About Wayne

di BlackPearl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno - Meet Elettra ***
Capitolo 2: *** Capitolo due - Meet Christian ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre - Tell me about yourself ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro - Departure ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque - Miami ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei - Meet Duke ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette - Slamming doors ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto - What the hell are you doing? ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove - The moth ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci - You're a dream to me ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici - Collision ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici - Born to run ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici - Fainted ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici - Whatever it takes ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici - Tangled ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici - Begin again ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette - Daylight ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno - Meet Elettra ***


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«Si informano i passeggeri del volo Alitalia G3279 per Miami che ci sono dei ritardi a causa del maltempo. A breve sarà comunicato il nuovo orario di partenza. Grazie per la pazienza.»

No, per favore.

Mi lascio cadere su una sedia con un sospiro esasperato, imprecando a voce non tanto bassa. Non è possibile, davvero. Avrò una qualche fattura addosso che riguarda i voli aerei.

«È il suo?»

Una voce interrompe i miei borbottii e dopo qualche secondo mi volto per capire se quella voce ce l’ha con me. Pare di sì. Una donna sulla cinquantina con un paio di occhiali da vista poggiati sulla punta del naso è seduta due posti più in là e sposta lo sguardo da me al Marie Claire che sta sfogliando.

«Prego?»

«È il suo volo?» Ripete lei, con gentilezza.

«Purtroppo sì.» Annuisco con uno sbuffo. «Anche il suo?» Mi costringo a domandare, anche se non ho proprio voglia di fare conversazione. Già d’abitudine mi infastidiscono le chiacchierate di circostanza, figuriamoci in un momento come questo.

«No, il mio è stato già rimandato a domani.» Replica lei, portandosi un dito alla bocca per inumidirlo leggermente. Gira la pagina del giornale e mi guarda, forse per cogliere la mia espressione a metà tra lo sconcertato e l’incredulo. Ora ricordo di aver sentito circa dieci minuti fa un annuncio riguardante un volo per l’Australia che era stato rimandato per un malore del pilota. Ma non dovrebbero esserci i piloti di riserva? Come può una compagnia così importante perdersi per la cagarella di un pilota? Se proprio non avete i soldi per pagarne un altro mettetegli un tappo e fatelo partire, magari nella stratosfera la pressione gli crea l’effetto sottovuoto. O, male che vada, come disse un ingegnere, saranno “schizzi di merda da tutte le parti”! Che sarà mai?

«Come mai viaggia per Miami? Lavoro? Piacere?» La signora insiste. Che faccio, invento una scusa e vado via o le faccio (mal)educatamente capire che forse dovrebbe farsi un pelo gli affaracci suoi?

Perché sei così poco disponibile ai rapporti umani, Elettra?

«Che ci fa lei ancora qui se il suo volo è stato rimandato a domani?» Okay, forse mi è uscita un pochino male. Però non si può dire che non ci abbia provato. La signora sgrana appena gli occhi e schiude la boccuccia contratta, sorpresa dal mio tono poco socievole. Poi torna a leggere il giornale e borbotta qualcosa su suo marito che è andato a prendere la macchina. Fine della conversazione con la signora. Pace.

«Mi scusi?» Neanche due secondi dopo, una ragazza mi piomba alle spalle tutta trafelata, con due borsoni enormi a tracolla e documenti vari tra le mani. «Scusa, sai per caso se il volo per Miami è partito già?!» Ma cos’ho scritto in fronte, Infopoint? Non sono neanche lontanamente vestita come le hostess di terra, che qualcuno potrebbe confondermi. Faccio schioccare la lingua per mostrare almeno un due per cento del fastidio che mi sta dando questa ragazza col suo respiro affannato e gli occhi spiritati e poi scuoto la testa.

«No, non è partito. Devo prendere anch’io quel volo ma c’è stato un ritardo, non si sa di quanto.»

«Oh, cazzo, cazzo, no!» Neanche il tempo di pregare perché non si segga vicino a me – sembra un tipo molto loquace – che la vedo sparire alla volta di un vero punto informazioni, poco distante da dove sono ora. Vedo che discute animatamente con la signorina in blu, che cerca invano di calmarla. Per un attimo mi fa tenerezza. Chissà cos’avrà da fare di così urgente a Miami. Forse è una ballerina, il che spiegherebbe i borsoni. Forse ha un provino in una delle migliori compagnie di danza della Florida e se lo supera diventerà la nuova Svetlana Zakharova.

Mh.

Ma, onestamente… chissenefrega.

 

***

 

Due ore e molti caffè dopo, sono ancora qui.

Tra parentesi tutte le caffetterie degli aeroporti dovrebbero essere denunciate per furto. Un caffè espresso con uno sputo di schiuma TRE EURO E VENTI! Ma non te ne vai da Starbucks e ti prendi un frappuccino con doppia panna? Tra volo e bevanda ti viene a costare meno, quasi. Ho osato solo guardare una bottiglia d’acqua da mezzo litro e per poco non versavo lo sputo di schiuma a terra. Infimi succhiasangue.

Torno a guardare il tabellone dei voli – che non sapevo esistesse anche in Italia – e il mio sguardo cade sempre sulla scritta “DELAY” che compare accanto al numero del mio volo da troppo tempo. Quasi quasi preparo una bella lettera di reclamo, magari propongo anche degli ottimi antidiarroici per la cagarella dei piloti, tanto non ho niente da fare. Tra l’altro questo trolley mi sta iniziando a stancare. Comodo un emerito cavolo – mi sono ripromessa di non dire più parolacce, vero Ele? Ecco, da brava – devo denunciare anche la Samsonite. Il commesso mi aveva detto che può fare più chilometri di una Ferrari senza scalfirsi di mezzo millimetro, e invece queste ruote della mi…seria – accidenti, però una sana parolaccia a volte rende proprio bene il concetto, no? – già stanno iniziando ad incepparsi. Questo viaggio si sta rivelando proprio fortunato, insomma. Si sapeva. Può mai andarmi bene qualcosa?

#I’m at a payphone trying to call home all of my change I spent on you#

Eh, Adam, che figo che sei. Sospiro – purtroppo è solo il mio cellulare che squilla – e faccio scorrere il dito sul display del mio Galaxy per rispondere.

«Eva?»

«Ele! Tutto a posto? Ma non sei partita?»

«Evidentemente no, se ti sto rispondendo.»

Per niente scalfita dalla mia risposta sarcastica – dopotutto ci è abituata – mia sorella riprende a parlare immediatamente: «Era una domanda retorica, in effetti. Ho letto su internet che ci sono ritardi ovunque, pare che ci sia maltempo…»

«A meno che non sia Katrina che si vendica con un altro uragano, non vedo perché non farci partire lo stesso. Che sarà mai un po’ di pioggia? Com’è possibile che ci sia il nuvolone di Fantozzi su tutta l’America?!»

«Parli proprio tu che ti fai sotto ogni volta che prendi l’aereo. Per favore. Non fare la sbruffona con chi ti conosce come i propri calzini, toppe e buchi inclusi. Il tuo calzino ha un buco sull’alluce enorme come quello della Befana, ed è la paura di volare. Quindi ringrazia. E non sbuffare. Ho fatto la rima e sono più bella di prima.»

«Ma…» Eva è l’unica che riesce a zittirmi. Davvero. Ed è anche l’unica persona che sopporto sulla faccia della terra, il che è tutto dire.

«E comunque non hai da prendere nessuna pillola a Miami, ti ricordo.»

«Ma tu non sei a lavoro? Non hai qualche vita da salvare? Qualche emorroide da impomatare?» Se c’è una cosa per la quale potrei prenderla in giro tutta la vita è il suo lavoro di infermiera, con tutti gli annessi e connessi scomodi e schifosi del caso.

«La tua, se continui a bere caffè come sono sicura starai facendo già da un po’ troppo.»

«Guarda, al massimo mi viene una diarrea.» E siamo sempre lì, agli antidiarroici per il pilota.

«E non- uo- dare- gno-» La voce di Eva si sente a tratti. Mi sposto per trovare un punto migliore per il segnale, e mi porto due dita all’orecchio per cercare di ascoltare la risposta di mia sorella; sto per chiederle di ripetere quando vengo praticamente alzata in aria da qualcuno che correva con i paraocchi.

«STRONZO, guarda dove metti i piedi!» Scusate, ma quando ci vuole ci vuole. Mi massaggio il sedere che è stato il primo ad atterrare sul pavimento e recupero il cellulare che nella caduta mi è scivolato di mano. Se non funziona glielo faccio mangiare, digerire, espellere e comprare nuovo! No, okay, funziona. La linea però è caduta definitivamente.

«Oddio, scusami! Scusa, sono scivolato!» Un giovane uomo con occhi azzurri e capelli scuri mi si para davanti, tendendomi le mani per aiutarmi a rimettermi in piedi. Lo ignoro e mi alzo da sola.

«Sei scivolato? A quanto andavi, Alonso?» Questi pavimenti sono talmente ruvidi che nemmeno con venti passate di cera diventerebbero scivolosi.

Lui mi sorride impacciato e si scusa di nuovo. «Ti sei fatta male?»

«No, sfracellarmi sul pavimento è il mio passatempo preferito, ormai ci ho fatto il callo.» Gli rivolgo un sorriso tirato e mi chino per raccogliere il trolley. La botta l’ho presa eccome, emerito imbecille. Mi uscirà anche un bel livido.

«Permettimi di offrirti un caffè, per farmi perdonare.» Avevo ripreso a camminare col cellulare all’orecchio per richiamare Eva, ma la sua mano sulla spalla mi costringe a fermarmi. Noto il velo di barba, lo sguardo sicuro di sé, le labbra carnose.

«Non bevo caffè, mi dispiace.» Mi volto prima che il mio naso arrivi a Miami, e mi dirigo verso un punto informazioni per sapere quand’è che si decideranno a farci partire.

«Allora un tè, una camomilla, una coca-cola?» Oddio, ma quanto ti ci vuole per riconoscere i segnali di un chiaro e semplice rifiuto? Il ragazzo mi riappare davanti, e stavolta non nascondo uno sbuffo scocciato.

«Sto per azzopparti col mio bagaglio e lo farò sembrare un incidente. Decidi tu se vuoi offrirmi qualche altra cosa.» Gli sorrido, serafica. Lui aggrotta la fronte e scuote la testa, probabilmente pensando che io sia appena uscita dalla Carica dei 101 – e non nel ruolo di Anita – e poi, finalmente, alza i tacchi e scompare.

Tu hai qualche serio problema.

No, è lui che ha un problema. Io sono perfettamente normale.

Mi avvicino a una delle hostess di terra dietro al banco e prendo un bel respiro. Conta fino a dieci e non dire la prima cosa che ti passa per la testa.

Uno, due, tre…

«Mi dica.» Dice la ragazza, con un sorriso cordiale.

Quattro, cinque, sei…

«Qualche problema?» QUALCHE PROBLEMA? Ho metà sangue e metà caffeina in corpo, tu non vuoi davvero chiedermi se c’è qualche problema.

Sette, otto, nove…

«Secondo lei faccio prima a prendere il brevetto come pilota e offrirmi per il volo diretto a Miami, o riusciremo a partire entro la prossima fumata bianca?» Okay, poteva andare peggio.

La ragazza impallidisce e digita veloce qualcosa sul computer.

«Le faccio subito sapere qualcosa…» Mentre controlla, mi lancia occhiate impaurite alle quali rispondo con la massima indifferenza. Poi si morde il labbro e si schiarisce la gola. «Il server è stato appena aggiornato, il suo volo per Miami partirà domattina alle nove.» In quel preciso istante, la voce metallica e gracchiante annuncia dagli altoparlanti la stessa cosa. «Alitalia mette a disposizione una camera d’albergo per i passeggeri e si scusa per il disagio.» Prosegue la giovane donna, leggendo la frase così com’è scritta sul suo computer. Poi mi porge un foglio fresco di stampa sul quale è riportato il nome dell’hotel e la prenotazione a nome mio. «Mi dispiace.» Mi dice, con un sorriso di comprensione.

«Certo, posso solo immaginare quanto.» Rispondo ironica, e vado via.

 

***

 

Sospiro, provata, e mi butto a peso morto sul letto, affondando la testa tra i cuscini.

Mmh, sono morbidi.

Devo farmi una doccia.

Sì, solo cinque minuti…

Mi alzo, controvoglia, e mi avvio ciabattando verso il bagno. Mi sfilo i vestiti con una pseudo-velocità dettata più che altro dalla frustrazione di essermi alzata da quel comodissimo letto e apro l’acqua. Ma l’acqua non scende.

Siamo ancora sul letto, baby.

Ohhhh. Mi capita sempre. Penso di aver fatto una cosa e invece la sto solo sognando a occhi… beh, chiusi.

Okay, ora mi alzo. Il mio alter ego interiore – che in questo momento ha assunto le sembianze di un bradipo – sbuffa e si strofina gli occhi. Stavolta nel bagno ci entro davvero, mi svesto alla bene e meglio, lasciando cadere distrattamente sul pavimento quello che indosso, e rabbrividisco appena per il contatto con la ceramica gelida della doccia sotto i piedi. L’acqua fresca mi risveglia appena dal torpore, e porta via un po’ di sonno. Sbadiglio. Quando esco, avvolta da un asciugamano di spugna rosa pallido, faccio una smorfia. Non c’è un tappeto e non ho messo nulla per simularne uno, per cui si è formata una piccola pozza d’acqua ai miei piedi. Pazienza, qualcosa dovranno pur fare quelli delle pulizie, no?

Canticchio una canzone dei Nickelback mentre, nuda, frugo nella valigia alla ricerca del pigiama. Vorrei stare il più comoda possibile, penso, mentre tasto il morbidissimo pigiama di Intimissimi di cotone lilla e bianco. Purtroppo però in questa camera fa un caldo infernale e non mi va di accendere l’aria condizionata, che sicuramente si paga a parte – che tirchi, quelli dell’Alitalia! – quindi opto per quello marcato Victoria’s Secret, un regalo di laurea, di satin nero. Un po’ meno comodo dell’altro ma sicuramente freschissimo, dato che praticamente copre soltanto lo stretto necessario e poco altro. Lego i capelli in una treccia veloce e finalmente accontento la me-bradipo che anela il contatto con quei cuscini dal primo momento in cui li ha visti.

Ahhh… relax.

Oh, no, devo lavarmi i denti. E ho anche lasciato il cellulare in bagno. Due ottimi motivi per rialzarmi. Mi dispiace, Siddina, mormoro al mio alter ego, che mi manda allegramente – anzi, non tanto – a quel paese. Recupero il beauty-case dalla valigia e ne tiro fuori spazzolino e dentifricio. Torno a canticchiare, stavolta sono gli Hoobastank. Come sono melodrammatica stasera. Davvero nel mio stile, essere masochista e ascoltare o cantare canzoni tristi quando già l’umore è quello che è. Alitalia del cacchio. Mpf… Beh, se non altro si può dire che non mi aspettavo di essere trasferita in albergo per l’attesa, anche se potevano sempre scegliere di meglio, perché la- oddio. Cos’è stato quel rumore?

Sembrava la porta della camera. Tendo l’orecchio per capire se mi sono impressionata e sento la porta che si chiude. Oh, merda. Cerco con lo sguardo un oggetto che almeno dia solo l’impressione di essere pericoloso e non trovo di meglio della pinzetta per le ciglia.

Ah certo, se è un ladro o un qualsiasi altro malintenzionato si fermerà, vedendoti puntargli addosso quella.

Esco titubante dal bagno nascondendo la pinzetta nel pugno stretto e mi blocco, vedendo un tizio fermo al centro della stanza con due borsoni, che fissa la mia valigia sul letto con un’espressione a dir poco confusa.

Okay, definisci meglio la parola ‘tizio’, Elettra. Credo che chi ti legga ne abbia bisogno.

Il ‘tizio’ è un uomo sulla trentina, con una giacca di pelle nera e un paio di occhi disarmanti.

Hai dimenticato i capelli biondo scuro che gli incorniciano il viso squadrato e forte, le spalle larghe e decisamente muscolose, le labbra sottili increspate in un sorriso, nonché la sua stessa presenza che riempie la stanza e crea una strana tensione...

Ah, bene. Grazie per averci fornito maggiori dettagli. Ma sono sicura che questo non risolverà il problema creatosi, né dissolverà nel nulla la domanda che mi lampeggia in testa, e cioè CHE DIAMINE CI FA QUESTO TIZIO NELLA MIA STANZA?!

 

 

~ Note

Orbene, bella gente. Non credevo di farlo prima della prossima era glaciale, ma pare proprio che invece io stia per cliccare su “pubblica una storia”. Se state leggendo, in effetti, l’ho già fatto.

Non ho molto da dire, se non che di tutte le storie che ho scritto – incluse quelle che non pubblicherò mai – questa è quella a cui tengo di più. Non so bene perché, forse perché Elettra mi somiglia più di quanto io voglia ammettere – dunque mi odierete profondamente, sì – o forse perché sono innamorata persa del tizio che è appena piombato nella camera della protagonista, come se lo conoscessi davvero. Intendo proprio il personaggio, non l’attore che ho scelto per dargli un volto (anche se il caro Hemsworth non mi è affatto indifferente).

Insomma, ci terrei a sapere il vostro parere. Grazie in anticipo per aver letto, e spero di pubblicare presto il secondo capitolo. Dipende tutto da voi. Intanto vi lascio un piccolo spoiler, un assaggino.

 

«Stai dicendo che sono una pazza isterica?» Chiedo, e mi rendo conto di essere passata al tu anch’io. Pazienza. Ci adattiamo alla maleducazione.

«Pazza non credo, isterica direi di sì. Esagerata anche, un tantino. Io non avrei reagito così al posto tuo.»

«E io non sarei mai entrata nella camera di un altro, non avrei mai poggiato le valigie a terra, non mi sarei spogliata e non me ne starei mezza nuda sull’uscio della porta del bagno! DI UN ALTRO!»

 

E vi ricordo, per chi mi conosce già, o vi informo, per chi mi sta leggendo per la prima volta – fuggite, sciocchi! – del mio gruppo su Facebook, per spoiler, domande, critiche, scleri e tanto altro.

Ora vado a pentirmi di aver pubblicato.

Un abbraccio,

Sara.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo due - Meet Christian ***


Blend



Mi domando chi si deciderà a parlare per primo.

«Ci dev’essere un errore.» Ah, ecco, lui. Perspicace, il ragazzo, devo ammetterlo.

«Decisamente.» Rispondo, e mi accorgo troppo tardi di essere suonata abbastanza acidella. Vedo che controlla la scheda magnetica che ha in mano, quella che apre la porta della camera, e poi distoglie subito lo sguardo puntandolo nel mio. «Non credo siano passe-partout. Il numero è quello, 815.» Mi mostra le tre cifre dorate incise sulla scheda.

«Certo, ma come vede la stanza è occupata. Quante copie hanno della stessa scheda?» Ricordo di averne viste almeno tre, in effetti, in ognuno dei piccoli scomparti retrostanti il bancone della reception. Lui alza le spalle e poggia i borsoni sul pavimento. Che ha intenzione di fare?

«Il concierge mi ha detto che erano appena finite le stanze, ma non avevo capito che avessero iniziato a distribuire i clienti nelle stanze già occupate.» Cosa? Cosa vuole dire, che ha intenzione di dormire qui?

«Guardi, dev’esserci sicuramente un errore. L’albergo è enorme, non credo proprio che…»

«Anche tu dovevi essere su un volo Alitalia a quest’ora? Anzi, probabilmente già saresti dovuta atterrare, come me, giusto?» Primo, come si permette di darmi del tu? Avremo anche la stessa età, o quasi, ma ciò non toglie che siamo due estranei. E io sono una donna! Questo tizio già mi irrita. Secondo, cos’è che mi ha chiesto? Ah, sì.

«Sì, ma non capisco cosa c’entri questo con-»

«C’entra. Hai idea di quanti voli sono stati rimandati oggi?» Dice, mentre si siede con tranquillità sul letto e inizia a sfilarsi le scarpe eleganti. Ma, ma… ma… che crede, di stare a casa sua?!

«Sì, quasi tutti, ma ci sono tanti altri-»

«L’Alitalia non è conosciuta per il suo essere larga di maniche.» E come mi infastidiscono le persone che mi interrompono mentre parlo! AAAHHHH!

Ora, tra parentesi, si sta togliendo la giacca, scoprendo una maglia bianca con lo scollo a V non troppo profondo, che rivela però un tratto di pelle chiara del petto. E una sottile collana d’argento.

Ma che sto facendo, mi perdo nei dettagli?

Senza perdermi in chiacchiere – o in pensieri, che è lo stesso, se non peggio – mi fiondo sul telefono del comodino dal lato mio del letto – lato mio? Ma che dico, tutto il letto è mio! – e alzo la cornetta, espirando rumorosamente dalle narici.

«Che stai facendo?» Chiede lui, mentre si abbassa sui talloni per aprire la cerniera laterale di uno dei due borsoni.

«Cosa le sembra? Sto chiamando la reception.» Replico, alzando gli occhi al cielo, seccata all’inverosimile. Lui non risponde, ma gli passa sulle labbra l’ombra di un sorriso che ha tutta l’aria di essere sarcastico.

«Mi dica...» Risponde svelto qualcuno all’altro capo del telefono. «…signorina Wayne, giusto?»

«Sì, giusto! Lei è arrivato direttamente al punto.» Dico, un po’ sorpresa dal fatto che abbia subito collegato la telefonata al numero dell’interno e poi al mio nome in così pochi secondi. «Ha appena pronunciato il mio cognome, quindi questo cosa vuol dire?» Chiedo, stizzita. Il tipo dall’altro lato mugugna qualcosa, forse un po’ spiazzato dalla mia domanda. In effetti, anche a me è suonata un tantino strana.

«Glielo dico io. Che la stanza è prenotata a MIO nome, ergo sono IO a doverne usufruire, giusto?»

«Ehm… suppongo di sì, signorina.» Mormora lui, poco convinto.

«E allora potreste gentilmente spiegarmi cosa diamine ci fa quest’uomo NEL MIO LETTO?!»

Non ti sembra di esagerare un pochino?

No, vaffanculo, ormai è diventata una questione di principio. E voglio che questo zotico irriverente si tolga quel dannatissimo sorrisetto ironico dal viso. Ma chi si crede di essere?

«Un attimo che controllo.» Risponde il concierge, concitato. Sembra di stare al telefono con la Telecom. Vediamo di risolvere questo “guasto”.

«C’è stato un mix-up coi nomi, signorina Wayne. Può confermarmi che l’“uomo nel suo letto” è Christian Wayne?» Che diamine ne so io. Non si è neanche presentato.

«Lei è Christian Wayne?» Gli chiedo, voltandomi a guardarlo. Deglutisco appena nel vederlo di nuovo in piedi, imponente nella sua t-shirt bianca, jeans scuri e piedi nudi.

«Sissignora, sono io.» Dice, sorridendo di sbieco. «Quello è il bagno?» Indica la porta socchiusa con un cenno del capo. Annuisco. «Posso andare o hai intenzione di accoltellarmi con quella?» Ora sta puntando lo sguardo sulla pinzetta che ho ancora tra le mani. Avvampo, posandola sul comodino con uno scatto nervoso. Lui ridacchia e si chiude in bagno. Mentre sto per chiedere spiegazioni al tipo della hall, lui riapre la porta e tira fuori la testa, fissandomi divertito. «Ehi, c’è una perdita in bagno o hai annaffiato il pavimento volontariamente?» Okay, ora è davvero troppo.

Aggancio la cornetta alla bene e meglio, fregandomene di chi mi stava aspettando all’altro capo e vado verso il bagno con la pinzetta tra le mani. Lui indietreggia appena e apre del tutto la porta, rivelando il suo stato di parziale nudità, dalla vita in su.

Oh, Gesù. Io mi calmerei un attimo, se fossi in te. Li hai visti quei bicipiti, vero? Questo ti spezza con uno schiocco di quelle splendide dita!

In effetti mi sono un po’ persa tra il pettorale e la leggera peluria per niente fastidiosa ai miei occhi, stranamente, che amo gli uomini depilati. Deglutisco a vuoto e torno a puntargli la pinzetta sul naso.

«Tu… non mi conosci.» Dico, cercando di apparire minacciosa.

Lui non si scalfisce per niente. Incrocia le braccia al petto – oddio, quei bicipiti! – e alza un sopracciglio.

«Non credo di perdermi molto. A meno che tu non asserisca il contrario…» Fa una pausa voluta, e aspettando che io gli dica il mio nome, percorre il mio corpo con lo sguardo. Voglio morire. No, voglio ucciderlo.

«Elettra.» Dico in un lampo, e lui fa un’espressione quasi compiaciuta, aggrottando la fronte e piegando gli angoli delle labbra all’ingiù. «Caspita, bel nome. Si addice alla tua personalità.»

Sì, ma non era questo il punto. Perché non mi lascia sfogare in pace? Ho perso il filo del discorso. E poi che c’entra questo con la mia personalità?!

Lui sembra leggermi nel pensiero. «Elettra e elettricità derivano dalla stessa parola greca, elektron, che significa ambra. I primi fenomeni elettrostatici vennero scoperti proprio grazie a questa.»

«Stai dicendo che sono una pazza isterica?» Chiedo, e mi rendo conto di essere passata al tu anch’io. Pazienza. Ci adattiamo alla maleducazione.

«Pazza non credo, isterica direi di sì. Esagerata anche, un tantino. Io non avrei reagito così al posto tuo.»

«E io non sarei mai entrata nella camera di un altro, non avrei mai poggiato le valigie a terra, non mi sarei spogliata e non me ne starei mezza nuda sull’uscio della porta del bagno! DI UN ALTRO!» Sbotto, alzando un po’ la voce. Christian socchiude leggermente le palpebre, e fa scorrere lo sguardo su di me, soffermandosi sulle labbra, sul collo, sul seno, sulla pancia…

«Di questo non posso dire che non mi perderei molto.»

Non arrossire, non arrossire, NON ARROSSIRE.

Maledizione!

«Ho davvero bisogno di una doccia.» Dice, prendendo atto del mio mutismo, conseguenza naturale di ciò che mi ha appena detto. «Quindi vado. Se vuoi restare qui a guardarmi con l’aria di chi ha appena visto Freddie Mercury passeggiare in mutande per le strade di Roma fai pure.» Aggiunge, e inizia a sbottonarsi il jeans. Quando tira giù la cerniera afferro la maniglia della porta con uno scatto fulmineo e me la chiudo alle spalle. Ho gli occhi sbarrati e l’espressione di chi ha visto Christian Wayne in mutande in un albergo di Roma. Il mio cuore riprende a battere normalmente solo dopo qualche secondo. Il mio alter ego interiore, Violet – che è anche il mio secondo nome – sta pulendo i litri di bava con uno sguardo deliziosamente perso nel vuoto. E vagamente ninfomane.

Mi siedo sul letto e cerco di pensare lucidamente. Nemmeno il tempo di iniziare a mettere a posto i neuroni che qualcuno bussa alla porta. Vado ad aprire e mi trovo davanti il concierge.

«Ah, signorina Wayne. Pensavo fosse successo qualcosa. Non riuscivo a richiamarla.» Mi volto a guardare il telefono e noto che la cornetta è fuori posto. Ops.

«Come avrà capito, c’è stato un errore a causa dei vostri cognomi uguali, e in più abbiamo già un sovraffollamento di fondo. Ora stiamo per così dire “smistando” i nuovi che arrivano in altri alberghi della nostra catena, che però sono più lontani dall’aeroporto, quindi comporteranno più disagi. Mi scuso a nome dell’hotel per l’inconveniente, se volete provvedo a una nuova sistemazione per il signor Wayne in uno degli alberghi fuori zona.» Conclude, accorato. Mi mordo il labbro dall’interno, questo tizio mi fa pena. L’errore, o “mix-up”, come l’ha chiamato prima, è comprensibile. Non accettabile, ma comprensibile. Espiro, pensando a cosa fare. Lancio uno sguardo alla porta del bagno e sento il rumore dell’acqua che scorre sotto la doccia. Che faccio, lo mando via? Ormai si è fatto anche la doccia. Dopotutto, si tratta di una notte soltanto. Chiudo gli occhi per un istante, cercando di controllare il nervosismo crescente, e quando li riapro accenno un sorriso all’uomo davanti a me, che aspetta irrequieto una mia risposta.

«Non fa niente, grazie lo stesso. Si può avere la cena in camera?» So che di solito non si può, negli alberghi, specialmente quando hanno ben due sale apposite per la ristorazione, ma ho il sospetto che il nostro inconveniente ci dia libero accesso a molte cose altrimenti inaccessibili.

«Ehm, certo, signorina. La cena sarà servita alle otto in punto.» Risponde sollevato lui, si profonde in un piccolo inchino e si dilegua celere lungo il corridoio.

Ottimo.

Quando torno dentro, mi trovo davanti l’uomo che ha invaso la mia stanza coperto solo da un asciugamano avvolto sui fianchi. Fortunatamente ha preso quello grande. Inspiro profondamente, cercando di far tornare in sé – o meglio, in me – l’Elettra che sono sempre stata, e che ora è nascosta da qualche parte. O probabilmente, si è congiunta con Violet, che nuota allegramente nella bava facendo vistose piroette e tuffi con triplo salto mortale.

«Se non sei ancora intenzionata a pugnalarmi con la pinzetta, non è che potresti prestarmela?» Christian interrompe ancora il silenzio, e io gli rivolgo uno sguardo interrogativo. Non vorrà farsi le sopracciglia, vero? Impallidisco al solo pensiero. Violet ha la mascella a terra e la libido sotto i piedi. Mi avvicino a lui e gli guardo di sfuggita le sopracciglia. Si vede che ogni tanto qualcuno gliele sfoltisce, ma senza ombra di dubbio sono le sopracciglia di un uomo. Il mio alter ego tira un sospiro di sollievo e si fa aria con la mano per lo spavento.

«Non devo farmi le sopracciglia, Elettra. Ho una scheggia di qualcosa, forse legno, nel dito.» Mi mostra l’indice, e noto la zona rossa attorno a un puntino marrone sul polpastrello.

«Mmmh…» Faccio una smorfia di dolore, come se ce l’avessi io, e gli passo la pinzetta. Lui la prende e si siede sul letto. Osservo il suo volto accigliato mentre si concentra sulla scheggia, tenendo la pinzetta nella mano sinistra. A meno che non sia mancino, non deve essere per niente semplice estrarla con l’altra mano. Vedo che espira lentamente, forse per stare calmo. Io avrei già iniziato a sbraitare. Improvvisamente mi sento la bocca secca, quando vedo che si passa la lingua sulle labbra, molto lentamente. Probabilmente un gesto istintivo che dimostra concentrazione e dedizione alla causa. Vedo che stringe la pinzetta e tira, ma senza risultati. Espira di nuovo, stavolta emettendo un suono simile a un ringhio. Si sta innervosendo.

«Vuoi… una mano?» Gli chiedo, d’istinto. Mi sono trovata anch’io un paio di volte nella sua situazione, quando da piccola andavo a fare delle gite con la mia famiglia. È fastidiosissimo, specialmente quando provi a togliere la scheggia ma non ci riesci. La zona si gonfia e fa un male cane!

Christian alza lo sguardo, a metà tra il sorpreso e il riconoscente. «Grazie.»

Mi avvicino al letto e mi siedo alla sua sinistra. Lui si gira col corpo verso di me e nel farlo l’asciugamano si allarga scoprendogli la parte alta di una gamba, poco sopra il ginocchio. Oh, mio Dio. Non voglio guardare.

Guarda quella gamba! È… è… una colonna! Signore Onnipotente!

Sarò sicuramente diventata bordeaux come le lenzuola. Queste sono reazioni che non posso controllare.

Mi faccio coraggio e gli prendo la mano, che lui mi offre gentilmente. Con la mano sinistra si appoggia al letto, rivelando dei muscoli delle braccia che non sapevo neanche esistessero. Eppure non sembra Schwarzenegger, con muscoli schifosi dappertutto. Ogni movimento ne scopre uno diverso, e non è mai troppo.

Sì, però ora concentrati sul suo dito.

«Dunque…» Gli alzo leggermente il dito e delicatamente sfioro il polpastrello col mio, per capire quanto esce fuori la punta della scheggia. «Non è entrata troppo dentro, sei fortunato. Ti fa male?» Gli chiedo, sovrappensiero.

«È fastidioso.» Replica lui, sistemandosi meglio sul letto. Non oso guardare l’asciugamano. Ma purtroppo ce l’ho a qualcosa come cinquanta centimetri dal naso, perfettamente in prospettiva con la mano che gli sto tenendo, quindi anche volendo è impossibile non guardare. Non sono una macchina fotografica che riesce a sfocare lo sfondo!

«Devo vestirmi?» Quando le sue parole mi giungono alle orecchie, non so esattamente se iniziare a scavare per raggiungere i miei amici cinesi o prendere la pala e suonargliela semplicemente in testa.

«Ma sei sempre così sfrontato?» Gli chiedo, sincera e allibita. Lui sembra vagamente spiazzato dalla domanda, ma solo per una frazione di secondo. Si ricompone subito e sfodera il suo mezzo sorriso senza togliere quell’azzurro intenso dai miei occhi.

«Di solito sì. E tu sei sempre così puritana?» Non credo alle mie orecchie. Io, puritana?! Ma… ma…

«Solo con gli sconosciuti che mi piombano in camera e non si presentano e mi danno del tu senza permesso e si fanno la doccia come se stessero a casa loro e si permettono anche di prendermi in giro sulle mie reazioni!» Replico, piccata, ma in fondo divertita. Appena finisco di parlare, tiro la pinzetta e riesco a estrarre la scheggia.

Lui ridacchia, si guarda il dito con ammirazione e poi guarda me: «Va bene, hai ragione. Ricominciamo. Salve, io sono Christian. Posso darle del tu?» Dice, come se stesse parlando a una bambina delicata e fragile. Io alzo gli occhi al cielo e stringo la sua mano appena guarita.

«Ciao Christian, io sono Elettra. Sì, possiamo darci del tu.» Dopo la stretta di mano lui mi sorride, ma ha sempre quell’espressione come se stesse perennemente per prendermi in giro.

«Ora è meglio che mi metta qualcosa addosso, o ti si brucerà il… pigiama… per autocombustione.» Mormora, guardando curioso il completo di Victoria’s Secret, che ora rimpiango tantissimo di aver indossato. Mi sento nuda. E, anche se non lo ammetterò mai ad alta voce, ha ragione, sto per andare a fuoco.

…e avevo ragione anch’io, mi ha presa in giro per l’ennesima volta.

 

***

 

Mentre Christian si ritira in bagno per vestirsi, io guardo la mia valigia con la coda dell’occhio, valutando se sia il caso di mettermi qualcos’altro. Almeno l’altro pigiama. Anche se suderei come la Sfinge.

«Ecco fatto. Così va meglio?» La voce di Christian interrompe tutte le mie congetture e mi porta a guardarlo.

«Ah, certo. Quello sarebbe il tuo concetto di vestirsi?» Indico i pantaloncini del pigiama e… beh, nient’altro.

Lo vedo, STAI SBAVANDO! Inutile nasconderlo!

«Ho detto che mi sarei messo qualcosa addosso, non che mi sarei vestito.» Dice, riponendo il deodorante in una tasca interna della valigia. «Hai per caso un asciugacapelli? Quello dell’albergo fa ridere.»

Ah, già. Non vi avevo detto che ha ancora i capelli umidi.

Non devi trascurare questi dettagli! Blatera Violet seduta su un letto a gambe aperte pronta per essere violentata.

In effetti, il contrasto tra le ciocche bagnate – e quindi più scure – che gli cadono sulla fronte e gli occhi è qualcosa di indescrivibile.

«Sì, l’ho messo in uno dei ripiani dell’armadio.» Glielo indico. «Ma non fa troppo caldo?» Dico con una smorfia, soffrendo per lui al solo pensiero dell’aria bollente sulla pelle.

«Quando li porto così lunghi se non li asciugo almeno un po’ mi viene il mal di testa, il novanta per cento delle volte… e divento molto irritabile con un mal di testa del genere.»

«Diventi?» Gli chiedo, con un sorriso interiore pari solo a quello dello Stregatto e il mio fido sopracciglio alzato. Lui, come al solito, replica con un mezzo ghigno e mi guarda dritta negli occhi.

«Non hai idea di come posso diventare, Elettra.»

Sembra di stare in un film. Il mio coinquilino-per-una-notte si è trasformato in Edward Cullen vestito da Thor. Vuole fare il tenebroso del cavolo. Ma per favore.

«Beata ignoranza!» Dico ironica, e mi giro a pancia sotto sul letto, mentre accendo il laptop per controllare la posta. Sento il rumore dell’asciugacapelli che si aziona e per un attimo mi sembra di essere tornata a casa: io sul letto a studiare ed Eva a prepararsi in bagno per una delle sue serate in discoteca.

Un trillo mi avverte della ricezione di un messaggio su Skype. Apro la finestra, rivelando il volto sorridente di Anne, mia cugina, e di suo marito Cooper, immortalati nel mare cristallino delle Canarie.

 

Anne Cuginastra, come stai? Ho saputo del delay!

Elettra Più sfigata non si può, eh?

Anne Quando hai il nuovo volo?

Elettra Domani mattina alle 9:00. Spero di svegliarmi in tempo. Mi verranno le crisi isteriche.

Anne Metti la sveglia cinque o sei ore prima.

Elettra Scherzavo. Fortunatamente – o sfortunatamente – non ce ne sarà bisogno.

Anne Sei in camera col pilota? Hahaha.

Elettra No. Sono in camera col dio greco dei muscoli e delle battute sarcastiche che è sul mio stesso volo.

Anne SEI IN CAMERA CON UN UOMO? TU?!

Elettra Perché, sono allergica al testosterone e non lo sapevo?

Anne Ad ogni tipo di contatto umano e relazione sociale, specialmente coi portatori sani di testosterone, sì. Dev’essere proprio bello questo tipo, per non averti fatto mettere sottosopra un intero albergo!

Elettra Ragazzi, ma che opinione avete di me? Ora sto davvero iniziando a domandarmelo!

Anne L’opinione di una che all’università si armò di coltello e cacciavite per bucare la ruota alla segretaria che aveva osato mettere un suo compagno di corso nella stessa camera. E le stanze erano separate!

Elettra Ma a quello puzzava l’alito! E poi quella segretaria la odiavano tutti, non diciamo scemenze.

Anne Ahhh, sei incredibile.

Elettra Lo so. Ora devo proprio andare. Il dio del tuono, qui, ha finito di asciugarsi i capelli.

Anne Non so se augurarti di fare la brava o meno.

Elettra Ma per chi mi hai presa?!

Anne Fammi sapere se e quando ti deciderai a togliere le vesti della befana e a indossare quelle di Catwoman. A domani.

Elettra Spero che a Cooper caschi il pisello. A domani.

 

Chiudo il laptop e lo ripongo sul comodino. Adone è in piedi di fronte allo specchio, apparentemente controllandosi il velo di barba che gli scurisce le guance. Quando ha constatato che è tutto a posto, si volta verso di me, seduta sul letto a gambe incrociate. Guarda l’orologio. Sono quasi le otto.

«Che vuoi fare?» Mi domanda, all’improvviso.

Alzo un sopracciglio, vagamente imbarazzata.

Tu imbarazzata!

No, è che mi ha colto alla sprovvista.

«Niente. Che dobbiamo fare?»

Stavolta ad alzare il sopracciglio è lui, ma sono sicura che io non avevo quel sorriso malizioso dipinto in volto.

«Qualcosa da fare si trova sempre.»

Alzo gli occhi al cielo e gli tiro un cuscino in faccia. Che schifo di mira. Osservo il cuscino rimbalzargli contro il petto e cadere con un tonfo – sicuramente beato – a terra. Lui segue il mio sguardo e poi lo rialza, incrociando i miei occhi, con un’espressione a metà tra il divertito e l’infastidito.

«E ora, precisamente, come vorresti essere punita per questo?» Lo vedo avanzare minaccioso verso di me. Il materasso si abbassa sotto il peso del suo ginocchio e senza che possa rendermene conto mi ha afferrato una caviglia e mi sta trascinando verso il bordo del letto come se fossi una trapunta.

Ohhh, questo sì che è eccitante!

Taci, VIOLET! Questo lo conosco sì e no da mezz’ora!

E in mezz’ora ti ha messa KO e si è quasi spogliato davanti a te. Precisiamo.

Quando arrivo a toccare col sedere il bordo del letto, e cerco di indovinare la sua prossima mossa, terrorizzata e a un passo dall’urlare come Tina Turner in pieno acuto, si sente bussare alla porta.

Oh, grazie al cielo! La cena.

 

 

~ Note

Secondo capitolo di questa emozionante storia! Ha-ha, come mi faccio ridere.

Che dire, questa volta? Innanzitutto, grazie per l’accoglienza e grazie a chi ha recensito e inserito nei preferiti/seguite/da ricordare.

E così, Christian Wayne ha fatto il suo ingresso in tutto il suo libidinoso splendore di maschio alfa, e devo dire che il presta volto Hemsworth mi ha reso le cose molto più facili, in questo. È in suo onore che Mr Wayne si chiama Christian, ci tengo a dirlo. Poi mi paghi per la pubblicità, Hem. In natura, ovviamente.

Con questo capitolo anche il titolo di questa storia ha un suo perché, e un ringraziamento va ad Anna (Aine Walsh su Efp) per aver contribuito al ‘parto’. Ti ho ripagata bene, facendoti sposare Cooper, vè? (L)

Non ci sono altre note particolari da portare alla vostra attenzione (tranne un "non fate caso alla formattazione del testo della conversazione su Skype, ma Word a volte non collabora"), per cui vi lascio con un brevissimo spoiler del prossimo capitolo.

 

«Le minacce non hanno mai portato da nessuna parte, signorina Wayne.»

E quella fu la mia fine.

 

Come sempre, nel gruppo Fb trovate altri spoiler, news sulla storia e vari ed eventuali simpaticissimi deliri dell’autrice e delle sue adorabili affezionate.

Un abbraccio,

Sara.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo tre - Tell me about yourself ***


Blend



Mi riapproprio della mia caviglia con uno strattone e scivolo dal letto come una murena, sfuggendo alla sua mano che tenta di riacciuffarmi. Apro la porta e mi trovo davanti un cameriere, vestito di tutto punto, con un carrello pieno di pietanze distribuite su due ripiani. Christian appare dietro di me e il cameriere, vedendo lui mezzo nudo e me altrettanto, arrossisce fino alle estremità del cravattino.

«S-spero di non aver interrotto nulla. La cena è servita. Buon appetito.» Mormora velocemente, poi spinge il carrello verso di noi e con un piccolo inchino si congeda a passo svelto.

Chiudo la porta mentre Christian si siede sul bordo del letto e posiziona il carrello davanti a sé, sfregandosi le mani. Alza i vari coperchi per controllarne il contenuto e gli sfugge qualche mugolio soddisfatto. Sorride come un bambino. Ah, il potere del cibo...

«Vuoi restare tutto il tempo lì a guardarmi mangiare?» Dice dopo un po’, senza neanche alzare lo sguardo.

«Dal modo in cui ti sei posizionato sembra quasi che tu non voglia condividere nemmeno l’odore dei piatti.» Rispondo subito, ricevendo in cambio il suo silenzio. Sorride scuotendo la testa e poi dice: «Dai, siediti.»

Obbedisco – più che altro al mio stomaco – e mi avvicino al letto. Lui prende un vassoio e lo mette al centro del letto, per poi sistemarsi da un lato. Capisco che dovrò sedermi dal lato opposto. Ora sembriamo due egiziani, con l’unico vantaggio che siamo seduti su un lenzuolo fresco e non su un tappeto su cui albergano allegramente pidocchi, peli, puzze e acari vari. Bleah, non ci tornerei mai più in uno di quei ristoranti.

«Perché quella faccia? Non ti piace? Li ho assaggiati, sono ottimi.» Christian mi strappa al pensiero degli acari e indica con un cenno del capo gli spaghetti ai frutti di mare che abbiamo davanti.

«Oh no, non è questo.» Stavo solo pensando ai tappeti egiziani che in alcuni luoghi sono talmente duri e puzzolenti che sembra ci siano passati settanta dromedari con la colite. Certo, diglielo pure! Gli sorrido e avvicino alla bocca la prima forchettata per soffiarci un po’ sopra.

«Mmm, è buonissimo!» Commento deliziata. Lui annuisce, mentre si passa un tovagliolo sulle labbra, per pulire non si sa cosa.

«Allora…» Esordisce dopo qualche boccone, e io tremo al solo sentire quella parola, prevedendo il peggio. «Raccontami un po’ di te.»

Ecco, lo sapevo.

Su una scala da uno a dieci, odio questa frase… novemila.

Io non so raccontare di me. Non so raccontare e basta. Odio quando mi dicono “Raccontami qualcosa”. Che ti devo raccontare? Quante volte ho fatto pipì ieri? Quanti cocktail ho bevuto sabato? Tanto non te ne frega un emerito cavolo alla fine, lo sappiamo. La mia vita non è nulla di entusiasmante. Non mi accadono cose eclatanti, e se anche mi accadessero non aspetterei certo te che mi chiedi di raccontartele per farlo. Sempre ammesso che io voglia farlo, puntualizziamo. Se non parlo tanto ci sarà un motivo, ce ne sono diversi, a seconda delle persone con cui ho a che fare. A volte, semplicemente, mi rompo le scatole. Altre volte, so che mi viene chiesto solo per giudicare la mia vita sociale, e allora vai a cagare, non ti dico nulla. Tanto penserai che sono un’asociale lo stesso. Altre ancora, non mi va di condividere cose personali con gente che conosco appena. Molto raramente, non parlo perché alcune persone mi mettono soggezione. So benissimo che hanno avuto millanta esperienze più di me, che raccontano ogni minuto pieni di entusiasmo, e io li ascolto rapiti. Quando poi tocca a me mi sento un minuscolo sputo di cammello, sempre per restare in tema di egiziani. Anche se i cammelli sputano parecchio. Diciamo un cammellino con la raucedine. E alla fine, insomma, preferisco parlare il meno possibile, per non sentirmi completamente cogliona. Ecco.

Sto diventando volgare di nuovo. Porco spino.

Fisso Christian con un’espressione sicuramente poco amichevole. Lui aspetta che io inizi a parlare.

Sì, aspetta e spera.

Quando vedo che apre la bocca per incitarmi a emettere qualche suono, si sente lo squillo di un cellulare. Dall’espressione che fa capisco che è il suo. Mi fa un cenno col capo verso qualcosa alle mie spalle, e io mi giro e vedo una tracolla grigia sul comodino, dalla quale sembra provenire lo squillo. Mi allungo appena sul letto, la prendo e gliela passo.

Si è già appropriato di tutti gli spazi, noto. Come fosse a casa sua. Bravo, eh.

«Pronto?» Tiro un sospiro di sollievo quando lui si alza e va fuori al minuscolo balcone per parlare. So che durerà poco, e quando tornerà mi rifarà la fatidica domanda, ma voglio godermi questi ultimi attimi di pace.

Finisco il mio primo piatto e passo al secondo: frittura mista di gamberi e calamari e seppia arrostita con contorno di patate. Potrei morire in questo istante.

Si sono fatti decisamente perdonare per l’inconveniente della stanza, direi. Anche se è fin troppo facile prendermi per la gola, ammettiamolo. Okay, così mi sento un uomo.

Mi sta venendo qualche dubbio, in effetti.

Solo perché non sto sbavando copiosamente sulla statua greca che sta parlando al telefono? Tu sei troppo banale. E hai qualche problema.

No, tu hai qualche problema. O qualche disfunzione, situata precisamente tra l’ombelico e l’interno coscia. Fatti risarcire per il disservizio!

Il mio stomaco però funziona eccome, perciò sparisci!

Preparo il campo di battaglia disseminando fazzoletti in ogni dove, sicura di sporcarmi, e porto alla bocca il primo gambero dopo averlo sgusciato. Mmm, cosa sarà mai un orgasmo in confronto a una delizia del genere?

Non l’hai davvero pensato, Elettra! Violet si sta strappando i capelli dalla disperazione, sul volto l’espressione de “L’urlo” di Munch.

Mentre addento un boccone di seppia, Christian torna dentro con un’espressione seria, di chi non ha ricevuto belle notizie. Cala il silenzio, interrotto solo dal tintinnio delle posate sui piatti.

«Vuoi?» Christian mi offre del vino e io annuisco, porgendogli il bicchiere.

«Come sei serio.» Dico, con una voce da bambina aggrottando le sopracciglia e parlando con la bocca curvata all’insù. Lui mi guarda e si apre in un sorriso mozzafiato. Okay. Ammetto di essere veramente colpita.

Il silenzio ci avvolge nuovamente, come una coperta calda. E appiccicosa. Stranamente sento il bisogno di ridurla in brandelli.

«Cosa ti porta a Miami?» Gli chiedo, mordendomi la lingua subito dopo.

«Ci vivo.» Risponde lui, come se fosse ovvio. Ma certo, Elettra. Uno che si chiama Christian Wayne non può che viverci, in America.

«Cosa ti ha portato in Italia, allora?» Vorrei che sappiate che l’ho fatto solo per non fargli avere l’ultima parola sulla ridicola domanda di prima.

Lui fa spallucce, mentre succhia la coda di un gambero e poi si passa la lingua sulle labbra. «Un incontro di lavoro, ma mi sono preso una settimana di ferie.» Torna a torturare un altro gambero con quella bocca. «Sardegna.» Aggiunge, prima di bere un sorso di vino. «Ci sei mai stata?»

Io scuoto la testa. «No, ma sono stata in Corsica. Che è praticamente la stessa cosa, credo.»

Lui mi rivolge un minuscolo sorriso, e finalmente torna a mangiare con la forchetta. In un modo casto e non vietato ai minori di quattordici anni.

«A giudicare dalla padronanza della lingua ci devi venire spesso, qui.» Se non avessi saputo il suo cognome non l’avrei mai scambiato per un americano. E se non l’avessi visto, certo. In Italia di belli così se ne vedono uno ogni era glaciale.

«Mia nonna era italiana. Siciliana, per l’esattezza. Anche se non hanno mai vissuto più di qualche mese in Italia, ha sempre voluto che i suoi figli imparassero l’italiano. Mia madre ha fatto lo stesso con noi. Una sorta di tradizione, diciamo.» Che carini.

«Beh, vedi, ogni tanto torna utile.» Gli sorrido.

Oh mio Dio. Questo è un primitivo accenno di flirt?

Lui ricambia il sorriso e io avvampo come una scolaretta.

«E tu invece? Da dove hai preso quel cognome? Copiona.»

Ridacchio e sposto il piatto ripulito fino all’ultima antenna di gambero. No, scherzo. Quelle le ho lasciate.

«Mio padre è americano, di Miami. Si è trasferito qui quando ha conosciuto mia madre, a una fiera del cioccolato. Un incontro da film.» Alzo gli occhi al cielo, pensando al miliardo di volte in cui me l’hanno raccontato. «Mi aspetta mia zia, a Miami. Precisamente, mia cugina.»

«Starai con loro?»

«Oh, no. Mia zia è vedova da circa quattro anni, e ora vive con cinque gatti e il canarino, non esce mai di casa. Ha un’intera collezione di maglioncini di lana di tutte le forme e i colori e recentemente è passata all’uncinetto. Soffocherei in quella casa. Tra l'altro dovrei anche contribuire, quindi tanto vale pagare per me e non per cinque gatti che lasciano i peli ovunque e un canarino che ti sveglia all’alba col suo cinguettio assordante.» Spiego, esaurita solo all’idea, e lui scoppia a ridere. «Mia cugina invece è sposata da poco, non posso mica stare da loro e fare il terzo incomodo? No, ho trovato un piccolo appartamento a poco prezzo a qualche isolato da loro. A dire il vero non è neanche tanto piccolo, considerato quello che pagherò. Sembra davvero un affare. Sono abbastanza convinta che ci sia qualche fregatura, spero solo non sia una vecchietta assassina come in Duplex o un maniaco. Anche se saprei difendermi, in ogni caso.» Non ci credi neanche tu a questo, ma facciamo gli stoici, dai.

«Non ho dubbi. In effetti facevi molta paura con quella pinzetta.» Commenta Christian serio, succhiando via dall’indice il sugo dei gamberi.

«Non è che viaggio con le motoseghe, di solito, sai com’è.»

Lui sorride e finalmente mette via i gamberi.

«E in che zona l’hai trovato, l’appartamento?»

Avvampo senza alcun motivo apparente. «Vicino… beh, vicino al cimitero. Cioè, è l’unica cosa “famosa” nei dintorni che io ricordi.» Rispondo, sentendomi improvvisamente un’emerita cretina. Certo che hai trovato casa in una zona molto allegra, Elettra.

Christian sorride con quel suo solito fare canzonatorio. Mi aspetto una delle sue battute simpatiche come una puntura d’ape in un occhio. Nel mentre, valuto se agguantare o meno un cuscino per tirarglielo in faccia. Sperando di fare centro, stavolta.

«La zona non è proprio delle migliori, in effetti… è anche vicina alla Interstate 395. Un bel po’ di casino.» Sembra valutare la cosa tra sé.

«Il tizio che me l’ha affittata ha detto che non si sente molto. In caso contrario posso sempre infilargli la pinzetta su per il- ehm, da qualche parte.» Sorrido. «Passiamo al dessert?» Sì, brava, sorvola sulle tue doti di infilatrice di pinzette a tradimento.

«Vediamo un po’.» Christian alza il coperchio di quelli che dovrebbero essere i dessert e io mi scopro a sbavare come se non mangiassi da un mese. Millefoglie di cioccolato nero e bianco con mousse di... menta, credo, su frutti di bosco. Va bene, quasi quasi l’idea di perdere un altro volo non mi sembra poi così malvagia.

«Se non lo mangi tutto non mi offendo.» Gli dico, dopo averlo assaggiato.

«Sei una buona forchetta, eh? Non si direbbe.» Suppongo si riferisca al mio fisico.

«Ho un buon metabolismo.» Replico imbronciata. Non si dicono queste cose a una donna, perdinci!

Guarda che era un complimento. Violet è seduta sul divano col gomito sul bracciolo e la mano sulla fronte, totalmente rassegnata.

«C’è un ottimo ristorante italiano che devi provare allora, il DeVito South Beach, aperto da Danny De Vito in persona.» Mi consiglia lui. Ha una piccola traccia di cioccolato all’angolo delle labbra. Glielo dico o non glielo dico?

Fossi in te gliela toglierei. Non ti dico come, ma gliela toglierei.

«Cos’ho? Mi sono sporcato?» Christian intercetta il mio sguardo e io cerco di mostrarmi indifferente.

«Un po’, qui.» Indico il punto sulle mie labbra. «Ehm, comunque, per il ristorante… beh, per quanto mi piaccia mangiare non credo di poter fare un mutuo per una cena.» Ridacchio. Essere stato fondato da De Vito deve pur significare qualcosa. In più è un ristorante italiano negli Stati Uniti, quindi oso solo immaginare che tipo di conto possa presentare alla fine della serata. Del tipo che paghi solo a guardarlo.

«No, non è particolarmente costoso. Se vuoi ti ci porto qualche volta.» La butta lì con nonchalance, e io con altrettanta nonchalance me la faccio scivolare addosso. Queste sono le classiche cose che si dicono tanto per dire. Domani, una volta atterrati, non ci ricorderemo nemmeno di questo incontro, qualunque cosa accada – cioè, che io lo uccida o meno, intendo, naturalmente – e ognuno tornerà alle proprie vite.

«Come va la testa? Qualche accenno di emicrania?» Come sono brava a cambiare argomento, vero? Vero? Troppo forte.

Lui mi guarda un po’ stranito mentre ripone i piatti vuoti – il mio sembra appena uscito dalla lavastoviglie – sul carrello. «No, fortunatamente. L’aria si sta rinfrescando, vero? Non è il caso di chiedere l’aria condizionata. Un’altra cosa che evito volentieri.»

«Anche a me, fa venire mal di testa.» Guardo l’orologio. Sono le undici e un quarto?! Com’è possibile che siano passate tre ore e io non me ne sia accorta? Dev’essere il jet lag. Il jet lag ancora prima di partire.

«Bene. Non so tu, ma io sono stanca morta.» Mi alzo e vado in bagno, senza nemmeno aspettare la risposta. Mi lavo velocemente i denti, faccio pipì, mi ri-sciacquo e ri-spruzzo un po’ di deodorante – che non si sa mai – e, casualmente, mi riavvio i capelli. Mhm. Come sono sexy con queste occhiaie.

Quando esco dal bagno trovo Christian sdraiato supino sul letto, sempre e solo in pantaloncini, con un braccio sopra la testa e una gamba piegata. Dio, sembra ancora più alto. Mi guarda, senza alcuna apparente traccia di scherno.

«Wow, la figlia di Flash. Posso immaginare la tua impazienza, ma non credevo ci mettessi così poco.»

Non a caso avevo detto apparente.

Mi chino per raccogliere una pantofola e gliela tiro in faccia, stavolta cogliendolo in pieno. Non faccio in tempo a captare la sua espressione che mi ritrovo sotto di lui, condannata ad un attacco di solletico.

«NOOOO, CHRISTIAN SMETTILA SUBITO, LASCIAMI! AHAHAHAH-NOOOO!»

Ora, alla luce di quello che avete imparato su di lui, vi aspettereste che smetta? Certamente… no!

Lo imploro in tutte le lingue che conosco – e non sono poche – ma lui sembra sempre più determinato a farmi morire senza fiato. O a farmi fare gli addominali. Domani avrò i crampi, ci scommetto le tette.

Violet intanto sta ballando la macarena agitando il sedere come una brasiliana provetta.

Come faccio a farlo smettere?! Non mi dà neanche il tempo di afferrargli le mani! Come se potessi tenergli testa, poi.

«Christian, ti giuro che ti castro mentre dormi!» Riesco a urlare, tra un contorcimento e l’altro. Se non ci riesco sul piano fisico...

Lui si ferma per un attimo – e in quell’attimo sento in modo distinto tutto l’addome che protesta vibratamente – e mi guarda scuotendo la testa, come un maestrino in disappunto. Si avvicina al mio viso. Il suo respiro odora di menta e cioccolato.

«Le minacce non hanno mai portato da nessuna parte, signorina Wayne.» E quella fu la mia fine.

Dopo, credo, circa una vita e mezza e tante suppliche – non mi abbasserò MAI più a questo livello di piagnistei – ma senza alcun risultato, decido di fingermi morta. Insomma, dovrà pur fermarsi in questo modo. Il difficile sarà restare impassibile e perfettamente immobile. Improvviso una specie di svenimento-barra-collasso-barra-momento-di-cedimento e mi butto a peso morto sul cuscino. Christian continua a pizzicarmi sui fianchi e io cerco di raccogliere tutta la calma interiore in mio possesso. Non ridere, non ridere, ohmmmm

Oh mio Dio, ha funzionato?

Ci vuole qualche secondo prima che decida di sbirciare con un occhio semichiuso. Vedo Christian davanti a me, inginocchiato sul materasso, che mi guarda con le braccia conserte e un sorriso divertito. Apro anche l’altro occhio, però del tutto.

«Fingersi morta, wow, ottima mossa. Questa te la devo. Chapeau!» Dice, togliendosi un immaginario cappello dalla testa. Io torno a respirare, sollevata.

«Tregua?» Domando, stremata. Se prima ero stanca, beh, ora sono letteralmente distrutta. Lui annuisce e si alza dal letto dirigendosi in bagno. Lascia la porta aperta, per cui lo intravedo mentre si lava i denti e il viso. Se ho contato bene, ha qualcosa come quindici muscoli sulla schiena. Lo so che un essere umano ne ha solo cinque, ma giuro che lui ne ha quindici.

«Posso spegnere?» Mentre sto ancora riflettendo sul numero esatto, lui esce dal bagno e posa una mano sull’interruttore della luce.

«Sì, sì.» Annuisco e un secondo dopo siamo nel buio più totale. La luce della luna proveniente dalla finestra alla mia destra illumina appena il muro e la scrivania di fronte al letto. A quanto pare non c’è neanche una stella in cielo, speriamo solo che domani non sia di nuovo maltempo.

Sospiro e mi sistemo sul cuscino, girandomi sul fianco sinistro. L’ombra di Christian si avvicina al letto e si stende velocemente. Avverto il calore del suo corpo rivolto verso il mio, steso sul fianco destro, e mi sento terribilmente a disagio. Dalla finestra arriva un soffio di vento che mi fa rabbrividire, ma sembra che Christian non se ne sia accorto.

«Beh, buonanotte Elettra.» Mormora, e nel buio mi sfiora il naso con l’indice. Sorrido – ma non glielo farò mai vedere – e ricambio, con un filo di voce: «Buonanotte, Christian.»

 

 

~ Note

Allora.

Prosegue la lunghissima e insofferente convivenza – che finirà nel prossimo capitolo, promesso – che sta portando parecchi problemi (mentali) alla nostra eroina. Eroina un cavolo, direte voi, è simpatica come un clistere di mezzo litro!

Lo so, lo so. Ma anche il signor Wayne non è da meno, vi pare? Lui però lo sopportate meglio, ammettetelo.

Mi dispiace che i capitoli non siano più lunghi, ma ho dovuto dividerli in questo modo per lasciare la saspensssss! Poi vedrete che più andiamo avanti e più diventeranno interminabili, come i rotoloni Regina. E allora rimpiangerete le sei/sette pagine di Word, ha-ha. Mi farò perdonare e cercherò di pubblicare il prossimo più presto, d’accordo? Intanto vi lascio con lo spoilerino, as usually, e grazie a chi recensisce o semplicemente legge questa piccola follia.

Sappi che tengo a conoscere anche il tuo parere, o lettore silenzioso. Le recensioni sono come le ciliegie: una tira l’altra. E in più vi danno i punti. Affrettatevi, che tra poco esce pure il catalogo premi.

 

«[...] Lo so che sono comodo come cuscino, non mi offendo se me lo dici.».

 

Per altre info, spoiler e news consultare il foglio illustrativo.

Un abbraccio,

Sara.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro - Departure ***


Blend



Le note di Hall of Fame riecheggiano nella stanza, strappandomi dolcemente dal sogno che stavo facendo. Allungo una mano per prendere il cellulare sul comodino ma le mie dita afferrano il vuoto più volte. Strano. È come se ci fosse qualcosa che mi impedisce la completa libertà di movimento. La sveglia smette di suonare – ma ricomincerà tra cinque minuti esatti – e io mi prendo qualche secondo per scollare le palpebre e scoprire cosa c’è che non va. Un folletto è entrato nella stanza stanotte e ha spostato i comodini? Com’è possibile che non – oh. Oh, oh.

Non... no.

Non ho dormito sul petto di Christian.

Non ho una mano poggiata sul suo addome.

Non ho il suo braccio attorno alle spalle che mi limita i movimenti e una gamba tra le sue.

«MA PORCA PUTTANA.» Mi alzo di scatto, ignorando deliberatamente il fatto che posso disturbarlo o addirittura svegliarlo coi miei movimenti bruschi. Mi metto a sedere nell’angolo più lontano del letto e lo vedo muoversi e strofinarsi gli occhi, per poi puntare quell’azzurro disarmante nel verde dei miei.

«Mmm, sei sempre così gentile appena sveglia?» Bofonchia con la voce leggermente arrochita.

«Mi hai abbracciato nel sonno!» Strillo, ancora incredula. Lui si tira a sedere e si appoggia alla testiera del letto, incrociando le mani davanti a sé.

«A onor del vero, sei stata tu a rabbrividire e ad avvinghiarti come un panda al suo bambù all’ennesima folata di vento. Folata, poi. Direi più una brezza fresca, ma tu hai dormito praticamente nuda e hai sentito freddo.» Indica il mio pigiama di satin con un cenno del capo. I nervi che non mi erano saltati prima mi saltano adesso, rendendomi tesa come la corda di un arco.

Non si dice come una corda di violino?

Lo so che si dice come una corda di violino, ma era per cambiare un po’. E comunque, non è questo il punto.

«E tu hai pensato bene di approfittarne, naturalmente. Non potevi semplicemente coprirmi col lenzuolo!» Ribatto, stizzita. Lui come al solito non si scompone, nemmeno in un capello. Nemmeno un guizzo del sopracciglio. Nemmeno in un fremito della palpebra.

«Ti ho coperta, Elettra. Ho anche chiuso la finestra.» Indica col dito le ante chiuse della finestra alle mie spalle che non oso nemmeno guardare. Sento un leggero calore risalire verso le guance. «Ma sei tornata di nuovo. Lo so che sono comodo come cuscino, non mi offendo se me lo dici.» Conclude, dandomi la botta finale, e si alza. Passa per l’armadio, prende dei vestiti e si chiude in bagno, lasciandomi sul letto come un’emerita idiota.

Va bene, forse l’ho un po’ aggredito. Un po’ troppo. Anche se non posso sapere se le cose siano andate effettivamente così. Non ho prove, a parte la finestra chiusa e il lenzuolo tirato solo dalla mia parte del letto.

Cos’altro vuoi?! La registrazione di una telecamera nascosta?

Dovrei chiedergli scusa? No. No, in fin dei conti mi sono solo accertata della mia... incolumità. No?

Violet è disperata. Ha preso un saggio di Sigmund Freud e sta leggendo avidamente.

«Al diavolo.» Scendo dal letto e preparo i vestiti, raccattando le varie cose che ho sparso per la stanza. Ho bisogno di un caffè. Passo davanti allo specchio e saluto il mio riflesso coi capelli in disordine, gli occhi a palla e nessun segno del cuscino, visto che ho usato Christian per dormire.

Dio, non ci posso credere. Non è da me, io non faccio queste cose.

È anche vero che non dormi con un uomo dai secoli dei secoli, amen.

Non c’entra niente.

Quando Christian esce dal bagno, vestito di tutto punto, non posso fare a meno di lasciarmi andare in un breve, leggerissimo sospiro.

Ha tirato indietro i capelli in un codino, fatto la barba, e indossato un pantalone classico grigio chiaro con una camicia azzurra. Io non ho un debole per gli uomini con le camicie azzurre. Io svengo per gli uomini con le camicie azzurre. Ma non sverrò per lui, no. Mi ha abbracciato mentre dormivo!

Proprio per quello dovresti svenire, mica tanto per la camicia.

Odio avere questa seconda personalità che non sono ancora riuscita a reprimere.

«Buongiorno, Elettra.» Dice, come a voler ricominciare daccapo. Certo, di tutte le persone presenti nella stanza, lui era l’ultimo da cui mi sarei aspettata un saluto.

Come fai ridere, ah ah ah.

«Ehm, buongiorno.» Mi schiarisco la voce, che mi tradisce nei momenti meno opportuni. Raccolgo i vestiti che avevo sistemato sul letto e sparisco in bagno prima di venire risucchiata dal mio stesso imbarazzo. Chiudo la porta a chiave e inspiro il profumo del dopobarba di Christian che riempie ancora l’ambiente. Cos’è, Hugo Boss? Mmm...

Mi faccio una doccia veloce e indosso un abito corto e fresco, con scollo a barca e maniche a pipistrello che arrivano poco sotto il gomito. È bianco con fantasie arancio, rosa e color caramello. Mi ricorda l’estate. Metto una cintura in vita di cuoio chiaro e gli stivali bassi abbinati. Un po’ di trucco che non guasta mai e sono pronta.

Ho ancora bisogno di un caffè.

Esco dal bagno e mi viene un piccolo infarto. Dov’è Christian? Il mio sguardo corre subito all’armadio. Lo apro e con grande sgomento scopro che è vuoto. Un’ondata di sollievo percorre il mio corpo quando vedo che la tracolla è ancora sul comodino. Quella è l’unica traccia che segnala la sua presenza nell’albergo. O, almeno, segnalava.

Possibile che se ne sia andato così? Non mi sembra il tipo che dimentica le cose in giro, e poi non sarebbe stato così maleducato da andarsene senza salutare, giusto? È vero che praticamente gli ho dato del maniaco, ma non l’ho davvero pensato. Non può essersene andato. Mi rifiuto di crederlo.

Sono quasi tentata di sbirciare nella tracolla per vedere se ha lasciato cellulare e portafogli quando la porta della camera si apre, rivelando Christian – sempre impeccabile, con l’aggiunta della giacca del completo grigio – con un vassoio ricolmo di ogni genere di cosa dolce esistente sulla faccia della terra. Ai lati del vassoio, due bicchieri di succo di frutta e due tazze di caffè.

Sono letteralmente senza parole.

Christian mi passa davanti col vassoio e un sorriso appena accennato, che coinvolge più gli occhi che la bocca. Lo poggia sulla scrivania e scosta la sedia per invitarmi a sedere.

Ora, lo so che qualsiasi persona sana di mente, con un minimo di sale in zucca e una briciola di coscienza, si proferirebbe in scuse. Non dico scuse in ginocchio, con la lacrimuccia appesa e il labbro inferiore in fuori, ma almeno un semplice “Mi dispiace per la scenata di prima”. Purtroppo io non sono così. Io sono orgogliosa fino alla radice dei capelli, il più delle volte non mi interessa di quello che gli altri pensano di me, e odio perdere. Qualsiasi cosa comporti una minima percentuale di mortificazione... beh, io la detesto. Così evito direttamente, e finisco anche per fare la figura della maleducata pazza isterica.

Violet si sta tagliando le vene, e sta urlando al pubblico “Il bello è che lo sa pure!”

«Come hai fatto? Non mi sembra fosse inclusa la colazione...» Balbetto, lasciandomi cadere estasiata sulla sedia.

Lui si appoggia alla scrivania, né seduto né in piedi, e prende un bignè. «Ho corrotto il maître.»

Lo guardo sorpresa e lui scoppia a ridere. «No, non ce n’è stato bisogno. Sai, a volte le cose basta chiederle con gentilezza.» Cento punti per Christian Wayne, colpita e affondata.

Addento un cornetto al cioccolato quasi con disperazione, e quando rischio di affogarmi lui mi porge il bicchiere di succo d’arancia.

«Grazie.» Mormoro, dopo aver bevuto. In quel grazie ci ho messo tutto, ma davvero tutto. Non so perché, ma ho la sensazione che lui l’abbia capito.

Ci guardiamo per qualche istante, poi lui allunga una mano e mi scompiglia i capelli. Lancio un gridolino, spostandogli la mano e minacciando di sporcargli il vestito elegante con un cannolo ripieno di cioccolato bianco.

«I. Capelli. No.» Gli intimo, puntando il cannolo contro il suo naso come se fosse una Calibro 38.

Lui alza le mani in segno di resa e con un gesto fulmineo addenta il cannolo, cogliendomi totalmente di sorpresa. Guardo la mia “arma” ormai dimezzata e poi le rughe d’espressione che gli compaiono intorno agli occhi quando ride. Come in un deja-vu, una goccia di cioccolato gli rimane nei dintorni delle labbra, ma stavolta d’istinto gliela tolgo con l’indice e la assaggio.

«Uh, buono.»

«Buono, vero?» Dice lui, e sfila il resto del cannolo dalle mie dita per poi mangiarlo in un boccone.

«Sei un vero gentiluomo, devo ammetterlo.» Alzo gli occhi al cielo e ne prendo un altro dal vassoio, facendo attenzione a tenerlo ben lontano da lui. Prendo anche il caffè, inspirandone l’aroma familiare.

«Formato famiglia?» Chiedo, indicando la dimensione della tazza. È una tazza da tè, più o meno.

«È per farti abituare ai beveroni americani. Se sei abituata a un buon espresso in tazzina, beh, scordatelo.» Spiega lui con un’alzata di spalle, e prende quella che sembra una sfogliatella riccia napoletana. Sto sbavando solo a guardarla.

«Quindi invece di farmi salutare decorosamente l’Italia con l’ultimo caffè degno di questo nome hai pensato bene di anticipare la sofferenza. Ripeto, sei davvero un gentiluomo.» Finirò per mettere su ottocento chili se allungo la mano e prendo un altro dolce. Christian, per tutta risposta, spinge il vassoio verso di me con due dita. Okay, al diavolo la dieta sana. Fammi assaggiare quello...

 

Dopo aver ripulito il vassoio fino all’ultimo grammo di panna – devo assolutamente trovare una palestra a Miami – facciamo un check-up della stanza per essere certi di non dimenticare nulla in albergo e poi scendiamo nella hall, dove Christian fa chiamare un taxi. Io intanto prendo il cellulare, digito il numero di mia sorella e mi sposto in una zona meno rumorosa.

«Risponde la segreteria telefonica di Eva Wayne. Al momento sono impegnata. Se è lunedì mattina, probabilmente sono ancora sbronza, per cui lasciate un messaggio e vi richiamerò non appena la stanza smetterà di girare. Ah-ha, scherzo. Arriva il bip, pronti? #BIP#»

«Hai cambiato di nuovo il messaggio? Sai, non si addice molto a un’aspirante infermiera. Dopo averlo ascoltato non mi verrebbe mai voglia di chiamarti per un’emergenza. Comunque, sto andando in aeroporto. Il volo parte tra circa due ore, quindi credo che ci sentiremo direttamente stasera. Che per me sarà ora di pranzo. Ti voglio bene. A presto.»

Decido di avvisare anche i miei genitori e poi torno da Christian, che sta recuperando i suoi bagagli alla reception. Ecco dov’erano finiti, deve averli portati giù prima di prendere la colazione.

«Signori Wayne, il taxi è arrivato.» Detto così sembriamo sposati. «Mi dispiace ancora per l’inconveniente della camera, spero che il soggiorno non sia stato troppo sgradevole.»

Guardo Christian di sottecchi e cerco di interpretare il suo sorriso. Nessuno dice nulla.

«Io spero non accada più.» Affermo alla fine, e trascino me e il mio stupido trolley fuori dall’albergo. Il tassista ci dà una mano a caricare i bagagli in auto e finalmente ci dirigiamo verso l’aeroporto, un passo più vicini a Miami.

Dopo la prima svolta a destra imbocchiamo una delle strade principali di Roma, e scopriamo che è bloccata da almeno un chilometro di traffico. Semafori di merda.

Radio a parte, nell’abitacolo c’è un silenzio davvero fastidioso. Christian guarda fuori dal finestrino e non sembra intenzionato a conversare.

Cosa ti aspetti, Elettra? Cosa ti aspetti da quest’uomo?

Niente, perfettamente niente. Mi aspetto di salutarlo in aeroporto per poi non rivederlo più. È così che deve andare. Voglio che vada così. Sarà un bel ricordo, lui che mi piomba in camera e che mi “costringe” a condividerla con lui. Un aneddoto divertente da raccontare ai miei futuri amici di Miami.

Punto.

Chiuso.

Finito.

Anche perché probabilmente lui avrà una bellissima fidanzata che lo aspetta, che per qualche oscura ragione non lo ha accompagnato in Italia. Cosa che non mi interessa comunque.

«Il nostro volo ha i posti assegnati?» Mi domanda Christian all’improvviso, riportandomi bruscamente alla realtà.

«Ehm, non saprei... posso controllare sul biglietto. Perché?» Frugo nella borsa alla ricerca del porta-documenti.

«Beh, se non fossero assegnati potremmo sederci vicino. È molto meglio passare undici ore accanto a una persona che bene o male conosci, piuttosto che andare alla cieca, non credi?» In effetti, il ragionamento fila. Potrei capitare accanto a una logorroica vecchietta che dopo dieci ore di storia della sua vita si addormenterebbe sulla mia spalla per il tempo restante lasciando anche una striscia di bava sul mio adorato vestito.

Dio, non sia mai! Già undici ore di volo e basta sono abbastanza traumatiche. Anche se non lo ammetterò mai.

Mentre valuto se comprare o meno un pacchetto di noccioline per soffocare l’eventuale vecchietta in stile Colin Farrell in Daredevil, le mie mani finalmente pescano il porta-documenti dalla mia borsa senza fondo.

«No, sono assegnati.» Dico, sperando che non si accorga della minuscola, irrilevante nota dispiaciuta nella mia voce. Gli faccio vedere il biglietto, io sono al D24. Lui prende il suo, G39.

«Lontanucci...»

«Peccato.» Sibila in un sospiro, chiudendo l’argomento con un’alzata di spalle.

Una volta arrivati in aeroporto, ci scopriamo a parlare nello stesso momento.

«Io vado...»

«Io dovrei...»

«Dai, prima tu.» Ridacchia lui. Ora vorrebbe fare il gentiluomo?

«Vorrei un caffè decente prima di partire.» Indico il bar alle mie spalle.

«Io devo passare in libreria.»

«È al piano di sopra...» Mormoro, e lui annuisce.

Bene, quindi sembriamo essere giunti al momento topico.

Siamo fermi, l’uno di fronte all’altra, io vestita da turista fashion e lui vestito da uomo d’affari pronto per una sfilata Armani collezione autunno/inverno.

«Se non dovessimo rivederci... beh, è stato un piacere, Elettra.» Mi porge la mano, come a volersi riscattare per non essersi presentato subito quando ha fatto la sua comparsa nella mia stanza.

«Anche per me, Christian.» Stringo la mano e trattengo il fiato quando lo vedo chinarsi e posarmi un bacio sulla guancia. Poi, fortunatamente, si volta e si perde tra la folla, scomparendo veloce com’è apparso nella mia vita.

 

***

 

Check-in, navetta, pista.

Appena metto piede sull’aereo, due hostess mi salutano cordiali e, dopo aver controllato il biglietto, una di loro mi indica il mio posto. Mentre cammino nel corridoio, non posso fare a meno di guardare tre file indietro, e quando scorgo la chioma bionda tirata a lucido appartenente a Christian, il mio cuore perde un battito. Maledizione.

Indugio qualche secondo nel riporre il bagaglio a mano nel comparto sopra i posti a sedere, con la segreta speranza che lui alzi lo sguardo e mi veda. Sembra intento a leggere qualcosa.

«Signorina, si siede? Dovrei passare.» Mi volto e incrocio lo sguardo di un uomo sulla sessantina che sta indicando il posto dietro al mio. Mi sposto per farlo passare, e dopo aver lanciato un’ultima occhiata nella direzione di Christian, senza però essere ricambiata, mi decido a sedermi. Se non altro ho il posto vicino al finestrino.

“Se non dovessimo rivederci... è stato un piacere.” Che diavolo significa? È un controsenso bello e buono. Se è stato un piacere, allora dovresti volermi rivedere, mettere le basi per farlo. O no? Almeno fai la finta di lasciarmi il tuo biglietto da visita, se ne hai uno. Sto sbagliando? Sicuramente no, ma è stato meglio così. Sì.

La gente continua a salire: donne, uomini, bambini. Chi tranquillo, chi terrorizzato, chi una via di mezzo, come me. Li osservo uno ad uno quando passano accanto alla mia fila, mentre cercano il loro posto. Mi scopro a pensare “No, speriamo che non capiti vicino a me”, oppure “Mh, questo potrebbe essere accettabile”, o ancora “No, se si siede questo scendo dall’aereo”.

I passeggeri salgono ma nessuno si ferma al D25. Quando una delle hostess chiude il portellone dell’aereo, tiro un sospiro di sollievo. Da sola, ancora meglio. Che culo.

Sto pensando di prendere il bagaglio a mano e piazzarlo sul sedile accanto al mio, quando l’altra hostess richiama la nostra attenzione e inizia quell’orribile dimostrazione sugli atterraggi di emergenza e l’avaria in volo. Già mette l’ansia, cavolo.

“Smettila!”, vorrei urlarle, e magari tirarle qualcosa in testa in caso di recidività.

Basta, Elettra, calmati e respira. Non succederà nulla. Ricordi Superman? Quel saggio uomo diceva sempre che l’aereo è il mezzo più-

«È occupato questo posto?»

«Come...? Cosa...?» Ce la puoi fare. Soggetto, predicato e complemento, non è difficile.

«Ho chiesto a Gina se potevo spostarmi qui. Nessuno sa dirmi di no.» Quando Christian si siede accanto a me, senza neanche aspettare la mia risposta, e il suo profumo mi invade le narici, mi sembra di essere tornata a casa. Maledizione.

«Chi è Gina?» Domando, confusa.

«Signor Wayne, posso fare qualcos’altro per lei?» Una hostess dai capelli rosso fuoco e una minigonna giro-passera sbuca dal nulla e si sporge sinuosamente verso Christian.

«No, grazie, sto bene così.» Christian le sorride e lei va via sculettando, dopo avergli detto di essere a sua disposizione per tutto. E qualcosa mi dice che non si riferiva soltanto alla coca-cola.

«Quella è Gina.»

«L’avevo intuito.» Commento, con un sopracciglio inverosimilmente alzato.

«Volevi qualcosa?» Che la smettesse di sventolarti le tette in faccia.

«No, sto benissimo da sola. Cioè, così, volevo dire.» Aaaah, smettila di parlare!

Incrocio le braccia al petto e guardo fuori dal finestrino. Bene, ci stiamo muovendo.

#Il comandante vi invita ad allacciare le cinture, ci stiamo preparando al decollo#

Aggancio nervosamente la mia cintura e deglutisco a vuoto quarantacinque volte di seguito. La gamba destra fa nervosamente su e giù, seguita dalla sinistra che vi è accavallata sopra.

Calmati, calmati. Inspira, espira.

Prima che uno stupido che sembra perseguitarmi decidesse di interrompere il mio training autogeno, stavo dicendo che Superman afferma che l’aereo resta sempre il mezzo più sicuro per – AAAAAHHH STIAMO DECOLLANDO!

Stringo istintivamente pugni e occhi per un tempo indefinito, pregando che questa orribile sensazione che mi fa sentire come un razzo sparato in aria a tutta velocità finisca presto.

«Puoi aprire gli occhi.» Più che la sua voce, a riscuotermi è il calore della sua mano sulla mia, che a contatto con la mia pelle fredda è una vera meraviglia. Riapro lentamente gli occhi ed effettivamente constato che siamo tornati orizzontali. Tiro via la mano.

«È stata una vera fortuna che il posto accanto al tuo fosse libero, perché ero capitato accanto a un transessuale che cercava di molestarmi. Le ho provate tutte: Ipod, libro, cellulare... non la smetteva di guardarmi!» Ridacchia tra sé, scuotendo la testa.

Io gli rivolgo un sorriso tirato e una delle mie battute acide. «Beh, avresti sempre potuto corrompere il pilota per farti viaggiare nella cabina con lui.» Mi sono trattenuta giusto in tempo dal dire “Gina” al posto di “pilota”. È già un passo avanti.

Christian ride, allegro e spensierato come sempre. Io ho ancora tutta l’adrenalina che mi circola nel sangue per il decollo. Non sono proprio in vena di conversazione, spero lo capisca. O devo provare anch’io con l’Ipod e un libro? Intanto provo con l’appoggiare il gomito sul bracciolo e la testa sulla mano. Torno a respirare regolarmente e piano piano, sento che il mio corpo si rilassa.

Magari non sarà traumatico come pensavo...

 

***

 

«Elettra, siamo arrivati.»

«Mmh?» No, voglio dormire ancora un po’. Il volo parte tra tre ore, ho ancora un po’ di tempo...

«Elettra, svegliati, dobbiamo scendere.»

Apro lentamente un occhio, poi l’altro, per capire chi ha osato disturbarmi mentre dormo. E ucciderlo.

Quando i miei occhi mettono a fuoco quello che mi circonda, vedo l’aereo davanti a me quasi vuoto e le hostess che mi guardano, entrambe piegate stranamente verso sinistra.

Cosa? Piegate verso sinistra?

Sbatto le palpebre e prendo coscienza del mio corpo, accorgendomi che è la mia testa ad essere piegata verso sinistra.

Esattamente sulla spalla di Christian Wayne.

Non ci posso credere. Mi sono DI NUOVO addormentata ADDOSSO a lui!

«Scusami, non volevo! Ti ho stropicciato un po’ la giacca...» Ci passo una mano sopra come se fosse un ferro da stiro e sento un calore familiare aggrapparsi alle guance. «Io... ho... dormito per tutto il viaggio?» Strabuzzo gli occhi, pregando che dica no.

«Praticamente sì.» Sorride lui, visibilmente insonnolito.

«A... ehm... addosso a te?»

Lui scoppia a ridere. «Sì. Ma ne ho approfittato un po’ anch’io. Mi sono appoggiato alla tua testa per un paio d’ore.» Mi informa mentre si alza e recupera i nostri bagagli a mano. Mi porge il mio e lo ringrazio, mentre percorriamo il corridoio dell’aereo. Saluto le hostess, lievemente imbarazzata, e scendo i gradini della scaletta d’acciaio, per poi mettere finalmente i piedi a terra sulla famigerata Miami.

 

 

~ Note

Yuppi-ye! Grazie al cielo sono arrivati sani e salvi a Maiemi. Elettra può iniziare la sua nuova vita lasciandosi Christian Wayne alle spalle.

Sì, fidatevi.

Mi dispiace, dovevo aggiornare domenica ma non ho potuto, lo so, lo so. Sono una persona orribile. ç_ç

Inutile dire che vi ringrazio infinitamente per le recensioni e l’aggiunta a preferite, seguite, eccetera... e che vi aspetto nel gruppo di folleggianti donzelle per aggiornamenti, spoiler o semplicemente quel che volete.

Spoiler del capitolo cinque!

 

«[...] Potremmo cercarlo sulle pagine gialle!».

Un abbraccio,

Sara.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque - Miami ***


Blend



“Elettra-Dio-ce-ne-scampi-Wayne”

Questa è la scritta che vedo dopo aver recuperato il mio trolley dal nastro ed essere uscita dal caos dell’aeroporto. È scritta in blu navy, con qualche tocco di bianco e di rosso, i miei colori preferiti, su un cartellone lungo a occhio e croce un metro e mezzo. Chi lo regge – reggeva, in questo momento lo sta agitando come una forsennata – è, naturalmente, mia cugina Anne, aiutata da suo marito.

Appena mi avvicino e supero un tizio con trecento valigie, Anne molla il cartellone e mi corre incontro.

«Ciaaaaaooooooooooo! Com’è andato il viaggio? Come ti senti? Stai bene? Hai fame?»

«Smettila di sembrare mia madre e fai la cugina, grazie. Ciao, Cooper.» Ci avviciniamo al mio cugino acquisito che saluto con un abbraccio. Che bella coppia che sono, l’ho sempre detto. E lui è adorabile, davvero. Oltre che molto, molto, molto affascinante.

«Mi sto solo preoccupando per la tua salute, so che non ti piace volare.» Mormora apprensiva Anne, e io alzo gli occhi al cielo.

«Ma chi l’ha detta questa cosa? Io amo volare. Ero perfettamente a mio agio, ho dormito tutto il tempo.» Piccola bugia e piccola omissione. Ma nessuno se ne accorgerà mai.

«Sarà.» Commenta Anne, mentre ci avviamo verso l’auto di Cooper.

«Allora, come ti senti? Pronta ad iniziare la tua nuova, eccitante vita a Miami?» Quanto vorrei avere il suo entusiasmo, davvero. Sono sicura che quando troverò un marito del genere sarò anch’io in pace col mondo.

Peccato che non accadrà mai.

Certo, se tu ti addormenti sulle spalle degli uomini invece di bearti della loro bellezza e compagnia.

«Sì, più o meno.» Faccio un piccolo sorriso. «Ho solo bisogno di una doccia, adesso. Poi dovrò fare la spesa.»

«Stasera e domani sei a cena da noi, così non devi preoccuparti di nulla. Possiamo anche andare a visitare qualcosa domani, visto che è sabato. Se ce la fai e non hai residui di jet lag, ovviamente.» Mi sorride speranzosa, eccitata come una bimba a cui regalano una Barbie nuova. Quanto la adoro. Anche se tutto questo sorridere inizia a innervosirmi. Non so perché, ma è come se questo viaggio fosse iniziato male.

Basta, non pensiamoci più.

 

***

 

Sto armeggiando col roast beef, tagliando la carne tenera a fettine sottili; il profumino delizioso della crema di funghi che l’accompagna mi solletica le narici. Anne è intenta a preparare la macedonia di frutta, gli odori che si fondono mi fanno girare un po’ la testa, ma in senso buono. Amo stare in cucina.

«E quindi l’ha lasciato lei?» Mi sta chiedendo Anne, mentre versa dello zucchero nel grande recipiente colorato. Stiamo parlando di mia sorella e del suo ex, Pietro.

«Sì. L’ho praticamente costretta a farlo. Quel cretino la trattava malissimo… e lei testarda come un muro di cemento lo lasciava fare. Eva si sottovaluta troppo, crede che non riuscirà a trovare qualcuno adatto a lei… perciò si accontenta del primo scoglionato che passa. Ops, volevo dire uomo senza attributi. Pardon.» Sorrido serafica e Anne ridacchia, scuotendo la testa.

«Ripetilo pure: scoglionato. Se li ha ancora, che gli possano cadere.» Fa schioccare la lingua e prende a girare la macedonia. Mmm, ho l’acquolina in bocca!

«Perché augurargli che cadano? Una bella malattia urticante non ti piace?» Propongo sadica e lei scoppia a ridere. Copre la macedonia con della pellicola trasparente e si prepara a metterla in frigorifero.

«Ehi, senti un po’…» Incalza poco dopo mentre spinge la ciotola sul ripiano. «…ma poi quel figone che era in camera con te? Non dirmi che l’hai fatto scappare dopo cinque secondi di condivisione della stanza!»

Domande che arrivano come secchi d’acqua gelata in testa. Perché le ho detto di Christian? Ora che avevo seppellito la cosa sotto tonnellate di altri ricordi, ecco che torna a galla. Cavolo, è sempre così. Alcuni hanno la capacità di tornare indietro, direttamente o indirettamente, sempre nell’istante in cui la corda si sta spezzando.

«No, è sopravvissuto. Mi sono comportata abbastanza civilmente.» Rispondo, vaga.

«E poi? Potevi farmelo vedere, in aeroporto! Non ci hai pensato?» Certo, la prima cosa che ho pensato quando sono scesa è stata “Facciamo conoscere a Christian la mia famiglia di Miami!”

«Ma no, che bisogno c’era? Tra l’altro ci siamo persi di vista appena abbiamo messo piede a terra.» Questo è vero. Subito dopo il check-out lui è stato raggiunto e risucchiato da altri quattro o cinque uomini tutti vestiti in modo impeccabile e non ho avuto occasione di salutarlo. Né lui ci ha provato, in ogni caso. Quindi, ho ufficialmente archiviato il capitolo – anzi paragrafo – Christian Wayne in “Aneddoti da raccontare quando sarò troppo sbronza per pensare lucidamente”.

«Uhm… tu non me la conti giusta.» Anne mi scruta con occhio critico e io ne approfitto per spostarmi sul tavolo e iniziare ad apparecchiarlo. «Avete dormito insieme, non è possibile che tu non abbia nulla da dire al riguardo.»

Violet alza la mano per prendere la parola, dice che lei ha molte cose da dire al riguardo.

Sbuffo e inizio a piegare i tovaglioli, che ripongo accuratamente accanto ai piatti. «Cosa devo dire? È stata una coincidenza, un errore, un caso… ci siamo ritrovati lì e basta, cosa doveva succedere? Cosa ti aspettavi?» Non so nemmeno come argomentare la cosa, è una discussione senza né capo né coda.

«A volte le cose che accadono per caso si rivelano le migliori.» Sapevo che avrebbe risposto così. Queste frasi da “com’è bella e imprevedibile la vita”… puah. Io ho imparato che la vita è sì imprevedibile, ma nel senso più negativo del termine. Per quanto ti facciano piacere certe cose o certi incontri o certe relazioni, alla fine si riveleranno un disastro e porteranno sofferenza. Sempre. E non dite che non è vero.

«Io non ci credo. E comunque, ormai è troppo tardi.» Rispondo, e sancisco la cosa collocando con veemenza la bottiglia d’acqua al centro del tavolo. Anne si gratta il capo con aria pensosa. Posso vedere l’esercito di criceti del suo cervello fare a gara per chi gira più veloce nella propria ruota.

«Potremmo cercarlo sulle pagine gialle!» Esclama all’improvviso, spalancando la bocca.

«Cosa? Ma sei impazzita?» La guardo come se fosse completamente partita per la tangente e lei alza un sopracciglio.

«Ti piaceva! Scusa, hai detto che era bello, se uno ti piace cerchi di rincontrarlo, no?» Dice come se fosse la cosa più naturale del mondo. «A meno che non scoreggi mentre dorme o sia simpatico come un gambo di sedano infilato nel sedere.» Aggiunge, dubbiosa.

Alzo gli occhi al cielo. «Che schifo, Anne!»

Lei sghignazza, mentre si riempie un bicchiere d’acqua. «Deduco che lui non emani cattivi odori e che sia almeno tollerabile in quanto a simpatia. Ergo, dov’è il problema?»

Ma perché le donne vogliono sempre far accoppiare le altre donne? Solidarietà femminile? Istinto da crocerossine? Noia?!

«No, non voglio. Basta.» Agito le mani per chiudere l’argomento e lei incrocia le braccia al petto, guardandomi seria.

«Ma perché fai così?»

Sul serio? Anne, sul serio? «Devo ricordarti il nostro ultimo incontro? Te ne sei dimenticata?» Voglio mettere fine a questa conversazione ora.

«È stato più di un anno fa, Elettra.» Mi prende una mano e io la ritraggo, scuotendo la testa.

«Per favore, mangiamo? Sono stanca.» Dico in un soffio, e lei serra le labbra dispiaciuta, per poi annuire e chiamare suo marito.

 

***

 

Dopo mangiato, Cooper mi accompagna a quella che d’ora in poi dovrò definire ‘casa’, anche se non ha esattamente l’aria di poter essere definita tale. Per ora va bene così, comunque, per quel che costa. Domani sarà un grande giorno di pulizie, penso con uno sbuffo mentre infilo il pigiama e passo un dito sul velo di polvere che copre il comodino. Ah, devo anche chiamare Eva e vedere a che punto è la spedizione dei miei vestiti. Sono o non sono un genio a spedirmeli a parte per non portarmi centoquaranta valigie in viaggio? Non che abbia l’armadio di Kate Middleton, ma comunque. Al momento non ho nemmeno i suoi soldi per rifarmi un guardaroba qui, quindi non avevo molta scelta. Ma perché mi sto giustificando da sola?

Sembra che tu voglia evitare di pensare a qualcosa.

Chi, io?

No, nonna Filomena.

Nonna Filomena è morta tanto tempo fa.

Appunto.

Buonanotte.

Sei una disillusa e frustrata schizofrenica senza speranza.

E tu sei il mio alter ego. Bella merda, eh?

 

**********

 

Il mio primo giorno da abitante di Miami inizia con la telefonata di Eva che non ha capito perfettamente niente del jet lag. Mi sveglia mentre stavo facendo un bel sogno, che non ricordo, ma sono certa che fosse un bel sogno, e quando attacchiamo ho gli occhi spalancati e nemmeno una minuscola traccia di sonno. La sveglia segna le sei e venti. Mi passo le mani sul viso e decido di alzarmi. Magari inizio le pulizie di primavera...

 

Ore 9:30

Dopo aver ripulito la casa da ogni minuscolo granello di polvere, mi butto sfinita sotto la doccia, lavando via sudore e pensieri.

Il programma di oggi consiste in sei punti salienti: esplorare il quartiere, fare la spesa, recuperare i vestiti dal servizio spedizioni, passare a salutare zia Libby, fare un giro della città con Anne e Cooper e capire come arrivare al lavoro dopodomani.

 

Ore 22:57

Cosa ho fatto oggi?

Ho “esplorato” il “quartiere”: in realtà non so se si possa davvero definire tale, sembra di stare nelle terre confinanti con l’aeroporto. Desolazione totale. La zona infatti è abbastanza isolata, per non dire disastrata. Cemento, cemento e ancora cemento. In lontananza grandi grattacieli tagliano improvvisamente l’aria, e incutono timore solo a guardarli. Quando sono arrivata all’appartamento, ieri sera, non ho fatto caso alla palazzina dove è situato: un edificio in uno stile ridicolmente vittoriano dipinto di un rosa salmone inquietante, che dà su un marciapiede sul cui lato opposto si erige un muro con un murales enorme. Non so nemmeno dire cosa ritragga, ma anche quello è vagamente angosciante. Non c’è un briciolo di verde intorno, giusto un albero rinsecchito ogni cinquecento metri e qualche aiuola spennata dall’erba bisunta. Insomma, un gran bel posto. Ora capisco come mai costa così poco. E l’Interstate si sente, dannazione… aveva ragione Chr- beh, posso sempre usare dei tappi per le orecchie.

Ho fatto la spesa, dopo aver vagato alla ricerca di un supermercato decente e non di squallidi discount che avevano tutta l’aria di essere spacci di droga – okay, forse sono un tantino esagerata e facilmente impressionabile – e sono passata a recuperare il pacco di vestiti. Che, naturalmente, non era ancora arrivato. Il che significa che se la scena si ripeterà domani, lunedì dovrò indossare un vestito di carta igienica fermato con delle spille da balia, di quelle giganti sullo stile dei pannolini dei cartoni animati.

Potrebbero sempre scambiarmi per Lady Gaga. Con molta, molta fantasia. Potrei tingermi i capelli di rosso aragosta e giallo zafferano e mettere gli occhiali alla John Lennon per camuffarmi meglio. Dubito però che mi lascerebbero entrare anche solo nella metropolitana.

Non sono passata a salutare zia Libby. Dopo la questione delle spedizioni ero talmente incavolata e depressa che ho deciso di svuotare un piccolo barattolo di gelato davanti al mio laptop, sul cui schermo scorrevano le immagini di Midnight in Paris. Vorrà dire che la chiamerò un giorno o l’altro.

