Noir Trésor

di Cassandra Morgana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Il male di vivere ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: I ribelli ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: L'abisso ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Verso il nulla ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: Inchiostro corvino ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: Delirium ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: Bisogno d'amore ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: Incoerenza ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: Gli ultimi ribelli ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: Braccata ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: Incomprensioni ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: Prospettive ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: Sbronza triste ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: Calano le tenebre ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: Anime stanche ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16: Inquietudine ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17: Dove finisce la notte? ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18: Incognite ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19: Brandelli di solitudine ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20: Rosso sensazione ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21: In caduta libera ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22: Lenzuola stropicciate ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23: Smarrirsi ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24: In confidenza ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25: Conosci te stesso ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26: La sete ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27: Il male minore ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28: Il prezzo da pagare ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: Il male di vivere ***


Noir Trésor

 

di Adrienne8588

 

 

 

 

 

Capitolo 1

Il male di vivere

 

 

Auguste si tirò la porta dietro le spalle. Immobile al centro della via, gettò un’ultima occhiata guardinga verso la sua casa, un attimo prima di lasciarsela alle proprie spalle. Si risolse infine ad abbracciare con lo sguardo lo scorcio di quartiere che si apriva dinnanzi ai suoi occhi, scandito dalla regolarità ripetitiva delle abitazioni borghesi. Così diverse dalle dimore modeste di contadini e lavoratori manuali, i cui esigui guadagni si consumavano ben presto negli esosi tributi che, come risaputo, finivano nelle mani del duca du Lac e dello sparuto gruppo di nobili che controllava la città e gravitava nella sua orbita, accattivandosene i favori.

I suoi occhi furono presto trafitti dalla luce livida del crepuscolo inoltrato e dal chiarore malato dei lampioni ad olio che rischiaravano la via sul far della sera. Un leggero senso di smarrimento impacciava i suoi passi lungo la strada vuota che sentiva così diversa, svuotata del brulichio che la pervadeva durante il giorno, abbastanza spaziosa da consentire il passaggio dei carri dei contadini e dei venditori che trasportavano la loro merce e, talvolta, di rare vetture patrizie di passaggio. Le avrebbe riconosciute ad occhi chiusi, nello sfarzo rumoroso che le faceva sfavillare come diamanti nella pietra vile, nei cavalli superbi che le trainavano, riflettendo nel piglio severo e nella grazia nervosa la fiera alterigia dei loro illustri proprietari.

Ecco i loro nobili, pronti, non appena si fosse presentata l’occasione, a prostrarsi ai piedi del loro signore come uno sciame d’api su un favo di miele, ignorando stoicamente lo spettacolo della gente che scendeva indaffarata sulle strade per procacciarsi il pane con il proprio lavoro o, sempre più di frequente, per mendicare.

Auguste si sentiva stringere il cuore man mano che, allontanandosi da quel rione rivestito di un apparente decoro, si addentrava circospetto nel quartiere povero. Gettò alcune monete ad un nugolo di ragazzetti cenciosi che gli si era lanciato addosso frignando, implorando un’elemosina ed aggrappandosi con gesti studiatamente patetici alla sua giacca di buona fattura. Sorrise. Ci aveva sempre tenuto, un capriccio inappagato quando, bambino, aveva vissuto più o meno in quelle stesse condizioni, destreggiandosi come meglio poteva fra gli stracci e la miseria. E, quasi certamente, quei bambini non dovevano neppure aver fatto caso se di fronte a loro, pronto ad elargire un pugno di monete d’argento, vi fosse lui oppure un ricco aristocratico, per quanto a chiunque sarebbe apparso oltremodo insolito che un nobile si aggirasse in quei quartieri tutto solo, privo di una scorta, nell’ora in cui non era difficile imbattersi in qualche tagliagole pronto ad uccidere per un pugno di monete.

Auguste avvertì un lampo di gelida malinconia attanagliargli la gola; gli occhi grigi, atteggiati ad un’espressione imperturbabile, scintillarono umidi nella luce squallida e tremolante dei lampioni. E, in quello stesso istante, un senso di dolorosa claustrofobia gli si strinse alla bocca dello stomaco: qual era la differenza tra un odiato aristocratico che avesse deciso di sfidare la fortuna e mettere a repentaglio la propria vita aggirandosi in quei luoghi, e un uomo qualunque che, con indosso l’abito buono, se ne andava tutto impettito a cospirare in tutta tranquillità contro un tiranno?

Probabilmente, a qualcuno disposto a tutto pur di sfamarsi, poco sarebbe importato se lui fosse stato conte o barone oppure un disgraziato al pari di loro. La fame e la disperazione prima o poi portavano gli uomini a lottare ferocemente per un tozzo di pane, a uccidersi per pochi spiccioli, incapaci di aiutarsi nella disgrazia comune.

Affrettò il passo con finta disinvoltura, lasciandosi alle spalle le grida festose dei marmocchi che si erano guadagnati la giornata. Era rimasto solo.

Come in un sogno, gli parve quasi di sentire i fantasmi della sera chiudersi su di lui, ombre illusorie proiettate sulle pareti irregolari dalla luce incerta dei lampioni che danzava sulle fronde sotto la sottile bava di vento.

Era come se vi fosse intorno a lui qualcosa che testardamente cercava di rifuggire, ma, a dispetto di ciò, continuava a tenerlo sotto controllo per mezzo di occhi vigili che lo spiavano, gravandogli sul cuore. Immobile al centro della strada, aguzzò i cinque sensi, smarrito, una goccia di sudore che gli scivolava di lato sulla fronte pallida fino a morire sullo scollo della camicia. Istintivamente, portò la mano al pugnale che teneva nascosto in fondina, le dita strette intorno all’elsa in un gesto nervoso e maldestro. Non era più avvezzo a maneggiare armi, eppure, quando percorreva quei vicoli bui per recarsi alle sue riunioni segrete, sapere di avere con sé un mezzo per difendersi da un possibile aggressore, in qualche modo lo faceva sentire meno angosciato.

Non era normale quell’atmosfera così placida ed inquietante, così statica, serena soltanto in apparenza: ricordava sin troppo da vicino lo stato di quiete che precede la tempesta.

Ma era altrettanto probabile che fosse soltanto l’atmosfera lugubre e soffocante della città dopo il tramonto a destare in lui certe ansie ingiustificate: con ogni probabilità, doveva essersi lasciato suggestionare dai suoi fantasmi.

Che stupido! Bastava davvero così poco a metterlo in agitazione? C’era davvero qualcosa che non quadrava, qualche particolare che la sua mente ancora non riusciva a focalizzare, oppure gli si stava annebbiando il cervello?

Aveva paura. Lui, lui che aveva combattuto una sorta di battaglia senza quartiere contro il suo stesso destino sin dal momento in cui aveva mosso i primi passi. Aveva lottato gettandosi alle spalle le sconfitte, ignorando le ferite sul suo animo. Da ragazzo si era spaccato la schiena nelle locande pur di racimolare il necessario per istruirsi e ambire eventualmente a condizioni appena più dignitose, coltivando in segreto, quasi inconsapevolmente, quella coscienza critica che gli era sempre stata connaturale e che l’avrebbe portato ad un’insofferenza esasperata verso le storture che logoravano il mondo intorno a lui e delle quali lui stesso era vittima. Aveva parimenti nutrito il desiderio di lasciare per sempre quel buco rigettato dall’inferno ed ora retto da un despota. E invece, aveva finito per seguire la confusa vocazione che lo spingeva a lasciare il proprio contributo là, nella sua città natale.

Non si era risparmiato nulla. Gravato sulle spalle da difficoltà economiche non indifferenti, dopo aver prosciugato i suoi risparmi nel vino e nei libri, in un primo momento aveva accettato un impiego come giornalista presso la gazzetta ufficiale, fortemente sottoposta a censura dopo l’avvento del duca. Non aveva resistito più di due mesi nella veste di scribacchino lustrascarpe del tiranno, intento a vergare cartaccia di regime sotto la tacita, costante minaccia della censura e della galera. Se n’era andato. Troppo sbilanciato a suo svantaggio, il baratto della sua coscienza al prezzo di due soldi.

Non era stato prudente da parte sua, nel momento in cui già in passato si era trascinato dietro il marchio di potenziale perturbatore, e il duca di certo non aveva dimenticato i suoi trascorsi. Che lo ignorasse o meno, su di lui pendeva una sorta di spada di Damocle, e, senza che nessuno l’avesse chiaramente messo in guardia in proposito, Auguste sapeva che sarebbe bastato un passo falso, stavolta, per cadere male.

Non aveva quasi più nessuno. I suoi genitori erano morti qualche anno prima, stroncati dal tifo, e lui, dal canto suo, non aveva mai fatto nulla, nel corso della sua vita, per procurarsi affetti duraturi. Il suo procedere con freddezza e disincanto, teso ad ossessionanti quanto legittime ambizioni, aveva finito per alienargli ogni calore umano: si era semplicemente limitato a sfruttare coloro che si erano trovati a gravitare nella sua stessa orbita, i quali, prontamente, l’avevano sfruttato a loro volta.

Cosa poteva aspettarsi, cosa poteva mettere concretamente in gioco ora, uno come lui, palesemente solo contro un potere assoluto? Troppe cose, se non fosse stato abbastanza pazzo da rischiare ogni giorno. Cos’altro, lui che viveva ogni giorno nell’incertezza, in mezzo ai complotti, guardandosi costantemente alle spalle e covando progetti ambigui? Era tutto assurdamente folle, da parte sua.

La sua morte sarebbe forse andata a discapito di qualcuno? Con ogni probabilità, no. Fra coloro che si opponevano gravava una sorta di tacito accordo secondo cui non sarebbe stato il peggiore dei mali morire per la Causa. Una morte eroica non avrebbe costituito che un esempio. Tuttavia, Auguste riteneva a ragione che ognuno di loro in realtà mascherasse l’umana paura con quell’idealismo un po’ esasperato, e nessuno in realtà dormisse sonni tranquilli.

I ragazzi avevano accettato spontaneamente la sua autorità senza chiedergli nulla in cambio: avevano bisogno di qualcuno abbastanza lucido da guidarli verso obiettivi concreti, di una sorta di punto fermo in grado di indirizzare i loro slanci e contenere gli spiriti troppo ardimentosi dal commettere gesti avventati, sebbene alcuni di loro, di tanto in tanto, finissero per sfuggire al controllo. Vi era stima fra loro, ma forse parlare di amicizia, da parte sua, sarebbe stato eccessivo.

E man mano che la sua vita andava avanti, dispiegandosi ogni giorno di fronte a lui come una tela bianca, Auguste nutriva sempre più l’impressione che ogni giorno si susseguisse uguale a se stesso, come un incubo ricorrente. Voleva idealisticamente cambiare quella piccola fetta di mondo, eppure doveva riconoscersi incapace persino di cambiare la propria vita, che proseguiva come un’alienante tela di Penelope. Ogni buon proposito sfumava la notte, mille contraddizioni che si scontravano nella sua mente nelle lunghe ore insonni. La vita scorreva, eppure lui non la sentiva, non riusciva a recepirla. I giorni si susseguivano tetri davanti a lui, senza sfiorarlo, come una fugace illusione: lo scorrere del tempo non era un fattore che incideva sulla sua coscienza.

Aveva ventinove anni e si sentiva già vecchio. In fondo, non aveva fatto nulla di speciale, a parte ficcarsi in testa progetti irrealizzabili e tramare contro il Potere. Non era stato un buon figlio, non era stato un buono sguattero di taverna né un buono studente né un buon gazzettiere. E, attualmente, non era granché neppure come ribelle.

Sì, non vi era molto di concreto da mettere in gioco: magari avrebbe dovuto soltanto stringere i denti oppure buttarsi nell’alcool per sopire alla propria frustrazione. Eppure non sarebbe arrivato a tanto; semmai per lui ci fosse stata qualche debole speranza di riscatto, non vi avrebbe rinunciato apaticamente.

Si era reso conto che, tutto sommato, non era neppure la morte il suo principale timore. Né le sconfitte in quanto tali, giacché, confrontandocisi costantemente, aveva finito per farsi le ossa. Le ossa, anche se non il cuore. La mente si riempiva giorno dopo giorno di progetti e idee più o meno concrete, con quel senso di vuoto che continuava a pesargli sul cuore, e ne soffriva.

Aveva mai preso seriamente in considerazione le proprie debolezze? A coloro che avevano a che fare con lui, doveva piuttosto suscitare l’impressione che non ne avesse: come poteva qualcuno che non fosse lui stesso, del resto, per quanto perspicace, riuscire a penetrare la solida corazza di fredda e spiazzante razionalità di una persona che sembrava non avere sentimenti?

Era caduto nelle stesse trame che aveva tessuto: si era lasciato corrompere dall’ansia febbrile e divorante di mille progetti e, in loro nome, si era martoriato l’anima. I suoi pensieri confusi non convergevano in alcun punto comune, esacerbando la sua disperazione.

In tutta la sua vita, che ora gli pareva tanto simile a quella di un gatto selvatico, soltanto una volta aveva conosciuto l’amicizia sincera. Ed ora, in nome di utopici desideri, stava per sacrificare anche questo.

Sospirò. Non poteva permettere che accadesse: era questo il campanello che gli martellava nella mente dacché aveva messo piede fuori casa, e nonostante avesse ormai preso la sua decisione. Sarebbe stato difficile tornare indietro, ma forse poteva ancora fare qualcosa. Doveva parlare con Lucien.

Lucien… Il suo unico punto di riferimento. L’amico d’infanzia che gli era sempre stato accanto, la persona con la quale aveva condiviso i momenti tristi e le piccole gioie. L’unico di cui si fidasse ciecamente e che ricambiasse la sua fiducia, il solo verso il quale avesse mai provato un affetto sincero.

Non poteva lasciare che l’unico angolo della sua vita capace di riempirgli il cuore di un sentimento che sgorgasse direttamente dal proprio animo, e non dall’interesse di controverse aspirazioni, venisse meno, sfumasse come una bolla di sapone, per poi perdersi. Non poteva sacrificare il suo unico attaccamento in nome di un Bene nel quale non credeva più neppure lui stesso.

E forse non sarebbe stato nemmeno così tardi per mutare ancora una volta la sorte degli eventi. Come aveva sempre fatto o, per lo meno, si era ingegnato a fare. Doveva agire in fretta, e doveva parlare… Prima che fosse troppo tardi.

Ce l’avrebbe fatta, ancora una volta, e non avrebbe ceduto. Aveva sbagliato e già iniziava ad avvertire l’eco delle conseguenze, ma poteva ancora stornare da sé il male che aveva generato.

Lunghi anni non erano serviti a placare il suo animo ardente, un confuso anelito di una giustizia che oscillava fra la spinta ideale ed il più torbido egocentrismo.

I suoi sogni vaporosi ed ambigui l’avevano reso folle, ubriaco, deviandolo dagli affetti più semplici e naturali, dall’umano bisogno di calore ed attaccamento reciproco, dai valori genuini. Mancava in lui un autentico afflato altruistico, la cui profonda carenza rendeva vana e contraddittoria ogni idea che la sua mente partorisse. Aveva perso di vista ciò che era la base, ed ora rischiava di addentrarsi in un vicolo cieco.

Aveva compreso quasi subito i propri errori, forse già troppo tardi. Troppo tardi per tornare indietro, magari; non da rinunciare ad arginare gli effetti più deleteri delle proprie scelte avventate.

Voltò l’angolo per l’ennesima volta nelle strade tortuose e buie, accompagnato dal sibilo sinistro del vento leggero che si era alzato, rimbombandogli furiosamente nel petto, in sincronia con il battito del suo cuore impazzito.

 

Fa’ che non sia troppo tardi… Fa’ che non sia tutto perduto. Che possa recuperare il recuperabile. Ti prego. Ti prego!

 

Una folata più violenta gli sollevò il mantello scuro e gli scompigliò sulle spalle i lunghi capelli bruni, tirati rigidamente dietro la nuca e costretti in un codino.

Era ancora presto, ma forse non sarebbe stato il primo a giungere a destinazione. Doveva riuscire a parlare con Lucien e a chiarire le sue ragioni, viso a viso, prima che arrivassero gli altri. Prima si fosse tolto quel dente che gli doleva, meglio sarebbe stato per tutti.

Si fermò ansante dinnanzi alla dimora dell’amico, il venticello gelido che gli penetrava nelle ossa e lo faceva rabbrividire. La temperatura si era raffreddata rapidamente, malgrado si trattasse di una caliginosa sera di maggio. Al mattino il leggero tepore nell’aria era stato persino gradevole, rammentava, ma, in capo a poche ore, una cappa d’umidità aveva reso l’aria fredda e pesante.

Attese, ansimando e riprendendo fiato, prima di vibrare qualche debole colpo sulla porta: d’un tratto, gli era venuto a mancare il coraggio. Ma non poteva tergiversare. Era vero: non sarebbe riuscito a tenere inchiodato con franchezza il proprio sguardo in quello di Lucien, perché quello che aveva fatto, quello che stava diventando… era troppo.

La porta si aprì dinnanzi a lui con un cigolio, quasi prima che riuscisse a sfiorare il legno con il palmo della mano, nell’inconscio tentativo di sospingerla davanti a sé sotto una leggera pressione.

L’interno buio lo accolse come un’austera processione di fantasmi, e Auguste avvertì dipingersi chiara sul volto una malcelata delusione: la porta aperta doveva presumibilmente stare a significare che qualcuno era già arrivato. E lui aveva perso ancora una volta l’occasione di chiarire la questione una volta per sempre.

I suoi occhi impiegarono una manciata di secondi a metabolizzare l’oscurità della stanza. Le candele spente, la stanza vuota, il silenzio innaturale. Nessuna presenza intorno a lui, nessun movimento nell’aria.

- Lucien, sono io, Auguste!

La voce tremante e insicura riecheggiò per la casa, infrangendosi sulle pareti, risuonando su per la lunga scalinata e spezzandosi in echi inquietanti.

Perdio, considerò Auguste: Lucien non era uno sprovveduto e, almeno per quel genere d’incontri, avrebbe dovuto per lo meno osservare un minimo di precauzione. Non era da lui. E lasciare la porta aperta, che fosse in casa oppure no, non rappresentava il più fulgido esempio di prudenza, con i ladri e i tagliagole che assediavano le strade a quell’ora tarda; questo, senza ancora aver considerato la fondamentale segretezza in cui avrebbero dovuto svolgersi le riunioni. Per Giuda, sarebbe stato come concedere su un piatto d’argento a qualche pattuglia di passaggio, a qualche schifoso cane del duca, l’occasione di cogliere un presunto oppositore del potere in flagranza di reato, intento ad intrattenere strani raduni in casa sua.

Auguste si deterse la fronte imperlata di sudore freddo, il respiro affannoso. Stava male: intorno a lui c’era qualcosa che non andava, si disse, ripensando all’indefinita minaccia che aveva avvertito lungo il tragitto e che aveva ritenuto un parto malato della sua mente suggestionata. Che diavolo era successo?

Era accaduto qualcosa: Lucien doveva essere uscito di casa di gran fretta, senza preavviso, al punto da abbandonare la casa aperta dietro di sé.

Avvertì il proprio cuore saltare un battito, quando, alla sua sinistra, percepì un colpo leggero vibrare sui vetri. Istintivamente, la sua mano si mosse fulminea, per la seconda volta, sulla raffinata impugnatura del coltello.

Eppure, al di là della finestra socchiusa, non vide altro se non un pipistrello che urtava le imposte con le ali, simile ad un ubriaco, ingannato dai suoi stessi sensi.

Si diede mentalmente dello stupido: come poteva farsi prendere dal terrore a causa di strane coincidenze e di ingiustificati presentimenti?

Sollevato, ripose il temibile oggetto nella tasca, quando, volgendo nervosamente qua e là lo sguardo, le pupille dilatate sì da catturare le immagini circostanti nell’oscurità, qualcosa attirò la sua attenzione.

 

Non era solo.

 

Vi era qualcuno mollemente adagiato sulla poltrona, e gli dava la schiena, il corpo rivolto verso un fuoco morente, le deboli braci agonizzanti che irradiavano un pallido calore. Ma quella posa non poteva essere naturale; era come un disegno realizzato dalla mano inesperta di un bambino.

 

Riconobbe la linea diritta e sottile del profilo di Lucien, i suoi capelli…

 

Ma quella figura non poteva appartenere ad una persona viva.

 

Auguste non riusciva a stabilire un collegamento fra ciò che il senso della vista percepiva dinnanzi a lui e una qualche facoltà mentale.

 

Si capacitò che il suo amico era morto solo quando, scorrendo con lo sguardo allucinato su qualcosa che avrebbe preferito cancellare per sempre dalla propria mente, vide un rivolo sottile di sangue colare a un lato del suo collo, la pelle resa cinerea dal gelo della morte.

 

 

 

 

Ps: ringrazio di cuore Cami e Monella per le loro recensioni, le quali mi hanno fatto immensamente piacere. Mi raccomando: continuate a seguire la mia storia! Alla prossima!

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: I ribelli ***


Capitolo 2

I ribelli

 

 

L’atmosfera a poco a poco si era acquietata, tornando tersa e tranquilla: la cupa foschia e le nubi che fino a pochi istanti prima correvano lungo la volta del cielo, mostrando e a tratti nascondendo il volto della luna piena, si erano diradate, aprendo un varco nitido nella notte. Era come se un mostro, appollaiato sino a quel momento sull’astro paglierino dopo aver dato la caccia alla preda, si fosse ritirato a rimirare da un cantuccio nascosto l’effetto della propria opera, leccandosi le labbra, fiero del proprio operato.

Dopo la tempesta, era tornata quella calma ingannevole che pareva nascondere le proprie insidie sotto un’apparenza vagamente ostile e carica di languore.

Un’ombra dai contorni incerti, rivelata dai raggi della luna piena, parve far capolino come un fantasma fuggiasco in quella stanza in cui ancora vibravano note dense di sangue.

Ma, più probabilmente, doveva essersi trattato di un incubo momentaneo… Una sorta di tremenda suggestione: nessuno lo spiava.

Il corpo privo di vita di Lucien giaceva inerte sul piccolo divanetto scuro e, ad un’occhiata sommaria alle sue spalle, sarebbe parso tranquillamente assopito nella lettura di un libro, in attesa degli ospiti della serata. Ma la sua posa, agli occhi di Auguste che indugiavano febbrili e ossessivi su ogni singolo particolare, aveva qualcosa d’innaturale: troppo molle ed abbandonata per appartenere ad una figura addormentata, il busto reclinato, il viso esangue che puntava verso il cielo in un ultimo anelito di libertà, le lunghe gambe distese.

Auguste si risolse a distogliere momentaneamente lo sguardo da quella visione. Ansante, bagnato di un gelido madore, il cuore che pareva schizzargli fuori dal petto, scosse nervosamente la testa, come a volersi liberare di angosciosi pensieri ancorati tenacemente al cervello.

 

Lucien non poteva essere morto.

 

Riprese a scrutarlo, sforzandosi di restare lucido. Forse, avrebbe potuto fare qualcosa, o almeno così cercava d’illudere la propria mente in subbuglio. Sbatté le palpebre fino a vedere più chiaro nella penombra e, facendosi coraggio, portò la mano tremante a sfiorare la gola di Lucien con il gesto razionale di un medico, sì da constatare se respirasse ancora. Lo tastò convulsamente, un tocco delicato e malfermo. Nulla, nulla, neppure il più flebile movimento che potesse lasciar presagire un soffio di vita. Non una sola molecola d’ossigeno nelle vie respiratorie, nessun alito vitale a rinfrescare i polmoni inerti. Il battito assente. Immobile, le povere vene svuotate d’ogni energia vitale, il volto livido ed esanime.

Il suo viso. Sembrava bello e disteso come sempre, non il minimo accenno di sofferenza o di paura in quel che restava dei suoi ultimi istanti. Sarebbe parso addirittura normale, se non fosse stato per il gelido pallore che conferiva al volto senza vita quella venatura innaturale.

Auguste non poté sostenere ulteriormente quella vista ed i pensieri folli e confusi che lo tormentavano. Ogni singolo dettaglio sembrava pulsare di vita propria, suscitando in lui un’attenzione morbosa che si risolveva in una fitta al cuore sempre più intensa. Stava impazzendo! Era impazzito, ne era sicuro.

Le gambe non lo ressero. Ricadde sulle ginocchia, a peso morto, il capo fra le mani, troppo scosso persino per lasciar sfuggire qualche lacrima dagli occhi lucidi e congestionati o strapparsi i capelli per la disperazione. Era… troppo.

Non era giunto in tempo, aveva lasciato che tutto si consumasse nel silenzio, fragile ed impotente di fronte alla fatalità; incapace, ancora una volta, di mitigare quella piega così amara in cui mai avrebbe immaginato potessero volgere gli eventi.

E, in mezzo a quel vortice a senso unico di dolore, panico e disperazione, una rabbia cieca e devastante si fece strada in lui, gelandogli ogni goccia di sangue.

Perché Lucien aveva lasciato che accadesse? Il sangue purpureo che impregnava la sua pelle e la seta leggera della camicia era fresco e continuava a colare lentamente, imbevendo tutto.

