scusa a Reneé per essere lontano da lei.
Dolore che mi rendeva viva e reale.
Bruciava.
Quando finalmente mi calmai il lavandino era cosparso da gocce di sangue.

Esausta, mi trascinai così com’ero sul mio letto.
Sognai mia madre urlare, urlare di dolore. Sognai di essere al posto suo e di avere dentro di me il figlio di Edward.
Poi, l’oscurità.

Quella notte il mio telefono non squillò.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** The cruellest dream? reality... ***


14

AVVISO MOLTO IMPORTANTE

Ok ragazze… sentite… so che quanto leggerete potrà sembrarvi un po’… come dire… crudo.
Sì, è vero. È molto crudo.

Ma, insomma, questa storia è nata così. Non posso cambiarla per la paura che possa non piacere.
È stato per me molto difficile decidermi a pubblicare questo capitolo perché metto sempre il cuore in quello che faccio, ma in questa storia ci ho messo l’anima e non ho trovato il coraggio di modificare la trama per rendere la storia più soft.
È una storia adulta, più di tutte quelle che ho scritto fin ora, soprattutto nel mondo di Twilight.
Per citare la fantastica sostenitrice del mio lavoro: Non posso negare che il tema trattato è forte, e azzardato. Vorrei che fosse possibile vivere sempre la favola in cui l'antieroe viene fermato in tempo, o in cui l'eroe della fiaba interviene a salvare la sua eroina. Ma sappiamo (..) che non è così

 Ci tengo a dirvi che i vostri commenti sono per me molto importanti. Sono ciò che mi spinge a scrivere. Sapere che il mio lavoro è apprezzato… è una cosa molto bella.
Per questo vi chiedo di non giudicare le tematiche di quanto ho scritto. L’idea di tutta la storia è nata mentre guardavo il tg quindi potrete ben capire che i toni noir si ispirano a fatti che, sfortunatamente, si ripropongono più volte agli onori delle cronache.

 
Se avrete la pazienza e la fiducia per seguirmi in questa storia dura e cruda, potrete assaporare un il lieto fine che sto elaborando e che spero molte di voi apprezzino. Io non sono una sadica e non gongolo nel dolore altrui (reale o fittizio). Non ho scritto queste cose per il puro gusto di essere trasgressiva.

È solo che, nella vita, non tutto è bello, allegro, facile. C’è molto dolore. Ed è ispirandomi al dolore taciuto di molte donne e ragazze che queste pagine si sono sviluppate, hanno assunto la forma che mi appresto a postare.

Per favore, non siate precipitose nel giudicarmi. So che a molte potranno sembrare temi non adatti al pubblico cui il mio lavoro si riferisce… ed è per questo che, mentre scrivo queste parole, sono indecisa se cambiare o meno il rating della storia.

 Per quanto riguarda le reazioni di Bella… sappiate che, in questi casi, molte ragazze non riescono minimamente a reagire. È un lungo tunnel buio senza uscite.
Si precipita verso un fondo contro cui non si sbatte mai. L’oscurità ti avvince e non ti permette di chiedere aiuto.
E i carnefici riescono a far sentire le vittime artefici delle torture che subiscono. È un gioco psicologico dal quale è difficile sottrarsi. Da sole è quasi impossibile. Chi è vittima di abusi spesso non riesce a trovare la forza per reagire. È per questo che vi chiedo di non criticare il personaggio di Bella… non per lei, non per me, ma per tutte quelle ragazze che, intrappolate, non riescono a chiedere aiuto proprio perché temono di venir giudicate esse stesse artefici della propria condizione.

.Per le critiche a me e alla scrittrice part-time, fan-writer nei ritagli di tempo, non risparmiatevi! Sono la prima critica di me stessa.
Se non mi credete, chiedete a Keska. Vi assicurerà che più paranoica, maniacale e puntigliosa di me non c’è nessuno. Non avete idea di quante volti ricontrolli i cap prima di postarli, di come rianalizzi sempre la storia per evitare eventuali strafalcioni… ma soprattutto, di quanto sia paranoica riguardo i contenuti. (Vero, Keska?)
Ciò non toglie che un sacco di errori ed imprecisioni mi sfuggano sempre…

 Spero sinceramente di poter leggere molti vostri commenti, sapere cosa pensate e poter instaurare un dialogo costruttivo su temi molto dolorosi ma troppo spesso trascurati.

 È stato per me molto difficile decidermi a pubblicare questo capitolo perché metto sempre il cuore in quello che faccio, ma in questa storia ci ho messo l’anima e non ho trovato il coraggio di modificare la trama per rendere la storia più soft. 

E ora, sulle note di Time of Dying e di You are gonna go far kid, vi lascio alla lettura del capitolo 14.

 
PS: AVEVO DIMENTICATO: CAPITOLO DAL RATING ROSSO
 

Cap 14

The cruellest dream? Reality…
Il sogno più crudele? La realtà…

 

 Dormivo.
Galleggiavo in un mondo fantastico in cui io ed Edward ci amavamo. Ancora. Reciprocamente.
Ero felice.
Non succedeva spesso. E quando accadeva, ero in un sogno.
Solo nella mia mente potevo essere felice.
Stavo dormendo quando improvvisamente sentii dolore.
Forte. Improvviso.
Sentii urlare. Qualcuno inveiva.
Spalancai gli occhi.
Tra me e il soffitto, il volto paonazzo di Phil.
Sussultai.
Stava gridando. Contro di me.
La sua mano si abbatté sul mio viso un’altra volta, e un’altra ancora.
Ero frastornata. Non capivo. Cercavo di proteggermi coprendomi il volto.
Inutile. Con una mano sola aveva afferrato i miei polsi, impedendomi di difendermi. Il mio braccio bruciava terribilmente.
Phil era infuriato. Non faceva che gridare mentre mi colpiva.
Sentivo le mie lacrime, le mie urla.
Lo implorai: < Basta! Smettila! Ti prego! Smettila! Non ti ho fatto niente! >
Ma lui non la smetteva. Non mi ascoltava. Sembrava spiritato. Tra le lacrime intravidi una vena pulsare furiosa sul suo collo teso. Colpiva ceco.
Il suo palmo si abbatté sul mio naso.
Vidi nero per qualche istante. Contemporaneamente un liquido caldo comincio a scorrere lentamente dalla narice destra.
Spinta dal terrore e dalla confusione, scalciai fino a colpirlo allo stomaco.
Lui sussultò per un attimo. Allentò la presa e tanto mi bastò per divincolarmi. Cadde in ginocchio.
Tramortita, cercai di alzarmi in piedi e di correre per sfuggirgli. Caddi inciampando nei miei stessi piedi. Non persi tempo a rialzarmi e cercai di gattonare verso la porta.
Mi sentii afferrare al polpaccio.
Urlai e cercai di scalciare per fargli mollare la presa ma non ci riuscii. Ero terrorizzata. Mi trascinò verso di lui.

Sperai fosse un incubo. Volevo svegliarmi. Dovevo svegliarmi.

Ma Phil continuava ad urlare. mi gridava contro frasi sconnesse mentre io cercavo inutilmente di allontanarmi da lui.
< Come hai osato? Come ti sei permessa? Non mi devi toccare, hai capito? Non ti devi permette! Non ti devi per.met.te.re! > e mentre scandiva le sillabe mi colpiva con calci continui alla schiena, alle gambe, al ventre.
Ero sdraiata a terra, inerme.
Decisi di non fare più niente. di aspettare che finisse. Non reagire, aspettare… implorarlo era inutile.
Non capivo il perché di quell’aggressione. Non riuscivo a pensare a nulla. Ogni centimetro del mio corpo pulsava. Mi faceva male dappertutto. Chiusi gli occhi, cercando di smettere di piangere. persino respirare mi provocava dolore.

E dopo un po’ lui, finalmente, smise di picchiarmi.
Lo sentii mettersi a cavalcioni su di me.
Non aveva smesso di urlarmi contro. Mi afferrò il braccio pieno di ferite con una mano e con l’altra mi prese la mascella.
< Guarda! Guarda deficiente! >
Sentivo che muoveva il mio braccio.
Socchiusi gli occhi e vidi cosa fissava.
I tagli. Si erano riaperti nella colluttazione e avevano ripreso a sanguinare. Le lenzuola si erano macchiate. Ma adesso per terra c’era anche il sangue che mi era uscito dal naso e dal labbro.

< Cosa cazzo ti salta in mente? Ma ti rendi conto? Ma sei cretina? Hai visto come hai conciato il bagno? Adesso vai e pulisci tutto! Ti rendi conto di come starebbe Reneé se vedesse cosa fai? Tu a lei proprio non ci pensi? In un momento così poi! Sei così egoista che ora fai questo per attirare la mia attenzione? Cresci!cresci! >
E mentre sbraitava continuava ad agitare il mio braccio. La sua presa sul mio polso era troppo stretta. Credevo mi avrebbe rotto l’osso.
Cercai di rispondere ma mi colpì dandomi un ceffone.
Decisi di rimanere zitta.
Si abbassò su di me. Sentii il suo peso sul mio corpo. mi mancava il respiro.
Si chinò in avanti e, quanto il suo alito mi colpì, capii.
Era ubriaco.
Ubriaco marcio. Mollò il mio braccio per appoggiare i palmi a terra, in cerca di stabilità.
Mi sibilò all’orecchio: < Perché devi rovinarmi il più bel giorno della vita? Eh brutta troietta? Vuoi sentirti grande? Vuoi giocare all’adulta? Sai che tua madre sta per partorire e cosa fai? Vai a farti scopare da un moccioso? Sei proprio… sei proprio…
Adesso ti faccio vedere io cosa vuol dire essere grandi… fare le cose come le fanno i grandi… >
Ero paralizzata. Non capivo.
Poi la sua mano scese sul mio collo, stringendolo. Mi mancò il respiro. Cercai di allontanarla spingendo con le mie ma non ne avevo la forza.
Non potevo morire in quel modo. Non potevo esser sopravvissuta ad un incidente d’auto per andare a morire sul pavimento di camera mia, soffocata da un ubriaco.

Ma il mio destino non prevedeva che morissi quel giorno.

Aveva in serbo per me ben altro, ben di peggio.
Qualcosa a cui avrei preferito la morte.

Lasciò la presa e io potei respirare, di nuovo. I miei erano occhi pieni di lacrime. Respirare era così appagante… Io mi portai entrambe le mani al collo, assaporando il sapore dissetante dell’aria.
Le mani di lui invece si infilarono sotto alla mia gonna.
Mi irrigidii. Non poteva farmi questo.
Le sue dita corsero fino alle ginocchia, costringendomi a divaricare le gambe. Nonostante io mi opponessi, la mia resistenza pareva inconsistente.
Mi venne la nausea, violenta  e inutile. Se avessi avuto qualcosa in corpo, i conati lo avrebbero certamente espulso…
 Cercavo di contorcermi, di divincolarmi ma era tutto inutile. Mi aveva immobilizzata a terra.
Le sue ginocchia si sostituirono alle sue mani e mi costrinsero a tenere le gambe aperte.
Mi afferrò entrambi i polsi portandomi le braccia oltre la testa.
Con un gesto secco, ruppe il braccialetto che portavo al polso e il cuoricino venne sbalzato lontano da dove mi trovavo.
Cercò di baciarmi ed io serrai la bocca. Il suo alito che puzzava di alcol mi fece bruciare la gola.
La sua saliva si mescolava al sangue del mio labbro rotto. Le sue labbra cercavano di forzare le mie che rimanevano serrate.
Le mie lacrime scorrevano inutili.
Appena la sua bocca si fu spostata sul mio corpo lo implorai con un filo di voce: < Phil… sei ubriaco. Lasciami andare. Ti prego. Non dirò niente a mamma. Te lo giuro. Ma tu lasciami andare. Ti prego… ti prego… >

Non mi ascoltò.
Mi strappò la maglietta.
Tremavo, piangevo, imploravo.
Non potevo chiedere aiuto a nessuno, non potevo contrastarlo, non potevo liberarmi.
Volevo morire. Morire e non essere costretta a subire tutto quello.
Chiusi gli occhi e mi ritrovai a ripetermi mentalmente: “è solo un incubo. Un terribile incubo. Non è reale.”
< Vedrai che alla fine ti piacerà. Ti piacerà di sicuro. So che lo vuoi. Lo vedevo come mi guardavi, come mi desideravi. Ti piacerà. So che lo vuoi. >
Il suo respiro si era fatto più accelerato e potevo percepire dai segnali del suo corpo sul mio che la situazione lo eccitava.
< No. Non voglio. > gli gridai cercando di mantenere la voce ferma. Pensavo che forse in quel modo avrei risolto qualcosa, mostrandogli la mia risolutezza. Ero… disperata.
< Ma se è da quando sei qui che non fai altro che tentarmi? Credi che io non me ne fossi accorto? Con quei tuoi modi da civetta… sempre lì pettinarti, a sistemarti la gonna… a chiedermi di venire con noi all’ospedale… a voler sempre venire con me e tua madre… eri gelosa di lei? Dì la verità. Non sei altro che una sgualdrina. Io ho cercato di trattenermi ma la carne è debole. E tu sei così… giovane… e la tua pelle è così morbida, soda e profumata… >
< Ma tu sei pazzo! Lasciami, lasciami. Io non voglio… non ho mai voluto… lasciami andare immedi… >
Le parole mi morirono in gola quando le sue dita si insinuarono sotto i miei slip.
Mi mancò il respiro.

E in quel momento il mio cervello smise di elaborare pensieri coerenti. Si limitò a registrare ciò che mi accadeva senza permettermi di agire.
Ero una bambola. Una bambola tra le sue mani sporche del mio sangue.
L’unica cosa che riuscivo ancora a fare era piangere silenziosamente mentre lui mi spogliava, mentre mi osservava, mentre mi accarezzava.
Il mio corpo era tutto dolorante e ogni volta che lui mi muoveva mi faceva male.
Le sue carezze bruciavano sulla mia pelle.
Le sue mani erano rudi mentre esploravano il mio corpo, levandomi ogni mio vestito.
Il suo alito mi nauseava.
Mi slacciò il reggiseno e io non reagii. Mi accarezzò i capelli e io non reagii.
Si slacciò i pantaloni e io chiusi gli occhi.
Non volevo vedere. Sentire era già troppo. Più di quanto potessi sopportare.Il suo corpo sul mio… la sua pelle a contatto con la mia. La sua saliva tra i miei capelli…  le sue mani sotto ai miei vestiti…
 

Avrei voluto perdere conoscenza. Con tutti i colpi che avevo preso non sarebbe stato strano.
Almeno mi sarei risparmiata tutto quel terribile dolore. Non avrei sentito il mio cuore frantumarsi.
Ma non mi fu concesso neanche quello. Rimasi vigile per tutto il tempo, che a me parve un’immensità.
Mi afferrò i capelli costringendomi a mettermi in ginocchio. Lui era in piedi, davanti a me.
Chinai il capo. Se si aspettava che io facessi qualcosa, qualsiasi cosa, di mia iniziativa era proprio stupido. Al massino avrei potuto morderlo. Ecco l’unica iniziativa che poteva aspettarsi da me.
Sempre tenendomi per i capelli mi obbligò a sdraiarmi supina sul mio letto su cui si posizionò anche lui.

E, senza che io potessi fare niente per oppormi, lui fece di me quello che voleva.
Usò il mio corpo senza curarsi del fatto che io fossi un essere senziente, provvisto di volontà propria, con dei sentimenti… con dei desideri… con dei diritti.
Senza curarsi neanche di essere gentile mentre abusava del mio corpo.
Non percepii neanche il dolore iniziale nell’oceano di sofferenza in cui stavo annegando.
Solo dopo qualche istante mi accorsi di ciò che era successo.

Sentirlo dentro di me era insopportabile.

Avrei voluto piantarli un pugnale nel petto. Fargli più male possibile. Fargli passare quello che stavo subendo io.

Si muoveva convulsamente sopra di me, in preda ad una frenesia insaziabile. Il suo corpo mi schiacciava. Sembrava affamato mentre mi passava la lingua sulla pelle, mentre mi mordeva, mentre stringeva spasmodicamente il mio seno tra le sue dita violente. Mi faceva male. ogni suo gesto mi feriva lasciando dei segni indelebili.
Aveva smesso di urlare. emetteva dei versi orribili. Mi facevano rizzare i capelli., lo stomaco contratto in una morsa, il mio corpo che non rispondeva agli ordini del mio cervello, come se non avessi più autorità sui miei muscoli.
Il suo corpo si irrigidì per un secondo e poi lui emise un verso strozzato.
Era tutto sudato. Sorrideva beato. Mi faceva schifo.
Era orribile.
Volevo morire.
Si chinò a baciarmi la fronte e, spostandomi una ciocca di capelli, cercò di guardarmi negli occhi.
Volsi repentinamente in capo a sinistra perché non volevo incrociare il suo sguardo. Non volevo dargli quella soddisfazione. Si era già preso tutto di me. Non volevo dargli anche quello.
Mi colpì la guancia con un ceffone e poi mi afferrò il viso. Io mi limitai a guardare in alto, oltre la sua orribile faccia. Mi arrivò un’alitata proprio sul naso. Quanto diavolo aveva bevuto?

Lo sentii uscire da me. Mi prese una ciocca di capelli e l’annusò.
< Sai piccola, era da tempo che non lo facevo così coinvolgente. Con il pancione non potevo neanche toccare tua madre… ma tu… >
Non terminò la frase. Seppellì il suo viso tra i miei capelli. cominciò a baciarmi, a toccarmi. io non reagivo. Le sue dita percorrevano il mio corpo, arroganti. ma i suoi movimenti si facevano man mano più lenti e, poco dopo, lo sentii russare.

Rimasi immobile a lungo. Sentivo le lacrime continuare a scendermi copiose.

Il peso del suo corpo mi rendeva difficile respirare.
il suo odore mi nauseava.
Ogni muscolo, ogni centimetro di pelle mi faceva male.

Non so per quanto rimasi immobile sotto di lui, incapace di compiere un qualsiasi gesto.

Ero… sconvolta, terrorizzata, ferita nel corpo e nell’anima.
Il tempo si era fermato nell’attimo stesso in cui Phil si era preso ciò che io non avrei voluto condividire con nessun’altro all’infuori di Edward.
Mi aveva rubato il momento più bello della mia vita. Non doveva essere così. Non in questo modo…
Aveva rovinato la mia stessa vita.

Quando il telefonino che tenevo nella borsa squillò, il mondo cominciò ad avere due dimensioni.
Non solo lo spazio, immobile, ma anche il tempo che mi stava sfuggendo dalle dita.
Ignorai il telefono e, con lentezza, cercai di scivolare giù dal letto senza svegliare Phil che dormiva ubriaco, russando rumorosamente.
Non volevo svegliarlo. Temevo mi avrebbe picchiato di nuovo.
Ero terrorizzata che mi facesse di nuovo subire il dolore, l’umiliazione di essere usata.
Riuscii a scendere dal letto senza svegliarlo. Lui emise solo un grugnito e si girò su un fianco, continuando a dormire.
Il mio primo istinto fu di spaccargli la testa con il primo oggetto a portata di mano.
Volevo ucciderlo. Volevo ma non avrei mai potuto.
In quel momento pensai che nessuno mi avrebbe creduto se gli avessi detto la verità. Era troppo assurdo.
Ignorai il sangue sul pavimento e arrivai alla porta della camera. Avrei potuto fuggire… ma per andare dove? E poi, non potevo lasciare sola mia madre e il mio piccolo fratellino appena nato.
Edward… Edward…

Nuda e coperta di sangue, andai in bagno. Piangevo. Muovermi era doloroso.
Non era così che avevo immaginato la mia prima volta. Avrei voluto morire.
sperai di annegare, in qualche modo. Magari immergendo la testa in un secchio d’acqua.
Ma l’istinto di sopravvivenza era troppo forte e non riempii nessun secchio.
 Entrai nel vano doccia e aprii l’acqua.
Non so quanto a lungo il gettito caldo scorse sul mio corpo. non ricordo nulla di quei momenti.
So solo che ad un certo punto ero seduta nel box doccia con le mani intorno alle ginocchia. Piangevo a dirotto, con il respiro interrotto dai singhiozzi. L’acqua era diventata fredda.
Avevo le braccia e le gambe percorse da lunghi segni rossi, alcuni così profondi che sanguinavano.
Mi accorsi di star sfregandomi la pelle con le unghie, quasi a voler eliminare uno sporco invisibile.
Uno sporco che era dentro di me.

Dei colpi secchi alla porta mi fecero sussultare.
< Isabella, aprimi. Dobbiamo parlare. Per favore. Piccola. Aprimi. >
A sentire quella voce mi piegai su me stessa e vomitai. Bile che mi faceva bruciare la gola.
Continuò a bussare e a chiamarmi finché io non uscii.
Mi ero avvolta in un grande asciugamano che copriva tutto il mio corpo.  Tremavo da capo a piedi.
Aprii la porta e me lo trovai davanti. Cercai di ignorarlo ma lui mi afferrò il braccio, facendomi cadere l’asciugamano.
Lo vidi soffermarsi con lo sguardo sul mio corpo. su ogni centimetro di pelle.
Non vedeva i lividi, i segni dei morsi. Le lacerazioni, i tagli, gli aloni violacei… No. Lui vedeva solo il corpo di una donna.
< Come sei bella… > mi sussurrò cercando di sfiorarmi il seno.
Con un gesto improvviso, scrollai il braccio facendogli perdere la presa sul mio polso.
< Non mi toc-ca-re. > gli sibilai.
Lui non rispose.
Nuda, tornai in camera mia e mi chiusi la porta a chiave alle spalle.
Mi maledii per non aver fatto la stessa cosa la sera precedente. Tutto quello che mi era successo era stato causa mia. Avrei dovuto stare più attenta.
Calpestai il sangue e i liquidi corporei secchi ed incrostati al pavimento e raggiunsi il mio armadio. Mi vestii con una lentezza esasperante.
Mi faceva schifo il mio corpo. avrei voluto togliermi la pelle.
Quando uscii sul pianerottolo, lui era lì che mi aspettava.
< Isabella… > il suo tono si era indurito.
< Non osare parlarmi. Io adesso vado alla poliz… >
Prima che potessi finire la parola, mi ritrovai contro il muro. Le punte dei piedi non toccavano terra.
Arrancavo in cerca d’aria. Sentivo le gambe agitarsi nel vuoto.

Phil mi stava soffocando.

< Cosa! Non provare a dire niente a nessuno di questa storia. Reneé mi lascerebbe se sapesse che cosa abbiamo fatto. Se sapesse che abbiamo fatto l’amore… >
Con la poca aria che riuscii a racimolare, gli sussurrai: < Non abbiamo fatto l’amore. Tu mi hai picchiata e stuprata… >
Strinse più forte.
Non avevo più aria. Tanti coriandoli dorati riempirono il mio capo visivo i cui contorni si facevano sempre più vaghi, inghiottiti dall’oscurità.
Improvvisamente le mie ginocchia cozzarono contro il pavimento. Caddi carponi e tossii mentre cercavo di riempire i miei polmoni d’aria.
< Tu non dirai niente a nessuno. E poi, sai benissimo che nessuno ti crederebbe.
Dirò che era consensuale. Che eri d’accordo. Dirò che mi hai sedotto. Che sei stata tu a venire da me. . Ormai sei maggiorenne. E chissà a quanti l’hai data via. Come a quel riccone di Forks. Ti piaceva farti fare regali costosi, vero? E li pagavi in natura, vero? Sgualdrina come sei, che altro ci si poteva aspettare da te? >
Le sue parole mi ferirono. Dopo tutto quello che mi aveva fatto, le sue parole affondarono dentro di me come una lama seghettata e smussata. Penetrarono lentamente, squarciandomi il petto.
Ma io non dovevo fidarmi di ciò che mi diceva quel verme meschino.
Dovevo fidarmi di Edward e delle sue parole. Che motivo avrebbe avuto lui di ferirmi? Edward mi aveva voluto bene. Dovevo fidarmi di lui. E poi, io non ero quel genere di persona.
Non ricordavo niente di quei due anni ma sapevo chi fossi. Non ero quel genere di persona. Delle cose materiali non poteva importarmi di meno. E poi… io odiavo i regali.
Si chinò davanti a me e mi disse: < Hai capito? Non dirai niente a nessuno. >
Il suo alito pungente mi raggiunse.
Aveva bevuto ancora.
Non dovevo farlo arrabbiare altrimenti avrebbe perso il controllo. Dovevo rimanere calma.
< Va bene, Phil. Non preoccuparti. Non dirò niente a nessuno. >
Senza rispondere, si voltò e scese le scale.
Quando i suoi passi si esaurirono, mentre lui entrava nella sua stanza, mi raggomitolai in un angolo e cominciai a piangere.
Piansi fino a prosciugarmi.
Lo sentii parlare al telefono con suo fratello. Gli stava dicendo che il bimbo era nato, che era un bel maschietto sano e forte. E che quella notte aveva festeggiato con due bicchieri di vino.
“Festeggiato”
Venni assalita da un conato che non poteva espellere niente.

Quando ormai ero esausta, mi alzai e mi costrinsi a scendere le scale. In cucina, trovai alcune bottiglie di vino vuote sul tavolo. Una, mezza piena, sul lavandino.
La presi e la svuotai nel lavandino.
Poi, senza davvero essere in grado di agire con lucidità, afferrai le bottiglie e le scagliai contro il pavimento.
Il suono del vetro che si frantumava copriva i miei singhiozzi.
Mentre le lanciavo, gridavo: < Fottiti! Fottiti! Vaffanculo! >
Le scarpe facevano scricchiolare i frammenti di vetro che calpestavo.
Quando la mia rabbia si fu esaurita, andai nello sgabuzzino.
Scopa, paletta… raccolsi i vetri, pulii i residui di vino.
Presi dell’ammonniaca e la mescolai all’acqua.
Poi trascinai il secchio su per le scale, fino alla mia camera.
E lì, lentamente, cominciai a lavare i pavimento cercando di togliere le macchie del mio sangue.
Le lenzuola le gettai nella pattumiera.  
Lavai il bagno, togliendo ogni traccia di sangue.

Poi il mio sguardo cadde sullo specchio, sul riflesso del mio volto.
Quella ragazza dal labbro rotto e dai segni sul collo non potevo essere io.
L’occhio gonfio e cerchiato di viola risaltava sul pallore della mia pelle.

Istintivamente, afferrai la scatola di trucchi intonsi.
Passai fondotinta, fard… per camuffare meglio i segni, misi la matita e il mascara, con l’ombretto… non mi ero mai truccata per davvero. Solo un filo di matita ogni tanto, un po’ di correttore e basta.
E adesso mi stavo truccando e mi sentivo un pagliaccio.       
Eppure dovevo nascondere tutti i segni e quello era l’unico modo.
Quando riposi i trucchi ed esaminai il mio lavoro, constatai che, per essere il primo tentativo, era venuto abbastanza bene. Il taglio al labbro non si vedeva nemmeno. Il gonfiore si notava appena.

Nessuno avrebbe potuto intravedere, sotto quella maschera, tutto il dolore che provavo e che aveva assunto la forma di lividi violacei…

 

 

Ok ragazze… ce l’ho fatta.
Non avete idea della paura che avevo nel postare. Non so dove ho trovato il coraggio.
Grazie per essere arrivate alla fine del capitolo.

Spero continuerete a seguirmi in questo viaggio difficile...
 

 

 Erika

             Grazie, Francesca...

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Alas, ‘twas not ment to be ***


Salve ragazze,
sono molto stata molto felice di vedere che il capitolo scorso è stato “apprezzato”. Mi ha fatto davvero un enorme piacere perchè ero così preoccupata!!!
Devo essere sincera? Mi aspettavo mails di protesta e gente con la mannaia appostata sotto casa. e invece siete state tutte carinissime nel lasciarmi quei commenti molto belli e di gran conforto!
Spero che la storia vi intrighi e che continuiate a seguirla con interesse!
La trama è un po’ intricata e con risvolti inquietanti ma spero di renderla il più possibile realistica e chiara.
Comunque, per rispondere ad alcuni dubbi: Bella ha perso la memoria con l’incidente ma sta cominciando a ricordare qualcosa. Solo poche immagini fugaci che però, pian piano, si fanno sempre più precise e più frequenti. Avendo smesso di prendere gli psicofarmaci, Bella è inoltre molto inquieta e questo contribuisce alla confusione che avverte dentro di sé.
Non riesce a gestire i fatti che accadono intorno a sé e ciò che le succede. Il non reagire è determinato dal senso di impotenza che prova dopo ciò che Phil le ha fatto.

Per l’evolversi della trama, vi chiedo di avere pazienza ancora un attimo.
Dal prossimo cap la situazione si sbloccherà. Scusate se ci ho messo tanto a postare ma sono capitoli molto complicati da elaborare perché cerco di non urtare sentimenti ed essere allo stesso tempo “delicata” nello scrivere di temi così sensibili.

Ora vi lascio alla lettura del cap 15. spero vi piaccia.

 CAP 15  Bella's POV

Alas, ‘twas not ment to be
Maledizione, non era così che doveva andare

 

Non avrei potuto parlarne con nessuno.
Chi mi avrebbe creduto?
E poi, Reneé avrebbe sofferto troppo. Non volevo caricarla di questo peso, adesso che aveva appena avuto il bimbo.
Non potevo però permettere a quel verme di restare con mia madre.
Appena fosse passato un po’ di tempo, non appena mia madre si fosse rimessa, le avrei detto almeno parte della verità. Non potevo permettere che lui le facesse del male…
Ma non potevo neanche tenermi tutto quel dolore dentro di me. Mi sembrava di scoppiare, di impazzire, di morire.
Avrei voluto passarmi la soda caustica nei punti in cui mi aveva toccata. Punti che mi parevano bruciare.
Afferrai il cellulare. Quattro chiamate senza risposta.
Jason.
Non avevo minimamente intenzione di richiamarlo. Era proprio l’ultima persona che avrei voluto sentire.
Gli mandai un sms dicendogli che Reneé aveva partorito e che ero per questo occupata.
Basta.
Le mie dita tremavano.
Poi digitai l’unico numero che mi sentivo in grado di comporre.

Quello di Edward.
Avevo bisogno di lui. Volevo che mi portasse via da quell’inferno insopportabile. Volevo che venisse a salvarmi dal baratro in cui sapevo star annegando. Avevo bisogno di lui…
Con mano tremante, premetti il tasto  verde ed attesi.
Invano.
Il cellulare risultava spento o non raggiungibile.
Mi ricordai della nostra ultima telefonata. Della sua voce preoccupata.
Delle sue parole…

“Bella, io voglio che tu mi faccia una promessa. Mi devi giurare che mi telefonerai. Se succede qualcosa, qualsiasi cosa, tu mi devi telefonare, mandare un messaggio… ed io verrò ad aiutarti. Me lo prometti? Se non trovi me, puoi chiamare Carlisle, Esme, chiunque di noi. E noi verremo ad aiutarti.”
Non potei frenare le lacrime.
Non me la sentivo di parlare con Esme o con Carlisle. con loro non avrei potuto confidarmi. Mi vergognavo troppo di quello che era successo. Non era di loro che avevo bisogno, in quel momento.
Però, potevo mandare un messaggio ad Edward, chiedergli di richiamarmi il prima possibile…
Se davvero ci teneva a me, mi avrebbe aiutata.
Nella mia mente continuavo a ripetermi: “Edward, Edward, vienimi a prendere. Ti prego… ti prego.” Rannicchiata in un angolo, dondolandomi avanti ed indietro tra le lacrime, tenevo il cellulare tra le dita. Volevo scrivergli ma non sapevo come dirgli ciò che era successo.
Mi sentivo così male, così sbagliata.
Forse, se glielo avessi detto, avrebbe deciso di non volermi più del tutto.
Potevo rischiare?
Dovevo.
“ Edward, scusa se ti disturbo. Ho bisogno di parlarti. È molto urgente. Richiamami. Per favore, è importante. ”
Rimasi a fissare il display per venti minuti prima di decidermi ad inviarlo, poi, inghiottendo il groppo che mi sentivo in gola, premetti quel maledetto tasto.

 Sentivo bruciare fastidiosamente e dolorosamente il punto più recondito del mio corpo. Lo sentivo pulsare. E quel dolore mi ricordava in ogni istante ciò che era accaduto. Mi impediva di dimenticare anche solo per un istante.
Edward… Edward…

 < Isabella! > Sussultai, sentendo la sua voce.
Phil battè con forza sulla porta della camera del bambino. Mi ci ero chiusa dentro a chiave. Mi rannicchiai ancora di più  nel piumone nel cui mi ero avvolta, accovacciata per terra, come in un vano tentativo di nascondermi al mondo esterno.
 Mi faceva venire la nausea l’idea di tornare in camera mia.
Quando ero andata a vestirmi e a pulirla, vedendo il letto, avevo rivissuto tutto quello che era successo. Non potevo sopportarlo ancora..
< Isabella, esci immediatamente di lì! Tua madre ci aspetta all’ospedale. Muovi il tuo culo venduto e vieni. >
Impotente, aprii la porta e me lo trovai davanti.
Tenevo gli occhi bassi, evitando di incrociare il suo sguardo.
Mi diede una spinta tra le scapole e per poco non caddi giù dalle scale.

Il tragitto in auto non fu disturbato da parola alcuna.
Muti, entrambi.
Solo nel parcheggio lui mi disse: < Per quanto riguarda quello che è accaduto questa notte, non credo che tu voglia che tutti sappiano quanto ti è piaciuto, quindi vedi di non aprir bocca. Saluta tua madre e poi vieni in auto. Intesi? >
Annuii. In silenzio, scesi e mi avvicinai all’ingresso. Seguii Phil lungo i corridoi fino alla sezione di ostetricia e ginecologia.
Le pareti dipinte di rosa avrebbero dovuto trasmettere sicurezza. A me incutevano timore.
La stanza di mia madre era la quinta del corridoio B. Phil entrò senza farsi problemi. Io invece indugiai sulla porta.

Reneé stata seduta sul letto e aveva occhi solo per il bimbo che stringeva al petto.
Aveva gli occhi lucidi.
< Reneé… come ti senti tesoro? Sei riuscita a riposare un pochino questa mattina? >
Si chinò a baciarle la fronte e le sistemò i capelli dietro all’orecchio.
Provai disgusto. Avrei voluto urlargli quanto mi faceva schifo ma non ce la feci.
Stavo per piangere.
Le lacrime avrebbero sciolto il trucco e tutti avrebbero visto l’occhio nero, il labbro rotto…
Mi voltai e cominciai a correre.
Sentii mia madre chiamare il mio nome, preoccupata. La sua voce svanì quando mi infilai nelle scale. Le scesi di corsa e, ovviamente, inciampai. Riuscii a mettere le mani avanti e salvai denti, faccia e tutto il resto. Sentivo solo pulsare il ginocchio. Non era nulla in confronto al terribile dolore che stavo patendo.
Alzai lo sguardo e vidi che mi trovavo al piano terra.
Vagai per alcuni minuti senza sapere dove andare. L’istinto mi diceva di fuggire. Di andare lontano. Tornare a Forks. Andare da Edward a Syracuse.
Ma lo avrei trovato disposto ad aiutarmi? Non ne ero tanto sicura. 
Non mi aveva richiamata, non mi aveva mandato nessun messaggio. Non gli importava niente di me.

< Signorina, posso aiutarla? > Era stata una giovane infermiera a parlarmi. Mi guardava in modo strano. Sembrava preoccupata. Dovevo avere un aspetto orribile.
< Ehm, dovrei andare a trovare mia madre, in ostetricia. Ha appena avuto un bambino… temo di essermi persa. >
Lei mi sorrise e mi accompagnò ad un ascensore.
< Devi salire al quinto piano e poi girare a destra, fino a che non vedi il rosa. > mi disse con un sorriso. La ringraziai e premetti il 5. raggiunsi le orribili pareti rosa pastello e mi diressi lentamente al corridoio B.
Entrai in camera tenendo lo sguardo basso.
< Bella! > dissero all’unisono Reneé e Phil. La prima sollevata, il secondo profondamente irato.
< Bella, mi hai fatto preoccupare. Perché sei scappata in quel modo? Non vuoi conoscere il tuo fratellino? > < Scusami mamma. Mi dispiace. È stata… l’emozione. Non volevo essere così… maleducata. >
< Vieni qui, piccola. > mi disse mia madre facendomi spazio sul letto. Mi sedetti vicino a lei e mi lasciai abbracciare. Sebbene la sua presa fosse lieve e delicata, mi procurò dolore.
< Non preoccuparti, Bella. Tu sarai sempre la mia piccola bambina. > e mi baciò sulla guancia.
Mi osservò attentamente e disse: < Tesoro, ti sei truccata! > il suo tono era stupito.
< Oh… si beh… ecco… >
< Stai benissimo. È per Jason, vero? > mi chiese con un gran sorriso speranzoso dipinto in volto.
Come potevo deluderla? Come potevo dirle la verità nel momento in cui teneva la ano a quel bastardo di Phil, con il loro bambino poggiato contro il suo seno?
< Beh, anche per te. era un’occasione importante. Volevo essere carina. >
< Oh, tesoro… > mi accarezzò la guancia. < Tu sei così bella. E intelligente. Troverai qualcuno che ti ami e sarai felice anche tu come lo sono io adesso, con la nostra bellissima famiglia. >
Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre mi guardava e mi diceva quelle parole.
Phil le strinse la mano.
Forse non era colpa degli ormoni. Venni pervasa dal panico.
< Mamma? Tutto bene? Perché piangi? >
Lei scosse la testa e distolse lo sguardo dal mio, fissando il mio fratellino.
< Non è niente, piccola. Niente. non preoccuparti. È colpa del parto. È stata dura.
Con te è stato più veloce. Non vedevi l’ora di venire al mondo.
C’è anche da dire che non ho più diciannove anni… >
Sciolse la presa di Phil e, sempre cingendomi le spalle con l’altro braccio, accarezzò il capo del piccolo.
< I miei figli. Vi amo così tanto… >
< Oh, mamma… > le sussurrai baciandole la guancia e trattenendomi dal piangere.
< Siete ciò che di più prezioso io abbia al mondo. >
Rimanemmo abbracciate per qualche minuto, in silenzio.
Quando ci separammo, Reneé sorrideva. Sembrava così felice.
Non potevo, non potevo dirle cosa era accaduto.
< Bella, forse è meglio se ora lasci tua madre riposare. > la voce autoritaria di Phil ruppe il silenzio e mi fece gelare.
Baciai mia madre sulle guance e accarezzai il mio fratellino prima di lasciare la stanza.
Reneé mi saluto con un gran sorriso prima che Phil si chinasse e la baciasse sulla bocca.
Ebbi un conato di vomito vedendolo. Vedendo cosa lui avesse il coraggio di fare.
Mi diressi al parcheggio in silenzio ed entrai in auto dove aspettai Phil a lungo. Sapevo che avrei dovuto scappare. Che avrei dovuto andarmene il più lontano possibile ma non ce la facevo. Ero come incatenata, avvinta a quell’inferno. Non riuscivo a fuggire.

Quando, circa un’ora dopo, la portiera si aprì, io mi ero quasi addormentata sul sedile posteriore, sebbene avessi fatto di tutto per rimanere vigile. La notte precedente, dato ciò che era successo, non ero riuscita a dormire. sentivo la stanchezza pervadermi ma ero terrorizzata all'idea di dormire. avevo paura che tutto succedesse di nuovo...
Phil non disse nulla. Non una parola per tutto il tragitto.
Nel più completo silenzio parcheggiò e nel più completo silenzio io uscii dal veicolo dirigendomi a passo sostenuto in casa. Una volta dentro, corsi in camera mia. Mi chiusi dentro.
Osservai la stanza intorno a me.
Nulla lasciava pensare cosa fosse accaduto proprio lì appena qualche ora prima.
Cercai di ignorare il bruciore che sentivo fra le gambe e mi lasciai scivolare lungo il muro.

Piansi. Piansi a lungo fino a farmi bruciare gli occhi.

Il sole, che entrava dalla finestra con l’angolazione tipica del pomeriggio,  mi colpiva il viso. Con la mano mi levai il trucco sciolto dal volto.
In silenzio mi diressi in bagno. Mi lavai, di nuovo. E di nuovo fu inutile. Mi sentivo sporca e orribile. Una volta asciutta e vestita, sgattaiolai al piano inferiore. Sentivo la televisione accesa al piano terra. Phil probabilmente non si era accorto che ero uscita dalla mia camera. Senza far rumore, entrai nel loro bagno privato. Cominciai a cercare. Sospirai quando vidi l’oggetto della mia ricerca. Una scatola di pastiglie. Controllai due volte per essere sicura di non prendere il medicinale sbagliato e poi assunsi la piccola pillola. Non volevo che ciò che era successo la notte precedente avesse delle ripercussioni per tutta la mia esistenza. Non volevo che ci fosse neanche la possibilità che restassi incinta di Lui. Non avrei potuto sopravvivere.
Con un sospiro, rimisi tutto al suo posto e lasciai il bagno. A testa bassa, lasciai la stanza e, cercando di non fare alcun rumore, ritornai in camera mia. Controllai due volte di aver chiuso a chiave.

Una volta chiusami dentro, vidi il telefonino lampeggiare.
“Edward” pensai e corsi al piccolo apparecchio.
Le mie speranze svanirono non appena lessi il nome di chi mi stava chiamando.
Era Alice.
Smise di vibrare. Non avevo risposto. Non ne avevo avuto il coraggio. Notai che vi erano altre 9 chiamate senza risposta. Mentre piangevo non mi ero accorta che il mio cellulare stesse vibrando.
Stavo per riporlo nuovamente sul comodino quando riprese a lampeggiare e vibrare.
Con un gesto automatico e, non so quanto, inconscio, risposi.

Sentii la voce di Alice all’altro capo del telefono e, impaurita, stavo per chiuderle la conversazione ma la sua voce mi fece desistere.
< Bella? Bella, ti prego, non riattaccare. >
< Alice? > La mia voce era roca. Si sentiva che avevo pianto?
< Bella, per favore, non riattaccare. >
< Va bene, ok. >
Ci fu un attimo di silenzio e poi lei disse: < Bella, senti… >
Sembrava mi volesse dire qualcosa ma, allo stesso tempo, sembrava non ci riuscisse o non potesse.
< Ti ascolto. > la mia voce era quella di una morta.
< Senti, io ed Esme stiamo pensando di venire a trovare Reneé.
Ci ha detto che è nato il bambino… > sembrava che stesse cercando una scusa.
< Oh, sarebbe molto bello… se veniste. Reneé sarebbe molto felice di vedervi. Verreste solo voi?
< Sì. Edward e gli altri non possono lasciare la scuola ma i miei corsi non sono ancora iniziati. Forse Carlisle riesce a prendere un paio di giorni di permesso, magari ci raggiunge… > Di punto in bianco mi chiese: < Bella, come stai? Perché prima stavi piangendo? >
< Non stavo… come fai a saperlo? >
Sulla difensiva, lei mi rispose: < si sentiva. Dalla voce. Come stai? Tutto bene? > Era preoccupata.
Di sicuro non poteva neanche immaginare cosa stesse succedendo nella mia vita. Né era mia intenzione renderla partecipe. Nessuno doveva e poteva saperlo.< Sì. Qui va tutto bene. >
< E allora perché piangevi? >
< Perché… perché… sai, è nato il bambino. Sono emozionata. È tutto così strano. Però va tutto bene. Davvero. >
Lei non mi sembrava affatto tranquilla ma, per fortuna, non volle approfondire ulteriormente il discorso.
Non so perché lo feci però, senza preavviso, le dissi: < Ho chiamato Edward, gli anche mandato un messaggio. Lui non mi ha risposto. Avevo bisogno di parlargli ma non si è neanche degnato di rispondere. È stato lui a dirmi che ci sarebbe stato, se avessi avuto bisogno di lui. È un bugiardo. Io avevo bisogno di lui e lui non c’era. >
Lei tacque per un istante e poi, con voce incerta mi disse: < Ci sono io. E c’è anche Esme, Carlisle. Potevi chiamare noi… > Sembrava affranta.
< Io non avevo bisogno di voi. Avevo bisogno di lui. > ribattei con voce tagliente. Più aspra di quanto non avrei voluto. Mi affrettai ad aggiungere: < Scusami. Non volevo essere scortese. >
< No… no. Non preoccuparti. Senti, il nostro parte domani sera. Noi arriveremo dopodomani, di mattina. Su tutti i voli precedenti non c’erano più posti liberi.
Reneé ha insistito per ospitarci a casa tua. Ha detto che Esme e Carlisle possono dormire nella stanza degli ospiti ma io dovrei dormire in camera con te. È un problema? Se vuoi, possiamo prendere una stanza in albergo… >
< Ma no, non c’è alcun problema. Possiamo usare la poltrona letto. >
Mi sembrò molto sollevata dalla mia risposta e il tono della conversazione si fece più leggero.
< Allora ci vediamo dopodomani mattina. Veniamo direttamente a casa tua. >
< Non volete che vi passi a prendere Phil?avrete i bagagli… > domandai incerta. Non volevo assolutamente coinvolgerlo ma volevo che tutto sembrasse normale. Una normale famiglia.
La sua risposta, fin troppo tempestiva, mi fece per un attimo pensare che lei sapesse o sospettasse qualcosa. < No, No. Non preoccuparti. Non vogliamo disturbare più del necessario. Noleggeremo un’auto. Allora, ci vediamo domani mattina. >
< Va bene. A presto, allora. > e la telefonata si concluse in quel modo. 