Non sono nemmeno andata a visitare la città con Anne e Cooper. Ho semplicemente visto da lontano l’Art Decò District mentre li accompagnavo all’Ikea per comprare un armadio nuovo. Sono tornati con l’armadio, una scrivania e tre lampade strane. Ho approfittato per comprare asciugamani, lenzuola e biancheria in generale, così che posso bruciare quella che ho trovato nell’appartamento. E Anne mi ha regalato una tazza che cambia colore quando la riempi col caffè o tè caldo. “Nella speranza che il calore di un uomo ti possa ridonare la spensieratezza di una ventiseienne e la dolcezza di una donna, che al momento è... sparita”, ha detto, con la fronte aggrottata, mentre riponeva la tazza nel carrello. Inutile dire che le ho rivolto uno sguardo talmente assassino che il tizio della sicurezza di quel reparto stava quasi per intervenire.

In ultimo, ho capito come arrivare al lavoro. La stazione della metropolitana è a cinque minuti dal mio appartamento, e mi ci vogliono tre fermate per arrivare a destinazione. Si può dire che questa sia l’unica scoperta positiva della giornata. Il picco di nevrosi l’ho raggiunto quando ho incrociato l’inquilina del piano di sopra: una studentessa con gli occhi cerchiati pesantemente di nero, una tracolla talmente lunga che strusciava a terra, un’imminente stempiatura che probabilmente si è provocata da sola e un colorito verdognolo di chi fuma l’erba un secondo sì e l’altro pure. In un lampo di follia ho quasi pensato di trasferirmi da zia Libby coi ventordici gatti e il canarino, ma per una volta ho voluto essere ottimista.

È con questo pensiero che vado a dormire, stringendo il cuscino fasciato dalla stoffa nuova e profumata, lasciando che la speranza di iniziare col piede giusto questa nuova vita mi accompagni nel sonno.

 

**********

 

E così, è arrivato il fatidico lunedì.

È terribile quando il tuo primo giorno di lavoro capita di lunedì. Non solo il lunedì è già traumatico di suo: voglio dire, dopo il weekend – a prescindere da quanto “libertino” sia stato – riprendere le normali attività è dannatamente difficile, in più mettiamoci il doversi ambientare in una nuova città, con un nuovo primo importante lavoro, con nuovi colleghi, nuovi orari, nuovo tutto.

Io sono una disadattata quando si tratta di queste cose, meglio che lo sappiate. Odio i cambiamenti. Non mi ci so abituare, ecco.

Il che mi renderà ancora più nevrotica, scortese, insopportabilmente acida e sarcastica del solito. Ma forse non è saggio mostrare la mia vera natura il mio primo giorno di lavoro. Fortunatamente oggi faccio mezza giornata, per iniziare. Così almeno se l’impatto dovesse rivelarsi troppo traumatico, ho sempre l’altra metà per assimilare tutto.

Mi sono alzata un’ora prima, per essere sicura di arrivare in anticipo – il mio secondo nome in realtà non è Violet, è Ritardo – e – ah, e puntualmente litigo con chi mi aspetta perché odio essere nel torto – ora sono seduta al tavolo della cucina fissando la mia colazione all’americana. Uova, bacon, pancake. Non ho fame. Sento che l’ansia si sta avvicinando pericolosamente al mio stomaco, come le mani della strega della Sirenetta che vogliono prendere la sua voce. Facciamo che metto tutto in frigo e scendo a prendermi un caffè, eh?

 

***

 

“Macmillan Publishers Ltd”

Ci siamo. Con dieci minuti di anticipo e quasi trenta centilitri di caffè nello stomaco – annacquato come solo gli americani sanno prepararlo – varco la soglia dell’edificio che ospita, agli ultimi due piani, una delle case editrici emergenti di Miami. Gli altri due piani, ovvero i primi due, sono la sede di uno studio legale importante, se ho capito bene.

La prima persona che vedo, quando arrivo al terzo piano e spingo la gigantesca porta a vetri, è un uomo sulla quarantina, con un taglio alla moda – un trascurato fatto apposta, con un ciuffo per aria che gli dona un’aria sbarazzina e affascinante – e il pizzetto. Due occhi scuri mi scrutano con interesse.

«Salve, posso aiutarla?» Mi chiede, gentile ma sbrigativo.

«Sì, sono la nuova traduttrice, Elettra W-»

«Ah, finalmente! C’era parecchia fibrillazione in studio per il tuo arrivo, Elettra. Bel nome, tra parentesi. Io sono Tony, è un piacere fare la tua conoscenza. Posso darti del tu, vero?» Questo tizio già mi piace. Stringo la sua mano e scopro che ha una presa salda e sicura.

«Certo. Il piacere è mio, Tony. Sapresti indicarmi dov’è l’ufficio del capo?» Gli domando con un sorriso. Lui annuisce e con un gesto della mano richiama l’attenzione di una ragazza che sta sistemando dei giornali su uno dei tavolini bassi alla nostra sinistra. È molto carina, sembra timida, coi capelli castani, gli occhi azzurri e la frangetta.

«Elettra, lei è Alexandra, la nostra segretaria. Dolce come uno zuccherino e innocua come una colomba. Se hai qualsiasi tipo di dubbio o richiesta, puoi chiedere a lei. Alex, puoi accompagnare la signorina all’ascensore? Deve presentarsi a rapporto!» E, con un gesto della mano che imita quello di un militare, scompare. Che tipo!

Guardo Alexandra e le sorrido, stringendo con impazienza la mia borsa in attesa di incontrare Macmillan in persona.

«Ti troverai bene qui, vedrai. Sono tutti molto simpatici e c’è un atmosfera abbastanza familiare.» Mi spiega Alexandra mentre ci incamminiamo verso un’altra porta vetrata alla destra della reception. Da quello che posso vedere da qui, la porta dà su un lungo e ampio corridoio, con tre porte sulla parete destra e una sulla parete sinistra, in fondo.

La reception, c’è da dire, mi è sembrata molto ben fatta. Come accoglienza, nell’arredamento, è fantastica. Il banco è di una particolare forma ondulata, e sul soffitto ci sono tanti faretti che di sera devono essere strepitosi. Alla sinistra del banco, c’è un grande spazio con dei divani, diverse poltrone, e in mezzo tanti tavolini bassi, tutto nei toni del marrone, rosso scuro e panna. Sulle pareti attorno ai divani, oltre alle finestre ci sono tante mensole in ordine sparso e quasi messe a caso, ma in maniera simpatica, piene zeppe di libri di ogni genere.

Quando Alexandra apre la porta vetrata e imbocchiamo il famoso corridoio, vedo la zona operativa della società. Sulla sinistra ci sono due grandi spazi aperti, separati da un tramezzo, con tre scrivanie ciascuno, oltre a scaffali, mobili, ripiani e varie attrezzature d’ufficio. Dopo questi spazi, c’è una stanza di discrete dimensioni, con due scrivanie praticamente vuote. Ogni stanza che abbia una porta, noto, è completamente “aperta” a tutti gli sguardi. Vanno pazzi per le porte a vetri, insomma. Però ci sono delle veneziane, o almeno così mi sembra d’aver intravisto. Sulla destra del corridoio, invece, ci sono effettivamente tre porte: due sono uffici, uno addirittura con la parete esterna in vetro, l’altro solo la porta. Sono entrambi abbastanza grandi, o almeno più di quello di fronte, con la differenza che hanno una sola scrivania, con due sedie davanti. Immagino che uno sarà l’ufficio dell’editor. La terza porta, invece, è a doppia anta, ma è colorata. In alto leggo la scritta “Toilette”. Wow.

«Questo è l’ascensore, non puoi sbagliarti, va solo al piano di sopra. Che è anche l’ultimo, quindi non puoi fuggire da qui.» Mi informa Alexandra, ridacchiando. «Io devo tornare in reception, se hai bisogno di qualcosa chiamami.»

«Grazie, a dopo.»

Non ho potuto fare a meno di notare, penso mentre salgo in ascensore, che tutto il piano era praticamente vuoto, fatta eccezione per Alexandra e Tony. Forse perché non sono ancora le nove. Eh sì, effettivamente…

#Din#

Le porte si aprono velocemente su una grande stanza con un pavimento in marmo rosa antico e la parete di fondo in listelli di legno marrone scuro, dove spicca una scrivania in vetro – saranno fissati? – e legno, dietro la quale è seduta una graziosa donna bionda, coi capelli raccolti in uno chignon e un paio di occhiali dalla montatura rettangolare.

«Buongiorno, io sono Elettra Wayne, la nuova traduttrice.» Mi presento, porgendole la mano che lei stringe prontamente.

«Certo, ti stavamo aspettando. Io sono Nancy, l’assistente di Martin.» Mentre parla con me, pigia un tasto sul telefono e alza la cornetta.

«Martin, c’è Elettra Wayne, posso farla entrare? Bene.» Riattacca e si alza, lisciandosi il tailleur pantalone che ha un’aria davvero costosa. Mentre raccoglie alcuni fogli di carta dalla scrivania, mi guardo intorno. Da un lato della “reception dei piani alti”, come per il piano di sotto, ci sono due divanetti di pelle scura e un tavolino basso al centro. Dall’altro lato, c’è un’esposizione di libri. Su una parete c’è una bacheca, con tanti articoli di giornale esposti. Nancy mi guida oltre la parete alle spalle della scrivania che dà su un corridoio e cinque stanze: tre sulla sinistra e due sulla destra, di cui una praticamente enorme. La prima a sinistra è un bagno, a giudicare dalle porte uguali a quelle del piano di sotto; la seconda è una sala riunioni, o almeno credo, e la terza è un ufficio. Noi ci stiamo dirigendo verso la stanza sulla destra. Ovviamente, il capo ha la stanza più grande.

Nancy bussa alla porta – che stranamente non è in vetro – e si sente un “Avanti, avanti” chiaro e tondo proveniente dall’interno. Entriamo e Nancy, dopo aver lasciato quei fogli sulla scrivania di Martin, va via chiudendo la porta. Nella stanza ci sono due uomini, uno seduto alla scrivania e uno in piedi, di spalle. Quando quello seduto, che suppongo sia Macmillan, mi fa cenno di avvicinarmi, il tizio di spalle si volta e mi rivolge un sorriso. È alto, coi capelli di un colore indefinito tra il castano chiaro e castano scuro, passando anche per il rosso, e un lieve accenno di barba. Occhi chiari, vestito elegantemente con camicia bianca e gilet blu, abbinato ai pantaloni classici dello stesso colore. Ha perfino la cravatta.

«Ehm, salve.» Mormoro. Macmillan si alza dalla scrivania e si allunga per darmi la mano.

«Benvenuta, Elettra. Io sono Martin Macmillan, ma puoi chiamarmi Martin. Lo sai già, ma lo ripeto perché è una pappardella che tocca a tutti: sono il direttore editoriale, il fondatore di questa casa editrice. Tutto quello che accade qui dentro passa sotto i miei occhi, tutti gli scritti devono avere la mia approvazione. È dura essere il capo, già. Ma ho validi collaboratori, a partire da questo losco individuo che vedi qui. Lui è Thomas Blackwood, l’amministratore delegato. Il mio vice.» Stringo la mano anche a lui, e lui con mia somma sorpresa se la porta al viso e vi posa un lieve bacio. Oddio, davanti al capo? È impazzito. «Quando non ci sono io, tutti quanti rispondete a lui. So che non fa paura a vederlo così, ma un po’ dovresti averne.» Ride, e Thomas lo guarda come a dire “Ma cosa stai dicendo?”.

«Se ci vuoi scusare un attimo, Thomas, riprendiamo il discorso dopo. Io illustro ad Elettra tutto ciò che le serve sapere per iniziare al meglio la sua esperienza qui.» Dopo averlo congedato, mi fa cenno di sedermi su una delle poltrone davanti alla scrivania. Oddio, sono comodissime. Quasi ci affondo dentro.

«Dunque. Qualcosa te l’ho già detta telefonicamente, ma ribadiamo tutto per esserne sicuri. Gli orari sono 9,00 – 13:30 e 14:30 – 18:30, ma quando siamo sotto pubblicazione è probabile che si finisca molto più tardi. Questo capita spesso quando qualcuno non fa il proprio lavoro giorno per giorno, cosa che non ti consiglio di fare, o la tua vita qui durerà davvero poco.»

«Non ne ho alcuna intenzione.» Ribatto prontamente, e lui sorride. Mentre parla mi scopro a pensare che, da ragazzo, doveva essere un uomo davvero affascinante. In realtà lo è ancora adesso, nonostante i cinquanta e passa anni; sarà per questo che lo chiamano “scapolo d’oro”, in giro.

«Benissimo. Il tuo lavoro, come ben sai, consisterà nel tradurre i manoscritti, e dico manoscritti perché a volte questi ci arrivano prima che siano pubblicati nella lingua originale, quindi ancora privi della loro veste grafica e di qualche ultima correzione dell’ultimo minuto. Avrai un limite di tempo appropriato a seconda del libro in questione, e se dovrà essere tradotto in più lingue potrai essere affiancata da qualcun altro. Pensando alla nostra ultima conversazione, però, ho pensato che se necessario, potresti dare una mano al nostro editor, vista la tua passione per i libri in generale. Anche nel curriculum hai scritto che ti piacerebbe diventare correttrice di bozze, non è così?»

Annuisco con vigore. «Sì, è così. Mi è sempre piaciuto correggere cose scritte, che fossero temi a scuola o canzoni o diari personali…» Ops, forse quello era meglio non dirlo. Martin sembra non farci caso.

«Bene. Come saprai, il redattore, o editor, ha studiato tanti anni per arrivare a fare questo mestiere. Non si può partire da zero e pretendere di correggere da sola un manoscritto, ma puoi affiancarlo, aiutarlo quando ne ha bisogno, in compiti meno complessi, per iniziare.» Fa una pausa per bere un sorso di caffè. «Quello che voglio, Elettra, è che ognuno dei miei dipendenti sia completo; non dico formato a trecentosessanta gradi, né pretendo che siate tutti interscambiabili, perché in un lavoro come questo è difficile esserlo in breve tempo, ma se tutti collaborano tenendo presente il fine comune, e magari anche con la voglia di imparare qualcosa di nuovo, allora ne varrà decisamente la pena, in tutti i termini.»

Annuisco, estasiata. Sento che mi troverò alla grande, qui.

«Ottimo. Ora Nancy ti farà fare il giro degli uffici e ti presenterà i tuoi nuovi colleghi. Ormai dovrebbero essere arrivati tutti.» Prende una sigaretta dal taschino della camicia e chiama la sua assistente all’interfono. Due secondi dopo Nancy compare sulla soglia della porta, e io la raggiungo, dopo aver salutato Martin.

«Seguimi, Elettra. Quanti anni hai?» Mi chiede, spostandosi a destra dell’ufficio di Martin, verso l’ultima stanza del corridoio.

«Ventisei, tu?» Senza neanche bussare, apre la porta e facciamo irruzione in quello che credo sia l’ufficio di Thomas. Lui è in piedi accanto alla finestra, impegnato in una conversazione telefonica. Si volta e fa un gesto della mano in segno di saluto, indicando poi il telefono.

«Io trentatré. Lui è l’amministratore delegato, Tommy. Simpatico, ha sempre una perla di saggezza da dispensare, a volte risulta un po’ arrogante. Non ho ancora capito effettivamente se ci è o ci fa, credo che la “scalata” verso il ruolo di direttore lo stia facendo diventare parecchio ambiguo. È gentilissimo, comunque. Un vero lord.» Mi spiega Nancy, mentre apre la seconda porta, che dà su una grande stanza con un enorme tavolo ovale al centro e diversi mobili. In fondo c’è una di quelle lavagne con i fogli che usa il Dr House e un proiettore sulla parete.

«Questa, come avrai immaginato, è la sala riunioni. Quando si riempie di gente sembriamo quasi una società seria.» Ridacchia. Ha un senso dell’umorismo molto simile al mio, mi piace. E per piacere a me, ho detto tutto.

Apre la terza porta, che dà su un bagno non troppo grande, ma sufficiente per la quantità di personale che lavora su questo piano. Forse va un po’ in sovraffollamento durante le riunioni.

«Ah, quello di fronte allo studio di Tommy è una specie di magazzino. Teniamo le scorte di tutto il materiale “scortabile”: carta, cancelleria, accessori dei computer e via dicendo.»

Quando torniamo al piano di sotto, sembra di stare in un altro ufficio: gente ovunque, rumori di fax, stampanti, click vari. C’è un piacevole chiacchiericcio di sottofondo e un odore di caffè.

«Avete le macchinette? Per il caffè, intendo.» Chiedo a Nancy e lei scuote la testa.

«Sì, una nella reception e una nell’antibagno di sopra, ma non le usiamo mai. Abbiamo una convenzione con lo Starbucks dall’altro lato della strada. Se chiami puoi ordinare qualsiasi cosa sul conto della società, dando il tuo codice personale. Te l’ha dato Alexandra?» Faccio segno di no con la testa.

«Non eri ancora un membro ufficiale della Macmillan Publishers, dieci minuti fa, senza la stretta di mano del grande capo.» Ridacchia lei.

«Bonjour! Buenos dias! Doh-bro-ya ooh-tra!» Un ragazzo con un sacco di capelli scuri e una camicia rossa stile Clark Kent aperta su una maglia nera, mi si para davanti tutto sorridente.

«Ehm, ciao.» Gli rivolgo un sorriso tirato e allungo la mano. «Elettra.»

«Lui è Mike, il nostro super tecnico informatico. In realtà è un impaginatore, ma all’occorrenza diventa peggio di un hacker. A proposito, devi controllare il computer di Duke.» Nancy indica la stanza accanto alla toilette, poi torna a rivolgersi a me. «Quello è per l’appunto il suo ufficio, ma oggi il redattore non c’è, è fuori città per delle commissioni. Non c’è nemmeno Tony, oh, lui devi conoscerlo, è uno spasso.»

«L’ho conosciuto, credo.» Replico, abbastanza convinta che quel Tony sia lo stesso che ho incontrato prima.

«Tony Shark? Davvero? Era in ufficio?» Ribatte lei, sorpresa.

«Sì, è stata la prima persona che ho visto... però è subito andato via. Ehi, sul serio si chiama Tony Shark?»

«Sì, Iron Man sbagliato.» Ride. «Lo ucciderò, perché non è venuto a salutarmi?» Sospira e scuote la testa.

«Bene, alla tua destra c’è il tuo ufficio, mia cara Elettra.» Indica la stanza con due scrivanie, vicina all’ascensore. Sono sicura di avere gli occhi che brillano.

«Per chi è l’altra scrivania?» Domando, confusa.

«Per me!» Una ragazza più giovane di me, capelli castani, occhi verdi e un’aria terribilmente vivace appare magicamente davanti a noi. «Io sono Lilian Bradshaw, ma puoi chiamarmi Lily. Sarò la tua ombra!» Oh, Dio, no. Vi prego, non affidatemi marmocchi.

«Ah...» Provo a ridere ma non mi riesce molto bene. «Sei... mmm... una...?»

«È una stagista, un po’ il jolly della crew. Sta studiando lettere e lingue, quindi potrà tranquillamente aiutarti qualora ne avessi bisogno.» Interviene Nancy. Mmm, allora non sarà poi una stupida. E sono piuttosto sicura, ora che la guardo meglio, che abbia praticamente la mia età.

«Questi sono i polmoni della società.» Prosegue Nancy, indicando le due “isole” operative, divise non da un tramezzo, come avevo pensato inizialmente, ma da una sottile parete attrezzata divisoria, davvero carina e anche utile. Delle sei scrivanie complessive ne sono occupate soltanto quattro.

«Buongiorno, bella gente. Questa è la vostra nuova collega, Elettra, che prenderà il posto di Jessica, la vecchia traduttrice.» Per un istante, mi domando che fine abbia fatto questa Jessica. Poi vedo le facce sorridenti dei ragazzi e mi tranquillizzo un po’.

«Io sono Daniel. Walker. Ma tutti mi chiamano Danny.» Dice un ragazzo dai capelli scuri e con un paio di occhiali che sembrano messi più per bellezza che per necessità, alla Johnny Depp. Quando si alza per stringermi la mano, scopro che gli arrivo poco sopra la spalla. Ma cos’è, un metro e novanta?

È un pezzo di figliolo, cavolo. Due spalle, wow! Questo posto è il paradiso!

Mi scopro a pensare, in un remoto angolino della mia mente, che dev’essere alto come Christian, centimetro più, centimetro meno, e mi maledico subito. Come mi salta in mente di pensare a quello?

«Insieme a quella piattola dietro di te – indica Mike – mi occupo della “riuscita grafica ed estetica dei libri”.» Continua Danny, mimando le virgolette. «Preso pari pari dal mio curriculum. Adoro dirlo.»

Scoppio a ridere e annuisco. La terza scrivania è vuota. Nancy sembra leggermi nel pensiero e si affretta a spiegare. «Qui lavora il freelance di turno, ultimamente è Margot, che aiuta Duke nella correzione delle bozze.»

Margot. Già il nome non mi piace. Mi ricorda quella tettona di Lupin.

Passiamo all’altro “blocco”, dove ci sono una ragazza che ha tutta l’aria di essere una precisina e un tipo piuttosto anonimo, somiglia all’attore che ha fatto il signor Bingley in Orgoglio e Pregiudizio... Simon qualcosa, tipo. Ha i capelli rossi e gli occhi azzurri. È proprio lui il primo ad alzarsi per presentarsi.

«Ciao, sono Christopher, il webmaster. Mi occupo del sito web della Macmillan Publishers e affianco Tony come assistente addetto stampa.» Bene, presentazione soddisfacente. Sono tutti molto concisi, noto.

La ragazza precisina, invece, si presenta come Clara, la contabile. Mi stupisce un po’ il fatto che non si trovi al piano di sopra, visto che si occupa di cose che riguardano più Martin che tutti noi, ma in fin dei conti non mi interessa più di tanto il motivo di questa decisione.

«Quello, infine, è l’ufficio di Tony. Come vedi è incasinatissimo. Il promotore editoriale, o addetto stampa, ha sempre un gran bel lavoro da fare. È spesso in giro in presentazioni e cose varie, magari qualche volta puoi chiedergli di accompagnarlo. È uno spasso, giuro. Un altro scapolo d’oro. Un pensierino ce lo farei, se non fossi impegnata con Andrew.» Sussurra, con un sorriso innamorato. Non so se di Andrew o di Tony.

«Pazienza.» Commento, con un’alzata di spalle e un sorriso.

«Quindi, credo di aver visto tutto adesso. Posso andare nel mio ufficio?» Wow, mi sento super importante. Ho un ufficio tutto mio!

«Certo. Ti mando subito Lily.»

Beh, da condividere con una stagista spero non troppo invadente. Lo spero per lei, naturalmente.

 

 

~ Note

Capitolo che sembra di transizione ma non lo è del tutto. Ci sono alcuni riferimenti al passato di Elettra che solo i più arguti lettori avranno colto ò_ó (seh, manco stia scrivendo un romanzo di Agatha Christie. Potete anche lanciarmi i pomodori, adesso).

Così, abbiamo scoperto cosa fa Elettra nella vita, e chi la accompagnerà in questo nuovo percorso. A proposito dei nuovi colleghi, ci tengo a sottolineare il tributo a Pearl Harbor (meraviglioso film, se non l’avete visto dovete assolutamente rimediare!) attraverso il caro “Danny Walker” e il tributo al mitico “Tony Stark”, alias Iron Man, di cui mi sono divertita a storpiare il cognome per usarlo a mio uso e consumo nella storia.

Bon, non vi dico più nulla...

...se non che la frase “Alcuni hanno la capacità di tornare indietro, direttamente o indirettamente, sempre nell’istante in cui la corda si sta spezzando” è una citazione liberamente scopiazzata da inveceerauncalesse, blog su Tumblr. Rendiamo a Cesare ciò che è di Cesare.

Nel gruppo trovate un album con i volti dei personaggi, nel caso v’interessasse. E un disegno dei due piani della Macmillan Publishers, per capirci qualcosa della disposizione interna, che mi rendo conto sia un po’ difficile da immaginare dalla descrizione.

Spoiler del prossimo capitolo:

 

Se, in questo preciso istante, potessi avere degli elettrodi attaccati al cervello, l’encefalogramma risulterebbe piatto.

Un abbraccio,

Sara.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo sei - Meet Duke ***


Blend



Secondo una delle versioni, le Pleiadi erano le compagne vergini di Artemide, la dea della caccia.

Orione, il famoso cacciatore, le inseguiva per tutta la terra e loro fuggirono nei campi della Beozia.

Perseguitate da Orione, vennero mutate in stelle da Zeus.

 

 

 

«Ti giuro che questa cosa del badge col codice personale è strepitosa, sembra di avere una carta di credito illimitata per Starbucks! Infatti credo che ingrasserò a dismisura. Devo chiedere a Nancy dove va in palestra, perché con un fisico del genere deve per forza andare in palestra.»

«Oppure fa tanto sesso.» Ecco, in momenti come questi posso dire che Eva non mi manca per niente.

Alzo gli occhi al cielo, esasperata dalle sue continue battutine. «E per chi non fa sesso ci sono le palestre.» Replico, piccata.

«Ma il sesso è gratis. E dopo stai da Dio.» Niente, non c’è nulla da fare con lei.

«Ciao, Eva, devo andare al lavoro!» La saluto e senza aspettare la risposta, attacco. Così impara.

Attraverso la strada col mio bel bicchierone di cappuccino alla vaniglia e approfitto di un avvocato che sta entrando per farmi tenere aperta la porta.

«Grazie.» Gli dico, e corro su per le scale. Sono quasi in ritardo. Quasi. Ma naturalmente non è colpa mia, è la commessa che ci ha messo sette anni per preparare il caffè.

Mentre sto salendo, vedo qualcuno che sta facendo lo stesso. È Danny, che si volta a guardarmi e mi saluta con un sorriso.

«Buongiorno, dormito bene?» È di una gentilezza e tenerezza disarmante, nonostante il fisico da nuotatore che potrebbe far pensare il contrario.

Perché, i nuotatori sono dei buzzurri?

Come al solito non hai capito cosa intendevo dire.

«Sì, abbastanza.» La mia risposta standard. «Scusa ma sono in ritardo.» Gli spiego, prima di superarlo in velocità nella seconda rampa di scale. Anche lui deve entrare allo stesso orario, e quindi è in leggero ritardo come me, ma a) lui lavora qui da chissà quanto, non è l’ultimo arrivato come la sottoscritta e b) avere una persona che arriva in ritardo dopo di te è sempre meglio che essere la persona che arriva in ritardo dopo un’altra, vi pare?

«Buongiorno!» Mi saluta cordiale Alexandra appena varco la soglia della reception, leggermente affannata. Seduti ai divanetti ci sono un paio di persone, ben vestite, che stanno leggendo qualcosa. Dietro il banco c’è un’altra ragazza che ieri non ho visto. Forse aiuta Alex che, poverina, altrimenti starebbe da sola tutto il giorno.

Corro nel mio ufficio salutando soltanto con un cenno della mano i ragazzi seduti alle scrivanie – quelli che ci sono, almeno. Qualcuno manca ancora – e trovo Lily già dentro che sta sistemando diversi plichi sulla mia scrivania.

«Buongiorno.» Mi sorride, allegra come sempre. «Questi sono freschi freschi, li ha portati Tony qualche minuto fa. Mi ha detto di dirti di andare nel suo ufficio, appena puoi.» Mi informa, e io annuisco. Poso la borsa sulla scrivania e la giacca sulla sedia e mi liscio la camicetta, pronta ad un tête-à-tête col gran simpaticone. No, davvero mi è simpatico. Però mi dà l’impressione di quelle persone che stanno sempre a prendere in giro gli altri... come me, praticamente. Mhm.

«Elettra...»

«Sì, vado, vado.» Vado. Sto andando. Un minuto.

Camminando verso l’ufficio di Tony, noto che quello dell’editor, Duke, è ancora vuoto.

Busso alla porta, e senza aspettare, entro. Come ieri, nello studio di Martin, anche oggi c’è Tony seduto alla scrivania e un tizio di spalle che gli sta dicendo qualcosa; quando si accorge della mia presenza, si volta. Succede tutto molto velocemente.

Se, in questo preciso istante, potessi avere degli elettrodi attaccati al cervello, l’encefalogramma risulterebbe piatto.

«Chi non muore si rivede.» Christian mi saluta con un bel sorriso e la solita aria canzonatoria. Non sembra affatto sorpreso di vedermi.

«E tu che ci fai qui?» Io invece sono sbigottita. Anzi, di più, sono sgomenta.

«Ci lavoro.» Risponde lui, con tutta la semplicità di questo mondo.

«Cosa? No, tu mi hai detto di lavorare per...» Mi blocco, in effetti non mi ha mai detto cosa facesse per lavoro. Chissà perché lo immaginavo nel campo delle pubbliche relazioni o qualcosa del genere.

«Sono il redattore, Elettra.»

Scoppio letteralmente a ridergli in faccia. «Sì, e io sono Martin Macmillan, piacere.» Allungo la mano ma lui non la stringe. Non è serio ma non è nemmeno divertito. Ha la sua solita espressione che non sopporto, perché non capisco cosa gli passi per la testa. «No, aspetta, il redattore si chiama Duke, lui-» Non faccio in tempo a finire che vengo travolta dalla sua risata, stavolta. Anche Tony ride di cuore, portandosi una mano sull’addome. Ora prendo le loro teste e le uso come maracas.

«Duke è il soprannome che mi hanno dato per via del mio cognome. John Wayne, hai presente? Lo chiamavano “il duca” o, in inglese, “Duke”.»

Che dicevo, sono sgomenta? No, sono letteralmente scioccata.

Se uno più uno fa effettivamente due, Christian Wayne è il mio CAPO.

C-A-P-O. Oddio. No, odio questo lavoro.

Cos’ho detto l’altro giorno? Che volevo essere ottimista? Beh, non avrei dovuto nemmeno pensarlo. L’ho sempre detto che l’ottimismo è l’inculata della vita.

«Ehm, deduco che vi conosciate già?» Si intromette Tony per, non so, salvarmi dall’essere inghiottita dal pavimento?

Mi viene da ribattere “Purtroppo sì”, ma mi interrompo ancor prima di iniziare: non sarebbe saggio dire che lo conosco, visto che ormai le raccomandazioni sono all’ordine del giorno. Non voglio che lui pensi che abbia ottenuto questo posto per-

«Sì, abbiamo passato una notte insieme a Roma, la settimana scorsa.»

COSA?!

Non so esattamente se prendere a pugni Christian per la frase talmente equivoca che ha appena detto, o Tony, sperando che gli venga un trauma cranico e dimentichi tutto.

«Ah! Ti tratti sempre bene, Wayne.» Ammicca Shark e quell’altro imbecille non fa nulla per spiegare il qui pro quo.

Grazie al cavolo, l’ha inventato lui, il qui pro quo!

«No, non è vero! Cioè sì, ma non è come sembra. In realtà-»

«Allora ci vediamo dopo nello studio di Martin per discutere di quelle cose.» Dice Christian a Tony, ignorando totalmente il mio tentativo di spiegare come sono andati i fatti, e poi va via. Osservo con la bocca spalancata la porta chiudersi e poi torno a guardare Tony.

«Ti assicuro che non è come dice lui. Mi è piombato nella stanza, lui... io non lo conoscevo nemmeno!» Blatero cercando di salvare la situazione. Lui mi ascolta interessato, con il viso sulla mano e le sopracciglia sollevate.

«Sesso tra sconosciuti, wow. Se vuoi provare anche con me faccio volentieri finta di non conoscerti.» Sorride smagliante, e sento un’ondata di rabbia risalirmi lungo ogni singolo nervo. Esco decisamente furiosa dall’ufficio di Tony e, infischiandomene delle buone maniere, entro in quello di Christian e sbatto la porta. Cacchio, forse non è una buona idea sbattere la porta a vetri. La guardo per constatare eventuali danni, e appurato che non ce ne sono, coi pugni stretti e la faccia livida mi avvicino alla scrivania dove si è appena seduto, tranquillo.

«Ti senti bene?»

«MI SENTO BENE?! MI SENTO BENE?! Christian, ma che ca-» Elettra, respira. «Che diamine ti salta in mente?! Abbiamo passato una notte insieme a Roma?! Tu hai IDEA di cosa penserà di me ora Tony? Tu hai IDEA di cosa sarebbe successo se l’avessi detto davanti a tutti? Ma cos’hai al posto del cervello? I popcorn?! Dio mio che umiliazione!» Mi passo una mano sul viso e cerco di calmarmi. Praticamente impossibile.

«Non vedo che bisogno c’è di agitarti tanto. Se vuoi vado a dirglielo, che non c’è stato nessun tipo di contatto intimo. La notte insieme a Roma l’abbiamo passata davvero, però, per quanto per te sembra essere stata un’esperienza orribile.»

«Per te è tutto semplice, vero? Il grande redattore, tu sei già “arrivato”. Io sto iniziando adesso, invece, Christian. Preferirei che nessuno, neanche lontanamente e neanche per errore, pensasse che ho ottenuto questo posto grazie a una conoscenza, specialmente di quel tipo.» E sono costretta a fermarmi, perché le guance iniziano a pizzicare. Spero di non avere gli occhi lucidi. Lo spero davvero. Io non piango davanti alla gente. Io non piango e basta. Christian perde l’aria impertinente di poco prima e per un attimo sembra davvero dispiaciuto.

«Mi dispiace, non ci ho pensato. Tony è un amico, non trarrebbe mai conclusioni affrettate. E in ogni caso sapevamo tutti del tuo arrivo molto prima che ci conoscessimo, quindi puoi stare tranquilla.» Spiega lui. Riascolto mentalmente le sue parole e aggrotto la fronte.

«“Sapevamo”? Tu... tu sapevi già che sarei venuta qui quando mi hai incontrata in albergo? Avevi capito che ero io?» Okay, se prima ero scioccata, ora sono... non so neanche più come definirmi. Traumatizzata, direi.

«Non credo esistessero molte Elettra Wayne in partenza per Miami. Sì, ero abbastanza convinto che fossi tu.» Sorride.

«E perché non me l’hai detto?» Non ha senso arrabbiarmi. La sua reazione calma mi fa irritare ancora di più. Circa un milione di pensieri mi turbinano in testa.

Lui riflette un secondo prima di rispondere: «Perché volevo che mi conoscessi come Christian, non come il tuo capo. Volevo che ti comportassi in modo naturale, suppongo, senza essere condizionata da altri elementi.»

Ora si spiegano tante cose: la sua espressione quando gli ho detto il mio nome, il suo “se non dovessimo rivederci, è stato un piacere”… lui sapeva che ci saremmo rivisti!

«Cos’era, una sorta di esperimento sociale?» Alzo gli occhi al cielo.

«L’ho fatto anche per me. Anch’io volevo conoscere te in un ambiente il più naturale possibile. Magari si avesse la possibilità di farlo con tutti… si eviterebbero primi mesi imbarazzanti, sorrisi ingessati, frasi di circostanza. Capisci cosa intendo?»

«Sì, ma io al posto tuo l’avrei detto comunque. Potevi aggiungere qualcosa tipo “Però ora siamo in un albergo e tu mi stai offrendo un posto nel tuo letto, quindi fa’ come se fossi uno sconosciuto qualunque.”» Replico.

«E tu l’avresti fatto? Ti saresti comportata come se fossi stato uno sconosciuto qualunque?»

«Sì, Christian. Io sono come mi hai conosciuta, in qualsiasi circostanza e in qualsiasi situazione. Non so fingere, e per questo mi ritrovo poca gente intorno. Ma adesso che sei il mio capo, queste cose non posso raccontartele più. Buon lavoro.» E lo lascio lì, sentendomi il suo sguardo sulla schiena mentre esco dalla stanza.

Incredibile. Stento ancora a crederci.

Se solo l’avessi saputo prima, altro che pinzette per le ciglia.

Ma posso sempre rimediare, no?

 

***

 

Secondo una delle versioni, le Pleiadi erano le compagne vergini di Artemide, la dea della caccia. Orione, il famoso cacciatore, le inseguiva per tutta la terra e loro fuggirono nei campi della Beozia. Perseguitate da Orione, vennero mutate in stelle da Zeus.

Elettra era una delle Pleiadi.

Ora posso ufficialmente battezzare Christian Wayne come Orione.

Altro che Duke. Duca di questo...

Ehm.

«Toc toc. Elettra?» Sono seduta alla mia scrivania con il mio primo manoscritto da tradurre, quando la testa scarmigliata di Tony fa capolino dalla porta. «Posso entrare un momento?» Annuisco.

«Non ho sedie su cui farti accomodare, spero non ti dispiaccia. Magari quando avanzerò di livello...» Poi ci penso su, pensando a chi mi ritrovo per capo. «No, nemmeno allora.»

«Non preoccuparti... volevo solo...» Si volta a guardare Lily, che sta lavorando alla sua postazione. Fa finta di lavorare ma si vede che sta ascoltando ogni virgola. Non me la sento di mandarla via, manco chissà quale segreto di stato debba dirmi Tony. «Volevo scusarmi per prima, non intendevo mancarti di rispetto. Sei scappata con un diavolo per capello, e mi sono sentito abbastanza un verme. Perdonami. Volevo solo scherzare.»

«No, scusa tu, non ce l’avevo con te. Semplicemente non voglio passare per quella che non sono, ma non è colpa tua. Dalle parole che ha usato Christian chiunque avrebbe tratto la conclusione sbagliata.»

«Assolutamente no, io conosco Christian e so che non farebbe mai una cosa del genere. Davo per scontato che lo sapessi anche tu, cosa impossibile però perché non lo conosci, e ho fatto quella battuta infelice. Sono stupido, decisamente.» Annuisce convinto.

Che vuol dire che Christian non farebbe mai una cosa del genere? Che sono troppo brutta per lui? O che è troppo un gentiluomo e non è uno da “una botta e via”? O che non mischia lavoro e vita privata? O che ha una fidanzata?

Sento parecchio caldo qui nel tuo cervello, Elettra. Smettila di pensare così turbinosamente!

Comunque non mi interessa.

«Mmm, sì. No, tranquillo. Ti ripeto, non ce l’ho assolutamente con te.» Cerco di mostrarmi il più convincente possibile. «Come mai mi avevi chiamata nel tuo ufficio?»

«Ah, sì, mi serviva una mano con un’e-mail. Ho contattato un’agenzia di Berlino per una probabile futura collaborazione e mi hanno risposto in tedesco, idioti. Mi chiedevo se potessi girartela perché non ci capisco nulla.» Si passa una mano sulla nuca e io ridacchio.

«Certo, te la traduco subito.» Se lo merita, dopo essere venuto fin qui a scusarsi.

«Grazie mille.» Fa un mezzo inchino ed esce dal mio ufficio. “Il mio ufficio”, ah ah! Ancora non ci credo.

Non faccio in tempo ad aprire Outlook Express che Lily mi si para davanti con l’espressione di chi vuole spiegazioni. Ah, no, bella. Non uscirà una sola parola da questa bocca.

«Cosa hanno appena sentito le mie orecchie? Sei appena arrivata e già litighi con editor e promoter? Wow, devi essere un tipo tosto!» Sorride a sessantacinquemila denti. Io la ignoro, per quanto sia possibile ignorare una che si è praticamente spalmata sulla tua scrivania.

«Dovrei leggere, Lil.» Le dico, sperando che funzioni. Anche per me, intendo.

«Però poi mi racconti nella pausa caffè, vero?» Ho la sensazione che si metterà in ginocchio se le dico di no.

«Io non racconto, Lily. Questa è una delle cose fondamentali da sapere su di me.» Lei mi guarda con un’espressione confusa e curiosa allo stesso tempo.

«Nemmeno nella pausa pranzo?»

«Ohhh, per l’amor del cielo, TORNA A LAVORARE!» Alzo appena la voce e lei fila subito alla scrivania. Ecco. Sono pur sempre il suo capo, che diamine. O almeno, uno dei suoi capi. Ma non parliamo di capi.

Bene, finalmente sola col mio manoscritto. In russo. È di un’autrice emergente che ha conquistato tutte le lettrici del suo paese; dalla trama sembra una storia di guerra. Speriamo non sia la brutta copia de “Il cavaliere d’inverno”.

 

***

 

Sono arrivata alla quinta pagina – di trecentocinque, vorrei ben dire – quando intravedo Danny passare davanti alla porta e indugiare qualche secondo prima di bussare. Faccio finta di leggere per dargli l’agio di sistemarsi e trovare il coraggio di entrare.

«Avanti.» Dico, quando finalmente bussa.

«Ciao, vi ho portato due muffin caldi caldi. E il caffè alla vaniglia. Spero piaccia anche a te, Elettra.» Posa il vassoio sulla mia scrivania e il delizioso profumo dei muffin riempie l’ambiente, facendo brontolare appena il mio stomaco. Guardo l’orologio, sono le undici e cinque. Effettivamente, ho un po’ di fame. Lily scatta in piedi e raggiunge Danny che mi sta porgendo il bicchierone di caffè.

«Grazie tesoro.» Gli dice, passandogli una mano sul braccio. Mhmm.

«Sì, mi piace, grazie del pensiero.» Sarò stata meno calorosa di Lily, perché al mio ringraziamento Danny annuisce e si defila senza aggiungere altro. Beh, che si aspettava? Un abbraccio? Non sono abituata a queste cose in un ambiente lavorativo.

«È questa la “pausa caffè”?» Domando a Lily, che sta raccogliendo una briciola dalla scrivania con il polpastrello. Lei annuisce.

«Sì, di solito quando abbiamo tempo scendiamo a coppie da Starbucks, ma oggi siamo tutti un po’ impegnati quindi scende uno solo, oppure ce li facciamo salire da Rachel.» Spiega Lily. Wow, la pausa caffè addirittura fuori dall’edificio era una cosa che mi sarei sognata al vecchio studio a Londra.

«Rachel è la barista. È molto simpatica. Se attacchi a parlare con lei non la finisci più.» Ridacchia. Quand’è che le ho chiesto chi fosse Rachel? Devo essermi persa qualche passaggio.

«Mh-mh.» Mormoro, sperando di chiudere il discorso.

«E per di più-»

«Lily, per favore. Ho altre trecento pagine fitte di tante belle paroline russe scritte in Calibri dieci, tu sai cosa significa? Che finirò per la notte dei tempi, invece Wayne vuole il manoscritto tradotto per la fine della settimana.» Affermo, atona. Lei annuisce e si porta due dita alla fronte. «Ricevuto, capo.»

«Bene. Quando avrò finito con le prime dieci pagine, tu controllerai che non ci siano errori di sintassi. Poi proseguirai con le successive dieci, e così via. Non dovrebbero esserci errori, ma può sempre sfuggirmi qualcosa, specialmente se sono sottoposta ad interruzioni continue. Ergo, più parli, più lavoro avrai da fare. Capisci il nesso tra le due cose?» Ribadisco, sperando di non essere stata troppo brusca.

«Ahhh, quindi lo fai per il mio bene?» Ribatte lei sarcastica, alzando le sopracciglia. Io sorrido. Sì, sarà un’ottima collaboratrice.

 

***

 

«Pausa pranzo!» Sento un click e vedo Lily alzarsi di scatto. Guardo l’orologio. Le 13:30 in punto. Quando vede che non mi alzo, si ferma e aggrotta la fronte.

«Non vieni?»

«Ehm... no, io sono arrivata un po’ in ritardo stamattina, dovrei restare altri dieci minuti...»

«Avanti, alzati!» Fa il giro della scrivania e mi tira per un braccio, costringendomi ad alzare il sedere dalla sedia.

«Va bene, va bene, almeno fammi salvare!» Clicco sull’icona del floppy e chiudo.

Quando usciamo dalla stanza, vedo gente andare e venire per il corridoio, e il silenzio che c’era fino a poco fa è stato sostituito da uno di quei gradevoli brusii che trovi in una rimpatriata tra amici di vecchia data.

«Cosa vuoi per pranzo?» Mike compare nella mia visuale con un blocchetto in mano che ricorda quello dei camerieri. Lily mi ha spiegato che ordinano dei piatti pronti da una specie di trattoria vicina, sempre con la convenzione di cui gode la società. Devo informarmi se ci sono altri tipi di convenzioni, magari con qualche outlet della zona.

«Fanno un’ottima pasta al forno.» Comunica Alexandra. Strano, non si direbbe una buona forchetta tanto è magra.

«Vada per la pasta al forno allora.» Sorrido e Mike appunta celere sul suo blocchetto, poi passa a Tony che si è appena materializzato in mezzo al gruppetto.

«Dove mangiamo?» Domando a Clara, l’unica che non sta parlando con nessuno.

«Di solito al piano di sopra, nella sala riunioni. Oggi dovremmo mangiare ognuno alla sua postazione, per non perdere troppo tempo, ma siccome è il tuo primo pranzo qui faremo un’eccezione.» Chi ha parlato purtroppo non è Clara. È Orione. Perché deve sempre impicciarsi in cose che non gli riguardano e interrompermi sempre quando sto dicendo qualcosa?

Sbuffo, per palesare la mia smisurata gioia al suo intervento e mi concentro su quello che ha detto. Non poteva dire di peggio. L’istinto di sopravvivenza invade ogni mia cellula e sento davvero che potrei fuggire da un momento all’altro.

«Non è necessario, non serve l’iniziazione per la pausa pranzo, davvero.» Borbotto, terrorizzata all’idea di trovarmi al centro dell’attenzione. Ma a chi è che vengono queste idee?

«Non se ne parla, devi avere il migliore benvenuto possibile.» Un’altra voce. È Thomas, che mi posa una mano sulla spalla e mi rivolge un bel sorriso. Sono un po’ circospetta quando si tratta di lui, dopo quello che mi ha detto Nancy, ma in fondo in fondo il mio istinto mi suggerisce che non c’è niente da temere. Però la mano sulla spalla no, dai… mi conosci da mezza giornata. Sono troppo calorosi qui dentro.

 

«Credevo di essere capitata in una casa editrice, e invece mi ritrovo in una puntata di Friends!» Biascico, al telefono con Eva. L’ho chiamata per disperazione, dopo essermi rintanata nell’ufficio.

Eva scoppia a ridere. «Dai, invece di essere contenta che l’ambiente non è rigido e pesante... sei sempre la solita lamentosa.»

«Non è vero. È che non sono compatibili col mio carattere, io sono...»

«Rigida e pesante?»

«No, sono poco aperta alle relazioni sociali con gli sconosciuti.»

«E io che ho detto?»

Sbuffo. In lontananza sento qualcuno che dice “È arrivato il pranzo!” e mi trovo costretta ad interrompere la mia adorabile conversazione con la mia adorabile sorellina, con la promessa di risentirci presto.

Va bene, andiamo in guerra.

Cioè, a pranzo.

 

In sala riunioni c’è un odore pazzesco di cibo che ha tutta l’aria di essere ottimo. Vedo che Lily mi ha preso il posto accanto a lei. Ti prego, fa’ che non capiti vicino a Chris-

Ah-ha. Signora Sfiga, ma che problema hai con me? No, perché sono disposta a parlarne. Gentilmente ed educatamente. Metto via la spranga, promesso.

«I posti sono... ehm, assegnati?» Sussurro a Lily. Dici di no. Dici di no.

«Sì. Almeno, non ufficialmente, ma ufficiosamente ci sediamo così da secoli. Perché, non ti piace questo posto?» Lily non sembra percepire il mio disagio. Intanto posso quasi sentire lo sguardo di Christian che mi brucia la nuca.

«No, non... non importa. Chiedevo.» Tuffo la forchetta nella pasta e mugolo di piacere quando assaggio questa delizia.

«È davvero buona.» Mormoro, più a me stessa che agli altri.

«Allora, Elettra...» È Tony a parlare. No, no, non dirlo... «Raccontaci un po’ di te.»

Ora mi alzo e mi strappo i capelli.

Faccio una risata più falsa del seno di Victoria Beckham e scuoto la testa.

«No, dai... non mi sembra il caso.» Asserisco, intimandogli con uno sguardo da killer di chiudere l’argomento.

«Ma come, abbiamo organizzato questa bella tavolata solo per te e tu ti neghi in questo modo?» Tony, non farti odiare più del necessario, ti prego. Guardo Nancy che mi rivolge un’occhiata comprensiva e Alexandra che sorride solidale.

«Elettra non ama parlare di sé. È un tipo riservato.» Un commento del genere me lo sarei aspettato da Lily, non da Orione. Quest’uomo non fa altro che sorprendermi. Il più delle volte negativamente parlando, s’intende.

Al suo commento tutti si zittiscono e Tony desiste dal coinvolgermi nella conversazione. Sembra che abbia parlato Dio. Wow.

«Beh, direi che qualsiasi cosa abbia fatto per farti arrabbiare stamattina, sta facendo il possibile per farsi perdonare.» Bisbiglia Lily, complice. Io le lancio un’occhiata inceneritrice, sperando che Christian non abbia sentito. Quando torno a guardare il mio piatto, con la coda dell’occhio vedo che sta sorridendo.

Lo ucciderò.

Non subito, per non destare sospetti. Ma lo ucciderò.

 

 

~ Note

Ta-daaaaaaaan! Christian Wayne è rientrato prepotentemente nella storia sgomitando con le sue braccia muscolose. Non ho potuto fare molto per trattenerlo.

Il redattore! Ve lo aspettavate? Sì, vero? Sono banale come una patata lessa.

Insomma, qui tutti credevano che non l’avrebbe più rivisto, e che sarebbe stata destinata a una vita da zitella scorbutica. E INVECE! L’ha rivisto ma diverrà lo stesso una zitella scorbutica, tranquilli. Povero Christian. *fa pat pat sulla sua spalla, pensando a cosa dovrà sopportare*

Grazie mille, duemila, ventimila per tutto l’affetto che dimostrate a me, alla storia, ai personaggi. Davvero, ho i lettori e le lettrici più belli del mondo!

Un paio di note, giusto per: la citazione che trovate all’inizio della storia è presa da Wikipedia. Cercando qualcosa sul nome della svitata che fa da protagonista della storia, ho scoperto la storia delle Pleiadi, tra cui c’era, appunto una chiamata ‘Elettra’.

La frase “L’ottimismo è l’inculata della vita” è una citazione di un mio collega di lavoro. Ciao, Camillo.

Detto ciò, ciò detto, vi bacio affettuosamente e vi lascio col solito piccolo spoiler. Nel prossimo capitolo conosceremo anche un nuovo personaggio:

 

«E poi mi piace pensare che io sia l’unico qui a cui tu abbia raccontato qualcosa di te.» Appunto, cosa vi dicevo? Io queste cose non le voglio sapere.

 

Un abbraccio,

Sara.

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Capitolo 7
*** Capitolo sette - Slamming doors ***


Blend



Quando arrivo alla Macmillan Publishers, il giorno dopo, resto sorpresa nel vedere che la stanza di Christian non è più “trasparente”. La porta vetrata non c’è più, al suo posto c’è una porta in legno chiaro intonata alle pareti circostanti. Che cosa strana. Sembra quasi che voglia nascondere qualcosa, in quell’ufficio. Oppure avrò incrinato il vetro quando ho sbattuto la porta? Oddio. Magari si è fatto male qualcuno. Spero di no, non ho tempo per scusarmi. Devo tornare al mio manoscritto. Dattiloscritto, precisamente, ma è il concetto è quello.

«Buongiorno, buongiorno, buongiorno, buongiorno.» Dico un buongiorno per tutti i colleghi che incrocio mentre mi dirigo nel mio ufficio. Non ho intenzione di fermarmi a parlare con nessuno. Sicuramente loro hanno meno lavoro di me, e non posso permettermi distrazioni.

«Buongiorno.» Oh, Martin. È fermo davanti alla porta del mio ufficio e sta leggendo degli appunti.

«Buongiorno. Come va?» Domando, cordiale. Solo perché lui è il capo dei capi.

«Abbastanza bene, grazie. Tu come stai? Ti stai trovando bene? Tony ti importuna?» Sorride e io scuoto la testa. Sono tentata dal dire “No, non Tony”, e invece mi limito a dargli una risposta negativa secca. «Mi sto trovando bene, comunque, sì.» Aggiungo.

«Christian mi ha detto che stai lavorando bene.» Cosa? Davvero?

Alla mia faccia perplessa lui si spiega meglio: «Gli ho detto di dare un’occhiata al tuo lavoro e stamattina è arrivato il responso positivo. Se tutto va bene e questa settimana riesci a finire la traduzione, tra circa un mese faremo uscire il libro.»

«Ottimo.» Annuisco. Lui mi dà una pacca sulla spalla e prosegue il suo giro, dicendo di andare a tirare le orecchie a Danny o qualcosa del genere.

E così, Christian ha letto parte della mia traduzione? Quando? E perché io non ne sapevo nulla? Ah, come mi irrita il fatto che lui abbia libero accesso alle mie cose. Ora mi sento osservata.

Quando entro nella mia stanza la prima cosa che noto è la sedia vuota di Lily. Possibile che non sia ancora arrivata? Effettivamente non c’è nessuna traccia di lei. Strano. Spero che non faccia troppo tardi, perché mi è assolutamente indispensabile in questo momento.

Sbuffo, e mentre aspetto che il computer si avvii mi guardo le unghie. Devo togliere questo smalto, ormai sono cresciute di due o tre millimetri. Da “rigida e pesante” quale sono non posso mica lasciarlo così. Eh.

Controllo la mia casella di posta elettronica e nel frattempo apro il file del romanzo russo. Devo dire che tutto sommato, finora la storia non è così malvagia. Anche in Russia sanno scrivere.

Lo squillo improvviso del telefono sulla scrivania mi fa saltare sulla sedia. Lo guardo come se al suo posto ci fosse un alieno che mi fissa con un occhio solo e la bava alla bocca. Non ha mai squillato questo telefono, finora. Al quarto squillo, decido di alzare la cornetta.

«Sì?» Dovevo rispondere “Pronto?”

«Cerca di rispondere subito, la prossima volta. Pensavo fossi morta.» Ma ciao anche a te, Orione.

«Ma se non mi hai nemmeno vista entrare. Come facevi a sapere che ero qui?»

«Me l’ha detto Alexandra.» Certo. Ora quella fa anche rapporto sulle presenze?

«Cosa c’è?» Gli chiedo, sperando che non si tratti di un qualche suo scherzo idiota per farmi perdere tempo. TEMPO NON NE HO, come ve lo devo dire?!

«Vieni un momento nel mio ufficio.» E attacca.

Oh Signore Onnipotente.

Sbuffo circa quarantacinque volte nel tragitto dal mio al suo ufficio, e quando apro la porta e lo vedo seduto alla scrivania resto per un istante senza fiato, sentendo il mio cuore accelerare la sua corsa senza il mio permesso.

«Così si usa qui? Vi chiamate per dirvi “vieni nel mio ufficio”?» Chiedo, seccata.

«Beh, il telefono interno serve anche a questo, sì.» Telefono interno? Questa devo farmela spiegare da Lily.

«Mh. Ti serve qualcosa?» Cerco di esprimere la mia scocciatura il più possibile, tra tono della voce ed espressione facciale.

«Volevo darti questo.» Mi allunga un fascicolo di fogli tenuto insieme da un dorsetto blu. «Sono alcune cose che devi sapere per iniziare un’eventuale collaborazione sulla correzione delle bozze.» Quando sento queste parole, mi illumino d’immenso.

«Quando hai tempo dacci un’occhiata, e se hai dubbi me lo dici. Naturalmente il lavoro di traduzione ha la priorità, questa settimana.» Annuisco, questo era ovvio.

«Perché mi hai fatto venire fin qui per una cosa che potevi darmi stasera, prima di andarcene?» Non ho potuto fare a meno di chiederglielo. I suoi occhi mi sorridono.

«Perché non mi hai salutato, quando sei arrivata.»

Inspira, espira. «Sono arrivata da cinque minuti, Christian.»

«E sei passata di qui senza salutare il tuo capo.» Continua lui, imperterrito. Si porta la penna alle labbra e ne passa un’estremità su tutto il labbro superiore. Vuole distrarmi dalle stronzate che sta dicendo?

«Lo sai che mi stai facendo perdere un sacco di tempo, capo?» Mi lamento, ironizzando vagamente sull’ultima parola.

«Confido nelle tue capacità.» Finalmente ha posato quella penna. «Ma, oltre ad una traduttrice capace, vorrei una traduttrice educata.»

«Mi stai irritando in una maniera che pochi riescono a raggiungere, sai?» In risposta ricevo un bellissimo sorriso canzonatorio. Ah, se lo ucciderò. A sangue freddo.

«Come mai hai cambiato la porta?» Gli chiedo, curiosa.

«Nel caso ti venisse voglia di sbatterla ancora. Almeno non dobbiamo preoccuparci che ti cada addosso.» Violet si sta sciogliendo.

Seh, Violet.

«Hai intenzione di farmi arrabbiare spesso?» Alzo un sopracciglio e lui ride. Anch’io sono divertita, in fondo. Ma davvero in fondo.

«Io non faccio nulla con l’intenzione di farti arrabbiare, sei tu che sei troppo suscettibile.» Asserisce, alzandosi dalla sedia. Si toglie la giacca, la appende all’attaccapanni e inizia ad arrotolarsi le maniche della camicia fino al gomito. Sarà meglio che vada prima che…

Gli salti addosso? O inizi a sbavare?

La mia vocina interiore è ancora peggio di mia sorella.

«E allora ti conviene adeguarti al mio caratteraccio, o ne cambierai molte di porte.» Replico, mentre mi avvio fuori col mio bel fascicolo tra le mani.

Qualcosa nella mia testa mi fa rallentare fino a fermarmi. Mi volto e lo trovo a pochi passi da me. Guardo il pavimento. Sono quasi sicura che mi verrà un attacco di orticaria per quello che sto per dire.

«Comunque, ehm, grazie... per ieri, nella pausa.» Dai, almeno ho resistito quasi ventiquattrore. Glielo dovevo un ringraziamento. Mi ha praticamente salvato da un interrogatorio in piena regola.

«Figurati. Tony sa essere molto invadente, è fatto così. È la persona più esuberante che conosca.»

«Non so proprio perché tu l’abbia fatto, ma insomma...» A volte me le vado a cercare, lo ammetto. Non potevo semplicemente andarmene?

«So come ci si sente quando qualcuno ti costringe a fare qualcosa controvoglia.» Alza le spalle. «E poi mi piace pensare che io sia l’unico qui a cui tu abbia raccontato qualcosa di te.» Appunto, cosa vi dicevo? Io queste cose non le voglio sapere.

«Sai veramente poco di me, non illuderti.» Dico, ed esco da quella stanza, troppo opprimente per i miei gusti.

 

«Ehi, sei arrivata.» Noto con un sospiro di sollievo quando vedo Lily che sta sistemando delle carte sulla sua scrivania.

«Eh sì, ho avuto un contrattempo ma ce l’ho fatta. Dov’eri?»

«Da Wayne, mi ha dato degli appunti.» Alzo il fascicolo e lei annuisce. «Ah, mi spieghi come funziona questa cosa del telefono interno?» Indico l’apparecchio sulla scrivania.

«È come quando alzi la cornetta a casa tua e qualcun altro lo fa da un altro telefono in un’altra stanza. Riuscite a sentirvi, no? Qui sarebbe un po’ complicato così, andare a “tentativi”, per cui ognuno di noi ha un interno, corrispondente a un numero che tu digiti e automaticamente ti metti in contatto con chi vuoi. La lista degli interni dev’essere da qualche parte sulla scrivania. Te la ristampo, aspetta.» Digita velocemente qualcosa sul computer e due secondi dopo la stampante sputa fuori un foglio scritto per metà. Lo prendo e vedo una piccola tabella con tutti i nostri nomi. Prima di ogni nome c’è una casellina con un numero diverso per ognuno, preceduto dalla lettera R. Io sono R 48. Christian è R 44. Ma questo cosa c’entra? Nulla, l’ho detto tanto per dire.

«Io l’ho attaccato al monitor, guarda.» In effetti sul lato sinistro del suo monitor c’è un piccolo foglio attaccato col nastro adesivo a cui non avevo fatto caso. Faccio lo stesso col mio elenco, dopo averlo ritagliato, e sorrido soddisfatta al risultato finale. Bella questa cosa. Sembra di aver scoperto l’acqua calda, ma tant’è.

 

***

 

«Ho bisogno di staccare, sto per vomitare.» Mi alzo di scatto dalla sedia e prendo la pashmina dall’appendiabiti. È mezzogiorno, il che vuol dire che sono quattro ore che lavoro ininterrottamente e per di più oggi non è venuto nessuno a portarci i muffin e il caffè, quindi vorrà dire che ci andrò da sola. Se non metto qualcosa sotto i denti entro cinque minuti, potrei davvero svenire.

Mi butto a peso morto sullo sgabello davanti al bancone di Starbucks e rivolgo un’occhiata implorante alla ragazza che sta servendo i due clienti accanto a me. Quando arriva il mio turno, le chiedo un super frullato e due muffin e aspetto impaziente.

«Hai una faccia distrutta.» Mi dice comprensiva dopo avermi porto i due muffin.

«È tutta la mattina che leggo e traduco frasi in russo, ho pensato di scendere a mangiare qualcosa prima che mi venisse una crisi ipoglicemica.» Spiego con la bocca piena. Ahhh, paradiso.

«Lavori alla MP?» Ci metto qualche secondo a capire di cosa sta parlando, poi annuisco.

«Sì, da qualche giorno.» Ingoio e allungo la mano. «Elettra.»

«Rachel.» Ah, è lei la famosa Rachel che parla tanto. In effetti, ha tutta l’aria di essere una brava ragazza e ti fa venire voglia di parlare.

«Come ti trovi?» Mi domanda mentre pulisce il bancone e mi porge il frullato.

«Bene. Sono tutti abbastanza simpatici, c’è un’atmosfera diversa da quella che mi aspettavo.» Confesso.

«Ed è una cosa negativa o positiva?»

«Positiva, suppongo. Sono tutti molto “amiconi”, o almeno per quel che ho visto finora. Non c’è il capo che guarda dall’alto in basso i suoi dipendenti, non ci sono tanti fronzoli, è tutto molto spontaneo. Forse troppo però, a volte.» Spero di essermi spiegata, altrimenti pazienza.

Rachel annuisce. «Capisco cosa intendi. Beh, questo però può essere un vantaggio quando ti trovi a lavorare con uomini di quel... mmm, calibro.»

«Qualcosa mi dice che stavi dicendo qualcos’altro al posto di ‘calibro’.» Le scocco un’occhiata indagatrice e lei arrossisce.

«Stavo dicendo ‘fascino’, ma non mi sembrava molto appropriato.» Ecco. Sono sicura che anche lei sbava per Christian.

“Anche” lei?

Come Alexandra. E Clara, indubbiamente.

Ehm, bullsh- ehm ehm.

«Non sei d’accordo?» Mi imbecca, sorridendo.

«Su cosa? Sulle relazioni di quel tipo sul lavoro? No, non direi.» Replico, estremamente contrariata.

«Veramente parlavo semplicemente della figaggine di alcuni tuoi colleghi.» Ribatte Rachel, rivolgendomi un’occhiata sospettosa. Mi nascondo dietro al frullato, fingendo indifferenza. Ho dato l’impressione di essere un tantino sulla difensiva, vero?

«Mh, sì. Anch’io.» Bluffo, e frugo nella borsa alla ricerca del badge. Lei mi dice che non c’è bisogno e quindi ne approfitto per dileguarmi.

Brava, scappa sempre. Prima o poi non ci sarà un posto nel quale rifugiarsi, sai? Potresti ritrovarti con le spalle al muro.

Beh, so tirare calci ben assestati.

 

***

 

Sono di ritorno in ufficio dopo circa dieci minuti, e sembra che nessuno faccia caso al mio rientro. Tranne, chiaramente, Christian, che si trova a uscire dall’ascensore proprio quando io sto per entrare nella mia stanza.

«Sei uscita?» Indica la borsa. Io, mio malgrado, mi ritrovo ad annuire e a giustificarmi.

«Dopo quattro ore e cinque miliardi di parole russe avevo bisogno di zuccheri.» Spero di aver recuperato un po’ di colorito e di non avere più la faccia distrutta, come ha detto Rachel.

«Io ti porto la colazione in camera e tu, invece? Pensi solo a te. Poi dicono che gli uomini sono stronzi.» Scuote la testa. Ma perché fa così? Sembra davvero amareggiato.

«Anche le donne lo sono, fidati.» Rispondo, e mi costringo a tornare alla mia scrivania.

Lily, che naturalmente ha seguito il dialogo dalla porta vetrata, oltretutto aperta, mi sorride sorniona. Ora immagino di dover dare qualche spiegazione.

«Colazione in camera?» Chiede, quando chiudo la porta e calo la veneziana. «Non vorrei essere invadente o indiscreta, ma questa devi davvero spiegarmela o parto coi film mentali. Per poi andare da lui a chiedere conferma.» Annuisce, seria.

La guardo sconcertata. «Non dirai sul serio.»

Lei si stringe nelle spalle. «È da tanto che non c’è un po’ di sano gossip, qui! Né qualcuno con cui farlo.»

«Mi fa piacere che tu mi abbia “arruolato” come tua compagna di gossip, ma non so se è il caso di parlartene, non prenderla a male...»

«Wow, è talmente intricata la cosa?» La vedo sempre più interessata. Oh, e che diamine.

«No che non lo è, in realtà sarai molto delusa... non c’è niente di appetitoso in quello che vuoi sentirti dire.» Spero che questo basti a farla desistere, ma ho la sensazione che niente ci riuscirebbe, per cui sospiro e le racconto come sono andati i fatti.

«Caspita.» Commenta lei alla fine, assorta in chissà quali pensieri. «Hai dormito con Duke.»

Alzo gli occhi al cielo. «Ma hai sentito quello che ti ho detto?» Possibile che abbia carpito solo la parte in cui abbiamo dormito insieme? Questa è un’altra che ha i popcorn al posto della materia grigia. Popcorn caramellati, però.

«E dimmi, russa? No, vero? Ha la faccia cucciolosa quando si sveglia? Secondo me si sveglia come un modello pronto per una sfilata, ci scommetto la testa.» Mi sta totalmente ignorando.

«Lily, ti prego. Se anche russasse non verrei certo a dirtelo.» Ma cosa le interessa, poi? Se uno russa o meno saranno anche affari suoi!

«No, RUSSA?! Nooo, mi crolla un mito così!» A momenti si straccia le guance. Sbuffo e scuoto la testa.

«No, non russa, contenta? Sì, ha la faccia cucciolosa e allo stesso tempo pronta per una sfilata, okay? Soddisfatta? Ora torna a lavorare.» Le ordino, torva. Basta dettagli sulla vita privata di Christian. E che cavolo, un po’ di privacy.

«Come compagna di gossip fai schifo, sappilo.» Borbotta lei in risposta, accompagnando la frase con una linguaccia che ricambio prontamente. Poi, con un sorriso, finalmente ci rimettiamo al lavoro.

 

***

 

«Deo Gratias, sono le sei e mezza.» Emetto un sospiro liberatorio e mi preparo a chiudere tutto. Questa lingua è davvero stancante. Se avessi potuto scegliere, avrei preferito qualcosa in francese o in spagnolo, per iniziare. Vediamo il lato positivo, almeno così posso dimostrare di che pasta sono fatta.

«Te la svigni, Duchess?» Mi blocco in mezzo al corridoio quando sento la voce di Thomas e non so per quale sciocca ragione intuisco che ce l’ha con me. Mi volto e incontro il suo sorriso.

«Ah, però si gira.» Ridacchia Thomas. «Presumo che qualcuno ti abbia spiegato il soprannome di Chris.»

«In effetti, sì.» Confermo, sollevata. Per un brevissimo, infinitesimale istante ho temuto che Thomas mi avesse chiamata così perché a conoscenza del mio “precedente” con Christian. In tal caso, il soprannome non avrebbe riguardato John Wayne, ma Christian stesso.

Sollevata sì, ma noto anche una briciola di delusione, o sbaglio?

Assolutamente no.

Dio punisce i bugiardi, lo sai?

Mpf. Anche gli impiccioni.

«Comunque sì, sto andando via. È un problema? C’è qualcosa che devo fare?»

«No, Duchess, vai pure.» Thomas mi fa l’occhiolino e io vado via, sentendomi tutti gli occhi addosso.

 

***

 

Cosa c’è di più straordinario di una bella dormita?

Mi stiracchio sul letto cigolante, allargando braccia e gambe, totalmente rilassata. Fuori è già buio. Guardo l’orologio: cavolo, ho dormito tre ore! Sono le nove passate.

Con uno sforzo immane mi alzo e ciondolo in cucina, mettendo a riscaldare la piastra sul fornello. Carne e insalata, massì, mangiamo leggero stasera.

Mentre aspetto che la carne si raffreddi, faccio zapping alla tv, con la pigrizia di un bradipo. Che noia, ragazzi. Potrei chiamare Anne ma ho paura di beccarla in un momento “intimo” con Cooper… meglio risparmiarci quest’imbarazzo. In Italia invece saranno tipo le tre di notte, quindi non posso chiamare nemmeno Eva.

Pazienza. Morirò da sola in questo appartamento.

 

Alle dieci in punto, qualcosa sotto di me si muove.

Mhmm, magari detta così è fraintendibile.

Alle dieci in punto, sento dei rumori al piano di sotto. O a quello sotto ancora, non saprei. Sento della musica, e un gran vociare. Annoiata, infilo il trench e decido di andare a dare un’occhiata.

Oh mio Dio. Sono qui da una settimana e non mi sono accorta che c’è un locale al piano terra, proprio accanto alla palazzina in cui abito?

“The Vagabond”, leggo. Sarà un pub? A giudicare dall’insegna lampeggiante che ritrae una donna in reggiseno non credo. Ma mi sento ispirata, e siccome non ho nulla da fare e ormai mi è passato tutto il sonno, mi ritrovo ad entrare.

Lo spettacolo che mi si para davanti è qualcosa che in Italia non avevo mai visto: l’ambiente è scuro, ci sono tante luci fosforescenti che permettono a malapena di vedere gli interni del locale. Da quel che riesco a percepire, sono tutti nei toni del rosa acceso e del viola. In particolare, le pareti e i pilastri sono rosa, mentre il soffitto e il pavimento sono viola. A illuminare, per modo di dire, il locale, ci sono dei neon che proiettano una luce azzurra; quella che fa più luce, però, è la passerella che attraversa tutto il locale, seguendo una linea irregolare. I bordi sono illuminati di un bianco fosforescente, che cambia colore ogni quindici secondi circa, così come la specie di pavimento di cui è rivestito. Di tanto in tanto, vedo dei pali al centro della passerella.

Ah, quindi è un night club. Bene.

Sparsi qui e là ci sono dei divani, in un tessuto zebrato anch’esso semi-fosforescente, e davanti ad essi dei tavolini a forma di parallelepipedo, indovinate di che colore? Rosa pallido, ma rigorosamente fosforescente. In fondo al locale vedo il bancone del bar, con numerosi sgabelli posizionati davanti, quasi tutti occupati. Il locale si sta riempiendo minuto dopo minuto.

Non so come, mi ritrovo al bancone.

«Cosa ti faccio?» Mi chiede svelta una delle ragazze, mentre prepara circa trentamila cocktail in mezzo secondo. Sembra di stare al Coyote Ugly.

«Ehm…» Non ho un dollaro con me, e in più non amo molto i cocktail, quindi mi sa che dovrei…

«Due Martini, grazie.» Mi volto verso il tizio che si è appena seduto accanto a me. È un uomo sulla trentina, o qualcosa in più, dai capelli castani e lo sguardo profondo. Mi sta davvero offrendo da bere? Oh mio Dio. No, no, non ci siamo, no.

«No, io… stavo per andarmene, cioè…» Indico l’uscita col pollice e indietreggio fino a urtare qualcuno dietro di me. Balbetto una scusa e il tizio richiama la mia attenzione.

«Ti prego, lasciati offrire un drink. Un drink di benvenuto nel palazzo. Non ho avuto occasione di prepararti una torta.» Sorride, e indica lo sgabello accanto al suo.

Cosa?

«Tu abiti nel mio palazzo?» Aggrotto la fronte. Credevo ci fosse solo quella studentessa-nerd sul mio pianerottolo.

«Sì, ho i due appartamenti al piano terra.» Mi porge il Martini che la barista ci ha messo davanti in un lampo. «Piacere, io sono Ethan.»

Stringo la sua mano, la presa è forte. «Elettra, piacere mio.»

Noto che ha la barba brizzolata in qualche punto e il labbro superiore leggermente più grande di quello inferiore. Tutto sommato, è un uomo affascinante.

Sorseggio il mio Martini sperando che mi tolga gli occhi di dosso. Non mi piace quando la gente mi fissa. Mi distraggo per qualche secondo quando delle ragazze più svestite che altro fanno la loro comparsa sulla passerella e iniziano ad avvinghiarsi ai pali.

«Iniziano presto, qui.» Indico le ragazze con un cenno del capo. Saranno appena le dieci e mezza.

«Fino alle undici fanno solo qualche movimento per intrattenere i clienti, più che altro si fanno vedere camminando avanti e indietro per la passerella. Dalle undici in poi iniziano a ballare sul serio, e a spogliarsi.»

«Frequentatore assiduo?» Lo imbecco, posando il bicchiere vuoto sul bancone. Lui alza le spalle.

«Abito qui da sempre, quando non ho nulla da fare vengo qui per passare il tempo. Ormai ho imparato i tempi.» Mi fa l’occhiolino e ordina un altro Martini. Io scuoto la testa, non ne voglio un altro.

«Scusami, abiti qui hai detto?» La ragazza che ci sta servendo si intromette nella conversazione. Stava origliando? Mio malgrado, annuisco.

«Non è che ti andrebbe un impiego part-time? Ci serve una ragazza che serva ai divanetti. Ti paghiamo a serata, puoi venire quando ti fa più comodo.» Cosa? Pensa davvero che io possa lavorare in un posto del genere?

«È tranquillo qui, è uno dei migliori night club di Miami.» Mi rassicura Ethan.

«Ma…» Non so che dire. La proposta si fa strada nella mia mente, diventando a poco a poco più accettabile.

«Non ti sto dicendo di ballare la lap dance, devi semplicemente portare i drink ai tavoli. Visto che abiti vicino non ti sarebbe neanche troppo scomodo. Poi, fai come vuoi.» Prosegue la ragazza.

«Sei la proprietaria?» Le domando.

«La figlia del proprietario. Controllo io le assunzioni e le paghe orarie. Prenderesti, su per giù, diciannove dollari l’ora. Se lavori una serata intera, dalle dieci alle tre sono cinque ore.»

«Quasi cento dollari.» Cavolo.

«Più le eventuali mance, tutte tue.» Aggiunge, mentre pulisce un bicchiere.

Guardo Ethan, come a chiedergli un consiglio. Lui sembra capirlo e mi sorride. «Secondo me, conviene. Non è un impiego fisso e puoi scegliere tu quando venire, se ho capito bene. Per arrotondare mi sembra ottimo.» La figlia del proprietario conferma.

«Ci penso.» Le dico, senza aggiungere altro. «Ora vado, domani devo svegliarmi presto.» Mi aspetta l’ultima manche di traduzione del libro di quella maledettissima Lena Ivanov. Saluto Ethan con una stretta di mano e mi defilo, rifugiandomi subito nel portone del palazzo.

Certo che, cento dollari più le mance, non è una cosa da sottovalutare. Per una sera soltanto. Una notte, in realtà. Se non ho altro da fare, potrei farci un pensierino sul serio.

Sbadiglio, mentre mi spoglio e mi metto a letto.

Sì, ci penserò.

 

 

~ Note

Diamo il benvenuto anche a Ethan, forza! *partono gli applausi registrati*

E al Vagabond, pure, che avrà un ruolo particolare nella storia. *partono i fischi*

Prima che mi spoileri da sola, passiamo a commentare il capitolo, va. Cosa dire? I “punzecchiamenti” tra i due protagonisti continuano, quei due sono due pietre che si sfregano a vicenda. Scoppierà il fuocherello? O sarà solo Elettra a dare fuoco al codino di Christian? MAH.

Intanto vi lascio un indizio nello spoiler, e vi ricordo che per altre anticipazioni, domande, o qualsiasi altra cosa, c’è il gruppo su Facebook:

 

Tutto il mio corpo formicola in risposta ai movimenti delle sue mani, e ogni tanto mi sento mugolare qualcosa. Senza rendermene conto chiudo gli occhi.

 

P.S.: A proposito di gruppo su Facebook, tra l’altro, dovevo rendere pubblico un recente sclero/trovata geniale della mia Cos (Cocchi su EFP, amatela tutti). Screenshot qui.

Questo è quello che facciamo nel gruppo, sì, tra le altre cose. Siamo adorabili.

 

Un abbraccio emozionato,

Sara.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo otto - What the hell are you doing? ***


Blend



“La nostra paura del peggio è più forte del nostro desiderio del meglio”

Elio Vittorini

 

 

#Buongiorno popolo di Miami! Sono le sette in punto e gli uccellini cinguettano allegramente! No, non è vero, piove che Dio la manda#

Insomma, come svegliarsi piacevolmente con la radio di sottofondo.

Con l’occhio destro semiaperto, guardo fuori dalla finestra. Cavolo, sapevo che settembre è abbastanza piovoso a Miami, ma sta venendo giù proprio un diluvio! Già uno ha tanta voglia di andare al lavoro, eh.

«Mmmhhhh…» Brontolo rigirandomi nel letto. Sbuffo sonoramente e rimpiango di non avere mia sorella che mi sveglia con un caffè appena fatto.

Basta, Elettra, alzati! Hai un sacco di lavoro da fare oggi!

Il training autogeno non è mai stato il tuo forte, diciamocelo.

In effetti.

Qualche effetto però sembra sortire, perché mi ritrovo giù dal letto. Seduta, è vero, ma è già un passo avanti. Da quella posizione non tanto scomoda guardo l’armadio, pensando a cosa indossare. Non ce la farò mai.

 

***

 

Col mio fido k-way azzurro sfido la pioggia e raggiungo annaspando la stazione della metro. Sono già stanca. Speriamo che non mi si appiccichino tutti i capelli in testa.

Passano le tre fermate di routine, poi tocca alla mia. Scendo controvoglia, alzando il cappuccio del k-way. Sembro Puffetta. La cosa che mi consola è che ce ne sono di molto peggiori, in giro. Tipo quello della signora che sta correndo alla mia sinistra, giallo a pois arancioni. Orribile. Sembra una papera col morbillo.

«Scusi, può tenere aperto?» Urlo a una donna che sta entrando nell’edificio. Lei mi fa la cortesia di aspettarmi e io la ringrazio, bagnata fradicia. Pessima idea non portarsi un ombrello. Devo assolutamente comprarlo stasera.

Sono le nove in punto e pare ci siano soltanto Alexandra e Nancy.

«Tesoro, togliti questo coso prima che ti venga una bronchite!» Nancy accorre in mio aiuto e mi aiuta a sfilare il k-way.

«Grazie. Dovevo portarmi una tenda da campeggio, anzi, da neve. Che tempaccio!» Commento rattristata guardando il cielo grigio.

«Mi sa che dovrai farci l’abitudine, qui è spesso così. D’altronde però queste giornate orribili si alternano a giornate soleggiate e caldissime, anche in pieno inverno. C’è chi va a fare surf a dicembre, vengono perfino in vacanza in quel periodo. Vacanza al mare, intendo.» Specifica Alexandra. Questo lo sapevo, ed è una cosa che mi è subito piaciuta di Miami. Prima che conoscessi i suoi temporali, però.

«Siete sole?» Domando, prima di rintanarmi in ufficio per non uscirne mai più fino a quando l’ultimo punto e l’ultima virgola non saranno stati tradotti.

«No, c’è Duke. E Thomas, ma è impegnato con alcuni agenti letterari di sopra.» Risponde Alexandra. Annuisco e mi avvio nel corridoio. Quando passo davanti alla porta dello studio di Christian, mi vengono in mente le sue parole: “Oltre ad una traduttrice capace, vorrei una traduttrice educata”, e siccome oggi mi sento buona, decido di bussare.

«Avanti.»

Apro la porta ed entro, lasciandola socchiusa. Christian distoglie lo sguardo dal monitor del computer e mi rivolge un sorriso.

«Sembri un pulcino bagnato.» Si alza e mi viene incontro. Che ha intenzione di fare?

«Sono un pulcino bagnato.» Bofonchio, vagamente offesa. Come si permette di darmi del pulcino bagnato? Prima che possa replicare qualcosa di meglio – ho ancora il cervello annacquato – Christian mi abbraccia e inizia a sfregare la sua mano contro la mia schiena, nel tentativo di riscaldarmi.

«Beh? Sei venuta a mani vuote? Dov’è il mio caffè?» Si lamenta, parlando piano tra i miei capelli. Comincio ad avvertire un piacevole calore al centro della schiena.

«Non so se hai notato l’uragano Isaac, qui fuori.» Mugugno, totalmente rilassata tra le sue braccia. «E poi non sono la tua assistente, Christian.»

«Ah no? E io che pensavo fosse per quello che ti chiamano Duchess

Allontano la testa dal suo petto muscoloso e maledettamente accogliente e lo guardo accigliata. «Spero di no. Dovrebbe essere sempre per la storia di John Wayne. In caso contrario, dovrò ucciderti per far sì che lo sia. Desolata.» Gli sorrido e lui ricambia con una risata divertita.

Ci guardiamo per qualche istante, col sorriso sulle labbra. Le sue braccia circondano ancora il mio corpo.

ELETTRA, che diamine stai facendo?

«Ehm, sono asciutta adesso.» Mi libero dal suo abbraccio e rabbrividisco appena quando l’aria fredda mi avvolge al suo posto. «Vado. Ho altre ottanta pagine da tradurre.»

Senza aspettare la risposta, mi dirigo a passo svelto verso il mio ufficio. Nel frattempo, sono arrivati Danny e Christopher, anche loro praticamente zuppi.

«‘giorno Ele!» Mi saluta allegro Danny, e io ricambio con un gesto della mano e un sorriso tirato. Spero capisca che ho tanto da fare oggi.

Bella scusa il lavoro per evitare le relazioni sociali.

 

«Eeeetciùùùùù!» Questo è il saluto che ricevo qualche minuto dopo essermi seduta, da una Lily col viso paonazzo che gronda acqua da tutte le superfici possibilmente grondanti del suo corpo.

«Credo ti convenga andare in bagno ad asciugarti.» Le suggerisco, al secondo starnuto. «Ma non dovreste essere abituati almeno voi di Miami?» Sembrano tutti sconvolti per questo temporale, ma se come dice Nancy questi acquazzoni sono all’ordine del giorno, dovrebbero essere attrezzati, o no?

«Questo è il primo della stagione. E poi mi si è rotto l’ombrello in metro.» Si giustifica soffiandosi il naso. Istintivamente alzo la cornetta del telefono e digito un numero.

«Starbucks, buongiorno.»

«Ehm, salve, sono Elettra Wayne, Macmillan Publishers. Vorrei un tè caldo se è possibile. Non è necessario portarlo adesso...» Mormoro guardando la pioggia incessante. «magari appena spiove un pochino.»

«Certo signorina Wayne, mi dica il suo codice per favore.»

«Due quattro zero.»

«Perfetto, arriva tra poco. Arrivederci.» Ricambio il saluto e attacco.

Lily mi guarda sorpresa: «Hai ordinato un tè per me?»

«Perché, non ti piace?» Come sono strani tutti, oggi.

«Sì, mi piace... non me l’aspettavo, ecco. Grazie.»

Sono questi i momenti in cui mi rendo conto di essere troppo dura a volte, con le persone. «Beh, è perché non possiamo permetterci di rallentare il ritmo, capisci.» Affermo, sistemandomi meglio sulla sedia. Lei sorride e va in bagno ad asciugarsi, promettendo di tornare subito.

Quando rientra, tutta sorridente, è avvolta in una sciarpa nera a righe. Sembra maschile. La osservo mentre si va a sedere, e lei se ne accorge.

«Che c’è?» Domanda, circospetta.

«Niente.» Sollevo le spalle. Mi viene da ridere.

«È di Danny, okay?» Sbotta lei, alzando le mani. Il mio sorriso si allarga, è diventata color lampone. «Perché ho freddo.» Aggiunge, in un sussurro.

«Non devi giustificarti. Non ti ho chiesto nulla.» Scuoto la testa, mentre scorro col mouse le pagine che sto scrivendo.

«Mi guardi con l’espressione di chi ti ha scoperto mentre rubi le collane della mamma per indossarle segretamente!» Lo dice in un modo così comico che stavolta scoppio proprio a ridere, con la testa all’indietro e le mani sulla pancia.

«Oh, cielo. Non ridevo così da secoli.» Mugolo, tra una risata e l’altra. In quel mentre, entra Danny – parli del diavolo e spuntano le corna, si sa – con il tè di Starbucks fumante tra le mani.

«L’ho preso io per te, spero non ti dispiaccia. È appena passato Josè.» Immagino che Josè sia uno dei ragazzi di Starbucks. Ah sì, forse quel brasiliano che serve ai tavoli.

Vedo Lily che ostenta indifferenza mentre allunga la mano e prende il bicchiere che gli sta porgendo Danny.

«Grazie.» Dice, senza quasi guardarlo. «Ora, mhmm, devo lavorare.» E lo liquida con un gesto della mano. Lui, sorpreso, mi guarda cercando di capire cos’abbia. Io mi stringo nelle spalle.

«Beh, buon lavoro. Quando vuoi venire a vedere le nuove copertine per il romanzo della Mitchell, io sono di là. Anche tu, Elettra.» Mi dice, e poi va via. Lo saluto agitando la mano.

«Non c’è niente di male ad ammettere che ti piace. È un bel ragazzo.» Osservo, dopo un po’. Lily mi incenerisce con lo sguardo. Sembra una ragazzina di tredici anni che è costretta a parlare con la madre delle sue prime cotte. «Scusa, volevi o no una compagna di gossip?»

«Sì, ma tu sei una compagna di beffe!» Alza gli occhi al cielo. «Prometti di non prendermi in giro su questa cosa, ti prego. È solo una stupida cotta, deve passarmi.» Afferma, pare più a se stessa che a me.

«Va bene, va bene. Eviterò di farti notare le volte in cui arrossisci quando lui passa, il livello di imbranataggine che si impossessa di te quando ti gira intorno, eccetera eccetera.» Potrebbe sempre tornarmi utile in futuro, questo compromesso. «Dai, nella pausa pranzo mi racconti. Ora mettiamoci al lavoro.» Le dico, e con un sorriso complice iniziamo le nostre attività.

 

**********

 

«Elettra, se hai bisogno posso restare, davvero. Facciamo trattenere anche qualcun altro magari, per-»

«No.» Dico secca. «Lily, tranquilla, ce la faccio. Mi mancano sette pagine, le rileggo io dopo per controllarle. Va’ a casa.» Mi passo una mano sul viso. Sono esausta, ma cerco di non darlo troppo a vedere. Sorrido a una super scettica Lily che non sa se andare o meno. «HO DETTO VAI A CASA.» Le ripeto per l’ennesima volta. Stavolta sembra funzionare.

«Okay, vado, vado.» Mi saluta con un mezzo abbraccio e poi esce dalla stanza, incrociando Tony che stava uscendo dal bagno. Quest’ultimo si affaccia dalla porta e richiama la mia attenzione con un piccolo fischio.

«Ehi, hai bisogno di una mano? Sono a disposizione. Quando vuoi, come vuoi.» Sorride sornione. Quasi gli lancio il fermacarte addosso.

«Idiota. No, ce la faccio da sola. An-da-te-ve-ne. Chiudo io, se mi lasciate le chiavi.» Propongo, per convincerli ad andarsene. Ho bisogno di silenzio. Un’altra ora di silenzio e avrò finito. Non chiedo tanto!

«Va bene, dico a Nancy di portartele prima di andare via. Buona serata.» Agita la mano e io ricambio, sospirando quando chiude la porta.

Qualcun altro viene a salutarmi, nei successivi dieci minuti, ma non Nancy. Digito il numero del suo interno, e quando non ricevo risposta compongo quello di Alexandra. Niente, non ci sono. Forse mi hanno lasciato le chiavi sul bancone della reception.

Allora, dov’ero arrivata? Ah, ecco. Qui mi serve il dizionario, devo controllare che l’aspetto perfettivo del verbo sia giusto. Non dovrebbe esserci una costruzione particolare…

«Caffè?» Oh Dio, ma si può essere lasciati un po’ in pace?

Alzo gli occhi e lo sbuffo che stavo per emettere si ferma, gonfiandomi le guance in maniera ridicola.

Christian è appoggiato allo stipite della porta, con una mano in tasca. Ha i capelli sciolti e sventola un bicchiere con l’altra mano. Si è tolto la giacca, rimanendo con una maglia nera a maniche lunghe con scollo a V, sotto la quale si intravede una collana lunga, credo la stessa che portava anche in albergo.

«Caffè?» Valuto la proposta, mentre lui attende senza accennare a muoversi. «Un po’, grazie.» Abbasso lo sguardo sul romanzo aspettando che mi porti il bicchiere, ma quando vedo che non lo fa lo rialzo, senza capire.

«Alzati, dai.» Mi dice, e allarga un braccio come se mi invitasse ad abbracciarlo. Un leggero formicolio mi attraversa la nuca, intontendomi per qualche secondo.

«No, non posso, devo completare.» Scuoto la testa nervosamente e accavallo le gambe sotto la scrivania. Perché non se ne va? Ah, dannazione. Non ha nulla di meglio da fare?

«Elettra, alzati. Ti aiuto io a completare, ma tra cinque minuti. Il tempo di sgranchirti le gambe e bere un sorso di caffè, dai.» Per quanto sia allettante la proposta, visto che ormai il mio sedere ha assunto una forma più simile a un quadrato che altro e il mio osso sacro è in sciopero, non mi alzo dalla sedia. Le gambe non si muovono proprio. Non oso guardare Christian.

«Ah, ma sei testarda.» Emette un sospiro che sa di esasperato e mi viene incontro. Mi aspetto che mi prenda di peso e mi lanci in corridoio, invece fa il giro della scrivania, posa il bicchiere davanti a me e mette le mani sulle mie spalle. Ohhhh, sì. Adoro i massaggi.

Tutto il mio corpo formicola in risposta ai movimenti delle sue mani, e ogni tanto mi sento mugolare qualcosa. Senza rendermene conto chiudo gli occhi. Dio, sono stata seduta per troppo tempo, mi fa male tutto. Spero che le prossime scadenze non siano così ravvicinate, o di questo passo dovrò andare da un fisioterapista, altro che in palestra.

«Hai lavorato davvero sodo questa settimana.» Quando sento la voce di Christian, salto sulla sedia. Come se avesse rotto una specie di incantesimo, mi alzo di scatto e agguanto il caffè.

«Ti ho fatto male?» Chiede Christian confuso.

Certo che non mi hai fatto male, stupido. Almeno, non alle spalle.

«No, però... non...» Non cosa? Non voglio che mi tocchi? Non voglio che ti mostri così gentile? Non voglio che tu mi illuda perché le illusioni sono la cosa più dolorosa al mondo?

«Tranquilla.» Perché sembra sempre leggermi nel pensiero e capire ogni mio stato d’animo? È incredibile. Bevo un sorso di caffè e mi rendo conto che il bicchiere è mezzo vuoto.

«È il tuo?» Lui annuisce con una parvenza di sorriso.

«Non ho malattie, bevi pure. Nemmeno un accenno di raffreddore.» E fa un gesto con la mano per incitarmi a bere ancora. Mando giù un altro sorso, poi copro la bocca con la mano per nascondere uno sbadiglio.

Voglio un letto. Ora e subito.

Una forza sconosciuta mi attira verso il petto di Christian, convincendomi che potrei appoggiarmici per qualche minuto, chiudere gli occhi, riposarmi. Ci sarebbero le sue braccia a sostenermi, come stamattina. Come se non bastasse, da qui riesco a sentire il suo profumo fresco, che mi attira come una falena alla fiamma.

Christian mi osserva tranquillo, non si sposta, non parla. I suoi occhi azzurri sono ancora più luminosi del solito, con la poca luce che c’è nello studio. Mentre lo guardo, sento delle strane sensazioni nello stomaco e tutt’intorno. Non mi piacciono. No, per niente.

«I cinque minuti sono passati.» Mi riscuoto da questi pensieri e torno a sedermi. Christian fa lo stesso, prendendo la sedia di Lily e posizionandola di fronte a me, dall’altro lato della scrivania.

«Col russo non posso aiutarti, ma rileggo volentieri quello che hai tradotto.» Dice con un sorriso. Io, senza proferir parola, gli stampo le ultime pagine che Lily non è riuscita a correggere.

Così, passiamo un’ora a leggere, modificare, scrivere, confrontarci. Ridere, anche. Mi fa notare che ho fatto un paio di errori stupidi e ridiamo come due idioti, segno di estrema stanchezza.

«Oh, eccone un altro. Sei pronta?» Quasi non riesce a parlare, sta ridendo troppo. «“Andrej ringhiò e gli si lanciò contro, afferrandolo per le palle”.» Non completa neanche la frase che siamo letteralmente piegati sulla scrivania dal ridere.

«Basta, basta, mi fa male la pancia!» Piagnucolo, cercando di calmare l’attacco di risa. Poi faccio l’errore di guardarlo e ricomincio.

«Sto piangendo, aiuto!» Mormora lui mentre si asciuga una lacrima. Vedo che riprende a leggere per tornare serio. Non passano nemmeno due secondi. Inizia con una risatina nasale ma non riesce più a trattenersi.

«Cosa c’è ancora?!» Urlo, divertita.

«“In quell’istante, Veronika aprì la stanza ed entrò nella porta. Quando vide Andrej e Pavel, si coprì le mani con la bocca.”» Non respiro più.

«Due in una frase no, dai!» Mi passo una mano tra i capelli, accaldata sia per le risate che per l’imbarazzo.

«L’ultimo paragrafo ti è venuto un po’ male, a cosa stavi pensando?» Ammicca Christian con un sorriso irriverente. Chissà perché sento che lui sa perfettamente a cosa stessi pensando. Anche se in realtà era solo stanchezza.

«Al modo in cui ucciderti.» Lo punzecchio, socchiudendo gli occhi.

«Allora fai proprio sul serio...» Lo vedo appoggiarsi con la schiena alla sedia e incrociare le mani in grembo. «E sentiamo, cos’hai pensato?»

«Beh, le solite cose. Corda alla gola...» No, pessima idea guardare la sua gola. «Vene tagliate...» Sì, ti distrarresti facilmente con quei bicipiti, deltoidi e settemila altri muscoli di cui non conosci nemmeno il nome. «Veleno nel caffè...» Dalla padella alla brace, vuoi davvero guardare la sua bocca?

«Sei un tipo convenzionale.» Commenta lui, e non so per quale ragione la prendo come una battuta a doppio senso.

«Per niente.» Beh, è una risposta lecita, no?

«Mmm, è da vedere.» Il suo sorriso si allarga.

Christian Wayne è un malpensante.

Ah, perché tu no?!

No. Piantala.

«Caspita, si è fatto proprio tardi. Direi che ci siamo trattenuti abbastanza.» Dico annuendo da sola e inizio a spegnere il computer.

Ed ecco Elettra in versione “Barry Allen”, alias Flash.

Dopo aver chiuso tutto, infilo il mio bel basco color lavanda e mi sistemo le ciocche di capelli che sfuggono. Christian sta indossando la giacca.

«Ti andrebbe... ti va di andare a bere qualcosa?» Mi chiede all’improvviso, proprio mentre sto per salutarlo. «Non ti faccio fare tardi, promesso.» Aggiunge, con un minuscolo sorriso.

Non so se ho ancora un cuore o piuttosto un tamburo impazzito, al suo posto, al centro del petto. Che gran traditore. Mi perdo per un istante nello sguardo speranzoso di Christian, e una miriade di sensazioni diverse mi attraversano il corpo.

«I-io devo andare, sono stanca. Mi dispiace.» Balbetto, voltandomi subito dopo verso la grande porta a vetri con la stampa in caratteri grigi del nome della società.

«Elettra...» Sento a malapena il suo sospiro prima di affrettarmi per le scale.

 

Ripeti insieme a me: sono una cogliona.

Non posso dire parolacce. L’ho promesso a me stessa.

Stronzate.

Già.

Se non altro ha smesso di piovere. Seduta in metropolitana, rifletto sulla giornata di oggi. C’è stato un avvicinamento non previsto, non voluto. Non capisco cosa voglia Christian. Un giorno magari non si fa vedere, l’altro mi abbraccia per riscaldarmi o mi fa un massaggio. Non dovrebbe comportarsi così, è il mio capo. Devo smetterla di dargli corda. Non che gliene stia dando particolarmente, ma forse mi sono mostrata troppo gentile.

Chi, tu? Gentile?

«Elettra!» Quando sento il mio nome, alzo la testa di scatto. Non capisco chi mi ha chiamato, poi vedo un movimento in fondo al vagone. Il proprietario della voce si fa spazio tra la gente e mi raggiunge.

«Ciao, Ethan.» Gli sorrido. «Anche tu di ritorno a casa?»

Lui annuisce e si aggrappa a una delle maniglie in alto per reggersi.

«Sei andata al lavoro?» Alla mia risposta affermativa mi chiede che lavoro faccio.

«Sono una traduttrice. Lavoro alla Macmillan Publishers.»