Stupido! Se si fosse reso conto in tempo del pericolo, avrebbe potuto resistere ancora, solo qualche istante: istante che gli avrebbe concesso d’intervenire e stornare da lui la morte.

 

Perché hai permesso che accadesse, Lucien? Perché non mi hai lasciato il tempo d’intervenire, perché hai voluto dannarmi per l’eternità…?

 

* * *

 

- Un’aggressione. Ritorsioni di qualche potente al quale è stata inavvertitamente pestata la coda? Un “simpatico” avvertimento da parte del bastardo che pensa di soggiogarci - non ancora per molto, volesse Dio… Qualcosa tipo “fattevi gli affaracci vostri o farete la stessa fine”? – proruppe concitata una figura alta alle sue spalle.

- Taci, Dorian! – lo redarguì una voce dalla cadenza più bassa e roca – Nessuno ha chiesto il tuo parere.

- Ma deve esserci, per Giuda, una ragione a tutto questo – rincarò la dose il più giovane, irremovibile.

Auguste non li ascoltava, estraneo a tutto ciò che era accaduto intorno a lui nell’ultima mezz’ora. Poco gli importava delle vaghe supposizioni degli altri ribelli e del capo della polizia cittadina: ipotesi confuse e senza alcun fondamento che non avrebbero fatto altro che ingolfargli il cervello d’inutili perplessità.

- Bada a come parli, Dorian! Anche i muri hanno orecchie, di questi tempi.

Il giovane dai capelli biondi si limitò a scuotere nervosamente il capo, scoccando un’occhiata insofferente in direzione del commissario, un’espressione di sfida dipinta sul bel volto. Per poi riprendere a misurare con passi tesi e concitati il perimetro della stanza.

Dorian era così diverso da lui, si ritrovò a meditare Auguste; così diverso nel modo di catalizzare l’angoscia e la tensione in eccesso: il suo temperamento collerico gli lasciava esternare con rinnovato impeto il dolore, la rabbia, il crescente nervosismo.

La tensione che impregnava la stanza era diventata per tutti così densa e palpabile da non concedere quasi neppure lo spazio di un respiro. E quel piccolo sfacciato si prendeva la libertà di insultare il signore di Noir Trésor persino di fronte ad un uomo che, lì di fronte a loro, in quel momento si ergeva a rappresentante di un’autorità.

Era una fortuna che il capo della polizia cittadina fosse del tutto dissimile da quegli uomini rigorosi, ligi al proprio dovere al servizio del duca; un bene per Dorian, incappare non nel commissario intransigente capace di fargli passare il peggior quarto d’ora della sua vita, ma in un questurino indolente che, per codardia, fingeva di non sentire: troppo vigliacco per fare la spia o intervenire con mano pesante contro le voci sovversive in città, altrettanto vile per risolversi definitivamente a schierarsi dalla parte dei ribelli.

E forse, convenne Auguste, quell’uomo sarebbe stato capace, se ciò avesse prodotto per lui dei vantaggi, di prostrarsi ai piedi del tiranno. Era Alphonse du Lac, dopotutto, l’uomo al quale quel viscido di Lambert doveva la propria fortuna: era stato lui ad avergli elargito su un piatto d’argento quella posizione che gli permetteva di mantenere un alone di rispettabilità, nonché di percepire un ragguardevole compenso. Al cospetto del suo benefattore, teneva un contegno tanto rigido e compito quanto ipocrita, comportamento che non di rado gli aveva alienato la stima e la simpatia della popolazione. Ma, voltate le spalle e smessa la propria divisa, assicuratosi di avere le spalle adeguatamente coperte, era un uomo del popolo che sapeva menar le parole nella giusta direzione, sparando in tutta tranquillità su quanto non gli andasse dell’amministrazione del duca, dei suoi collaboratori, del suo regime, senza per questo pervenire ad alcuna soluzione concreta che chiarisse la sua posizione. Auguste lo reputava senza mezzi termini uno che sputava nel piatto in cui mangia, e gli altri avevano finito per compatire quell’uomo opaco ed untuoso. E, tutto sommato, innocuo, per loro fortuna.

Auguste udiva i tacchi degli stivali di Dorian battere sul pavimento come martelli, finché il ragazzo non si fermò accanto a lui, lo sguardo fisso sul corpo senza vita di Lucien adagiato compostamente sul divano, mentre i due uomini, il medico che lo stesso Dorian si era preoccupato di mandare a chiamare e quell’intrigante questurino, scrutavano la salma con occhi gelidi e parlottavano fitto fitto tra loro, attenti a non lasciarsi udire dai presenti.

Con la coda dell’occhio, Auguste vide Dorian strapparsi in un moto isterico il nastro stretto intorno alla coda di folti capelli ondulati che gli ricadeva oltre le scapole. Il giovane scosse le chiome bionde come un cane infastidito dal caldo, riavviandole all’indietro, e si riannodò il codino.

Dorian era un fascio di nervi pronto ad esplodere: Auguste poteva quasi avvertire l’aria intorno a sé, come un miraggio, risentire del respiro alterato e nervoso del compagno e delle vibrazioni di collera. Al contrario di lui, che si ostinava tenacemente a ricacciare dentro di sé un dolore che lo stava uccidendo.

Giaceva miseramente accoccolato sul pavimento, sconvolto e del tutto assente agli eventi circostanti, lo sguardo vacuo inchiodato al pavimento, reggendosi la fronte con la mano. Di rado si era sentito così debole, sconfitto, in balia di forze superiori.

Gli uomini presenti nella stanza insieme con lui non erano altro che ombre inconsistenti che, per una semplice casualità, si agitavano davanti ai suoi occhi. Percepiva le loro parole ed i loro gesti incredibilmente lontani da sé, ovattati, come forme evanescenti viste attraverso uno specchio.

Non gli importava di ciò che si muoveva senza posa intorno a lui; non aveva più alcuna importanza che quelli continuassero a blaterare inutilmente ipotesi più o meno realistiche circa i motivi e la dinamica dell’accaduto. Non gli sarebbe importato nulla neppure se avessero preso ad azzuffarsi nella speranza di trovare un colpevole fra loro; neppure se l’avessero preso, gettato in mezzo alla mischia e condotto in catene fino ai carceri.

No, si era immerso senza neppure rendersene conto in una dimensione mentale parallela dove macabre e sfuggenti illusioni, opera di entità malvagie, lo stavano conducendo fino alla follia.

Si riscosse lievemente, quando intercettò l’occhiata eloquente che il commissario Lambert indirizzò a Dorian, per poi rivolgere un gesto della mano nella sua direzione.

- Portalo fuori a prendere una boccata d’aria, Dorian – biascicò con voce incolore – Questo sta per sentirsi male, e un morto, per stanotte, è più che sufficiente.

Dorian si limitò ad una smorfia d’insofferenza, circondandogli le spalle con il braccio e obbligandolo, quasi, a risollevarsi in piedi.

Gli occhi di Auguste erano pozzi senza fondo. Per un istante, meditò se fosse stato sufficiente strangolare il commissario per quell’infelice affermazione.

Cosa credi di saperne di me, stupido asino imparruccato? Avrebbe voluto gridargli, se solo la sua mente non fosse stata immersa altrove, dall’altra parte dello specchio che confondeva la sua realtà.

Attraversò la stanza come un automa, scortato da Dorian che gli teneva insistentemente la mano sulla spalla come se fosse stato sul punto di crollare da un momento all’altro, simile ad un fuscello mosso dal vento.

La sala sembrava diversa da quando vi aveva buttato lo sguardo l’ultima volta – solo pochi istanti prima di apprendere la fine del suo amico. Le pareti gli parevano più buie e scure, come se l’alito dell’angoscia e della disperazione, in qualche modo, vi fosse rimasto appiccicato.

Vide i volti dei presenti, ma senza prendersi la briga d’identificarli. Ombre… Solo ombre evanescenti. Forse si sarebbe svegliato in tempo dall’incubo. Forse. Se già non fosse stato troppo tardi.

- Auguste, sei sicuro di sentirti bene?

La voce di Dorian lo riscosse definitivamente. La vista gli si snebbiò, dissipando quella patina d’opacità che fino a quel momento gli aveva impedito di vedere lucidamente.

- Certo, Dorian. Io sto bene. Non è questo il problema – replicò con rinnovata freddezza.

Già: non era lui il problema. A chi credeva di darla a bere? Per quanto ancora? Oh, Dorian! Possibile che nessuno di voi si renda conto di cos’ha veramente di fronte?

Vide i lineamenti delicatamente scolpiti sul volto del ragazzo contrarsi nell’incertezza alle sue parole. Distolse lo sguardo. Quando mai Dorian si sarebbe umanamente preoccupato per lui, se fino a quel momento la sua principale occupazione era stata sì appoggiare le sue idee, anche se superficialmente e in un’ottica del tutto personale, e poi cercare costantemente di combinargliene sotto il naso qualcuna delle sue? Forse, non poteva considerarlo degno di fiducia a pieno titolo, benché, a dire il vero, nessuno seguisse regole precostituite. E, purtroppo per lui, Dorian doveva trovare sin troppo divertente, come una sfida appetitosa, agire di testa propria, guidato dalla sua passionalità, sfuggendo a qualsiasi supervisione e spesso procurando sfilze di grane.

Fernand sapeva fare persino di peggio. Se Auguste riusciva ancora a controllare e tenere a freno l’impetuoso Dorian, sebbene egli agisse fondamentalmente in modo autonomo, infischiandosene di tutto e spesso pentendosi delle sue stesse azioni, Fernand era addirittura subdolo. Con lui, parlare era sempre tempo sprecato: l’avrebbe contraddetto fino alla nausea ed avrebbe agito comunque di propria iniziativa, qualunque cosa ne pensasse, operando in segreto e presentandosi davanti a lui con fare così sfacciato, da finto innocente, da muovergli il desiderio istantaneo di prenderlo a pugni.

 

L’aveva scorto di sfuggita, ritto ed impassibile come una statua di marmo, lo sguardo indolente. Aveva percorso distrattamente con lo sguardo la linea del suo volto sottile, così fredda e pura da sembrare innaturale, e, come un gioco, aveva tentato di cogliere qualche vaga emozione su quei lineamenti distesi in un’espressione atarassica sul volto pallido.

I capelli sciolti, lunghi fino alle spalle, come un’ombra ai lati del suo viso, a rimarcare il taglio affilato dei lineamenti che ne attutiva l’impatto androgino; la camicia, allacciata disordinatamente sul petto a scoprire una stretta porzione del torace, circonfuso di quella grazia dimessa che gli conferiva un’apparenza quasi aristocratica, una venatura vagamente inquietante: se non fosse stato per quei penetranti occhi azzurri e per la sfumatura fredda che la luce smorta conferiva al castano chiaro dei suoi capelli, il quadro d’insieme sarebbe stato nettamente bicromatico.

Fernand, i modi che talvolta si configuravano non troppo differenti da quelli di un ragazzo riottoso ed imprudente: voleva tutto e subito. Nella sua ingenuità giovanile, doveva essersi persuaso, insieme al suo degno compare, che fosse tanto eroico quanto fattibile buttar giù un tiranno dal suo trono a suon di pugnalate. Dorian e Fernand sembravano fatti della stessa pasta, meditò Auguste, e la malefica accoppiata rischiava piuttosto di mettere a repentaglio la loro sicurezza e mandare tutto in fumo. Fernand, in particolare, ai suoi occhi non era che un ragazzo impulsivo la cui sconsideratezza andava tenuta a freno prima che divenisse troppo tardi.

Fissava diritto dinnanzi a sé, impassibile come una scultura classica.

Fernand. Lui, al contrario degli altri, non sembrava particolarmente scosso dagli ultimi avvenimenti. Se ne stava lì, calmo e distaccato.

Piccolo serpente malefico, considerò fra sé Auguste, mordendosi nervosamente il labbro. Negli ultimi tempi, Fernand non era stato esattamente in buoni rapporti con Lucien. Certo, questo non rappresentava un motivo sufficiente a non fare una piega alla notizia della sua morte, ma non era umanamente credibile che quel ragazzino appena svezzato riuscisse a mostrarsi ancora più freddo e criptico di lui.

Non del tutto, forse: il fatto stesso che Fernand avesse aderito con trasporto alla loro causa e fosse uno dei principali fautori delle opere di sedizione, lasciava presagire che un fondo di generosità dovesse pur possederlo, sepolto in qualche angolo remoto di quel cuoricino di ghiaccio, al di là di contorte ambizioni o di personali smanie di rivalsa.

Nonostante tutto, ad Auguste era balenata per un attimo nella mente l’espressione ferita e furiosa di Fernand in occasione della loro ultima discussione, solo pochi giorni addietro.

Fernand non doveva aver gradito di ritrovarsi sbattuto senza appello nel torto palese, privo di qualunque consenso e con le spalle al muro a proposito di quella questione che al momento, per quanto si sforzasse di far mente locale, Auguste non riusciva proprio a rammentare nella sua interezza. Ricordava però l’energia con cui Lucien l’aveva diffidato da intraprendere qualsiasi iniziativa, da muovere anche solo un passo senza le certezze necessarie ed il benestare di tutti. Rivedeva ancora la fermezza scolpita negli occhi d’acquamarina, fissi con disarmante franchezza sugli oceani in tempesta che erano divenute le iridi di Fernand, tanto cupe e fosche da sembrare quasi sprizzare scintille per il profondo rancore che vi si annidava.

Ed avendo Fernand un carattere fiero, con ogni probabilità non avrebbe regalato tanto facilmente l’occasione di farsi rimirare in quello stato; se non fosse stato così orgoglioso – Auguste ne era quasi sicuro – forse non sarebbe riuscito a contenere le lacrime di rabbia che gli erano lampeggiate furiosamente negli occhi, a quella che doveva aver sentito bruciare sulla pelle come una cocente umiliazione. Vulnerabile, per un istante, insospettabilmente vulnerabile.

Talvolta Auguste cercava di convincersi che Fernand non fosse altro che un ragazzo arrabbiato e un po’ allo sbando: forse innocuo, dopotutto, nella sua prevedibile smania di voler crescere un po’ in fretta. Solo un ragazzo.

Al suo fianco, Auguste posò lo sguardo sulla sorella di Fernand, Ambrosie, lo sguardo molle e indolente, lo stesso piglio distaccato e lievemente arrogante del fratello.

La somiglianza spiccata che i due condividevano nell’aspetto non sarebbe stata mai paragonabile a ciò che accomunava i loro atteggiamenti. Ambrosie era più bionda del fratello, aveva un viso minuto dallo sguardo incisivo, forse un po’ particolare per essere definito esattamente bello, quasi un’antitesi dei canoni di bellezza femminile in voga, idealizzati nei dipinti e nei ritratti di gusto vagamente barocco, recanti figure femminili dai corpi procaci, i volti slavati e gli occhi sottili e sfuggenti.

Ambrosie si muoveva con una grazia nervosa, troppo decisa per essere attribuita immediatamente ad una donna. In lei, piuttosto, sembravano convivere paradossalmente la sfrontata alterigia di un’aristocratica e la genuina risolutezza di una ragazza del popolo, lo sguardo fresco e malinconico pervaso di un lieve sottofondo d’inadeguatezza e sospetto.

Per tutto il resto, quella donna restava un mistero, almeno quanto Fernand.

Com’erano giunti a Noir Trésor? Cosa li aveva condotti in quel nucleo di tirannide e corruzione? Quali obiettivi si proponevano? Poteva ancora fidarsi di loro?

Interrogativi destinati in quel momento a giacere insoluti: per quanto Auguste si fosse sforzato di penetrare quella rigida corazza di reticenza, non era riuscito a comprendere a fondo fino a che punto Ambrosie fosse idealmente coinvolta nel loro progetto, e se e dove risiedesse in lei il confine fra l’ambizione di protagonismo e l’aspirazione sincera. Sembrava essere entrata a far parte della congrega quasi per caso, forse sulla falsariga di suo fratello, forse spinta dall’amicizia che la legava a Dorian, da qualche arcana aspirazione personale o dal vanitoso, giovanile desiderio di far convergere le proprie traboccanti energie verso un punto concreto.

- Torniamo dentro – si rivolse asciutto a Dorian – Questo venticello mi ha fatto venire mal di testa.

 

 

 

 

 

Finalmente, capitolo concluso! Purtroppo, è un periodo un po’ “maledetto”, tra la fine della scuola e l’imminente Maturità.

Spero sia almeno all’altezza delle aspettative e che non deluda i lettori di “Noir Trésor.

Dunque, ringrazio con grande affetto Cami, Mikiinsa e Monella che hanno recensito i capitoli precedenti, nonché per le belle cose che mi avete detto e per il vostro incoraggiamento. Comunque sia… Grazie, grazie, grazie, anche a tutti coloro che stanno leggendo “Noir Trésor”, ancora “in incognito”!

 

 

Con affetto,

Alla prossima!

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: L'abisso ***


Capitolo 3

L’abisso

 

 

Auguste si lasciò ricadere esausto su una poltrona. Il mondo innanzi a lui avrebbe ripreso a girare, che egli lo desiderasse oppure no. Sospirò: doveva cercare di reagire e di non perdere la testa. La notte scorreva di fronte ai suoi occhi, nell’aria piatta ed opprimente, come foriera di nuove sventure. Il chiarore lunare, insieme alla luce dei lampioni lungo la via, penetrava nella stanza buia attraverso la finestra, giocando con il debole alone proiettato dalle candele accese e vincendone la luce slavata e smorta.

Lucien era morto, e la mente di Auguste andava per conto proprio, rifiutandosi di funzionare adeguatamente, razionalizzando quanto era accaduto e riflettendo circa la responsabilità dell’assassinio: troppe domande gli si affollavano nella mente, confondendolo. E lui era troppo debole per scuotersi e cercare delle risposte dentro o fuori di sé. Non avevano alcuna importanza le elucubrazioni della polizia cittadina e del medico che aveva appena terminato di esaminare la salma: non era stato neppure a sentirli. Lui era l’unico che potesse tentare di ricercare autentiche spiegazioni. A costo di tacere per sempre, se l’esito finale delle sue ricerche l’avesse obbligato a questo. Quale giustizia vi sarebbe stata, in una città che ormai era come l’ombra di se stessa, governata da un uomo corrotto? Quale giustizia, quale umanità?

Lucien era morto e la vita avrebbe continuato a scorrere impassibile.

Era come se il mondo intero per lui si tingesse di nero, come una macchia d’inchiostro che divora tutto indistintamente, senza speranza.

Per un attimo fu sfiorato dall’insana idea di farla finita una volta per sempre con il calvario che era diventata la sua vita, e mettere per sempre fine al proprio dolore. Sarebbe stato sufficiente somministrarsi del veleno o piantarsi un pugnale nel petto, e sarebbe scivolato nell’oblio della fine. Come un sonno, un lungo sonno non popolato da incubi.

Nulla aveva più un senso. E allora, aveva forse senso che lui restasse in vita a contemplare lucidamente i propri errori e le proprie illusioni?

Eppure, nel buio e nella follia del suo dolore, una sensazione contrastante si faceva largo in lui, un lume capace di rischiarare il più amaro sconforto e di tenerlo in vita.

Auguste non era un vigliacco. Auguste aveva imparato ad affrontare ogni situazione di petto, senza esitazioni. La sua missione non era ancora terminata, meditò, e non si sarebbe conclusa a breve. Aveva ancora troppo da perdere, troppi progetti da portare a compimento, troppi punti oscuri della sua intera esistenza da chiarire, per concedersi l’ingrato, vile lusso di abbandonare ogni cosa a se stessa e fuggire nell’oblio.

Ma quella confusa, nebulosa ambizione che in passato l’aveva tenuto in vita, ora non c’era più. Sorrise con disincantata amarezza: una volta era così. Da quel momento, tutto era cambiato, da qualunque prospettiva.

Ma forse avrebbe potuto ancora fare qualcosa, e non era affatto il suicidio la soluzione concreta ai suoi problemi. Doveva far chiarezza sulla morte di Lucien e portare avanti la sua missione con gli altri ribelli, si ripeteva, come una triste nenia. Doveva dare un valore alla propria esistenza, per quanto vago gli fosse il concetto, e malgrado in quel momento la sua vita, per lui, non avesse valore più di quella di un insetto. Ma non gli era concepibile neppure porre fine alla sua dannata parabola terrena da suicida, sopraffatto dalla sua stessa follia.

 

Non ho ancora saldato i miei conti. Non ho ancora ottenuto ciò per cui ho sempre lottato, e vi è ancora tempo per iniziare a pagare i miei debiti.

 

Paradossalmente, gli parve di avvertire gli occhi di Lucien fissi su di sé, indistinti nel suo pensiero, ed era una sensazione che non poteva ignorare. La sua mente si addentrava attraverso sentieri a lui del tutto estranei.

Serrò convulsamente le palpebre, cercando di ignorare le fitte di dolore al petto che gli procurava ogni singola immagine del suo amico richiamata dalla propria mente. Ma questo non poteva impedirgli di soccombere ai fantasmi che lo tormentavano.

Gli occhi di Lucien lo fissavano, e Auguste non riusciva a stabilire cosa vi fosse nel suo sguardo: tristezza, forse. Lucien era deluso da lui, dal suo comportamento. Ed ora vi era in lui il rimpianto di non averlo ascoltato nel momento in cui l’aveva messo in guardia contro i pericoli cui andava incontro a causa del suo agire. Forse Lucien l’avrebbe perdonato per quel legame che tra loro si era spezzato. O, almeno, gli sarebbe piaciuto crederlo.

L’immagine di Lucien affiorava lenta nella sua mente, dapprima vaga e sfumata, divenendo sempre più chiara man mano che il suo pensiero s’immergeva in quel sogno.

L’ovale del volto incorniciato da lisce ciocche color corvo che sfuggivano alla lunga coda, come l’aveva visto l’ultima volta. I lineamenti del volto, minuti eppure ben delineati, erano atteggiati in un’espressione indecifrabile. Auguste non riuscì ad afferrare il suo sguardo, a comprenderne appieno le sfumature.

Come vivere, ora, privo del suo solo punto di riferimento, dell’unico amico che aveva mai incrociato lungo la sua strada, senza quell’equilibrio che soltanto lui aveva conferito alla sua vita?

E poi, chiaro come un lampo in piena notte, ricordò ciò che aveva sancito quasi indissolubilmente il loro legame.

 

* * *

 

Di quel giorno rammentava ancora il lieve smarrimento che aveva prodotto in lui la vista dell’immane distesa d’acqua, il mare infinito, specchio tumultuoso che si estendeva a perdita d’occhio dinnanzi a lui. Gli parve di poter sentire ancora le onde vivaci infrangersi con ritmo regolare contro lo scafo della modesta imbarcazione sulla quale viaggiavano, l’abisso color cobalto che si estendeva innanzi a loro, privo di un punto d’approdo nelle vicinanze, quasi la nave, con tutti i suoi passeggeri, stesse fluttuando nell’aria.

E loro stavano su quell’imbarcazione, esuli, costretti a fuggire, a nascondersi, ad abbandonare Noir Trésor almeno finché le acque non si fossero calmate.

I brevi, angosciosi momenti che avevano rapidamente seguito il colpo di Stato messo in atto dal potente Alphonse du Lac e la sua successiva presa di potere, erano stati così implacabili e repentini da non lasciare agli oppositori alcuno spiraglio di possibilità di riorganizzare i loro ranghi e tentare una reazione. I nobili avevano appoggiato il nuovo astro nascente. Auguste ricordava la “caccia alle streghe” contro gli avversari politici che aveva seguito i drammatici avvenimenti, dalla presa di potere del duca fino al lento assestarsi della nuova situazione. Sarebbe stato il popolo, con l’andare del tempo, a patire gli effetti più nefasti della guerra civile e delle conseguenti repressioni.

Era stato un periodo breve e bruciante che avrebbe lasciato il segno sulla città.

Fu allora che Auguste e Lucien si allontanarono dalla loro città natale, sfuggendo così alla terribile sequela di arresti e condanne. Molti amici dell’Accademia cittadina, contrari al dominio autoritario del duca, erano finiti nei carceri o sul patibolo.

Ricordava la sterminata distesa d’acqua sotto i suoi occhi. Avevano scelto la via più sicura per sfuggire alle persecuzioni, ma poi sarebbero tornati.

Ed era stato allora che il ventiquattrenne Auguste, avendo da sempre vagheggiato l’idea di lasciare Noir Trésor, aveva compreso che il suo destino era legato alla sua città e che non si sarebbe dato pace fino a quando non fosse stata fatta giustizia sull’uomo che aveva perseguitato e mandato a morte i suoi amici e compatrioti. Noir Trésor aveva forse bisogno di quel modesto e utopistico contributo. Non si sarebbero arresi: dovevano portare a termine il progetto affiorato nella loro mente se non per un’utilità immediata, almeno per infondere una speranza negli animi generosi che un giorno avrebbero raccolto le loro aspirazioni e segnato il tramonto di quel periodo buio. Noir Trésor non si sarebbe avviata, insieme al suo signore, ad un destino certo di ingiustizie e barbarie; i suoi stessi cittadini avrebbero cancellato quegli attimi terribili.