Rimasi a guardare il telefonino nella mia mano per qualche minuto prima di decidermi a scendere le scale e andare a parlarne con Phil.
Lo trovai in salotto, sprofondato nella poltrona. Appena mi vide appoggiò la lattina di birra per terra e si mise seduto meglio. Mi fece segno di sedermi sulle sue ginocchia.
Lo guardai sprezzante. < Penso che Reneé ti abbia detto che alcuni dei Cullen verranno a farci visita dopodomani. I signori Cullen dormiranno nella camera degli ospiti e Alice starà in camera mia. >
Si era alzato in piedi e si era messo davanti a me. Mi squadrava minaccioso.
< Te lo dico a puro titolo informativo. Sai, non vorrei che ti venisse qualche strana idea in mente e ti presentassi in camera nel cuore della notte. Alice potrebbe non gradire i tuoi modi. Se la toccassi anche solo con un dito, sono certa che ti denuncerebbe. Chissà che non lo faccia anche io. >
Un secondo dopo sentii la sua mano colpire il mio viso. Mi fece cadere a terra, contro il divano. Restai immobile.
< Non permetterti di parlarmi in questo modo. Non azzardarti  a dire nulla a chicchessia altrimenti la prossima volta ti troverai qualcosa di peggio che un labbro rotto. > mi sibilò lui.
Mi afferrò il polso sinistro con forza. Tanto da farmi male. Mi strattonò violentemente, ordinandomi di dire che avevo capito. Mi impediva di ripararmi il volto e temevo mi colpisse di nuovo. Per questo gli risposi di sì, che avevo capito e che avrei obbedito. Soddisfatto, mi lasciò andare il polso dolorante, tornando a sedersi alla sua poltrona.

In silenzio, ingoiando le lacrime, mi rimisi in piedi e, ondeggiando, tornai in camera. Mi ci chiusi dentro e, raggomitolata tra le coperte, mi addormentai piangendo.
Non ero riuscita a tenergli testa. Ero troppo debole per contrastarlo.
< Edward! Edward! > sussurrai tra le lacrime mentre cercavo di non pensare ai crampi della fame e al terribile senso di sporco che mi attanagliava, al bruciore che sentivo…
Edward… Edward…
Nonostante lo odiassi per avermi abbandonata, non potevo fare a meno che pensare a lui. Era lui l’unico che volessi vicino in quel momento così doloroso. L’unico di cui mi potessi fidare.

La testa mi pulsava, mi doleva tutto il corpo. Non dormivo da più di ventiquattro ore e, nonostante il terrore che provavo all’idea di chiudere gli occhi, non riuscivo più a sopportare l’orrore della consapevolezza. Inoltre, sentivo il bisogno fisico di dormire. Immaginai di coricarmi vicino ad Edward, di abbracciarlo, di sentire le sue braccia intorno al mio corpo.

E fu pensando a lui che mi addormentai, stremata e sconvolta.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** It was all Just a lie ***


Salve ragazze, scusate per l’attesa. Vi volevo avvisare che questo cap e il successivo in origine erano un testo unico che, per motivi di lunghezza, ho dovuto spezzare in due parti. Per questo cercherò di postare il cap successivo in tempo breve. Sono strettamente collegati anche come contenuti e perciò questo cap potrebbe sembrarvi un po’ “povero” e sconclusionato. Perdonatemi!
questo è un cap introspettivo, di transizione, in cui ho cercato di immaginare quello che Bella prova ora che comincia davvero a capire cosa le è successo. spero vi piaccia comunque.
Grazie a tutte quelle che hanno recensito o anche solo letto la mia storia. Spero che continuerete a seguirmi.

A presto, Erika

Cap 15

It was all just a lie
Tutto era  solo una menzogna

 

 

Quella notte dormii un sonno tormentato.
Incubi bui non mi diedero pace.
Continuavo a svegliarmi e riaddormentarmi senza riuscire a riposarmi davvero.
Alla fine, stremata, caddi in un sonno senza sogni.

 Venni risvegliata da secchi colpi alla porta.
< Isabella! Dobbiamo andare all’ospedale a trovare tua madre. Esci immediatamente! >
Nascosi la testa sotto la trapunta. Non volevo muovermi. Lo lasciai urlare tanto, da dietro la porta, non poteva fare altro. Non poteva farmi male.
Dopo molti minuti lo sentii gridare che mi dovevo vergognare per il mio comportamento, che sarebbe andato da solo e che mia madre ci sarebbe rimasta molto male. Non gli risposi, limitandomi ad ascoltare. Lo sentii inveire contro di me, lo sentii scendere le scale con passo pesante, lo sentii mettere in moto l’auto e andarsene.
Solo in quel momento, quando seppi che lui era lontano, riuscii a respirare di nuovo. Mi resi conto che, fino a quel momento, ero riuscita soltanto a catturare l’aria intorno a me.
Rimasi immobile a guardare il soffitto. Non avevo fame ma sapevo di dover mangiare. I crampi allo stomaco mi ricordavano che non mangiavo dalla sera in cui Phil… No,non dovevo pensarci. Sentivo la sete bruciare la mia gola secca e le mie labbra screpolate, sentivo il bisogno di andare in bagno.
Sentivo il bisogno di tutto ciò ma non riuscivo a rispondere a questi stimoli. Non riuscivo ad alzarmi.  
Era troppo faticoso pensare di andare in bagno, di abbassarmi i pantaloni e vedere le strisce di sangue sporcare gli slip. Passare davanti allo specchio e vedermi. Era troppo doloroso, troppo difficile. Era faticoso stare immobile, troppo stancante persino fissare la crepa del soffitto. Per questo chiusi gli occhi. Per non vedere più niente, per non sentire più niente…
Nemmeno il mio corpo.
Mi raggomitolai sotto alla trapunta intenzionata a sparire.

 Quando riaprii gli occhi, minuti, secondi, istanti, ore dopo, decisi di alzarmi. Sbirciai oltre la coperta. Il cielo era ancora un’indistinta macchia grigiastra e la finestra era striata da lunghe fila di perline argentate intente a rincorrersi.
Pioveva. E questo mi fece sentire un po’ più a casa, un po’ più a Forks.
Mi misi lentamente a sedere. Il movimento mi provocò un capogiro. Mi sentivo debole.
a tutto ciò si aggiunse il solito, ennesimo pulsare alle tempie che ormai mi era fin troppo familiare.
Forse avrei dovuto ricominciare a prendere i farmaci. Mi avrebbero ottenebrata a tal punto da farmi dimenticare? Ne dubitavo. Ma almeno mi avrebbero liberata da quelle terribili fitte.
Ascoltai attentamente i suoni che provenivano dalla casa ma, escludendo il ticchettio ritmato della pioggia sul vetro, il silenzio era assoluto.
Phil non c’era.
Mi arrischiai ad alzarmi. In punta di piedi raggiunsi la porta e, cercando di non fare alcun rumore, girai lentamente la chiave nella toppa. Tenendomi una mano premuta sul capo nel tentativo di alleviare il dolore, andai in bagno.
Davanti ai miei occhi, ogni volta che sbattevo le palpebre, vedevo occhi rossi luccicare nella penombra. Era assurdo. La mia immaginazione me li riproponeva continuamente. Non ne potevo più. E spesso, nella mia mente,sentivo riecheggiare una risata cristallina, infantile, odiosa. Ogni volta un brivido mi percorreva la schiena.
Paure irrazionali se confrontate alla realtà, eppure, riuscivano comunque a inquietarmi come se fossero ricordi reali.
Cercando di reprime quei pensieri, feci tutto ciò che dovevo fare senza mai guardare il mio riflesso. Sentivo che la palpebra si era gonfiata. Phil mi aveva colpita nello stesso punto del giorno precedente. Dopo il secondo ceffone, in quella circostanza chissà com’era il mio viso...
Bevvi dal lavandino, tenendo le mani unite a formare una coppa, perché non volevo scendere. Volevo espletare tutte le funzioni fisiologiche il prima possibile e tornare di corsa in camera, chiudermici dentro e non uscire più. Ma avevo così sete… avevo così fame.
Il solo pensiero del cibo però mi suscitò una stretta allo stomaco.
Sentivo che, se avessi mangiato, sarei stata solo peggio.

Ora che cominciavo a capire davvero cosa fosse successo, tutto mi sembrava troppo da sopportare.
il primo giorno era stato quasi irreale, non mi era sembrato vero. Mi pareva di aver vissuto quelle ore quasi in uno stato di trance…
Adesso invece stavo elaborando ciò che mi era accaduto e non ero certa di poter affrontare il peso della mia orribile esperienza.
Dopo essermi accertata che Phil non fosse rientrato mentre ero in bagno (l’auto non era nel vialetto) scesi in cucina.
Mi sforzai di mangiare qualcosa per placare gli spasmi dello stomaco. Optai per del pane e una mela. Mi sbrigai a mangiare e pulire per non lasciar traccia del mio passaggio e poi sgattaiolai in camera mia.
Mi nascosi tra le coperte, avvolta nel lenzuolo.
Cercavo di non pensare, di non provare emozioni ma non ci riuscivo. Tenevo le braccia incrociate intorno alle ginocchia, cercando di non disperdere il calore che mi infondeva quel falso abbraccio.
Mi accorsi di piangere. I singhiozzi mi rendevano difficile respirare. Cercai di calmarmi e, senza accorgermene, ricaddi nell’incoscienza priva di pace che erano i miei  incubi.

 
Mi risvegliai che era ormai mattina inoltrata. Non c’era il sole. Il cielo era coperto da una spessa coltre di nubi e minacciava pioggia. Mi alzai lentamente. Tutti i muscoli del mio corpo doloranti. Mentre mi cambiavo, vidi i lividi violacei stagliarsi sulla mia pelle chiara. I segni rossi lasciati dalle sue unghie mi percorrevano la pelle per tutta la lunghezza delle cosce, lungo l’inguine, sul seno…
Cercai di reprimere le lacrime.
Mi vestii con le prime cose che trovai nell’armadio, mi diedi una spazzolata ai capelli e scesi di sotto. Ero così soprappensiero che non badai alla valigia che trovai sul pianerottolo.
Una volta entrata in cucina però mi si gelò il sangue.

Mi ero totalmente dimenticata.

A tavola,seduti insieme a Phil, c’erano Esme, Carlsile ed Alice. Tutti e quattro mi guardarono. Il volto di Phil divenne viola, acceso d’ira. Quello di Esme e Carlsile si dipinse di orrore mentre ad Alice si spense il sorriso sulle labbra.
Ero così repellente?
Imbarazzata, mi passai una mano sulla fronte per scostare i capelli. Era un gesto automatico, che facevo sempre quando ero sovrapensiero. Questa volta però, passando con la mano, sentii dolore. La palpebra era ancora gonfia.
Mi ero totalmente dimenticata del loro arrivo e non mi ero quindi curata di nascondere il livido con il trucco.
< Ehm… ciao. Scusate. Dormivo e non ho sentito la sveglia… > cercai di giustificare il mio ritardo ma venni zittita da Esme che, alzatasi in fretta in piedi mi era corsa incontro per abbracciarmi.
< Bella. Tesoro… >Mi strinse delicatamente a sé.

Inizialmente fui terrorizzata da quel contatto. Chiusi gli occhi in un gesto istintivo di autoprotezione. Inconsciamente temevo mi facesse male ma il suo abbraccio fu molto rassicurante. Mi venne spontaneo cingerla a mia volta e affondare il viso sulla sua spalla. Mi pentii di non averla chiamata. Forse, a differenza di quanto avessi pensato, loro mi avrebbero potuto aiutare.

Sentii di essere sul punto di crollare, di stare per scoppiare a piangere. Avrei dovuto raccontare loro tutto? Ma come potevo? E poi, lì c’era Phil…

Non mi ero accorta che anche Carlisle si fosse alzato e mi fosse venuto vicino.
Appena Esme mi lasciò andare, mi ritrovai fra le sue braccia. Un abbraccio paterno. 
< Bella. > mi disse semplicemente. Il tono di voce basso. Sembrava dispiaciuto.
Dopo pochi secondi mi allontanò da sé, tenendomi sempre per le spalle, per potermi osservare meglio. Sentii il suo sguardo sul mio occhio livido.
Lo sfiorò lievemente e quasi non avvertii il suo tocco. Poi la punta delle sue dita carezzò il taglio sul labbro.
< Cosa ti è successo? > mi domandò in tono grave.
Stavo per rispondere ma sapevo che non sarei riuscita a mentire. Non con lui. Aprii e chiusi la bocca senza emettere alcun suono. Sentivo il sangue imporporarmi le guance e alcune lacrime sfuggire alle mie palpebre. Chinai lo sguardo fissandomi le pantofole.
Carlisle mi prese con delicatezza la mano e alzò lievemente la manica. Aveva notato i lividi che si diramavano dal polso? Sussultai al pensiero che vedesse i tagli sul mio avambraccio ma, per fortuna, sollevò solo un piccolo lembo della manica. Quel tanto che gli bastava per vedere bene la sagoma delle dita che mi avevano stretta e che avevano lasciato un livido simile ad un macabro bracciale.
< Bella? Come ti sei procurata questi lividi? > mi domandò nel silenzio più totale. Sentivo la tensione intorno a me ed io ero pronta a sgretolarmi.
Ingoiai a vuoto, incapace di proferir parola, come se fossi sul punto di confessare un atroce delitto.
Fu Phil rispondere al mio posto.
< Carlisle, ti pregherei di non farne parola a Reneé… >
Per un infinitesimo di secondo pensai che avrebbe confessato. Che, messo alle strette dall’ovvietà dei fatti avrebbe ammesso quello che mia aveva fatto. Poi però aggiunse:
< Sai, l’altroieri Bella è stata vittima di uno scippo. Due malviventi l’anno colta di sorpresa nel parcheggio dell’ospedale. L’hanno strattonata e le hanno tirato uno schiaffo. Per fortuna stavo sopraggiungendo e sono riuscito a metterli in fuga. Se solo fossi arrivato qualche attimo prima… era così sconvolta che ieri non ha voluto venire con me a trovare sua madre. È rimasta chiusa in camera tutto il giorno… > sussurrò mortificato. Sembrava davvero dispiaciuto. Ma ciò che è peggio è che sembrava sincero.
Provai un ribrezzo per l’uomo davanti a me tale da costringermi a voltarmi. Come poteva dire quelle cose? Come?
Qualcuno, Esme, mi accarezzò il viso asciugandomi le lacrime che, copiose, avevano cominciato a scorrere.
< Bella? Bella tesoro, non fare così. Vieni, ti preparo una camomilla calda. Ti prego, calmati. >
Non mi ero accorta di tremare. Cercò di portarmi a tavola ma non riuscivo a muovermi. Suo marito continuava a tenermi la mano. La strinse lievemente come per rassicurarmi.

Probabilmente era solo frutto della mia immaginazione ma mi sembrò di intravedere un lampo nei suoi occhi. Ferocia? Rabbia?

La voce fredda e tagliente di Carlisle fendette l’aria. < E li avete denunciati? >
< E perché? Non sono riusciti a portarle via la borsa e,in fondo, lei non si è fatta niente. Non volevo agitare Reneé. Ha appena avuto il bambino. >
< Quindi non l’hai neanche portata al pronto-soccorso? > sotto la cortesia vi era una malcelata nota di ira nella voce del dottore.
< No, lei era molto scossa e mi ha detto di voler tornare a casa. Ho preferito accompagnarla qui. E poi, è solo qualche livido. Avremmo allertato Reneé inutilmente e ora ha tante altre cose a cui pensare… il piccolo ha bisogno di attenzioni continue e Bella è ormai abbastanza grande da cavarsela da sola. > tentò di giustificarsi lui.
Fu Esme a ribattere: < Isabella ha nei confronti di sua madre gli stessi diritti del piccolo nato. Reneè ha diritto di sapere se la figlia viene aggredita. E comunque, bisogna sempre denunciare le aggressioni e le violenze subite. > Nell’ultima frase, notai una nota di rimpianto che mi lasciò interdetta.
Carlilse osservò meglio il mio labbro, facendo una leggera pressione. Provai dolore e il mio viso si contrasse in una smorfia. Poi tastò l’occhio, con molta delicatezza.
< Il labbro si rimarginerà, non preoccuparti. Certo,un paio di punti forse sarebbero stati raccomandabili… però andrà a posto anche così. >
< Sì, avete ragione, indubbiamente, ma sapete, a poche ore dal parto nessuno dei due voleva metterla in agitazione. E poi, nel parcheggio, non c’erano telecamere. Sarebbe stato inutile avvisare la polizia e ieri Bella era troppo sconvolta, vero piccola? > mi interpellò usando un tono dolce e gentile che raramente gli avevo sentito in bocca.
Mi limitai ad annuire.
Carlisle, senza smettere di fissarmi, mi lasciò andare la mano. Prese la sua valigetta e ne estrasse due tubetti di crema.
< Tieni. Questa spalmala sull’occhio. Il livido e il gonfiore spariranno presto. E questa, questa mettila su eventuali escoriazioni. Sai, magari afferrandoti ti hanno graffiata. Così eviterai che ti si possano infettare. >
< Grazie… > sussurrai con un filo di voce.
Esme mi accompagno in salotto e pochi minuti dopo apparve Alice. Teneva tra le mani una tazza e mi guardava addolorata. Si sedette alla mia destra. Esme era alla mia sinistra.
< Tieni, è una tisana calmante. Ti aiuterà. > mi sussurrò la ragazza.
Ringraziai e cominciai a bere a piccoli sorsi. Sentii Carlisle e Phil. Stavano parlando del bambino. Il mio patrigno era teso, lo sentivo, e cercava di dare di sé l’immagine di un felice neopapà orgoglioso.
Appena finii la tisana mi congedai da Esme e Alice. < scusate… forse è meglio se vado a cambiarmi, se dobbiamo andare a trovare Reneé… >
Alice mi prese per mano e, con voce allegra e spensierata mi disse:
< Sì, direi che è una magnifica idea. Dai, mostrami la tua camera. E permettiti di truccarti. Hai detto che non vuoi far preoccupare tua madre, ma se ti vede così si spaventa di sicuro. >
 

Mi cambiai in bagno. Non volevo che vedesse il mio corpo coperto di lividi.
Quando tornai in camera, era già pronta con i trucchi in mano. Nonostante non fossi entusiasta del contatto fisico che una seduta di trucco implicava, rimasi immobile per circa dieci minuti mentre le sue mani si muovevano, esperte, sul mio viso. Passavano delicate coprendo le occhiaie e il livido. Quando ebbe finito, nessuno avrebbe mai sospettato che il mio occhio avesse subito un colpo se non fosse stato per il leggero rigonfiamento. In effetti, non si notava neanche che mi avesse truccata.
< Wow, Alice, sei proprio brava. > avrei voluto esprimerle la mia gratitudine ma la mia voce sembrava morta.
< Ti piace? So che non gradisci il trucco e quindi ho cercato di mantenere un aspetto, per così dire, naturale. >
< è fantastico. Grazie. >
< Non è niente… anzi, avrei voluto poter fare di più… >
Me lo ero solo immaginata il risentimento e il dolore nella sua voce?
Mi accompagnò a sedere sul letto e,tenendomi per mano, mi disse:
< Edward mi ha chiamato, questa notte mentre ero all’aeroporto. Ha visto il tuo messaggio e le chiamate. Sai, tiene il cellulare sempre spento e lo riaccende ogni tanto solo per controllarlo. Era molto preoccupato per te. Non ti ha richiamata perché non voleva svegliarti nel cuore della notte. È stato davvero sollevato di sapere che ti avrei raggiunta. Io l’ho rassicurato, dicendogli che ti avevo parlato e che stavi bene ma lui era comunque molto in ansia. >
< Mi richiamerà? >
Le parole mi erano sgusciate dalle labbra, più lievi di un sussurro. Nel sentire quelle di Alice, il mio cuore si era leggermente sollevato.
< Non sa se riuscirà a richiamarti oggi perché sta preparando un esame molto importante. Però mi ha detto di salutarti tanto e di non temere. Che ti chiamerà appena possibile. Ci tiene molto a te. >
Sbuffai, scocciata.
< Se davvero ci tiene così tanto, perché non trova due minuti per chiamarmi? >
Mi prese con delicatezza le mani. < Bella, davvero, lui vorrebbe ma non può. La disciplina a Syracuse è molto rigida. Non è permesso tenere telefoni all’interno delle strutture scolastiche e Edward torna al suo alloggio solo per dormire. È… complicato.
Ma l’importante è sapere che ti pensa.
Mentre eri in bagno gli ho mandato un messaggio. Gli ho detto quello che è successo. >
Sussultai e lei se ne accorse. Con voce incerta aggiunse: < Gli ho detto che ti hanno scippata ma che stai bene. appena potrà, ti chiamerà. Ora, perché non andiamo di sotto? Sono certa che ci stanno aspettando tutti. >

In effetti sia i suoi genitori che Phil erano già pronti in salotto e ci attendevano pazienti. Phil sembrava strano. Di solito, se ci avessi impiegato così tanto a prepararmi,mi avrebbe gridato dietro di tutto e tirato uno schiaffo. Adesso invece discorreva amabilmente con Esme del peso del piccolo Dwyer.
In macchina non mi rivolse la parola. Io mi ritrovai seduta di dietro, incastrata tra Esme e Alice.
Phil tempestava di domande di puericultura Carlisle mentre noi tre restavamo in silenzio.
In quel contesto, Phil sembrava un uomo innocuo, gentile, persino gradevole. Mi chiesi dove nascondesse la sua vera natura di mostro… mi chiesi se avesse mai picchiato anche mia madre, se avesse mai fatto a qualcun altro quello che aveva fatto a me o se invece non fosse stata solo colpa mia.

 


 

NB: Le telefonate Alice-Edward.
Edward in realtà non ha chiamato Alice all’aeroporto né ha letto o ascoltato i messaggi di Bella. È infatti costretto a restare dai Volturi che non gli permettono di avere contatti autonomi con i suoi familiari. In realtà è stato Carlisle a chiamare il numero di referenza dei Volturi, dai quali delegati è stato rassicurato: Edward lo avrebbe richiamato l’indomani (ovvero il prox cap).
Alice nel frattempo non dovrebbe trovarsi in luoghi in cui potrebbe essere rintracciata in quanto è consapevole che i Volturi vorrebbero impossessarsi dei suoi poteri proprio come hanno fatto con quelli di Edward.
Sono riusciti a convincere Edward a restare in un modo moto semplice: < O resti con noi o uccidiamo la tua umana che, sebbene non ricordi nulla, è a conoscenza del nostro segreto. Quindi o la trasformi o resti con noi o la uccidiamo. >
Indovinate quale alternativa ha sceltu lui, con le sue manie da “io devo proteggerla per il suo bene e non è necessario che sappia come vanno le cose” esatto… ha scelto la soluzione sbagliata!!! Cioè, non quella sbagliatissima, quella era lasciarla uccidere… però non ha scelto quella strada che è sempre la migliore! La VERITA
Ok… mi fermo qui perché sto delirando.
Spero il cap vi sia piaciuto e che molte di voi lascino un segno del loro passaggio.
Grazie infinite per essere arrivate a leggere fino a questo punto!
A presto,

 
 Cassandra-Erika

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Miserable, lonely and depressed (Pathetic) ***


Ragazze, come promesso, ho cercato di aggiornare in fretta… ed eccomi qui.

 Ehm, ci sono ricaduta. Lo so, sono incorreggibile. Questo cap e il prossimo sono legati a triplo filo incrociato fra loro. Il prossimo è proprio il proseguimento di questo tanto come questo cap 17 è il diretto successore del 16!

Infatti Carlisle interverrà qui e nel prossimo capitolo ma dovete pensare i due suoi interventi come estremamente ravvicinati, distanti solo una manciata di minuti, al massimo mezzora.
Ho inoltre dato un assetto definitivo ai prossimi capitoli. Il cap 18 in realtà è una costola (molto importante) del 17 (tanto per fare un riferimento biblico) e il pov di Edward arriverà nel cap 19. da quel momento però ci sarà “più Edward per tutte”

Il giovin Eduardo infatti si alternerà alla pulzella in difficoltà assi più di sovente di quanto non avesse sin ora fatto.
 

Domanda importante: Preferite che posti capitoli molto lunghi (10 pagine su word in times new roman 12) o che li spezzi in due capitoli separati di circa 5 pagine word in TimesNewRoman 12 (come gli ultimi due,o questo e il prossimo, per intenderci)

Fatemi sapere cosa preferite così so come regolarmi.

Ho paura che, postando cap troppo lunghi, la gente si annoi a leggere ma, allo stesso tempo, dividendoli, temo di spezzare il ritmo della storia. Dividendoli inoltre gli eventi risultano più “spalmanti” e non condensati tutti insieme ma non so se ciò sia un bene o un male.
Ogni capitolo, oltre a tutto ciò, dà l’idea di un tempo che si conclude nel capitolo stesso. Spezzandolo, si può dare l’impressione che il tempo fra le due parti sia dilatato quando in realtà sarebbero passati solo pochi minuti.
Molte volte mi faccio prendere dalle idee e scrivo, partendo da una sola frase che mi da lo spunto, quelli che poi diventano capitoli interi.
Insomma, fatemi sapere come preferite. Io la storia l’ho pensata (e scritta) come un unicum narrativo con dei tempi propri ed è difficile, una volta scritto, dividere l’elaborato in vari capitoli di una lunghezza il più possibile standardizzata.
Fosse per me, pubblicherei capitoli a volte lunghissimi e a volte molto brevi perché nella mia mente la cosa migliore è seguire il tempo degli eventi della storia (un capitolo = un avvenimento importante)
Beh, insomma, credo di aver esposto (in modo contorto temo) quali sono i miei dubbi.
Vi chiedo davvero di farmi sapere così da potervi venire maggiormente incontro e rendere la vostra lettura più gradevole. 

Dopo tutto questo, vi assicuro che il prossimo cap (proseguimento diretto di questo, che infatti è un po’ più breve del solito) verrà pubblicato a breve.

Grazie a tutte voi che leggete, per il vostro interesse verso la mia storia, spero possa piacervi sempre.
Vi ringrazio anche per le recensioni che mi avete lasciato. Leggere i vostri commenti mi incoraggia a continuare a scrivere perché rende concrete le voci di chi dedica del tempo a leggere ciò che scrivo. Per questo, vi ringrazio.

 

Erika

Cap 17

Miserable, lonely and depressed (Pathetic)
Miserabile, sola e depressa (patetica)

                                                                            
Bella’s POV

 
< Esme! Alice! Come sono contenta di vedervi! Dov’è Carlisle? >
< Sta parlando con Phil e il tuo ginecologo. Ma Reneé, ti trovo in gran forma. Stai benissimo. E il piccolo dov’è? Oh, ma che tesoro! È proprio un amore! >
< Avete già deciso il nome, presumo. >
< Sì, Si chiama Owen, come il padre di Phil. >
< Sai, è proprio un tesoro, proprio un bellissimo bambino. >
Ascoltavo le loro chiacchiere seduta su una sedia, mezza nascosta dall’armadio. Per lo più, cercavo di ignorarle. Ma non era facile fare finta di non sentire la risata cristallina di Alice, la voce dolce di Esme, o quella adorante di Reneé.
Fu proprio la sua a ridestarmi dal mio torpore.
< Bella, tesoro, perché te ne stai là tutta sola? Vieni anche tu a vedere il tuo fratellino. Ieri non sei venuta a trovarci. Phil ha detto che non ti sentivi bene. Mi sono preoccupata. >
Di malavoglia mi alzai e andai da loro.
< Cosa c’è? Sei triste? >mi chiese non appena mi sedetti vicino al suo letto.
< No, no. Sono solo un po’ stanca mamma, nulla di che. Non ho dormito bene questa notte. Non preoccuparti. >
Presi il piccolo Owen tra le braccia e Reneé mi parve molto rincuorata.
Lo cullai per qualche minuto osservando il suo piccolo volto. Cercandovi i tratti di mia madre  e quelli del mio patrigno. Quel bel bambino era nato da quell’orribile uomo. Mi si strinse lo stomaco.
Pensai alla pillola che avevo assunto dopo che Phil… pensai che forse… dentro di me…
Ricacciai indietro quel terribile pensiero.
Mi sforzai di sorridere a mia madre e a restituirle il piccolo che aveva cominciato a vagire.
Proprio in quel momento Carlisle e Phil entrarono nella stanza.
A quel punto Alice disse: < Reneé, ti spiace se io Bella andiamo a fare un giro? Magari passiamo a trovarti questo pomeriggio. Immagino che avrete da parlare delle noiose cose da adulti. >
< Oh, Alice, sarebbe davvero carino da parte tua. Bella non si distrae mai. 
A proposito , tesoro, poi con la storia del parto non mi hai più detto com’è andata con quel ragazzo.   Quel Jason… > e mi sorrise in modo complice.
Il volto di Esme si illuminò di un sorriso sincero ma malinconico.
Io mi sentivo bruciare di dolore mentre mi sforzavo di sorridere. Il risultato non fu un gran che visto che Carlisle mi venne vicino e mi strinse comprensivo una spalla.
< Mamma… mi metti in imbarazzo… > sussurrai a mezza voce.
Fu Esme ad intervenire. < Perché tesoro? È una bella cosa trovare qualcuno con cui stare bene insieme. >
Arrossii fino alla punta dei capelli e abbassai lo sguardo. Le mie calze erano estremamente interessanti.
Fortunatamente Alice mi trascinò via da tutto quell’imbarazzo parlando di un paio di scarpe che aveva visto quella mattina mentre venivamo in ospedale, in una vetrina di una boutique.
Fuori diluviava e riparammo presto dentro una yogurteria.
Lei non prese niente ma io ordinai un frappé. Non ricordavo neanche l’ultima volta che avevo mangiato per davvero ma sentivo che il mio corpo era debole. Avevo bisogno di energie.  Rimanemmo a chiacchierare del più e del meno tanto a lungo che fui costretta ad ordinare di nuovo dato che il cameriere sembrava un po’ scocciato dalla nostra lunga permanenza. Stranamente, non mi venne la nausea. Forse, era perché ero con Alice che riusciva a distrarmi dai brutti pensieri.
Alice telefonò a sua madre dicendole che avremmo fatto un giro e non saremmo tornate a casa per pranzo. Finì che trascorremmo fuori l’intero pomeriggio. Era strano stare con lei. Sembrava tutto così, come dire, naturale. Con lei riuscivo a parlare di quello che provavo verso il mio passato assente. Certo, non mi azzardai a parlare di quello che succedeva a casa e lei, stranamente, non mi aveva fatto nessuna domanda che potesse anche solo ricondurre il discorso a Phil.
Sembrava quasi che lei sapesse…
“No, che idea stupida” pensai tra me e me mentre lei cominciava a chiedermi delle lezioni di musica, dopo avermi parlato di quanto fossero carini gli orecchini che avevo comprato per mia madre.
“come potrebbe sapere? Sono solo fissazioni. Sto diventando paranoica…”

Passammo a trovare Reneé durante l’orario di visita pomeridiano. Vedere Phil baciare sulla bocca mia madre, mentre teneva il bambino tra le braccia, aveva totalmente cancellato la gioia che ero riuscita a racimolare con fatica nel corso della giornata.
Il mio umore era colato a picco e, nel tentativo di risollevarlo Alice mi convinse a fare un altro giro per negozi. Mi costrinse a comprare un sacco di cose e mi tempestò di domande su Jason.
Le mie risposte erano laconiche e, dopo un po’, smise di farmi domande.
Trovava sempre qualcosa da fare, qualcosa da vedere, qualcosa da comprare… sempre un motivo per non tornare a casa.
Ci ritrovammo a vagare sotto la pioggia. Pioveva a dirotto e, a ora di cena, stavamo correndo sotto un ombrello sul vialetto della villetta di Phil e Reneé.

Appena entrate in casa incrociammo Phil che ci squadrò da capo a piedi e, con aria disgustata, ci intimò di lasciare fuori le scarpe infangate e di non osare camminare sul parquet con i vestiti grondanti d’acqua.
Io ed Alice ci scambiammo uno sguardo di intesa e ci togliemmo scarpe e giacchetta impermeabile. Per poco non mi si scoprì la manica. Mi si gelò il sangue nelle vene e mi accertai subito che nulla fosse visibile. Per fortuna Alice sembrava distratta dai lacci fru-fru dei suoi attillatissimi pantaloni.
Anche se avrei potuto giurare che, con la coda dell’occhio, mi stesse scrutando attentamente.
Prima di entrare in cucina, dalla quale sentivamo Esme e Carlisle ridere e chiacchierare, Alice mi spiazzò.
< Certo che il marito di tua madre è proprio antipatico. Come fai a sopportarlo? >
< Non lo sopporto. > mi sfuggi dalle labbra. Mi pentii subito di ciò che avevo detto.
Alice non mi staccò gli occhi di dosso neanche per un istante. Salutammo i suoi genitori, intenti a finire di preparare la cena e ci occupammo di apparecchiare, dopo esserci cambiate i vestiti zuppi. Lei si cambiò in camera mia mentre io andai in bagno. Non volli guardarmi allo specchio. Non volli vedere.

 A tavola sembravano tutti troppo intenti ad osservare le carote e i pomodori per buttarsi in una conversazione che andasse oltre i commenti all’ottima cucina di Esme o alla bella carta da parati scelta da Reneé. Ben presto gli argomenti si esaurirono e, visto che alla radio avevano detto che avrebbe piovuto per almeno altri quattro giorni, non si poteva neanche parlare del tempo…
Per fortuna la cena finì in fretta. Carlisle ed Esme erano cortesi ma distanti mentre Alice rimase silenziosa per tutta la cena.
Io, dal canto mio, me ne rimasi zitta e mangiucchiai qualcosa solo per non ferire Esme.
Tornando a casa mi era passata la fame.  Vedere
Lui mi aveva fatto passare la fame.
So che era sbagliato, so che era la mia opportunità ma non riuscivo proprio a cogliere l’occasione. Stare con Alice mi aveva ridato un po’ di serenità ma loro se ne sarebbero andati presto, lasciandomi di nuovo con lui. Allora avrei preferito che se ne andassero subito, così da porre fine all’ansia latente in me. La consapevolezza che quella felicità effimera sarebbe finita presto mi faceva mancare l’aria. Volevo che i Cullen rimanessero per sempre o  se ne andassero il più in fretta possibile. Nel primo caso io mi sarei sentita al sicuro, nel secondo, sarei rimasta di nuovo sola così da potermi di nuovo rintanare in camera mia. Nascondermi nel mio bozzolo di coperte e non farmi mai più vedere.

Avrei voluto annegare nel succo d’arancia…

< Bella, tesoro, ti va una fetta di dolce? >
Sì, forse avrei potuto tener duro quanto? Altri tre, quattro giorni… poi i Cullen sarebbero tornati a casa loro e io avrei potuto tornare allo stadio larvale in cui mi riducevo ogni volta che rimanevo sola con Lui in casa…
< Bella? Bella? >
Sì, avrei dovuto cercare di almeno sembrare felice, almeno quel tanto da non destare sospetti…
< Isabella? >
< Eh? Come scusa, Carlisle? >
< Bella, va tutto bene? >
< Sì… perché? >
< Cara… > mi fece Esme accarezzandomi il dorso della mano < Volevo sapere se per caso gradissi una fetta di dolce… >
< Oh, no. Grazie. Sono piena. >
 Vidi che ormai i piatti erano tutti vuoti e mi alzai, prendendoli e cominciando a sparecchiare. Alice servì il caffè mentre Carlisle prese la torta che Esme aveva preparato e che in quel momento si trovava su un ripiano della credenza a raffreddare.

< Beh… io vado di sopra. >
< Ma come, tesoro, vai già a dormire? Sicura di non volerne una fetta? non ti senti bene? >
< Oh… no Esme… è che… sono molto stanca. Allora, Beh, io vado. Buona notte. Ci vediamo su, Alice. Prendo io la poltrona. Dormi pure nel mio letto… adesso ti cambio le lenzuola. >
< No, Bella, non se ne parla. Dormo io sulla poltrona. >
Dalle scale le urlai: < Non ci pensare nemmeno. Sei mia ospite! >

Mentre stavo già per salire i primi scalini,mi accorsi che Carlisle mi aveva seguita. < Bella >
< Sì? > mi bloccai a mezzo scalino.
< Ti dispiace venire un attimo? Ti ruberò appena qualche minuto. Vorrei parlarti. >
Non trovai modo di rispondere. Ero terrorizzata. Non riuscivo a deglutire e mi sentivo le gambe tremare. Non riuscii ad inventarmi una scusa valida e decente per dirgli che non avevo nessuna intenzione di seguirlo e di parlare con lui. non riuscii a emettere alcun suono, non riuscii a sembrare normale.
Non riuscii a fare nessuna di queste cose e quindi mi limitai ad annuire e a seguirlo nella stanza degli ospiti, dove mi aveva condotta tenendomi un braccio intorno alle spalle.
 

Carlisle accese la luce e mi invitò a sedermi sul letto.
Lui si accomodò sulla sedia davanti a me.
< Ehm… > sussurrai tormentandomi le mani. Ero tesa come una corda di violino.
< Ti vedo un po’ agitata, Bella. Tutto bene? >
< Oh… sì, certo. Tutto bene. > Mi sistemai i capelli nervosamente, evitando accuratamente l’occhio leggermente gonfio.
< Sai, mi dispiace che ti abbiano aggredita. Sarai molto turbata… dev’essere stato uno shock. >
Rimasi in silenzio a fissarmi le mani poi, dopo un profondo respiro, mi decisi a parlare.
< No, no… in realtà non è stato niente… è successo tutto così in fretta. Non mi sono neanche accorta… hanno cercato di togliermi la borsa ma mi sono divincolata e sono scappati. >
< Beh, però sono riusciti a farti male. >
< No… in realtà non è niente. Passerà presto. E poi, appena ho cominciato ad urlare si sono spaventati e sono scappati via. Mi hanno tirato solo un pugno… >
< Avevo capito che ti avevano tirato uno schiaffo. >
< ehm… beh, non ricordo molto bene. >
< Sì, capisco. >
Mi poggiò la mano sulla spalla e aggiunse: < Per fortuna che Phil è arrivato in tempo. >
< Sì. Davvero. > Dissi in tono basso e distaccato.
< Comunque, a parte quello che è successo ieri-l’altro, come stai? >
< Bene. > risposi fin troppo in fretta. Cercando di rimediare alla mia risposta precipitosa, aggiunsi: < Sto abbastanza bene, grazie. Non vedo l’ora che mamma torni a casa con il bambino. >
< non voglio che tu pensi che io mi intrometta ma ho visto che prima non hai preso le tue medicine e ho chiesto ad Alice. Mi ha detto che non le hai prese neanche oggi. Come mai? >
Cercai di inventarmi il più in fretta possibile una scusa e in un soffio dissi: < sai, mi hanno cambiato i dosaggi. E adesso le prendo la mattina, appena sveglia… > sperai di essere sembrata abbastanza convincente. A giudicare dalla sguardo di Carlisle, lui non doveva credermi del tutto tanto che aggiunse: < in questi giorni come ti sei sentita? bene? Hai avuto dei mancamenti, dei capogiri? Magari dei mal di testa improvvisi? Hai delle brutte occhiaia e mi sembri un po’ sciupata… >
< No, no. Va tutto bene. È che al momento sono un po’ stanca. Sai, con il piccolo Owen e tutto il resto… anzi, adesso vado a dormire. Alice mi ha strapazzata tutto il giorno. Non riesce a stare ferma un attimo! >
Scoppio a ridere e il clima teso che avevo avvertito fino a pochi istanti prima svanì in un attimo.
< Non dirlo a me! È un uragano quella ragazza. Non siamo mai riusciti a stancarla abbastanza da farla stare ferma. > mi alzai dal letto e andammo sul pianerottolo. Ci augurammo la buona notte e io salii in camera mentre lui scese in salotto.
Appena superato il pianerottolo con la camera di Reneé e Phil,sentii la voce di quest’ultimo.
< Bella. >
La mia bocca secca non mi permise di rispondergli.
< Bella, di cosa avete parlato, tu e quel dottore. > il suo tono era moderatamente distaccato.
Niente. Non riuscivo ad aprire bocca.
Con voce un poco più alta e con tono autoritario, mi intimò di rispondere.
Mi sforzai e dissi: < Niente. Non abbiamo parlato di niente. >
Chiusi gli occhi. Sapevo cosa stava per succedere. Era accaduto più volte.
Come sempre, non avrei reagito.
Ma il colpo non arrivò. Forse, aveva paura di farmi del male se c’era qualcuno pronto ad intervenire per difendermi.
Abbassò la mano e si voltò, lasciandomi sola. Corsi su per le scale, fino in camera mia.
Appena mi fui chiusa la porta alle spalle mi lasciai cadere a terra, scoppiando in lacrime.  Non avevo neanche acceso la luce. Cercai di soffocare i singhiozzi perché non volevo che qualcuno mi sentisse. Tiravo pugni a vuoto contro il pavimento. Rimasi seduta a terra con la testa poggiata tra le gambe finché il mio respiro non si fu ristabilizzato.
Sentii bussare alla porta e mi ricomposi.
< Posso entrare? > mi domandò Alice. Sembrava in pensiero.
< Un secondo… arrivo. > mi asciugai le ultime lacrime e mi alzai. Aprii la porta e accesi la luce.
< Uhm… tutto bene? >
< Sì, Sì… >
< Hai pianto? > mi domandò con tono indagatore, scrutando i miei occhi rossi.
< Eh? Come? Oh… beh, sì… sai, sono un po’, come dire… mi stanno per arrivare le mie cose e sono un po’ triste perché Reneè sarà molto occupata e tutto il resto… >
< mh… capisco. È normale essere scombussolate. Dopo ieri poi… >
Mi limitai ad annuire, cercando di non manifestare troppo le mie emozioni.
< Senti… al telefono c’è una persona per te. >
Sentii le mie guance imporporarsi e gli occhi illuminarsi. La breve fiamma di speranza si smorzò non appena Alice si fu affrettata ad aggiungere: 
< Credo si tratti di quel ragazzo… Jason… >
Sentii il mio sorriso appena abbozzato morirmi sulle labbra.
Dato che rimanevo ferma immobile, Alice aggiunse: < Credo che tu debba scendere e rispondere… ti sta aspettando. >
< Sì, grazie. Ci vediamo fra poco. Cercherò di fare in fretta. > dissi in modo sbrigativo. Di rimando lei mi rispose: < Non preoccuparti! Fa pure con comodo! >
Non le risposi neanche.

