Like Davy Jones' Locker (where the men find the eternal sleep) di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ First season › I'm going slightly mad ] Land of thoughts, 01 ***
Capitolo 2: *** [ First season › I'm going slightly mad ] An island in the fog, 02 ***
Capitolo 3: *** [ Second season › Crossroads ] Separate ways, 01 ***
Capitolo 4: *** [ Second season › Crossroads ] Old sea stories, 02 ***
Capitolo 5: *** [ Third season › In pieces ] Davy Jones' Locker, 01 ***
Capitolo 6: *** [ Third season › In pieces ] Behind the legend, 02 ***
Capitolo 7: *** [ Third season › In pieces ] The Flying Dutchman, 03 ***
Capitolo 8: *** [ Third season › In pieces ] Back to home, 04 ***
Capitolo 9: *** [ Fourth season › Beating hearts ] To get the windward of him, 01 ***
Capitolo 10: *** [ Fourth season › Beating hearts ] Touching distance, 02 ***
Capitolo 1 *** [ First season › I'm going slightly mad ] Land of thoughts, 01 ***
Like Davy Jones_1
[
Prima classificata al contest «One
Sentence» indetto da Reghina-chan e valutato da
ZiaConnie ]
[ Prima classificata al contest «Don't
be a drag, just be a Queen!» indetto da
RoyMustungSeiUnoGnocco ]
[ Terza classificata
al contest «No words: multifandom contest»
indetto da Audrey_24th ]
Titolo:
Like Davy Jones’ Locker (Where the men find the
eternal sleep)
Autore: My
Pride
Fandom: One
Piece
Tipologia: Long
fiction
Rating: Arancione
Personaggi: Mugiwara
[ Accenni ZoSan,
FRobin e RuNami ]
Genere:
Generale, Avventura, Sentimentale,
A tratti introspettivo, Vagamente Angst
Avvertimenti:
Lieve Shounen ai, Linguaggio colorito,
New World Arc, What if?, Probabilmente non per stomaci delicati,
Spoiler dai
capitoli 668 in poi (Solo accenni microscopici
di essi)
Traccia: Numero
venticinque ›
I’m going slightly mad.
Traccia: Numero
nove › Lui
è così stupido che si
scorderebbe di morire anche se lo ammazzassero.
Note
dell’autore: Note presenti alla fine della
fanfiction
ONE
PIECE ©
1997Eiichiro Oda. All Rights Reserved.
FIRST SEASON ›
I’M GOING SLIGHTLY MAD
LAND OF THOUGHTS, #01
Sanji
trasse una lunga boccata dalla sua sigaretta e poi sbuffò,
osservando
distrattamente il fil di fumo che saliva con lentezza esasperante verso
il
cielo azzurro.
Doveva
essere accaduto dopo gli avvenimenti vissuti a Kamabakka,
si
disse per la trecentesima volta, cercando invano di dare una
spiegazione logica
ai bizzarri pensieri che, da un po’ di tempo a quella parte,
avevano cominciato
ad affollare la sua mente, rendendolo più nervoso ed
intrattabile del solito.
Lui amava le donne, dannazione.
Negli ultimi due anni non aveva fatto altro che
ripeterlo a se stesso e a tutti quei dannati travestiti che popolavano
l’isola
su cui era stato spedito da quel bastardo di Kuma, tentando in seguito
di
proteggere con le unghie e con i denti la sua virilità e il
suo animo di uomo.
Due lunghi anni in quell’inferno rosa confetto, due lunghi
anni trascorsi a
scappare come un pazzo da quei
cosi e
dai vestiti da donna che provavano ad infilargli in ogni modo... e dopo
tutto
quell’orrore e le novantanove ricette ottenute, lui che
faceva? Si ritrovava
con le braccia incrociate sul parapetto della Sunny a sospirare come
una ragazzina
alla prima cotta. E se pensava che la causa di quel suo comportamento
era una
persona che avrebbe volentieri preso a calci dalla mattina alla sera,
beh... la
cosa lo mandava in bestia il doppio, maledizione.
A quelle sue stesse riflessioni,
Sanji si strofinò vigorosamente una mano fra i capelli e
gettò l’ormai
mozzicone di sigaretta oltre la balaustra, vedendolo inghiottito fra le
onde
che sbattevano contro la chiglia della nave. Dannazione, aveva bisogno
di
un’altra stecca. Quante ne aveva fumate in meno di
un’ora e mezza? Sei? Sette?
Forse otto? Aveva perso anche il conto, perfetto. Come se fumare come
una
ciminiera dalla mattina alla sera potesse risolvere in qualche modo il
problema, poi. Era fottuto. Letteralmente
fottuto. E se non l’avesse piantata di fare
costatazioni incoerenti e di
continuare a cercare di raccapezzarsi in qualche modo, alla fine
sarebbe del
tutto impazzito e quella situazione in cui si era ritrovato sarebbe
stata
davvero l’ultima dei suoi pensieri.
«Sanji-kun, potresti
prepararci un
the?» La voce di Nami parve essere per lui la panacea di cui
aveva bisogno,
giacché si riprese in un lampo e, stornando lo sguardo nella
direzione da cui
essa proveniva, volteggiò in direzione del castello di prua,
sul quale le due
ragazze avevano sistemato i lettini per prendere il sole.
«Tutto ciò che
desideri, mia dolce
Nami-swan~♥!» cinguettò poi, rischiando
di sanguinare quando i suoi occhi si
posarono sulle forme prosperose che le sue compagne di ciurma stavano
mostrando
grazie agli splendidi costumi colorati che indossavano. Sanji dovette
ricorrere
a tutta la sua forza di volontà per tenere a freno quella
stupida emorragia,
per quanto un piccolo rivoletto di sangue fosse comunque riuscito ad
avere la
meglio e fosse fastidiosamente scivolato giù per la sua
narice sinistra. Se lo
ripulì alla bell’e meglio con il dorso di una mano
e si sforzò di sorridere
alle due ragazze, che gli gettarono uno sguardo preoccupato.
«Sanji-san... sicuro di stare
bene?» domandò Robin nel recuperare la propria
maglietta, trovando più salutare
per il cuoco coprirsi. Da quel che ricordava, Sanji non aveva mai avuto
reazioni simili nel vederle in costume da bagno, anzi; aveva sempre
elogiato la
loro bellezza, blaterato su quanto fossero perfette e fatto un
po’ lo scemo
come suo solito, ma da qui a sanguinare dal naso e rischiare di morire,
beh...
avrebbe voluto chiedergli cosa fosse successo per ridurlo
così, ma Robin si era
resa conto che sarebbe stata una totale perdita di tempo. Sanji non
avrebbe mai
parlato, e lo dimostrò anche quella volta, ridacchiando
nervoso.
«Oh, mia dolce Robin-chan, non
devi preoccuparti! È la vostra fulgida bellezza ad
emozionarmi, sto benissimo!»
esclamò falsamente euforico, filandosela giù in
cucina prima ancora che le due
ragazze potessero chiedergli qualche altra cosa.
Spiegare che le sue reazioni erano
dovute agli orribili avvenimenti che avevano preso forma a Kamabakka,
in quel posto
dove per un periodo di tempo aveva persino dimenticato di essere un
uomo,
sarebbe stato per lui il colpo di grazia e la sua reputazione di
dongiovanni
pervertito sarebbe morta e defunta insieme alla sua
virilità. Anzi, si corresse
una volta giunto nel suo sacro tempio, probabilmente la sua
mascolinità si era
sotterrata insieme al suo orgoglio e alla sua sanità mentale
nel momento stesso
in cui aveva realizzato di provare qualcosa per un suo compagno di
ciurma. Oh,
non ci sarebbe stato niente
di male
se si fosse trattato di Nami o Robin - che venerava comunque come Dee,
bellissime com’erano -, però, purtroppo per lui,
non erano loro ad attizzare
del tutto il suo amichetto ai piani bassi e a richiamare la sua
attenzione, e
la cosa lo rendeva incerto e confuso.
Le ipotesi erano soltanto due: o
era diventato del tutto matto e aveva perso anche l’ultima
rotella sana nel suo
cervello, oppure - e quella gli sembrava l’opzione migliore
-, visto tutto ciò
che era accaduto su quell’isola, si sentiva un po’
sfatto e non era ancora in
perfetta forma, dunque quello doveva essere soltanto un momento
passeggero che
sarebbe passato in fretta senza più lasciare traccia. O
almeno lo sperava.
Perché altrimenti c’era una terza ipotesi, quella
che lo spaventava più di
tutte e che al contempo gli faceva battere il cuore ad un ritmo
frenetico: si era
innamorato. E non uno di quei
suoi innamoramenti che riguardavano le splendide donne su cui riusciva
a posare
occhio, bensì il vero amore, quello che decantava e
professava a quelle stesse
donne che incontrava. Forse avrebbe dovuto aspettarselo.
Com’era che si diceva?
A scherzare con il fuoco si rimane bruciati? Beh, lui era andato
praticamente
in fiamme e del suo corpo non era rimasto altro che un mucchietto di
cenere.
«Che idiota»,
esordì una voce alle
sue spalle, facendolo trasalire; ebbe appena il tempo di voltarsi per
vedere Zoro
osservarlo a sua volta per un lungo momento, entrando in cucina per
prendere
una bottiglia di sake dalle scorte che lui stesso aveva riposto sullo
scaffale.
«Due anni di allenamento e tutto ciò che hai
imparato è stato come perdere
sangue dal naso?»
Sanji gli si avvicinò a passo
di marcia
e gli levò senza tanti complimenti la bottiglia dalle mani,
assottigliando le
palpebre. «Fa’ silenzio e pensa allo sfregio che
hai sull’occhio, marimo di
merda», sbottò, ma lo spadaccino, a quel dire, si
limitò a sollevare un
sopracciglio con fare fin troppo scettico.
«Una cicatrice è un
effetto collaterale
accettabile; morire dissanguato per aver visto un paio di tette,
no».
«Tu cosa diavolo vuoi capirne,
non ti si
drizza nemmeno se le ragazze te la sbattono in faccia».
«Ho ben altro da fare che
perdere tempo
dietro a cose del genere, cuoco», lo freddò,
riprendendosi senza tanti
complimenti la bottiglia prima di dirigersi verso il divano, gettandosi
a peso
morto sopra di esso per osservare il cuoco da quella posizione. Lui,
dal canto
suo, digrignò i denti e cercò di far presa sul
proprio auto-controllo,
decidendo di ignorare bellamente lo spadaccino per aggirare il tavolo e
il
piano di legno per raggiungere i fornelli. In quel momento doveva
pensare unicamente
alle sue bellissime muse, non
a quella stupida testa d’alga dal brutto muso che non perdeva
mai occasione di
fargli salire i nervi. Dannazione, avrebbe voluto volentieri prenderlo
a calci
in faccia e rompergli tutti i denti.
Gli attimi che trascorsero in quella
cucina furono i più lunghi e interminabili che avesse mai
vissuto. Aveva preso
il bollitore per preparare il the richiestogli da Nami-san e
l’aveva riempito
d’acqua prima di accendere il fuoco, ostinandosi a dare le
spalle a Zoro per
non guardarlo nemmeno in viso. Aveva però avuto la
sensazione del suo sguardo su
di sé, proprio fra le scapole, e aveva sentito un bizzarro
brivido corrergli
lungo la spina dorsale quando, con la coda dell’occhio, si
era reso conto che lo
spadaccino lo stava fissando sul serio - con un’attenzione
tale che avrebbe fuso
del tutto il cervello a chiunque -, e la cosa non gli era piaciuta per
niente.
Era riuscito a trovare un pizzico di
serenità solo quando il bollitore aveva fischiato, e, per
quanto avesse
sussultato per essere stato preso alla sprovvista proprio da esso, era
stato
ben felice di finire di preparare il the e svicolare svelto dalla
cucina per
portarlo alle ragazze, che l’avevano ringraziato e gli
avevano consigliato di
andare a riposarsi non appena avevano visto il sangue che aveva
imbrattato la
sua camicia. Eppure, dopo lo scambio di corpo avvenuto a causa di
Trafalgar
Law, avevano quasi sperato che rinsavisse e la smettesse di avere
quelle
emorragie, dato che il cuoco aveva potuto usufruire proprio del corpo
prosperoso della navigatrice. E Nami, una volta tornata normale, gli
aveva
fatto pagare amaramente - sia metaforicamente che da un punto di vista
monetario - la palpata di seno che aveva fatto con le sue stesse mani,
ma
quello era un discorso a parte.
«Forse dovremmo convincerlo a
parlare
con Chopper», esordì d’un tratto Robin,
issandosi a sedere sulla sdraio per
sorseggiare il proprio the. «Cook-san non può
andare avanti così. È distratto,
mogio, non sembra nemmeno se stesso... dopo Punk Hazard è
diventato quasi
distante».
Se non fosse stata d’accordo
con
l’amica, Nami avrebbe arginato tutta quella questione facendo
semplicemente
spallucce, concentrandosi tutta tranquilla su ben altro.
Però, e odiava
ammetterlo proprio perché voleva bene a Sanji-kun, Robin
aveva colto
decisamente nel segno. Il cuoco non era più lui, e loro,
purtroppo, non
riuscivano a capire che cosa lo turbasse così tanto
né tantomeno riuscivano a
tirarlo in qualche modo su di morale. «Magari è
soltanto una fase passeggera»,
cercò di essere convincente. «Forse lo scambio di
corpi deve averlo stressato».
«Anche tu ti sei ritrovata
prima nel
corpo di Franky e subito dopo nel suo, ma non mi sembri particolarmente
stressata», ribatté Robin. «E poi, da
quel che ricordo, lui si divertiva
parecchio a spiare nella tua scollatura».
«E per quello l’ho
riempito di botte,
sai?» ci tenne a precisare la navigatrice, soffiando sul
proprio the prima di
bere a sua volta un sorso. «Però, non so, sembra
fin troppo agitato», e nel dir
questo cercò con lo sguardo la figura del cuoco, poggiato
nuovamente contro il
parapetto a fumarsi l’ennesima sigaretta della giornata,
«ma non riesco a
capire perché».
Robin fece fiorire sul suo braccio una
mano e diede alla ragazza un’amorevole pacca su una spalla,
sorridendo poi con
fare rassicurante. «Vedrai che non è
niente», le disse. «Probabilmente è solo
stress e ci stiamo preoccupando per un nonnulla».
Seppur ancora un pochino incerta, Nami
ricambiò quel sorriso, impacciata.
«Già, forse hai ragione tu, Robin»,
sussurrò, tornando a guardare distrattamente Sanji, che
aveva gettato fin
troppo in fretta quella nuova stecca nel bel mezzo
dell’oceano. Forse Robin
aveva davvero
ragione. Forse Sanji
era solo stressato da qualche piccolezza - i continui furti di cibo da
parte di
Rufy, le sue liti perenni con Zoro, il suo dover sfacchinare
praticamente tutto
il giorno per sfamarli - e la sua era semplicemente paranoia inutile.
Allora perché, per quanto si
sforzasse
di dare per buona quella spiegazione, non riusciva a cancellare il
brutto
presentimento che le aveva attanagliato le viscere?
«Il
Log Pose continua a puntare in
questa direzione, però non c’è
niente», esordì Nami con voce affranta, lo
sguardo fisso sugli aghi che vibravano ad indicare dritto dinanzi a
lei, per quanto
il mare si estendesse a perdita d’occhio.
Era già la terza volta che
capitava una
cosa del genere, prima per l’Isola nel cielo e poi per quella
degli Uomini
Pesce, ma adesso il fenomeno era a dir poco inspiegabile.
L’ago rosso non
puntava né in alto né tanto meno in basso,
bensì proprio davanti a loro, dove
non c’era assolutamente nulla nel raggio di chilometri. Che
il Log Pose fosse
impazzito? Forse in quella determinata zona dell’oceano
c’erano dei depositi
sottomarini che avevano danneggiato la sua capacità di
registrare il magnetismo
delle isole? Oh, come le sarebbe piaciuto avere una spiegazione per
quella
dannata situazione in cui si erano ritrovati.
«Forse dovremmo provare ad
avanzare
ancora un po’», propose Franky dopo essersi
grattato il mento con fare pensoso,
poggiandosi poi gli occhiali da sole sul naso. «Basterebbe un
Coup de Burst
per
spingerci più avanti e vedere se riusciamo a scorgere
un’isola».
Nami scosse immediatamente il capo.
«Non
possiamo girare a caso, se l’ago indica proprio questo
punto», sospirò, alzando
lo sguardo verso l’orizzonte. «Se solo
avessimo qualche indizio... non possiamo sperare che ci piombi in testa
la
risposta, è già capitato due volte e non siamo
poi così fortunati».
«Io sono d’accordo
con Franky»,
s’intromise d’un tratto Rufy, richiamando su di
sé l’attenzione di tutta la
ciurma radunata sul ponte. Persino Zoro, che fino a quel momento non
aveva
fatto altro che fissare con fare diffidente un punto imprecisato
dell’oceano,
si era voltato verso di lui, sollevando un sopracciglio. E non
perché il
Capitano avesse affermato di essere d’accordo con il
carpentiere, nay;
probabilmente erano i suoi occhi, sfavillanti come due diamanti, a far
presagire che Rufy non aveva in mente niente di buono.
Anche Nami parve capirlo,
poiché si
ritrovò a schiaffarsi una manata in faccia e a sbuffare.
«In che lingua volete
che ve lo dica? Avanzare non cambierà le cose».
Guardò ancora una volta il Log
Pose e poi il mare, aggrottando la fronte nell’incontrare
l’espressione ferma e
più che decisa del suo giovane Capitano. «Ma
questo è il Nuovo Mondo, dopotutto»,
soggiunse, come se volesse cercare in quelle parole una spiegazione
razionale. «Si
può sempre tentare».
«Perfetto!»
esultò Rufy, saltando in
piedi sulla polena. «Avanti tutta, Franky!»
Il fermento provocato da quelle due
semplici parole corse frenetico in ogni membro della ciurma, che si
affrettò ad
eseguire gli ordini del Capitano; ognuno di loro raggiunse la propria
postazione e si preparò alla partenza, chi spiegando le vele
e chi prendendo
posto dinanzi al timone, pronto a fare rotta nella direzione indicata
dal Log
Pose.
Nami fece appena in tempo a voltarsi
verso destra per controllare la situazione con il binocolo che
un’improvvisa
folata di vento le scompigliò i capelli, facendo
sì che
le ricadessero sugli
occhi e le offuscassero la vista; sbuffò e se li
scansò
con un gesto secco, ma
l’improvviso rollare della nave le fece perdere
l’equilibrio, tanto che si
ritrovò a sbattere il sedere sul ponte, imprecando a denti
stretti. Cosa
diavolo stava combinando Franky con quel timone? Si issò in
piedi afferrando
con una mano il parapetto di legno, e ne avrebbe di sicuro dette
quattro al
carpentiere se la sua attenzione non fosse stata richiamata dal rombare
lontano
dei tuoni; un lampo squarciò il cielo in quel preciso
istante,
illuminando il
profilo sfocato di un lembo di terra.
«Ma che
diavolo...?!»
esclamò Usopp, sconcertato. «Da dove accidenti
salta fuori
quella montagna?!»
«Quella non è una
montagna, è un
vulcano!» urlò di rimandò Sanji,
assicurando una cima all’albero maestro.
Un’onda si riversò all’interno della
nave e rese scivolose le assi di legno,
facendo sì che gli oggetti non fissati scivolassero su di
esse, così come le
porte sbatterono ad ogni minima oscillazione. Gocce grandi come chicchi
di
grandine avevano cominciato a cadere
inesorabilmente dal cielo, e le forti raffiche di vento sferzavano
violentemente il vessillo nero che sventolava sul pennone, minacciando
di
strapparlo via.
«Franky, tutta a
babordo!» gridò Nami,
tenendosi alla balaustra per evitare di cascare di sotto a causa delle
brusche
virate del brigantino. «Se non ci affrettiamo a cambiare
rotta ci schianteremo!»
Quando aveva avvertito quella strana
sensazione di disagio alla bocca dello stomaco ci aveva visto giusto,
dannazione. E adesso si trovavano in balia delle onde e del vento,
gettati in
pasto ad una tempesta che fino a pochi attimi prima non c’era
e in procinto di scontrarsi
frontalmente con un vulcano spuntato fuori dal nulla. Tutte a loro
dovevano
capitare? Accidenti, sembrava che non avessero mai un attimo di
respiro.
A quei suoi stessi pensieri, Nami
imprecò a denti stretti e corse svelta al di sotto del
cassero per aiutare
Chopper con la barra, cercando di restare in equilibrio e non essere
vittima
dell’oscillazione della nave. Sentiva le onde infrangersi
violentemente contro
lo scavo e i sinistri scricchiolii dei legacci che assicuravano la vela
di
mezzana all’albero, e avrebbero rischiato grosso se una di
esse si fosse
stracciata a causa della forte pressione del vento.
«Zoro!» urlò, tentando di
sovrastare il possente ruggito del mare e il rombare dei tuoni per
farsi
sentire, riuscendo a richiamare l’attenzione dello spadaccino
solo al terzo
tentativo. «Tu e Sanji-kun occupatevi delle vele, io e
Chopper penseremo alla
barra!»
«Ricevuto,
Nami-san!» grido il cuoco di
rimando, affrettandosi a correre dall’altro lato del ponte
per afferrare le
funi che si erano sciolte a causa delle forti raffiche di vento; gli
spruzzi
d’acqua provenienti dalle onde che schiaffeggiavano
violentemente la nave gli
inumidivano il viso e gli rendevano le mani scivolose, e dovette
ripetere più
volte il nodo per riuscire ad assicurare le cime agli alberi di mezzana
e
trinchetto, scorgendo appena con la coda dell’occhio la
sagoma indistinta di
Zoro che faceva lo stesso con quello maestro.
Poterono trovare un attimo di respiro
solo quando giunsero nei pressi dell’isola, dove la tempesta
sembrava essersi
placata. Il cielo era ancora grigio e le nuvole cariche di pioggia, ma
adesso
lì, con l’ancora ormai calata, si sentivano in
parte più tranquilli. Certo, attraccare
era stato difficile, però almeno ce l’avevano
fatta.
«Pensavo che dopo
l’isola degli Uomini
Pesce e Punk Hazard non ci sarebbe stato più niente in grado
di stupirmi,
però... ragazzi, credo che mi stia tornando la nonvogliolasciarelanaveite...»
esalò Usopp con un fil di voce,
accasciato sul ponte erboso della Sunny come i restanti membri
dell’equipaggio,
tutti esausti per quell’assurda traversata. Prima il Log Pose
impazzito, poi la
tempesta, il vulcano, l’isola... già,
quell’esperienza si sommava a tutte
quelle che avevano già provato in passato, ma non bastava di
certo quello a
rasserenarli. E forse il cecchino, stavolta, aveva ragione nel non
voler
lasciare la nave. Chopper aveva difatti gettato una rapida occhiata in
direzione dell’isola e aveva sentito tutto il pelo drizzarsi
sulla schiena,
simbolo che a terra ci sarebbe di sicuro stato qualcosa che non sarebbe
piaciuto per niente a nessuno di loro. Nell’osservare subito
dopo Rufy, però,
aveva stranamente compreso che qualcuno sarebbe stato costretto a
seguire
l’euforico Capitano per impedirgli di fare casini.
«Andiamo, non siete curiosi di
scoprire
cosa nasconde quest’isola?» esclamò
difatti, schizzando in piedi per gettarsi
contro il parapetto, poggiando entrambe le mani su di esso mentre
osservava il
folto bosco che si parava dinanzi ai suoi occhi, così tetro
e scuro che metteva
i brividi anche solo a fissarlo da quella distanza.
Usopp, Chopper e Nami, però,
agitarono
in contemporanea una mano. «Per niente»,
replicarono, restando seduti sull’erba
e rimediandoci un’occhiata scettica da Franky.
«Il fatto che vi spaventiate
per una cosa
del genere è mecha-ironico,
sapete?»
disse loro con fare sarcastico, e, per quanto fu guardato male dai
diretti
interessati, riuscì a strappare una mezza risata a Zoro, il
cui sguardo era
fisso nella stessa direzione verso cui stava guardando Rufy.
«Se hanno paura, lasciamoli
qui a badare
alla nave», propose ironico, sentendo i
loro versetti d’approvazione.
«Sono perfettamente
d’accordo con Zoro!»
esclamò Usopp, alzando subito una mano a mo’ di
conferma. «Ma la mia non
è paura!» si affrettò ad aggiungere,
assumendo persino una posa convincente dopo essersi portato due dita al
mento
per carezzare il pizzetto. «Il grande Capitano Usopp non ha
paura di nulla,
però qualcuno dovrà pur tenere
d’occhio la Sunny in assenza degli altri!»
«Quindi restate
voi?» domandò Zoro,
vedendoli annuire immediatamente.
«Certo!»
«Con piacere!»
«Assolutamente
sì!»
Qualche istante dopo, però,
un ruggito
gutturale freddò tutti sul posto e fece cambiare in un lampo
idea ai tre
ragazzi, che trovarono molto più saggio incollarsi al povero
spadaccino. «Credo
che, dopotutto,
avrete bisogno
dell’aiuto del temerario Usopp...»
pigolò quest’ultimo, stritolando fra le mani
il suo braccio sinistro; Nami si era impossessata di quello destro e
Chopper
gli era saltato letteralmente in testa, e la scena si sarebbe anche
rivelata
divertente se l’atmosfera non fosse stata così
cupa.
«Smettiamola di perdere
tempo!» sbottò
Rufy, richiamando l’attenzione di tutti. «Scendiamo
e cerchiamo una città, mi
sta anche venendo fame!»
«Sapevo che
l’avresti detto, Rufy»,
ridacchiò Sanji, uscendo proprio in quel mentre dalla cucina
con due grossi
zaini sulle spalle. Sorrideva sfavillante come non mai, con la sua
fedele
sigaretta fra le labbra. «Ho preparato dei bentou per
tutti!»
«Sei grande, Sanji!»
esclamò tutto euforico,
arraffando il proprio zaino per scendere per primo, ignorando i
richiami di
Nami, ancora incollata al braccio di Zoro. E di questo il cuoco se ne
accorse,
sgranando gli occhi prima di avvicinarsi rabbioso allo spadaccino per
rifilargli un calcio allo stinco, senza dar peso alla colorita
imprecazione che
quest’ultimo rivolse al suo indirizzo.
«Giù le mani da
Nami-san, gorilla
pervertito!» sibilò, e Zoro, dopo essersi
finalmente scrollato di dosso quei
tre idioti, mise prontamente mano alle sue katane, fronteggiando
l’altro.
«Che cazzo fai, cuoco? Sei
cieco, per
caso? È lei che mi ha sequestrato il braccio!»
berciò, e avrebbero di sicuro
cominciato a darsele di santa ragione come loro solito se non fosse
stata
proprio Nami a sedare la rissa, rifilando un pugno sul capo di
entrambi.
«Diamoci una mossa, lo sapete
bene che
non possiamo lasciare Rufy da solo!» sbottò
scontrosa, accostandosi a Robin per
scendere a terra con lei. Brook e Franky, con Chopper e Usopp al
seguito, si
erano già avviati, così da non perdere di vista
quello scemo del loro Capitano.
Se si fossero distratti anche solo per un attimo, quel casinista
sarebbe
riuscito a combinare qualche guaio come suo solito, e di guai ne
avevano già
avuti abbastanza, in quel periodo. E quell’isola dava la
netta sensazione che,
volenti o nolenti, sarebbero stati proprio i guai a cercarli.
Decisamente.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Non saprei cosa dire esattamente, riguardo
questa long fiction.
Cominciamo con il dire che questa storia di sette capitoli è
stata scritta per il
contest
“Don't
be a drag, just be a Queen!”
indetto da RoyMustungSeiUnoGnocco - nel quale si è
classificata
prima praticamente per il rotto della cuffia, come la
giudice stessa afferma x) - e per il contest
“One
Sentence” indetto
da Reghina-chan, ancora in corso e in fase di conclusione. Per una
volta avevo una voglia pazzesca di scrivere una storia di
avventura su One Piece, e finalmente questi due contest me ne hanno
dato la possibilità.
Le strofe iniziali in corsivo nell'introduzione, tra l'altro,
appartengono alla canzone «The Battle
of Bones» dei Flatfoot56 e la frase è del film «Pirati
dei Caraibi: La Maledizione del Forziere Fantasma»,
e si capirà perché le ho scelte come punto di
riferimento solo nel corso della storia.
Ho sempre l'impressione che manchi qualcosa, comunque, però spero
che in qualche modo, per il momento vi abbia interessati.
Al prossimo capitolo. ♥
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Farai felice milioni di
scrittori.
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Capitolo 2 *** [ First season › I'm going slightly mad ] An island in the fog, 02 ***
Like Davy Jones_2
FIRST SEASON ›
I’M GOING SLIGHTLY MAD
AN ISLAND IN THE FOG, #02
Il
tratto di
strada che avevano percorso dal luogo in cui avevano attraccato fino a
quel
punto del bosco sembrava essere durato
un’eternità, secondo Nami.
Il silenzio intorno a loro era
così
assordante che ad ogni passo le giungeva alle orecchie il sinistro
scalpiccio
degli stivali che schiacciavano le foglie secche disseminate sul
terreno arido,
sul quale non cresceva nemmeno un filo d’erba; di tanto in
tanto
sorpassavano
zone in cui la vegetazione era più folta, però le
piante
apparivano comunque avvizzite, prive di vita. Sembrava quasi che il
freddo dell’inverno le avesse
bruciate del tutto, e la lieve nebbiolina che era calata da una buona
decina di
minuti, unita al cielo plumbeo che a tratti si riusciva a scorgere
dalla cappa
di fogliame sopra di loro, rendeva quel paesaggio ancor più
tetro ed
inquietante, gelandole il sangue nelle vene.
Nami sospirò e si strinse
nella felpa
che indossava, lo sguardo ostinatamente puntato sulle schiene dei suoi
compagni
di ciurma. Adesso, col senno di poi, quasi le veniva da chiedersi
perché
diavolo non fosse rimasta sulla Sunny, ruggiti infernali di possibili
mostri o
meno. In fin dei conti non era la stessa ragazza di due anni prima,
poteva
benissimo cavarsela da sola senza il costante aiuto dei suoi amici.
Doveva
ammettere, però, di sentirsi molto più sicura in
loro presenza, e purtroppo
c’era anche da contare il fattore curiosità e la
semplice addizione “isola
misteriosa + strani fenomeni e animali mostruosi = formidabili
tesori”. Non
sarebbe stata per niente la prima volta, in fin dei conti.
«Solo a me questa foresta
da’ i brividi?»
chiese d’un tratto Usopp, e Nami vide distintamente Franky
dargli una leggera
pacca su una spalla.
«Tranquillo, fratello, il tuo mecha-Franky
è qui per questo!»
«Yo-hohoho ♪~ Ci
sono anch’io,
Usopp-kun!»
«Molto rassicurante,
Brook».
«Ohi, ragazzi, ma da qui non
ci siamo
già passati?» li interruppe Sanji, e bastarono
quelle sue poche parole per far
sì che tutti gettassero un’occhiata in giro,
aggrottando la fronte nello scrutare
i dintorni, e nel vedere la stessa identica pietra a forma di gatto che
aveva
scorto una quindicina di minuti prima, Nami non poté fare a
meno di dargli
ragione. Aguzzò dunque la vista, così da poter
scorgere attraverso la tenue
foschia il profilo del Capitano.
«Ehi, Rufy!» lo
chiamò. «Si può sapere
dove diavolo stai andando?»
«E io che ne so?»
replicò lui con una
semplice scrollata di spalle. «Sto seguendo Zoro!»
Quella costatazione raggelò
tutti, ma fu
Sanji, dopo un’imprecazione a denti stretti, ad avanzare a
grandi falcate fra
il sottobosco umido per superare il Capitano, scansando malamente lo
spadaccino
quando lo raggiunse. «Che idiota, sarei dovuto andare io per
primo!» sbottò poi
tra sé e sé, senza dar peso alle rimostranze di
Zoro e Rufy, che si erano visti
surclassati dal cuoco in quel modo così brutale. Beh, a lui
non importava un
accidente di niente. Avrebbero dovuto ricordarsi molto prima che quei
due
avevano un pessimo senso dell’orientamento, anche se Zoro era
di sicuro il
peggiore fra loro. Si perdeva anche per andare al cesso, il che era
tutto dire.
A Punk Hazard era stato solo un caso se fosse riuscito in qualche modo
ad
orientarsi e avesse ricordato stranamente la direzione di quel fottuto
lago
ghiacciato.
Pur avendo preso il comando Sanji,
però,
le cose non migliorarono così facilmente. Persino il bosco
sembrava avercela
con loro e non rendeva le cose per niente semplici, giacché
i rami avevano
cominciato a divenire sempre più bassi e fitti e il
sottobosco così folto da
somigliare ad una fottuta brughiera in miniatura. Erano riusciti a
trarre un
lungo respiro di sollievo solo quando, usciti dopo ore interminabili
passate in
quel bosco, scorsero una cittadella in lontananza, ritornando ansiosi
nel
momento esatto in cui vi avevano messo piede. Le porte e le finestre di
case e
negozi erano sbarrate da tre assi di legno inchiodate al muro,
così fradice e
annerite da dare l’impressione di essere state in balia delle
intemperie da più di
qualche anno; dai ciottoli che piastrellavano le strade sbucavano
ciuffetti
d’erba di un timido colore verdognolo, e persino la fontana
che si ergeva nel
bel mezzo della piazza era ricoperta da erbacce e da uno spesso strato
di
patina biancastra, scioltasi solo nei punti in cui il fango ormai secco
aveva
attecchito. La giornata cupa e uggiosa e la quiete rendevano il tutto
ancor più
spettrale, per non parlare poi dei sinistri cigolii delle insegne dei
negozi
che si muovevano ad ogni lieve folata di vento. Dannazione, che diavolo
significava?
«Chissà che fine
hanno fatto tutti
quanti», disse d’un tratto Robin in tono distratto,
guardandosi incuriosita
intorno prima di avvicinarsi ad un carretto e toccare la merce ormai
avariata,
ritraendo la mano con fare disgustato nel sentire al tatto il marcio
viscidume
di quella che una volta era stata una mela. «Forse sono tutti
morti in seguito
ad un incidente... o forse c’è stato un omicidio
di massa».
Nami rabbrividì, guardandola
di
traverso. «Non dire certe cose orribili con quel tono
così pacato, Robin», la
redarguì, e l’archeologa si ritrovò
semplicemente a sorridere. Quella donna
aveva sempre avuto un macabro senso dell’umorismo, ma durante
quei due anni era
decisamente peggiorata. A volte non riusciva nemmeno a capire se
facesse sul
serio o volesse semplicemente prendere per i fondelli tutti loro.
La navigatrice non ci
rifletté su oltre,
cominciando ad esplorare i dintorni con circospezione. Le imposte
esterne delle
case ai margini della cittadina ruotavano sinistramente sui cardini
alle
folate di vento che si innalzavano di tanto in tanto dalla foresta che
si
ergeva ad ovest, producendo un cigolio che risuonava assordante a causa
dell’assoluto silenzio che era calato sulla zona come un velo
sottile; il tetto
di una delle abitazioni era crollato, probabilmente colpito
violentemente da
qualcosa, e le travi di legno che l’avevano composto erano
ricadute sulla dura
terra, riversandosi in pendenza contro il muro della casa, simile ad
una rampa
cedevole e insicura; come se non bastasse, la puzza di carne stantia,
cibo
andato a male e frutta marcia appestava quel luogo, infilandosi nelle
narici
fino in fondo ai polmoni. Era così nauseante che Nami si
sarebbe volentieri
rintanata in un angolo per vomitare, se solo il suo buon senso non le
avesse
ordinato di restare vigile. Più avanzava, difatti,
più quella situazione
cominciava a non piacerle, in particolar modo a causa delle case
ridotte a
cumuli di macerie che stava osservando proprio in quel momento. Che
cosa
diamine era successo in quella città? E cos’era
accaduto ai suoi abitanti? Non
lo sapeva, ma era certa che, qualunque cosa fosse capitata, se ne fosse
venuta
a conoscenza non le sarebbe piaciuto per niente.
«Questo posto mi ricorda
tremendamente
Thriller Bark... e la cosa mi terrorizza», disse Nami con un
fil di voce, passandosi
frettolosamente le mani sulle braccia come se volesse cacciare la
strana
sensazione che si era impossessata della sua pelle. Era come se avesse
freddo,
e non era una cosa esattamente positiva. «Non ci saranno mica
zombie o altre
stranezze del genere, vero?» sussurrò, e non fece
nemmeno in tempo a finire di
dirlo che sentì mormorare alle sue spalle «Vi
siete persi, figlioli?», urlando
spaventata qualche microsecondo dopo. Saltò letteralmente in
braccio ad Usopp,
che a sua volta si era lasciato scappare un grido, ed entrambi
fissarono con
gli occhi ingigantiti dalla paura la figura che era sbucata
all’improvviso alle
loro spalle, simile ad uno spirito tormentato che si era fatto largo
fra la
polvere e i detriti.
Solo quando il battito impazzito dei
loro
cuori si ristabilizzò riuscirono realmente a mettere a fuoco
la sua sagoma, non
risparmiandosi dall’imprecargli contro. «Vecchio,
ci hai fatto prendere un colpo!» sbottò Usopp,
rimettendo Nami a terra per
indietreggiare poi con lei. Non si poteva mai sapere che cosa potesse
passare per
la mente di quel tipo losco. Era un ometto basso e tarchiato dal viso
scarno,
così pallido da sembrare un cadavere; le guance scavate e il
colorito bluastro
intorno agli occhi gli conferivano un’aria quasi spettrale, e
a renderlo ancor
più spaventoso, probabilmente, era il sorriso che stava
rivolgendo loro,
abbastanza ampio da far intravedere benissimo la mancanza
dell’arcata dentale
superiore. Gli unici denti rimasti erano i canini e gli incisivi,
così gialli e
marci da dare l’impressione che sarebbero potuti cadere anche
loro da un
momento all’altro.
«Perdonate, ragazzi,
perdonate», proferì
divertito. «Che cosa ci fate da queste parti? È da
ben sei anni che nessuno
mette piede in questo lato dell’isola».
«Quindi quest’isola
non è disabitata?»
domandò pacatamente Robin, provocando al vecchio una sonora
risata.
«Disabitata? Oh, nay, gli
abitanti si
sono trasferiti in un’altra città, molto
più prosperosa e vicina al mare»,
spiegò, annuendo come se fosse rivolto a se stesso
anziché ai ragazzi che lo
squadravano con attenzione. «L’unico inconveniente,
purtroppo, sono i mostri
che pullulano in questa zona».
Usopp, Chopper e Nami si guardarono
istintivamente nello stesso istante, e mentre i primi due cominciavano
a
blaterare chissà cosa riguardo a foreste stregate e che
avrebbero decisamente
fatto meglio a tornare alla nave, la navigatrice si schiaffò
una manata in
faccia, in particolar modo nel vedere l’eccitazione che si
era dipinta
immediatamente sul volto del Capitano. Non gli erano bastati gli orrori
che
avevano veduto a Punk Hazard e quello schifosissimo Smile, eh? Era
proprio un
tipo senza speranza.
