I should tell you

di ElleX26
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Here we come, here we go ***
Capitolo 2: *** Of Lord Tubbingtons, Dolphins and birdies ***
Capitolo 3: *** When blue skies fade to grey pt.1 ***
Capitolo 4: *** When blue skies fade to grey pt.2 ***
Capitolo 5: *** Take me to the finish line ***
Capitolo 6: *** It's always darkest before the dawn ***
Capitolo 7: *** I'm paralyzed, without you ***
Capitolo 8: *** Furt ***



Capitolo 1
*** Here we come, here we go ***


I SHOULD TELL YOU

SPAZIO DI ELLE:

Buonasera a tutti! Anzi, vista l’ora, buonanotte! =)

Visto che è la prima volta che mi cimento nella scrittura, mi presento: mi chiamo Elle e ho vent’anni. Forse, alcune di voi mi conosceranno come la pazza che sta traducendo quella meraviglia di The Kitten and Coyote; altri, probabilmente, si staranno chiedendo perché esistano idioti come me in circolazione (per i secondi: non vi preoccupate, avete la mia solidarietà!).

Detto questo, presento un po’ la storia. Innanzitutto, come ho scritto prima, è la prima volta che mi cimento nella scrittura di una FF e ho anche il coraggio di pubblicarla, quindi dire che sono estremamente agitata, è dire poco. Ho scritto questo primo capitolo in super velocità, trascinata dall’onda dell’ispirazione, che ho voluto cavalcare finché durava. Sinceramente non so come possa risultare, spero sia quantomeno leggibile. Proprio per le mie incertezze, vi confesso che sarei contentissima di ricevere da voi qualche feedback. Positivo o negativo non importa, solo avere un’idea se mi sono bevuta il cervello e mi devo fare internare o se a qualcuno può piacere questo mio vano tentativo di scrittura. Let me know!

Detto questo, trovate la descrizione della trama qua sotto, quindi per avere un’idea su questa mia Kurtbastian basta che leggiate un po’ più in giù!

Ho un’ultima comunicazione di servizio da fare per chi legge The Kitten and Coyote. NON SONO MORTA! Anzi, sto già lavorando al tredicesimo capitolo. Gli altri li ho passati alla mia Beta, che purtroppo però, ha avuto dei problemi, quindi tarderanno un po’ ad arrivare, ma giuro che ci sono ancora, quindi non disperate e soprattutto, non abbandonatemi.

Concludendo questa nota lunghissima, ringrazio chi deciderà di dare almeno una chance a questa mia follia creativa.

Buona lettura.

Love, - Elle.

 

 

I should tell you

 

Kurt e Sebastian si rincontrano. Situazioni, luoghi, persone diverse. Anche loro sono un po’ differenti, pur essendo rimasti sempre uguali. Sebastian è ancora l’arrogante ragazzino pieno di sé che odora di sesso. Kurt sta ancora con Blaine, anche se il loro rapporto è ormai danneggiato, probabilmente in maniera definitiva.

Rachel è troppo piena di sé. Santana è sempre uguale, stronza e caliente. Anche Brittany è sempre lei: un gran cuore e una mente persa tra unicorni e delfini. Finn è lontano, parecchi fusi orari più in là. Burt è il solito padre affettuoso, anche se ormai è diventato un senatore molto impegnato. L’era del Glee Club sembra lontana anni luce per chi ormai è completamente proiettato verso una nuova avventura. New York è la cornice perfetta per lasciarsi il passato alle spalle.

 

 

 

Capitolo primo:

“Here we come, here we go”

 

[…]

 

Era come essere squarciati a metà, ma contemporaneamente sentirsi finalmente interi, completi.  A Kurt sembrava che il dolore percorresse ogni sua vena, si irradiasse per ogni suo nervo cercando di raggiungere ogni singola fibra del suo corpo. Allo stesso tempo la sensazione di estasi, quella felicità eterea che aveva formato una bolla intorno a lui, lo avvolgeva, lo proteggeva, lo fortificava. Pian piano, quella bolla di perfezione si dissolse, lasciando nell’aria un’impercettibile senso di voluttà, che riequilibrava il dolore fisico provato dal controtenore. Il suo corpo si stava abituando alla tensione, lasciando spazio ad un piacere che cresceva silenzioso, che aumentava ad ogni battito del cuore. Ogni percezione fisica era amplificata; condividere così tanto con una persona, mentalmente e fisicamente, aprì il suo cuore e il suo corpo a nuove emozioni e sensazioni. Potevano essere passati secondi o ore quando l’impatto di ciò che stava succedendo raggiunse finalmente Kurt, che come risvegliandosi da un lungo sonno, aprì di scatto gli occhi, finalmente cosciente appieno di tutto quello che stava provando. Visibilmente più rilassato, sbatté ripetutamente le sue lunghe ciglia, attraverso le quali riusciva a vedere il volto dell’altro ragazzo. Un volto familiare, ma allo stesso tempo così nuovo per lui. Un volto che gli aveva fornito sia i suoi incubi peggiori che i suoi sogni migliori. Il viso di chi, a dispetto del loro passato, aveva imparato ad apprezzare.

 

Sebastian era abituato al sesso. Spesso aveva ricevuto e donato piacere. Spesso aveva trovato amanti terribilmente esperti e capaci. Spesso avevano complimentato le sue qualità tra le lenzuola. Spesso era passato da un letto ad un altro, o anche da un sedile posteriore di un’auto all’altro, o da un bagno dello Scandal a uno della Dalton; tutto pur di trovare un po’ di sollievo e piacere, completamente, puramente fisico. Spesso il suo corpo era abituato al contatto intimo e profondo con un altro corpo. Tuttavia, ciò che gli era sempre mancato, era stato il contatto con un’altra persona. Il contatto intimo e profondo non solo di due corpi, ma di due anime, due menti, due cuori. Non era la sua prima volta, tecnicamente, ma nel momento in cui si trovò dentro il corpo caldo, sexy e allo stesso tempo dolce di Kurt, realizzò che invece sì – quella era la sua prima volta. Ancora meglio: era la loro prima volta. Insieme.  Non aveva mai dato peso ai sentimenti, credendo fossero per persone deboli e ingenue. Le relazioni l’avevano sempre infastidito, forse anche disgustato a volte. Il dover parlare di emozioni, condividerle, spendere il proprio tempo a conoscersi, tenersi per mano in pubblico, avere sempre una spalla su cui piangere; semplicemente aveva pensato fossero cose che non facevano per lui  – Oh, se si sbagliava.

 

[…]

 

 

Era stato un battito di ciglia, quello di un cuore, di un paio di ali. Un momento, mesi prima, che aveva cambiato tutto.

 

 

 

New York, lunedì 22 ottobre  

 

Rosso, arancione e giallo. Colori caldi, antitesi di quella brezza sempre più pungente che apriva le porte ai mesi più freddi. Central Park è ricoperta di foglie; alcune sono già a terra, sono le foglie secche, quelle più vecchie. Altre sono ancora vive, appese a rami scarni, alla mercé di un vento che le farà inevitabilmente morire. Times Square è già in movimento, pronta a surriscaldarsi per le ore più trafficate. Taxi gialli sfrecciano da quartiere a quartiere: da Brooklyn all’Upper East Side, dal Queens a Staten Island. Le vie iniziano a fermentare; tra poche ore affollate di visi senza identità, corpi uniti che corrono insieme, come gocce di una stessa onda. I primi lavoratori si affrettano nella metropolitana. Le ultime anime della notte si affannano per tornare verso il loro nido. È così che si risveglia New York.

New York. La Grande Mela. Cosmopolita, culturale, stimolante, eccitante, accogliente, ma anche pericolosa, spaventosa. Una sfida.

L’esatto opposto di ciò che è – o forse era, almeno per alcuni –  Lima.

Lima, Ohio. Cittadina minuscola, bigotta, rurale, noiosa, limitata ed ignorante. Una porta chiusa.

Si, perché Kurt ce l’ha fatta a lasciare la sua città natale.

Ha lottato con le unghie e con i denti, ha affrontato l’inferno a testa alta. Ha camminato con sicurezza anche quando aveva il viso rigato di lacrime e il corpo ricoperto di lividi. Si è fatto strada tra l’ignoranza, gli abusi, gli ostacoli che la vita gli ha posto, cercando la sua via d’uscita.

E l’ha trovata.

Kurt Hummel è ufficialmente un New Yorkese.

 

 

 

 

Beep. Beep. Beep.

“Buongiorno, New York. Sono le sette e trenta di questo lunedì 22 ottobre. Inizia una nuova settimana e mentre il tempo scorre e ci avviciniamo sempre più ai mesi più freddi, ci dobbiamo ricordare che tra soli nove giorni si celebra la festa più terrificante e spaventosa dell’anno. Preparatevi a zucche, zombie e fantasmi, ma soprattutto tirate fuori i costumi! È ora di bussare di porta in porta per i più piccoli e di organizzare party sfrenati per chi è più cresciuto. Personalmente, io, Anne Johnson, la vostra DJ preferita – o almeno credo – ho già deciso come mascherarmi. Prenderò spunto dai favolosi look della nuova Regina del Pop. È la stravaganza fatta a persona e sa sfoggiare gli accessori più eccentrici, dettando le mode e a volte spaventando i fans. È per questo che mi ispirerò a Lady e mi circonderò di bollicine – ma non di alcool. Credo che ormai abbiate capito tutti di chi parlo, ma per chi ancora non ha colto i miei indizi, ecco a voi uno dei suoi pezzi più famosi. È un inno, un messaggio universale. Buona sveglia, cari New Yorkesi.

 

It doesn't matter if you love him

or capital H-I-M
Just put your paws up

'cause you were born this way, baby

 

My mama told me when I was young

we are all born superstars

She rolled my hair

and put my lipstick on

in the glass of her boudoir…

 

 

Gnnnn…non ora!”

 

“Hummel, fa tacere quel travestito per cui hai una fissazione Freudiana o giuro che ti brucio l’ultimo Armani che hai comprato!” – una voce ancora rauca arrivò direttamente dall’altra parte del corridoio.

 

“Vaffanculo, Santana! Comunque è inutile che ti lamenti, tanto lo so che devi alzarti presto anche te stamattina!”

 

 

Kurt si rigirò tra le coperte e allungò il braccio verso il comodino per spegnere la sua radio sveglia. Per quanto adorasse Lady Gaga e Born This Way fosse un po’ la sua canzone, a quest’ora della mattina non aveva lo stomaco per affrontare la Latina in puro stile Lima Heights con indosso un baby doll leopardato. Si, era già successo; si era già svegliato con una simile visione e non voleva assolutamente ripetere l’esperienza. Sarebbe stato il sogno erotico di ogni maschio etero della sua età, ma per Kurt, era solo materiale da catalogare come immagini da usare per “sbollire” in caso di necessità.

 

La luce filtrava soffusa e fioca tra le fessure delle persiane color panna. Kurt richiuse gli occhi, facendosi cullare nel suo dormiveglia dal rumore metropolitano della città che si risvegliava.

 

Aveva avuto una nottataccia. Aveva dormito si e no due o tre ore, un sonno disturbato e poco riposante.

 

Probabilmente era stata colpa delle tre tazze di caffè della sera prima, prese per restare sveglio per finire in tempo gli ultimi bozzetti.

Forse era l’ansia per la giornata che lo aspettava, un’avventura eccitante e paralizzante allo stesso tempo poteva prendere piede quel giorno.

Forse erano i continui pensieri, le preoccupazioni, i ricordi che continuavano a frullargli in testa, non lasciandolo riposare bene ormai da tempo.

 

Forse, erano tutte e tre sommate. Il risultato comunque non cambiava: Kurt era terribilmente stanco, frustrato, con i capelli sfatti e la testa pesante.

 

Sbuffò e lanciò via le coperte, facendole cadere a terra per poi scendere dal letto. Si avvicinò alla finestra della sua camera, spalancando le persiane e in seguito i vetri. Luce e aria fresca, quasi fredda, inondarono la stanza, aiutando Kurt a svegliarsi del tutto.

 

Osservando dal suo terzo piano la strada sotto di lui, sospirò. A volte ancora non credeva di avercela fatta. Di essere fuggito dall’Ohio ed essere finalmente a New York. Doveva farsi pizzicare o farsi versare dell’acqua gelida in testa – compiti che Satana aveva eseguito con estrema delizia durante i primi giorni di convivenza.

 

Non tutto era andato come aveva programmato.

 

All’inizio del suo ultimo anno di liceo, aveva steso minuziosamente, punto per punto, i suoi piani per la Grande Mela. Neanche la metà di quelli combaciavano con la realtà che stava vivendo.

 

Per iniziare, dopo aver dominato il palcoscenico in pantaloni oro luccicanti che non lasciavano nulla alla fantasia e aver ricevuto l’approvazione di Carmen Tibideaux, non era stato ammesso alla NYADA.

 

Quando aveva letto la lettera della famosa università, il suo mondo gli era crollato addosso.

 

Tutto quello per cui aveva lottato, il percorso che si era costruito passo dopo passo, conquista dopo conquista, era crollato come un castello di carte dopo una ventata d’aria. I primi giorni erano stati scioccanti. La sua lettera era arrivata insieme a quella del suo fratellastro e della sua migliore amica. Il destino per loro aveva intrapreso strade diverse, così Rachel e Finn avevano rotto il fidanzamento. La prima era partita da sola per New York, pronta a spianarsi la strada per il primo Tony. Il secondo aveva deciso di arruolarsi nell’esercito, e qualche giorno dopo la partenza dell’ormai ex fidanzata, era partito per la Georgia, per un campo di addestramento.

Kurt si era ritrovato così completamente solo, l’unica spalla su cui piangere rimastagli era quella del fidanzato.

 

Blaine.

 

Il dolce, elegante, bellissimo Blaine. Il suo Usignolo preferito che, quando aveva deciso di trasferirsi per l’ultimo anno al McKinley, non aveva fatto i conti con la differenza nei curriculum delle due scuole, perdendo così un anno. Il Blaine che doveva rimanere ancora a Lima. Lo stesso Blaine che era cambiato, diventando quasi irriconoscibile agli occhi del suo Kurt. Blaine, che per tanti motivi, era sempre più distante, sempre più freddo.

 

Ed ecco la seconda grande differenza tra i suoi piani e la realtà.

 

Non solo aveva dovuto rinunciare alla scuola dei suoi sogni, ma anche all’appoggio del fidanzato e della migliore amica, riducendosi a condividere un appartamento con Santana – Satana – Lopez.

Niente più loft per tre nel Lower East Side, niente più colazione da Tiffany, niente più Gershwin Theater né maratone di musical; niente più Elphaba o Glinda, niente più Katy Perry né Barbra Streisand.

 

 

Kurt scosse la testa, liberandosi dai suoi pensieri. Adesso basta, Hummel, hai una giornata impegnativa e importantissima a cui pensare. Basta rimorsi, ricordi e rimpianti.

 

Con una nuova determinazione, Kurt si riscosse dalle sue preoccupazioni, abbandonò la sua posizione alla finestra e andò a piazzarsi di fronte al suo armadio, preparando l’outfit perfetto per la giornata che lo aspettava. Il suo armadio era di un legno scuro, un wengè color cioccolato, perfettamente liscio; era molto più grande di quello che le misure della sua stanza permettessero, ma se c’era una cosa che per Kurt Hummel era fondamentale, erano i suoi vestiti. E quando Kurt teneva a qualcosa, lottava fino alla fine per ottenerla. Anche se si trattava di urlare qualsiasi tipo di insulto con un tono più alto di tre ottave rispetto al solito, affinché gli operai che si occupavano del trasloco, capissero l’importanza di incastrare nei pochi metri quadri a sua disposizione una bestia del genere.

 

Passò tutti i suoi abiti firmati, scegliendo quelli adatti alla giornata. Andò sul semplice, sobrio ed elegante. Immancabili skinny jeans neri, stretti da togliere il fiato; una camicia bianca di Dolce e Gabbana, con i bottoni in madre perla; un gilet gessato sopra e per finire i suoi Doc Martens bianco lucido. Al collo un morbido foulard di seta grigia e sopra, vista l’aria autunnale, un trench grigio antracite. Perfetto.

 

Si spostò in bagno. Doccia veloce, ma accurata, usando tutti i prodotti specifici che ormai comprava dai tempi del liceo. Bagnoschiuma, shampoo e balsamo tra i più costosi in commercio – ma la perfezione non ha prezzo.

 

Finita la doccia, si fermò davanti allo specchio per il suo rituale di idratazione mattutino. Sicuramente non voleva avere le rughe alle soglie dei suoi trent’anni.

 

Stupendo anche se stesso con la totale elasticità e morbidezza della pelle del suo viso, sorrise alla sua immagine riflessa. Prese un pettine, una spazzola, phon e lacca – molta lacca -  e iniziò a sistemarsi i capelli, con particolare attenzione al ciuffo davanti.

 

Soddisfatto del risultato, finalmente uscì dal bagno, solo per scontrarsi con un’arruffata e ben poco calma Santana.

 

“Quando hai finito di pettinare la cresta ai mini pony che defechi la mattina, vorrei usare anche io il bagno, Hummel.” Incrociò le braccia al petto e seppur struccata, coi capelli ancora spettinati dal cuscino, in culotte e canotta, riusciva ancora ad incutere timore.

 

“Serviti pure, Satana. E non ti preoccupare, oggi i mini pony avevano tutti un pelo perfetto!”

 

Santana sbuffò, lo spinse via ed entrando in bagno, chiuse a chiave la porta dietro di sé.

 

Kurt tornò in camera, si vestì e controllando l’ora – perfettamente puntuale – raccolse la sua tracolla in pelle, preparata la sera prima, gli occhiali da sole Chanel retrò – perché non si sa mai – e i fatidici bozzetti per cui aveva lavorato tanto.

 

Uscì, inchiavò il portone e scese le scale del palazzo in cui vivevano con rinnovato vigore. Aveva ritrovato un’energia positiva, che poteva solo che migliorare in seguito alla sua abituale sosta allo Starbucks dietro l’angolo.

 

All’esterno, l’aria frizzante di ottobre lo sferzò in pieno viso, costringendolo ad avvolgersi meglio la sciarpa intorno al collo. Iniziò a camminare, osservandosi intorno.

 

Non voleva essere uno dei tanti New Yorkesi che camminavano decisi, sguardo davanti a sé, senza vedere in realtà dove andavano. Una delle tante facce che si affannavano in giro per la città, espressione decisa, ma vuota. Se c’era una cosa che aveva imparato su New York, era che la città non cessava mai di stupirlo. Anche dopo un mese, lo stesso quartiere, la stessa strada, nascondevano ancora minuscoli dettagli da scoprire. Ogni giorno, solo guardandosi intorno nel suo solito tragitto da casa a Starbucks, trovava qualcosa di nuovo, un’emozione, una sensazione, uno scorcio, un vicoletto, una bancarella.

 

Dopo pochi minuti di cammino, Kurt girò l’angolo e spinse la porta in vetro del suo solito bar. Entrò sorridendo alla barista. Ormai lui e Cassie si vedevano ogni mattina. Lei conosceva il suo ordine e i suoi orari, e sapendo che spesso andava di fretta, gli faceva trovare pronto il suo Mocha. A volte, indugiava sull’alimentazione sana che si imponeva dai tempi della pubertà, e si concedeva anche un muffin al cioccolato.

 

“Ciao, Cassie! Sei sempre più bella!”

 

Cassie arrossì furiosamente. “Peccato che i migliori siano gay.”

 

Prese da dietro il bancone l’ordinazione già pronta di Kurt e gli porse la tazza fumante di caffè.

 

“Sono 3 dollari e 75 cent, Kurt.”

 

“Ecco qua. E tieni pure il resto.”

 

“È stamattina la grande giornata?”

 

“Si. Te ne ricordi?”

 

“Come non potrei?” lo prese in giro Cassie – “Hai bevuto caffeina per un anno ieri pur di restare sveglio!”

 

“Vero. Grazie mille, tesoro. Scappo, altrimenti faccio tardi. Ci vediamo domani.” Fece finta di soffiarle un bacio, afferrò la tazza e si voltò verso l’uscita. Proprio in quel momento sentì la porta aprirsi, ma non fece in tempo a vedere chi entrasse perché il suo cellulare iniziò a squillare.

 

“Merda, merda, merda!”

 

Dovendo tenere in equilibrio bozzetti e caffè, mentre cercava nella borsa il telefono, Kurt tenne gli occhi incollati al pavimento. Continuò a camminare verso l’uscita senza alzare mai lo sguardo, fino a che non si scontrò con qualcuno, rovesciandogli l’intera tazza di caffè addosso.

 

“Oh mio Dio! Mi scusi, non l’avevo vista!”

 

L’uomo – o forse era meglio definirlo ragazzo -  nel frattempo controllava il danno alla sua camicia, che in apparenza sembrava molto costosa.

 

“Potrebbe anche guardare dove va!”

 

Kurt si immobilizzò, sgranando gli occhi. Gli sembrava di riconoscere la voce di quello sconosciuto. Alzò finalmente lo sguardo, incontrando due occhi verde smeraldo colmi di malizia e un sorrisetto sbieco.

 

“Sebastian?”

 

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Capitolo 2
*** Of Lord Tubbingtons, Dolphins and birdies ***


I SHOULD TELL YOU_2
Buongiorno a tutti! ^-^
 
Ed eccomi di nuovo qua, pronta a zuccherarvi (o farvi sanguinare?) le orecchie – anzi, gli occhi. XD
 
Prima di tutto volevo ringraziare infinitamente tutti coloro che hanno dato una chance a questa mia prima storia, leggendone il primo capitolo. Voglio ringraziare soprattutto chi l’ha aggiunta ai preferiti/seguiti/ricordati e ancor di più chi ha recensito, lasciandomi un suo parere. Mando quindi un mega abbraccio virtuale a Tallutina, Aurinella, Athena14 e Itagnola; grazie mille ragazze! =)
 
Questo capitolo è ben più lungo del primo, quasi il doppio (non so quale sarà la lunghezza standard dei prossimi), e Kurt, pur essendo il “protagonista” della FF, appare solo in maniera limitata. Avevo bisogno di inserire qualcun altro, per spiegare un po’ la cornice narrativa della storia. Non disperate comunque, il prossimo capitolo sarà dedicato interamente alla nostra dolce, dolce Porcellana. ;P
 
Ultima cosa: come sempre, mi farebbe estremamente piacere sentire i vostri pareri. Sia che vogliate recensire, sia con un messaggio privato, tutte le opinioni, critiche, incoraggiamenti, idee e suggerimenti sono ben accetti!
 
Vi lascio alla lettura, ci “risentiamo” in fondo.
 
Love,
Elle.
 
p.s. Non so se devo farlo, ma in caso: Glee, ovviamente, non è mio e così nemmeno i suoi personaggi.
 
 
 
 
I should tell you
 
 
Capitolo secondo:
 
“Of Lord Tubbingtons, Dolphins and birdies.”
 
 
 
 
“Sebastian?”
 
Il ragazzo più alto, sentendosi chiamare per nome, alzò lo sguardo. La sua espressione scocciata mutò rapidamente, in sincrono con il cambiamento delle sue emozioni, e nel giro di pochi secondi divenne di genuina sorpresa.
 
“Hummel?”
 
Kurt fece un mezzo sorriso.
 
“Che cosa ci fai qui?” chiesero nello stesso momento.
 
Kurt si bloccò e fece un cenno con la mano in direzione dell’altro come ad indicare che fosse lui il primo a prendere la parola.
 
“Bè, fino all’ultima volta che ho controllato la Columbia University si trovava a New York, quindi… Tu, invece? Dove hai lasciato la tua dolce metà? E soprattutto, perché non sei ancora in Ohio insieme a lui a piangere sulla lettera di rifiuto della NYADA?”
 
“All’inizio era quello il mio pia – aspetta un attimo – tu come diavolo fai a sapere che avevo fatto domanda alla NYADA e che non mi hanno preso?”
 
I lineamenti del viso del controtenore erano tesi, a renderli tali una maschera di disappunto e seccatura, e allo stesso tempo sconcerto.
 
Niff. – rispose Sebastian con una scrollata di spalle, come se fosse la risposta più ovvia – Sono anche loro qui a New York, non lo sapevi?”
 
“No, e comunque dopo le Regionali non ho più sentito nemmeno loro, quindi mi ripeto: come diavolo fate a saperlo?”
 
“Credo sia stato a quella cena per gli Usignoli organizzata da Montgomery e David in onore dei vecchi tempi. Io non sono potuto andare; ero in Francia a rivivere la mia Belle Époque personale e so che nemmeno tu hai potuto partecipare. A questo punto credo che l’unica opzione aperta rimasta sia Blaine. Probabilmente se l’è fatto sfuggire parlando con gli altri.”
 
“Ovvio.” Mormorò Kurt a denti stretti e occhi chiusi, poi all’improvviso li riaprì mostrando un’espressione stupita, come se avesse appena avuto una rivelazione. “Aspetta un momento – cena? Quale cena?”
 
Sebastian fu preso in contropiede e rimase un attimo in silenzio. Sicuramente questa non se l’aspettava. Scrutò Kurt con uno sguardo curioso, una luce diversa nei suoi occhi.
 
Kurt sembrava completamente assorto nei suoi pensieri, l’espressione sul suo viso vuota e distante, gli occhi leggermente lucidi. Sebastian era ancora intento a studiare l’altro, a cercare di decifrarne il nuovo cipiglio, quando rispose distrattamente: “Conosci Wesley Montgomery, no?”
 
Kurt fece un cenno d’assenso appena percettibile e così Sebastian continuò.
 
“Lui si è diplomato lo scorso anno e ha iniziato a studiare a Chicago. Quando è tornato per le vacanze, prima che anche i Senior di quest’anno partissero per le varie università in giro per lo stato, ha deciso di organizzare, con l’aiuto di David, una piccola rimpatriata. Vista la regola ‘Usignolo una volta, Usignolo per sempre’, a mio parere regola quasi più gay di te, sono stati costretti ad invitare anche me, pur non apprezzandomi troppo e ovviamente anche chi ora fa parte, o faceva parte, della concorrenza: cioè tu e il tuo caro.”
 
Kurt aveva abbassato lo sguardo e continuava a non dire nulla. Sebastian decise così di continuare a raccontare, sperando di poter ricevere una qualche reazione dall’altro.
 
“Hanno organizzato questo barbecue a casa Duval. So che Blaine era presente, ci sono anche foto su Facebook a dimostrarlo e so che tu non ci sei andato, preferendo invece andare a fare shopping con la tua amica bionda, quella strana che parla per metafore. Credo che gli altri ci siano rimasti un po’ male; non riesco a capacitarmene, ma Jeff voleva veramente rivederti. Evidentemente preferisci passare il tuo tempo con una stupida biondina, piuttosto che con dei vecchi amici. Oltretutto, a pensarci bene, anche Jeff è definibile come ‘stupida biondina’, quindi probabilmente non avresti nemmeno notato la differenza – “
 
“Basta.” Kurt si era riscosso dal suo torpore momentaneo e aveva fermato le provocazioni di Sebastian con un tono secco e deciso, che lasciava poco spazio a repliche. “Io adoro Jeff e Nick e tengo ancora molto anche a Wes, David e Thad.” Fece un lungo e profondo sospiro, prima di ricominciare a parlare. “Brittany, la bionda che parla per metafore, quest’estate l’ha passata ad un campo di danza con Mike e Tina. Non la vedo da quando è finita la scuola, se non conti Skype.”
 
“Ma allora –” Sebastian si bloccò. Aveva un tono sinceramente sorpreso ed anche un po’ confuso, non capiva bene dove Kurt volesse andare a parare e soprattutto le motivazioni di quelle bugie.
 
“Allora è tardi e io ho una giornata impegnativa. Mi dispiace per averti macchiato la camicia, posso pagarti la lavanderia se vuoi.” Mentre parlava teneva gli occhi incollati al cellulare, senza mai guardare in viso Sebastian. Freneticamente, aveva cominciato a raccogliere tutte le sue cose, sistemandole alla bell’e meglio nella borsa in pelle che gli pendeva sulla spalla. “Scappo, fammi sapere quanto ti devo.” E con questo si diresse verso la porta, senza aggiungere altro, lasciandosi alle spalle un Sebastian più che perplesso.
 
 
“Ha una giornata molto importante all’università.” Una voce dolce e cristallina risvegliò la mente di Sebastian, persa a rivivere gli ultimi cinque minuti, cercando di capire cosa gli fosse sfuggito.
 
Cos’era successo a Hummel? Perché non aveva risposto come sempre alle sue provocazioni? Era sempre stato uno dei pochi all’altezza degli insulti e dei colpi bassi di Sebastian; perché oggi invece di rinfacciarglieli uno per uno, si era chiuso in se stesso e poi era scappato? E soprattutto, perché aveva mentito riguardo la cena? Scosse il capo, come a volersi liberare materialmente dei suoi pensieri, e si diresse verso il bancone dietro il quale stava la proprietaria della voce che aveva parlato.
 
Osservò la ragazza che aveva davanti. Pur essendo totalmente gay, doveva ammettere che quella che aveva parlato, era veramente una bellissima ragazza. Non una di quelle bellezze ostentate, visi truccati, seni prorompenti ben evidenziati da magliette attillate e unghie finte. Era una bellezza classica, pura ed innocente. Aveva un viso color avorio, tondo, ma non paffuto; gli occhi erano verdi, con qualche sfumatura nocciola ed erano estremamente espressivi. I capelli rossi e ricci le incorniciavano il volto e le cadevano morbidi sulle spalle minute, appena raccolti dietro le orecchie. La bocca era aperta in un sorriso genuino, non forzato, come spesso si vedeva invece sulle labbra delle ragazze. Non era altissima; aldilà del bancone si vedeva solo il busto su cui aveva allacciato il grembiule del negozio.
 
Sebastian, però, doveva averla fissata per un po’ troppo, perché notò che il sorriso le si stava leggermente incrinando e i suoi occhi brillavano di dubbio.
 
“Scusami, dicevi?” si riprese velocemente.
 
“Dicevo che Kurt oggi avrà una giornata molto impegnativa. – Sei un suo amico, vero?” adesso il suo tono era incerto, forse pensava di aver detto troppo ad uno sconosciuto. “Scusami, credevo foste amici, vi ho visti parlare – oddio che sciocca, mi dispiace – “
 
Sebastian alzò una mano per fermarla e sfoggiò uno dei suoi sorrisi migliori.
 
“Non ti preoccupare, tesoro, è vero che siamo amici.” Più o meno. “Mi chiamo Sebastian e tu sei…”
 
“Cassie, molto piacere!” Cassie allungò la mano a stringere quella del ragazzo che aveva di fronte, sorridendogli con una dolcezza che riuscì a colpire perfino Sebastian. “Scusami, ma ogni tanto faccio delle pessime figure e poi inizio a scusarmi all’infinito, finendo per spaventare a morte chi mi sta di fronte con la mia parlantina logorroica. Sono imbarazzante, perdonami.”
 
“Oh, non ti preoccupare, Cassie, capita a tutti.” Rispose con tono languido Sebastian.
 
Voleva sapere qualcosa in più su Kurt, per capire bene cosa fosse successo prima e forse, usando le stesse armi che sfoggiava nei bar gay per rimorchiare, sarebbe riuscito a farsi dire qualcosa da questa barista. In fondo lei non sapeva della sua omosessualità, tanto valeva giocare la carta della seduzione, no? “Ora dimmi, cosa mi stavi dicendo della giornata di Kurt?”
 
Cassie sembrava aver capito dove il tono di voce basso e profondo di Sebastian volesse andare a parare, perché arrossì furiosamente e rispose con una vocina stridula e tremolante. “Dicevo che Kurt oggi avrà una giornata molto importante per i suoi studi. Ha questo progetto che deve presentare all’università –“
 
“Che è?”
 
Parsons School for Design. Scusami, ma se siete amici, come fai a non sapere dove studia?” Il tono di voce di Cassie sembrava meno incline a flirtare e più sospettoso adesso. Anche il suo sguardo si era corrucciato, pensieroso, in cerca di una spiegazione plausibile.
 
“Oh sai, siamo amici di vecchia data. Veniamo entrambi dall’Ohio e dopo la scuola ci siamo persi di vista. Comunque volevo chiederti se puoi aiutarmi. Vorrei rimettermi in contatto con il mio caro vecchio amico, – parlando in questi termini di Kurt a Sebastian sfuggì un ghigno – sai dirmi come faccio a trovarlo? Sai, prima diceva che mi voleva pagare la lavanderia per questa, – disse indicando la camicia macchiata di caffè  - ma non mi ha lasciato un recapito e quindi non so proprio come contattarlo.”
 
Cassie si rilassò, credendo alla storiella che le aveva propinato Sebastian. Dopotutto non si era sbagliato nel giudicarla; era veramente troppo buona questa ragazza, troppo ingenua.
La barista sembrava essersi accorta solo ora della macchia sulla camicia costosa del ragazzo e si precipitò fuori dal bancone per valutarne la gravità.
 
“Oh, che sbadata! Non me ne ero assolutamente accorta. Se vuoi ho dello smacchiatore nel nostro sgabuzzino. Se devi andare a lavoro o all’università non ci puoi andare sicuramente così.”
 
“Non ti preoccupare – rispose con un sorriso malizioso Sebastian – sto tornando a casa, non mi serve una camicia pulita. Anche perché se fosse, dovresti smacchiarmi anche i boxer.” Le fece l’occhiolino e si accorse di aver un po’ esagerato. Cassie lo fissava ad occhi sgranati, le gote color rubino e la fronte leggermente corrugata.
 
“Ehm, ok, allora a posto.” La ragazza si sbrigò a riprendere la sua posizione dietro al bancone, al sicuro da possibili ninfomani. “Per quanto riguarda Kurt posso dirti poco. Ci vediamo ogni mattina e siamo diventati più o meno amici, ma non ho il suo numero di telefono, purtroppo. Posso dirti, però, che vive una via più indietro. Ha in affitto un piccolo appartamento con una sua amica.”
 
“Fammi indovinare: una nana col nasone e lo stesso gusto nel vestire di mia nonna?”
 
Cassie lo guardò stranita, come se avesse appena parlato di extraterrestri. “Assolutamente no! La sua coinquilina non viene spesso qui, quindi non so come si chiami, ma non assomiglia per niente alla tua descrizione.”
 
Sebastian sembrò sorpreso, aspettandosi che la coinquilina di Kurt fosse la brutta copia della Streisand. Chi altro poteva sopportare Hummel giorno e notte, sette giorni su sette?
 
“Innanzitutto non è così bassa, non ha assolutamente il naso grosso e si veste piuttosto bene. Un po’ troppo provocante per i miei gusti, ma sicuramente alla moda.”
 
A questo punto Sebastian scoppiò a ridere, avendo una vaga idea di chi potesse parlare la barista.
 
“Non mi dire che è una fiera lesbica di origine ispanica?”
 
“Lesbica non saprei dirti, ispanica di sicuro.”
 
Sebastian stava ancora sghignazzando, divertito al pensiero di Hummel e della Lopez coinquilini.
 
Una combinazione sicuramente inaspettata. Si sarebbe immaginato tutti di quel Club di sfigati a vivere con Lady Hummel, ma l’ispanica proprio no. Sarebbe stato meno improbabile che vivesse con il gigante buono o il biker con la cresta, o magari anche con l’asiatica dai capelli blu o la figlia del mafioso, ma Santana Lopez? Assolutamente no.
 
“Ho capito, mi sapresti dire l’indirizzo preciso?”
 
“Certo!” Cassie sorrise allegramente e si voltò, afferrando un blocchetto di carta e una penna. Strappò un foglietto su cui scrisse velocemente un indirizzo, poi lo passò a Sebastian. “Ecco qui, sono convinta che Kurt sarà felicissimo di rivederti. Adora le sorprese!”
 
“Oh, sono sicuro anch’io che sarà felicissimo di una mia visita a sorpresa. Ne sarà estasiato.
 
Cassie non colse l’evidente sarcasmo e sorrise eccitata alla prospettiva di aver reso felice l’amico.
 
“Bene, se non vuoi ordinare nulla, ti saluto, Sebastian.”
 
“No, direi che per stamattina di caffè ne ho preso abbastanza. – rispose indicando nuovamente la sua camicia – Ti ringrazio di cuore, Cassie, sei stata preziosa.” La salutò facendole l’occhiolino.
 
Cassie si illuminò e lo salutò con un gesto della mano. Sebastian si voltò e uscì dal bar, godendosi una nuova sensazione di soddisfazione per il lavoro svolto con la barista e la brezza autunnale di New York.
 
 
 
******************************************************************************
 
 
Ad una via di distanza una bellissima ragazza si stava preparando per iniziare una nuova settimana.
 
Dopo aver fatto una doccia veloce ed essersi sistemata i capelli, Santana uscì dal bagno per tornare in camera sua. Prese dal comodino il suo cellulare e lo sbloccò, scrivendo un messaggio per la sua Brittany. Era parte del rituale mattutino: Kurt si impastricciava la pelle di creme e lozioni varie, Santana scriveva alla sua ragazza.
 
 
Da Sanny_Boo:
Buongiorno, Britt – Britt! Come va oggi? Mi manchi! <3  –S.
 
 
Sorrise sognante, mentre ripensava alla bionda. Per Santana, la stronza di Lima Heights, era ancora strano avere una persona al proprio fianco. Una persona sempre presente, nonostante tutto; una persona disposta ad amarla ed accettarla totalmente, con i suoi pregi, ma anche i suoi difetti.
 
Sicuramente per molti la biondina non era tra le persone più brillanti, ma per Santana, che la conosceva meglio di chiunque altro, era una delle persone migliori al mondo. Certo era infantile, ingenua ed a volte un po’ pazza, ma era anche una persona estremamente empatica, sempre attenta alle esigenze di chi le stava attorno. Brittany, seppur non considerata intelligente dalla maggior parte delle persone che la conoscevano, era in realtà molto intuitiva, specialmente quando si parlava di emozioni e sentimenti. Aveva un cuore d’oro ed era capace di amare incondizionatamente, di vedere oltre le azioni e i comportamenti delle persone. Probabilmente proprio a causa di queste sue peculiarità Santana era stata calamitata verso di lei fin dai loro primi incontri: Brittany era tutto ciò che lei non era mai stata e che probabilmente non sarebbe mai potuta diventare.  Era ciò che di più puro e prezioso ci fosse al mondo, quel mondo che Santana era cresciuta disprezzando. Brittany rendeva l’ispanica volenterosa di diventare una persona migliore. Santana proteggeva la biondina dalle crudeltà che le persone potevano infliggere ad una creatura ingenua tale era Brittany.
 
Semplicemente si completavano.
 
Il suono del suo cellulare, ancora stretto tra le dita, incrociate davanti al suo petto proprio all’altezza del cuore, la riscosse dai suoi pensieri. Aprì il messaggio di Brittany e leggendolo si sorprese, come le capitava la maggior parte delle volte che parlava con la sua migliore amica, amante e ragazza.
 
 
Da Britney_Bitch:
Santana? Sei tu?
 
Da Sanny_Boo:
Certo che si! Chi altro dovrebbe essere?
 
 
Ancora in tenuta da notte, mentre aspettava una risposta da Brittany, si avvicinò allo stereo e lo accese. Non appena la musica della sua playlist preferita riempì la stanza, l’ispanica iniziò a canticchiare sottovoce seguendo la prima canzone. La sua voce calda e graffiante si sovrappose a quella della cantante.
 
He left no time to regret
Kept his dick wet
With his same old safe bet
Me and my head high
And my tears dry
Get on without my guy
You went back to what you knew
So far removed from all that we went through
And I tread a troubled track
My odds are stacked
I'll go back to black

We only said good-bye with words
I died a hundred times
You go back to her
And I go back to.....

I go back to us

I love you much
It's not enough
You love blow and I love puff
And life is like a pipe
And I'm a tiny penny rolling up the walls inside

 
Mentre continuava a prepararsi, si muoveva a ritmo di musica, cantando a voce sempre più alta. Le scappò un sorriso bieco e nostalgico, ripensando a quando si era esibita proprio con lo stesso pezzo per un’audizione del Glee Club.