 < Pronto, Jason? >
< Ciao Bella. Come va? Ti disturbo? >
“ Va malissimo e ora che sento te va anche peggio. Certo che mi disturbi. ”
<  no! Non mi disturbi affatto. Qui va tutto bene, grazie. >
< Beh, ti ho chiamato perché volevo sapere come stesse tua madre, e il tuo fratellino, ovviamente. >
“ e a te che cavolo te ne frega! Non puoi farti gli affari tuoi invece che tediarmi? ”
< Stanno bene, tutti e due. Reneé era un po’ stanca ma è molto felice. >
< Sono contento che stiano bene. Senti… mi chiedevo se, una di queste sere, potevo invitarti fuori. Possiamo andare a ballare da qualche parte, se ti va… sai, fintanto che tua madre è in ospedale. Quando torna magari avrà bisogno che tu l’aiuti… >
< Ehm.. Jason, in questi giorni ci sono degli amici di famiglia ospiti da noi. Non posso proprio. Hanno una figlia della nostra età e sarebbe molto scortese  da parte mia uscire e lasciarla qui, sola ad annoiarsi. >
< Oh… beh, sì, capisco. Allora magari ci vediamo quando tua madre sarà tornata a casa e i vostri amici saranno partiti. >
< Sì. Forse è meglio. >
< Chiamami. >
< Va bene. >
< Buona notte, Bella... >
< Notte, Jason. >

Riagganciai e Andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Phil entrò dopo di me, senza che me accorgessi. Mi voltai con il bicchiere colmo e, quando lo vidi, ebbi paura. Non volevo restare sola con lui.
Vidi la vena sul suo polso tremare. Era arrabbiato. Evidentemente aveva aspettato un momento per rimanere solo con me. Si avvicinò a me.
Non riuscivo a muovermi.
Carlisle ed Esme erano in camera loro. Alice era in camera mia. Non ero certa che mi avrebbero sentito se avessi chiesto aiuto. E poi, cosa avrei fatto? Sarei tornata a Forks da mio padre? Avrei denunciato Phil? Avrei avuto la forza necessaria? Si avvicinò ancora di più a me ed io cominciai a tremare, terrorizzata che mi facesse male di nuovo.
No, non sapevo dove trovare la forza necessaria per ribellarmi...

Mi squadrò da capo a piedi e poi, dopo avermi lanciato uno sguardo carico d’odio, si posizionò davanti a me.

PS: Molte domande mi sono state rivolte riguardo a quanto abbia visto e sappia Alice. Sarà lei stessa a rispondere a questa domanda fra un paio di capitoli.
Il succo comunque è questo: Lei vede le conseguenze delle decisioni (per cui quando Phil decide di picchiare Bella, sebbene pochi secondi prima) lei riesce spesso a vederlo ma per quanto riguarda l’azione più riprovevole, lei non ha potuto vederla (e quindi non ne sa niente) perché Phil non ha deciso di stuprare Bella; si è bensì abbandonato totalmente agli istinti.
Inoltre, Edward aveva detto ad Alice di non “sbirciare” più nel futuro di Bella.
Spero di aver chiarito i vostri dubbi.
Ci vediamo fra un paio di giorni (spero)

Grazie di tutto, spero che il cap sia stato di vostro gradimento.

PS: se cambiassi definitivamente il rating da arancione a ROSSO, quante di voi non potrebbero più leggere? se mi fate sapere, al max scrivo Rosso all'inizio dei capitoli che sforano nella "zona Adulti" ... Let me know.
Ciao!

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Of all the things I hid from you I cannot hide the shame ***



Bene, spero che questo aggiornamento vi possa risultare gradito!Ho cercato di aggiornare in fretta.
Sto pensando di escogitare un sistema per pubblicare senza sconvolgere le menti candide delle più giovani fra voi. Non ci saranno scene di sesso spinto o violento però non vorrei comunque dare fastidio.

Le possibilità sono:

-          pubblico tutto autocensurandomi
-          pubblico nella ff solo le parti più soft mentre “apro” un'altra ff con le versioni hot dei capitoli censurati, ovviamente sotto rating rosso.

Fatemi sapere quello che preferite!

 Vi ringrazio per le bellissime recensioni,
Ciao e a presto,
Erika

Cap 18

Of all the things I hid from you I cannot hide the shame
Di tutte le cose che ti ho celato non posso nascondere la vergogna

Bella’s POV

 Andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua.
Phil entrò dopo di me, senza che me accorgessi. Mi voltai con il bicchiere colmo e, quando lo vidi, ebbi paura. Non volevo restare sola con lui.
Vidi la vena sul suo polso tremare. Era arrabbiato. Evidentemente aveva aspettato un momento per rimanere solo con me. Si avvicinò a me.
Non riuscivo a muovermi.
Carlisle ed Esme erano in camera loro. Alice era in camera mia. Non ero certa che mi avrebbero sentito se avessi chiesto aiuto. E poi, cosa avrei fatto? Sarei tornata a Forks da mio padre? Avrei denunciato Phil? Avrei avuto la forza necessaria?
Mi squadrò da capo a piedi e poi, dopo avermi lanciato uno sguardo carico d’odio, si posizionò davanti a me. Tremavo.
Mi afferrò il polso, là dove le sue dita erano ancora impresse sulla mia pelle, e mi strinse forte. Molto forte. Potevo quasi sentire le palpitazioni dalle sue vene trasferirsi alle mie ossa tanto forse era la sua presa. Costrinse il mio braccio a compiere una torsione terribile, che mi fece dolere l’intero arto. Sembrava volesse spezzarmelo. Aumentò ancora la pressione della sua stretta e dovetti mordermi un labbro per trattenere l’urlo che mi nasceva spontaneo. Serrai gli occhi. Sentii il sangue sulla mia lingua. Con un gesto involontario, spasmodico, le mie dita si tesero e il bicchiere scivolò.
Cadde a terra, frantumandosi.
Phil sussultò e, dopo un violento, dolorosissimo strattone, mi lasciò andare.
Avvicinò il volto al mio orecchio e sibilò: < Non fare stronzate. > poi, sprezzante, sputò nel lavandino. L’acqua che aveva continuato a scorrere aveva nascosto a tutti il rumore del vetro, le sue minacce.
Si voltò e mi disse: < Pulisci questo casino. > poi uscii, lasciandomi sola. Camminando, calpestò alcuni frammenti di vetro, sbriciolandoli e provocando un suono inquietante e sgradevole.
Ancora profondamente turbata, chiusi l’acqua. Mi assicurai di riuscire ad aprire e chiudere le dita della mano. Mi chinai e cominciai a raccogliere i frammenti del bicchiere.

< Bella? > La voce di Carlisle mi fece sobbalzare cogliendomi di sorpresa, tanto che strinsi involontariamente la mano intorno al grosso frammento di vetro che stavo raccogliendo.
< Ahia! > strillai aprendo di colpo la mano che avevo serrato.
Mi ero procurata un taglio lungo e profondo sul palmo della mano.
Con la mano sana mi afferrai il polso, terrorizzata da tutto il sangue che aveva cominciato a sgorgare dalla ferita aperta. Carlisle corse al mio fianco e si inginocchiò accanto a me.
< Oddio Bella! Attenta, attenta, non volevo spaventarti. Ma fammi vedere il taglio. >
Lo esaminò accuratamente per alcuni istanti, attento a non farmi male; sospirò e un sorriso malinconico affiorò sul suo bel volto. Sentivo il taglio bruciare e la mano pulsare in prossimità della ferita. Il mio stomaco stava cominciando a dare segni di cedimento..
< Non ci sono frammenti, per fortuna. >
Quella frase… fu quasi un dejavù. Chiusi gli occhi e vidi Edward prendermi tra le braccia mentre Carlisle teneva fermo il mio braccio, dal quale un abbondante rivolo di sangue sgorgava copioso… che strano pensiero…
 < Vieni, devi lavare immediatamente la mano sotto l’acqua.  >
Mi accompagnò gentilmente al lavandino tenendo la mia mano delicatamente nella sua.
Per prima cosa si lavò le mani poi mi sciacquò gentilmente la zona che sanguinava. Bruciava…
 Dicendomi come tenere la mano per evitare che sanguinasse e tenendovi premuto sopra un piccolo panno, mi aiutò a sedermi al tavolo.
Sentivo le gambe molli. Odiavo il sangue… avevo la nausea.
Esme ci vide e, dalle scale, venne verso di noi. Sembrava preoccupata.
< Esme, cara, Bella si è tagliata con un pezzo di vetro. Mi porteresti la mia borsa e un asciugamano pulito? >
Sua moglie annuì, seria, e tornò in un attimo con tutto ciò che Carlisle le aveva chiesto poi si allontanò. Sembrava profondamente turbata.
Forse neanche a lei piaceva il sangue.

Carlisle stese l’asciugamano sul tavolo e mi ci fece poggiare la mano. Afferrò dalla sua borsa da medico delle garze, una siringa e quello che somigliava in modo inquietante a un filo dentro a un sacchetto trasparente. < Non preoccuparti, è sterile. > mi disse scrutando il mio volto preoccupato. Poi aggiunse con voce calma e misurata: < Sarebbe meglio che ti mettessi dei punti. >
Annuii, pallida. Sentivo lo stomaco in subbuglio.
Mi fece una leggera anestesia locale. Dopo l’iniziale pizzicore non avvertii più dolore. Lo sentii che mi bucava la pelle ma non percepivo bruciore. Solo un lieve indolenzimento. Per tutto il tempo fissai il suo volto, troppo codarda per guardarmi la mano.
Tutto ciò evocò in me l’immagine di una festa di compleanno. L’immaginazione a volte gioca strani scherzi. Sentii un pizzicore sul braccio, in corrispondenza di una vecchia cicatrice. Inconsciamente, esaminai la punta del dito indice per controllare un taglio che non c’era. Non so perché, ma mi sembrava di essermi graffiata con della carta.
Carlisle mi guardò circospetto e poi chiese: < Senti dolore alle estremità delle dita? > scossi il capo,senza smettere di fissarmi l’indice destro. Da quel momento cercò di distrarmi parlandomi. Ad un certo punto mi disse: < Non avere paura per un taglio e tre punti… ne hai viste di peggio. >
 Provai a scherzarci su. < Sì, ma non me ne ricordo, quindi non valgono. >
< Hai ragione! Dai, ho quasi finito. >
Passò appena un minuto poi annunciò soddisfatto: < Finito. Visto che non hai sentito nulla? >
Osservai la mano fasciata. Non sentivo niente. Solo la testa mi pulsava dolorosamente. Era sempre così quando quelle immagini così vivide mi venivano in mente.

 
Mi aiutò ad alzarmi. Voleva portarmi al divano. Involontariamente guardai il pavimento. Sbiancai. I frammenti si erano sparsi ovunque. Io, Carlisle ed Esme li avevamo accidentalmente calpestati e disseminati ovunque nella cucina camminandoci sopra;  ora erano così minuscoli da formare una miriade di briciole argentee e taglienti sparse per tutta la cucina.
Dovevo pulire prima che Phil tornasse.
Feci per piegarmi per raccogliere un pezzo di vetro davanti a me ma Carlisle me lo impedì, poggiandomi la mano sulla spalla.
< Bella, non preoccuparti per il pavimento. È meglio se ti stendi un attimo. Hai perso sangue. Cerca di stare tranquilla per un po’. >
< No… è meglio se raccolgo. Phil si arrabbia se si graffia o si rovina il pavimento. E poi, sono pericolosi. >
< Hai ragione, sono pericolosi. Guarda la tua mano.
Non preoccuparti. Ci penso io qui. Non vorrai mica tagliarti di nuovo? >
< No. Non disturbarti. È colpa mia. L’ho spaccato io. >
< Suvvia, Bella. Per un bicchiere rotto… Non preoccuparti per così poco. Lo raccolgo io. > e mi accompagnò al divano, costringendomi a sedermi.
Il suo sguardo gentile contrastava così tanto con quello che mi aveva riservato Phil.
Ricordai quando avevo rotto quei piatti.
 Il modo in cui Lui mi aveva picchiata. Quel primo schiaffo…
chiusi istintivamente gli occhi, impedendo a lacrime involontarie di scappare.
Sentii una mano gelida carezzarmi la guancia, consolandomi. Mi fece sdraiare e mi poggiò i piedi sul bracciolo del divano, tenendomeli sollevati rispetto al resto del corpo. Il mal di testa cominciò a scemare.
 

Rimanemmo in silenzio per alcuni istanti poi Carlisle mi distolse dai miei pensieri.
< Phil mi sembra una di quelle persone che, quando si arrabbiano, lo fanno sul serio. >
< Beh, sì. In effetti è una persona un po’ impulsiva. Ma non è colpa sua. È così di carattere. E poi, ama molto mia madre. >
Si allontanò. Lo sentii prender la scopa.
Quando aprii gli occhi aveva finito di raccogliere gli ultimi frammenti di vetro e stava passando l’ammoniaca sulla scia di sangue e sulle gocce cremisi.
< Adesso ti preparo qualcosa di caldo, zuccherato. Hai mangiato poco a cena. Non va bene. >
< Non occorre… > Feci per alzarmi ma lui mi poggiò una mano sulla spalla.
< Siamo vostri ospiti. Permettimi di ricambiare. E poi, sono il tuo medico. Ho dei doveri verso le mie pazienti. E tu, sei come una figlia per me. Motivo per cui sento di avere dei doppi doveri nei tuoi confronti. >
Mi sorrise ed io non potei non fare altrettanto.
Mi preparò una bevanda calda e si sedette vicino a me. Mi aiutò a rimettermi seduta.
L’infuso era buono, mi calmò molto.
 

< Come ti senti? Prima non avevi una bella cera. Mi sembravi molto tesa… >
< è un periodo in cui sono un po’ in ansia. >
< Ho notato. Mi spiace per prima. Se avessi saputo che ti saresti spaventata a quel modo, avrei aspettato che buttassi via il vetro prima di chiamarti. >
< Non preoccuparti. Sono abituata a farmi male. Una cicatrice in più, una in meno… >
Il suo sguardo, dietro al velo cortese, si fece duro. Cambiò argomento.
< Dormi bene, la notte? >
< Faccio un po’ di incubi, ma nulla di terribile. >
< Mhm… senti, prendi questo. >  versò in un bicchiere, che aveva riempito d’acqua, alcune gocce da una boccetta che teneva in tasca.  < Questa te la lascio. Prendine 21 gocce diluite in acqua ogni mattina. >
< Che cos’è? >
< Niente che ti possa fare male. Sono erbe. Non fanno reazione con i farmaci che ti abbiamo prescritto. >
Tentennai nell’accettare la il bicchiere colmo. Avevo paura che mi facesse domande, aspettandosi delle risposte.
< E poi, dato che quei farmaci non li assumi… >
Avvampai. E la mano sana, quella con cui avevo afferrato il bicchiere cominciò a tremare.
Mi posò una mano sulla spalla, per rassicurarmi.
< Bella, che ne dici di ricominciare a respirare? > mi domando in tono gentile Carlisle dopo avermi tolto il bicchiere e stretto la mia mano tra le sue. Obbedii. Quando fui in grado di parlare in modo coerente, cercai di giustificarmi.
< Carlisle… non è come pensi. >
< Io non penso niente. Né sono qui per giudicarti.
Però vorrei sapere cosa spinge una mia ex-paziente a sospendere gli antidepressivi senza avvisare nessuno.
È una cosa grave, per la tua salute. >
< Io… io non ne ho bisogno. >
< Se non ne avessi bisogno, non te li avremmo prescritti. >
< Quando li prendevo, ero sempre strana, confusa. Non ero più me stessa. Non riuscivo a pensare… non riuscivo a… a… >
Prossima alle lacrime, smisi di parlare.
Mi alzai di scatto, portandomi le mani alla testa. Volevo scappare, andare lontano da lui.
Mentire a Carlisle era come tradirlo. Non si meritava le mie bugie.
Lui però mi impedì di andarmene afferrandomi con delicatezza il braccio, come facesse attenzione a non farmi male lì dove c’erano i tagli che io stessa mi ero volontariamente procurata.
Mi vergognai di essere stata tanto idiota da farmi del male da sola.
Al mio debole strattone lui non rispose. Non mi ero accorta che si era alzato in piedi.
Fu forse la sua fermezza a scuotermi, sta di fatto che, voltandomi, non potei fare a meno di abbandonarmi alle sue braccia.
Mi lasciò sfogare, accarezzandomi i capelli. Mi riaccompagnò a sedere senza smettere di cullarmi lentamente.
< Perché prima non me ne hai parlato? E non mi hai neanche detto di essere svenuta a scuola. Hai mentito invece che confidarti con me. > Non era adirato. Sembrava anzi molto dispiaciuto.
< Sono cose importanti. Non puoi tralasciare dei dettagli così importanti.
Lo sai che hai rischiato la vita l’estate scorsa. Devi imparare a gestire ciò che ti accade e ciò che accade intorno a te. Devi reagire…
Io voglio solo aiutarti. So che deve essere tutto molto frustrante per te ma ti chiedo solo di fidarti di me, di Esme, di Alice. >
Non risposi. Non ci riuscivo.
Mi accarezzò la guancia.
< Non voglio forzarti, e non voglio obbligarti ad assumere farmaci, quei farmaci, contro la tua volontà, per ora.
Quei medicinali avevano una funzione principalmente “preventiva”. Te li prescrivemmo per aiutarti ad adattarti alla situazione. Avevi mostrato i primi sintomi della depressione, dopo il risveglio.
Non significa che tu fossi strana o sbagliata ma solo in difficoltà.
E poi, servivano per mantenere sotto controllo i mal di testa che ti assalgono.
Non credo che tu sia del tutto consapevole delle conseguenze della tua decisione ma, per adesso, intendo rispettarla. Magari ne riparliamo tra qualche giorno, quando sarai un po’ più serena. >
Non dissi nulla. Fissavo la fascia intorno alla mano.
< Grazie. >
< Non c’è nulla per cui tu debba ringraziarmi. >
< non è vero. Sei una persona così buona. >
Sentivo la stanchezza nelle mie membra. Era una stanchezza più psicologica che fisica.
 Carlisle se ne accorse e mi guidò verso le scale.
< Ora sarebbe meglio che tu andassi a riposarti. Sei stanca. Cerca di stare tranquilla, di riposarti. >
Mi accarezzò i capelli, osservando attentamente il mio viso, i miei occhi, quasi volesse leggervi ciò che a parole non riuscivo ad esprimere.
Mi accompagnò fino al pianerottolo della mia stanza. Proprio lì mi prese la mano fasciata fra le sue e mi disse: < Se sentissi il bisogno di dirmi qualcosa, se dovessi aver bisogno di aiuto, non voglio che tu ti faccia problemi. Da me puoi venire per qualunque cosa, per qualunque problema. >
Annuii senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi.
Mentire mi faceva sentire ancora più sporca…
Stavo già salendo le scale quando lo sentii dirmi: < Bella, non dimenticarti che noi, tutti noi, ti vogliamo bene… >
< Va bene… > e un sorriso leggero piegò le mie labbra contratte.
 
Quando entrai nella mia stanza, trovai Alice intenta a sistemare alcuni degli articoli che avevamo acquistato nei vari negozi.
Appena misi piede nella stanza, lei mi venne incontro con un mio paio di vecchie scarpe.
< Bella! Quando la smetterai di mettere queste orribili… come potrei definirle? Non credo esista un termine adatto! >
< Scarpe? > azzardai io.
< NO!  Queste … > ed indicò un tacco 12 nero che mi aveva più o meno comprato di nascosto < queste sono scarpe. Quelle sono pantofole vecchie! Sei incorreggibile. >
Il suo tono scandalizzato riuscì a farmi sorridere.
Le andai vicino e l’abbracciai. < Grazie, Alice. >
Mi strinse forte e in quell’abbraccio c’erano più di mille parole.
Mi trasmetteva una sicurezza indicibile. Starle vicino mi faceva stare bene.
Vide la mano fasciata. L’alzai in segno di resa. < Mi sono tagliata con un vetro. Niente di tragico.  Non credo ne morirò! > Sorridevo, e sentivo il mio cuore leggero.
 

Passammo il resto della serata a chiacchierare spensieratamente, divertendoci e ridacchiando. Fu estremamente piacevole.
Quando fummo in procinto di andare a dormire, mi accorsi di essere ancora vestita.
< Beh, Alice… io vado in bagno a cambiarmi. >
< Ma come? Ti vergogni di me? >
Tutto il mio buon umore svanì in un istante. Non mi vergognavo di lei, mi vergognai di me. Come avrei potuto giustificare i lividi, i graffi che ancora bruciavano e che avevo tentato di ignorare per tutto il giorno.
< Bella, stavo scherzando. Vai pure in bagno. Il tuo pigiama è lì. Te l’ho messo sul letto, sotto al cuscino. >
Annuii e, senza dire niente, afferrai la mia roba e schizzai in bagno.
Mi feci la doccia e, sebbene cercassi di non guardarmi, non potei ignorare il mio riflesso allo specchio.
Vedendomi, tutto il sollievo che avevo provato fino a qualche minuto prima svanì, cancellato dai segni, dai lividi e dalle ferite. Dalle sagome dei morsi sulle mie spalle.
Presi dal beauty i tubetti di crema che mi aveva dato Carlisle e cominciai a spalmarle là dove tutto era più evidente.

 
Quando, mezz’ora dopo, uscii dal bagno, trovai Alice sdraiata sulla poltrona.
< Allora non riuscirò a convincerti a dormire nel mio letto? >
< No! Direi proprio di no. Ora tocca a me andare in bagno e, visto che tu ci sei rimasta dentro più o meno una vita e mezzo, non aspettarti che io ne esca in un tempo ragionevole.
Se vuoi cominciare ad andare a letto, io non mi offendo. Hai due occhiaie terribili e sei così pallida... E poi, sei dimagrita da quando sei qui. Devi assolutamente mangiare meglio e di più. >
E così, dicendo, prendendo la sua valigetta, se ne andò in bagno lasciandomi basita.
Stanca, mi infilai sotto alle coperte.
Osservai il soffitto per qualche minuto, cercando di immaginare come sarebbe stata la mia vita se, invece di venire a vivere con Reneé, fossi rimasta con Charlie. Non ricordare il mio passato era orribile ma vivere in quel presente era insospettabile.
Mi raggomitolai su me stessa, stringendomi al cuscino sul quale stavo versando tante lacrime dolorose come fossero di sangue.
Portai la mano in mezzo alle gambe, là dove un dolore sordo, che non mi aveva ancora abbandonata, mi impediva di dimenticare. Sangue. Sangue vero.
Avevo perso sangue. Non tanto ma abbastanza da spaventarmi. Avevo messo un’assorbente, uno di quelli per quando hai delle piccole perdite. Certo, non stavo morendo dissanguata, anche perché la ferita più profonda era stata inferta alla mia anima, ma mi ero preoccupata comunque.
 

Chissà, forse era normale quando si perde  la verginità…
Sospirai. Incrociando forte le gambe come per formare una treccia distorta, come per scacciare i ricordi e il dolore pulsante che sentivo proprio lì, in quel punto.

 
Tenevo il capo nascosto sotto al cuscino quando sentii il cellulare vibrare sul comodino.
Senza uscire dal mio nascondiglio di stoffa, allungai la mano e lo afferrai. Accettai la chiamata senza neanche guardare e portai il piccolo oggetto sotto al cuscino, al mio orecchio.
Tirai su col naso prima di pigolare un “Pronto” incerto e tremulo.
Una voce calda e misurata mi rispose: < Pronto, Bella? >

Sentii il mio cuore perdere un battito nella sua corsa folle.
< Pronto? Bella, ci sei? >
< Edw-Edward? > domandai senza pensare.
< Sì. > non mi chiese se disturbasse, non mi chiese se fosse troppo tardi o se stessi dormendo. Mi chiese solo: < Come ti senti, stai bene? >
< Sì… sì. Sto bene. Hai letto il mio messaggio? >
< Sì. E ho sentito la segreteria. Mi dispiace tantissimo di non averti potuto chiamare prima. >
< Non fa niente. Non preoccuparti, davvero. >
< Come puoi dirmi di non preoccuparmi. Ti prego, raccontami cosa ti è successo. No, no. Ti prego, non piangere. >
< Edward! Come faccio a non piangere? Io ho bisogno di te. Tu non puoi capire… >
< Calmati, per favore. Cerca di mantenere la calma. Sappi che se potessi, salirei sul primo aereo e correrei da te. Ma non posso Bella, non posso, lo capisci? >  
< No! Non lo capisco! Ma a te che te ne frega? Là coi tuoi amici! >  No. No. Era tutto sbagliato. Non dovevo litigare con Edward. Perché? Cavolo, cosa mi era preso?
< Bella, ho parlato con Alice, prima.
Mi hanno detto che sei stata aggredita, che ti hanno picchiata. >
Percepii distintamente l’odio che tentava invano di nascondere.
< Non è successo niente. Hanno cercato di scipparmi ma sono scappati. >

Ripetevo la verità di Phil, non riuscivo ad essere sincera. La realtà era troppo dolorosa.
Decisi di concedermi però un attimo di sincerità.
< Ho avuto tanta paura. Non riuscivo a muovermi. Non ero in grado di reagire… sono così spaventata. >
Le ultime parole vennero soffocate dai singhiozzi sordi che mi nascevano dal petto.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Far across the distance and spaces between us ***


Cap 19

 Far across the distance and spaces between us
Lontano, attraverso gli spazi e le distanze fra noi

 

 Edward’s POV
 
Mi muovevo in silenzio, sempre nell’ombra.
Frusciare di mantelli, odore di sangue che permeava le scanalature della pietra.
Mi porse lentamente la mano e io l’afferrai in un gesto automatico.
Lo osservai negli occhi mentre scrutava ciò che udivo. Vedevo i miei ricordi riflessi nelle sue iridi scarlatte.
Gli sorrisi con sfida.
< Ragazzo mio… non essere così scontroso, di grazia. Potresti almeno sforzarti di essere grato del trattamento di gran favore di cui puoi godere tu come la tua famiglia, e la tua piccola umana. >
< Scusi. È solo che è difficile quando si è vincolati all’infelicità. >
Mi sorrise allegro.
< Su, su, giovane Edward. Ritieni che questo sia un prezzo troppo alto per un cuore che palpita ancora? La tua piccola umana, a quanto mi è dato sapere, fruisce ancora del piacevole diletto del respiro. >
< Avete ragione. E per questo vi sono grato. >
< E di cosa? È uno scambio equivalente. I tuoi ineffabili servigi in cambio del temporaneo transitare della tua piccola immemore in quel mondo di dolore proprio di chi è sottomesso al tempo. >
Non risposi. Tanto non potevo celare i miei pensieri se le nostre mani erano in contatto.
Nella sua mente lessi le sue istruzioni. Preferiva tenerle celate al resto della sua guardia e ciò mi aveva provocato problemi non indifferenti. Renata,la più importante degli elementi della guardia del corpo di Aro, provava un gran astio nei miei confronti vedendosi scalzata dalla sua posizione privilegiata. Ora ero io il più talentuoso della ristrettissima cerchia del suo padrone.
“ Stanno per arrivare ospiti. Una delegazione scozzese si è recata nella nostra bella città per chiedere aiuto. Voglio che tu vagli attentamente la natura dei pericoli che essi ci illustreranno. Voglio che ti concentri sull’entità del pericolo. Non ho intenzione di inviare una guarnigione e vederla decimata. Se il pericolo è troppo grande, lascerò che il nuovo clan formatosi distrugga quello che è venuto qui a chiedere il nostro sostegno. Non ho nessuna intenzione di vedere i miei seguaci cadere e di perdere la credibilità che ci contraddistingue. >
Annuii, sebbene egli potesse leggere la mia risposta nei miei stessi pensieri. Come se poi mi fosse dato di scegliere…

 Il colloquio con gli scozzesi fu uno spettacolo pietoso. Aro ascoltò attentamente le richieste è si risolse subito nel non intervenire. Il nuovo clan era una minaccia solo per il piccolo gruppo confinante e non si comportava in modo tanto sconsiderato da mettere a rischio il nostro status di segretezza. Ciò implicava, almeno nei pensieri di Aro, che un intervento dei Volturi sarebbe stato ingiustificato. Inoltre, il nuovo clan era composto da molti elementi giovani e quindi forti. Dopo aver sterminato il gruppo rivale, non avrebbero più potuto incanalare la loro forza verso un nemico esterno e si sarebbero sterminati fra loro.
Il che era proprio ciò che Aro voleva.
Dopo aver consultato Caius e Marcus, sebbene avesse già deciso come procedere prima di interpellarli, informò gli ospiti della decisione negativa presa dal Consiglio. Temo non ebbero nemmeno tempo di elaborare la notizia visto che vennero praticamente messi alla porta in poco meno di un minuto.
 

Accompagnai, insieme a Renata, Aro nei suoi appartamenti privati da dove provenivano grida e risolini. Aro mi licenziò sulla porta mentre Renata lo seguì all’interno. Nei suoi pensieri lessi l’odio smisurato per la piccola Jane che, più nuda che vestita, accolse Aro con un bacio che non assomigliava neanche lontanamente a quelli casti che gli riservava in pubblico.
Poco prima che Aro, circondato da ragazze seminude, si chiudesse la porta alle spalle, mi guardò negli occhi. Dietro il velo della vecchiaia, intravidi i suoi pensieri fugaci.
“ Va da Anita. Deve riferirti alcune cose. Credo sia abbastanza importante, per quanto possano esserlo le vicende umane, si intende. Hai il mio permesso… ” e così mi congedò.
Sentii le gambe improvvisamente molli. Mi ritrovai a correre per i corridoi ad una velocità improponibile fino ad arrivare da Anita, un’avvenente giovane vampira.

Era nel suo studio. Appena mi vide, mi rivolse un enorme sorriso. < Edward… che piacere vederti… >
In un microsecondo era già in piedi, dinanzi a me. Non smise di sorridermi mentre accarezzava la mia camicia, sotto al mantello. Cercai di allontanarla con il palmo della mano ma lei lo afferrò e cominciò a baciarlo. Cercai di mantenere un tono cordiale per non inimicarmela.
< Anita. Aro mi ha detto di venire da te. Ha detto che dovevi parlarmi. > le dissi in un soffio.
Lei sbuffò, lasciò cadere la mia mano e si girò, diretta alla sua scrivania. Si muoveva provocante, ancheggiando. Non la guardai neanche.
< Anita! >
< Sì… sì… ma sei così impaziente anche quando… > e si attorcigliò vezzosamente i capelli intorno all’indice.
< Smettila di fare la svenevole. Che cosa succede. >
Si lasciò cadere teatralmente sulla poltrona, accovacciò provocatoriamente le gambe in modo da mostrarmi la sua biancheria. Stavo perdendo la pazienza e impazzendo d’ansia.
< Anita! Se non hai niente da dirmi, me ne  vado. >
< Ok, ok… io comunque non lo farei, se fossi in te. Ha chiamato tuo padre. Aro ti concede il permesso di telefonargli. >
Senza permetterle di terminare la frase, afferrai il telefono e composi il numero di cellulare di Carlsile.  Anita si alzò e, dopo avermi lanciato uno sguardo ammiccante e fatto l’occhiolino, uscì lasciandomi solo.

Tre squilli dopo il telefono smise di suonare. A rispondermi fu però Alice.
< Edward? >
< Alice? >
< Sì… sono io. >
< Cosa ti viene in mente? Non dovresti stare al sicuro? Perché sei con Carlisle? >
< Edward… è molto importante. > cercai di calmarmi. Decisi che se aveva corso il rischio di rivedere Esme e Carlisle ciò era sicuramente dovuto a un buon motivo. Non potevo sprecare neanche un minuto. L’unica motivazione poteva essere…
< Riguarda Bella, Vero? > e mentre lo dicevo la mano tremò.
< Sì. >
< Cos’è successo?  >
< Edward… senti, dovresti chiamarla. >
< Alice! Lo sai che non posso. Dobbiamo attenerci al piano. Lei si deve dimenticare di me, di noi… >
< Edward, dico sul serio. Ti ha mandato un sms, ti ha chiamato. Ti ha lasciato un messaggio in segreteria. E tu non le hai risposto. >
< Sai bene che non ho io il mio cellulare. >
< Lo so. È per questo che ti ho chiamato io. Bella non sta… molto bene… >
Venni pervaso dal panico. < Cos’ha? È malata? è per via dell’incidente? Alice, ti prego… ora come sta? > le mie domande si susseguirono così velocemente che stentai io stesso a capirle.
< Adesso è di là, in camera sua a piangere… >
< Come! Cosa significa di là? > non sapevo se angustiarmi o adirarmi con Alice.
< Edward, lascia che ti spieghi… siamo dovuti venire a Jacksonville. È nato il figlio di Reneé e avevamo un ottima scusa per venire… >
< Alice! In questo modo ti esponi a un grave pericolo. Se i Volturi ti rintracciassero? E  Bella? In questo modo come potrà… >
< Cosa? Dimenticare? Tanto, caro mio, non sta dimenticando per niente. E ora, se mi lasci finire di parlare… devi assolutamente chiamarla. >
< Hai detto che non sta bene. Che cos’ha? >
< io te lo dico, ma tu mi devi giurare di mantenere la calma. Ora ci siamo qui noi e non accadrà più. Troveremo una soluzione. >
< Parla! >
< Prometti. >
< Prometto. >
Prese un profondo respiro e poi, in un soffio, disse: < Phil l’ha picchiata. Ha picchiato Bella. >

Non volli registrare le sue parole.
< Edward? > mi fece lei, incerta. < Edward? Hai capito? >
< Scusa, potresti ripetere? >
< Phil ha picchiato Bella. Temo non fosse la prima volta. Non riesco a “vedere” queste cose perché di solito non sono frutto di un’azione premeditata bensì di un impulso incontrollabile e imprevedibile. È per questo che temo che sia successo altre volte, senza che io sia riuscita a scorgerlo... >
Non riuscivo neanche a parlare. Dovetti sforzarmi per chiederle: < Come sarebbe a dire che l’ha picchiata? Cosa le ha fatto? >  Avevo paura della risposta.
< Ti ho detto… non ho visto bene.  Le ha tirato uno schiaffo e l’ha fatta cadere a terra, nel soggiorno. Ma sono certa che l’avesse già picchiata. Quando le ha tirato lo schiaffo, Bella aveva già il taglio al labbro e l’occhio livido…  sono molto preoccupata. Bella sta male. >
Non riuscii a capire la frase. Mi dovetti reggere alla scrivania.
< Cos’altro diavolo le ha fatto? > stavo urlando, irato.
Sentii due vampire, in fondo al corridoio, ridacchiare. Speravano stessi litigando con la donna che, a loro dire, mi aveva stregato e che quindi impediva loro di venire considerate da me.
< Edward, non lo so con esattezza. Io non posso vedere tutto e tu mi hai detto… >
< Non me ne frega niente di quello che ti ho detto. Questa è tutta un’altra storia. Non doveva andare così. Lei doveva essere protetta, doveva stare al sicuro! >
< Ti prego, calmati. Sta un po’ meglio. Carlisle l’ha osservata attentamente. Prima l’ha presa da parte e ha cercato di parlarle. >
< E perché diamine non la visita? >
< Edward… non può. Dovrebbe trovare una scusa. E poi, ha paura che Phil possa sospettare i nostri dubbi. E noi non vogliamo che si arrabbi con Bella, mentre noi non ci siamo. Rischiamo di peggiorare tutto. Dobbiamo agire con cautela. E Bella non ha nessuna intenzione di farsi visitare. È troppo spaventata. >

Inghiottii il veleno che mi era schizzato in bocca. < Alice… quando si è rotta lo scafoide… è stato lui? Carlisle mi aveva detto che aveva tirato un pugno per terra. >
< Sì, quel giorno ho visto distintamente Bella tirare il pugno a terra però… >
< Però? >
< Mentre eravamo in ospedale a trovare Reneé, Carlisle ha controllato la cartella di Bella.
Sai bene che lei è molto sbadata e si fa male spesso ma sembra che… che da quando è qui si faccia male un po’ troppo male e un po’ troppo spesso.
È anche questo che ci ha portato a credere che non fosse la prima volta. A parte la mano, per la quale sono sicura che Phil non centri, le hanno dovuto dare dei punti. È riportato che è caduta. Uno dei dottori ha fatto una nota a margine in matita. Ha scritto: “sospetta violenza domestica. La paziente nega e rifiuta di denunciare” >

Nonostante la mia natura incorruttibile e incrollabile, dovetti sedermi perché sentii le gambe cedermi.
< Alice, non può restare lì. >
< Lo so. Ma non possiamo neanche portarla via di peso. Come potremmo spiegarlo a Reneé? >
< Alice, non è questo ciò di cui devi preoccuparti. E poi, quell’uomo è pericoloso anche per lei e per il bambino. Va messo in galera. Fosse per me… non sarebbe il primo mostro che fa una brutta fine tra le mie mani. Con la differenza che gli altri non… non avevano fatto del male a mia moglie. Non avevo motivi personali per odiarli! >
< Edward… lei non è tua moglie. > mi disse Alice, comprensiva.
< Per me è come se lo fosse. Lo sai perfettamente. >
Ora fu lei ad alterarsi. < Se non la lasci andare tu, come puoi anche solo sperare che lei riesca a separarsi dal tuo ricordo? >
< Ti ho già illustrato il piano. Ne siete tutti a conoscenza. >
< Sì, e tu sai anche cosa ne penso. E poi, ora le circostanze sono diverse. >
< Io sparirò dalla sua vita ma voi potrete continuare a farne parte. Le starete vicino, l’aiuterete a superare il trauma. >
< Edward, quello che sto cercando di dirti è che non credo che Bella potrebbe superare un tale shock. >
< Alice, sai benissimo che non mi permetteranno mai di andarmene e lei non può restare aggrappata ai fantasmi del passato… riuscirà a mettersi il cuore in pace. 
Dobbiamo … > 
ma lei non mi lasciò terminare. In un soffio spaventato mi disse:
< Edward, Carlisle è convinto che lei… abbia trovato un modo alternativo per incanalare il dolore psicologico, per gestire lo stress… e io… l’ho visto. >
Mi sentii,se possibile, ancora peggio.
< Alice, per favore, ho bisogno che tu mi dica tutto. Non è il momento dei rebus.
< Autolesionismo > e non aggiunse altro. Mi lasciò il tempo per interiorizzare quelle parole.
< Cosa si fa? > domandai con voce rotta.
La sua voce assomigliava ad un pigolio. < Edward, non è questo l’importante… >
< ALICE! Dimmi che diamine si fa! > le urlai stringendo così forte il bracciolo della sedia tanto da frantumarlo.
< Si procura dei tagli sull’avambraccio. Salta i pasti… ma questo non so quanto sia volontario o consapevole. E poi, ha smesso di assumere i farmaci. Ha detto che le hanno cambiato la dose ma Carlisle ha visto le cartelle e lì c’è la stessa prescrizione di quando era a Forks. >

Mi presi la testa tra le mani, tenendo il telefono vicino all’orecchio.
< Alice, portala via, portala via da lì. Deve curarsi. Deve essere felice. >
< Cercherò di fare il possibile. Noi ci fermeremo altri quattro giorni ma non potremo trattenerci ulteriormente. Ora cercheremo di inventarci qualcosa. >
< Tu lo sai… io non posso andarmene. Non mi lasceranno mai libero. E sai bene che qui vorrebbero Bella morta. Se scappassi, la metterei solo più in pericolo… >
Se il mio corpo morto me lo avesse permesso, ero certo che i miei occhi si sarebbero colmati di lacrime. Mi sentivo così impotente, così inutile. Il mio istinto mi diceva di scappare, correre a Jacksonville, raccontare tutta la verità a Bella e poi vivere per sempre con lei in clandestinità. Certo, lei non ricordava ma mi amava ed era coraggiosa. Insieme avremmo potuto affrontare ogni cosa.
Saperla sola a Jacksonville, in pericolo, era un pensiero che, lo sapevo, mi avrebbe logorato.
< Edward, adesso devi chiamarla. Devi rassicurarla. Devi convincerla, senza farti scoprire, a chiedere aiuto, a chiederci aiuto. Solo in questo modo potremo aiutarla. Altrimenti non riuscirà mai ad accettare quella che vivrebbe come un’intromissione. Io ora sono nel bagno. Non vi ascolterò e attenderò finché non avrete terminato, prima di tornare da lei. >
< Va bene, va bene. Alice, mi raccomando. Cercherò di chiamarti ancora, il prima possibile. A presto. >
< Non mi troverai. Non avrei dovuto neanche venire. Carlisle era contrario. Appena me ne andrò, scapperò con Jasper. Appena Aro ti toccherà, saprà tutto. Non devo permettergli di trovarmi. Ma potrai telefonare a Carlisle. Lui o Esme… >
Con la voce che io stesso a stento riuscivo ad udire, le sussurrai: < Grazie, Alice. Per quello che stai facendo per lei, rischiando tu stessa… >
< Edward, non è solo la donna che ami. È anche mia sorella. Ora devo riagganciare. Telefonale. Spero di poterti rivedere, prima o poi. Addio. > Chiuse la conversazione ed io rimasi immobile per pochi attimi, prima di comporre il numero di Bella.
Attesi per quella che mi parve un’esistenza intera prima che lei accettasse la chiamata...        
Quando udii la sua voce, sebbene flebile e carica di dolore, sentii nuovamente la vita fluire nelle mie vene prosciugate.

 < Pronto? >
Cercando di mantenere un certo contegno dissi: < Pronto, Bella? >
Non mi rispose ma la sentii trattenere il fiato.  < Pronto? Bella, ci sei? >
< Edw-Edward? >
< Sì. Come ti senti, stai bene? >
< Sì… sì. Sto bene. Hai letto il mio messaggio? > La voce le tremava impercettibilmente. Sentendo il dolore, avrei voluto dirle tutto. Dirle perché non potevo essere vicino a lei in quel momento,perché non potevo portarla lontano… < Sì. E ho sentito la segreteria. Mi dispiace tantissimo di non averti potuto chiamare prima. >
< Non fa niente. Non preoccuparti, davvero. >
< Come puoi dirmi di non preoccuparmi. Ti prego, raccontami cosa ti è successo. >
Singhiozzò.
< No, no. Ti prego, non piangere. >
< Edward! Come faccio a non piangere? Io ho bisogno di te. Tu non puoi capire… >
< Calmati, per favore. Cerca di mantenere la calma. Sappi che se potessi, salirei sul primo aereo e correrei da te. Ma non posso Bella, non posso, lo capisci? > 
< No! Non lo capisco! Ma a te che te ne frega? La coi tuoi amici! > Non volevo farla adirare, o agitarla. Avrei dovuto aiutarla… e invece non riuscivo nemmeno a consolarla. Dovevo cercare di rimanere più lucido e cercare di guidare il discorso, senza lasciarmi influenzare troppo dall’ansia.
< Bella, ho parlato con Alice, prima. Mi hanno detto che sei stata aggredita, che ti hanno picchiata. > Le parole mi uscirono a stento, frenate dall’ira che sentifo fluire dentro di me. Temetti di averla spaventata quando lei si affrettò a dire:  < Non è successo niente. Hanno cercato di scipparmi ma sono scappati. > Rimase in silenzio per alcuni istanti poi, quasi sopraffatta dal patimento, aggiunse:
< Ho avuto tanta paura. Non riuscivo a muovermi. Non ero in grado di reagire… sono così spaventata. >
Avrei voluto abbracciarla, stringerla a me. Dovevo proteggerla.
< Edward… sono così sola. >
< Non sei sola. Ci sono Carlisle ed Esme, ci sono io. >
< No, Edward. Tu non ci sei. Tu sei lontano. > Il tono duro assunto dalla sua voce mi ferì eppure non potevo certo biasimarla. Per lei che non sapeva, per lei con sapeva, dovevo sembrare un vero mostro, insensibile e crudele, intento a giocare con i suoi sentimenti.
< Bella, mi dispiace di essermi comportato in modo così sgradevole. Avrei voluto poterti restare più vicino. Tengo a te più che a chiunque altro al mondo. >
Quasi volesse evitare discussioni, sussurrò: < Edward, ne abbiamo già parlato prima che tu partissi. Hai fatto la tua scelta. Hai giustamente pensato al tuo futuro. Insomma… Syracuse. Un’opportunità che non potevi lasciarti scappare. Hai fatto bene. Non avresti dovuto rinunciarci per me. >
Colsi al volo l’occasione. < Ma tu sei ammessa a Darthmouth. Perché non ci vai. Ti puoi trasferire lì, seguire i corsi. Sono certo che faranno un’eccezione anche se siamo a metà anno. Comincia a seguire i corsi. Comincerai a pieno ritmo dal prossimo anno.  Per adesso, potresti trasferirti lì ed ambientarti. > Potresti scappare da lui.
< No. Non mi sento in grado di affrontare il college, adesso. E poi, non riuscirei mai a reggere il confronto. Sono sicura che dovrei ritirarmi. Non sono abbastanza brava. >
< Non dire idiozie. Devi credere in te. Sei sempre stata molto brava a scuola. Sono certo che ti sentiresti a tuo agio. Non è poi così dura, credimi. >
< Mah… forse l’anno prossimo. Adesso sto ancora cercando di capire, di rimettere insieme i cocci degli ultimi due anni. >
< Come ti senti adesso? >
< Insomma… >
< Stai male? >
< No. Sto abbastanza bene. > Mentiva, ed era chiaro come il sole.
< Sei riuscita a ricordare qualcosa? >
< No. Niente purtroppo. Non riesco proprio a ricordare nulla. Ci provo, ma è come se non ci fossero stati quei due anni. È davvero… frustrante. >
< Come ti trovi lì, a Jacksonville? >
Non mi rispose subito. Inspirò profondamente e la sentii asciugarsi gli occhi. < Edward… >
< Sì? >
< Ti prego, ho bisogno di aiuto. Ti prego, portami via. >
Rimasi in silenzio alcuni istanti, profondamente combattuto. Cercai una scappatoia al vincolo che mi legava ad Aro. Dovevo andare da lei.
< Bella, io non posso… >
< Dici di tenere a me ma… ma quando io… quando ho bisogno di te tu non ci sei, dici che non puoi venire. Io ho davvero bisogno di aiuto, del tuo aiuto e tu non puoi perdere qualche giorno di quel tuo stupidissimo collegge… > Piangeva, senza riuscire a controllarsi. Non la interrupi, lasciandola sfogare. Quando mi sembrò che si fosse calmata, mi azzardai ad intervenire.
< Bella, sono profondamente rammaricato per il mio comportamento ma, davvero, adesso non posso proprio venire a Jacksoneville. Ti prometto che cercherò di venire a trovarti. Te lo giuro. Ma è complicato… >
< Senti… finiamola qui, Edward. È facile per te. Mi chiami per lavarti la coscienza ma poi non fai niente. Mi dici tante belle parole ma mi chiami solo dopo che tua sorella ti dice di farlo. Sono sicura che altrimenti non mi avresti nemmeno risposto. >
< Questo non è vero. >
< Sì che è vero. Comunque, senti… non volevo essere sgarbata. È solo che… non ce la faccio più. Non credo di sopportare tutto questo. >
< Non dire così. > ero terrorizzato che potesse commettere qualche gesto insensato. < Vedrai che tutto si risolverà. >
< Sì, lo spero davvero, anche se non riesco proprio a capire come >
Qualcuno bussò alla porta ed entrò. Anita. < Edward… Mi serve il telefono. > disse con voce alta e stucchevole.  Non l’avevo percepita arrivare talmente ero concentrato su Bella.
Bella smise di parlare. Avvertii il suo respiro farsi più veloce. Avrei voluto dirle qualcosa ma riuscii solo a balbettare: < Posso spiegarti… > ma lei si affrettò a dire: < No, Edward, non devi dire niente. Non è necessario. > < Certo che è necessario. > ma in quel momento Anita rimarcò la sua presenza con un lamentevole < Edward… insomma,muoviti. > mugolato ad alta voce e a labbra strette.
< No. Davvero. Senti… è meglio che vada. Qui è tardi e sono molto stanca. Spero… beh, di sentirti presto, credo. Notte. > e riattaccò, trattenendo i singhiozzi.