«Vi consiglio di sbrigarvi,
ragazzi»,
continuò il vecchio, stringendosi nel pastrano che
indossava, come se
all’improvviso avesse cominciato a sentire freddo. Eppure il
clima sembrava
piuttosto normale. «Quando scende la notte e cala la nebbia,
quei mostri si
aggirano nella foresta e bramano la vita degli sventurati che perdono
la via in
essa».
«Vorrà dire che li
affronteremo!» replicò
immediatamente Rufy con un enorme sorriso, ma il vecchio scosse appena
il capo.
«Non è
così semplice, ragazzo mio», lo
mise in guardia. «Hanno una forza pari a quella di tre Uomini
Pesce, ma è il
loro intelletto minimo a spaventare chiunque si imbatta in queste
creature. Non
sono esseri senzienti e si muovono unicamente in base al loro istinto,
esattamente come un comune animale».
Rufy si calcò il cappello in
testa e
sorrise maggiormente, osservando l’uomo con attenzione.
«Non è un problema»,
rimbeccò, conscio di ciò che diceva o
semplicemente troppo sicuro di sé come
suo solito. E l’intera ciurma protendeva più per
la seconda ipotesi, giacché
conoscevano fin troppo bene il loro Capitano, ormai. Quando Rufy si
metteva in
testa una cosa non c’erano ma che lo facevano desistere,
dunque erano a dir
poco sicuri che, qualunque cosa avessero fatto o detto per tentare di
fargli
cambiare idea, non sarebbero riusciti a distoglierlo da quella sua
intenzione.
Avrebbero attraversato quella foresta e, se si fossero imbattuti in
quei
mostri, lui avrebbe messo tutto se stesso per farli fuori.
«Io vi ho avvertiti, ragazzi.
Ma se volete imbarcarvi in quest’impresa,
seguite il sentiero senza mai lasciarlo, se volete arrivare vivi a fine
giornata. E
ricordate
bene le mie parole», sentenziò il vecchio in tono
sibillino, osservandoli
un’ultima volta prima di ritirarsi e sparire in direzione
delle case abbandonate
come un fantasma, esattamente com’era apparso qualche istante
prima, facendo
correre un brivido dietro la schiena di Nami.
«Che tipo»,
sussurrò tra sé e sé,
scuotendo il capo. Ne aveva visti di tipi loschi e strani, ma, dietro a
quella sua facciata tranquilla e per niente pericolosa, quel vecchietto
li
batteva tutti, probabilmente. «Rimettiamoci in marcia,
ragazzi. Se ciò che ha
detto quel vecchio è vero, non voglio rischiare di
ritrovarmi davanti a quei
mostri».
Tutta la ciurma si ritrovò a
convenire
con la ragazza, cominciando a seguirla verso il folto della boscaglia
senza
nemmeno pensarci due volte; solo Sanji, che si era attardato un secondo
per
accendersi una sigaretta, gettò un ultimo sguardo verso la
città e poi verso il
gruppo, accigliandosi tutto d’un tratto nel notare che
c’era un particolare
mancante, lì.
«Un momento...
dov’è finito quello
stupido marimo?» domandò all’improvviso,
e quel suo quesito riuscì a bloccare
tutti in un momento di stasi, prima che ogni singolo membro cominciasse
a
guardarsi freneticamente intorno alla ricerca dello spadaccino, di cui
sembravano essersi perse effettivamente le tracce.
Aveva scelto proprio il momento peggiore
per sparire come suo solito, quel cretino. Dove diavolo era andato a
cacciarsi?
«Merda,
dove cazzo sono finiti quegli
idioti?» borbottò Zoro, grattandosi il capo con
fare pensoso. Eppure stavolta,
e ne era assolutamente
sicuro, non
aveva perso di vista nemmeno per un attimo le schiene dei suoi amici,
seguendoli su per il sentiero che portava fuori da quella
città abbandonata.
Quindi perché, adesso, si ritrovava praticamente isolato dal
resto del gruppo?
Aggrottò la fronte e
gettò un’occhiata
alle proprie spalle, accigliandosi nel rendersi conto che la
città sembrava
essere sparita nel nulla, come se non fosse mai esistita. Non si era
allontanato di molto da quel posto, dunque che cosa diavolo stava
succedendo? Era
mai possibile che, in realtà, avesse camminato
più di quanto pensasse? Sbuffò e
decise di riprendere il cammino, certo che prima o poi sarebbe riuscito
a
ritrovare i suoi compagni. Porsi troppe domande non era mai stato da
lui, in
fin dei conti, quindi non vedeva il perché avrebbe dovuto
cominciare proprio
adesso.
Quando cominciò a rendersi
conto che
stava semplicemente girando in tondo, però,
iniziò davvero a spazientirsi. Gli
alberi che sorgevano nei dintorni arrivavano quasi a toccare il cielo
grigio e
coperto di nuvole, rendendo il paesaggio ancor più buio e
spettrale; dal
sottobosco non si riuscivano nemmeno ad udire lo strisciare di qualche
serpentello o il fruscio rapido di qualche scoiattolo che si affrettava
a
tornare alla tana, né tanto meno i richiami lontani di
qualche lupo. Era come
se l’intero bosco si fosse zittito e si fosse fermato in un
silenzio quasi
irreale, rendendo quella traversata ancor più irritante di
quanto già non fosse
stata al principio.
Zoro si gettò
un’altra rapida occhiata
alle spalle solo per costatare che si era allontanato appena di qualche
metro,
per quanto fosse ormai in cammino da una buona decina di minuti. Era
come
minimo la terza volta che vedeva lo stesso tronco spezzato e la stessa
carcassa
di coniglio riversa sotto di esso, mezza mangiucchiata sulle zampe e
con i peli
incollati dal sangue ormai raggrumato. Forse in un altro momento si
sarebbe
chiesto cosa avesse spinto una bestia affamata a lasciare lì
la propria preda e
a fuggire, però, in quel frangente, era decisamente
impegnato a capire dove
diavolo fosse e come avesse fatto a capitare in quello stupido posto.
Si illuminò solo quando
ritrovò
finalmente il sentiero, affrettandosi a percorrerlo come per timore di
vederselo scomparire ancora una volta dinanzi agli occhi; dovette
scansare dal
suo cammino i rami più bassi e pungenti degli arbusti e
quasi cadde in una
radice nodosa che sporgeva dal terreno, imprecando a denti stretti ogni
qual
volta veniva costretto ad abbassare la testa per evitare di beccare in
pieno le
fronde ricoperte di foglioline verdi. Perse persino il conto delle ore
che
passò a fare avanti e indietro in quello sputo di posto,
fermandosi solo quando
trovò un ostacolo sulla propria strada.
«Ohi, che diavolo
significa?» sbottò
rivolto al vuoto, osservando con la fronte aggrottata la parete di
pietra che
si innalzava dinanzi a lui. Eppure era sicuro di non essersi
allontanato dal
sentiero, quindi quel muro naturale non avrebbe dovuto esserci. Quel
posto
stava decisamente cominciando a stancarlo e a dargli sui nervi. Era
come se
qualcuno si stesse divertendo a farlo impazzire, e la cosa non gli
piaceva per
niente. Dannazione, quella stupida parete l’avrebbe fatta
volentieri a fette se
non si fosse rivelato inutile.
Senza distogliere lo sguardo da essa,
Zoro decise di indietreggiare per tornare sui propri passi, con la
speranza di
riuscire in qualche modo ad uscire da quella stramaledettissima quanto
assurda
situazione. Superò appena un paio di alberi,
però, prima di rendersi conto che
lì c’era qualcosa che non quadrava. Erano radi e
bassi, quasi spogli, e il
terreno sul quale stava camminando era cosparso da piccoli ciottoli
bianchi che
facevano apparire quella foresta molto simile ad una pianura innevata.
Zoro si
voltò quel tanto che bastava per adocchiare i dintorni,
accigliandosi quando,
nel girarsi del tutto, i suoi stivali affondarono a metà in
un corso d’acqua
che aveva tutta l’aria di essere un ruscelletto. Ma che diavolo...?
«Adesso sto cominciando a
stancarmi»,
borbottò, sfiorando con due dita l’elsa della sua
Ichimonji in un gesto
rassicurante, senza smettere di controllare lo spiazzo erboso che gli
si era parato
dinanzi in quel momento; vi aleggiava sopra una nebbiolina leggera che
lo
rendeva stranamente grigiastro, privo del colore verde
brillante che avrebbe
dovuto caratterizzarlo.
Con fare guardingo e al contempo deciso,
Zoro si rimise in marcia e cominciò ad ispezionare la zona,
osservando
minuziosamente ogni minimo particolare. Oltre al ruscello che aveva
superato e
all’arbusto spoglio che sorgeva poco più avanti di
esso, quel posto non
sembrava avere qualche segno distintivo, se si escludeva ovviamente il
fatto che
si trovava dove avrebbe dovuto invece esserci un bosco. La cosa ancor
più
strana, poi, era che alle sue narici non arrivava il classico odore
fragrante
di erba bagnata, né tanto meno quello delle margherite che
spuntavano
timidamente fra gli steli umidi, bensì un profumo salmastro
e pungente, come se
si trovasse nei pressi dell’oceano anziché in un
vasto prato coperto di nebbia.
E forse, per quanto non fosse per niente da lui, avrebbe cominciato di
sicuro a
farsi qualche domanda, se solo il fruscio di passi fra l’erba
non l’avesse
immediatamente messo in allerta, tanto che non ci pensò due
volte ad afferrare
saldamente con la mano sinistra l’elsa della katana bianca e
a sfilarla
rapidamente dal fodero; la lama sibilò contro di esso e
andò prontamente a scontrarsi
con un’altra, permettendo al Vice Capitano di cogliere
l’espressione sgomenta dipintasi
su un volto fluttuante nella nebbia.
Un’imprecazione sommessa si
levò dal bel
mezzo di quel mondo bianco ed etereo, poi lo scintillio di una lama
balenò per
un breve istante, dando a Zoro appena il tempo di spostarsi con un
sibilo dalla
sua traiettoria; un grido lungo e straziante, simile a quello di una
creatura
ferita, gli trapanò le orecchie e lo costrinse ad
indietreggiare, prima che,
rinserrando la presa sull’elsa della sua arma, si gettasse
contro
quell’avversario invisibile in un attacco frontale, facendo
affidamento
unicamente sui propri sensi sviluppati per seguire con essi ogni minimo
spostamento di quel losco figuro. Non dovette nemmeno far ricorso alle
altre due
spade, costatando, unicamente con qualche breve stoccata, che la
tecnica di
quel tipo, chiunque egli fosse, era pessima e priva di sfumature, per
niente
limata dall’esperienza; gli colpì una mano con un
fendente secco e laterale con
il quale gli fece volare via la spada, vedendola volteggiare con la
coda
dell’occhio alla sua destra prima che si conficcasse con
furia nel terreno.
Zoro non perse tempo a capire chi diavolo fosse il nemico,
squarciandogli il
ventre con un colpo netto; il sangue schizzò, macchiando
lama e vestiti, prima
che, con un rantolo soffocato, quel tipo crollasse a terra riverso di
schiena,
ansimando.
Ripulendo la katana sulla casacca verde
ormai logora, Zoro la rinfoderò e, accucciandosi sui
talloni, afferrò a tentoni
il bavero di quell’uomo, così da portare il suo
viso ad una spanna dal proprio.
«Quel colpo non ti ammazzerà, quindi parla e dimmi
cosa diavolo vuoi», sibilò,
e avrebbe anche aggiunto altro se, grazie alla nebbia lievemente
dissoltasi, il
suo sguardo non si fosse posato sul volto del suo assalitore. Il naso
lungo e
squadrato ricordava vagamente quello di uno squalo martello, e persino
i suoi
occhi, piccoli e vitrei, dava l’impressione che il viso che
stava osservando
non fosse per niente umano. E i dubbi dello spadaccino si dissolsero
del tutto
quando l’occhio cadde sulle branchie che fremevano sul collo,
dilatandosi e
contraendosi come se fossero bisognose d’acqua. «Un
Uomo Pesce», costatò a
mezza voce, però, contro ogni sua aspettativa,
quell’uomo sollevò un angolo
della bocca in un sorriso forzato, mostrandogli i denti aguzzi e le
gengive
esangui.
«Sbagliato»,
ansimò, tossendo. «E
presto... vi pentirete di essere arrivati sin qui», soggiunse
in un soffio, e
Zoro sgranò l’occhio, incredulo. Dunque quel coso
sapeva che non era solo e che
con lui c’erano altre persone? Che diavolo stava succedendo,
su quella dannata
isola? E, soprattutto, chi diamine l’aveva mandato ad
attaccarlo?
«Che cazzo
significa?» berciò,
scrollandolo malamente e ignorando al contempo il lamento che
l’altro si lasciò
sfuggire. «Se sai dove sono i miei compagni dimmelo seduta
stante, altrimenti
ti ammazzo».
Quell’uomo, o qualunque cosa
egli fosse,
lo guardò negli occhi per un lungo istante senza proferir
parola, spalancando
poi la bocca zannuta per affondare violentemente i denti nella lingua,
mozzandosela sul colpo; l’uomo cominciò a tremare
in preda alle convulsioni,
biascicando a causa della bocca ormai ricolma di sangue e saliva.
«Merda»,
imprecò Zoro, lasciandolo
seduta stante prima di issarsi nuovamente in piedi. C’era
qualcuno, su
quell’isola, che era a conoscenza della loro presenza, e
probabilmente aveva
già mandato altri suoi sgherri a fare il lavoro sporco,
esattamente com’era
appena successo con lui.
Doveva trovare Rufy e gli altri, e
doveva trovarli in fretta.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Eccoci finalmente giunti con il secondo
capitolo di questa storia.
In verità non dovrei metterci così tanto ad
aggionrare
visto che è già pronta, però... tra
altre storie,
impegni vari e giornate passate fuori casa, diciamo che mi sto dosando
posando un po' e un po'
Sono comunque contenta che la storia stia piacendo, e spero che, mano a
mano che andrà avanti, non lascerà deluso nessuno
per lo
svolgersi degli eventi
In questo capitolo abbiamo visto che il marimo non si smentisce mai e
si perde anche quando non dovrebbe, ma in fin dei conti non
è
per niente una novità, no? Ed è anche il primo a
trovare
avversari... il solito fortunato, insomma u_u
I dubbi verranno chiariti più avanti, per il momento spero
che vi abbia interessati :3
Al prossimo capitolo. ♥
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di
scrittori.
|
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Capitolo 3 *** [ Second season › Crossroads ] Separate ways, 01 ***
Like Davy Jones_3
SECOND SEASON ›
CROSSROADS
SEPARATE WAYS, #01
La ciurma si era
rimessa in viaggio da ormai svariate ore, ma non avevano ancora trovato
nessuna
traccia di Zoro, che sembrava essere letteralmente scomparso.
Il vecchio che avevano incontrato in
quella città abbandonata aveva indicato loro la direzione da
seguire se
avessero voluto arrivare nei pressi del villaggio attualmente abitato,
e,
secondo le sue informazioni, sarebbero dovuti giungere a destinazione
in meno
di mezza giornata, se avessero proseguito dritto senza lasciare il
sentiero. Il
problema, però, era che il sentiero era sparito non appena
si erano addentrati
maggiormente nel bosco, quasi fosse stato risucchiato dalla
vegetazione. Dire
che erano rimasti tutti perplessi sarebbe stato un eufemismo. E tuttora
non
riuscivano più a raccapezzarsi su quanto fosse successo,
sebbene non avessero
smesso di muoversi nemmeno per un attimo; avevano persino cominciato a
chiamare
Zoro a squarciagola, nella speranza che quest’ultimo li
sentisse e seguisse poi
le loro voci per trovarli, tornando almeno tutti uniti. Quel posto non
sembrava
una zona da valicare da soli, in particolar modo per la presenza di
quelle
strane creature che, per il momento e per fortuna, non erano ancora
riusciti a
vedere.
Asciugandosi il sudore dalla fronte,
Usopp si gettò un’occhiata intorno, stringendo
furiosamente fra le dita il
kabuto, come se fosse in attesa di vedersi comparire improvvisamente
davanti
qualche strano essere; la prudenza non era mai troppa, secondo lui, e
in quel posto
andava addirittura intensificata.
I suoi occhi vagavano da una parte
all’altra della vegetazione, tenendo conto anche del
più piccolo dettaglio,
come un ramo smosso dal vento o un lieve movimento fra l’erba
alta, per quanto
non avessero ancora visto neanche un segno di vita nel bosco in cui si
erano
ritrovati. Non un uccello, non un insetto - con grande sollievo di
Sanji, c’era
da dire -, né tanto meno qualche animale che sbucava curioso
dalla propria tana
per osservare quegli strani visitatori che vagavano senza meta. Era
come se
l’intera foresta fosse morta o ogni suo abitante fosse andato
a nascondersi per
non incontrare le creature che la popolavano, e Usopp, doveva
ammetterlo, non
dava torto a nessuno di loro. Si era allenato per ben due anni e aveva
acquisito molto più coraggio di quanto non ne avesse avuto
in passato, ma ai
brutti presentimenti non si poteva mai dire di no. E se aveva
cominciato a
provare una strana sensazione, beh, allora voleva dire che non aveva
tutti i
torti.
«Dobbiamo trovare
Zoro», esalò d’un
tratto e tutto d’un fiato, richiamando l’attenzione
su di sé in un lampo. «Rischia
di imbattersi nei mostri di cui ci ha parlato il vecchio».
Sanji, che si trovava a pochi passi da
lui, si ritrovò ad abbozzare un sorriso sarcastico e a
dargli una gomitata
giocosa al fianco, quasi volesse tirarlo su di morale.
«Tranquillo, Usopp,
tanto è così stupido che si scorderebbe di
morire anche se lo ammazzassero».
«Non sei per niente
divertente, Sanji»,
rimbrottò il cecchino, facendolo sorridere maggiormente.
«Io infatti ero
serissimo».
«Non è il momento
di discutere, ragazzi»,
sbottò Nami. «Voglio uscire da questa stupida
foresta il prima possibile»,
aggiunse, e non ebbe nemmeno l’agio di poter aggiungere
qualcosa che gli occhi
di Sanji parvero diventare letteralmente a cuore, prima che, come un
perfetto
cavaliere d’altri tempi, si chinasse su un ginocchio e le
prendesse amabilmente
una mano fra le sue.
«Come desideri,
Nami-swan~♥!»
cinguettò
poi, pendendo praticamente dalle sue labbra. La ragazza
sbuffò e
roteò gli
occhi, liberandosi dalla sua presa prima di dargli le spalle e agitare
distrattamente una mano in aria, borbottando un
«Diamoci una
mossa» mentre si accostava a Rufy, che non aveva fatto
altro che guardarsi intorno con fare estasiato. Sembrava che stesse
controllando i dintorni con la speranza di vedere apparire
chissà quale bestia
portentosa, e la cosa non pareva far per niente piacere a Nami, che
avrebbe
difatti preferito che la situazione rimanesse tranquilla come lo era in
quell’esatto momento. Forse avrebbe potuto essere noioso,
certo,
ma almeno
nessuno di loro si sarebbe ritrovato a dover rischiare la vita o
chissà cosa.
Un po’ di tranquillità potevano averla anche loro
per una
volta, no?
Non fece nemmeno in tempo a terminare
quel pensiero che, con la coda dell’occhio, scorse una strana
figura che si
aggirava fra gli alberi, e un tic nervoso si impossessò del
suo occhio sinistro nel momento stesso in cui si
rese conto che non era una sua impressione. A quanto sembrava non
potevano
avere un attimo di pace, nossignore. Un qualunque Dio, lassù
- probabilmente
Ener per vendicarsi della sconfitta che gli avevano inferto a Skypiea,
ironizzò
mentalmente per sdrammatizzare -, non voleva concedere loro nemmeno un
secondo,
e ne fu assolutamente sicura non appena l’ombra che aveva
adocchiato passò
proprio dinanzi a loro, volteggiando a mezz’aria con un manto
scuro che, contro
lo sfondo del bosco fitto e nebbioso, appariva quasi consistente, per
quanto si
riuscissero ad intravedere attraverso di esso gli alberi che si
innalzavano
verso il cielo. «Quello che ci è appena passato
davanti non era
un fantasma, vero?» domandò con voce stranamente
pacata,
come se ormai si fosse del tutto arresa a situazioni assurde come
quella.
Nel sentire quelle parole,
però, fu
Brook ad agitarsi, portandosi entrambe le braccia scheletriche al petto
prima
di spalancare la bocca ossuta. «Un fantasma?!»
esclamò, e avrebbe di sicuro
sgranato gli occhi se solo al loro posto non vi fossero ormai le
cavità oculari
vuote nascoste dagli occhiali da sole. «Che paura!»
«Tu sei uno scheletro
parlante! Come
diavolo fai ad aver paura di un fantasma?!» berciò
Nami, tentando di ignorare
la risata a cui si era lasciato andare Rufy. Perché diamine
doveva trovare
tutto divertente, quello scemo d’un Capitano? Ah, giusto. In
fin dei conti era
pur sempre di Rufy che si stava parlando, e lui riusciva a trovare
strepitoso
anche una bambola che portava il the. C’era da dire,
però, che il più delle
volte la sua esuberanza, nelle situazioni di pericolo, riusciva in
qualche
modo a rassicurare la ciurma, dando loro la certezza che, ammaccati o
meno che
fossero, sarebbero comunque riusciti a cavarsela e ad uscire fuori da
qualunque
situazione. Non era forse anche per quel motivo che l’avevano
seguito? Insieme
a Rufy, tutti, nessuno escluso, si sentivano più al sicuro.
Sapeva anche essere
un Capitano molto maturo, quando voleva.
«Oh!»
esclamò all’improvviso
quest’ultimo, risvegliando la navigatrice dai propri
pensieri; lo vide correre
verso una quercia gigantesca e puntellarsi sui calcagni, mostrando
loro, una
volta preso con entrambe le mani, quello che aveva tutta
l’aria di essere una
specie di copricapo. «Guardate qui, ragazzi!»
soggiunse poi con un sorriso,
sollevando maggiormente quell’oggetto per mostrar loro di
cosa si trattasse. «Non
è grandioso? Sembra uno squalo!»
Tutti si ritrovarono a sgranare gli
occhi, increduli e forse un po’ intimoriti, nel rendersi
conto che il Capitano
reggeva fra i palmi delle mani un teschio con tanto di cappello pirata.
La
testa era quasi il triplo di quella di Rufy, e gli zigomi alti, la
fronte
sporgente e l’arcata dentale aguzza, esattamente come quella
che avrebbe potuto
possedere uno squalo, davano tutta l’impressione che quel
cranio appartenesse a
qualcosa di molto simile ad un Uomo Pesce.
«Metti giù quel
coso, Rufy!» ordinò
Nami, schifata dal millepiedi che era appena strisciato fuori
dell’orbita vuota
del teschio. E rabbrividì maggiormente nel vedere un ragno
calarsi dal naso e
camminare indisturbato sulle poche zanne rimaste, sparendo nuovamente
nel
cranio fra uno spazio tra gli incisivi.
A quel fare il ragazzo
scrollò
semplicemente le spalle, poggiando il teschio a terra solo per
sollevare
qualcos’altro qualche attimo dopo. «Beh, qui
c’è anche questo», le disse poi, e
gli occhi di Nami, alla vista del medaglione completamente
d’oro e dei diamanti
ivi incastonati, si illuminarono seduta stante, tanto che la ragazza
corse
immediatamente ad abbracciarlo, gettandogli le braccia al collo e
schiacciandogli
il viso fra i seni.
«Oh, Rufy, sei stato
fantastico!» lo
elogiò tutta contenta, ignorando il vago pianto che le era
sembrato di udire in
sottofondo - causato da un Brook o da un Sanji particolarmente
disperato per
non l’aver ricevuto lo stesso trattamento, con molta
probabilità - solo per
concentrarsi sulle parole soffocate che a stento riuscivano ad uscire
dalle
labbra del Capitano, che non sembrava per niente dispiaciuto dalla
piega che
avevano preso le cose, a quanto sembrava.
Quel loro attimo di contentezza,
però,
durò relativamente poco, giacché non fecero
nemmeno in tempo ad accorgersi dei
fruscii provenienti dalla cappa di fogliame sopra di loro che si
ritrovarono
catturati in una rete metallica, dando voce alla loro
perplessità con un’esclamazione
sorpresa alla quale fece eco quella della ciurma. «Li abbiamo
presi!» si sentì
gridare, prima che dalle cime degli alberi calassero quelli che avevano
tutta
l’aria di essere Uomini Pesce, per quanto fossero piuttosto
piccoli e minuti.
Le branchie sul collo fremevano ogni qual volta il naso schiacciato,
molto più
simile a quello di uno squalo che ad una parte anatomica umana,
sembrava
annusare l’aria nei dintorni, inspirando a fondo
l’ossigeno come se fosse
acqua; le mani palmate di uno di loro corsero rapide verso la fune
della rete
nel tentativo di chiuderla, ma non fece in tempo a farlo che Cappello
di Paglia
si alzò con uno scatto secco, gettandola lontano da
sé prima di aiutare Nami ad
alzarsi in piedi e rivolgere a quei due una rapida occhiata.
«E voi chi diavolo
siete?» domandò, e
quello più vicino a Rufy, imprecando a denti stretti, non si
prese nemmeno la
briga di rispondere, facendo un rapido cenno al compare di allontanarsi
il più
possibile dal resto dell’equipaggio; prima di indietreggiare,
però, tirò fuori
dalla tasca dei pantaloni un fischietto, portandoselo svelto alle
labbra per
soffiarci dentro con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Il fischio
cupo e
prolungato che scaturì da esso costrinse la ciurma a
coprirsi le orecchie, lasciandoli
momentaneamente storditi a causa della velocità con cui quei
due Uomini Pesce
si erano poi lanciati contro di loro.
Con un’imprecazione, Robin si
affrettò a
far fiorire sui corpi di entrambi gli avversari tre braccia con il Trois Fleur,
nel tentativo di
immobilizzarli e permettere ai suoi compagni di reagire; con una forza
che
l’archeologa non si aspettava, però, uno dei due
riuscì a liberarsi e la colpì
ad un fianco con un calcio ben assestato, facendola rotolare in terra e
sbattere la schiena contro il tronco di uno degli alberi che popolavano
la
zona,; lei tossicchiò, stordita, e si rialzò in
piedi a
fatica a causa della botta ricevuta, tentando di rimettere a fuoco la
situazione.
«Robin!»
esclamò Franky, andando in suo
aiuto e afferrando con una delle grosse mani le caviglie di
quell’Uomo Pesce
per riservargli lo stesso trattamento, vedendolo spalancare la bocca
per lo
stupore quando, scontrandosi con il terreno umido e subito dopo contro
una
roccia, sentì il fiato mozzarglisi nel petto e il dolore
percorrere tutto il
suo corpo, quasi non riuscisse a credere che stesse accadendo davvero;
Rufy si
gettò a sua volta nella mischia, allungando una gamba per
prendere di mira
l’altro avversario, centrandolo in pieno stomaco. Il colpo lo
lasciò paonazzo e
senza fiato e perse subito i sensi, tanto che il Capitano si
ritrovò ad
aggrottare la fronte prima di ritirare la gamba, lo sguardo fisso
sull’Uomo
Pesce rivolto di schiena sul terreno umido.
«Che delusione»,
bofonchiò poi,
incrociando le braccia al petto con uno sbuffo. «Non erano
per niente forti
come ci aveva detto il vecchio, potevamo toglierli di mezzo anche ad
occhi
chiusi. Neh, Franky? Sanji?» soggiunse, voltando in direzione
dei suoi amici.
Franky aveva appena spiaccicato letteralmente al suolo il proprio
avversario e
aveva rivolto poi lui un rapido cenno affermativo, sollevando il
pollice della
grossa mano sinistra; il Capitano non poté fare a meno di
accigliarsi, poco
dopo, nel costatare che Sanji non si vedeva da nessuna parte. Dove
poteva
essere finito? Eppure era uno dei migliori, il suo guardaspalle insieme
a Zoro,
se proprio doveva metterla in quei termini. «Ohi,
Sanji?» provò ancora, senza
ottenere la benché minima risposta. Del cuoco sembrava
essersi persa ogni
traccia.
«Sembra essere sparito nel
nulla»,
costatò Robin in tono pacato una volta ripresasi,
picchiettandosi le labbra con due dita e
assumendo un’aria alquanto pensosa. Un attimo prima aveva
visto il cuoco fermo
accanto all’albero che aveva dinanzi, intento a tastare il
terreno, e un attimo
dopo era letteralmente svanito dal suo campo visivo, esattamente
com’era
successo contro Kuma due anni addietro. Solo che stavolta la cosa non
si
spiegava. Però, e lo ammetteva spudoratamente, era proprio
per quel motivo che
la incuriosiva e la affascinava, per quanto non si potesse dire che il
resto
della ciurma avesse avuto la stessa impressione, più
preoccupata per il cuoco
che desiderosa di sapere qualcosa di più su quel misterioso
fenomeno.
«Sanji!»
gridò Chopper, arrampicandosi
sulle spalle di Franky per poter avere una visuale migliore dei
dintorni. «Dove
sei, Sanji!»
«Rispondi, Sanji!»
cominciarono a dargli
manforte Rufy e Usopp, per quanto ormai avessero capito fin troppo bene
che era
del tutto inutile continuare ad urlare in quel modo. Il cuoco non era
lì e non
avrebbe potuto sentirli, ma anche girare a vuoto senza sapere dove
cercarlo era
un’ipotesi da escludere. Per non parlare poi del fatto che
avrebbero dovuto
trovare anche Zoro. Le cose stavano cominciando a diventare decisamente
complicate.
«E se... fosse stato divorato
da quei
mostri o dal fantasma che abbiamo visto prima?»
sussurrò Brook con un fil di
voce, e avrebbe anche assunto un’espressione a dir poco
spaventata se solo
avesse avuto epidermide e muscoli per farlo.
«Non cominciare anche tu a
fare
l’uccello del malaugurio, Brook!» sbottò
immediatamente Nami, senza risparmiarsi
dal rifilargli un pesante pugno in testa; il povero scheletro
crollò in terra
come un sacco di patate, con lo sguardo fisso verso le chiome degli
alberi.
La navigatrice non vi diede minimamente
retta, gettando uno sguardo nella direzione in cui era sparito Sanji.
Sperò
solo che stesse bene.
Guardandosi
intorno, Sanji sbuffò,
abbassando poi il capo per evitare che uno dei rami degli alberi che
popolavano
quella foresta gli staccassero di netto la testa dal collo. Come se non
bastasse, poi, aveva cominciato a sentire nell’aria
l’odore della pioggia,
simbolo che, non appena si fosse diradata la nebbia, quella zona
sarebbe
diventata un ricettacolo d’acqua, melma e insetti, e
ammetteva che sperava di
non incontrare per niente proprio quest’ultimi, in particolar
modo se si
trattava di ragni. Avevano già i loro bei grattacapi senza
che quei mostri a
otto zampe lo mettessero fuori gioco.
Mise un piede in fallo proprio nel
perdersi fra quei pensieri, notando che la terra aveva cominciato a
diventare
meno compatta. «Fate attenzione a dove mettete i piedi,
ragazzi», raccomandò
dunque, tastando con la suola della scarpa il terreno dinanzi a
sé, per niente
stabile come avrebbe dovuto essere. «Potrebbero esserci
delle...» La frase gli
morì in gola nel voltarsi verso i suoi compagni, sgranando
gli occhi nel
rendersi conto di essere rimasto solo. Com’era possibile?
Fino a pochissimi
attimi prima si trovavano proprio dietro di lui, dannazione!
Boccheggiò, come
preso alla sprovvista, e tornò rapidamente sui suoi stessi
passi, cominciando a
cercare con lo sguardo i suoi amici. «Ohi,
ragazzi!» chiamò, incespicando nelle
radici nodose degli alberi. «Ohi! Dove siete
finiti?»
Ad ogni passo sentiva una bizzarra
inquietudine farsi largo nelle sue membra, bruciandolo
dall’interno come fuoco
vivo. Più si guardava intorno, difatti, meno riusciva a
distinguere i profili
della vegetazione, che veniva a poco a poco inghiottita dalla nebbia.
«Nami-swan!
Robin-chwan!» gridò a squarciagola,
e, mano a mano che tornava indietro,
scansando i rami più bassi che gli intralciavano il cammino
e rischiavano di
ferirgli il viso, l’ansia cominciava a consumarlo sempre
più dall’interno,
lasciandogli ben poca lucidità per pensare come avrebbe
dovuto. Prima Zoro, poi
il resto dei suoi compagni... su che razza di strana isola erano
sbarcati,
dannazione?
Cominciò a girovagare a vuoto
mentre
continuava a chiamarli a gran voce, senza ottenere la tanto agognata
risposta
che aveva sperato. Gli alberi e i rami di essi erano diventati
più fitti e
sembravano avvolgersi intorno a lui come se volessero chiuderlo in
gabbia,
dandogli una bizzarra sensazione di claustrofobia; era come se ad ogni
passo
facesse sempre più fatica a respirare, e più
volte aveva resistito all’impulso
di levarsi la cravatta, per quanto l’avesse allentata e
l’avesse lasciata sulla
camicia come un serpente che aveva appena cambiato pelle; il disagio
che aveva
cominciato a provare, però, non era per niente sparito, e il
tutto veniva
intensificato dalla nebbia che aveva ormai avvolto i dintorni e dal
pensiero di
come stessero i suoi compagni.
Merda. Come se non bastasse, stava
cominciando anche a preoccuparsi per quell’idiota di un
marimo. Scherzando
aveva detto quella frase ad Usopp, certo, ma se gli fosse capitato realmente qualcosa
non se lo sarebbe mai
perdonato. Era già accaduto a Thriller Bark, e lì
non aveva potuto fare nulla
per impedirgli di sacrificarsi per il bene della ciurma. Quello stupido
aveva
persino osato metterlo fuori gioco per evitare che fosse lui a dare la
propria
vita per salvarli, e la cosa, anche dopo due anni, lo mandava ancora in
bestia.
Lui e le sue stupide manie di protagonismo. A causa del suo orgoglio
sarebbe
morto, un giorno o l’altro. L’aveva capito la prima
volta che l’aveva
incontrato al Baratie e ne era stato convinto in seguito, ma, dannazione, non era
per niente facile
pensare che avrebbe potuto tirare le cuoia in qualche luogo sperduto e
loro
avrebbero potuto non saperne nulla fino a quando non sarebbe stato
ritrovato il
suo cadavere. «Vedi di non farti ammazzare,
bastardo», sussurrò al vuoto, sollevando
lo sguardo verso la cappa di fogliame sopra di lui.
Un po’ il pensiero che la sua
ambizione
potesse tenerlo in vita anche con una ferita mortale lo faceva
sorridere e lo
rassicurava, però, per quanto Zoro possedesse una forza
fuori dal comune, non
era di certo immortale. Era un essere umano proprio come lui,
maledizione. E le
probabilità che uno dei due potesse morire non erano per
niente pari allo zero,
per quanto gli sarebbe piaciuto credere che, anche una volta morto,
quello
stupido avrebbe continuato a vivere perché dimentico di
tirare le cuoia. A quei
suoi stessi pensieri si sfregò nervosamente una mano fra i
capelli e imprecò,
dandosi immediatamente dello stupido. Stava cominciando a delirare,
perfetto.
Sarebbe stato meglio per lo spadaccino rimanere in vita, se non voleva
che, una
volta trovato - che fosse un cadavere o meno, rettificò
nell’immediato la mente
di Sanji -, lo ammazzasse con le sue stesse mani. E avrebbe anche
dovuto
ritenersi fortunato, dato che lo avrebbe strozzato chiudendogli le dita
intorno
al collo. Un onore che
non aveva
ancora riservato a nessuno, visto che le sue mani erano preziose.
Grattandosi dietro al collo e
continuando ad osservare attentamente i dintorni, Sanji
svoltò a destra,
superando un enorme albero secolare dai rami spogli e secchi, che si
estendevano verso di lui come dita scheletriche pronte ad afferrarlo;
l’erba
aveva cominciato ad arrivargli alle caviglie e gli solleticava i
pantaloni,
lasciandogli una vaga sensazione di umido sulla stoffa,
giacché gli steli erano
talmente bagnati da dare l’impressione che avesse piovuto da
poco; come se non
bastasse, poi, le radici nodose degli alberi si estendevano a perdita
d’occhio
sul terreno e rischiavano quasi di farlo caracollare ad ogni passo,
avvolgendosi in spire come se fossero dei serpenti ammassati gli uni
sugli
altri.
Si fermò di botto quando
sentì un
fischio prolungato, guardandosi intorno come se stesse cercando di
capire da
dove provenisse; si accigliò, grattandosi il capo con fare
distratto, e
scrollò poi le spalle, decidendo di riprendere il cammino.
Sollevò un
sopracciglio, però, nel vedere una roccia che gli sbarrava
la strada,
rendendosi conto solo in un secondo momento che non si trattava per
niente di
quello. «E questa cosa diavolo è?» si
domandò ad alta voce, picchiettando con
il piede un fianco di quell’ammasso gelatinoso. A prima vista
ricordava
vagamente una medusa, ma non aveva mai visto meduse di quelle
dimensioni, né
tanto meno sulla terra ferma e nel bel mezzo di un bosco. Quel posto si
stava
rivelando più strano di quanto avesse creduto al principio,
e lo dimostravano
tutte le assurdità che stava incontrando sul suo cammino da
quando era stato
separato dal resto del gruppo.
Scuotendo il capo, decise di tornare sui
propri passi, ma, prima ancora di poter dare le spalle a quella medusa
o
qualunque altra cosa fosse, si sentì afferrare per il collo
da un braccio
muscoloso, e il respiro gli morì in petto quando la presa
divenne più ferrea;
boccheggiando, tentò di divincolarsi, affondando le unghie
nella carne e
rendendosi conto solo secondariamente che quella che stava toccando era
squamosa e viscida, simile a quella di un pesce. «Tu adesso
vieni con noi senza
fare storie», ordinò con voce possente quel
misterioso interlocutore, ma Sanji
sorrise, o almeno ci provò, tossicchiando.
«Se invece decidessi di...
rendervi le
cose difficili?» rantolò sarcastico, facendo
fatica a respirare. Aveva al
contempo sollevato una gamba, quasi volesse tenersi pronto, e aveva
tentato di
voltarsi in direzione di quel nuovo arrivato, notandone un altro con la
coda
dell’occhio. Con un paio di calci ben assestati avrebbe
potuto stenderli,
probabilmente.
«Allora useremo la
forza», grugnì quel
tipo, non dandogli nemmeno l’agio di capire che cosa stesse
succedendo; se lo
trascinò dietro senza allentare la presa intorno al suo
collo, e il cuoco, pur
avendo imprecato a denti stretti, sollevò maggiormente un
angolo della bocca
nella parvenza di un sorriso, per quanto ricordasse vagamente una
smorfia
sofferente.
