Once upon a time in Forks... di CassandraLeben (/viewuser.php?uid=42554)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduction ***
Capitolo 2: *** On a rainy day ***
Capitolo 3: *** On this bed I lay, loosing everything... ***
Capitolo 4: *** I can put back all the pieces. They just might not fit the same… ***
Capitolo 5: *** Go ahead, Make your choice! ***
Capitolo 6: *** Sometimes I feel I'm gonna break down and cry ***
Capitolo 7: *** On the ground I lay, motionless in pain… ***
Capitolo 8: *** You are the one for me ***
Capitolo 9: *** An emptiness began to grow… ***
Capitolo 10: *** There's no way out of this dark place ***
Capitolo 11: *** It's a talent that I always have possessed ***
Capitolo 12: *** Wake me up, I'm livin' a nightmare ***
Capitolo 13: *** leave behind the world you know ***
Capitolo 14: *** So superficial, so immature ***
Capitolo 15: *** The cruellest dream? reality... ***
Capitolo 16: *** Alas, ‘twas not ment to be ***
Capitolo 17: *** It was all Just a lie ***
Capitolo 18: *** Miserable, lonely and depressed (Pathetic) ***
Capitolo 19: *** Of all the things I hid from you I cannot hide the shame ***
Capitolo 20: *** Far across the distance and spaces between us ***
Capitolo 21: *** You broke a promise and made me realise it was all just a lie ***
Capitolo 22: *** I’m wondering will I ever see another sunrise? ***
Capitolo 23: *** He says: close your eyes. Sometimes it helps. ***
Capitolo 24: *** I led you with hopeless dreams. ***
Capitolo 25: *** How can I expect you to forgive? ***
Capitolo 26: *** I feel alive, when you are beside me ***
Capitolo 27: *** Love don't give no indication, love don't pay no bills ***
Capitolo 28: *** something will come to take away the pain ***
Capitolo 1 *** Introduction ***
Once
upon a time in Forks…
C’era
una volta a
Forks…
Introduction
Bella’s
Pov
Amare…
Amare significa tutto e niente allo stesso tempo.
Tutto, perché l’oggetto del tuo amore rappresenta
la tua intera esistenza, il
tuo motivo di vita, il tuo desiderio totalizzante.
Niente, perché all’infuori di lui
null’altro esiste per te.
E se la tua vita stessa è amore, l’oggetto della
propria passione è chi di più
fortunato possa esistere.
Per me, all’epoca, era proprio così.
Io, ero stata una ragazza estremamente fortunata.
A
diciotto anni si è giovani, ingenui, idealisti…
Si sarebbe disposti persino a morire per la gloria, per la causa, per
amore…
Per quest’ultimo io, Isabella Marie Swan, avevo deciso di
rinunciare ai battiti
del mio cuore innamorato.
E tutto sarebbe stato più semplice, più lineare,
meno appariscente, se non
fosse stato per il mio fidanzato.
Già, perché per lui condannarmi ad
un’eterna vita da creatura mostruosa era un
sacrificio non indifferente. Un sacrificio a cui io avrei dovuto
ovviare
sacrificando qualcos’altro a me caro quanto a lui la mia
umanità: il mio
nubilato! In fondo, era questo il compromesso.
E così, senza che me ne fossi resa veramente conto, una
notte in cui eravamo
soli a casa sua, quando davanti a noi il futuro era incerto e
tempestato di
pericoli, avevo accettato il suo anello, la sua proposta di matrimonio
e il suo
bacio ardente di passione. Mi ero ritrovata fidanzata con matrimonio a
data da
destinarsi appena pochi giorni prima dell’attacco
dell’esercito di Victoria.
E tra un esercito
di neonati intenzionato ad uccidermi e il matrimonio, ciò
che temevo di più era
proprio questo.
Quando però,
finalmente, le nostre vite sembravano finalmente tornate alla
normalità (sempre
che possa essere normale una vita condivisa con un vampiro) dovetti
decidermi
ad affrontare la realtà: mi aspettava la cerimonia. Alice
era riuscita a
spuntarla e io avrei dovuto subire le conseguenze del suo entusiasmo.
L’aggettivo sfarzoso mi rimbombava fastidiosamente in testa
ogni volta che
pensavo alla cerimonia e all’abito bianco che avevo
già provato un centinaio di
volte in appena due settimane.
Ancora un
mese e mezzo e sarei diventata la signora Cullen.
Altre due o tre settimane e sarei stata finalmente
all’altezza di Edward.
Anch’io bellissima ed indistruttibile come tutti i vampiri.
I compromessi hanno però dei risvolti positivi. Una volta
diventata sua moglie
Edward non avrebbe più potuto tirarsi indietro. Avrebbe
dovuto adempire ai suoi
obblighi matrimoniali.
Finalmente mi
avrebbe amata nel corpo e non più solo
nell’anima…
Solo il
pensiero di fare l’amore con lui riusciva a farmi sopportare
Alice e la sua
irrefrenabile voglia di giocare alla
barbie-sposina-vestita-di-bianco-perché-ancora-vergine
(gioco di società in cui
lei, Esme e Rosalie erano le truccatrici costumiste, sarte, fioraie
parrucchiere ed io la barbie-cavia-umana).
Piuttosto che stare con loro, avevo preferito volare con Edward fino a
Jacksonville e dare di persona la notizia del mio imminente matrimonio
a mia
madre, sperando che la prendesse abbastanza bene, proprio come aveva
fatto
Charlie.
Entrambi i miei genitori si erano dimostrati delle persone comprensive,
desiderose solo di vedermi felici e disposte a vedermi sposata a soli
diciotto
anni proprio in nome di questa felicità.
Ed in realtà,
nonostante tutto, ero davvero felice. Stavo per avere tutto
ciò che avevo
sempre desiderato: Edward, indissolubilmente ed eternamente legato a me
quanto
io a lui.
Dato che però a certe
persone non è concesso vivere
contenti e spensierati, il destino mi sottrasse il futuro che tanto
duramente
io ed Edward stavamo costruendo.
Me lo
sottrasse intenzionato a non restituirmelo mai più.
Salve
a tutte!
Lo
so, lo so… mi sono fatta attendere…
Scusate se non ho aggiornato l’altra mia ff ma sono
totalmente in crisi per il finale. Non riesco a scriverlo. Ho cestinato
tutte
le brutte che avevo scritto.
Non credo ci metterò moltissimo quindi, abbiate fede!
Per quanto riguarda msn, non riesco più a trovare la
password e sono mesi che non lo apro. Mi spiace se qualcuno mi avesse
contattato senza ricevere una risposta. Se volete contattarmi usate la
mail di
Efp… quella (ora che sono tornata a casa) la guardo spesso.
Scusate per l’inconveniente.
Spero che questa storia vi appassioni.
Ci
saranno intrighi, pazzie, delusioni, speranze,
amore, ancora amore, sesso, tenerezza, tristezza, speranza, paura,
avventura,
malinconia … insomma, una buona insalata di sentimenti
condita con un po’ di
suspance e un pizzico di ironia come solito nei miei lavori (il mio
marchio di
fabbrica: La cassandra.S.P.A. lancia il suo nuovo prodotto.)
Spero
mi seguirete in tante e che in tante apprezziate
questa mia nuova “impresa”
Le
recensioni sono il sale della vita (di quella degli
scrittori dilettanti per lo meno XD) quindi non abbiate scrupolo a
dirmi che ne
pensate. Un abbraccio a presto,
Cassandra
|
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Capitolo 2 *** On a rainy day ***
on a rainy day 1
Per quante mi conoscessero
già, eccomi tornata!So che è da
un bel po’ che non mi faccio vedere ma non ho proprio avuto
la possibilità di
lavorare al PC ultimamente…
Per chi non mi conosce, benvenute sulle mie pagine, scritte
irrimediabilmente di notte, nelle quali racconto storie avventurose, e
(sforzandomi di non sforare nel rosso) romantiche con protagonisti i
personaggi
della Meyer (talvolta con aggiunte mie)
Spero gradirete questa mia storia che, come le due
precedenti, sarà lunga ma (mi auguro) vi saprà
conquistare.
Non resterete
deluse se vi aspettate colpi di scena e una buona vecchia storia in
stile
Cassandra.
Per gli
aggiornamenti, non so ogni quanto riuscirò a
pubblicare ma cercherò di essere costante e metodica.
(lo so, lo so, mancha l’“ultimo” capitolo
de Con
ogni singolo battito del mio cuore ma quella
storia è così importante per me che non ho il
coraggio di finirla!!! Quasi due
anni della mia vita!!! Non preoccupatevi, la finirò, quando
troverò la forza
psicologica per farlo… chiedo perdono.)
Un bacio e a presto, seguitemi in tante e lasciate un segno
del vostro passaggio facendomi sapere se la storia suscita il vostro
interesse.
PS: questo capitolo è un
po’ lungo in quanto è il primo.
Cassandra
cap 1:
On a rainy day…
In un giorno di pioggia…
Bella’s POV
Pioveva.
Quella maledetta mattina pioveva a dirotto.
Non che a Forks, stato di
Washington, la pioggia
rappresentasse una novità…
Il solo piccolo, insignificante problema era il fatto
totalmente trascurabile che mi stessi per sposare!
Alice, seduta di fianco a me sulla sua porche gialla,
non faceva altro che lamentarsi:
< Spero proprio che non piova il tredici! Come
facciamo se no? >
< Come farai tu. > sottolineai io. < Lo sai
che a me andrebbe benissimo sposarmi in cinque minuti in comune. Sei tu
quella
che vuole la cerimonia in giardino. >
< Bella, non sai cosa stai dicendo! Fra cent’anni
mi ringrazierai per aver reso memorabile il giorno più
importante della tua
vita.
Questo tempo impossibile… non vedo se pioverà!
È
troppo instabile. Per sicurezza dovremo organizzarci in modo da poter
tenere la
cerimonia al chiuso. Ho sempre odiato i gazebo. Tanto vale farla
direttamente
in casa invece che in giardino… a meno che il tempo non
migliori. Ma lo saprò
per certo solo tre giorni prima… >
Continuò a blaterare mentre io affondavo nel comodo
sedile in pelle. Mi strinsi nel cappotto e, assonnata, sbirciai fuori
dal
finestrino. Erano appena le sette e mezza e Port Angels si stava
svegliando nel
tiepido mattino di metà luglio. Alice mi aveva buttata
giù dal letto alle sei e
mezza con la scusa di dover portarmi a scegliere le bomboniere. Le
BOMBONIERE!
Come se a me importasse qualcosa!
Spinta fuori di casa a calci da
Charlie, non avevo
potuto far altro che sedermi e aspettare che Alice mettesse in moto.
Perché
Edward non era mai nei paraggi quando avevo davvero bisogno che mi
salvasse?
Altro che Victoria, altro che Volturi… Alice era un pericolo
per la mia sanità
mentale ed emotiva!
Mi accorsi che eravamo arrivate perché notai
un’insegna preoccupante: una sposa sorridente altra due metri
e avvolta da
tulle bianco.
< Bene Bella, eccoci qua. >
Istintivamente serrai le mani intorno al sedile, quasi
a non voler uscire.
< Bella, non fare la sciocca. Vedrai, non ci
metteremo molto. Il negozio apre tra un’ora. Adesso ti porto
a fare colazione.
Edward mi ha tanto raccomandato… >
A quelle parole mi illuminai. < Lo hai sentito?
>
Sospirò e, tenendomi saldamente per un braccio mentre
mi tirava fuori dall’auto, mi disse: < Questa notte.
Ha detto che è riuscito
a prendere due puma e che per colpa di Emmett un terzo è
fuggito. Si stava
divertendo ma ha anche detto che avrebbe preferito trascorrere la notte
con te.
> Mi squadrò e poi disse: < Bella, ricorda che
è troppo tardi per
cambiare il colore dell’abito, quindi vedi di non fare
cavolate prima del
matrimonio… >
Sospirai e la rassicurai: < Alice, fossi in te non
mi preoccuperei. Edward non cederà adesso che ha quasi
vinto. Non ci sarà
bisogno di rinunciare al bianco. Resterò
“intatta” ancora per… oddio, ormai
solo due settimane! >
Rise vedendomi avvampare e mi
trascinò fino ad una
sala da the. La pioggia batteva veloce ritmicamente contro il suo
ombrello
gigantesco. Mi ricordava il suono del mio cuore quando Edward mi
baciava.
Quando, alle
nove, il negozio di articoli da sposa aprì,
io ed Alice eravamo già davanti all’ingresso. La
mia migliore amica e quasi
sorella non riuscì a infondermi il suo entusiasmo e
trascorsi la maggior parte
del tempo annuendo a caso e facendomi i fatti miei. La commessa credeva
che la
sposa fosse Alice!
Dopo che ebbi scelto la bomboniera (o meglio, dopo che
Alice mi ebbe mostrato quella che le piaceva di più e avermi
costretto a dire
“sì”) lasciai mia
“sorella” a prendere gli accordi con le commesse ed
uscii.
Tremai quando sentii dire: < centodieci pezzi >
Quante persone aveva osato invitare?!
Una coltre spessa di nubi oscurava il cielo ma per lo
meno aveva smesso di piovere.
Appena pochi metri più avanti avevo visto una
libreria. Pensai di dare un’occhiata alla vetrina in attesa
che Alice mi
raggiungesse. In fondo si trattava solo di attraversare la
strada…
Infilai le mani in tasca e, dopo aver rivolto un
ultimo sguardo all’insegna “Sposa di
classe”, decisi di andarmene da quel luogo
di torture.
Riuscii a fare però solo
pochi passi.
Mi trovavo proprio in mezzo alla
strada quando,
improvvisamente, un’auto uscì da un incrocio a
destra. Correva a tutta velocità
sull’asfalto bagnato.
Tutto durò una manciata di secondi appena. Troppo poco
perché persino Alice potesse aiutarmi.
Venni accecata dall’auto per un istante e poi cercai
di tornare indietro ma le mie gambe non rispondevano.
Feci appena in tempo a portarmi le braccia sopra al
capo in un infantile tentativo di proteggermi e poi sentii un suono
acuto e
spaventoso.
Il guidatore, accortosi di me,
aveva cercato di
sterzare.
Ma l’asfalto era bagnato
e lui perse il controllo del
veicolo.
Di quei momenti ricordo solo la luce accecante, e il
dolore terribile nel momento in cui l’auto colpì
il mio corpo. Rimbalzai sul
cofano e ruppi il parabrezza.
Sentii alcuni vetri tagliarmi la pelle delle braccia,
della schiena. Il colpo mi aveva bloccato i polmoni, non riuscivo a
respirare.
Rotolai a terra, di lato, e vidi l’auto correre a
tutta velocità prima di schiantarsi contro un palo. Un altro
botto. La testa, a
quel ulteriore suono, cominciò a pulsare. I suoni erano
ovattati, come se le
voci che gridavano intorno a me venissero da lontano. Troppo lontano
perché io
potessi raggiungerle.
Mi ritrovai a terra, incapace di muovermi. Vedevo
delle sagome accalcarsi intorno a me. La pioggia intorno al mio corpo
formava
delle pozze rosse come rubini…
Mi accorsi di star respirando di nuovo solo perché
ogni volta che il mio petto si gonfiava delle fitte terribili mi
percorrevano
il costato. Rantolai cercando di parlare.
Tra tutte quelle voci che si susseguivano
vorticosamente intorno a me, improvvisamente ne distinsi una,
più vicina delle
altre. Qualcuno piangeva inginocchiato di fronte a me.
Alice tremava e mi chiamava. Erano
le sue le mani
gelate che mi accarezzavano il capo?
< Bella! Bella! Non
preoccuparti. Non è niente. Non
è niente. Ti prego, rispondimi. Riesci a sentirmi? Isabella!
>
Ripeteva queste frasi come un disco rotto. Non l’avevo
mai vista così preoccupata.
I suoi occhi stavano perdendo la tonalità dorata in
favore di quella nera.
In quel momento tanto assurdo, tanto sbagliato, la
prima cosa che riuscì a sussurrare fu: <
Alice… i tuoi occhi… hai sete…
>
< Bella! Oddio Bella… non preoccuparti. Edward sta
già tornando. Gli ho appena telefonato. E Carlisle sta
arrivando. Adesso ti
portiamo all’ospedale… > Sentivo le sue
dita cercare di pulirmi il viso,
liberandolo da quella sostanza calda e viscosa che mi impastricciava la
pelle.
Cercai di muovermi, non capendo a cosa si riferisse ma
lei mi bloccò a terra con le sue mani gelide. < Cerca
di restare ferma. Ti
prego, non muoverti… Oddio! Oddio! Ma
com’è potuto succedere? Perché non ho
visto… Bella, mi dispiace, mi dispiace! È colpa
mia, solo colpa mia. Edward non
mi perdonerà mai! Avrei dovuto… mi dispiace, mi
dispiace… >
Nel frattempo altri rumori, altrettanto assordanti, si
sovrapposero alle urla. Un fastidiosissimo suono elettronico mi
dilaniò i
timpani prima di cessare, a pochi metri da me.
Vidi, prima di chiudere gli occhi, Alice allontanarsi,
tenuta per le spalle da uno sconosciuto vestito di giallo fosforescente
e poi
senti altre mani, calde, posarsi sul mio viso.
< Ehi? Signorina? Mi senti?
Se mi senti rispondimi.
Mi senti? > qualcuno mi stava tenendo il polso e toccandomi la
gola. Mi
aprirono gli occhi.
Sbattei le palpebre, colpita da una
luce improvvisa e
poi sussurrai: < Sì… la sento. >
< Bene. Adesso ti portiamo via da qui. Ricordi come
ti chiami? >
Ci pensai un attimo prima di rispondere… <
Sì.
Bella… >
In quel momento venni sollevata da terra e appoggiata
su qualcosa di morbido. Quel movimento mi fece girare la testa ed ebbi
un
conato di vomito. Mi vergognai ma il signore gentile che continuava a
parlarmi
mi sussurrò: < Non preoccuparti tesoro, non
preoccuparti. >
Mi lagnai dicendo che mi faceva male ovunque e lui,
accarezzandomi il volto mi rassicurò: < Bella, va
tutto bene. Fra poco non
sentirai niente. > poi, facendomi aumentare il mal di testa,
urlò a qualcun
altro:
< Possiamo portarla via. La ragazza con i capelli
neri viene con noi. >
Non cercai neanche di capire le sue parole.
Il capo pesante mi si poggiò di lato e vidi delle
chiazze di sangue nel punto in cui mi ero trovata fino a qualche attimo
prima.
Il dolore, che fino a qualche istante prima
attanagliava il mio corpo, stava lentamente scemando in favore di un
torpore
strano ed innaturale.
Qualcosa di freddo mi venne
appoggiato sul viso. Mi
resi conto di avere gli occhi chiusi ma le palpebre erano troppo
pesanti per
cercare di riaprirli. I suoni mi giungevano sempre più
attenuati fino a
scomparire nell’oscurità che mi circondava.
Edward’s POV
< Edward, fare
così non
servirà a niente… >
< Carlisle! tu non
capisci! Non ti rendi conto? >
< Edward, mi rendo esattamente
conto della situazione. Lo sai perfettamente. Proprio come sai che non
ha senso
trattare Alice in questo modo. Non te lo permetto. Non se lo
merita. >
< Ma sarebbe bastato che
fosse stata un po’ più attenta! Sa benissimo che
Bella è… è… come ha potuto
perderla di vista? Era troppo impegnata con i suoi stupidi giochetti
per la
festa! Ti rendi conto? Bella non la voleva nemmeno la cerimonia! Avrei
dovuto
darle retta. Sono stato così egoista da costringerla a fare
come volevo io! E
Alice? Se solo fosse stata un po’ più
moderata…
Carlisle! Bella non voleva
tutto questo! È solo colpa mia. Mia e di Alice! Possibile
che non sia riuscita
a vedere ciò che stava per accadere? Certo, era troppo
impegnata nei
preparativi di quello stupido party per pensare
all’incolumità di Bella… >
< Edward, per favore,
adesso smettila. Alice è già abbastanza turbata.
Da quando le hai urlato
contro, quattro giorni fa, non ha più detto una parola.
Jasper è disperato.
>
<
E io allora? E IO
ALLORA? Bella è in coma! Ti rendi conto! >
<
Ci sono speranze che si
ristabilisca. Bella è stabile. Le ferite che ha riportato
non sono così gravi da
pregiudicare la possibilità di un suo possibile
recupero… >
Gli impedii di proseguire. Alzai
il viso dalle lenzuola e lo fissai con rancore.
< Come sarebbe a dire non
gravi! > Gli urlai ormai fuori di me. Sapevo che lui non voleva
offendermi,
che stava solo cercando di farmi ragionare, di rassicurarmi. Ma Bella
giaceva
esamine sul letto davanti a me, coperta di punti, con quattro costole
incrinate,
un trauma cranico e ferite sulla schiena e sul viso, oltre al braccio
ingessato.
Il sangue che macchiava le bende mi faceva riardere la gola. Ormai
l’odore di
quello delle trasfusioni era svanito. Da quando ero arrivato in
ospedale non
aveva dato segni di vita se non quando aveva sbattuto le palpebre, il
primo
giorno.
Indicai con un gesto della
mano la mia fidanzata. La rividi negli occhi di Carlisle: Lui cercava
di
guardarla in modo obbiettivo, come ad una paziente e non come ad una
figlia. Stava
analizzando la flebo collegata al suo braccio così come la
mascherina sul
volto. Il tubo che aveva in gola non pareva sconvolgerlo come invece
sconvolgeva me. Per lui era solo uno strumento per aiutare una paziente
a
restare in vita.
Io vedevo solo la donna che
amavo giacere sul letto bianco di un grande ospedale.
Cercai di reprimere la mia
rabbia e affondai di nuovo il volto tra le sue lenzuola. Con la fronte
le
sfiorai il braccio, caldo e profumato.
< Edward, quello che
intendo dire… > ma poi si bloccò. Ascoltai
i suoi pensieri… “Edward, lo sai
benissimo quali erano, anzi sono, i desideri di Bella. Se la situazione
dovesse
peggiorare, o non migliorare in un tempo ragionevole, la cambieremo. Ti
aiuterò. Non sarai costretto a farlo da solo. Il suo cuore
è forte. Vedrai, non
dovrete separavi.”
Rabbrividii all’idea che
Bella dovesse abbandonarmi.
Annuii lentamente senza
sollevare il capo. Sottovoce sussurrai: < scusa, sono fuori di
me. È così
sbagliato tutto questo… >
“sta arrivando Charlie. Cerca
di controllarti.” Pensò prima di sedersi sul
piccolo divano vicino alla porta.
Pochi istanti dopo il padre
di Bella bussò piano alla porta.
< Avanti. >
< Permesso… >
< Entra pure Charlie. >
< Carlisle, Edward… >
Quando
fece il mio nome,
alzai leggermente il capo per salutarlo e notai sul suo volto i segni
della
stanchezza. Si era rifiutato di prendere delle ferie al lavoro. Diceva
che lo
aiutava a distrarsi. Appena smontava, veniva in ospedale a controllare
la
situazione. A giudicare dal suo aspetto, non aveva dormito molto negli
ultimi
quattro giorni. Reneé e Phil,che si erano precipitati a
Forks non appena li
avevamo avvisati di quanto era accaduto, alloggiavano a casa sua.
Reneé veniva
tutti i giorni ma non riusciva a restare per più di una
mezzora. E poi, Phil
non voleva che lei si agitasse troppo perché aspettava un
bambino. La notizia
avrebbe dovuto essere una sorpresa per Bella. Reneè aveva
aspettato apposta per
dirglielo di persona, quando sarebbe venuta da noi per il matrimonio.
Adesso,
lo stress dell’incidente rischiava di compromettere la
gravidanza e lei passava
quasi tutto il giorno a casa, a letto. Carlisle prima di venire in
ospedale
andava sempre a controllarla ed anche Esme si fermava da lei spesso,
per farle
compagnia e rassicurarla.
Charlie prese la sedia e la
trascinò vicino al letto, sul lato opposto al mio. Prese la
mano di Bella e poi
chiese: < Qualche novità? >
Mi riappoggiai alle lenzuola
mentre mio padre cominciò a fargli il resoconto della
giornata. Con la mano che
non stringeva quella di Bella, cominciai ad accarezzarle il viso
facendo
attenzione a non toccarle i tagli. Mi appoggiai il palmo della sua mano
sulla
guancia e inspirai profondamente il suo odore.
< Edward… Edward… >
Charlie mi stava chiamando.
< Sì? >
< Perché non vai a casa a
riposarti un po’? hai
un aspetto
tremendo. Sono sicuro che Esme non approvi questo tuo comportamento.
Non puoi
compromettere la tua salute per… >
< Per chi? Per Bella?
Certo che posso. > Charlie non aggiunse altro ma nei suoi
pensieri stava
analizzando le mie occhiaie violacee. Una piccola parte della mia mente
si rese
conto della sete bruciante che mi attanagliava. Per quanto ancora avrei
resistito? Non importava. Non potevo neanche pensare di lasciarla,
nemmeno per
poche ore.
Quando ormai era notte
inoltrata, lo sceriffo si alzò dalla sedia e, dopo aver
baciato Bella sulla
fronte, si congedò con un “ A domani”
spento e triste. Quando si fu richiuso la
porta alle spalle, Casrlisle si alzò in piedi e mi venne
vicino. Poggiando la
mano sulla mia spalla, mi sussurrò: < Edward, io
vado. Ti raggiungerà
Emmett, insieme a Jasper. Ci vediamo domani mattina. >
Annuii
distratto mentre lui
raggruppava le sue cose e si metteva la giacca. Uno stupido gesto umano
per
salvare le apparenze.
< Esme e Rosalie verranno
domattina. Anzi, fra qualche ora. > constatò
guardando l’orologio.
< Ci vediamo dopo. >
< A dopo. Ti chiamo se ci
fossero novità. > Bisbigliai. Lui annuì
con il capo e poi uscì.
Rimasto solo con Bella, nel
silenzio della camera spoglia, ascoltai i battiti del suo cuore, il
sangue che
pulsava caldo ed invitante nelle sue vene, le gocce della flebo
rincorrersi…
Alla millesima goccia, Emmett
aprì entrò nella stanza. Mi salutò con
un cenno del capo e poi si sedette dove
qualche ora prima si era sistemato Charlie. Jaz si appoggiò
al muro.
<
Edward > incominciò
Emmett serio. < Dobbiamo parlarti. >
risposi
senza sollevare lo sguardo dal viso di Bella. Le tenevo ancora la mano.
< Edward, guardami. È
importante. > Sollevai lo sguardo, a malincuore.
Contemporaneamente, sentii
il potere di Jasper inondare la stanza. Non mi opposi. Mi avrebbe
aiutato a
calmarmi un po’, a calmare la rabbia dentro di me.
< Edward, siamo venuti a
parlarti perché crediamo che sia importate che tu sappia
cosa pensiamo. Ne
abbiamo discusso a lungo, tutti insieme a casa, e siamo tutti
d’accordo.
Che ne diresti se la
portassimo a casa da noi? > ed indicò Bella con il
capo. < Carlisle è
disponibile a prendersi
cura di lei,
sotto il profilo medico. Aspetteremo qualche settimana, tanto per non
destare
sospetti, e poi tu la trasformerai. Carlisle la dichiarerà
morta e diremo a
Charlie che sarebbe meglio non vederla nella bara. Che sarebbe meglio
ricordarla com’era… con l’aiuto di Jaz,
non sarà difficile convincerlo. Al
funerale ci sarà la bara chiusa e nessuno sospetterebbe
nulla.
E poi ce ne andremo. >
Scossi veementemente la
testa.
< Edward, lo diciamo per
te, per lei. Sai che potrebbe non riprendersi più. Ha
picchiato il capo, molto
forte. Non ha dato segni di ripresa. Non ha molte speranze di
risvegliarsi dal
coma… >
< Emmett, ci sono persone
che si risvegliano dopo anni! > sibilai tra i denti. Ero tornato
a fissarla,
a fissare le sue labbra socchiuse. Alla mascherina che aveva sostituito
il tubo
per respirare.
< Vuoi farle questo? Vuoi
aspettare anni? Sai bene cosati direbbe se ora fosse presente.
Ti direbbe che sei impazzito. Ed avrebbe ragione. Vuoi
che si risvegli a trent’anni, con un corpo che non sarebbe
più il suo? Vuoi che
non si riconosca più allo specchio? E poi, ammesso anche che
possa
risvegliarsi, più in là si sveglierebbe,
più difficile sarebbe per lei tornare
ad una vita normale. Il suo corpo farebbe fatica e lei dovrebbe
rieducarlo a
muoversi e a fare tutto,persino mangiare. Per cosa poi?
Perchè tu la morda
qualche settimana dopo? Non credo che ti permetterebbe mai di farle un
simile
torto. E poi, lo sai anche tu. Alice non vede segni di ripresa. Mordila
adesso
e vedrai che lei ti dirà che hai fatto la cosa giusta. Il
veleno la guarirà.
Guarirà tutto. E sarete felici. >
Era
sincero e mentre parlava
evocava delle immagini molto vivide nella sua mente. Sapevo che aveva
ragione
ma non riuscivo ad ammetterlo a me stesso.
< Emmett, no. Voglio
aspettare. Almeno un po’. C’è
più di una possibilità che si riprenda, che si
risvegli in un tempo ragionevole. >
< Ma perché aspettare?
Carlisle è pronto a trasferirla a casa già da
domani. >
< Emmett, noi ci dobbiamo
sposare. >
< E dov’è il problema? Vi
sposerete dopo! > sbottò incrociando le braccia.
< Facciamo così, tu
aspetti chessò, un mese? Se fra un mese le sue condizioni
non saranno
migliorate, la portiamo a casa. Aspettare di più sarebbe
inutile. >
< Emmett… > < No,
basta. A casa sono tutti d’accordo con me. Domani mattina
Esme e Rose verranno
a darci il cambio. Carlisle sarà qui di turno. Jaz
tornerà a casa da Alice e tu
verrai con me a caccia. E non dire di no. Dovresti guardarti in faccia.
Ne hai
troppo bisogno per poter aspettare ancora. In questo posto
c’è troppo sangue
umano libero per poter resistere a lungo. > e mentre diceva
così, pensò alle
bende insanguinate di Bella.
< Emmett, adesso non
riesco a pensare con lucidità. Se poi la portassimo a casa e
lei avesse una
crisi? Carlisle non dispone di una sala di rianimazione in salotto.
Magari più
avanti, tra un po’. E per la trasformazione, tutto quello che
hai detto è
giusto ma io voglio aspettare, ancora un po’. >
< Però domani ci vieni a
caccia. Almeno su questo non devi starci a pensare a lungo. >
Annuii stanco, sperando che
così mi lasciasse in pace.
Non disse più nulla e nella
stanza calò il silenzio. Quando l’orologio
segnò le sei e mezza e fuori si
intravedevano i primi raggi di luce, un’infermiera
entrò nella camera e ci
chiese di uscire perché doveva controllare Isabella. Fuori
ci aspettavano Esme
e Rose. Rosalie fissava il pavimento mentre Esme mi veniva incontro. Mi
abbracciò e dopo avermi scostato i capelli dal viso
pensò: “non può ridursi
così. Spero che Emmett lo abbia convinto ad uscire per
cacciare.”
< Non preoccuparti mamma.
Sto bene. Appena l’infermiera ce lo permette, torno dentro
insieme a voi. La
sete è più che sopportabile. > e accennai
un sorriso. Emmett sbuffò e sussurrò:
< Io ci ho provato ma evidentemente non mi ascolta. > < Scusa Em, non ce la
faccio ad andarmene.
>
Lui mi strinse la spalla
comprensivo e poi si allontanò insieme a Jasper.
Non appena l’infermiera uscì,
ritornai da Bella. Alle due di quel pomeriggio anche Charlie ci
raggiunse. Lui
ed Esme parlarono a lungo e mia madre gli ripeté il discorso
che Emmett aveva
fatto a me quella notte. Per lo meno, la parte sul trasferimento era
uguale.
Ovviamente non poteva
rivelargli cosa
realmente stessero progettando.
Carlisle passò per la visita
quel pomeriggio e constatò che non erano ravvisabili
miglioramenti e
l’espressione sul volto di Charlie si fece ancora
più addolorata e stanca.
Anche nei giorni successivi
le ore si susseguirono senza cambiamenti, senza risposte.
Venti
giorni dopo
l’incidente, io ed Esme eravamo seduti vicino al letto di
Bella mentre Carlisle
controllava i macchinari. Esme le strinse la mano e poi si
alzò per andare a
fare una telefonata a casa.
Si chiuse la porta alle spalle
ed io mi chinai a baciare la guancia a Bella.
Le ripetei le stesse parole
che le sussurravo da quando l’avevano portata in ospedale:
< Bella, amore…
mi senti? Bella? Bella… non preoccuparti amore, ci sono qui
io. Non avere
paura. >
Chiusi gli occhi e appoggiai
il capo sul cuscino. Ero stanco. Devastato.
Poi, improvvisamente,
avvertii un lieve movimento. le dita della sua mano si strinsero
intorno alle
mie. Alzai immediatamente la testa. Carlisle si era subito avvicinato.
Ricominciai a chiamarla,
questa volta con una nuova energia nella voce: < Bella, Bella?
Mi senti.
Riesci a stringermi ancora la mano? Bella? Bella? >
E
a quel punto lei sbatté gli
occhi. Una, due, tre volte. forse non riusciva ad adattarsi alla luce.
Piegò il
capo di lato, come per schivarla. Le accarezzai la guancia con mano
tremante. E
a quel punto mi vide. Sussurrò: < Ahia…
>
< Bella, sono Carlisle, mi
senti? > lui era già chino su di lei. Le
puntò una luce negli occhi che le
teneva aperti. Lei cercò di chiuderli, infastidita. <
I valori sono tutti
normali. Sembra recettiva. Bella? Bella? Come ti senti? Riesci a
parlare? >
Confusa, Bella muoveva lentamente
il capo da me a mio padre. Tossì due volte cercando di
parlare. < Mi fa
male, il petto, la testa. > sussurrò molto
lentamente, con voce arrochita.
La sua mano, stretta alla mia, tremava.
Mi
sentivo euforico, felice,
in preda ad una gioia profonda e quasi incontenibile. Mi stava
parlando. Si era
svegliata. Sempre tenendole la mano sulla guancia le dissi: <
Non
preoccuparti. È comprensibile che tu sia agitata. Va tutto
bene. Adesso
chiamiamo Charlie. Era così in pena… >
A quelle parole parve
riacquistare lucidità. Socchiuse gli occhi e mi
fissò prima di mormorare:
< Charlie? Che ci fa qui
Charlie? Dovè la mamma? Cos’è successo?
>
Interdetto,
le sorrisi. <
Bella, Charlie ci vive qui e tua madre vive a Jacksonville, con Phil.
Ma adesso
anche loro sono qui. >
Confusa, aggrottò le
sopraciglia. < Come sarebbe a dire che Charlie vive qui? e poi,
noi abitiamo
a Phoenix, in Arizona.Non a Jacksonville… Dove sono?
> con entrambe le mani
le accarezzai febbrilmente il volto, sistemandole i capelli dietro le
orecchie.
La mascherina sulla sua bocca era tutta appannata dal suo respiro
agitato.
< Bella, cosa dici? Tu
non… > Carlisle mi impedì di continuare
intromettendosi nella conversazione.
Parlava con voce calma, serena e tranquilla. Non mostrava alcun segno
di
tensione.
< Bella, sei in ospedale.
Sei a Forks. Anche tua madre si trova qui. Hai avuto un incidente. oggi
è il
nove agosto del duemilanove. Sei stata in coma per dieci giorni. Adesso
andiamo
a chiamare i tuoi genitori. Saranno qui tra breve. > Bella ci
guardava in
preda alla confusione. Mentre le parlava, Carlisle le stringeva
delicatamente
la mano. Lei chiuse gli occhi e poi disse: < Ho freddo. la mano
è fredda.
>
Rimanemmo in silenzio per
alcuni attimi e poi disse: < Mi dovete dimettere. Devo andare al
matrimonio.
devo andare al matrimonio. Non posso mancare. >
Il suo battito cardiaco
cominciò ad accelerare. Stava entrando nel panico. La sua
voce era bassa e
roca, affaticata.
< Non preoccuparti,
tesoro. Il matrimonio è rimandato. Non agitarti per questo.
Charlie sta
arrivando. Esme ha sentito che eri sveglia ed è corsa a
chiamarlo. Tra poco
sarà qui. >
Quasi senza rendersene conto,
lei sussurrò: < Charlie è qui? ma il
matrimonio… il matrimonio… >
< Bella, non preoccuparti
del matrimonio. Lo faremo tra un po’, quando starai meglio.
Non importa. >
Mi chinai per baciarle la
fronte e sentii il suo cuore impazzire. Anche il monitor, con il suo
bip sordo,
se ne accorse.
Nonostante fosse così
pallida, arrossì.
< wow… > la sentii
bisbigliare, trasognata e sorrisi.
In quel momento Esme chiamarmi dal corridoio. nessun umano avrebbe
udito il suo sussurro.
< Bella, devo uscire per
qualche minuto. Vado da Esme. È qui, fuori dalla porta.
È felicissima che tu ti
sia svegliata. Carlisle adesso ti visiterà meglio. Non
voglio essere
d’impiccio. Sarò da te non appena avranno finito.
>
Mi fissò ancora, con lo
stesso sguardo confuso e rapito di poco prima e poi balbettò
imbarazzata: < Va bene…
>
Mentre
mi chiudevo la porta
alle spalle, sorridendo ad Esme, la sentii sussurrare di nuovo, con
voce debole
e stanca: < Wow >
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Capitolo 3 *** On this bed I lay, loosing everything... ***
Vi avevo detto che non sapevo quando
avrei postato… ma che
alla fine lo avrei fatto! Ed eccomi qui, con un nuovo capitolo per voi.
In queste vacanze mi sono portata avanti con la storia e ho
scritto alcuni capitoli che pubblicherò prossimamente.
Ora vi lascio e torno a scrivere un po’.
VI lascio con un’ultima nota: Entreremo nel vivo della
storia tra qualche capitolo. Abbiate fiducia. Se avrete un
po’ di pazienza,
sono cerca che verrete catturate dalla trama (o almeno lo spero!)
Ciao e a presto
PS: i capitoli sono presi da alcune canzoni. Non so se tutti
i cap avranno titoli in inglese ma per ora l’idea
è questa.
Erika
Cap 2
On this bed I lay, loosing
everything…
Su
questo letto giaccio, perdendo ogni cosa…
Bella’s
POV
Mi girava
la testa e non capivo bene dove mi trovassi.
Certo, ero in ospedale. Lo avevo
intuito dai
macchinari, dalla mascherina, dal gesso al braccio e dal bellissimo
dottore
davanti a me.
La luce era troppo forte e mi
dava fastidio. Chiusi
gli occhi e nella mia mente rividi il ragazzo che era appena uscito
dalla
stanza. Era bello da mozzare il fiato. Così bello da non
sembrare vero…
Non riuscivo a pensare. La testa pulsava e ogni
respiro mi procurava delle fitte al petto.
< Isabella? > Mi sentii chiamare. Aprii
lentamente gli occhi e vidi il dottore chino su di me.
< Bella, riesci a restare sveglia? Hai sonno? >
Deglutii e poi cercai di dare una
risposta coerente
alle sue domande. < No, non ho sonno… >
mormorai poi aggiunsi: < Ha
detto che avete rimandato il matrimonio… mamma
dov’è? le voglio parlare? Non
posso rovinarle la festa. >
Avrei voluto fargli capire quanto fossi arrabbiata con
me stessa ma la voce mi usciva flebile e priva di intonazione. Mi
sentivo
intontita.
L’uomo si sedette vicino al letto e poi cominciò a
parlarmi con voce tranquilla. < Bella, tua mamma sta arrivando.
Le hanno
appena telefonato. Non preoccuparti. Tu non hai nessuna colpa. Ti
ricordi
quello che ti ho detto poco fa? Vuoi che te lo ridica? >
Pensai alle parole di poco prima,
quando c’era il
ragazzo. Mi resi conto di non ricordarle. Ricordavo solo…
solo lui che mi guardava…
e che avevano rimandato il matrimonio…
< Sì, per
favore. >
< Va bene. Allora, oggi è diciannove agosto del
duemilanove. Ti trovi all’ospedale di Forks. Hai avuto un
incidente. Mentre
attraversavi la strada un auto ti ha investita. Sei stata in coma per
alcuni
giorni. Ma non credo che ci siano danni permanenti. Eseguiremo dei
controlli
appena ti sentirai meglio. >
Tacque ed io cercai di fare mente locale. Incidente,
Forks, duemilanove.
Le cose non mi tornavano.
< Incidente? >
Chiesi in un sussurro.
< Sì. L’auto procedeva a
velocità sostenuta e non è
riuscita a frenare sull’asfalto bagnato. Ricordi? >
Cercai di scuotere la testa ma il movimento mi provocò
un conato di vomito.
< Non preoccuparti. È normale che il tuo cervello
non abbia registrato quei momenti. >
Rimanemmo in silenzio per alcuni minuti e poi io
aggiunsi: < Scusi… > < Sì?
> < Ha detto che è Agosto, del
duemilanove. > < Sì > rispose cauto,
squadrandomi.
< Non credo. Non è possibile. È novembre.
Novembre
duemilasette. Mia mamma e Phil si devono sposare fra una settimana, il
15
novembre… novembre. > La mia voce tremava e sentivo
che stavo per perdere il
controllo del mio respiro. Non poteva essere il duemilanove. Non
poteva. Questo
significava che… < Quanto sono rimasta in coma?
>
Avvicinò la sedia al letto e mi prese la mano tra le
sue, gelide, facendo attenzione ai tubicini attaccati alla mia pelle.
Non so
perché ma quel contatto non mi impressionò,
sebbene la sua pelle fosse gelida e
in qualche modo dura, in qualche modo innaturale.
< Bella, adesso voglio che
mi ascolti, con calma.
Oggi è il diciannove agosto duemilanove. Hai avuto
l’incidente il 31 luglio.
Sei rimasta in coma per circa venti giorni. >
< Ma non può
essere! Siamo nel duemilasette! Mia
mamma si sta per sposare… e poi, cosa ci faccio a Forks? No,
no no no! È tutto
sbagliato! > Sentivo il panico crescere dentro di me. Avevo
cominciato ad
urlare. I polmoni premevano contro le costole provocando fitte acute ed
intense, cercai di muovermi e ciò aumentò il
dolore. La testa mi girava. Vidi
il dottore premere qualcosa alla mia destra e poco dopo un senso di
calma mi
invase, diramandosi dalle mie vene. Mi sentii annebbiata.
< Ti ho aumentato i tranquillanti. Adesso ti
sentirai meglio. > Attese che mi calmassi e poi
proseguì:
< Bella, qual è
l’ultima cosa che ricordi? Riesci a raccontarmi? Se
preferisci, possiamo
continuare tra un po’. >
< Io e Reneè siamo andate a cercare le bomboniere
questa mattina. Mamma si riduce sempre all’ultimo. Alla fine
ha scelto dei
pacchettini di raso color crema con un fiocco di seta rosato. E poi ha
fatto
l’ultima prova dell’abito… Siamo andate
a vedere la squadra di Phil giocare
ieri >
< E poi? Non ricordi altro? > < No… le
ho
detto,oggi siamo andate a cercare le bomboniere… >
< Va bene. Non preoccuparti. Probabilmente è una
questione temporanea. >
< Ma se oggi… vuol dire che non mi ricordo quanto,
due anni? > Sentivo che avrei dovuto essere terrorizzata ma non
ci riuscivo.
Tutto mi sembrava inconsistente.
< Come ti ho detto, sono certo che tra poco
comincerai a ricordare. >
< No, no… non può essere. E poi, hanno
rimandato il
matrimonio. Lo ha detto lui. > rimasi in silenzio alcuni
istanti,
pensierosa, e poi aggiunsi: < Ma se mamma e Phil si sono
già sposati, di chi
era il matrimonio di cui parlava quel ragazzo? >
Parlando di lui mi sentii arrossire. Era stata la
prima persona che avevo visto una volta riaperti gli occhi e mi sentivo
rapita
dal suo sguardo. Sembrava così felice, e allo stesso tempo
affaticato,ed era
così bello. Il mio cuore cominciò a battere
più veloce al suo pensiero.
< Non credo tu debba
preoccupartene ora. Perché
invece non mi dici come ti senti? Avverti dolore adesso? Senso di
nausea?
Capogiri… >
Incominciai a descrivergli come
mi sentissi, a
rispondere alle sue domande. Mi visitò ma le sue mani fredde
non mi facevano
rabbrividire. Non conoscevo quel dottore ma mi sentivo a mio agio con
lui.
Aveva chiesto ad un’infermiera di venire ad aiutarlo. Quella
donna mi guardava
e sembrava molto curiosa. Ad un certo punto, mentre mi misurava la
pressione,
lui mi avvisò:
< Credo siano arrivati i tuoi genitori. Vado a parlare con
loro un attimo. Millie, assicurati che la signorina Swan non si agiti.
Sarò
subito di ritorno.
Ci vediamo fra un po’ Bella. > E poi
uscì.
Tesi le
orecchie per cercare di ascoltare ma non udii niente. solo la flebo e
il bip
del monitor che controllava il mio corpo.
Attesi paziente che tornasse ma il tempo continuava a
passare senza che la porta si aprisse.
Persino l’infermiera cominciava a
preoccuparsi. La vedevo agitarsi sulla sedia. Evidentemente aveva di
meglio da
fare e le scocciava dover rimanere a farmi da baby-sitter…
Osservai il soffitto e pensai al bel ragazzo di prima.
Alla sua pelle diafana, al suo sguardo, ai suoi occhi neri. Mi
suscitò
tristezza il suo sguardo stanco. Mi sembrava ingiusto che dovesse
essere
triste. Volevo che fosse felice. Era un sentimento irrazionale che non
riuscivo
a spiegarmi.
Proprio mentre ero persa in questi pensieri, scivolai
nel sonno.
Non so per quanto dormii ma, quando riaprii gli occhi,
l’infermiera mi avvisò che Il Dottor Carlisle era
già venuto a controllarmi e
che, vedendo che stavo dormendo, aveva preferito lasciarmi riposare. Lo
rintracciò
sul cerca-persone e dopo poco la porta si aprì ed
entrò il dottore. Era solo. L’infermiera
salutò ed uscì in fretta. Appena la porta fu
chiusa, il dottore mi disse: <
Bella, i tuoi genitori sono qui fuori e sono ansiosi di vederti. Vuoi
che li
faccia entrare? >
Rimasi in silenzio, preoccupata. Lui mi venne vicino e
mi rassicurò:
< Ho spiegato loro la situazione. Non devi avere paura. sono
certo che si sistemerà tutto. Vuoi vederli? >
< Sì… va bene. È solo che
è così strano. Non riesco
a capire, a ricordare. Non ricordo più nulla. Mi sento
spaesata. Due anni della
mia vita? Come è possibile? >
< A volte succede… > Manteneva un tono pacato
ma
dietro a quella maschera serena intravidi una nota di panico. <
Allora vado
a dire loro di entrare. >
Non appena aprì la porta, Reneè e Charlie
entrarono,
lentamente, seguiti da Phil che teneva mia madre per mano. Fu lei la
prima a
parlare. Si sedette accanto a me e, accarezzandomi il viso, mi
salutò: <
Ciao tesoro. Finalmente hai riaperto gli occhi. > i suoi erano
bagnati di
lacrime.
< Sto bene mamma. Mi spiace di avervi fatto
preoccupare. >
< No, no… sta tranquilla. > quasi non riusciva
a
parlare. Si intromise Charlie a quel punto e mi poggiò la
mano sulla spalla.
< Carlisle ci ha detto che… che non ricordi. Non
preoccuparti. Ci prenderemo cura noi di te. Sono sicuro che risolveremo
tutto.
> Annuii lentamente per farlo felice e lui sorrise. Era un
sorriso stanco e
tirato.
Rimasero con me per molto tempo. Sembrava che sentirmi
parlare fosse per loro fonte di gioia estrema. Forse negli ultimi due
anni i
rapporti tra i miei genitori erano migliorati più di quanto
non sperassi a
giudicare da come si comportavano. Reneè era appoggiata alla
spalla di Charlie
mentre Phil le carezzava la schiena. Sembravano tutti molto uniti.
Più di
quanto non lo fossero stati due anni prima.
Finalmente il dottore, Carlisle, suggerì di lasciarmi
riposare e li convinse ad uscire. Mi faceva piacere vederli ma la testa
mi
faceva male e sentivo uno strano senso di spossatezza.
Appena mi lasciarono sola chiusi
gli occhi che mi
bruciavano.
Non volevo dormire. Cercavo solo
di riposarmi un po’.
Non mi accorsi che qualcuno era entrato finché non sentii
una mano gelata
rimboccarmi le coperte.
Spalancai gli occhi di scatto. Lui era lì, vicino a
me. Splendido e tormentato. Gli occhi neri cerchiati da profonde
occhiaie
violacee.
< Scusami. Non volevo svegliarti. >
La mia bocca era secca, forse a causa dell’emozione.
Mi schiarii la voce e pigolai: < Non mi hai svegliata. Non
preoccuparti.
>
Sorrise debolmente. < Hai sete. > non era una
domanda. Prese un bicchiere e lo riempì d’acqua
poi mi tolse la mascherina.
< Vieni. Ti aiuto. > fece scivolare un braccio sotto la
mia schiena e mi
sollevo dolcemente, quel tanto che bastava perché le mie
labbra arrivassero al
bicchiere. Mi sorreggeva la testa. Bevvi a brevi sorsate. Quando
allontanò il bicchiere,
protestai.
< Non esagerare. Devi bere poco e spesso.
Riabituare il tuo corpo. >
Mi persi nei suoi occhi e rimasi imbambolata a
fissarli, annegandoci.
< Ehi? Ehi? Ci sei? > mosse la mano davanti al
mio volto ed io mi ripresi. < Ops, scusami. Mi ero un attimo
persa. >
Confessai rossa di vergogna. Ridacchiò e scosse il capo.
Dietro alle apparenze,
sembrava distrutto e arrabbiato. Ne era una prova il pugno chiuso. Le
vene
risaltavano sulla sua pelle diafana. Era teso.
Nonostante non lo conoscessi, mi sentivo a mio agio
con lui. Se non fosse stato che mi faceva venire le farfalle nello
stomaco,
avrei detto che stare vicino a lui era la cosa più naturale
del mondo.
< Ehm… >
< Sì, Bella? >
< Mi spiace dovertelo chiedere, ma… > <
Ma?
Non preoccuparti. Chiedimi tutto. >
< Tu… > < Io… >
< Tu chi sei? >
Sospirò e fece un respiro profondo.
Vedevo tutto il dolore trasparire dai lineamenti
delicati del suo viso.
< Io mi chiamo Edward.
Edward Cullen. >
Ero imbarazzata. Sapevo che lui
sperava che mi
ricordassi di lui. Lo vedevo chiaramente dal modo in cui mi guardava.
Ma non
era così. Non mi ricordavo di lui. Uccidere la sua speranza
era doloroso ma
inevitabile.
< Piacere. Io sono Bella,
ma questo credo tu lo
sappia già. > e abbozzai un sorriso.
< Sì. Lo so.
> mi accarezzò il braccio non
ingessato e poi aggiunse: < Sono così sollevato di
vedere che finalmente tu
sia sveglia. Sentirti
parlare… disperavo
di poter udire ancora la tua voce. >
Il suo modo di parlare, il suo atteggiamento, mi
ricordavano un principe delle favole. Le sue parole rievocavano scenari
antichi. Non sembrava affatto un ragazzo di… di…
< Scusa,
quanti anni hai? >Chiesi un po’ confusa e lui ridacchiò
come se avessi fatto una
battuta. < La tua età. Anzi, ho compiuto diciannove
anni da poco.
L’8 di
giugno. > < E eri, cioè, sei a scuola con me?
> < Sì. Frequentavamo
alcuni corsi insieme. > < Ah, beh… ma, ora che
ci penso, se sono passati
due anni… significa che ho già finito il Liceo. A
meno che non mi abbiano
bocciata. > < Non preoccuparti. Non sei stata bocciata.
Hai preso il
diploma dopo aver passato gli esami con quasi il massimo dei voti. E se
proprio
vuoi saperlo, stai per andare al college. >
< Davvero? Oddio, sono già così grande da
andare al
college! È tutto così strano… >
< Mi rendo conto che tu ti senta confusa. È del
tutto normale. Non deve essere facile per te. Vorrei sapere cosa si
agita nella
tua testa in questo momento. > Lo sentii sussurrare anche
“ in questo come
in ogni altro ” ma forse era solo il frutto della mia
immaginazione.
< Sì, se fosse possibile leggere nella mente
altrui. >
< Già, se fosse possibile. > E sorrise.
< Se vuoi saperlo, in realtà non capisco neanche
io. Cerco di sforzarmi, di ricordare… ma sinceramente
l’ultima cosa che vedo
sono le bomboniere che Alice ha scelto per il matrimonio. >
Alzò gli occhi di
scatto e mi trapassò con lo sguardo.
< Alice? > sussurrò.
< Eh? Come scusa? Reneè... > lo corressi io.
Si avvicinò di più a me e prese la mia mano tra
le
sue.
< Però hai detto Alice. > < Davvero?
Non
credo. Non conosco nessuno che si chiami Alice. Anzi, tre compagne del
mio
corso di chimica a Phoenix. Ma non siamo amiche. Forse mi sono solo
confusa.
>
Rassegnato, volle che gli
descrivessi le bomboniere.
Mi parve sinceramente deluso quando lo ebbi fatto. Un lampo di vita
però gli
attraversò lo sguardo quando gli raccontai di un tipo che
avevo visto e che mi
sembrava carino. In realtà, quel modello in particolare mi
ricordavo di averlo
visto in un negozio diverso. Non quello dove ero stata quella mattina
(anzi, la
mattina di due anni prima) ma in un altro, con una grande sposa
all’ingresso
per sponsorizzare il punto-vendita. Il giorno in cui c’ero pioveva. Un miracolo per
Phoenix. Questo però
non glielo dissi.
Dopo alcuni momenti di silenzio,
mi chiese: < Ti
metto a disagio? >
< No. Perché? >
< Beh, non ricordi niente di questi ultimi mesi. Mi
chiedevo quindi se magari la mia presenza ti mettesse in soggezione.
>
No. Stare vicino a lui mi
trasmetteva calma. E lui mi
infondeva sicurezza.
< No. Però,
visto che siamo in argomento, mi
diresti … chi sei? >
< credo che tu non voglia che ti ridica il mio
nome. > < No. Vorrei qualcosa di più. >
< Noi, noi… > Sembrava soffrisse. < Noi
stavamo insieme. >
Mi sentii pervadere da una gioia profonda. Non avrei
mai sperato che lo avrebbe detto. Come era riuscita una ragazza normale
e
maldestra come me a conquistare un ragazzo come quello?
Poi però mi accorsi che aveva detto “
Stavamo
”. mi sentii invadere dal panico. Percepivo il suo sguardo
attento su di me.
Cercando di mantenere la calma, sussurrai: < Stavamo? >
< Sì. Ci siamo lasciati. Circa un mese fa. Otto
giorni prima dell’incidente. > < Davvero?
> Domandai addolorata ed
incredula. Poi però feci mente locale. Era ovvio che lui
mi avesse lasciata.
Non avrei dovuto farmi illusioni.
< Mi sembri delusa. > E mentre lo diceva
sembrava come compiaciuto. Addolorato, ma compiaciuto. < Sembra
che ciò ti
faccia piacere. > sussurrai acida, sebbene l’istinto
primario fosse fargli
gli occhi dolci.
Immediatamente la sua espressione si fece indecifrabile.
< Non direi. > il silenzio cadde nella stanza, opprimente
e soffocante.
Alla fine mi sforzai e chiesi: < Perché ci siamo
lasciati? >
< Abbiamo parlato a lungo. Stiamo per andare al
college. Le nostre strade si sarebbero divise lo stesso. Tantovaleva
che ci
salutassimo da amici.
In questo modo entrambi … > Sembrò
reprimere un nodo
in gola < entrambi avremmo potuto cominciare una nuova vita al
college.
Senza più legami con il passato. Avremmo potuto…
crescere. > E mentre
parlava sembrava facesse fatica a pronunciare certe parole. La sua voce
si
ruppe su “ crescere ”.
Chiusi gli occhi e sospirai. La mia solita fortuna. Un
ragazzo come quello non era solo bello. C’era molto di
più. Era così gentile,
così dolce. Doveva essere per forza speciale. Lo si capiva
da ogni piccola
cosa. Dal modo in cui si muoveva, da quello con cui parlava. Dal suo
sguardo
profondo che sapeva vedere oltre il visibile. I suoi occhi mi
penetravano e mi
sentivo completamente in sua balìa.
Ad occhi chiusi bisbigliai:
< Mi hai lasciato tu.
>
< No. > < Non è vero. > < E
perché diresti ciò? > <
Perché
io non avrei mai avuto la forza e il coraggio di lasciare una persona
come te.
>
< Come puoi dirlo? Non mi conosci neanche, adesso.
>
< Sì, hai ragione. Però sento, nel cuore,
che tu
sei speciale. >
Senza preavviso, delle labbra fredde e lisce mi
accarezzarono la fronte. Il respiro mi morì nel petto e il
mio cuore impazzì.
Mi cinse il corpo con le braccia. Lo sentivo tremare
impercettibilmente.
E, bassissimo, udii un sussurro
quasi inconsistente.
< Devo lasciarti andare. Lo faccio per te. Perdonami. >
Non ero sicura che avesse
pronunciato davvero quelle
parole. Forse erano solo il frutto della mia immaginazione.
< Perché adesso non ti riposi un po’?
>
< Quando mi risveglierò sarai svanito, come in un
sogno? >
< Sono rimasto qui fino ad adesso e resterò fino a
che non ti avrò visto completamente ristabilita. >
< Quindi, non sei stato tu a lasciarmi. >
< Vedo che sei rimasta testarda. Comunque, ti ho
già detto che la nostra è stata una scelta
condivisa. >
< Stai cercando di non
ferirmi? > < No. Se
proprio vuoi saperlo, sei stata tu ad insistere per questa decisione.
Noi
stavamo bene insieme ma, effettivamente, avevi ragione. Alla fine, la
decisione
l’abbiamo presa entrambi. Andremo in college diversi. Tu
andrai a Darthmouth,
io a Syracuse. Saremo lontani. Avremmo perso i contatti. Ci saremmo
innamorati
di altri e di un amore più maturo. Ci saremmo traditi a
vicenda e ne avremmo
sofferto. Avremmo finito per soffrire a causa di una storia
adolescenziale a
cui non avevamo saputo porre fine quando era il momento giusto. La
nostra è
stata la scelta migliore. >
< E allora, se non stiamo
più insieme, perché tu
sei qui? > il mio tono di voce non era acido. Sembrava
più, come dire,
rassegnato.
Mi accarezzò le guance. < Sono qui perché
tu per me
sei importante. Importantissima. E io ti voglio bene comunque. Anche se
non
stiamo più insieme, c’è ancora tanto
affetto che ci lega. Ero sinceramente
preoccupato per te. E sono molto felice di vedere che ti sei ripresa.
Non
potevo fare finta di niente. per questo ti sono restato vicino. E sono
certo
che tu avresti fatto lo stesso con me. >
< Sì. Credo proprio di sì. Io sento di
provare
qualcosa per te, anche se non mi ricordo... >
< Davvero? > Sembrava compiaciuto.
< Sì. Non so cosa sia. Sai, mi dovrai spiegare come
posso averti detto che era meglio lasciarci. >
< Perché? Non mi credi? >
< Diciamo che mi sembra impossibile. Ecco. E tu mi
sembri irreale. Poi, probabilmente mi stai prendendo in
giro… com’è possibile?
E inoltre, hai detto che andrò a Darthmouth. Darthmouth!
Se anche mi avessero ammessa, non potrei mai
permettermi le rette. Quindi è evidente che sto ancora
dormendo è questo è un
sogno perverso. >
< Nessuno ti prende in giro e, finalmente, sei sveglia.
Ti sei svegliata e questo è il mondo reale. >
Mi sorrideva rassicurante. Le sue
mani scorrevano
leggere sulla mia pelle. Il contatto con la sua pelle fredda era
piacevole. Mi
dava sollievo.
< Hai ancora sete? >
< Sì. Un po’. > < Hai un
po’ di febbre.
Appena qualche linea. Dopo lo dirò a mio padre. >
< Tuo padre? > Gli chiesi prima che mi aiutasse
a bere, mentre mi sollevava il capo e mi sorreggeva con le sue braccia.
Aspettò
che bevesi alcuni sorsi d’acqua e poi mi spiegò:
< Carlisle, il dottore che
ti tiene in cura. È mio padre. Adottivo. >
Avrei voluto fargli domande, avere risposte. Mi
incuriosiva almeno quanto mi affascinava. Avrei voluto chiedergli dei
suoi
genitori, del suo passato… ma temevo di ferirlo. Era chiaro
che soffriva perché
non mi ricordavo di lui. E poi, non volevo essere indiscreta.
Mi aiutò ad adagiarmi
di nuovo sul cuscino. Le costole
pulsavano. Cercai di sistemarmi meglio nel letto scomodo. Ogni
posizione mi
risultava fastidiosa. Lui cercò di accomodarmi le coperte e
il cuscino. Poi mi
slacciò la mascherina che penzolava sul mio petto. Dalla
prima volta che mi
aveva aiutato a bere, non me la ero più rimessa. Lo
ringraziai e lui sorrise.
Poggiata ai cuscini, chiusi gli occhi.
< Bella, credo che
dovresti dormire. >
< Sì. Va bene. Però… >
< Però? >
< Vorrei che prima mi dicessi una cosa. >
< Prego, chiedi pure. > Mentre parlava mi
accarezzava i capelli. Lo sentii armeggiare con i macchinari vicino al
mio
letto. E immediatamente sentii di nuovo un senso di torpore proprio
come quando
Carlisle mi aveva aumentato la morfina.
< Mi stai drogando per farmi dormire… > mi
lamentai con voce stanca.
Lo sentii ridacchiare. < Era questo che volevi
chiedermi? > Scossi la testa ma mi fermai subito
perché il movimento mi dava
la nausea. Si avvicinò. Sentii il suo respiro gelido
sfiorarmi la pelle,
accarezzarmi. < E allora cosa volevi chiedermi? > Aveva
appoggiato la
fronte sulla mia.
< Quanto tempo siamo stati insieme? >
< Un po’. >
< Tipo? >
< 12 mesi totali, ma non continuativi. C’è
stata una
pausa di 7 mesi. Io
e la mia famiglia ci
eravamo trasferiti per un po’ a Los Angeles
l’inverno scorso. Ci siamo messi
insieme la prima volta più di un anno e mezzo fa. >
< Beh, è stato un bel periodo? >
< Avevi detto una domanda. Questo mi sembra un intrerrogatorio.
Non sapevo volessi diventare uno sceriffo. >
< Dai, per favore. Rispondimi. > sentivo la
bocca impastata.
< Sì. È stato un bel periodo. Molto bello.
>
stava sorridendo. Lo capivo dal modo in cui parlava.
La sua voce di velluto mi accarezzava, a pochi
centimetri dal mio orecchio. Il suo volto era vicinissimo al mio.
< E ci siamo amati? >
< Sì. Molto. >
< Scusa se ti chiedo anche questo ma… oddio,
è
imbarazzante. >
< Non essere imbarazzata. Puoi chiedermi tutto. >
dato che non parlavo, mi strinse la mano per incoraggiarmi.
< Mi stai facendo impazzire. Ti prego. Lo sai che
non sopporto che tu non mi dica cosa pensi. >
< Lo so? >
< Sì, o almeno, lo sapevi. > la sua voce era
così piena di dolore che socchiusi gli occhi per scrutarlo.
< Mi spiace. > cercai di alzare il braccio per
accarezzargli il viso ma ciò mi provocò delle
fitte alle costole e sentii i
punti dei tagli sulla schiena che tiravano. Grazie alla morfina riuscii
comunque a sollevarlo fino a sfiorare con la mano la sua guancia. Si
appoggiò con
la guancia al palmo della mia mano, poggiando la sua sulla mia, e lo
vidi
inspirare profondamente, poggiando il naso sulle vene del polso.
< Non è
colpa tua. E, anche se non sembra, io sono felice adesso
perché ti sei
svegliata. Questo mi basta per essere felice. Ma adesso, dimmi cosa
volevi
chiedermi, per favore. > Prese la mia mano e
riaccompagnò il mio braccio
sulle lenzuola.
< Va bene. Ecco, fino a quando abitavo a Phoenix,
io non ho mai… Noi, noi abbiamo mai… > il
mio cuore batteva furioso e il
monitor impazziva.
< Fatto l’amore? > concluse la frase con un
sorriso ed io avvampai. < No. No. Non saprei come poter
spiegarti il perché,
adesso come adesso. Posso solo dirti che non
avevamo ancora avuto
l’opportunità. Ma eravamo comunque
molto… intimi. >
Rimanemmo in silenzio a fissarci negli occhi. Poi,
senza preavviso, si chinò e mi diede un bacio a fior di
labbra. Io dischiusi le
mie in un gesto del tutto naturale nonostante non avessi mai baciato
nessuno,
perlomeno a mia memoria. Sentii il suo respiro nella mia boccia. Sentii
la mia
schiena arcuarsi e uno strano fremito nello stomaco. Quando le sue
labbra si
sollevarono dalle mie, sollevai il capo dal cuscino rincorrendole me le
sue
mani mi costrinsero a restare sdraiata. Sentivo il bisogno fisico di
stare con
lui.
< Adesso devi riposare. Se
non ti rassegni a questo
fatto e non ti metti a dormire, Carlisle non mi permetterà
più di rimettere
piede in questa stanza. > Vide qualcosa nel mio sguardo che lo
convinse a
rimangiarsi quanto aveva appena detto, e a farlo in fretta. <
Ehi, ehi.
Stavo scherzando. Non dicevo per davvero. Dai, non piangere…
> parlava
velocemente e quasi non capivo le sue
parole. Le sue mani asciugavano le mie lacrime.
I respiri troppo veloci mi faceva
girare la testa. E i
singhiozzi mi fecero tornare il dolore al petto.
Edward aumentò la dose
di calmanti e a quel punto le
mie palpebre cedettero. Chiusi gli occhi.
Cercai di parlare ma avevo la bocca impastata. Riuscii
a dirgli: < Resta. Resta con me ancora questa notte. Stammi
vicino. > e
poi tutto svanì al tocco delle sue labbra sulla mia guancia
e delle sue mani
intorno alla mia. Sentii
la sua voce. Mi
sussurrava: < Per questa notte, per una notte ancora . E per
un’altra notte ancora.
Io sarò sempre con te. Per tutte le notti che vorrai.
>
|
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Capitolo 4 *** I can put back all the pieces. They just might not fit the same… ***
Salve a tutte!
Spero che la storia vi piaccia.
Fra poco le cose si faranno molto… movimentate per i nostri
cari vampiri-umani!
Portate pazienza un altro po’!
PS: Il povero Edward è
molto frustrato e combattuto in
questi capitoli. È anche un po’ incoerente e si
comporterà in modo un po’
irrazionale. Perdonatelo. È proprio il caso di dirlo, in
questo punto della
storia è proprio un povero (in senso metaforico) vampiro!
Buona lettura e grazie per i bellissimi commenti
che mi avete
lasciato!
Aggiornerò presto!
ps: I titoli dei
capitoli(tratti da delle canzoni) li
traduco in italiano ma, e chiedo scusa, mi prendo delle piccole
libertà di
traduzione!
Erika
Cap 3
I
can put back all the pieces. They
just might not fit the same…
Posso rimettere
insieme tutti i pezzi.
Questi però potrebbero non sistemarsi più come
prima…
Mi
risvegliai nel solito letto d’ospedale e lui era ancora
lì, seduto al mio
fianco. Mi teneva la mano, come sempre.
<
Ciao. Come ti senti? > mi domando dopo che ebbi sbattuto le
palpebre due
volte.
< mh, bene, più o meno. > risposi cercando di
mettermi seduta. Mi aiutò
cingendomi con un braccio e sollevandomi delicatamente il busto mentre
mi
sistemava i cuscini dietro alla schiena, così da permettermi
di appoggiarmici.
Negli
ultimi venti giorni, ovvero da quando mi ero risvegliata dal coma, lui
era
sempre stato lì al mio risveglio.
Restava
con me e mi teneva compagnia nelle lunghe e noiose giornate che
trascorrevo in
ospedale, in tutti i momenti in cui non ero impegnata nelle visite o
nei
colloqui con Carlisle. Pareva non annoiarsi mai. Passava il tempo
raccontandomi
dei due anni di cui non ricordavo niente, rispondeva ad ogni mia
domanda
sebbene a volte mi accorgessi che non mi diceva tutto. Mi descriveva
cose
succedeva fuori, nel mondo, mentre io ero relegata lì
dentro. Secondo
Carlisle avrei potuto presto tornare a casa ma avrei dovuto stare
tranquilla
ancora per un po’, finché non rifossi ristabilita
del tutto. Mi avevano già
tolto il gesso al braccio e le costole stavano molto meglio. Mi avevano
tolto
la maggior parte dei punti e, a parte dei mal di testa improvvisi e
lancinanti,
mi sentivo abbastanza bene. Certamente meglio dei primi giorni.
Il
mio umore comunque non era dei migliori. Mi sentivo spaesata. Perdere
due anni
della propria vita rende molto insicuri. Non sapevo come comportarmi
con le persone
che mi circondavano. Mi sentivo inadeguata. Per di più non
avevo niente da
fare, tutto il giorno in ospedale, immobilizzata a letto a guardare la
pioggia
scivolare sul vetro della finestra. L’unica cosa che rendeva
le mie giornate
sopportabili era la presenza costante di Edward. A lui poi la pioggia
piaceva.
Mi aveva detto che lui amava i giorni nuvolosi ma non mi aveva voluto
dire il
perché. Pensai che a Forks doveva trovarsi bene. Pioveva
sempre. Era per questo
che io odiavo tanto quella piccola città.
Da quando mi trovavo lì c’era stato un solo giorno
di sole. E quel giorno
Edward non era venuto. Era stata l’unica volta che al mio
risveglio mi ero
ritrovata sola.
E sebbene sapessi che non ne avevo alcun diritto, quella mattina mi
sentii
gelosa di Edward. Mi ritrovai a pensare a cosa stesse facendo. Senza
volerlo,
me lo immaginai insieme ad una ragazza, intento a passeggiare per un
parco
sotto al sole. Quel pensiero mi aveva intristito sebbene fossi
consapevole che
Edward aveva diritto ad una vita.
In
fondo, ci eravamo lasciati.
Volevo
sperare che non fosse così ma spesso temevo che mi facesse
compagnia in
ospedale perché magari si sentiva in colpa o in dovere di
farlo.
Quando glielo chiesi esplicitamente, lui si era quasi
offeso… poi l’aveva buttata
sul ridere e mi aveva detto che non aveva niente di meglio da fare che
stare lì
con me. Ma mentre mi diceva quelle parole, i sui occhi ardevano. Non di
rabbia
ma di determinazione. Da quella volta non ne avevamo più
parlato.
A
parte quell’unico giorno di sole, Edward era sempre rimasto
con me. Spesso
venivano a trovarmi i suoi familiari, in particolare una ragazza
simpatica dai
capelli neri e spettinati. Mi pare si chiamasse Alice.
A
volte venivano anche i nostri compagni di classe. Io non li
riconoscevo. Mi
limitavo a sorridere e ad accettare i fiori ed i regali che mi
portavano.
Charlie veniva tre volte al giorno, prima e dopo essere andato al
lavoro e
nella pausa pranzo. Lasciava al vicesceriffo l’ufficio e
correva da me. Non lo
avevo mai visto così felice. Ogni volta che varcava la porta
della mia camera,
un sorriso enorme gli illuminava il volto. Edward mi confidò
che, mentre ero in
coma e temevano che non mi risvegliassi più, lui aveva
smesso di mangiare. Era
rimasto traumatizzato.
Adesso che ero fuori pericolo era come se fosse rinato.
Reneè
veniva meno spesso di Charlie, e sempre accompagnata da Phil ed Esme,
la madre
adottiva di Edward. Lui e Carlisle mi spiegarono che anche lei, come
Charlie,
era rimasta sconvolta da quanto mi era successo e la sua salute ne
aveva
risentito. Per questo doveva restare il più possibile
tranquilla e non
stressarsi. Di certo l’ospedale non era il luogo migliore per
evitare lo
stress.
Oltre
alle visite di parenti ed amici non avevo molto da fare. I primi giorni
avevo
dovuto usare una carrozzina per spostarmi e mi ero sentita molto in
soggezione.
Era stato Edward a spingermi. Ad accompagnarmi, qualunque cosa facessi,
c’era
sempre lui. Edward. Edward.
Scoprii
ben presto che non potevo fare a meno di pensare a lui, così
gentile,
premuroso, dolce, bellissimo…
Cominciai
a convincermi che forse lo avevo davvero lasciato io. Come avrei potuto
spiegare altrimenti la sua dedizione, le sue attenzioni, il suo
affetto? Solo
se fosse stato ancora innamorato di me mi sarebbe rimasto
vicino a quel
modo. Ma più mi convincevo di essere stata io a lasciarlo,
più ciò mi sembrava
impossibile. Come avrei potuto lasciare lui? cosa mai mi avrebbe dovuto
passare
per la testa di così folle da convincermi a lasciaro?
Se
all’inizio, appena risvegliata, mi era sembrato un ragazzo
speciale, adesso ero
certa che lo fosse. Che anzi fosse molto più che
straordinario. In quei giorni
trascorsi insieme nella mia camera d’ospedale avevo imparato
a conoscerlo, a
cogliere ogni espressione del suo volto, a leggere il suo linguaggio
del corpo.
mi veniva naturale, come respirare. Era una sensazione strana,
surreale.
Sebbene di lui non ricordassi nulla, mi pareva di conoscerlo da una
vita. Mi
bastava uno sguardo per capire cosa pensasse, cosa volesse.
Avevo imparato presto a pensare ad alta voce. Quando gli dicevo cosa mi
passava
per la testa, lui mi pareva così contento che non avevo il
coraggio di smettere
di raccontargli i miei pensieri.
Lui mi ascoltava, attento e interessato anche se gli
argomenti non erano
certo dei più interessanti.
Un
pomeriggio, mentre fuori ovviamente pioveva, mi chiese: < A cosa
stai
pensando? >
Imbarazzata, arrossii e scossi la testa. < Non voglio dirtelo.
>
Sorrise della mia reazione e disse: < E dai, dimmelo. Non lo
dirò a nessuno.
>
< No, non insistere. >
< Se non me lo dici, penserò che sia una cosa
terribile, sicuramente
peggiore di quella a cui tu stai pensando realmente > e mentre
diceva quelle
parole, lo vidi intristirsi come se si fosse ricordato di qualcosa.
Ebbi la
sensazione che forse quella conversazione era già avvenuta.
< Non credo che tu voglia saperlo. >
< Lascia decidere a me. > e mi guardò fisso
negli occhi, ipnotizzandomi.
Con la mano mi sfiorò la guancia.
< Per favore. > mi sussurrò avvicinando il suo
volto al mio. Potevo
cogliere ogni sfumatura dei suoi occhi dorati.
Poggiai la mia mano sulla sua di modo da impedirgli di allontanarla dal
mio
viso.
< Edward… > gli sussurrai conscia di essere
arrossita. Rimase in
silenzio, aspettando che proseguissi. Chiusi gli occhi e
sospirai. Chinai
il capo in avanti ed appoggiai la mia fronte sulla sua. Il mio cuore
cominciò a
battere più velocemente.
< Bella, c’è qualcosa che ti preoccupa? Non
ti senti bene. Vado a chiamare
il medico di turno. > mi chiese ansioso, accarezzandomi i
capelli con la
mano libera, ansioso. L’altra era ancora poggiata sulla mia
guancia, stretta
tra le mie dita.
< No. Va tutto bene. Sto bene. > cominciai a perdere il
controllo del mio
respiro, che accelerava.
< Sicura? > non sembrava convinto.
< Sì… >
< Bella, io vado a cercare un dottore. >
< No. Non andare. > gli dissi e feci passare il braccio
libero, che era
stato quello ingessato, dietro al suo collo nel tentativo di tenerlo
vicino a
me.
< Bella, mi fai preoccupare. >
< Edward… sono… sono… >
la bocca era secca e non trovavo le parole.
Feci
scivolare la mia fronte sulla sua guancia, sulla sua spalla ed infine
poggiai
il capo nell’incavo del suo collo. La sua pelle mi pareva
dura e fredda, quasi
fosse pietra.
Mi cinse le spalle ed incrociò le braccia dietro la mia
schiena.
<
Bella, che c’è? perché piangi? >
Mi domandò in preda al panico. Non mi ero
accorta che gli occhi mi si erano riempiti di lacrime.
Cominciò a dondolarmi
lentamente, come se cercasse di calmarmi.
Con il volto nascosto nel suo maglione, pigolai: < Edward, sono
innamorata
di te. >
Si irrigidì immediatamente. Poi cercò di
allontanarmi da se. Mi aggrappai a lui
nel tentativo di contrastare il suo rifiuto.
< Bella, per favore. > mi implorò con gli
occhi colmi di dolore.
Mi allontanò da lui e mi prese le mani nelle sue. <
Bella, voglio che tu ora
mi ascolti attentamente. Ti prego. Non odiarmi. >
< Non potrei mai odiarti. Ma ti prego, ascoltami tu. Io ti amo.
Scusami se
ti ho ferito quando ti ho lasciato. Perdonami. Non lasciarmi tu.
Davvero. Ti
amo. Sento di amarti, dal profondo del mio cuore. Ti prego, perdonami
per
qualsiasi cosa io ti abbia detto, per qualsiasi cosa io ti abbia fatto.
Io ti
amo. Perdonami. Perdonami e tienimi con te. >
< Bella, non hai niente di cui perdonarti, non mi hai ferito. Ci
siamo
lasciati e su questo non possiamo tornare indietro. Non è
colpa di nessuno. Io
ti voglio bene. Ti sono molto affezionato ma non possiamo
più stare insieme.
Non posso tenerti con me perché tu devi essere libera.
Libera da un legame di
cui non ricordi nulla. Non possiamo più stare insieme.
>
< Perché no? >
< Bella… > Mi fissò negli occhi a
lungo prima di parlare di nuovo.
Sembrava combattuto, alla ricerca di un motivo per dirmi di no.
< Bella, non possiamo. Andremo al collegge… non ci
vedremo più. >
< No, non importa. Potremo vederci nei week.end. posso venire da
te. Non ti
chiedo di rinunciare allo studio. Io lavorerò mentre tu
andrai all’università.
Ma almeno staremo insieme. Ti chiedo solo di permettermi di restare con
te. >
< Bella, non c’è niente da discutere.
> Mentre parlava, mi accarezzava i
capelli con gentilezza infinita. Mi pulì il viso dalle
lacrime. < Non
piangere. Ti prego. >
< Non mi vuoi più. >sussurrai. Ero talmente
addolorata che non riuscivo
neanche più a singhiozzare.
< No. No. Non dirlo neanche. >
Abbassai il capo e chiusi gli occhi. Mi sentivo male. avevo la nausea e
mi
sentivo respinta.
< Cosa ti ho fatto di così orribile da non meritarmi
una seconda opportunità?
> sussurrai con voce flebile.
Le sue mani abbandonarono il mio viso. Quasi ringhiò:
< Bella, non sei tu il
problema. Tu non hai fatto niente. >
Poi,
con l’indice, mi costrinse ad alzare il capo. Lacrime
silenziose mi pesavano
sulle ciglia. Con un gesto improvviso del capo mi allontanai da lui. E
in quel
momento, mentre tenevo ancora gli occhi chiusi così forte da
farmi venire il
mal di testa, sentii le sue labbra gelide contro le mie. Si muovevano
prima
lente e delicate poi sempre più vigorose e desiderose.
Le
sue mani scivolarono lungo la mia schiena. Arrivarono ai miei capelli e
le sue
dita vi si intrecciarono impedendomi di allontanarmi da lui.
Ero stata colta di sorpresa e il mio corpo aveva reagito agli impulsi
senza che
il mio cervello potesse elaborare quanto stesse accadendo.
Ritrovai le mie mani dietro al suo collo. Mi strinsi di più
ad Edward e sentii
il mio corpo, coperto solo dalla vestaglia d’ospedale,
aderire al suo. Il mio
respiro accelerò. Il cuore cominciò a pompare
sempre più veloce il sangue nelle
mie vene. Lo sentii affluire alle guance e dipingermele di rosso.
Sentii il materasso piegarsi e mi accorsi che anche Edward si era
portato sul
letto. Sentii il suo ginocchio sfiorarmi e mi accorsi che si era messo
a
cavalcioni su di me. Sentivo il mio corpo ardere sotto le sue mani
gelate.
Rispondeva alle sue carezze inarcandosi, sussultando, ardendo.
Ansimavo al tocco delle sue carezze. Ora eravamo entrambi sdraiati ma
non
avvertivo minimamente il peso del suo corpo sul mio.
Continuò a baciarmi
passando dalle labbra al collo e dal collo alle labbra. Ed io fremevo
ogni
volta che il suo respiro mi lambiva.
Divenne
quasi violento da quanto mi stringeva a se. Le costole cominciarono a
pulsare a
causa del respiro fuori controllo ma ero così stordita dal
bacio che non me ne
curai. Ero troppo occupata a stringermi a lui, a pensare a
lui...
Non mi resi conto di quando il bacio ebbe termine. So solo che, ad un
tratto,
mi ritrovai seduta sulle sue ginocchia a piangere nell’incavo
della sua spalla,
cullata dalle sue braccia che mi sostenevano. Stava sussurrando una
melodia
dolce e delicata. Ero certa di averla già sentita
ma non ricordavo
quando. Questo scatenò l’attaccò di
panico. Non era stato il primo dal mio
risveglio ma tutti gli altri ero riuscita a reprimerli.
Questa volta lasciai scorrere le lacrime, la paura e il disagio. Mi
abbandonai
alle braccia di Edward scossa dai singhiozzi mentre mi mancava il
respiro.
Lui non disse nulla. Si limitò ad accarezzarmi e stringermi
a sé, baciandomi la
fronte e il capo.
Qualcuno bussò alla porta.
Edward cercò di allontanarmi da sé e di farmi
riadagiare sui cuscini.
Io mi strinsi di più a lui. Cercavo di fermare gli ansiti.
Non volevo perdere
il controllo di me stessa ed avere un crisi di panico tra le sue
braccia.
Bussarono ancora ed Edward poggiò le sue mani una sul mio
capo l’altra sulla
mia schiena.
< Avanti > disse senza una particolare inflessione della
voce. Chiusi gli
occhi.
La porta si aprì e si richiuse poi dei passi mi avvisarono
che qualcuno si era
avvicinato al letto.
< Edward, non volevo disturbare. >
< Non preoccuparti, Carlisle, non ci disturbi. Bella
è un po’ triste oggi.
> e con quelle parole mi strinse un po’ di
più a sé.
Cercai
di ricompormi e mi scostai da lui. Mi asciugai gli occhi con il dorso
della
mano e mi appoggiai ai cuscini. Carlisle mi sentì il polso e
sorrise.
Diede
un’occhiata ai monitor e poi mi scostò i capelli
dalla fronte. < Sei un po’
tesa? Non dovresti agitarti. Adesso ti somministro dei leggeri
calmanti. >
poi guardò Edward e, sorridendogli, gli disse: < Se
non riesci a contenere
la tua influenza negativa, dovrò proibirti di venire a
trovare le mie pazienti.
>
Edward non rispose, limitandosi a fissarmi negli occhi. Mi strinse la
mano e
poi disse: < è meglio che io ora vada. Carlisle deve
visitarti e tu hai
bisogno di stare tranquilla. Credo che abbia ragione lui. Non ho una
buona
influenza sulla tua salute. > e rise sommessamente come se
avesse fatto una
battuta. Lo sentii sussurrare: < Non l’ho mai avuta.
>
< Tornerai presto? >
Mi accarezzò la fronte. < Vado giù a
prendermi un caffè, telefono ad Esme e
poi torno da te. Ovviamente, aspetterò che tu e Carlisle
abbiate finito. >
< Ti aspetto. >
< Non preoccuparti. Se, dopo aver parlato con Carlisle, ti senti
stanca e
vuoi dormire, non sforzarti di restare sveglia per me. >
Mi baciò la fronte e poi uscì. Le sue vene
bluastre risaltavano sulla sua pelle
diafana mentre stringeva i pugni tremanti.
Dopo
che Carlisle mi ebbe visitato, mi fece alcune domande. Cercò
di capire se
avessi cominciato a ricordare. Mi domandò di persone di cui
non avevo mai
sentito parlare, di luoghi che non avevo mai visto. Lo faceva ogni
giorno. Era
una terapia. Sperava in questo modo di riattivare la mia memoria.
Mi
chiedeva che sensazioni provassi relativamente a certe immagini che lui
evocava. Dovevo dirgli tutto ciò che provavo immaginandomi
quanto lui mi
descriveva.
Copripiumino
e federe color oro? Mi trasmettevano una sensazione di pace. Ma non
sapevo il
perché.
Odore intenso di incenso? Inquietudine. Ma non me lo sapevo spiegare.
Colore del sangue? Un’ansia generalizzata e conati di vomito.
Non sapevo perché…
Una città medievale europea? A quell’immagine
quasi andai in iperventilazione.
Sentii le lacrime formarsi agli angoli degli occhi.
Carlisle
mi mise le braccia intorno alle spalle. < Bella, forse
è meglio se ci
fermiamo per oggi. Tieni, bevi un po’ d’acqua
> e mi passò un bicchiere che
aveva appena riempito. Bevvi a piccoli sorsi. Quando ebbi scacciato del
tutto
quel senso di paura irrazionale, dissi: < Ok, sto bene. Possiamo
ricominciare. >
< Sicura? >
Annuii vigorosamente e lui sospirò. < Ve bene. Allora
continuiamo… > e
ricominciò a parlarmi. A descrivere odori, oggetti e vestiti
che mi davano
strane sensazioni, inspiegabili.
Mantelle
nere? Paura.
Motociclette? Senso di libertà, euforia e allo stesso tempo
solitudine.
Tenda da campeggio? Freddo e senso di perdita. Mi faceva venire in
mente la
neve e il vento.
Dopo
circa un’ora, quando ormai ero esausta, Carlisle
appoggiò la mia scheda, su cui
appuntava ogni mia reazione, sul comodino.
< Secondo lei sto facendo progressi? > chiesi speranzosa.
< Bella, sfortunatamente non credo che ci siano stati
miglioramenti rispetto
al nostro precedente colloquio. Non devi però essere triste.
Dopodomani ti
dimetteremo. Tornerai a casa. Io verrò molto spesso. Almeno
tre volte al giorno
per controllarti. E non sarai mai sola. >
Vide la mia espressione sconsolata e si affrettò ad
aggiungere: < Non
preoccuparti. Continueremo la terapia. Anzi, credo che in un ambiente a
te
familiare potrebbe sortire effetti migliori. >
Annuii, poco convinta. < Quando sarò a casa, anche
lui verrà a trovarmi?