We only said goodbye with words
I died a hundred times
You go back to her
And I go back to

Black, black, black, black, black, black, black,
I go back to
I go back to

We only said good-bye with words
I died a hundred times
You go back to her
And I go back to

We only said good-bye with words
I died a hundred times
You go back to her
And I go back to black

 
 
Le sembrava di rivivere ricordi vecchissimi, come se da quando aveva lasciato Lima fossero passati degli anni, invece che pochi mesi. Era soddisfatta della sua decisione, non aveva rimorsi. Le erano bastati i primi due mesi nella Grande Mela per capire che quella metropoli era la sua nuova casa.
Ciononostante aveva ancora nostalgia dell’Ohio. Sicuramente non per i luoghi in sé, ma per i ricordi che venivano con essi, e soprattutto per le persone che si era lasciata alle spalle.
 
Beep. Beep. Un nuovo messaggio.
 
 
Da Britney_Bitch:
Non lo so, ma Lord Tubbington mi ha detto che eri a New York, quindi non capivo come facessi a scrivere nel mio cellulare che invece è qui con me. Hai imparato ad usare il teletrasporto?
 
 
Santana si lasciò sfuggire una risatina e mentre scuoteva il capo di nuovo scioccata dalla risposta di Brittany, iniziò a digitare un nuovo messaggio.
 
 
Da Sanny_Boo:
No, tesoro. Aspetto ancora la tua macchina del tempo. Come stai?
 
 
Abbandonò il cellulare sul letto e controllando l’orologio a muro appeso a fianco della porta, imprecò sottovoce. Aveva poco tempo. Si avvicinò alla sedia accostata alla scrivania, dove da giorni aveva accatastato una mole di vestiti non indifferente. Non tutti potevano essere ordinati come Lady Hummel – quel ragazzo aveva un rapporto maniacale con i suoi vestiti. Cercando nel mucchio i vestiti meno sgualciti, riuscì a pescare una t-shirt rossa molto attillata e un paio di skinny jeans di un denim scuro che la fasciavano in tutti i punti giusti. Normalmente vi avrebbe abbinato un paio di vertiginosi tacchi neri, ma sapendo di dover stare in piedi per tutta la giornata, abbandonò l’idea e si abbassò sotto il letto a raccogliere dei comodi stivali di cuoio marrone scuro. Si sedette sul bordo del letto per infilarseli e aveva appena chiuso la cerniera del primo stivale, quando il telefono squillò di nuovo.
 
 
Da Britney_Bitch:
Oh, non ti preoccupare, è quasi pronta. Ho dato gli ultimi dettagli da controllare al mio Lepricauno, ma poi è stato deportato, quindi devo aspettare che me li rispedisca con un piccione viaggiatore. Sono di nuovo triste come un panda con gli occhi all’ingiù, San…
 
 
Santana dovette prendere qualche respiro profondo per calmarsi, prima di poter riuscire a digitare una risposta di senso compiuto, che non fosse un elenco di insulti in spagnolo o una lista di torture strazianti. Chiunque avesse fatto star male la sua Brittany, l’avrebbe pagata cara.
 
 
Da Sanny_Boo:
Come mai?
 
 
Troppo ansiosa di ricevere una risposta, non staccò per un momento gli occhi dal cellulare. Appena questo vibrò nuovamente, Santana aprì il nuovo messaggio alla velocità della luce, solo per ritrovarsi a sorridere come un ebete di fronte alle dolci parole della bionda.
 
 
Da Britney_Bitch:
Mi manchi. E mi manca Quinnie. E mi mancano i muscoli di Puck; quelli di Sam non li posso toccare: non voglio far piangere Mercy. Mi manca anche il mio Delfino; il Delfino numero 2 non ha le mani morbide come quelle di un bambino. Rachel invece non mi manca, perché senza di lei al Glee non devo urlare “no alla violenza”!
 
 
Leggendo l’ultima riga del messaggio, Santana rise di gusto, pensando che in effetti doveva essere rilassante un Glee Club senza la Berry.
 
 
Da Sanny_Boo:
Anche a me mancano tutti, specialmente tu. Come va al Glee?
 
 
Sempre tenendo il telefono in mano, Santana si diresse velocemente in cucina. Doveva sbrigarsi a prendere un caffè e magari anche mangiare qualcosa, altrimenti sarebbe arrivata tardi a lavoro. Di nuovo. E Dio solo sapeva se il suo capo non l’avrebbe licenziata questa volta.
 
 
Dopo che aveva rinunciato alla borsa di studio per lo sport – nello specifico Cheerleading – presso l’università di Louisville, in Kentucky, aveva accettato i risparmi che i suoi genitori le avevano offerto come regalo per il diploma ed era partita alla volta di New York. Aver vinto le Nazionali con il Glee Club le aveva fatto capire di poter aspirare a diventare una stella; non solo perché era terribilmente e inconfutabilmente bella e sexy e sicura di sé, con una personalità forte, ma anche perché sapeva cantare, e bene. Sicuramente non aspirava a diventare una grande attrice di Broadway come la Berry e non voleva essere la nuova Whitney come Mercedes. Voleva essere una grande cantante, ma soprattutto voleva essere se stessa, Santana Lopez. Voleva diventare famosa per quello che era, non per chi cercava di imitare. Voleva farcela cantando si sé, dei suoi sentimenti – proprio come le aveva insegnato il Professor Schuester – non cantando testi smielati scritti per qualche squallida produzione Off – Broadway.
 
Era per queste ragioni che aveva scelto proprio New York: le era sembrata la città più adatta per un nuovo inizio, la città dove tutti venivano accettati per quello che erano. E lei non chiedeva altro.
 
Non ricordava precisamente com’era finita a convivere con Kurt. Probabilmente nessuno dei due voleva vivere solo o, ancora peggio, con degli sconosciuti. Forse entrambi sapevano che sarebbe stata dura essere lontani da Brittany e Blaine, dai genitori, da Lima e magari avere un pezzetto del proprio passato, sotto forma di amico, poteva essere confortante. Forse, a causa della loro natura fiera e caparbia, dei loro atteggiamenti da stronzi, della loro solo apparente freddezza, erano più simili di quanto non gli facesse piacere ammettere.
 
In poche parole, tra un insulto e l’altro, avevano deciso che potevano funzionare. E così era stato, effettivamente – almeno per quei primi mesi.
 
Erano arrivati a New York alla fine di agosto. Kurt a settembre iniziava le lezioni, mentre Santana, non volendo pesare troppo sulle spalle dei genitori, voleva trovarsi al più presto un lavoro. New York era costosa e lei voleva poter contare solo sulle proprie forze, voleva essere la sola persona da ringraziare una volta che avesse realizzato il suo sogno.
 
Così, adesso, si bilanciava tra tre differenti lavori. Ogni mattina faceva la cassiera in uno squallido negozio di alimentari nel Queens. Tre pomeriggi a settimana faceva da baby-sitter ad una splendida bambina di nome Violet, figlia di un’allegra famiglia di Brooklyn che abitava qualche isolato di distanza da casa loro. Si, avete capito bene, Santana Lopez badava ad una bambina. E l’aveva appena definita adorabile.  Cosa non si fa per la fama!
 
Poi veniva il suo lavoro preferito. Ogni weekend, la sera, cantava in un piccolo piano bar nel Lower East Side. Era un posticino piccolo, poco conosciuto, ma la cui atmosfera era piacevolmente rinfrescante. Se di giorno Santana doveva sopportare l’opprimente ambiente povero dei quartieri più malfamati, di sera, quando si ritrovava a cantare in quel pub, l’ispanica rinasceva. Era liberatorio, purificante quasi. Faceva ciò che le piaceva di più, di fronte a persone distinte che spesso mostravano sincero interesse nelle sue doti canore.
 
La sua vita era ancora in salita e ben lontana dalla meta che si era prefissata, ma sicuramente, pur avendo fatto una scelta azzardata e aver rischiato di perdere tanto, era sulla strada giusta.
 
 
Si stava versando una tazza di caffè, quando il telefono suonò di nuovo, cogliendola di sorpresa e facendole versare parte della bevanda in terra. Merda, merda, merda. Asciugò velocemente, mentre leggeva la risposta di Brittany.
 
 
Da Britney_Bitch:
Il Delfino numero 2 vuole insegnarci le armonizzazioni? Non mi ricordo come si chiamano, è un nome troppo lungo per me! Dice che le usava con gli Uccellini con cui cantava un paio di anni fa e che sono molto belle. Gli ho chiesto se conosceva Aurora, visto che anche lei canta con gli uccellini, ma lui ha riso. Non è stato molto da fiaba Disney. Forse non è il principe, ma il cattivo?
 
Da Sanny_Boo:
Credo che Blaine parlasse di armonie, tesoro. No, non è stato un principe. Perché pensi sia il cattivo?
 
 
Santana si stupì della risposta di Brittany; la biondina vedeva sempre il buono nelle persone, perfino dove non c’era nulla di positivo. Com’era possibile che definisse Blaine un cattivo Disneyano?
 
 
Da Britney_Bitch:
Non lo so, ma l’altro giorno ero in giro con Lord Tubbington e Charity. Ti ho detto che gli ho comprato i guinzagli? Uno rosa e uno azzurro, sono favolosi. Comunque, quando siamo tornati a casa, Lord Tubbington e Charity mi hanno detto di aver visto il Delfino numero 2 con un altro Delfino. Hanno anche detto che aveva la giacca degli Uccellini. Come fa un Delfino ad essere anche un Uccello? Ha le piume e le ali oppure la coda?
 
Da Sanny_Boo:
Non lo so, B. Ma sei sicura che Blaine fosse con un altro ragazzo? E hai davvero comprato due guinzagli coordinati per i tuoi gatti?
 
 
Santana controllò ancora una volta l’orologio, constatando di non avere – per l’ennesima volta – il tempo di mangiare qualcosa. Sarebbe dovuta arrivare all’ora di pranzo solo con una tazza, anzi metà tazza, di caffè.
Corse in bagno a lavarsi i denti, poi di nuovo in camera per afferrare al volo borsa e giacca. Un’altra vibrazione del cellulare la avvertì che Brittany le aveva risposto di nuovo.
 
 
Da Britney_Bitch:
Si, anche se non capisco perché tutti mi abbiano detto che non si possono portare i gatti al guinzaglio. I cani si e i gatti no, perché? È discriminazione e io, come presidentessa, non lo accetto. Ieri l’ho detto all’assemblea d’istituto e tutti hanno riso, ma io avevo ragione, vero Sanny? Comunque Lord Tubbington ha miagolato che era sicuro fosse il Delfino 2 l’altro giorno.
 
 
Spesso Santana non sapeva come rispondere alla sua ragazza. Era semplicemente troppo speciale. Così, per evitare di ferirla, si limitava ad assecondarla.
 
 
Da Sanny_Boo:
Certo che avevi ragione! La discriminazione e il bullismo sono sempre sbagliati… Comunque non sei la presidentessa, Britt, ma la rappresentante d’istituto. Stasera entra su Skype, così mi racconti dei Delfini che avete visto.
 
 
Controllò velocemente di avere tutto ciò che le serviva nella borsa e si avviò verso il portone. Inchiavò la serratura e scese a due a due le scale. Non appena aprì il portone del palazzo e uscì nell’aria frizzante di New York, ricevette un altro SMS.
 
 
Da Britney_Bitch:
Va bene, ma dopo le nove. Ho promesso a Lord Tubbington che avremmo cucinato insieme e mamma ha detto che poi dobbiamo anche pulire la cucina, quindi mi serve tempo.
 
 
Scosse per l’ennesima volta la testa, come sempre colpita dal legame estremo che Brittany aveva con i suoi animali domestici, specie quella palla di pelo di Lord Tubbington.
 
 
Da Sanny_Boo:
Va benissimo, B. Ci sentiamo stasera, ok? Buona giornata. Ti amo.
 
Da Britney_Bitch:
Ti amo anch’io. Ti saluta Tina!
 
Da Sanny_Boo:
Salutamela!  =)
 
 
Santana camminò a passo spedito lungo le vie del quartiere, ormai decisamente più popolate. Teneva ancora il telefono in mano, aspettando un altro messaggino da Brittany, che infatti le rispose prontamente.
 
 
Da Britney_Bitch:
Le ho raccontato dei Delfini. Ha detto che ci pensa lei insieme ad Artie. Non so a cosa debbano pensare, però… Ti prego, non dirlo a Kurtsie. Se il mio Delfino è triste, io sono triste, e io non voglio più piangere.
 
 
Tipico – pensò Santana. Ovvio che Brittany pensasse a proteggere i sentimenti di Hummel.
Da quando erano usciti insieme, durante la fase “etero” di Kurt, i due erano diventati incredibilmente legati. Per quanto Santana odiasse ammetterlo, Kurt era piuttosto bravo a leggere, a capire Brittany e spesso era anche meglio di lei a interpretare i discorsi leggermente sconclusionati della sua cheerleader preferita. Sebbene cercasse di negarlo con tutta se stessa, Santana in realtà ammirava Kurt, per il suo immenso talento e per il suo coraggio, e da quando convivevano aveva iniziato ad apprezzarlo sempre di più.
 
Nemmeno lei voleva ferirlo, perlomeno non finché non fossero state sicure di ciò di cui stavano accusando il suo ragazzo.
 
 
Da Sanny_Boo:
Non ti preoccupare, Britt, non dirò niente.  Ancora.
 
 
Santana, dopo un’ultima occhiata allo schermo del suo cellulare, scosse il capo e ripose il suo telefono nella borsa. Doveva assolutamente sbrigarsi ad andare a lavoro, ma quella storia non era finita lì. Avrebbe scoperto cosa stesse combinando Blaine. E dopo aver capito cosa stesse succedendo veramente, avrebbe deciso quali gambe doveva spezzare e avrebbe fatto rinascere la vecchia furia di Lima Heights. Sorrise furbescamente, gli occhi luccicanti di malizia, e con il pensiero di una vendetta in grande stile si diresse verso la metropolitana.
 
 
 
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Ed eccoci di nuovo qua  =)
 
Sarò breve, ho già scritto ciò che dovevo sopra; qui mi limito a qualche informazione di servizio.
 
Dunque, la canzone citata è “Back to Black” di Amy Winehouse, che Naya Rivera (Santana) ha cantato durante il 21° episodio della seconda serie [‘Dirsi addio’] come provino per ottenere un assolo alle Nazionali. Non ho messo la traduzione del testo perché, per la storia, non è importante il significato delle parole, quanto più la canzone in sè come strumento narrativo per “innescare” i ricordi e i pensieri di Santana.
 
Spero vivamente di aver reso giustizia alla meravigliosa e eccentrica follia che è Brittany. A mio parere è uno dei personaggi più complicati da scrivere, essendo fin troppo sopra le righe. Spero di averla resa al meglio, come merita che sia.
 
Fatemi sapere cosa ne pensate. ^-^
Al prossimo capitolo, -Elle <3
 
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Capitolo 3
*** When blue skies fade to grey pt.1 ***


I SHOULD TELL YOU_3

Hello, bella gente! =)

 

Si, lo so, sono in ritardo.

Proprio dopo aver fieramente annunciato di avere un ritmo settimanale e giorni di pubblicazione fissi da rispettare, sono di nuovo in ritardo.

Ho già detto ad alcune di voi nelle risposte alle recensioni vari motivi, quindi non sto qua ad elencarli, perché credo che i miei problemi non interessino a nessuno. Sappiate però che mi dispiace veramente tanto e che siete autorizzate a minacciarmi con il fucile di Burt.

 

Come al solito, ringrazio dal profondo del cuore chi legge, segue e soprattutto, chi commenta. Grazie a tutte e grazie in particolare a Tallutina, Itagnola, Illy91 e LoveMojito.

 

Detto anche questo, ho un avvertimento per il capitolo.

Non è quello che credo vi sareste aspettate e sinceramente, non è quello che avevo programmato. Questo capitolo doveva essere Kurt –centrico e rispondere ad un po’ di questioni in sospeso: chi era al telefono, la storia della cena e la giornata alla Parsons. È ancora Kurt - centrico e a qualcosa risponde, ma come avete visto dal titolo, è solo una parte dell’intero. Non chiedetemi come, ma ho scritto qualcosa di pantagruelico (vi dico che solo questo sono 15 pagine di Word) e quindi, pur non apprezzando gli spezzettamenti e le questioni in sospeso, ho dovuto dividerlo.

Spero sappiate essere pazienti: le risposte arriveranno, fidatevi.

E arrivate le risposte, inizierà il vero divertimento (= Kurtbastian)

 

 

Vi lascio alla lettura,

spero di sentire le vostre opinioni, specie vista la scelta di dividere e di spiegare alcune cose.

 

Buona lettura,

Elle

 

 

 

 

I should tell you

 

 

Capitolo terzo:

 

“When blu skies fade to grey”

parte prima: vecchi ricordi

 

 

Kurt, cercando di bilanciare tutto ciò che aveva in mano, uscì dalla caffetteria il più velocemente possibile, consapevole di essersi lasciato dietro un Sebastian più che confuso. Non appena la porta del locale gli si chiuse alle spalle, tirò un sospiro di sollievo. Doveva andarsene subito. Non solo perché altrimenti sarebbe arrivato tardi a lezione, ma anche perché in quel momento non era dell’umore giusto per affrontare Smythe.

 

Di fronte all’ex Usignolo si era sentito impotente, frustrato ed umiliato. Non poteva restare lì senza sapere come rispondere alle provocazioni di Sebastian, senza riuscire a controbattere con lo stesso livello di sicurezza e sarcasmo che l’avevano sempre contraddistinto e che erano le armi migliori dell’altro.

 

Era dovuto scappare, cosa che non aveva mai fatto, nemmeno di fronte a chi ne aveva minacciato la vita.

 

Kurt, in quel momento, si sentì vuoto. E soprattutto, per la prima volta dalla morte di sua madre Elizabeth, perso.

 

Si accorse solo in quel momento di essere bloccato, immobile, nel bel mezzo del marciapiede altrimenti affollato di New Yorkesi che correvano frenetici verso la fermata della metropolitana. Si era fermato a riflettere, ma non poteva permetterselo. Non oggi. Non proprio quella mattina, quella mattina per cui aveva aspettato tanto e per cui aveva lavorato fino allo sfinimento. Oggi doveva arrivare a lezione puntuale, mostrare a tutti il suo talento e prendersi, almeno per questa volta, almeno per i suoi studi, una rivincita. Lo doveva a chi lo aveva sostenuto, lo doveva a suo padre e a Finn, lo doveva a Santana, che aveva sopportato i suoi rantoli nell’ultima settimana, – anche se con molta poca pazienza – ma soprattutto lo doveva a se stesso.

 

Mentalmente prese nota di ripensare a Blaine e a tutti i loro problemi quella sera stessa, dopo aver terminato le lezioni, e si diresse anch’egli di corsa verso la fermata della metro. Fortunatamente la Parsons distava solo tre fermate di linea dal suo quartiere, quindi sarebbe ancora riuscito ad arrivare puntuale. Scese le scale della metropolitana e arrivò appena in tempo per infilarsi tra le porte scorrevoli del treno in partenza. Con un sospiro di sollievo, si appoggiò ad uno dei sostegni e si guardò intorno. Vide che proprio dall’altro lato c’era ancora un posto a sedere libero. Un piccolo miracolo – pensò. Non succedeva spesso a New York, di mattina, quando la metro era più popolata, di trovare un posto libero. Sorrise tra sé e sé, – sembrando probabilmente un ebete e forse anche un po’ pazzo -  perché pensò che magari questo fosse un piccolo segno che la fortuna non l’aveva ancora abbandonato del tutto.

Sempre con quel sorrisetto sulle labbra, cercò nella borsa il cellulare per vedere chi era la causa del suo incontro ravvicinato, fin troppo ravvicinato, con Sebastian. Una volta trovato, ne sbloccò la tastiera e vide che c’erano due chiamate perse ed un SMS, tutti e tre da Rachel.

Kurt sospirò profondamente, cancellò le chiamate perse e, preparandosi al peggio, aprì il messaggio.

 

 

Da Rachel_BB:

Caro Kurt, so che ultimamente non ci siamo visti spesso, ma volevo informarti che settimana prossima si terrà la serata di apertura della NYADA. Non so se sai cos’è, ma per essere sintetica, si tratta di uno spettacolo in cui l’accademia mostra i talenti migliori del nuovo anno. Ovviamente io sono stata scelta come solista. Spero proprio di vederti lì. Con affetto, Rachel.

 

 

Appena finito di leggere, Kurt scosse la testa, come sempre divertito, irritato e intenerito allo stesso momento di fronte al tono pomposo con cui Rachel si esprimeva persino attraverso messaggio. Quando però lo rilesse, in particolare la prima riga del testo, il sorriso gli si raggelò sulle labbra, trasformandosi in una smorfia di dolore ed esasperazione.

Si ricordò il motivo per cui aveva avuto delle riserve nell’aprire il messaggio dopo che aveva visto che era di Rachel; si ricordò perché era vero che non si erano visti negli ultimi mesi, pur abitando entrambi a New York; si ricordò perché, tra le tante cose che aveva perso nell’ultimo periodo, poteva elencare anche la sua migliore amica.

 

Aveva sempre riconosciuto Rachel per quella che era. Era una ragazzina viziata, piena di sé, fin troppo esuberante e pettegola. Aveva però un talento enorme e splendente, era una persona caritatevole, era determinata e risoluta. Insomma, Kurt, pur sapendo quanto potesse essere difficile digerire la sua presenza talvolta, le aveva voluto bene, e tanto. Si erano trovati. Due voci perse nel coro di chi non li ascoltava; due persone spesso sole, ma con una pienezza interiore da colmare il vuoto che li circondava. Si erano riconosciuti come simili, entrambi emarginati, con una gran voglia di fuggire da dove erano partiti. Come li aveva definiti Rachel, erano anime gemelle.

 

Quando però le loro strade avevano preso direzioni diverse da quelle che avevano programmato insieme, Rachel era cambiata. O forse non era poi così diversa da com’era stata durante gli anni del liceo e Kurt era cambiato. Chi fosse diverso, chi fosse cambiato, chi avesse ferito l’altro ormai non importava più. Kurt aveva perso la sua migliore amica, probabilmente in maniera definitiva.

 

 

*flashback*

 

Il giorno della cerimonia del diploma Kurt era una palla di nervi. Una palla modellata in esaltazione e felicità; come una piccola pallina magica, saltellava qua e là, spargendo sorrisi e pacche sulle spalle. Finalmente, sentiva che tutto si era sistemato. Gli sembrava che la sua vita avesse ripreso la strada giusta, il senso che doveva avere, incastrandosi a perfezione nell’equilibrio di tutte le cose. Era vero che Kurt era ateo. Non credeva in Dio, né nel fato. In quel momento, però,  era quasi sicuro di vedere il destino sorridergli.

 

 

Il Glee Club aveva vinto le Nazionali, ottenendo fondi per la scuola e anche un riconoscimento dal resto del corpo studenti. Quando erano tornati da Chicago, erano pronti a riprendere il loro posto nella scala sociale del McKinley. Anche se per gli ultimi giorni, erano ormai rassegnati a sopportare insulti, granitate e altri scherzi di pessimo gusto che invece erano esilaranti agli occhi del resto degli studenti, specie degli atleti. Rimesso piede nei corridoi del liceo, però, si accorsero che forse, almeno per quel ultimo periodo, le cose sarebbero andate diversamente. Tornando con la coppa delle Nazionali, ricevettero applausi, complimenti e sorrisi. Le granite le poterono bere dalla cannuccia, non raccogliendole dai vestiti. I cassonetti li usarono solo per gettare i resti del piccolo party che avevano tenuto in aula canto, gentilmente offerto dal Signor Motta – che non è nella mafia. Nessuno sembrava intenzionato ad insultarli perché sapevano cantare. E soprattutto, per la prima volta da quando vi aveva messo piede, quattro anni prima, Kurt non ricevette nessuno spintone, nessuna occhiataccia e nessun insulto a causa della sua sessualità. La nuova atmosfera era rinfrescante, e come un gas esilarante, rendeva i ragazzi sorridenti, energici e felici.

 

 

Sempre in quei giorni Kurt aveva ricevuto anche il regalo per il diploma da suo padre. Era stato l’ennesimo momento in cui il controtenore aveva avuto la conferma di quanto suo padre fosse un uomo speciale.

 

Burt era sempre stato un po’ originale, non tanto perchè si contraddistinguesse per il modo di vestire, per un particolare stile di vita o perché fosse particolarmente distante dalla definizione dell’uomo medio. Tutto il contrario, in realtà.

Burt era un uomo semplice, legato ai valori della famiglia e del lavoro. Indossava camicie a scacchi e consunti berretti da baseball. Seguiva il notiziario ed il football. Viveva in una piccola città e gestiva la sua attività. Burt Hummel, insomma, era il classico esempio di stereotipo. L’originalità della sua persona, però, stava nella sua mente e nel suo cuore.  Se all’apparenza sembrava essere il classico uomo appartenente al ceto medio, nato e cresciuto in Ohio; in realtà, Burt, aveva imparato ad apprezzare la diversità e a diffidare degli stereotipi. Forse  non era sempre stato così, ma amando fino alla follia il suo unico figlio, lui stesso aveva cercato di cambiare e di distinguersi dalla massa. L’Ohio era uno stato conservativo, nello spirito e nelle azioni. Lui, per amore di quel Kurt che aveva giurato di proteggere a sua moglie ormai morente, si era spinto oltre le semplici parole di conforto che tutti erano in grado di propinare ed era passato all’azione. Aveva dimostrato la correttezza del suo punto di vista quando un preside bigotto non voleva che il figlio si esibisse in una canzone scritta ed interpretata da una donna.  Aveva lottato con le unghie e con i denti per proteggere la vita di suo figlio. Aveva lavorato fino allo stremo per pagare una scuola privata dove Kurt potesse essere libero di esprimere il suo vero io. Aveva persino deciso di candidarsi al Senato per fare la differenza. Si, Burt Hummel personificava fisicamente l’uomo tipico dell’Ohio, ma non ne aveva nulla intellettualmente. Non si vergognava di sé, delle sue idee, di suo figlio o della sua nuova famiglia e l’aveva dimostrato mettendosi in gioco in prima persona.

Aveva chiesto aiuto ai cigni di Kurt e per lui si era esibito in una coreografia imbarazzante; solo per dimostrargli quanto, pur essendo totalmente diversi, in realtà lo capisse meglio di chiunque altro.

Kurt si era emozionato di fronte a quello spettacolo a dir poco scioccante. Aveva riso, aveva pianto e alla fine vi si era unito. Aveva ballato con suo padre, dimentico di tutto ciò che aveva passato in quegli ultimi anni, proiettato di già verso il futuro.

 

 

Oltretutto, sempre durante quell’ultima settimana di scuola, Kurt e Blaine si erano parlati, arrivando apparentemente ad un punto di incontro riguardo la loro relazione. Avevano ancora tanta strada da fare, ma dopo essersi confrontati, mantenere quella promessa di non dirsi mai addio non sembrava poi così utopico.

 

 

Kurt sapeva anche che mancavano pochi giorni all’arrivo della lettera di risposta della NYADA.

Aveva spaccato durante la sua audizione. Aveva dominato la scena e, se voleva essere un po’ alla Rachel Berry, esuberante, pieno di sé e forse anche un po’ arrogante, era piuttosto sicuro di aver ottime possibilità di entrare nell’università dei suoi sogni.

 

 

Insomma, quegli ultimi giorni di scuola erano stati indimenticabili per Kurt. Erano stati una parentesi felice, un’oasi di ristoro. Dopo gli avvenimenti di quella settimana, quando finalmente dovette salire sul palco per dire addio al liceo e chiudere così quella parentesi di quattro anni della sua vita, Kurt si sentiva completamente a proprio agio con se stesso e con gli altri. Aveva una nuova energia in sé; guardava al passato con nostalgia ed affetto, ma era anche già proiettato al futuro con eccitazione e brio.

 

 

Se però c’era una cosa che Kurt Hummel aveva imparato nei suoi diciotto anni di vita era che nulla dura in eterno. E così era stato.

 

Il giorno dopo aver lanciato il suo tocco in aria ed essersi sfilato la sua toga, tutto iniziò ad andare a rotoli.

 

 

Visti i festeggiamenti della sera prima insieme a Blaine, che gli aveva organizzato una sorpresa speciale per il diploma e la sua imminente partenza, Kurt quella mattina aveva deciso di dormire un po’ di più. Erano già le undici e ancora riposava beato, quando il suo cellulare iniziò a squillare ininterrottamente. Grugnendo, ancora con un occhio chiuso, si trascinò fuori dal letto per vedere chi stesse disturbando il suo sonno di bellezza. Per l’ennesima volta Rachel Barba Berry era stata la solita guastafeste. Sospirando e strofinandosi gli occhi nel vano tentativo di avere almeno la parvenza di una persona sveglia, Kurt prese il cellulare e accettò la telefonata della sua migliore amica.

 

“Rachel, fa che sia importante. Hai disturbato le mie otto ore di sonno e sai che sono il minimo necessario per ristorare la bellezza. Non posso permettermi di avere rughe a venticinque anni, quando riceverò il mio primo Tony.”

 

“KURT! KURT! Oh mio Dio! Kurt, hai controllato la posta?”

 

“No, perché dovrei?” Kurt era confuso. Perché sarebbe dovuto importargli di controllare la posta il giorno dopo aver ricevuto il suo diploma? Voleva solamente comportarsi pigramente, come qualsiasi altro adolescente che ha appena terminato la scuola. Passò un secondo di silenzio, quando finalmente gli unici due neuroni già svegli riuscirono a fare una sinapsi.

 

“NO! Oh mio Dio! La lettera della NYADA?”

 

“Si, si e ancora si! Kurt, riesci a crederci? È arrivata! Oddio, e se non mi hanno preso? Oddio, cosa faccio? Oddio, non riuscirò mai e poi mai ad aprirla da sola. Kurt, ti prego, fa’ qualcosa.”

 

Kurt, sentendo i rantoli dell’amica, fece ruotare gli occhi, esasperato – sempre la solita esagerata – pensò tra sé e sé. Poi, però, ne ebbe pena e la consolò.

 

“Rachel, ti prego, respira. Non puoi iperventilare proprio adesso. Mi servi viva. Forza, respiri profondi. Dentro e fuori, e ancora” Neanche stesse partorendo – pensò Kurt, che ormai si stupiva difficilmente di fronte all’estrema drammaticità di Rachel. Sentendo all’altro capo del telefono che l’amica stava seguendo i suoi consigli, Kurt si rilassò e si lasciò cadere sulla poltroncina a fianco della scrivania. “Adesso ascoltami bene. Non dovrai aprire la lettera da sola. Mi vesto, vado a controllare se è già arrivata anche la mia e poi, in caso, ci incontriamo e le apriamo insieme, ok? Niente panico.”

 

“Kurt sei un angelo!”

 

“Dimmi qualcosa che non so. Adesso mi preparo e poi ti faccio sapere, ok?”

 

“Va bene, ma fa presto, non so se riuscirò a resistere!”

 

“Si, certo, Rachel, come vuoi tu.” Sospirò, sempre più esasperato e poi aggiunse: “Ti richiamo tra poco.”

 

“Ok, a dopo!”

 

Chiuse la telefonata e gettò con poca cura il telefono sul letto. Corse nel bagno della sua camera, preparandosi ad una velocità che non credeva avrebbe mai potuto raggiungere se si parlava di routine di idratazione. Sempre in fretta e furia, scelse un outfit dall’armadio, abbinando tutti i suoi capi alla sua camicia porta fortuna. Sapeva di comportarsi da sciocco sentimentalista, ma aveva una camicia a cui aveva riservato un posto speciale nel suo cuore. Era una camicia che riteneva portasse fortuna. L’aveva indossata sotto il suo maglione rosso quando suo padre si era finalmente risvegliato, uscendo dal coma. La stessa camicia bianca, semplicissima, l’aveva sotto il blazer della Dalton quando Blaine gli aveva confessato di avere dei sentimenti per lui, emozionandosi ed emozionandolo. Infine, la stessa camicia, l’aveva sotto la giacca che indossava al Prom in cui era stato eletto Reginetta. È vero, era stata una della serate più umilianti della sua vita e probabilmente se fosse stato qualcun altro, avrebbe già bruciato quel pezzo di stoffa che innescava tali ricordi. Per Kurt, però, il Prom non era solo stato vergogna e rabbia, ma anche amore e accettazione. Aveva accettato di essere diverso. Aveva accettato di essere trattato diversamente, solo perché non si conformava alla massa. Aveva capito quanto Blaine tenesse a lui e quanto lui si stesse innamorando di Blaine. Quella camicia rappresentava anche il coraggio che aveva dimostrato salendo sul palco per accettare la corona, e poi ballando con il suo ragazzo di fronte a tutti. Insomma, se mai Kurt avesse creduto nella fortuna, quel semplice pezzo di stoffa bianco, ne sarebbe stato l’emblema per lui.

Non poteva non metterlo proprio il giorno in cui, molto probabilmente, avrebbe aperto la lettera che poteva cambiare il suo futuro.

 

Scese le scale, prese un bicchier d’acqua in cucina e mise a preparare il caffè. Sistemato tutto, fece un respiro profondo ed uscì di casa. Percorse il breve vialetto della residenza degli Hudmel ed arrivò di fronte alla buchetta delle lettere. Con le mani che gli tremavano per l’agitazione e l’emozione, l’aprì, rivelandone il contenuto. Al suo interno c’erano quattro buste chiuse, un volantino pubblicitario ed una cartolina. Kurt si voltò di nuovo verso casa e vi rientrò; andò in cucina e lasciò cadere la cartolina –per Carole, da una collega in vacanza – e il volantino pubblicitario sul tavolo. Ora in mano teneva solo quattro lettere. Le girò: due erano conti da pagare indirizzati a suo padre, mentre le altre due – bè, le altre due erano sicuramente ben più importanti.

 

“Finn, muovi quel culo, esci dal letto e scendi di corsa. Dobbiamo parlare.”

 

Kurt si rigirò tra le mani quelle due buste. Egualmente bianche ed egualmente spesse, avevano però due differenti mittenti e soprattutto due differenti destinatari.

 

La prima lettera aveva impresso in alto a sinistra il simbolo degli Actor Studios; sotto il francobollo che apportava il timbro dell’ufficio postale di New York vi era stampato in semplice Times New Romans il nome Finn Hudson e l’indirizzo di casa loro.

 

La seconda lettera  nelle mani di Kurt era come una pietra preziosa: rara, di estremo valore, da maneggiare con cura, ma che anche titillava terribilmente la sua curiosità. Anch’essa era una semplice busta bianca, abbastanza sottile – in quel momento Kurt non si ricordava se era positivo o meno che la busta non fosse spessa, merda! – con stampato sul bordo sinistro il logo della NYADA. A destra vi era anche su essa un francobollo con apportato il timbro New Yorkese. L’unica differenza rispetto all’altra lettera era il destinatario. Al centro, a destra, in una bella calligrafia in corsivo, vi era scritto Alla cortese attenzione del Sig. Hummel, Kurt e sotto l’indirizzo di casa Hudmel.

 

Mentre Kurt si perdeva a contemplare il valore inestimabile di una semplice busta, Finn scendeva le scale gemendo. “Kurt, che c’è da urlare? Ieri sera ho fatto tipo tardissimo per una maratona di Halo con i ragazzi. Non puoi svegliarmi così presto – con i pugni chiusi si strofinava gli occhi come un bambino piccolo e ogni due parole, sbadigliava – cosa ci sarà poi di così importante proprio stamattina. Dimmi almeno che hai preparato la colazione…”

 

“Finn –“  tentò Kurt, ma l’altro persisteva.

 

“No, nemmeno la colazione? Non è proprio da te, Kurt –“

 

“Finn…”

 

“No, adesso lasci rantolare un po’ me. Prima mi svegli con un urlo da banshee – e si, non fare quella faccia, so cosa sono. Poi scendo, non mi dici cosa volevi e nemmeno c’è la colazione pronta? Non ti riconosco –“

 

“Finn Hudson!” Kurt questa volta aveva urlato, e ciò sembrava aver attirato l’attenzione del fratellastro.

 

“Eh?!” chiese con tono esasperato Finn.

 

“Sono arrivate!”

 

“No – grugnì il più alto – Non mi dire che mi hai svegliato, per l’ennesima volta, solo per mostrarmi qualche strano paio di scarpe che hai ordinato su E-Bay. Mi sembrava di essere stato chiaro l’ultima volta: NON MI INTERESSA  e oltretutto – “

 

“TACI, FINN!” Kurt ormai era ben oltre il livello da Banshee. Aveva alzato talmente tanto il tono di voce da poter essere sentito solo da cani e delfini. “Sono arrivate le lettere da New York, dalle nostre università. Prima mi ha chiamato Rachel, è arrivata anche la sua. Potremmo aprirle insieme, magari?”

 

“Oh. Sono veramente arrivate?”

 

“Si, veramente.”

 

“Oh, oh, oh – il tono di Finn cresceva, sempre più emozionato, mentre lui quasi saltellava sul posto – Fantastico! Posso vederle? Oddio, è proprio come quando spedivo la letterina a Babbo Natale, con la differenza che in quel caso la spedivo, non la ricevevo. Fa niente, però, è emozionante lo stesso. Ti prego, fammele toccare!”

 

Detto questo, con la sua solita grazia da elefante in una cristalleria, Finn si avvicinò al tavolo della cucina, afferrando le lettere in questione e nel mentre, quasi rovesciando Kurt dalla sedia.

Kurt sbuffò e alzò gli occhi al cielo, alzandosi e allontanandosi dall’adorante ragazzone che in quel momento stava letteralmente baciando la sua lettera. Ormai era più che abituato alla goffaggine del fratellastro e dopo averne visti gli effetti sul bel viso di Rachel, aveva imparato a starne lontano.

 

“Allora,  - si fece notare Kurt, dopo avergli concesso un minuto di contemplazione – le apriamo insieme? Devo dare una risposta a Rachel. Credo che le farebbe molto piacere se fossi presente anche tu.”

 

“Cosa? Ah, si, Rachel. Si, va bene. Dille che le apriamo insieme. In aula canto tra un’ora?”

 

“Va bene. Vado ad avvertirla. Vedi di non far colare troppa bava su quella povera busta o non riuscirai più a leggere la tua ammissione.” Kurt sorrise a Finn e poi risalì le scale per andare ad aggiornare Rachel sugli ultimi sviluppi.

 

 

Esattamente cinquantanove minuti dopo, Finn, Rachel e Kurt erano in aula canto al McKinley. Avevano posizionato le loro lettere sopra uno sgabello, intorno al quale si erano poi sistemati in una specie di cerchio. Sembrava quasi volessero proteggere quelle buste, come se fossero delle reliquie.

 

Il primo a parlare fu Finn. “Vorrei aspettare ancora.”

 

“Per quanto?” gli chiese Kurt. Non sapeva se sarebbe riuscito a trattenersi ancora per molto dallo strappare in malo modo quella busta e leggerne il contenuto.

 

“Per sempre. – poi scrollò le spalle, e aggiunse – O almeno solo un paio di secondi, perché è l’ultimo momento prima delle risposte. Dopo che avremo aperto quelle lettere, le nostre vite cambieranno. Indipendentemente da quello che c’è scritto. Volevo solo un altro momento qui con voi, così.”

 

Kurt era agitatissimo, continuava a tormentarsi le mani, ma il discorso del fratellastro lo colpì. Era vero. Dopo aver aperto quelle buste, tutto sarebbe cambiato. In che modo, ancora non lo sapeva, ma comunque lui, la sua vita, i suoi due amici, non sarebbero stati più gli stessi. Tutt’ad un tratto non sapeva più se voleva veramente leggere quella risposta. Se voleva veramente chiudere quella parentesi della sua vita. Un’ondata di panico lo attaccò, ma alla fine la curiosità e la sicurezza vinsero su di essa, facendogli chiedere: “Allora, chi comincia?”

 

*********

 

Come si trovò raggomitolato sotto il lenzuolo del suo letto, di sera, con Blaine che mormorava vuote parole di consolazione nel suo orecchio, ancora adesso non saprebbe spiegarlo.