«Non... chiedevo di
meglio», sussurrò,
scrollandoselo di dosso con un colpo secco; lesse negli occhi di
quell’Uomo
Pesce un momentaneo smarrimento prima che, sollevando del tutto la
gamba,
esclamasse «Cruisse
shot!»,
assestandogli un calcio all’altezza della coscia;
continuò fino a che
quest’ultimo non perse l’equilibrio e cadde
finalmente in terra privo di sensi,
e Sanji imprecò a denti stretti nel costatare che quel tipo
aveva una
resistenza decisamente fuori dal normale. Non perse tempo a rifletterci
oltre e
si gettò all’attacco del secondo Uomo Pesce che
correva verso di lui a spada
tratta, incurvando l’intero corpo all’indietro per
distendere la gamba prima di
colpirlo sul dorso della mano e disarmarlo; la spada schizzò
in alto e andò a
conficcarsi pochi metri più in là, ma
l’attimo di smarrimento che corse sul
viso del suo avversario sparì fin troppo in fretta,
giacché quest’ultimo, con
un grido disumano, gli di lanciò contro e gli
afferrò entrambe le gambe con le
grosse mani palmate, lasciando Sanji sbalordito.
«Fa’ un buon volo,
biondino!» berciò
qualche istante dopo, stringendo convulsamente la presa intorno alle
caviglie
per sollevarlo da terra, sbattendolo violentemente con la schiena
contro il
tronco di un albero; il cuoco si sentì mancare il fiato nei
polmoni e spalancò
la bocca, lasciando cadere la sigaretta che aveva sorretto
tranquillamente fra
i denti fino a quel momento. Non riuscì nemmeno a prendere
una boccata d’aria
che venne nuovamente proiettato in alto, fino a fracassarsi
letteralmente sul
terriccio umido sotto di sé quando l’Uomo Pesce lo
lasciò andare. Boccheggiò e
si issò sui gomiti, tossendo pesantemente, sputando in terra
un rivolo di
sangue e saliva prima di stornare bruscamente lo sguardo su quel tipo,
che
aveva cominciato a scroccare le nocche come se fosse pronto a ritornare
all’attacco. Beh, stavolta aveva fatto male i conti. Non si
sarebbe più
lasciato cogliere impreparato.
Sanji stirò le labbra in una
linea
sottile e socchiuse gli occhi per focalizzare attentamente il suo
avversario,
poggiando una mano a terra nel momento stesso in cui lo vide gettarsi
contro di
lui come una furia; sollevò una gamba e gli
sferrò un calcio alle costole, dandosi
una spinta con il bacino per roteare l’altra gamba e colpirlo
ai lombi con il
collo del piede, vedendolo indietreggiare nel vano tentativo di non
perdere
l’equilibrio. A quel fare si inclinò subito in
avanti, sferrando un calcio
laterale dritto alla guancia dell’Uomo Pesce, che
indietreggiò di qualche
passo, preso alla sprovvista.
Senza perderlo di vista nemmeno per un
attimo, Sanji gli si gettò contro per calciargli un
ginocchio, facendolo cadere
del tutto riverso di schiena; fu a quel punto che, concentrando tutta
la
propria potenza nella gamba sinistra, spiccò un balzo e la
distese
completamente, colpendolo con forza al collo. Sentì il
distinto scricchiolio
delle ossa e la consistenza del tronco, vedendo il suo avversario
sgranare gli
occhi prima di reclinare del tutto il capo all’indietro,
ansimando. Sanji
poggiò infine stabilmente entrambi i piedi in terra,
infilando una mano nella
tasca dei pantaloni per tirar fuori l’accendino e il suo
pacchetto di
sigarette, portandosene una alle labbra prima di aprire il coperchietto
con uno
scatto secco e accenderla, inalando fino in fondo ai polmoni.
«Tsk».
Sbuffò del fumo dal naso,
sorridendo sarcastico nel gettare un ultimo sguardo in direzione dei
due Uomini
Pesce riversi a terra, i cui respiri diventavano pian piano sempre
più flebili.
«Vi ci vorranno altri mille anni prima di riuscire a
battermi».
Si riportò la sigaretta fra
le labbra e,
ficcandosi le mani nelle tasche, si incamminò fra gli
alberi, lasciando alle
sue spalle i suoi avversari; si inoltrò nella foresta prima
di allungare il
passo, forse per non rischiare che, riprendendosi, quei cosi
decidessero di
mettersi sulle sue tracce e vendicarsi del trattamento ricevuto. Non
che avesse
paura di quegli idioti, nossignore, ma andava di fretta e non aveva
tempo da
perdere, se voleva trovare i suoi compagni senza ulteriori intoppi.
Finì appena di fare quel
pensiero che
sentì un rumore sospetto alle proprie spalle, stornando
bruscamente lo sguardo
per osservare attentamente i dintorni. Non si muoveva una foglia e
tutto
sembrava tranquillo, ma aveva come la netta sensazione che qualcosa lo
stesse
squadrando da capo a piedi, e la cosa lo metteva stranamente in
agitazione,
esattamente come quando, a Kamabakka, doveva guardarsi le spalle per
evitare
che quei travestiti del cazzo lo cogliessero di sorpresa e lo
costringessero ad
indossare ancora una volta uno di quei loro orribili vestitini
rosa.
A distrarlo, fu nuovamente un fruscio
fra
la vegetazione che lo circondava, e si ritrovò ad alzare la
gamba destra nel
momento stesso in cui vide lo scintillio sinistro di una lama,
bloccandola
appena in tempo; spalancò la bocca e sgranò gli
occhi, però, nel rendersi conto
di chi fosse l’avversario che aveva dinanzi, e non gli
sfuggì l’espressione
sconcertata che si dipinse sul volto di quest’ultimo.
«Marimo?»
«Cuoco?»
Si guardarono per un lungo attimo senza
abbassare la guardia né abbandonare la posizione in cui si
trovavano, sbottando
all’unisono: «E tu che diavolo ci fai
qui?» nel continuare a fissarsi con tanto
d’occhi, Sanji incredulo a dir poco.
Se era riuscito a trovare Zoro,
significava una cosa sola: si era perso anche lui come
quell’idiota.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Siamo
entrati nella seconda stagione della storia e le cose, per i nostri
amici, sembrano cominciare a farsi abbastanza complicate
Dopo la scomparsa di Zoro è scomparso anche Sanji, che ha a
sua
volta trovato qualche Uomo Pesce e ha quasi rischiato di venir
catturato da loro, però, guarda caso, il caro cuoco
è
riuscito a ricongiungersi allo spadaccino... anche in canon quei due si
trovano sempre, non c'è nulla di strano, quindi come potevo
farmi saltare una scena del genere, ora che potevo farlo senza tanti
problemi? u_u XD
Come si è potuto vedere, inoltre, le scene RuNami e FRobin
non
potevano mancare. Ormai anche Oda si è votato a loro, non
venitemi a dire che le scene FRobin non ci sono, negli ultimi
capitoli... le ho viste XD
Sclero mio a parte, spero di poter aggiornare con il quarto capitolo il
prima possibile
Alla prossima. ♥
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di
scrittori.
|
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Capitolo 4 *** [ Second season › Crossroads ] Old sea stories, 02 ***
Like Davy Jones_4
SECOND SEASON ›
CROSSROADS
OLD SEA STORIES,
#02
Sanji
sbuffò per
l’ennesima volta, lanciando una rapida occhiata in direzione
di Zoro, che, con
un braccio mollemente abbandonato sulle else delle sue katane, avanzava
al suo
fianco senza dire una parola, quasi fosse immerso nei suoi
più disparati
pensieri.
Non che aver trovato lo spadaccino gli
dispiacesse davvero
come sembrava
voler intendere, però, e c’era da dirlo, forse
avrebbe preferito di gran lunga
trovare Nami-san e Robin-chan - e anche il resto della ciurma, probabilmente - e
assicurarsi che
stessero bene, così da evitare anche di far pace con i
propri pensieri. Era a
dir poco snervante ritrovarsi con l’oggetto per il quale
aveva quegli stupidi
sentimenti che non avrebbe dovuto avere per niente al mondo e, al
contempo,
essere del tutto ignorato da quest’ultimo come se non
esistesse affatto. Non
sapeva dire se fosse una cosa positiva o meno, quella, anche
perché non sapeva
che cosa passasse per la testa di quello stupido marimo. E non aveva
intenzione
di fare la parte dell’idiota dicendogli qualcosa tipo
«Mi piaci» e rimediarci
poi una sonora risata in faccia da quel cretino. Era meglio starsene in
silenzio, fare finta di niente e lasciare che gli eventi scorressero,
in modo
che anche quelle strane sensazioni che provava sparissero una volta per
tutte e
lo lasciassero in pace. In fin dei conti era ancora convinto che
fossero a
causa dello stress, dunque perché preoccuparsi inutilmente?
«Ohi, cuoco». Zoro
si decise finalmente
ad aprire bocca, facendolo quasi trasalire. Fu difatti con sguardo
omicida che
si voltò verso di lui, vedendolo guardare avanti come se
nulla fosse. «Non mi
hai ancora detto dove sono Rufy e gli altri».
«Credi davvero che se lo
sapessi me ne
starei con un marimo sperduto come te?» rimbeccò
con fare sarcastico, per
quanto la situazione non fosse per niente divertente. Avevano imparato
a
proprie spese quanto il Nuovo Mondo fosse irto d’insidie, e
restare vigili era
la cosa migliore che avrebbero potuto fare. Persino Rufy
stesso, a causa dei poteri del
frutto Gas-Gas, aveva quasi rischiato di rimetterci le penne, a Punk
Hazard,
sebbene avessero faticato non poco a crederci quando gli altri
l’avevano
raccontato anche a loro. Anche Zoro, alla notizia, aveva abbandonato la
solita
maschera burbera e scontrosa per lasciar spazio ad
un’espressione preoccupata,
rendendo fin troppo palese quanto tenesse al proprio Capitano. Volevano
tutti
bene a Rufy - anche quando faceva l’idiota e si comportava in
maniera quasi egoistica,
aye -, ma la sua devozione, certe volte, rasentava davvero
l’impossibile. E a
quei suoi stessi pensieri, Sanji scosse il capo, sbuffando sonoramente
come se
bastasse a scacciarli. «La sola cosa che possiamo
fare», cominciò poi, alzando
distrattamente lo sguardo verso le fronde degli alberi,
«è cercare di
raggiungere la città dall’altra parte
dell’isola. Eravamo diretti lì. Ma tu, ovviamente, sei
sparito come al solito e
non hai quindi idea di che cosa sto parlando...»
«Mi stai dando
dell’idiota, cuoco?»
sbottò Zoro, ma Sanji si limitò a scrollare le
spalle.
«Sto semplicemente dicendo che
hai
scelto proprio il momento peggiore per perderti, marimo».
«Non mi sono perso. Ero dietro
Robin e
poi voi»,
e ci tenne ad enfatizzare
sull’ultima parola con fare saccente, «siete
letteralmente scomparsi».
Sanji, lì per lì,
rimase perplesso,
poiché quella era la stessa e identica cosa che era accaduta
a lui. Un attimo
prima era in testa al gruppo, raccomandando ai suoi compagni di fare
attenzione, e un attimo dopo si era ritrovato da solo in mezzo al
bosco, senza
riuscire a capire cosa fosse successo. Per una volta a quello scemo
d’un marimo
doveva fargliene atto. Probabilmente non si era davvero perso come
al solito. «Diavolo, marimo, allora il tuo senso
dell’orientamento sta cominciando a migliorare», lo
schernì, tentando anche di
sdrammatizzare. Il fatto che si fossero persi di vista gli dava da
pensare,
giacché era come se fosse stata l’isola stessa a
volerli vedere divisi. E se
fosse accaduto anche agli altri? E se, nel girare un angolo o nel
distrarsi un
attimo, anche il resto della ciurma si sarebbe ritrovata nei punti
più
disparati dell’isola, ognuno abbandonato a se stesso come
negli ultimi due
anni? Diamine, per il bene delle ragazze sperava proprio di no. Pur
sapendo
che, nel momento del bisogno, sarebbero state capacissime di cavarsela
da sole,
il suo sconfinato senso
della galanteria
le preferiva insieme a quegli idioti, piuttosto che da
sole in mezzo a quel
fottuto bosco.
Nemmeno a dirlo, non appena gli alberi
cominciarono a farsi più radi e la nebbia a diminuire, si
ritrovarono entrambi
dinanzi ad uno strapiombo, non riuscendo a capacitarsi di che cosa
diavolo
fosse successo. Non si trovavano forse in una foresta, pochi attimi
prima? Quel
posto sembrava cambiare non appena svoltavano l’angolo o
distoglievano lo
sguardo, e, se non si fossero trovati nel Nuovo Mondo, si sarebbero
domandati
perché diamine si trovassero sempre in situazioni simili.
«Beh, almeno abbiamo fatto un
passo
avanti», provò a sdrammatizzare Sanji con fare
sarcastico, guardando comunque
con un certo disappunto verso il basso, dove il fiume scorreva
impetuoso fino a
valle. «Ci troviamo su un dirupo anziché nel bel
mezzo di una foresta».
«Sto facendo i salti di gioia,
cuoco»,
ironizzò lo spadaccino, con l’occhio a sua volta
fisso oltre il baratro. Se si
fossero trovati più in basso avrebbero potuto facilmente
valicare il fiume e
passare dall’altra parte, ma l’unica cosa che
potevano fare in quel momento era
quella di seguire il corso d’acqua finché
potevano, con la speranza di uscire
una volta per tutte da quella situazione. Peccato, però, che
nemmeno quella
soluzione fosse facile come appariva in realtà. Merda. Erano
con l’acqua alla
gola e letteralmente, arrivati a quel punto.
«Forse ci converrebbe tornare
indietro».
Sanji diede voce al pensiero comune, e Zoro, pur non volendo, si
ritrovò ad
incrociare le braccia e ad annuire, convenendo con lui.
«Questa è la sola
cosa sensata che hai
detto fino a questo momento, ricciolo», rimbeccò,
dando le spalle allo
strapiombo per cominciare ad incamminarsi nuovamente verso il bosco
sotto lo
sguardo sconcertato di Sanji, che non ci pensò due volte a
corrergli dietro con
un’imprecazione.
«Dove cazzo vai da solo,
tu?» sbottò. «Non
mi va di venirti a cercare di nuovo, quindi vedi di starmi vicino e non
perderti. Mi hai capito o devo parlarti a monosillabi?»
L’occhiataccia che lo
fulminò fu una risposta fin troppo esaustiva, e Sanji decise
dunque di non
aggiungere nient’altro, aumentando il passo per affiancarsi a
Zoro.
Ebbero appena il tempo di superare un
paio d’alberi, però, prima che lo scalpiccio di
piedi sui sassi richiamasse la
loro attenzione, e fu con uno scatto che si voltarono entrambi, vedendo
quelli
che sembravano avere tutta l’aria di essere degli Uomini
Pesce avanzare verso
di loro, acquattati sul terreno come se volessero quasi fondersi con
esso. Un
paio di loro strisciavano sui sassi provocando uno stridio assordante a
causa
della pietra che sfregava contro il carapace color ruggine; le restanti
creature si sorreggevano sulle nocche e sulle punte dei piedi,
più a simili a
gorilla che a veri e propri crostacei, per quanto il loro aspetto
ricordasse
vagamente quello di un granchio a causa delle chele che spuntavano
sulle loro
braccia. Sembrava che a caratterizzarli fosse l’odore
salmastro che si
portavano dietro come una nuvola di profumo, nonché le
chiazze di muffa ed erba
marina che ricoprivano gran parte dei loro avambracci e del busto, ma
oltre ciò
non c’era nient’altro che potesse in qualche modo
farli appartenere alla stessa
razza.
«A quanto pare sono tornati
all’attacco»,
costatò Zoro, ricevendo una vaga occhiata divertita da
Sanji.
«Oh, hai avuto anche tu il
piacere di
conoscere questi gentili signori, marimo?»
rimbeccò con tono sarcastico,
riuscendo a strappare allo spadaccino una mezza risata mentre, con la
solita
grazia di chi ripeteva lo stesso gesto ogni singolo momento di ogni
singola
ora, sfiorava con calma disarmante le else di due delle sue spade.
«Uno o due, nulla di
che», ironizzò,
afferrando saldamente l’elsa delle katane senza sfoderarle,
incassando la testa
nelle spalle prima di flettere i muscoli delle gambe; al contempo Sanji
spiccò
un balzo e, calando sull’avversario che aveva dinanzi, gli
assestò un potente
calcio al collo; riuscì a scaraventarlo dall’altro
lato della radura e lo vide
sparire nella foresta con un sibilo, fino a che non sentì il
tonfo sordo del
suo corpo schiantatosi contro uno dei tronchi della moltitudine di
alberi
presenti. Non poté distrarsi nemmeno un attimo che subito ne
arrivarono altri,
ed imprecò a denti stretti nel guardarsi intorno.
«Ma quanti diavolo
sono?!» sbottò,
avendo appena il tempo di indietreggiare per evitare che un artiglio
gli
squarciasse lo stomaco; poggiò in terra entrambe le mani e,
facendo leva sulle
braccia, sollevò l’intero peso del suo corpo,
roteando su se stesso per
calciare quanti più Uomini Pesce possibile.
Merda. Non erano gli stessi Uomini Pesce
che aveva incontrato prima di trovare quello scemo di Zoro. Sembravano
più selvaggi,
meno propensi a riflettere sulle proprie azioni e più che
intenzionati a
ricorrere a tutta la loro forza per ammazzarli. Che fossero quelli i
mostri di
cui aveva parlato loro il vecchio? In effetti, a ben pensarci,
all’inizio gli
era sembrato strano che gli esseri senzienti contro cui si era
scontrato
c’entrassero qualcosa con quelle creature, ma adesso, nel
tentare di
allontanare da sé a suon di calci quella specie di crostaceo
mal cresciuto, aveva
capito fin troppo bene di essersi dannatamente sbagliato.
Dovette indietreggiare più
volte per
evitare che le grosse chele di cui erano muniti un paio di quei mostri
gli
staccassero la testa dal collo, e volse di poco lo sguardo in direzione
dello
spadaccino per vedere come se la stava cavando, sentendolo imprecare a
denti
stretti ogni qual volta i fendenti che menava sembravano non scalfire
per
niente gli avversari che aveva davanti a sé. E proprio in
quel momento vide uno
di loro arrivare alle spalle del Vice Capitano e sollevare le grosse
mani
palmate, pronto ad afferrarlo per il collo. «Zoro! Dietro di
te!» esclamò, e lo
spadaccino, con un movimento rotatorio del polso, utilizzò
il piatto della
katana per colpire quell’Uomo Pesce dritto allo stomaco,
calciando quelli che
aveva dinanzi prima di allontanarsi il più possibile e
raggiungere il cuoco,
schiena contro schiena. Fecero per gettarsi entrambi contro gli
avversari con
un attacco combinato quando, raccogliendo tutta la forza di cui
disponeva, un
Uomo Pesce dalle fattezze di un grosso squalo tigre colpì la
pavimentazione che
aveva dinanzi, crepando il limitare del dirupo.
Zoro e Sanji ebbero appena il tempo di
lanciarsi una rapida occhiata prima che la terra sotto i loro piedi si
sbriciolasse, facendoli precipitare verso il fiume con un grido
sorpreso. Sanji
socchiuse gli occhi all’impatto con l’acqua gelida,
sentendo il fiato mancargli
nei polmoni; dovette ricorrere a tutta la potenza che aveva nelle gambe
per
riuscire a lottare contro la corrente, nuotando verso l’alto
per prendere un
bel respiro prima che venisse risucchiato nuovamente di sotto, cercando
inutilmente con lo sguardo la sagoma dello spadaccino; lo
trovò ad una certa
distanza da sé e provò a nuotare in fretta verso
di lui, afferrandolo per la
casacca prima di muovere qualche bracciata, tentando in tutti i modi di
raggiungere la riva. L’impresa fu più ardua di
quanto non avesse creduto, sia a
causa del peso del Vice Capitano sia a causa della forte corrente che
rischiava
ad ogni metro di trascinarli via, ma poté rilassarsi solo
quando una delle sue
mani affondò sulla terra, artigliandola con le dita come se
non volesse
lasciarla andare, issando entrambi con una certa fatica.
Tossendo e annaspando,
riversò sul
terreno umido l’acqua e la fanghiglia che aveva ingoiato nel
fiume,
puntellandosi sui palmi delle mani prima di mettersi in ginocchio e
tentare di
riprendere fiato mentre tremava da capo a piedi, sentendo
l’umidità sin dentro
le ossa. Dannazione. C’era mancato poco. Maledettamente
poco. Se non fosse stato un ottimo nuotatore e non avesse
sfruttato la
velocità che aveva acquisito nell’inferno di
Kamabakka, probabilmente la
corrente sarebbe riuscita a trascinare via sia lui sia quello stupido
spadaccino che, in quel momento, tentava a sua volta di riportare il
fiato nei
polmoni, inzuppato da capo a piedi. Forse non avrebbe digerito il fatto
di
essere stato tratto in salvo da lui, ma, cazzo, per una volta avrebbe
anche
potuto starsene zitto e ringraziare il fatto di essere ancora vivo.
«Merda»,
rantolò Zoro, lasciandosi
sfuggire un altro colpo di tosse. Si era alzato in piedi e aveva
cominciato a
strizzare il limitare della casacca verde e a ripulirla alla
bell’e meglio, per
quanto fosse del tutto inutile. Tra fango, melma e terriccio, era
già un
miracolo che si distinguesse ancora il suo colore originale.
«Rimetterci le
penne in questo modo sarebbe stato... vergognoso».
Sanji abbozzò un sorriso
sarcastico,
levandosi la giacca per scrollarla malamente a sua volta, dato che non
avrebbe
potuto di certo fare miracoli, ora come ora. Era combinato esattamente
come
Zoro, se non addirittura peggio. Sentiva la sporcizia persino fra i
capelli,
nelle scarpe e dentro i pantaloni, ma era l’ultimo dei suoi
problemi, quello. «Puoi
dirlo... forte, marimo», ansimò, rivestendosi
prima di rimettersi in piedi. E nel
farlo sgranò gli occhi e imprecò, sentendo una
fitta percorrere tutta la sua
gamba sinistra nel momento in cui il proprio peso gravò
sulla caviglia. Dovette
lasciarsi cadere nuovamente seduto, massaggiandosi il punto leso con un
gemito.
«Cazzo», bofonchiò poi, e Zoro gli
scoccò un’occhiata, sistemandosi le katane
alla cintola e stringendosi la fascia alla vita prima di avvicinarsi.
«Che hai, cuoco?»
domandò, ricevendo
appena un’occhiata da Sanji.
«La caviglia. Credo sia
slogata»,
rispose lui senza mezzi termini, e, prima ancora che potesse aggiungere
altro o
rendersi conto di ciò che stava succedendo, si
sentì afferrare per un braccio
dalla grossa mano dello spadaccino, che sorresse contro di
sé tutto il suo
peso. Pur cercando di evitarlo, Sanji si sentì andare le
guance in fiamme. Ma
che cazzo...? «O-Ohi! Che diavolo
fai?» balbettò, rimediandosi semplicemente una
scollata di spalle da parte del
Vice Capitano.
«Ti do una mano, ora zitto e
muoviti».
«Nessuno te l’ha
chiesto, stupido marimo»,
sbottò, cercando di reggersi solo sulla gamba buona, nel
vano tentativo di non
sforzare troppo la caviglia. Non avrebbe nemmeno voluto aggrapparsi a
Zoro, in
verità, ma per muoversi come si conveniva non aveva altra
scelta se non quella.
E di sicuro non si sarebbe fatto prendere in braccio o anche
semplicemente
caricare in spalle da quell’idiota, visto che non era per
niente una damigella
in pericolo in attesa che il principe venisse a salvarla.
«Piantala di dire cazzate e
cammina,
cuoco». L’espressione sul viso dello spadaccino era
tutt’altro che
rassicurante, per quanto avesse pronunciato quelle parole in tono
estremamente
pacato. «Se non avessi agito di testa tua, adesso non ci
troveremmo in questo
pasticcio».
Sanji lo fissò con tanto
d’occhi,
indignato. «Che cazzo fai, provi a farmi la
predica?!» berciò. «Sei tu il primo
che si lancia nella mischia senza riflettere o pensare alle
conseguenze, quindi
vedi di non farmi la paternale!»
«Il casino stavolta
l’hai combinato tu,
non io», lo schernì Zoro con calma glaciale,
sistemandosi lui stesso il braccio
che il cuoco gli aveva poggiato dietro alle spalle. Quando fece per
cingergli i
fianchi con il proprio braccio per sorreggerlo meglio, però,
Sanji sussultò e
si allontanò da lui con uno scatto, rovinando rumorosamente
con il sedere per
terra sotto il suo sguardo confuso. «Che cosa diavolo ti
prende?» domandò
scettico, ricambiando l’occhiata spaesata che gli venne
lanciata da
quest’ultimo. E proprio lui, essendosi probabilmente reso realmente conto di
quel suo gesto, scosse la testa e tentò di
rimettersi in piedi con un’imprecazione soffocata, voltando
il capo per
ostinarsi a non guardare lo spadaccino nemmeno per sbaglio.
«Niente», rantolo
poi. «Non mi prende
proprio un accidenti di niente, quindi vedi di non rompere, okay? Mi
mantengo
perfettamente in piedi da solo».
Per quanto ai suoi occhi quel
comportamento apparisse sempre più strano ogni secondo di
più, il Vice Capitano
di non fare domande e si limitò a scrollare brevemente le
spalle, lasciando che
fosse il cuoco stesso a sistemarsi come aveva già fatto in
precedenza per
riprendere il cammino. Prima sarebbero riusciti a ritornare dagli
altri, meglio
sarebbe stato. Il problema, però, era che non aveva idea di
quanto li avesse
trascinati via la corrente e di dove si trovassero in quel momento,
dunque la
situazione era doppiamente catastrofica. Se contava anche il suo
pessimo senso
dell’orientamento, poi, diveniva praticamente impensabile
arrivare ad una
soluzione in tempi relativamente brevi. Doveva quindi limitarsi a
seguire il
proprio istinto e sperare che, seguendo il fiume da quella direzione,
arrivassero al mare o nei suoi pressi, altrimenti lui e quello scemo
d’un cuoco
avrebbero dovuto arrangiarsi in qualche modo.
Anche se, e detestava ammetterlo, era
comunque certo che quella si sarebbe rivelata un’impresa
più ardua di quel che
sembrava.
Erano
ormai ore che camminavano, e, per
quanto tutto fosse dannatamente tranquillo, entrambi avevano i nervi a
fior di
pelle, come se dal bel mezzo della vegetazione potesse spuntare tutto
d’un
tratto un altro di quegli strani mostri che avevano incontrato sul loro
cammino. Cominciavano ad essere stanchi e lo stomaco brontolava
apertamente,
però, senza selvaggina e senza nemmeno uno scorcio di fiume
in cui tentare di
pescare la cena, potevano semplicemente stringere i denti e andare
avanti come
potevano. Erano entrambi forti e nel pieno delle loro energie, per il
momento,
e di certo non potevano lasciarsi sconfiggere dai morsi della fame, per
quanto
Sanji sapesse perfettamente che cosa significasse ritrovarsi senza cibo
né
acqua per giorni interi.
Il cuoco sospirò e, ignorando
la rapida
occhiata che gli venne lanciata da Zoro, scostò il capo di
lato per evitare un
ramo e si ritrovò ad imprecare contro se stesso.
Perché accidenti aveva
lasciato nelle mani di Usopp il proprio zaino? A quest’ora,
almeno, avrebbero
potuto avere qualcosa da mangiare e non sarebbe stato costretto a
sentire il
borbottio che di tanto in tanto si levava dallo stomaco di entrambi.
Era stato
un vero e proprio idiota.
Mano a mano che avanzavano, gli alberi
cominciavano a diventare più fitti e gli arbusti che fino a
quel momento erano
a malapena arrivati alle loro caviglie avevano cominciato a crescere e
a
sfiorar loro le ginocchia, dando l’impressione che tutto,
lì, apparisse molto
più grande di quanto non avrebbe dovuto essere. Sanji
iniziò a guardarsi
intorno, controllando con estrema attenzione i dintorni e le chiome
degli
alberi, che creavano una sorta di soffitto naturale sopra le loro
teste, data la
fitta cappa di fogliame in cui i rami sembravano intrecciati. Non erano
neanche
troppo esposti, giacché da dove si trovavano avrebbero
potuto tranquillamente
tener d’occhio la zona ed essere pronti ad eventuali attacchi
da parte di
quella strana razza di Uomini Pesce. «Per adesso conviene
fermarsi qui»,
dichiarò infine, allontanandosi a passi malfermi dallo
spadaccino, poggiando
una mano contro il tronco di un albero per sorreggere senza problemi il
proprio
peso anche sulla caviglia slogata. «Continuare a girovagare a
vuoto non ha
alcun senso».
Pur non sembrando d’accordo,
dato il
grugnito che si lasciò sfuggire, Zoro annuì.
«Domattina ci rimetteremo in
viaggio, chiaro?» parve ordinare, e Sanji gli
gettò una rapida occhiata,
osservandolo con un sopracciglio inarcato.
«Se riesci a capire quando
sarà domani,
marimo, fammi un fischio», lo prese in giro,
poiché con il persistente cielo
plumbeo e la nebbiolina che calava di tanto in tanto nella zona, era
già un
miracolo riuscire a capire che ore fossero.
«Davvero divertente,
cuoco», replicò
senza ironia, sollevando appena lo sguardo al cielo prima di
avvicinarsi ad uno
degli alberi, strappando i rami più bassi per cominciare poi
a ripulirli sotto
lo sguardo di Sanji, che per una volta decise di non fare domande. Si
limitò
semplicemente a lasciarsi cadere seduto sul terreno umido, poggiando la
schiena
contro il tronco e rabbrividendo appena per il gelo che corse in tutto
il suo
corpo; distese la gamba e sospirò di sollievo quando il
dolore alla caviglia si
attenuò un po’, sollevando il capo per tornare ad
osservare lo spadaccino, che
aveva ammassato una catasta di rami e un mucchietto di foglie che aveva
tolto
proprio da essi, spingendo il tutto nella sua direzione.
«Cos’è,
un falò improvvisato?» chiese
Sanji con uno sbuffo alquanto divertito, rimediandoci
un’occhiataccia da parte
di Zoro.
«Se sai fare di meglio, cuoco,
alza il
culo e cavatela da solo», sbottò, allungando una
mano verso di lui. «Dammi
l’accendino, piuttosto».
«Vedi di non consumare tutto
il gas solo
per un misero fuocherello, marimo», raccomandò,
gettandogli l’acciarino; Zoro
lo afferrò a volo con la sinistra, sentendo la fredda
consistenza del metallo
sul palmo, e aprì poi il coperchietto con uno scatto secco,
sfregando il
pollice sulla rotella fino a che non vide scaturire una fiamma. Diede
poi fuoco
alle foglie che aveva gettato in precedenza sulla catasta di legno e
sperò che,
nonostante si trattasse di rami freschi, attecchisse in fretta,
così da poter
avere una fonte di calore e tenere al contempo lontane possibili bestie
feroci.
E se quegli Uomini Pesce avessero visto la loro posizione, beh, tanto
meglio:
ne avrebbero fatti fuori altri e avrebbero dimezzato il problema a Rufy
e
compagni.
Rilanciando l’accendino al
cuoco, Zoro
si accomodò a gambe conserte dinanzi al falò, e,
dopo aver riposto
ordinatamente al suo fianco le sue fedeli katane, cominciò
ad alimentare le
fiamme con un bastone. Se c’era una cosa che aveva imparato a
fare bene, prima
di entrare a far parte di quella sgangherata ciurma, era proprio quella
di
riuscire a cavarsela anche nelle situazioni più assurde e
disparate, dunque
quella gli sembrava semplicemente una tranquilla passeggiata in un
bosco. Se
non contava le strane creature che cercavano di accopparli, ovviamente.
«Uno di noi dovrebbe riposarsi
un po’ e
l’altro controllare la zona», disse di punto in
bianco Sanji, riscuotendo Zoro
dai suoi pensieri. Quest’ultimo alzò difatti lo
sguardo su di lui e sbatté la
palpebra, facendo poi spallucce.
«Resto di guardia io, tu
vattene pure a
dormire».
«Cosa? Non ci penso nemmeno,
idiota. Va’
a dormire tu, piuttosto».
Zoro aggrottò la fronte, a
quel dire. «Non
rompere e fa’ come ti ho detto, stupido cuoco che non sei
altro».
«Se la metti così,
spadaccino, vorrà
dire che nessuno dei due chiuderà occhio».
«Mi stai sfidando?»
«Esattamente».
Si guardarono in viso per un lungo
attimo, le palpebre assottigliate e le labbra ridotte ad una linea
sottile.
Sbuffarono e sbottarono, «Bene!» nello stesso
istante, incrociando le braccia
al petto prima di guardare da tutt’altra parte come due
mocciosi che avevano
appena litigato. Non che per loro fosse una novità, a ben
pensarci, ma in
quella situazione, almeno, faceva sì che tutto apparisse
assolutamente normale,
come se non si trovassero divisi dal gruppo e ignari di come stessero.
Se
avessero cominciato a preoccuparsi per loro avrebbero soltanto
complicato le
cose, e poi potevano stare tranquilli: in quei due anni erano diventati
tutti
più forti, persino Usopp e Nami, dunque non avevano nulla da
temere. E poi con
loro c’era Rufy. Per quanto certe volte si comportasse come
un idiota irresponsabile
ed egoista, per lui la sua ciurma era tutto, ed era sempre stato pronto
a
difenderla con le unghie e con i denti senza esitazioni.
Nessuno dei due compagni
riuscì a capire
con esattezza quanto tempo fosse trascorso da quando si erano concessi
quella
silenziosa tregua, ma la quiete che era calata sulla foresta era
così
assordante che Sanji stava cominciando a dare di matto, in particolar
modo se
pensava che a pochi centimetri da lui c’era proprio la causa
del comportamento
bizzarro che aveva tenuto negli ultimi tempi. Maledizione. Non avrebbe
potuto
perdersi e ritrovare poi Nami o Robin? Di sicuro passare tutto quel
tempo con
una delle sue muse - o con entrambe, non gli sarebbe affatto
dispiaciuto -
sarebbe stata un’ottima terapia e l’avrebbe aiutato
non poco a riprendersi,
forse persino più di quanto lui stesso immaginava.
Già aveva ben chiara la
scena: la sua bella Nami che, tremante dal freddo, gli chiedeva di
scaldarla, e
lui, cavaliere e suo schiavo d’amore, le si avvicinava
amorevolmente e la
stringeva a sé, scivolando accidentalmente con due dita
sulla sua spalla e poi
più giù, verso il bel solco dei seni sodi, fra i
quali avrebbe affondato il
viso e...
«Ohi, cuoco, ti sanguina il
naso». La
voce di Zoro lo distolse dalle sue depravazioni e lo
richiamò a fatica alla
realtà, tanto che ci mise un po’ a realizzare
realmente cosa avesse detto lo
spadaccino e a sfregarsi in fretta una manica sotto la narice,
ripulendosi alla
bell’e meglio. Accidenti, avrebbe dovuto approfittarne molto
di più quando
aveva avuto a sua completa disposizione il bellissimo corpo di Nami.
«Stavi
pensando a qualche porcheria come tuo solito, eh?» lo
schernì ancora il Vice
Capitano, e stavolta Sanji non si risparmiò dal rifilargli
un’occhiata di
fuoco.
«Sono un uomo,
dannazione», sbottò, afferrando il pacchetto di
sigarette dal
taschino interno della camicia per portarsene una alle labbra e
mantenerla con
i denti mentre afferrava l’accendino; bruciò
l’estremità e inspirò a fondo,
posando tutto al proprio posto prima di continuare,
«È normale che mi ritrovi a
fantasticare, anziché riflettere sul fatto che sono da solo
in culo al mondo
con un armadio a quattro ante come te».
«Non lamentarti, nemmeno io
faccio i
salti di gioia nello stare con un damerino del tuo calibro»,
replicò schietto
Zoro, lasciando a Sanji una sgradevole sensazione di viscido dietro la
schiena
con solo quelle poche parole. Diamine. Che freddezza, quello spadaccino
di
merda. Eppure, prima di quella separazione, non ricordava che le cose
fossero
così... gelide, fra loro. Solo con Rufy non sembrava essere
cambiato per
niente, e la cosa, stranamente, fece ribollire a Sanji il sangue nelle
vene.
Era geloso, perfetto. Ci mancava soltanto questa, cazzo.
«Mettiamoci una pietra
sopra», si
affrettò a dire, forse anche nel tentativo di scacciare la
bizzarra sensazione
che lo aveva attraversato così all’improvviso.
«Piuttosto, hai mai sentito
parlare dello scrigno di Davy Jones?» chiese, e Zoro si
limitò ad osservarlo
con una sorta di strana curiosità.
«Che
cos’è, un tesoro?»
Sanji scosse brevemente la testa.
«È il
luogo in cui riposano i marinai annegati. In passato era un eufemismo
per
indicare il fondo dell’oceano».
«Perché mi dici
tutto questo?»
«Perché Davy Jones,
secondo la leggenda,
era un pirata dannato che era stato condannato da Calipso a vagare
nell’oceano
e a raccogliere le anime dei marinai che perdevano la loro vita in
mare,
potendo far ritorno sulla terra ferma un solo giorno ogni dieci
anni», si
guardò intorno con fare distratto, sbuffando una nuvola di
fumo. «La sua
comparsa veniva anticipata da nebbia fitta e dall’odore della
salsedine, prima
che il malcapitato riuscisse a scorgere le vele malridotte del suo
veliero e
venisse trascinato nella sua tomba in fondo al mare».
Zoro non poté fare a meno di
sollevare
un sopracciglio con fare scettico, a quel dire. E adesso cosa diavolo
stava
blaterando, quell’idiota di un cuoco? «E con
ciò?» sbuffò. «Mi stai forse
dicendo che potremmo trovarci davanti a questo Davy Jones,
ricciolo?» soggiunse
ironico, ma nell’osservare il compagno di sottecchi e nel
costatare che la sua
espressione era divenuta ancor più seria di quanto non fosse
stata quando aveva
cominciato quel discorso, lo spadaccino si ritrovò ad
accigliarsi, forse
persino confuso. «Andiamo, cuoco, non dirmi che credi a
cazzate del genere»,
rimbeccò, e Sanji gli scoccò
un’occhiataccia.
«Forse per te potrà
essere semplicemente
qualche diceria marinara, ma mi è stato insegnato a tenere
sempre gli occhi
aperti, quando si tratta del mare. È un amante infido e
pericoloso», replicò,
ricordando fin troppo bene ciò che gli era sempre stato
detto sull’oceano.
Bisognava stare in guardia in continuazione e non prenderlo mai alla
leggera, e
aveva ormai fatto sua quella filosofia di vita. Che
quell’idiota d’un marimo
pensasse ciò che voleva; lui non aveva intenzione di cadere
vittima degli
avvenimenti solo perché non era stato attento come gli era
sempre stato
raccomandato. «Ti conviene non sottovalutarlo, marimo. Poi
fa’ come vuoi, non
sono la tua balia».