Sbattei il telefono a terra, frantumandolo.
< Ma Edward! Adesso non lo posso più usare. > mi passò una mano sulla spalla e sulla schiena. La respinsi a forza, allontanandomi sgarbatamente.
< Sarai felice adesso! > Le gridai dando sfogo alla mia ira.
 La sentii ridacchiare mentre mi allontanavo da quel suo maledetto ufficio.

Dovevo parlare con Aro, immediatamente.

Note dell'autrice: 

Ragazze, scusate se non ho risposto ancora alle vostre recensioni… ho passato il week-end da una amica e non ho fatto in tempo. Ci tenevo a postare oggi e quindi, vi chiedo scusa.
Ho fatto un po’ di confusione con la trama. I caps erano già scritti ma dovevo scegliere l’ordine di pubblicazione. Come avrete letto, l’Edward’s POV è questo e non il prossimo.
A presto e scusate se sono stata così frettolosa.
Contente del "ritorno" di Edward?

ps: tra l'altro prima a me non apriva efp. è successo anche a voi? proprio non c'era verso... gli altri siti me li apriva tranquillamente ma efp proprio non ne voleva sapere....

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** You broke a promise and made me realise it was all just a lie ***


Salve ragazze!

Se per caso vi eravate chieste dove fossi finita in tutti questi lunghi giorni… beh, la risposta è semplice: seduta sul divano a studiare come una matta.
Ho preparato l’esame in 12 giorni e credo davvero di aver esaurito tutte le mie energie.
Questo perché mi ero ridotta all’ultimo a studiare. E questo perché avevo passato tutte le vacanze a scrivere capitoli di queste storie.
Insomma… il mio equilibrio psicofisico è andato a quel paese.
Posto un po’ in fretta e mi scuso per questo. Volevo rispondere a tutte le recensioni ma non ho fatto in tempo (sto uscendo) ma ci tenevo a ringraziarvi tutte!
cavoli… dovrò già ricominciare a studiare… disperazione. È che non voglio ridurmi come quest’ultima volta. Credo di non aver dormito proprio in questi giorni!
Vabbè, giustamente a voi non importa nulla della mia stressante vita scolastica quindi vi lascio alla lettura di questo capitolo che spero apprezzerete.
Sono arrivata a scrivere fino al 28. succederanno tante cose che vi faranno tanto piacere (non sono ironica, o per lo meno, non del tutto) perché ci saranno furori, di tutti i tipi!
Allora, a presto. Adesso ricomincia l’uni ma credo che, per i primi tempi, avrò “abbastanza” tempo libero. E poi, ho già scritto altri otto caps quindi ho un po’ di materiale da parte.
Spero di leggere i vostri commenti e chiedo perdono in anticipo per i successivi (due o tre) caps.
Potrebbero suscitare odio verso qualche (stupido) personaggio che si comporterà male.
Scusate ma è necessità narrativa!
A presto 

Cap 20

 

You broke a promise 
And made me realise It was all just a lie

Hai infranto una promessa
e mi hai fatto capire che era tutto solo una menzogna

 

 

Bella’s POV

 
< Sì, lo spero davvero, anche se non riesco proprio a capire come
Sentii qualcuno, all’altro capo del telefono, bussare. Poi una voce femminile, dolce e suadente, disse ad alta voce: < Edward… Mi serve il telefono. >
Non riuscii a dire nulla. Stavo per avere un attacco di panico. Sentivo il mio respiro sfuggirmi. Come intontita, lo sentii balbettare: < Posso spiegarti… >
Lo sapevo, ero stata una stupida, una vera idiota. Avevo dato credito alle parole di Alice, lo avevo sempre giustificato, anche se non mi richiamava mai, anche se non si faceva mai sentire. Non avevo mai voluto vedere la verità. < No, Edward, non devi dire niente. Non è necessario. >
< Certo che è necessario. >
Avrei dovuto dargli la possibilità di spiegare? In fondo, lui non mi doveva niente, proprio come anche io non avevo nessun dovere nei suoi confronti. Stavo quasi per dirgli “Va bene, spiegati” come se dovesse rendere conto a me delle ragazze che si portava in camera, quando quella che era con lui si lamentò: < Edward… insomma,muoviti. > Sembrava si stesse sciogliendo dal piacere, dato il tono della sua voce.
Inghiottii a fatica e mi sforzai di sussurrare: < No. Davvero. Senti… è meglio che vada. Qui è tardi e sono molto stanca. Spero… beh, di sentirti presto, credo. Notte. >

Riattaccai e scoppiai a piangere.

Mi aveva preso in giro. Sempre e comunque. Io ero rimasta a pensare a lui, aggrappata al ricordo dei giorni che avevamo trascorso insieme, almeno quelli che ricordavo…
E lui invece si divertiva, usciva con delle ragazze, se le portava in camera. E io come una perfetta idiota…
Le mie lacrime mescolavano dolore e rabbia. Ero stata davvero una cretina fatta e finita.
Lui mi aveva dimenticata. Era arrivato il momento in cui anche io dovevo dimenticarmi di lui.
Non mi avrebbe mai salvata da Phil. Non sarebbe mai venuto a tirarmi fuori dall’inferno.
Quella sgualdrina mi aveva aperto gli occhi.
Non potevo rimanere ad aspettare che qualcuno mi salvasse.
Dovevo salvarmi da sola.
 

Non volevo farmi trovare sveglia da Alice. Mi nascosi sotto alle coperte. Avrei finto di dormire.
Mi aveva chiamata perché gli facevo pena, perché Alice glielo aveva chiesto.
Sentii pulsare là dove il dolore non mi abbandonava mai.
Avevo fatto bene a non dirgli nulla di ciò che mi aveva fatto Phil. Sarebbe stato peggio. Forse, se glielo avessi detto gli avrei fatto anche schivo, oltre che pena.
Non mi accorsi del ritorno di Alice. Mi addormentai senza sentirla rientrare in camera.
Profondamente amareggiata, cercai di sgombrare la mente. Non avrei più permesso a nessuno di farmi del male.
 

Alla mattina venni svegliata dal profumo caldo di una torta di mele e carote.
Era vicino. Troppo vicino.
Spalancai gli occhi e mi portai a sedere di colpo, urlando colta di sorpresa. Se Esme non fosse stata pronta di riflessi, avrei fatto cadere il vassoio portavivande.
Lo poggiò sul comodino e mi si sedette accanto. Vedendola, mi resi conto che non ero in pericolo. Esaurita l’adrenalina, non riuscii a trattenermi dal piangere, con rumorosi singhiozzi.
< Bella, tesoro. Non volevo spaventarti. Scusami. >
Mi accarezzava la schiena con movimenti lenti e circolari.
Mi asciugai le lacrime e cercai di chiederle scusa per il mio comportamento irrazionale.
Lei non me lo permise, inondandomi di rassicurazioni.
< tieni… ti ho portato la colazione. Ho preparato una delle tue torte preferite. e ti ho portato del succo di arancia. Ma se preferisci, ti posso preparare qualcos’altro. Vuoi magari del latte con i cereali? >
< Oh, Esme, non dovevi preoccuparti. Non era necessario che ti disturbassi per me. >
< Nessun disturbo. > mi rassicurò. Il suo viso dolce si era aperto in un grande sorriso.
Avrei voluto abbracciarla, nascondermi nel calore del suo corpo. Ma non lo feci.
Mi diede un bacio sulla fronte e mi lasciò sola. Notai che Alice aveva già sistemato la stanza. Il suo letto era tornato ad essere una poltrona e non c’era un solo vestito in giro. La stanza era in ordine come non mai.
Consumai la colazione godendo della pace e del silenzio. Ero sola, lontano da Phil. Non volli pensare a cosa fosse accaduto proprio su quel letto. No… volevo godermi quel momento di vita tranquilla che tanto mi era mancato.
E fu proprio in tranquillità che trascorsero i giorni in cui Cullen restarono a casa.
Ripartirono di sera, quando le nuvole cominciarono a diradarsi.
Reneé, che era uscita il giorno prima dall’ospedale, li aveva salutati sull’uscio dicendo: < Esme, Carlisle, è davvero un peccato che abbiate dovuto prendervi tutta quella pioggia. Da domani è previsto sole… >
< Sai, siamo così abituati a Forks che ci sarebbe mancata la pioggia se avesse fatto bel tempo! > ridacchiò Esme.
 

La mattina della loro partenza  era successa una cosa che all’apparenza avrebbe potuto sembrare insignificante ma per me fu come un respiro profondo dopo molti minuti sott’acqua…
Avevo trovato l’agenda di Carlisle in soggiorno ed ero andata in camera sua a portargliela.
Lui era impegnato nel sistemare le valige. Mi ringraziò rivolgendomi un grande sorriso.
Stavo per andarmene quando, dentro di me, si mosse qualcosa. Dovevo farlo in quel momento. Dovevo parlargli finché ero in tempo. Non sapevo se avrei avuto un’altra occasione.
Le parole scivolarono sulla mia lingua veloci e concitate.
< Carlisle, io ho paura. Tanta paura. >
Non so perché gli dissi quelle parole, perché lo feci in quel momento, mentre gli davo le spalle. Ero troppo codarda per parlargli guardandolo in faccia. E poi… sapevo che avevo commesso uno sbaglio, un errore. Avevo valicato un muro, attraversato un confine.
Ero entrata in una terra senza ritorno.
E me ne sarei pentita se non fosse stato per la reazione di Carlisle. Per la persona splendida che era.
Mi venne vicino, andando ad assicurarsi che la porta fosse chiusa, poi si voltò e mi fissò con i suoi occhi penetranti e attenti, studiandomi.
Mi prese entrambe le mani nelle sue e mi baciò sulla fronte.
In un sussurro sottile come un fruscio mi bisbigliò: < Non devi averne. >
Chiusi gli occhi, abbandonandomi alle sue parole.
< non dovrai più preoccuparti di nulla. Mai più. >
Non sapevo se credergli e soprattutto, non sapevo perché, ma mi sentivo così… al sicuro.
< Ora devi promettermi che non commetterai più sciocchezze, che non ti trascurerai più.
Devi reagire.
Devi preoccuparti solo di te stessa, della tua felicità.
Per il resto,di chiunque tu abbia paura… non devi più temere niente.
Te lo prometto. E se avessi ancora paura, se ti sentissi in pericolo, chiamami. Io verrò, sempre. >
Capii, come se lo avesse detto senza giri di parole,che con quella parola, con “resto”, con “chiunque”, intendeva Phil.
Lo compresi dal modo in cui i suoi occhi ardevano fissando l’ombra del livido sul mio polso.
Sapeva. Non sapevo quanto, non sapevo cosa ma seppi che aveva capito.
A questo pensiero mi sentii sollevata e non in trappola come avevo pensato.
Sfiorò con una leggerezza inverosimile il mio occhio livido.
< Carlisle… >
< Sì? >
< È un segreto. Non voglio che Reneé… > ma non riuscii a terminare la frase. Sentivo un nodo alla gola e la mia bocca era diventata asciutta.
< sono vincolato dal giuramento impostomi dalla mia professione. Ciò non mi impedisce però di aiutarti. >
Mi accarezzò la schiena. < Bella, non devi più avere paura,qualsiasi cosa ti sia successa.
Non sei sola. Ti ci saremo sempre per te, sempre. Intesi? >
Annuii, spaesata, e farfugliai qualcosa che nelle mie intenzioni doveva essere un ringraziamento.
Lasciai la stanza nel silenzio che la confusione mi aveva imposto, stordendomi.

 Rimasi per qualche minuto immobile e meditabonda seduta sui gradini delle scale.
Mi irrigidii quando Phil mi passò accanto, diretto in camera sua. I nostri occhi si incrociarono e questa volta sostenni lo sguardo. Fu lui a distoglierlo.
Lo osservai allontanarsi e chiudersi nella sua stanza.
Sembrava inquieto.
Volevo credere alle parole di Carlisle. Volevo fidarmi di quell’uomo gentile. Non mi sarei più permessa di avere paura di lui.

 Al momento della partenza li salutai con la tristezza nel cuore. Averli a casa mi aveva ridato un po’ di felicità. Mi aveva riportato a un momento felice della mia vita, quando ancora la famiglia era per me un luogo sicuro in cui vivere. Nonostante la fiducia che le parole di Carlisle mi avevano infuso, non sapevo quanto i signori Cullen avrebbero potuto aiutarmi a migliaia di chilometri di distanza.
In fondo, anche Edward mi aveva promesso che mi sarebbe restato vicino e invece…
Mi imposi di non pensare a Edward. Se il figlio era un idiota, non dovevo farne una colpa dei suoi genitori.
Avevo strappato loro la promessa di tornare presto a trovarmi. A mia volta avevo promesso che, quando fossi tornata a trovare Charlie, mi sarei fermata da loro per qualche giorno. Carlisle mi aveva detto quelle parole…

Ritornando a casa, né io né Phil aprimmo bocca. In quel silenzio carico di tensione sentii che la mia felicità si stava lentamente volatilizzando.
Appena tornata a casa, salutata mia madre che allattava, corsi in camera. Sentii Phil salutare mia madre e uscire subito dopo. Affari di lavoro. Lei gli aveva chiesto di riaccompagnarmi a casa dopo aver accompagnato i Cullen e prima di andare al lavoro
Mi sedetti sul mio letto. Afferrato il cellulare, telefonai a Jason.
Segreteria telefonica.  Mi schiarii la voce e lasciai il mio messaggio.
< Ciao Jason, sono Bella. Volevo chiederti se ti andava di uscire questa sera. Ti andrebbe di bere qualcosa? Chiamami se ti va. >
Sospirai soddisfatta.
Avevo perso due anni della mia vita. Mi ero lasciata sottomettere da un bastardo vigliacco e codardo che si era approfittato della sua forza. Mi ero lasciata ingannare dalle belle parole di un ragazzo che fingeva di essere un galantuomo e che nella realtà era come tutti gli altri.
E per cosa?
No.
Basta.
Ora volevo vivere. Recuperare tutto ciò che avevo perduto.

Aveva ragione Carlisle, dovevo reagire, dovevo essere felice.
E avrei cominciato da quella sera.

 Tornata dal bagno, ancora avvolta dagli asciugamani, sentii il telefono squillare. Accettai la chiamata.
< Sì, Jason? >
< Ciao! Ho ascoltato il tuo messaggio. > ecco, non aveva aspettato giorni per richiamarmi.
< e quindi? Ti va? >
< Beh, se per te va bene, ti passo a prendere alle nove. Che ne dici? >
< Sì, certo. È perfetto. >
< Dove ti andrebbe di andare? >
< Dove vuoi tu. >
< Mh… penserò a qualcosa allora. >
< Come mi devo vestire? >
< Non saprei. >
< Va beh, mi inventerò qualcosa. Allora, a dopo. >
< A dopo! >

 Riposi il telefono sul letto e mi vestii in fretta. Scesi le scale e mi gettai tra le braccia di mia madre che stava mettendo Owen nella sua culla in salotto.
< Mamma! >
Sorpresa, mi strinse a sé. < Tutto bene? >
< Mamma, ti va bene se questa sera esco con Jason? Mi passa a prendere lui per le nove. >
Mi sistemò i capelli e mi scrutò negli occhi come se volesse cercarci chissà cosa.
< Certo. Ma tieni sempre il cellulare acceso. Intese? >
Annuii decisa e, dopo averle lasciato un rapido bacio sulla guancia, andai in cucina a mangiare qualcosa. Phil non c’era.
Lavoro.
Che bella parola. Sapeva di libertà.
La mia libertà.

Il pomeriggio passò tranquillo e, quando Phil tornò a casa, io ero già in camera mia a prepararmi.
Scelsi dei vestiti che avevo comprato con Alice. Un abito nero, corto,senza maniche e con una spaccatura sulla schiena. Stivali alti, neri scamosciati con un tacco alto ma solido. Non misi le calze color carne che avevo messo sul letto. Preferivo le gambe nude. Mi truccai come mi aveva insegnato Alice, facendo risaltare labbra e occhi, grata di non aver da nascondere nessun livido. Tenni i capelli sciolti.

Guardandomi allo specchio non ritrovai la Bella impacciata e un po’ sciatta a cui ero abituata ma una ragazza dalle labbra piene, dalle gambe lunghe.

 Bella non c’era più.
Bella era morta.
Bella era annegata nel sangue che avevo perso quando Phil mi aveva strappato la mia innocenza. Bella era morta e la sua ombra triste mi fissava disperata, intrappolata dietro lo specchio.
La potevo intravedere dietro al velo di dolore negli occhi della donna che, muta, mi fissava.
Bella l’avevo seppellita tra i mille battiti di ciglia che avevano liberato le mie lacrime. Lacrime con cui avevo pulito la pelle dal mio sangue.
Bella era morta ma io no. Io ero viva e volevo la mia rivincita.

 Sentii mia madre sul pianerottolo. Mi chiamava.
< Bella? Bella, vuoi che ti prepari qualcosa? > Aprii la porta. La vidi fissarmi ad occhi sgranati.
< Oddio… sei… sei così… stai benissimo. >
< Grazie. >
Ci fissammo per qualche istante poi lei aggiunse: < Allora, vuoi che ti prepari qualcosa, Bella? >
< No, grazie mamma. >
Stavo per chiudere la porta ma mi bloccai. Voltatami a fissarla negli occhi le dissi: < Non chiamarmi più con quel nomignolo. Non sono più una bambina. 
Sono stufa dei diminutivi. >
L’avevo ferita. Glielo leggevo in faccia. Lei amava quel soprannome.
Lo sapevo ma non me ne’importò.
< Va be-bene. > balbettò in imbarazzo prima di girarsi e scendere le scale.

 Jason si presentò puntuale e, quando mi vide sull’uscio mi riservò uno sguardo pieno di apprezzamento. Rassicurammo mia madre, incassai lo sguardo carico d’ira di Phil e salimmo in auto. Jason pareva compiaciuto del mio cambio di look. Continuava a fissarmi le gambe e il petto.
Avrei preferito che prestasse attenzione alla strada. Di incidenti ne avevo avuti abbastanza.
< Allora Bella, come va con il piccolo? >
< Per favore, non chiamarmi più Bella. Comunque, Owen sta bene. >
Sorpreso dalle mie parole mi chiese: < Perché? Hai cambiato nome? >
< Lo trovo infantile. >
< Ok, Va bene. Come devo chiamarti allora? >
Ci pensai un attimo, portandomi l’indice alle labbra. Jason mi fissò con occhi troppo interessati. Fortuna che eravamo fermi al semaforo.
Non so perché ma volevo liberarmi di tante cose, di tanti pesi.
Volevo essere una stupida oca superficiale,volevo non provare più dolore.
Per questo accavallai le gambe, scoprendo in questo modo gran parte della coscia. Dentro di me mi sentivo stupida, impacciata e goffa,sebbene cercassi di apparire noncurante e sicura di me.
Jason non si accorse di ciò che sentivo dentro. forse ero stata abbastanza convincente visto che lo vidi deglutire e sforzarsi di distogliere lo sguardo dalla mia gonna.
< Vediamo… potresti chiamarmi Marie. Sì. Direi che Marie va bene. È il mio secondo nome. >
< Ok, Marie… ahm, stavo dicendo che noi… insomma, ho prenotato in un locale. Ti piacerà. >
Annuii, non troppo convinta. Mi stava tornando, per l’ennesima volta, il mal di testa che non mi dava pace. Cercai di non pensarci e mi massaggiai le tempie con gesti lenti e circolari.

 La serata non fu particolarmente entusiasmante. Io non ballai. Bevvi un cocktail, frastornata dalla musica e dal suo gusto fruttato.
Un paio di ragazzi vennero a sedersi al mio tavolo mentre Jason era in bagno. Nonostante le apparenze, mi sentivo totalmente a disagio. Non sapevo come mandarli via. fu solo grazie a Jason se riuscii a svignarmela. Tra le risate, mi aveva trascinato via dal tavolo e portata vicino ai bagni. Io camminavo storta. Non avevo mai bevuto e l’effetto dell’alcol era per me stordente. Non mi accorsi di dove mi trovassi. A mala pena riuscii a rendermi conto che eravamo pericolosamente soli prima che accadesse tutto.

 Cogliendomi alla sprovvista, lui aveva avvicinato le sue labbra alle mie.
Senza alcun preavviso, senza che lo volessi, mi aveva baciata. Non ero riuscita a oppormi. Ero rimasta immobile, inerte. Le sue labbra si erano fatte strada con forza fra le mie. La sua mano sulle mie guance aveva stretto la presa, costringendomi a socchiudere la bocca.
La sua lingua era viscida. Mi faceva ribrezzo. Avrei voluto allontanarlo da me.
Dov’era finita tutta la mia risolutezza, tutta la mia volontà, la mia determinazione?
Era come con Phil? Gli avrei lasciato fare ciò che non volevo?
Passò il suo braccio dietro alla mia schiena e mi strinse al suo corpo. Io non reagivo. Non ne sentivo lo stimolo.
L’alcol mi annebbiava la mente. Era reale tutto ciò che stava accadendo?
Sentivo il calore fittizio irradiarsi dal mio stomaco lungo le vene. Capivo di non essere lucida.
Sentivo il suo cuore battere mentre la sua lingua cercava la mia. La tenevo nascosta dietro ai denti.
Poi però mi resi conto di come mi fossi vestita, di cosa dovesse aver pensato Jason vedendomi conciata a quel modo… e poi, in fondo, Jason non stava facendo niente di male.
Mi stava solo baciando. Stava baciando la ragazza che gli aveva chiesto di uscire.
E non era proprio quello che volevo io?
Fuggire da Phil? Vivere le esperienze delle mie coetanee?

 Si staccò da me per un istante.
< Quanto sei bella… provocante… > mi ansimò all’orecchio prima di cominciare a baciarmi il collo. Non interruppi quel contatto fastidioso. Mi imposi di non farlo. Volontà.
La sua mano sinistra scivolò sotto alla mia gonna e mi carezzò la coscia. Non reagii.
Ero immobile, fredda come una statua. Ma lui non pareva curarsene. Ricominciò a mordicchiarmi le labbra. Con la mano sinistra mi accarezzò prima i capelli poi la schiena.
Non mi accorsi di arretrare finchè la mia schiena non sbattè contro a un muro. Sussultai e, per lo spavento quasi non strillai.
Jason approfittò della mia bocca dischiusa per baciarmi, baciarmi per davvero.
Le nostre lingue si incontrarono.
Non mi piacque. Era umido, viscido… non aveva il sapore che mi ero immaginato, il sapore che speravo.
Prese la mia mano e la guidò sotto alla sua camicia, sulla sua pelle calda.
Quel contatto non mi suscitò nessun effetto particolare mentre percepii chiaramente il suo petto vibrare.
Anzi, l’idea di toccare la sua pelle mi faceva schifo.
Udivo i suoi mugolii di piacere nella mia bocca.
Sentii le lacrime addensarsi alle estremità degli occhi.
I ricordi si affacciavano prepotenti ai limiti della mia mente. Phil che mi buttava per terra, che mi strappava i vestiti, che mi toccava…
Ripensai a quello che mi aveva fatto.
Non dovevo lasciarmi schiacciare da quei ricordi.
Dovevo reagire e vivere senza perdermi nulla a causa sua. Avevo già perso troppo…
Fu quel pensiero a destabilizzarmi. Fu come se il mio cervello, per un attimo, si fosse scollegato dal resto del mio corpo.
Fu solo un istante lungo quanto un palpito ma tanto bastò perché gli restituissi il bacio.
Per la prima volta agii.
Portai entrambe le braccia dietro al suo collo e lo avvicinai ancora di più a me, stringendomi io stessa a lui. Fui io adesso a cercare le sue labbra come in preda ad una inspiegabile frenesia.
Le cercavo conscia che non avrei trovato ciò che in realtà mi aspettassi da quel contatto. Non era il sapore che credevo. No… assolutamente. Però, non me ne curai.
Compiaciuto, Jason mi baciò con più ardore, in un modo che rasentava l’osceno.
Ma dentro di me niente.
Non c’era calore. Non sentivo nulla sciogliersi dentro di me. Nulla mi scuoteva le viscere o scombussolava lo stomaco. Non stavo provando niente. Anzi, stava andando troppo per le lunghe. Dopo quel secondo irrazionale e senza spiegazione… basta. Il mio corpo non reagì più.
Mi stavo cominciando ad annoiare… oltre ovviamente a provare un discreto disgusto.
Lui no, non si stava annoiando e di certo non gli faceva schifo.
Mi poggiò una mano sui glutei avvicinando il mio bacino al suo. E in quel momento lo sentii, sotto la stoffa rigida dei jeans.
Sì, era decisamente al limite.
Fu quello, saperlo eccitato a causa mia, che mi bloccò del tutto.
Se prima non sentivo l’impulso a reagire, adesso non ci riuscivo più.
Mi ero bloccata. Era tutto troppo simile a…
Ma tanto, faceva tutto Jason. Non era necessario per lui che io agissi.
Nonostante la mia lingua si fosse fermata, la sua disegnava ancora ghirigori sulle mie labbra, sul mio palato…
Poi, proprio come lui aveva lo cominciato, lui pose fine a quell’assurdo bacio.
Ansimava, sudato. Con voce roca mi sussurrò:  < Oddio Bella… cioè, Marie… >
Stava ansimando. mi scoccò un rapido bacio sulla guancia e lo vidi correre verso il bagno dei maschi.
L’unica cosa a cui riuscii a pensare fu: “speriamo che si lavi le mani…”
Rimasi circa mezz’ora in quel corridoio deserto, seduta immobile. Ero crollata a terra.
Sentivo i rimbombi della musica, la testa mi pulsava, avevo un vago senso di nausea…

Jason mi trovò così, seduta a terra, con la testa tra le ginocchia.
Si inginocchiò accanto a me.
< Marie! Ero preoccupato. È mezzora che ti cerco. Pensavo fossi tornata in sala! Perché sei rimasta qui? > sembrava preoccupato.
Mi appoggiò la mano sulla spalla nuda.
Con lentezza esasperante alzai la testa dalle ginocchia e, fissando la sua mano sulla mia spalla, gli chiesi glaciale: < Ti sei lavato le mani? >
Arrossì furiosamente e balbettò un “sì, certo…” prima di aiutarmi ad alzarmi e guidarmi, tenendomi per il gomito, fino al nostro tavolo.

Ordinammo di nuovo da bere, questa volta solo per me. Lui doveva guidare.
Fu un grave errore.
L’alcol non mi faceva bene. Dopo aver svuotato il bicchiere, mi sentii malissimo. La testa stava per esplodermi e il mondo vorticava intorno a me; per non parlare del fatto che non sentissi più le gambe e che mi venisse da ridere senza motivo…
Convinsi Jason a riaccompagnarmi a casa. Quando vidi l’orario sul cruscotto impallidii. Erano le due. Provai a mandare un messaggio a Reneé e, vedendo che non ci riuscivo, Jason si offrì di scrivere sotto dettatura.
“Torno tra poco. A dopo”
Reneé, che doveva avermi aspetta sveglia, mi rispose di non preoccuparmi e che mi voleva bene.
Rischiai di vomitare nell’auto di Jason ma, fortunatamente, riuscii a trattenermi. Lui, preoccupato per la tappezzeria, parcheggiò vicino a un chiosco aperto 24 ore su 24.
< Marie, forse sarebbe meglio aspettare un po’. Non credo che tua madre gradirebbe vederti così. Sei ubriaca… >
Dubitavo che la strada ondeggiasse come appariva a me e per questo decisi di dargli retta.
Mi fece bere molta acqua e poi mi chiese se volessi riposarmi un attimo.
Annuii e lasciai che lui mi aiutasse a stendermi. Mi fece appoggiare la testa sulle sue ginocchia e prese ad accarezzarmi i capelli.
Chiusi gli occhi. Senza volerlo, mi addormentai. Non feci fatica, come mi succedeva di solito. Sicuramente era dovuto all’alcol eppure, ero pervasa da un senso di pace. I pensieri spiacevoli non mi assalirono come invece succedeva sempre.
Quella notte, non feci incubi.

 Quando mi risvegliai, ero sdraiata sul divano del salotto di Reneé, abbracciata a Jason.
Era ancora molto presto. L’oscurità aveva appena cominciato a diradarsi dietro i tetti delle case.
< Ah, ti sei svegliata finalmente. > mi disse tagliente.
Il suono tono mi ferì. Si alzò e andò verso la cucina.
Mentre si sistemava la camicia stropicciata mi domando con voce inacidita dalla rabbia:
< Si può sapere chi diavolo è questo Edward. Non hai fatto altro che chiamarlo tutta la notte. > e poi sparii in bagno, lasciandomi sola.
Da quel momento, non fece più domande, non pronunciò più il nome di Edward e si comportò come se nulla fosse accaduto, come se quella notte me ne fossi restata zitta e muta.
Io, da parte mia, feci lo stesso e da quel giorno mi sforzai di non parlare più di Edward in sua presenza anzi, cercai inutilmente di non pensarci più. Di reagire…

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** I’m wondering will I ever see another sunrise? ***


Salve a tutte! É ricominciata l’università e sono stata molto presa da tutto il normale quotidiano.
Devo studiare tantissimo e cercare di tenere il passo con i corsi nuovi. Sono sempre stanca e stravolta. Se mi vedeste, altro che vampiro! Mi direste che sembro uno zombie!!!
Comunque, vi ringrazio per i commenti che mi avete lasciato.
So che non si comporteranno bene i miei personaggi in questo capitolo…
La gente a volte reagisce in modo strano e Bella, dopo tutto quello che ha passato, è confusa e disorientata. Ha paura perché non riesce ad affrontare quello che le accade e, per cercare di tenere il passo degli eventi, si lascerà travolgere da una situazione più grande di lei.
Ma… come si lascia intuire dalla fine della prima parte… presto arriverà la cavalleria!
E non è solo un modo di dire.
No, Edward non farà come benigni… non arriverà a cavallo di un bianco destriero (L’ho visto al tg. Non seguo sanremo) perché in questa mia storia non è il principe azzurro.
Ma infatti, cosa vorrà Jane?
Per le maliziose… non quello!  

 Credo che posterò in settimana, magari nel week-end.
Devo ricontrollare quanto scritto fin qui. Sapete, sto scrivendo il punto cruciale e a votle devo cambiare qualcosa nei capitoli precedenti per essere coerente quindi ho sempre paura a postare perché, quello che posto non posso più cambiarlo (cioè, tecnicamente potrei ma non mi sembra corretto.)
Insomma, abbiate pazienza e pietà di questa povera scrittrice part-time futura disoccupata!
Per Con Ogni singolo battito del mio cuore, sto lavorando al finale e so che è da un po’ che lo dico.
Avete ragione… però, chi fra voi scrive saprà che, per quanto dispiaccia, non si può dedicare troppo tempo alle ff perché la vita, con i suoi doveri più che piaceri, chiama.
Sappiate che per  me scrivere è un piacere grandissimo e che amo farlo. Per questo devo entrare nel mood giusto. Non riesco proprio a impormi di scrivere nella mezzora libera. Ho bisogno di tempo ( e in questi giorni questo scarseggia… )
Per tutto questo vi chiedo scusa.

 
Ah, dimenticavo… Ma cosa succede in questo pazzo capitolo??
Chi è quell’uomo? Uomo? Mhm… certo che Bella le sventure non le attira, se le va proprio a cercare!
Povera Bella, violentata una volta, se la rischia di nuovo!
PS: Cosa succederà ad Edwad nel postribolo in cui ho trasformato il covo dei Volturi? Sì, sono peccaminosa... lo so. 

pps: piccolo regalo.... doppio POV 
Ho scelto questo titolo per esprimere la frustrazione, il dolore e i sentimenti di entrambi i protagonisti, spero di averli espressi anche nel testo.

Cap 21

 

I’m wondering will I ever see another sunrise?

 

Edward’s POV

 Entrai nei suoi appartamenti sbattendo la porta.
Superai Renata che, impassibile, rimaneva di guardia alla sua stanza e, senza badare alle ragazze che, nude, si rincorrevano tra le risate nel fruscio di veli.
Aro, sdraiato tra cuscini e lenzuola, abbracciava Jane, avvinghiata a lui in modo indecente. e coperta solo dai suoi capelli biondi disciolti sulle sue spalle e sul suo seno
< Figliolo, hai infine deciso di fruire dei piaceri che questi corpi giovani ci offrono? >
< No Aro. Ho necessità di parlarti. >
< Ti prego, giovane Edward. Non ho la disposizione d’animo adatta per ascoltare le tue lamentazioni in questo frangente. >
< Non mi interessa. Ho bisogno di comunicarti una mia necessità. >
Battè le mani e le ragazze cessarono immediatamente il loro gioco e si sedettero nel preciso punto in cui si trovavano. 
Marion, quella bendata, alzò con il mignolo maliziosamente la fascia che le copriva gli occhi. 
Sentivo i loro pensieri. Infastidite per la mia interruzione posta al loro gioco, interessate per il mio arrivo.
< Beh… ragazzo. Ci hai interrotto. Ora rendici noto anche il motivo. >
< Preferirei discorrerne in privato. >
Sentivo quanto aro fosse seccato. 
Con un gesto annoiato della mano congedò le sue giovani amice che, fra i risolini, si coprirono con i veli e si allontanarono rivolgendomi sguardi ammiccanti.
Seccata, Jane fece per alzarsi ma Aro la trattenne.
< Tu resta pure, piccola. > Lei parve compiaciuta e lo abbracciò, cingendogli la vita.
< Allora? Cosa volevi comunicarmi? >
< Devo tornare a casa. >
< Non se ne parla neanche. >
< Non è una richiesta. >
< Cosa intendi dire? Vuoi forse andartene? Pensi che te lo permetterei? >
Cercai di schiarirmi la mente, per evitare di apparire troppo arrogante.
< Aro, ho bisogno di tornare in America. te lo giuro, tornerò qui. Lasciami qualche giorno. Se mi lasci partire, sarò il più fedele dei tuoi servitori. 
Sai che non posso mentirti. >
< Edward… perché dovrei privarmi dei tuoi servigi? >
< Perché, se mi concedessi questo atto di benevolenza, io sarei in debito con te. E potrei essere molto abile nello sdebitarmi. Avresti la mia gratitudine. Sai che adesso eseguo i tuoi ordini perché obbligato. Se mi lasciassi partire, mi sentirei in debito verso di te. Se invece mi costringessi con la forza a restare, non riuscirei a sfruttare a pieno le mie capacità cognitive perché la mia mente sarebbe costantemente rivolta altrove. Sarei un servo riottoso, invece che un fedele e devoto collaboratore. Riflettici. >
E, senza aggiungere altro, lasciai velocemente le sue stanze. Con la mente vagliavo i suoi pensieri.
Accarezzava lentamente la schiena di Jane mentre lei gli mordicchiava il collo.
Lo vidi vagliare tutte le possibilità…
Quando la sua mente tornò alle giovani vampire che aveva richiamato nella stanza, capii che non voleva che leggessi i suoi pensieri e, esasperato, tornai ai miei appartamenti.
Non avrei dovuto essere così sgarbato. Sperai di non averlo indisposto troppo nei miei confronti. Ero stato troppo avventato. Quel colloquio non era andato come sperato. L’unica nota positiva consisteva nell’essere riuscito ad evitare il contatto fisico. Se mi avesse preso la mano avrebbe saputo nei dettagli tutto ciò che avevo sentito al telefono. In quel modo, ero riuscito a preservare Alice. Speravo che, nel tempo che, in ogni caso ero riuscito a guadagnare, lei sarebbe riuscita a mettersi al sicuro.
Rimasi seduto in camera mia a pensare per ore ma nessuno venne a chiamarmi. Nessuno bussò alla mia porta per giorni mentre, immobile, non potevo far altro che macerarmi nell’afflizione.
Sapevo che, finchè ci fossero stati Esme e Carlisle, Bella sarebbe stata al sicuro, ma dopo?
Passarono i giorni e l’arsura nella mia gola mi impediva di rimanere lucido. Da quando ero a Volterra mi nutrivo con meno frequenza. Per cibarmi di animali era infatti necessario che mi allontanassi dalla cittadella e questo significa allontanarmi da Aro. Cosa a lui non molto gradita e a me concessa solo sotto la sorveglianza di alcune delle sue guardie. Loro, durante le mie battute, non facevano altro che deridermi per il mio regime alimentare.
Era passato troppo tempo dall’ultima volta che mi ero nutrito. Non riuscivo più a gestire la situazione. I miei pensieri vagavano su Bella, e spesso in preda ad una sorta di delirio che, come se fossi stato in una crisi di astinenza, mi portava a distruggere tutto non potevo fare a meno di crucciarmi per lei.

Sapevo che, quell’isolamento,era una punizione che Aro mi riservava a causa della mia arroganza. Nessuno era venuto a chiamarmi. E non potevo  uscire se non “invitato” da Aro. trentotto giorni dopo, quando ormai non riuscivo più a tollerare la tensione e la sete, Jane fece il suo ingresso trionfale nella mia stanza…

Bella’s POV

 Jason stava diventando pedante. Voleva sempre stare con me. Non gli bastavano più le ore al corso di musica.
Mi veniva a prendere tutte le sere, mi portava ogni sera in un locale diverso facendomi provare sempre qualcosa di nuovo.
Vodka-pesca-Lemon, Maracuja-vodka-sour, Daiquiri, Mai-thai, Sex-on-the –beach, black-russian, caipiroska…
Ogni sera mi riaccompagnava a casa e io facevo fatica a camminare diritta.
In auto mi abbandonavo alle sue mani senza provarne piacere. Lo lasciavo fare solo perché speravo che mi aiutasse a dimenticare. Volevo che le sue mani allontanassero il ricordo di quelle di Phil. Di Phil che mi aspettava sempre sveglio,che mi fissava schifato. Considerava il mio abbigliamento lascivo e il mio comportamento disdicevole. Ma io lo facevo solo per allontanarlo da me.

Uscivo con Jason per non rimanere a casa con lui. Per cancellare il ricordo delle sue mani sulla mia pelle.
Ma ciò non era possibile…
Per questo, ogni volta che Jason si avvicinava a quello che avevo imposto come limite massimo, io mi allontanavo, mi sottraevo.
Non volevo arrivare fino a quello… non me ne sentivo pronta.
A Jason questa mia ritrosia non piaceva. Come non gli piaceva il fatto che io mi rifiutassi di toccarlo. Non prendevo mai l’iniziativa e non lasciavo mai che si spingesse troppo in là.
Pensava che fossi troppo rigida, però gli piacevo e continuava a provarci…
Avevamo cominciato a uscire anche con i suoi amici, andando per locali insieme a loro.

 Una di quelle sere, dato che ci riaccompagnava un suo ex-compagno di liceo, anche Jason si diede all’alcol. Non fu una grande idea da parte sua.
Si ritrovò infatti riverso nel bagno a vomitare l’anima.
Dopo un quarto d’ora di singulti, decisi di concedermi una pausa. Tanto la mia presenza era totalmente superflua.
Uno degli amici di Jason mi vide e mi venne vicino. Lo avevamo incontrato al pub e si era unito a noi.
< Marie, stanca di fare l’infermierina? >
Annuii indifferente. Loro mi conoscevano così, come Marie…
< Ti va una sigaretta? >
< Non fumo, grazie. >
< Beh, accompagnami allora. Tanto, Jason ne avrà ancora per un po’. Così mi tieni compagnia.  >
Il mio istinto mi diceva di no,di non seguirlo. Lo conoscevo a malapena.
In realtà, non era neanche un amico di Jason. Si erano conosciuti appena qualche sera prima in discoteca. Cosa ne sapevo io di questo ragazzo?
Assolutamente nulla.
Però non volevo essere scortese, di fare quella che sa sempre sulle sue e non da confidenza mai a nessuno, di sembrare quella che si sente superiore, e decisi di accompagnarlo.
< Va bene. >  sorrise soddisfatto della mia risposta e mi fece strada.

Uscimmo dalla porta sul retro e ci ritrovammo in uno squallido vicolo denso del vapore che usciva dalle cucine dei locali. Una vecchia auto era stata parcheggiata là chissà quanto tempo prima.
Il ragazzo sembrava totalmente a suo agio mentre io, in minigonna e top, stavo congelando. Gli stivali con i tacchi mi facevano male ai piedi e la testa aveva ricominciato a pulsare. L’alcol mi rendeva lenta nei movimenti. Cercò di intavolare una conversazione senza suscitare in me un particolare interesse. Io ODIAVO il baseball.
Per fortuna la sigaretta si era quasi esaurita. Stavo cominciando a rimpiangere il caldo affollato del locale, la musica assordante…
< Beh, rientriamo? > gli chiesi dopo che lo vidi spegnere la sigaretta sul muro.
< Hai fretta di raccogliere vomito? >
< No! Certo che no! Io non pulisco proprio niente! >

Mi si avvicinò in modo pericolo. Sentii uno strano movimento nello stomaco. Ecco, ero proprio un’idiota.
Arretrai per evitare il contatto fino a che la schiena non sfiorò il muro di mattoni dell’edificio dietro di me.
< Senti, io voglio tornare dentro. > sibilai con voce ferma, cercando di apparire sicura di me.
< No che non vuoi. Hai voglia di divertirti ma hai capito che lui non può darti ciò che vuoi. Però potrei aiutarti io. >
Poggiò una mano sulle mie costole, sotto al seno, come volesse bloccarmi. L'altra mano scivolò sotto la mia gonna.
Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata. La sua mano si strinse prepotente sulla mia coscia. Provai ad allontanarmi.
< Senti, non so che idea ti sia fatto ma non ho voglia di niente. E l’unica cosa che potresti fare per me è levarti di torno e lasciarmi andare. >
Ero leggermente ottenebrata dal cocktail che avevo bevuto e la mia reazione fu troppo lenta.