Ricordava l’angoscia del suo primo viaggio in mare, la paura di non giungere a destinazione o di non poter fare più ritorno a Noir Trésor.

 

Il volto pallido di Lucien s’imporporava sotto i raggi rossastri del sole al tramonto. Auguste vide i suoi capelli bruni riverberare di sfumature differenti secondo la luce da cui erano colpiti: ora assumevano i toni del rame scuro, ora, sotto la luce della luna delle lunghe notti di viaggio, parevano tendere quasi al blu del cielo cupo.

Quella notte il vento si era alzato in maniera del tutto inaspettata, increspando pericolosamente lo specchio del mare in onde tumultuose che sballottavano la nave da una parte all’altra. Il capitano aveva assicurato che non vi sarebbe stato nulla da temere: la rotta era sicura, e il maltempo sopraggiunto non rappresentava un pericolo concreto per la sicurezza della navigazione. Eppure, Auguste non era riuscito a tranquillizzarsi del tutto.

 

Era tutto così diverso, rammentava ora: ero giovane; la mia volontà ancora non era permeata ed indebolita da fosche tinte pessimistiche.

 

La vicinanza di Lucien, in un certo senso, rappresentava per lui un’ancora di salvezza, uno scoglio cui aggrapparsi nella tempesta delle sue contraddittorie passioni. Lucien era la sua controparte: non meno agguerrito e determinato nella volontà di contrastare i mali della sua realtà, ma riflessivo, quasi empatico. Era l’unico in grado di incoraggiarlo e confortarlo, di offrirgli una spalla su cui piangere e alla quale aggrapparsi. Lucien era la sua antitesi e il suo simile, la sua parte complementare e la sua catarsi.

Era diverso, allora; era tutto completamente, stupendamente diverso. Un sogno nel quale cullarsi, confronto al suo presente.

Lucien era lì con lui, e la sua disperazione ed il suo mal di vivere erano relativi, circoscritti, controbilanciati e mitigati da una presenza amica. Allora non sarebbe riuscito a figurarsi come sarebbe stato, senza il suo unico amico, procedere dinnanzi ad un mondo che non perdonava l’errore, combattere i suoi fantasmi, affrontare le sue battaglie contro se stesso ed il resto del mondo completamente solo.

Un sentore di tempesta si era ormai diffuso nell’aria; il mare agitato era lo specchio del suo animo fumoso e tormentato. Gli erano venute a mancare le basi, ancora una volta, ma con Lucien accanto ogni suo moto di sconforto assumeva un colore differente che mai virava completamente al nero.

Possibile che soltanto adesso, a distanza di cinque anni, a poche ore dalla sua scomparsa, lui, Auguste, riuscisse a rendersi pienamente conto con granitica certezza di quanto Lucien fosse importante per lui?

Il ricordo di quel giorno non era mai sfumato, men che mai in quel momento. Ogni singolo istante che si affacciava spregiudicato nella sua mente era una goccia d’acqua in una torrida estate, una stilla d’ambra dal cielo.

 

- Come va, Auguste? – gli aveva domandato Lucien con voce pacata, scendendo sottocoperta ed oltrepassando la soglia dell’umida cabina ove trascorrevano le lunghe notti insonni – Non avrai il mal di mare? Sembri un cadavere in piedi.

- Ti ringrazio del complimento – gli fece Auguste con un mezzo sorriso malizioso e sarcastico – Ad ogni modo non è nulla, sta’ tranquillo. Soltanto un po’ d’emicrania, il che è normale, considerando che, a furia di ondeggiare di continuo, avrò dormito sì e no cinque ore. Distribuite in tre notti, intendo.

Fece scorrere una mano sulla tempia che gli pulsava ad intervalli irregolari, irradiando le fitte da una parte all’altra del capo. Il debole lume della lucerna ad olio era sufficiente ad impedirgli di tenere gli occhi aperti. Strinse le palpebre, cercando di ignorare il dolore. Di certo, non doveva avere un aspetto sano: gli occhi color antracite erano cerchiati dalle occhiaie scure.

Una vampata di calore gli salì alle guance, inattesa, quando avvertì con tutti i suoi cinque sensi la vicinanza di Lucien. Il sangue aveva preso a rombargli furiosamente: poteva avvertirne chiaramente il flusso impazzito palpitargli nelle vene, ripercuotendosi sulle tempie doloranti.

- Ora passa, sta’ tranquillo – lo rassicurò paternamente Lucien, la voce lievemente arrochita, il tono ipnoticamente dolce.

Auguste pregò in cuor suo che la penombra impedisse a Lucien di scorgere il suo volto che, da pallido, si era improvvisamente tinto di cremisi.

Un immenso languore gli attanagliò il petto e lo rese instabile, rapito, come ubriaco. Era la vicinanza di Lucien a farlo sentire debole e privo di difese? Doveva forse tutto questo alla propria mente confusa, scombussolata dai profondi mutamenti che gli erano ricaduti addosso nel corso dell’ultima settimana: Noir Trésor sull’orlo del disastro, le liste di proscrizione, l’esilio, l’insolito viaggio via mare, le sue cupe riflessioni, l’altalenante sconforto, la sua energia vitale che andava e veniva.

Aveva sempre ritenuto – a torto, rifletté in seguito – di essere forte, volitivo, determinato al limite della spregiudicatezza. Lucien era riflessivo, implacabile nella sua spiazzante lucidità. I ruoli si erano improvvisamente invertiti, ma Lucien sembrava avere, come sempre, la situazione sotto controllo. Lui, al contrario, era languido e cedevole come cera fusa nelle sue mani.

Auguste temette di sussultare come impazzito, in preda ad un estenuante formicolio sotto la pelle, quando avvertì la mano di Lucien scostargli con esasperante lentezza i capelli sciolti, lasciandogli le spalle scoperte. Abbassò lo sguardo, indifeso, la camicia leggera insufficiente a proteggere la sua pelle bruciante, e lo sguardo di Lucien simile a lava incandescente che gli lambiva il corpo. Era una carezza rovente che percorreva la spalla nuda, là dove la camicia abbondante era scivolata lungo il braccio, scoprendone un’ampia porzione. La linea squadrata dell’ossatura decisa s’intersecava con la morbida curvatura del deltoide, la pelle chiara e lievemente ambrata luccicava al chiarore della lucerna.

Auguste credette di scivolare in un estatico torpore, quando le dita di Lucien si posarono sulla sua pelle, sfiorandolo con esasperante delicatezza ed esercitando una leggera pressione nel solco appena sopra la clavicola. Il movimento rotatorio del pollice alla base del collo lo prostrò totalmente. Dovette concentrarsi, trattenere il fiato per non lasciarsi andare sospirando contro il corpo di Lucien, così vicino al suo da avvertire il respiro regolare giocare sui suoi capelli.

La strana reazione che pareva sprigionare il contatto della mano di Lucien su di lui, per Auguste era palpabile come una scossa, una torpedine che squassava violentemente ogni singola fibra del suo essere, e la tensione fra loro tale da tagliarsi con un coltello.

Non doveva essere così per Lucien, che manteneva il naturale dominio di sé: il suo atteggiamento era soltanto insolitamente dolce, nulla di più, mentre indugiava in quel semplice massaggio alla base del collo che per Auguste si caricava di sensazioni e significati sconosciuti.

Non poteva comprendere il perché di quelle strane ed ambigue emozioni. Rabbrividiva al suo tocco, sperando soltanto che Lucien, così vicino, non percepisse il palpito impazzito del suo cuore.

Era riuscito fino a quel momento, con uno sforzo notevole da parte sua, a controllare il tremito di ogni fascio muscolare, quando, ormai privo di forze, cedendo sotto quel tocco che più che un massaggio era divenuto un circolo esasperante di carezze, chiuse gli occhi e si abbandonò in un flebile gemito contro il busto del suo amico.

- Ehi! – proruppe Lucien, sorridendo e cingendogli cameratescamente le ampie spalle – Dio, come sei pallido! Vieni a prendere una boccata d’aria; stare qua dentro a subire l’oscillazione delle onde ti farà scoppiare la testa.

Auguste si riscosse e tirò un sospiro: fortunatamente, Lucien non si era reso conto di quanto fosse agitato. S’infilò la giacca e lo seguì sul ponte, barcollando lungo il breve tragitto a causa delle onde che, gonfiandosi in loro prossimità, sollevavano, inclinavano e facevano ondeggiare pericolosamente l’imbarcazione. L’effetto era aggravato dalla sua non ritrovata stabilità: la testa gli girava, e, più ripensava a quanto era accaduto dentro di sé a causa di quell’enigmatico contatto fisico, più si sentiva debole e confuso. A dispetto di tutto ciò, uno strano calore gli invadeva il petto. Era tutto così confuso, sfumato.

- Osserva il mare – gli sussurrò Lucien, quando l’ebbe raggiunto sul parapetto – Devi osservare, prevedere il movimento delle onde. Se i tuoi sensi si abituano, il fisico non ne risentirà.

- Come nella vita? – dedusse Auguste con fare filosofico, quasi fra sé – L’abisso burrascoso del mare è la vita: se l’intelletto riesce a focalizzarne le difficoltà, il trionfo del tuo io è inevitabile.

Era tornato quello di sempre. Lucien per un attimo lo osservò rapito, seguendo la linea fiera del suo volto.

- Guarda – Lucien puntò il dito verso un punto non meglio precisato oltre l’orizzonte.

Auguste seguì l’indicazione gestuale con lo sguardo, socchiudendo gli occhi per vedere più chiaramente.

- Riesci a vedere qualcosa laggiù? Se il vento si calma un po’ e magari soffia a nostro favore, entro domani il viaggio sarà concluso.

- Già – meditò Auguste, ammiccando con occhi pensosi, lo sguardo fine e penetrante – Non pensavo che la vita a Noir Trésor mi sarebbe potuta mancare.

- Torneremo – sentenziò Lucien, calmo e risoluto – Se il mare volubile ce lo permette. E se la vita, altrettanto mutevole, vorrà concedercelo. Il duca du Lac ha vinto solo la sua prima battaglia; per la guerra, vi sarà tempo e luogo – concluse, citando con petulanza un popolare luogo comune.

- Il nostro è un esilio temporaneo. Dobbiamo solo riorganizzare le nostre file, ma torneremo, Lucien. Torneremo e ci impossesseremo di quel che ci è stato tolto.

Quei discorsi, affrontati in verità ormai cento e mille volte, dacché si erano messi in viaggio, per supplire all’angosciosa, mal celata malinconia, erano intervallati dagli ondeggiamenti sempre più bruschi della nave, che li costringevano a tenere gli occhi vigili fissi sulle acque e a starsene aggrappati al parapetto.

Il muto languore che li aveva colti al pensiero della patria che stavano abbandonando come esuli criminali, li aveva magicamente isolati dal mondo circostante.

Auguste continuava a ripetere a se stesso e a Lucien i soliti, vecchi discorsi, simili ormai alle nenie in latino che il vecchio curato ripeteva dal pulpito più volte durante il giorno. Voleva mascherare il proprio irrequieto nervosismo dietro una normalità che lui, per primo, non sentiva; fingere che nulla fosse cambiato dentro di sé e dissimulare di fronte a se stesso e a Lucien l’indescrivibile carosello di emozioni inspiegabili e sconosciute che ancora gli bruciavano sotto la pelle al pensiero di quelle mani da pianista che lo sfioravano.

Mi si è fuso il cervello, si ripeteva invano.

La gabbia di cristallo che entrambi avevano creato, riservandola ai loro discorsi e ai loro individuali pensieri, fu infranta dalle urla dei marinai affannati.

- Ehi, tornate sottocoperta! Il mare si mette al peggio!

Svelto, Lucien afferrò Auguste per un braccio, dirigendosi al riparo. I passi decisi erano resi difficoltosi dai colpi che le onde impazzite vibravano contro la robusta imbarcazione, facendola traballare pericolosamente sul livello del mare e ostacolando la loro corsa.

Ad Auguste parve di avvertire in lontananza il timone roteare vertiginosamente, stretto nelle mani del nocchiere, e sfuggire al suo controllo. Nello stesso istante, vide le acque incresparsi densamente in diretta prossimità della nave e contrarsi in un’onda più potente del previsto a causa di una raffica di vento che aveva gonfiato le vele.

- Venite via! Venite via! È pericoloso!

Gli annoiati passeggeri che sino a quel momento erano rimasti ad ammirare pigramente, aggrappati al massiccio parapetto, lo spettacolo dei flutti che s’imbiancavano di frizzante spuma in prossimità dello scafo, si affrettarono a rientrare sottocoperta.

L’imbarcazione parve rallentare la propria andatura, preparandosi a ricevere il colpo come un fiero combattente intabarrato nella sua armatura.

Lucien sbandò nel tentativo di recuperare l’equilibrio; la corsa disperata che aveva ingaggiato non contribuiva a mantenerlo stabile sulle sue gambe, mentre lottava contro il movimento della nave che si opponeva strenuamente al suo cammino.

Auguste lo udì ridere istericamente, forse a causa dell’ansia crescente, forse della scarica d’adrenalina.

- Posso sapere cosa ci trovi di tanto buffo? – gli gridò, affannato e sbigottito.

- Mi sembra di essere ubriaco…

Poi, l’impatto immane, la nave che si sollevava bruscamente in seguito al vuoto creatosi al di sotto di essa. Alcuni passeggeri, presi alla sprovvista, furono scaraventati da una parte all’altra.

Auguste ruggì terrorizzato, quando, oltre alla terra sotto i piedi, gli venne a mancare la presa su Lucien. Scivolò lungo le lisce travi di legno rese umide e scivolose dagli schizzi d’acqua.

In seguito ad una botta in testa che non ricordava come aveva preso, vide per un attimo lampi e luminescenze ovunque. Ma ciò non gli impedì di distinguere con cruda lucidità il corpo sottile di Lucien, scaraventato nello spostamento d’aria, abbattersi contro il parapetto, trascinato come un ramoscello sotto la brezza della sera.

Il colpo che Lucien ricevette in pieno petto gli tolse il respiro, facendo venir meno le sue energie e costringendolo a piegarsi su se stesso come un insetto pungolato.

L’urlo ferino di Auguste, denso di terrore, squarciò il rombo delle onde e il sibilo sinistro del vento, quando vide Lucien rotolare oltre il parapetto della nave e scomparire nell’infuriare del mare in tempesta.

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

Eccomi di ritorno dopo un lungo esilio causa esame. Come sempre, vado leggermente di fretta… È un periodo davvero un po’ “maledetto”, e, sinceramente, quest’ultimo capitolo inizialmente non soddisfaceva le mie aspettative e, dunque, potrebbe sempre essere soggetto di piccole revisioni. Avverto che questo periodo gli aggiornamenti potrebbero essere molto sporadici.

Ringrazio, come sempre, Cami e Monella per i loro incoraggiamenti ed i loro commenti davvero carini. Sono felice che Noir Trésor vi appassioni… E mi raccomando: continuate a seguire i miei deliri. Alla prossima! =^.^=

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Capitolo 4
*** Capitolo 4: Verso il nulla ***


Capitolo 4

Verso il nulla

 

 

Il ricordo di quei momenti angosciosi, si rendeva conto Auguste, da quel momento in poi aveva assunto contorni sempre più confusi e sfumati.

Rammentava vagamente la paura, la disperazione, il tumulto, l’agitazione, le urla, il buio e la follia mescolarsi in un inferno di emozioni caotiche ed irrazionali. Non ricordava i volti delle persone che lo circondavano, ma soltanto le voci concitate che si sovrapponevano le une sulle altre, disperdendosi in un ronzio che offuscava le sue percezioni.

- C’è un uomo in mare…!

Ricordava in seguito di essersi scagliato, furioso e col cuore in fermento, verso il parapetto della nave, nel punto in cui Lucien era stato scaraventato con forza immane per poi essere sbalzato tra le onde che si accanivano sulla superficie agitata del mare.

Ricordava, come impazzito, di essersi sfilato il farsetto con uno strattone e di aver tentato di togliersi gli stivali, pronto a gettarsi sconsideratamente in acqua per recuperare il suo amico.

Due uomini l’avevano afferrato saldamente per le braccia, allontanandolo forzatamente ed impedendogli di compiere un gesto inconsulto dettato dal panico che lo agitava e gli toglieva la ragione.

Un sogno, o forse un incubo. La confusione gli ottundeva i sensi: il brusio che gli riempiva la testa e le indefinite macchie di colore che si agitavano ovunque davanti ai suoi occhi gli impedivano di uscire da quello stato di profonda agitazione senza punto d’approdo.

- Siete sicuro di non essere ferito?

Soltanto allora, Auguste si accorse del filo sottile di sangue che gli colava da un angolo della bocca.

- Non è nulla – gridò, agitato e fuori di sé – Mi sono solo morso il labbro. Lucien potrebbe annegare!

Visse gli attimi immediatamente successivi immerso in una sorta di angoscioso delirio.

Non seppe neppure come fu possibile correre in aiuto di Lucien in quelle condizioni e strapparlo agli artigli del mare in tempesta. Non lo seppe mai, ma non era importante. Tutto ciò che gli importava era rivedere gli occhi azzurri del suo amico scintillare colpiti dalla luce sanguigna del tramonto.

 

Fu adagiato su dure assi di legno, sul ponte della nave.

Il corpo esanime, immobile, gli abiti fradici che aderivano come una seconda pelle alle membra prive di forza.

Auguste credette d’impazzire. I movimenti e le voci che lo circondavano erano una soffocante camicia di forza.

Chiamate un medico! C’è un medico a bordo?

E’ quasi annegato… Non respira più…

Le grida concitate intorno a lui lo confondevano, ovattate come in un incubo contorto e nebuloso.

Un uomo imponente tentò di trattenerlo, ma Auguste, con la forza della disperazione, riuscì a svincolarsi e si lanciò su Lucien.

- Al diavolo! – ruggì, scrollandosi quelle braccia possenti di dosso.

S’inginocchiò accanto a Lucien. I capelli corvini gocciolanti gli lambivano il collo ed i lati del viso quasi cianotico.

Immobile…

- Lucien – la voce gli si incrinò – Sono qui!

Gli afferrò convulsamente la mano inerte. Non aveva molto senso perdere la testa proprio in quel momento.

 

Non temere, amico mio. Respirerò io per te. Respirerò per te.

 

Improvvisamente, sapeva cosa fare. Vincendo il tremito e l’affanno che lo scuotevano, le membra malferme, respirò profondamente.

Poi la sua bocca si unì a quella di Lucien, trasferendo il respiro in quella povera gola riarsa dall’acqua di mare.

 

Riprendi a respirare. Torna in vita; respirerò io per te.

 

Ripeté l’operazione, l’angoscia che gli gonfiava il petto insieme all’ossigeno che inspirava profondamente per trasferirlo nelle vie respiratorie di Lucien.

Si separò da lui, affannato ed esausto, solo quando Lucien ricominciò a dare segnali di vita. Fu scosso da un ansito profondo, poi prese a tossire buttando fuori l’acqua salata che aveva ingerito.

Auguste ebbe l’ultimo guizzo di lucidità e lo aiutò a rigirarsi su un fianco per liberare le vie respiratorie. Poi, tutta l’angoscia provata negli ultimi istanti si rovesciò violentemente su di lui, imperlandogli le ciglia di lacrime.

- Auguste…

Ancora non riusciva a focalizzare gli attimi appena trascorsi. Lucien era vivo. Lucien aveva ripreso conoscenza, e lui l’aveva riportato in vita.

- Cos’è successo, Auguste… – lo richiamò con un filo di voce, confuso, lo sguardo implorante perso nel vuoto.

- Tranquillo, amico mio. Sta’ tranquillo… – lo rassicurò Auguste, in un soffio.

Gli passò un braccio intorno alle spalle, sorreggendogli il busto leggermente sollevato. Non gli importava della propria camicia ormai incrostata di salsedine. Tranquillo, amore mio, sei al sicuro, sei con me. Non avrei permesso ti accedesse nulla. Non potevo permetterlo!

Vide Lucien forzare le deboli palpebre nel tentativo di spalancare maggiormente gli occhi ed avere così una visuale meno sfocata di ciò che lo circondava. Del suo volto chino su di lui.

Auguste si rese conto di quanta fatica costasse il minimo movimento ai suoi muscoli privi di forze.

- Calmo. Non è nulla – lo rassicurò con voce dolce – Non muoverti. Devi riposare. Devi riprenderti.

Lucien socchiuse le labbra, forse nel tentativo di dirgli qualcosa, il flebile sforzo già eccessivo per il suo fisico già provato. Reclinò la testa all’indietro, ansimando sommessamente, e si accasciò privo di sensi.

- Lucien!

Eppure, era ormai sicuro che ormai stesse bene. Il petto si sollevava e si abbassava ritmicamente.

Solo allora riuscì a posare per davvero gli occhi sulla realtà circostante, a rendersi conto di dove si trovava. Il ponte della nave, mille occhi fissi su di loro. Passeggeri incuriositi, uomini dell’equipaggio. Il vento non si era calmato, ma ormai non vi era più pericolo.

- Si può sapere cosa diavolo avete fatto? – gli gridò qualcuno – Dovevate attendere il mio arrivo.

Un medico.

- Non vedete che ora sta bene? Respira – rispose piccato.

Vide la gente intorno a lui mormorare e puntargli addosso sguardi critici e pungenti. Non se ne curò: se Lucien era scampato al pericolo, per una volta il merito era stato suo. Tutto il resto non aveva importanza.

Aveva posato le labbra su quelle di un altro uomo – certo non per altro fine se non quello di praticargli una respirazione bocca a bocca, necessaria a far riaffiorare il respiro nel suo petto. Che sciocchezze andava a pensare, la folla annoiata in vena di storielle piccanti sulle quali soffermarsi nel trascorrere il tempo del viaggio? Lucien sarebbe potuto morire, se non avesse ripreso immediatamente a respirare. Non aveva baciato Lucien, aveva solo cercato di salvargli la vita.

L’esperienza aveva sciolto le sue immediate paure, riempiendolo di sollievo; eppure, le membra molli e tremanti sembravano sul punto di cedere.

Percorse distrattamente i meandri della nave, quasi allucinato, fino a dirigersi alla volta della piccola cabina, al capezzale di Lucien. Riposava.

Il volto di Auguste si corrugò in una strana smorfia di commozione, come se stesse per scoppiare in lacrime, benché la tensione, il sollievo e le emozioni che gli aleggiavano nel petto fossero troppo intensi per poter essere contenuti in un semplice pianto liberatorio.

Osservò intenerito i lunghi capelli corvini, sparsi disordinatamente sul morbido guanciale, increspati e resi più rigidi al contatto con l’acqua salata. Indossava abiti asciutti, ed i suoi lineamenti erano distesi in un sonno leggerissimo che lo faceva sospirare lievemente. Auguste percorse quei tratti con lo sguardo liquido e febbrile, mentre procedeva verso di lui accorciando progressivamente la distanza che li separava.

Scorse convulsamente con lo sguardo sui suoi occhi dal taglio fine ed allungato, sulla linea diritta del naso sottile che andava a tracciare un profilo raffinato e pulito. Le labbra morbide e sottili, ben disegnate, avevano ripreso un colore rosato, e le guance erano nuovamente soffuse del suo colorito naturale.

Perché, improvvisamente, la vista di Lucien gli provocava quello strano, viscerale calore? Perché lo faceva vacillare sulle proprie gambe, procurandogli un formicolio ormai sin troppo familiare alla bocca dello stomaco?

 

Lucien. Il rischio di perderti è scongiurato. Non ho più alcun motivo di temere. Niente ha importanza.

 

Non avrebbe voluto svegliarlo per nulla, eppure moriva dalla voglia di rivedere le preziose acquemarine che gli luccicavano fra le ciglia nere. Quando la sua mano sfiorò dolcemente quella di Lucien, le dita s’intrecciarono alle sue e, inaspettatamente, una mano delicata gli sfiorò il volto in una languida carezza.

- Auguste, sei tu? – il tono fresco ed estasiato con cui lo accolse era quello di chi, dopo il suo pellegrinare, sta per ricevere un bicchiere d’acqua.

Non ci volle molto ad Auguste per capire che il suo sguardo era carico d’affetto e gratitudine.

- Va meglio ora, Lou?

Lou. Non lo chiamava con quell’infantile diminutivo da quando, bambini, giocavano con gli altri monelli del circondario e rincorrevano i gatti che, adulti e cuccioli, si aggiravano nelle case dei poveri a mendicare a loro volta gli avanzi di qualche popolano pietoso. Oppure, lascivi, si strusciavano ben pasciuti contro le sottane sdrucite delle cuoche che si affannavano nelle cucine di qualche residenza nobiliare. Il duca du Lac era capace di spendere per i suoi animali – per non parlare dei suoi adorati cani da caccia – più di quanto non spendesse nell’arco di una settimana una famiglia plebea per il proprio sostentamento, meditò Auguste in una sorta di remoto disappunto.

 

Lucien pensava che Auguste fosse come uno di quei felini randagi che rincorrevano, tormentavano e coccolavano da bambini. Un animo fiero, indipendente e selvatico; una roccia, quando gli si toccavano i suoi cuccioli, come una gatta che sfodera gli artigli: si sarebbe buttato nel fuoco per i suoi affetti, la sua famiglia, i suoi cari.