«Non stiamo parlando del mare,
cuoco»,
gli tenne presente lo spadaccino con uno sbuffo, senza smettere di far
vagare
lo sguardo nei dintorni. Probabilmente stava calando la notte,
giacché le ombre
si erano infittite, ma quella nebbia non voleva saperne di diradarsi.
«Tu credi
davvero che in questo fottuto posto possa esserci quel tipo, Davy
Jones? L’hai
detto tu stesso che si tratta soltanto di una leggenda».
«Se tanto mi da tanto, marimo,
non
sarebbe poi così strano», replicò
semplicemente. «Ci stavo riflettendo già da
un po’... si narra che anche la ciurma sia stata maledetta,
quindi mi chiedevo
se quei tipi che abbiamo incontrato non abbiano qualcosa a che fare con
lui. In
fin dei conti questo è il Nuovo Mondo», soggiunse,
quasi a volerglielo
ricordare.
«Le leggende sono leggende,
cuoco»,
tagliò corto il Vice Capitano, sdraiandosi sul terreno umido
con le braccia
incrociate dietro alla testa. «Quelli non sono i primi Uomini
Pesce che
incontriamo, quindi piantala di fantasticare su idiozie
simili».
Sanji lo osservò per un lungo
istante
con le sopracciglia aggrottate, sbuffando qualche attimo dopo prima di
poggiarsi con il capo contro il tronco dell’albero dietro di
sé. «A volte
ammiro questa tua miscredenza, marimo, davvero»,
disse in un soffio, e Zoro faticò a capire se il cuoco
l’avesse detto con
ironia o se lo pensasse sul serio. Non vi diede peso più di
tanto, però,
osservando soltanto lo scorcio di cielo grigio che si intravedeva fra
le
fronde.
Leggenda o meno, ad attenderli fra le
ombre c’era di sicuro qualcosa. Se lo sentiva sin dentro le
viscere.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Ci
ho messo praticamente una vita per farlo, però alla fine
sono
riuscita ad aggiornare anche questa storia con il quarto capitolo. La
storia giungerà presto a conclusione, quindi tenetevi
forte :3
Comunque sia, in questo capitolo vediamo Zoro e Sanji alle prese con
Uomini Pesce ben più diversi di quelli contro cui si sono
scontrati finora e, come se non bastasse, il nostro caro cuoco si
è slogato una caviglia... un gran bel guaio, per uno che
combatte solo con i calci. Okay, ammetto che è stata una
bastardata... però ammetto
anche che volevo inserire un pizzico di scena ZoSan velatissima e
praticamente inesistente, e quella mi sembrava una buona idea x)
Per il resto, la leggenda di Davy Jones è fin troppo
conosciuta
e persino Sanji stesso ha accennato a qualcosa, dunque non credo sia
necessario inserire qualche nota. In caso foste interessati,
però, ponete le vostre domande e io vi risponderò
:3
Al prossimo capitolo. ♥
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Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di
scrittori.
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Capitolo 5 *** [ Third season › In pieces ] Davy Jones' Locker, 01 ***
Like Davy Jones_5
THIRD SEASON › IN
PIECES
DAVY JONES’
LOCKER, #01
Non
seppe
esattamente quanto tempo passò né tanto meno se
fosse ancora notte o fosse già
il giorno dopo, però, nell’aprire gli occhi, Sanji
si rese immediatamente conto
che i brividi che avevano attraversato il suo corpo durante quelle ore
di sonno
- e, se proprio doveva essere sincero con se stesso, nemmeno ricordava
di
essersi addormentato, ad un certo punto - erano stati sostituiti da un
piacevole calore che lo avvolgeva come un bozzolo. E solo quando
abbassò lo
sguardo su di sé comprese quale fosse la causa di quel
tepore. Quell’ammasso di
stoffa verde che lo copriva era la casacca di Zoro, e non riusciva
proprio a
capire che cosa avesse spinto quello scemo di uno spadaccino a
sfilarsela per
usarla a mo’ di coperta per lui. Maledizione a
quell’idiota. L’aveva forse
scambiato per una donna bisognosa di aiuto o cosa? Per il suo bene, e
per il
bene della propria sanità mentale, sperava vivamente di no.
Altrimenti
l’avrebbe pestato a sangue, poco ma sicuro.
Issandosi a sedere con un po’
di fatica,
dati i muscoli di cosce e braccia anchilosati per la scomoda posizione
in cui
si era ritrovato sul terreno, Sanji scostò da sé
la casacca e la ripiegò sulle
ginocchia, gettando qualche occhiata intorno. Il fuoco, per quanto
debole,
scoppiettava ancora allegramente e attecchiva al legname e alle foglie
accatastate, dunque non poteva essere passato troppo tempo da quando
aveva
chiuso gli occhi; la luce non era cambiata di una virgola e i profili
delle
cose erano ancora indistinti e avvolti lievemente nella nebbia, quindi
era
anche da escludere il fatto che fosse giorno, a meno che la giornata
non fosse
uggiosa esattamente come la precedente; non vedeva da nessuna parte
Zoro, però,
e fu al pensiero che potesse essersi allontanato e perso di nuovo che
scattò
immediatamente in piedi, dandosi dell’idiota quando per poco
non rischiò di
piombare a terra come un sacco di patate a causa della caviglia
slogata. Merda.
Se n’era quasi dimenticato.
«Zoro?» decise
dunque di chiamarlo,
sorreggendosi con una mano contro l’albero senza smettere di
cercare lo
spadaccino con lo sguardo. Odiava ammetterlo, ma preferiva di gran
lunga la sua
compagnia, anziché starsene da solo in mezzo al nulla, con
il rischio di finire
persino nei guai per il non poter sfruttare al meglio le proprie
abilità. «Ohi,
marimo!» riprovò, deglutendo e umettandosi le
labbra. Stava cominciando a
provare la stessa maledettissima
sensazione che aveva assaporato a Sabaody, quando a causa di Kuma se
l’era
visto sparire dinanzi agli occhi. E, dannazione, non aveva lavorato
sodo per
due anni per rivivere le stesse situazioni angoscianti ancora una
volta.
Si diede una calmata solo quando lo vide
comparire dal folto della boscaglia, con in viso
un’espressione
scocciata
mentre tentava di tirar su la zip dei pantaloni neri - perfettamente
visibili
insieme all’haramaki a causa della mancanza della
casacca -
fra un’imprecazione e l’altra. «Che
diavolo
hai da strillare tanto, cuoco?» borbottò a mezza
voce
nello scoccargli una
rapida occhiata, riuscendo finalmente nella sua impresa. «Non
si
può nemmeno
pisciare, adesso?»
Sanji trasse un lungo sospiro di
sollievo, poggiandosi con la schiena contro la corteccia. Quel dannato
idiota
non aveva la benché minima idea di quanto si fosse
preoccupato, e probabilmente
era un bene, dato che glielo avrebbe di sicuro rinfacciato come lui
stesso
aveva fatto a Water Seven su quello stupido treno marino. Scosse dunque
il capo
e cercò di riacquistare un’aria composta, e,
recuperata la casacca che aveva
abbandonato sul terreno.
«Sta’ zitto, marimo,
saresti capace di
perderti anche dietro l’angolo. Non puoi andartene in giro da
solo», bofonchiò
scontroso, lanciandogli contro il suo vestiario e vedendo lo spadaccino
afferrarlo al volo per infilarselo. «Perché
diavolo mi hai dato la tua casacca,
piuttosto? Non ne avevo per niente bisogno».
«Non fare domande idiote e
datti una
mossa, cuoco. Dobbiamo trovare Rufy e gli altri»,
tagliò corto, non ritenendo
necessario rispondere ad una domanda come quella. E Sanji, dal canto
suo,
nemmeno insistette, limitandosi semplicemente a seguirlo, seppur
più lentamente
del solito a causa del dolore alla caviglia, prima di gettare
un’ultima
occhiata nei dintorni.
«Ohi, quanto ho
dormito?» gli venne però
spontaneo chiedere, giusto per rendersi conto di quanto tempo fosse
passato con
esattezza.
«Non molto.
Mezz’ora, un’ora al massimo»,
gli rispose semplicemente, lasciando cadere lì la
conversazione per l’ennesima
volta. Non sembrava aver molta voglia di parlare, e il cuoco, molto
probabilmente, non aveva a sua volta intenzione di intrattenere con lui
un
discorso che sarebbe potuto sembrare anche solo lontanamente sensato.
Si
concentrarono dunque sul proprio cammino, in silenzio e più
che speranzosi di
non star girando a vuoto.
Nei dintorni il silenzio era
così
assordante da rimbombare assurdamente nelle orecchie, dando quasi
l’impressione
che si trovassero entrambi sott’acqua; il terreno umido, mano
a mano che
avanzavano, diveniva costellato da steli d’erba e pietrisco,
facendo sì che
quella determinata zona sembrasse divisa dalla restante vegetazione,
che
appariva invece fitta e difficilmente valicabile, come se la foresta
stessa
volesse impedire agli incauti passanti di avanzare in quella direzione.
I due
compagni rimasero persino sorpresi quando, inoltrandosi nel folto del
bosco e
superando una macchia di larici e felci, si ritrovarono in una piccola
radura,
al centro della quale sorgeva una costruzione andata in rovina che un
tempo
sarebbe stata sicuramente un ottimo rifugio per proteggersi dagli
animali della
zona, se mai ce n’era stato qualcuno su quell’isola
prima dell’arrivo di quegli
strani Uomini Pesce. Ai lati di essa, accatastati l’uno sopra
l’altro come se
fossero stati riposti lì da qualcuno, si trovava la
stragrande maggioranza del
muro di mattoni che era crollato dal lato sinistro della dimora, la cui
porta
di legno sembrava essere stata sfondata da una palla di cannone e
lasciava
intravedere l’arredamento interno; c’era persino
una stalla, ai limitari della
radura, le cui travi annerite e i cumuli di paglia ormai secchi
parevano essere
stati divorati dal fuoco. Dall’interno della catapecchia
proveniva stranamente
del fumo, come se qualcuno vi abitasse ancora e non si curasse delle
insolite
presenza che vagavano per la foresta.
«Chiunque sia quello
là dentro, o è
maledettamente forte o è tremendamente stupido»,
costatò lo spadaccino,
portando comunque una mano a sfiorare l’elsa della sua
Ichimonji, mettendo in
allerta anche Sanji. Quest’ultimo assunse difatti una
posizione di difesa,
incassando la testa nelle spalle e ficcando le mani nelle tasche,
stringendo la
sigaretta fra i denti.
«Il solo modo per saperlo
è andargli in
contro, marimo», propose, rimediandoci un cenno
d’assenso prima che, entrambi
guardinghi, cominciassero ad incamminarsi verso la costruzione,
allertandosi
quando un rumore metallico parve provenire proprio
dall’interno di essa.
Qualche istante dopo la porta si spalancò, e una figura fin
troppo familiare ai
due pirati comparve sulla soglia, lasciandoli interdetti nel vederla
gettar
loro un’occhiata prima di dileguarsi verso il bosco.
«Rufy!»
esclamò Zoro, correndogli dietro
con un’imprecazione; Sanji lo seguì a ruota,
decidendo di superarlo nel
tentativo di raggiungere Rufy e bloccarlo, domandandosi al contempo
cosa diavolo
stesse succedendo. Perché era fuggito? Dov’erano
gli altri? E, soprattutto, da
quando Rufy era così dannatamente veloce?
«Maledizione, Rufy,
aspetta!» sbottò, saltando
una radice nodosa per evitare di inciamparvi dentro, imprecando a denti
stretti
quando una fitta dolorosa gli percorse l’intera gamba fino
alla caviglia,
facendolo rendere conto anche di un’altra cosa: non era Rufy
ad essere
diventato veloce, era lui che, a causa del momentaneo handicap, era
diventato
più lento. Fece comunque ricorso a tutta la propria forza di
volontà, cercando
di aumentare il passo e ritrovandosi nei pressi di un fiume impetuoso.
«Dove
diavolo vai, razza di idiota? E dove accidenti sono Nami-san e
Robin-chan?!»
Il Capitano gettò un rapido
sguardo
verso di lui senza arrestare la sua folle corsa, sparendo fra le cime
degli
alberi con un salto degno di una scimmia; Sanji dovette fermarsi e
accasciarsi
contro un tronco per il dolore, guardando in alto senza riuscire a
scorgere la
figura del ragazzo. Che diavolo gli era preso, così
all’improvviso? E dov’era
il resto della ciurma, se lui si divertiva a fare l’idiota
nella foresta?
«Dove cazzo pensavi di correre
con
quella fottuta caviglia?!» sbottò Zoro, appena
sopraggiunto a sua volta sulla
riva del fiume; Sanji gli gettò un’occhiataccia,
mordicchiando poi il filtro
della paglia con un sonoro sbuffo.
«Non rompere, marimo, tu sei
troppo
lento».
«Almeno l’hai
preso?»
Sanji ci mise un po’ a
rispondere,
mugugnando qualcosa fra sé e sé prima di
borbottare solo «È sparito» in tono
contrariato, asciugandosi il sudore dalla fronte. Non fece in tempo ad
aggiungere altro, però, che un ruggito disumano richiamasse
la sua attenzione,
costringendolo a stornare bruscamente lo sguardo nella direzione da cui
esso
proveniva. E non poté fare a meno di spalancare la bocca con
fare sorpreso,
tanto da rischiare di far cadere la sigaretta, quando vide in
lontananza un
serpente dalle squame azzurrognole che strisciava rapido nella loro
direzione,
innalzando le spire e il capo mastodontico verso il cielo;
spalancò le fauci e
ruggì ancora, mostrando le zanne enormi dalle quali Sanji
riuscì perfettamente
a notare il veleno che colava da esse.
Oh, perfetto. Non solo avevano dovuto
vedersela con gli Uomini Pesce o qualunque cosa fossero quei cosi
contro cui
avevano combattuto da quando avevano messo piede su
quell’isola, ci mancava
soltanto un fottuto mostro marino. Un immenso mostro marino che
sembrava essere
venuto proprio per reclamare la loro vita, molto simile a quello di cui
aveva
sentito parlare da Paty quand’era solo un marmocchio e che,
secondo quanto
aveva raccontato, designava le sue vittime fra i marinai che si
perdevano e li
perseguitava in qualunque oceano fino a prendersi la loro anima. La
situazione
stava cominciando ad andare sicuramente di bene in meglio.
«Ohi, marimo»,
cominciò dunque pacatamente, alzando a poco a poco lo
sguardo su quella
creatura che, sradicando gli alberi che si trovavano sfortunatamente
sul suo
passaggio, si era parata dinanzi ai loro occhi mentre, tranquillo come
non mai,
afferrava con due dita la sigaretta che si era precedentemente portato
alla
bocca per accendersela. «Non sono il solo a vedere questa
cosa enorme, vero?»
«A meno che non siamo
impazziti in due,
cuoco, la vedo anch’io», replicò
semplicemente Zoro, abbozzando poi un mezzo
sorriso sarcastico. «Se ci fosse qui Rufy, sono certo che
proverebbe ad
addomesticarlo come quel maledetto Kraken», soggiunse,
sfilando le prime due
spade dal fodero e provocando una sonora risata a Sanji, che si
ficcò le mani
in tasca qualche istante dopo.
«È grosso
esattamente come quello
stupido polpo, in effetti», disse, sollevando lo sguardo su
quel mostro. «Basteranno
due colpi».
«Due colpi»,
ripeté lo spadaccino,
portandosi l’elsa della terza katana alla bocca; la mantenne
saldamente con i
denti e rinserrò la presa sulle altre due, facendo appena un
rapido cenno con
il capo in direzione di Sanji prima di gettarsi all’attacco
senza pensarci due
volte. Non avrebbero dovuto preoccuparsi di niente né tanto
meno avrebbero
dovuto fare attenzione a non tagliarlo a pezzi, giacché per
loro, in quel
momento, era solamente un grosso ostacolo e non avrebbe avuto la
benché minima
utilità se non quella di bloccar loro il cammino.
Si spostò lateralmente
quando,
spalancando le grosse fauci, quel gigantesco serpente si
lanciò verso di lui,
con la ferma intenzione di maciullarlo con le grosse zanne. Zoro lo
colpì ad un
fianco con il dorso di una spada, ma imprecò a denti stretti
nel rendersi conto
che quel coso gigantesco era più coriaceo di quanto
sembrasse. Ricordava
vagamente quello stupido drago che aveva fatto a fette a Punk Hazard, e
probabilmente, ironizzò sul momento, era persino buono come
quello cotto alla
griglia.
Indietreggiò di qualche passo
ed evitò
per un pelo la coda del serpente, che aveva frustato l’aria
nel tentativo di
colpirlo; il suo ruggito lo assordò per un breve attimo e
quasi si sentì
stordito, scuotendo il capo per riprendersi prima di buttarsi
all’attacco.
Rigirò le katane fra le mani e partì alla carica,
riuscendo a scalfirlo esattamente
all’attaccatura del collo, provocandogli un taglio netto ma
non mortale. Fece
per gettarsi ancora una volta contro di lui quando, sfruttando il suo
lato
cieco, la coda gigantesca del serpente lo colpì in pieno e
gli mozzò il fiato
nei polmoni, schiacciandolo al suolo con una forza disumana.
Boccheggiò, premendo le mani
contro la
sua carne nel tentativo di levarselo di dosso, riuscendoci solo quando
un calcio
poderoso lo ribaltò sul terreno fangoso, facendo schiantare
il corpo massiccio
contro una fila d’alberi poco distante. Con la coda
dell’occhio, Zoro vide
Sanji calciare velocemente l’aria per saltare il
più in alto possibile,
arrivando esattamente al centro del petto di quel mostro gigantesco;
caricando
tutta la potenza che possedeva nella gamba destra, poi,
roteò su se stesso e
utilizzò il Diable
Jambe, dandole
fuoco per aumentare la propria forza prima di gettarsi contro
l’avversario. Con
il Grill shot,
la stessa tecnica
utilizzata tempo addietro contro il Kraken, lo ustionò in
pieno costato, e il
gemito doloroso a cui quel mostro diede vita fu capace persino di far
tremare
la terra sotto ai piedi di Zoro.
«Tutto tuo, marimo!»
esclamò Sanji, imprecando
quando toccò il terreno e il contraccolpo si
riversò interamente nella gamba;
dovette accasciarsi su se stesso e afferrarsi la caviglia con una mano,
sentendosi
un completo idiota. Con quella dannata slogatura era più di
impiccio che di
aiuto, e, per quanto tentasse di far finta di niente, avrebbe forse
dovuto
smetterla di sforzarla più del dovuto, dato che faticava a
reggersi in piedi. E
intuendo probabilmente i pensieri del cuoco, lo spadaccino
sollevò lo sguardo
verso di lui, quasi volesse accertarsi che stesse bene, e
incassò poi la testa
nelle spalle, afferrando saldamente le else delle sue spade prima di
farle
roteare velocemente fra le mani, partendo all’attacco.
«Sanzen
sekai!» gridò con voce
possente, quasi volesse darsi potenza anche in quel modo, curvando le
katane e
gonfiando i muscoli delle braccia, assestando un colpo dritto allo
stomaco di
quel bestione. Con un grido sofferente, il serpente spalancò
la bocca e
contrattaccò, tendendo il lungo collo verso lo spadaccino,
che riuscì a spostarsi
per un soffio prima di affondare con ferocia le lame nel suo corpo;
grosse
gocce di sangue nero e viscido schizzarono dalla ferita e sporcarono i
tronchi
degli alberi non appena Zoro ritrasse le spade, venendo investito in
pieno da
una spruzzata di liquido vermiglio.
Il serpente stramazzò al
suolo con un
lugubre lamento, agonizzante, accasciando il grosso capo prima di far
guizzare
per un’ultima volta la lingua biforcuta, che ricadde con un
tonfo sordo sul
terreno sottostante quando dalla gola profonda del mostro
scappò un ansito
strozzato; la pozza di sangue che si allargò sotto il suo
corpo macchiò
sinistramente l’erba di uno smorto colorito marrone,
rendendola umida e
appiccicosa.
Zoro, rinfoderando le proprie spade,
storse di poco il naso prima di sbuffare. «Merda.
Chissà che diavolo era quel
coso», sbottò, e non finì nemmeno di
dirlo che una risata divertita si levò dal
bel mezzo del bosco, prima che da dietro al tronco di un albero
comparisse un
uomo vestito con un semplice pastrano nero e un cappello con la tesa
larga, che
fece vagare lo sguardo su entrambi i pirati con fare contemplativo.
«Un Leviatano, ragazzi
miei».
Sanji, che lì per lì era rimasto in
silenzio sul terreno con una mano premuta sulla caviglia, quasi potesse
in
qualche modo placare il dolore che lo aveva assalito, non
poté fare a meno di
accigliarsi non appena i suoi occhi si soffermarono sul nuovo arrivato,
non
mettendoci poi molto a ricordare dove l’avesse già
visto. «Ohi! Tu non sei il
vecchio che abbiamo incontrato al villaggio?»
«Di che vecchio stai parlando,
ricciolo?»
domandò, ma Sanji non si prese la briga di rispondergli,
agitando semplicemente
una mano come a voler rimandare a dopo la conversazione. Il sorriso che
era
comparso sulle labbra di quel vecchio, difatti, non prometteva nulla di
buono.
«Vedo che la mia piccola esca
ha
funzionato», si limitò soltanto a dire, riuscendo
ad accigliare i due compagni,
che si gettarono una rapida occhiata prima di sbottare in coro:
«Cosa?»,
facendolo ridere maggiormente. «“Gli abitanti
si sono trasferiti in un’altra città”,
“I
mostri pullulano la zona”, “Io vi ho
avvertiti”... avete davvero creduto alle mie
parole?» parve schernirli. «Siete
caduti nella mia rete proprio come dei bei pesciolini... non
è mai stato così
facile», costatò allegramente, togliendosi il
cappello con fare galante. «Tipi
stupidi come voi se ne incontrano raramente».
«Ohi, vecchio, non ho idea di
cosa stai
parlando, ma hai proprio bisogno di qualcuno che ti prenda a calci in
culo»,
sentenziò Sanji, zoppicando verso di lui con
l’aria più spavalda che riuscì a
trovare nel suo repertorio, con la ferma intenzione di far parlare
chiaro quel
tipo e ritrovare i lor compagni; nel momento stesso in cui
poggiò un piede sul
terreno per fare un passo avanti, però, un peso parve
opprimergli il petto e
togliergli il respiro, facendolo boccheggiare inutilmente alla
disperata
ricerca d’aria. Riuscì a malapena a gettare un
rapido sguardo in direzione di
Zoro prima che, come sospinto da una forza invisibile, venisse
catapultato al
di là del fiume, fra le acque impetuose; l’impatto
contro le rocce sottostanti
fu così violento che il cuoco perse i sensi, finendo per
essere trasportato
lontano dalla corrente sotto lo sguardo incredulo dello spadaccino.
«Cuoco!»
«Io mi preoccuperei di te
stesso», sentì
dire alle sue spalle, ed ebbe appena il tempo di voltarsi prima di
sentire una
mano dell’uomo poggiarsi a palmo aperto sul suo petto,
spingendolo contro il
tronco di un albero; lo spostamento d’aria fu così
spaventoso che riuscì a
spedirlo a più di quattro metri di distanza in una pioggia
di corteccia e rami
spezzati, e Zoro, sgranando l’occhio, spalancò la
bocca senza emetter suono
prima di ritrovarsi riverso sul terreno. Con un colpo di tosse si
tirò su,
sollevando di poco il capo per cercare con lo sguardo la figura
dell’uomo,
vedendolo immobile e sorridente come non mai. Dannazione, chi diavolo
era quel
tipo? Non aveva mosso un dito ed era riuscito a mettere fuori gioco il
cuoco,
già ferito di suo senza l’intervento di quel
vecchio, e aveva persino
scaraventato lui stesso contro una fottuta fila di alberi toccandolo
appena di
sfuggita, come se avesse posseduto la forza necessaria per farlo.
Eppure
appariva semplicemente come un vecchio qualunque, e non sembrava avere
nessuna
particolarità. Merda. Dopo essersi allenato estenuamente per
due anni non aveva
la benché minima intenzione di farsi mettere i piedi in
testa da un tipo del
genere.
A quel pensiero serrò le
labbra e,
estraendo con un movimento secco l’Ichimonji dal fodero, si
gettò immediatamente
contro l’avversario, roteando il polso per agitare la lama
senza che quel
vecchio, pur vedendolo correre verso di sé, si spostasse di
un solo millimetro;
il colpo fendette l’aria e gli provocò uno
squarcio che si estendeva dalla
spalla destra fino al fianco sinistro, ma tutto ciò che la
spada parve tagliare
fu semplicemente della stoffa, poiché l’uomo,
senza abbandonare il sorriso che
si era dipinto sulle sue labbra, sfiorò appena con due dita
il punto colpito,
sollevando il vestiario per rivelare la pelle perfettamente integra.
Zoro indietreggiò e,
rinserrando la
presa sulla propria katana, aprì la bocca con fare
perplesso, la pupilla
ingigantita dalla momentanea confusione. «Che diavolo
significa?!» berciò a
mezza bocca, sentendo nelle orecchie la risata cristallina in cui
proruppe il
suo avversario qualche istante dopo.
«Significa che in questi due
anni non
hai imparato un bel niente da Mihawk, mr. spadaccino».
«Come fai a sapere queste
cose?» domandò
guardingo, sollevando la lama della Shuusui con la punta rivolta verso
di lui. «Spero
che tu adesso non te ne esca con la cazzata che sei
l’immagine speculare delle
mie debolezze o altre stronzate simili, vecchio».
L’uomo si lasciò
scappare uno sbuffo
ilare, a quel dire, lanciando il cappello nel bel mezzo della foresta.
«Hai una
gran bella fantasia, moccioso», rimbeccò poi,
sfilandosi anche il pastrano come
se volesse facilitare in quel modo i propri movimenti. Fu un attimo,
prima che,
con un rapido gesto del braccio sinistro, sferzasse nuovamente
l’aria e
allontanasse da sé lo spadaccino, che rotolò sul
terreno con una colorita
imprecazione nel tentativo di evitare quel colpo, venendo colpito
comunque di
striscio alla guancia; indietreggiò di riflesso e si
portò rapidamente la mano
sinistra alla cintola per afferrare la sua seconda katana,
però, prima ancora
che potesse estrarla dal fodero, venne sbalzato nuovamente lontano da
un
fendente di quel vecchio, che non gli diede nemmeno il tempo di
rialzarsi e gli
calciò via dalle mani la spada che sorreggeva. Si
gettò poi contro lo
spadaccino e, con forza sovraumana, lo afferrò per la
casacca e lo sollevò di
peso, stringendo le dita intorno al suo collo come se volesse
soffocarlo.
Attraverso l’orlo delle
ciglia, Zoro
vide il viso del vecchio trasfigurato in una maschera seria e composta,
quasi
non facesse nessuna fatica a tenerlo sospeso a mezzo metro da terra in
quel
modo. Per un lungo attimo, probabilmente a causa del poco ossigeno che
aveva
cominciato ad arrivargli al cervello, gli parve persino di scorgere al
posto
della pelle un riflesso squamoso, come se quel tipo non fosse affatto
un uomo.
Facendo forza sulle proprie braccia, lo spadaccino afferrò
fra le mani i polsi
del suo avversario nel tentativo di fargli mollare la presa, gonfiando
i
muscoli delle spalle e della schiena per darsi maggior potenza;
sentì quelle
dita divenire meno salde e, senza nemmeno pensarci due volte, con la
poca
lucidità rimastagli afferrò la sua Shuusui e
piantò la punta della lama nella
carne dell’uomo, che si lasciò sfuggire un grido
di dolore prima di lasciarlo
del tutto.
Zoro cadde in ginocchio con un tonfo e,
portandosi una mano al collo per massaggiarlo e riportare
sensibilità in esso,
stornò bruscamente lo sguardo verso l’avversario,
vedendo i vestiti intrisi di
sangue. «Cosa... diavolo sei, bastardo?!»
tossicchiò al suo indirizzo, sentendolo
ridacchiare con una certa fatica.
«Dirti “Sono il tuo
peggiore incubo”
suonerebbe troppo... teatrale, vero?» lo schernì
l’uomo, per quanto avesse
cominciato a sputare saliva macchiata di rosso. Il colpo di Zoro
sembrava
essere andato a segno, stavolta, ma non pareva turbato come avrebbe
dovuto
essere qualcuno che stava per tirare le cuoia, anzi. Il sorriso che si
era
dipinto sulle sue labbra, pur essendo tirato, faceva supporre che quel
tipo
avesse qualcosa in mente, e non passò nemmeno mezzo secondo
prima che
allungasse una mano verso lo spadaccino nel tentativo di ghermirlo
ancora una
volta; con un’imprecazione, il Vice Capitano
riuscì per un pelo a compiere un
balzo all’indietro, e il terreno dove si era trovato fino a
quel momento
scomparve letteralmente sotto i suoi occhi non appena il braccio
dell’uomo si
conficcò con violenza in esso, lasciando posto ad una
poltiglia ormai
liquefatta.
«Merda!»
esclamò incredulo. «Che cazzo era?!»
«Frutto Mabo-Mabo,
spadaccino», rantolò
in un soffio, come se stesse cominciando a mancargli il respiro; senza
perdere
altro tempo, come se per lui ogni secondo fosse ormai diventato
prezioso, il
vecchio sollevò una gamba e sferrò a Zoro un
calcio che lo colpì alla spalla
sinistra, facendogli sfuggire un gemito doloroso.
Quel dannato scontro stava durando
decisamente troppo, e lo spadaccino cominciava ad essere preoccupato
più per il
cuoco che per la sua stessa vita. Ad ogni fendente che menava era
costretto ad
indietreggiare per evitare di essere colpito dai poteri di quel
vecchio, che si
rivelavano più potenti ad ogni attacco; se fosse tutto a
causa di un’illusione
o meno non lo sapeva, ma era certo che se non si fosse dato una mossa
quell’idiota avrebbe rischiato grosso. Ricorse dunque a tutte
le sue forze per
riuscire a stendere una volta per tutte l’avversario,
rinserrando la presa sulla
Shuusui prima di cercare con lo sguardo le altre due spade; le
trovò a poca
distanza da sé e, senza distogliere gli occhi dal vecchio,
scartò di lato un
suo calcio e rotolò sul terreno, afferrando le else delle
sue armi una volta
raggiunte, portandosi l’Ichimonji alla bocca. Roteando le
altre due fra le
mani, si gettò lui stesso all’attacco verso
l’avversario a spade sguainate, pur
sapendo di rischiare grosso. Se l’uomo avesse usato i suoi
poteri per
contrattaccare non sarebbe riuscito a scamparla, ma il gioco valeva la
candela,
ora come ora. Non se lo sarebbe mai perdonato se non fosse riuscito a
salvare
quello scemo d’un cuoco. Sarebbe morto provandoci, piuttosto.
E con quel
pensiero nella testa spiccò un balzo per colpirlo al petto
con tutte e tre le
spade, piantando le punte di esse nel suo torace prima di tirarle fuori
con
violenza; il sangue e la carne schizzarono a macchiargli il petto e il
viso, e
l’uomo, con una mano ad una spanna dal suo viso,
sgranò gli occhi, come se
fosse incredulo. Cadde a terra riverso di schiena, boccheggiando come
un pesce
fuor d’acqua mentre gli occhi, vuoti e fissi verso il cielo,
sembravano tremare
quasi avessero una vita a se stante.
Zoro affondò la lama nel
terreno per
sorreggersi contro la katana, lo sguardo fisso sul corpo del vecchio
che, a
poco a poco, cominciava a scomparire; dapprima perse consistenza,
divenendo
simile al pallido ricordo di un fantasma, e poi la parte inferiore
iniziò a
svanire, dalla punta dei piedi fino al busto maciullato; lì
lo svanimento parve
indugiare per qualche attimo, riacquistando solidità prima
di scemare
gradualmente, come se la cassa toracica stesse cercando di dar vita
agli ultimi
battiti del cuore prima del momento della resa. Si dissolse sotto gli
occhi di
Zoro solo qualche attimo dopo, lasciando come unico segno della sua
esistenza
una pozza di liquido denso che non ricordava nemmeno lontanamente la
consistenza del sangue.
Senza perdere altro tempo e cercando di
far affidamento alle poche forze rimaste, Zoro si gettò nel
fiume con
un’imprecazione, sentendo una dolora fitta al torace. Le
ferite che gli erano
state inferte parvero bruciare come se mille lame acuminate gli
avessero appena
trapassato il corpo, ma lui non se ne curò, stringendo i
denti e assottigliando
lo sguardo con la speranza di riuscire a trovare il corpo del cuoco. Ad
ogni
bracciata ansimava sempre più e inghiottiva acqua,
sputacchiando e facendo
resistenza ogni qual volta la corrente minacciava di trascinarlo via;
percorse
il corso del fiume e si tuffò più di una volta
per controllarne il letto, ma
del compagno non sembrava esserci traccia.
Allarmato e confuso, con il sangue che
aveva cominciato a rimbombargli nelle orecchie e il respiro ansimante,
non si
diede pace nemmeno per un attimo, provando a guardarsi intorno con
preoccupazione sempre più crescente; aguzzò la
vista e, qualche istante dopo,
scorse contro le rocce la figura del cuoco, il cui corpo veniva smosso
dalla
corrente e rischiava di essere trascinato via da essa senza che
quest’ultimo
potesse reagire. Aveva perso i sensi e il suo viso era reclinato di
lato,
lasciando che i capelli fluttuassero come serpenti dorati a pelo
d’acqua; con
un’imprecazione, Zoro si affrettò a nuotare verso
di lui e lo afferrò per un
braccio, traendolo in salvo.
Ferito e annaspante, se lo
tirò su una
spalla e cercò di trascinarlo il più in fretta
possibile fuori dall’acqua,
distendendolo di schiena non appena toccarono terra. E
sbiancò nel momento
stesso in cui, tentando di riprendere fiato, lo sguardo gli cadde sul
torace
del compagno, vedendolo immobile e privo di vita. «Merda...
non respira!»
esclamò in un moto di panico, poggiando entrambe le mani
sulla cassa toracica
per spingere; contò fino a tre e chinò il capo
verso di lui per poggiare le
labbra sulle sue, provando con la respirazione bocca a bocca nel vano
tentativo
di riportare il fiato nei suoi polmoni. Si allontanò e prese
un altro lungo
respiro, riprovando fino a che il cuoco, tossendo, non sputò
l’acqua che aveva
bevuto, reclinando il capo di lato con un lungo ansito doloroso.
Zoro quasi trasse un sospiro di
sollievo, per quanto sapesse che non era ancora finita lì.
Il cuoco avrebbe
potuto smettere di respirare da un momento all’altro, e non
aveva tempo da
perdere se voleva che entrambi uscissero vivi da quella stramaledetta
situazione. Nonostante ormai non riuscisse quasi a distinguere le
sagome a
causa della grande quantità di sangue che aveva perso,
dunque, cercò di
afferrargli un braccio e di issarselo sulle spalle, scrollando la testa
per
cercare di riacquistare almeno in parte la vista e allontanare quella
patina
bianca che sembrava avergli ormai coperto l’iride e che gli
impediva di
visualizzare al meglio i dintorni e tutto ciò che li
circondava come un velo
gelido. «Non azzardarti a morire, brutto idiota, altrimenti
ti ammazzo con le
mie mani!» berciò poi, forse per provare a
spronare persino se stesso prima di
mettersi faticosamente in marcia in direzione del bosco, con la
speranza di
riuscire almeno in quell’impresa. Dopo due anni, dopo tutti
gli allenamenti a
cui si era sottoposto e le umiliazioni che aveva dovuto subire, non era
riuscito a difendere uno dei suoi compagni nel momento del bisogno,
maledizione. Ma ci sarebbe stato tempo per prendersela con se stesso e
fare
ammenda, se fosse stato in grado di portare entrambi in salvo.
Per adesso doveva solo muoversi. Se non
voleva perderlo, doveva portarlo da Chopper. E mai come in quel
momento, lui,
che non aveva mai creduto in nessun Dio, pregò che lo
aiutasse a trovarlo in
tempo.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Due
spiegazioni veloci prima di partire con le note vere e proprie: il
frutto Mabo-Mabo che ha mangiato il vecchio è
l’abbreviazione
di “Maboroshi”, che in giapponese significa per
l’appunto “Illusione”.
Appurato questo, ammetto che avrei davvero desiderato scrivere qualche
capitolo in più prima di giungere a questo momento,
però,
purtroppo, il contest a cui la storia partecipava non comprendeva
più di sei capitoli e non potevo sforare più di
tanto,
per quanto io desiderassi farlo
Questo non
è il capitolo prima del penultimo capitolo,
però, e ci tengo a precisarlo. La storia con cui ho
partecipato al contest era di sei capitoli
più l'epilogo, certo, ma... c'è un ma,
ecco. Giacché la trama era complessa e necessitava di molti
più capitoli, ho dovuto tagliare delle parti per far
sì
che la storia venisse accettata dalla giudice, che era stata
già
tanto carina a darmi un capitolo in più per far quadrare
almeno
l'epilogo. Tutto questo giro di parole per dire che, aye, ci sono un
altro paio di capitoli in più che io avevo precedentemente scritto
mentre stendevo la storia, e contavo di inserirli come spin off.
Al prossimo, dunque ♥
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di
scrittori.
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Capitolo 6 *** [ Third season › In pieces ] Behind the legend, 02 ***
Like Davy Jones_6
THIRD SEASON ›
IN PIECES
BEHIND THE LEGEND, #02
Da quando
avevano messo piede su quell’isola, Nami non aveva
visto nemmeno uno scorcio di sole.
Erano ore, ormai, che vagavano senza
una meta precisa nel bel mezzo di quel bosco, e della città
che avrebbero
dovuto raggiungere in meno di metà giornata non
c’era neanche l’ombra, tanto
che stava cominciando persino a credere che si fossero persi
esattamente
com’era accaduto a Sanji e Zoro. Ad ogni occhiata che si
lanciava intorno, le
sembrava di vedere sempre lo stesso e identico paesaggio, dalle piante
grasse
che sbucavano timidamente fra le foglie secche sul terreno alle
cortecce degli
alberi ricoperte di muschio; i monumenti di pietra che si
ergevano a metà
nel terreno erano l’unico punto di riferimento che aveva, per
quanto non fosse
del tutto certa che non si trattasse sempre degli stessi. Robin aveva
persino
tentato di decifrarne le scritte incise, spinta come sempre dalla sua
insaziabile voglia di conoscenza, ma aveva ben presto scosso il capo,
afflitta,
mormorando che erano troppo logorate dal tempo per riuscire a leggere
anche
solo una riga. E si erano quindi ritrovati a riprendere il cammino
nella
speranza di ritrovare il sentiero, per quanto ormai si stessero
rassegnando
all’idea che non sapessero più dov’erano
diretti.
«Non ce la faccio
più», esalò
d’improvviso Rufy in un fil di voce, richiamando su di
sé l’attenzione di tutti
i presenti, che si accigliarono nel vederlo accasciato su se stesso.