Senza che potessi fare nulla, mi accorsi delle sue mani sulle mie spalle. Mi teneva ferma al muro. Cercai di divincolarmi e lui provò a baciarmi. 
Voltai la testa e lui mi leccò la guancia. stavo male. non riuscivo a respirare. vedevo coriandoli luccicanti ovunque mentre un nero inquietante guadagnava spazio ai bordi del mio campo visivo.
< Dai, non fare la difficile. Sei così carina. >
Reagire… reagire… 
le parole di Carlisle mi martellavano in testa.
Gli pestai il piede e fu costretto a lasciarmi andare. < Ma sei cretino? > gli urlai passandomi orripilata la mano sulla guancia.
Prima che potessi andare verso la porta mi afferrò con forza il braccio, sbattendomi sul cofano della macchina.
< Prima mi dici che ci stai e poi ti tiri indietro? Ma a che gioco stai giocando? > mi urlò con rabbia.
Calma, dovevo mantenere la calma.
< Io non ho mai detto nulla e ora, per piacere, lasciami andare o mi metto a urlare. >
< Cosa credevi che volessi fare qui fuori? Giocare a carte? Mi pigli per il culo o sei scema? >
Sentii il suo corpo poggiarsi sul mio, togliendomi il fiato per il peso. Infilò una mano sotto al top. < Pensi che qualcuno potrebbe sentirti, con la musica e  tutto il resto? >
L’altra sua mano era scivolata sotto alla mia gonna.
< Lasciami andare. Io non voglio. >
< Sì che vuoi, altrimenti non ti conceresti a quel modo! >
< NO, non voglio! >
Quando mi sfiorò gli slip, decisa a non lasciarmi sottomettere come era successo con Phil, gli sferrai un potente calcio che lo fece boccheggiare.
Ma non fu per quello che si allontanò da me.
… No…
Qualcuno lo aveva afferrato per il collo e lo aveva allontanato con la forza.
La figura oscura, celata dalle ombre, parlò. < Hai sentito la signorina? Lei non vuole. >
La voce profonda e suadente dello sconosciuto mi fece accapponare la pelle.
Era al contempo affascinante e inquietante, seducente e minacciosa.
Vidi il ragazzo tentare di allentare la presa sul suo collo. Le dita gli tremavano.
< No-non resp-iro > Vedevo i suoi piedi agitarsi convulsi nel vuoto.
< Non è necessario che tu lo faccia… >  disse l’ombra, persuasiva, tenendolo sollevato da terra. Lo stava soffocando.
Io nel frattempo dal cofano ero scivolata per terra. Tremavo e non riuscivo a muovermi.
Sentii gli occhi dello sconosciuto su di me.
Nel silenzio che si era creato, disturbato solo dai singulti agonizzanti del mio aggressore, si udì un suono raccapricciante. Il rumore di ossa che si frantumano. 
Poi il silenzio.
E il ragazzo smise di dimenarsi.
Gli aveva spezzato il collo.
Avrei voluto urlare, alzarmi e scappare… ma non ci riuscivo.
Questa situazione andava oltre a tutto ciò su cui potessi anche solo vagamente mantenere il controllo.
Non riuscivo a fare altro che fissare l’enorme ombra scura avvicinare la bocca al collo innaturalmente piegato del ragazzo.
Nel silenzio riconobbi un suono orribile. L’assassino stava succhiando, avido.

 Innaturalmente statica, la figura scura continuò a succhiare fino a quando non lasciò andare il corpo che cadde riverso a terra a pochi metri dai miei piedi.
Ciò che aveva fatto era abominevole. Ero incappata in maniaco psicopatico…
< Bene, e ora, signorina, se non le dispiace… >
E si piegò su di me.
Sentii le sue dita innaturalmente fredde e dure accarezzarmi il viso, sfiorarmi i capelli, scostarmeli per poter vedere la pelle del collo.
Avvicinò le sue labbra e le poggiò sulla mia pelle.
< Il tuo sangue ha un buon profumo… sai di fiori. >
Chiusi gli occhi. Il dolore pulsante alla testa era atroce. Non riuscivo a pensare.
Mi stava per uccidere e non riuscivo a pensare ad altro che al dolore tremendo che mi crivellava la testa.
“sai di fiori” “il tuo sangue ha un buon odore” …
Al corso di autodifesa, a scuola, ci avevano insegnato che se venivi aggredita dovevi cercare di instaurare un rapporto con l’aggressore. Sfruttare l’empatia, dargli corda e lasciarlo parlare. Il tutto per guadagnare tempo finchè qualcuno non si fosse accorto che eri in pericolo… valeva anche per gli assassini?
E intanto nella testa rimbombavano echi lontani… “Il tuo sangue ha un buon profumo… come di fresia…” “sai di buono, di fiori” … “Fresia”
Le mie labbra  si mossero da sole.
 < Fresia. >
< Come scusa? >
< Sa di fresia, vero? Il mio sangue… >
Sorpreso che avessi parlato, avvicinò il naso dritto alla mia giugulare e ispirò profondamente.
Ridacchiò, colto alla sprovvista. < Sì, hai ragione. Sembra proprio fresia. Te lo dirò con certezza dopo che lo avrò assaggiato… beh, tu sarai morta, ma non importa. >
Dovevo fare qualcosa, qualcosa che lo fermasse, ma non mi veniva in mente niente.
Con voce perentoria dissi: < Fossi in te non lo farei. >
< E perché no? Se no cosa mi farai, piccola ragazzina? >
Nulla. Quella era la risposta.
 Era finita.
Sebbene non volessi, quando chiusi gli occhi vidi Edward.
Era stupido, infantile, sbagliato… eppure avrei voluto vederlo un’ultima volta, sebbene sapessi che non mi amava più.
Schiuse le labbra e sentii i suoi denti freddi lambirmi in modo sensuale la pelle della clavicola.
Mi resi conto che tutto ciò che avevo fatto nelle ultime settimane non era stato per dimenticare ciò che mi aveva fatto Phil, ma Edward.
Io non volevo essere abbandonata.
E non volevo neanche morire in quel lurido vicolo.
Volevo Edward.

E allora dissi la prima cosa che mi passò per la mente.
< I Volturi lo sapranno. >
Si immobilizzò di colpo, allontanandosi da me emettendo un basso sibilo.
< Cosa stai dicendo? > urlò terrorizzato.
E che diavolo ne sapevo io di cosa stavo dicendo. Non ne avevo la più vaga idea… però, data la sua reazione, decisi di continuare.
< Te l’ho detto. Puoi anche uccidermi ma loro lo sapranno. E non ne saranno contenti. Ti cercheranno e ti troveranno. E allora ti pentirai di avermi uccisa. >
Stavo dicendo parole a vuoto ma sapevo che erano quelle giuste da dire. Lo sapevo perché l’uomo che mi aveva aggredita era totalmente nel panico.
< Ma come… tu… sei solo un’umana! Ma… > poi cercò di darsi un contegno e, con il tuono suadente e vellutato che aveva usato fino a poco prima, riprese: < Mi scusi. Avrebbe potuto avvisarmi prima della sua posizione. Spero che l’incidente occorso al suo accompagnatore… > e indicò il corpo senza vita dell’amico di Jason < Non mi procurerà delle noie con i nostri amici italiani… >
Terrorizzata, feci cenno di no e lui mi parve molto rinfrancato, tanto che aggiunse: < In realtà, vedendo che la stava molestando, ho deciso di accorrere in suo aiuto. >
Sì, come no. E l’aiuto comprendeva uccidermi e dissanguarmi?
< Ora con permesso… non vorrei che quegli insulsi umani…  > poi mi guardò e disse:
< Senza alcuna offesa verso di lei, madmoiselle… Come le dicevo, non vorrei che capissero come il nostro sgarbato amico sia passato a miglior vita. >
Ed estrasse con mano tremante una boccetta da un marsupio. Ne versò il contenuto sul corpo, poi vi diede fuoco con un fiammifero.
Nei bagliori delle fiamme riuscii a distinguere solo un volto pallido dai lineamenti nobili e duri e gli occhi.

Degli occhi di un rosso impossibile.

Saltò sul cassonetto della spazzatura e da lì al tetto con una grazia e un’agilità inverosimile.
Un secondo dopo quell’uomo si era dileguato.
Con occhi sbarrati fissavo il punto in era sparito. Ben presto gli occhi cominciarono a bruciarmi a causa del fumo. Un odore acro mi investì.
Carne bruciata, capelli bruciati. Fiamme rosse e blu danzavano davanti a me, pericolosamente vicine… ma non riuscivo ad allontanarmi. Vedevo il corpo del ragazzo orrendamente distrutto, sciolto, arso. L’odore era atroce. Mi ritrovai voltata su un fianco a vomitare. Cercai di racimolare un briciolo di forza per trascinarmi via ma non ci riuscivo. Mi graffiavo le gambe nude contro l’asfalto mentre il calore si faceva sempre più vicino.
Non riuscivo più a vedere nulla, accecata dai fumi corrosivi della benzina.
Non riuscivo a respirare e sentivo il mio petto comprimersi per colpa dell’accesso di tosse.
 

Spaventati dall’allarme anti-incendio, i gestori dei locali si affacciarono sul vicolo.

 La gente accorse, chiamarono i pompieri e l’ambulanza. Arrivò persino la polizia. Si precipitarono verso di me, trascinandomi via dal punto in cui le fiamme divoravano le carni del ragazzo che mi aveva aggredita.
Una poliziotta e dei paramedici  mi aiutarono a sdraiarmi sulla lettiga. Mi portarono in ambulanza.
Facevo fatica a respirare. Mi ero graffiata e tagliata…
Sulla mano e sulla gamba sinistra c’era una piccola ustione.
Jason, che nel frattempo pareva essersi ripreso, mi corse incontro.
I poliziotti non volevano che mi si avvicinasse ma lui disse di essere il mio ragazzo e loro lo fecero passare.
Avrei preferito che fosse restato a vomitare.
Non volevo vedere nessuno. La testa mi stava per esplodere….
Tra tutti quei fastidiosissimi suoni che si sovrapponevano sentii una dottoressa avvisarlo:
< La signorina è in stato di shock. Ha subito un grande spavento. Forse è rimasta intossicata.  Dovremmo portarla in ospedale. Non è riuscita ancora a parlare… Il ragazzo è stato ucciso e bruciato proprio davanti a lei… >
Jason si avvicinò a me e mi prese le mani. Era pallido. Mi domandò:  < Stai bene? >
non riuscivo a rispondergli. Gli fissavo gli occhi. I suoi erano normali… non rossi.
< Marie? Stai bene? I poliziotti vorrebbero sapere cosa hai visto, cosa è successo… >
Mi sforzai di rispondere e alcuni poliziotti mi si assieparono intorno, intenti ad annotare ogni mia parola. i paramedici insistevano per portarmi via ma loro non glielo permisero.
Li sentii dire all’infermiere: < Se non è in pericolo di vita, lasciatela qui. Deve assolutamente raccontare cosa ha visto. La porterete via dopo.  Questo è già il quinto caso in tre mesi. È l’unica testimone. L'unica ad essereuscita viva da... 
Forse se riusciamo a farci dire qualcosa, riusciremo a prendere quei bastardi. >

Poi si rivolse a me chiedendomi di raccontare tutto ciò che fosse successo.
Inventai quella che mi parve l’unica storia credibile. 
Si era avicinato, aveva un coltello.
Urlava,  chiedendo soldi. Aveva aggredito il mio "amico" che fumava. Lo aveva sgozzato. cercai di non pensare al sangue e continuai dicendo che poi (ed era quella la parte più assurda) con una bottiglietta aveva cosparso il ragazzo di un liquidoa cui aveva poi dato fuoco. troppo terrorizzata, non avev guardato da che parte fosse fuggito.
No. non lo avevo guardato in faccia.
no, non avrei potuto fare un identikit. 
Corporotatura? media.
Altezza? media.
Voce? maschile.
Accento? nessuno.

Furono queste le mie risposte alle loro domande. Di certo, la verità mi avrebbe fatto passare per pazza. E poi, sentivo che non dovevo parlarne, che era troppo pericoloso.
Loro presero nota di ogni parola. Volevano portarmi in questura. 
I paramedici in ospedale. 
Io supplicavo tutti di lasciarmi andare a casa.
< No, per favore. Sto bene adesso. Voglio solo tornare a casa. Non ho bisogno di andare in ospedale. Ora sto bene. Non mi fa più male la gola e non mi bruciano più gli occhi.>
I paramedici  non mi sembrava troppo felice ma, dopo circa mezz’ora la dottoressa che mi aveva medicato le bruciature e le escoriazioni (che mi ero procurata durante la colluttazione e la caduta) diede il suo beneplacito perché mi portassero in questura.
Disse che non poteva portarmi in ospedale se non volevo e, dato che sembravo stare bene e i miei parametri erano tornati normali, mi fece riempire un sacco di moduli.
Su quei fogli di carta  si attestava che rifiutavo di andare in ospedale in piena coscienza e che me ne assumevo tutti i rischi.
Mi presero in custodia i poliziotti. Avrei voluto andarmene ma con loro non bastava scrivere il mio nome e la mia firma su degli stupidi fogli.
Fui costretta ad andare in questura.  Jason volle seguirmi.
Lui intanto aveva chiamato mia madre. I poliziotti parlarono anche a lei e le dissero di andare direttamente in questura, che mi avrebbe trovata lì.

 Io, per tutto in tragitto, non ascolta né Jason né le rassicurazioni della polizia.
< Non devi avere paura, ora sei al sicuro… > continuavano a ripetermi come se fosse un mantra.
Ma io guardavo i tetti e pensavo a quel mostro dagli occhi rossi.
Ne ero rimasta terrorizzata e affascinata al contempo.
Io non lo conoscevo e lui non conosceva me, tanto che voleva uccidermi, ma c’era qualcosa di familiare nei suoi modi, nella sua agilità… qualcosa che mi attraeva.
E poi, perché le mie parole lo avevano terrorizzato a tal punto da farlo fuggire e lasciarmi salva la vita?

Volturi… volturi… non riuscivo a pensare ad altro, sebbene quella parola non mi dicesse assolutamente niente.

 

 

Bhe… insomma… spero vi sia piaciuto.
Ci vediamo nel week-end!
Spero sarete numerose

PS: Cosa ve ne è parso del palazzo di Volterra stile lupercale? insomma... i Volturi io me li sono immaginata così. quando sei immortale in fondo... hai un sacco di tempo libero e taaanteee energie...
Spero di essere  riuscito a descrivere la loro "corte in modo educato, provocante e inquietante al punto giusto.  Volevo rendere bene i sentimenti di Edward in un tale "contesto" a lui così estraneo.
E poi, volevo andare un po' cotnro alla fin troppo puritana Meyer! E in futuro... beh, questa è un'altra storia! fra un paio di capitoli le caste scene della Meyer potrete dimenticarle!

 PPS: Per le amanti (Purtoppo per noi non in senso letterale) di Edward... visto che lei Jason lo odia? Eh eh eh

Un bacio e a presto,

Erika

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** He says: close your eyes. Sometimes it helps. ***


cap ultimo

Permettetemi una premessa. Lascio ciò che ho scritto ieri notte mentre preparavo il capitolo ma aggiungo una piccola nota:

In questa storia, ambientata in quel mondo ai confini della realtà che è stato creato da Stephenie Meyer, ho cercato di andare oltre la storia di amore e "sfruttare" i personaggi di Twilight  per raccontare anche quelli che purtroppo sono troppo spesso i risvolti drammatici di realtà apparentemente felici. la violenza si nasconde nelle case e colpisce donne e ragazze. io ho provato a raccontare una storia che raccontasse anche della sofferenza di chi è vittima della cieca violenza di persone crudeli.
ma l'immaginazione non è niente in confronto alla realtà. e in QUESTO mondo, quello reale, i mostri veri esistono. 
non indossano mantelli neri nascondendosi nella notte ma sembrano persone normali e si camuffano nascondendo le loro perversioni a chi li conosce. 
rapiscono ragazzine e le abbandonano nei prati come fossero spazzatura, come fossero qualcosa che non merità nemmeno la pietà che si riserva ai morti. 

spero davvero che, chiunque sia, paghi per ciò che ha fatto, per il dolore reiterato che ha inflitto alla famiglia, per il vano dolore che ha inflitto alla povera Yara prima e mentre la privava della vita.

Non riesco a capire come possa alzarsi ogni mattina e guardarsi allo specchio, come faccia a rendere conto alla sua coscienza di ciò che ha fatto. mi auguro che si renda conto che una persona come lui non potrà mai ricevere nè meritare perdono dalla società, dalla famiglia... dalla sua vittima.

ora vi lascio a ciò che avevo scritto.

Care Lettrici,
Sono molto lieta di postare questo nuovo capitolo nei tempi pattuiti!
Ringrazio le 10 ragazze che hanno selezionato quel piccolo tasto con su scritto “recensisci questo capitolo” e spero che molte altre faranno lo stesso!
Ringrazio chi ha letto e chi leggerà anche questo mio nuovo capitolo.
E con questo si chiude la prima parte della storia perché…
Ci vediamo settimana prossima?
Spero di riuscire a postare giovedì, al più tardi sabato. ( l’università nuoce gravemente al tempo libero! )
  

Cap 22

 

He says: close your eyes. Sometimes it helps.
Dice: chiudi gli occhi. Qualche volta aiuta.

 Bella’s POV

 Reneè ci raggiunse alla stazione di polizia dopo un’ora l’incendio. Era molto preoccupata.

< Isabella! > gridò quando mi vide. Una poliziotta mi aveva dato una coperta e del the caldo.
< Oddio, piccola, cos’è successo? >
All’inizio non riuscii a fare altro che abbracciarla, grata di essere ancora viva poi le ripetei la stessa storia che avevo rifilato alla polizia.
< Oh mamma! Avevo accompagnato quel ragazzo a fumare e un uomo si è avvicinato. Ci ha chiesto i soldi. Aveva un coltello. Lui non voleva darglieli e allora… 
ho avuto tanta paura che uccidesse anche me. > pensai che fosse il caso di scoppiare a piangere, tanto per dare un tocco di classe alla sceneggiata.
Reneè mi massaggiò la schiena e mi disse: < Tesoro, adesso ti riporto a casa. Hai già firmato la deposizione? E hai fatto l’identikit? >
Annuii, desiderosa di andarmene.
Reneé si alzò in piedi e cercò qualcuno che l’aiutasse. Rimase a parlare a lungo con un ufficiale. Quando tornò da noi, sembrava molto sollevata.
Riempì un sacco di scartoffie, ringraziò la polizia e mi portò via.
Jason venne con noi. Reneé diceva che dopo quello che era successo non se la sentiva di saperlo in giro da solo, e poi, stando a lei, era ormai mattina.

Guardai l’ora. Erano le 5 di mattina. Tremai. Mi sembrava fossero passati appena pochi attimi da quando quegli occhi rossi mi avevano fissata intensamente, terrorizzati.
Reneé spezzò il silenzio e disse che Phil era rimasto a casa con il piccolo. 
Poi, per rassicurarmi, aggiunse: < Non preoccuparti, piccola. Ho parlato con il procuratore di turno. 
Mi ha detto che basta la tua deposizione. Non dovrai più andare alla polizia. A meno che non sia strettamente necessario >
Sussultai. Lei pensò fossi terrorizzata e si affrettò ad aggiungere: < Non sospettano di te… sta tranquilla. 
Sfortunatamente non è il primo omicidio di questo tipo. >poi si sporse per accarezzarmi e i suoi occhi si velarono di lacrime. 
< Questa è però la prima volta che qualcuno si salva… >  Io non le risposi. Sentivo ancora quegli occhi rossi  fissarmi nell'oscurità. mi facevano  paura.

 Arrivati a casa, mi accompagnò in camera mia. Disse a Jason che poteva dormire nella stanza degli ospiti e poi tornò da me. Jason preferì rimanere sul divano. Reneé si sedette vicino a me.
Era così bello averla vicina. Mi accarezzava le guance, la fronte. Baciò la mia mano sopra la benda che copriva la scottatura.
 < Bella, piccola, mi dispiace che ti sia accaduta questa brutta faccenda. Deve essere stato orribile. Ma ci sono qui io. Io sarò sempre vicino a te. Capito? 
Qualsiasi cosa ti turbi, devi parlarmene. Intese? >
Non riuscivo a sostenere il suo sguardo. Mi sentivo colpevole. Io l’avevo tradita. Non le avevo detto nulla di ciò che davvero mi angosciava. Non le avevo rivelato nulla. Mai. Ero sempre stata troppo codarda. I farmaci, il mal di testa, Phil… mi ero sempre tenuta tutto per me. 

E quando aveva trovato il test di gravidanza negativo nella pattumiera, era venuta da me preoccupata.
Mi aveva chiesto se volessi andare da una ginecologa, se avessi bisogno di qualcosa. 
Mi aveva fatto una imbarazzante ( e inutile ) lezione di educazione sessuale e poi mi aveva abbracciato,  tenendomi stretta a sé e dicendomi che ai suoi occhi sarei sempre stata la sua bambina..
Quella stessa sera, andando a letto, avevo trovato una confezione di preservativi sotto al cuscino, avvolti in un completino intimo di seta nuovo di zecca.
Un regalo per me perché pensava di farmi un piacere.
Sapevo cosa volesse dirmi. Che era contenta se io ero felice, se io avevo una vita piena e appagante anche dal punto di vista fisico.

In realtà non aveva capito niente e io non avevo trovato il coraggio di dire nulla. 
Mi ero limitata a nascondere il completo e a buttare i preservativi nella spazzatura nel vialetto, macerandomi nel dolore del silenzio.
Adesso lei, con le occhiaia viola, era seduta sul mio letto e mi teneva la mano, aspettando che mi addormentassi. Mi cantava una nenia e mi carezzava i capelli.
Non volevo deluderla, non volevo sgretolare il mondo che si era creata.
Per questo motivo non le dissi di Phil, né che avevo smesso le medicine, né di quello vedevo nella testa… né di ciò che era avvenuto realmente quella notte.

 Quando mi risvegliai, ero sola nella stanza. Era ormai giorno e la luce mi sferzava gli occhi.
Mi alzai e andai in bagno poi scesi in sala, dalla quale sentivo provenire un vocio intenso. Jason era lì con sua madre. Stavano parlando con Reneè, che teneva il piccolo Owen stretto tra le braccia.
Jason mi venne incontro e mi presentò a sua mamma. Io la salutai educatamente poi Jason mi prese da parte.
< Marie, mi dispiace così tanto. È tutta colpa mia. Non lo sapevo. Scusami. >
< Jason, calmati, ti prego. Come puoi pensare che sia stata colpa tua? >
< Hai rischiato di morire? Te ne rendi conto. >
Sollevai le spalle e lui mi fissò scandalizzato.
< Ma non sei terrorizzata? >
< Beh, non è la prima volta. >
< Ma tu sei tutta pazza! > poi mi prese la mano e mi disse: < Davvero, non lo sapevo. >
< Cosa? >
< Lui, quello ucciso. Oggi ha chiamato qui la polizia. Lo hanno identificato. Era un mezzo delinquente. Precedenti come aggressione, furto…
Pensano che l’aggressione fosse mirata a lui. Una sorta di regolamento di conti. E tu hai rischiato di rimanerne coinvolta! 
Anche tutti quegli altri uccisi… erano tutte persone con precedenti.
Visto che non hanno mai trovato niente, credono che sia stato fatto da un professionista. Un sicario.
Oddio, Marie, ti ho esposta io a questo pericolo. Non dovevo lasciarti sola con lui. >
< Jason, eri piegato sul water a vomitare… non è colpa tua. E poi, sono stata io una stupida ad accompagnare qualcuno che non conoscevo. >
Senza preavviso, mi strinse tra le braccia e mi baciò. Non gliene fregava niente che le nostre madri ci stessero guardando? Io come al solito, lasciai fare tutto a lui. Passiva, lasciai che le sue mani si posassero sui miei fianchi.  
Quando pose termine al bacio, mi sussurrò all’orecchio: < Marie, mi dispiace tanto. Ti amo. > poi mi diede un lieve bacio sulla guancia e raggiunse sua madre.
Portai la punta delle dita alla guancia, là dove mi aveva sfiorata.
Aveva detto che mi amava. Ma io? Cosa provavo per lui? Amore? No, no di certo.
Io, io non lo amavo.
In che cavolo di pasticcio mi ero andata a cacciare?

 

Trascorsi i giorni seguenti a casa. Non volevo vedere nessuno. Reneé pensò che fosse una conseguenza dello shock e non mi fece domande.
Non volli rispondere al telefono. Nemmeno a Charlie che, come ogni sabato, mi telefonava per sapere come stessi. 
Mamma non lo aveva avvisato perché temeva che Charlie, terrorizzato, si precipitasse a Jacksonville. 
Reneè era in maternità e rimase sempre con me in casa. E questo fu un bene perché non volevo restare sola con Phil. Ero felice lui perché sarebbe partito presto.
Doveva andare in trasferta con una squadra. Non vedevo l’ora che partisse. Se la squadra era forte, sarebbe stata una cosa lunga. 
Un campionato attraverso un sacco di stati significava un’assenza prolungata. Non potevo desiderare altro.

Jason, da parte sua, venne a trovarmi spesso e alla fine riuscì a convincermi ad uscire.
La mia condizione era però che mettessimo fine ai pub.
Cinema, ristorante, teatro… queste cose qui andavano bene. Il resto preferivo evitarlo.
Volevo archiviare il capitolo alcol; non era stata una bella esperienza.
 
Stare con lui diventava sempre più faticoso. Mi annoiavo. 
Era sempre più difficoltoso per me stare ad ascoltarlo, far finta di essere interessata alle cavolate che mi diceva.
Non riuscivo ad aprirmi con lui, a renderlo partecipe di ciò che realmente provavo, a parlargli dei miei dubbi, delle mie paure.
Non riuscivo a sfogarmi con lui come invece avrei voluto e avrei fatto se lo avessi amato.
Lo sentivo distante. Quando stavo con Edward, mi sembrava così naturale parlargli… anche delle cose più intime. Con Jason, invece, non riuscivo ad essere me stessa.
Ci provavo, ma non era semplice.
Cercai di essere un po’ più partecipe, almeno quando ci baciavamo, ma era tutto inutile.
Sebbene mi sforzassi, non riuscivo a provare niente di intenso verso di lui.
Il mio stesso corpo non reagiva come avrebbe dovuto. Mi sentivo come congelata… però cercavo di far finta di niente. Cercavo di mostrarmi coinvolta in questa relazione.
In fondo, a Jacksonville, non avevo nessun altro all’infuori di lui.

 
Una sera, il giorno dopo la partenza di Phil, mi propose di andare a casa sua. 
Disse che aveva voglia di qualcosa di speciale. Accettai convinta di trovarci la sua famiglia e invece scoprii che Jason era a casa da solo. 
Mi disse che i suoi erano partiti per un week-end e che gli avevano lasciato la casa libera. Cattivo segno.
Mi fece strada mostrandomi la sua bella casa.
Arrivati in cucina, trovai la tavola apparecchiata.
< Ti ho preparato la cena. Sai, volevo organizzare qualcosa di diverso. >
Fece partire un cd di musica e mi fece accomodare.
Notai che nella pattumiera c’era un sacchetto di una rosticceria con il cibo da portar via. Non dissi nulla,limitandomi a versarmi dell’acqua. 
Cominciammo a mangiare, in silenzio.
Era tutto buono ma non riuscii a gustarmelo. Mi sentivo in soggezione.
Continuavo a sistemarmi il vestito. Gli stivali mi stringevano i polpacci e avrei tanto voluto delle pantofole…
Mi spostai una ciocca dietro all’orecchio e lui disse: < Ti adoro, quando fai così… >
Imbarazzata, chiesi: < Così come? >
< Come ti sistemi i capelli, come muovi le gambe. Le labbra… resterei a guardarti per ore. >
Arrossii violentemente e lui sorrise.

Quel discorso non mi piaceva. Non mi piaceva per niente.
Mi offrì del vino. Ne bevvi due bicchieri poi sentii le ginocchia farsi molli e decisi che per quella sera era abbastanza. Lui non bevve.
Finita la cena, tirò fuori un dvd da un cassetto.
< Ti va un film? >
< Mhm, sì, ok… >
Ci sedemmo e lui fece partire la tv.
Il film era divertente ma ero più attenta al braccio di Jason che alla trama.
Si era avvicinato pericolosamente a me. Il braccio era rischiosamente finito dietro alla mia schiena.  Con la mano libera mi accarezzava la gamba.
Capii le intenzioni di Jason per il dopo-film.Se erano quelle che pensavo, non mi piacevano.

Appena partirono i titoli di coda, mi fece sdraiare sul divano e cominciò a baciarmi il collo.
Totalmente insensibile al suo tocco, osservai le ombre che si proiettavano sul soffitto. Feci la pessima scelta di poggiare la mia mano sul suo capo. 
Lui interpretò il gesto come un’autorizzazione e poggiò la testa sul mio seno.
Sentii lo stomaco contrarsi ma non feci niente.
Lo sentii afferrare il peduncolo della cerniera del mio vestito e tirare. Avvertii la stoffa del divano sotto la pelle della mia schiena.
Le sue mani cercarono il gancetto del reggiseno.
< Jason… siamo in salotto. >
< Sì, hai ragione. Vieni, andiamo in camera… > Aveva il fiatone.
Mi prese per mano e mi portò nella sua stanza.
Con foga quasi mi buttò sul letto. Lo sentii presto sopra di me. Si era tolto i pantaloni. Il mio vestito scivolò presto per terra.
 

Pensai a tutte le remore, a tutti i miei dubbi.
Non volevo farlo, il sesso. Ma perché? In fondo, cos’avevo da perdere.
Grazie a Phil non certo la verginità…
Forse, se fossi riuscita a lasciarmi andare, a sciogliermi un po’, sarebbe stato bello. Non mi avrebbe fatto male.
Lo facevano tutte, dicevano che era bello… che era piacevole.
Il mondo girava intorno al sesso e io ero l’unica stupida che si faceva tutte quelle remore!
Jason era carino, simpatico… potevo starci. Dovevo smetterla di essere troppo rigida.

Quante volte ci avevamo provato? Almeno tre o quattro. E ogni volta, quando Jason arrivava a sfiorarmi gli slip, io gli dicevo di fermarsi.
Sapevo che, normalmente, grazie ai preliminari una ragazza riesce a entrare nella disposizione giusta. Il suo corpo stesso reagisce indicando che si è “pronte”.
A me, in quelle occasioni non era mai successo.
Forse perché Jason non era quello giusto per me.
Per questo non mi ero mai arrischiata ad arrivare fino in fondo.
Ma poi ci pensai un po’ su.

Era stupido aspettare un principe azzurro che non sarebbe mai arrivato, che non esisteva.
Forse, non mi avrebbe fatto male. Per lo meno, non tanto quanto il male che avevo sopportato con Phil…
Forse questa volta avrei dovuto lasciar fare a Jason. In fondo era tutta una questione mentale.
< …proviamoci… > sussurrai a denti stretti cominciando a slacciargli la camicia.
Di sicuro i due bicchieri di vino mi aiutarono nel prendere quella decisione.
Stavo per togliermi gli stivali ma lui, totalmente preso dalla situazione, tra un bacio e l’altro mi bloccò la mano ed ansimò:  < No, tienili. >
< O-ok… > sussurrai imbarazzata mentre lui si impegnò ad armeggiare con il gancetto del mio reggiseno.

 Alla fine, troppo presto, riuscì a togliermi quell’indumento.
Mi sentii a disagio, così vulnerabile davanti a lui, ma lui parve non rendersene conto.
Mi carezzava e le sue mani erano gentili ma, ogni volta che chiudevo gli occhi, vedevo Phil e mi sembrava di averlo ancora sopra di me.
Sentivo il respiro cominciare a mancarmi.
Tornò a baciarmi le labbra. Le succhiava e accarezzava come se avesse potuto mangiarmele.
Quel bacio sembrava non avesse fine. Strinsi i pugni.
Forse Jason lo interpretò come piacere crescente perché cominciò a baciare la pelle prima coperta dal reggiseno, lasciandomi libera di riprovare a respirare ma non erano state le sue labbra sulle mie ad impedirmelo.
sentivo sempre più la mancanza d’aria nei miei polmoni.
Di piacere, neanche l’ombra.
Ai lati del mio campo visivo cominciarono ad addensarsi miriadi di lucine dorate.
Sentivo le gambe tremare, malferme.
Cercai di respirare con più calma, di riprendere il controllo.
Le sue labbra sul mio seno, sul mio ombelico.
No. Non lo volevo. Avevo capito che non volevo tutto quello. Tutto quello che mi ero detta due minuti prima mi parve improvvisamente molto stupido.
Mi morsi la lingua.
Non volevo fare la figura della bambina. Di quella che, per l’ennesima volta, dice di no. La figura della bacchettona bigotta.
Sentii il sapore ferroso delle gocce calde sui miei denti.
Jason, che non si era accorto di quello che stavo provando,era troppo attento ad assecondare le reazioni fisiche del suo corpo. 
Mi guidò con forza a separare le gambe tenendo le mani sulle mie ginocchia.
Mi accarezzava con sempre più foga.
Quando poggiò il viso sui miei slip, sentii il mio cuore fermarsi.
Ricordai la mano violenta di Phil  insinuarsi tra le pieghe della mia carne asciutta.
Il mio corpo si irrigidì così tanto che mi vennero dei crampi ai muscoli.
< Jason… non ci riesco. Fermiamoci… >
< Non fare la difficile. > Mugugnò lui, affondando il viso nel mio inguine.
Capii di non essere pronta.
Poggiai le mani tremanti sulla sua testa.
< No, Jason, davvero. Non credo di riuscirci. Mi sento poco bene. Mi gira la testa. >
< Oh, chiudi gli occhi e non ci pensare. Qualche volta aiuta. > mi disse seccato.
Obbedii. Chiusi gli occhi. Ma non mi aiutò.
Ecco Phil che mi strappava i vestiti, che mi picchiava, che mi usava. Lo vedevo così chiaramente nella mia testa…
Le dita di Jason andarono sotto l’elastico degli slip.
< Jason, per favore, smettila! >
Ma lui continuò, facendosi più audace, scostando la stoffa e cercando con dita fameliche l’eccitazione che non provavo.  Mi fece male.
In un sussurro cercai di farlo smettere. < Mi fai male… mi fai male. >
Lui non mi ascoltò e cercò, con la mano che non era intenta a toccarmi, di togliermi quel ultimo indumento.
 

Non riuscivo più a respirare. < No… no… no… >
Stavo avendo un attacco di piano in piena regola.
Serrai le gambe e mi voltai di lato. < No! NO! Basta! Mi fai male! >
< Dai, Marie, non fare la scontrosa. > le sue mani, sempre più audaci, stavano diventando brutali.
Mi costrinse a tornare supina e mi aprì le gambe a forza.
< Jason, ti ho detto di no! >
< Non essere la solita guastafeste. Non puoi portarmi al limite e poi dirmi di no. Lo so che lo vuoi anche tu. >
< No! Non voglio! > Non riuscivo più a respirare. E lui non mi ascoltava più. Mi abbassò le mutandine fino alle ginocchia.
Nonostante lo implorassi di fermarsi, lui continuava imperterrito a toccare il mio corpo.
Quando la sua mano mi accarezzò, facendomi sussultare, capii che dovevo fare qualcosa.
Fu come una scarica elettrica, come la lucidità portata da una doccia fredda.
Gli tirai un ceffone in pieno viso.

Lui si ritrasse immediatamente, arretrando sul letto. < Marie? Marie! >  Mi teneva i polpacci.
< Jason, lasciami > gli intimai debolmente.
< Marie? Ma sei pazza? Mi hai fatto male. >
Il mio respiro totalmente fuori controllo veniva ulteriormente ostacolato dai singhiozzi che mi squassavano il petto. Cercai di coprirmi il corpo con il lenzuolo.
< Jason, voglio andare a casa. Per favore, portami a casa. > caddi a terra e, in ginocchio, seminuda, cominciai a raccogliere i miei vestiti. Me li infilai alla bell’e meglio.
< No, tu adesso mi spieghi che cazzo ti è preso! >
 < ti ho detto che voglio andare a casa! >
< Ma perché? Non ti stavi divertendo anche tu? >
La voce mi tremava. < No, Jason, NO!  ti avevo detto di smetterla… ti avevo detto che mi stavi facendo male! >
< Ok… ok. Non pensavo dicessi sul serio… sai quella storia che le donne dicono no ma pensano sì… >
< Tu stai delirando. No vuol dire NO! E io ora voglio tornare a casa! >
Seccato, si rivestì. Potei constatare quanto la sua “disposizione” fosse tramontata mentre si infilava i pantaloni.
Si avvicinò per chiudermi la cerniera del vestito ma io mi ritrassi. < Faccio da sola. > gli sibilai.
Lo precedetti all’ingresso e, per tutto il viaggio, lui cercò di scusarsi.
< Marie, davvero, non pensavo che dicessi sul serio. Non pensavo di farti male sul serio. >
Mi rifiutavo di rispondere. Il respiro era pian piano tornato regolare e mi sentivo più lucida.
< Dai, pensavo stessimo giocando… > tentò di giustificarsi.
< Giocando? Ma tu proprio non riesci a capire niente! Non riuscivo più a respirare! >
< Pensavo che fossi… eccitata. >
Capii che era tutto fiato sprecato.
A voce bassa decisi di porre fine a tutta quella storia falsa e senza senso.
< Jason, credo che non dovremmo vederci più. >
< No! Non dirlo. Quello di sta notte è stato solo un errore. Ti prometto che cercherò di essere più recettivo rispetto alle tue necessità. Sono stato troppo avventato. 
Ho affrettato i tempi. Non avevo capito che volevi fermarti prima… >
< Jason, senti, il problema è che ho sbagliato io. Non mi sentivo pronta a niente di tutto ciò che è successo questa sera. Non dovevo… >
< Senti, scusami. Ti ho fatto pressione in tutti questi giorni. Ero ossessionato dall’idea di farlo con te e ho insistito senza ascoltare ciò che volevi. 
Ti prometto che mi impegnerò di più, la prossima volta. Starò più attento a ciò che vuoi che faccia... >
< Jason, non ci sarà una prossima volta! >
< Senti, non puoi decidere di mollarmi. > Mi afferrò il polso, facendomi male.
< L.A.S.C.I.A.M.I. > sillabai furibonda.
Compiendo quel gesto, Jason perse per un istante il controllo sulla vettura e sbandammo.
Per poco non centrò un palo della luce. Fortunatamente le strade, a quell’ora, erano deserte.
Mi portai le mani al petto, ansante. L’idea di avere un altro incidente mi terrorizzava più del sesso.
< Oddio, Marie, scusami. Non volevo… ho sbagliato tutto questa sera… >
< Jason, basta. > E da quel momento mi rifiutai di aggiungere altro.
Continuò a scusarsi quasi fino a casa mia. Poi si rassegnò e accese la musica, forse in un tentativo di stemperare il clima di tensione che si era creato.
Jason parcheggiò e io, senza curarmi della pioggia, mi diressi di corsa in casa. Sentii Jason chiudere l’auto e seguirmi. 
Avrei voluto sbattergli l porta sul naso, magari rompendoglielo.
Vidi un’auto nel vialetto. Ecco, lo sapevo.
La serata non era stata abbastanza orribile, no!
Con la mia fortuna, la squadra di Phil aveva sicuramente perso al primo incontro e lo avevano licenziato. Sarebbe rimasto a casa per mesi! 
Che altra spiegazione c’era per quell’auto?

 Entrai in casa, sbattendo la porta.
Vidi mia madre fissarmi preoccupata.
Entrò anche Jason.
< Marie, scusami, davvero. Sono stato un idiota. Mi dispiace. Non volevo farti male. Mi saprò far perdonare. Dammi una seconda opportunità. >
Mi voltai, le mani strette in pugno.
< NO! Vattene! Non voglio più veder… >
E mentre dicevo quelle parole, vidi il proprietario della vettura parcheggiata fuori. Era rimasto nell’angolo e io, che ero entrata fissandomi gli stivali, lo avevo superato senza neanche vederlo.
Ma lui, splendido e statuario, mi aveva vista e mi osservava con uno sguardo attento e affascinante.
< Bella? > Mi domando incerto, con la sua voce seducente e profonda.

< E-Edward?! >

 

Piccole note dell’autrice:
Ehm… allora? Vi è piaciuto il finale del capitolo?
Per un ragguaglio generale… Jason voleva farlo con Bella e lei più volte ci ha provato (a fare sesso…) ma proprio non ci riusciva. Stava male, ricordava Phil, non si sentiva a suo agio…
E poi, Jason non è stato tanto gentile.  A lei lui non è mai piaciuto e infatti non è mai riuscita ad essere sè stessa con lui. Cercava solo di dimenticare Edward.
E la storia degli stivali… beh, quella viene da un piccolo aneddoto personale. (se vi fanno male i piedi per gli stivali con il tacco e siete in auto, teneteli addosso. 
Io ero in auto, a fine serata, con una amica e un suo amico (che poi è diventato il suo ragazzo!). Mi cambio gli stivali alti con le ballerine e lui prende gli stivali e mi dice che sono molto sexy. 
Avrei voluto tirargli il tacco nell’occhio. Questo dopo il commento su quanto fosse bello guardare una ragazza che si mette il burrocacao mentre me lo stavo mettendo!
Insomma… brr!angoscia!)
Insomma, Jason è un mezzo pervertito ma ecco che arriva la cavalleria!
Per l’evoluzione della situazione, vi attendo numerose al prossimo capitolo con Edward, Bella, Jason e Reneé nella stessa stanza. Ognuno con i suoi rancori e i proprio sentimenti!
A settimana che viene!
Ciao a tutte e grazie infinite per aver letto fin qui.

La vostra  autrice part-time,

Erika

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** I led you with hopeless dreams. ***


23

Bene, non faccio in tempo a dire una cosa che sono costretta a smentirmi…
Oggi non è giovedì, mi direte voi.
E sarei costretta a darvene atto.
Oggi non è nemmeno sabato, aggiungerete voi.
E anche in questo caso non potrei non dirvi che avete ragione.
Indi, chiedo a tutte voi scusa per l’ennesimo ritardo. Avrei voluto postare ieri ma… non linciatemi… ieri ho dormito tutto il pome! 
Ero stanchissima e non ho resistito alle candide lenzuola del mio morbido lettino!

 VAbbè, nel caso mi perdoniate, lasciatemi spendere due parole sulla storia.
Tengo a sottolineare che Bella si è comportata con Jason in modo stupido. Io non avrei mai agito in quel modo ma, provando a pensare a quanto potesse sentirsi confusa e spaesata, sola e disperata una persona in quella situazione, ho cercato di immaginare cosa avrebbe potuto fare.
Certamente Jason ha cercato di approfittare di questo disagio per i suoi (schifosi) scopi.
Ma ecco che il giovn Eduardo compare sulla soglia. E adesso?

Beh…  in questo lungoooo capito e nei prossimi andremo a scavare nella mente del nostro “giovane” vampiro. Insomma, è stato lontano tanto a lungo che ora si merita il suo quarto d’ora di celebrità.
(tra l’altro, sapete a quando risale questa locuzione? Io pensavo fosse recente, molto recente… e invece… l’ho trovata in un giornale del 1916! È stato fantastico! Sicuramente era già in uso da un po’. Chissà, forse, nell’omologa traduzione inglese, la avrebbe usata anche l’Edward umano. )
Vabbè, adesso basta delirare.
Vi lascio ai pensieri del nostro vampiro frustrato.
Ci vediamo nel prossimo week-end (forse… nel caso non partissi. Se invece, ma dubito, vado in trentino, l’appuntamento è ritardato ai primi giorni della settimana successiva.)
A presto, adesso corro a rispondere ai vostri bellissimi e divertentissimi commenti scorsi. Scusate ma ultimamente il pc lo accendo solo per postare. 
Vi ringrazio di cuore e spero che sarete così numerose anche oggi, così da poter sapere cosa ne pensate di Edward e del suo modo di decodificare la realtà! 
Un abbraccio,

Erika

 
Cap 23
 

I led you with hopeless dreams.
Ti ho lasciata con dei sogni senza speranza.