I capelli scuri, lievemente ondulati, non più trattenuti dal nastro nero, incorniciavano il suo volto tagliente, addolcendone i lineamenti gradevolmente irregolari. Non tutti, forse, erano in grado di cogliere quella bellezza così particolare ad un primo sguardo, ma, più verosimilmente, il fascino e la forza che emanava il suo sguardo erano più incisivi di un’asettica alchimia di proporzioni codificate per sancire schematicamente cosa è bello e cosa non lo è. E Auguste, in quel momento, per Lucien era la cosa più bella, più luminosa nell’universo intero.

- Riesci a ricordare qualcosa? – gli domandò Auguste a bruciapelo, rigirandosi distrattamente tra le dita una ciocca dei suoi capelli.

Gli occhi di Lucien si offuscarono improvvisamente, a disagio, sfuggendo il suo sguardo.

Ho perso un’altra buona occasione di tacere, si disse Auguste. Perché riportargli alla mente l’orribile disavventura in cui si era giocato la pelle? Perché sconvolgere di nuovo la sua mente con il ricordo del terrore e dell’angoscia che doveva aver provato in quei momenti?

Il medico l’aveva rassicurato che il suo amico se l’era cavata con una costola rotta ed un grande spavento. Perché non lasciarlo tranquillo come l’aveva trovato?

La caduta. L’abisso. L’altezza della nave… Il ricordo gli avrebbe impedito d’ora in avanti di guardare giù da una grande altezza con animo sereno. Con ogni probabilità, la volta successiva in cui avrebbe avuto occasione di salire su una nave, sarebbe stato colto da vertigini nell’ammirare lo specchio dell’acqua sotto di sé.

Ricordava il colpo in pieno petto che gli aveva spezzato il fiato, il respiro che gli veniva a mancare. L’orribile sensazione di capogiro, il mare agitato sotto i suoi occhi che si tingeva improvvisamente di rosso e le macchie luminose che lampeggiavano ovunque dinnanzi a lui, ad intermittenza. La caduta, non l’avrebbe dimenticata tanto presto. Gli era parso di precipitare nel vuoto, gli disse in seguito, senza mai toccare una qualsiasi superficie sotto di sé.

L’impatto con l’acqua, agitata in mille vortici e risucchi, era stato tremendo. Le onde l’avevano presto sommerso del tutto, trascinandolo senza sosta a loro piacimento. Non era riuscito a riemergere, benché agitandosi e lottando con tutte le sue forze, con rabbia. Aveva cercato di risalire, ma il mare l’aveva ributtato immediatamente sotto. Aveva perso l’orientamento. Nel panico, ad un certo punto non era più stato in grado di capire da che parte nuotare per rivedere il cielo, ed aveva urgente bisogno di riprendere fiato. L’imbarcazione enorme che incombeva su di lui gli aveva procurato una sgradevole sensazione di brividi di gelida angoscia lungo la colonna vertebrale. Ad una simile morte, sarebbe stato di gran lunga preferibile per lui concludere la sua sciagurata parabola terrena in una fallimentare insurrezione contro il tiranno, con le armi in pugno, a Noir Trésor.

Poi non ricordava più nulla. Solo la paura, l’adrenalina allo stato puro, tale da stordirlo. Questo era tutto ciò che rammentava della terribile esperienza, ed il ricordo gli era riaffiorato nella mente.

- Il buio, Auguste. Soltanto il buio completo.

- Perdonami. Non dovevo – Auguste reclinò a sua volta lo sguardo, imbarazzato per lo sproposito.

Lucien era ancora scosso.

- Cosa, Auguste? Di cosa dovrei perdonarti? – incalzò Lucien, gli occhi luccicanti – Di avermi salvato la vita, forse?

Sussultò leggermente, inghiottendo le lacrime.

- Non devi ringraziarmi. Devi sapere che… – le parole sfumarono nei suoi pensieri.

 

Cosa dovresti sapere, Lucien? Che ti amo, forse? Sembrerebbe meno ridicolo, se lo esprimessi a parole? È così dura da digerire, da comprendere, da razionalizzare. E, in questo caso, temo che la mia dannata razionalità non possa proprio nulla.

 

Gli strinse la mano e se la accostò al volto, senza dire più nulla. Lì, un mucchietto informe, inginocchiato ai piedi del letto di Lucien. Le gambe cominciavano a dolergli, ma non se ne curò.

 

Sono felice che stia bene, Lucien. Ho rischiato di perderti, ed ora sei di nuovo con me. E questo mi basta, davvero. Non ho mai chiesto di più.

 

- Auguste…

Si riscosse, richiamato da Lucien.

- Avvicinati.

Quella voce… Ipnotica. Allettante. Innocente e diabolica, ambigua. Non poté decifrarne la sfumatura.

Avvicinati. Come un leone che tenta di adescare la debole preda. Come un domatore che affronta un gattino.

Vide Lucien socchiudere gli occhi, lo sguardo circospetto. Doveva rivelargli qualcosa…

Il cuore cominciò a balzargli nel petto. Accostò lievemente il volto a quello di Lucien, che pareva attirarlo col suo sguardo scintillante e mutevole.

Auguste sentì il viso andargli in fiamme, quando le labbra di Lucien sfiorarono le sue con esasperante dolcezza. Per un attimo si sentì avvampare fino alla radice dei capelli, incapace di concepire il più semplice ragionamento logico.

Fu una scossa. Una scarica che percorse ogni fibra del suo corpo. Le labbra di Lucien erano morbide. Si era leggermente trattenuto, alla sua reazione. Lucien temeva di averlo sconvolto, di essere rifiutato.

Lo smarrimento di Auguste durò l’attimo in cui il sangue in eccesso defluì rapidamente dalle sue guance, facendo riaffiorare il suo colore naturale. Poi non ebbe più alcun dubbio.

Un gemito roco gli sfuggì dalle labbra, mentre, lentamente, le schiudeva a lambire in un crescendo d’intensità la bocca di Lucien. Assaporò con discrezione e delicatezza, in un muto contatto, la parte interna delle labbra del suo amico, descrivendone il contorno e sfiorandolo con una lascivia quasi crudele. Avrebbe perso il controllo.

Una sensazione di morbido lo avvolse come una brezza sottile. Le labbra di Lucien erano vellutate, leggermente umide. Assaporò quel gusto lievemente salato: era come sprofondare in un sonno ristoratore, in un brivido sensuale che penetra fin sotto la pelle, che dona l’oblio; che gli lambiva il petto, irradiando il suo calore ad ogni singola molecola.

Languiva, come percorso da mille carezze. Eppure, non smise di sfiorargli le labbra con le sue. Non l’avrebbe lasciato.

Si allontanò solo per un istante, riprendendo fiato. Il battito del cuore era progressivamente accelerato, rendendogli affannoso il respiro, senza lasciargli la tregua necessaria ad indugiare languidamente, ancora per un po’, in quel contatto che gli aveva inondato il cuore di un piacere liquido e snervante, simile alle onde che avevano tentato di inghiottire il suo unico amore.

Era una calamita, era un etere che lo lasciava fluttuare beato in una dimensione paradisiaca. Forse, le sensazioni di cui, secondo gli Antichi, si godeva nei Campi Elisi, dovevano essere qualcosa di molto simile. Nelle sue vene frementi gli pareva scorrere non più sangue, ma acqua del Lete.

E avrebbe voluto trasmettere le sue sensazioni alla persona che amava attraverso il ritmo calibrato delle carezze.

- Vieni qui… – gli sussurrò Lucien, attirandolo maggiormente a sé, le braccia strette intorno alle sue solide spalle.

Temeva, quasi, di staccarsi nuovamente da lui.

Le loro labbra si cercarono nella rete della penombra.

Auguste gli cinse la vita compatta. Nessuna sensazione in lui, tranne quel torpore, quell’estasi quasi divina, era tanto potente da guidare le sue azioni.

Gli depose dei baci leggeri dal torace seminudo fino alla fronte.

Nulla aveva senso al di fuori di tutto ciò. Il suo mondo, la sua vera essenza era racchiusa fra quelle quattro pareti e tra le braccia di Lucien.

 

Lo amava… Poteva dirlo, ora? Cos’era cambiato intorno a lui?

 

E intanto, le dita fini di Lucien scorrevano tra i suoi capelli, lisciandoli ed arruffandoli gentilmente, finché Auguste non scivolò nel sonno, le membra intorpidite da quel formicolio incessante che gli gonfiava il cuore di gioia e di estenuante tensione. Il profumo della pelle di Lucien era più intenso di qualsiasi droga, di qualunque miscela atta a generare l’oblio dei sensi.

Dormì come un cucciolo stanco nella dolce serenità di una culla, lì, nella piccola ed umile cabina di una nave che trasportava loschi esuli politici, sbattuta dal mare che ancora non aveva placato la sua ira. Dormì inginocchiato ai piedi del letto del suo amico, parzialmente disteso accanto a lui, cullato dal battito regolare del suo cuore.

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio.

Andiamo ora ai ringraziamenti.

Ringrazio innanzitutto Cami… Molto originale la tua similitudine. Ho presente il sapore agrodolce a cui ti riferisci. Dici che anche in questa storia vi è una sorta di commistione tra la dolcezza dei sentimenti e l’implacabilità e l’amarezza della morte?

 

Grazie a Cami e a tutti i lettori ancora avvolti dall’ignoto.

 

Ed una richiesta fondamentale: Commentate! =^.^=

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5: Inchiostro corvino ***


Capitolo 5

Inchiostro corvino

 

 

- Basta così, dottore. Credo, almeno per il momento, di aver tratto tutte le deduzioni sul caso – decretò sbrigativo il commissario, soffocando uno sbadiglio con malcelata negligenza.

Era stato destato in piena notte. Si era appena messo a riposare: aveva fatto a malapena in tempo a chiudere gli occhi, dopo una serata trascorsa nel suo piccolo e sgangherato ufficio ad archiviare vecchie pratiche di casi insoluti, che quel biondino esagitato l’aveva praticamente buttato giù dal letto, chiamandolo a gran voce come un ossesso dalla strada in basso e vibrando colpi su colpi sul piccolo uscio di legno. Aveva messo su un chiasso indiavolato da svegliare mezzo rione.

- Credo proprio che abbiate ragione voi, commissario – fece di rimando il giovane medico, coprendo con un candido lenzuolo il volto del giovane che quella notte aveva esalato il suo ultimo respiro, inespressivo nel gelido rigore della morte – E che il vostro lavoro possa dirsi concluso. Almeno per stasera.

L’attempato gendarme si grattò meditabondo nel punto in cui un tempo vi era l’attaccatura dei capelli e dove ora la calvizie, celata dall’imponente parrucca, avanzava inesorabile sulla cute non più giovane. Palesemente nervoso, l’uomo non faceva altro che maneggiare e risistemare in continuazione quella capigliatura vistosamente posticcia.

- Spiegatevi meglio, dottore.

- Escluderei con assoluta certezza l’ipotesi del suicidio. Vedete, in base alla dinamica da me dedotta, è praticamente impossibile che sia stato lui stesso ad assestarsi il colpo mortale.

Il dottore mimò la pugnalata in un gesto eloquente, mentre il commissario socchiudeva silenzioso i piccoli occhi porcini, saettando con lo sguardo ora sul volto dell’interlocutore, ora scorrendo distrattamente intorno alla stanza e sui presenti.

- Osservate la ferita – il dottore scoprì nuovamente il cadavere – Il colpo, secco e preciso, gli ha quasi reciso la giugulare. Inoltre, la ferita è molto piccola, quasi un foro nella carne. Da questo posso dedurre, oltre alle piccole dimensioni dell’arma adoperata, che il colpo che gli ha dato la morte non è stato sferrato di taglio, ma come un fendente.

Il commissario sorrise spazientito. Che quel damerino acculturato mettesse forse in dubbio la sua autorità e la sua competenza?

- Dite un po’, dottore – gli occhi dell’anziano questurino si strinsero in un moto irritato – Che cosa credete mi abbiano insegnato all’Accademia? Suvvia, tranquillizzatevi: sappiamo entrambi che le vostre congetture non possono sbagliare. Ad ogni modo, caro mio, concordiamo entrambi che questi bei signori avranno tutti qualcosa d’interessante da raccontarci.

 

* * *

 

L’abisso in cui, quella notte lontana, rischiai di perdere il solo ed unico bene che questa vita miserabile mi aveva concesso, fu del tutto simile ad una distesa d’inchiostro scuro che ti sommerge e ti invischia la pelle, capace perfino di penetrarti nel cuore e avvelenare il tuo sangue e la tua anima.

I capelli neri di Lucien che spuntano dal lenzuolo con cui il dottore ha avuto il buon senso di ricoprire la salma straziata dal pugnale somigliano a lucido inchiostro che cola implacabile.

E’ un mare in tempesta che mi seppellisce nell’oblio, è inchiostro vischioso che scivola sul mio cuore come la dannazione che macchierà la mia vita. Il peso del male che ormai da troppo tempo mi corrode è un marchio impresso a fuoco nelle carni. È così, e da questo momento in poi, la pace mi è negata.

Vorrei tornare indietro ed evitare in tempo un abisso di dolore dal quale non posso fuggire e che sempre continuerà a tormentarmi nei miei incubi.

Vorrei tornare indietro, Lucien, e morire con te in quella notte di tempesta. Vorrei che quell’uomo di cui stento a ricordare il volto non mi avesse impedito di buttarmi alla cieca giù dal parapetto della nave, nel tentativo disperato, che mi sarebbe stato letale, di gettarmi subito dietro di te per strapparti al pericolo.

 

Auguste rammentava, nella furia di quel momento, di non aver affatto riflettuto che un simile gesto gli sarebbe valso una morte sicura.

Ora, ripensandoci, avrebbe preferito per entrambi quel tipo di morte, benché ingrata, anche se questo avesse significato non giungere mai a destinazione né, in seguito, fare ritorno a Noir Trésor.

Se così fosse stato, non avrebbe mai acquistato consapevolezza dei propri sentimenti, ma avrebbe disperso la propria coscienza nell’oblio di un sonno senza fine.

Non avrebbe conosciuto la gioia di trovarsi Lucien fra le braccia, il sollievo del rischio scongiurato. Non avrebbe sentito la morbidezza dei suoi capelli sotto le dita né il profumo della sua pelle che gli confondeva i sensi, mentre impallidiva, avvampava e perdeva la ragione sotto il tocco rovente di calibrate carezze. Una morte prematura avrebbe implicato la conseguenza di non poter mai giacere tra le sue braccia ed assaporare l’amore con lui.

Quanti ricordi, in quelle lunghe notti d’esilio, rintanati come i peggiori criminali nelle stanze tutte uguali e disadorne di squallide e dozzinali locande, immersi nell’apatia a crogiolarsi nell’inattività e a contemplare il passato nell’attesa trepidante e nell’ebbrezza di un imminente ritorno!

Quando, in un tempo dal quale sembrava lo separassero ormai secoli, le labbra di Lucien l’avevano svegliato nel cuore della notte, irradiando nel suo petto un fremito destinato a non dargli pace, Auguste aveva creduto di essere impazzito.

Al solo ricordo, ogni suo bacio gli bruciava sulla pelle con la stessa intensità. Ma non era quella di una languida carezza la sensazione che percorreva il suo corpo; non gli strappava brividi di piacere, non lo riempiva di quel calore che sapeva di miele e che si diffondeva in ogni fibra del suo essere, ottenebrandogli i sensi, togliendogli la ragione, sostituendo ogni goccia di sangue che scorreva bollente nelle sue vene con l’etere del paradiso, mescolando il piacere fisico ad un piacere superiore, una gioia che sembrava non finire.

Non erano queste le sensazioni che gli suscitava, in quel momento, il ricordo. I baci, le carezze e le parole sussurrate durante quelle lunghe notti, nella miseria dell’esilio, erano aghi che gli trafiggevano il cuore; erano mille coltellate nella carne viva. Il dolore della disperazione che gli invadeva e gli dilaniava il cuore a piccoli morsi si era sostituito al piacere di quei momenti.

Come poteva, ora, ripensare a quegli istanti? Come poteva far rivivere dentro di sé quel passato che non sarebbe tornato? Non era degno di riportare in vita quei momenti. La disperazione che il ricordo gli procurava, letale come stille di veleno, era un lusso ed un tormento che non si sarebbe dovuto concedere.

Auguste si sentì cedere. Non avrebbe sopportato un dolore tanto acuto senza impazzire e sentirsi morire ogni istante di più. Era come essere preso e mutilato; era come se, a sangue freddo, fosse stato privato di una parte del suo corpo. L’arma che aveva estirpato la vita dal corpo indifeso di Lucien era la stessa che gli aveva strappato il cuore.

Era troppo doloroso. Troppo. In un misto micidiale di dolore e follia, fu come se una lama acuminata gli penetrasse in mezzo alle scapole, spaccandogli il cuore e smembrando in due il suo corpo. Il respiro gli si spezzò in un ansito di puro dolore, e Auguste ricadde con il busto in avanti, annaspando e nascondendo tra le lunghe dita tremanti il volto madido di sudore freddo.

- Auguste! Auguste, ti prego.

Due mani forti, sebbene sottili, l’avevano afferrato per le spalle, riportandolo alla realtà: le stesse mani che ora gli accarezzavano il viso, un balsamo refrigerante ma insufficiente a recare sollievo ad una ferita mortale.

Le macchie azzurre che si agitavano davanti ai suoi occhi, impedendogli una visione nitida, lentamente si diradarono, fino a permettergli di mettere a fuoco il volto di Fernand.

- Ehi… – mormorò Auguste con voce debole – Va meglio, amico. Va meglio, ora.

- Non facciamo scherzi, d’accordo?

Auguste si lasciò andare contro lo schienale della poltrona, sciogliendo la tensione che gli spasmi di dolore gli avevano procurato.

Stringeva ancora nel pugno un lembo della camicia nell’atto di artigliarsi il petto dolorante. Il contatto amichevole di Fernand aveva sopraffatto il suo cedimento fisico e morale, lasciando ricadere morbide le sue membra contratte.

- Dorian… – la voce flebile del giovane penetrò nella mente di Auguste come una nenia rasserenante – Pensi che sia in grado di sottostare ad un interrogatorio da parte di quegli aguzzini?

Sul volto di Auguste comparve un sorriso tirato e sarcastico. Punto sul vivo, rispose al posto dell’interpellato.

- Cerca di essere serio, Fernand: secondo te, dovrei farmi intimidire dalle domande di un pinguino incipriato?

Gli occhi di Fernand s’illuminarono: a quanto pareva, la ripresa doveva essergli parsa repentina. Era l’Auguste che conosceva.

- Almeno per oggi, Auguste, lascia perdere le battaglie – s’intromise Dorian – Sei molto provato, è inutile che lo nascondi. È la seconda volta che rischi un malore.

- Non devi preoccuparti, Dorian, davvero. Dopo aver visto Lucien… morto – la voce gli s’incrinò – Credo che affrontare il diavolo in persona non potrebbe sconvolgermi tanto.

 

- È uscito di senno – sussurrò Fernand a Dorian – Non si risparmia nulla e vuole tenersi dentro la sua disperazione, senza riflettere su quanto male si stia procurando da solo.

- Se il commissario ha voglia d’incrementare le sue strane congetture puntando il dito su qualcuno, credo che con Auguste cadrà male. È la persona più adatta a levargli certe assurde idee dalla testa.

- Non capisci, Dorian – gli occhi di Fernand s’incupirono – Ha bisogno di una valvola di sfogo al suo dolore. Ma è così orgoglioso da non ammetterlo neppure a se stesso.

- Purtroppo è fatto così: è ottuso, ma è fatto così. Non sa riconoscere i momenti di debolezza; e, anche quando lo fa, alza le spalle e tira avanti.

Fernand seguì con lo sguardo pensoso la camminata di Auguste che, da vacillante, cercava di apparire spavalda. Lo vide dirigersi impettito e indolente verso il commissario che l’aveva bruscamente richiamato per le domande di rito.

- Fernand – Dorian gli posò una mano sul braccio con decisione – Se posso darti un consiglio, ti suggerirei vivamente di lasciarlo un po’ a crogiolarsi in pace nel suo dolore. È inutile tentare di farlo ragionare: si basta da solo, non ha bisogno di consigli né di spalle su cui piangere. Capisci?

Il ragazzo annuì distrattamente, lo sguardo perso nei suoi pensieri.

- E se proprio vogliamo andare per il sottile – riprese con foga Dorian – Gli sono umanamente vicino e mi dispiace per la fine orribile di Lucien, ma, capisci, i nostri obiettivi sono ben altri, al di là di quel che riguarda Auguste.

Fernand fulminò Dorian con lo sguardo, sfuggendo bruscamente al suo contatto.

- Tu non sai proprio pensare ad altro? Per te esistono solo i tuoi maledetti propositi e la tua personale sete di vendetta. Dici di non fidarti pienamente di Auguste e che, a tuo parere, la sua è solo ambizione, eppure non sei molto diverso.

- Ora cerca di calmarti! – Dorian gli strinse nuovamente il polso sottile, con decisione – Di questo, ne abbiamo già parlato.

Tagliò categoricamente il suo discorso con uno sguardo di pietra e senza lasciare a Fernand alcunché da replicare

- Dico solo che quanto è successo, per tragico e sconvolgente che sia, deve avere una sua spiegazione che è nostro compito scoprire. E se la mia logica non m’inganna, direi che tutto questo non può che essere riconducibile al duca. Lui può avere fonti d’informazione sul nostro conto, può saperne più di quanto ognuno di noi possa immaginare, e noi dobbiamo correre ai ripari – il suo sguardo indugiò su Fernand, il volto teso nella concentrazione – Eppure… Potremmo utilizzare tutto questo per aprire gli occhi alla gente su che razza di criminale sia il signore che pretende di governarci! Un “signore” che uccide i propri “sudditi”. Mi conosci bene, Fernand, e sai che non avrò pace finché non vedrò strisciare quel bastardo.

- Allora, avevo ragione – proruppe Fernand a malincuore.

Si guardò attorno, circospetto, prima di riprendere a parlare. Non era prudente dissertare su questioni tanto delicate, quando un cane del duca occupava la stessa stanza, intento a fiutare possibili sospetti. Non poteva sentirli dall’angolo appartato in cui si erano sistemati.

- Accusi Auguste di quegli stessi comportamenti che poi sei il primo a tradurre in pratica. Se davvero Auguste non è in buona fede, tu non sei molto diverso da lui. In questo momento, non m’importa chi davvero si celi dietro la sua maschera di ghiaccio. Io stasera ho visto un uomo soffrire le pene dell’inferno: anche lui merita un conforto amichevole.

- Non ti sto impedendo di andare ad asciugare le sue lacrime. Personalmente, la vista di un uomo come Auguste ridotto in quello stato mi ha sconvolto. Ma io lo conosco, ho letto la disperazione nei suoi occhi e so che nulla, in questo momento, potrà regalargli il conforto di cui ha bisogno.

- Dorian… A volte mi domando come un uomo come te possa avere un unico chiodo fisso nella testa. Per te esiste solo la nostra causa e nient’altro, e continuo a non capire la tua insana ossessione. Per me è diverso – chinò il volto, quasi si rivolgesse a se stesso, prima che a Dorian – Io non ho mai avuto nulla da perdere, se escludi la mia dignità. Tu… A volte mi fai paura.

Dorian evitò di guardarlo, a disagio. I suoi occhi divennero due larghi pozzi senza fondo.

Fernand poté giurare di averlo visto per un momento sbattere le palpebre per liberarsi di un velo di lacrime fra le ciglia.

- Ho i miei motivi per essere diffidente: credimi, Fernand – riprese Dorian – Non ho perso di vista la realtà. I miei occhi vedono la sofferenza indicibile di quel poveretto, ma mi sento orribilmente impotente. La disgrazia ha colto tutti di sorpresa. Già, una terribile sorpresa! Dunque, amico mio, tanto vale, se non altro, non perdere di vista almeno il nostro scopo fondamentale.

Fernand arrossì, rendendosi conto repentinamente di aver urtato la sensibilità del suo amico.

- Scusami, Dorian, se ho dubitato di te.

- Non temere – un sorriso che sapeva di tristezza gli piegò le labbra rosee – Mi hai solo frainteso. Auguste è stato colpito da questa disgrazia più di chiunque altro di noi: è palese che ora non sia in grado di sobbarcarsi tutti i problemi che il nostro progetto comporta. Per quanto mi riguarda… Forse hai ragione. Ci sto perdendo la testa dietro a questa maledetta faccenda. E forse non sono meglio di lui né di nessun altro – Dorian riprese fiato, interrompendo il suo monologo alquanto imbarazzato – Eppure, caro Fernand, ho conosciuto un lato del tuo carattere che non avrei mai sospettato: puoi diventare esageratamente altruista, all’occorrenza. Ti credevo un sovversivo senza scrupoli, e invece...

- Non dovevi esserti fatto esattamente un’ottima opinione di me – azzardò Fernand, non sapendo se prendere l’affermazione sibillina del compagno come un insulto o un commento che voleva essere vagamente ironico per spezzare l’opprimente tensione.