Era raro,
difatti, che il Capitano si lamentasse per la stanchezza, ma
bastò il borbottio
del suo stomaco a far capire la causa di quella bizzarra mancanza di
forze.
Beh, almeno aveva resistito senza cibo più di quanto si
erano aspettati,
bisognava ammetterlo.
«Credo sia meglio fare una
pausa, a
questo punto», propose Nami, per quanto l’idea di
fermarsi in quel posto anche
solo per cinque minuti non la allettasse per niente. «Abbiamo
bisogno di
rimetterci in forze, dopotutto».
«Si mangia!» Rufy fu
il primo ad
aprire una delle borse che si erano portati dietro per fiondarsi sul
cibo, per
quanto Usopp avesse inutilmente tentato di sottrarla dalle sue grinfie
per non
rischiare che le scorte sparissero in meno di qualche secondo; ben
presto,
all’affamato Capitano si aggiunse anche Brook, desideroso di
mettere a sua
volta qualcosa nello stomaco, pur essendosi premurato di ricordar loro,
ridendo
come suo solito, che lui uno stomaco non l’aveva, essendo uno
scheletro. In
meno di mezz’ora, le scorte che Sanji aveva così
diligentemente preparato si
volatilizzarono, anche quelle contenute nella borsa del cuoco, finita
nelle
mani di Usopp poiché quest’ultimo non glielo aveva
più restituito. E la cosa
peggiore era che adesso non avevano più nulla, nel caso in
cui fossero stati
costretti a passare più tempo del dovuto in quella foresta.
«Ah! Adesso sì che
sto bene!»
esclamò Rufy tutto contento, battendosi una mano sul grosso
stomaco di gomma
mentre con il mignolo dell’altra ripuliva gli spazi fra i
denti. «Sanji è il
migliore!»
Nami storse il naso, incrociando le
braccia al di sotto del seno prosperoso prima di lasciarsi sfuggire un
lungo
sospiro. «Che tipo... rimpinzarti in quel modo pur sapendo
che Zoro e Sanji a
quest’ora potrebbero essere nei guai. Non sei preoccupato
nemmeno un po’?»
Calcandosi il cappello di paglia in
testa, Rufy le sorrise al di sotto della tesa. «Mi fido
ciecamente di loro»,
ribatté come se fosse la cosa più naturale del
mondo. «Zoro e Sanji sono forti.
Sapranno cavarsela benissimo».
«Rufy-san ha
ragione», si intromise
Robin, sorridendo benevola. «Ovunque siano, sanno di sicuro
che cosa fare. E
poi dovremmo preoccuparci anche per noi stessi... potremmo perderci nel
bosco,
non riuscire a tornare indietro e morire di stenti per mancanza di cibo
e
acqua. Oppure quei mostri, approfittando di un nostro momento di
debolezza,
potrebbero decidere di attaccarci e ammazzarci tutti».
La navigatrice rabbrividì,
strofinandosi le mani sulle braccia nel tentativo di scacciare
l’orribile
sensazione provocatale dalle parole dell’archeologa, dette in
tono così
tranquillo e semplice da spaventarla. «Quando la smetterai di
dire cose così
raccapriccianti?» le domandò, rimediandoci
unicamente una divertita scrollata
di spalle. Beh, almeno lei si divertiva, accidenti.
Ripresero la traversata in silenzio,
ognuno attento al minimo suono che avrebbero potuto captare. Non
avevano la
benché minima intenzione di farsi cogliere impreparati dai
mostri che
infestavano l’isola e, al tempo stesso, speravano di cogliere
qualche segnale
che avesse potuto indicare loro la direzione della nave o il luogo in
cui si
trovavano i loro compagni. Per quanto ci provasse, però,
nemmeno Chopper era
riuscito a fiutare la loro presenza, pur annusando il terreno in
continuazione
con la speranza di individuare l’odore di Zoro o quello di
Sanji. Era come se
l’intera foresta fosse inodore, poiché non sentiva
nemmeno quello degli animali
che avrebbero dovuto abitare quel luogo.
Si ritrovarono ben presto dinanzi ad
una grossa galleria scavata nella roccia, e facendo scorrere lo sguardo
dalle
pareti alle stalattiti che pendevano pericolosamente dal soffitto in
pietra,
l’archeologa si fece pensierosa. «A quanto pare
è una caverna», costatò,
guadagnandoci da Nami un’occhiata di traverso.
«L’avevamo notato
anche da soli,
Robin».
«Questa caverna mi trasmette
proprio
una brutta sensazione...» mormorò di rimando
Usopp, sentendo un brivido
corrergli lungo la schiena. Di solito quando qualcosa non andava non
sbagliava
mai, e, anche se forse quel posto era meno pericoloso di quanto
credeva, aveva
imparato a sue spese che bisognava andarci cauti, quando si trattava di
posti
sospetti. A maggior ragione adesso che si trovavano nel Nuovo Mondo. E
fu
proprio a quel pensiero che si voltò rapido verso lo
scheletro, puntando un
dito in direzione dell’entrata. «Brook,
va’ a dare un’occhiata! Tu puoi
dividere la tua anima dal resto del corpo, no? Va’ e
torna!»
«Non credevo che
l’avrei mai detto,
Usopp... ma hai avuto proprio un’ottima idea», lo
elogiò la navigatrice,
pentendosene qualche attimo dopo quando il cecchino, blaterando come
suo
solito, divenne fin troppo orgoglioso e parve dimenticarsi che fino a
poco
prima non aveva fatto altro che tremare come una foglia al solo
pensiero di
mettere piede in quel posto. Chi lo capiva era bravo, sul serio.
Spronato dalle due ragazze, Brook
separò la propria anima e si insinuò
silenziosamente nella caverna buia e
fredda, sparendo alla vista; i minuti che trascorsero dalla sua
scomparsa al
suo ritorno sembrarono i più lunghi e ansiosi che la ciurma
avesse mai vissuto,
e fu alquanto difficile starsene là fuori con le braccia
incrociate e lo
sguardo puntato verso l’oscurità della grotta, che
sembrava quasi volerli
risucchiare al suo interno. Cominciarono persino a preoccuparsi quando
non
videro tornare in fretta lo scheletro, lasciandosi sfuggire un sospiro
di
sollievo solo quando il suo fantasma fluttuante apparve nella penombra.
«Allora? Cosa
c’è lì dentro?» gli
domandò Nami non appena ebbe fatto ritorno nel suo corpo,
vedendolo grattarsi
l’afro per un attimo prima di volgere lo sguardo verso di
lei.
«Nulla di preoccupante,
Nami-san»,
parve rassicurarla poi, sollevando distrattamente gli occhiali da sole
come se
volesse osservarla meglio in viso, per quanto ormai non possedesse
più i bulbi
oculari per farlo. «Piuttosto... le dispiacerebbe mostrarmi
le sue mutandine
per infondermi un po’ di coraggio?» le
domandò in tono allegro e cantilenante,
e Nami non ci pensò due volte a colpirlo con un pugno ben
assestato al capo.
Rischiò quasi di crepare il teschio già mezzo
rotto di suo, però sembrò non
interessarle per niente.
«Ma ti sembrano cose da
chiedere in
un momento simile?!» berciò nervosa,
incamminandosi all’interno della grotta
con Robin al seguito, che si era comunque lasciata sfuggire una
risatina alla
scena che avevano regalato loro. Dal canto suo, invece, Brook se
n’era rimasto
lungo disteso sul terreno umido, lo sguardo perso verso lo scorcio di
cielo
grigio che si intravedeva a malapena attraverso le fronde degli alberi.
«Oh, credevo di
morire»,
esalò con un fil di voce, ridacchiando qualche attimo dopo
nello scattare in
piedi più vivace che mai, «anche se io lo sono
già, yo-hohoho!
Skull joke!» esclamò, venendo
stavolta colpito da Usopp con
un’imprecazione. Non era giornata, decisamente.
Guardandosi intorno con attenzione,
i ragazzi seguirono le compagne con fare circospetto, come se si
aspettassero
di veder spuntare fuori dal nulla qualunque cosa; dal canto suo, Nami
gettava
di tanto in tanto loro un’occhiata per tenerli
d’occhio, sapendo fin troppo
bene di che cosa fossero capaci quando venivano abbandonati a loro
stessi. E
lei di guai ne aveva fin sopra i capelli, se proprio doveva essere
sincera.
Passandosi entrambe le mani sulle
braccia, la navigatrice cominciò a far scorrere lo sguardo
sulle pareti di
pietra che li circondavano, prestando orecchio allo scrosciare lontano
di un
ruscelletto; il suono dell’acqua risuonava quasi assordante e
sembrava
rimbombare in tutta la grotta, dandole la sensazione di trovarsi sul
fondale
marino anziché all’interno di una caverna. Era una
sensazione alquanto
bizzarra, ma si ritrovò ben presto a concentrarsi su altro
quando arrivarono in
prossimità di una lunga galleria, terminante in un vasto
spazio roccioso che la
lasciò a bocca aperta per la scoperta che fece.
«Oh, mio...»
sussurrò, con il cuore
palpitante di gioia. Quelli che stava osservando erano dei forzieri,
dei
forzieri rifiniti in oro sicuramente
purissimo che contenevano tesori
formidabili, ne era certa. Perché prendersi la briga di
lasciare dei bauli
proprio nel bel mezzo di una foresta infestata di mostri, per di
più in una
grotta così nascosta, se non si aveva intenzione di tenere
al sicuro il proprio
bottino? Senza nemmeno rifletterci su un secondo di più,
Nami si fiondò
pimpante su uno dei forzieri sotto lo sguardo sconcertato di tutti, con
in viso
un’espressione così elettrizzata da far invidia a
Rufy stesso quando si
trattava di avventura; nello spalancarlo con foga, però,
restò sbigottita nel
vedere solo il fondo di legno, chiudendo il baule con un tonfo sordo.
«U-Un
momento! Cosa diavolo significa?! È vuoto! Completamente
vuoto!» Corse svelta
verso il secondo forziere, e, rischiando di inciampare in una crepa sul
terreno, si tenne al coperchio robusto per evitare di cadere,
spalancandolo
qualche attimo dopo con fare irritato prima di imprecare contro il
nulla.
«Anche questo,
dannazione!» sbottò incredula, lanciando
un’occhiata di
fuoco al povero cecchino, che sussultò prima ancora che la
ragazza potesse
anche solo aprire bocca. «Usopp, datti una mossa e controlla
anche quelli!»
«O-Ohi, aspetta!
Perché dovrei...»
«Muoviti!»
La voce di Nami
risuonò contro le pareti della caverna in tutta la sua
autorità, tanto che
riuscì a convincere in men che non si dica il cecchino a
fare quanto gli era
stato detto; sotto il suo sguardo severo, Usopp raggiunse i forzieri
restanti e
li spalancò tutti ad uno ad uno, venendo ben presto aiutato
anche dal Capitano,
che si era stranamente dimostrato molto più euforico del
compagno.
«Ci sono degli abiti,
qui», borbottò
Usopp, infilando una mano nel baule per frugare fra la stoffa alla
ricerca di
qualche oggetto luccicante, non trovando niente come invece aveva
sperato, «ma
nessuna traccia di qualcosa di valore».
«Qui ci sono delle
ossa!» esclamò di
rimando Rufy, sventolando in aria quello che aveva tutta
l’aria di essere un
femore mordicchiato da qualche animale. Vi erano rimasti attaccati
anche
brandelli di carne ormai rinsecchita, e a quella visione Nami storse il
naso,
assumendo un’espressione a dir poco schifata prima di
distogliere lo sguardo e
scuotere il capo. Afflitta e ormai demoralizzata, si
allontanò dai bauli a
passi strascicati, lasciandosi cadere pesantemente seduta su una roccia
con la
testa abbandonata fra le mani.
«Vuoti... tutti
vuoti», mormorò,
sospirando affranta. Tutta quella strada per trovare solo dei miseri
ammassi di
legno e ferro che non contenevano né oro né
gioielli,
solo qualche inutile
vestito ammuffito e un mucchio d’ossa. Che quella traversata
in
quell’isola
dimenticata dalla civiltà si fosse rivelata solo
un’inutile perdita di tempo?
Beh, probabilmente era davvero così, visto che sarebbero di
sicuro tornati a
casa a mani vuote. Accidenti, perché Rufy, nella foga della
battaglia contro quegli strani
Uomini Pesce, aveva perduto
quel medaglione d’oro? Almeno avrebbero avuto un bottino con
cui
far ritorno,
anziché un mucchio di stracci.
«Uhm...
interessante».
Nami sollevò lo sguardo verso
l’archeologa, per quanto avesse ancora dipinta in viso
un’aria decisamente
devastata. Non le era mai
piaciuto il
modo in cui Robin pronunciava quelle semplici parole, nemmeno due anni
addietro. E tutto perché poteva significare solo due cose:
luoghi che avrebbero
provocato loro un mucchio di guai, oppure civiltà misteriose
che sarebbero
comunque state fonte di guai. Di bene in meglio, insomma. E la sua era
pura
ironia. «Che cosa c’è, Robin?»
si ritrovò lo stesso a chiederle, mettendo da
parte la depressione per raggiungerla e osservare le pietre che stava
esaminando con meticolosa attenzione. «E quelle cosa
sono?»
«Testimonianze. Testimonianze
di
pirati e marinai che sono stati qui prima di noi».
Carezzò con la punta delle
dita le incisioni presenti sulla pietra come se si fosse trattato di
qualcosa di
decisamente raro e prezioso, sfregando via dai polpastrelli la polvere
accumulatasi. «Alcune risalgono addirittura a due secoli
fa... nessuno di loro
è riuscito a sopravvivere su quest’isola
più di tre giorni».
Nami si accigliò.
«Cosa? E la gente
di cui parlava quel vecchio?»
«Qui non
c’è scritto niente che
faccia supporre che quell’uomo dicesse la
verità».
«Che senso aveva
mentirci?»
«Forse voleva semplicemente
gettarci
in pasto a quelle creature... o dietro a tutta questa storia
c’è qualcosa di
molto più complesso». Accovacciandosi dinanzi alle
pietre, Robin spolverò le
incisioni più vecchie e si fece più vicina per
riuscire a leggere con maggior
facilità, liberando la roccia dall’edera che vi si
era intrecciata intorno. «Molte
scritte sono rovinate, dunque è alquanto difficile capire a
cosa si riferissero
questi uomini con “spettro”,
“diavolo” e “patto di
sangue”... ma da ciò che si
evince da queste testimonianze, posso affermare di sicuro che andarsene
non
sarà facile».
«Che cosa intendi
dire?» Per quanto
Nami avesse cercato in tutti i modi di non porre quella domanda - aveva
difatti
imparato a sue spese che, molto spesso e volentieri, era di sicuro
meglio
restare nell’ignoranza -, non riuscì comunque ad
evitarlo, e lo sguardo che le
venne rivolto da Robin la raggelò seduta stante.
«Ci troviamo su una rotta
maledetta».
Tutto avrebbe
voluto sentirsi dire tranne quelle parole.
Nami ci stava rimuginando su dal momento in cui avevano lasciato la
grotta e si
erano infiltrati nuovamente fra la boscaglia, più che decisi
a ritrovare la
strada e a tornare alla nave per abbandonare quell’isola una
volta per tutte,
rotta maledetta o meno. C’erano due problemi,
però: il primo, e sicuramente il
più importante, era riuscire a ricongiungersi con i compagni
perduti, sperando
al contempo che stessero bene; l’altro era capire effettivamente dove
fossero e come fare per raggiungere la Sunny, giacché non
avevano la benché
minima idea di quanto avessero camminato e quanti percorsi avessero
imboccato,
essendo quella foresta pressoché identica. Erano ad un punto
morto,
praticamente.
Con un sospiro afflitto, Nami
aumentò il
passo e si
accostò il più possibile ai suoi compagni, come
per
timore di perdere di vista
anche loro; i rami degli alberi avevano cominciato a divenire
più radi e il
cielo in lontananza aveva iniziato a schiarirsi, per quanto non fosse
ancora
del tutto certa che fosse a causa dell’avvicinarsi
dell’alba oppure un semplice
scherzo della luce. Era stanca, le palpebre minacciavano di abbassarsi
ad ogni
passo che faceva e ormai i polpacci gridavano pietà, ma era
unicamente l’adrenalina
e il timore di venire attaccata durante il sonno che riuscivano a
tenerla in
qualche modo sveglia. E a quanto sembrava era così anche per
gli
altri. Robin,
a pochi passi davanti a lei, si detergeva di tanto in tanto il sudore
dalla
fronte con un fazzoletto e si passava due dita sugli occhi, osservando
i
dintorni con minuziosa attenzione come se sperasse di vedere qualcosa
che
potesse richiamare la sua attenzione e svegliarla; al suo fianco,
Franky aveva
nascosto le occhiaie con le lenti nere e aveva incurvato le spalle, a
dimostrazione della fiacchezza che animava anche lui come tutti gli
altri. Probabilmente avrebbe anche dovuto fare rifornimento di cola, ma
in quel
momento non avevano proprio niente; Usopp e Chopper, a differenza di
Rufy -
come suo solito in testa al gruppo, per quanto non sapesse minimamente
dove
andare -, se ne stavano il più possibile vicino agli alberi,
come se essi
potessero in qualche modo fungere da barriera naturale contro eventuali
mostri.
Chopper stava persino continuando ad annusare il terreno, per quanto i
suoi
sforzi stessero dando risultati scarsi e insoddisfacenti.
«Che cosa ne pensi di tutta
questa storia, Robin?»
chiese di punto in bianco Franky, rompendo il silenzio che, da un
po’ di tempo
a quella parte, era calato su di loro come un velo.
L’archeologa gli lanciò una
rapida occhiata, stringendosi nelle spalle.
«Metterci in guardia da quegli
esseri e poi tenerci
all’oscuro di certe informazioni non avrebbe avuto
senso». Stava cercando di
essere razionale, però, per quanto si sforzasse, non
riusciva a capire cosa ci
fosse esattamente sotto tutta quella bizzarra situazione.
«Sarebbe stato molto
più facile non dirci niente e lasciare che andassimo
impreparati contro il
nostro destino».
«Forse chi comanda quei mostri
contava proprio
sull’informazione», ipotizzò Chopper,
voltando il muso verso di lei. «Se il
vecchio non ci avesse detto niente, noi ce ne saremmo tornati subito
alla
Sunny, no?»
«Ottima osservazione,
Chopper». Robin incrociò le
braccia sotto il seno e si picchiettò il labbro inferiore
con due dita di una
terza mano, pensosa. «Avremmo ripreso tranquillamente il
largo per cercare
un’isola su cui fare rifornimento, e avremmo in questo modo
ridotto in cenere i
loro piano, qualunque esso sia. Sempre se c’è un
piano, dietro tutta questa
storia... però, visto come si sono svolti i fatti finora, mi
sembra più che
plausibile».
Nami, che se n’era rimasta in
silenzio ad ascoltarla
fino a quel momento, la superò agitando le mani, come se
volesse scacciare
unicamente in quel modo il discorso che archeologa e dottore stavano
intrattenendo. «Piano o meno, io propongo di trovare il
più in fretta possibile
la Sunny. Forse anche Zoro e Sanji la stanno cercando e si stanno
dirigendo lì».
«Sono più che
d’accordo con Nami», asserì Usopp,
gettando
una rapida occhiata alle sue spalle per osservare i compagni.
«Non sono così
sicuro di voler incontrare qualche strano mostro a tre teste o degli
Uomini
Pesce alti come giganti», dovette ammettere, tornando a
guardare avanti;
imprecò a denti stretti quando per farlo andò a
sbattere contro qualcosa di
duro che sulle prime non aveva minimamente notato, rendendosi conto
troppo
tardi che quello era un torace e che il volto che stava adesso
osservando aveva
una mascella squadrata e squamosa. «Oh, desolato»,
disse con un certo
imbarazzo, sbiancando seduta stante quando si accorse che il tipo che
gli aveva
regalato un ghigno divertito era proprio uno di quegli strani Uomini
Pesce che
avrebbe tanto voluto evitare.
«Andate
da qualche parte, ragazzi?» domandò
cordialmente, e forse fu proprio questo a spaventare Usopp, che si
affrettò ad
allontanarsi il più possibile da lui.
«Merda! Ci hanno
trovati!» gridò Franky, puntando uno
dei cannoni verso l’Uomo Pesce appena apparso, che non fece
una piega; si limitò
semplicemente a scrutarli ad uno ad uno con attenzione da capo a piedi,
come se
stesse scavando nella loro anima. Ad un suo schiocco di dita, alle sue
spalle
comparvero altri Uomini Pesce dall’aria minacciosa, la
maggior parte pronti ad
affrontarli a mani nude.
«Phatt, Fokke. Affido a voi il
comando». Sorrise,
mettendo
bellamente in mostra i denti acuminati prima di fare qualche passo
indietro,
come se volesse farsi da parte. «E ricordate che li voglio
vivi»,
puntualizzò, sollevando un braccio verso
l’alto; a quel suo
gesto, gli Uomini Pesce dietro di lui si gettarono
all’attacco
con un grido
disarticolato, costringendo la ciurma ad indietreggiare per contenere
almeno in
parte quell’assalto improvviso.
«Phatt! Occupati della donna!» A quel richiamo,
fatto da
quello che aveva tutta l’aria di essere un enorme crostaceo, un
uomo dalle fattezze di squalo si mise sull’attenti e
lanciò uno sguardo all’archeologa,
scroccando le grosse dita palmate. Gli occhi piccoli e ferini
controllavano
ogni suo movimento, e prima ancora che Robin potesse anche solo tentare
di
usare il suo potere, Phatt gli fu addosso, bloccandola sul terreno.
«Robin!» esclamò Nami, correndo verso di
lei; trasse
un sospiro di sollievo nel vedere con la coda dell’occhio che
l’amica era
riuscita a liberarsi e che aveva costretto Phatt a chinarsi a mezzo
busto con
la sua tecnica di sopraffazione, per quanto fosse ormai sul punto di
cedere. E sarebbe
anche andata a darle una mano se un Uomo Pesce non le si fosse parato
dinanzi e
non avesse arrestato la sua corsa, facendola imprecare a denti stretti.
Dannazione! «Questo
succede ogni volta
che senti odore di avventura, Rufy!» Afferrando
un’estremità del bastone che
portava appeso alla cintola, Nami si affrettò a puntarlo
verso l’avversario,
investendolo con un getto d’aria pressurizzato; lo vide
volare via con
un’imprecazione sommessa e si voltò verso il
Capitano, che aveva appena
centrato un altro Uomo Pesce con un pugno. «La prossima volta
si fa come dico io!
Si resta sulla nave!»
«Ma così non
è divertente!» obiettò Rufy,
scansandosi
appena in tempo dalla traiettoria del suo avversario; evitò
per un pelo un
pugno diretto al suo viso e si appiattì contro il terreno,
allungando un
braccio in maniera spropositata fino ad avvolgerlo intorno al corpo
dell’Uomo
Pesce per attirarlo contro di sé, e così facendo
si accorse degli uomini che correvano
verso Brook, approfittando del fatto che lo scheletro desse loro la
schiena. «Brook!
Alla tua destra!» esclamò, gettando lontano da
sé il proprio avversario.
Con rapidità disarmante, a
quell’avvertimento Brook
sfoderò la propria arma e si fece largo fra le file di
nemici, muovendo la lama
con un movimento rotatorio del polso così rapido che agli
occhi degli Uomini
Pesce parve non muoversi affatto. «Hanauta
Sanchou». Rallentò a poco a poco,
uno, due, tre passi, la spada nuovamente
infilata nel fodero, «Yahazu
Giri!»
Se in un primo momento i suoi avversari erano rimasti immobili e
perplessi, si
accasciarono su se stessi qualche istante dopo, le bocche spalancate in
un
grido senza voce e il sangue che scorreva copioso dalle ferite a loro
inferte,
per quanto non si fossero nemmeno resi conto d’essere stati
colpiti.
«Ragazzi!»
urlò Phatt, distraendosi; con un’imprecazione,
lasciò perdere l’avversario contro cui stava
combattendo e sguainò la spada, correndo
svelto verso lo scheletro. «Me la pagherai!»
«Io non credo
proprio». Robin gli si parò davanti,
arrestando la sua corsa. «Ocho
Fleur».
Bloccò le gambe di Phatt, leggendo lo sconcerto sul suo viso
quando, incredulo,
si vide spuntare su spalle e schiena altri due paia di arti che gli
fermarono
collo e schiena. «Clutch!»
esclamò,
incrociando le braccia al petto; le mani che fino a quel momento
avevano tenuto
stretto il collo del suo avversario lo afferrarono saldamente e glielo
ruppero
con un sonoro scricchiolar di ossa, facendo lo stesso con la spina
dorsale
prima che lo lasciassero del tutto
andare, sparendo in un turbinio di petali; l’uomo si
accasciò inerme sul
terreno umido, gli occhi spalancati e ormai privi di vita, ma Robin non
lo
degnò nemmeno di uno sguardo e tornò
all’attacco, così da poter dare manforte
ai suoi amici. Se il nemico voleva il gioco duro, il gioco duro avrebbe
avuto.
«Cuerpo Fleur»,
mormorò, facendo fiorire il proprio busto sulla schiena e
sulle cosce dell’Uomo
Pesce contro cui stava combattendo Franky; allungando le braccia, gli
bloccò
gli arti superiori e il collo, aggrottando la fronte per concentrarsi e
stringere, con la ferma intenzione di frantumargli le ossa, per quanto
robuste
potessero essere. Quel tipo aveva cominciato a divincolarsi e
rinserrare la
presa stava diventando un’impresa ardua, però,
prima ancora che quest’ultimo si
liberasse, fu Franky stesso ad andare in suo aiuto, colpendolo con i
missili
che teneva riposti nella spalla sinistra; l’Uomo Pesce
andò a schiantarsi con
un rantolo doloroso contro il tronco di un albero, che si
spezzò fino a
cadergli addosso e schiacciarlo.
«Phatt!» esclamò Fokke nel vedere quella
scena, e
arricciò le labbra, rabbioso.
«Maledetti!» berciò, sguainando le zanne
nello
gettarsi contro uno di loro. Approfittando della sua distrazione,
afferrò il
cecchino per le spalle e lo sbatté con forza contro il
terreno, facendogli sputare
sangue; lo vide spalancare gli occhi e sentì intorno a
sé le urla dei suoi
amici che lo chiamavano, ma lui lo colpì con un destro allo
stomaco,
strappandogli via dalle mani quella strana fionda che impugnava per
gettarla
lontano. Usopp provò a biascicare qualcosa e ad allungarsi
verso il suo kabuto,
strisciando nella sua direzione; venne però ben presto
tirato all’indietro e il
viso gli venne spiaccicato nuovamente sulla terra umida, prima che un
pugno lo
colpisse diretto al viso; sentì lo zigomo spaccarsi e il
sangue colare lungo la
guancia, e a nulla valse l’aiuto di Robin, che aveva fatto
fiorire sul corpo dell’Uomo
Pesce una moltitudine di braccia per bloccarlo.
Con uno scatto secco, Fokke si
liberò con facilità e
si avventò ancora una volta contro Usopp, afferrandolo per
il collo e
sollevandolo a mezz’aria, mozzandogli il fiato nei polmoni;
tirò il braccio all’indietro
e caricò il montante, sorridendo all’idea di
fracassare il capo di quel tizio
dal naso lungo. L’avrebbe fatto per tutti i compagni che
aveva perduto a causa
di quella ciurma, ripagandola con la loro stessa moneta. Si
fermò a pochi
centimetri dal suo viso, però, con gli occhi fuori dalle
orbite e la bocca
spalancata. I denti aguzzi sembravano fremere e il suo intero corpo
tremava,
come se tutto d’un tratto avesse visto o percepito qualcosa
che l’aveva
spaventato a morte. «Ritirata!»
esclamò in preda al panico, mollando Usopp e dando le spalle
al gruppo di
pirati per correre via, sparendo fra la vegetazione con quei pochi
uomini che
riuscivano ancora a reggersi sulle proprie gambe.
La ciurma rimase senza parole, attonita
ad osservare
il punto in cui erano letteralmente scomparsi, come se fossero stati
inglobati
negli alberi stessi. «Ma che... perché sono
scappati?» Quella di Rufy suonò come
una lamentela, e forse fu proprio per quel motivo che il resto
dell’equipaggio
si voltò verso di lui solo per fulminarlo con lo sguardo,
facendolo sentire
minuscolo; persino Usopp, che si era rimesso in piedi a fatica proprio
in quel
momento, non si risparmiò dal guardarlo male, ma fu
reggendosi sulle gambe
malferme che alzò teatralmente un braccio, battendosi
debolmente una mano sul
petto.
«Avranno avuto paura del
temibile potere del
sottoscritto!» si vantò tra un colpo di tosse e
l’altro, sebbene si vedesse
anche a miglia di distanza che stava tremando. Per quanto forte fosse
diventato, il suo cranio non era indistruttibile, e se il colpo di
quell’Uomo
Pesce fosse andato a segno per lui sarebbe stata la fine. O, nel
peggiore dei
casi, gli avrebbe anche potuto spezzare il collo e lasciarlo morto sul
terreno.
Qualsiasi cosa fosse successa, doveva ringraziare che se ne fossero
andati e
che se la fosse cavata semplicemente con qualche contusione e uno
zigomo
spaccato.
«Per una volta piantiamola di
dire idiozie e vediamo
di muoverci», asserì Nami, non prima di aver
rifilato un bel pugno sulla testa
del cecchino e del Capitano. «Sono scappati, dovremmo
approfittare di questa
chance e darcela a gambe levate anche noi».
«Concordo», si
intromise Robin, scansandosi qualche
ciocca di capelli che le era disordinatamente caduta sugli occhi.
«Non possiamo
sapere cosa li ha spaventati, e ci converrebbe lasciare questo posto
prima di
scoprirlo».
«Prima devo medicare
Usopp!» rimbeccò Chopper. Si era
già tolto lo zaino dalle spalle e stava frugando al suo
interno, alla ricerca
di ago, filo, disinfettante e garze.
«Chopper, troviamo un posto
sicuro e poi pensiamo ad
Usopp. È ancora vivo, no?»
«Ohi! Sei senza cuore,
Nami!»
«Whoa! Ragazzi,
guardate là!» Il grido euforico di Rufy
richiamò l’attenzione di entrambi, e lo
videro con gli occhi rivolti verso l’alto. «Una
nave volante!»
«Non dire sciocchezze, Rufy, le navi non...» Nami
non
riuscì a finire di formulare quella frase, poiché
un’ombra scura passò proprio
sulle loro teste e la costrinse ad alzare lo sguardo verso il cielo,
lasciandola letteralmente a bocca aperta. Lassù,
galleggiando come se si
trovasse nel bel mezzo dell’oceano e non in un mare di nubi,
un imponente
veliero cavalcava i venti che sferzavano gli stracci neri che un tempo
erano
state delle vele, facendo al contempo sventolare la malridotta bandiera
pirata;
lo scafo distrutto mostrava lo scheletro interno della nave e le botti
incrostate di sudiciume accatastate sul fondo, e Nami temette che, a
causa della brusca virata che la nave compì proprio in quel
momento, i barili
rotolassero fuori e cadessero loro addosso; il legno di cui erano
composte le travi
della chiglia, l’albero maestro e il castello di prua erano
così marce da
apparire verdognole, dando la sensazione che il veliero brillasse di
una luce
oltremodo spettrale. A ben guardarla somigliava maledettamente alla
nave di
Decken, però... accidenti,
per quanto
Brook avesse affermato che quella che avevano visto nelle
profondità
dell’oceano fosse vera, non reggeva il paragone con quella
che stava osservando
lei in quello stesso momento e con la sensazione negativa che essa
trasmetteva.
Quella nave era diretta verso qualcosa,
e quel
qualcosa si sarebbe sicuramente ritrovato in grossi guai.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Come
detto in precedenza, avevo scritto dei capitoli spin off che avrei
postato a parte, e questo che avete appena finito di leggere era uno di
quelli.
Ho
pensato che sarebbe stato stupido dividerli dalla storia
principale, dato che seguono comunque quella trama, quindi eccoli qua
nella loro interezza. Spesso e volentieri faccio bene a scrivere le
storie con i capitoli spin off che possono essere usati comunque nella
storia stessa, anche se al principio non sembra affatto *rotola
avendolo già fatto con Oceani
in Burrasca e Under
a bloody sky*
Tornando a noi: tutti i nodi verranno finalmente al pettine? I nostri
eroi riusciranno a cavarsela ancora una volta oppure ci rimetteranno le
penne? E la Pride la smetterà di complicare la vita a se
stessa
e ai lettori con storie in cui non si capisce un accidenti di niente e
i capitoli anziché cancellare i dubbi ne fanno crescere
altri?
Lo scopriremo solo continuando ad immergerci nella lettura!
Sclero a parte, al prossimo capitolo.
♥
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Dona l'8% del tuo tempo
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Farai felice milioni di
scrittori.
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Capitolo 7 *** [ Third season › In pieces ] The Flying Dutchman, 03 ***
Like Davy Jones_7
THIRD SEASON ›
IN PIECES
THE FLYING DUTCHMAN, #03
Madido di
sudore per lo sforzo di mantenersi in piedi e di non caracollare a
terra
svenuto, Zoro strinse Sanji contro di
sé, per
quanto il suo corpo stesse
facendo una fatica immane nel tentativo di sostenere entrambi.
Non aveva
idea di quanto avesse camminato né tanto meno se fosse
vicino alla Sunny, sulla
quale avrebbe potuto fare qualcosa anche in mancanza di Chopper, se i
suoi
amici non avessero ancora trovato il modo di tornare indietro a loro
volta. In
infermeria avrebbe potuto trovare garze, medicine e antibiotici che
avrebbero
in qualche modo aiutato, e avrebbe anche potuto sostituire i pezzi di
stoffa
logori con i quali aveva fasciato alla bell’e meglio le loro
ferite. Il rischio
di infezione non era da escludere, ma cosa avrebbe dovuto fare? Nemmeno
morire
dissanguato mentre cercava di salvare la pelle ad entrambi gli era
sembrata una
buona idea, d’altronde. Quelle bende improvvisate erano
dunque state il male
minore, e doveva ringraziare la propria forza di volontà e
resistenza se
riusciva ancora a fare qualche passo nonostante le sue precarie
condizioni.
Il respiro
di Sanji era debole, ma Zoro riusciva distintamente a sentire il suo
cuore
battere ad un ritmo frenetico contro la sua schiena, quasi si fosse
trovato con
l’orecchio premuto sul petto del cuoco. Non dubitava
minimamente della forza
fisica che avevano acquisito i suoi compagni durante quei due anni di
allenamento, però sapeva che a tutto c’era un
limite e che anche quell’idiota,
per quanto se la fosse sempre cavata in situazioni ben peggiori, aveva
assoluto
bisogno di cure mediche. E sperava vivamente che anche gli altri
stessero bene.
Li avevano ormai persi di vista da tempo, e, per quanto con loro ci
fosse anche
Rufy, quegli Uomini Pesce non erano certo avversari da prendere sotto
gamba. L’aveva
scoperto sulla sua stessa pelle, in fin dei conti.
Scacciando
dalla sua mente tutti quei pensieri, Zoro passò entrambe le
braccia sotto l’incavo
delle ginocchia di Sanji e se lo sollevò meglio sulle
spalle, in modo che non potesse
scivolare verso il basso, avanzando fra la boscaglia. Ovunque si
guardasse
vedeva solo alberi che si estendevano verso il cielo e i cui rami si
intrecciavano gli uni sugli altri come delle spesse corde, dando allo
spadaccino la bizzarra sensazione di essere caduto in una grossa rete;
riusciva
a sentire vagamente il lontano suono di quella che poteva essere una
cascata,
però, da quando tutti loro avevano messo piede su
quell’isola, non aveva
sentito il benché minimo rumore, come se l’intera
foresta fosse stata inglobata
in una grossa bolla che non permetteva loro di udire alcun suono. Era
snervante,
non lo negava. E in quel modo era ancor più difficile
riuscire a trovare la
strada per raggiungere la costa, poiché la nebbiolina che
aleggiava nei
dintorni non aiutava per niente.
Continuando
la propria traversata, Zoro mise un piede in fallo ed
inciampò in una radice
nodosa, rischiando quasi di cadere riverso di faccia e allentando la
presa
sulle cosce del compagno; la rinserrò abbastanza in fretta e
riacquistò un
certo equilibrio, ma rivolse un ringhio a quella stessa radice, a dir
poco nervoso.
«Merda», imprecò, strattonando lo
stivale per liberarsi, ma fu proprio nel farlo
e nel sollevare troppo velocemente lo sguardo che notò
qualcosa oltre la cappa
di fogliame sopra di lui, rimanendo oltremodo stranito nello scrutare
l’orizzonte; il suo occhio
si illuminò non appena si rese conto che quella che stava
osservando era una
bandiera pirata, avanzando il passo nel tentativo di raggiungerla il
più in
fretta possibile. In un altro momento e in una situazione
più propizia si
sarebbe sicuramente accorto che qualcosa non andava, e
cominciò a rendersene
conto mano a mano che gli alberi divenivano meno fitti e la nebbia si
diradava,
dandogli la visione di una nave dallo scafo ormai ridotto a pezzi e dal
legno
incrostato di sudiciume. Riversa sulla fanghiglia come una balena
morente,
pareva sul punto di spezzarsi in due a causa del peso provocato
dall’albero
maestro, a sua volta ridotto in pessime condizioni e tenuto su alla
bell’e
meglio da una riparazione di ferro e corde. Ma
che diavolo...?
«Questa... non è la
Sunny». Esterrefatto, lo
spadaccino sollevò lo sguardo su quel galeone maestoso per
osservarlo meglio,
rimanendo senza parole. Che cosa ci faceva un’imbarcazione
del genere nel bel
mezzo della boscaglia? Forse era un’altra nave che era stata
attirata su quell’isola
e il suo equipaggio aveva trovato la morte per mano di quegli Uomini
Pesce? Zoro
non perse tempo a rifletterci su oltre, scuotendo il capo per
cancellare dalla
sua mente quei pensieri. In fin dei conti domandarsi il
perché della presenza
di quel galeone non gli sarebbe servito per aiutare il compagno, ma
avrebbe potuto
trovare qualcosa proprio per fasciare le ferite del cuoco o almeno
ricucirle,
dannazione. Si rifiutava di credere che fosse tutto ridotto in malora e
che quella
nave fosse arenata lì da così tanto tempo da
rendere inutilizzabili eventuali
bende o affini.
Con quel pensiero per la testa, lo
spadaccino cercò
di far scivolare con attenzione il cuoco dalle sue spalle e, ignorando
il
dolore che corse come una scarica elettrica lungo un braccio, depose il
più
delicatamente possibile il compagno su una trave marcia poggiata contro
una
roccia, accorto che non rischiasse di riversarsi di fianco; trasse poi
un lungo
sospiro e si asciugò il sudore dalla fronte con la manica
logora della casacca,
lanciando un’occhiata a Sanji. Non era il momento di
riposarsi, lo sapeva, ma
se non si fosse fermato almeno per un attimo e non avesse ripreso
fiato, non
sarebbe riuscito a fare un passo in più e avrebbe rischiato
di far cadere anche
il cuoco.