Edward’s POV
 

Jane entrò nella mia stanza come una principessa vittoriosa.
< Che vuoi? > le domandai inacidito. La gola mi bruciava e lei odorava di sangue fresco, sangue umano.
I suoi sfavillanti occhi color del rubino mi squadrarono da capo a piedi.
< Fai pena, conciato a quel modo. Ridurti così per un’umana poi… perché sicuramente è per quell’insulsa ragazzina… >
< Se sei venuta qui per infastidirmi, brava, missione compiuta. Ora puoi anche tornartene da dove sei venuta. >
< Sei sempre così indisponente? Se non mi vuoi, posso anche andarmene… anche se potresti poi pentirtene… >
Notai la busta che teneva fra le mani.
< Va bene. Scusami, Jane. >
< Ecco. Così va meglio. > e mi porse il piccolo involto bianco.
La sua mente era intenta ad analizzare le mie reazioni. Aro l’aveva istruita bene. Non riuscivo a sondarle i pensieri. E poi, ero troppo ottenebrato dalla sete.
Aprii la busta e vi trovai dentro il mio passaporto e la mia carta di credito.
< Cosa significa? >
< Significa che hai dieci giorni. Dieci da oggi. Aro ti fa una grande concessione. Devi essergli grato. Ti aspetta alla mezzanotte del decimo giorno. Se ritardi… beh… ti conviene non ritardare.
Devi essergli riconoscente. Quello di permettere una vacanza è un favore che non accorda a tutti. Nella valigia qui fuori ti ho messo dei vestiti puliti, dato che qui > 
Diede una rapida occhiata alla stanza < non è rimasto nulla di utilizzabile, proprio come aveva supposto Aro. Allora, a presto. >
E se ne uscì senza aggiungere altro. Mi affrettai a seguirla ma era già svanita nell’oscurità dei corridoi umidi.
Afferrai al valigia e, dopo essermi lavato velocemente, mi infilai degli abiti a casaccio.
Con passo affrettato mi diressi all’uscita del palazzo, senza incontrare nessuno lungo la mia strada. Un ordine di Aro, senza dubbio. La prima cosa che feci, dopo essermi lasciato alle spalle le mura di pietra della città medievale, fu cacciare.
Ovviamente Aro mi aveva “liberato” di notte perché sapeva che sarei stato troppo impaziente per aspettare che tramontasse il sole per uscire e non voleva rischiare la segretezza su cui tanto aveva lavorato. Cacciai e mi dissetai. A mente lucida, potei ragionare sul da farsi. Le possibilità si delinearono velocemente nella mia mente.

In meno di tre ore, dopo aver guidato a folle velocità un’auto rubata, ero all’aeroporto di Roma. Acquistai il biglietto sul primo aereo disponibile per Washington DC e prenotai quello per Jacksonville, poi mi diressi al Check-in. Attesi con impazienza il mio volo e, per tutto il tragitto, non potei fare a meno di immaginare Bella. Il momento del nostro ricongiungimento, lei fra le mie braccia… il profumo dei suoi capelli. La sua voce, le sue labbra.
Fui costretto a ricordarmi che non potevo, non dovevo pensare a lei in quel modo. Dovevo trattenermi. Sarei andato da lei solo per aiutarla, solo per starle vicino. Non per illuderla di un amore impossibile.
Atterrato, dovetti attendere un paio di ore prima della coincidenza. Sfruttai quella pausa per chiamare Carlisle, il quale fu molto sorpreso.
< Edward? Come… cosa…  è un prefisso americano. > furono le prime parole che mi disse.
< Sì, lo so. > dalla mia voce traspariva una gioia profonda.
< Sono a Washington, all’aeroporto. Sto aspettando il volo per la Florida. Vado da Bella. >
< Ma come hai fatto? >
< Aro mi ha dato… una sorta di licenza. Posso fermarmi solo altri nove giorni e mezzo. Ma meglio di niente, no? Ho voglia di vedervi. Potreste raggiungermi? Ti prego. Ovviamente non Alice e Jasper. Immagino che tu non sappia nemmeno dove siano… >
<  Sì, è così, in effetti. Ma certo che veniamo. Contatto Emmett e Rose e poi ti faccio sapere con precisione. >
< Perfetto. Magari aspetta tre giorni prima di raggiungermi. Sai, vorrei stare un po’ solo con lei… >
Accennò una risata bonaria e disse: < Ma certo. Esme sarà felicissima di sapere che potrà vederti. Era così in pena. >
< Dov’è adesso? >
< A casa di Charlie. Un paio di volte a settimana gli prepara la cena e gliela porta. Qualche volta viene lui da noi. >
< Beh, immagino che tu preferisca quando è lei a portargliela. > non potevo fare a meno di ridere, di essere felice. Ero troppo eccitato. 
Lui parve capire il mio stato d’animo, e comprenderlo, dato che mi disse: < Sono felice di sentirti. Di sentirti così. Alice era preoccupata per te. E anche io. >
< Non dovete essere in pena per me. Me la so cavare. Bella? Bella come sta? >
< Quando abbiamo lasciato Jacksonville abbastanza bene. O per lo meno, meglio di quando eravamo arrivati. Ha interrotto i farmaci. 
Avrei voluto parlarne con il suo medico curante ma lei mi ha chiesto di non farlo. Ha promesso che lo avrebbe fatto lei. >
< Ma stava bene, lo stesso? >
< Sì. E in effetti mi è sembrata molto più lucida di quando ha lasciato Forks, più consapevole. Certo, un po’ depressa… ma con tutto quello che è successo. 
Comunque, nel complesso, al momento del nostro rientro a casa si era ripresa un po’.
Di notte si agita, si dimena e urla ma, come ben sai, questo era già successo… certo, le impedisce di dormire bene… >
Sapendo che parlava nel sonno, mi azzardai a chiedere: < Dice qualcosa? >
< Sì. Ripete sempre “Basta, basta” o “smettila, non farmi male” ma al mattino non ne ha mai voluto parlare, nonostante Alice le abbia più volte posto delle domande a riguardo. Lei rispondeva sempre che non ricordava il sogno… >
Mi concessi un attimo di silenzio prima di riprendere a fare domande.
Anche le cose più insignificanti mi parevano fondamentali. Quanto le fossero cresciuti i capelli, se tenesse ancora i capelli legati in una coda di cavallo, se giocasse ancora con le ciocche ribelli quando era agitata, se si tormentasse il labbro inferiore con i denti… tutte inezie che mi riempivano la mente, dandomi tormento. Carlisle rispose paziente a ogni mia domanda, senza nascondere la felicità che provava sapendomi così vicino. Prima che riattaccassi, quando i passeggeri del mio volo vennero chiamati dall’altoparlante, mi chiese di chiamarlo spesso, ogni volta che ne avessi avuto la possibilità. mi salutò con un “arrivederci, figliolo” pieno di attese.

Avrei richiamato appena atterrato. Volevo parlare con Esme. Speravo riuscissero a rintracciare in fretta Em e Rose. Sapere che li avrei rivisti presto non poteva far altro che aumentare la mia felicità. Sebbene solo per pochi, pochissimi giorni, avrei riavuto la mia vita, la mia realtà… ma soprattutto, avrei riavuto Bella.
Mi imbarcai che stava per sorgere il sole. Appena presi posto, mi preoccupare di tirare la tendina e nascondere ogni lembo di pelle, sciarpa, occhiali neri, guanti… fortunatamente, stando alle previsioni, a Jacksonville il tempo era brutto…
Il volo, sebbene breve, fu comunque troppo lungo da sopportare.
 

Dopo aver noleggiato l’auto, mi diressi a all’indirizzo di Reneé.
Sotto la pioggia scrosciante, lasciai l’abitacolo e corsi lungo il vialetto. Suonai più volte finchè una voce di donna, stanca e velata da una nota di isteria, non mi urlò che stava arrivando.
Le sue parole erano sovrastate da un pianto incessante e fastidioso.
I pensieri che udivo erano discordanti. Il piccolo provava la sensazione della fame ma era troppo stanco per ciucciare e aveva freddo. 
La donna non riusciva a capire cosa volesse il bambino e avrebbe voluto solo andare a dormire…
< Eccomi, Eccomi… >
Ad aprirmi la porta fu una Reneé trasfigurata. Le occhiaie marcavano il suo volto stanco mentre un piccolo bambino, che lei teneva amorevolmente tra le braccia, le teneva i capelli stretti nel pugnetto.
Il grembiule da cucina era macchiato di quello che pareva essere latte in polvere…
Non appena mi vide, Reneé prima impallidì, poi arrossi, infine assunse un tono composto e cercò di essere cortese. < Edward… che piacere. Come mai… > ma non riuscì a terminare la frase perché il bimbo cominciò a lagnarsi con più vigore.
Mi invitò ad entrare con un gesto della mano e si richiuse velocemente la porta alle spalle.
Pensava che non fossi un ospite molto educato, dal momento che mi ero presentato alla sua porta senza preavviso, ma, cosa per me molto più inquietante, non molto gradito.
Riuscì a calmare il piccolo cullandolo e convincendolo a bere dal biberon. Quando ci fu finalmente silenzio, mi fece accomodare in soggiorno.
< Prego Edward… ma, a cosa devo questa tua visita? >
< Avevo qualche giorno libero e ho pensato di venire a trovare Bella. >
Irritata. Era decisamente irritata. Cercai di capire il motivo ma non ci pensava…< Capisco. >
< Bella non c’è? >
< No. Ci siamo solo io ed Owen in casa, in questo momento. >
< Mhm… beh, se mi dice dov’è, posso raggiungerla. >
< Non credo sarebbe opportuno. >
< E perché no? Sono sicuro che le farebbe piacere vedermi. >
< Non credo. Sai Edward, non vorrei essere sgarbata con te ma, vedi, Bella non ha bisogno di questo. Che tu torni quando ti fa comodo, senza nemmeno avvisare, aspettandoti che lei passi la sua vita aspettando te. Non è giusto, mi capisci… vero? >
< Ma le assicuro che non è così… >
Poggiò la mano libera sulla mia. < Scusami, mi sono espressa male. Non volevo ferirti… è solo che, credo sarebbe meglio che tu la lasciassi in pace. Ha fatto molta fatica a superare tutto… se tu ti ripresenti qui, rischi di riaprire vecchie ferite rimarginate a fatica.
Edward, io so che tu l’hai amata tanto e so che lei ha provato per te un amore che si prova una volta sola nella vita. 
E hai compiuto un gesto ammirevole per amor suo: L’hai lasciata andare. L’hai fatto per il suo bene e per questo ti ammiro. 
E non potrò mai ringraziarti per quello che hai fatto per lei, quanto tu l’abbia aiutata.
Ma adesso, devi essere coerente con le tue decisioni. Bella ora ha un nuovo ragazzo e rivederti dopo che tu sei stato così assente dalla sua vita, potrebbe non farle bene.
In questi ultimi mesi non hai neanche mantenuto i contatti… insomma, credevo che ormai ti fossi… dimenticato di lei… ed è ciò che pensa anche Bella. 
Un tuo ritorno potrebbe solo ferirla.  Capisci cosa intendo? >
L’unica cosa che capivo io erano le ferite che lei non vedeva, quelle procurate dal suo secondo marito. Cercai di reprimere la rabbia. 
< Ma Reneé, io sono solo passato a trovare un’amica. Non ho cattive intenzioni. Voglio bene a bella. > “ non sai quanto la ami ”
< Sì, lo so. Ma lei potrebbe interpretarle in modo diverso da te. >  Stava pensando a quanto l’avessi fatta soffrire. A come avevo trattato sua figlia. 
E, in effetti, dal suo punto di vista il mio comportamento era stato meschino. Lei non poteva sapere…
< Senta, mi dispiace. So che non ho tenuto un comportamento irreprensibile nei confronti di sua figlia. Vorrei solo parlarle, vederla. >
< Beh, comunque adesso non è possibile. È fuori e tornerà tardi. >
< Posso aspettarla. >
< Edward > il tono della sua voce si fece carezzevole, quasi materno < Bella è fuori con il suo ragazzo. Non credo che tornerà a casa prima di domani. > 
e mi rivolse un’espressione che, nelle sue intenzioni doveva essere eloquente. Stava pensando che l’auto del ragazzino chiamato Jason era molto spaziosa. 
Quei pensieri furono come un acido caustico. Non volli ascoltarli. Mi alzai di scatto.
< Non può chiamarla e chiederle se ha intenzione di dormire > sputai quella parola tra i denti < fuori, questa notte? >

Speravo che Reneé si sbagliasse, che Bella non si concedesse a quel ragazzino. Era vero, dovevo lasciarle vivere la sua vita… eppure mi sentivo tradito, adirato. 
Era già successo? Aveva già dormito con lui? Reneé non stava pensando a questo. Pensava a un pacchetto di preservativi e a un completino di seta. Li aveva comprati per lei. 
Mi sentii corrodere di ira.
La volevo mia e saperla di qualcun altro mi faceva girare la testa. Affondai le unghie d’acciaio nella mia pelle dura come marmo.
< Sono sua madre… sarebbe piuttosto indiscreto da parte mia… >
In quel momento sentii un’auto, tra le tante che percorrevano la trafficata strada laterale, imboccare la via di Reneé. Musica alta e un ragazzo con i pensieri molto irritati. 
E basta. Ma quelli che percepii nell’auto che parcheggiò nel vialetto della villetta erano due cuori.
Il ragazzino stava pensando alla serata appena trascorsa.
Fastidio per colpa di pantaloni troppo stretti intorno al suo corpo e una serata sfumata proprio quando ormai stava per… 
poi i suoi pensieri slittarono sulla scollatura a V della ragazza cui apparteneva il secondo cuore palpitante. 
Lei non era stata molto disponibile quella sera. Ma non pensò al suo volto, troppo impegnato a ricordare altre parti del suo corpo.

 La portiera sbattè e il ragazzo si affrettò a dire: < Dai, ti accompagno alla porta. >
La padrona del secondo cuore non rispose. Mi alzai dal divano e mi avvicinai alla porta, lasciando Reneé basita dal mio comportamento. 
Pensò che me ne stessi andando, offeso.
Non poteva certo sentire ciò che stava accadendo. Non con il rumore della pioggia e il pianto del piccolo, che aveva ricominciato a vagire.
Trepidante, dimentico del fatto che lei non era lì per me, andai alla porta e aspettai che aprisse…

Perché avevo riconosciuto la tonalità della sua pelle celata dietro a quella scollatura, avevo riconosciuto quel piccolo nei sulla clavicola, avevo riconosciuto il suono inconfondibile del suo cuore…

 E lei entrò.
I capelli imperlati di pioggia le ricadevano sulle spalle nude.
Gli stivali neri che le arrivavano sotto alle ginocchia la facevano sembrare più alta e slanciavano la sua esile figura. 
Il suo corpo era fasciato in un elegante vestito che le metteva in risalto il seno.
Non mi vide e camminò versò Reneé.
L’unica cosa che potesse rallegrarmi era vederla in buone condizioni e sana, energica.
Avrei voluto saperla felice, anche non con me, ma felice. Invece, era spenta.
Sul suo viso non trovai tracce di lividi. Così sulle sue gambe, sulle spalle  e sulle braccia.
Ma lì, sull’avambraccio, dei segni invisibili all’occhio umano con quella luce. Sottilissime strisce opalescenti sulla sua pelle perlacea. 
I segni del suo dolore… incisi nella sua carne.

 Il ragazzo entrò.
Sentivo il profumo di Bella sul corpo di lui. Proprio come avevo percepito quell’estraneo odore maschile provenire dalla pelle di Bella, dai suoi capelli che si muovevano leggeri seguendo i suoi movimenti.
Il veleno schizzò sulla mia lingua e io dovetti impormi di non reagire. Neanche il ragazzo mi notò. Vagliai i suoi pensieri.
Il suo desiderio di fare Bella sua, il sapore della pelle di lei. Il colore del suo seno. Il profumo del suo corpo. Lui l’aveva toccata… l’aveva sfiorata come fosse sua. 
E aveva pensato di farle cose intollerabili.
Inghiotti a vuoto, accecato dall’invidia.
Poi però mi resi conto che Bella si era opposta proprio quando lui ormai pensava di aver ottenuto ciò che voleva.
Lei lo aveva allontanato. La vidi, nei suoi pensieri, nuda davanti a lui, colta da una crisi di panico. Lei non voleva. Lui insisteva… 
dovetti reprimere l’istinto di assalire quel piccolo depravato.
Ai miei occhi già averla toccata era una colpa abbastanza grave da scatenare la mia ira.
Vedere quello che le aveva fatto, dove e come l’avesse toccata… con che violenza la avesse costretta a divaricare le gambe, come avesse poggiato le sue labbra, la sua lingua in certi punti del suo corpo… provai l’impulso di spezzargli il collo.
Quasi sorrisi quando lui ricordò il ceffone.
Però lui la voleva troppo ardentemente ed era pronto ad implorarla. Non aveva rinunciato a farla sua. La voleva e sperava che alla fine lei avrebbe ceduto.
< Marie, scusami, davvero. Sono stato un idiota. Mi dispiace. Non volevo farti male. Mi saprò far perdonare. Dammi una seconda opportunità. >
 Bella, le mani contratte in pugni tanto saldi da farle sembrare le dita bianche, si voltò.
< NO! Vattene! Non voglio più veder… > E in quel momento, mi vide.

 Le parole le morirono in bocca.
Rimase immobile per alcuni secondi, sul volto un’espressione indecifrabile.
Feci per avvicinarmi, muovendo appena un mezzo passo verso di lei che però arretrò subito, alzando una mano come per tenermi lontano. Dietro di lei, il ragazzo chiamato Jason mi squadrò da capo a piedi. Non capiva chi fossi ma gli facevo paura.
Pensava potessi essere un suo “rivale”.
Idiota… teneva un atteggiamento che avrebbe dovuto essere minaccioso nei miei confronti.

Insetto. Avrei potuto schiacciarlo con un dito.

Fece passare un braccio intorno al bacino di Bella, come a rimarcarne un suo possesso. Lei si divincolò schifata e si allontanò da lui. 
Le labbra le tremavano e lui, contrariato, incrociò le braccia.
Bella si portò una mano alla testa e cominciò a passarsela freneticamente tra i capelli. Si voltava compulsivamente tra me e Jason.
Le sue labbra si muovevano a vuoto.
Non una parola, non una sillaba.
Reneé, vedendo la situazione, preferì andarsene. Non voleva interferire. < Tesoro, io vado in cucina. Se hai bisogno, chiamami. > 
Che codarda… stava reagendo come aveva sempre fatto. Ignorando i problemi e facendo finta di non vedere. Fuggiva. 
Forse sapeva persino di Phil, di cosaavesse fatto a sua figlia. Di come l’avesse picchiata. Mi augurai per lei di no.
Non avrei potuto perdonarla.

Bella annuì alle sue parole, spaesata.
Jason, vedendola in difficoltà, avanzò verso di lei. Le tese una mano.
< Marie, vieni… > cercò di sfiorarle il braccio ma lei si allontanò come se fosse rimasta scottata da quel contatto improvviso e istantaneo. 
Voltò il capo verso di lui e disse sprezzante: < Jason, ti ho detto che non voglio più vederti. Vattene… >
< Marie, mi dispiace. Scusami. >
A denti stretti sibilò: < Jason. Non me ne faccio niente delle tue scuse. >
< Hai sentito la signorina? Non gradisce la tua presenza quindi sarebbe molto cortese da parte tua lasciare la casa e smettere di importunarla. >
< Oh, Edward! > sbottò lei. < Non ti intromettere! >
Strabuzzai gli occhi, sorpreso della reazione.
< Oh, Edward! Ecco. Allora si spiega tutto! È per colpa sua! È per colpa sua, vero, che non mi vuoi più? Lui torna e tu ti butti via.
Non ti servo più! Per questo modello senza cervello?
Marie, apri gli occhi! Ti ha lasciato. Eri a pezzi. E adesso rinunci a noi per lui? È per questo che non hai voluto fare sesso con me? Perché sapevi che c’era lui a casa tua? Sapevi che sarebbe tornato o ci speravi e basta?  >
Il ragazzo urlava, agitando le mani in aria. Alle sue parole mi rasserenai un poco. Non si era concessa. 
Nonostante questa leggera rasserenazione, le sue parole mi fecero male. Capii quanto Bella fosse sempre rimasta avvinghiata al mio ricordo.
< Allora? Puoi almeno degnarti di rispondermi! È per lui che non hai voluto farlo, questa sera? > 
Le stava urlando contro, poi si rivolse a me: < Cosa credi di fare adesso? Torni, dopo averle spezzato il cuore! Troppo comodo. 
C’ero io quando, ubriaca, chiamava il tuo nome! E tu dov’eri?
Mentre stava male, mentre piangeva? O quando si accascia sulla sedia, in preda al mal di testa che non le fa capire più niente, tu dove cazzo sei?! >
Rivivevo quelle immagini mentre lui le rievocava nella sua mente. Soffrivo sapendo di essere degno neanche di quel patimento.
Vedere Bella, ubriaca e accasciata sul sedile posteriore di un’auto rossa, mentre sussurrava il mio nome o vederla seduta su un divano con le mani tra i capelli e il volto pallido mi faceva stare male.
Bella, che era arrossita violentemente alle parole del ragazzino, non si scompose. Lei non amava sentirsi vulnerabile,tantomento mostrarsi tale.
Con voce misurata, rispose alle sue insinuazioni.
< Jason, io non sapevo neanche che Edward fosse venuto a trovarmi. E non è per colpa sua se questa sera… > poi i suoi occhi scivolarono su di me, furtivi, e lei abbassò lo sguardo.
< Ora è davvero il momento che tu te ne vada. >
Jason sbuffò e potevo sentire tutto il suo risentimento mente lasciava la casa, sbattendosi la porta alle spalle con tanta violenza da far ondeggiare il lampadario nell’ingresso. Sei lei non fosse stata lì, bellissima e fragile, lo avrei seguito. 
Non lo avrei ucciso.  Non ammazzavo un ragazzino per la sola colpa di essere uno stupido pervertito innamorato della ragazza sbagliata. 
No… lo avrei torturato fino a fargli passare la voglia di toccare una donna. 
Gli avrei impedito di poter più anche solo desiderare una donna. Ma non lo seguii. 
Controllai la mia ira. Il desiderio di stare con Bella era più forte di qualsiasi desiderio di vendetta. 
E poi, era solo uno stupido ragazzino.
 

Bella, che mi dava le spalle, si allontanò da me sempre tenendo le mani tra i capelli bagnati.
Osservavo i suoi fianchi, le sue gambe… non poteva fare a meno di guardarla incantato.
< Bella? >
< No, Edward, no! Non ti ci mettere anche tu. È meglio che tu stia zitto! >
Capivo la sua rabbia ed ero troppo felice, euforico di vederla davanti a me per poter anche solo osare contraddirla. 
Quello che avevo visto nella mente di Jason mi aveva ferito ma mi rendevo perfettamente conto che Bella era una ragazza molto carina, fin troppo, e che aveva voluto sperimentare le gioie dell’esistenza umana.
Nel profondo, ovviamente, bruciava la ferita insanabile di non aver potuto essere io a farle conoscere quel mondo…
Jason aveva solo approfittato di essere stato il primo a mettere gli occhi su di lei. 
Nei suoi pensieri avevo intravisto altri sguardi maschili posarsi su Bella e lui prendere in disparte tali ragazzi per riferire come Bella fosse “la sua ragazza”.

 < Piccola? Stai bene? > chiese Reneé. Il bambino dormiva tranquillo e placido tra le sue braccia.
< Sì, mamma. È tutto ok. >
< Jason…? >
< Jason è un idiota. Non voglio parlare di lui mai più. >
< Va bene… senti, come avrai visto, hai una visita. > Era in imbarazzo.
Fu a quel punto che Bella si voltò verso di me e mi fulminò con lo sguardo. Per al prima volta in quella sera mi guardò negli occhi. Come una furia, sotto gli occhi allibiti di sua madre, si scagliò contro di me. Fui colto così alla sprovvista che per poco non lasciai che mi colpisse.
Le cinsi il polso nella presa della mia mano prima che la sua si abbattesse sulla mia guancia.
La bloccai per evitare che si facesse del male contro il mio corpo. Aveva tutto il diritto di sfogare la rabbia che provava nei miei confronti.
Mi fisso dritto negli occhi.  La sua mano, stretta nella mia, si chiuse a pugno.
Fremeva di collera.
Chinò il capo, espirò lentamente e poi si voltò verso sua madre.
< Mamma, io vado a dormire. Sono stanca. >
Reneé non disse nulla, limitandosi a fissarci dubbiosa. Il piccolo si stiracchiò tra le sue braccia. Percepivo la sua fame
Lo capì anche Reneé che si sfiorò il seno gonfio e dolorante.
Bella sospirò e sentii i suoi muscoli contrarsi sotto alle mie dita. Scrollò il polso e io la liberai.
Lasciai andare il suo polso e lei, senza neanche voltarsi per guardarmi, si allontanò.
Quando era al terzo gradino, sua madre mi disse: < Se non hai posto dove andare per questa notte, puoi restare a dormire qui. Adesso ti mostro la stanza degli ospiti… >
< LUI DORME SUL DIVANO! > le urlo Bella correndo su per le scale.
Sentii la porta di una camera sbattere. Il fruscio di coperte e un suono smorzato. Si era sdraiata sul letto. Reneé mi guardò con sguardo amichevole.
I suoi pensieri si erano un po’ addolciti nei miei confronti. 
Pensava al lungo viaggio che avevo affrontato e al debito che sentiva di avere nei miei confronti per come ero stato vicino a sua figlia. 
Pensò anche ai soldi che continuavo a versare per le cure di Bella. Onere di cui mi ero assunto tutto il peso. Era per me un dovere a cui mai avrei rinunciato.
< non preoccuparti. Non le permetterò che ti costringa a dormire in salotto. Edward, non è necessario… Vieni, ti faccio vedere la camera… >
< No, non occorre, davvero. Sarà meglio non contraddirla. >
< Come preferisci… comunque, vieni. Ti faccio vedere la casa. Il bagno… >
La seguii in silenzio, ascoltando le sue parole. Vagliavo i suoi pensieri alla ricerca di Bella.
Non voleva più farsi chiamare così. Ecco perché quel ragazzino l’aveva chiamata Marie…
Era stata aggredita da due scippatori, a quanto ne sapeva Reneé…  negli ultimi giorni era sembrata un po’ più felice. Secondo la madre grazie al rapporto con Jason.
Io avevo i miei dubbi. Legavo questo suo miglioramento alla visita dei miei genitori, non certo a un moccioso che non era neanche capace di frenare le mani.
Andai a prendere la piccola valigia in auto, augurai una buona notte a Reneé e accettai le coperte e i cuscini.
Non mi cambiai neanche. Rimanevo vigile, con l’orecchio teso.
Mi dovevo trattenere dall’andare a spiare Bella. Non era leale nei suoi confronti. Mi dovevo limitare ad ascoltare.
La sentii alzarsi.
Aprirsi e chiudersi di cassetti.
Stoffa che scivola lungo la pelle… la sua pelle...
Acqua che scorre. Una doccia. Un phon. Altra stoffa sul suo corpo. Di nuovo, la udii distintamente sdraiarsi sul letto.
Spostai la mia attenzione sulla camera di Reneé per assicurarmi che la situazione fosse tranquilla.
Il piccolo finalmente si era addormentato. I suoi pensieri infantili si erano trasformati in spumosi e soffici sogni. 
Emozioni, sensazioni… calore, profumo della madre,della sorella…
Reneé, stremata, si era sdraiata sul letto esausta e si era addormentata.

 Passarono alcuni minuti. Sentii Bella alzarsi dal letto. Il pavimento in legno scricchiolò e lei si immobilizzò. Attese qualche attimo e riprese a camminare, in punta di piedi.
Aprì la porta che cigolava. Scese le scale, lentamente.
Mi coricai sotto alle coperte, sul divano. Il volto rivolto alle scale.
Lei le scese gradino dopo gradino, lentamente.
Poi il silenzio del suo respiro, vicino.
La sentii sedersi sulle scale. Percepivo il suo sguardo su di me.
Rimase in quella posizione a lungo. Mi fissava e io avrei voluto fare altrettanto ma non osai alzare le palpebre per paura che lei se ne andasse. 
Anche solo sentirla così, vicina, era abbastanza.

 Sapevo che sarebbe stata irata nei miei confronti.
Dal suo punto di vista ne aveva ogni motivo. Le mie telefonate erano andate diradandosi fino a cessare del tutto. 
Negli ultimi tre mesi l’avevo chiamata solo una volta, trentanove giorni prima, quando c’era ancora Alice con lei. 
Per quello che ne sapeva lei, poteva essere stata mia sorella a convincermi a telefonarle… a costringermi.
Doveva essersi sentita molto sola.
Sicuramente era per questo che si era avvicinata a quel Jason.
Quel ragazzino insolente e sgarbato, poco atto a comprendere i suoi sentimenti e le sue emozioni.
Ero stata io a spingerla, dicendo che non avremmo mai più potuto stare insieme.
Pensare a quel ragazzino mi fece rivoltare lo stomaco. Inghiottii gli schizzi di veleno.
Bella si accorse dei miei movimenti e trattenne il respiro. Temeva certamente che mi stessi svegliando.
Si alzò e cominciò a salire le scale, sempre in punta di piedi, camminando all’indietro.
Ogni volta che il legno scricchiolava sotto ai suoi piedi lei si immobilizzava. Non voleva farsi scoprire a guardarmi. Sorrisi a quel pensiero.
< Ciao, Edward. Grazie per essere venuto. Sono contenta di vederti… > sussurrò prima di voltarsi e salire le scale con ritmo più sostenuto.
Avrei voluto alzarmi e correre da lei, stringerla a me ma non potevo.
Quella notte non dormì a lungo e quando lo fece parlò.
Come mi aveva preannunciato Carlisle, sussurrava frasi che mi inquietavano.
“Basta” “fermati” “mi fai male”… speravo fossero dirette a Jason ma poi fece il nome di Phil.
Contrassi i pugni. Chiamò anche il mio nome… molte volte. Poi di nuovo pregava Phil di non farle del male.
Reneé mi aveva detto che lui non c’era e, nella sua mente avevo scoperto che era via con la sua squadra.
Non sapevo se fosse un bene o un male. Avrei voluto tanto avercelo davanti.
Gli avrei fatto confessare tutto. Con me avrebbe parlato. Non mi sarei fatto problemi. 
Estorcere informazioni non era un problema se non ti preoccupavi che l’interrogato rimanesse incolume.
Non sarei stato buono come Carlisle. Non ero in grado di provare pietà verso un individuo tanto abominevole da picchiare una donna, una ragazza.
La ragazza che amavo.
Sì, forse era un bene che lui non ci fosse. Non avrei saputo trattenermi e avrei solo rischiato di apparire io steso come un mostro assassino davanti a Bella e sua madre…
Certo, avrei potuto attenderlo nel vicolo di notte… nessuno mi avrebbe visto.
Era già successo altre volte…
No! Non dovevo concentrarmi su quello. Dovevo fidarmi di mio padre. 
Secondo lui non c’erano rischi che si potessero ripetere episodi come quelli di cui Alice era stata testimone. Che Phil le facesse del male. 
Quando lo avessi visto, mi sarei fatto spiegare con precisione.
Tesi l’orecchio.
La casa era addormentato nel silenzio dell’alba.
Afferrai il telefonino e composi il numero di Carlsile. A rispondermi fu Esme.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** How can I expect you to forgive? ***


Salve a tutte, Buona Pasqua!

Spero stiate tutte bene.
So che è davvero molto che non aggiorno e di ciò vi chiedo scusa.
Pensavo proprio che andare all’università mi avrebbe lasciato tanto tempo libero da dedicare ai miei “piaceri” ma sfortunatamente non è stato così!
Ogni minimo momento libero lo passo a studiare, studiare, leggere libri noiosissimi su argomenti assurdi e non molto appassionanti (lo sapevate che la rampa che collegava la casa di augusto sul palatino al tempio di Apollo era decorata con stucchi e la porta era adornata da “piastrelle” di terracotta decorate etc etc zzzzzzzzzz)… insomma, non ce la faccio più.
Se a questo aggiungiamo il fatto che internet in sta diavolo di casa ha deciso di funzionare solo alla mattina (e, di solito, la mattina sono in università, come tutte le persone normali!) non sono proprio riuscita a rimettermi in pari con i miei vari lavori.
Per questo vi chiedo infinitivamente scusa.
Oggi, domenica di pasqua, ho deciso di prendermi un po’ di tempo per me (e per voi) e mandando a quel paese mia madre che sta sistemando casa in vista dei parenti per il pranzo pasquale (e vi assicuro, non è semplice… se sono al pc, viene a controllare che sia roba di scuola. Il resto è offlimits. Frase tipo: “non ti pago l’università perché tu stia tutto il tempo a caXXeggiare. Quindi o studi o mi aiuti a pulire casa!”)
Ora che gli esami si avvicinano (e tremo… da Maggio a Luglio ne ho almeno 4 da 9 crediti e forse, se riesco a reggere, un 5 esame sempre da 9 crediti. Non ce la farò mai!!!!) dovrò mettermi ancora più sotto a studiare ma spero davvero di riuscire a impormi di smettere per un po’ e dedicarmi alla scrittura. Scusatemi tanto per i ritardi! Per chi di voi è all’università non stupirà sapere che sto annegando nei libri!!!

 Un bacio e a presto, Erika

 Ps: i prossimi cap sono legati a questo in modo così stretto (erano un unico lunghissimo capitolo) che non potrò postarli fra molto tempo altrimenti non si capirebbe più la storia… quindi cercherò di essere celere.

Cap 24                                                                                         

How can I expect you to forgive?
Come posso aspettarmi che tu mi perdoni?

                                                                                                      

Edward’s POV

 Quella notte non dormì a lungo e quando lo fece parlò.
Come mi aveva preannunciato Carlisle, sussurrava frasi che mi inquietavano.
“Basta” “fermati” “mi fai male”… speravo fossero dirette a Jason ma poi fece il nome di Phil.
Contrassi i pugni. Chiamò anche il mio nome… molte volte. Poi di nuovo pregava Phil di non farle del male.
Reneé mi aveva detto che lui non c’era e, nella sua mente avevo scoperto che era via con la sua squadra.
Non sapevo se fosse un bene o un male. Avrei voluto tanto avercelo davanti.
Gli avrei fatto confessare tutto. Con me avrebbe parlato. Non mi sarei fatto problemi. Estorcere informazioni non era un problema se non ti preoccupavi che l’interrogato rimanesse incolume.
Non sarei stato buono come Carlisle. Non ero in grado di provare pietà verso un individuo tanto abominevole da picchiare una donna, una ragazza.

La ragazza che amavo.
Sì, forse era un bene che lui non ci fosse. Non avrei saputo trattenermi e avrei solo rischiato di apparire io steso come un mostro assassino davanti a Bella e sua madre…
Certo, avrei potuto attenderlo nel vicolo di notte… nessuno mi avrebbe visto.
Era già successo altre volte…
No! Non dovevo concentrarmi su quello. Dovevo fidarmi di mio padre. Secondo lui non c’erano rischi che si potessero ripetere episodi come quelli di cui Alice era stata testimone. Che Phil le facesse del male. Quando lo avessi visto, mi sarei fatto spiegare con precisione.
Tesi l’orecchio.
La casa era addormentato nel silenzio dell’alba.
Afferrai il telefonino e composi il numero di Carlsile. A rispondermi fu Esme.

 Era così sollevata di sentirmi che quasi non riusciva a parlare.
Volevano sapere di me, di come stessi, di come trascorresse la mia vita.
Cercai di frenare le loro parole.
< No, per favore… non me la sento di parlarne… perché invece non mi raccontate un po’ voi come vanno le cose. State tutti bene? >
E da quel momento di avvicendarono le loro voci. Ogni particolare era così tranquillizzante che sarei rimasto ad ascoltarli per ore.
Quando fu il momento di salutarsi sentii un blocco alla gola.
< Spero di risentirvi presto. Vi chiamerò questa notte… >
< Va bene, Edward. Mi raccomando, si gentile con Bella ma non darle false speranze. Non sarebbe giusto verso di lei. >
< Certo… allora, a dopo. >
< A dopo. > mi risposero le voce dei miei familiari in un coro scoordinato.

Dal piano di sopra sentii il piccolo piangere e svegliare la famiglia. Mi rimisi sotto alle coperte e finsi di dormire. Volevo ascoltare.
Reneé allattò il piccolo poi andò a chiamare Bella. Erano appena le sette e mezza.
La aspettò fuori dal bagno mentre Bella si lavava i denti e si sistemava. Voleva parlarle. Scesero insieme le scale e la madre le disse: < Marie, cerca di essere carina con lui... 
so che ci sei rimasta molto male ma ieri, quando è arrivato… mi è sembrato così felice. E mentre parlava di te… avresti dovuto vedere il suo sguardo… >
< Sì. Mamma… ma non ti intromettere, ok. È solo un idiota e io ho già detto che non ne voglio più sapere. >
< Non essere crudele. Ha fatto tanto per te. > esitò un attimo e poi scelse con cura le parole. 
Pensava al mio sacrificio, alla rinuncia al matrimonio. 
Non poteva dirglielo. < Ti è sempre stato vicino dopo l’incidente. E ora, va a svegliarlo. Intanto preparo la colazione. >
Bella sbuffò e poi venne in salotto. Sentii il suo sguardo su di me. Indugiò a lungo.
Afferrò qualcosa e sentii un suono simile allo scorrere di un piccolo rivolo d’acqua. Percepii qualcosa di bagnato sui capelli e la camicia.

Aprii di scatto gli occhi, ritraendomi. Una perfetta interpretazione di uno svegliato di soprassalto con dell’acqua gelida.
< Oh… scusami! Edward, non volevo… mi è scivolata la mano e si è rovesciata l’acqua... > mi disse senza alcuna traccia di rimpianto e di scuse. Il suo volto impassibile era splendido.
Ora che si era tolta il trucco potevo vedere la ragazza che amavo. La preferivo così, nonostante avessi sobbalzato vedendola truccata e vestita in quel modo così provocante. L’avrei apprezzato se l’avesse fatto per me ma, sapendo la realtà, mi sentivo roso dall’invidia e dalla gelosia…
in ogni caso, preferivo sentire il profumo della sua pelle non coperta da cosmetici, preferivo vedere il colore della sua carnagione, vederla imporporarsi…
il mio sguardo scivolò lungo il suo collo, il suo petto, il suo seno…
Era china verso di me ed intravedevo il pizzo del reggiseno…
Alzai lo sguardo verso il suo viso e mi soffermai ad osservare le sue labbra piene, i suoi occhi velati di tristezza. 
Mi protesi a respirare il suo profumo, il suo respiro…
No, basta, non dovevo guardarla in quel modo. Dovevo darmi un contegno e riprendere il filo dei miei pensieri… ero già assuefatto alla sua persona. 
Ne avevo bisogno. Ne avevo sempre avuto.
Era la mia aria, il mio ossigeno.
< Ti si è rovesciata l’acqua del vaso di fiori? > domandai fingendo stupore e irritazione.
Tossì mascherando l’arrochimento della mia voce causato dalla sua presenza.
< Sì. Volevo andare a cambiarla. Pazienza. > mi diede le spalle e si diresse in cucina.
< Guarda che è pronto! Io non ti aspetto. > urlò sedendosi.

 Mi sfilai la camicia bagnata e ne infilai una asciutta prima di raggiungerla e sedermi al suo fianco.
Lei guardava ostinatamente dal lato opposto.
Reneé aveva già preparato e io sopportai la tortura del cibo grazie alla presenza inebetente di Bella.
La colazione si protrasse nel silenzio delle occhiate schive che Bella mi rivolgeva. Fingeva irritazione. Perché io sapevo che fingeva. Io la fissavo senza pudore.
Reneé cercò di intavolare una conversazione ma sua figlia si limitava a rispondere a monosillabi. Io invece fui molto più affabile. Riferendo di come fosse la mia vita a Syracuse, sottolineando le restrizioni noi imposte come coprifuoco, orari rigidissimi e divieto di utilizzo dei cellulari, raccontai molti aneddoti. Dovevo rendere tutto credibile.
Bella, che fingeva di essere interessata solo ai suoi cereali, in realtà non si perdeva una sola parola di ciò che dicevo. Ogni volta che parlavo di una ragazza (dalla fantomatica compagna di banco a quella che mi avrebbe chiesto informazioni per il settore D) la vedevo tendersi e ingoiare a fatica.

Finita la colazione, Reneé propose: < Perché non andate a fare un giro? Oggi non hai niente da fare. Potresti mostrare a Edward la città… che ne dici? >
< Piove, fa freddo e non ne ho voglia. >
< Non si preoccupi. > intervenni io. Reneè mi sorrise amichevole e mi fece segno di non preoccuparmi. si rivolse alla figlia.
< Marie, non essere scortese. Dai, vai a prepararti. Oggi ho voglia di prendermi del tempo per me e starmene a casa da sola quindi va, su! >
Nella sua mente era cristallina la sua voglia che Bella si distraesse, che uscisse, anche se con me.
< Se proprio devo… ma lo faccio solo per te, mamma. > sospirò Bella alzandosi e sparecchiando. 
Sparì in camera sua mentre Reneé si apprestava a cambiare il piccolo che le aveva appena vomitato sulla spalla. Spettacolo nauseante…
Dalla camera di Bella arrivò la sua voce:
< Sbrigati e cambiati in fretta! Non ho voglia di aspettarti! >
Andai in bagno e mi lavai e cambiai in fretta. Non volevo farla adirare. Fui però io a doverla attendere, e a lungo.
Reneé mi passò affianco e, sebbene pensasse che Bella tardasse tanto solo per farmi innervosire, sussurrò: 
< Perdonala, è una ragazza… scegliere come vestirsi è un’impresa. >
Io attesi paziente, seduto sugli ultimi gradini della scala.
Quando la sentii scendere mi voltai e il respiro mi morì in gola.
Vederla così… mi faceva desiderare di prenderla e portarla via. Volevo solo restare con lei, fuggire lontano…
Tenerla con me…
Era bella di una bellezza rinata, incantevole e avvenente come non lo era stata mai.

 Mi chiesi dove l’avesse colpita Phil, quante volte le avesse fatto del male.
Come aveva potuto alzare le mani su una creatura così indifesa come lei?
Repressi il dolore che tali pensieri facevano sorgere in me.
L’ombra vaga di un taglio era appena visibile sul suo labbro inferiore. Mi chiesi se portasse altri segni della violenza del patrigno sul suo corpo.
Il mio unico desiderio era toccarla,accarezzarla, là dove lui le aveva fatto del male per guarire le sue ferite.
Non potevo chiederle cosa le avesse fatto. Dovevo aspettare che fosse lei a volermene parlare.
Altrimenti rischiavo solo di peggiorare la situazione. Dovevo essere paziente e riguadagnarmi la sua fiducia per poterla aiutare. Dovevo anche fidarmi di Carlisle. A suo dire, aveva dissuaso Phil dal torcere ancora a Bella un solo capello… era certo che quell’uomo non si sarebbe più avvicinato a lei. 
E Carlisle sapeva essere molto persuasivo…

 Bella mi ignorò e non mi rivolse la parola finchè non fu nell’ingresso.
< Se non hai la macchina, possiamo prendere quella di Reneé. >
< Non preoccuparti. Ne ho noleggiata una, quella di ieri sera. A proposito, sei incantevole. Quel blu dona molto alla tua carnagione. >
< Non che a te debba importare. > mi sibilò pungente ma la vidi arrossire e distogliere lo sguardo da me. Si arricciò i capelli e sospirò.
Arrivati all’auto, le aprii la portiera del passeggero e lei, senza dire niente, salì.
Per tutto il giorno parlò pochissimo limitandosi a dirmi dove andare. Destra, sinistra, destra, tieni la sinistra, sottopassaggio, parcheggio.
Museo, museo, parco, spiaggia, yogurteria, altro museo…
Lei guardava le opere d’arte.
Io ne fissavo la più bella.
Stivali blu scamosciati, gonna blu, camicetta azzurra e maglioncino blu. Tante varie tonalità. Capelli sciolti lungo la schiena e le spalle.
A ora di cena le proposi di andare in un ristorante. Aveva preso solo un frullato per pranzo. Non ne ero contento.
< No. Grazie. >
< Insisto. >
Mi guardò con un’intensità che mi fece provare calore all’altezza dello sterno.
Mi fissava negli occhi come se vi stesse cercando qualcosa, qualcosa di celato. < Dove ti va di andare, Edward? >
< Ovunque tu voglia. > trattenne un sorriso e poi fece il nome di un paio di ristoranti che sua madre le aveva consigliato appena arrivata a Jacksonville.
La portai in quello dove eravamo stati quando eravamo venuti a trovare sua madre in quella che sembrava una vita precedente… non riconobbe il locale. 