> Non ebbe bisogno che specificassi a chi mi riferissi.
< Bella, fra poco comincerà il semestre. Abbiamo
già contattato il
direttore. Ci ha assicurato che, visti i gravi motivi addotti, saranno
lieti di
averti con loro l’anno prossimo, nel caso tu non te la senta
di frequentare
questo anno accademico. Edward invece partirà per
Syracuse… >
< Quindi non verrà più a trovarmi? >
< Non ho detto questo. Però devi tener presente che
fra una settimana
partirà. Lui sarebbe disposto a restare ma sono convinto che
non sarebbe una
buona idea. >
Restammo in silenzio per alcuni minuti finché lui non
aggiunse: < Bella,
posso sapere una cosa? >
Lo guardai e sussurrai: < Certo… chieda pure.
> < Cosa provi per mio
figlio? Per Edward? >
Cominciai a tormentarmi le mani. < Ecco, vede, io credo
di… di… > Mi
sentii arrossire ed abbassai lo sguardo. < …di
essere… innamorata di lui.
Anche se non ricordo niente di ciò che
c’è stato tra noi prima… prima
dell’incidente. Quello che so lo devo ai suoi racconti sulla
nostra relazione.
E davvero non so spiegarmi come io abbia potuto lasciarlo. È
un ragazzo così
speciale. E, davvero, io penso che potrebbe ancora funzionare tra noi.
Io, io
lo amo. >
< Bella, grazie per essere stata sincera con me. E comunque, a
me risultava
che vi foste lasciati di comune accordo. >
< Adesso posso farle io una domanda? >
< Certo. >
< Cosa prova Edward realmente per me? >
< Beh, questo credo tu debba chiederlo a lui. >
< Sì, ma lui è sempre così
criptico. Mi sembra sempre che mi nasconda
qualcosa. E poi soffre. Lo vedo. Sembra che voglia trattenere i suoi
sentimenti. Io vorrei sapere cosa davvero lui provi. Anche se potrebbe
ferirmi.
Io non so nemmeno se resta qui con me in ospedale perché mi
ama ancora o perché
si sente in dovere, in obbligo di stare con me. >
< Io non posso dirti cosa lui provi per te ma una cosa la so per
certo. Lui
non ti resta vicino perché si sente in obbligo. Non sai
quanto io ed Esme
abbiamo provato a convincerlo a riposarsi un po’ mentre eri
in coma. Ma lui non
ci ascoltava. Non ha lasciato il tuo letto per giorni. Lui ti vuole
ancora
bene. Non sono io a dover dire se è amore ma lascia che ti
dica una cosa: lui
non ti ferirebbe mai e qualunque cosa lui faccia, la fa pensando solo
al tuo
bene. >
Mi strinse la mano, come se volesse consolarmi. Cercai di sorridere,
combattendo contro l’impulso di piangere tra le sue braccia
così paterne. <
Bella, adesso devo andare. Fra poco arriverà qualcuno a
tenerti compagnia. >
Si alzò e mi lasciò sola.
Lo
sentii bisbigliare da dietro la porta. Stava parlando con qualcuno.
Qualcuno
che era molto arrabbiato.
Mi sdraiai e chiusi gli occhi, girandomi su un lato in modo da dare la
schiena
alla porta.
Cercai di capire cosa stesse accadendo nel corridoio. Tutto inutile.
Percepivo
solo dei sussurri indistinti. Adesso era Carlisle a sembrare adirato.
Poi, il
silenzio.
Non mi accorsi che qualcuno era entrato finché delle dita
gelide non mi
accarezzarono la nuca.
Finsi di dormire.
Chiunque
fosse, mi rimboccò le coperte e mi passò la mano
gentilmente sulle spalle.
Rabbrividii al contatto della sua pelle fredda contro quella del mio
collo.
< Dormi. Dormi e non preoccuparti. > poi si
chinò e mi baciò proprio
sotto l’orecchio.
Mi girai sull’altro lato in modo da nascondere il viso nel
suo petto.
Cominciò a canticchiare una melodia molto dolce. Ero certa
di averla già
sentita. Mi prese la mano e me la strinse con delicatezza. Faceva
scorrere il
suo pollice sul dorso della mia mano. Strinsi le dita intorno alle sue.
Rimasi
ad ascoltarlo cantare. Senza volerlo scivolai nel sonno.
Lo
sentii dirmi che mi amava ma, probabilmente, in quel momento sognavo
già.
E
le sue labbra gelide sulla mia fronte erano solo un desiderio
così ardente da
parermi vero.
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Capitolo 5 *** Go ahead, Make your choice! ***
Lo so che è da un
po’ che non mi faccio viva ma sto
studiando per gli esami. Tra Maggio e Giugno ne ho 4 o 5 (dipende da
quanto
riesco a studiare…)
Ringrazio chi
legge, chi recensisce e in generale tutte voi
che apprezzate il mio lavoro.
Questo cap è un po’ così…
strano. Sto solo preparando il
terreno per gli avvenimenti futuri che, poveri Bella ed Edward, saranno
molto
movimentati.
Ciao e a presto
Credo di aggiornare in settimana. Tendenzialmente pubblicherei
venerdì.
PS: Lo so,non ci speravate più… ma sappiate ho
cominciato la
fine (scusate il gioco di parole) dell’altra mia ff Con ogni
singolo battito del mio cuore !
La pubblicherò non appena ne sarò
soddisfatta!
Ciao e grazie a tutte
Cap 4
Go
ahead, Make your choice!
Va avanti. Fa la tua scelta!
Edward’s Pov
< Edward, sei tu che hai
fatto questa scelta e ora devi mantenerla. Oppure, se non te la senti
più, devi
dircelo chiaro e tondo. Non possiamo andare avanti così. Noi
dobbiamo sapere
cosa vuoi fare, veramente. E anche Bella. Non puoi dirle una cosa e
comportanti
esattamente all’opposto. Devi essere coerente, altrimenti
rischi di peggiorare
la sua situazione. >
Io
e Carlisle stavamo
discutendo, per l’ennesima volta.
Eravamo
nel suo studio. Lui
seduto alla scrivania ed io sul divano. Una scena che si ripeteva
spesso,
ultimamente.
Da quando Bella si era
risvegliata era stato un susseguirsi di contrasti. Carlisle cercava
solo di
farmi ragionare ma non era facile. Certe volte mi sembrava di stare per
impazzire.
Avevo lasciato Bella, addormentata, con Charlie. Lui era arrivato circa
un’ora
prima del solito. Si era preso un permesso per poter stare un
po’ di più con la
figlia.
Prima di andarmene, mi ero
chinato per darle un bacio a fior di labbra. Le avevo sussurrato di
nuovo,
proprio come quando si era appena addormentata, che l’amavo e
poi me ne ero uscito.
Sapevo che mio padre mi attendeva nel suo studio.
<
Carlisle, è così
difficile… Non ce la posso fare. Lei è
così indifesa. Sono… combattuto. >
< Edward, lo so ma devi
farti forza. Lei adesso ha bisogno di vederti deciso. Devi essere un
punto di
riferimento per lei. Sai che cosa mi ha detto? Che ti vede soffrire. E
si
tormenta per questo. Devi essere forte, e un po’
più distaccato. Davanti a lei
non mostrare le tue debolezze. >
< Io non ci riesco. Non
riesco a sopportare tutto questo. La amo. La amo più di me
stesso eppure non
posso neanche baciarla. Non riesco a starle lontano eppure, quando sono
con
lei, mi devo trattenere. La posso a malapena sfiorare! Da quando ha
riaperto
gli occhi, l’unico mio desiderio è stringerla tra
le braccia. Stringerla a me e
sentire il calore del suo corpo, la sua voce chiamarmi. Le sue labbra
sulle
mie… >
< Beh, a quanto pare, non
è rimasto un desiderio. Pensi che non vi abbia sentiti?
>
Abbandonai il capo sullo
schienale del divano.
< Carlsile, non capisci?
Ci amiamo. Io la amo e voglio sposarla. Non mi importa se non ricorda
niente.
la aiuterò a ricordare, la aiuterò in tutto.
>
< Edward, lo so quanto
tutto ciò sia difficile da accettare ma devi farti forza .
Ti ricordi quello
che mi dicesti quando si svegliò? Quando ci rendemmo conto
dell’entità
dell’amnesia? Avevi ragione. Questa è la tua
seconda opportunità. Non puoi
tornare indietro proprio adesso. Tu hai preferito che avesse un futuro
da
umana. Questo ti rende onore. Se volevi restare con lei nonostante
l’amnesia,
avresti dovuto essere sincero fin dall’inizio. >
< Sì, lo so. Ma in quel
momento credevo che non mi amasse più, che non si ricordasse
di amarmi. E
invece, lei mi ama ancora, anche se non sa perché! >
Sospirò e cercò di assumere
un atteggiamento neutro e conciliatore, persuasivo. < Hai la
possibilità di
lasciarle vivere la sua vita. Di vederla felice e senza minacce ad
incombere su
di lei. È l’opportunità in cui non speravi
più. Resterà umana. Crescerà.
Avrà dei figli. La sua vita sarà piena e felice e
… completa.
Tu, adesso, hai la
possibilità di lasciarla andare. È un gesto molto
generoso. Sarà libera. E noi,
spariremo. Il tempo cancellerà ogni ricordo che ha di noi.
La memoria umana è
molto semplice da corrompere… >
Non proseguì. < La
memoria… quella che Bella non ha più. >
< Sai cosa intendo. E poi,
meno resterai con lei adesso, più velocemente
potrà lasciarsi alle spalle il
tuo ricordo. Sarà come avrebbe dovuto essere. Ti
ricorderà come una cotta
adolescenziale.
Magari, fra trent’anni,
penserà a te vedendo sua figlia presentarle il suo ragazzo.
E sorriderà
pensando a quanto era stata giovane quando aveva amato te.
Ma è così che dovrebbe
essere. So che è difficile da accettare ma, se il mondo
fosse davvero quello
che sembra, questo sarebbe il corso naturale degli eventi. >
< Lo so, lo so. Devo
lasciarla andare. > cercavo di convincermi che fosse la cosa
giusta.
Si alzò dalla poltrona su cui
era seduto e mi strinse una spalla.
< Carlisle, io non so
proprio come fare. So che la cosa giusta sarebbe lasciarle credere che
ci siamo
lasciati e che la nostra era stata una storia come tutte le altre.
Importante certo ma sempre
pur una storia adolescenziale.
Lo so ma non posso fare a
meno di desiderare che lei ricordi tutto e che mi urli in faccia che
sono
impazzito. Vorrei così tanto tornare in camera sua e
trovarla a parlare con
Alice del matrimonio. Vorrei vederla, spazientita per le idee bizzarre
di
Alice, lanciare in aria cataloghi di abiti da sposa e incrociare le
braccia
borbottando di voler andare a Las Vegas a sposarsi in tuta da
ginnastica… >
Mi
rannicchiai su me stesso e
scacciai Carlisle con un gesto irruento. Mi presi la testa tra le mani
e
cominciai a dondolarmi avanti ed indietro.
< Io adesso vado da lei e
le dico tutto. Le spiegherò chi sono realmente. Le
dirò del nostro matrimonio,
dei nostri progetti… le chiederò se mi vuole
ancora sposare e poi… >
Carlisle
mi afferrò le spalle
e mi costrinse ad alzare lo sguardo.
<
Non lo farai. Non
oseresti. Edward. Tu devi fare quello che è meglio per lei.
Dopodomani la
dimetterò. Per una settimana continuerai ad andare da lei, a
casa di Charlie.
Ne abbiamo già discusso. Ogni giorno ti tratterrai un
po’ meno e poi, fra una
settimana, fingeremo che tu sia partito. Le telefonerai ma con il
passare dei
giorni le telefonate si faranno più rade. Io mi
prenderò cura di lei. Reneè e
Phil hanno detto di voler restare a Forks fino a che Bella non
sarà del tutto
guarita. E quando Bella starà meglio, andrà con
lo loro a Jacksonville. Vivrà
con sua madre in Florida. Persino Charlie, che di certo non
è felice a vederla
andar via, sa che è giusto così. È
questa la cosa migliore per lei. Tieni presente che nei suoi ricordi
lei non è
mai venuta a vivere qui.
I suoi ultimi ricordi sono di
quando viveva ancora a Phoenix. Riprenderà la sua vita da
lì, dal momento in
cui sua madre ha sposato Phil. È quello che dentro di te tu
hai
sempre sperato.
Perché se no, l’anno scorso,
te ne saresti andato? Volevi che ti dimenticasse e che fosse al sicuro.
Adesso
hai l’opportunità che ciò si avveri.
Devi solo trovare il coraggio di fingere
davanti a lei. So che è doloroso ma è anche
così difficile?
È così difficile mentirle per
il suo bene, se la ami realmente? >
Sospirai, sconfitto.Dovevo
mettere da parte i miei desideri e pensare al bene della donna che
amavo.
Sapevo di aver ideato io quel
piano. Sapevo che era la cosa giusta da fare ma ugualmente non riuscivo
a darmi
pace. La parte più egoista di me mi diceva di alzarmi e
correre da Bella,
inginocchiarmi di fronte a lei e implorarla di fuggire con me.
Carlisle
intuì i miei
pensieri.
<
Sai che shock sarebbe se
tu ora le dicessi la verità su di noi? Probabilmente
penserebbe che sei pazzo
ma, se dovesse crederti, sarebbe terrorizzata e sconvolta. E poi,
metteresti la
sua vita in pericolo. >
< Lo so. Lo so. Scusami ma
a volte mi sembra davvero di impazzire. È tutto
così assurdo.
< Spero solo che, anche in
futuro, possa ricordarsi almeno un po’ di me. Almeno di
questi giorni che
abbiamo trascorso insieme... > sussurrai sconfitto.
< Non preoccuparti di
questo. Anche se nei suoi ricordi tu sarai stato con lei solo per un
mese, non
credo ti dimenticherà mai. >
< Sai cos’è che mi
addolora di più? >
sussurrai coprendomi il volto con le mani.
Lui si sedette di fianco a me
e mi cinse le spalle con il braccio.
< Lei è convinta di avermi
lasciato e di avermi offeso così tanto da impedirmi di
amarla ancora. O che io
l’abbia lasciata perché lei non era abbastanza per
me.
È convinta che la odi e che
le rimanga vicino per compassione. Ti rendi conto? E per questo soffre.
Continua a dirmi che
altrimenti torneremmo insieme. Mi ha implorato di perdonarla e di
ritornare con
lei. Ti rendi conto? Perdonarla! E di cosa? Di aver perso due litri e
mezzo di
sangue in un incidente che poteva costarle la vita? Di essersi rotta le
ossa
schiantandosi contro un parabrezza? O di aver picchiato la testa
sull’asfalto
bagnato mentre Alice era troppo intenta a decidere il colore del pizzo
delle
bomboniere? Oppure magari di aver vomitato addosso al paramedico mentre
le
costole le perforavano gli organi interni? > Stavo totalmente
perdendo il
controllo della mia voce.
< Non so, dimmi tu? io non
so proprio come dirle che non ha niente da farsi perdonare, che non
è stata
scorretta nei miei confronti ma lei davvero non mi crede. È
convinta di avermi
ferito in modo irreparabile. >
< Se ti può consolare,
oggi abbiamo parlato un po’ di questo. Ho provato a
convincerla che le cose non
stanno così. >
Mi mostrò i suoi ricordi.
Cercai di non concentrarmi sulla parte in cui lei diceva di amarmi
senza
neanche sapere il perché.
In quel momento qualcuno
bussò alla porta.
Era Charlie. lo riconoscemmo
dal passo, dal respiro, dal modo di bussare.
< Prego, entrate. >
disse Carlsile fingendo di non sapere chi fosse.
Charlie entrò, ci squadrò e
poi sospirò mesto. < Scusate, non volevo disturbare.
L’infermiera mi ha
detto che vi avrei trovato qui… >
< Nessun disturbo Charlie.
prego, accomodati. > gli disse mio padre alzandosi dal divano ed
indicandogli una poltrona. Charlie ringraziò ma disse che
non si sarebbe
intrattenuto a lungo.
< Sono solo venuto a
cercarvi perché Bella si è svegliata. Era molto
agitata. Credo abbia avuto un
incubo. Piangeva e faceva fatica a respirare. Le infermiere le hanno
somministrato dei calmanti ma ho preferito venirvi a chiamare. Inoltre,
cercava
te. > mi disse volgendo lo sguardo verso di me.
< Va bene. Dai Edward,
andiamo. O, se preferisci, tu ci puoi raggiungere dopo. Nel caso tu
voglia
stare un po’ solo. >
Scossi il capo e li seguii
per i corridoi dell’ospedale fino ad arrivare dinanzi alla
camera di Bella.
L’infermiera passò a Carlisle la sua cartella
clinica e poi entrammo.
Lei
era lì, sdraiata a letto.
Fissava la pioggia che si infrangeva contro il vetro della finestra.
< Ciao Bella. Tuo padre mi
ha detto che non ti sei sentita molto bene. Adesso come va? >
< Bene, grazie. Dottore,
scusi se l’ho disturbata. >
Carlsile le andò vicino e le
sentì il polso. Mentre la controllava le rivolse un sorriso
sereno e
tranquillizzante.
< Non preoccuparti di
questo. Ero nel mio studio a riempire scartoffie. Mi hai dato
l’opportunità di
fuggire. > Mio padre abbozzò una risata a cui Bella
rispose con un sorriso
spento.
Charlie si era seduto sulla sedia vicino al letto e le aveva preso la
mano
mentre Carlsile proseguiva con la visita.
Bella
voltò il capo e mi
vide, impalato vicino alla porta.
<
Ciao. > sussurrò
stanca. Vidi i suoi occhi lucidi e notai la manica della camicia da
notte
bagnata. Mi avvicinai e la salutai anche io. < Ciao. >
< Sono contenta che tu sia
qui. > mi disse in un sussurrò poi chiuse gli occhi e
sospirò.
Carlisle fece segno a Charlie
di raggiungerlo fuori e il padre di Bella le disse: < Bells, io
e Carlisle
dobbiamo parlare un secondo. > Carlisle aggiunse: < Se
hai bisogno, basta
che tu prema il solito pulsante rosso collegato al mio cercapersone.
>
Charlie le diede un bacio
sulla guancia ed entrambi uscirono, lasciandomi solo con lei.
Mi
sedetti sul bordo del
letto, ben attento a non toccarla.
< Ho avuto paura, prima.
Ho fatto un brutto sogno. Charlie si è agitato e ha
mobilitato tutto
l’ospedale. Non era necessario che vi disturbaste a venire.
>
Le sorrisi prendendole la
mano tra le mie. Era calda. Un po’ più del
normale, 37.2. Lo avrei comunque
riferito a Carlisle dopo.
< Vuoi raccontarmi il tuo
incubo? > Le domandai conciliante, volgendo il capo verso di lei
e
fissandola negli occhi, sempre sorridendole.
< Non me lo ricordo più.
> mi rispose.
< Menti. Te lo leggo in
faccia. Non sei mai stata brava a dire bugie. >
Chiuse gli occhi e quasi
sorrise. < Non ti si può nascondere niente. >
< Parrebbe di no. >
confermai io, ironico. < Se però non vuoi
raccontarmelo, non ti obbligo
mica. >
< Ecco, vedi… era un sogno
così strano. Non so neanche perché lo definirei
incubo. >
< Lo hai raccontato a tuo
padre? > chiesi innocentemente. Se fosse stato così,
sarei corso a spiare i
pensieri di Charlie.
< No… mi vergognavo. Però,
se proprio vuoi, te lo racconto. >
< Magari ti aiuta,
parlarne con qualcuno. > la incoraggiai io. Lei annuì.
< Eravamo io e te, nel
bosco. Qualcuno ci inseguiva. Non so chi fosse. Io avevo paura. tu mi
prendesti
in braccio e cominciasti a correre. Correvi così velocemente
che sembrava
volassimo.
Poi improvvisamente
raggiungevamo la tua famiglia e con loro c’erano delle figure
senza volto.
Indossavano lunghe tonache nere. E nell’aria c’era
un forte odore d’incenso.
Quelle persone mi mettevano i
brividi e tu mi stringevi forte, dicendomi di non avere paura. loro
però
vennero verso di noi e ci minacciarono. Stava per succedere qualcosa di
terribile.
In quel momento mi sono
svegliata. >
Sentii il mio stomaco
chiudersi. Aveva appena sognato l’arrivo dei volturi dopo
l’attacco dei neonati
di Victoria e nemmeno se ne rendeva conto. E non avrebbe mai dovuto
sognarlo.
Nel
silenzio che era calato,
percepivo chiaramente il suo cuore battere un po’
più veloce del normale.
Bella deglutì e poi ricominciò a
parlare.
< Lo so che detto così
sembra una cosa stupida ma era tutto così reale. E poi,
anche se te l’ho
raccontato in due secondi, il mio sogno mi è sembrato
lunghissimo. E avevo così
tanta paura da non riuscire quasi a respirare. Inoltre, sentivo molto
freddo.
>
Cercai di sdrammatizzare.
< Credo che il freddo sia dovuto alla febbre. Appena qualche
linea che però
ti ha un po’ scombussolata. Per il resto, non mi sembra
affatto un sogno
stupido. >
< Sai, credo di essermi
lasciata influenzare dalla terapia. >
La guardai perplesso e lei si
affrettò ad aggiungere: < Oggi con Carlisle ho fatto
un po’ di esercizi per
la memoria. Lui ha citato mantelli neri ed incenso. Nel sonno devo
averli
collegati. È proprio una stupidata.
A
pensarci ora, a mente lucida, mi sembra impossibile essermi spaventata
per così
poco. > una risatina isterica sfuggì alle sue labbra.
< Dai, l’importante è che
ora tu ti senta più serena. >
< Mi ha fatto bene
parlarne. Mi ha fatto capire che in realtà non era un sogno
così pauroso. Grazie.
>
Poi nessuno dei due parlò
più. Restai in camera con lei a lungo, in silenzio. Ci
limitavamo a tenerci per
mano, senza dire niente. Le sue palpebre tremavano mentre cercava di
combattere
contro i tranquillanti. Alla fine cedettero e lei chiuse gli occhi.
Pian piano il suo respiro si
trasformò in un leggero russare. La osservai dormire a
lungo, finche il mio
cellulare non vibrò.
Era
Alice. Mi aveva mandato
un messaggio in cui mi diceva di raggiungerla nell’ufficio di
Carlisle.
Lì
trovai la mia famiglia al
completo.
< Edward, ho ascoltato il
racconto di Bella. > mi disse mio padre dopo che mi fui seduto
vicino ad
Emmett..
< Carlisle, ma cosa ti è
saltato in mente? Proprio quelle cose dovevi descriverle? > ero
infuriato. Cercai
di non alzare la voce.
< Ho solo cercato di
capire quanto l’amnesia fosse forte. Lei non ricorda niente
ma certe cose le
suscitano delle reazioni emotive. È per questo che, insieme
a Charlie e Reneè,
ho deciso di farle assumere degli antidepressivi. Non sono molto forti
ma l’aiuteranno
ad allontanare i brutti pensieri e le brutte sensazioni che prova
pensando a
determinate cose. Con queste… > e mostrò
un flacone di pastiglie < si
sentirà meglio, più serena. Dormirà
più tranquillamente e non avrà incubi. In
questo modo non si manifesteranno i ricordi spiacevoli sotto forma di
sogni. Ovviamente,
ai suoi genitori ho risparmiato la parte dei ricordi insopportabili
inerenti ai
Volturi. In effetti, sono bastati tutti gli altri eventi spiacevoli
occorsi in
questi due anni a convincerli a farle assumere le pastiglie. >
< Non credi sia eccessivo?
Sono comunque antidepressivi… >
< Lo so. Però, oltre agli
incubi, devi tener conto del suo stato di inquietudine. Ha perso due
anni della
sua vita. Si sente persa, spaesata. Con queste medicine non
avrà più attacchi
di panico e si sentirà più pronta ad affrontare
il mondo di fuori. Le
depressioni sono frequenti anche in casi più normali del
suo, dopo un coma e
un’amnesia. È lei… lei sta
già mostrando i primi sintomi. È meglio agire fin
da
ora per evitare che la cosa degeneri. Inoltre, finché rimane
a Forks mi
prenderò cura io di lei ma poi andrà da uno
psicologo.>
La sua arringa non faceva una
piega. E poi, non ero io a dover decidere per lei.
< Reneè e Charlie sono
d’accordo davvero? >
Lui annuì.
< Beh, allora non sarò
certo io ad oppormi. Sebbene non mi sembri molto corretto nei suoi
confronti. >
Alice si intromise nella
nostra discussione: < Edward, quelle pastiglie le impediranno di
ricordare
certe cose… che potrebbero metterla in pericolo. In questo
modo proteggiamo sia
lei che noi. A Jacksonville andrà da uno psicologo che
l’aiuterà a superare il
trauma della perdita della memoria. Abbiamo già contattato
alcuni specialisti.
Reneè ha già parlato con due di loro. E poi, tu
non vuoi che si senta male e
viva con la paura che le venga un attacco di panico magari mentre
prende un
tram o fa la fila per la mensa, vero? Tu vuoi che lei abbia una vita
normale. >
Alzai le mani oltre la testa,
in segno di arresa. < Va bene, va bene. Ma cosa le direte?
>
< Che le ho prescritto
delle pillole che l’aiuteranno a combattere lo stato
d’ansia. E, a ben vedere,
è proprio così. >
Esme mi si avvicinò e mi
strinse in un abbraccio materno.
< Edward, la tua è stata
una decisione molto difficile ma anche saggia e generosa. Siamo tutti
molto
fieri di te, e del tuo coraggio. >
Evidentemente Carlisle non le
aveva detto dei miei tentennamenti.
< Non sono coraggioso.
Sono solo disperato. E poi, non sono ancora sicuro di averla presa
questa
decisione.> replicai io appoggiandomi alla sua spalla.
Non
sapevo se sarei stato
realmente in grado di lasciarla andare via da me.
Qualche
ora dopo, quando
ormai stava facendo sera, andai nel parcheggio a salutare Phil e
Reneè.
Il pancione cominciava ad
intravedersi sotto al maglione e Reneè era molto stanca
nonostante si fosse
trattenuta con Bella solo per un’ora, durante la quale sua
figlia aveva
dormito.
< Edward, domani non vengo
in ospedale. Devo preparare la casa per il ritorno di Bella. >
Phil sorrise divertito. <
In realtà, ragazzo, ti dico io come finirà: Lei
rimarrà seduta sul divano a
darmi ordini e io sistemerò la casa per
il ritorno di Bella. > Mentre
diceva queste parole si chinò a baciare Reneè
sulla guancia. Con la mano le
accarezzò il pancione.
< Insomma, sono la donna
incinta. Ho il dovere di stare seduta sul divano. Tu invece sei
l’aitante
sportivo della famiglia. Considera che ti sto permettendo di restare in
forma.
>
Entrambi ormai ridevano. Era
chiaramente percepibile la loro felicità. Da quando Bella si
era risvegliata,
Phil si sentiva di nuovo in diritto di gioire per la gravidanza di
Reneè, e lei
lo stesso.
Li salutai e rimasi a
guardare l’auto scomparire nella pioggia.
Mentre rientravo, vidi
Charlie nella sala d’attesa. Aspettava me. Glielo leggevo nel
pensiero.
Mi
avvicinai e lui si alzò,
sorridente e felice.
<
Edward, vorrei parlarti.
Posso offrirti un caffé? >
< No grazie. Ma parliamo
pure. > mi sedetti e lui fece altrettanto.
Teneva in mano una busta
bianca. Se la rigirava tra le dita. Era a disagio.
< Edward, io ti devo
ringraziare. Sei stato davvero un bravo ragazzo. Un bravo fidanzato per
Bella,
nonostante tutto. > e con la mente tornò ai mesi
della mia assenza e alla
depressione di sua figlia.
< E poi, in questi giorni
così duri per tutti, tu hai dimostrato davvero una grande
forza d’animo.
Inoltre, ti sono debitore.
>
< No, non deve esserlo,
ispettore. >
< Invece sì. Io sono
sempre stato contrario al vostro matrimonio. Siete così
giovani. Avevo paura
che commetteste lo stesso errore mio e di Reneè…
però ero disposto ad
accettarlo se questo era ciò che davvero desideravate. Ed
è per questo che ti
sono grato. Dato quello che è successo, tu avresti potuto
accanirti sulla
storia del matrimonio, dire tutto a Bella e convincerla a sposarti
comunque.
Ma non l’hai fatto. >
Sospirai e lui aggiunse:
< Pensi che non me ne sia
forse accorto? Il modo in cui ti guarda, in cui pronuncia il tuo
nome… Si è
innamorata di te, di nuovo. Sarebbe bastata una tua parola e lei
avrebbe fatto
qualsiasi cosa tu le avessi detto.
Ma tu non te ne sei
approfittato e, anzi, hai deciso di fare la cosa migliore per lei.
Dirle che
non stavate più insieme deve essere stato molto doloroso per
te. È per questo che ti ringrazio.
Perché davvero ami mia
figlia. E me lo hai dimostrato in ogni istante in queste ultime
settimane.
Sei un ragazzo molto maturo,
e molto in gamba per la tua. Spero davvero che tu possa essere felice
nella
vita. Te lo meriti. >
< Grazie ispettore, ma non
credo di meritarmi la sua gratitudine. Ho provocato molti disastri e
arrecato
grandi sofferenze ad Isabella da quando stiamo insieme. Era mio dovere
comportarmi come ho fatto. Se avessi seguito il mio cuore, adesso Bella
avrebbe
la fede al dito. L’avrei sposata nella cappella
dell’ospedale il giorno stesso
in cui ha riaperto gli occhi. >
Charlie mi diede una pacca
sulla spalla e sorrise. < Sei davvero un bravo ragazzo. E sono
felice che tu
abbia seguito la testa invece che il cuore. Hai fatto la scelta giusta.
Ah, a proposito,
volevo darti queste. Sono
delle foto di te e Bella. Quelle più
“compromettenti”… > e sorrise
timido.
Nella
sua mente vidi quelle
che aveva scelto di darmi. Tutte quelle dei preparativi del matrimonio
e tutte
quelle scattate a casa mia.
< Ho pensato che fosse
meglio che lei non le vedesse. Sono quelle scattate in
quest’ultimo periodo
oppure a casa tua. Sai, così non c’è il
rischio che… >
… che le scatti qualcosa
nella testa che la spinga a ricordare. Continuai io mentalmente.
Annuii in silenzio,
stringendo la busta al petto.
< Beh, adesso è meglio che
io vada. Ci vediamo domani. >
< A domani ispettore. >
< Mi raccomando, cerca di
dormire un po’. > mi consigliò prima di
uscire. La sua mente stava
analizzando le mie occhiaie violacee e il colorito cereo della mia
pelle. Lo
accompagnai alla porta.
Appena
sentii la sua auto
partire, mi sedetti su una poltroncina e aprii la busta.
Osservai le foto con mano
tremanti, una ad una.
E ogni immagine era una
coltellata inferta al mio cuore immobile e morto ma ugualmente
sanguinante.
Io la amavo.
Però, con l’ultimo briciolo
di lucidità, mi resi conto che dovevo fare il suo bene.
Dovevo permetterle di essere
libera e felice… e umana.
Forse esisteva davvero un Dio
tanto buono da avermi concesso la possibilità di lasciarla
vivere.
Dietro di me Carlisle mi
poggiò una mano sulla spalla in modo paterno.
< Allora, hai fatto la tua
scelta? > mi domandò senza rimprovero.
Annuii lentamente.
< Sì. >
L’avrei
lasciata andare.
Che
altro avrei potuto fare?
|
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Capitolo 6 *** Sometimes I feel I'm gonna break down and cry ***
5
Eccomi qui. ho aggiornato oggi
perché, terra terra, avevo un
po’ di tempo (fra 15 minuti viene il ragazzino delle
ripetizioni di latino. Troppo
poco tempo per fare qualsiasi cosa ma abbastanza per pubblicare!) e il
pc
acceso.
Ho appena finito di scrivere il cap
11 ma, per quanto
riguarda Con ogni singolo battito… ho cancellato quanto
avevo scritto perché non
mi soddisfaceva. Adesso lo riscrivo e vedo se riesco a far uscire
qualcosa di
decente.
Volevo rispondere alle recensioni ma non ne ho avuto il
tempo (non era preventivato pubblicare oggi) quindi vi
manderò delle mail!
Ciao e al prossimo cap. credo posterò nel week-end.
Ps: dal cap 9, succederanno delle
cose per le quali spero
non mi impiccherete. Non pensavo neanch’io di essere
così sadica e che quel
personaggio fosse così… perfido! Cominciate
già a pensare che non volete
ammazzarmi così, quando avrò postato quei cap,
sarete abbastanza padrone di voi
da non uccidermi (PS: non è Edward)
Grazie a tutte per i bellissimi
commenti. Ora vi lascio così
vado a prendere il dizionario e la grammatica. à
che gioia…
Un grazie particolare alla talentuosa Keska!
Ciao,
Erika
Cap
5
Sometimes I
feel I'm gonna
break down and cry
Qualche
volta mi sembra di essere
sul punto di crollare e di scoppiare a piangere.
Bella’s POV
< Bella, tira su il
finestrino. Rischi di
ammalarti. >
Piccole gocce di pioggia si
infrangevano sul mio
volto. Alcune mi lambirono le labbra. Sapevano di buono, di fresco, di
libertà…
< E dai, per favore. È così bello sentire
l’aria
sul viso. Mi sembra di essere così…
così libera.
E questo odore di muschio e di montagna. Mi piace
tantissimo. È come correre nei boschi. >
Non continuai notando, nello specchietto retrovisore,
l’espressione
affranta di Edward.
Eravamo sulla sua auto, una volvo davvero bella, e lui
mi stava riaccompagnando a casa. Io ero seduta al posto del passeggero
mentre
mio padre sul sedile posteriore.
Charlie, non avendo visto il viso di Edward, mi prese
in giro. < Sai, quando sei arrivata qui non sopportavi tutto
questo. Dicevi
che era tutto troppo verde e bagnato. Sono contento che adesso tu
apprezzi la
natura rigogliosa di Fork. >
< Sì. Evidentemente ho imparato ad amare questo
posto, anche se è tutto così verde, bagnato e
scivoloso. > abbozzai una
risata ma loro due si incupirono. Evidentemente pensarono
all’incidente. Quello
di cui non ricordavo niente… Sapevo solo quello che mi era
stato raccontato e
cioè che un’auto aveva sbandato
sull’asfalto bagnato e mi aveva più o meno
centrata. Rabbrividii pensando a quanto mi dovesse aver fatto male.
Appena
risvegliata, imbottita di morfina e a venti giorni
dall’incidente, mi ero
sentita malissimo. Quello probabilmente era stato niente rispetto al
momento in
cui mi ero schiantata contro il parabrezza o sull’asfalto.
< Tutto bene? > mi chiese Edward, a cui non era
sfuggito il mio fremito.
< Sì… mi è solo venuto freddo.
> sussurrai
appoggiandomi allo schienale. Lui alzò il finestrino ed
accese il
riscaldamento.
< Tra poco siamo arrivati. >
< Sì, lo so. Dov’è la casa di
mio padre me lo
ricordo ancora. > risposi acida più del dovuto.
Alla seconda curva, riconobbi il viale che portava a
casa di Charlie. non era cambiata da come me la ricordavo.
Il bosco lambiva ancora le case e la piccola villetta
appariva un po’ cupa. Certamente era colpa dei colori spenti
di quel luogo. Le
nubi spesse e dense non lasciavano filtrare molta luce…
Eppure, mi piacque,
più di quanto ricordassi. Mi
sembrava “ casa ” come non era mai successo.
Edward parcheggio con particolare
maestria nel
vialetto posizionando velocemente l’auto in modo che il muso
desse sulla
strada. Il tutto in poche e precise manovre. Sembrava un guidatore
molto
esperto. Anche lungo il tragitto avevo avuto
quest’impressione.
Prima che avessi slacciato la cintura lui era già alla
mia portiera. Me la aprì e mi aiutò a slacciarmi
le cinture di sicurezza. Il
braccio mi faceva ancora un po’ male e Carlisle mi aveva
raccomandato di non
sforzarlo e di non compiere torsioni o gesti innaturali.
Mi porse la mano e mi
aiutò ad uscire dal veicolo. Mi
strinse il braccio intorno al bacino e con l’altro mi
sostenne la schiena. Io
arrossii e Charlie ci ignorò, precipitandosi un
po’ troppo di fretta dentro
casa.
< Grazie… > sussurrai imbarazzata dal momento
che Edward,mentre procedevamo lungo il vialetto, sosteneva quasi tutto
il mio
peso.
< Di niente. > Mi guidò verso
l’ingresso e poi,
senza che riuscissi a distinguere i suoi movimenti, mi
afferrò per il bacino. Mi
ritrovai in cima ai quattro gradini dell’ingresso, in
veranda, nel giro di un
battito di ciglia.
< Vieni, aspetta qui. > e mi fece appoggiare
contro la ringhiera. Mi aprì la porta e,
tenendomi per mano,mi condusse in casa.
L’ingresso era buio e silenzioso. Mi strinsi a lui che
mi accarezzò la guancia. Mi guidò fino al divano.
< Ecco, siediti. > Mi
disse ed io mi accomodai sul divano.
Vidi che si allontanava e gli chiesi: < Dove vai?
>
< Vado a prenderti un
bicchiere d’acqua. Torno
subito. >
Si
muoveva nella camera buia con naturalezza. sembrava conoscere benissimo
la disposizione dei mobili. Mi chiese quante volte fosse stato in casa
mia ed arrossii. Dentro casa faceva caldo e mi
tolsi la felpa. Proprio
in quel momento si accese la luce e degli applausi mi fecero
sobbalzare. Mi
portai la mano al cuore che batteva velocissimo.
Sentii mia madre che mi diceva: < Bentornata
piccola! > e poi altri applausi.
Confusa osservai le persone che si erano affrettate ad
entrare nella stanza.
Continuavano a dire il mio nome e a sorridere felici,
applaudendo. Tutto quel fracasso mi faceva venire il mal di testa.
Cercai di
sorridere anche io per non sembrare scortese sebbene non riconoscessi
circa la
metà di quelle persone.
Mia mamma si sedette accanto a me sul divano e mi
baciò la guancia.
< Bella, tesoro, ti
abbiamo organizzato una piccola
festa per augurarti il bentornato. Esme ha anche preparato una
torta… > e
sorrise speranzosa. Io feci altrettanto solo per farla felice.
Una festa… sai che
bello.
< Bentornata a casa,
Bella. > Cinguettò Alice
prendendomi le mani.
< Tieni. Questi sono per te. > mi disse Rosalie
porgendomi dei fiori. Notai che non era l’unico mazzo. Ce ne
erano altri tre
sul tavolo.
< Grazie. > dissi imbarazzata. Li presi e li
annusai. Fresia e rose.
Tutti i fratelli di Edward mi vennero vicino e mi
fecero gli auguri di pronta guarigione. Mi diedero baci sulle guance e
strette
di mano. Io a malapena sapevo i loro nomi mentre loro,sicuramente,
sapevano
tutto di me. Questo mi faceva sentire a disagio.
Quando tutti loro mi ebbero salutato, fu il turno di
Esme. Sebbene non dimostrasse più di venticinque anni, la
madre adottiva di
Edward aveva un’aria molto materna, soprattutto nei miei
confronti. Quando
tutti i Cullen mi ebbero salutato, appoggiai i fiori di Rosalie sul
tavolino
vicino al divano. In quel momento incrociai lo sguardo di un ragazzone
enorme,
dalla carnagione scura e i corti capelli neri. Sicuramente era di La
Push.
Ricordai che era venuto a trovarmi il giorno dopo il mio risveglio,
insieme a
Billy,l’amico di mio padre.
Poverino. Era finito su una sedia
a rotelle dopo un
incidente in auto.
Ringraziai di nuovo la mia piccola buona stella che mi
aveva permesso di camminare ancora.
Il giovane era poggiato al muro e mi fissava. Avrebbe
dovuto intimorirmi per la sua stazza e il suo sguardo frustato ma non
fu così.
Mi alzai e mi avvicinai a lui. Con la coda dell’occhio vidi
Edward abbassare il
capo e andare velocemente in cucina. Il volto livido.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena ed ebbi
l’impressione di aver capito cosa fosse successo tra noi. E
mi vergognai moltissimo.
Lo avevo tradito con quel ragazzo? Mhm… L’indiano
sembrava troppo grande per
me. Dimostrava circa ventotto anni. Io ne avevo appena diciassette. No
anzi…
diciannove. Beh… in effetti non sarebbe stato poi tanto
più grande di me…
Scossi il capo. Non poteva
essere. Mi sistemai i
capelli dietro l’orecchio, in imbarazzo.
< Ciao Bells. > la sua voce era profonda, roca.
Mi emozionò.
< Ciao. > deglutii e poi proseguii: < Tu sei
il figlio di Billy? > si avvicinò e mi
accarezzò la testa.
< Sì. Sono Jacob. Sono venuto a trovarti, in
ospedale. Ricordi? >
< Sì. Ma scusa, se sei il figlio di Billy…
non
dovresti essere più piccolo di me? >
< In effetti è così. Sto per compiere
diciassette
anni infatti.
>
< Oddio, ma sei così… >
< Grosso? > mi incoraggiò lui.
< Sì, in effetti sì. Non volevo
offenderti. >
< Non preoccuparti. Sai, tu non te lo ricordi ma
noi di solito passavamo il nostro tempo in questo modo. Ridendo e
litigando.
>
Vicino a lui mi sentivo a mio agio, proprio come mi
succedeva quando stavo con Edward. Strano. Di solito con i ragazzi ero
sempre
una frana e non riuscivo mai ad essere me stessa.
< Comunque, devo dire che non li dimostri
diciassette anni. > gli dissi osservandolo meglio.
< Sì, lo so. E sappi che non è la prima
volta che
me lo dici. Però, noi di La Push, ci sviluppiamo piuttosto
presto. Anche i miei
amici sono piuttosto cresciuti per la loro età. >
Mi appoggiai anche io al muro, sospirando. Non ero più
abituata a restare in piedi.
< Se sei stanca, possiamo sederci sul divano. >
< No. Sono stata seduta fino ad adesso. In ospedale
non mi facevano fare niente. >
Lui non aggiunse niente.
< Eravamo molto amici, vero? > lo capivo dalla
calma che provavo a stargli vicino.
< Sì. Molto. >
< Posso chiederti una cosa? >
< Dimmi pure. >
< Forse ti sembrerò sgarbata ed inopportuna ma,
davvero, devo sapere. È così difficile non
sapere… Però non vorrei offenderti.
>
< Non mi offenderai. Cosa vuoi sapere? >
< Però devi essere sincero. >
< Sarò sincero. Te lo prometto. >
< Noi eravamo solo… amici? >
Sorrise mesto e chinò il capo. < Sfortunatamente
sì. Io avrei voluto che fossimo qualcosa di più
ma tu mi hai sempre considerato
solo come un amico. Il tuo migliore amico ma pure sempre solo un amico.
>
Ero sollevata. Perché, in effetti, per lui provavo
attrazione. Un’attrazione diversa da quella che sentivo nei
confronti di
Edward, questo è vero, ma pur sempre abbastanza forte da
farmi dubitare della
mia integrità morale.
< Grazie. >
< E di che? > mi domandò un po’
curioso.
< Di essere stato sincero. Di essere stato mio
amico. E, in ospedale, di non avermi trattato come se fossi malata
quando sei
venuto a trovarmi.. >
< Beh, so che a te non piace sentirti al centro
dell’attenzione. > Sorridemmo entrambi. < Ti ho
trattato come faccio
sempre. E poi, poteva andarti peggio. > io guardai Billy ed
annuii, quasi
vergognandomi di poter camminare mentre lui era bloccato sulla sedia a
rotelle.
Jacob invece mi osservava e pareva volesse scrutare nel profondo della
mia
anima. Stringeva i pugni che tremavano.
< Ehi Bella, siamo tutti molto felice di vederti
fuori dall’ospedale. > mi disse un ragazzo biondo (si
chiamava Mike, credo) e
un po’ sgraziato che si era avvicinato. Dietro di lui un
gruppetto di ragazzi
che, mi aveva detto Edward, erano miei compagni di liceo. Riconoscevo
alcuni di
loro. Quelli che erano venuti a trovarmi in ospedale.
Una delle ragazze si chiamava Jessica ma non mi stava
troppo simpatica. Quell’altra, Angela, mi sembrava gentile.
Ce ne era uno,
Tyler mi pare si chiamasse, che era molto scosso. Lui continuava a
scuotere la
testa e a ripetermi che ero proprio sfortunata con le auto.
Chissà perché…
E poi la bionda platino. Quella non mi era piaciuta
neanche un po’ quando era venuta a trovarmi. Non aveva smesso
di fissare me ed
Edward e di analizzare ogni cosa della mia camera d’ospedale.
L’avevo sentita
bisbigliare una frase poco carina all’orecchio di un ragazzo,
mi sembra si
chiamasse Erik. Edward in quell’occasione aveva stretto il
pugno e sibilato
qualcosa tra i denti. Non avevo capito cosa stesse dicendo ma ero certa
che fosse
estremamente adirato.
Mi ero chiesta perché fosse venuta a trovarmi se poi
non aveva fatto altro che fare commenti sgradevoli. Mi posi la stessa
domanda
là, nel salotto. Tutti i miei ex compagni, lei compresa, mi
vennero vicino e mi
diedero un bacio sulla guancia. Si intrattennero poco per fortuna. A
parte
quella chiamata Angela, gli altri mi sembrarono un po’
finti… Fui
felice quando, dopo appena dieci
minuti,il ragazzo biondo, Mike, disse: < Bella, noi adesso
andiamo. Il
dottor Cullen non vuole che ti stanchi troppo. Speriamo che tu possa
presto…
>
Non completò la frase. Si morse la lingua come se
avesse fatto un’enorme gaffe. Io sorrisi, facendo finta di
niente, e ringraziai
per gli auguri ed i fiori. Li salutai con la mano dalla finestra.
< Contenta che te se ne siano andati? >
Mi chiese il ragazzo di La push.
< Beh, mi ha fatto piacere che siano venuti a
trovarmi ma preferisco stare tranquilla. Non mi piace molto la
confusione. E
ultimamente ho sempre mal di testa. >
< Ne hai parlato, di questo mal di testa, con
dottor Canino? >
< Come scusa? > gli domandai, sicura di non aver
capito bene il nome.
Lo vidi illividire e mordersi il labbro. In quel
preciso momento Edward comparve come dal nulla.
< Jacob. Credo che sia meglio che Bella si riposi
un po’. > mentre diceva queste cose, Edward
fulminò Jacob con lo sguardo.
Nonostante i suoi capelli ramati non arrivassero nemmeno alle spalle
del
giovane indiano, Edward pareva sovrastarlo. Gli sibilò
qualcosa di
incomprensibile e poi mi cinse la vita, guidandomi verso il divano.
Mia mamma mi tagliò
una fetta di torta e mi porse il
piatto. Lei teneva il suo sulle ginocchia. Mangiammo insieme, in
silenzio.
Quando lei ne prese una seconda
fetta, disse: <
Questo bimbo mi farà ingrassare a dismisura. >
Phil, seduto vicino a lei, le
disse: < Mi piacerai
comunque, lo sai. >
La guardai allibita. < Mamma? > Lei sorrise
birichina, poi mi prese le mani. Le brillavano gli occhi.
< Oh, Bella. Non sapevamo proprio come dirtelo. È
una bellissima notizia. Aspetto un bambino. Avrai un fratellino. Non
è
meraviglioso? Sai, non te lo abbiamo detto prima perché non
volevamo agitarti.
Ma è una cosa splendida! >
Ero totalmente inebetita. Mia madre incinta? Oddio!
Questa cosa era davvero sorprendente. Mi lasciai abbracciare da lei e
poi le
baciai le guance.
< Oh, mamma! Sono così contenta per voi! >
< Pensa come saremo felici tutti e quattro a
Jacksonville! Ho gia pensato a dove fare la stanza del piccolo.
Sarà la stanza
attigua alla tua, nella mansarda. Non preoccuparti, tu avrai un bagno
personale
lo stesso. Ti piacerà la casetta che io e Phil abbiamo
comprato. Quando sei
venuta a trovarci, ti era piaciuta molto… > La
lasciai parlare non
ascoltandola più. Avrei avuto un fratellino. Sì,
mi sarebbe piaciuto molto.
Ma aveva anche detto che saremmo andati a
Jacksonville. E quindi non avrei avuto più speranze di
rivedere Edward…
Jacob venne a salutarmi spingendo la carrozzina di
Billy mentre ero ancora intontita dai miei pensieri.
Si chinò a baciarmi la fronte e all’orecchio mi
sussurrò: < Spero che tu ti diverta a Jacksonville.
Se torni qui a Forks per
le vacanze, fammi uno squillo. Magari ci facciamo un giro insieme. Ti
farò
visitare La Push. >
< Ok. A presto Jacob. > risposi educata. Lui
sorrise mesto e mi disse: < A presto Bells. >
Mio padre li aiutò a scendere i pochi gradini della
veranda e poi tornò dentro.
In casa adesso erano rimasti
soltanto i Cullen e la
mia famiglia.
I fratelli di Edward chiacchieravano tranquilli. Reneè
e Phil discutevano sul colore delle pareti della camera del mio
fratellino e
Charlie era andato a rispondere al telefono.
Cercando di non farmi notare,mi alzai dal divano e
sgattaiolai al piano di sopra. Prima di entrare in bagno gettai un
occhio nella
mia stanza. C’erano un sacco di cose che non riconoscevo. E
poi c’erano anche
alcune cose che dovevo essermi portata da Phoenix. Riconobbi il mio
vecchio
beauty-case (che pareva molto più sgualcito di quanto mi
ricordassi) e i miei
pantaloni della tuta poggiati sulla sedia a dondolo. La mia collezione
di
dischi era notevolmente aumentata. Non potei non notare il PC portatile
che
faceva bella mostra di sé sulla scrivania, vicino ad un
I-pod dall’aspetto
estremamente moderno e ad una fotocamera digitale nuova fiammante.
Senza badarci troppo entrai nel
piccolo bagno e mi
chiusi la porta alle spalle dando due giri di chiave.
Mi osservai allo specchio, con
attenzione. Non mi
sembravo molto diversa rispetto a quella che ricordavo di essere.
Sì, i capelli
erano un po’ più lunghi… anzi,
decisamente più lunghi. Per il resto ero sempre
io. A parte il pallore. Ero sempre stata molto chiara di carnagione ma
il
colore della mia pelle adesso aveva un qualcosa di malato, di opaco. E
poi
c’erano le cicatrici. Alcune erano vecchie come quella sulla
fronte. Almeno
sette punti a giudicare dalla lunghezza. C’era
quell’altra sul braccio.
Risaliva almeno a qualche mese prima. Era lunga e dalla forma strana.
Notai
anche quella a forma di mezzaluna sulla mano. Non ricordavo
assolutamente come
mi fossi procurata tutte quelle ferite.
E poi c’erano quelle
piccole cicatrici ancora violacee
sulle guance, sulla fronte, sul collo, sulle braccia… quelle
risalivano a un
mese e mezzo prima. Me le ero procurate nell’incidente con le
schegge di vetro
o contro l’asfalto. Per fortuna che non potevo vedermi la
schiena e tutte le
abrasioni che c’erano.
Mi passai una mano sul viso.
Carlisle diceva che le
cicatrici dell’incidente, quelle più piccole e
simili a tagli, sarebbero
scomparse del tutto nel giro di qualche settimana e che non avrei
dovuto
preoccuparmi. Per quelle più evidenti avrei dovuto aspettare
ancora un po’ ed
applicare la crema due volte al giorno. Mi aveva però
assicurato che sarebbero
svanite anche quelle.
Sarebbero svanite come i miei ricordi…
Rimasi a fissare il mio riflesso a lungo. Dentro di me
sentivo un vuoto freddo ed incolmabile.
Non volevo partire.
Non volevo lasciare Forks e non volevo lasciare
Edward. Mi sentii sola. Terribilmente sola.
E avevo paura.
Non sapevo cosa fosse successo nei quasi due anni
precedenti e questo mi faceva sentire totalmente insicura. Non sapevo
che tipo
di persona fossi diventata, come
passassi le mie giornate, com’erano i miei voti a
scuola…
Ma soprattutto non sapevo se
avrei mai potuto
convincere Edward a tornare da me.
Perché, nonostante,
per quanto potessi ricordare, lo
conoscessi da solo un mese e mezzo, non sapevo come avrei fatto a
vivere senza
di lui.
Mi ero innamorata
irrimediabilmente di quel ragazzo e
non avevo mai provato niente di simile per nessun altro. Mai.
Sapevo che con lui avrei potuto essere felice.
Ma soprattutto, sentivo la necessità di averlo vicino.
Mi faceva sentire protetta, al sicuro, amata.
Sapere che sarei andata a vivere a Jacksonville e che
molto probabilmente non lo avrei più rivisto era
intollerabile. Non avrei mai
sopportato di vederlo partire di lì a tre giorni.
Sapevo che in quel preciso
momento mi sarei
completamente sgretolata, perdendo il mio punto di appoggio. Perdendo
Edward…
La sola idea mi faceva
star male. Mi girava la testa.
Sentii un forte dolore al petto. Avevo la nausea.
Riuscii a malapena a spostarmi sul water prima di vomitare. Mi sentii
in colpa.
Povera Esme, la sua torta era così buona e io… il
mio pensiero venne spazzato
via da un altro violento attacco.
Quando, con i gomiti poggiati alla tazza, i miei
conati non potevano espelle più niente, i singulti
cominciarono a rivoltarmi lo
stomaco ormai vuoto. Colpi di tosse mi scuotevano il corpo. mi feci
forza e mi
alzai in piedi. Le mie gambe tremavano. Raggiunsi il lavandino e mi
sciacquai
la bocca. Avvertivo il sapore di bile sulla lingua. Mi faceva sentire
peggio.
Riuscii
ad
aprire l’acqua e prima mi sciacquai la bocca poi il viso. La
testa mi pareva
scoppiare. Era pesante. Sentivo che il sangue vi si era concentrato
nello
sforzo dei conati e a causa della posizione. Alzai lo sguardo e vidi il
mio
volto arrossato. Gli occhi erano rossi e notai i capillari rotti. Ero
orribile.
I capelli, bagnati d’acqua e lacrime, mi rimanevano
appiccicati al viso.
Mi colava il naso e mi mancava l’aria. Ansimavo.
Cercai di lavarmi ancora il viso come se così potessi
allontanare da me la paura e i dubbi.
Mi sciacquai il volto diverse volte e poi mi asciugai
tamponandolo con l’asciugamano.
Senza volerlo indietreggiai fino
a sfiorare con la
schiena il muro. Non volevo vedere, non volevo sentire.
Se mi fossi guardata di nuovo
allo specchio avrei
avuto la certezza che, alla fine, anche io ero andata in pezzi come una
bambolina di vetro troppo fragile, scivolata dalle mani di qualcuno non
troppo
attento…
Qualcuno che non era stato capace
di frenare in tempo
su una strada bagnata…
|
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Capitolo 7 *** On the ground I lay, motionless in pain… ***
cap 6
(scusate, avevo per sbaglio cancellato, pensavo di aver messo una cosa sbagliata e invece no.-> cervello fritto)
Sono in stra-ansia da
esame… lunedì incombe… penso che
correrò a studiare
Buona lettura
Ps: Keska, sei troppo buona! E brava
Pps: queste sensazioni sotto descritte, so che potranno
sembrarvi magari esagerate ma sappiate che in realtà sono
vere e reali. Mi ci
sono documentata a lungo.
Un bacio
Erika
Cap 6
On the ground I
lay, motionless
in pain…
Giaccio sul
pavimento,
immobile e in preda
alla sofferenza…
Bella's POV
Sentivo che stavo perdendo il
controllo su di me. Mi
mancava il respiro e le lacrime avevano ricominciato a scorrere lungo
le mie
guance,assorbite dall’asciugamano che ancora tenevo sul volto.
Avevo paura e mi sentivo sola.
Terribilmente sola.
Le gambe cominciarono a tremarmi e
io mi lasciai
scivolare contro il muro del bagno fino a ritrovarmi seduta per terra.
Oramai
singhiozzavo, accovacciata nell’angolo tra la vasca e il
muro, di fronte al
lavandino e allo specchio. Raggomitolata per terra non ero
più costretta a
vedere il mio riflesso nello specchio. Mi rannicchiai su me stessa nel
tentativo di farmi piccola piccola, di ripararmi dal mondo esterno, di
proteggermi. Con un braccio mi coprii il volto, con l’altro
strinsi di più le
gambe al mio petto. Nel far questo mi girai. La schiena era appoggiata
alla
vasca e le punte dei piedi sfioravano il muro lungo il quale mi ero
accasciata
prima. Fissavo, senza realmente vederlo, il mobiletto del bagno
affianco al
gabinetto, alla destra della porta.
In questo modo, raggomitolata nell’angolino, mi
sentivo un po’ più protetta.
Era tutto estremamente irrazionale eppure mi sembrò
l’unica soluzione possibile. In quella posizione cercai di
evitare che i pezzi
in cui mi ero frantumata si disperdessero. L’asciugamano
giaceva abbandonato accanto a me.
Tra i singhiozzi mi resi improvvisamente conto che
qualcuno bussava ansiosamente alla porta.
Vidi la maniglia muoversi ma
ovviamente non potevano
aprire dato che avevo chiuso a chiave.
< Bells? Bells? Mi senti?
Bells? È chiuso a chiave.
Apri. Bells? Riesci a sentirmi? Aprimi per favore. Mi stai facendo
preoccupare.
> Era la voce di Charlie, in preda al terrore.
Serrai gli occhi e non risposi. Non volevo sentire
nessuno. Non volevo vedere nessuno.
I colpi alla porta si fecero più energici e io
cominciai a singhiozzare più forte. Ormai il respiro era
totalmente fuori
controllo e mi girava la testa. Sentivo uno strano formicolio alle
gambe e alle
braccia. Mi sembrava che un mattone pesante fosse schiacciato contro al
mio
petto. Soprattutto però, non riuscivo assolutamente a
muovermi. I miei ansiti
riempivano il piccolo bagno.
I colpi forsennati di Charlie si interruppero e per
qualche istante sentii solo i miei singhiozzi e i miei gemiti. Qualcuno
sussurrava qualcosa dietro alla porta. Sentii dei passi allontanarsi
lungo le
scale. Poi, di
nuovo, qualcuno bussò. I
colpi erano meno ravvicinati e più fermi.
< Bella. Apri per piacere. >
Era la voce di Carlisle, autoritaria e
gentile allo stesso tempo.
Sentendola, cominciai a singhiozzare più forte e mi
parve di soffocare.
Lui smise di battere alla porta e, mantenendo lo
stesso tono di voce suadente e sereno, mi disse: < Bella, ti sei
chiusa nel
bagno. Non posso entrare se non mi apri. Ti prometto che non
entrerà nessun
altro. Voglio solo accertarmi che tu stia bene. So che sei spaventata
adesso.
Ma ti assicuro che non hai niente da temere. >
In quel momento sentii mio padre gridare dal piano
inferiore: < Carlisle, ho trovato la chiave di riserva. >
e poi distinsi
i suoi passi pesanti salire di corsa le scale. Si scambiarono poche
parole
veloci poi Charlie scese nuovamente le scale.
Non riuscivo più a
controllare i singulti che oramai
mi bloccavano il respiro. Non sentivo più le gambe e le
mani. Ero intorpidita.
Avevo freddo.
Carlisle ricominciò a parlare. < Bella, mi senti?
Ho mandato via Charlie e gli altri. Ci siamo solo tu ed io adesso.
Riesci a
parlarmi? Posso entrare? Se vuoi, mi siedo qui e aspetto che tu mi
apra. >
Non lo ascoltavo più. Mi strinsi di più su me
stessa.
Ero immobile, per terra. Il respiro fuori controllo stava facendo
impazzire il
mio cuore. Sentivo il battito rimbombarmi nella testa.
Mi immaginai gli altri, i miei genitori e la famiglia
di Edward, al piano di sotto tutti intenti a pensare a me, parlare di
me, a
compatirmi.
Io non volevo questo. Non lo volevo. Desideravo che
nessuno si accorgesse della mia assenza e adesso invece erano tutti
preoccupati
per me. Non volevo che succedesse questo.
Avrei voluto sparire, svanire… avrei voluto aver
sbattuto più forte contro il parabrezza. Avrei voluto essere
morta.
In tutto il tempo in cui avevo elaborato questi
pensieri, Carlisle aveva continuato a parlare. Non lo avevo minimamente
ascoltato.
Adesso però la sua voce tornò alle mie orecchie
ed io
tremai. Tremai di paura e vergogna.
< Bella. Sono preoccupato. Tu non mi rispondi.
Voglio solo accertarmi che tu stia bene. Se non mi apri tu,
aprirò con la
chiave di riserva. >
Attese che rispondessi ma io non riuscivo a fare altro
che singhiozzare.
< Mi dispiace ma devo entrare. Adesso apro la
porta. >
E così dicendo udii un rumore metallico.
< Sto aprendo la porta. >
Socchiusi gli occhi e, senza scostare il braccio con
cui mi coprivo il volto, vidi la chiave dorata cadere sulle piastrelle
rosse
del pavimento. Tintinnò con suoni lievi e cristallini in
quei suoi rimbalzi
strozzati e poi rimase ferma, immobile.
Carlisle aveva inserito la chiave di riserva nella
toppa.
La girò piano. Ci fu rumore. Un cigolio…
< Eccomi, sto entrando. > la sua voce era sempre
calma e pacata.
Poi la porta scattò.
La intravidi socchiudersi e serrai
gli occhi, come se
non potendo vedere lui, allora lui non potesse vedere me.
Immediatamente lui la
chiuse alle sue spalle perché sentii un sonoro tonfo.
Due istanti dopo era già
in ginocchio affianco a me.
< Bella? Bella? > Le sue mani erano delicate e
discrete. La sua voce autoritaria ma tranquillizzante.
Mi costrinse ad allontanare le braccia dal volto.
Nonostante avessi cercato di voltarmi e di dargli la schiena, non
riuscii nel
mio tentativo. Le sue braccia fredde erano forti e mi impedivano
qualsiasi
movimento. Mi sentii in trappola.
La mia reazione fu per me
inspiegabile.
Come una vera cretina cominciai a
scalciare e urlare.
Gli gridavo di lasciarmi, di non toccarmi. I miei strilli acuti di
sicuro
avrebbero solo attratto ulteriormente l’attenzione. E questa
considerazione non
fece che aumentare la mia ansia, e di conseguenza il tono delle mie
urla.
Non mi accorsi che era entrato qualcun altro, forse
perché le mie grida coprivano ogni altro suono, ma poi mi
resi conto che con
noi c’era anche Edward. Cercava di tenermi fermo il capo. Mi
stavo facendo male
sbattendo da tutte le parti. Mi muovevo con gesti inconsulti. Le ferite
alla
schiena mi dolevano.
< Carlisle? > Chiese Edward allarmato.
< Ha una crisi isterica. E prima credo che abbia
avuto un attacco di panico. Prendi la siringa che
c’è nell’astuccino dentro la
mia borsa. Nella terza tasca interna. È il suo calmante.
>
Sentii Edward armeggiare con qualcosa vicino alla mia
testa.
Siringa? Aghi? Cominciai a tremare violentemente.
Ansimavo senza più lacrime. Le
mie urla
erano state soffocate da un altro conato di vomito. Edward ora cercava
di tenermi
ferma e mi sussurrava parole confortanti all’orecchio, per
tranquillizzarmi.
Quando gli spasmi del vomito si
furono calmati, cercai
di divincolarmi dalle loro prese ferree
per rannicchiarmi di nuovo su me stessa.
< Edward, è in iperventilazione. > disse
Carlisle cercando di farmi mettere supina e contemporaneamente di
sollevarmi le
gambe.. Edward, il cui volto era sopra il mio sebbene girato al
contrario, mi
asciugò gli occhi dalle lacrime con le sue dita gelide. Mi
resi a malapena
conto che mi teneva la testa tra le ginocchia.
< Bella, guardami negli occhi. Guarda me. > Non
sentivo più il mio corpo. Non riuscivo a muovere
volontariamente i muscoli. Gli
spasmi non mi avevano ancora del tutto abbandonata.
Cercai di obbedire, tentando di ignorare la presa di
suo padre sul mio braccio. Poi sentii la punta di ferro penetrare nel
muscolo
del mio avambraccio. Cercai di allontanare il braccio ma la presa salda
di
Carlisle mi impedì di muoverlo. Nei punti in cui mi stavano
stringendo con le
mani l’indomani sarebbero comparsi dei grossi lividi violacei.
Lentamente, sentii le forze abbandonare il mio corpo.
tutto mi parve inconsistente.
La mia rabbia, la mia solitudine, le mie paure, la mia
ansia.
Ricominciai a respirare normalmente e qualche minuto
dopo mi resi conto di essere davvero sdraiata sul pavimento del bagno.
Era stato tutto reale… oddio, che vergogna. Avrei
voluto sollevare il braccio per coprirmi il viso. Impedire a Edward e
Carlisle
di vedermi, di giudicarmi. Ma il braccio era troppo pesante e io mi
sentivo
stanca. Stanchissima.
Era successo tutto per davvero? Avevo davvero perso il
controllo di me stessa in quel modo?
Com’era possibile? Ero davvero io, quella sdraiata per
terra?
Mi sembrava di guardarmi dall’alto. Mi sentivo
distaccata. No, non
potevo essere io… io
non perdevo il controllo in quel modo.
Quello che era successo non poteva
essere vero… era assurdo...
Sbattei di nuovo le palpebre. Il braccio mi pulsava.
< Bella? Bella,
piccola… adesso ti portiamo di là.
> mi sussurrò Edward chinando il capo in modo da
sfiorare il mio naso con il
suo. Mi teneva ancora ferma. La mia testa era ancora tra le sue
ginocchia e le
sue mani mi immobilizzavano i polsi. Mi teneva le braccia alzate
rispetto al
corpo.
Mi resi conto che avevo i piedi poggiati sulla borsa
di Carlsile. Cercai di toglierli ma lui me lo impedì facendo
una leggera
pressione con il braccio destro sotto alle mie ginocchia.
< Non preoccuparti. Resta
così ancora un po’. Questa
posizione permette un maggiore afflusso di sangue al cervello, al
cuore… non
preoccuparti della borsa. >
La sua mano sinistra era posata
sulla mia gola. Mi
stava prendendo il battito.
Cercai di voltare il capo ma Edward me lo impedì. Per
fortuna…
Anche il solo tentativo mi provocò un altro attacco di
nausea.
< Stai ferma per un
po’. >
< Edw…ard. >
< Sht, sht. Non preoccuparti. Non piangere. >
Chiusi di nuovo gli occhi. Ero
stanca. Terribilmente
stanca.
Avvertii appena le mani gelide di Carlisle passarmi un
asciugamano bagnato sul volto. Stava cercando di lavarmi un
po’ la faccia. L’acqua
era calda. Piacevole.
Edward mi teneva ancora le braccia alzate e ormai
sentivo un fastidioso formicolio propagarsi dalle dita verso il mio
corpo.
< Edward… pizzica… >
Probabilmente capì a cosa mi riferissi e
ridacchiò.
< Porta pazienza ancora qualche minuto. >
< Ho freddo. Sei freddo. >
< Tu invece sei un po’ troppo calda per i miei
gusti… > mi sussurrò poggiando le labbra
sulla mia fronte sudata. La sua
bocca indugiò per alcuni istanti sulla mia pelle.
Inarcai la schiena involontariamente e lasciai
scivolare la testa all’indietro mostrando il collo. Era una
reazione
involontaria del mio corpo al suo bacio casto.
Lo sentii chiaramente digrignare i denti.
Mi baciò la pelle sottile sulla giugulare ed io
fremetti, gemendo. Mi mordicchiai il labbro inferiore.
Il mio corpo rispondeva agli stimoli senza aspettare
le direttive del cervello. Non era da me comportarmi in un modo tanto
sfacciato
e disdicevole.
Solo in quel momento, con quel gesto della testa, mi
accorsi che mi avevano messo un asciugamano morbido e ripiegato su se
stesso
sotto al capo. Ecco perché non mi doleva. O per lo meno,
ecco perché non
sentivo il duro delle piastrelle sotto alla testa. Per il resto il capo
mi
faceva un male atroce. Ogni suono lo sentivo amplificato. Ogni
movimento mi
destabilizzava e se provavo ad aprire gli occhi cadevo preda delle
vertigini.
Pigolai: < Ho freddo. sono scomoda… >
Udii Carlisle dire: < Mi sembra si sia calmata.
Portiamola in camera. >
Avrei tanto voluto che fosse Edward a sollevarmi ed
invece mi resi conto di essere tra le braccia salde di Carlisle. Lui mi
strinse
al petto, protettivo, e poi uscì sul pianerottolo. Mi aveva
sollevato come
fossi una bimba piccola, come se non pesassi niente. un suo braccio era
sotto
le mie ginocchia, con l’altro mi sosteneva la schiena. La mia
testa giaceva
inerme sulla sua spalla.
Intravidi Charlie ed Alice e sapevo
che, se non avessi
nascosto il viso nel petto di Carlisle, avrei visto anche gli altri
osservami
ansiosi. Tante statue di cera sul pianerottolo.
Ma non volli vedere. Non volli
sentire. Chiusi gli
occhi così forte da farmi aumentare
il mal di testa. Mi rifugiai sul petto di Carlisle che mi
coprì il capo con la
mano, come se volesse proteggermi. Camminava lentamente, per non darmi
scossoni
e non farmi stare peggio.
Sentii una porta chiudersi dietro
di me.
Socchiusi gli occhi. Eravamo nella
mia stanza, buia.
Il dottore mi portò a letto. Qualcuno aveva scostato
le lenzuola ed il piumino. Mi adagiò delicatamente ma io non
volevo mollare la
presa dal suo maglione.
< Non lasciatemi… > sussurrai afona. Sentivo
la
necessità di piangere ma le lacrime non uscivano.
Le sue dita gelide sciolsero la presa precaria delle
mie.
Mi accorsi che un altro paio di mani mi stava
rimboccando le coperte. Edward.
< No… > mi lamentai. < Non posso andare
sotto
le coperte vestita. >
< Non preoccuparti di questo. Domani cambieremo le
lenzuola. Il maglione bagnato e le scarpe te li ho tolti prima. E poi,
questi vestiti comunque non
sono sporchi. Li hai usato solo per tornare a casa. Guarda che la mia
Volvo è
pulita! > cercava di essere spiritoso ma la sua voce era tesa.
Non mi ero accorta che mi avesse tolto le scarpe.
Mi voltai un pochino per poterlo guardare ma, nel
buio, distinsi solo la sua sagoma.
< Bella, credo che dovresti riposarti un po’. Che
ne dici? Sei stanca? >
Bella forza. Certo che ero stanca. Mi avevano riempito
di calmanti. Avrei voluto urlarglielo ma dove avrei trovato la voce?
Mi limitai ad annuire, lasciando che le palpebre si
chiudessero.
Edward teneva ancora la mano sul piumino. Mi stava
lisciando le coperte. Che gesto stupido…
E dolce.
Gliela afferrai prima che potesse allontanarsi.
Sebbene la mia forza fosse simile a quella di un sospiro, lui non
cercò di
liberarsi dalla mia presa. Anzi, si sdraiò al mio fianco,
sopra alle coperte.
Cercai di spostarmi di lato per fargli spazio ma lui
me lo impedì prima che i movimenti mi facessero girare la
testa.
< Non preoccuparti. Ci sto. Sei così
piccola… >
Mi teneva la mano mentre mi accarezzava la fronte. Lo
udii canticchiare una ninnananna.
Mi accovacciai contro di lui che mi strinse in un
abbraccio protettivo.
Mi sembrava un gesto così naturale, come se lo avessi
ripetuto migliaia di volte.
Inebetita, sorrisi.
< A cosa pensi? > mi chiese interrompendo la
canzone.
< Mhmm, a … te... >
Ridacchiò ma non percepii alcuna gioia nella sua
risata.
< Ti sei calmata? > domandò preoccupato. Mi
accarezzava la schiena. Rabbrividì e lui mi coprì
meglio.
< Sì. Adesso sì. Grazie. >
sussurrai stanca, poi
aggiunsi: < Che figura che ho fatto… >
< Non dirlo neanche. Nessuno è qui per giudicarti.
Noi tutti vogliamo solo che tu stia bene. È non hai fatto
nessuna brutta
figura. Sei spaventata, disorientata, impaurita. È normale
che tu reagisca in
modo negativo. Quello che è successo è colpa
nostra. Non avremmo dovuto
lasciarti sola. >
< Ma io volevo stare da sola. >
Posò le sue labbra delicatamente sulla mia fronte. Con
voce tormentata mi sussurrò:
< Bella, a volte ciò che si vuole e ciò
che è
giusto sono cose totalmente diverse.
Ricordalo per sempre, e ricordatene quando ti verrà
voglia di giudicare il comportamento apparentemente irrazionale di
qualcuno.
Talvolta bisogna mettere da parte i sentimenti per fare il bene delle
persone a
cui vogliamo bene.. se vogliamo loro bene sul serio. >
< Mi fai paura. > sussurrai nervosa. Ma anche
questa ansia era impalpabile a causa dei tranquillanti.
Lo sentii mormorare tra sè: < Sarebbe la prima
volta. > e poi, a voce più alta, mi disse: <
Perché? >
< Perché… > ero stanca e le parole
mi uscivano
pesanti dalla labbra.
Parlare era già una gran fatica di per sé. Essere
coerente era uno sforzo estremamente impegnativo . Cercare di rimanere
lucida
un’impresa impossibile.
Mi lasciai andare e parlai senza remore o freni,sebbene
con voce flebile, dicendogli senza censure cosa davvero pensassi, e
provassi.
Io ero un fiume in piena e le mie parole si rincorrevano nella corrente.
< Perché sembra che tu ti stia convincendo a
lasciarmi.
Anche se non lo vuoi.
Sembra che tu stia cercando di persuadere me che
lasciarci sia la scelta migliore. Ma io so che entrambi non vogliamo
questo.
Io ti amo.
Ti amo davvero.
Non so cosa ci sia stato davvero tra noi. Quando mi
racconti mi nascondi un sacco di cose. Non conosco te ma conosco me. So
che non
avrei fatto certe cose che hai detto che ho fatto per i motivi che hai
addotto
tu. E poi, tu non sei quel mostro che ritieni di essere.
Io l’ho visto. Cosa credi?
Ho visto che ti odi. E questo non è giusto.
Ma se anche ti odi, ci sono pur sempre io, che ti amo
tanto. >
Avrei voluto continuare ma non
riuscivo più a muovere
le labbra.
Prima di precipitare nel sonno,
balbettai: < Io ti
amo tanto…
E anche tu… anche tu ami… me. Anche se lo
nascondi… io
… io… lo sento…
Perché io ti amo, davvero… ti amo
tanto… > poi non
ebbi più la forza di continuare.
Non ero neanche certa di aver
sussurrato quelle ultime
parole.
Rimase in silenzio ma percepii ugualmente il suo corpo
tremare.
Afferrai l’ultima delle coperte che mi coprivano e,
lentamente, l’adagiai sulle sue spalle.
Lui, in silenzio, ci si strinse e poi si accovacciò
vicino a me, tenendomi stretta.
Il suo respiro freddo mi accarezzava le sopracciglia e
il motivetto triste e straziante che stava bisbigliando senza voce mi
cullò
finché non persi completamente coscienza di me stessa.
E le sue labbra che mi lambivano le
guance, il collo,
l’orecchio, il mento e le palpebre. le sue labbra sulle mie
erano sicuramente
il frutto della mia immaginazione, nonostante fossero fredde come
ghiaccio…
|
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Capitolo 8 *** You are the one for me ***
Salve a tutte. Premetto che questa
premessa (scusate la
figura etimologica) la sto scrivendo l’8 di aprile alle 2.24
di mattina
(momento in cui ho terminato il capitolo).
Volevo avvisarvi che, sebbene Edward sembri comportarsi da
idiota e da vero strXXXo, lui è mosso dalle migliori
intenzioni.
E non abbiate timore. Questa è una storia Edward/Bella
quindi non preoccupatevi se, alla fine del cap sembra che vada tutto a
rotoli.
Un’altra cosa. Sebbene non ce ne sia ancora stata molta, in
questa storia ho inserito molta azione e una notevole dose di
“perversione” nel
senso che sarò un po’ sadica nei confronti della
povera Bella, la quale
comunque alla fine tirerà fuori i cosiddetti e
cercherà di rimettere a posto la
sua vita.
Spero che il cap sia di vostro gradimento. Continuate a
seguirmi speranzose. I colpi di scena non mancheranno.
Erika
Spero
vi piaccia…
Cap 7
Bella's POV
You are the one
for me
Tu
sei quello giusto per me
Guardavo
la pioggia cadere lenta e
leggera sulle alte cime dei pini piegati dal vento.
Tenevo il capo poggiato al vetro della finestra e sentivo freddo ma non
avevo
voglia di muovermi.
Le casse dello stereo che non ricordavo di aver comprato diffondevano
una delle
canzoni composte da Edward.
Prima di partire mi aveva regalato molti CD che aveva inciso lui
stesso. Era un
bravissimo pianista. Restavo ad ascoltare le sue composizioni per ore,
chiusa
in camera mia.
In quei due anni cancellati dalla mia mente dovevo essere diventata una
fanatica di tecnologia dati gli accessori che mi ero ritrovata in
camera.
PC portatile, uno stereo super tecnologico, un I-pod… anche
un cellulare ultimo
modello. Sinceramente, a me quelle cose non interessavano. E forse non
mi
avevano interessato poi tanto neanche prima, dato che sembravano
praticamente
nuove. Ero diventata così superficiale da comprare cose che
poi in realtà
neanche usavo? Sperai di no.
Mi ero ritrovata tutte quelle chicche tecnologiche in camera al mio
rientro e
adesso non sapevo neanche come fare ad usarle. L’I-pod non
l’avevo neanche
toccato sebbene, secondo Edward, dentro ci fossero tutte le mie canzoni
preferite e persino le sue stesse composizioni.
Il PC portatile era rimasto chiuso sulla scrivania. Chissà
dov’era finito il
mio buon vecchio catorcio gigante, compagno di tante estati piovose?
L’unico strumento con il quale avevo deciso di combattere e
vincere era stata
la fotocamera digitale.
Frugando per casa mi ero infatti accorta che c’erano
pochissime foto con me
ed Edward. Prima che partisse lo avevo obbligato a lasciarsi
fotografare
da me. Lui aveva ceduto solo a patto che nelle foto ci fossimo
entrambi. La
povera Esme ci aveva scattato centinaia di foto in appena due giorni.
Temevo
che le sarebbe venuta l’ernia al dito…
Il giorno
della sua partenza, lui era venuto a trovarmi.
Seduti sul divano, avevo fatto delle foto a noi due con
l’autoscatto. Io tra le
sue braccia, io seduta sulle sue ginocchia, appoggiata al suo petto.
Ad una in particolare ero molto affezionata. A tradimento mi ero girata
di
colpo e lo avevo baciato sulle labbra proprio nell’attimo in
cui scattava il
flash.
La foto era venuta bene. L’avevo fatta stampare e adesso si
trovava sul mio
comodino, nascosta tra le pagine di “Orgoglio e
pregiudizio”.
Quello stesso
giorno, quello in cui partì, era successa una cosa che mi
aveva infuso un
briciolo di speranza.
Prima che mi salutasse ed eravamo già sulla veranda, io gli
avevo detto:
< Beh, quando ci saranno le vacanze di Natale e tornerai a
trovare i tuoi
genitori, potremmo vederci. Anche se ora vado a Jacksonville, il natale
lo
trascorrerò qui con Charlie… >
Il mio tono speranzoso tradiva una certa isteria.
Lui aveva sorriso mesto e mi aveva confidato: < Non credo
tornerò per
natale. E poi, quest’anno dovrai restare a casa.
Sarà appena nato il tuo
fratellino. Vuoi lasciarlo in balia di Reneè? Povero
piccolo. Sei proprio una
donna crudele. > cercava di scherzare e di alleggerire la
situazione.
Sospirai, sconfortata. < Quindi non tornerai. >
< No. > Mi squadrò a lungo e poi,
accarezzandomi la guancia e
obbligandomi a sollevare lo sguardo, mi disse: < Non essere
triste. Ti
prego. >
Cercai di sorridere. Vidi Carlisle abbassare il finestrino della
Mercedes.
Aspettava che ci salutassimo poi avrebbe accompagnato Edward
all’aeroporto.
Forse temeva che Edward arrivasse tardi, a giudicare da come ci
squadrava.
< Credo che tuo padre voglia dirti che sei in ritardo. >
gli sussurrai.
In realtà non volevo che se ne andasse. Probabilmente lui lo
intuì.
< Non preoccuparti per questo. Qualche minuto in più
non mi farà perdere
l’aereo. >
Mi carezzava i capelli, fissandomi negli occhi.
Quel saluto era carico di tensione, e di disperazione.
Con il gesto più repentino che mi riuscisse mi misi in punta
di piedi e gli
gettai le braccia intorno al collo.
Se fino a
quel momento avevo cercato di trattenermi, in quell’istante
mi lasciai
completamente andare, incurante del fatto che Carlisle ci vedesse.
Mi avventai
sulla sua bocca socchiusa. Baciai le sue labbra aggrappandomi ai suoi
capelli.
Mi aspettavo che lui mi respingesse ed invece le sue mani gelide mi
afferrarono
prima il bacino poi si insinuarono sotto il maglione. Si adattarono
immediatamente ai miei fianchi. Con le dita mi accarezzava la colonna
vertebrale.
Gentilmente mi avvicinò di più al suo corpo.
Per evitare di farmi rimanere in punta di piedi, mi afferrò
per la vita e mi
appoggiò sul corrimano. Seduta sulla ringhiera, incrociai le
gambe dietro alla
sua schiena. Non osavo sfilare le mani dai suoi capelli per timore che
così lui
allontanasse il suo viso dal mio.
Le sue labbra si muovevano tormentate. Scesero lungo il mento e poi sul
collo.
Arrivarono alla mia clavicola e lì indugiarono per alcuni
istanti. Risalirono
poi seguendo una linea immaginaria che giungeva fin sotto
all’orecchio. Per
scherzo me ne succhiò il lobo ma io, già
abbastanza surriscaldata dalla sua
foga dei suoi gesti, ebbi un fremito che non gli
sfuggì. Lo sentii
sorridere mentre mi obbligava a reclinare il capo. Sentii la sua lingua
sul mio
collo. Non riuscii a trattenermi, incurvando la schiena ed emettendo un
gemito.
Le sue labbra tornarono sulle mie. Mi baciava avidamente, come se non
fosse mai
sazio di me.
Mi strinse sempre di più a sé. Il mio corpo si
adattò perfettamente al suo.
< Edward > ansimai quando portò di nuovo le
labbra sulla mia clavicola.
Sorridevo. Le labbra mi si tendevano senza che io neanche dovessi
sforzarmi.
Ero felice. Felice per davvero.
In quel momento sentivo che lui mi amava ancora. Ero ormai sicura di
aver
convinto anche lui di questo.
Perché se non mi avesse amata, non mi avrebbe baciata in
quel modo. Non mi avrebbe
stretta a se con gesti tanto spasmodici… come se temesse di
perdermi.
< Edward > ansimai ancora, cercando di riconquistare
lucidità. In quel
momento infatti era il mio corpo a comandare.
Allontanò le labbra dalla mia pelle per sussurrare: <
Sì? > e poi riprese
a baciarmela.
< Edward, non andartene. Resta con me. >
< Non posso. > rispose laconico. Adesso stava inspirando
l’odore dei miei
capelli.
< E allora verrò io. Mi troverò un
lavoretto. Non sarò un peso per te. e non
tirare in ballo i miei studi. Sai che quest’anno non
frequenterei comunque.
Devo fare la terapia. >
Lui taceva, cullandomi.
< Non farmi questo. Ti supplico. > ero arrivata a
pregarlo. Mi sarei
inginocchiata se non fossi stata ancora avvinghiata al suo bacino,
seduta sulla
balaustra.
< Bella, lo sai che non possiamo. Siamo due amici che stanno per
andare in
college diversi. Non rovinare un bel saluto con delle pretese
inesaudibili. >
< Questo non è il bacio di due amici che si salutano.
> gli feci notare
io, poggiandomi sul suo petto.
< No, hai ragione. Non lo è. > Mi
coprì le spalle con la giacca che si
era appena sfilato.
< E allora che cos’è? > domandai
sconfortata.
< Questo… > e mi costrinse ad alzare il viso
posando un dito sotto al mio
mento. Si chinò a baciarmi in modo persino più
ardente di prima.
Dopo molti
battiti del mio cuore impazzito allontanò le sue
labbra dalle mie e
confessò:
< Questo, Bella, è un bacio di addio tra due amanti.
>
< Un addio? > domandai con voce tremula,
sull’orlo di una crisi di pianto.
< Sì. Un addio. >
Non avevo la
forza di accettare quelle parole devastanti e tornai ad appoggiare la
testa sul
suo petto, cercando di nascondere le lacrime ed inzuppandogli il
maglione. Mi
accomodò meglio la sua giacca.
< Significa che non ci vedremo mai più. > la
mia non era una domanda.
< Bella, sono certo che a Jacksonville ti innamorerai di un
altro e, quando
fra qualche anno ci rincontreremo per caso, rideremo insieme ripensando
a
questa discussione. >
< Non mi potrò mai innamorare di nessun altro.
Sarò come una vedova. >
sussurrai mesta.
La sua voce era divertita ma io lo sentivo teso, sotto le mie
mani.
< E allora vorrà dire che sarai la vedova
più invitata a uscire di tutta
Jacksonville. Ti consolerai in fretta con qualche giovane ed aitante
ragazzo
della Florida. Tutto bello abbronzato… >
Cercava di metterla sul ridere ma per me tutto quello era un vero e
proprio
dramma.
< E tu? ti consolerai in fretta? > domandai acida.
< Chissà? Chi può dirlo? >
Venni investita da un moto di rabbia e gelosia. Cominciai a battere i
pugni sul
suo petto.
Sentii il polso scrocchiare. Ahia.
Edward mi impedì di continuare afferrandomi gli avambracci e
portandosi i miei
pugni al viso.
Se avessi avuto libertà di movimento, gli avrei tirato un
ceffone.
Lui invece, impassibile cominciò a baciarmi le nocche.
Piangevo di rabbia e disperazione. Incavolata nera gli gridai: <
Se fin
dall’inizio avevi deciso di tagliare tutti i ponti con me,
posso sapere perché
in queste settimane sei stato così…
così… >
Non trovavo le parole. Gli unici aggettivi che mi venivano in mente per
descriverlo erano: Adorabile, gentile, dolce… innamorato.
< Hai ragione. Mi sono comportato nel modo sbagliato. Se fossi
stato più
distaccato, ora non soffriresti in questo modo. È solo colpa
mia. Te ne prego,
perdonami. Ti ho lasciato coltivare delle speranze insane. Ne sono
rammaricato.