«Torno
subito, cuoco», lo rassicurò, pur non essendo
sicuro che lui potesse sentirlo.
«Ci penso io».
«So cosa
stai pensando, Roronoa, e là dentro non troverai niente.
Soltanto cadaveri».
Zoro si
voltò immediatamente nella direzione da cui sentì
provenire quella voce,
portandosi svelto una mano alla cintola per afferrare saldamente
l’elsa della Shuusui,
pronto ad estrarla se fosse stato richiesto; spalancò la
bocca e rimase
interdetto, però, nel vedere una figura a lui familiare
accucciata comodamente
sul parapetto distrutto della nave, un gomito poggiato su un ginocchio
e il
viso abbandonato sul palmo della mano, come se si trovasse da quelle
parti
assolutamente per caso. Però... dannazione,
quell’uomo non avrebbe dovuto
nemmeno essere in vita. Quello era l’uomo che aveva
incontrato ore addietro e
che aveva ucciso lui stesso, dunque che cosa diavolo ci faceva
lì, proprio
davanti ai suoi occhi? «Tu... tu eri morto».
Il vecchio
sorrise, agitando distrattamente una mano prima di abbandonare la sua
postazione e abbassare lo sguardo verso il Vice Capitano, la cui
espressione
parve divertirlo più di quanto non sembrasse già.
«Frutto Mabo-Mabo,
spadaccino. Rammenti?» ridacchiò, e Zoro
deglutì a vuoto, estraendo la katana
di qualche centimetro. Era forse una presa per il culo, quella? Quel
tipo
voleva forse fargli davvero credere che quello scontro era stato tutta
un’illusione?
Lo
spadaccino
mise da parte quei pensieri non appena vide l’uomo fare
qualche passo verso di
loro, impugnando svelto la propria arma per puntarla nella sua
direzione.
«Non muovere
un altro muscolo, vecchio. Questa volta potrei decidere di non essere
clemente»,
lo mise in guardia, ma il suo avversario si lasciò sfuggire
una grossa risata.
«Si vede
lontano un miglio che ti reggi in piedi a fatica, Roronoa. Fossi in te
farei
meno lo spavaldo».
«Comandante!»
Il grido concitato si levò dal bel mezzo della boscaglia e
richiamò l’attenzione
di entrambi, che si voltarono in simultanea verso la poppa distrutta
della
nave, dietro la quale comparve, seppur malconcio, quello che aveva
tutta l’aria
di essere un grosso crostaceo; la sua pelle rossastra era disseminata
di
protuberanze che sembravano pulsare come se avessero vita propria, e le
branchie sul collo fremevano ad ogni boccata, quasi stessero facendo
una fatica
immane a racimolare quanta più aria possibile e a spedirla
nei polmoni. Quello stesso
Uomo Pesce aveva gettato un’occhiata alla nave come se ne
fosse intimorito,
allontanandosi il più velocemente possibile da essa e
deglutendo sonoramente,
atteggiamento che Zoro, nel tener d’occhio entrambi, pronto a
dar battaglia all’occorrenza,
reputò come bizzarro. Perché mai un Uomo Pesce
avrebbe dovuto aver paura di una
nave malridotta?
«Fokke».
Il tono con cui il vecchio pronunciò il suo nome
suonò vagamente accusatorio, e
anche il suo viso esprimeva una certa indignazione. «Cosa ci
fai tu qui? Mi
sembrava di averti dato un compito».
L’Uomo
Pesce si avvicinò con passi malfermi e doloranti, tenendosi
una mano premuta
contro un fianco. «Abbiamo fallito... Comandante
Chair», ansimò, e il vecchio
si accigliò, quasi non credesse a quelle parole.
«Cosa?»
domandò
difatti, traendo poi un lungo sospiro come se si fosse immediatamente
rassegnato
a quell’idea. «Pazienza... ci accontenteremo di
loro due, per il momento».
Accennò con il capo a Sanji e Zoro, il quale aveva
prontamente fatto da scudo con
tutto se stesso al corpo del cuoco, osservando attentamente ogni minimo
movimento degli altri due. Proprio nel notarlo, Chair si
voltò verso di loro e
sorrise amabilmente, incatenando il proprio sguardo a quello del Vice
Capitano.
Agire di istinto non gli sarebbe servito a nulla, e forse era proprio
per quel
motivo che non era ancora partito all’attacco. Decisione saggia.
Quel ragazzino era meno sprovveduto di quanto
aveva creduto al principio. «Il Capitano ne sarà
comunque soddisfatto», soggiunse,
e gli occhi di Fokke si illuminarono di felicità.
«Grazie,
Comandante, graz-» Non fece in tempo a finire la frase che
spalancò la bocca e
vomitò sangue nero, abbassando lo sguardo solo per vedere la
mano del vecchio
trapassargli lo stomaco da parte a parte; le squame del braccio gli
avevano
penetrato la pelle e luccicavano sinistramente ai bagliori di quel poco
sole
che filtrava dalle fronde degli alberi, sfumate di rosso acceso e
cobalto
chiaro. «Coman...dante... per...ché?»
«Non ho
mai detto che ti avrei perdonato il fallimento. Il tuo posto
è sulla nave,
adesso», asserì quest’ultimo in tono
glaciale, estraendo con un sol colpo il
braccio; Fokke cadde a terra riverso di fianco, tossendo e sputando
altro sangue,
tenendosi una mano premuta sullo stomaco e l’altra ad
artigliare furiosamente
il terreno con le unghie, come se farlo potesse in qualche modo
salvarlo. E il
tutto accadde proprio sotto lo sguardo incredulo dello spadaccino, che
estrasse
immediatamente anche la Shuusui senza perderlo d’occhio.
«Perché
l’hai
fatto?» domandò, tenendolo sotto tiro.
«Era un tuo compagno, o sbaglio?»
Chair si
voltò verso di lui e lo fissò con diffidenza,
come se per lui non
rappresentasse una vera e propria minaccia. «Giù
le spade, Roronoa», lo ammonì
pacatamente. «L’unico che potrebbe farsi male sei
tu».
«Staremo a vedere,
vecchio». Zoro gettò appena una
rapida occhiata a Sanji, che sembrava aver cominciato a respirare a
fatica,
stringendo le labbra in una linea sottile. Doveva darsi una mossa,
maledizione.
«Non ho tempo da perdere con te»,
replicò, e nel dirlo si portò
l’Ichimonji
alla bocca, afferrando saldamente la terza katana prima di gettarsi
all’attacco, più che intenzionato a porre fine a
quella battaglia il più
velocemente possibile; preso alla sprovvista, Chair si gettò
a terra per
evitare il colpo e rotolò su se stesso, imprecando a denti
stretti nel sentire
la lama di una delle tre spade sfiorargli un fianco. Non aveva idea se
a
muovere quel ragazzo fosse la disperazione o semplicemente la sua forza
d’animo, ma se era riuscito a colpirlo prima ancora che lui
potesse creare una
delle sue illusioni, era più pericoloso di quanto volesse
apparire in realtà.
«Non
voglio battermi con te, Roronoa!» gli gridò
contro, inclinando il capo di lato
nell’avvertire il filo della katana affondare nella sua
spalla; urlò di dolore,
afferrando con la propria mano la lama per tirarla fuori dalla carne
gemito
dopo gemito, incontrando lo sguardo omicida dello spadaccino a pochi
centimetri
dal suo viso.
«Se non
vuoi batterti, vedi di non intralciarmi», sibilò
Zoro nel mordere furiosamente
l’elsa dell’Ichimonji, facendo sempre
più pressione con la spada, senza dare
ascolto al lamento che strappò al vecchio. Lo spadaccino non
sembrava
intenzionato a far sì che estraesse l’arma, mosso
da una rabbia incontrollata che
Chair non riusciva a comprendere. Che cosa spingeva un essere umano
come lui ad
accanirsi in un modo simile?
«Questo...
non posso farlo».
«Allora
dovrò toglierti di mezzo e proseguire». Zoro
sollevò il braccio con cui
sorreggeva l’altra katana, e Chair approfittò di
quel breve attimo per colpirlo
allo stomaco con un calcio e allontanarlo da sé, vedendolo
caracollare all’indietro;
appariva ancora provato per lo scontro che aveva avuto con
l’illusione che gli
aveva mandato contro - non sarebbe riuscito a scostarlo con una tale
facilità,
altrimenti, lo sapeva -, ma aveva abbastanza forza per battersi con le
unghie e
con i denti, più che desideroso di farla finita per il bene
del suo compagno,
bisognoso di cure mediche. Era forse quello ciò che veniva
chiamato
cameratismo?
Chair non
perse tempo a rifletterci oltre, poggiando entrambe le mani a terra per
sollevare il peso dell’intero corpo e colpire il collo dello
spadaccino con un
altro calcio, giacché il ragazzo si era nuovamente gettato
verso di lui a spada
tratta con il chiaro intento di colpirlo al cuore; con una sonora
imprecazione,
scartò di lato ed utilizzò i poteri del proprio
frutto per creare una cortina
fumogena, in modo da nascondere se stesso e Zoro. Immobile, con la
schiena
premuta contro lo scafo distrutto della nave e le palpebre abbassate,
Chair
ascoltò il battito furioso del cuore del suo avversario, che
sembrava trovarsi
proprio a pochi passi da lui; non si muoveva, quasi stesse a sua volta
controllando i suoi movimenti pur non vedendolo, ma ciò
bastò per comparirgli
alle spalle e assestargli una ginocchiata fra le scapole, cogliendolo
alla
sprovvista.
Zoro spalancò
la bocca e si lasciò sfuggire le spade nel crollare in
ginocchio sul terreno
umido, sputando saliva e portandosi immediatamente una mano al petto;
le bende
con cui aveva fasciato alla bell’e meglio le sue ferite erano
intrise di
sangue, e non si sarebbe meravigliato nello scoprire che,
probabilmente, si
erano pure riaperte. Non riusciva nemmeno a capire se la foschia che
vedeva
dinanzi a sé fosse ancora causa di quel vecchio o se il suo
occhio stesse ormai
faticando più di prima a riconoscere le forme,
però imprecò a denti stretti nel
sentire delle forti dita palmate intrecciarsi nei suoi capelli fino a
strattonarlo all’indietro, avvertendo un caldo respiro
solleticargli un
orecchio.
«Ti avevo detto che non volevo
combattere. Mi ci
hai costretto tu».
«Che cosa
sta succedendo qui?»
Chair
sbiancò, lasciando andare a poco a poco Zoro, il quale
ricadde riverso in
avanti tra un colpo di tosse e l’altro. A frenare la sua
caduta furono solo i
suoi gomiti, e, per quanto nelle orecchie avesse cominciato a sentire
uno
strano brusio lontano, quasi si trovasse in fondo all’oceano,
gli pare di udire
le parole «Capitano Jones» uscire dalle labbra del
vecchio. Alzò dunque lo
sguardo, non credendo ai propri occhi. Per quanto avesse
l’aria di essere a sua
volta un Uomo Pesce, intorno a lui aleggiava un velo di mistero
difficilmente
dissipabile, forse anche a causa delle sue fattezze più
animalesche che umane.
E adesso chi diavolo era quel tipo? Un momento... il vecchio l'aveva
chiamato
Jones. Capitano Jones.
In un lampo
gli tornarono in mente le parole del cuoco, la leggenda che gli aveva
raccontato, e qualcosa, nella sua mente, gli diede l'agio di credere
che quello
fosse proprio lo stesso Jones di cui aveva sentito parlare. Che cazzo
era, un
fottuto scherzo?
«Roronoa Zoro... temi tu la
morte?» gli domandò
quest'ultimo in tono pacato, quasi fosse ormai un quesito ordinario, e,
tossendo e rimettendosi in piedi con una certa fatica, il Vice Capitano
sollevò
le labbra in un ghigno, sputando sangue.
«Non posso avere paura di
qualcosa che non conosco».
Jones dapprima sembrò
osservarlo come se fosse
irritato da quelle parole, arricciando le labbra e serrando una mano
lungo un
fianco; contro ogni aspettativa, però, scoppiò a
ridere. «Non potevo aspettarmi
una risposta diversa, da un uomo come te». Gli si
avvicinò con passi sicuri,
senza temere l’aria ostile che pareva sprigionare il Vice
Capitano. «Ti propongo un
accordo, Roronoa», cominciò, infilando una mano in
tasca per tirare fuori
quella che aveva tutto l’aspetto di essere una patacca nera;
la mostrò poi allo
spadaccino, che, diffidente, strinse una mano intorno
all’elsa della propria
katana pur continuando ad osservare ciò che Jones gli stava
porgendo. «La morte
per te e i tuoi compagni o cent’anni ancora sovraccoperta per
tutti voi, sulla mia nave.
Che cosa scegli?»
«Che razza di domanda
è?» Zoro puntò la lama contro
di lui, assottigliando lo sguardo. «Non so chi tu sia, ma
questo non è un
accordo. Mi stai proponendo praticamente la stessa cosa, e io non ho
intenzione
di scegliere né l’una né
l’altra. È Rufy il mio Capitano».
Jones sollevò un
sopracciglio, riponendo
accuratamente la patacca in tasca. «Come desideri,
allora», affermò
cordialmente, volgendo il capo verso il suo Vice.
«Chair», lo chiamò, e il
vecchio annuì, congiungendo i polpastrelli di indice e medio
prima di puntare
entrambe le mani nella direzione dello spadaccino, sussurrando qualcosa
a denti
stretti; Zoro sentì la terra tremare sotto i propri piedi,
ed ebbe appena il
tempo di abbassare lo sguardo prima che dei tentacoli sbucati dal nulla
gli
afferrassero le caviglie, avvinghiandosi intorno al suo corpo per
atterrarlo
una volta per tutte.
«Che diavoleria è
questa?!» sbraitò, allargando le
braccia per cercare di dissipare quel groviglio che si era impossessato
di lui;
riuscì solo a far attorcigliare i tentacoli intorno ai suoi
polsi e sulla
propria bocca, e dovette mordere uno di quelli e sputarne
ciò che restava a
terra per riprendere a respirare, giacché sembravano avere
tutta l’intenzione
di soffocarlo.
«Più ti muovi,
più si stringono», gli spiegò il
vecchio senza giri di parole, avendo persino la sfacciataggine di
scrollare le
spalle come se nulla fosse. «Queste piante sono piuttosto
irritabili... ti
consiglierei di stare fermo». E avrebbe anche aggiunto altro
se solo non avesse
colto con la coda dell’occhio il cenno della mano del suo
Capitano, il quale
parve imporgli silenzio con un solo sguardo.
«Qui me ne occuperò
io, Chair. Vai dai suoi
compagni, e stavolta vedi di non deludermi»,
affermò quest’ultimo, ma la cosa
parve non essere gradita al vecchio, che si ritrovò comunque
a chinare il capo
e a fare un passo indietro, scoccando un’occhiata allo
spadaccino. Dalla sua
espressione sembrava fosse stato costretto ad ingoiare letteralmente un
rospo,
come se quel nuovo ordine non gli piacesse per niente, però,
senza sciogliere i
vincoli che incatenavano Zoro, sparì dalla sua vista in
silenzio, quasi fosse
stato fatto di pura nebbia. Un altro effetto del frutto che aveva
mangiato? Lo
spadaccino non lo sapeva né tanto meno avrebbe voluto
scoprirlo, troppo
impegnato a lottare contro le piante che lo tenevano legato e ad
imprecare
inutilmente all’indirizzo di quel Jones, che pareva ignorarlo
palesemente.
Sotto il suo sguardo incredulo, si diresse difatti a passi rapidi e
sicuri in
direzione di Sanji, lasciando dentro Zoro una sgradevole sensazione di
debolezza. Era lì, a neanche pochi metri da entrambi, e a
causa di quegli
impedimenti non poteva muovere un muscolo per aiutare un proprio
compagno. Che
razza di Vice Capitano era, se non riusciva nemmeno a fare una cosa
simile?
«Non osare toccarlo!» gli ringhiò
contro,
strattonando le braccia nel tentativo di liberarsi dai tentacoli che lo
costringevano a stare in ginocchio sul terreno; la vista era offuscata
e gli
mancavano le forze, ma non avrebbe mai permesso al rimasuglio di una
leggenda a
cui lui non credeva di fare ciò che più
desiderava. Quel Jones, però, si limitò
semplicemente a regalargli un sorriso, chinandosi a mezzo busto per
afferrare
il cuoco per il collo e sollevarlo ad un metro da terra; Sanji
tossì, forse persino inconsciamente, esalando un lungo
sospiro doloroso nel
reclinare il capo contro quella mano.
«Non disperare, spadaccino. Arriverà anche il tuo
turno», lo informò il Capitano in tono di scherno,
serrando così forte le dita palmate che
Zoro ebbe la sgradevole sensazione di sentir scricchiolare le ossa di
Sanji.
«Se non cominciassi da lui, marinaio fermamente devoto e
timoroso dell’oceano,
gli farei un torto».
«Lascialo andare, altrimenti
io...!»
«Altrimenti tu cosa?»
sibilò Jones, sferzando furentemente l’aria con la
lunga coda biforcuta che
possedeva. «Ti è stata data una scelta... adesso
accetta la tua stessa
decisione. Il tuo destino è stato scritto».
«Il destino può
anche baciarmi il culo», sbottò di
rimando Zoro, imprecando a denti stretti nel sentire i tentacoli
avvolgersi
intorno al busto come le spire di un grosso serpente, strappandogli un
gemito e
mozzandogli il respiro; se fosse stato in forze non ci avrebbe messo
nemmeno
due secondi a liberarsi di quelle dannate piante, le avrebbe
semplicemente
sradicate senza avere neanche il bisogno di utilizzare
l’haki. Però...
dannazione, faceva già fatica a stare in piedi senza che ci
si mettessero anche
loro. Con la coda dell’occhio, vide Jones allontanarsi in
direzione della nave
e portare con sé il cuoco, impossibilitato a reagire come
invece avrebbe fatto
se fosse stato cosciente, prendendolo di sicuro a calci nonostante la
caviglia
slogata. Merda!
Non aveva tempo da
perdere dietro ai giochetti di quel tipo, aveva urgente bisogno di
portare
Sanji da Chopper, se voleva sperare che quell’idiota non ci
lasciasse la pelle
a causa sua.
Divincolandosi, lo spadaccino
provò ad allungare un
braccio per recuperare almeno una delle sue katane, sfiorando a
malapena l’elsa
con le dita. Ci riprovò ancora una volta, sebbene ormai non
riuscisse quasi più
a respirare, ed esultò interiormente quando la mano si
strinse intorno alla
Kitetsu, per quanto l’avesse impugnata poco saldamente; con
tutta la forza di
cui disponeva, tese il braccio all’indietro e la
lanciò contro Jones, pregando
di centrare il bersaglio nel tentativo di arrestare la sua traversata.
Dritta e rapida come una freccia
scoccata da un
arco, la katana si piantò esattamente al centro della
viscida testa di Davy
Jones, la cui presa intorno al collo del cuoco si fece meno stabile,
lasciando
infine che cadesse riverso di fianco sul terreno paludoso.
Già sul punto di
cantar vittoria, Zoro raggelò nel momento stesso in cui quel
tipo, voltandosi
verso di lui come se non avesse una lama conficcata nel bel mezzo della
fronte,
abbozzò una smorfia che parve ricordare vagamente un
sorriso, carezzandosi i
tentacoli che terminavano in una lunga barba scura mentre si leccava al
contempo il sangue nero che gli colava sino alla bocca.
«Complimenti, Roronoa. Mi hai
appena ucciso».
«Rufy!
Piantala di fare l’idiota e diamoci una mossa!»
sbraitò per la milionesima
volta Nami, tirando inutilmente il braccio di gomma del suo Capitano.
Dal
momento in cui aveva visto quella nave librarsi nel cielo, leggera come
una
piuma nonostante il legno di cui era composta, Rufy aveva assunto
un’espressione così eccitata da ricordare un
bambino dinanzi ad un negozio di
giocattoli. Aveva cominciato a blaterare di volerla inseguire per
vedere dove
fosse diretta e chi fosse al timone, certo che quella si sarebbe
rivelata
un’avventura ancor più grandiosa di quella che
stavano già vivendo in
quell’esatto momento; Nami gli aveva giustamente fatto notare
tra un cazzotto e
l’altro che non avevano tempo da perdere dietro simili
sciocchezze e che
avrebbero dovuto trovare gli altri, ma il Capitano era stato
irremovibile.
Quando si metteva in testa una cosa era difficile convincerlo e provare
a
fargli fare il contrario di quanto appena affermato, e Nami ormai
l’aveva
imparato bene. Però... accidenti, non era proprio il momento
di accontentare i
suoi capricci, ora come ora.
«Chissà
dove sarà diretta quella nave»,
sussurrò Chopper, che se n’era rimasto in
silenzio e in disparte a curare le ferite di Usopp, seduto a gambe
conserte sul
terreno. Lui e il cecchino avevano ascoltato la conversazione avvenuta
fra
navigatrice e Capitano e avevano tratto le loro conclusioni, e, per
quanto un
po’ di curiosità riguardo quella strana nave fosse
venuta anche a loro, non
potevano permettersi distrazioni simili. E poi c’era sempre
l’incognita che
quella stessa nave potesse rivelarsi un pericolo ancor più
grande di quelli
affrontati finora, cosa che non era per niente da escludere.
«Non deve
interessarci», lo freddò immediatamente Nami,
strattonando ancora una volta a
sé Rufy. Quello scemo stava avanzando senza far caso al
fatto che lei avesse
praticamente conficcato le unghie nel suo polso per non farlo
allontanare più
del dovuto, allungandosi imperterrito. «Quel che dobbiamo
fare adesso è tornare
alla Sunny, se questo idiota la pianta di fare il moccioso»,
rimbeccò,
accennando al Capitano con il capo.
«Anche se
ci riuscissimo, però, resta l’interrogativo di
come lasciare l’isola», le fece
notare Robin, accomodatasi su una roccia con aria pensosa.
«Se questa in cui ci
troviamo è davvero una rotta maledetta come affermano quelle
antiche scritture,
salpare non sarà per niente facile».
«Tu cosa
proponi di fare?»
Robin
scrollò le spalle. «Di certo non possiamo stare
qui senza far niente, ma anche
tentare la fuga non ci porterà da nessuna parte».
Incrociò le braccia sotto al
seno, sollevando lo sguardo verso il cielo opaco come se esso potesse
darle
tutte le risposte di cui necessitava. «Quelle testimonianze
parlavano di un
patto di sangue e di uno spettro... potrebbe essere in qualche modo
collegato
con quanto sta accadendo sull’isola».
Nami mollò
così in fretta Rufy che quest’ultimo, per
l’essersi allungato troppo, andò a
schiantarsi direttamente contro il tronco di un albero, ma lei non gli
diede
peso, avvicinandosi speranzosa alla compagna. «Quindi se
trovassimo la fonte...
riusciremmo ad andarcene?» le domandò,
però Robin si limitò semplicemente a scuotere
il capo, incerta.
«Non ne
sono sicura, però potremmo provarci».
«Allora
cerchiamo di darci una mossa», affermò Nami,
acquisendo un’aria agguerrita.
Voleva andarsene da quella stupida isola e l’avrebbe fatto,
anche se ci fossero
voluti dei mesi per riuscirci. Senza alcun indugio, raccattò
quello scemo di
Rufy - che se n’era rimasto a borbottare riguardo
chissà quale avventura che
non avrebbe potuto vivere, la schiena poggiata vicino
all’albero contro cui era
stato precedentemente lanciato - e cominciò ad incamminarsi
per prima, facendo
sorridere Robin e scuotere il capo a Franky.
«Nervosa
la sorellina, eh?» commento, e l’archeologa si
lasciò sfuggire una mezza
risata.
«In fin
dei conti posso capirla, anche se mi piacerebbe reperire qualche altro
monumento
storico».
Franky la
osservò con un sopracciglio inarcato, sollevando poi un
angolo della bocca
nella parvenza di un sorriso prima di calarsi gli occhiali da sole.
«Donne».
«Hai detto
qualcosa, Franky?»
«Nah,
niente», tagliò corto, agitando una mano in
risposta per incamminarsi poi per
primo, giacché aveva sentito una mano di Robin fiorire
pericolosamente sulla
sua gamba destra. Non se l’era scordata quella prima volta a
Water Seven, lui.
Era meglio non farla irritare e lo sapeva. «Vediamo di
muoverci, piuttosto.
Bisogna trovare anche Uomo Katana e Mr. Sopracciglio».
«Sono d’accordo
con te», asserì lei, superandolo come se nulla
fosse e ricambiando il suo
sorriso dopo aver fatto scomparire il braccio agitando semplicemente
due dita.
Donne. Non le avrebbe mai capite.
Avanzarono
nella boscaglia passo dopo passo, stando attenti a dove mettevano i
piedi per
evitare sorprese e guardandosi le spalle, in modo da evitare altri
attacchi a
sorpresa da parte di quegli Uomini Pesce; ad ogni metro che
percorrevano, però,
sembravano non essersi mossi nemmeno di qualche centimetro,
poiché la foresta
intorno a loro appariva simile a quella che avevano appena lasciato
dietro di
sé, con gli stessi rampicanti e le stesse cortecce annerite.
La nebbia
divenne soffocante, quasi fosse stato possibile toccarla con mano e
intrappolarla in un barattolo, e più avanzavano in mezzo a
quella foschia,
tossendo nel vano tentativo di scacciare dalle proprie gole il sapore
muschioso
che penetrava nei loro polmoni ad ogni boccata, più
sentivano i corpi pesanti e
difficilmente manovrabili, come se non appartenessero a nessuno di
loro. Era una
sensazione bizzarra e spiacevole, ma non ebbero tempo di farsi domande,
poiché
un fruscio fra le fronde richiamò l’attenzione di
tutti e li mise sull’attenti,
ancor più quando dal folto della foresta emerse una figura
gracile e tarchiata,
avvolta in un pastrano logoro e stracciato.
«A quanto
pare chi non muore si rivede sul serio, ragazzi».
«Vecchio!»
esclamò Usopp, sorpreso. Nessuno di loro sapeva se ci fosse
anche lui dietro a
tutta quella storia né se ne fosse completamente
all’oscuro, però era stato
proprio quell’anziano signore a metterli in guardia sui
pericoli che avrebbero
potuto correre su quell’isola. Ma come avrebbe potuto
sopravvivere per tutti
quegli anni, completamente circondato da Uomini Pesce pronti a colpire,
se così
non fosse stato? C’era di sicuro sotto qualcosa, e il modo in
cui quel vecchio
sorrideva non faceva altro che inculcare nel cecchino
l’assoluta certezza che
non fosse chi voleva far loro credere di essere. Il suo istinto non
sbagliava
mai, e in quel momento era in completo allarme. Che diavolo
c’era dietro tutta
quella storia?
Con un
sospiro tra il rassegnato e il divertito, il vecchio fece qualche passo
nella
loro direzione, abbassando un braccio lungo un fianco. Mano a mano che
si
avvicinava, esso cominciava ad acquisire sfumature azzurrine e a
ricoprirsi di
squame, all’apparenza dure come l’acciaio; il
sorriso sdentato appassì, lasciando
posto ad un’arcata dentale massiccia e acuminata che sembrava
appartenere ad un
mostro marino; il viso scarno e pallido assunse un aspetto forte e
spavaldo, la
mascella si squadrò e il mento appuntito venne smussato come
se fosse
appartenuto ad una statua appena levigata, mostrando pian piano alla
ciurma il
vero volto dell’uomo che avevano dinanzi.
«Tu sei l’Uomo
Pesce contro cui sono andato a sbattere!» esalò il
cecchino tutto d’un fiato,
incredulo quanto gli altri. Che cazzo stava succedendo?
Il vecchio
sorrise, liberandosi del pastrano con un gesto secco prima di lanciarlo
lontano
da sé, nel bel mezzo della boscaglia. «Quanto
acume, signor cecchino», lo prese
in giro, adocchiando Rufy e facendo lui un distratto inchino, muovendo
la mano
sinistra con fare altezzoso. «Comandante Chair al vostro
servizio. Non
vogliatemene, ragazzi. Eseguo solo gli ordini del mio Capitano».
E quasi parve sputare quella parola, per quanto forse fosse stata
semplicemente una vaga impressione del gruppo. «Esattamente
come fareste voi, suppongo».
Robin e
tutti gli altri si misero in posizione d’attacco per
prevenire in anticipo
qualunque mossa sarebbe potuta passare nella mente di quel vecchio, ma
Rufy si
parò dinanzi a loro e li bloccò con un braccio,
lo sguardo fisso su quello che
nella sua mente era ormai divenuto il suo avversario. E non avrebbe
permesso a
nessuno dei suoi compagni di intromettersi in qualche modo.
«A lui ci penso io»,
affermò, scroccando le dita di entrambe le mani. Il sorriso
che si era
disegnato sulle sue labbra sembrava non promettere nulla di buono,
però Chair
non parve minimamente impressionato. O era sicuro delle proprie
capacità,
oppure era un così bravo attore da non mostrar loro quanto
in realtà temesse
tutti loro.
«Monkey D. Rufy». L’Uomo
Pesce
pronunciò quel nome
con voce gracchiante, osservando da capo a piedi il ragazzo che gli si
era
parato di fronte, abbozzando poi un sorriso. «La tua immagine
mi è stata
davvero molto utile».
«Di che cosa
stai parlando?» domandò il ragazzo con fare
guardingo, ma il vecchio scrollò
semplicemente le spalle, come se la questione non lo toccasse
minimamente.
«Credo che
i tuoi amici sappiano bene di cosa sto parlando...
com’è che si chiamavano?
Sanji e Zoro?»
Nell’udire
quei nomi, l’espressione sul volto di Rufy divenne seria.
«Dove sono il mio
cuoco e il mio Vice Capitano?» sibilò, togliendosi
il cappello di paglia per
affidarlo a Nami, la quale si ritrovò costretta ad fare
qualche passo indietro
per la foga con cui il giovane gli aveva consegnato quel suo tesoro.
Sembrava furioso,
e non distoglieva lo sguardo dall’uomo che aveva dinanzi.
«Ti conviene parlare,
se non vuoi che ti prenda a calci in culo».
Vedendolo ostentare
silenzio, Rufy assottigliò le palpebre e si gettò
verso di lui con un grido
rabbioso, colpendolo furiosamente con una raffica di pugni; ad ogni
colpo,
però, gli sembrava di toccare con le mani soltanto aria,
quasi la persona che
aveva davanti a sé non avesse la benché minima
consistenza, e tale impressione
fu accentuata quando, dalla sua sinistra, sopraggiunse una gomitata che
lo
centrò in pieno costato, facendolo barcollare di lato per la
confusione. Ma che
diavolo...?
Rufy stornò
bruscamente lo sguardo in quella direzione solo per vedere il volto
squamoso
del vecchio scomparire dinanzi ai suoi occhi, venendo colpito
pesantemente alla
nuca da un calcio che lo fece schiantare con il viso sul terreno.
«Rufy!»
esclamò Nami, e si sarebbe gettata in suo aiuto se una
grossa mano di Franky
non l’avesse fermata e costretta a rimanere al proprio posto,
per quanto lui stesse
continuando ad osservare quella bizzarra lotta.
«È la sua
battaglia», le ricordò, deglutendo a vuoto prima
di sussurrare, «Andiamo,
fratello», forse perché nemmeno lui riusciva a
credere che il Capitano potesse
davvero perdere contro quel tipo. In passato, e persino dal primo
momento in
cui avevano messo piede nel Nuovo Mondo, avevano tutti affrontato
avversari
temibili e sempre più forti, e il pensiero che adesso il
ragazzo non riuscisse
a cavarsela lo faceva fremere da capo a piedi, come se fosse pronto ad
intervenire se si fosse ritenuto necessario. Ed esultò
quando vide Rufy
riuscire a mettere a segno un colpo, facendo barcollare il proprio
avversario.
Annaspando,
Chair si portò una mano al viso per cancellare le tracce di
sangue che gli
macchiavano la bocca, schioccando poi le dita; le radici di una quercia
si
mossero come se avessero vita propria e strisciarono simili a serpenti
in
direzione di Rufy, che dovette saltare sul ramo di un altro albero nel
tentativo di evitarle. Contro ogni sua aspettativa, però,
quelle radici viventi
si arrampicarono lungo la corteccia e gli ghermirono le caviglie,
strattonandolo verso il basso fino a fargli sbattere ancora una volta
il viso
contro il terreno; muovendo le gambe per scivolare al di fuori di
quella presa,
Rufy sollevò lo sguardo verso il Comandante e
allungò un braccio verso di lui, avvolgendolo
intorno alla sua vita per impedirgli di allontanarsi, per quanto
quest’ultimo
avesse cominciato ad agitarsi freneticamente nel tentativo di
liberarsi.
«Gomu gomu no»,
Rufy allungò il collo all’indietro
il più possibile, cominciando pian piano ad allentare la
presa intorno al corpo
del vecchio prima di esclamare «kane!»
e scagliarsi contro di lui, colpendolo con una craniata al centro della
fronte;
barcollando, il vecchio sembrò faticare a reggersi in piedi,
ma sarebbe
sicuramente partito all’attacco ancora una volta se solo
Rufy, ormai libero
dalle radici che l’avevano imprigionato, non si fosse gettato
contro di lui e
non avesse cominciato ancora una volta a tempestarlo di pugni,
lanciandolo
lontano e facendogli sbattere la schiena contro il tronco di un albero.
Imprecando
e tossendo, Chair si sorresse contro quello stesso albero, portandosi
una mano
alla spalla, dalla quale usciva copiosamente sangue. Dannazione a
quello
stupido spadaccino. Il colpo che gli aveva inferto la seconda volta era
andato
a segno e aveva quasi rischiato di tranciargli di netto un braccio, ed
era
specialmente a causa sua se adesso non riusciva a combattere al meglio
come
aveva fatto quando gli aveva mandato contro la sua illusione. Merda. Non aveva la
benché minima
intenzione di morire per mano di quei mocciosi e venir recluso per
l’eternità
su quella maledetta nave. Preferiva l’esilio a quella
non-esistenza, se proprio
doveva scegliere.
Sollevando
un braccio verso l’alto, gesto che subito mise in guardia il
gruppo di pirati
che aveva dinanzi, Chair abbozzò una sorta di sorriso
sarcastico, chiudendo le
dita contro il palmo e premendo talmente forte le unghie contro di esso
da
lasciare i segni delle mezze lune; strinse con maggior violenza,
socchiudendo
una palpebra quando il sangue cominciò a colare lungo il
polso. «È
tutto nelle tue mani, Roronoa», sussurrò poi a se
stesso, alzando anche l’altro
braccio fino a far coincidere le dita palmate; un violento lampo di
luce rese
momentaneamente ciechi i Mugiwara, i quali dovettero assottigliare le
palpebre
per riuscire a vedere qualcosa o almeno provarci.
«Che
diavolo...?!» esclamò Franky,
schermandosi gli occhi con le lenti nel vano tentativo di capire che
cosa
stesse succedendo, e, per quanto la nebbia avesse cominciato a
dissolversi
sotto ai loro occhi, uno strano senso di abbandono si
affacciò nei loro cuori,
lasciando solo martellanti domande e dubbi.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Sono
imperdonabile. Ci ho messo una vita pur avendo i capitoli
già
pronti, però una cosa tira l'altra e... va beh, adesso
fortunatamente il capitolo c'è, e la storia è
quasi
giunta alla sua conclusione.
Comunque sia, capitolo
che racchiude in sé un misto di leggende marinare,
immaginazione (che non fa mai male, quando si tratta di racconti), e
riferimenti storici realmente documentati. C'è persino
qualche
accenno presente nel manga stesso dopo l'arrivo di Hody Jones, e credo
siano stati facilmente intuibili sin dagli scorsi capitoli. Il Kraken e
l'Olandese volante, ad
esempio. Però, ecco, io sono sempre stata fissata con le
leggende marinare e tutto ciò che ne concerne - si
può
praticamente dire che ci sono cresciuta, con roba simile -, dunque con
una storia da un titolo simile come potevano mancare precisi
riferimenti ad essi?
Anyway, la versione alla quale faccio
riferimento io non è quella di Marryat,
bensì quella in cui il Capitano Vanderdecken,
incrociando una tempesta sulla rotta per Capo di Buona Speranza,
imprecò contro Dio e invocò il Diavolo, scendendo
a patti
con lui e promettendogli che nel giorno del giudizio avrebbe potuto
prendersi la sua anima; la nave, però, si spezzò
a
metà e naufragò, e persino la morte
rifiutò
l'anima di
Vanderdecken, che fu condannato a vagare da solo sul relitto del
vascello.
Tralasciando questo, spero vi sia piaciuto e non abbia deluso.
Al prossimo. ♥
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di
scrittori.
|
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Capitolo 8 *** [ Third season › In pieces ] Back to home, 04 ***
Like Davy Jones_8
THIRD SEASON ›
IN PIECES
BACK TO HOME, #04
Dal
momento
in cui quella lama aveva attraversato il capo di Jones senza ucciderlo,
sembrava essere passata un’eternità.
Zoro
era rimasto ad osservarlo ad occhi sgranati, faticando a considerare
veritiera
quella scena. Erano passati esattamente due anni dall’ultima
volta in cui, a
Thriller Bark, si era sentito completamente inerme dinanzi ad un
nemico, e
aveva giurato a se stesso di diventare ancora più forte per
fare in modo che
nessuno dovesse mai agire come aveva deciso di fare lui per il bene
della
ciurma; provare dunque la stessa sensazione di devastante impotenza
l’aveva
momentaneamente paralizzato, poiché mai, dopo tutti i
sacrifici compiuti
durante quegli anni di separazione, avrebbe creduto di potersi sentire
ancora
una volta così. Debole.
Un debole che
non riusciva nemmeno a liberarsi di qualche insulsa pianticella per
aiutare un
proprio compagno.
A quei
suoi stessi pensieri, Zoro imprecò, cercando ancora una
volta di strattonare i
tentacoli che lo costringevano ad incurvare sempre più la
schiena all’indietro,
dandogli quasi l’orrenda sensazione che la spina dorsale
potesse spaccarsi a
metà; non aveva perso d’occhio nemmeno per un
attimo la figura di Jones che,
portandosi distrattamente una mano dietro la testa, aveva afferrato
saldamente
l’elsa della katana e se l’era sfilata come se
nulla fosse, gettando l’arma sul
terreno con fare sciatto e annoiato. «Ti pregherei di non
distrarmi oltre, Roronoa.
Presto il posto di tutti voi sarà a bordo della mia
nave».
«Non cantare vittoria troppo
presto, bastardo!»
gracchiò in risposta lo spadaccino, mordendosi il labbro
inferiore nel sentire
le piante avvolgersi intorno al busto. Premevano con forza contro le
sue ferite
e aveva l’impressione che esse fossero percorse da mille lame
acuminate che
penetravano nelle sue carni, maciullandole dall’interno; la
casacca e
l’haramaki erano ormai completamente impregnati di sangue ed
era solo per
miracolo se riusciva ancora a tenere gli occhi aperti e il capo
sollevato, o
forse era tutto merito di quei tentacoli e delle spire soffocanti in
cui gli
avevano avvinghiato il collo, non permettendogli di reclinarlo
né all’indietro
né tanto meno in avanti. Come se non bastasse, quel Jones
sembrava ignorarlo
come se non aprisse minimamente bocca, e la cosa stava cominciando a
diventare
snervante.