Per tutta la cena non mi rivolse la parola.
Il suo sguardo truce incenerì la cameriera che, elencando il menù, si era lanciata in sgradevoli allusioni e ammiccatine nei miei confronti.
Mentre mangiava, teneva lo sguardo basso. Ogni volta che pensava non stessi osservando mi fissava.
Riconobbi un vortice di emozioni fluire sul suo viso dai tratti delicati.
Ira, rabbia, dolore, tristezza, gelosia, desiderio… amore, di nuovo rabbia, rassegnazione…
Quando terminò di mangiare, mentre tornavamo all’auto, le chiesi se avesse voglia di andare in qualche locale.
Non volevo essere da meno rispetto a Jason anche se non le avrei permesso di ubriacarsi.
A quella domanda Bella rabbrividì. Il suo corpo si irrigidì e lei, cercando di non farsi notare, cominciò a spostare lo sguardo sui tetti, come se cercasse qualcosa. Il suo tremore era innaturale.
< Hai freddo? > le domandai sfilandomi la giacca e poggiandola sulle sue spalle.
Pensavo l’avrebbe respinta e invece ci si strinse dentro.
< No, non è niente. Scusami… comunque, preferisco andare a casa. Sono molto stanca. >
Le aprii la portiera e lei si lasciò sfuggire un sorriso ampio e genuino a cui io risposi con un mezzo sorriso volutamente seducente.  Fu divertente vederla arrossire e trattenere il respiro. Mi ricordava quei primi giorni a Forks, quando l’avevo appena conosciuta… provai un immenso moto di nostalgia a rievocando quei pensieri… per scacciarli, collegai l’MP3 alle casse e lo accesi.
Debussy si diffuse nell’abitacolo.
Bella, abbandonandosi allo schienale, cercò di non farsi notare mentre inspirava l’odore del mio giaccone. Sospirò, serena.
< Adoro questa canzone. > sussurrò chiudendo gli occhi.
< Anche io. > poi, rimanendo in silenzio, la osservai mentre cedeva al sonno.

 Arrivati a casa sua, la presi tra le braccia e la portai in camera sua. Reneé era già andata a letto. Ci aveva lasciato un messaggio all’ingresso in cui ci augurava una buona notte e mi invitava a dormire nella camera degli ospiti, dove aveva già spostato i miei effetti personali. 
Mi raccomandava di non dar retta a Bella, o meglio, Marie.
Già, Marie… non voleva farsi più chiamare Bella…
Non avevo avuto il coraggio di chiederle il perché. Anzi, nel corso della giornata avevo evitato di chiamarla per nome proprio per schivare questa domanda insidiosa che si insinuava continuamente nella mia mente.

 Mi sdraiai su quello che era stato il letto in cui avevano “dormito” Esme e Carlisle. Un vago ricordo del loro odore aleggiava ancora nella stanza.
Bella si svegliò verso le due di notte.
Reneé si era già svegliata e riaddormentata dopo aver allattato il piccolo Owen. Era così esausta che non sentì Bella passare davanti alla sua stanza. 
Stava scendendo in cucina?
Mi resi conto che i suoi passi si erano arrestati davanti alla mia porta.
La aprì lentamente e poi… il silenzio. Potevo percepire un filo di luce filtrare dalla porta socchiusa.
Per alcuni minuti ascoltai il suo respiro tranquillo. mi lasciai fissare e pensai a tutte le volte che l’avevo osservata dormire…

< Ehi, Edward… se vuoi puoi dormire sulla poltrona, in camera mia. > sussurrò pianissimo.
Non si aspettava certo che la sentissi.
Socchiusi gli occhi non appena la sua voce si fu dispersa in vibrazioni sempre più attenuate.
Trattenne il fiato, arrossendo. 
Era accovacciata per terra. Le braccia incrociate sulle ginocchia. Si reggeva il mento e mi fissava. I capelli le ricadevano morbidi sulle spalle.
< Posso davvero? >
Era totalmente sconvolta, colta di sorpresa. Tanto stupita che, rossa in volto, mi rispose balbettando:
< Se ti sbrighi. Altrimenti cambio idea. >
Si ricompose. < Io comincio ad andare. La mia è l’ultima stanza. E poi, vai sempre a dormire in camicia e jeans? > mi domandò ironica,celando l’imbarazzo.
Poi se ne andò, quasi di corsa.
La senti sussurrare a sé stessa: < Ma che cavolo sto facendo!? >
Raccolsi le mie cose e bussai alla sua porta.
Rumori inquietanti provenivano dalla stanza.
< Arrivo, arrivo. Ahia! >
Ci fu un gran fracasso e, allarmato, entrai.

La trovai a terra intenta a massaggiarsi la gamba. La poltrona-letto era stata mezza montata. Probabilmente si era fatta male nel cercare di aprirla.
Con un gesto veloce e fluido finii di montarla e poi mi inginocchiai al suo fianco.
Sorrisi vedendola arrossire.
< Potevi lasciar fare a me. >
< Volevo essere gentile, scusarmi per ieri,oggi... insomma, sono stata sgarbata con te. >
< Come se fossi tu quella che deve scusarsi. >
< Hai ragione. Non avrei dovuto neanche farti entrare in casa. >

Cercava di sembrare adirata ma non ci riusciva molto bene. Continuava a sospirare, a fissarmi cercando di non farsi notare, ad arrossire…
Le sollevai i pantaloni del pigiama fino al punto in cui si stava massaggiando.
Una porzione di pelle era arrossata. Si era procurata un futuro livido, poco ma sicuro.
Mi sostituii a lei nel massaggiare la zona lesa. Le carezzavo la pelle con movimenti lenti e circolari.
Un mugolio sfuggì alle sue labbra ed ella arrossì ulteriormente.
Le sistemai una ciocca di capelli e le sfiorai la guancia.

La vedevo combattuta. Poi, all’improvviso, prese la mia mano e la guidò al suo viso. Ci si appoggiò ed inspirò profondamente.

< Sei uno stronzo. >
< Sì, hai ragione. >
< Perché sei venuto? >
< Perché volevo vederti. >
< Ma perché solo adesso? Sono passati mesi! L’ultima volta che mi hai telefonato… è stato più di un mese fa. Non ti fai mai vivo, non mi rispondi…
non sei venuto, quando avevo bisogno di te. Quando avevo bisogno di aiuto. >
Lacrime sottili scesero lungo le sue guance e io avrei voluto assaggiarle.
< Lo so, ti chiedo perdono… mi credi se ti dico che il mio pensiero non è stato rivolto ad altri che a te e che, se avessi potuto ti avrei chiamato, sarei venuto da te molto prima. >
Non mi rispose. Cincischiava con il laccetto del suo pigiama.
< Chi era quella? >
< Come scusa? >
< Chi era quella! >
La osservai. Rossa in volto, sentivo il suo sangue che pulsava furioso. Era in imbarazzo ed adirata in un sol tempo. Dal suo sguardo ingelosito trassi appagamento ma faticai a capire a chi si stesse riferendo. Nessuna mai per me era stata anche solo vagamente interessante e poi, lei come avrebbe potuto saperlo? Fu a quel punto che compresi a chi si riferisse: A quella insulsa segretaria. Anita… non potei fare a meno di celare un sorriso. Era gelosa di me…
< Stai parlando di Anita? > quasi scoppiai a ridere.
< Oh, così si chiama Anita. > si scostò da me e si alzò in piedi. Andò a sedersi a braccia e gambe conserte sul suo letto. Io rimasi seduto a terra. Avrei voluto ridere di felicità, dirle quanto fossi felice di vederla, rassicurarla di quanto fossero inutili i suoi timori, raccontarle la verità…
avrei voluto baciarle le labbra.

 < Sei gelosa? >
< E tu? Ti ho visto ieri, come guardavi Jason. >
< Io non sono geloso. > falso. Ero un bravo bugiardo. Lei parve crederci e me ne sembrò ferita.
< Neanche io. > falso, ma, a differenza mia, lei era una pessima bugiarda. Sorrisi affabile.
< Comunque, lei è la ragazza del mio compagno di camera. Una ragazza non particolarmente gradevole… >
< Sei sincero? >
< Marie… >
< Oh, andiamo, non chiamarmi in quel modo! >
< Ma ieri quel ragazzo… >
< Lui dimenticatelo. Io non sono Marie… quella storia del nome, è solo una sciocchezza. Non è servito a nulla. 
Non è facendomi chiamare in modo diverso che posso cambiare me stessa… > Si stava torturando le mani, tenendo lo sguardo basso.
Gocce salate scivolarono fin sul suo mento e da lì caddero nel vuoto fino a sfiorare la trapunta e da essa venire assorbite.
Non mi riuscii a trattenere e mi avvicinai a lei a passi misurati. Le asciugai le lacrime con le dita.
< Ehi, non ho fatto tutta questa strada per vederti piangere. Non voglio che tu sia triste… >
Con l’indice la costrinsi ad alzare il viso.
Lei si sforzò di sorridere poi, come se non riuscisse più a porre un argine a ciò che provava, si lasciò andare ad un pianto accorato. 
Mi gettò le braccia al collo e si strinse a me, sporgendosi verso il mio viso.
Con movimenti naturali la presi fra le braccia e mi sedetti sul suo letto, tenendola sopra le mie gambe.
Era così fragile.
La sua pelle era un velo sottile e semitrasparente. 
Vedevo i vasi sanguinei diramarsi in milioni di cunicoli. Li sentivo pulsare al ritmo del battito del suo cuore. 
E l’umido odore del suo sangue mi inebriava.
Tra le lacrime mi continuava a ripetere quanto mi odiasse, quanto fossi stupido, cretino menefreghista, idiota… quanto fossi stato crudele a lasciarla sola quando aveva bisogno di me.
Annuivo, le carezzavo la schiena,assentivo lasciandola parlare, sfogarsi.
Non potevo rammaricarmi per le parole che mi rivolgeva.
Aveva sofferto così tanto per la mia assenza.
Lentamente i suoi singhiozzi si quietarono. Mi limitavo a cullarla lentamente, accarezzandola senza turbarla.
< Va meglio? >
< Sì… scusami… non volevo dirti tutte quelle parole. >
< Me le sono meritate. > con quelle parole riuscii a strapparle un sorriso.
< Lo puoi ben dire. >
La feci sdraiare e lei mi prese per mano, invitandomi a stendermi al suo fianco.
< Grazie > le sussurrai all’orecchio.
< Non ti ho perdonato. > La sua voce era armoniosa, nonostante cercasse di renderla dura, mostrandomi quanto fosse irata verso di me.
< Lo so. >
< E non posso perdonarti. >
< So anche questo. >
< Però una cosa posso farla… >
< Ah sì? >
< Sì. > e senza aggiungere altro, con uno slancio, poggiò le sue labbra alle mie, le dischiuse e io, colto alla sprovvista, feci altrettanto.
Era sbagliato, andava contro tutto ciò per cui mi ero sacrificato e per cui avevo sacrificato la nostra relazione. 
Non avrei dovuto rispondere a quel suo bacio così carico di disperazione ma non potei impormi di fermarmi. Non avevo tutta quella forza di volontà.
La strinsi a me con tutta delicatezza di cui ero capace, le avvolsi le braccia intorno al busto.
I pensieri di Jason mentre ricordava di toccarla mi bruciavano l’anima ma, confrontando i ricordi di quel ragazzo con quello che avevo vissuto con Bella, con quello che stavo vivendo, capii che non era cambiato nulla.
Lei non lo aveva mai amato, non lo aveva mai baciato come stava baciando me in quell’attimo.
Non aveva mai inarcato la schiena come stava facendo in quel momento, rispondendo al tocco delle mie mani…
non lo aveva mai toccato come stava toccando me in quegli istanti.
Con lui non aveva mai ansimato come se il respiro le morisse in gola, come stava accadendo adesso…

 Le sue piccole mani calde si infilarono sotto la mia camicia, posandosi sul mio petto.
Le teneva spalancate come due soli da cui si irradiavano raggi caldi. E io non potevo che fremere a quel contatto che mi rendeva così vivo.
Non aveva smesso di piangere nonostante i singhiozzi si fossero mutati in mugolii di piacere.
Godevo del sapore delle sue lacrime salate e me ne libavo.
La baciavo con ardore nella speranza di farle dimenticare i baci di quell’insulso ragazzino. 
Fu molto egoista da parte mia ma volevo essere io a lambirle le labbra e non potevo sopportare l’idea che un altro ne avesse assaggiato il sapore. 
A quel pensiero mi accanii ancora di più sulla sua bocca socchiusa.
Parve gradire l’impeto appassionato del mio amore ardente dal momento che le sue dita si contrassero sulla mia pelle. La sua gamba strusciava contro la mia mentre lei tentava di avvicinarsi a me più di quanto non avesse già fatto. Come se volesse oltrepassare la barriera creata dalla nostra pelle.
Quel bacio, il primo dopo tanto, troppo tempo, fu così perfetto che non mi parve reale.
Mi accarezzò i capelli ed io feci altrettanto, lasciai la mia mano scivolare sul suo collo, lungo la sua schiena. Incrociò le gambe alle mie e si strinse spasmodicamente a me
Pian piano i suoi respiri affannosi si placarono e il suo cuore riprese a battere a un ritmo normale.
I suoi movimenti si fecero via via più lenti fino a cessare del tutto.
Si addormentò stringendo le sue dita intorno alle mie.
La avvolsi nelle coperte, attento a non disturbarla.

 Non avevo smesso di osservarla, di studiare ogni minimo particolare del suo volto.
Il tempo che era trascorso non le aveva mutato i tratti del viso. Le si erano solo leggermente affinati i lineamenti. Il suo seno si era fatto più pronunciato, era dimagrita, le erano cresciuti i capelli.
Tutto ciò sanciva decisamente il suo passaggio all’età adulta.
Quella che io non avrei mai raggiunto…

 No. Sarebbe stato troppo egoista da parte mia tenerla per me.
Avevo fatto la scelta giusta quando avevo deciso di salvaguardare la sua vita. Lei, che non ricordava i pericoli che comportava la mia vicinanza, meritava la possibilità di vivere felice, crescere, avere dei bambini.
Non potevo sottrarle tutto ciò. Non ne avevo alcun diritto.
Era il destino che mi aveva dato la possibilità di liberarla dal nostro vincolo che l’avrebbe relegata alla solitudine dell’oscurità.
Non importava quanto l’amassi, quanto la volessi.
Non avevo nessun diritto di sperare.
Eppure, nella tasca dei miei pantaloni, avevo sempre conservato l’anello di mia madre. Lo stesso anello con cui, mesi prima, le avevo chiesto la mano.
Me lo aveva riconsegnato Charlie, con gli occhi lucidi, il giorno in cui gli dissi che avrei rinunciato a sposare sua figlia, che non ricordava nulla della mia proposta, del nostro amore…

Charlie mi aveva ringraziato per il gesto di generosa rinuncia e mi aveva detto che con quell’atto gli avevo dimostrato quanto realmente amassi sua figlia. Lui non poteva sapere quanto profondo fosse il nostro amore.
Da quel momento quell’anello lo avevo sempre tenuto con me, nella vana e malsana speranza di poterlo rendere alla donna che ne era la proprietaria.
Era un comportamento sbagliato, perverso, scellerato ma lo portavo sempre con me per averla sempre vicina, perché era suo, proprio come il mio cuore.
Ora lei era lì, davanti a me, e non potevo fare a meno di desiderare le sue labbra, il suo calore.
Lei, addormentata, sorrideva.




Nota dell’autrice: Grazie a tutte voi per essere arrivate a leggere fin qui. Vi ringrazio e spero di non farmi attendere molto. Ora sono in vacanza quindi ho un po’ di tempo. Credo di riuscire a postare prima di domenica, sempre che il mio gruppo di studio non si riunisca anche questa settimana! (non diteglielo ma… non ce la faccio più!!!!!basta!!!!!)

Non vedo l’ora che sia già luglio… almeno, con un voto o con l'altro, questo delirio sarà già finito!

Ps: vi è piaciuto? mi ha divertito molto scrivere la scena finale e, vi avviso, è solo il preludio ai prossimi due caps... la storia pernderà una piega più romantica che spero vi faccia sorridere! 

sarà un po' più caliente ma si sa, l'amore gioca brutti scherzi e travalica la razionalità

A presto, Erika 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** I feel alive, when you are beside me ***


Salve ragazze.

Scusate se mi faccio viva solo ora. per quanto sia banale la mia giustificazione, l'università mi sta totalizzando. non tanto lo studio ma tutto ciò che ci gravita intorno. tanti corsi = tanti esami tutti insieme. ormai non dormo più per poter studiare. 
Spero che tutta questa fatica valga un bel voto all’esame perché ci sto perdendo dietro troppe ore di sonno. Sembro uno zombie. Magari fossi come un vampiro… quanti vantaggi!!!
E invece no. E da umana sono passibile di fallire. E di deludere. Spero che però non sia così almeno per quanto riguarda questa storia.
 Parlando di “cose serie” per modo di dire… la domanda più gettonata è stata: Ma si riavvicineranno?
Beh… voi mi conoscete… non posso certo spoilerarvi tutto… però, mettiamola così: ci saranno sviluppi che sono certa non vi spetterete.
Per chi ha letto Harry Potter… è una O. oltre ogni aspettativa.
Non sarà un semplice riavvicinamento. Proprio per essere esplicita.
Ma non saranno neanche tutte rose e fiori. Bella non si sbottonerà tanto facilmente con Edward.
Si sente troppo male a pensare anche solo di raccontare ciò che le è successo, almeno per ora.
Per quanto riguarda la memoria latitante di Bella… tornerà a ondate, nel puro senso della parola.
Questo la confonderà e la disorienterà. Anche perché non si confiderà subito con Edward e quindi cercherà di affrontare tutto da sola.
Ok, credo di aver parlato (scritto) fin troppo. Sperando di non avervi annoiate, vi lascio agli sviluppi.

 


PS: senza voler spoilerare… non ricordo se in questo o nel prossimo cap ma presto (molto presto) il ricongiungimento spirituale si trasferirà dal piano metafisico a quello molto più concreto fatto della realtà quotidiana. E quindi i nostri due pischelli… si beh, si sa come vanno queste cose.
Ho cercato di tagliare (e sono stata davvero mani di forbice) per permettere a tutte di leggere senza che io incorressi in un bellissimo sforamento di rating (non potevo farlo schizzare al rosso. Mi capite vero?) e spero quindi di non turbare nessuna delle vostre candide anime.
Ho cercato di rimanere sul soft perché, oltretutto, non mi piace quando si è troppo espliciti. Quando si “descrivono” dei rapporti sessuali si rischia sempre di valicare la sottile linea della pudicizia e scivolare nella volgarità gratuita e superflua.
Per questo spero di non aver peccato di sovrabbondanza di dettagli.
Ciò premesso, spero di non arrecare a nessuna di voi un disagio nel leggere.
Nel caso, mi scuso anticipatamente e, se ricevessi da voi segnalazione, provvederei a eliminare quelle parti che vi risultassero sgradevoli.

 

Edward’s Pov

cap 25                                

                                                                                                                         I feel alive, When you're beside me
                                                                                                     Mi sento vivo quando sei accanto a me

   

 
Ma quella non si rivelò una notte tranquilla.
Bella si agitò, scalciando e  tremando. Più volte gridò parole sconnesse.
Ognuna era per me una pugnalata.
“fermati” “lasciami” e poi tante, troppe volte, urlò il nome di Phil.
Stava avendo degli incubi che le facevano battere furiosamente il cuore.
La stringevo a me nel tentativo di darle conforto. La vedevo soffrire, rivivere i maltrattamenti e le violenze che aveva patito. A ogni suo sospiro addolorato mi chiedevo come avrei potuto lasciarla sola, di nuovo. Sentivo la necessità di proteggerla. Non avrei permesso a nessuno di farle del male, di nuovo.
Strinse i pugni con così tanta forza da conficcarsi le unghie nella carne tenera del palmo delle sue mani, portandosele a sanguinare. Si notava in uno dei due palmi,  una cicatrice netta e lunga che lo attraversava e i segni di alcuni punti. Era un taglio relativamente recente quello a cui le nuove ferite si intersecavano formando cupi arabeschi. Stille di rubini rilucevano nella notte.
Quell’odore, che si disperdeva intorno a me goccia dopo goccia, era una tentazione tale che non sapevo se avrei resistito.
Mi limitai ad inspirare il profumo dei suoi capelli, nel tentativo di calmarmi.
Nell’agitarsi si scoprì un braccio. Sulla sua pelle candida lunghe e sottili cicatrici violacee. I segni tangibili del suo dolore. Constatai che non ve ne erano di troppo recenti. Erano tutte anteriori di almeno un mese. Non si era più ferita da quando Alice era partita. Forse questo era un indice che quanto aveva detto Carlisle era vero. Forse non aveva più sentito la necessità di farsi del male perché Phil aveva smesso di maltrattarla…
Lambii quegli sfregi con le mie labbra recriminandomi di non esserle stato accanto quando aveva avuto bisogno. Ognuno di quei segni mi ricordava quanto avesse sofferto.
Pensai a Phil che la picchiava. A lei che mi implorava di andarla a prendere e portarla via…
A Jason che la palpava spogliandola.
Dei pensieri insopportabili.
Ad un certo punto il suo corpo venne scosso da singhiozzi tali che si svegliò.
 

Ansante, riaprì gli occhi e si accorse che la tenevo stretta a me. Spostò la mano, che si era portata al cuore impazzito, sul mio viso.
< Edward… >
< Sono qui, non preoccuparti… > le sussurrai conciliante, accarezzandole i capelli.  < Torna a dormire. Cerca di riposare un po’. È notte fonda. >
< Scusami… ho fatto un incubo. Mi spiace se non ti ho fatto dormire… >
< Non preoccuparti per me. Riposa… > e le carezzai le reni.
La vidi mordicchiarsi le labbra, il suo viso imporporato sulle gote.
< Va tutto bene? > le domandai apprensivo. Lei non mi rispose.
Le carezzai il collo e la schiena. Il suo corpo rispose al mio tocco inarcandosi.
< Edward… > Ansimò cercando le mie labbra, in cerca del conforto che io stesso volevo darle.
< Bella > le sussurrai nella bocca dischiusa.
Le sue dita esploravano il mio viso, alla ricerca di cosa non mi è dato sapere.
Trovò i miei capelli e vi si aggrappò.
Il suo cuore palpitava così velocemente da confondermi la mente già ottenebrata dalla sua presenza totalizzante.
Mi azzardai a carezzarle il petto. Scesi a scostarle la maglietta,a lambirle la pancia e a cercare i suoi fianchi. La sentivo fremere al mio tocco e ciò mi invogliò a proseguire nella ricerca della sua pelle.
Rividi Jason pensare a come Bella lo avesse respinto, a come si fosse ritratta spaventata, a come si fosse allontana da quel ragazzo, sottratta alle sue mani.
Non voleva farsi toccare da lui in quel modo.
Nel modo in cui la volevo toccare anche io.
Nel modo in cui la stavo toccando.

 Eppure, alle mie carezze rispondeva in modo così diverso… così disponibile. Non era fredda come era stata con quel ragazzino… no, con me era così partecipe…
Voleva quel contatto.
Ma mi dovevo trattenere.
Per evitare di darle false idee e per evitare di carpirle la virtù.
Non potevo illuderla di un amore vero e sincero ma impossibile.
Eppure era così calda… così profumata…
la volevo.
L’avevo sempre voluta.

 Non riuscivo a pensare.
La sua mano si insinuò sotto alla mia camicia.
< Edward… ho caldo… >
Sorrisi. < Come sarebbe a dire? >
< Oh… insomma! Non capisci niente! > e allontanò il petto da me per sfilarsi la maglietta. Sorrideva, fingendosi irritata.
Deglutii a vuoto quando i miei occhi si soffermarono sul suo seno. Mi affrettai a distogliere lo sguardo.
Si appoggiò lentamente al mio petto e mi accarezzò la guancia.
Sentii una macchia bagnata espandersi sulla mia camicia.
Lacrime?
< Perché piangi? >
< Perché non mi guardi? > mi domandò lei con voce rotta.
< Perché non ce la faccio… > le sussurrai con voce arrochita dallo sforzo di trattenermi.
Cercò di allontanarsi da me, ferita, ma io la trattenni stringendola tra le mie braccia. Baciandole i capelli le sussurrai: < No, no… ti prego. Non volevo ferirti. È solo che… con te qui, così… non riesco a controllarmi. >
< E allora non controllarti! > sbottò lei rossa di vergogna.
Gli occhi arrossati erano nuovamente asciutti.
< Ma Bella, tu non capisci. >
< Hai ragione, non capisco! >
Cercò di divincolarsi ma la trattenni afferrandola per i polsi. Esercitai poca forza ma temetti di averle fatto male. Lei infatti aveva sussultato, inspirando l’aria velocemente.
La lasciai andare immediatamente, preoccupato, e la vidi raggomitolarsi su se stessa stringendosi le braccia al petto, sul reggiseno.
Mi diede le spalle. 
Potevo vederla tremare. Non capivo quella reazione. Cercai di parlarle, di scusarmi.
< Bella… scusa, non volevo farti male. > le sussurrai mortificato.
< No, no. Non è niente. Non mi hai fatto male. Non è colpa tua. >
Con gentilezza le posai la mano sulla spalla, costringendola dolcemente a voltarsi. Supina, mi fissava.
Mi portai a cavalcioni su di lei senza sfiorarla, senza gravare con il mio peso sul suo corpo fragile.
Teneva ora le braccia spalancate poggiate sul cuscino, sopra i capelli sparsi. I suoi occhi arrossati mi trasmettevano una tristezza che era per me dolorosa da sopportare. Il suo respiro era ostacolato da qualcosa che non riuscivo a cogliere. Nel suo sguardo avrei potuto perdermi.
Nel dolore che vi scorgevo avrei potuto annegare.
Le carezzai il viso.
< Bella? >
Schivò il mio sguardo voltando il capo. Non si muoveva.
Inerme davanti a me, fissava un punto indefinito della stanza.
Il suo seno si abbassava e alzava al ritmo del suo respiro accelerato, invogliandomi ad accarezzarlo.
Quando la vidi piangere lì, così indifesa, tutte le barriere che avevo cercato di impormi crollarono come sabbia trasportata da una marea.
Mi chinai su di lei e le lambii le guance con le labbra, carpendole le lacrime.
Il suo ventre nudo sfiorava la mia camicia.
Non potevo sopportare che la stoffa mi separasse dal suo calore e me ne disfai.
Il mio bacino scivolò sul suo finchè le nostre gambe non entrarono in contatto.
Lei non reagiva. Piangeva in silenzio, immobile. Una bambola di porcellana.
Scesi a baciarle la clavicola, il collo…
< Edward… > sussurrò con un filo di voce.
sperando, contro ogni buonsenso, che mi chiedesse invece di continuare le chiesi: < vuoi che mi fermi? >
A quelle mie parole sussultò poi, in silenzio, portò le sue braccia dietro alla mia schiena,tentando di stringermi a sé. Io l’assecondai avvicinandomi. Il suo seno, racchiuso nella stoffa nera del reggiseno, sfiorava la mia pelle nuda.
< No. Voglio che tu vada avanti. Per favore. >

Mi scostai per fissarla negli occhi. Erano le parole che volevo sentirmi dire ma, allo stesso tempo, speravo non pronunciasse.
E poi, ciò che mi disse contrastava così tanto con la sua voce addolorata, con le sue lacrime, che mi riusciva difficile assecondarla.
< Bella, va tutto bene? >
Si strinse a me, nascondendosi nell’incavo del mio collo e, in questo modo, sollevando il busto dal materasso. Il suo peso leggero gravava tutto sulle sue braccia incrociate dietro alle mie spalle.
Feci scivolare le mie mani dietro alla sua schiena, che presi a carezzare dolcemente.
< Sì, ora che tu sei qui con me va tutto bene. > mi sospirò ad un orecchio.
Le mie dita trovarono il gancetto metallico. La sentii fremere mentre la liberavo da quell’indumento.
Avrei dato tutto ciò che era in mio possesso per sapere cosa pensasse in quel frangente ma la sua mente era muta e dalle sue labbra non sfuggiva neanche una parola. Solo qualche lieve gemito che mi invogliava a continuare nel massaggiare la sua pelle.
Intrecciò le sue gambe alle mie, stringendosi ancora di più a me.
< No, aspetta… > le sussurrai scendendo con le mani lungo la sua schiena. Le afferrai le ginocchia, allontanandole le gambe dalle mie.
Lei si immobilizzò, come se l’avessero colpita.
< No… no… non preoccuparti, non volevo fermarmi. > la rassicurai prima di salire con le mani sull’elastico dei suoi pantaloni.
Glieli sfilai con un gesto fluido. La vidi, con la coda dell’occhio, arrossire e mordicchiarsi il labbro inferiore malcelando un sorriso imbarazzato. Gli occhi erano ancora lucidi.
< Ora tocca ai tuoi pantaloni… > mi sussurrò in imbarazzo.
< C’è tua madre, di sotto. > le dissi cercando di convincere più me che lei.
Non potevo cadere nella tentazione più grande della mia vita. Nel mio frutto proibito.
< Non mi importa. Non si sente niente, di sotto. Questa casa è vecchia. Ha i muri spessi. >
< No. >
< Come no? Non puoi lasciare me così e tu rimanertene con le braghe… > sussurrò con voce tremante di imbarazzo.
Non so cosa mi passò per la testa in quegli istanti. Ero totalmente e incondizionatamente prigioniero dei suoi occhi. La mia mente non era in grado di elaborare pensieri coerenti.
< Per favore… un attimo solo… > le sussurrai posandole un dito sulle labbra piene.
Dovevo farlo. Dovevo sapere.
Infilai la mano libera nella tasca dei pantaloni e ne estrassi il piccolo gioiello lucente. Lo tenni nel pugno della mano.
< Ecco, ho fatto. > le sussurrai prima di riaccompagnare le sue dita tremanti ai miei pantaloni. Prima che cercassero di sbottonarli.
Entrambi eravamo ormai seduti l’una dinanzi all’altra.
Ci mise tanto di quel tempo che dubitai volesse slacciarli per davvero.
< Scusami… sono così imbranata. >
Mi chinai a baciarle i capelli e lei si fermò, poggiando il capo sul mio petto.
Ma perché piangeva ancora?
Le presi con delicatezza le mani che ancora armeggiavano con i bottoni dei miei pantaloni.
Gliele guidai sul mio petto. Mi disfai dello scomodo indumento e poi le sfiorai il volto.
< Bella, devo chiederti una cosa importante. > le sussurrai stringendola tra le braccia. Le mano che racchiudeva l’anello era stretta in un pugno sulla sua schiena. Con la mano libera le contavo le vertebre. Il suo seno premeva dolcemente sul mio petto.
< Cosa vuoi sapere? >
La sua voce era esitante e scossa dai tremori che le scuotevano il corpo. Sembrava fosse spaventata. Non riuscivo a resisterle ma, soprattutto, non potevo sopportare l’idea di perderla di nuovo.
< hai paura? >
Alzò lo sguardo e i nostri occhi si incontrarono.
< Non più. Non ora. >
< Mi dispiace così tanto… > le confessai e, questa volta, mi credette. Poggiò le sue mani calde sulle mie guance e, come se volesse consolarmi, mi carezzò il viso.
< Perché? Perché sei dispiaciuto? >
< Per così tante ragioni che non potrei neanche elencarle tutte. >
Mi baciò la fronte. < Non preoccuparti. Mentivo, quando ti ho detto che non posso perdonarti. >
Chiusi gli occhi e confessai: < Sono io che non posso perdonare me stesso…  per averti lasciata sola. >
Si immobilizzò udendo le mie parole.
Mi sedetti in ginocchio. Sentii le sue dita ricominciare ad accarezzarmi le palpebre. 
< Edward, ho esagerato, prima. Tu non hai nessun dovere nei miei confronti. E non è colpa tua. E poi, dopo tutto questo… non devi credere di avere degli “obblighi” nei miei confronti. Siamo adulti e vaccinati. Emancipati… >
Socchiusi le palpebre e la vidi. Teneva il capo chino. Era impallidita, praticamente nuda dinanzi a me… Nei suoi occhi intravidi un’ombra di terrore e malinconia.
Con la mano libera presi le sue e le guidai sul mio pugno ancora stretto.
< Isabella… >
< Sì? >
< Ti chiedo di fidarti di me, anche se sono consapevole di non meritarmi la tua fede. >
< Perché? >
< Tu non sai quante bugie sono stato costretto a dirti. A quante volte abbia dovuto mentirti. Ma l’ho fatto solo per il tuo bene. E ogni volta soffrivo. Pativo le pene dell’inferno per ciò che ero costretto a dirti. Ho cercato di salvarti ma è stato tutto vano. >
Percepì la mia frustrazione perché strinse le sue dita intorno alle mie e guidò la mia mano chiusa sul suo seno nudo.
< Non posso rivelarti ancora la verità. Non so se potrò mai. L’unica cosa che ti chiedo è di avere fiducia in me.
Adesso, ho una domanda importante da porti. Ti capirò se mi risponderai di no e non ti serberò alcun rancore. Non aver paura di rispondermi con sincerità.
Nel caso tu mi risponda in modo negativo, voglio che tu contini a pensare a me come ad un amico. Intesi? Non cambierà nulla. >
Nel silenzio annuì lentamente, prendendo un profondo respiro.
Rilasciai il pugno e lasciai scivolare il piccolo anello nelle sue mani.
Quando si accorse di quel minuscolo cerchio freddo nel suo piccolo pugno rilasciò le dita e sul palmo della sua mano, solcato dalle ferite sanguinanti che si era procurata nell’ansia dell’incubo, l’oggetto metallico rilucette.
Luccicava nella luce soffusa della notte, riflettendo sui diamanti il risplendere dei suoi occhi.
< Edward… > sussurrò con voce soffocata. Alzò lo sguardo e vidi quanto fosse spaventata.
Le impedì  di proseguire baciandola.
Mi separai dalle sue labbra solo per chiederle: < Isabella, vuoi sposarmi? >
Mi sentivo sciocco a porle quella domanda per la seconda volta. Ricordai con un misto di dolore e malinconia come, la prima volta entrambi non fossimo seminudi.
In agitazione Bella si cominciò a sistemare i capelli.

< Ehi, va tutto bene. Non importa. Però, ti prego, tienilo tu, l’anello… >
Scoppiò a piangere e mi gettò le labbra al collo. I suoi singhiozzi le scuotevano il corpo facendo premere il suo seno sul mio corpo, suscitando in me i desideri disdicevoli che non riuscii a trattenere.
< Sei un cretino! > mi urlò prima di cominciare a tempestare il mio petto di pugni.
Quella notte non aveva fatto altro che piangere… questa volta però il sorriso sulle sue labbra era molto più marcato, sebbene malinconico.
< Certo che voglio sposarti! Se tu solo… se tu solo… sei un idiota! >
E poi mi baciò con un tale slancio che per poco non caddi all’indietro.
La afferrai per i fianchi e lasciai che si sporgesse verso di me in una posizione poco pudica.
Smise di baciarmi per nascondersi nelle mie braccia. Ero a dir poco euforico.
Nonostante tutto, nonostante ciò che era avvenuto, il nostro legame non era stato reciso. Il mio più grande desiderio, quel sì che tanto avevo desiderato, mi suonava più dolce di qualsiasi nettare.
Rimanemmo abbracciati, baciando l’uno la pelle dell’altra, a lungo, senza ansia o fretta alcuna.
Accarezzandola, azzardai ad introdurre un argomento delicato e doloroso: < Bella, quando partirò non potrò portarti con me ma non preoccuparti… >
< Tu non vai a Syracuse, vero? >
< Vero. Ma non posso dirti la verità e me ne dolgo. È per la tua sicurezza. Un giorno, forse, potrò finalmente raccontarti tutto. >
< Sei in pericolo? > mi domandò accorata, accarezzandomi il viso ansiosa.
< No, ma voglio evitare che lo sia tu. È per questo che è più sicuro che tu non sappia, ancora… ma non posso più sopportare di sapere che potresti stare con qualcun altro all’infuori di me. Ti amo troppo e in modo così intenso… non ho mai smesso di amarti. >
< Neanche io. >
Non avrei voluto chiederle del suo ex ragazzo ma non riuscii a trattenermi. Ero troppo geloso.
< Ma quel Jason… >
Pensai di averla offesa e invece lei mi rispose: < Lui si che era un idiota. Non come te che lo sei solo per modo di dire. Lui proprio non capiva. >
< E allora perché? >
< Edward…ero così sola. Lui era stato molto gentile con me e io cercavo di dimenticarti con tutta me stessa. Era troppo doloroso… ho cercato di costruirmi una vita ma… >
Si stava torturando le mani. Glielo impedì prendendole tra le mie.
< Mi dispiace di averti costretta a cercare affetto presso chi non era degno di dartelo. >
Leggevo la vergogna nei suoi lineamenti contratti.
< Non preoccuparti. Non mi importa cosa sia successo tra voi. >
La sua pelle assunse un vivido colorito rossastro.
< Veramente, non è successo nulla. O per lo meno, non quello. Ogni volta che ci abbiamo provato io non riuscivo a rilassarmi. Mi sentivo male. Lui non mi faceva sentire come… > indugiò imbarazzata poi riuscii a trovare il coraggio per dire: < Come mi fai sentire tu.
L’ultima volta mi ha fatto così male… era così violento e brutale quando mi toccava… non sono riuscita a resistere. L’ho costretto a fermarsi. Non me la sentivo. >
La voce le morì in gola. Le sue parole alleviarono il dolore cocente della gelosia. Non si era concessa a quel ragazzino perché lui non la faceva sentire come la facevo sentire io…
La strinsi a me per non vedere le sue lacrime. Capii che comunque mi nascondeva qualcosa ma non volli indagare ulteriormente per non turbarla troppo.
< Non preoccuparti. È tutto finito. > le cantilenai cullandola tra le mie braccia.
Quando il suo respiro tornò normale le presi la mano.
< Allora accetti? Desideri diventare mia moglie? > le domandai emozionato.
Se asciugò il viso e mi rivolse uno di quei sorrisi ai quali non avevo mai saputo resistere.
Era così felice che sentii il mio cuore scaldarsi di gioia. Il suo batteva impazzito.
< Sì. Sì… > e nei suoi occhi lessi la felicità più profonda.
Le infilai con delicatezza l’anello al dito.
Lei lo osservò a lungo, muovendo le dita per esaminare le mille sfaccettature del diamante e poi mi abbracciò.

 La baciai con tanta passione e tanto ardore, le mie mani l’accarezzavano con tanto sentimento che presto sentii un odore umido pervadere l’aria.
Imbarazzata, pose termine al bacio e si portò la mano con l’anello all’inguine,stringendo le gambe.
Gliela afferrai e gliela baciai assaporando le gocce dolciastre che le imperlavano i polpastrelli.
Nell’impeto del mio amore lei si abbandonò alle lenzuola.
Il suo cuore impazzito scandiva il ritmo dei miei movimenti.
Le feci scorrere le dita sui suoi fianchi, sulle sue cosce, sulle sue natiche. Le sfiorai gli slip.
Ricordai come quel moccioso avesse fatto lo stesso e di come lei, terrorizzata, si fosse ritratta.
Le chiesi con tutta la dolcezza di cui ero capace: < Posso? > e lei, invece che rispondermi, guidò le mie mani sull’elastico del piccolo indumento. Glielo sfilai e poi le accarezzai quella parte proibita del suo corpo.
 

Ormai mi ero spinto troppo oltre per tornare indietro.
Tutto il mio bel piano, tutti i miei progetti erano ormai saltati.
Inutile negare l’ovvietà dei fatti.
Le avevo chiesto di condividere con me la vita e, invece che essere pentito per i rischi a cui l’avrei esposta, ero euforico. Mi amava. Mi amava a tal punto da sposarmi…
A dirmi di sì, di nuovo.
come potevo voltare le spalle al destino?
Percorsi l’interno delle sue cosce con attenzione mentre sentivo, dentro di me, crescere l’esaltazione. Ero euforico perché la sentivo così vicina.
A ogni mio tocco un po’ più audace rispondeva inarcandosi, gemendo, arrossendo.
Quando le sue mani calde e tremanti sfiorarono i miei boxer fui io a gemere.
Le sue mani inesperte mi aiutarono a disfarmi di quell’ormai inutile e fastidioso capo intimo.

 Ok… evidentemente questo è solo l’inizio. Spero che vi sia piaciuto come si è evoluta la vicenda.
Riavvicinati si sono riavvicinati.
Ma Edward ha solo una decina di giorni. Cosa farà? Come si comporterà?
Bhe…  lo sto scrivendo in questi momenti (invece di studiare l’arco di settimio severo. Sono una SCELLERATA!!!!!!!!!) a presto, credo subito prima o subito dopo l’esame (che è il 23 giugno)

Tra l'altro, domani parto per Roma e non avrò accesso a PC ed Internet quindi, se per caso non dovessi rispondere a varie ed eventuali, non preoccupatevi, lo farò appena torno (il 20)

Fatemi sapere cosa ne pensate.
Nella speranza che il prossimo cap non mi venga censurato, vi aspetto per la prossima puntata.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Love don't give no indication, love don't pay no bills ***


Salve a tutte.
Esame fatto il 30 (non quello  che dovevo,sfortunatamente, ma un altro. Ragazze, organizzarsi è un lavoro duro!)
Roma è al contempo splendida e terribile. A parte il fatto che la casa della mia amica era affittata a lei e ad altre quattro persone, c’era un solo bagno e le finestre non avevano i vetri (i proprietari se ne approfittano troppo degli studenti. Era una casa inabitabile. Da servixio di igiene!) devo dire che mi sono trovata molto bene. Ecco, forse i mezzi pubblici lasciano un po’ (molto) a desiderare ma in compenso i taxi costano mille volte meno che a Milano. Sono stata costretta a prenderli e devo dire che li ho trovati davvero economici. E poi la gente! Erano tutti fantastici!
Vabbè, immagino che delle mie vacanze romane non vi interessi e avete ragione.
In questo periodo sono stata molto impegnata per via di alcune opportunità che non mi sono sentita di non cogliere ma ciò mi ha allontanato dalla scrittura. Sfortunatamente i giorni non hanno 36 ore.
Ma eccomi qui con un capitolo che, come preannunciato, è incentrato sul rapporto tra Edward e Isabella. Non potrebbe esserlo di più.
Ringrazio tutte voi che hanno recensito (non vi ho ancora risposto per problemi tecnici. Mentre ero a Roma non avevo il PC e, una volta tornata, non ho alzato il sedere dalla sedia della biblioteca neanche per un minuto. Odioso esame!) ma mi ci metto appena finito di postare.

Bene, vi lascio a questo capitolo che spero non turbi.
Ho cercato di essere delicata, soft e non morbosa in quello che scrivo (anche perché, concedetemi errori. Per me è solo teoria allo stato più sublimato dell’etere… vado di fantasia. Nel caso avessi detto fesserie, vi prego rendetemelo noto così da poter correggermi)

 Se ho dato fastidio a qualche lettore per i temi, mi dispiace. Ho cercato di abbassare il rating e sono andata giù con l’accetta a tagliare per non dover mettere rosso. Spero che nessuno trovi inadatto e spiacevole quanto scritto. Nel caso, comunicatemelo e provvederò ad autocensurare eventuali passi ritenuti troppo espliciti.

Ringrazio tutte per la passione che mi infondete e per le vostre recensioni.

Ora scusate ma devo andare a piangere un po’ su un altro Edward: Edward Elric. Sto facendo la maratona e guardando l’anime (fma broherhood) mentre scrivo i nuovi capitoli di questa storia.
Starei pensando a una RoyXRiza ma so già che rischierei la fucilazione quindi, per ora, mi astengo. Se però volete un bel manga, ve lo consiglio. Io lo seguo dal primo numero e non ne sono mai stata delusa! Ha, se percaso questo mio Edward congiunge le mani e tira fuori lance dal pavimento... tiratemi una secchiata d'acqua e fatemi rinsavire... oh... Edo....

 

Un abbraccio e a prestissimo, auguri a tutte le maturande!!!

Cap 26  

Love don't give no indication, love don't pay no bills.
L’amore non da indicazioni, l’amore non paga I conti.