Perdonami. >
Passarono alcuni minuti in cui l’unico rumore era il fruscio
del vento tra gli
alberi.
Carlisle era ancora in auto ad aspettare, dimenticato da entrambi.
Riacquistai
un minimo di contegno e mi sforzai di dire:
< Prima, quando mi baciavi, o quando hai detto che era un bacio
tra due
amanti… o in tutti questi giorni… mi sei sembrato
molto… coinvolto. Tu, tu mi
ami ancora. >
< Bella, prima dell’incidente ne abbiamo parlato a
lungo. So che non ricordi
ma avevamo deciso che, con il college, avremmo chiuso la nostra
relazione. Te
l’ho già detto milioni di volte. Dobbiamo
crescere. Non possiamo restare
ancorati ad una storia di fidanzatini del liceo. >
< Neanche se questa storia adolescenziale è
così intensa? >
< Bella, credimi. Troverai l’uomo giusto per te. Ti
meriti di meglio di me.
>
Sembrava davvero che credesse a ciò che diceva. Le sue
parole erano intense e
cariche di dolore.
Mi costrinse ad alzare lo sguardo e a fissarlo negli occhi.
< Bella, io non potrei mai darti tutto quello che ti meriti. Io
sono l’uomo
giusto per te. >
Nei suoi occhi leggevo la sincerità. Era convinto di quello
che diceva.
Scossi il capo in segno di dissenso.
< Non è
vero. Ti sbagli. Tu sei l’uomo perfetto per me. >
Mi si stava rivoltando lo stomaco.
Lui era l’uomo perfetto per me. Ero io, io stupida, sciocca,
goffa, imbranata,
maldestra,incapace Bella a non essere la ragazza giusta per lui.
La cosa che mi fece più male in quel momento fu che, in
fondo, lo avevo sempre
saputo.
Ero sempre stata consapevole di non essere alla sua altezza.
Aveva ragione a non volermi più con sé.
Sebbene, forse, fosse ancora innamorato di me, aveva capito che io non
avevo
nulla da offrirgli. Era per questo che quello era un addio.
Non voleva più dover essere costretto ad avere a che fare
con me, una volta
entrato al college.
Anch’io mi sarei vergognata se avessi dovuto presentare una
come me ai miei
compagni di università e dire loro che era la fidanzata.
Potevo biasimarlo se, una volta al college, volesse qualcosa di
più di me?
Qualcuno migliore di me?
No. Non potevo biasimarlo di certo…
Inghiottii ma la mia bocca era secca.
< Bella, non piangere, per favore. >
< Tanto, a te che te ne frega? Te ne stai andando. Non mi vedrai
mai più. >
Lo vidi illividire.
< Non voglio che tu viva tutto questo in questo modo. Io voglio
che tu sia
felice. >
La sua voce fremette quando pronunciò l’ultima
frase.
Chinai il capo per non essere costretta a guardarlo.
< Tuo padre ti sta aspettando. Vai o perderai l’aereo.
>
< Sei adirata nei miei confronti. > una semplice
constatazione.
Ebbene sì.
Ero arrabbiata con lui. Molto arrabbiata. Ma anche molto,molto
innamorata.
< Sei
stato uno stupido. >
< Sì. Hai ragione. >
Ero combattuta. Volevo cacciarlo via e stringermi a lui. Le lacrime mi
rigavano
le guance. Me le asciugai con il dorso della mano. < Perderai
l’aereo. Vai.
>
< Non preoccuparti. > guardò
l’orologio. < Sono in anticipo. Ho
costretto Carlisle ad uscire molto presto di casa perché
volevo restare un po’
qui a parlare con te. > Mi accarezzava le guance.
< Parlare… tsè. > lo presi in giro,
sforzandomi di sorridere. Lui ne
parve molto compiaciuto.
< Più che parlare, io direi che abbiamo fatto i
cattivi ragazzi un po’
sporcaccioni. >
< Sì, in effetti sì. >
ridacchiò lui. < Bella, io non so cosa tu stia
pensando, e ti assicuro che ciò è assolutamente
frustante, quindi ti chiedo di
essere sincera con me. Lo sarai? >
Ipnotizzata dal suo sguardo profondo mi accorsi di star annuendo.
< Bella, promettimi che cercherai di preservare sempre la tua
salute e la
tua incolumità. >
Rimasi un po’ spiazzata da quella sua richiesta.
Irritata cercai di chiedergli: < Perché
mai… >
< Dimmi solo che lo farai. Che non farai mai nulla che possa
metterti in pericolo.
Non potrei sopportare di sapere che ti metti in pericolo. >
< Ok… ok. Se ci tieni tanto te lo prometto. >
< Per davvero? Sei sincera? >
< Sì. Sono sempre sincera con te. > gli
risposi spontanea.
Sorrise mesto. Si chinò in avanti per baciarmi la fronte. Io
chiusi gli occhi e
cercai di fissare per sempre nella mia mente il suo buon profumo, la
dolce
sensazione delle sue labbra sulla mia pelle.
Si staccò da me e mi soffiò tra i capelli.
< Credo di dover proprio andare adesso. > Annuii ormai
senza più speranze.
< Dai, vieni. Ti aiuto. > e mi afferrò la
vita. Mi appoggiai a lui mentre
mi faceva scendere dalla balaustra e tornare in piedi per terra.
Faceva freddo ed oramai era da un bel po’ che eravamo
lì fuori. Certo, mentre
mi baciava ero troppo accaldata per accorgermene ma adesso, complice
forse
anche il freddo che sentivo nel mio cuore, tremai. Mi sistemai meglio
il
maglione e mi accorsi di avere ancora indosso la giacca di Edward.
< Oh… mi
stavo dimenticando di ridarti la giacca… >
Feci per restituirgliela ma lui mi bloccò il polso. <
Tienila tu. >
Lo fissai e poi fissai la giacca. Era bella, calda, molto costosa. Non
potevo
certo accettarla. E poi, era da uomo.
< Edward, non posso tenerla. E poi, mi dici che me ne faccio?
È da uomo. >
< Potresti tenerla come ricordo. Come mio ricordo. >
Ci pensai su un attimo. Aveva il suo profumo. Quello che adoravo tanto.
Quello
che aveva il potere di realizzare ciò che non sempre le
pillole erano in grado
di fare: tranquillizzarmi.
In ospedale mi ero abituata ad addormentarmi con Edward accanto. Forse
la
giacca me lo avrebbe ricordato. Forse non era poi una cattiva idea.
< Va bene. Ma anche tu dovrai accettare qualcosa di mio. >
Sorrise dubbioso per poi fare una faccia sconvolta quando vide che mi
sfilavo
il maglione.
Sotto avevo solo il reggiseno.
Per un attimo pensai di dargli quello ma poi preferii optare per il
maglione.
< Bella! Ma che fai? Prenderai freddo. ti ammalerai! >
< Dai, non fare il rompiscatole. Prendi questo. > e gli
porsi il
maglione. Lui lo prese tra le mani e lo strinse a sé.
< Va bene ma adesso copriti. >
Gli feci la linguaccia e mi misi il suo giaccone. < Contento?
>
< Molto. Anche non mi dispiaceva quello che vedevo prima.
>
< Scemo. >
< Sì. Lo so. > nella sua voce c’era
molto più dolore di quello che mi
sarei aspettata.
Lo abbracciai e lui mi strinse a sé. < Vado. >
< Chiamami. >
< Lo farò. Ma ora vai in casa o ti ammali sul serio.
Hai preso le tue
medicine? >
Forse era una mia impressione ma sembrava che lui stesse cercando di
procrastinare
il momento della separazione.
< Sì. Anche se mi fanno sentire molto stanca. >
< Beh, è normale. Non smettere di prenderle. Adesso
magari potresti tornare
dentro e farti una dormitina. >
< Chiamami quando atterri. > gli dissi cambiando
discorso. Non volevo
pensare al dopo, a quando mi sarei ritrovata da sola in camera mia.
< Certo. Allora… stammi bene. >
< Anche tu. >
Mi strinse delicato il volto tra le sue mani e mi sfiorò le
labbra con le sue,
per un istante brevissimo.
< Mi raccomando. Fa la brava. > e così
dicendo, si voltò e percorse il
vialetto incurante della pioggerellina che aveva cominciato a cadere.
Io rimasi
lì a fissarlo.
Intravidi Carlisle dietro al finestrino abbassato. Teneva un giornale
sul
volante. Mi salutò con la mano ed io feci lo stesso.Lui lo
avrei rivisto
l’indomani, per la terapia. Chissà quando avrei
rivisto Edward. Sperai che non
fosse come diceva lui.
Mai… che brutto avverbio.
Edward salì in auto, sul sedile posteriore.
Abbassò anche lui il finestrino e
mi gridò: < Vai dentro o ti ammali! > ma io
rimasi fuori ad osservare
l’auto sparire lungo la strada costeggiata dal bosco e dalle
villette.
Quel
pomeriggio, circa cinque ore dopo il nostro saluto, mi
telefonò. Per rispondere
al telefono corsi giù dalle scale alla massima
velocità consentita dal mio
equilibrio precario. Ovviamente caddi e mi feci male. Charlie rispose
al
telefono e rise quando mi venne a portare il telefono e mi vide a
terra, ai
piedi delle scale.
Edward mi chiese, preoccupato: < Bella? Bella tutto bene?
>
< Sì… sono solo caduta scendendo le scale.
>
< Sei proprio impossibile. Hai già infranto la
promessa. >
< Come scusa? >
< Ma sì. La promessa. Mi hai giurato che avresti
fatto attenzione alla tua
salute. >
Stavo per controbattere che lui mi incalzò: < Ti sei
fatta male? dove hai
picchiato? >
< non mi sono fatta niente. mi fa solo un po’ male la
caviglia. Ho poggiato
male il piede mentre scendevo. >
< è gonfia? La senti pulsare? >
< Edward, piantala di essere così ansioso. Sto bene.
>
< Se vuoi, telefono a Carlisle e gli dico di venire a darti
un’occhiata. >
< Non è assolutamente necessario. E comunque,
Carlisle mi odierà ormai.
Domani deve già venire. Oggi che è riuscito ad
evitarsi la scocciatura di
prendersi cura di me, vuoi obbligarlo tu? >
< Bella, non parlare così. > sembrava
quasi… adirato…
< Tu non sei una scocciatura. Lui è il tuo medico.
È felice di poterti
aiutare. Oggi non è venuto solo perché doveva
portarmi in aeroporto. >
< Sì… ok. > Cambiai discorso.
< Com’è andato il viaggio? >
< Bene. Molto tranquillo. Adesso sono sul pullman che mi
porterà nel campus.
Tu che stavi facendo? Sei riuscita a riposarti un po’?
>
Mi vergognai della mia risposta. < Ero in camera mia. Stavo
ascoltando…
della musica. > Risposi evasiva. Non volevo ammettere che era un
suo cd. Non
volevo fargli sapere che mi mancava già, in un modo
impossibile. < No. Non
sono riuscita a dormire. Ero un po’… agitata.
>
< Mh, capisco. Magari domani dillo a Carlisle, così
ti cambia la dose dei
tranquillanti. >
< Va bene… > lo dissi solo per farlo contento.
Io non glielo avrei detto
di certo. Avrebbe capito subito che la causa del mio disagio era la
lontananza
di suo figlio.
< Ora devo andare. Ci sentiamo. Ti chiamo io. >
< Va bene. A domani. >
Ci fu un attimo di silenzio e poi lui, imbarazzato, mi disse: <
Non so se
domani riesco a chiamarti. Ho un sacco di cose da fare…
magari dopodomani. >
< Ah… ok. A dopodomani allora. > la mia
delusione era facilmente
riconoscibile.
< Perfetto. Scusa ma devo davvero riattaccare adesso. Ciao
Bella. >
< Ciao. > sussurrai ed attesi che lui riattaccasse. Io
non ne avevo il
coraggio.
Sì. Era proprio come temevo io. Adesso che era al college,
non voleva più avere
a che fare con me.
Forse, la ragazza semplice ed anonima andava bene finche si restava in
una
squallida e piovosa cittadina di provincia. In un importante
università privata
avrebbe avuto bisogno di una ragazza che fosse più simile a
lui. Bella, ricca e
perfetta.
Sì… io non
ero la ragazza giusta per lui sebbene lui fosse il ragazzo giusto per
me.
Riposi il
telefono e, zoppicando, tornai in camera mia. Schiacciai play e mi
sedetti sul
letto con lo sguardo volto alla finestra. Osservavo le gocce di pioggia
cadere
e desiderai trovarmi lì fuori sotto il temporale.
Lì nessuno avrebbe notato che
stavo piangendo.
|
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Capitolo 9 *** An emptiness began to grow… ***
Salve a tutte.
Temo che ci sia stato un piccolo ed innocente equivoco!
Il cap nove è il prossimo (quello in cui…
sì, beh, insomma…)
e non questo che invece è l’8 anche se su EFP
risulta il 9. colpa dell’introduzione
o cap 0. Scusatemi!
Grazie a tutte per i commenti.
Fatemi gli auguri che
venerdì prox ho un esame. Letteratura
italiana dal 1200 al 1900. e ho appena finito Dante!!!!! Come
farò??????????
Aiuto…
Ps: questo cap è un po’
così… diciamo di transizione. Mi serviva
per la storia.
A proposito: no, non preoccupatevi,
Edward non dirà di stare
con un’altra e per quanto riguarda i Volturi, io li adoro e
li ficco sempre
ovunque. Cara Momob
(che piacere
risentirti) mi hai spoilerato!!!E pensare che proprio in questo
cap…
Cap 8
An
emptiness began to grow…
Un
senso di vuoto incominciò a crescere…
Edward’s POV
< Alice, se vuoi torna
pure a casa. Non sei costretta a farmi compagnia. >
“ Non sono qui per te. sono
qui per lei ” pensò mia sorella mentre entrambi ce
ne stavamo appollaiati sul
ramo di un pino nel bosco, a trenta metri di altezza e a duecento dalla
casa di
Bella. Da lì si vedeva la sua stanza. Si vedeva lei.
“ tutto questo è molto
stupido ”
< Sì. Lo so. >
“ E puerile. ”
< So anche questo. >
< E allora perché non
corri da lei? >
< Perché non posso. Ho
preso la mia decisione e non posso più tornare indietro.
>
< Cavolate. Va da lei e
dille la verità. Dille che non sei mai partito. Che era
tutta una scusa. Che
sono due settimane che la spii e la sorvegli, che la proteggi notte e
giorno.
Che di notte la guardi dormire e la ascolti mentre ti chiama dopo
esserti
intrufolato in camera sua. >
< Alice, ti rendi conto di
cosa stai dicendo? Mi denuncerebbe. E avrebbe tutto il diritto di
farlo. >
< Chi, Bella? Non ti
denuncerebbe nemmeno se ti vedesse mentre commetti un omicidio. Ti
adora. È innamorata di te
almeno quanto tu lo sei di lei. >
< Ciò non cambia nulla.
Sto facendo tutto questo per il suo bene. Ha la possibilità
di vivere come se
non fossi mai esistito. Non voglio sottrarle il futuro, di nuovo.
>
< Sai una
cosa? Se la vecchia Bella avesse
saputo cosa sarebbe successo e cosa tu avresti fatto ti avrebbe dato
dello
stupido e ti avrebbe detto di non comportarti come stai facendo tu ora.
Ti
urlerebbe di essere uomo e di non dire cavolate riguardo ad anime
perdute e
futuro sottratto. Tu la conosci. Sai che se
fos… >
< Basta. Smettila. È
inutile questa discussione. Quello che dici è corretto ma
è altrettanto corretto
quello che dice Carlisle. Lei ha il diritto di vivere felice. >
< Edward. > mi riprese
severa mia sorella. Poi con un gesto della mano mi indirizzò
lo sguardo verso
la casetta dello sceriffo. < Guardala. Ti sembra felice?
> la sua voce
era triste.
Bella giaceva sdraiata sul
letto ed osservava il soffitto. Invece che con la coperta, si copriva
con il
mio giaccone. Stava ascoltando la mia ninnananna.
< praticamente passa le
sue giornate in questo modo. Ti sembra sano? >
< Alice, è solo perché si
è slogata la caviglia scendendo le scale. Non pretenderai
che zampetti per casa
tutta allegra. Deve restare a riposo. >
Alice sbuffò. Mi tirò fuori
il cellulare e compose il numero di quello di Bella, poi mi
passò il
telefonino. < Dai, chiamala. Ieri non le hai neanche telefonato.
>
< No.Meglio di no.Sto
cercando di far passare sempre più tempo tra una telefonata
e quella
successiva.Vorrei che lei si abituasse pian piano al fatto di non
sentirci
più >
< Ma se ti stai logorando
dalla nostalgia e non vedi l’ora di parlare. Io la chiamerei
subito. >
< Fortuna volle che non sia
impulsivo quanto te. >
< Edward… se tu le volessi
bene ora correresti da lei. Non puoi lasciarla lì sdraiata
nel letto a
consumarsi dal dolore. >
< Alice, lei è forte.
Carlisle si sta occupando di lei. Charlie la segue come non ha mai
fatto e
Reneè la sta aspettando a Jacksonville. Avrà
tutto l’amore del mondo. Non le
serve più il mio. >
< Ciance! Ha bisogno del
tuo amore più di quello di chiunque altro. Sai
cosa non le serviva?
Tutta quella roba che le hai comprato. Il PC, l’I-pod, il
cellulare… pensi forse che
sarà felice
quando scoprirà che c’è un conto a suo
nome con più soldi di quelli che i suoi
genitori guadagneranno in tutta la loro vita? Non era di queste cose
che aveva
bisogno. >
< Quei soldi le serviranno
per andare a Darthmouth e vivere serena per tutta la vita, senza
doversi mai
preoccupare di arrivare a fine mese. Charlie le racconterà
che quei soldi sono
il risarcimento dell’uomo che l’ha investita. Hai
visto anche tu come andrà a
finire il processo. Le daranno solo centomila dollari come
risarcimento. Non
sono pochi, ma con quelli non avrebbe neanche potuto pagarsi college e
terapie
a Jacksonville. Nel giro di alcuni anni li avrebbe finiti e poi?
I
suoi soldi sarebbero
terminati prima che lei fosse riuscita a risolvere i suoi problemi.
>
<
Charlie non li voleva
quei soldi. Quando ha scoperto quel conto, ha fatto di tutto per
restituire i
soldi a chi lo avesse aperto. >
<
Bella è maggiorenne e
lui non può rifiutare niente a nome suo. E poi, la mia
è stata una donazione
anonima. Lei non saprà mai chi è che le ha aperto
quel conto. >
< Ma se lo
immaginerà.
>
< Quando capirà, saranno
passati anni dall’ultima volta che ci saremo parlati.
Probabilmente, comunque,
penserà che è stato l’investitore,
sopraffatto dal rimorso. >
< Non è con quei soldi che
la farai felice. >
< Ma è l’unica cosa che
posso darle. Una sicurezza economica. Lo so che non basta. Lei
meriterebbe di
più.Se ci fossimo sposati,
sarebbe stato così. Avrebbe avuto tutto. Continuerò
a versarle soldi.
Farò in modo che non le manchi mai niente, come se fossi
ancora vicino a lei.
>
< Edward, le mancherai tu.
>
< Mi dimenticherà >
risposi cercando di autoconvincermi.
< Non credo potrà
dimenticarti. E poi,sappi una cosa riguardo
al rimanere a letto… la caviglia non centra niente. Lei
è depressa. E se la
lasci così, non farà altro che peggiorare.
>
Non risposi. Quelle di Alice
non erano il riassunto delle sue visioni ma delle semplici
supposizioni.
Del futuro di Bella non
riusciva a scorgere niente. lei era ancora troppo indecisa.
Smise di parlarmi e cominciò
a fissare Bella, ignorandomi. Dopo dieci minuti, nei quali cui mi
riversò il
suo risentimento tramite i suoi pensieri, premetti il pulsante verde La
chiamata partì.
Alice, al mio fianco, mi
sorrise compiaciuta e mi si accoccolò affianco,
appoggiandosi a me.
Il telefono squillava.
Squillava.
Osservai Bella che, sdraiata
a letto, fissava il suo cellulare, che vibrava, poggiato sul comodino.
Poi, con uno scatto, lo
afferrò. Guardò il numero e poi rimase immobile
per alcuni secondi. Tanto bastò
perché scattasse la segreteria.
Riattaccai. La vidi
asciugarsi gli occhi con la manica della felpa che aveva indosso.
Si sdraiò di nuovo,
coprendosi il volto con il braccio. Teneva ancora il telefono in mano.
Schiacciai di nuovo il verde
e il suo telefono riprese a squillare.
Sobbalzò e, dopo aver visto
che ero ancora io, attese qualche istante prima di rispondere.
Poi avvicinò l’apparecchiò
all’orecchio e premette la cornetta verde.
< Pronto? > la sua voce
era rauca. La vidi stringersi nel mio giaccone.
< Pronto Bella? Sono
Edward. Ti disturbo? >
< No. Non mi disturbi.
Stavo leggendo. > A quelle parole Alice mi fulminò
con uno sguardo e mi
sibilò: < Sentito? Depressione. > La zittii
con un gesto della mano.
< Cosa leggevi? >
< Niente di importante.
> rispose evasiva.
< Sei a casa? >
< Sì, perché? >
< Perché così ti chiamo
lì. Va bene? >
< Ehm… si certo. Lasciami
il tempo di scendere. Sai com’è, la
caviglia… >
< Menomale che avevi detto
che non ti eri fatta niente! >
< La mia solita fortuna.
> le sue parole erano amare. < Comunque, Carlisle mi ha
detto che già da
domani posso smettere di usare le stampelle. Il tutore non
so… >
< Sono contento. È sempre
noioso dover camminare appoggiandosi alle stampelle ma, se senti che ti
affatichi troppo, continua ad usarle. Non credo che a Carlisle servano.
Puoi
restituirgliele quando sarai guarita del tutto. Ora scendi dai. Ti
richiamo tra
dieci minuti. >
< Va bene. A dopo. > mi
disse prima di riattaccare.
Poi si voltò di lato dando la
sedia alla finestra. Rimase in quella posizione per circa quattro
minuti poi,
lentamente,si portò a sedere. Afferrò le
stampelle e poi uscì. Si muoveva
lentamente.
Prima che ricomparisse in
salotto passarono molti minuti.
Lasciai che prendesse il
cordless dalla cucina e che si sedesse sul divano. Con il telefono in
mano cominciò
a sistemarsi i capelli. Un gesto inconscio.
La chiamai. Rispose al primo
squillo.
< Edward? > Domandò.
Avevo utilizzato l’opzione numero privato. Non volevo che si
accorgesse che la
chiamavo ancora dal mio cellulare. Volevo che mi credesse in casa mia,
nel
campus.
Chiamarla a casa era una
scusa per farla muovere un po’, per farla almeno scendere al
piano di sotto,
sebbene non volessi ammetterlo di fronte ad Alice.
< Sì. Sono io. Allora,
com’è stato questo tuo ultimo quarto
d’ora? >
<
Come quello precedente. Noioso. > rispose ironica. <
Allora, come ti
trovi a Syracuse? >
<
Non posso lamentarmi. Il posto è… interessante.
Ma non siamo ancora entrati nel
vivo del semestre. La gente è simpatica. >
<
E le ragazze? Sono carine? >
<
Alcune sì, altre non molto. Ma per adesso non mi
interessano. Devo pensare allo
studio. >
<
Beh… medicina è un corso impegnativo. Comunque,
non uscire con la prima che te
lo chiede. Scegliti una in gamba. Le oche non fanno per te. >
<
Ne terrò conto. Tu invece? Come sono lì le tue
giornate? >
<
Piovose… come sempre. >
<
Insomma, Forks non si smentisce mai. >
<
Parrebbe di no. Quando sarò a Jacksonville potrò
dirti qualcosa di diverso. Da
piovose a umide. Sai che bello! Però lì almeno
c’è il sole. >
<
Sono sicuro che ti piacerà. >
<
Speriamo. >
La
conversazione durò a lungo. Più di quanto avrei
voluto. In quel modo non si
sarebbe mai abituata alla mia assenza. Eppure non potevo fare a meno di
sentire
la sua voce. Sentirla parlare mi dava sollievo. E poi, quando era al
telefono
con me sorrideva, rideva. Sembrava felice. Speravo che, con il tempo,
avrebbe
potuto fare altrettanto senza di me.
Quando,
un’ora e mezza dopo, Charlie rientrò dovetti
interrompere la telefonata.
All’ispettore serviva il telefono.
<
Allora ci sentiamo. > le dissi dopo che Charlie le aveva urlato
di
riagganciare.
<
Va bene. Se vuoi ti chiamo… magari domani. > mi
sussurrò speranzosa.
<
No, domani non posso. A dire la verità, ho un sacco di roba
da fare. Fino a
sabato temo di non avere un minuto libero. Ti chiamo io. >
<
Ok. Allora aspetto una tua chiamata. Divertiti. >
<
Anche tu. e cerca di dormire. Dalla voce mi sembri un po’
stanca. E non
sforzare troppo la caviglia finché non sarai completamente
guarita. >
<
Va bene mamma. Obbedirò. > mi prese in giro.
<
Ci si sente. Saluta Charlie. >
<
E tu i tuoi fratelli. Buona università. >
Anche
questa volta fui io a riattaccare.
<
Soddisfatta? > domandai ad Alice.
<
Non fare il cretino. Guardala. Guarda Bella. Le hai illuminato la
giornata.
Certo, finché non le hai detto che prima di sabato non la
richiamerai. Ti rendi
conto che oggi è lunedì? >
<
Alice… >
<
Sì, lo so. Vuoi che si abitui gradualmente. Sai quante volte
me lo hai
ripetuto? Comunque, ogni volta che la chiami lei mi sembra stare
meglio. >
Ignorai
quello che diceva. <
Perché ora non
mi lasci in pace e vai a stressare qualcun altro? >
<
Antipatico. Dì la verità. Vuoi che ti lasci solo
così puoi spiare la tua ex
promessa sposa. Sei un guardone. >
<
Non l’ho mai osservata nei momenti non opportuni. >
<
Sì, sì… come no. Divertiti questa
notte ad intrufolarti in camera sua. >
<
E vattene! > Mi fece la linguaccia e, pensando a Jaz,
saltò leggiadra
dall’albero. Quando mi voltai stava già
sfrecciando verso casa. Agitò la mano
in segno di saluto e poi svanì nel fitto del bosco.
Rimasi
a fissare Bella. Era rimasta seduta sul divano. Si teneva le ginocchia.
Si
sdraiò e Charlie le chiese: < Tutto bene? >
<
Sì papà. Non preoccuparti. >
Lui
buttò un occhio all’orologio e disse: <
Dovresti prepararti. Carlisle ha
finito il turno venti minuti fa. Fra meno di un quarto d’ora
sarà qui. non
vorrai farti trovare in pigiama. >
Svogliatamente,
Bella rispose: < Tanto, che differenza fa. È il mio
dottore. Mi ha curato
lui. Mi ha vista nuda un sacco di volte. non credo che si
scandalizzerà molto
per il mio pigiama. >
<
Fa come preferisci. Adesso vado da Billy così potrete stare
tranquilli. >
<
Va bene. Allora ci vediamo dopo. >
<
Passo a prendere una pizza mentre torno indietro? >
Bella
si strinse nelle spalle. < Se ne hai voglia sì. Se no
preparo qualcosa. Non
è un problema. >
<
Beh, vedrò. Al massimo mangio da Billy. A te non dispiace,
vero? >
<
No, non preoccuparti. Io mi faccio una pastina. Ho un po’ di
acidità di stomaco.
>
<
è per colpa della partenza? >
Bella
si incupì. < Sì, forse. >
<
Bells, piccola, se non vuoi andare a Jacksonville nessuno ti costringe.
Certo,
forse sarebbe per te salutare ma se vuoi rimanere, io sono felice di
tenerti
con me. >
<
Grazie papà ma ormai ho già preparato tutto.
Quasi tutte le mie cose sono già
nelle valige. E hai anche già prenotato il biglietto.
Inoltre, non voglio dare
un dispiacere alla mamma. >
<
Non devi preoccuparti di questo. Tua madre non si offenderebbe. E per
il
biglietto, quello non è un problema. >
<
No… davvero. Forse mi farà bene andare via.
Allontanarmi da tutto questo. Dalla
pioggia, dalle nuvole… > la sua voce perse di
consistenza e lei chiuse gli
occhi.
<
Se è quello che vuoi, è giusto che tu parta ma
sappi che, se cambiassi idea,
questa casa è sempre aperta. Puoi tornare quando vuoi qui
dal tuo vecchio. >
<
Grazie papà. > Lui arrossì.
<
Adesso è meglio che vada altrimenti Billy mi
accuserà di non aver visto con lui
la partita. Ci vediamo dopo Bells. Se hai bisogno, chiamami.
Terrò il telefono
sempre acceso. >
E
così dicendo uscì, lasciando Bella sola in casa.
Due
giorni dopo io ero lì, seduto tra i rami di un albero a
cento metri da casa
sua.
Volevo
vederla più da vicino, per l’ultima volta.
Charlie
stava mettendo le ultime valige in macchina. Bella era seduta in
veranda,
proprio dove l’avevo baciata e dove avevo quasi perso il
controllo di me. Quel
giorno ero stato sul punto di dirle tutto. Di me, di noi, del
matrimonio… mi
ero trattenuto per un pelo. Sentire il suo corpo caldo e morbido sul
mio, il
suo respiro nella mia bocca, le sue labbra delicate sulle mie, le sue
mani tra
i miei capelli… era troppo difficile respingerla quando la
desideravo così
tanto.
Alla
fine mi ero imposto di sciogliere il nostro abbraccio, la mia presa sul
suo
fragile corpo ed ero riuscito a ricompormi.
Le
avevo detto addio. Le avevo promesso che non ci saremmo più
rivisti… o che,
perlomeno, che lei non avrebbe più rivisto me. Io non potevo
fare a meno di
andare davanti a casa sua e fissarla, nella sua
quotidianità, compiere i
piccolo gesti normali che lei rendeva sensuali ed innocenti.
Sebbene
più volte mi fossi sentito male pensando a quanto, in un
certo senso, questa
situazione fosse fin troppo simile a quanto accaduto la prima volta che
l’avevo
lasciata, mi ero sempre ripromesso che questa volta sarebbe stato tutto
diverso.
Ci
sarebbe stata la sua famiglia con lei. Avrebbe ricevuto attenzioni ed
amore,
sarebbe stata protetta.
Quel
giorno però, davanti a casa sua, sapevo che quella sarebbe
davvero stata
l’ultima volta in cui mi fosse concesso vederla.
Per
prima cosa, non avrei potuto seguirla a Jacksonville. Il sole mi
avrebbe
impedito di uscire di casa.
Secondariamente,
adesso io avevo un conto da pagare. Un debito molto gravoso da onorare.
Dovevo
riscattare la vita di Bella. La sua libertà.
L’indomani
sarei partito.
Avevo
già predisposto tutto. Ascoltato i consigli di mio padre e i
singhiozzi di mia madre.
Mentre spigavo loro la mia decisione, Rosalie ed Emmett erano rimasti
silenziosi, attoniti. Appena ero uscito di casa per tornare da Bella
loro due erano
andati in camera loro a fare l’amore. Nei pensieri di
entrambi lessi la paura
reciproca l’uno di perdere l’altra, come era
successo con me e Bella, e il
desiderio di rimanere insieme, per sempre.
Alice
e Jasper si erano allontanati non appena la decisione di partire aveva
preso
corpo nella mia mente. Due giorni prima del mio annuncio ufficiale.
Avevano
salutato gli altri mentre io non c’ero senza dare spiegazioni
dettagliate.
Lei
mi aveva scritto una lettera. Mi aveva assicurato che tutto sarebbe
andato
secondo i miei piani. Lei lo aveva visto.
E
mi diceva anche che mi voleva bene, che le sarei mancato ma che doveva
allontanarsi perché io non sapessi dove fosse,
così da non rendersi reperibile
da loro.
Già…
loro.
Unirmi
ai Volturi era il prezzo da pagare.
Sebbene
Bella non ricordasse nulla. Non potevo rischiare.
Sarei
andato a Volterra e lì avrei offerto la mia dote in cambio
della libertà di un
umana che non ricordava più nulla di loro.
Avrei
lavorato per loro e tagliato i ponti con la mia famiglia. forse li
avrei
sentiti di tanto in tanto, per telefono. Carlisle mi aveva promesso che
sarebbe
venuto a trovarmi, qualche volta. In fondo, lui e Aro erano comunque
amici.
Io
ormai mi ero già rassegnato. Avrei lavorato per loro per il
tempo necessario
poi, quando Bella fosse morta, l’avrei seguita.
Pensando
a queste cose la osservai salire in auto. Camminava bene. Non le doleva
più la
caviglia.
Ne
fui sollevato. Indossava la mia giacca e tra le mani aveva un libro.
“ Orgoglio
e pregiudizio ”.
Notai
che, dalla copertina, spuntavano i bordi di una foto. Si sedette sul
sedile
posteriore, essendo quello anteriore occupato da una borsa a tracolla.
Fui
tentato di seguirli fino all’aeroporto per guardarla
un’ultima volta ma capii
che non se avessi assecondato questo mio desiderio non avrei resistito
neanche
all’impulso di seguirla a Jacksonville.
Dovevo
essere abbastanza forte da controllarmi.
Charlie
mise in moto. Uscì dal vialetto e si immise sulla stretta
strada urbana. La sua
auto si allontanava sempre di più portando via Bella da me.
Poco
prima che svoltasse e svanisse, Bella si voltò di scatto e
puntò gli occhi
verso la foresta, nella mia direzione.
Il
suo sguardo penetrante parve insinuarsi tra gli alberi fino a
raggiungermi.
E
in quel momento distinsi chiaramente sulle sue guance le lacrime.
L’auto
scomparve ed io, frustrato, mi intrufolai nella sua camera, lasciandomi
pervadere dal suo profumo.
Notai
che aveva lasciato sulla sedia a dondolo alcuni vestiti che tanto a
Jacksonville non avrebbe utilizzato. Dei maglioni pesanti ed una
giaccia.
Rimasi
sdraiato nel suo letto a lungo, fino al ritorno di Charlie.
Quando
lo sentii chiudersi la
porta alle spalle e sospirare, capii che era giunto il momento di
andarmene.
Charlie, in preda alla nostalgia, pensava infatti di venire a dare
un’occhiata
alla stanza di Bella.
Come
un idiota, afferrai i
due maglioni e scappai, stringendoli a me.
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Capitolo 10 *** There's no way out of this dark place ***
Ok, sono le 4.46 di mattina del 19
aprile 2010. Invece di
sturiare per l’esame o dormire, ho scritto tutta la notte
questo capitolo. Lho
scritto di getto, trasportata dalla sacra ispirazione e, vi avviso,
è uscita
una cosa stranissima, totalmente inaspettata. Uno sviluppo della trama
totalmente non previsto determinato dalla mia serata trascorsa a
studiare
russo.
NB: io non studio lingue all’università.
È solo per
passione. Insomma, ho passato la serata ad analizzare una canzone
inquietante:
“Takogo kak Putin” una canzoncina insidiosa che ti
resta in testa e che fa
propaganda. Immaginate di chi parla!
Cmnq, a parte questo, AVVISO IMPORTANTE: questo cap è molto
crudo, oserei dire violento. Non tanto per quello che descrivo in
sé e per sé
ma per la tematica affrontata. Non è certo da rating rosso
ma volevo comunque
avvisarvi. Non uccidetemi.
Questo storia è… in un certo senso più
matura delle mie
precedenti e affronterò molti temi
“scottanti” che però, sfortunatamente,
fanno
parte della nostra quotidianità.
Cercherò di fare del mio meglio.
PS: ovviamente la storia avrà anche dei momenti
più
“rilassati” ma, nel complesso, a Bella ne
succederanno davvero di tutti i
colori… poverina. Dovrà cercare di essere forte.
Ciao e a presto.
Erika
23/05/10 Bene, sto postando. Spero proprio non mi lincerete.
Chiedo scusa in anticipo.
Baci e buona lettura!
Scusate se è un po’ più lungo del
normale. Non potevo
proprio dividerlo
PPS: Edward tornerà? e
Bella ricorderà? insomma, io non posso spoilerare e non
posso dirvi che Edward tornerà. sarebbe più
appropriato dire che sarà Bella a ...
Cap 9
There's no way out of this dark
place
Da questo luogo oscuro non
c’è via
d’uscita
< Bella, è
pronta la cena! Vieni che se no si
fredda. Noi non ti aspettiamo. > mi urlò Phil dal
piano di sotto. Il suo tono
era autoritario.
Controvoglia, mi alzai dal letto
e mi infilai le
ciabatte.
< Arrivo. > gli gridai di rimando aprendo la
porta. Andai a sciacquarmi il viso nel mio piccolo bagno, a destra
della mia
stanza.
La mia cameretta si trovava nella mansarda, di fronte
a quella che sarebbe stata del mio futuro fratellino. Al piano di sotto
c’erano
la camera da letto di Reneè e Phil, uno studio e un bagno.
Al piano terra c’erano la cucina con la sala da
pranzo, il salotto e un altro bagno. Questa villetta era molto carina.
Mi
piaceva. Cera spazio a sufficienza per mantenere le distanze. Mia madre
e Phil
erano troppo occupati a preoccuparsi della gravidanza per prendersi
troppa cura
di me. Il che era un bene. Non volevo essere sempre al centro
dell’attenzione. Certo,
erano sempre gentili e disponibili. Phil mi accompagnava e mi veniva a
prendere
dallo psicologo sebbene mi ricordassi perfettamente come si guidi. Mi
accompagnava persino in ospedale, due volte a settimana, per la terapia
e per i
controlli. Si erano impegnati per trovarmi un corso di musica (era
l’unica cosa
che mi sentissi di fare. Musica… avevo scelto di suonare il
pianoforte…) che
potessi frequentare in modo da non restare sempre a casa. Insomma,
cercavano di
tenermi impegnata. Non capivano quanto, nonostante tutto questo, mi
sentissi
sola.
Scesi le due rampe di scale e raggiunsi il piano
terra.
Mia mamma, con il suo bel pancione, mi sorrideva
seduta a tavola. Phil cucinava per noi. Certamente era più
bravo di Reneé.
Salutai entrambi. Lui portò in tavola il pane e
qualcos’altro.
Mi sedetti e cominciai a mangiare, non curandomi
troppo di cosa stessi mangiando.
< Allora Bella, com’è andata questa
mattina? >
Mi chiese Phil mentre portava in tavola il timballo.
< Bene. > risposi laconica. Non mi andava che si
intromettesse in questo modo nella mia vita privata. Quello che
succedeva dallo
psicologo non era affar loro.
< Non essere così scorbutica, Bella. Phil vuole
solo essere carino con te. > mi riprese mia madre.
< Non preoccuparti, Reneé… non importa.
Non lo fa
con cattiveria. > Odiavo quando Phil parlava come se io non
fossi presente.
Per di più mia madre gli dava corda!
< Grazie Phil. Sei così caro… >
< Ti amo. Tu sei la mia adorata panciona! >
E a quel punto li persi completamente, e loro persero
me. Cominciarono a parlare di quanto si amassero e di quanto fossero
felici
insieme e così via.
Mi venne la nausea.
Mangiai piano senza realmente assaporare il cibo. Avevo
mal di testa. Come sempre, da quando mi ero risvegliata.
Quando ebbi finito la mia porzione di timballo,una
voce seccata mi fece ritornare coi piedi per terra.
< vuoi anche il secondo? >
< No Phil, non preoccuparti. Non ho molta fame.
Anzi, adesso credo che andrò in camera a leggere qualcosa.
>
< Va bene. Io e Reneè andiamo al cinema dopo cena
quindi non aspettarci alzata. >
Annuii mentre mi allontanavo dal tavolo. Li sentii
ricominciare con le loro smancerie e mi affrettai su per le scale.
Mentre ero sdraiata a letto a fissare il soffitto,
Phil si affacciò alla mia porta.
< Bella? >
< Sì? >
< Noi usciamo. Ci vediamo domattina. >
< Va bene. >
Fece per andarsene poi però si bloccò e mi disse:
<
Ah, ricordati di prendere le tue medicine. >
< Sì, non preoccuparti. > Poi lo sentii
scendere
le scale a passo veloce. Rimasi in ascolto e, quando sentii la porta
d’ingresso
sbattere e la macchina partire, mi alzai.
Andai in bagno ed aprii il cassetto delle medicine.
Lì, in bella mostra, la mia scatolina con gli
antidepressivi.
Ne presi una compressa tra le dita. Rimasi a fissarla
a lungo. Ormai erano due mesi che le prendevo. Due mesi da quando avevo
lasciato Forks.
Ed erano passati ormai ventisette giorni dall’ultima
telefonata
di Edward.
Prendere quelle pastiglie non mi faceva sentire meglio
come avevo sperato quando avevo cominciato ad assumerle.
Sì, forse non facevo più tanti incubi, forse ora
avevo
meno paura del mondo e non mi mancava più l’aria
quando pensavo ai miei due
anni perduti però ero sempre e comunque triste e non mi
serviva a niente
parlare con lo psicologo o prendere quelle maledette e stupide pillole.
Improvvisamente,le mie dita mi parvero fatte di burro.
Non so cosa mi spinse a farlo ma mollai la presa sulla compressa e la
lasciai
cadere nel lavandino. Rimbalzò per qualche istante e poi io
aprii l’acqua. Vidi
la pillola venir
risucchiata e poi
inghiottita nell’acqua.
Mi sentii sollevata.
Mi osservai allo specchio e notai, sconcertata, che
stavo sorridendo.
Ad un’occhiata più precisa notai come
fossi… sciupata.
Cominciai a pettinarmi con delicatezza per sistemarmi
i capelli e poi mi misi una crema idratante sul viso.
Senza che ce ne fosse motivo, carica di un entusiasmo
immotivato, decisi di farmi la ceretta, poi mi feci una doccia calda
che
sciolse tutti i miei muscoli. Mi asciugai i capelli e poi li pettinai
di nuovo,
lentamente e con dolcezza, senza strapparli.
Passai un’ora abbondante nel bagno e quando uscii, mi
sentivo più padrona di me stessa.
Più consapevole di me.
Mi infilai il pigiama (ovvero la
mia amata tuta) e
andai a dormire. Sotto il lenzuolo, cercai di mantenere la calma
conquistata ma
questa non durò. L’inquietudine che sempre mi
assaliva nel momento di coricarsi
mi parve farsi ancora più acuta e ben presto mi accorsi di
tremare. Dentro di
me sentivo freddo ed una sensazione di vuoto tanto opprimente da essere
soffocante.
Andai a prendermi una coperta sebbene non facesse freddo lì
a Jacksonville. Il
mio tremore non era certo determinato dalla temperatura.
Sapevo che quella era solo una reazione psicosomatica
e che non potevo stare così perché non avevo
preso la pillola. Ero solo una
questione psicologica.
Mi raggomitolai su me stessa cercando di lasciar fuori
dalla coperta soltanto la testa. Cercai di eseguire gli esercizi di
respirazione che mi aveva insegnato Carlisle e, poco alla volta, mi
calmai.
Chiusi gli occhi e cercai di focalizzare la mia
attenzione su qualcosa di piacevole.
Il mio pensiero corse ad Edward. Sapevo che mi facevo
solo del male in quel modo. Dovevo cercare di non pensare a lui,
proprio come
lui non pensava più a me.
Di questo ne ero certa.
Avevo contato prima le ore, poi i giorni, infine le
settimane dalla sua ultima, veloce telefonata.
Mi era arrivata una cartolina però.
Mia mamma, leggendola, aveva commentato: < Che
pensiero gentile. È proprio carino a ricordarsi di te.
>
Io avevo annuito cercando di non far notare il mio
dolore. Mentre riponevo la cartolina però avevo notato come
mia madre avesse
abbracciato Phil che, prontamente era corso a sostenerla.
Lui l’aveva accompagnata in camera loro senza parlare
e poi, aveva chiuso la porta.
Senza farmi notare li avevo seguiti. Seduta sulle
scale sentii chiaramente Reneé piangere e Phil tentare di
consolarla. Avrei
pianto anche io, se solo avessi saputo per cosa.
Quel ricordo mi fece contrarre lo stomaco.
Ero così… così… adirata.
Con un calcio allontanai la coperta e mi alzai in
piedi. Strinsi i pugni e feci quello che il mio corpo mi chiedeva.
Urlai. Urlai più forte che potei. Afferrai il cuscino
e lo sbatti contro all’armadio poi lanciai anche la coperta.
Continuavo ad
urlare camminando per la stanza. Erano grida catartiche, di liberazione.
Crollai in ginocchio portandomi i pugni sul capo.
Urlai. Urlai fino a sgolarmi, fino a non aver più
fiato nei polmoni.
Urlai finché le
lacrime non mi inondarono il volto e bagnarono il parquet.
Mi ritrovai sdraiata per terra,
tra le lacrime, a
singhiozzare. il viso bagnato. Dovevo soffiarmi il naso. Avrei voluto
avere
Edward vicino in quel momento, come in ogni altro.
Mi faceva male la testa. Mi girai supina. Osservai il
soffitto in silenzio per qualche istante e poi, di nuovo in preda alla
rabbia
ricominciai ad urlare. Incavolata nera, alzai il braccio destro e
battei il
pugno sul pavimento con tutta la forza che avevo in corpo.. Un rumore
assordante. Poi il dolore, acuto e lancinante. Mi faceva male la mano.
< Merda. > sussurrai. Non pensavo che mi sarei
fatta male. Poggiai il polso sul mio petto. Il dolore si era acuito.
Con le lacrime agli occhi mi portai a sedere ed
esaminai la mano stretta ancora in un pugno. Sembrava tutto a posto.
Mi misi in piedi poggiando il peso sull’altro braccio.
Ero un disastro. Riuscivo a farmi male in tutti i modi possibili ed
immaginabili.
Andai in cucina e misi del ghiaccio sul polso
incriminato. Fu una bella sensazione.
Stranamente, la sensazione del
freddo del ghiaccio
(ovviamente dentro un sacchettino e poi avvolto in un panno) sulla mia
pelle mi
faceva sentire bene. Mi trasmetteva pace e tranquillità. Non
so perché ma mi
ricordava Edward. In effetti, le sue mani erano sempre fredde. Era un
particolare che non mi era sfuggito. Più volte ero stata sul
punto di
chiedergli se per caso fosse malato ma mi ero sempre trattenuta, nel
timore di
offenderlo.
Con il polso ancora dolorante e
sempre a contatto con
il ghiaccio andai in sala per guardare un po’ di TV.
L’accesi e mi resi conto che era presto. C’era il
notiziario delle 8.00.
Da quando vivevo a Jacksonville andavo a letto
prestissimo. Effettivamente, da quando ero l’ì non
è che facessi un granché.
Psicologo, ospedale, corso di musica, letto… wow, che vita
emozionante.
Seduta sul divano cercai di concentrarmi sulle
notizie.
Cinicamente, dissi tra me e me con finto entusiasmo:
< Vediamo un po’ chi è morto oggi o dove
siamo andati a far la guerra questa
settimana. >
Guardai i telegiornali svogliatamente mentre il dolore
al polso non sembrava assolutamente scemare,anzi, sembrava aumentare.
Lo
sentivo pulsare. Faceva un male cane. Cercai di ignorare quel dolore.
In
ospedale ero stata molto peggio. E poi, se lasciavo il braccio immobile
non
sentivo dolore. Questione di qualche ora e mi sarebbe venuto un livido.
Fine
della storia.
Senza accorgermene credo che mi
addormentai dal
momento che, improvvisamente, mia madre mi svegliò con un
mezzo urlo.
< Tesoro! Mio Dio ma cosa
ti è successo? >
Intontita, sbattei le palpebre. La TV era accesa ed io
ero accoccolato sul divano, la mano infortunata, stretta sempre nel
pugno,
poggiata sul petto.
< Mamma? > sussurrai inebetita e con la voce
impastata.
< Tesoro, ma cos’è successo? >
Mi ripresi un pochino e notai che fissava la sacca del
ghiaccio e il panno che, mentre dormivo, erano caduti a terra.
< Oh, non è niente… sono solo…
caduta… > cercai
di giustificarmi imbarazzata. Phil, che fino a quel momento era rimasto
in
silenzio. Sbuffò e si chinò su di me. Sembrava
adirato sebbene cercasse di
mascherarlo.
< Sei caduta? > la sua voce era asciutta e
seccata.
< Sì? >
< E cos’hai picchiato? Cos’è che
ti fa male? >
< Il polso. > gli sussurrai. Sapevo che, come
allenatore, di traumi se ne intendeva.
< Dai, fammi vedere. >
< Non è niente. > cercai di svicolare io ma
lui,
proditoriamente, mi afferrò la mano.
Cercò di farmi distendere le dita ed io gridai. Quasi
ci provasse gusto, mi afferrò le dita e mi costrinse a
distendere il palmo
nonostante io gridassi e cercassi di divincolarmi.
< Mhm… >
< Pensi sia grave? > chiese mia madre ansiosa.
< Beh, ne ha viste di peggio. Ma temo che dovremo
andare all’ospedale. >
< Oddio, vado a preparare la macchina. >
Sia io che Phil, contemporaneamente, le dicemmo: <
No! > ma per due motivi diversi.
Lui non voleva che lei si affaticasse, io non volevo
andare all’ospedale.
Alla fine vinse Phil, in tutti i sensi. Convinse Reneé
a restare a casa e a bersi una tisana mentre lui trascinava me al
pronto-soccorso.
In auto, quando ormai eravamo già lontani da casa, mi
colse di sorpresa con una voce gelida che mi fece gelare il sangue
nelle vene.
< Isabella. > sussurrò senza voltarsi per
guardarmi.
Non risposi, sorpresa dal tono della sua voce.
< Isabella, devi smetterla di comportarti come una
mocciosa. > Incredula, rimasi a fissarlo. Vidi i pugni stretti
intorno al
volante. Stava tremando, di rabbia.
< Devi piantarla. Ormai sei adulta. Hai diciannove
anni. Possibile che ti comporti ancora come una bambina. Fai attenzione
a quel
cazzo che fai. Possibile? Appena dimessa dall’ospedale, di
sloghi la caviglia e
adesso… questo! Ti lasciamo sola un minuto e tu ti fratturi
il polso? Sai che
fatica ho fatto per convincere Reneé a lasciarti da sola? Ti
rendi conto che
sono più di due mesi che io e lei non passiamo qualche
momento solo tra noi. Ci
sei sempre tu in mezzo!
Io la capisco, sei sua figlia e ti vuole bene. Ma così
non può andare avanti. Lei si sta uccidendo di
preoccupazione a causa tua!
Anche l’incidente. Se tu fossi stata più attenta
tutto questo non sarebbe
successo e tu ora saresti fuori dai coglioni quel riccastro di Cullen.
E non ci
stresseresti l’anima con le tue paturnie adolescenziali. Tua
madre è incinta.
I.N.C.I.N.T.A. di mio figlio. E non voglio che si rovini la gravidanza
a causa
della tua stupidità.
Mi va bene averti in casa, prendermi cura di te e
tutto il resto ma sappi che lo faccio solo perché me lo ha
chiesto lei. È stata
lei ha chiedermi di essere carino con te e io lo sono,
perché la amo e voglio
che sia felice. Punto. Non lo faccio per te. e sappi che, quando
sarà nato il
bambino, non ti permetterò di rovinarci la vita. Tu sei la
sorella, ed è giusto
che stiate insieme, un po’. Ma mi aspetto che tu, il prima
possibile, parta per
il collegge. Con tutti i soldi che ti ritrovi adesso, sono certo che
potrai
comprarti una casa ovunque tu voglia. Se vorrai venire da noi per le
vacanze o
qualche week-end, per me è ok, ma fa il favore di crescere e
di farti una vita
tua lontano da noi.
Non ti voglio tra le palle vita natural durante.
Ti ricordi perché te ne eri andata a vivere in quel
lurido cesso di Forks? Eh? Almeno questo te lo ricordi?
Perché non volevi
compromettere la nostra vita
matrimoniale.
Ecco, l’unica scelta minimamente intelligente della
tua vita. Andare a vivere con quell’ottuso di tuo padre.
Reneé ha proprio fatto
uno sbaglio quando lo ha sposato. Quello è stato uno
sbaglio, proprio come lo
sei stata tu. avrebbe dovuto abortire. Si sarebbe risparmiata una
miriade di
problemi e non sarebbe stata costretta a mantenere i rapporti con
Charlie. tu
sei stata solo un intralcio nella sua vita. >
Piangevo. In silenzio piangevo mentre le sue parole
insensate affondavano nella mia carne lacerandomi. Quello che aveva
detto era
vero. Ero un peso, uno sbaglio. Se non fossi mai nata sarebbe stato
meglio per
tutto. Ero un errore…
Mi sentii inutile e desiderai tanto poter nascondermi
nel petto di Edward.
Senza dire altro, Phil parcheggiò davanti al
pronto-soccorso.
Si staccò la cintura ed era già con la portiera
aperta
quando, con voce acida, mi disse: < Che vuoi? Perché
non ti muovi. Voglio
tornare a casa il prima possibile. Pensi che mi piaccia stare qui a
perdere
tempo con te? >
< Stronzo. > sussurrai con le lacrime agli
occhi.
< Che hai detto? >
< Ho detto che sei uno stronzo. > Gli gridai tra
i denti.
Per un attimo non ci vidi più.
Sentii il suono
dell’impatto del suo palmo sulla mia
guancia e poi la testa cominciò a girarmi. Sbattei le
palpebre e, tra i tanti
coriandoli dorati che danzavano davanti a me, intravidi Phil, il volto
viola
per la rabbia.
Mi urlò: < Non permetterti mai più di
rivolgerti a
me in quel modo. Mi devi rispetto. Capito? >
Alzò la mano pronto a colpirmi di nuovo. Io di rimando
gli gridai: < Vaffancu... >
Ma lui mi colpì di nuovo, impedendomi di terminare.
Sentii il capo sbattere sullo schienale.
Il colpo mi aveva colpito in pieno il viso. La pelle
bruciava. L’avevo sentita lacerarsi là dove lui
portava la fede.
Tenni gli occhi chiusi ma ciò non impedì alle
lacrime
di scivolare, veloci ed abbonanti, lungo le mie guance. Mi rannicchiai
su me
stessa con il polso dolorante stretto al petto.
Lo sentii sbattere la portiera. Sussultai impaurita.
Poi sentii la portiera del passeggero aprirsi e lui mi
afferrò il braccio sano,
costringendomi ad uscire.
Con voce irata mi disse: < Non frignare.
Non sei mica una mocciosa. Se ti
avessero dato qualche manrovescio in più da piccola ora non
saresti la stupida
irresponsabile che sei. > Mi squadrò e poi aggiunse:
< Non ti posso
portare dentro così. Penserebbero che ti ho picchiata.
Dovremo aspettare che…
>
Questa volta fui io ad impedirgli di terminare
dicendogli: < Perché? Tu cosa hai fatto? Mi hai
picchiata.
Appena
torno a casa lo dico a Reneè che razza di bastardo sei.
vediamo se non ti
lascia. >
Mi arrivò un altro ceffone così forte da farmi
barcollare. Dovetti appoggiarmi alla macchina per non cadere a terra.
Sentivo
le gambe tremare.
< Non provarci nemmeno o giuro che è la volta che
ti pesto sul serio. Hai capito? >
< Hai ragione. Non lo dico solo a Reneé. Io ti
denuncio direttamente! > gli gridai ormai fuori controllo.
La sua mano si abbatte su di me, prendendomi la
guancia e l’orecchio. Mi colpì così
forte che caddi carponi davanti a lui.
Aveva molta forza nelle braccia, da bravo giocatore di
Baseball.
Ansimavo mentre sentivo l’orecchio pulsare e
fischiare. Le guance erano in fiamme. Mi obbligò ad alzarmi
e, sbattendomi
contro l’auto, avvicinò il suo volto al mio. Mi
sussurrò: < Tu non dirai
niente a nessuno. Hai capito. >
Mi afferrò la mano ferita, stringendola con forza.
Urlai accecata dal dolore e, se lui non mi avesse costretto a restare
in piedi,
sarei caduta a terra per il male. mi lasciò la mano e mi
afferrò il collo, ed
io cominciai ad ansimare. Mi mancava il respiro.
Sussurrò: < Resterà una cosa tra te e me.
Chiaro?
Altrimenti giuro che ti pesto a sangue. > Alzo ancora una volta
la mano ma
io, piagnucolando e cercando di coprirmi il volto con il braccio sano,
lo
implorai: < No, va bene. Non lo dico a nessuno. Ho capito. Ho
capito. Non è
necessario. Non è necessario. > Avrei voluto chiedere
aiuto ma il parcheggio
era deserto. Per un istante sperai di vedere arrivare Edward sulla sua
volvo
argentata e sterzare di colpo. Assurdo.
Mi lasciò andare e mi
trascinò in un bagno pubblico.
Mi costrinse a lavarmi il viso. Notai i segni rossi delle sue dita
impressi
sulla mia pelle. Le sue impronte delle sue dita formavano una striscia
sul mio
collo. Non riuscivo a smettere di piangere. Il taglietto sulla guancia
sanguinava. Mi pulii con una mano sola, facendomi scorrere
l’acqua sul viso.
Dopo un quarto d’ora, quando ormai i segni rossi se ne
erano andati, Phil mi afferrò per la manica e mi costrinse a
seguirlo fino al
pronto-soccorso. Il taglietto non sanguinava più ma era
ancora ben visibile.
Lui ne era contrariato. < Se ti chiedono qualcosa, quello te lo
sei fatta cadendo.
>
Non risposi e lui alzò la mano, aperta, in segno di
minaccia. Mi affrettai ad annuire mentre ancora piangevo.
L’odore d’ospedale mi
chiuse lo stomaco. Avrei voluto piangere ma avevo paura.
Nella mia testa continuavo a gridare: < Edward,
aiutami. Edward… >
Aspettammo a lungo
(c’era una discreta fila) e mia
madre chiamò più volte. lui era gentilissimo. Le
sussurrava smancerie
rassicurandola e dicendole che stavo bene. L’ultima volta
lei, apprensiva,
volle però parlare con me lo stesso. Lui, contrariato, me la
passò fulminandomi
con lo sguardo.
< Bella, piccola, come stai? > < Bene, non
preoccuparti. Tra poco è il nostro turno. Tra poco saremo a
casa. Ci vediamo
dopo. > < Sì. Va bene. Ah, piccola, ricordati
di dire al dottore
dell’incidente. Quello è lo stesso braccio che ti
eri rotta. > < Sì lo
so, non preoccuparti. Ora ti passo Phil. Vuole parlare con te. >
sussurrai
cercando di non lasciar trapelare niente dalla mia voce incerta e
tremante.
Parlarono ancora per qualche minuto e poi nella
saletta calò di nuovo il silenzio.
Alla fine fu il nostro turno. Avevo ancora le lacrime
agli occhi. Sperai che il medico credesse che fossero dovute al dolore
al
polso.
Phil insistette per entrare con me.
Fu lui a parlare per primo: < La mia figliastra si
è fatta male cadendo. Temo si sia rotta il polso. Ne vedo
tanti così
all’allenamento. > Io mi limitai ad annuire, a capo
chino. L’ortopedico
confermò i miei timori.
< Signorina, temo che lei si sia fratturata lo
scafoide. Ovviamente, per essere sicuri, servirà la
lastra…> Passò dieci
minuti illustrandomi cosa fosse lo scafoide e a spiegarmi la terapia.
Avrei
dovuto tenere il gesso per quaranta giorni. Di nuovo. Dopo circa
un’ora,
appurato il danno, il dottore mi sistemò la mano
strappandomi un urlo di
dolore. Poi, mentre stava per montare il gesso, insistette per rimanere
solo
con me e, nonostante Phil non fosse d’accordo, alla fine
dovette cedere. Quando
fummo soli, mentre il gesso si asciugava, il dottore mi
domandò: < Isabella,
se hai qualcosa da dirmi, io ti ascolto. Ho guardato la tua cartella e,
a parte
l’incidente d’auto, sei stata ricoverata spesso e
hai riportato numerose
fratture nel corso del tempo. Molte, per una ragazza giovane e sana.
> Mi
fissava ma io tenevo sempre il capo chino. Mi costrinse ad alzarlo e mi
disse:
< Se sei stata maltrattata, devi denunciare. >
< Non sono maltrattata. La mia vita è fantastica.
> In effetti, prima di quella sera, nessuno mi aveva mai toccata
con un
dito. E tutte quelle fratture erano tutte merito mio. Quindi, quella,
era la
verità in un certo senso.
< e questo taglio? > domandò inquisitorio.
< Anche quello me lo sono fatta cadendo. Non deve
preoccuparsi per me. Adesso posso andare? >
Lui mi fissò per nulla convinto ma poi fu costretto a
dirmi: < Sì. Torna tra quaranta giorni per togliere
tutto. Se hai problemi,
di qualunque tipo, chiamami. io sono il dottor Barnacle. Chiedi pure di
me.
> la sua voce era strana. Preoccupata. < Ricordati di
passare in
accettazione a firmare le carte per la dimissione. E non sforzare il
braccio,
intesi? Se senti dolore, prendi degli antidolorifici. Hai
l’elenco di quelli
che puoi assumere insieme agli psicofarmaci. >
< Sì. Grazie, dottore. > gli dissi prima di
affrettarmi ad uscire. Sentii il suo sguardo seguirmi.
Trovai Phil davanti
all’ingresso. Mi aspettava.
< Allora? >
< Allora cosa? > gli chiesi senza particolari
inflessioni nella voce.
< Che ti ha detto di così privato? >
< Mi ha chiesto se fossi stata maltrattata. >
gli risposi sincera, sperando di fargli paura.
Lo vidi illividire e capii che la mia non era stata
una grande idea.
< E tu che gli hai detto? >
< Che non era così. Sono brava a mentire. > E
senza aggiungere altro salii in macchina.
Tornammo a casa nel più completo silenzio. Solo quando
aveva già parcheggiato nel garage, un attimo prima che
aprissi la portiera, afferrandomi
di nuovo per il collo mi sibilò: < Non dire niente a
nessuno o giuro, e dico
sul serio, che ti pesto a sangue. Io sono una brava persona. Nessuno ti
crederebbe se tu mi denunciassi. Crederebbero tutti che ti eri
inventata tutto
o che avevi avuto delle allucinazioni. Anzi, sai cosa faccio? Ti
ammazzo di
botte e poi nascondo il tuo corpo in una schifosa palude. Potrei dire
che ti
sei persa, che soffri di amnesia, che deliravi e che sei scappata di
casa, confusa.
Ti cercherebbero senza riuscire a trovarti e nessuno penserebbe a me.
>
Rimasi in silenzio, terrorizzata dalle sue parole. Lui
capì che avevo paura e rincarò la dose:
< Il tuo
corpo finirebbe mangiato dai coccodrilli e nessuno ti ritroverebbe mai.
>
Se voleva spaventarmi, ci era riuscito benissimo.
Singhiozzai e promisi: < Non dirò niente a nessuno.
Te lo giuro. >
Mi carezzò la testa e poi disse: < Brava. Vedi che
se vuoi sai essere una persona responsabile? Ora va in casa e fila in
camera
tua. Non ti voglio più vedere fino a domani. >
Obbedii senza fiatare. Arrivata
in camera, mi chiusi
dentro a chiave. Sentii Phil parlare con mia madre. Le stava spiegando
quello
che aveva detto il dottore e lei scoppiò a piangere. Da
quando era incinta, a
causa degli ormoni, aveva il pianto facile.
Sperai che Phil l’indomani non me la facesse pagare
per quel pianto e, piangendo a mia volta, mi nascosi sotto la coperta,
rannicchiata a letto. Il viso mi bruciava ancora, là dove
lui mi aveva colpita.
Mi sentivo umiliata, fragile e sola. Tanto sola. Nascosi il volto sotto
il cuscino.
In quel momento vidi il cellulare, che avevo
dimenticato sul comodino, lampeggiare. Lo presi e mi accorsi che
c’erano
ventuno chiamate senza risposta. Riconobbi il numero. Edward.
In quello stesso istante, il
telefonino vibrò. Senza
pensarci, in un gesto automatico, schiacciai il tasto verde per
accettare la
chiamata.
Avrei voluto dire qualcosa ma non
riuscii a fare altro
che gemere.
< Pronto? Bella? Ci sei? Bella? >
Mi schiarii la voce. < Sì, Edward. Ci …
sono. >
Mi dovetti interrompere a causa dei singhiozzi.
|
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Capitolo 11 *** It's a talent that I always have possessed ***
Lo so. Ci ho messo una vita a
postare…
Ho avuto esami da preparare (cavolo, sono terribili. Appena ne
dai uno, devi già prepararne altri due.) problemi vari ed
eventuali etc etc.
Non vi voglio tediare con le mie vacanze non troppo felici e
liquido tutto con un: speriamo l’anno prossimo vada meglio.
Sto ricominciando a scrivere dopo un periodo di pausa e, vi
avviso, le cose stanno prendendo una piega un po’ drammatica.
As always, il finale è già pronto. Sono i vari
particolari
che mi vengono in mente ad arricchire il nucleo centrale. Molto spesso
nascono
da “pezzi non riusciti che però mi piacciono e
riciclo”… non so se rendo l’idea.
Un grazie a tutte voi che con pazienza mi seguite.
Amo questa storia e spero possa piacervi ora che entrerà nel
vivo. Fra un po’ il ritmo si farà incalzante.
Buon Agosto!
Dedico questo capitolo a Francesca.
Grazie per tutto. Non era
mio diritto abusare così della tua disponibilità.
Sei stata davvero il mio BA.
It's
a talent that I always have possessed
È un talento che
ho sempre avuto
Edward’s
POV
< Edward, io chiamerei
Bella se fossi in te. >
< Carlisle, non voglio darle false illusioni. Voglio che mi
dimentichi del
tutto. >
< Alice mi ha telefonato. Si e rotta la mano tirando un pugno al
pavimento
in una crisi isterica. Anche Reneé mi ha telefonato sai? A
lei Bella ha detto
di essere caduta. Dovresti chiamarla. >
< Vedrò quello che posso fare. Adesso devo andare. Mi
raccomando, salutami
tutti. E se senti Jaz e Alice, salutameli tanto. Di ad Alice che le
voglio
bene. E abbraccia Esme. Dille che qui sto bene. Ah, mi raccomando, da
un bacio
in fronte a Rose da parte mia. Dai una pacca sulla spalla ad
Emmett>
< Non preoccuparti, anche noi ti vogliamo bene e ti pensiamo
ogni istante.
Cerca di riguardarti. >
< Sì. Ci proverò. >
< Quando posso richiamarti Edward? >
< Non saprei. Aro non è molto contento di queste
nostre telefonate. A meno
che non succeda qualcosa di grave, aspetta che sia io a richiamarti.
>
< Va bene. >
< Adesso devo andare. >
< Sì. Allora, a presto figliolo. >
< A presto. Scusami, Carlsile, per tutto… >
poi riattaccai.
Mi sistemai la mantella grigia
sopra ai miei abiti
scuri e poi riposi il telefono.
< Tutto bene? > mi domandò Gianna in italiano.
Sapeva che io lo parlavo
fluentemente.
< Certo > le risposi gelido, nel suo idioma. <
Grazie per avermi
passato la telefonata. >
< Oh, non preoccuparti. È stato un piacere. Se avessi
bisogno di qualcosa,
non esitare a chiedere. >
Mi fece l’occhiolino ma io mi limitai ad annuire, silenzioso.
Mi avviai lungo
il corridoio che, dall’ufficio di Gianna, portava alla sala
d’ingresso. Lì
imboccai il terzo corridoio a destra, quello dalle pareti di velluto
verde, e
lo percorsi per cento metri, aprii una porta nascosta e salii una rampa
di
scale. Mi ritrovai nella torretta dove Aro mi attendeva. Quella era la
sala da
lui destinata alla meditazione. Dalle piccole finestre si poteva
osservare la
città, le persone che, come formiche, si affrettavano per le
viuzze di quella
borgo antico.
Aro era seduto sul suo trono di
legno e avorio. Gli
occhi chiusi e il capo reclinato. Jane gli era accoccolata sulle
ginocchia e
pareva fargli le fusa. Sorrideva beata accarezzando il volto di Aro,
solcato
dai segni dei millenni che gli erano scivolati addosso.
< Edward, ragazzo mio. Allora? Chi ti ha cercato? > mi
domandò senza
mutare la sua posizione.
Non volevo parlare ad alta voce e quindi mi avvicinai. Gli porsi la
mano e lui
l’afferrò senza stupirsi del mio atteggiamento.
Lesse i miei ricordi e, senza
scompormi, mi domandò: < Vuoi telefonarle? >
< Non saprei. > risposi sincero. Che senso avrebbe avuto
mentire? Lui
conosceva già la risposta.
< Tu vuoi chiamarla. > questa volta la sua fu
un’affermazione. < Per
me va bene. Chiamala pure. Sei così passivo da quando sei
qui. Devo sopportare
tutta la tua sofferenza. Mi sentirei meglio se tu fossi un
po’ più sereno.
Telefonale. Ti do il permesso. >
Lasciò andare la mia mano. Chinai il busto in un inchino.
Feci tre passi
camminando all’indietro in segno di rispetto poi mi voltai e
ripercorsi la
strada che mi aveva portato alla torre.
Lungo le scale udii distintamente Aro,rivolto a me, pensare:
“ Quando avrai
finito, non tornare. Io e Jane saremo occupati per un po’.
Sai com’è, ragazzo mio.
A certi impulsi non si può imporre comando alcuno. Dovresti
soddisfare i tuoi.
Scegli la ragazza che più ti aggrada. Tutte ti si
concederebbero senza indugio.
E tu lo sai bene quanto me. Non logorarti l’animo con
quell’insulsa umana. Sei
il mio pupillo. Puoi avere tutto quello che vuoi. ”
Inghiottii quelle parole cercando
di mantenere la
calma.
Come se non mi fossi accorto di come tutte le vampire della sua piccola
reggia
mi guardassero. Probabilmente era stato lui stesso ad
istruirle.
Dovevano tentarmi, cercare di soggiogarmi, di farmi cedere. Il
più grande
desiderio di Aro era che mi innamorassi di una delle sue
“ragazze”. In questo
modo mi avrebbe tenuto legato a sé per sempre. La cosa
più seccante era che
quelle stupide oche erano pronte a sgozzarsi pur di infilarsi in camera
mia.
Erano così… bramose, sinceramente attratte da me
da rendermi la vita
impossibile.
La peggiore di tutte era Haidi. Sembrava
fermamente convinta di
potermi conquistare.
Sapevo inoltre che, oltre all’attrazione fisica nei miei
confronti, erano
interessate a me perché diventare la mia donna avrebbe
significato entrare
nelle grazie più sincere di Aro. Chiunque fosse riuscita a
conquistarmi avrebbe
avuto la gratitudine di Aro, e quindi sarebbe stata ricoperta di
privilegi. Insomma,
ero un ottimo partito.
Sbuffai a questa idea. Proprio in quel momento due giovani vampire
davvero
belle, che avanzavano nella direzione opposta alla mia, mi passarono
vicine
nello stretto corridoio. Stavano raggiungendo Aro per unirsi alle
“danze” come
le definiva lui. Sebbene la sua preferita fosse Jane, non disdegnava
certo la
compagnia delle altre ragazze.
Le due, in abiti succinti,
ridacchiarono quando i
nostri corpi si sfiorarono in un brevissimo contatto. Nelle loro menti
lessi la
speranza di avermi colpito. Le ignorai proprio come ignorai le loro
risatine.
Si affrettarono, correndo lungo il corridoio di pietra, scuro e freddo.
Oche. Ecco cos’erano. Stupide oche.
“non
uscire con la prima che te lo chiede.
Scegliti una in gamba. Le oche non fanno per te.”
Le parole di Bella mi
tornarono alla mente,
tormentandomi.
Lei. Lei faceva per me.
Affrettai il passo e raggiunsi il
corridoio dalle
pareti di velluto verde. Lo percorsi e raggiunsi lo studiolo di Gianna.
Lei fu
piacevolmente sorpresa di vedermi, di nuovo. Mi salutò
ammiccante e mi domandò:
< Allora? Posso fare qualcosa per te? >
< Sì. Dovrei usare il telefono. Il mio telefono. Devo
chiamare negli U.S.A.
>
< Certo, nessun problema. Adesso te lo abilito. >
Trafficò per qualche minuto con un cellulare.
Inserì la mia scheda e mi porse
il telefonino. Una delle clausole per il mio trasferimento a Volterra
era stata
proprio quella inerente ai contatti con il mondo esterno. Tutto doveva
passare
per l’“ufficio”. Ogni telefonata, ogni
lettera in uscita o in entrata doveva
essere annotata su un registro. Queste precauzioni valevano solo per
me. Aro
voleva tenermi sotto controllo. Gianna era stata ben felice di doversi
occupare
di questa mansione. Le avrebbe permesso di entrare in contatto con me.
Nei suoi
pensieri la vidi esaminare ogni parte del mio corpo visibile ai suoi
ottusi
occhi umani. La ignorai e composi il numero di cellulare di
Bella.
Non rispondeva. Rimasi quasi
un’ora nello studio di
Gianna tentando di contattarla. La segretaria pareva molto soddisfatta
dalla
mia presenza e non mi fece alcuna domanda.
All’ennesimo tentativo,
finalmente rispose. Sollevato,
feci per parlare ma la sentii gemere.
Preoccupato, le chiesi: < Pronto? Bella? Ci sei? Bella? >
Lei tentò di schiarirsi la voce e poi cercò di
parlare. < Sì, Edward. Ci …
sono. > ma si dovette interrompere a causa dei singhiozzi.
< Bella, piccola. Calmati, ti prego. Ti prego. Cerca di
respirare. >
< Sì… scusami. Che figura…
> cercò di ricomporsi ma la sentii soffiarsi
il naso.
< Bella? Cos’è successo? Mi ha telefonato
Carlisle. tua madre gli ha detto
che sei caduta e che ti sei fatta male alla mano. >
A Bella morì il respiro in gola. < Cosa?
Reneé ha telefonato a Carlisle?
Oddio! > stava per perdere il controllo.
< Bella, calmati. Non è successo niente…
> Lei, dall’altro capo del
telefono, piangeva sommessamente. < Bella, per favore, vuoi
dirmi che
diavolo è successo? > Attesi finché lei
non fu in grado di nuovo di parlare.
< Sono scivolata. Ho picchiato la mano. Il dottore mi ha detto
che mi sono
fratturata un osso. Devo portare il gesso per un
po’… >
< Quale osso? >
< Oh… ehm… non mi ricordo. È
scritto sul referto. Mi pare centrasse con le
barche… Scafo-qualcos’altro. Scafino? Scafetto?
>
< Scafoide? >
< Sì. Ecco. Quello. > Diamine.
Possibile che non riuscisse a non
farsi male.
< Quaranta giorni di gesso. > constatai e lei
sospirò: < Già. >
Adesso non singhiozzava quasi più. Ogni tanto la sentivo
però soffiarsi il
naso. Sicuramente stava ancora piangendo, in silenzio.
< Bella? >
< Sì? >
< Vuoi dirmi perché piangevi prima? >
La sentii trattenere il respiro per alcuni istanti. Poi, cercando di
mantenere
la voce ferma, disse: < Mi faceva male la mano. >
< Sei sicura? Sai che mi puoi dire tutto. >
< Che senso avrebbe? Tanto tu sei lontano migliaia di
chilometri! A che cosa
servirebbe? Tu non puoi farci niente! > stava quasi urlando.
< Bella? Non dire così. Parlamene, ti prego. Cosa
succede? >
< Per parlare c’è già lo
psicologo. Se ti interessava così tanto, non mi
avresti respinta a quel modo. Ed io, come una stupida…
> ricominciò a
piangere. Era adirata con me. Come potevo darle torto? Oltretutto,
soffriva. Ma
non voleva confidarmi il motivo. Avrei voluto esserla vicino ed
abbracciarla.
< Per favore, non pensare queste cose. Io ci tengo che tu sia
felice. >
< Ah sì? > mi domandò acida, poi
rimase in silenzio. Dopo qualche minuto
in cui la lasciai piangere, mi disse: < Scusami. Non dovevo
dirti quelle
cose. Non te le meriti. Sono proprio una cretina. Mi dispiace. Tu non
hai colpe
in tutto questo. È solo colpa mia… solo colpa
mia. >
< Bella, mi dici cos’è successo? >
la mia voce, calma e suadente,
mascherava il mio stato d’animo. Stavo impazzendo di
angoscia.
< Non è successo niente. io e Phil abbiamo litigato.
Tutto qui. >
Phil. Nei giorni trascorsi a Forks avevo analizzato i suoi pensieri.
Non
apprezzava molto Bella. La considerava una sorta di intralcio nella sua
relazione con Reneé. Temeva che tramite Bella, sua moglie
potesse riavvicinarsi
a Charlie. Ma a parte questo, Bella gli era indifferente. Amava
però Reneé
abbastanza da sopportarne la figlia. Non pensavo però che
avrebbero litigato.
Credevo che lui avrebbe assecondato sua moglie e sarebbe stato gentile
con
Bella.
< Perché avete litigato? >
< Mah… perché sono sbadata. Lui mi
ha… mi ha… > la sua voce tremò
e poi
lei cominciò a singhiozzare di nuovo.
< Bella, cos’è successo? > sentii la
rabbia diffondersi nel mio corpo. Se
le aveva torto anche solo un capello lo avrei fatto a pezzi con le mie
mani.
< Cosa ti ha fatto? > La mia voce era dura e tagliente.
Lei sussultò alle mie
parole e capii di aver colto nel
segno. Sentii i miei muscoli tendersi.
< Lui mi ha… mi ha… > non riusciva
a terminare la frase.
< Bella, io ti vengo a prendere. Qualunque cosa ti abbia fatto,
non avere
paura. Ti riporto a Forks. >
< No! > gridò lei terrorizzata. < Non
devi. Lui mi ha solo… sgridata,
ecco. Mi ha rimproverata. >
Non le credetti. La conoscevo troppo bene. < Menti.
Non vuoi dirmi la
verità. >
< E tu che ne sai? Senti Edward, basta. Non parliamone
più. Mi spiace di
averti fatto preoccupare. Speravo che tu non lo venissi neanche a
sapere. È
davvero una cosa da nulla. Sono caduta e mi sono fatta male. Phil ha
fatto bene
a sgridarmi. Io sono solo … un errore. >
< Bella, quello che dici non ha senso. Tu non sei un errore.
Cosa significa?
>
< Niente,intendevo dire che faccio sempre casini.Faccio
preoccupare sempre
tutti.Sono una frana. >
Non volevo che pensasse a sé in quei termini. Cercai di
portare il discorso su
un argomento che mi premeva molto. < Hai preso le tue medicine?
> Mi
sembrava troppo agitata.
< Sì. Le ho prese, non preoccuparti. >
< Ti fanno ancora venire sonnolenza? >
< Un po’. >
< Bella, io voglio che tu mi faccia una promessa. > le
dissi perentorio.
Lei non disse nulla.
< Mi devi giurare che mi telefonerai. Se succede qualcosa,
qualsiasi cosa,
tu mi devi telefonare, mandare un messaggio… ed io
verrò ad aiutarti. Me lo
prometti? Se non trovi me, puoi chiamare Carlisle, Esme, chiunque di
noi. E noi
verremo ad aiutarti. >
Lei esitò per qualche istante e poi, un po’
più rilassata, sussurrò: < va
bene. >
< Edward… >
< Sì? >
< Posso chiederti perché mi hai chiamato, oggi?
>
< Ero preoccupato per te. >
< Sì, ma perché oggi? Perché
non ieri, o l’altro ieri, o in uno qualsiasi di
questi ventisette giorni? >
< Perché Carlsile mi ha detto che eri finita in
ospedale con una frattura. >
Ridacchiò. < Quindi, se mi rompo
qualcos’altro, mi telefonerai ancora? >
< Non dire cavolate. Non provarci nemmeno. Ricordi cosa mi
promettesti prima
della mia partenza? >
< Mi hai fatto promettere un sacco di cose. > Sembrava
più serena.
< Lo sai a cosa mi riferisco. Avevi detto che avresti fatto
attenzione a non
farti male. >
< Sì. Lo so. Mi sei mancato. Tanto. > Avrei
voluto confidarle quanto lei
fosse mancata a me ma avrei solo peggiorato la situazione.
La sentii sospirare, imbarazzata. < Edward… >
< Sì? >
< Ti sto facendo spendere un capitale. >
< Non dire cavolate. >
< Senti, mi chiedevo se tu… potessi cantare un
po’… per me, al telefono.
Sono un po’ agitata e quello mi farebbe sentire meglio.
>
Sorrisi. Avrei voluto stringerla a me, cullarla, abbracciarla,
baciarla.
cantarle all’orecchio tutte le melodie che avevo composto per
lei. Ad ogni sua
parola il mio proposito di lasciarle vivere la sua vita lontano da me
vacillava
sempre di più. La volevo, la desideravo. Avevo il bisogno
fisico di lei. E lei
di me.
Non le risposi neanche, cominciando a canticchiare.
< Grazie. > sussurrò pianissimo e, dal tono
della sua voce capii che
sorrideva. La sentii sdraiarsi sul letto.
Quasi un quartodora dopo le chiesi: < Bella, ci sei
ancora? >
Ridacchiò. < Sì. Scusa ma mi ero
incantata. Sei proprio bravo,sai? E poi,
sentire la tua voce mi fa sentire così bene…
grazie. >
< Di nulla. Mi fa piacere sapere di aver potuto aiutarti.
>
Gianna, che aveva continuato a fissarmi incantata per tutto il tempo
(elaborando pensieri poco carini verso la destinataria della mia
canzone,cioè
Bella) ora scattò in piedi. Sentii Felix dietro di me.
< Bella, adesso devo andare. Mi dispiace. >
< Mi richiamerai presto? >
< Lo sai che in questo modo peggiorerei solo le cose. Io non ti
voglio dare
false speranze. Voglio che tu possa contare su di me, come amico. E che
tu ti
rivolga a me in caso di necessità. Per qualsiasi cosa. Anche
fra anni. Non
importa. Se avrai bisogno di me, io correrò da te, ma solo
se è per qualcosa di
importante. Ma non chiedermi di richiamarti presto. Per favore.
Dobbiamo
cominciare a vivere le nostre vite, indipendentemente l’una
dall’altro. >
O meglio, io avrei vissuto pensando costantemente a lei ma lei doveva
riuscire
a liberarsi del mio ricordo.
< Mi richiamerai, però. Vero? >
< Sì. Te lo prometto. E se tu dovessi avere dei
problemi, o avessi bisogno
di me, chiamami. lascia un messaggio in segreteria. Ti
richiamerò io. >
< Va bene. > sentii che si stava incupendo.
Felix, alle mie spalle, sbuffò.
< Bella, ora devo andare. Cerca di riposare. > In Florida
era notte, in
quel momento.
< Va bene. Grazie, di tutto. >
< Prego, anche se non ho fatto proprio niente. Dormi bene.
> prima che
riattaccassi la sentii mormorare “ ti amo ” a voce
così bassa che un umano non
l’avrebbe sentita. Quando ormai non c’era
più linea sussurrai: < Anche io. >
<
Allora, finito di fare il
fidanzatino al telefono? > Mi domandò sprezzante
Demetri. < Aro ci
attende. Stanno per raggiungerci degli ospiti e ti vuole al suo fianco.
Annuii e li seguii fino alle stanza di rappresentanza. Un’ala
del palazzo in
cui i Volturi accoglievano gli ospiti di riguardo. Entrai nel
più ampio dei
saloni di quella parte del palazzo.
Aro, Marcus e Caius erano seduti sui loro troni di legno con intarsi
d’oro e
madreperla. Questi troni erano poggiati su alti piedistalli che
facevano
apparire le loro figure ancora più imponenti.
Aro, seduto al centro, mi fece
cenno di avvicinarmi.
Mi inchinai e poi lo raggiunsi, nel mezzo della sala scarsamente
illuminata. Il
pavimento in marmo pareva riflettere i guizzi delle candele disposte in
migliaia di candelabri nella enorme stanza. Gli arazzi alle pareti
rappresentavano scene di balli, una dama con unicorno e una battaglia
sanguinosissima.
< Vieni, figliolo, vieni. Prendi pure posto qui, vicino a me.
>
Mi posizionai alla sua sinistra e gli porsi il palmo della mano, come
lui
voleva.
Con profondo disgusto lo vidi leggere tutto quello che io e Bella ci
eravamo
detti.
< Oh, Edward, Edward… sei ancora troppo innamorato di
quella insulsa umana…
come fare a farti cambiare idea? Vedrai, quando sarà morta
per te sarà tutto
più facile. La vita umana non è poi tanto lunga.
Fra al massimo settant’anni
sarà morta e tu sarai libero. E sono certo che non sentirai
nemmeno la sua
mancanza. È inutile che tu ora pensi di suicidarti. Sono
certo che fra
trent’anni non ti ricorderai neanche più di lei.
>
Alec annunciò che gli
ospiti stavano raggiungendo il
palazzo e Aro disse: < Ma adesso basta parlare di queste
quisquilie. Ragazzo
mio, mi raccomando. Sai quanto apprezzi la tua dote. Vaglia tutti i
loro
pensieri, intrufolati nelle loro menti. Temo che stringerò
la mano solo
dell’ambasciatore. Vorrei conoscere il più a fondo
possibile anche i pensieri
di tutti gli altri delegati. Concentrati e dimostrami la tua bravura.
>
Trasudava compiacimento mentre parlava. Da quando ero venuto a
Volterra, non
aveva fatto altro che gongolare. Pur di avermi lì aveva
accettato senza dir
niente le mie condizioni sulla vita di Bella. In fondo, per lui, quella
era
solo una insulsa umana…
< Edward! > la sua voce mi riportò
all’ordine. < Figliolo,
concentrati. >
< Sì, Aro. > e cercai di focalizzare la mente
sulla spaventata
delegazione russa che era venuta a far visita ai volturi.
La mantella grigia mi pesava
addosso più di mille
catene.
|
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Capitolo 12 *** Wake me up, I'm livin' a nightmare ***
Salve
a tutte, sto postando da una connessione offerta
gentilmente dalla regione autonoma del trentino, ascoltando De
Andrè (un malato
di cuore e Un medico)
Vi saluto sperando che la storia vi stia prendendo. Ho
scritto fino al cap 15-16.
Temo che sforerà nel rosso. Al max cambio il rating.
A puro titolo informativo, potete dirmi quante di voi,
essendo minorenni, non potrebbero più leggere la storia nel
caso divenisse
“rossa”.
Un abbraccio, buone vacanze!
Ps: non prendetevela a male se tratto Bella con tanta
crudeltà. Sarà ampiamente ripagata!
Cap 11
Wake me up, I'm
livin' a nightmare
Svegliatemi, sto vivendo
un incubo
Bella1s
POV
Osservai la pillola,
l’ennesima, vorticare nell’acqua
prima di sparire, inghiottita e risucchiata dallo scarico.
Era passato poco più
di un mese da quando avevo smesso
di prenderle. Quella era la trentaquattresima che finiva nello scarico
del
lavandino. Mi sentivo allo stesso tempo in colpa e fiera di me.