Nel vederlo afferrare nuovamente il
cuoco e
caricarselo in spalla, Zoro tentò di divincolarsi ancora una
volta, sentendosi un
vero e proprio incapace per quella sua mancanza di spirito. Cazzo! Come diavolo
avevano fatto a
ritrovarsi in quella dannata situazione? Eppure fino a pochi giorni
prima non
avrebbero mai pensato di vivere un incubo come quello. Nemmeno dopo
Punk Hazard
avrebbero creduto ad una cosa del genere, maledizione. «Ti ho detto di non toccarlo!»
gridò con tutto il fiato che aveva in
gola, ma Jones continuò ad avanzare imperterrito in
direzione della nave, come
se non fosse mai stato fermato e non avesse un buco sanguinante nel
cranio. «Lascialo
andare, figlio di puttana!» urlò, lo sguardo fisso
sul volto pallido del
compagno. Non l’aveva visto di quel colorito nemmeno quando
aveva rischiato di
morire per quelle sue stupide emorragie nasali, e, purtroppo, stava
cominciando
a credere anche lui che ormai non ci fosse più niente da
fare. Erano davvero
destinati a veder terminare i loro sogni su quell’isola
dimenticata da un
qualunque Dio?
Senza riuscire a comprendere quel suo
modo di fare,
Zoro vide quel Jones lanciare contro la nave il cuoco, il cui corpo si
accasciò
fra le botti annerite e le casse distrutte, quasi l’avesse
caricato a bordo
alla stregua di un pacco; poi, come se nulla fosse, il Capitano volse
lo
sguardo sullo spadaccino e sorrise, o almeno così parve. Era
difficile
distinguere la sua espressione su quella maschera di carapace che era
ormai
divenuta il suo volto, che di umano non aveva conservato un bel niente.
«Dovevi
solo attendere, Roronoa. Te l’avevo ben detto»,
asserì poi, incamminandosi a
passi moderati nella sua direzione, quasi non avesse fretta. Merda.
Quindi
quella era davvero la fine?
Zoro non finì nemmeno di
formulare quel pensiero che
le piante che lo tenevano prigioniero allentarono
la presa intorno ai suoi polsi e al suo collo e si seccarono,
lasciandolo
finalmente libero di toccare terra; persino la nebbia nei dintorni si
diradò,
per quanto nell’aria persistesse ancora un velo di foschia
che non permetteva
di distinguere i profili lontani, dando solo una vaga visione del
paesaggio
circostante. Ciò che Zoro riuscì a vedere bene,
però, fu la smorfia che parve
dipingersi sul volto di Jones, immobile a pochi passi da lui.
«Quel
maledetto traditore...» sibilò, facendo schioccare
furentemente le dita della
mano sinistra come se si fosse trattato della chela di un granchio. Lo
spadaccino non fu in grado di capire a cosa si riferisse,
però, se
l’incantesimo che l’aveva tenuto intrappolato fino
a quel momento si era
sciolto, forse c’entrava proprio il vecchio che
l’aveva lanciato?
Zoro non
perse tempo a divagare oltre su quei pensieri e, allungando un braccio
per
afferrare l’elsa di almeno una delle proprie katane con
entrambe le mani, si
alzò in piedi sulle gambe malferme, lanciandosi contro
l’avversario prima
ancora che quest’ultimo potesse rendersene del tutto conto;
concentrò tutta la
propria forza in quell’unico colpo, accertandosi di aver
trapassato da parte a
parte la carne di Jones, tentando di non badare alle scosse dolorose
che
fulminarono il suo corpo ferito. La sensazione della lama che tagliava
la carne
come se fosse burro si diramò lungo i suoi arti superiori,
dandogli una scarica
di adrenalina che arrivò dritta al suo cervello;
sentì il sangue schizzargli
sul viso, l’ansimo sofferente fuggito dalla labbra
dell’avversario, e si girò
appena in tempo per vederlo cadere su un ginocchio, tenendo lo sguardo
fisso
sullo squarcio che partiva dalla spalla fino al fianco destro.
Per un
attimo il mondo parve fermarsi in un momento di stasi. Non si muoveva
nemmeno
una foglia e anche la nebbia sembrava essere diventata consistente,
tanto che
sarebbe bastato poco per sfiorarla con le dita e catturarla, almeno
fino a
quando Jones non si sollevò in piedi, grondando sangue, e si
voltò con aria di
sufficienza per osservare il volto incredulo dello spadaccino,
scuotendo il
capo. «Per quante volte tu mi colpisca, non potrai mai
uccidermi».
Zoro
strinse le dita intorno all’elsa dell’Ichimonji,
deglutendo nel continuare a
fissarlo in viso, la pupilla ingigantita dalla confusione. Non poteva
crederci,
dannazione. «È
uno scherzo. Un fottuto
scherzo»,
cercò di auto-convincersi, eppure ciò che stava
vedendo era del tutto vero. Che
non potesse davvero fargli nulla? A quel suo stesso pensiero trasse un
lungo
sospiro, quasi volesse provare a riacquistare la calma, cosa per niente
facile,
in quel momento. Non doveva scoraggiarsi né tanto meno
perdere di vista il
proprio obiettivo primario, poiché farlo avrebbe significato
arrendersi e
gettare all’aria tutto l’allenamento a cui si era
sottoposto fino a quel
momento.
Assottigliando
le palpebre, Zoro fletté le gambe e caricò il
colpo, lanciandosi con furia
verso Jones, che scartò di lato così in fretta
che quasi parve avergli letto
nella mente; ogni fendente con cui lo spadaccino tentava di colpirlo
veniva
prontamente schivato e rispedito al mittente, rendendo vani tutti
quegli
sforzi. Con agilità inumana, il Capitano si piegò
sulle ginocchia e gli sferrò
un calcio dritto al viso, costringendo Zoro ad indietreggiare tra un
colpo di
tosse e l’altro, e fu solo per miracolo che
quest’ultimo non allentò la presa
sulla katana, rinserrandola; provò comunque a
contrattaccare, però ebbe appena
il tempo di sollevare lo sguardo prima che un altro colpo lo centrasse
dritto
in mezzo al petto, mozzandogli il fiato. Boccheggiando, scosse la testa
nel
vano tentativo di schiarirsi la mente, ma un altro calcio si
abbatté con furia
sulla sua guancia, facendogli sputare
sangue.
«Sei cocciuto,
Roronoa», disse Jones con calma
assoluta, sferzando il terreno con la coda per far crollare di schiena
il Vice
Capitano, sfruttando lo spostamento d’aria e la sua
espressione provata;
approfittò poi di quella sua momentanea confusione per
afferrarlo per la
casacca e sollevarlo da terra, chiudendo una mano a pugno per colpirlo
violentemente al viso.
Quel colpo
lo scagliò dritto contro lo scafo della nave, mandando in
frantumi le assi
ormai logorate dagli anni e dalla salsedine; cadde riverso di schiena
sulle
rocce sottostanti, in una pioggia di schegge di legno, muffa e povere,
e tossì
nel vano tentativo di riprendere fiato, passandosi una mano sugli occhi
per
ripulirli. Non riusciva a vedere bene - difficile dire se per il colpo
ricevuto
o se per le ferite che non gli davano tregua - e sentiva il sangue
tamburellargli
nelle orecchie, però, assottigliando la palpebra,
provò a mettere a fuoco
almeno i dintorni, riconoscendo a poco a poco la figura del compagno,
rannicchiato poco distante. Alcune assi dello scafo gli erano cadute
addosso e
l’avevano ricoperto di polvere e detriti, e forse era stato
solo per miracolo
se non avevano infilzato le sue carni, nascondendolo solo parzialmente.
«Ormai è
morto... un vero peccato». Simili ad una lama a doppio
taglio, le parole di
Jones trapassarono i suoi timpani e riuscirono a far correre dentro
tutto il
suo essere un moto di panico, tanto che, seppur barcollante e quasi
privo di
forze, Zoro si sforzò di raggiungere il cuoco per
controllare lui stesso,
sperando vivamente che quell’idiota non ci avesse lasciato le
penne. Profonde
occhiaie violacee gli contornavano gli zigomi, risaltando sinistramente
sul
volto scarno, la cui carnagione era di un pallore quasi mortale;
goccioline di
sudore gli avevano imperlato la fronte e le labbra livide erano distese
in una
linea sottile, ma la sua cassa toracica, vagamente intravedibile
attraverso il
legno che lo ricopriva, era immobile, cosa che fece temere il peggio
allo
spadaccino. Quando, una volta scansate tutte le assi che gli erano
cadute
addosso per farlo respirare meglio, accostò
l’orecchio al suo petto e riuscì a
sentire il battito del suo cuore, quasi esultò
interiormente, issandosi in
piedi e poggiandosi con la schiena contro lo scafo per mantenere
l’equilibrio.
«Non dire
cazzate, non è ancora morto», sibilò
poi all’indirizzo di Jones, senza riuscire
a trattenere un breve tremito nella voce, puntando la lama contro di
lui; quest’ultimo
si limitò semplicemente a scrollare le spalle, sfilando con
un movimento fluido
il fioretto che teneva appeso alla cintola.
«Ma lo sarà molto
presto. Sta per raggiungere la
nave».
«Stronzate. Solo
stronzate».
Per quanto sembrasse voler convincere
più se stesso
che il proprio avversario, fu continuando a ripetersi quelle parole
nella testa
che Zoro si lanciò contro di lui, recuperando una seconda
spada per gettarsi
all’attacco; alzando il fioretto in fretta, Jones
riuscì a parare quel colpo
appena in tempo, e, sollevando una gamba, poggiò un piede
sul petto dello
spadaccino e lo calciò lontano da sé, inclinando
il busto verso di lui per
affondare nel suo fianco la lama sottile della propria arma.
Barcollando, Zoro si portò
una mano nel punto ferito
nel vano tentativo di arrestare l’emorragia, sentendo il
sangue sgorgare fra le
dita in fiotti caldi e vischiosi; stringendo i denti e rinserrando la
presa sulle
katane, però, non si diede per vinto e tornò
all’attacco, conficcando una lama
nel petto di Jones con tutta la potenza che gli era rimasta. Dovette
far
pressione nell’incontrare l’ostacolo della gabbia
toracica, ma, prima ancora
che riuscisse ad andare più a fondo nella carne, il Capitano
lo allontanò
ancora una volta, facendolo ruzzolare lontano.
Senza dare allo spadaccino il tempo di
alzarsi in
piedi, fu Jones stesso a corrergli in contro e, sfilando con forza la
katana che
gli era rimasta conficcata nel petto, utilizzò la stessa per
colpire il viso
del suo avversario, il quale ebbe almeno la prontezza di reclinare in
fretta il
capo all’indietro; Zoro vide la lama passargli proprio
davanti agli occhi e ne
sentì il filo gelido fra i capelli, e fu solo per miracolo
se non gli venne
staccata di netto la testa, per quanto avesse assunto
un’espressione
esterrefatta. E spalancò la bocca quando, senza alcun
ritegno, Jones premette
un piede sulle sue ferite e, colpendogli la mano per fargli abbandonare
l’arma,
lo costrinse con la schiena contro il terreno, strappandogli un gemito
e poi un
urlo nel conficcare il proprio fioretto negli squarci già
aperti e sanguinanti
che gli percorrevano il corpo.
Lo spadaccino tentò di
allontanare quell’arto da sé,
avvolgendo debolmente le mani intorno alla caviglia per quanto le sue
dita
glielo permettessero, sentendo il respiro venir meno e il capo divenire
sempre
più dolente, come se lo stesso pensare fosse divenuto una
sofferenza. Ogni più
piccola fibra del suo essere era concentrata sulla sgradevole
sensazione che
gli trasmetteva quella pressione sempre più marcata, sul
freddo metallo della
spada che gli dilaniava le carni, sul sinistro scricchiolio che aveva
cominciato a sentire nelle orecchie e sul terribile presentimento che
quel
suono fosse provocato dalle sue ossa che si stavano spezzando, e per un
attimo
fu quasi tentato di lasciarsi andare del tutto e di allentare persino
quella
presa che lo teneva ancora ancorato al proprio avversario. Forse era
colpa del
poco ossigeno che aveva cominciato ad arrivare al suo cervello, forse
per il
sangue che sgorgava senza sosta dalle sue ferite brutalmente rovistate
dalla
punta di quella lama, ma qualcosa, dentro di lui, voleva solo che tutto
quel
dolore finisse e che potesse finalmente riposare in pace. Jones
sembrava
giocare con lui come un gatto che aveva catturato un topo, indugiando
nel
dargli il colpo di grazia, e lui non riusciva più a
sopportarlo.
Come se non gli appartenessero,
sentì le dita
scivolare inermi dalla caviglia del Capitano e le braccia piombare
pesantemente
lungo i fianchi, facendo serpeggiare dentro di lui un brivido al quale
non
seppe dare spiegazione; con un ansito doloroso, strinse violentemente
le labbra
in una linea sottile e reclinò il capo di lato, trovando
conforto nella terra
umida contro la quale premette il viso. Fu proprio nel farlo,
però, che scorse
la figura del compagno attraverso la palpebra socchiusa, i capelli
biondi
scompigliati a nascondergli parzialmente il volto insanguinato e una
delle
braccia piegate ad un’angolazione
impossibile, come se l’arto fosse ormai rotto. Respirava
sempre più a fatica e
il suo battito cardiaco sembrava sul punto di arrestarsi da un momento
all’altro,
e fu il pensiero che avrebbero potuto perderlo che riconnesse i nervi
del suo
cervello, facendogli spalancare l’occhio. Merda. Che diavolo stava facendo?
Non avrebbe nemmeno dovuto pensare,
anche solo per un momento, di arrendersi come un maledetto idiota. Che
cosa
avrebbe detto Rufy, il suo Capitano, il
futuro Re dei Pirati, se lo avesse visto in quelle
miserevoli condizioni?
Imprecando contro se stesso, Zoro
cercò a tentoni la
propria arma e provò ad impugnarla, ma Jones
intercettò il suo movimento e la
scansò lontano da lui, schiacciandogli la mano con il tacco
dello stivale;
nonostante il dolore che corse lungo il suo braccio e si
conficcò come un
coltello nel suo sistema nervoso, lo spadaccino approfittò
di quell’opportunità
per far ricorso alle poche forze che gli erano rimaste e riafferrare la
caviglia del Capitano, scansandolo brutalmente da sé. Il
sangue scivolò lungo i
suoi arti e sul suo petto quando, seppur a fatica, si
sollevò in piedi sulle
gambe malferme, però non ebbe il tempo di preoccuparsi delle
proprie
condizioni, indietreggiando il più velocemente possibile per
evitare l’affondo
con cui tentò di colpirlo Jones.
Sforzandosi di rimanere lucido, lo
spadaccino rotolò
sul terreno per recuperare la propria arma, riuscendo a non farsi
colpire da un
nuovo attacco del nemico grazie a chissà quale miracolo;
alzò la lama per
parare un nuovo affondo e dovette strisciare per terra nel tentativo di
allontanarsi
e di riacquistare almeno in parte il controllo delle proprie
facoltà mentali, sentendo
una dolorosa fitta al costato quando, sollevandosi di peso su entrambe
le
braccia, riuscì ad issarsi nuovamente in piedi.
Pur non riuscendo più a
distinguere i profili con la
stessa chiarezza di poco prima, Zoro sferrò un calcio a
Jones con tutta la
forza che possedeva e provò a farlo indietreggiare il
più possibile da sé,
incassando la testa nelle spalle per caricare il braccio e puntare la
katana al
suo sterno; non riuscì a colpirlo al primo tentativo come
aveva sperato, eppure
non si diede per vinto, incrociando la propria arma con quella del suo
avversario. In un cozzar di metallo e scintille, con il tamburellare
del
proprio cuore nelle orecchie e quelle fasciature improvvisate ormai
completamente intrise di sangue, Zoro si gettò ancora una
volta contro di lui
con un grido rabbioso, compiendo un affondo con il quale gli
trapassò lo
stomaco. Jones afferrò la lama con una mano e chiuse le dita
intorno ad essa,
sfilandosela con uno scatto secco; ignorò il sangue che
cominciò a stillare
dalla ferita che si provocò e, con una rapida stoccata,
sollevò il proprio
fioretto per colpire un braccio dello spadaccino, il quale
sibilò di dolore e
indietreggiò.
Il Capitano provò a colpirlo
ancora una volta, però,
con un’imprecazione, Zoro scartò e, flettendo le
gambe, ruotò svelto il polso
con cui sorreggeva la spada, parando l’affondo con il piatto
della lama;
piroettò poi di lato e, piegando le ginocchia,
assottigliò la palpebra per
concentrare tutta la propria potenza sulla mano
dell’avversario, esultando
interiormente quando riuscì a fargli allentare la presa
intorno alla sua arma e
a tenerlo sotto tiro; vide la spada volare lontano e il Capitano
fermarsi con
un piede dietro di sé, ansimando quasi quanto lui.
Jones rimase immobile, la lama dello
spadaccino
puntata alla gola e lo sguardo fisso proprio su quest’ultimo,
limitandosi
semplicemente ad abbandonare le braccia lungo i fianchi. Per quanto
tremasse
visibilmente dalla testa ai piedi a causa del sangue perduto
- il quale gocciolava pigramente lungo i suoi
arti e gli sporcasse il viso, imbrattandogli anche gli abiti - e
mantenere
l’equilibrio gli costasse uno sforzo enorme, la presa intorno
all’elsa della
katana era salda e sembrava più che intenzionato a
staccargli la testa dal
collo, per quanto avesse capito a proprie spese che battersi con lui
era del
tutto inutile. Quel ragazzino aveva una tenacia che non aveva mai visto
negli
ultimi secoli, e la cosa lo fece stranamente ghignare. «Ti
sei battuto bene,
Roronoa... sarà un vero piacere averti nella mia ciurma,
quando arriverà il
momento».
Con il poco fiato che aveva ancora nei
polmoni, Zoro
gli soffiò contro «Quel momento non
arriverà mai», rinfoderando con una certa
fatica la propria katana; a passi malfermi e zoppicanti, poi, si
diresse verso
Sanji per issandoselo in spalla meglio che poté, ignorando
il sorriso di
scherno che gli venne rivolto da Jones, il quale fece un rapido
inchino.
«Staremo a vedere, spadaccino.
Staremo a vedere»,
sussurrò, sparendo nella nebbia come l’eco
lontana di una sinistra risata.
Schermandosi
gli occhi con una mano, Nami sollevò lo sguardo verso il
cielo grigio che
sovrastava tutti loro, costatando piacevolmente che, nonostante il
tempo non
fosse dei migliori, la nebbia che li aveva accompagnati fino a quel
momento si
era finalmente diradata, facendo sì che potessero vedere
tutto ciò che li
circondava senza problemi.
Non aveva
capito con esattezza che cosa fosse successo e dove fosse sparito lo
strano
vecchio contro cui si stava scontrando Rufy, però, non
appena i suoi occhi
erano riusciti ad abituarsi alla luce accecante che aveva investito
tutti loro,
si era resa conto di essere nuovamente soli e che il luogo in cui si
erano
ritrovati fino a quel momento si era dissolto insieme a lui.
L’immensa
foresta che avevano percorso si era rivelata per ciò che era
in realtà, ovvero
un boschetto in cui alberi e cespugli si innalzavano timidamente verso
il
cielo; la cittadina che avevano visitato non appena avevano messo piede
sull’isola era esattamente dinanzi a loro, però
adesso, grazie alla mancanza
della nebbia, appariva meno spaventosa e sinistra di quanto non lo
fosse stata
fino a quel momento, pur continuando ad essere decadente e disabitata;
alla
loro destra, proprio ad una decina di metri dal bosco, si poteva
scorgere alla
perfezione una cascata e un fiumiciattolo che scorreva verso il mare,
serpeggiando sinuoso fra l’erba alta e le pietre accatastate
su entrambi i
lati. Si riusciva anche a sentire distintamente lo scrosciare
dell’acqua, cosa
che prima, a causa della nebbia e della bizzarra quiete in cui la
stessa aveva
avvolto tutta l’isola, non erano per niente stati in grado di
fare. E di questo
Robin se ne accorse, cominciando a guardarsi intorno con fare pensoso,
volgendo
poi lo sguardo verso la città oltre il sentiero.
«A quanto
pare siamo stati tutti vittime di un’illusione»,
esordì pacatamente,
scansandosi qualche ciuffo di capelli dalla fronte prima di sistemarsi
gli
occhiali da sole sul capo. «La nebbia deve aver compromesso
le nostre facoltà
intellettive e alterato le nostre percezioni, facendoci credere di
essere in un
luogo infestato dagli spiriti».
Brook le
gettò uno sguardo, rabbrividendo al ricordo di
ciò che avevano veduto fino a
quel momento. «Ma quei fantasmi e quei mostri sembravano
veri, yo-hohoho!»
esclamò, e Usopp non poté
fare a meno di convenire con lui, incrociando poi le braccia al petto
qualche
attimo dopo.
«Quel che
è certo è che quel tizio che abbiamo affrontato
era reale... forse anche troppo
reale». Al ricordo tremò per un
attimo, gettandosi un’occhiata intorno come per timore di
vederselo ricomparire
dinanzi agli occhi di punto in bianco. «Inoltre vorrei
ricordarvi che Zoro e
Sanji non sono ancora qui», ci tenne a far notare, e Chopper
annuì energico,
saltandogli in spalla.
«Adesso
che la nebbia è sparita abbiamo più
possibilità di trovarli», replicò.
«Dobbiamo tornare nel bosco e andare a cercarli. Le parole di
quel vecchio non
mi sono piaciute per niente... non vorrei fossero nei guai».
Nel
sentirli, Nami sospirò, poggiando una mano sul fianco per
far scorrere poi lo
sguardo sul viso di entrambi. «Se adesso torniamo a cercarli,
loro potrebbero
riuscire a ritrovare la strada e noi potremmo di nuovo perderci nel
bosco». Per
quanto fosse a sua volta preoccupata per i suoi amici, non potevano
rischiare
che, nel fortuito caso in cui ritornassero sui propri passi, non
trovassero
nessuno ad attenderli. «La soluzione migliore è
restare qui ad aspettarli»,
soggiunse, sforzandosi di sorridere. «Quei due sanno
cavarsela, no? Non è detto
che quel vecchio stesse dicendo la verità su di loro. In fin
dei conti ci ha
ingannati per tutto il tempo, e anche la sua lotta con Rufy non mi
è parsa per
nulla seria come avrebbe dovuto», cercò di suonare
rassicurante, così da poter
in qualche modo calmare l’ansia che aveva attanagliato se
stessa e il piccolo
Chopper.
Non
seppero quanto tempo rimasero lì in attesa, chi seduto con
le gambe incrociate
sul terreno e chi semplicemente in piedi, tutti con lo sguardo fisso
sulla
foresta che erano riusciti ad abbandonare con così tanta
fatica.
Fortunatamente, oltre a quegli Uomini Pesce e a qualche strano essere,
sul loro
cammino non avevano incontrato nient’altro. Escludendo la
nave volante e quel
vecchio dai loschi scopi che nessuno aveva compreso, ovviamente. Il
pensiero di
tutti, in quel momento, era che anche i loro compagni fossero stati
altrettanto
fortunati. Non che non credessero nelle loro capacità,
certo, ma avevano
imparato a diffidare di tutto e a tenere sempre gli occhi aperti,
specialmente
lì nel Nuovo Mondo, dunque il modo in cui si sentivano in
quel momento era più
che legittimo. Restava pur sempre il dubbio che tutto ciò
che avevano
incontrato fosse stato soltanto frutto dell’illusione creata
dalla nebbia che,
come Robin stessa aveva affermato, aveva probabilmente alterato la loro
mente e
mostrato loro cose che in realtà non esistevano, ma ognuno
di loro ricordava
fin troppo bene quanto fossero apparse reali le cose che avevano veduto
e
contro cui si erano scontrati, quindi, per quanto facesse molto comodo
a tutti
dar per buona quell’ipotesi, non poteva essersi trattato
unicamente di un
abbaglio.
La
preoccupazione che aveva attanagliato la ciurma era tale che persino
Rufy, di
solito quello che non perdeva il sorriso nemmeno nelle situazioni
più
disperate, se n’era rimasto seduto sul terreno con lo sguardo
rivolto verso la
foresta, lo zaino abbandonato al proprio fianco e le braccia incrociate
al
petto. In un altro momento, forse, si sarebbe persino lamentato di aver
fame -
i bentou che erano stati così diligentemente preparati da
Sanji se li era
spolverati tutti quando il suo stomaco aveva ardentemente reclamato del
cibo -
e di voler mangiare assolutamente qualcosa, ma adesso, con in viso
un’espressione talmente seria che quasi stonava con la sua
intera persona -
anche il modo in cui si era ripreso il cappello era apparso nervoso, ma
Nami si
era solo limitata a sospirare e a tenerlo d’occhio per
evitare che, in preda
alla sua solita irruenza, facesse qualcosa di stupido -, pareva essere
unicamente concentrato su ogni minimo fruscio che proveniva dal folto
della
foresta, immersa in cinguettii e canti lontani come se la natura stessa
si
fosse improvvisamente risvegliata. Sembrava che si aspettasse di veder
comparire da un momento all’altro i suoi due amici, per
quanto fosse passato
ormai molto tempo e di loro non avessero ancora visto nessuna traccia.
«Basta
così!» esclamò all’improvviso
nell’alzarsi in piedi di scatto, facendo
sussultare i restanti membri della ciurma; si voltarono tutti in
simultanea
verso di lui e lo osservarono con tanto d’occhi, quasi non
fossero riusciti a
capire che cosa gli fosse preso.
«Che hai,
fratello?» domandò di rimando Franky, e fu solo a
quel punto che Rufy gli gettò
appena una rapida occhiata, la fronte aggrottata e con in viso la
stessa
espressione che aveva mantenuto fino a quel momento.
«Io vado a
cercarli», asserì deciso, stornando nuovamente lo
sguardo verso il bosco. «Ci
stanno mettendo troppo. Non è da loro».
«Non
pensarci nemmeno, Rufy», rimbeccò Nami,
aggrottando la fronte. «Siamo tutti
preoccupati, ma non possiamo agire senza riflettere. Aspetta almeno un
altro
po’».
«Ho
aspettato abbastanza», sbottò il Capitano,
più che convinto di ciò che diceva.
Quell’attesa stava cominciando a snervarlo, e lui aveva
giurato a se stesso che
non avrebbe perso più nessuno a cui voleva bene, men che mai
i suoi compagni.
Dopo la morte di Ace aveva creduto di aver perduto tutto ciò
che gli era più
caro, e non era stato per rivivere quella stessa sgradevole sensazione
che
aveva deciso, probabilmente anche in modo egoistico, di ritardare
l’incontro
con i suoi compagni - i suoi amici, la
sua famiglia - per due lunghissimi anni. Era arrivato il
momento di
comportarsi come un buon Capitano e andare a cercare il suo cuoco e il
suo
spadaccino. Anche perché, e odiava ammetterlo, forse quel
vecchio gli aveva
inculcato il tarlo del dubbio. E se fosse successo davvero loro
qualcosa? Non se lo sarebbe mai perdonato, dannazione.
Senza dar
peso ai richiami di Nami, né tanto meno venendo fermato
dagli altri - avevano
probabilmente compreso il suo stato d’animo e deciso di
lasciarlo stare,
sapendo fin troppo bene che quando prendeva una decisione nulla sarebbe
stato
capace di smuoverlo -, cominciò ad avviarsi in direzione del
bosco, calcandosi
il cappello di paglia in testa prima di chiudere i pugni lungo i
fianchi. Se
avesse incontrato qualcuno sulla propria strada, illusione o meno che
fosse,
non avrebbe esitato a farlo fuori in un lampo. E se gli fosse
ricapitato di
nuovo fra i piedi quel vecchio... gli avrebbe spaccato il culo una
volta per
tutte e avrebbe continuato ad avanzare, senza inutili interruzioni di
sorta.
Faceva sul serio e l’avrebbe dimostrato, se ciò
avrebbe potuto aiutarlo in
qualche modo a raggiungere i suoi amici, ovunque essi si trovassero in
quel
determinato frangente. Mosse appena qualche passo, però,
prima che un fruscio
proveniente dal folto del bosco richiamasse la sua attenzione,
facendogli
aguzzare la vista in quella direzione; una figura sfocata sembrava
avanzare
lentamente verso di loro, quasi a tentoni, e Rufy non ci mise molto a
capire di
chi si trattasse, riconoscendone la sagoma.
«Eccoli,
finalmente!» esclamò tutto contento, con un enorme
sorriso sornione che gli
illuminava il viso; quello stesso sorriso, però, gli
morì sulle labbra non
appena si soffermò sulle condizioni dei suoi due amici,
facendo scorrere lo
sguardo sui loro vestiti strappati e insanguinati e sul volto pallido e
scarno
che Zoro, sostenendo malamente Sanji sulle spalle, stava mostrando a
tutti
loro. L’unico occhio sembrava osservarli vacuamente, senza
vitalità alcuna, e
anche il modo in cui avanzava appariva fiacco e stanco, per niente
simile alla
solita camminata spavalda e fiera che lo caratterizzava di solito.
Sembrava
persino che, nel vederli, l’intera ciurma si fosse
pietrificata, come se
nessuno di loro riuscisse a credere ai propri occhi o a mettere veramente a fuoco
l’immagine che avevano
dinanzi. Erano rare, se non praticamente nulle, le volte in cui quei
due si
ritrovavano in così pessime condizioni, e ciò era
riuscito a fermarli in un
momento di stasi.
«Chopper...»
chiamò infine lo spadaccino in un soffio, non riuscendo
più a sostenere sulle
gambe il proprio peso e quello del cuoco; cadde in avanti, riverso con
il viso
nella terra umida, allentando la presa con cui fino a quel momento
aveva
sorretto contro di sé Sanji, il cui corpo si
accasciò inerme sulla sua schiena.
Il piccolo
medico, a quella vista, riuscì finalmente a riscuotersi e
corse immediatamente
da loro in preda al panico, trasformandosi per potersi occupare di
entrambi nel
pieno delle sue facoltà. «Zoro! Sanji!»
Provò a riscuoterli senza successo,
imprecando a denti stretti prima di afferrare il polso di Zoro; trasse
un
sospiro di sollievo nel sentire il suo battito cardiaco, sbiancando
seduta
stante quando si ritrovò a fare lo stesso con Sanji. Il
polso era debole, troppo debole, e il suo respiro era
lieve, appena accennato, come se potesse smettere di incanalare aria
nei
polmoni da un momento all’altro.
«Franky!» strillò, passando un braccio
robusto
sotto il busto di Sanji per sistemarselo in spalla il più
delicatamente
possibile, alzandosi alla svelta. «Prendi Zoro e
raggiungetemi alla Sunny,
presto!» raccomandò loro, affrettandosi a
discendere il sentiero per poter
attraversare la città, correndo a perdifiato in direzione
del promontorio dove
ore addietro, se non addirittura interi giorni, avevano attraccato la
loro
imbarcazione, perfettamente visibile ora che la nebbia era scomparsa.
Sotto lo
sguardo preoccupato dei suoi amici, Franky non perse tempo ad eseguire
l’ordine
datogli dal dottore, e, dopo aver recuperato il corpo del Vice Capitano
ed
esserselo caricato sulla schiena, fece cenno a tutti gli altri di
seguirlo in
fretta, inoltrandosi nel folto della città per tornare
indietro.
Un solo
attimo di ritardo avrebbe potuto compromettere la vita di entrambi i
loro
compagni.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Per
chi non lo sapesse - ma suppongo che ormai lo sappiano tutti -, Davy
Jones non ha un cuore, quindi non può essere ucciso con
metodi
tradizionali. Ecco spiegato tutto l'ambaradan (?) che c'è
dietro e la sua fuga
- che proprio fuga non è, in verità -
anziché una
sua colossale sconfitta. E poi, beh, i Mugi non possono sempre
sconfiggere gli avversari con successo, no? x)
Ammetto poi che in questo capitolo mi sono lasciata parecchio andare,
anche se per qualche attimo ho pensato - e penso tuttora - che avessi
strafatto e che forse avrei dovuto tagliare un po' di cose che
sarebbero potute sembrare alquanto inverosimili. E credo ancora che
questo capitolo non sia abbastanza soddisfacente e faccia letteralmente
schifo. Mi scuso
Comunque sono anche troppo contenta, perché su due contest a
cui questa storia ha partecipato si è piazzata prima
ad entrambi, quindi, boh, una volta tanto volevo condividere con tutti
voi che mi state seguendo questa piccola felicità personale.
Vuol dire che questa long fiction non è così
pessima come
l'avevo reputata io stessa al principio, e sapere che viene apprezzata
è una piccola soddisfazione. Grazie mille a tutti voi ♥
Al prossimo capitolo. ♥
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di
scrittori.
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Capitolo 9 *** [ Fourth season › Beating hearts ] To get the windward of him, 01 ***
Like Davy Jones_9
FOURTH SEASON
› BEATING HEARTS
TO GET THE WINDWARD OF
HIM, #01
Quando
riprese
conoscenza, la prima cosa che Zoro mise immediatamente a fuoco fu la
figura
massiccia di Chopper, riconoscendo solo in un secondo momento il tono
concitato
della sua voce. Era riuscito a trovare gli altri? Erano forse tornati
alla
nave? E, soprattutto... era riuscito ad arrivare in tempo? Non ne aveva
la
benché minima idea, e fu proprio all’orribile
pensiero di aver fallito che, con
un gemito doloroso, tentò di sollevarsi a mezzo busto,
avendo appena una fugace
visione dell’infermeria prima di ripiombare a peso morto
sulla brandina e
sentire una fitta al braccio. Nel voltarsi vide distintamente una
flebo, ma non
era ancora certo di aver fatto del tutto mente locale. Merda... si
sentiva
completamente rintronato e aveva come la sensazione che qualcuno avesse
poggiato un macigno sul suo petto e l’avesse abbandonato
lì, per niente
voglioso di tornare a riprenderselo per portarselo via. Che diavolo era
successo?
«Il cuoco»,
rantolò a mezza voce,
dovendo tossire un paio di volte per schiarirsi la gola. Quanto tempo
era
passato da quando era svenuto? «Dov’è il
cuoco?» chiese con tutta la fermezza
che riuscì a trovare, sforzandosi ancora una volta di
alzarsi da quel maledetto
letto; ma la grossa mano pelosa di Chopper glielo impedì,
schiacciandolo con la
schiena contro la branda prima di scusarsi nel sentirlo imprecare per
il
dolore.
«È meglio se resti
sdraiato ancora un
po’, Zoro», gli sussurrò in tono
tremendamente comprensivo, serrandogli il
cuore in una morsa. Ohi, ohi, un momento... perché Chopper
gli parlava come se
non volesse urtarlo in qualche modo? E perché diavolo non
aveva ancora risposto
alla sua domanda?
Lo spadaccino trasse un lungo respiro e
il solo farlo gli mandò i polmoni in fiamme, ma strinse i
denti e tenne duro,
alzando il viso per incontrare lo sguardo addolorato del dottore. Nay,
andiamo... Chopper stava scherzando, vero? Lo stava semplicemente
prendendo per
il culo, no? «Chopper»,
cominciò, e sul suo viso, oltre alla sofferenza
provocatagli dallo sforzo che gli costava parlare, si riusciva
benissimo a
leggere anche la rabbia che di lì a poco sarebbe esplosa.
«Dove cazzo è quel
fottuto cuoco di merda?» Pose quel quesito senza alterarsi e
senza minimamente
alzare la voce, certo, però fu proprio quella sua calma
così sottile a freddare
Chopper, che si sentì tremare dinanzi allo sguardo gelido
del Vice Capitano.
Allontanò la mano dal suo petto e tornò
alla sua forma originale,
guardandolo dabbasso e torcendosi gli zoccoli.
«Qui...
non c’è molto spazio, ma abbiamo tolto il tavolo e
sistemato un’altra branda
per farlo riposare meglio»,
rispose concitato. «Non è messo per niente bene,
Zoro. Ho fatto il possibile per farlo riprendere,
però...»
«Cosa? Diavolo, no!»
si alterò lo
spadaccino, e, ignorando il dolore al costato, si strappò la
flebo dal braccio
con rinnovato vigore, mosso dall’orribile presentimento che
quell’idiota
potesse rimetterci le penne anche dopo tutta la fatica che aveva fatto
per
riportarlo a casa. Non avrebbe mai accettato di veder morire qualcun
altro a
lui caro senza poter far niente per impedirlo, dannazione. Men che meno
uno dei
suoi compagni. «Il tuo possibile non è abbastanza,
Chopper». Cercò di
riacquistare un minimo di razionalità, ma ormai, visti i
nervi a fior di pelle,
era più facile a dirsi che a farsi. «Quel fottuto
idiota non può morire in
questo modo». Si premette una mano su un fianco e, con un
gemito, gettò i piedi
oltre il bordo della brandina per provare ad alzarsi, venendo oscurato
dall’ombra possente della renna, ritrasformatasi proprio per
bloccarlo.
«Non devi affaticarti, Zoro.
Anche tu
sei in pessime condizioni», lo redarguì,
osservandolo in viso con
un’espressione a dir poco severa. «Cerca di darti
una calmata e dimmi cos’è
successo».
«Prima voglio vedere il
cuoco», mise a
condizione lo spadaccino, allungando il collo verso la seconda branda,
e, per
quanto Chopper avesse tentato di fargli cambiare idea, la sua decisione
fu
irremovibile. Il dottore, con un sospiro, dovette quindi acconsentire,
capendo
che Zoro non si sarebbe messo l’anima in pace fino a che non
si fosse accertato
con i suoi stessi occhi delle condizioni di Sanji. Lo
aiutò lui stesso ad
alzarsi in piedi, stando attento a non toccare nessuna ferita ricucita
da poco
o qualche contusione. Un’impresa piuttosto ardua, a ben
vedere, poiché il Vice
Capitano era tutto un livido. Ancora si chiedeva come avesse fatto a
camminare
conciato in quel modo, ma forse avrebbe dovuto smetterla di farsi
quesiti così
idioti, conoscendo Zoro.
Chopper lo lasciò solo
quando, raggiunta
la branda del cuoco, gli impose di sedersi su uno sgabello che lui
stesso aveva
portato lì, prendendone poi un secondo per accomodarsi a sua
volta non appena
si ritrasformò. E non osò fiatare per tutto il
tempo in cui lo spadaccino tenne
gli occhi fissi sul viso di Sanji, come se lo vedesse per la prima
volta.