 

Aveva smesso di singhiozzare almeno un’ora prima. Ora, tutto ciò che sentiva, era vuoto.

 

Un buco nero, una voragine, un tuffo, un lancio in paracadute. Non sentiva più nulla. Dentro di sé non c’era più tumulto, non c’erano più sentimenti vibranti che gli riempivano il cuore. C’era solo il nero, il buio, il niente. Era come annichilito; scontratosi contro qualcosa troppo grande da reggere.

 

Riusciva lo stesso a sentire Blaine che cercava di consolarlo, di coccolarlo. Sentiva le voci preoccupate e piene di sconcerto di Burt e Carole, mentre bisbigliavano proprio fuori dalla porta di camera sua. Sentiva la musica rock sparata a tutto volume proveniente dalla stanza di Finn. Solo che tutto gli sembrava come una nuvola, una nube di vapore indistinta, pronta a scomparire. Quelle voci a lui care, al momento, gli sembravano solo echi lontani.

 

Decise che non voleva sentire. Doveva mettere a tacere quel silenzio che lo stava tormentando dall’interno. Così, si rigirò su un fianco e richiuse gli occhi, lasciandosi cullare da Morfeo in un sonno pesante e per niente ristoratore.

 

Quando riaprì gli occhi, era già mattino; vedeva filtrare dalla tende qualche raggio di sole che entrava ad illuminare la stanza. Aveva dormito col volto girato verso la parete, probabilmente nel vano tentativo di allontanarsi da Blaine. Non voleva vederlo in quel momento, e soprattutto, non voleva essere visto così. Sembrava che il suo piano avesse funzionato, perché quando si girò sull’altro fianco, si accorse di essere solo in camera. Blaine se n’era andato, lasciando dietro di sé solo un bigliettino.

 

Riposa, amore mio, vedrai che ti sentirai meglio. Ti chiamo domani.

Ti amo. Tuo, Blaine.

 

Normalmente, un dolce pensiero di Blaine l’avrebbe fatto sorridere, mettendolo immediatamente di buon umore. Quel giorno, però, la sua bocca non disegnò un sorriso, ma una smorfia. Con un grugnito, Kurt appallottolò il foglietto e lo gettò a terra, poi si stese supino e prese a fissare il soffitto. Era bianco e vuoto, proprio come il suo sguardo. Una lacrima gli sfuggì dall’angolo dell’occhio destro. Se la asciugò strofinandosi la guancia, poi, non sapendo che altro fare e non volendo alzarsi e incontrare nessuno, decise di rimettersi a dormire.

 

La seconda volta che si svegliò non fu pacifica come la prima, niente luce soffusa che entrava dalle finestre, né profondo silenzio.  Degli urli provenivano dal piano di sotto e sembrava che i toni stessero crescendo nel giro di pochi secondi. Kurt si scrollò le coperte di dosso, e ancora solo in boxer e canotta e con i capelli arruffati dal lungo sonno, scese a vedere cos’era successo. Era talmente intorpidito, scosso, con la mente ancora in tutt’altri posti che non si preoccupò nemmeno di farsi vedere in quelle condizioni. Per una fashion victim come lui, era tutto meno che un buon segno.

 

Quando arrivò sulla soglia del salotto, vide suo padre Burt seduto sulla poltrona che era stata del padre di Finn. Si teneva la testa tra le mani, scuotendola e quando l’alzò, Kurt vide che il suo sguardo era afflitto e corrucciato. Carole era in piedi di fianco al divano, le mani sui fianchi e il viso rosso. Era arrabbiata, e si vedeva. Finn era di fronte a lei, in piedi, lo sguardo basso e gli occhi puntati sul pavimento.

 

“Stai facendo una sciocchezza, Finn! Questa idea è malsana, completamente folle. “ Carole aveva preso a camminare avanti e indietro, scuotendo il capo e agitando le braccia, per dare ancor più enfasi al suo discorso. “Di idee idiote ne hai maturate tante nel corso degli anni, ma questa è di gran lunga la peggiore che io abbia mai sentito.”

 

Anche peggio che sposare Rachel a soli diciott’anni? – si chiese Kurt – Stavolta Finn doveva averla combinata proprio grossa.

 

“Mamma, ti prego ascoltami.”

 

“No, ascoltami tu, Finn Hudson. Se credi che ti permetterò di gettare via la tua vita così, e quando parlo di vita intendo letteralmente, non parlo di metafore, ti sbagli di grosso. Sono sempre stata una madre comprensiva e molto liberale. Hai sempre fatto ciò che volevi. Questa volta, però, mi sono stufata.”

 

“Mamma, fammi parlare. Per favore.” Finn aveva alzato il viso, mostrando qualche lacrima a rigarglielo.

 

Burt si alzò dalla poltrona ed andò ad abbracciare sua moglie, cercando di calmarla. “Prova almeno ad ascoltarlo. Discutetene da persone adulte.”

 

“Va bene, ti ascolto.” Carole ormai non sembrava più agitata, nervosa, o arrabbiata. Il suo sguardo era quasi triste, rassegnato, come se fosse preparata al peggio.

 

“Io devo farlo. Lo devo fare per me, per Rachel, per voi.” Prese un respiro profondo e chiuse gli occhi. “Lo devo fare per papà.”

 

“Finn, ne abbiamo già parlato. Ti ho già spiegato che – “

 

“Fammi finire.” Quando Carole annuì, Finn continuò. “Rachel ha deciso di non partire per New York per aspettarmi.”

 

“Che cosa?” Kurt praticamente gridò, attirando l’attenzione degli altri, che ancora non si erano accorti dell’ultimo arrivato, su di sé. Aveva gli occhi sgranati e la bocca leggermente aperta. Era stupito, completamente scioccato. Era anche terribilmente arrabbiato. Come si permetteva, lei che era riuscita a realizzare il suo sogno, di gettare un’opportunità del genere al vento? Per cosa, poi? Un amore adolescenziale? Se Kurt fino ad un minuto prima pensava di non provare più emozioni, di non avere più sentimenti, in quel momento sentiva qualcosa ribollire nel suo stomaco. Era una sensazione di calore, che lo stava travolgendo completamente, accecandolo. Kurt era furioso.

 

“Cosa diavolo le passa per la testa?”  il suo tono era glaciale.

 

“Kurt – “ Finn cercò di interromperlo, ma l’altro era pronto ad esplodere. In quel momento, tutto ciò che pensava di aver perso, ma che invece aveva solo imbottigliato in un angolino remoto della sua mente, cercando di dimenticare, iniziò a ribollire. Tutti quei sentimenti che aveva finto di non provare nelle ultime ventiquattro ore, pur di non soffrire, ora erano giunti al culmine e stavano cercando una forma di rilascio.

 

“No. Non provarci nemmeno. Siete due idioti. Siete due grandissimi idioti. Come diavolo si permette, Rachel Berry, di rinunciare all’occasione della sua vita, di buttare i suoi sogni al vento? Per cosa, poi? Anzi, forse dovrei dire per chi? – Kurt ormai stava fumando. Il suo tono di voce si era alzato di parecchie ottave e in quel momento non c’era modo di calmarlo. Fissò Finn dritto negli occhi – Come vi viene in mente di gettare alle ortiche l’unica cosa buona accadutale nella sua misera e triste vita solo per giocare a marito e moglie? Sapete cosa significa lottare con le unghie e con i denti per un sogno, per un futuro? Certo che no. Tu non hai ambizioni, sei pronto a baciare il tappeto rosso su cui si poseranno le suole di tua moglie. Lei, invece, ha sempre avuto tutto ciò che voleva. Le basta schioccare le dita, mettere su il broncio o fare un piantino e tutti sono pronti a realizzare i suoi desideri. Bé, lascia che ti sveli un segreto, Frankenteen, il mondo, là fuori, non è il McKinley. Non c’è il signor Schuester pronto a regalarvi il duetto che non meritate. Non ci sono i professori che pur di non ascoltare le lamentele di Rachel o le sue minacce sui diritti civili, le regalano voti in più. La vita, là fuori, fa schifo. Devi sudartele le cose. E quando le hai ottenute, visto che c’è anche chi non riesce mai ad ottenere nulla, ti conviene tenertele strette.”

 

Kurt ormai aveva il fiatone, tanto si era agitato. Sapeva che a mente fredda, razionalmente, non si sarebbe mai permesso di dire certe cose. Non avrebbe mai insultato l’ingenuità di Finn, né l’innegabile talento di Rachel. In quel momento, però, era il risentimento, la rabbia e forse anche un po’ di invidia che l’avevano fatto scattare.

 

“Kurt. Ti prego. Non ti ci mettere anche tu. Fatemi spiegare.”

 

Burt, per la seconda volta quella mattina, decise di fare da paciere. “Adesso basta! Finn deve parlarci e noi, come la famiglia comprensiva che siamo, lo ascolteremo.”

 

Finn lanciò uno sguardo colmo di gratitudine al patrigno e ricominciò a parlare. “Come stavo dicendo, Rachel ha deciso di non partire per la NYADA. Vuole aspettarmi, e vuole aspettare te, Kurt. E Blaine. – si rivolse direttamente a Kurt, come a volerlo rimproverare per ciò che aveva detto prima riguardo ad una persona che invece teneva moltissimo a lui. -  Ha deciso di rimanere a Lima un altro anno. Vuole che ci sposiamo e andiamo a vivere insieme. Poi, l’anno prossimo, quando tutti saranno pronti ad andare a New York, partiremo insieme.”  Prima che riprese, passò un momento di silenzio. “ Vuole esserci per noi. E vuole aspettare noi per iniziare il college insieme. All’inizio ero felicissimo di questa sua decisione. Ci saremmo sposati, avremmo vissuto insieme e io avrei avuto un altro anno per capire cosa fare. Poi, però, mi è tornato in mente un discorso che mi ha fatto Puck. Mi ha chiesto di sognare in grande, per me e anche per lui. Tutti stanno sognando in grande. Lui e Mercedes se ne vanno a Los Angeles, Mike a Chicago. Sono tutti pronti a vivere il loro futuro. Rachel è pronta a vivere il suo da quando ha due anni e ha iniziato a studiare canto. Come posso, io, la persona che dovrebbe amarla di più al mondo, essere anche la stessa persona ad impedirglielo? Non posso. Vorrei, perché la voglio con me, perché voglio sposarla. Perché lei è il mio sogno. Non è giusto per lei, però. Io non sono ambizioso, è vero. Il mio sogno è quello di avere una famiglia, quella famiglia che non ho avuto per sedici anni, prima di incontrare voi. I sogni di Rachel sono tanti, ed è giusto che lei abbia la possibilità di decidere quali inseguire. Devo lasciarla libera, non posso tarparle le ali. È per questo che le ho prenotato un biglietto per New York. Sono già d’accordo con i suoi papà, le prepareranno la valigia e con la scusa del matrimonio io la passerò a prendere. Invece di dirigerci alla sala comunale, la porterò in stazione. Tutte le Nuove Direzioni, Blaine incluso – e con questo guardò Kurt per un attimo – hanno acconsentito di venire a salutarla. Dopo che sarà partita, io sarò qui ancora per due giorni, poi andrò a cercare di capire cosa voglio veramente. Non posso capire chi sono e cosa voglio diventare se sto intrappolato a Lima per un altro anno. Devo andarmene, e se nel frattempo riesco anche a redimere il nome di mio padre, tanto meglio. È per questo che ho deciso di partire per la Georgia. C’è un campo di preparazione militare.  Ho un appuntamento per una visita medica e un check up completo per domattina. Se mi riterranno idoneo, potrò partire.”

 

Nel salotto era calato il silenzio più totale. Carole si era rassegnata di fronte all’idea di vedere il figlio partire e piangeva silenziosamente, abbracciata a Burt. Sapeva che presa la sua decisione, non sarebbe stato possibile fargli cambiare idea. Finn era sì ingenuo, un bambinone, ma era anche testardo come un mulo. Burt cercava di consolare la moglie, e nello stesso momento di osservare con occhio critico il figlio. Voleva vedere come stava reagendo. Aveva pianto, si era chiuso in se stesso e poi era esploso. Ora era arrivato il momento di reagire.

 

Kurt fissava il muro con occhi sgranati. Non riusciva ancora a credere che nel giro di qualche giorno tutto fosse cambiato così drasticamente. Stava però accettando il fatto di non poter farci niente. Non poteva cambiare come erano andate le cose. Non più.

 

“Verrò anch’io a salutare Rachel. E scusa per ciò che ho detto prima. Ero incazzato, e me la sono presa con te. Sono convinto che questa storia dell’esercito non sia il massimo, ma se è la tua scelta, la rispetto. E soprattutto rispetto le motivazioni che ti hanno spinto in quella direzione.”

 

Finn scrollò le spalle e sorrise sghembamente, come a dire che era tutto a posto. “Vado di sopra a prepararmi. Tra un’ora devo essere a casa di Rachel.” Passò oltre Kurt e senza guardarsi indietro, salì le scale verso la sua stanza.

 

Burt sentì Carole rilassarsi nel suo abbraccio. Sapeva che non avrebbe mai accettato la scelta di Finn, ma avrebbe imparato a conviverci. Ora lui, però, doveva pensare a suo figlio.

 

“Kurt, come stai?”

 

“Bene.”

 

“Kurt –“ lo rimproverò Burt – “Non mentirmi, per favore.”

 

“Sto di merda. Francamente non so come altro definire ciò che provo in questo momento. Mi sento svuotato e debole,  ma allo stesso tempo sono anche pieno di sensazioni ed emozioni. La più grande è la paura. Cosa faccio adesso?”  l’ultima domanda fu a malapena sussurrata, come se solo chiederlo ad alta voce spaventasse Kurt.

 

Kurt entrò in salotto e si sedette delicatamente sul divano. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e il volto sulle mani.

 

“Dipende. Cosa vuoi fare?”

 

Kurt rise, amaramente e sarcasticamente. “Direi che ho poca scelta. Sia io che Rachel per scaramanzia avevamo fatto domanda solo alla NYADA, quindi… Direi che riesumo il vecchio piano di Rach: sto qui un anno con Blaine e ci riprovo l’anno prossimo.”

 

“O forse, potresti valutare qualche altra opzioni.”

 

“Non ne ho.”

 

Con un sospiro, Burt sciolse l’abbraccio della moglie e si alzò. Uscì dal salotto e vi tornò dopo qualche minuto con delle buste in mano.

 

“Un uccellino estremamente goffo e terribilmente alto mi ha avvertito per tempo della tua scelta, non ritenendola molto saggia. Così ho pensato di rubare l’idea a Tina – mi è sempre piaciuta quella ragazza – e ho spedito per te qualche domanda in più.” Così dicendo, gli allungò almeno cinque buste di cinque università diverse.

 

Kurt era senza parole. Finn, nonostante i suoi problemi e le sue indecisioni, aveva pensato anche al suo futuro? E suo padre si era fatto carico anche del problema college, nonostante i suoi impegni lavorativi? A volte Kurt si chiedeva cosa avesse fatto per meritare persone così nella sua vita. Erano loro e le loro azioni e le loro parole a ripagare tutto lo schifo che aveva passato e che passava tutt’ora.

Carole, osservando l’espressione sorpresa, ma compiaciuta di Kurt, sorrise. Voleva vedere il suo figliastro, suo figlio, felice.

 

“Prendi queste buste.  Leggi le lettere e pensaci. Parlane con Blaine o con Finn, chiedi consiglio alle tue amiche, a me, a Carole. Insomma, prenditi del tempo per valutare la tua prossima mossa. Che tu scelga di restare qui un altro anno, che tu voglia andare ad un’università qui in Ohio, o a New York o dall’altra parte del mondo, non importa. Ciò di cui mi importa è la tua felicità. Voglio che tu stia bene, te lo meriti, Kurt. E per essere contento e soddisfatto della tua vita, la scelta deve essere tua, e tua soltanto. Hai ancora qualche giorno prima che scadano i termini per le iscrizioni.”

 

Detto questo, fece con un cenno a Carole, che si alzò e lo seguì fuori dal salotto dopo aver lasciato un bacio sulla guancia di un Kurt sempre più sconvolto.  Ancora una volta suo padre l’aveva stupito. Aveva pensato a lui, al suo futuro, senza nemmeno doverglielo chiedere, senza che fosse Kurt a cercare aiuto.

 

Kurt osservò le lettere che teneva strette in mano e iniziò a leggerne le intestazioni, per capire da che università provenissero. La prima busta era stata spedita dall’OSU, l’Ohio State University. Con una leggera smorfia di disappunto, Kurt la mise da parte e osservò la seconda. Questa proveniva dal Michigan, dall’università statale. Sapeva che aveva un ottimo corso di musica; sorrise, pensando che questa scelta dovesse essere un consiglio di Carole. La terza busta portava il logo dell’NYU, e Kurt la valutò con un sorriso più rilassato. Del resto New York era la città dei suoi sogni. La quarta lettera aveva come mittente una piccola università locale, decisamente poco conosciuta. Kurt la mise da parte insieme a quella dell’OSU. Non era un grande fan dell’Ohio. Quando prese in mano l’ultima busta, trattenne il fiato. Veniva da New York, dalla Parsons University New School for Design. Guidato dall’istinto, Kurt decise di non mettere da parte anche questa busta, ma di aprirla subito, eccitato di leggere la risposta all’interno. Dalla soglia del salotto, Burt sorrise. Suo figlio aveva appena trovato la sua strada.

 

 

*********

 

Era passato ormai un mese dal diploma. Era passato un mese dall’ultima volta che Kurt aveva visto il fratellastro Finn o Rachel. Il primo era in Georgia, e non aveva nemmeno il permesso di tenere un telefono cellulare. Poteva chiamare ogni sera per dieci minuti dal telefono del campo e di solito chiamava Carole, così Kurt non ci parlava da almeno una settimana. Rachel si era ormai sistemata nel campus della NYADA e aveva frequentato tutti i pre-corsi estivi. Si erano ripromessi di scriversi e di sentirsi, ma non erano riusciti a mantenere la parola data. Kurt provava quasi ogni giorni a scriverle, ma lei era sempre troppo impegnata per parlarci. Si erano sentiti solo due volte, ed entrambe le telefonate erano state un fiasco.

 

Kurt e Rachel in passato potevano avere avuto tanti problemi di comprensione, potevano aver litigato spesso, fatto a gara a chi urlava di più, ma mai si erano dovuti confrontare con silenzi imbarazzati.

 

“Rachel, finalmente! Come stai?”

 

“Oh, benissimo, Kurt! La NYADA è fantastica, ti sarebbe piaciuta da morire!”

 

Kurt si accigliò e non sapendo come rispondere, optò per non parlare proprio. Rachel sembrò essersi accorta della gaffe fatta e cercò di recuperare.

 

“No, Kurt, oddio, scusa. Non volevo dire quello. Quello che intendevo era che qui si sta veramente bene. I corsi di preparazione sono stati super interessanti. Oh, e poi il campus è veramente bello. Sai, mi ero sempre immaginata l’esperienza universitaria con il mio appartamento, perché vivere insieme a così tante persone, in stanze anonime  - “

 

Rachel stava continuando a parlare, ma ciò che diceva arrivava sempre più sfumato alle orecchie di Kurt. Sapeva che non era colpa di Rachel, ma non poteva far altro che pensare che sentirla discutere delle positività della NYADA lo stesse infastidendo, e molto. Non era mai stato un tipo geloso o invidioso, ma in quel momento provava dei sentimenti decisamente contrastanti nei confronti dell’amica.

 

Accortasi del silenzio all’altro capo della linea, Rachel smise di rantolare sulle bellezze del campus e con tono concitato chiamò Kurt. “Kurt? Kurt, ci sei ancora? È caduta la linea? Kuuuuurt?”

 

“Sono qui, Rach. Ci sono. Adesso però devo andare.” Non vedeva l’ora di mettere fine a quella telefonata, e anche se non riusciva a capacitarsene – amava le lunghe telefonate con Rachel e Mercedes – sentiva che non avrebbe retto ancora molto senza rispondere in maniera poco carina.

Ci fu un altro silenzio pregno di significato e imbarazzo. Kurt poteva sentire Rachel sospirare e poteva immaginarsela nella sua mente, mentre accigliata si chiedeva cosa aveva sbagliato questa volta.

 

“Tesoro, non è per te, veramente. – bugia- È che devo uscire per delle commissioni e sono già in ritardo.”

 

“Si, Kurt, non ti preoccupare. Capisco perfettamente.” Altro silenzio. Kurt sospirò – come erano arrivati a questo punto? Perché doveva esserci imbarazzo tra di loro? Erano migliori amici. Non era giusto.

 

“Va bene, allora vado. Ciao Rach.” “Ok, ciao Kurt!”

 

 

La seconda telefonata era stata due settimane dopo. Kurt era finalmente approdato a New York e si stava abituando alla sua nuova vita, alla sua nuova città e alla sua nuova convivenza. Una sera della settimana prima, lui e Rachel avevano organizzato un’uscita a cena e Kurt era riuscito a trascinarsi dietro anche una borbottante Santana. Rachel, però, all’ultimo minuto aveva mandato un messaggino, dicendo di non riuscire ad andare a causa di una lezione protratta fino a tardi. Kurt ne era rimasto deluso, ma aveva capito.

Da quella sera – che aveva procurato a Rachel qualche anno di accidenti da parte di una latina piuttosto scocciata – non si erano più sentiti, nemmeno per messaggio. Così, quando Kurt, mentre faceva spese per la cucina del nuovo appartamento, aveva ricevuto una telefonata dall’amica, ne era rimasto piacevolmente sorpreso.

 

“Pronto?”

 

“Ciao Kurt, sono Rachel!”

 

“Ehi, Rach. Come va?”

 

“Benissimo!” Kurt conosceva l’amica e sapeva che il tono usato era quello eccitato per una qualche novità. Sentendola così esaltata sapeva che doveva essere qualcosa di grosso.

 

“Sto bene anche io, Rach, grazie,” aggiunse in tono ironico “Comunque, che mi racconti? Si sente dalla tua voce che stai morendo dalla voglia di raccontarmi qualcosa.”

 

“Oh si, Kurt, scusa. È che è fantastico!” “Racconta, allora.”

 

“Abbiamo iniziato le lezioni con la Tibidaux. Non sai quanto sia brava”  No, infatti non lo so e non lo potrò mai sapere – pensò con rammarico Kurt. “È geniale. È un talento naturale. Le sue lezioni sono le migliori. L’altro giorno abbiamo lavorato sui solfeggi e mi ha fatto anche un complimento, cosa che non fa mai, quindi direi che ho ottime chance di essere scelta come solista per la serata d’inaugurazione del nuovo anno accademico.” Per l’ennesima volta la sola cosa di cui Rachel era capace di parlare era se stessa e il suo talento. “Oh, poi mi è appena venuta in mente una cosa. Sicuramente l’anno prossimo, quando riproverai ad entrare alla NYADA, perché parliamoci chiaro, Kurt: il tuo destino è la NYADA e Broadway, sicuramente non andare a fare il galoppino per qualche donna in menopausa che dirige una qualsiasi rivista di moda. Comunque, dicevo che l’anno prossimo, quando rifarai il provino per la NYADA, sicuramente avrai ottime chance di farcela. Proprio l’altro giorno la Tibidaux diceva quanto le mancassero voci maschili alte, che avessero un range vocale esteso. Ha detto esattamente che sono anni che cerca un controtenore all’altezza della scuola, ma che ancora non l’ha trovato. Insomma, è perfetto, rifarai il provino e – “

 

“Rachel,” Kurt dovette fermarsi e respirare profondamente. Sapeva che probabilmente Rachel non si era nemmeno accorta di ciò che aveva detto, ma feriva ugualmente.

 

“Che c’è? Ti sto dando la notizia migliore della tua giornata e non mi fai nemmeno finire.”

 

“Rachel, ti sei ascoltata? Prova a ripensare a cos’hai detto.”

 

“Che l’anno prossimo,”

 

“No, prima.”

 

“Che la Tibidaux cerca da anni un controtenore.”

 

“Esatto.”

 

“Appunto. Lo cerca e non lo trova, quando ti incontrerà – “

 

“Rachel, lo cerca da anni e non l’ha ancora trovato. Io ho già fatto il provino. E sono un controtenore.”

 

“Oh,”

 

“Appunto – oh.”

 

“Oddio, Kurt, scusa, sai che non è quello che intendevo.”

 

“No, quello che intendevi era insultare la mia nuova carriera universitaria, distruggendo nel frattempo qualsiasi mio sogno a riguardo. Nella stessa frase sei riuscita ad insultare me, la mia università e la mia voce. Il tutto sottolineando quanto invece tu sia felice e quanto la NYADA e la Tibidaux, la stessa professoressa che mi ha scartato, siano meravigliose. Direi che mi hai proprio dato la notizia della giornata.”

 

Rachel rimase in silenzio per un momento – miracolo – poi capendo di aver oltrepassato il limite per l’ennesima volta, tagliò corto. “Mi dispiace, Kurt. Non me ne ero accorta. Sai che socialmente sono imbranata ed imbarazzante. Direi che per il momento è meglio se ci salutiamo, magari.”

 

“Si, magari.” Il suo tono era uscito più acido di quel che volesse, ma era veramente infastidito dal comportamento dell’amica. Non la sentiva praticamente da secoli. Non si vedevano da più di un mese. Ora lo chiama, pensando di dargli una gran notizia e sbattendogli in faccia la sua nuova vita, finendo solo ad insultarlo. Come poteva non essere quantomeno scocciato?

Era vero che Kurt apprezzava la sua nuova scelta ed era emozionato di iniziare presto la sua università, ma la sconfitta della NYADA ancora bruciava, e molto, e sentire certi discorsi faceva ancora male.

 

“Senti, Kurt, prima che vada, volevo dirti che… che mi dispiace e che mi manchi. Non è la stessa cosa qua senza di te. Il mio sogno era venire a New York ed entrare alla NYADA, insieme e si è realizzato solo in parte. Mi manchi da morire, Kurt.”

 

Kurt sentiva gli occhi inumidirsi. Anche a lui mancava Rachel e i loro sogni insieme, ma aveva già sofferto abbastanza per entrambi e sentire queste parole da parte di Rachel invece che fargli piacere e scaldargli il cuore per l’affetto dell’amica, lo fecero indispettire e sbottò come aveva fatto con Finn e come aveva cercato di non fare per tutta la telefonata.

 

“Rachel, io ti voglio bene e tutto, ma al momento non so cosa tu pretenda. Cosa vuoi che ti dica? Vuoi che pianga al telefono su ciò che ho perso? Vuoi che rantoli su quanto mi manchi, su quanto mi manca la mia migliore amica? Vuoi che singhiozzi quanto vorrei essere con te? O magari vuoi un’altra gonfiatina al tuo ego e vuoi i complimenti perché tu ci sei riuscita e io no? Vuoi sentirti dire che ti invidio, così potrai gongolare per l’ennesima cosa che mi hai portato via? Non succederà, e se hai chiamato per questo puoi anche chiudere qui la telefonata.” Nemmeno Kurt stesso sapeva da dove provenisse tutto questo risentimento, sapeva solo che ora che l’aveva sfogato si era tolto un peso dallo stomaco, anche se farlo gli aveva lasciato un’amara sensazione in bocca.

 

Rachel stava tirando su col naso, era evidente anche senza vederla che stesse trattenendo un pianto.

“Io volevo solo dire al mio migliore amico che mi manca. Non so cosa ti sia preso, ma credo anch’io sia meglio chiudere qui la telefonata. Spero di risentirti presto.” Tu.tu.tu.

 

Kurt osservò lo schermo del cellulare spegnersi, ad indicare che la chiamata era terminata. Che cavolo aveva combinato?

 

Dopo quella telefonata, non si erano più sentiti.

 

*flashback*

 

 

Ripensare a quei giorni grigi, ancora adesso faceva male a Kurt. Lo lasciava con un peso sullo stomaco, la mente che turbinava in confusione e gli occhi lucidi. Perso, per l’ennesima volta quella mattina, nei suoi ricordi, si accorse a malapena in tempo di essere arrivato alla sua fermata. Scese al volo dal treno e salì freneticamente le scale, uscendo dalla metropolitana. Svoltò a destra e camminò a ritmo sostenuto lungo la 5th Avenue, finché non arrivò di fronte al numero civico 66 e si trovò davanti il palazzo sede della Parsons University.

 

Si soffermò un attimo ad osservarlo. Non diede peso ai dettagli architettonici. Non notò le grandi finestre in vetro, che allagavano di luce le aule. Non si fermò a guardare il grande portone, anche questo in vetro, con un’enorme maniglia in ottone. Non badò alla tinteggiatura fresca degli alti muri esterni, né a come i colori chiari e delicati dell’intera struttura risaltavano nell’altrimenti grigio contorno metropolitano.

 

Osservò l’Università per imprimere bene nella mente ogni dettaglio di quella giornata, per ricordarsi le sensazione che provava in quel momento. Aveva dovuto sopprimere tutto il fastidio, il risentimento e la tristezza provocatogli da Sebastian prima, facendogli pensare a Blaine, e da Rachel poi, la quale aveva risvegliato in lui ricordi di un periodo ben poco piacevole. Aveva dovuto farlo per lasciare spazio alla determinazione e alla sicurezza che gli sarebbero serviti per affrontare quella mattinata.

 

Oggi poteva essere il giorno in cui la sua vita, quantomeno in ambito professionale, avrebbe preso una nuova piega. Se tutto fosse andato per il meglio, avrebbe ottenuto, solo dopo due mesi di studio, una posizione ambita da tutti gli studenti del suo anno.

 

Chiuse per un momento gli occhi, prese un respiro profondo e sistemandosi la camicia, in realtà perfettamente stirata, alla ricerca di pieghe inesistenti, spinse con forza la pesante porta d’entrata e si incamminò verso la sua aula.

 

 

P.S. mi sono accorta che c'è qualche problema di layout. Io non ho messo tutti questi spazi bianchi. Non so perché ci siano, spero sia comunque leggibile senza difficoltà! =)

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Capitolo 4
*** When blue skies fade to grey pt.2 ***


I SHOULD TELL YOU_$

Bonjour! =)

 

Si, lo so, vi stavate chiedendo se fossi morta, solo sparita o mi fossi dimenticata di voi. Ebbene, nessuna delle tre! Vi devo, però, delle scuse e delle spiegazioni. Ho saltato una settimana di pubblicazione perché mi serviva un periodo di “vacanza”, che poi per me vacanza non è stato; ho avuto un milione di impegni lavorativi e universitari, e ho dovuto scegliere di mettere qualcosa in stand – by. Mi dispiace solo che la scelta sia dovuta ricadere sullo scrivere e il tradurre! =(

Spero possiate perdonarmi…

 

Detto ciò, sappiate che questa settimana sarò super puntuale! YEAH! (è per questo che piove). Oggi, siccome domani non sarò a casa, aggiorno la mia long e giovedì, per chi di voi segue anche The Kitten and Coyote, pubblicherò il 14esimo capitolo, già pronto, betato e *rullo di tamburi* CON LO SPOILER! (per la gioia di grandi e piccini, finalmente, grazie alla mia Jules, me ne sono ricordata! XD)

Tornando a questa storia, vi avverto: anche questo capitolo è mostruosamente lungo… son sempre troppo prolissa, lo so, ma mi piace descrivere bene le cose! =)

Con il prossimo si chiuderà un po’ il cerchio, e voi direte: era ora! XD Credo di aver scritto la giornata più lunga nella storia delle FF, ma va bene così.

Per il momento abbiamo qualche risposta, qualche interrogativo in più, vecchi amici e nuove conoscenze. J

 

Passando alla solita sezione “ringraziamenti”: ringrazio chi preferisce, segue o ricorda la storia, o anche chi solamente la legge. Mi fate sempre sorridere come un’ebete =)  Sembro ancor più ebete ogni volta che leggo le meravigliose recensioni che mi lasciano le mie adorate Tallutina, Illy91, Athena14 e lovemojito. Grazie veramente di cuore, ragazze! *-*

 

Come sempre, mi farebbe piacere sentire il vostro parere, che siano insulti o complimenti, idee o suggerimenti, non si discrimina! XD

 

Smetto di sproloquiare e vi lascio alla lettura, sperando vi piaccia.

 

Love, Elle <3

 

 

I should tell you

 

 

Capitolo quarto:

 

“When blu skies fade to grey”

parte seconda: Welcome to my silly life, Lizzie

 

 

La mémoire est toujours aux ordres du coeur – A. de Rivarol

 

Oggi poteva essere il giorno in cui la sua vita, quantomeno in ambito professionale, avrebbe preso una nuova piega. Se tutto fosse andato per il meglio, avrebbe ottenuto, solo dopo due mesi di studio, una posizione ambita da tutti gli studenti del suo anno.

Chiuse per un momento gli occhi, prese un respiro profondo e sistemandosi la camicia, in realtà perfettamente stirata, alla ricerca di pieghe inesistenti, spinse con forza la pesante porta d’entrata e si incamminò verso la sua aula.

 

La hall della Parsons University aveva lucidi pavimenti in marmo color beige caratterizzato da venature più chiare. Le pareti erano color avorio, e accostate ai grandi lampadari in vetro e alle ampie vetrate, garantivano alla sala una luce piena, una luminosità che si vedeva raramente nei palazzi della Grande Mela. La sala in sé era spaziosa: aveva un lungo bancone anch’esso in marmo, dove una giovane ragazza accoglieva gli studenti che necessitavano di informazioni; inoltre, vi erano due tavoli bassi in vetro a fianco dei quali stavano diversi divanetti in pelle chiara dove gli studenti potevano prendersi una pausa. Sui due lati dell’ampia sala, si aprivano due archi, ognuno ad iniziare un corridoio. Il corridoio sulla sinistra conduceva all’aula insegnanti, ad un’area ristoro – dove si trovavano un piccolo bar, una saletta con dei tavoli e dei divanetti, e i servizi igienici -  e alle aule della facoltà di Interior Design, Architettura e Grafica. Il corridoio sulla destra portava invece ad un’altra aula ristoro, simile alla prima, e alle aule dove si tenevano le lezioni dei corsi di Fashion Design e Fine Arts.

Kurt prese a percorrere velocemente il corridoio a destra della reception, e arrivò di fronte alla stanza numero 22, la stanza in cui il primo anno del corso di Fashion Design svolgeva le proprie lezioni.

Si trovò davanti a sé la porta già chiusa e maledicendosi sottovoce per il ritardo, bussò delicatamente, aprendo timidamente la porta. Una donna alta, vestita con un tailleur pantalone nero ed una camicetta in seta color pesca, era in piedi accanto alla finestra e parlava agli studenti; sentendo aprirsi la porta, alzò lo sguardo.

 

“È in ritardo, Signor Hummel. Sono le 10 e 04 minuti.”

 

Per quanto a Kurt infastidisse sentirsi riprendere proprio in quel giorno, e soprattutto per una sciocchezza come quattro minuti di ritardo, sapeva benissimo di non essere più al McKinley, dove i professori non avevano praticamente potere e li si poteva insultare a piacimento; qui era in un’università prestigiosa, di fronte alla professoressa che era l’incubo di tutta la facoltà. Dovette reprime i suoi istinti fieri e da Diva e, mordendosi la lingua, rispose con tono sommesso: “Mi dispiace, Signora Dubois.”

La signora Dubois, docente di Fashion Technical Drawing presso il corso di Fashion Design della Parsons University, era una donna severa ed austera, sempre vestita in maniera personale, ma mai meno che sobria ed elegante. Era alta e snella, gli occhi azzurri e i capelli biondi e lisci, ogni giorno legati in uno chignon dall’impeccabile fattura.

 

Sarah Dubois era nata 47 anni prima come Joséphine Dubois in un paesino nel nord della Francia. La famiglia da cui proveniva era molto semplice, e certamente non benestante. Il padre lavorava in miniera, la madre insegnava storia in un liceo che all’epoca contava appena duecento studenti. Joséphine, fin dalla prima infanzia, era sempre stata una bambina esuberante, al di sopra delle righe. Aveva in sé un brio, un guizzo particolare che la portavano ad essere benvoluta e cercata da tutti. Era anche terribilmente estrosa. Persino durante i rigidi inverni della Piccardia, non rinunciava mai a vestirsi di tutto punto, risorse economiche permettendo.

Quando iniziò a crescere non solo rimase la ragazzina meglio vestita della sua classe, indossando sempre vestitini adorabili con qualche tocco originale o qualche modifica apportata da lei stessa, ma divenne anche una tra le ragazze più belle del suo paese. Alta, snella e bionda, attirava su di sé l’attenzione di tutti. E questo la gratificava terribilmente.

Oltre ad essere una bellissima giovane donna, era anche una ragazza sveglia ed estremamente intelligente. Così, dopo essersi diplomata con il massimo dei voti in un liceo provinciale, ottenne una borsa di studio per un’università Parigina. Non le importava che non fosse la Sorbonne o che per andarci doveva lasciare casa per la primissima volta in tutta la sua vita. Non le importava nemmeno di dover lavorare per riuscire a mantenersi a Parigi a causa della povertà della sua famiglia. Ciò di cui le importava era andarsene da quel piccolo paesino che le stava troppo stretto, vedere finalmente una grande città, assaporare la vita di una metropoli. Fu così che si ritrovò a soli diciotto anni a Parigi, completamente sola, a districarsi tra un corso di laurea in Letteratura Francese – di cui a lei non importava poi molto – e due lavori. Poteva sembrare pesante, o non gratificante, agli occhi di un estraneo, ma a lei andava bene così ed era soddisfatta della sua vita. 

La vera svolta arrivò quando, una sera qualunque, un fotografo decise di cenare nella modesta tavola calda in cui faceva la cameriera. Rimase colpito dalla bellezza e dall’eterea grazia della ragazza che, seppur con addosso vestiti da due soldi e un grembiule sporco, riusciva a sembrare una creatura fatata. Le propose di iniziare a lavorare per lui; prima qualche posa per vedere le sue potenzialità, poi magari qualche scatto per mettere insieme un book, poi una pubblicità, una copertina e magari, se fosse stata fortunata, una passerella. Andò esattamente così. Passo dopo passo, Joséphine arrivò ad essere chiamata come modella per un celebre brand di vestiti per la settimana della moda Parigina.

Fu proprio durante la sua prima sfilata importante che uno stilista si accorse del suo estro e del suo talento, non solo come modella, ma anche come disegnatrice.

Fu un caso, una situazione fortuita, quella che fece rompere una delle spalline del vestito con cui dovevano chiudere la sfilata. Era l’abito più importante della collezione, la punta di diamante, disegnato a quattro mani da due delle menti geniali della moda di quegli anni. La modella che doveva indossarlo aveva pestato per sbaglio lo strascico con una delle sue decoltè, era ruzzolata a terra, storcendosi la caviglia a causa di quei quindici infernali centimetri d’altezza, e strappando in un colpo solo un pezzo di tulle da quella coda e la spallina sinistra del vestito, che non resse allo strattone arrivato dal basso. Subito dopo dilagò il panico.

Una delle assistenti cercava di rimettere in piedi la modella, l’altra era già pronta a chiamare una sarta, la terza cercava di calmare tutte le altre modelle che, come per un effetto domino, avevano iniziano a strillare (del resto è risaputo che non siano proprio creature brillanti*). I due stilisti che avevano ideato il modello erano scioccati, immobilizzati, i visi contorti in smorfie di orrore. Tutti avevano perso la calma. Tutti tranne Joséphine.

Le era successo un milione di volte di dover sistemare da sola qualche vestito rovinato perché non si poteva permettere di comprarne altri né tantomeno di pagare una sarta. Era una maga dell’improvvisazione con la stoffa. Si avvicinò in silenzio alla modella, ormai ridotta in lacrime, e gentilmente le chiese di sfilarsi il vestito. La ragazza, troppo sconvolta dal putiferio che aveva scatenato, non si oppose, anzi, si tolse volentieri quel maledetto straccio – che visto il costo tanto straccio non era. Joséphine lo valutò attentamente, cercando di varare le opzioni aperte per sistemarlo il più velocemente possibile. Era così lei, non le servivano schizzi o modellini, le bastava il tocco della stoffa sulla sua pelle e i disegni le piombavano in mente, le idee le apparivano di fronte agli occhi, rimanendo sospese nei suoi pensieri finché non decideva quale scegliere. Dopo qualche secondo di osservazione, il viso le si illuminò e lei prese a muoversi intorno ai vari tavoli, cercando ciò che le occorreva per sistemare quel opera d’arte danneggiata. Trovò un paio di forbici, un set da cucito e della fodera di una tinta ben accostabile alla cromatura del vestito. Iniziò freneticamente a lavorare. Le mani si muoveva veloci, in autonomia, tagliando e cucendo qua e là. Nessuno si prese la briga di fermarla, la osservavano invece rapiti; il chiasso di pochi minuti prima ormai dimenticato.