«Aaah, allora sei una importante.» Sorride lui. «Io sono un chimico.»

Un chimico? Non l’avrei mai detto.

«Hai programmi per stasera?»

Oh, per l’amor del cielo, uomini della terra lasciatemi in pace.

«Mmm no, sono abbastanza esausta. È stata una giornata molto pesante.» Molto pesante. E complicata. E inaspettata.

«Capisco.» Ethan fa un sorriso di circostanza, probabilmente pensando “che palla questa tipa” o qualcosa di simile. Pazienza. È che non voglio scocciature. Quando non sono in pace col mondo preferisco starmene da sola. Questo accade praticamente sempre, ma sono dettagli.

«La nostra fermata.» Annuncia Ethan, insieme alla voce metallica della metro. Scendiamo e percorriamo insieme le due miglia che ci separano dalla nostra palazzina.

«Beh, buona serata.» Gli dico, una volta davanti alle scale. Lui ricambia il saluto e finalmente, alle otto in punto, metto piede in casa.

 

***

 

Mmmh...

Che ore sono? Mi sono appisolata?

Mi tiro a sedere per scoprire che sì, mi sono appisolata sul divano. Sono le dieci meno venti. Ciabatto in cucina e metto a riscaldare qualcosa di pronto. Mentre sto mangiucchiando, inizio a sentire un po’ di trambusto in strada. Si stanno preparando per l’apertura del Vagabond.

A proposito...

Oggi è venerdì, il che vuol dire che domani non si lavora. Potrei anche farci un pensierino. Prima che possa realizzare l’idea, alle dieci in punto sono davanti al bancone del bar. Marion, la figlia del proprietario, mi sta porgendo il top che dovrò indossare per lavorare qui, con il nome del locale scritto al centro. Vado a cambiarmi in bagno e quando esco il night si sta già riempiendo. Com’è scollato questo coso.

«Prendi gli ordini con questo e me li vieni a portare.» Marion mi porge un blocchetto di carta e una penna. «Mentre continui il giro porti i drink ai tavoli e poi mi ridai i bicchieri. Semplice. Cerca di essere il più veloce possibile e non dare troppa confidenza ai guardoni. Se hai qualche problema, in ogni angolo del locale ci sono i nostri buttafuori. Basta un cenno e loro accorrono.» Mi sembra giusto.

«Perfetto.»

 

La serata scorre abbastanza tranquilla, anche se la stanchezza inizia a farsi sentire. L’orologio segna mezzanotte meno venti. Il che significa che mancano altre tre ore e mezza prima che possa tornare al mio lettuccio. Tutto sommato però, non è troppo stancante. Il personale è simpatico, un po’ meno i “guardoni” viscidi come li chiama Marion, ma dopo un po’ ci fai l’abitudine.

Mi ha spiegato, in un momento di meno affluenza al bancone – cioè, quando le spogliarelliste hanno iniziato a darci giù pesante – che di solito il martedì sono aperti fino alle tre, mentre dal giovedì al sabato fino alle cinque. Le ho detto che non potrei mai farcela fino alle cinque, ma lei è stata comprensiva, dicendo che in quelle due ore sono tutti talmente ubriachi che la cosa è facilmente gestibile.

«Non posso venire nemmeno il martedì e il giovedì, a meno che il giorno dopo non sia festivo.» Lei annuisce, ha detto che ha già provveduto a prendere un’altra ragazza per i giorni infrasettimanali.

«Cameriera!» Mi chiama un uomo in lontananza, seduto praticamente sotto la passerella, con gli occhi attaccati al sedere di una delle ballerine.

«Sì, cosa le porto?»

«Una vodka liscia e un Long Island.» Senza neanche guardarmi, mi allunga una banconota stropicciata che porto prontamente al bancone. Marion incassa e mi dà il resto, che tengo come mancia visto che il signore mi ha liquidato biascicando qualcosa come “prendili”, quando gli ho portato i drink.

«Vuoi qualcosa, tu?» Marion mi guarda mentre lava dei bicchieri sporchi. Scuoto la testa.

«No, non mi piacciono molto gli alcolici.» Poggio i gomiti al bancone e muovo appena la testa a tempo di musica, guardandomi intorno di tanto in tanto per vedere se qualcuno deve ordinare.

«E così eri stanca, eh?» Quando quelle parole mi giungono alle orecchie hanno lo stesso effetto di un pugno nello stomaco. Sussulto, e per un momento penso – prego – che sia Ethan, invece quando mi volto mi accorgo che è proprio Christian. Cazzo.

«Che diavolo ci fai qui?» Stavolta è lui a dirlo, i ruoli si sono invertiti. Solo che io non ero così arrabbiata quando gliel’ho chiesto, nell’ufficio di Tony.

«Ci lavoro.» Rispondo, usando le sue stesse parole di qualche giorno fa.

«Cosa? Qui?» Indica con una smorfia sprezzante il locale e io mi impettisco.

«Beh? Non interferisce col mio lavoro alla MP, non vedo che problema ci sia.» Osservo, sicura di me.

«Da quanto tempo sei qui?» Sembra davvero infuriato. Che cavolo sarebbe questa, una scenata da fidanzato geloso? O una sottospecie di paternale?

«Non credo che siano affari tuoi. Piuttosto, che ci fai tu qui, Mister Moralità?» Quasi gli faccio il verso, poi ricordo a me stessa che ho ventisei anni e non è il caso.

Christian espira dal naso, furioso. Dà un’occhiata veloce al locale, poi mi afferra una spalla e si china su di me. «Stammi bene a sentire. Non mettere più piede qui dentro, non è un ambiente per te. Mi hai capito?» Sibila, a pochi millimetri dal mio orecchio.

«Detto così suona quasi come una minaccia.» Lo istigo, risultando irritante perfino a me stessa.

«Non far sì che lo diventi.» Replica lui, per poi sparire tra la folla.

Sono sconcertata. Mi sembra di aver avuto a che fare con un altro Christian, un suo sosia arrogante e borioso. Che significa “non mettere più piede qui dentro”? Chi è lui per decidere della mia vita e per contestare le mie scelte? Contestare, poi. Me l’ha proprio proibito!

Passo le successive tre ore a rimuginare sulle sue parole e sul tono odioso che ha usato mentre parlava; a ogni secondo che passa mi innervosisco sempre di più.

Se credi di avere a che fare con una ragazzina che si lascia intimidire da un voce un po’ più grossa… beh, Christian Wayne, ti sbagli di grosso.

 

 

~ Note

Vi avevo illuso un po’ con lo spoiler dello scorso capitolo, vero? E invece Elettra continua a comportarsi da “pisella”, come dico io. In più, ha avuto questo pseudo-scontro col nostro Adone. Ehhhhhh *sospirone di chi sa ma non può parlare*.

È riapparso magicamente anche Ethan, avete visto?

Ditemi se non è semplicemente adorabile Christian, o se sono l’unica a essere ormai perdutamente innamorata di lui. Io cerco di convincerla, Elettra, ma lei non mi dà retta. Davvero.

Vediamo un po’ se nel prossimo capitolo succederà qualcosa:

 

«Devo metterti sotto di nuovo, allora.» Prosegue, e io lo guardo sbigottita. «Intendo col solletico.» Precisa, ma sotto sotto sogghigna. «Maliziosa.»

«Ah, IO!»

Lui si stringe nelle spalle.

«Io non ho pensato a niente di male, lo giuro!» Sta ridendo come un bambino.

 

P.S. A. I. (post scriptum alquanto inutile): questo è Christian coi capelli sciolti. Anche questo, via. Però il primo è quello della scena del caffè. Bene, fine della nota inutile XD

 

Un abbraccio elettrizzato,

Sara.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo nove - The moth ***


Blend



Come non detto.

Dopo l’incontro-scontro di quel venerdì, non ho più visto Christian al Vagabond. Ho casualmente chiesto a Marion se fosse un frequentatore abituale, e lei mi ha detto che va lì più o meno ogni dieci giorni, sempre intorno a mezzanotte o l’una, ma mai nel weekend. Si siede allo stesso divanetto in un angolo con tipi strani e va via dopo dieci minuti, un quarto d’ora al massimo. In ogni caso, sembra che il nostro incontro lì non sia mai avvenuto, almeno per lui. Dal lunedì successivo è tornato tutto alla normalità, si è comportato nello stesso modo indefinibile e beffardo di sempre, rendendomi la vita praticamente impossibile.

 

***

 

«Non ti arrabbiare, cugina, ma se continuiamo di questo passo non ce la farò nemmeno per la prossima fumata bianca.»

Anne mi fa una linguaccia, aumentando la velocità. «È che io scruto tutti i potenziali negozi, mica come te che cammini come un Panzer e ti fermi solo in quelli che ti piacciono!» Si giustifica, alzando le braccia.

«Entriamo qui, mi ispira.» Giro a destra e apro la porta di un negozio non troppo vistoso ma carino.

«Sarà la settima volta che lo dici, e puntualmente esci bestemmiando per la taglia che non c’è, il prezzo troppo alto, o troppo basso – non ti capisco davvero – la scortesia delle commesse… sei incontentabile!»

E insomma sì, se ve lo state chiedendo, stiamo facendo shopping.

«Salve, mi servirebbe un tailleur. Preferibilmente scuro. Una cosa non troppo attempata.» Vado dritta al punto, e la commessa mi dice di seguirla.

«Questa è la volta buona.» Sussurro ad Anne, sicura di me. Lei alza un sopracciglio.

E va bene, forse l’avrò detto altre volte. E quindi?

«Ecco. Questo potrebbe andar bene?» La commessa mi agita davanti un tailleur color bradipo morto e io scuoto la testa, schifata.

«Preferirei un tailleur con la gonna, comunque.» La commessa mi mostra almeno cinque modelli diversi, uno peggio dell’altro.

“Avevo detto modello non attempato.”

“Oh cielo, questo non lo indosserebbe neanche Heidi Klum ad Halloween.”

“Le sembra un colore scuro questo?”

“Per questo prezzo ne ordino uno da Valentino in persona.”

Insomma, vi risparmio tutta la trafila.

«Possibile che non ci sia un fottuto tailleur decente in questa città?» Mi porto le mani al viso, stizzita. La commessa non sa che pesci prendere, si guarda intorno.

«E quello cos’è?» Come una striscia di terra in lontananza per un marinaio, le parole di Anne mi infondono un po’ di speranza. Mi volto a guardare il punto che sta indicando e vedo un manichino vestito alla perfezione, con un tailleur gonna blu scuro, una maglia a righe bianche e blu con un fiocco rosso in un angolo, ai piedi delle scarpe abbinate col tacco dodici. È perfetto.

«Vado a prenderle la sua taglia.»

«Di tutto!» Le grido in risposta. Quando torna, corro in camerino sgambettando allegra.

Anne mi segue. «Non devo neanche portarli in lavanderia, ti pare? Erano incellophanati fino all’ultimo filo. Profumano anche.» Le dico, e lei annuisce.

«Anche perché non hai molto tempo. La presentazione è tra un’ora.»

A circa un mese dal mio arrivo alla Macmillan Publishers, come aveva anticipato Martin, c’è stata la presentazione del libro della famigerata Lena Ivanov nelle principali librerie di Miami. Di solito di queste cose se ne occupa Tony, che infatti è praticamente assente in ufficio da quattro giorni. Questa mattina c’è l’ultima presentazione, a cui dovrò partecipare io dato che l’interprete della Ivanov si è beccata un febbrone da cavallo proprio questa notte. Non so per quale oscuro motivo Martin abbia deciso di mandarmi insieme a Christian, invece di Tony. Mi sarebbe piaciuto passare un po’ di tempo con lui.

Mmh, pazienza.

Ri-vestita da capo a piedi, saluto Anne con un abbraccio e vado sull’altro binario della metro, che mi porterà al cimitero, dove ho appuntamento con Christian.

«Certo che ha scelto un posto allegro, eh.» Ha commentato Anne quando gliel’ho detto, stamattina.

Ho fatto spallucce. «Magari la presentazione è tutta una scusa e la verità è che vuole farmi fuori.»

Anne mi ha guardato con un sopracciglio che le arrivava all’attaccatura dei capelli. «Io non credo proprio. Perché dovrebbe? Lo stai trattando male?»

Io, naturalmente, le ho rivolto la faccia più innocente del mondo. «Certo che no. Ho solo, tipo, rifiutato di uscire con lui. Sì, questa è una delle ultime.»

Lei si è passata una mano sul viso e, sconsolata, ha scosso la testa. «Elettra Violet Wayne, sei irrecuperabile.»

Quando intravedo il cartello che recita la scritta “Miami City Cemetery” torno al presente e mi apposto proprio fuori i cancelli. Menomale che sono appena le undici del mattino, altrimenti avrei qualche serio problema a restare qui. So che ha scelto questo posto per comodità e so anche che questa strada è una delle più trafficate del quartiere, ma a me inquieta lo stesso.

Di tanto in tanto mi guardo intorno circospetta, con la speranza di avvistare l’auto di Christian. Che, per inciso, non so neanche che modello è. Avrei dovuto chiederglielo. Non sopporto quando devo curiosare in tutti gli abitacoli che passano per vedere se è la macchina giusta. Puntualmente poi non me ne accorgo mai in tempo e resto impalata come una cretina quando quella si avvicina al marciapiede.

Due colpi di clacson mi fanno voltare, provengono dalla mia sinistra. Vedo un’Audi RS5 rossa che rallenta fino a fermarsi davanti a me. Scorgo la testa bionda di Christian – in tempo – e mi accingo a salire.

L’auto di un uomo ti dice tutto di lui: quella di Christian è, naturalmente, impeccabile. Gli interni in pelle scura sono tutti perfettamente lucidati. L’abitacolo profuma di pulito, di vetiver e di Christian.

«È Hugo Boss?» Gli chiedo, senza neanche rendermene conto. Lui mi guarda da dietro gli occhiali da sole e aggrotta la fronte.

«Buongiorno anche a te.» Sorride. «Il mio profumo, dici? Sì, ti piace?» Mi chiede mentre riparte a tutta velocità.

«Ehm. No, sai, chiedevo soltanto. Così.» Ma che ho detto?

Faccio l’errore di guardarlo e mi sento avvampare. Un pensiero mi si intrufola tra i neuroni, facendoli sgomitare per la sorpresa: è proprio bello, accidenti. Sempre elegantissimo in camicia nera e completo grigio, simile a quello che aveva in albergo. Se ne sta col braccio sinistro appoggiato sulla portiera e quello destro sullo sterzo, del tutto a suo agio.

Io, invece, ho gli spilli nel sedere.

«Stai bene.» Il suo commento improvviso mi fa sussultare. Ero sovrappensiero.

«Cosa?» Gli chiedo di ripetere. Per quanto ne so, potrebbe aver fatto un discorso di mezz’ora e io non ho seguito neanche una parola.

«Stai… bene.» Ripete, e indica con un cenno della mano il mio abbigliamento nuovo di zecca.

«Ah. Grazie.» Non che io di solito in ufficio vada vestita male. È questo che sta insinuando? Sono sempre elegantissima, io!

«È un complimento, non fare quella faccia. Dirti che sei bellissima probabilmente ti avrebbe fatto scappare dall’auto, quindi ho pensato di cambiare forma.»

«Per non avermi sulla coscienza, quindi.» Come rigirare la frittata quando qualcuno ti fa un complimento. Imparate dalla numero uno.

«Naturalmente.» Annuisce lui.

Mi schiarisco la gola, improvvisamente ho una gran sete. «Grazie, comunque.» Sussurro, e lui, per tutta risposta, avvicina la mano al mio viso e in un movimento rapido mi scompiglia i capelli.

«CHRISTIAN!» Esclamo, e immediatamente abbasso lo sportellino con lo specchio per riparare il danno. Mmh, okay, pensavo peggio.

«Che c’è? Avevi uno scarafaggio tra i capelli.» Replica, e io lo guardo scioccata.

«COSA?! Dov’è?! L’hai tolto? CHRISTIAN, l’hai tolto?!» Mi agito sul sedile come una trottola impazzita.

«Sì, tranquilla. Ora è al sicuro sul sedile posteriore.»

Mi ci vuole un secondo per realizzare. «Non avevo niente tra i capelli, vero?» A parte una goccia gigante che mi pende come quella di un manga giapponese.

Christian sorride. «No.»

«Ohhh! Sei… irritante, e cocciuto e insopportabile!» Sbotto, sbattendo lo sportellino.

«Wow. Non c’era bisogno di ricambiare il mio complimento, ma ti ringrazio.» Risponde lui, e piega il braccio poggiato sulla portiera portandosi un dito alle labbra. Per distrarmi, ne sono sicura. Ah-ha, non funziona, Wayne. Incrocio le braccia al petto e decido di non rispondere.

«Allora, dai, dimmi qualcosa in russo. Così ti alleni.»

Bella scusa. Sospiro e ci penso un po’ su.

«Ja khochu pogovorit' s advokatomDico, infine.

«Che significherebbe…

«Voglio parlare con un avvocato.» Traduco, ridacchiando. Lui mi imita e stavolta mi tira una ciocca di capelli.

«Ahi.» Mugolo. «Ty sdelal mne bol'no!(*)»

«Scusa. Tu mi provochi.» Gli faccio una linguaccia. Dopo un minuto di silenzio, riprende a parlare: «Come si dice “Sei davvero bella quando arrossisci”?»

E come si dice “Smettila di dirmi queste cose a tradimento”? Lo fa proprio apposta, lo dice con quella tranquillità assurda, come se il suo vero mestiere fosse quello di fare complimenti alle donne. AAAH.

«Non lo so.» Balbetto. «Ci vuole molto per arrivare?» Riesco a malapena a deglutire.

«Siamo arrivati.» Dice, come al solito per niente scalfito dai miei sbalzi di umore. Mentre lo dice, accosta al marciapiede. Lo vedo togliersi la cintura di sicurezza, sfilare la chiave e aprire la portiera. Quando provo a fare lo stesso, scopro che è bloccata.

«Ma cos-» Prima che possa emettere mezza sillaba – al novanta per cento l’inizio di un’imprecazione – vedo Christian fare il giro dell’auto e venire ad aprirmela. Scendo, senza fare troppo caso alle occhiate curiose delle persone sul marciapiede e aspetto che Christian si giri per dirgliene quattro.

«Che diamine-»

«Posso farti sbattere le porte dell’ufficio e perfino lo sportellino dello specchio. Ma la portiera della mia Audi non si tocca.»

Io provo a ribattere ma lui posa un dito a mezz’aria a qualche centimetro dalla mia bocca.

«E non dire che non l’avresti fatto.» Mi ammonisce, agitando il dito.

Ci penso su per qualche istante, poi sbuffo. «Okay, fair enough

 

***

 

Stiamo entrando dal retro della libreria, per evitare la folla appostata all’ingresso: ragazzine urlanti e scodinzolanti, armate di macchine fotografiche e pennarelli indelebili. Manco questa fosse la nuova rivelazione della narrativa contemporanea. Sì, è un bel libro, ma niente di eccezionale. Tanto amore. Troppo amore.

«Sei pronta?» Mi dice Christian, prima di entrare. Si toglie gli occhiali e scruta la mia espressione. Caspita, avevo dimenticato quanto fossero azzurri i suoi occhi.

«Sono nata pronta.» Più o meno.

Apre la porta e ad accoglierci ci sono i dipendenti della libreria, con i loro responsabili al seguito, e una giovane donna accompagnata da un tizio in giacca e cravatta.

«Lei deve essere Lena. Piacere, io sono Elettra Wayne, mi sono occupata della traduzione del suo libro.» Mi fiondo a dirle non appena mi si avvicina. Guardo Christian con la coda dell’occhio che mi fissa contrariato. Ops, forse doveva presentarmi lui.

«Signora Ivanov.» Orione le stringe la mano e la porta al viso per posarvi un bacio. «Christian Wayne.» Le sussurra. «È un piacere conoscerla.» Lei è estasiata. La stronza.

Perché alla Ivanov ha dato subito del lei?! Ignobile razzista. E cos’ha da guardare lei? Perché non la smette di fargli gli occhi languidi?

«Io sono Roman, il suo agente.» Il tizio in giacca e cravatta si presenta e noi lo salutiamo con altrettanto entusiasmo. Pari a zero.

Ora che la guardo bene, la Ivanov non mi sembra poi tanto giovane. Ha tante piccole rughette intorno agli occhi e qualcuna nei dintorni delle labbra. E anche un principio di alopecia, noto, all’attaccatura dei capelli.

Inizia subito a parlare in russo, rivolta a Christian. Poi mi guarda e io traduco: «Sono felice che la vostra casa editrice abbia scelto il mio libro, sono sicura che avete fatto un ottimo lavoro.» Ho vagamente omesso la parte in cui diceva “lei mi sembra un uomo davvero professionale”. Nessuno se ne accorgerà, tanto.

Christian risponde: «Grazie a lei per aver scritto questo capolavoro.» Traduco, schifata, cambiando “capolavoro” in “bel libro”. Capolavoro. CAPOLAVORO! Ma l’ha letto? Lo guardo allibita e lui intercetta il mio disappunto. Mi rivolge un’occhiata della serie “Lo so, ma sono cose che bisogna dire per forza”.

«Vogliamo andare?» Chiedo, indicando l’ambiente principale della libreria dov’è pronta una bella scrivania con settecentomila copie del suo “capolavoro”. I tre annuiscono, e Lena riprende a parlare. Quanto parla!

«Se è possibile vorrei che mi stesse vicino, per assistermi.» Dice sbattendo gli occhi da cerbiatta a Christian. Traduco: «Mi dispiace che sia dovuto venire, non c’è davvero bisogno di tanta gente attorno a me.»

Lo sai proprio bene il russo, eh?

Una bomba, vero?

Christian risponde che non c’è problema, e io traduco innocentemente: «Farò il possibile.»

Ci avviamo verso la scrivania, dove Lena si sistema e io mi siedo alla sua sinistra. Vedo il suo agente prendere in disparte Christian per qualche istante. Gli mormora qualcosa all’orecchio e Christian mi guarda, poi sposta lo sguardo su Lena e gli risponde. Proprio quando stanno tornando e io sto per chiedere a Christian cosa c’è che non va, uno dei dipendenti apre le porte della libreria e l’orda di fan prende d’assalto il locale. Si piazzano tutti davanti al nastro che fa da transenna e aspettano ordinatamente – sì, certo – il loro turno per farsi autografare il libro e scattare qualche foto.

Prima che inizino a sfilare davanti alla scrivania, Lena fa un piccolo discorso di ringraziamento a tutti quanti, spiega quanto sia stato importante scrivere questo libro per lei e bla bla bla. Le solite moine di turno che sono costretta mio malgrado a tradurre.

«E vorrei ringraziare infinitamente il mio editor, Christian Wayne, una persona dolcissima e straordinariamente affascinante, e la traduttrice che ha contribuito a rendere questo libro accessibile anche a voi.» Puah, devo tradurre tutte queste smancerie?

«E vorrei ringraziare la Macmillan Publishers, qui rappresentata dal valido editor Christian Wayne, e la traduttrice – che sarei io – che ha reso questo libro accessibile ai lettori americani.» Mh, ora va molto meglio. Sorrido soddisfatta e torno a sedermi accanto a lei.

Che la sfilata abbia inizio.

Nell’ordine, chi vuole comprare una copia del libro e farselo autografare dalla Ivanov, passa prima davanti alla scrivania coi libri, poi davanti a Lena, poi ci sono io, di seguito Roman affiancato da un tizio che scatta le foto con le macchine fotografiche dei fan, e infine Christian, che chiude la coda. Se ne sta nei dintorni dell’ingresso con le braccia incrociate davanti a sé e la solita espressione irridente e terribilmente sexy. Di tanto in tanto infila le mani in tasca e muove qualche passo.

Hai definito Christian terribilmente sexy. È inutile che fai finta di niente.

No, non è vero. Hai capito male.

Le tue difese stanno cedendo, ah-ha.

Di tanto intanto qualche giovinetta intraprendente azzarda un’occhiata in direzione di Christian, ma non oso voltarmi per vedere il tipo di reazione dall’altra parte.

«Posso venire a lavorare anch’io per voi? Non serve un’assistente personale all’Adone che avete per collega?» Sussurra con un sorrisone una ragazza poco più piccola di me, lanciando occhiate di fuoco verso l’ingresso.

Sì, fidati, stavamo proprio aspettando te.

«Mi dispiace, il signor Wayne non ha bisogno di assistenti.» Le rispondo, distaccata. Mi sta odiando, si vede.

«Cos’è che sei tu, la traduttrice?» Chiede, sprezzante, mentre allunga la sua copia del libro a Lena.

«Elettra Wayne, piacere.» Annuisco con un sorriso, enfatizzando sul mio cognome uguale a quello di Christian. L’effetto desiderato è presto ottenuto, infatti lei strabuzza gli occhi e sposta lo sguardo da me a lui, sconvolta.

«Siete... sposati?» Balbetta, prima di andare via.

Io le sorrido, sadica, senza confermare né negare, ma sono sicura che lei adotterà il “chi tace acconsente”.

Con la coda dell’occhio vedo che si riunisce al gruppetto di amiche che hanno già avuto la loro copia del libro e sussurra ancora sotto shock la notizia alle loro orecchie attente. Loro mi guardano con un misto di stupore e invidia.

Ah, com’è bello il mondo oggi.

 

***

 

«Grazie per la disponibilità.» Sta dicendo Christian al proprietario della libreria, salutandolo con una stretta di mano. Fanno altrettanto Lena e il suo agente, e infine io, che li seguo all’uscita.

Christian guarda l’orologio, stringendo appena gli occhi per via del sole battente che oggi illumina Miami. «Manca un quarto d’ora alle tredici, io ho un certo languorino... che dite, andiamo a mangiare qualcosa insieme?» Propone, e si passa una mano sullo stomaco a confermare l’appetito crescente. Effettivamente, anche io avverto qualche movimento interno. Traduco ai due russi e loro annuiscono di buon grado. E quando mai.

«Siamo vicini al DeVito South Beach, vi piace la cucina italiana?» Chiede Christian e io mi blocco mentre stiamo camminando, rimanendo indietro di qualche passo. Mi affretto a raggiungerli prima che se ne accorgano. Christian, ovviamente, se n’è già accorto, e mi rivolge uno sguardo interrogativo. Traduco e i due annuiscono di nuovo. A chi non piace la cucina italiana, dopotutto?

Superiamo qualche isolato a piedi e ci troviamo davanti al famoso ristorante. Christian tiene aperta la porta e lascia entrare Lena e Roman. Quando tocca a me, mi ferma con le sue parole: «Hai visto? Avevo promesso che ti ci avrei portato. Sono un uomo di parola.»

Indugio sulla soglia del ristorante e penso a cosa rispondergli, trattenendo un sorriso.

«Non avevo capito che saremmo venuti in compagnia di una scrittrice semi-calva e del suo agente 007.» Lui ride e io avanzo verso l’interno. Un istante dopo percepisco il suo calore addosso e la sua bocca a pochi millimetri dal mio orecchio mi fa rabbrividire dalla testa ai piedi. «Se ci sei rimasta male possiamo tornare da soli.»

Elettra, respira.

«Non ci tengo, ma grazie.» Gli rivolgo un sorriso fintissimo che lui ignora, e continuo a camminare verso il tavolo al quale si sono seduti i nostri ospiti russi. Christian mi accompagna con una mano poggiata impercettibilmente sulla mia schiena.

Quando prendiamo posto, mi tolgo la giacca e la sistemo sulla sedia vuota accanto a me. I tavoli sono tutti rotondi, ognuno di essi ha sei sedie. Chiamiamole sedie, poi. Sono vere e proprie poltrone imbottite e rivestite di un morbido tessuto color crema sul davanti e nero dietro. Il locale si sviluppa nei toni del rosso, nero e crema con la parete principale rivestita in mattoncini rustici. C’è anche un bancone in marmo in stile bar, e in alternativa ai tavoli rotondi ci si può sedere su dei grossi divani color crema posti davanti a dei tavoli bassi e rettangolari. Sul soffitto scendono eleganti dei lampadari a forma di bouquet rovesciato. Tutto molto carino.

Il cameriere arriva celere e cordiale a portarci i menu e io leggo le varie pietanze con l’acquolina in bocca. Consigliamo a Lena e Roman dei piatti tipici e, mentre aspettiamo che il cameriere torni a prendere le ordinazioni, facciamo un po’ di conversazione. Tradotto: Lena sbava palesemente su Christian e io continuo ad omettere le parti peggiori.

«Allora, Christian, che ci racconti di te? Sei sposato?» Questa sono costretta a tradurla uguale. Il diretto interessato sorride e scuote la testa.

«No, ma’am.» Tranne che per quel gruppetto di ragazze sbavanti in libreria, penso con un malvagio sorriso interiore.

«Oh, e come mai? Sei fidanzato, allora. Un bell’uomo come te non può essere single.» Traduco cambiando “un bell’uomo come te” in “uno come te” e tossendo casualmente alla fine della frase. Roman mi guarda in modo strano. Lo ignoro e torno a guardare Christian.

«Ti ringrazio e mi dispiace deluderti, ma non sono neanche fidanzato.» Ah no? Mhmm. Traduco e Lena si illumina.

«Devi venire a trovarmi in Russia.» Non volevo scoppiare a ridere, giuro. Mi schiarisco la gola cercando di dissimulare la risata il più possibile e mi accingo a rivolgermi a Christian, che aspetta la traduzione.

«Dice che in Russia sono tutti fidanzati.» Affermo, con gli occhi fissi sul centrotavola rosso. Lena aspetta una risposta piena di speranza, ma Christian, ascoltato quello che gli ho detto, non sa che dire. Si limita a sorriderle, il che va anche bene.

«Beati loro, cosa vuole che le dica?» Sussurra infine, rivolto più a me che a lei, e io mi lascio sfuggire una risatina.

«Spero non siano tutte come lei, le fidanzate.» Mormoro in risposta, e stavolta gli strappo io una risata. Ci guardiamo complici per un momento e poi torniamo a includere nella conversazione anche i cosacchi dello Zar.

Proprio quando Roman sta per parlare per la prima volta in mia presenza, si sente lo squillo di un cellulare, con una strana suoneria che ricorda un sirtaki o qualcosa di simile. Roman scava nella sua giacca, è evidentemente il suo. Risponde, in russo, e si alza dal tavolo. Mi scoccio di origliare, per cui torno a Lena e Christian, che si stanno guardando senza sapere che dire.

«E tu, Lena, sei fidanzata?» Le chiedo, per passare il tempo. Lei scuote la testa.

«Sto aspettando uno come il signor Wayne.» Ma quanto è sfacciata!

Christian, sentendosi chiamato in causa, senza però capire nulla, mi rivolge uno sguardo interrogativo e io mi affretto a spiegargli: «Le ho chiesto se lei è fidanzata, e mi ha risposto “No, proprio come il signor Wayne.”»

Sono senza parole.

Christian annuisce, ignaro. «Ma non aveva detto che sono tutti fidanzati in Russia?»

Faccio spallucce. «È un po’ confusa. Sai, la popolarità dà un po’ alla testa.» Ma cosa sto blaterando? Mah.

Roman torna con una faccia scura e si rivolge a Lena: «Dobbiamo andare, Lena. Il volo è stato anticipato.» Poi sposta il suo sguardo su di me. «Mi dispiace, abbiamo avuto un contrattempo. È stato un piacere conoscervi, comunque.»

Christian intuisce la situazione senza che io traduca e si alza per salutare Roman e la sua “protetta”, che in questo momento ha una faccia triste perché deve lasciare il suo amato editor. Ben ti sta, tzè.

Li guardiamo andar via e mentre stiamo per sederci, ci si avvicina il maître.

«I signori sono andati via?» Noi annuiamo, e lui ci invita a sederci nell’area per i non fumatori, dove ci sono dei tavoli per due. Giustamente, è inutile occupare un tavolo da sei quando siamo rimasti soltanto Christian e io.

Prendiamo posto al nuovo tavolo e approfittiamo della cameriera che sta sistemando i coperti per ordinare. Quando lei si allontana, appoggio le braccia incrociate sul tavolo, alla faccia del galateo.

«Beh, non abbiamo avuto nemmeno bisogno di tornarci da soli, hai visto?» Sapevo che l’avrebbe detto.

«Te la sei cavata. Fortunato.»

«Sappi che mi devi ancora un aperitivo insieme. Questa non conta come uscita.»

Christian ha appena ammesso di avermi invitato a uscire con lui? Christian mi ha appena invitato di nuovo a uscire con lui?

«Sempre con calma e per favore.» Borbotto in risposta.

Questo sarebbe una sottospecie di sì camuffato da battuta ironica?

No, è un modo per non rispondere e dirottare la conversazione sulla sua presunta maleducazione.

«Certo, certo.» Christian alza le mani come a scusarsi. Fortunatamente non insiste sull’argomento, e io ne approfitto per cambiarlo.

«E allora, Christian, da quanto tempo lavori alla MP?» L’occhiata vagamente rassegnata che mi rivolge mi fa capire che ha intuito il mio tentativo di tergiversare, ma non sembra volersi soffermare sulla cosa.

Sant’uomo, aggiungerei. Io ti avrei già uccisa.

No, ma tu hai notato che gli ho fatto una domanda per fare conversazione? Elettra Wayne e conversazione nella stessa frase! Che vuoi di più?

Violet si lancia con la testa contro uno spigolo di muro. Violentemente e più volte.

«Da più tempo di quanto possa ricordare.» Ridacchia Christian, rispondendo alla mia domanda. «Ho iniziato come stagista qualche mese prima di laurearmi, un po’ come sta facendo Lily. È in gamba, quella piccolina.» Commenta, senza smettere di sorridere. Ricambio il sorriso solo perché sono d’accordo sul fatto che sia una ragazza promettente. Quel “piccolina”, però, mi suscita una nota di disappunto.

Gelosia, Elettra, gelosia. Diamo alle cose il loro nome.

«Nancy mi ha detto che Thomas è il candidato a rimpiazzare Martin, quando andrà in pensione.» Quando finisco di parlare, un cameriere ci interrompe con le nostre portate tra le mani. Mmm, che profumino.

«Teoricamente sì, lui è l’amministratore delegato.» Ora che sono arrivati i piatti mi rendo conto che siamo davvero in un ristorante, da soli, come fossimo andati a cena fuori. Questo pensiero, mio malgrado, mi provoca un brivido piacevole e un sorriso.

«Teoricamente?» Ecco, brava, concentrati sulla conversazione. Un po’ di sano gossip sulla società.

Christian reagisce alla mia domanda con uno sguardo pensoso, sembra stia valutando se rispondermi o no. Nel frattempo però non mi toglie gli occhi di dosso, rendendomi ancora più agitata di quanto non sia già.

«Sì. In realtà Martin vuole nominare me direttore.» Dice alla fine, e fa sparire una forchettata di linguine all’astice tra le sue labbra mentre scruta con attenzione la mia reazione a quello che ha appena detto.

Ah, questa mi mancava. «E Thomas lo sa?» Io al posto suo non sarei tanto contenta, ma potrebbe anche darsi che l’abbia proposto lui. Magari gli piace il posto di vice.

«Sì, e per questo praticamente mi detesta.» No, a nessuno piace l’eterno ruolo di “secondo”.

«Mi dispiace. È brutto avere problemi di questo genere sul lavoro.»

Lui accenna una risata. «Sei seria?» Io serro le labbra per non ridere. «E che mi consigli? Sai, ho qualche difficoltà anche con una nuova collega. Pare che perfino lei mi detesti.»

Ogni riferimento a persone o cose è sempre puramente casuale, vero?

Sospiro. «Io non ti detesto, Christian.» Gli dico, sincera. Lui alza gli occhi dal suo piatto e li punta dritti nei miei. Quell’azzurro così limpido mi fa tremare il cuore. Non mi ci sono ancora abituata.

Christian non parla, sembra non voler interrompere questo momento di “confessione”, e io mi sento sempre più a disagio. Il suo sguardo mi incita a continuare, è come se mi stesse chiedendo “E allora perché ti comporti come se fosse così?”.

«Però mi fai arrabbiare spesso.» Mi mordo la lingua all’ennesimo tentativo ben riuscito di far scivolare la conversazione verso un punto di non ritorno. Ho l’improvvisa voglia di buttarmi con la testa nella mia bolognese e non uscirne più.

«È complicato, Christian. Non…» Non so che dirgli. Non voglio dirgli nulla. Scuoto la testa e torno a mangiare.

Sul nostro tavolo cala un silenzio insopportabile. Chiudo gli occhi e mi sento una stupida. Non oso guardare in alto, tutto quello che vedo da qui è la sua mano che stringe la forchetta. Mi basta quella.

«Sai, comunque dovrei punirti perché non stai mantenendo fede alla tua promessa.» È lui a infrangere il silenzio, togliendo un immaginario peso di cinquecento quintali dal mio stomaco.

«Cosa? Quale promessa?» Che sta dicendo ora?

«Mi hai promesso di non prendermi mai in giro, di parlare sempre bene di me, mi hai detto di essere il tuo re, e-»

«Ma che ti sei fumato?!» Stavolta a interromperlo mentre parla sono io.

«È inutile che fai la finta tonta, me l’hai giurato quando ti ho fatto il solletico in albergo.»

Scoppio a ridere, sciogliendo un po’ di tensione. «Ma è come prendere per buone le confessioni fatte sotto torture cinesi! Certe cose si dicono di proposito per far smettere il supplizio, che credi? E poi non sapevo che ti avrei rivisto!» Oddio, chissà cos’altro ho blaterato in preda agli attacchi di risate. L’avevo detto io che non mi sarei mai più abbassata a certi livelli di scongiuri.

«È davvero un peccato, mi hai detto tante altre cose carine... che immagino non sentirò mai più nemmeno per sbaglio.» Alza un sopracciglio e io annuisco, del tutto d’accordo. Che gli avrò detto di così carino?

«Devo metterti sotto di nuovo, allora.» Prosegue, e io lo guardo sbigottita. «Intendo col solletico.» Precisa, ma sotto sotto sogghigna. «Maliziosa.»

«Ah, IO!»

Lui si stringe nelle spalle. «Io non ho pensato a niente di male, lo giuro!» Sta ridendo come un bambino.

Scuoto la testa e finalmente tutti i miei muscoli si rilassano. Il cameriere viene a riprendersi i piatti e domanda se desideriamo il secondo. Christian mi guarda.

«No, per me no. Sono piena.» Tutta quest’ansia mi ha fatto passare gran parte dell’appetito. C’è da dire comunque che il primo piatto era davvero abbondante. Christian sembra d’accordo con me.

«Vuoi il dolce? Io avrei voglia di un bel tiramisù.» Propone, e io annuisco con la bavetta appesa come un cagnolino. Che ci posso fare, i dolci sono la mia condanna e la mia maledizione.

«Mmm, sì! Dividiamo?» Impensabile, ma sono davvero piena. Confermiamo l’ordinazione al cameriere che va via lasciandoci di nuovo da soli.

 

***

«Comunque sei proprio una stronza, sai?»

Ora siamo in auto, di ritorno verso casa. Ho ancora il sapore del tiramisù tra le labbra. Christian ha insistito per pagare, sostenendo comunque che dobbiamo organizzarci per quel famoso aperitivo. Ho annuito distrattamente e l’ho ringraziato per il pranzo.

«Ehi, modera i termini. Perché sarei una stronza?» Credo sia la prima volta che gli sento dire una parolaccia.

«Perché non hai tradotto a dovere quello che diceva Lena.» Oh-oh. A quale parte della mattinata si riferisce?

«Come fai a dirlo, scusa? Conosci il russo?» Replico con il tono più distaccato e altezzoso che mi riesce.

«No, ma Roman mastica un po’ d’inglese, e mi ha detto che stavi praticamente sabotando la conversazione.» Ops. Una sirena lampeggiante nella mia testa strepita: “Scoperta! Scoperta! Errore!”

«Non è vero. Roman si è sbagliato.» Negherò fino alla morte, sì. Come può credere a quel russo puzzolente piuttosto che a me?

«Stai arrossendo.»

«NON È VERO.» Mi ricordo quello che mi ha detto all’andata, in auto, e mi sento arrossire ancora di più. Dannazione.

Christian ride. «Io comunque gli ho risposto che forse puoi aver confuso qualche espressione, e lui mi ha detto che stranamente hai tradotto esattamente il contrario di quello che diceva.»

Taccio, imbarazzata. Christian continua a guardarmi, alternando lo sguardo da me alla strada. Serro le labbra per non ridere ma gli angoli mi iniziano a tremare. Scoppiamo a ridere insieme. Lui scuote la testa.

«Sei incredibile. Perché l’hai fatto?» E tu perché non ti fai un’insalata di cavoli tuoi?

Faccio spallucce. «Mi stava antipatica.» E l’Oscar per l’originalità va a... Elettra!

«Quindi anch’io ti sto antipatico.» Roman gli ha detto che modificavo accidentalmente anche le sue frasi? Gli possano venire le emorroidi fulminanti! Ecco perché mi guardava storto...

Sbuffo. «Qualche volta. Semplicemente, sai, non volevo illuderla con quelle tue frasi carine di circostanza. Ho fiutato il suo interesse per te e ti ho salvato da una futura piattola russa! Dovresti ringraziarmi, invece di arrabbiarti.» Tzè, beccati questa. Sono un genio, lo so.

«Non sono arrabbiato.» Risponde semplicemente lui, con un sorriso.

Ma perché fa così, perché? Perché dice sempre la cosa giusta?

«E allora che parli a fare?» Alzo gli occhi al cielo.

«“E allora che parli a fare?”» Mi fa il verso, imitando una voce femminile. Poi emette un sospiro e inizia a pizzicarmi sui fianchi, facendomi contorcere dalle risate. «Quanto sei indisponente!» Dice, a denti stretti ma col sorriso.

«SMETTILA! Concentrati sulla guida, idiota!» Grido tra una risata e l’altra. Gli prendo la mano e la allontano dal mio corpo. La tengo tra le mie per qualche istante, senza sapere dove mettergliela. Non c’è nemmeno il cambio, che gliel’avrei poggiata lì.

«Sei gelata. Ti senti bene?» Prima la sua mano era tra le mie, adesso è lui che le stringe, e inizia a sfregare il pollice contro la mia pelle.

«Sì.» Una minuscola parte di me prega che non si accorga del battito cardiaco lievemente accelerato. «Ho sempre le mani fredde.» E adesso puoi anche smettere di riscaldarmele, grazie.

Chissà perché questa non l’hai detta ad alta voce.

Io agisco direttamente, ricordalo sempre.

E, per l’appunto, sfilo le mani e le poggio in grembo. Lui ritira la sua e la mette sullo sterzo, senza aggiungere altro. Mi domando quand’è che si deciderà a mandarmi sonoramente a quel paese.

Segretamente, spero mai.

 

 

~ Note

Ma buonsalveeeeeeeeeeee! Che piacere ritrovarvi.

Capitolo un po’ poliglotto, come avrete notato. Un grazie ENORME a Pyra per avermi aiutato col russo. Quella scricciola ha appena tredici anni e m’ha bastonata per le castronerie che avevo erroneamente tradotto.

(*) La seconda frase, come avrete facilmente intuito, significa “Mi hai fatto male!”

Mi sono divertita tantissimo a scrivere del sabotaggio di Elettra nelle conversazioni con Lena Ivanov. Purtroppo è una cosa che farei anch’io. Ma non ditelo a nessuno.

Un po’ di foto per voi: questa è l’Audi di Christian (qui) e questi gli interni del DeVito South Beach (qui). Tutto vero, eh. Intendo il ristorante, non l’Audi. Quella, insieme al suo proprietario, purtroppo sono ancora frutto della mia immaginazione. Ahimè.

Non vedo l’ora di farvi leggere il prossimo capitolo. È uno dei miei preferiti.

Una piccola nota a tutti quelli che hanno aggiunto questa storia a preferiti/seguite/ricordate: siete tanti, e di questo sono felicissima, ma apprezzerei se mi lasciaste una recensione. Fatevi sentire, o lettori silenti! Sembra nulla, ma una recensione conta davvero tanto per chi scrive.

Vi lascio, come al solito, uno spoiler, ricordando che per altri c’è il gruppo. Ho modificato l’impostazione della privacy da “Chiuso” a “Segreto”, quindi non troverete più il gruppo ma potete chiedermi di aggiungervi tramite MP qui:

 

Mentre sto per urlargli in faccia, la porta si apre ed entrambi ci voltiamo di scatto.

I capelli sparati di Tony fanno capolino e osservo distintamente la sua espressione cambiare quando vede come siamo messi.

«Ho interrotto qualcosa?»

La cosa bella è che né io né Christian ci muoviamo di mezzo millimetro.

 

P.S.: Una piccola “chicca” riguardante il titolo: per chi non lo sapesse, moth significa falena. You’re the moth and I’m the flame”, cantava Hilary Duff. Insomma, anche se non si vede, qui si fanno progressi, gente. XD

 

Un abbraccio gongolante,

Sara.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci - You're a dream to me ***


Blend



«Christian, la verità è che mi sei piaciuto dal primo momento in cui sei magicamente apparso in quella camera d’albergo. Solo che ero troppo cogliona per ammetterlo, devi scusarmi.»

«Anche tu, Elettra. E credo di averlo ammesso ogni giorno da quando ti ho incontrata.»

Christian si avvicina a me e proprio quando sta per baciarmi, Danny – voce dei The Script – mi strappa dal suo abbraccio urlandomi “Standing in the hall of fame!”

Sussulto, svegliandomi di soprassalto.

Con gli occhi sbarrati cerco tracce di Christian intorno a me. Tutto quello che vedo, però, è solo il soffitto sgangherato della mia stanza. Sbuffo, snocciolando un paio di imprecazioni a voce alta. Spengo la sveglia e urlo con la faccia contro il cuscino.

Odio i sogni. ODIO. I. SOGNI.

«Maledetti, maledetti, maledetti!» Ringhio mentre mi alzo per andare a fare colazione. Accendo la televisione sintonizzandola su un canale di intrattenimento, con la segreta speranza che la scia del sogno svanisca nel nulla, o finisca nel dimenticatoio con tutti gli altri.

 

***

 

«Buongiorno a tutti.» Oggi ho un diavolo per capello. Già. E ho tanti capelli, nel caso non ve ne siate accorti. I miei colleghi – o almeno, quelli che sono arrivati – ricambiano il mio saluto ed evitano accuratamente di rivolgermi la parola. Ormai si può dire che abbiano imparato a conoscermi: sanno quando possono e quando non possono. Oggi non possono.

Sbatto la porta della mia stanza facendo tremare la veneziana e butto la borsa sulla scrivania, irritata.

«Ti senti bene?»

Ah, c’è Lily. Non l’avevo vista. Mi sta guardando con gli occhi sbarrati, sembrano ancora più a palla del solito.

«Mai stata meglio.» Commento, acida. Mi siedo e accendo il computer. Tamburello con le dita sul legno della scrivania, e osservo la mia compagna d’ufficio controllare delle carte e sistemarle in tanti plichi ordinati.

«Io oggi dovrei aiutare Danny con delle rilegature, però se hai bisogno di me gli chiedo se posso rimandare.» Mi informa, cauta.

Io scuoto la testa. «No, vai pure, non mi servi.» La liquido con un gesto nervoso della mano. Lei si defila senza aggiungere nulla. Tra l’altro non so neanche io cosa fare, oggi. Devo aspettare ordini superiori da Martin, oppure mal che vada posso chiamare Thomas. Sì, adesso lo chiamo.

Il lieve bussare della porta interrompe il mio flusso di pensieri.

«Avanti.» Dico scocciata. Alzo la cornetta del telefono e quando la porta si apre resto col dito a mezz’aria sul numero quattro.

Christian. Caffè. Maglia bianca. Muscoli. Occhi. Christian. Sorriso. Christian.

ELETTRA, RIPRENDITI!

«Buongiorno. Come stai?» Orione – sì, perché decisamente mi perseguita – chiude la porta accompagnandola con un fianco e viene avanti con due tazze di caffè tra le mani.

No, no, no.

Le appoggia sulla mia scrivania e prende la sedia di Lily.

No, no, no.

Si siede di fronte a me e mi rivolge un sorriso mozzafiato.

No, no, NO!

«Che ci fai qui? Cosa vuoi?» Sotto la scrivania, agito la gamba come in aereo. Sembra attaccata agli elettrodi di Tesmed. O a una centralina elettrica.

«Avevo sentito qualcuno borbottare “Oggi è la reincarnazione di Hitler”, ma non credevo dicessero sul serio. È successo qualcosa?»

Tu mi sei successo, ecco cosa.

E ora la mia mente si prende anche la libertà di sognarti. Questo è un cattivissimo, pericolosissimo segno. Devo prendere le distanze.

«Niente che ti riguardi.» Bugia.

Christian espira lentamente, gli occhi fissi su di me che non oso guardarlo.

«Guardami.» Appunto. Scuoto la testa, non ci penso nemmeno.

«Non hai da fare?» Clicco su una finestra a caso, per far finta di essere impegnata. Dalla sua posizione non può vedere lo schermo del mio computer.

«Sta’ zitta e guardami.» Una mano blocca la mia, quella posata sul mouse; l’altra mi prende il mento e mi costringe a rivolgergli lo sguardo. «Cos’hai? Non me ne vado finché non me lo dici.» Allora staremo qui fino alla fine dei tempi, caro.

«Primo: smettila di bloccarmi il viso.» Sibilo, e lui allontana la mano dal mio mento. Okay, ora si inizia a ragionare. «Secondo: non ho nulla. Una persona non può essere nervosa per i cazzi suoi?» Che sono anche cazzi tuoi in questo caso, ma sorvoliamo.

«Parla bene.» Mi rimprovera, e io alzo gli occhi al cielo. «Oggi dobbiamo lavorare insieme, quindi stammi bene a sentire. E guardami, ti ho detto.» Il tono si fa più duro e mi costringo a fare come dice. Poi riascolto mentalmente le sue parole.

«Dobbiamo lavorare insieme?!» Oh no. No, no, no. NO!

Ora mi metto a piangere.

«Sì. Bevi e calmati.» Alza la tazza di caffè e me la mette sotto il naso. La prendo con un gesto stizzito e ne sorseggio un po’.

«A saperlo ti avrei portato una camomilla.» Aggiunge, ironico.

«Ah ah ah, sto morendo dal ridere.»

Faccio appena in tempo a posare la tazza sulla scrivania che sento uno schiaffetto sulla tempia sinistra. Leggero, ma pur sempre uno schiaffo.

«EHI!» Mi alzo e ricambio la sberla, colpendolo però sulla mano che usa per schivarsi. Continuo a picchiarlo con tutta la foga possibile e lui si difende splendidamente, beccandosi ogni tanto qualche colpo solo per farmi contenta.

«Ora basta.» Due secondi dopo si stufa e mi blocca le braccia, serrando le mani attorno ai miei polsi. La scrivania separa i nostri corpi, ma i nostri visi sono a poco meno di venti centimetri di pericolosa distanza.

“EH! EH! EH! DANGER! DANGER! MAYDAY! MAYDAY! PREPARARSI ALL’IMPATTO!” L’immaginaria sirena schiamazza impazzita nella mia testa, come i sensori di parcheggio di un’auto.

«Lasciami.» Sussurro, torva. Lui stringe gli occhi e fa la faccia da cattivo.

«No. Dimmi cos’hai, altrimenti te lo scordi.» Aaaahhh, ma che ho fatto di male per meritare un bambino capriccioso come capo?!

«Ti ho già detto che NON-HO-NIE-»

Mentre sto per urlargli in faccia la porta si apre ed entrambi ci voltiamo di scatto. I capelli sparati di Tony fanno capolino e osservo distintamente la sua espressione cambiare quando vede come siamo messi.

«Ho interrotto qualcosa?» La cosa bella è che né io né Christian ci muoviamo di mezzo millimetro. «Posso aggiungermi?» A queste parole, scoppio in una risata isterica. Christian mi lascia e io mi piego letteralmente in due. Sto talmente male che mi siedo per terra e continuo a ridere. Tony entra e chiude la porta, per poi avvicinarsi circospetto.

«Cosa le hai fatto? Mi sa che non ha funzionato.» Bisbiglia a Christian, che sta sghignazzando. Io smetto di ridere con uno strascico di mugolii e li guardo dal basso in alto.

«Aiutatemi ad alzarmi, per favore.» Allungo una mano e l’impiccione – al secolo Christian Orione Wayne – la afferra e mi tira su.

Mi liscio la gonna e torno a respirare normalmente. «Okay, sono pronta.»

Tony sorride sornione e si porta una mano sulla cerniera dei pantaloni. «Mi spoglio?»

Gli mollo uno schiaffetto sulla spalla e guardo Christian che ha fatto lo stesso dall’altro lato.

«Tra moglie e marito non mettere il dito, avete ragione. Ero venuto a darvi il buongiorno con uno dei miei abbracci stritolanti e pieni di amore ma noto che qui di amore ce n’è abbastanza. Me ne vado!» Alza le mani in segno di saluto e sparisce sgambettando.

«È sempre il solito.» Commenta Christian con un mezzo sorriso. Io lo fisso ancora vagamente inebetita per tutte quelle risate. «Allora? Ti sei calmata? Possiamo tornare a parlare di lavoro o vuoi picchiarmi ancora un po’?»

«L’idea non mi dispiace, ma è una lotta persa in partenza.» Indico il bicipite che si intravede dalla maglia e mi appoggio alla scrivania, riappropriandomi della tazza di caffè.

«Prima o poi scoprirai i miei punti deboli, è solo questione di tempo.» Mi fa l’occhiolino e si siede. «Comunque, tornando a noi, oggi mi aiuterai con la correzione di un manoscritto.»

E a quelle parole, si aprono le porte del paradiso.

 

***

 

«Questo è un paragrafo con alcuni errori ricorrenti dell’autore, che ho riscontrato anche nei successivi due capitoli. Se non capisci qualche simbolo te lo spiego.» Christian mi porge un piccolo fascicolo pieno di correzioni in rosso sul margine laterale destro. «Inizia a guardare e a inquadrare gli errori e poi passi a correggere i capitoli tre e quattro.»

Mi sento eccitata come un cane a cui stanno lanciando un osso. Tra un po’ scodinzolo.

Ti rendi conto di essere lunatica quanto una cinquantenne in crisi di mezza età, vero?

Chi, io? Davvero?

Siamo nel suo ufficio, lui al suo posto davanti al computer e io appollaiata su una delle due sedie davanti alla scrivania.

«Hai una bella grafia.» È ordinata, chiara. Mi piace, sì.

«Senza quella non potrei fare il lavoro che faccio.» Risponde lui senza alzare gli occhi dal suo manoscritto.

«Antipatico.» Bofonchio. Mezza volta che gli faccio un complimento... da non ripetere mai più, prendi nota Elettra.

Okay, questo simbolo significa che la parola va scritta in corsivo. Lo slash semplice si usa per sostituire una lettera errata, mentre lo slash con un pallino a ciascuna estremità per inserire una parola omessa in una riga. L’arco tra due parole serve per regolare la distanza tra due parole spaziate... mmm. Questa specie di ipsilon rovesciata invece credo serva per inserirlo, lo spazio.

«Questo cos’è?» Mostro il foglio a Christian col dito puntato su un simbolo strano.

«Questo indica che la frase deve andare a capo.» Spiega. «Quest’altro invece è l’esatto contrario. Vedi? Questi periodi vanno scritti di seguito, senza interruzioni.» Annuisco.

«Okay, grazie.» Quando ho finito di interpretare i vari simboli, inizio a leggere il nuovo capitolo, armata di penna rossa. Mi sento potente.

Ah-ha! Scovato il primo errore. Incerta, torno a confrontare il testo precedente per essere sicura del simbolo da scrivere. Sì, è quello. Lo traccio con la massima precisione accanto alla riga in questione e poi alzo lo sguardo, incrociando quello di Christian.

«Che c’è?» Mi sta guardando con un mezzo sorriso nascosto dalla mano su cui ha appoggiato il viso.

«Ho la sensazione che quei fogli cambieranno totalmente colore. Oggi non è il giorno giusto per farti correggere una bozza, forse. Stai impugnando quella penna come se fosse un coltello.»

«Sono solo precisa.» Protesto. «E se mi guardi non mi concentro.» Ho sempre avuto questo pallino, anche a scuola. Durante le verifiche in classe, per esempio, se un professore passava tra i banchi per controllare lo svolgimento del compito – nonostante avesse tutte le intenzioni di aiutarmi, magari – io coprivo il foglio con la mano sostenendo che non riuscivo a lavorare con gli occhi addosso. Della serie: piccole fissate crescono. Già.

«Va bene, proverò a non guardarti.» Dice, col tono di chi asseconda il capriccio di un bambino. «Ci vuole un libretto di istruzioni con te, ogni volta tiri fuori una novità.»

«Stai dicendo che sono una persona difficile?» La cosa non è che mi piaccia poi tanto.

«No, tu fai la difficile. Per qualche nebuloso motivo che sono deciso a scoprire.»

«Nebuloso motivo?»

«Sì, l’ho appena letto. Questo autore si diverte a inserire aggettivi a caso.» Scuote la testa e io rido.

«Che dici, ci iniettiamo un’altra dose di caffeina? Non sono ancora del tutto sveglio.» Me lo sta chiedendo ma in realtà già ha alzato la cornetta del telefono per comporre il numero dello Starbucks. Gli dico che sono d’accordo e lui ritorna a leggere. Mentre aspetta che rispondano, si mordicchia distrattamente l’interno del labbro.

«Salve, Christian Wayne.» Dice con tono solenne qualche istante dopo.

Ma chi sei, Gesù? Simulo un inchino e lui mi pizzica il braccio.

«Ahia.» Mi massaggio il punto dolente e gli metto il broncio.

«Sì, vorrei due caffè. Anzi, due cappuccini. Con la mousse al caramello.» Esiste la mousse al caramello? Mi stanno brillando gli occhi, sicuramente. Per un istante ho smesso di tenere il broncio, ma corro subito ai ripari. Quando Christian se ne accorge, si porta un dito all’angolo delle labbra e fa finta di tirarlo verso l’esterno per invogliarmi a sorridere.

È talmente carino che ci riesce.

«Sì, grazie mille. Buona giornata anche a lei.»

«Grazie infinitissime, le auguro una splendida giornata, spero che la costellazione di Pandora si allinei perfettamente con quella di Saturno e le faccia avverare l’oroscopo.» Gli faccio il verso vivacizzando le sue affermazioni, e lui scoppia a ridere di cuore. «Ma quanto sei gentile?» Chiedo, quasi schifata.

«Sono gentile per me e per te, visto che tu non lo sei mai.» Spiega lui, alzando le sopracciglia come un maestrino scrupoloso.

«Gne gne gne.» Gli faccio la linguaccia e torno a leggere. Sembriamo due bambini delle elementari, vero?

Ma anche dell’asilo, guarda.

 

***

 

Sono arrivata a metà del terzo capitolo quando sentiamo bussare alla porta. Christian dice “avanti” e io osservo soddisfatta tutte le modifiche che ho apportato. In effetti, noto con una smorfia, ci sono quasi più correzioni che parole esatte. Forse mi sono lasciata un tantino prendere la mano.

«Buongiorno, duca. Oh, c’è anche la duchessa.» A parlare è Thomas, che entra diretto e si siede sulla sedia accanto a me. Mi sorride e io ricambio, discreta.

«Christian, ho bisogno di anticipare l’uscita del libro di Annette Simmons. Lo so, la scadenza era fissata per lunedì prossimo, ma il suo agente mi sta letteralmente succhiando il sangue dalle vene. Lo vuole per questo venerdì.»

Guardo Christian per scrutare la sua reazione. È mai possibile che niente al mondo scalfisca quest’uomo?

«Volevo approfittare di questa settimana per indirizzare Elettra alla correzione...» Mi guarda pensieroso. «Va bene, non fa niente, la seguirò comunque. Tanto è brava, se la caverà anche senza una supervisione costante.» Si rivolge a me con un sorriso.

«Certo, mi fa anche più piacere.» Ops, non volevo davvero dirlo ad alta voce. «Cioè, nel senso che così imparerò più in fretta...» Basta, taci!

Thomas ci guarda interessato. «Questa donna ti darà filo da torcere, Wayne.»

«Ah, me lo dà già, se è per questo.» A me non sembrano così rivali come mi vogliono far credere tutti. Lo vedete come si divertono a prendermi in giro?

«Quindi credi di farcela per venerdì? Cosa ti manca?» Thomas torna serio.

«Il controllo della copia cianografica, la scheda promozionale e la quarta di copertina. Dopo controllo Danny, ma dovrebbe aver finito.» Replica Christian. Thomas annuisce, valutando ciò che ha appena ascoltato.

«Va bene, dovresti farcela senza problemi. Ah, Annette vuole anche il sito web. Le ho detto che al massimo possiamo darle uno spazio maggiore nella nostra sezione autori, ma lei ha insistito.» Continua il vice, seccato.

«Isterica megalomane.» Commenta Christian con uno sbuffo. «Va bene, parlerò anche con Christopher e Mike. C’è altro?»

«No, credo sia tutto... ah, ho sentito anche la-» Thomas si blocca quando qualcun altro bussa alla porta. Dio mio, sembra di stare agli uffici comunali.

«Ehm, permesso?» Il viso dolce di Rachel compare al di là della porta.

«Ah, sì, entra, entra.» Christian le sorride gentile e lei si fa avanti con il vassoio di Starbucks tra le mani. Lancia un’occhiata fugace alla stanza e immediatamente avvampa. L’effetto di Christian, sicuramente. Seguo il suo sguardo e vedo che invece sta guardando Thomas. Mhmm...

«Salve.» Ci saluta, riservandomi un sorriso. Posa i due cappuccini – che profumano di caramello in un modo assurdo – e si riprende il vassoio.

«A me niente?» Scherza Thomas, e lei se possibile diventa ancora più rossa. Questo è un altro che si diverte a burlarsi di dolci fanciulle innocenti come noi.

Come lei, semmai.

«Ehm, l’ordine era di due cappuccini...» Mormora lei, desolata.

«Non fare caso a lui. Si diverte a mettere in imbarazzo la gente, ma lo fa solo con le persone che gli piacciono.» Christian le fa l’occhiolino e Rachel sembra cercare conferma di quelle parole nello sguardo di Thomas, che le sta sorridendo. Mhmm...

Rachel si lascia sfuggire una minuscola risatina ad alto tasso di isterismo. «Bene, io torno giù. Buona giornata.» Ricambiamo tutti e tre insieme, Christian aggiunge un cenno della mano e Thomas ed io un sorriso. Poi il vice-boss riprende a parlare.

«Dicevo, mi ha telefonato la responsabile di Weekly, per chiedermi se potevamo recensire i libri di O’Malley e Thompson. Potresti occupartene tu? Io devo partire per la fiera del libro stasera, se hai qualche problema possiamo sentirci telefonicamente.»

«D’accordo, ci penso io. Fai buon viaggio.» Christian serra le labbra in un sorriso che mi sa di impostato, e Thomas va via.

«Sapevo già delle recensioni, Martin mi ha chiamato stamattina per dirmelo.» Mi spiega Christian, leggendomi nel pensiero. «Ma a volte è meglio tacere piuttosto che dire tutto quello che ci passa per la testa.» Mi scocca un’occhiata divertita e io ricambio con l’innocenza di un angelo.

«È quello che faccio sempre.»

«Al contrario, però.» Replica lui.

«Sottigliezze.»

**********

 

Credo di avere la vista a pallini.

Anzi, a linee e scarabocchi vari. Dopo una giornata intera a correggere bozze e disegnare geroglifici, ho davvero bisogno di qualcosa per ricaricarmi. Il nostro fidato Starbucks sembra chiamarmi a gran voce. Decido di assecondarlo.

All’interno non c’è troppa folla, noto sollevata: qualche coppia seduta in disparte, un paio di uomini al computer e Rachel che sta riordinando la vetrina delle meraviglie insieme ad Elizabeth, la cassiera.

«Ehi.» La saluto mentre mi arrampico su uno sgabello.

«Cara, come stai? Sei sempre piuttosto stanca a fine giornata, ma che ti fanno fare?» Chiede con un sorriso vagamente malizioso.

«Leggere, leggere, leggere.» Le rispondo con un’occhiataccia. «I libri sono la mia vita ma a volte vorrei bruciarli tutti.»

«Almeno sei in compagnia. Cogli il lato positivo.»

«E che compagnia.» Commento ironica, facendo roteare gli occhi. Rachel ride e mi mette davanti il mio frappuccino.

«Non mi sembrano antipatici, dai. Christian è estremamente gentile, e Thomas…» Quando pronuncia il suo nome le guance le diventano di quel colore indistinto tra il rosso carminio e il porpora che ho già visto in ufficio. Ho deciso che lo chiamerò “Rosso Thomas”.

«Beh, insomma, anche lui. E anche il ragazzo con gli occhiali, altissimo, sguardo tenero…» Sorrido al suo tentativo di cambiare argomento e le vengo in aiuto: «Danny?»

«Sì, Danny. Anche lui dev’essere un tipo a posto.»

«Lo è, sì.»

La conversazione va improvvisamente a scemare mentre lei fa finta di pulire briciole immaginarie dal bancone.

«Da quanto ti piace?» Le domando dopo aver tirato un sorso di frappuccino ed essermi momentaneamente congelata il cervello. Lei capisce subito a chi mi riferisco, perché assume di nuovo la tonalità Rosso Thomas. «Si vede lontano dieci miglia. Non trovare scuse e non dire “non so di cosa tu stia parlando”.»

«Che razza di domanda è “da quanto ti piace?”» Sbotta, punta sul vivo.

«Una domanda con varie opzioni di risposta: “Mi è piaciuto a prima vista”, “Mi piace da quando l’ho visto fare questa tale cosa”, “Mi piace da tutta la vita perché siamo cresciuti insieme”, che ne so io? Anche se non credo sia l’ultima. Spero.»

«No, è la prima. Contenta?» Rido alla sua esasperazione.

«Rachel, sto cercando di fare l’amica. Non mi conosci ancora, ma te lo dico io: non è proprio da me.» Lei mi guarda e prende uno sgabello dal lato suo del bancone, appollaiandosi sopra.

«Scusa, hai ragione. È che davvero mi piace da troppo tempo ed è una cotta troppo stupida. Ho venticinque anni, che cavolo.» Sbuffa, premendo la fronte contro il palmo della mano.

«Cosa c’entra l’età e cosa c’entra il tempo? Tu cos’hai fatto di concreto per farglielo capire?» Dalla sua espressione imbarazzata capisco la risposta, anche se non emette una sola sillaba.

«Ma non è colpa mia.» Balbetta infine. «È che non lo vedo spesso. E quando lo vedo è solo per qualche minuto, come stamattina.» Si stringe nelle spalle per giustificarsi. «Mica come te, che lo vedi tutti i giorni.»

«A dire il vero non lo vedo quasi mai.» È vero, se ne sta sempre al piano di sopra.

«Non parlavo di Thomas.» Ah. Fingo indifferenza e stupore assieme.

«E di chi?» Domando poi, innocente come una colomba.

Rachel alza un sopracciglio, non se l’è bevuta. «Sai benissimo di chi. L’orsacchiottone con gli occhi di ghiaccio.»

«L’orsacchiottone?» Scoppio a ridere, lei mi segue a ruota.

«Sì, mi sa di tenero, di protettivo. Un buon partito, sì. A quando le nozze?» Batte le mani come una bambina.

«Ma che dici? Se non ci hai mai visti insieme! Io almeno so come ti comporti tu in presenza di Thomas e studierò il suo comportamento nei tuoi confronti, ma tu cosa sai di Christian? E poi non mi piace. È troppo… alto.» Potevi impegnarti di più.

«Sì, e io sono la figlia di Cappuccetto Rosso.» Dice, ironica. «E comunque vedo come ti guarda. Chiamale coincidenze, ma l’ho visto osservarti dalla finestra del suo studio più di una volta quando andavi via. Vogliamo parlare del cappuccino al caramello? Non ha mai ordinato una cosa del genere da quando lavoro qui, e guarda un po’, ha deciso di cambiare quando è arrivata la nuova collega che metterebbe il caramello anche sulla pizza.» Finito il suo sermone, indica il mio frappuccino – al caramello – per sostenere la sua tesi.

«Ma…» Ma dai! Che significa?! Basare le proprie ipotesi sul gusto di un caffè! È ridicolo. «Come Stranamore vali poco, sai.» Scuoto la testa, succhiando nervosamente quel che resta della mia bevanda.

«Pensala come vuoi, intanto credo che tra noi due quella che ha più probabilità sei tu. Se non altro, hai il vantaggio di vederlo tutti i giorni. E senza dubbio lui sa che esisti.» Aggiunge, alzando gli occhi al cielo.

Sbuffo. Sembra che tutto il mondo si stia coalizzando contro di me. Chiunque conosca me e Christian inizia a fare battutine strane su Christian e me. Ma dico, è possibile?

«Sai, i tuoi tentativi di deviare la conversazione evitando l’argomento “Thomas” non attaccano.»

«Nemmeno i tuoi se è per questo. Più che una conversazione sembra una partita di palla avvelenata.» Ci guardiamo minacciose per qualche istante e poi ridiamo.

Aspetto che serva un paio di clienti e poi le domando cosa le è piaciuto a prima vista di Thomas. Mi piace sentire queste storie.

«A dire il vero mi ha colpito prima la sua personalità. Non è una bellezza da colpo di fulmine, ci vuole un po’ per notarlo, ma ho sempre avuto davanti i suoi sorrisi, i suoi sguardi gentili, le sue buone maniere, le perle di saggezza che dispensa al mondo intero.» Sorride da sola, guardando il vuoto. È proprio persa, sì. «E poi ha quelle mani…»

«Ti sta partendo un cuoricino dall’orecchio.» La sfotto, e lei mi fa una linguaccia.

«Ha le mani sottilissime da pianista. Christian invece le ha grosse. Sempre affusolate, ma grosse. Come tutto il resto.»

Trattengo a stento una risatina nasale. Lei si accorge del doppio senso e sostiene che non voleva far nascere fraintendimenti. Come no.

«Però secondo me ce l’avrà un bel Mjolnir nei pantaloni.» Mi fa l’occhiolino.

Colgo il riferimento al martello di Thor e la guardo scettica. «Hai testato?»

«No, ho notato.» Si mette un dito sotto l’occhio con l’aria esperta da tenente Colombo degli attributi maschili. Le do un leggero spintone e faccio schioccare la lingua. «Ma va, va.»

La osservo servire i nuovi clienti mentre mi lancia occhiate complici, e decido che è ora di andarmene.

«Vado. Qualche volta dobbiamo vederci, ci prendiamo un caffè. Non qui, però.» Propongo, ridacchiando.

«Ma sì. Andiamo dalla concorrenza.» Annuisce lei e mi saluta con un abbraccio.

 

**********

 

Quando il mattino seguente varco la porta dello studio di Christian, pronta – più o meno – per affrontare una nuova giornata di scarabocchi, tutto quello che vedo è la scrivania vuota. Chiudo la porta e mi avvicino, notando un post-it attaccato su un plico di fogli accuratamente impilati. Faccio il giro della scrivania e lo stacco delicatamente.

Per Elettra – questi sono i successivi tre capitoli da correggere.”

Mentre l’area destra del mio cervello è impegnata a osservare la curva delicata della E, l’area sinistra si chiede cosa significhi questo biglietto: verrà? Non verrà? Perché è stato così sintetico?

Con uno sbuffo nasale degno del toro Ferdinando, mi tolgo il trench e lo poggio sulla sedia. Senza pensarci, mi siedo sulla poltrona di Christian. Con tutta probabilità non lo scoprirà mai.

Questa stanza profuma di lui. Con la coda dell’occhio vedo che ieri ha dimenticato la sciarpa qui. Non ho pensato di alzarmi e annusarla, no.

E se l’ho fatto, comunque, è perché mi piace Hugo Boss. Giusto per puntualizzare.

 

***

 

A metà mattinata mi decido a uscire da quella stanza.

«Ehi Elettra, ci sei anche tu? Ho visto il tuo ufficio vuoto, pensavo non ci fossi.» Mi dice Danny sorpreso quando mi vede.

«Sì, sto lavorando qui con Christian. Che non c’è, in effetti. Vabbè.» Clara mi lancia un’occhiata strana. Che vuole, quella secchiona antipatica? Scuoto la testa, disinteressata, e attraverso il corridoio per andare da Alexandra. Nel tragitto incrocio Tony.

«Buongiorno! Hai resistito parecchio, pensavo di vederti vagare piagnucolando molto prima.» Mi dà un bacio sulla tempia e io lo guardo perplessa.

«Perché dovrei vagare piagnucolando?» Un formicolio mi attraversa la nuca quando credo di aver indovinato la sua risposta.

«Perché tuo marito ti ha abbandonata.» Ecco. Se non avesse questa faccia da bambino cresciuto lo picchierei. O proprio per questo dovrei picchiarlo? Mi sa la seconda.

«Simpatico come un dito chiuso nella sedia a sdraio.» Replico, spazientita.

«Ahia.» Fa una smorfia di dolore all’idea e mi dà una pacca sulla spalla. «Ci vediamo dopo, se ti senti troppo sola ti vengo a fare compagnia. Non lo dico a Christian, tranquilla.» Sorride accattivante. Mi sembra Jafar, il cattivo di Aladdin.

Fingo stupore ed eccitazione. «Non mi dire, sarà il nostro piccolo segreto?» Poi torno subito seria e lui scoppia a ridere.

«Sei adorabile. A dopo, piccola.»

Piccola? Piccola? Razza di donnaiolo andato a male.

«Alex, sai mica che fine ha fatto Christian?» Chiedo, appoggiando i gomiti al banco della reception. Lei mi guarda coi suoi occhioni blu.

«Mmm, è venuto stamattina presto ma è dovuto subito andare via. Problemi di famiglia, credo. Non ho indagato.» Mi domando a che ora arrivi questa tizia: all’alba? Scaccio il desiderio di chiederle se ha lasciato detto qualcosa, o almeno se sa che tornerà, grattandomi il capo come se questo prurito fosse dovuto alla curiosità morbosa che mi sta divorando lo stomaco.

«Va bene. Grazie.» Mi costringo ad andarmene. Torno nella stanza di Christian e mi siedo di nuovo al suo posto. Sprofondo nella poltrona e mi puntello coi piedi contro il pavimento girando a destra e a sinistra come a cullarmi. Sembro una pazza invasata, lo so.

Guardo fuori dalla finestra. Da qui si vede benissimo tutta la strada principale, Starbucks incluso, e l’incrocio che porta alla metropolitana. Come se stessi ascoltando una registrazione, mi vengono in mente le parole di Rachel: l’ho visto osservarti dalla finestra del suo studio più di una volta quando andavi via. Sospiro. Ci pensate? Magari è un maniaco che mi spia.

Scuoto la testa e mi rigiro verso la scrivania.

Basta, Elettra. Focus. Concentrazione.

Mi armo di penna rossa e riprendo a leggere da dove avevo interrotto.

 

***

 

A circa mezz’ora dalla pausa pranzo, getto la penna sulla scrivania, stizzita.

Che fine ha fatto quel maledetto codino biondo? Dannazione, ora mi preoccupo. Non ha nemmeno telefonato, niente di niente. Mi lascia qui a sbrigare un lavoro di cui non so praticamente nulla, con un misero post-it e la sciarpa che continua a emanare il suo profumo come se fosse un nebulizzatore per ambienti.

Mi massaggio le tempie, cercando di respirare a ritmi lenti e regolari. Sto pensando di chiamare Rachel o Anne, per disperazione, quando improvvisamente la porta si apre.

Alzo di scatto lo sguardo e lo vedo. Giubbotto di pelle, maglia nera e grigia, occhiali da sole. (*) Sembra appena uscito da Top Gun. Non l’ho mai visto in tenuta “sportiva”. Wow.

Si toglie gli occhiali e mi rivolge un sorriso sorpreso. «Mi assento per mezza giornata e già mi soffi il posto?» Si avvicina alla scrivania e alza una mano, portandola a qualche centimetro dai miei capelli. «Posso scompigliarteli? Dai, una volta sola.» Quasi mi fa il musetto da cucciolo. O da orsacchiottone, come dice Rachel.

Alzo le mani, consegnandomi al nemico, e lo lascio fare. Chiudo gli occhi quando sento le sue dita tra i capelli e non posso fare a meno di sbuffare, tanto per ricordargli quanto mi dia fastidio questo gesto. Li riapro quando sento la sua mano spostarsi sulla mia guancia e lo vedo chinarsi su di me per posare un lieve bacio sull’altra.

«Hai lavorato bene senza di me?» Si toglie la giacca e si siede di fronte a me, sulla sedia dove dovrei stare io. Ormai sembra essersi capovolto tutto. Maledetti sogni e maledette Rachel e Anne e Eva e Tony e Lily e tutti quanti. E Violet, ovviamente, altrimenti s’offende.

«Una favola.» Mormoro, poco convinta. Oggi Elettra non è in sé. No, per niente. Questa giornata sta andando di male in peggio.

Mi domando se dovrei chiedergli se va tutto bene, poi mi dico che è meglio farmi gli affari miei. Sì. Mostrarmi interessata non è la migliore delle mosse.

«A cosa sei arrivata? Fammi vedere.» Mentre gli porgo il plico, si sente lo squillo del telefono interno. Alzo la cornetta e la passo a Christian.

«Sì? Ah, sì, fallo entrare. Grazie.» Rimetto la cornetta al suo posto e mi chiedo chi stia per entrare. Il mistero è presto svelato.

Un tizio in impermeabile fa il suo ingresso e Christian si alza per andargli a stringere la mano. Imbarazzata, mi sposto e torno alla mia posizione originale. Poi ci ripenso e mi metto in un angolino, lasciando che il tizio si sieda davanti alla scrivania.

«Salve.» Noto che Christian ha perso il sorriso ed è fin troppo serio mentre invita il tizio ad accomodarsi. Lui scuote la testa e poi mi guarda. Quando incrocio i suoi occhi, aggrotto la fronte. Io questo tipo l’ho già visto. Cerco di fare mente locale e dopo un po’ ci arrivo: l’ho visto al night club due o tre volte. Ora sono ancora più confusa. Come si conoscono lui e Christian? Che razza di gente frequenta?

Anche lui sembra riconoscermi e viene a stringermi la mano. «Sergei.» Si presenta, e io rispondo pronunciando il mio nome. «Tu sei ragazza del Vagabond?» Chiede con un forte accento russo, e vedo che Christian si irrigidisce.

«Lei è la nostra traduttrice, Sergei. Era al Vagabond per errore.» Mi lancia un’occhiataccia e io mi sento arrossire. Fortuna ha voluto che non ci incontrassimo più, e io ho accuratamente evitato di dirglielo, ma al night club ci lavoro ancora nei weekend.

Il russo mi scruta pensoso. «Mmm… capisco.»

«Elettra, puoi scusarci un attimo? Ti chiamo appena ho finito.» Annuisco alla richiesta di Christian ed esco dalla stanza, ancora più turbata.

 

Nei quindici minuti seguenti, fisso il telefono senza ricevere nessuna telefonata. Ho giocato circa trentasei volte a solitario – vincendo solo dieci partite – e sette volte a scacchi, imbrogliando col comando ‘annulla’ – e perdendo lo stesso.

Quando Mike passa col solito blocchetto a prendere le ordinazioni per il pranzo, gli comunico distrattamente la mia e vado in bagno a lavarmi le mani. Approfitto anche per fare la pipì, va. Seduta sulla tazza del water, mi rendo conto di essere proprio giù di morale, senza sapere neanche il perché.

Belle queste rivelazioni nel momento del ‘bisogno’.

Sto impazzendo, sì, è ufficiale.

«Oggi si pranza in sala riunioni!» Sento dire da qualcuno quando esco dal bagno, e la notizia non fa che peggiorare il mio umore. È sempre così, quando vuoi startene per i cavoli tuoi ti costringono a stare in mezzo al mondo intero.

La prima persona che vedo in sala riunioni è Lily, che agita la mano per attirare la mia attenzione. Vado a sedermi accanto a lei e le sorrido. Sorriso tirato, ma almeno è un sorriso.

«Non ti ho proprio vista tutta la mattina, stai bene?» Mi chiede, e io annuisco distrattamente. Nel frattempo i posti a tavola si riempiono e fanno il loro ingresso anche Martin e Christian; quest’ultimo viene a sedersi alla mia sinistra, come d’abitudine.

Iniziamo a mangiare e per un po’ si sente soltanto il rumore di forchette, bottiglie d’acqua e un lieve chiacchiericcio di fondo. Poi Martin si schiarisce la gola e attira l’attenzione di tutti.

«Ragazzi, come ben sapete ogni anno alla Macmillan Publishers organizziamo un viaggio di circa una settimana nel periodo natalizio, a cui tutto lo staff è libero di partecipare. A beneficio di Elettra, ripetiamo che è tutto pagato dal sottoscritto – chiaramente in misura al fatturato della società al quale contribuite anche voi, cari dipendenti – e che la meta si deciderà mettendo ai voti le varie destinazioni che proporrò.» Tutti parlottano eccitati scambiandosi commenti e sguardi felici. «La novità di quest’anno» prosegue poi Martin «è che il viaggio sarà anticipato a Novembre.» Aspetta che tutti abbiano assimilato la notizia e va avanti, spiegandone il motivo: «A dicembre abbiamo preso dei lavori importanti e acquisito nuovi autori, grazie anche al prezioso impegno del nostro redattore, quindi con tutta probabilità non avremo tempo di organizzare e prendere parte al viaggio in quel periodo.»

Wow. Un viaggio tra colleghi.

Oh no. Un viaggio tra C O L L E G H I. Dove la C sta sicuramente per Christian.

«Nancy vi girerà una mail con le destinazioni. Avete una settimana per rifletterci e confermare la vostra partecipazione.»

«E se volessimo proporre una meta diversa?» Chiede Tony, passandosi una mano sul pizzetto.

«Questa è una dittatura, non l’hai ancora capito?» Scherza Martin, strappandoci una risata. «Certo, potete proporre una destinazione a testa senza varcare i confini del territorio americano. In ogni caso, avete parecchia scelta.» Dice, pulendosi poi la bocca col tovagliolo. «Ah, ricordo che potete portare una persona con voi, ma a vostre spese. Dovete comunicarmelo ugualmente, per farla rientrare nel numero che darò all’agenzia. Detto ciò, andate in pace.» Conclude, e chi ha finito di mangiare, come me, si alza e va via, sparpagliandosi nel corridoio. Io vado diretta all’ascensore. Premo il pulsante di chiamata e mi volto quando qualcuno mi affianca.

«Allora, che te ne pare? Nemmeno un mese e mezzo che sei qui e già ti portiamo in giro per il mondo.» Mi punzecchia Christian con un sorriso. Quel plurale sottintende la sua partecipazione, suppongo. E certo, come potrebbe mancare il redattore nonché mio persecutore personale?

«La tua adesione è un forte deterrente a restarmene qui, sai?» Gli dico mentre entriamo nell’ascensore.

«Coooosa? Ho sentito “restarmene qui” o mi sono impressionata?» La voce squillante di Lily ci raggiunge ancora prima di vederla entrare insieme a noi. «Non fare l’asociale del cazzo, per favore. Scusate il termine. Duke, è vero che deve venire anche lei? È vero? È vero?» Oddio, penso mentre mi porto una mano sulla fronte, questi mi ci portano di peso.

«Non starla a sentire, sta blaterando, poverina. Certo che verrà.» Risponde Christian battendo piano la mano sulla mia testa come si fa a un bambino scemo per assecondare i suoi scleri. Lo guardo torva, allontanando la sua mano con uno schiaffo. Lily sorride a sessantacinquemila denti.

«Ci divertiremo un sacco!» Batte le mani eccitata.

«Sì, sì, certo.» Mormoro distrattamente mentre usciamo dalla cabina dell’ascensore. Sto aprendo la porta della mia stanza quando la mano di Christian si posa sulla mia spalla, costringendomi a guardarlo.

«Appena ti sei sistemata ci vediamo nel mio ufficio per continuare con la correzione.» Mi comunica e io annuisco mentre osservo Lily tornare alla scrivania accanto a quella di Danny. Quando apro la casella e-mail noto che Nancy ha già fatto il suo dovere.

 

 

Da: Nancy Bishop – Amministrazione

A: Staff

Oggetto: Destinazioni viaggio Novembre 2012

 

Come anticipato da Martin, ecco le dieci possibili destinazioni del viaggio di quest’anno:

·         Vancouver

·         Toronto

·         Philadelphia

·         Sacramento

·         San Diego

·         Manhattan

·         La Paz

·         Panama

·         Havana

·         Caracas

Potete rispondere entro le ore 16:00 a questa e-mail per suggerire un’altra meta. Nel caso in cui una destinazione fosse proposta da più persone, l’elenco sarà aggiornato entro le ore 17:00. Da domani potete invece comunicare le vostre preferenze definitive – due al massimo – inviando un e-mail con le destinazioni che avete scelto ed eventuali richieste particolari (posti extra, partenze anticipate/posticipate etc.)

 

Buona giornata e buon lavoro.

 

Nancy Bishop

Amministrazione Macmillan Publishers Ltd.

 

 

Ah, però. San Diego, Toronto... wow.

Devo dirlo a Eva. Morirà d’invidia. Chissà che non possa venire anche lei...

Mentre ci sto pensando la spia rossa del telefono indica che sto ricevendo una telefonata da un interno. Alzo la cornetta e prima che possa rispondere sento: «Vota PANAMA!»

«Lily?»

«No, Babbo Natale. Chi altro ha una voce così carina?»

«Così stridula, vorrai dire.»

«Non cambiare argomento e domani vota Panama. Se non sei convinta vai un po’ a cercare le immagini dei litorali panamensi su Google.» E riattacca. Poi richiama. «Anzi, te le invio per posta. Poi cancella l’e-mail.»

Due secondi dopo Outlook mi avverte della ricezione di un nuovo messaggio di posta elettronica con mittente Lilian Bradshaw. Apro e mi trovo davanti due fotografie giganti che ritraggono un mare dalle mille sfumature di blu e spiagge chilometriche di sabbia bianchissima. Eh, beh. Non male. Chiudo e decido che ci penserò domani.

 

***

 

Quando apro la porta dello studio di Christian, lo trovo al telefono. Mormora un “Mh, d’accordo” e attacca.

«Mi hanno appena minacciato di morte se non voto Panama.» Mi informa, mentre mi siedo.

«Anche a me. La minaccia non era esplicita, ma adesso che mi ci fai pensare il tono coercitivo e il ringhio di sottofondo c’erano tutti.» Rispondo, con aria grave.

«Non hanno capito che posso farli licenziare in tronco per mobbing?»

«Interessante. Dovrei pensarci anch’io.» Replico con un ghigno. Lui mi dà una spintarella sul braccio e iniziamo a lavorare.

«Partecipate tutti, al viaggio?» Gli chiedo dopo un po’. Christian alza lo sguardo dal foglio e ci pensa su.

«L’anno scorso sì, mancava solo Clara mi sembra. Però c’erano Margot e Jessica, la vecchia traduttrice. Siamo andati a Santa Monica, uno spasso.» Racconta esaltandosi. «Sembra di tornare alle gite scolastiche. Dal viaggio vero e proprio, alle stupidate in albergo... no, non puoi non venire.» Dice alla fine. «Devi.»

«Ehi, ehi, questo è mobbing. Attento.» Lo prendo in giro. «Ti faccio mettere in camera con Thomas.»

Lui fa spallucce. «Io non ho nessun problema nei suoi confronti. Nemmeno lui, sotto sotto, o almeno niente di personale. È Martin che mette tutta questa pressione per fargli dare il massimo.» Spiega. «In ogni caso preferirei stare in camera con Tony, se proprio dovessi scegliere.» Sì, già ce li vedo. Tony darebbe il meglio di sé, proprio.

«Spero di non capitare accanto a voi, allora.» Commento con una linguaccia.

«Non so se Thomas verrà, comunque. Di solito viene in compagnia, con suo fratello – che ora mi sembra stia in Svizzera per uno stage – o con la sua ragazza. Beh, ex, adesso.»

Le rotelline del mio cervello girano come ballerine del San Carlo. «Sai, a proposito di Thomas... mi serve il tuo aiuto.» Dico dopo un po’, con tanto tanto tanto sforzo.

Christian si volta a guardare fuori dalla finestra e poi torna a puntare quell’azzurro su di me. «Scusa, controllavo se era in corso qualche uragano.»

«Ah-ha, quanto sei spiritoso.» Mi compiaccio della sua risata e proseguo. «Seriamente, ho un’idea. A Rachel piace Thomas.» Quando sente queste parole, Christian posa la penna e incrocia le mani sotto il mento.

«Uh, non mi dire.» Sbatte in modo volutamente leggiadro le palpebre, fingendosi estremamente interessato. Gli allungo uno spintone e lui torna serio. Forse. Alza le mani e mi incita a proseguire.

«Pensavo che dovremmo fare qualcosa. Insomma, a me sembrano carini insieme. Lei è completamente persa, lui non mi è sembrato dispiaciuto ieri. Almeno, potrebbero provarci. E lei potrebbe distrarlo dall’ossessione di avere la meglio su di te. Quest’unione va anche a tuo vantaggio. Che ne pensi?» Gli chiedo, sorridente.

«Ma tu non sei contro l’amore e le relazioni e la vita sociale in genere?» Mi domanda in risposta, alzando un sopracciglio.

Sbuffo. «Non quelle degli altri.»

Christian annuisce lentamente, valutando la cosa. «Ti aiuto solo se vieni a bere qualcosa con me.» Ahhhh, di nuovo?! «Stasera.» Conclude, con l’aria di chi sa che ha già vinto.

«Infimo ricattatore.» Sibilo, ormai con le spalle al muro. Lui mi sfiora la punta del naso col dito e poi si alza per prendere il cellulare che sta squillando nella tasca del suo giubbotto.

«Lo prendo come un sì.»

 

**********

 

«Allora, Hitch, cos’hai in mente?»

Siamo seduti a uno dei tavolini bianchi dell’Ocean’s Ten Lounge Bar, illuminati ancora per poco da un sole arancione che sta scomparendo oltre la linea dell’orizzonte. La brezza fresca mi scompiglia i capelli, provocandomi un piacevole brivido lungo la schiena.

Una giovane donna dai capelli neri ci ha appena portato le nostre ordinazioni. Christian ha insistito perché prendessi la ‘specialità della casa’: l’Ocean’s Ten Daiquiri. Ha un aspetto davvero invitante, se proprio devo ammetterlo.

«Non ho nulla in mente, è per questo che ho chiesto il tuo aiuto.» Replico come se fosse ovvio. «Potevo chiederlo a Lily, ma non mi ispira esattamente discrezione. Nancy è sempre super indaffarata, e Tony non ne parliamo proprio. Farebbe un annuncio mondiale a reti unificate.»

«Lo prendo come un “sei tutto quello che mi resta” e non come un “sei la mia ruota di scorta”.» Dice, scuotendo la testa. «Anche se sono praticamente la stessa cosa.»

«Prendilo come un “sembri il più affidabile”.» Suggerisco, e lui sembra soddisfatto della risposta. «Cavolo, è buonissimo!» Esclamo dopo aver assaggiato il mio drink.

Christian mi sorride con l’aria di chi sa il fatto suo. «Potevo mai consigliarti male?»

«Ah però, modesto.» Fingo sorpresa. «Fammi assaggiare il tuo. Cosa c’è dentro?» Mi sembra che si chiami Miami Vice, ma non ho idea di quali siano gli ingredienti. Christian mi allunga il bicchiere.

«È un mix tra piña colada e daiquiri alla fragola. O al lampone, non ricordo.» Tiro un sorso dalla cannuccia e mugolo di soddisfazione.

«Anche questo è buonissimo!» Ci devo venire con Rachel, penso, mentre restituisco il bicchiere al suo proprietario. «Adesso torniamo a noi, però.» Cerco di riportare la conversazione al suo topic originale. Christian annuisce e ci pensa su.

Qualche istante dopo, alza l’indice. «Credo di avere un’idea.»

 

 

~ Note

Splendori! Sono tornata! (Potevi anche restartene dov’eri, dite voi.)

Mi piace tanto questo capitolo, le cose si iniziano a smuovere anche se Elettra è come al solito satura di pisellaggine, ma Christian non demorde. Voi fate il tifo per lui e vedrete che prima o poi griderete al miracolo. (Dite la verità, avevate sperato in qualcosa durante l’aperitivo!)

Novitààààà: il viaggio!

Novitààààà n. 2: il piano “Cupido”!

Riusciranno i nostri eroi a far incontrare Thomas e Rachel? E riusciranno i nostri altri due eroi a convincere Elettra a partecipare al viaggio? Già prevedo il peggio, devo ammetterlo.

Fatemi sapere che pensate di tutto ciUò, sono davvero interessata a conoscere i vostri pareri! Anche dei lettori/trici in passamontagna!

Per premiarvi in anticipo, vi lascio uno spoiler succoso:

 

Quando il suo viso si trova sopra il mio, penso che non vorrei essere in nessun’altro posto al mondo. Il suo sguardo è titubante, incerto, sembra aspettare ancora qualche altra conferma.

 

Un abbraccio accaldato,

Sara.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo undici - Collision ***


Blend



“Io credo semplicemente che quello che non ti uccide ti rende… più strano.”

Joker, Il Cavaliere Oscuro

 

 

~ Un anno prima ~

 

«Si informano i passeggeri del volo Iberia 815 per Roma che il Gate 32 per l’imbarco è stato momentaneamente chiuso. Siete pregati di presentarvi al Gate numero 12. Ci scusiamo per il disagio.»

Ah, bene.

Sono notoriamente sfigata quando prendo gli aerei, non c’è dubbio. Anche quando sono tornata da Parigi con Giovanni l’aeroporto era bloccato per neve, e quando sono andata a Milano con Eva avevano deciso di fare delle esercitazioni proprio quel giorno, ritardando le partenze. Ma dico, si mettono d’accordo? Quando un biglietto viene prenotato a nome “Elettra Wayne” si inventano qualcosa per rendermi il viaggio impossibile?

Sbuffo e alzo lo sguardo per cercare questo benedetto Gate 12.

Non perdiamo il buonumore, Elettra. Oggi rivedrai la tua famiglia, le tue amiche e il tuo fidanzato dopo quasi tre mesi. È stata dura affrontare gli ultimi mesi di master senza poterli vedere, ma tra impegni miei e loro non siamo riusciti a passare nemmeno un misero weekend insieme.

«Ultima chiamata per i passeggeri del volo Iberia 815 per Roma.»

Vedo il numero 12 giusto in tempo e corro ignorando il borsone enorme che batte ripetutamente contro il mio fianco e la valigia che pesa settecento quintali e mezzo e che mi aspetto di lasciare per terra insieme al braccio. Raggiungo col fiatone il punto d’imbarco e mostro il biglietto alla hostess di terra che mi sorride e mi augura buon viaggio.

 

 

Il viaggio andò bene, penso, mentre prendo il calendario attaccato alla parete della cucina e lo giro al contrario, riappendendolo con la parte bianca in vista. Fu quello che trovai una volta tornata casa, che ha fatto schifo.

La voce di Adam Levine mi avverte dell’arrivo di una telefonata e, mentre infilo la giacca, sfioro il display per rispondere e poi porto il cellulare all’orecchio.

«Cosa stai facendo? Sei al lavoro? Ci stai andando? Come stai?» Anne cerca come al solito di nascondere la sua apprensione dietro un tono di voce apparentemente tranquillo e disinteressato.

«Sto bene, perché non dovrei?» Ho solo girato il calendario che rimarrà così fino a dopodomani per non vedere quelle due date che mi rendono più inviperita di quanto non lo sia già di solito.

Mia cugina, dall’altro capo del telefono, sospira. «Se hai bisogno di qualsiasi cosa basta chiamarmi, lo sai. Perché non vieni a cena da noi stasera? Oppure potresti prenderti la giornata libera domani e andiamo a fare shopping, che ne dici?»

«Anne, sto bene. Devo andare, a presto.» Riattacco e prendo le chiavi di casa, pronta per uscire.

 

 

«Mamma? Eva? Sono tornata!» Urlo mentre mi pulisco i piedi sul tappeto. Poso i bagagli per terra e due secondi dopo il viso elettrizzato di mia sorella compare nel corridoio.

«AAAAAHHHHH!» Mi salta praticamente addosso, gridando eccitata. Eva è la persona a cui tengo di più al mondo, oltre ai miei genitori. Con le lacrime agli occhi la stringo forte e le sussurro che mi è mancata troppo. Ci separiamo solo quando nostra madre ci raggiunge e pretende di avermi tutta per sé.

«Tesoro mio, finalmente! Com’è andato il viaggio?» Mugolo qualcosa in risposta tra i suoi capelli e allungo una mano per afferrare quella di Eva e tirarla verso di noi.

«Chiamo subito papà, gli dico che sei tornata.» Dichiara mamma quando ci sciogliamo dall’abbraccio di gruppo.

«Io devo avvertire Giovanni.» Affermo, ma non faccio in tempo a prendere la borsa che Eva mi trascina su per le scale, in camera nostra. «Lo chiami dopo il tuo trottolino amoroso, ora devo raccontarti un sacco di cose!» Saltella, e io le sorrido.

«Almeno fammi mandare un messaggio!» Protesto, mentre lei si siede sul letto e incrocia le gambe, pronta ad aggiornarmi sugli ultimi mesi. Ah, la cosa è proprio seria, allora, per mettersi così.