«Si
riprenderà?» domandò infine Zoro in
tono lieve, facendo vagare lo sguardo dal colorito cadaverico del viso
del
cuoco ai lividi violacei che gli segnavano il collo e lo scorcio di
petto che
riusciva ad intravedere al di sotto del lenzuolo. Il dottore si era
premurato
di lavargli via il sangue che gli aveva incrostato il volto e i
capelli, e in
parte era un bene, giacché avrebbe potuto credere che quello
fosse stato tutto
solo un fottuto incubo. Peccato che fosse la realtà,
maledizione. E se pensava
che quel Jones avrebbe anche potuto spezzargli il collo... cazzo, era
stato
fortunato ad essersela cavata solo con quelle contusioni.
«Se reagisce bene alle
medicine che gli
ho dato, in un paio di giorni dovrebbe tornare cosciente»,
spiegò Chopper, a
sua volta con lo sguardo puntato sul viso del biondo. «Sanji
è forte... il suo
organismo si riprende in fretta», aggiunse, forse nel
tentativo di provare a
convincere anche se stesso di quelle parole, ma si sforzò
comunque di sorridere
all’indirizzo di Zoro. «In fondo riesce a dare del
filo da torcere anche a te,
no?» Quel patetico tentativo di alleggerire la sgradevole
situazione che si era
venuta a creare parve funzionare, poiché anche lo spadaccino
sollevò un angolo della
bocca in una smorfia divertita.
«Proprio per questo
farà meglio a
riaprire gli occhi», asserì, allungando
fiaccamente un braccio verso Chopper
per carezzargli la delicata peluria che aveva sulla testa. «E
se non lo fa in
fretta, ci penso io a spedirlo all’altro mondo».
Rimasero in religioso silenzio, subito
dopo, entrambi con lo sguardo fisso sul capezzale del cuoco. Chopper
non aveva
fatto altro che ripetersi mentalmente che sarebbe andato tutto bene e
che Sanji
si sarebbe presto svegliato, e, per quanto all’inizio si
sarebbe potuto sentire
un po’ confuso a causa dei farmaci che gli aveva
somministrato, avrebbe
riacquistato a poco a poco le forze e sarebbe tornato quello di un
tempo, il
cuoco attivo ventiquattr’ore su ventiquattro e con tutti gli
arti funzionanti.
Ecco. Doveva convincersi proprio di questo. Sanji avrebbe aperto gli
occhi, la
sua caviglia e il braccio sarebbero guariti con il tempo e tutti loro
avrebbero
potuto riprendere a viaggiare per realizzare i propri sogni.
A quei suoi stessi pensieri, Chopper
sollevò il viso verso lo spadaccino, osservandolo con
attenzione. «Adesso puoi
dirmi cos’è successo?» riuscì
finalmente a chiedere, sicuro che quello che
attraversò il compagno fosse un brivido. Lo vide poi
scuotere il capo,
ingobbendosi e abbandonando i gomiti sulle ginocchia.
«Niente»,
replicò in tono schietto, ma
il medico sospirò.
«Mi avevi detto che me ne
avresti
parlato, se ti avessi lasciato vedere in che condizioni era
Sanji».
«Allora dammi la tua parola
che resterà
una cosa tra noi. Tra medico e paziente».
Chopper si accigliò,
incredulo. Perché
tutta quella segretezza? Cos’era accaduto su
quell’isola, se Zoro non voleva
che gli altri lo sapessero? «Zoro...
cos’è successo, esattamente?»
domandò in un soffio, venendo folgorato da un orribile
pensiero quando vide lo sguardo dello spadaccino indugiare sul viso del
cuoco,
come se si sentisse dannatamente in colpa per qualcosa.
«Non... non sarai stato
tu a
ridurre Sanji in questo modo,
vero?» pigolò, e bastarono quelle poche parole per
far sì che Zoro si voltasse
svelto verso di lui con la palpebra serrata.
«Non dire stronzate,
Chopper», sibilò,
però, per quanto il tono apparisse scontroso e aggressivo,
la renna trasse
comunque un breve sospiro di sollievo. Non avrebbe dovuto nemmeno
pensare una
cosa del genere, certo, ma quel senso di colpa e quel suo voler tenere
tutto
nascosto avevano inculcato in lui il tarlo del dubbio. Dubbio che era
stato
velocemente dissipato dallo spadaccino, fortunatamente. Non avrebbe
saputo come
reagire, altrimenti. «Però... se fossi stato
più forte, tutto questo non
sarebbe successo».
Chopper aggrottò la fronte e
gli si
avvicinò, battendogli delicatamente uno zoccolo su una
spalla con fare
comprensivo. Come aveva potuto dubitare in quel modo di Zoro,
l’uomo che avrebbe
dato la sua stessa vita per il bene comune della ciurma? Era stato un
vero
idiota. «Ci sono cose che non possono essere previste, Zoro.
Non devi sentirti
in colpa», provò a rassicurarlo, ma il Vice
Capitano scosse immediatamente il
capo.
«Ero con lui, Chopper. Avrei
dovuto fare
tutto il possibile per evitarlo. Non mi sono allenato per due anni solo
per
veder morire i miei compagni davanti ai miei occhi».
«Sei riuscito a portarlo alla
nave
nonostante tu fossi gravemente ferito, Zoro. Una persona normale
sarebbe morta».
Se fosse stato più lucido,
probabilmente
Zoro avrebbe di sicuro dato ragione al medico - ne aveva passate tante,
era
stato rattoppato alla bell’e meglio altrettante volte e
nonostante tutto il
sangue perduto non era mai crepato, cosa che un essere umano nella
media
avrebbe fatto prima ancora di raggiungere la Rotta Maggiore -, ma in
quel
momento non riusciva a fare a meno di pensare che avrebbe dovuto
allenarsi più
di quanto non avesse già fatto fino a quel momento, se non
voleva rischiare di
non possedere la forza necessaria per difendere i propri compagni.
Dannazione, più
di una volta aveva dimostrato a se stesso che sarebbe stato capace di
sacrificare la sua stessa vita pur di mettere tutti loro al sicuro.
«Davy Jones»,
dichiarò di punto in bianco, e Chopper lo osservò
come se non avesse realmente
compreso ciò che aveva appena detto.
«Cosa?»
«Me ne ha parlato il
cuoco», spiegò
senza mezzi termini. «L’ha chiamato
così. Davy
Jones. Un pirata maledetto, una leggenda vivente relegata
sulla sua nave
insieme alla sua ciurma, un demone del mare che reclama le anime dei
marinai
annegati... e quello stronzo era venuto a prendersi anche quella di
questo
dannato idiota». Il solo pensiero lo fece sorridere ironico,
sebbene sapesse
che non ci fosse assolutamente nulla di divertente, in quella maledetta
storia.
«Una fottuta leggenda si è presa il disturbo di
attirarci su quest’isola come
ha fatto con tante altre navi... ci crederesti?»
Gli occhi di Chopper brillarono per un
attimo alla sola idea che i due amici avessero incontrato un tipo del
genere,
tremando nell’immaginarselo come un uomo mostruoso munito dei
tratti tipici di
un Uomo Pesce, con tanto di occhi iniettati di sangue e incrostazioni
sul
carapace che componeva la sua schiena. Una figura oltremodo spaventosa,
quella
che si era affacciata nella sua giovane mente. Zoro e Sanji avevano
rischiato
grosso e si erano ritrovati ad affrontare un nemico simile, e il solo
pensiero
gli fece ammettere che erano stati decisamente fortunati a cavarsela;
però,
subito dopo, si lasciò sfuggire un sospiro accondiscendente.
«Faresti bene a
riposarti un po’, Zoro», provò a
spronarlo, rimediandoci uno sguardo duro dallo
spadaccino.
«Non sto delirando, se pensi
questo».
«Non ho mai detto una cosa del
genere»,
si affrettò a rassicurarlo, per quanto l’avesse
davvero assalito il dubbio che
i farmaci, uniti alle condizioni di Sanji e all’esperienza
vissuta su
quell’isola fatta di misteri ed illusioni, avessero alterato
in qualche modo la
fantasia dello spadaccino. A quei suoi stessi pensieri scosse il capo e
afferrò
il camice. «Devo cambiare le bende a Sanji, tu sdraiati
lì e non muoverti», gli
ordinò, indicandogli la branda con uno zoccolo. «E
non provare nemmeno a
toglierti le fasciature come tuo solito, capito?» lo
freddò immediatamente,
giacché lo spadaccino aveva portato prontamente una mano al
petto per
cominciare a disfarsi proprio delle bende che gli fasciavano il torace.
Accidenti a Chopper. Non gli sfuggiva mai nulla.
«Lo sai che non ne ho
bisogno», borbottò
Zoro per avere l’ultima parola, ma all’occhiataccia
del medico fece come gli
era stato detto, anche perché, e purtroppo doveva ammetterlo
a se stesso, si
sentiva maledettamente
stanco.
Forse Chopper aveva ragione. Un
po’ di
riposo avrebbe fatto bene anche a lui.
«Come
stanno?»
Non appena
Chopper aveva aperto la porta dell’infermeria, il resto della
ciurma non aveva
perso un attimo a porgli in simultanea quella domanda, preoccupati a
dir poco
per i loro amici. Il dottore si era infatti chiuso lì dentro
per oltre un’ora e
mezza e, ormai divorati dall’angoscia, i ragazzi non erano
più riusciti a
resistere dal togliersi quel peso dallo stomaco, senza dare al medico
nemmeno
un attimo per respirare o fare il punto della situazione.
Chopper si
richiuse silenziosamente la porta alle spalle, zampettando verso il
ponte con
un lungo sospiro. «Zoro si è ripreso, ora sta
riposando», informò, sfiorando
con lo zoccolo la punta del naso per grattarselo distrattamente.
«Chi mi
preoccupa di più è Sanji... adesso si
è stabilizzato, ma aveva il battito
debole e respirava a fatica. Se Zoro non fosse riuscito a portarlo
subito da
me, a quest’ora sarebbe...» non
continuò, lasciando la frase in sospeso.
Sembrava che il solo pensiero lo atterrisse, e come dargli torto?
Già una volta,
a causa delle sue emorragie, gli aveva fatto prendere un colpo del
genere e
aveva rischiato di rimetterci la pelle, quello scemo di Sanji. Per non
parlare
di Zoro, poi. A volte aveva come l’impressione che ad
entrambi facesse schifo
la vita, visti i guai in cui si cacciavano in continuazione.
«Ma adesso
cook-san sta bene?» gli domandò accorato Brook,
sorreggendo con due dita la
tazzina ricolma di the che Robin era stata così gentile da
preparare. Erano
stati tutti agitati fino a quel momento, dunque l’idea di
quella bevanda era
sembrata la migliore che sarebbe potuta venire in mente
all’archeologa.
«Fortunatamente
sono intervenuto in tempo, ma è ancora troppo presto per
essere sicuro che non
ci siano state conseguenze», rispose il medico, lasciandosi
cadere seduto sul
sostegno di legno circolare fissato all’albero maestro.
«Erano entrambi pieni
di ferite e contusioni... Zoro mi ha vagamente raccontato
qualcosa», e si
guardò bene dal dire cosa,
avendo
promesso che non ne avrebbe parlato con nessuno, «ma ho paura
che le medicine
che gli ho somministrato gli abbiano provocato qualche
allucinazione», asserì,
non riuscendo del tutto a credere alle parole dello spadaccino. Un
demone del
mare di nome Davy Jones?
Anche se all’inizio era diventato euforico al solo pensiero,
aveva poi
attribuito il tutto ad un effetto collaterale dovuto ai farmaci. A ben
rifletterci, però, da quando erano entrati nel Nuovo Mondo
di cose bizzarre ne
avevano viste, ma indagare oltre, ora come ora, sarebbe stato inutile.
«Avranno
incontrato quei mostri spaventosi,
illusioni o meno che fossero. In fin dei conti abbiamo appurato noi
stessi
quanto fossero pericolosi». La costatazione di Robin lo
distrasse dai suoi
pensieri, e, proprio come gli altri - per quanto riluttanti a loro
volta alla
sola idea di quella prospettiva -, annuì. Le cose non
potevano essere andata in
nessun altro modo, d’altronde. Quei due se ne davano
continuamente di santa
ragione, era vero, ma da qui ad ammazzarsi a vicenda... beh, ne correva
di
acqua sotto i ponti, dunque non si erano di certo feriti combattendo
fra loro.
In fin dei conti, per quanto non l’avessero mai ammesso
né a se stessi né al
resto del gruppo, si rispettavano e si volevano bene come amici, se non
come fratelli
in eterna competizione.
La ciurma passò poi
i successivi due giorni a riprendere le normali attività,
lasciando riposare i
due compagni com’era stato raccomandato loro da Chopper, per
quanto Rufy e
Usopp andassero di tanto in tanto a controllare come stessero passando
dall’infermeria alla cabina per tener d’occhio
l’uno e l’altro. Sanji non aveva
ancora ripreso conoscenza e se ne stava praticamente immobile nella
branda
dell’infermeria, mentre Zoro, di tanto in tanto, si girava su
un fianco e
imprecava chissà cosa fra sé e sé ogni
qual volta sbatteva contro la cuccetta o
le ferite strusciavano contro il materasso, per quanto avesse ancora la
fronte
sudata e sembrasse persino delirante.
Sotto diretto
ordine di Nami, inoltre, avevano tirato su l’ancora e,
innalzato il vessillo
sull’albero maestro, avevano sciolto i legacci e le cime
delle vele, lasciando
che il vento proveniente dall’oceano le gonfiasse per
allontanarsi il più
possibile da quella maledetta isola. Non avevano dovuto affrontare il
temporale
che li aveva improvvisamente colti all’inizio,
fortunatamente, per quanto il
mare ingrossato avesse reso comunque difficile e faticoso navigare in
quelle
acque e riuscire a manovrare il timone. Avevano potuto trarre un
sospiro di
sollievo solo quando la nebbia si era del tutto diradata e il sole li
aveva
quasi accecati, bagnando loro stessi e la Sunny con i suoi caldi e
confortevoli
raggi. E tuttora splendeva alto nel cielo, segnando mezzogiorno.
«Uffa, quando si
sveglia Sanji».
Afflosciato sulla polena della nave,
Rufy non faceva altro che guardare
il prato che ricopriva il ponte e
sbuffare, provando inutilmente ad ignorare gli insistenti brontolii del
suo stomaco. Si stava avvicinando l’ora di pranzo e lui non
metteva qualcosa
sotto i denti da più di un giorno, e bisognava ammettere
che, conoscendolo, era
decisamente un record. L’ansia per i suoi amici gli aveva
persino chiuso lo
stomaco, ma adesso che sembrava andare quasi tutto per il meglio aveva
ricominciato ad aver fame.
Robin, che in
quel momento si trovava sul castello di prua ad innaffiare i fiori,
gettò lui
una rapida occhiata e sorrise benevola, mormorando un «Dos Fleur»
per
far fiorire due mani proprio dinanzi al Capitano, che si riprese seduta
stante
nel vedere i pasticcini ordinatamente riposti sui palmi. «Non
saranno molto, ma
spero che ti piacciano, Capitano», gli disse. «Li
aveva preparati cook-san per
me, ma posso cederteli tranquillamente, se hai fame.
C’è anche del the», soggiunse,
per quanto fosse sicura che il ragazzo avesse unicamente visto i
pasticcini. E
glielo dimostrarono i suoi occhi, che scintillarono come quelli di un
bambino
che aveva appena ricevuto un nuovo giocattolo.
«Grazie, Robin!»
esultò, tirandosi a sedere per afferrare i dolcetti nel
momento stesso in cui
le mani che li trasportavano sparirono; se li mise in bocca senza
nemmeno
gustarseli, troppo affamato per farci anche solo un pensiero, e, per
quanto non
avessero per niente placato la sua fame smisurata, erano pur sempre
qualcosa. E
mentre era intento a leccarsi le dita tutto contento per ripulirle
dalla
cioccolata rimasta, dabbasso vide con la coda dell’occhio la
figura di Zoro,
seguito a ruota dal piccolo Chopper.
«Devi tornare a
letto!» strepitò il dottore, venendo bellamente
ignorato dallo spadaccino, che
si limitò a voltare lo sguardo in direzione del Capitano
nello scorgere il
gesto di saluto e il sorriso che gli aveva appena rivolto.
«Stai bene,
Zoro?» gli venne chiesto con voce gioiosa e una mezza risata,
e stavolta Zoro
sorrise a sua volta, sollevando un angolo della bocca con fare
sarcastico prima
di alzare un pugno a scopo dimostrativo.
«Mai stato
meglio, Capitano».
«Zoro!» lo
richiamò all’ordine Chopper, aggrappandosi alla
sua gamba destra. «Come medico
ti ordino di tornare a letto!» sbottò, riuscendo
finalmente a richiamare su di
sé l’attenzione dello spadaccino, che si
chinò verso di lui per afferrarlo
sotto le braccia e allontanarlo delicatamente da sé.
«Io sto bene,
Chopper», gli fece notare poi, pur portandosi debolmente una
mano al fianco che
si era ferito in battaglia. Ah, accidenti... doveva andarci piano, con
i
movimenti. «Pensa piuttosto a quello scemo d’un
cuoco».
«Ma hai perso
molto sangue!»
«E dove sarebbe
la novità?» tentò di sdrammatizzare, e
Chopper non si risparmiò dal saltargli
addosso per assestargli una zoccolata proprio in mezzo alla fronte,
lasciando
un bel segno rosso di quella forma.
«Proprio per
questo devi stare a letto», borbottò, senza dar
peso al mezzo lamento sfuggito
dalle labbra di Zoro. Secondo il suo parere di medico, stavolta se
l’era
proprio cercata. «Vado a prendere le erbe per Sanji, se
quando torno non ti
trovo in cabina ti somministro un sedativo per cavalli e ti ci porto io
trascinandoti per i piedi», soggiunse scontroso, riuscendo
comunque a strappare
al Vice Capitano un sorrisetto; lo vide poi trotterellare svelto verso
il
castello di prua, dove metteva spesso ad essiccare le sue erbe
medicinali, e
scosse il capo, venendo ben richiamato da un’altra risatina
di Rufy, che scese
dalla sua postazione per annullare la distanza che li separava.
«Forse dovresti
ascoltarlo»,
gli disse con un gran sorriso, e Zoro sbuffò ilare,
adocchiandolo di sfuggita.
«Ma sentilo...
non sei forse tu il primo a fare l’esatto contrario di
ciò che ti si dice?»
«Io sono il
Capitano, posso permettermelo», affermò divertito,
dandogli una poderosa pacca
su una spalla; lo spadaccino si accasciò in avanti e
imprecò a denti stretti
nel faticare a ricomporsi, tanto che Rufy allontanò
immediatamente la mano e si
grattò dietro il capo, facendo praticamente finta di niente.
«Scusa, Zoro! Ti
fa male?»
«Nah, sto alla
grande», ironizzò, per quanto non ci fosse nulla
di divertente in quella
situazione. Merda... si sentiva praticamente a pezzi, peggio di quella
volta a
Thriller Bark. Ma si sarebbe squarciato il ventre piuttosto che
ammettere una
cosa del genere. «Piuttosto, uhm... prova a tenere occupato
Chopper».
«Vai a trovare
Sanji?» Zoro, a quella domanda posta così a
bruciapelo, si accigliò. Accidenti,
quando voleva sapeva essere davvero perspicace, quello scemo di un
Capitano. Oppure
era lui ad essere letteralmente un libro aperto e ciò che
aveva intenzione di
fare gli si leggeva in faccia. Scosse il capo, adocchiando Rufy.
«Tu provaci e
basta... ti rimedio qualcosa da mangiare», se la
sbrogliò, sortendo l’effetto
sperato. Rufy difatti allargò il sorriso e si
lasciò sfuggire una grossa
risata, facendogli un cenno sbrigativo con una mano come a dargli via
libera;
lo spadaccino non se lo fece ripetere due volte, e, dopo aver gettato
una
rapida occhiata verso le piante di mandarini di Nami - dove si scorgeva
solo
vagamente il cappello di Chopper, chino a raccogliere le sue erbe -, si
affrettò a salire le scale per aggirare dal basso il
castello di prua e
raggiungere una volta per tutte l’infermeria, aprendo la
porta il più
silenziosamente possibile. Se tanto gli dava tanto, prima del ritorno
di
Chopper aveva una decina di minuti o poco più. Potevano
bastargli.
Non appena entrò
fu accolto dal lieve russare del cuoco, disteso sulla branda con una
coperta
che gli arrivava fin sotto al mento. Il viso era ancora un
po’ pallido - più di
quanto non lo fosse la sua carnagione normalmente, appuntò
nella sua mente lo
spadaccino - e aveva dei segni viola che gli contornavano gli occhi, ma
tutto
sommato sembrava star bene. Più di quando se l’era
ricaricato in spalla
sicuramente. «Brutto idiota», sussurrò
alla sua figura dormiente, resistendo
all’impulso di rifilargli un cazzotto sulla testa per vedere
se riusciva a
svegliarlo. «È la seconda volta che mi fai
prendere colpi del genere, vedi di
non farla diventare un’abitudine».
Subito dopo,
però, aggrottò la fronte nel soffermarsi
attentamente sul viso del compagno,
avendo avuto l’impressione che le sue labbra si fossero
piegate in un breve
sorriso. Scosse la testa e si diede dell’idiota, imputando
quella stupida
visione alla stanchezza che aveva accumulato in quel breve lasso di
tempo.
Secondo Chopper ci sarebbero voluti altri due o tre giorni prima che
quello scemo
d’un cuoco riprendesse del tutto conoscenza, dunque quel
movimento delle labbra
se l’era semplicemente sognato. Non poteva essere altrimenti.
Si guardò
comunque intorno con fare furtivo e, avvicinandosi piano al giaciglio
di Sanji,
gli sfiorò la fronte con due dita, in una lieve carezza
rozza. «Cerca di
riprenderti in fretta, ricciolo. Se lasciamo di nuovo i fornelli a
Nami,
finiremo tutti indebitati fino al collo», soggiunse in un
soffio vagamente
divertito.
E mentre si allontanava in direzione
della porta,
lasciandosi alle spalle la branda del cuoco, le palpebre di
quest’ultimo
tremarono lievemente, sollevandosi per una manciata di secondi solo per
catturare la fugace visione del pantalone nero di Zoro che spariva
oltre la
soglia.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Sono
schifosamente in ritardo, lo so. Volevo postarlo pian piano in attesa
dell'arrivo dei risultati del contest a cui sta partecipando, ma la
cosa andrà per le lunghe e far aspettare ancora per soli due
capitoli mi sembrava un tremendo azzardo. Dunque eccolo qui.
Comunque metto subito le mani avanti: lo so che può
sembrarlo, ma l'inizio di questo capitolo non è esattamente
ZoSan. Cioè, insomma, l'intenzione è quella, ma
volevo
premere più sul fatto che Zoro sarebbe capace di fare
ciò
che ha fatto per qualunque dei suoi compagni, non solo per Sanji. Ecco
il perché di tutto quel suo discorso sul non essere
abbastanza
forte e affini. Ehi, per quanto mi piaccia la coppia - e molti lo sanno
fin troppo bene, in un certo senso -, anche io so capire il bromance e
il nakamaship, su!
La seconda parte, invece, un pochino lo è. Ma soltanto un
po',
anche se persino Rufy ha subito capito che Zoro vuole andare da Sanji
per vedere come sta. Non è così stupido come
tutti
credono, il buon vecchio Capitano u_u e chi meglio di lui riesce a
capire quello zuccone dello spadaccino? Diciamo che si capiscono
entrambi, ecco
Sproloqui miei a parte, la storia sta arrivando alla sua conclusione e
il capitolo che posterò a breve - si spera - sarà
l'ultimo
Al prossimo! ♥
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Capitolo 10 *** [ Fourth season › Beating hearts ] Touching distance, 02 ***
Like Davy Jones_10
FOURTH
SEASON › BEATING HEARTS
TOUCHING DISTANCE, #02
«Non
devi
sforzare troppo il braccio, né
tanto meno devi azzardarti a togliere il bendaggio triangolare;
potrebbero saltare i punti e la ferita potrebbe riaprirsi, con il
rischio di infezione. Se ti
da’
fastidio vieni da me, non fare di testa tua. Per quanto riguarda la
caviglia,
devi evitare il più possibile di stressarla, quindi niente
cucina o attività
che ti costringano a stare in piedi. Ah, e ti concedo una sola
sigaretta al
giorno. Capito, Sanji?»
Era già la terza volta che
Chopper gli
ripeteva sempre le stesse cose, per quanto Sanji non avesse fatto altro
che
annuire svogliato per tutto il tempo, costretto dal piccolo dottore a
starsene
seduto sul lettino dell’infermeria. Gli aveva più
volte tenuto presente che lui
avrebbe dovuto cucinare pranzo e cena per tutti i membri
dell’equipaggio,
occuparsi delle solite faccende e che in fin dei conti stava meglio di
quanto
pensasse, però Chopper era stato irremovibile: niente
sforzi, niente fumo e
niente cucina. In tre sole semplici mosse l’aveva
praticamente ammazzato. E da
quel che aveva capito aveva davvero
rischiato
di morire, per quanto lui non ricordasse praticamente niente del
genere. L’unica
cosa fin troppo chiara nella sua mente era il momento in cui si era
diretto, seppur zoppicando, verso quel fottuto vecchio, poi c’era
stata semplicemente un buio totale per chissà quanto tempo. Gli
avevano raccontato che era rimasto privo di sensi per due giorni interi
e che
era riuscito a cavarsela solo grazie a Zoro, che aveva avuto la
prontezza di
caricarselo in spalla e di affrettarsi a cercarli. Come fosse poi
riuscito a
trovarli era un mistero, ma avevano avuto ben altro di cui
preoccuparsi, non
appena l’avevano visto ferito e con il respiro che si udiva a
malapena.
In un primo momento, e non lo
nascondeva, Sanji era quasi scoppiato a ridere istericamente. Da quando
si era
riunito alla ciurma dopo quei due anni nell’inferno
di Kamabakka aveva
rischiato di tirare le cuoia più
di una volta,
specialmente a causa delle sue continue emorragie nasali. E al ricordo
degli
energumeni che gli avevano donato il sangue era rabbrividito, scuotendo
il capo
per scacciare quel pensiero e concentrarsi sulle parole del piccolo
Chopper,
che si era anche premurato di ricordargli di non bere alcolici. Aveva
poi
attaccato con quella lagna, però quella sua preoccupazione
aveva intenerito
Sanji, che, per quanto scocciato, non aveva potuto fare a meno di
sorridere.
«Ho capito, Chopper, ho
capito», esordì
infine il cuoco, issandosi dal lettino con una certa fatica. La
caviglia che si
era slogato nella foresta gli procurava un fastidioso formicolio ogni
qual
volta poggiava il piede in terra, però, tutto sommato,
riusciva a camminare
abbastanza bene. L’unico problema era proprio il braccio, e
avrebbe dovuto
purtroppo attendere che guarisse. Ci sarebbe voluto tempo, ma la
pazienza, in quanto cuoco, non gli mancava di certo.
Sanji salutò Chopper con un
cenno del
capo, affrettandosi ad uscire dall’infermeria prima che la
renna ricominciasse
con le sue raccomandazioni; una volta sul ponte inspirò fino
in fondo ai
polmoni l’odore salmastro e benefico che proveniva dal mare,
sorridendo
nell’avvicinarsi alla balaustra. Poggiò il braccio
buono su di essa e si perse
nell’osservare il riflesso argentato della luna, che appariva
come un disco
distorto sulla superficie scura dell’acqua; piccole onde
sbattevano
placidamente contro la chiglia della nave e creavano una strana melodia
che
riusciva a calmarlo, esattamente come accadeva quando, da bambino, si
rifugiava
sulla polena del Baratie e fissava l’orizzonte con il
pensiero rivolto al suo
All Blue. A quei ricordi gli venne da sorridere ancor più,
ma scosse
immediatamente il capo quando nella sua mente si affacciò
l’immagine sfocata
dello spadaccino, che gli era persino parso di vedere nel momento
stesso in cui
aveva aperto gli occhi in infermeria. Prese una sigaretta e se la
portò alle
labbra, cercando di trovare un significato a quella visione. Forse
aveva
semplicemente sognato. Forse aveva passato talmente tanto tempo da solo
con
Zoro che si era assuefatto all’idea di averlo vicino, quando
invece non sarebbe
dovuto affatto essere così. Loro due potevano litigare,
essere in disaccordo su
qualunque cosa e convenire poi sulla stessa al momento del bisogno, ma
oltre a
quello non ci sarebbe stato nient’altro. Non
avrebbe dovuto esserci nient’altro. Oh,
merda, aveva ricominciato a
riformulare le proprie frasi al condizionale. Pessimo segno.
Quell’avventura su
quell’isola gli aveva doppiamente confuso le idee,
maledizione, e la cosa stava
cominciando a diventare stressante.
«Sanji! Come stai?»
La voce di Usopp
riuscì fortunatamente a riportarlo alla realtà, e
fu con un sincero sorriso di
gratitudine che si voltò verso di lui, grattandosi distratto
dietro al collo
nonostante la presenza del bendaggio.
«Tutto sommato sto
bene», replicò,
«anche
se il braccio mi fa un male cane e la caviglia mi sta letteralmente
uccidendo».
«Dovresti startene a letto,
sai?» lo
schernì il cecchino, e fu solo nel guardarlo meglio che si
accorse della
sigaretta che sorreggeva fra i denti, lasciandosi sfuggire uno sbuffo
ilare. «Oh!
Chopper ti ha dato il permesso di fumare?» domandò
con un gran sorriso
divertito, riuscendo a strappare a Sanji una mezza risata.
«Solo una al giorno,
Usopp», rispose,
fingendosi afflitto. «Ma meglio di niente».
«Potresti prendere in
considerazione
l’ipotesi di cominciare a smettere».
«Nemmeno per sogno, nasone. Le
sigarette
sono l’emblema del piacere».
Usopp scosse il capo, probabilmente
persino incredulo per quella risposta ricevuta. «Contento tu,
contenti tutti»,
lo prese in giro, dandogli una lieve pacca sulla spalla buona.
«Comunque sia,
Nami mi ha mandato a dirti che non devi preoccuparti per la cena. Ci
penseranno
lei e Robin», soggiunse, e poco ci mancò che per
la sorpresa Sanji ingoiasse la
sigaretta.
«Che cosa?!»
sbottò incredulo.
«Non
posso lasciare che le mie dee si stanchino in questo modo!» e
sarebbe di sicuro
corso in cucina tutto zoppicante, se solo Usopp non l’avesse
costretto con la
forza a rimanere inchiodato lì dove si trovava.
«Sta’ calmo, non te
l’ho detto per farti
agitare», sbuffò. «Sta’ buono
qui, fumati la tua sigaretta e quando è pronto ti
chiamo. Se no giuro che dico a Chopper di somministrarti della
morfina e di legarti a letto finché non guarisci».
Sanji strinse la stecca fra i denti e,
borbottando, poggiò nuovamente i gomiti sulla balaustra,
scoccando appena
un’occhiataccia al cecchino. «Siete dei
selvaggi», bofonchiò. «Far lavorare due
splendide fanciulle come loro per preparare da mangiare a dei rozzi
ingrati
come voi...»
«Certo, certo, come ti
pare», lo
assecondò, battendogli ancora una volta una mano su una
spalla come se volesse
fargli coraggio; con la coda dell’occhio localizzò
poi la figura di Zoro, e non
si risparmiò dall’ammonirlo immediatamente con lo
sguardo nel vederlo
avvicinarsi. «Vedete di non litigare come al solito, voi
due», raccomandò,
decidendo di lasciarli soli.
Il silenzio che piombò fra
loro, però,
fu decisamente imbarazzante. Sanji continuava imperterrito a fumare e
Zoro se
ne stava praticamente immobile di fianco a lui, muto come una statua e
con la
stessa inespressività dipinta in viso. Era come se fra loro
aleggiassero parole
che nessuno dei due aveva il coraggio di esprimere, e probabilmente si
sarebbero sicuramente presi a botte da soli per quella vigliaccheria.
Di solito
si inalberavano per un nonnulla e avevano sempre pronta la scusa per
menarsele
di santa ragione, ma adesso, complici anche gli impedimenti fisici e la
spossatezza che li animava, sembrava che si trovassero ad un punto
morto anche
su quel loro bizzarro modo di relazionarsi. Però non
potevano continuare così,
dannazione. E fu proprio Zoro a prendere il toro per le corna,
aggrottando la
fronte nel farsi più vicino.
«Cuoco», lo
chiamò, e Sanji
sbuffò,
creando un anello di fumo nel togliersi la sigaretta da bocca. Merda.
Aveva
tanto
sperato che quel cretino se ne andasse e lo lasciasse da solo a fumare
quella
maledetta paglia in santa pace, portandosi via anche i suoi
interrogativi.
In fin
dei conti aveva subito una bella batosta anche lui, no? Che se ne
andasse a riposare.
«E adesso cosa vuoi, stupido
marimo?»
sbottò, resistendo all'impulso di tirargli un bel calcio
nello
stomaco. La gamba gli faceva abbastanza male - era già tanto
se
riusciva a stare in piedi - e non aveva la benché minima
voglia
di finire con il culo a terra a causa sua, in particolar modo se si
contava il fatto che era già nervoso per proprio conto senza
che
ci si mettesse anche lui. «Se hai ancora intenzione di
rompere le
palle vedi di sparire,
altriment-» Sanji non ebbe nemmeno il tempo di realizzare del
tutto la cosa che
si ritrovò le labbra dello spadaccino incollate alle
proprie, venendo zittito
seduta stante; sgranò gli occhi e lasciò cadere a
terra il mozzicone di
sigaretta che fino a quel momento aveva sorretto con due dita, non
riuscendo a
credere che stesse accadendo davvero. Quella era una fantasia ad occhi
aperti,
ne era certo. Era del tutto impazzito e ciò che stava
succedendo era soltanto
una proiezione della sua mente malata. Quando sentì la
lingua di Zoro lappargli
il mento irto di barba e premere poi con fare insistente contro le
labbra,
però, si rese conto che in realtà era tutto vero,
e nemmeno si accorse subito
di aver aperto la bocca quel tanto che bastava per far intrufolare
quella
lingua attraverso di essa, andandole incontro con la propria; la
sentì
scontrarsi con i denti, carezzare il suo palato, gustando il bizzarro
sapore
ferruginoso dello spadaccino, che si era spinto contro di lui per
annullare del
tutto la distanza che li separava. Quel bacio fu consumato troppo in
fretta e
gli mozzò il fiato nei polmoni, ma fu con un bizzarro
imbarazzo che non era per
niente da lui che fissò in volto il Vice Capitano non appena
quest’ultimo si
allontanò.
«Consideralo la mia risposta a
quella
domanda che mi hai fatto nella foresta, cuoco»,
replicò Zoro, leccandosi via un
rivolo di saliva prima di dargli semplicemente le spalle per lasciarlo
lì,
immobile e senza più difese, ad osservare la sua schiena
mentre a poco a poco
si allontanava.
Sconcertato, scombussolato, e con il
cuore che batteva a mille, Sanji si sfiorò con due dita il
labbro inferiore,
imprecando a denti stretti qualche istante dopo prima di accasciarsi
sui
calcagni nonostante la fitta dolorosa che gli trapassò la
caviglia; si tenne la testa con una mano e, abbandonando il braccio
bendato in
grembo, mugolò frustrato, intrecciando violentemente le dita
fra i capelli,
quasi volesse strapparli alla radice. Accidenti a
quell’idiota. Baciava anche
da schifo, come se non bastasse. Però, e la cosa era a dir
poco snervante, con
quel pessimo bacio lo spadaccino era riuscito a dissipare ogni suo
dubbio,
lasciandolo ancor più sgomento di quanto non avesse creduto
lui stesso al
principio.
Alla fine era successo. Come un naufrago
in balia delle onde, lui era diventato vittima delle sue stesse
sensazioni,
cogliendo troppo tardi il significato dei bizzarri comportamenti che
l’avevano
animato fino a quel momento. Era pazzo di quel cretino - quel cretino
che aveva
rischiato la propria vita per lui,
rettificò nell’immediato -, e la cosa gli piaceva maledettamente,
accidenti. E fu proprio a quel pensiero che si alzò
in piedi in un lampo, zoppicando verso Zoro per passargli il braccio
buono
dietro le
spalle e attirarlo a sé sotto il suo sguardo accigliato.
Che la parte razionale del suo cervello
andasse a farsi fottere, per una volta. Loro avevano ben due anni da
recuperare.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
E finalmente, dopo tutto questo tempo,
siamo arrivati alla tanta sospirata conclusione di questa storia.
Ammetto
che in un certo momento la situazione mi è un po’
sfuggita di mano, comunque.
All’inizio
l’idea non sarebbe dovuta essere questa - difatti volevo
ambientare la storia
in Strong World, non in un punto imprecisato della New World Arc -,
visto che
la storia sarebbe dovuta essere una one-shot.
Una
cosa tira l’altra, però, e alla fine è
venuta fuori una cosa del genere a cui
non riesco ancora a trovare un vero e proprio senso e... aye, con Sanji
sono stata una vera e propria bastarda, ma quando ci vuole ci vuole.
Poi.
La ZoSan c’è ma si vede esplicitamente soltanto
verso la fine della storia
perché, e mi preme tantissimo dirlo, avevo una voglia matta
di lasciare tutto
in sospeso fino a questo momento, senza far svolgere la storia con il
solito
“Si amano ma
non se lo dicono finché non si trovano da soli in una
situazione
pericolosa”. È tutto molto velato
anche perché il loro rapporto mi piace così
com’è, senza uno scontato romanticismo e senza
situazioni che potrebbero
renderli troppo OOC. Insomma, che sia visto come Romance o puro e
semplice
Bromance, insieme sono comunque stupendi, per me.
Ovviamente,
inoltre, tutte le tecniche presenti nel corso delle battaglie sono
quelle che
vengono utilizzate dai personaggi nell’anime/manga, e, visto
che potevo
sfruttare l’elemento avventura, ho pensato che per mantenere
la stessa
atmosfera e dare credibilità sarebbe stato perfetto
inserirle. È stato un
pochino difficile valorizzare le scene proprio perché in One
Piece i
combattimenti vengono resi sicuramente meglio nella trasposizione su
carta o su
anime, però spero che in qualche modo si sia capito
ciò che volevo esprimere.
Adoro
inoltre le scene nel bel mezzo dei boschi e quella strana sensazione di
quiete
che si prova nello stare dinanzi al fuoco, ma questo credo che sia
stato
ampiamente notato durante il corso della storia e anche in altre
one-shot che
ho scritto sia su questo fandom sia su altri.
Non
saprei cos’altro dire né tanto meno cosa spiegare,
dunque spero semplicemente
che per voi sia stata una bella avventura tanto quanto lo sia stata per
me scriverla.
Oh, dimenticavo di spiegare una cosa molto importante e che alcuni
hanno notato: Davy Jones è scappato, aye, ed il motivo
è
semplice: questa storia ha un seguito. Non so quando lo
posterò,
se riuscirò a finirlo in tempo - infatti sono ferma sullo
stesso
punto da... praticamente quattro mesi - o se lo reputerò
abbastanza buono per essere definito storia, ma in tal caso restate
sintonizzati.
Alla
prossima. ♥
Messaggio No Profit
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