Dopo una decina di minuti – o quelli che a lei erano sembrati pochi secondi – Joséphine alzò il capo e sollevò il vestito dal piccolo tavolo su cui l’aveva poggiato per osservarlo meglio. Aveva tagliato del tutto la spallina rotta, inserendo un piccolo elastico a livello ascellare per non far scendere la scollatura e rendendo così il vestito monospalla. Per sottolineare la nuova linea del capo, aveva applicato un po’ del tulle strappato sulla spallina rimasta integra, modellandolo a formare un fiore. La gonna, prima corta davanti e lunga con lo strascico dietro, ora era stata pareggiata in altezza. Joséphine aveva tagliato del tutto la lunga coda in tulle, cucendo all’altezza del busto quella fodera trovata in giro. Così facendo, la fodera dava gonfiore alla gonna, rendendola simile ad un tutù. Per enfatizzare la similitudine, a circa metà dell’altezza della stoffa morbida, aveva applicato il tulle rimasto. Il vestito, da lungo, di linea elegante e fattura che ricordava un costume da sirena, era ora corto, sbarazzino ed energico.

Non avendo altre possibilità e vedendo il potenziale dell’abito, ormai completamente differente, i due stilisti accordarono a Joséphine di sfilare con il suo abito addosso.

Fu un successo.

Quell’abito verde elettrico attirò l’attenzione della stampa di tutta Europa ed in breve alla ragazza di provincia fu offerto un tirocinio presso una nota marca d’abbigliamento a Milano. Joséphine mise anima e corpo nel suo lavoro e in breve si fece una posizione ed un nome. Nel corso di pochi anni divenne una stilista e dopo un breve master in giornalismo, iniziò a scrivere per Vogue Italia. Era stato in quel momento che aveva capito di non essere più la ragazza di campagna venuta dal Nord della Francia. Era diventata una giornalista di moda importante e ricercata, nonché una stilista il cui nome aveva fatto il giro del mondo.

Decise così di abbandonare non solo spiritualmente, ma anche concretamente, i ricordi d’infanzia. Cambiò il proprio nome da Joséphine a Sarah e chiese un trasferimento da Milano a New York, lasciandosi così l’Europa, e la Francia, alle spalle.

Ormai già conosciuta e rispettata, in poco tempo il suo innato talento fu apprezzato anche nella Grande Mela, e dopo anni passati a disegnare, ideare e scrivere, le fu proposto un lavoro completamente diverso. La Parsons University stava diventando pian piano una delle università più rinomate per lo studio di Design, Moda e Stile; così, quando le venne offerta una cattedra come docente, Sarah accettò senza remore. Ora si trovava qui; ogni anno conosceva venti giovani ragazzi, pronti a qualunque cosa per realizzare il proprio sogno. Sogno che lei, puntualmente, almeno per la metà di loro, doveva stroncare. Era per questo che, seppur non essendo una persona intransigente o così tanto impostata, a lezione si comportava in maniera severa; era molto esigente, spesso anche con una punta di cattiveria. Testava i suoi ragazzi, per capire chi avesse carattere e chi no. Doveva spingere nella direzione giusta chi poteva farcela ed allontanare chi non aveva abbastanza talento. Nel corso degli anni molti dei suoi allievi erano poi diventati famosi e lei, con un pizzico di presunzione, si vantava di aver avuto almeno il merito di saper giudicare un carattere vincente.

 

“Va bene, Hummel. Entri e si accomodi.”

 

Kurt, tirando un sospiro di sollievo, si chiuse la porta alle spalle e si voltò verso la classe. Il primo anno del loro corso era formato da venti persone, ma, pur essendo così pochi, Kurt doveva ammettere di non conoscere praticamente per niente i propri compagni.

Certo, sapeva i loro nomi ed aveva persino imparato ad associare il nome al volto; aveva scambiato qualche parola di cortesia con alcuni di loro, ma per la maggior parte del tempo, in quei primi mesi, si era isolato, rimanendo quasi sempre solo. Seguiva le lezioni, si perdeva in pensieri su Blaine e sulla nostalgia di casa, prendeva appunti, aspettava la fine delle lezioni per raccogliere le sue cose e poi, senza salutare nessuno, se ne andava. Sapeva che se al momento non sapeva dove sedersi era solo colpa sua e del suo isolamento forzato che l’aveva impedito dal formare amicizie.

Decise di prendere la situazione nelle sue mani e, avvistato un posto libero accanto ad una delle ragazze con cui aveva già scambiato due parole, con uno sguardo apologetico le si avvicinò, e le chiese se poteva sedersi accanto a lei. Le sorrise, quando lei annuì raggiante ed iniziò a fargli posto sul tavolo comune. Se era vero che in quei primi due mesi Kurt si era isolato, non parlando praticamente con nessuno, era anche vero che il suo silenzio e la sua solitudine gli avevano dato modo di osservarsi intorno. Aveva studiato ogni singolo compagno di corso, cercando di decifrarne la personalità attraverso il comportamento, e doveva ammettere con se stesso che pensava di aver fatto un ottimo lavoro. Non significava conoscerli, ma quantomeno poteva essere un inizio per capire a chi avvicinarsi.

 

Mentre la professoressa Dubois continuava a parlare, Kurt prese a scandagliare l’aula, osservando per l’ennesima volta i compagni. La maggior parte delle persone del corso erano lì perché destinati a quella scuola praticamente fin dall’utero. Erano i figli d’arte: figli di modelle, stilisti, giornaliste di moda. Erano la maggioranza, ed erano quelli che probabilmente, per arrivare lì, non avevano dovuto alzare nemmeno un dito. Poi c’erano un paio di ragazze che sembravano capitate lì per caso. Kurt aveva imparato ormai da tempo a non giudicare le persone dall’apparenza, ma, vedendo lo stile e i vestiti di quelle compagne, si chiedeva ormai da tempo che diavolo ci facessero lì o come ci fossero finite.

Infine, c’erano quelli che Kurt chiamava ‘I sognatori’. Erano pochi, solamente cinque, ed erano quei ragazzi e quelle ragazze, come lui, che non avevano genitori importanti o famiglie ricche. Erano lì perché avevano talento e stile. Era il gruppetto che a lui piaceva di più e praticamente le uniche persone con cui avesse scambiato qualche convenevole. Dei Sognatori facevano parte due ragazzi: Jason e Deacon, e tre ragazze: Amber, Nellie ed Elizabeth. Erano tutti sempre impeccabilmente vestiti ed erano persone solari e simpatiche. Se Kurt però doveva scegliere qualcuno con cui stringere amicizia, avrebbe sicuramente puntato su Elizabeth, la sua attuale vicina di banco.

Elizabeth, o Lizzie, come preferiva essere chiamata, era un anno più piccola del resto di loro. Genio accademico, aveva terminato le classi Senior entro il terzo anno di liceo, così aveva iniziato la sua avventura universitaria un anno prima. Castana chiara, capelli mossi sempre raccolti in una coda disordinatissima, occhi color cioccolata e sorriso smagliante, Lizzie veniva da un piccolo paesino dell’Iowa. Era una ragazza dolcissima, all’inizio estremamente introversa, ma che poi, rotto il ghiaccio, diventava estremamente logorroica; Kurt le aveva confidato che spesso, per il suo entusiasmo anche di fronte alle piccole cose, gli ricordava un cucciolo. Ciò che non le aveva detto era che non le ricordava solo un cucciolo di cane, ma anche Blaine. Forse era per questo che era stato subito calamitato da lei, forse era per questo che, seppure si fossero parlati solo qualche volta, Kurt la apprezzava già così tanto. O forse era solamente a causa del suo nome – lo stesso di sua madre.

 

Proprio in quel momento di riflessione, che ancora una volta aveva fatto scivolare la mente di Kurt sull’argomento Blaine, Lizzie gli tirò una gomitata.

“Ti conviene ascoltare. La Dubois è da prima che ti osserva e comunque sta parlando di oggi; credo proprio che ti interessi.” Gli fece l’occhiolino e riprese ad ascoltare la Prof.

Kurt, estremamente grato per essere stato distratto dal pensiero di Blaine, iniziò ad ascoltare la Dubois.

“Bene, conclusi i convenevoli, vi spiego come funzionerà la giornata di oggi. Come già sapete, oggi deciderò chi avrà la possibilità di aiutarmi a disegnare qualcosa per il prossimo pezzo che mi è stato commissionato e che finirà in prima pagina sul numero di Vogue del mese di dicembre. Vi ho chiesto di preparare dei bozzetti, originali e non, - qui le scappò un sorrisetto; per valutare i suoi studenti, chiedeva sempre di vedere come se la sarebbero cavata non solo ideando dei modellini da zero, ma anche modificando pezzi d’alta moda già esistenti. Nessuno sapeva che questa sua peculiare richiesta veniva da un’esperienza personale, ma lei aveva trovato stranamente effettivo questo metro di giudizio. – li visionerò tutti oggi. Per organizzare meglio il tempo, però, ho deciso di dividervi in due gruppi. In ordine alfabetico: i bozzetti degli studenti dalla A alla G saranno visionati questa mattina. All’una avrete un’ora di pausa pranzo. Si ritorna alle quattordici e nel pomeriggio visionerò i bozzetti degli studenti dall’H alla Z. Chi sarà visto nel pomeriggio può andarsene.” Concluso il discorso, girò le spalle alla classe e andò ad accomodarsi alla cattedra, iniziando a chiamare il primo studente.

Kurt sospirò. Ottimo – pensò tra sé e sé – un’intera mattina per rimuginare sui miei problemi. Un’intera mattina per ripensare a Blaine.  Sapeva di essersi ripromesso di aspettare la sera per perdersi in speculazioni su cosa fosse veramente successo alla cena degli Usignoli, ma sapeva anche che, avendo un’intera mattinata a disposizione, la sua mente non gli avrebbe dato pace. Sospirando profondamente, lasciò l’aula, incamminandosi verso la porta principale. Uscì in strada e si mise alla ricerca dello Starbuck’s più vicino per prendere finalmente quel caffè che non era riuscito a bere.

 

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Sebastian si chiuse il portone alle spalle e, in un unico movimento, si sfilò le scarpe e gettò le chiavi nel piatto poggiato sulla mensola a fianco dell’entrata. Appese poi il giubbotto nell’armadio in legno d’acero che stava di fronte la mensola e si incamminò per il corridoio, diretto in cucina.

Il suo appartamento era un piccolo loft proprio dietro Central Park. I suoi genitori l’avevano acquistato per lui quando aveva deciso di voler frequentare Legge a New York. Tutta la sua famiglia aveva sempre creduto che, potendo scegliere, Sebastian avrebbe deciso di tornare in Francia. Invece, stupendo tutti, se stesso compreso, aveva deciso di restare negli States. Se doveva essere sincero, non sapeva ancora perché avesse preso una decisione del genere; Sebastian amava l’Europa. Aveva vissuto a Parigi, ma aveva visitato gran parte della Francia e aveva visto anche qualche città Italiana ed Austriaca. Ne era rimasto profondamente affascinato: le città Europee erano così diverse da quelle d’oltreoceano. Sebastian pensava che ai paesi del Nuovo Continente mancasse l’anima. La cultura, la storia, l’arte e le tradizioni che tenevano vive le città Europee erano, al contrario, le caratteristiche che rendevano i paesaggi Americani incompleti. La scelta di restare negli States, di spostarsi a New York, era stata istintiva, di pancia; probabilmente si sarebbe potuta definire irrazionale, ma Sebastian sentiva che era quella giusta. Adesso doveva solo capire il perché.

Quando era arrivato a New York, aveva preferito non scegliere la vita del campus, perché parliamoci chiaro: non è il genere di vita adatta a Sebastian Smythe. L’esperienza di avere un coinquilino l’aveva già vissuta alla Dalton, e gli era bastata; convivere forzatamente, ventiquattrore al giorno, sette giorni su sette, con un’altra persona, non faceva per lui. Era un’esperienza che lo portava all’esasperazione. Inoltre, per Sebastian, le sue libertà erano il bene più prezioso che possedesse. Non apprezzava le impostazioni, gli orari obbligati, non poter uscire la sera, star fuori per tutta la notte e tornare a mattina inoltrata. A Sebastian piaceva anche la solitudine; sapeva stare in mezzo alla gente, di tanto in tanto parlare con un amico poteva essere piacevole, ma, in generale, preferiva non avere legami. Gustava il silenzio di una casa vuota, la pace che si creava – forse perché era confortante; gli ricordava la sua infanzia. Comunque, per tutte queste ragioni, aveva deciso di vivere da solo; ed avendo i suoi genitori standard elevati e un cospicuo conto in banca, non poté scegliere nulla di meno di un appartamento tutto suo in pieno centro. Non che se ne lamentasse.

Il loft era uno spazio estremamente moderno e luminoso; organizzato in maniera funzionale e moderna, aveva anche qualche mobilio più classico, per creare almeno l’idea di un certo calore familiare che diversamente Sebastian non aveva mai sperimentato.

Dal lungo corridoio si aprivano differenti porte; la prima, sulla destra, conduceva alla cucina: un open space in acciaio e legno di noce. Super attrezzata, era probabilmente uno spreco nelle mani di Sebastian, che la usava al massimo per la colazione.

La seconda porta, sulla sinistra, era in vetro smerigliato e si apriva direttamente sulla zona notte: una stanza da letto, un bagno e la stanza per gli ospiti, che dentro aveva un altro piccolo bagno.

La terza porta era di tipo scorrevole; anch’essa in vetro, veniva quasi sempre lasciata aperta, garantendo la vista del salotto. La sala era una stanza completamente arredata da Sebastian stesso. Aveva voluto che almeno una parte di quella casa gli assomigliasse.

Ad una prima occhiata, sembrava il classico salotto arredato da un Interior Designer: alla moda, ma anche classico; funzionale e moderno, ricco di ogni tecnologia. Le luci si potevano regolare per deciderne il grado di luminosità; le finestre erano enormi vetrate che si aprivano su una piccola terrazza; davanti al divanetto in pelle scura stava un enorme schermo al plasma. Insomma, osservando superficialmente, anche quella stanza, come tutte le altre, sembrava uscita da un catalogo illustrativo.

Un occhio esperto, e meno approssimativo, però, si sarebbe accorto di piccoli particolari, piccoli dettagli, che invece donavano a quel salotto calore, un’idea di vissuto. Su una mensola, disposte con attenzione, venivano mostrate almeno una decina di cornici. Nessuna sembrava particolarmente costosa, o di qualche designer famoso; erano semplicissime cornici d’argento, lisce e monocromatiche. Le foto al loro interno erano disposte in modo da formare una linea del tempo, un simbolismo emotivo particolare. La prima foto a sinistra era la foto di un neonato, in braccio alla propria madre, ancora nel letto d’ospedale. La donna, giovane e bellissima, sorrideva raggiante all’obbiettivo, i regali per la nascita del figlio a farle da scenografia. La seconda cornice racchiudeva un piccolo collage di foto di un piccolissimo Sebastian vestito completamente in bianco, il giorno del suo battesimo. Facendo correro lo sguardo da sinistra a destra si potevano vedere altri scatti dell’infanzia di Sebastian: un piccolo diavoletto biondo travestito da fantasma per Halloween, un bellissimo bambino vestito di tutto punto, papillon compreso, ad una qualche cerimonia ufficiale. E poi ancora, Sebastian al mare, al parco giochi, il primo giorno di scuola, con il grembiulino azzurro. Da queste immagini si inizia a vedere un giovane uomo: uno scatto accanto al padre, poi uno con la Mamie. Un Sebastian decisamente più cresciuto davanti alla Tour Eiffel, poi in mezzo ai piccioni di fronte a Notre Dame, e ancora al Colosseo e poi nei giardini di Schönbrunn, a Vienna. E così avanti, gli ultimi due scatti fotografati alla Dalton: la prima foto ritraeva tutti gli Usignoli in aula canto, insieme e sorridenti, più uniti che mai. Sebastian si trovava al centro, da vero front man, alla sua destra Jeff, alla sua sinistra Nick. La seconda cornice mostrava uno scatto ancora più recente: Sebastian, nei giardini dell’Accademia Dalton, insieme a Nick e Jeff, tutti e tre con addosso le loro tuniche da diplomandi. Sorridevano alla macchina fotografica, rilassati e felici. Tutto in quella sala, dal grande schermo al plasma alle cornici, gridava “Sebastian”.

Percorse il corridoio fino alla cucina, si versò un bicchiere d’acqua e preso il cellulare, si andò ad acciambellare sul confortevole divano in pelle. Non sapeva perché, ma voleva provare a capire qualcosa in più della scenata di Kurt. Non che gli importasse poi molto di Lady Hummel, ma ogni tanto, un po’ di gossip, piaceva anche a lui. Scorse la rubrica del proprio BlackBerry, fino ad arrivare al numero che cercava; fece partire la chiamata e si avvicinò l’apparecchio al viso.

 

“Pronto?” la voce calda e profonda di Nick arrivò chiara attraverso la linea telefonica.

“Ciao Niff, come state?” Ormai nessuno si prendeva più la briga di chiamare Nick e Jeff separatamente; erano sempre insieme e anche se ne cercavi solo uno, prendevi comunque il pacchetto completo.

 

“Ciao Sebastian, – rispose Nick, mentre in sottofondo Jeff faceva da coro – Ciao Sebby!”

“Allora, cosa mi raccontate?” Aveva chiamato la coppia di amici con uno scopo ben preciso, ma voleva arrivare a toccare l’argomento con una certa nonchalance. Così diede agli altri due la possibilità di fare due chiacchiere. All’altro capo della cornetta ci fu un momento di silenzio imbarazzante e poi: “Nicky, Nicky, Nicky!” Sebastian sentì Jeff sussurrare con un tono quasi cospiratorio, come per non farsi sentire. “Nicky, sono preoccupato! Credo che Sebby stia male! Non ci ha ancora proposto il solito ménage à trois! Nicky!...” I rantoli di Jeff furono coperti dalla fragorosa risata di Nick, non particolarmente apprezzata da Sebastian.

“Quando hai finito…” gli disse con tono scocciato.

“Scusa, Seb – “ Nick ancora singhiozzava, faticando a reprimere i risolini, mentre Jeff era assorto in un silenzio pregno di preoccupazione. “Nicky, non fa ridere; Sebby sta male!”

“Per favore! Smettila di dire cazzate!” sbottò Sebastian.

“Seb, non insultare Jeffy! Sai anche tu che è tutto vero; ormai è il nostro modo di salutarci, no?”

 

*flashback*

Sebastian Smythe si era appena trasferito da Parigi, capitale culturale ed artistica, città che vibrava di storia, ricordi, emozioni, ma anche di caffé d’arte, locali e vita notturna. Era una città emozionante ed eccitante, da scoprire giorno per giorno. Aveva lasciato la città che per due anni era stata il suo rifugio segreto, il posto sicuro in cui dimenticare il passato che ancora oggi continuava a tormentarlo. All’improvviso, i suoi genitori avevano deciso che lo rivolevano con loro, negli States; il problema era che nemmeno loro vivevano più dove li aveva lasciati, a San Francisco, ma si erano trasferiti nell’insulsa cittadina di Westernville, Ohio, per favorire la carriera del padre. Sebastian si era così trovato catapultato, nel giro di una settimana, dalla realtà della Ville Lumiére alla realtà rurale, grigia e monotona dell’Ohio. Come se tutto ciò non fosse abbastanza, il padre aveva deciso che era ora che la formazione del figlio fosse seguita più attentamente; così, aveva deciso di iscriverlo all’Accademia Dalton, costringendolo persino a dormire nel campus interno, in un vano tentativo di controllare le scappatelle notturne dell’adolescente. Sebastian, oltre ad essere terribilmente incazzato col padre, era estremamente annoiato. Certo, quando gli avevano detto che avrebbe frequentato la Dalton, un’accademia tutta maschile, il giovane Smythe si era leccato i baffi, eccitato di fronte alle nuove possibilità di conquista. Aveva imparato ben presto, però, che i suoi approcci diretti e maliziosi non solo non gli fruttavano scappatelle notturne, ma anzi, in soli due giorni gli avevano già fatto guadagnare una pessima reputazione tra gli altri studenti  e una visitina nell’ufficio del preside. A quanto pareva la politica di non tolleranza verso il bullismo si estendeva anche agli approcci sessuali. Insomma, per Sebastian quell’accademia era una gabbia. Una gabbia d’oro, visto il posto e il costo della retta, ma comunque una gabbia.

Considerate tutte le voci che correvano di già sul suo conto, Sebastian sapeva di dover fare qualcosa per risollevare la sua reputazione, così, avendo sentito quanto fossero popolari gli Usignoli, – nome pessimo, a suo parere – decise di mettere a frutto quelle lezioni di canto che sua madre l’aveva obbligato a prendere da bambino.

Era così che quel pomeriggio di ottobre si era ritrovato sulla soglia dell’aula che il coro usava per le prove, pronto alla sua audizione. Senza nemmeno bussare, in pieno stile Smythe, aveva spalancato la pesante porta della stanza, solo per trovarla completamente vuota. Osservando in giro, Sebastian si accorse di essersi sbagliato: su uno dei morbidi divanetti color panna due ragazzi stavano parlottando tra di loro, talmente immersi in chissà quale discussione da non accorgersi nemmeno di essere stati interrotti. Erano seduti vicinissimi, i loro corpi praticamente combaciavano e la distanza tra i volti indicava quanto fosse intimo il loro rapporto. Bene - pensò Sebastian adocchiando la coppia; non aveva dubbi che entrambi i ragazzi, peraltro estremamente carini e sexy, fossero gay - finalmente un po’ di divertimento.

“Buongiorno, ragazzi, devo dire che finalmente questa scuola mostra i suoi lati positivi.” Entrò con il suo solito passo sicuro nella stanza. Un sorriso malizioso ed arrogante stendeva le sue labbra, sulle quali, mentre parlava di lati positivi, fece scorrere la lingua, lanciando uno sguardo languido e seducente a Nick. Jeff si accorse dell’interesse del nuovo ragazzo, già etichettato da tutti come la nuova puttana della scuola, verso il suo amico – perché checché se ne dicesse, Nick e Jeff NON erano una coppia – e così, preso da un lampo di rabbia che non sapeva spiegarsi, lanciò un’occhiata cupa e quasi minacciosa – Jeff ricordava pur sempre un cucciolotto – a Sebastian, e gli rispose con tono secco: “Ci conosciamo?”

Sebastian, accortosi dell’evidente gelosia del biondino, decise di giocare un po’ con i due ragazzi e così provocò anche lui: “Direi di no, ma si può rimediare.” Si voltò verso Jeff e facendogli l’occhiolino, aggiunse: “Che ne dici: io, te e il tuo bambolotto in blazer. Sembrate coraggiosi abbastanza da provare qualcosa di nuovo e fidatevi, se mai voleste provare un ménage à trois, io sarei la scelta migliore.”

*fine flashback*

 

“Mi sembra però che tutta questa ilarità sia fuori luogo, visti i risultati dei miei approcci sessuali. Se ben ricordo, sono stato anche ringraziato per i miei servigi, vero, Nicky?”

 

*flashback*

Due giorni dopo quel primo incontro con Sebastian, Nick e Jeff entrarono in aula canto tenendosi per mano. Superati i primi secondi di sconvolgente shock, gli Usignoli eruppero in gridolini di gioia e stupore. Trent propose un buffet per festeggiare la nuova coppia. Thad, che aveva ereditato l’ignobile martelletto da Wes, ormai all’università, iniziò a sbatterlo furiosamente – “tanto per fare casino”. David, ancora a bocca aperta – stranamente la mascella sembrava aver perso di funzionalità – sfilò il cellulare dalla tasca del suo blazer e scrisse freneticamente un messaggio di gruppo, prontamente inviato a Wes, Kurt e Blaine. Il testo del massaggio era molto semplice: “Niff is on!”. Passarono appena un paio di minuti, quando David ricevette in risposta tre messaggi praticamente identici. Pur non essendo insieme, i tre amici avevano formulato lo stesso pensiero.

 

“Dio sia lodato! Come diavolo è successo? È tutto l’anno scorso che escogito piani – falliti miseramente – per farli mettere insieme! Come ho potuto perdermelo? – W.”

“Non ci credo, non ci credo, non ci credo! Che bello! Fa le mie congratulazioni ad entrambi. Sono felicissimo per loro; erano persino peggio di me e Blaine, il che è tutto un dire. Come hanno fatto a decidersi? – K.”

“Alla buon’ora, persino io mi ero accorto che provavano dei sentimenti l’uno per l’altro. Chi è riuscito nella grande impresa? Non mi dire nessuno, perché non ci credo che ci siano riusciti senza una ‘spintarella’ da qualcuno… - B.”

 

David non poté far altro che concordare con i suoi amici, così rimise il telefono in tasca e, alzando lo sguardo, si rivolse alla neo coppietta.

“Come diavolo è successo?” chiese, indicando senza vergogna le loro mani unite.

Jeff arrossì e scoppiò a ridere, mentre Nick si limitò a sorridere, voltandosi in direzione dell’ultimo acquisto degli Usignoli: “Grazie, Sebastian!”. Detto questo scoppiò a ridere anche lui, mentre Sebastian ghignava e tutti gli altri Usignoli si guardavano senza capire veramente come fosse accaduto.

*fine flashback*

“Vero, hai ragione, sei stato ringraziato per i tuoi servigi da cortigiana. Chiarito questo punto, andiamo avanti, – anzi, aspetta - come facevi a sapere che eravamo insieme?” Nick sembrava genuinamente confuso.

“Stai scherzando, Duval, vero? – Sebastian fece una risatina di scherno e sbuffando, proseguì – Come se ci fosse mai stata una volta in cui vi ho beccati separati; e sfortunatamente per i miei occhi, non intendo solo metaforicamente.”

“Non mi pareva ti fossi mai lamentato per i tuoi occhi.” Rispose Nick, un’evidente nota di divertimento nella sua voce. Sebastian sorrise e scuotendo il capo, cercò di sviare. “Come vuoi, nasone. Possiamo passare oltre? Come sta la coppietta felice?”

Non che a Sebastian piacesse poi troppo fare “quattro chiacchiere”, ma doveva distrarre un po’ gli amici con discorsi frivoli e di scarso interesse per poi farli arrivare a parlare di Hummel e dell’ormai famosa cena. Aveva bisogno di un po’ di informazioni e sapeva che Niff erano gli unici a cui poteva rivolgersi; sperava solo che i due stessero al suo gioco.

Jeff, come sempre facilmente esaltabile, si lanciò in un racconto super dettagliato dell’ultimo appuntamento organizzato da Nicky. Quest’ultimo, però, non ci cascò facilmente come il fidanzato, così lo interruppe e chiese: “Sebastian, cos’è successo?” Il suo tono era confuso, curioso e preoccupato allo stesso tempo.

Sebastian alzò gli occhi al cielo, imprecando contro Nick e la sua intuitività. Decidendo di smetterla con i giochetti da quattro soldi, chiese direttamente: “Ho bisogno di sapere cos’è successo alla cena di ‘arrivederci’ degli Usignoli. Quella di quest’estate, quella che avete organizzato quando ero in Francia.”  Sebastian sentì Jeff ridacchiare, come se sapesse qualcosa che lui ignorava, mentre Nick stette in silenzio per un momento, prima di chiedere: “Perché ti interessa tanto da chiamarci di lunedì mattina, quando so benissimo che ieri sera hai sicuramente dormito fuori?”

“Perché si, Nicky. Se non mi fosse interessato, non te l’avrei chiesto.”

“Sento puzza di bruciato,” – dichiarò Nick con tono sospettoso.

“Oh Dio, prova a controllare il forno!” – Jeff si allarmò e Sebastian poteva sentire persino attraverso il telefono che era corso in cucina. Dall’apparecchio venivano strani rumori, come di mobili spostati, trascinati pesantemente sul pavimento.

“Jeff, no! Cosa stai facendo?” Nick aveva ormai abbandonato il telefono e il suo urlo era arrivato attutito dalla lontananza, ma ancora ben chiaro all’orecchio di Sebastian.

“Metto in salvo i mobili! Stiamo andando a fuoco! Sebastian, chiama i vigili del fuoco, presto!”

A questo punto Sebastian non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una fragorosa risata. Nick, nel frattempo, cercava di calmare il biondino.

“Jeff, tesoro, non stiamo andando a fuoco – “

“Ma tu hai detto che sentivi puzza di bruciato,” Jeff sembrava veramente sconcertato dalla notizia.

“È un modo di dire. Significa che pensi che ci sia qualcosa che non va, qualcosa fuori posto; pensi di essere stato ingannato. In questo caso mi riferivo al nostro carissimo Sebby. Non sembra strano anche a te che ci abbia chiamati dopo una folle notte di sesso solo per fare ‘due chiacchiere’?”

Jeff sembrò pensarci per un attimo, dopodichè Sebastian sentì un pesante fruscio, un fischio che quasi gli costò il timpano destro; la voce di Jeff gli arrivò chiara e decisa: “Sebastian, che cazzo è successo stanotte?” Per l’ennesima volta quella mattina, Sebastian alzò gli occhi al cielo.

Sapeva che quando Jeff diventava serio, e assumeva questo tono da persona matura, era arrivato il momento di parlare. Aveva già provato a sua spese la furia di Sterling, – dopo che aveva quasi accecato Blaine – e non ci teneva a riprovarla. Poteva anche sembrare un cucciolo di foca, come l’aveva descritto sua madre dopo averlo conosciuto alla cerimonia dei diplomi, ma quando si prendeva a cuore qualcosa, sapeva essere ben determinato.

“E va bene, se mi giocate la carta ‘Jeff incazzoso’, sono costretto a parlare.”

“Allora parla, e sii veloce. Non so se l’avevi già capito, ma eravamo nel bel mezzo di qualcosa.” Nick sembrava essersi riappropriato del proprio cellulare, e a giudicare dalla distanza con cui era arrivata la sua voce, doveva aver messo il vivavoce, di modo che potessero sentire e parlare entrambi.

“Ieri sera, come al solito, sono uscito e sono andato nei miei bar fissi. A proposito, prima o poi dovreste uscire dalla fase ‘luna di miele’ e venirci anche voi, sono veramente – “

“Non svicolare!” – abbaiò Jeff.

“Come preferisci, Blondie. Stavo dicendo: ieri sera, al solito, ho fatto un giro per i locali e mi sono trovato questo bel pezzo di carne con cui divertirmi un po’. Sapete, aveva questi tatuaggi nei posti più disparati – “

Jeff lo interruppe con un “Bleah!”, mentre Nick aggiunse: “Se non sono pertinenti alla storia, non ci interessano i dettagli sul tuo bel pezzo di carne, grazie mille!”

“Non siete per niente divertenti. Comunque, mi sono trovato questo ragazzo con cui divertirmi un po’, e siccome sono un Dio greco a letto, sono rimasto per tutta la notte da lui. Mi sono svegliato in un quartiere che non conoscevo, così, dopo aver non salutato il mio nuovo amico, ho fatto due passi per orientarmi e, trovando uno Starbuck’s aperto, ho deciso di fermarmi a prendere un caffè. Non potete nemmeno immaginare chi ho incontrato – “

“Uh, hai conosciuto un personaggio famoso, vero?” Jeff era elettrizzato all’idea e Sebastian, se ci si metteva d’impegno, poteva persino immaginarselo accanto a sé che saltellava su e giù dalla gioia. Devo proprio comprargli una palla, – pensò Sebastian – magari se lo alleno bene, può fare veramente qualche trucchetto da foca. Potremmo guadagnarci dei soldi.

“Smettila di immaginare il mio fidanzato che saltella su e giù come un qualche fenomeno da baraccone, - urlò Nick – e tu, Jeff, smettila di dire cazzate e di saltare sul divano! Saltare sui mobili è compito di Blaine!”

“Bingo!” – esultò con sarcasmo Sebastian.

“Cosa c’entra il bingo  - aspetta, hai incontrato Blaine? È qui a New York?” chiese Nick.

“Blaine? Blaine? Dov’è Blaine? Mi manca!” si lagnò Jeff.

“Fuochino.”

“Sebastian, - Nick si era ormai spazientito – non è una caccia al tesoro. Chi hai trovato?”

“Quanto sei palloso, nasone. Ho incontrato Lady Hummel.”

“Kurtsie? Hai visto Kurtsie prima di me? Traditore!” Jeff stava praticamente gridando, costringendo Sebastian ad allontanare il cellulare dall’orecchio.

“Kurt è a New York? Davvero?” Nick era più tranquillo rispetto al biondino, ma dal suo tono di voce si capiva che anche lui era contento di avere notizie dell’amico. “Come sta?”

“Non saprei dirti, Nick. È per questo che vi ho chiamati. Ho bisogno di informazioni.”

“Come non sai dirmi? Cosa gli hai fatto? Che genere di informazioni?”

Sebastian sentì i rumori di una colluttazione e poi un tonfo, seguito da un “Ahia, Jeff!”

Jeff, riappropriatosi del telefono, assunse di nuovo il suo tono minaccioso. “Sebastian, giuro che se vengo a sapere che gli hai fatto qualcosa, ti ammazzo questa volta. Hai già passato il segno con la granita, le foto e tutto il resto. Credevo aveste chiarito e tu ti fossi pentito – “

“Jeff, taci un attimo. Ho detto che non era il massimo della vita, non che era ferito, morto o altro. E comunque, non è stato certamente per colpa mia. Anzi, se fossi in voi, andrei a chiedere spiegazioni a quel santo del vostro Blaine –“

“Cosa c’entra Blaine?” chiese Jeff, confuso.

“Ditemelo voi. Cosa doveva combinare a quella famosa cena da non poter portare con sé il suo mini pony al guinzaglio?”

“Blaine ha un pony?” Jeff era sconcertato, e anche un po’ eccitato. “Perché non me l’ha mai detto?”

“Jeffy – disse pazientemente Nick, rialzatosi da terra dov’era finito dopo la lotta per il telefono – credo che Seb si riferisca a Kurt. E Blaine non ha un pony.”

“Bingo un’altra volta, Duval. Mi stupisci.” Si complimentò falsamente Sebastian.

“Grazie, Smythe – rispose sarcasticamente Nick – Adesso dicci, cosa c’entra la cena? E cos’ha combinato stavolta Blaine?” Nick sembrava quasi esasperato nei confronti dell’ormai ex Usignolo, come se non fosse la prima volta che Blaine combinava qualche pasticcio.

“Cosa significa stavolta? Vuoi dirmi che il tappetto è un cattivo ragazzo? – Sebastian aveva un tono divertito – Sapevo che mi piaceva per un motivo.”

“Quanto sei pessimo, Sebastian.”

“Mi lusinghi, Nicky caro.”

“Mi avete stufato! – dichiarò Jeff – Voglio sapere cos’è successo al mio Kurtsie e chi devo picchiare!”

“Placa gli istinti omicidi, Sterling. Kurt mi ha detto che non sapeva nulla della cena. La storia dello shopping con la sua amica strana era una cazzata. Sembrava sconvolto, e se n’è andato senza tante spiegazioni. Questo è tutto ciò che so.”

“Cosa?” disse Jeff, il suo tono oltraggiato e rabbioso – “Questa è un’altra delle puttanate di Blaine.”

“Prima o poi mi dovrete raccontare il passato di Anderson, a quanto pare ha una fedina penale lunga,”

“Non ti eccitare troppo, Smythe – ribatté seccamente Nick – Tutti i pessimi precedenti di cui stiamo parlando riguardano il comportamento di Blaine – “

“E questo l’avevo capito da solo, grazie Duval.” lo interruppe Sebastian.

“Se mi facessi finire, magari. – sbottò Nick, poi sospirò e continuò – Come stavo dicendo, tutti i precedenti di Blaine riguardano il comportamento di Blaine nei confronti di una sola persona –“

“Chi?” chiese Sebastian curiosamente. Aveva aggrottato le sopracciglia, e il suo sguardo rifletteva la sua confusione. Non riusciva proprio ad immaginarsi Anderson che se la prendeva con qualcuno. Tanto meno riusciva a figurarselo con un bersaglio fisso.

“Kurt.” rispose con semplicità Nick.

Sebastian rimase in silenzio per parecchio tempo, cercando di assorbire la novità. Come diavolo era possibile? Quei due vomitavano miele ogni volta che si parlavano! Jeff lo riscosse dai suoi pensieri, quando, ancora adirato verso i mulini a vento, continuò ad interrogarlo. “La fase ‘Come Eravamo’ la lasciamo per un’altra volta, grazie. Voglio ancora sapere cos’è successo al mio Kurtsie e quanto forte devo picchiare Blaine.”

“Perché tieni così tanto ad Hummel, Jeff? Voglio dire, è stato alla Dalton per pochissimo tempo. Da quello che mi ha raccontato Trent, che era il suo compagno di stanza e quindi quello con cui spendeva più tempo, le sue giornate erano completamente monopolizzate da Blaine. Se qualcuno al di fuori di lui riusciva a beccarlo, erano Wes e David. Anche quando sono arrivato alla Dalton, tutto ciò che sentivo era Blaine qui, Blaine là, Blaine sopra, Blaine sotto. Nessuno mi aveva mai nominato Kurt. Se è così favoloso come lo descrivi tu, perché nessuno me ne aveva mai parlato? Cosa ci trovi di così speciale in lui?”

“Tu non capisci, Sebastian. – iniziò Jeff con tono triste, quasi nostalgico – Nessuno te ne ha mai parlato perché la gente si concentra sempre sulle cose o meglio, sulle persone sbagliate. Kurt è la persona migliore che conosca. Amo Nick, ma Kurt è la mia persona speciale – anche se magari per lui non è altrettanto. Avrà sempre un posto particolare nei miei ricordi. Mi ha aiutato quando ne avevo bisogno. Se ti fossi degnato di dargli una possibilità, invece di cercare di rubargli il ragazzo, accecarlo, e poi umiliarne il fratellastro, magari avresti un amico speciale in più. E capiresti perché io tenga così tanto a lui.”

Si poteva sentire persino dalla voce il sorriso che incurvava le labbra di Nick, mentre aggiungeva: “Kurt è un caro amico, Sebastian. Capiscici se ci preoccupiamo per lui. Tu cosa faresti al posto nostro se qualcuno ti dicesse che Jeff ha dei problemi?”

Sebastian sembrò ponderare un attimo la risposta. Non era mai stato il tipo da amici. Amava la solitudine e dopo tutto ciò che era successo prima che partisse per Parigi, non si fidava poi troppo delle persone. Jeff e Nick, però, con la loro insistenza, con la loro persistenza nel cercare di conoscerlo, e grazie alla loro costante allegria, gli si erano avvicinati come nessun altro era riuscito, e poteva veramente definirli amici.

“Hai ragione. Ecco ciò che so: Kurt non sapeva nulla della cena, non so cosa gli abbia o non gli abbia detto Blaine. So solo che non ne era a conoscenza, e che quella dello shopping era una scusa. Quando ci siamo parlati era parecchio sconvolto, e dopo avermi a malapena salutato, è fuggito. Peraltro è strano: Hummel non è uno che fugge. Anche quando ci insultavamo pesantemente, non aveva mai abbandonato la discussione, non se n’era mai andato prima di essersi assicurato di aver avuto l’ultima parola. Oggi, invece, mi ha ribaltato addosso il caffè, abbiamo parlato, l’ho sconvolto, mi ha promesso di pagarmi la lavanderia e se n’è andato, senza aggiungere nulla. Potete dirmi cos’è successo a quella cena? E soprattutto, cos’ha combinato Blaine? Per caso lo tradisce?”