«No! Se ti avvicini al cellulare te lo brucio. Li conosco i vostri “messaggi” e le vostre “brevi telefonate”: finirei col riavere mia sorella l’anno prossimo. Visto che sono passati sei mesi senza vederti e mentre tu facevi la bella vita in Spagna io ero qui a dannarmi coi miei compagni di tirocinio, adesso devi sorbirti tutte le cazzate che ho fatto.» Dal tono che ha usato, capisco che non ammette repliche. È peggio di me, se possibile, in quanto a testardaggine.

«Vorrei solo precisare che non ho fatto la bella vita, ma un pallosissimo master con dei docenti sessisti e appiccicosi. Però hai ragione, in qualità di sorella maggiore devo ascoltarti. Vediamo quante bastonate ti meriti, va.»

 

 

Sbadiglio poco discretamente mentre vago tra gli scaffali del reparto dolci e schifezze varie. Stamattina sono scesa quaranta minuti prima per passare al supermercato e provvedere a riempire un po’ quei mobili e il frigorifero che piangono di solitudine. Ho preso cose necessarie e sane, come carne, latte, verdure e simili, ma ho la sensazione che stasera e domani mi serviranno anche cibarie di consolazione, come quel barattolo di gelato da mezzo chilo e quelle tavolette di cioccolato al latte. Quasi quasi prendo anche i marshmallow. Per ogni evenienza.

Passo davanti al reparto dedicato alla cosmesi e i miei occhi cadono sulle scatole di kleenex. Indugio qualche istante e poi scuoto la testa. No, quelli non mi serviranno. Non voglio che mi servano.

Continuo a camminare e, sovrappensiero, urto un altro carrello. Alzo lo sguardo per scusarmi e incrocio due occhi scuri familiari.

«Ethan! Ciao, come va?» Forzo un sorriso per non apparire esageratamente sconsolata e lui si fa avanti per abbracciarmi.

«Bene, a te? Anche tu sei scesa presto stamattina.» Nota, ricambiando il sorriso. Io annuisco distrattamente, mormorando qualcosa sull’eco che c’è nel mio frigo e vedo che il suo sguardo cade sulle schifezze che ho messo nel carrello.

«Pigiama party? Film strappalacrime e gelato a go-go?» Domanda sardonico.

Improvviso una risatina frivola e guardo l’orologio. «No, niente del genere. È proprio tardi, devo sbrigarmi o farò tardi al lavoro. Ciao, Ethan.» Lo saluto con la mano e mi allontano. Che strano, averlo incontrato qui a quest’ora. Non mi sembra un tipo mattiniero. Oltretutto il suo carrello era vuoto.

Una vibrazione nella tasca interrompe il flusso di pensieri, informandomi dell’arrivo di un sms. È di Eva.

“Sorellona, torno da un turno di sedici ore e mi aspetta un altro di diciotto, ma domani sera ti chiamo appena arrivo a casa. Ti penso e ti voglio un bene dell’anima, oggi più di ieri e meno di domani. Dopodomani ti vorrò bene uguale, tranquilla. A presto, E.”

Mio malgrado, avverto un lieve pizzicore agli occhi. Maledetta Eva, solo lei può farmi questo effetto. La stronza che non è altro.

Prendo un bel respiro, guardo brevemente in alto per far sparire il velo davanti agli occhi e mi avvio verso la cassa.

 

 

«Sono scioccata. Quanti...?» Conto i nomi che mi ha enunciato sulla punta delle dita. «Quattro. Eva, QUATTRO in tre mesi?! Nemmeno uno al mese!» La guardo con gli occhi sbarrati e lei si morde un labbro.

«Ma... non sono andata a letto con tutti e quattro.» Dice, guardando il copriletto di Batman. Devo rubarglielo, a proposito. Lo voglio anch’io.

«E ci mancherebbe, guarda!» Non voglio che mia sorella diventi quel tipo di ragazza. È comprensibile che abbia una fila di corteggiatori da qui a Milano, dopotutto è bellissima, ma questo non vuol dire che debba accontentarli tutti.

«Comunque, penso che con l’ultimo possa esserci qualcosa di serio.» Ecco, ora già si ragiona.

«Chi è l’ultimo?» Mi informo, tanto per essere sicura.

«Pietro.» Eva mi dà la conferma e io mi appunto mentalmente di cercare tutte le informazioni possibili su questo tizio.

«Toc toc.» Una voce familiare si inserisce nella conversazione. Mi volto e con un gran sorriso saluto mio padre.

«Stai bene?» Mi dice, mentre mi viene incontro per abbracciarmi. Lo stringo forte e annuisco sulla sua spalla.

«Sì, papà. Tu?» Quanto mi è mancato anche lui. Cosa sarebbe la vita senza la propria famiglia?

«Bene, adesso meglio.» Mi dice e mi scompiglia i capelli, facendomi sbuffare. Sa quanto non mi piace che mi si tocchino i capelli, ma lo fa sempre. Lo adoro per questo.

Lo squillo del mio cellulare mi costringe a sciogliere l’abbraccio. Eva me lo porge, sul display leggo il nome del mio fidanzato. Decido di non rispondere e afferro la borsa.

«Vado a fargli una sorpresa. Torno per cena!»

 

 

Nonostante i miei piani, arrivo in ufficio con cinque minuti di ritardo. Raggiungo a passo svelto il mio ufficio e saluto Lily con un mezzo sorriso.

«Ciao capo. Tutto bene?» Mi domanda, mentre mi spoglio e accendo il computer.

«Sì, tutto bene.» Prima di sedermi ripeto l’operazione che ho fatto a casa col calendario che abbiamo nella nostra stanza e quello da tavolo che ho sulla scrivania.

Lily aggrotta la fronte. «Perché hai girato a novembre? Sei impaziente di partire?»

«No, per niente.» Anche se una parte di me sa che mi ci vorrebbe proprio un bel viaggio. «Non mi va di guardare il calendario, oggi. E neanche domani.» Replico con una scrollata di spalle, pregando che non faccia domande aggiuntive. Per fortuna si rassegna al primo colpo, lasciandosi sfuggire solo un “okay” poco convinto.

«Ah, ti voleva Christian.» Mi informa mentre controllo le mail. Annuisco e digito il numero del suo interno.

«Sì?» Sentire la sua voce mi fa sorridere e innervosire allo stesso tempo. Mi innervosisco perché ho sorriso.

«Christian, ciao, sono-»

«La mia sciagurata traduttrice che non passa mai a salutarmi, lo so.» Decido di sorvolare sull’aggettivo possessivo e mi scuso.

«Non è giornata, Duke.» Anzi no, non mi scuso.

«Non mi hai mai chiamato così. Non mi piace, preferisco che mi chiami Christian.» Avverto un leggero capogiro e mi faccio aria con una cartellina nelle vicinanze del telefono.

«Ti ho chiamato perché Tony mi ha girato alcune e-mail da tradurgli» dico, cambiando argomento «e quindi verrò ad aiutarti con la correzione quando avrò finito qui. Per te va bene?» Resto in ascolto mentre lui sospira.

«Sì, va bene.» La sua risposta secca mi spiazza leggermente, ma decido di ignorarla e riattacco. Apro la prima e-mail e inizio a tradurla.

Quando arrivo alla seconda, il telefono squilla. Alzo la cornetta e a rispondere è Alexandra.

«Elettra, c’è una telefonata per te. Te la passo.»

«Okay.» Rispondo, titubante.

«Pronto? Signorina Wayne?» Un forte accento russo che ho già sentito prima mi arriva all’orecchio. «Sono Sergei Vasilyev. Ci siamo incontrati qualche giorno fa.»

«Sì, mi ricordo di lei. Mi dica.» Rispondo, cauta.

«Andrò dritto al punto: questa sera io terrò incontro molto importante al Vagabond, e avrei bisogno di traduttrice per russo.» Dice, tranquillo. Mi guardo intorno come se qualcuno potesse spiarmi, e capire dall’espressione del mio viso con chi sto parlando.

Qualcuno? O Christian Wayne?

Sta’ zitta e fammi pensare.

«Il compenso sarà più che adeguato, signorina Wayne.» Prosegue quello, per convincermi. Non che mi servano soldi, ecco… okay, un po’ di soldi in più non fanno male a nessuno. E poi è il mio lavoro. Io traduco, no? E poi mi distrarrei da questa giornata.

Direi che ci sono ottimi motivi per accettare.

Direi che non conosci nulla di questo tizio e Christian ti spelerebbe viva.

Direi che Christian non è mio padre.

«D’accordo, signor Vasilyev. Accetto.»

 

Dopo il solito inevitabile quarto d’ora di traffico, finalmente svolto in via Sestino e come al solito parcheggio nella strada adiacente alla villetta dove abita Giovanni. Chiudo la portiera, premo il pulsante sulla chiave per inserire l’allarme e mi do un’occhiata veloce nel finestrino, per controllarmi. Riavvio i capelli e inizio a camminare sul marciapiede. Proprio quando sto per voltare l’angolo, sento la sua voce. Istintivamente mi blocco, sentendolo urlare.

«Valeria, sei impazzita?!» Valeria? Oh, c’è anche lei! Sorrido nel sentire il suo nome, ma non riesco a capire perché stanno litigando. Lei gli risponde qualcosa che non afferro.

«Oggi torna Elettra, ti sembra il caso di venirmi a trovare?!» Sta gridando Giovanni. Un tuffo al cuore. Che significa?

Stavolta sento chiare e tonde le parole di Valeria. «Sono venuta proprio per questo! Hai intenzione di dirglielo?» Dirmelo? Dirmi cosa?

Una strana consapevolezza si fa strada tra i miei pensieri, lasciandomi l’amaro in bocca. Decido di ascoltare la risposta di Giovanni, ma sto già indietreggiando verso la macchina.

«Non voglio rovinarle la festa. Glielo dirò... quando sarà il momento.»

Schiaccio il piede sull’acceleratore, ingoiando il groppo che mi si è formato in gola. Non è come penso. Sicuramente c’è un’altra spiegazione. Non... no...

Quando varco la porta di casa, mi trovo davanti Francesca, un’altra mia cara amica. Lei e Valeria sono come due sorelle per me. Anche se adesso non ne sono più tanto sicura.

«Ehiii! Bentornata!» Fra corre ad abbracciarmi, Eva alle sue spalle mi guarda accigliata.

«Sei già tornata? Strano.»

Annuisco distrattamente sperando di non avere gli occhi lucidi e dico che Giovanni non era in casa. Francesca sembra interdetta per qualche secondo. Mi dirigo in camera come un automa e lei mi segue.

«Tutto a posto?» Mi chiede, cauta. Annuisco e provo a parlare ma il groppo in gola non ne vuole sapere di scendere. Provo a calmarmi, non voglio piangere.

«Ho visto Valeria e Giovanni.» Riesco a dire, infine. Sto per correggermi, perché in realtà li ho solo sentiti e non so nemmeno cosa significhi quello che ho sentito, ma non c’è bisogno di aggiungere altro, perché Francesca sbarra gli occhi e fa una faccia mortificata.

«Oddio, Elettra, mi dispiace tanto... tu... non dovevi saperlo così...» Un altro tuffo al cuore. Sapere cosa, porca miseria?! Cerco di non mostrarmi sconvolta quanto in realtà so di essere e penso a una risposta che possa farla parlare. Poi ricordo che i migliori psicologi restano in silenzio, così invogliano l’interlocutore a parlare, e opto per il silenzio.

Funziona.

«Loro... è una cosa di un po’ di tempo fa, ma non potevano dirtelo mentre eri in Spagna... io mi sento un verme per averli coperti, ma cosa potevo fare? Tu eri lontana e mi sembrava di tradire due amici... e...» Balbetta, gesticolando confusamente. «Loro si amano davvero, Valeria è innamorata di Giovanni da sempre... io... mi dispiace tantissimo...»

«Potresti lasciarmi sola?» Le dico con un sorriso mesto e le lacrime agli occhi. «Per favore. Ci vediamo domani sera alla festa.» Lei annuisce e prova ad abbracciarmi. Scuoto la testa e la accompagno alla porta.

Quando rientro in camera trovo Eva col mio cellulare in mano che squilla. Lo spengo e incrocio gli occhioni azzurri di mia sorella, interrogativi e preoccupati.

«Cos’è successo?»

Non rispondo subito. Sto combattendo contro il fiume di lacrime che non riesco ad arginare. Eva va a chiudere la porta e poi mi abbraccia. Quel gesto mi fa crollare.

 

 

«Ehi.»

Salto sul posto, persa nei ricordi, quando sento la voce di Christian alle mie spalle. Stavo chiudendo la porta del mio ufficio prima di andare via e lui si è materializzato dietro di me come Patrick Swayze in Ghost.

Oh, sì. Chiedigli se gli piace lavorare l’argilla.

Chiudo Violet in un armadio immaginario e mi volto verso Orione l’onnipresente.

«Hai la capacità unica di apparire quando sono sovrappensiero. Rigorosamente alle spalle, poi.» Borbotto, incrociando il suo sguardo e le piccole rughe d’espressione che gli si formano attorno alle labbra quando sorride. «Che c’è?»

Christian incrocia le braccia e alza un sopracciglio, impedendomi di avanzare nel corridoio. «Stai bene?»

«Una bomba.» Rispondo seria, tentando di aggirare il suo corpo. Lui muove una gamba a destra, spostando il peso da un piede all’altro e mettendosi di nuovo davanti a me. Alzo gli occhi al cielo e lo guardo.

«Una bomba pronta a scoppiare, intendi?» Lo chiede con un tono talmente innocente e un tale candore negli occhi che per un momento mi viene da piangere. Invece rido.

«Dai, scemo, fammi passare.» Gli metto una mano sul braccio e lo spingo. Mal che vada lo farò indietreggiare fino a raggiungere la porta. «Voglio andare a casa, sono stanca.»

Christian pianta i piedi per terra e mi blocca di nuovo. «D’accordo. Però sorridi, non mi piace vederti triste.»

Trattengo il respiro a quella frase e mi mordo il labbro inferiore.

Solo Eva era capace di farti quest’effetto, eh?

«Dai, un bel sorriso e ti lascio andare.»

Sbuffo piano e alzo gli occhi al cielo, per poi allargare smisuratamente le labbra fino a scoprire tutti i denti. Christian scoppia a ridere.

«Okay, così mi fai paura, però va meglio di prima.» Chiudo la bocca e gli sorrido normalmente. «Puoi andare adesso. Buona serata.»

«Anche a te.» Gli dico, indugiando qualche istante davanti a lui come se stessi per abbracciarlo. Poi gli do una leggera pacca sul braccio e vado via.

 

 

«Sei pronta?»

Eva appare alle mie spalle mentre mi sto guardando allo specchio. Immagino che non si riferisca al vestito, né al trucco. Sono pronta ad affrontare una serata tra tanta gente, dopo tutte queste lacrime? Sono pronta ad affrontare la visione di Giovanni? Di Valeria?

Guardo il mio riflesso, la mia espressione è più dura, le labbra strette in una linea seria, gli occhi spenti. Non mi riconosco.

«Sì, sono pronta.» Mento, perché non ho altra scelta. Mentre scendo le scale, mi sento stranamente tranquilla. È come se uno strato di ghiaccio avesse circondato il mio cuore. Non sento più nulla. Solo tanto schifo.

«Ele!» Mi volto per ricambiare il saluto e un gran sorriso mi passa sul volto.

«Anne!» La stringo forte, saranno secoli che non la vedo. Alzo lo sguardo e riconosco Cooper, il suo neo-marito. Oh, c’è anche zia Libby!

Finché sono con loro, la mia mente si distrae. Mi raccontano della vita a Miami, Anne come al solito mi invita ad andare a trovarla. Ci devo fare un pensierino.

«Buonasera!» Eccola lì. La voce che incrina la patina di ghiaccio. Saluta i miei genitori con due baci sulle guance e mi cerca con lo sguardo. Quando lo vedo, il cuore mi sale in gola. Mi fa male, il ghiaccio è appuntito.

Dietro di lui ci sono Francesca e Valeria. Dall’espressione di quest’ultima intuisco che Francesca deve averle raccontato della nostra piccola conversazione di ieri.

«Che coraggio a presentarsi.» Mormora Eva, mentre mi passa vicino e lancia un’occhiata disgustata a Giovanni. Lui non se ne accorge, è preso a salutare tutti quelli che conosce dispensando i suoi grandi sorrisi affascinanti, il suo charme da grande architetto, sicuro nella camicia nuova che porta le sue iniziali, aperta sul petto di due bottoni. Si è sempre ostinato a portarla così, nonostante gli dicessi che due bottoni forse erano eccessivi.

«Finalmente.» Dice, posandomi le mani sui fianchi in un gesto possessivo che mi fa arrabbiare ma che purtroppo non mi lascia indifferente. Mi bacia velocemente e poi mi fa i complimenti per il vestito. «Sei bellissima... non è bellissima?» Domanda a chi ci sta intorno, col suo solito modo di fare esuberante.

«Andiamo a mangiare? Ho fame.» Mento di nuovo, ma devo andarmene da qui e riempirmi la bocca prima che inizi a dire tante ma tante parolacce.

Quando siamo tutti riuniti intorno al buffet pieno di squisitezze tutte preparate dalla mia adorabile mamma, aspetto che ognuno abbia mangiato a sufficienza per poi alzare un flûte di champagne e attirare l’attenzione di tutti.

«Ehm, salve.» Gli ospiti, parenti e non, si fermano a guardarmi, sorridenti. Qualcuno un po’ meno. «Vorrei ringraziarvi per essere venuti. Un omaggio speciale va ai miei splendidi genitori e a sorella Eva, che presto inizierà la sua carriera di pulisci-vomito e tira-sangue, i quali mi hanno sostenuto durante tutto questo percorso iniziato quando ero ancora una ragazzina timida e impacciata. Adesso comincia la vera vita, e direi che è stata “inaugurata” proprio coi fiocchi.» Faccio una piccola pausa e guardo Valeria. Lo sguardo mortificato che ricevo in risposta mi fa esaltare in un modo assurdo. «Ringrazio anche tutto il parentado, incluse le dislocate Lewis, e il cugino acquisito Cooper, che non ho ancora perdonato per essersi riportato in America la mia cugina preferita.» Mi fermo ancora, pensando a cosa sto per dire. Devo farlo. «Infine, ultimi ma non ultimi, ci tengo a ringraziare il trio delle meraviglie lì in fondo: grazie Francesca, per avermi pugnalato alle spalle, tenendo ben nascosta la storia del mio fidanzato Giovanni con la nostra amica comune Valeria. Un brindisi a voi, spero che abbiate tanta felicità.» Bevo lo champagne tutto in un sorso e me ne vado di sopra.

 

 

Quando arrivo al Vagabond, il buttafuori mi saluta con un cenno impercettibile della palpebra. Fa sempre così, è come se avesse un monocolo incorporato e fotografasse tutti quelli che entrano. Però credo di stargli simpatica.

Mi guardo intorno, alla ricerca di quel tizio. Vago con lo sguardo tra i divanetti ma non lo trovo, quindi decido di andare al bancone da Marion. Mentre sto per raggiungerla, mi sento chiamare.

«Signorina Wayne.» Sergei si alza dal divanetto su cui era seduto e mi si para davanti.

Caspita quanto è alto, mica me li ricordavo tutti questi centimetri.

«Buonasera signor Vasilyev.» Dico in russo, stringendogli la mano. Lui mi fa cenno di accomodarmi sul divanetto accanto al suo, e io imbarazzata obbedisco, guardandomi attorno esitante. Con lui ci sono tre uomini, dalle facce non esattamente simpatiche. Uno di loro sta fumando un sigaro che emana una puzza nauseante proprio nella mia direzione.

Per un minuscolo, impercettibile istante mi domando perché diamine ho accettato di fare da interprete a questi tizi.

«Lei fa parte dello scambio?» Sento dire in inglese da uno dei loschi individui seduti di fronte a me. Gli altri due ridacchiano, e Vasilyev rivolge loro uno sguardo che non so interpretare.

«Dì loro di smetterla di fare chiacchiere e di passare al sodo, e poi avranno quel che vogliono.» Traduco la frase così come mi è stata riferita e il loro ghigno si allarga. Ho la brutta sensazione che abbiano inteso male il significato dell’asserzione di Vasilyev, poi con un brivido piuttosto agghiacciante mi domando se quella tratta in inganno non sia solo e soltanto io.

«Signor Vasilyev, io non c’entro nulla in questa storia, vero?» È un bene che gli altri tre non capiscano nulla di quello che sto dicendo, perché sarebbe troppo imbarazzante altrimenti.

Sergei mi sorride e mi accarezza viscidamente una spalla. «Tu traduci, poi si vedrà.»

No, aspetta.

Con la coda dell’occhio lancio uno sguardo ai buttafuori. Va bene, mal che vada faccio “il cenno”, giusto? E loro accorrono. Giusto? Quest’uomo non può essere quel genere di uomo. Dopotutto conosceva Christian.

Proprio quando decido di puntualizzare ulteriormente la mia posizione a Sergei, una mano sulla spalla mi fa letteralmente saltare sul divanetto. Mi volto e il mio cuore continua a galoppare, per lo spavento, per il sollievo, per la confusione, quando vedo spuntare le “corna” del “diavolo” di cui stavo parlando tra me. Christian, nella sua imponente presenza, avanza per intromettersi nella conversazione.

«Che diamine ci fai di nuovo qui?» Mi afferra il braccio e mi strattona, costringendomi ad alzarmi. No, mi sa che non voleva intromettersi nella conversazione, ma solo farmi la paternale. DI NUOVO!

«Ehi! Ma chi ti credi di essere?!» Urlo, massaggiandomi il braccio. «Mi hai fatto male!» Guardo di traverso i tre uomini più Sergei che assistono alla scena in silenzio.

«Vattene subito.» Mi intima Christian, scuro in viso. I suoi occhi sono quasi… spaventati. Io, invece, mi sento tremare dalla rabbia.

«Io faccio quello che voglio, e se voglio restare qui resto qui. Sto lavorando.» Di sicuro non mi aspettavo una risata in risposta. Una risata derisoria, più simile a un ghigno sarcastico che ad altro. Ah, quanto mi prudono le mani!

Christian torna serio e si china, posandomi una mano sulla nuca e avvicinando la bocca al mio orecchio. «Torna. Subito. A. Casa.» Sibila. «Per favore.» Aggiunge stringendo appena i miei capelli, ma è come se non l’avesse detto.

Mi allontano, incavolata nera, e torno a sedermi ai divanetti, ignorando totalmente le sue parole. «Allora, dicevamo?» Sorrido a Sergei che mi guarda perplesso e lancia occhiate dubbiose anche all’impossibile uomo che si è piantato alla mia destra e non vuole saperne di andarsene.

«Elettra, per la miseria.» Sento a malapena il suo sussurro prima di essere trascinata in pochi secondi fuori dal locale, come una bambina disobbediente che merita una punizione.

«Andiamo, ti accompagno a casa. Dove abiti?» Il polso è ancora serrato tra le sue dita, sento il metallo dell’anello che porta all’anulare affondarmi nella pelle. Provo a tirare il braccio per liberarmi dalla presa d’acciaio, ma finisco per farmi ancora più male, perché lui non me lo permette.

«Smettila di agitarti e cammina.» Mi dice, avanzando di qualche passo. Sbuffo spazientita e gli chiedo dove sta andando.

«A casa tua. Ho l’auto parcheggiata laggiù.» Indica un punto in lontananza.

«Io abito qui, Christian!» Esclamo, puntando la mano libera in un gesto esasperato verso la palazzina adiacente al Vagabond.

«Cosa? Abiti qui?» I suoi occhi azzurri si spostano dal palazzo a me più volte, diventando dapprima sorpresi, poi atterriti, poi seri e impenetrabili. Si riscuote quando do un nuovo strappo al polso, mugolando per il dolore. Così come mi ha portato fuori dal locale, in un nanosecondo mi trovo sul pianerottolo di casa. Apro la porta con non poca difficoltà – visto che non sono mancina e sto usando la mano sbagliata – e Christian mi spinge dentro come un padrone col suo cagnolino. Se possibile, mi innervosisco ancora di più. Vedo che si guarda intorno, osservando il piccolo salone, la cucina, e il corridoio che porta alla camera da letto.

«Devi andartene da qui.» Afferma, scuotendo la testa. «Perché non mi hai detto che abitavi in questo posto? È pericoloso, Elettra.» La sua espressione sinceramente preoccupata fa sbollire parte della rabbia che mi infiamma il corpo, sostituita da un crescente imbarazzo a cui non so neanche dare un nome.

«Perché avrei dovuto dirtelo? Per beccarmi un’altra ramanzina?» Replico, ormai senza forze. Il braccio che lui stringe ancora è abbandonato mollemente lungo il mio fianco. Christian scuote la testa.

«Ramanzina? Io lo dico per te, perché non voglio che ti faccia del male da sola! Ma sembra che tu ti ci tuffi a braccia aperte nelle situazioni complicate, come stasera al Vagabond. Ci lavori ancora? Ti avevo detto di non tornarci.» Asserisce, mollando finalmente la presa sul mio polso che è diventato rosso.

«Ma ti rendi conto di cosa stai dicendo? Se è così pericoloso come dici, tu che ci fai qui?» Gli chiedo, aspettandomi la solita risposta da delirio di onnipotenza “io posso e tu no”. Con quei muscoli a sostenere la frase, forse, un po’ di ragione ce l’avrebbe anche.

Lui espira lentamente e scuote di nuovo la testa, poi guarda il mio polso, che pulsa a livelli impensabili, ma questo lui non lo sa.

«Ti ho fatto male, scusami… mi sono lasciato prendere la mano.» Mormora, provando ad avvicinarsi per constatare il danno. Io allontano il braccio. «È che vederti lì, in mezzo ai quella… gente mi hai fatto davvero innervosire.» Sbotta, incrociando le braccia al petto.

Spalanco la bocca. «Ah, IO ti ho fatto innervosire?! Ma senti questa!» Prima che possa pensare a cosa sto per fare, la mia mano è già atterrata sul suo petto, e non so se è la scarica di adrenalina o tutta la rabbia accumulata, ma lo spintone riesce a farlo indietreggiare di due passi. Approfitto della sua espressione stupita e ripeto il gesto, stavolta colpendolo sulla guancia e poi sulla tempia. Cavolo, ci sto prendendo gusto!

Scarico una serie di botte malferme a causa del polso che mi fa male, e la sua reazione non tarda ad arrivare: come in ufficio, risponde con degli schiaffi leggeri sulle braccia e sul capo, senza farmi realmente male ma con lo scopo di farmi arrabbiare ancora di più.

Riesco a farlo indietreggiare fino a fargli toccare il muro con la schiena, e continuo a dargliele di santa ragione, chiudendo perfino la mano a pugno e picchiando più forte che posso. Lui mi afferra i polsi e me li blocca dietro la schiena, imprigionandomi quasi definitivamente. Quasi, perché con un calcio ben assestato dritto al Mjolnir di famiglia – o nei dintorni, insomma – riesco a fargli allentare la presa e torno a sfruttare le mani libere per percuoterlo sul torace, sui fianchi, sulle braccia.

«Ma la vuoi smettere-» Mormora a denti stretti e allunga le mani a cercare di riacciuffare le mie, con scarsi risultati. Imparo in fretta, Wayne. Alzo le mani puntando nuovamente al suo viso – ha proprio una faccia da schiaffi, sì – ma un attacco deliberato ai miei fianchi mi impedisce di farlo. Christian mi afferra per la vita e mi fa voltare; incrocia le braccia davanti alle mie e infila la testa nell’incavo del mio collo, spingendo verso sinistra per bloccarmi anche quella. Sono in trappola. Provo a muovermi ma lui mi stringe ancora di più a sé. Sono decisamente in-

«Dimmi che non ho davvero sentito quello che ho sentito.» Dico sbigottita. Christian mi lascia di colpo e io mi volto a guardarlo. Vedo che si passa una mano sulla bocca, vagamente imbarazzato. Distoglie lo sguardo dal mio e poi si infila le mani in tasca, tipico gesto di “camuffamento” maschile.

«Mi stai mettendo le mani ovunque da mezz'ora, non sono fatto di vetro!» Esclama lui per giustificarsi, e io sento un calore bruciante avanzare verso le guance. Si passa una mano tra i capelli e mi guarda, aspettando una mia risposta.

Tanti i pensieri che mi affollano la mente, ricordi che galleggiano su un mare di stupore.

«Vatti a sbollire dalle ragazze del club, allora.» Mormoro, rendendomi conto solo qualche istante dopo di quello che ho appena detto e del carattere incredibilmente scoordinato che mi ritrovo. Ma ormai la frittata è fatta, e l’espressione di Christian è… qualcosa che fa davvero male.

Quando lo vedo andare via, accompagnando gentilmente la porta al contrario di come sono abituata a fare io, nonostante quello che gli abbia detto, mi sento precisamente come una cacca di cane seccata al sole e circondata da mosche appiccicose.

***

 

«Pronto?»

«…»

«Pronto? Elettra!»

«Ehi.» Mi decido a rispondere, dopo un po’.

«Stai bene? Perché chiami e poi non parli?!» Un po’ da scemi, in effetti.

«Così.» Sono seduta per terra, con la schiena contro il divano e le gambe incrociate.

«È successo qualcosa?» Sì. “Qualcosa”.

«Credo di aver davvero esagerato, questa volta.» Inizio a parlare. «…capisci, l’ho messo in imbarazzo! Io… non volevo, non me ne sono resa conto…» Blatero dopo averle raccontato brevemente l’accaduto.

Anne tace per un po’, sento che espira lentamente. È arrabbiata.

«Ma cacchio, Ele! Lui fa l’eroe senza macchia e senza paura e il suo corpo ti palesa pure la sua attrazione per te e tu gli dai del puttaniere?! Ma… ma… te lo meriti, cioè, io ti avrei mandata proprio spudoratamente a fanculo!» Commenta Anne, peggiorando la situazione e il mio umore.

«Sono solo preoccupata per il fatto che è il mio capo, cioè, lo vedo tutti i giorni… come farò a guardarlo in faccia domani?» Batto la fronte contro il palmo della mano destra, finendo per scontrarmi col polso “infortunato”. Ahia.

«Io non mi preoccuperei di questo… da quel che ho potuto capire di lui, la professionalità non gli manca.» Replica lei.

«E di cosa ti preoccupi?» Domanda di cui immagino già la risposta.

«Di cosa mi preoccupo? Mi preoccupo del fatto che tu abbia trovato una persona che potrebbe far parte della tua vita e renderla migliore e tu la stai allontanando in tutti i modi possibili, di questo mi preoccupo!»

«Ma tu non capisci… io non ce la faccio, non mi fido, non-»

«Prima o poi dovrai ricominciare a fidarti delle persone, Ele. Il passato deve aiutarti a vivere meglio il presente, non a rovinartelo. Valuta onestamente quello che pensi di lui, quello che provi quando sei con lui, come ti senti quando siete insieme. Io un’idea già ce l’ho, ma voglio che sia tu a capirlo da sola.» Conclude. «Adesso devo andare, fammi sapere se ci sono novità domani. Non fare stronzate, per favore.»

Sbuffo. «Va bene, ciao.»

 

**********

 

Il mattino seguente mi sveglio con un gran mal di testa e il cuore che mi batte forte. Mi sento stranamente ansiosa, come se aspettassi un grande evento non esattamente piacevole. Mentre provo a scollare le palpebre, il flash di tutto quello che è successo ieri mi investe in pieno, regalandomi un buongiorno senza pari.

Porca miseria.

 

Arrivo al lavoro con lo stomaco stretto in una morsa, caratteristica di chi come me somatizza le proprie emozioni in modo eccessivo. A ogni persona che incrocio il cuore mi batte più veloce, credendo che sia lui. Cosa farò quando lo vedrò? Gli sorrido? Mi scuso? Lo saluto? Mi sento nella merda più totale. Vago in strati e strati di merda senza fine.

Attraverso il corridoio fino alla mia stanza senza però riscontrare nessuna traccia di Christian. Domando a Lily se per caso è nel suo ufficio, e lei scuote la testa.

«No, non è venuto.» Risponde, con un’alzata di spalle.

Maledizione.

Vederlo e scoprire che non vuole più parlarmi sarebbe traumatico, penso, ma non vederlo affatto e rimanere col dubbio è decisamente peggio.

«Deve venire per forza…» borbotto, più a me stessa che a Lily «…abbiamo quasi finito il manoscritto, e lui ha la quarta di copertina da scrivere, e…» Mi blocco, che parlo a fare? Elettra, smettila di trastullarti in pensieri inutili e trovati qualcosa di produttivo da fare.

Per esempio, pensare a come far incontrare Rachel e Thomas. Christian mi ha dato un’idea, quando siamo andati a bere quell’aperitivo, ma visti gli ultimi sviluppi dubito che si possa attuare quel piano. Devo pensare a qualcos’altro.

Osservo Lily andare in bagno e mi appoggio con la schiena alla sedia, per concentrarmi meglio. Cosa potrei inventarmi? Potrei ordinare un caffè a nome suo spacciandomi per Nancy. Lei glielo porterebbe e sarebbero costretti a parlarsi, quanto meno per spiegare l’equivoco. Chi ha capito male e chi no, chi è stato a ordinare… passerebbero almeno una decina di minuti insieme. Uhm… da valutare, sì.

«È venuto Christian, se ti interessa.» Dichiara Lily quando rientra, e io mi metto a sedere composta, esagitata.

«D’accordo, grazie.» Le sorrido ostentando indifferenza. Decido di aspettare un po’, sicuramente dovrà chiamarmi per completare quel lavoro. Mi chiama sempre lui, d’altronde.

A meno che non sia cambiato qualcosa.

No, Christian è professionale. Ha ragione Anne.

 

Un quarto d’ora dopo, col fegato che galleggia nella bile e lo stomaco divorato dall’ansia, mi alzo e mi dirigo verso il suo studio. Potrebbe sentirsi troppo in imbarazzo per chiamarmi, in tal caso è meglio che mi mostri superiore e sorridente, e magari…

«Avanti.» Il mio cervello si svuota quando, dopo aver aperto la porta, vedo Christian seduto alla scrivania con una stangona bionda ed esageratamente bella che gli sorride dall’altro lato, appollaiata su quella che era la mia poltrona fino al giorno prima.

«Ehm… ciao, io… sono venuta per quel manoscritto, dovremmo finire di correggerlo…» Mormoro, cercando di guardarlo il meno possibile. Lui ha di nuovo quel suo sguardo impenetrabile e l’espressione serena ed ermetica che lo contraddistingue. Dannazione.

«Tranquilla, puoi tornare nel tuo ufficio, oggi non ho bisogno di te.» Mi risponde, e torna a guardare la bionda, che sta scrivendo qualcosa su un foglio.

Completamente scioccata, chiudo la porta senza aggiungere altro. Mentre torno nella mia stanza, cerco di preparami psicologicamente ad affrontare la giornata – decisamente di merda, ora ne ho la conferma – da sola.

 

**********

 

Alle sei e venti mi alzo dalla scrivania, iniziando a sistemare tutto.

Non ho visto Christian nemmeno una volta per tutto il giorno, rifletto, mentre spengo il computer. Nella pausa pranzo non ha mangiato con noi, ma Alexandra mi ha detto di averlo visto scendere con la stangona, per poi rientrare un’ora dopo. Ho scrollato le spalle con noncuranza alla notizia, ma forse sarò riuscita a prendere in giro lei. Io mi sento malissimo.

Di ritorno a casa, decido di passare da Rachel al bar per distrarmi un po’.

Non appena intercetta il mio sguardo, mi chiede subito se c’è qualcosa che non va. Io serro le labbra e mi lascio andare in un sospiro, raccontandole tutto quello che è successo la sera prima. Rachel si sporge oltre il bancone e mi abbraccia. Sento un pericoloso nodo formarsi all’altezza della gola e mi allontano, perché non voglio assolutamente che la situazione degeneri. Ci sono rimasta male, sì, ma non esageriamo.

«Tesoro, sono sicura che non è come pensi. Se Christian è effettivamente così come ne parlano gli altri, allora capirà perché hai detto quella frase. Eri imbarazzata, eri sorpresa… ciò non toglie che dovrai scusarti, anche se è l’ultima cosa al mondo che vorresti fare. Lo sai questo, vero?»

Annuisco con gli occhi bassi. È proprio vero che i baristi sono gli psicologi del futuro, questa ragazza mi conosce da pochissimo e già ha compreso tutto di me. A me, invece, sembra di non essermi mai conosciuta. Non mi capisco più.

«Quando lo rivedrai?»

Faccio spallucce. «Non lo so, immagino domani al lavoro. O meglio, lo intravedrò, se si presenta di nuovo con Barbie Malibu.» Commento acida, strappando una risata alla mia nuova amica.

«Dai, stai tranquilla, dormici su e vedrai che domani riuscirete a chiarire.»

Con quella frase e un briciolo di speranza in mente torno a casa. Leggerò un bel libro per svagarmi e andrò a letto presto, per ricaricarmi in vista di domani. Sì, farò così.

 

***

 

Naturalmente, non riesco a pensare ad altro.

Chiudo il libro, dopo aver riletto almeno settanta volte lo stesso paragrafo, e mi alzo dal divano. Inizio a vagare avanti e indietro per la casa, sistemando e spostando oggetti, ripulendo superfici da una polvere immaginaria, rifacendo il letto come se non dovessi andare a dormire stasera.

Mi tuffo di nuovo sul divano e accendo la televisione. La spengo dopo aver fatto il giro dei canali senza soffermarmi per più di mezzo secondo su ognuno.

Basta, ho bisogno di bere.

Varco l’ingresso del Vagabond scacciando il ricordo di quello che è successo l’ultima volta che sono stata qui. Sembrano passati cent’anni, ma è stato solo ieri.

«Elettra! Di nuovo qui?» Mi freddo sul posto, diretta al bancone, quando quella domanda mi giunge alle orecchie.

«Ethan, ciao!» Devi morire ora e subito, accidenti a te! Mi hai fatto prendere un colpo. Mi porto una mano al cuore, fingendo di alleviare un prurito, ma in realtà sto cercando di calmare la sua corsa impazzita. Ho davvero rischiato un ictus.

«Proprio oggi pensavo a te.» Dice il mio vicino di casa, accompagnandomi a sedere su uno degli sgabelli. Ordina due Mojito – drink che odio, tra l’altro – e si spiega: «Dobbiamo proprio uscire insieme, un giorno o l’altro. Non conoscerai molto della città, se ti sei trasferita da lontano. Posso portarti in molti posti carini, sai.» Ammicca, alzando il bicchiere come a voler brindare per qualcosa e poi bevendo un sorso di liquido trasparente. Per un momento mi chiedo come faccia a sapere che mi sono trasferita “da lontano”, poi mi dico che devo averglielo detto io, ma vista la mia memoria proverbiale – peggio di un colabrodo – l’avrò dimenticato.

«Certo…» Mormoro, imbarazzata al suo invito a uscire. «Possiamo organizzarci, qualche volta.» Resto sul vago. Non voglio prendere impegni con nessuno. Ero decisa a farlo molto prima di venire a Miami e sono ancora decisa a mantenermi su questa linea.

Tranne che per qualche proprietario di un codino biondo e due occhi da infarto, forse.

Questa è Violet che si è coalizzata con Anne e Rachel?

«Sai, mi ricordi mia moglie.» Quando sento quella frase, mi scolo il Mojito in un solo sorso, tossendo appena per il gusto orribile del lime, e ne ordino un altro. Più forte.

«Cosa? Sei sposato?» Gli chiedo, sorpresa.

Lui guarda mestamente il suo bicchiere, e la foglia di menta che vi galleggia dentro.

«Lucy è morta un anno fa.» Oh, cavolo. Io non sono brava in queste cose. Scolo il secondo drink con la stessa velocità del primo, cercando di trovare un po’ di coraggio e di parole di conforto da dirgli.

«Mi dispiace molto…» Biascico, e con un cenno della mano ordino il terzo drink. Non starò un tantino esagerando? Naaah. «Non lo sapevo…»

Ethan mi sorride. «Tranquilla.» Beve un sorso del suo cocktail. «Tu le assomigli molto. Anche lei era bellissima, proprio come te.»

Ah, certo, per essere uno che ancora piange la sua scomparsa non ti perdi in chiacchiere, diciamo. Scommetto che se “Lucy” potesse sentirti te ne direbbe quattro. Già.

Uh, questo drink è buonissimo. Cosa ci sarà dentro? Ho detto alla barista di farmene un paio a piacere. Chissà.

«Esagerato…» Biascico, con la bocca leggermente impastata e la testa che inizia a farsi leggera. Oh, sì. È proprio questo l’effetto che voglio.

Quando Ethan posa una mano sulla mia gamba e si sporge pericolosamente verso di me, nell’allontanarmi quasi cado dallo sgabello.

«Che fai?» Frappongo il mio bicchiere tra me e lui e faccio un altro sorso, giusto per tenermi impegnata.

«Scusami, è che sei davvero stupenda stasera.» Mormora lui, avvicinandosi di nuovo. Mi sposto e decido di scendere dallo sgabello. Senza cadere, possibilmente. Nel farlo, mi volto verso l’entrata del locale e scorgo una testa bionda familiare. Il mio cuore scalpita all’interno del petto. Poi guardo meglio: le teste bionde sono due.

Stronza.

Ingollo quel che resta del mio quarto drink – o sono arrivata al quinto? Non ricordo – e arriccio il naso quando l’alcool scorre incandescente giù per la gola. In quel momento, Christian mi vede. La sua espressione meravigliata mi fa sorridere.

Sento il calore di un corpo che si avvicina da dietro, mentre la musica aumenta di volume e io inizio a muovermi seguendone il ritmo. È Ethan, che è venuto a ballare con me.

Quando avverto le sue mani sui fianchi, mi allontano scocciata. Voglio ballare in santa pace, sto così bene adesso! La testa mi gira in un modo delizioso e parecchi ragazzi mi guardano con un mezzo sorriso. Ricambio a mia volta, felice.

«Elettra, che stai facendo?» Riconoscerei questa voce profonda tra mille, penso, ridacchiando. Incrocio l’azzurro dei suoi occhi che brillano sotto le luci fosforescenti del locale e faccio spallucce.

«Mi diverto. Torna dalla tua fidanzata.» Gli sorrido. «Ah, e scusa per ieri. Non volevo, è che ero imbarazzata…» La frase si confonde con una risata strascicata, che dopo un po’ capisco appartenere a me.

«Ehi, amico, stavo ballando io con lei…» Vedo Ethan farsi avanti e tornare da me. Sbaglio o Christian l’ha guardato proprio male? Ahahahaha, sembra arrabbiato. Mi dispiace farlo arrabbiare sempre. Mi guardo intorno alla ricerca della cavalla che l’ha accompagnato, e la trovo in piedi accanto a un buttafuori, che parla al cellulare.

«Sta’ lontano da lei.» Sento le parole di Christian anche con la musica che rimbomba, o forse ho solo visto il suo braccio allontanare Ethan da me.

«Lascialo stare.» Biascico. «Si sta divertendo. La tua fidanzata si sente sola, vai a farle compagnia. Io sto bene.» Indico la bionda con un cenno della mano.

«Vai bambola!» Sento un uomo dall’altra parte della passerella che guarda con ammirazione una delle ballerine del locale. Wow, che darei per essere guardata così.

Sento a malapena il mio nome pronunciato da Christian e mi arrampico alla bene e meglio sulla piattaforma zebrata, iniziando a sculettare con un sorriso malizioso dipinto in viso. O almeno credo che sia malizioso.

«Woh, guarda quella, è una nuova?» Le grida eccitate dei ragazzi mi esaltano ancora di più, e allora mi avvicino a uno dei pali per la lap dance e cerco di imitare i movimenti di un’altra ragazza poco lontana da me.

«Elettra, scendi immediatamente!» I richiami di Christian sono lontani, quello che sento sono soltanto i fischi di approvazione di chi mi sta intorno, che chiede di più. Rido, felice. Provo a girare intorno al palo con una gamba sola ma l’equilibrio mi tradisce e prima che possa rendermene conto, sto chiudendo gli occhi per non vedere il mio incontro ravvicinato col pavimento.

Che non avviene. Riapro gli occhi e sento delle urla di disappunto da quelli che poco prima mi stavano acclamando a gran voce. Poi, il silenzio e l’aria fredda che mi congela le membra.

«Che su-scede?» Ho davvero questa voce ridicola? Scoppio a ridere, cercando di reggermi in piedi.

Un momento. Non sono in piedi.

«Dove hai le chiavi di casa? Hai lasciato la borsa dentro?» Cosa? Chi è che sta parlando? Strizzo gli occhi per mettere a fuoco e vedo il viso di Christian a pochi centimetri dal mio. Il suo bellissimo profumo mi investe in pieno, e io lo inspiro a pieni polmoni, beandomene.

«Adoro questo profumo…» Mormoro.

«Elettra, le chiavi, dove ce le hai?» Mi rendo conto dopo un po’ che stiamo salendo le scale. Però io non ricordo di aver messo i piedi a terra.

Elettra, concentrati.

Quando la testa smette finalmente di girare, mi accorgo di essere tra le braccia di Christian. Sorrido.

«Sono ubriaca?» Forse quell’Ethan mi ha drogata. Per portarmi a letto.

Rido da sola all’idea. Chi si sognerebbe mai di portarmi a letto?

«Sì, sei ubriaca. E credo che tu non lo faccia spesso. Però ora ho bisogno che ti concentri e pensi a dove hai messo le chiavi. Hai capito?» Christian mi parla piano e dolcemente, con tanta pazienza. Decido di ascoltarlo e dopo un po’ rispondo: «In tasca.»

Mi sento mettere giù, e colta da un capogiro, mi appoggio alle sue spalle forti. Mmmmmm…

«Ehi, mi stai palpando?» Esclamo quando avverto le sue mani nei dintorni del mio sedere. Poi sento il rumore delle chiavi e la porta che si apre.

Le sue braccia mi sollevano di nuovo in aria e con un piede chiude la porta. Come fanno i mariti quando portano le mogli per la prima volta a casa, penso con una risata.

Mi è sempre piaciuto associare i cognomi dei ragazzi che mi piacevano al mio nome, per vedere come suonavano.

Elettra Wayne. Rido ancora di più.

«Non avrei neanche bisogno di cambiare cognome se mi sposassi con te, sai?»

Christian mi sorride e annuisce. «Comodo, vero? Si sa quanto ci tenete voi donne al vostro cognome.» Replica, e accende la luce. Quando il fascio luminoso riempie la stanza, mi copro gli occhi con le mani, mugugnando qualcosa di indistinto persino alle mie orecchie.

«Aspetta, tra poco la spengo. Un altro po’ di pazienza.» Improvvisamente mi ritrovo distesa. La mia testa non pulsa più tanto, e scopro che ce l’ho poggiata sul cuscino. Uhhh, che bello. Ho tanto sonno.

Quando la testa smette di girare, è come se tutto mi apparisse più chiaro. Anche Christian. Com’è bello, penso, mentre lo vedo tornare dal corridoio e venire verso di me con un bicchiere d’acqua e qualche pastiglia tra le mani.

«Prendi queste, sono aspirine.» Si siede sul letto accanto a me e mi solleva reggendomi la nuca. Scuoto la testa, non le voglio.

«Dai, Ele, altrimenti domani ti sveglierai con un gran mal di testa e te la prenderai con me. Non voglio che mi picchi di nuovo.» Alzo gli occhi al cielo e mando giù l’acqua e le aspirine.

«Mi piace che mi chiami Ele.» Sorrido, e mi aggrappo al suo braccio, poggiandovi la testa. Chiudo gli occhi, godendomi la sensazione…

«No, aspetta, non ti addormentare!» Mi scuote leggermente e io lo guardo contrariata. Perché non vuole farmi dormire? Mi stavo rilassando…

«Cosa c’è? Che ti prende? Lasciami in pace. Devo dormire, domani mi aspetta una giornata di lavoro col mio capo stronzo che non mi parla più.» Bofonchio, triste. Sento la sua breve risata e poi le sue braccia che mi rimettono in piedi.

«Vieni, facciamoci un giro per la stanza mentre mi racconti del tuo capo stronzo. Perché non ti parla più?»

In realtà so benissimo che il mio capo stronzo è quello che mi sta reggendo, ma mi piace questo gioco. «Perché l’ho messo in imbarazzo in una situazione imbarazzante perché anch’io ero imbarazzata.» Spiego, e lo vedo annuire pensoso.

«Mhmm… e sei proprio convinta che lui sia arrabbiato con te?» Ma dove stiamo andando? Io voglio tornare a letto!

«Sì, perché mi ha cacciato dalla sua stanza e mi ha rimpiazzato con la versione scema di Charlize Theron.» La sua risata divertita mi fa sorridere a mia volta. «Torniamo a letto? Voglio dormire.» Piagnucolo.

«Non ancora. Se ti addormenti adesso non so cosa ti può succedere, è la prima volta che soccorro un’ubriaca. Meglio non rischiare.» Sbuffo e protesto qualcosa in risposta. «Devi andare in bagno?» Mi chiede e io annuisco, sentendo un’improvvisa voglia di fare pipì. E devo anche lavarmi i denti, penso, con quel po’ di lucidità che mi è rimasta. O che sto recuperando, non lo so. Seeeempre lavare i denti, come dice papà. Il mio papà è un bravissimo dentista. Già.

Un’altra luce investe in pieno le mie palpebre, e con un po’ di sforzo intuisco che è quella del bagno. Caccio Christian con un gesto della mano e lui si allontana titubante.

«Non ti addormentare, hai capito?» Dice oltre la porta.

Annuisco distrattamente, e mi abbasso i pantaloni. Ah, liberazione.

Tiro lo sciacquone e lui apre la porta, mentre sto ancora tirando su la cerniera.

«Ehi! Ma l’educazione…» Brontolo, avvicinandomi al lavandino. Il contatto con la ceramica fredda mi fa rabbrividire e mi riscuote un po’. Ci metto un’eternità e mezzo a lavarmi i denti – o forse ho solo troppo sonno – e quando sputo l’ultima volta Christian mi porge l’asciugamano per pulirmi.

«Tutto questo è davvero imbarazzante.» Borbotto, arrabbiata. «Ci manca solo il vomito e poi posso dire di- woooh.» Gli adorabili capogiri tornano di nuovo, e questa volta sembrano più forti di prima.

«Ehi, stiamo ballando?» Domando ad occhi chiusi. Christian non risponde. «Pronto? Pronto? Pianeta Terra chiama Capo Stronzo.»

Riapro gli occhi solo quando mi rendo conto di trovarmi di nuovo in posizione orizzontale. Oh, che schifo, mi gira lo stomaco. Smettetela di girare tutti, ho detto!

«Sono qui, sono qui.» Mormora Christian. La sua voce è davvero vicina e sento improvvisamente le sue dita tra i capelli. Li sta spostando dalla mia fronte.

«I capelli noooo» Biascico, scuotendo la testa. Lui si ferma.

«Hai ragione, scusa.» Sussurra. «Ti senti un po’ meglio? Così ti lascio dormire.»

«Cosa?!» Riapro gli occhi, e dopo qualche secondo per abituarmi al buio intravedo i suoi. «Non ti azzardare a lasciarmi qui sai? Ho paura di vomitare. E ho paura di quell’Ethan che voleva portarmi a letto.» Cosa c’entra quel povero ragazzo?, penso, subito dopo. Questa, Elettra, è una scusa beeeella e buona. Rido.

«Non vomiterai, tranquilla.» Mi rassicura Christian, e io gli afferro malamente un polso quando sento che si sta allontanando.

«Sarai anche un capo stronzo, ma non abbandonerai la tua traduttrice col rischio che affoghi nel suo stesso vomito, vero?» Lo tiro verso di me ma lui non si muove.

«No, hai ragione. Non potrei rischiare una cosa del genere.»

«E allora resta…» Mi sento mormorare. «Abbracciami.» Dico, forse più lucida di quanto io creda di essere.

Christian si lascia sfuggire un sospiro e poi si stende di nuovo accanto a me. Apre le braccia e mi attira a sé, posandomi un bacio sulla fronte. Qui, tra il suo profumo, il suo torace, il suo collo e le sue mani, mi sento bene.

«Sei arrabbiato?» Gli domando, con gli occhi chiusi. Lui ci mette un po’ per rispondere, per un momento temo che si sia addormentato.

«No, non sono arrabbiato.»

«Sì, sei arrabbiato.» Lo correggo, accoccolandomi ancora di più sul suo petto. La camicia che indossa si sposta e con la guancia sfioro la sua pelle calda. È il paradiso.

«Cosa te lo fa pensare?» Riesco appena a percepire le sue mani che mi accarezzano la schiena.

«Beh, tanto per cominciare ti ho fatto abbandonare la tua stallona, poi hai dovuto salvarmi da… mmm, non ricordo bene cosa, e poi mi hai visto sputare il dentifricio nel lavandino. Io sarei molto arrabbiata.» Ma di cosa sto blaterando? Mi meraviglio che non abbia iniziato a parlare in lingue.

«Beh, in effetti…» Risponde lui. «Per quanto riguarda gli sputi, comunque, se ti può consolare sputi sempre con molta grazia.»

Ridacchio contro il suo collo. «Mi trovi bella?» Elettra, ti sembrano cose da chiedere alle… beh, non so che ore sono, ma sarà tardi.

Lui non risponde subito. Aggrotto le sopracciglia e alzo la testa, per guardarlo meglio, col mento appoggiato sul suo petto. La luna gli illumina il viso, rendendogli i tratti ancora più belli di quanto non lo siano normalmente.

«Sì, ti trovo bella.» Risponde, infine, guardandomi. «Anche quando sei ubriaca e bevi con gli sconosciuti e ti improvvisi ballerina di lap dance. E anche quando mi fai arrabbiare perché ti comporti come una psicolabile. Ti trovo sempre bellissima.»

«Anche io.» Ignoro le palpebre pesanti, la testa che gira, lo stomaco che protesta e le gambe che mi fanno male. Mi sollevo sulle braccia e mi sposto dal suo petto al mio cuscino. Afferro il collo della sua camicia e lo attiro a me, lasciando che inverta la posizione in cui ci trovavamo poco fa. Quando il suo viso si trova sopra il mio, penso che non vorrei essere in nessun’altro posto al mondo. Il suo sguardo è titubante, incerto, sembra aspettare ancora qualche altra conferma. Gli passo la mano sulla nuca in una muta richiesta, che lui accoglie senza ulteriori indugi.

 

***

 

Mmmmh…

Non ho la forza di aprire gli occhi.

Le mie palpebre sono talmente pesanti che sembrano premermi sulle pupille. Vorrei sollevarle ma davvero non ci riesco.

Mmmmh…

Ma che ore sono?

E che giorno è oggi?

Oddio, devo andare a lavorare!

Il pensiero di essere rovinosamente in ritardo agisce da tenaglia sulle mie palpebre. Mi giro subito a destra per guardare la radiosveglia. I numeri rossi segnano le sette e uno, ovvero quattordici minuti prima di quanto mi alzi normalmente. Grazie al cielo.

Mi rilasso sul cuscino, cercando di riacciuffare quelle ultime briciole di sonno…

Oh mio Dio.

Christian? Che diamine ci fa nel mio letto?

Mi tiro a sedere e lo guardo con gli occhi sbarrati. È disteso supino, col braccio sinistro abbandonato sulla pancia – pancia… farei meglio a dire la tavola del lavatoio che mia nonna usava per strofinare il bucato – e l’altro rivolto verso di me, come se mi stesse abbracciando, o tenendo la mano.

Un flash mi attraversa la mente: io avvinghiata al suo braccio, con la guancia all’altezza della sua spalla. Beata.

Perché ha dormito qui? Avvicino le ginocchia al petto e mi ci appoggio col mento, mentre lo osservo dormire. Ha un’espressione serena, anche se non riesco a vederlo bene perché ha il viso rivolto a sinistra.

Lascio vagare lo sguardo sui suoi capelli, appena spettinati, sulla linea forte del collo e della mascella, sulle labbra leggermente schiuse…

Le labbra.

Oh, cazzo.

Ci siamo baciati.

Lui mi ha portata fuori dal locale e ci siamo baciati.

Ero ubriaca e ho blaterato tutto il tempo. E ci siamo baciati.

Ci siamo baciati, vero?

Corrugo la fronte, cercando di ricordare. Ricordo che era buio e io ero stanchissima. Ricordo qualcosa riguardo a… degli sputi? Possibile?

Se ti può consolare sputi con molta grazia.

“Ti trovo sempre bellissima.”

Porco spino.

Ci siamo davvero baciati.

 

E io non ricordo praticamente nulla.

Ho baciato Christian Wayne e non ricordo com’è stato. Complimenti, Elettra, sul serio.

Va bene, guardiamo il lato positivo: se anche mi fosse piaciuto, non ricordandolo non potrei rimuginarci sopra e tornerò con disinvoltura a sostenere la campagna “fuggi da Orione”. Mhmm.

Christian si muove nel sonno, sospirando. Si volta verso di me, continuando a dormire.

Oddio, e quello cos’è?!

Mi porto la mano alla bocca e mi avvicino al suo viso.

Un taglio di un paio di centimetri gli rovina la parte alta dello zigomo, proprio sotto l’occhio sinistro. Tutt’intorno c’è un bel livido irregolare color melanzana, ma già tendente a una tonalità più chiara nei bordi.

Possibile che non me ne sia accorta ieri sera? Non ce l’aveva, non l’ho visto… almeno credo. Non gliel’ho potuto fare io. Ero ubriaca, sì, ma dubito fortemente di essere riuscita a fare una cosa del genere.

Senza pensarci, scendo dal letto e mi dirigo in bagno. Apro il mobiletto accanto allo specchio e vedo lo scatolo delle aspirine sul ripiano sbagliato. Cosa? Ah, Christian, ieri sera. Giusto.

Prendo la pomata e la appoggio sul lavandino. Approfitto per fare pipì e sciacquarmi un po’ e poi torno in camera da letto, dove Christian è ancora addormentato.

Mi siedo accanto a lui e metto un po’ di pomata sul polpastrello. Osservo il taglio: è superficiale. Poco più di un graffio, ma deve aver sanguinato ugualmente. Quando ci passo il dito sopra, lo sento sussultare e afferrarmi i polsi in uno scatto fulmineo. Sono praticamente addosso a lui, imprigionata e col cuore in gola per lo spavento.

Quando Christian sbatte le palpebre e mi inquadra, mi lascia subito.

«Scusami, mi hai colto di sorpresa, pensavo…» Cosa? Che volessi fargli del male?

Mi sposto aspettando che si metta a sedere. Si strofina gli occhi, con un’espressione imbronciata.

«Mi hai spaventata. Non volevo ucciderti.» Ci penso su. «Almeno, non in un modo così semplice.» Mi correggo. Lui sorride e si stiracchia, per poi sistemarsi i capelli nel codino ordinato che porta di solito.

«Fatti stendere questa crema…» Dico, avvicinando le dita allo zigomo che luccica per via della pomata trasparente concentrata tutta in un punto.

Christian contrae il viso quando passo il dito sul taglio, probabilmente brucerà un po’.

«Non sono stata io, vero?» Domando col dubbio che mi assale.

«Ti piacerebbe.» Replica lui con un sorriso sghembo e il sopracciglio alzato.

«Tantissimo, guarda.» Sono più o meno seria. «Cos’è successo? Non mi sembrava che ce l’avessi, ieri sera.»

«Non mi sembrava che fossi abbastanza lucida da notarlo, ieri sera.»

Aspetta un momento.

«Stai evitando di rispondermi?» Al suo sorriso gli do uno schiaffetto sulla spalla. Lui mi guarda minaccioso.

«Vuoi davvero iniziare a picchiarmi?» Quando ricordo quello che è successo l’ultima volta, ingoio la lingua e scuoto la testa. A proposito, devo ancora scusarmi per quello che gli ho detto. Forza e coraggio.

«Ehm… a proposito... scusami, comunque, per… ehm…» Compri una vocale?

«Ho già accettato le tue scuse, ieri.» Mi salva lui, strappandomi al vortice di imbarazzo che mi stava trascinando via. «Anche se in effetti non me l’aspettavo, e se tu non lo ricordi vuol dire che eri già decisamente fuori di testa.» Commenta, annuendo da solo.

Decido di cambiare argomento e sorvolare sulle mie pessime condizioni di ieri sera.

«Mi spieghi come ti sei ridotto così? Non è proprio un bel vedere.» Lo costringerò a parlare in qualche modo. Quale modo?

Fortunatamente non c’è bisogno di pensare a varie ed eventuali torture, perché Christian sospira e inizia a parlare dopo essersi alzato dal letto.

«Ieri sera, dopo il…» Esita per un momento e mi guarda, come se non sapesse se parlare o meno. «Beh, quando sei crollata, sono sceso al night.» Racconta, mentre si sistema la camicia nei pantaloni. Gesto che cattura una buona parte della mia attenzione. «Avevo un conto in sospeso con una persona.»

«Ah, la cavalla.» Intervengo, alzando gli occhi al cielo. Lui scoppia a ridere.

«La smetti di chiamarla così? Margot è una cara amica, nonché nostra collaboratrice da tempo.» Oddio, Margot è la freelance che aiuta Christian saltuariamente? Quella era Margot? Deglutisco a fatica. Sorrido con estrema innocenza e con la scusa di trovare gli abiti puliti da indossare gli do le spalle infilando la testa nell’armadio.

«Comunque non ero sceso per lei. E non ero neanche venuto con lei, se ti interessa. L’ho incontrata all’ingresso con suo marito.» Specifica, non so per quale motivo. Ah, bene. È maritata, la cavalla. «È sposata con uno dei buttafuori.» Aaaaah, ora si spiega tutto.

«E allora per quale motivo sei sceso?» Tiro fuori la testa dall’armadio con una camicia e un cardigan tra le mani. Mi volto e vedo Christian appoggiato al muro con le mani in tasca. Sembra ancora più alto, in questa stanza piccola. Tutto ciò è surreale.

Torno nell’armadio per prendere un jeans.

«Sono sceso per quell’idiota che ti stava mettendo le mani addosso.»

«Cosa? AHI!» Per la sorpresa, ho alzato la testa senza ricordarmi che ce l’avevo praticamente incastrata tra due mensole, e ho sbattuto contro quella superiore.

«Sei un disastro.» Ridacchia Christian. Si avvicina e mi passa la mano sul capo, accarezzando piano la parte dolente.

«Non sono un disastro.» Mi lamento, corrucciata. «Sono solo stanca e ho la testa pesante. Per colpa di ieri sera, perché ho bevuto troppo. E ho bevuto troppo per colpa tua, che ti sei presentato con la cavalla e mi hai cacciato dal tuo ufficio, per colpa mia che ti ho detto quella cosa mentre ci stavamo picchiando. Però l’ho detto per colpa tua che mi avevi fatto la paternale per l’ennesima volta. Quindi, in definitiva, sei tu il disastro.» Concludo, soddisfatta, ricevendo in risposta uno schiocco della sua bellissima lingua.

«Comunque, che stavamo dicendo?» Alzo un sopracciglio per ricordare. «AH! Come ti salta in mente di fare a botte con Ethan?!» Lo vedo roteare gli occhi, infastidito.

«Ora sarei io il cattivo? Guarda che questo me lo sono beccato per te.» Si indica l’occhio con l’indice, e io mi mordo il labbro, con una punta di dispiacere e una di gratitudine.

Elettra sta diventando umana, wow!

«Non te l’ho chiesto io, eh.» Rispondo, piccata.

No, come non detto.

Nel sospiro che emette, Christian sembra voler cacciare via tutte le emozioni negative che gli attraversano il corpo. Poi inspira lentamente, come se nell’aria ci fossero particelle di pazienza da inalare all’occorrenza.

«Ti stava importunando, e quando ho provato ad allontanarlo, mentre tu ti trasformavi in Liza Minnelli, mi ha detto cose poco carine. Così sono tornato per pareggiare i conti.» Dopo la vampata iniziale per il paragone con l’attrice – e sono sicura che non è per il film Arturo – lo guardo riducendo gli occhi a due fessure.

«Quindi l’hai picchiato tu! Lo sapevo!» Mentre io dormivo ubriaca e ignara, per di più!

«Assolutamente no, io volevo pareggiare i conti verbalmente, almeno per fargli capire che non ero scappato perché sono un vigliacco, ma perché la mia traduttrice stava decisamente male, e, ancora peggio, qualche viscido malintenzionato avrebbe potuto approfittare di lei.» Spiega senza smettere di guardarmi.

“Mia traduttrice.”

«Quindi è stato lui a spappolarti la faccia.» Cattivo Ethan, non si fa. Forse anche lui era ubriaco. Però non mi va che queste cose succedano a causa mia. Appena lo vedo mi sente!

«Sono ridotto così male?» Christian si avvicina all’armadio dove sto ancora trafficando e guarda il suo riflesso nell’anta a specchio. Si sfiora la parte offesa con le labbra strette e poi incrocia il mio sguardo beccandomi a fissarlo. Mi volto di scatto raccogliendo i vestiti.

«Ehm, io dovrei vestirmi, quindi...» Vai via prima che mi abitui a vederti girare in casa mia.

«Sì, hai ragione. Devo cambiarmi anch’io, quindi vado.» Poso di nuovo i vestiti e lo accompagno alla porta. Lo vedo infilarsi la giacca e controllare la presenza delle chiavi in tasca. Accertato che è tutto a posto, si ferma sulla soglia e mi guarda.

Sono sicura al diecimila percento che anche lui sta pensando a quello che sto pensando io. Il cuore mi batte forte all’idea di quel bacio, anche se ricordo poco e niente. So solo di essere imbarazzata all’ennesima potenza. Oddio, sarà una giornata tremenda, me lo sento.

Perché non se ne va?!

«Ci vediamo tra poco.» Mormora, infilando una mano in tasca. L’altra si avvicina lentamente al mio viso sfiorandolo appena, in una carezza a metà.

Sorride. «Ciglio.» E mi volta le spalle, dileguandosi giù per le scale.

Resto immobile con la testa appoggiata alla porta per parecchi minuti, con lo sguardo perso.

«Qui si mette male.» Dico, rivolta al gatto disegnato sul mio tappeto, e con un sospiro rientro in casa.

 

 

~ Note

Bene. Tante cose da dire per questo capitolo.

Innanzitutto, scusate per la lunghezza abnorme. Non mi ero accorta che fosse così lungo fino a quando non l’ho estrapolato per pubblicarlo. Non sapevo dove dividerlo, però, quindi ho preferito lasciarlo così. Spero siate ancora vive/i.

Ora che ci penso, però, non voglio dire nulla sul capitolo. Lascio la parola a voi e uno spoiler qui sotto.

 

Non so se ridere, piangere, scappare o baciarlo. Mi mordo un labbro, e smetto di torturarlo solo quando Christian tira leggermente indietro la testa per guardarmi negli occhi. Aspetta una risposta... e una risposta avrà.

 

Un abbraccio impaziente,

Sara.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici - Born to run ***


Blend



“Ognuno di noi ha un piano che non funzionerà”

Legge di Howe

 

 

Va bene, non sarà difficile. Io sono Elettra Wayne e notoriamente posso tutto.

Posso anche evitare Christian Orione Wayne, e fare finta che la serata di ieri non abbia mai avuto luogo. Idem come sopra per i dieci secondi più imbarazzanti della mia vita di questa mattina sull’uscio della porta.

È semplice: basta ignorarlo, evitarlo, schivarlo, fingere di non vederlo... anche quando fai il tuo ingresso nella reception e lo vedi circondato da un capannello di persone, che gorgogliano concitate fissandogli il viso.

«Oh mio Dio! Cos’hai fatto?»

«Ti fa male? Sei andato al pronto soccorso?»

«Oh, Duke! Sicuro che tu stia bene?»

Continuo a camminare cercando di passare inosservata ma Lily mi afferra il braccio e mi trascina nel cerchio.

«Hai visto cos’ha combinato Christian?» Mi mostra il suo occhio, e io lo guardo fingendomi sorpresa. Lui è imbarazzato e allo stesso tempo infastidito dall’essere al centro dell’attenzione, si percepisce dal corpo proteso verso il corridoio e la voglia di scappare che gli fa spostare il peso da una gamba all’altra in continuazione.

«Oh, mi dispiace. Com’è successo?» E io perché mi do la zappa sui piedi da sola? Cretina, di tutte le domande che potevi fare!

Christian mi lancia un’occhiata tra l’incredulo e il rassegnato e io cerco, per quanto sia possibile farlo senza attirare troppa attenzione, di suicidarmi.

«Sì, infatti, com’è successo? Con chi hai fatto a botte?» La malefica Lily che in questo momento sto odiando insiste sull’argomento, curiosa come una bertuccia.

Mi gratto la nuca, desiderando di scomparire, e prego che Christian sia il più ermetico possibile. Gli riesce bene, di solito.

«Con un mobile. Nessuna storia succosa, mi dispiace. Ho semplicemente sbattuto la testa contro l’anta di un mobile. Il sonno fa brutti scherzi.» Ridacchia, facendosi strada verso il corridoio. Quasi mi sciolgo dal sollievo.

«Ma dai, Chris!» Clara la nerd che non si fa mai gli affari suoi. «Non ci credo nemmeno se vedo l’anta incriminata! Hai fatto a botte con qualcuno, ammettilo!» Lo imbecca con un sorriso divertito. Io la fulmino con uno sguardo dei miei.

Christian sorride e scuote la testa. Ormai siamo tutti nel corridoio, chi si va a sedere alle proprie scrivanie e chi aspetta che tutta la processione finisca per potersi rintanare nel proprio ufficio, tipo una a caso.

«Il nostro redattore non fa a botte, folks. Non si vede? Come potrebbe, con questo viso d’angelo?» A parlare è Tony, che passa un braccio sulle spalle di Christian e gli stringe il mento con fare scherzoso quando parla del suo viso. “Viso d’angelo” lo guarda con un sorriso complice e io ho la sensazione che Tony sappia come sono andati realmente i fatti. Quei due sono troppo amici. Troppo. «E ora filate tutti a lavorare, che siamo in scadenza. Giusto, Duke?» L’altro annuisce e tutti si defilano obbedienti.

 

***

 

Sono quasi certa che manchino più o meno quaranta secondi prima che il mio telefono interno squilli e Christian mi chieda di andare nel suo ufficio.

Cosa che, naturalmente, non voglio fare. Perciò, devo assolutamente inventarmi qualcosa. Una diarrea fulminante non credo sia la scelta migliore.

«Lil, che tu sappia Danny ha bisogno di aiuto?» Chiedo alla stagista impicciona seduta a consultare dei libri di fronte a me.

«Mmm... no, non mi sembra. Perché, non devi aiutare Duke?» Poi dicono che rispondo male e mi arrabbio e assumo le sembianze di un cattivo dittatore tedesco.

«Nnnn-ii-on lo so ancora.» Farfuglio, beccandomi un’occhiata perplessa. In quel preciso istante, tra Lily che si chiede se abbia una collega mongoplettica e la sottoscritta che guarda con aria indifferente lo schermo del computer, il telefono squilla.

Sono Nostradamus.

Mi alzo, sotto lo sguardo confuso di Lily, e mi affaccio in corridoio.

«Elettra, il telefono... non rispondi?» Io scuoto la testa e indico la stanza di Christian, lasciando intendere che andrò direttamente da lui. Lei annuisce e mi saluta.

 

Busso alla porta ed entro quando sento “Avanti!”.

«Raggio di sole, qual buon vento?»

Sorrido sentendomi più o meno all’incirca un’ebete, e mi siedo davanti alla scrivania.

«Ehm, ciao. Per caso avresti del lavoro per me?» Chiedo girandomi i pollici distrattamente.

Tony alza un sopracciglio; posso quasi vedere le rotelline nella sua testa girare e incastrarsi per cercare di interpretare la mia domanda.

«Cosa intendi per “lavoro”, di preciso?» Gli tiro un calcio sotto la scrivania e lui mugola ridendo. «Scusa, scusa. Faccio il serio.» Chissà come mai ne dubito. «Ma tu non affianchi il tuo omonimo oggi?» Indica col pollice la parete a sinistra che divide le loro stanze.

«No. Ehm. Per favore, posso aiutarti? Faccio qualsiasi cosa!» Sono tentata di giungere le mani in segno di preghiera, ma non mi abbasserò mai a tanto.

«Sento puzza di fedifraga. Crisi del settimo anno? Avete litigato davanti ai bambini? Conosco un buon consulente di coppia, sai...» Al mio sguardo assassino la smette di sparare cretinate a raffica. «Okay. Però lo sai che qualunque sia il motivo che ti spinge a disertare dovresti parlarne con lui, vero?» Chiede grattandosi il pizzetto.

Io sbuffo, facendo sollevare un ciuffo di capelli. «Tony, mi aiuti o no?»

Lui alza le mani. «E va bene, va bene, ti aiuto. Tanto stasera vi ritroverete nella stessa casa e tu, mia cara, non potrai farci perfettamente nulla.» Dice, premendo il dito sulla punta del mio naso mentre parla. Spalanco la bocca.

«Cosa?! E perché mai?»

«La festa di fidanzamento di Nancy, ricordi?» Agita una mano a due centimetri dal mio viso.

Cacchio, è vero! Quella sciagurata e il suo ragazzo si sono fidanzati ufficialmente la settimana scorsa e ci hanno invitati tutti a casa di lui per festeggiare la promessa di matrimonio. E io devo ancora comprarle un regalo! Dio mio ma quanto si può essere sbadati?! Però c’è da dire che non è del tutto colpa mia, è solo che sono successe tante cose negli ultimi giorni, e... okay, è colpa mia. Sono una scriteriata.

«Dalla tua espressione sconcertata mi sa di no.» Tony mi sorride bonario.

«Devo ancora pensare a un regalo, porca miseria ladra, me ne sono proprio dimenticata!» Mi strofino un occhio, facendo attenzione a non spargere tracce di mascara ovunque.

«Lo so, lo so, Christian distrae parecchio, è proprio una sua caratter-»

«Tony Shark, smettila immediatamente di parlare di Christian o ti infilo questa penna in un posto poco piacevole.» Alzo la suddetta penna in un gesto intimidatorio e lui sbarra gli occhi.

«D’accordo, d’accordo.» Mi guarda con l’espressione di chi aspetta solo che si calmino le acque per ricominciare a sfottere, poi finalmente acconsente alla mia richiesta di aiutarlo. «Potresti tradurre questi comunicati stampa nelle rispettive lingue degli autori, così da renderli disponibili per la pubblicazione nei loro paesi, nel caso volessero farlo.» Mi allunga dei fogli scritti in francese e tedesco che afferro con la stessa veemenza di Gollum con l’anello del potere.

Il mio tesssssssooooro!

«Grazie, grazie, grazie.» Mi alzo e gli schiocco un bacio sulla guancia. Mentre mi avvio alla porta col mio trofeo tra le mani, sento che esclama: «Non finisce mica qui, sai!»

Agito la mano in segno di saluto e vado via.

«Vai da Christian.» Non metto nemmeno piede nella stanza che Lily indica lo studio di Orione con il braccio, mentre è concentrata nella lettura di un libro enorme dall’aria noiosissima. Alzo gli occhi al cielo e faccio retromarcia, trovandomi di nuovo in corridoio.

Entro, come al solito senza bussare, e trovo Christian con Alexandra. Lei è in piedi accanto a lui, piegata per fargli leggere qualcosa da alcuni fogli che ha tra le mani. Sbaglio o quando mi ha visto si è avvicinata ancora di più? Come se mi importasse qualcosa.

«Mi volevi?» Gli chiedo, senza farmi scrupolo di interromperli.

«Certo che ti volevo.» Risponde lui, calmo. Alexandra lo guarda con un misto di stupore e sconforto. La frase effettivamente è un po’ fraintendibile. «Ti ho chiamata ma non hai risposto.» Continua, lo stronzo. Alexandra balbetta che ha delle cose da fare e si dilegua il più velocemente possibile.

«L’hai fatta scappare, poverina. Non si fa così quando qualcuna è disperatamente cotta di te.» Scuoto la testa, in segno di rimprovero.

«Hai ragione, si fa intervenire la propria traduttrice per sabotare la conversazione.» Il riferimento a Lena Ivanov mi fa arrossire. Sventolo casualmente i fogli che ho tra le mani e mi affretto a spiegargli come stanno le cose. Voglio uscire da questa stanza.

«Oggi non posso stare qui.» Lavorare qui, lavorare, Elettra. «Lavorare qui, cioè. Tony mi ha dato delle cose da fare, cose che non può fare da solo, a differenza tua. Quindi... vado.» Mi volto senza aspettare una sua risposta. Solo un cretino non si accorgerebbe che sono tremendamente a disagio e che sto fuggendo come Forrest Gump davanti ai bulletti che lo rincorrono con le biciclette.

«Elettra...» Mi blocco con la mano sulla porta, e mi costringo a guardarlo. I suoi occhi, di quell’azzurro così vivido e luminoso, sembrano volermi chiedere scusa. Aspetto che mi dica qualcosa, ma non lo fa. La frase si limita a un sospiro, e scuotendo la testa è come se dicesse “niente, vai pure”.

 

***

 

Il pranzo è sicuramente la parte della giornata che preferisco di meno.

Tutti interagiscono fra loro, si fanno domande, confidenze, ammissioni, pettegolezzi. Viviamo nell’era del “facciamoci i fatti degli altri”. Come al solito, da quando sono qui, tutte le volte che dovremmo restare alle nostre postazioni per mangiare, visto che c’è tanto da fare, succede qualcosa che ci costringe a riunirci di sopra. Oggi è il viaggio: si sceglierà la fatidica destinazione.

Quando arrivo in sala riunioni, Christian è già seduto. Per un momento valuto l’ipotesi di cambiare posto, ma sarebbe come farsi puntare un riflettore addosso. Pessima idea. Dovrò sopportare e continuare a ignorarlo, sì.

Cosa che sembra riuscirmi benissimo, dal momento che non ho alzato la testa dal mio piatto di lasagne.

«Allora.» Esordisce Martin, quando tutti abbiamo finito. «Dalle vostre e-mail, le destinazioni più gettonate sono risultate Panama e Sacramento.» Un mormorio si leva dalla parte sinistra del tavolo. «A dare il voto finale sarà Elettra, che ha votato entrambe e scegliendone una sola decreterà la destinazione prescelta.»

Tutti gli occhi si puntano su di me. Oh, ma dai!

«Quale parte del “non voglio essere al centro dell’attenzione” non vi è chiara?» Chiedo, con una comicità tale da farli ridere tutti. «Non voglio queste responsabilità, per favore!» Incrocio le braccia al petto, con tutta l’intenzione di non rispondere. Per me possiamo andare avanti così all’infinito. Qualcun altro dovrà pur cambiare idea.

«A me sembrava di averti suggerito qualcosa.» Mi imbecca Lily, con fare intimidatorio. Sbuffo e penso a un modo per uscirne indenne.

«Chi è per Sacramento?» Domando, e vedo Christopher, Clara, Mike, Alexandra e l’altra ragazza della reception alzare la mano. Beh, credo di poter sopportare le loro proteste. «Okay, allora ascolto la mia minacciosa collaboratrice e voto Panama.» Come prevedevo, i cinque che hanno alzato la mano esclamano “No! Dai!” lamentandosi per la scelta, mentre gli altri esultano per aver vinto questa sottospecie di guerra all’ultima destinazione.

Ma, a proposito di destinazioni e partenze... io ho una missione da compiere.

 

***

 

Mi schiarisco la gola e mi preparo a rispondere, sedendomi composta per calarmi nella parte.

«Starbucks, buonasera.» La voce di Rachel dall’altro lato mi fa sorridere, e quasi dimentico che non devo salutarla.

«Salve, sono Nancy Bishop, vorrei ordinare un caffè per il signor Blackwood.» Improvvisamente mi domando se Thomas abbia gusti particolari, per il caffè.

«Il solito?» Grazie al cielo. Beh, era ovvio che lei conoscesse “il solito” di Thomas.

«Certo, il solito. Il signor Blackwood desidera che gli venga recapitato direttamente da lei.» Sento che Rachel annaspa nel suo stesso respiro, e chiede di ripetermi. Trattengo una risata e mi affretto a replicare: «Non lo dia alla reception, lo porti lei stessa nel suo ufficio.»

«Ah, d’accordo. Sarà fatto. Arrivederci.» Riattacca e io scoppio a ridere. Mi sento Monsieur d’Arque, il guardiano del manicomio de “La Bella e la Bestia”.

 

Esattamente un quarto d’ora dopo, la porta della mia stanza si spalanca e ne viene fuori una Rachel col viso rosso Thomas e il dito puntato verso di me. Lily la saluta sorridente e lei la ignora, continuando ad avanzare verso la mia scrivania. Dietro l’espressione imbarazzata ha l’ombra di un sorriso.

«Stronza, sei stata tu?» Mi preme il dito sulla fronte spingendomi all’indietro. Io nascondo una grassa risata e fingo di non sapere di cosa stia parlando.

«A fare cosa?» Alzo anche il mio fido sopracciglio per rendere la scena più credibile. Lei li alza tutti e due, non se l’è bevuta neanche lontanamente. Si appoggia alla scrivania di Lily.

«A fare cosa? A farmi avere l’esperienza più imbarazzante del secolo, ecco cosa!» Esclama. «Devo ucciderti, come minimo!»

Stavolta scoppio proprio a ridere. «È andata così male?» Per un momento ho paura di aver combinato un guaio.

Lei mi guarda di sottecchi e si morde il labbro. «No.»

«E allooooooora!» Le lancio una matita addosso, sollevata. «Racconta, ORA.»

«La telefonata mi era sembrata un po’ sospetta...» Incalza, sorridendo. «ma Nancy a volte è sovrappensiero per il suo Andrew e quindi mi aspetto che parli arabo, ci sono abituata.» Chissà con quanta gente strana avrà a che fare ogni giorno.

Tu sei la prima.

«E insomma, dopo essermi controllata allo specchio almeno sessantacinquemila volte, sono salita e ho salutato Nancy, la quale ha ricambiato decisamente sorpresa di vedermi. La cosa ha iniziato a puzzare parecchio, ma ho deciso di sorvolare e ho bussato alla porta di Thomas.» Ecco che avvampa di nuovo. «Lui ha detto “avanti” e io sono entrata. A parte il fatto che, wow, l’hai visto com’è assolutamente super divinamente meraviglioso oggi?» Sbatte le palpebre sognante, poi si riscuote. «Comunque, entro e dico “Salve”. Lui mi sorride...» Fa un’altra espressione beata ed estatica. «...e risponde “Salve. Come va?”. Io dico “Bene, ecco il suo caffè”. Al che lui mi guarda perplesso e si alza per raggiungermi. Io muoio sette volte nel frattempo.» Alzo gli occhi al cielo e sorrido. «Lui fa “Dammi del tu, Rachel”, roba che, giuro, non ho mai amato tanto questa targhetta che porto sulla tetta… e poi dice “Questo è per riscattarti dell’altra volta?” e SBEM, capisco che quest’ordine è stato decisamente un equivoco. Subito ti ho pensato e mi sono appuntata mentalmente di strangolarti.» Mi lancia un’occhiataccia, e Lily ride. Sta seguendo con molta partecipazione, la piccoletta. «Ma ho deciso di cogliere la palla al balzo e gli ho detto “Sì, esattamente come piace a lei… a te, cioè…” con un tono da sotterramento istantaneo.»

«E lui?» Interviene Lily, con un sorriso che va da orecchio a orecchio.

Rachel saltella sul posto. «Lui mi ha guardato sorpreso e ha detto “Wow, ricordi a memoria come mi piace il caffè?”, e io con la faccia da “Nooo, you don’t say?!”» Scoppiamo a ridere tutte e tre. Quanto è comica quando racconta le cose.

«E poi?! CONTINUA!» Lily ha finalmente ritrovato la compagna di gossip adatta a lei.

«Gli ho risposto “Beh, devo dire che la memoria è dalla mia parte, ma il cliente rende le cose più facili”.»

«Caspita! Da che non volevi neanche provarci! Chi è che picchia chi, ora?» Le faccio una linguaccia, contenta che si sia esposta così tanto.

«ZITTA ELE FAMMI SENTIRE!» Guardo Lily che ha urlato come un’indemoniata e anche a lei tiro una gomma in testa. Piccola impertinente.

«No, non litigate! Comunque lui mi ha regalato uno dei suoi sorrisi da infarto e ha risposto “E me lo dici solo ora?”» Lily trattiene a stento un urlo. Rachel ride e le mette una mano sulla bocca, lanciando un’occhiata nel corridoio. Okay, sembra che nessuno ci abbia fatto caso. «Insomma, abbiamo deciso che un giorno o l’altro usciremo insieme.» Conclude, stringendosi nelle spalle con l’aria decisamente persa.

«Che significa “un giorno o l’altro”? Ti ha detto lui così?» No, perché se lui le ha detto così, veramente, gli taglio le-

«No, l’ho fatto io. Non volevo sembrare troppo disperata, e allora quando lui ha detto “Se non hai da fare, potremmo uscire insieme” io ho subito risposto “Sì, un giorno o l’altro”, e me ne sono andata con un sorriso diabolico stampato in faccia.» Ce lo fa vedere, e quasi le spuntano i canini di Dracula mentre lo fa. Poi si rabbuia e mi guarda. «Ho fatto bene, vero?»

«Certo, da vera femme fatale. Sono sicura che sta ancora pensando a te chiedendosi se ha detto qualcosa di sbagliato.» Uomini, tutti uguali. «Comunque, non per smontarti, ma la scusa della targhetta era solo per guardarti le tette.» Annuisco, e lei ride.

«Servono anche a quello, diciamocelo.» Ribatte, e trova d’accordo anche Lily, che con un gesto fiero se le soppesa con fare da pin-up.

«Non vorrei mandarti via, Megan Fox dei miei stivali, ma abbiamo tutte un lavoro, qui, e sono sicura che nessuna di noi tre vuole perderlo. Perciò, hasta luego!» Rachel non se lo fa dire due volte e ci saluta mandandoci un bacio con la mano.

 

***

#You and I go hard at each other like we’re going to war#

Eh, Adam, lo so, che vuoi farci. L’amore non è bello se non è litigarello.

Prendo il cellulare e, dopo essermi beata ancora un po’ della mia nuova suoneria, rispondo: «Eva?»

«Sistah! Come stai?» La voce squillante di mia sorella mi riporta per un istante a casa.

«Io bene, tu? Mamma e papà?»

«Bene, tutti bene. A parte il nubifragio che persiste da sette secoli e mezzo, all’incirca. Ormai ci spostiamo con le canoe, come tante piccole Pocahontas.»

«O Pocamontas, come dicevi da piccola.» Sorrido al ricordo.

«Beh, avevo molta fantasia. Comunque, ti chiamo per darti una bellissima notizia! Ricordi Chiara, la mia amica del pilates? Ti feci leggere la sua storia, “Glitter”.»

«Certo che la ricordo, ho adorato quella storia. Beh?»

«Con qualche piccolo accorgimento l’ha trasformata in un romanzo, e indovina? Glielo pubblicano il mese prossimo!» Esclama, eccitata.

«Accidenti, sono contenta per lei! Era ora che qualcuno si accorgesse di quel piccolo capolavoro!» E qui posso degnamente usare la parola “capolavoro”.

«Sì, appunto! Sai, mi ha detto che la casa editrice che la pubblica ha deciso che in base alle vendite e al successo che avrà il romanzo, potrebbero pensare alla diffusione anche all’estero. La casa editrice è piccola, per cui si affida a contatti esterni per la traduzione. Non potresti parlarne col tuo capo? Non l’ho ancora detto a Chiù, in realtà. So già che per com’è fatta non accetterebbe mai un aiuto del genere, ma a cose fatte sarà solo costretta a ringraziare. Che ne pensi?»

«Posso parlarci, certo. Martin potrebbe dare un’occhiata al manoscritto, almeno per valutare se la cosa è fattibile o meno, ma lo sarà, perché Chiara è bravissima.» Dichiaro con un sorriso convinto.

«Grazie, sistah. Vedi che quando vuoi sai essere adorabilmente normale?»

«Dura poco, lo sai.»

«Sì, come i miei quattro giorni di ferie. Che passerò tra divano, gelaterie e cinema di seconda mano. Ormai sono troppo vecchia per le discoteche.»

A queste parole, dopo una breve interazione di neuroni, la mia mano si muove da sola, digitando delle parole sulla tastiera del computer. Click, click, click.

«Eva, te la senti di fare una piccola follia?»

 

***

 

«Ehm, permesso? Posso entrare?» Allungo la testa oltre la porta e vedo Thomas che sta sistemando dei raccoglitori su una mensola del suo archivio.

«Ehi, entra, entra.» Quando mi vede mi rivolge un gran sorriso e mi fa accomodare, accompagnando addirittura la sedia, da perfetto gentleman.

«Come va? Problemi? Ti trattano tutti bene?» Mi chiede una volta seduto. Io annuisco. Mi trattano tutti bene, sì. Già. Fin troppo.

«Ehm, volevo chiederti… un favore. Cioè, in realtà è qualcosa che si avvicina a una proposta lavorativa…» Oddio, ma non è che non si possono fare cose del genere? Che è raccomandazione o istigazione a pubblicare? «Arrivando al dunque, una scrittrice che conosco ha avuto un riscontro positivo da una piccola casa editrice italiana, che ha detto di aspettare la risposta dei lettori per passare ad una eventuale traduzione e diffusione all’estero. Mi chiedevo se, insomma, tu o Martin poteste dare un’occhiata al suo lavoro, così da mettervi in contatto con la casa editrice e proporvi per un’eventuale collaborazione futura.» Concludo la mia filippica con lo sguardo fisso sul trita documenti.

«Certo.» Risponde Thomas. Lo guardo speranzosa, come a chiedergli di ripetere per essere sicura di non essermelo inventato. «Ne parlerò con Martin, ma sono sicuro che prenderà in considerazione la tua proposta. L’ha sempre fatto coi suoi collaboratori. Ti consiglio di parlarne anche con Christian, che è il tuo “capo” immediato, nell’ordine. Dovresti sempre parlarne prima con lui.» E io che volevo andare direttamente da Martin. Ma questo non glielo dirò mai.

«D’accordo, sarà fatto.» Forse. «Grazie mille, Thomas.» Mi alzo e lui fa altrettanto per accompagnarmi alla porta. Vorrei dirgli qualcosa su Rachel ma mi sembra azzardato. No, meglio non rovinare quanto di buono è riuscita a fare quella piccola folle innamorata.

 

Nell’ascensore, ripenso alle parole di Thomas: “dovresti sempre parlarne prima con lui”. Forse Martin gli chiederebbe il suo parere, a maggior ragione dato che è il suo pupillo, e se scoprisse che invece Christian non ne sa nulla potrebbe arrabbiarsi con me. O con lui.

Mi dondolo sui piedi, in fondo al corridoio, con una mano sulla maniglia della porta del mio ufficio, e gli occhi fissi su quella dell’ufficio di Christian. Che faccio? Toccata e fuga?

Mhm, detto così sembra… qualcos’altro. Che non ho assolutamente pensato.

Il rumore delle mie nocche sulla superficie di legno mi fa perdere un battito: sto davvero bussando volontariamente alla porta di Christian Wayne, che ho baciato all’incirca… diciannove ore fa. Dovrei proprio dirglielo che non me lo ricordo, vorrei vedere la sua faccia. Dev’essere una cosa orribile da sentirsi dire. Rido da sola al pensiero, ed è così che Christian mi vede quando la porta si apre rivelando Danny in procinto di uscire con le nuove copertine fresche di stampa tra le mani.

«Grazie Duke!» Gli dice, e dopo avermi fatto l’occhiolino, torna alla sua workstation. Christian risponde con un cenno del capo e torna a volgere lo sguardo su di me. Ehm, per cosa ero venuta? Ah, sì, giusto.

«Duke.» Incalzo, ignorando le sue varie ed eventuali preferenze personali sul soprannome. «Ho parlato a Thomas di un romanzo che sta per uscire in Italia, è di una scrittrice che conosco ed è molto bello. Thomas mi ha assicurato che accennerà la cosa a Martin per un’eventuale collaborazione futura in caso di pubblicazione all’estero. Pensavo che dovessi saperlo anche tu.»

«Perché non entri?» Di tutte le cose che poteva dire, di tutte le parole che esistono al mondo, lui doveva scegliere quelle tre. «Non mordo.» Insiste, guardandomi con una strana luce negli occhi.

No, non mordi. Baci.

«Mmm, non ho tempo. Devo tornare ai comunicati stampa. Ciao.» Chiudo la porta col cuore tra la trachea e la laringe, che sta suonando un accordo con le mie corde vocali, sfiorandole a mo’ di arpa.

Okay, ce l’ho fatta. Missione compiuta ancora stavolta.

Non potrai evitarlo all’infinito.

Posso sempre provarci.

E stasera? Quando avrai finito di tracannare champagne e noccioline, di farti raccontare tutta la storia della loro vita dai promessi sposi, e di nasconderti in bagno facendo finta di doverti incipriare il naso, credi che riuscirai ancora a evitarlo? Ma soprattutto, credi che uno come Christian Wayne non sia capace di prenderti per un braccio e trascinarti in un angolo per parlarti?

Di sicuro trascinarmi è una delle cose che sa fare meglio.

Ma, parlando di promessi sposi... il REGALO! Maledizione!

 

***

 

Okay, ci sono.

Guardo la ragazza alta – tacco dodici – bella – truccata – elegante – vestito rosso con un bustino che mi fa due tette così – che mi fissa dallo specchio e inclino la testa di lato, incerta. Stringo il mio regalo tra le mani e arriccio le labbra, pensosa.

Chissà se gli piace il rosso.

Il pensiero che attraversa la mia mente è tanto inaspettato quanto inafferrabile. È sfrecciato attraverso i neuroni con la velocità di Superman, lasciandomi completamente di stucco. Poi mi dico che c’è solo un motivo per il quale vorrei saperlo: se non gli piacesse, indosserei questo vestito tutti i giorni.

Sì, ben detto.

Lo squillo del cellulare mi avverte che devo scendere. Percorsa la seconda rampa di scale, mi trovo davanti Ethan, che sta entrando in casa sua.

«Ehm, ciao.» Lo saluto da lontano senza smettere di camminare.

«Ehi, Ele!» Ele? Come ti permetti di chiamarmi Ele? «Dove vai così elegante? Sei... wow, uno spettacolo!» Si sta avvicinando, e io ho già le mani sul portoncino blindato.

«Ahm, grazie, vado a una festa di fidanzamento. Buona serata!» Apro il portoncino e lo richiudo il più velocemente possibile, arrancando sui tacchi mentre cerco con lo sguardo l’auto di Danny. Non voglio passare un secondo di più con quell’uomo. Mi inquieta. Non sono sicura che mi stesse davvero mettendo le mani addosso al night, come ha detto Christian, ma non mi ispira comunque fiducia. Magari non farebbe del male a una mosca, ma si sa che sono una persona acida e scostante, no? Allora continuiamo su questa scia.

«Eleeeeeee! Siamo qui!» Vedo un braccio che si agita in una Ford Fiesta blu, e riconosco i due volti all’interno. Sgambetto fino alla portiera, la apro e salgo in macchina.

«Ciao ragazzi!» Saluto prima Lily e poi Danny, che si è gentilmente offerto di fare da chauffeur a entrambe, e mi lascio andare sul sedile, trovando finalmente un attimo di pace. Ho fatto le corse appena uscita da lavoro per andare in un centro benessere a Miami Beach e poi tornare ed essere pronta in tempo.

Arriviamo a Miami Springs circa venti minuti più tardi, e dando un’occhiata in giro mi rendo conto che siamo proprio in un altro mondo, rispetto a dove abito io. Qui il colore prevalente è il verde, e non il grigio ammuffito del cemento. Piante, fiori, erba ovunque. Ogni isolato – solo di nome e non di fatto – ha le sue bellissime ville, molto simili tra loro se non per dimensioni, con giardini curati tutt’intorno e grandi piscine interrate. Sembra sia uno di quei quartieri in cui puoi uscire a piedi e lasciare la porta di casa aperta, tanto sai che non ti succederà nulla. La zona è piena di luce, grazie all’illuminazione principale della strada e a quella singola di ogni villetta.

La villa di Andrew Perkins si trova al 508 di Hunting Lodge Drive, dove più che a Miami sembra di stare a Cannes: davanti all’ingresso c’è una mezzaluna di prato con ben sette palme altissime. Il viale d’ingresso, che circoscrive questo prato, è pavimentato con tanti blocchetti di pietra colorati, nei toni del grigio e del rosa, posati in una trama irregolare davvero carina. La villa è sviluppata su un solo livello, come tutte del resto qui a Miami, e la prima cosa che noto quando ci avviciniamo è l’imponente ingresso ornato da due colonne bianche, colore che richiama le cornici delle finestre e le entrate dei due garage. La grande porta d’ingresso, in legno scuro e vetro, è aperta. Dall’interno provengono le luci gialle della cucina e un vocio divertito. Ci apprestiamo ad entrare.

«Permesso?» Trilla Lucy, spingendo la porta.

«Prego, prego!» Una voce dolce ma decisa ci accoglie, e poco dopo riusciamo a vedere la sua proprietaria, che scopriamo essere la madre di Andrew, Sandra. «Entrate, ragazzi. Sono tutti sul retro.»

Tutti.

Christian.

Aiuto.

Stringo convulsamente la borsetta, sentendo l’agitazione crescere e diffondersi in tutte le mie membra, concentrandosi principalmente nello stomaco. Io sono Elettra Wayne e posso tutto, mi ripeto come un mantra.

Io sono Elettra Wayne e... posso... quasi tutto.