- Al contrario – Dorian tornò improvvisamente serio – Credevo tu fossi come me. Un complice ideale.

- Sarai contento di constatare che, nella mia proverbiale indifferenza, conosco anche il sentimento dell’amicizia.

- Considerati fortunato, Fernand. Devi considerarti fortunato per non aver ancora perso di vista il legame fondamentale che rende gli individui “umani” a tutti gli effetti. Davanti a te, hai da un parte una specie di pazzo squilibrato – alluse ironicamente a se stesso – e dall’altra, un pezzo di ghiaccio che sa tramare, ma non amare.

Fernand sorrise lievemente di fronte all’amara ironia che Dorian aveva sfoderato quasi a sproposito. Sembrava molto più provato di quanto non volesse lasciar trasparire.

Dorian era irruente e sconsiderato come lui; ma, talvolta, Fernand trovava che il suo comportamento non differisse poi enormemente da quello di Auguste.

Quest’ultimo adoperava il suo gelido raziocinio in ogni aspetto della sua esistenza. Dorian, al contrario, diventava un fascio di nervi vestito di fiamme se si trattava di cospirare contro il duca o di scagliarsi contro un’ingiustizia. Ma, per il resto, si chiudeva a riccio.

Fernand socchiuse gli occhi per un istante, soprappensiero. Poi, il suo sguardo puntò verso il soffitto. La fioca luce delle candele che si consumavano lentamente non era sufficiente ad illuminare l’intero ambiente, cosicché il ballatoio sovrastante appariva buio ai suoi occhi.

Scrutando il suggestivo gioco di chiaroscuri che la pallida illuminazione proiettava, a Fernand parve che una pesante cappa oscura incombesse su di loro con opprimente intensità.

L’ombra.

Le tenebre.

Forse gli assassini osservavano i loro movimenti, nascosti in qualche anfratto immerso nel buio. Ma ciò era del tutto improbabile, giacché il commissario aveva appena ordinato ai suoi uomini di perlustrare l’intera dimora.

O forse vi era qualcosa di ben più pericoloso ed arcano che rifiutava di rivelarsi ai loro occhi.

Il ragazzo si ravviò i capelli all’indietro, come a voler liberare la propria mente da pensieri inquietanti e poco propizi. Decise di concentrare nuovamente la sua attenzione su Auguste, il quale si dirigeva nuovamente verso di loro dopo aver sostenuto il breve interrogatorio.

Fernand non ricordava di aver mai visto Auguste tanto scuro in volto.

L’uomo fissò negli occhi uno per uno tutti i presenti, lo sguardo ora intenso, ora assente.

- Cos’a voleva sapere il commissario? – gli domandò Ambrosie in un sussurro, parlando per la prima volta in tutta la sera.

La ragazza, rimasta in disparte sino a quel momento, simile ad una statua di marmo o ad una sorta d’occhio impassibile, si unì improvvisamente agli altri ribelli, affiancando Auguste.

- È un’ottima domanda – considerò il capo dei ribelli fissando un punto impreciso dinnanzi a sé, quasi potesse oltrepassare con lo sguardo i suoi compagni come ombre evanescenti – State un attimo a sentirmi: prima o poi, probabilmente stanotte stessa, il commissario avrà qualcosa da domandare ad ognuno di noi. È necessario a questo punto che tutti forniamo le stesse risposte senza tradirci. Potrebbe appigliarsi a qualunque imprecisione.

Ambrosie annuì. L’ampia tesa del cappello che portava calcato sulla fronte proiettava mutevoli ombre sul suo sguardo color turchese.

- Non possiamo andargli a raccontare che ci accingevamo a riunirci la notte a congiurare contro un dittatore – incalzò Auguste, dopo essersi seduto – Seguitemi: stasera, sono stato alla locanda. Dopodiché, mi sono reso conto di dover restituire questa a Lucien…

Prese dalla tasca un’antica spilla di fine fattura.

-    È un po’ esile, come scusa… – commentò sarcasticamente Dorian.

Auguste roteò gli occhi, spazientito.

- Cerca di capire, Dorian! Non sapevo dove altro appigliarmi per evitare di contraddirmi da solo e legarmi un cappio attorno al collo. La storia che ho messo su in pochi secondi di riflessione forse sarà sciocca, ma, fino a questo, si regge in piedi. Sono andato a casa di Lucien… e mi sono ritrovato di fronte questa scena. Lì per lì, sconvolto, non sapendo cosa fare, sono corso a chiedere aiuto a Fernand e Ambrosie…

- E, lasciami indovinare – lo interruppe la ragazza – Per semplificare il tutto, Dorian si trovava con noi. E si è recato in caserma.

- Esattamente. È tutto chiaro? Daremo tutti la stessa versione, e gli sgherri del duca, per il momento, non ci daranno fastidio. Solo che…

Lo sguardo di Auguste, sino a quel momento risoluto ed inflessibile, assunse un aspetto liquido a causa delle lacrime che vi si annidavano pungendogli gli occhi.

- Continua – lo sollecitò Ambrosie con voce insolitamente dolce.

- Non volevo mentire sulla morte di Lucien. Sono riuscito ad essere bugiardo persino sulla morte del mio amico. Mi sono sentito un vigliacco.

- Non devi – lo contraddisse la ragazza, con determinazione – È necessario proteggerci dai sospetti che ricadranno su di noi. Quale giustizia potremmo sperare di ottenere da simili governatori? Non hai agito scorrettamente, Auguste. Alle autorità non importa nulla di chi effettivamente è responsabile dell’assassinio di Lucien. Loro tenteranno di usare quanto è successo per incastrare qualcuno di noi. Lucien sarebbe stato d’accordo con noi – proseguì, e la voce le tremò leggermente – Tanto vale ricercare la verità da soli, piuttosto che comportarci da ingenui ed aspettarci miracoli da parte di una specie di teatrino che di “giustizia” porta soltanto il nome.

Fernand distolse lo sguardo. Era un fatto più unico che raro che Auguste, l’uomo tutto d’un pezzo, osasse aprire il suo cuore a qualcuno e mostrare qualche insicurezza. Istintivamente, il ragazzo si diresse verso la piccola credenza posta in un angolo della sala e versò del liquore in un bicchiere.

- Prendi, Auguste. Ne hai bisogno.

Auguste osservò scetticamente il contenuto del piccolo calice.

- Fernand, lo sai che non amo imbottirmi d’alcool.

- Neanch’io. Ma ne hai bisogno. Per una volta. Sei sconvolto, e non ti fa bene inghiottire il tuo dolore.

Ecco. Aveva trovato il coraggio: gli aveva detto quel che pensava e sapeva che sarebbe stato soltanto per il suo bene.

- Ad ogni modo, ti ringrazio – concluse laconicamente Auguste, porgendogli il bicchiere ormai vuoto.

Calò nuovamente il silenzio, finché Auguste non si drizzò in piedi di scatto, scostandosi rapidamente.

- Scusate… – mormorò con la voce carica di pianto.

Fernand sentì il proprio cuore spezzarsi, ma non osò muovere un muscolo. Aveva visto Auguste oscillare continuamente fra la disperazione, la feroce repressione del proprio dolore e il continuo manifestarsi di un carattere fiero che gli imponeva, per quanto gli era possibile, di tenere in pugno le redini della situazione. L’aveva visto schizzare repentinamente da uno stato d’animo all’altro come impazzito, negando a se stesso la propria fragilità e soffocando ogni umano cedimento, fino a non poterne più. L’aveva visto trattenere a stento il tremito delle membra contratte, l’aveva visto impallidire, gli occhi che luccicavano sotto le ciglia scure, arrossati e congestionati.

- Non ce la faccio più… – gli parve di sentirgli dire.

Fece per seguirlo, tormentandosi mentalmente su come concedergli un minimo conforto, ma Dorian lo trattenne.

- Lascia stare, Fernand – gli sussurrò con dolcezza – Non è il caso. Non servirebbe a nulla. Non provocarlo. Non pretendere che il suo dolore abbia il sopravvento su di lui. Non farlo sentire peggio.

Lasciami andare da lui! Avrebbe voluto gridargli. Non posso lasciarlo solo. Non posso!

- Mi dispiace, Fernand – riprese Dorian – Mi dispiace. Non possiamo fare niente per lui né per noi stessi, ora. Niente, capisci?

Fernand abbassò tristemente il capo. Dorian aveva tremendamente ragione. Non poteva essere utile in alcun modo ad Auguste. Il suo sguardo indugiò sul viso di Ambrosie, cercando un brandello di solidarietà almeno nella sorella. Lui non aveva la forza di schiodare i propri passi da quel maledetto divano sul quale era apaticamente sprofondato. Non rimproverava Dorian: lui era deciso e sicuro della propria posizione. Non agiva per un cattivo fine e, in un certo qual modo, aveva ragione.

Vide il volto pallido di Ambrosie accennare un sorriso amichevole nella sua direzione. Aveva compreso.

La ragazza si diresse a piccoli passi verso Auguste, seguendo il suo breve e casuale tragitto.

- Auguste… – mormorò dolcemente – Ti prego. Non puoi fingere che dentro di te non sia accaduto nulla. Riesco a vedere il tuo dolore chiaramente come se guardassi dentro di me. Ti senti in colpa per qualcosa che hai o non hai fatto, e ora vorresti negarti persino il conforto di un abbraccio. Non devi avere paura… Sei umano. Avvicinati.

Ambrosie gli prese delicatamente una mano tra le sue.

- So che non cambierà niente, so che probabilmente sto sbagliando anch’io e che rischierò di farti del male. Hai bisogno di sfogarti: non puoi impazzire. Tutti ne abbiamo bisogno.

Auguste si costrinse ad incontrare lo sguardo della donna. Ambrosie tentò di sorridergli, annebbiata dalle sue stesse lacrime, ma il suo viso si corrugò lievemente in una smorfia incomprensibile. L’uomo non resistette. La vista delle lacrime di quella ragazza che conosceva da poco tempo gli strinse il petto in una fitta soffocante. La cinse convulsamente, attirandola verso di sé.

Non vi era nulla di sensuale in quell’abbraccio. Ambrosie avrebbe potuto essere una sorellina minore. E lui, era chiaro, non avrebbe mai sfiorato una donna senza il suo chiaro consenso.

Era l’abbraccio amichevole che voleva fungere da reciproco sollievo tra due disperati.

La ragazza sentì le spalle di Auguste sussultare sotto il suo tocco lieve. Anche senza poterlo vedere in volto, sapeva che le sue guance erano allagate di lacrime.

Aveva esaurito parole che mai le erano parse tanto banali, eppure la sincerità era stata utile a qualcosa. Le piangeva il cuore a vedere quell’uomo impenetrabile e risoluto ridotto ad una maschera di dolore, ma sapeva che dopo, forse, sarebbe stato sopraffatto da una sorta di catarsi.

Dorian incrociò le braccia sul petto.

- Siete contenti, ora? Siete riusciti a farlo piangere. Siete riusciti a vedere il sangue. Accidenti a voi due! Avrei dovuto legarvi entrambi. Mi piange il cuore a vederlo così. Una crisi di nervi non gli sarà vantaggiosa: ne sono sicuro.

- Non lo so, Dorian, non lo so – replicò Fernand, sull’orlo dell’esasperazione – L’unica cosa che possiamo fare è medicarci le ferite: con un abbraccio o con l’indifferenza, non ha molta importanza. Io vorrei lenire in qualche modo la sua sofferenza, mi capisci? Ma so che questo non è nelle mie possibilità. Mi è negato. Forse, hai ragione: ogni tentativo sarebbe vano. Ma non possiamo spararci un colpo in testa!

Dorian si portò una mano alla fronte, scuotendo il capo con triste rassegnazione.

- Al di là di ciò, questa faccenda non mi piace. Non so perché, ma ho l’impressione che sia una trappola ben studiata. Usare l’omicidio di un uomo come esca: di questo e altro riterrei capaci certe carogne.

- Lascia stare, Dorian – lo interruppe Fernand, con voce flebile e cantilenante – Ne riparleremo con la mente lucida. Abbiamo bisogno di tranquillità.

 

Auguste si distaccò imbarazzato dall’abbraccio di Ambrosie. Riprese fiato, asciugandosi gli occhi.

- Perdonami, Ambrosie. Mi sono lasciato andare. È tutto… assurdo.

- Lucien era il tuo amico più caro. È comprensibile che ora tu sia a pezzi.

Lo sguardo di Auguste s’incupì, mentre le sue labbra si piegavano in un mezzo sorriso che, paradossalmente, racchiudeva tutto il suo dolore.

- Non esattamente, Ambrosie. Non esattamente – sussurrò – Io, Lucien… Lo amavo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve, ragazzi!

Mi scuso, innanzi tutto, per il terribile ritardo con cui ho aggiornato, ma, tra esame di Maturità, pranzi e cene con gli ormai ex compagni di classe, mi sono un po’ incagliata! Comunque sia, 89/100!^^

Questo è un capitolo di passaggio, anche se, mi sono resa conto, è venuto su molto più lungo del previsto. Spero di non avervi tediato nella lettura e, naturalmente, di non avervi deluso!

Grazie a tutti voi che seguite “Noir Trésor” nell’ombra, nonché, e in particolare, Monella e Cami per i loro commenti.

Alla prossima! =^.^=

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6: Delirium ***


Capitolo 6

Delirium

 

 

La brezza notturna accarezzò il volto accaldato di Fernand, non appena egli rimise piede all’aperto. Fuori, finalmente, da quella stanza che l’aveva gettato nel terrore. Il cielo, sopra la sua testa, era trafitto da brandelli di nubi color piombo.

Era uscito dall’incubo, anche se solo fisicamente: i pensieri continuavano ad affollarsi nella sua mente, benché, per un istante, tornare a respirare a pieni polmoni l’aria fresca di una notte maledetta che volgeva al declino, gli aveva restituito una fugace illusione di libertà.

Alla sua destra, Auguste procedeva lungo la strada buia, stretto nel mantello scuro e chiuso nel suo silenzio carico di dolore. Lo vide sussurrare qualcosa ad Ambrosie, la quale, in risposta, gli rivolse un sorriso rassicurante e riprese a camminare.

Per un istante, Fernand fremette dal desiderio di scoprire quale recente segreto li unisse; tuttavia, preferì non dire nulla ed allungò il passo.

Non ricordava più l’ultima volta in cui sua sorella avesse mostrato tanta confidenza con qualcuno. Da tempo, ormai, sembrava essersi chiusa in una fredda diffidenza, protetta da una coltre di ferro, quasi nutrisse un’incomprensibile ostilità nei confronti di quel mondo che aveva raccolto le loro esistenze con rancore e con indifferenza.

Indipendente e fiera, Ambrosie dava l’impressione della persona chiusa in se stessa e nel suo carattere duro ed indecifrabile. Sarebbe forse passata completamente inosservata, scivolando eterea nell’ombra del suo riflessivo silenzio come una ninfa dei boschi; eppure, la sua presenza in quel luogo ed in quella situazione appariva così insolita che l’attenzione di un fugace osservatore difficilmente non si sarebbe catalizzata su di lei almeno per un istante.

Fernand lo sapeva: Ambrosie era affermazione e negazione, era trasparenza ed ambiguità, ingenuità e sagace malizia. Non cercava di catalizzare l’attenzione su di sé, eppure, senza avvedersene, la sua mente acuta catturava l’osservatore in una trama ben più sottile. Sembrava svagata e completamente inconsapevole di quel fascino che talvolta esercitava.

Alle riunioni dei ribelli era solita parlare di rado – quelle rare occasioni in cui la vera Ambrosie sembrava venire allo scoperto – e i suoi interventi raramente si dimostravano incoerenti.

La sua impronta fortemente razionale, indipendentemente da quanto lei desiderasse lasciar trasparire, era continuamente accesa da contraddittorie passioni. Era una giovane donna decisa a far sì che nessuno decidesse per lei, tanto che tutto, nella sua vita, sembrava essere stato studiato a puntino sì che non soddisfacesse le aspettative di nessuno. Sola, lontano dalla famiglia, viveva in tutto e per tutto come un uomo; anzi, come un ragazzaccio ribelle: solitaria, indomabile e distante da ogni consuetudine.

Benché, secondo una mentalità diffusa, la sua età la rendesse vicina al culmine della giovinezza, il momento della vita solitamente coronato dal matrimonio, Ambrosie pareva non avere alcuna intenzione di sposarsi. Le sue aspirazioni in tal proposito erano vaghe, volte piuttosto ad un amore disinteressato che alla rigida convenzione di un contratto matrimoniale.

La gente non vedeva di buon occhio Fernand e Ambrosie e, pertanto, si limitava ad ignorare la loro singolarità, pur senza evitare di lasciarsi sfuggire amare frecciatine. Per i più sospettosi, erano “quelli strani”, “la brutta razza”, “i ragazzi di provincia”, nulla di più.

Una vita un po’ campata in aria, rifletteva Fernand con una malcelata punta d’orgoglio, ma che di certo non arrecava danno a chi stava loro intorno, benché tutto – le loro frequentazioni, il loro comportamento un po’ introverso e sfuggente, il lieve alone di mistero che non erano riusciti a staccarsi di dosso – li rendesse vagamente sospetti di manovre sovversive.

In una città simile, preda di un regime dalle rigide gerarchie, in cui ognuno aveva finito per diffidare persino della propria ombra, quale fiducia potevano ispirare uno strano ragazzo dall’aspetto ombroso accompagnato da una sorella “strega” che preferiva inalberare la sua mente in astrusi ragionamenti del tutto inconsueti per una donna e leggere sermoni filosofici rubati dalla libreria di suo fratello, anziché occhieggiare in giro con discrezione, insieme alle compagne, alla ricerca di un buon partito?

Ambrosie non godeva di una considerazione migliore della sua, meditava Fernand, poiché come lui non obbediva rigorosamente a quei tratti comuni che non necessariamente rendono migliore l’individuo: migliorano forse le apparenze, ma non la sostanza. Il suo atteggiamento, i suoi interessi in particolare, non erano propriamente definibili come tipici di una donna. Una donna. Aveva mai pensato a sua sorella semplicemente come una donna, senza ulteriori implicazioni di sottofondo? No, concluse il ragazzo, se per “donna” doveva necessariamente intendersi un individuo che vive in tutto e per tutto in simbiosi con un uomo ed agisce solo nei modi in cui tutti si aspettano che agisca.

Ambrosie, in fondo, non faceva nulla di male.

Neanch’io, si corresse. Non siamo facilmente inquadrabili all’interno di uno schema, ma non diamo fastidio a nessuno.

La loro vita al borgo non era stata molto differente da quella che conducevano ultimamente. Il fatto che in un villaggio fosse più facile saper vita morte e miracoli in un baleno agevolava non poco le malelingue nell’arte dello sputare sentenze. Ogni voce, ogni piccolo scandalo vero o presunto tale non passava mai inosservato, e le notizie si diffondevano repentinamente a macchia d’olio.

In città, in un certo qual modo, si era ripresentata una situazione analoga di curiosità, sospetto e malcelata insofferenza, almeno nel quartiere, anche se in maniera più blanda.

La ragazza si accorse di essere osservata e accorciò il passo, avvicinandosi a Fernand. Prima che lui potesse rivolgerle parola, gli rivolse uno sguardo enigmatico, studiandolo attentamente con i grandi occhi malinconici. Scosse mestamente le spalle, mentre sul suo volto si dipingeva un mezzo sorriso denso d’impercettibile rassegnazione.

Fernand fu come folgorato da un’idea. Non vi aveva mai riflettuto in un’ottica simile, ma vi era una differenza fondamentale che vedeva opposti lui e sua sorella.

Lui si era fatto dolorosamente le ossa e non si lasciava più scalfire dalle critiche al veleno che come spilli acuminati gli si conficcavano nelle spalle ormai avvezze a tal uso. Per Ambrosie era diverso: il fatto di sentirsi così sola, per di più oggetto di disapprovazione, la feriva come una lama acuminata conficcata sotto la pelle. L’orgogliosa Ambrosie non avrebbe voluto mai darlo a vedere, eppure, sebbene non desiderasse essere una come loro, una ragazza comune, senza cultura e senza idee strane per la mente, soffriva per la sua diversità.

Non facevano nulla di male: perché spargere veleno su di loro e guardarli con tanta ostilità? Perché erano quelli che di certo chissà cosa nascondevano, e lei era il maschiaccio, la strega, la pazza: gli epiteti preferiti da chi non sapeva più a cosa appigliarsi pur di accanirsi su veri e presunti vizi dell’umanità.

Pazza. Una semplice parola per abbracciare un concetto troppo ampio in un batter di ciglia, senza gravarsi della fatica di scavare oltre né prendersi la briga di analizzare con la dovuta sensibilità quei comportamenti inconsueti che cozzavano con ciò che era considerato “normale”.

E una ragazza che viveva da sola, non avvertiva l’impellente ossessione di trovare al più presto un marito, leggeva le opere dei filosofi, parlava con gli uomini e covava chissà quali loschi piani sovversivi in compagnia di uno sparuto gruppo di gente altrettanto poco raccomandabile, non poteva essere definita “normale”.

Fernand si guardò attorno, sperduto. Erano quasi giunti alla piazza principale in cui svettavano nella loro imponenzala Cattedrale e il Palazzo di Giustizia. Là si sarebbero divisi, ed ognuno avrebbe preso la propria strada.

Il ragazzo razionalizzò dolorosamente che l’inquietudine che sentiva incollata addosso non era una sua singolare sensazione.

Il cielo scuro sopra di sé, che fino ad un istante prima gli aveva conferito un’inspiegabile illusione di libertà, ora pareva gravargli sul capo con tutto il suo peso, provocandogli un orribile senso di claustrofobia.

La sua improvvisa fermata lungo il cammino attirò l’attenzione di Dorian.

- Fernand, tranquillo. Non c’è nulla da temere – lo rassicurò amichevolmente il suo amico e, con una mano sulla spalla, gli trasmise per un attimo il suo calore rassicurante.

Fernand puntò uno sguardo smarrito verso il cielo, scorrendo poi circospetto tutt’intorno, alla ricerca di un pericolo imminente. Un pallore innaturale gli aveva invaso le gote.

- Qua intorno sta per succedere qualcosa, Dorian.

Aveva alzato la voce, il terrore negli occhi lucidi e sbarrati.

Auguste e Ambrosie si voltarono fulminei verso di lui.

In quel momento, il guizzo di un’ombra saettò fulmineo dinnanzi a loro, balzando fuori di un vicolo. Un urlo stridulo ferì l’udito dei quattro presenti, facendoli arretrare di qualche passo, all’erta.

Fernand spintonò Dorian, si parò dinnanzi a lui come a volerlo proteggere da un imminente pericolo e protese in avanti il suo pugnale, stringendolo tra le dita malferme.

- Rimetti pure quel giochino al suo posto, stupido, perché quello che ti ha tanto spaventato non è altro che un gatto.

La voce scettica e quasi divertita di Auguste colpì Fernand come una secchiata d’acqua gelida. Il ragazzo sentì il viso andargli a fuoco e per un attimo credette che la quantità di sangue rimasta in circolo nel resto del corpo non fosse sufficiente a mantenere il cuore in funzione.

Distolse il viso: in questo modo, rifletté convulsamente, se non altro Auguste non avrebbe notato il vivo rossore che gli aveva infiammato il volto fino alla radice dei capelli.

Chinò mestamente il capo, pieno d’imbarazzo, il respiro ansimante a causa di quel fugace sollievo che per un attimo l’aveva sfiorato, quando si era reso conto che il misterioso sicario – che li braccava nei suoi momentanei deliri – non era che… un gatto.

La realtà era un’altra: Auguste era capace di farlo sentire piccolo con poche e semplici parole.

Non erano mai stati amici e, con ogni probabilità, mai lo sarebbero diventati. Condividevano il medesimo progetto sovversivo, entrambi operavano in segreto e si prodigavano per cercare di arginare i danni di una situazione sempre più insostenibile e controversa. La loro “alleanza” terminava qui. Per il resto, somigliavano piuttosto a due gatti arruffati intenti a studiarsi in silenzio senza muovere un muscolo, pronti a sferrare l’attacco al momento opportuno.

Da una parte vi era Auguste, così impeccabile e razionale; dall’altra lui, Fernand, il ribelle, sognatore, impulsivo, un po’ immaturo.

Dorian riusciva a gestire meglio di lui i contrasti, rifletteva Fernand. Dorian ogni tanto sapeva anche essere conciliante, almeno quando diventava necessario.

Tra Fernand ed Auguste sembrava essere sorto un muro che di certo non poteva essere spuntato dal nulla: le loro divergenze d’opinione ed i loro caratteri diametralmente opposti avevano fornito il loro ingente contributo.

Da parte di Auguste vi era la spasmodica tendenza a cercare di ostacolare Fernand, di arginare la sua istintività e di esercitare un certo controllo su una persona dalle mille sfaccettature che continuava a sfuggirgli, temendo che la sua impulsività ed il suo modo di agire causassero prima o poi dei problemi. Doveva certamente ritenerlo un ingenuo ed un idealista, e Fernand lo sapeva: secondo Auguste, se lui non si fosse costantemente impegnato a riportarlo alla ragione, sarebbe stato capace da un giorno all’altro di istigare i giovani oppositori ad una vera e propria azione rivoluzionaria contro il duca.