 

Ps: sono sicura che la canzone Love Kills di Freddie Mercuri dica DON’T anche se Love è singolare. Qualcuno sa spiegarmelo? Non so proprio se ho sentito male io o se è giusto o che altro…

Edward’s POV
 

Nuda, davanti a me, arrossì. Mi chinai per sfiorarle la gola con il naso. Reclinò la testa, ansimando. Scesi a sfiorarle il ventre, l’ombelico. Disegnavo linee immaginarie con la punta del naso, con la lingua… ad ogni mio tocco fremeva. Si contorceva. Teneva le dita incrociate alle mie mentre assaporavo il gusto della sua pelle.

Ansimava il mio nome mentre il mio corpo sfiorava il suo.
Ad un certo punto sciolse la presa delle nostre mani. Portò le sue dietro alla mia schiena alla quale si aggrappò quasi disperata.
Sentivo l’anello premere contro la mia pelle.
Quel contatto mi eccitava oltremisura.
Ora che avevo le mani libere le usai per carezzarla lì dove il mio tocco la faceva fremere. Il suo seno morbido e pieno, inturgidito sulle punte… le sue labbra carnose, la sua nascosta femminilità…
< Edward… > boccheggiò.
Le sue dita si aggrapparono ai miei capelli, tirandomeli.
Chiuse gli occhi e strinse le labbra. Dalla bocca socchiusa scivolarono gemiti e flebili ansiti.
Poggia il capo sul suo ventre, le labbra sul suo ombelico.
Le mie mani, dalle sue cosce, scesero alle sue ginocchia. Le afferrai con delicatezza guidandola a divaricare le gambe.
A quel mio gesto rispose con un singulto. Sentii il suo corpo bloccarsi come già era successo in quella strana notte.
Ciò mi preoccupava. Forse non mi diceva la verità… forse non voleva che la toccassi… proprio come con quel Jason. Era a disagio? Non si sentiva pronta?
Senza scostare il volto dal suo grembo caldo, le chiesi: < Bella, va tutto bene? Se vuoi mi posso fermare… se non sei sicura. >
Respirò profondamente per tre volte prima di rispondermi. Cercò la mia mano tra le coperte e, quando la trovò, la strinse forte come se da quel contatto ne traesse conforto.
< No, ti prego… non ti fermare. >
Sentii la sua voce tremare. Scivolai lungo il suo corpo fino a portare il mio viso davanti al suo, per guardarla negli occhi.
< Bella, dimmi cosa non va, ti supplico. >
< Non c’è nulla che non vada. >
< Non mentire, non ne sei in grado… >
Chiuse gli occhi, un’espressione di dolore dipinta sul volto. < Spero tu ti stia sbagliando… altrimenti sono nei guai. >
< Non preoccuparti. Te ne tirerò fuori io. Ma devo sapere la verità. Sei una pessima bugiarda. >
Cercò di allontanarmi ma glielo impedii. < Bella, davvero, non c’è nessun motivo per cui tu debba avere paura o provare vergogna… dimmi cos’è che ti turba. >
Era combattuta. Il suo labbro inferiore tremava.
< Ti prego, aiutami. > mi sussurrò stringendosi a me.
Ero addolorato e terrorizzato da ciò che avrebbe potuto dirmi. D’altra parte, volevo che si confidasse con me, che si liberasse di quel fardello che sopportava da sola.  Qualunque esso fosse.
< Lo farò. >
Prese un grande sospiro e, come se fosse pronta a confessare un atroce delitto, mi implorò di non adirarmi nei suoi confronti. Le risposi che non avrei mai potuto. Per nessun
motivo.
Mi lasciai cadere sulla schiena, alla sua sinistra. Le presi il braccio e cominciai a percorrerle con le dita i segni rossi che le deturpavano la pelle.
Trattenne il fiato  per un istante prima di scoppiare in lacrime e coricarsi sotto alla mia ascella.
La strinsi a me passandole le mani sulla schiena per confortarla.
Ma il fiume di parole che mi aspettavo non arrivò. Con voce tremante mi confidò soltanto:
< Edward… sono successe tante cose mentre ero qui. Ma non ce la faccio a parlarne… >
< Non c’è problema, né alcuna fretta. Quando e se vorrai, me ne parlerai.
Una sola cosa ti devo chiedere. >
Alzò il capo e mi rivolse uno sguardo intimorito. Le presi di nuovo il braccio sinistro, martoriato.
Lei lo fissò e notai che sospirò, come se fosse sollevata. Non capii quella reazione. Se non aveva paura di rivelarmi quello, le ferite che si era inferta, cosa mai poteva temere?
< ti prego, non farti più del male. Per nessun motivo. >
Il silenzio che si era creato era per me doloroso. Volevo che mi parlasse, che si confidasse con me.
< Bella? >
< Quelli… erano dei momenti di debolezza. Pensavo che non mi amassi più, che ti fossi dimenticato di me… ero così sola… e Phil… >
Fu come se si fosse pentita di quelle parole. Si zittì immediatamente e poi nascose nuovamente il viso al mio sguardo.
< Phil? >
< Niente… abbiamo litigato. Non vado molto d’accordo con lui. Tutto qui. È stato un brutto periodo. Ho fatto alcune sciocchezze. Ma adesso è tutto passato. >
< Se ci fosse qualcosa che vorresti dirmi, sai che con me puoi parlare di tutto. >
Mi guardò e sorrise di un sorriso così genuino, così autentico, che cancellò tutto il dolore che le sue parole non dette mi avevano suscitato.
Non riuscii a trattenermi e la baciai. Incrociò le gambe intorno alle mie.
Non c’era alcun timore, alcuna ritrosia nei suoi movimenti, in quel contatto umido.
Con un gesto che temetti essere troppo azzardato, sfiorai il suo inguine con il mio.
Arcuò la schiena.
Le sfiorai il seno, massaggiandolo con delicatezza.
< Mi fai impazzire… > sussurrò con la voce roca. Sentirla in quel modo mi faceva sentire come rinato.
Mi sembrava che nulla fosse accaduto tra noi. Nessun incidente, nessuna separazione…
Era come essere nella mia camera a Forks, i giorni prima del matrimonio. Quando giocavamo a quelle che chiamava “le grandi prove”.
Non ci eravamo mai spinti fino in fondo ma ci eravamo andati molto vicino più volte.
Sorrisi a quel ricordo.

Venni ridestato da quei miei pensieri quando sentii le sue manine calde sfiorare là dove sentivo pulsare. Erano tremanti.
Le afferrai il polso e portai la sua mano al mio viso, baciandone le nocche.
< Bella, non devi. Non è necessario. >
< Ma io voglio. > mi disse piccata.
Non potei trattenere un sorriso sbieco che le tolse il fiato.
< No… > le sussurrai e la vidi sconvolta ma io proseguii lungo la mia direzione.
< Io non ho ancora finito. Dopo, se ne avrai ancora voglia… non ti fermerò. >
Il suo sorriso malizioso mi spinse a osare quanto non avevo mai fatto.
< Va bene… aspetterò allora. > mi disse con voce sospettosa.
Le strinsi le mani e poggiai le mie labbra là, a baciarla dove fino ad allora l’avevo solo sfiorata timoroso.
Fu come se l’avessi torturata con la scossa elettrica. Non fosse stato per i gemiti di piacere, avrei detto che le stavo facendo male.
Cercavo di assecondare i suoi movimenti incontrollati. 
Ad un certo punto stinse le mani intorno alle mia braccia con tanta forza che, se fossi stato umano, avrei certamente provato dolore. Le sue gambe si intrecciarono strette intorno al mio busto.
Sentii odore di sangue fresco.
Certo che non provenisse da dove le mie labbra la lambivano, dal momento che non ne sentivo il sapore, alzai allarmato lo sguardo.  
La vidi come non l’avevo mai vista. Era a dir poco provocante. ringraziai di non avere nessuna costrizione, perché sarebbe stato impossibile trattenermi.
Cercai di ritornare lucido.
Tre gocce cremisi le scivolavano sul mento. Era passata una frazione di secondo da quando avevo alzato lo sguardo quando le dissi agitato: < Bella! >
Parve ridestarsi da un sogno.
< No, non smettere… > ansimò.
< Ma stai sanguinando! >
Ero sconvolto. Mi portai sopra di lei per guardarla in viso e il quella parte del mio corpo, così stranamente viva e recettiva come mai era accaduto, si poggiò lì dove sentivo il centro di Bella pulsare.
< Ohh… >
< Bella? > le poggiai il pollice sul labbro dove i suoi denti avevano premuto così tanto da ferirlo.
Sentii la sua lingua sul mio polpastrello. < Ti stai ferendo… >
La sua voce soffocata era terribilmente sensuale. < Non mi importa. È per non urlare. Non fermarti. >
Le sue frasi erano spezzate, non del tutto coerenti. Osservai ipnotizzato quelle minuscole goccioline addensarsi e scendere lungo il suo mento. La volevo, in ogni modo possibile. E di certo non avrei osato contraddirla. Voleva che continuassi? Era il mio stesso desiderio. Darle piacere mi appagava più del sangue che, goccia dopo goccia, sgorgando dal taglio, mi tentava.
Le baciai il collo. < Come vuoi. >
L’odore del suo sangue, la giugulare che pulsava… il suo cuore che palpitava tanto veloce che pareva impazzire… le sue mani strette intorno ai miei capelli… il mio viso tra i suoi seni profumati e caldi. I palmi delle mie mani sulle sue scapole…
L’eccitazione di entrambi era palpabile, tangibile.
E tutto fu per me così naturale, così semplice che a stento mi accorsi della smorfia di dolore che alterò il viso di Bella. Ma lei non disse nulla e io non mi fermai.
Ero talmente stordito dai profumi, dalle sensazioni, che ci misi qualche secondo per rendermene conto. Cercavo di muovermi lentamente, contrastando la fretta scalzante che era nata in me e che si cibava della mia esaltazione.
Il calore che si irradiava da quel punto così bagnato del suo corpo mi stava scaldando come mai era successo.
Quando sentii che i suoi gemiti erano mutati da ansiti di piacere a flebili lamenti di dolore mi immobilizzai. E in quel momento mi accorsi che il suo corpo aveva reagito in modo diverso da quanto mi fossi aspettato.
Era immobile, rigida.
I muscoli del suo ventre erano contratti. Come prima era distesa per accogliermi, ora era così irrigidita che sembrava che il suo grembo mi stesse respingendo.
Sapevo che non dovevo nemmeno pensarlo ma quella pressione era estremamente piacevole per me. Eppure, significava che soffriva.
Gocce diamantine le segnavano il viso. Il volto contratto in una smorfia sofferente.
< Bella? Bella? >
Le mie mani ansiose si spostarono immediatamente sulle sue gote rosse.
Gli occhi spalancati fissavano il soffitto.
< Non è nulla, Edward. Fa solo un po’ male… ma non è niente. >
< Ma cosa dici? > feci per allontanarmi da lei, sciogliendo il legame con cui ci eravamo uniti.
Le sue mani si aggrapparono alle mie spalle.
< No. Per favore. Resta. >
< Ma ti sto facendo male. > le rimarcai sconvolto. Le mie mani ansiose le carezzavano i lineamenti contratti.
< Adesso passa. Non preoccuparti. > La sua voce era flebile.
Incerto su cosa fare, rimasi fermo, adagiato sul suo corpo caldo e vibrante. La accarezzavo con delicatezza e dolcezza. All’orecchio le bisbigliai: < Rilassati… tranquilla e serena… >
ripetevo quelle parole come una nenia, modulando la mia voce. Volevo essere rassicurante.
Attesi che il suo respiro tornasse normale, che il suo volto si rilassasse.
< Fa ancora male? >
< No… è solo… strano. Un po’ fastidioso… forse.
Ma è anche… bello… sentirti così vicino. Però,per favore, resta fermo. Mi devo… abituare. >
La sua voce era affaticata. Sembrava stesse cercando di trattenersi dal gemere. Teneva i denti serrati.
Obbediente, l’unico movimento che mi concessi fu quello delle mie mani. Le facevo scorrere sul suo corpo.  
Sussurrai: < voglio che sia perfetta, questa tua, nostra prima volta… non voglio che tu soffra. >
A quelle mie parole notai i suoi occhi inumidirsi. 
 

Le mie labbra assaporavano la sua pelle. Le sue anelavano aria.
Si incontrarono quando mi spostai dal suo petto a lambirle il volto.
Dopo alcuni minuti, percepii il suo corpo tornare a rilassarsi sotto alle mie dita.
Lentamente le sue membra si distesero e sentii la presa dei suoi muscoli su quella parte così recondita del mio corpo attenuarsi. 
Attesi ancora finché non fui certo che la mia presenza dentro di lei non le creasse più dolore, ripresi a muovermi con lentezza e delicatezza.
Dovevo trattenermi. Non potevo essere troppo impetuoso. Rischiavo di ferirla, di sbriciolarle le ossa con una presa troppo forte, con una carezza troppo potente.
Era tutta la notte che cercavo di moderarmi. In ogni tocco che le riservavo avrei voluto metterci il doppio, il triplo della passione ma non potevo…
La mia fronte era poggiata sulla sua. Respiravo il suoi sospiri che io stesso interrompevo con i miei baci.
Quando i suoi gemiti e i suoi ansiti si fecero sempre più forti capii che potevo osare di più, muovermi con più veemenza e passione, senza ovviamente esagerare.
La sentii inarcarsi sotto di me. I suoi seni al contempo duri e morbidi sfregavano contro la mia pelle trasmettendomi sensazioni uniche.
Il cigolio del letto era un suono così lieve che Reneé non lo avrebbe udito, proprio come non avrebbe udito i nostri ansiti.
Una minima, infinitesimale e del tutto irrilevante parte della mia mente monitorava la situazione. Reneé e suo figlio dormivano. Bella aveva ragione. Da dove era lei non si udiva alcun rumore nonostante il silenzio della notte.
Ma nonostante questa consapevolezza, Bella continuava a sforzarsi di non emettere suoni troppo alti.
Io, dal canto mio, stavo cercando di trattenere la mia veemenza e il mio ardore.
< Edward… Edw-ard… >
< Sì? >
< Ti amo. >
< Anche io. Ti amo, Isabella. >
Per i seguenti minuti non parlammo più, troppo intenti a ricercare l’uno il piacere dell’altra.
Ad un certo punto la sentii tendersi inarcandosi tra le mie braccia come non era mai successo prima. Le sue gambe, incrociate alle mie, strinsero la presa e lei, per smorzare i suoi gemiti di piacere, si morse di nuovo il labbro facendolo sanguinare, riaprendo la ferita che si era procurata. 
Il suo respiro era totalmente fuori controllo.
Ansimava in modo indecorosamente sensuale.
Eccolo arrivato, l’acme del piacere che io stesso le stavo procurando. Mi soddisfaceva anche il solo vederla così appagata, e sapere che ero stato io a donarle quel sorriso pieno e grato.
I movimenti del suo bacino erano così coinvolgenti, incalzanti… che non potevo fare a meno di seguirla. Nonostante per tutta la notte avessi cercato di frenarmi, in quel momento ogni mia difesa crollò. Mi lasciai andare agli istinti più umani che conservavo e che Bella aveva risvegliato.
Sentii il mio corpo reagire come non era mai successo. Una sensazione ineguagliabile mi pervase le membra, irradiandosi da lì dove ero congiunto con la donna che amavo.
Schiuse le labbra rosse. I candidi denti serrati.
Feci il terribile errore di baciarla. Volevo respirare il piacere che le sfuggiva dalla bocca sotto forma di ansiti. Sentii il suo sangue dolce sulla mia lingua.
Già totalmente annebbiato dal suo profumo di donna, non riuscii a reagire con lucidità.
Quel contatto mandò totalmente in confusione il mio cervello. Succhiai, avido, il suo labbro ferito. Sicuramente le avrei provocato una tumefazione.
 Sentii il veleno schizzare sotto la mia lingua ed interruppi immediatamente il bacio. Deglutii quel dolce misto di sangue e veleno.
Lei non parve curarsene, vinta dalle emozioni che, per la prima volta provava e che la soprafacevano. 
Senza volerlo, strinsi troppo il suo polso. Me ne resi conto e lasciai immediatamente la presa.
Lei, che non si era accorta di nulla, lasciò andare i miei capelli. Le braccia, ora abbandonate sul cuscino, erano spalancate come se mi invitassero…
Vidi sul suo viso la frenesia e la smania fare spazio alla pace.
Attesi alcuni secondi, finchè non aprì gli occhi.
Sorrideva. Era serena. I suoi occhi lucidi erano emozionati.
< Grazie. > mimò con le labbra.
Le disegnai con la punta dell’indice un prego sulla sua fronte e lei rise.
Ed era così bella mentre gioiva. Il suo corpo vibrava al ritmo delle sue risa.
Ancora allacciato a lei, venni scosso dal medesimo tremore che lei stessa mi aveva trasmesso.
La sentii ansimare in reazione ai miei movimenti. Ma era stanca. Sebbene desiderassi continuare all’infinito, sapevo che dovevo impormi di interrompere quel contatto. Doveva
riposare…
Scivolai dolcemente fuori dalle sue carni e mi sdraiai al suo fianco.
Entrambi, a quella nuova condizione, reagimmo in modo negativo essendo venuto meno quel contatto così piacevolmente intimo.
Per ovviare al vuoto che percepiva ora, si rannicchiò tra le mie braccia.
La sentivo inspirare il mio odore. Io facevo lo stesso con il volto sui suoi capelli.
Teneva le gambe serrate e la mano sinistra, con l’indice che portava l’anello, stretta sull’inguine. Il viso nascosto sotto al mio braccio.
< Ti fa male? >
Non rispose subito. Mi chiesi a cosa fosse dovuto il suo temporeggiare.
< No. Non tanto. >
< Ma un po’ ti fa male allora. >
Scostò il mio braccio e mi rivolse uno sguardo peccaminoso. < Ne valeva la pena, sopportare questo piccolo dolore… adesso brucia solo un po’… > e poi si sporse per baciarmi.
Andai a cercare la sua mano sinistra e, dopo averla presa dolcemente, la strinsi. Il dorso della mia mano la sfiorava nel punto in cui provava bruciore. Poggiai la mia pelle per alleviare, con il freddo del mio corpo, quel fastidio. < domani andrò a comprarti una crema. >
< non ti imbarazza? >
< Cosa? > le domandai sorpreso.
< beh, forse preferisci che vada io, in farmacia… sai, magari ti da fastidio dover comprare quel genere di cose… > farfugliò quelle parole nel più completo imbarazzo.
< Bella… non mi importa nulla! Voglio solo che tu stia bene… > e mi chinai a baciarle il sorriso che le era nato sulle labbra.
Fu un bacio lento, dolce, puro e innocente.
Quando vi posi fine si strinse nuovamente al mio corpo. Era così piccola…
< Edward… >
< Sì? >
< Ormai sarà mattina. >
< Lo è. >
< Non voglio che tu te ne vada, ora. >
La rassicurai. < Non me andrò. >
La sentii ridacchiare e le domandai fingendomi irato: < Cosa vi trova di divertente in quanto ho detto, signora Cullen? >
Sentendosi apostrofare in quel modo si zittì. Percepii l’odore del sangue che era corso a irrorarle le gote.
< Edward, se mia madre ti trova qui, nudo nel mio letto… >
< Sì, forse hai ragione. > asserii affranto. < Temo sia meglio che recuperi i miei vestiti e torni di sotto. >
Feci per allontanarmi ma lei me lo impedì.
< Bella, amore… >
La guardai in faccia e notai che sul suo volto era comparsa l’ombra della tristezza, della solitudine e del dolore che vi avevo scorto il giorno precedente.
< Ti prego, Edward, resta. Ho paura. Resta, almeno finchè non mi sarò addormentata… >
Baciandole la punta del naso, la tranquillizzai: < Certo che resto. Finchè non ti sarai addormentata…  ma prima… > senza che potesse rendersene conto sciolsi la sua presa e mi misi in piedi. Recuperati i suoi indumenti glieli feci indossare. Fu un gioco innocentemente sensuale. Mentre le infilavo i vestiti la baciavo, la carezzavo.
La avvolsi nelle coperte e, prima che potesse addormentarsi, le chiese: < Non avevi freddo, prima? >
Scosse il capo. < No… tu sei un po’ freddo, in effetti. Ma non era fastidioso. Anzi, l’ho trovato… eccitante. > ammise vergognosa.
Sorrisi e pensai che, nonostante tutto, non avrei potuto mai essere più felice.
 La cullai tra le mie braccia finché non si fu addormentata.
A differenza di quanto le avevo promesso, me ne andai solo quando sentii il piccolo svegliarsi. Di lì a poco avrebbe svegliato Reneé.

Dopo averle lasciato un bacio sulla fronte e un biglietto sul comodino, raccolsi i miei abiti da terra.
Inspiegabilmente intontito dalle emozioni travolgenti che avevo vissuto, andai a sbattere contro il  comodino di Bella, facendo cadere la sua consunta copia di “Cime Tempestose”
Fortunatamente lei non si era svegliata.
Raccogliendo il libro sorrisi. Non era cambiata, dopotutto.
Quando lo sollevai da terra mi accorsi che un foglietto rettangolare era scivolato sotto al letto.
Tastai il pavimento finché non lo trovai. Quando ritrassi la mano lo girai, sentii il mio cuore morto animarsi di vita per un istante.
Era una foto. La foto che aveva scattato con l’autoscatto il giorno prima che partissi da Forks.
La foto in cui lei, a tradimento, si sporgeva per baciarmi.
L’aveva sempre tenuta con sé, per tutti quei mesi in cui credeva che l’avessi abbandonata.

Perché Bella, proprio come me, non aveva mai realmente smesso di credere nel nostro amore.

 
 

Pps: A volte (sempre) mi vergogno di quello che ho scritto e per questo procrastino il momento in cui posto. è infantile, lo so, ma sappiate che per tirar fuori il coraggio di questo capitolo ho dovuto iniettarmi coraggio in vena!

Ho sbagliato il titolo del capitolo scorso. provvederò al più presto a correggerlo con quello che avevo scelto (li ho confusi...)

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** something will come to take away the pain ***


 
 
Dopo tanto tempo ho ritrovato il coraggio di postare.
Sinceramente, non so come sia venuto questo capitolo che ho scritto più di un anno fa e che ho tirato fuori da un vecchio computer… il mio caro vecchio Edward! Ormai non lo uso più perchè è prossimo all’ultima dipartita ma, prima di salutarlo e lasciarlo nelle amorevoli mani del netturbino, sto salvando tutti i vecchi files tra cui i miei poveri capitoli perduti.
Spero che questo sia venuto bene e spero che il mio stile non sia cambiato troppo nell’ultimo anno perché ho intenzione di riprendere a scrivere e non vorrei che si notasse troppo la differenza. Spero di essere migliorata, questo sì, ma spero anche che il tempo non abbia stravolto il mio modo di scrivere.
 
Un ringraziamento a tutte voi che mi avete seguito e che spero continuerete a seguirmi.
Scrivere, per me, fa bene alla salute!. Grazie a voi, farlo è un piacere.
Un ringraziamento speciale a Francesca, i cui scritti mi hanno ispirata ridandomi la voglia di scrivere. Ti auguro fortuna per l’università! Ma sapendo quanto sei brava, non credo tu ne abbia bisogno.
 
Grazie a tutte, davvero,
 

Erika
 
 
Capitolo 27

                                                           Something will come to take away the pain
 
Bella’s POV
 
Quando aprii gli occhi, quella mattina,mi parve di essermi risvegliata dopo un lungo sonno.
Dentro di me albergava una strana ed inspiegabile felicità. Non ero più abituata a quell’emozione.
Un bel sogno. Ecco cosa forse mi aveva scatenato quel buonumore mattutino…
Mi stiracchiai e provai dolore. Le giunture, i muscoli ma, soprattutto, il polso.
Non ricordai subito la causa di quei dolori. Non finchè non vidi le mie mutandine arrotolate per terra, vicino al letto. Mi accorsi di indossare i pantaloni del pigiama e sotto… niente.
Strano. Non ero abituata a dormire senza biancheria. Anche sotto alla maglietta non c’era nulla. Confusa, mi sporsi per raccogliere i due capi di biancheria. Fu a quel punto che vidi, al mio anulare sinistro, un piccolo ed elegante cerchio d’oro. Una miriade di diamanti luccicavano incastonati sul piccolo gioiello.
E la notte meravigliosa che era appena trascorsa mi tornò in mente, più vivida che mai.
Aveva dormito con me. Mi ero risvegliata dopo l’ennesimo incubo in cui Phil mi picchiava e mi faceva del male in tutte le maniere possibili. Mi ero svegliata e lo avevo ritrovato accanto a me. E le sue mani mi avevano guidata verso il più dolce dei piaceri.
 
Dopo quello che mi era successo, dopo quello che mi aveva fatto Phil pensavo che non avrei più potuto vivere con serenità il sesso. A riprova di quel mio pensiero le esperienze che avevo avuto con Jason. Dolorose… insopportabili…
Ma con Edward era stato tutto diverso. Era stato bello. Bellissimo.
Avevo provato dolore ma nulla rispetto a quello che avevo patito fra le mani di Phil. E a quel dolore iniziale si era sostituito un piacere incommensurabile che scaturiva dai punti che Edward stimolava con le sue dita fredde. Arrossii pensando ai punti in cui le sue labbra mi avevano baciata…
Le sue carezze gelide erano riuscite a guarire le ustioni invisibili che Phil aveva lasciato sul mio corpo.
Mi aveva baciata, mi aveva sfiorata, mi aveva accarezzata, mi aveva amata come non mi sarei mai aspettata.
Mi aveva chiesto di sposarlo.
E io avevo accettato.
 
Seduta a gambe incrociate sul letto non potevo smettere di osservare l’anello che aveva una forma vagamente familiare. Era così bello…
Sembrava brillare di luce propria, esattamente come Edward.
Oddio! Ci saremmo sposati.
 
Balzai giù dal letto e per poco non inciampai nei miei stessi piedi.
Ero euforica.
Dopo tutto il dolore, tutte le sofferenze, sembrava che la vita fosse tornata ad essere meravigliosa.
Scelsi con cura ogni indumento, dalla biancheria al maglioncino. Volevo essere perfetta. Li poggiai con attenzione sul letto e poi mi fiondai in bagno, gettandomi sotto la doccia.
Il getto caldo e avvolgente contrastava così tanto con la freschezza eccitante della pelle di Edward…
Quando uscii dal box-doccia mi avvolsi nell’asciugamano ma prima, passando davanti allo specchio, notai con orrore i lividi sul mio corpo. Macchie violacee decoravano la pelle delle mie braccia, della mia schiena, delle mie gambe. I segni più vistosi intorno al mio polso.
Sentii il respiro sfuggirmi dai denti. Stavo per avere un attacco di panico. Dovetti sedermi per terra e porre la testa tra le ginocchia. Ci misi alcuni minuti per calmarmi.
Mi costrinsi a pensare alla notte meravigliosa, al piacere che avevo provato quando le mani di Edward mi avevano toccato. Lui era stato così gentile, così dolce…
Era stato così amorevole, premuroso e affettuoso mentre facevamo l’amore…
Perché quella notte ero stata partecipe e non avevo subito le torture di un criminale ma condiviso l’amore del ragazzo di cui ero da sempre innamorata.
 In certi momenti era stato difficile perché i ricordi mi impedivano di respirare ma, con molta fatica, ero riuscita a distinguere il passato dal presente, il dolore fine al piacere di un mostro dal dolore che avevo provato accogliendo Edward dentro di me.
Sentivo ancora bruciore all’inguine ma non era niente, niente in confronto a quanto avevo sofferto.
E i lividi… non erano il risultato di botte ma di strette troppo impetuose scaturite da un amore intenso.
Quando mi sentii pronta, tornai in camera.
 
Prima di infilare gli slip portai una mano all’inguine, lì dove un sordo pulsare e un leggero bruciore mi ricordavano la notte appena passata.
Ritrassi le dita e nessuna scia rossastra mi macchiava i polpastrelli. Sentii le lacrime formarsi agli angoli dei miei occhi.
Avevo perduto per sempre quell’esperienza che mi era stata rubata da Phil.
Era una cosa stupida, . Non mi importava della verginità in quanto tale… o di tutte quelle storie sulla purezza…
No. Era l’idea di aver vissuto quell’esperienza in quel modo, di aver subito il furto di quell’emozione che avrei voluto condividere per la prima volta con Edward.
Quello era il più grande dei rimpianti. Non era stata la mia prima volta, come pensava Edward.
Gli avevo mentito. Ma la verità era troppo dolorosa e orrenda per poter essere svelata.
Forse un giorno avrei trovato il coraggio…
 
Cercai di non pensarci mentre ripresi a vestirmi. Mentre mi stavo infilando il vestito cambiai idea. Decisi di mettermi il pigiama. Non volevo insospettire mia madre e pensai che il modo migliore fosse quello di mantenere le vecchie abitudini. Come ad esempio fare colazione non vestita come se stessi andando ad una prima di broadway.
Notai un biglietto piegato sul mio comodino.
Lo afferrai e vidi che era indirizzato alla “signora Cullen”
Lo aprii con di tremanti e lessi le poche parole vergate con la elegante calligrafia di Edward.
“Ti amo, ti ho sempre amata e ti amerò per sempre” Leggendo quelle parole mi sentii felice.
Non vedevo l’ora di baciarlo di nuovo.
Mi pettinai con attenzione e, a piedi scalzi, scesi in cucina.
Quando mi mancavano pochi gradini udii la voce di Edward. Parlava con mia madre.
< Ma Edward… non è necessario. Cucino io. >
< Reneé, permettimi di insistere. Non devi preoccuparti. Per me è un piacere rendermi utile. >
< Se proprio insisti… però davvero, non preoccuparti. Puoi scongelare qualcosa dal freezer… non è necessario che tu ci metta tutto questo impegno. >
Prese un profondo respiro e poi aggiunse: < Se lo fai per mia figlia, è inutile. Non sia quante volte ho cercato di ingraziarmela preparandole qualcosa di buono… e poi, ultimamente, è inappetente. Temo siano le medicine… >
Mi sentii in colpa. Mi rendevo conto di star facendo preoccupare mia madre. Eppure, quando c’era Phil, non ci riuscivo proprio a mangiare. Non era certo colpa dei farmaci che non assumevo più, nonostante le promesse fatte a Carlisle.
Con passo pesante mi diressi in cucina. Tutta l’euforia che avevo provato fino a pochi istanti prima era ormai svanita.
Trovai mia madre seduta a tavola, il piccolo Owen attaccato al suo seno.
Edward armeggiava ai fornelli. Si voltò e mi rivolse un sorriso tale da mozzarmi il fiato.
< Ben svegliata. Ti sto preparando il pranzo. >
< Pranzo? > domandai sbigottita. Cercai con gli occhi l’orologio ma Edward ripose alla mia domanda silenziosa. < Eri molto stanca. Sono le 13.40 circa. Non preoccuparti, fra poco sarà pronto. Magari hai voglia di vedere un po’ di televisione nel frattempo? >
< No, non preoccuparti. Preferisco restare qui. Vuoi una mano? >
< no, amo cucinare. >
Mia madre ci guardava sbigottita. Fino al giorno prima non rivolgevo neanche la parola ad Edward e ora ero così accondiscendente nei suoi confronti che sicuramente il mio comportamento le doveva sembrare assurdo.
Io, dal canto mio, tenevo la mano ornata dall’anello stretta in pugno e nascosta nella tasca del pigiama.
< Prego, accomodati. Comincio a servirti. >
< Edward, non dire cavolate… posso apparecchiare io. >
< No. Non transigo. Speravo ti alzassi un po’ più tardi lasciandomi il tempo di sistemare tutto. >
Sbuffai, fingendomi scocciata.
< Reneè, gradisci la cannella sullo strudel? >
< Oh, ma Edward, non devi preparare anche per me! >
< Reneé, insisto. >
E il tempo trascorse in quel modo. Con Edward che si occupava di ogni singolo particolare di quel branch e mia madre che non faceva altro che congratularsi della sua abilità in cucina. Continuava a ripetere che doveva aver appreso i segreti di Esme per poter cucinare così bene.
io rimasi in silenzio per tutta la durata del pasto. Appena mia madre non guardava, Edward mi rivolgeva degli sguardi che avrebbero potuto farmi prendere fuoco tanto erano intensi.
Un momento di imbarazzò calò quando Reneé si sporse verso di me e mi chiese: < Piccola, ma cos’hai fatto al labbro? È gonfio. >
< Me lo sono morsa… il labbro intendo… per sbaglio… > borbottai immergendomi nella torta.
Vidi Edward nascondere un sorriso dietro ad una tazza di latte.
Appena i piatti furono vuoti mi alzai per sparecchiare. Edward mi precedette impedendomi di muovere anche un solo dito.
< Ti va di uscire, questo pomeriggio? >
< Non saprei Edward… se tu ne hai voglia, possiamo andare da qualche parte. >
< Se tu ne hai voglia, ne ho voglia anche io. >
Mia madre, con gli occhi fuori dalle orbite, si alzò da tavola e si congedò da noi con un sorriso. Appena si fu allontanata abbastanza, Edward mi venne vicino, cingendomi la vita con le sue spalle.
Nella foga del momento mi ritrovai con la schiena premuta contro il frigo.
Le sue mani si infilarono sotto la mia maglietta.
< Puoi anche togliere la mano dalla tasca, adesso. > ansimò al mio orecchio.
Obbedii e, con quella stessa mano, mi aggrappai ai suoi capelli. L’altro mio braccio era saldo intorno al suo collo.
Sentii crescere nuovamente in me la frenesia dell’amore.
Mi afferrò per la vita, sollevandomi, e io serrai le gambe intorno al suo bacino.
Non so come, in quel turbinio di capelli rossi e castani, mi ritrovai seduta sul ripiano della cucina.
In quella stessa cucina dove Phil mi aveva picchiata ora Edward mi stava accarezzando, toccando, facendo impazzire cancellando i miei terribili ricordi.
Ansimavo tra le sue braccia.
< Bella, amore, se non vuoi che tua madre ci senta, sarà meglio smettere. >
< Ma io non voglio smettere! >
< Ma non vuoi che tua madre ci senta… a meno che tu non te la senta di dirle le belle novità. >
< Mhm… no, aspettiamo. Sai, mia madre si è sposata giovane con Charlie. Mi ha sempre messo in guardia dai matrimoni, soprattutto da quelli precoci. >
Oddio, che stranezza… mi sembrava di aver già fatto quel discorso. Ormai ero stufa di tutti quei dejavu.
< Beh, se non sei sicura, puoi tirarti indietro in qualsiasi momento. > la sua voce era pacata e rassicurante ma vi rintracciai una malinconia tale da costringermi ad alzare lo sguardo e a fissarlo negli occhi. Ci fissammo a lungo, con intensità.
< No, non vorrò mai nessun altro all’infuori di te. E voglio sposarti. Di questo sono sicura. >
< Ti va di andare da qualche parte, allora? >
Osai. < In camera mia? >
Le sue labbra si appoggiarono alle mie togliendomi il fiato, rubandomelo.
< Beh… magari invece di far capire a tua madre cosa succede nella stanza della sua bambina, potrei prenotare un albergo sulla costa, che ne dici? Un week-end romantico? Un piccolo assaggio della luna di miele… >
Felicemente sconvolta da quella sua proposta domandai sottovoce: < E a Reneé, cosa diremo? >
< Ci inventeremo qualcosa. >
Quel discorso era avvenuto nei momenti in cui riprendevamo fiato. Ci stavamo baciando con così tanto amore che la mia testa non riusciva a registrare altro se non le sue mani sulla pelle nuda della mia schiena.
Scese a baciarmi la pancia e io affondai la mano nei suoi capelli.
< Immagina… io e te, soli. Non dovrai morderti a sangue il labbro, non dovrai trattenerti… avremmo un paio di giorni solo per noi. Nessuno che ci venga a disturbare… >
Mentre parlava e mi massaggiava la schiena con le sue dita fredde, mentre mi prendeva l’ombelico con delicatezza tra i denti, le sue parole formarono nella mia mente immagini troppo belle per ignorarle.
< Sì… se riusciamo a convincere Reneé. Andiamo… > gli dissi un po’ incoerentemente.
Rimanemmo in cucina ancora alcuni minuti poi, quando ormai avevo il fiatone, mi fece scendere dal ripiano.
Scoccandomi un bacio veloce sulle labbra, mi suggerì di andare a far compagnia a mia madre mentre lui sparecchiava e lavava i piatti.
Mi chiesi come avrei potuto mai andare di là con lo sguardo innocente quando dentro di me infuriavano tutte quelle emozioni, quando il mio cervello rispondeva solo agli ormoni… Ma sapevo che aveva ragione Edward.
Decisi di fare come mi diceva e raggiunsi Reneé in salotto.
Il piccolo dormiva beato nella sua culla e mia madre lo fissava adorante.
< Mamma. > la salutai sedendomi sul divano accanto a lei. La mano sinistra era tornata a nascondersi nella tasca.
< Tesoro, volevo parlarti. >
Oh, no… non avevo voglia di una ramanzina, non in quel giorno così perfetto.
< Dimmi. >
< Senti, lo so che non devo intromettermi nella tua vita sentimentale ma… >
< Ma? >
< Ma sei sicura di quello che stai facendo? >
Feci la finta tonta: < Non capisco, cosa intendi? Non sto facendo nulla! >
< Intendo dire con Edward… cosa vuoi fare? Lasciarti prendere dal momento per poi macerarti nel dolore quando lui partirà di nuovo? >
< Ma mamma… non è come pensi! Io ed Edward… > sentivo il mio viso avvampare.
< Noi non… >
Mi carezzò la guancia. < Tesoro, io voglio solo il tuo bene. Ma lui? Ti ha abbandonato… >
< No. È stata solo un’incomprensione. > tentai di giustificare Edward.
Lui mi aveva detto che non poteva dirmi la verità ma che dovevo fidarmi di lui. Se me lo avesse detto chiunque altro non gli avrei dato retta ma, alle parole di Edward, credevo. E avevo deciso di fidarmi.
< Un’altra? > mi disse Reneé alzandosi in piedi e coprendo Owen con una trapuntina.
Era primavera ma faceva ancora abbastanza freddo. Non capii a cosa si riferisse.
< Mamma… a proposito di Edward… >
< Sì? >
< volevo chiederti una cosa… > il silenzio che seguì fu per me imbarazzante. Lei mi venne in aiuto.
< A me puoi dire tutto, non vergognarti. > ma mentre parlava notai un velo di isteria nella sua voce nonché un’ombra di angoscia attraversarle il volto. Chissà cosa pensava!
< Ehm… se per te va bene, noi vorremmo andare un paio di giorni da qualche parte. A fare un giro… >
Sentivo l’anello bruciare intorno al mio dito. Era sempre stato così pesante?
Si voltò e mi sorrise. Poi si sedette accanto a me e mi cinse in un abbraccio materno.
 < Non c’è proprio modo di tenervi lontani, eh? >
Arrossii violentemente. < Mamma, mi ama. > le confidai a bassa voce. 
Mi prese il volto tra le sue mani calde. < E tu? Tu, bambina mia? Lo ami? >
< Sì. Tanto, tantissimo. >
Mi venne così naturale contraccambiare l’abbraccio. Mi accorsi troppo tardi di aver tirato fuori la mano sinistra.
Reneé osservava l’anello con occhi spalancati.
Mi affrettai a giustificare quel gioiello sul mio dito.
< Ti piace? Me lo ha regalato Edward! > cercai di dire mostrandomi naturale.
Lei fece un sorriso forzato e poi mi carezzò i capelli.
< Parti con lui per Syracuse? >
< No… mamma, certo che no! Resterò a casa ancora per un po’. > visto che avevo scoperto, checché ne dicesse Edward, di saper mentire, continuai: < Vedremo come si evolve la nostra relazione… è tutto molto complicato. Edward ha un po’ di impegni… però ci terrei molto a partire per una piccola vacanza. > Era una mezza verità. “Metà è sempre meglio di niente” pensai cercando di giustificare quella mia ennesima bugia.
In quel momento Edward fece il suo ingresso in sala. Mia madre lo squadrò da capo a piedi. Lui salutò e finse di essere molto impegnato con il suo cellulare.
< Mamma… Allora? Possiamo fare il week-end fuori? Ti prego!!! > cercai di sussurrarle all’orecchio.
Lei tornò a guardarmi e qualcosa nel mio sguardo la convinse a dirmi di sì.
< Va bene… se ci tieni così tanto. >
Le saltai al collo baciandole la guancia.
< Quindi possiamo partire? > domandò Edward con voce candida.
Stava ascoltando…
Reneé annuii lentamente ed Edward disse: < Bella, che ne dici di andare a vestirti? Se ti va, posso prenotare ora e potremmo partire già questo pomeriggio. >
< Oh, sì! Assolutamente. Vado a preparare una valigia. >
E schizzai fuori dalla stanza.
Dalle scale però sentii mia madre dire:
< Edward! Ma cosa significa? E tutto quello che avevi detto? Tutto il tuo, il suo dolore? Avevi detto che… >
< Reneé, so che il mio comportamento potrà sembrarti assurdo ma… noi ci amiamo e non possiamo reprimere questo sentimento. Entrambi ci abbiamo provato ma ciò ha fatto male ad entrambi. Comunque, ti assicuro, io voglio solo la sua felicità. Mi sembra di averne dato ampiamente prova. Eppure, stando qui, sola, non mi è sembrata stare meglio. >
Il tono di mia madre si addolcì. < No, hai ragione. È da prima dell’incidente che non la vedo così felice… >
Ci fu un attimo di silenzio e poi mia madre aggiunse: < E l’anello di tua madre? Quello cosa centra? > il suo tono era d’accusa.
< Reneé, quell’anello appartiene a Bella. È giusto che lo abbia lei. Qualunque cosa accada. Ora devo andare. Devo telefonare in albergo per prenotare. Ho visto su una rivista un bel posto… credo che a Bella piacerà. >
< Sì, sicuramente lei ti ama. >
< Perché? >
< Ti permette di chiamarla “Bella”. Non lo permette a nessun altro. Credo che per lei fosse… doloroso. >
A quel punto smisi di ascoltare e salii velocemente le scale, cancellandomi le lacrime che erano scivolate dai miei occhi arrossati. Non volevo sapere quanto mia madre avesse intuito delle mie sofferenze. Di sicuro non ne conosceva la causa primaria.
Mentre ero in camera mia, qualcuno bussò.
< Avanti. > dissi prima di affondare di nuovo nell’armadio, alla ricerca di vestiti.
< Bella… ho prenotato. Un posto a circa un’ora da qui. È un bungalow nel Pumpkin hill creek preserve park. È una riserva naturale. Un posto un po’ appartato, solo per noi due.
Si vede l’oceano… il sorgere del sole… è un peccato che adesso piova. >
Si era immerso nel mio armadio per parlarmi. Un mio golfino gli era finito in testa.
< Non preoccuparti. Ci torneremo quando sarà bella stagione. > lo rassicurai prima di sporgermi per dargli un bacio. Mi sembrò triste e temetti di aver toccato un tasto dolente.
Gli presi la mano e lo guidai sul letto. Lo spinsi con delicatezza sul materasso e mi sedetti sulle sue ginocchia.
< Ho detto qualcosa di male? >
Mi sfiorò i capelli con la più leggera delle carezze. < No, Bella… no. Solo, non so quando potrò vederti di nuovo. È pericoloso e difficile. Per adesso, voglio solo godere di ogni istante che posso trascorrere con te. >
< L’importante è che tu sia al sicuro. Posso sopportare la tua lontananza, ora che so che mi ami. Preferisco saperti lontano ma non in pericolo che…  > ma non mi permise di terminare.
Mi baciò con veemenza, quasi violento. Sembrava mosso dalla frustrazione.
< Bella, per l’amor di Dio! È alla tua sicurezza ciò a cui devi pensare! >
Le sue mani mi toccavano ma non come la sera precedente. No… sembrava che si stesse accertando che io fossi ancora lì, con lui.
Aveva paura.
Lo strinsi a me, facendogli poggiare il capo sul mio seno.
Carezzandogli i capelli, gli sussurrai: < ti amo. >
Rimase alcuni minuti immobile. Alla fine osai chiedergli: < A cosa pensi? >
La sua voce, stranamente sommessa, mi stupì. < Ascolto il tuo cuore battere e penso a te. >


 
 
 
 
Ps: qualcuna di voi ha letto fifty shades of Grey/Darker/Freed?
Nel caso, mi piacerebbe sentire i vostri pareri. Nessuna che conosco lo ha letto ed è un libro che, dopo averlo letto, ti fa venire il bisogno di parlarne!!! E mi ha fatto tornane la voglia di scrivere!
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=409723