Io sono Elettra Wayne e... posso.

Io sono... Christian.

Il cuore mi schizza in gola come uno shuttle lanciato nello spazio, e sembra voler esplodere quando i suoi occhi di ghiaccio incrociano i miei e sorridono. Sì, perché i suoi occhi sorridono in un modo che pochi altri riescono a fare.

Sta venendo verso di me? No, non sta venendo verso di me. Non venire verso di me.

Oddio.

«Chi è questa bomba sexy in rosso?» L’inconfondibile voce di Tony è un’àncora di salvezza a cui mi aggrappo metaforicamente e letteralmente. Cingo il suo braccio con disperazione e gli sorrido, forse fin troppo.

«Ciaaao Tonyyy!»

«Ti senti bene?» Mr Sopracciglio mi guarda con sospetto, poi alza gli occhi e vede Christian, quindi schiude le labbra. «Ah, d’accordo. Non hai ancora fatto pace con tuo marito.» Gli assesto una gomitata nello sterno, lui si piega appena con un lamento sulle labbra.

Christian nel frattempo ci ha raggiunto. Dà una pacca sulla spalla a Tony e saluta me con un cenno della testa, poi continua a camminare verso l’interno della casa.

Cosa?

«Ehi, allora è proprio grave. Da quant’è che non...» Tony fa un gesto inequivocabile e io premo di nuovo il gomito nel suo stomaco. «Va bene, ahia, la smetto. Andiamo a salutare i festeggiati.» Ecco, finalmente ha detto una cosa buona. Dove sono i festeggiati?

Cammino sottobraccio con Tony che sembra sapere esattamente dove sta andando. Ah, eccoli. Avvisto Nancy, splendida in un miniabito grigio legato al collo che le lascia la schiena scoperta. Accanto a lei, il famoso Andrew, un bell’uomo sui trentacinque anni con un sorriso gentile e occhi solo per la futura sposa. La guarda come se stesse venerando una dea. Accanto a loro, a dare gli auguri, ci sono anche Lily, Danny e... Christian. Ma certo, stronzo di un Tony!

«La pagherai, sappilo.» Sibilo, prima di andare ad abbracciare Nancy.

«Lo faccio solo per te, dolce primula di maggio.» Risponde lui, spingendomi con un dito sulla schiena verso il mio incubo corrente.

Io sono Elettra Wayne e posso tutto, per la miseria!

«Auguriiiiiiii!» Esclamo, circondando le esili spalle di Nancy con le braccia. Tony nel frattempo è evaporato; evidentemente li aveva già salutati, il bastardo.

«Grazie, tesoro!» La stringo ancora una volta e poi mi allontano per fare gli auguri ad Andrew. Nel muovermi, mi trovo faccia a faccia con Orione, che stava facendo lo stesso per congratularsi con Nancy. Con un sorriso forzato mi sposto a sinistra per passare, ma lui mi imita contemporaneamente, poi la scena si ripete a destra.

«Okay, cerchiamo di coordinarci.» Mi dice, ridacchiando. «Io vado a sinistra.» Indica la mia destra col dito e io annuisco. Faccio un passo alla mia sinistra e così riusciamo a scambiarci di posto. Dio mio, queste cose imbarazzanti non mi capitavano da quando ero innamorata del rappresentante d’istituto del liceo.

Scuoto la testa scacciando il pensiero e abbraccio Andrew, che ricambia amabile.

«Allora, quand’è che tocca a voi?» Chiede Nancy, con un sorriso. Io la guardo sbigottita e anche Christian sembra un tantino interdetto. Nancy se ne accorge e aggrotta la fronte. «Non intendevo insieme.» Balbetta, grazie al cielo.

«Ah!» Scoppio a ridere, non istericamente ma peggio, ed entrambi mi guardano strano. «Io mai.» Rispondo, facendomi seria all’improvviso. Nancy sembra credermi sulla parola e rivolge lo sguardo a Christian, che si stringe nelle spalle.

«Quando lei mi troverà.» Risponde, infine. Nancy gli sorride rapita, e gli assicura che la donna giusta arriverà presto. Io sono momentaneamente in coma irreversibile.

Smettila di pensare che si riferisse a te. Quanta importanza! Non si riferiva a te, ma all’“anima gemella”, sostantivo femminile generico.

Mhmm.

Ma allora perché ha detto “quando lei mi troverà” e non “quando io la troverò”?

Oh cielo.

Stai facendo progressi, complimenti!

«Nancyyyyyy!» Alexandra investe la collega abbracciandola di spalle. Nancy si volta insieme ad Andrew e Christian ed io restiamo impalati a guardarli. Lo spio con la coda dell’occhio e vedo che si passa una mano sulla nuca, sembra a disagio. Mentre lo fa, il cardigan grigio con le cuciture nere che indossa si gonfia seguendo la linea del bicipite, e io lo guardo imbambolata per qualche istante.

«Hai... già preso da bere?» La mano infilata tra i capelli si sposta indicando il tavolo poco distante da noi, che ospita un buffet degno di un banchetto regale. Faccio segno di no con la testa – chissà dove si è cacciata la mia lingua – e lui avanza di un passo, aspettando che lo segua. Affondo col tacco nell’erba e perdo appena l’equilibrio. Christian mi offre il braccio e io scuoto la testa. Ce la faccio da sola. Faccio un altro passo incerto e sento il lieve sospiro di Orione, che per tutta risposta mi afferra il braccio e lo fa passare sotto il suo, stringendolo poi a sé. Le nostre mani si sfiorano: se solo volesse potrebbe afferrare la mia e intrecciarvi le dita in un battito di ciglia.

«Bianco o rosé?» Mi chiede una volta arrivati al tavolo.

«Bianco, grazie.» Mi aspetto che mi lasci il braccio ma non lo fa. Prende la bottiglia di champagne con la mano libera e ne versa il contenuto nei classici bicchieri dalla forma allungata, poi mi porge il mio. Una volta preso il suo, lo alza, come a voler fare un brindisi.

Socchiude gli occhi, meditabondo, senza smettere di guardarmi. «Ai nuovi inizi.»

Imito il suo gesto: «A Nancy ed Andrew.» Lasciamo tintinnare i bicchieri, poi lui scuote la testa, sorridendo tra sé.

«Cosa ridi?» Non posso fare a meno di chiederglielo.

Lui fissa un punto lontano. «Anch’io mi riferivo a Nancy ed Andrew, ma tu hai voluto specificare, nel caso qualcuno – cioè io – avesse potuto fraintendere. Mi fai davvero il tipo che si illude per una cosa del genere? Per aver brindato ai “nuovi inizi”?»

Improvvisamente mi sento una povera stupida.

Sei una povera stupida, confermo.

La domanda è retorica e naturalmente lui non aspetta una risposta, ma mi guarda lo stesso, forse per capire cosa mi stia passando per la testa. Mi aggrappo allo champagne per prendere tempo.

«Bel vestito.» Dice infine, salvandomi ancora una volta dall’imbarazzo. Prima mi ci mette e poi mi salva, ma si può?

«Grazie.» Rispondo, desiderando di indossare un burqa. Mi sento come se avesse i raggi X e potesse vedermi nuda.

Ma il pensiero non ti dispiace.

Devo bere un altro po’.

Mi verso altro champagne e lo mando giù come fosse acqua fresca, sotto lo sguardo perplesso di Christian. Ora penserà che sono un’ubriacona. In realtà, se si allontanasse, tutto questo non succederebbe. Ecco. È colpa sua, sempre.

«Christian!» Una voce che non conosco mi fa voltare, anche se non sono stata chiamata in causa. Vedo una testa bionda comparire accanto al soggetto appena interpellato, e guardandola meglio scopro che appartiene a Margot. Ha tirato indietro i capelli, non l’avevo riconosciuta. Abbraccia Christian come se non ci fosse un domani e poi posa con lui per le foto che sta scattando Mike, il paparazzo della serata. È mezz’ora che lo vedo andare in giro con la Canon tra le mani ed evito accuratamente il suo sguardo per non attirare l’attenzione.

Con mio sommo orrore, dopo la fotografia, vedo che Christian si volta verso di me.

«Elettra, ti presento ufficialmente Margot. O Charlize, come l’hai chiamata tu.» Cosa? Che sta blaterando?

Stringo la mano alla cavalla e abbozzo un sorriso poco convinto, mentre lancio uno sguardo di fuoco a Christian, sperando che possa leggermi nel pensiero e sentire tutte le imprecazioni che gli sto rivolgendo.

«Charlize?» Ridacchia Margot, confusa.

«Elettra ha detto che somigli alla Theron, quando ti ha vista al Vagabond.» Spiega Christian. Davvero? Non ricordo questo particolare. E so che neanche da ubriaca avrei potuto dire una cosa del genere. Andiamo, la Theron è di un altro pianeta!

«Oh, grazie. Anche tu sei molto bella, Elettra.» Le sorrido di rimando. «Ci vediamo dopo.» La vedo allontanarsi diretta verso Thomas, appena arrivato anche lui.

Mi porto due dita all’attaccatura del naso, espirando lentamente.

«Come vuoi essere ucciso, precisamente? Un’idea adesso ce l’avrei, ma sono aperta ai suggerimenti.» Sibilo. «Che cos’è questa storia di Charlize?!» Mi viene voglia di strappargli quel cardigan di dosso e arrotolarglielo attorno al collo.

Christian ride di gusto. «Non ti ricordi?» Ride ancora di più. «A casa tua mi hai detto di averti cacciato dal mio ufficio e di averti rimpiazzato con la versione scema di Charlize Theron.»

Oh Signore.

Serro le labbra, avvertendo l’onda di risate che sta iniziando a gonfiarmi le guance.

«Ho davvero detto così?» Okay, attacco di ridarella scongiurato. Per ora.

«Sì.» Annuisce Christian, poi sembra tornare serio. «Hai detto tante cose. Non ricordi nulla?»

Perché dobbiamo parlarne per forza? Lo so dove vuoi andare a parare, Wayne dei miei stivali. Ma io sono Elettra Wayne e posso anche parlare dei miei deliri da sbronza senza problemi, che ti credi coccodè?

«Ricordo di averti chiamato “capo stronzo”.» Mormoro, in fondo soddisfatta di averlo fatto. «E di averti costretto a dormire da me.» Proseguo, distogliendo lo sguardo dal suo. Sorvoliamo poi sul bacio della buonanotte.

Christian rimugina su quello che ho appena detto, battendosi la punta dell’indice sulle labbra. «Mmm, sì, questo è vero.»

Sbuffo e alzo occhi e mani al cielo. «Avanti, cos’altro ho detto? Stai fremendo dalla voglia di mettermi in imbarazzo, ammettilo. Su, sputa il rospo, una volta per tutte.» Incrocio le braccia al petto col suono della sua risata nelle orecchie, e punto una delle sedie a sdraio posizionate attorno alla grande piscina. Mi ci siedo sopra e gli faccio spazio. Nel sedersi, le nostre braccia si sfiorano. Christian si china in avanti e poggia gli avambracci sulle gambe, congiungendo poi le mani.

«Vuoi davvero saperlo?» Chiede, e io sono quasi tentata di dire di no. Dai, cos’avrò mai potuto dire? Che non mi sta antipatico come sembra?

Faccio spallucce e lui sorride. «Mi hai detto che adori il mio profumo.» Deglutisco tre volte di seguito ma riesco a mantenere il volto inespressivo, o almeno spero. «Mi hai detto che se ti sposassi con me non avresti bisogno di cambiare cognome.» Oddio, non posso averlo detto! Ma dai! Mi mordo il labbro per non ridere. «Poi mi hai detto che ti piace quando ti chiamo Ele.» Spalanco la bocca e gli do uno spintone.

«Questa te la sei inventata!» Non ci credo neanche se mi fanno ascoltare una registrazione. Christian ride e scuote la testa, mentre io cerco di ricordare.

«Giuro, l’hai detto. Ti stavo supplicando di prendere le aspirine e ho detto “Dai, Ele”, per non sembrare troppo brusco... e tu hai risposto-»

«Mi piace che mi chiami Ele.» Continuo al posto suo, con lo sguardo vacuo e il suono della mia voce che mi rimbomba nella scatola cranica. Ha ragione.

PARBLEU!

«L’alcool fa male.» Commento, grattandomi la nuca.

Christian alza il dito, come a voler prendere la parola. «Mi hai detto anche un’altra cosa.»

«Qualunque cosa sia, ripeto: l’alcool fa male.» Dico, a scanso di equivoci. «Spara.»

«Mi hai detto che mi trovi bellissimo.» Afferma con un sorriso malizioso, e la camionetta dei pompieri si ferma sulle mie guance.

«Però! Sono simpatica, da ubriaca.» Ironizzo, beccandomi un’occhiataccia. Va bene, faccio la seria. «A onor del vero, tu hai detto di trovarmi bellissima e io ho risposto “anch’io”. Non è esattamente la stessa cosa.» Lo correggo, accavallando le gambe. Lui sorride, piacevolmente sorpreso.

«Allora qualche ricordo ce l’hai.» Ehm, purtroppo sì. Fa una pausa, e so che sta per dire qualcosa che farà decollare di nuovo il mio cuore come un Boeing 747. «Ricordi... cos’è successo dopo?» Parlando per l’appunto di decolli, ora mi sento proprio come in un aereo in partenza: avverto distintamente il vuoto d’aria nello stomaco e la testa leggera.

Sto anche per vomitare, se vi interessa.

Mi schiarisco la gola, per prendere tempo. Tolgo un pelo immaginario dal vestito. Disegno distrattamente un cerchio a terra con la punta del piede.

«Sì.» Rispondo infine, e stranamente mi sento come se mi fossi tolta un grosso peso dalle spalle.

Le labbra di Christian si increspano in un sorriso timido. «Okay.»

Il cuore dev’essermi arrivato nelle orecchie, perché non riesco a sentire nient’altro al di fuori del suo battito impazzito.

«Foto per il duo più strepitoso degli ultimi cent’anni!» Sussulto quando Mike spunta fuori dal nulla davanti a noi puntandoci addosso l’enorme obbiettivo della sua Canon. Quando vede che né io né Christian ci muoviamo, ma continuiamo a guardarlo interdetti, lui abbassa la macchina fotografica e ci fa un gran sorriso. «Dai, Waynes, mettetevi in posa!»

«Waynes è orribile.» Commento, e sento che sto per beccarmi il copri obbiettivo in fronte.

«Come vi pare, però mettetevi in posa, che tra poco si mangia.» Nasconde nuovamente il suo viso dietro l’apparecchio e io mi avvicino un po’ a Christian. Lui fa il resto, circondandomi la vita con il braccio e inclinando la testa verso di me, così che le nostre guance si sfiorano. Il suo profumo mi dà alla testa. Miracolosamente riesco anche a sorridere.

Il flash finisce di intontirmi, e quando i puntini bianchi scompaiono dalla mia vista, vedo il volto entusiasta di Mike che guarda il display della sua Canon con aria soddisfatta.

«Grazie ragazzi.»

Sarò sicuramente venuta con la faccia da pesce lesso, o da sniffatrice di cocaina targata Hugo Boss. Però non m’importa, la sua interruzione è stata provvidenziale. Ogni tanto la signora Sfiga mi concede la grazia.

«Andiamo a mangiare?» Propongo e scatto in piedi, con la smania di chi non riesce a stare fermo. So benissimo di essermi appena comportata come la solita latitante che se la svigna al minimo accenno di argomenti compromettenti, ma non posso farci niente.

Non vuoi farci niente. Cacasotto che non sei altro.

«Propongo un brindisi!» Sento che dice Thomas, quando ci avviciniamo al gruppo di persone riunite attorno al tavolo. «Alla nostra super collaboratrice che ho l’onore di avere come assistente in amministrazione, che ha trovato la felicità con lo strizzacervelli più affascinante d’America. Vi auguro tanta felicità, ragazzi.» Solleva il bicchiere, e mentre sta per concludere il brindisi Tony alza la mano. Thomas gli cede la parola.

«No, vorrei aggiungere che ha trovato la felicità dopo aver tribolato e averci fatto due pal- ehm, due nuvole così descrivendo per filo e per segno com’erano le fette di prosciutto che Andrew aveva sugli occhi, che non si accorgeva di lei e non capiva che tra loro c’era qualcosa di speciale. Non so cosa tu abbia fatto per farglielo capire, ma ne è valsa la pena. A voi!» Alza anche lui il bicchiere e tutti gli facciamo eco. «Se hai qualche consiglio da dispensare a quei poveretti che hanno a che fare con portatrici sane di prosciutto, illuminaci pure.» Continua, dopo aver mandato giù un sorso di rosé. Le sorride e poi guarda me.

Che stronzo!

Nancy non sembra intercettare il suo sguardo, e gli domanda chi sia la fortunata: «La conosciamo? Posso corromperla se vuoi, Martin mi ha dato un aumento.» Dice, e tutti ridono.

Tony agita la mano. «Oh no, non è per me.» Oddio, ti prego non farlo. «È una domanda generica, senza riferimenti o allusioni a persone... presenti o meno.» E mi guarda di nuovo, camuffando un sorriso dietro la mano. Sto per togliermi la scarpa e lanciargliela dove non gli farebbe piacere.

«Beh, in ogni caso, il consiglio che posso dare alla portatrice di prosciutto è di non pensare troppo, qualunque sia la cosa che le offusca la vista e la rende praticamente ottusa. Al poverino esasperato che le sta accanto, direi solo... non arrenderti.»

Tony fa un’espressione compiaciuta e annuisce convinto. «Dopo questa perla di saggezza, direi che possiamo darci dentro.»

 

***

 

Mi sto ingozzando come se domani iniziasse una carestia mondiale e dovessi fare scorte per i prossimi vent’anni. Andiamo di male in peggio. Ogni volta che qualcuno si avvicina per rivolgermi la parola, infilo una cosa in bocca: una tartina, un involtino, una focaccina, quella deliziosa quiche con la pancetta e ogni altro tipo di finger food che le mie mani riescono ad agguantare. È risaputo che a questo genere di ricevimenti tutti si interessano alla tua vita sentimentale, così come a Natale siamo tutti più buoni. Col mio super geniale stratagemma, il “delfino curioso” di turno, stufo di aspettare che la mia bocca finisca di ruminare – rigorosamente con la velocità di una lumaca in dialisi – se ne va con un sorriso di circostanza, oppure, nel caso dei più arguti, cambia argomento.

Come se non bastasse, sto schivando Tony come la peste, perché so che le sue frecciatine non finiranno praticamente mai, e col livello di stronzaggine che si ritrova potrebbe aspettare che ripulisca il buffet fino all’ultima briciola pur di strapparmi un qualsiasi tipo di confessione.

«Bellissima!» Due mani che si posano sulle mie spalle mi fanno sputacchiare l’acqua che stavo bevendo. Il sorriso luminoso di Thomas compare nella mia visuale, ed è talmente contagioso e innocuo che decido di non depredare ulteriormente il tavolo. Ma tengo sott’occhio le olive, per ogni evenienza.

«Thomas.» Lo saluto ricambiando il sorriso. «Allora, come ti va la vita?» Allargo il sorriso fino a scoprire probabilmente anche i denti del giudizio che non ho, mentre mi scervello per trovare un modo delicato di chiedergli di Rachel. Lui mi lancia un’occhiata stranita e poi fa spallucce.

«Solite cose, tutto bene. A te?»

«Bene, bene. Mmm…» Pensa, pensa, pensa. «Che carini che sono Nancy ed Andrew, vero?» Ah, certo, sei molto credibile come donna dei complimenti.

Thomas continua a guardarmi in modo perplesso. «Sì, sono una splendida coppia.»

«Già.» Mi dondolo sui piedi. «E tu? Amori in vista?» Ridacchio nervosamente ma cerco di non darlo troppo a vedere.

«No, per ora no.» Mi risponde lui con un sorriso.

«Ma vorresti?» Mi piacerebbe estorcergli qualche informazione, ma questo tipo mi sembra fin troppo perspicace. Chi vuoi fregare, Elettra? Non ti chiami Patrick Jane.

Lui fa spallucce. «Diciamo che non lo sto cercando, ma se dovesse capitare…»

«Mmm…» Annuisco, interessata. Agito il piede facendo su e giù in un ritmo estenuante e piuttosto isterico.

Oh, al diavolo.

«Ti piace Rachel?» Okay, forse non dovevo essere così diretta.

Thomas sembra sinceramente spiazzato dalla domanda, poi fortunatamente accenna un sorriso imbarazzato. «Siete amiche?»

Deglutisco un paio di volte, mentre il criceto nel mio cervello si affanna per cercare una risposta non troppo falsa ma nemmeno troppo compromettente. «La conosco abbastanza da credere che ci siano buone probabilità che tu le piaccia.» Dico, alla fine.

Non è vero, gli trasmetto col pensiero, in realtà Rachel è completamente persa senza speranza di recupero.

«Buone probabilità? Speravo in qualcosa di più sicuro…» Commenta lui, grattandosi la nuca. «In effetti non sembra aver accolto bene la mia allusione a una futura uscita…» Mormora, tra sé.

«Cos-? No, ma che vai a pensare!» Oddio, lo sapevo. Troppo femme fatale, troppo. «Perché, cosa ti ha detto? E quando?» Gli chiedo, fingendo di non sapere nulla al riguardo. Thomas mi rivolge un’occhiata incerta. Parla a zia Elettra, forza, confidati…

«Stamattina. È venuta a portarmi il caffè e io le ho chiesto se magari le andava di uscire con me. L’ho buttata lì così, senza pensarci troppo. Non era la prima volta che la notavo, passo spesso nella caffetteria e lei è sempre molto gentile. Molto carina, anche. Però stamane mi ha risposto “sì, un giorno o l’altro, magari”… come se stesse cercando un modo per rifiutare senza causare danni irreparabili alla mia autostima.» Racconta, con lo sguardo perso nel vuoto. Poi scrolla le spalle e mi guarda crucciato. «Tu che ne pensi?»

Penso che se le chiedessi di sposarti lei accetterebbe prima di subito.

Ma forse è meglio tenerti un po’ sulle spine.

«Penso che a volte noi donne possiamo essere molto ambigue su quello che vogliamo realmente, e con ogni probabilità Rachel non voleva mostrarsi troppo elettrizzata all’idea di uscire con te per non smorzare il tuo entusiasmo.» Replico, sorridendo soddisfatta della risposta.

«Tu dici? Mmm. Certo che siete strane…» Eh, parli con la regina delle stranezze, guarda.

Mentre sto per rispondergli che non deve farsi intimorire da queste cose, il suo cellulare squilla e lui è costretto ad allontanarsi. Va bene, almeno non si può dire che non ci abbia provato. Gli ho messo una bella pulce nell’orecchio.

Improvvisamente si sente un battito di mani e una voce che esclama qualcosa.

«Dai, dai, facciamo le prove del matrimonio! Vogliamo il ballo degli sposi!» L’idea “geniale” arriva stranamente da Clara, sostenuta da Mike che si è nuovamente armato di obbiettivo telescopico. Clara, ti facevo meno idiota, davvero.

Tutti annuiscono entusiasti e spingono la coppia al centro della grande terrazza. Da un punto ignoto parte una musica, che riconosco come Against all odds, di Phil Collins. Un classico. Mio malgrado, mi ritrovo a dondolare sui tacchi, ondeggiando sulla scia della canzone e perfino accennando a canticchiarla.

«Allora in fondo sei una romanticona.» Nel momento clou della canzone incrocio lo sguardo di Christian, che è apparso alle mie spalle con la sua solita disinvoltura, spargendo nell’aria Hugo Boss e testosterone in quantità industriali.

«C’è ancora qualche traccia che non sono ancora riuscita a sopprimere.» Replico, facendolo sorridere. Mi perdo a guardare il volto sognante di Nancy, i suoi occhi innamorati che si specchiano in quelli di Andrew, la mano di lui che le accarezza la schiena. Una punta di nostalgia mi fa sospirare. Non vedo l’ora che arrivi la torta, così posso affogare la mia disperazione nel cioccolato.

«Vuoi ballare?»

O affogare Christian Wayne, in mancanza d’altro.

È inutile che fai la sarcastica del cavolo: il tuo cuore sta scalpitando come Furia il cavallo del West.

Guardo Christian senza riuscire a rispondere. Faccio l’errore di spostare lo sguardo e incrocio quello di Tony, che se ne sta in un angolo del giardino con le braccia incrociate e mi sta fissando con un’aria decisamente contrariata e minacciosa. Oh, per l’amor del cielo! Che ha intenzione di fare se rifiuto, picchiarmi?!

Forse sì.

La canzone intanto finisce, e i due innamorati restano sulla “pista” in attesa di quella seguente. Decido che, se la prossima mi piace, allora potrei anche accettare l’invito di Christian. Speriamo che il disc jockey, chiunque sia, non tiri fuori una canzone alla My heart will go on, o mi butto in piscina.

Qualche secondo dopo, le note inconfondibili di I’ll be si diffondono nell’aria, facendomi rabbrividire. Adoro questa canzone, accidenti. Torno a guardare Christian e abbozzo un minuscolo sorriso.

Lui non aspettava altro. Accenna un inchino e mi prende la mano.

«Madame.» Mi è sempre piaciuta questa parola: “mia dama”. Sorrido mentre mi lascio condurre accanto a Nancy ed Andrew. Ci troviamo l’uno di fronte all’altra e per un istante restiamo così. Quando la sua mano destra mi circonda la vita e la sinistra si intreccia alla mia, realizzo che stiamo davvero per ballare davanti a tutti i nostri colleghi. E siamo l’unica coppia oltre ai festeggiati. Dio, menomale che ho messo i tacchi.

«Odio essere al centro dell’attenzione.» Sibilo, col desiderio di tuffare la faccia nell’incavo del suo collo. Per nascondermi, mica per altro.

Christian china la testa e la sua guancia mi sfiora la tempia. «Allora siamo in due.»

«Trovata geniale, quella di ballare.» Mi sento dire, poi finalmente vedo un’altra coppia unirsi a noi: Danny e Lily. Sorrido entusiasta all’espressione di puro visibilio che anima il volto di lei.

 

#The strands in your eyes that color them wonderful stop me and steal my breath#

 

«Hai visto, lamentosa di poca fede? Impara l’arte della pazienza.» Sussurra Christian, vicinissimo al mio orecchio. Istintivamente la mano con cui sono aggrappata alla sua spalla destra stringe appena la stoffa del cardigan che indossa.

Smettila di fare così. Smettila di avere questa voce, questi occhi, questo sorriso. Smettila di ballare così bene. Smettila di reggermi con delicatezza e al tempo stesso con decisione.

 

#Emeralds from mountains thrust towards the sky never revealing their depth#

 

«Chiedo perdono, sommo Mahatma Gandhi.» Lascio la sua mano e la congiungo all’altra per profondermi in un breve saluto indiano. Christian ride e mi pizzica i fianchi facendomi contorcere per il solletico. In lontananza vedo il volto sorridente di Tony che sta dicendo qualcosa a Thomas.

 

#Tell me that we belong together#

 

«Puoi dirlo forte.» Per un secondo mi si ferma il respiro: ho pensato che stesse commentando il verso della canzone, “dimmi che ci apparteniamo”. Poi un neurone mi ha salvato dallo svenimento ricordandomi quello che gli ho detto pochi istanti fa su Gandhi.

Gli sollevo il gomito con la mano in un gesto di sufficienza e lo guardo col sopracciglio alzato. «Non ti sembra di esagerare un tantino?»

Lui piega le labbra all’ingiù e scuote la testa. «Nient’affatto. Sei decisamente insopportabile.» Sapevo che stava parlando di me. Stiamo sempre parlando di me, di lui, di... noi.

«Ma tu sei ancora qui. Il che significa che o hai trascorso sette anni in Tibet e sei diventato davvero il figlioccio di Gandhi...» O cosa? C’è davvero una seconda opzione?

Christian sembra volermi scrutare l’anima con quegli occhi disarmanti fissi nei miei.

«Oppure?» Mi incalza, e ora mi domando se con questo sguardo non voglia che sia io a leggere la sua, di anima.

«Oppure niente, non c’era nessun oppure.» Balbetto, distogliendo lo sguardo. Lui stringe la mano che mi accarezza la schiena avvicinandomi ancora di più al suo torace, e quando sento la pressione leggera delle sue labbra sull’orecchio non posso fare a meno di chiudere gli occhi.

«Oppure credo che possa valerne la pena.» Sussurra, la voce ferma e calda. «Se è vero che in vino veritas, le cose che hai detto ieri sera le pensi davvero...» La gola riarsa e il frenetico battito del mio cuore confermano le sue parole. «...ma non voglio che ti ubriachi per sentirle di nuovo.» Vuole sentirle di nuovo. Non so se ridere, piangere, scappare o baciarlo. Mi mordo un labbro, e smetto di torturarlo solo quando Christian allontana leggermente la testa per guardarmi negli occhi. Aspetta una risposta... e una risposta avrà.

«A cosa ti riferisci? A quando ti ho chiamato ‘capo stronzo’ o quando ti ho detto che mi stavi palpando?» Mormoro, con un sorriso che non riesco a contenere. Forse la mia ironia è l’unica cosa bella che ho e che sembra non subire il fascino indiscusso di quest’uomo. «Se vuoi posso ripetertelo anche adesso.»

Osservo le sue labbra schiudersi e curvarsi in un sorriso. «Sarebbe già qualcosa.»

Ti rendi conto che ti sta aprendo il cuore e tu fai dell’ironia? E lui non ti ha ancora affogata nella piscina?

Restiamo in silenzio per un’intera strofa, poi Christian si abbassa di nuovo e il suo respiro caldo mi infiamma il collo. Ahhh, ma perché fa così, maledetto! Cerco di controllare il mio, di respiro, mentre ascolto quello che sta per dire. Quando si avvicina in questo modo è sempre un cattivo segno. «Comunque, se proprio ci tieni a saperlo, non mi riferivo soltanto a quello che hai detto

Appunto.

Quando torna a guardarmi mi schiarisco la gola, ma non per rispondere, piuttosto per cercare di mandare giù il cuore.

La voce di Edwin McCain che piano piano va a sfumare segna la fine di questi interminabili minuti e mi salva dal secondo momento più imbarazzante della serata.

«Posso avere l’onore, signorina Wayne?» Christian sposta lo sguardo oltre il mio viso e mi lascia, sorridendo a Tony che adesso sta prendendo il suo posto. Senza che io possa oppormi, mi ritrovo a ondeggiare di nuovo, ma tra braccia diverse. Quando poso la mano sulla sua spalla e lo guardo, mi scopro a pensare che no, non è per niente la stessa cosa ballare con Tony.

Tony è più basso, più asciutto, più rapido, più moro, più tutto. È... sbagliato.

«Avete fatto pace?» E perfino più impertinente, dimenticavo. Gli pesto un piede di proposito, sbattendo poi gli occhi da cerbiatta a mo’ di scusa.

«Non abbiamo mai litigato, per la cronaca.» Mi sento rispondere, con un sospiro esasperato. Tony sembra confuso.

«E allora perché lo evitavi come Lucia con Don Rodrigo? Hai fatto un voto di castità? Non mi sembri così candida.» In quel momento, Christian ci passa accanto e vedo che sta ballando con Alexandra. Tony mi posa due dita sulle palpebre e imita il suono di un fuoco che viene smorzato: «Pssssss. Wow, l’hai incenerita.»

«Non l’ho incenerita!» Protesto a bassa voce, con la bocca spalancata.

«Se avessi due pistole al posto degli occhi ti assicuro che Ethan Hunt ti farebbe un baffo.» Afferma placido. «Perché ti ostini a negare l’evidenza?» Avvicino pericolosamente il tacco alla punta delle sue scarpe.

«Non c’è nessuna evidenza.» Mormoro con lo sguardo basso. Improvvisamente mi trovo con la testa penzoloni a un metro da terra e nessuna mano a sorreggermi la nuca. Poi Tony mi tira su di scatto, e aspetta sorridente che la mia testa smetta di girare.

«Ma che ti prende?! Non è un tango!»

Lui fa spallucce. «Lo so. Volevo dare una scrollata ai tuoi neuroni. Vediamo se ha funzionato: ti piace Christian Wayne?»

«NO!» Esclamo, attirando l’attenzione delle coppie che ballano con noi. «Ma ti riesce così difficile farti gli affaracci tuoi?»

Lui sorride beffardo. «Non immagini nemmeno quanto.»

Sbuffo, sperando che la conversazione sia finita qui. Lascio correre lo sguardo nel giardino, sulle coppie che stanno ballando – alle quali si sono aggiunti Mike, Clara e i genitori di Andrew – su Thomas che parla al telefono, su Christopher che si è praticamente steso sul tavolo e sta quasi leccando le briciole del vassoio di focaccine; sento i sussurri innamorati di Nancy, la voce nasale di Clara, la risata di Alexandra. Mi ero ripromessa di non guardarli più ma dopo un po’ cedo a una breve sbirciata. Christian la sostiene con una mano a metà schiena – a me la teneva più in basso o sbaglio? – e lei gli sta casualmente accarezzando la spalla, senza smettere di sorridere. Oca giuliva.

«Devo andare in bagno.» Dichiaro appena intuisco che la canzone sta volgendo al termine. Tony mi accompagna fino all’ingresso della casa e poi lo sento chiamare Sandra.

Ah, finalmente silenzio. E solitudine. E nessuno che pronuncia il nome Christian.

Chiudo la porta a chiave e, dopo aver controllato il trucco che stranamente resiste, do le spalle allo specchio e mi appoggio al mobile del lavandino, aspettando qualcosa. La voglia di uscire e tornare in giardino, per esempio.

Oh mio Dio, ci siamo trasferiti in discoteca? Cos’è, Rihanna? Tendo l’orecchio verso la finestra e riconosco le note di We found love. Vabbè, se non altro questo non è un ballo di coppia. Faccio un bel respiro e mi decido a uscire. Quando torno in terrazza, mi lascio sfuggire una risata, nel vedere Mike improvvisarsi ballerino di reggaeton e Clara la nerd che ci dà dentro con gli occhi chiusi e le mani per aria, muovendosi come se stesse sul set di Step Up. Però è brava. Anche Tony prova a imitarla, affiancato e sostenuto da un sorridente Thomas. Un’altra risata mi scuote le spalle, nel vedere i loro movimenti impacciati ma fieri: non hanno il minimo pudore di ridicolizzarsi in pubblico.

Nella penombra della zona circostante la piscina, seduto su una sedia a sdraio che mi sembra di riconoscere, c’è Christian, che controlla qualcosa al cellulare e di tanto in tanto alza lo sguardo sui due breaker improvvisati, sul volto un sorriso divertito.

Trattengo il respiro quando i suoi occhi si posano su di me, scoprendomi a fissarlo. Mi impongo di non distogliere lo sguardo per almeno altri tre secondi, per non fare completamente la figura dell’idiota. L’ombra di un sorriso gli attraversa le labbra e gli occhi, che poi si abbassano di nuovo sul cellulare.

Mi muovo sul posto come avessi il pepe nel sedere, poi sbuffo con una sottospecie di ringhio e decido di assecondare le mie gambe, che si muovono in una direzione precisa.

Quando mi siedo sulla sdraio, con le mani sulle ginocchia come la statua di un faraone e la posa rilassata di un palo della luce, Christian si volta a guardarmi. L’angolo della sua bocca è sempre sollevato, in un sorriso che adesso ha un non so che di... compiaciuto.

«Cosa c’è?» Gli domando, titubante.

Lui scuote la testa lentamente. «Niente.» Quel niente che racchiude tutto mi provoca un brivido che non riesco a nascondere.

«Hai freddo?» Mi domanda con un velo di apprensione. Sembra non essersi accorto della causa del brivido, o forse l’ha capito benissimo ma non vuole mettermi in imbarazzo. Non lo saprò mai. Però, al di là di tutto, un po’ di freddino lo avverto. La temperatura deve essersi abbassata, e io non ho pensato di portare nessun tipo di giacca, giacchino, foulard o quel che è. Capisco di avere decisamente freddo quando Christian avvolge le mie mani tra le sue, scoprendole gelate. Senza dire una parola, si inizia a sbottonare il cardigan. Lo guardo con gli occhi sgranati, e quando arriva all’ultimo bottone la mia lingua si sblocca.

«No, che fai? Fermati!» Lui mi ignora beatamente e sfila le maniche, scoprendo la camicia bianca e immacolata che gli fascia il fisico perfetto. No, no, no, oddio come profuma...

Christian mi copre le spalle col cardigan e mi costringe a infilarlo, poi insiste anche per abbottonarlo. Osservo il suo viso concentrato nell’infilare i bottoni nelle rispettive asole senza toccarmi, specialmente nei dintorni della scollatura. Alzo un braccio e lo agito, facendo penzolare la stoffa in eccesso. Ha delle braccia... wow.

«Dovrei andare un po’ in palestra per riempirlo bene.» Scherzo, e lui ride.

«Ti sta benissimo.» Commenta garbato quando ha finito con l’ultimo bottone.

Ora, a parte l’immediato e provvidenziale calore che emana questa stoffa, vogliamo parlare del profumo che sembra sprigionare ogni singolo filo? Mi sento avvolta in questo torpore, oltre che nell’azzurro degli occhi di Christian, adesso un po’ più scuro per via della poca luce. Il suo sguardo scorre sul mio corpo, adesso riparato dal tessuto che gli appartiene. L’accostamento col mio vestito di cui si intravede la parte finale, che arriva poco sopra il ginocchio, è sicuramente qualcosa che farebbe storcere il naso a Carla Gozzi, ma io sto bene così. Anche perché non vorrei prendermi un malanno.

«Sei carina.» Dice Christian regalandomi un sorriso allegro.

Gli allungo una spintarella con la mano e poi rido vedendo che la manica me la copre tutta. Sembro una bambina che ha indossato i panni del papà. Questo pensiero, questa idea di “intimità” mi fa arrossire, ma è buio e lui non dovrebbe essersene accorto. Spero.

«L’ultima volta che hai detto una cosa simile ci siamo baciati.» Gli rispondo a mo’ di rimprovero, e lui si passa una mano sulla nuca, dapprima sorridente, poi serio.

«Sai, non pensavo che sarebbe successo così. Confesso di averci pensato qualche volta, ma non era quello il contesto.» Ci ha pensato? Ha pensato di baciarmi? Oh Signore.

Ma quanto puoi essere ritardata per non averlo capito?

Tossicchio, imbarazzata. «Se ti può consolare io non ricordo nulla.» Violet si para il viso con le mani, aspettando una reazione catastrofica. Christian alza le sopracciglia. «Non sto scherzando.» Aggiungo, seria.

«Non ti ricordi di avermi baciato? Ma se hai detto che-»

Lo blocco alzando una mano a mezz’aria. «So che ci siamo baciati. Ricordo che... che ti sei avvicinato a me...»

«Che mi hai tirato per il colletto della camicia, vorrai dire...» Precisa lui.

Se qualcuno vuole cuocere una bistecca, sono disponibili le guance di Elettra!

«Ehm, sì, quello che è.» Balbetto, cercando di riprendere il filo del discorso. «E poi ricordo di aver sentito la tua... le tue... insomma, per farla breve ricordo il contatto, ma non il resto, ecco.» Improvvisamente le mie unghie mi sembrano molto interessanti. Davvero carina questa tonalità di rosso, sì. Un ottimo acquisto.

Non cogliendo segnali di vita dal mio interlocutore, alzo lo sguardo e lo vedo grattarsi la mascella, con le labbra appena arricciate in una smorfia dubbiosa.

«No, tu mi hai proprio baciato. Eri... parecchio partecipe. Ne sono sicuro.» Mormora e mi viene voglia di dargli un abbraccio di consolazione.

«E poi cos’è successo?» Gli domando, invece, curiosa.

«Poi mi hai detto “buonanotte Chris” e mi hai tirato di nuovo accanto a te per usarmi come cuscino.»

«Wow.» Come perdersi i momenti più interessanti della propria vita. «Ti ho davvero chiamato Chris?» Siamo entrati proprio in confidenza, pare.

Lui annuisce con un sorriso. «Già.» Poi pensa a qualcosa e scuote la testa. «Se avessi capito che... è che non sembravi così sbronza. Se avessi saputo che non avresti ricordato nulla non mi sarei mai fatto trascinare dalla tua mano.»

«Ci tieni proprio a specificare questo particolare, eh.»

Lui si stringe nelle spalle. «Sei così sfuggente, Ele, che devo accontentarmi di quel poco che mi concedi, anche se non esattamente nel pieno delle tue facoltà mentali.» Mi guarda di sbieco, canzonatorio.

Gli do una lieve spallata, scontrandomi col suo bicipite. «E smettila di fare la vittima!»

Christian sghignazza e io lo guardo minacciosa. Lui sta al gioco, accigliandosi di proposito. Poi sorridiamo e lui allarga un braccio. «Vieni qui.» Mi mordo il labbro, esitante. Lui sospira e alza gli occhi al cielo. «Avanti, per una volta puoi non farti pregare?» Trattengo a malapena una risatina e poi mi raggomitolo sul suo petto, circondandogli il torace con le braccia. Mi sento doppiamente avvolta, da Christian e dal suo cardigan. C’è tanto Christian nell’aria, adesso.

 

***

 

«Grazie di tutto, Nancy. Anche a te, ‘drew.» Stringo i due piccioncini in un abbraccio da Teletubbies.

«Grazie a te per essere stata qui e grazie davvero tanto per il regalo! Ce lo godremo al massimo.» Sorrido pensando alla trovata geniale del weekend in un centro benessere, completo di ogni tipo di massaggio e trattamento esistente sulla faccia della terra.

«Non ho dubbi.» Sghignazzo, e li saluto con la mano mentre mi avvio verso la porta d’ingresso.

«Duchessa, te ne vai senza salutarmi?» La voce di Thomas mi fa voltare. Mi raggiunge in due o tre passi e mi abbraccia.

«Scusami, non ti ho visto.» Mormoro, passandogli la mano sulla schiena. Da quando in qua sono diventata l’orso-abbraccia-tutti? No, qualcuno me lo spieghi.

«Mi raccomando con Rachel.» Gli intimo, puntandogli un dito sul naso. Lui annuisce, da bravo bambino, e prima di andarsene mi assicura che le chiederà di uscire non appena la rivedrà.

Il che significa che devo combinare un altro incontro.

Mmmh...

«Christian!» Alzo la voce per farmi sentire dal portatore sano di testosterone che sta parlando con Tony e i due si interrompono voltandosi nella mia direzione. Sento che Tony dice “Io scappo, ci vediamo lunedì” e Christian lo saluta con una pacca sulla spalla, dopodiché viene verso di me.

«Dimmi. Cosa ti serve?» Mi chiede, con un braccio stretto al petto e l’altro poggiato sopra, che si sfiora il mento pensoso.

«C-come fai a sapere che mi serve qualcosa?» Balbetto stupita.

«Perché altrimenti non mi avresti mai chiamato. Ti sei già avvicinata una volta di tua spontanea volontà, stasera. Due sarebbe stato troppo.» Spiega, sagace, accompagnando la frase con un occhiolino.

«Touché.» Mormoro, ammettendo la verità. «Comunque, sorvolando sul tuo vittimismo perenne, ti volevo ricordare del nostro piano per Thomas e Rachel.»

«Ah, sì. Devo ancora comprare l’arco e le frecce, credi che nel weekend questo genere di negozi sia aperto?» Alzo gli occhi al cielo ma non riesco a contenere un sorriso.

«Sei un idiota, lo sai?»

«Attenta a come parli, potrei offendermi.»

«Oh, certo.» Mi fingo intimidita e imito la sua voce profonda, ricordando cosa mi disse in albergo: «Non hai ideeeea di come posso diventare, Elettra

Riesco appena a intravedere il suo sorriso tagliente e poi mi ritrovo a testa in giù, appesa alla sua spalla come un sacco di patate.

«AIUTO! Christian mettimi giù IMMEDIATAMENTE! AAAAAHHH!» Sono costretta ad aggrapparmi al trionfo di muscoli che si intravedono dalla camicia per non essere sballottata eccessivamente, mentre lui cammina tranquillo sotto lo sguardo divertito degli altri ospiti, o almeno di quelli che sono rimasti.

«Ciaooo, noi ce ne andiamo!» Esclama, agitando la mano in segno di saluto verso Nancy ed Andrew.

«Mi vuoi mettere giù? CHRISTIAN WAYNE!» Continuo a scalpitare ma lui mi ignora portandomi a spasso senza il minimo sforzo.

«Ah, la porti tu a casa?» Questa è la voce di Danny, ma non riesco a vederlo. La schiena del cretino che mi ha preso per una bambina di sei anni mi copre tutta la visuale. Vedo i piedi di Lily fare il giro e poi la sua testa compare davanti alla mia.

«Ci vediamo lunedì?» Dice con un gran sorriso.

«Stronza!» Le urlo dietro mentre la vedo sparire. Sbuffo e quando ci troviamo fuori dalla casa, inizio a tirare pugni a non finire sulla schiena di Christian.

«Lasciami!» Pugno. «Fammi scendere!» Pugno. «Christiaaaaan!» Due pugni.

«La smetti di sbraitare? La macchina è a due isolati da qui, vuoi svegliare tutto il vicinato con le tue urla?» Per quanto la posizione mi consenta, gli allungo uno schiaffo sulla testa e lui risponde con un pizzico sulla gamba scoperta.

«AHIA!» Piagnucolo. «Christian, tutto questo è veramente ridicolo, veramente... bastamettimiimmediatamentegiùchemisivedonolemutandine!» Strillo tutto d’un fiato, e sembro toccare il tasto giusto perché lui si ferma e mi fa scendere. Mi abbasso il vestito che era risalito a metà coscia e mi stringo nel cardigan, per poi incrociare le braccia al petto e iniziare a camminare. Camminerò fino a che non vedrò la sua auto, sì. Non ci dovrebbero essere molte Audi rosse, in giro.

«Sei arrabbiata, per caso?» Christian mi raggiunge in un battito di ciglia e io non gli rispondo. Continuo a camminare col naso per aria e la convinzione di chi sa di avere ragione.

Non so come faccia a stare al mio passo. O meglio, non so come faccia a non sembrare un soldatino affannato come invece sono sicura di sembrare io, che per di più sarò molto vicina allo spiaccicarmi al suolo per via di questi tacchi altissimi. Lui invece cammina con la nonchalance di un modello della nuova collezione di Calvin Klein, con le mani in tasca e quella camicia bianca che…

«Aaaarrrgh.» Questo suono inarticolato simile al ruggito di un leone con la tracheite sembra proprio essere provenuto dalla mia gola.

Frustrazione, Elettra, dicesi ‘frustrazione’.

«Vuoi tornare a piedi?» La voce di Christian stranamente mi arriva attutita alle orecchie. Mi volto e vedo che è fermo all’angolo della strada a circa cinquanta metri da me. «L’auto è di qua.» Dice, indicando la via alla sua destra col pollice.

Con l’eleganza della regina Elisabetta faccio retromarcia e imbocco la strada che fa il giro dell’isolato, più impettita di prima. Mentre sto camminando, mi sento bloccata e vedo che Christian ha infilato due dita nel cardigan, all’altezza del collo, gesto che mi sta limitando nei movimenti.

«Hai finito?» Mi chiede, e io mi mordo un labbro per mascherare un sorriso. Scuote la testa, come a dire ‘ma come devo fare con te?’ e io, per farmi perdonare, infilo il braccio sotto il suo e lo trascino verso la macchina.

 

***

 

L’Audi rallenta a poco a poco fino a fermarsi davanti al palazzo rosa salmone che riconosco a malapena per via della scarsa illuminazione.

Mi schiarisco la gola, imbarazzata come una tredicenne al primo appuntamento. Con una mano sulla portiera e la borsetta nell’altra, mi volto a guardare Christian, per salutarlo.

«Allora… buonanotte. Grazie del passaggio.» Dico con un filo di voce. Lui mi rivolge un minuscolo sorriso, poi posa una mano sul mio braccio e mi attira a sé, chinandosi a sua volta verso di me. Sembra puntare alla mia guancia, ma involontariamente io mi muovo e le sue labbra sfiorano l’angolo delle mie.

«Scusa.» Sussurra, indietreggiando di circa un millimetro.

Fisso le sue labbra e penso che potrei morderle da un momento all’altro, se non scendo subito da quest’auto. La voglia è troppo forte ma la mia parte razionale è categorica e anche questa volta ha la meglio su tutto il resto. Sono io, quindi, ad allontanarmi del tutto e ad augurargli un buon weekend, prima di aprire la portiera e lasciarmi avviluppare dal freddo pungente della sera. Christian mette in moto e alza due dita per salutarmi, io ricambio col cuore che scalpita ed entro subito nel palazzo, senza guardarmi indietro.

Salgo velocemente le scale, apro la porta e con un calcio sfilo le scarpe, gettandole in un angolo dell’ingresso. Mi lavo velocemente i denti, mi strucco e vado in camera, per poi spogliarmi. Poggio delicatamente il vestito sulla sedia e poi torno verso il letto, recuperando l’indumento che ho tolto per primo. Ripensando alle sue mani, infilo i bottoni nell’ordine indugiando sul terzo e sorridendo al ricordo del suo sospiro impacciato; poi, una volta finito, mi accoccolo sul letto e mi porto la stoffa al viso, inspirandone il profumo. Chiudo gli occhi e, per la prima volta dopo una lunga battaglia interiore, un pensiero indugia nella mia mente per più di pochi secondi soltanto, facendomi battere forte il cuore e stringere ancora di più nel morbido tessuto che evoca la sua presenza.

Mi manca.

 

 

~ Note

Molto bene(h).

Cos’abbiamo di nuovo? Altri piccoli passi, più consapevolezza nella mente di Elettra – e forse anche nel suo cuore – ma ha bisogno di una piccola spinta.

Qualche nota qui e lì: “Pocamontas” lo diceva davvero mia sorella qualche anno fa; la canzone sulle cui note ballano i due Wayne è questa, ascoltatela perché è molto bella; “Sette anni in Tibet” è, come spero sappiate xD, un film con Brad Pitt (sbav sbav); “Glitter” è davvero una storia – al momento breve – di una cara amica e meravigliosa scrittrice, a cui auguro un giorno di poter pubblicare un bel libro per la nostra giUoia. Questo è il suo profilo su Efp; Questo invece è il cardigan di Christian (sbav); Un ringraziamento a Elisa (TheBritish) per avermi aiutato nella scelta della meta del viaggio (c’è un perché); La casa di Andrew Perkins (il cui nome proviene da un personaggio di Grey’s Anatomy) esiste davvero a Miami, per cui mi scuso col proprietario della stessa e gli faccio i complimenti perché da quel che si vede su Google Maps è davvero bella XD; Il titolo del capitolo è liberamente scopiazzato dal titolo di una puntata di Lost.

Credo di aver dato a tutti i Cesari quel che gli appartiene, quindi mi dileguo e aspetto i vostri pareri (P.S.: Grazie per tutte le meravigliose recensioni, aggiunte a preferiti/seguite/ricordate. Grazie, davvero!). Spoileeer:

 

Quello che sento poco dopo mi fa rabbrividire da capo a piedi, e ogni altro pensiero viene dissolto, lasciando spazio a un puro terrore.

«Elettra è in ospedale.»

 

Un abbraccio trepidante,

Sara.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici - Fainted ***


Blend



“I dreamed I was missing, you were so scared”

Linkin Park, Leave out all the rest

 

 

«Dici che è arrivata? Tu la vedi?»

Anne sgomita tra la gente sollevandosi sulle punte e poi torna coi piedi per terra, nel vero senso della parola, e scuote la testa.

«Dovrebbe essere atterrata, scusa, sono le dieci e- ECCOLA!» Agito le braccia nella direzione in cui sto guardando e dopo un paio di tentativi attiro l’attenzione della persona desiderata, la quale fa una corsa verso di noi e ci salta praticamente addosso.

«Puzzi come una ciminiera, hai iniziato a fumare?!» Le dico allontanando il viso dai suoi capelli.

Lei mi sorride e scuote la testa. «No, ma anche tu mi sei mancata, stronza d’una sorella maggiore.»

 

***

 

Rivedere mia sorella dopo due mesi è stato decisamente favoloso. Con lei esce fuori quel po’ di istinto protettivo – giusto una briciola insignificante, eh – che c’è in me e che la esaspera fino allo stremo. Siamo quasi coetanee ma per me sarà sempre la mia sorellina, non ci posso fare nulla. Ho visto la sua cacca puzzolente e le sue tonsille quando piangeva come un’ossessa per le coliche. Le ho dato la manina quando ha mosso i primi passi e l’ho consolata quando le è caduto il primo dentino. Così come quando ha dato il primo bacio, e non ha voluto parlare con un ragazzo per i successivi tre mesi. Poi però le è passato tutto e ho dovuto mettere un elimina code per i troppi ragazzi che bussavano alla sua porta. Ci sono sempre stata nella sua vita, così come lei c’è sempre stata per me.

L’asfalto chiaro di Lincoln Road, zona pedonale famosa per lo shopping, riflette le nostre ombre, quattro sagome scure che camminano in sincronia con la disinvoltura delle bagnine di Baywatch. Oltre a mia sorella e ad Anne, a noi si è aggiunta Rachel, che è forse quella più esperta della città e che ha deciso di aiutarci a passare una giornata all’insegna del divertimento. Ieri ci ha fatto da guida culturale, oggi ci porta a fare spese.

«Qui ci sono Gap, Juicy Couture, Miss Sixty… più avanti ci sono Sephora, Banana Republic, Diesel, Desigual e… no, non ci vedo più di tanto. Da dove volete iniziare?» Domanda Rachel, strizzando gli occhi contro il sole per cercare di scovare qualche altro negozio.

«Ele, non ti serviva roba per il mare? Crema, olio, doposole…?» Interviene Anne, rivolgendo lo sguardo al poco distante Sephora. Rifletto, storcendo la bocca.

«In effetti, sì.»

«Mare? Andate a mare a novembre?» Piccola Eva, non conosci ancora Miami.

«Beh, tra un uragano e l’altro il Nord e Centro America sono famosi per la presenza di bagnanti in qualunque stagione. E poi, la nostra signorina Wayne ha in programma un viaggio. Con un certo orsacchiottone che sbava per lei, tra l’altro.» Ammicca Rachel, mostrando tutti i suoi denti. Lo sguardo di Eva non lascia presagire nulla di buono.

«Cosa?!»

 

Non so come ho fatto a distrarre mia sorella dall’argomento viaggio e “orsacchiottone”. No, non le avevo ancora parlato di Christian. Ma, del resto, cosa ci sarebbe da dire? Nulla!

‘Nulla’ tipo: ‘è il mio uomo ideale ed è palesemente cotto di me’, intendi?

Taci tu, brutta megera!

L’importante è che ora siamo perse tra creme autoabbronzanti e burro cacao alla noce di cocco, e nessuno parla di codini biondi o di muscoli guizzanti.

«A cosa serve questa, dai? A che scopo dovrei sembrare abbronzata da un giorno all’altro senza neanche essere stata al sole mezzo minuto?» Protesto, rimettendo al suo posto un flacone di crema, che Eva riprende e mette nella grande busta di tela che ha tra le mani.

«Tu non capisci un cavolo, dai retta a me. Lo fanno tutti, tranquilla. È meglio sembrare una che si è spalmata un po’ di autoabbronzante piuttosto che una mozzarella appena uscita da un caseificio!» Eva alza gli occhi al cielo e si dirige verso lo scaffale dei doposole, con l’aria stufa di chi ha una sorella invasata. Anne la raggiunge e continua a confabulare con lei come stanno facendo da mezz’ora a questa parte.

«Sai, dovresti fare un regalo a Christian.»

Oh, Signore. Ti prego, cosa ho fatto di male? Dimmelo! Vorrei saperlo davvero, perché a me sembra di comportarmi decentemente, e…

«Dico sul serio.» Rachel continua, valutando la mia espressione, che naturalmente non ha nulla di amichevole ma somiglia a quella di un mastino napoletano.

«Ele! Ho trovato l’acqua scintillante, vieni a vedere!» Eva richiama la mia attenzione con la voce e la mano e io guardo Rachel facendo spallucce, mentre mi avvio verso mia sorella.

 

«Adesso direi che è il momento di passare ai costumi da bagno, di cui sarai completamente sfornita, nevvero?» Siamo appena uscite da Sephora e Anne sta spuntando delle voci da una lista sul suo Iphone. Ha preparato una lista per il mio viaggio?! Oh, cielo. Non oso immaginare cosa ci sia, in quella lista.

«Adesso direi che è il momento di fermarci lì perché il mio stomaco reclama del cibo.» Dichiara Eva, indicando uno Starbucks alla cui vista le si illuminano gli occhi. Perché solo in Italia non ne abbiamo uno. Solo in Italia.

«D’accordo, andiamo.» Le altre concordano – fin troppo, per i miei gusti – e dunque ci avviamo verso il “negozio” più bello di tutti. Passano circa dieci minuti, tra l’ordinazione e il ritorno della simpatica cameriera, prima che una frase mi faccia quasi strozzare.

«Beh, sorellina? Novità col megafusto?» A parlare è, ovviamente, Eva, prima di mandare giù un morso del suo cornetto gigante.

«Cosa?» La guardo stranita e interrogativa e mi nascondo dietro un bicchiere di succo d’arancia. Rachel sta sorridendo come una iena, Anne invece si mordicchia l’angolo della bocca. La cosa puzza e parecchio. Il mio cuore batte un po’ più veloce.

«Avanti, il tuo collega figo! Lo voglio vedere, ce l’hai una foto?» Mia sorella è nota per il suo essere chiara e concisa, sempre e comunque. Chissà da chi ha preso…

«Di chi stai parlando, scusa?» Domando innocente tuffando un muffin nel caffè di Rachel. Eva sbuffa vistosamente.

«Anne mi ha detto tutto, perciò non fare la finta tonta. Ti conosco. Stai evitando l’argomento. E sono anche arrabbiata perché non me ne avevi parlato prima.»

Di fronte alla sua espressione perentoria, sbuffo anch’io. «Ah, Dio buono, non è possibile che mi perseguitiate tutte con questa storia. Io vi dico che non c’è nulla che… oh, è il mio?» La suoneria del cellulare mi interrompe e ringrazio mentalmente chiunque sia per avermi salvato. Momentaneamente, lo so, ma almeno è già qualcosa. Magari le ragazze saranno colte da un lapsus improvviso e dimenticheranno tutto, sì.

«Pronto?» Rispondo con un certo sospetto: non mi piace parlare al telefono quando non conosco l’interlocutore.

«Salve, parlo con la signorina Wayne?»

«Sì, sono io. Mi dica.»

«Sono Mike Harris, agente immobiliare della House&House. So che sta valutando l’acquisto di un appartamento, e avrei delle inserzioni da sottoporle, in due zone a lei congeniali. Se vuole, possiamo prendere un appuntamento e vederci dove le è più comodo per valutare le varie possibilità. Abbiamo selezionato degli affitti molto interessanti, ma c’è anche qualche occasione nelle compravendite. Le zone sono Coconut Grove e Coral Way, ma la ricerca può essere estesa ai quartieri limitrofi, qualora non trovasse nulla di suo gradimento.»

Quando il tizio smette di parlare, resto attonita come un pesce palla gonfiato a tradimento da una guida esperta di una località turistica.

Rachel, Anne ed Eva mi scrutano cercando di capire con chi sto parlando, ma non riesco nemmeno a mimare loro un indizio per farglielo capire. Sono… stordita.

«Io non ho mai chiamato la vostra agenzia.» Replico, e il tipo dall’altra parte ridacchia tranquillo, come se sapesse che gli avrei fatto questa domanda.

«Lo so, signorina Wayne. Qualcun altro l’ha fatto per lei, e sono sicuro che ha le migliori intenzioni. Quello col quale sto chiamando è il mio numero personale, la prego di richiamarmi per fissare quell’appuntamento. Siamo – e sono – a sua completa disposizione.»

«Ahm, d’accordo.» Balbetto, poco convinta. «Grazie.»

Riattacco senza averci capito molto.

«Chi era?»

«Mh, nessuno.» Bofonchio, riempiendomi la bocca con del cibo. «Avevano sbagliato numero.» Continuo, mentre mastico.

L’espressione che accomuna le tre Moschettiere mi fa abbassare lo sguardo dall’imbarazzo. Va bene, è chiaro che non se la sono bevuta.

«Era un agente immobiliare. Voleva... mhmm... propormi un lavoro.» Bevo un sorso d’acqua ma la loro espressione non è mutata di una virgola. Da quando in qua non riesco più a dire bugie e risultare credibile?!

«E va bene! Era un agente immobiliare e mi ha proposto degli appartamenti. Deve averlo chiamato Christian.»

«AAAAAAAAH!» Athos, Porthos e Aramis urlano in contemporanea, portandosi le mani alla bocca. «Ma è dolcissimo!»

Scuoto la testa contrariata. «Non doveva farlo. Si è intromesso nelle mie cose personali, sono molto arrabbiata.»

«Non è vero. Sei calma come un elefante anestetizzato e sotto sotto sei anche lusingata.» Pigola Anne, puntandomi il dito contro.

«E non c’è niente di male nell’intromettersi nelle tue cose personali. Magari si intromettesse nelle mie!» Questa, ça va sans dire, è mia sorella. E per “cose personali”, naturalmente, non intendeva la casa.

«Ma è possibile che pensi solo a quello?» Sbuffo, e le lancio un fazzoletto in faccia. Lei sta per rispondermi ma un nuovo suono del mio cellulare la blocca. Mi è arrivata un’e-mail. È di Christopher.

Oh. Wow.

«Cos’è quella faccia? Che hai visto? Fai vede- oh Signore Onnipotente.»

All’affermazione di Eva, le altre due comari si sporgono verso il mio cellulare, sul cui schermo compare una delle due foto che Christopher ha fatto a me e Christian alla festa di fidanzamento. È quella per la quale abbiamo posato, sulla sedia a sdraio. Mentre parlavamo del nostro... bacio.

«Perdo bava dalle orecchie.»

«Siete... bellissimi!»

«HAI IL SUO CARDIGAN ADDOSSO?!»

Tre commenti in contemporanea mi fanno avvampare e rabbrividire al ricordo.

«Quel cardigan l’ho visto a casa tua stamattina! Ce l’hai ancora! Non l’hai restituito! Ah-HA! SCOPERTA!» Trilla Eva impazzita con lo sguardo trionfante di chi ha risolto un mistero.

«Volevo lavarlo prima di renderglielo.» Rispondo semplicemente, smorzando il suo entusiasmo. Nel frattempo, scorro la pagina e sullo schermo appare una seconda foto, che Christopher ha scattato mentre ballavamo. Mentre ne osservo ogni frammento, il mio cuore batte più veloce.

«No, ma avete notato quanto è da stupro?» No. Anne non può aver pronunciato questa frase. Esci da questo corpo!

«Ma da stupro violento, del tipo con l’aggravante!*» No, ragazze, qui si degenera!

«È romanticissima questa foto, lo vedi quanto state bene insieme?» Mormora Rachel sognante.

Il mio sospiro dice più di quanto non voglia in realtà, e quello che esce dalle mie labbra poco dopo è sicuramente inaspettato. Per tutte e quattro.

«Ci siamo baciati.»

Com’è possibile che ogni espressione di stupore sul loro viso cambi a seconda della notizia recepita? Potrei farci un book fotografico con le loro facce da pesce lesso.

«COSA?!» Okay, mi correggo: quella è una faccia da maniaca assassina.

«Tu… voi… dopo… quando? Perché? Come? Cioè, intendo… oh mio Dio!» La reazione sconnessa di Anne mi fa sorridere, un po’ per l’imbarazzo, un po’ perché mi sento in colpa per non averglielo raccontato. Spiego brevemente com’è andata la situazione, a partire dallo pseudo salvataggio al Vagabond, prima dai tizi russi e poi da Ethan.

«Io lo amo.» Mormora Eva sognante, poggiando il viso sui palmi delle mani.

«E… com’è stato? Hai avuto le farfalle nello stomaco? Ti è piaciuto? Bacia bene?» Rachel sbatte gli occhi interessata e io mi mordo il labbro. Deglutisco a vuoto un paio di volte, per trovare il coraggio di dire che…

«Non me lo ricordo.»

Le tre Marie sono sempre in sincrono, quando reagiscono a una mia frase. Stavolta, poggiano la fronte sulla mano con un’aria disperata, esasperata, senza speranze. Sì, abbiamo capito il concetto. Alle tre si unisce Violet che, essendo un esserino virtuale, può permettersi un triplo salto mortale sul pavimento.

«Solo tu, Elettra Wayne. Solo tu.» Commenta Anne, scuotendo la testa. «Io non so più cosa fare con lei, davvero.»

Il tono serio che usa tocca una corda sensibile dentro di me. «Ma cosa volete che faccia? Tu, Anne, cosa vuoi che faccia?» La mia voce si sta incrinando. E questo non va bene. «Lo sai perché non ci riesco… tu lo sai.» Mi blocco, schiarendo la gola. Sono stufa di essere etichettata come la svitata asociale di turno, se non riesco a lasciarmi andare c’è un motivo e questo motivo lo conoscono entrambe. Eppure non mi lasciano in pace...

Anne mi prende la mano, comprensiva. Eva espira lentamente, con l’aria di chi si sta mantenendo dall’urlare qualcosa. So che odia quell’essere ignobile del mio ex più di chiunque altro, e le prudono le mani solo a pensarci.

«È stato più di un anno fa, Elettra… devi andare avanti.» Mi sta dicendo Anne, stringendo la mia mano. La ritiro, per passarmela sul viso.

«Perché, c’è una scadenza? Christian non è stato l’unico a mostrare una sottospecie di interesse, in tutto questo tempo, perché dovrebbe essere diverso dagli altri?» Questa è una domanda che non ho mai voluto fare ad alta voce. Forse ho paura della risposta, che in fin dei conti so di conoscere. Anne mi sorride dolcemente.

«Perché ti fa battere il cuore, ti fa arrossire, ti sa zittire ma ti fa essere te stessa. Perché potrebbe essere il tuo modo per voltare le spalle al passato e iniziare la tua nuova vita qui.»

Lo sapevo. Dio, sto per piangere. No, Elettra. No.

Sollevo lo sguardo per un po’ e poi torno a guardare le tre ragazze meravigliose che, nonostante tutto, sono al mio fianco. Rachel non conosce i precedenti, ma come al solito sa sempre cosa dire.

«Sai cosa ho letto, ultimamente? Coelho. E una frase mi ha colpita molto, diceva: “Non si deve giudicare un amore futuro in base alla sofferenza passata”. Credo che dovresti rifletterci. Io non so molto di te, di quello che è successo un anno fa, ma loro sì. Eva è tua sorella, Anne tua cugina. Non credi che vogliano il meglio per te? Non credi che sappiano cosa è giusto per te?»

«Oh, sì. Io lo so cos’è giusto.» Eva mi salva ancora una volta, e so che l’ha fatto apposta per salvarmi dal dover rispondere a una domanda di per sé retorica. Ma, conoscendola, mi lancerà dalla padella alla brace. «Infatti, dobbiamo indirizzare il nostro shopping verso QUEL negozio lì.» Sbotta, scattando in piedi e indicando quello che sembra un negozio di costumi e... intimo.

Oh, no.

Lo sapevo!

 

«Salve, posso esservi d’aiuto?»

«NO!»

«Sì, grazie, vorremmo dei completini super sexy per mia sorella. Niente rosso o bianco, tranne forse per qualche fiocchetto qui e là.» Pigola Eva sfilando per il negozio in preda all’estasi. Questo posto è enorme! Una Rinascente dell’underwear!

«E niente prugna.» Aggiungo, atona. Era il colore preferito di Giovanni. Aveva anche un colore preferito per il mio intimo. Dio, come sapeva essere fissato.

«Già, niente prugna. Prego. Ci guidi lei.» La commessa non se lo fa ripetere due volte e inizia a raccattare reggiseni, culotte, babydoll e chi più ne ha più ne metta mentre io osservo la scena con sommo orrore e panico negli occhi. Noto – purtroppo – che il negozio ha anche cose da uomo, e me ne accorgo dalla presenza di ragazzi allupati che studiano i reggiseni valutandone l’indossabilità di chi li sta acquistando.

«Io vado a cercare qualche costume!» Dichiara Anne, sparendo nel reparto apposito insieme a Rachel. Ma che brave, mi hanno lasciato con la mia carnefice e la sua nuova amica diabolica!

«Prova questo! È favoloso!» Eva solleva un... cos’è questo?

«Ma non ti piacciono i due pezzi normali? Devono per forza essere... collegati?» Indico la fascia di pizzo e velo che unisce i due pezzi rendendo il tutto molto più... aggressivo. Eva mi ignora e la commessa sbatte le palpebre confusa.

«Mia sorella è poco donna in queste cose.» Commenta Lucifero, suscitando una risatina nasale nell’altra.

«Cosa?! Ma come ti permetti! È solo che... mi sembra esagerato. Non mi deve vedere nessuno!» Piagnucolo. Nessuno mi capisce!

«Quando avrai questo addosso ti sentirai talmente sensuale che ti vorranno vedere tutti, credimi.» Interviene la commessa con un sorriso abbastanza convincente. «Provalo.»

E così finisco nel camerino con cinquecento completini da provare, che solo a pensare a tutto quel pizzo mi viene l’ansia. Il pizzo mica è tanto comodo, specialmente quando si è tutte depilate...

Okay, basta. Devo provarli. Uno alla volta ce la farò.

Sono Elettra Wayne, no?

 

«Eva?»

Al richiamo “della foresta”, la tenda del camerino si apre in uno scatto fulmineo, facendomi balzare all’indietro dallo spavento.

«WOW. Sei una figona!» Ho iniziato da quello che mi sembrava il più semplice dei completi: reggiseno e culotte beige con inserti bordeaux. Va bene, non è male. Carino.

«Ti sono cresciute le tette?» Eva si avvicina al mio decolleté e affonda il dito in un seno. «Che stronza. Ti sono cresciute le tette. Ancora!»

«Ma che dici...» Le allontano la mano e chiudo la tenda, per provare un altro completo. Andiamo con un babydoll, va.

Ci stai prendendo gusto, ammettilo.

Mhmm...

FAI USCIRE LA BOMBA SEXY CHE È IN TE E FALLO MORIRE!

Chi?

Il peluche di Winnie the Pooh, Elettra. Christian! Chi sennò?!

Ma che c’entra Christian?!

C’entra sempre Christian. Spero che c’entrerà, Christian. ENTRA, CHRIST-

Molto bene.

Mi hai censurata?!

Quando è troppo è troppo.

Uhm, questo è proprio carino. È un babydoll con reggiseno di raso beige e nero, aperto sul davanti. Sotto ha una mutandina meno striminzita di quella precedente, con una parte velata al centro. Dio, che vergogna.

«Eva?» Pigolo, attendendo l’apertura tempestiva della tenda. Che non avviene.

«Eva?» Ripeto, scostando un po’ il tessuto per sbirciare nel corridoio dove sono situati i camerini. Dov’è andata quella disgraziata? Sbuffo, guardandomi allo specchio. Non del tutto convinta dell’effetto push up. Mi saranno davvero cresciute le tette? Guarda qua!

«Eva?!» Ringhio, e decido di affacciarmi di nuovo in corridoio. È deserto, accidenti. Ora la vado a prendere per i capelli, lo giuro. Prima mi costringe a provare questa roba che al momento non mi serve e poi sparisce. Ma si può?

Quando metto piede fuori dal camerino e avanzo di un passo, mi domando se questa zona sia solo per la prova femminile o anche quella maschile. N-non credo che...

«Tony? Hai finito?»

Succede tutto così in fretta che non ho neanche il tempo di urlare, arrossire o scappare.

«Mmmh, sì. Il costume lo prendo. Che dici, mi sta bene lo slip con la proboscide?»

O vomitare e ridere contemporaneamente.

Davanti a me, nello spazio ricoperto da una morbida moquette rossa che accomuna i camerini di prova, c’è Tony, in canottiera bianca e uno di quei ridicoli slip con, per l’appunto, la “proboscide” e le orecchie di un elefante – ROSA – che sfila con la fierezza di un Tarzan metropolitano davanti a... Christian, che è sbucato praticamente dal nulla.

E io voglio morire. Ora, subito, per favore.

Non è possibile che lui sia qui. Mi sta seguendo. È uno stalker! È l’unica dannatissima spiegazione! Non riesco a muovermi e a smettere di pensare a tutto quello che mi hanno detto Anne, Eva e Rachel. La telefonata dell’agente immobiliare. Christian. Il quasi-bacio di venerdì alla festa. Il bacio che non ricordo della sera prima. DIO! Sto impazzendo.

«Cosa vedono i miei occhi? Elettra Violet Wayne? Sei proprio tu?» Tony mi si para davanti con la... proboscide e le mani sui fianchi e mi guarda scioccato.

PERCHÉ NON HO LA FORZA DI MUOVERMI DA QUI?!

«Beh, Wayne. Sempre detto che hai ottimi gusti.» Stavolta si rivolge a Christian, dandomi le spalle e non solo. Sì, mi riferisco al suo sedere.

Christian è nella stessa posizione in cui l’ho visto quando è comparso all’improvviso: sul viso un’espressione divertita – probabilmente dovuta alla vista esilarante di Tony – coperta da una mano che si è portato alla bocca, dopo aver visto me. Quando incrocio il suo sguardo, la mano va a grattarsi la nuca. Così come io non riesco a muovermi, lui non mi stacca gli occhi di dosso.

«Saltatevi pure addosso, eh. Io assisto con piacere. Se volete, intervengo anche. Sono già pronto!» Tony si indica con un sorriso smagliante, ed è quella frase che mi riscuote e mi fa scappare nel camerino, desiderando di non uscirne mai, mai, MAI più.

«Christian, vedi? Ti sta aspettando nel camerino.» Il cretino continua, mentre io mi spoglio di questo sfigatissimo babydoll del cavolo.

«Vestiti e chiudi quella bocca, idiota!» Sento che risponde Christian, e questo mi consola un po’.

«Scommetto che si sta spogliando, vuoi vedere?» Quando queste parole mi giungono alle orecchie e contemporaneamente vedo un’ombra al di là della tenda, ne stringo un’estremità con la mano mentre con l’altra mi copro alla bene e meglio, sperando che non apra.

«NON TI AZZARDARE O TI RENDO UN EUNUCO IN MENO DI TRENTA SECONDI!» Strillo, minacciosa, e devo trattenere una risata quando sento quella di Christian. L’ombra, però, non si muove da lì.

Non sto per farlo.

No.

«C-Christian...?»

«Ele?»

Oooh. Qui qualcuno perde battiti.

«Ehm, potresti per favore controllare che il tuo amico imbecille muoia nel suo camerino invece di invadere il mio mentre mi rivesto?» E mentre mia sorella si decide a tornare, aggiungo mentalmente. Poi ci rifletto. No, speriamo di no! Se vedesse Christian sarebbe la FINE. Porco spino, ma perché capitano tutte a me?!

«Non ti guarderà un secondo di più.» La risposta di Christian mi fa battere il cuore come un tamburo. «Spostati, malato!» Dice, la sua voce è più vicina. L’ombra di Tony si sposta, sbuffando e piagnucolando – “Volevo solo controllare se, insomma, era tutto così naturale anche senza pizzo e seta... l’ho fatto per te, sai!” – e al suo posto resta quella di Christian. Dev’essersi appoggiato al muro che divide i nostri camerini. Santo cielo, sto per morire per autocombustione.

L’idea che lui possa sbirciare e vedermi nuda mi rende...

Eccitata.

NERVOSA.

Impaziente.

TERRIBILMENTE A DISAGIO.

Pffff... devo dire come ti rende realmente?!

TI CENSURO DI NUOVO.

«A cosa è dovuto questo shopping sexy? Evento speciale? Dimmi che è per Christian. Il poverino non ce la fa più, st-umurunudustusu-» Tony ha iniziato a parlare di nuovo, ma fortunatamente pare che qualcuno gli abbia tappato la bocca con la mano.

«Ma è possibile che tu dica cazzate dalla mattina alla sera?» Questo è Christian; il suo tono di voce ha un che di esasperato. Tony è insopportabile, santo cielo! È peggio di mia sorella. Se quei due si conoscessero sarebbe una catastrofe. Il mondo imploderebbe per tanta esuberanza e irriverenza.

Mentre sto chiudendo la zip del pantalone, l’ombra torna ad accostarsi alla tenda.

«Noi andiamo. Scusa per… prima.» Mormora Christian, anche se non sembra per niente dispiaciuto. Scosto la tenda e lo guardo con un sopracciglio alzato. Lui sta sorridendo.

«Se posso, comunque... complimenti.» Aggiunge, e mi fa l’occhiolino. «Ci vediamo domani.» E sparisce, come è abituato a fare. Tony esce dal camerino e mi lancia un’occhiata soddisfatta con quella faccia da schiaffi che si ritrova, poi raggiunge l’amico.

A.A.A. versione 2.0: Cercasi lingua di Elettra.

«Non ho parole.» Dico, guardandomi allo specchio. «E sto parlando anche da sola.»

«ELEEEEE!» Questa è la voce della sciagurata di mia sorella. Dove si era cacciata in tutto questo tempo?! Cavolo, ha mancato Christian per un pelo. Quando svolta l’angolo della zona dei camerini, dietro di lei fanno la loro comparsa le altre due, cariche di roba. «Indovina?! Scorta di costumi! Perché ti sei vestita?! Fila subito nel camerino e provali TUTTI!»

 

***

 

A fine giornata posso dire di aver speso quasi un intero stipendio, e adesso mi fanno male le braccia per il peso di tutte le buste che mi ritrovo.

«Ele, fermiamoci un secondo qui, voglio prendere un regalo a papà.» Dichiara Eva, trascinandomi verso il negozio di Tommy Hilfiger.

«Papà non è tipo da Tommy Hilfiger.» Commento, storcendo il naso nel vedere il tipico stile “preppy” del marchio.

Eva alza un maglioncino a righe bianche e blu e sorride. «Non dire sciocchezze. Tutti sono tipi da Tommy Hilfiger.»

«Anche Christian.» La butta lì Rachel, come se le fosse scappato. Alzo un sopracciglio, mentre Anne intercetta lo sguardo di Rachel e sorride. Ignorerò questa frase e nessuno pronuncerà più quel nome, sì. Ecco il mio nuovo proposito. Anche e soprattutto perché non ho raccontato a nessuno dell’incontro nei camerini e muoio dalla voglia di dirlo. Ma NON LO FARÒ.

«Qualcuno ha parlato di regalo al megafusto? Sìììì, che idea geniale! Dai il cinque, Rach!» Eva e Rachel battono la mano e io le guardo inespressiva. «Cosa puoi regalargli? Mhmm. Una cintura? Un portafogli? Un paio di occhiali da sole? Ce li ha già?» Eva sembra aver già dimenticato la faccenda del regalo a nostro padre e si sta lanciando verso il reparto accessori con la stessa leggiadria di una mandria di tori.

«Ma sei fuori di testa? Perché mai dovrei fargli un regalo?!» Sbraito, assolutamente contraria.

«Perché ti offre sempre il caffè.» Suggerisce Rachel, nella speranza di convincermi.

Scuoto la testa. Ah-ha. Pessimo motivo. «C’è la convenzione.» Rispondo, con una linguaccia.

«Beh, se non ci fosse te lo offrirebbe ugualmente. E poi te lo porta in ufficio.» Insiste lei, incrociando le braccia al petto.

«E per questo io dovrei regalargli un portafogli?! Ma stiamo scherzando?» Ma si rendono conto che un regalo del genere è da fidanzati? Vedo che hanno una cosa in comune con Christian, tutte e tre: i popcorn al posto del cervello.

«Beh, magari non un portafogli... però...» Mentre Anne sta valutando titubante il da farsi, Eva mi lancia qualcosa centrando in pieno il mio viso. Afferro la cosa morbida e la guardo torva: è una cravatta.

«Compragli questa.»

«Ma perché?!»

«Perché è carino con te!»

«Carino un corno! È una persecuzione, è irritante, mi mette a disagio e io non lo sopporto!»

Eva, Anne e Rachel mi guardano col sopracciglio alzato. Okay, non credo a nessuna di quelle cose, tranne forse alla prima. È vero che mi perseguita.

«Allora comprala per strozzarlo. Meglio?!» Sbuffa Rachel, alzando le braccia al cielo.

«O legarlo a letto e...»

«EVA!»

MA HA RAGIONE!

«Oppure può semplicemente usarla per una conferenza, è molto elegante come... ehm... perché mi state guardando così?» Eva e Rachel stanno osservando Anne con l’espressione di chi guarda un caso perso. «Volevo trovare un motivo per convincerla. Di certo non la convincete con la scusa del sesso sadomaso!» Sbotta, e io scoppio a ridere per il tono isterico che ha usato.

«Questo è vero.» Faccio spallucce, appoggiando mia cugina.

«Però secondo me gli farebbe piacere, dai. Comprala, mal che vada la regali a Cooper!» Mi incoraggia Anne, usando il suo tono dolce e persuasivo che funziona con tutti e persino con me. Mh. D’accordo, potrei regalarla a Cooper. È un avvocato, dopotutto... queste cose le usa. Osservo la cravatta, i colori, la fantasia elegante ma particolare e non posso fare a meno di immaginarla addosso a Christian.

«D’accordo. Mettiamo fine a questo strazio.» Sollevo la cravatta con una finta espressione trionfante e le tre saltellano felici mentre ci avviamo verso la cassa per concludere questa giornata di shopping decisamente folle.

 

**********

 

La settimana inizia con un gran bel sorriso positivo. Avere Eva tra i piedi, nonostante tutto, mi era mancato troppo, e mi fa dimenticare tutte le cose spiacevoli. Questa mattina l’ho lasciata che dormiva placidamente sul mio cuscino – per qualche oscuro e malsano motivo le ho strappato di mano il cuscino dove ha dormito Christian, e lei mi ha guardato come se fossi decisamente fuori come un citofono, ma non le ho dato nessuna spiegazione. Anche perché, ora che ci penso, è stato un gesto irrazionale che mi sto spiegando solo adesso – e sono uscita lasciandole la colazione pronta sul tavolo.

Mentre attraverso la strada per arrivare all’edificio che ospita la MP, un po’ di positività se ne va a quel paese quando una fitta mi attraversa l’addome, strappandomi un gemito. Dannato ciclo e dannato sangue e dannato tutto. Ma perché dobbiamo soffrire così, perché? Perché gli uomini non devono avere una parte in tutto questo? Ne faccio una questione di stato ogni mese, lo so, ma è una faccenda che davvero mi fa saltare i nervi.

Speriamo che l’antidolorifico faccia effetto, altrimenti l’Elettra positiva e sorridente lascerà il posto all’Elettra di sempre, quadruplicata nel nervosismo e nell’irritabilità. E non è un bel vedere, ve lo assicuro. Nemmeno un bel sentire, se è per questo.

Ma insomma.

«Buongiorno.» Saluto Alexandra con un sorriso, passo a salutare Tony nel suo ufficio e mi fermo a guardare il lavoro di Danny e Mike complimentandomi con loro, sinceramente colpita dalla loro bravura. Una volta tanto, entro anche nello studio di Christian e gli rivolgo un buongiorno e un sorriso, ricevendo in cambio un’occhiata perplessa.

«C’è qualcosa che devo sapere? Ti senti bene?»

Alzo gli occhi al cielo, ignorando il suo sarcasmo, e gli dico che dopo devo parlargli.

«Quando vuoi.» Sorride sghembo e mi saluta con un occhiolino.

«Ciao Lily!» Dispenso baci e sorrisi anche alla mia collaboratrice, che mi guarda stranita. Oh, andiamo, non posso essere così male di solito da lasciare tutti di stucco con qualche sorriso in più! O forse sì? Mah. «Passato un bel weekend?» Le chiedo, mentre accendo il computer. Lei annuisce, decisamente felice.

«Molto bello. Devo ringraziare Christian per averti portato con sé venerdì sera…» Arrossisce, al ricordo di ciò che è successo e che evidentemente sta per raccontarmi. «Danny mi ha baciato. Ci siamo baciati. CI SIAMO BACIATI, capisci?!» Viene verso di me e mi afferra per le spalle scuotendomi mentre ripete circa venti volte che si sono baciati. Le fermo le braccia e annuisco, sorridendo al suo entusiasmo.

«Va bene, va bene, ho capito!» Ridacchio. «E siete stati insieme anche sabato e domenica?»

Lei torna svolazzando alla sua scrivania. «Sì.» Mormora, poggiando il volto sognante sulle mani. Le sue guance si imporporiscono di nuovo, lasciandomi intendere il tipo di incontro che è avvenuto tra loro.

«Bene, non voglio sapere altro.» Dico con un’occhiata che parla al posto mio e lei mi fa una linguaccia.

«E tu? Sei parecchio di buonumore stamattina, hai avuto un weekend di fuoco anche tu o cosa?» Mi guarda maliziosa. Io scuoto la testa.

«Sei fuori strada. È venuta mia sorella da Roma a trovarmi.»

«Oh, che cosa bella!»

«Sì, davvero. AH-» Mi porto una mano alla bocca e una alla pancia avvertendo lo spasmo che mi fa quasi piegare in due dal dolore. Mugolo qualcosa e torno a respirare dopo qualche secondo, quando i tessuti si distendono. «Cazzo che male.»

«Ciclo?» Le donne si capiscono al volo, non c’è niente da fare. Annuisco, purtroppo, e lei mi guarda comprensiva. «Hai preso qualcosa?»

«Sì, ma avrebbe dovuto già fare effetto. Devo solo distrarmi.» Apro la casella di posta e l’occhio cade su un e-mail già letta che come oggetto ha una sola parola: foto. Il mio indice si muove da solo sul mouse, cliccando su quella parola e lasciando che la pagina si carichi. Il volto sorridente di Christian e quello timido, stralunato e incantato che purtroppo appartiene a me mi guardano dallo schermo, e sembra proprio che vogliano dirmi qualcosa. Passo il dito sulla rotellina del mouse e la foto cambia, mostrando i nostri profili. Mi perdo a guardare la linea perfetta del naso di Christian, la piccola curva delle sue labbra, la mascella forte, il codino sbarazzino. Sussulto per l’accenno di una nuova fitta che però riesco in qualche modo a fermare “spingendo” il dolore verso il basso, come avevo letto in un articolo su internet. Sembra funzionare. Chiudo l’e-mail e mi metto a lavorare, promettendomi che alle undici in punto andrò da Christian.

 

***

 

«Sono le undici e cinque, Ele.»

Sollevo lo sguardo dal manoscritto e guardo sorpresa Lily. Le avevo chiesto di avvisarmi alle undici, ma non credevo che arrivassero così presto! Bene. D’accordo. Manteniamo fede alle promesse fatte, su.

Quando busso alla porta di Christian e non ricevo risposta, abbasso la maniglia sentendomi una piccola ladra e la apro piano, sbirciando con un occhio solo. Christian è in piedi davanti alla finestra e sta parlando al telefono, di spalle. Entro in punta di piedi e chiudo la porta il più silenziosamente possibile. Con la leggiadria e l’agilità di Catwoman, mi avvicino a lui facendo attenzione a non fargli vedere il mio riflesso nella grande vetrata. Quando gli circondo la vita con le braccia, lui trattiene il respiro per un istante e si volta a guardarmi, rilassandosi subito dopo.

«Ascolta, ti richiamo… sì, a presto.» Riattacca e infila il telefono in tasca, poi poggia le sue mani sulle mie e sfrega piano i pollici sulla mia pelle liscia.

«Mi hai spaventato. Qual buon vento ti porta da me?» Mi chiede e io mi allontano, scivolando a sedermi sulla sua comodissima sedia con un sorriso. Lui si appoggia alla scrivania, le nostre gambe si sfiorano. In quel frangente, ripenso all’“incidente” del camerino. Prima che il pensiero si espanda e mi faccia avvampare come una scolaretta, mi decido a rispondere.

«Hai chiamato l’agenzia immobiliare per me?» Vado dritta al punto, come sono abituata a fare. Con lui, poi, figuriamoci.

Lui sorride colpevole e annuisce. «Ti hanno richiamato?»

«Sì. Mi hanno proposto un paio di appartamenti a Coconut Grove e a Coral Way, le conosci come zone?»

«Caspita, sono stati veloci… sì, avevo proposto io qualche zona per affinare la ricerca. A Coconut Grove abita Tony, e mi sembra anche Thomas. Forse Thomas è più vicino a East Havana, però. Coral Way è dove abito io.» Spiega, abbassando leggermente il tono della voce sull’ultima frase. Ha proposto anche il quartiere dove abita lui…

«Mhmm…» Mi giro sulla sedia mentre rifletto. Farò una ricerca per confrontare le zone, magari la scelta sarà semplice perché una non è servita dalla metro, oppure la stazione è troppo lontana… ma conoscendo Christian, chissà perché, penso che ha dovuto valutare anche quello. «Ci penserò. Intanto grazie… non dovevi.»

«Sì invece, non posso permettere che tu stia in quel quartiere. È orribile, Elettra. Spero che valuterai le proposte il più in fretta possibile. Anzi, se hai bisogno di compagnia o di un passaggio per andare a vedere gli appartamenti, tienimi presente.» Dice concitato. Io annuisco distrattamente, mentre guardo le foto dello screensaver che stanno passando sullo schermo. La maggior parte sono foto con Martin, Thomas e gente a cui stringono la mano, forse scrittori che hanno vinto qualche premio. Di tanto in tanto però c’è qualche foto personale. Davanti ai miei occhi scorre una foto che ritrae Christian e una ragazza seduti su una panca in legno di quella che sembra una casa di campagna. Lei è davvero stupenda. Ha i capelli un po’ più scuri dei suoi e gli occhi azzurrissimi.

«Chi è?» Mi mordo l’interno della guancia subito dopo aver realizzato di essermi espressa a voce alta.

«Mia sorella, Diane. Ero con lei al telefono.» Sorride lui. L’immagine cambia, e stavolta sullo sfondo ci sono, oltre a loro due, quelli che credo siano i suoi genitori.

«La mia famiglia al completo.» Lo sento dire, e ciò conferma la mia intuizione. Mio Dio, sua madre è bellissima. Anche suo padre, se è per questo.

Sono senza parole. «La vostra bellezza è quasi… preoccupante.» Alzo un sopracciglio nella sua direzione e poi torno a guardare lo schermo.

Non l’avessi mai fatto.

Un primo piano che definirlo incantevole è riduttivo riempie il monitor, catturando il volto di Christian con lo sguardo lontano e un sorriso appena accennato.

Non è… legale. Non può essere vero. Mi giro appena verso di lui e poi di nuovo verso lo schermo. Poi ancora verso di lui. Sì, sembrano proprio la stessa persona.

«Cosa c’è? Sono più brutto dal vivo? Lì ero a un matrimonio, preparato bene…» Ridacchia passandosi due dita sulla mascella. Sembra che creda davvero a un suo immaginario imbruttimento.

«Oh, sì, sei decisamente inguardabile.» Scherzo io, con un finto tono solenne. Trattengo a stento un commento inopportuno quando la foto cambia ancora e mostra Christian insieme alla sposa, che riconosco come sua sorella, e quello che dovrebbe essere suo marito. Loro due sono bellissimi ma lo sposo è praticamente insignificante, specialmente paragonato a Christian. È moro, non molto alto – forse un metro e settantacinque – ha gli occhi chiari ma non come quelli del neo-cognato… tutto sommato un bell’uomo, ma per favore fatelo togliere da lì perché Christian lo fa sfigurare!

«Che bel vestito aveva tua sorell- oh. Mmm.» Ingoio la lingua quando passa un altro primo piano di Christian, stavolta di profilo, serio, con la mano che sfiora il lobo dell’orecchio. Cioè. «Vabbè.» Mi costringo ad alzarmi prima di fare qualcosa di cui potrei pentirmi e cerco di ricordare per quale altro motivo sono venuta qui. Ah, sì.

«Senza battute idiote su archi e frecce, potremmo seriamente prendere in considerazione l’idea di attuare il nostro piano per Rachel e Thomas?» Mi metto davanti a lui, con le braccia incrociate e un’espressione che non ammette repliche. Vedo che il suo sguardo va oltre le mie spalle, verso il basso. Sorride.

«Ehi, parlando del diavolo… eccola lì! Ciaaao!» Agita la mano in segno di saluto verso Rachel che ci guarda dalla strada. No, cazzo! Senza pensarci due volte, alzo la mano e do uno schiaffo a Christian, cogliendo la guancia in pieno.

«Ma sei impazzita?!» Christian mi guarda sbigottito e io, di spalle alla grande finestra, gli faccio segno di tacere.

«Se ci vede andare d’amore e d’accordo non ci cascherà mai, stupido! Ora me ne vado, tu fai una faccia arrabbiata. O triste. O quel che è. A dopo!» Esco dalla stanza fingendomi incavolata come una iena e una volta in corridoio torno normale. Non arrivo neanche ad aprire la porta del mio ufficio che il telefono inizia a squillare. Chi sarà mai? Mah, non ne ho proprio la più pallida idea!

«Che c’è?» Rispondo, alzando gli occhi al cielo.

«Mi hai fatto male. Potevi almeno scusarti.»

«Dai, è stato più il rumore che altro! Tutti quei muscoli e poi vuoi farmi credere di avere il viso ipersensibile?» Lily mi sta già guardando con la faccia di chi mi minaccerà di morte se non le racconto tutto non appena avrò riagganciato la cornetta.

«Non tirare sempre in ballo i miei muscoli, guarda che lo schiaffo di una donna può essere incredibilmente doloroso.»

«Povero piccolo pucci pucci buuuh. Vedi se Alexandra ha una pomata da metterti. Se glielo chiedi quella è capace di percorrere l’intero quartiere strisciando sulle ginocchia pur di trovare una farmacia.» Lo sento ridere dall’altro lato.

«Sei gelosa?»

«Prevedibile e scontato come i saldi di fine stagione. Devo lavorare, ci vediamo a pranzo. E non ti scordare del piano Cupido.» Dico sbrigativa.

«Signorsì sergente istruttore!»

Sorrido e riattacco. Sto per dire a Lily di non chiedermi nulla ma il suono si blocca a metà strada lasciando spazio a un lamento inarticolato, dovuto a una nuova contrazione del basso ventre, che mi lascia senza fiato.

«Elettra? Oh Dio... vuoi... vuoi andare al pronto soccorso?» Lily si avvicina, agitata, e mi stringe la mano mentre io torno a respirare normalmente.

«No, no, tranquilla. Ho sempre avuto dolori forti, ci sono abituata.» Sorrido ma le mie labbra tremano appena. Mi ci vuole ancora qualche secondo prima di riprendermi del tutto.

Mal che vada aspetterò il pranzo e prenderò un’altra pillola di ibuprofene. Per forza.

 

***

«Allora, sei pronto?»

«Sì signor caporale.»

«Ma la smetti?»

«Okay.» Sbuffa come un bambino. «Però ti ci vedo con la tuta mimetica e la canottiera verde militare, tutta sporca di fango, un fucile d’assalto sulla spalla e un cinturone di granate intorno ai fianchi. Molto sexy.» Ammicca, facendomi avvampare. Altro che verde militare, qui siamo al rosso arteria spappolata.

Sbirciamo cauti l’ingresso della caffetteria e aspettiamo che manchino cinque minuti alla fine del turno di Rachel. In quel frangente, Christian manda un messaggio a Thomas dicendo che Martin lo sta aspettando alla fermata della metropolitana per consegnargli dei documenti.

«Ti ricordi cosa devi dire, vero?» Gli chiedo mentre ci prepariamo ad attraversare la strada.

«Che sei inetta e ritardataria e per colpa tua abbiamo perso un cliente.» Risponde, annuendo. «Cavolo, dovrei proprio licenziarti.» Aggiunge, e io gli do una gomitata, a cui lui risponde con uno schiaffetto sulla testa.

Okay, ci siamo. Facciamo attenzione a non farci vedere da Rachel e io indosso già la mia maschera di incazzatura.

«È tutta colpa tua!» Grida Christian, una volta arrivati sul marciapiede. Accompagna la frase con un lieve spintone che mi fa indietreggiare.

«Non mettermi le mani addosso!» Replico, alzando il tono della voce per adattarlo al suo. «Non è colpa mia! Io non lo sapevo, mi è stata detta un’altra cosa!» Continuo, allargando un braccio per enfatizzare la giustificazione.

Christian scuote la testa, incredulo. «Certo, ora diamo anche la colpa agli altri! Tu sei qui da pochi mesi e vorresti scaricare la responsabilità su chi lavora alla MP da anni?!»

Wow, devo ammettere che come attore non è niente male.

Elettra, non ti distrarre.

«Non sto scaricando nessuna colpa, sto solo dicendo che ho ricevuto un altro tipo di ordine, e-»

«Tu devi ascoltare solo quello che ti dico IO, e devi fare esattamente COSÌ!» Sbotta lui puntandomi un dito contro.

Io mi passo le mani tra i capelli e mi volto, come se stessi per piangere. In realtà sto per morire dalle risate. Con la coda dell’occhio vedo Rachel che mi lancia sguardi stupiti e cerca di capire cosa stia succedendo. Quando mi volto di nuovo, Christian alza il suo sguardo di scatto, da un punto molto più in basso del mio viso.

«Mi stavi guardando il sedere?» Gli chiedo, sbalordita. Lui si gratta la nuca e distoglie lo sguardo voltandosi a destra, dove Thomas sta attraversando la strada.