Fernand era convinto che Auguste amasse troppo temporeggiare, e questo gli aveva progressivamente alienato parte della sua fiducia, giacché il ragazzo, a malincuore, si era persuaso che dietro i piani di Auguste vi fosse una sorta di personale sete d’ambizione; che stesse forse sfruttando lui e gli altri ribelli per raggiungere le sue mire. Cominciava inoltre a pesargli l’avere costantemente il suo fiato sul collo.

Aveva provato ad alzare la spalla ed andare avanti ad ogni costo, ma ben presto aveva finito per soccombere all’inattaccabile rigore di un uomo che criticava aspramente tutto ciò che diceva o faceva.

L’evidente ostilità che Auguste manifestava nei suoi confronti era capace di farlo sprofondare nella malinconia. Non l’aveva certo detto apertamente, eppure cominciava a risentire del potere che quell’uomo esercitava su di lui.

No, non l’avrebbe ammesso neppure a se stesso: nonostante le loro posizioni che, al di là del baricentro comune, li vedevano opposti; nonostante i loro ormai proverbiali dissidi, Fernand desiderava più di ogni altra cosa ottenere la sua approvazione e la sua stima, dimostrargli che era un uomo e non un ragazzino.

E non era soltanto questo. La vicinanza di Auguste ed il suo sguardo gelido lo facevano sentire stranamente a disagio, un disagio che non sapeva spiegarsi. Si sentiva fragile, privo di difese. Non gli piaceva essere soppesato da testa a piedi da quello sguardo inquisitore che sembrava captare i suoi intimi pensieri.

Fernand si costrinse a risollevare lo sguardo. Il suo viso aveva ripreso il naturale colorito ed il tremito del corpo si era attenuato. Ripose l’arma nella cintura.

Si sentiva strano. Un’insolita miscela di sensazioni l’aveva appena travolto come una marea: la tensione, la paura, il sollievo, l’imbarazzo. Ora si sentiva debole, svuotato.

- I tuoi amati gatti, eh, Auguste? – lo apostrofò blandamente Dorian, volendo spezzare la tensione – Per poco quel cucciolo non ci faceva prendere un colpo!

L’attenzione di Fernand si concentrò su Auguste, chino ad accarezzare un piccolo micio spaventato tutto raccolto su se stesso. La bestiola parve ammansirsi sotto quella carezza rassicurante e prese a fare le fusa strusciandosi contro gli stivali di cuoio di Auguste.

Fernand rammentò che anche Ambrosie amava i gatti: vi era una sorta di empatia tra la ragazza e quegli animali indipendenti dal corpo elegante e flessuoso e il portamento fiero, quasi avvolti da un’aura di mistero.

È passato, si costrinse mentalmente il ragazzo. Non c’è più alcun pericolo. Allora, perché sto tremando? Perché non riesco a stare tranquillo? Possibile che la paura, mista alla vicinanza di Auguste, mi giochi certi scherzi?

Per un attimo, Fernand si sentì la testa leggera e temette di crollare a terra. Già, Auguste già di per sé non lo riteneva propriamente affidabile, rifletté un istante dopo: così, l’avrebbe reputato oltretutto un bambino senza spina dorsale.

- Tranquillo, Fernand – lo rassicurò la sorella, passandogli un braccio intorno alle spalle – Era solo un falso allarme; va tutto bene.

Fernand annuì distratto, anche se “tutto bene” non era esattamente l’espressione adeguata per descrivere il momento.

Ambrosie si sollevò lievemente sulla punta dei piedi, fingendo di abbracciare il fratello, e gli sussurrò:

- Secondo me non te lo sei sognato. È da quando siamo usciti da casa di Lucien che ho la sensazione che qualcuno - o qualcosa - ci segua.

Fernand aguzzò la vista, guardingo. Scrutando alla propria sinistra, cercò di penetrare con lo sguardo attraverso l’oscurità dello stretto vicolo da cui era spuntata la bestiola inattesa.

Vide il gatto sfuggire dalle mani di Auguste e defilarsi con un balzo nell’oscurità dalla quale era piombato innanzi a loro.

Qualunque cosa potesse pensare Auguste in proposito, Fernand era sicuro di non essersi soltanto immaginato la presenza che avvertiva alle sue spalle. Ambrosie gli aveva confermato i suoi sospetti, e certo non la si poteva definire una persona facile a lasciarsi prendere da inutili paure. Il fatto che si aggirasse a notte inoltrata – o forse era quasi l’alba: aveva perso la cognizione del tempo – per le strade buie e deserte di Noir Trésor dopo aver assistito all’esito di un omicidio, era la prova di quanto sua sorella sprezzasse il pericolo senza scadere nell’imprudenza, ma interpretando lucidamente i segnali dell’oscurità.

Auguste. Da quando avevano oltrepassato la soglia della dimora di Lucien, lo vedeva strano: non aveva quasi aperto bocca durante il tragitto, salvo per ricordargli di essere un bambino stupido che si lascia impressionare da un gatto. La disperazione sembrava aver lasciato spazio ad una cupa e solitaria rassegnazione, nonché alla chiusura completa nella nebbia delle sue amare riflessioni. Auguste era sconvolto, ed era chiaro e comprensibile quanto l’accaduto l’avesse traumatizzato.

Fernand procedette in silenzio, lo sguardo fisso sulla nuca di Auguste, i cui passi spediti ne tradivano l’implicito nervosismo.

Aveva chiuso ogni porta: sarebbe stato ormai vano, da parte sua, ogni tentativo di parlargli, di confortarlo, di alleviare il peso che gli gravava sul cuore.

Procedettero fino alla piazza, finché le loro vie non si divisero.

A Fernand si strinse il cuore, quando vide Auguste proseguire per la sua strada come un cane randagio, dopo aver rifiutato la sua offerta di accompagnarlo.

- Ti ringrazio, Fernand. Preferisco stare da solo. Sul serio.

Ti ringrazio, Fernand.  Da quando si conoscevano, l’atteggiamento più amichevole che Auguste avesse mai manifestato nei suoi confronti era stato complimentarsi con lui per essere arrivato puntuale alla riunione.

Il mezzo sorriso che si era dipinto sui suoi lineamenti asciutti, unito a quello sguardo pieno di mesta gratitudine, aveva colpito Fernand come un pugno in pieno volto.

- Spero che stia bene – gli sfuggì in punta di labbra, quando Auguste si fu allontanato.

- Credo gli farebbe bene mandar giù un po’ d’alcool – considerò Dorian, tradendo nei suoi modi spicci una certa apprensione – Purtroppo – proseguì – Prima o poi sarà costretto a fare i conti con il suo dolore. Ma per stasera, dico, farebbe meglio a rimandare l’appuntamento. Dovrebbe cercare di distrarsi, di stordirsi, di pensare ad altro.

- Già – concordò Ambrosie con voce piatta – Tutti ne avremmo bisogno, stanotte.

La ragazza rivolse un lieve cenno di saluto ai due uomini.

- E tu, dove avresti intenzione di andare? – la trattenne Fernand, interdetto, afferrandole il braccio.

- Ricordi quel progetto cui tenevi tanto, caro fratellino? – gli fece di rimando la ragazza, sibillina.

- Sei pazza? Hai idea di che ore siano?

- Oh, sì! L’ora in cui la stamperia si mette al lavoro, pronta a sfornare di buon’ora tanti giornali belli caldi per i concittadini che desiderano mantenersi informati – gli rispose Ambrosie, ironica, lo sguardo cospiratore.

Fernand annuì con un lieve cenno del capo accompagnato da un inevitabile sorriso.

- Ti prego di far attenzione.

- Non preoccupati, Fernand. Non è distante. E “Madame” mi attende! – terminò le sue spiegazioni con un ridicolo inchino indirizzato alla persona presa in questione.

- Possiamo venire con te – propose Dorian.

- Ma che dici? – lo corresse la ragazza – Più siamo, più desteremmo sospetti. Lei mi conosce ed è già in combutta con noi.

 

* * *

 

Ambrosie si diresse verso la stamperia. Aveva rifiutato l’offerta di farsi scortare lungo la strada da suo fratello e da Dorian. Del resto, non aveva nulla da temere: bastava procedere ancora per qualche passo, svoltare all’angolo, e sarebbe giunta a destinazione. Dov’era il problema? Era quasi l’alba: ancora poco, e la piazza e le strade si sarebbero riempite di vita.

Quello che si apprestava ad attraversare non era neppure un quartiere pericoloso: le strade erano ampie e ben lastricate, tanto da permettere il passaggio delle imponenti vetture dei nobili fra eleganti residenze di ricchi mercanti o palazzi gentilizi dai cornicioni aggettanti.

Nonostante questo, una tenue inquietudine sembrava quasi opporsi al suo cammino, rendendole affannoso il respiro ed accorciando i suoi passi. La ragazza accarezzò distrattamente la consistenza rigida del lungo pugnale che portava con sé, nascosto nella manica.

Qualcuno li aveva seguiti: Fernand aveva ragione, e lei stessa non si era sbagliata nell’aver condiviso sin da subito il suo presentimento.

In quella zona della città non era così frequente imbattersi in ladri e tagliagole, che a fine giornata dovevano ritenere senza dubbio più sicuro rintanarsi nei quartieri poveri, lontano dal potere e dalle autorità. Se avesse urlato, considerò Ambrosie, il potenziale malintenzionato sarebbe stato facilmente scoperto e non sarebbe riuscito a fare molta strada.

La donna allungò il passo, imboccando nervosamente la curva.

Quasi non fece in tempo a muovere un altro passo che una figura alta, sgusciando dal buio della rientranza di un portone, la trasse a sé, afferrandola con decisione ed immobilizzandola.

Inutile divincolarsi ed inutile gridare, considerò la ragazza: l’assalitore la tenne stretta e le premette una mano sulla bocca.

- Ambrosie, Ambrosie… Non gridare, ti prego. Stai calma… così – le sussurrò l’assalitore, allentando la presa su di lei così da permetterle di guardarlo in volto.

Gli occhi turchini della ragazza, dilatati per la paura, passarono repentinamente dal panico allo stupore.

L’uomo la lasciò andare delicatamente, quando ebbe la certezza che non gli si sarebbe rivoltata contro per paura.

- Tu? – Ambrosie corrugò le sopracciglia fini in un moto di sorpresa ed irritazione – Posso sapere cosa diavolo ci fai qui?

 

* * *

 

- Dannazione!

Fernand imprecò con rabbia, quando tentò di rigirare con forza la chiave nella toppa e, avendo profuso troppa energia, il minuscolo oggetto metallico girò a vuoto, sfuggendogli dalle dita e facendogli urtare la mano contro una scaglia di legno tagliente e quasi del tutto scrostata.

- Prima o poi dovrò decidermi a farci dare una sistemata – considerò, dopo aver ritrovato la calma.

- È una casa molto antica – fece Dorian, distrattamente, mentre gli esaminava il dito ferito.

Il taglio era superficiale, ma sanguinava. Fernand si portò la piccola ferita alla bocca e la tamponò provvisoriamente. Il sapore aspro e metallico del sangue gli punse piacevolmente la lingua, cosicché il ragazzo esercitò istintivamente una lieve suzione.

- Lascia fare a me – gli ingiunse benevolmente Dorian, raccogliendo la chiave ed aprendo la porta.

- Entra – gli disse Fernand – Dobbiamo parlare di alcune cose.

Dorian oltrepassò l’ingresso, si tirò la porta alle spalle e seguì il padrone di casa. Sapeva che quella di Fernand era una scusa: gli ultimi eventi l’avevano scosso profondamente, nonostante, fino all’ultimo, avesse cercato riparo dietro una maschera d’ostinata impassibilità.

E non che Fernand temesse un pericolo in particolare: forse aveva semplicemente paura della solitudine e avvertiva il bisogno di una presenza amica.

- Sei nervoso – constatò Dorian.

- Puoi dirlo. Questa è stata la goccia finale – commentò il più giovane con malcelata stizza.

- Sei ancora in collera con Ambrosie? – indagò Dorian.

- Non con Ambrosie – lo corresse Fernand, gelido.

Si passò nervosamente una mano tra i capelli, prima di riprendere il suo discorso.

- Con quel bastardo di Raphäel Lemoine, eccome! – sbottò alla fine – Ho fatto bene a sorvegliare di nascosto mia sorella. Volevo assicurarmi che non accadesse nulla durante il tragitto, tutto qui. Quando quel figuro è sbucato dal nulla e l’ha afferrata, per poco non sono uscito allo scoperto per riempirlo di pugni! – rincarò la dose.

- Come vedi, è stato l’ennesimo falso allarme – tentò di rassicurarlo Dorian.

- Non è questo il punto, Dorian. Preferirei essere morto, piuttosto che vedere mia sorella tra le grinfie di quel bastardo.

- Non essere melodrammatico! In primo luogo, Ambrosie ha dimostrato di essere in grado di cavarsela da sé, e sono quasi certo che metterà alle strette Raphäel fino a farsi rivelare cosa ci facesse alle nostre calcagna. In secondo luogo, se tu per un attimo riuscissi a tenere da parte le tue personali antipatie, capiresti che da lui non c’è nulla temere.

- Se dici che non torcerebbe un capello ad Ambrosie, siamo d’accordo – replicò Fernand, soppesando con freddezza le proprie considerazioni – Non mi piace l’atteggiamento di mia sorella nei suoi confronti.

- Insomma, Fernand, che ti prende? Non vorrai recitare la parte del fratello geloso…

- Io li conosco, quelli come lui – lo interruppe Fernand, stizzito – Amano giocare con i sentimenti di chi ancora ha il coraggio di stargli attorno. Quando le ha messo le mani addosso… Mio Dio!

Fernand si coprì il volto con le mani, in un eccesso d’ira.

- Ti avverto, Dorian – proseguì, il volto arrossato e gli occhi scintillanti di collera – Prima o poi, quel tizio porterà i miei nervi a cedere, e allora nessuno venga a rimproverarmi, quando l’avrò gonfiato di botte!

- Molto dipende da Ambrosie, dalla sua capacità di restare lucida e di non illudersi troppo sul suo conto. Se poi le cose andranno per il meglio, e io me lo auguro di tutto cuore, non avrò nulla in contrario – azzardò Dorian, un sorriso sagace sul volto.

Fernand lo fulminò con un’occhiataccia.

- Raphäel è soltanto un imbecille, un santarellino dagli occhi dolci che non sa far altro che seminare sofferenze ed illusioni fra coloro che gli stanno intorno. Si nasconde dietro ai suoi modi da bravo ragazzo, dietro a una morale fasulla che altro non è se non un castello d’ipocrisia. Odio i tipi come lui. Il suo falso buonismo mi dà sui nervi, e davvero non saprei cosa aspettarmi da uno così.

- Posso sapere che ti ha fatto? Ascolta, Fernand: ora calmati. Abbiamo questioni ben più urgenti su cui soffermarci.

- Questioni più urgenti, un accidente! – Fernand alzò la voce, concitato – Quell’essere viscido insidia in modo sin troppo palese mia sorella: dovrei forse stare a guardare?

- Ti ricordo – Dorian alzò gli occhi al cielo, spazientito – che Ambrosie non è una bambina né, tanto meno, una stupida. Ragiona, Fernand: ha le sue grane a cui badare. Per caso vuoi metterle anche tu i bastoni fra le ruote? Vuoi impedirle di coltivare la sua amicizia con Raphäel, sapendo che questo la renderebbe infelice? Sempre, ben inteso, che Ambrosie sia il tipo da lasciarsi calpestare dal suo fratellino.

Fernand sospirò.

- Vorrei soltanto che quell’individuo non avesse mai incrociato la nostra strada. Vorrei che se ne andasse il più lontano possibile da Noir Trésor e che ci lasciasse in pace.

- Stai esagerando, Fernand. Tuttavia, sono d’accordo con te sul tenere gli occhi aperti con lui.

- Ti ringrazio, Dorian – Fernand gli sorrise – Sei fra i pochi che riescono a tranquillizzarmi e a farmi capire quando sto esagerando. Io non farò nulla, ma potrei non rispondere di me, se quell’individuo causasse qualche dispiacere a mia sorella.

 

Dorian sedette nel piccolo salotto della modesta dimora. Si prese la testa fra le mani, snervato. Non gli piaceva contraddire in continuazione il suo amico Fernand come un fastidioso grillo parlante; tuttavia, voleva il meglio per lui, a costo di diventare petulante per smorzare i suoi toni accesi. Raphäel non l’aveva impressionato in modo positivo; tuttavia, preferiva aspettare, prima di scagliare giudizi definitivi. Dopotutto, era la tensione accumulata durante quella terribile notte a rendere Fernand tanto irritabile.

- Ora mi spieghi cosa stai facendo? – gli domandò, interrotto nei suoi pensieri dai movimenti del giovane amico.

- Non lo vedi? – Fernand gli sventolò sotto il naso una bottiglia di vino rosso – Seguo il tuo consiglio.

- In effetti, si ragiona meglio di fronte ad un buon bicchiere di vino – gli concesse Dorian.

Osservò Fernand sfilarsi la giacca ed allentarsi la pettorina che cominciava a soffocarlo.

- Non riesco a non pensare a Lucien… – gli confidò il giovane in un sussurro – Non eravamo così amici – riprese un istante dopo, gli occhi lucidi – Gli imputavo l’ostilità da parte di Auguste nei miei riguardi.

- Crucciarti non serve. Semplicemente, non avete avuto modo e tempo di conoscervi e capirvi. Sono certo che se Lucien avesse potuto approfondire la tua conoscenza, non avrebbe potuto non trovarti…

Meraviglioso, concluse tra sé, disperdendo le sue parole nel suo flusso di pensiero.

- Trovarmi? – Fernand sbatté le palpebre, confuso.

Dorian gli si avvicinò, un sorriso malizioso dipinto sul bel volto nordico.

- Un irriducibile piantagrane quale sei. Ma generoso e sincero.

Fernand gli sfiorò distrattamente il dorso della mano, mentre sul suo viso una scintilla di gratitudine si sovrapponeva al velo di tristezza che non si era ancora dissolto.

Il volto di Dorian avvampò.

- Che ti prende? Ti senti bene?

- Uh? No, non è nulla. Niente, stai tranquillo – Dorian si portò una mano alla tempia – Credo sia stato il vino. Non preoccuparti.

Si deterse la fronte umida, ricomponendosi.

- Forse, per stasera non dovresti più bere… – azzardò Fernand.

- Sciocchezze – ribatté Dorian – Ci sono abituato. Se non sbaglio, siamo qui per rivedere alcuni dettagli della nostra operazione. C’è ancora qualcosa che mi sfugge.

Fernand prese un ampio respiro, prima di rispondere.

- Allora, Dorian, ricapitoliamo: la vecchia strega è d’accordo con Ambrosie. Domattina, all’insaputa delle autorità e dei maledetti nobili, insieme alla Gazzetta saranno distribuiti sottobanco i nostri speciali opuscoli.

- E stavolta, Auguste non avrà niente da ridire.

- Poveretto, dopo quel che sta passando, quasi mi spiace giocargli un colpo basso – sussurrò Fernand, mutando espressione.

- Mi dispiace – gli fece eco Dorian – Però, osserva la situazione da un’altra prospettiva: in fin dei conti, non abbiamo mai pronunciato un giuramento di fedeltà nei suoi confronti. Noi agiamo in modo autonomo.

- Auguste ha bisogno del nostro appoggio, Dorian.

- Ed è esattamente quello che faremo. Ma le nostre iniziative, progettate e messe in atto ormai da tempo, credo abbiano ben poco a che vedere con affari di natura privata.

Per il momento, Fernand preferì lasciar cadere il discorso. Poi, con un sorriso enigmatico, gli porse alcune bozze accuratamente ripiegate.

- Se non ti dispiace – annunciò – Qua puoi leggere in tutta calma l’anteprima di quel che fra poche ore sarà dato in pasto ai nostri concittadini.

- Ti ringrazio, Fernand. Credo che ricaverò ottimo materiale per la nostra prossima “incursione”…

Inaspettatamente, Dorian sollevò la bottiglia ormai vuota

- Non ci posso credere… Fernand, sei certo di non essere impazzito?

- Eh?

Le guance del ragazzo, solitamente pallide, erano riscaldate da un lieve rossore. Fernand si sforzava di tenere aperte le palpebre sugli occhi luccicanti.

- Fernand, sei quasi astemio. Non reggi una goccia d’alcool: credevo che un bicchiere fosse sufficiente a farti dormire sonni tranquilli.

- Non dirmi, amico mio! – la voce lievemente strascicante di Fernand denunciava un leggero stato di ebbrezza – Anche tu, da oggi, sei d’accordo con Monsieur Auguste? “Non farlo bere, quello è già tocco di suo”! No, stavolta avevo bisogno di una dose maggiore, credimi. E… Mi raccomando, Dorian – gli ingiunse subito dopo, cambiando bruscamente argomento – Acqua in bocca su quanto ti ho spiegato. Non una parola, intesi?

Dorian annuì.

- Se non ti dispiace, Fernand, tolgo il disturbo. Ho bisogno di riposare almeno qualche ora. Dopodiché, penso proprio che mi metterò all’opera per sfornare un altro dei miei articoli.

- Credo farò lo stesso – Fernand annuì stancamente.

- No. Tu adesso cerchi di riposare un po’. Sei esausto e mezzo ubriaco.

Dorian si chiuse la porta alle spalle, sperando, una volta tanto, che quel piccolo delinquente seguisse il suo consiglio.

La strada scorse così rapida sotto il suo passo spedito che quasi non si rese conto di essere giunto in fondo alla via. Il pallido bagliore dell’alba cominciava a rischiarare il cielo ad oriente, affacciandosi oltre le costruzioni più basse.

Che stupido!

Lungo la strada, Dorian si rese conto di aver scordato le bozze degli articoli a casa di Fernand.

No, non fu proprio quello il motivo che lo spinse a tornare indietro sui suoi passi, si concesse. Le bozze erano un semplice pretesto elaborato dalla sua mente.

Si fermò, affannato, sotto il vecchio portone della dimora dei due fratelli. Trasalì.

Non è possibile, si disse. Avrei fatto meglio a non allontanarmi così di fretta. Deglutì a fatica. Nell’enfasi del discorso, poco lucido per via dell’alcool, Fernand aveva dimenticato il portone di casa aperto.

Dio mio, pregò silenziosamente Dorian. Fa’ che non sia accaduto nulla di male, ti scongiuro. Fa’ che sia una sua stupida svista. Per favore.

Il viso pallido come uno straccio, Dorian spinse delicatamente il portone, il quale cedette come una tenda sotto le sue dita tremanti. Cautamente, il ragazzo s’introdusse all’interno dell’appartamento. Di Fernand neppure l’ombra.

Per un errore così stupido, giuro che me la paga, si disse silenziosamente. Giuro che stavolta lo picchio!

Dorian scivolò come un’ombra nella camera del suo amico, il cuore in tumulto.

Il sollievo fu così intenso da fargli girare la testa. Quasi temette di perdere i sensi.

Il suo amico… Il suo amico era lì, giovane e bello come un angelo. Giaceva abbandonato sul letto, contornato dalle sue carte.

È chiaro: era così stanco che quasi non si è accorto di essere crollato sul proprio lavoro.

Con mani febbrili, Dorian raccolse i fogli abbandonati in parte sul letto, in parte sul pavimento. Erano abbozzi di articoli satirici sul malgoverno a Noir Trésor e sugli abusi della classe dirigente, appunti di varia natura e un diario personale.

Dorian si affrettò a riporre tutto sullo scrittoio, compresi il pennino e il calamaio, abbandonati sul comodino. Non era corretto, da parte sua, frugare nelle sue carte senza il consenso del diretto interessato.

Quasi senza che se ne accorgesse, la sua attenzione fu calamitata dalla figura che riposava nel giaciglio di fronte a lui.

Il sonno doveva averlo colto all’improvviso, si ritrovò a pensare Dorian. Calzava ancora gli stivali ed era vestito di tutto punto. Lo jabot slacciato lasciava ricadere morbidamente lo scollo della camicia, scoprendogli il torace pallido. I morbidi capelli castani giacevano sul cuscino, sparsi ad aureola intorno a quel volto di porcellana.

Dorian indugiò con lo sguardo sui lineamenti delicati del viso di Fernand, distesi in un’espressione indecifrabile. Dormiva un sonno leggero, sospirando lievemente di tanto in tanto.

Lo osservò rapito.

È così giovane, rifletté. Così giovane. Non si risparmia nulla e, a fine giornata, crolla per la stanchezza, prostrato dal sonno. E dall’alcool, in questo caso.

Pazzo! Si addormenta ubriaco, dimentica la porta aperta. Fortuna che ho deciso di tornare indietro.

Caro Fernand, non mi pare la mossa più sicura, dopo quel che è accaduto di fresco a Lucien. Sei pazzo, Fernand, pazzo. Un esasperante, adorabile pazzo.