In colpa perché sapevo
perfettamente di star facendo
qualcosa di stupido che andava contro tutto quello che avrei dovuto
fare,
interrompendo una terapia volta al mio benessere psichico, fiera
perché in
questo modo dimostravo a me stessa di essere abbastanza forte da
liberarmi di
qualcosa che, me ne rendevo conto, mi impediva di essere del tutto
lucida.
Non lo avevo detto a nessuno.
Né alla psicologa, né al
mio dottore. Tantomeno a Reneé.
Avevo paura che mi obbligassero a
prenderle. Ero
terrorizzata di venir rinchiusa in uno di quei centri speciali dove ti
obbligano ad assumere i medicinali e dove ti rimbambiscono fino a
convincerti
che lo fanno per il tuo bene.
Non che prenderle fosse
così male. prima, quando ogni
giorno assumevo la medicina, tutto era un po’ più
semplice. Mi sentivo più
tranquilla. Le cose mi preoccupavano meno. Non sentivo la paura
assalirmi
all’improvviso, senza motivo. Però, avevo sempre
sonno. Mi pareva che i miei
riflessi fossero meno attivi. Non mi sentivo molto lucida, ero sempre
intontita
e poco recettiva.
Adesso, invece, mi sentivo molto
più padrona di me,
delle mie scelte, delle mie azioni… dei miei pensieri.
Certo, avevo attacchi di panico
improvvisi ma avevo
imparato a dominarli. Dovevo sdraiarmi se ne avevo
l’opportunità oppure andare
in un angolo tranquillo vicino ad una finestra aperta e concentrarmi
sul
respiro. Mi dovevo imporre di fare sospiri regolari. Non mi dovevo
lasciar
sopraffare dal mio corpo impazzito.
A volte mi capitava che mi
girasse il capo o che
avessi le vertigini. In quei casi dovevo sedermi e aspettare. Il mal di
testa
era ormai una parte integrante della mia vita.
Anche di questo non avevo detto
niente a nessuno.
L’unica volta che ne avevo accennato a Reneé, lei
si era preoccupata da morire.
Ci avevo messo mezz’ora per convincerla che non ero in punto
di morte.
Certo, adesso che non prendevo
più le pastiglie il
dolore per l’assenza di Edward sembrava più acuto
e bruciante. Più reale. La
paura e l’insicurezza che mi veniva dai miei due anni perduti
poi era diventata
quasi soffocante.
Sapevo che gli antidepressivi servivano anche a
questo, a tenere sotto controllo quel dolore…
Lo sapevo ma preferivo tenermi tutte le mie sofferenze
piuttosto che rimanere in quella nuvola di inesistente e fittizio
benessere
derivato dagli antidepressivi.
Avevo imparato a tenermi le cose per me. Mi evitato
moltissimi problemi in questo modo.
Insieme al mal di testa, mi tenevo per me anche il
comportamento di Phil. Da quella sera nel parcheggio
dell’ospedale, avevo
cercato di evitare ogni contatto con lui. Quando ci incontravamo per
caso,
tenevo il capo basso.
In questo modo però mi resi conto di avergli trasmesso
involontariamente un messaggio, quello sbagliato. Era convinto di
avermi
totalmente sottomessa. Sfortunatamente, mi accorsi presto che era
proprio così.
Non riuscivo a tenergli testa, a reagire. Davanti a Reneé,
non aveva mai detto
niente di sgradevole nei miei confronti ma, se lei era a distanza tale
da non
sentire, non perdeva occasione di rimproverarmi, di farmi notare quanto
fossi
pigra, inutile…
E per due volte mi aveva
picchiata.
La
prima volta, mentre mia madre riposava sulla
poltrona in salotto, avevo fatto cadere dei piatti che,
nell’impatto con il
pavimento, si erano frantumati in migliaia di pezzi che erano schizzati
per
tutta la cucina in un frastuono assordante.
I piatti mi erano scivolati dalle mani come se queste
fossero fatte di burro.
Non ero riuscita ad impedire che cadessero. La mia
mano era ancora ingessata. Non ero molto libera nei movimenti.
Mia madre si era svegliata di colpo, spaventata dal
rumore improvviso, e aveva avuto delle contrazioni. Phil aveva fatto
venire il
dottore a casa e, dopo aver appurato che Reneè e il bambino
stavano bene, mi
aveva fatto una scenata terribile. Mia madre era in camera loro in quel
momento
e non poteva sentirci perché ascoltava la musica per
rilassarsi.
Phil mi gridò dietro che ero un’irresponsabile e
che
non mi rendevo conto di quanto fosse precaria la salute di
Reneé.
Ad ogni occasione mi ripeteva che il mio incidente
aveva rischiato di compromettere la gravidanza di Reneé che,
e su questo non
c’erano dubbi, non era più tanto giovane e che
quel bambino era un piccolo
miracolo. Un miracolo a cui lui non era disposto a rinunciare per colpa
della
mia stupida incapacità.
Quella volta poi, dato che era ormai entrata
nell’ottavo mese, avrebbe rischiato di avere un parto
prematuro, se le
contrazioni non si fossero fortunatamente fermate.
Avevo cercato di ribellarmi, di dirgli che era stato
un incidente, che ero dispiaciuta…
Lui aveva continuato a gridarmi dietro tutte le solite
cattiveria.
Esasperata, avevo reagito.
Gli avevo urlato che non poteva trattarmi così solo
perché
mi erano scivolati i piatti.
Gli avevo tirato dietro la prima cosa che avevo
trovato sul bancone della cucina in preda alla rabbia e alla
frustrazione per
il suo atteggiamento. Un mandarino.
Lui, colto alla sprovvista dalla mia reazione
inaspettata,reagì d’istinto.
Il primo colpo lo scansai ma lui mi afferrò per il
polso sano, impedendomi di scappare. Il secondo lo presi in pieno viso
nel
tentativo di divincolarmi.
Nel silenzio della cucina risuonò lo “ sciaff
” sordo
della sua mano sul mio volto.
Rimasi immobile per alcuni istanti poi, lentamente ,
mi portai la mano alla guancia dolente. Mi fissavo i piedi, incapace di
muovermi.
Era stato… umiliante.
Lui era rimasto a fissarmi per
alcuni minuti, continuando
a stringermi il polso con forza.
Mi sarebbe rimasto il livido. I segni sul collo ci
avevano impiegato una settimana a sparire, dopo l’incidente
del parcheggio.
Avevo portato un foulard per nasconderli.
Dopo circa un minuto avevo strattonato il polso per far si
che lui mi lasciasse ma lui strinse più forte. Capii che era
pronto a colpirmi
di nuovo e tesi tutti i muscoli del mio corpo in attesa del colpo, che
arrivò
proprio come mi ero aspettata. Poi mi lasciò andare il
polso. Mi tremavano le
ginocchia. Ero del tutto inerme. Indietreggiai fino a toccare il
frigorifero
con la schiena. Mi ero lasciata scivolare ed ero caduta in ginocchio.
Mi coprii il volto
sotto il suo sguardo accusatore. Serrai gli occhi e mi rannicchiai su
me
stessa.
Mi urlò: < Se le succede qualcosa, se succede
qualcosa a mio figlio, sta sicura che non te la lascerò
passare liscia! >
Tra i singhiozzi, cercai di normalizzare il respiro.
Quando riaprii gli occhi, lui se ne era andato.
Appoggiandomi al lavello mi rimisi in piedi. Ancora
tremante, raggiunsi il tavolo e mi sedetti sulla sedia. Scoppiai a
piangere
poggiando il capo tra le braccia incrociate.
Mi sentivo sola, inutile, sbagliata.
In quel momento mi chiesi se quello che Phil mi aveva
fatto, per la seconda volta, fosse un motivo abbastanza grave da poter
giustificare una telefonata ad Edward. Poi pensai che avrei dovuto
spiegargli
tutto. Mi vergognavo di me, della mia incapacità di reagire.
Sicuramente poi Edward
si sarebbe arrabbiato con me perché non prendevo le pillole.
Lui inoltre, avrebbe
detto a mia madre sia delle pillole sia di Phil. Lei ne sarebbe rimasta
sconvolta. Non volevo farla stare male, mettere in pericolo il mio
fratellino.
E poi, non volli neanche pensare a cosa mi avrebbe fatto
Phil…
No… non potevo chiamarlo. Mi alzai e corsi in camera
mia. Passando davanti alla loro stanza, sentii Phil dire a
Reneé che andava
tutto bene. Che non era successo niente. inghiottii la bile e corsi a
chiudermi
nella mia stanza a piangere.
La terza volta in cui aveva
alzato le mani su di me
era stata molto meno eclatante.
Mi aveva spintonato facendomi cadere per terra perché
io, invece che ascoltare le sue ennesime critiche, gli avevo voltato le
spalle
ben decisa a non ascoltarlo più.
Mi aveva colpito sulla schiena ed io ero caduta in
avanti ma, avendo ancora la mano ingessata, non avevo potuto mettere le
mani
avanti. Avevo picchiato la fronte su una gamba del tavolo.
Mia madre, entrando in sala e vedendomi con il volto
sporco di sangue, aveva costretto Phil a portarmi in ospedale per farmi
dare
dei punti. Era terrorizzata che avessi un trauma cranico. Inizialmente
temetti
che lui mi avrebbe picchiato ancora, una volta in auto, ma
Reneé insistette per
accompagnarmi anche lei. Mi godetti le sue carezze e i suoi abbracci
davanti
allo sguardo irato di Phil.
Perché quello che lui non avrebbe mai capito è
che io
ero figlia di Reneé e lei mi amava tanto quanto amava il
loro bimbo non ancora
nato. E lui, non poteva farci niente.
Quando finalmente mi medicarono, l’infermiera rise
vedendomi e facendomi sedere sul lettino.
< Signorina, lei è la nostra più
affezionata
cliente, sa? Abbiamo tolto il gesso solo ieri. >
< Già… è un po’
sbadata. > concordò mia madre
stringendomi in un abbraccio affettuoso.
Mi fecero fare delle lastre e, quando constatarono che
non c’erano danni, mi rispedirono in pronto soccorso per i
punti di sutura. Mia
mamma era adesso molto più tranquilla. Non faceva altro che
sorridere.
Mi venne la pelle d’oca quando però vidi che il
dottore che doveva darmi i punti era l’ortopedico che mi
aveva curato il
braccio. Evidentemente, era di turno in pronto-soccorso.
Guardò Phil, guardò me e poi guardò
Reneé.
< Signorina, era da un po’ che non ti facevi
vedere. Addirittura ventiquattro ore. Adesso ti faccio una piccola
anestesia e
poi ti metto i punti. >
Il suo tono sembrava scherzoso ma mi allarmò. Mia
madre sorrise vedendo che mi ero irrigidita.
< Bella, non avrai ancora paura degli aghi? Con
tutti gli esami che hai fatto? > e mi strinse a sé
per rassicurarmi. Io non
dissi niente. certo, gli aghi mi facevano paura ma adesso era dal
dottore e da
quello che avrebbe potuto dire che ero terrorizzata.
Lui osservò la mia ferita
e mi domandò con voce normale: < E questo come te lo
sei fatto? >
< è caduta contro al tavolo. > Rispose mia
madre
al posto mio.
Lui mi osservò ma io non alzai lo sguardo. Non volevo
guardarlo negli occhi.
< È così? Sei caduta? >
Io annuii. Lui non aggiunse altro ed esaminò meglio la
mia ferita. L’infermiera mi aveva lavato via tutto il sangue
e il taglio in
fronte era adesso ben visibile. Mi fece l’iniezione e presto
sentii tutta la
zona intorpidita.
< Bene, adesso devo ricucire la ragazza. Signora,
forse è meglio che aspetti fuori. Non vorrei che si
agitasse, sebbene sia una
cosa da nulla. >
Mia madre si alzò dalla sedia, mi baciò la
guancia e
poi disse: < Sì, ha ragione. Tutto questo sangue mi
ha fatto venire un po’
di nausea. Magari vado a prendermi una cioccolata al bar. Ti aspetto
lì, Bella.
Va bene? >
Le feci il segno “ O.K. ” con le dita e lei
ridacchiò.
< Vieni con me, Phil? >
< Preferirei restare qui. se si sente male, almeno
non sarà da sola. > ecco il punto. Non voleva
lasciarmi sola con il dottore.
Aveva paura?
< Non si preoccupi. > gli disse acido il medico.
< Ho una laurea in medicina. Se si sentisse male sarei
perfettamente in
grado di occuparmi di lei. >
L’infermiera lo guardò sorpresa dal tono di voce
velatamente aggressivo ma non disse nulla e andò
nell’ambulatorio affianco,
pronta a prendersi cura del prossimo paziente.
Phil, controvoglia, seguì Reneé e si chiuse la
porta
dell’ambulatorio alle spalle.
< Cadi spesso. >
Constatò il dottor Barnacle
quando restammo soli.
< Già. > risposi, sempre intenta a fissarmi la
punta delle scarpe.
Mi toccò la fronte ma non sentii le sue dita sulla mia
pelle.
< Direi che l’anestesia ha fatto effetto. Adesso
però, che tu lo voglia o no, devi alzare lo sguardo
perché altrimenti non posso
metterti i punti.
Senza dire niente, alzai il capo e, senza incrociare i
suoi occhi, mi misi a fissare il soffitto.
< Non sei una molto loquace, vero? > mi
domandò
mentre bucava la mia pelle con l’ago e cominciava a
ricucirmi. Feci per
asserire ma lui mi bloccò la testa con l’altra
mano.
< No, no. Non muoverti. Devi restare immobile. Se
vuoi rispondermi, dovrai parlare. >
< Non ho molto da dire. Tutto qui. Sì, è
vero. Cado
spesso. >
< Va tutto bene? >
< Sì. La mia vita è fantastica, ma questo
gliel’ho
già detto credo. >
< Come ti sei procurata questa ferita? >
< Sono caduta. >
< Tua madre adesso è al bar. Lui non
c’è e non può
sentirti. non è più il caso di mentire. >
< Io non mento. Sono davvero caduta. >
< Sei caduta da sola? > Domandò allora,
cercando
di penetrare le mie difese.
< Sì. Sono inciampata nel tappeto e sono caduta.
>
Rimase in silenzio e sentii il suono del filo che
passava attraverso la carne, sentii i nostri respiri.
< Ecco. Ho finito. I punti si riassorbiranno da
soli. Se senti dolori, vertigini o per qualsiasi problema,torna in
ospedale.
D’accordo? >
< Sì. Grazie. > Mi aiutò a scendere
dal lettino
e controllò come camminassi.
< Isabella… > mi disse mentre afferravo la mia
borsa e la felpa.
< Sì,
dottore? >
< Non aspettare che sia troppo tardi. So che non è
facile, ma non puoi lasciare che ti venga fatto del male. >
< Non capisco a cosa si riferisca. Comunque,
grazie, per tutto. Spero di rivederla fuori da queste stanze asettiche
la
prossima volta. > gli dissi sulla porta.
< Me lo auguro anche io. Riguardati. >
Io annuii e mi chiusi la porta alle spalle.
Non andai subito al bar. Prima
passai dal bagno e
notai che non il taglio era meno grave di quanto non mi fosse sembrato
all’inizio.
Durante il
viaggio di ritorno rimanemmo tutti silenziosi . mamma aveva insistito
per
sedersi dietro con me. Phil guidava tenendo gli occhi fissi sulla
strada.
L’atmosfera era carica di tensione.
Da quel giorno, i rapporti fra me e lui divennero
ancora più tesi e quando lui mi rivolgeva la parola, lo
facera per insultarmi o
offendermi, anche se solo quando mia madre non poteva sentirlo.
Io cercavo di non reagire ai suoi insulti, alle sue
cattiverie. Ovviamente, dopo che mi aveva mandato a sbattere con la
fronte
contro al tavolo, facevo attenzione a non voltargli le spalle mentre mi
parlava. Non volevo dargli il pretesto di lamentarsi di me. Cercavo di
stargli
il più lontano possibile. Durante il giorno, quando non ero
dalla psicologa o
al corso di pianoforte, andavo al parco, o in biblioteca… cercavo di tenermi
occupata, di stare lontano
da lui.
Una volta a settimana andavo al cinema.
Cercavo di evitare di spendere troppi soldi e quindi al cinema ci
andavo di
mercoledì pomeriggio, quando c’era lo sconto. Ero
io inoltre che andavo a fare
la spesa, cercando di rendermi utile.
Un paio di volte, quando Reneé doveva fare delle
visite per il bambino, mi ero offerta di accompagnarla. Mi avrebbe
fatto piacere
e sapevo che ne avrebbe fatto anche a lei.
Bastò però uno sguardo severo di Phil a
costringermi a
restare a casa.
Accompagnare mia madre in ospedale, andare a comprare
le cose per il piccolo, preparare la cameretta… questi erano
compiti che
spettavano a lui, il padre, e non a me, la sorellastra. Lui doveva
andare con
mia madre. Io non ne avevo il diritto secondo lui.
Me lo aveva urlato contro un martedì, quando mia mamma
doveva andare a fare l’ultima visita ginecologica prima del
parto, previsto per
il lunedì successivo.
Fu quella mattina che, per la prima volta, sentii
l’impulso di fargli del male. avrei voluto picchiarlo,
colpirlo… ferirlo.
Volevo impedirgli di rovinarmi la vita. Ma cosa avrei
potuto fare?
Non si può certo denunciare una persona perché
quest’ultima ti guarda male, perché ti dice che a
vent’anni ti vuole vedere al
college o perlomeno via di casa, perché ti dice che ormai
sei grande e non devi
più comportarti come una mocciosa. Perché ti ha
tirato un paio di ceffoni…
A che titolo avrei potuto dire che aveva fatto
qualcosa di male?
Ero io che ero entrata nelle loro vite senza permesso.
Era colpa mia.
Quei pensieri mi facevano sempre gelare il sangue
nelle vene.
Mi facevano sentire tutto il peso della mia inutilità
e le mie insicurezze si facevano così opprimenti da divenire
insopportabili. Mi
sentivo soffocare e il mal di testa aumentava esponenzialmente. Decisi
di farmi
un bagno caldo.
Sebbene mi fosse dispiaciuto molto non poter esser
andata con Reneé, il vantaggio di avere Phil fuori di casa
era che potevo
starmene un po’ tranquilla. Prendermela con comodo.
Di solito, se stavo nella vasca per più di
mezz’ora,
bussava con forza alla porta dicendo che ero una perdigiorno e che non
avevo neanche
la decenza di mascherarlo.
Quel martedì mattina, senza di lui, rimasi a mollo
nell’acqua per più di un’ora.
Una volta uscita dalla vasca, mi asciugai lentamente.
Quando ormai avevo già infilato la biancheria, mi osservai
allo specchio.
Quella ero io. Fragile
ed inerme giovane donna.
Mi chiesi cos’avessi
che non andasse. Il mio corpo non
era quello di una modella ma mi chiesi se fosse poi davvero
così brutto. Le
cicatrici inoltre non si vedevano quasi più.
E allora perché non andavo bene per lui?
Perché Edward non mi voleva più, di questo ero
convinta.
Lo avevo capito anche dalla sua ultima telefonata,
quella sera… da quel giorno non mi aveva più
richiamata. Erano passate quasi sei
settimane.
Mi aveva detto di chiamarlo solo in caso di emergenza,
di lasciare un messaggio in segreteria. Significava che non voleva che
lo
chiamassi e lo trovassi, altrimenti avrebbe lasciato il telefono
acceso.
Probabilmente ne aveva comprato un altro che usava per amici e
familiari…
Sconfortata, mi sedetti sul bordo della vasca.
In quell’istante avrei voluto tirare un pugno anche a
lui. A Edward che si vergognava di me, ad Edward che non si
accontentava di me
adesso che andava al College…
A Edward, per io quale io non ero abbastanza…
Volevo fare male alle persone che mi avevano ferita.
Fu in quel momento che capii.
Non erano loro il problema. Ero
io.
Mi alzai di scatto e scesi le
scale. Aprii lentamente
la porta del bagno di mia madre e di suo marito.
Frugai nel cassetto sotto al lavandino e trovai quello
che cercavo.
Le lamette di ricambio del rasoio di Phil. Corsi nel
mio bagno e mi chiusi la porta alle spalle con due mandate di chiave.
Sebbene una parte di me sapesse che tutto ciò era
profondamente stupido e sbagliato, l’altra parte della mia
anima mi spronava a
provare, a dare prova a me stessa del mio coraggio.
Poggiai la lametta sull’avambraccio del braccio sano.
La luce del sole illuminava la pelle mettendo il
risalto le minuscole cicatrici che mi ero procurata
nell’incidente.
Nessuno avrebbe notato un paio di taglietti in più.
Feci pressione e, lentamente,
incisi.
Sentii freddo in quel punto.
Niente di più. Forse un
po’ di dolore. Poco. All’inizio non uscì
nemmeno sangue.
Allora incisi di nuovo, un punto un po’ più in
giù.
Anche qui, poco dolore e niente sangue.
Ripetei l’operazione per altre cinque volte. alla
sesta pensai che, forse, non esercitavo abbastanza forza. Tutti gli
altri
taglietti erano poco più che graffi. A malapena qualche
goccia era riuscita ad
emergere in superficie.
Premetti di più. Troppo. Questa volta sentii male e il
sangue cominciò a scendere in un rivolo che raggiunse il
polso.
Spaventata ed orgogliosa di me allo stesso tempo,
mossi il braccio velocemente come se l’aria potesse calmare
il bruciore.
Aprii l’acqua e sciacquai la lametta. Quando tornai a
guardarmi il braccio, notai che i taglietti che prima mi parevano
insulsi
adesso erano incrostati di sangue. Sciacquai anche il braccio e il
contatto con
l’acqua mi provocò un notevole bruciore.
Più di quanto mi sarei aspettata.
Lavai via il sangue.
Mi dava una strana soddisfazione quel mio coraggio.
Fare del male a me mi diede soddisfazione come se ne avessi fatto a
Phil. Mi
fece sentire un po’ meno inadatta…
Ormai non sanguinavo quasi più. Tamponai con un
po’ di
carta igenica. Tranne l’ultimo, i tagli erano molto sottili e
quasi non si vedevano.
Sentii il bisogno di farlo ancora. Di provare di
nuovo. Se pensavo alla rabbia che provavo dentro di me per non essere
accettata, per essere stata abbandonata, per ritrovarmi privata di una
parte
della mia vita, mi risultava facile premere sulla pelle quella sottile
lametta
d’acciaio. Era un gesto semplice ma liberatorio.
Lo ripetei altre volte, diventando sempre più audace.
Pensando a Phil, alle sue urla, incidere la mia pelle era semplice e
liberatorio.
Queste nuove
incisioni erano più lunghe e profonde rispetto alle
precedenti. Mi accorsi
subito che, se muovevo la lama velocemente, non mi accorgevo neanche di
essermi
tagliata. E il sangue non sgorgava subito. Ci voleva qualche secondo
prima che
la pelle si macchiasse di rosso.
Sentivo il braccio indolenzito. Provai a premere sui
tagli e provai dolore, acuto e bruciante. Faceva molto più
male ora che non
all’inizio.
Quel dolore fisico mi distraeva dalle mie sofferenze
interiori.
Poggiai di nuovo la lama sull’avambraccio.
Improvvisamente mi resi conto di quello che stavo
facendo e lasciai andare la lama, che cadde nel lavandino macchiato da
tante
minuscole goccine di sangue.
Mi diedi della stupida idiota e pulii tutto dopo aver
lavato il braccio e averci messo sopra della carta igenica, che tenevo
premuta
sulle feritine, per evitare che il sangue macchiasse i vestiti. Ad ogni
pressione sentivo il dolore sollecitare le mie terminazioni nervose.
Il dolore mi faceva capire che
ero viva. Era,
nonostante tutto, una bella sensazione.
Ero sul punto di gettare la
lametta nella pattumiera
ma, qualcosa di perverso in me me lo impedì. La presi e la
nascosi dentro alla
scatolina per i tappi per le orecchie.
Sentii l’auto di Phil parcheggiare in garage e corsi
in camera mia ad infilarmi una maglietta a maniche lunghe.
Nessuno doveva sapere di questa
cosa.
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Capitolo 13 *** leave behind the world you know ***
cap 12
Lo so, lo so…
Storia strana, comportamenti apparentemente inspiegabili etc
etc.
Eppure, proprio quando si è in situazioni assurde ci si
comporta in modo sconsiderato.
Quindi perdonate la mia Bella dagli atteggiamenti un po’
tanto autolesionisti. È un modo (sbagliato) di reagire. A
volte però si è così
fragili che non si riesce a reagire nel modo appropriato.
Non bisogna essere troppo intransigenti. Siate ospitali
nelle vostre menti e non giudicate gli altri con troppa
semplicità. Anche chi
si fa del male. C’è sempre un perché a
quello che fanno, anche se ciò che fanno
è sbagliato. per favore.
Qui quello in questione è un personaggio che non esiste
nemmeno su carta (al massimo nella memoria del mio pc e sui nostri
schermi.) ma
ci sono persone reali, la fuori, che soffrono veramente e spesso non
siamo in
grado di cogliere i segnali del loro disagio.
Ma ora basta parlare di cose pesanti.
Bella non si suiciderà e,
per quante me lo avessero chiesto,
sì, recupererà la memoria, ma a piccole
dosi.
E questo creerà notevoli casini,
oltre a quelli in cui lei stessa, per talento
naturale,incapperà.
Per quante ritenessero il comportamento di Phil esagerato,
sappiate che purtroppo cose simili succedono davvero. Anche troppo
spesso.
(piccola esortazione a denunciare la violenza in famiglia. la
più insidiosa. Lo so… guardo troppo il programma
AMORE CRIMINALE… )
Allora, sappiate che non riesco a smettere di ascoltare
Neutron Star collision, How to save a life, lampi tou ouranou(la
canzone del
gobbo di notre dame in greco moderno. Quella di quasimodo prima e
frollo dopo)
e tante altre canzoncine allegre! Quindi il mio scritto ne risente. Ma
non
preoccupatevi, a me piacciono i lieto-fine, anche se molto combattuti!
Un bacio a tutte e scusate se non rispondo alle mails. Internet
qui prende solo dai miei cucini di tipo 6* grado e mi scoccia andare a
rompere.
Quindi centellino le visite col pc e mi limito a postare in tre secondi.
Ps: Keska, devo assolutamente parlarti della tua
storia!!!!!!
cap 12
Leave behind
the world you know
Lasciati alle spalle il mondo
che conosci…
Bella’s POV
< Bella? Bella tesoro? > Mi chiamava mia madre.
Scesi velocemente le scale e la trovai seduta sul divano ad aspettarmi.
Mi
sorrise appena mi vide e mi fece segno di sedermi accanto a lei.
Io la assecondai e le diedi anche
un bacio sulla
guancia.
Le chiesi: < Allora mamma, com’è andata?
>
< Oh, Bella, sono così felice. Il dottore dice che
va tutto bene. Mi ricoverano lunedì. Il parto cesareo
è previsto per mercoledì.
Dovrebbero tenermi dentro quattro, cinque giorni. Non di
più. Il bambino sta
bene e presto potremo abbracciarlo. Non è meraviglioso?
>
Mi sforzai di sorridere. Se tanto mi dava tanto, Phil
non mi avrebbe permesso neanche di sfiorarlo il bambino.
< Mi dispiace solo che dovrò stare lontana da casa
tanto a lungo. Non vorrei lasciarti sola. >
Mi rivolse uno sguardo di scuse.
< Ma cosa dici mamma! Non puoi mica far nascere il
bambino in casa! > esclamai fingendo disapprovazione. Poi
aggiunsi: < Non
devi preoccuparti per me. So badare a me stessa. E poi, ti
verrò a trovare
talmente spesso che ti sembrerà di essere a casa. >
< Ci conto, Bella. >
In quel momento entrò Phil. Baciò mia madre sulle
labbra e poi, rivolgendosi a me, mi disse: < Tu, preparati. Tra
un’ora
comincia il corso di pianoforte e sei ancora in pigiama. >
< Sono già le due? > chiesi smarrita. Avevo
perso il conto del tempo, nel bagno.
Reneé ridacchiò. < Sì tesoro.
Se non ti sbrighi a
prepararti, farai tardi. >
< Già. Ok vado a vestirmi e poi esco. > ero
già
sulle scale quando Reneè mi chiese: < Hai mangiato?
Vuoi che ti prepari un
panino? >
Mi accorsi di essere a stomaco vuoto. La cosa che mi
sorprese fu che non avevo fame. Appoggiai le dita sulle ferite al
braccio. Quel
dolore mi aveva appagata.
< No, mamma, non preoccuparti. Ho mangiato qualcosa
prima. Grazie! > e poi scappai in camera.
Scelsi una maglietta a maniche lunghe. Mi infilai il
primo paio di Jaens e le vecchie scarpe da ginnastica. Zainetto in
spalla,
gridai un “ Ciao ” e poi schizzai fuori di casa.
C’era sciopero dei mezzi quel giorno e quindi avrei
dovuto andare a piedi. Una bella passeggiata di tre quarti
d’ora.
Arrivata alla scuola, in anticipo,
mi sedetti nella
hall.
Il mal di testa mi aveva assalita lungo il tragitto e
mi attanagliava. Sapevo che mi sarebbe durato tutto il giorno.
Tirai fuori un libro dallo zaino e cominciai
svogliatamente a leggere. Dovevo combattere contro la tentazione di
tastarmi il
braccio, di rievocare il dolore. Dovevo tenere la mente impegnata. Solo
che,
leggere con quell’emicrania era quasi impossibile.
< Toc Toc. > fece
qualcuno tamburellando le dita
sulla mia spalla. Trasalii e mi voltai verso il ragazzo biondo alla mia
sinistra.
< Eih! Allora ci senti! > sorrise. < Ciao. Tu
sei del corso di pianoforte, vero? >
Mi limitai ad annuire. Non mi piaceva la gente che si
avvicinava troppo a me. Ero sempre sulle difensive.
Dato che non proferivo parola, lui aggiunse:
< Ciao, io sono Jason. > mi porse la mano ma,
dato che io non feci altrettanto, fece finta di niente e se la
passò tra i
capelli biondi. Cercò di catturare la mia attenzione
dicendomi: < Frequento
il tuo stesso corso. Tu sei
Isabella. Vero? >
< Ah… sì. Sono Bella. Non ti avevo mai
notato, al
corso. > risposi gelida. Sperai che quella conversazione finisse
il più in
fretta possibile. Perché non mi potevano lasciare in pace?
< Beh, sei sempre così concentrata…anche
se siamo
solo in sei, mi è sembrato che tu non notassi nessuno. mi
chiedo come tu abbia
fatto in questi giorni, con la mano ingessata. >
Mostrai la mano di nuovo libera e mi limitai a dire:
< Problema risolto. Comunque, mi limitavo a prendere appunti e a
suonare
come potevo. La professoressa Williams è stata molto
disponibile e mi ha dato
una mano. >
Lui annuii. Era in evidente imbarazzo. Anche io.
Fortunatamente altre quattro persone, quasi contemporaneamente,
entrarono
nell’ingresso. Li riconobbi di viso. Erano i nostri compagni.
Stava per cominciare la lezione. La porta dell’aula
della signorina Williams si aprì e noi entrammo.
< ragazzi, oggi facciamo un po’ di teoria quindi
prendete pure posto ai banchi. >
Il ragazzo, Jason, si sedette vicino a me. Cattivo
segno.
Alla mia sinistra lui, alla mia destra il muro.
Fu una lezione molto lunga. Troppo. Cercavo di
ignorare le occhiate del ragazzo come avevo sempre fatto ma lui era
così
insistente da irritarmi a morte.
Fortunatamente,anche quell’agonia finì.
Appena ci fu permesso, mi alzai e infilai lo zaino.
< Hai fretta di tornare a casa? > Mi domandò
Jason.
< Un po’. > risposi scettica, fissandolo.
Non potei evitare di fare il confronto con Edward.
Certo, anche questo biondino era carino ma…
I suoi occhi grigi erano anonimi. Gli zigomi troppo
pronunciati. I capelli troppo corti. Era più basso di Edward
di almeno mezza
spanna. E le sue mani non mi piacevano.
Quelle di Edward erano lunghe e affusolate ma allo
stesso tempo forti e protettive.
Cercai di reprimere il pianto e, istintivamente,
serrai la mano intorno al braccio ferito, provocandomi dolore. Fu
questo a
risvegliarmi dalla trance.
Notai che Jason mi squadrava. Sembrava compiaciuto dal
mio indugiare sul suo viso. Mi affrettai a distogliere lo sguardo e,
riprendendo il filo interrotto dei miei pensieri, aggiunsi: <
Sai, c’è lo
sciopero dei mezzi e devo tornare a piedi. Non vorrei arrivare ad
orario di
cena. >
< Se vuoi… >
Il cellulare vibrò nella mia tasca e gli feci segno di
aspettare. Santo cellulare salvatore.
Era Reneé.
< Ciao. Hai finito? > mi chiese premurosa.
< Si mamma,altrimenti non avrei potuto risponderti.
>
Ridacchiò. < Hai ragione. Allora, tutto bene? >
< Sì, dai. Come al solito. Sto uscendo adesso.
Sarò
a casa tra un’oretta. Non ho voglia di correre. >
< Bella, sei sicura che non vuoi che Phil ti venga
a prendere? >
< No mamma, non preoccuparti. Torno a piedi. Mi
faccio una passeggiata. >
< Come vuoi. Se per strada ti senti stanca,
chiamami. ti veniamo a prendere. Non voglio che ti sforzi troppo.
>
< Ok. Non preoccuparti. Ci vediamo tra un’oretta.
Ciao. >
< Ciao piccola. >
Riagganciai e sospirai.
L’ultima cosa che volevo era
che Phil mi venisse a prendere.
< Tutto a posto? > chiese Jason. Mamma mia
quanto era insistente.
< Sì. Ho solo una madre super-apprensiva. >
< Ti stavo dicendo, se vuoi, posso riaccompagnarti
a casa io. Ho la macchina. >
Il mal di testa, che non mi aveva abbandonato un
secondo, mi assalì con forza, come un’onda che si
infrange improvvisamente su
una scogliera. Un’ondata di dolore.
Dovetti sedermi.
< Ehi, tutto ok? >
< Sì. Scusa. Ho solo avuto un giramento di testa.
Mi succede, a volte. >
< Dall’incidente? > mi chiese con nonchalance.
Alzai lo sguardo e lo fulminai.
< Come fai a saperlo? > domandai acida. Io non
volevo che nessuno ne sapesse niente. volevo che rimanesse un segreto.
Fece spallucce e disse: < Mio padre è il direttore
della scuola. Tua madre, quando gli è venuta a parlare per
iscriverti gliene ha
parlato. È saltato fuori a cena, una sera. Mi ha solo detto
che una mia
compagna di pianoforte che si era trasferita quest’anno dallo
stato di
Washington aveva avuto un brutto incidente d’auto e che era
salva per miracolo.
Ho pensato che fossi tu. le altre ragazze del corso le conosco da due
anni… >
Mentre lui continuava a blaterare, un sorriso amaro mi
si formò sulle labbra.
“ Viva per miracolo? ” Sì…
come no. Avrei preferito
morire.
< Ehi, allora? Posso accompagnarti? > fece lui
per richiamare la mia attenzione. Poi aggiunse: < non ti sarai
mica offesa,
vero? Mi spiace. Pensavo che non ti avrebbe dato fastidio che io
sapessi… >
< No, non preoccuparti. Ma tu non dirlo a nessuno.
Non mi piace farlo sapere in giro. Per il passaggio…
> fosse stata una
situazione normale avrei educatamente rifiutato e me ne sarei tornata a
casa da
sola ma il mal di testa era sempre più forte e non ero
sicura di riuscire a
tornare a casa. Per questo gli dissi: < Sì, va bene.
Grazie. >
Lui sorrise e, insieme a me uscì. Con la mano mi
indicò una decappottabile rossa tirata a lucido. Brillava
nel sole del mezzo
pomeriggio. Si vedeva lontano un miglio che lui ne andava fiero.
Sì era bella ma… sinceramente a me di auto non
importava molto.
Sembrò deluso dalla mia assenza di commenti.
< Ti piace? >
< Sì. È molto carina. > Mi limitai
a rispondere.
Mi ricordava quella di Rosalie, la sorella maggiore di Edward. Un
giorno lei,
Esme ed Alice erano venute a trovarmi a casa con la sua macchina.
L’auto di
Rose mi piaceva molto di più, per quanto potesse piacermi
un’automobile.
Mi sedetti al posto del passeggero e mi allacciai la
cintura. Lui prese
posto al volante.
Abbassò il tettuccio.
< Allora, dove ti porto? >
< Va benissimo se mi lasci qui. > e gli indicai
un punto sulla cartina virtuale del suo navigatore satellitare.
< Casa tua è lì? > Mi chiese
dubbioso. Gli avevo
indicato un parco.
< No, ma non è distante. >
< No, dai. Se ti riaccompagno a casa, voglio farlo
per bene. Dimmi dove ti devo lasciare. >
Avevo troppo mal di testa per discutere e cedetti. Gli
diedi l’indirizzo e poi chiusi gli occhi, poggiando il capo
sullo schienale.
< Tutto a posto? Sei pallida. >
< Sì. Scusa. È solo un po’ di
emicrania. Non mi è
ancora passata. >
Ci pensai un po’ su. Da quando avevo smesso di
assumere gli psicofarmaci l’intensità dei miei mal
di testa era aumentata in
maniera esponenziale. A volte erano così forti da causarmi
conati di vomito o
da costringermi a letto.
< Se vuoi rallento. >
< No. No. Non preoccuparti. Ti sto già facendo
perdere troppo tempo. > e poi, se fosse andato più
piano, ci avremmo messo
di più ad arrivare e non avevo voglia di stare con lui.
Voltai il capo e un moto di delusione mi attanagliò il
cuore quando mi accorsi che la pelletteria della vettura aveva un odore
sgradevole. Anzi no, non sgradevole. Semplicemente, non era quello che
mi
aspettavo, che avrei voluto. Quello della Volvo di Edward.
< Eccoci arrivati. >
Aprii gli occhi e mi accorsi con sorpresa che eravamo
davanti a casa mia. Era stato molto veloce.
< Grazie. Sei stato molto gentile. Scusa per il
disturbo. >
< Nessun disturbo. Anzi, è stato un piacere. >
e
mi fece l’occhiolino. Uscii dall’auto e presi le
chiavi. < Se vuoi, passo a
prenderti domani. >
Mi si gelò il sangue nelle vene. Improvvisamente nella
mia mente, a quelle parole, tornò un’immagine di
me ed Edward, in una mensa.
Lui mi porgeva la stessa domanda. Le mie ginocchia tremavano.
< Così non devi aspettare l’autobus.
> cercò
di giustificarsi Jason. evidentemente avevo una faccia sconvolta.
< No, non preoccuparti. >
< Dai, mi fa piacere. Hai visto poi che ci abbiamo
messo pochissimo? Appena dieci minuti. In autobus ci avresti impiegato
almeno
mezz’ora, più l’attesa. Passo a
prenderti alle tre meno un quarto. >
< No, davvero. Domani non posso. Prima di venire al
corso devo andare a fare una visita e non so se faccio a tempo a
tornare a casa
o se vengo direttamente a scuola. >
Lui annuì e poi mi disse: < Va bene, allora
sarà
per un’altra volta. Ci vediamo domani, Bella. Ti aspetto a
scuola. > e
schizzò via, lasciandomi impalata nel vialetto con le chiavi
in mano.
Mi ripresi dall'attimo di smarrimento e andai ad aprire la porta.
Reneé era in cucina. Fu sorpresa di vedermi. Le
spiegai del passaggio e lei, con un’occhiata furbetta ed
indagatrice che però
mascherava un velo di tristezza, mi chiese: < Lui ti piace?
>
< No. Niente di che. È solo un compagno di corso.
>
Rimasi un po’ con lei a chiacchierare ma il mal di
testa si fece così acuto che, appena ne ebbi
l’opportunità, la salutai ed andai
in camera mia. Chiusi le tende e cercai di riposarmi, al buio.
Tutto inutile. Dopo
mezz’ora in cui non ero riuscita a
prendere sonno, mi alzai e andai al mio armadio. Piegata con cura, in
una
scatola, la giacca di Edward. La presi e tornai a letto stringendola a
me. Mi
nascosi sotto le coperte e inspirai profondamente il suo profumo.
Mi ritrovai a piangere senza capirne il motivo. Avrei
voluto venir inghiottita dall’oscurità, avrei
voluto sparire, morire.
Abbracciata alla giacca di Edward, desiderai con tutta
l’anima di averlo lì con me.
I miei singhiozzi andarono pian piano smorzandosi e,
alla fine, mi addormentai.
Prima però di perdere la cognizione della realtà,
mi
rividi in un bosco sconosciuto ma, nonostante ciò familiare.
Edward era lì,
davanti a me bellissimo e immobile.
Forse era un sogno… Mi teneva le mani sulle spalle e
mi sussurrava: < A modo mio ti amerò
sempre… vorrei chiederti un favore,
però, se non è troppo: non fare niente di
insensato o stupido. Proseguirai la
tua vita senza interferenze da parte mia. Sarà come se non
fossi mai esistito. Addio,
Bella. Fai attenzione… >
Non lo vidi baciarmi la fronte. Ma, come in tutti i
sogni, sapevo che lo aveva fatto. Forse avevo chiuso gli occhi.
Sì, per forza. Tutto
era buio. Quando li riaprii, sempre nel sogno, lui non c’era
più…
Tremai mentre il mio cuore gelava.
No, non era un sogno. Era un incubo.
Quella notte non ci fu altro che buio. E freddo, tanto
freddo.
La sveglia suonò e mi
risveglio di colpo, con un
sussulto.
Com’era possibile? Era già mattina?
Mi alzai a sedere e notai i segni rossi che
macchiavano la maglia. Inizialmente mi spaventai. Alzai la manica e
vidi i
tagli incrostati di sangue.Ebbi un conato di vomito che riuscii a
reprimere in
fretta.
Mi tornarono in mente i tagli, la lametta, il sangue…
sì,
era successo tutto, per davvero.
Mi afferrai il braccio e strinsi. Dolore. Andai in
bagno a lavarmi e mi cambiai. Sciacquai la manica sporca di sangue. Non
volevo
che qualcuno la trovasse. Applicai dei cerotti sulle ferite e scesi al
piano
terra.
< Ciao mamma. > dissi
entrando in cucina. Lei mi
sorrise e, carezzando il pancione, si alzò e mi venne
incontro per
abbracciarmi. < Ciao piccola. >
Ricambiai l’abbraccio. < Perché non mi hai
svegliato ieri sera? > domandai.
< Oh, tesoro, Phil mi ha detto che ha provato a
chiamarti ma che tu dormivi della grossa. Non volevamo disturbarti e ti
abbiamo
lasciato dormire. >
Oh… Phil, che gentile da parte sua farmi saltare la
cena. Avevo i crampi allo stomaco per la fame. Forse perché
il giorno prima non
avevo neanche pranzato.
< Se vuoi ti preparo delle frittelle. >
< No, mamma, non preoccuparti. Mi mangio qualcosa
così… >
Andai in cucina e affogai un sacco di cereali nel
latte. Mentre guardavo fuori dalla finestra, masticando lentamente,
ripensai al
ragazzo biondo. No, non poteva reggere il confronto con Edward, non
solo a
livello fisico. Edward però non sarebbe tornato da me e io
me ne dovevo fare
una ragione.
Non potevo passare la mia vita a macerarmi nel dolore per
lui…
“Oh si che puoi, lo sai che sarà
così.” Mi disse una
vocina perfida ma sincera. La coscienza.
No. Non potevo. Dovevo reagire. Jason sembrava carino,
gentile, interessato. Perché avrei dovuto respingerlo? Non
mi meritavo anche io
una nuova vita, come quella che si stava creando Edward al college?
Lavai la tazza e mi preparai per uscire. Dovevo essere
in ospedale per le dieci. Avevo l’ennesima visita di
controllo.
Mia mamma, tenendosi il pancione, mi salutò con la
mano mentre io mi allontanavo lungo il vialetto.
Quando finalmente i medici mi
lasciarono andare, era
troppo tardi per tornare a casa. La lezione di pianoforte sarebbe
cominciata di
lì a tre quarti d’ora. Appena il tempo per
raggiungere la scuola. Fortuna che
mi ero portata dietro il mio zainetto.
Lungo la strada l’emicrania mi assalì
più volte,
costringendomi ad appoggiarmi agli steccati o ai muri delle case. I
dottori mi
avevano detto che, dopo gli incidenti come il mio, poteva succedere. Io
ovviamente non avevo detto loro che erano aumentati a dismisura da
quando avevo
smesso di assumere gli psicofarmaci.
Arrancando, raggiunsi la scuola e
mi sedetti sugli
scalini. La porta d’ingresso si aprì e mi sentii
chiamare.
< Bella? Tutto bene? > Era la voce di quel
ragazzo, Jason.
Mi sforzai di allontanare il dolore dal viso e,
voltandomi verso di lui, sorrisi.
< Sì. Non preoccuparti. Ho solo camminato molto e
sono stanca. >
Il suo volto si fece furbetto e sorrise speranzoso.
< Beh, se vuoi, ti porto indietro io, dopo. Non puoi certo
andare in giro in
queste condizioni. Sei pallidissima. Sicura di stare bene? >
< Sì. Tutto ok. >
Mi alzai ed entrai. Mi posò il braccio intorno alla
vita. Non reagii a quel contatto indesiderato. La sua pelle
era…calda…
Ignorai i pensieri che improvvisamente m’assalirono.
Io ed Edward che ci baciavamo nella mia veranda,
l’ultimo giorno in cui l’avevo
visto.
Non dovevo pensare a lui. Alzai lo sguardo e sorrisi a
Jason.
< Si, va tutto bene. > e poi gli poggiai la mano
sulla sua.
Piccola nota a piè di
pagina: Io ODIO Jason… poverino. Lo tratterò
malissimo. Cioè. Bella lo tratterà malissimo XD
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Capitolo 14 *** So superficial, so immature ***
Salve a tutte. So che
è passato un sacco di tempo dal mio ultimo aggiornamento ma
gli esami mi stanno
prosciugando!
Posto questo cap
sperando che voi tutte passiate un felice Natale.
Durante queste
vacanze cercherò di rimettermi in pari con i cap perduti!
(tra l’altro, quelli
che avevo scritto sono stati cancellati dal reset del pc ,
sigh…)
Beh, buona lettura
e buon Natale
Spero che il cap vi
piaccia!
Erika
Cap 13
So superficial,
so immature
Così
superficiale, così immaturo
<
Bene ragazzi, adesso
vorrei sentire voi. Uno alla volta. Emily, comincia tu. >
La signorina Williams
cercò di risollevare l’attenzione costringendoci a
suonare un pezzo ciascuno.
Emily, una ragazza mora
non troppo alta, andò al piano e, dopo un profondo sospiro,
cominciò ad agitare
le mani sulla tastiera.
Mamma mia che baccano.
Avrei tanto voluto che la piantasse e lasciasse in pace la mia povera
testa. Mi
faceva così male che avevo i conati di vomito. Mi presi il
capo tra le mani,
poggiandomi sul banco.
< Isabella? Vuoi venire
tu? > mi domandò con un tono da rimprovero la
professoressa.
Alzai lo sguardo e la
fissai.
< Allora? Aspettiamo
che faccia notte? >
< Scusi, posso andare
in bagno? > chiesi con un filo di voce.
Lei mi squadrò e poi,
sempre studiandomi, mi rispose: < Sì, va bene. Ma
quando torni suoni tu.
>
< Va bene, torno
subito. > sussurrai alzandomi in piedi e lasciando la stanza.
Una volta nell’ingresso,
mi diressi in bagno. Il pavimento e le pareti mi parevano ondeggiare,
come se
fossimo su una nave. Sentivo i muscoli del corpo indolenziti. Sentivo
il sangue
pulsare rumorosamente attraverso le mie vene. La testa mi girava.
Mi appoggiai al muro con
la mano per sostenermi, arrancando verso il bagno.
Raggiunsi la porta ma,
quando fu il momento di abbassare la maniglia, la mia mano non
riuscì ad
afferrarla. La vidi sempre più lontana da me
finché non chiusi gli occhi.
Un
battito di ciglia. Un
rumore sordo.
Vidi
una scogliera e
acqua, tanta acqua… un mare in tempesta sotto di me, sopra
di me, intorno a me,
dentro di me, dentro ai miei polmoni. Non potevo respirare. Acqua
gelida che mi
impediva di muovermi scientemente, costringendo i miei muscoli a
contrarsi in
spasmi involontari.
Sbattei
le palpebre e mi
accorsi che il soffitto era perpendicolare al mio sguardo. Stavo
fissando il
lampadario. Un attimo dopo sentii delle porte sbattere e della gente
urlare.
Mani
calde mi sfioravano
il volto. < Isabella? Isabella? >
Voltai il capo. Non volevo
ascoltarli. Avevo mal di testa. Poggiando le mani a terra, cercai di
alzarmi a
sedere ma qualcuno me lo impedì. Riconobbi la voce della
signorina Williams. Mi
diceva di rimanere ferma e non alzarmi.
< Sono caduta. >
cercai di giustificarmi ma nessuno pareva realmente ascoltarmi.
Sentii che parlavano di
chiamare l’ambulanza. Quelle parole mi donarono la
lucidità.
Se mi avessero ricoverata,
o anche solo visitata, si sarebbero accorti delle ferite sul braccio e avrebbero
scoperto che non prendevo
le pillole. Alle visite di controllo come quella della mattina, non mi
facevano
quel tipo di esami. Per questo non se ne erano accorti. Ma se mi
avessero fatto
un check-up completo, non avrei potuto mentire.
Mi drizzai a sedere
nonostante molte mani cercassero di trattenermi a terra.
< Bella? Forse sarebbe
meglio che tu restassi sdraiata… >
Mi voltai di scatto in un
attimo di auto-illusione. Alla mia destra non c’era chi mi
desideravo.
Jason era inginocchiato
vicino a me. Sembrava preoccupato. Sentii il mio cuore stringersi per
il
dolore. Chiusi gli occhi, afferrandomi la maglietta lì dove
sentivo il dolore
per la solitudine.
< Isabella, torna a
sdraiarti. L’ambulanza sarà qui fra poco. Abbiamo
già chiamato a casa tua. Tuo
padre sta venendo qui. >
“ No! No no! ” urlai nella
mia testa. Tutto sbagliato. Non dovevano chiamare
l’ambulanza, non dovevano
chiamare Phil!
Mi lasciai riaccompagnare
con la schiena sul pavimento. Qualcuno mi avevo appoggiato una felpa
sotto al
capo. Mi ritornò in mente Carlsile nel mio bagno a Forks. Mi
aveva messo la sua
valigetta dotto le gambe e un asciugamano sotto la testa. Ed Edward, lì
accanto a me, a tenermi le
mani.
Cercai di trattenere la
crisi di panico e di controllare il respiro ma non potei fermare le
lacrime.
Quando
Phil arrivò, mi
trovò seduta sul divanetto nell’ufficio del
preside. Jason era seduto su una
poltrona vicino alla scrivania di suo padre che, tutto preoccupato,
continuava
a chiedere rassicurazioni ai paramedici. Avevo rifiutato di esser
portata in
ospedale e avevo mostrato loro i documenti che mi avevano consegnato
quella
mattina in ospedale. Attestavano che stavo bene e, in quanto
maggiorenne in
grado di intendere e di volere, non potevano costringermi a seguirli.
Si dovevano limitare a
visitarmi in loco, controllando che non fossi in pericolo.
Il mio patrigno entrò
nell’ufficio e, senza dire una parola, mi fissò
con uno sguardo indecifrabile.
Un paramedico mi stava
misurando la pressione in quel momento.
Appena vide Phil, il
preside gli andò incontro.
< Oh… per fortuna che è
arrivato. Sua figlia si è sentita male
all’improvviso. I medici dicono che sta
bene, per fortuna. >
Il paramedico mi tolse
tutta l’imbragatura per misurare la pressione e mi
fissò negli occhi prima di
dirmi: < Sembrerebbe tutto a posto. Ora come ti senti? >
< Bene. > risposi in
imbarazzo. Il mal di testa era diminuito progressivamente e ora era
quasi
assente. Si rivolse quindi a Phil, per spiegargli la situazione.
< Signor Dwyer, credo
che la ragazza adesso stia bene… è svenuta ed
è rimasta priva di coscienza per
qualche minuto. Stando a quanto ha riferito la sua professoressa, non
rispondeva agli stimoli. La chiamavano ma lei non rispondeva in alcun
modo.
Dopo circa quattro minuti ha aperto gli occhi e piegato il capo.
>
Oh… non ricordavo di
essere svenuta. Ovviamente, non espressi questo pensiero ad alta voce.
Il giovane continuò: <
Probabilmente non è nulla di grave. Ci ha detto di aver
saltato due pasti e
probabilmente è stato questo a causarle la debolezza e il
mancamento ma, dati i
precedenti, sarebbe meglio trasferirla in ospedale per ulteriori
accertamenti.
Isabella però non vuole saperne. Forse lei potrebbe
convincerla. È per la sua
salute. >
Phil mi squadrò con sguardo
attento e poi rivolse un sorriso sereno all’uomo davanti a
lui.
< No, preferisco
portarla a casa. In un ambiente sereno e tranquillo. Se si dovesse
sentire
male, la porto io al pronto soccorso. > poi, rivolgendosi a me,
mi disse
sprezzante: < Sei fortunata che abbia risposto io. Non vorrai
certo far
impensierire tua madre in questo momento? Ma che cosa ti viene in
mente? >
Avrei voluto gridargli
dietro che non era colpa mia, che non avevo deciso io di cadere in
corridoio e
che non volevo essere causa di ansie per mia madre. Avrei voluto ma non
ne ebbi
la forza.
Mi limitai a tenere il
capo chino e a fissarmi le scarpe.
Quando i paramedici me lo
permisero, mi alzai in piedi e seguii Phil in auto. Salutai tutti con
un cenno
della mano prima di chiudermi l’auto alle spalle.
Non aprii bocca per tutto
il tragitto e Phil fece altrettanto.
Solo quando ormai eravamo
in prossimità di casa nostra mi rivolse la parola.
Prese un respiro profondo
e, dopo avermi fissato negli occhi, disse:
< Isabella, ti
pregherei di andare in camera tua. Reneé ha bisogno di
tranquillità. Le ho
detto che la tua insegnante era assente e che ti sarei venuto a
prendere
quindi, se dovesse chiederti qualcosa, tu dovrai dirle questo.
Mi aspetto un
comportamento responsabile da parte tua. Intesi? >
Non risposi. Uscii dal
veicolo sbattendo la portiera e mi misi a correre. Non volevo dargli il
tempo
di farmi qualcosa. Scappai su per le scale fino ad arrivare in camera
mia. Mi
chiusi dentro con due mandate di chiavi.
Sola.
Avevo ancora mal di testa
e quindi decisi di andare a sdraiarmi.
Fissai a lungo il soffitto
cercando di creare figure immaginarie nella polvere che danzava sopra
di me,
illuminata dai tiepidi raggi del sole del tardo pomeriggio.
Granelli minuscoli. Danzavano
leggeri. Vorticavano furiosi e inconsistenti rincorrendosi
nell’aria.
Avrei voluto essere come
loro.
Libera.
E invece ero rinchiusa in
una prigione senza sbarre da cui però non potevo evadere.
Quando
i crampi allo
stomaco si fecero insopportabili, mi decisi ad andare in cucina.
Era ormai sera.
Mia madre e Phil erano
seduti a tavola.
Stavano controllando gli
esami.
Di lì a due giorni Reneé
sarebbe stata ricoverata e presto sarebbe nato il mio fratellino.
Quando Reneé mi vide,
sorrise.
< Bella, piccola. È
quasi pronto. Hai fame tesoro? >
< Sì. >
Vedendo che non ero molto
gradita a Phil, aggiunsi: < Senti, mentre aspetto, vado in
salotto a
guardare un po’ di TV… >
< Va bene cara, ti
chiamiamo quando è pronto. Ah, a proposito di chiamare, ha
telefonato un tuo
compagno. Vero Phil? Hai risposto tu. >
< Sì… > si intromise
lui. < Credo abbia detto di chiamarsi Jason… voleva
che tu lo richiamassi.
Mi ha lasciato il suo numero. >
Si frugò in tasca e ne
estrasse un foglietto. Me lo porse. Io lo afferrai riluttante. Lui poi
mi disse
gelido: < Evita di dare il nostro numero di casa in giro. Dagli
il tuo
cellulare. Non abbiamo bisogno di essere disturbati da mocciosi
impertinenti.
> sembrava… offeso.
Mia madre gli accarezzò il
braccio. < Su, Phil, non preoccuparti. La telefonata non mi ha
svegliato.
Stavo solo riposando sul divano… >
Mi allontanai prima che
potesse dirmi qualche altra cattiveria.
Ci mancava solo Jason. Che
cavolo voleva da me? E poi, perché diavolo suo padre gli
aveva dato il mio
numero? Non erano forse dati riservati?
Sbuffando, composi le
cifre sull’apparecchio e aspettai. Non ero entusiasta di
parlare con lui ma
dovevo dirgli di non telefonare più a casa. Non volevo che
Phil si arrabbiasse
con me perché Jason era idiota. Inoltre, dava fastidio anche
a me…
Al terzo squillo, rispose.
< Pronto? >
< Sì, pronto, sono
Isabella… >
< Ah, ciao Bella! >
< Ehm… ciao… senti, mi
ha detto Phil che hai chiamato… >
< Sì. Volevo sapere
come stessi. Quindi, come stai? >
< Mhm… meglio. Grazie.
>
La conversazione si faceva
imbarazzante. Sperai che il supplizio finisse in fretta.
< Beh, visto che stai
meglio… volevo chiederti… >
< Sì? > ti prego,
non chiedermi di uscire, non chiedermi di uscire, non chiedermi di
uscire…
< Se domani sera ti
andava di uscire con me. > disse tutto d’un fiato.
Ecco, lo aveva chiesto.
Rimasi in silenzio per alcuni istanti.
< Ehi? Ci sei ancora?
>
< Oh… sì, ci sono.
Dovrei chiedere a mia madre. Sai, dopodomani la ricoverano e magari
vuole
avermi a casa. > questo in gergo vuol dire no ma evidentemente
lui non capì
dato che disse:
< Ah, ok. Chiediglielo
pure. Rimango in linea. >
Cosa? Ma diamine…
Riposi la cornetta sul
divano e, lentamente, andai da mia madre.
Le spiegai la situazione
cercando di farle capire che volevo che mi dicesse di no ma lei fu
entusiasta
della proposta.
< Ma certo tesoro che
puoi andare! Oh, sono così felice che tu esca un
po’.
Te l’avevo detto che
avresti fatto amicizia. Basta che torni per le 11. so che è
presto ma sai… >
e si massaggiò il pancione < Sono un po’ in
ansia e vorrei saperti a casa. >
Mi avvicinai e le strinsi
le mani. < Va bene. Tornerò presto. >
Trascinando i piedi tornai
in salotto, presi la cornetta e spiegai il tutto a Jason.
Se a casa non ci fosse
stato Phil, gli avrei detto di no ma era meglio uscire con Jason che
restare lì
con lui.
< Però alle 10 e mezza
devo essere a casa. >
< Oh, così presto… bhe,
immagino che tua madre non
voglia
negoziare. >
< Ehm, no. >
< Va bene. Allora passo
domani alle 9. ti porto in un posto vicino a casa tua. Vedrai. Ti
piacerà. >
Evitai di rispondere a
quest’ultima sua affermazione. La risposta era negativa. Lo
sapevo già.
<
Bella? Tesoro… >
Mi madre bussava alla
porta di camera mia.
Sistemai meglio la manica
leggera del coprispalle sul braccio incerottato e poi dissi:
< Entra pure mamma. È
aperto. >
Lei aprì timidamente la
porta e poi, lentamente, entrò. Andò a sedersi
sul letto.
< Oh, Bella, come ti
sta bene quel vestito. >
< Grazie. >
Non mi ricordavo di averlo
comprato. Ovviamente.
non rientrava esattamente
nei miei gusti. O meglio, in quelli che erano stati i miei gusti due
anni
prima. In effetti, quasi tutti i vestiti che facevano parte del mio
guardaroba
mi sembravano estranei alla mia personalità. Dovevo essere
cambiata molto a
Forks.
E poi, erano così cari. Avevo
visto una gonna uguale alla mia in una vetrina e mi era preso un mezzo
coccolone. Come avevo potuto spendere così tanto? E le
scarpe poi… da quando
amavo il tacco 12?
Mi sistemai i capelli e,
facendo la giravolta, chiesi: < Allora? Come sto? >
Due lacrimucce si
formarono agli angoli degli occhi di mia madre. < Stai
benissimo. E quel blu
ti dona molto. Sei proprio carina. Questo Jason è fortunato
ad uscire con te.
>
Non volevo smorzarle
l’entusiasmo e quindi non le dissi nulla. Mi limitai ad
infilare un bracciale
d’argento con un cuoricino di vetro. Quel ciondolo mi piaceva
davvero tanto. E
poi il cuoricino rifletteva la luce in milioni di raggi colorati. Era
liscio…
freddo… bellissimo.
<
Beh, mamma… sono già
le 9. è meglio che io vada. >
Si alzò in piedi e mi
abbracciò stretta. < Bella, mi raccomando, torna
presto, e non fare
cavolate. E mi raccomando, non bere. Lo sai che con le medicine non
puoi
assumere alcol. >
< Sì, mamma, lo so. Non
preoccuparti. E sarò a casa per le 11. >
La accompagnai lungo le scale.
Non si fidava troppo a scendere per via del pancione. Non vedeva dove
metteva i
piedi.
Quando fummo davanti alla
sua camera, le dissi: < Ci vediamo dopo. >
Poi lei mi baciò in fronte
e io scesi l’ultima rampa di scale.
Phil, seduto sul divano a
guardare una partita di baseball mi ignorò ed io mi guardai
bene dal salutarlo.
Quando fui nel vialetto, notai la macchina di Jason. Lui era al
volante, felice
come una pasqua, e mi faceva segno di salire.
Io, remissiva, mi
accomodai al posto del passeggero senza mostrare particolare entusiasmo.
Parlò per tutto il breve
tragitto fino al locale. Quando arrivammo parcheggiò e poi
mi prese la mano,
guidandomi fino all’ingresso. Quel contatto era per me
fastidioso e avrei
provveduto ad interromperlo il prima possibile.
Una volta dentro ci
accomodammo ad un tavolo.
Suonavano del blues.
Dato che io non avevo
voglia di bere (anche se avrei potuto dato che non prendevo
più gli
psicofarmaci ) e lui non poteva assumere alcol perché doveva
guidare, finimmo a
sorseggiare due aranciate come dei poveri quindicenni che vogliono
sentirsi
grandi.
Finimmo a parlare delle
cose più banali.
< Allora Bella, come ti
trovi qui? >
Mentire, mentire… sempre
mentire. < Bene. >
Tantovaleva fingere in
grande stile. < Jacksonville è proprio una bella
città. Mi ci trovo
benissimo. >
Ok, forse avevo esagerato.
< Sono contento. Anche
a me piace. >
Allungò pericolosamente la
mano verso la mia ed io mi affrettai ad alzarmi in piedi per schivare
il
pericolo. < Senti, vado un secondo in bagno. >
Mi pulsava la testa. La
musica era troppo alta. Forse bagnandomi il viso e i polsi mi sarei
sentita
meglio.
Scappai alla toilet
lasciandolo interdetto al tavolo.
Passai un quartod’ora
abbondante poggiata contro il muro del bagno. Se non fosse stato per il
via-vai
di tutte quelle ragazze, sarebbe stato un luogo silenzioso. Un luogo in
cui
avrei potuto stare tranquilla.
La testa continuava a
pulsare, senza darmi tregua.
Tenevo gli occhi chiusi.
Mi lasciai scivolare fino
a sedermi sul pavimento, la schiena contro il muro.
< Anne, non trovi che
Marie oggi indossi delle scarpe davvero carine? >
< Oh, sì… l’avevo
notato anch’io, Kate. E hai visto come la guardava Matt?
È cotto di lei… >
Chiacchiere, chiacchiere.
Futili e noiose.
Quelle ragazze mi
passavano davanti senza degnarmi di uno sguardo.
Troppo impegnate a vivere
il loro presente per preoccuparsi di me.
Di me che non ricordavo il
mio passato e che per questo mi sentivo perduta.
Quando
tornai, era lì che
mi aspettava. Non feci in tempo a sedermi che lui si alzò,
cingendomi la vita
con il braccio.
< Tutto bene? Mi sembri
pallida. >
Colsi al balzo
l’occasione.
< Effettivamente, non
mi sento molto bene. Non è che mi riaccompagneresti a casa?
>
< Ma certo. Dai,
andiamo. > e mi condusse alla macchina.
Il viaggio fu breve e,
quando parcheggiò nel vialetto, l’orologio segnava
le dieci meno un quarto.
< Scusa se ti ho fatto
finire la serata così presto. >
< Non preoccuparti.
> poi sorrise incoraggiante. < A me è
piaciuto. >
Chinai il capo e feci per
uscire quando lui mi posò la mano sulla mia.
< Magari possiamo
uscire domani. Che ne dici? >
Mi girava la testa, volevo
tornare a casa. Gli risposi quasi senza pensare.
< Va bene. Ci sentiamo
domani. >
< Ok. Ti chiamo io.
> sprizzava felicità da tutti i pori.
Evitai di rispondere e,
uscendo dall’auto, mi limitai a salutarlo con un cenno della
mano prima di
rifugiarmi oltre la porta di ingresso.
La casa era immersa
nell’oscurità.
Mi tolsi le scarpe e,
cercando di non far rumore, Sali le scale lentamente.
Temevo di svegliare mamma,
o Phil, e di scatenare una reazione violenta di quest’ultimo.
Quando fui davanti a
camera loro, indugiai e tesi l’orecchio.
Silenzio.
Troppo silenzio.
Mi avvicinai ancora di
più, per cercare di udire i loro respiri. Non fosse mai che
un pazzo fosse
entrato e li avesse uccisi entrambi fracassando loro la testa con una
mazza da
baseball. Non che mi sarebbe dispiaciuto se tale sorte fosse toccata a
Philip…
ma mia madre non doveva esserne coinvolta, e nemmeno il mio fratellino
innocente.
Nessun suono. Neanche il
fruscio delle coperte.
Un po’ in apprensione,
feci per bussare ma, non appena poggiai il pugno sulla porta questo si
aprì.
E vidi che nella camera
non c’era nessuno.
Le lenzuola erano per
terra, davanti al letto. I vestiti sparsi ovunque.
E il
pavimento era
bagnato…
Il
bambino aveva deciso di
nascere proprio mentre io ero con quell’idiota di Jason.
Afferrai il cellulare e
composi il numero di Phil.
Il telefono squillò a
vuoto.
Non poteva, o più
probabilmente non voleva, rispondermi.
Sentii le lacrime salirmi
agli occhi.
Ci tenevo così tanto ad
esserci, a tenere la mano a mia madre in un momento così
importante, ad esserle
vicino… e lui invece non me lo aveva permesso.
Avrebbe potuto chiamarmi o
mandarmi un messaggio invece che farmi trovare la casa vuota.
Non riuscii a trattenere i
singhiozzi e corsi al piano di sopra.
Stavo per entrare in
camera mia quando una forza malsana mi spinse al bagno.
Non c’era bisogno di
chiudermi dentro. Non c’era bisogno di fare tutto in silenzio.
Ero sola.
Questa volta davvero sola.
Afferrai la lametta che
tenevo nascosta dietro allo smalto bianco e la osservai risplendere
alla luce
della lampada.
Poi infierii sul mio
braccio cercando di assaporare ogni goccia di dolore, chiedendo scusa a
Reneé
per essere lontano da lei.
Dolore che mi rendeva viva
e reale.
Bruciava.
Quando finalmente mi
calmai il lavandino era cosparso da gocce di sangue.
Esausta,
mi trascinai così
com’ero sul mio letto.
Sognai mia madre urlare,
urlare di dolore. Sognai di essere al posto suo e di avere dentro di me
il
figlio di Edward.
Poi, l’oscurità.
Quella
notte il mio
telefono non squillò.
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Capitolo 15 *** The cruellest dream? reality... ***
14
AVVISO
MOLTO IMPORTANTE
Ok ragazze…
sentite… so che quanto leggerete potrà sembrarvi
un po’… come dire… crudo.
Sì, è vero. È molto crudo.
Ma, insomma, questa storia
è nata così. Non posso cambiarla
per la paura che possa non piacere.
È stato per me molto difficile decidermi a pubblicare questo
capitolo perché metto sempre il cuore in quello che faccio,
ma in questa storia
ci ho messo l’anima e non ho trovato il coraggio di
modificare la trama per
rendere la storia più soft.
È una storia adulta, più di tutte quelle che ho
scritto fin
ora, soprattutto nel mondo di Twilight.
Per citare la fantastica sostenitrice del mio lavoro: Non
posso negare che il tema trattato è
forte, e azzardato. Vorrei che fosse possibile vivere sempre la favola
in cui
l'antieroe viene fermato in tempo, o in cui l'eroe della fiaba
interviene a
salvare la sua eroina. Ma sappiamo (..) che non è
così
Ci
tengo a dirvi che i vostri commenti sono per me molto
importanti. Sono ciò che mi spinge a scrivere. Sapere che il
mio lavoro è
apprezzato… è una cosa molto bella.
Per questo vi chiedo di non giudicare le tematiche di quanto
ho scritto. L’idea di tutta la storia è nata
mentre guardavo il tg quindi
potrete ben capire che i toni noir si ispirano a fatti che,
sfortunatamente, si
ripropongono più volte agli onori delle cronache.
Se avrete la pazienza e la fiducia per seguirmi in questa
storia dura e cruda, potrete assaporare un il lieto fine che sto
elaborando e
che spero molte di voi apprezzino. Io non sono una sadica e non gongolo
nel
dolore altrui (reale o fittizio). Non ho scritto queste cose per il
puro gusto
di essere trasgressiva.
È solo che, nella vita,
non tutto è bello, allegro, facile.
C’è molto dolore. Ed è ispirandomi al
dolore taciuto di molte donne e ragazze
che queste pagine si sono sviluppate, hanno assunto la forma che mi
appresto a
postare.
Per favore, non siate precipitose nel
giudicarmi. So che a
molte potranno sembrare temi non adatti al pubblico cui il mio lavoro
si
riferisce… ed è per questo che, mentre scrivo
queste parole, sono indecisa se
cambiare o meno il rating della storia.
Per
quanto riguarda le reazioni di Bella… sappiate che, in
questi casi, molte ragazze non riescono minimamente a reagire.
È un lungo
tunnel buio senza uscite.
Si precipita verso un fondo contro cui non si sbatte mai.
L’oscurità ti avvince e non ti permette di
chiedere aiuto.
E i carnefici riescono a far sentire le vittime artefici
delle torture che subiscono. È un gioco psicologico dal
quale è difficile
sottrarsi. Da sole è quasi impossibile. Chi è
vittima di abusi spesso non
riesce a trovare la forza per reagire. È per questo che vi
chiedo di non
criticare il personaggio di Bella… non per lei, non per me,
ma per tutte quelle
ragazze che, intrappolate, non riescono a chiedere aiuto proprio
perché temono
di venir giudicate esse stesse artefici della propria condizione.
.Per
le critiche a me e alla scrittrice
part-time, fan-writer nei ritagli di tempo, non risparmiatevi! Sono la
prima
critica di me stessa.
Se non mi credete, chiedete a Keska. Vi assicurerà che
più
paranoica, maniacale e puntigliosa di me non c’è
nessuno. Non avete idea di
quante volti ricontrolli i cap prima di postarli, di come rianalizzi
sempre la
storia per evitare eventuali strafalcioni… ma soprattutto,
di quanto sia paranoica riguardo i contenuti. (Vero, Keska?)
Ciò non toglie che un sacco di errori ed imprecisioni mi
sfuggano sempre…
Spero
sinceramente di poter leggere molti vostri commenti,
sapere cosa pensate e poter instaurare un dialogo costruttivo su temi
molto
dolorosi ma troppo spesso trascurati.
È
stato per me molto difficile decidermi a pubblicare questo
capitolo perché metto sempre il cuore in quello che faccio,
ma in questa storia
ci ho messo l’anima e non ho trovato il coraggio di
modificare la trama per
rendere la storia più soft.
E ora, sulle note di Time of Dying
e di You are gonna go far kid,
vi lascio alla lettura del capitolo 14.
PS: AVEVO DIMENTICATO: CAPITOLO DAL RATING ROSSO
Cap 14
The
cruellest dream? Reality…
Il
sogno più crudele? La realtà…
Dormivo.
Galleggiavo in un mondo
fantastico in cui io ed Edward ci amavamo. Ancora. Reciprocamente.
Ero felice.
Non succedeva spesso. E
quando accadeva, ero in un sogno.
Solo nella mia mente
potevo essere felice.
Stavo dormendo quando
improvvisamente sentii dolore.
Forte. Improvviso.
Sentii urlare. Qualcuno
inveiva.
Spalancai gli occhi.
Tra me e il soffitto, il
volto paonazzo di Phil.
Sussultai.
Stava gridando. Contro di
me.
La sua mano si abbatté sul
mio viso un’altra volta, e un’altra ancora.
Ero frastornata. Non
capivo. Cercavo di proteggermi coprendomi il volto.
Inutile. Con una mano sola
aveva afferrato i miei polsi, impedendomi di difendermi. Il mio braccio
bruciava
terribilmente.
Phil era infuriato. Non
faceva che gridare mentre mi colpiva.
Sentivo le mie lacrime, le
mie urla.
Lo implorai: < Basta!
Smettila! Ti prego! Smettila! Non ti ho fatto niente! >
Ma lui non la smetteva.
Non mi ascoltava. Sembrava spiritato. Tra le lacrime intravidi una vena
pulsare
furiosa sul suo collo teso. Colpiva ceco.
Il suo palmo si abbatté
sul mio naso.
Vidi nero per qualche
istante. Contemporaneamente un liquido caldo comincio a scorrere
lentamente
dalla narice destra.
Spinta dal terrore e dalla
confusione, scalciai fino a colpirlo allo stomaco.
Lui sussultò per un
attimo. Allentò la presa e tanto mi bastò per
divincolarmi. Cadde in ginocchio.
Tramortita, cercai di
alzarmi in piedi e di correre per sfuggirgli. Caddi inciampando nei
miei stessi
piedi. Non persi tempo a rialzarmi e cercai di gattonare verso la
porta.
Mi sentii afferrare al
polpaccio.
Urlai e cercai di
scalciare per fargli mollare la presa ma non ci riuscii. Ero
terrorizzata. Mi
trascinò verso di lui.
Sperai
fosse un incubo.
Volevo svegliarmi. Dovevo svegliarmi.
Ma
Phil continuava ad
urlare. mi gridava contro frasi sconnesse mentre io cercavo inutilmente
di
allontanarmi da lui.
< Come hai osato? Come
ti sei permessa? Non mi devi toccare, hai capito? Non ti devi permette!
Non ti
devi per.met.te.re! > e mentre scandiva le sillabe mi colpiva
con calci
continui alla schiena, alle gambe, al ventre.
Ero sdraiata a terra,
inerme.
Decisi di non fare più
niente. di aspettare che finisse. Non reagire, aspettare…
implorarlo era
inutile.
Non capivo il perché di
quell’aggressione. Non riuscivo a pensare a nulla. Ogni
centimetro del mio
corpo pulsava. Mi faceva male dappertutto. Chiusi gli occhi, cercando
di
smettere di piangere. persino respirare mi provocava dolore.
E
dopo un po’ lui,
finalmente, smise di picchiarmi.
Lo sentii mettersi a
cavalcioni su di me.
Non aveva smesso di
urlarmi contro. Mi afferrò il braccio pieno di ferite con
una mano e con
l’altra mi prese la mascella.
< Guarda! Guarda
deficiente! >
Sentivo che muoveva il mio
braccio.
Socchiusi gli occhi e vidi
cosa fissava.
I tagli. Si erano riaperti
nella colluttazione e avevano ripreso a sanguinare. Le lenzuola si
erano
macchiate. Ma adesso per terra c’era anche il sangue che mi
era uscito dal naso
e dal labbro.
<
Cosa cazzo ti salta
in mente? Ma ti rendi conto? Ma sei cretina? Hai visto come hai
conciato il
bagno? Adesso vai e pulisci tutto! Ti rendi conto di come starebbe
Reneé se
vedesse cosa fai? Tu a lei proprio non ci pensi? In un momento
così poi! Sei
così egoista che ora fai questo per attirare la mia
attenzione? Cresci!cresci!
>
E mentre sbraitava
continuava ad agitare il mio braccio. La sua presa sul mio polso era
troppo
stretta. Credevo mi avrebbe rotto l’osso.
Cercai di rispondere ma mi
colpì dandomi un ceffone.
Decisi di rimanere zitta.
Si abbassò su di me.
Sentii il suo peso sul mio corpo. mi mancava il respiro.
Si chinò in avanti e,
quanto il suo alito mi colpì, capii.
Era ubriaco.
Ubriaco marcio. Mollò il
mio braccio per appoggiare i palmi a terra, in cerca di
stabilità.
Mi sibilò all’orecchio:
< Perché devi rovinarmi il più bel giorno
della vita? Eh brutta troietta?
Vuoi sentirti grande? Vuoi giocare all’adulta? Sai che tua
madre sta per
partorire e cosa fai? Vai a farti scopare da un moccioso? Sei
proprio… sei
proprio…
Adesso ti faccio vedere io
cosa vuol dire essere grandi… fare le cose come le fanno i
grandi… >
Ero paralizzata. Non
capivo.
Poi la sua mano scese sul
mio collo, stringendolo. Mi mancò il respiro. Cercai di
allontanarla spingendo
con le mie ma non ne avevo la forza.
Non potevo morire in quel
modo. Non potevo esser sopravvissuta ad un incidente d’auto
per andare a morire
sul pavimento di camera mia, soffocata da un ubriaco.
Ma il
mio destino non
prevedeva che morissi quel giorno.
Aveva
in serbo per me ben
altro, ben di peggio.
Qualcosa a cui avrei
preferito la morte.
Lasciò
la presa e io potei
respirare, di nuovo. I miei erano occhi pieni di lacrime. Respirare era
così
appagante… Io mi portai entrambe le mani al collo,
assaporando il sapore
dissetante dell’aria.
Le mani di lui invece si
infilarono sotto alla mia gonna.
Mi irrigidii. Non poteva
farmi questo.
Le sue dita corsero fino
alle ginocchia, costringendomi a divaricare le gambe. Nonostante io mi
opponessi, la mia resistenza pareva inconsistente.
Mi venne la nausea, violenta e
inutile. Se avessi avuto qualcosa in corpo,
i conati lo avrebbero certamente espulso…
Cercavo di
contorcermi, di divincolarmi ma era
tutto inutile. Mi aveva immobilizzata a terra.
Le sue ginocchia si
sostituirono alle sue mani e mi costrinsero a tenere le gambe aperte.
Mi afferrò entrambi i
polsi portandomi le braccia oltre la testa.
Con un gesto secco, ruppe
il braccialetto che portavo al polso e il cuoricino venne sbalzato
lontano da
dove mi trovavo.
Cercò di baciarmi ed io
serrai la bocca. Il suo alito che puzzava di alcol mi fece bruciare la
gola.
La sua saliva si mescolava
al sangue del mio labbro rotto. Le sue labbra cercavano di forzare le
mie che
rimanevano serrate.
Le mie lacrime scorrevano
inutili.
Appena la sua bocca si fu
spostata sul mio corpo lo implorai con un filo di voce: <
Phil… sei ubriaco.
Lasciami andare. Ti prego. Non dirò niente a mamma. Te lo
giuro. Ma tu lasciami
andare. Ti prego… ti prego… >
Non
mi ascoltò.
Mi strappò la maglietta.
Tremavo, piangevo,
imploravo.
Non potevo chiedere aiuto
a nessuno, non potevo contrastarlo, non potevo liberarmi.
Volevo morire. Morire e
non essere costretta a subire tutto quello.
Chiusi gli occhi e mi
ritrovai a ripetermi mentalmente: “è solo un
incubo. Un terribile incubo. Non è
reale.”
< Vedrai che alla fine
ti piacerà. Ti piacerà di sicuro. So che lo vuoi.
Lo vedevo come mi guardavi,
come mi desideravi. Ti piacerà. So che lo vuoi. >
Il suo respiro si era
fatto più accelerato e potevo percepire dai segnali del suo
corpo sul mio che
la situazione lo eccitava.
< No. Non voglio. >
gli gridai cercando di mantenere la voce ferma. Pensavo che forse in
quel modo
avrei risolto qualcosa, mostrandogli la mia risolutezza.
Ero… disperata.
< Ma se è da quando sei
qui che non fai altro che tentarmi? Credi che io non me ne fossi
accorto? Con
quei tuoi modi da civetta… sempre lì pettinarti,
a sistemarti la gonna… a
chiedermi di venire con noi all’ospedale… a voler
sempre venire con me e tua
madre… eri gelosa di lei? Dì la
verità. Non sei altro che una sgualdrina. Io ho
cercato di trattenermi ma la carne è debole. E tu sei
così… giovane… e la tua
pelle è così morbida, soda e
profumata… >
< Ma tu sei pazzo!
Lasciami, lasciami. Io non voglio… non ho mai
voluto… lasciami andare immedi…
>
Le parole mi morirono in
gola quando le sue dita si insinuarono sotto i miei slip.
Mi mancò il respiro.
E in
quel momento il mio
cervello smise di elaborare pensieri coerenti. Si limitò a
registrare ciò che
mi accadeva senza permettermi di agire.
Ero una bambola. Una
bambola tra le sue mani sporche del mio sangue.
L’unica cosa che riuscivo
ancora a fare era piangere silenziosamente mentre lui mi spogliava,
mentre mi
osservava, mentre mi accarezzava.
Il mio corpo era tutto
dolorante e ogni volta che lui mi muoveva mi faceva male.
Le sue carezze bruciavano
sulla mia pelle.
Le sue mani erano rudi
mentre esploravano il mio corpo, levandomi ogni mio vestito.
Il suo alito mi nauseava.
Mi slacciò il reggiseno e
io non reagii. Mi accarezzò i capelli e io non reagii.
Si slacciò i pantaloni e
io chiusi gli occhi.
Non volevo vedere. Sentire
era già troppo. Più di quanto potessi
sopportare.Il suo corpo sul mio… la sua
pelle a contatto con la mia. La sua saliva tra i miei
capelli… le
sue mani sotto ai miei vestiti…
Avrei voluto perdere
conoscenza. Con tutti i colpi che avevo preso non sarebbe stato strano.
Almeno mi sarei
risparmiata tutto quel terribile dolore. Non avrei sentito il mio cuore
frantumarsi.
Ma non mi fu concesso
neanche quello. Rimasi vigile per tutto il tempo, che a me parve
un’immensità.
Mi afferrò i capelli
costringendomi a mettermi in ginocchio. Lui era in piedi, davanti a me.
Chinai il capo. Se si
aspettava che io facessi qualcosa, qualsiasi cosa, di mia iniziativa
era
proprio stupido. Al massino avrei potuto morderlo. Ecco
l’unica iniziativa che
poteva aspettarsi da me.
Sempre tenendomi per i
capelli mi obbligò a sdraiarmi supina sul mio letto su cui
si posizionò anche
lui.
E,
senza che io potessi
fare niente per oppormi, lui fece di me quello che voleva.
Usò il mio corpo senza curarsi
del fatto che io fossi un essere senziente, provvisto di
volontà propria, con
dei sentimenti… con dei desideri… con dei diritti.
Senza curarsi neanche di
essere gentile mentre abusava del mio corpo.
Non percepii neanche il
dolore iniziale nell’oceano di sofferenza in cui stavo
annegando.
Solo dopo qualche istante
mi accorsi di ciò che era successo.
Sentirlo
dentro di me era
insopportabile.
Avrei
voluto piantarli un
pugnale nel petto. Fargli più male possibile. Fargli passare
quello che stavo
subendo io.
Si
muoveva convulsamente
sopra di me, in preda ad una frenesia insaziabile. Il suo corpo mi
schiacciava.
Sembrava affamato mentre mi passava la lingua sulla pelle, mentre mi
mordeva,
mentre stringeva spasmodicamente il mio seno tra le sue dita violente.
Mi
faceva male. ogni suo gesto mi feriva lasciando dei segni indelebili.
Aveva smesso di urlare.
emetteva dei versi orribili. Mi facevano rizzare i capelli., lo stomaco
contratto in una morsa, il mio corpo che non rispondeva agli ordini del
mio cervello, come se non avessi più autorità sui
miei
muscoli.
Il suo corpo si irrigidì
per un secondo e poi lui emise un verso strozzato.
Era tutto sudato. Sorrideva
beato. Mi faceva schifo.
Era orribile.
Volevo morire.
Si chinò a baciarmi la
fronte e, spostandomi una ciocca di capelli, cercò di
guardarmi negli occhi.
Volsi repentinamente in
capo a sinistra perché non volevo incrociare il suo sguardo.
Non volevo dargli
quella soddisfazione. Si era già preso tutto di me. Non
volevo dargli anche
quello.
Mi colpì la guancia con un
ceffone e poi mi afferrò il viso. Io mi limitai a guardare
in alto, oltre la
sua orribile faccia. Mi arrivò un’alitata proprio
sul naso. Quanto diavolo
aveva bevuto?
Lo
sentii uscire da me. Mi
prese una ciocca di capelli e l’annusò.
< Sai piccola, era da
tempo che non lo facevo così coinvolgente. Con il pancione
non potevo neanche
toccare tua madre… ma tu… >
Non terminò la frase. Seppellì
il suo viso tra i miei capelli. cominciò a baciarmi, a
toccarmi.
io non reagivo. Le sue dita percorrevano il mio corpo, arroganti. ma i
suoi movimenti si facevano man mano più lenti e, poco dopo,
lo
sentii russare.
Rimasi
immobile a lungo.
Sentivo le lacrime continuare a scendermi copiose.
Il
peso del suo corpo mi
rendeva difficile respirare.
il suo odore mi nauseava.
Ogni muscolo, ogni
centimetro di pelle mi faceva male.
Non
so per quanto rimasi
immobile sotto di lui, incapace di compiere un qualsiasi gesto.
Ero…
sconvolta,
terrorizzata, ferita nel corpo e nell’anima.
Il tempo si era fermato
nell’attimo stesso in cui Phil si era preso ciò
che io non avrei voluto condividire con
nessun’altro all’infuori di Edward.
Mi aveva rubato il momento
più bello della mia vita. Non doveva essere così.
Non in questo modo…
Aveva rovinato la mia
stessa vita.
Quando
il telefonino che
tenevo nella borsa squillò, il mondo cominciò ad
avere due dimensioni.
Non solo lo spazio,
immobile, ma anche il tempo che mi stava sfuggendo dalle dita.
Ignorai il telefono e, con
lentezza, cercai di scivolare giù dal letto senza svegliare
Phil che dormiva
ubriaco, russando rumorosamente.
Non volevo svegliarlo.
Temevo mi avrebbe picchiato di nuovo.