«Stiamo litigando per un presunto mio errore e tu mi guardi il SEDERE?!» Sbraito, restituendogli lo spintone di prima e aggiungendo anche uno schiaffo sul braccio. Proprio in quel momento, Thomas ci raggiunge e mi afferra per le spalle.

«Ragazzi, che sta succedendo? Va tutto bene?!»

«NO!» Strillo io, infervorata. Christian sta trattenendo una risata con una nonchalance e un’eleganza che ho visto in pochi. «Questo… idiota mi sta accusando di cose non vere, e io sono davvero STUFA di tutto questo!» Urlo, sbracciandomi.

«Stai dicendo che sono un bugiardo?! Tu non sai contro chi ti stai mettendo, Elettra!»

Siamo a pochi centimetri di distanza, e ci stiamo contenendo come se potessimo prenderci a pugni da un momento all’altro.

A me sembra che possiate prendervi a baci, da un momento all’altro.

«Ragazzi!» La voce di Rachel ci fa voltare. È uscita dalla caffetteria con le mani puntate sui fianchi. Quando vede Thomas, la vedo vacillare per un istante, ma si riprende subito dopo e viene verso di noi. «Perché state litigando? Non mi piace che litighiate, entrate subito dentro e chiarite da persone adulte! Vi preparo una camomilla.»

Io, ancora calata nella parte, incrocio le braccia al petto e alzo il viso, boriosa. Thomas sorride e mi prende sottobraccio. «Avanti, mi sembra un’ottima idea. Andate.» Dice, rivolto anche a Christian.

«Tu non vieni?» Chiede quest’ultimo, con una nota ansiosa nella voce.

«Devo andare alla stazione a prendere quei documenti…» Mormora Thomas, confuso.

«Oh, no, Martin mi ha richiamato per dirmi che ti manderà un’e-mail. Vieni anche tu, serve qualcuno che mi mantenga nel caso decidessi di strangolarla.» Si affretta a dire con un mezzo sbuffo, indicandomi con un cenno del capo.

Serro le labbra per non ridere e Christian mi fa l’occhiolino, gesto che Thomas e Rachel non notano perché troppo presi a scrutarsi a vicenda.

Una volta entrati nel mio paradiso personale, ci sediamo attorno a uno dei tavoli vicini all’ingresso e Rachel, sebbene abbia finito il turno, ci prepara qualcosa da bere. Abbiamo dovuto insistere per non farci preparare davvero due camomille.

«Ecco a voi. Vi siete chiariti?» Domanda, sedendosi tra me e Thomas. La sua mano destra, pericolosamente vicina a quella di lui, stringe convulsamente la tazza.

«Chiariti? Con lei?» Chiede ironico Christian indicandomi col pollice. «Ah ah ah. Che battutone.»

«Ma stai zitto per favore.» Replico, piccata, guardandolo male. Non sono del tutto sicura che si riferisca solo al finto litigio di poco fa.

«Voi due dovreste passare del tempo insieme. Parlarvi da esseri umani, senza il lavoro di mezzo e senza ansie o problemi...» Prova a dire Rachel, esitante. Esitante perché ha visto la mia espressione.

«Senti chi parla.» Sorrido serafica spostando lo sguardo dall’una all’altro.

Christian, fortunatamente, mi viene in aiuto. «Questo venerdì c’è la band di un mio amico che suona al Dragonfly, è un pub molto carino e loro sono davvero bravi. Dovreste andarci.»

«Anche voi, dovreste.» Ah, ma è guerra? Ora la sistemo per le feste.

«Purtroppo non posso. Eh, già. Ho degli appartamenti da valutare, anzi, ora che torno in ufficio devo chiamare l’agente immobiliare per fissare l’appuntamento. Ma voi andate pure!»

Christian mi guarda aggrottando appena la fronte, divertito. Intercettando il nostro scambio di sguardi, Thomas si volta educatamente e si rivolge a Rachel, sorridendole.

«Vorresti andarci?» Sento che le chiede, prima che Christian copra la sua voce dicendomi qualcosa.

«Dici sul serio per gli appartamenti?» So che mi sta parlando per lasciare la dovuta privacy ai due – si spera prossimi – piccioncini, ma pare che l’argomento gli stia ugualmente a cuore.

Abbasso lo sguardo sul tavolo e accenno un sorriso. «Non costa nulla tentare.»

«Bella frase.» Replica lui, in una delle solite frecciatine che purtroppo sortiscono il loro effetto. Ma non lo saprà mai.

«Ciò non toglie che mi stavi guardando il sedere.» Lo guardo assottigliando le palpebre e lui scopre i denti in un sorriso di sbieco.

«E questo cosa c’entra?» Ribatte tranquillo.

Faccio spallucce. «Non lo so, non sapevo cosa dire.» Ammetto, ridacchiando. Lui sorseggia il suo caffè e si passa un dito all’angolo della bocca.

«Le tue strategie di difesa sono formidabili.» Le piccole rughe di espressione intorno agli occhi che accompagnano il suo sorriso catturano per qualche secondo la mia attenzione.

«Mi stai prendendo in giro?» Domando quando mi riscuoto.

«Un po’.» Risponde, per poi prendere il cellulare dalla tasca. Dal tipo di suoneria, dev’essergli arrivato un messaggio. Osservo l’azzurro dei suoi occhi che scorre attento sul display, poi guarda di sottecchi Rachel e Thomas, che stanno continuando a parlare.

«Io rientro, devo chiamare la tipografia. Vieni con me?» Dice, a voce più bassa per non farsi sentire da Thomas. Annuisco, voglio lasciarli da soli.

«Ragazzi, noi andiamo, abbiamo delle cose da fare. Tom, ci vediamo dentro. A presto, Rachel.» Christian si china su di lei per darle un mezzo abbraccio e io la saluto con un bacio svolazzante ed eccitato per lei. È in visibilio, e il rosso Thomas non l’ha ancora abbandonata, ma so che se la caverà benissimo. Prima di varcare la porta della caffetteria, le faccio un gesto d’incoraggiamento col pollice alzato e le dico di farmi sapere.

 

«Siamo stati bravissimi.» Gongolo soddisfatta, mentre saliamo le scale del nostro edificio.

«Non abbiamo avuto nemmeno bisogno di recitare.» Commenta Christian, e io lo guardo accigliata. Poi mi passa un braccio sulle spalle e mi stringe delicatamente. «Sto scherzando, stupidona.»

Il sorriso che gli rivolgo non è altro che un’ombra di quello che avevo in mente. È più simile a una smorfia di Joker che a un sorriso serio. La fitta che mi coglie è più dolorosa e più lunga di quelle precedenti, e sono costretta a fermarmi a metà rampa e aggrapparmi al corrimano col respiro mozzato.

Quando Christian se ne accorge, un gradino più in alto, si precipita accanto a me, sostenendomi per la vita.

«Elettra? Cos’hai? Cosa ti fa male? Elettra, guardami!» Sento la sua mano sul viso e avverto una lacrima indugiare nel mio occhio sinistro prima di rotolare giù senza che io possa fermarla. «Elettra? Cazzo, ora chiamo qualcuno...»

«NO!» Esclamo, per quanto il dolore mi consenta, e Christian si ferma. Salgo due gradini col suo aiuto e, per quanto gli spasmi non accennino a diminuire, penso che devo solo arrivare alla mia borsa e prendere un antidolorifico. Ce la posso fare.

Devo anche andare in bagno a cambiarmi. Mi sento un lago tra le gambe. Dio, spero di non essermi sporcata. Quando Christian spinge la porta a vetri, Nancy accorre immediatamente al nostro fianco.

«Che è successo? Non sta bene?» La sua voce è lontana, o le mie orecchie ovattate. Non saprei dirlo. Il volto di Christian davanti a me è pieno di macchie gialle fosforescenti, che cambiano posizione a ogni battito di ciglia.

«S-sto bene. Devo solo... prendere... ah-» Se le sue braccia non mi avessero sostenuto, sarei sicuramente caduta in ginocchio. Premo forte le mani sull’addome, avvertendo il dolore in ogni punto, sopra, sotto, dentro... tanti coltelli e il fuoco che brucia. Una gocciolina mi percorre la nuca, sto iniziando a sudare freddo e quindi probabilmente tra poco perderò i sensi. Non voglio. Devo... sedermi soltanto. Devo solo...

 

~ Anne POV

Guardo Eva uscire dal camerino e batto le mani, entusiasta. Questa maledetta ha un fisico da paura, accidenti! Sta provando un vestito talmente corto che a me, col bel sederino che mi ritrovo, arriverebbe praticamente poco sotto l’ombelico. Ma Cooper non si è mai lamentato del mio didietro... prosperoso. No, in effetti dice sempre che-

«Secondo te mi fa le gambe grosse?» La mia statuaria cugina gira su se stessa, osservandosi perplessa le gambe lisce e toniche. Incrocio le braccia e faccio roteare gli occhi.

«Oh, sì, ma guardati! Sembri Adele che ha mangiato la Aguilera!» Commento ironica, e lei mi sorride mordicchiandosi un labbro.

«Allora lo prendo?» Annuisco fino a rischiare la paralisi e lei torna in camerino a spogliarsi. La vibrazione nella tasca del jeans mi fa sussultare. Con non poco sforzo riesco a estrarre il cellulare – Dio quanto può essere stretta una tasca – e sorrido leggendo il nome di Elettra. Chissà cos’avrà combinato quella disgraziata ora. Scommetto che sta ancora mandando ai matti quel povero dio greco...

«Cos’hai combinato stavolta?» Rispondo, divertita.

Il silenzio dall’altra parte mi fa aggrottare la fronte. Sto per ripetere quando una voce maschile riempie il microfono. «Ah... parlo con Anne? La... cugina di Elettra? Sono Christian Wayne, un suo collega...»

Non so perché le mie guance si colorano di rosa, sentendo quel nome e associando tutto quello che mi ha detto Elettra a quella voce. Poi però torno a concentrarmi sulla telefonata: come mai sta chiamando col suo cellulare?

«Sì, sono io... mi dica.» Vorrei dirgli di darmi del tu, ma non mi sembra il caso per telefono.

Quello che sento poco dopo mi fa rabbrividire da capo a piedi, e ogni altro pensiero viene dissolto, lasciando spazio a un puro terrore.

«Elettra è in ospedale.»

 

***

 

Corro nell’atrio del Jackson Memorial Hospital e nella foga investo un paio di infermiere. Chiedo frettolosa dove sono gli ascensori e loro indicano il corridoio alla mia sinistra. Cooper ed Eva mi stanno dietro, quest’ultima pallida come un lenzuolo.

Quando le porte dell’ascensore si aprono sul terzo piano, muoviamo qualche passo avanti, incerti sulla direzione da prendere.

«Anne?» Una voce, la stessa voce con cui ho parlato al telefono pochi minuti fa, ci fa voltare. Dal corridoio alla nostra destra compare Christian Wayne, in tutta la sua affascinante presenza. In una situazione diversa dovrei prendere qualche fazzoletto e portarlo alla bocca per non perdere liquidi, ma adesso mi limito solo ad andargli incontro. Quando vede me ed Eva, indugia titubante con la mano a mezz’aria.

«Sono io Anne, lui è mio marito Cooper e lei è mia cugina Eva, la sorella di Elettra.» Gli vengo in aiuto e lui stringe la mano a tutti e tre. Ha un’aria preoccupata e il colletto della camicia allargato, come se l’avesse allentato in un momento di agitazione.

«Cosa... cosa è successo?» Mormora Eva in italiano, invogliandomi a chiedere qualche notizia a Christian. Lui le risponde direttamente, sorprendendoci con una padronanza della lingua quasi perfetta.

«Elettra si è sentita male dopo pranzo... mentre salivamo le scale ha lamentato delle fitte all’addome e pochi minuti dopo è praticamente svenuta tra le mie braccia.» Spiega, passandosi una mano sulla fronte. «L’ho portata subito qui, io... non sapevo... ora è in sala operatoria, credo si tratti di ginecologia. Una nostra collaboratrice ha spiegato meglio i sintomi di Elettra e ci hanno portato qui, questo dovrebbe essere il reparto ginecologia e ostetricia...» Si guarda intorno come a cercare un’indicazione. In quel frangente, una giovane ragazza viene fuori da un altro corridoio e si avvicina a noi.

«È lei la collaboratrice di cui parlavo. Lilian Bradshaw, una nostra stagista. È stata con Elettra tutta la mattina, e ha detto che ha accusato dolori da subito, vero?» Le domanda e lei annuisce.

«Sì, lei mi ha detto di...» guarda i due uomini, incerta, poi prosegue «...di avere le sue cose, e che ha sempre avuto dolori, ogni mese... quindi non si preoccupava più di tanto. Poi però le fitte sono aumentate di frequenza e di intensità, fino a...» Indica Christian senza riuscire a continuare. È terrorizzata. «Aveva un mare di sangue...» Balbetta, e si porta una mano alla bocca al ricordo. Traduco a Eva e vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime. Cazzo, ora anche i miei. No, no, non facciamoci prendere dal panico.

«Cosa vi hanno detto i dottori?» Interviene mio marito, visibilmente preoccupato.

«Ci hanno detto di non preoccuparci, che avevano tutto sotto controllo... erano quasi certi di quale fosse la causa del problema...» Risponde Christian, scuotendo la testa. Eva si va lentamente a sedere, poggia i gomiti sulle ginocchia e affonda il viso tra le mani. Le vado vicino con un groppo in gola e nessuna parola adatta alla situazione.

«Andrà tutto bene, ne sono sicura. Elettra è... la donna più forte che abbia mai conosciuto, credete che ci lascerebbe qui così? No, tornerà a rompere fino alla fine dei nostri giorni.» Ci rassicura Lilian con un sorriso.

«Non so se avvertire mamma e papà. Che faccio?» Eva si rigira il cellulare tra le mani, nervosa e col viso tendente più al verde che al bianco.

«Secondo me dovresti aspettare qualche notizia in più, non farli preoccupare inutilmente.» Le risponde Christian, e lei annuisce piano.

Dio, speriamo non sia niente di grave. Può essere un appendicite? Non ricordo se l’ha avuta. Però forse l’appendicite non porta emorragia... guardo Eva e penso che non sia una buona idea chiederglielo. In caso negativo si preoccuperebbe ancora di più. Mi passo le mani sul viso, pensando a cosa fare. Non posso fare nulla. Devo solo aspettare che qualcuno esca dalla sala operatoria e ci informi di... quello che sta succedendo. Fortunatamente quest’ospedale è uno dei migliori, devo ammetterlo, per quanto io sia sempre stata contraria al sistema sanitario americano...

«L’assicurazione.» Esclamo con gli occhi sgranati. «Elettra non ha l’assicurazione, non credo che sia riuscita a...» Mi blocco vedendo Christian scuotere la testa.

«Tranquilla.» Replica con un gesto della mano, lasciando intendere che è stato lui ad occuparsene.

«Non... doveva, signor Wayne...» Balbetto, ricevendo in risposta un piccolo sorriso.

«Christian.»

Ricambio il sorriso, ringraziando Dio che quest’uomo sia capitato nella vita di Elettra. E quella cocciuta testa di rapa si ostina a trattarlo come uno qualunque. Ah, ma appena si sveglierà dall’anestesia mi sentirà. Eccome se mi sentirà. Li farò sposare, fosse l’ultima cosa che faccio!

 

***

 

Christian cammina avanti e indietro per il corridoio, il passo è relativamente lento ma trasmette angoscia. Non parla da un’ora, che è più o meno metà del tempo che è passato da quando Elettra è stata portata in sala operatoria. Controlla l’orologio, lancia un’occhiata alla porta della sala operatoria, torna indietro, infila le mani in tasca, chiude gli occhi e si porta le dita alla sommità del naso, controlla di nuovo l’orologio. È questa più o meno la routine che segue da circa cinquanta minuti. Ha bevuto tre caffè, parlato al telefono con un Martin e un Tony e ha riattaccato da poco con una tale Diane. Ho cercato di origliare la conversazione con quest’ultima, e credo di avergli anche lanciato qualche sguardo assassino, poi ho sentito che pronunciava il nome ‘Elettra’ e mi sono calmata un attimo. Non si parla alla tua ragazza di un’altra ragazza, giusto? Soprattutto, non diresti alla tua ragazza che aspetti da due ore un responso dalla sala operatoria quando potresti tranquillamente andartene perché ci sono tre parenti della tua collega, vero? E poi Elettra ha detto che non è fidanzato. Ah, Christian Wayne, se stai facendo il doppio gioco ti taglio i gioielli di famiglia. È meglio che tu lo sappia.

«Cristo santo, potresti per favore sederti?!» Sbotta Eva all’improvviso, e Christian si gela sul posto. Senza dire una parola, poi, viene a sedersi accanto a me.

«È di famiglia, allora.» Bisbiglia guardandomi di sottecchi. Io non posso fare a meno di sorridere. Povero Christian, bistrattato da entrambe le sorelle Wayne.

«Elettra non avrebbe detto ‘per favore’.» Alla mia affermazione lui si lascia andare in una breve risata, carica di tensione. Imita Eva nella posizione, chinandosi in avanti e prendendosi parte del viso tra le mani congiunte.

«Grazie per... quello che hai fatto.» Gli dico, sincera. Grazie perché la sopporti, perché le stai vicino, perché sei paziente con lei. Credimi, ne vale la pena. Capirà quanto è fortunata, ne sono sicura. Tutte queste parole indugiano sulle mie labbra, vorrei davvero dirgliele ma qualcosa mi trattiene dal farlo. Sono del parere che dobbiamo sempre seguire il nostro ‘sesto senso’, l’istinto, o come vogliamo chiamarlo, e quindi taccio.

«Vorrei poter fare di più.» Risponde in un sussurro, e a vederlo così mi viene voglia di abbracciarlo. Ma non sono sicura che Cooper gradirebbe.

 

Circa mezz’ora dopo, quello che sembra un dottore appare finalmente nella sala d’aspetto. Ha la mascherina abbassata sul collo e un’aria stanca ma serena. Il suo sguardo cerca subito Christian, che si alza e lo raggiunge svelto.

«Lei è suo marito?» A quella domanda Christian tace per qualche istante, interdetto, e mi sembra anche di intravedere qualche traccia di imbarazzo passargli sul viso.

«No, ma mi interessa ugualmente. Come sta Elettra?» Anche noi tre ci alziamo, raggiungendo i due uomini. Vorrei aver registrato la frase che ha appena detto, non posso credere alle mie orecchie! Vedo che Eva ha ripreso un po’ di colore e mi sta guardando con un’espressione che lascia intendere che ha intuito quello a cui sto pensando. Ha capito la frase.

«La signorina Wayne sta bene, ha avuto un’emorragia dovuta alla rottura di una cisti ovarica. Fortunatamente non ha perso molto sangue, quindi non è stata necessaria alcuna trasfusione. Abbiamo tolto la cisti e ricostruito l’ovaio. Potrà tranquillamente avere figli.» Spiega il chirurgo. Tanto disturbo per nulla, penso, l’ultima cosa che Elettra desidera è un pargolo sgambettante per casa. Traduco a Eva che immediatamente mi abbraccia e a momenti anch’io svengo per il sollievo.

«A cosa è dovuta questa cisti? Può ripresentarsi? Come...?» Christian riempie di domande il dottore, cercando di capire. L’argomento non è dei migliori per un uomo, ma lui sembra fregarsene altamente. Il chirurgo risponde sommariamente all’interrogatorio dicendo che spiegherà tutto alla paziente una volta che si sarà svegliata dall’anestesia.

«Anzi, dite all’infermiera di chiamarmi quando si sarà svegliata. In ogni caso passerò ogni mezz’ora.» Ci indica la stanza dove hanno portato Elettra e ci lascia per andare a mettere qualcosa sotto i denti. «Ah, non fatela mangiare né bere assolutamente per le prossime tre ore.» Ci dice, prima di andare via.

Entriamo nella stanza 315 come un gregge di agnellini, Eva ed io per prime, mano nella mano. La stanza è grande e spaziosa, con la parete lunga interamente finestrata che dà sul cortile interno e sul pronto soccorso. Ci sono tre letti, di cui uno vuoto e l’altro occupato da una donna sulla quarantina che sta dormendo. In fondo alla stanza, accanto alla parete del bagno, c’è il terzo letto dove, pallida e priva di sensi, giace Elettra.

Eva scoppia a piangere, e va a sedersi sul letto accanto a sua sorella. Posso semplicemente immaginare la paura e anche il sollievo dall’altro lato: il sollievo che sia andato tutto bene e il sollievo di trovarsi qui con lei, e non dall’altra parte del mondo. Cerco di scacciare il nodo alla gola che sta tormentando anche me e mi impongo di pensare che non c’è nulla da piangere, è andato tutto bene e appena sarà sveglia dovrò picchiarla per questo coccolone che ci ha fatto prendere.

Cooper mi circonda le spalle col braccio e mi dà un bacio sulla fronte. Mi rifugio sul suo petto, felice che anche lui sia qui. Ha lasciato il lavoro per correre in ospedale, e ora che ci penso non ha neanche mangiato.

«Amore, vuoi andare a mangiare qualcosa? Dai, ora è tutto a posto. Porta anche Eva a mangiare, falla uscire un po’ dall’ospedale. Resto io con Elettra.» Cooper annuisce e mia cugina, dopo essersi asciugata le lacrime e aver controllato la flebo e il drenaggio di sua sorella – deformazione professionale – si lascia convincere a prendere una boccata d’aria con mio marito. È solo dopo che sono usciti dalla stanza che Christian prende una sedia dal tavolo vicino all’ingresso, si avvicina lentamente e si siede accanto al letto. Allunga una mano sul viso di Elettra e le sposta i capelli dalla fronte, in un gesto che mi fa tremare il cuore. Non vorrei sbagliarmi, ma vedo un leggero velo anche davanti ai suoi occhi. O forse sono i miei occhi umidi che mi fanno vedere tutto “bagnato”?

«Mi hai fatto prendere un cazzo di spavento.» Il sussurro di Christian è appena udibile, ma a mio avviso potrebbe resuscitare anche i morti. Almeno, se fossi in Elettra, mi sveglierei in questo istante per baciarlo fino a fargli esaurire le riserve di ossigeno.

Ora le ha preso la mano. Tiene le dita tra le sue, delicato come se fossero di cristallo, e di tanto in tanto le sfiora col pollice. Non saprei dire come la guarda: da un lato sembra vederla per la prima volta, dall’altro sembra sorriderle con gli occhi come se stesse ricordando qualcosa. Poi i suoi occhi incrociano i miei, dall’altra parte del letto, e il mio cuore fa una capriola. È impossibile restare indifferenti a un paio d’occhi del genere. Non mi riferisco solo al colore, ma all’intensità dello sguardo, ai discorsi che sono capaci di fare senza bisogno di esprimersi a parole.

Mi guarda con una tale purezza, una tale disarmante sincerità in quello sguardo che non posso fare a meno di costringermi a dirgli qualcosa.

«Non arrenderti con lei.» Mormoro, col cuore in mano. Un fiume di parole mi inonda la testa e sento che non riuscirò a fermarlo. «Io... non so bene cosa c’è tra voi, ma so che qualcosa c’è, qualcos’altro c’è stato – e qui lui sorride, comprendendo a cosa mi riferisco – e so che lei sta cambiando atteggiamento nei tuoi confronti. Non ha passato un periodo facile, l’anno scorso. Se potesse sentirmi adesso mi ucciderebbe perché sto per dirti questa cosa, ma correrò il rischio.» Sorrido vedendola dormire placidamente. «L’anno scorso è tornata da un master in Spagna, e ha trovato il suo fidanzato storico – primo amore, insieme da anni – che la tradiva con una delle sue amiche più strette. Un’altra loro amica comune li stava coprendo, tenendole tutto nascosto. È stato uno shock per lei, Eva ha detto che da allora non l’ha più vista piangere. Quello stronzo l’aveva cambiata, o meglio era lei ad essere cambiata per lui. È sempre stata l’Elettra che conosci: pungente, sarcastica, divertente e che a volte ti manda davvero al manicomio, ma per lui era diventata un agnellino. Piano piano si era spenta, la sua personalità scoppiettante si era ridotta a un timido fuocherello, che è esploso poi quando ha scoperto del tradimento. Da quel momento è diventata irritabile, inavvicinabile soprattutto con gli uomini, ha rifiutato categoricamente di uscire anche solo a prendere un caffè con qualsiasi ragazzo ci abbia provato in quest’anno, credendo di non avere più amore da dare agli altri. Pensa di essere inaridita, pensa di aver dato tutto a quell’ignobile vegetale ma non è così. Io so che non è così, e credo te ne sia accorto anche tu.» Mi fermo per riprendere fiato. Sorrido pensando a quello che sto per dire. «Sai, tu sei esattamente il tipo di uomo che lei ha sempre desiderato, anche esteticamente parlando. L’innominabile stronzo invece era l’opposto: moro, occhi scuri, fisico asciutto ma niente di che, un classico ragazzo normale che per qualche oscura ragione l’ha fatta innamorare. Dovevi vederlo, io l’ho visto solo due volte e l’ho trovato insopportabile: eccentrico, spilorcio, pieno di vizi, fumava come una ciminiera, fissato con la cura del corpo ma poi si trascurava nelle cose più evidenti...» Scuoto la testa, rabbrividendo al ricordo. «Monopolizzava tutte le conversazioni. Certo, sapeva come vendersi. È sempre stato scaltro, credo che Elettra si sia innamorata del suo essere utopista, pieno di idee, della sua esperienza nella vita, del suo continuo raccontare dei viaggi che aveva fatto e delle persone che aveva conosciuto... del fatto che le tenesse testa, in qualche modo. Ma non è mai stato il tipo da fidanzamento duraturo né fedele, lo diceva sempre anche lui, scherzando. Chissà come mai ha resistito più di due anni con Elettra. Non mi sorprenderebbe sapere che ha avuto varie ed eventuali storielle sul lavoro nel corso di quegli anni. Non mi sorprenderebbe affatto. Pezzo di merda.» Alzo lo sguardo dal pavimento blu della stanza e lo punto nel blu degli occhi di Christian. Ecco, concentriamoci sul presente. «Tu, invece, sembri uscito dal diario che scriveva quando aveva dieci anni. Ogni volta che giocavamo con le Barbie lei sceglieva sempre questo Ken biondissimo e con gli occhi chiari, e a me toccava sempre quell’energumeno mulatto di Big Jim. Non che fosse male, eh, ma anch’io preferivo – e preferisco – i biondi, infatti ne ho sposato uno.» Sorrido e Christian fa lo stesso. «Insomma, credo sia solo un po’ spaventata dal fatto di aver trovato qualcuno che possa piacerle davvero, e se lo capisce il resto sarà solo in discesa. È una persona talmente meravigliosa... nonostante tutta la pazzia e le volte in cui sembra evasa da un istituto di igiene mentale, io le voglio davvero bene. Si fa voler bene.» Le accarezzo il viso e mi chino a baciarle la fronte. «Scusa, ho parlato davvero tanto.» Balbetto poi tornando con lo sguardo al mio interlocutore che ha ascoltato paziente il mio interminabile monologo.

Lui scuote la testa lentamente. «No, io... ti ringrazio di avermi detto queste cose. Credo che nemmeno con le peggiori torture cinesi Elettra mi avrebbe raccontato questa storia.» Sorrido a quest’affermazione. Sì, direi che ormai la conosce piuttosto bene. La paziente chiamata in causa si muove e mugola qualcosa, e vedo la testa di Christian voltarsi nella sua direzione e scrutarne ogni movimento, vigile e attento. Lei però è ancora assopita. Sto già pensando al colore del bouquet quando una Rachel trafelata fa il suo ingresso nella stanza, col rossore in viso tipico di chi ha fatto una corsa.

«Oddio, come sta? Cos’è successo? Ho visto tardi il messaggio... sta... sta bene?» Rachel è un altro esempio palese di quanto Elettra sia capace di farsi volere bene in poco tempo. Lei è testarda e cocciuta e non vuole capirlo, non fa niente per agevolare la cosa – anzi, spesso e volentieri fa l’esatto contrario – ma alla fine i risultati sono evidenti: la adorano tutti.

«Ciao, Christian.» Rachel saluta il biondo posandogli una mano sulla spalla e lui alza il viso per sorriderle, poi torna a guardare Elettra. Spiego brevemente la situazione a Rachel e lei mi guarda dispiaciuta ma allo stesso tempo contenta che non sia nulla di grave. «Conosco tantissime donne che hanno avuto questo problema o qualcosa di simile. Fortunatamente non è niente di più serio.» Commenta, e io concordo in pieno. Il suo cellulare squilla nella borsa e lei esce dalla stanza per non disturbare. Qualche secondo dopo, Elettra apre lentamente gli occhi.

Il suo viso è rivolto verso Christian, quindi sarà la prima persona che vedrà. Sorrido a questo pensiero. Deve vedere il suo eroe.

 

 

~ Note

Lettori e lettrici adorate! Mi scuso tanto per il ritardo! Il capitolo era completo, fatta eccezione per due pezzi che sono stati un parto XD Ma alla fine ce l’ho fatta. È quel che conta, no?

Mi accorgo sempre più che non so cosa dire nelle note. Questo capitolo, il prossimo e parte del successivo saranno ambientati in ospedale. Ci tengo particolarmente, perché lo scorso anno ho affrontato lo stesso intervento – fortunatamente non d’urgenza – e quindi tutto ciò che ho scritto e che leggerete è reale. Ho sempre pensato che bisogna scrivere di cose che si conoscono, quando ne si ha la possibilità.

Ogni capitolo ormai riporta il cambiamento di Elettra, la sua apertura mentale e di cuore è maggiore del precedente e spero ne siate contente!

La frase contrassegnata da un asterisco (*) è di proprietà di Francesca, che dispensa sempre tali perle di saggezza delle quali mi permetto di usufruire; le foto dello screensaver di Christian sono ispirate a questa e questa.

Vi lascio, al solito, lo spoiler, e perdonatemi se non sono riuscita a rispondere alle vostre recensioni per lo scorso capitolo. Grazie, grazie, GRAZIE!:

 

«E allora mangia.» Replica categorico, porgendomi il cucchiaio che afferro con uno sbuffo.

«Ce l’ho già un padre, grazie.» Gli faccio una linguaccia e lui solleva un angolo della bocca in un sorriso. Lo conosco quel sorriso. Aiuto.

«Sei adulta e vaccinata, tuo padre non avrebbe alcuna autorità su di te. Io, invece, in qualità di tuo superiore, posso sempre minacciare di sculacciarti se non mi obbedisci.»

 

Un abbraccio inquieto,

Sara.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici - Whatever it takes ***


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Cosa.

Diavolo.

Sta.

Succedendo.

Mi sento... non so come. Cerco di capire cosa mi sta accadendo, da dove arriva questo... fastidio... e perché sono tutta intontita. Con uno sforzo apro gli occhi, e la prima cosa che vedo è... Christian? Oh, Orione, ma sei onnipresente? Ahi! Sento la pelle che mi tira all’altezza del fianco sinistro e non riesco a capire perché. È un dolore strano.

Mi volto appena e vedo Anne, in piedi alla mia sinistra. Da dov’è sbucata fuori? Provo a dire qualcosa ma ho la gola come carta vetrata e le labbra talmente secche che sembrano roccocò. Mi passo la lingua sulle labbra cercando di ammorbidirle e deglutisco, strizzando gli occhi per il fastidio.

«Che è successo?» Riesco a chiedere infine con un filo di voce. Christian e Anne si guardano, poi lui fa un cenno con la mano per cederle la parola.

«Hai avuto un’emorragia. Avevi una cisti ovarica che è scoppiata e ti ha causato tutto quel dolore. Sei stata operata d’urgenza, ma il dottore si è detto davvero soddisfatto dell’intervento. Dovrebbe passare tra poco per spiegarti bene tutto. Tesoro mio...» Quando mi stringe la mano, sento le lacrime affiorarmi agli occhi. Li chiudo, per fermarle.

Ho qualche vago ricordo del mio arrivo qui, era come se perdessi conoscenza e rinvenissi a brevi e frequenti intervalli di tempo. Ricordo di essere stata messa su una barella, ricordo gli occhi di Christian, ricordo l’odore pungente della sala operatoria, e il freddo che mi ha avvolto le membra. Ricordo la sensazione del... sangue, tra le gambe, mentre mi spostavano dalla barella a quel minuscolo tavolo operatorio. Poi non ricordo più nulla.

Riapro gli occhi, ancora velati di lacrime, e guardo Christian.

«Mi hai...» Deglutisco con uno sforzo immane. «...mi hai portata tu qui?»

Lui annuisce e avvicina la mano al mio viso. Vorrebbe toccarmi, forse, ma le sue dita afferrano solo la stoffa bianca e dura del lenzuolo. La suoneria del suo cellulare interrompe quel momento, e per un istante temo che possa dover andare via. Non voglio che se ne vada. Non voglio...

«È Lily. È stata con noi fino a poco prima che uscissi dalla sala operatoria. È dovuta tornare al lavoro, ma ha già chiamato due volte.» Mi spiega velocemente prima di rispondere. «Lily? Ciao. Sì, ora è sveglia. Sì, è andato tutto bene e tra poco dovrebbe passare il chirurgo per darci maggiori informazioni sull’intervento.» Sposta lo sguardo dal letto a me. «No, credo che abbia difficoltà a parlare... forse per via dell’intubazione. Te la saluto io. D’accordo, d’accordo. A presto.» Preme il tasto rosso e stavolta afferra la mia mano senza esitare. «Ti saluta. Ha detto che se volevi scansarti il manoscritto della Rousseau non te la caverai così facilmente.»

Non posso fare a meno di ridere, cosa che però mi porta dolore alla pancia e fastidio alle labbra. Devo essere un disastro.

«È sveglia?!» La voce di mia sorella mi fa voltare verso la porta della stanza. La vedo correre verso di me e prendere il posto di Christian, che è costretto a lasciarmi la mano e indietreggiare verso la finestra.

«Ele...» Eva mi abbraccia, per quanto possibile con le flebo e tutto il resto, e poi fruga nella borsa, tirando fuori un... lucidalabbra? «Hai le labbra tutte screpolate, ma il dottore ha detto che non puoi bere per un po’, così ho pensato di prendere un burro cacao.» Toglie il tappo e mi guarda. Non ti azzardare a mettermelo come se avessi due anni. Allungo la mano destra e lo prendo, facendo da sola.

«Oh mio Dio ti sei svegliata!» Chi è adesso? Serro le labbra per distribuire il burro cacao e vedo Rachel accorrere al mio capezzale. Mamma mia, ma chi l’ha chiamata tutta questa gente?! Non ho ancora salutato Cooper, tra l’altro.

«Vi odio. Non dovreste vedermi in queste condizioni.» Biascico, imbronciata.

«Invece sì, così potremo prenderti in giro a vita.» Ridono tutti, e io alzo gli occhi al cielo.

«Vi piace vincere facile, insomma.» Li imbecco, e vedo che Eva sta per replicare qualcosa ma si blocca scorgendo un’infermiera venire verso di noi per cambiarmi la flebo. Oh, io non le devo vedere queste cose...

Sento che armeggia con l’ago infilato nel mio braccio e mi inizia a girare lo stomaco. Deglutisco lentamente, cercando di attenuare la sensazione sgradevole, ma finisco per peggiorare la situazione, col disastro che mi ritrovo in gola.

«Devo vomitare.» Riesco appena in tempo ad avvertire l’infermiera che lei mi piazza un catino bianco davanti salvando le lenzuola immacolate.

«Oh cazzo, ma quello è sangue!» Sento che dice Anne, e quando metto a fuoco effettivamente vedo un liquido scuro sul fondo del catino.

«Probabilmente il tubo col quale l’hanno intubata le ha graffiato la gola. Hai fastidio alla deglutizione?» Mi chiede l’infermiera, e io annuisco decisa, mentre torno ad appoggiarmi al cuscino. «E allora è stato il tubo. Non è sangue vivo, evidentemente qualche goccia dev’essere finita nello stomaco durante l’intervento e ora il tuo corpo la sta rigettando. Stai tranquilla, adesso ti sentirai subito meglio.»

Voglio morire ora e subito.

«Tesoro...» Rachel mi stringe la mano. «Io devo scappare, mi hanno chiamata a sostituire una mia collega all’ultimo momento. Però torno domani appena smonto, hai capito? O in ogni caso ti chiamo stasera. Tu riposati.» Mi dà un bacio sulla guancia e va via, incrociando nel corridoio della stanza quello che sembra un dottore, a giudicare dal camice bianco.

«Allora, Elettra. Come ti senti?» Si siede sul letto e mi prende affettuosamente la guancia tra due dita. Io espiro lentamente. «Ho la gola scartavetrata, la testa pesante, ho appena vomitato sangue, ho la sensazione che tra poco il braccio della flebo se ne cadrà, ho un fastidio perenne al fianco sinistro e mi fa male l’osso sacro.» Dico tutto d’un fiato, stringendo i denti per il bruciore alla gola. «Ah, e ho fame.» Aggiungo, arrossendo.

«Quadro clinico perfetto!» Esclama sorridente il dottore. «Vediamo di tranquillizzarti: per quanto riguarda la gola, è colpa del tubo. Hai il collo longilineo, e per quanto il tubo sia piccolo ha potuto ugualmente graffiare le pareti della laringe, ma questo passerà fra qualche giorno. Per la testa, è la conseguenza dell’anestesia generale, assolutamente normale. Il braccio della flebo non tenerlo immobile, muovilo tranquillamente e vedrai che non avrai più quella sensazione. Il fastidio al fianco sinistro è dovuto al tubo del drenaggio.» A questo punto il dottore si alza e fa il giro del letto, spodestando Anne dal punto in cui si era inchiodata. Si china e alza una busta, che sembra quella del catetere ma invece raccoglie sangue. Nel movimento, sento distintamente il tubo di cui parlava muoversi nella mia pancia e sussulto dal dolore.

«Cazzo! Fa male.» Lui lo rimette giù e mi spiega a cosa serve.

«Il drenaggio serve a pescare il sangue e i liquidi dall’utero e a segnalare un’eventuale emorragia. Lo terrai fino a mercoledì.» Mamma mia. Che bella notizia. «L’intervento non è stato una passeggiata: avevi una cisti delle dimensioni di una grossa arancia, che poteva torcere l’ovaio e generare serie complicazioni. Fortunatamente sei stata portata subito in ospedale, e siamo riusciti anche a evitare di intervenire attraverso laparotomia.» Dieci paia d’occhi lo guardano perplessi. «Non hai avuto il taglio. Hai quattro bei buchetti sulla pancia, di cui uno nell’ombelico. Quello del drenaggio è un po’ più grande, infatti hai avuto due punti di sutura lì, ma col tempo le cicatrici saranno davvero minime, solo un occhio attento se ne accorgerà.»

«Okay.» Mormoro, elaborando tutte quelle informazioni. Niente cicatrici, molto bene.

«Per mettere a riposo le ovaie ti è stata fatta un’iniezione che comporterà l’assenza del ciclo per due mesi. Dopodiché inizierai a prendere la pillola, se non la prendevi già.» Io scuoto la testa. «Bene, allora te ne prescriverò una a basso dosaggio ormonale. Intanto farai una cura di ferro, che hai già iniziato qui – indica una delle due flebo, che in effetti è di un marroncino chiaro – e che continuerai a casa per un’altra settimana. Per quanto riguarda il cibo, stasera potrai iniziare a bere ma non a mangiare. Domani avrai il tuo bel brodino.» Detto ciò, si alza e mi scompiglia i capelli. Istintivamente guardo Christian e lo vedo sorridere divertito. Si porta una mano alla bocca come a prevedere la mia reazione contrariata che non arriva perché, per una volta, decido di trattenermi. E poi sono troppo stanca per arrabbiarmi.

Il dottore va via e io sbuffo sonoramente, facendo sollevare un ciuffo di capelli che mi ricadeva sul viso. Anne scoppia a ridere.

«Come sei comica.»

«Se non avessi un tubo nella pancia ti ucciderei, poi vediamo quanto sono comica!» Borbotto, piccata.

«Avanti, non è così male…» Dice Cooper, sghignazzando.

«Ho vomitato sangue, sto facendo pipì in un catetere come se avessi centoventidue anni e il dottore ha appena sbandierato ai quattro venti la mia situazione ginecologica. Noooo, non è per niente male! Credo di aver perso anche quel briciolo di pudore che mi era rimasto.» E adesso datemi una pala che devo sbrigare un affare in Cina.

«“E smettila di fare la vittima!”» Christian mi fa il verso e si avvicina, allungando la sua minacciosissima mano su di me. Mi prende le guance e stringe piano, serrando le labbra come se si stesse trattenendo dal fare qualcosa. Per esempio… mangiarmi.

Anne ci sta guardando con un sorriso che parte da un orecchio, fa il giro dell’ospedale e arriva all’altro. Cooper sta mimando un neonato tra le braccia, cullando l’aria con un’espressione tenera e a tratti rincoglionita. Eva invece è stata posseduta da Violet e sta violentando il muro. Fortunatamente Christian è di spalle e non li vede. Se solo potessi allungarmi a prendere quella borsa che è ai piedi del letto gliela lancerei in fronte. Christian, che stupido non è, intercetta il mio sguardo e si volta, causando l’immediata paralisi dei miei tre parenti-serpenti, che adesso sembrano giocare a Un, due, tre, stella!

Cooper si gratta il capo, Eva fa finta di affacciarsi alla finestra e Anne sta trattenendo una risata, ma tra poco le esploderanno le orecchie per lo sforzo. Io piano piano scivolo sotto il lenzuolo, desiderando il dono dell’invisibilità. Cosa ho fatto per meritare questo?

«Sono dieci idioti. Tu ne vedi tre, ma in realtà ne sono dieci. Un concentrato di scemenza formato tascabile. Non fare caso a loro.» Agito la mano come a voler liquidare la faccenda e Christian sorride col suo solito fare canzonatorio, della serie ‘niente mi tange, nemmeno i tuoi parenti che giocano a Indomimando alle nostre spalle’.

Uno sbadiglio mi coglie di sorpresa, portando con sé un’improvvisa ondata di sonnolenza che mi intorpidisce tutto il corpo, cervello compreso.

«Ragazzi, mi dispiace ma io vado in stand-by. Non mostrate il meglio di voi a Christian. Christian, salvati finché puoi.» Gli dico, e il suo sorriso dolce è l’ultima cosa che vedo prima di sprofondare in un sonno beato.

 

***

 

«Sembra quasi… innocua.»

«Sembra, hai detto bene. In realtà emana radiazioni cancerogene anche da addormentata.»

«Dai smettetela, non è corretto prenderla in giro mentre dorme! Aspettate che si svegli.»

«Sì, poi possiamo anche iniziare a correre.»

«Guardate che vi sento.» Mormoro con gli occhi ancora chiusi. Si sente una risatina nasale, che al novanta per cento appartiene a mia cugina.

«Da quanto sei sveglia?» Questo è Christian. È ancora qui? Che ore saranno?

«Da poco. Le radiazioni cancerogene però le ho sentite.» Apro gli occhi e scopro che fuori è buio; ad illuminare la stanza ci sono le luci singole dei letti, meno “sfolgoranti” di quelle del soffitto. Sposto lo sguardo da Christian ed Anne, seduti alla mia destra, alle due nuove losche figure comparse alla mia sinistra: Nancy ed Andrew.

«Ragazzi, non dovevate…» Lei mi stringe la mano, scuotendo la testa.

«Che dici, stupida. Tu ti sei sorbita la nostra smielata festa di fidanzamento, era il minimo che potessimo fare.»

«Mhmm, su questo hai ragione.» Replico, anche se Violet sta protestando. Sventola le fotografie che ritraggono me e Christian e il suo cardigan, che a proposito giace ancora sul mio letto a casa. Quanto vorrei averlo addosso adesso.

Oddio. No, non l’ho pensato.

Violet si sta sfregando le mani, sul volto ha un sorriso simile a quello della maschera di Guy Fawkes. Cioè, fa quasi paura.

«Ti senti bene? Hai una faccia sconvolta, ti fa male qualcosa?» Anne, super premurosa come sempre, si alza per guardarmi meglio. Io scuoto la testa velocemente e la allontano con il braccio.

«No, no. Pensavo.» Guardo Christian di sottecchi e sarei pronta a giurare che sa a cosa sto pensando.

Pensando, fantasticando, desiderando, bramando come il cioccolato per un diabetico.

«Evento raro, attenzione.» Dice, rispondendo poi con una linguaccia alla smorfia che gli faccio. «Con l’anestesia, poi, figuriamoci... riprenderai totalmente le funzioni cerebrali tra un mese. Poveri noi.» Continua imperterrito e io allungo la mano a dargli uno schiaffo, ma non ci arrivo. Christian si china in avanti e se la porta sul viso, strizzando appena gli occhi nell’attesa della sberla. Per un microscopico attimo guardo Anne e vedo il suo sorriso totalmente innamorato che non riesco a non ricambiare e poi do un pizzico sulla guancia a Christian. La sua pelle è liscia e calda. Mi scopro a pensare che vorrei ricordare com’è stato sfiorarla con le labbra, con il viso. Il solo pensiero di quel contatto mi provoca un gradevole formicolio alla nuca. Ma chi mi ha dato la brillante idea di ubriacarmi, quella sera?

Stringi la mano a te stessa, cara.

Già.

«Tesoro, si è fatto tardi, dobbiamo andare dai miei.» Sento che dice Andrew, rivolto alla futura moglie. Nancy annuisce e si avvicina per abbracciarmi.

«Tanti tanti auguri, esci presto da qui ma approfittane per farti coccolare!» Mi fa l’occhiolino e fa passare Andrew che mi saluta con una carezza sulla spalla.

Mentre escono salutando educatamente i parenti della signora del primo letto, commento la frase di Nancy: «Coccolare...» Alzo gli occhi al cielo e faccio schioccare la lingua. «Come se avessi tre anni.»

Christian schiude le labbra e alza le sopracciglia in una finta espressione desolata e guarda Anne. «Allora mi sa che non se ne parla per il frappuccino al caramello e il pacco di Mars che avevo pensato di portarle domani...» Scuote la testa, dubbioso, e Anne fa un sospiro dispiaciuto.

«No, mi sa di no, Christian. Elettra potrebbe sentirsi viziata o troppo riverita.»

Sono talmente teatrali che scoppio a ridere. «Ehi! Mica ho proprio detto così! Forse per i Mars farei un’eccezione.» Il mio stomaco è d’accordo, a giudicare dal rumore.

«Ormai Christian si è offeso.» Commenta addolorata Anne. «Devi farti perdonare.» Ecco che sparisce il cruccio e appare il sorriso dello Stregatto. Stronza.

Christian ride sotto i baffi e io espiro rumorosamente. Poi alzo il braccio sinistro e sorrido amabile. «Se vuoi dividiamo la flebo di ferro, ti vedo un po’ sciupato...»

I due scoppiano a ridere e poi Christian si alza per andare in bagno. Appena chiude la porta, Anne inizia a saltellare sul posto.

«TU LO DEVI SPOSARE!» Sussurra con la voce che trema dall’emozione. Io lancio un’occhiata perplessa alla parete del bagno che sta sì e no a cinquanta centimetri da noi.

«Anne, non dire-»

«È rimasto a guardarti tutto il pomeriggio, ha chiamato l’infermiera due volte per farti controllare le flebo e la temperatura... tu non hai idea di quant’è dolce!» Dice velocemente stringendo le mani e portandosele alla bocca. Dal bagno si sente prima il rumore dello sciacquone, poi dell’acqua del rubinetto.

«Di che avete parlato mentre dormivo, bastarda infame?» La guardo minacciosa e lei fa un sorriso angelico. Sto per minacciarla seriamente di dirmi tutto quando sentiamo la serratura della porta sbloccarsi e lei si ricompone. O quantomeno smette di saltellare.

Quando l’oggetto della conversazione riappare nel nostro campo visivo, ci guarda con non poco scetticismo, intuendo forse che l’improvviso silenzio e i sorrisi serafici nascondono qualcosa.

«Ohiohi.» Mugolo sentendo una fitta all’addome. Era troppo strano che non avessi ancora dolore dopo l’operazione.

«Ti fa male? Prima l’infermiera ha detto che se hai dolore ti fanno tranquillamente un antidolorifico. La chiamo?» Anne è pronta a soccorrermi. Christian si avvicina al letto e mette un dito sul campanello col quale si chiamano gli infermieri. Io annuisco e lui lo fa suonare. Il ‘bip’ insistente che proviene dal corridoio cessa dopo qualche secondo, e un giovane infermiere entra nella stanza per chiederci cos’è che non va.

«Si può avere una siringa di antidolorifico?» Chiede Anne per me, e lui annuisce. Torna poco dopo con un flacone che mette al posto della flebo di ferro che è finita.

«Questa ti basterà anche per stanotte. Con questi dolori non basta una siringa, specialmente il primo giorno.» Spiega l’infermiere e poi va via dopo aver controllato l’altra paziente. Io resto con gli occhi chiusi e la mente concentrata sugli spasmi per un tempo indefinito, sperando che passino il prima possibile. Li riapro solo quando sento la voce di Eva riempire la stanza.

«Eccoci! Come stai Ele? Oh. Non hai una bella faccia. Ti hanno tolto una flebo?» Si avvicina al supporto metallico dove sono fissati i flaconi e controlla con aria professionale il loro contenuto. «Ah, è Toradol. Con questa passa tutto, tranquilla.» Mi accarezza la testa e si siede sul letto. Anne ciondola lentamente verso Cooper e lo abbraccia, strofinando il naso contro il suo petto. Dev’essere stanca morta, povera.

«Anne, perché non vai a casa?» Mormoro, sentendomi in colpa. Cosa stanno a fare tutti qui? Anne combina solo guai con Christian. Meglio che vada via, decisamente.

«Sì, è vero. Resto io per la notte, tranquilli. Andate tutti. Anche tu, Christian, se vuoi.» Interviene mia sorella. Perché a Christian dice “se vuoi” e ad Anne ha detto “va via e basta”? Lo dico io che sono delle complottatrici.

Christian si strofina un occhio con la mano e annuisce, dev’essere stanco anche lui. Mia cugina inizia a riporre nella borsa i vari oggetti che aveva posato sul letto e sul tavolino e con uno sbadiglio che riesce a malapena a contenere si avvicina per abbracciarmi.

«Grazie.» Mormoro e lei mi schiocca qualcosa come trenta baci consecutivi sulla guancia.

«Cerca di dormire, e se non ci riesci o ti fa troppo male non farti scrupolo di chiamare l’infermiere. Anche se conoscendoti potresti anche far svegliare l’intero ospedale se ne avessi bisogno, quindi su questo posso stare tranquilla.» Risponde con un sorriso.

«Ci vediamo domani, per qualsiasi cosa puoi chiamare noi, lo sai.» Dice Cooper e mi saluta affettuosamente. «Anche se dalle dieci a mezzanotte potremmo essere impegnati.» Guarda malizioso Anne e tutti scoppiamo a ridere. Lei gli dà uno spintone e fa roteare gli occhi.

«Sono talmente stanca che dovresti fare tutto da solo.» Afferma in risposta, e lo prende sottobraccio. «Andiamo dai. Ciao, Christian... se non ci vediamo in questi giorni è stato un piacere conoscerti, nonostante le circostanze insomma...»

Christian saluta i due consorti con una stretta di mano. «Anche per me. Domani dovrei passare, comunque.» Sorride, poi mi guarda. «Se non è di troppo disturbo alla malata.»

Anne mi sorride con un’espressione che nasconde un “rispondi bene altrimenti ti sgozzo davanti a tutti” e io serro le labbra per non ridere. «Se porti i Mars...» Dico, alla fine, speranzosa.

«Vedremo. Intanto fai la brava e non fare arrabbiare tua sorella.» Con questa frase probabilmente si sarà guadagnato l’eterno amore di quest’ultima, che ridacchia con aria ebete. Sto per commentare la cosa ma mi blocco quando capisco che Christian sta per salutarmi. Lo vedo chinarsi su di me e sento le sue labbra sulla fronte, insieme alla mano che mi accarezza la nuca. «Buonanotte, per dopo.» Sussurra e io approfitto degli ultimi secondi di vicinanza per inspirare il suo profumo.

Non posso fare a meno di notare gli sguardi impressionati delle due figlie della signora dall’altro lato della stanza: lo stanno praticamente mangiando con lo sguardo mentre attraversa il piccolo corridoio. Lui invece guarda solo me, per l’ultima volta prima di uscire, e mi rivolge un piccolo sorriso che ricambio col cuore che fa una capriola. Quando torno a guardare Eva la trovo assorta con gli occhi persi nei dintorni della porta. Senza staccarli da lì, sorride.

«Sai, se proprio non lo vuoi... lo prendo io.»

Non ho neanche bisogno di chiederle a chi o cosa si stia riferendo. «Non ti tiro un cuscino in faccia solo perché mi fa male sollevarmi per prenderlo.»

«Se non sono io sarà qualcun altro, sorellona. Io fossi in te mi darei una mossa.» Dice, e poi si alza per andare in bagno, lasciandomi con questa frase che mi rosicchia il cervello come un tarlo insistente.

Mpf. Dormiamoci sopra.

 

**********

 

«Buongiorno!» Una voce che non conosco si insinua nelle mie orecchie strappandomi dal sonno leggero che mi ha accompagnato tutta la notte. Apro gli occhi e la forte luce bianca della stanza mi costringe a socchiuderli di nuovo. Fuori è ancora piuttosto scuro, almeno per quel che si riesce a intravedere dalle serrande bianche.

Ma che ore sono? È l’alba?

Un’infermiera di mezza età dal sorriso gentile mi si avvicina con una siringa contenente un liquido giallo e un termometro.

«Dobbiamo misurare la febbre e darti l’antibiotico.» Spiega, garbata. Fortunatamente, non c’è bisogno di bucarmi il sedere. Il mio braccio è già bucato e al cateterino venoso che mi hanno messo in sala operatoria è stato aggiunto un ‘rubinetto’, come mi ha spiegato Eva, che ha tre vie – o ingressi – per le flebo o per le siringhe, come in questo caso. Dopo aver posizionato il termometro, spinge il liquido giallo nel mio braccio e istantaneamente avverto un sapore orribile in gola.

«Che schifo, lo sento in bocca.» Sorvolo sull’estremo doppio senso della frase, ma l’infermiera non sembra accorgersene. Annuisce e mi dice che è normale e passerà subito. Poi, quando il termometro con due lievi bip annuncia di aver registrato la temperatura, lei lo sfila dal mio braccio e legge sul piccolo display.

«Trentasei e due, perfetto.» Dichiara con un sorriso, per poi andare a ripetere il procedimento alla signora del primo letto.

Mugolo qualcosa mentre uno sbadiglio mi sfigura momentaneamente la faccia, e poi mi volto verso Eva.

«Ma è normale che vengano così presto?» Borbotto insofferente.

«Sì, l’antibiotico dev’essere somministrato con precisione ogni dodici ore, ieri sera te l’hanno dato alle sei.»

Ah, quindi sono le sei del mattino.

Ottimo.

Dovete morire tutti.

 

***

 

«Ele? Ele, c’è mamma al telefono, vuoi parlarle?» Per la seconda volta in troppo poco tempo vengo svegliata contro la mia volontà, stavolta da mia sorella e da un profumo di caffè. Apro gli occhi e la vedo seduta ai piedi del letto con un bicchierone fumante in una mano e il cellulare nell’altra.

Caffè anche io!

Allungo la mano per prendere il telefono e nel farlo controllo l’orario sul display. Sotto le otto e trentadue, ma le finestre sono ancora oscurate. Forse l’altra signora sta ancora dormendo. Poverina, ha avuto un intervento complicato, mi hanno detto ieri. Infatti non fa altro che lamentarsi per il dolore. E ruttare. Ma ruttare tanto.

«Mamma?» Biascico strofinandomi gli occhi.

«Ele! Come stai amore? Quella disgraziata di tua sorella mi ha chiamata ieri sera, non posso crederci che non l’abbia fatto prima!» Brontola mia madre dall’altro capo, apprensiva.

«Tranquilla mamma, sto bene. Non volevamo che ti preoccupassi troppo. In ogni caso, essendo dall’altra parte del mondo non avresti potuto fare molto, a meno che papà non abbia inventato il teletrasporto... ma ne dubito.» Eva sorride al mio solito sarcasmo, mentre ostenta quel suo caffè pur sapendo che io avrò le crisi d’astinenza a breve.

«Lo so, lo so, ma sono pur sempre tua madre. Comunque, quando ti fanno uscire?» Ecco, una persona che pensa positivo e guarda oltre.

«Giovedì mattina credo. Devo restare qui altri due giorni.» Sbuffo, e mi pento subito quando sento il tubo del drenaggio tirare nella pancia.

«Ho capito... va bene, cerca di stare tranquilla, adesso chiamo Anne e la zia Libby e mi assicuro che ti stiano vicino. Ho provato a convincere Eva a trattenersi un altro po’ lì ma ha detto che non può proprio e deve tornare.»

«Certo che deve tornare, ha il suo tirocinio. Cosa resta a fare qui? C’è chi si prende cura di me, non preoccupatevi.» La rassicuro, e quando mi sente, Eva annuisce e si raccoglie i capelli fermandoli in un codino con la mano, poi gonfia il petto e mi guarda maliziosa, in una evidente imitazione di Christian. Prendo il pacco di fazzoletti che ho sul tavolino e glielo lancio addosso. «Mi dispiace solo di non averle fatto godere il soggiorno a Miami.» Dico, sincera. Eva scuote la testa e viene a stringermi la mano.

«Molto meglio che sia stata lì con te.» Risponde mia madre, e Eva dice la stessa cosa contemporaneamente. «Dille di chiamarmi stasera prima di partire. Con te ci sentiamo domani.» Prosegue, e quasi mi sembra una minaccia.

«Va bene mamma, saluta papà. Un abbraccio forte... vi voglio bene.» Riattacco e torno con la testa sul cuscino. Prendo il telecomando che controlla il letto e schiaccio il primo pulsante in alto, che istantaneamente fa alzare lo schienale.

«Questo letto è fighissimo, dici che non posso portarlo a casa come souvenir?» Domando euforica a mia sorella, e lei ridacchia.

«Non credo. Come vanno i dolori? La flebo sta quasi per finire, dimmi se devo fartene portare un’altra.»

«Direi di sì, stanno iniziando a farsi risentire...» Annuisco e mi porto una mano alla pancia, espirando scocciata.

Quando Eva torna con l’infermiera che mi cambia la flebo, la faccio sedere di nuovo accanto a me. «Mi dispiace davvero che questa... cisti del cacchio abbia rovinato il tuo viaggio. Sei sicura di non poter venire nemmeno a Panama?»

Lei scuote la testa. «No, purtroppo. Ma vorrò sapere ogni cosa!» Sorride sorniona, già so a cosa sta pensando e faccio roteare gli occhi, scocciata.

«Non succederà nulla di rilevante.» Affermo, convinta.

Lei mi picchietta la testa con la mano. «Vedremo, sorellona, vedremo.»

 

***

 

Ohhh.

Che stanchezza.

Non faccio altro che dormire, svegliarmi, dormire, svegliarmi, col risultato che non mi riposo quando dormo e non sono perfettamente ricettiva quando sono sveglia. Ergo, sono un vegetale.

Cerco di aprire gli occhi ma non voglio, meglio sondare prima il terreno con le orecchie e scoprire se è venuto qualcun altro a trovarmi. Prima, all’ora di pranzo, sono passati Tony, Lily e Danny ed è stato assolutamente l’imbarazzo totale. Tony voleva una foto ricordo col mio catetere per incorniciarla e appenderla nella bacheca della MP e ho dovuto minacciarlo di chiamare la guardia per farlo smettere. Danny invece ha letteralmente stregato un’infermiera che entrava ogni due e tre per controllare – inutilmente – le flebo sotto gli sguardi minacciosi di Lily. Menomale che la pausa pranzo dura poco, così, visto che non avevo potuto mangiare, sono ritornata al mio stato vegetativo dormiente.

Tendo l’orecchio ma non sento nulla, a parte il chiacchiericcio delle figlie della signora e lo sgambettio della nipotina.

«Nonninaaaaa!» Sento che dice con la sua vocina adorabile, e mi ritrovo a sorridere. Apro gli occhi per vedere cosa sta facendo e invece di ritrovarmi davanti il suo faccino tondo contornato da una frangetta sbarazzina, quello che vedo è il viso squadrato di Christian, concentrato a leggere qualcosa. Osservo i suoi occhi scorrere tra le parole, attenti, e di tanto in tanto segnare qualcosa al margine con la penna rossa. Si passa la lingua sulle labbra, lentamente, in un gesto inconsapevole che mi fa perdere litri di bava. Inconsapevolmente.

Mentre sta sottolineando una frase, alza lo sguardo su di me, beccandomi a fissarlo. Finisce di tracciare la linea e sorride nel frattempo, con l’aria di chi sa. Cosa sappia non lo so, ma ha l’aria di chi sa.

Sa di piacerti, no? Ma devo sempre dirti tutto?

«Cosa stai leggendo?» Gli chiedo, prima che possa soltanto accennare a una delle sue battutine.

«Un manoscritto italiano. Indovina?» Sorride, allegro, e poi mi mostra la copertina, dove al centro della pagina spicca la scritta “Glitter”. Spalanco la bocca e rido per la sorpresa.

«Oh mio Dio! È arrivato?! Cioè, tu... come... cosa... perché io non ne sapevo niente?» Christian mi guarda con un sopracciglio alzato in maniera decisamente altezzosa. «Non dire perché sei il redattore del cavolo, l’ho data io l’idea e dovevo essere avvisata!»

«Non ti scaldare, piccola Elettra.» Alza il manoscritto e me lo sventola davanti al naso. «È arrivato stamattina. Non mi sembrava il caso di chiamarti alle otto per dirtelo, visto che sarei passato nel pomeriggio. Devi smetterla di arrabbiarti senza conoscere tutta la versione dei fatti. Ho fatto anche la rima.»

«E sei più scemo di prima.»

Ci guardiamo seri per qualche istante e poi scoppiamo a ridere.

«Che ore sono?» Domando, ormai ho perso totalmente la concezione del tempo.

«Le cinque e venti. Tra un’oretta dovrebbero portarti la tua prima cena, sei contenta?»

Alzo gli occhi al cielo. «Tantissimo, guarda. Sono secoli che muoio dalla voglia di mangiare un brodino, avevo proprio intenzione di chiederlo a Babbo Natale quest’anno, e invece vedi che fortuna!» Christian continua a ridere: quel suono incantevole riempie la stanza e perfino la piccola Daisy ne resta affascinata. La vedo muovere qualche passo incerto nel corridoio, ignorando sua madre che la chiama, fino ad arrivare davanti a Christian.

«Ciao, principessa! Quanto sei bella con questo vestito!» Le dice, dolcissimo, e la bambina mostra il suo sorriso sdentato di un incisivo.

«Oh, e quel dentino lì dov’è finito?» Le chiede, e lei ridacchia imbarazzata.

«L’ha preso la fatina.» Dice poi con la sua vocina adorabile. Christian si finge sorpreso.

«L’ha preso la fatina dei denti? Davvero?» Daisy annuisce e incrocia le braccia dietro la schiena, girando su se stessa.

«Che brava! E me lo dai un bacino?» Christian si indica la guancia col dito e lei si mette una mano sulla bocca, guardando la madre che ride. Poi torna con lo sguardo su di lui e scuote lentamente la testa.

«Come no? Lo sai che se mi dai un bacino il dentino ti crescerà più in fretta?» Dice, allungandosi in avanti per porgerle la guancia. Lei lo guarda coi suoi occhioni ingenui e si avvicina, schioccandogli poi un timido bacio che lo fa sorridere. Sua madre sta morendo: scommetto che vorrebbe essere al posto della figlia, che adesso sta ricevendo lo stesso bacio da Christian. Daisy torna sgambettando dalla madre e la abbraccia, nascondendo il viso nel suo seno.

«Fai lo stesso effetto a tutte, grandi e piccine, eh?» Mi volto a sinistra e vedo Anne, stesa sulla sedia per gli ospiti, che è rinvenuta dal lungo sonno in cui era scivolata dopo pranzo e ora sta guardando Christian con gli occhi a cuore. Ovvio.

Lui si limita a sorriderle e torna a leggere il manoscritto.

 

***

 

«Che schifo la frutta cotta!» Piagnucolo, imbronciata, quando mi portano il vassoio con la mia prima cena dopo l’intervento. Guardo di sottecchi il brodino dal colore arancione - giallognolo e inizio a girare il cucchiaio dentro, smuovendo tanti piccoli semini di pasta nascosti sul fondo del piatto.

Al primo boccone, il liquido salato è una pura sofferenza contro la mia gola scartavetrata, ma ho troppa fame e decido di riprovarci. Dio, come brucia! Lascio il cucchiaio e mi rilasso contro il cuscino.

«Non posso mangiare con la gola che mi ritrovo.» Dico, e spingo il labbro inferiore in fuori per muovere a pietà i due “guardiani” che mi sorvegliano.

Christian scuote la testa. «Devo imboccarti?»

«Cosa? No!» Non so perché la prendo malissimo, manco fosse una battuta a doppio senso.

«E allora mangia.» Replica categorico, porgendomi il cucchiaio che afferro con uno sbuffo.

«Ce l’ho già un padre, grazie.» Gli faccio una linguaccia e lui solleva un angolo della bocca in un sorriso. Lo conosco quel sorriso. Aiuto.

«Sei adulta e vaccinata, tuo padre non avrebbe alcuna autorità su di te. Io, invece, in qualità di tuo superiore, posso sempre minacciare di sculacciarti se non mi obbedisci.»

Anne serra le labbra per non ridere e io sento distintamente ogni cellula dell’epidermide sulle mie guance prendere fuoco.

«Christian 1 – Elettra 0, palla al centro.» Annuncia Anne con voce da telecronista.

«Zero?! Ma che dici, starò come minimo a ventimila, io!» Ribatto, accanita.

«Hai ragione. Ma le mie valgono di più, perché riesco a zittirti senza scappare.» Replica, e mi sfiora la punta del naso col dito, sorridendo.

«Christian 2000 – Elettra 0. L’atmosfera si fa incandescente.» Commenta mia cugina, usando la mano chiusa a pugno a mo’ di microfono.

A salvarmi – io, Elettra Wayne che ha bisogno di essere salvata! – è Rachel, che viene a trovarmi insieme a Eva. Mando giù quel salatissimo brodino strizzando gli occhi per il bruciore e cerco di godermi al massimo queste ultime ore in compagnia di mia sorella.

 

**********

 

Il mattino seguente la routine siringa-termometro si ripete, e stavolta mi misurano anche la pressione. Ma quando uscirò da qui?

Non mi faccio scrupolo a chiederlo per l’ennesima volta al dottore che è venuto a controllare le mie condizioni.

Lui sorride: «Presto, però oggi devi alzarti.» Alla sola idea inorridisco e mi tiro il lenzuolo fino al naso. «Adesso chiamo l’infermiera e ti facciamo togliere il catetere, così sarai costretta ad alzarti per andare in bagno. Mi raccomando...» Dice poi rivolto ad Anne, che ascolta attenta. «...deve assolutamente alzarsi e camminare. Io ripasso oggi pomeriggio per vedere quanti chilometri orari riesci a fare, d’accordo?» E scompare, con un centinaio di altre cartelle cliniche in mano. Sbuffo sonoramente.

Quando finalmente mi liberano di quel tubicino che mi fa sentire una vecchia malata di Alzheimer, Anne si punta le mani sui fianchi e fa il giro del letto per prendere il telecomando che ne regola l’altezza e la posizione dello schienale.

«Ora ti abbasso il letto, così sarà più semplice scendere.» Detto, fatto. Il letto cala con un ronzio lento e terrificante.

«No, no, non voglio, mi fa male.» Piagnucolo, sentendo il tubo del drenaggio che mi tira in modo pazzesco a ogni minimo movimento.

«Lo so che fa male, ma devi alzarti. Avanti, vieni.» Mi tende le mani e io le afferro controvoglia, lasciando che mi sollevi fino a portarmi seduta al bordo del letto.

«Ahiaaaaa!» Mi lamento, e lei mi guarda dispiaciuta. Oddio, è orribile questa sensazione, no, no, voglio tornare distesa!

«Ele ti prego, un ultimo sforzo e sei in piedi. Dai, così cambiamo anche il pigiama...» Il cuore mi batte forte per il dolore e lo sforzo e quando metto i piedi a terra sento un leggero capogiro. Quel maledetto affare nella pancia mi fa malissimo.

Riesco a muovere qualche passo incerto e poi mi siedo di nuovo sul letto.

«Non ce la faccio, davvero. Fa troppo male.» Dico a mia cugina con le lacrime agli occhi, e lei si morde un labbro, sconcertata.

«Riproviamo tra cinque minuti, dai. Respira e cerca di rilassarti.»

 

***

 

Con uno sforzo immenso sono riuscita a camminare fino al bagno per lavarmi e cambiare il pigiama. Sono passata dall’essere una vecchia rimbambita all’essere una bambina di un anno che non può vestirsi da sola. Un’esperienza che non consiglio a nessuno.

Okay, forse a qualcuno sì.

Adesso voglio restare in questo letto per il resto della giornata. Non voglio alzarmi mai più, a costo di farmi venire le piaghe alla schiena. Mpf.

«Permesso?» Sentiamo bussare alla porta e poco dopo un codino familiare attira tutta l’attenzione dei presenti. Le figlie della signora sgomitano tra loro, sposate e buone, e si mordicchiano nervosamente le unghie mentre Christian passa loro davanti per raggiungere il mio letto.

«Come ti senti?» Mi chiede, dopo aver salutato Anne con un abbraccio.

«Una meraviglia, guarda. Non vedi come saltello allegramente per la stanza?» Chiedo ironica e Christian guarda mia cugina scuotendo la testa rassegnato.

«Christian, il dottore ha detto che Elettra deve alzarsi.» Inizia a parlare quest’ultima, e io la guardo fulminandola. Lei mi ignora beatamente. «Adesso, approfittando che porteranno il pranzo, mi aiuti a farla scendere?»

«Certo.» Annuisce lui, e io mi metto un cuscino in faccia, sperando che i tizi della cucina si dimentichino di questa stanza.

 

Cosa che, manco a dirlo… non succede.

Quando un inserviente porta il vassoio in camera, Christian e Anne si alzano e mi guardano intimidatori. Lui si avvicina e mi porge le mani, aspettando che io le afferri. Guaisco come nemmeno un cagnolino sa fare tanto bene e Christian scuote la testa, con uno sguardo che non ammette obiezioni.

«Ti odio.» Brontolo, con un mezzo ringhio. Mi sto trasformando in un mastino a tutti gli effetti.

«Non è vero.» Risponde lui, tranquillo. Afferra il lembo del lenzuolo e mi scopre le gambe, poi mi fa mettere seduta. Vedo che esita un attimo quando del sangue scende dal tubo del drenaggio – cosa che succede praticamente a ogni mio movimento – ma constatandone la quantità irrisoria procede nel suo intento e mi tira, così che sono costretta a puntare i piedi per terra per mettermi in posizione verticale. Trattengo una miriade di imprecazioni al dolore insopportabile del tubo e premo la fronte sul suo petto, espirando piano con un gemito sofferente. Lui mi accarezza la testa con una mano e mi sorregge con l’altra, forse per infondermi un po’ di coraggio.

«Bravissima. Dai, vieni a sederti per mangiare.»

«C’è il tavolino accanto al letto per mangiare...» Mormoro afflitta, e lui stringe la presa sulla mia nuca. Non mi risponde, ma mi trascina piano in avanti per invogliarmi a muovere qualche passo. Stringo i denti e due minuti dopo mi siedo con un sospiro fiacco sulla sedia blu accanto al tavolo. Solo quando la ferita smette di pulsare mi rendo conto che ho attraversato tutto il corridoio con le mie gambe.

Anne è sbigottita. «Non ci posso credere. Io ho sudato freddo per farla semplicemente mettere in piedi!»

Christian sorride, e all’ilarità generale si uniscono anche le figlie della signora. «Nessuno può opporsi al mio volere.» Afferma con un sopracciglio alzato e l’aria di chi la sa lunga.

Faccio schioccare la lingua e agito il cucchiaio di plastica. «Ma smettila, che ti faccio il bagno col brodo...»

 

***

 

Nel tardo pomeriggio, all’allegra combriccola composta – sempre e comunque – dai due pilastri irremovibili al secolo conosciuti come Anne e Christian, si aggiunge Cooper. Entra con un sorriso smagliante tutto rivolto a sua moglie. Troppo smagliante. Le si avvicina delicatamente, la stringe a sé e la culla piano tra le braccia, solleticandole la fronte con le labbra. Okay, sto per vomitare di nuovo. Non ho mai visto una scena del genere in casa Lewis. Cioè, non che di solito si scannino, ma insomma, il livello di zuccheri è schizzato alle stelle!

C’è qualcosa che non quadra, e me ne accorgo dallo sguardo di Anne che intercetta il mio e lo distoglie subito. Mhmm.

«Ciao cugina, come ti senti?» Dice infine Coop, sollevando una mano nella mia direzione.

«Oh, ma tranquillo, non badare a me. Non sono mica io il motivo per cui siamo tutti riuniti in questa stanza.» Replico sarcastica, ma mantenendo il sorriso. Anne si muove sul posto con un piglio isterico. Sta nascondendo qualcosa. Oh, sì. Guardo Christian di sottecchi e vedo che sorride rivolto a lei.

Complottatrice! Ha cospirato qualcosa contro di me mentre dormivo. Me lo sento! Sta uscendo con la testa fuori dal sacco, la piccola Anne... merito di Rachel, sicuramente, quell’altra pazza schizzata che vuole appiopparmi al codino biondo che non si sgancia da questa sedia manco a pagarlo. Oh, cielo. Povera me.

#Well, I’m back, back, Well I’m back in black, Yes I’m back in black#

«Oh. Oh. Il capo.» Annuncio, solenne, riconoscendo la suoneria del mio cellulare. Anne guarda Christian che guarda me e io alzo gli occhi al cielo mentre afferro il telefono. «Il grande capo. Pronto? Ehi, Martin. Ciaaao.» Sorrido e cerco di sistemarmi sul letto come se potesse vedermi. «Sì, sto meglio, grazie. Non posso ancora camminare senza piegarmi in due dal dolore ma, almeno a detta dei medici, dovrebbe passare in fretta. Già. Sì, sì, lo so. Credo di sì... mhmm... d’accordo. Sì, è qui. Te lo passo? Oh, va bene. Ciao.» Riattacco e guardo Christian.

«Ha chiesto di me?»

Annuisco, e mentre sto per chiedergli come mai non vada in ufficio invece di farmi la guardia, qualcuno bussa alla porta. È un ragazzo con un grande mazzo di fiori. Muove qualche passo incerto nel corridoio e poi legge distrattamente il biglietto che accompagna il regalo.

«Elettra? Chi è?» Alzo la mano quando sento il mio nome e lui recapita la sorpresa fiorita direttamente tra le mie braccia.

Apro il biglietto e leggo ad alta voce: «Tanti cari auguri di pronta guarigione. Christopher, Mike e Clara.»

«Wow, si sono sprecati.» Commenta Anne, corrugando la fronte mentre passa la mano sui petali finti.

«Questo è per aver scelto Panama.» Rispondo, alzando gli occhi al cielo. Odio i fiori. Sono inutili, puzzano e sporcano. Come i cani.

«Etciùùùù! Oh, Signore. Come faccio a essere allergica anche ai fiori finti?» Anne si porta una mano sul naso e starnutisce di nuovo, per poi sbattere gli occhi già semigonfi.

«Tesoro, vieni via. Dai, ti fa male. Attenta.» Borbotta Cooper, allontanandola dal mazzo incriminato con fin troppa veemenza. Cosa le farà male? Starnutire troppo? Ha paura che le parta un embolo?

«C’è qualcosa che devo sapere?» Aggrotto la fronte e Anne serra le labbra, imbarazzata. Cooper invece guarda altrove e finge di non aver sentito. Bene, come volete, ignoratemi. Ma sto per ripetere la domanda all’infinito finché uno dei due non sputerà il rospo. O mi darà una botta in testa. Quindi, tre, due, uno…

«Ciaaaao!» A interrompermi è la voce di Rachel, che entra tutta saltellante e mi guarda con un sorriso a più denti del normale.

«Ciao! Oh mio Dio.» Anne la abbraccia e arrossisce quando, dopo di lei, vede un uomo alto, dai capelli castano-rossicci e gli occhi azzurri che noialtri conosciamo molto bene. «Salve.» Balbetta, timida, stringendogli la mano.

«Buonasera. Io sono Thomas, lieto di conoscervi.» Replica lui, presentandosi a mia cugina e suo marito. Poi si rivolge a Christian e gli si avvicina salutandolo con una pacca sulla spalla, a me invece dà un bacio sulla guancia.

«Come ti senti? Senza di te è una noia mortale.» Mi dice, sedendosi sulla sedia che Christian gli cede.

«Ma se non mi vedi mai…» Rispondo, ridendo.

«Beh, gli aneddoti che ti riguardano fanno il giro dell’ufficio molto in fretta, cara Miss Wayne.» Per un microscopico momento mi si ferma il respiro, pensando al fatto che abbia associato il cognome di Christian a me. Poi ricordo di avere lo stesso cognome e torno a inspirare regolarmente.

Come sei scema.

Vero?

«Non vi manca Christian? Perché non ve lo riprendete?» Alzo una mano per indicarlo e Thomas ride sotto i baffi. Scuote la testa e incrocia le braccia al petto.

«Lasciami un po’ di respiro. Non è bello avere sempre il cocco di Martin tra i piedi, sai.» Lo sfotte, ma Christian non si muove di un millimetro. Sorride composto, come sempre. Ma sorride sempre? Cielo. Come fa?

«Come siete eleganti. State uscendo?» Interviene Anne, attenta osservatrice della mise di entrambi.

Rachel diventa rosso Thomas e annuisce timidamente. «Andiamo in quel pub… dove dovevate venire anche voi, o sbaglio?» Lancia un’occhiataccia più a me che a Christian e io la ignoro beatamente.

«Oh, che bello! Perché non andate voi due con loro, invece, ragazzi?» Devio prontamente l’attenzione da me e Christian e sorrido ai miei cugini.

«Ah… non lo so…» Incalza Anne, guardando Cooper che scuote immediatamente la testa. Anne è contrariata, lo vedo dal suo sguardo. «Mmm… beh, forse volete uscire da soli… perché accompagnarsi a due vecchi sposati?» Ridacchia, e Rachel la guarda stranita.

«Cosa? No, ci fa piacere se venite. Dai, ci divertiamo!»

Anne guarda di nuovo Cooper e Cooper guarda la sua pancia. «No, potresti stancarti, amore… non credi che sia meglio-»

«Oh, per l’amor del cielo, Coop! Sono incinta di tre settimane e tu sei già così apprensivo!»

Una volta sganciata la bomba, nella stanza cala un silenzio degno delle catacombe cristiane. Una roba inquietante, se ci siete stati.

«Ecco, non dovevate venire a saperlo così, ma… sorpresa!» Sdrammatizza Anne con un sorriso accecante. «Ta-dàn

«Ma auguriiii! Congratulazioniii! Cosa si dice in questi casi? Felicitàààà!» Grida Rachel mentre si precipita ad abbracciare Anne.

«Ecco cos’avevate di strano tutti e due! Potevate dirlo subito, accidenti. Beh, Coop. Congratulazioni ai tuoi spermatozoi per aver ingravidato mia cugina. Cugina… sei contenta?» Anne mi sorride raggiante. Non c’è bisogno che risponda. «Allora tanti auguri, vieni qui.» Lei non se lo fa dire due volte e viene ad abbracciarmi. «Anche se non ti farò mai da babysitter, lo sai vero?»

«Certo che lo so. Ma cambierai idea, un giorno.» L’occhiata che scocca a Christian non se la perde nessuno.

«Bene, ora che siamo tutti d’accordo perché non ve ne andate così la smettete di parlare di amore, di cene e di figli?» Dico risoluta facendo cenno di sloggiare con le mani.

«Oh, d’accordo. La paziente ci sta cacciando. Mai mettersi contro le pazienti isteriche, sono pericolose.» Dichiara Rachel, tirando Thomas per un braccio mentre si allontana nel corridoio. Anne e Cooper sono altrettanto veloci a squagliarsela quasi senza salutarmi.

“Ciao, ciao, ciao, baci, baci, ci vediamo, sì, sì, baci.”

E in men che non si dica, tra un battito di ciglia e l’altro, sono rimasta da sola. Con Christian.

Porca miseria.

 

D’accordo. Niente di nuovo, no? Dopotutto siamo sempre soli in ufficio. Beh, quasi. E a casa mia siamo stati soli. E in macchina anche. E...

Ti devo ricordare che ti ha vista in lingerie provocante come nemmeno Alessandra Ambrosio di Victoria’s Secret?

No, grazie, non c’è bisogno.

«Hai caldo?» Mi chiede Christian, interrompendo il dialogo immaginario con Violet e tornando al suo posto sulla sedia.

«No, perché?» Alzo un sopracciglio. Che domanda è?

«Sei arrossita.» Spiega, sorridendo. E ti pareva. Da quando mi hanno operato, non capisco più il mio corpo.

Io non capisco più il tuo corpo da quando hai incontrato Christian.

Infatti tu non esistevi!

Mpf.

«No, stavo pensando.» Rispondo, e un istante dopo sento di essermi scavata la fossa da sola, con tanto di pala e di terreno accumulato in un angolo.

«A cosa?» Ecco. L’ho già detto che sono Nostradamus? Maledizione.

«Ma… un etto di affari tuoi?» Contrattacco con un sorriso. «Piuttosto, perché non mi racconti tu qualcosa?» Rilancio, piccata.

Christian ripone il manoscritto che stava leggendo e si china in avanti, poggiando le braccia sulle ginocchia, come quella sera sulla sdraio. Il che non presagisce nulla di buono.

«Cosa vuoi sapere?» Domanda, tranquillo.

Espiro lentamente e distolgo lo sguardo dal suo mentre penso a cosa chiedergli. Guardando oltre la sua schiena, vedo le sedie vuote accanto al letto della donna che sta dormendo. Siamo proprio soli.

Torno con gli occhi in quell’azzurro, mi ci perdo per un istante. Faccio spallucce, poi ripenso agli ultimi giorni.

«Siete molto amici tu e Tony, vero?»

Che domanda profonda.

Christian annuisce senza perdere il sorriso. «Sì, è uno dei migliori. Sono fortunato a lavorare con lui.» Dice, e fa una piccola pausa per valutare il mio interesse. Quando capisce, da non so cosa, che l’argomento mi incuriosisce davvero, prosegue. «Tony è stato l’unico ad accogliermi con un sorriso genuino e una pacca sulla spalla, alla MP. Avendo qualche anno in più mi ha, per così dire, adottato come un fratello minore e mi ha insegnato tanto. Certo, è pazzo. A volte insopportabile, l’hai constatato anche tu. È proprio per questo che ho dovuto ospitarlo tre mesi quando ha divorziato da sua moglie.»

«Cosa? Tony è divorziato?» Lo interrompo, incredula. «Credevo fosse single perché donnaiolo incallito!»

Lui ride. «Sì, anche. Lo è sempre stato, ma Susan l’ha amata davvero. Peccato che lei abbia preferito un cubano più giovane di vent’anni, dopo sette di matrimonio.»

«Cielo.» Mi passo una mano sulla fronte, sgomenta. Ora mi fa tutto un altro effetto pensare a lui. «E così avete convissuto tre mesi. Wow. Immagino cosa sarà diventata casa tua.»

«Un night club.»

Scoppio a ridere e lui si stropiccia piano un occhio, mentre sorride al ricordo.

«Ho dovuto tirarlo su col cucchiaino a volte, ma alla fine ce l’ha fatta. Ora sta benissimo, come vedi.»

La domanda che mi preme sulla bocca dello stomaco non riesce a restare lì. «Ora sarebbe pronto per un’altra storia importante?» Parlo fissando il lenzuolo, poi incrocio i suoi occhi e mi sento arrossire. Perché ho la sensazione che sappia cosa c’è dietro a questa domanda?

«Non si è mai pronti a livello mentale. Se glielo chiedessi ti zittirebbe con una risposta ironica delle sue. In fondo, però, so – e lo sa anche lui, nel suo cuore – che se incontrasse la persona giusta si lancerebbe a occhi chiusi, e le darebbe più di quanto non abbia fatto con Susan. Deve solo incontrarla.»

DIN DIN DIN DIN DIN! Christian 3.000.000 – Elettra X

Affondo nel cuscino e sospiro confusa, poi lo guardo di sottecchi.

«Ma non ti dicono nulla a lavoro che sei sempre qui?» Sibilo col broncio.

«Sono così fastidioso e inopportuno?» Domanda interessato mentre si raddrizza sulla sedia e incrocia le braccia al petto.

«No, io... non volevo dire questo.» Balbetto, la gola improvvisamente riarsa.

«E allora non preoccuparti del lavoro.» Mi sorride gentile e vittorioso. Ah, maledetto.

La ruota nella mia testa continua a girare alla ricerca di una nuova domanda da fargli. «Cosa fai nel tempo libero, oltre a soccorrere traduttrici malate?»

«Accompagno colleghi dai gusti discutibili in giro per negozi.»

«E contatti agenzie immobiliari.»

«Già. Proprio così.»

Mi specchio nel suo sorriso contagioso e bellissimo e non posso fare a meno di abbassare lo sguardo, imbarazzata. È lui a riprendere le redini della conversazione per riportarla sul piano originale.

«Nel tempo libero – che attualmente è molto poco, perché mi sto dedicando molto al lavoro – cerco di passare del tempo con gli amici e la famiglia. E vado in palestra.»

«Ah, ma dai? Non si direbbe.» Mi porto una mano sotto il mento e lo squadro dubbiosa. Lui ride, grattandosi la tempia, gesto che esalta il bicipite chiamato in causa.

«Hobby? Oltre la palestra, se la consideri tale. E dovresti, visto che non ne hai bisogno…» Ma sto blaterando da sola e quindi è meglio smetterla…

«Ti rispondo solo se ti alzi.» Replica lui, mettendosi in piedi e offrendomi le mani.

«Cosa? Che razza di ricatto è mai questo?» Mi lamento spazientita. «No che non mi alzo. Sto così bene qui.» Piccola bugia. Ignoriamo il dolore alla schiena per la posizione che non cambio da due giorni.

«Per favore. Il dottore ha detto che domani mattina torni a casa. Vorrai tornarci sulle tue gambe, spero.» Alla sua risposta sbuffo e gli stringo le mani, mentre faccio leva sulle gambe per alzarmi.

«Altrimenti che fai, mi ci porti in braccio?» Borbotto con un sopracciglio sollevato. Quando incrocio il suo sguardo corredato di sorriso sadico emetto un sospiro scocciato. «Sì, è da te. Va bene, uno, due… ossantocielo che male.» Mi tengo la pancia con una mano mentre con l’altra mi reggo al braccio di Christian che mi accompagna fino alla sedia.

«Hai visto? Niente di impossibile.» Mi imbecca gentile, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Dio, devo fare uno shampoo. Prima di subito.

«Se, se. Tanto mica fa male a te. Ahi.» Mi massaggio l’addome con una smorfia e lui mi scruta con gli occhi da cucciolo dispiaciuto. No, dai, non guardarmi così…

Che si scioglie.

Ma chi, io? Tzè.

«Allora, questi hobby?» Mugugno con un filo di voce quando la pelle smette di tirare almeno un po’.

«Dunque… beh, la lettura su tutti. Sembra strano, dovrei averne fin sopra le orecchie di libri e manoscritti con il lavoro che faccio, ma ho sempre meno tempo per leggere libri finiti, puliti e stampati che non necessitano di correzioni di alcun genere. Ho una pila di libri da leggere che tra poco festeggiano il loro primo compleanno a casa mia. Assurdo.» Si passa una mano sul viso, stanco, poi torna a sorridere. «Adoro il surf, ma non posso definirlo un hobby a tutti gli effetti visto che lo pratico solo in qualche periodo dell’anno. Sono contento che tu abbia scelto Panama, a proposito, proprio per questo. Ah, sarà stupendo surfare lì!» Gli occhi gli si illuminano al solo pensiero e per un istante sembra sprizzare quell’ardore e l’entusiasmo tipico della giovinezza da ogni poro. A volte dimostra più anni della sua età, ma credo sia per la responsabilità che il suo lavoro comporta. Rieccolo che torna in sé, riflettendo ancora sulla domanda. «Quando posso vado a giocare a tennis con mio padre e, in ultimo… colleziono farfalle.» Conclude con un sorriso.

«Cosa? Vive?» Chiedo con gli occhi sbarrati immaginando barattoli della marmellata o cilindri di vetro pieni di farfalle svolazzanti come nel film di Sherlock Holmes. Le incanta anche lui coi violini?

«Certo che no.»

Un piccolo dubbio spunta nella mia mente come un germoglio di soia. «Parli in senso figurato?» Domando a voce estremamente bassa. Ma lui sente lo stesso, e scoppia a ridere. Quando riprende fiato, prova a rispondere ma un altro accesso di risa glielo impedisce.

«Ah, Elettra. Sei meravigliosa.» Dice, una volta calmatosi. «No, nemmeno in senso figurato. Sono essiccate. Come quelle che vedi nei musei, possibile che tu non le abbia mai viste?»

Improvvisamente vengo colta da un lampo di genio. «Aaaaaaaah. Certo. Wow, davvero? Non ti facevo un tipo… farfallone. Cioè, amante delle farfalle. Okay, riuscirò a dirlo senza che abbia un doppio senso? Hai capito, comunque.» Christian annuisce. «Anche a me piacciono.»

«L’ho notato.» Commenta con un angolo della bocca sollevato in un mezzo sorriso. «Orecchini, stampe sulle maglie, scarabocchi sui manoscritti…»

Simulo un colpo di tosse e mi sento avvampare, manco avesse detto che mi ha vista nuda. Il che sarebbe anche vero. In parte. Il fatto che Christian mi osservi mi inquieta.

«Mi piacciono anche le piume, comunque.» Dico, tanto per dire qualcosa. Poi, con mia – e sua – grande sorpresa, provo ad alzarmi da sola per tornare a letto. Lui mi accompagna lasciandomi fare ma sempre vigile nel caso abbia bisogno di aiuto. Mi sostiene con una mano mentre mi stendo sul materasso ed emetto un lungo sospiro.

«Si è fatto tardi, dovresti andare.» Indico con un cenno del capo le finestre che danno su un cielo quasi scuro e lui annuisce.

«Sì, è vero, ma ora sei da sola. Anne e Rachel sono fuori…»

«Tranquillo, è l’ultima notte qui e sto già meglio. Ce la faccio a restare da sola.»

Christian sembra abbastanza sereno. «D’accordo. Anne mi ha detto che starai da lei per il weekend, vero?»

Faccio una mezza risata. «Già. Per tua somma gioia non torno ancora nella bettola.»

«Sì, ci mancherebbe solo qualche vicino approfittatore a farti da infermiere...» Non so perché penso a Ethan e ciò mi provoca uno spiacevole brivido che maschero grattandomi una spalla. Lui ha la bocca piegata in una smorfia talmente sdegnata che sembra aver mangiato del sushi avariato. «Beh, comunque. Indovina chi ti viene a prendere domani, per tua somma gioia?» Christian torna all’argomento precedente con un sorriso beffardo che mi fa venire voglia di prenderlo a schiaffi.

«Oh ma non mi dire, tu?» Mi fingo sorpresa e lui scoppia a ridere, poi si alza.

«Già. Cooper ha una incontro importante e Anne non sapeva come venire. Per fortuna ci sono io… lo so, lo so, non sai come ringraziarmi. Tranquilla. Un giorno saprai ripagarmi.» Imita la voce profonda di un doppiatore e agita la mano in segno di condiscendenza. Premo le labbra una contro l’altra per non ridere e per un attimo mi perdo nel suo sguardo.

«A domani, James Bond dei poveri.»

 

 

 

~ Note

Lo so, lo so, sono imperdonabile. Non starò qui a discolparmi anche se di giustificazioni ne avrei a sufficienza, semplicemente non voglio ammorbarvi. Quello che conta è che questo capitolo sia finalmente approdato qui e che vi sia piaciuto!

Note particolari non ce ne sono, se non che la scena della prima “camminata” con drenaggio e tutto è successa davvero – come tutto, del resto –, soltanto che al posto di Christian c’era il mio fighissimo ginecologo. Ci tengo anche a dire che i rutti della signora del primo letto li ho sentiti con le mie orecchie ed erano una cosa assurda. Povera donna, certo, ma avrebbe potuto contenersi XD

Spero, spero davvero vivamente e con tutto il cuore di riuscire a scrivere come una volta – l’ispirazione è una brutta bastarda a volte – per aggiornare presto. Ci sono tante cose che devono succedere.

Vi ringrazio, non infinitamente ma di più per le splendide recensioni e per i numeri di preferiti, seguite e ricordate che lievitano ogni giorno. Grazie, davvero.

 

Un abbraccio da orso (o da Christian),

Sara.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici - Tangled ***


Blend



“I said maybe you’re gonna be the one who saves me,

And after all you’re my wonderwall

Oasis, Wonderwall

 

 

«Eccoci quaaaaa!» Anne saltella di metro in metro come un ape vola di fiore in fiore e mi schiocca un bacio sulla guancia, felice come una Pasqua. Christian dietro di lei, ormai onnipresente, mi saluta con una carezza sul capo e inizia ad aprire l’armadio per recuperare tutta la mia roba.

«Oggi si esceeee, sei contenta? Dai, alzati, vediamo quanto sei brava.» Guardo Anne con palese scetticismo e con non poca fatica riesco a mettermi in piedi da sola. Anche Christian mi guarda sorpreso e compiaciuto. Devo ammettere che senza drenaggio è tutto un altro paio di maniche, anche se sono sempre indolenzita. Bleah, il solo ricordo dell’estrazione di quel tubo mi provoca i brividi. Dio, menomale che il dottore ha fatto uscire Christian. Mi sarei suicidata piuttosto che farlo assistere a quella scena macabra. Anne a momenti scoppiava a piangere.

«Finisco io di rimettere tutto in valigia, tu puoi accompagnarla dal dottore così le toglie l’affare della flebo dal braccio e le firma la cartella clinica?» Chiede Anne a Christian, il quale acconsente senza replicare. Mi sostiene con una mano dietro la schiena mentre cammino lentamente verso l’infermeria, dove credo mi stia aspettando il chirurgo.

«Come ti senti? Capogiri? Nausea?» Si informa quest’ultimo una volta entrati nella stanza. Io scuoto la testa, anche se debolmente; un po’ di vertigini le avverto, ma non voglio passare un minuto di più qui dentro. Dopo avermi liberato dell’ultimo tubicino che avevo infilato nel braccio e dopo aver chiuso le faccende burocratiche del caso, mi fornisce qualche altra indicazione.

«I punti che ti ho messo cadranno da soli tra una settimana o anche meno. Cerca di non bagnarli quando fai la doccia, tieni sempre le medicazioni sopra. Adesso ti prescrivo la pillola...» Dice, e cerca un foglio sul quale scrivere. Scarabocchia qualcosa con la tipica grafia incomprensibile dei medici e mi porge la pagina, che piego e metto in borsa. «Che altro dire? Mangia leggero in questi giorni, non affaticarti. Riposa tanto. Se hai problemi di qualsiasi genere chiamami, ma ti sei ripresa splendidamente quindi sono decisamente ottimista.» Mi sorride e poi guarda Christian. «Per la ripresa dei rapporti sessuali non c’è problema, basta una settimana perché possiate ritrovare la vostra intimità.» Spalanco la bocca allibita a quell’affermazione e la mia faccia diventa una superficie bollente sulla quale arrostire le castagne. Nessuno fiata e il dottore non si accorge di nulla, piuttosto ci dà una pacca sulla spalla e ci saluta, sparendo nel corridoio. Christian e io rimaniamo a fissare l’aria davanti a noi per qualche secondo.

Vedo che schiude le labbra per dire qualcosa ma alzo un dito e lo blocco: «Non. Dire. Niente.» Sibilo, ricevendo una risata in risposta.

«Che succede? Sei rossa come l’Audi di Christian.» Esclama Anne quando ci viene incontro in corridoio con la valigia in mano, di cui lui la libera subito per aiutarla.

Lascio che lui si avvii all’ascensore e le sussurro cos’ha detto il dottore. «Quell’imbecille non ha capito proprio niente!»

«Invece secondo me ha capito tutto e vi ha mandato una frecciata bella e buona.» Commenta lei, sicura di sé.

«Certo, perché ormai lo scopo del genere umano non è più la pace nel mondo ma far mettere insieme Christian ed Elettra!» Sbuffo, esasperata. Lei ride sommessamente e finge indifferenza quando entriamo nell’ascensore con Orione. Le porte si chiudono e io posso finalmente dire addio a quest’ospedale.

 

***

 

Arriviamo a casa Lewis mezz’ora dopo, sfrecciando nella fiammeggiante auto di Christian. La giornata è soleggiata e abbiamo viaggiato con la capote abbassata, gongolanti e fiere del nostro chauffeur.

Scendo lentamente dall’auto e percorro il vialetto lastricato in cotto con l’aiuto di Anne, mentre Christian porta dentro armi e bagagli. La casa profuma di limone e di pulito.