Sei solo un ragazzo. Sei così fragile… Certi pensieri non dovrebbero gravare sulle tue giovani spalle, e invece… Guarda come siamo ridotti, costretti ad ingoiare giorno dopo giorno il fiele di una tirannia sempre più insostenibile, a vedere l’ingiustizia e l’orrore che si consuma sotto i nostri occhi, ad illuderci nella speranza di un cambiamento, auspicando che il nostro contributo sia determinante. E a girare a vuoto nei nostri utopistici propositi.

È questo che è diventata la vita del giovane ribelle che non riesce a seppellire la propria dignità sotto le macerie della rassegnazione.

Dio, che mi sta prendendo? Le dita tremanti di Dorian percorsero con estenuante ostinazione la linea morbida delle labbra di Fernand. È seta. Rosea, scarlatta.

Dorian credette di muoversi in uno di quei sogni nebulosi e confusi, quando, perso ogni barlume di lucidità, si ritrovò a sfiorare timidamente le labbra di Fernand con le sue, come un bimbo che con golosa curiosità addenta un frutto dolcissimo.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7: Bisogno d'amore ***


Capitolo 7

Bisogno d’amore

 

 

Il venticello fresco dell’alba filtrava nella penombra della camera attraverso alcuni spifferi.

I contorni della stanza e di ogni oggetto apparivano a Dorian confusi e sfumati come in un sogno ingannatore. Il suo sguardo indugiò languidamente sui tratti morbidi ed affilati del volto di Fernand. Era tutto così tremendamente strano, intorno a sé, concluse: strano quel che accadeva dentro e al di fuori di sé. Era l’unica sensazione che la sua mente fosse in grado di sintetizzare. Ed era strano osservare il viso di Fernand da quella prospettiva e percorrere febbrilmente i suoi lineamenti rilassati in quell’insolita espressione, completamente diversa dal misto d’ironia e strafottenza in cui era solito atteggiare il suo volto. Le palpebre erano appena poggiate, le morbide labbra leggermente dischiuse. Era un’ombra di tristezza quella che aleggiava sul suo volto.

 

C’è qualcosa che ti fa soffrire giorno dopo giorno: è così, Fernand? È come un morbo che ti consuma dentro e ti corrode l’anima. Qual è la causa del tuo dolore, Fernand?

 

Sospirò. Sembrava un cucciolo indifeso.

Fernand…

Dorian tentò di riscuotersi, ma l’unico perno intorno al quale gravitavano i suoi pensieri era strettamente legato alla delicata presenza dinnanzi a sé. Il suo respiro accelerò pericolosamente. Non era possibile: era lui, quello che stava fuggendo ad ogni controllo razionale.

Respirò profondamente, soffocando ogni ansito, ma il profumo stupendo che i capelli di Fernand e la sua pelle d’avorio emanavano impregnava ogni cosa intorno a sé, dalle candide lenzuola ai suoi stessi sensi, inebriandoli profondamente.

Cercò convulsamente la mano di Fernand e la strinse tra le sue. E, senza quasi rendersene conto, per la seconda volta, la sua bocca si posò peccaminosamente su quella del suo amico.

Il suo amico.

E non si limitò a sfiorare timidamente quei due petali rosati col timore di essere scoperto: l’estasi di cui, senza avvedersene, era caduto preda, lo spinse ad esplorare spasmodicamente le labbra di Fernand e a farle gelosamente sue, premendole avido sotto le proprie come a suggere un favo di miele dolcissimo.

Sapeva che, se fosse sprofondato un po’ di più nelle arcane sensazioni che lo rapivano, avrebbe presto perduto il controllo. Tuttavia, l’ebbrezza del desiderio lo spinse ad indugiare pericolosamente: allentata ogni remora ed incertezza, lambì con voluttà le labbra di Fernand e le schiuse dolcemente sotto il suo tocco, andando ad accarezzarne assetato la parte interna, umida e morbida.

L’indecifrabile sensazione che lo percorse fu simile all’essere irrorato da fresca rugiada, e lo strano calore che gli invadeva il petto, irradiandosi repentinamente ad ogni fibra del suo essere, gli parve preannunciare l’atmosfera celestiale del paradiso. Il lieve respiro di Fernand sotto il suo era una carezza refrigerante sul suo viso accaldato.

Dorian si ridestò dal profondo torpore, quando, scorrendo distrattamente lungo il volto di Fernand ad un palmo dal suo, così vicino da non coglierne esattamente i tratti, incrociò inaspettatamente i suoi occhi aperti e luminosi nella penombra.

Si scostò bruscamente, lo sguardo attento e vigile del ragazzo che lo trafiggeva imperioso.

Il lampo di vergogna che lo pervase, intenso come una stilettata, lo indusse ad allontanarsi di scatto, come se improvvisamente il corpo di Fernand scottasse. Il movimento fulmineo lo sbilanciò, così, quasi senza rendersene conto, si ritrovò disteso ai piedi del letto, gli occhi sbarrati nell’oscurità ed il viso color cremisi.

Fernand sbatté le ciglia, liberandosi dalla nebbia del sonno.

- Dorian… Tu? – gemette, insonnolito.

Il giovane temette per un istante che il cuore gli balzasse fuori dal petto o che cedesse definitivamente. Il suo respiro accelerò.

Non guardarmi, Fernand. Non guardarmi, pregò silenziosamente.

Chinò il capo, non potendo sostenere ancora lo sguardo del suo amico.

 

Come esco da qui? Con quale coraggio gli parlerò e lo guarderò negli occhi, domani?

 

Gli occhi turchesi di Fernand lo fissarono per lunghi istanti che gli parvero una lenta ed estenuante agonia. Poi, inaspettatamente, il ragazzo scoppiò a ridere.

Il cocente imbarazzo lasciò spazio, sul viso di Dorian, allo stupore. Si risollevò in piedi, disorientato, riuscendo, finalmente, ad articolare qualche parola.

- Trovi questa situazione tanto comica?

Fernand riuscì a soffocare a stento le risa. Si premette le mani sul volto, ravviandosi distrattamente i capelli.

- Perdonami, Dorian – sussultò – Eri davvero… buffo.

Dorian rifletté su quale doveva essere il suo attuale aspetto: i capelli umidi e arruffati incollati al viso, gli occhi lucidi, il volto sudato e arrossato per il calore e la soggezione. Tuttavia, gli pareva, onestamente, che nella sua situazione vi fosse qualcosa di ben più insolito e sconcertante della sua faccia.

- Spero di non averti spaventato – si costrinse a dire – Le bozze. Già, ricordi? – tergiversò – Le avevo dimenticate da te, tutto qui. E… la porta era aperta.

Fernand spalancò gli occhi, sbigottito.           

- Aperta? Vuoi dire che io stesso stavo per mettermi in pericolo in casa mia? Ti ringrazio, Dorian. Sono davvero felice che tu sia qui.

Fernand s’interruppe di colpo, leggendo l’imbarazzo sul volto dell’altro, chiaro come stampato a grandi caratteri su un libro. Dorian si sforzò di sorridergli, mentre nel suo cuore si agitavano mille emozioni contrastanti: prima fra tutte, una gran voglia di fuggire.

- Dorian… – Fernand si sollevò in ginocchio sul materasso, fino ad incontrare il suo sguardo – Che ti prende? È… è per quello?

Dorian lo osservò timidamente.

- Non preoccuparti. È probabile che il vino abbia giocato strani scherzi ad entrambi. Ora va tutto bene. Riposa, io tolgo il disturbo.

Fece per allontanarsi, ma Fernand si sporse in avanti e lo trattenne abbrancandogli un lembo della giacca.

Dorian riprese a fissare il suo giovane amico. Vide i suoi occhi inumidirsi appena, scintillando in controluce, e le sopracciglia corrugarsi delicatamente in un lieve smarrimento.

- Dorian, stai tranquillo. Hai paura di me?

Smarrito, Dorian non rispose, limitandosi a rivolgergli uno sguardo di angosciosa tenerezza. Attese, immobile, finché Fernand non gli cinse le spalle e unì nuovamente le labbra alle sue.

Un’ennesima ondata di calore infiammò il viso di Dorian, per poi irradiarsi al resto del suo corpo. Sprofondare in un oceano d’acqua tiepida e profumata, immergersi nell’estasi divina come in un lungo sonno, gli parvero le uniche esperienze paragonabili a ciò. Poteva accarezzare i lunghi capelli di Fernand ed avvertirne appieno la consistenza vellutata, mentre assaporava il gusto dolcissimo ed inebriante delle sue labbra senza riserve, senza più sentirsi come un ladro pronto a trafugare di nascosto qualcosa che non gli appartiene.

Le braccia di Fernand gli circondarono il collo trattenendolo presso di sé con vigore, nel timore di perdere il suo possesso.

Fernand si aggrappava a lui. Fernand aveva bisogno di lui, del suo respiro e del suo calore su di sé; lottava per tenere le labbra unite alle sue in quel magico contatto, cercando di dar tregua al proprio respiro accelerato ed affannoso.

Dorian avvertì le labbra di Fernand schiudersi con dolcezza sulle sue ed esplorarne delicatamente i contorni. Il piacere che lo inondò fu così violento e lancinante da squassargli il petto, immettendo in lui una strana sensazione di liquido, quasi il suo cuore avesse assunto lo stato fuso come un ferro posto ad arroventare. Accarezzò la nuca di Fernand e lo spinse verso di sé, geloso di quell’intreccio momentaneo e della gioia fugace che li avvinceva. Avrebbe desiderato prolungare quel bacio strappato sin quando le loro energie fisiche l’avessero consentito, avrebbe voluto stringere a sé Fernand fino a divenire parte di lui. Non voleva lasciarlo, non voleva andarsene di nuovo. Lottò contro l’impulso di piangere di gioia e sollievo: non si sarebbe separato da lui.

Fu Fernand ad interrompere il loro congiungimento, quasi con rammarico. Dorian respirò profondamente, preso da una sete inesauribile e dall’insaziabile desiderio di assaporare da lui l’inimmaginabile, nutrendosi della sola vista del suo viso d’avorio come di una linfa vitale, saziandosi dei suoi lineamenti delicatamente scolpiti e dei laghi di sterminata malinconia dei suoi occhi.

Lentamente, tracciò con due dita il contorno dell’ovale sottile del suo volto e gli scostò i capelli dalla fronte pallida. Nella penombra che rendeva ovattata la sua visuale, il suo sguardo fu colpito da un lieve sfolgorio: gli occhi di Fernand scintillarono, la superficie cristallina tremò di mille bagliori, prima che le lacrime tracciassero due solchi umidi sulle sue guance. Il giovane strinse la presa sulle sue spalle fino a fargli quasi male.

- Stammi vicino, Dorian. Non mi abbandonare – mormorò.

Era un’invocazione d’aiuto. Il ghiaccio che sino allora aveva gelato la superficie dei suoi sentimenti si era infranta, non potendo più trattenerne l’istintivo ardore. Quello che vedeva dinnanzi a sé era il vero Fernand, privo di ogni alibi, solo con le sue emozioni, la sua forza e la sua fragilità.

Le mani di Fernand scesero lungo le sue spalle fino a circondargli la vita e attirarlo a sé. Ben presto, si ritrovò disteso sul morbido letto, al fianco del suo giovane amico.

Fernand lo abbracciò, insinuandogli il volto nell’incavo tra il collo e la spalla.

- Fernand – gli sussurrò Dorian, quasi in un soffio – Tranquillo. Tranquillo. Ti sono vicino.

L’omicidio di Lucien. La paura, la tensione, lo sconforto. Il timore di non riuscire a rialzarsi. E qualche altra passione, ben più oscura ed inafferrabile, si agitava nel suo petto senza dargli tregua né farlo dormire la notte.

Gli sfiorò le spalle: era un tenue fuscello tra le sue mani. Quasi senza rendersene conto, sollevò appena il suo corpo, portandolo su di sé. La schiena calda e solida di Fernand sul suo cuore pulsante gli diede i brividi.

- Mi dispiace, Dorian. Mi sono… Lasciato andare, tutto qui – Fernand si asciugò le lacrime con il dorso della mano, rivolgendogli un mezzo sorriso.

- Non devi preoccuparti. È così per tutti. E tutto intorno a noi diventa ogni giorno più insostenibile.

Gli accarezzò il torace attraverso la camicia, sfiorato dal vago pensiero che la pelle nuda di Fernand fosse ancora più serica e calda del candido indumento.

- Va tutto bene, ora – concluse il giovane, mentre gli scostava una ciocca di capelli arruffata dal viso e gli sfiorava la guancia con le labbra.

- E tu sei così giovane. Per quanto ti sforzi di mandare giù bocconi amari, giorno dopo giorno, emerge chiaramente in te la sensibilità e la passione di chi lotta contro qualcosa di troppo complesso e sfuggente. Lasciati soccorrere. Chiedi il mio aiuto, quando senti il bisogno.

 

- Fernand – riprese Dorian dopo una lunga pausa – Volevo domandartelo da qualche tempo: cosa ti ha spinto a Noir Trésor? Non hai mai parlato della tua vita, prima di giungere in questa città.

Il giovane deglutì, soprappensiero, prima di rispondere. Per un attimo, un lampo d’antico dolore gli pervase le iridi color zaffiro, oscurandole. Tuttavia, l’ombra inafferrabile sul suo volto svanì rapidamente così come vi era affiorata. Fernand respirò profondamente ed espose asetticamente un resoconto di avvenimenti che parevano non più in grado di turbarlo.

- Sono scappato di casa… Beh, più o meno. È una storia che avrai sentito almeno cento volte: in paese era sopraggiunta la carestia, e in casa la situazione economica non prosperava. Per rimpinguare le finanze e sistemarmi nel modo più indolore, i miei genitori volevano spingermi ad un matrimonio d’interesse – la sua voce s’infranse – Le mie ragioni contarono poco e niente, nel momento in cui rappresentavo un’occasione da giocare nel modo migliore. Non siamo nobili né ricchi, non vi sono mai stati in gioco vincoli di sangue da rinsaldare, tuttavia, dagli interessi economici non sono immuni neppure i poveri contadini. Al contrario, quando incombe lo spettro della fame, ogni misera occasione diventa una goccia d’acqua preziosissima. Alla fine, ho preso in pugno la situazione e me ne sono andato: volevo dimostrare al vecchio di potermela cavare agendo di mia iniziativa. E volevo trovare una soluzione alternativa senza piegarmi a stolti compromessi.

- Dunque – lo interruppe Dorian – Questo, già da allora, significava per te estirpare il problema alla radice, ovvero rovesciare la tirannia? È un progetto ambizioso.

Fernand scosse il capo.

- Non ancora. Ero del tutto sprovveduto e molto confuso. Ogni mese inviavo loro dei soldi, come continuo a fare tutt’ora. Posso contribuire all’andamento della mia famiglia trovando da me un altro sistema e mantenendomi lontano da sciocche iniziative.

- E Ambrosie?

- Per lei, la soluzione sarebbe stata ancora più semplice. Una dote matrimoniale sarebbe stata troppo dispendiosa e, con sette bocche da sfamare, casa mia diventava sempre più stretta. Mio padre è un mercante caduto in rovina: con la sua mentalità borghese, era fuori questione che Ambrosie provvedesse per sé lavorando alla locanda. Ed un’alternativa era lì, a portata di mano: il monastero. Anni addietro, la mia famiglia riuscì a far mandar giù la stessa soluzione ad una nostra sorella maggiore, Vivienne. Lei non lo disse mai apertamente, ma sapevo che, a suo tempo, aveva scelto di prendere il velo per evitare il matrimonio combinato. Mio padre non poteva accettare un’altra insubordinazione: a sentire lui, se tutti i genitori avessero assecondato i “capricci” dei figli, interi regni e famiglie sarebbero finiti in disgrazia. Per un po’ di tempo, Ambrosie finse di accettare la decisione di mio padre. Entrò in convento come educanda, ma, in seguito, con l’aiuto di Vivienne, che già aveva sperimentato le medesime pressioni, riuscì a sfuggire ad un destino che non le apparteneva. Pochi mesi più tardi, ci ritrovammo entrambi a Noir Trésor, soli e senza radici, ma decisi a batterci con le nostre forze, senza ricorrere a quei compromessi che sembrano volgere le situazioni sfavorevoli in meglio, ma che in realtà si rivelano utili soltanto al potere che vuole mantenere il controllo su di noi per reprimere ogni presa di coscienza, per scoraggiarci dall’opporci e dal credere in un cambiamento, per sigillarci nella nostra ignoranza, nella nostra grettezza e nel nostro egoismo. Vogliono mantenere vivo il controllo su di noi, e la nostra ignoranza è loro complice.

- Tuo padre sa che sei un ribelle?

- Se sapesse, mi riporterebbe a casa in catene – rispose laconico Fernand, con un sorriso amaro.

- Non hai esattamente degli ottimi rapporti con la tua famiglia – considerò logicamente Dorian.

- I nostri rapporti si sono sempre basati sulla reciproca freddezza. Io mi limito ad assolvere i miei doveri di figlio, contribuendo a procurare qualche soldo in più. È così, e non m’importa d’altro.

- Mi dispiace, Fernand. Non lo meriti.

- Nessuno merita questo stato di cose. Piuttosto, Dorian – azzardò il giovane, spostando finalmente il fulcro del discorso da sé al suo amico – Non mi è mai stato chiaro il motivo per cui ti sei schierato apertamente contro il tiranno.

Dorian fuggì il suo sguardo. Al buio, senza che Fernand potesse rendersene conto, sul suo volto comparvero due chiazze rosse come se fosse stato preso a schiaffi. Un groppo gli aveva stretto lo stomaco, come se nella sua mente fosse improvvisamente riaffiorato qualcosa che costantemente si sforzava di non riportare alla luce e di nascondere a se stesso e agli altri.

- All’epoca del colpo di Stato del duca du Lac, quel bastardo uccise i miei genitori – le sue parole giunsero lapidarie come una pugnalata.

Fernand strinse le palpebre. Lui e sua sorella evitavano ormai da mesi di mettere piede al borgo, pur mal sopportando la lontananza dai fratelli minori, a causa dell’astio mal represso e della soggezione che era capace di incutere loro una figura paterna rigida ed autoritaria. Non voleva male ai suoi genitori: il dolore nel veder soffocati i suoi slanci e il muro della chiusura mentale contro il quale si era scontrato invano, uscendo sconfitto ed umiliato, lo portava a mantenere i rapporti distaccati ai limiti della cordialità, a fuggire e a mantenere il riserbo sulla propria vita.

Dorian non aveva il problema del conflitto di due generazioni. Dorian aveva perso suo padre senza la speranza di saperlo, un giorno, fiero di lui, di sentirsi compreso ed apprezzato. Quasi si pentì di aver parlato tanto schiettamente. E sapeva che qualunque frase di circostanza e qualsiasi accenno di commiserazione sarebbe servito soltanto a farlo stare peggio. Senza volerlo, aveva risvegliato con la sua ingenua indiscrezione vecchie ferite ormai sopite dalla tempra forte del suo amico. Riuscì soltanto a ricambiare il suo abbraccio su quel letto ormai sfatto che raccoglieva i loro corpi come un nido.

Cullato dalle carezze di Dorian e dall’estenuante tristezza che gli tamburellava nel petto, Fernand socchiuse le palpebre e si assopì lentamente. Era quasi mattino, ma non gli importava nulla. Ogni suo gesto quotidiano, in quel momento, aveva un’importanza relativa.

 

- Non ho voglia di alzarmi, Dorian – cantilenò, la voce impastata dal sonno – Sono stanco. Fuori è ancora buio, e fa freddo. Voglio restare qui. Non m’importa di nulla. È… troppa fatica, ogni mattina, aprire gli occhi, abbandonare l’oblio del sonno e tuffarsi in un inferno quotidiano che non mi porta a niente.

Infastidito, Fernand si fece scudo con la mano da uno spiraglio di luce che illuminava nella stanza. Lo sconforto si era fatto strada dentro di lui, minando il suo slancio passionale. Di tanto in tanto, tra fatica, sconfitte e brevi e fugaci successi, le sue speranze venivano a mancare, e allora gli sembrava di essere perduto.

- Stai qui, adesso – gli fece Dorian con voce dolce e lievemente arrochita – Sei con me, Fernand. Non pensarci. Non pensare più a nulla.

L’apprensione ed il lieve senso di colpa, al pensiero del piano che avrebbe portato a termine in capo a poche ore, contribuivano a renderlo instabile ed inquieto, rifletté Dorian, osservandolo con espressione grave e carica d’affetto. Il leggero stordimento che gli aveva procurato il vino l’aveva indotto ad aprirgli il suo cuore e a parlare liberamente, svelandogli, anche se parzialmente, alcune fra le ragioni del proprio tormento.

Fernand era sfuggente, complicato e deliziosamente esasperante. Per tutta la durata di quelle ore trascorse in sua compagnia, Dorian non aveva fatto altro che sondare la profonda inquietudine che opprimeva il suo giovane amico, scrutandone l’animo in profondità ed osservandolo da prospettive completamente differenti dal normale.

Il fruscio di una carezza percorse la guancia di Fernand per poi morire sul mento delicato. Il giovane si avvinse a Dorian con crescente vigore, mentre le sue labbra cercavano quelle del compagno per assaporarne nuovamente la ritrosa sensualità.

Dorian osservò gli occhi febbrili e scintillanti di Fernand, le pupille dilatate per il languore che offuscava la razionalità ed il persistente, lieve stato d’ebbrezza. Lo vide tendersi in un sospiro sommesso, quando le sue labbra affondarono avidamente sul suo collo. Senza rendersi pienamente conto delle proprie azioni, Dorian fece scivolare la camicia dalle spalle di Fernand e, fremendo per l’elettrica tensione di un contatto proibito, scorse impudicamente con la mano lungo il torace nudo. Gli pareva di poter cadere in deliquio da un momento all’altro, mentre assaporava rapito la delicata e composta bellezza di quel corpo slanciato e tornito, la consistenza morbida della pelle e quella marmorea e definita dei muscoli contratti per la tensione. Voleva assaggiarlo a piccoli morsi, come una pietanza raffinata e squisita.

Tremante, Dorian gli circondò la vita mirabilmente fine, dopo aver assaporato e tormentato di baci le spalle ampie dall’ossatura sottile ma decisa. Lo udì sussultare, quando, per poco, non gli morse la pelle delicata del fianco. Indugiando lentamente intorno alla cintola, Dorian gli sfiorò l’inguine con estenuante esitazione.

Fernand si morse il labbro, trattenendo un gemito. Inarcò voluttuosamente la schiena.

Dorian riprese ad osservarlo, gli occhi lucidi e l’espressione indecifrabile. Gli depose un bacio sotto l’ombelico.

Fernand posò uno sguardo assente su di lui. Ci volle un po’ perché razionalizzasse quel che era stato in procinto di accadere e riuscisse a calmare il fremito che gli aveva percorso le membra per poi lasciarlo insoddisfatto. Faticosamente, riuscì a snebbiare la vista e lasciar regolarizzare il respiro: l’improvvisa sensazione di vuoto l’aveva scosso come una violenta vertigine.

Dorian aveva rinunciato.

- Quando vuoi, Fernand – sibilò – Dimmi di smettere, ora. Non sopporterei che stasera, alla locanda, quando questi momenti saranno ormai congelati dal trascorrere delle ore e dall’intrusione in merito della nostra coscienza, tu possa vergognarti di me ed evitare il mio sguardo o, peggio, disprezzarmi. Non voglio sciupare il mio sentimento per qualcosa di puramente fisico – proseguì – Ho la sensazione di rivolgerti un oltraggio ogni qual volta prendo in esame troppo da vicino un aspetto unicamente sensuale della situazione.

- Non dire questo – lo interruppe Fernand, sfiorandogli le labbra – Ti conosco e so che non è così.

- Sei bello, ed io ti desidero: è questa la verità – proruppe Dorian, a disagio – Eppure, è riduttivo. Non voglio sminuire il mio sentimento per qualcosa di meramente carnale ed inquinare così la nostra amicizia. Fernand, a me basta che tu mi stia vicino, non mi permetto di pretendere altro. Tutto il resto, verrà in seguito, se e quando lo vorrai.

- Basta così, Dorian – Fernand gli sorrise con affetto e gratitudine – Ho fiducia in te e amo la tua sincerità; eppure, lasciami dire che ora esageri.

Gli sorrise: la presenza di Dorian gli aveva scaldato il cuore. Aveva un’eccezionale empatia nel carpire i suoi sentimenti. L’aveva raccolto nel momento del bisogno, quando una forviante depressione si era insidiata in lui, prostrandolo; aveva preso il suo cuore fra le mani e l’aveva riacceso di speranze. L’aveva trattato come un cristallo, ascoltando le sue inquietudini e stringendolo fra le braccia fino a diradare definitivamente il grigio dello sconforto che sembrava essersi impossessato della sua mente.

Fernand gli circondò gentilmente le spalle, affondando il volto tra i suoi capelli biondi.

- Che hai, Dorian? – aveva colto la lieve sfumatura malinconica nel suo sguardo che si sforzava di restare fermo.

- Ti voglio bene, solo questo.

Fernand lasciò aderire morbidamente le labbra a quelle del suo amico e si accoccolò contro il suo corpo come un gattino in cerca d’attenzioni.

- Vorrei stare sempre così, Dorian. Senza la paura di svegliarmi da questo sogno che mi fa sentire al sicuro.