Ero terrorizzata che mi
facesse di nuovo subire il dolore, l’umiliazione di essere
usata.
Riuscii a scendere dal letto senza svegliarlo. Lui
emise solo un grugnito e si girò su un fianco, continuando a
dormire.
Il mio primo istinto fu di
spaccargli la testa con il primo oggetto a portata di mano.
Volevo ucciderlo. Volevo
ma non avrei mai potuto.
In quel momento pensai che
nessuno mi avrebbe creduto se gli avessi detto la verità.
Era troppo assurdo.
Ignorai il sangue sul
pavimento e arrivai alla porta della camera. Avrei potuto
fuggire… ma per
andare dove? E poi, non potevo lasciare sola mia madre e il mio piccolo
fratellino appena nato.
Edward… Edward…
Nuda
e coperta di sangue,
andai in bagno. Piangevo. Muovermi era doloroso.
Non era così che avevo
immaginato la mia prima volta. Avrei voluto morire.
sperai di annegare, in
qualche modo. Magari immergendo la testa in un secchio
d’acqua.
Ma l’istinto di
sopravvivenza era troppo forte e non riempii nessun secchio.
Entrai nel vano
doccia e aprii l’acqua.
Non so quanto a lungo il
gettito caldo scorse sul mio corpo. non ricordo nulla di quei momenti.
So solo che ad un certo
punto ero seduta nel box doccia con le mani intorno alle ginocchia.
Piangevo a
dirotto, con il respiro interrotto dai singhiozzi. L’acqua
era diventata
fredda.
Avevo le braccia e le
gambe percorse da lunghi segni rossi, alcuni così profondi
che sanguinavano.
Mi accorsi di star
sfregandomi la pelle con le unghie, quasi a voler eliminare uno sporco
invisibile.
Uno sporco che era dentro
di me.
Dei
colpi secchi alla
porta mi fecero sussultare.
< Isabella, aprimi.
Dobbiamo parlare. Per favore. Piccola. Aprimi. >
A sentire quella voce mi
piegai su me stessa e vomitai. Bile che mi faceva bruciare la gola.
Continuò a bussare e a
chiamarmi finché io non uscii.
Mi ero avvolta in un
grande asciugamano che copriva tutto il mio corpo. Tremavo
da capo a piedi.
Aprii la porta e me lo
trovai davanti. Cercai di ignorarlo ma lui mi afferrò il
braccio, facendomi
cadere l’asciugamano.
Lo vidi soffermarsi con lo
sguardo sul mio corpo. su ogni centimetro di pelle.
Non vedeva i lividi, i
segni dei morsi. Le lacerazioni, i tagli, gli aloni
violacei… No. Lui vedeva
solo il corpo di una donna.
< Come sei bella… >
mi sussurrò cercando di sfiorarmi il seno.
Con un gesto improvviso,
scrollai il braccio facendogli perdere la presa sul mio polso.
< Non mi toc-ca-re.
> gli sibilai.
Lui non rispose.
Nuda, tornai in camera mia
e mi chiusi la porta a chiave alle spalle.
Mi maledii per non aver
fatto la stessa cosa la sera precedente. Tutto quello che mi era
successo era
stato causa mia. Avrei dovuto stare più attenta.
Calpestai il sangue e i
liquidi corporei secchi ed incrostati al pavimento e raggiunsi il mio
armadio.
Mi vestii con una lentezza esasperante.
Mi faceva schifo il mio
corpo. avrei voluto togliermi la pelle.
Quando uscii sul
pianerottolo, lui era lì che mi aspettava.
< Isabella… > il suo
tono si era indurito.
< Non osare parlarmi.
Io adesso vado alla poliz… >
Prima che potessi finire
la parola, mi ritrovai contro il muro. Le punte dei piedi non toccavano
terra.
Arrancavo in cerca d’aria.
Sentivo le gambe agitarsi nel vuoto.
Phil
mi stava soffocando.
<
Cosa! Non provare a
dire niente a nessuno di questa storia. Reneé mi lascerebbe
se sapesse che cosa
abbiamo fatto. Se sapesse che abbiamo fatto
l’amore… >
Con la poca aria che
riuscii a racimolare, gli sussurrai: < Non abbiamo fatto
l’amore. Tu mi hai
picchiata e stuprata… >
Strinse più forte.
Non avevo più aria. Tanti
coriandoli dorati riempirono il mio capo visivo i cui contorni si
facevano
sempre più vaghi, inghiottiti
dall’oscurità.
Improvvisamente le mie
ginocchia cozzarono contro il pavimento. Caddi carponi e tossii mentre
cercavo
di riempire i miei polmoni d’aria.
< Tu non dirai niente a
nessuno. E poi, sai benissimo che nessuno ti crederebbe.
Dirò che era consensuale.
Che eri d’accordo. Dirò che mi hai sedotto. Che
sei stata tu a venire da me. .
Ormai sei maggiorenne. E chissà a quanti l’hai
data via. Come a quel riccone di
Forks. Ti piaceva farti fare regali costosi, vero? E li pagavi in
natura, vero?
Sgualdrina come sei, che altro ci si poteva aspettare da te? >
Le sue parole mi ferirono.
Dopo tutto quello che mi aveva fatto, le sue parole affondarono dentro
di me
come una lama seghettata e smussata. Penetrarono lentamente,
squarciandomi il
petto.
Ma io non dovevo fidarmi
di ciò che mi diceva quel verme meschino.
Dovevo fidarmi di Edward e
delle sue parole. Che motivo avrebbe avuto lui di ferirmi? Edward mi
aveva
voluto bene. Dovevo fidarmi di lui. E poi, io non ero quel genere di
persona.
Non ricordavo niente di
quei due anni ma sapevo chi fossi. Non ero quel genere di persona.
Delle cose
materiali non poteva importarmi di meno. E poi… io odiavo i
regali.
Si chinò davanti a me e mi
disse: < Hai capito? Non dirai niente a nessuno. >
Il suo alito pungente mi
raggiunse.
Aveva bevuto ancora.
Non dovevo farlo
arrabbiare altrimenti avrebbe perso il controllo. Dovevo rimanere calma.
< Va bene, Phil. Non
preoccuparti. Non dirò niente a nessuno. >
Senza rispondere, si voltò
e scese le scale.
Quando i suoi passi si
esaurirono, mentre lui entrava nella sua stanza, mi raggomitolai in un
angolo e
cominciai a piangere.
Piansi fino a
prosciugarmi.
Lo sentii parlare al
telefono con suo fratello. Gli stava dicendo che il bimbo era nato, che
era un
bel maschietto sano e forte. E che quella notte aveva festeggiato con
due
bicchieri di vino.
“Festeggiato”
Venni assalita da un
conato che non poteva espellere niente.
Quando
ormai ero esausta,
mi alzai e mi costrinsi a scendere le scale. In cucina, trovai alcune
bottiglie
di vino vuote sul tavolo. Una, mezza piena, sul lavandino.
La presi e la svuotai nel
lavandino.
Poi, senza davvero essere
in grado di agire con lucidità, afferrai le bottiglie e le
scagliai contro il
pavimento.
Il suono del vetro che si
frantumava copriva i miei singhiozzi.
Mentre le lanciavo,
gridavo: < Fottiti! Fottiti! Vaffanculo! >
Le scarpe facevano
scricchiolare i frammenti di vetro che calpestavo.
Quando la mia rabbia si fu
esaurita, andai nello sgabuzzino.
Scopa, paletta… raccolsi i
vetri, pulii i residui di vino.
Presi dell’ammonniaca e la
mescolai all’acqua.
Poi trascinai il secchio
su per le scale, fino alla mia camera.
E lì, lentamente,
cominciai a lavare i pavimento cercando di togliere le macchie del mio
sangue.
Le lenzuola le gettai
nella pattumiera.
Lavai il bagno, togliendo
ogni traccia di sangue.
Poi
il mio sguardo cadde
sullo specchio, sul riflesso del mio volto.
Quella ragazza dal labbro
rotto e dai segni sul collo non potevo essere io.
L’occhio
gonfio e cerchiato di viola risaltava sul pallore della mia pelle.
Istintivamente,
afferrai la scatola di trucchi intonsi.
Passai
fondotinta, fard… per camuffare meglio i segni, misi la
matita e il mascara,
con l’ombretto… non mi ero mai truccata per
davvero. Solo un filo di matita
ogni tanto, un po’ di correttore e basta.
E adesso mi
stavo truccando e mi sentivo un pagliaccio.
Eppure dovevo nascondere
tutti i segni e quello era l’unico modo.
Quando riposi i trucchi ed
esaminai il mio lavoro, constatai che, per essere il primo tentativo,
era
venuto abbastanza bene. Il taglio al labbro non si vedeva nemmeno. Il
gonfiore
si notava appena.
Nessuno
avrebbe potuto
intravedere, sotto quella maschera, tutto il dolore che provavo e che
aveva assunto
la forma di lividi violacei…
Ok ragazze… ce
l’ho fatta.
Non avete idea della paura che avevo nel postare. Non so
dove ho trovato il coraggio.
Grazie per essere arrivate alla fine del capitolo.
Spero continuerete a seguirmi in
questo viaggio difficile...
Erika
Grazie, Francesca...
|
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Capitolo 16 *** Alas, ‘twas not ment to be ***
Salve ragazze,
sono molto stata molto felice di vedere che il capitolo
scorso è stato “apprezzato”. Mi ha fatto
davvero un enorme piacere perchè ero così
preoccupata!!!
Devo essere sincera? Mi aspettavo mails di protesta e gente
con la mannaia appostata sotto casa. e invece siete state tutte
carinissime nel lasciarmi quei commenti molto belli e di gran conforto!
Spero che la storia vi intrighi e che continuiate a seguirla
con interesse!
La trama è un po’ intricata e con risvolti
inquietanti ma
spero di renderla il più possibile realistica e chiara.
Comunque, per rispondere ad alcuni dubbi: Bella ha perso la
memoria con l’incidente ma sta cominciando a ricordare
qualcosa. Solo poche
immagini fugaci che però, pian piano, si fanno sempre
più precise e più
frequenti. Avendo smesso di prendere gli psicofarmaci, Bella
è inoltre molto
inquieta e questo contribuisce alla confusione che avverte dentro di
sé.
Non riesce a gestire i fatti che accadono intorno a sé e
ciò
che le succede. Il non reagire è determinato dal senso di
impotenza che prova
dopo ciò che Phil le ha fatto.
Per l’evolversi della
trama, vi chiedo di avere pazienza
ancora un attimo.
Dal prossimo cap la situazione si sbloccherà. Scusate se ci
ho messo tanto a postare ma sono capitoli molto complicati da elaborare
perché cerco
di non urtare sentimenti ed essere allo stesso tempo
“delicata” nello scrivere di
temi così sensibili.
Ora vi lascio
alla lettura del cap 15. spero vi piaccia.
CAP
15 Bella's POV
Alas, ‘twas not ment to be
Maledizione, non era
così che doveva andare
Non avrei potuto parlarne con
nessuno.
Chi mi avrebbe creduto?
E poi, Reneé avrebbe sofferto troppo. Non volevo
caricarla di questo peso, adesso che aveva appena avuto il bimbo.
Non potevo però permettere a quel verme di restare con
mia madre.
Appena fosse passato un po’ di tempo, non appena mia
madre si fosse rimessa, le avrei detto almeno parte della
verità. Non potevo
permettere che lui le facesse del male…
Ma non potevo neanche tenermi tutto quel dolore dentro
di me. Mi sembrava di scoppiare, di impazzire, di morire.
Avrei voluto passarmi la soda caustica nei punti in
cui mi aveva toccata. Punti che mi parevano bruciare.
Afferrai il cellulare. Quattro chiamate senza
risposta.
Jason.
Non avevo minimamente intenzione di richiamarlo. Era
proprio l’ultima persona che avrei voluto sentire.
Gli mandai un sms dicendogli che Reneé aveva partorito
e che ero per questo occupata.
Basta.
Le mie dita tremavano.
Poi digitai l’unico numero che mi sentivo in grado di
comporre.
Quello di Edward.
Avevo bisogno di lui. Volevo che mi portasse via da
quell’inferno insopportabile. Volevo che venisse a salvarmi
dal baratro in cui
sapevo star annegando. Avevo bisogno di lui…
Con mano tremante, premetti il tasto verde
ed attesi.
Invano.
Il cellulare risultava spento o non raggiungibile.
Mi ricordai della nostra ultima telefonata. Della sua
voce preoccupata.
Delle sue parole…
“Bella,
io voglio
che tu mi faccia una promessa. Mi devi giurare che mi telefonerai. Se
succede
qualcosa, qualsiasi cosa, tu mi devi telefonare, mandare un
messaggio… ed io
verrò ad aiutarti. Me lo prometti? Se non trovi me, puoi
chiamare Carlisle,
Esme, chiunque di noi. E noi verremo ad aiutarti.”
Non potei frenare
le lacrime.
Non me la sentivo di parlare con Esme o
con Carlisle. con loro non avrei potuto confidarmi. Mi vergognavo
troppo di
quello che era successo. Non era di loro che avevo bisogno, in quel
momento.
Però, potevo mandare un messaggio ad
Edward, chiedergli di richiamarmi il prima possibile…
Se davvero ci teneva a me, mi avrebbe
aiutata.
Nella mia mente continuavo a ripetermi:
“Edward, Edward, vienimi a prendere. Ti prego… ti
prego.” Rannicchiata in un
angolo, dondolandomi avanti ed indietro tra le lacrime, tenevo il
cellulare tra
le dita. Volevo scrivergli ma non sapevo come dirgli ciò che
era successo.
Mi sentivo così male, così sbagliata.
Forse, se glielo avessi detto, avrebbe
deciso di non volermi più del tutto.
Potevo rischiare?
Dovevo.
“ Edward, scusa se ti disturbo. Ho bisogno
di parlarti. È molto urgente. Richiamami. Per favore,
è importante. ”
Rimasi a fissare il display per venti
minuti prima di decidermi ad inviarlo, poi, inghiottendo il groppo che
mi
sentivo in gola, premetti quel maledetto tasto.
Sentivo
bruciare fastidiosamente e
dolorosamente il punto più recondito del mio corpo. Lo
sentivo pulsare. E quel
dolore mi ricordava in ogni istante ciò che era accaduto. Mi
impediva di
dimenticare anche solo per un istante.
Edward… Edward…
<
Isabella! > Sussultai, sentendo la sua voce.
Phil battè con forza sulla porta della camera del
bambino. Mi ci ero chiusa dentro a chiave. Mi rannicchiai ancora di
più nel
piumone nel cui mi ero avvolta,
accovacciata per terra, come in un vano tentativo di nascondermi al
mondo
esterno.
Mi faceva
venire la nausea l’idea di tornare in camera mia.
Quando ero andata a vestirmi e a pulirla, vedendo il
letto, avevo rivissuto tutto quello che era successo. Non potevo
sopportarlo
ancora..
< Isabella, esci immediatamente di lì! Tua madre ci
aspetta all’ospedale. Muovi il tuo culo venduto e vieni.
>
Impotente, aprii la porta e me lo trovai davanti.
Tenevo gli occhi bassi, evitando di incrociare il suo
sguardo.
Mi diede una spinta tra le scapole e per poco non
caddi giù dalle scale.
Il tragitto in auto non fu
disturbato da parola
alcuna.
Muti, entrambi.
Solo nel parcheggio lui mi disse: < Per quanto riguarda
quello che è accaduto questa notte, non credo che tu voglia
che tutti sappiano
quanto ti è piaciuto, quindi vedi di non aprir bocca. Saluta
tua madre e poi
vieni in auto. Intesi? >
Annuii. In silenzio, scesi e mi avvicinai
all’ingresso. Seguii Phil lungo i corridoi fino alla sezione
di ostetricia e
ginecologia.
Le pareti dipinte di rosa avrebbero dovuto trasmettere
sicurezza. A me incutevano timore.
La stanza di mia madre era la quinta del corridoio B.
Phil entrò senza farsi problemi. Io invece indugiai sulla
porta.
Reneé stata seduta sul
letto e aveva occhi solo per il
bimbo che stringeva al petto.
Aveva gli occhi lucidi.
< Reneé… come ti senti tesoro? Sei
riuscita a
riposare un pochino questa mattina? >
Si chinò a baciarle la fronte e le sistemò i
capelli
dietro all’orecchio.
Provai disgusto. Avrei voluto urlargli quanto mi
faceva schifo ma non ce la feci.
Stavo per piangere.
Le lacrime avrebbero sciolto il trucco e tutti
avrebbero visto l’occhio nero, il labbro rotto…
Mi voltai e cominciai a correre.
Sentii mia madre chiamare il mio nome, preoccupata. La
sua voce svanì quando mi infilai nelle scale. Le scesi di
corsa e, ovviamente,
inciampai. Riuscii a mettere le mani avanti e salvai denti, faccia e
tutto il
resto. Sentivo solo pulsare il ginocchio. Non era nulla in confronto al
terribile dolore che stavo patendo.
Alzai lo sguardo e vidi che mi trovavo al piano terra.
Vagai per alcuni minuti senza sapere dove andare.
L’istinto mi diceva di fuggire. Di andare lontano. Tornare a
Forks. Andare da
Edward a Syracuse.
Ma lo avrei trovato disposto ad aiutarmi? Non ne ero
tanto sicura.
Non mi aveva richiamata, non mi aveva mandato nessun
messaggio. Non gli importava niente di me.
< Signorina, posso
aiutarla? > Era stata una
giovane infermiera a parlarmi. Mi guardava in modo strano. Sembrava
preoccupata. Dovevo avere un aspetto orribile.
< Ehm, dovrei andare a trovare mia madre, in
ostetricia. Ha appena avuto un bambino… temo di essermi
persa. >
Lei mi sorrise e mi accompagnò ad un ascensore.
< Devi salire al quinto piano e poi girare a
destra, fino a che non vedi il rosa. > mi disse con un sorriso.
La
ringraziai e premetti il 5. raggiunsi le orribili pareti rosa pastello
e mi
diressi lentamente al corridoio B.
Entrai in camera tenendo lo sguardo basso.
< Bella! > dissero all’unisono Reneé
e Phil. La
prima sollevata, il secondo profondamente irato.
< Bella, mi hai fatto preoccupare. Perché sei
scappata in quel modo? Non vuoi conoscere il tuo fratellino? >
< Scusami mamma. Mi dispiace. È stata…
l’emozione.
Non volevo essere così… maleducata. >
< Vieni qui, piccola. > mi disse mia madre
facendomi spazio sul letto. Mi sedetti vicino a lei e mi lasciai
abbracciare. Sebbene
la sua presa fosse lieve e delicata, mi procurò dolore.
< Non preoccuparti, Bella. Tu sarai sempre la mia
piccola bambina. > e mi baciò sulla guancia.
Mi osservò attentamente e disse: < Tesoro, ti sei
truccata! > il suo tono era stupito.
< Oh… si beh… ecco… >
< Stai benissimo. È per Jason, vero? > mi
chiese
con un gran sorriso speranzoso dipinto in volto.
Come potevo deluderla? Come potevo dirle la verità nel
momento in cui teneva la ano a quel bastardo di Phil, con il loro
bambino
poggiato contro il suo seno?
< Beh, anche per te. era un’occasione importante.
Volevo essere carina. >
< Oh, tesoro… > mi accarezzò la
guancia. < Tu
sei così bella. E intelligente. Troverai qualcuno che ti ami
e sarai felice
anche tu come lo sono io adesso, con la nostra bellissima famiglia.
>
Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre mi
guardava e mi diceva quelle parole.
Phil le strinse la mano.
Forse non era colpa degli ormoni. Venni pervasa dal
panico.
< Mamma? Tutto bene? Perché piangi? >
Lei scosse la testa e distolse lo sguardo dal mio,
fissando il mio fratellino.
< Non è niente, piccola. Niente. non preoccuparti.
È colpa del parto. È stata dura.
Con te è stato più veloce. Non vedevi
l’ora di venire
al mondo.
C’è anche da dire che non ho più
diciannove anni… >
Sciolse la presa di Phil e, sempre cingendomi le
spalle con l’altro braccio, accarezzò il capo del
piccolo.
< I miei figli. Vi amo così tanto… >
< Oh, mamma… > le sussurrai baciandole la
guancia e trattenendomi dal piangere.
< Siete ciò che di più prezioso io abbia
al mondo.
>
Rimanemmo abbracciate per qualche minuto, in silenzio.
Quando ci separammo, Reneé sorrideva. Sembrava
così
felice.
Non potevo, non potevo dirle cosa era accaduto.
< Bella, forse è meglio se ora lasci tua madre
riposare. > la voce autoritaria di Phil ruppe il silenzio e mi
fece gelare.
Baciai mia madre sulle guance e accarezzai il mio
fratellino prima di lasciare la stanza.
Reneé mi saluto con un gran sorriso prima che Phil si
chinasse e la baciasse sulla bocca.
Ebbi un conato di vomito vedendolo. Vedendo cosa lui
avesse il coraggio di fare.
Mi diressi al parcheggio in silenzio ed entrai in auto
dove aspettai Phil a lungo. Sapevo che avrei dovuto scappare. Che avrei
dovuto
andarmene il più lontano possibile ma non ce la facevo. Ero
come incatenata,
avvinta a quell’inferno. Non riuscivo a fuggire.
Quando, circa un’ora
dopo, la portiera si aprì, io mi
ero quasi addormentata sul sedile posteriore, sebbene avessi fatto di
tutto per rimanere vigile. La notte precedente, dato ciò che
era successo, non ero riuscita a dormire. sentivo la stanchezza
pervadermi ma ero terrorizzata all'idea di dormire. avevo paura che
tutto succedesse di nuovo...
Phil non disse nulla. Non una parola per tutto il
tragitto.
Nel più completo silenzio parcheggiò e nel
più
completo silenzio io uscii dal veicolo dirigendomi a passo sostenuto in
casa. Una
volta dentro, corsi in camera mia. Mi chiusi dentro.
Osservai la stanza intorno a me.
Nulla lasciava pensare cosa fosse accaduto proprio lì
appena qualche ora prima.
Cercai di ignorare il bruciore che sentivo fra le
gambe e mi lasciai scivolare lungo il muro.
Piansi. Piansi a lungo fino a
farmi bruciare gli
occhi.
Il sole, che entrava dalla
finestra con l’angolazione
tipica del pomeriggio, mi
colpiva il
viso. Con la mano mi levai il trucco sciolto dal volto.
In silenzio mi diressi in bagno. Mi lavai, di nuovo. E
di nuovo fu inutile. Mi sentivo sporca e orribile. Una volta asciutta e
vestita, sgattaiolai al piano inferiore. Sentivo la televisione accesa
al piano
terra. Phil probabilmente non si era accorto che ero uscita dalla mia
camera.
Senza far rumore, entrai nel loro bagno privato. Cominciai a cercare.
Sospirai
quando vidi l’oggetto della mia ricerca. Una scatola di
pastiglie. Controllai
due volte per essere sicura di non prendere il medicinale sbagliato e
poi
assunsi la piccola pillola. Non volevo che ciò che era
successo la notte
precedente avesse delle ripercussioni per tutta la mia esistenza. Non
volevo
che ci fosse neanche la possibilità che restassi incinta di
Lui. Non avrei
potuto sopravvivere.
Con un sospiro, rimisi tutto al suo posto e lasciai il
bagno. A testa bassa, lasciai la stanza e, cercando di non fare alcun
rumore,
ritornai in camera mia. Controllai due volte di aver chiuso a chiave.
Una volta chiusami dentro, vidi
il telefonino
lampeggiare.
“Edward” pensai e corsi al piccolo apparecchio.
Le mie speranze svanirono non appena lessi il nome di
chi mi stava chiamando.
Era Alice.
Smise di vibrare. Non avevo risposto. Non ne avevo
avuto il coraggio. Notai che vi erano altre 9 chiamate senza risposta.
Mentre
piangevo non mi ero accorta che il mio cellulare stesse vibrando.
Stavo per riporlo nuovamente sul comodino quando
riprese a lampeggiare e vibrare.
Con un gesto automatico e, non so quanto, inconscio,
risposi.
Sentii la voce di Alice
all’altro capo del telefono e,
impaurita, stavo per chiuderle la conversazione ma la sua voce mi fece
desistere.
< Bella? Bella, ti prego, non riattaccare. >
< Alice? > La mia voce era roca. Si sentiva che
avevo pianto?
< Bella, per favore, non riattaccare. >
< Va bene, ok. >
Ci fu un attimo di silenzio e poi lei disse: <
Bella, senti… >
Sembrava mi volesse dire qualcosa ma, allo stesso
tempo, sembrava non ci riuscisse o non potesse.
< Ti ascolto. > la mia voce era quella di una
morta.
< Senti, io ed Esme stiamo pensando di venire a
trovare Reneé.
Ci ha detto che è nato il bambino… >
sembrava che
stesse cercando una scusa.
< Oh, sarebbe molto bello… se veniste.
Reneé
sarebbe molto felice di vedervi. Verreste solo voi?
< Sì. Edward e gli altri non possono lasciare la
scuola ma i miei corsi non sono ancora iniziati. Forse Carlisle riesce
a
prendere un paio di giorni di permesso, magari ci raggiunge…
> Di punto in
bianco mi chiese: < Bella, come stai? Perché prima
stavi piangendo? >
< Non stavo… come fai a saperlo? >
Sulla difensiva, lei mi rispose: < si sentiva.
Dalla voce. Come stai? Tutto bene? > Era preoccupata.
Di sicuro non poteva neanche immaginare cosa stesse
succedendo nella mia vita. Né era mia intenzione renderla
partecipe. Nessuno
doveva e poteva saperlo.< Sì.
Qui va tutto bene. >
< E allora perché piangevi? >
< Perché… perché…
sai, è nato il bambino. Sono
emozionata. È tutto così strano. Però
va tutto bene. Davvero. >
Lei non mi sembrava affatto tranquilla ma, per
fortuna, non volle approfondire ulteriormente il discorso.
Non so perché lo feci però, senza preavviso, le
dissi:
< Ho chiamato Edward, gli anche mandato un messaggio. Lui non mi
ha
risposto. Avevo bisogno di parlargli ma non si è neanche
degnato di rispondere.
È stato lui a dirmi che ci sarebbe stato, se avessi avuto
bisogno di lui. È un
bugiardo. Io avevo bisogno di lui e lui non c’era. >
Lei tacque per un istante e poi, con voce incerta mi
disse: < Ci sono io. E c’è anche Esme,
Carlisle. Potevi chiamare noi… > Sembrava
affranta.
< Io non avevo bisogno di voi. Avevo bisogno di
lui. > ribattei con voce tagliente. Più aspra di
quanto non avrei voluto. Mi
affrettai ad aggiungere: < Scusami. Non volevo essere scortese.
>
< No… no. Non preoccuparti. Senti, il nostro parte
domani sera. Noi arriveremo dopodomani, di mattina. Su tutti i voli
precedenti
non c’erano più posti liberi.
Reneé ha insistito per ospitarci a casa tua. Ha detto
che Esme e Carlisle possono dormire nella stanza degli ospiti ma io
dovrei
dormire in camera con te. È un problema? Se vuoi, possiamo
prendere una stanza
in albergo… >
< Ma no, non c’è alcun problema. Possiamo
usare la
poltrona letto. >
Mi sembrò molto sollevata dalla mia risposta e il tono
della conversazione si fece più leggero.
< Allora ci vediamo dopodomani mattina. Veniamo
direttamente a casa tua. >
< Non volete che vi passi a prendere Phil?avrete i
bagagli… > domandai incerta. Non volevo assolutamente
coinvolgerlo ma volevo
che tutto sembrasse normale. Una normale famiglia.
La sua risposta, fin troppo tempestiva, mi fece per un
attimo pensare che lei sapesse o sospettasse qualcosa. < No, No.
Non
preoccuparti. Non vogliamo disturbare più del necessario.
Noleggeremo un’auto.
Allora, ci vediamo domani mattina. >
< Va bene. A presto, allora. > e la telefonata
si concluse in quel modo.
Rimasi a guardare il telefonino
nella mia mano per
qualche minuto prima di decidermi a scendere le scale e andare a
parlarne con
Phil.
Lo trovai in salotto, sprofondato nella poltrona.
Appena mi vide appoggiò la lattina di birra per terra e si
mise seduto meglio.
Mi fece segno di sedermi sulle sue ginocchia.
Lo guardai sprezzante. < Penso che Reneé ti abbia
detto che alcuni dei Cullen verranno a farci visita dopodomani. I
signori
Cullen dormiranno nella camera degli ospiti e Alice starà in
camera mia. >
Si era alzato in piedi e si era messo davanti a me. Mi
squadrava minaccioso.
< Te lo dico a puro titolo informativo. Sai, non
vorrei che ti venisse qualche strana idea in mente e ti presentassi in
camera
nel cuore della notte. Alice potrebbe non gradire i tuoi modi. Se la
toccassi anche
solo con un dito, sono certa che ti denuncerebbe. Chissà che
non lo faccia
anche io. >
Un secondo dopo sentii la sua mano colpire il mio
viso. Mi fece cadere a terra, contro il divano. Restai immobile.
< Non permetterti di parlarmi in questo modo. Non
azzardarti a dire
nulla a chicchessia
altrimenti la prossima volta ti troverai qualcosa di peggio che un
labbro
rotto. > mi sibilò lui.
Mi afferrò il polso sinistro con forza. Tanto da farmi
male. Mi strattonò violentemente, ordinandomi di dire che
avevo capito. Mi
impediva di ripararmi il volto e temevo mi colpisse di nuovo. Per
questo gli
risposi di sì, che avevo capito e che avrei obbedito.
Soddisfatto, mi lasciò
andare il polso dolorante, tornando a sedersi alla sua poltrona.
In silenzio, ingoiando le
lacrime, mi rimisi in piedi
e, ondeggiando, tornai in camera. Mi ci chiusi dentro e, raggomitolata
tra le
coperte, mi addormentai piangendo.
Non ero riuscita a tenergli testa. Ero troppo debole
per contrastarlo.
< Edward! Edward! > sussurrai tra le lacrime
mentre cercavo di non pensare ai crampi della fame e al terribile senso
di
sporco che mi attanagliava, al bruciore che sentivo…
Edward… Edward…
Nonostante lo odiassi per avermi abbandonata, non
potevo fare a meno che pensare a lui. Era lui l’unico che
volessi vicino in
quel momento così doloroso. L’unico di cui mi
potessi fidare.
La testa mi pulsava, mi doleva
tutto il corpo. Non
dormivo da più di ventiquattro ore e, nonostante il terrore
che provavo
all’idea di chiudere gli occhi, non riuscivo più a
sopportare l’orrore della
consapevolezza. Inoltre, sentivo il bisogno fisico di dormire.
Immaginai di
coricarmi vicino ad Edward, di abbracciarlo, di sentire le sue braccia
intorno
al mio corpo.
E fu pensando a lui che mi
addormentai, stremata e
sconvolta.
|
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Capitolo 17 *** It was all Just a lie ***
Salve ragazze, scusate per
l’attesa. Vi volevo avvisare che
questo cap e il successivo in origine erano un testo unico che, per
motivi di
lunghezza, ho dovuto spezzare in due parti. Per questo
cercherò di postare il
cap successivo in tempo breve. Sono strettamente collegati anche come
contenuti
e perciò questo cap potrebbe sembrarvi un po’
“povero” e sconclusionato. Perdonatemi!
questo è un cap introspettivo, di transizione, in cui ho
cercato di immaginare quello che Bella prova ora che comincia davvero a
capire cosa le è successo. spero vi piaccia comunque.
Grazie a tutte quelle che hanno recensito o anche solo letto
la mia storia. Spero che continuerete a seguirmi.
A presto, Erika
Cap 15
It was all just a lie
Tutto
era solo una
menzogna
Quella notte
dormii un sonno tormentato.
Incubi bui non mi diedero pace.
Continuavo a svegliarmi e riaddormentarmi senza
riuscire a riposarmi davvero.
Alla fine, stremata, caddi in un sonno senza sogni.
Venni
risvegliata da secchi colpi alla porta.
< Isabella! Dobbiamo andare all’ospedale a trovare
tua madre. Esci immediatamente! >
Nascosi la testa sotto la trapunta. Non volevo
muovermi. Lo lasciai urlare tanto, da dietro la porta, non poteva fare
altro.
Non poteva farmi male.
Dopo molti minuti lo sentii gridare che mi dovevo
vergognare per il mio comportamento, che sarebbe andato da solo e che
mia madre
ci sarebbe rimasta molto male. Non gli risposi, limitandomi ad
ascoltare. Lo
sentii inveire contro di me, lo sentii scendere le scale con passo
pesante, lo
sentii mettere in moto l’auto e andarsene.
Solo in quel momento, quando seppi che lui era
lontano, riuscii a respirare di nuovo. Mi resi conto che, fino a quel
momento,
ero riuscita soltanto a catturare l’aria intorno a me.
Rimasi immobile a guardare il soffitto. Non avevo fame
ma sapevo di dover mangiare. I crampi allo stomaco mi ricordavano che
non
mangiavo dalla sera in cui Phil… No,non dovevo pensarci.
Sentivo la sete
bruciare la mia gola secca e le mie labbra screpolate, sentivo il
bisogno di
andare in bagno.
Sentivo il bisogno di tutto ciò ma non riuscivo a
rispondere a questi stimoli. Non riuscivo ad alzarmi.
Era troppo faticoso pensare di andare in bagno, di
abbassarmi i pantaloni e vedere le strisce di sangue sporcare gli slip.
Passare
davanti allo specchio e vedermi. Era troppo doloroso, troppo difficile.
Era
faticoso stare immobile, troppo stancante persino fissare la crepa del
soffitto. Per questo chiusi gli occhi. Per non vedere più
niente, per non
sentire più niente…
Nemmeno il mio corpo.
Mi raggomitolai sotto alla trapunta intenzionata a
sparire.
Quando
riaprii gli occhi, minuti, secondi, istanti,
ore dopo, decisi di alzarmi. Sbirciai oltre la coperta. Il cielo era
ancora
un’indistinta macchia grigiastra e la finestra era striata da
lunghe fila di
perline argentate intente a rincorrersi.
Pioveva. E questo mi fece sentire un po’ più a
casa,
un po’ più a Forks.
Mi misi lentamente a sedere. Il movimento mi provocò
un capogiro. Mi sentivo debole.
a tutto ciò si aggiunse il solito, ennesimo pulsare
alle tempie che ormai mi era fin troppo familiare.
Forse avrei dovuto ricominciare a prendere i farmaci.
Mi avrebbero ottenebrata a tal punto da farmi dimenticare? Ne dubitavo.
Ma
almeno mi avrebbero liberata da quelle terribili fitte.
Ascoltai attentamente i suoni che provenivano dalla
casa ma, escludendo il ticchettio ritmato della pioggia sul vetro, il
silenzio
era assoluto.
Phil non c’era.
Mi arrischiai ad alzarmi. In punta di piedi raggiunsi
la porta e, cercando di non fare alcun rumore, girai lentamente la
chiave nella
toppa. Tenendomi una mano premuta sul capo nel tentativo di alleviare
il
dolore, andai in bagno.
Davanti ai miei occhi, ogni volta che sbattevo le
palpebre, vedevo occhi rossi luccicare nella penombra. Era assurdo. La
mia immaginazione
me li riproponeva continuamente. Non ne potevo più. E
spesso, nella mia
mente,sentivo riecheggiare una risata cristallina, infantile, odiosa.
Ogni
volta un brivido mi percorreva la schiena.
Paure irrazionali se confrontate alla realtà, eppure,
riuscivano
comunque a inquietarmi come se fossero ricordi reali.
Cercando di reprime quei pensieri, feci tutto ciò che
dovevo fare senza mai guardare il mio riflesso. Sentivo che la palpebra
si era
gonfiata. Phil mi aveva colpita nello stesso punto del giorno
precedente. Dopo
il secondo ceffone, in quella circostanza chissà
com’era il mio viso...
Bevvi dal lavandino, tenendo le mani unite a formare
una coppa, perché non volevo scendere. Volevo espletare
tutte le funzioni
fisiologiche il prima possibile e tornare di corsa in camera,
chiudermici
dentro e non uscire più. Ma avevo così
sete… avevo così fame.
Il solo pensiero del cibo però mi suscitò una
stretta
allo stomaco.
Sentivo che, se avessi mangiato, sarei stata solo
peggio.
Ora che cominciavo a capire davvero
cosa fosse
successo, tutto mi sembrava troppo da sopportare.
il primo giorno era stato quasi irreale, non mi era
sembrato vero. Mi pareva di aver vissuto quelle ore quasi in uno stato
di
trance…
Adesso invece stavo elaborando ciò che mi era accaduto
e non ero certa di poter affrontare il peso della mia orribile
esperienza.
Dopo essermi accertata che Phil non fosse rientrato
mentre ero in bagno (l’auto non era nel vialetto) scesi in
cucina.
Mi sforzai di mangiare qualcosa per placare gli spasmi
dello stomaco. Optai per del pane e una mela. Mi sbrigai a mangiare e
pulire
per non lasciar traccia del mio passaggio e poi sgattaiolai in camera
mia.
Mi nascosi tra le coperte, avvolta nel lenzuolo.
Cercavo di non pensare, di non provare emozioni ma non
ci riuscivo. Tenevo le braccia incrociate intorno alle ginocchia,
cercando di
non disperdere il calore che mi infondeva quel falso abbraccio.
Mi accorsi di piangere. I singhiozzi mi rendevano
difficile respirare. Cercai di calmarmi e, senza accorgermene, ricaddi
nell’incoscienza priva di pace che erano i miei
incubi.
Mi risvegliai che era ormai mattina inoltrata. Non
c’era il sole. Il cielo era coperto da una spessa coltre di
nubi e minacciava
pioggia. Mi alzai lentamente. Tutti i muscoli del mio corpo doloranti.
Mentre
mi cambiavo, vidi i lividi violacei stagliarsi sulla mia pelle chiara.
I segni
rossi lasciati dalle sue unghie mi percorrevano la pelle per tutta la
lunghezza
delle cosce, lungo l’inguine, sul seno…
Cercai di reprimere le lacrime.
Mi vestii con le prime cose che trovai nell’armadio,
mi diedi una spazzolata ai capelli e scesi di sotto. Ero
così soprappensiero
che non badai alla valigia che trovai sul pianerottolo.
Una volta entrata in cucina però mi si gelò il
sangue.
Mi ero totalmente dimenticata.
A tavola,seduti insieme a Phil,
c’erano Esme, Carlsile
ed Alice. Tutti e quattro mi guardarono. Il volto di Phil divenne
viola, acceso
d’ira. Quello di Esme e Carlsile si dipinse di orrore mentre
ad Alice si spense
il sorriso sulle labbra.
Ero così repellente?
Imbarazzata, mi passai una mano sulla fronte per
scostare i capelli. Era un gesto automatico, che facevo sempre quando
ero
sovrapensiero. Questa volta però, passando con la mano,
sentii dolore. La
palpebra era ancora gonfia.
Mi ero totalmente dimenticata del loro arrivo e non mi
ero quindi curata di nascondere il livido con il trucco.
< Ehm… ciao. Scusate. Dormivo e non ho sentito la
sveglia… > cercai di giustificare il mio ritardo ma
venni zittita da Esme
che, alzatasi in fretta in piedi mi era corsa incontro per abbracciarmi.
< Bella. Tesoro… >Mi strinse delicatamente a
sé.
Inizialmente fui terrorizzata da
quel contatto. Chiusi
gli occhi in un gesto istintivo di autoprotezione. Inconsciamente
temevo mi
facesse male ma il suo abbraccio fu molto rassicurante. Mi venne
spontaneo
cingerla a mia volta e affondare il viso sulla sua spalla. Mi pentii di
non
averla chiamata. Forse, a differenza di quanto avessi pensato, loro mi
avrebbero potuto aiutare.
Sentii di essere sul punto di
crollare, di stare per
scoppiare a piangere. Avrei dovuto raccontare loro tutto? Ma come
potevo? E
poi, lì c’era Phil…
Non mi ero accorta che anche
Carlisle si fosse alzato
e mi fosse venuto vicino.
Appena Esme mi lasciò andare, mi ritrovai fra le sue
braccia. Un abbraccio paterno.
< Bella. > mi disse semplicemente. Il tono di
voce basso. Sembrava dispiaciuto.
Dopo pochi secondi mi allontanò da sé, tenendomi
sempre per le spalle, per potermi osservare meglio. Sentii il suo
sguardo sul
mio occhio livido.
Lo sfiorò lievemente e quasi non avvertii il suo
tocco. Poi la punta delle sue dita carezzò il taglio sul
labbro.
< Cosa ti è successo? > mi domandò
in tono
grave.
Stavo per rispondere ma sapevo che non sarei riuscita
a mentire. Non con lui. Aprii e chiusi la bocca senza emettere alcun
suono.
Sentivo il sangue imporporarmi le guance e alcune lacrime sfuggire alle
mie
palpebre. Chinai lo sguardo fissandomi le pantofole.
Carlisle mi prese con delicatezza la mano e alzò
lievemente la manica. Aveva notato i lividi che si diramavano dal
polso?
Sussultai al pensiero che vedesse i tagli sul mio avambraccio ma, per
fortuna,
sollevò solo un piccolo lembo della manica. Quel tanto che
gli bastava per
vedere bene la sagoma delle dita che mi avevano stretta e che avevano
lasciato
un livido simile ad un macabro bracciale.
< Bella? Come ti sei procurata questi lividi? >
mi domandò nel silenzio più totale. Sentivo la
tensione intorno a me ed io ero
pronta a sgretolarmi.
Ingoiai a vuoto, incapace di proferir parola, come se
fossi sul punto di confessare un atroce delitto.
Fu Phil rispondere al mio posto.
< Carlisle, ti pregherei di non farne parola a
Reneé… >
Per un infinitesimo di secondo pensai che avrebbe
confessato. Che, messo alle strette dall’ovvietà
dei fatti avrebbe ammesso
quello che mia aveva fatto. Poi però aggiunse:
< Sai, l’altroieri Bella è stata vittima di
uno
scippo. Due malviventi l’anno colta di sorpresa nel
parcheggio dell’ospedale.
L’hanno strattonata e le hanno tirato uno schiaffo. Per
fortuna stavo
sopraggiungendo e sono riuscito a metterli in fuga. Se solo fossi
arrivato
qualche attimo prima… era così sconvolta che ieri
non ha voluto venire con me a
trovare sua madre. È rimasta chiusa in camera tutto il
giorno… > sussurrò
mortificato. Sembrava davvero dispiaciuto. Ma ciò che
è peggio è che sembrava
sincero.
Provai un ribrezzo per l’uomo davanti a me tale da
costringermi a voltarmi. Come poteva dire quelle cose? Come?
Qualcuno, Esme, mi accarezzò il viso asciugandomi le
lacrime che, copiose, avevano cominciato a scorrere.
< Bella? Bella tesoro, non fare così. Vieni, ti
preparo una camomilla calda. Ti prego, calmati. >
Non mi ero accorta di tremare. Cercò di portarmi a
tavola ma non riuscivo a muovermi. Suo marito continuava a tenermi la
mano. La
strinse lievemente come per rassicurarmi.
Probabilmente era solo frutto della
mia immaginazione
ma mi sembrò di intravedere un lampo nei suoi occhi.
Ferocia? Rabbia?
La voce fredda e tagliente di
Carlisle fendette
l’aria. < E li avete denunciati? >
< E perché? Non sono riusciti a portarle via la
borsa e,in fondo, lei non si è fatta niente. Non volevo
agitare Reneé. Ha
appena avuto il bambino. >
< Quindi non l’hai neanche portata al
pronto-soccorso? > sotto la cortesia vi era una malcelata nota
di ira nella
voce del dottore.
< No, lei era molto scossa e mi ha detto di voler
tornare a casa. Ho preferito accompagnarla qui. E poi, è
solo qualche livido.
Avremmo allertato Reneé inutilmente e ora ha tante altre
cose a cui pensare… il
piccolo ha bisogno di attenzioni continue e Bella è ormai
abbastanza grande da
cavarsela da sola. > tentò di giustificarsi lui.
Fu Esme a ribattere: < Isabella ha nei confronti di
sua madre gli stessi diritti del piccolo nato. Reneè ha
diritto di sapere se la
figlia viene aggredita. E comunque, bisogna sempre denunciare le
aggressioni e
le violenze subite. > Nell’ultima frase, notai una
nota di rimpianto che mi
lasciò interdetta.
Carlilse osservò meglio il mio labbro, facendo una
leggera pressione. Provai dolore e il mio viso si contrasse in una
smorfia. Poi
tastò l’occhio, con molta delicatezza.
< Il labbro si rimarginerà, non preoccuparti.
Certo,un paio di punti forse sarebbero stati raccomandabili…
però andrà a posto
anche così. >
< Sì, avete ragione, indubbiamente, ma sapete, a
poche ore dal parto nessuno dei due voleva metterla in agitazione. E
poi, nel
parcheggio, non c’erano telecamere. Sarebbe stato inutile
avvisare la polizia e
ieri Bella era troppo sconvolta, vero piccola? > mi
interpellò usando un
tono dolce e gentile che raramente gli avevo sentito in bocca.
Mi limitai ad annuire.
Carlisle, senza smettere di fissarmi, mi lasciò andare
la mano. Prese la sua valigetta e ne estrasse due tubetti di crema.
< Tieni. Questa spalmala sull’occhio. Il livido e
il gonfiore spariranno presto. E questa, questa mettila su eventuali
escoriazioni. Sai, magari afferrandoti ti hanno graffiata.
Così eviterai che ti
si possano infettare. >
< Grazie… > sussurrai con un filo di voce.
Esme mi accompagno in salotto e pochi minuti dopo
apparve Alice. Teneva tra le mani una tazza e mi guardava addolorata.
Si
sedette alla mia destra. Esme era alla mia sinistra.
< Tieni, è una tisana calmante. Ti
aiuterà. > mi
sussurrò la ragazza.
Ringraziai e cominciai a bere a piccoli sorsi. Sentii
Carlisle e Phil. Stavano parlando del bambino. Il mio patrigno era
teso, lo
sentivo, e cercava di dare di sé l’immagine di un
felice neopapà orgoglioso.
Appena finii la tisana mi congedai da Esme e Alice.
< scusate… forse è meglio se vado a
cambiarmi, se dobbiamo andare a trovare
Reneé… >
Alice mi prese per mano e, con voce allegra e
spensierata mi disse:
< Sì, direi che è una magnifica idea. Dai,
mostrami
la tua camera. E permettiti di truccarti. Hai detto che non vuoi far
preoccupare tua madre, ma se ti vede così si spaventa di
sicuro. >
Mi cambiai in bagno. Non volevo che vedesse il mio
corpo coperto di lividi.
Quando tornai in camera, era già pronta con i trucchi
in mano. Nonostante non fossi entusiasta del contatto fisico che una
seduta di
trucco implicava, rimasi immobile per circa dieci minuti mentre le sue
mani si
muovevano, esperte, sul mio viso. Passavano delicate coprendo le
occhiaie e il
livido. Quando ebbe finito, nessuno avrebbe mai sospettato che il mio
occhio
avesse subito un colpo se non fosse stato per il leggero rigonfiamento.
In effetti,
non si notava neanche che mi avesse truccata.
< Wow, Alice, sei proprio brava. > avrei voluto
esprimerle la mia gratitudine ma la mia voce sembrava morta.
< Ti piace? So che non gradisci il trucco e quindi
ho cercato di mantenere un aspetto, per così dire, naturale.
>
< è fantastico. Grazie. >
< Non è niente… anzi, avrei voluto poter
fare di
più… >
Me lo ero solo immaginata il risentimento e il dolore
nella sua voce?
Mi accompagnò a sedere sul letto e,tenendomi per mano,
mi disse:
< Edward mi ha chiamato, questa notte mentre ero
all’aeroporto. Ha visto il tuo messaggio e le chiamate. Sai,
tiene il cellulare
sempre spento e lo riaccende ogni tanto solo per controllarlo. Era
molto
preoccupato per te. Non ti ha richiamata perché non voleva
svegliarti nel cuore
della notte. È stato davvero sollevato di sapere che ti
avrei raggiunta. Io
l’ho rassicurato, dicendogli che ti avevo parlato e che stavi
bene ma lui era
comunque molto in ansia. >
< Mi richiamerà? >
Le parole mi erano sgusciate dalle labbra, più lievi
di un sussurro. Nel sentire quelle di Alice, il mio cuore si era
leggermente
sollevato.
< Non sa se riuscirà a richiamarti oggi
perché sta
preparando un esame molto importante. Però mi ha detto di
salutarti tanto e di
non temere. Che ti chiamerà appena possibile. Ci tiene molto
a te. >
Sbuffai, scocciata.
< Se davvero ci tiene così tanto, perché
non trova
due minuti per chiamarmi? >
Mi prese con delicatezza le mani. < Bella, davvero,
lui vorrebbe ma non può. La disciplina a Syracuse
è molto rigida. Non è
permesso tenere telefoni all’interno delle strutture
scolastiche e Edward torna
al suo alloggio solo per dormire. È… complicato.
Ma l’importante è sapere che ti pensa.
Mentre eri in bagno gli ho mandato un messaggio. Gli
ho detto quello che è successo. >
Sussultai e lei se ne accorse. Con voce incerta
aggiunse: < Gli ho detto che ti hanno scippata ma che stai bene.
appena
potrà, ti chiamerà. Ora, perché non
andiamo di sotto? Sono certa che ci stanno
aspettando tutti. >
In effetti sia i suoi genitori che
Phil erano già
pronti in salotto e ci attendevano pazienti. Phil sembrava strano. Di
solito,
se ci avessi impiegato così tanto a prepararmi,mi avrebbe
gridato dietro di
tutto e tirato uno schiaffo. Adesso invece discorreva amabilmente con
Esme del
peso del piccolo Dwyer.
In macchina non mi rivolse la parola. Io mi ritrovai
seduta di dietro, incastrata tra Esme e Alice.
Phil tempestava di domande di puericultura Carlisle
mentre noi tre restavamo in silenzio.
In quel contesto, Phil sembrava un uomo innocuo,
gentile, persino gradevole. Mi chiesi dove nascondesse la sua vera
natura di
mostro… mi chiesi se avesse mai picchiato anche mia madre,
se avesse mai fatto
a qualcun altro quello che aveva fatto a me o se invece non fosse stata
solo
colpa mia.
NB: Le
telefonate
Alice-Edward.
Edward in realtà non
ha chiamato Alice all’aeroporto né ha letto o
ascoltato i messaggi di Bella. È
infatti costretto a restare dai Volturi che non gli permettono di avere
contatti autonomi con i suoi familiari. In realtà
è stato Carlisle a chiamare
il numero di referenza dei Volturi, dai quali delegati è
stato rassicurato:
Edward lo avrebbe richiamato l’indomani (ovvero il prox cap).
Alice nel frattempo
non dovrebbe trovarsi in luoghi in cui potrebbe essere rintracciata in
quanto è
consapevole che i Volturi vorrebbero impossessarsi dei suoi poteri
proprio come
hanno fatto con quelli di Edward.
Sono riusciti a
convincere Edward a restare in un modo moto semplice: < O resti
con noi o
uccidiamo la tua umana che, sebbene non ricordi nulla, è a
conoscenza del
nostro segreto. Quindi o la trasformi o resti con noi o la uccidiamo.
>
Indovinate quale
alternativa ha sceltu lui, con le sue manie da “io devo
proteggerla per il suo
bene e non è necessario che sappia come vanno le
cose” esatto… ha scelto la soluzione
sbagliata!!! Cioè, non quella sbagliatissima, quella era
lasciarla uccidere…
però non ha scelto quella strada che è sempre la
migliore! La
VERITA’
Ok… mi fermo qui perché
sto delirando.
Spero il cap vi sia
piaciuto e che molte di voi lascino un segno del loro passaggio.
Grazie infinite per
essere arrivate a leggere fino a questo punto!
A presto,
Cassandra-Erika
|
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Capitolo 18 *** Miserable, lonely and depressed (Pathetic) ***
Ragazze, come promesso, ho cercato di
aggiornare in fretta…
ed eccomi qui.
Ehm,
ci sono ricaduta. Lo so, sono incorreggibile. Questo cap
e il prossimo sono legati a triplo filo incrociato fra loro. Il
prossimo è proprio
il proseguimento di questo tanto come questo cap 17 è il
diretto successore del
16!
Infatti Carlisle
interverrà qui e nel prossimo capitolo ma
dovete pensare i due suoi interventi come estremamente ravvicinati,
distanti
solo una manciata di minuti, al massimo mezzora.
Ho inoltre dato un assetto definitivo ai prossimi capitoli. Il
cap 18
in
realtà è una costola (molto importante) del 17
(tanto per fare un riferimento biblico)
e il pov di Edward arriverà nel cap 19. da quel momento
però ci sarà “più
Edward per tutte”
Il giovin Eduardo infatti si
alternerà alla pulzella in
difficoltà assi più di sovente di quanto non
avesse sin ora fatto.
Domanda
importante:
Preferite che posti capitoli molto lunghi (10 pagine su word in times
new roman
12) o che li spezzi in due capitoli separati di circa 5 pagine word in
TimesNewRoman
12 (come gli ultimi due,o questo e il prossimo, per intenderci)
Fatemi sapere cosa preferite
così so come regolarmi.
Ho paura che, postando cap troppo
lunghi, la gente si annoi
a leggere ma, allo stesso tempo, dividendoli, temo di spezzare il ritmo
della
storia. Dividendoli inoltre gli eventi risultano più
“spalmanti” e non
condensati tutti insieme ma non so se ciò sia un bene o un
male.
Ogni capitolo, oltre a tutto ciò, dà
l’idea di un tempo che
si conclude nel capitolo stesso. Spezzandolo, si può dare
l’impressione che il
tempo fra le due parti sia dilatato quando in realtà
sarebbero passati solo
pochi minuti.
Molte volte mi faccio prendere dalle idee e scrivo, partendo
da una sola frase che mi da lo spunto, quelli che poi diventano
capitoli
interi.
Insomma, fatemi sapere come preferite. Io la storia l’ho
pensata (e scritta) come un unicum narrativo con dei tempi propri ed
è
difficile, una volta scritto, dividere l’elaborato in vari
capitoli di una
lunghezza il più possibile standardizzata.
Fosse per me, pubblicherei capitoli a volte lunghissimi e a
volte molto brevi perché nella mia mente la cosa migliore
è seguire il tempo
degli eventi della storia (un capitolo = un avvenimento importante)
Beh, insomma, credo di aver esposto (in modo contorto temo)
quali sono i miei dubbi.
Vi chiedo davvero di farmi sapere così da potervi venire
maggiormente incontro e rendere la vostra lettura più
gradevole.
Dopo tutto questo, vi assicuro che il
prossimo cap
(proseguimento diretto di questo, che infatti è un
po’ più breve del solito)
verrà pubblicato a breve.
Grazie a tutte voi che leggete, per
il vostro interesse
verso la mia storia, spero possa piacervi sempre.
Vi ringrazio anche per le recensioni che mi avete lasciato. Leggere
i vostri commenti mi incoraggia a continuare a scrivere
perché rende concrete
le voci di chi dedica del tempo a leggere ciò che scrivo.
Per questo, vi
ringrazio.
Erika
Cap
17
Miserable,
lonely and
depressed (Pathetic)
Miserabile,
sola e depressa (patetica)
Bella’s POV
< Esme! Alice! Come
sono contenta di vedervi! Dov’è
Carlisle? >
< Sta parlando con Phil e il tuo ginecologo. Ma
Reneé, ti trovo in gran forma. Stai benissimo. E il piccolo
dov’è? Oh, ma che
tesoro! È proprio un amore! >
< Avete già deciso il nome, presumo. >
< Sì, Si chiama Owen, come il padre di Phil. >
< Sai, è proprio un tesoro, proprio un bellissimo
bambino. >
Ascoltavo le loro chiacchiere seduta su una sedia,
mezza nascosta dall’armadio. Per lo più, cercavo
di ignorarle. Ma non era
facile fare finta di non sentire la risata cristallina di Alice, la
voce dolce
di Esme, o quella adorante di Reneé.
Fu proprio la sua a ridestarmi dal mio torpore.
< Bella, tesoro, perché te ne stai là
tutta sola?
Vieni anche tu a vedere il tuo fratellino. Ieri non sei venuta a
trovarci. Phil
ha detto che non ti sentivi bene. Mi sono preoccupata. >
Di malavoglia mi alzai e andai da loro.
< Cosa c’è? Sei triste? >mi chiese
non appena mi
sedetti vicino al suo letto.
< No, no. Sono solo un po’ stanca mamma, nulla di
che. Non ho dormito bene questa notte. Non preoccuparti. >
Presi il piccolo Owen tra le braccia e Reneé mi parve
molto rincuorata.
Lo cullai per qualche minuto osservando il suo piccolo
volto. Cercandovi i tratti di mia madre
e quelli del mio patrigno. Quel bel bambino era nato da
quell’orribile
uomo. Mi si strinse lo stomaco.
Pensai alla pillola che avevo assunto dopo che Phil…
pensai che forse… dentro di me…
Ricacciai indietro quel terribile pensiero.
Mi sforzai di sorridere a mia madre e a restituirle il
piccolo che aveva cominciato a vagire.
Proprio in quel momento Carlisle e Phil entrarono
nella stanza.
A quel punto Alice disse: < Reneé, ti spiace se io
Bella andiamo a fare un giro? Magari passiamo a trovarti questo
pomeriggio.
Immagino che avrete da parlare delle noiose cose da adulti. >
< Oh, Alice, sarebbe davvero carino da parte tua.
Bella non si distrae mai.
A proposito , tesoro, poi con la storia del parto non
mi hai più detto com’è andata con quel
ragazzo.
Quel
Jason… > e mi sorrise in
modo complice.
Il volto di Esme si illuminò di un sorriso sincero ma
malinconico.
Io mi sentivo bruciare di dolore mentre mi sforzavo di
sorridere. Il risultato non fu un gran che visto che Carlisle mi venne
vicino e
mi strinse comprensivo una spalla.
< Mamma… mi metti in imbarazzo… >
sussurrai a
mezza voce.
Fu Esme ad intervenire. < Perché tesoro? È
una
bella cosa trovare qualcuno con cui stare bene insieme. >
Arrossii fino alla punta dei capelli e abbassai lo
sguardo. Le mie calze erano estremamente interessanti.
Fortunatamente Alice mi trascinò via da tutto
quell’imbarazzo parlando di un paio di scarpe che aveva visto
quella mattina
mentre venivamo in ospedale, in una vetrina di una boutique.
Fuori diluviava e riparammo presto dentro una
yogurteria.
Lei non prese niente ma io ordinai un frappé. Non
ricordavo neanche l’ultima volta che avevo mangiato per
davvero ma sentivo che
il mio corpo era debole. Avevo bisogno di energie. Rimanemmo
a chiacchierare del più e del meno
tanto a lungo che fui costretta ad ordinare di nuovo dato che il
cameriere
sembrava un po’ scocciato dalla nostra lunga permanenza.
Stranamente, non mi
venne la nausea. Forse, era perché ero con Alice che
riusciva a distrarmi dai
brutti pensieri.
Alice telefonò a sua madre dicendole che avremmo fatto
un giro e non saremmo tornate a casa per pranzo. Finì che
trascorremmo fuori
l’intero pomeriggio. Era strano stare con lei. Sembrava tutto
così, come dire,
naturale. Con lei riuscivo a parlare di quello che provavo verso il mio
passato
assente. Certo, non mi azzardai a parlare di quello che succedeva a
casa e lei,
stranamente, non mi aveva fatto nessuna domanda che potesse anche solo
ricondurre il discorso a Phil.
Sembrava quasi che lei sapesse…
“No, che idea stupida” pensai tra me e me mentre
lei
cominciava a chiedermi delle lezioni di musica, dopo avermi parlato di
quanto
fossero carini gli orecchini che avevo comprato per mia madre.
“come potrebbe sapere? Sono solo fissazioni. Sto diventando
paranoica…”
Passammo a trovare Reneé
durante l’orario di visita
pomeridiano. Vedere Phil baciare sulla bocca mia madre, mentre teneva
il
bambino tra le braccia, aveva totalmente cancellato la gioia che ero
riuscita a
racimolare con fatica nel corso della giornata.
Il mio umore era colato a picco e, nel tentativo di
risollevarlo Alice mi convinse a fare un altro giro per negozi. Mi
costrinse a
comprare un sacco di cose e mi tempestò di domande su Jason.
Le mie risposte erano laconiche e, dopo un po’, smise
di farmi domande.
Trovava sempre qualcosa da fare, qualcosa da vedere,
qualcosa da comprare… sempre un motivo per non tornare a
casa.
Ci ritrovammo a vagare sotto la pioggia. Pioveva a
dirotto e, a ora di cena, stavamo correndo sotto un ombrello sul
vialetto della
villetta di Phil e Reneé.
Appena entrate in casa incrociammo
Phil che ci squadrò
da capo a piedi e, con aria disgustata, ci intimò di
lasciare fuori le scarpe
infangate e di non osare camminare sul parquet con i vestiti grondanti
d’acqua.
Io ed Alice ci scambiammo uno sguardo di intesa e ci
togliemmo scarpe e giacchetta impermeabile. Per poco non mi si
scoprì la
manica. Mi si gelò il sangue nelle vene e mi accertai subito
che nulla fosse
visibile. Per fortuna Alice sembrava distratta dai lacci fru-fru dei
suoi
attillatissimi pantaloni.
Anche se avrei potuto giurare che, con la coda
dell’occhio, mi stesse scrutando attentamente.
Prima di entrare in cucina, dalla quale sentivamo Esme
e Carlisle ridere e chiacchierare, Alice mi spiazzò.
< Certo che il marito di tua madre è proprio
antipatico. Come fai a sopportarlo? >
< Non lo sopporto. > mi sfuggi dalle labbra. Mi
pentii subito di ciò che avevo detto.
Alice non mi staccò gli occhi di dosso neanche per un
istante. Salutammo i suoi genitori, intenti a finire di preparare la
cena e ci
occupammo di apparecchiare, dopo esserci cambiate i vestiti zuppi. Lei
si
cambiò in camera mia mentre io andai in bagno. Non volli
guardarmi allo
specchio. Non volli vedere.
A
tavola sembravano tutti troppo intenti ad osservare
le carote e i pomodori per buttarsi in una conversazione che andasse
oltre i
commenti all’ottima cucina di Esme o alla bella carta da
parati scelta da
Reneé. Ben presto gli argomenti si esaurirono e, visto che
alla radio avevano
detto che avrebbe piovuto per almeno altri quattro giorni, non si
poteva
neanche parlare del tempo…
Per fortuna la cena finì in fretta. Carlisle ed Esme
erano cortesi ma distanti mentre Alice rimase silenziosa per tutta la
cena.
Io, dal canto mio, me ne rimasi zitta e mangiucchiai
qualcosa solo per non ferire Esme.
Tornando a casa mi era passata la fame.
Vedere Lui mi
aveva fatto passare la
fame.
So
che era sbagliato, so che era la mia opportunità ma
non riuscivo proprio a cogliere l’occasione. Stare con Alice
mi aveva ridato un
po’ di serenità ma loro se ne sarebbero andati
presto, lasciandomi di nuovo con
lui. Allora avrei preferito che se ne andassero subito, così
da porre fine
all’ansia latente in me. La consapevolezza che quella
felicità effimera sarebbe
finita presto mi faceva mancare l’aria. Volevo che i Cullen
rimanessero per
sempre o se ne
andassero il più in
fretta possibile. Nel primo caso io mi sarei sentita al sicuro, nel
secondo,
sarei rimasta di nuovo sola così da potermi di nuovo
rintanare in camera mia.
Nascondermi nel mio bozzolo di coperte e non farmi mai più
vedere.
Avrei voluto annegare nel
succo d’arancia…
< Bella, tesoro, ti va una
fetta di dolce? >
Sì, forse avrei potuto tener duro quanto? Altri tre,
quattro giorni… poi i Cullen sarebbero tornati a casa loro e
io avrei potuto
tornare allo stadio larvale in cui mi riducevo ogni volta che rimanevo
sola con
Lui in casa…
< Bella? Bella? >
Sì, avrei dovuto cercare di almeno sembrare felice,
almeno quel tanto da non destare sospetti…
< Isabella? >
< Eh? Come scusa, Carlisle? >
< Bella, va tutto bene? >
< Sì… perché? >
< Cara… > mi fece Esme accarezzandomi il dorso
della mano < Volevo sapere se per caso gradissi una fetta di
dolce… >
< Oh, no. Grazie. Sono piena. >
Vidi che ormai
i piatti erano tutti vuoti e mi alzai, prendendoli e cominciando a
sparecchiare. Alice servì il caffè mentre
Carlisle prese la torta che Esme
aveva preparato e che in quel momento si trovava su un ripiano della
credenza a
raffreddare.
< Beh… io vado di
sopra. >
< Ma come, tesoro, vai già a dormire? Sicura di non
volerne una fetta? non ti senti bene? >
< Oh… no Esme… è
che… sono molto stanca. Allora,
Beh, io vado. Buona notte. Ci vediamo su, Alice. Prendo io la poltrona.
Dormi
pure nel mio letto… adesso ti cambio le lenzuola. >
< No, Bella, non se ne parla. Dormo io sulla
poltrona. >
Dalle scale le urlai: < Non ci pensare nemmeno. Sei
mia ospite! >
Mentre stavo già per
salire i primi scalini,mi accorsi
che Carlisle mi aveva seguita. < Bella
>
< Sì? > mi bloccai a mezzo scalino.
< Ti dispiace venire un attimo? Ti ruberò appena
qualche minuto. Vorrei parlarti. >
Non trovai modo di rispondere. Ero terrorizzata. Non
riuscivo a deglutire e mi sentivo le gambe tremare. Non riuscii ad
inventarmi
una scusa valida e decente per dirgli che non avevo nessuna intenzione
di
seguirlo e di parlare con lui. non riuscii a emettere alcun suono, non
riuscii
a sembrare normale.
Non riuscii a fare nessuna di queste cose e quindi mi
limitai ad annuire e a seguirlo nella stanza degli ospiti, dove mi
aveva condotta
tenendomi un braccio intorno alle spalle.
Carlisle accese la luce e mi
invitò a sedermi sul
letto.
Lui si accomodò sulla sedia davanti a me.
< Ehm… > sussurrai tormentandomi le mani. Ero
tesa come una corda di violino.
< Ti vedo un po’ agitata, Bella. Tutto bene? >
< Oh… sì, certo. Tutto bene. > Mi
sistemai i
capelli nervosamente, evitando accuratamente l’occhio
leggermente gonfio.
< Sai, mi dispiace che ti abbiano aggredita. Sarai
molto turbata… dev’essere stato uno shock. >
Rimasi in silenzio a fissarmi le mani poi, dopo un
profondo respiro, mi decisi a parlare.
< No, no… in realtà non è stato
niente… è successo
tutto così in fretta. Non mi sono neanche
accorta… hanno cercato di togliermi
la borsa ma mi sono divincolata e sono scappati. >
< Beh, però sono riusciti a farti male. >
< No… in realtà non è niente.
Passerà presto. E
poi, appena ho cominciato ad urlare si sono spaventati e sono scappati
via. Mi
hanno tirato solo un pugno… >
< Avevo capito che ti avevano tirato uno schiaffo.
>
< ehm… beh, non ricordo molto bene. >
< Sì, capisco. >
Mi poggiò la mano sulla spalla e aggiunse: < Per
fortuna che Phil è arrivato in tempo. >
< Sì. Davvero. > Dissi in tono basso e
distaccato.
< Comunque, a parte quello che è successo
ieri-l’altro, come stai? >
< Bene. > risposi fin troppo in fretta. Cercando
di rimediare alla mia risposta precipitosa, aggiunsi: < Sto
abbastanza bene,
grazie. Non vedo l’ora che mamma torni a casa con il bambino.
>
< non voglio che tu pensi che io mi intrometta ma
ho visto che prima non hai preso le tue medicine e ho chiesto ad Alice.
Mi ha
detto che non le hai prese neanche oggi. Come mai? >
Cercai di inventarmi il più in fretta possibile una
scusa e in un soffio dissi: < sai, mi hanno cambiato i dosaggi.
E adesso le
prendo la mattina, appena sveglia… > sperai di essere
sembrata abbastanza
convincente. A giudicare dalla sguardo di Carlisle, lui non doveva
credermi del
tutto tanto che aggiunse: < in questi giorni come ti sei
sentita? bene? Hai
avuto dei mancamenti, dei capogiri? Magari dei mal di testa improvvisi?
Hai
delle brutte occhiaia e mi sembri un po’ sciupata…
>
< No, no. Va tutto bene. È che al momento sono un
po’ stanca. Sai, con il piccolo Owen e tutto il
resto… anzi, adesso vado a
dormire. Alice mi ha strapazzata tutto il giorno. Non riesce a stare
ferma un
attimo! >
Scoppio a ridere e il clima teso che avevo avvertito
fino a pochi istanti prima svanì in un attimo.
< Non dirlo a me! È un uragano quella ragazza. Non
siamo mai riusciti a stancarla abbastanza da farla stare ferma.
> mi alzai
dal letto e andammo sul pianerottolo. Ci augurammo la buona notte e io
salii in
camera mentre lui scese in salotto.
Appena superato il pianerottolo con la camera di Reneé
e Phil,sentii la voce di quest’ultimo.
< Bella. >
La mia bocca secca non mi permise di rispondergli.
< Bella, di cosa avete parlato, tu e quel dottore.
> il suo tono era moderatamente distaccato.
Niente. Non riuscivo ad aprire bocca.
Con voce un poco più alta e con tono autoritario, mi
intimò di rispondere.
Mi sforzai e dissi: < Niente. Non abbiamo parlato
di niente. >
Chiusi gli occhi. Sapevo cosa stava per succedere. Era
accaduto più volte.
Come sempre, non avrei reagito.
Ma il colpo non arrivò. Forse, aveva paura di farmi
del male se c’era qualcuno pronto ad intervenire per
difendermi.
Abbassò la mano e si voltò, lasciandomi sola.
Corsi su
per le scale, fino in camera mia.
Appena mi fui chiusa la porta alle spalle mi lasciai
cadere a terra, scoppiando in lacrime.
Non avevo neanche acceso la luce. Cercai di soffocare i
singhiozzi
perché non volevo che qualcuno mi sentisse. Tiravo pugni a
vuoto contro il
pavimento. Rimasi seduta a terra con la testa poggiata tra le gambe
finché il
mio respiro non si fu ristabilizzato.
Sentii bussare alla porta e mi ricomposi.
< Posso entrare? > mi domandò Alice. Sembrava
in
pensiero.
< Un secondo… arrivo. > mi asciugai le ultime
lacrime e mi alzai. Aprii la porta e accesi la luce.
< Uhm… tutto bene? >
< Sì, Sì… >
< Hai pianto? > mi domandò con tono
indagatore,
scrutando i miei occhi rossi.
< Eh? Come? Oh… beh, sì… sai,
sono un po’, come
dire… mi stanno per arrivare le mie cose e sono un
po’ triste perché Reneè sarà
molto occupata e tutto il resto… >
< mh… capisco. È normale essere
scombussolate. Dopo
ieri poi… >
Mi limitai ad annuire, cercando di non manifestare
troppo le mie emozioni.
< Senti… al telefono c’è una
persona per te. >
Sentii le mie guance imporporarsi e gli occhi
illuminarsi. La breve fiamma di speranza si smorzò non
appena Alice si fu
affrettata ad aggiungere:
< Credo si tratti di quel ragazzo… Jason…
>
Sentii il mio sorriso appena abbozzato morirmi sulle
labbra.
Dato che rimanevo ferma immobile, Alice aggiunse: <
Credo che tu debba scendere e rispondere… ti sta aspettando.
>
< Sì, grazie. Ci vediamo fra poco.
Cercherò di fare
in fretta. > dissi in modo sbrigativo. Di rimando lei mi
rispose: < Non
preoccuparti! Fa pure con comodo! >
Non le risposi neanche.
<
Pronto, Jason? >
< Ciao Bella. Come va? Ti disturbo? >
“ Va malissimo e ora che sento te va anche peggio.
Certo che mi disturbi. ”
< no! Non mi
disturbi affatto. Qui va tutto bene, grazie. >
< Beh, ti ho chiamato perché volevo sapere come
stesse
tua madre, e il tuo fratellino, ovviamente. >
“ e a te che cavolo te ne frega! Non puoi farti gli
affari tuoi invece che tediarmi? ”
< Stanno bene, tutti e due. Reneé era un
po’ stanca
ma è molto felice. >
< Sono contento che stiano bene. Senti… mi chiedevo
se, una di queste sere, potevo invitarti fuori. Possiamo andare a
ballare da
qualche parte, se ti va… sai, fintanto che tua madre
è in ospedale. Quando
torna magari avrà bisogno che tu
l’aiuti… >
< Ehm.. Jason, in questi giorni ci sono degli amici
di famiglia ospiti da noi. Non posso proprio. Hanno una figlia della
nostra età
e sarebbe molto scortese da
parte mia
uscire e lasciarla qui, sola ad annoiarsi. >
< Oh… beh, sì, capisco. Allora magari ci
vediamo
quando tua madre sarà tornata a casa e i vostri amici
saranno partiti. >
< Sì. Forse è meglio. >
< Chiamami. >
< Va bene. >
< Buona notte, Bella... >
< Notte, Jason. >
Riagganciai e Andai in cucina a
bere un bicchiere
d’acqua. Phil entrò dopo di me, senza che me
accorgessi. Mi voltai con il bicchiere
colmo e, quando lo vidi, ebbi paura. Non volevo restare sola con lui.
Vidi la vena sul suo polso tremare. Era arrabbiato.
Evidentemente aveva aspettato un momento per rimanere solo con me. Si
avvicinò
a me.
Non riuscivo a muovermi.
Carlisle ed Esme erano in camera loro. Alice era in
camera mia. Non ero certa che mi avrebbero sentito se avessi chiesto
aiuto. E
poi, cosa avrei fatto? Sarei tornata a Forks da mio padre? Avrei
denunciato
Phil? Avrei avuto la forza necessaria?
Si avvicinò ancora di più a me ed io cominciai a tremare, terrorizzata che mi facesse male di nuovo.
No, non sapevo dove trovare la forza necessaria per ribellarmi...
Mi squadrò da capo a
piedi e poi, dopo avermi lanciato
uno sguardo carico d’odio, si posizionò davanti a me.
PS: Molte domande mi sono state
rivolte riguardo a quanto
abbia visto e sappia Alice. Sarà lei stessa a rispondere a
questa domanda fra
un paio di capitoli.
Il succo comunque è questo: Lei vede le conseguenze delle
decisioni (per cui quando Phil decide di picchiare Bella, sebbene pochi
secondi
prima) lei riesce spesso a vederlo ma per quanto riguarda
l’azione più
riprovevole, lei non ha potuto vederla (e quindi non ne sa niente)
perché Phil
non ha deciso di stuprare Bella; si è bensì
abbandonato totalmente agli
istinti.
Inoltre, Edward aveva detto ad Alice di non
“sbirciare” più
nel futuro di Bella.
Spero di aver chiarito i vostri dubbi.
Ci vediamo fra un paio di giorni (spero)
Grazie di tutto, spero che il cap sia
stato di vostro gradimento.
PS: se cambiassi definitivamente il rating da arancione a ROSSO, quante di voi non potrebbero più leggere? se mi fate sapere, al max scrivo Rosso all'inizio dei capitoli che sforano nella "zona Adulti" ... Let me know.
Ciao!
|
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Capitolo 19 *** Of all the things I hid from you I cannot hide the shame ***
Bene, spero che questo aggiornamento vi possa risultare
gradito!Ho cercato di aggiornare in fretta.
Sto pensando di escogitare un sistema per pubblicare senza
sconvolgere le menti candide delle più giovani fra voi. Non
ci saranno scene di sesso spinto o violento però non
vorrei comunque dare fastidio.
Le
possibilità sono:
-
pubblico tutto
autocensurandomi
-
pubblico nella ff
solo le parti più soft mentre “apro”
un'altra
ff con le versioni hot dei capitoli censurati, ovviamente sotto rating
rosso.
Fatemi sapere quello che preferite!
Vi
ringrazio per le bellissime recensioni,
Ciao e a presto,
Erika
Cap 18
Of all the
things I hid from
you I cannot hide the shame
Di
tutte le cose che ti ho celato non
posso nascondere la vergogna
Bella’s
POV
Andai
in cucina a bere un bicchiere d’acqua.
Phil entrò dopo di me, senza che me accorgessi. Mi
voltai con il bicchiere colmo e, quando lo vidi, ebbi paura. Non volevo
restare
sola con lui.
Vidi la vena sul suo polso tremare. Era arrabbiato.
Evidentemente aveva aspettato un momento per rimanere solo con me. Si
avvicinò
a me.
Non riuscivo a muovermi.
Carlisle ed Esme erano in camera loro. Alice era in
camera mia. Non ero certa che mi avrebbero sentito se avessi chiesto
aiuto. E
poi, cosa avrei fatto? Sarei tornata a Forks da mio padre? Avrei
denunciato
Phil? Avrei avuto la forza necessaria?
Mi squadrò da capo a piedi e poi, dopo avermi lanciato
uno sguardo carico d’odio, si posizionò davanti a me.
Tremavo.
Mi afferrò il polso, là dove le sue dita erano
ancora
impresse sulla mia pelle, e mi strinse forte. Molto forte. Potevo quasi
sentire
le palpitazioni dalle sue vene trasferirsi alle mie ossa tanto forse
era la sua
presa. Costrinse il mio braccio a compiere una torsione terribile, che
mi fece
dolere l’intero arto. Sembrava volesse spezzarmelo.
Aumentò ancora la pressione
della sua stretta e dovetti mordermi un labbro per trattenere
l’urlo che mi
nasceva spontaneo. Serrai gli occhi. Sentii il sangue sulla mia lingua.
Con un
gesto involontario, spasmodico, le mie dita si tesero e il bicchiere
scivolò.
Cadde a terra, frantumandosi.
Phil sussultò e, dopo un violento, dolorosissimo
strattone, mi lasciò andare.
Avvicinò il volto al mio orecchio e sibilò:
< Non
fare stronzate. > poi, sprezzante, sputò nel
lavandino. L’acqua che aveva
continuato a scorrere aveva nascosto a tutti il rumore del vetro, le
sue
minacce.
Si voltò e mi disse: < Pulisci questo casino.
>
poi uscii, lasciandomi sola. Camminando, calpestò alcuni
frammenti di vetro,
sbriciolandoli e provocando un suono inquietante e sgradevole.
Ancora profondamente turbata, chiusi l’acqua. Mi
assicurai di riuscire ad aprire e chiudere le dita della mano. Mi
chinai e
cominciai a raccogliere i frammenti del bicchiere.
< Bella? > La voce di
Carlisle mi fece
sobbalzare cogliendomi di sorpresa, tanto che strinsi involontariamente
la mano
intorno al grosso frammento di vetro che stavo raccogliendo.
< Ahia! > strillai aprendo di colpo la mano che
avevo serrato.
Mi ero procurata un taglio lungo e profondo sul palmo
della mano.
Con la mano sana mi afferrai il polso, terrorizzata da
tutto il sangue che aveva cominciato a sgorgare dalla ferita aperta.
Carlisle
corse al mio fianco e si inginocchiò accanto a me.
< Oddio Bella! Attenta, attenta, non volevo
spaventarti. Ma fammi vedere il taglio. >
Lo esaminò accuratamente per alcuni istanti, attento a
non farmi male; sospirò e un sorriso malinconico
affiorò sul suo bel volto.
Sentivo il taglio bruciare e la mano pulsare in prossimità
della ferita. Il mio
stomaco stava cominciando a dare segni di cedimento..
< Non ci sono frammenti, per fortuna. >
Quella frase… fu quasi un dejavù. Chiusi gli
occhi e
vidi Edward prendermi tra le braccia mentre Carlisle teneva fermo il
mio
braccio, dal quale un abbondante rivolo di sangue sgorgava
copioso… che strano
pensiero…
< Vieni,
devi lavare immediatamente la mano sotto l’acqua. >
Mi accompagnò gentilmente al lavandino tenendo la mia
mano delicatamente nella sua.
Per prima cosa si lavò le mani poi mi sciacquò
gentilmente la zona che sanguinava. Bruciava…
Dicendomi come
tenere la mano per evitare che sanguinasse e tenendovi premuto sopra un
piccolo
panno, mi aiutò a sedermi al tavolo.
Sentivo le gambe molli. Odiavo il sangue… avevo la
nausea.
Esme ci vide e, dalle scale, venne verso di noi.
Sembrava preoccupata.
< Esme, cara, Bella si è tagliata con un pezzo di
vetro. Mi porteresti la mia borsa e un asciugamano pulito? >
Sua moglie annuì, seria, e tornò in un attimo con
tutto ciò che Carlisle le aveva chiesto poi si
allontanò. Sembrava
profondamente turbata.
Forse neanche a lei piaceva il sangue.
Carlisle stese
l’asciugamano sul tavolo e mi ci fece
poggiare la mano. Afferrò dalla sua borsa da medico delle
garze, una siringa e
quello che somigliava in modo inquietante a un filo dentro a un
sacchetto
trasparente. < Non preoccuparti, è sterile. >
mi disse scrutando il mio
volto preoccupato. Poi aggiunse con voce calma e misurata: <
Sarebbe meglio
che ti mettessi dei punti. >
Annuii, pallida. Sentivo lo stomaco in subbuglio.
Mi fece una leggera anestesia locale. Dopo l’iniziale
pizzicore non avvertii più dolore. Lo sentii che mi bucava
la pelle ma non
percepivo bruciore. Solo un lieve indolenzimento. Per tutto il tempo
fissai il
suo volto, troppo codarda per guardarmi la mano.
Tutto ciò evocò in me l’immagine di una
festa di
compleanno. L’immaginazione a volte gioca strani scherzi.
Sentii un pizzicore
sul braccio, in corrispondenza di una vecchia cicatrice.
Inconsciamente,
esaminai la punta del dito indice per controllare un taglio che non
c’era. Non
so perché, ma mi sembrava di essermi graffiata con della
carta.
Carlisle mi guardò circospetto e poi chiese: <
Senti dolore alle estremità delle dita? > scossi il
capo,senza smettere di
fissarmi l’indice destro. Da quel momento cercò di
distrarmi parlandomi. Ad un
certo punto mi disse: < Non avere paura per un taglio e tre
punti… ne hai
viste di peggio. >
Provai a
scherzarci su. < Sì, ma non me ne ricordo, quindi non
valgono. >
< Hai ragione! Dai, ho quasi finito. >
Passò appena un minuto poi annunciò soddisfatto:
<
Finito. Visto che non hai sentito nulla? >
Osservai la mano fasciata. Non sentivo niente. Solo la
testa mi pulsava dolorosamente. Era sempre così quando
quelle immagini così
vivide mi venivano in mente.
Mi aiutò ad alzarmi. Voleva portarmi al divano.
Involontariamente guardai il pavimento. Sbiancai. I frammenti si erano
sparsi
ovunque. Io, Carlisle ed Esme li avevamo accidentalmente calpestati e
disseminati ovunque nella cucina camminandoci sopra;
ora erano così minuscoli da formare una
miriade di briciole argentee e taglienti sparse per tutta la cucina.
Dovevo pulire prima che Phil tornasse.
Feci per piegarmi per raccogliere un pezzo di vetro
davanti a me ma Carlisle me lo impedì, poggiandomi la mano
sulla spalla.
< Bella, non preoccuparti per il pavimento. È
meglio se ti stendi un attimo. Hai perso sangue. Cerca di stare
tranquilla per
un po’. >
< No… è meglio se raccolgo. Phil si
arrabbia se si
graffia o si rovina il pavimento. E poi, sono pericolosi. >
< Hai ragione, sono pericolosi. Guarda la tua mano.
Non preoccuparti. Ci penso io qui. Non vorrai mica
tagliarti di nuovo? >
< No. Non disturbarti. È colpa mia. L’ho
spaccato
io. >
< Suvvia, Bella. Per un bicchiere rotto… Non
preoccuparti per così poco. Lo raccolgo io. > e mi
accompagnò al divano,
costringendomi a sedermi.
Il suo sguardo gentile contrastava così tanto con
quello che mi aveva riservato Phil.
Ricordai quando avevo rotto quei piatti.
Il modo in cui
Lui mi aveva picchiata. Quel primo schiaffo…
chiusi istintivamente gli occhi, impedendo a lacrime
involontarie di scappare.
Sentii una mano gelida carezzarmi la guancia,
consolandomi. Mi fece sdraiare e mi poggiò i piedi sul
bracciolo del divano,
tenendomeli sollevati rispetto al resto del corpo. Il mal di testa
cominciò a
scemare.
Rimanemmo in silenzio per alcuni
istanti poi Carlisle
mi distolse dai miei pensieri.
< Phil mi sembra una di quelle persone che, quando
si arrabbiano, lo fanno sul serio. >
< Beh, sì. In effetti è una persona un
po’
impulsiva. Ma non è colpa sua. È così
di carattere. E poi, ama molto mia madre.
>
Si allontanò. Lo sentii prender la scopa.
Quando aprii gli occhi aveva finito di raccogliere gli
ultimi frammenti di vetro e stava passando l’ammoniaca sulla
scia di sangue e
sulle gocce cremisi.
< Adesso ti preparo qualcosa di caldo, zuccherato.
Hai mangiato poco a cena. Non va bene. >
< Non occorre… > Feci per alzarmi ma lui mi
poggiò una mano sulla spalla.
< Siamo vostri ospiti. Permettimi di ricambiare. E
poi, sono il tuo medico. Ho dei doveri verso le mie pazienti. E tu, sei
come
una figlia per me. Motivo per cui sento di avere dei doppi doveri nei
tuoi
confronti. >
Mi sorrise ed io non potei non fare altrettanto.
Mi preparò una bevanda calda e si sedette vicino a me.
Mi aiutò a rimettermi seduta.
L’infuso era buono, mi calmò molto.
< Come ti senti? Prima non
avevi una bella cera. Mi
sembravi molto tesa… >
< è un periodo in cui sono un po’ in ansia.
>
< Ho notato. Mi spiace per prima. Se avessi saputo
che ti saresti spaventata a quel modo, avrei aspettato che buttassi via
il
vetro prima di chiamarti. >
< Non preoccuparti. Sono abituata a farmi male. Una
cicatrice in più, una in meno… >
Il suo sguardo, dietro al velo cortese, si fece duro.
Cambiò argomento.
< Dormi bene, la notte? >
< Faccio un po’ di incubi, ma nulla di terribile.
>
< Mhm… senti, prendi questo. >
versò in un bicchiere, che aveva riempito
d’acqua, alcune gocce da una boccetta che teneva in tasca. < Questa te la
lascio. Prendine 21 gocce
diluite in acqua ogni mattina. >
< Che cos’è? >
< Niente che ti possa fare male. Sono erbe. Non
fanno reazione con i farmaci che ti abbiamo prescritto. >
Tentennai nell’accettare la il bicchiere colmo. Avevo
paura che mi facesse domande, aspettandosi delle risposte.
< E poi, dato che quei farmaci non li assumi… >
Avvampai. E la mano sana, quella con cui avevo
afferrato il bicchiere cominciò a tremare.
Mi posò una mano sulla spalla, per rassicurarmi.