Anne mi accompagna nella camera degli ospiti dove fino a due giorni fa dormiva mia sorella e io mi lascio cadere sul letto – molto delicatamente perché i punti tirano – ed emetto un sospiro strascicato da drogata in preda a una crisi. Christian sta posando la valigia a terra e la mia borsa sul comodino. Sorride, e io chiudo gli occhi e continuo a mugolare per l’orribile sensazione di indolenzimento, semi-paralisi nonché dolore all’osso sacro per l’essere stata troppo tempo sdraiata nella stessa posizione.

«Mmmmmhhhh... mi sento un’invalida di guerra. Odio le mie ovaie!» Mi porto le mani sugli occhi e i due scoppiano a ridere. «Che ridete? Cosa c’è da ridere? Bah.»

«È che non ti abbiamo mai vista in questo stato. Sei divertente. Ispiri anche un po’ di tenerezza, sai.» Mormora Anne, con Christian alle sue spalle che non perde il sorriso.

«Io vi detesto. E tu non ridere, mi avevi promesso i Mars e invece sei un traditore!» Esclamo petulante rivolta a Christian che, appena mi sente, si china sulla valigia e poco dopo fa atterrare una busta da cinque Mars sulla mia fronte. «Ahi.» Mi lamento, a bassa voce.

«Donna di poca fede, non li meriteresti per come mi hai appena chiamato.» Mi rimprovera e io serro le labbra, imbarazzata. Mi rigiro il pacco di Mars tra le mani con l’acquolina in bocca e sollevo lo sguardo con gli occhi da cerbiatta più convincenti che riesca a fare, poi allargo le braccia.

«Abbraccio?» Mormoro, provocando un’improvvisa esultanza da stadio in Violet e un sorriso sorpreso in mia cugina. Christian, invece, mi guarda con l’aria di chi ha capito il gioco ma mi asseconda ugualmente. Si siede sul letto accanto a me e mi stringe.

«Ruffiana.» Sussurra, e io sorrido contro il suo collo. Mi scopro a trattenermi dal posarvi sopra le labbra, e questo pensiero mi fa stringere lo stomaco. Quando scioglie l’abbraccio e si allontana, poso la testa sul cuscino e mi delizio delle ultime tracce del suo profumo imprigionate nell’aria attorno al mio naso.

«Mangiane una metà alla volta.» Mi ordina, indicando le barrette che stringo tra le mani e che sto già assaporando mentalmente. «Il dottore ha detto che devi mangiare sano e leggero. Non voglio averti sulla coscienza.» Continua, e si alza, lisciandosi la camicia.

Io annuisco da brava bambina e penso che dovrò chiedere ad Anne di metterli sotto chiave come gli alcolici o rischio di mangiare tutto il pacco nel giro di un quarto d’ora.

«Fanciulle, adesso devo lasciarvi.» Dichiara Christian dopo aver guardato l’orologio. «Torno al lavoro.» Mi posa un bacio sulla fronte, invitandomi a riposare. Poi passa davanti ad Anne, le stringe il braccio affettuosamente e lei gli si aggrappa al collo ringraziandolo infinitamente per tutto quello che ha fatto.

 

***

 

«Ele, è pronta la cena, ce la fai ad alzarti?»

A svegliarmi è Cooper, che parla piano accanto al letto, fissandomi coi suoi occhi chiari e sorridenti.

«Mmmh…» Basta, ho davvero assunto le sembianze di un bradipo, non posso dormire tutto questo tempo! Beh, almeno oggi ho fatto qualcosa di costruttivo: lo shampoo. Subito dopo aver salutato Christian, mi sono trascinata in bagno e con non poco sforzo Anne è riuscita a lavarmi i capelli. Erano un disastro totale, una cosa abominevole, che persino Filippo appena tolta la ‘maschera di ferro’ sarebbe inorridito. Poi sono letteralmente crollata, dopo aver visto sì e no venti minuti di una replica decennale di Una mamma per amica. Peccato, perché mi piaceva quella puntata.

«Se non ce la fai te la porto qui, ma dovresti davvero alzarti, sai cos’ha detto il dottore.» Mi dice premuroso il mio caro cugino acquisito, e io annuisco.

«Sì, dammi il tempo di smobilizzarmi e sono da voi.»

Quando Cooper esce dalla camera, mi tiro a sedere, inspirando profondamente per il dolore alla pancia e ai punti. Lancio un’occhiata al comodino per vedere che ore sono e noto che sul display del cellulare lampeggia l’icona di una lettera.

Sblocco lo schermo e apro la casella dei messaggi: Christian. Sorrido, senza neanche sapere perché. È la prima volta che mi manda un messaggio.

“Come sta la malata?”

Controllo l’ora: l’ha mandato dieci minuti fa. Le dita si muovono da sole sul display.

“Male. La mania assassina si è centuplicata. Non posso muovermi troppo perché potrebbe esplodermi la pancia” Rispondo, e dopo qualche secondo il cellulare vibra di nuovo.

“Vuoi che venga a farti un massaggio?”

Dannazione.

Tu-tump, tu-tump, tu-tump.

Lo sento da me, grazie, non c’è bisogno che me lo fai notare.

“Potresti finire con un altro occhio nero, per essere ottimisti” Scrivo, ghignando da sola.

La sua risposta non tarda ad arrivare: “Correrei il rischio”

Violet sta scegliendo un abito da sposa, vagando in strati e strati di tulle bianco.

“No, non voglio che tu mi veda così” Non sono molto soddisfatta della risposta, avrei potuto fare di meglio. Mentre sto ancora riflettendo, il telefono vibra.

“Stai seriamente facendo la pudica con me dopo che ti ho visto vomitare in ospedale?”

Mio malgrado mi ritrovo a ridere tra me. Digito in fretta, Anne mi sta chiamando.

“Ok, hai ragione. Ma non c’è bisogno, davvero. È pronta la cena, devo andare. A presto”

Aspetto la sua risposta prima di scendere dal letto e camminare lentamente verso la cucina.

“Non affaticarti troppo. Ti chiamo domani. A presto”

Stai sorridendo. Perché sorridi?

No che non sto sorridendo. È una smorfia dovuta al dolore, che credi?

Allontano momentaneamente il pensiero che lui mi chiamerà domani e mi siedo delicatamente sulla sedia accanto ad Anne.

«Perché sorridi?»

«Cosa?» Alzo gli occhi dal mio piatto e li punto in quelli di Cooper, che mi guarda con un mezzo ghigno. È carinissimo quando ride, ha un’espressione da prenderlo costantemente a sberle. In senso buono, s’intende.

«È vero, stai ridendo.» Nota Anne, curiosa. «Che ci nascondi?»

«Niente. È una contrazione involontaria delle mie labbra dovuta ai punti che tirano. Già. Buon appetito, mpf.» Nascondo la bocca nel piatto – quant’è carino il mio brodino incolore insapore e inodore – e cerco di stare attenta ai miei muscoli facciali. Non stavo mica sorridendo perché aspetto la telefonata di Christian. Io, Elettra Wayne? Ma per favore.

«Mi ha chiamato Rachel. L’appuntamento è andato benissimo.» Dice Anne, dopo aver mandato giù l’ultimo pezzo di pollo al curry. Solidale mia cugina, vero?

«Sul serio? Grande!» Tiro indietro il gomito col pugno chiuso in un gesto di esultanza che si trasforma in un lamento quando la pelle dell’addome si tira come quella di un tamburo africano. «Beh? Racconta!»

Anne è tutta un sorriso. «Voleva essere lei a dirtelo, ma lo sai che non so tenere nulla per me.» Prende fiato prima di iniziare a riferirmi quello che le è stato detto.

«Sì, infatti.» Conferma Cooper alzando gli occhi al cielo, forse riferendosi alla notizia della gravidanza.

«Zitto tu.» Lo liquida con un gesto della mano. «Allora… partendo da quando è andata a prenderla sotto casa prima di venire in ospedale da te, mi ha raccontato che naturalmente era in super ansia, e si aspettava chissà cosa – cioè d’esser presa e sbattuta nel muro – ma lui si è comportato da perfetto gentleman con tanto di baciamano e tutto il resto.» Quasi vomito per la dolcezza. «Forse un po’ ingessato, come in ospedale. Secondo me è timido. Comunque, arriviamo al ristorante e dopo neanche dieci minuti Cooper e Thomas iniziano a discutere di rugby. Ti giuro, non ci potevo credere. Non ci hanno degnato di uno sguardo per quasi tutta la cena. Rachel era isterica.» Lancia un’occhiataccia al marito e io inizio a ridere disperatamente. Disperatamente convinta di aver fatto un errore madornale a combinare questo appuntamento. «Quando finalmente la smettono e ci includono nella conversazione, Rachel dice sì e no tre parole in croce, crocifiggendo Thomas nella sua mente. Quando poi Coop e io ce ne siamo andati, mi ha raccontato che sono andati a fare una passeggiata sul lungomare accanto al ristorante, e lui ha avuto il barbaro coraggio di chiederle cosa avesse.»

Mi porto una mano sul viso. «Non vorrei essere stata al suo posto. L’ha sbranato?»

Anne ride. «Sì. Gli ha praticamente urlato qualcosa tipo: “Cosa dovrebbe esserci che non va? Tutte le ragazze che escono finalmente con il tipo per cui stravedono da anni non desiderano altro che vedere una stupida partita di rugby e sentirlo parlare di quella tutto il tempo! Anche se hai una voce sexy non vuol dire che debba stare a sentirti ammorbarmi di rugby per tutta la sera, dannazione!”»

«Oh mio Dio. E lui?» Prevedo il peggio. Aiuto.

«Lui l’ha baciata.»

Spalanco la bocca. «No!»

«Sììììì!» Anne sprizza gioia da tutti i pori. Sono sicura che anche la minuscola creaturina dentro di lei stia esultando, in qualche modo. «E poi hanno passeggiato romanticamente parlando di cose smielate che non starò qui a raccontarti, e quando l’ha riaccompagnata a casa l’ha baciata di nuovo.» Conclude con un sospiro sognante. «Che peccato che non siate potuti uscire anche tu e Christian. Sono sicura che Rachel vi avrebbe costretti.» Tutti i cuoricini svaniscono; Anne mi sta guardando con un’aria vagamente malvagia.

«Che credi, l’ho fatto apposta a farmi scoppiare una cisti. Tutto calcolato. Come sono brava, eh?» Sorrido a ottantanove denti e Anne scuote la testa.

«Come no. Tuo malgrado, sono sicura che saresti stata più contenta di andare a cena con Christian, e ora staresti al settimo cielo come Rachel, piuttosto che andare in ospedale.»

«No. Diciamo che sarei stata più contenta se ci fosse finito lui, in ospedale.» Ribatto, fiera di me.

«Sì, con te che prendi il posto di un'infermiera, lo rinchiudi nello stanzino delle scope con un cerotto sulla bocca e abusi di lui!(*)» Non posso fare a meno di ridere con loro a quest’affermazione, immaginando la scena.

Quando torno in camera, mi stendo sul letto e controllo il cellulare: sul display lampeggia l’icona di una chiamata persa. In un angolo dell’icona c’è un piccolo tre, che indica tre tentativi di chiamata. Il mio cuore perde parecchi battiti mentre sblocco il telefono per scoprire chi è stato a cercarmi. Una piccola, minuscola, flebile speranza si fa strada tra i miei pensieri.

Quello che leggo, però, mi fa soltanto rabbrividire da capo a piedi, senza sapere neanche perché.

“Sconosciuto”.

 

***

 

L’amour toujours, di Danielle Rousseau.

Dopo la calva e guastafeste Lena Ivanov, stavolta mi tocca un manoscritto francese. Il fatto che questa tizia si chiami come quella schizzata del telefilm Lost mi inquieta un po’, ma dopotutto era una brava donna. Sì.

Alla novantaduesima pagina, il calore del laptop si fa sentire sulle gambe e anche nel mio cervello. Decido di fare un break e perciò sfilo un Mars dalla busta che ho sul comodino. Christian ha detto che devo mangiarne solo metà, altrimenti mi vengono le coliche e poi lui è costretto a portarmi di nuovo in ospedale. Certo, gli piacerebbe.

Mentre strappo la carta che lo avvolge, penso al viaggio che dovrò affrontare tra poco più di una settimana. La ripresa, per allora, dovrebbe essere più che completa.

Quella fisica, ovviamente. Quella mentale mi sa non ancora.

Beh…

#And when the daylight comes I’ll have to go, but tonight I’m gonna hold you so close#

Sì, Adam, come to mama.

Sorrido alla mia nuova fantastica suoneria – non azzardo cambiamenti radicali neanche in quella, mai – e, mio malgrado, mi ritrovo ad allargare il sorriso leggendo il nome sul display.

«Pronto?» Rispondo al terzo squillo, la voce trema appena.

«Salve, parlo con la signorina Invalida?» Sta sorridendo anche lui, lo sento.

«No, sono la Menomata, lei chi è?» Sto al gioco, arricciando le labbra mentre fisso il Mars ancora intatto.

Christian, dall’altro capo, ridacchia. «Siamo di buon umore oggi?»

La sua domanda mi spiazza un po’, facendomi esitare prima di rispondere.

«Sono tornata a lavorare.» Rispondo, osservando con la coda dell’occhio il manoscritto che giace abbandonato sul copriletto e il laptop che starà per prendere fuoco.

Bugia. Non è per quello che sei di buon umore.

«Mmm, sono contento. Ci manchi qui. Non c’è nessuno che ci bacchetta e Alexandra mi sta addosso come una piattola venti ore su dieci.»

«Ah sì?» Domando, alzando un sopracciglio.

«Già. Sembrava che tu la tenessi lontana.» Dal tono che usa non sembra poi così dispiaciuto. Io sto pensando ai modi per raparle il cranio senza che lei se ne accorga. Potrei provare con qualche polverina acida…

«Oh, aspetta, ho un’altra telefonata… resti in linea?»

«Sì, capo.» Quasi me lo immagino mentre si mette sull’attenti come prima del piano Cupido. Allontano il cellulare dall’orecchio e metto in attesa la sua conversazione. Quando leggo nuovamente “Sconosciuto” sul display, mi agito nel letto senza sapere cosa fare.

Dopo quattro squilli, scorro il dito per rispondere.

«Pronto?»

Dall’altro lato il silenzio.

«Pronto?»

Sento qualche rumore in lontananza ma non riesco a capire di cosa si tratti. Sembrano macchinari in funzione, ma non capisco di che genere.

«Se avete voglia di scherzare, sappiate che state facendo tutto tranne che allietarmi la giornata. Idioti.»

Per un momento penso a Christopher e Clara. No, non sarebbero capaci di chiamarmi col numero privato senza parlare. Vero? È uno scherzo da ragazzini. Roba che neanche alle superiori.

«Chris…tian?» Mi correggo giusto in tempo prima di chiamarlo col mio soprannome personale. Personale, poi. Che fantasia, eh?

«Rieccoti. Chi era? Ah, come sta Eva?» Domanda allegro.

Cosa ti interessa di Eva ora? Mh, deve averlo colpito. Ovvio. Colpisce sempre tutti. Al pari di una botta in testa.

«Mmm, nessuno. Eva sta bene, è tornata a curare le pustole ai lebbrosi.»

«Ah, ti prego. Stavo cercando di mangiare, grazie.» Commenta disgustato, facendomi ridere. Effetto sperato ottenuto.

«Mangi a quest’ora?» Sono quasi le sette, manca qualche minuto.

«Sì, ho un appuntamento tra poco.»

«Ah, d’accordo.» Dico, dopo una breve, infinitesima pausa. Non mi è nemmeno passato per l’anticamera del cervello l’idea di chiedergli che tipo di appuntamento abbia. Mai.

Mai.

«Beh, devo continuare a lavorare. Vorrei completare la traduzione per domani, domenica al massimo.» Dichiaro sbrigativa, storcendo il naso. Non ho nessuna voglia, ora, di mettermi di nuovo a tradurre, ma in qualche modo dovrò pur impiegare il tempo. E poi Christian ha un appuntamento, non posso mica tenerlo al telefono. Non voglio nemmeno.

Mai.

«Oh.» Il suo tono vagamente sorpreso – deluso? – mi fa trattenere il respiro. «D’accordo. Io mi preparo allora.» Prosegue, dopo aver mandato giù un boccone di non so cosa.

«Già. A presto.»

«A presto.»

Riattacco io, con una smorfia crucciata. Perché la conversazione è iniziata benissimo ed è finita nell’esatto modo opposto?

Per colpa delle tue paranoie da corteggiata gelosa.

Certo che no.

Certamentissimamente che sì.

Neologismo?

Tutto per te.

D’accordo, rimettiamoci al lavoro. Con l’umore decisamente sotto i piedi.

 

***

 

Il mattino seguente, a svegliarmi è la suoneria del cellulare.

Quando i falsetti di Adam raggiungono la parte più profonda e meno stupida del mio cervello e riesco a capire che non è un sogno, mi scuoto di soprassalto e scollo le palpebre per cercare il cellulare.

È Rachel.

«Pronto?» Biascico, assonnata, tuffandomi di nuovo nel cuscino.

«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH TU NON PUOI IMMAGINARE!» Strilla lei dall’altro capo, costringendomi ad allontanare l’apparecchio dal mio timpano.

«Cosa, il motivo per cui ti salta in mente di chiamarmi così presto?!» Borbotto, accogliendo un grande sbadiglio.

«Presto? Ele, sono le undici e mezzo.»

«COSA?!» Con gli occhi sbarrati mi tiro a sedere, stringendo i denti subito dopo. Fare movimenti bruschi dopo un’operazione non è propriamente indicato. Cerco conferma nella radiosveglia ed effettivamente, sembrano proprio essere le undici e trentadue. ACCIDENTI!

«Vabbè, non devi mica andare a lavorare.» Osserva perspicace Rachel, sottolineando l’ovvio.

«Non devo andare in ufficio, ma non vuol dire che non debba lavorare. Cielo, ho un sacco di pagine da recuperare adesso. Mi ero proposta di iniziare appena sveglia... credevo di farlo prima, in effetti.» Rifletto, scuotendo la testa. Lentamente, ma con meno difficoltà degli altri giorni, scendo dal letto e mi avvio in cucina per fare colazione. Quasi pranzo, diciamo.

«Non è questo il punto. Anne è lì?» Mi chiede Rachel, sembra impaziente.

«Mmm, credo di sì. Non mi pare sia uscita.» Mi affaccio in soggiorno e la vedo seduta sul divano a guardare una replica di Shopping night UK. «Sì, eccola. Te la passo?»

«No, metti in vivavoce.»

«Agli ordini. Però vado a prendere qualcosa da mangiare, aspetta.» Poso il cellulare sul tavolino basso davanti al divano e corro – per quanto riesca a correre, cioè al pari di una lumaca in rollerblade – in cucina a prendere dei cereali. Quando torno, mi sistemo accanto ad Anne e posiziono la ciotola sulle gambe, a mo’ di popcorn.

«Dica. Siamo pronte.» Annuncio, a voce più alta. Poi guardo Anne. «Buongiorno, cugina.»

«Buongiorno, reincarnazione di un ghiro. Non dovevi lavorare stamattina?»

Sbuffo e le sgranocchio i cereali in faccia, a bocca aperta. «Io sono Elettra Wayne e posso tutto.»

Come no, l’ultima volta che hai detto questa frase…

…non continuare.

«Allora.» Incalza Rachel, dopo essersi schiarita la gola. «Thomas mi ha chiesto di uscire. Di nuovo. STASERA!»

Al suo urlo di gioia si unisce anche Anne, saltellando sul divano di pelle e formando un bel solco col suo sederino delicato. Io sorrido, felice.

«Ma che bella notizia! Dove ti porta?!»

«L’ho detto o non l’ho detto che sono un genio?» Commento, guardandomi le unghie con finto disinteresse.

«Mi porta al cinema. Volete venire anche tu e Cooper?»

«Cosa? Perché mai dovresti passare un’altra serata con due candele ambulanti? Anzi, due e mezzo, con la possibilità che quei due cretini inizino a parlare di sport di nuovo?»

«Fiuuu, l’avevo chiesto solo per cortesia. Sai com’è. Non vorrei far offendere una donna incinta.»

«Tranquilla. Tra l’altro, stasera siamo a cena dai miei suoceri. Dobbiamo dare la lieta novella anche a loro!»

Sto per prenderla in giro sulla reazione della madre di Cooper, quando sentiamo lo squillo del telefono di casa. Mi alzo e mi avvio verso la cucina, dove afferro il cordless e lo porto all’orecchio.

«Pronto?» Di solito odio rispondere ai telefoni degli altri, non sai mai cosa dire e perdi dieci anni di vita a spiegare che no, non sei tu la padrona di casa nonostante “la tua voce sia identica alla sua!”

«Pronto?» Ripeto. Forse non ho sentito la risposta perché ero impegnata a pensare.

Il silenzio dall’altra parte è interrotto ogni tanto da un rumore di autovetture. Riattacco di botto, come se mi fossi scottata. Chi diavolo si diverte a fare queste telefonate, adesso anche sul telefono di Anne?!

«Chi era?» Anne mi raggiunge e mi porge il cellulare.

«Nessuno.» Rispondo cupa. «Avevano sbagliato numero.» Aggiungo. Non vorrei farla preoccupare inutilmente.

«Quali sono i tuoi programmi per oggi? Vuoi aiutarmi a preparare la torta di fragole?»

Guaisco, affranta. «Mi piacerebbe tantissimo, ma devo finire il manoscritto. Sono terribilmente indietro.» E poi mangerei tutte le fragole prima che possano anche solo immaginare di toccare il pan di spagna.

«D’accordo. Se dovessi cambiare idea, sono qui. A lievitare semplicemente col profumo della crema chantilly.» Alza gli occhi al cielo e borbotta qualcos’altro mentre tira fuori da un mobile una ciotola e la frusta elettrica.

«A dopo, paranoica.» Le do una carezza sul pancino e ciabatto verso la stanza degli ospiti.

 

***

 

«I posti della casa li hai imparati, se hai problemi di qualsiasi genere i nostri numeri li conosci... sicura che possiamo lasciarti sola?» Mormora mia cugina per l’ennesima volta, apprensiva come non mai.

«Sìììì.» Li liquido con un gesto della mano senza staccare gli occhi dallo schermo del computer. Quando mi accorgo che non accennano a muoversi, sollevo lo sguardo e li fisso in cagnesco da sopra gli occhiali. Sì, porto gli occhiali da vista quando passo molto tempo al computer o a leggere. Ma non ditelo a nessuno. Mai.

«Vuoi che chiamiamo Christian? Magari può farti compagnia.» Propone Cooper, con un ghigno malamente nascosto.

«Assolutamente no. Starò benissimo! Ciaaao

Li stai cacciando.

Non li sto cacciando.

Ma sono solo preoccupati per te.

Ma non sono invalida.

Beh, io qualche dubbio ce l’avrei.

Zitta, mi deconcentri.

Bla, bla, bla...

Ho solo bisogno dello sprint finale. Mi mancano “solo” novantotto pagine. Ce la posso fare. Batto velocemente “Capitolo quattordici” in cima alla pagina e schiaccio due volte il tasto Invio.

Cet hiver fut extrêmement froid et très long.” Leggo, e mi accingo a tradurre: quell’inverno fu estremamente rigido e lungo.

Posso dire che tutto sembra tranne che un inverno?

VIOLET!

Che vuoi? Per esempio, potrebbe essere una mazza da baseball!

Rido da sola e nel deglutire, avverto una leggera – mica tanto – sete. Cavolo, ho lasciato la bottiglia d’acqua in cucina. Sbuffo sonoramente e mi alzo per andare a recuperarla.

Come metto piede in soggiorno, sobbalzo allo squillo del telefono. Santi numi, questa storia deve finire. Non posso saltare sul posto ogni volta. Mi avvicino all’apparecchio fisso per rispondere e mi sento come da ragazzina, quando mamma usciva e cinque minuti dopo iniziavano a chiamare persone di tutto il mondo, e io lì a dire “No, mamma non c’è. Richiami più tardi” almeno cento volte al giorno. A pensarci, avrei potuto scrivere che ho lavorato anche come centralinista, nel curriculum.

Prendo un respiro prima di alzare la cornetta e poi la avvicino all’orecchio.

«Pronto?»

«Anne? Sono mamma.» Nel momento in cui riconosco la voce, mi sento una cacca spiaccicata.

«Zia Libby! Sono Elettra!» E sono una sciagurata perché non sono ancora venuta a trovarti dopo tutto questo tempo.

«Elettra chi? Ho per caso una nipote che si chiama Elettra, che è venuta ad abitare a Miami e non è ancora passata a salutarmi?» Risponde arzilla lei, con una nota dolce nella voce, sotto vari strati di sarcasmo. «Come stai tesoro? Ho chiamato per sapere come stavi. Mi ha tenuta aggiornata Anne in questi giorni.»

«Sto bene, zia. La ripresa è abbastanza veloce, cammino ancora come un rinoceronte ingessato ma sono ottimista. Ascolta, ti vengo a trovare prima di partire per Panama. Promesso. Voglio uno dei tuoi Bloody Mary.»

La sua risata compiaciuta fa venire da ridere anche a me. «D’accordo. Anne e Cooper sono dai suoceri, vero?»

«Sì, esatto. Io sto lavoricchiando.» Ma tra poco andrò ad affogare i miei dispiaceri nel barattolo di gelato king size che si trova nel freezer, dietro i peperoni surgelati. L’ho visto mentre cucinava ieri sera. Muhahahaha.

«Allora ci vediamo la settimana prossima? Ti aspetto, disgraziata.»

Sorrido e le assicuro che ci sarò. Poi riattacco e torno in camera con la mia bella bottiglia d’acqua fresca. Me ne verso un bicchiere e gorgoglio ritemprata. L’acqua mi va di traverso quando trovo l’icona lampeggiante di una chiamata persa sul display del cellulare.

No, per favore. Basta.

Mentre lo sto prendendo per controllare il mittente, mi vibra tra le mani.

Sconosciuto, ancora.

«Chi cazzo sei?» Rispondo, con la voce che trema dalla rabbia. Dall’altro lato, una risata maschile e una macchina che si mette in moto. Poi il silenzio di chi ha riattaccato.

Stavolta sono io a digitare un numero e ad aspettare la risposta. Nel frattempo, mentre l’ansia cresce al pari degli squilli che vanno a vuoto, torno in soggiorno e mi affaccio alla finestra, restando dietro la tenda.

«Sogno o son desto? È la prima volta che leggo il tuo nome sul display del mio cellulare.» Sentire la sua voce dall’altro capo del telefono è quanto di più confortante mi sia capitato negli ultimi giorni. A dire il vero, sentire anche solo una voce, dall’altro lato, è già confortante di per sé. Rido nervosa alla sua affermazione ironica e cerco di racimolare il coraggio per dirgli quello che vorrei.

«Ehm... c’è sempre una prima volta, no?» Con le dita che tremano appena chiudo la tenda della finestra e cammino lentamente verso il divano.

«Va tutto bene? Sei a casa?» Colgo la palla al balzo e annuisco, come se potesse vedermi.

«Sì. Da Anne, sempre. Io... Christian, ho bisogno che tu venga qui. Per favore.»

 

«Cos’è successo? Stai bene?» Vederlo sulla soglia della porta, con quell’espressione preoccupata e tutto il corpo teso, mi fa venire voglia di abbracciarlo e scoppiare a piangere. Fortunatamente, riesco a mantenere il mio ordinario dignitoso contegno.

«Sì, io... entra...» Mi sposto per farlo passare e indico il divano mentre chiudo la porta, ma lui non fa più di un passo. Noto che è vestito elegante, chissà da dove l’ho fatto correre. Un pensiero in un angolino remoto della mia mente mi dice che forse aveva un appuntamento.

«Mi spieghi che succede? Non ti senti bene?» Guarda la mia pancia e io mi affretto a scuotere la testa.

«No, no, non è quello. È che... io penso che ci sia qualcuno che... mi stia spiando, o qualcosa del genere. Lo so che suona un po’ megalomane come cosa, manco fossi il sindaco... però mi sono arrivate delle telefonate anonime sul cellulare, e poi è squillato il telefono anche qui. Dall’altro capo non rispondeva nessuno, io...» Detto ad alta voce suona ridicola come cosa, ma ormai gliel’ho spiegato e non posso far altro che aspettare la sua reazione. Lui mi ha ascoltato attento e quando finisco di parlare si avvicina alla finestra, scostando appena la tenda per dare un’occhiata discreta.

«Quella macchina l’ho già vista da qualche parte, ma non ricordo dove...» Gli dico, raggiungendolo e indicando la Hyundai grigia appostata sul marciapiede in fondo alla strada.

«C’è qualcuno dentro. Da quanto tempo è qui?» Mi chiede mentre fa correre lo sguardo sul resto della strada.

«Non lo so... dieci minuti... me ne sono accorta dopo la seconda telefonata di oggi. Alla terza ti ho chiamato, e poi mentre arrivavi c’è stata un’altra sul telefono di casa.»

Christian ci mette un po’ a rispondere. «Se c’entra qualcosa con le telefonate, adesso quel tizio starà aspettando che io me ne vada.»

Sbarro gli occhi e quando lo vedo allontanarsi dalla finestra lo afferro per il polso. «Non ti far venire strane idee in mente del tipo “vado a controllare, ma poi ritorno” e mi lasci qui, chiaro?!» Gli intimo allarmata.

Lui mi sorride e mi prende la guancia tra due dita. «Posso sempre portarti una pinzetta per le ciglia se ti fa sentire più sicura.» Risponde, ricevendo uno schiaffo sul petto.

«Cretino idiota.» Borbotto, incrociando le braccia al petto. Io sono terrorizzata e lui si improvvisa cabarettista!

«Adesso stai tranquilla e non pensarci, ci sono io e non devi preoccuparti di nulla.» Non finisce neanche di parlare che si sente squillare il telefono. Fisso l’apparecchio col cuore in gola e vedo Christian avvicinarsi per rispondere. Alza la cornetta e dopo un po’ parla: «Pronto?» Resta in ascolto ma dalla sua espressione capisco che non ha ricevuto risposta. Dopo aver riattaccato, mi guarda pensieroso.

Io sono seduta sul divano con una gamba piegata sotto il sedere e le mani in grembo. Lo vedo venire verso di me e togliersi la giacca, per poi sedersi e poggiare le braccia sulle ginocchia come fa di solito.

«Almeno adesso, chiunque sia, ha la certezza che ci sono io. Vorrei andare a vedere chi è in macchina, ma se è lui a telefonare potrebbe essere con qualcun altro che aspetta nei dintorni della casa...» Non gli do neanche un nanosecondo per valutare la cosa che gli punto un dito contro e parlo con un tono perentorio anche se un po’ atterrito: «Non ti azzardare a lasciarmi da sola, Christian.»

«Non ti lascio.» Risponde lui, e me lo dice con gli occhi, con le mani, con la linea delle labbra che esprime la serietà della sua affermazione. «Hai fatto bene a chiamarmi. Tra l’altro, mi hai salvato da una noiosissima riunione con Martin.» Ignoro Violet che sorride sorniona al pensiero che no, non ha dato buca a nessuna ragazza ma semplicemente al suo capo «Come sei carina con gli occhiali.»

ODDIO. Ne avevo completamente dimenticato l’esistenza!

Li tolgo subito e li poggio sul tavolino accanto al divano con una risatina isterica.

«Dove sono Cooper e Anne? Come mai sei sola?»

Riemergo dall’imbarazzo e mi accingo a rispondere: «Dai suoceri.» Alzo gli occhi al cielo. «Thomas e Rachel sono a cena fuori. Abbiamo fatto centro con quei due.» Christian solleva gli angoli della bocca soddisfatto e continuo a parlare: «Ti ho chiamato perché non sapevo chi altro chiamare. I quattro dell’Apocalisse sono impegnati, Danny è con Lily, Tony mi avrebbe presa in giro per il resto della mia vita... Mike e Christopher, senza offesa, non mi danno più sicurezza della famosa pinzetta, e quindi…» Faccio spallucce e lo vedo scuotere la testa, contrariato.

«E io che mi illudevo di essere il tuo cavaliere senza macchia e senza paura. Mi sono detto ‘Wow, ha subito pensato a me, devo correre!’»

«Sì, correre per scappare da Martin!» Lo canzono, e scoppiamo a ridere.

Sapete entrambi che state mentendo, vero?

«In realtà credo che volesse darmi un aumento, ragion per cui detrarrò dal tuo stipendio quello che ho perso per venirti a salvare.» Christian incrocia le braccia a mo’ di dittatore e io faccio schioccare la lingua contro il palato.

«Non sei il mio capo. Il mio capo è Martin.» Lo sfido, anche se dopotutto ciò che ho detto è corretto. Non so perché mi sento leggermente arrossire all’idea di Christian come capo pensando alla posizione ‘dominante’ che la parola evoca.

Beh…

Non iniziare. NO.

«Ho valutato io il tuo curriculum. Ho detto io a Martin di assumerti. Con uno schiocco di dita potrei farti licenziare, senza nemmeno darti una spiegazione. Dovresti considerarmi molto più che un tuo superiore.»

Per esempio mio re, mio principe e mio signore? Mi offro come tua schiava!

«Ohhhh, certo. Dì la verità, mi hai pedinato in aeroporto e hai annullato tu il mio volo e hai corrotto il direttore dell’albergo per farti mettere nella mia stanza. Chi sei, Bryan Mills?»

Colto il riferimento al personaggio di Taken, Christian diventa serio e fa una voce profonda, guardandomi dritto negli occhi. «Io non so chi siete. Non so cosa volete.» Dice, imitando quasi alla perfezione la voce di Neeson. «Io vi cercherò.» È talmente serio che non riesco a trattenere una risata. «Vi troverò.» Rido ancora di più quando si avvicina col corpo e le mani e sento che sta per iniziare una guerra. «E vi ucciderò.» Nel momento in cui le sue dita pizzicano la pelle dei miei fianchi, mi dimeno sul divano ridendo come una pazza.

«Ahia, ahia, i punti!» Dico tra le risate, quando questi iniziano a tirare. Cioè, praticamente subito. Mi hanno salvato, grazie al cielo. Chissà cos’avrei potuto dire stavolta per farlo fermare. Non oso immaginare.

«Oh, hai ragione!» Christian mi lascia subito chiedendomi scusa se mi ha fatto male. Lo tranquillizzo con un sorriso e lui dopo un po’ sbuffa. Si arrotola le maniche della camicia fino al gomito e poi congiunge le mani. «Bene. Se non posso neanche torturarti col solletico, cosa facciamo?»

Io un’idea ce l’avrei.

 

Dopo essersi fatto pregare in tutte le lingue che conosco per restare a farmi compagnia fino al ritorno di Cooper e Anne, Christian ha deciso di accettare a patto che lo batta a Ruzzle. Lo so, lo so. È un gioco stupido e crea dipendenza, e all’inizio lo criticavo anche io quando vedevo Lily giocarci in ogni momento libero. Ma poi l’ho provato.

Dannazione, crea dipendenza davvero.

Christian aveva optato per lo Scarabeo, ma visto che non siamo a casa sua e non ho idea se Anne ce l’abbia, ci siamo dovuti accontentare. Tra l’altro, non credevo che lui ci giocasse. Quando gli ho detto che sono diventata bravissima, mi ha sfidato senza battere ciglio. E ora sono pronta e carica per sfoderare tutto il mio vocabolario. Accidenti, se lo batterò.

Mi sgranchisco il dito indice e prendo un respiro prima di premere su Gioca!. Christian mi guarda di sbieco con un sorriso malizioso che gli scopre i denti e che mi abbaglia per un attimo.

Elettra, concentrati. Non puoi perdere.

«Sei pronta?»

«Certo che sono pronta.» Sono nata pronta. Anche se, quando si tratta di te, non ci giurerei.

«E allora, prova a battermi.» Pigiamo nello stesso istante il tasto per iniziare il gioco e le nostre dita scorrono frenetiche sui display per i fatidici due minuti.

Osservo il timer raggiungere lo zero, soddisfatta di me stessa. Ho trovato 69 parole. Tzè, voglio proprio vedere quante ne ha trovat-

«Hai imbrogliato!» Gli urlo contro quando vedo il suo punteggio: 876 punti, rispetto ai miei 712. Quante parole? «Sei un imbroglione! 86 parole su 199! Ma dai!» Piagnucolo, tirandogli uno schiaffo sul bicipite mentre lui se la ride.

«Ehi, sono un redattore. Credi davvero che conosca meno parole di te?»

«Ti faccio vedere io. Ora i punteggi si alzano. Tzè.» Ringhio, preparandomi al secondo round. «E poi io posso batterti in almeno cinque lingue diverse!» C’è da dire che stiamo giocando in italiano. Mi ha voluto agevolare, ha detto.

E menomale!

Iniziamo il secondo round e il mio dito vola sullo schermo, anche se a un certo punto mi blocco per qualche frazione di secondo e vado nel panico più totale. Non posso perdere.

Credi davvero che se ne andrebbe, lasciandoti qui da sola, anche se perdessi?

Ma cosa c’entra, è una questione di principio!

Negli ultimi venti secondi ritrovo l’ispirazione e riesco a formare parole abbastanza lunghe, per un totale di 81 vocaboli su 232. Il mio massimo è 83, finora. DEVO averlo superato adesso.

Lo guardo mentre il cellulare carica i risultati, e con mio grande sgomento scopro che il mio punteggio supera il suo di soli dieci punti. MA DAI!

«Tu hai l’applicazione che bara, vero? CE L’HAI! Confessa!» Gli punto il Samsung contro il naso come avevo fatto col cannolo in albergo. Almeno questo non lo mangerà.

Lui sposta con disinvoltura la mia mano e vi chiude l’altra sopra, accarezzandola delicatamente. «Mi dispiace deluderti. Se ti arrendi adesso, resto ugualmente. Non sei obbligata a subire l’umiliazione della sconfitta. Ti risparmio.» Mi dice benevolo – sì, un cavolo – e io ritraggo la mano con un grugnito molto femminile. Femminile come quello di un rottweiler.

«Mai.»

Forza, Elettra. So che non è una questione di stato, ma non puoi farti battere da questo dannato codino biondo. Sarà quella l’origine della sua forza? Il codino? Come Sansone? Mmm, devo tagliarglielo mentre dorme.

Sto scherzando.

Appunto. Tu impazzisci per gli uomini col codino!

Chi, io? Pfffff. Solo che è un peccato, capisci. Poi lui si arrabbierebbe tanto.

Come no. Lui, eh?

Zitta, devo batterlo. Ho l’ultima occasione.

Premo per la terza volta sulla scritta Gioca! e mi concentro più che posso.

La griglia è ottima, ci sono un sacco di parole interessanti e dal punteggio altissimo. Ne cerco tutti i possibili derivati, raggiungendo in meno di un minuto i duemila punti. Oooh, guarda questa! “Disarciono”, trecentosessanta punti! GRANDE! Speriamo lui non se ne sia accorto. Cerco anche lo stesso verbo alla seconda e terza persona, aggiungendo centinaia di punti ai tremila e passa che ho già. Allo scadere del tempo, sono abbastanza certa di avere una possibilità, o almeno di aver perso con dignità.

«Ti ho stracciato, ne sono sicuro.» Dice Christian, guardandomi gongolante mentre aspettiamo il risultato. Quando il suo telefono vibra, prima del mio, lo vedo sgranare gli occhi. «Non è possibile!»

Vado a controllare e… «HO VINTO! HAAAAAA! HO VINTOOOO!» Scatto in piedi e improvviso un balletto della vittoria. Sembrerò un tronchetto della felicità, con la rigidità che mi consente l’addome in questa settimana, ma al diavolo. Ho vinto! ALLA FACCIA SUA!

«È solo perché ti ho agevolato.» Brontola Christian, scuotendo la testa incredulo mentre un minuscolo sorriso gli increspa le labbra quando mi fermo, vagamente ansimante.

«Come no. Ammetti la sconfitta e prendi e porta a casa!» Dichiaro fiera, col naso per aria. Tutta la faccenda delle telefonate anonime e il panico che aleggiava nell’aria sembrano essersi dissolti in un battito di ciglia, quando è arrivato lui.

Do una sbirciata alla finestra per controllare le auto parcheggiate, e con mia sorpresa la Hyundai non c’è più. Mhmm.

Torno a guardare Christian sul divano che si massaggia lo stomaco. «Avrei una discreta fame. A che ora mangi di solito?»

Faccio spallucce. «Quando ho fame.» Guardo l’orologio del lettore dvd, sono quasi le otto. «Non ho fatto preparare nulla ad Anne, per non farla stancare. Pensavo di ordinare una pizza.» Lo guardo interrogativa, tacendo la domanda retorica.

«Per me va bene. Conosco un ristorante qui vicino che fa anche pizze da asporto. Le vado a prendere e torno subito. Che pizza vuoi?» Quando lo vedo alzarsi e sollevare con due dita la giacca, sbarro gli occhi.

«Dove credi di andare?! Esistono i telefoni, si chiama e loro la consegnano.» Spiego, con somma ovvietà.

«Ma dovremo aspettare molto tempo, non…»

«CHRISTIAN.» Ruggisco, come il leone della MGM. Lui posa la giacca e solleva le sopracciglia con fare condiscendente.

«Sì?» Il suo sorriso impertinente mi fa sbuffare dalla rabbia.

«Ma lo fai apposta per farti pregare? AVANTI!» Esclamo, scioccata. «Credevo che avessi un po’ più di amor proprio, non che fossi costretto a elemosinare qualche supplica qui e là.» SBAM. Colpito e affondato. Finalmente un punto a mio favore!

Christian ride alzando le mani e prende il cordless dalla base per ordinare le pizze.

 

Venti minuti dopo siamo seduti sul divano, sotto una coperta leggera, con le pizze fumanti in grembo e Katherine Heigl sul maxischermo di Cooper.

No, non stiamo guardando una replica di Grey’s Anatomy.

Per tenerci compagnia – come se non avreste potuto farlo da soli!, pigola Violet – abbiamo deciso di guardare un film, tra quelli della collezione immensa di Anne.

Io volevo vedere Magic Mike, ma lui me lo ha impedito piazzandolo nello scaffale più alto, così che non ho potuto più recuperarlo.

«Se proprio ci tieni posso farti io un balletto in cravatta e perizoma.» Ha scherzato, mentre assecondava i miei piagnistei con dei buffetti sul capo. Inutile dire che l’ho fulminato, anche se la visione di lui che muoveva il bacino a un ritmo lento e sensuale mi ha destabilizzato per qualche istante.

Quando ha tirato fuori da uno dei ripiani il dvd di Fight Club, gliel’ho strappato di mano minacciando di lanciarlo dalla finestra. «Non ci pensare neanche.» Quel film mi rende mentalmente instabile.

«D’accordo, troviamo una via di mezzo.» È stato lui ad annunciare la tregua, scrutando a braccia conserte la schiera di dvd accuratamente sistemati in ordine alfabetico. Quasi maniacale.

«Che ne dici di questo?» Ho estratto da una mensola il dvd de La dura verità e l’ho sottoposto ai suoi occhi azzurri, incorniciati dalle sopracciglia che si sono contratte appena.

«Non l’ho mai visto.»

«Sul serio?! Oh, è carinissimo!» Ho trillato contenta, e senza aspettare il suo consenso mi sono avviata verso il lettore, posizionando nell’apposito cassetto il disco con l’adeguata cautela.

E così, eccoci qui a guardare Katherine, o per meglio dire Abby, andare al suo appuntamento disastroso col tizio conosciuto su internet.

«Un po’ esaurita la tizia, eh?» Christian commenta il suo sproloquio sulla “tap water” e la lista di argomenti di conversazione che tira fuori dalla borsa e io mi faccio scappare una risatina isterica, che per poco non mi fa affogare con la mozzarella della pizza.

«Primo: non commentare mentre sto masticando o bevendo.» Gli ordino. Non ho mai saputo controllare la mia epiglottide a dovere. Non è colpa mia. «Secondo: non è esaurita. È fantastica. Sono queste cose che ti fanno innamorare di una donna. Non le gambe lunghe o le tette grosse, perché quelle ce le abbiamo tutte.» Sentenzio, muovendo la fetta di pizza su e giù mentre gesticolo.

«Siamo sagge stasera, signorina Wayne.» Risponde Christian con un sorriso.

Quando arriviamo al momento di conoscere Gerard Butler, ovvero Mike Chadway, sono proprio curiosa di sapere che faccia farà Christian quando sentirà una delle “dure verità” enunciate da lui nel programma.

“Volete conquistare un uomo? Non vi servono dieci passi: ve ne basta uno! Un ricco pom…”

Quando Mike pronuncia quella parola, Christian – che stava bevendo – sputacchia e si batte un pugno sul petto per calmare la tosse.

Inevitabilmente, scoppio a ridere come una bambina. «Quanto siete prevedibili!»

Ehi, sbaglio o quello è un velo rosato sulla guancia del mio capo?

Christian sgomita contro il mio braccio e scuote la testa sorridendo. «Sta’ zitta.»

Ecco, finalmente in scena lui: Colin. Quel dio greco e abbronzato con un sorriso da urlo ma, purtroppo, la virilità di Sailor Moon. Almeno, in confronto a Butler.

Emetto un sospiro sognante quando Colin esce dalla doccia avvolto dalla classica nube di vapore e un tipico asciugamano bianco in vita.

Christian fa schioccare la lingua e alza gli occhi al cielo quando mi sente. «Avrei detto che preferivi l’altro.»

«Beh, in quanto a mascolinità Colin non ha chance, ma è risaputo che ho una certa preferenza incondizionata per i biondi.» Lo dico senza pensarci, poi mi blocco. «Cioè, non è risaputo… cioè, le mie amiche lo sapevano, ma… e comunque… lascia perdere.» Sono diventata rossa come la coperta, vero?

Accidenti.

Christian, grazie al cielo, ignora il mio delirio e torna a guardare lo schermo. Mentre passa la scena di Abby che chiama Colin per chiedergli un appuntamento, ripuliamo tutto e io vado a gettare velocemente i cartoni della pizza nella spazzatura. Porto una salvietta a Christian per pulirsi le mani e la bocca già pulita, e due minuti dopo siamo di nuovo accoccolati sotto la coperta come due fidanzati. Non ho la più pallida idea di come la mia testa sia finita sulla sua spalla – ammettilo che hai un debole per la sua spalla! – e di come il suo braccio mi stia stringendo la vita, tenendomi stretta contro di lui.

Questa non è l’Elettra che conosco. Che ti succede?

Sarà l’effetto dell’anestesia. So che genera squilibri di ogni genere, magari anche mentali?

O magari ti ha curato lo squilibrio che senz’altro avevi prima?

«Oh, no.» Christian si copre gli occhi con la mano quando Abby rovescia la bibita sul cavallo dei pantaloni di Colin e inizia a strofinarlo con un fazzoletto per mandare via la macchia. La scena è decisamente imbarazzante; sbircio l’espressione di Christian che continua a guardare tra due dita con un mezzo sorriso irridente e fastidiosamente piacevole.

Finalmente i due si baciano. Il momento è sempre dolce e anche qui, ahimè, mi ritrovo a sospirare e sorridere come una cretina. Christian si volta a guardarmi senza perdere l’aria di scherno e mi stringe per qualche secondo.

«Guardatela, la tenerona!» Gli mollo un pugno sulla pancia – pancia, sì. È proprio obeso! – e lui ride piano, scompigliandomi i capelli. Stavolta evito di crocifiggerlo per il gesto, perché si avvicina il momento della scena del ristorante. Santa me, forse è meglio allontanarmi un po’ da lui. Non vorrei percepire strani movimenti come quando ci picchiammo a casa mia.

Il ricordo si precipita nella mia mente come un mattone che cade dal quarto piano di un palazzo.

Stavolta sono io a coprire gli occhi e Christian mi guarda interrogativo. Abby si è appena seduta al tavolo e sta per dare un calcio a Mike, calcio che farà cadere dalla sua borsetta il telecomando che controlla le sue divertentissime mutandine. Oh, devo regalarne un paio a Clara. Magari riderebbe di più.

Facci un pensierino anche tu, che dici?

«Perché ti copri gli occhi?» Christian non fa in tempo a domandarlo che solleva entrambe le sopracciglia quando accade quello che avevo anticipato. «No, non ci credo.» Inizia a ridere e si calma gradualmente, con l’aumentare dei gemiti di Abby. «Beh...»

Gli assesto una gomitata. «Non. Commentare.» Sibilo perentoria.

Lui si schiarisce la gola mentre Abby dà lo strillo finale. «Wow. È un’attrice bravissima.»

Sento qualcosa pizzicarmi il fegato a quest’affermazione.

«Io sono meglio.» Borbotto crucciata.

Violet si porta le mani alla bocca in un’espressione totalmente scioccata.

Christian piega le labbra in una smorfia scettica e saccente. «Da verificare.»

Ora lo uccido.

Non parlo per il resto del film, nonostante lui mi lanci qualche occhiata dubbiosa per cercare di capire cosa mi stia passando per la testa.

Te lo dico io Christian: te nudo, una notte di passione, Giovanni, commenti invidiosi su Katherine Heigl, voglia di fragole, il tuo profumo, “chissà se ha qualche-”

VIOLET!

Alla scena finale, Christian finalmente si decide a dire qualcosa.

«Vedi? Siete tante buone a nulla! Brave solo a fingere!» Esclama, con le mani per aria. «Com’è possibile che lui stia sudando come un maiale e lei sia perfettamente intatta come una bambola di porcellana? Semplice. Ha finto.»

«NOI FINGIAMO?! Se noi fingiamo i buoni a nulla siete voi, CARO.» Ribatto accanita. Lui incassa senza battere ciglio. Qualcosa mi dice che sta per incastrarmi.

«Non mi dire che non hai mai finto un orgasmo.» Ecco, lo sapevo.

«Certo che non ho mai finto un- d'accordo, forse una volta. Due. Oh, cielo, perché ti sto raccontando queste cose? Piuttosto, tu hai avuto brutte esperienze al riguardo?» Domando angelica, alzando un dito e facendolo afflosciare davanti al suo naso.

Lui trattiene un sorriso, gli zigomi si sollevano ma la bocca è serrata.

«Se lo vuoi sapere, giochiamo al gioco del 'Non ho mai'.»

Sento che sto mettendomi in qualcosa di molto pericoloso.

«Con la vodka? Non so se ti conviene.»

«No. Non voglio doverti soccorrere di nuovo, grazie.»

«Beh, Mr Simpatia, ti ricordo che quella sera mi hai baciato.»

«Appunto. Bruttissima esperienza.»

Il botta e risposta è veloce e tagliente. Arrossisco come se una lampadina da 220 volt si fosse appena accesa sulle mie guance e mi alzo dal divano, dirigendomi in cucina. Perché mi sento come se mi avesse offeso, o quasi?

Forse perché, per una volta, è lui a scherzare nei tuoi confronti e non viceversa?

Stava scherzando, vero?

Tu hai seri problemi.

«Se non la vodka, allora cosa?» Alzo la voce per farmi sentire mentre lui mi raggiunge. Apro il frigorifero e l’occhio cade sulle fragole. Christian segue il mio sguardo e sorride.

«Cioccolato o panna?»

«Cioccolato, ovviamente. Blasfemo.» Bofonchio, tirando fuori i pochi ingredienti che mi servono per prepararlo.

«Cos’hai contro la panna?» Christian mi guarda accigliato.

Faccio una smorfia accompagnata da un brivido di disgusto. «Bleah, la odio.»

Prendo un pentolino e ci verso il latte e il cacao in polvere.

«Serve aiuto?» Domanda garbato Christian, che si sta già lavando le mani.

«Sì, mescola un po’ con la frusta per sciogliere i grumi mentre io cerco il fondente.» Gli porgo l’attrezzo che inizia ad agitare nel pentolino con l’abilità di Gordon Ramsey. Sì, certo. Gli piacerebbe.

«Non cucini spesso, vero?» Lo canzono, e lui sorride imbarazzato riprendendo a girare come meglio può la frusta, facendo sollevare di tanto in tanto sbuffi di polvere.

«Non proprio.»

Mentre cerco la tavoletta di cioccolato – sperando che ci sia – nel mobile di fronte alla cucina, lo sento canticchiare qualcosa. Non riconosco la canzone, ma è piuttosto intonato. Ecco! L’ho trovato! No, è al latte. Mhmm… possibile che non ci sia? Frugo più a fondo e finalmente lo trovo.

Torno dal piccolo cuoco e gli tiro il codino. Lui mi mette lo sgambetto e per poco non mi trovo con la testa nel latte. Mi affaccio per controllare che sta combinando e vedo che ha fatto un bel lavoro. Noto il misurino dello zucchero sporco. L’avevo riposto o sbaglio?

«Hai messo lo zucchero?»

«Sì.»

«Ma l'avevo già messo io! Perché non me l’hai detto?!» Strepito, con la bocca spalancata.

«Come facevo a sapere di dovertelo dire?!» Si giustifica lui, riversando l’irritazione nel latte.

«Tu dillo e basta!» Esclamo, grugnendo.

Christian inspira rumorosamente e lascia la frusta, spostandosi verso il ripiano dove ho poggiato la tavoletta di fondente. Poi inizia a parlare scandendo lentamente e con decisione le parole: «Adesso taglio la cioccolata e la faccio sciogliere a bagnomaria. Se mi passi gentilmente un altro pentolino.» Quando glielo porto, fa come ha detto e inizia a girare, stavolta con più padronanza. Mi guarda sfrontato mentre la mano si muove in gesti circolari e io sostengo lo sguardo con aria di sfida. Dopo una manciata di secondi, riprende a parlare. «Ora giro la cioccolata, ci inzuppo un dito e ti macchio il naso.»

«Non oseresti.» Dichiaro, stringendo gli occhi.

SPLAT.

Il gesto è talmente repentino che non ho la prontezza di schivarlo.

«AHIA, BRUCIAAAAAA!» Cerco uno strofinaccio nei dintorni e me lo passo sulla punta del naso che scotta.

Christian ride e si guarda il polpastrello, scuotendolo su e giù con aria vagamente sofferente. «È vero, accidenti!» Scoppiamo a ridere entrambi e un minuto dopo ci ritroviamo a osservarci in cagnesco, io dietro un cubetto di ghiaccio appiccicato sul naso, e lui diviso tra il lavello e i fornelli, dove con una mano gira il cioccolato e con l’altra lascia sbollire il dito sotto il getto dell’acqua fredda.

«Sei o non sei un cretino? Mi hai ustionato!» Bofonchio, nascondendo un sorriso.

«Dopo ti do un bacino sulla bua.» Mi dice, in italiano. Non so perché, ma provo un brivido piacevole a sentirlo a parlare nella mia lingua.

«Ci conto.» Dico, con una linguaccia.

No, non l’ho davvero detto.

Oh, sì.

Oh, no.

Oh, sì.

Oh, no.

Sembriamo Lumière e la Spolverina.

Cielo.

 

«Bene. Allora inizio io con un non ho mai e completo la frase. Se tu l’hai fatto, mangi una fragola. Poi tocca a te.»

«Mmm. Le affermazioni devono essere per forza attinenti con quelle precedenti?» Domando, dubbiosa.

«No, non necessariamente. Puoi anche fingere di non aver fatto una cosa e poi mangiare la fragola dopo di me.»

«Uhm, interessante.» Un grande sorriso sadico si apre sul mio viso. «D’accordo, vai.»

Christian si sistema sul divano, tirandosi le mie gambe sulle sue. Tutta questa intimità mi scombussola, ma decido di non farci caso.

«Non ho mai fatto cilecca.» Annuncia fiero, inspirando il profumo delle fragole dalla ciotola.

«Beh, posso rispondere che non ho mai fatto fare cilecca.» Replico alzando il sopracciglio. Lui mi illumina con un sorriso che mi fa attorcigliare tutti gli organi interni.

Sembra mi stia dicendo “Ci credo. Ti ho vista in lingerie, perbacco!”

Non ci pensare. No. Rimuovi questi piccoli, insignificanti particolari dalla tua mente. Come il cardigan che hai ancora sotto il cuscino – e che ti sei portata dietro anche da Anne – e la cravatta che gli hai comprato e non sai ancora quando e come regalargli.

No.

Christian deve restare un minuscolo puntino nell’universo.

«Tocca a te.» Il minuscolo puntino dagli occhi incredibilmente azzurri mi riscuote dai miei dialoghi interiori.

«Uhm, sì. Dunque…» Ci penso su. «Non ho mai avuto una relazione con un collega.»

Devo indagare.

Cioè, almeno assicurarmi che… non che stia pensando specificamente ad Alexandra, ma…

Christian, con mio grande sollievo, non allunga la mano a prendere la fragola. Scuote la testa e inizia a pensare.

«Non ho mai desiderato la donna d’altri.» Dice, cauto, e io spalanco la bocca.

«Ma dai! Questo è impossibile! Se anche solo pensiamo a Vanessa Paradis, beh, certo che ho desiderato il suo uomo! Ne mangio venti di fragole.» Christian scoppia a ridere e agguanta una fragola insieme a me per poi tuffarla nel cioccolato. «Ah, ecco. Dicevo io. Non saresti stato normale altrimenti.»

Ah, cielo, è buonissima! Mugolo di soddisfazione mentre assaporo la dolcezza genuina della fragola mischiata a quella calda e più forte del cioccolato.

«Non ho mai tradito.» Dichiaro, tornando ad appoggiarmi allo schienale. Tiro un altro sospiro di sollievo, non ha mangiato.

«Non sono mai stato tradito.» Rilancia lui, e qui, dopo un po’ di esitazione… mi tocca mangiare. Mangio un fragolone carico di cioccolato alla faccia di quel maledetto lurido infimo… okay, basta.

Christian non sembra sconvolto dalla notizia. La cosa mi fa insospettire.

Cerco di non pensarci e penso alla prossima cosa da dire. «Non ho mai fatto il bagno nuda.»

Christian si schiarisce la voce come se avesse il Sahara in gola, non so per quale motivo, e inzuppa la fragola.

«Sul serio? Quando?» Gli domando con una risata a fior di labbra. Non l’avrei mai immaginato. Christian Wayne, l’editor tutto compito e sempre in giacca e cravatta… nudo. A fare il bagno.

«I miei amici non sono quella che definirei una compagnia tranquilla, a volte.» Spiega lui, e io per la prima volta mi rendo conto che non so nulla della sua vita al di fuori dell’ufficio.

«Poi mi racconterai.» Abbiamo una settimana a Panama per farlo, no? Visto che mi hanno praticamente costretta ad andare.

«Sicuro.» Sorride lui, succhiando i residui di cioccolato da un pollice. «Vediamo… non ho mai bevuto così tanto da non ricordare nulla.»

«Bastardo.» Sibilo, e prendo un’altra fragola mentre lui ride spensierato.

«Non ho mai guardato un porno.» Tiè, mi ci gioco le tette su questa!

Vedo le sue labbra schiudersi in una smorfia di amara sconfitta e poi un’espressione di puro imbarazzo farsi strada sul suo volto. Con riluttanza, allunga la mano a prendere una fragola. «A quindici anni, forse. Non ero bello come adesso e non avevo molto successo con le ragazze.»

La sua tenera spiegazione mi fa piegare in due dalle risate. Gli prendo la guancia tra due dita e serro le labbra. «Povero, piccolo Christian rifiutato.» Tiro fuori il labbro inferiore e poi ripenso alle sue parole. «Ehi, chi ti ha detto che ora tu sia bello?»

«Tu.»

«D’accordo.» L’avevo dimenticato. È vero.

«Non ho mai fatto uno striptease.» Torniamo al gioco con la sua affermazione e io deglutisco e cerco di deviare l’attenzione sulla domanda.

«Oh, ti saresti offerto la prima volta per me?» Sbatto gli occhi da cerbiatta riferendomi alla battuta di qualche ora prima.

Lui ridacchia e alza il contenitore con le fragole. «Non mangi?»

«Beh…» Sbuffo e alzo gli occhi al cielo. «D’accordo. L’ho fatto. Ma non dirò altro.» Rispondo categorica e lui alza le mani. «Non ho mai sorpreso qualcuno a fare sesso.»

Christian inizia a ridere e prende una fragola. Senza che possa domandargli chi, risponde subito: «Tony.»

«No!»

«Sì.» Ridiamo insieme e mi faccio promettere che racconterà anche questo a Panama.

Di nuovo a lui. Sentiamo.

«Restando in tema… non ho mai fantasticato su colleghe di lavoro.»

Maledetto! Lo fulmino e decido che potrei mentire. Ma i suoi occhi sono così limpidi e puri e… e… sento che potrebbe leggermi nel pensiero e… quindi mangio. Quando lo faccio, mangia anche lui.

Cielo, fa che non sia Margot.

D’accordo, sei tarda. È chiaro. Potresti compilare il modulo per l’invalidità, può darsi che anche qui sia prevista una pensione?

«Non ho mai avuto due relazioni contemporaneamente.» Anche qui indago. Questo gioco è un ottimo modo per conoscere certi particolari che altrimenti non avresti mai il coraggio di scoprire da sola.

Christian scuote la testa. «Per chi mi hai preso? Sono un bravo ragazzo. Piuttosto, non sono mai stato operato d’urgenza con un’emorragia che ha rischiato di farmi morire dissanguato.»

«Ma lo sai che l’ho fatto!» Esclamo, confusa.

«Perché è rimasta l’ultima fragola. Pensavo la volessi tu.» Dice dolce, poi prende la fragola, ne bagna la punta con del cioccolato e la avvicina alle mie labbra con un sorriso.

Violet sta sbrodolando dall’emozione.

Chiudo le labbra sulla fragola senza distogliere lo sguardo dal suo. Ho la netta sensazione che mi bacerà da un momento all’altro. La stanza è carica di tensione e riesco a mandare giù il boccone per non so quale grazia divina. Christian avvicina il pollice alle mie labbra e ne sfiora la morbidezza. Sembra voler togliere una traccia di cioccolato, ma so che quel gesto significa molto di più.

Sto per morire.

È Adam a interrompere quel momento, tagliando l’aria con la sua voce acuta proveniente dal mio cellulare. Mi allontano da Christian all’istante, col cuore che mi batte all’impazzata.

È Anne.

«Pronto?» Rispondo, e mi accorgo di avere il fiato corto. Sono alle spalle del divano, Christian non si è voltato. È nella stessa posizione in cui l’ho lasciato, con la differenza che al posto del mio viso vicino al suo, adesso c’è la mano chiusa a pugno che strofina sulle labbra, pensoso.

«Tesoro? Come va? Tutto bene?»

«Sì, tutto bene. Voi?»

«Benone. Mi chiedevo se potessimo trattenerci ancora un po’, abbiamo dato la grande notizia e ora la madre di Cooper sta chiamando tutti i parenti per festeggiare. Assurdo. La odio quando fa così, ma tant’è. Se vuoi che torniamo, però, ce ne andiamo subito!»

«No, no. Tranquilli. Sto bene.» Non so perché non menziono la presenza di Christian. Non voglio che mia cugina si profonda in inutili gridolini e pseudo minacce/auguri o cose del genere, perciò taglio corto e torno sul divano, col passo più lento del previsto.

Christian mi sorride quando mi siedo di nuovo.

«Stanno tornando?» Mi domanda gentile. Sul viso una traccia di stanchezza, chissà da quanto è in piedi a differenza della sottoscritta che non fa altro che dormire da giorni.

Ci metto una manciata di secondi in più del previsto a scuotere la testa in segno di negazione. «Ma se vuoi, puoi andare. Sei stanco, non preoccuparti.»

«No. Di certo non ti lascio sola a mezzanotte.» Rifiuta categorico. «Però, un po’ di stanchezza la avverto. Non mi sono fermato un minuto oggi.» Si passa le mani sul viso e poi mi domanda come va con la traduzione.

«Ehm, bene. Prima delle telefonate, almeno. Ero sicura di riuscire a terminare per oggi ma… ero troppo terrorizzata dopo.» Ammetto, sentendomi un po’ sciocca e colpevole.

«Va bene così. Stai già facendo tanto. Tranquilla.» Christian mi attira a sé passandomi un braccio intorno al collo. Mi lascio poggiare al suo petto come se fosse il gesto più naturale del mondo.

Per qualche minuto, l’unico rumore che avverto nella stanza è quello della lancetta dell’orologio che scandisce il passare dei secondi.

Tic, toc. Tic, toc. Tic, toc.

«Potresti dormire qui.» La frase mi scivola inaspettatamente dalle labbra e quasi non mi accorgo di averla pronunciata ad alta voce, almeno finché lui non risponde.

«Ti ho sentita davvero o mi ero appisolato?» Chiede, con la voce roca.

«Prendere o lasciare Wayne, non so neanche come mi sia uscito dalla bocca.»

«D’accordo. Non vedo alternative valide, comunque. Faresti tornare a casa il tuo adorato redattore mezzo addormentato per le pericolose strade di Miami a quest’ora?»

«Adorato? Io non ti adoro.» Mi sollevo sulle braccia per guardarlo negli occhi e purtroppo mi accorgo che siamo più vicini di quanto pensassi.

«No?» Domanda in un soffio, gli occhi chiari come il cielo.

Lo fisso con le labbra schiuse e un nodo allo stomaco. Tutto questo mi fa troppa paura. La risposta a quella domanda mi fa paura.

«Dove preferisci dormire?»

«Mi chiedevo in quanto tempo avresti cambiato argomento. Hai superato i dieci secondi, wow.» Replica canzonatorio lui, senza traccia di delusione o simili nella voce o nell’espressione.

Quest’uomo è un santo. Un santo.

«Posso dormire anche sul divano. Riposo giusto il tempo che impiegheranno Anne e Cooper per rientrare.»

«Mhm. D’accordo.» Commento, alzandomi. Non sono propriamente soddisfatta di questa decisione. Vado in cucina a riporre ciotole e ciotoline nella lavastoviglie e poi ciabatto da lui. Si è alzato, mi sta venendo incontro.

«Non mi dai la buonanotte?» Tende le braccia, gesto che ripete spesso con me e al quale non sono più tanto indifferente. Faccio un passo verso di lui, poi mi fermo.

Fisso il pavimento, poi il divano, poi le sue scarpe, poi risalgo lentamente fino agli occhi. Lo guardo scettica, ed esalo l’ultimo respiro prima di condannarmi a morte: «Vuoi dormire con me?»

 

 

~ Note

Puff, pant, ce l’ho fatta! Sono di nuovo tra voiiiiii! (Che gioia, ammettetelo!)

Mi sono costretta a finire questo capitolo perché ve lo devo. A tutte voi meravigliose personcine che recensite e a chi legge soltanto – siete tantissimi e ogni volta che controllo le cifre di preferiti/seguite/ricordate mi emoziono come una bimbetta! -, sappiate che è solo grazie a voi che riesco a partorire i capitoli. Non ho più l’ispirazione di una volta, quella vecchia bacucca s’inceppa e mi fa sudare ogni volta. Ma per voi, questo e altro.

Allora, che ne dite? Dite che Elettra ha fatto un giro nel paese dei dolcificanti oppure no?

Lascio a voi i commenti. Pensavo che questo fosse il capitolo prima del viaggio vero e proprio, ma poi, scrivendo scrivendo, mi sono accorta che ho dovuto dividerlo O_O

Ergo, un altro po’ di pazienza. Anche perché, dopo il viaggio, ne mancano giusto un paio per concludere! Credo. Sempre che non venga colpita da diarrea verbale come in questo capitolo.

(*) Frase di proprietà di June_. Ormai tutte le ragazze del gruppo Daydreamers (di cui potete far parte chiedendo l’amicizia qui) sono ben consapevoli che qualunque cosa dicano durante gli scleri quotidiani potrà essere adoperata a mio uso e consumo per questa storia. Ragazze, vi voglio bene, e questa storia è dedicata tutta a voi, splendide creature.

Vorrei tanto lasciarvi uno spoiler ma, ahimé, non ho nemmeno una riga del prossimo capitolo! Sicuramente, però, appena avrò qualcosa, sarà reso pubblico sul gruppo!

A presto personcine bellissime,

Sara.

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici - Begin again ***


Blend




«Su, pigrona, alzati, che oggi abbiamo ospiti!»

Scollo una palpebra e muovo la pupilla fino a inquadrare la figura di Anne che sta aprendo le tende. Vuole uccidermi? Io sono invalida!

«Ospiti? Che ospiti?» Apro anche l’altro occhio e mi metto a sedere. La schiena scricchiola facendomi storcere il naso. Ho la stessa mobilità di Tutankhamon, a forza di stare sempre a letto. Menomale che domani si torna al lavoro!

Ugh.

Lavoro.

Christian.

Magari rimando ancora… non è che mi senta poi così bene…

A me pareva ti sentissi una favola ieri mattina quando ti sei svegliata col suo petto a un palmo dal naso.

«Anne? Mi rispondi?» Mia cugina mi ignora alla grande e si dilegua con un sorriso e la scusa di dover passare l’aspirapolvere.

Perché ho una bruttissima sensazione a proposito degli ospiti che ha invitato la mia cara consanguinea? Il mio sesto senso è quasi sempre infallibile, sapete.

Sì, come quando hai pensato che Christian stesse dietro a Margot.

Perché, non può essere vero?

Certo, infatti è rimasto tutta la notte abbracciato a Margot a tenerle compagnia mentre sua cugina tornava dalla casa dei suoceri, nevvero?

Tu sei un esserino diabolico e io scoprirò come sopprimerti.

«Sei ancora lì? Almeno va’ in cucina, che cambio le lenzuola.» Anne entra con panno e spruzzino e inizia a pulire le ante specchiate del mobile accanto al letto.

La fisso per qualche secondo senza guardarla veramente. Perché tutta questa efficienza alle otto del mattino? Che venga la zia Libby a trovarci? Si sa, quando vengono le mamme a casa si vuole sempre apparire come le regine del pulito. Tipo la pubblicità del Viakal, esatto.

Espiro lentamente, dal naso, mentre tasto il pavimento coi piedi alla ricerca delle pantofole. Quando raggiungo la cucina, scorgo un Cooper assonnato coi capelli sparati in almeno tre direzioni diverse che inzuppa un biscotto nel latte con sguardo vacuo.

«Ha buttato anche te giù dal letto?» Chiedo, sprofondando sulla sedia – il che mi causa un’onda d’urto a partire dall’osso sacro che va a sbattere direttamente contro la parete superiore del cranio – e lui annuisce mentre cerca di mettermi a fuoco.

«Come faccia ad essere piena di energia con una creatura in grembo è un mistero.» Commenta, grugnendo quando la metà bagnata del biscotto cade nel latte prima che possa portarla alla bocca.

«Non è neanche al secondo mese, Coop. È presto per sentirsi stanche!» A conferma di ciò, Anne passa svolazzando dal corridoio al soggiorno spolverando tutto ciò che trova nel suo passaggio.

«Chi viene a cena?» Domando a Cooper, fingendomi disinteressata. Poi cambio idea. Disinteressata un cavolo. Io sono malata e loro invitano gente, tzè!

«Rachel.» Risponde lui dopo un po’, non prima di aver lanciato un’occhiata dubbiosa alla moglie.

Rachel? Oh.

«A pranzo, non a cena: Anne vuole accendere il barbecue. Di cui mi occuperò io. Arrostendomi la faccia, naturalmente.»

«Siamo particolarmente allegri stamattina, eh?» Aggrotto la fronte, e lui sorride. Sembra isterico.

«Che vuoi, stanotte mi ha mandato in bianco con la scusa del bambino!» Esclama, e sembra un neonato a cui hanno strappato il sonaglino. Pare che possa mettersi a urlare da un momento all’altro.

Inizio a ridere e credo che non mi riprenderò più. «Te l’ha ritorto contro!» Dico fra le risate, tenendomi la pancia tra le mani. Mentre mi riprendo, mi accorgo che i punti non tirano più come prima. Si stanno riassorbendo. O stanno per cadere, o come cavolo ha detto il dottore.

«Perché non mi date una mano invece di stare lì a ridere alle mie spalle?» Sbraita Anne, armata di guanti gialli e detersivo.

Cooper e io ci scambiamo un’occhiata furtiva, quasi fossimo stati scoperti a combinare una marachella, e lentamente ci defiliamo verso le rispettive camere per vestirci e metterci in azione.

 

***

 

«Dunque, come mai quest’idea di invitare Rachel?» Domando, con la nonchalance di Horatio Caine davanti a un cadavere.

Anne smette di pelare le patate e mi guarda timorosa per un piccolo frangente, poi riprende come se nulla fosse successo. Fa spallucce. «Così. Pensavo che le facesse piacere. Ho invitato anche Thomas, così possono stare ancora un po’ insieme prima che lui parta. Non credi?»

Spiegazione del tutto logica. E allora perché ha l’espressione di un cerbiatto che ha appena visto le luci di un camion puntate sulla sua faccia mentre attraversa la strada?

«Fai parte anche tu del piano Cupido, ora?» Sorrido, mentre taglio le patate sbucciate nella classica forma a bastoncino da fast food e poi le immergo in una ciotola d’acqua fredda.

«Perché no? Tu sei stata fuori uso, tanto vale darvi una mano.» Replica lei, passando alla mia sinistra per scolare le patate precedentemente ammollate e asciugarle con un panno per togliere l’acqua in eccesso. Noi cuciniamo sano, mica come il McDonald’s.

«A che ora arrivano? Sei sicura che Thomas si troverà a suo agio qui? Dopotutto, vi conosce a malapena.» Anne si mordicchia un’unghia prima di versare l’olio nella friggitrice.

«Conosce te però, no? Puoi aprire anche l’altra anta della finestra? Altrimenti puzzeremo di frittura in eterno.» Faccio come dice e torno da lei. Pare che si tenga impegnata per non parlarmi e/o guardarmi in faccia.

Mette a riscaldare l’olio e ticchetta sul ripiano di marmo per un secondo e mezzo, poi si morde l’interno della guancia. «Sai come funziona la friggitrice, vero? Prima cottura a 150°, seconda a 190°. Dovrei finire di lavare il bagno…» Indica dietro di sé col pollice e, senza nemmeno aspettare una risposta, sparisce. Poi ricompare per un istante. «Ah, arrivano tra meno di mezz’ora.»

 

Meno di mezz’ora dopo, esco dalla stanza vestita e profumata e vado ad aprire la porta, mandata da Anne che sta sgridando Cooper sulla quantità di carbone che ha usato per accendere il barbecue.

«Ciaaaoooo!» Davanti a me, una coloratissima Rachel e un elegante Thomas, con un vassoio di dolci – suppongo – tra le mani, mi salutano gioviali. Abbraccio la prima e stringo la mano al secondo, spostandomi per farli entrare.

«Wow, che bella casa.» Commenta Thomas educato, mentre Anne appare in soggiorno per accoglierli. Sto per chiudere la porta quando Rachel mi ferma.

«Aspetta, sta venendo Christian. Siamo arrivati insieme.»

Anne diventa piccola come Pollicina e dal mio sguardo, Rachel intuisce che non ne sapevo niente.

«Oh, meraviglioso. Tutti al riparo!»

«Sei una…» Punto il dito contro Anne con una miriade di insulti sulla punta della lingua, ma mi fermo perché ci sono due orecchie non ancora formate nella sua pancia e non voglio che sentano queste cose. «Hai capito.» Sibilo, espirando lentamente. Lei mi guarda colpevole con un sorriso a fin troppi denti e si volta verso la porta quando Orione – già, è tornato all’assalto! – bussa con la mano affacciandosi timidamente.

«Prego, prego, entra! Ormai sei di casa, si può dire, giusto?» Mia cugina continua lo show improvvisando una risatina frivola.

Ah, giusto.

Lo so che non avete dimenticato e che state morendo dalla voglia di sapere cos’è successo venerdì notte nel mio letto. Tecnicamente, nel letto della camera degli ospiti di Anne.

Beh, perfettamente nulla. Cosa vi aspettavate?

Christian ha accettato l’invito a dormire con me – mi faceva pena, poverino, su quel divano – e i miei cugini sono stati talmente gentili da farlo restare per tutta la notte. Ovviamente in quel momento mi sono amaramente pentita di averlo invitato nel mio letto, ma ero stanca e non ci ho badato più di tanto. Nemmeno quando si è fatto prestare un paio di pantaloncini e una canottiera da Cooper e si è infilato sotto le coperte e sembravamo marito e moglie.

Cielo.

Vogliamo parlare di cosa ti è VERAMENTE passato per la testa in quel momento?

Cosa? No, non interessa a nessuno. Il succo della cosa, comunque, è che poi è andato via alle sette scrollandosi qualcosa di dosso – me, completamente e convulsamente appollaiata sul suo braccio – e dandomi un bacio sulla fronte mentre io mugugnavo qualcosa sulla sua maleducazione ad andare via a quell’ora.

E dunque, non l’ho più sentito da quel bacio. Sulla fronte, sempre, s’intende.

«Ciao.» Dopo aver salutato Anne, che ha voluto immediatamente far fare il giro della casa ai piccioncini, mi ritrovo – di nuovo – sulla soglia della porta con Christian Wayne e il suo profumo che inizia a riempire l’aria. Si attacca agli atomi fluttuanti e ci resta per ORE. E non scherzo!

Chiudo la porta e torno a guardarlo. «Ciao. Non sapevo venissi anche tu.»

Direttamente da “Cortesie per gli ospiti”, proprio.

Christian sembra interdetto – mi pare ovvio, cretina! – e allunga lo sguardo oltre le mie spalle per cercare aiuto. Deve aver individuato Cooper in terrazza, perché fa un cenno di saluto nella sua direzione, poi sposta lo sguardo su di me.

Espira con le labbra serrate, l’espressione da interdetta a rassegnata. «Anch’io sono felice di vederti, Elettra.» Mi dà una specie di pacca amichevole sulla spalla e sparisce alla volta della cucina con una busta della spesa in mano che noto solo ora.

Resto a fissare la porta e l’aria vuota davanti a me e per un istante mi viene da piangere.

Quando mi giro, vedo che Rachel mi sta fissando con uno sguardo di disapprovazione.

«Che c’è?» Chiedo, stizzita.

«Potresti essere meno… te, per una volta nella vita?!» Alza le braccia e aspetta una risposta. Mando giù un improvviso groppo che mi si è formato in gola e mi rendo conto di odiarmi quando faccio così. Lo sguardo speranzoso e allegro di Christian si è spento, quando l’ho accolto con quella frase. Non era necessario dirgli quella cosa. No.

Soprattutto dopo tutto quello che ha fatto per te, direi, commenta Violet nella mia testa e per una volta non trovo nulla da ribattere.

Quando noi donne combiniamo un guaio, la prima cosa che ci viene in mente è… cercare di ripararlo? No, certo che no. Dopotutto, abbiamo avuto senz’altro un buon motivo per combinarlo. Piuttosto, proviamo a sondare il terreno, per capire quanto grande sia il buco nero che abbiamo generato.

È per questo motivo che mi dirigo in terrazza, dove Cooper e Christian mi danno le spalle e sembrano concentrati a disquisire di carne. Mi avvicino furtivamente.

«Caspita, hai svaligiato una macelleria?» Ridacchio, vedendo la quantità decisamente abbondante di carne che Christian ha tirato fuori dal suo sacco della spesa. Sul tavolo vedo due bottiglie di Chianti che prima non c’erano. Ha portato di tutto!

Guardo Orione in attesa di una risposta ma lui sembra non avermi sentito. Sta parlando di costolette con Cooper e sembra piuttosto assorto. Finisce di svuotare il sacco sul ripiano accanto alla griglia, poi piega il sacco di cartone con cura e cerca con gli occhi un posto dove poggiarlo.

«Dai a me, lo ripongo io…» Mi offro, allungando la mano davanti a lui.

«Sì.» Risponde secco, mollandomi il sacco senza degnarmi neanche di uno sguardo. «Penso che dovremmo cuocere prima le salsicce…» Continua a dire a Cooper. Entro in cucina come un fantasma e apro l’anta del mobile dove Anne tiene i sacchi della spesa. Osservo Christian togliersi la camicia azzurra e restare in t-shirt bianca. Dio, quei muscoli. Hanno già acceso la brace? No? Ah, era una vampata?

Lo scollo a V gli scopre parte del torace, dove indugio con lo sguardo prima di essere colta in flagrante da Anne. Mia cugina mi infila due dita nei fianchi facendomi sobbalzare.

«Esci o no? Portiamo gli antipasti fuori, dai.»

«Sì, sì. Certo.» Borbotto e l’aiuto insieme a Rachel. Thomas, intanto, ha imitato Christian liberandosi del cardigan leggero e restando in camicia.

«Mi aiuti ad arrotolare le maniche?» Chiede a Rachel, sorridendole timido. Lei diventa rosso Thomas e lo fa aumentando di gradazione a ogni risvolto. Lui la guarda tenero mentre lei cerca di fare il lavoro più accurato possibile. Vedo che anche Christian li osserva con un sorriso negli occhi; prima di tornare a guardare la griglia incrocia i miei e io sorrido incoraggiante, ma lui sposta lo sguardo su Cooper senza ricambiare.

Sì, è arrabbiato.

La risposta è... ESATTA! Hai vinto un orsacchiotto. O meglio, un orsacchiottone indiavolato.

Esco di nuovo in terrazza nascondendomi dietro le bottiglie d’acqua e coca-cola, ma il camuffamento è inutile dal momento che i tre uomini sono sempre rivolti dalla parte opposta. D’accordo. Tanto Christian finisce sempre per sedersi accanto a me, quindi parleremo a tavola e scoprirò che è tutto a posto e mi sono semplicemente impressionata. Sì. Andrà così.

«Come ci sistemiamo?» Domanda, per l’appunto, Thomas, quando Anne invita tutti ad accomodarsi.

«Chi si siede a capotavola?» Cooper indica il posto e io, nella totale convinzione che ci si sarebbe messo lui, non posso far altro che assistere sgomenta al movimento quasi impercettibile della mano di Christian che si solleva e indica chiaramente che quel posto sarà suo. Anne sbatte le palpebre manifestando la sua sorpresa e prova a dissuaderlo: «Ma no, si siede Cooper lì…» Mi lancia un’occhiata preoccupata e al tempo stesso confusa, che scema nella delusione quando Christian rifiuta gentilmente e prende definitivamente posto.

«Cooper può sedersi qui, così continuiamo quella conversazione…?» Indica il posto alla sua sinistra e mio cugino annuisce e si siede obbediente.

Anne guarda il posto alla destra di Christian come Scrat può guardare la sua amata ghianda.

«Io mi siedo qui allora, tra uomini…» Ridacchia ingenuamente Thomas, adocchiando la stessa sedia che stava avidamente guardando mia cugina. Prego in aramaico che non prova a opporsi anche stavolta. Fortunatamente non lo fa, ma si limita a lasciarsi cadere sulla sedia accanto a suo marito. Rachel fa lo stesso dall’altro lato; quando si siede, Thomas le mette un braccio intorno alle spalle e la stringe dolcemente per qualche istante.

Dunque, a me tocca il posto all’altro capo del tavolo. Beh, se non altro, ce l’ho di fronte. Se Anne avesse avuto un tavolo da otto posti, mi sarei dovuta sedere accanto a lei (perché Rachel oggi mi odia) e avrei dovuto mangiare praticamente spalmata sul tavolo per avere un minimo di contatto visivo o conversazione con qualcuno. Almeno, così, li vedo tutti.

Bene.

Iniziamo a mangiare con un ‘buon appetito’ generale e io ripeto esattamente la scena della festa di fidanzamento di Nancy: mi tuffo sul cibo per riempirmi la bocca. Ascolto educatamente Anne e Rachel parlare di ecografie e di possibili nomi, e ogni tanto intervengo commentando questo o quello.

«E se fosse maschio? Che nomi vi piacciono?» Domanda Rachel, addentando il suo crostino. «Mmm, è buoniffimo!» Commenta con la bocca piena alzandolo in segno di omaggio a mia cugina.

Anne sorride e poi riflette sulla domanda. «Beh… se proprio devo dirlo, il mio nome maschile preferito è sempre stato Christian…»

«HA.» Faccio una risata finta e breve quanto un battito di mani, carica di sarcasmo e di isterismo dovuto alla situazione. Rachel guarda sommessamente il suo piatto e Anne accenna un timido sorriso. Ehi, perché sono tutti in silenzio?

Guardo davanti a me e vedo che Christian ha seguito il botta e risposta. O botta e “suono gutturale indistinto simile al colpo di tosse di una iena”.

Se fossi in te mi scuserei gentilmente e mi andrei a cuocere la faccia sulla griglia.

Cooper e Thomas non si sono accorti di nulla, ma quando percepiscono il silenzio si interrompono e per qualche secondo ci guardiamo tutti in maniera piuttosto confusa.

«Che è successo?» Domanda Cooper, cadendo dalle nuvole.

«Niente.» È Christian a rispondere, guardandomi dritto negli occhi. È tornato il suo sguardo indecifrabile. Oh, santa me. Non ne faccio una giusta oggi, ho capito! «Dicevi, di quella serie?» Si rivolge a Thomas e la conversazione riprende così come si era interrotta.

Riesco a trovare un po’ di pace quando Christian si alza per rispondere ad una telefonata di lavoro. Dato che si dirige verso la casa, intuisco che ci metterà un po’ di tempo, perciò decido di alzarmi e in uno scatto fulmineo finisco per appollaiarmi sulla sua sedia, sorridendo a Cooper. Mi sento estraniata laggiù, oh.

Il mio caro cugino acquisito distoglie lo sguardo da sua moglie e, parlando mentre maciulla un peperone, mi dà di gomito.

«Sai, è proprio arrabbiatissimo.» Cogliendo la mia espressione confusa si accinge ad aggiungere dettagli. «Christian. Con te.»

Sbuffo, pentendomi immediatamente del cambio di posto. Ora me ne torno dall’altro lato a infilzarmi con i bastoncini degli spiedini.

«Oh, per favore, non ti ci mettere anche tu! Anne ti ha fatto il lavaggio del cervello?» Me la immagino di notte che gli sussurra frasi ambigue su me e Christian, in loop, per lobotomizzarlo psicologicamente e costringerlo ad adempiere la sua volontà.

«No, io sono un futuro papà e vedo dove c'è l'amore. Lo fiuto. Lo sento con ogni fibra del mio essere.» Solleva le mani in piena pratica mantra e poi torna a guardarmi. «Io SO.»

Alzo un sopracciglio e mi inclino leggermente all’indietro, scansando gli ultrasuoni di demenza che sta emettendo in questo momento. «Credevo fossi un avvocato, non un sensitivo del cavolo.»

Cooper ride. «Dev’essere un nuovo superpotere del mio status.»

«Comunque, potrebbe essere arrabbiato per i cavoli suoi. Che c'entro io?»

Coop mi lancia un’occhiata molto eloquente, poi sospira. Per finta. «Okay, hai ragione. Magari è nervoso per lavoro. Guadagnati una promozione e vai a sentire cos’è successo.» Indica la casa con un cenno del capo e io inorridisco.

«Non mi avvicino neanche morta. Quello mi sbrana.»

«Allora tu c'entri qualcosa...» Agitando una salsiccia davanti alla mia faccia scrutandomi con occhio critico. «Sputa il rospo.»

«Io... No. Cioè, d’accordo, potrei non averlo accolto come si aspettava. Ma che vuole, che gli faccia la festa ogni volta che lo vedo? E poi ormai dovrebbe conoscermi.» Incrocio le braccia al petto e grugnisco.

Cooper mastica lentamente, con aria pensosa. Scommetto che ora mi darà una risposta arguta da avvocato, di quelle che ti fanno vincere le cause. O perdere, nel mio caso.

«Quindi lui è arrabbiato per come lo hai accolto. Si aspettava un trattamento diverso dal saluto – spero tu l'abbia salutato almeno – e questo significa che è successo qualcosa che pensava avrebbe influito sul tuo caratteraccio…» Prende un respiro e sento che avevo ragione. Quasi quasi mi piaceva di più come sensitivo. «Anche io ti conosco e direi che possono essere successe due o tre cose al massimo per influenzarti nei saluti, di cui UNA ed UNA soltanto che causerebbe la tua ira dopo. Dunque… CHE AVETE FATTO?»

Sbarro gli occhi e la mia mascella cade al suolo. NO, NO, NO! È arrivato alla conclusione sbagliata! Mentre penso a come formulare una risposta non fraintendibile, lui si volta di scatto verso Anne e parte in quarta: «Anne, non puoi portare i piatti nelle tue condizioni!» Mia cugina lo guarda come se gli fosse partito qualche neurone. «Ti aiuto, andiamo.» E così, mi lascia a fissare la mezza salsiccia ancora infilzata nella forchetta.

Ironia della sorte… l’oggetto delle nostre confabulazioni decide di tornare proprio in quel momento. Notando che la sua sedia è occupata – già, proprio e ancora dalla sottoscritta – prende posto su quella di Cooper.

Oh salve Chris, ci sei anche tu a questo tavolo!

Si guarda intorno per un istante e poi, vedendo che Rachel e Tom sembrano impegnati in una conversazione piuttosto intima, sposta lo sguardo sul cellulare.

Il tuo fegato sta friggendo come un wurstel sulla piastra.

Potrei chiedergli di passarmi il sale.

Peccato che non tu non stia mangiando. E che, oltretutto, sia seduta al posto sbagliato.

E lui non mi ha detto nulla al riguardo. È troppo impegnato a far cosa, poi? Giocare a Candy Crush Saga?

Christian Wayne non potrebbe mai giocare a Candy Crush Saga.

E allora perché non butta quel dannato telefono?

Hai mai sentito parlare di “evitare qualcuno usando qualsiasi cosa si abbia tra le mani”?

Grrr.

«Sai che è maleducazione guardare il cellulare quando sei in compagnia?» Giuro, non avevo pensato di dirla così.

Christian alza lentamente lo sguardo dallo schermo del suo smartphone e mi rivolge un’occhiata raggelante.

«Sai che è maleducazione rivolgere la parola a qualcuno solo per fargli notare che è maleducato?»

Rispondo dapprima guardandolo in cagnesco ed espirando come se potesse uscirmi del fumo dalle narici da un momento all’altro.

«Sei tu che non mi rivolgi la parola, mica io.»

Christian stira le labbra in un sorriso decisamente forzato. «Forse invece di stare a puntualizzare sulla mia educazione potresti chiederti perché!»

Faccio roteare gli occhi esasperata e gonfio le guance. «Dovevo farti le fusa?! Scusa tanto se non sono un persiano! Sei stato abituato male con Alexandra che scodinzola ogni volta che ti vede!» Ho pronunciato il nome di Alexandra come se fosse veleno e credo anche di aver leggermente sputacchiato.

«I gatti non scodinzolano, quelli sono i cani.»

Sto per tirare fuori il mio bazooka di riserva dal reggiseno e stavolta prenderò accuratamente la mira.

«Capisci il senso, idiota! Erano due paragoni diversi!»

«Idiota. Hai anche il coraggio di darmi dell'idiota? Tu. Quella che ha ballato la lap dance da ubriaca in un locale malfamato! Tu. Tu dai dell'idiota a me?!»

«Beh, almeno tu sei sobrio ora!»

«Certo che sono sobrio. Non sono abituato ad ubriacarmi, io...»

«Ci mancherebbe, già deliri da lucido!»

«Io starei delirando? Ovvio, come al solito la perfetta Elettra Wayne non ha fatto niente per darmi sui nervi. Io mi chiedo cosa diavolo ho fatto per meritar...» Si blocca di colpo quando, nella foga del discorso che sta prendendo decisamente una brutta piega, si volta e vede Anne che lo osserva rapita. «Che c'è?» Domanda, accigliato.

Mia cugina agita la mano come a liquidare la faccenda. «Oh, nulla, continuate pure! Può darsi che arriverete finalmente a baciarvi, come nei litigi dei film!» Batte le mani eccitata e guarda Cooper che sbatte lentamente le palpebre e deglutisce vistosamente.

«Oh, ehm, non farci caso. È incinta...» Dice rivolto a Christian e gira l’indice accanto alla tempia, tipico gesto di chi indica la perdita di una qualche rotella.

Anne intercetta il movimento e spalanca la bocca. «CARO, se c'è uno svitato fra me e te perché IO sono incinta, sei tu!»

«Oh buon Dio, non iniziate a discutere! Voi siete innamorati e gli innamorati non discutono.» Dichiaro, perentoria.

Cooper prende un gran respiro e assume di nuovo l’espressione dell’illuminato. «Invece sì, Elettra. E la parte più bella è fare pace.» Rivolge un sorriso smagliante a me e Christian con tanto di sopracciglia sollevate a mo’ di incoraggiamento.

«Cosa avete messo nella carne? State delirando tutti e quattro. Beh, a dire il vero tutti e cinque, perché Thomas mi ha appena chiesto di venire a Panama con voi!» Rachel torna tra noi con il volto che sprizza gioia da tutti i pori e finalmente fa rilassare un po’ l’atmosfera. Non che fosse tesa, capiamoci. Almeno, non in senso cattivo. È solo che c’è sempre una strana tensione quando sono con Christian. No, Violet, non intervenire, ti censuro in partenza.

«A Panama?! Sul serio?!» Mi porto una mano alla bocca e guardo Thomas riconoscente. Una faccia amica! Almeno non sarò sola con quello svitato di Tony e quella sciagurata di Lily.

E Christian, sì, già.

Che mi odia, sì, già.

Non era questo che volevi, Elettra?

«Mi accompagneresti in bagno?» Rachel si alza e mi trascina via dai commensali e dalla mia voce interiore che parla sempre a sproposito. È talmente emozionata che ha dimenticato di avercela anche lei con me.

«Cosa vuol dire secondo te?» Mi chiede, confusa e agitata, una volta entrate in bagno. «Gli piaccio davvero? Vuole andare oltre? Oddio, cioè, siamo usciti solo tre volte e... invitarmi a venire con voi... io...»

La interrompo bloccandole le mani che agita convulsamente e la guardo divertita.

«Rach. È un viaggio a cui avrei potuto invitarti anche io. Non è nulla di eccessivamente impegnativo se non vuoi che lo diventi. E comunque, come direbbe mia sorella, dopo il terzo appuntamento di solito si passa al... livello successivo. Magari Thomas voleva una location più esotica.» Scoppio a ridere e lei diventa paonazza. Quando si ricompone, facendosi aria con la scatola di strisce depilatorie che ha trovato nell’armadietto, mi guarda minacciosa.

«Verrò solo se fai pace con l’orsacchiottone.»

«Cosa?!» No, no, non mi piace questa conversazione. «Perderesti la possibilità di passare intere giornate con Thomas per colpa di un presunto litigio tra me e quel decerebrato?!» Starà sicuramente scherzando.

Rachel fa spallucce. «Non ho ancora dato una risposta a Thomas, quindi...» Si guarda distrattamente le unghie, l’aria altezzosa.

«Ma non badare a Christian! Quando gli passerà la sindrome premestruale tornerà come prima!»

«A me non sembra proprio.» Va bene, è decisa su questa linea.

«Cosa dovrei fare, sentiamo? Prostrarmi al suo cospetto e baciargli i piedi?» E magari fargli aria con un ramo di palma. Ma per favore!

«Beh, baciarlo potrebbe essere un’idea...»

«Assolutamente non contemplata, era questo che stavi per dire?» La guardo torva. Il solo pensiero di baciarlo mi agita tutti gli organi interni.

Rachel riflette battendosi un dito sulle labbra. «D’accordo, faremo finta che aspetti anche tu una location migliore per quello.» Mima il segno delle virgolette con le dita, facendomi il verso. «Però adesso potresti approfittare del momento in cui Anne e io prepareremo le coppette col gelato e la macedonia e Cooper e Thomas saranno impegnati a smontare il barbecue per parlargli. Scusarti. Fai qualcosa, per l’amor del cielo! Cerca di rimediare in qualche modo. Intese?» Punta i suoi occhi con due dita e poi le sposta verso i miei. «Ti tengo d’occhio.»

Alzo le braccia e mi arrendo. «E va bene. Ti odio.»

Il fatidico momento non tarda ad arrivare. Anzi, arriva troppo presto e io non ho ancora pensato a cosa dirgli.

Rachel prende quasi di peso Anne per portarla in cucina, scoccandomi un’occhiata di incoraggiamento/minaccia. Cerco di trattenere uno sbuffo e, prima che Christian possa alzarsi per aiutare i due uomini, gli afferro delicatamente un braccio per attirare la sua attenzione. Si volta, quell’azzurro guarda proprio me.

«Ehm...» Deglutisco a vuoto e faccio uno sforzo immane per ripescare la lingua che s’era nascosta chissà dove. Riesco perfino ad accennare un sorriso simile a una smorfia spastica. «Possiamo parlare un attimo?»

Ci spostiamo sulla parte più lontana del terrazzo, su un grande dondolo al riparo dal sole e da orecchie indiscrete. Quando ci sediamo, mi pento di averlo invitato a parlare. Non ho la minima idea di cosa dirgli e lui mi sta guardando con quegli occhi che... non lo so, davvero.

Mi sta passando tutta la vita davanti.

Fossi in te mi soffermerei sugli ultimi mesi e ci farei un pensierino sul baciargli i piedi.

Christian sospira, torna a fissare il pavimento e, con mio sommo sgomento tira fuori il cellulare dalla tasca.

«Sul serio?! Di nuovo?!» Esclamo scioccata.

Lui blocca lo schermo e mi sorride. «Oh, allora parli...»

«Può sembrarti facile.» Bofonchio, infastidita.

Christian si stringe nelle spalle. «Solitamente lo è. Pensi una cosa, prendi fiato e lasci che le parole ti escano di bocca...»

Colgo la palla al balzo e annuisco timidamente. «Beh, a volte escono quelle sbagliate...»

«Oh, tipo “non sapevo venissi anche tu” invece di “oddio, che bello, ci sei anche tu, non vedevo l'ora di rivederti”?» Fa un gran sorriso pieno di entusiasmo nel pronunciare la frase e io gli do un mezzo spintone.