All’altro capo del telefono ci fu un silenzio pregno di imbarazzo, prima che Nick rispose timidamente: “Avevo casa libera solo quella sera, dopo aver sistemato tutto e salutato tutti gli invitati, – ehm – io e Jeff ci siamo ritirati in camera mia. Quando siamo usciti erano rimasti solo Thad e Trent, ormai ubriachi, che cercavano invano di pulire il giardino.”

“Niff, miei cari, in un’altra occasione mi sarei complimentato e vi avrei detto quanto fiero di voi sono, ma adesso siamo ad un punto morto.”

“Non è vero - rispose deciso Jeff – io e Nicky possiamo chiamare Wes e David, e chiedere a loro un resoconto della cena. Tu puoi contattare Kurt. Non avevi parlato di una camicia? È una scusa che regge, no?”

“Mi avesse lasciato un numero... Se n’è andato come un razzo. Dopo che è uscito, però, la barista, una sua amica, mi ha detto che aveva una giornata importante all’università e dopo che me la sono lavorata un po’ in stile Smythe, mi ha lasciato l’indirizzo di casa sua. A proposito, non immaginerete mai con chi vive adesso…” disse Sebastian, il divertimento nella sua voce palese.

“Con chi vive?” chiese Jeff, che invece sembrava preoccupato.

“Con la Lopez.”

“La latina paurosa?” Nick era sconvolto dalla notizia.

“Si, proprio lei.”

“Wow.” Aggiunse Jeff, altrettanto sconvolto.

“Comunque, tornando a noi, ho solo l’indirizzo di dove abita adesso, e non sono sicuro che una mia visita a casa Hummel – Lopez farà molto piacere ai suoi abitanti.”

“Oh, per favore, Sebastian – lo zittì Jeff – sei curioso di sapere cos’è successo almeno quanto me e Nicky, se non di più. Sai che è l’unico modo per parlare con Kurt. Ha cambiato numero lo scorso inverno, e non abbiamo quello nuovo. O vai a casa sua, o vai a casa sua.”

Era vero, Sebastian era tremendamente curioso di sapere cosa fosse successo tra i due mini pony, anche se non sapeva bene perché. “Va bene – concesse con tono riluttante – andrò da Hummel con la scusa della lavanderia per la camicia, e cercherò di capire cosa sia successo.”

“Ottimo!” esultò Jeff.

“Bene. Anche se ancora non mi è ben chiara questa tua curiosità nei confronti di Kurt, finché gioca a nostro favore è ben accetta. Adesso che abbiamo un piano d’azione – “

“Nick, hai troppi videogiochi di guerra,” lo interruppe Sebastian, scuotendo il capo.

“Si, quel che è. Adesso che abbiamo un piano, lo svolgeremo e ci riaggiorneremo domani. Per questa mattina ti ho sentito parlare anche troppo, Smythe. Io e Jeff abbiamo qualcosa in sospeso.”

Sebastian ruotò gli occhi: “Va bene, generale Duval.”

“Ciao Sebby!” gridò Jeff, prima che la linea cadde. Tu.tu.tu.tu.

Sebastian, ancora sorridendo, mise a caricare il cellulare, impostandone la sveglia per il pomeriggio: dopo aver passato la notte in bianco e senza caffè aveva estremamente bisogno di dormire. Non avendo voglia di spostarsi nella camera da letto, si allungò sul divano e coprendosi, chiuse gli occhi, pensando già a come poter presentarsi a casa Hummel – Lopez.

 

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Kurt era seduto ad un tavolino in uno dei tanti Starbuck’s di New York. Tamburellava le dita contro il bicchiere di caffè bollente appena ordinato, mentre ripensava – proprio come aveva previsto – alla sua relazione con Blaine. Era da quella notte che ci rimuginava, poi si era ripromesso di abbandonare il pensiero per affrontare al meglio la sua giornata importante. Il messaggino di Rachel aveva risvegliato amari ricordi, e adesso, tutto questo tempo libero, non giocava sicuramente a suo favore. Non riusciva a distogliere il pensiero; nella sua mente vi era solo un turbinio di ansia ed agitazione: per la sua carriera accademica, per Rachel, per il fratellastro arruolato, per la salute del padre, ed infine, per i problemi che aveva con il fidanzato.

Si era accorto già da tempo, fin dall’episodio di Chandler, di quanto Blaine si fosse allontanato da lui, ma aveva sempre pensato che tutto sarebbe tornato al proprio posto naturalmente. In fondo, loro erano Blaine e Kurt, Klaine, l’unica coppia che quasi eguagliava per stabilità Mike e Tina. Era convinto che tutto sarebbe tornato normale, come doveva essere, bastava un po’ di impegno e una buona dose di comprensione.

Adesso, invece, capiva quanto fosse stato stupido ed ingenuo. Blaine aveva tentato di allontanarsi e lui gliel’aveva permesso. Anzi, probabilmente lui stesso si era allontanato da quello che credeva sarebbe stato l’amore della sua vita. Si erano promessi di non dirsi mai addio, ma mantenere quell’impegno adesso sembrava pesare ogni giorno inesorabilmente di più.

Negli ultimi tre giorni non c’erano state videochiamate su Skype, né lunghe chiacchierate su Facebook, né dolci telefonate della buonanotte. Si erano scambiati a malapena qualche messaggio, l’ultimo dei quali di Blaine. Diceva semplicemente:

Mi dispiace se ci sentiamo poco, ma ho troppo da studiare. Ti chiamo presto.

Nessuna spiegazione in più, nessun interesse verso i suoi impegni, nessuna smanceria. Nessun ti amo.

Kurt era già preoccupato, ansioso di capire cosa affliggesse il suo ragazzo, lo occupasse a tal punto da non poter nemmeno farsi sentire. Per tutti quei tre giorni si era agitato, nervoso, cercando di non pensare al peggio. Proprio quando era giunto ad un punto di tregua, era arrivato Sebastian Smythe, tra tutti, a raccontargli di un’altra bugia di Blaine. La cena. Perché Blaine gli aveva mentito a riguardo? Perché non aveva voluto che fosse presente anche lui? Non riusciva a capire.

 

*flashback*

“Blu cobalto, blu reale o blu di Persia?”  Kurt sventolò tre campioni di tessuto sotto il naso di un Blaine totalmente stremato.

“Amore, BLU!”

“No, non puoi rispondermi così. Stiamo parlando dei colori che decoreranno la mia stanza a New York, stanza in cui dovrò passare metà delle mie giornate per i prossimi quattro anni – si spera. Già è abbastanza triste sapere che al di là della porta mi aspetterà Santana Lopez; almeno la mia stanza deve essere perfetta. È una questione seria.”

Kurt aveva gettato le stoffe in terra per avere le braccia libere e gesticolare a piacimento. Blaine era visibilmente stressato e stanco; alzò gli occhi al cielo e si passò una mano tra i capelli – perlomeno per quello che riusciva nonostante l’ammontare di gel.

“Kurt, tesoro, calmati o verrà ad entrambi un coccolone.” Kurt sospirò profondamente e si lasciò cadere con un tonfo sul letto. Era veramente insopportabile in quei giorni, – ne era perfettamente consapevole – ma la paura e l’agitazione lo stavano rodendo dall’interno, rendendolo più irritabile del solito.

“Scusa, è solo che –“

 

…You think I’m pretty,

without any make up on

You think I’m funny,

When I tell the punch line wrong…

 

Blaine abbandonò la sua posizione in ginocchio ai piedi di Kurt e si alzò per rispondere al cellulare.

 

“Pronto?” … “David, ciao! Come stai?” un sorriso apparve sulle labbra di Blaine, e anche Kurt si illuminò.

“Uh, è David? Salutamelo! E salutami anche Wes, tanto lo so che sono insieme – come sempre.”  Blaine ridacchiò e scuotendo la testa riportò il messaggio del suo ragazzo parola per parola.

 

Kurt era contento che Blaine si fosse rimesso in contatto con Wes e David. Sapeva quanto gli fossero mancati.

Dopo il suo trasferimento al McKinley, Blaine aveva cercato di tenersi in contatto con gli amici più stretti, e per un certo periodo lui, David e Thad si erano visti di frequente, occasionalmente raggiunti anche da Trent e Wes, quando tornava in Ohio.

Con l’avanzare dell’anno scolastico, però, gli impegni aumentavano e il tempo libero diminuiva. David e Thad oltre a far parte del consiglio degli Usignoli, facevano parte anche di diverse squadre sportive ed erano all’ultimo anno, quindi dovevano preparare gli esami finali.

Blaine, per quanto riguardava la scuola, aveva sicuramente meno lavoro – il curriculum del McKinley non era nulla paragonato a quello della Dalton – ma aveva comunque gli allenamenti in palestra con gli altri ragazzi del Glee e West Side Story da provare.

Così, i tre avevano iniziato a sentirsi sempre meno spesso, fino ad arrivare a farsi giusto gli auguri di Buon Natale e Buon Anno via messaggio. Il loro incontro successivo era stato dettato dalla competitività ed era terminato con Blaine a terra, urlante per il dolore, e i suoi – ormai ex – amici che scappavano a gambe levate. Blaine, irato e profondamente deluso dal comportamento dei suoi ex compagni di squadra, si era sentito tradito e non li aveva più cercati. Dopo che ignorò ogni loro tentativo di scusarsi, Thad e David rinunciarono a chiamarlo.

Le cose andarono avanti così per un pezzo e cambiarono solo durante le vacanze di Primavera, quando Wes tornò da Chicago.

Kurt non era presente, e non essendo rimasto in contatto con nessuno degli Usignoli dopo la sfida riguardo Micheal Jackson, aveva ricevuto solo informazioni di seconda mano, ma da quello che aveva sentito, Montgomery si era riappropriato del suo martelletto e aveva sistemato per le feste tutti gli Usignoli, riuscendo a zittire persino Sebastian. Dopo averli ripresi a suon di martellate, li aveva trascinati tutti sotto casa Anderson per cantare “Sorry seems to be the hardest word” a Blaine.

 

Quest’ultimo, incapace di resistere di fronte ad una serenata in grande stile, aveva deciso di perdonarli, così aveva ripreso i contatti con alcuni di loro. Avevano ricominciato a vedersi qualche pomeriggio per studiare insieme, e dopo aver perso le Regionali, Thad e David avevano persino offerto il caffè sia a Blaine che a Kurt. Insomma, avevano cercato di ricostruire un rapporto.

 

Kurt riprese ad osservare le sue stoffe, e sentì Blaine che diceva: “Ma è meraviglioso! È stata proprio una bella idea! No, proverò a chiederglielo, ma credo che ci sarò solo io.” Mentre diceva questo, lanciò un’occhiata stranita verso Kurt, che si limitò a guardarlo confuso. Blaine, accortosi dell’espressione del fidanzato, gli fece segno con la mano che gliene avrebbe parlato in seguito, così Kurt tornò a dedicarsi alla sua scelta amletica tra i diversi punti di blu.

 

Dopo quelli che potevano essere dieci minuti, o dieci anni, – perché quando scegli l’arredamento per la tua stanza, non puoi perderti in frivolezze come il tempo - Kurt sentì il letto piegarsi sotto il peso di un’altra persona. Alzò lo sguardo, e vide che Blaine gli si era seduto accanto. Sorrise e si allungò a baciarlo dolcemente a fior di labbra. Blaine sembrava pensieroso, non proprio in vena di smancerie, così Kurt si allontanò e gli chiese cosa volesse David. “Allora, qual è la pessima notizia che sembra averti dato David? Hanno comprato una macchina per le granite?” scherzò Kurt, cercando di alleggerire l’atmosfera.

Blaine, però, era ancora preso da chissà quali pensieri e nemmeno si accorse che il fidanzato gli stava parlando. “Blaine? Blaine?! Cosa voleva David?”

Blaine si riscosse dai suoi pensieri ed alzò lo sguardo. “Oh, scusami. Niente, mi ha chiesto di partecipare ad una serata tra Usignoli. Pensi che le Nuove Direzioni se la prenderanno?”

“Non direi, - lo rassicurò Kurt – in fondo, siamo i campioni nazionali. Non abbiamo nulla di cui preoccuparci, ormai. Oltretutto sarebbero felici per noi; sanno quanto a te manchino i tuoi amici e il blazer, e quanto io necessiti di rivedere Trent: è l’unico maschio con un impeccabile conoscenza di moda che conosca –“

“Ah, io però Kurt ho detto a David che sarò solo io.” Vedendo l’espressione delusa del pallido ragazzo, Blaine alzò una mano e disse: “Fammi spiegare. David ha organizzato una partita di baseball come ‘esperienza per maturare il nostro rapporto’. – a questa definizione pomposa alzò gli occhi al cielo -  So che tu non sei proprio il tipo, quindi ho pensato di scusarti – “

“Ma potevo venire a fare il tifo per te! Ero o non ero un cheerleader?” sorrise maliziosamente Kurt.

“Si, e sai quanto l’apprezzi, ma ti annoieresti a morte!”

“Magari c’è Jeff. Lui non gioca di solito, e potremmo parlare un po’. Magari sarebbe l’occasione buona per ritrovare il nostro rapporto.”

“Jeff non verrà.” Kurt sembrava dispiaciuto, ma capiva che Blaine volesse riallacciare un rapporto con i propri amici, da solo, e che aveva pensato che fosse meglio per lui, per evitare che si annoiasse, se non fosse andato. Quindi, sorrise forzatamente e disse: “Ok, hai ragione. Dì pure che andrò a fare shopping o qualcosa del genere. Ci cascheranno tutti. So quanto ti mancano gli Usignoli. Anche se adesso hai legato con gli altri ragazzi del Glee, si vede che c’è comunque qualcosa che hai perso. Quindi, vai e divertiti. E salutami gli altri. A proposito, quand’è quest’ evento? Magari riesco veramente a convincere una delle ragazze a venire a fare shopping con me!” Blaine sorrise di fronte alla comprensione del suo ragazzo, e rispose: “Lunedì sera.”

 

*fine flashback*

Quando sentì una mano che delicatamente gli veniva appoggiata sulla spalla, Kurt si riscosse dai suoi pensieri, e alzò lo sguardo.

“Mi dispiace se penserai che io sia una stalker, - gli disse una sorridente Lizzie – ma ti ho visto parecchio turbato questa mattina, poi sei fuggito senza nemmeno salutare, e insomma, mi sono preoccupata. Va tutto bene? Non è per l’università, vero?” il suo tono e il suo sguardo contrito sembravano dar l’idea che sapesse già la risposta.

“Mi hai seguito fin qui solo perché pensavi fossi turbato? Io, una persona con cui hai parlato si e no una decina di volte…”

Elizabeth scrollò le spalle e sorrise: “Non importa quante volte abbiamo parlato, mi piaci, Kurt Hummel.” disse con sincerità.

Kurt, già sull’orlo di un crollo emotivo, di fronte a tanta gentilezza e premura, tanto calore umano, che veramente gli ricordava sua madre e il suo Blaine, perlomeno quello di una volta, sentì gli occhi inumidirsi. Con tono lacrimoso invitò l’amica a sedersi con lui, e le chiese: “Hai tempo?”

“Certo, sono anch’io nel turno di valutazione di oggi pomeriggio. Abbiamo più di tre ore.”

Così Kurt iniziò a parlare. “Sai, l’anno scorso ho affrontato un brutto periodo e proprio nel momento più buio del mio anno, un mio amico mi ha chiesto – o meglio, spedito a calci nel sedere -  a spiare il nostro coro rivale…”

 

***********************************

 

*nda: non voglio assolutamente offendere, né insultare nessuno; spero che l’ironia venga presa come tale e non come offesa personale.

N.B. Come la scorsa volta, c'è qualche problema di layout =( Non è ancora come piacerebbe a me, ma è meglio! Spero sia leggibile...

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Capitolo 5
*** Take me to the finish line ***


I SHOULD TELL YOU_5

Buongiorno, anzi, buon pomeriggio! =)

 

Sono tornata! Non vedevate l’ora, immagino… Bè, dai, sopportatemi altri cinque minutini, poi giuro che fino a giovedì non mi sentirete più! XD

 

Or dunque, prima cosa, al solito, ho dei ringraziamenti da fare.

Ringrazio chi legge, chi preferisce/segue/etc. e soprattutto chi commenta. Questa settimana devo proprio mandare un abbraccio enorme e stritolatore a chi ha recensito: mi avete scritto taaante cose dolci *-*

Quindi, invio virtualmente tanto affetto a: Ili91, cup of tea, love mojito, aurinella, FeEChAn e Tallutina.

 

Piccolo avvertimento: non sono pienamente soddisfatta del capitolo, c’è qualche pezzo che non mi convince troppo, ma lascio giudicare a voi… Sappiate che in caso son pronta a bastonarmi da sola! XD

 

Terminate le mie solite cavolate, vi lascio alla lettura.

Love, Elle.

p.s. al solito, sono apertissima a idee, suggerimenti e critiche. Ogni opinione è sempre ben accetta!

 

 

 

 

 

 

 


I should tell you

 









Capitolo quinto:

 

“Take me to the finish line”

 

Due ore, tre muffins e quattro Mocha in tazza grande dopo, Kurt aveva raccontato a Lizzie, in minuziosi dettagli, gli ultimi due anni della sua vita. Il bullismo, i problemi con Finn, la nuova famiglia, la salute del padre, Karofsky, la Dalton, Blaine – il primo amore, il Glee, la NYADA, fino ai fatti più recenti: la confusione della relazione con Blaine, la lite – se così si poteva definire – con Rachel, e infine, l’incontro destabilizzante che aveva avuto con Sebastian.

Lizzie si era limitata ad annuire pazientemente, sorridere comprensiva e, di tanto in tanto, durante i momenti di maggior emotività per Kurt, stringergli la mano. Raccontarle tutto, parlare con una persona che non faceva parte di quella storia, del suo passato, era stato catartico, purificante, in un certo senso. La nuova amica si era dimostrata un’ascoltatrice comprensiva, empatica e compassionevole. Kurt era profondamente grato che, pur conoscendolo poco o nulla, la ragazza avesse deciso di seguirlo, dopo che era praticamente fuggito dall’aula. Ora che ne aveva avuto occasione, aveva capito quanto gli fosse mancato confidarsi così apertamente, parlare senza inibizioni, senza paura di ferire il proprio interlocutore. Solo una volta nella vita aveva potuto sfogarsi in maniera così liberatoria: durante il primo incontro con Blaine. Quando non conosci ancora una persona, non hai un rapporto affettivo che ti lega a questa, puoi permetterti di parlare senza peli sulla lingua di tutto e tutti. Probabilmente è per questo che molti vanno in terapia, – pensò in quel momento Kurt – per sentirsi così liberi. Mai, nemmeno con Mercedes o Rachel, aveva potuto essere così schietto. Dopo che si era innamorato di Blaine, aveva perso il privilegio di parlare senza freni inibitori persino con lui, spaventato di poter dire qualcosa di offensivo, qualcosa che rovinasse irreparabilmente quella relazione che gli era costata tanto dolore e tanta fatica, ancor prima che iniziasse.

“Grazie, Lizzie. Non sai quanto mi abbia fatto bene poter parlare liberamente.” Il sorriso che le rivolse Kurt era mesto ed amaro, le guance rigate da lacrime ormai asciutte. Le sue parole, pronunciate con tono malfermo, erano però sincere e genuine, cosa che non sfuggì a Lizzie, la quale, a sua volta, sorrise di rimando.

“Ti ho detto che mi piaci, Kurt Hummel,” Scosse la testa, divertita, di fronte all’espressione di Kurt, ora mutata in una smorfia d’orrore. “Non in quel senso, so bene per che squadra giochi. Non ti preoccupare, non ti sfonderò il vetro dell’auto solo perché non accetti di uscire con me.”

Kurt, per la prima volta durante quella strana giornata, rise. Rise alla memoria di una fiera Mercedes che, circondata dalle Cheerios, lanciava un sasso contro il suo parabrezza. Rise, perché una semplice battuta gli aveva dimostrato che la sua amica l’aveva veramente ascoltato. Rise, in maniera liberatoria, forse anche un po’ isterica, di fronte a quel intreccio complicato che era la sua vita.

Lizzie lo osservò per un momento, gli occhi che tradivano la preoccupazione, la premura, e perché no, anche l’affetto che provava verso quel ragazzo. Si unì alla sua risata, le loro voci cristalline per un attimo si fusero, poi scemarono pian piano.

“Dunque, - ricominciò con tono serio la ragazza, interrompendo il momentaneo silenzio – se ho capito bene, il problema più imminente è rispondere al messaggio di questa Rachel. Poi, dovremmo proprio cercare di capire se questa mangusta di cui non mi hai voluto dire il nome ti abbia mentito oppure no. E in caso, capire anche perché Blaine ti abbia raccontato una mezza verità, e risolvere tutte le questioni in sospeso che puoi avere, o non avere, con lui.”

Kurt alzò gli occhi al cielo, e sbuffò: “Hai detto niente,”

Lizzie, di fronte al suo atteggiamento scontroso, sorrise: “Dopo che me ne hai parlato tanto prima, sono contenta di vedere la famosa cocciutaggine degli Hummel.”

Kurt sbuffò di nuovo, ma questa volta sorridendo. Controllò l’ora sullo schermo del suo cellulare e, vedendo che mancava meno di un’ora alla fine della pausa pranzo, tirò fuori dalla borsa il portafogli, e si alzò per andare a pagare. “Offro io. Dopo tutto ciò che hai dovuto ascoltare oggi, è il minimo che possa fare.”

Lizzie cercò di ribattere, una mano già in cerca della propria borsa, ma Kurt la bloccò. “Hai appena detto di aver visto rinascere la famosa cocciutaggine degli Hummel, vuoi veramente provarla sulla tua pelle?”

Lizze alzò lo sguardo, fissando direttamente quei penetranti occhi azzurri – che poi solo azzurri non erano. Vi ci vide un guizzo rinnovato, una sicurezza nuova; così, felice per il suo nuovo amico, scosse il capo e sorrise. “Hai vinto, Hummel, per oggi puoi pagare tu.”  Raccolse le proprie cose, si infilò la giacca e si alzò. “Ti aspetto fuori.” Voltò le spalle all’amico e uscì. Kurt, si mise trionfalmente in fila, iniziando a formulare un piano d’azione.

Raccontando a Lizzie la sua storia, lui stesso aveva potuto fare chiarezza su alcuni aspetti del suo passato, ritrovando così un briciolo di quella tenacia che aveva il Kurt quindicenne, e che, invece, il Kurt di oggi, sentiva di aver perso almeno in parte.

Arrivò al bancone, sorrise al ragazzo che stava alla cassa e pagò le loro consumazioni. Si strinse la sciarpa intorno al collo e uscì dal locale, raggiungendo Elizabeth. Lei gli sorrise radiosamente e prendendolo a braccetto, lo trascinò lungo il marciapiede, in direzione della Parsons.

“Senti un po’, Bambi –“ iniziò Lizzie, ghignando.

Kurt rise, e arrossì: “No, Lizzie, ti prego! Sapevo che non dovevo raccontarti di quell’incidente. Ero giovane ed ingenuo, non puoi chiamarmi così solo perché mi sono fatto sfuggire qualche cavolata prima di vomitare litri di alcool sulle scarpe della mia consulente scolastica.”

“Consulente misofobica! “ infierì Lizzie, sghignazzando di gusto. “E comunque non è solo per quello. Ti sei mai guardato bene allo specchio? Hai mai visto i tuoi occhi?”

“Si, e sono azzurri.”

“A parte il colore, se mai mettessero in scena un ‘Bambi’ vivente, saresti perfetto per la parte.”

Kurt sorrise, scuotendo il capo. “Accantoniamo il discorso sui film Disney. Cosa stavi dicendo?”

“Stavo dicendo che sono un genio!” Lizzie si voltò verso Kurt, un sorriso smagliante le tendeva le labbra.

“Perfetto, quindi?”

“Quindi ho trovato una soluzione ai tuoi problemi. Adesso scrivi a quella Rachel, ex migliore amica, pessimo stile, o come altro la vuoi chiamare, e le dici che parteciperai alla sua soirée –“

“Ti prego non usare quella parola! Fa sembrare Rachel una specie di spogliarellista, e non è un’immagine che voglio avere in testa. Per sbollirmi, basta e avanza il ricordo di Satana in baby doll, grazie tante!”

Lizzie scoppiò a ridere di gusto, osservando l’espressione terrificata dell’amico. “Sei proprio gay, allora!”

“Direi che l’avevamo già chiarito.”

“Vero, comunque, se la smettessi di interrompermi, potrei finire di introdurti il mio piano diabolico.” Lizzie osservò di nuovo l’amico, che fece finta di cucirsi le labbra, così continuò: “Manderai un messaggio di conferma a Rachel, dicendole, però, che porterai due accompagnatrici –“

“Quale parte di ‘Sono gay’ non hai capito?”

“Uffa, lasciami finire! Porterai con te due amiche; verrò io come supporto morale, e poi chiederai anche a questa Santana di accompagnarci, così che possa mangiarsi l’ex migliore amica, in caso dicesse qualcosa di offensivo.”

Kurt si voltò verso Lizzie, un’espressione pensierosa: “Sai che potrebbe funzionare?”

Lizzie sorrise raggiante: “Mai dubitare dei miei piani!”

“Aspetta prima di cantare vittoria. Se hai già catalogato Santana come paurosa, capirai anche che non sia certo che voglia accompagnarmi.”

Lizzie sembrò ponderare la risposta per qualche secondo, poi, vestendo per la prima volta una maschera di serietà, disse a Kurt: “Credo che tu la stia sottovalutando. Io non la conosco; so solo qualcosa da ciò che mi hai raccontato tu, e non è molto, ma da quello che mi hai detto, credo che in realtà lei ci tenga a te.”

Kurt, scuotendo la testa, dismise l’idea con un gesto della mano. Lizzie ridacchiò: “Credo che tu non lo veda, ancora. O forse non lo vuoi vedere.”

Per un attimo, Kurt si fermò, intento a scrutare con attenzione Lizzie. Lei si sentì nuda di fronte a quello sguardo così puro e sincero, ma anche così penetrante; era come se Kurt la vedesse per la prima volta. “Potresti avere ragione,” disse lentamente. “Vedremo. Stasera glielo chiederò.”

“Perfetto. Punto due: Blaine.” Kurt fece una smorfia, a metà tra dolore e rassegnazione. “Manda un messaggio anche a lui, dicendogli che vuoi parlargli. Dovete affrontare più di una questione: la cena, le bugie che ne sono seguite e tutto l’assenteismo di questi giorni. Ti confesso di non essere una fiera sostenitrice dei rapporti a distanza, ma da quello che mi hai detto, ho capito che tu e lui avete, – o comunque avevate – un legame speciale. Dovete chiarirvi. Potrà essere la cosa più dolorosa da fare adesso, ciò che vorresti rimandare come una visita dal dentista,” si fermò e si voltò a guardare negli occhi Kurt, sorridendogli simpatetica. “Posso essere sincera?”

Kurt, spaventato dal corso di quella discussione, si limitò ad annuire. “Credo che le possibilità siano due: vi parlate, è stato tutto un grande fraintendimento, vi amate ancora come il primo giorno, il vostro rapporto ne esce rafforzato. Oppure,” e qui il sorriso le si incrinò. “ – oppure parlate, scoprite che le cose sono cambiate, che magari vi amate ancora, ma non siete più innamorati, e per il bene di entrambi, vi lasciate.”

Lizzie a quel punto non aggiunse altro. Sapeva che la decisione era dell’amico e non poteva, ma soprattutto non voleva, dire nulla di più, anche se si era fatta un’idea piuttosto precisa riguardo le probabilità per entrambe le opzioni. I due ripresero a camminare a passo veloce ed entro breve arrivarono di fronte all’università. Per la seconda volta quel giorno, Kurt vi si fermò davanti, osservandola, senza in realtà vederla. Prese un respiro profondo e chiuse per un attimo gli occhi; poi, infilò la mano nella borsa a tracolla e ne estrasse il cellulare.

 

***************************************************************************

Sebastian sentì la sveglia suonare, il suo trillo gli rimbombava nelle orecchie, fastidioso e continuo. Grugnendo, prese due cuscini e vi si coprì entrambi i lati del viso. La sera prima non aveva bevuto, ma evidentemente la mancanza di sonno e la confusione mentale che aveva seguito la strana mattinata, e l’ancor più strana telefonata coi suoi amici, l’avevano lasciato con i classici sintomi del dopo sbornia. Era in uno stato catatonico, la testa pesante e dolorante, il corpo contratto. Non voleva alzarsi dal suo comodo divano e in quel momento si sentiva talmente da schifo, da pensare che, anche se ci avesse provato, non sarebbe comunque riuscito a mettersi in piedi. Cercò di richiudere gli occhi, ma il suo cellulare non smetteva di ricordargli che aveva un impegno, così, ormai esperto nella cura del dopo sbronza, Sebastian si alzò lentamente, e con passo strascicato andò in cucina. Si versò un bicchiere d’acqua, e contemporaneamente raccattò un paio di aspirine per il mal di testa – sempre tenute a portata di mano, pronte per aiutarlo dopo qualche nottata particolarmente selvaggia. Trangugiò tutto velocemente, sperando che l’effetto del medicinale iniziasse presto.

Seduto alla penisola della sua cucina, la testa appoggiata tra le mani, Sebastian iniziò a domandarsi con che faccia si sarebbe presentato a casa di Lady Hummel e Satana. Se anche Kurt fosse riuscito a comportarsi civilmente, e magari anche a bere la scusa della camicia macchiata come ragione per la sua visita, sicuramente Santana l’avrebbe smascherato, insultato e poi cacciato fuori a calci nel sedere, il tutto mentre gridava oscenità in spagnolo. L’ex Usignolo aveva già visto di cos’era capace la latina: era una persona tenace ed orgogliosa, schietta e sincera – forse fin troppo - e sapeva difendersi, a voce e non solo. Hummel, per quanto meno rumoroso nei metodi, era altrettanto aggressivo. A parole eguagliava entrambi Satana e Sebastian stesso, pur essendo molto più raffinato ed elegante, e non perdendo mai la calma. Entrambi, insomma, potevano seriamente tenere testa all’ex Usignolo.

Perché, quindi, avrebbe volontariamente, e in piena coscienza, deciso di entrare nella gabbia dei leoni?

Già, perché?

Lui stesso non capiva le motivazioni che lo spingevano a voler comprendere l’intera faccenda. Perché provava questa curiosità morbosa nei confronti di una bugia che Blaine poteva o non poteva aver detto? Perché gli importava di scoprire la verità? Perché gli era importato di capire il comportamento di Hummel, tra tutte le persone, quella mattina? Non era da lui. A Sebastian non era importato mai di nessuno, se non di se stesso. Bugia, – pensò tra sé e sé – ma questo lo sapevano in pochi.

Confuso dai suoi stessi istinti, dai suoi stessi pensieri, decise di smetterla di pensarci tanto e di passare all’azione. Sospirando, attribuì mentalmente la sua voglia di conoscenza alla noia, e alla necessità di fare un po’ di sano gossip. Si, - decise – così va già meglio. Si alzò e lasciò la cucina, dirigendosi in camera. Sapeva di mentire a se stesso, ma in quel momento non gli importava. Sentiva il bisogno di sapere e per soddisfarlo era pronto anche ad inventare scuse peggiori di gossip e noia.

 

***************************************************************************

Santana camminava veloce lungo i marciapiedi del proprio quartiere. Era terribilmente stanca, e quel passo accelerato stava costando alle sue gambe, già più che affaticate, un enorme sforzo. Non poteva, e non voleva, però, rallentare. Non vedeva l’ora di arrivare a casa, farsi una doccia e stendersi sul divano con una vaschetta di gelato e il suo computer portatile, per poter finalmente parlare via Skype con la sua Brittany. Svoltò l’angolo, iniziando a vedere il palazzo dove viveva con Kurt. Sorrise, felice di essere prossima alla sua serata rilassante. Anche questa, come tutti i santi giorni ormai, era stata una giornata di merda.

Per l’ennesima volta, era arrivata in ritardo a lavoro. Il suo turno come cassiera presso quello squallidissimo posto conosciuto ai più come “A little bit of everything” – nome che sentiva ogni giorno le continue prese in giro di Santana – iniziava alle 9.00. Lei, invece, arrivava spesso con la metro delle 9 e 15, ovvero con più di un quarto d’ora di ritardo, come l’ancor più squallido proprietario di quel piccolo supermercato non si stancava mai di ricordarle.

Come ogni mattina, i due avevano iniziato a battibeccare senza sosta. Da quando aveva saputo di Brittany, il suo capo approfittava di ogni momento libero per ricordarle quanto stesse sbagliando. Tutte le mattine, le suggeriva ‘di tornare in carreggiata’.

“Mia cara- “

“Non chiamarmi cara, né tanto meno tua!” sbottava sempre lei, spesso ancora sull’entrata.

“Non sarebbe meglio per tutti, e soprattutto per te, se lasciassi perdere le ragazze e tornassi a goderti i piaceri della compagnia maschile?”

Non che il suo capo fosse omofobo. Altrimenti, quando il primissimo giorno di lavoro, dopo aver ricevuto avances poco gradite, Santana aveva dichiarato a gran voce il suo orientamento sessuale, l’avrebbe licenziata. No, era semplicemente bigotto, ed ignorante. Credeva che potesse esistere una scelta più facile, che si potesse scegliere chi amare, pur di condurre una vita più tranquilla. Era una visione semplicistica, riduttiva, dell’amore.

Quelle parole, però, sentite quasi ogni giorno, la ferivano più di qualsiasi insulto omofobico. Toccavano un nervo scoperto, pungevano una ferita ancora aperta. Le ricordavano troppo quelle della sua Abuela, perché non potessero farle veramente male.

Ogni mattina, combattendo quella morsa alla bocca dello stomaco, quel groppo in gola, Santana alzava gli occhi al cielo, sospirava profondamente e contava fino a dieci, per evitare di andare tutta Lima Heights contro quell’idiota coi baffoni e la pancetta alcolica. Per quanto facesse schifo, non poteva proprio permettersi di perdere quel lavoro. Così, si limitava a scuotere la testa, e rispondere: “Non sarebbe meglio per tutti, e soprattutto per te, se lasciassi perdere sigarette ed alcool, evitando un tumore ai polmoni o, ancor peggio, la cirrosi epatica?”

Come sempre, Herr H - come si faceva chiamare, anche se, escludendo uno smoderato affetto per la birra chiara, di tedesco non aveva proprio nulla - stava in silenzio, ponderando una risposta all’altezza di quella della giovane. Non trovandola, scoppiava a ridere, – perdendo nel frattempo un polmone a colpi di tosse – e le ordinava di iniziare a lavorare.

Così, Santana andava nel retro del negozio per prendere il grembiulino giallo senape che era costretta ad indossare, e poi si piazzava al suo posto, dietro il registratore di cassa, senza ulteriori proteste. Per quanto potesse essere arrogante, con un’attitudine da stronza, sapeva rimboccarsi le maniche e guadagnarsi veramente quel poco che prendeva.

Quel giorno non era stato differente dai precedenti. Santana era arrivata in ritardo, aveva ascoltato le pessime battutine del suo capo ed era stata in piedi davanti a quella cassa per ore, svolgendo in silenzio il suo lavoro. Lavoro noioso, ripetitivo e frustrante. Quando era arrivata la fine del suo turno, era stata costretta a rimanere di più per recuperare il ritardo della mattina, saltando così il pranzo, e dovendo correre verso Brooklyn, pur di arrivare in tempo a casa Turner, dove l’aspettava Violet.*

Violet, bambina solitamente silenziosa, riflessiva e dolce, quel giorno aveva la febbre. Quando Santana aveva suonato il campanello di quella piccola casa, le cui pareti erano di un allegro color pesca, la signora Turner le aveva aperto in tuta, i capelli raccolti in una coda ormai disfatta e uno straccio gettato sulla spalla. La piccola l’aveva tenuta sveglia tutta la notte, preda di un brutto virus, non facendola riposare per niente e costringendola a dormicchiare un po’ durante la mattinata. Madre e figlia si erano poi svegliate poco prima di pranzo, la seconda a causa della febbre alta, la prima per le urla a squarciagola della piccoletta. Santana non aveva mai visto quella donna, di solito impeccabilmente pronta nel suo tailleur per il lavoro in ufficio, così distrutta.

A fine giornata, però, la giovane aveva capito benissimo perché quella povera madre fosse in tale stato. Lei stessa, dopo un solo pomeriggio con Violet, che a quanto pare da ammalata diventava una scimmia urlatrice, voleva dichiararsi febbricitante, pur di essere lasciata in pace, in un angolino, a dormire.

Così, quando infilò la chiave nella toppa del portone principale e la fece girare, Santana emise un sospiro di sollievo. Salì poi le scale, e finalmente, entrò in casa. Gracias a Dios, – pensò l’ispanica – quella terribile giornata era quasi finita. Quasi.

 

Dopo una lunga doccia, Santana uscì dal bagno rigenerata. Avvolta solo in un morbido asciugamano, corse in camera, dove indossò il suo solito baby doll. Si spostò in cucina e proprio come si era ripromessa, tirò fuori dal congelatore una vaschetta di gelato cioccolato e nocciola. Dopo una giornata come quella che aveva avuto, una consolazione calorica era divenuta un bisogno primario. Corse a prendere il computer portatile, abbandonato da qualche parte sotto la scrivania della sua camera, e portò tutto sul divano. Avviò il pc e nell’attesa, assaggiò il primo cucchiaio di gelato, - perché quando sei nervosa, il gelato non lo mangi solo con il cucchiaino. Sorrise sognante, pronta a vedere, finalmente, la sua bionda preferita. Aprì Skype e osservò la lunga lista di contatti in linea, in cerca dell’unico importante. I suoi occhi si illuminarono, quando lo sguardo le cadde su una foto che ritraeva un enorme gatto accoccolato sul petto di una ragazza dal sorriso smagliante. Cliccò sul pulsante della videochiamata, ed attese che l’altra rispondesse, sperando non sbagliasse un’altra volta scelta e non finisse per bloccare, ancora, Santana. Si aprì la finestra di conversazione, e tutto ciò che la latina vide, fu un’immensa palla di pelo.

“Sanny, Sanny, dove sei?” la voce di Brittany parlò dal computer di Santana, ma quest’ultima voleva anche vederla.

“Britt, sposta Lord Tubbington, non ti vedo!”

“Non ci riesco, pesa troppo.” Santana si sistemò meglio sul divano, cercando una posizione più comoda, perché sapeva benissimo quanto fosse lungo ogni singolo movimento dell’obeso felino.

“Lord T, muoviti, spostati. Forza, vai. Tanto lo so che stai aspettando il momento buono per rubarmi la bigiotteria senza che me ne accorga. Vai adesso, almeno posso parlare in pace con Santana.”

Detto fatto, il gatto si spostò e lasciò la webcam libera, non senza prima averci strisciato ben bene la coda contro.

“Ciao, Sanny!” Il sorriso della biondina era smagliante e contagioso. Santana si ritrovò a sorridere da orecchio a orecchio senza nemmeno accorgersene, era stato un riflesso.

“Ciao, B. Mi manchi.”

“Anche tu, Sanny, però non diciamolo a Lord Tubbington, sennò è geloso.”

Trattenendo una risata, Santana annuì solennemente. “Va bene, prometto. Com’è andata oggi a scuola?”

“Mi ci ha accompagnato la mamma. Lo sai, Santana, che non so guidare, come vuoi che ci sia andata?”

“Non ti ho chiesto come ci sei andata –“ la mora si bloccò, vedendo che l’altra aveva già perso attenzione e stava fissando intensamente lo schermo del suo cellulare. “È successo qualcosa?”

Brittany alzò di nuovo lo sguardo, e sorrise: “Oh, ciao Santana, mi ero dimenticata fossi qui. La nuova Quinnie mi ha mandato un messaggio: la coach Sylvester ha appena deciso che preferisce dormire di giorno, così la notte può andare a caccia di barboni, quindi gli allenamenti dei Cheerios sono spostati alla sera, dopo cena. Mi sta venendo a prendere.”

Santana corrugò la fronte, sconcertata da ciò che aveva appena sentito. Decise di dare voce ai suoi pensieri confusi: “La nuova Quinnie? Allenamenti serali? E cos’è questa storia dei barboni?”