< Bella, che ne dici di ricominciare a respirare?
> mi domando in tono gentile Carlisle dopo avermi tolto il
bicchiere e
stretto la mia mano tra le sue. Obbedii. Quando fui in grado di parlare
in modo
coerente, cercai di giustificarmi.
< Carlisle… non è come pensi. >
< Io non penso niente. Né sono qui per giudicarti.
Però vorrei sapere cosa spinge una mia ex-paziente a
sospendere gli antidepressivi senza avvisare nessuno.
È una cosa grave, per la tua salute. >
< Io… io non ne ho bisogno. >
< Se non ne avessi bisogno, non te li avremmo
prescritti. >
< Quando li prendevo, ero sempre strana, confusa.
Non ero più me stessa. Non riuscivo a pensare…
non riuscivo a… a… >
Prossima alle lacrime, smisi di parlare.
Mi alzai di scatto, portandomi le mani alla testa.
Volevo scappare, andare lontano da lui.
Mentire a Carlisle era come tradirlo. Non si meritava
le mie bugie.
Lui però mi impedì di andarmene afferrandomi con
delicatezza il braccio, come facesse attenzione a non farmi male
lì dove
c’erano i tagli che io stessa mi ero volontariamente
procurata.
Mi vergognai di essere stata tanto idiota da farmi del
male da sola.
Al mio debole strattone lui non rispose. Non mi ero
accorta che si era alzato in piedi.
Fu forse la sua fermezza a scuotermi, sta di fatto
che, voltandomi, non potei fare a meno di abbandonarmi alle sue braccia.
Mi lasciò sfogare, accarezzandomi i capelli. Mi
riaccompagnò a sedere senza smettere di cullarmi lentamente.
< Perché prima non me ne hai parlato? E non mi hai
neanche detto di essere svenuta a scuola. Hai mentito invece che
confidarti con
me. > Non era adirato. Sembrava anzi molto dispiaciuto.
< Sono cose importanti. Non puoi tralasciare dei
dettagli così importanti.
Lo sai che hai rischiato la vita l’estate scorsa. Devi
imparare a gestire ciò che ti accade e ciò che
accade intorno a te. Devi
reagire…
Io voglio solo aiutarti. So che deve essere tutto
molto frustrante per te ma ti chiedo solo di fidarti di me, di Esme, di
Alice.
>
Non risposi. Non ci riuscivo.
Mi accarezzò la guancia.
< Non voglio forzarti, e non voglio obbligarti ad
assumere farmaci, quei farmaci, contro la tua volontà, per
ora.
Quei medicinali avevano una funzione principalmente
“preventiva”. Te li prescrivemmo per aiutarti ad
adattarti alla situazione.
Avevi mostrato i primi sintomi della depressione, dopo il risveglio.
Non significa che tu fossi strana o sbagliata ma solo
in difficoltà.
E poi, servivano per mantenere sotto controllo i mal
di testa che ti assalgono.
Non credo che tu sia del tutto consapevole delle
conseguenze della tua decisione ma, per adesso, intendo rispettarla.
Magari ne
riparliamo tra qualche giorno, quando sarai un po’
più serena. >
Non dissi nulla. Fissavo la fascia intorno alla mano.
< Grazie. >
< Non c’è nulla per cui tu debba
ringraziarmi. >
< non è vero. Sei una persona così buona.
>
Sentivo la stanchezza nelle mie membra. Era una stanchezza
più psicologica che fisica.
Carlisle se ne
accorse e mi guidò verso le scale.
< Ora sarebbe meglio che tu andassi a riposarti.
Sei stanca. Cerca di stare tranquilla, di riposarti. >
Mi accarezzò i capelli, osservando attentamente il mio
viso, i miei occhi, quasi volesse leggervi ciò che a parole
non riuscivo ad
esprimere.
Mi accompagnò fino al pianerottolo della mia stanza.
Proprio lì mi prese la mano fasciata fra le sue e mi disse:
< Se sentissi il
bisogno di dirmi qualcosa, se dovessi aver bisogno di aiuto, non voglio
che tu
ti faccia problemi. Da me puoi venire per qualunque cosa, per qualunque
problema. >
Annuii senza trovare il coraggio di guardarlo negli
occhi.
Mentire mi faceva sentire ancora più sporca…
Stavo già salendo le scale quando lo sentii dirmi:
< Bella, non dimenticarti che noi, tutti noi, ti vogliamo
bene… >
< Va bene… > e un sorriso leggero
piegò le mie
labbra contratte.
Quando entrai nella mia stanza, trovai Alice
intenta a
sistemare alcuni degli articoli che avevamo acquistato nei vari negozi.
Appena misi piede nella stanza, lei mi venne incontro
con un mio paio di vecchie scarpe.
< Bella! Quando la smetterai di mettere queste
orribili… come potrei definirle? Non credo esista un termine
adatto! >
< Scarpe? > azzardai io.
< NO! Queste
… > ed indicò un tacco 12 nero che mi
aveva più o meno comprato di nascosto
< queste sono scarpe. Quelle sono pantofole vecchie! Sei
incorreggibile.
>
Il suo tono scandalizzato riuscì a farmi sorridere.
Le andai vicino e l’abbracciai. < Grazie, Alice.
>
Mi strinse forte e in quell’abbraccio c’erano
più di
mille parole.
Mi trasmetteva una sicurezza indicibile. Starle vicino
mi faceva stare bene.
Vide la mano fasciata. L’alzai in segno di resa. <
Mi sono tagliata con un vetro. Niente di tragico.
Non credo ne morirò! > Sorridevo, e
sentivo il mio cuore leggero.
Passammo il resto della serata a
chiacchierare
spensieratamente, divertendoci e ridacchiando. Fu estremamente
piacevole.
Quando fummo in procinto di andare a dormire, mi
accorsi di essere ancora vestita.
< Beh, Alice… io vado in bagno a cambiarmi. >
< Ma come? Ti vergogni di me? >
Tutto il mio buon umore svanì in un istante. Non mi
vergognavo di lei, mi vergognai di me. Come avrei potuto giustificare i
lividi,
i graffi che ancora bruciavano e che avevo tentato di ignorare per
tutto il
giorno.
< Bella, stavo scherzando. Vai pure in bagno. Il
tuo pigiama è lì. Te l’ho messo sul
letto, sotto al cuscino. >
Annuii e, senza dire niente, afferrai la mia roba e
schizzai in bagno.
Mi feci la doccia e, sebbene cercassi di non
guardarmi, non potei ignorare il mio riflesso allo specchio.
Vedendomi, tutto il sollievo che avevo provato fino a
qualche minuto prima svanì, cancellato dai segni, dai lividi
e dalle ferite. Dalle
sagome dei morsi sulle mie spalle.
Presi dal beauty i tubetti di crema che mi aveva dato
Carlisle e cominciai a spalmarle là dove tutto era
più evidente.
Quando, mezz’ora dopo, uscii dal bagno, trovai Alice
sdraiata sulla poltrona.
< Allora non riuscirò a convincerti a dormire nel
mio letto? >
< No! Direi proprio di no. Ora tocca a me andare in
bagno e, visto che tu ci sei rimasta dentro più o meno una
vita e mezzo, non
aspettarti che io ne esca in un tempo ragionevole.
Se vuoi cominciare ad andare a letto, io non mi
offendo. Hai due occhiaie terribili e sei così pallida... E
poi, sei dimagrita
da quando sei qui. Devi assolutamente mangiare meglio e di
più. >
E così, dicendo, prendendo la sua valigetta, se ne
andò in bagno lasciandomi basita.
Stanca, mi infilai sotto alle coperte.
Osservai il soffitto per qualche minuto, cercando di
immaginare come sarebbe stata la mia vita se, invece di venire a vivere
con
Reneé, fossi rimasta con Charlie. Non ricordare il mio
passato era orribile ma
vivere in quel presente era insospettabile.
Mi raggomitolai su me stessa, stringendomi al cuscino
sul quale stavo versando tante lacrime dolorose come fossero di sangue.
Portai la mano in mezzo alle gambe, là dove un dolore
sordo, che non mi aveva ancora abbandonata, mi impediva di dimenticare.
Sangue.
Sangue vero.
Avevo perso sangue. Non tanto ma abbastanza da
spaventarmi. Avevo messo un’assorbente, uno di quelli per
quando hai delle
piccole perdite. Certo, non stavo morendo dissanguata, anche
perché la ferita
più profonda era stata inferta alla mia anima, ma mi ero
preoccupata comunque.
Chissà, forse era
normale quando si perde la
verginità…
Sospirai. Incrociando forte le gambe come per formare
una treccia distorta, come per scacciare i ricordi e il dolore pulsante
che
sentivo proprio lì, in quel punto.
Tenevo il capo nascosto sotto al cuscino quando sentii
il cellulare vibrare sul comodino.
Senza uscire dal mio nascondiglio di stoffa, allungai
la mano e lo afferrai. Accettai la chiamata senza neanche guardare e
portai il
piccolo oggetto sotto al cuscino, al mio orecchio.
Tirai su col naso prima di pigolare un “Pronto”
incerto e tremulo.
Una voce calda e misurata mi rispose: < Pronto,
Bella? >
Sentii il mio cuore perdere un
battito nella sua corsa
folle.
< Pronto? Bella, ci sei? >
< Edw-Edward? > domandai senza pensare.
< Sì. > non mi chiese se disturbasse, non mi
chiese se fosse troppo tardi o se stessi dormendo. Mi chiese solo:
< Come ti
senti, stai bene? >
< Sì… sì. Sto bene. Hai letto
il mio messaggio?
>
< Sì. E ho sentito la segreteria. Mi dispiace
tantissimo
di non averti potuto chiamare prima. >
< Non fa niente. Non preoccuparti, davvero. >
< Come puoi dirmi di non preoccuparmi. Ti prego,
raccontami cosa ti è successo. No, no. Ti prego, non
piangere. >
< Edward! Come faccio a non piangere? Io ho bisogno
di te. Tu non puoi capire… >
< Calmati, per favore. Cerca di mantenere la calma.
Sappi che se potessi, salirei sul primo aereo e correrei da te. Ma non
posso
Bella, non posso, lo capisci? >
< No! Non lo capisco! Ma a te che te ne frega? Là
coi tuoi amici! > No.
No. Era tutto
sbagliato. Non dovevo litigare con Edward. Perché? Cavolo,
cosa mi era preso?
< Bella, ho parlato con Alice, prima.
Mi hanno detto che sei stata aggredita, che ti hanno
picchiata. >
Percepii distintamente l’odio che tentava invano di
nascondere.
< Non è successo niente. Hanno cercato di scipparmi
ma sono scappati. >
Ripetevo la verità di
Phil, non riuscivo ad essere
sincera. La realtà era troppo dolorosa.
Decisi di concedermi però un attimo di sincerità.
< Ho avuto tanta paura. Non riuscivo a muovermi.
Non ero in grado di reagire… sono così
spaventata. >
Le ultime parole vennero soffocate dai singhiozzi sordi che mi
nascevano dal
petto.
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Capitolo 20 *** Far across the distance and spaces between us ***
Cap 19
Far
across the distance and
spaces between us
Lontano,
attraverso gli spazi e le
distanze fra noi
Edward’s
POV
Mi
muovevo in silenzio, sempre nell’ombra.
Frusciare di mantelli, odore di sangue che
permeava le scanalature della pietra.
Mi porse lentamente la mano e io l’afferrai
in un gesto automatico.
Lo osservai negli occhi mentre scrutava ciò
che udivo. Vedevo i miei ricordi riflessi nelle sue iridi scarlatte.
Gli sorrisi con sfida.
< Ragazzo mio… non essere così
scontroso, di grazia. Potresti almeno sforzarti di essere grato del
trattamento
di gran favore di cui puoi godere tu come la tua famiglia, e la tua
piccola
umana. >
< Scusi. È solo che è difficile quando
si è vincolati all’infelicità. >
Mi sorrise allegro.
< Su, su, giovane Edward. Ritieni che
questo sia un prezzo troppo alto per un cuore che palpita ancora? La
tua
piccola umana, a quanto mi è dato sapere, fruisce ancora del
piacevole diletto
del respiro. >
< Avete ragione. E per questo vi sono
grato. >
< E di cosa? È uno scambio equivalente.
I tuoi ineffabili servigi in cambio del temporaneo transitare della tua
piccola
immemore in quel mondo di dolore proprio di chi è sottomesso
al tempo. >
Non risposi. Tanto non potevo celare i miei
pensieri se le nostre mani erano in contatto.
Nella sua mente lessi le sue istruzioni.
Preferiva tenerle celate al resto della sua guardia e ciò mi
aveva provocato
problemi non indifferenti. Renata,la più importante degli
elementi della
guardia del corpo di Aro, provava un gran astio nei miei confronti
vedendosi
scalzata dalla sua posizione privilegiata. Ora ero io il più
talentuoso della
ristrettissima cerchia del suo padrone.
“ Stanno per arrivare ospiti. Una
delegazione scozzese si è recata nella nostra bella
città per chiedere aiuto.
Voglio che tu vagli attentamente la natura dei pericoli che essi ci
illustreranno. Voglio che ti concentri sull’entità
del pericolo. Non ho
intenzione di inviare una guarnigione e vederla decimata. Se il
pericolo è
troppo grande, lascerò che il nuovo clan formatosi distrugga
quello che è
venuto qui a chiedere il nostro sostegno. Non ho nessuna intenzione di
vedere i
miei seguaci cadere e di perdere la credibilità che ci
contraddistingue. >
Annuii, sebbene egli potesse leggere la mia
risposta nei miei stessi pensieri. Come se poi mi fosse dato di
scegliere…
Il
colloquio con gli scozzesi fu uno
spettacolo pietoso. Aro ascoltò attentamente le richieste
è si risolse subito
nel non intervenire. Il nuovo clan era una minaccia solo per il piccolo
gruppo
confinante e non si comportava in modo tanto sconsiderato da mettere a
rischio
il nostro status di segretezza. Ciò implicava, almeno nei
pensieri di Aro, che
un intervento dei Volturi sarebbe stato ingiustificato. Inoltre, il
nuovo clan
era composto da molti elementi giovani e quindi forti. Dopo aver
sterminato il
gruppo rivale, non avrebbero più potuto incanalare la loro
forza verso un
nemico esterno e si sarebbero sterminati fra loro.
Il che era proprio ciò che Aro voleva.
Dopo aver consultato Caius e Marcus,
sebbene avesse già deciso come procedere prima di
interpellarli, informò gli
ospiti della decisione negativa presa dal Consiglio. Temo non ebbero
nemmeno
tempo di elaborare la notizia visto che vennero praticamente messi alla
porta
in poco meno di un minuto.
Accompagnai, insieme a Renata, Aro nei suoi
appartamenti privati da dove provenivano grida e risolini. Aro mi
licenziò
sulla porta mentre Renata lo seguì all’interno.
Nei suoi pensieri lessi l’odio
smisurato per la piccola Jane che, più nuda che vestita,
accolse Aro con un bacio
che non assomigliava neanche lontanamente a quelli casti che gli
riservava in
pubblico.
Poco prima che Aro, circondato da ragazze
seminude, si chiudesse la porta alle spalle, mi guardò negli
occhi. Dietro il
velo della vecchiaia, intravidi i suoi pensieri fugaci.
“ Va da Anita. Deve riferirti alcune cose.
Credo sia abbastanza importante, per quanto possano esserlo le vicende
umane,
si intende. Hai il mio permesso… ” e
così mi congedò.
Sentii le gambe improvvisamente molli. Mi
ritrovai a correre per i corridoi ad una velocità
improponibile fino ad
arrivare da Anita, un’avvenente giovane vampira.
Era
nel suo studio. Appena mi vide, mi
rivolse un enorme sorriso. < Edward… che piacere
vederti… >
In un microsecondo era già in piedi,
dinanzi a me. Non smise di sorridermi mentre accarezzava la mia
camicia, sotto
al mantello. Cercai di allontanarla con il palmo della mano ma lei lo
afferrò e
cominciò a baciarlo. Cercai di mantenere un tono cordiale
per non inimicarmela.
< Anita. Aro mi ha detto di venire da
te. Ha detto che dovevi parlarmi. > le dissi in un soffio.
Lei sbuffò, lasciò cadere la mia mano e si
girò, diretta alla sua scrivania. Si muoveva provocante,
ancheggiando. Non la
guardai neanche.
< Anita! >
< Sì… sì… ma sei
così impaziente anche
quando… > e si attorcigliò vezzosamente i
capelli intorno all’indice.
< Smettila di fare la svenevole. Che
cosa succede. >
Si lasciò cadere teatralmente sulla
poltrona, accovacciò provocatoriamente le gambe in modo da
mostrarmi la sua
biancheria. Stavo perdendo la pazienza e impazzendo d’ansia.
< Anita! Se non hai niente da dirmi, me
ne vado. >
< Ok, ok… io comunque non lo farei, se
fossi in te. Ha chiamato tuo padre. Aro ti concede il permesso di
telefonargli.
>
Senza permetterle di terminare la frase,
afferrai il telefono e composi il numero di cellulare di Carlsile. Anita si alzò
e, dopo avermi lanciato uno
sguardo ammiccante e fatto l’occhiolino, uscì
lasciandomi solo.
Tre
squilli dopo il telefono smise di
suonare. A rispondermi fu però Alice.
< Edward? >
< Alice? >
< Sì… sono io. >
< Cosa ti viene in mente? Non dovresti
stare al sicuro? Perché sei con Carlisle? >
< Edward… è molto importante. >
cercai di calmarmi. Decisi che se aveva corso il rischio di rivedere
Esme e
Carlisle ciò era sicuramente dovuto a un buon motivo. Non
potevo sprecare
neanche un minuto. L’unica motivazione poteva
essere…
< Riguarda Bella, Vero? > e mentre lo
dicevo la mano tremò.
< Sì. >
< Cos’è successo?
>
< Edward… senti, dovresti chiamarla.
>
< Alice! Lo sai che non posso. Dobbiamo
attenerci al piano. Lei si deve dimenticare di me, di noi…
>
< Edward, dico sul serio. Ti ha mandato
un sms, ti ha chiamato. Ti ha lasciato un messaggio in segreteria. E tu
non le
hai risposto. >
< Sai bene che non ho io il mio
cellulare. >
< Lo so. È per questo che ti ho chiamato
io. Bella non sta… molto bene… >
Venni pervaso dal panico. < Cos’ha? È
malata? è per via dell’incidente? Alice, ti
prego… ora come sta? > le mie
domande si susseguirono così velocemente che stentai io
stesso a capirle.
< Adesso è di là, in camera sua a
piangere… >
< Come! Cosa significa di là? > non
sapevo se angustiarmi o adirarmi con Alice.
< Edward, lascia che ti spieghi… siamo
dovuti venire a Jacksonville. È nato il figlio di
Reneé e avevamo un ottima
scusa per venire… >
< Alice! In questo modo ti esponi a un
grave pericolo. Se i Volturi ti rintracciassero? E
Bella? In questo modo come potrà…
>
< Cosa? Dimenticare? Tanto, caro mio,
non sta dimenticando per niente. E ora, se mi lasci finire di
parlare… devi
assolutamente chiamarla. >
< Hai detto che non sta bene. Che
cos’ha? >
< io te lo dico, ma tu mi devi giurare
di mantenere la calma. Ora ci siamo qui noi e non accadrà
più. Troveremo una
soluzione. >
< Parla! >
< Prometti. >
< Prometto. >
Prese un profondo respiro e poi, in un soffio,
disse: < Phil l’ha picchiata. Ha picchiato Bella.
>
Non
volli registrare le sue parole.
< Edward? > mi fece lei, incerta.
< Edward? Hai capito? >
< Scusa, potresti ripetere? >
< Phil ha picchiato Bella. Temo non
fosse la prima volta. Non riesco a “vedere” queste
cose perché di solito non
sono frutto di un’azione premeditata bensì di un
impulso incontrollabile e
imprevedibile. È per questo che temo che sia successo altre
volte, senza che io
sia riuscita a scorgerlo... >
Non riuscivo neanche a parlare. Dovetti
sforzarmi per chiederle: < Come sarebbe a dire che
l’ha picchiata? Cosa le
ha fatto? > Avevo
paura della
risposta.
< Ti ho detto… non ho visto bene.
Le ha tirato uno schiaffo e l’ha fatta cadere
a terra, nel soggiorno. Ma sono certa che l’avesse
già picchiata. Quando le ha
tirato lo schiaffo, Bella aveva già il taglio al labbro e
l’occhio livido…
sono molto preoccupata. Bella sta male. >
Non riuscii a capire la frase. Mi dovetti
reggere alla scrivania.
< Cos’altro diavolo le ha fatto? >
stavo urlando, irato.
Sentii due vampire, in fondo al corridoio,
ridacchiare. Speravano stessi litigando con la donna che, a loro dire,
mi aveva
stregato e che quindi impediva loro di venire considerate da me.
< Edward, non lo so con esattezza. Io
non posso vedere tutto e tu mi hai detto… >
< Non me ne frega niente di quello che
ti ho detto. Questa è tutta un’altra storia. Non
doveva andare così. Lei doveva
essere protetta, doveva stare al sicuro! >
< Ti prego, calmati. Sta un po’ meglio.
Carlisle l’ha osservata attentamente. Prima l’ha
presa da parte e ha cercato di
parlarle. >
< E perché diamine non la visita? >
< Edward… non può. Dovrebbe trovare una
scusa. E poi, ha paura che Phil possa sospettare i nostri dubbi. E noi
non
vogliamo che si arrabbi con Bella, mentre noi non ci siamo. Rischiamo
di
peggiorare tutto. Dobbiamo agire con cautela. E Bella non ha nessuna
intenzione
di farsi visitare. È troppo spaventata. >
Inghiottii
il veleno che mi era schizzato
in bocca. < Alice… quando si è rotta lo
scafoide… è stato lui? Carlisle mi
aveva detto che aveva tirato un pugno per terra. >
< Sì, quel giorno ho visto distintamente
Bella tirare il pugno a terra però… >
< Però? >
< Mentre eravamo in ospedale a trovare
Reneé, Carlisle ha controllato la cartella di Bella.
Sai bene che lei è molto sbadata e si fa
male spesso ma sembra che… che da quando è qui si
faccia male un po’ troppo
male e un po’ troppo spesso.
È anche questo che ci ha portato a credere
che non fosse la prima volta. A parte la mano, per la quale sono sicura
che
Phil non centri, le hanno dovuto dare dei punti. È riportato
che è caduta. Uno
dei dottori ha fatto una nota a margine in matita. Ha scritto:
“sospetta
violenza domestica. La paziente nega e rifiuta di denunciare”
>
Nonostante
la mia natura incorruttibile e
incrollabile, dovetti sedermi perché sentii le gambe cedermi.
< Alice, non può restare lì. >
< Lo so. Ma non possiamo neanche
portarla via di peso. Come potremmo spiegarlo a Reneé?
>
< Alice, non è questo ciò di cui devi
preoccuparti. E poi, quell’uomo è pericoloso anche
per lei e per il bambino. Va
messo in galera. Fosse per me… non sarebbe il primo mostro
che fa una brutta
fine tra le mie mani. Con la differenza che gli altri non…
non avevano fatto
del male a mia moglie. Non avevo motivi personali per odiarli! >
< Edward… lei non è tua moglie. >
mi
disse Alice, comprensiva.
< Per me è come se lo fosse. Lo sai
perfettamente. >
Ora fu lei ad alterarsi. < Se non la
lasci andare tu, come puoi anche solo sperare che lei riesca a
separarsi dal
tuo ricordo? >
< Ti ho già illustrato il piano. Ne
siete tutti a conoscenza. >
< Sì, e tu sai anche cosa ne penso. E
poi, ora le circostanze sono diverse. >
< Io sparirò dalla sua vita ma voi
potrete continuare a farne parte. Le starete vicino,
l’aiuterete a superare il
trauma. >
< Edward, quello che sto cercando di
dirti è che non credo che Bella potrebbe superare un tale
shock. >
< Alice, sai benissimo che non mi
permetteranno mai di andarmene e lei non può restare
aggrappata ai fantasmi del
passato… riuscirà a mettersi il cuore in
pace.
Dobbiamo … >
ma lei non mi
lasciò terminare. In un soffio spaventato mi disse:
< Edward, Carlisle è convinto che lei…
abbia trovato un modo alternativo per incanalare il dolore psicologico,
per
gestire lo stress… e io… l’ho visto.
>
Mi sentii,se possibile, ancora peggio.
< Alice, per favore, ho bisogno che tu
mi dica tutto. Non è il momento dei rebus.
< Autolesionismo > e non aggiunse
altro. Mi lasciò il tempo per interiorizzare quelle parole.
< Cosa si fa? > domandai con voce rotta.
La sua voce assomigliava ad un pigolio.
< Edward, non è questo
l’importante… >
< ALICE! Dimmi che diamine si fa! >
le urlai stringendo così forte il bracciolo della sedia
tanto da frantumarlo.
< Si procura dei tagli sull’avambraccio.
Salta i pasti… ma questo non so quanto sia volontario o
consapevole. E poi, ha
smesso di assumere i farmaci. Ha detto che le hanno cambiato la dose ma
Carlisle ha visto le cartelle e lì c’è
la stessa prescrizione di quando era a
Forks. >
Mi
presi la testa tra le mani, tenendo il
telefono vicino all’orecchio.
< Alice, portala via, portala via da lì.
Deve curarsi. Deve essere felice. >
< Cercherò di fare il possibile. Noi ci
fermeremo altri quattro giorni ma non potremo trattenerci
ulteriormente. Ora
cercheremo di inventarci qualcosa. >
< Tu lo sai… io non posso andarmene. Non
mi lasceranno mai libero. E sai bene che qui vorrebbero Bella morta. Se
scappassi, la metterei solo più in pericolo…
>
Se il mio corpo morto me lo avesse
permesso, ero certo che i miei occhi si sarebbero colmati di lacrime.
Mi
sentivo così impotente, così inutile. Il mio
istinto mi diceva di scappare,
correre a Jacksonville, raccontare tutta la verità a Bella e
poi vivere per
sempre con lei in clandestinità. Certo, lei non ricordava ma
mi amava ed era coraggiosa.
Insieme avremmo potuto affrontare ogni cosa.
Saperla sola a Jacksonville, in pericolo,
era un pensiero che, lo sapevo, mi avrebbe logorato.
< Edward, adesso devi chiamarla. Devi
rassicurarla. Devi convincerla, senza farti scoprire, a chiedere aiuto,
a
chiederci aiuto. Solo in questo modo potremo aiutarla. Altrimenti non
riuscirà
mai ad accettare quella che vivrebbe come un’intromissione.
Io ora sono nel
bagno. Non vi ascolterò e attenderò
finché non avrete terminato, prima di
tornare da lei. >
< Va bene, va bene. Alice, mi
raccomando. Cercherò di chiamarti ancora, il prima
possibile. A presto. >
< Non mi troverai. Non avrei dovuto
neanche venire. Carlisle era contrario. Appena me ne andrò,
scapperò con
Jasper. Appena Aro ti toccherà, saprà tutto. Non
devo permettergli di trovarmi.
Ma potrai telefonare a Carlisle. Lui o Esme… >
Con la voce che io stesso a stento riuscivo
ad udire, le sussurrai: < Grazie, Alice. Per quello che stai
facendo per
lei, rischiando tu stessa… >
< Edward, non è solo la donna che ami. È
anche mia sorella. Ora devo riagganciare. Telefonale. Spero di poterti
rivedere, prima o poi. Addio. > Chiuse la conversazione ed io
rimasi
immobile per pochi attimi, prima di comporre il numero di Bella.
Attesi per quella che mi parve un’esistenza
intera prima che lei accettasse la chiamata...
Quando udii la
sua voce, sebbene flebile e carica di dolore, sentii nuovamente la vita
fluire
nelle mie vene prosciugate.
<
Pronto? >
Cercando di mantenere un certo contegno
dissi: < Pronto, Bella? >
Non mi rispose ma la sentii trattenere il
fiato. <
Pronto? Bella, ci sei? >
< Edw-Edward? >
< Sì. Come ti senti, stai bene? >
< Sì… sì. Sto bene. Hai letto
il mio
messaggio? > La voce le tremava impercettibilmente. Sentendo il
dolore,
avrei voluto dirle tutto. Dirle perché non potevo essere
vicino a lei in quel
momento,perché non potevo portarla lontano…
< Sì. E ho sentito la
segreteria. Mi dispiace tantissimo di non averti potuto chiamare prima.
>
< Non fa niente. Non preoccuparti,
davvero. >
< Come puoi dirmi di non preoccuparmi.
Ti prego, raccontami cosa ti è successo. >
Singhiozzò.
< No, no. Ti prego, non piangere. >
< Edward! Come faccio a non piangere? Io
ho bisogno di te. Tu non puoi capire… >
< Calmati, per favore. Cerca di
mantenere la calma. Sappi che se potessi, salirei sul primo aereo e
correrei da
te. Ma non posso Bella, non posso, lo capisci? >
< No! Non lo capisco! Ma a te che te ne
frega? La coi tuoi amici! > Non volevo farla adirare, o
agitarla. Avrei
dovuto aiutarla… e invece non riuscivo nemmeno a consolarla.
Dovevo cercare di
rimanere più lucido e cercare di guidare il discorso, senza
lasciarmi
influenzare troppo dall’ansia.
< Bella, ho parlato con Alice, prima. Mi
hanno detto che sei stata aggredita, che ti hanno picchiata. >
Le parole mi
uscirono a stento, frenate dall’ira che sentifo fluire dentro
di me. Temetti di
averla spaventata quando lei si affrettò a dire: < Non è
successo niente. Hanno cercato di
scipparmi ma sono scappati. > Rimase in silenzio per alcuni
istanti poi, quasi
sopraffatta dal patimento, aggiunse:
< Ho avuto tanta paura. Non riuscivo a
muovermi. Non ero in grado di reagire… sono così
spaventata. >
Avrei voluto abbracciarla, stringerla a me.
Dovevo proteggerla.
< Edward… sono così sola. >
< Non sei sola. Ci sono Carlisle ed
Esme, ci sono io. >
< No, Edward. Tu non ci sei. Tu sei
lontano. > Il tono duro assunto dalla sua voce mi
ferì eppure non potevo
certo biasimarla. Per lei che non sapeva, per lei con sapeva, dovevo
sembrare
un vero mostro, insensibile e crudele, intento a giocare con i suoi
sentimenti.
< Bella, mi dispiace di essermi
comportato in modo così sgradevole. Avrei voluto poterti
restare più vicino. Tengo
a te più che a chiunque altro al mondo. >
Quasi volesse evitare discussioni,
sussurrò: < Edward, ne abbiamo già parlato
prima che tu partissi. Hai fatto
la tua scelta. Hai giustamente pensato al tuo futuro.
Insomma… Syracuse.
Un’opportunità che non potevi lasciarti scappare.
Hai fatto bene. Non avresti
dovuto rinunciarci per me. >
Colsi al volo l’occasione. < Ma tu sei
ammessa a Darthmouth. Perché non ci vai. Ti puoi trasferire
lì, seguire i
corsi. Sono certo che faranno un’eccezione anche se siamo a
metà anno. Comincia
a seguire i corsi. Comincerai a pieno ritmo dal prossimo anno. Per adesso, potresti
trasferirti lì ed
ambientarti. > Potresti scappare da lui.
< No. Non mi sento in grado di
affrontare il college, adesso. E poi, non riuscirei mai a reggere il
confronto.
Sono sicura che dovrei ritirarmi. Non sono abbastanza brava. >
< Non dire idiozie. Devi credere in te.
Sei sempre stata molto brava a scuola. Sono certo che ti sentiresti a
tuo agio.
Non è poi così dura, credimi. >
< Mah… forse l’anno prossimo. Adesso sto
ancora cercando di capire, di rimettere insieme i cocci degli ultimi
due anni.
>
< Come ti senti adesso? >
< Insomma… >
< Stai male? >
< No. Sto abbastanza bene. > Mentiva,
ed era chiaro come il sole.
< Sei riuscita a ricordare qualcosa?
>
< No. Niente purtroppo. Non riesco
proprio a ricordare nulla. Ci provo, ma è come se non ci
fossero stati quei due
anni. È davvero… frustrante. >
< Come ti trovi lì, a Jacksonville? >
Non mi rispose subito. Inspirò
profondamente e la sentii asciugarsi gli occhi. <
Edward… >
< Sì? >
< Ti prego, ho bisogno di aiuto. Ti
prego, portami via. >
Rimasi in silenzio alcuni istanti,
profondamente combattuto. Cercai una scappatoia al vincolo che mi
legava ad
Aro. Dovevo andare da lei.
< Bella, io non posso… >
< Dici di tenere a me ma… ma quando io…
quando ho bisogno di te tu non ci sei, dici che non puoi venire. Io ho
davvero
bisogno di aiuto, del tuo aiuto e tu non puoi perdere qualche giorno di
quel
tuo stupidissimo collegge… > Piangeva, senza riuscire
a controllarsi. Non la
interrupi, lasciandola sfogare. Quando mi sembrò che si
fosse calmata, mi azzardai
ad intervenire.
< Bella, sono profondamente rammaricato
per il mio comportamento ma, davvero, adesso non posso proprio venire a
Jacksoneville. Ti prometto che cercherò di venire a
trovarti. Te lo giuro. Ma è
complicato… >
< Senti… finiamola qui, Edward. È facile
per te. Mi chiami per lavarti la coscienza ma poi non fai niente. Mi
dici tante
belle parole ma mi chiami solo dopo che tua sorella ti dice di farlo.
Sono
sicura che altrimenti non mi avresti nemmeno risposto. >
< Questo non è vero. >
< Sì che è vero. Comunque,
senti… non
volevo essere sgarbata. È solo che… non ce la
faccio più. Non credo di
sopportare tutto questo. >
< Non dire così. > ero terrorizzato
che potesse commettere qualche gesto insensato. < Vedrai che
tutto si
risolverà. >
< Sì, lo spero davvero, anche se non
riesco proprio a capire come >
Qualcuno bussò alla porta ed entrò. Anita.
< Edward… Mi serve il telefono. > disse con
voce alta e stucchevole. Non
l’avevo percepita arrivare talmente ero
concentrato su Bella.
Bella smise di parlare. Avvertii il suo
respiro farsi più veloce. Avrei voluto dirle qualcosa ma
riuscii solo a balbettare:
< Posso spiegarti… > ma lei si
affrettò a dire: < No, Edward, non devi
dire niente. Non è necessario. > < Certo che
è necessario. > ma in
quel momento Anita rimarcò la sua presenza con un
lamentevole < Edward…
insomma,muoviti. > mugolato ad alta voce e a labbra strette.
< No. Davvero. Senti… è meglio che vada.
Qui è tardi e sono molto stanca. Spero… beh, di
sentirti presto, credo. Notte.
> e riattaccò, trattenendo i singhiozzi.
Sbattei
il telefono a terra, frantumandolo.
< Ma Edward! Adesso non lo posso più
usare. > mi passò una mano sulla spalla e sulla
schiena. La respinsi a
forza, allontanandomi sgarbatamente.
< Sarai felice adesso! > Le gridai
dando sfogo alla mia ira.
La
sentii ridacchiare mentre mi allontanavo da quel suo maledetto ufficio.
Dovevo
parlare con Aro, immediatamente.
Note dell'autrice:
Ragazze, scusate se non ho risposto
ancora alle vostre
recensioni… ho passato il week-end da una amica e non ho
fatto in tempo. Ci tenevo
a postare oggi e quindi, vi chiedo scusa.
Ho fatto un po’ di confusione con la trama. I caps erano
già
scritti ma dovevo scegliere l’ordine di pubblicazione. Come
avrete letto, l’Edward’s
POV è questo e non il prossimo.
A presto e scusate se sono stata così frettolosa.
Contente del "ritorno" di Edward?
ps: tra l'altro prima a me non apriva
efp. è successo anche a voi? proprio non c'era verso... gli
altri siti me li apriva tranquillamente ma efp proprio non ne voleva
sapere....
|
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Capitolo 21 *** You broke a promise and made me realise it was all just a lie ***
Salve ragazze!
Se per caso vi eravate chieste dove
fossi finita in tutti
questi lunghi giorni… beh, la risposta è
semplice: seduta sul divano a studiare
come una matta.
Ho preparato l’esame in 12 giorni e credo davvero di aver
esaurito tutte le mie energie.
Questo perché mi ero ridotta all’ultimo a
studiare. E questo
perché avevo passato tutte le vacanze a scrivere capitoli di
queste storie.
Insomma… il mio equilibrio psicofisico è andato a
quel paese.
Posto un po’ in fretta e mi scuso per questo. Volevo
rispondere
a tutte le recensioni ma non ho fatto in tempo (sto uscendo) ma ci
tenevo a
ringraziarvi tutte!
cavoli… dovrò già ricominciare a
studiare… disperazione. È che non voglio
ridurmi come quest’ultima volta. Credo di non aver dormito
proprio in questi
giorni!
Vabbè, giustamente a voi non importa nulla della mia
stressante vita scolastica quindi vi lascio alla lettura di questo
capitolo che
spero apprezzerete.
Sono arrivata a scrivere fino al 28. succederanno tante cose
che vi faranno tanto piacere (non sono ironica, o per lo meno, non del
tutto)
perché ci saranno furori, di tutti i tipi!
Allora, a presto. Adesso ricomincia l’uni ma credo che, per
i primi tempi, avrò “abbastanza” tempo
libero. E poi, ho già scritto altri otto
caps quindi ho un po’ di materiale da parte.
Spero di leggere i vostri commenti e chiedo perdono in
anticipo per i successivi (due o tre) caps.
Potrebbero suscitare odio verso qualche (stupido)
personaggio che si comporterà male.
Scusate ma è necessità narrativa!
A presto
Cap 20
You
broke a promise
And
made me realise It was all just a lie
Hai infranto una promessa
e mi hai fatto capire che era tutto solo
una menzogna
Bella’s
POV
<
Sì, lo spero davvero,
anche se non riesco proprio a capire come
Sentii qualcuno, all’altro
capo del telefono, bussare. Poi una voce femminile, dolce e suadente,
disse ad
alta voce: < Edward… Mi serve il telefono. >
Non riuscii a dire nulla.
Stavo per avere un attacco di panico. Sentivo il mio respiro sfuggirmi.
Come
intontita, lo sentii balbettare: < Posso spiegarti…
>
Lo sapevo, ero stata una
stupida, una vera idiota. Avevo dato credito alle parole di Alice, lo
avevo
sempre giustificato, anche se non mi richiamava mai, anche se non si
faceva mai
sentire. Non avevo mai voluto vedere la verità. < No,
Edward, non devi dire
niente. Non è necessario. >
< Certo che è
necessario. >
Avrei dovuto dargli la
possibilità di spiegare? In fondo, lui non mi doveva niente,
proprio come anche
io non avevo nessun dovere nei suoi confronti. Stavo quasi per dirgli
“Va bene,
spiegati” come se dovesse rendere conto a me delle ragazze
che si portava in
camera, quando quella che era con lui si lamentò: <
Edward… insomma,muoviti.
> Sembrava si stesse sciogliendo dal piacere, dato il tono della
sua voce.
Inghiottii a fatica e mi
sforzai di sussurrare: < No. Davvero. Senti…
è meglio che vada. Qui è tardi
e sono molto stanca. Spero… beh, di sentirti presto, credo.
Notte. >
Riattaccai
e scoppiai a
piangere.
Mi
aveva preso in giro.
Sempre e comunque. Io ero rimasta a pensare a lui, aggrappata al
ricordo dei
giorni che avevamo trascorso insieme, almeno quelli che
ricordavo…
E lui invece si divertiva,
usciva con delle ragazze, se le portava in camera. E io come una
perfetta
idiota…
Le mie lacrime mescolavano
dolore e rabbia. Ero stata davvero una cretina fatta e finita.
Lui mi aveva dimenticata.
Era arrivato il momento in cui anche io dovevo dimenticarmi di lui.
Non mi avrebbe mai salvata
da Phil. Non sarebbe mai venuto a tirarmi fuori dall’inferno.
Quella sgualdrina mi aveva
aperto gli occhi.
Non potevo rimanere ad
aspettare che qualcuno mi salvasse.
Dovevo salvarmi da sola.
Non volevo farmi trovare
sveglia da Alice. Mi nascosi sotto alle coperte. Avrei finto di dormire.
Mi aveva chiamata perché
gli facevo pena, perché Alice glielo aveva chiesto.
Sentii pulsare là dove il
dolore non mi abbandonava mai.
Avevo fatto bene a non
dirgli nulla di ciò che mi aveva fatto Phil. Sarebbe stato
peggio. Forse, se
glielo avessi detto gli avrei fatto anche schivo, oltre che pena.
Non mi accorsi del ritorno
di Alice. Mi addormentai senza sentirla rientrare in camera.
Profondamente amareggiata,
cercai di sgombrare la mente. Non avrei più permesso a
nessuno di farmi del
male.
Alla mattina venni
svegliata dal profumo caldo di una torta di mele e carote.
Era vicino. Troppo vicino.
Spalancai gli occhi e mi
portai a sedere di colpo, urlando colta di sorpresa. Se Esme non fosse
stata
pronta di riflessi, avrei fatto cadere il vassoio portavivande.
Lo poggiò sul comodino e
mi si sedette accanto. Vedendola, mi resi conto che non ero in
pericolo.
Esaurita l’adrenalina, non riuscii a trattenermi dal
piangere, con rumorosi
singhiozzi.
< Bella, tesoro. Non
volevo spaventarti. Scusami. >
Mi accarezzava la schiena
con movimenti lenti e circolari.
Mi asciugai le lacrime e
cercai di chiederle scusa per il mio comportamento irrazionale.
Lei non me lo permise,
inondandomi di rassicurazioni.
< tieni… ti ho portato
la colazione. Ho preparato una delle tue torte preferite. e ti ho
portato del
succo di arancia. Ma se preferisci, ti posso preparare
qualcos’altro. Vuoi
magari del latte con i cereali? >
< Oh, Esme, non dovevi
preoccuparti. Non era necessario che ti disturbassi per me. >
< Nessun disturbo. >
mi rassicurò. Il suo viso dolce si era aperto in un grande
sorriso.
Avrei voluto abbracciarla,
nascondermi nel calore del suo corpo. Ma non lo feci.
Mi diede un bacio sulla
fronte e mi lasciò sola. Notai che Alice aveva
già sistemato la stanza. Il suo
letto era tornato ad essere una poltrona e non c’era un solo
vestito in giro.
La stanza era in ordine come non mai.
Consumai la colazione
godendo della pace e del silenzio. Ero sola, lontano da Phil. Non volli
pensare
a cosa fosse accaduto proprio su quel letto. No… volevo
godermi quel momento di
vita tranquilla che tanto mi era mancato.
E fu proprio in
tranquillità che trascorsero i giorni in cui Cullen
restarono a casa.
Ripartirono di sera,
quando le nuvole cominciarono a diradarsi.
Reneé, che era uscita il
giorno prima dall’ospedale, li aveva salutati
sull’uscio dicendo: < Esme,
Carlisle, è davvero un peccato che abbiate dovuto prendervi
tutta quella
pioggia. Da domani è previsto sole… >
< Sai, siamo così
abituati a Forks che ci sarebbe mancata la pioggia se avesse fatto bel
tempo!
> ridacchiò Esme.
La mattina della loro
partenza era
successa una cosa che all’apparenza
avrebbe potuto sembrare insignificante ma per me fu come un respiro
profondo
dopo molti minuti sott’acqua…
Avevo trovato l’agenda di
Carlisle in soggiorno ed ero andata in camera sua a portargliela.
Lui era impegnato nel
sistemare le valige. Mi ringraziò rivolgendomi un grande
sorriso.
Stavo per andarmene
quando, dentro di me, si mosse qualcosa. Dovevo farlo in quel momento.
Dovevo
parlargli finché ero in tempo. Non sapevo se avrei avuto
un’altra occasione.
Le parole scivolarono
sulla mia lingua veloci e concitate.
< Carlisle, io ho
paura. Tanta paura. >
Non so perché gli dissi
quelle parole, perché lo feci in quel momento, mentre gli
davo le spalle. Ero
troppo codarda per parlargli guardandolo in faccia. E poi…
sapevo che avevo
commesso uno sbaglio, un errore. Avevo valicato un muro, attraversato
un
confine.
Ero entrata in una terra
senza ritorno.
E me ne sarei pentita se
non fosse stato per la reazione di Carlisle. Per la persona splendida
che era.
Mi venne vicino, andando
ad assicurarsi che la porta fosse chiusa, poi si voltò e mi
fissò con i suoi
occhi penetranti e attenti, studiandomi.
Mi prese entrambe le mani
nelle sue e mi baciò sulla fronte.
In un sussurro sottile
come un fruscio mi bisbigliò: < Non devi averne.
>
Chiusi gli occhi,
abbandonandomi alle sue parole.
< non dovrai più
preoccuparti di nulla. Mai più. >
Non sapevo se credergli e
soprattutto, non sapevo perché, ma mi sentivo
così… al sicuro.
< Ora devi promettermi
che non commetterai più sciocchezze, che non ti trascurerai
più.
Devi reagire.
Devi preoccuparti solo di
te stessa, della tua felicità.
Per il resto,di chiunque
tu abbia paura… non devi più temere niente.
Te lo prometto. E se
avessi ancora paura, se ti sentissi in pericolo, chiamami. Io
verrò, sempre.
>
Capii, come se lo avesse
detto senza giri di parole,che con quella parola, con
“resto”, con “chiunque”,
intendeva Phil.
Lo compresi dal modo in
cui i suoi occhi ardevano fissando l’ombra del livido sul mio
polso.
Sapeva. Non sapevo quanto,
non sapevo cosa ma seppi che aveva capito.
A questo pensiero mi
sentii sollevata e non in trappola come avevo pensato.
Sfiorò con una leggerezza
inverosimile il mio occhio livido.
< Carlisle… >
< Sì? >
< È un segreto. Non
voglio che Reneé… > ma non riuscii a
terminare la frase. Sentivo un nodo
alla gola e la mia bocca era diventata asciutta.
< sono vincolato dal
giuramento impostomi dalla mia professione. Ciò non mi
impedisce però di
aiutarti. >
Mi accarezzò la schiena.
< Bella, non devi più avere paura,qualsiasi cosa ti
sia successa.
Non sei sola. Ti ci saremo
sempre per te, sempre. Intesi? >
Annuii, spaesata, e
farfugliai qualcosa che nelle mie intenzioni doveva essere un
ringraziamento.
Lasciai la stanza nel
silenzio che la confusione mi aveva imposto, stordendomi.
Rimasi
per qualche minuto
immobile e meditabonda seduta sui gradini delle scale.
Mi irrigidii quando Phil
mi passò accanto, diretto in camera sua. I nostri occhi si
incrociarono e
questa volta sostenni lo sguardo. Fu lui a distoglierlo.
Lo osservai allontanarsi e
chiudersi nella sua stanza.
Sembrava inquieto.
Volevo credere alle parole
di Carlisle. Volevo fidarmi di quell’uomo gentile. Non mi
sarei più permessa di
avere paura di lui.
Al
momento della partenza
li salutai con la tristezza nel cuore. Averli a casa mi aveva ridato un
po’ di
felicità. Mi aveva riportato a un momento felice della mia
vita, quando ancora
la famiglia era per me un luogo sicuro in cui vivere. Nonostante la
fiducia che
le parole di Carlisle mi avevano infuso, non sapevo quanto i signori
Cullen avrebbero
potuto aiutarmi a migliaia di chilometri di distanza.
In fondo, anche Edward mi
aveva promesso che mi sarebbe restato vicino e invece…
Mi imposi di non pensare a
Edward. Se il figlio era un idiota, non dovevo farne una colpa dei suoi
genitori.
Avevo strappato loro la
promessa di tornare presto a trovarmi. A mia volta avevo promesso che,
quando
fossi tornata a trovare Charlie, mi sarei fermata da loro per qualche
giorno.
Carlisle mi aveva detto quelle parole…
Ritornando a casa, né io
né Phil aprimmo bocca. In quel silenzio carico di tensione
sentii che la mia
felicità si stava lentamente volatilizzando.
Appena tornata a casa, salutata
mia madre che allattava, corsi in camera. Sentii Phil salutare mia
madre e
uscire subito dopo. Affari di lavoro. Lei gli aveva chiesto di
riaccompagnarmi
a casa dopo aver accompagnato i Cullen e prima di andare al lavoro
Mi sedetti sul mio letto. Afferrato
il cellulare, telefonai a Jason.
Segreteria
telefonica. Mi
schiarii la voce e
lasciai il mio messaggio.
< Ciao Jason, sono
Bella. Volevo chiederti se ti andava di uscire questa sera. Ti andrebbe
di bere
qualcosa? Chiamami se ti va. >
Sospirai soddisfatta.
Avevo perso due anni della
mia vita. Mi ero lasciata sottomettere da un bastardo vigliacco e
codardo che
si era approfittato della sua forza. Mi ero lasciata ingannare dalle
belle
parole di un ragazzo che fingeva di essere un galantuomo e che nella
realtà era
come tutti gli altri.
E per cosa?
No.
Basta.
Ora volevo vivere.
Recuperare tutto ciò che avevo perduto.
Aveva
ragione
Carlisle, dovevo reagire, dovevo essere felice.
E
avrei cominciato da
quella sera.
Tornata
dal bagno, ancora
avvolta dagli asciugamani, sentii il telefono squillare. Accettai la
chiamata.
< Sì, Jason? >
< Ciao! Ho ascoltato il
tuo messaggio. > ecco, non aveva aspettato giorni per
richiamarmi.
< e quindi? Ti va? >
< Beh, se per te va
bene, ti passo a prendere alle nove. Che ne dici? >
< Sì, certo. È
perfetto. >
< Dove ti andrebbe di
andare? >
< Dove vuoi tu. >
< Mh… penserò a
qualcosa allora. >
< Come mi devo vestire?
>
< Non saprei. >
< Va beh, mi inventerò
qualcosa. Allora, a dopo. >
< A dopo! >
Riposi
il telefono sul
letto e mi vestii in fretta. Scesi le scale e mi gettai tra le braccia
di mia
madre che stava mettendo Owen nella sua culla in salotto.
< Mamma! >
Sorpresa, mi strinse a sé.
< Tutto bene? >
< Mamma, ti va bene se
questa sera esco con Jason? Mi passa a prendere lui per le nove.
>
Mi sistemò i capelli e mi
scrutò negli occhi come se volesse cercarci
chissà cosa.
< Certo. Ma tieni
sempre il cellulare acceso. Intese? >
Annuii decisa e, dopo
averle lasciato un rapido bacio sulla guancia, andai in cucina a
mangiare
qualcosa. Phil non c’era.
Lavoro.
Che bella parola. Sapeva
di libertà.
La mia libertà.
Il
pomeriggio passò
tranquillo e, quando Phil tornò a casa, io ero
già in camera mia a prepararmi.
Scelsi dei vestiti che
avevo comprato con Alice. Un abito nero, corto,senza maniche e con una
spaccatura sulla schiena. Stivali alti, neri scamosciati con un tacco
alto ma
solido. Non misi le calze color carne che avevo messo sul letto.
Preferivo le
gambe nude. Mi truccai come mi aveva insegnato Alice, facendo risaltare
labbra
e occhi, grata di non aver da nascondere nessun livido. Tenni i capelli
sciolti.
Guardandomi
allo specchio
non ritrovai la
Bella
impacciata e un po’ sciatta a cui ero abituata ma una ragazza
dalle labbra
piene, dalle gambe lunghe.
Bella
non c’era più.
Bella era morta.
Bella era annegata nel
sangue che avevo perso quando Phil mi aveva strappato la mia innocenza.
Bella
era morta e la sua ombra triste mi fissava disperata, intrappolata
dietro lo
specchio.
La potevo intravedere
dietro al velo di dolore negli occhi della donna che, muta, mi fissava.
Bella l’avevo seppellita
tra i mille battiti di ciglia che avevano liberato le mie lacrime.
Lacrime con
cui avevo pulito la pelle dal mio sangue.
Bella era morta ma io no.
Io ero viva e volevo la mia rivincita.
Sentii
mia madre sul
pianerottolo. Mi chiamava.
< Bella? Bella, vuoi
che ti prepari qualcosa? > Aprii la porta. La vidi fissarmi ad
occhi
sgranati.
< Oddio… sei… sei
così…
stai benissimo. >
< Grazie. >
Ci fissammo per qualche
istante poi lei aggiunse: < Allora, vuoi che ti prepari
qualcosa, Bella?
>
< No, grazie mamma.
>
Stavo per chiudere la
porta ma mi bloccai. Voltatami a fissarla negli occhi le dissi:
< Non
chiamarmi più con quel nomignolo. Non sono più
una bambina.
Sono stufa dei
diminutivi. >
L’avevo ferita. Glielo
leggevo in faccia. Lei amava quel soprannome.
Lo sapevo ma non me
ne’importò.
< Va be-bene. >
balbettò in imbarazzo prima di girarsi e scendere le scale.
Jason
si presentò puntuale
e, quando mi vide sull’uscio mi riservò uno
sguardo pieno di apprezzamento.
Rassicurammo mia madre, incassai lo sguardo carico d’ira di
Phil e salimmo in
auto. Jason pareva compiaciuto del mio cambio di look. Continuava a
fissarmi le
gambe e il petto.
Avrei preferito che
prestasse attenzione alla strada. Di incidenti ne avevo avuti
abbastanza.
< Allora Bella, come va
con il piccolo? >
< Per favore, non
chiamarmi più Bella. Comunque, Owen sta bene. >
Sorpreso dalle mie parole
mi chiese: < Perché? Hai cambiato nome? >
< Lo trovo infantile.
>
< Ok, Va bene. Come
devo chiamarti allora? >
Ci pensai un attimo,
portandomi l’indice alle labbra. Jason mi fissò
con occhi troppo interessati.
Fortuna che eravamo fermi al semaforo.
Non so perché ma volevo
liberarmi di tante cose, di tanti pesi.
Volevo essere una stupida
oca superficiale,volevo non provare più dolore.
Per questo accavallai le
gambe, scoprendo in questo modo gran parte della coscia. Dentro di me
mi
sentivo stupida, impacciata e goffa,sebbene cercassi di apparire
noncurante e
sicura di me.
Jason non si accorse di
ciò che sentivo dentro. forse ero stata abbastanza
convincente visto che lo
vidi deglutire e sforzarsi di distogliere lo sguardo dalla mia gonna.
< Vediamo… potresti
chiamarmi Marie. Sì. Direi che Marie va bene. È
il mio secondo nome. >
< Ok, Marie… ahm, stavo
dicendo che noi… insomma, ho prenotato in un locale. Ti
piacerà. >
Annuii, non troppo
convinta. Mi stava tornando, per l’ennesima volta, il mal di
testa che non mi
dava pace. Cercai di non pensarci e mi massaggiai le tempie con gesti
lenti e
circolari.
La
serata non fu
particolarmente entusiasmante. Io non ballai. Bevvi un cocktail,
frastornata
dalla musica e dal suo gusto fruttato.
Un paio di ragazzi vennero
a sedersi al mio tavolo mentre Jason era in bagno. Nonostante le
apparenze, mi
sentivo totalmente a disagio. Non sapevo come mandarli via. fu solo
grazie a
Jason se riuscii a svignarmela. Tra le risate, mi aveva trascinato via
dal
tavolo e portata vicino ai bagni. Io camminavo storta. Non avevo mai
bevuto e
l’effetto dell’alcol era per me stordente. Non mi
accorsi di dove mi trovassi.
A mala pena riuscii a rendermi conto che eravamo pericolosamente soli
prima che
accadesse tutto.
Cogliendomi
alla
sprovvista, lui aveva avvicinato le sue labbra alle mie.
Senza alcun preavviso,
senza che lo volessi, mi aveva baciata. Non ero riuscita a oppormi. Ero
rimasta
immobile, inerte. Le sue labbra si erano fatte strada con forza fra le
mie. La
sua mano sulle mie guance aveva stretto la presa, costringendomi a
socchiudere
la bocca.
La sua lingua era viscida.
Mi faceva ribrezzo. Avrei voluto allontanarlo da me.
Dov’era finita tutta la
mia risolutezza, tutta la mia volontà, la mia
determinazione?
Era come con Phil? Gli
avrei lasciato fare ciò che non volevo?
Passò il suo braccio
dietro alla mia schiena e mi strinse al suo corpo. Io non reagivo. Non
ne
sentivo lo stimolo.
L’alcol mi annebbiava la
mente. Era reale tutto ciò che stava accadendo?
Sentivo il calore fittizio
irradiarsi dal mio stomaco lungo le vene. Capivo di non essere lucida.
Sentivo il suo cuore
battere mentre la sua lingua cercava la mia. La tenevo nascosta dietro
ai
denti.
Poi però mi resi conto di
come mi fossi vestita, di cosa dovesse aver pensato Jason vedendomi
conciata a
quel modo… e poi, in fondo, Jason non stava facendo niente
di male.
Mi stava solo baciando.
Stava baciando la ragazza che gli aveva chiesto di uscire.
E non era proprio quello
che volevo io?
Fuggire da Phil? Vivere le
esperienze delle mie coetanee?
Si
staccò da me per un
istante.
< Quanto sei bella… provocante…
> mi ansimò all’orecchio prima di
cominciare a baciarmi il collo. Non interruppi
quel contatto fastidioso. Mi imposi di non farlo. Volontà.
La sua mano sinistra
scivolò sotto alla mia gonna e mi carezzò la
coscia. Non reagii.
Ero immobile, fredda come
una statua. Ma lui non pareva curarsene. Ricominciò a
mordicchiarmi le labbra.
Con la mano sinistra mi accarezzò prima i capelli poi la
schiena.
Non mi accorsi di
arretrare finchè la mia schiena non sbattè contro
a un muro. Sussultai e, per
lo spavento quasi non strillai.
Jason approfittò della mia
bocca dischiusa per baciarmi, baciarmi per davvero.
Le nostre lingue si
incontrarono.
Non mi piacque. Era umido,
viscido… non aveva il sapore che mi ero immaginato, il
sapore che speravo.
Prese la mia mano e la
guidò sotto alla sua camicia, sulla sua pelle calda.
Quel contatto non mi
suscitò nessun effetto particolare mentre percepii
chiaramente il suo petto
vibrare.
Anzi, l’idea di toccare la
sua pelle mi faceva schifo.
Udivo i suoi mugolii di
piacere nella mia bocca.
Sentii le lacrime
addensarsi alle estremità degli occhi.
I ricordi si affacciavano
prepotenti ai limiti della mia mente. Phil che mi buttava per terra,
che mi
strappava i vestiti, che mi toccava…
Ripensai a quello che mi
aveva fatto.
Non dovevo lasciarmi
schiacciare da quei ricordi.
Dovevo reagire e vivere
senza perdermi nulla a causa sua. Avevo già perso
troppo…
Fu quel pensiero a
destabilizzarmi. Fu come se il mio cervello, per un attimo, si fosse
scollegato
dal resto del mio corpo.
Fu solo un istante lungo
quanto un palpito ma tanto bastò perché gli
restituissi il bacio.
Per la prima volta agii.
Portai entrambe le braccia
dietro al suo collo e lo avvicinai ancora di più a me,
stringendomi io stessa a
lui. Fui io adesso a cercare le sue labbra come in preda ad una
inspiegabile frenesia.
Le cercavo conscia che non
avrei trovato ciò che in realtà mi aspettassi da
quel contatto. Non era il
sapore che credevo. No… assolutamente. Però, non
me ne curai.
Compiaciuto, Jason mi
baciò con più ardore, in un modo che rasentava
l’osceno.
Ma dentro di me niente.
Non c’era calore. Non
sentivo nulla sciogliersi dentro di me. Nulla mi scuoteva le viscere o
scombussolava lo stomaco. Non stavo provando niente. Anzi, stava
andando troppo
per le lunghe. Dopo quel secondo irrazionale e senza
spiegazione… basta. Il mio
corpo non reagì più.
Mi stavo cominciando ad
annoiare… oltre ovviamente a provare un discreto disgusto.
Lui no, non si stava
annoiando e di certo non gli faceva schifo.
Mi poggiò una mano sui
glutei avvicinando il mio bacino al suo. E in quel momento lo sentii,
sotto la
stoffa rigida dei jeans.
Sì, era decisamente al
limite.
Fu quello, saperlo
eccitato a causa mia, che mi bloccò del tutto.
Se prima non sentivo
l’impulso a reagire, adesso non ci riuscivo più.
Mi ero bloccata. Era tutto
troppo simile a…
Ma tanto, faceva tutto
Jason. Non era necessario per lui che io agissi.
Nonostante la mia lingua
si fosse fermata, la sua disegnava ancora ghirigori sulle mie labbra,
sul mio
palato…
Poi, proprio come lui
aveva lo cominciato, lui pose fine a quell’assurdo bacio.
Ansimava, sudato. Con voce
roca mi sussurrò: <
Oddio Bella…
cioè, Marie… >
Stava ansimando. mi scoccò
un rapido bacio sulla guancia e lo vidi correre verso il bagno dei
maschi.
L’unica cosa a cui riuscii
a pensare fu: “speriamo che si lavi le
mani…”
Rimasi circa mezz’ora in
quel corridoio deserto, seduta immobile. Ero crollata a terra.
Sentivo i rimbombi della
musica, la testa mi pulsava, avevo un vago senso di nausea…
Jason
mi trovò così, seduta
a terra, con la testa tra le ginocchia.
Si inginocchiò accanto a me.
< Marie! Ero
preoccupato. È mezzora che ti cerco. Pensavo fossi tornata
in sala! Perché sei
rimasta qui? > sembrava preoccupato.
Mi appoggiò la mano sulla
spalla nuda.
Con lentezza esasperante
alzai la testa dalle ginocchia e, fissando la sua mano sulla mia
spalla, gli
chiesi glaciale: < Ti sei lavato le mani? >
Arrossì furiosamente e
balbettò un “sì,
certo…” prima di aiutarmi ad alzarmi e guidarmi,
tenendomi per
il gomito, fino al nostro tavolo.
Ordinammo
di nuovo da
bere, questa volta solo per me. Lui doveva guidare.
Fu un grave errore.
L’alcol non mi faceva
bene. Dopo aver svuotato il bicchiere, mi sentii malissimo. La testa
stava per
esplodermi e il mondo vorticava intorno a me; per non parlare del fatto
che non sentissi più le gambe e che mi venisse da ridere
senza motivo…
Convinsi Jason a
riaccompagnarmi a casa. Quando vidi l’orario sul cruscotto
impallidii. Erano le
due. Provai a mandare un messaggio a Reneé e, vedendo che
non ci riuscivo,
Jason si offrì di scrivere sotto dettatura.
“Torno tra poco. A dopo”
Reneé, che doveva avermi
aspetta sveglia, mi rispose di non preoccuparmi e che mi voleva bene.
Rischiai di vomitare
nell’auto di Jason ma, fortunatamente, riuscii a trattenermi.
Lui, preoccupato
per la tappezzeria, parcheggiò vicino a un chiosco aperto 24
ore su 24.
< Marie, forse sarebbe
meglio aspettare un po’. Non credo che tua madre gradirebbe
vederti così. Sei
ubriaca… >
Dubitavo che la strada
ondeggiasse come appariva a me e per questo decisi di dargli retta.
Mi fece bere molta acqua e
poi mi chiese se volessi riposarmi un attimo.
Annuii e lasciai che lui
mi aiutasse a stendermi. Mi fece appoggiare la testa sulle sue
ginocchia e
prese ad accarezzarmi i capelli.
Chiusi gli occhi. Senza
volerlo, mi addormentai. Non feci fatica, come mi succedeva di solito.
Sicuramente era dovuto all’alcol eppure, ero pervasa da un
senso di pace. I
pensieri spiacevoli non mi assalirono come invece succedeva sempre.
Quella notte, non feci
incubi.
Quando
mi risvegliai, ero
sdraiata sul divano del salotto di Reneé, abbracciata a
Jason.
Era ancora molto presto.
L’oscurità aveva appena cominciato a diradarsi
dietro i tetti delle case.
< Ah, ti sei svegliata
finalmente. > mi disse tagliente.
Il suono tono mi ferì. Si
alzò e andò verso la cucina.
Mentre si sistemava la
camicia stropicciata mi domando con voce inacidita dalla rabbia:
< Si può sapere chi
diavolo è questo Edward. Non hai fatto altro che chiamarlo
tutta la notte. >
e poi sparii in bagno, lasciandomi sola.
Da quel momento, non fece
più domande, non pronunciò più il nome
di Edward e si comportò come se nulla
fosse accaduto, come se quella notte me ne fossi restata zitta e muta.
Io, da parte mia, feci lo
stesso e da quel giorno mi sforzai di non parlare più di
Edward in sua presenza
anzi, cercai inutilmente di non pensarci più. Di
reagire…
|
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Capitolo 22 *** I’m wondering will I ever see another sunrise? ***
Salve a tutte! É
ricominciata l’università e sono stata
molto presa da tutto il normale quotidiano.
Devo studiare tantissimo e cercare di tenere il passo con i
corsi nuovi. Sono sempre stanca e stravolta. Se mi vedeste, altro che
vampiro!
Mi direste che sembro uno zombie!!!
Comunque, vi ringrazio per i commenti che mi avete lasciato.
So che non si comporteranno bene i miei personaggi in questo
capitolo…
La gente a volte reagisce in modo strano e Bella, dopo tutto
quello che ha passato, è confusa e disorientata. Ha paura
perché non riesce ad
affrontare quello che le accade e, per cercare di tenere il passo degli
eventi,
si lascerà travolgere da una situazione più
grande di lei.
Ma… come si lascia intuire dalla fine della prima
parte…
presto arriverà la cavalleria!
E non è solo un modo di dire.
No, Edward non farà come benigni… non
arriverà a cavallo di
un bianco destriero (L’ho visto al tg. Non seguo sanremo)
perché in questa mia
storia non è il principe azzurro.
Ma infatti, cosa vorrà Jane?
Per le maliziose… non quello!
Credo
che posterò in settimana, magari nel week-end.
Devo ricontrollare quanto scritto fin qui. Sapete, sto
scrivendo il punto cruciale e a votle devo cambiare qualcosa nei
capitoli
precedenti per essere coerente quindi ho sempre paura a postare
perché, quello
che posto non posso più cambiarlo (cioè,
tecnicamente potrei ma non mi sembra
corretto.)
Insomma, abbiate pazienza e pietà di questa povera
scrittrice part-time futura disoccupata!
Per Con Ogni singolo battito del mio cuore, sto lavorando al
finale e so che è da un po’ che lo dico.
Avete ragione… però, chi fra voi scrive
saprà che, per
quanto dispiaccia, non si può dedicare troppo tempo alle ff
perché la vita, con
i suoi doveri più che piaceri, chiama.
Sappiate che per me
scrivere è un piacere grandissimo e che amo farlo. Per
questo devo entrare nel
mood giusto. Non riesco proprio a impormi di scrivere nella mezzora
libera. Ho
bisogno di tempo ( e in questi giorni questo scarseggia… )
Per tutto questo vi chiedo scusa.
Ah, dimenticavo… Ma cosa succede in questo pazzo capitolo??
Chi è quell’uomo? Uomo? Mhm… certo che
Bella le sventure non
le attira, se le va proprio a cercare!
Povera Bella, violentata una volta, se la rischia di nuovo!
PS: Cosa succederà ad Edwad nel postribolo in cui
ho trasformato il covo dei Volturi? Sì, sono peccaminosa...
lo so.
pps: piccolo regalo....
doppio POV
Ho scelto questo titolo per esprimere la frustrazione, il dolore e i
sentimenti di entrambi i protagonisti, spero di averli espressi anche
nel testo.
Cap 21
I’m wondering will I ever
see another
sunrise?
Edward’s
POV
Entrai
nei suoi appartamenti sbattendo la porta.
Superai
Renata che, impassibile, rimaneva di guardia alla sua stanza e, senza
badare
alle ragazze che, nude, si rincorrevano tra le risate nel fruscio di
veli.
Aro,
sdraiato tra cuscini e lenzuola, abbracciava Jane, avvinghiata a lui in
modo
indecente. e coperta solo dai suoi capelli biondi disciolti sulle sue
spalle e
sul suo seno
<
Figliolo, hai infine deciso di fruire dei piaceri che questi corpi
giovani ci
offrono? >
<
No Aro. Ho necessità di parlarti. >
<
Ti prego, giovane Edward. Non ho la disposizione d’animo
adatta per ascoltare
le tue lamentazioni in questo frangente. >
<
Non mi interessa. Ho bisogno di comunicarti una mia
necessità. >
Battè
le mani e le ragazze cessarono immediatamente il loro gioco e si
sedettero nel
preciso punto in cui si trovavano.
Marion, quella bendata, alzò con il mignolo
maliziosamente la fascia che le copriva gli occhi.
Sentivo i loro pensieri.
Infastidite per la mia interruzione posta al loro gioco, interessate
per il mio
arrivo.
<
Beh… ragazzo. Ci hai interrotto. Ora rendici noto anche il
motivo. >
<
Preferirei discorrerne in privato. >
Sentivo
quanto aro fosse seccato.
Con un gesto
annoiato della mano congedò le sue giovani amice che, fra i
risolini, si
coprirono con i veli e si allontanarono rivolgendomi sguardi
ammiccanti.
Seccata,
Jane fece per alzarsi ma Aro la trattenne.
<
Tu resta pure, piccola. > Lei parve compiaciuta e lo
abbracciò, cingendogli
la vita.
<
Allora? Cosa volevi comunicarmi? >
<
Devo tornare a casa. >
<
Non se ne parla neanche. >
<
Non è una richiesta. >
<
Cosa intendi dire? Vuoi forse andartene? Pensi che te lo permetterei?
>
Cercai
di schiarirmi la mente, per evitare di apparire troppo arrogante.
<
Aro, ho bisogno di tornare in America. te lo giuro, tornerò
qui. Lasciami
qualche giorno. Se mi lasci partire, sarò il più
fedele dei tuoi servitori.
Sai
che non posso mentirti. >
<
Edward… perché dovrei privarmi dei tuoi servigi?
>
<
Perché, se mi concedessi questo atto di benevolenza, io
sarei in debito con te.
E potrei essere molto abile nello sdebitarmi. Avresti la mia
gratitudine. Sai
che adesso eseguo i tuoi ordini perché obbligato. Se mi
lasciassi partire, mi
sentirei in debito verso di te. Se invece mi costringessi con la forza
a
restare, non riuscirei a sfruttare a pieno le mie capacità
cognitive perché la
mia mente sarebbe costantemente rivolta altrove. Sarei un servo
riottoso,
invece che un fedele e devoto collaboratore. Riflettici. >
E,
senza aggiungere altro, lasciai velocemente le sue stanze. Con la mente
vagliavo i suoi pensieri.
Accarezzava
lentamente la schiena di Jane mentre lei gli mordicchiava il collo.
Lo
vidi vagliare tutte le possibilità…
Quando
la sua mente tornò alle giovani vampire che aveva richiamato
nella stanza,
capii che non voleva che leggessi i suoi pensieri e, esasperato, tornai
ai miei
appartamenti.
Non
avrei dovuto essere così sgarbato. Sperai di non averlo
indisposto troppo nei
miei confronti. Ero stato troppo avventato. Quel colloquio non era
andato come
sperato. L’unica nota positiva consisteva
nell’essere riuscito ad evitare il
contatto fisico. Se mi avesse preso la mano avrebbe saputo nei dettagli
tutto
ciò che avevo sentito al telefono. In quel modo, ero
riuscito a preservare
Alice. Speravo che, nel tempo che, in ogni caso ero riuscito a
guadagnare, lei
sarebbe riuscita a mettersi al sicuro.
Rimasi
seduto in camera mia a pensare per ore ma nessuno venne a chiamarmi.
Nessuno
bussò alla mia porta per giorni mentre, immobile, non potevo
far altro che
macerarmi nell’afflizione.
Sapevo
che, finchè ci fossero stati Esme e Carlisle, Bella sarebbe
stata al sicuro, ma
dopo?
Passarono
i giorni e l’arsura nella mia gola mi impediva di rimanere
lucido. Da quando
ero a Volterra mi nutrivo con meno frequenza. Per cibarmi di animali
era
infatti necessario che mi allontanassi dalla cittadella e questo
significa
allontanarmi da Aro. Cosa a lui non molto gradita e a me concessa solo
sotto la
sorveglianza di alcune delle sue guardie. Loro, durante le mie battute,
non
facevano altro che deridermi per il mio regime alimentare.
Era
passato troppo tempo dall’ultima volta che mi ero nutrito.
Non riuscivo più a
gestire la situazione. I miei pensieri vagavano su Bella, e spesso in
preda ad
una sorta di delirio che, come se fossi stato in una crisi di
astinenza, mi
portava a distruggere tutto non potevo fare a meno di crucciarmi per
lei.
Sapevo
che, quell’isolamento,era una punizione che Aro mi riservava
a causa della mia
arroganza. Nessuno era venuto a chiamarmi. E non potevo
uscire se non “invitato” da Aro.
trentotto
giorni dopo, quando ormai non riuscivo più a tollerare la
tensione e la sete,
Jane fece il suo ingresso trionfale nella mia stanza…
Bella’s
POV
Jason
stava diventando pedante. Voleva sempre stare
con me. Non gli bastavano più le ore al corso di musica.
Mi veniva a prendere tutte le sere, mi portava ogni
sera in un locale diverso facendomi provare sempre qualcosa di nuovo.
Vodka-pesca-Lemon,
Maracuja-vodka-sour, Daiquiri, Mai-thai, Sex-on-the –beach,
black-russian,
caipiroska…
Ogni sera mi riaccompagnava a casa e io facevo fatica
a camminare diritta.
In auto mi abbandonavo alle sue mani senza provarne
piacere. Lo lasciavo fare solo perché speravo che mi
aiutasse a dimenticare.
Volevo che le sue mani allontanassero il ricordo di quelle di Phil. Di
Phil che
mi aspettava sempre sveglio,che mi fissava schifato. Considerava il mio
abbigliamento lascivo e il mio comportamento disdicevole. Ma io lo
facevo solo
per allontanarlo da me.
Uscivo con Jason per non rimanere a
casa con lui. Per
cancellare il ricordo delle sue mani sulla mia pelle.
Ma ciò non era possibile…
Per questo, ogni volta che Jason si avvicinava a
quello che avevo imposto come limite massimo, io mi allontanavo, mi
sottraevo.
Non volevo arrivare fino a quello… non me ne sentivo
pronta.
A Jason questa mia ritrosia non piaceva. Come non gli
piaceva il fatto che io mi rifiutassi di toccarlo. Non prendevo mai
l’iniziativa e non lasciavo mai che si spingesse troppo in
là.
Pensava che fossi troppo rigida, però gli piacevo e
continuava a provarci…
Avevamo cominciato a uscire anche con i suoi amici,
andando per locali insieme a loro.
Una
di quelle sere, dato che ci riaccompagnava un suo
ex-compagno di liceo, anche Jason si diede all’alcol. Non fu
una grande idea da
parte sua.
Si ritrovò infatti riverso nel bagno a vomitare
l’anima.
Dopo un quarto d’ora di singulti, decisi di concedermi
una pausa. Tanto la mia presenza era totalmente superflua.
Uno degli amici di Jason mi vide e mi venne vicino. Lo
avevamo incontrato al pub e si era unito a noi.
< Marie, stanca di fare l’infermierina? >
Annuii indifferente. Loro mi conoscevano così, come
Marie…
< Ti va una sigaretta? >
< Non fumo, grazie. >
< Beh, accompagnami allora. Tanto, Jason ne avrà
ancora per un po’. Così mi tieni compagnia.
>
Il mio istinto mi diceva di no,di non seguirlo. Lo
conoscevo a malapena.
In realtà, non era neanche un amico di Jason. Si erano
conosciuti appena qualche sera prima in discoteca. Cosa ne sapevo io di
questo
ragazzo?
Assolutamente nulla.
Però non volevo essere scortese, di fare quella che sa
sempre sulle sue e non da confidenza mai a nessuno, di sembrare quella
che si
sente superiore, e decisi di accompagnarlo.
< Va bene. >
sorrise soddisfatto della mia risposta e mi fece strada.
Uscimmo dalla porta sul retro e ci
ritrovammo in uno
squallido vicolo denso del vapore che usciva dalle cucine dei locali.
Una
vecchia auto era stata parcheggiata là chissà
quanto tempo prima.
Il ragazzo sembrava totalmente a suo agio mentre io,
in minigonna e top, stavo congelando. Gli stivali con i tacchi mi
facevano male
ai piedi e la testa aveva ricominciato a pulsare. L’alcol mi
rendeva lenta nei
movimenti. Cercò di intavolare una conversazione senza
suscitare in me un
particolare interesse. Io ODIAVO il baseball.
Per fortuna la sigaretta si era quasi esaurita. Stavo
cominciando a rimpiangere il caldo affollato del locale, la musica
assordante…
< Beh, rientriamo? > gli chiesi dopo che lo vidi
spegnere la sigaretta sul muro.
< Hai fretta di raccogliere vomito? >
< No! Certo che no! Io non pulisco proprio niente!
>
Mi si avvicinò in modo
pericolo. Sentii uno strano
movimento nello stomaco. Ecco, ero proprio un’idiota.
Arretrai per evitare il contatto fino a che la schiena
non sfiorò il muro di mattoni dell’edificio dietro
di me.
< Senti, io voglio tornare dentro. > sibilai con
voce ferma, cercando di apparire sicura di me.
< No che non vuoi. Hai voglia di divertirti ma hai
capito che lui non può darti ciò che vuoi.
Però potrei aiutarti io. >
Poggiò una mano sulle mie costole, sotto al seno, come
volesse bloccarmi. L'altra mano scivolò sotto la mia gonna.
Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata. La
sua mano si strinse prepotente sulla mia coscia. Provai ad allontanarmi.
< Senti, non so che idea ti sia fatto ma non ho
voglia di niente. E l’unica cosa che potresti fare per me
è levarti di torno e
lasciarmi andare. >
Ero leggermente ottenebrata dal cocktail che avevo
bevuto e la mia reazione fu troppo lenta.
Senza che potessi fare nulla, mi
accorsi delle sue
mani sulle mie spalle. Mi teneva ferma al muro. Cercai di divincolarmi
e lui
provò a baciarmi.
Voltai la testa e lui mi leccò la guancia. stavo male. non
riuscivo a respirare. vedevo coriandoli luccicanti ovunque mentre un
nero inquietante guadagnava spazio ai bordi del mio campo visivo.
< Dai, non fare la difficile. Sei così carina.
>
Reagire… reagire…
le parole di Carlisle mi martellavano
in testa.
Gli pestai il piede e fu costretto a lasciarmi andare.
< Ma sei cretino? > gli urlai passandomi orripilata la
mano sulla guancia.
Prima che potessi andare verso la porta mi afferrò con
forza il braccio, sbattendomi sul cofano della macchina.
< Prima mi dici che ci stai e poi ti tiri indietro?
Ma a che gioco stai giocando? > mi urlò con rabbia.
Calma, dovevo mantenere la calma.
< Io non ho mai detto nulla e ora, per piacere,
lasciami andare o mi metto a urlare. >
< Cosa credevi che volessi fare qui fuori? Giocare
a carte? Mi pigli per il culo o sei scema? >
Sentii il suo corpo poggiarsi sul mio, togliendomi il
fiato per il peso. Infilò una mano sotto al top. <
Pensi che qualcuno
potrebbe sentirti, con la musica e
tutto
il resto? >
L’altra sua mano era scivolata sotto alla mia gonna.
< Lasciami andare. Io non voglio. >
< Sì che vuoi, altrimenti non ti conceresti a quel
modo! >
< NO, non voglio! >
Quando mi sfiorò gli slip, decisa a non lasciarmi
sottomettere come era successo con Phil, gli sferrai un potente calcio
che lo
fece boccheggiare.
Ma non fu per quello che si allontanò da me.
… No…
Qualcuno lo aveva afferrato per il collo e lo aveva
allontanato con la forza.
La figura oscura, celata dalle ombre, parlò. < Hai
sentito la signorina? Lei non vuole. >
La voce profonda e suadente dello sconosciuto mi fece
accapponare la pelle.
Era al contempo affascinante e inquietante, seducente
e minacciosa.
Vidi il ragazzo tentare di allentare la presa sul suo
collo. Le dita gli tremavano.
< No-non resp-iro > Vedevo i suoi piedi agitarsi
convulsi nel vuoto.
< Non è necessario che tu lo faccia…
> disse
l’ombra, persuasiva, tenendolo
sollevato da terra. Lo stava soffocando.
Io nel frattempo dal cofano ero scivolata per terra.
Tremavo e non riuscivo a muovermi.
Sentii gli occhi dello sconosciuto su di me.
Nel silenzio che si era creato, disturbato solo dai
singulti agonizzanti del mio aggressore, si udì un suono
raccapricciante. Il
rumore di ossa che si frantumano.
Poi il silenzio.
E il ragazzo smise di dimenarsi.
Gli aveva spezzato il collo.
Avrei voluto urlare, alzarmi e scappare… ma non ci
riuscivo.
Questa situazione andava oltre a tutto ciò su cui
potessi anche solo vagamente mantenere il controllo.
Non riuscivo a fare altro che fissare l’enorme ombra
scura avvicinare la bocca al collo innaturalmente piegato del ragazzo.
Nel silenzio riconobbi un suono orribile. L’assassino
stava succhiando, avido.
Innaturalmente
statica, la figura scura continuò a
succhiare fino a quando non lasciò andare il corpo che cadde
riverso a terra a
pochi metri dai miei piedi.
Ciò che aveva fatto era abominevole. Ero incappata in
maniaco psicopatico…
< Bene, e ora, signorina, se non le dispiace… >
E si piegò su di me.
Sentii le sue dita innaturalmente fredde e dure
accarezzarmi il viso, sfiorarmi i capelli, scostarmeli per poter vedere
la
pelle del collo.
Avvicinò le sue labbra e le poggiò sulla mia
pelle.
< Il tuo sangue ha un buon profumo… sai di fiori.
>
Chiusi gli occhi. Il dolore pulsante alla testa era
atroce. Non riuscivo a pensare.
Mi stava per uccidere e non riuscivo a pensare ad
altro che al dolore tremendo che mi crivellava la testa.
“sai di fiori” “il tuo sangue ha un buon
odore” …
Al corso di autodifesa, a scuola, ci avevano insegnato
che se venivi aggredita dovevi cercare di instaurare un rapporto con
l’aggressore. Sfruttare l’empatia, dargli corda e
lasciarlo parlare. Il tutto
per guadagnare tempo finchè qualcuno non si fosse accorto
che eri in pericolo…
valeva anche per gli assassini?
E intanto nella testa rimbombavano echi lontani…
“Il
tuo sangue ha un buon profumo… come di
fresia…” “sai di buono, di
fiori” …
“Fresia”
Le mie labbra si
mossero da sole.
< Fresia.
>
< Come scusa? >
< Sa di fresia, vero? Il mio sangue… >
Sorpreso che avessi parlato, avvicinò il naso dritto
alla mia giugulare e ispirò profondamente.
Ridacchiò, colto alla sprovvista. < Sì,
hai
ragione. Sembra proprio fresia. Te lo dirò con certezza dopo
che lo avrò
assaggiato… beh, tu sarai morta, ma non importa. >
Dovevo fare qualcosa, qualcosa che lo fermasse, ma non
mi veniva in mente niente.
Con voce perentoria dissi: < Fossi in te non lo
farei. >
< E perché no? Se no cosa mi farai, piccola
ragazzina? >
Nulla. Quella era la risposta.
Era finita.
Sebbene non volessi, quando chiusi gli occhi vidi
Edward.
Era stupido, infantile, sbagliato… eppure avrei voluto
vederlo un’ultima volta, sebbene sapessi che non mi amava
più.
Schiuse le labbra e sentii i suoi denti freddi
lambirmi in modo sensuale la pelle della clavicola.
Mi resi conto che tutto ciò che avevo fatto nelle
ultime settimane non era stato per dimenticare ciò che mi
aveva fatto Phil, ma
Edward.
Io non volevo essere abbandonata.
E non volevo neanche morire in quel lurido vicolo.
Volevo Edward.
E allora dissi la prima cosa che mi
passò per la
mente.
< I Volturi lo sapranno. >
Si immobilizzò di colpo, allontanandosi da me
emettendo un basso sibilo.
< Cosa stai dicendo? > urlò terrorizzato.
E che diavolo ne sapevo io di cosa stavo dicendo. Non
ne avevo la più vaga idea… però, data
la sua reazione, decisi di continuare.
< Te l’ho detto. Puoi anche uccidermi ma loro lo
sapranno. E non ne saranno contenti. Ti cercheranno e ti troveranno. E
allora
ti pentirai di avermi uccisa. >
Stavo dicendo parole a vuoto ma sapevo che erano
quelle giuste da dire. Lo sapevo perché l’uomo che
mi aveva aggredita era
totalmente nel panico.
< Ma come… tu… sei solo
un’umana! Ma… > poi
cercò di darsi un contegno e, con il tuono suadente e
vellutato che aveva usato
fino a poco prima, riprese: < Mi scusi. Avrebbe potuto avvisarmi
prima della
sua posizione. Spero che l’incidente occorso al suo
accompagnatore… > e
indicò il corpo senza vita dell’amico di Jason
< Non mi procurerà delle noie
con i nostri amici italiani… >
Terrorizzata, feci cenno di no e lui mi parve molto
rinfrancato, tanto che aggiunse: < In realtà, vedendo
che la stava
molestando, ho deciso di accorrere in suo aiuto. >
Sì, come no. E l’aiuto comprendeva uccidermi e
dissanguarmi?
< Ora con permesso… non vorrei che quegli insulsi
umani… >
poi mi guardò e disse:
< Senza alcuna offesa verso di lei, madmoiselle…
Come le dicevo, non vorrei che capissero come il nostro sgarbato amico
sia
passato a miglior vita. >
Ed estrasse con mano tremante una boccetta da un
marsupio. Ne versò il contenuto sul corpo, poi vi diede
fuoco con un
fiammifero.
Nei bagliori delle fiamme riuscii a distinguere solo
un volto pallido dai lineamenti nobili e duri e gli occhi.
Degli occhi di un rosso
impossibile.
Saltò sul cassonetto
della spazzatura e da lì al tetto
con una grazia e un’agilità inverosimile.
Un secondo dopo quell’uomo si era dileguato.
Con occhi sbarrati fissavo il punto in era sparito.
Ben presto gli occhi cominciarono a bruciarmi a causa del fumo. Un
odore acro
mi investì.
Carne bruciata, capelli bruciati. Fiamme rosse e blu
danzavano davanti a me, pericolosamente vicine… ma non
riuscivo ad
allontanarmi. Vedevo il corpo del ragazzo orrendamente distrutto,
sciolto,
arso. L’odore era atroce. Mi ritrovai voltata su un fianco a
vomitare. Cercai
di racimolare un briciolo di forza per trascinarmi via ma non ci
riuscivo. Mi
graffiavo le gambe nude contro l’asfalto mentre il calore si
faceva sempre più
vicino.
Non riuscivo più a vedere nulla, accecata dai fumi
corrosivi della benzina.
Non riuscivo a respirare e sentivo il mio petto
comprimersi per colpa dell’accesso di tosse.