«Sì, vabbè, come no! La prossima volta ti salto addosso, che dici?!»

«Con comodo.» Dice, sornione, aprendo le braccia e indicandosi. Poi intercetta il mio sguardo e alza le mani. «No, okay, scherzavo. Non uccidermi.»

«Flirti così spudoratamente con tutte o sono fortunata?» Mi informo, sbattendo le ciglia in modo amabile.

«Con te è più divertente.» Replica lui con un sorriso malizioso.

«Ah. Okay. Bene.» Incrocio braccia e gambe e cerco di restare impassibilmente indifferente. O indifferentemente impassibile.

«Mmm... gambe e braccia incrociate: segno di chiusura totale.» Riflette Christian squadrandomi.

«Che c’è, adesso sei diventato Freud?» Tutti psicologi al giorno d’oggi!

«No, se fossi Freud parlerei di sesso. E anche lì avrei molto da dire.»

Lo guardo incredula ma non riesco a trattenere un sorriso. «Credevo di star parlando con Christian, non con Tony.»

Lui ridacchia, poi si fa serio. «D’accordo, ti ascolto.»

«No, adesso non mi va più di chiederti scusa.» Mormoro, alzando piano piano lo sguardo per osservare la sua reazione.

«Se ripeti la parolina magica e poi scappi via come al solito va bene lo stesso. Non mi aspetto un sermone di due ore.»

«Intendi “per favore”? Quella parolina magica?» Sbatto innocentemente gli occhi e lui per risposta li alza al cielo.

«Sei peggio di una bambina di tre anni.»

«È sempre buono per una donna dimostrare meno anni di quanti ne abbia in realtà, no?» Lo sfido con un sorriso interiore gigantesco.

Christian ne accenna uno e si avvicina lentamente col viso, la mano destra va ad accarezzarmi la pelle della guancia e due secondi dopo... mi stringe le guance tra le dita muovendomi la faccia a destra e sinistra.

«Chiedimi scusa o continuerò a torturarti la faccia come faceva mia sorella con me quando ero piccolo!»

«EHII!» Provo a dire con le labbra strette in modo ridicolo, cercando di staccare le mani che sembrano ancorate alla mia faccia come i tentacoli di una piovra. Per un istante immagino Christian coi capelli e la pancia di Ursula e mi viene da ridere.

«Lossciomi!» Quello doveva essere un ‘lasciami’, ma sono stata privata dell’uso della bocca da questo immenso demente che ho di fronte. Allungo la mano a tirargli i capelli e lui me la blocca senza il minimo sforzo. I muscoli sotto la maglia bianca guizzano deconcentrandomi parecchio.

«Una parolina e sei libera.» Sussurra, tanto serafico ed etereo che mi viene voglia di rovesciargli un secchio di vernice in testa.

«Voffonculo ti vo bone?!» Rispondo, tentando un sorriso idiota.

Christian contiene una risata e scuote la testa. «No, non vo bone.» Sono tentata di sbuffare ma temo che gli farei la doccia. Quasi quasi questo mi tenta ancora di più. «Su, piccola Lemon, ce la puoi fare!»

«Lemon? Perché Lemon, scusa?» Domando, accigliata.

Perché sei acida.

Christian sembra colto alla sprovvista e distoglie lo sguardo dal mio. «Ovviamente per i tuoi… ehm…»

Sbalzi d’umore degni di una vedova allampanata che è appena andata in menopausa?

«…capelli? Sono diventati più biondi ultimamente.»

Sorrido interiormente al suo tentativo di non spiattellare tutta la verità come invece sta allegramente facendo la mia vocina interiore, e gli intimo di lasciarmi una volta per tutte.

Lui sembra valutare la cosa, poi accenna una smorfia dubbiosa. «No, mi piace vederti con le labbra protese verso di me.» Sento però che allenta leggermente la presa, permettendomi almeno di parlare senza sembrare diversamente scema.

Sono seriamente tentata di farti la doccia, Christian. No, non come credi tu.

«Eddai.» Piagnucolo. «Ho anche detto “scusa”. In “Perché Lemon, scusa?”» Azzardo un altro sorriso angelico e il mio carceriere alza gli occhi al cielo, per poi finalmente mollare l’osso. Mi massaggio le guance che sembrano essere rientrate di cinque centimetri ed emetto un sospiro di sollievo.

«Domani allora torni in ufficio? Ce la fai?» Chiede apprensivo lanciando uno sguardo veloce al mio addome.

«Certo, sto molto meglio. Il mio osso sacro non vuole vedere più il materasso se non per la notte.» Faccio una smorfia di dolore al solo pensiero di quello che mi ha fatto patire durante la convalescenza.

«Non affaticarti inutilmente, comunque. Non puoi permetterti di trattenerci al tuo capezzale, a Panama.» Mi fa l’occhiolino e io faccio schioccare la lingua.

«Nessuno ve lo chiederebbe, in ogni caso. Così come nessuno te l’ha chiesto in ospedale.» Aggiungo, per poi mordermi la lingua quando vedo la sua espressione. Simulo due colpetti di tosse e, nel mezzo, mormoro: «Però mi ha fatto piacere, grazie.» La sua espressione torna serena anche se non del tutto soddisfatta.

«D’accordo, Lem. Accetto le tue pseudo scuse, ora possiamo tornare dagli altri.» Prima che possa replicare si alza e io gli corro dietro col dito puntato.

«Smettila di chiamarmi così!» Ordino, ma lui non sembra ascoltarmi.

«Preferisci Lemmy?» Rilancia, abbagliandomi con un sorriso. No, caro. Quello potrà funzionare con Alexandra, ma con me…

«Ele! Lo vuoi il gelato o no?» Rachel mi fa un cenno e io annuisco.

«Sì, sì, arrivo.» Esclamo, e rimando il dibattito sul mio nomignolo nuovo di zecca a un momento più opportuno.

 

«Grazie della splendida compagnia. Thomas, è stato un piacere conoscerti meglio. Senza rugby di mezzo.» Sta dicendo Anne a Rachel e al suo nuovo-quasi-boyfriend-wannabe.

«Oh, il piacere è stato mio.» Ridacchia lui. «Prometto di non parlarne più in tua presenza. Pare che le donne in stato interessante siano inclini alla violenza brutale.» Ridiamo tutti e ne approfitto per stritolare Rachel e abbracciare Thomas.

«Ci vediamo domani.» Mi strizza l’occhio e cede il posto a Christian.

«Grazie anche a te. Non c’è bisogno che ti dica quanto ti-»

«No, non c’è bisogno.» Diciamo in contemporanea io e Cooper, bloccando la frase sul nascere. Anne diventa color porpora e si nasconde dietro a un sorriso a trentadue denti.

Christian sogghigna e saluta affettuosamente la coppia, accordandosi con Cooper per “quella partita”. Quale partita? Cooper pratica qualche sport?

Prima che possa scavare a ritroso nella mia mente alla ricerca di qualche indizio al riguardo, Christian mi posa una mano sul braccio. Ci guardiamo senza dire nulla, né un ‘ciao’, né un ‘a domani’. È come se ci fossimo già detti tutto prima, tra un mezzo insulto e l’altro. Il mio cuore fa un capitombolo quando si china velocemente per baciarmi una guancia e contemporaneamente stringe di più la presa sul braccio. La mia mano corre automaticamente sulla sua, carezzandone leggermente il dorso prima di lasciarlo andare.

Quando Anne chiude la porta, mi accorgo di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo.

 

**********

 

«BENTORNATA!»

È un coro unanime ed allegro quello che mi accoglie nella reception della Macmillan Publishers alle nove in punto del mattino seguente.

All’appello ci sono proprio tutti, tranne il grande capo e… il “piccolo” capo. Cerco con lo sguardo il suo codino biondo con l’insana, irrisoria e totalmente fuori luogo speranza di trovarlo in corridoio, ma resto delusa.

«Mi stavate spiando o siete appostati qui dalle otto? Non è una valida scusa per non lavorare, sapete.» Rido per nascondere un po’ del mio imbarazzo nel vedere tutte queste persone che mi sorridono e vengono ad abbracciarmi con affettuosa veemenza. Mi fa sentire… strana.

Quando tocca a Tony, aggrotto le sopracciglia notando il sorriso idiota e un tantino maligno che gli curva le labbra. Qualcosa mi dice che ha combinato un guaio dei suoi, o sta pensando di farlo.

«Hai salutato tutti?» Mi chiede, sciogliendo il nostro abbraccio.

Annuisco. «Sì, sì.» Confermo, guardando i nostri colleghi tornare pian piano alle rispettive postazioni.

«Allora vieni con me.» Non faccio in tempo a chiedergli spiegazioni che vengo trascinata nello studio di Christian. Pare che alla gente piaccia proprio trascinarmi nei luoghi meno opportuni!

Quando chiude la porta alle nostre spalle, non posso credere ai miei occhi. Nel bel mezzo della stanza c’è un lettino che ha l’aria di essere del tipo ospedaliero e Christian con un camice bianco addosso e un’espressione del tutto rassegnata. “Non è colpa mia”, sembra urlare da ogni poro della sua pelle.

Guardo Tony per un istante prima di snocciolare tutte le imprecazioni possibili e immaginabili ma lui sfodera un amabile sorriso – sì, amabile un corno! – e mi spinge verso il lettino.

«Ora voi due giocate al dottore.»

SANTO CIELO!

Mi sveglio di soprassalto, tutta sudata, e sgrano gli occhi verso il soffitto riacquistando tranquillità man mano che realizzo che era soltanto un sogno.

Devo smetterla di guardare le repliche di Grey’s Anatomy.

Perché, vuoi dire che non avresti gradito l’idea?

Certo che no. Come puoi solo pensare di pensare una cosa del genere?

Tu non hai idea di quello che ti aspetta in vacanza, vero?

Ehm.

Speaking of, devo ancora fare una lista di cose da portare, anche se so che chiuderò la valigia esattamente dodici ore prima di partire. Come sempre. Mai una volta che non procrastini, io. E devo anche andare a trovare la zia Libby, se non voglio rischiare il linciaggio estremo e l’esclusione da ogni testamento della mia famiglia.

La lista magari la faccio stamattina al lavoro, se non devo stare dietro a Christian. Ti prego, ti prego, Dio, no. Voglio stare da sola nel mio ufficio a compilare la mia lista chilometrica e più dettagliata del protocollo di sicurezza della Casa Bianca e a cercare info su Panama – e/o vie di fuga nel caso in cui Tony voglia coinvolgermi in qualche attività discutibile, ma acqua in bocca.

Il pensiero di Tony e le sue idee strambe mi accompagna in ufficio, con un leggero batticuore e un oscuro presentimento dovuto anche al sogno di questa mattina.

Quando varco la soglia della mia amata casa editrice, però, vengo accolta dal silenzio. Le luci sono spente, fatta eccezione per quelle di emergenza, che illuminano discretamente l’ambiente. Resto immobile al centro della reception in attesa che il mio cervello decida il da farsi.

«Ehilà?» Domando, incerta. «C’è nessuno?»

Dopo aver ricevuto in risposta semplicemente l’eco di quello che ho appena detto, mi avvio lentamente verso il corridoio che porta al mio ufficio. Sbircio in quello di Christian ma è tutto buio e non vedo nulla.

Il rumore della fotocopiatrice mi fa sobbalzare. Sta arrivando un fax.

«Che paura...» Mi porto una mano al petto e proseguo verso la mia stanza. Da quel che riesco a vedere è vuota, come l’ho lasciata. O forse no, perché non ero propriamente lucida quando l’ho lasciata. In ogni caso non c’è traccia di Lily.

Che abbiano anticipato le ferie? Perché non mi hanno avvertito? E perché l’ufficio era aperto? Forse c’è solo Martin, di sopra?

Mentre mi pongo tutte queste domande, mi infilo nell’ascensore e attendo sommessamente che mi porti al piano di sopra. Quando le porte si aprono, lo scenario si ripete: tutto buio, qualche raggio di sole filtra dalle tende illuminando la scrivania di Nancy. Strano, non sembra la scrivania di una che è andata in ferie. No, non è possibile...

Nel momento in cui faccio un passo davanti alla sala riunioni, il mio cuore rischia di balzarmi fuori dal petto verso l’infinito e oltre, quando scorgo delle ombre e subito dopo, neanche il tempo di realizzare, un “SORPRESA!” mi esplode nei timpani terrorizzandomi dalla paura.

«AAAAAAAAAAAHHH!» Grido, sopraffatta dalle luci e i palloncini e i coriandoli e tutto lo staff della MP che sorride e saltella allegramente per la stanza trascinandomi al suo interno.

Quando riapro gli occhi, oltre a tutti i colori coi quali è addobbata a festa la nostra seria e austera sala riunioni, vedo sul lungo tavolo sette torte di medie dimensioni, ognuna con una lettera del mio nome disegnata sopra con qualcosa di sicuramente commestibile e dall’aspetto veramente invitante.

«Non sapevamo che gusti ti piacessero, perciò abbiamo optato per sette torte più piccole con gusti differenti.» Commenta Lily, intercettando il mio sguardo tra il perplesso e lo scioccato.

E il riconoscente. Sì, lo vedo, è inutile che fai la dura, Rambo dei poveri!

«M-mi piace tutto...» Balbetto, emozionata.

«Ne abbiamo scelta una ciascuno, tirando a indovinare. Poi decreterai il vincitore. BENTORNATA ELE!» La piccolina tutto pepe mi abbraccia, dando il via ad un applauso che sta quasi per terminare con le mie lacrime. Non ci posso credere.

Ad uno ad uno, tutti vengono ad abbracciarmi, compreso il grande capo Martin che sono sicura non vede l’ora di tuffarsi nella torta con le fragole. La sta fissando manco fosse Monica Bellucci. Giuro.

Tony mi stritola sballottandomi su e giù come se avessi tre anni, e Thomas invece fa il solito gentiluomo con tanto di baciamano.

«E Rachel?» Domando, ormai mi manca sempre ed è come se fosse di casa anche qui.

«Sta lavorando, ma ha scelto la torta insieme a me. È quella lì.» Indica la torta che porta la lettera “L”, che somiglia tanto a un dolce tipico italiano, di pasta sfoglia e pan di spagna ricoperto dallo zucchero a velo e farcito con la crema chantilly.

«C’è il liquore dentro?» Domando, con l’acquolina in bocca.

«Esatto. Ti piace?»

«Potrei morirci.» Sbavo copiosamente pregustandone il sapore. Complimenti a Rachel, ha praticamente azzeccato il mio dolce prefer...

«Bentornata.» Una carezza leggera sul capo mi distoglie dal pensiero della mia succulenta torta. Christian mi sorride, chinandosi a darmi un bacio veloce sulla fronte. «Come ti senti?»

«A parte il fatto che vi odio e che non dovevate, bene.» Borbotto, arrossendo. Questo posto mi sta cambiando. Io non sono così.

No, tu eri così. È stato quel senza palle a cambiarti.

Tony approfitta del momento di silenzio per stappare lo champagne. «Ottimo. Appurato che la nostra traduttrice sta bene e che, come sapevamo, ci detesta per questa sorpresa che l’ha messa al centro dell’attenzione per ben dieci minuti, direi che possiamo buttarci sulle torte. Chi le taglia?»

 

Ho la pancia piena come un uovo e sto per vomitare.

Mi vogliono male in quest’ufficio, chiaramente. Ho assaggiato tutte le torte e fatto il bis di due, le più buone: quella scelta da Thomas e Rachel e quella scelta da… beh, Christian. Il fatto è che non ho la più pallida idea di come abbia fatto a capire che amo la combinazione menta-cioccolato e la sua torta era, appunto, una After Eight. Deliziosa.

Sì, è stata lei la vincitrice. Quella ufficiosa, intendo. Ufficialmente ho fatto vincere la torta diplomatica di Thomas e Rachel. Ma sono sicura che Christian abbia colto l’espressione di pura estasi che ha pervaso le mie membra quando ho assaggiato la sua. Ha tenuto quel sorrisino soddisfatto sul volto per tutto il tempo.

Quando tutti torniamo di sotto, mi dirigo senza pensarci due volte nel mio ufficio, lieta di rivedere le cose a me familiari. Sposto le tende in modo che passi la luce e resto senza fiato quando noto un mazzo di rose rosse sulla scrivania.

Sorpresa, non riesco a fare a meno di sorridere. Ora mi sente quel codino biondo completamente impazzito! Ha avuto anche il coraggio di scrivere un biglietto? Ha proprio esagerato con questi…

“Sono felice che ti sia ripresa. Sei bellissima. E.”

Rabbrividisco da capo a piedi e getto il biglietto sulla scrivania come se mi avesse morso. Ho il cuore che batte all’impazzata e mi accorgo, grazie alla brezza leggera che soffia dalla finestra, di avere la fronte imperlata di sudore.

«Non capisco proprio perché tu non mi abbia fatto vincere. Sei una testarda e pensavo che avessimo trovato un accordo riguardo alla tua- ehi, tutto bene?» Christian piomba provvidenzialmente nel mio ufficio beccandomi a fissare il fascio di rose come se fosse un alieno. Si avvicina cauto alla scrivania e segue il mio sguardo atterrito per poi emettere un “oh” alquanto perplesso.

«Portali via.» Mormoro, immobile. «Ti prego.»

Christian fa il giro della scrivania e avvicina una mano al mio viso, senza però toccarlo. Sembra averci ripensato. Torna a guardare i fiori e poi legge il biglietto.

«“E”?» Aggrotta le sopracciglia. «“E” di…?»

«Ethan.» Rispondo in un soffio.

«Chi? Quel maniaco che mi ha dato un pugno?!» La sua fronte si distende per il tempo necessario a fargli ricordare l’accaduto, poi si acciglia nuovamente. «Sul serio?! Come sa che lavori qui?»

«Lui… abita al piano di sotto…» Deglutisco a fatica per continuare. So già che Christian mi ucciderà per non averglielo detto. La cosa bella è il fatto che non l’abbia scoperto già. Quel montato di Ethan non gliel’ha detto che abitava sotto di me? «Come fa a sapere che mi sono ripresa se ho passato la settimana da Anne?»

Il brillante redattore non sembra per niente scalfito dalla mia domanda indagatrice. Non credo per disattenzione, no. E nemmeno per menefreghismo. Semplicemente la sua mente non sarà andata oltre la prima informazione recepita.

«Cosa? Lui abita al piano di sotto?!» La sua espressione è a dir poco furibonda. Gli occhi azzurrissimi sono spalancati e sono fermamente convinta che voglia farmi morire in modo lento, doloroso e pressoché infinito. «Stai scherzando.»

«Ehm, no.» Dico, la vocina piccola e sottile.

Christian alza una mano e istintivamente stringo gli occhi, pronta a… non so, essere schiacciata come una zanzara tigre contro la parete immacolata. Lui però non vuole colpirmi – eh, ci mancherebbe sai – ma si porta semplicemente la mano nei capelli, seguendone la superficie perfettamente tirata a lucido. Espira lentamente. È arrabbiatissimo.

«Non osare farmi un’altra paternale, sai?» Dico, quando torna a piantarmi quei diamanti blu pungenti e spigolosi negli occhi.

«Se l’avessi saputo prima…» Sibila, a denti stretti.

«Cosa?» Alzo le braccia. «L’avresti chiuso in casa o mi avresti rapita e portata nel tuo appartamento?» Mi rendo conto che sto alzando la voce e inspiro profondamente per calmarmi. Non ho voglia di litigare, ho mangiato troppi dolci e non riesco a trovare abbastanza cattiveria per battibeccare col mio caro omonimo.

«Quando torniamo dal viaggio tu ed io andiamo a vedere quegli appartamenti.» Mi intima, puntandomi il dito contro a mo’ di monito.

«O cosa, mi sculacci?» Non so davvero cosa mi prenda. Giuro che non avevo intenzione di rispondere così. Semplicemente, la sua abitudine di comandarmi a bacchetta mi infastidisce più di ogni altra cosa al mondo!

Christian sta facendo uno sforzo per non fare qualcosa di davvero brutto. Ha le narici dilatate e lo sguardo più ostile che abbia mai visto.

Senza dire una parola, fa marcia indietro e se ne va dal mio ufficio, sbattendo la porta e facendomi sussultare. Resto a fissare il vetro che vacilla con le labbra schiuse e il cuore che mi scalpita nella gabbia toracica.

Santo cielo, ma guardate che mi tocca fare adesso!

«Ehi, dove correte tutti?» Domanda allegro Danny, ma quando vede la mia espressione il suo sorriso si spegne di botto.

«Dov’è andato Duke?» Chiedo, tesa, quando vedo che il suo ufficio è aperto e tristemente vuoto.

«È volato per il corridoio esattamente cinque secondi fa.» Indica col pollice la reception e io mi ci precipito senza nemmeno ringraziarlo. Faccio la stessa domanda ad Alexandra, che risponde nel medesimo modo, aggiungendo qualche secondo.

Non so davvero cosa sto per fare.

Con uno sbuffo esasperato mi dirigo verso la grande porta a vetri e scendo le scale di corsa, nel tentativo di beccare Christian ancora per strada.

ECCOLO!

Con un balzo in avanti degno della Vedova Nera, lo afferro per un braccio e lui si ferma, voltandosi prima di attraversare la strada.

«Elettra…» Mi guarda stupito, incredulo di vedermi proprio davanti a lui. Sono meravigliata anch’io, se è per questo.

«Ciao…» Ridacchio, adesso non troppo convinta di aver fatto la scelta giusta seguendolo.

Lo stupore dura poco, lasciando spazio alla freddezza glaciale di poco prima, e con essa Christian si tira indietro liberandosi anche dalla presa sul suo braccio.

«Cosa vuoi?»

Deglutisco per prendere tempo e poi farfuglio con un’alzata di spalle: «Controllo che tu non faccia danni.» Lui mi guarda con un’espressione che, tradotta in gergo moderno, potrebbe essere solo espressa con un “WTF?!” e io mi affretto ad aggiungere: «E inoltre voglio il numero del tizio che ti ha cambiato la porta.»

Christian mi scruta impassibile per un istante, poi scoppia in una risata alquanto isterica, che sebbene sia tale almeno mi tranquillizza un po’.

«Sei così… Elettra.» Dice, scuotendo la testa, mentre si riprende dall’attacco di risate.

«E cos’è, un’offesa?» Domando accigliata.

Lui sospira, perso nel mio sguardo. «No... sei tu. Sei così, prima mi fai incazzare a morte e poi con una frase idiota riesci a calmarmi all'istante.»

Se quello non è uno sguardo innamorato io non so proprio cosa potrebbe esserlo.

«Q-questo perché ormai ho capito come funzioni e sfrutto la cosa a mio favore. Tzè.» Balbetto, imbarazzata. Quello sguardo mi ha toccato fin dentro le viscere.

«Dovrei farti licenziare per quanto sei fastidiosamente saccente.» Replica lui, puntandosi le mani sui fianchi.

Faccio lo stesso e lo guardo con aria di sfida. «E perché non lo fai?»

Proprio quando i suoi occhi stanno indugiando pericolosamente sulle mie labbra, Rachel appare alle nostre spalle ed esclama stridula: «Si può sapere cos’ha questo marciapiede che vi fa sempre litigare?»

Sono sicura che Christian sta pensando: “Si può sapere perché non riesco mai a baciare questa benedetta ragazza?”

In effetti, colgo una traccia di impazienza mista ad esaurimento nel sospiro di Orione.

«Non saprei, tu che dici?» Mi chiede, alzando un sopracciglio.

Sono talmente confusa da tutti questi sguardi e quei sospiri e Violet che non la smette di parlare, che non riesco a trovare una risposta decente.

«Su, fate pace. Da bravi bimbi.» Propone la malefica Rachel, tirandoci nel suo rifugio per i caffeinomani.

«Nooo, non voglio!» Non voglio dover passare ancora del tempo con lui! Lui è pericoloso!

«Come puoi resistere alla tentazione di qualcosa di caramelloso?» Ecco, vedete? Lui conosce tutti i miei punti deboli!

«Ooooh, vi odio!» Biascico, mentre mi lascio trascinare verso le dolci tentazioni di Christian e il caramello. E verso l’obesità più totale.

 

**********

 

Ho sempre pensato che la zia Libby somigliasse a Kathy Bates. Sì, insomma, la “Molly Brown” di Titanic. Ha la stessa corporatura, lo stesso taglio vaporoso e gli stessi occhi vispi.

Dopo aver fatto la conoscenza dei due nuovi pappagallini e del rimpiazzo del povero vecchio Sandokan, glorioso gatto persiano morto alla veneranda età di diciassette anni, zia Libby mi fa accomodare su uno dei divani color verde pistacchio che riempiono il suo salotto.

«Allora, disgraziata, come stai?» Chiede sorridente, incrociando le dita fresche di manicure. Si tratta ancora bene, la zia.

«Sto bene, direi. Il cambiamento si è rivelato sorprendentemente semplice, in confronto alle aspettative. Mi piace molto, qui.» Sorrido, ed è vero. Miami è proprio una bella città.

«Il lavoro come va?»

Dovete sapere che la zia Libby non è una di quelle zie che fanno domande a caso, magari sempre le stesse – che tu abbia dieci anni o trentanove – quando ti vedono. Sono quasi sicura che, pur non aspettando la mia visita, sa bene dove andare a parare in questa conversazione. È troppo arguta. Le laccano anche il cervello insieme alle unghie?

«Va bene. Sono stata accolta positivamente…» Mormoro, lasciando cadere la frase.

Se per positivamente intendi da colleghi simpatici e gentili e da un capo che ti muore dietro, beh, magari hai usato un piccolo eufemismo.

Eccolo lì. Lo sguardo indagatore della zia Libby. Mi affretto a cambiare argomento.

«E tuuu, piuttosto? Diventerai nonna! Ma ci pensi?» Esclamo con un sorriso smagliante.

Pessima, pessima scelta. Non dovevo dirlo con così tanto entusiasmo. Mi sono praticamente puntata i riflettori addosso.

«Come si chiama, cara?»

Deglutisco a vuoto.

«Chi?»

«L’uomo che ti sta facendo perdere la testa.»

«Cosa?!» Scoppio in una risata da persona nevrotica e instabile e lei sorride. Anzi, ghigna. Ah, il gossip. Cosa non può fare alla gente. «Cosa te lo fa pensare?»

Lei fa spallucce, sapendo di aver messo a segno un punto. «Mah. Il fatto che sembra tu abbia le emorroidi, per esempio. Sei seduta sulla punta del cuscino, rigida come il mio povero Napoleone quand’è morto.» Chi? Ah, l’altro gatto. Nomi poco impegnativi, vero?

Mi limito a sorridere, colpevole. Il fatto è che lei ispira troppa fiducia. Fa troppo venir voglia di parlare. E io non voglio parlare.

Perché vuoi continuare a negare l’evidenza, idiota.

«Zia…» Piagnucolo, nascondendomi il viso tra le mani.

«Ho capito, tesoro. Vado a preparare un Bloody Mary.»

Mezz’ora dopo, ho praticamente riassunto gli ultimi mesi a una Libby sempre più attenta e partecipe. Le sue guanciotte si riempiono di soddisfazione quando le mostro una foto di Christian.

«Anne aveva ragione. Manzo di prima scelta, uh?» Mi dà di gomito.

Okay. Questa non è mia zia. Questa è la reincarnazione di Dolly Parton.

Un momento. «Anne? Che ti ha detto Anne?!» Lo sapevo, c’era da immaginarselo. Piccola megera in stato interessante.

«Oh, solo qualcosina. Del tipo che in ospedale ti sorvegliavano centonovantuno centimetri di bicipiti e pettorali. Mica male.»

Alzo gli occhi al cielo e lei scopre i denti sotto le labbra tinte di rosso.

«Dunque, mi pare ovvio che lui abbia intenzioni serie, con te.»

«Serie? No, non credo. Io…»

«Lascia parlare me, d’accordo?» Mi blocca chiudendo gli occhi come se le mie risposte le provocassero un’istantanea emicrania.

Sì, perché dici un sacco di idiozie.

«Ma…»

«Cos’hai intenzione di fare, tu?» Mentre parla, si alza per dar da mangiare al pappagallino numero uno, ovvero Pepito.

«Perché, devo per forza avere intenzione di fare qualcosa?» Ribatto accigliata. Pepito sembra aver capito quello che ho detto e gracchia qualcosa di terribile nella mia direzione.

«Vuoi semplicemente continuare a trattarlo più o meno come il tuo tappetino per la doccia finché non cambia qualcosa? Per esempio, il tuo cervello bacato?» Domanda lei scandendo piano le parole, con un’espressione innocente. Come se non mi stesse dando dell’idiota.

Sbuffo e mi sistemo meglio tra i cuscini. «Per voi è tutto facile!» Esclamo, stufa. «Fai questo, Elettra! Dici quello, Elettra! E tu perché non ti sei più risposata dopo zio John?» Chiedo, forse con troppa veemenza. Ops. Magari questo è un tasto che non avrei dovuto toccare.

Mi aspetto di essere mandata a cogliere ma zia Libby soppesa la mia domanda con una strana luce negli occhi.

«Perché non ho mai trovato nessuno come lui.» Dice, infine. Guardo la foto che li ritrae felici e spensierati qualche mese prima che venisse a mancare e mi lascio andare in un sospiro.

«Tu credi di poter essere felice con lui, Elettra?» La domanda squarcia l’aria come un coltello farebbe con un lenzuolo.

«Non so, io… non credo di conoscerlo abbastanza…»

Lei mi blocca posando una mano sulla mia. «Sì, ma a pelle… il tuo istinto cosa ti dice?»

Guardo i suoi occhi limpidi e sinceri e ci penso. Il mio istinto – se non consideriamo Violet, che è il mio basso istinto – mi dice che sì, potrei provarci. Forse Christian è davvero la manna dal cielo, ma in tal caso perché avrebbe scelto proprio me, con un mondo di ragazze a sua disposizione? Meno complicate, meno isteriche, meno idiote?

Non faccio in tempo ad esternare queste mie perplessità che la mia perspicace zia coglie subito il punto.

«Tu hai paura. Ed è comprensibile, dopo quello che è successo con colui che porta il nome di tuo zio ma non ha nemmeno un decimo dei suoi attributi. Sai che succede, piccola mia, quando non si è più abituati a ricevere amore? Succede che non ti fidi più, che preferisci restare solo. Succede che quando qualcuno ti dice che ti vuole bene davvero, tu sorridi e pensi ‘come no’. Succede questo, e quando trovi qualcuno che ti ama davvero, muori di paura.(*)» Le sue parole sono quanto di più doloroso io abbia sentito negli ultimi tempi. «Devi ricominciare a fidarti delle persone. Christian è un’ottima partenza.»

Annuisco lentamente ma resto in silenzio, perché so che se parlassi la voce mi si incrinerebbe. Il fatto è che ha ragione, così come ce l’avevano le tre Marie scellerate prima di lei. Non a caso una è sua figlia.

«Lo vuoi un consiglio dalla tua vecchia zia e il suo Bloody Mary Bum Bum Bum?» Chiede, scimmiottando la canzone di un vecchio film e strappandomi un sorriso. «Approfitta del viaggio per conoscerlo meglio. Smonta per un po’ la corazza dell’ultimo samurai che ti ritrovi e passa del tempo con lui. Spassionatamente. O passionatamente, se te la senti.» Quasi le lancio il mio bicchiere addosso ma mio malgrado mi ritrovo a ridere.

«Va bene vecchia bacucca. Ci proverò.» La abbraccio forte, contenta di averla rivista e, sinceramente, anche di essermi confidata con lei.

 

**********

 

“I passeggeri del volo DF660 sono pregati di recarsi all’imbarco.”

«Mica è il nostro?»

«Ti risulta che il nostro sia diretto alle Mauritius? Ci senti o l’alta quota ti ha già otturato le orecchie?!»

FHISJSJADSBUSHH.

«Ahia!»

Scene d’ordinaria follia in un ordinario aeroporto tra due ordinari colleghi di lavoro.

Beh, in realtà di ordinario non c’è proprio nulla, a partire dal gruppo sgangherato di cui faccio parte, passando per la valigia extra large che mi ha prestato Anne e concludendo col mio nuovo compagno di giornale. Sì, sto dividendo il quotidiano con Christian e ho sbuffato soltanto una volta. Faccio passi da gigante, vero?

«Christopher, vuoi un caffè?» Mormora Danny, forse per salvarlo dalle grinfie di Clara la nevrotica prima che si azzuffino per un semplice volo aereo.

«Ma io non avevo sentito, perciò ho domandato!» Si sta giustificando ancora il povero webmaster mentre Danny lo trascina verso il bar.

«Ditemi, fanno spesso così?» Domanda confuso Martin, che alla fine ha deciso di partecipare con la nuova fiamma Phoebe. Ma non ditelo a nessuno o perderà il titolo di bello e dannato cinquantenne in auge, anche se fiuto una storia seria, sì, sì.

«Solo quando Clara è sessualmente frustrata.» Rispondo. Il che si verifica praticamente sempre, e dall’occhiata che le rivolge Martin noto che è cosa risaputa anche nei piani alti.

«Anche loro due sono sessualmente frustrati.» Interviene Rachel, indicando me e Christian.

Ma come le salta in mente di dire una cosa del genere davanti a Macmillan?!

Le tiro uno schiaffo senza farmi notare troppo. «Cretina!»

«E questo cosa vorrebbe sottintendere, che a Clara piace Christopher?» Ribatte confusamente il boss cercando di associare le due cose sulla base della verità universalmente accettata che io e Christian ci piacciamo. Assurdo, vero?!

«Non vuol dire assolutamente nulla.» Borbotto e scatto in piedi, trascinando la prima persona che mi trovo davanti – Lily – in direzione di non so cosa.

Non facciamo neanche mezzo metro che veniamo sballottate da qualcuno che stava correndo. Alzo gli occhi e ne incrocio un paio alquanto familiari.

«Di nuovo l’idiota della pista di Monza? Ma ce l’hai per abitudine?!»

Il giovane uomo scoppia a ridere profondendosi in scuse e, come prevedibile, prova a offrirmi di nuovo un caffè.

«Il lupo perde il pelo ma non il vizio…» Faccio schioccare la lingua, annoiata.

«E nemmeno la speranza.» Replica lui con un sorriso smagliante mentre si passa una mano tra i capelli scuri.

«No, grazie…» Indugio sul nome che non conosco.

«Marcel.» Mi aiuta lui, con un piccolo inchino.

«Sì, Marcel, è stato un piacere scontrarsi di nuovo con te, ma vedi-»

«C’è qualche problema?» Quando Christian appare accanto al bel francesino – solo adesso che ho saputo il suo nome ho realizzato cosa avesse di strano il suo accento – d’un tratto il suo charm da Petit Prince svanisce come una bolla di sapone dopo un tête-à-tête con un riccio di mare. La bellezza di Christian offuscherebbe quella di parecchi, parecchi uomini, e la sua altezza e forma fisica direi che ne intimorisce almeno la metà di loro.

«No, nessuno.» Mi affretto a dire, prima che Orione s’infiammi di gelosia. Dopo la faccenda dei fiori di Ethan – cosa che lui ha pensato di collegare alle telefonate anonime – sta sempre sull’attenti quando un portatore di testosterone mi gira intorno troppo a lungo. «Il ragazzo è scivolato e voleva offrire un caffè a Lily per scusarsi, ma gli stavamo giustappunto spiegando che il suo ragazzo è proprio lì al bar che ci guarda, e quindi…»

«…stavo tagliando la corda.» Marcel capisce tutto al volo e sparisce altrettanto velocemente prima che Christian lo incenerisca.

«Chi era quel tizio?» Si informa Danny comparendo alle nostre spalle, rivolto principalmente a Lily. Ho notato che anche lui squadrava il povero Marcel come un falco, prima. Lily gli strappa di mano il suo shakerato e dopo averlo sorseggiato rumorosamente glielo restituisce facendo spallucce.

«Un tizio.»

Quando Danny sposta lo sguardo su di me per avere qualche notizia in più, non posso fare a meno di sorridere per la malcelata apprensione nella sua espressione apparentemente disinteressata. Christian si sposta accanto a lui e gli poggia un gomito sulla spalla. Praticamente è l’unico che può farlo tra noi, vista l’altezza da watusso che condividono. Fanno quasi paura e quasi schifo, per quanto sono belli. Opposti nei colori ma entrambi schifosamente attraenti.

Sì, certo, schifosamente.

Danny lo guarda e gli sorride, dandogli una pacca sulla schiena. Due amiconi.

Ah, sì, volevano sapere chi era quel “tizio”.

«Quel tizio mi ha investito all’aeroporto di Roma quando sono partita per Miami. Correva a cento all’ora e mi ha fatto prendere una bella botta al sedere.» Faccio una smorfia e istintivamente me lo massaggio, ricordando il dolore come se fosse ieri. «Visto che è recidivo, voleva scusarsi con un caffè, ma allora come oggi abbiamo rifiutato. Idiota. Avrebbe dovuto pagarmi la visita dall’osteopata, altroché!» Con la battuta salvo un po’ la situazione e torniamo tutti a sorridere spensierati. Poi, quando Christopher e Clara ricominciano a litigare come Tom e Jerry decidiamo di fare un giro prima che Danny li prenda di peso e li spedisca sul primo aereo per lo Zimbabwe.

In quel momento, Tony ci raggiunge e mi circonda le spalle col braccio, pizzicandomi la guancia con due dita.

«Allora, ce lo fai o non ce lo fai il siparietto caraibico con quel completino dei camerini, mia adorabile geisha?»

Gli tiro una gomitata che lui aveva evidentemente previsto perché la scansa con poca difficoltà.

«Di che stai parlando, mio adorabile idiota?» Chiedo vagamente isterica ma senza farlo notare troppo, cercando di trasmettergli mentalmente che se non cambia argomento all’istante sarà morto entro la fine del prossimo minuto.

Danny e Lily – ma soprattutto Lily – hanno già teso occhi e orecchie per capire di che sta parlando quel cialtrone.

«Ti verso l’acido muriatico sulle tue sfere preferite.» Sibilo tra i denti, facendo finta di dargli un bacio sulla guancia, e dall’espressione con tanto d’occhi sbarrati capisco che ci siamo intesi splendidamente.

«Mi aveva promesso di insegnarmi a ballare la danza del ventre, ma è talmente cattiva questa ragazza… cattiva.» Dice, salvandosi in calcio d’angolo. «Sei cattiva, frrrr.» Borbotta, trasformandosi in un gattaccio dispettoso che, fortunatamente, è talmente convincente da far distogliere lo sguardo ai due curiosoni che tornano a tubare in pace. Quando non ci guardano più, Christian tira l’orecchio a Tony.

«Aaaaaaaahiaaaahairagionescusa!» Orione lo lascia sorridendo e io non posso non alzare gli occhi al cielo, divertita. «Non lo faccio più, va bene. È solo che è davvero uno spreco, capisci… tu sprechi questo ben di Dio e... d’accordo, ho capito, non c’è bisogno di aggiungere altro.» Cambia rotta quando Christian gli lancia un’occhiata fulminante degna del più incavolato degli Zeus.

«Ciaooooooooo!» Una Alexandra sorridente ed eccitata saluta il gruppo con un bacio generale soffiato in aria. Marilyn Monroe la vendetta. Quando la vedono, tutti si alzano in piedi e iniziano a raccattare la loro roba. Stavamo aspettando lei per fare il check-in, visto che a sua detta è la prima volta che prende l’aereo e non sapeva come fare. Contenta lei. Non stiamo qui senza poter fare nulla e lei arriva pure in ritardo. Come se non mi fosse già simpatica abbastanza!

«Non guardarla come se fosse un sondino gastrico. È una brava ragazza.» Mi sfotte Christian, sempre pronto a cogliere ogni mio sguardo, sospiro, smorfia o guizzo del sopracciglio.

«Il sondino gastrico devi sopportarlo per un quarto d’ora al massimo. Pensavo più a un catetere, vista la mia recente esperienza in ospedale…»

«Da quando ti sta così antipatica?»

Da quando ho scoperto che ti va dietro.

«Mpf, non lo so. Da sempre. Con quel sorriso alla Monna Lisa e quegli occhioni da cucciolo indifeso. Puah. È delle santarelline che devi preoccuparti…» Scuoto la testa, bofonchiando una specie di sermone sulla presunta innocenza delle ragazze con l’aria smarrita mentre ci avviciniamo alle sedie dove erano appostati gli altri.

Sollevo il mio valigione che più che un bagaglio sembra un mobile a quattro ante – e non passa nemmeno inosservato, visto che è di un color melone decisamente acceso e molto lucido – e appendo la tracolla sulla spalla, barcollando appena quando mi metto in moto carica come un somaro. Sarà anche più capiente, questa valigia, ma pesa quanto due morti. Anne me l’ha voluta prestare sostenendo che mi sarebbe servita più roba essendo così lontana da casa, in un paese che lei crede essere al pari del precedentemente citato Zimbabwe.

«Vuoi una mano?» Christian ridacchia guardando il mobile aranciato e, senza attendere una risposta o un cenno affermativo, sposta la mia mano e afferra il gancio per trascinarla praticamente senza sforzo. Ha almeno la decenza di avere le rotelle, la valigia... pure funzionanti, devo ammettere. Sempre meglio della mia.

Mi schiodo da terra quando lui è a una ventina di passi più avanti e mi schiarisco la voce prima di parlare. «Ehm, grazie. Vuoi che ti porti la borsa?» Mi fa pena caricato di un mobile, di un trolley di dimensioni normali – perché gli uomini sono così efficienti? – e del suo bagaglio a mano, una tracolla simile alla mia.

«Non preoccuparti, ce la faccio.» Mi domando se dovrei insistere. «Hai portato anche Anne e Cooper?» Ride, indicando l’armadio. Sono talmente tesa e imbarazzata che non posso fare a meno di unirmi alla risata.

«Beh, da momento che me l’ha prestata così grande ho pensato di riempirla bene.»

«Con scorte di cibo per l’intera durata del soggiorno? Guarda che abbiamo l’all inclusive, non c’era bisogno…» Continua a prendermi in giro, ma in un modo che non mi dà fastidio. Gli mollo uno schiaffo sul braccio e lui ride, le guance sollevate e gli occhi divertiti. Sembra felice. Sono io a renderlo così?

«Mi prendi il biglietto e il passaporto dalla borsa, per favore?» La sua domanda mi distoglie dalla mia.

«Certo.» Mormoro, senza sapere dove mettere le mani. La cerniera della borsa è proprio davanti al primo bottone appuntato della camicia sportiva che indossa. Mentre la apro, ne sfioro la stoffa e il suo profumo inizia a solleticarmi le narici. È già abbastanza invitante quando sono a distanza di sicurezza, ma adesso che sono a un palmo dal suo collo mi destabilizza parecchio. Trovo la cartellina coi documenti al primo colpo – che fortuna! – e richiudo la zip come se, a inspirare di nuovo, mi sarei potuta giocata il cervello.

Cervello? Quale cervello?

Dopo aver fatto la coda al check-in e passati i controlli di sicurezza, ci sistemiamo al piano di sopra aspettando che chiamino il nostro volo. Christopher ha finalmente smesso di andare nel panico ad ogni annuncio e così ha scongiurato la sua dipartita per la Papua Nuova Guinea. Stringo la mia bella tracolla viola contenta di essermi liberata del mostro arancione e, a tal proposito, cercando anche di dimenticare la mia gigantesca figura di escremento allo stato liquido quando, al check-in, la valigia non passava nell’apposito spazio per mandarla all’imbarco. Tra l’altro quando l’ho sollevata – cioè, quando Christian l’ha sollevata – credevo non rientrasse nei minimi consentiti per un bagaglio. Invece sì, come mi aveva assicurato Anne, ovviamente. Sarà il colore a farla sembrare più grande? O sono gli altri che hanno portato una pochette in confronto? Dubbi amletici pre-partenza.

Mezz’ora dopo la voce gracchiante ci avverte di metterci in fila al gate. Abbiamo fatto giusto in tempo, penso con un sospiro. Vorrei ben dire, per colpa di quella scansafatiche di Marilyn stavamo anche per perdere l’aereo! Lo vedete che la mia antipatia è più che giustificata?!

Quando metto piede sulla scaletta metallica, inizio ad avvertire la stretta allo stomaco. Rachel dietro di me si affaccia per invitarmi a proseguire, visto che ho rallentato la coda, e io mi faccio coraggio. Un passo dopo l’altro mi avvicino alle hostess che ci accolgono e ci indicano il nostro posto. Sbaglio o quest’aereo è più piccolo del solito? No, sono paranoica. Paranoia pura, sì. È tutto normale. Quante ore di volo sono? Poche. Sì. Poche. In un batter d’occhio saremo arrivati.

Mi sistemo al mio posto e subito dopo arriva Lily che si sistema accanto a me. Le sorrido poco convinta e lei si guarda intorno alla ricerca del suo amato. Lo trova due file dietro di noi, seduto accanto a Christian.

«Oooh, sei laggiù!» Inizia a mugolare, beccandosi un’occhiata malevola da parte di una hostess dall’aria intransigente.

«Signorina, le consiglio di non voltarsi e di allacciare le cinture di sicurezza.» Le dice, facendola sbuffare.

«Spero proprio che le si rompa un tacco. Cicciona.» Fa una smorfia e mi guarda. Io sono già parecchio allacciata – se possibile mi allaccerei anche la sua cintura – e più che parecchio nervosa. «Oh, no. Non mi dire che hai paura di volare.»

«Certo che non ho paura. No, non si vede?!» Gracchio, stridula. Suppongo di avere anche gli occhi iniettati di sangue, a questo punto.

«Oh, cielo.» Lily si appoggia al sedile e si fa aria con uno dei fogli delle emergenze. «Anche io ho un po’ paura e non posso sedermi vicino a una persona già impanicata, oh no.» D’un tratto è diventata bianca come la camicia della hostess cicciona.

«Vattene! Vattene vicino a Danny, forza!» Strepito con un gesto stizzito della mano. Non voglio più sentire gente parlare. State zitti e fate partire questo dannato affare! Oddio, oddio.

Oddio, stanno chiudendo la porta.

Ho la netta sensazione che moriremo, o ci schianteremo come in Grey’s Anatomy. E poi Mark dirà finalmente a Lexie che la ama, e lei morirà, e poi anche lui morirà, e poi-

«Signore, le posso chiedere di prendere posto?» Dice un’altra hostess a qualcuno proprio vicino a me.

«Sì, ecco fatto.» Risponde lui, sprofondando nel sedile accanto al mio. «Ciao.» Christian mi sorride, per niente sorpreso di vedermi rilassata come un uomo che cammina scalzo sui carboni ardenti e in più, accidentalmente, inciampa in un porcospino. Sì, sono rilassatissima.

«Christian…» Piagnucolo, cercando un po’ di conforto. Ho già volato con lui e spero che anche stavolta riesca a tranquillizzarmi. ODDIO STIAMO PARTENDO. Moriremo. Cioè, per forza. C’è Clara che porta una sfiga colossale e l’hostess cicciona che pesa troppo per questo aereo!

«Vuoi?» Christian mi riscuote porgendomi una cuffia del suo iPod. Sto quasi certamente per morire ma ciò non vuol dire che non possa farlo con della sana musica nelle orecchie, giusto? Prendo la cuffia e mi preparo ad ascoltare la selezione musicale di Christian. Chissà che gusti ha. Se ascolta roba metal giuro che mi paracaduto senza pensarci due volte.

Quando sento le prime note di Love Somebody, dei Maroon 5, spalanco la bocca. Gli piacciono i Maroon 5? Gli piacciono i Maroon 5?!

«Che c’è, credevi di essere l’unica?» Dice leggendomi nel pensiero. Sono scioccata e quasi non mi accorgo quando l’aereo inizia a decollare.

Non è vero, me ne accorgo troppo.

Christian mi stringe la mano e Adam inizia a cantare. Quando torniamo diritti, tira fuori un Mars formato mini dal taschino della camicia e me lo porge con un sorriso dolcissimo.

 

#But if I fall for you, i’ll never recover

If I fall for you, i’ll never be the same#

 

La verità di quelle parole mi viene sbattuta in faccia come una porta blindata e non riesco a distogliere lo sguardo da quello di Christian mentre la canzone prosegue.

 

#I know we’re only half way there

But you can take me all the way#

 

Prendo il Mars e Christian mi fa appoggiare sulla sua spalla. Il cuore mi batte forte mentre mi accarezza delicatamente il braccio; mi sa che morirò per altre cause, inutile dare la colpa all’aereo.

 

#Love me today, don’t leave me tomorrow#

 

Sollevo il viso a questa frase e Christian mi stringe ancora di più, scuotendo lentamente la testa per dire che no, non mi lascerà. Ed ecco che Adam ricomincia: se mi innamoro di te, non guarirò più.

Io odio davvero ammetterlo, ma credo che a questo punto sia troppo tardi.

 

 

 

~ Note

Ma buon salve! Ebbene sì, non sono un miraggio ma ho aggiornato davvero! XD

Mi dispiace tanto, troppo per il ritardo. Non posso promettere che i prossimi aggiornamenti saranno più regolari ma ci proverò, sul serio. Grazie anche alle “minacce” via MP XD

Lo so che in fondo in fondo non mi odiate, soprattutto per come è finito il capitolo.

VERO?

So come farmi perdonare, ammettetelo. Almeno, ci ho provato.

Fatemi sapere cosa ne pensate, io intanto ringrazio enormemente la mia fida Cos e la sua abile sostituta #WikiFede, colonne portanti della mia ispirazione, insieme a tutte le altre ragazze del gruppo. Mary, grazie anche a te per il soprannome “Lemon” e per aver dato un tocco in più alla zia Libby col suo Bloody Mary! Siete u-ni-che. Visto? So anche fare la divisione in sillabe.

(*) Questa frase, è di proprietà di Francesco Roversi, un talentuoso ragazzo di appena diciassette anni che scrive cose del genere sulla sua pagina Facebook. Facciamo un po’ di sano spam, eccola qui.

Non mi resta che dire: PANAMA ARRIVIAMOOOOOOO!

Fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo e beccatevi un miliardo di abbracci per le stupende recensioni che mi lasciate e per i numeri di preferite/seguite che aumentano sempre più. Mi fate piangere.

All yours,

Sara.

 

P.S.: In arrivo una grandissima sorpresa per i fan di Rachel e Tom :D (Così non ti puoi più tirare indietro, Cos! BWAHAHAH )

 

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette - Daylight ***


Blend



“Se il mondo dovesse scegliere una capitale,

l’istmo di Panama sarebbe il posto più ovvio per ricoprire questo alto ruolo”

Simon Bolivar

 

 

 

«È il comandante che parla. Siete pregati di allacciare le cinture, ci prepariamo all’atterraggio.»

Il dlin-dlon metallico mi riscuote dal torpore in cui ero scivolata durante la lettura dell’ultimo romanzo di Zafón e mi riporta lentamente sull’aereo. Mugolo qualcosa mentre controllo la mia cintura con gli occhi ancora socchiusi e, constatato che le due estremità sono saldate come nemmeno due gemelle siamesi possono essere, cerco di capire come mai mi sento la testa pesante. Sembra che abbia un peso che preme sulla mia spalla…

Il peso che senti è l’amabile testa innamorata del tuo redattore preferito.

Christian!

Che brava, vedo che l’altitudine non ha intaccato la sede della tua memoria…

Mi sollevo appena sul sedile – visto che praticamente ero sprofondata e il mio sedere stava per toccare il poggiapiedi – facendo attenzione a non muovermi troppo bruscamente.

Bene. Stiamo atterrando e Christian si è placidamente appisolato sulla mia spalla. Come posso svegliarlo?

…e il tuo sonno cesserà, se l'amor ti bacerà! Sia questo il più fulgido dei tuoi doni, che la speranza mai ti abband-

VIOLET. Hai finito?

Che c’è? Serenella è sempre stata la mia fata preferita!

«Christian?» Provo a mormorare, muovendogli delicatamente un braccio. Non ottengo nessun risultato e a giudicare dal fischio alle orecchie siamo quasi arrivati sulla pista. «Christian?» Ci riprovo, ottenendo lo stesso risultato.

Oh, al diavolo.

«SVEGLIA!» Dico a voce alta, scuotendolo energicamente. Lui sussulta e poi fa una smorfia, strizzando gli occhi prima di aprirli.

«Tu sì che sai come svegliare un uomo…» Borbotta, mentre il suo peso abbandona la mia spalla. Si preme due dita alla sommità del naso e si guarda intorno per capire dove siamo. In quel momento, l’aereo sobbalza e le ruote toccano l’asfalto.

Dopo circa tre amabili ore di volo e dieci minuti a fare il giro panoramico della pista di atterraggio, mettiamo piede a terra con la testa un po’ leggera – e per quanto mi riguarda, anche le spalle – investiti dalla calda aria panamense. Non vedo l’ora di togliere questi jeans che più appiccicosi non si può, e mettere un paio di shorts, ignorando naturalmente il fatto che sono bianca come il pavimento dell’aeroporto. Una vocina nell’angolo remoto della mia mente mi ricorda che ho l’autoabbronzante, ma siccome non l’ho mai usato, temo di preferire il colorito cadaverico alle chiazze arancioni stile dermatite acuta.

All’ingresso dell’aeroporto, un gruppo di piccoli ragazzini mulatti ci mette al collo ghirlande di fiori coloratissimi. Oddio, credevo che queste cose succedessero solo alle Hawaii! Christian, accanto a me, deve abbassarsi sui talloni per permettere a una bambina alta poco più di un metro di fargli indossare la sua. Lei, felice, lo guarda rapita come se fosse un essere mitologico. Come darle torto?

«Che figata. Aaaalooohaaa!» Tony ci sfila davanti muovendo le braccia nel tipico movimento ondeggiante degno di una prima ballerina di Hula. Prima che inizi a sculettare sul serio – senza il minimo accenno di pudore, ma addirittura incitato dagli sguardi divertiti dei bambini – lo trasciniamo verso il nastro dove recupereremo le nostre valigie.

Uno ad uno, tutti i componenti del gruppo adocchiano il proprio bagaglio e lo tirano giù dal nastro. Tranne me.

La mia valigia non c’è.

Il mio mobile NON C’È!

Quando il nastro si ferma, sento distintamente una gocciolina pendermi dalla fronte in pieno stile manga giapponese.

«Aspettate, dov’è la mia valigia?» Avvicino un tizio vestito da addetto a qualcosa, e gli chiedo se le valigie sono tutte qui o potrebbero essere altrove. Ovviamente, il tizio non capisce una sola parola di quello che dico.

«Ma che razza di gente incompetente assume quest’aeroporto?! E COME SI PUÒ PERDERE UN BAGAGLIO ARANCIONE DELLE DIMENSIONI DI UNA VASCA DA BAGNO DI LUSSO?!» Strillo, attirando l’attenzione di tutti gli altri passeggeri.

«L’avranno scagliato apposta giù dall’aereo perché era troppo pesante.» Risponde Christian accanto a me, ridacchiando.

Lo guardo con occhi fiammeggianti. «Zitto tu e usa le tue doti da seduttore per estorcere informazioni a quella tizia. Vieni con me!» Gli afferro un braccio e provo a smuoverlo nella mia direzione.

«Perché proprio io? Potrebbe farlo Tony.» In quel momento guardo Tony e lo vedo impegnato a osservare il sedere di una hostess di terra, piegata a raccogliere un blocco di fogli.

«Tony saprebbe solo peggiorare la situazione. Dai, non farti pregare.» Piagnucolo, totalmente demoralizzata. Andiamo, è la mia valigia! C’è tutta la mia vita lì dentro! Possibile che nessuno lo capisca?

«Uhm... che ottengo in cambio?» Christian incrocia le braccia e mi guarda pensoso. Dal suo mezzo sorriso intuisco che mi aiuterà comunque, ma decido di stare al suo gioco.

«Desideri qualcosa in particolare?»

«Sicura di volerlo sapere?» Adesso il suo sguardo è più che malizioso, e io alzo un sopracciglio.

«Se stai per chiedermi il siparietto caraibico sappi che la risposta è no.» Replico, categorica. Christian sbuffa e si dirige dalla hostess senza neanche avvisarmi, o quanto meno aspettarmi. Lo seguo trotterellando.

«Mi scusi, il bagaglio della mia collega non era presente sul nastro. Possibile che sia rimasto in aereo? O forse l’hanno caricato sul nastro sbagliato. Potrebbe controllare?»

Ah, certo. Ora sono la sua collega. Ma sentitelo! E guardatelo, più che altro! Impettito e offeso come un moccioso a cui hanno tolto la macchinina preferita.

«Non ci credo che stavi per chiedermi quello.» Mormoro, mentre la signorina digita qualcosa sul computer.

«Non saprai mai quello che stavo per chiederti.» Risponde lui, schioccando la lingua.

«È qualcosa di peggio del siparietto? Perché magari con un burqa addosso potrei pensarci.» Meglio contrattare su un terreno che conosco, piuttosto che tentare il pericoloso ignoto.

«Speravo con quel completo di cui parlava Tony stamattina... tanto ormai ho già visto.» Mi fa l’occhiolino e io muoio per circa cinque secondi.

«T-tu non hai visto proprio un bel niente.» Oddio, ho balbettato? «MI SCUSI, ci sono notizie del mio amato bagaglio? Dentro c'è davvero tutta la mia vita, perfino un cervello nuovo per il mio amico qui.» Esclamo, rivolta all’addetta alle informazioni. Christian, intanto, sghignazza soddisfatto.

La ragazza mi rivolge un’occhiata tutt’altro che amichevole. «Il bagaglio è stato rintracciato, deve attendere nell'area apposita. Per quanto riguarda il cervello del suo amico...» Lascia cadere la frase, guardando Christian con un’aria da mangiatrice di uomini. So bene come vorresti procurarglielo. O mandarglielo in pappa, brutta arpia!

«Credo che terrò quello vecchio ancora per un po', grazie.» Interviene Christian, con un sorrisino tirato. Mi mette il braccio intorno alle spalle e mi porta via.

 

***

 

Un’ora e qualche patimento dopo, finalmente mettiamo piede in albergo. Alla reception ci accoglie una donna sulla cinquantina, coi capelli scuri tirati indietro e un sorriso garbato. Quando vede la mia astronave arancione sgrana appena gli occhi, poi li riporta su di me e mi rivolge uno sguardo di compatimento. Cosa c’è, signora panamense? Non ha mai visto una valigia capiente?

«Allora, la prenotazione è a nome Macmillan, è esatto?»

«Ecco, vediamo di non fare mix-up.» Borbotto, scimmiottando il concierge dell’albergo in quel di Roma dove, per mia sfortuna, ho conosciuto Christian.

«Sì, sono io. Eccomi qui.» Martin si fa avanti e mostra i documenti alla donna che annota tutto al computer. Ci chiama poi uno per volta e poi ci consegna le chiavi delle stanze.

«Le stanze sono disposte sullo stesso piano, ma non sono tutte vicine. 171, 172, 173, ecco a voi.» Consegna le chiavi a me – in stanza con Rachel e Lily –, a Martin – in stanza, ovviamente, con Phoebe – e a… oh, no. Siamo vicine a Clara e Alexandra.

«Stanze numero 178, 179 e 180, ecco le chiavi.» La prima delle stanze appartiene a Christian e Tony, la seconda a Danny e Thomas e l’ultima ai restanti ragazzi, ovvero Christopher e Mike.

Christian mi guarda e io gli sorrido sollevata: ringraziando il cielo, non mi è toccata la stanza accanto alla sua. Con Tony, poi, figuriamoci.

Mentre i facchini si caricano delle nostre valigie – sì, d’accordo, ho dato la mancia extra per la mia – saliamo in ascensore e ci prepariamo a scoprire le camere dove soggiorneremo nei prossimi sette giorni.

«Bene, ragazzi.» Annuncia Martin, una volta riuniti tutti in corridoio. «Il pranzo inizia tra circa un’ora, ci vediamo tutti di sotto al ristorante. Non bussate. Tony, mi hai sentito?»

Tony, sovrappensiero, sussulta e si porta una mano alla fronte. «Sissignore, certo signore. Mai più si ripeterà l’inconveniente dell’anno scorso. Mai, signore.» Enfatizza il gesto facendolo diventare la solita presa in giro per la quale è noto, e Martin alza gli occhi al cielo. Guarda Christian e dice: «Mi spieghi perché non dovrei licenziarlo?»

Christian gli mette una mano sulla spalla. «Perché è il migliore nel suo lavoro.»

«Già, già.» Martin scuote la testa e con un gesto della mano ci saluta tutti, prima di rintanarsi in camera con Phoebe.

«Sul serio avresti voce in capitolo per farlo licenziare?» Domanda Rachel, esitante. Christian aggrotta la fronte e apre la bocca per rispondere, ma Clara lo precede: «Certo, è il cocco di Martin!» Ridacchia e sparisce in camera. Brava, sparisci, prima che ti lanci giù per il vano ascensore. E non dalla cabina.

«Non è vero, stava solo scherzando…» Mormora Christian, e in quel frangente colgo lo sguardo preoccupato di Rachel rivolto a Thomas, che sta sbuffando mentre cerca di aprire la porta della stanza.

«Oookay, non siamo qui per parlare di lavoro, giusto? A dopo, ciaaao!» Rachel spinge me e Lily in camera e poi richiude la porta come se in corridoio fosse appena scoppiata una bomba.

«Abbiamo bisogno di un piano.»

 

***

 

Ho appena scoperto che Christian, in realtà, ha cinque anni.

Stiamo percorrendo Calle 58 Este verso la fermata dell’autobus che ci porterà al Casco Viejo, ovvero la città vecchia di Panama, e qualcuno ha messo su un broncio da manuale.

«Io volevo andare al mare, tu non volevi andare al mare?»

Lo sta chiedendo a tutti, adesso è arrivato in fondo alla fila.

«No.» Rispondo, scrollando le spalle.

«E tu, Rachel?» Non si arrende, eh?

Rachel non lo guarda nemmeno. «Dove va Thomas vado io, lo vedi al mare per caso? No, è qui. Quindi no.»

«Thomas, vieni al mare!»

«Ma la vuoi smettere?» Esclamo, fermandomi.

Lui mi guarda torvo. «D'accordo, ci vado da solo al mare.» Ed eccolo lì, il suo fondoschiena da statua greca che si incammina nella direzione opposta alla nostra.

Sbuffo dalle narici e con un grugnito lo raggiungo in pochi passi. Gli afferro il codino e lo tiro fino a farlo fermare.

«Ahia, ma sei imp-»

«Tu non ti muovi da qui perché ho paura degli indigeni.» Sibilo, guardandomi intorno circospetta. Alcuni passanti ci osservano perplessi e io faccio finta di niente.

Christian alza un sopracciglio. «Non ci sono indigeni a Panama City.»

«Invece sì, sono TRAVESTITI da civili!» Esclamo, mentre lo trascino di nuovo nel gruppo.

«Elettra, funzionava anche se gli dicevi la verità.» Gracchia Tony, facendo scoppiare una bolla col chewingum dritta nel mio orecchio.

«Io ho detto la verità! Di che diavolo stai parlando?»

«Del fatto che vuoi che stia con te.» Guardo Christian che ha incrociato le braccia e mi sta guardando con un sorrisetto molto esplicito.

«Bene, vai al mare. Ciao.»

«D'accordo.» Così come lo pronuncia, si allontana verso il mare e gli altri verso il centro, così che resto perfettamente impalata al centro della strada senza sapere che fare.

«Sapete cosa c’è, quasi quasi resto in albergo e mi riposo, non è che sia poi così lucida e pimpante per…»

«Ooooh, che diamine! Non fate gli asociali!» Tuona Martin esasperato, e devo dire che sinceramente aspettavo questa reazione parecchie battute fa. Non faccio in tempo a dare la colpa a Christian che mi sento sollevata in aria e ho un terribile déjà vu.

Quando mi deposita a terra davanti a tutti, e intendo proprio dopo aver attraversato tutta la fila, sono talmente furiosa da non riuscire a parlare. Punto il dito indice proprio di fronte al suo naso maledettamente dritto e riesco a far uscire qualche parola fra i denti.

«Tu… tu sei pieno di brutti vizi!»

Lui mi circonda le spalle col braccio contro la mia volontà, oscurandomi la vista con la sua mano gigante da orsacchiottone. «Lemon, stai zitta o domani al mare ti affogo.»

«Giuro che ti farò mangiare crudo dagli indigeni!» Strillo, lottando contro la mano che sta cercando di affogarmi.

Certo, affogarti…

«Oppure ti lascio da sola al largo in mezzo agli squali.»

Se avessi anche solo pensato di crogiolarmi nell’illusione che la nostra fosse una conversazione privata, beh, non avevo tenuto conto di Clara. «Squali? Ci sono gli squali qui?!» E con lei anche i due mitici eroi Christopher e Mike, che hanno iniziato a googlare “Panama” e “Squali”.

Sbuffo, e con l’ennesimo schiaffo riesco a togliermi la sua mano dal viso. «Sei un cretino, hai scatenato il panico.» Mi libero anche dalla presa del suo braccio e cammino per una decina di metri in silenzio. Poi lo guardo di sottecchi. «Ci sono davvero gli squali qui?»

Il suo sorriso dolce e al tempo stesso malizioso mi fa perdere due o tre battiti. «Non necessariamente a mare.»

 

***

 

«No, io non sono razzista, ma quel tizio davvero mi sembra un indigeno. Guarda, ha un dente d’oro!»

Siamo appena saliti sull’autobus che ci porterà nella città vecchia: tredici turisti per caso abbarbicati alla bene e meglio ai supporti per le mani. Questi autobus sono chiamati diablos rojos, ovvero ‘diavoli rossi’, e quando ha chiuso le porte ho capito perché. Credevo fosse solo perché somigliano a dei murales ambulanti, pieni di disegni inverosimili dove Gesù è affiancato a Madonna (non Maria, ma la pop star), e invece scopro che questi aggeggi infernali sono guidati da pazzi che, tra slalom e sorpassi da tutte le parti, sfrecciano nel traffico a velocità da formula uno.

Qualche fortunato di noi è riuscito a trovare un posto. Io, naturalmente, no, e sono altamente instabile, oltre che pericolosamente vicina a un indigeno travestito da civile. Sono sicura che sotto l’ascella pelosa nasconda un lacrimogeno.

E perché mai un indigeno dovrebbe avere un lacrimogeno? Quelli sono i terroristi, e tu hai visto troppi thriller contemporanei.

Christian alza gli occhi al cielo. «Anche Johnny Depp ha un dente d’oro.» Bisbiglia, cercando di non attirare l’attenzione dell’indigeno, cosa di cui io, intelligentemente, non mi preoccupo.

«Quello era Jack Sparrow, in realtà.»

L’autobus si ferma e decine di bambini con i loro zaini salgono con la grazia di un branco di elefanti imbufaliti, urtando tutto quel che trovano al loro passaggio, ovvero il mio braccio, la mia schiena, le mie gambe e i miei piedi. Contemporaneamente e convulsamente.

«Sì, e nemmeno Jack Sparrow era un indigeno.» Mi fa notare Christian, pazientemente. Asseconda tutti i miei scleri paranoici senza battere ciglio, e ormai sento di essere su un terreno scivoloso ma sono troppo orgogliosa per ammettere di aver iniziato un dibattito inutile sui denti d’oro.

«Beh, no, ma ha avuto a che fare con gli indigeni… se lo sono quasi mangiato arrosto!» Ribatto, appunto, sulla buona scia per cambiare totalmente argomento, cosa che mi riesce particolarmente bene.

Tranne che con Christian, che mi guarda con tanto di sopracciglio aggrottato in un’espressione snob. «Devo anche risponderti?»

Alzo gli occhi al cielo, ormai con le spalle al muro e con l’ombra di un piccolo sorriso. «No, d’accordo.»

Christian non fa in tempo ad apprezzare il mio mezzo ghigno che si ritrova pesantemente sbilanciato all’indietro con un peso massimo di – no, non vi dirò mai quanto peso – addosso, troppo impegnata a guardare gli indigeni per mantenermi da qualche parte. Imprechiamo tutti contro l’autista che ha inchiodato di botto per cosa? Far attraversare una tartaruga marina? Santo cielo, neanche a New York inchiodano così.

«Razza di imbecille, ti è venuta una mossa spastica al piede? EH?» Esclamo, facendo girare un paio di indige... abitanti del posto.

«Potresti, per esempio, evitare di farmi saltare un timpano la prossima volta?» Christian si massaggia l’orecchio offeso e io mi rendo conto di essere ancora spalmata addosso a lui come paté alle olive.

Mi allontano da lui con tutta la nonchalance del caso, stavolta aggrappandomi saldamente a un supporto alla mia destra.

«È questa la vostra fermata, signori!» Esclama l’autista col morbo di Parkinson una manciata di minuti dopo, come se non vedesse l’ora di farci scendere. Ehi, che problemi ti stiamo dando, amico? Tzè. Gli aborigeni non capiscono la classe.

E tu non sai distinguere una persona mulatta da uno pseudo selvaggio.

«Molto bene.» Alexandra la secchiona apre una grande cartina e cerca di capire dove siamo.

«A me sembra di stare in una terra di mezzo. Tra Portobello e il Bronx.» Commento, osservando le case di diversi colori più o meno in rovina.

«Ehi, lì c’è scritto che parte una guida ogni mezz’ora.» Interviene Mike, spulciando il suo dizionario di spagnolo. Martin sembra d’accordo, così ci dirigiamo tutti al punto d’incontro, dove effettivamente si presenta una bionda super abbronzata con tre strati di ciglia finte e un rossetto rosso sgargiante.

«Questa sarebbe una guida? Sa parlare?» Borbotta Lily, alzando un sopracciglio. «Cielo. Sembra uscita da una puntata di Dire, fare, baciare

L’unico intraprendente che avrebbe potuto arrischiarsi a parlare è, naturalmente, Tony Shark. Le si avvicina col suo sorriso migliore e si spettina un po’ i capelli prima di rivolgerle la parola.

«Hola, niña.» Incalza, sicuro di sé. Poi inizia a balbettare. «Noi… ehm… nosotros… somos… ehi, aspetta. Elettra, perché non vieni un po’ qui?» Mi sta facendo cenno di andare a tradurre qualche stupida avance alla sorella di Nicki Minaj, ma non ci penso nemmeno.

«Ce la puoi fare, muchacho.» Gli faccio il verso, fingendo un conato di vomito subito dopo.

Tony mi lancia un’occhiataccia e torna a guardare Nicki. «Somos estatunidenses y quieremos…»

«Queriamos.» Mormoro, alzando gli occhi al cielo.

Tony prosegue gesticolando col massimo charme e ammiccando a più non posso. «Queriamos vere el.. er… che cazzo questo spagnolo… cientro… el Casco…»

«Centro, non cientro.» Intervengo di nuovo, stavolta a bassa voce prima che Tony si dia al linciaggio pubblico di traduttrici innocenti.

«Claro, por aquí joia bela.» La bionda sbatte le ciglia e si incammina verso una delle tante vie che ci circondano. «Los hombres adelante!» Esclama, facendo una risata frivola e sculettando a più non posso. Rachel, Lily ed io la guardiamo torve e ci piazziamo in prima fila, contrariamente a quello che ha detto.

«Ma joia bela non è portoghese?» Bisbiglia Rachel, confusa.

«A me sembra un trans, hai sentito che voce?» Lily è a dir poco inorridita.

Tony invece ha il volto di chi ha visto l’Eden e un sorriso ebete stampato in faccia. Si è messo accanto a lei e camminano a braccetto. Quanto è caduto in basso.

Improvvisamente, Miss Finezza 2013 inizia a parlare inglese. A modo suo, ovviamente.

«Inisiamo col Palacio Presidencial, dove vive los presidencie di Panama.» Ci indica un palazzo interamente bianco, talmente bianco che sembra un plastico, contraddistinto da diverse bandiere, stendardi, striscioni e chi più ne ha più ne metta, tutti riportanti i colori della bandiera di Panama. «Questo edifisio è chiamado anche Palacio de las Garzas, por las… garzas…» Si porta sbadatamente la mano alla testa, come se avesse dimenticato qualcosa.

«Gli aironi.» Traduco, secca, e lei sorride melensa.

«Sgiusto, gli airroni! Por gli airroni che caminano nel patio.» Sculetta ancora un po’ indicando chissà cosa e poi prosegue, instabile sugli zoccoletti altissimi.

«Sono d’accordo con Lily. È un trans portoghese. Anzi, secondo me nemmeno quello. Parla peggio di mia nonna senza dentiera e la sua conoscenza della città è pari a quella che potrei avere anch’io leggendo la pagina di Wikipedia.» Osservo, scrutando attentamente le sopracciglia tatuate. Christian e Danny, appena dietro di noi, stanno commentando i suoi pantaloncini praticamente inesistenti. Lo sguardo assassino da parte mia e di Lily non passa inosservato.

Continuando a camminare, arriviamo in una piazza, che la signorina ci presenta come Piazza Bolivar. Ma c’è scritto ovunque quindi è stato uno spreco di fiato alla fragola.

«Questa plaza se llama così porqué Simón Bolívar il libertador si riunì per aposgiare l’unione dei paesi latini y americani. Quello è il Teatro Nacional, belissimo! Tutto pieno de rosso e oro e cristalo franscese!» Nel modo esagerato in cui gesticola mi ricorda Effie Trinket. Solo che Effie avrebbe il duecento per cento di classe in più di lei.

Imbocchiamo il Paseo General Estebán Huertas, un lungomare sopraelevato, e proseguiamo fino a giungere in capo al promontorio dove sorge Plaza de Francia.

«Questa plaza è dedicada a Ferdinand de Lesseps e agli inscegneri franscesi che lavorarono al canale di Panamá. Guardate l’obelisco! Mi fascio una foto con voi, hombres! Venite!»

Christopher si arma di macchina fotografica e scatta foto a più non posso. A me tocca farne una a Christian con Pamela – sì, si chiama PAMELA. Non ridete. – e sono sicura di non aver mosso la macchina di proposito. Sarà venuta sfocata per un caso.

Continuiamo per due isolati e visitiamo i resti dell’antica Iglesia y Convento de Santo Domingo, e poi la piazza più grande del centro storico, ovvero Plaza de la Indipendencia.

Pamela alias Dolores, come l’ho ribattezzata io, ci illustra le bellezze della piazza narrandoci qualche aneddoto che capisce solo lei, mischiando parole spagnole, portoghesi e credo di aver sentito perfino qualcosa di francese. È come se camminasse con un cartello appeso al collo con scritto “Impostora”. Ma la seguono tutti.

Dopo esserci inoltrati in un quartiere pieno di case pericolanti, ci fermiamo davanti a un’altra chiesa, quella di San José.

«Qui restate tuti unidi e sopratuto los muchachos posono venire da questa parte per protegere la guida ahahah!» Dolores trascina letteralmente Christian, Tony e Thomas con sé mentre inizia a parlare della chiesa.

Rachel ha un diavolo per capello.

«Ma tu guarda quella sottospecie di viscida piovra travestita da donna se deve mettere le sue luride zampe pelose addosso al mio Thomas!» Sta sibilando da dieci minuti, mentre Lily cerca di calmarla. Certo, perché Ursula non ha ancora accalappiato Danny.

Inizio a vedere doppio quando traballa sui trampoli e prende Christian per il braccio per essere sorretta.

«Lo ha tirato per un braccio.» Dico, e sono quasi sicura di avere uno sguardo vacuo. Che preannuncia la tempesta.

«Ma no che non lo ha tirato per un braccio, ti sei impressionata.» Lily mi tocca la spalla e Rachel spalanca la bocca.

«Adesso con Thomas!»

«CHRISTIAN vieni a darmi una mano, per favore?» Strillo, fingendo di aver bisogno d’aiuto. Per fare cosa? Non ci ho ancora pensato, ma ci arriverò. Christian si volta a guardarmi ma Alexandra – che sarà morta prima di tornare a Miami – richiama la sua attenzione mostrandogli un dipinto nella chiesa.

«Christian a te non piacciono i dipinti, vero?» Dico tra i denti dopo averli raggiunti. «Piuttosto, guarda quell’altare!»

«In realtà mi piacciono…» Oh cielo. Perché gli uomini sono tutti ottusi?

D’accordo. Piano B.

Vado da Danny e lo prendo sottobraccio per fargli vedere l’altare. Traduco le note illustrative così che Christian veda che sto parlando. «Questo è l’Altar de Oro, uno splendido altare barocco d’oro risalente al XVII secolo. La leggenda vuole che i frati riuscirono a sottrarlo alla razzia del pirata Morgan, dipingendolo completamente di nero.» Ci aggiungo qualche altra cosa inventata per allungare il brodo, e finalmente dopo un po’ la mia geniale strategia porta i suoi frutti.

«Che dicevi, di quest’altare? Dan, Lily ti sta cercando.» Christian mette amorevolmente una mano sulla spalla a Danny, mentre gli indica la posizione esatta della sua ragazza. Certo, amorevolmente.

Si può sapere che problemi hai, Elettra?

Nessuno, perché?

«Bleah, profumi di fragola zuccherata con una spruzzata di cannella giamaicana.» La butto lì, storcendo appena il naso e avanzando verso un arazzo. Non è vero, Christian profuma sempre di Christian e di Hugo Boss, ma dovevo dire qualcosa.

«E tu profumi di stragelosia avariata, piccola Elettra.» Risponde lui con tutta la calma del mondo, passandomi un dito alla base del collo mentre mi raggiunge dall’altro lato.

«Devi smetterla di chiamarmi piccola Elettra, mi fai sentire una bambina di tre anni.» Grugnisco, concentrata ad ammirare qualcosa di non meglio precisato, solo per non guardare lui.

«Non sei una bambina di tre anni.» Lo sento dire, e a quel punto incrocio il suo sguardo divertito. «Sei una bambina di ventisei anni.»

Stavolta riesco a tirargli un destro ben assestato che lo fa mugolare più per la sorpresa che per il dolore, ma sono ugualmente soddisfatta. D’altra parte, però, non so proprio cosa rispondere senza insultarlo pesantemente – e oltretutto confermerei la sua affermazione –, così giro sui tacchi e raggiungo Martin e Phoebe. Butto lì qualche frase di circostanza sul tempo e il panorama, e dopo un po’ inizio a parlare con questa splendida donna, che per giunta è anche simpaticissima. Non conosco bene Martin, ma direi che sono una meraviglia insieme.

«Allora, Elettra. Tu sei la new entry del gruppo ma sei con noi da abbastanza tempo per dirmi cosa pensi della MP.» Naturalmente, a origliare arrivano subito anche Lily e Tony, come se avessero un radar per captare le occasioni in cui mettermi in imbarazzo pubblicamente.

«Cosa penso? Ehm… beh…» Cerco di trovare le parole adatte, ma in fin dei conti non ce n’è neanche troppo bisogno. «Penso che sia una squadra eccezionale, formata da professionisti più o meno eccentrici – e qui Tony ridacchia – ma anche da persone di cuore, genuine. Mi piace molto lavorare con voi.» E ora lasciatemi in pace, grazie.

«E hai avuto modo di notare qualche… come dire… legame, tra i tuoi colleghi?» Il tono di Martin è estremamente innocente, ma ha quello sguardo indagatore che non promette nulla di buono, specialmente con quei due chiacchieroni nei paraggi. Sto per battere in ritirata con la scusa di cercare un bagno, quando Mr Gola Profonda, senza battere ciglio, butta lì la frase più catastrofica della giornata.

«Certo, digli di te e Christian.»

«Te e Christian?» Ripete Martin, incalzante.

Li guardo sbigottita. «Cosa? Non c’è niente da dire su me e Christian. Piuttosto, Lily…»

«Dai, digli che vi piacete da circa un millennio e tu lo stai torturando, poverino…» Subdola, subdola serpe di una Lily… non te la caverai mica con quel sorrisetto innocente.

«Sì, e per giunta hanno anche dormito insieme e lui l’ha vista seminuda, e poi…»

«...lui ha scelto la sua torta preferita, ma poi hanno litigato, e…»

«…è stato tutto il tempo in ospedale ad assisterla…»

«RAGAZZI!» Strillo, col viso ormai in fiamme. «Voi siete matti. Siete… oh, Dio, non riesco a credere di aver appena assistito a questa conversazione. Devo sedermi.» Mormoro, con la testa che mi gira. Hanno appena spifferato ai quattro venti alcuni dei dettagli più imbarazzanti e al tempo stesso significativi del mio rapporto con Christian. Come se stessero raccontando la trama dell’ultimo episodio di Doctor Who! Ora mi butto nel canale.

Martin mi ferma e mi poggia una mano sulla spalla. «Elettra, stai tranquilla, non è mica un problema… vorrei solo non essere l’ultimo a sapere le cose…»

«Danny e Lily amoreggiano sempre nella stanza delle fotocopie!» Esclamo, e vedo Lily spalancare la bocca, in una smorfia tra il comico e l’indignato.

«E allora? Anche io l’ho fatto una volta. Che c’è di strano?» Interviene Tony, corrugando la fronte. Martin, attonito, sbatte le palpebre per qualche istante e poi fa spallucce. Lily è salva, ma io sono sempre più sconcertata.

«Lo dicevo io che ero capitata nel Grande Fratello.»

 

***

 

Il sole è quasi arrivato alla fine della sua corsa, ma noi siamo ancora belli arzilli e pimpanti nonostante la stanchezza del viaggio. Abbiamo fatto compere in alcuni adorabili negozietti caratteristici del paese e pranzato al ristorante dell’albergo. Dopo una doccia rigenerante, siamo tutti riuniti nella hall per decidere il da farsi.

«Io propongo la spiaggia.» Sta dicendo Christian, per la… quarantesima volta?

«Signore Onnipotente, andiamo in spiaggia prima che gli venga una crisi epilettica.» Esclama Danny, esasperato dall’insistenza del suo redattore. La frase ci fa ridere e Martin acconsente, a una condizione: faremo equitazione.

«Però prendiamo un taxi.» Intervengo, ancora scioccata dalla corsa sul diablo rojo.

Quando arriviamo su una spiaggia della costa di Coclé, Martin sembra già sapere il fatto suo, e si dirige verso un maneggio poco distante. Clara e Christopher si chiamano fuori, cosa che avrei voluto fare anch’io, ma Rachel me l’ha impedito. Nuove esperienze, dice. Anch’io avrei in mente un paio di nuove esperienze da farle fare, se vogliamo dirla tutta.

Le coppiette decidono di cavalcare romanticamente insieme, dunque escono i primi tre cavalli per Martin, Danny, Thomas e compagne. Mike e Christian scelgono i loro, dopodiché tocca a me e Tony. Adocchio un cavallo nero, bellissimo. Devo ammettere che in una delle mie innumerevoli fantasie ho sempre sognato di cavalcare un cavallo nero.

Certo, ora si dice così.

«Chi di voi sa cavalcare?» Domanda un tizio vestito di tutto punto, che suppongo sia un istruttore, e resto sbalordita quando almeno quattro di noi alzano la mano, ovvero Martin, Danny, Tony e Christian. Ovviamente. Cos’è che non sa fare quell’uomo?

Conquistarti, pare.

«D’accordo. Se voi altri vi sentiste insicuri, io o uno degli altri istruttori siamo a disposizione per aiutarvi. In ogni caso, i cavalli sono tutti addestrati e non hanno mai dato problemi.» Rivolge lo sguardo a noi poveri ignoranti di cavalcate, e nessuno fiata. Si vede che Alexandra se la sta facendo sotto dalla paura, ma non accenna il minimo movimento. Orgogliosa.

Ah, senti chi parla! Come mai stai a dieci chilometri dal tuo bellissimo cavallo nero?

L’istruttore ci lascia dopo aver appurato che nessuno ha bisogno di aiuto – come siamo temerari! – e Martin, d’ora in avanti soprannominato Lady Oscar, inizia a spiegarci come prendere confidenza col cavallo e prepararlo alla cavalcata. Vedo gli attrezzi che ci hanno fornito i tizi del maneggio e un brivido agghiacciante mi percorre la schiena.

Non mostrare mai la paura a un animale: loro lo fiutano. Da brava, Elettra. Che sarà mai? È solo uno stupido cavallo. Non c’entra niente il fatto che potrebbe azzopparti con un lieve movimento della zampa, o darti un morso e staccarti tutte le dita.

«Per prima cosa, prendete quell’arnese dall’aria raccapricciante che si chiama striglia e iniziate a spazzolare il pelo del cavallo. Ecco, così. Poi togliete i residui con la spazzola rigida e rifinite con quella morbida. Se volete, col pettine a coda potete dedicarvi alla criniera o alla coda.» Spiega Martin, mostrandoci come si fa.

Sì, certo. Come se fossi così stupida da toccare la coda di un cavallo!

Guarda che non gliela stai mica pestando. E non è una tigre!

«Buono, cavallo. Ciao. Salve.» Mi avvicino lentamente a Tornado – ho deciso che lo chiamerò così. Quanto posso essere originale da uno a dieci? Non ditemelo – e con la striglia comincio a pulire il pelo. D’accordo, non è così difficile, e il cavallo sembra non detestarmi troppo. Fa un paio di sbuffi e io indietreggio di circa tre metri ma poi capisco che è normale e mi limito a trattenere il fiato sperando che non mi atterri con un calcio.

«Adesso monteremo la sella, in quest’ordine: sottosella, agnellino e poi la sella vera e propria.» Ci mostra come fare e io stranamente riesco a eseguire il tutto senza combinare casini. O almeno, se non contiamo il fatto che sono caduta due volte mentre cercavo di agganciare la cinghia e Tornado stava per uccidermi, ma sono dettagli.

Quando arriva il momento delle briglie, sto per sentirmi male. Io dovrei infilare questa cosa in bocca al cavallo? Ma sono impazziti?

«Va bene, cavallino.» Lo guardo negli occhi e inizio a sudare freddo. Si vede che mi odia. Perché non ho scelto un pony? «Ora apri lentamente la bocca e mordi questo, d’accordo? Non la mia mano. Questo.» Gli indico quest’affare che non so neanche come si chiama – Martin l’ha detto, ma ero troppo impegnata a farmela addosso per ascoltare – e lui, con mio sommo gaudio e tripudio, obbedisce senza battere ciglio.

Tra un po’ se lo metteva da solo in bocca, idiota. Cosa credi che lo addestrino a fare?

Taci tu, vecchia baldracca!

Prima di salire, Martin passa a controllare i finimenti di noi inesperti. Stringe un po’ la cinghia al cavallo di Alexandra e ci dice che siamo tutti pronti ad andare.

Dopo aver infilato il casco, che mi fa sembrare un soldato tedesco più che una cavallerizza, ci prepariamo a montare. Ah-ha, come se fosse facile. Cerco di calarmi nella parte di un’intraprendente amazzone e mi mantengo alla sella mentre infilo il piede nella staffa. Prego per circa dieci secondi di non fare una gigantesca figura di profondo sterco, e poi mi do lo slancio per salire e sedermi. Quando credo di avercela fatta, perdo l’equilibrio e finisco per aggrapparmi al collo di Tornado – i cavalli hanno un collo? – lasciandomi sfuggire un gridolino di terrore. Provo a ignorare gli sguardi degli altri e piano piano mi sistemo sulla sella fino a raddrizzarmi e ritrovare la posizione di una persona seduta su un cavallo. Va bene, ce l’ho fatta. Mi asciugo una gocciolina dalla fronte e guardo Tony sorridente.

«La cosa da ricordare sempre è guardare in avanti e tenere la schiena dritta, allineata con i talloni. Se vi sembra di perdere l’equilibrio, afferrate la criniera del cavallo finché non lo riacquistate.» Spiega Martin, e io inorridisco. Credo che anche Tornado sia inorridito, così lo accarezzo piano e gli sussurro qualcosa.

«Stai tranquillo, non voglio mica tirarti la criniera. A me dà fastidio quando mi toccano i capelli, figuriamoci se me li tirassero. Tranquillo, cavallino.» Per concludere gli do due colpetti e lui, inaspettatamente, inizia a camminare. «Oddio, cavallino. Vuoi avvertirmi?!»

Resta calma. Calma. Respira, su.

Come si ferma questo coso?!

«Ehm, Martin?» Provo a dire, con gli occhi spalancati e il terrore che mi scorre nelle vene. Lui si gira e mi raggiunge col suo cavallo marrone, Phoebe dietro di lui che si tiene saldamente ma con la postura di una dea greca.

«Se vuoi fermarti, affonda la seduta nella sella e fai pressione con le redini. Puoi anche dire “hoo”!» Mi dice, e per tutta risposta il suo cavallo si ferma.

«Certo. Mi ci vedi a dire “hoo”? Chi sono, il nonno di Heidi?!» Infatti, Tornado non mi ha nemmeno preso in considerazione. Che sia femmina? Devo provare a chiamarla Violet.

Un piccolo sforzo dopo l’altro, riusciamo a partire tutti. Chi trotta, chi si muove e poi si ferma dopo due passi, chi si fa una galoppata e torna indietro. Io sono a metà tra le prime due categorie, con Tony alle calcagna che mi prende in giro non appena il cavallo si ferma, e quando mi giro a guardarlo Tornado intercetta il movimento della mia testa e gira anche lui, facendomi tornare dov’ero prima. Mi sto innervosendo parecchio, sapete.

«Elettra, potresti anche fare tre metri consecutivi, non c’è niente di male!» Mi sfotte Lily, beffarda.

«Infatti, dovrei proprio imparare da te. Guarda con che bravura stai guidando il tuo cavallo… ops, non lo stai guidando tu.» Le rispondo con una linguaccia, e lei ride.

Quando Tornado si ferma per l’ennesima volta, lasciandomi sempre per ultima – diamine, perfino Alexandra è avanti con gli altri! –, mi chino in avanti e stringo i polpacci, più forte delle volte precedenti.

Non l’avessi mai fatto.

Tornado inizia dapprima a trottare velocemente, poi quando tiro le redini per fermarlo, o almeno così credevo, parte al galoppo facendomi urlare come una disperata.

«Cavallinoooo! AAAAAAAAAAHHHHHHIIIIUUUUTOOO!» Cerco di aggrapparmi a lui il più possibile, e gli tiro anche la criniera con tutta la mia forza, col risultato che il bastardo – o a questo punto dovrei dire proprio la bastarda – raddoppia la velocità. Ormai sobbalzo a ritmo di samba e il riso col pollo del pranzo sta pericolosamente risalendo verso l’uscita sbagliata.

«Elettra, non stringere le gambe!» La voce della salvezza. Mi volto a guardare Christian, e poi mi ricordo che i cavalli seguono lo sguardo del cavaliere, per cui spalanco gli occhi terrorizzata in attesa di una sterzata che non arriva, perché ormai Tornado ha deciso di raggiungere la Florida entro sera.

«CHRISTIAAAAAAAN!» Mai avrei pensato di urlare il suo nome in questo modo. Sto quasi per mettermi a piangere. Quando vedo la testa del suo cavallo un singhiozzo mi scuote il petto. Vedo che incita il suo destriero – bianco, che ve lo dico a fare? – a correre più veloce con fare esperto e per un momento penso che sia la cosa più bella che abbia mai visto. Poi torno a singhiozzare.

«Adesso mi avvicino e tu ti aggrappi a me. Mi hai capito, Ele? Devi aggrapparti più forte che puoi!» Esclama, fissandomi con quell’azzurro così intenso in cui leggo tracce di inquietudine e al tempo stesso determinazione. Annuisco e aspetto il momento in cui il suo cavallo affianca il mio per lasciarmi afferrare dalle sue braccia e stringerlo a mia volta, mentre mi trascina davanti a sé con una forza incredibile. Ho ancora gli occhi chiusi quando mi rendo conto che siamo fermi.

«È tutto finito, Elettra. Sei al sicuro.» Le sue parole mi fanno scappare una lacrimuccia invisibile che mando via con un gesto repentino del braccio. Sono stretta al suo petto, coccolata dalla sue mani che mi tranquillizzano con gesti lenti e rassicuranti. Tiro su col naso e lui mi stringe ancora di più, posandomi un bacio sui capelli. «Accidenti. Neanche i cavalli ti resistono.» Dice, e nonostante tutto mi scopro a ridere sommessamente contro la sua camicia.

«Grazie.» Mormoro, dopo un po’, ma credo che non mi abbia sentito perché in quel momento arrivano gli altri, che domandano concitati cosa è successo e come sto adesso.

Sto bene. Sì, ora sto bene.

 

***

 

Se di giorno le città di Panamá possono apparire sonnolente, di notte si scatena la vita notturna. E onestamente, dopo lo spavento di oggi, un po’ di sano alcol e musica caraibica era proprio quel che ci voleva.

Dopo aver riportato i cavalli al maneggio, compreso il mio traditore che si era fermato un chilometro dopo avermi lasciato tra le braccia di Christian, Martin ci ha portati in un villaggio poco distante, dove l’oscurità ha assunto mille tonalità colorate e l’infrangersi delle onde sulla costa è stato sostituito dai ritmi della musica salsa e reggae.

Siamo in un locale davvero carino, tranquillo e semplice, e per un attimo sembra di stare in quelle località tropicali dove gli aperitivi vengono serviti in chioschi coperti di foglie di palma secche e sono tutti allegri e spensierati.

Aspetta un attimo, ma noi siamo davvero in una località tropicale. Il locale affaccia sulla spiaggia, e anche se il tetto è ovviamente più solido, è ricoperto ugualmente da foglie di palma per ricreare l’atmosfera. Potrei anche dire che siamo tutti allegri e spensierati, specialmente dopo aver bevuto quantità industriali di seco, la bevanda alcolica nazionale. A me non fa impazzire l’alcol, ma questo scende giù che è una meraviglia.

Perciò, ringraziatelo pure se ho raggiunto Christian in terrazza. È seduto su una specie di divanetto, con le gambe allungate in avanti e il volto rilassato mentre si gode la brezza serale. Non mi ha sentito arrivare, per cui mi prendo il tempo di osservarlo per qualche istante con un piccolo sorriso sulle labbra.

Quando mi siedo accanto a lui, apre gli occhi e mi guarda. Sorride, è dolcissimo.

«Come ti senti?» Mi domanda, girandosi leggermente verso di me.

Ho voglia di baciarti.

Cosa?

No, sono i fumi dell’alcol.

«Bene. Io… beh, pare proprio che debba ringraziarti per l’ennesima volta. Non puoi fare a meno di salvarmi.» Ridacchio, e mi sento stupida. Non avrei mai dovuto provare a cavalcare quel ridicolo animale.

Christian si stringe nelle spalle. «È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo.» Sorride, poi si fa serio. «Non ho altra scelta.» La sua frase, come un soffio, mi fa rabbrividire. Poi una muta richiesta, quella di tornare tra le sue braccia, che allarga per accogliermi. Questa volta, non indugio affatto.

 

 

 

 

 

~ Note

Meglio tardi che mai, diciamocelo. Avevo promesso a diverse di voi che il capitolo sarebbe arrivato entro l’anno passato ma ho tardato di qualche giorno. Su, su. Sorridete XD

Nuovo blend, nuova Elettra. Nuova mica tanto, però sta cambiando parecchio. Nel prossimo capitolo sganciamo la bomba *corre a rifugiarsi in un angolo*

Che dire? Devo ammettere che scrivere di questo viaggio si sta rivelando più complicato del previsto (tutte in coro: “MA DAI?!”) ma ho buone aspettative per il prossimo.

Intanto, ringrazio Luisiana e Wikihow per le dritte sull’equitazione, di cui non sapevo una cippa lippa, e Costanza e Federica per l’ultima risposta di Christian. So che così ho praticamente distrutto la sua reputazione di fluff-repellente (e vi cito testuali parole uscite dalle sue dita in chat: “ODDIO COSA MI FAI SCRIVERE, T'AMMAZZO, NON DIRE A NESSUNO DI QUESTA CONVERSAZIONE!”) ma lei sa che la adoro alla follia e non so cosa farei senza di lei NÉ senza le altre meravigliose ragazze del gruppo. Ragazze che stanno addirittura pensando di scrivere Missing Moments su questa storia, cosa di cui sono altamente onorata (e riguardo a questo leggete il P.S.).

Rinnovo come sempre l’invito a far parte del gruppo, chiedendo l’amicizia qui, e torno a darvi uno spoiler del prossimo capitolo, per ringraziare tutti voi lettori, silenti e non, che crescete di giorno in giorno. Siete arrivati a 500 e io non so davvero cosa dire, se non che non merito tutto questo seguito.

 

Spoiler:

«Ho un’ideeeea.» Dichiara, mentre apre la bottiglia. «Sedetevi tutti per terra. Forza, in cerchio.» Agita le dita descrivendo una circonferenza immaginaria e noi, più o meno scettici, facciamo come dice.

«Vuoi fare una seduta spiritica?» Domanda Lily con un sopracciglio alzato. Tony scoppia a ridere e prende posto tra Christian e Thomas. Io mi metto esattamente di fronte, vicino a Rachel.

«Per esorcizzarti quei capelli forse ci vorrebbe, ma no, facciamo qualcosa di divertente: giochiamo.» Danny ride scompigliando la chioma elettrizzata di Lily e Thomas si passa una mano sul mento, valutando la cosa.

«A cosa?» Chiedo, con una punta di terrore mitigata dall’alcol.

Tony continua a sorridere malefico mentre estrae il cellulare dalla tasca dei pantaloni. «Obbligo e verità.»

All yours,

Sara.

 

P.S.: About Wayne ha già un Missing Moment, scritto da colei che ispira la mia Rachel. Lo trovate QUI, e dovete leggerlo perché riguarda Rachel e Thomas e so che li amate. E poi perché è bellissimo, ovvio.

 

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