Brittany scrollò le spalle, e prese a giocare con la Barbie che teneva sulla scrivania. Era la prima che aveva comprato da bambina, e ancora l’aveva, sostenendo l’aiutasse a studiare, suggerendole le risposte. “Si, la nuova capo cheerleader –“

“Io credevo che quel posto fosse tuo, che non appena io e Quinn ce ne fossimo andate, saresti diventata tu la capo cheerleader!”

“No, la coach ha detto che sono troppo tonta.”

“Cosa?” chiese con tono oltraggiato Santana. Come si permetteva la Sylvester di dire una cosa del genere a Brittany? Non che fosse la prima volta che la insultava, ma non l’aveva mai fatto così apertamente.

“Si, ma va bene così, Santana. Ha ragione lei. Non mi ricorderei mai di portarle il frullato energetico ogni ora, o di andarle a comprare le proteine in polvere, o ancora peggio, non voglio farle le iniezioni ormonali.” Brittany fece una smorfia disgustata, e riprese a spazzolare i capelli della sua Barbie. “Sanny, devo iniziare a prepararmi, Veronica sarà qui tra poco…”

“Oh –“  Santana aprì e chiuse la bocca, senza dire nulla, semplicemente perché non sapeva cosa dire. Aveva aspettato tutto il giorno per sentire Brittany, aveva bramato quel momento durante tutta quella giornata infernale, e adesso? Certo, sapeva che non era colpa della bionda, ma non poteva non esserne delusa almeno un po’. “Ok, Britt, va bene. Ci sentiamo domani?”

Brittany annuì, contenta. “Certo, Sanny, come sempre.”

“Oh, Britt, aspetta un attimo – mi sono appena ricordata! Tina ha parlato con Blaine?” Di sicuro non avrebbe lasciato perdere quella questione per nulla al mondo. Era curiosa, e soprattutto non voleva che Kurt ne uscisse ferito. Non aveva proprio voglia di sentire Teenage Dream  tutto volume, tutte le sere.

“Ah, si, hanno parlato.” Disse la bionda, con il suo solito tono vago e sconclusionato.

“E quindi?”

“Non mi ha raccontato niente, Tina ha detto che era una situazione delicata, ma mi ha detto di non preoccuparmi, che il mio Delfino non sarebbe stato male. E a me va bene così.”

Santana si accigliò un attimo, domandosi cosa ci fosse sotto tutta quella segretezza. “Va bene, staremo a vedere. Allora ci sentiamo domani, ok?”

“Si. Ti amo, San.” La bionda le soffiò un bacio, appoggiando poi la mano sul cuore.

“Anch’io ti amo, Britt. Ciao.” Brittany chiuse per prima finestra di conversazione, concludendo la videochiamata. Santana guardò un attimo tra i suoi contatti, per vedere se ci fosse qualcuno di interessante in linea. Quando vide che né Quinn, né Puck erano in linea, decise di lasciar perdere Skype e godersi un bel film.

Mentre chiudeva il programma, le cadde l’occhio sull’orologio a lato dello schermo. Le 20.15. Dove diavolo è finito Hummel? – si chiese Santana – A quest’ora, di solito, è già con il suo grembiulino davanti ai fornelli a cuocere chissà quale porcata macrobiotica. Non che fosse preoccupata, ovviamente, non era certo il tipo. Credeva fosse solamente strano, tutto qua. In due mesi di convivenza, Kurt era sempre stato puntualmente abitudinario. Noioso, l’avrebbe definito Santana, se anche lei non fosse stata piuttosto casalinga in quel periodo. Proprio mentre cercava di mettersi l’anima in pace riguardo la sorte del coinquilino, e allo stesso tempo continuava a godersi la sua enorme vaschetta di calorie, suonò il campanello. Inveendo e imprecando contro chi la stava costringendo ad alzarsi, Santana abbandonò la sua posizione acciambellata sul divano per andare a rispondere al citofono.

“Hummel, quanto si può essere stupidi per dimenticare le chiavi tre volte in una settimana? Ti avevo avvertito che alla quarta ti avrei lasciato fuori –“

La sfuriata di Santana fu interrotta da una risata. Una risata maschile, profonda e gutturale, che non era assolutamente quella cristallina, squillante di Kurt.

“Wow, Lopez, vedo che non hai perso il mordente.”

Santana aggrottò le sopracciglia. Chi diavolo era? Era sicura di conoscere quella voce, di averla già sentita da qualche parte, ma non riusciva proprio ad associarla ad un volto.

“Mi apri o no?”

Pur non ricordandosi a chi apparteneva, Santana sapeva che quella voce non era legata a bei ricordi. Era così dannatamente irritante, faceva trasparire un atteggiamento arrogante, pieno di sé – aspetta un momento –

Smythe?”

“Felice di vedere che ci senti ancora. Ora che hai passato il test audiometrico, mi fai salire?”

“Che diavolo ci fai qui? Cosa vuoi da me? Oltretutto, come cazzo fai a sapere dove abito?

Santana era irritata, anzi, adesso era proprio incazzata. Non aveva potuto parlare con Brittany, Hummel era disperso, e ora la sua nemesi dell’ultimo anno di liceo aveva suonato il campanello di casa sua, costringendola ad abbandonare divano e gelato per andare a rispondere.

Ottimo, - pensò Sebastian – ci mancava solo che la Lopez si incazzasse. Perché diavolo non ha risposto Hummel?

“Senti, Santana, ferma il rodeo. Capisco che il tuo spirito latino, caliente, voglia prendere il sopravvento, ma ti ho già detto una volta che i tuoi insulti da ghetto non mi spaventano.”

¿De verdad?”

“Santana, ascolta – Sebastian si stava scocciando; non era mai stato il tipo paziente – non mi spaventi se parli spagnolo. A differenza tua, che hai frequentato quella scuola di bassa lega, io ho sempre frequentato istituti privati, e parlo fluentemente francese, tedesco e spagnolo. Ora che abbiamo chiarito che capisco perfettamente, e posso benissimo rigirarti qualsiasi insulto che tu mi voglia dedicare, puoi farmi salire?”

“E perché dovrei aprirti la porta di casa mia? Non siamo amici, anzi, e non ti vedo da più di sei mesi – cosa peraltro solo che positiva. Cosa vuoi?”

“Santana, aprimi e te lo faccio vedere.”

“No, grazie, non so se ricordi, ma faccio parte dello squadrone gay, insieme a te e ai miei due mini pony.”

“Anche tu li chiami mini pony? Strano come le nostre menti siano così affini. Comunque, non ti preoccupare, non sei il mio tipo. Aprimi e basta, poi ti spiego.”

Santana non sapeva se era perché era stanca, fisicamente e mentalmente, se era perché era stufa di discutere tramite un interfono, o se era perché era veramente curiosa delle motivazioni di Smythe, sapeva solo che il suo dito aveva spinto il bottone che apriva il portone comune, mentre diceva: “Ti apro solo la porta di sotto, incontriamoci sul pianerottolo. Se ne vale la pena, ti faccio entrare in casa, altrimenti ti rispedisco a calci da dove sei venuto. Ah, mi devi una vaschetta di gelato.”

Anche se confuso dall’ultima frase, Sebastian approfittò al volo del momento di debolezza di Santana, ed entrò nel palazzo. Iniziò a salire le scale, piano dopo piano, finché non arrivò al quinto, dove lo aspettava una Santana mezza nuda, braccia incrociate al petto e sguardo tutt’altro che cordiale.

“Bene, adesso che sei dentro, puoi dirmi cosa vuoi? E vedi che ne valga veramente la pena, perché hai appena interrotto la mia serata tranquilla, non la passeresti liscia…”

Sebastian non le rispose, aprì il sacchetto di plastica che aveva in mano e le lanciò addosso la sua camicia.

“Ehi, cos’è questa roba?” Raccolse da terra la stoffa stropicciata, allargandola davanti a sé per osservarla. Dopo qualche secondo abbassò le braccia, il volto teso, i lineamenti duri: sembrava pronta ad uccidere. “Solo perché sono latino americana non significa che sia una cameriera, né tanto meno una lavandaia. Non ti farò il bucato.”

“Puoi smetterla di vedere insulti razziali in ogni cosa? – Sebastian alzò gli occhi al cielo, esasperato. – Innanzitutto non lascerai mai e poi mai una camicia così costosa in mano tua, lavandaia esperta oppure no. Me la faresti ritrovate a strisce, oppure tre taglie più piccole. Poi, se proprio devo essere sincero, non sono qui per te. Vedi, stamattina ho incontrato Lady Hummel –“

Santana sgranò gli occhi, e se lo sguardo di prima sembrava pronto a sferrare un attacco omicida – bè, quello di adesso riuscì a spaventare persino Sebastian. “Che gli hai fatto? È per quello che ancora non è tornato? Sei finalmente riuscito ad accecarlo?”

“Santana,” Sebastian cercò di fermarla, ma la latina era ormai inarrestabile. Fece un passo avanti, fregandosene dei piedi nudi sul pavimento di quel pianerottolo poco pulito, o dei brividi che gli spifferi d’aria stavano causando alle sue spalle nude. Iniziò a puntare l’indice contro il petto del ragazzo, praticamente sibilando.

“Oh, ma questa volta nessuno riuscirà a placare la mia furia di Lima Heights. Avrei dovuto farlo ormai un anno fa, ma mi sono lasciata incantare dalle belle parole di Kurt; la redenzione, il volare più alto, e stronzate varie –“

“Santana,” la interruppe nuovamente Sebastian.

“Non ho finito, Smythe, vedi di non interrompermi. Questa volta non ci sarà nulla a fermarmi. Avrò la mia vendetta, inizia pure a prepararti –“

“Santana!” Questa volta, però, non era stata la voce di Sebastian a parlare. I due si voltarono, e videro che, durante la loro discussione, qualcuno era arrivato.

Kurt e Lizzie erano fermi sulle scale, immobili, mentre osservavano la scena davanti a loro. Santana in baby doll che spintonava un Sebastian sconvolto, ma anche un po’ divertito; la sua costosa camicia appallottolata ai loro piedi.

“Kurt!” “Hummel!” Urlarono allo stesso momento.

“Si, infatti, Kurt Hummel. Che diavolo state facendo?” Kurt sollevò un sopracciglio, la sua espressione di sfida chiaramente dipinta sul volto.

Prima che nessuno avesse tempo di rispondere, però, la vibrazione del cellulare di Kurt lo distrasse, segnalandogli l’arrivo di un messaggio. Aspettando dal pomeriggio due risposte, entrambe importanti, Kurt prese il telefono, lo sbloccò e lesse:

Da Blaine_Warbler:

Sono d’accordo con te. Dobbiamo parlare, e anche urgentemente.

 

 

 

*nda: se sapete chi è Violet Turner, bè, scusatemi la citazione, ma è venuta spontanea. =)

 

 

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Capitolo 6
*** It's always darkest before the dawn ***


I SHOULD TELL YOU_&

Buongiorno a tutti! =)

Sono finalmente tornata, risorta dalle ceneri in cui il lavoro ha ridotto il mio povero cadavere.  Seriamente, scusate per il ritardo, ma la vita corre e il mio culo pesa troppo per starle dietro. XD

I’M SO SORRY!

 

Comunque, ora sono qui, con questo capitolo super- angst e super pieno di informazioni, tutto per voi. È stato un parto scriverlo, un travaglio lungo ben 15 pagine.

Finalmente, abbiamo un po’ di interazione Kurtbastian (poca, però) e un sacco di risposte (YAY!)


Per l’ennesima volta, prima di lasciarvi alla lettura, voglio ringraziarvi.

Ogni lettore, ogni persona che ha messo questo delirio nelle preferite, nelle seguite o nelle ricordate mi ha regalato un sorriso. Veramente, GRAZIE!

Un grazie speciale va a chi mi ha scritto, facendomi sapere cosa ne pensava e rendendomi partecipe di idee, emozioni, etc. Un cupcake (la mia nuova specialità culinaria) virtuale a: Ily91, Madez, Cup of tea, Love Mojito, Aurinella e Tallutina. <3

 

Vi lascio alla lettura.

Baci, Elle.








I should tell you

 




Capitolo sesto:

 
“It’s always dark before the dawn”

 

 

[…] Prima che nessuno avesse tempo di rispondere, però, la vibrazione del cellulare di Kurt lo distrasse, segnalandogli l’arrivo di un messaggio. Aspettando dal pomeriggio due risposte, entrambe importanti, Kurt prese il telefono, lo sbloccò e lesse:

Da Blaine_Warbler:

Sono d’accordo con te. Dobbiamo parlare, e anche urgentemente. […]

 

“Kurt? Kurt?! Kurt!” la dolce voce di Lizzie risvegliò Kurt, caduto in uno stato catatonico. Non sentiva più le voci di Santana e Sebastian discutere, né la flebile voce di Lizzie che cercava di zittirli. Non si era accorto che nel frattempo era stato spinto dentro casa, insieme ai suoi ospiti, e quindi tutti e quattro si erano ritrovati nel salotto di casa Hummel – Lopez, un silenzio imbarazzato che li abbracciava. Non percepiva tre paia di occhi, occhi che lo scrutavano con apprensione, puntati tutti su di lui. L’unica cosa che Kurt riusciva a sentire, a provare persino, come se si stessero muovendo sulla sua stessa pelle, erano i dubbi che lo tormentavano. Cosa voleva dire Blaine? Perché se dovevano parlare urgentemente, non l’aveva già cercato? E soprattutto, “dobbiamo parlare” non era la frase che usavano nei film per iniziare una scena drammatica, durante la quale l’eroe, o più spesso l’eroina, finiva per perdere il suo grande amore?

“Kurt?” Santana sembrava preoccupata, l’espressione del volto accigliata e il tono di voce premuroso. “È di nuovo per Rachel?” Kurt, dopo che la coinquilina aveva preteso di sapere perché non vedesse più la sua cosiddetta migliore amica, le aveva raccontato a grandi linee, senza scendere nei dettagli, cos’era successo con Rachel. Santana sapeva quanto ci fosse rimasto male Kurt, quanto avesse sofferto, e come la questione fosse ancora una ferita aperta. Aveva anche proposto di andare a dirgliene quattro, in onore dei tempi d’oro in cui si tiravano i capelli e affilavano le unghie per un assolo al Glee Club.

Kurt scosse il capo. “No,” sembrò pensarci, e aggiunse: “Anche, ma non adesso.” La risposta confuse terribilmente sia Santana che Sebastian, ancora spettatore muto di un’enigmatica scena.

Lizzie, l’unica al corrente dell’intera situazione, domandò: “Ti ha risposto Blaine?”

Kurt si limitò ad annuire, passandole il suo cellulare. Lizzie lesse il testo del messaggio e, impulsivamente, si mosse verso Kurt, avvolgendolo in un abbraccio. La sua presa era forte e decisa, ma allo stesso tempo delicata, leggera e calorosa. Era esattamente ciò di cui Kurt aveva bisogno in quel momento; lui non ricambiò l’abbraccio, ma lasciò poggiare il volto sulla spalla dell’amica, rilassandosi.

“Ok, sono confusa,” Santana non sembrava arrabbiata, o sprezzante, o arrogante, emozioni che spesso ne caratterizzavano il tono di voce; sembrava semplicemente curiosa, e forse anche preoccupata. “Cosa c’entra Blaine? E Rachel? Che significa ‘non adesso’? E soprattutto, perché Smythe e-“ si fermò un attimo, scrutando Lizzie con uno sguardo penetrante. “Perché ci siamo ritrovati la versione criminale di Alvin Superstar e Heidi in casa?”

Kurt sbuffò, mentre, ascoltando i buffi soprannomi dell’amica, sorrise forzatamente. “Heidi? Sei seria, Santana?”

Santana incrociò le braccia al petto, come faceva sempre quando si sentiva attaccata, o giudicata. “Certo, dico, l’hai vista?” disse, indicando senza vergogna Elizabeth.

Lizzie rise, tranquillizzando Kurt. “Non ti preoccupare, ho sentito di peggio. Oltretutto, se devo essere sincera, un po’ mi piace; fa quasi tenerezza. Comunque – “ aggiunse, voltandosi verso Sebastian e Santana. “Piacere, sono Elizabeth. Studio alla Parsons con Kurt e sono, anzi – ero, qui per festeggiare una grande vittoria accademica. A questo punto, però, temo che dovremo rimandare il tutto.”

Lizzie tese la mano verso i due, che si limitarono a fissarla. Sebastian annuì in maniera appena percettibile nella sua direzione, Santana, invece, la squadrò da capo a piedi, un sopracciglio sollevato e lo sguardo duro ed intenso. Per la seconda volta durante quella giornata, Lizzie si sentì nuda, completamente vulnerabile di fronte al giudizio di un’altra persona. Ancora una volta, un paio di occhi incisivi ed espressivi l’avevano inchiodata sul posto, costringendola ad abbassare arrendevolmente il capo.

“Carina la presentazione,” commentò sarcastica la latina. “Spiega ancora poco, però.”

Kurt, conoscendo fin troppo bene Santana e la sua infinita pazienza, decise di intromettersi, prima che l’amica iniziasse ad urlare qualche oscenità contro la povera Lizzie. “Oggi M.me Dubois avrebbe scelto un collaboratore per la creazione di ciò che sarà sulla copertina di Vogue di Dicembre. Ci aveva chiesto di presentare dei bozzetti, alcuni nostri, originali, altri solo di modifica di abiti già esistenti. Diciamo che, siccome sia io che Lizzie siamo due geni artistici –“ Kurt si scambiò un sorriso complice con Elizabeth, che sorrise radiosa e gli fece l’occhiolino; Santana, invece, fece ruotare gli occhi, mentre Sebastian sbuffò. “È inutile che ci prendiate in giro, Bonnie and Clyde, io ed Elizabeth aiuteremo la nostra professoressa nel creare l’ultima copertina di quest’anno di Vogue!”

“In che senso tu ed Elizabeth? Non doveva essere uno studente solo?” chiese Santana.

“Vero. La Dubois ha valutato le idee di tutta la classe e alla fine doveva scegliere tra me e Lizzie. Non so cosa mi abbia detto la testa, o dove abbia trovato il coraggio di farlo, ma d’istinto, impulsivamente, le ho chiesto perché non potessimo collaborare entrambi.”

“È stata una scena epica –“ si intromise Lizzie, la cui voce faceva palesemente trasparire l’eccitazione che provava nel raccontare quell’avventura. “Sembrava quasi un film. La Dubois l’ha fissato dritto negli occhi – e io, persino ora, non riesco a capacitarmi del fatto che sia ancora vivo; neanche il basilisco di Harry Potter incuteva così tanto terrore solo con uno sguardo –“

“Tzè,” la interruppe Kurt. “Dopo essere stato la carta vincente sia del Coach Tanaka che della Sylvester, lavorando a stretto contatto per mesi con quest’ultima – , diciamo che ormai non ho più paura di nulla. Ho avuto più di un faccia a faccia con la morte, e dopo la nostra chiacchierata della mattina, mi sentivo molto audace e coraggioso, quindi…”

“Comunque,” riprese la ragazza. “La Dubois lo fissa dritto negli occhi, fulminandolo, e con un tono gelido gli chiede: ‘Pensa di potermi dire come fare il mio lavoro, Signor Hummel?’. In quel momento, io avevo già iniziato a pensare alla scelta delle canzoni per il suo funerale. Kurt, invece, reggendo il suo sguardo, le ha risposto tranquillamente: ‘Assolutamente no, M.me Dubois, -“

“ – mais je crois que les idées les plus brillantes doivent être partagées.’ *continuò Kurt con un impeccabile accento francese.

“Grazie per la collaborazione, Kurt, non sarei mai stata capace di ripetere quella frase.”

Kurt sorrise, facendo cenno a Lizzie di continuare. “La professoressa continua a fissarlo, impassibile, poi scoppia a ridere e scuotendo la testa ci dice che ci saremmo visti lunedì; ha raccolto le sue cose e se n’è andata. Vista la grande occasione, -  perché lavorare con un tuo amico per creare qualcosa che finirà su Vogue non credo sia evento di tutti i giorni - volevamo festeggiare. Kurt aveva proposto di tornare qui ed invitare anche te, Santana, alla nostra serata di follie. A quanto pare, però, dovremo rimandare.” Lizzie concluse il suo racconto con un’occhiata preoccupata in direzione di Kurt, che sembrava essersi di nuovo abbandonato a pensieri poco piacevoli.

Sebastian era completamente scioccato. Non sapeva assolutamente chi fosse questo Coach TanikoTanake, o quel che era, ma conosceva benissimo Sue Sylvester. In effetti, l’anno precedente, aveva seguito tutte le sere ‘L’angolo di Sue’. Aveva scoperto il programma per caso; un pomeriggio, mentre aspettava che arrivassero le otto, così che potesse finalmente abbandonare la Dalton per lo Scandals, stava facendo zapping e si era fermato ad ascoltare le frivole notizie che trasmettevano ad un Tg locale, condotto da una donna ancor più frivola. A fianco di questa, aveva riconosciuto uno dei giudici delle gare di canto coreografato degli anni precedenti – Thad, a causa del suo ruolo da solista, l’aveva obbligato a rivedersi tre anni di esibizioni degli Usignoli. Incuriosito dalle due bizzarre figure, aveva ascoltato annoiato il loro quarto d’ora di gloria. Pronto a spegnere la TV, aveva visto apparire sullo schermo una donna bionda, vestita con una tuta. Il grande pannello alle sue spalle recitava ‘Sue’s corner’ e la targhetta posta di fronte a lei, sulla scrivania alla quale poggiava, diceva ‘Sue Sylvester’. Riconobbe anche lei come una delle insegnanti di uno dei cori rivali, che in passato si era sfidato con gli Usignoli – qualcosa che aveva a che fare con una fissazione orale, qualcosa di sessuale, insomma. Incuriosito dall’espressione arcigna e scaltra della donna, decise di aspettare altri cinque minuti prima di uscire, per ascoltare cos’avesse da dire. Ben presto, Sebastian si ritrovò piegato in due dalle risate, completamente disorientato, ma anche terribilmente divertito, dall’esplosiva carica di follia e tenacia che caratterizzava la personalità della bionda sullo schermo. Prese a seguire la sua trasmissione, trovando nella pazza coach in televisione, una certa somiglianza con se stesso. Pian piano, scoprì che la Sylvester era una delle candidate al congresso per l’Ohio, che era una stronza di prima categoria e che, oltre a concorrere per una carica politica, avere dei doveri coniugali verso sé stessa, essere incinta, dichiarando di avere si e no trent’anni e passare il suo tempo a boicottare le Nuove Direzioni  - qualcosa per cui Sebastian le era estremamente grato – era anche l’allenatrice della squadra delle Cheerleaders del McKinley. Kurt aveva lavorato mesi con la Sylvester – merda! Pensò Sebastian – Kurt Hummel era un ex cheerleader. Un ex cheerleader con un perfetto, e super sexy, accento francese.

“Ok,” disse Santana, annuendo. “Questo spiega la presenza di Heidi in casa nostra, ma non quella di Smythe. Oltretutto non mi hai ancora detto nulla né di questo fantomatico messaggio di Blaine, né di cos’ha combinato questa volta Rachel.”

Kurt sospirò, abbandonando la sua posizione in piedi accanto a Lizzie, per lasciarsi cadere sul divano. Accavallò le gambe e vi poggiò sopra le mani che, dall’agitazione, stavano torturando i bottoni del suo gilet. “Credo che inizierò spiegando cosa c’entra Rachel. È la storia più breve, e probabilmente, la meno –“ si fermò, in cerca della parola giusta per definire i propri sentimenti nei confronti degli eventi della giornata. “La meno dolorosa, direi.”

Anche gli altri si mossero. Santana si accomodò su un piccolo pouf ai piedi del divano; Lizzie si acciambellò per terra ai piedi di Kurt, mentre Sebastian si sedette elegantemente all’altro lato del divano.

“Stamattina, dopo il mio incontro con Sebastian, Rachel mi ha mandato un messaggio.”

“Incontro del quale voglio ogni singolo dettaglio.” Sibilò Santana.

“Certo che sì,” rispose Kurt, alzando gli occhi al cielo. “Comunque, Rachel mi ha scritto, invitandomi alla serata di apertura della NYADA.”

“Quella stronza!” urlò Santana. “Ancora non ha capito che, solo perché è entrata in quella scuola per damerini, non significa che sia meglio di noi? Dopo quello che ti ha detto, si azzarda persino ad invitarti alla sua fottutissima serata? Serata durante la quale, per l’ennesima volta, dovresti assistere al Rachel Berry’s ego show? Per citare Mercedes: Hell to the no!

“Quando ho letto il messaggio mi son tornati in mente tutti questi ricordi pessimi.” Continuò Kurt. “Ho provato una terribile nostalgia per casa, e soprattutto per le persone che vi ho lasciato. Comunque, all’inizio anch’io pensavo di non andarci, ma poi Lizzie mi ha convinto del contrario. Devo provare il mio punto, devo dimostrarle quanto valgo. Deve capire che cammino ancora a testa alta, che sono ancora orgoglioso di me stesso, checché se ne dica. Abbiamo così deciso che ci andremo insieme: io, Lizzie e te, mia cara Satana. Lizzie sarà la mia spalla su cui piangere e tu sarai una specie di - body guard? Insomma, se mai Rachel dicesse o facesse qualcosa di offensivo, tu interverresti per salvare il mio onore. E per divertirti un po’ con i resti del corpo di Rachel, dopo che sarai andata tutta Lima Heights contro il suo sedere.”

Santana sembrò ponderare per un attimo la sua decisione, prima di sorridere furbescamente. “Oh, mi piace il piano di Heidi. Sarà proprio come ai tempi del liceo, prima che la Berry mi convincesse a mettere una sua foto nel mio armadietto, -“

“Hai messo una foto della Berry nel tuo armadietto?” la interruppe Sebastian con una mezza risata.

Santana lo fulminò con lo sguardo. “Si, probabilmente avevo una specie di virus quella settimana, qualcosa che ha alterato la mia funzionalità cerebrale. Comunque, ci sto. Sono prontissima a fare a pezzi Rachel.” Specie se è per difendere te, Kurt - aggiunse solo per se stessa. “Adesso, però, voglio sapere cosa ha fatto Blaine,” non aveva assolutamente un buon presentimento riguardo quella faccenda.

Kurt rimase per un attimo in silenzio, fissando un punto indefinito di fronte a sé, poi, prendendo coraggio, iniziò. “Per farla breve, stamattina ho incontrato – o meglio, mi sono scontrato – con Sebastian, rovesciandogli addosso il mio caffè.”

“E questo spiega la camicia.” Annuì Santana.

“Esatto,” confermò Kurt. “Mi ha detto che Blaine ha partecipato ad una cena degli Usignoli senza di me. Cena che mi aveva detto essere una partita di baseball,”

Questo spiega l’uscita melodrammatica di questa mattina. Perché Anderson ha mentito? Sebastian era smarrito. Non sapeva molto di relazioni stabili, o fedeltà, ma persino lui sapeva che l’onestà era alla base di un rapporto. E sicuramente il rapporto di Kurt e Blaine sembrava speciale; anche il cinico Sebastian Smythe una volta l’aveva definito quasi idilliaco.

Kurt sospirò. “Blaine ultimamente è distante. Sin dall’intera faccenda di Chandler so che aveva problemi col mio trasferimento a New York. Problemi che credevo risolti, invece…” abbassò il capo, scuotendolo. Quando lo rialzò, una lacrima gli stava rigando la guancia e i suoi occhi erano pieni di dubbio e dolore. Lizzie, dalla sua posizione seduta ai suoi piedi, allungò un braccio e prese la mano di Kurt, stringendola forte. In quel momento, durante l’ennesimo sfogo della giornata, non gli importava di piangere di fronte a Santana e a Sebastian, tra tutte le persone, non gli importava di mostrarsi vulnerabile. Sicuramente se ne sarebbe pentito poi, ma in quel preciso istante, aveva bisogno di lasciarsi andare e mostrare tutte le sue debolezze, mostrare le sue incertezze. “Invece è un po’ che andiamo avanti a stento, che ci parliamo poco, che lo sento distante. Ha sempre impegni che non gli permettono di sentirci. Sapevo fossero scuse, oltretutto persino deboli, ma ora ne ho avuto la conferma.”

Santana si alzò dal suo pouf, e prese a marciare sul posto. Era terribilmente combattuta: doveva condividere l’ultimo pezzetto del puzzle, l’informazione che a Kurt mancava? Doveva dirgli ciò che aveva visto Brittany, o era meglio se a parlargliene fosse stato direttamente Blaine? Ormai la latina non aveva più dubbi sul fatto che Anderson avesse mentito a Tina, e questa di conseguenza a Brittany, ma perché? E soprattutto, cosa doveva fare lei adesso?

“Santana?” Kurt la chiamò con tono incerto. Non sapendo dei suoi dubbi interiori, credeva fosse la rabbia e la voglia di vendetta che la caratterizzavano solitamente a farla marciare come un cadetto per i due metri di spazio che aveva a disposizione.

“Kurt,” iniziò la ragazza con tono apologetico. “Devo dirti una cosa.” Santana si risedette, e abbracciò se stessa, mentre continuava. “Stamattina ho sentito Britney. Mi ha detto di aver visto Blaine con un altro Uccellino, uccellino che era anche un delfino. Pensavo fosse uno dei suoi soliti deliri, ma abbiamo comunque mandato Tina ed Artie ad indagare. Stasera, quando l’ho risentita, mi ha detto che Tina, dopo aver parlato con Blaine, l’ha consolata, dicendole di non preoccuparsi per te. A questo punto, però…”

Kurt sgranò gli occhi, e si portò una mano davanti alla bocca. Era veramente sul punto di crollare di fronte alla sua nemesi, a un’amica nuova di zecca e alla terribile cheerleader che l’aveva tormentato per anni.

Sebastian e Lizzie, invece, erano confusi: Delfini e Uccellini? “Scusate,” iniziò Sebastian. “Qualcuno mi può tradurre l’ultima parte del discorso di Satana?”

Santana si voltò verso di lui, lo sguardo arcigno. “Gli Uccellini siete voi, gli Usignoli. I Delfini sono i gay.” Sebastian e Lizzie erano ancora più confusi dopo questa spiegazione, ma almeno erano riusciti a capire il senso della frase, più o meno.

“Bene,” disse Kurt, alzandosi dal divano. Non poteva aspettare un minuto di più, non voleva aspettare un minuto di più, specie se si trattava di un minuto passato a piangersi addosso. “Direi che dopo questo bel riassunto della mia vita privata, è il caso che parli con il diretto interessato. Vado in cucina e chiamo Blaine. Voi fate pure come foste a casa vostra.” Senza aggiungere nulla più, si diresse verso l’altra stanza e chiuse la porta della cucina alle sue spalle, lasciando gli altri tre, più confusi e in imbarazzo che mai, da soli in salotto.

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Kurt si appoggiò alla porta della cucina, e lasciandosi scivolare contro essa, si sedette a terra. Aveva bisogno di un appiglio, di sentirsi stabile per un momento, un attimo solo. Doveva rimettersi a posto, riprendersi e tornare il Kurt di sempre: forte, sostenuto e coraggioso. Aveva già abbassato troppo la guardia; probabilmente perché ormai stanco, arrivato al punto di rottura, ma non esisteva che affrontasse una discussione del genere in quello stato. Si asciugò le guance con i polsini della camicia, delitto per il quale si sarebbe punito poi. Prese dei respiri profondi, alzando gli occhi al soffitto per evitare di versare altre lacrime. Dopo qualche minuto,  o qualche giorno, nella cognizione del tempo di Kurt, si alzò e prese un fazzoletto, soffiandosi il naso. Non c’era uno specchio in cucina, e probabilmente era la cosa migliore: se si fosse specchiato, Kurt pensava che gli sarebbe preso un infarto. Andò a recuperare il portatile che Santana aveva lasciato in giro dopo aver parlato con Britney e con questo si sedette al tavolo della cucina. Aprì Skype, collegandosi con il suo account. Aveva pochi amici, i ragazzi del Glee, qualche Usignolo, – che, dopo l’incidente della settimana di Michael, era stato prontamente bloccato – il suo fratellastro, suo padre ed ovviamente Blaine. Comparse subito la richiesta di videochiamata di Blaine; Kurt recuperò l’ultimo briciolo di determinazione rimastagli, e l’accettò.

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“Bene,” iniziò Santana. “Adesso, visto che sono la padrona di casa, devo pure intrattenervi?”

Sebastian grugnì, e le rispose: “Te l’ho già detto, Lopez, non sei il mio tipo.”

Lizzie ridacchiò di una risata che le morì sulle labbra, dopo aver incrociato lo sguardo assassino di Santana. “Scusa,” disse flebilmente, poi si schiarì la voce e continuò. “Così tu sei il famoso Smythe…” sorrise, rivolgendosi a Sebastian. Questo la guardò stranito, come se avesse improvvisamente cresciuto due teste. “Scusa, è che oggi Kurt mi ha raccontato praticamente gli ultimi due anni della sua vita e, se posso permettermi, la tua figura non è propriamente legata a bei ricordi. Mi chiedevo cosa ci facessi qui, ecco tutto.”

Sebastian alzò gli occhi al cielo. “La camicia, Heidi, la camicia.”

“Cazzate,” rispose Santana. “Hai sempre sbandierato la tua agiatezza economica e i soldi di tuo padre ai quattro venti. Ti sei sempre vantato di poter comprare tutto e tutti, e ora hai dei problemi a pagarti la lavanderia per una sola camicia? Oltretutto, sei disposto a venire a casa mia e di Kurt, tra tutte le persone, per fartela pulire?,” Santana rise, scuotendo la testa. “Conosco i tipi come te, anzi come noi, qual è il tuo secondo fine?”

Sebastian sapeva che la scusa della camicia non avrebbe retto, specie con due persone tanto scaltre e tanto caparbie come Kurt e Santana. Ci aveva sperato, ma…  Sospirando, iniziò. “È vero, quella della camicia è una scusa. Stamattina, dopo che Hummel ha fatto la sua uscita di scena, qualcosa non mi quadrava. Kurt non scappa, non si chiude in se stesso e batte in ritirata. Io non lo conosco molto, ma mi ha sempre lanciato tanta merda, quanta io gliene davo.” Sebastian non si accorse di sorridere in quel momento, sorriso che invece non scappò né a Santana né a Lizzie. “Insomma, dopo averlo visto fuggire, dubbioso, ho chiamato Nick e Jeff in cerca di spiegazioni. Spiegazioni che non avevano, visto che alla loro stessa festa, hanno preferito chiudersi in camera a scopare. Si sono preoccupati, ed anche incuriositi, però, così mi hanno chiesto di venire ad indagare, mentre loro si informavano sugli avvenimenti della cena con Wes e David.” Sebastian terminò e alzò lo sguardo, solo per incontrare due paia di occhi che lo fissavano. Quelli di Lizzie erano curiosi, quelli di Santana minacciosi.

“Farò finta di crederti, Smythe,” disse Santana. “Anche se non mi piacete, ormai tu e Heidi, e anche i tuoi due amichetti gay, siete parte di questo macello. Macello che mi aiuterete a risolvere.”

“Certo, Santana, siamo tutti qui a tua disposizione.” Ribattè sarcasticamente Sebastian.

“No, siamo qui per Kurt.” Lo corresse Elizabeth, il tono di voce gentile e paziente. “E, per quanto non approvi, se vogliamo aiutarlo, dobbiamo sapere cosa sta succedendo in quella stanza. Santana,” iniziò, voltandosi verso la latina. “C’è un modo per spiare senza essere visti?”

“Oh, piccola dolce Heidi, zia Snixx ci ha già pensato. Basta mettersi dietro la porta; quest’appartamento è talmente pessimo che si sente tutto. E fidatevi, dopo aver sentito ogni santa mattina Lady Gaga, lo so.”

“Ok, non vedremo, ma almeno riusciremo a sentire cosa si dicono. Ho come un brutto presentimento.” Lizzie si alzò, e si avvicinò silenziosamente alla porta. Gli altri due fecero lo stesso, provando internamente la stessa brutta sensazione della ragazza.

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“Ciao Kurt.” La dolce voce di Blaine distrasse Kurt dai suoi pensieri, facendogli alzare lo sguardo, che subito incontrò quello dell’altro.

Blaine stava sorridendo, genuinamente e teneramente; il suo sorriso, però, non arrivava agli occhi. Normalmente, quando Blaine sorrideva, o rideva, i suoi bellissimi occhi nocciola si illuminavano, quasi brillavano, come animati da luce propria. Adesso, invece, erano spenti, velati da una patina di amarezza e tristezza.

Si poteva dire tantissimo dagli occhi di una persona. Fin da quando era piccolo, Elizabeth Hummel aveva insegnato al figlio Kurt che le emozioni si possono mascherare dietro a gesti, dietro espressioni false e obbligate, dietro parole recitate come da un copione immaginario, ma gli occhi – l’espressività di uno sguardo non si controlla. Sua madre gli aveva insegnato a leggere le persone attraverso i loro occhi, gli aveva insegnato a capirle e a decifrarle senza ascoltare le loro vane parole. Per quanto potesse essere convenzionale, banale o smielato, Kurt Hummel credeva veramente che gli occhi fossero lo specchio dell’anima.

Kurt aveva fatto tesoro di ciò che Elizabeth gli aveva confidato, ed era così che aveva sempre saputo riconoscere chi avvicinare e chi allontanare. Lizzie, ad esempio, la conosceva da pochi mesi, ma credeva di non sbagliare nel dire che poteva diventare la sua nuova migliore amica. I suoi occhi color cioccolato erano profondi, intelligenti e luccicavano di ingenuità e pura curiosità. Il suo sguardo raccontava di lei che era una persona affettuosa, acuta e sempre in movimento. Santana al contrario, aveva occhi d’onice, duri come la pietra che gli dava il colore. Sembrava una persona fredda, ma ad un occhio attento, non sfuggivano i guizzi che ogni tanto ne rallegravano lo sguardo, né le paure e le insicurezze che ne trasparivano di tanto in tanto. Blaine, per Kurt, aveva sempre avuto gli occhi più belli che avesse mai visto. Erano nocciola, dal taglio orientaleggiante, circondati da lunghe e folte ciglia. Erano gli occhi di un bambino, stupiti di fronte al nuovo, felici per le piccole cose, tristi se qualcuno a lui caro soffriva. Lo sguardo di Blaine era sempre così ipnotizzante, ti stregava dal primo secondo, senza mai risultare falso, però. Anzi, l’onestà e la genuinità erano tratti propri di quegli occhi sempre in movimento, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, sempre pronti ad osservare e memorizzare nuovi paesaggi, nuove situazioni, nuove persone.

Ormai, dopo due anni che lo conosceva, Kurt sapeva riconoscere ogni espressione di Blaine, ogni sfumatura che illuminava o incupiva i suoi occhi, e in quel momento, ciò che vi leggeva, non gli piaceva per niente.

“Ciao Blaine.” Rispose mestamente Kurt.

“Come stai?”

Kurt avrebbe voluto rispondergli sarcasticamente, usando quella lingua affilata che in più di un’occasione era stata la sua arma vincente, ma non voleva, non adesso. Non poteva dirgli: di merda, perché credo che il mio fidanzato mi stia tradendo. Fidanzato che non sento da giorni, che mi deve parlare, ma non mi chiama e che mi chiede come sto, come se nulla stesse succedendo e soprattutto, dimentico di quella che era la mia grande giornata.

“Così,” rispose invece amaramente Kurt con una scrollata di spalle. “Tu?”

Blaine sospirò. “Male.”

Kurt non rispose, continuò a fissare quegli occhi ormai velati da lacrime, ipnotizzato.

“Devo dirti alcune cose, ed è tremendamente difficile.”

“Ti ascolto.”

“Ricordi quella partita di baseball che David aveva organizzato quest’estate con tutti gli Usignoli?” Figurati se non me la ricordo, dopo che stamattina è stata un pensiero martellante.

“Si,” annuì Kurt, tentennando.