Spaventati dall’allarme anti-incendio, i gestori dei
locali si affacciarono sul vicolo.
La
gente accorse, chiamarono i pompieri e l’ambulanza.
Arrivò persino la polizia. Si precipitarono verso di me,
trascinandomi via dal
punto in cui le fiamme divoravano le carni del ragazzo che mi aveva
aggredita.
Una poliziotta e dei paramedici mi
aiutarono a sdraiarmi sulla lettiga. Mi
portarono in ambulanza.
Facevo fatica a respirare. Mi ero graffiata e
tagliata…
Sulla mano e sulla gamba sinistra c’era una piccola
ustione.
Jason, che nel frattempo pareva essersi ripreso, mi
corse incontro.
I poliziotti non volevano che mi si avvicinasse ma lui
disse di essere il mio ragazzo e loro lo fecero passare.
Avrei preferito che fosse restato a vomitare.
Non volevo vedere nessuno. La testa mi stava per
esplodere….
Tra tutti quei fastidiosissimi suoni che si
sovrapponevano sentii una dottoressa avvisarlo:
< La signorina è in stato di shock. Ha subito un
grande spavento. Forse è rimasta intossicata. Dovremmo portarla in
ospedale. Non è riuscita
ancora a parlare… Il ragazzo è stato ucciso e
bruciato proprio davanti a lei… >
Jason si avvicinò a me e mi prese le mani. Era
pallido. Mi domandò: <
Stai bene?
>
non riuscivo a rispondergli. Gli fissavo gli occhi. I
suoi erano normali… non rossi.
< Marie? Stai bene? I poliziotti vorrebbero sapere cosa
hai visto, cosa è successo… >
Mi sforzai di rispondere e alcuni poliziotti mi si
assieparono intorno, intenti ad annotare ogni mia parola. i paramedici
insistevano per portarmi via ma loro non glielo permisero.
Li sentii dire all’infermiere: < Se non è
in
pericolo di vita, lasciatela qui. Deve assolutamente raccontare cosa ha
visto.
La porterete via dopo. Questo
è già il
quinto caso in tre mesi. È l’unica testimone.
L'unica ad essereuscita viva da...
Forse se riusciamo a farci dire
qualcosa, riusciremo a prendere quei bastardi. >
Poi si rivolse a me chiedendomi di
raccontare tutto
ciò che fosse successo.
Inventai quella
che mi parve l’unica storia credibile.
Si era avicinato, aveva un coltello.Urlava,
chiedendo soldi. Aveva aggredito il mio "amico" che
fumava. Lo aveva sgozzato. cercai di non pensare al sangue e continuai
dicendo che poi (ed era quella la parte più assurda) con una
bottiglietta aveva cosparso il ragazzo di un liquidoa cui aveva poi
dato fuoco. troppo terrorizzata, non avev guardato da che parte fosse
fuggito.
No. non lo avevo guardato in faccia.
no, non avrei potuto fare un identikit.
Corporotatura? media.
Altezza? media.
Voce? maschile.
Accento? nessuno.
Furono queste le mie risposte alle
loro domande. Di certo, la verità mi avrebbe fatto
passare per pazza. E poi, sentivo che non dovevo parlarne, che era
troppo
pericoloso.
Loro presero nota di ogni parola. Volevano
portarmi in questura.
I paramedici in
ospedale.
Io supplicavo tutti di lasciarmi andare a casa.
< No, per favore. Sto bene adesso. Voglio solo
tornare a casa. Non ho bisogno di andare in ospedale. Ora sto bene. Non
mi fa
più male la gola e non mi bruciano più gli
occhi.>
I paramedici
non mi sembrava troppo felice ma, dopo circa
mezz’ora la dottoressa che
mi aveva medicato le bruciature e le escoriazioni (che mi ero procurata
durante
la colluttazione e la caduta) diede il suo beneplacito
perché mi portassero in
questura.
Disse che non poteva portarmi in ospedale se non
volevo e, dato che sembravo stare bene e i miei parametri erano tornati
normali, mi fece riempire un sacco di moduli.
Su quei fogli di carta
si attestava che rifiutavo di andare in ospedale in piena
coscienza e
che me ne assumevo tutti i rischi.
Mi presero in custodia i poliziotti. Avrei voluto
andarmene ma con loro non bastava scrivere il mio nome e la mia firma
su degli
stupidi fogli.
Fui costretta ad andare in questura. Jason
volle seguirmi.
Lui intanto aveva chiamato mia madre. I poliziotti
parlarono anche a lei e le dissero di andare direttamente in questura,
che mi
avrebbe trovata lì.
Io,
per tutto in tragitto, non ascolta né Jason né le
rassicurazioni della polizia.
< Non devi avere paura, ora sei al sicuro… >
continuavano a ripetermi come se fosse un mantra.
Ma io guardavo i tetti e pensavo a quel mostro dagli
occhi rossi.
Ne ero rimasta terrorizzata e affascinata al contempo.
Io non lo conoscevo e lui non conosceva me, tanto che
voleva uccidermi, ma c’era qualcosa di familiare nei suoi
modi, nella sua
agilità… qualcosa che mi attraeva.
E poi, perché le mie parole lo avevano terrorizzato a
tal punto da farlo fuggire e lasciarmi salva la vita?
Volturi…
volturi… non riuscivo a pensare ad altro,
sebbene quella parola non mi dicesse assolutamente niente.
Bhe… insomma…
spero vi sia piaciuto.
Ci vediamo nel week-end!
Spero sarete numerose
PS: Cosa ve ne è parso del palazzo di Volterra stile
lupercale? insomma... i Volturi io me li sono immaginata
così. quando sei immortale in fondo... hai un sacco di tempo
libero e taaanteee energie...
Spero di essere riuscito a descrivere la loro "corte in modo
educato, provocante e inquietante al punto giusto. Volevo
rendere bene i sentimenti di Edward in un tale "contesto" a lui
così estraneo.
E poi, volevo andare un po' cotnro alla fin troppo puritana Meyer! E in
futuro... beh, questa è un'altra storia! fra un paio di
capitoli le caste scene della Meyer potrete dimenticarle!
PPS: Per le
amanti (Purtoppo per noi non in senso letterale) di Edward... visto che
lei Jason lo odia? Eh eh eh
Un bacio e a presto,
Erika
|
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Capitolo 23 *** He says: close your eyes. Sometimes it helps. ***
cap ultimo
Permettetemi una premessa. Lascio
ciò che ho scritto ieri notte mentre preparavo il capitolo
ma aggiungo una piccola nota:
In questa storia, ambientata in quel
mondo ai
confini della realtà che è stato creato da
Stephenie
Meyer, ho cercato di andare oltre la storia di amore e "sfruttare" i
personaggi di Twilight per raccontare anche quelli che
purtroppo
sono troppo spesso i risvolti drammatici di realtà
apparentemente felici. la violenza si nasconde nelle case e colpisce
donne e ragazze. io ho provato a raccontare una storia che raccontasse
anche della sofferenza di chi è vittima della cieca violenza
di persone crudeli.
ma l'immaginazione non è niente in confronto alla
realtà.
e in QUESTO mondo, quello reale, i mostri veri esistono.
non indossano mantelli neri nascondendosi nella notte ma sembrano
persone normali e si camuffano nascondendo le loro perversioni a chi li
conosce.
rapiscono ragazzine e le abbandonano nei prati come fossero spazzatura,
come fossero qualcosa che non merità nemmeno la
pietà che
si riserva ai morti.
spero davvero che, chiunque sia,
paghi per ciò che ha fatto, per il dolore reiterato che ha
inflitto alla famiglia, per il vano dolore che ha inflitto alla povera Yara prima e mentre la privava della vita.
Non riesco a capire come possa alzarsi ogni mattina e guardarsi allo specchio, come faccia a rendere conto alla sua coscienza di ciò che ha fatto. mi auguro che si renda conto che una persona come lui non potrà mai ricevere nè meritare perdono dalla società, dalla famiglia... dalla sua vittima.
ora vi lascio a ciò che
avevo scritto.
Care Lettrici,
Sono molto lieta di postare questo nuovo capitolo nei tempi
pattuiti!
Ringrazio le 10 ragazze che hanno selezionato quel piccolo
tasto con su scritto “recensisci questo capitolo” e
spero che molte altre
faranno lo stesso!
Ringrazio chi ha letto e chi leggerà anche questo mio nuovo
capitolo.
E con questo si chiude la prima parte della storia
perché…
Ci vediamo settimana prossima?
Spero di riuscire a postare giovedì, al più tardi
sabato. ( l’università
nuoce gravemente al tempo libero! )
Cap 22
He says: close
your eyes. Sometimes
it helps.
Dice:
chiudi gli occhi. Qualche volta
aiuta.
Bella’s
POV
Reneè
ci raggiunse alla stazione di polizia dopo
un’ora l’incendio. Era molto preoccupata.
< Isabella! >
gridò quando mi vide. Una
poliziotta mi aveva dato una coperta e del the caldo.
< Oddio, piccola, cos’è successo? >
All’inizio non riuscii a fare altro che abbracciarla,
grata di essere ancora viva poi le ripetei la stessa storia che avevo
rifilato
alla polizia.
< Oh mamma! Avevo accompagnato quel ragazzo a
fumare e un uomo si è avvicinato. Ci ha chiesto i soldi.
Aveva un coltello. Lui
non voleva darglieli e allora…
ho avuto tanta paura che uccidesse anche me.
> pensai che fosse il caso di scoppiare a piangere, tanto per
dare un tocco
di classe alla sceneggiata.
Reneè mi massaggiò la schiena e mi disse:
< Tesoro,
adesso ti riporto a casa. Hai già firmato la deposizione? E
hai fatto
l’identikit? >
Annuii, desiderosa di andarmene.
Reneé si alzò in piedi e cercò
qualcuno che
l’aiutasse. Rimase a parlare a lungo con un ufficiale. Quando
tornò da noi,
sembrava molto sollevata.
Riempì un sacco di scartoffie, ringraziò la
polizia e
mi portò via.
Jason venne con noi. Reneé diceva che dopo quello che
era successo non se la sentiva di saperlo in giro da solo, e poi,
stando a lei,
era ormai mattina.
Guardai l’ora. Erano le 5
di mattina. Tremai. Mi
sembrava fossero passati appena pochi attimi da quando quegli occhi
rossi mi
avevano fissata intensamente, terrorizzati.
Reneé spezzò il silenzio e disse che Phil era
rimasto
a casa con il piccolo.
Poi, per rassicurarmi, aggiunse: < Non preoccuparti,
piccola. Ho parlato con il procuratore di turno.
Mi ha detto che basta la tua
deposizione. Non dovrai più andare alla polizia. A meno che
non sia
strettamente necessario >
Sussultai. Lei pensò fossi terrorizzata e si
affrettò
ad aggiungere: < Non sospettano di te… sta
tranquilla.
Sfortunatamente non è
il primo omicidio di questo tipo. >poi si sporse per
accarezzarmi e i suoi
occhi si velarono di lacrime.
< Questa è però la prima volta che
qualcuno si
salva… > Io non le risposi. Sentivo ancora
quegli occhi
rossi fissarmi nell'oscurità. mi facevano
paura.
Arrivati
a casa, mi accompagnò in camera mia. Disse a
Jason che poteva dormire nella stanza degli ospiti e poi
tornò da me. Jason
preferì rimanere sul divano. Reneé si sedette
vicino a me.
Era così bello averla vicina. Mi accarezzava le
guance, la fronte. Baciò la mia mano sopra la benda che
copriva la scottatura.
< Bella,
piccola, mi dispiace che ti sia accaduta questa brutta faccenda. Deve
essere
stato orribile. Ma ci sono qui io. Io sarò sempre vicino a
te. Capito?
Qualsiasi cosa ti turbi, devi parlarmene. Intese? >
Non riuscivo a sostenere il suo sguardo. Mi sentivo
colpevole. Io l’avevo tradita. Non le avevo detto nulla di
ciò che davvero mi
angosciava. Non le avevo rivelato nulla. Mai. Ero sempre stata troppo
codarda.
I farmaci, il mal di testa, Phil… mi ero sempre tenuta tutto
per me.
E quando aveva trovato il test di
gravidanza negativo
nella pattumiera, era venuta da me preoccupata.
Mi aveva chiesto se volessi andare da una ginecologa,
se avessi bisogno di qualcosa.
Mi aveva fatto una imbarazzante ( e inutile )
lezione di educazione sessuale e poi mi aveva abbracciato, tenendomi stretta a
sé e dicendomi che ai
suoi occhi sarei sempre stata la sua bambina..
Quella stessa sera, andando a letto, avevo trovato una
confezione di preservativi sotto al cuscino, avvolti in un completino
intimo di
seta nuovo di zecca.
Un regalo per me perché pensava di farmi un piacere.
Sapevo cosa volesse dirmi. Che era contenta se io ero
felice, se io avevo una vita piena e appagante anche dal punto di vista
fisico.
In realtà non aveva
capito niente e io non avevo
trovato il coraggio di dire nulla.
Mi ero limitata a nascondere il completo e a
buttare i preservativi nella spazzatura nel vialetto, macerandomi nel
dolore
del silenzio.
Adesso lei, con le occhiaia viola, era seduta sul mio
letto e mi teneva la mano, aspettando che mi addormentassi. Mi cantava
una
nenia e mi carezzava i capelli.
Non volevo deluderla, non volevo sgretolare il mondo
che si era creata.
Per questo motivo non le dissi di Phil, né che avevo
smesso le medicine, né di quello vedevo nella
testa… né di ciò che era avvenuto
realmente quella notte.
Quando
mi risvegliai, ero sola nella stanza. Era ormai
giorno e la luce mi sferzava gli occhi.
Mi alzai e andai in bagno poi scesi in sala, dalla
quale sentivo provenire un vocio intenso. Jason era lì con
sua madre. Stavano
parlando con Reneè, che teneva il piccolo Owen stretto tra
le braccia.
Jason mi venne incontro e mi presentò a sua mamma. Io
la salutai educatamente poi Jason mi prese da parte.
< Marie, mi dispiace così tanto. È tutta
colpa mia.
Non lo sapevo. Scusami. >
< Jason, calmati, ti prego. Come puoi pensare che
sia stata colpa tua? >
< Hai rischiato di morire? Te ne rendi conto. >
Sollevai le spalle e lui mi fissò scandalizzato.
< Ma non sei terrorizzata? >
< Beh, non è la prima volta. >
< Ma tu sei tutta pazza! > poi mi prese la mano
e mi disse: < Davvero, non lo sapevo. >
< Cosa? >
< Lui, quello ucciso. Oggi ha chiamato qui la
polizia. Lo hanno identificato. Era un mezzo delinquente. Precedenti
come aggressione,
furto…
Pensano che l’aggressione fosse mirata a lui. Una
sorta di regolamento di conti. E tu hai rischiato di rimanerne
coinvolta!
Anche
tutti quegli altri uccisi… erano tutte persone con
precedenti.
Visto che non hanno mai trovato niente, credono che
sia stato fatto da un professionista. Un sicario.
Oddio, Marie, ti ho esposta io a questo pericolo. Non
dovevo lasciarti sola con lui. >
< Jason, eri piegato sul water a vomitare… non
è
colpa tua. E poi, sono stata io una stupida ad accompagnare qualcuno
che non
conoscevo. >
Senza preavviso, mi strinse tra le braccia e mi baciò.
Non gliene fregava niente che le nostre madri ci stessero guardando? Io
come al
solito, lasciai fare tutto a lui. Passiva, lasciai che le sue mani si
posassero
sui miei fianchi.
Quando pose termine al
bacio, mi sussurrò all’orecchio: < Marie,
mi dispiace tanto. Ti amo. >
poi mi diede un lieve bacio sulla guancia e raggiunse sua madre.
Portai la punta delle dita alla guancia, là dove mi
aveva sfiorata.
Aveva detto che mi amava. Ma io? Cosa provavo per lui?
Amore? No, no di certo.
Io, io non lo amavo.
In che cavolo di pasticcio mi ero andata a cacciare?
Trascorsi i giorni seguenti a casa.
Non volevo vedere
nessuno. Reneé pensò che fosse una conseguenza
dello shock e non mi fece
domande.
Non volli rispondere al telefono. Nemmeno a Charlie
che, come ogni sabato, mi telefonava per sapere come stessi.
Mamma non lo aveva
avvisato perché temeva che Charlie, terrorizzato, si
precipitasse a
Jacksonville.
Reneè era in maternità e rimase sempre con me in
casa.
E questo fu un bene perché non volevo restare sola con Phil.
Ero felice lui perché
sarebbe partito presto.
Doveva andare in trasferta con una squadra. Non vedevo
l’ora che partisse. Se la squadra era forte, sarebbe stata
una cosa lunga.
Un
campionato attraverso un sacco di stati significava
un’assenza prolungata. Non
potevo desiderare altro.
Jason, da parte sua, venne a
trovarmi spesso e alla
fine riuscì a convincermi ad uscire.
La mia condizione era però che mettessimo fine ai pub.
Cinema, ristorante, teatro… queste cose qui andavano
bene. Il resto preferivo evitarlo.
Volevo archiviare il capitolo alcol; non era stata una
bella esperienza.
Stare con lui diventava sempre più
faticoso. Mi
annoiavo.
Era sempre più difficoltoso per me stare ad ascoltarlo, far
finta di
essere interessata alle cavolate che mi diceva.
Non riuscivo ad aprirmi con lui, a renderlo partecipe
di ciò che realmente provavo, a parlargli dei miei dubbi,
delle mie paure.
Non riuscivo a sfogarmi con lui come invece avrei
voluto e avrei fatto se lo avessi amato.
Lo sentivo distante. Quando stavo con Edward, mi
sembrava così naturale parlargli… anche delle
cose più intime. Con Jason,
invece, non riuscivo ad essere me stessa.
Ci provavo, ma non era semplice.
Cercai di essere un po’ più partecipe, almeno
quando
ci baciavamo, ma era tutto inutile.
Sebbene mi sforzassi, non riuscivo a provare niente di
intenso verso di lui.
Il mio stesso corpo non reagiva come avrebbe dovuto.
Mi sentivo come congelata… però cercavo di far
finta di niente. Cercavo di
mostrarmi coinvolta in questa relazione.
In fondo, a Jacksonville, non avevo nessun altro
all’infuori di lui.
Una sera, il giorno dopo la partenza di Phil, mi
propose di andare a casa sua.
Disse che aveva voglia di qualcosa di speciale. Accettai
convinta di trovarci la sua famiglia e invece scoprii che Jason era a
casa da
solo.
Mi disse che i suoi erano partiti per un week-end e che gli avevano
lasciato la casa libera. Cattivo segno.
Mi fece strada mostrandomi la sua bella casa.
Arrivati in cucina, trovai la tavola apparecchiata.
< Ti ho preparato la cena. Sai, volevo organizzare
qualcosa di diverso. >
Fece partire un cd di musica e mi fece accomodare.
Notai che nella pattumiera c’era un sacchetto di una
rosticceria con il cibo da portar via. Non dissi nulla,limitandomi a
versarmi
dell’acqua.
Cominciammo a mangiare, in silenzio.
Era tutto buono ma non riuscii a gustarmelo. Mi
sentivo in soggezione.
Continuavo a sistemarmi il vestito. Gli stivali mi
stringevano i polpacci e avrei tanto voluto delle pantofole…
Mi spostai una ciocca dietro all’orecchio e lui disse:
< Ti adoro, quando fai così… >
Imbarazzata, chiesi: < Così come? >
< Come ti sistemi i capelli, come muovi le gambe.
Le labbra… resterei a guardarti per ore. >
Arrossii violentemente e lui sorrise.
Quel discorso non mi piaceva. Non
mi piaceva per
niente.
Mi offrì del vino. Ne bevvi due bicchieri poi sentii
le ginocchia farsi molli e decisi che per quella sera era abbastanza.
Lui non
bevve.
Finita la cena, tirò fuori un dvd da un cassetto.
< Ti va un film? >
< Mhm, sì, ok… >
Ci sedemmo e lui fece partire la tv.
Il film era divertente ma ero più attenta al braccio
di Jason che alla trama.
Si era avvicinato pericolosamente a me. Il braccio era
rischiosamente finito dietro alla mia schiena.
Con la mano libera mi accarezzava la gamba.
Capii le intenzioni di Jason per il dopo-film.Se erano
quelle che pensavo, non mi piacevano.
Appena partirono i titoli di coda,
mi fece sdraiare
sul divano e cominciò a baciarmi il collo.
Totalmente insensibile al suo tocco, osservai le ombre
che si proiettavano sul soffitto. Feci la pessima scelta di poggiare la
mia
mano sul suo capo.
Lui interpretò il gesto come un’autorizzazione e
poggiò la
testa sul mio seno.
Sentii lo stomaco contrarsi ma non feci niente.
Lo sentii afferrare il peduncolo della cerniera del
mio vestito e tirare. Avvertii la stoffa del divano sotto la pelle
della mia
schiena.
Le sue mani cercarono il gancetto del reggiseno.
< Jason… siamo in salotto. >
< Sì, hai ragione. Vieni, andiamo in
camera… >
Aveva il fiatone.
Mi prese per mano e mi portò nella sua stanza.
Con foga quasi mi buttò sul letto. Lo sentii presto
sopra di me. Si era tolto i pantaloni. Il mio vestito
scivolò presto per terra.
Pensai a tutte le remore, a tutti i miei dubbi.
Non volevo farlo, il sesso. Ma perché? In fondo,
cos’avevo da perdere.
Grazie a Phil non certo la verginità…
Forse, se fossi riuscita a lasciarmi andare, a
sciogliermi un po’, sarebbe stato bello. Non mi avrebbe fatto
male.
Lo facevano tutte, dicevano che era bello… che era
piacevole.
Il mondo girava intorno al sesso e io ero l’unica
stupida che si faceva tutte quelle remore!
Jason era carino, simpatico… potevo starci. Dovevo
smetterla di essere troppo rigida.
Quante volte ci avevamo provato?
Almeno tre o quattro.
E ogni volta, quando Jason arrivava a sfiorarmi gli slip, io gli dicevo
di
fermarsi.
Sapevo che, normalmente, grazie ai preliminari una
ragazza riesce a entrare nella disposizione giusta. Il suo corpo stesso
reagisce indicando che si è “pronte”.
A me, in quelle occasioni non era mai successo.
Forse perché Jason non era quello giusto per me.
Per questo non mi ero mai arrischiata ad arrivare fino
in fondo.
Ma poi ci pensai un po’ su.
Era stupido aspettare un principe
azzurro che non
sarebbe mai arrivato, che non esisteva.
Forse, non mi avrebbe fatto male. Per lo meno, non
tanto quanto il male che avevo sopportato con Phil…
Forse questa volta avrei dovuto lasciar fare a Jason.
In fondo era tutta una questione mentale.
< …proviamoci… > sussurrai a denti
stretti
cominciando a slacciargli la camicia.
Di sicuro i due bicchieri di vino mi aiutarono nel
prendere quella decisione.
Stavo per togliermi gli stivali ma lui, totalmente
preso dalla situazione, tra un bacio e l’altro mi
bloccò la mano ed ansimò:
< No, tienili. >
< O-ok… > sussurrai imbarazzata mentre lui si
impegnò
ad armeggiare con il gancetto del mio reggiseno.
Alla
fine, troppo presto, riuscì a togliermi
quell’indumento.
Mi sentii a disagio, così vulnerabile davanti a lui,
ma lui parve non rendersene conto.
Mi carezzava e le sue mani erano gentili ma, ogni
volta che chiudevo gli occhi, vedevo Phil e mi sembrava di averlo
ancora sopra
di me.
Sentivo il respiro cominciare a mancarmi.
Tornò a baciarmi le labbra. Le succhiava e accarezzava
come se avesse potuto mangiarmele.
Quel bacio sembrava non avesse fine. Strinsi i pugni.
Forse Jason lo interpretò come piacere crescente
perché cominciò a baciare la pelle prima coperta
dal reggiseno, lasciandomi
libera di riprovare a respirare ma non erano state le sue labbra sulle
mie ad
impedirmelo.
sentivo sempre più la mancanza d’aria nei miei
polmoni.
Di piacere, neanche l’ombra.
Ai lati del mio campo visivo cominciarono ad
addensarsi miriadi di lucine dorate.
Sentivo le gambe tremare, malferme.
Cercai di respirare con più calma, di riprendere il
controllo.
Le sue labbra sul mio seno, sul mio ombelico.
No. Non lo volevo. Avevo capito che non volevo tutto
quello. Tutto quello che mi ero detta due minuti prima mi parve
improvvisamente
molto stupido.
Mi morsi la lingua.
Non volevo fare la figura della bambina. Di quella
che, per l’ennesima volta, dice di no. La figura della
bacchettona bigotta.
Sentii il sapore ferroso delle gocce calde sui miei
denti.
Jason, che non si era accorto di quello che stavo
provando,era troppo attento ad assecondare le reazioni fisiche del suo
corpo.
Mi
guidò con forza a separare le gambe tenendo le mani sulle
mie ginocchia.
Mi accarezzava con sempre più foga.
Quando poggiò il viso sui miei slip, sentii il mio cuore
fermarsi.
Ricordai la mano violenta di Phil
insinuarsi tra le pieghe della mia carne
asciutta.
Il mio corpo si irrigidì così tanto che mi
vennero dei
crampi ai muscoli.
< Jason… non ci riesco. Fermiamoci…
>
< Non fare la difficile. > Mugugnò lui,
affondando
il viso nel mio inguine.
Capii di non essere pronta.
Poggiai le mani tremanti sulla sua testa.
< No, Jason, davvero. Non credo di riuscirci. Mi
sento poco bene. Mi gira la testa. >
< Oh, chiudi gli occhi e non ci pensare. Qualche
volta aiuta. > mi disse seccato.
Obbedii. Chiusi gli occhi. Ma non mi aiutò.
Ecco Phil che mi strappava i vestiti, che mi
picchiava, che mi usava. Lo vedevo così chiaramente nella
mia testa…
Le dita di Jason andarono sotto l’elastico degli slip.
< Jason, per favore, smettila! >
Ma lui continuò, facendosi più audace, scostando
la
stoffa e cercando con dita fameliche l’eccitazione che non
provavo. Mi fece male.
In un sussurro cercai di farlo smettere. < Mi fai
male… mi fai male. >
Lui non mi ascoltò e cercò, con la mano che non
era
intenta a toccarmi, di togliermi quel ultimo indumento.
Non riuscivo più a respirare. < No…
no… no… >
Stavo avendo un attacco di piano in piena regola.
Serrai le gambe e mi voltai di lato. < No! NO!
Basta! Mi fai male! >
< Dai, Marie, non fare la scontrosa. > le sue
mani, sempre più audaci, stavano diventando brutali.
Mi costrinse a tornare supina e mi aprì le gambe a
forza.
< Jason, ti ho detto di no! >
< Non essere la solita guastafeste. Non puoi
portarmi al limite e poi dirmi di no. Lo so che lo vuoi anche tu.
>
< No! Non voglio! > Non riuscivo più a
respirare. E lui non mi ascoltava più. Mi abbassò
le mutandine fino alle
ginocchia.
Nonostante lo implorassi di fermarsi, lui continuava
imperterrito a toccare il mio corpo.
Quando la sua mano mi accarezzò, facendomi sussultare,
capii che dovevo fare qualcosa.
Fu come una scarica elettrica, come la lucidità
portata da una doccia fredda.
Gli tirai un ceffone in pieno viso.
Lui si ritrasse immediatamente,
arretrando sul letto. <
Marie? Marie! > Mi
teneva i polpacci.
< Jason, lasciami > gli intimai debolmente.
< Marie? Ma sei pazza? Mi hai fatto male. >
Il mio respiro totalmente fuori controllo veniva
ulteriormente ostacolato dai singhiozzi che mi squassavano il petto.
Cercai di
coprirmi il corpo con il lenzuolo.
< Jason, voglio andare a casa. Per favore, portami
a casa. > caddi a terra e, in ginocchio, seminuda, cominciai a
raccogliere i
miei vestiti. Me li infilai alla bell’e meglio.
< No, tu adesso mi spieghi che cazzo ti è preso!
>
< ti ho detto
che voglio andare a casa! >
< Ma perché? Non ti stavi divertendo anche tu?
>
La voce mi tremava. < No, Jason, NO! ti
avevo detto di smetterla… ti avevo detto
che mi stavi facendo male! >
< Ok… ok. Non pensavo dicessi sul serio…
sai quella
storia che le donne dicono no ma pensano sì…
>
< Tu stai delirando. No vuol dire NO! E io ora
voglio tornare a casa! >
Seccato, si rivestì. Potei constatare quanto la sua
“disposizione” fosse tramontata mentre si infilava
i pantaloni.
Si avvicinò per chiudermi la cerniera del vestito ma
io mi ritrassi. < Faccio da sola. > gli sibilai.
Lo precedetti all’ingresso e, per tutto il viaggio,
lui cercò di scusarsi.
< Marie, davvero, non pensavo che dicessi sul
serio. Non pensavo di farti male sul serio. >
Mi rifiutavo di rispondere. Il respiro era pian piano
tornato regolare e mi sentivo più lucida.
< Dai, pensavo stessimo giocando… >
tentò di
giustificarsi.
< Giocando? Ma tu proprio non riesci a capire
niente! Non riuscivo più a respirare! >
< Pensavo che fossi… eccitata. >
Capii che era tutto fiato sprecato.
A voce bassa decisi di porre fine a tutta quella
storia falsa e senza senso.
< Jason, credo che non dovremmo vederci più. >
< No! Non dirlo. Quello di sta notte è stato solo
un errore. Ti prometto che cercherò di essere più
recettivo rispetto alle tue
necessità. Sono stato troppo avventato.
Ho affrettato i tempi. Non avevo capito
che volevi fermarti prima… >
< Jason, senti, il problema è che ho sbagliato io.
Non mi sentivo pronta a niente di tutto ciò che è
successo questa sera. Non
dovevo… >
< Senti, scusami. Ti ho fatto pressione in tutti
questi giorni. Ero ossessionato dall’idea di farlo con te e
ho insistito senza
ascoltare ciò che volevi.
Ti prometto che mi impegnerò di più, la prossima
volta. Starò più attento a ciò che
vuoi che faccia... >
< Jason, non ci sarà una prossima volta! >
< Senti, non puoi decidere di mollarmi. > Mi
afferrò il polso, facendomi male.
< L.A.S.C.I.A.M.I. > sillabai furibonda.
Compiendo quel gesto, Jason perse per un istante il
controllo sulla vettura e sbandammo.
Per poco non centrò un palo della luce. Fortunatamente
le strade, a quell’ora, erano deserte.
Mi portai le mani al petto, ansante. L’idea di avere
un altro incidente mi terrorizzava più del sesso.
< Oddio, Marie, scusami. Non volevo… ho sbagliato
tutto questa sera… >
< Jason, basta. > E da quel momento mi rifiutai
di aggiungere altro.
Continuò a scusarsi quasi fino a casa mia. Poi si
rassegnò e accese la musica, forse in un tentativo di
stemperare il clima di
tensione che si era creato.
Jason parcheggiò e io, senza curarmi della pioggia, mi
diressi di corsa in casa. Sentii Jason chiudere l’auto e
seguirmi.
Avrei voluto
sbattergli l porta sul naso, magari rompendoglielo.
Vidi un’auto nel vialetto. Ecco, lo sapevo.
La serata non era stata abbastanza orribile, no!
Con la mia fortuna, la squadra di Phil aveva
sicuramente perso al primo incontro e lo avevano licenziato. Sarebbe
rimasto a
casa per mesi!
Che altra spiegazione c’era per quell’auto?
Entrai
in casa, sbattendo la porta.
Vidi mia madre fissarmi preoccupata.
Entrò anche Jason.
< Marie, scusami, davvero. Sono stato un idiota. Mi
dispiace. Non volevo farti male. Mi saprò far perdonare.
Dammi una seconda
opportunità. >
Mi voltai, le mani strette in pugno.
< NO! Vattene! Non voglio più veder…
>
E mentre dicevo quelle parole, vidi il proprietario
della vettura parcheggiata fuori. Era rimasto nell’angolo e
io, che ero entrata
fissandomi gli stivali, lo avevo superato senza neanche vederlo.
Ma lui, splendido e statuario, mi aveva vista e mi
osservava con uno sguardo attento e affascinante.
< Bella? > Mi domando incerto, con la sua
voce
seducente e profonda.
< E-Edward?! >
Piccole note dell’autrice:
Ehm… allora? Vi è piaciuto il finale del capitolo?
Per un ragguaglio generale… Jason voleva farlo con Bella e
lei più volte ci ha provato (a fare sesso…) ma
proprio non ci riusciva. Stava male,
ricordava Phil, non si sentiva a suo agio…
E poi, Jason non è stato tanto gentile. A lei lui
non
è mai piaciuto e infatti non è mai riuscita ad
essere
sè stessa con lui. Cercava solo di dimenticare Edward.
E la storia degli
stivali… beh, quella viene da un piccolo aneddoto personale.
(se vi fanno male
i piedi per gli stivali con il tacco e siete in auto, teneteli
addosso.
Io ero
in auto, a fine serata, con una amica e un suo amico (che poi
è diventato il
suo ragazzo!). Mi cambio gli stivali alti con le ballerine e lui prende
gli
stivali e mi dice che sono molto sexy.
Avrei voluto tirargli il tacco nell’occhio.
Questo dopo il commento su quanto fosse bello guardare una ragazza che
si mette
il burrocacao mentre me lo stavo mettendo!
Insomma… brr!angoscia!)
Insomma, Jason è un mezzo pervertito ma ecco che arriva la
cavalleria!
Per l’evoluzione della situazione, vi attendo numerose al
prossimo capitolo con Edward, Bella, Jason e Reneé nella
stessa stanza. Ognuno con
i suoi rancori e i proprio sentimenti!
A settimana che viene!
Ciao a tutte e grazie infinite per aver letto fin qui.
La vostra
autrice
part-time,
Erika
|
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Capitolo 24 *** I led you with hopeless dreams. ***
23
Bene, non faccio in tempo a dire una
cosa che sono costretta
a smentirmi…
Oggi non è giovedì, mi direte voi.
E sarei costretta a darvene atto.
Oggi non è nemmeno sabato, aggiungerete voi.
E anche in questo caso non potrei non dirvi che avete
ragione.
Indi, chiedo a tutte voi scusa per l’ennesimo ritardo. Avrei
voluto postare ieri ma… non linciatemi… ieri ho
dormito tutto il pome!
Ero stanchissima
e non ho resistito alle candide lenzuola del mio morbido lettino!
VAbbè,
nel caso mi perdoniate, lasciatemi spendere due
parole sulla storia.
Tengo a sottolineare che Bella si è comportata con Jason in
modo stupido. Io non avrei mai agito in quel modo ma, provando a
pensare a
quanto potesse sentirsi confusa e spaesata, sola e disperata una
persona in
quella situazione, ho cercato di immaginare cosa avrebbe potuto fare.
Certamente Jason ha cercato di approfittare di questo
disagio per i suoi (schifosi) scopi.
Ma ecco che il giovn Eduardo compare sulla soglia. E adesso?
Beh… in
questo
lungoooo capito e nei prossimi andremo a scavare nella mente del nostro
“giovane”
vampiro. Insomma, è stato lontano tanto a lungo che ora si
merita il suo quarto
d’ora di celebrità.
(tra l’altro, sapete a quando risale questa locuzione? Io
pensavo
fosse recente, molto recente… e invece…
l’ho trovata in un giornale del 1916! È
stato fantastico! Sicuramente era già in uso da un
po’. Chissà, forse, nell’omologa
traduzione inglese, la avrebbe usata anche l’Edward umano. )
Vabbè, adesso basta delirare.
Vi lascio ai pensieri del nostro vampiro frustrato.
Ci vediamo nel prossimo week-end (forse… nel caso non
partissi. Se invece, ma dubito, vado in trentino,
l’appuntamento è ritardato ai
primi giorni della settimana successiva.)
A presto, adesso corro a rispondere ai vostri bellissimi e
divertentissimi commenti
scorsi. Scusate ma ultimamente il pc lo accendo solo per
postare.
Vi ringrazio
di cuore e spero che sarete così numerose anche oggi,
così da poter sapere cosa
ne pensate di Edward e del suo modo di decodificare la
realtà!
Un abbraccio,
Erika
Cap 23
I
led you with hopeless dreams.
Ti
ho lasciata con dei
sogni senza speranza.
Edward’s
POV
Jane
entrò nella mia stanza come una principessa vittoriosa.
<
Che vuoi? > le domandai inacidito. La gola mi bruciava e lei
odorava di
sangue fresco, sangue umano.
I
suoi sfavillanti occhi color del rubino mi squadrarono da capo a piedi.
<
Fai pena, conciato a quel modo. Ridurti così per
un’umana poi… perché
sicuramente è per quell’insulsa
ragazzina… >
<
Se sei venuta qui per infastidirmi, brava, missione compiuta. Ora puoi
anche
tornartene da dove sei venuta. >
<
Sei sempre così indisponente? Se non mi vuoi, posso anche
andarmene… anche se
potresti poi pentirtene… >
Notai
la busta che teneva fra le mani.
<
Va bene. Scusami, Jane. >
<
Ecco. Così va meglio. > e mi porse il piccolo involto
bianco.
La
sua mente era intenta ad analizzare le mie reazioni. Aro
l’aveva istruita bene.
Non riuscivo a sondarle i pensieri. E poi, ero troppo ottenebrato dalla
sete.
Aprii
la busta e vi trovai dentro il mio passaporto e la mia carta di credito.
<
Cosa significa? >
<
Significa che hai dieci giorni. Dieci da oggi. Aro ti fa una grande
concessione. Devi essergli grato. Ti aspetta alla mezzanotte del decimo
giorno.
Se ritardi… beh… ti conviene non ritardare.
Devi
essergli riconoscente. Quello di permettere una vacanza è un
favore che non
accorda a tutti. Nella valigia qui fuori ti ho messo dei vestiti
puliti, dato
che qui >
Diede una rapida occhiata alla stanza < non è rimasto
nulla
di utilizzabile, proprio come aveva supposto Aro. Allora, a presto.
>
E
se ne uscì senza aggiungere altro. Mi affrettai a seguirla
ma era già svanita
nell’oscurità dei corridoi umidi.
Afferrai
al valigia e, dopo essermi lavato velocemente, mi infilai degli abiti a
casaccio.
Con
passo affrettato mi diressi all’uscita del palazzo, senza
incontrare nessuno
lungo la mia strada. Un ordine di Aro, senza dubbio. La prima cosa che
feci,
dopo essermi lasciato alle spalle le mura di pietra della
città medievale, fu
cacciare.
Ovviamente
Aro mi aveva “liberato” di notte perché
sapeva che sarei stato troppo
impaziente per aspettare che tramontasse il sole per uscire e non
voleva
rischiare la segretezza su cui tanto aveva lavorato. Cacciai e mi
dissetai. A
mente lucida, potei ragionare sul da farsi. Le possibilità
si delinearono
velocemente nella mia mente.
In
meno di tre ore, dopo aver guidato a folle velocità
un’auto rubata, ero
all’aeroporto di Roma. Acquistai il biglietto sul primo aereo
disponibile per
Washington DC e prenotai quello per Jacksonville, poi mi diressi al
Check-in.
Attesi con impazienza il mio volo e, per tutto il tragitto, non potei
fare a
meno di immaginare Bella. Il momento del nostro ricongiungimento, lei
fra le
mie braccia… il profumo dei suoi capelli. La sua voce, le
sue labbra.
Fui
costretto a ricordarmi che non potevo, non dovevo pensare a lei in quel
modo.
Dovevo trattenermi. Sarei andato da lei solo per aiutarla, solo per
starle
vicino. Non per illuderla di un amore impossibile.
Atterrato,
dovetti attendere un paio di ore prima della coincidenza. Sfruttai
quella pausa
per chiamare Carlisle, il quale fu molto sorpreso.
<
Edward? Come… cosa…
è un prefisso
americano. > furono le prime parole che mi disse.
<
Sì, lo so. > dalla mia voce traspariva una gioia
profonda.
<
Sono a Washington, all’aeroporto. Sto aspettando il volo per la Florida.
Vado da Bella. >
<
Ma come hai fatto? >
<
Aro mi ha dato… una sorta di licenza. Posso fermarmi solo
altri nove giorni e
mezzo. Ma meglio di niente, no? Ho voglia di vedervi. Potreste
raggiungermi? Ti
prego. Ovviamente non Alice e Jasper. Immagino che tu non sappia
nemmeno dove
siano… >
< Sì,
è così, in effetti. Ma certo che veniamo.
Contatto Emmett e Rose e poi ti faccio sapere con precisione. >
<
Perfetto. Magari aspetta tre giorni prima di raggiungermi. Sai, vorrei
stare un
po’ solo con lei… >
Accennò
una risata bonaria e disse: < Ma certo. Esme sarà
felicissima di sapere che
potrà vederti. Era così in pena. >
<
Dov’è adesso? >
<
A casa di Charlie. Un paio di volte a settimana gli prepara la cena e
gliela
porta. Qualche volta viene lui da noi. >
<
Beh, immagino che tu preferisca quando è lei a portargliela.
> non potevo
fare a meno di ridere, di essere felice. Ero troppo eccitato.
Lui parve capire
il mio stato d’animo, e comprenderlo, dato che mi disse:
< Sono felice di
sentirti. Di sentirti così. Alice era preoccupata per te. E
anche io. >
<
Non dovete essere in pena per me. Me la so cavare. Bella? Bella come
sta? >
<
Quando abbiamo lasciato Jacksonville abbastanza bene. O per lo meno,
meglio di
quando eravamo arrivati. Ha interrotto i farmaci.
Avrei voluto parlarne con il
suo medico curante ma lei mi ha chiesto di non farlo. Ha promesso che
lo
avrebbe fatto lei. >
<
Ma stava bene, lo stesso? >
<
Sì. E in effetti mi è sembrata molto
più lucida di quando ha lasciato Forks,
più consapevole. Certo, un po’
depressa… ma con tutto quello che è
successo.
Comunque, nel complesso, al momento del nostro rientro a casa si era
ripresa un
po’.
Di
notte si agita, si dimena e urla ma, come ben sai, questo era
già successo…
certo, le impedisce di dormire bene… >
Sapendo
che parlava nel sonno, mi azzardai a chiedere: < Dice qualcosa?
>
<
Sì. Ripete sempre “Basta, basta” o
“smettila, non farmi male” ma al mattino non
ne ha mai voluto parlare, nonostante Alice le abbia più
volte posto delle
domande a riguardo. Lei rispondeva sempre che non ricordava il
sogno… >
Mi
concessi un attimo di silenzio prima di riprendere a fare domande.
Anche
le cose più insignificanti mi parevano fondamentali. Quanto
le fossero
cresciuti i capelli, se tenesse ancora i capelli legati in una coda di
cavallo,
se giocasse ancora con le ciocche ribelli quando era agitata, se si
tormentasse
il labbro inferiore con i denti… tutte inezie che mi
riempivano la mente,
dandomi tormento. Carlisle rispose paziente a ogni mia domanda, senza
nascondere la felicità che provava sapendomi così
vicino. Prima che
riattaccassi, quando i passeggeri del mio volo vennero chiamati
dall’altoparlante, mi chiese di chiamarlo spesso, ogni volta
che ne avessi
avuto la possibilità. mi salutò con un
“arrivederci, figliolo” pieno di attese.
Avrei
richiamato appena atterrato. Volevo parlare con Esme. Speravo
riuscissero a
rintracciare in fretta Em e Rose. Sapere
che li avrei rivisti presto non poteva far altro che aumentare la mia
felicità.
Sebbene solo per pochi, pochissimi giorni, avrei riavuto la mia vita,
la mia
realtà… ma soprattutto, avrei riavuto Bella.
Mi
imbarcai che stava per sorgere il sole. Appena presi posto, mi
preoccupare di
tirare la tendina e nascondere ogni lembo di pelle, sciarpa, occhiali
neri,
guanti… fortunatamente, stando alle previsioni, a
Jacksonville il tempo era
brutto…
Il
volo, sebbene breve, fu comunque troppo lungo da sopportare.
Dopo
aver noleggiato l’auto, mi diressi a all’indirizzo
di Reneé.
Sotto
la pioggia scrosciante, lasciai l’abitacolo e corsi lungo il
vialetto. Suonai
più volte finchè una voce di donna, stanca e
velata da una nota di isteria, non
mi urlò che stava arrivando.
Le
sue parole erano sovrastate da un pianto incessante e fastidioso.
I
pensieri che udivo erano discordanti. Il piccolo provava la sensazione
della
fame ma era troppo stanco per ciucciare e aveva freddo.
La donna non riusciva a
capire cosa volesse il bambino e avrebbe voluto solo andare a
dormire…
<
Eccomi, Eccomi… >
Ad
aprirmi la porta fu una Reneé trasfigurata. Le occhiaie
marcavano il suo volto
stanco mentre un piccolo bambino, che lei teneva amorevolmente tra le
braccia,
le teneva i capelli stretti nel pugnetto.
Il
grembiule da cucina era macchiato di quello che pareva essere latte in
polvere…
Non
appena mi vide, Reneé prima impallidì, poi
arrossi, infine assunse un tono
composto e cercò di essere cortese. <
Edward… che piacere. Come mai… > ma
non riuscì a terminare la frase perché il bimbo
cominciò a lagnarsi con più
vigore.
Mi
invitò ad entrare con un gesto della mano e si richiuse
velocemente la porta
alle spalle.
Pensava
che non fossi un ospite molto educato, dal momento che mi ero
presentato alla
sua porta senza preavviso, ma, cosa per me molto più
inquietante, non molto
gradito.
Riuscì
a calmare il piccolo cullandolo e convincendolo a bere dal biberon.
Quando ci
fu finalmente silenzio, mi fece accomodare in soggiorno.
<
Prego Edward… ma, a cosa devo questa tua visita? >
<
Avevo qualche giorno libero e ho pensato di venire a trovare Bella.
>
Irritata.
Era decisamente irritata. Cercai di capire il motivo ma non ci
pensava…<
Capisco. >
<
Bella non c’è? >
<
No. Ci siamo solo io ed Owen in casa, in questo momento. >
<
Mhm… beh, se mi dice dov’è, posso
raggiungerla. >
<
Non credo sarebbe opportuno. >
<
E perché no? Sono sicuro che le farebbe piacere vedermi.
>
<
Non credo. Sai Edward, non vorrei essere sgarbata con te ma, vedi,
Bella non ha
bisogno di questo. Che tu torni quando ti fa comodo, senza nemmeno
avvisare,
aspettandoti che lei passi la sua vita aspettando te. Non è
giusto, mi capisci…
vero? >
<
Ma le assicuro che non è così… >
Poggiò la mano libera sulla mia. < Scusami, mi sono
espressa male. Non
volevo ferirti… è solo che, credo sarebbe meglio
che tu la lasciassi in pace.
Ha fatto molta fatica a superare tutto… se tu ti ripresenti
qui, rischi di
riaprire vecchie ferite rimarginate a fatica.
Edward,
io so che tu l’hai amata tanto e so che lei ha provato per te
un amore che si
prova una volta sola nella vita.
E hai compiuto un gesto ammirevole per amor
suo: L’hai lasciata andare. L’hai fatto per il suo
bene e per questo ti ammiro.
E non potrò mai ringraziarti per quello che hai fatto per
lei, quanto tu
l’abbia aiutata.
Ma
adesso, devi essere coerente con le tue decisioni. Bella ora ha un
nuovo
ragazzo e rivederti dopo che tu sei stato così assente dalla
sua vita, potrebbe
non farle bene.
In
questi ultimi mesi non hai neanche mantenuto i contatti…
insomma, credevo che
ormai ti fossi… dimenticato di lei… ed
è ciò che pensa anche Bella.
Un tuo
ritorno potrebbe solo ferirla.
Capisci cosa intendo? >
L’unica
cosa che capivo io erano le ferite che lei non vedeva, quelle procurate
dal suo
secondo marito. Cercai di reprimere la rabbia.
< Ma Reneé, io sono solo
passato a trovare un’amica. Non ho cattive intenzioni. Voglio
bene a bella. >
“ non sai quanto la ami ”
<
Sì, lo so. Ma lei potrebbe interpretarle in modo diverso da
te. > Stava
pensando a quanto l’avessi fatta
soffrire. A come avevo trattato sua figlia.
E, in effetti, dal suo punto di
vista il mio comportamento era stato meschino. Lei non poteva
sapere…
<
Senta, mi dispiace. So che non ho tenuto un comportamento
irreprensibile nei
confronti di sua figlia. Vorrei solo parlarle, vederla. >
<
Beh, comunque adesso non è possibile. È fuori e
tornerà tardi. >
<
Posso aspettarla. >
<
Edward > il tono della sua voce si fece carezzevole, quasi
materno <
Bella è fuori con il suo ragazzo. Non credo che
tornerà a casa prima di domani.
>
e mi rivolse un’espressione che, nelle sue intenzioni doveva
essere
eloquente. Stava pensando che l’auto del ragazzino chiamato
Jason era molto
spaziosa.
Quei pensieri furono come un acido caustico. Non volli ascoltarli. Mi
alzai di scatto.
<
Non può chiamarla e chiederle se ha intenzione di dormire > sputai quella parola
tra i denti < fuori, questa
notte? >
Speravo
che Reneé si sbagliasse, che Bella non si concedesse a quel
ragazzino. Era
vero, dovevo lasciarle vivere la sua vita… eppure mi sentivo
tradito, adirato.
Era
già successo? Aveva già dormito
con
lui? Reneé non stava pensando a questo. Pensava a un
pacchetto di preservativi
e a un completino di seta. Li aveva comprati per lei.
Mi sentii corrodere di
ira.
La
volevo mia e saperla di qualcun altro mi faceva girare la testa.
Affondai le
unghie d’acciaio nella mia pelle dura come marmo.
<
Sono sua madre… sarebbe piuttosto indiscreto da parte
mia… >
In
quel momento sentii un’auto, tra le tante che percorrevano la
trafficata strada
laterale, imboccare la via di Reneé. Musica alta e un
ragazzo con i pensieri
molto irritati.
E basta. Ma quelli che percepii nell’auto che
parcheggiò nel
vialetto della villetta erano due cuori.
Il
ragazzino stava pensando alla serata appena trascorsa.
Fastidio
per colpa di pantaloni troppo stretti intorno al suo corpo e una serata
sfumata
proprio quando ormai stava per…
poi i suoi pensieri slittarono sulla scollatura
a V della ragazza cui apparteneva il secondo cuore palpitante.
Lei non era stata molto disponibile quella
sera. Ma non pensò al suo volto, troppo impegnato a
ricordare altre parti del
suo corpo.
La
portiera sbattè e il ragazzo si affrettò a dire:
< Dai, ti accompagno alla
porta. >
La
padrona del secondo cuore non rispose. Mi alzai dal divano e mi
avvicinai alla
porta, lasciando Reneé basita dal mio
comportamento.
Pensò che me ne stessi
andando, offeso.
Non
poteva certo sentire ciò che stava accadendo. Non con il
rumore della pioggia e
il pianto del piccolo, che aveva ricominciato a vagire.
Trepidante,
dimentico del fatto che lei non era lì per me, andai alla
porta e aspettai che
aprisse…
Perché
avevo riconosciuto la tonalità della sua pelle celata dietro
a quella
scollatura, avevo riconosciuto quel piccolo nei sulla clavicola, avevo
riconosciuto il suono inconfondibile del suo cuore…
E
lei entrò.
I
capelli imperlati di pioggia le ricadevano sulle spalle nude.
Gli
stivali neri che le arrivavano sotto alle ginocchia la facevano
sembrare più
alta e slanciavano la sua esile figura.
Il suo corpo era fasciato in un
elegante vestito che le metteva in risalto il seno.
Non
mi vide e camminò versò Reneé.
L’unica
cosa che potesse rallegrarmi era vederla in buone condizioni e sana,
energica.
Avrei voluto saperla felice, anche non con me, ma
felice. Invece, era spenta.
Sul
suo viso non trovai tracce di lividi. Così sulle sue gambe,
sulle spalle e
sulle braccia.
Ma
lì, sull’avambraccio, dei segni invisibili
all’occhio umano con quella luce.
Sottilissime strisce opalescenti sulla sua pelle perlacea.
I segni del suo
dolore… incisi nella sua carne.
Il
ragazzo entrò.
Sentivo
il profumo di Bella sul corpo di lui. Proprio come avevo percepito
quell’estraneo
odore maschile provenire dalla pelle di Bella, dai suoi capelli che si
muovevano leggeri seguendo i suoi movimenti.
Il
veleno schizzò sulla mia lingua e io dovetti impormi di non
reagire. Neanche il
ragazzo mi notò. Vagliai i suoi pensieri.
Il
suo desiderio di fare Bella sua, il sapore della pelle di lei. Il
colore del
suo seno. Il profumo del suo corpo. Lui l’aveva
toccata… l’aveva sfiorata come
fosse sua.
E aveva pensato di farle cose intollerabili.
Inghiotti
a vuoto, accecato dall’invidia.
Poi
però mi resi conto che Bella si era opposta proprio quando
lui ormai pensava di
aver ottenuto ciò che voleva.
Lei
lo aveva allontanato. La vidi, nei suoi pensieri, nuda davanti a lui,
colta da
una crisi di panico. Lei non voleva. Lui insisteva…
dovetti reprimere l’istinto di assalire quel
piccolo depravato.
Ai
miei occhi già averla toccata era una colpa abbastanza grave
da scatenare la
mia ira.
Vedere
quello che le aveva fatto, dove e come l’avesse
toccata… con che violenza la
avesse costretta a divaricare le gambe, come avesse poggiato le sue
labbra, la
sua lingua in certi punti del suo corpo… provai
l’impulso di spezzargli il
collo.
Quasi
sorrisi quando lui ricordò il ceffone.
Però
lui la voleva troppo ardentemente ed era pronto ad implorarla. Non
aveva
rinunciato a farla sua. La voleva e sperava che alla fine lei avrebbe
ceduto.
<
Marie, scusami, davvero. Sono stato un idiota. Mi dispiace. Non volevo
farti
male. Mi saprò far perdonare. Dammi una seconda
opportunità. >
Bella, le mani
contratte in pugni tanto saldi
da farle sembrare le dita bianche, si voltò.
<
NO! Vattene! Non voglio più veder… > E in
quel momento, mi vide.
Le
parole le morirono in bocca.
Rimase
immobile per alcuni secondi, sul volto un’espressione
indecifrabile.
Feci
per avvicinarmi, muovendo appena un mezzo passo verso di lei che
però arretrò
subito, alzando una mano come per tenermi lontano. Dietro di lei, il
ragazzo
chiamato Jason mi squadrò da capo a piedi. Non capiva chi
fossi ma gli facevo
paura.
Pensava
potessi essere un suo “rivale”.
Idiota…
teneva un atteggiamento che avrebbe dovuto essere minaccioso nei miei
confronti.
Insetto.
Avrei potuto schiacciarlo con un dito.
Fece
passare un braccio intorno al bacino di Bella, come a rimarcarne un suo
possesso. Lei si divincolò schifata e si
allontanò da lui.
Le labbra le
tremavano e lui, contrariato, incrociò le braccia.
Bella
si portò una mano alla testa e cominciò a
passarsela freneticamente tra i
capelli. Si voltava compulsivamente tra me e Jason.
Le
sue labbra si muovevano a vuoto.
Non
una parola, non una sillaba.
Reneé,
vedendo la situazione, preferì andarsene. Non voleva
interferire. < Tesoro,
io vado in cucina. Se hai bisogno, chiamami. >
Che codarda… stava reagendo
come aveva sempre fatto. Ignorando i problemi e facendo finta di non
vedere. Fuggiva.
Forse sapeva persino di Phil, di cosaavesse fatto a sua figlia. Di come
l’avesse picchiata. Mi augurai per lei di no.
Non
avrei potuto perdonarla.
Bella annuì alle sue parole, spaesata.
Jason,
vedendola in difficoltà, avanzò verso di lei. Le
tese una mano.
<
Marie, vieni… > cercò di sfiorarle il
braccio ma lei si allontanò come se
fosse rimasta scottata da quel contatto improvviso e
istantaneo.
Voltò il capo
verso di lui e disse sprezzante: < Jason, ti ho detto che non
voglio più
vederti. Vattene… >
<
Marie, mi dispiace. Scusami. >
A
denti stretti sibilò: < Jason. Non me ne faccio
niente delle tue scuse. >
<
Hai sentito la signorina? Non gradisce la tua presenza quindi sarebbe
molto
cortese da parte tua lasciare la casa e smettere di importunarla.
>
<
Oh, Edward! > sbottò lei. < Non ti
intromettere! >
Strabuzzai
gli occhi, sorpreso della reazione.
<
Oh, Edward! Ecco. Allora si spiega tutto! È per colpa sua!
È per colpa sua,
vero, che non mi vuoi più? Lui torna e tu ti butti via.
Non ti servo più! Per
questo modello senza cervello?
Marie,
apri gli occhi! Ti ha lasciato. Eri a pezzi. E adesso rinunci a noi per
lui? È
per questo che non hai voluto fare sesso con me? Perché
sapevi che c’era lui a
casa tua? Sapevi che sarebbe tornato o ci speravi e basta? >
Il
ragazzo urlava, agitando le mani in aria. Alle sue parole mi rasserenai
un
poco. Non si era concessa.
Nonostante questa leggera rasserenazione, le sue
parole mi fecero male. Capii quanto Bella fosse sempre rimasta
avvinghiata al
mio ricordo.
<
Allora? Puoi almeno degnarti di rispondermi! È per lui che
non hai voluto
farlo, questa sera? >
Le stava urlando contro, poi si rivolse a me: < Cosa
credi di fare adesso? Torni, dopo averle spezzato il cuore! Troppo
comodo.
C’ero io quando, ubriaca, chiamava il tuo nome! E tu
dov’eri?
Mentre
stava male, mentre piangeva? O quando si accascia sulla sedia, in preda
al mal
di testa che non le fa capire più niente, tu dove cazzo
sei?! >
Rivivevo
quelle immagini mentre lui le rievocava nella sua mente. Soffrivo
sapendo di
essere degno neanche di quel patimento.
Vedere
Bella, ubriaca e accasciata sul sedile posteriore di un’auto
rossa, mentre
sussurrava il mio nome o vederla seduta su un divano con le mani tra i
capelli
e il volto pallido mi faceva stare male.
Bella,
che era arrossita violentemente alle parole del ragazzino, non si
scompose. Lei
non amava sentirsi vulnerabile,tantomento mostrarsi tale.
Con
voce misurata, rispose alle sue insinuazioni.
<
Jason, io non sapevo neanche che Edward fosse venuto a trovarmi. E non
è per
colpa sua se questa sera… > poi i suoi occhi
scivolarono su di me, furtivi,
e lei abbassò lo sguardo.
<
Ora è davvero il momento che tu te ne vada. >
Jason
sbuffò e potevo sentire tutto il suo risentimento mente
lasciava la casa,
sbattendosi la porta alle spalle con tanta violenza da far ondeggiare
il
lampadario nell’ingresso. Sei lei non fosse stata
lì, bellissima e fragile, lo
avrei seguito.
Non lo avrei ucciso. Non ammazzavo un ragazzino per la sola
colpa di essere uno stupido pervertito innamorato della ragazza
sbagliata.
No…
lo avrei torturato fino a fargli passare la voglia di toccare una
donna.
Gli
avrei impedito di poter più anche solo desiderare una donna.
Ma non lo seguii.
Controllai la mia ira. Il desiderio di stare con Bella era
più forte di
qualsiasi desiderio di vendetta.
E poi, era solo uno stupido ragazzino.
Bella,
che mi dava le spalle, si allontanò da me sempre tenendo le
mani tra i capelli
bagnati.
Osservavo
i suoi fianchi, le sue gambe… non poteva fare a meno di
guardarla incantato.
<
Bella? >
<
No, Edward, no! Non ti ci mettere anche tu. È meglio che tu
stia zitto! >
Capivo
la sua rabbia ed ero troppo felice, euforico di vederla davanti a me
per poter
anche solo osare contraddirla.
Quello che avevo visto nella mente di Jason mi
aveva ferito ma mi rendevo perfettamente conto che Bella era una
ragazza molto
carina, fin troppo, e che aveva voluto sperimentare le gioie
dell’esistenza
umana.
Nel
profondo, ovviamente, bruciava la ferita insanabile di non aver potuto
essere
io a farle conoscere quel mondo…
Jason
aveva solo approfittato di essere stato il primo a mettere gli occhi su
di lei.
Nei suoi pensieri avevo intravisto altri sguardi maschili posarsi su
Bella e
lui prendere in disparte tali ragazzi per riferire come Bella fosse
“la sua
ragazza”.
<
Piccola? Stai bene? > chiese Reneé. Il bambino
dormiva tranquillo e placido
tra le sue braccia.
<
Sì, mamma. È tutto ok. >
<
Jason…? >
<
Jason è un idiota. Non voglio parlare di lui mai
più. >
<
Va bene… senti, come avrai visto, hai una visita. >
Era in imbarazzo.
Fu
a quel punto che Bella si voltò verso di me e mi
fulminò con lo sguardo. Per al
prima volta in quella sera mi guardò negli occhi. Come una
furia, sotto gli
occhi allibiti di sua madre, si scagliò contro di me. Fui
colto così alla
sprovvista che per poco non lasciai che mi colpisse.
Le
cinsi il polso nella presa della mia mano prima che la sua si
abbattesse sulla
mia guancia.
La
bloccai per evitare che si facesse del male contro il mio corpo. Aveva
tutto il
diritto di sfogare la rabbia che provava nei miei confronti.
Mi
fisso dritto negli occhi. La
sua mano,
stretta nella mia, si chiuse a pugno.
Fremeva
di collera.
Chinò
il capo, espirò lentamente e poi si voltò verso
sua madre.
<
Mamma, io vado a dormire. Sono stanca. >
Reneé
non disse nulla, limitandosi a fissarci dubbiosa. Il piccolo si
stiracchiò tra
le sue braccia. Percepivo la sua fame
Lo capì anche Reneé che si sfiorò il
seno gonfio e dolorante.
Bella
sospirò e sentii i suoi muscoli contrarsi sotto alle mie
dita. Scrollò il polso
e io la liberai.
Lasciai
andare il suo polso e lei, senza neanche voltarsi per guardarmi, si
allontanò.
Quando
era al terzo gradino, sua madre mi disse: < Se non hai posto
dove andare per
questa notte, puoi restare a dormire qui. Adesso ti mostro la stanza
degli
ospiti… >
<
LUI DORME SUL DIVANO! > le urlo Bella correndo su per le scale.
Sentii
la porta di una camera sbattere. Il fruscio di coperte e un suono
smorzato. Si
era sdraiata sul letto. Reneé mi guardò con
sguardo amichevole.
I
suoi pensieri si erano un po’ addolciti nei miei
confronti.
Pensava al lungo
viaggio che avevo affrontato e al debito che sentiva di avere nei miei
confronti per come ero stato vicino a sua figlia.
Pensò anche ai soldi che
continuavo a versare per le cure di Bella. Onere di cui mi ero assunto
tutto il
peso. Era per me un dovere a cui mai avrei rinunciato.
<
non preoccuparti. Non le permetterò che ti costringa a
dormire in salotto. Edward,
non è necessario… Vieni, ti faccio vedere la
camera… >
<
No, non occorre, davvero. Sarà meglio non contraddirla.
>
<
Come preferisci… comunque, vieni. Ti faccio vedere la casa.
Il bagno… >
La
seguii in silenzio, ascoltando le sue parole. Vagliavo i suoi pensieri
alla
ricerca di Bella.
Non
voleva più farsi chiamare così. Ecco
perché quel ragazzino l’aveva chiamata
Marie…
Era
stata aggredita da due scippatori, a quanto ne sapeva
Reneé… negli
ultimi giorni era sembrata un po’ più felice.
Secondo la madre grazie al
rapporto con Jason.
Io
avevo i miei dubbi. Legavo questo suo miglioramento alla visita dei
miei
genitori, non certo a un moccioso che non era neanche capace di frenare
le
mani.
Andai
a prendere la piccola valigia in auto, augurai una buona notte a
Reneé e
accettai le coperte e i cuscini.
Non
mi cambiai neanche. Rimanevo vigile, con l’orecchio teso.
Mi
dovevo trattenere dall’andare a spiare Bella. Non era leale
nei suoi confronti.
Mi dovevo limitare ad ascoltare.
La
sentii alzarsi.
Aprirsi
e chiudersi di cassetti.
Stoffa
che scivola lungo la pelle… la sua pelle...
Acqua
che scorre. Una doccia. Un phon. Altra stoffa sul suo corpo. Di nuovo,
la udii
distintamente sdraiarsi sul letto.
Spostai
la mia attenzione sulla camera di Reneé per assicurarmi che
la situazione fosse
tranquilla.
Il
piccolo finalmente si era addormentato. I suoi pensieri infantili si
erano
trasformati in spumosi e soffici sogni.
Emozioni, sensazioni… calore, profumo
della madre,della sorella…
Reneé,
stremata, si era sdraiata sul letto esausta e si era addormentata.
Passarono
alcuni minuti. Sentii Bella alzarsi dal letto. Il pavimento in legno
scricchiolò e lei si immobilizzò. Attese qualche
attimo e riprese a camminare,
in punta di piedi.
Aprì
la porta che cigolava. Scese le scale, lentamente.
Mi
coricai sotto alle coperte, sul divano. Il volto rivolto alle scale.
Lei
le scese gradino dopo gradino, lentamente.
Poi
il silenzio del suo respiro, vicino.
La
sentii sedersi sulle scale. Percepivo il suo sguardo su di me.
Rimase
in quella posizione a lungo. Mi fissava e io avrei voluto fare
altrettanto ma
non osai alzare le palpebre per paura che lei se ne andasse.
Anche solo
sentirla così, vicina, era abbastanza.
Sapevo
che sarebbe stata irata nei miei confronti.
Dal
suo punto di vista ne aveva ogni motivo. Le mie telefonate erano andate
diradandosi fino a cessare del tutto.
Negli ultimi tre mesi l’avevo chiamata
solo una volta, trentanove giorni prima, quando c’era ancora
Alice con lei.
Per
quello che ne sapeva lei, poteva essere stata mia sorella a convincermi
a
telefonarle… a costringermi.
Doveva
essersi sentita molto sola.
Sicuramente
era per questo che si era avvicinata a quel Jason.
Quel
ragazzino insolente e sgarbato, poco atto a comprendere i suoi
sentimenti e le
sue emozioni.
Ero
stata io a spingerla, dicendo che non avremmo mai più potuto
stare insieme.
Pensare
a quel ragazzino mi fece rivoltare lo stomaco. Inghiottii gli schizzi
di
veleno.
Bella
si accorse dei miei movimenti e trattenne il respiro. Temeva certamente
che mi
stessi svegliando.
Si
alzò e cominciò a salire le scale, sempre in
punta di piedi, camminando
all’indietro.
Ogni
volta che il legno scricchiolava sotto ai suoi piedi lei si
immobilizzava. Non
voleva farsi scoprire a guardarmi. Sorrisi a quel pensiero.
<
Ciao, Edward. Grazie per essere venuto. Sono contenta di
vederti… > sussurrò
prima di voltarsi e salire le scale con ritmo più sostenuto.
Avrei
voluto alzarmi e correre da lei, stringerla a me ma non potevo.
Quella
notte non dormì a lungo e quando lo fece parlò.
Come
mi aveva preannunciato Carlisle, sussurrava frasi che mi inquietavano.
“Basta”
“fermati” “mi fai
male”… speravo fossero dirette a Jason ma poi fece
il nome di
Phil.
Contrassi
i pugni. Chiamò anche il mio nome… molte volte.
Poi di nuovo pregava Phil di
non farle del male.
Reneé
mi aveva detto che lui non c’era e, nella sua mente avevo
scoperto che era via
con la sua squadra.
Non
sapevo se fosse un bene o un male. Avrei voluto tanto avercelo davanti.
Gli
avrei fatto confessare tutto. Con me avrebbe parlato. Non mi sarei
fatto
problemi.
Estorcere informazioni non era un problema se non ti preoccupavi che
l’interrogato rimanesse incolume.
Non
sarei stato buono come Carlisle. Non ero in grado di provare
pietà verso un
individuo tanto abominevole da picchiare una donna, una ragazza.
La
ragazza che amavo.
Sì,
forse era un bene che lui non ci fosse. Non avrei saputo trattenermi e
avrei
solo rischiato di apparire io steso come un mostro assassino davanti a
Bella e
sua madre…
Certo,
avrei potuto attenderlo nel vicolo di notte… nessuno mi
avrebbe visto.
Era
già successo altre volte…
No!
Non dovevo concentrarmi su quello. Dovevo fidarmi di mio
padre.
Secondo lui non
c’erano rischi che si potessero ripetere episodi come quelli
di cui Alice era
stata testimone. Che Phil le facesse del male.
Quando lo avessi visto, mi sarei
fatto spiegare con precisione.
Tesi
l’orecchio.
La
casa era addormentato nel silenzio dell’alba.
Afferrai
il telefonino e composi il numero di Carlsile. A rispondermi fu Esme.
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Capitolo 25 *** How can I expect you to forgive? ***
Salve
a tutte, Buona Pasqua!
Spero
stiate tutte bene.
So che è davvero molto che non aggiorno e di ciò
vi chiedo scusa.
Pensavo proprio che andare all’università mi
avrebbe lasciato tanto tempo
libero da dedicare ai miei “piaceri” ma
sfortunatamente non è stato così!
Ogni minimo momento libero lo passo a studiare, studiare, leggere libri
noiosissimi su argomenti assurdi e non molto appassionanti (lo sapevate
che la
rampa che collegava la casa di augusto sul palatino al tempio di Apollo
era
decorata con stucchi e la porta era adornata da
“piastrelle” di terracotta
decorate etc etc zzzzzzzzzz)… insomma, non ce la faccio
più.
Se a questo aggiungiamo il fatto che internet in sta diavolo di casa ha
deciso
di funzionare solo alla mattina (e, di solito, la mattina sono in
università,
come tutte le persone normali!) non sono proprio riuscita a rimettermi
in pari
con i miei vari lavori.
Per questo vi chiedo infinitivamente scusa.
Oggi, domenica di pasqua, ho deciso di prendermi un po’ di
tempo per me (e per
voi) e mandando a quel paese mia madre che sta sistemando casa in vista
dei
parenti per il pranzo pasquale (e vi assicuro, non è
semplice… se sono al pc,
viene a controllare che sia roba di scuola. Il resto è
offlimits. Frase tipo:
“non ti pago l’università
perché tu stia tutto il tempo a caXXeggiare. Quindi o
studi o mi aiuti a pulire casa!”)
Ora che gli esami si avvicinano (e tremo… da Maggio a Luglio
ne ho almeno 4 da
9 crediti e forse, se riesco a reggere, un 5 esame sempre da 9 crediti.
Non ce
la farò mai!!!!) dovrò mettermi ancora
più sotto a studiare ma spero davvero di
riuscire a impormi di smettere per un po’ e dedicarmi alla
scrittura. Scusatemi
tanto per i ritardi! Per chi di voi è
all’università non stupirà sapere che
sto
annegando nei libri!!!
Un
bacio e a presto, Erika
Ps:
i prossimi cap sono legati a questo in modo così stretto
(erano un unico lunghissimo
capitolo) che non potrò postarli fra molto tempo altrimenti
non si capirebbe
più la storia… quindi cercherò di
essere celere.
Cap
24
How can I expect you to forgive?
Come
posso aspettarmi che tu mi perdoni?
Edward’s
POV
Quella
notte non dormì a lungo e quando lo fece parlò.
Come mi aveva preannunciato Carlisle, sussurrava frasi che mi
inquietavano.
“Basta” “fermati” “mi
fai male”… speravo fossero dirette a Jason ma poi
fece il
nome di Phil.
Contrassi i pugni. Chiamò anche il mio nome…
molte volte. Poi di nuovo pregava
Phil di non farle del male.
Reneé mi aveva detto che lui non c’era e, nella
sua mente avevo scoperto che
era via con la sua squadra.
Non sapevo se fosse un bene o un male. Avrei voluto tanto avercelo
davanti.
Gli avrei fatto confessare tutto. Con me avrebbe parlato. Non mi sarei
fatto
problemi. Estorcere informazioni non era un problema se non ti
preoccupavi che
l’interrogato rimanesse incolume.
Non sarei stato buono come Carlisle. Non ero in grado di provare
pietà verso un
individuo tanto abominevole da picchiare una donna, una ragazza.
La
ragazza che amavo.
Sì, forse era un bene che lui non ci fosse. Non avrei saputo
trattenermi e
avrei solo rischiato di apparire io steso come un mostro assassino
davanti a
Bella e sua madre…
Certo, avrei potuto attenderlo nel vicolo di notte… nessuno
mi avrebbe visto.
Era già successo altre volte…
No! Non dovevo concentrarmi su quello. Dovevo fidarmi di mio padre.
Secondo lui
non c’erano rischi che si potessero ripetere episodi come
quelli di cui Alice
era stata testimone. Che Phil le facesse del male. Quando lo avessi
visto, mi
sarei fatto spiegare con precisione.
Tesi l’orecchio.
La casa era addormentato nel silenzio dell’alba.
Afferrai il telefonino e composi il numero di Carlsile. A rispondermi
fu Esme.
Era
così sollevata di sentirmi che quasi non riusciva a parlare.
Volevano sapere di me, di come stessi, di come trascorresse la mia vita.
Cercai di frenare le loro parole.
< No, per favore… non me la sento di
parlarne… perché invece non mi
raccontate un po’ voi come vanno le cose. State tutti bene?
>
E da quel momento di avvicendarono le loro voci. Ogni particolare era
così
tranquillizzante che sarei rimasto ad ascoltarli per ore.
Quando fu il momento di salutarsi sentii un blocco alla gola.
< Spero di risentirvi presto. Vi chiamerò questa
notte… >
< Va bene, Edward. Mi raccomando, si gentile con Bella ma non
darle false
speranze. Non sarebbe giusto verso di lei. >
< Certo… allora, a dopo. >
< A dopo. > mi risposero le voce dei miei familiari in un
coro
scoordinato.
Dal
piano di sopra sentii
il piccolo piangere e svegliare la famiglia. Mi rimisi sotto alle
coperte e
finsi di dormire. Volevo ascoltare.
Reneé allattò il piccolo poi andò a
chiamare Bella. Erano appena le sette e
mezza.
La aspettò fuori dal bagno mentre Bella si lavava i denti e
si sistemava.
Voleva parlarle. Scesero insieme le scale e la madre le disse: <
Marie,
cerca di essere carina con lui...
so che ci sei rimasta molto male ma ieri, quando è
arrivato… mi è sembrato così
felice. E mentre parlava di te… avresti dovuto vedere il suo
sguardo… >
< Sì. Mamma… ma non ti intromettere, ok. È
solo un idiota e io
ho già detto che non ne voglio più sapere.
>
< Non essere crudele. Ha fatto tanto per te. >
esitò un attimo e poi
scelse con cura le parole.
Pensava al mio sacrificio, alla rinuncia al matrimonio.
Non poteva dirglielo. < Ti è sempre stato vicino dopo
l’incidente. E ora, va
a svegliarlo. Intanto preparo la colazione. >
Bella sbuffò e poi venne in salotto. Sentii il suo sguardo
su di me. Indugiò a
lungo.
Afferrò qualcosa e sentii un suono simile allo scorrere di
un piccolo rivolo
d’acqua. Percepii qualcosa di bagnato sui capelli e la
camicia.
Aprii
di scatto gli occhi,
ritraendomi. Una perfetta interpretazione di uno svegliato di
soprassalto con
dell’acqua gelida.
< Oh… scusami! Edward, non volevo… mi
è scivolata la mano e si è rovesciata
l’acqua... > mi disse senza alcuna traccia di
rimpianto e di scuse. Il suo
volto impassibile era splendido.
Ora che si era tolta il trucco potevo vedere la ragazza che amavo. La
preferivo
così, nonostante avessi sobbalzato vedendola truccata e
vestita in quel modo
così provocante. L’avrei apprezzato se
l’avesse fatto per me ma, sapendo la
realtà, mi sentivo roso dall’invidia e dalla
gelosia…
in ogni caso, preferivo sentire il profumo della sua pelle non coperta
da
cosmetici, preferivo vedere il colore della sua carnagione, vederla
imporporarsi…
il mio sguardo scivolò lungo il suo collo, il suo petto, il
suo seno…
Era china verso di me ed intravedevo il pizzo del reggiseno…
Alzai lo sguardo verso il suo viso e mi soffermai ad osservare le sue
labbra
piene, i suoi occhi velati di tristezza.
Mi protesi a respirare il suo profumo, il suo respiro…
No, basta, non dovevo guardarla in quel modo. Dovevo darmi un contegno
e
riprendere il filo dei miei pensieri… ero già
assuefatto alla sua
persona.
Ne avevo bisogno. Ne avevo sempre avuto.
Era la mia aria, il mio ossigeno.
< Ti si è rovesciata l’acqua del vaso di
fiori? > domandai fingendo
stupore e irritazione.
Tossì mascherando l’arrochimento della mia voce
causato dalla sua presenza.
< Sì. Volevo andare a cambiarla. Pazienza. >
mi diede le spalle e si
diresse in cucina.
< Guarda che è pronto! Io non ti aspetto. >
urlò sedendosi.
Mi
sfilai la camicia bagnata e ne infilai una asciutta prima di
raggiungerla e
sedermi al suo fianco.
Lei guardava ostinatamente dal lato opposto.
Reneé aveva già preparato e io sopportai la
tortura del cibo grazie alla
presenza inebetente di Bella.
La colazione si protrasse nel silenzio delle occhiate schive che Bella
mi
rivolgeva. Fingeva irritazione. Perché io sapevo che
fingeva. Io la fissavo
senza pudore.
Reneé cercò di intavolare una conversazione ma
sua figlia si limitava a
rispondere a monosillabi. Io invece fui molto più affabile.
Riferendo di come
fosse la mia vita a Syracuse, sottolineando le restrizioni noi imposte
come
coprifuoco, orari rigidissimi e divieto di utilizzo dei cellulari,
raccontai
molti aneddoti. Dovevo rendere tutto credibile.
Bella, che fingeva di essere interessata solo ai suoi cereali, in
realtà non si
perdeva una sola parola di ciò che dicevo. Ogni volta che
parlavo di una
ragazza (dalla fantomatica compagna di banco a quella che mi avrebbe
chiesto
informazioni per il settore D) la vedevo tendersi e ingoiare a fatica.
Finita
la colazione, Reneé
propose: < Perché non andate a fare un giro? Oggi non
hai niente da fare.
Potresti mostrare a Edward la città… che ne dici?
>
< Piove, fa freddo e non ne ho voglia. >
< Non si preoccupi. > intervenni io. Reneè mi
sorrise amichevole e mi
fece segno di non preoccuparmi. si rivolse alla figlia.
< Marie, non essere scortese. Dai, vai a prepararti. Oggi ho
voglia di
prendermi del tempo per me e starmene a casa da sola quindi va, su!
>
Nella sua mente era cristallina la sua voglia che Bella si distraesse,
che
uscisse, anche se con me.
< Se proprio devo… ma lo faccio solo per te, mamma.
> sospirò Bella
alzandosi e sparecchiando.
Sparì in camera sua mentre Reneé si apprestava a
cambiare il piccolo che le
aveva appena vomitato sulla spalla. Spettacolo nauseante…
Dalla camera di Bella arrivò la sua voce:
< Sbrigati e cambiati in fretta! Non ho voglia di aspettarti!
>
Andai in bagno e mi lavai e cambiai in fretta. Non volevo farla
adirare. Fui
però io a doverla attendere, e a lungo.
Reneé mi passò affianco e, sebbene pensasse che
Bella tardasse tanto solo per
farmi innervosire, sussurrò:
< Perdonala, è una ragazza… scegliere come
vestirsi è un’impresa. >
Io attesi paziente, seduto sugli ultimi gradini della scala.
Quando la sentii scendere mi voltai e il respiro mi morì in
gola.
Vederla così… mi faceva desiderare di prenderla e
portarla via. Volevo solo
restare con lei, fuggire lontano…
Tenerla con me…
Era bella di una bellezza rinata, incantevole e avvenente come non lo
era stata
mai.
Mi
chiesi dove l’avesse colpita Phil, quante volte le avesse
fatto del male.
Come aveva potuto alzare le mani su una creatura così
indifesa come lei?
Repressi il dolore che tali pensieri facevano sorgere in me.
L’ombra vaga di un taglio era appena visibile sul suo labbro
inferiore. Mi
chiesi se portasse altri segni della violenza del patrigno sul suo
corpo.
Il mio unico desiderio era toccarla,accarezzarla, là dove
lui le aveva fatto
del male per guarire le sue ferite.
Non potevo chiederle cosa le avesse fatto. Dovevo aspettare che fosse
lei a
volermene parlare.
Altrimenti rischiavo solo di peggiorare la situazione. Dovevo essere
paziente e
riguadagnarmi la sua fiducia per poterla aiutare. Dovevo anche fidarmi
di
Carlisle. A suo dire, aveva dissuaso Phil dal torcere ancora a Bella un
solo
capello… era certo che quell’uomo non si sarebbe
più avvicinato a lei.
E Carlisle sapeva essere molto persuasivo…
Bella
mi ignorò e non mi rivolse la parola finchè non
fu nell’ingresso.
< Se non hai la macchina, possiamo prendere quella di
Reneé. >
< Non preoccuparti. Ne ho noleggiata una, quella di ieri sera. A
proposito,
sei incantevole. Quel blu dona molto alla tua carnagione. >
< Non che a te debba importare. > mi sibilò
pungente ma la vidi arrossire
e distogliere lo sguardo da me. Si arricciò i capelli e
sospirò.
Arrivati all’auto, le aprii la portiera del passeggero e lei,
senza dire
niente, salì.
Per tutto il giorno parlò pochissimo limitandosi a dirmi
dove andare. Destra,
sinistra, destra, tieni la sinistra, sottopassaggio, parcheggio.
Museo, museo, parco, spiaggia, yogurteria, altro museo…
Lei guardava le opere d’arte.
Io ne fissavo la più bella.
Stivali blu scamosciati, gonna blu, camicetta azzurra e maglioncino
blu. Tante
varie tonalità. Capelli sciolti lungo la schiena e le
spalle.
A ora di cena le proposi di andare in un ristorante. Aveva preso solo
un
frullato per pranzo. Non ne ero contento.
< No. Grazie. >
< Insisto. >
Mi guardò con un’intensità che mi fece
provare calore all’altezza dello sterno.
Mi fissava negli occhi come se vi stesse cercando qualcosa, qualcosa di
celato.
< Dove ti va di andare, Edward? >
< Ovunque tu voglia. > trattenne un sorriso e poi fece il
nome di un paio
di ristoranti che sua madre le aveva consigliato appena arrivata a
Jacksonville.
La portai in quello dove eravamo stati quando eravamo venuti a trovare
sua
madre in quella che sembrava una vita precedente… non
riconobbe il locale.
Per
tutta la cena non mi
rivolse la parola.
Il suo sguardo truce incenerì la cameriera che, elencando il
menù, si era
lanciata in sgradevoli allusioni e ammiccatine nei miei confronti.
Mentre mangiava, teneva lo sguardo basso. Ogni volta che pensava non
stessi
osservando mi fissava.
Riconobbi un vortice di emozioni fluire sul suo viso dai tratti
delicati.
Ira, rabbia, dolore, tristezza, gelosia, desiderio… amore,
di nuovo rabbia,
rassegnazione…
Quando terminò di mangiare, mentre tornavamo
all’auto, le chiesi se avesse
voglia di andare in qualche locale.
Non volevo essere da meno rispetto a Jason anche se non le avrei
permesso di
ubriacarsi.
A quella domanda Bella rabbrividì. Il suo corpo si
irrigidì e lei, cercando di
non farsi notare, cominciò a spostare lo sguardo sui tetti,
come se cercasse
qualcosa. Il suo tremore era innaturale.
< Hai freddo? > le domandai sfilandomi la giacca e
poggiandola sulle sue
spalle.
Pensavo l’avrebbe respinta e invece ci si strinse dentro.
< No, non è niente. Scusami… comunque,
preferisco andare a casa. Sono molto
stanca. >
Le aprii la portiera e lei si lasciò sfuggire un sorriso
ampio e genuino a cui
io risposi con un mezzo sorriso volutamente seducente. Fu
divertente
vederla arrossire e trattenere il respiro. Mi ricordava quei primi
giorni a
Forks, quando l’avevo appena conosciuta… provai un
immenso moto di nostalgia a
rievocando quei pensieri… per scacciarli, collegai
l’MP3 alle casse e lo
accesi.
Debussy si diffuse nell’abitacolo.
Bella, abbandonandosi allo schienale, cercò di non farsi
notare mentre
inspirava l’odore del mio giaccone. Sospirò,
serena.
< Adoro questa canzone. > sussurrò chiudendo
gli occhi.
< Anche io. > poi, rimanendo in silenzio, la osservai
mentre cedeva al
sonno.
Arrivati
a casa sua, la presi tra le braccia e la portai in camera sua.
Reneé era già
andata a letto. Ci aveva lasciato un messaggio all’ingresso
in cui ci augurava
una buona notte e mi invitava a dormire nella camera degli ospiti, dove
aveva
già spostato i miei effetti personali.
Mi raccomandava di non dar retta a Bella, o meglio, Marie.
Già, Marie… non voleva farsi più
chiamare Bella…
Non avevo avuto il coraggio di chiederle il perché. Anzi,
nel corso della
giornata avevo evitato di chiamarla per nome proprio per schivare
questa
domanda insidiosa che si insinuava continuamente nella mia mente.
Mi
sdraiai su quello che era stato il letto in cui avevano
“dormito” Esme e
Carlisle. Un vago ricordo del loro odore aleggiava ancora nella stanza.
Bella si svegliò verso le due di notte.
Reneé si era già svegliata e riaddormentata dopo
aver allattato il piccolo
Owen. Era così esausta che non sentì Bella
passare davanti alla sua
stanza.
Stava scendendo in cucina?
Mi resi conto che i suoi passi si erano arrestati davanti alla mia
porta.
La aprì lentamente e poi… il silenzio. Potevo
percepire un filo di luce
filtrare dalla porta socchiusa.
Per alcuni minuti ascoltai il suo respiro tranquillo. mi lasciai
fissare e
pensai a tutte le volte che l’avevo osservata
dormire…
<
Ehi, Edward… se vuoi
puoi dormire sulla poltrona, in camera mia. >
sussurrò pianissimo.
Non si aspettava certo che la sentissi.
Socchiusi gli occhi non appena la sua voce si fu dispersa in vibrazioni
sempre
più attenuate.
Trattenne il fiato, arrossendo.
Era accovacciata per terra. Le braccia incrociate sulle ginocchia. Si
reggeva
il mento e mi fissava. I capelli le ricadevano morbidi sulle spalle.
< Posso davvero? >
Era totalmente sconvolta, colta di sorpresa. Tanto stupita che, rossa
in volto,
mi rispose balbettando:
< Se ti sbrighi. Altrimenti cambio idea. >
Si ricompose. < Io comincio ad andare. La mia è
l’ultima stanza. E poi, vai
sempre a dormire in camicia e jeans? > mi domandò
ironica,celando
l’imbarazzo.
Poi se ne andò, quasi di corsa.
La senti sussurrare a sé stessa: < Ma che cavolo sto
facendo!? >
Raccolsi le mie cose e bussai alla sua porta.
Rumori inquietanti provenivano dalla stanza.
< Arrivo, arrivo. Ahia! >
Ci fu un gran fracasso e, allarmato, entrai.
La
trovai a terra intenta
a massaggiarsi la gamba. La poltrona-letto era stata mezza montata.
Probabilmente si era fatta male nel cercare di aprirla.
Con un gesto veloce e fluido finii di montarla e poi mi inginocchiai al
suo
fianco.
Sorrisi vedendola arrossire.
< Potevi lasciar fare a me. >
< Volevo essere gentile, scusarmi per ieri,oggi... insomma, sono
stata
sgarbata con te. >
< Come se fossi tu quella che deve scusarsi. >
< Hai ragione. Non avrei dovuto neanche farti entrare in casa.
>
Cercava
di sembrare
adirata ma non ci riusciva molto bene. Continuava a sospirare, a
fissarmi
cercando di non farsi notare, ad arrossire…
Le sollevai i pantaloni del pigiama fino al punto in cui si stava
massaggiando.
Una porzione di pelle era arrossata. Si era procurata un futuro livido,
poco ma
sicuro.
Mi sostituii a lei nel massaggiare la zona lesa. Le carezzavo la pelle
con
movimenti lenti e circolari.
Un mugolio sfuggì alle sue labbra ed ella arrossì
ulteriormente.
Le sistemai una ciocca di capelli e le sfiorai la guancia.
La
vedevo combattuta. Poi,
all’improvviso, prese la mia mano e la guidò al
suo viso. Ci si appoggiò ed
inspirò profondamente.
<
Sei uno stronzo. >
< Sì, hai ragione. >
< Perché sei venuto? >
< Perché volevo vederti.
>
< Ma perché solo adesso? Sono passati mesi!
L’ultima volta che mi hai
telefonato… è stato più di un mese fa.
Non ti fai mai vivo, non mi rispondi…
non sei venuto, quando avevo bisogno di te. Quando avevo bisogno di
aiuto. >
Lacrime sottili scesero lungo le sue guance e io avrei voluto
assaggiarle.
< Lo so, ti chiedo perdono… mi credi se ti dico che
il mio pensiero non è
stato rivolto ad altri che a te e che, se avessi potuto ti avrei
chiamato,
sarei venuto da te molto prima. >
Non mi rispose. Cincischiava con il laccetto del suo pigiama.
< Chi era quella? >
< Come scusa? >
< Chi era quella! >
La osservai. Rossa in volto, sentivo il suo sangue che pulsava furioso.
Era in
imbarazzo ed adirata in un sol tempo. Dal suo sguardo ingelosito trassi
appagamento ma faticai a capire a chi si stesse riferendo. Nessuna mai
per me
era stata anche solo vagamente interessante e poi, lei come avrebbe
potuto
saperlo? Fu a quel punto che compresi a chi si riferisse: A quella
insulsa
segretaria. Anita… non potei fare a meno di celare un
sorriso. Era gelosa di me…
< Stai parlando di Anita? > quasi scoppiai a ridere.
< Oh, così si chiama Anita. > si
scostò da me e si alzò in piedi. Andò
a
sedersi a braccia e gambe conserte sul suo letto. Io rimasi seduto a
terra.
Avrei voluto ridere di felicità, dirle quanto fossi felice
di vederla,
rassicurarla di quanto fossero inutili i suoi timori, raccontarle la
verità…
avrei voluto baciarle le labbra.
<
Sei gelosa? >
< E tu? Ti ho visto ieri, come guardavi Jason. >
< Io non sono geloso. > falso. Ero un bravo bugiardo. Lei
parve crederci
e me ne sembrò ferita.
< Neanche io. > falso, ma, a differenza mia, lei era una
pessima
bugiarda. Sorrisi affabile.
< Comunque, lei è la ragazza del mio compagno di
camera. Una ragazza non
particolarmente gradevole… >
< Sei sincero? >
< Marie… >
< Oh, andiamo, non chiamarmi in quel modo! >
< Ma ieri quel ragazzo… >
< Lui dimenticatelo. Io non sono Marie… quella storia
del nome, è solo una
sciocchezza. Non è servito a nulla.
Non è facendomi chiamare in modo diverso che posso cambiare
me stessa… > Si
stava torturando le mani, tenendo lo sguardo basso.
Gocce salate scivolarono fin sul suo mento e da lì caddero
nel vuoto fino a
sfiorare la trapunta e da essa venire assorbite.
Non mi riuscii a trattenere e mi avvicinai a lei a passi misurati. Le
asciugai
le lacrime con le dita.
< Ehi, non ho fatto tutta questa strada per vederti piangere.
Non voglio che
tu sia triste… >
Con l’indice la costrinsi ad alzare il viso.
Lei si sforzò di sorridere poi, come se non riuscisse
più a porre un argine a
ciò che provava, si lasciò andare ad un pianto
accorato.
Mi gettò le braccia al collo e si strinse a me, sporgendosi
verso il mio viso.
Con movimenti naturali la presi fra le braccia e mi sedetti sul suo
letto,
tenendola sopra le mie gambe.
Era così fragile.
La sua pelle era un velo sottile e semitrasparente.
Vedevo i vasi sanguinei diramarsi in milioni di cunicoli. Li sentivo
pulsare al
ritmo del battito del suo cuore.
E l’umido odore del suo sangue mi inebriava.
Tra le lacrime mi continuava a ripetere quanto mi odiasse, quanto fossi
stupido, cretino menefreghista, idiota… quanto fossi stato
crudele a lasciarla
sola quando aveva bisogno di me.
Annuivo, le carezzavo la schiena,assentivo lasciandola parlare,
sfogarsi.
Non potevo rammaricarmi per le parole che mi rivolgeva.
Aveva sofferto così tanto per la mia assenza.
Lentamente i suoi singhiozzi si quietarono. Mi limitavo a cullarla
lentamente,
accarezzandola senza turbarla.
< Va meglio? >
< Sì… scusami… non volevo dirti
tutte quelle parole. >
< Me le sono meritate. > con quelle parole riuscii a
strapparle un
sorriso.
< Lo puoi ben dire. >
La feci sdraiare e lei mi prese per mano, invitandomi a stendermi al
suo fianco.
< Grazie > le sussurrai all’orecchio.
< Non ti ho perdonato. > La sua voce era armoniosa,
nonostante cercasse
di renderla dura, mostrandomi quanto fosse irata verso di me.
< Lo so. >
< E non posso perdonarti. >
< So anche questo. >
< Però una cosa posso farla… >
< Ah sì? >
< Sì. > e senza aggiungere altro, con uno
slancio, poggiò le sue labbra
alle mie, le dischiuse e io, colto alla sprovvista, feci altrettanto.
Era sbagliato, andava contro tutto ciò per cui mi ero
sacrificato e per cui
avevo sacrificato la nostra relazione.
Non avrei dovuto rispondere a quel suo bacio così carico di
disperazione ma non
potei impormi di fermarmi. Non avevo tutta quella forza di
volontà.
La strinsi a me con tutta delicatezza di cui ero capace, le avvolsi le
braccia
intorno al busto.
I pensieri di Jason mentre ricordava di toccarla mi bruciavano
l’anima ma,
confrontando i ricordi di quel ragazzo con quello che avevo vissuto con
Bella,
con quello che stavo vivendo, capii che non era cambiato nulla.
Lei non lo aveva mai amato, non lo aveva mai baciato come stava
baciando me in
quell’attimo.
Non aveva mai inarcato la schiena come stava facendo in quel momento,
rispondendo al tocco delle mie mani…
non lo aveva mai toccato come stava toccando me in quegli istanti.
Con lui non aveva mai ansimato come se il respiro le morisse in gola,
come
stava accadendo adesso…
Le
sue
piccole mani calde si infilarono sotto la mia camicia, posandosi sul
mio petto.
Le teneva spalancate come due soli da cui si irradiavano raggi caldi. E
io non
potevo che fremere a quel contatto che mi rendeva così vivo.
Non aveva smesso di piangere nonostante i singhiozzi si fossero mutati
in
mugolii di piacere.
Godevo del sapore delle sue lacrime salate e me ne libavo.
La baciavo con ardore nella speranza di farle dimenticare i baci di
quell’insulso ragazzino.
Fu molto egoista da parte mia ma volevo essere io a lambirle le labbra
e non
potevo sopportare l’idea che un altro ne avesse assaggiato il
sapore.
A quel pensiero mi accanii ancora di più sulla sua bocca
socchiusa.
Parve gradire l’impeto appassionato del mio amore ardente dal
momento che le
sue dita si contrassero sulla mia pelle. La sua gamba strusciava contro
la mia
mentre lei tentava di avvicinarsi a me più di quanto non
avesse già fatto. Come
se volesse oltrepassare la barriera creata dalla nostra pelle.
Quel bacio, il primo dopo tanto, troppo tempo, fu così
perfetto che non mi
parve reale.
Mi accarezzò i capelli ed io feci altrettanto, lasciai la
mia mano scivolare
sul suo collo, lungo la sua schiena. Incrociò le gambe alle
mie e si strinse
spasmodicamente a me
Pian piano i suoi respiri affannosi si placarono e il suo cuore riprese
a
battere a un ritmo normale.
I suoi movimenti si fecero via via più lenti fino a cessare
del tutto.
Si addormentò stringendo le sue dita intorno alle mie.
La avvolsi nelle coperte, attento a non disturbarla.
Non
avevo smesso di osservarla, di studiare ogni minimo particolare del suo
volto.
Il tempo che era trascorso non le aveva mutato i tratti del viso. Le si
erano
solo leggermente affinati i lineamenti. Il suo seno si era fatto
più
pronunciato, era dimagrita, le erano cresciuti i capelli.
Tutto ciò sanciva decisamente il suo passaggio
all’età adulta.
Quella che io non avrei mai raggiunto…
No.
Sarebbe stato troppo egoista da parte mia tenerla per me.
Avevo fatto la scelta giusta quando avevo deciso di salvaguardare la
sua vita.
Lei, che non ricordava i pericoli che comportava la mia vicinanza,
meritava la
possibilità di vivere felice, crescere, avere dei bambini.
Non potevo sottrarle tutto ciò. Non ne avevo alcun diritto.
Era il destino che mi aveva dato la possibilità di liberarla
dal nostro vincolo
che l’avrebbe relegata alla solitudine
dell’oscurità.
Non importava quanto l’amassi, quanto la volessi.
Non avevo nessun diritto di sperare.
Eppure, nella tasca dei miei pantaloni, avevo sempre conservato
l’anello di mia
madre. Lo stesso anello con cui, mesi prima, le avevo chiesto la mano.
Me lo aveva riconsegnato Charlie, con gli occhi lucidi, il giorno in
cui gli
dissi che avrei rinunciato a sposare sua figlia, che non ricordava
nulla della
mia proposta, del nostro amore…
Charlie
mi aveva
ringraziato per il gesto di generosa rinuncia e mi aveva detto che con
quell’atto gli avevo dimostrato quanto realmente amassi sua
figlia. Lui non
poteva sapere quanto profondo fosse il nostro amore.
Da quel momento quell’anello lo avevo sempre tenuto con me,
nella vana e
malsana speranza di poterlo rendere alla donna che ne era la
proprietaria.
Era un comportamento sbagliato, perverso, scellerato ma lo portavo
sempre con
me per averla sempre vicina, perché era suo, proprio come il
mio cuore.
Ora lei era lì, davanti a me, e non potevo fare a meno di
desiderare le sue
labbra, il suo calore.
Lei, addormentata, sorrideva.
Nota dell’autrice: Grazie a tutte
voi per essere arrivate a
leggere fin qui. Vi ringrazio e spero di non farmi attendere molto. Ora
sono in
vacanza quindi ho un po’ di tempo. Credo di riuscire a
postare prima di
domenica, sempre che il mio gruppo di studio non si riunisca anche
questa
settimana! (non diteglielo ma… non ce la faccio
più!!!!!basta!!!!!)
Non
vedo l’ora che sia già luglio… almeno,
con un voto o con l'altro, questo
delirio sarà già finito!
Ps:
vi è piaciuto? mi ha divertito molto scrivere la scena
finale e, vi avviso, è
solo il preludio ai prossimi due caps... la storia pernderà
una piega più
romantica che spero vi faccia sorridere!
sarà un po' più
caliente ma si sa, l'amore gioca brutti
scherzi e travalica la razionalità
A
presto, Erika
|
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Capitolo 26 *** I feel alive, when you are beside me ***
Salve ragazze.
Scusate se mi faccio viva solo ora.
per quanto sia banale la mia giustificazione, l'università
mi sta totalizzando. non tanto lo studio ma tutto ciò che ci
gravita intorno. tanti corsi = tanti esami tutti insieme. ormai non
dormo più per poter studiare.
Spero che tutta questa fatica valga un bel voto all’esame
perché ci sto perdendo dietro troppe ore di sonno. Sembro
uno zombie. Magari
fossi come un vampiro… quanti vantaggi!!!
E invece no. E da umana sono passibile di fallire. E di
deludere. Spero che però non sia così almeno per
quanto riguarda questa storia.
Parlando di
“cose
serie” per modo di dire… la domanda più
gettonata è stata: Ma si
riavvicineranno?
Beh… voi mi conoscete… non posso certo
spoilerarvi tutto…
però, mettiamola così: ci saranno sviluppi che
sono certa non vi spetterete.
Per chi ha letto Harry Potter… è una O. oltre
ogni
aspettativa.
Non sarà un semplice riavvicinamento. Proprio per essere
esplicita.
Ma non saranno neanche tutte rose e fiori. Bella non si
sbottonerà tanto facilmente con Edward.
Si sente troppo male a pensare anche solo di raccontare ciò
che le è successo, almeno per ora.
Per quanto riguarda la memoria latitante di Bella…
tornerà a
ondate, nel puro senso della parola.
Questo la confonderà e la disorienterà. Anche
perché non si
confiderà subito con Edward e quindi cercherà di
affrontare tutto da sola.
Ok, credo di aver parlato (scritto) fin troppo. Sperando di
non avervi annoiate, vi lascio agli sviluppi.
PS: senza voler spoilerare… non ricordo se in questo o nel
prossimo cap ma
presto (molto presto) il ricongiungimento spirituale si
trasferirà dal piano
metafisico a quello molto più concreto fatto della
realtà quotidiana. E quindi
i nostri due pischelli… si beh, si sa come vanno queste cose.
Ho cercato di tagliare (e sono stata davvero mani di
forbice) per permettere a tutte di leggere senza che io incorressi in
un
bellissimo sforamento di rating (non potevo farlo schizzare al rosso.
Mi capite
vero?) e spero quindi di non turbare nessuna delle vostre candide anime.
Ho cercato di rimanere sul soft perché, oltretutto, non mi
piace quando si è troppo espliciti. Quando si
“descrivono” dei rapporti
sessuali si rischia sempre di valicare la sottile linea della pudicizia
e
scivolare nella volgarità gratuita e superflua.
Per questo spero di non aver peccato di sovrabbondanza di
dettagli.
Ciò premesso, spero di non arrecare a nessuna di voi un
disagio nel leggere.
Nel caso, mi scuso anticipatamente e, se ricevessi da voi
segnalazione, provvederei a eliminare quelle parti che vi risultassero
sgradevoli.
Edward’s Pov
cap 25
I feel
alive, When you're beside me
Mi sento vivo quando sei accanto a me
Ma
quella non si rivelò una notte tranquilla.
Bella
si agitò, scalciando e
tremando. Più
volte gridò parole sconnesse.
Ognuna
era per me una pugnalata.
“fermati”
“lasciami” e poi tante, troppe volte,
urlò il nome di Phil.
Stava
avendo degli incubi che le facevano battere furiosamente il cuore.
La
stringevo a me nel tentativo di darle conforto. La vedevo soffrire,
rivivere i
maltrattamenti e le violenze che aveva patito. A ogni suo sospiro
addolorato mi
chiedevo come avrei potuto lasciarla sola, di nuovo. Sentivo la
necessità di
proteggerla. Non avrei permesso a nessuno di farle del male, di nuovo.
Strinse
i pugni con così tanta forza da conficcarsi le unghie nella
carne tenera del
palmo delle sue mani, portandosele a sanguinare. Si notava in uno dei
due
palmi, una
cicatrice netta e lunga che
lo attraversava e i segni di alcuni punti. Era un taglio relativamente
recente
quello a cui le nuove ferite si intersecavano formando cupi arabeschi.
Stille
di rubini rilucevano nella notte.
Quell’odore,
che si disperdeva intorno a me goccia dopo goccia, era una tentazione
tale che
non sapevo se avrei resistito.
Mi
limitai ad inspirare il profumo dei suoi capelli, nel tentativo di
calmarmi.
Nell’agitarsi
si scoprì un braccio. Sulla sua pelle candida lunghe e
sottili cicatrici
violacee. I segni tangibili del suo dolore. Constatai che non ve ne
erano di
troppo recenti. Erano tutte anteriori di almeno un mese. Non si era
più ferita
da quando Alice era partita. Forse questo era un indice che quanto
aveva detto
Carlisle era vero. Forse non aveva più sentito la
necessità di farsi del male
perché Phil aveva smesso di maltrattarla…
Lambii
quegli sfregi con le mie labbra recriminandomi di non esserle stato
accanto quando
aveva avuto bisogno. Ognuno di quei segni mi ricordava quanto avesse
sofferto.
Pensai
a Phil che la picchiava. A lei che mi implorava di andarla a prendere e
portarla via…
A
Jason che la palpava spogliandola.
Dei
pensieri insopportabili.
Ad
un certo punto il suo corpo venne scosso da singhiozzi tali che si
svegliò.
Ansante,
riaprì gli occhi e si accorse che la tenevo stretta a me.
Spostò la mano, che
si era portata al cuore impazzito, sul mio viso.
<
Edward… >
<
Sono qui, non preoccuparti… > le sussurrai
conciliante, accarezzandole i
capelli. <
Torna a dormire. Cerca di
riposare un po’. È notte fonda. >
<
Scusami… ho fatto un incubo. Mi spiace se non ti ho fatto
dormire… >
<
Non preoccuparti per me. Riposa… > e le carezzai le
reni.
La
vidi mordicchiarsi le labbra, il suo viso imporporato sulle gote.
<
Va tutto bene? > le domandai apprensivo. Lei non mi rispose.
Le
carezzai il collo e la schiena. Il suo corpo rispose al mio tocco
inarcandosi.
<
Edward… > Ansimò cercando le mie labbra,
in cerca del conforto che io stesso
volevo darle.
<
Bella > le sussurrai nella bocca dischiusa.
Le
sue dita esploravano il mio viso, alla ricerca di cosa non mi
è dato sapere.
Trovò
i miei capelli e vi si aggrappò.
Il
suo cuore palpitava così velocemente da confondermi la mente
già ottenebrata
dalla sua presenza totalizzante.
Mi
azzardai a carezzarle il petto. Scesi a scostarle la maglietta,a
lambirle la
pancia e a cercare i suoi fianchi. La sentivo fremere al mio tocco e
ciò mi
invogliò a proseguire nella ricerca della sua pelle.
Rividi
Jason pensare a come Bella lo avesse respinto, a come si fosse ritratta
spaventata, a come si fosse allontana da quel ragazzo, sottratta alle
sue mani.
Non
voleva farsi toccare da lui in quel modo.
Nel
modo in cui la volevo toccare anche io.
Nel
modo in cui la stavo toccando.
Eppure,
alle mie carezze rispondeva in modo così diverso…
così disponibile. Non era
fredda come era stata con quel ragazzino… no, con me era
così partecipe…
Voleva
quel contatto.
Ma
mi dovevo trattenere.
Per
evitare di darle false idee e per evitare di carpirle la
virtù.
Non
potevo illuderla di un amore vero e sincero ma impossibile.
Eppure
era così calda… così
profumata…
la
volevo.
L’avevo
sempre voluta.
Non
riuscivo a pensare.
La
sua mano si insinuò sotto alla mia camicia.
<
Edward… ho caldo… >
Sorrisi.
< Come sarebbe a dire? >
<
Oh… insomma! Non capisci niente! > e
allontanò il petto da me per sfilarsi
la maglietta. Sorrideva, fingendosi irritata.
Deglutii
a vuoto quando i miei occhi si soffermarono sul suo seno. Mi affrettai
a
distogliere lo sguardo.
Si
appoggiò lentamente al mio petto e mi accarezzò
la guancia.
Sentii
una macchia bagnata espandersi sulla mia camicia.
Lacrime?
<
Perché piangi? >
<
Perché non mi guardi? > mi domandò lei con
voce rotta.
<
Perché non ce la faccio… > le sussurrai
con voce arrochita dallo sforzo di
trattenermi.
Cercò
di allontanarsi da me, ferita, ma io la trattenni stringendola tra le
mie
braccia. Baciandole i capelli le sussurrai: < No, no…
ti prego. Non volevo
ferirti. È solo che… con te qui,
così… non riesco a controllarmi. >
<
E allora non controllarti! > sbottò lei rossa di
vergogna.
Gli
occhi arrossati erano nuovamente asciutti.
<
Ma Bella, tu non capisci. >
<
Hai ragione, non capisco! >
Cercò
di divincolarsi ma la trattenni afferrandola per i polsi. Esercitai
poca forza
ma temetti di averle fatto male. Lei infatti aveva sussultato,
inspirando
l’aria velocemente.
La
lasciai andare immediatamente, preoccupato, e la vidi raggomitolarsi su
se
stessa stringendosi le braccia al petto, sul reggiseno.
Mi
diede le spalle.
Potevo
vederla tremare. Non capivo quella reazione. Cercai di parlarle, di
scusarmi.
<
Bella… scusa, non volevo farti male. > le sussurrai
mortificato.
<
No, no. Non è niente. Non mi hai fatto male. Non
è colpa tua. >
Con
gentilezza le posai la mano sulla spalla, costringendola dolcemente a
voltarsi.
Supina, mi fissava.
Mi
portai a cavalcioni su di lei senza sfiorarla, senza gravare con il mio
peso
sul suo corpo fragile.
Teneva
ora le braccia spalancate poggiate sul cuscino, sopra i capelli sparsi.
I suoi
occhi arrossati mi trasmettevano una tristezza che era per me dolorosa
da
sopportare. Il suo respiro era ostacolato da qualcosa che non riuscivo
a
cogliere. Nel suo sguardo avrei potuto perdermi.
Nel
dolore che vi scorgevo avrei potuto annegare.
Le
carezzai il viso.
<
Bella? >
Schivò
il mio sguardo voltando il capo. Non si muoveva.
Inerme
davanti a me, fissava un punto indefinito della stanza.
Il
suo seno si abbassava e alzava al ritmo del suo respiro accelerato,
invogliandomi ad accarezzarlo.
Quando
la vidi piangere lì, così indifesa, tutte le
barriere che avevo cercato di
impormi crollarono come sabbia trasportata da una marea.
Mi
chinai su di lei e le lambii le guance con le labbra, carpendole le
lacrime.
Il
suo ventre nudo sfiorava la mia camicia.
Non
potevo sopportare che la stoffa mi separasse dal suo calore e me ne
disfai.
Il
mio bacino scivolò sul suo finchè le nostre gambe
non entrarono in contatto.
Lei
non reagiva. Piangeva in silenzio, immobile. Una bambola di porcellana.
Scesi
a baciarle la clavicola, il collo…
<
Edward… > sussurrò con un filo di voce.
sperando,
contro ogni buonsenso, che mi chiedesse invece di continuare le chiesi:
<
vuoi che mi fermi? >
A
quelle mie parole sussultò poi, in silenzio,
portò le sue braccia dietro alla
mia schiena,tentando di stringermi a sé. Io
l’assecondai avvicinandomi. Il suo
seno, racchiuso nella stoffa nera del reggiseno, sfiorava la mia pelle
nuda.
<
No. Voglio che tu vada avanti. Per favore. >
Mi
scostai per fissarla negli occhi. Erano le parole che volevo sentirmi
dire ma,
allo stesso tempo, speravo non pronunciasse.
E
poi, ciò che mi disse contrastava così tanto con
la sua voce addolorata, con le
sue lacrime, che mi riusciva difficile assecondarla.
<
Bella, va tutto bene? >
Si
strinse a me, nascondendosi nell’incavo del mio collo e, in
questo modo,
sollevando il busto dal materasso. Il suo peso leggero gravava tutto
sulle sue
braccia incrociate dietro alle mie spalle.
Feci
scivolare le mie mani dietro alla sua schiena, che presi a carezzare
dolcemente.
<
Sì, ora che tu sei qui con me va tutto bene. > mi
sospirò ad un orecchio.
Le
mie dita trovarono il gancetto metallico. La sentii fremere mentre la
liberavo
da quell’indumento.
Avrei
dato tutto ciò che era in mio possesso per sapere cosa
pensasse in quel
frangente ma la sua mente era muta e dalle sue labbra non sfuggiva
neanche una
parola. Solo qualche lieve gemito che mi invogliava a continuare nel
massaggiare la sua pelle.
Intrecciò
le sue gambe alle mie, stringendosi ancora di più a me.
<
No, aspetta… > le sussurrai scendendo con le mani
lungo la sua schiena. Le
afferrai le ginocchia, allontanandole le gambe dalle mie.
Lei
si immobilizzò, come se l’avessero colpita.
<
No… no… non preoccuparti, non volevo fermarmi.
> la rassicurai prima di
salire con le mani sull’elastico dei suoi pantaloni.
Glieli
sfilai con un gesto fluido. La vidi, con la coda dell’occhio,
arrossire e
mordicchiarsi il labbro inferiore malcelando un sorriso imbarazzato.
Gli occhi
erano ancora lucidi.
<
Ora tocca ai tuoi pantaloni… > mi sussurrò
in imbarazzo.
<
C’è tua madre, di sotto. > le dissi
cercando di convincere più me che lei.
Non
potevo cadere nella tentazione più grande della mia vita.
Nel mio frutto
proibito.
<
Non mi importa. Non si sente niente, di sotto. Questa casa è
vecchia. Ha i muri
spessi. >
<
No. >
<
Come no? Non puoi lasciare me così e tu rimanertene con le
braghe… >
sussurrò con voce tremante di imbarazzo.
Non
so cosa mi passò per la testa in quegli istanti. Ero
totalmente e
incondizionatamente prigioniero dei suoi occhi. La mia mente non era in
grado
di elaborare pensieri coerenti.
<
Per favore… un attimo solo… > le sussurrai
posandole un dito sulle labbra
piene.
Dovevo
farlo. Dovevo sapere.
Infilai
la mano libera nella tasca dei pantaloni e ne estrassi il piccolo
gioiello
lucente. Lo tenni nel pugno della mano.
<
Ecco, ho fatto. > le sussurrai prima di riaccompagnare le sue
dita tremanti ai
miei pantaloni. Prima che cercassero di sbottonarli.
Entrambi
eravamo ormai seduti l’una dinanzi all’altra.
Ci
mise tanto di quel tempo che dubitai volesse slacciarli per davvero.
<
Scusami… sono così imbranata. >
Mi
chinai a baciarle i capelli e lei si fermò, poggiando il
capo sul mio petto.
Ma
perché piangeva ancora?
Le
presi con delicatezza le mani che ancora armeggiavano con i bottoni dei
miei
pantaloni.
Gliele
guidai sul mio petto. Mi disfai dello scomodo indumento e poi le
sfiorai il
volto.
<
Bella, devo chiederti una cosa importante. > le sussurrai
stringendola tra
le braccia. Le mano che racchiudeva l’anello era stretta in
un pugno sulla sua
schiena. Con la mano libera le contavo le vertebre. Il suo seno premeva
dolcemente sul mio petto.
<
Cosa vuoi sapere? >
La
sua voce era esitante e scossa dai tremori che le scuotevano il corpo.
Sembrava
fosse spaventata. Non riuscivo a resisterle ma, soprattutto, non potevo
sopportare l’idea di perderla di nuovo.
<
hai paura? >
Alzò
lo sguardo e i nostri occhi si incontrarono.
<
Non più. Non ora. >
<
Mi dispiace così tanto… > le confessai e,
questa volta, mi credette. Poggiò
le sue mani calde sulle mie guance e, come se volesse consolarmi, mi
carezzò il
viso.
<
Perché? Perché sei dispiaciuto? >
<
Per così tante ragioni che non potrei neanche elencarle
tutte. >
Mi
baciò la fronte. < Non preoccuparti. Mentivo, quando
ti ho detto che non
posso perdonarti. >
Chiusi
gli occhi e confessai: < Sono io che non posso perdonare me
stesso… per
averti lasciata sola. >
Si
immobilizzò udendo le mie parole.
Mi
sedetti in ginocchio. Sentii le sue dita ricominciare ad accarezzarmi
le
palpebre.
<
Edward, ho esagerato, prima. Tu non hai nessun dovere nei miei
confronti. E non
è colpa tua. E poi, dopo tutto questo… non devi
credere di avere degli
“obblighi” nei miei confronti. Siamo adulti e
vaccinati. Emancipati… >
Socchiusi
le palpebre e la vidi. Teneva il capo chino. Era impallidita,
praticamente nuda
dinanzi a me… Nei suoi occhi intravidi un’ombra di
terrore e malinconia.
Con
la mano libera presi le sue e le guidai sul mio pugno ancora stretto.
<
Isabella… >
<
Sì? >
<
Ti chiedo di fidarti di me, anche se sono consapevole di non meritarmi
la tua
fede. >
<
Perché? >
<
Tu non sai quante bugie sono stato costretto a dirti. A quante volte
abbia
dovuto mentirti. Ma l’ho fatto solo per il tuo bene. E ogni
volta soffrivo.
Pativo le pene dell’inferno per ciò che ero
costretto a dirti. Ho cercato di
salvarti ma è stato tutto vano. >
Percepì
la mia frustrazione perché strinse le sue dita intorno alle
mie e guidò la mia
mano chiusa sul suo seno nudo.
<
Non posso rivelarti ancora la verità. Non so se
potrò mai. L’unica cosa che ti
chiedo è di avere fiducia in me.
Adesso,
ho una domanda importante da porti. Ti capirò se mi
risponderai di no e non ti
serberò alcun rancore. Non aver paura di rispondermi con
sincerità.
Nel
caso tu mi risponda in modo negativo, voglio che tu contini a pensare a
me come
ad un amico. Intesi? Non cambierà nulla. >
Nel
silenzio annuì lentamente, prendendo un profondo respiro.
Rilasciai
il pugno e lasciai scivolare il piccolo anello nelle sue mani.
Quando
si accorse di quel minuscolo cerchio freddo nel suo piccolo pugno
rilasciò le
dita e sul palmo della sua mano, solcato dalle ferite sanguinanti che
si era
procurata nell’ansia dell’incubo,
l’oggetto metallico rilucette.
Luccicava
nella luce soffusa della notte, riflettendo sui diamanti il risplendere
dei
suoi occhi.
<
Edward… > sussurrò con voce soffocata.
Alzò lo sguardo e vidi quanto fosse
spaventata.
Le
impedì di
proseguire baciandola.
Mi
separai dalle sue labbra solo per chiederle: < Isabella, vuoi
sposarmi? >
Mi
sentivo sciocco a porle quella domanda per la seconda volta. Ricordai
con un
misto di dolore e malinconia come, la prima volta entrambi non fossimo
seminudi.
In
agitazione Bella si cominciò a sistemare i capelli.
<
Ehi, va tutto bene. Non importa. Però, ti prego, tienilo tu,
l’anello… >
Scoppiò
a piangere e mi gettò le labbra al collo. I suoi singhiozzi
le scuotevano il
corpo facendo premere il suo seno sul mio corpo, suscitando in me i
desideri
disdicevoli che non riuscii a trattenere.
<
Sei un cretino! > mi urlò prima di cominciare a
tempestare il mio petto di
pugni.
Quella
notte non aveva fatto altro che piangere… questa volta
però il sorriso sulle
sue labbra era molto più marcato, sebbene malinconico.
<
Certo che voglio sposarti! Se tu solo… se tu
solo… sei un idiota! >
E
poi mi baciò con un tale slancio che per poco non caddi
all’indietro.
La
afferrai per i fianchi e lasciai che si sporgesse verso di me in una
posizione
poco pudica.
Smise
di baciarmi per nascondersi nelle mie braccia. Ero a dir poco euforico.
Nonostante
tutto, nonostante ciò che era avvenuto, il nostro legame non
era stato reciso.
Il mio più grande desiderio, quel sì che tanto
avevo desiderato, mi suonava più
dolce di qualsiasi nettare.
Rimanemmo
abbracciati, baciando l’uno la pelle dell’altra, a
lungo, senza ansia o fretta
alcuna.
Accarezzandola,
azzardai ad introdurre un argomento delicato e doloroso: <
Bella, quando
partirò non potrò portarti con me ma non
preoccuparti… >
<
Tu non vai a Syracuse, vero? >
<
Vero. Ma non posso dirti la verità e me ne dolgo.
È per la tua sicurezza. Un
giorno, forse, potrò finalmente raccontarti tutto. >
<
Sei in pericolo? > mi domandò accorata,
accarezzandomi il viso ansiosa.
<
No, ma voglio evitare che lo sia tu. È per questo che
è più sicuro che tu non
sappia, ancora… ma non posso più sopportare di
sapere che potresti stare con
qualcun altro all’infuori di me. Ti amo troppo e in modo
così intenso… non ho
mai smesso di amarti. >
<
Neanche io. >
Non
avrei voluto chiederle del suo ex ragazzo ma non riuscii a trattenermi.
Ero
troppo geloso.
<
Ma quel Jason… >
Pensai
di averla offesa e invece lei mi rispose: < Lui si che era un
idiota. Non
come te che lo sei solo per modo di dire. Lui proprio non capiva.
>
<
E allora perché? >
<
Edward…ero così sola. Lui era stato molto gentile
con me e io cercavo di
dimenticarti con tutta me stessa. Era troppo doloroso… ho
cercato di costruirmi
una vita ma… >
Si
stava torturando le mani. Glielo impedì prendendole tra le
mie.
<
Mi dispiace di averti costretta a cercare affetto presso chi non era
degno di
dartelo. >
Leggevo
la vergogna nei suoi lineamenti contratti.
<
Non preoccuparti. Non mi importa cosa sia successo tra voi. >
La
sua pelle assunse un vivido colorito rossastro.
<
Veramente, non è successo nulla. O per lo meno, non quello.
Ogni volta che ci
abbiamo provato io non riuscivo a rilassarmi. Mi sentivo male. Lui non
mi
faceva sentire come… > indugiò imbarazzata
poi riuscii a trovare il coraggio
per dire: < Come mi fai sentire tu.
L’ultima
volta mi ha fatto così male… era così
violento e brutale quando mi toccava… non
sono riuscita a resistere. L’ho costretto a fermarsi. Non me
la sentivo. >
La
voce le morì in gola. Le sue parole alleviarono il dolore
cocente della
gelosia. Non si era concessa a quel ragazzino perché lui non
la faceva sentire
come la facevo sentire io…
La
strinsi a me per non vedere le sue lacrime. Capii che comunque mi
nascondeva
qualcosa ma non volli indagare ulteriormente per non turbarla troppo.
<
Non preoccuparti. È tutto finito. > le cantilenai
cullandola tra le mie
braccia.
Quando
il suo respiro tornò normale le presi la mano.
<
Allora accetti? Desideri diventare mia moglie? > le domandai
emozionato.
Se
asciugò il viso e mi rivolse uno di quei sorrisi ai quali
non avevo mai saputo
resistere.
Era
così felice che sentii il mio cuore scaldarsi di gioia. Il
suo batteva
impazzito.
<
Sì. Sì… > e nei suoi occhi
lessi la felicità più profonda.
Le
infilai con delicatezza l’anello al dito.
Lei
lo osservò a lungo, muovendo le dita per esaminare le mille
sfaccettature del
diamante e poi mi abbracciò.
La
baciai con tanta passione e tanto ardore, le mie mani
l’accarezzavano con tanto
sentimento che presto sentii un odore umido pervadere l’aria.
Imbarazzata,
pose termine al bacio e si portò la mano con
l’anello all’inguine,stringendo le
gambe.
Gliela
afferrai e gliela baciai assaporando le gocce dolciastre che le
imperlavano i
polpastrelli.
Nell’impeto
del mio amore lei si abbandonò alle lenzuola.
Il
suo cuore impazzito scandiva il ritmo dei miei movimenti.
Le
feci scorrere le dita sui suoi fianchi, sulle sue cosce, sulle sue
natiche. Le
sfiorai gli slip.
Ricordai
come quel moccioso avesse fatto lo stesso e di come lei, terrorizzata,
si fosse
ritratta.
Le
chiesi con tutta la dolcezza di cui ero capace: < Posso?
> e lei, invece
che rispondermi, guidò le mie mani sull’elastico
del piccolo indumento. Glielo
sfilai e poi le accarezzai quella parte proibita del suo corpo.
Ormai
mi ero spinto troppo oltre per tornare indietro.
Tutto
il mio bel piano, tutti i miei progetti erano ormai saltati.
Inutile
negare l’ovvietà dei fatti.
Le
avevo chiesto di condividere con me la vita e, invece che essere
pentito per i
rischi a cui l’avrei esposta, ero euforico. Mi amava. Mi
amava a tal punto da
sposarmi…
A
dirmi di sì, di nuovo.
come
potevo voltare le spalle al destino?
Percorsi
l’interno delle sue cosce con attenzione mentre sentivo,
dentro di me, crescere
l’esaltazione. Ero euforico perché la sentivo
così vicina.
A
ogni mio tocco un po’ più audace rispondeva
inarcandosi, gemendo, arrossendo.
Quando
le sue mani calde e tremanti sfiorarono i miei boxer fui io a gemere.
Le
sue mani inesperte mi aiutarono a disfarmi di quell’ormai
inutile e fastidioso
capo intimo.
Ok…
evidentemente questo è solo l’inizio. Spero che vi
sia
piaciuto come si è evoluta la vicenda.
Riavvicinati si sono riavvicinati.
Ma Edward ha solo una decina di giorni. Cosa farà? Come si
comporterà?
Bhe… lo
sto scrivendo
in questi momenti (invece di studiare l’arco di settimio
severo. Sono una
SCELLERATA!!!!!!!!!) a presto, credo subito prima o subito dopo
l’esame (che è il 23 giugno)
Tra l'altro, domani parto per Roma e
non avrò accesso a PC ed Internet quindi, se per caso non
dovessi rispondere a varie ed eventuali, non preoccupatevi, lo
farò appena torno (il 20)
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Nella speranza che il prossimo cap non mi venga censurato,
vi aspetto per la prossima puntata.
|
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Capitolo 27 *** Love don't give no indication, love don't pay no bills ***
Salve a tutte.
Esame fatto il 30 (non quello che
dovevo,sfortunatamente, ma un altro. Ragazze,
organizzarsi è un lavoro duro!)
Roma è al contempo splendida e terribile. A parte il fatto
che la casa della mia amica era affittata a lei e ad altre quattro
persone, c’era
un solo bagno e le finestre non avevano i vetri (i proprietari se ne
approfittano troppo degli studenti. Era una casa inabitabile. Da
servixio di
igiene!) devo dire che mi sono trovata molto bene. Ecco, forse i mezzi
pubblici
lasciano un po’ (molto) a desiderare ma in compenso i taxi
costano mille volte
meno che a Milano. Sono stata costretta a prenderli e devo dire che li
ho
trovati davvero economici. E poi la gente! Erano tutti fantastici!
Vabbè, immagino che delle mie vacanze romane non vi
interessi e avete ragione.
In questo periodo sono stata molto impegnata per via di
alcune opportunità che non mi sono sentita di non cogliere
ma ciò mi ha
allontanato dalla scrittura. Sfortunatamente i giorni non hanno 36 ore.
Ma eccomi qui con un capitolo che, come preannunciato, è
incentrato sul rapporto tra Edward e Isabella. Non potrebbe esserlo di
più.
Ringrazio tutte voi che hanno recensito (non vi ho ancora
risposto per problemi tecnici. Mentre ero a Roma non avevo il PC e, una
volta
tornata, non ho alzato il sedere dalla sedia della biblioteca neanche
per un
minuto. Odioso esame!) ma mi ci metto appena finito di postare.
Bene, vi lascio a questo capitolo che
spero non turbi.
Ho cercato di essere delicata, soft e non morbosa in quello
che scrivo (anche perché, concedetemi errori. Per me
è solo teoria allo stato
più sublimato dell’etere… vado di
fantasia. Nel caso avessi detto fesserie, vi
prego rendetemelo noto così da poter correggermi)
Se
ho dato fastidio a qualche lettore per i temi, mi
dispiace. Ho cercato di abbassare il rating e sono andata
giù con l’accetta a
tagliare per non dover mettere rosso. Spero che nessuno trovi inadatto
e
spiacevole quanto scritto. Nel caso, comunicatemelo e
provvederò ad
autocensurare eventuali passi ritenuti troppo espliciti.
Ringrazio tutte per la passione che
mi infondete e per le
vostre recensioni.
Ora scusate ma devo andare a piangere
un po’ su un altro
Edward: Edward Elric. Sto facendo la maratona e guardando
l’anime (fma
broherhood) mentre scrivo i nuovi capitoli di questa storia.
Starei pensando a una RoyXRiza ma so già che rischierei la
fucilazione quindi, per ora, mi astengo. Se però volete un
bel manga, ve lo
consiglio. Io lo seguo dal primo numero e non ne sono mai stata delusa!
Ha, se percaso questo mio Edward congiunge le mani e tira fuori lance
dal pavimento... tiratemi una secchiata d'acqua e fatemi rinsavire...
oh... Edo....
Un abbraccio e a prestissimo, auguri
a tutte le maturande!!!
Cap
26
Love don't give no indication, love don't pay
no bills.
L’amore
non da indicazioni, l’amore non paga I conti.
Ps: sono sicura che la canzone Love
Kills di Freddie Mercuri
dica DON’T anche se Love è singolare. Qualcuno sa
spiegarmelo? Non so proprio
se ho sentito male io o se è giusto o che altro…
Edward’s POV
Nuda,
davanti a me, arrossì.
Mi chinai per sfiorarle la gola con il naso. Reclinò la
testa, ansimando. Scesi
a sfiorarle il ventre, l’ombelico. Disegnavo linee
immaginarie con la punta del
naso, con la lingua… ad ogni mio tocco fremeva. Si
contorceva. Teneva le dita
incrociate alle mie mentre assaporavo il gusto della sua pelle.
Ansimava
il mio nome mentre
il mio corpo sfiorava il suo.
Ad un certo punto sciolse la
presa delle nostre mani. Portò le sue dietro alla mia
schiena alla quale si
aggrappò quasi disperata.
Sentivo l’anello premere
contro la mia pelle.
Quel contatto mi eccitava
oltremisura.
Ora che avevo le mani libere
le usai per carezzarla lì dove il mio tocco la faceva
fremere. Il suo seno
morbido e pieno, inturgidito sulle punte… le sue labbra
carnose, la sua
nascosta femminilità…
< Edward… > boccheggiò.
Le sue dita si aggrapparono
ai miei capelli, tirandomeli.
Chiuse gli occhi e strinse le
labbra. Dalla bocca socchiusa scivolarono gemiti e flebili ansiti.
Poggia il capo sul suo
ventre, le labbra sul suo ombelico.
Le mie mani, dalle sue cosce,
scesero alle sue ginocchia. Le afferrai con delicatezza guidandola a
divaricare
le gambe.
A quel mio gesto rispose con
un singulto. Sentii il suo corpo bloccarsi come già era
successo in quella
strana notte.
Ciò mi preoccupava. Forse non
mi diceva la verità… forse non voleva che la
toccassi… proprio come con quel
Jason. Era a disagio? Non si sentiva pronta?
Senza scostare il volto dal
suo grembo caldo, le chiesi: < Bella, va tutto bene? Se vuoi mi
posso
fermare… se non sei sicura. >
Respirò profondamente per tre
volte prima di rispondermi. Cercò la mia mano tra le coperte
e, quando la
trovò, la strinse forte come se da quel contatto ne traesse
conforto.
< No, ti prego… non ti
fermare. >
Sentii la sua voce tremare.
Scivolai lungo il suo corpo fino a portare il mio viso davanti al suo,
per
guardarla negli occhi.
< Bella, dimmi cosa non
va, ti supplico. >
< Non c’è nulla che non
vada. >
< Non mentire, non ne sei
in grado… >
Chiuse gli occhi,
un’espressione di dolore dipinta sul volto. < Spero tu
ti stia sbagliando…
altrimenti sono nei guai. >
< Non preoccuparti. Te ne
tirerò fuori io. Ma devo sapere la verità. Sei
una pessima bugiarda. >
Cercò di allontanarmi ma
glielo impedii. < Bella, davvero, non c’è
nessun motivo per cui tu debba
avere paura o provare vergogna… dimmi
cos’è che ti turba. >
Era combattuta. Il suo labbro
inferiore tremava.
< Ti prego, aiutami. >
mi sussurrò stringendosi a me.
Ero addolorato e terrorizzato
da ciò che avrebbe potuto dirmi. D’altra parte,
volevo che si confidasse con
me, che si liberasse di quel fardello che sopportava da sola. Qualunque esso fosse.
< Lo farò. >
Prese un grande sospiro e,
come se fosse pronta a confessare un atroce delitto, mi
implorò di non adirarmi
nei suoi confronti. Le risposi che non avrei mai potuto. Per nessun
motivo.
Mi lasciai cadere sulla
schiena, alla sua sinistra. Le presi il braccio e cominciai a
percorrerle con
le dita i segni rossi che le deturpavano la pelle.
Trattenne il fiato per
un istante prima di scoppiare in lacrime
e coricarsi sotto alla mia ascella.
La strinsi a me passandole le
mani sulla schiena per confortarla.
Ma il fiume di parole che mi
aspettavo non arrivò. Con voce tremante mi
confidò soltanto:
< Edward… sono successe
tante cose mentre ero qui. Ma non ce la faccio a parlarne…
>
< Non c’è problema, né
alcuna fretta. Quando e se vorrai, me ne parlerai.
Una sola cosa ti devo
chiedere. >
Alzò il capo e mi rivolse uno
sguardo intimorito. Le presi di nuovo il braccio sinistro, martoriato.
Lei lo fissò e notai che
sospirò, come se fosse sollevata. Non capii quella reazione.
Se non aveva paura
di rivelarmi quello, le ferite che si era inferta, cosa mai poteva
temere?
< ti prego, non farti più
del male. Per nessun motivo. >
Il silenzio che si era creato
era per me doloroso. Volevo che mi parlasse, che si confidasse con me.
< Bella? >
< Quelli… erano dei
momenti di debolezza. Pensavo che non mi amassi più, che ti
fossi dimenticato
di me… ero così sola… e
Phil… >
Fu come se si fosse pentita di
quelle parole. Si zittì immediatamente e poi nascose
nuovamente il viso al mio
sguardo.
< Phil? >
< Niente… abbiamo
litigato. Non vado molto d’accordo con lui. Tutto qui.
È stato un brutto
periodo. Ho fatto alcune sciocchezze. Ma adesso è tutto
passato. >
< Se ci fosse qualcosa che
vorresti dirmi, sai che con me puoi parlare di tutto. >
Mi guardò e sorrise di un
sorriso così genuino, così autentico, che
cancellò tutto il dolore che le sue
parole non dette mi avevano suscitato.
Non riuscii a trattenermi e
la baciai. Incrociò le gambe intorno alle mie.
Non c’era alcun timore,
alcuna ritrosia nei suoi movimenti, in quel contatto umido.
Con un gesto che temetti
essere troppo azzardato, sfiorai il suo inguine con il mio.
Arcuò la schiena.
Le sfiorai il seno,
massaggiandolo con delicatezza.
< Mi fai impazzire… >
sussurrò con la voce roca. Sentirla in quel modo mi faceva
sentire come rinato.
Mi sembrava che nulla fosse
accaduto tra noi. Nessun incidente, nessuna separazione…
Era come essere nella mia
camera a Forks, i giorni prima del matrimonio. Quando giocavamo a
quelle che
chiamava “le grandi prove”.
Non ci eravamo mai spinti
fino in fondo ma ci eravamo andati molto vicino più volte.
Sorrisi a quel ricordo.
Venni
ridestato da quei miei
pensieri quando sentii le sue manine calde sfiorare là dove
sentivo pulsare.
Erano tremanti.
Le afferrai il polso e portai
la sua mano al mio viso, baciandone le nocche.
< Bella, non devi. Non è
necessario. >
< Ma io voglio. > mi
disse piccata.
Non potei trattenere un sorriso
sbieco che le tolse il fiato.
< No… > le sussurrai e la
vidi sconvolta ma io proseguii lungo la mia direzione.
< Io non ho ancora finito.
Dopo, se ne avrai ancora voglia… non ti fermerò.
>
Il suo sorriso malizioso mi
spinse a osare quanto non avevo mai fatto.
< Va bene… aspetterò
allora. > mi disse con voce sospettosa.
Le strinsi le mani e poggiai
le mie labbra là, a baciarla dove fino ad allora
l’avevo solo sfiorata
timoroso.
Fu come se l’avessi torturata
con la scossa elettrica. Non fosse stato per i gemiti di piacere, avrei
detto
che le stavo facendo male.
Cercavo di assecondare i suoi
movimenti incontrollati.
Ad un certo punto stinse le
mani intorno alle mia braccia con tanta forza che, se fossi stato
umano, avrei
certamente provato dolore. Le sue gambe si intrecciarono strette
intorno al mio
busto.
Sentii odore di sangue
fresco.
Certo che non provenisse da
dove le mie labbra la lambivano, dal momento che non ne sentivo il
sapore, alzai
allarmato lo sguardo.
La vidi come non l’avevo mai
vista. Era a dir poco provocante. ringraziai di non avere nessuna
costrizione,
perché sarebbe stato impossibile trattenermi.
Cercai di ritornare lucido.
Tre gocce cremisi le
scivolavano sul mento. Era passata una frazione di secondo da quando
avevo
alzato lo sguardo quando le dissi agitato: < Bella! >
Parve ridestarsi da un sogno.
< No, non smettere… >
ansimò.
< Ma stai sanguinando!
>
Ero sconvolto. Mi portai
sopra di lei per guardarla in viso e il quella parte del mio corpo,
così
stranamente viva e recettiva come mai era accaduto, si
poggiò lì dove sentivo
il centro di Bella pulsare.
< Ohh… >
< Bella? > le poggiai
il pollice sul labbro dove i suoi denti avevano premuto così
tanto da ferirlo.
Sentii la sua lingua sul mio
polpastrello. < Ti stai ferendo… >
La sua voce soffocata era
terribilmente sensuale. < Non mi importa. È per non
urlare. Non fermarti.
>
Le sue frasi erano spezzate,
non del tutto coerenti. Osservai ipnotizzato quelle minuscole
goccioline
addensarsi e scendere lungo il suo mento. La volevo, in ogni modo
possibile. E
di certo non avrei osato contraddirla. Voleva che continuassi? Era il
mio
stesso desiderio. Darle piacere mi appagava più del sangue
che, goccia dopo
goccia, sgorgando dal taglio, mi tentava.
Le baciai il collo. < Come
vuoi. >
L’odore del suo sangue, la
giugulare che pulsava… il suo cuore che palpitava tanto
veloce che pareva
impazzire… le sue mani strette intorno ai miei
capelli… il mio viso tra i suoi
seni profumati e caldi. I palmi delle mie mani sulle sue
scapole…
L’eccitazione di entrambi era
palpabile, tangibile.
E tutto fu per me così
naturale, così semplice che a stento mi accorsi della
smorfia di dolore che
alterò il viso di Bella. Ma lei non disse nulla e io non mi
fermai.
Ero talmente stordito dai
profumi, dalle sensazioni, che ci misi qualche secondo per rendermene
conto.
Cercavo di muovermi lentamente, contrastando la fretta scalzante che
era nata
in me e che si cibava della mia esaltazione.
Il calore che si irradiava da
quel punto così bagnato del suo corpo mi stava scaldando
come mai era successo.
Quando sentii che i suoi
gemiti erano mutati da ansiti di piacere a flebili lamenti di dolore mi
immobilizzai. E in quel momento mi accorsi che il suo corpo aveva
reagito in
modo diverso da quanto mi fossi aspettato.
Era immobile, rigida.
I muscoli del suo ventre
erano contratti. Come prima era distesa per accogliermi, ora era
così
irrigidita che sembrava che il suo grembo mi stesse respingendo.
Sapevo che non dovevo nemmeno
pensarlo ma quella pressione era estremamente piacevole per me. Eppure,
significava che soffriva.
Gocce diamantine le segnavano
il viso. Il volto contratto in una smorfia sofferente.
< Bella? Bella? >
Le mie mani ansiose si
spostarono immediatamente sulle sue gote rosse.
Gli occhi spalancati
fissavano il soffitto.
< Non è nulla, Edward. Fa
solo un po’ male… ma non è niente.
>
< Ma cosa dici? > feci
per allontanarmi da lei, sciogliendo il legame con cui ci eravamo uniti.
Le sue mani si aggrapparono
alle mie spalle.
< No. Per favore. Resta.
>
< Ma ti sto facendo male.
> le rimarcai sconvolto. Le mie mani ansiose le carezzavano i
lineamenti
contratti.
< Adesso passa. Non
preoccuparti. > La sua voce era flebile.
Incerto su cosa fare, rimasi
fermo, adagiato sul suo corpo caldo e vibrante. La accarezzavo con
delicatezza
e dolcezza. All’orecchio le bisbigliai: <
Rilassati… tranquilla e serena…
>
ripetevo quelle parole come
una nenia, modulando la mia voce. Volevo essere rassicurante.
Attesi che il suo respiro
tornasse normale, che il suo volto si rilassasse.
< Fa ancora male? >
< No… è solo… strano. Un
po’ fastidioso… forse.
Ma è anche… bello… sentirti
così vicino. Però,per favore, resta fermo. Mi
devo… abituare. >
La sua voce era affaticata.
Sembrava stesse cercando di trattenersi dal gemere. Teneva i denti
serrati.
Obbediente, l’unico movimento
che mi concessi fu quello delle mie mani. Le facevo scorrere sul suo
corpo.
Sussurrai: < voglio che
sia perfetta, questa tua, nostra prima volta… non voglio che
tu soffra. >
A quelle mie parole notai i
suoi occhi inumidirsi.
Le mie labbra assaporavano la
sua pelle. Le sue anelavano aria.
Si incontrarono quando mi
spostai dal suo petto a lambirle il volto.
Dopo alcuni minuti, percepii
il suo corpo tornare a rilassarsi sotto alle mie dita.
Lentamente le sue membra si
distesero e sentii la presa dei suoi muscoli su quella parte
così recondita del
mio corpo attenuarsi.
Attesi ancora finché non fui
certo che la mia presenza dentro di lei non le creasse più
dolore, ripresi a
muovermi con lentezza e delicatezza.
Dovevo trattenermi. Non
potevo essere troppo impetuoso. Rischiavo di ferirla, di sbriciolarle
le ossa
con una presa troppo forte, con una carezza troppo potente.
Era tutta la notte che
cercavo di moderarmi. In ogni tocco
che le riservavo avrei voluto metterci il doppio, il triplo della
passione ma
non potevo…
La mia fronte era poggiata
sulla sua. Respiravo il suoi sospiri che io stesso interrompevo con i
miei
baci.
Quando i suoi gemiti e i suoi
ansiti si fecero sempre più forti capii che potevo osare di
più, muovermi con
più veemenza e passione, senza ovviamente esagerare.
La sentii inarcarsi sotto di
me. I suoi seni al contempo duri e morbidi sfregavano contro la mia
pelle
trasmettendomi sensazioni uniche.
Il cigolio del letto era un
suono così lieve che Reneé non lo avrebbe udito,
proprio come non avrebbe udito
i nostri ansiti.
Una minima, infinitesimale e
del tutto irrilevante parte della mia mente monitorava la situazione.
Reneé e
suo figlio dormivano. Bella aveva ragione. Da dove era lei non si udiva
alcun
rumore nonostante il silenzio della notte.
Ma nonostante questa
consapevolezza, Bella continuava a sforzarsi di non emettere suoni
troppo alti.
Io, dal canto mio, stavo
cercando di trattenere la mia veemenza e il mio ardore.
< Edward… Edw-ard… >
< Sì? >
< Ti amo. >
< Anche io. Ti amo,
Isabella. >
Per i seguenti minuti non
parlammo più, troppo intenti a ricercare l’uno il
piacere dell’altra.
Ad un certo punto la sentii
tendersi inarcandosi tra le mie braccia come non era mai successo
prima. Le sue
gambe, incrociate alle mie, strinsero la presa e lei, per smorzare i
suoi
gemiti di piacere, si morse di nuovo il labbro facendolo sanguinare,
riaprendo
la ferita che si era procurata.
Il suo respiro era totalmente
fuori controllo.
Ansimava in modo
indecorosamente sensuale.
Eccolo arrivato, l’acme del
piacere che io stesso le stavo procurando. Mi soddisfaceva anche il
solo
vederla così appagata, e sapere che ero stato io a donarle
quel sorriso pieno e
grato.
I movimenti del suo bacino
erano così coinvolgenti, incalzanti… che non
potevo fare a meno di seguirla.
Nonostante per tutta la notte avessi cercato di frenarmi, in quel
momento ogni
mia difesa crollò. Mi lasciai andare agli istinti
più umani che conservavo e
che Bella aveva risvegliato.
Sentii il mio corpo reagire
come non era mai successo. Una sensazione ineguagliabile mi pervase le
membra,
irradiandosi da lì dove ero congiunto con la donna che amavo.
Schiuse le labbra rosse. I
candidi denti serrati.
Feci il terribile errore di
baciarla. Volevo respirare il piacere che le sfuggiva dalla bocca sotto
forma
di ansiti. Sentii il suo sangue dolce sulla mia lingua.
Già totalmente annebbiato dal
suo profumo di donna, non riuscii a reagire con lucidità.
Quel contatto mandò
totalmente in confusione il mio cervello. Succhiai, avido, il suo
labbro
ferito. Sicuramente le avrei provocato una tumefazione.
Sentii il veleno
schizzare sotto la mia lingua
ed interruppi immediatamente il bacio. Deglutii quel dolce misto di
sangue e
veleno.
Lei non parve curarsene,
vinta dalle emozioni che, per la prima volta provava e che la
soprafacevano.
Senza volerlo, strinsi troppo
il suo polso. Me ne resi conto e lasciai immediatamente la presa.
Lei, che non si era accorta
di nulla, lasciò andare i miei capelli. Le braccia, ora
abbandonate sul
cuscino, erano spalancate come se mi invitassero…
Vidi sul suo viso la frenesia
e la smania fare spazio alla pace.
Attesi alcuni secondi, finchè
non aprì gli occhi.
Sorrideva. Era serena. I suoi
occhi lucidi erano emozionati.
< Grazie. > mimò con le
labbra.
Le disegnai con la punta
dell’indice un prego
sulla sua fronte
e lei rise.
Ed era così bella mentre gioiva.
Il suo corpo vibrava al ritmo delle sue risa.
Ancora allacciato a lei,
venni scosso dal medesimo tremore che lei stessa mi aveva trasmesso.
La sentii ansimare in
reazione ai miei movimenti. Ma era stanca. Sebbene desiderassi
continuare
all’infinito, sapevo che dovevo impormi di interrompere quel
contatto. Doveva
riposare…
Scivolai dolcemente fuori
dalle sue carni e mi sdraiai al suo fianco.
Entrambi, a quella nuova
condizione, reagimmo in modo negativo essendo venuto meno quel contatto
così
piacevolmente intimo.
Per ovviare al vuoto che
percepiva ora, si rannicchiò tra le mie braccia.
La sentivo inspirare il mio
odore. Io facevo lo stesso con il volto sui suoi capelli.
Teneva le gambe serrate e la
mano sinistra, con l’indice che portava l’anello,
stretta sull’inguine. Il viso
nascosto sotto al mio braccio.
< Ti fa male? >
Non rispose subito. Mi chiesi
a cosa fosse dovuto il suo temporeggiare.
< No. Non tanto. >
< Ma un po’ ti fa male
allora. >
Scostò il mio braccio e mi
rivolse uno sguardo peccaminoso. < Ne valeva la pena, sopportare
questo
piccolo dolore… adesso brucia solo un
po’… > e poi si sporse per baciarmi.
Andai a cercare la sua mano
sinistra e, dopo averla presa dolcemente, la strinsi. Il dorso della
mia mano
la sfiorava nel punto in cui provava bruciore. Poggiai la mia pelle per
alleviare, con il freddo del mio corpo, quel fastidio. < domani
andrò a
comprarti una crema. >
< non ti imbarazza? >
< Cosa? > le domandai
sorpreso.
< beh, forse preferisci
che vada io, in farmacia… sai, magari ti da fastidio dover
comprare quel genere
di cose… > farfugliò quelle parole nel
più completo imbarazzo.
< Bella… non mi importa
nulla! Voglio solo che tu stia bene… > e mi chinai a
baciarle il sorriso che
le era nato sulle labbra.
Fu un bacio lento, dolce,
puro e innocente.
Quando vi posi fine si
strinse nuovamente al mio corpo. Era così piccola…
< Edward… >
< Sì? >
< Ormai sarà mattina. >
< Lo è. >
< Non voglio che tu te ne
vada, ora. >
La rassicurai. < Non me
andrò. >
La sentii ridacchiare e le
domandai fingendomi irato: < Cosa vi trova di divertente in
quanto ho detto,
signora Cullen? >
Sentendosi apostrofare in
quel modo si zittì. Percepii l’odore del sangue
che era corso a irrorarle le
gote.
< Edward, se mia madre ti
trova qui, nudo nel mio letto… >
< Sì, forse hai ragione.
> asserii affranto. < Temo sia meglio che recuperi i miei
vestiti e torni
di sotto. >
Feci per allontanarmi ma lei
me lo impedì.
< Bella, amore… >
La guardai in faccia e notai
che sul suo volto era comparsa l’ombra della tristezza, della
solitudine e del
dolore che vi avevo scorto il giorno precedente.
< Ti prego, Edward, resta.
Ho paura. Resta, almeno finchè non mi sarò
addormentata… >
Baciandole la punta del naso,
la tranquillizzai: < Certo che resto. Finchè non ti
sarai addormentata… ma
prima… > senza che potesse rendersene
conto sciolsi la sua presa e mi misi in piedi. Recuperati i suoi
indumenti
glieli feci indossare. Fu un gioco innocentemente sensuale. Mentre le
infilavo
i vestiti la baciavo, la carezzavo.
La avvolsi nelle coperte e,
prima che potesse addormentarsi, le chiese: < Non avevi freddo,
prima? >
Scosse il capo. < No… tu
sei un po’ freddo, in effetti. Ma non era fastidioso. Anzi,
l’ho trovato…
eccitante. > ammise vergognosa.
Sorrisi e pensai che,
nonostante tutto, non avrei potuto mai essere più felice.
La cullai tra le mie
braccia finché non si fu
addormentata.
A differenza di quanto le
avevo promesso, me ne andai solo quando sentii il piccolo svegliarsi.
Di lì a
poco avrebbe svegliato Reneé.
Dopo
averle lasciato un bacio
sulla fronte e un biglietto sul comodino, raccolsi i miei abiti da
terra.
Inspiegabilmente intontito
dalle emozioni travolgenti che avevo vissuto, andai a sbattere contro
il comodino di
Bella, facendo cadere la sua
consunta copia di “Cime Tempestose”
Fortunatamente lei non si era
svegliata.
Raccogliendo il libro
sorrisi. Non era cambiata, dopotutto.
Quando lo sollevai da terra
mi accorsi che un foglietto rettangolare era scivolato sotto al letto.
Tastai il pavimento finché
non lo trovai. Quando ritrassi la mano lo girai, sentii il mio cuore
morto
animarsi di vita per un istante.
Era una foto. La foto che
aveva scattato con l’autoscatto il giorno prima che partissi
da Forks.
La foto in cui lei, a
tradimento, si sporgeva per baciarmi.
L’aveva sempre tenuta con sé,
per tutti quei mesi in cui credeva che l’avessi abbandonata.
Perché
Bella, proprio come
me, non aveva mai realmente smesso di credere nel nostro amore.
Pps: A volte (sempre) mi vergogno di
quello che ho scritto e
per questo procrastino il momento in cui posto. è infantile,
lo so, ma sappiate
che per tirar fuori il coraggio di questo capitolo ho dovuto iniettarmi
coraggio
in vena!
Ho sbagliato il titolo del capitolo
scorso. provvederò al più presto a correggerlo
con quello che avevo scelto (li ho confusi...)
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Capitolo 28 *** something will come to take away the pain ***
Dopo tanto tempo ho ritrovato il coraggio di postare.
Sinceramente, non so come sia venuto questo capitolo che ho scritto più di un anno fa e che ho tirato fuori da un vecchio computer… il mio caro vecchio Edward! Ormai non lo uso più perchè è prossimo all’ultima dipartita ma, prima di salutarlo e lasciarlo nelle amorevoli mani del netturbino, sto salvando tutti i vecchi files tra cui i miei poveri capitoli perduti.
Spero che questo sia venuto bene e spero che il mio stile non sia cambiato troppo nell’ultimo anno perché ho intenzione di riprendere a scrivere e non vorrei che si notasse troppo la differenza. Spero di essere migliorata, questo sì, ma spero anche che il tempo non abbia stravolto il mio modo di scrivere.
Un ringraziamento a tutte voi che mi avete seguito e che spero continuerete a seguirmi.
Scrivere, per me, fa bene alla salute!. Grazie a voi, farlo è un piacere.
Un ringraziamento speciale a Francesca, i cui scritti mi hanno ispirata ridandomi la voglia di scrivere. Ti auguro fortuna per l’università! Ma sapendo quanto sei brava, non credo tu ne abbia bisogno.
Grazie a tutte, davvero,
Erika
Capitolo 27
Something will come to take away the pain
Bella’s POV
Quando aprii gli occhi, quella mattina,mi parve di essermi risvegliata dopo un lungo sonno.
Dentro di me albergava una strana ed inspiegabile felicità. Non ero più abituata a quell’emozione.
Un bel sogno. Ecco cosa forse mi aveva scatenato quel buonumore mattutino…
Mi stiracchiai e provai dolore. Le giunture, i muscoli ma, soprattutto, il polso.
Non ricordai subito la causa di quei dolori. Non finchè non vidi le mie mutandine arrotolate per terra, vicino al letto. Mi accorsi di indossare i pantaloni del pigiama e sotto… niente.
Strano. Non ero abituata a dormire senza biancheria. Anche sotto alla maglietta non c’era nulla. Confusa, mi sporsi per raccogliere i due capi di biancheria. Fu a quel punto che vidi, al mio anulare sinistro, un piccolo ed elegante cerchio d’oro. Una miriade di diamanti luccicavano incastonati sul piccolo gioiello.
E la notte meravigliosa che era appena trascorsa mi tornò in mente, più vivida che mai.
Aveva dormito con me. Mi ero risvegliata dopo l’ennesimo incubo in cui Phil mi picchiava e mi faceva del male in tutte le maniere possibili. Mi ero svegliata e lo avevo ritrovato accanto a me. E le sue mani mi avevano guidata verso il più dolce dei piaceri.
Dopo quello che mi era successo, dopo quello che mi aveva fatto Phil pensavo che non avrei più potuto vivere con serenità il sesso. A riprova di quel mio pensiero le esperienze che avevo avuto con Jason. Dolorose… insopportabili…
Ma con Edward era stato tutto diverso. Era stato bello. Bellissimo.
Avevo provato dolore ma nulla rispetto a quello che avevo patito fra le mani di Phil. E a quel dolore iniziale si era sostituito un piacere incommensurabile che scaturiva dai punti che Edward stimolava con le sue dita fredde. Arrossii pensando ai punti in cui le sue labbra mi avevano baciata…
Le sue carezze gelide erano riuscite a guarire le ustioni invisibili che Phil aveva lasciato sul mio corpo.
Mi aveva baciata, mi aveva sfiorata, mi aveva accarezzata, mi aveva amata come non mi sarei mai aspettata.
Mi aveva chiesto di sposarlo.
E io avevo accettato.
Seduta a gambe incrociate sul letto non potevo smettere di osservare l’anello che aveva una forma vagamente familiare. Era così bello…
Sembrava brillare di luce propria, esattamente come Edward.
Oddio! Ci saremmo sposati.
Balzai giù dal letto e per poco non inciampai nei miei stessi piedi.
Ero euforica.
Dopo tutto il dolore, tutte le sofferenze, sembrava che la vita fosse tornata ad essere meravigliosa.
Scelsi con cura ogni indumento, dalla biancheria al maglioncino. Volevo essere perfetta. Li poggiai con attenzione sul letto e poi mi fiondai in bagno, gettandomi sotto la doccia.
Il getto caldo e avvolgente contrastava così tanto con la freschezza eccitante della pelle di Edward…
Quando uscii dal box-doccia mi avvolsi nell’asciugamano ma prima, passando davanti allo specchio, notai con orrore i lividi sul mio corpo. Macchie violacee decoravano la pelle delle mie braccia, della mia schiena, delle mie gambe. I segni più vistosi intorno al mio polso.
Sentii il respiro sfuggirmi dai denti. Stavo per avere un attacco di panico. Dovetti sedermi per terra e porre la testa tra le ginocchia. Ci misi alcuni minuti per calmarmi.
Mi costrinsi a pensare alla notte meravigliosa, al piacere che avevo provato quando le mani di Edward mi avevano toccato. Lui era stato così gentile, così dolce…
Era stato così amorevole, premuroso e affettuoso mentre facevamo l’amore…
Perché quella notte ero stata partecipe e non avevo subito le torture di un criminale ma condiviso l’amore del ragazzo di cui ero da sempre innamorata.
In certi momenti era stato difficile perché i ricordi mi impedivano di respirare ma, con molta fatica, ero riuscita a distinguere il passato dal presente, il dolore fine al piacere di un mostro dal dolore che avevo provato accogliendo Edward dentro di me.
Sentivo ancora bruciore all’inguine ma non era niente, niente in confronto a quanto avevo sofferto.
E i lividi… non erano il risultato di botte ma di strette troppo impetuose scaturite da un amore intenso.
Quando mi sentii pronta, tornai in camera.
Prima di infilare gli slip portai una mano all’inguine, lì dove un sordo pulsare e un leggero bruciore mi ricordavano la notte appena passata.
Ritrassi le dita e nessuna scia rossastra mi macchiava i polpastrelli. Sentii le lacrime formarsi agli angoli dei miei occhi.
Avevo perduto per sempre quell’esperienza che mi era stata rubata da Phil.
Era una cosa stupida, . Non mi importava della verginità in quanto tale… o di tutte quelle storie sulla purezza…
No. Era l’idea di aver vissuto quell’esperienza in quel modo, di aver subito il furto di quell’emozione che avrei voluto condividere per la prima volta con Edward.
Quello era il più grande dei rimpianti. Non era stata la mia prima volta, come pensava Edward.
Gli avevo mentito. Ma la verità era troppo dolorosa e orrenda per poter essere svelata.
Forse un giorno avrei trovato il coraggio…
Cercai di non pensarci mentre ripresi a vestirmi. Mentre mi stavo infilando il vestito cambiai idea. Decisi di mettermi il pigiama. Non volevo insospettire mia madre e pensai che il modo migliore fosse quello di mantenere le vecchie abitudini. Come ad esempio fare colazione non vestita come se stessi andando ad una prima di broadway.
Notai un biglietto piegato sul mio comodino.
Lo afferrai e vidi che era indirizzato alla “signora Cullen”
Lo aprii con di tremanti e lessi le poche parole vergate con la elegante calligrafia di Edward.
“Ti amo, ti ho sempre amata e ti amerò per sempre” Leggendo quelle parole mi sentii felice.
Non vedevo l’ora di baciarlo di nuovo.
Mi pettinai con attenzione e, a piedi scalzi, scesi in cucina.
Quando mi mancavano pochi gradini udii la voce di Edward. Parlava con mia madre.
< Ma Edward… non è necessario. Cucino io. >
< Reneé, permettimi di insistere. Non devi preoccuparti. Per me è un piacere rendermi utile. >
< Se proprio insisti… però davvero, non preoccuparti. Puoi scongelare qualcosa dal freezer… non è necessario che tu ci metta tutto questo impegno. >
Prese un profondo respiro e poi aggiunse: < Se lo fai per mia figlia, è inutile. Non sia quante volte ho cercato di ingraziarmela preparandole qualcosa di buono… e poi, ultimamente, è inappetente. Temo siano le medicine… >
Mi sentii in colpa. Mi rendevo conto di star facendo preoccupare mia madre. Eppure, quando c’era Phil, non ci riuscivo proprio a mangiare. Non era certo colpa dei farmaci che non assumevo più, nonostante le promesse fatte a Carlisle.
Con passo pesante mi diressi in cucina. Tutta l’euforia che avevo provato fino a pochi istanti prima era ormai svanita.
Trovai mia madre seduta a tavola, il piccolo Owen attaccato al suo seno.
Edward armeggiava ai fornelli. Si voltò e mi rivolse un sorriso tale da mozzarmi il fiato.
< Ben svegliata. Ti sto preparando il pranzo. >
< Pranzo? > domandai sbigottita. Cercai con gli occhi l’orologio ma Edward ripose alla mia domanda silenziosa. < Eri molto stanca. Sono le 13.40 circa. Non preoccuparti, fra poco sarà pronto. Magari hai voglia di vedere un po’ di televisione nel frattempo? >
< No, non preoccuparti. Preferisco restare qui. Vuoi una mano? >
< no, amo cucinare. >
Mia madre ci guardava sbigottita. Fino al giorno prima non rivolgevo neanche la parola ad Edward e ora ero così accondiscendente nei suoi confronti che sicuramente il mio comportamento le doveva sembrare assurdo.
Io, dal canto mio, tenevo la mano ornata dall’anello stretta in pugno e nascosta nella tasca del pigiama.
< Prego, accomodati. Comincio a servirti. >
< Edward, non dire cavolate… posso apparecchiare io. >
< No. Non transigo. Speravo ti alzassi un po’ più tardi lasciandomi il tempo di sistemare tutto. >
Sbuffai, fingendomi scocciata.
< Reneè, gradisci la cannella sullo strudel? >
< Oh, ma Edward, non devi preparare anche per me! >
< Reneé, insisto. >
E il tempo trascorse in quel modo. Con Edward che si occupava di ogni singolo particolare di quel branch e mia madre che non faceva altro che congratularsi della sua abilità in cucina. Continuava a ripetere che doveva aver appreso i segreti di Esme per poter cucinare così bene.
io rimasi in silenzio per tutta la durata del pasto. Appena mia madre non guardava, Edward mi rivolgeva degli sguardi che avrebbero potuto farmi prendere fuoco tanto erano intensi.
Un momento di imbarazzò calò quando Reneé si sporse verso di me e mi chiese: < Piccola, ma cos’hai fatto al labbro? È gonfio. >
< Me lo sono morsa… il labbro intendo… per sbaglio… > borbottai immergendomi nella torta.
Vidi Edward nascondere un sorriso dietro ad una tazza di latte.
Appena i piatti furono vuoti mi alzai per sparecchiare. Edward mi precedette impedendomi di muovere anche un solo dito.
< Ti va di uscire, questo pomeriggio? >
< Non saprei Edward… se tu ne hai voglia, possiamo andare da qualche parte. >
< Se tu ne hai voglia, ne ho voglia anche io. >
Mia madre, con gli occhi fuori dalle orbite, si alzò da tavola e si congedò da noi con un sorriso. Appena si fu allontanata abbastanza, Edward mi venne vicino, cingendomi la vita con le sue spalle.
Nella foga del momento mi ritrovai con la schiena premuta contro il frigo.
Le sue mani si infilarono sotto la mia maglietta.
< Puoi anche togliere la mano dalla tasca, adesso. > ansimò al mio orecchio.
Obbedii e, con quella stessa mano, mi aggrappai ai suoi capelli. L’altro mio braccio era saldo intorno al suo collo.
Sentii crescere nuovamente in me la frenesia dell’amore.
Mi afferrò per la vita, sollevandomi, e io serrai le gambe intorno al suo bacino.
Non so come, in quel turbinio di capelli rossi e castani, mi ritrovai seduta sul ripiano della cucina.
In quella stessa cucina dove Phil mi aveva picchiata ora Edward mi stava accarezzando, toccando, facendo impazzire cancellando i miei terribili ricordi.
Ansimavo tra le sue braccia.
< Bella, amore, se non vuoi che tua madre ci senta, sarà meglio smettere. >
< Ma io non voglio smettere! >
< Ma non vuoi che tua madre ci senta… a meno che tu non te la senta di dirle le belle novità. >
< Mhm… no, aspettiamo. Sai, mia madre si è sposata giovane con Charlie. Mi ha sempre messo in guardia dai matrimoni, soprattutto da quelli precoci. >
Oddio, che stranezza… mi sembrava di aver già fatto quel discorso. Ormai ero stufa di tutti quei dejavu.
< Beh, se non sei sicura, puoi tirarti indietro in qualsiasi momento. > la sua voce era pacata e rassicurante ma vi rintracciai una malinconia tale da costringermi ad alzare lo sguardo e a fissarlo negli occhi. Ci fissammo a lungo, con intensità.
< No, non vorrò mai nessun altro all’infuori di te. E voglio sposarti. Di questo sono sicura. >
< Ti va di andare da qualche parte, allora? >
Osai. < In camera mia? >
Le sue labbra si appoggiarono alle mie togliendomi il fiato, rubandomelo.
< Beh… magari invece di far capire a tua madre cosa succede nella stanza della sua bambina, potrei prenotare un albergo sulla costa, che ne dici? Un week-end romantico? Un piccolo assaggio della luna di miele… >
Felicemente sconvolta da quella sua proposta domandai sottovoce: < E a Reneé, cosa diremo? >
< Ci inventeremo qualcosa. >
Quel discorso era avvenuto nei momenti in cui riprendevamo fiato. Ci stavamo baciando con così tanto amore che la mia testa non riusciva a registrare altro se non le sue mani sulla pelle nuda della mia schiena.
Scese a baciarmi la pancia e io affondai la mano nei suoi capelli.
< Immagina… io e te, soli. Non dovrai morderti a sangue il labbro, non dovrai trattenerti… avremmo un paio di giorni solo per noi. Nessuno che ci venga a disturbare… >
Mentre parlava e mi massaggiava la schiena con le sue dita fredde, mentre mi prendeva l’ombelico con delicatezza tra i denti, le sue parole formarono nella mia mente immagini troppo belle per ignorarle.
< Sì… se riusciamo a convincere Reneé. Andiamo… > gli dissi un po’ incoerentemente.
Rimanemmo in cucina ancora alcuni minuti poi, quando ormai avevo il fiatone, mi fece scendere dal ripiano.
Scoccandomi un bacio veloce sulle labbra, mi suggerì di andare a far compagnia a mia madre mentre lui sparecchiava e lavava i piatti.
Mi chiesi come avrei potuto mai andare di là con lo sguardo innocente quando dentro di me infuriavano tutte quelle emozioni, quando il mio cervello rispondeva solo agli ormoni… Ma sapevo che aveva ragione Edward.
Decisi di fare come mi diceva e raggiunsi Reneé in salotto.
Il piccolo dormiva beato nella sua culla e mia madre lo fissava adorante.
< Mamma. > la salutai sedendomi sul divano accanto a lei. La mano sinistra era tornata a nascondersi nella tasca.
< Tesoro, volevo parlarti. >
Oh, no… non avevo voglia di una ramanzina, non in quel giorno così perfetto.
< Dimmi. >
< Senti, lo so che non devo intromettermi nella tua vita sentimentale ma… >
< Ma? >
< Ma sei sicura di quello che stai facendo? >
Feci la finta tonta: < Non capisco, cosa intendi? Non sto facendo nulla! >
< Intendo dire con Edward… cosa vuoi fare? Lasciarti prendere dal momento per poi macerarti nel dolore quando lui partirà di nuovo? >
< Ma mamma… non è come pensi! Io ed Edward… > sentivo il mio viso avvampare.
< Noi non… >
Mi carezzò la guancia. < Tesoro, io voglio solo il tuo bene. Ma lui? Ti ha abbandonato… >
< No. È stata solo un’incomprensione. > tentai di giustificare Edward.
Lui mi aveva detto che non poteva dirmi la verità ma che dovevo fidarmi di lui. Se me lo avesse detto chiunque altro non gli avrei dato retta ma, alle parole di Edward, credevo. E avevo deciso di fidarmi.
< Un’altra? > mi disse Reneé alzandosi in piedi e coprendo Owen con una trapuntina.
Era primavera ma faceva ancora abbastanza freddo. Non capii a cosa si riferisse.
< Mamma… a proposito di Edward… >
< Sì? >
< volevo chiederti una cosa… > il silenzio che seguì fu per me imbarazzante. Lei mi venne in aiuto.
< A me puoi dire tutto, non vergognarti. > ma mentre parlava notai un velo di isteria nella sua voce nonché un’ombra di angoscia attraversarle il volto. Chissà cosa pensava!
< Ehm… se per te va bene, noi vorremmo andare un paio di giorni da qualche parte. A fare un giro… >
Sentivo l’anello bruciare intorno al mio dito. Era sempre stato così pesante?
Si voltò e mi sorrise. Poi si sedette accanto a me e mi cinse in un abbraccio materno.
< Non c’è proprio modo di tenervi lontani, eh? >
Arrossii violentemente. < Mamma, mi ama. > le confidai a bassa voce.
Mi prese il volto tra le sue mani calde. < E tu? Tu, bambina mia? Lo ami? >
< Sì. Tanto, tantissimo. >
Mi venne così naturale contraccambiare l’abbraccio. Mi accorsi troppo tardi di aver tirato fuori la mano sinistra.
Reneé osservava l’anello con occhi spalancati.
Mi affrettai a giustificare quel gioiello sul mio dito.
< Ti piace? Me lo ha regalato Edward! > cercai di dire mostrandomi naturale.
Lei fece un sorriso forzato e poi mi carezzò i capelli.
< Parti con lui per Syracuse? >
< No… mamma, certo che no! Resterò a casa ancora per un po’. > visto che avevo scoperto, checché ne dicesse Edward, di saper mentire, continuai: < Vedremo come si evolve la nostra relazione… è tutto molto complicato. Edward ha un po’ di impegni… però ci terrei molto a partire per una piccola vacanza. > Era una mezza verità. “Metà è sempre meglio di niente” pensai cercando di giustificare quella mia ennesima bugia.
In quel momento Edward fece il suo ingresso in sala. Mia madre lo squadrò da capo a piedi. Lui salutò e finse di essere molto impegnato con il suo cellulare.
< Mamma… Allora? Possiamo fare il week-end fuori? Ti prego!!! > cercai di sussurrarle all’orecchio.
Lei tornò a guardarmi e qualcosa nel mio sguardo la convinse a dirmi di sì.
< Va bene… se ci tieni così tanto. >
Le saltai al collo baciandole la guancia.
< Quindi possiamo partire? > domandò Edward con voce candida.
Stava ascoltando…
Reneé annuii lentamente ed Edward disse: < Bella, che ne dici di andare a vestirti? Se ti va, posso prenotare ora e potremmo partire già questo pomeriggio. >
< Oh, sì! Assolutamente. Vado a preparare una valigia. >
E schizzai fuori dalla stanza.
Dalle scale però sentii mia madre dire:
< Edward! Ma cosa significa? E tutto quello che avevi detto? Tutto il tuo, il suo dolore? Avevi detto che… >
< Reneé, so che il mio comportamento potrà sembrarti assurdo ma… noi ci amiamo e non possiamo reprimere questo sentimento. Entrambi ci abbiamo provato ma ciò ha fatto male ad entrambi. Comunque, ti assicuro, io voglio solo la sua felicità. Mi sembra di averne dato ampiamente prova. Eppure, stando qui, sola, non mi è sembrata stare meglio. >
Il tono di mia madre si addolcì. < No, hai ragione. È da prima dell’incidente che non la vedo così felice… >
Ci fu un attimo di silenzio e poi mia madre aggiunse: < E l’anello di tua madre? Quello cosa centra? > il suo tono era d’accusa.
< Reneé, quell’anello appartiene a Bella. È giusto che lo abbia lei. Qualunque cosa accada. Ora devo andare. Devo telefonare in albergo per prenotare. Ho visto su una rivista un bel posto… credo che a Bella piacerà. >
< Sì, sicuramente lei ti ama. >
< Perché? >
< Ti permette di chiamarla “Bella”. Non lo permette a nessun altro. Credo che per lei fosse… doloroso. >
A quel punto smisi di ascoltare e salii velocemente le scale, cancellandomi le lacrime che erano scivolate dai miei occhi arrossati. Non volevo sapere quanto mia madre avesse intuito delle mie sofferenze. Di sicuro non ne conosceva la causa primaria.
Mentre ero in camera mia, qualcuno bussò.
< Avanti. > dissi prima di affondare di nuovo nell’armadio, alla ricerca di vestiti.
< Bella… ho prenotato. Un posto a circa un’ora da qui. È un bungalow nel Pumpkin hill creek preserve park. È una riserva naturale. Un posto un po’ appartato, solo per noi due.
Si vede l’oceano… il sorgere del sole… è un peccato che adesso piova. >
Si era immerso nel mio armadio per parlarmi. Un mio golfino gli era finito in testa.
< Non preoccuparti. Ci torneremo quando sarà bella stagione. > lo rassicurai prima di sporgermi per dargli un bacio. Mi sembrò triste e temetti di aver toccato un tasto dolente.
Gli presi la mano e lo guidai sul letto. Lo spinsi con delicatezza sul materasso e mi sedetti sulle sue ginocchia.
< Ho detto qualcosa di male? >
Mi sfiorò i capelli con la più leggera delle carezze. < No, Bella… no. Solo, non so quando potrò vederti di nuovo. È pericoloso e difficile. Per adesso, voglio solo godere di ogni istante che posso trascorrere con te. >
< L’importante è che tu sia al sicuro. Posso sopportare la tua lontananza, ora che so che mi ami. Preferisco saperti lontano ma non in pericolo che… > ma non mi permise di terminare.
Mi baciò con veemenza, quasi violento. Sembrava mosso dalla frustrazione.
< Bella, per l’amor di Dio! È alla tua sicurezza ciò a cui devi pensare! >
Le sue mani mi toccavano ma non come la sera precedente. No… sembrava che si stesse accertando che io fossi ancora lì, con lui.
Aveva paura.
Lo strinsi a me, facendogli poggiare il capo sul mio seno.
Carezzandogli i capelli, gli sussurrai: < ti amo. >
Rimase alcuni minuti immobile. Alla fine osai chiedergli: < A cosa pensi? >
La sua voce, stranamente sommessa, mi stupì. < Ascolto il tuo cuore battere e penso a te. >
Ps: qualcuna di voi ha letto fifty shades of Grey/Darker/Freed?
Nel caso, mi piacerebbe sentire i vostri pareri. Nessuna che conosco lo ha letto ed è un libro che, dopo averlo letto, ti fa venire il bisogno di parlarne!!! E mi ha fatto tornane la voglia di scrivere!
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