“Ecco, non era una partita di baseball. David e Wes avevano organizzato una cena a casa di Nick, e avevano invitato anche noi due. Non volevo mentirti, sul serio, ma volevo veramente andarci da solo.” Blaine scosse il capo, mordendosi il labbro inferiore. Ormai le lacrime gli stavano rigando il viso dai lineamenti decisi, scendendo sulle sue guance, e poi giù, fino al mento. “Volevo andarci da solo per mettermi alla prova. Tu saresti partito poco dopo per New York, e io sarei rimasto solo. Sappiamo entrambi che le persone con cui avevo legato di più al McKinley erano Finn, Puck, Mike e Rachel: tutti e quattro all’ultimo anno. Credevo che sarei rimasto senza amici, senza un appiglio, e così volevo riallacciare i rapporti con gli Usignoli, volevo provare a staccarmi da te; non perché lo volessi davvero, ma perché sentivo che dovevo. Seriamente, credevo di dirti una bugia a fin di bene. Un tipo di bugie che ora so che non esiste.”

Kurt era pietrificato. Non sapeva cosa dire, né cosa fare. Voleva sapere di più, voleva capire dove volesse andare a parare Blaine, ma allo stesso tempo ne aveva paura.

Blaine lo osservò per un attimo, preoccupato dal suo silenzio, ma continuò comunque. “Alla cena sono riuscito a riavvicinarmi un po’ a Thad e a Trent, oltre che a Wes e David, e non sai quanto mi abbia fatto bene. Poi ho conosciuto una persona,”

Ecco la pugnalata che Kurt stava aspettando, la pugnalata che gli tolse il respiro, che lo squarciò in due. Sapeva di doversi aspettare qualcosa, ma fu comunque una doccia fredda.

“Kyle. È il cugino di Thad. È un ragazzo gay che si è dovuto trasferire alla Dalton dalla sua vecchia scuola a causa del bullismo, proprio come noi due. Ha iniziato alla Dalton a settembre e Thad l’aveva portato con sé a casa Duval per fargli conoscere un po’ di persone.” Blaine ora sorrideva veramente, probabilmente ripensando a questo Kyle. Per la prima volta nella sua vita, Kurt odiò il radioso sorriso di Blaine.

“Kyle è al terzo anno, canta ed è un ragazzo dolcissimo. Quando l’ho conosciuto, mi ha ricordato tantissimo te. Adora la moda, ha una voce unica, ed è,” Blaine si fermò un attimo, un’espressione sognante dipinta sul volto. “È magico.”

Quel coltello invisibile colpì Kurt ancora, e ancora, e ancora.

Blaine tornò serio, e osservò intensamente Kurt. “Io non ti ho tradito, Kurt. Non potrei mai farlo. Ti amo troppo. Solo che,” Blaine sospirò profondamente. “Solo che mi sono innamorato di Kyle. Dopo quella cena ho iniziato a vederlo spesso. Era divertente, ci trovavamo bene insieme, avevamo tantissimi interessi in comune. A me serviva un nuovo amico, e a lui una spalla su cui piangere, un appiglio dopo ciò che aveva passato. Anche in questo mi ha ricordato te; mi è sembrato che la storia si ripetesse.”

Ormai Kurt era impassibile. Sentiva di non riuscire a respirare, gli mancavano aria ed ossigeno. Gli mancavano le parole. Ogni emozione gli era stata portata via; non riusciva a piangere, ad arrabbiarsi, ad urlare – non riusciva a reagire.

“Comunque,” continuò Blaine. “Abbiamo continuato a vederci. Come amici. Mi ci sono affezionato pian piano, caffè dopo caffè, cinema dopo cinema, karaoke dopo karaoke. So che sono passati solo due mesi, ma credo veramente di provare qualcosa di più per lui, qualcosa che va oltre la semplice amicizia. Ero serio quando ho detto che non ti ho tradito, e che non lo farei mai. È per questo che ti ho voluto parlare,” Blaine aveva smesso di piangere. Sembrava più determinato, più sicuro ora. “Credo che sarebbe meglio se ci lasciassimo.”

Kurt nemmeno se ne accorse quando iniziò a piangere. Non si accorse di essersi morso il labbro inferiore, come faceva sempre quando era imbarazzato o agitato, fino a farlo sanguinare. Non si era accorto di aver stretto le proprie mani, chiudendole in due pugni.

“Io ti amo, Kurt. Ti ho sempre amato e credo che ti amerò per sempre. Sei stato il mio primo amore, la mia prima storia seria, la mia prima volta, il mio primo – tutto,” concluse con semplicità Blaine.  “Per due anni sei stato il mio tutto.” Blaine aveva ricominciato a piangere, mentre sorrideva mestamente. “Sai anche tu, però, che ormai la nostra storia non era più come all’inizio. Sapevamo che la distanza ci avrebbe creato dei problemi. Io –“ Blaine stava piangendo, ormai vicino a singhiozzare. Kurt lo vide prendere un fazzoletto e soffiarsi il naso. “Io non credevo sarei stato quello a lasciarti. Ho sempre pensato che sarebbe stato il contrario. Tu, a New York, in mezzo a tanti altri ragazzi gay, più fashion di me, più belli di me. Non sai quanto mi dispiaccia, Kurt. Anzi, credo che tu lo sappia. Tu lo sai, perché stai provando lo stesso dolore.”

Kurt avrebbe voluto urlare che no, non lo sapeva, che ciò che stava provando non era nemmeno lontanamente immaginabile, ma non ci riuscì. Non riusciva ad aprire bocca, non riusciva a parlare, né a singhiozzare –  nulla.

“Io credo che la nostra storia fosse arrivata da tempo al capolinea, Kurt, e che noi abbiamo sempre rimandato l’inevitabile. Ormai penso che fossimo innamorati dell’idea dell’amore.” Blaine tirò su con il naso, e si asciugò le lacrime. “Ci siamo promessi di non dirci mai addio, ed è una promessa che voglio mantenere, Kurt. Molto prima di stare insieme, eravamo amici. Sei stato il mio migliore amico, il mio confidente, la mia metà, molto prima della morte di Pavarotti. Non sono più innamorato di te, ma come ti ho già detto, ti amo ancora, ci tengo ancora tantissimo a te. Terrò sempre a te.”

Kurt sospirò. Sapeva che era arrivato il momento che fosse lui a parlare, a rispondere, a spiegarsi, ma non ci riusciva. “Io –“ iniziò con tono tremolante ed incerto. “Io devo andare, Blaine.”

“No, Kurt, aspett –“

Kurt chiudette con forza lo schermo del computer portatile di Santana, spegnendo così anche la voce di Blaine. Scoppiò a piangere e corse fuori dalla cucina. Passò oltre i tre, ancora incollati alla porta per origliare, senza dire una parola. Si diresse in camera sua, entrandovi e sbattendo la porta.

Lizzie era sconvolta. Lei stessa, dopo quella telefonata, aveva le lacrime agli occhi. Continuava a fissare la porta chiusa della stanza di Kurt, preoccupata e angosciata.

Sebastian, invece, iniziava a sentirsi di troppo. Quello non era il suo posto, specie in un momento del genere. Iniziò ad insultare mentalmente Nick e Jeff per averlo spedito in quella casa, ma Santana interruppe i suoi rantoli mentali.

“Bene, chi va a parlarci?” chiese la latina, voltandosi a squadrare con fare intimidatorio i due ragazzi.

“Scherzi, vero, Lopez? Pensi seriamente che io possa andare lì dentro e consolare Hummel?” le domandò Sebastian, un sopracciglio inarcato e il tono di voce tagliente e sferzante, come se volesse schiaffeggiarla a parole.

“No, non scherzo affatto, -“

Sebastian non la lasciò nemmeno finire. “Io non parlo di sentimenti, Lopez, non sono Anderson.”

“Fidati, se fossi stato Anderson, in questo momento non avresti potuto parlare tanto sarebbe stato il dolore. Comunque, quello che volevo dire, prima che tu mi interrompessi, è che sei l’unico altro ragazzo gay presente, chi meglio di te può rapportarsi a Kurt in questo momento?” ritorse Santana, pronta a difendersi.

“Io e le emozioni umane non andiamo d’accordo; il massimo a cui posso rapportarmi sono sederi e peni. Se credi che Hummel abbia voglia di scopare, per il bene dell’umanità, farò questo immenso sacrificio.” Sebastian sospirò profondamente, esasperando la sua finta espressione contrita e penosa. Se doveva essere sincero, non gli sarebbe dispiaciuto poi tanto portarsi a letto uno come Kurt. Ovviamente non l’avrebbe mai ammesso, specie con Satana.

“Oh, Sebastian Smythe, martire subito!” Lo schernì Santana, enfatizzando la crescente irritazione che le stava provocando l’altro con dei gesti teatrali delle mani.

“Se questo mi guadagnerà un posto in Paradiso, ben lontano dall’Inferno di cui sei a capo, Satana, sono disposto a tutto!” sibilò l’ex Usignolo.

Lizzie, che finora era stata in silenzio, muta osservatrice dell’evidente follia dei due, decise che stavano iniziando ad oltrepassare il limite e che era tempo di intervenire. “Adesso BASTA!” gridò a pieni polmoni. Elizabeth non perdeva mai la calma; era una persona sempre disponibile, accomodante e paziente, ma questa volta ne aveva avuto abbastanza. “Siamo qui perché siamo tutti preoccupati per Kurt. Lo stesso Kurt che è lì dentro, probabilmente a piangere, a sfogare il suo dolore, mentre voi, qui fuori, riuscite solo a battibeccare su cose futili e idiote.”

“Io non sono preoccupato per Kurt. Io non ho sentimenti.” Dissero all’unisono Santana e Sebastian, guardandosi per l’ennesima volta in cagnesco.

Lizzie chiuse gli occhi, si strinse la punta del naso tra indice e pollice e prese un respiro profondo. Nella sua vita precedente doveva aver fatto qualcosa di veramente brutto per dover sopportare due idioti simili. “Per piacere, potete anche smettere la sceneggiata. Fate gli stronzi, i menefreghisti, gli egoisti, ma in realtà, siete entrambi ancora qui, a discutere chi potrebbe aiutare Kurt, perché ci tenete. Se fosse vero che non ve ne frega nulla di Kurt, o dei suoi sentimenti, perché la voglia di aiutarlo vi porterebbe a sbranarvi?”

Sebastian sbuffò, a schernire le parole della brunetta: “Non è la voglia di aiutare Hummel che mi porta a voler la testa di Satana su un piatto d’argento, è l’irritazione di averla così vicina.”

“Oh, non ti preoccupare, puoi allontanarti. Anzi, lo farò io stessa, sento già l’orticaria iniziare a farmi prudere la pelle.” Santana fece un passo indietro, effettivamente prendendo distanza da Sebastian, giusto per il gusto di avere l’ultima parola. Dopo un ultimo sguardo tagliente rivolto a questo, si voltò verso Lizzie: “E comunque, mia cara Heidi, se sei così pronta ad aiutare Hummel, perché sei ancora qui a discutere con noi invece di essere lì dentro con lui?” continuò la latina, puntando il pollice verso la porta della stanza di Kurt e sollevando un sopracciglio.

“Purtroppo, devo concordare con la Lopez. Perché non vai tu a consolare Hummel, se ci tieni così tanto come ci stai dicendo? Forza, che aspetti?” Sebastian accompagnò le sue parole con un eloquente gesto della mano, anche questo volto ad indicare la porta dietro la quale si era rifugiato Kurt.

“No.” Rispose seccamente Lizzie.

“Codarda.” Sibilò a denti stretti Santana.

Alzando gli occhi al cielo, Lizzie continuò. “No, perché Kurt non lo vorrebbe. In questo momento è probabilmente distrutto, col cuore spezzato e in un lago di lacrime. Avrebbe bisogno seriamente di una spalla su cui piangere, ma se c’è qualcosa che ho capito di Kurt nel poco tempo che l’ho conosciuto, ma soprattutto oggi, quando mi ha raccontato la sua storia, è che è un ragazzo forte, terribilmente tenace e soprattutto, estremamente orgoglioso. Ha bisogno di stare da solo, elaborare la situazione e leccarsi le ferite. Domani,” Lizzie sospirò. “Domani avrà bisogno di amici. Amici veri.”

Santana e Sebastian rimasero in silenzio, ponderando e valutando le parole della giovane. Finalmente tacciono, pensò una sollevata Lizzie.

Sebastian era stupito. Elizabeth all’apparenza sembrava solo una ragazzina. Forse era l’aspetto fisico, forse il suo abbigliamento vivace e colorato, forse era che aveva veramente un anno in meno rispetto a loro, ma l’ex Usignolo non pensava avesse tanta forza, tanta passione in sé. Il suo discorso era stato emotivo, pieno di sentimenti che probabilmente nemmeno lei sapeva di provare, ma che erano traspariti dalla sua voce e dalle sue parole. Quella che credeva fosse solo una bambinetta, aveva fatto centro solamente con qualche frase e l’aveva piacevolmente colpito. E come spesso si vantava, impressionare Sebastian Smythe non era cosa da niente.

Anche Santana era sbalordita, ma per motivi diversi. Questa ragazza conosceva da pochissimo tempo Kurt, certamente molto meno rispetto a lei, eppure, l’aveva già capito così bene. Santana si era sempre creduta un’ottima osservatrice quando si trattava di capire le persone; per comprendere Kurt, però, le ci erano voluti mesi, se non anni, e probabilmente ancora non lo conosceva poi così bene come avrebbe voluto. Oltretutto, il controtenore era una persona estremamente riservata, schiva nel proteggere le sue emozioni, i suoi pensieri e il suo passato. Eppure con lei si è confidato. Santana non sapeva se esserne colpita o offesa.

“Credo che Heidi abbia ragione,” disse cautamente Sebastian. “Forse è meglio se ce ne andiamo, e ne riparliamo domani. Potrei sempre chiedere anche a Nick e Jeff di aiutarci. Jeff adora Kurt.”

Santana si riscosse dalle sue riflessioni e acconsentì. “Si, lasciamolo solo per questa notte e poi vedremo.”

In maniera poco cerimoniosa Santana recuperò i soprabiti dei due, li congedò senza tante parole e li spinse fuori dalla porta. Arrivata a questo punto, non vedeva l’ora che quella giornata finisse. Decise così, di mettervi fine lei stessa; non pensò a sistemare nulla in quella casa ormai avvolta da un pesante silenzio. Spense tutte le luci, andò velocemente al bagno, e anche lei si chiuse nella sua stanza, lasciando che quella notte ancora giovane tentasse di portare sollievo alle ferite aperte durante il giorno.

 

* traduzione: “Credo, però, che le idee più brillanti vadano condivise.”

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Capitolo 7
*** I'm paralyzed, without you ***


I SHOULD TELL YOU_7

Bonjour!

Or dunque, inizio subito col darvi delle spiegazioni.

È giovedì, eppure, pubblico questo e non la traduzione. Perché, vi chiederete?

Per diverse ragioni…Negli ultimi giorni ho avuto la febbre e lunedì purtroppo non ho potuto aggiornare; oltretutto, la Sere sta avendo dei problemi tecnici, quindi The Kitten and Coyote è fermo al betaggio e non so quando la situazione si sbloccherà.

Volevo darvi almeno una delle due storie, spero vivamente di non aver fatto confusione! =)

 

Spiegata la questione aggiornamenti, passiamo oltre… Innanzitutto, come sempre, devo ringraziare tutti voi che leggete, seguite, preferite e soprattutto, le mie care recensitrici (?). Grazie di cuore a: Madez, Ili91, love mojito, cup of tea, bleberry, Athena14 e Tallutina.

 

Passando al capitolo, avverto che c’è ancora un velo di tristezza, ma i nostri “consolatori” si stanno mettendo all’opera XD
C’è tantaaaa interazione Kurtbastian (finalmente, direte voi) e un pizzico di Niff.

Spero vi piaccia! ^-^

Come al solito, suggerimenti, critiche, idee, consigli, etc.etc. sono i benvenuti.

Buona lettura,

Elle <3

 




I should tell you

 

Capitolo settimo:

 

I’m paralyzed, without you

 

 
 

I guess it's all alright. I got nothing left inside of my chest, but it's all alright. 

(All Alright – Fun)

New York, martedì 23 ottobre  

 

Nick grugnì, nascondendo la testa sotto il proprio cuscino. Perché il cellulare di Jeff stava squillando così presto? Chi diavolo era? Quando si accorse che il fidanzato stava ancora dormendo profondamente, e che quindi non avrebbe risposto, rotolò su un fianco, avvicinandosi al biondino.

“Jeff,” sussurrò con voce rauca ed impastata. “Jeff, tesoro, svegliati. Ti sta squillando il telefono.”

Gnn.” Fu l’unica risposta che ricevette dal fidanzato.

“Dai, Jeff,” insistette Nick, scrollando il braccio scoperto dell’altro. “Rispondi per favore. Magari è un’emergenza.”

“Che ore sono?” strascicò con tono lamentoso Jeff.

“Le sei.” Rispose Nick dopo aver lanciato un’occhiata alla radiosveglia che teneva sul comodino.

“Merda, chi mi chiama alle sei di mattina?”

“Non lo so, ma per favore rispondi. Quell’aggeggio infernale sta squillando ininterrottamente da secoli, e francamente mi ha stufato. Voglio tornare a dormire.”

“Va bene.” Ancora riluttante, Jeff si levò le coperte di dosso e si alzò. Barcollante, arrivò al comò, dove la sera prima aveva lasciato il suo cellulare. “Pronto?”

“Buongiorno, Sterling!” cinguettò allegro Sebastian.

“’Bastian, sai che ore sono, vero?” Jeff sembrava irritato dal tono sereno e ben sveglio dell’amico. Solo perché probabilmente ancora non è andato a dormire, non significa che gli altri debbano perdere le proprie ore di sonno, pensò Jeff.

“Le sei.” Rispose Sebastian, con questo tono insolitamente esaltato.

“Appunto. Almeno che tu non sia in punto di morte, perché diavolo mi hai chiamato alle sei di mattina? Probabilmente sei appena tornato da una delle tue serate, ma noi oggi abbiamo lezione e potevamo goderci almeno un altro paio di ore di sonno.” Dopo l’ennesimo grugnito di Nick, Jeff si allontanò, andando in corridoio e chiudendo la porta della camera da letto alle sue spalle, così che non disturbasse il fidanzato.

“Fidati, nessuna soirée ieri sera. Anche se non si può dire che non sia stata una serata interessante.” Jeff, anche se non lo vedeva, poteva sentire il ghigno furbo dell’amico.

“Sebastian, sai che sono già lento di mio. Oltretutto sono le sei di mattina. Se devi dirmi qualcosa, sbrigati.”

“Bè, ricordi la telefonata di ieri, vero?” domandò Sebastian.

“Certo che si. Oggi io e Nick dobbiamo chiamare Wes,”

“Non ce ne sarà bisogno, temo,” lo interrupe l’amico. “Ieri sera ho fatto visita ad Hummel, e potrei aver chiarito un paio di cosucce.”

“Sebastian, ti ricordo che sono le sei. Vai al punto.” Jeff era veramente assonnato.

“Va bene, se è la bomba che vuoi, la bomba sgancerò. Blaine ha lasciato Kurt.”

Cosa?” urlò Jeff, ora perfettamente sveglio.

A quanto pare l’urlo del biondo non aveva svegliato solo lui, ma anche il fidanzato, che corse spedito fuori dalla stanza da letto, ancora con un occhio aperto e l’altro no. “Jeff, stai bene? Che succede?” gli chiese, strofinandosi gli occhi, irritati dal cambio di luce.

“Salutami Nicky, Jeff.” Sebastian sembrava sempre più divertito dalla situazione e sicuramente non stava cercando di mascherarlo.

“Sto bene, piccolo, ma questa non ti piacerà. Blaine ha lasciato Kurt.”

“Merda.” Fu l’unico commento di Nick. “È Seb al telefono, vero?” Jeff si limitò ad annuire. “Bene,” proseguì Nick. “Mettilo in vivavoce.”

“Buongiorno anche a te, Duval.”

“Oh, non essere così divertito, Smythe. Voglio i dettagli, tutti.” Nick, sveglio da appena due minuti, aveva già recuperato tutta la sua risolutezza e il suo pragmatismo, parlando a Sebastian con un tono secco e deciso, che non ammetteva repliche.

“Dio, Nick, rilassati ogni tanto,” Nick e Jeff potevano perfettamente immaginarsi l’amico alzare gli occhi al cielo. “Comunque, visto che è il motivo per cui ho chiamato, vi racconterò tutto…”

Iniziò ad aggiornarli sugli eventi della sera prima: dalle liti con Santana, alla conoscenza di Lizzie, dai risultati accademici di Kurt, ai problemi con Blaine.

“Insomma, per concludere, abbiamo spiato la videochiamata. Non è stato un bello spettacolo sarebbe un eufemismo. Per farla breve, Blaine ha lasciato Kurt per una sua versione più giovane. Versione sicuramente peggiore, visto che condivide il pool genetico di Thad Harwood. Tutto questo, tanto per farvi sentire un po’ in colpa, è iniziato proprio la sera della cena a casa tua, Nick.”

“Merda,” mormorò Jeff.

“Già, merda. Hummel si è chiuso in camera, e su consiglio di Heidi abbiamo deciso di lasciarlo in pace almeno per la serata. Siamo rimasti d’accordo che ci avremmo pensato oggi. Io sicuramente non mi candido come dama da compagnia, quindi ho pensato di chiamarvi. Ieri mi siete sembrati così devoti a Faccia da Checca da farmi venir voglia di vomitare.”

“Quello probabilmente era dovuto a tutto l’alcool della sera precedente, Seb.” Ribattè acidamente Nick.

“Fosse stata l’unica cosa che ho ingoiato l’altra sera,” commentò suggestivamente Sebastian.

Ew, Seb!” si lagnò uno schifato Jeff.

“Ritornando in tema, vi invio un SMS con l’indirizzo di Hummel, così potete andare ad aiutare le Lopez a consolarlo. Non credo sia un’esperta in materia. Un po’ d’aiuto probabilmente le farebbe comodo.”

“C’è un piccolo problema,” lo interruppe Nick. “Noi oggi abbiamo entrambi lezione. Io ho un test e Jeff ha una conferenza a cui la presenza è obbligatoria. Non possiamo passare da Kurt fino a domani.”

“Oltretutto,” continuò Jeff con voce flebile. “Non credo sia l’idea migliore.” Sospirò mentre, tenendo il cellulare in mano, si avviava in cucina. Ormai si era rassegnato all’idea di non dormire più per quella mattina, tanto valeva prepararsi un caffè. “Dopo l’incidente della granita, Kurt e Blaine hanno tagliato i ponti con tutti noi. Blaine ha cercato di recuperare qualche rapporto, specie quello che aveva con Wes e David. Kurt ha sempre cercato di rimanere civile con tutti, ma a parte qualche saluto, qualche formalità, non l’abbiamo praticamente più sentito. Ti ho detto che addirittura non abbiamo nemmeno più il suo numero di telefono.” La voce di Jeff era incerta, e sicuramente non nascondeva il suo rammarico per quella faccenda. “Non ho nemmeno avuto l’occasione di scusarmi decentemente.”

“Non l’abbiamo avuta,” lo corresse il fidanzato.

“No, è come se avessimo fatto passare la cosa. Sai quando hai un litigio e fai finta di nulla? Il tempo passa e a volte quelle ferite vengono sanate, il rapporto continua. Altre volte ci si perde completamente. Io e Kurt abbiamo avuto un rapporto molto particolare, Sebastian. Diverso da quello che io abbia mai avuto con nessuno. Pur conoscendoci poco, siamo stati l’uno la spalla su cui piangere dell’altro in quei pochi mesi che ha passato alla Dalton. È come se ci fossimo trovati all’improvviso, aiutati a risollevarci e poi persi. Non so se il nostro primo incontro dopo mesi che non ci sentiamo debba avvenire in queste circostanze. Voglio rivederlo e voglio aiutarlo, ma non penso che una mia visita a sorpresa oggi possa portare nulla di positivo. Anzi,” Jeff lasciò sospesa la frase, e si mise a preparare la colazione per sé e per Nick, lasciando il telefono in mano a quest’ultimo. Sebastian rimase in silenzio: era raro sentire Jeff parlare con così tanta veemenza, tanta passione, e perché no, anche tanto a lungo. Nick sospirò, decidendo di porre fine a quel silenzio pregno di imbarazzo che per un attimo li aveva avvolti.

“Sebastian, perché non vai tu? Magari parli con Santana e insieme trovate una soluzione.”

“Certo,” sbuffò Sebastian. “Io e Satana che discutiamo civilmente per consolare il cuore spezzato di Lady Hummel. Non suona idiota anche a te questa frase?”

Jeff si riappropriò del telefono, e implorò l’amico. “Per favore, Sebastian. Per vari ed ovvi motivi né io né Nick possiamo aiutare Kurt oggi, ma questo non significa che non voglia che qualcuno lo faccia. Fallo al posto mio, fallo per me. Vai a casa loro e prova almeno a parlarci.”

“Jeff, questa cosa è assurda. Ci odiamo. O al massimo ci odiavamo e ora ci sopportiamo civilmente. Il punto è che credo di essere l’ultima persona al mondo che vorrebbe vedere oggi, e inoltre: come diavolo posso io, e sottolineo io, Sebastian Smythe, stronzo di professione, consolare Hummel? Ci conosciamo a malapena!”

“A volte, Seb, è più facile aprirsi con degli sconosciuti, specie se sai che sono degli stronzi ipercritici e veramente sinceri. Oltretutto, per consolarlo, ti dico io cosa fare.”

Sebastian sospirò, maledicendosi per ciò che stava per fare: “Va bene, ma mi dovete una bevuta dopo questa!”

“Si!,” esultò Jeff. “Tutto l’alcool che vuoi, Seb. Anzi, organizza già una serata ed invita anche Kurt. Pago io per tutti. Così magari posso anche riavvicinarmi a lui.”

“Va bene, glielo proporrò. Adesso, mi spieghi come devo fare perché Hummel non mi pianga addosso?”

“Oh, è semplice,” iniziò Jeff. “Ti bastano due cose: Proust e i muffins ai mirtilli.” […]

 

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Kurt fissava il soffitto. L’aveva fissato per tutta la notte. Era steso sul letto a pancia in su, le braccia piegate a sostenere il capo, lo sguardo sgranato ad osservare il vuoto. Osservava il nulla, quello stesso nulla che lo avvolgeva e lo riempiva.

Dopo che aveva bruscamente terminato la videochiamata con Blaine, era fuggito. Non si era sentito in grado di affrontare gli altri, di vederli, di parlarci. Non aveva voglia di essere osservato con sguardi pietosi, né di sentire sciocche parole di consolazione. Così era scoppiato a piangere e si era rifugiato in camera. Sono scappato un’altra volta, pensò. Dentro la sua stanza, il suo nido protetto, si era lasciato andare, aveva sfogato ogni briciola di rabbia, di risentimento, di tristezza, di paura. Aveva pianto per un tempo infinito, non riusciva nemmeno a ricordarsi quanto lungo. Aveva pianto finché non si era sentito intorpidito, insensibile, gli arti flaccidi e la testa pesante. Aveva pianto fino a svuotarsi di qualsiasi emozione, fino a divenire un guscio vuoto, fino a quando la sensazione di vuoto l’aveva riempito. A quel punto, aveva deciso di stendersi, ancora così, coi vestiti della giornata addosso, gli occhi gonfi e doloranti e il viso bagnato.

Così come si era steso, si era ritrovato la mattina. Aveva ancora gli occhi gonfi, i vestiti della mattina addosso, i capelli spettinati, la testa pesante e il corpo insensibile, ma soprattutto, si sentiva ancora vuoto. Kurt, sempre padrone severo delle proprie emozioni, Regina di Ghiaccio, come lo chiamava qualcuno, si era lasciato andare e ora si sentiva allucinato, totalmente e fastidiosamente alienato. Non provava più nulla. Era alla deriva e non vedeva appigli.

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Santana, pur essendo andata a dormire molto presto, anche quella mattina si svegliò in ritardo. Senza pensarci due volte, iniziò la solita routine collaudata. Corse al bagno, si lavò, si truccò in maniera leggera e poi andò in camera a vestirsi. Solo quando stava uscendo dalla sua stanza per dirigersi in cucina a fare colazione, la realtà dei fatti la colpì in pieno viso, come una sberla. Kurt non si era ancora alzato. Troppo presa dal suo ritardo, e dalla voglia di non sentire più i richiami di Herr H, Santana si era dimenticata completamente degli eventi della sera prima.

Schiaffeggiandosi mentalmente, cambiò direzione e si avvicinò alla porta chiusa della stanza di Kurt. Iniziò a bussare con delicatezza. “Kurt?” domandò con tono dolce. “Kurt, sei lì dentro?” Non ricevette risposta, così provò ad aprire la porta per entrare a controllare l’amico, scoprendo però che Kurt l’aveva inchiavata da dentro. “Kurt? Kurt? Sei sveglio? Rispondimi, per favore!” stava iniziando a perdere la dolcezza della voce, soffocata da preoccupazione e ansia. “Kurt, devo andare a lavoro, ma non ti posso lasciare così. Per favore, rispondimi oppure aprimi.” Ormai non stava più bussando, ma picchiando minacciosamente il legno della porta. “Kurt, per favore!” supplicò, quasi urlando. “Va bene, ascolta, vado a fare colazione. Tu rimettiti in sesto, ma prima che esca voglio vederti. Non ti posso lasciare così.” Osservando con sguardo triste ed affranto la porta, Santana si voltò per andare in cucina, mentre pensava: Merda, questo è persino peggio che ascoltare Teenage Dream a tutto volume tutto il giorno!

In cucina si preparò velocemente un caffè, finendo in due morsi una semplice barretta ai cereali. Come diavolo avrebbe fatto? Sapeva che Kurt non avrebbe aperto la porta, lo conosceva troppo bene: lui e il suo orgoglio. Doveva andare a lavorare, e anche subito, se non voleva essere licenziata ma, in tutta coscienza, come poteva lasciare Kurt, in quello stato, a casa da solo? Sapeva che Kurt era una persona forte e tenace, ma un momento di debolezza capita a tutti. E se avesse fatto una cavolata? Santana non poteva avere un peso del genere sulla coscienza. Merda, merda, merda. Con la testa piena di pensieri, Santana poggiò la tazza sporca nel lavello, gettò la confezione della barretta nel cestino e si lavò le mani.

Tornò sui suoi passi, e ricominciò a bussare a quella porta chiusa. “Kurt!” gridò minacciosamente. “So che mi stai ascoltando. Devo andare a lavorare, ma non me ne andrò finché non ti avrò visto. Quindi apri questa porta, o giuro che la sfondo. A Lima Heights Adjacent ci insegnano anche questo!” Aveva deciso di lasciar perdere dolcezza e comprensione, passando direttamente al suo piatto forte: le minacce. Mentre cercava di ricordare come scassinare una serratura con una forcina, i suoi pensieri furono interrotti dal campanello che suonava. Ci mancava solo un’altra visita a sorpresa.

Oramai praticamente fumando, Santana andò a rispondere al citofono. “Chi è?” ringhiò ben poco educatamente. “Satana, aprimi.” 

“Smythe?” domandò Santana, dopo aver riconosciuto la voce.

“Si, l’unico e il solo.” Santana sbuffò, ma decise di aprirgli comunque.

Sebastian salì le scale velocemente ed arrivò davanti al portone di casa Hummel – Lopez, dove Santana lo stava aspettando a braccia conserte.

“Bando alle ciance, che ci fai qui?” domandò schietta Santana, senza tanti convenevoli.

“Buongiorno anche a te, Lopez.” Rispose sarcasticamente Sebastian.

“Si, si, quello che è. Ho fretta e voglio delle risposte.”

“Ieri sera Heidi aveva proposto di rimandare ad oggi qualsiasi intervento. Ho chiamato Nick e Jeff, come avevo detto, ma purtroppo oggi sono occupati. Jeff mi ha praticamente implorato di venire al posto suo, così, eccomi qua!” Sorrise ironicamente, aprendo le braccia per mostrarsi.

“Si, ti vedo. Cos’hai in mano?” chiese Santana, indicando col capo gli oggetti che Sebastian aveva con sé.

“Secondo Jeff, la miracolosa cura alla depressione di Hummel.”

Santana rimase un attimo in silenzio, poi si avvicinò minacciosamente a Sebastian. “Ti lascio qui solo perché sono in ritardo per il lavoro e non so come altro fare. Kurt si è chiuso in camera e non esce. Non posso lasciarlo a casa da solo, quindi ti faccio entrare. Ti avverto, però, se torno a casa e Kurt o l’appartamento non sono nello stesso stato in cui li ho lasciati, giuro che ti strappo i testicoli a morsi e poi te li faccio ingoiare. Mi hai capito?” chiese Santana, sibilando, mentre col dito spingeva contro il petto di Sebastian.

“Santana, calmati, vengo in pace. Sono qui solo per fare un favore ad un amico.” rispose con tranquillità Sebastian. “Giuro che ti faccio ritrovare casa tutta intera e Hummel spero persino meglio di come lo lasci adesso.”

“Non mi fido, ma come ho già detto, ho fretta. Non starò qui a chiederti perché non vai mai all’università, perché ti sei immischiato in questa faccenda, perché sei qui per aiutare una persona che detesti. Non lo so e al momento non lo voglio sapere; ci sarà tempo stasera per riparlarne. Per adesso ti basti sapere che la stanza di Kurt è la porta sulla destra, il bagno quella centrale, quella a sinistra è la mia stanza e per te è off limits, e che in cucina ci sono acqua e birra e anche qualche snack. Li trovi nascosti nello scaffale più in alto; Kurt non vuole che mangi schifezze, ma ogni tanto ne ho veramente bisogno.”

Santana rientrò velocemente in casa, corse in camera e recuperò giacca e borsa. Senza salutare nessuno, volò fuori e si chiuse la porta alle spalle, lasciando Sebastian ancora sull’uscio, divertito e imbarazzato allo stesso tempo.

Il ragazzo si guardò intorno, osservandosi intorno curioso. Era ancora incerto sul da farsi. Kurt si era chiuso in stanza, chiuso in se stesso. Come poteva riuscire a parlarci, a comunicarci?  Decise di non farsi troppe domande, e mettere subito in pratica i consigli di Jeff. Lasciò la propria giacca sul divano e prese con sé il gli oggetti che aveva portato. Seguì le istruzioni di Santana e si avvicinò alla prima porta a destra. Dall’altra parte sembrava non venire nessun rumore.

Sebastian, così, si lasciò scivolare contro quella porta chiusa, sedendosi a terra, le ginocchia rannicchiate al petto. Prese in mano il libro che aveva portato con sé, cercò la pagina che aveva segnato come quella giusta e, schiarendosi la voce, iniziò a leggere:

* (nda) “M’andò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati Maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, IO ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva?” La voce di Sebastian, mentre leggeva quel pezzetto, quella briciola di testo, era melodiosa e dolce, lenta e ponderata. Il ragazzo si fermò un attimo; dalla stanza sembrava non arrivare risposta, ma Sebastian aveva percepito un fruscio, un movimento, ed era certo che Kurt lo stesse ascoltando. Riprese così fiato e ricominciò a leggere.

“Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? […] E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. […] Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità. […] All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di Maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…."  Sebastian sentì il rumore di una serratura che girava, così chiuse il libro e agilmente si mise in piedi. La porta si aprì, facendolo ritrovare faccia a faccia con Kurt. Per un momento si osservarono. L’azzurro inumidito da lacrime non piante degli occhi di Kurt penetrò intensamente quelle gemme dure, ma brillanti che erano gli occhi di Sebastian. Il primo stava cercando di capirlo, di giudicarlo, di comprendere le sue azioni. Sebastian sostenne il suo sguardo con fierezza e, dopo quelli che sembravano giorni più che secondi, sorrise. Si abbassò e raccolse il sacchetto che aveva portato con sé.

“Muffins ai mirtilli.” disse con semplicità, allungando all’altro la confezione.

Kurt afferrò quel sacchetto, quell’offerta di pace, con riluttanza. Lo aprì e chiudendo gli occhi, inspirò il delizioso profumo che ne veniva fuori. Per Kurt il tempo si fermò, facendolo sentire di nuovo avvolto in un abbraccio caloroso, la sensazione d’affetto e amore incondizionato a riempirgli il cuore. Sebastian lo osservava con occhi curiosi e sinceri, spettatore di qualcosa di magico.

“Come facevi a saperlo?” sussurrò Kurt, il cui naso era ancora seppellito in quel semplice sacchetto di carta.

“Jeff. E in realtà sono ammirato, Hummel. Come diavolo sei riuscito a spiegare Proust a Sterling? Io, e sottolineo io, ho speso mesi cercando di aiutarlo in letteratura francese e il massimo che sono riuscito ad ottenere è stata una C. Mi stupisci.” Il suo tono di voce sembrava genuino, per una volta non sferzante o cattivo, ma verace.

“Jeff non è poi così stupido come sembri pensare, Smythe. È una persona molto sensibile, e allo stesso tempo molto semplice. Non puoi spiegargli un’opera così complessa con parole da erudita o frasi da Accademia della Crusca.” Kurt scrollò le spalle, richiudendo il sacchetto che teneva ancora in mano. “Io non ho cercato di fargli una lezione, gli ho mostrato concretamente il significato delle parole di Proust.”

Kurt si mosse, facendo segno a Sebastian di seguirlo. Entrarono in cucina, e mentre Kurt iniziava a preparare del caffè, dopo aver poggiato i muffins su un vassoio, Sebastian si accomodò al piccolo tavolo di quella stanza. Lo stesso tavolo su cui era ancora poggiato il computer di Santana, lì dalla sera prima, dopo essere stato il capro espiatorio della rabbia di Kurt. Sebastian, pensando non fosse legato a ricordi piacevoli, lo spostò, appoggiandolo sulla sedia accanto a lui e accostando poi quest’ultima sotto il tavolo, così che potesse nasconderlo. Kurt si accorse di cosa stava facendo Sebastian e tentò di sorridergli, riconoscente.

“Sai,” iniziò con tono nostalgico Kurt. “Io e mamma avevamo una tradizione.”

“Avevamo?” chiese Sebastian, interrompendolo.

Kurt abbassò per un secondo lo sguardo, prima di rialzarlo. “Mia madre è morta, Sebastian. È morta quando avevo otto anni,”

Sebastian trasalì, e il suo sguardo si ammorbidì. Non disse nulla, però. Sapeva che era inutile sentirsi dire ‘Mi dispiace’ o ‘Condoglianze’ o qualsiasi tipo di frase fatta e convenzionale. Lo sapeva fin troppo bene. Così, si limitò a tacere, lasciando continuare Kurt.

Quest’ultimo sembrava grato di non essere stato interrotto.  “Ogni domenica, quando eravamo tutti e tre a casa, mi veniva a svegliare prestissimo, mentre papà ancora dormiva. Scendevamo le scale, ridendo, e cercavamo di fare piano, la maggior parte delle volte invano.” Kurt sembrò allontanarsi da quella cucina, perso in ricordi lontani. Un mite e tenero sorriso gli incurvava le labbra piene. In quel momento, alla luce soffusa della mattina che stava iniziando, l’espressione del volto pacifica, gli occhi chiusi - Sebastian pensò che Kurt assomigliasse ad un angelo. Pensiero per il quale si sarebbe pentito in seguito; al momento voleva ascoltare quella storia, quel racconto così personale, ma così importante, da regalare a Kurt un’espressione serena anche durante la tristezza.

“Entravamo in cucina ed iniziavamo a preparare la colazione. Era così casalingo, così abitudinario, così rilassante – cantavamo insieme, mentre cucinavamo. Negli anni abbiamo provato tantissime ricette, ogni settimana sperimentavamo qualcosa di nuovo. Era il nostro momento speciale; solo noi due a condividerlo.” Kurt, scrollando le spalle, sorrise mestamente e si asciugò una lacrima che gli era sfuggita. Si voltò verso il bancone, dando le spalle a Sebastian, mentre finiva di preparare il caffé. Armeggiava con tazze e cucchiaini, ma continuava a parlare. “Durante l’inverno dei miei otto anni, mamma si ammalò. Leucemia. La forma acuta è rarissima negli adulti, l’incidenza ancor meno alta nelle donne. Eppure,”  

Si avvicinò al tavolo con due tazze di caffé in mano, sedendosi di fronte a Sebastian. “Eppure fu così. Non abbiamo riconosciuto subito i sintomi, scambiandoli all’inizio per qualcosa di più banale. Quando ha iniziato la chemio, i medici ci avevano avvertiti che forse non sarebbe stata abbastanza. Mamma, da brava Hummel quale era, quando ha visto che i risultati non c’erano, ha chiesto di interrompere le terapie e di poter stare a casa. Tutti hanno provato a dissuaderla, ma lei era così tenace, così testarda; e sinceramente non la posso biasimare per la scelta che ha preso. L’ultima domenica che abbiamo cucinato insieme era talmente debole che ero solo io a cantare. Sapeva che probabilmente non avremmo avuto un altro momento così, quindi mi lesse quello stesso brano che mi hai letto tu. Mi spiegò Proust, così come si può spiegare ad un bambino, e mi disse di ricordarmi di quei muffins ai mirtilli che avevamo preparato insieme. Sarebbero stati il ricordo eterno delle nostre domeniche mattina, delle nostre colazioni. Di lei.” Kurt ormai stava piangendo, lacrime miti che gli rigavano il volto. “Il martedì mattina non si svegliò. La settimana dopo la sua morte, ogni santissima mattina, mi alzavo ore prima di dover andare a scuola e cucinavo. Ho preparato qualsiasi tipo di dolce, ma mai i muffins ai mirtilli. Con il passare del tempo credo di aver imparato a scendere a patti con la realtà. Così, quando avevo sua nostalgia, preparavo i muffins. Pian piano, ogni volta che mi sentivo triste, o abbattuto, o nostalgico, tornavo a cucinarli. Ogni volta che avrei avuto bisogno di mamma, del suo abbraccio, delle sue parole, della sua presenza, preparavo muffins. Anche Rachel mi ha raccontato di qualcosa di simile. Associa la tristezza alla sete, perché da piccola, quando era triste, i suoi papà usavano portarle un bicchiere d’acqua. Non è proprio la stessa cosa, ma comunque,” Kurt terminò asciugandosi le lacrime dalle gote e iniziando a bere il suo caffé.

Sebastian era ammutolito. Durante tutto il racconto dell’altro era rimasto in religioso silenzio, e sembrava che non riuscisse a romperlo. Quanto aveva sottovalutato questo ragazzo l’anno precedente. I suoi stessi pensieri lo stavano spaventando, lo lasciavano dubbioso, in un limbo grigio. Pur di non mostrarsi vulnerabile, pur di non mostrare le sue stesse cicatrici, i suoi ricordi, si obbligò a scrollarsi di dosso quella montagna di confusione che lo opprimeva. Il racconto di Kurt, per poco tempo, l’aveva riportato nello stesso luogo, nello stesso stato mentale da cui gli ci erano voluti anni per scappare. Non poteva permetterlo. Ricomponendosi, si obbligò a sorridere brevemente e in maniera imbarazzata e imbarazzante all’altro, prima di affondare il proprio naso nella tazza di caffè, nascondendo così l’espressione contrita del suo viso.

Kurt si limitò ad alzare un sopracciglio, osservando l’arcobaleno di emozioni che il viso di Sebastian aveva dipinto. Non disse nulla, mentre continuava a sorseggiare il suo caffè.

Dopo qualche minuto di silenzio, Kurt decise di romperlo, ponendo a Sebastian la domanda che lo tormentava dalla sera prima. Senza pensarci due volte, sputò il rospo. “Perché sei qui, Sebastian?”

Sebastian mise giù la tazza, e osservò per un momento Kurt. Tentò di sorridergli e con tono incerto gli rispose: “Perché me l’ha chiesto Jeff?”

Kurt scosse il capo. “Il vero motivo.”

Sebastian sospirò, allungandosi indietro sulla sedia. “Sinceramente non lo so. O meglio, lo so, ma non lo capisco.”

Kurt aggrottò le sopracciglia, confuso, ma non spinse oltre, aspettando che l’altro continuasse a parlare.

“Sai, l’anno scorso, dopo che Dave ha tentato di suicidarsi, ero serio nelle mie scuse. Non dicevo tanto per dire, come sono sicuro abbiate creduto voi. Ero arrivato veramente ad un punto di rottura, ad un punto in cui lo scherzo non mi faceva più ridere. Nulla mi faceva più ridere.” Sebastian chiuse gli occhi, cercando le parole giuste per spiegare i propri pensieri e le proprie emozioni, senza rivelare troppo. “Il suicidio di Dave ha toccato un nervo scoperto. Sentivo veramente il bisogno di cambiare. Sono sempre rimasto acido, sarcastico e stronzo, ma non più gratuitamente, e soprattutto, non più con cattiveria. Ieri mattina, quando ci siamo scontrati al bar, la tua reazione mi ha realmente confuso e incuriosito. Non era da te. Volevo veramente capire cosa c’era dietro. Dammi pure dell’impiccione, del pettegolo, tutto ciò che vuoi, ma ieri sera mi sono presentato qui spinto dalla curiosità, non per secondi fini. Quando poi ho visto quanto dolore tu abbia provato dopo che Blaine ti ha lasciato, bè, mi sono sentito una merda.”

“E tu che c’entri?” lo interruppe Kurt, confuso.

“E se l’anno scorso fossi veramente riuscito a convincere Blaine a venire a letto con me? Per me sarebbe stata una botta e via, solo una scopata come tutte le altre, ma sarei stato la causa di quello stesso dolore che ho visto ieri sera. Un anno fa probabilmente non me ne sarebbe importato nulla, ma ieri sera mi sono sentito veramente in colpa.”

Sebastian sorrise, continuando. “So che ci siamo dichiarati a vicenda di non piacerci,” Al ricordo, persino a Kurt scappò un sorrisetto. “Cerca di vedere le mie azioni di oggi come il mio modo per redimermi, per scusarmi. In fondo non ho fatto nulla di che. Con una semplice azione, però, ho cancellato un po’ di insulti che ti ho rivolto gratuitamente l’anno scorso e allo stesso tempo ho fatto un favore ad un mio amico.” Sebastian scrollò le spalle, e indicò a Kurt con un gesto del capo di aver finito.

Kurt sospirò, guardandosi intorno. “Non devi cancellare nessun insulto. Come hai detto tu ieri sera, anch’io sono uno stronzetto: ti ho tirato tanta merda quanta me ne hai lanciata tu. Se vuoi far ammenda per tutte le offese gratuite nei confronti degli altri, accomodati pure. Con me, però, non hai nulla da redimere.”

Di nuovo il silenzio li avvolse, mentre entrambi ponderavano le parole dell’altro.

“Oggi non vai all’università, vero?” chiese Sebastian dal nulla.

“Non credo. Il progetto con la Dubois inizia lunedì e voglio essere ben preparato per lavorare con lei. Le lezioni di questa settimana non sono nulla di importante, posso mettermi in pari da casa. Credo che mi prenderò una settimana di pausa. Tu?”

“Io posso sempre saltare,” rispose Sebastian, scrollando le spalle. “Lo facevo anche alla Dalton. Spesso non seguivo le lezioni, ma non venivo mai ripreso a causa dei miei voti. L’università dà ancora più libertà: credo di essere andato a lezione solo il primo giorno. Mi sono comprato tutti i libri indicati sulle liste delle varie materie, e studio a casa.”

“Un piccolo genio.” Commentò sarcasticamente Kurt, mentre si alzava per mettere le tazze che avevano usate nel lavello. “Allora, cosa volevi propormi?” Kurt alzò un sopracciglio. “Mi hai chiesto se oggi ero libero, cosa volevi proporre?”

“Cosa fai quando sei triste?” rilanciò Sebastian.

“Mmm, gelato e film Disney?” rispose dubbioso Kurt.

“Wow, abbattiamo lo stereotipo.” Rispose Sebastian con tono ironico. Dopo di che si alzò e andò a recuperare il vassoio su cui Kurt aveva poggiato i muffins. “Non abbiamo il gelato, ma abbiamo i muffins. Ti avverto però che gli unici film Disney che posso sopportare sono Mulan, Hercules e Aladino.” Sebastian si diresse in salotto, lasciando dietro si sé Kurt, che stava cercando di interpretare le scelte dell’altro.

“Sono i film in cui il protagonista maschile è senza maglietta!”

“Esatto.” Ghignò Sebastian.

Kurt, senza nemmeno accorgersene, con naturalezza, scoppiò a ridere, dimentico per un attimo di tutto ciò che era successo, riempiendo, almeno un po’, quel vuoto che sentiva dentro di sé dalla sera prima.

 

 


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* Il testo che legge Sebastian è un piccolo estratto dal primo volume de “À la recherche du temps perdu”, ovvero “Du côté de chez Swann”, di Marcel Proust. La traduzione, ovviamente, non è opera mia. L’interpretazione del testo che è scritta qui è molto semplificata, per ovvie ragioni, rispetto all’interezza del pensiero dell’autore. Non sono una critica letteraria, né mi voglio spacciare per tale; il testo è usato solamente a fini narrativi.

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Capitolo 8
*** Furt ***


I SHOULD TELL YOU_8

Inizio già a nascondermi. Sono una pessima, pessima persona, lo so. Io e gli aggiornamenti non andiamo d’accordo. Proprio zero. =(

Comunque, ora sono qui.

Questo capitolo è stato difficilissimo da scrivere, non chiedetemi perché, e tutt’ora non mi convince. Se lo vedete pubblicato, è solo perché ho avuto il sostegno morale della cara Jules, quindi… grazie Jules! XD

Visto che sono in vena di ringraziamenti, dico un enorme, enorme grazie a tutti voi. Voi che leggete, preferite, seguite, etc. Aumentate a vista d’occhio, e il mio amore per voi cresce in maniera direttamente proporzionale ;P

Battutacce matematiche a parte, il grazie più grande va a chi spende sempre qualche minuto per recensire; taaaanto affetto virtuale a: Tallutina, Ily91, cup of tea, Madez, il_vaso_di_Pandora, love mojito e gledis.

Non so se qui si usa, però su altri siti l’ho visto fare, quindi, come promesso, lo faccio anch’io. Questo capitolo è dedicato a Fanny =)

 

Buona lettura (spero),

Elle <3

p.s. come sempre critiche, pensieri, suggerimenti, idee verranno accolte a braccia aperte! ;)

 



I should tell you

 



Capitolo ottavo:

 

“Furt”

 

 

Santana si liberò di quell’osceno grembiulino giallo senape con un sospiro di sollievo. Aveva avuto una mattinata infernale. L’ennesima. Al solito livello di disperazione, tristezza e squallore che quel piccolo supermercato le provocava ogni santo giorno, oggi aveva dovuto aggiungere ansia e apprensione alla lista dei suoi sentimenti.

Se fisicamente si era stancata cercando di eseguire gli assurdi ordini di Herr H, mentalmente non aveva lasciato per un secondo casa, e soprattutto Kurt. Aveva pensato tutta la mattina all’amico e alla reazione che aveva avuto. All’inizio aveva creduto che fare una lista di possibili torture in ordine crescente di dolore, pronta per quando Kurt si sarebbe voluto vendicare di Anderson, sarebbe stata l’opzione migliore. Poi, però, si era ricordata di quella porta chiusa e di quel silenzio innaturale in cui si era rifugiato Kurt ed era giunta alla conclusione che, prima di aver voglia di torturare l’ex, forse l’amico doveva scendere a patti col fatto di avere un ex.

Scontrino dopo scontrino aveva rimuginato su come aiutare Kurt, come risollevarlo di morale, ma la sua mente brillante non era riuscita a trovare nessuna opzione plausibile. Aveva scandagliato idea dopo idea, cercando persino di ripescare qualche vecchio trucco di Mister Schue, ma non era mai stata una persona da grandi gesti, o azioni plateali. E sicuramente non avrebbe sfoderato il repertorio di ballate della Berry per serenare Hummel. Avrebbe dovuto pensare a qualcos’altro. 

La mattinata passò così in un attimo, tra idee bocciate e ordini non rispettati, che le fecero guadagnare qualche borbottio di troppo da parte del suo capo.

Inutile dire che, sommando tutto, a Santana mancava tanto così per scoppiare. E Santana Lopez che perde il lume della ragione non è mai un bello spettacolo.

 

Lagnandosi, uscì da quel negozietto, diretta verso la metropolitana. Fortunatamente per quel giorno aveva finito di lavorare: niente Violet a cui fare da babysitter, né piano bar a cui cantare.

Proprio mentre stava per scendere le scale della metro, le squillò il cellulare, così si fermò appoggiata a quella ringhiera arrugginita e cercò il telefono nella borsa. Dopo aver sudato sette camicie per trovarlo, guardò lo schermo per controllare chi fosse. Vedendo comparire il nome di Brittany, accettò di buon grado quella chiamata.

“Hey, Britt!” la salutò con tono gioioso. Non era ancora contenta di come avevano terminato la conversazione la sera prima, ma era felice che la fidanzata l’avesse pensata e l’avesse chiamata. Era praticamente la prima nota positiva di quella giornata.

“Santana! Dov’è Kurt?” il tono di voce di Britt era concitato e chiaramente preoccupato.

“A casa,” si fermò un secondo, ponderando se dire a Brittany anche con chi era Kurt. “Con Sebastian.”

“Avete conosciuto il granchio della Sirenetta?” domandò Brittany, evidentemente confusa.

“No, purtroppo no. Sebastian l’Usignolo, tesoro.” rispose con tono accondiscendente la brunetta.

“Quello che ha trasformato l’hobbit in un ciclope?” La logica di Brittany, per quanto azzardata e semplicistica, era sempre ineccepibile e non smetteva mai di sorprenderla.

“Si, esatto, proprio lui.” Santana sentì Brittany borbottare qualcosa di vagamente simile ad un verso d’assenso, poi silenzio.

“Gli è già caduto il corno?” chiese Brittany tutto d’un fiato. Santana aggrottò le sopracciglia, cercando di interpretare la frase della fidanzata. Il corno? 

“Britt, tesoro, sai che ‘mettere le corna’ è solo un modo di dire, vero?”

“San, il bicorno sono io. Kurt è un unicorno: non ha le corna, ma solo un corno.” Spiegò la bionda con tono petulante, come se stesse parlando con un bambino. “Kurtsie è il più grande unicorno di tutti, credevo che dopo avermi aiutato a preparare quei cartelloni per la sua campagna elettorale, l’avessi capito anche tu.”

Santana era sempre più confusa.

“Se è il più grande unicorno di tutti, perché dovrebbe cadergli il corno? Non dovrebbe essere più forte, o più magico, o qualche stronzata simile?”

“È più magico,” rispose con tono cospiratorio Brittany. “Quando gli unicorni sono molto tristi, però, perdono il loro corno e diventano zebre. Io non voglio che il mio unicorno personale diventi una zebra, San. Sugar si è offerta di chiedere a suo padre di comprarmi un pony e fargli attaccare un enorme corno, ma io non voglio un unicorno finto. Io voglio il mio Kurtsie.” Finì Brittany con tono lamentoso.

Santana, suo malgrado, doveva ammettere di iniziare a seguire la logica della fidanzata. Oltretutto, quanto poteva essere ricca (e sciocca) Sugar per proporre certe cose? Scuotendo la testa, rispose. “Non ti preoccupare, Britt, Kurt non perderà il suo corno.” Santana sembrò ponderare qualcosa, perché sorrise maliziosa e poi aggiunse: “Anzi, sembra che ne abbia appena trovato uno nuovo. Piuttosto sexy, oltretutto, anche se mi costa tantissimo ammetterlo.” Non importava quanto disperati fossero i tempi correnti: Santana Lopez non era una da passare la possibilità di una battuta a sfondo sessuale o di un doppio senso, persino quando rasentava l’impossibile, perché diciamoci la verità – pensare a Kurt e Smythe come una coppia? Da brividi.

“Kurtsie è diventato bicorno? Vuol dire che ci posso limonare ancora? Le sue labbra erano così morbide.” Brittany sembrava tutt’un tratto molto eccitata.

Santana decise di non rispondere a quest’ultima domanda, lasciando così tutto in mano a Kurt. Poteva essere divertente vedere Brittany cercare di provarci con Hummel, di nuovo.

“Britt, ma come facevi a sapere che Kurt è triste?” domandò Santana, aggrottando le sopracciglia. Era ancora poggiata a quella vecchia ringhiera, e mentre parlava al telefono, osservava la gente andare e venire, freneticamente alla rincorsa del tempo.

“Blaine Usignolo ha cantato ‘Goodbye my lover’ al Glee. Tina ha pianto, Joe si è messo a pregare e Mister Schue ci ha chiesto se doveva rappare per tirarci su di morale.” Rispose Brittany con tono piatto, quasi annoiato. Sicuramente si è fatta distrarre da qualcos’altro, pensò Santana.

“Un disastro, praticamente.” disse comprensiva la latina.

“Mai quanto la nuova compagnia di randagi che sta frequentando Lord Tubbington. Sto facendo una colletta per raccogliere fondi per la cauzione che dovrò pagare se non smette di vedersi con quei poco di buono.” Brittany sospirò pesantemente.

Santana alzò gli occhi al cielo di fronte all’ennesima follia della fidanzata e del suo enorme gatto. Aveva imparato per esperienza che era inutile farle notare che Lord Tubbington era solo un animale, e di conseguenza non poteva fare nemmeno metà delle cose di cui si preoccupava. L’unica volta in cui l’aveva suggerito, era stata attaccata da quell’obesa palla di pelo e aveva avuto graffi e segni sulle braccia per almeno un mese. “Britt, mi dispiace, se vuoi posso provare a parlarci io.”

“Santana, non dire sciocchezze,” l’ammonì Brittany. “Sai che Lord T ti odia.”

“L’onestà è sempre apprezzata.” Ribattè sarcasticamente Santana. Ironia non colta da Brittany, che le rispose semplicemente. “Lo so.” Brittany sospirò, poi riprese. “Comunque adesso devo andare, Sanny. La coach Sue ha ristabilito gli allenamenti del pomeriggio, e Veronica mi sta aspettando per andarci insieme.”

“Veronica sarebbe la nuova Quinn?” chiese Santana, cercando di mascherare il suo risentimento. Sentiva pochissimo la ragazza, e ogni volta che riuscivano a parlarsi, c’erano sempre altri problemi da discutere. Le mancava un po’ di tempo da sola con Brittany.

“Si, una stronza di prima categoria. Abbraccia Kurt da parte mia, San. Ciao!”

Prima ancora che la latina potesse risponderle, o salutarla, però, l’altra aveva già chiuso la telefonata. Santana sospirò, leggermente ferita dal comportamento sbrigativo della fidanzata nei suoi confronti. Riprese a scendere le scale, salendo in fretta sul treno in partenza. Si appoggiò ad un palo di metallo, una volta probabilmente verde, ora solo sporco, e archiviò il suo risentimento momentaneo nei confronti di Brittany. Aveva ben altri problemi.

Stava tornando a casa, casa dove aveva lasciato un Kurt distrutto nelle mani del suo più grande antagonista, nonché una delle persone più stronze che Santana avesse mai avuto il piacere di incontrare – ed è dire qualcosa, quando hai passato metà della tua adolescenza in compagnia dell’amorevole Sue Sylvester. Si chiese come le fosse saltato in mente, quella mattina, di lasciare entrare Sebastian. Scosse la testa, cercando di non concentrarsi su ciò che l’avrebbe aspettata a casa, ma solo sul trovare una buona idea per aiutare Kurt.

Ci doveva pur essere qualcosa che l’avrebbe fatto sorridere, – a parte la testa di Blaine su un piatto d’argento – o qualcosa che gli serviva, o gli mancava. Qualcosa. Qualcuno.

Improvvisamente Santana ebbe l’impulso di mangiare le sue stesse mani.

Come aveva fatto a non pensarci prima? C’era qualcuno che mancava molto a Kurt, e che poteva farlo sorridere, almeno per un po’. Qualcuno la cui assenza pesava al ragazzo molto più di quanto non volesse far credere, e di cui si era lamentato abbastanza con lei, specie i primi tempi a New York. Da quando le aveva confidato che gli mancava e che non riusciva a sentirlo, Santana aveva pensato di chiedere un paio di favori per riuscire a metterli in contatto. Poi però, presa dalla frenesia del trasferimento e della nuova vita, se n’era completamente dimenticata. Era arrivato il momento di fare quella telefonata che rimandava da tempo.

Controllò il cellulare per accertarsi di avere ancora campo, pur essendo sottoterra. Quando si accorse di qualche tacca disponibile, sorrise furbescamente, scorrendo la rubrica in cerca del numero che le serviva.

 “Zio, sono Santana. Mi serve un favore.”

 

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Kurt stava compulsivamente pulendo la cucina. Armato di spruzzino e strofinacci, aveva già lucidato metà della superficie. E questo lo faceva sentire tremendamente bene.

Aveva scoperto fin da piccolo di aver bisogno di un outlet di sfogo per le emozioni represse, per liberare la mente dai pensieri più fastidiosi, e per regalarsi almeno una momentanea percezione di tranquillità. Poche cose gli donavano questa pace interiore: cantare, i muffins ai mirtilli e riordinare. Sistemare ossessivamente l’ambiente in cui viveva, per lui era l’equivalente di riordinare le proprie emozioni e preoccupazioni.

Così, dopo aver mangiato quei deliziosi muffins con Sebastian, mentre guardavano Mulan, e dopo che quest’ultimo se n’era andato, giustificandosi con un “non voglio essere sottoposto ad un terzo grado dalla Lopez”, Kurt aveva iniziato a riordinare. All’inizio, se doveva essere sincero, aveva provato a cantare, ma cantare significava esporre le proprie emozioni. Rendersi in qualche modo vulnerabili. E in quel momento Kurt non poteva sopportare di aprirsi ad esse. Aveva bisogno di allontanarle per un po’, di liberare la mente per qualche ora. Poi, forse, poteva scendere a patti con l’intreccio di pensieri e emozioni che gli stavano causando un forte mal di testa.

Fu così che Santana, entrando in casa in punta di piedi, lo trovò. Accovacciato sulle ginocchia a pulire il forno. Forno usato un totale di tre volte, e quindi praticamente immacolato.

A braccia conserte si appoggiò allo stipite della porta della cucina, un sopracciglio sollevato e un ghignetto malefico a tirarle quei bellissimi lineamenti. “Mi fa piacere che il mio mini pony sia uscito dalla stalla.”

Kurt, che non l’aveva né vista né sentita arrivare, saltò in piedi di scatto, gli occhi sgranati. “Santana!”, gridò. “Mi hai fatto prendere un colpo.”

Santana rise ed entrò cautamente in cucina, senza mai distogliere lo sguardo dall’amico. Mentre tornava a casa, si era immaginata differenti scenari ad aspettarla, e questo era il meno probabile. E francamente anche il più inquietante. Kurt era passato dall’essere completamente chiuso in sé stesso, a pulire casa come se niente fosse. Santana non credeva fosse possibile riprendersi così in fretta, quindi le opzioni erano due: o Sebastian l’aveva drogato, o Kurt non si era ancora ripreso.

“Allora, dov’è Smythe?” chiese con tono neutro Santana.

“Se n’è andato.” Rispose Kurt con noncuranza. “Qualcosa riguardo ad un terzo grado pari a quelli del KGB e un’amica molto impicciona.” Il ragazzo tentò di sorriderle, in maniera tirata e tremolante, prima di riprendere a spruzzare il prodotto per pulire contro il vetro del forno, strofinando con tutta la forza che aveva in corpo.

Santana si corrucciò, ma decise di non dire niente riguardo lo strano comportamento. “Mi fa piacere sapere di incutere ancora timore, anche se ora mi toccherà aspettare di rivederlo per avere delle risposte riguardo il suo comportamente. E non credo succederà molto presto.”

“Potresti sbagliarti,” replicò Kurt, mentre cercava di arrivare in profondità dentro al forno, pulendone anche gli angolini più remoti.

Seriamente, pensò Santana, se non fosse così inquietante, mi metterei a ridere.

“Ah, prima che mi dimentichi, ti saluta Britney.” Si alzò a prendere un bicchiere d’acqua, e poi, ripensando alla risposta di Kurt, aggrottò le sopracciglia. “Aspetta, che vuol dire che potrei sbagliarmi?”

“Significa che Sebastian, incaricato da Jeff e Nick, ha preteso di organizzare un’uscita insieme. A quanto pare Jeff voleva assolutamente vedermi, così ho pensato di prender due piccioni con una fava. È da quando hai iniziato a lavorare al locale che mi chiedi di venire a vederti. Venerdì ci vediamo lì per bere qualcosa, e per ascoltare una fantastica cantante.” Kurt si alzò, facendo l’occhiolino a Santana, e andando verso il lavandino per pulire lo strofinaccio che aveva usato.

“Jeff e Nick?” chiese dubbiosa Santana.

“Gli Usignoli. Jeff è il biondino che balla bene, Nick è il moretto carino. Stanno insieme.”

“Ah, ok.” Kurt aveva ripreso la sua mozione di pulizia, questa volta attaccando il frigorifero. Aveva iniziato a svuotarlo velocemente, poggiandone il contenuto sul tavolo.

“Ehi, ehi, casalinga disperata, che stai facendo?” lo fermò preoccupata Santana.

“Pulisco.” Kurt non sembrava fermarsi, come se avesse inserito l’autopilota.

“Sì, lo vedo, ma non ce n’è bisogno.” Mentre Kurt svuotava il frigorifero, Santana cercava di rimetterci dentro il contenuto, invano.

“Oh, sì, invece.” Ormai tutto il cibo era appoggiato con cura sul tavolo e Kurt stava spruzzando lo sgrassatore su ogni centimetro dell’interno dell’elettrodomestico.

“Kurt, Kurt, fermati un attimo. Che stai facendo?” chiese Santana, esasperata.

Kurt si voltò a malapena, girandosi di tre quarti. “Ti ho già detto che devo pulire.”

“Si, ma – insomma, ascoltami un attimo,” Santana prese l’amico per le spalle e lo trascinò a sedere. “Stamattina sono uscita lasciando la mangusta in casa, mentre tu ti eri barricato in camera e nemmeno rispondevi.” Il tono di Santana era fermo e deciso, forse persino rude. Ad un estraneo poteva sembrare dura, severa, ma Kurt aveva capito che in realtà era solo preoccupata. “Che stai facendo?” chiese più dolcemente, sedendosi di fronte a Kurt.

Kurt sospirò. “Jeff ha detto a Sebastian come risollevarmi il morale. Sono uscito dalla stanza, abbiamo fatto colazione insieme, abbiamo guardato Mulan, Sebastian se n’è andato e io mi sono messo a pulire. Fine.” Santana continuava a scrutare Kurt, incredula. Archiviando come possibile materiale di ricatto il fatto che Smythe avesse guardato Mulan con Hummel, mancava ancora qualcosa.

Kurt, sotto lo sguardo dell’amica, cedette. “Pulire e riordinare mi aiuta a scaricarmi. Si, lo so, è terribile, ma è ciò che è. C’è chi va a correre, chi va a boxare, chi va a fare shopping, chi canta – insomma, ognuno ha un suo modo di scaricarsi. Oggi, questo è il mio.”

Santana lo guardò ancora un attimo, indecisa, poi sospirò e si alzò. “Va bene. Se ti è utile, continua pure a pulire; io vado a mangiare qualcosa al bar all’angolo. Solo un favore, tra un’ora, vedi di aver finito e di collegarti a Skype. Puoi ringraziarmi comprandomi qualcosa.”

Così come era arrivata, se ne andò, in un fruscio di profumo e movimenti fluidi. Sbatté la porta alle sue spalle, lasciando a Kurt privacy e tempo.

 

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Tre quarti d’ora dopo che Santana l’aveva – a suo modo - salutato, Kurt gettò la spugna. Letteralmente. Lanciò il panno che aveva usato per pulire nel lavandino, rimise a posto i prodotti e andò in bagno a lavarsi le mani.

Quando Santana era uscita, Kurt era rimasto per qualche minuto seduto a quel tavolo, pensieroso, cercando di capire per quale motivo dovesse entrare su Skype entro un’ora. Poi, ricordandosi del perché indossava la sua tuta più vecchia e un paio di guanti di plastica gialli, ricominciò a pulire, effettivamente escludendo ogni preoccupazione dalla mente.

Aveva finito di pulire il frigorifero, lindo e splendente, e aveva riposto con cura tutto il suo contenuto all’interno. Aveva addirittura fatto in tempo a pulire il pavimento, prima di porsi un limite e abbandonare il momento catartico della pulizia.

Uscito dal bagno, si diresse in camera per prendere almeno una maglietta pulita. Recuperò il portatile di Santana e andò sul divano. Aveva ancora dieci minuti prima dello scadere dell’ora X che l’amica gli aveva imposto. Ora X per cosa poi? Su Skype Kurt aveva pochissimi amici – come nella vita reale, del resto – e di norma lo usava solo per parlare con Blaine, e a volte Rachel o Mercedes. Inutile dire che al momento non era interessato a sentire nessuno dei tre.

Se per tutta la mattinata, prima grazie a Sebastian e ai muffins, poi grazie alle sue attività da Cenerentola, aveva evitato di pensare a Blaine, ora non poteva farne a meno. Non solo perché volente o nolente la sua mente lo riportava sempre lì, ma anche perché sapeva di dover ripensarci. La notte prima aveva pianto, si era prosciugato ogni emozione. Poi aveva messo tutto a freno, in pausa, pensando e facendo altro. Adesso era arrivato il momento di prendere in mano la situazione e affrontarla. A piccoli passi.

Il primo passo era avere il coraggio di accettare ciò che era successo.

Deglutendo un groppo indigesto, Kurt restò per un attimo a fissare il vuoto. Controllò poi l’orologio e vide che era appena terminata l’ora datagli da Santana. Non era ancora sicuro di voler affrontare chissà quale sorpresa poteva avergli preparato la coinquilina, però da qualche parte doveva ripartire.

Coraggio, si disse.

Rise amaramente per la scelta di quella singola parola che allo stesso tempo lo faceva sentire amato e protetto, e dimenticato e ferito. Aprì Skype e d’impulso bloccò i contatti di Blaine e Rachel. Se la sorpresa riguardava uno di loro, allora non era ancora pronto ad accettarla.

Quando si accorse di chi era appena entrato, ebbe un balzo al cuore.

Finn Hudson.

Cos’era successo? Perché aveva accesso ad un computer, quando le regole del campo non gli permettevano nemmeno un telefono, se non per dieci miseri minuti? La sua apparizione non prometteva nulla di buono. E Kurt temeva di non riuscire a reggere altre brutte notizie. Quasi tremando, aprì la videochiamata con il fratellastro.

Quello che si ritrovò davanti, gli sembrò lontano anni luce dal goffo adolescente per cui aveva avuto una cotta durante il liceo. Sicuramente non era più tanto un adolescente. L’espressione del suo viso, pur restando sempre pura e dolce, era maturata, indurendosi un po’. La stessa cosa era successa ai lineamenti del volto. Kurt non sapeva dire se aveva perso peso, se il taglio militare dei capelli faceva sembrare le linee di quel viso familiare più dure, o se l’esperienza che stava vivendo lo aveva segnato già così profondamente. Sapeva solo che il buffo ragazzone troppo alto dai lineamenti da bambino, aveva ora un viso più adulto, e addirittura sulla fronte si vedeva qualche linea d’espressione. Kurt notò che una cosa non era cambiata, però.

Il volto di Finn, dopo aver visto Kurt dall’altra parte dello schermo, si aprì in un sorriso imbarazzato e dolce. Lo stesso sorriso sghembo di sempre.

“Finn,” iniziò con tono incerto Kurt. “Oh, Dio, stai bene? È successo qualcosa?”

“Dovrei chiedertelo io, fratellino. Pensavo fosse successo qualcosa a mamma e papà.”

“No, non che io sappia,” A Kurt si scaldò il cuore quando sentì che il fratellastro – suo fratello – aveva appena chiamato Burt papà. “Non riesco a credere di riuscire a sentirti.”

Finn sospirò e sorrise. “Wow, che sollievo. Pensavo fosse successo qualcosa. Quando il capitano Lopez mi ha trascinato qui –“

“Aspetta un attimo, come hai detto?” chiese Kurt, corrugando le sopracciglia.

“Ho detto che quando uno dei capitani mi ha trascinato qui,”

“Sì, sì, quello l’ho capito,” lo interruppe Kurt. “Il nome del capitano.”

“Ah, Lopez.” Rispose Finn. “Perché ti interessa?”

Kurt, nonostante tutto, si ritrovò a sorridere. “Così. Credo di dover ringraziare una persona.” Rispose Kurt.

Finn, da sempre non troppo acuto, aveva l’espressione del volto corrucciata. La stessa espressione che si vede sui bambini quando non riescono ad afferrare un concetto più grande di loro, qualcosa che non gli è stato spiegato. “Non ti seguo.”

Kurt roteò con affetto gli occhi. “Lopez, Finn, Lopez. Chi altro conosci con quel cognome?”

“Mmm, non lo so.” Finn sembrava genuinamente confuso, e Kurt voleva sbattere la testa contro il muro. Si era dimenticato di quanto potesse essere frustrante, a volte, parlare con il fratello.

“Santana Lopez.” Lo imbeccò Kurt. “Ti dice niente?”

“Ah, già, ma che c’entra con questo?”

“Mi ha fatto un favore.” Rispose semplicemente Kurt. “Mi sei mancato, Finn.”

Finn sorrise, gli occhi che luccicavano. “Anche tu, fratellino. Come stai? Come stanno mamma e papà? Questa settimana non siamo mai riusciti a sentirci. E te – te è da quest’estate che non ti sento e non ti vedo.”

“Lo so,” rispose con tono contrito Kurt. “Non ti preoccupare, Carole e papà sono a Washington. Li ho sentiti sabato l’ultima volta, e stavano benissimo. Si stavano preparando per una cena di gala; puoi immaginare quanto fosse contento papà.” I due fratelli si scambiarono un’occhiata complice e ridacchiarono. “Per quanto mi riguarda,” Kurt prese un respiro profondo. “Sto bene, direi. New York è fantastica, anche se in realtà non ho avuto molto tempo per vederla. Diciamo che all’inizio passavo troppo tempo a rimpiangere ciò che avevo lasciato, ma ora voglio recuperare. L’università mi piace, e proprio ieri ho saputo di avere la possibilità di preparare un numero per Vogue insieme alla mia insegnante.” Kurt sorrise, mentre Finn sgranava gli occhi.

“Vogue? Cavolo, fratellino, sapevo che eri bravo, ma così,” Finn scosse il capo, sconcertato. “Wow! Te lo meriti, sai?”

“Grazie, Finn. Tu? Come stai?” gli chiese dolcemente Kurt. Ancora non riusciva a credere che il fratellastro fosse nell’esercito e che fosse cambiato così tanto nel giro di pochi mesi. E, Dio, se gli era mancato.

“Bene,” rispose Finn, incerto. “È dura. Non posso dire altrimenti.” Prese un respiro profondo e scosse la testa. “Mi ha cambiato, e molto. Per il momento, però, sono contento. Voglio farlo, voglio fare la differenza, voglio portare avanti e a termine qualcosa, per una buona volta. Non posso fallire anche questo. Non voglio essere un fallimento.” Finn distolse lo sguardo, abbassandolo.

Kurt si ritrovò ad avere gli occhi lucidi, maledicendosi per l’emotività mal controllata di quei giorni. “Finn, ascoltami, non sei e non sarai mai un fallimento.”

Il fratello scosse la testa, sorridendo mestamente. “E invece sì, Kurt. Ho fallito in tutto e per tutto. Come figlio, ho deluso mia madre, facendola soffrire terribilmente prendendo questa decisione. Come fratello: non ti vedo e non ti sento da mesi, Kurt. Mesi. Come amico: ho deluso Puck non andando con lui a Los Angeles, e so che sia lui che Sam si aspettavano qualcos’altro da me, si aspettavano perlomeno di sentirmi. E soprattutto, ho fallito con Rachel. L’ho abbandonata, come ho abbandonato te, e mamma, e –“

“Fermati, Finn,” lo interruppe con tono deciso Kurt. “Non sei assolutamente un fallimento. Sei un figlio incredibile, specie per la scelta che hai fatto. Sì, all’inizio Carole ci è stata male, ma sa perché l’hai fatto. Per orgoglio, per il nome di tuo padre e per te stesso. E lo capisce, veramente. Io ti voglio bene. Nonostante tutto, sei di famiglia, ormai. Non potrai mai essere un fallimento ai miei occhi.”

“Rachel – “ tentò Finn.

“L’hai lasciata libera. Libera di vivere il suo sogno e la sua vita, ciò che ha sempre voluto e per cui ha lottato. Hai preso la decisione più difficile e matura che potessi prendere, non azzardarti a rimorderla.”

“Grazie, fratellino, sei sempre il migliore.” Finn sorrise di nuovo, osservando Kurt. “Kurt, sei sicuro di star bene?” chiese sottovoce, insicuro.

“Si, certo, non preoccuparti.” Rispose con tono tremolante Kurt. Finn aveva già tanto di cui preoccuparsi, non doveva sapere anche di lui e Blaine. Specie perché avrebbe voluto vendicarsi. Oltretutto Kurt stesso non era ancora sicuro di aver afferrato bene il concetto della loro separazione, non era sicuramente pronto a dirlo ad altri.

Finn sospirò, evidentemente insoddisfatto della risposta. Dopo aver vissuto un anno con gli Hummel, però, sapeva quando evitare di spingere troppo Kurt, e di testare i suoi limiti. “So che da qua è difficile, ma ricordati che io ci sarò sempre per te. Oltretutto per il Ringraziamento posso venire a casa e restarci fino all’anno nuovo. Ci credi? Sarò a casa per più di un mese!”

“Mi fa piacere, Finn,” rispose sinceramente Kurt. “Anche se non so se io sarò a casa per il Ringraziamento.”

“Oh,” fece Finn, un po’ deluso. “Ti aspetterò per Natale, allora.”

“Certo,” gli sorrise Kurt. “E prometto di cucinarti i cupcakes che ti piacciono tanto.”

“Sei il migliore, fratellino!” si illuminò Finn.

Kurt roteò gli occhi. “Sai che sono più grande io, vero?”

“Si,” rispose con tono petulante Finn. “Io sono più alto, però.”

Si sorrisero per un attimo, poi Kurt vide Finn voltarsi di scatto. “Merda, Kurt, avevo solo un quarto d’ora. Devo andare.” Disse un po’ imbronciato.

Kurt gli sorrise, comprensivo. “Non ti preoccupare, capisco. Non sai quanto mi abbia fatto piacere sentirti, Finn.”

“Anche a me, fratellino. Saluta mamma e papà, se li senti. Mi mancate.” Ora era il momento per Finn di avere gli occhi lucidi.

“Lo farò,” disse con tono dolce Kurt. “Stammi bene.”

Finn lo salutò con la mano, mentre sorrideva dolcemente, prima di staccare la chiamata.

Quanto gli era mancato, e gli mancava tutt’ora, Finn. Non solo perché era Finn, suo fratello, il perticone tanto dolce quanto imbarazzante, ma perché gli mancava casa. Gli mancavano i suoi genitori, e l’affetto e il calore della famiglia che era stata loro per solo un anno. In quel momento avrebbe voluto avere più tempo da passare con quelle persone che erano entrate a far parte della sua vita da così poco. Aveva sempre avuto fretta di scappare dall’Ohio, da Lima, da quell’incubo omofobo, ma ora ne aveva nostalgia. Aveva nostalgia del suo passato. Gli mancava la stretta forte e calorosa di Burt, l’abbraccio materno e delicato di Carole e tutti i battibecchi con Finn. Sospirò, pensando che a Natale non mancava poi tanto, e che li avrebbe rivisti presto. Oltretutto stava vivendo anche lui il suo sogno, il suo futuro. Certo, forse non proprio come l’aveva organizzato, ma – ehi – Kurt Hummel non si fa mettere i piedi in testa da niente e nulla. Non si fa abbattere. Nonostante tutto, si sarebbe rimesso in piedi, come aveva sempre fatto. Nel frattempo aveva la sua buona dose di impegni. Il primo: trovare un regalo enorme per una certa Santana Lopez.

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