- Con me sei al sicuro, Fernand.

Da chiunque, incluso me stesso, concluse il ragazzo fra sé, un attimo prima d’immergersi in un sonno senza sogni dettato principalmente dalla stanchezza accumulata.

 

Un brivido di freddo lo riscosse, facendolo ridestare di soprassalto. Dorian sobbalzò: doveva essersi addormentato con Fernand stretto tra le braccia. Un vento gelido filtrava dalla finestra semiaperta e agitava la tenda di modesta fattura in una danza sinistra. Una folata particolarmente violenta doveva aver forzato la fragile imposta appena accostata, fino a provocarne l’apertura.

Dorian si affrettò ad indossare la giacca, rabbrividendo. Per quanto tempo si era assopito al fianco del suo amico? Non sapeva neppure che ore fossero. Non poteva essere particolarmente tardi: il sole non era alto. Poi si avvide che il disco del sole era solo momentaneamente oscurato da uno strato di nubi. Si affrettò a richiudere la finestra, ed il movimento brusco scosse Fernand dal suo fragile sonno, facendolo mugolare sommessamente; lo vide tremare appena e stringersi nelle spalle. Istintivamente, Dorian raccolse la camicia stropicciata, confusa tra le bianche lenzuola, e gliela avvolse intorno alle spalle, per poi coprirlo.

Il cielo si era fatto improvvisamente grigio e pesante. Dorian osservò il volto di Fernand e, nel chiarore ancora incerto del mattino che si preannunciava cupo, si avvide del suo colorito particolarmente pallido. Il riposo doveva averlo aiutato a smaltire gli effetti dell’alcool, fra i quali il leggero rossore che gli aveva ravvivato le gote.

Perché continuo a sentirmi inquieto e a preoccuparmi di dettagli di così poca importanza? Si chiese.

Era tutto a posto, si convinse: Fernand aveva sempre avuto un aspetto un po’ emaciato, e in questo non vi era nulla di cui preoccuparsi.

Eppure, Dorian non riuscì ad evitare che un brivido di sordo rammarico gli stringesse il petto, quando, con un lieve tonfo, il portone si chiuse definitivamente alle sue spalle, ed egli si ritrovò solo, sulla strada, a fissare il cielo bruno.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

Nonostante “a cavallo” delle vacanze estive, ce l’ho fatta a finire il capitolo: spero non deluda le vostre aspettative. Ringrazio, come sempre, tutti voi che seguite “Noir Trésor”, in particolar modo Calliope e Lyra84… Che bello, una new-entry! Sono contenta che la mia storia sia di tuo gradimento.

Mi raccomando, continuate a seguire la fiction e a lasciarmi di tanto in tanto qualche commentino, che non fa mai male… Sempre che la cosa vi faccia piacere.^^

Un abbraccio, alla prossima!

 

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8: Incoerenza ***


Capitolo 8

Incoerenza

 

 

Una pioggia sottile ferì il volto cereo di Auguste per tutta la durata del suo penoso tragitto verso casa. Mai il percorso gli era parso tanto lungo e snervante, il corpo gravato dalla cappa d’insostenibile dolore che corrompeva il suo animo. Un’angoscia senza fine, inesorabile, gli dilaniava il cuore a piccoli morsi e, dopo aver prosciugato ogni sua energia morale e reso vano e patetico ogni suo sforzo di reagire, si era impossessata delle sue membra, risucchiando ogni goccia d’energia fisica, accorciando i suoi passi ed irradiando il cupo malessere ad ogni fibra del suo corpo.

Stremato, quasi incosciente, Auguste fissò la volta color piombo che incombeva sulla sua disgraziata città e, accecata dalla disperazione, la sua mente fu sfiorata dall’inconsulto desiderio che il cielo si richiudesse su di lui ed inghiottisse il suo dolore. L’avrebbe liberato da quel male lacerante, annegandolo e disperdendolo fra torbidi ricordi dal sapore di veleno e dissolvendolo in essi.

Il nulla.

Il nulla. Era la sola risposta e l’unica soluzione al suo dolore: lasciarsi passivamente sommergere dalle sue stesse incancellabili colpe e dal desiderio insano di smarrirsi nell’oblio, come se non fosse mai nato.

Dal cielo corrucciato, il suo sguardo si spostò gradualmente sulla città circostante, nido di spergiuri ed assassini, ammasso di mura gelide stillanti sangue.

Auguste arretrò di un passo. Lo stesso colore del cielo gli pareva innaturale. Non era azzurro né grigio a causa delle nubi né dorato per l’avanzare dell’aurora: era livido. Ad oriente, un pallido sole, ancora seminascosto dagli edifici circostanti, tentava di squarciare le tenebre con il suo chiarore malato.

Lucien era morto come un animale scannato, ed i flebili raggi solari solleticavano insolenti i suoi occhi stanchi, gonfi di lacrime non piante.

Aveva smesso di piovere. Le sue lacrime, confuse con il pianto del cielo, morirono insieme alle ultime stille di pioggia, cessando momentaneamente di rigargli il volto contro la sua volontà. La vita scorreva nelle sue vene, straziandolo, ed il sole aveva il coraggio di sorgere e di rivelare impietoso la sua desolazione.

Ormai a pochi passi dal portone brunito della sua austera dimora, Auguste sentì le ginocchia cedergli e ricadde pesantemente sui gomiti. Non tentò di rialzarsi.

Ignorò gelidamente i sassolini aguzzi che gli si erano conficcati nei palmi delle mani, ferendoli impietosamente.

Riuscì soltanto a sollevare fieramente verso il cielo lo sguardo allucinato, il viso coperto da un velo di lacrime brucianti.

 

Che cosa faccio ancora qui? Ruggì. Il sole si mostra nuovamente ai miei occhi e mi sputa in faccia che sono ancora vivo nonostante tutto; mi dona la vita, dopo che il mio Lucien ne è stato barbaramente privato.

Annientami, piuttosto che costringermi a vivere come una larva, impotente di fronte al mio destino! Cosa aspetti?

 

Quasi in una tacita risposta, il pallido disco solare spuntò definitivamente oltre le costruzioni e lo spesso strato di nebbia, trafiggendo imperioso gli occhi di Auguste con i suoi raggi.

 

Al diavolo tutto, maledizione!

 

Auguste rivolse nuovamente un’occhiata sdegnosa e tracotante verso il vuoto, verso l’astro che, illuminandolo, osava rivolgere uno sguardo pietoso a quella vita che non aveva più senso. Serrò la mascella in un moto d’odio e disincantata fierezza, prima che il suo atteggiamento sprezzante si sciogliesse in una nuova, violenta crisi di pianto. Accasciato lì, in mezzo alla via, come un sacco di stracci fradici.

 

- Auguste… Auguste, sei forse impazzito?

Una voce nota riecheggiò nella sua testa, ma non fu sufficiente a riscuoterlo del tutto. Esitante, Auguste rivolse lo sguardo verso la figura altera che sostava compunta dinnanzi al portone aperto.

- E ora, cosa ti è successo? – soggiunse la donna.

Quel tono, un poco più carezzevole di quello adoperato pochi istanti prima, era percorso da una fremente agitazione.

Lo raggiunse in mezzo alla strada bagnata di pioggia. Auguste fissò distrattamente le eleganti scendiletto ormai impregnate d’acqua piovana.

La donna gli sfiorò timidamente la giacca con la mano delicata; poi, inavvertitamente, Auguste si sentì prendere il braccio e trascinare dentro con un’energia che gli parve innaturale attribuire ad Emilie. Privo di volontà, il volto quasi assente, si lasciò condurre fino al salone.

- Auguste, che ci facevi fuori a quest’ora? – domandò la donna, inasprendo involontariamente la propria espressione.

Quel fare indiscreto e vagamente inquisitore lo infastidì profondamente, benché egli non fosse abbastanza lucido da recepirne l’intrinseca ed umana apprensione.

 

Smettila, Emilie. Taci, e sarà meglio per tutti. Non sei mia moglie e neppure mia madre per sindacare sulla mia vita. Non rendere tutto ancora più complicato.

 

- Auguste… Auguste, hai deciso di farmi preoccupare sul serio? – la voce della donna perse la sua determinazione fino ad infrangersi in un singulto disperato – Parlami, Auguste, te ne supplico. Sei sconvolto e non dici nulla. Parlamene, amore mio.

Riscaldato da quell’abbraccio impacciato e materno, Auguste avvertì quanto la stretta di Emilie non fosse confortante come avrebbe desiderato. Si abbandonò distrattamente sul seno morbido della sua compagna, sfiorando con il volto il tessuto sottile e profumato della veste da camera. Cullato da quel dolce tepore che gli impregnava la mente, Auguste cercò la forza di enunciare a qualcuno che non fosse se stesso il resoconto di quella notte terribile.

- Emilie, Lucien è… – si fermò di colpo e fissò il vuoto oltre il volto della donna, trapassandolo quasi fosse trasparente.

- Gli è accaduto qualcosa, Auguste? So che ti recavi da lui – la sua espressione s’indurì – Per… quella faccenda.

Auguste le rivolse un cenno con la mano, ottenendo perentorio il suo silenzio. Sapeva che Emilie alludeva chiaramente alle sue imprudenti, sediziose attività clandestine.

 

Non dire altro, Emilie.

 

- Lucien è morto – sentenziò infine.

La vide impallidire e strofinarsi nervosamente le dita candide le une sulle altre.

- Un incidente?

Auguste scosse mestamente il capo e scandì bene le sue ultime parole.

- È stato ucciso. Scannato come le bestie al macello.

Tacque, non riuscendo a proferire nient’altro: Emilie l’aveva messo alle strette. Strizzò dolorosamente le palpebre: non voleva vedere altre lacrime né sentire le urla ed il pianto. Non era in grado di sostenere sulle sue spalle la propria pena: quanto avrebbe potuto reggere le lacrime altrui?

Le labbra di Emilie si piegarono in una smorfia d’orrore, mentre, sconvolta, si portava le mani alla bocca nel soffocare un grido. La sua espressione smarrita sottintendeva l’amarezza e la costernazione che aveva occultato di fronte a lui. Auguste la vide singhiozzare sommessamente fino ad inghiottire le lacrime e far cessare ogni singulto. Si rese conto di aver sottovalutato il suo temperamento.

- Mi… dispiace – sussurrò la donna, frastornata.

Auguste lesse l’imbarazzo negli occhi scuri e scintillanti che risaltavano sulla pelle d'avorio come baratri senza fine. Tuttavia, non si mosse e non disse nulla. Incrociò le braccia sul petto, immobile: qualsiasi atteggiamento consolatorio sarebbe stato superfluo ed inutile e non avrebbe costituito un valido sostegno per nessuno dei due.

Le carezze di Emilie gli facevano male come se gli ricordassero con costanza di essere un misero relitto in mezzo al mare in tempesta, sballottato dalla furia degli eventi e privato della sua forza vitale.

- Sei fradicio. Ti porto qualcosa d’asciutto – asserì la donna, la voce arrochita dal pianto represso.

 

Non comprendi, Emilie. Annaspi nel vuoto, non sapendo come prendermi. Cosa credi m’importerebbe se il mio corpo, in questo preciso istante, si tramutasse in ghiaccio per poi sciogliersi e disperdersi in milioni di frammenti?

 

Auguste sentì la collera montare inarrestabile dentro di sé.

 

Non per causa sua. Non era sua la colpa. Perdonami, Emilie. Perdonami.

 

- Sono davvero importanti, in questo momento, gli abitucci caldi? – proruppe con crudele sarcasmo – Vuoi la verità, Emilie? A me non importa di nulla, tanto meno di me. Di nulla. E tutto mi si ritorce inesorabilmente contro. Sarei disposto a sprofondare all’inferno, se questo fosse veramente necessario ad annullare il dolore e cancellare le ultime cinque ore della mia vita. Invece, non ne sono capace o non ne ho la forza, e ogni mio respiro per me è una boccata di veleno. Non c’è nulla che io possa fare, e neanche tu. Niente!

- Vuoi che un malanno ti mandi all’altro mondo? – lo contraddisse la donna con petulanza.

- Non m’importa – ripeté Auguste nel suo agghiacciante ritornello – Non m’importa.

- Credi forse che startene bagnato e al freddo ti riporterà indietro Lucien? – lo provocò Emilie.

- Non lo nominare! Non nominarlo neppure! – ruggì Auguste.

I suoi pugni si strinsero fino a far sbiancare le nocche e a conficcare le unghie nel palmo.

Per un attimo, i due si studiarono come due belve pronte ad azzannarsi, irritate dalla reciproca presenza.

Poi, distolsero entrambi lo sguardo, inquieti.

- Fa’ come vuoi. A me importa di te, Auguste, con tutto quel che ne consegue. Sappi soltanto che… ti sarò vicina – mormorò Emilie con freddezza e distacco, uscendo dalla stanza.

Auguste era rimasto solo: la consapevolezza gli strinse il cuore.

La sua rabbia si era disciolta come neve al sole dopo lo scatto iniziale e dopo essersi confrontato con lo sguardo fermo di Emilie. Non poteva biasimarla se, nonostante tutto, si sforzasse di stargli accanto perché le faceva pena. Già: quando aveva letto negli occhi della sua compagna la più scarna commiserazione, la sua collera si era tramutata in tristezza e vergogna. Ora fissava immobile e meditabondo la scacchiera disegnata sul pavimento dalle piccole mattonelle. Un ronzio incessante gli riempiva la testa.

In silenzio, Auguste si sciacquò le mani in un catino d’acqua e si bagnò la faccia. Se Emilie, dopo la sua reazione esasperata, avesse iniziato a coltivare il sospetto di qualcosa di poco chiaro fra lui e Lucien, qualcosa che, secondo le sterili regole della decenza, andava oltre il limite, avrebbe avuto i suoi buoni motivi.

Strattonò con forza il morbido panno intorno alle punte gocciolanti dei suoi capelli, asciugandole di fretta.

Questo no! Proruppe in un anelito d’orgoglio disperato. Nessuno infangherà la memoria del mio amico, per nulla al mondo. A costo di portarmi il mio segreto nella tomba. Il nostro… amore, chiamatelo come più vi piace, ha diritto al rispetto che solo chi l’ha provato è in grado di garantire.

 

Non aveva senso rigirarsi nel letto e tirarsi le lenzuola sulle spalle. Aveva freddo, eppure il suo sangue bruciava come acido. Spazientito, mandò giù l’ultima goccia di liquore e ripose di malagrazia il piccolo bicchiere vuoto sul comodino.

Nel momento in cui Auguste soffiò sulla candela, dei passi leggeri annunciarono l’ingresso di Emilie nella stanza.

- Stai meglio?

Auguste la osservò: era chiaro come il sole quanto vederlo in quello stato l’avesse ferita ed amareggiata.

Malgrado la penombra che le luci dell’alba riuscivano solo parzialmente a penetrare, Auguste riuscì a distinguere i riflessi di rame sui capelli scuri che ricadevano in folti boccoli sul seno e lungo la schiena. Gli occhi, impenetrabili, spiccavano come due tizzoni ardenti sul chiarore di crema del suo volto.

Gli si accostò. Senza aggiungere altro, gli prese il volto tra le mani e lo baciò.

- Non avere paura, Auguste. Non devi temere.

 

Io non ho paura. Non ho mai avuto coscientemente paura: è sempre stato il mio peggior difetto, non aver mai interiorizzato la mia paura. Vedi, non ho paura di alzar la spalla e lasciarmi andare dinnanzi a tutto, persino di fronte alla morte delle persone care.

 

Auguste si sollevò a sedere e strinse il corpo minuto di Emilie contro il proprio, in un incosciente bisogno di calore.

Come tacita risposta, la donna slacciò con enfasi i nastri che le allacciavano la camicia da notte sul busto e si scoprì il petto.

Il contrasto fra le spalle esili ed i seni pesanti e floridi faceva pensare ad una giovane e fertile giovenca. Svelta, la donna quasi strappò lo jabot sulla camicia del compagno ed accostò il proprio corpo al suo, premendo il proprio petto contro il torace solido di Auguste.

L’uomo reclinò la testa all’indietro in un lieve sospiro, imprimendo nei propri sensi e, in seguito, nella mente, il profumo celestiale che suggellava il momento.

Emilie salì sullo spoglio talamo, accostandosi più agevolmente a lui. Sedette cavalcioni sul suo grembo e ondeggiò mollemente il bacino sfiorando la carnale rigidità del suo amante.

Auguste ansimò quasi senza accorgersene. Aveva perso il controllo non solo della propria mente, che ormai viaggiava per proprio conto, ma anche del suo corpo. Non era stato difficile perdere la ragione e tuffarsi a capofitto in una circostanza dettata unicamente dal suo istinto malato, dopo essersi stordito con l’alcool e dopo che la sua angoscia, simile ad una ragnatela appiccicata alle pareti intorno a lui, si era tramutata in tensione erotica.

- Ci sono io, Auguste. Ci sono io.

 

È ciò di cui ho veramente bisogno? È opportuno annegare un giusto dolore nell’appagamento sensuale?

 

Auguste era stordito ed innegabilmente eccitato. Se la sua mente non era in grado di percepire sensazioni di considerevole intensità, il corpo era difficilmente governabile. Il fatto che i calzoni stretti soffocassero in una morsa d’insopportabile tensione la sua turgida, fremente virilità, costituiva il segno indiscutibile di come impulso e ragione schizzassero in direzioni opposte. Soltanto che, stavolta, l’istinto stava riguadagnando terreno.

Emilie prese a tormentare tra le labbra la fragile cute del suo collo, mentre, di tanto in tanto, gli affondava voluttuosamente con i denti nella pelle.

Auguste soffocò un gemito di desiderio spasmodico, quando un ennesimo morso di Emilie attaccò la solida carne della spalla.

 

Basta, Emilie. Basta! Non sono un animale.

 

Quali sensazioni era convinta di evocare in lui, mentre avviluppava fra le proprie ginocchia i fianchi compatti di un uomo distrutto che stava per fare l’amore con lei e che, contemporaneamente, si abbeverava nel calice della falsità?

Emilie si sfilò con un gesto fluido la camicia da notte che ormai le era d’intralcio. Il serico indumento andò a confondersi nel groviglio delle lenzuola. Alla stessa fine furono destinati gli indumenti che separavano il corpo di Auguste dalla nudità.

Privo di veli, Auguste si sentiva ancora più vulnerabile. Dov’erano il suo orgoglio, la sua dignità e tutto ciò che lo rendeva un uomo degno di questo nome? Si era dissolto, insieme ai suoi indumenti ed alla sua coscienza martoriata.

 

Chi sei fuori, Auguste? Quale costume, quale maschera ricopre meglio la tua nudità morale? Chi è il vero Auguste?

 

Era un uomo, fisicamente eccitato e privato della propria dignità, che si accingeva a strofinare il proprio ventre nudo contro quello di una donna che, in quel momento, percepiva quasi sconosciuta.

Un fremito di sorda eccitazione lo scosse come una corda rimasta tesa troppo a lungo. In un impeto puramente istintivo, Auguste congiunse le mani intorno alle anche vellutate di Emilie e la trasse completamente su di sé, immettendosi prepotentemente nel suo umido grembo.

Emilie si piegò su di lui e lo baciò sulle labbra, mentre Auguste ricadeva supino in preda a spasmi di piacere.

 

Cosa succede? Perché il mio essere uomo si esplicita unicamente in ciò che mi rende affine alle bestie?

 

* * *

 

Auguste si sistemò un lembo del lenzuolo sulle spalle nude e infreddolite. La brezza che filtrava attraverso gli spifferi, a contatto con la pelle sudata, lo fece rabbrividire.

 

Come stai, Auguste? Sei più sereno, ora che i tuoi lombi sono sazi?

 

Osservò i lineamenti di Emilie, distesi nel sonno del giusto. La linea morbida dell’ovale, gli zigomi pronunciati ed il rosso vivo delle labbra conferivano al suo volto un tratto peccaminoso.

 

Davvero per te è soltanto un pretesto, Auguste? Guardati allo specchio e di’ a te stesso cosa provi per questa persona.

 

La amava? La amo, ammise.

 

È la mia seconda condanna: io amo. Non posso fare a meno di ricambiare, anche se in un modo del tutto distorto, i sentimenti di chi mi è vicino, anche se, talvolta, avveleno il mio cuore con sentimenti al di là dell’ossessione. Confesso: sono condannato ad amare senza essere ricambiato, a ripagare l’amore con il tradimento e la menzogna, a mentire a me stesso ed a trascinare tutti con me nell’abisso. Soffrire e far soffrire: io ho imparato bene questa lezione!

Voglio bene ad Emilie, ammise ancora una volta, ma quel che ho fatto non era nulla di ciò di cui entrambi avevamo bisogno. È stato un palliativo, uno sfogo furioso ed irragionevole.

Un miserabile folle e vizioso: ecco in cosa mi sto trasformando.

Io non faccio l’amore per diletto: lo giuro; e, se anche è successo, vorrei soltanto che Emilie non mi serbasse rancore. Non posso negare, anche se inconsciamente, di riservare una parte del mio cuore ad ognuna delle persone amiche che ho incrociato nella mia vita.

Ora vorrei riuscire a ripiegarmi su me stesso e a capire quale strascico ha lasciato nel mio cuore uno sfogo sessuale – e non certo il primo di una lunga e triste serie – scaturito dalla disperazione e dall’istinto irrazionale.

 

Cos’hai provato, cosa provi, ora?

 

Vuoi proprio che lo dica? Nulla. Nulla capace di scaldarmi il petto e riaccendermi il cuore.

 

Sospirò: ogni singolo momento da lui percorso in quegli stralci di vita gli pareva una recita infame costellata di punti oscuri, incertezze e decisioni incoerenti dettate da motivazioni incomprensibili che sfuggivano al suo raziocinio. Era come se una serie di sovrastrutture mentali a lui sconosciute lo portassero in determinati momenti a compiere un determinato tipo di scelta piuttosto che un altro: decisioni che, a ben vedere, poco avevano a che vedere con la sua vita, le sue aspirazioni e gli intrinseci desideri.

Raggomitolato sul letto sfatto, le lenzuola stropicciate avvinte al corpo nudo per proteggersi dal freddo e dai suoi fantasmi, raccolto su se stesso, Auguste volgeva le spalle ad Emilie. Non era stata una buona idea quella di fare sesso: il calore della passione aveva sì sopito, in parte, il suo dolore, gelandone gli slanci più autodistruttivi, ma, come prezzo da pagare, gli aveva lasciato addosso una sensazione di freddo e di vuoto dell’anima.

La donna che, assopita al suo fianco, condivideva il suo letto, era ormai una statua di marmo: assolto quel che fino a quel momento era stato in suo potere, aveva perso la sua capacità d’infondergli un fugace calore.

La sua gioia e la sua coerenza non erano più di questo mondo: senza Lucien non sarebbe stata mai più la stessa cosa, sebbene con tutte le contraddizioni che la sua situazione aveva presentato sin da principio.

Un ennesimo sospiro gli fornì una nuova, fresca boccata d’ossigeno, e, mentre scivolava lentamente in una sorta di dormiveglia, sentiva che i bei ricordi, richiamati con delicatezza dal suo istinto, non gli bruciavano più come un rogo nel cuore. Era forse presto per dirlo, ma, in quel momento, erano piuttosto un dolce balsamo che scorreva sulle sue ferite.

Non era la stessa cosa, si rendeva conto con cruda consapevolezza: nulla gli avrebbe ridato quell’irrefrenabile languore che aveva riempito le notti in cui Lucien era giaciuto con lui. Quelle ore intense di stillante passione erano andate perdute, scivolate tra le sue dita prima che egli se ne fosse avveduto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

 

Buonasera, lettori carissimi! Come vedete, anche se con un “lievissimo” ritardo di ben un mese e tre giorni, ho mantenuto la promessa e sono riuscita a postare l’ottavo capitolo. Non è un capitolo molto lungo né particolarmente significativo ai fini della trama; spero mi perdonerete e, soprattutto, spero di non aver deluso le aspettative.

Ringrazio tutti coloro che, sopportando stoicamente i miei terrificanti ritardi nell’aggiornare, seguono il mio lavoro: prima fra tutti, Monella, che puntuale recensisce ogni mio capitolo. Senza ripetermi ulteriormente riguardo al piacere che mi fanno i tuoi commenti, sempre molto gentili, ti rassicuro per quanto riguarda la parte “d’azione”, che arriverà, così come la tematica propriamente “vampiresca”. Purtroppo ho il pallino per indugiare molto nelle presentazioni, nella descrizione dei personaggi e nella loro introspezione. Insomma, ogni tanto finisco per “incartarmi” un po’ nei loro pensieri e nei loro mutevoli stati d’animo. Inoltre, tendo molto a cercare di dare un quadro quanto più compiuto della situazione, onde evitare incoerenze o scarsa comprensione da parte del lettore.

Il racconto non è già scritto per intero, lo sto stendendo pian piano capitolo per capitolo, dunque, anticipo da ora che si potrebbe andare incontro a “dilungamenti” o, al contrario, passare subito all’azione concreta con dei colpi di scena. La trama l’ho già ben in mente, ma, ogni volta che mi metto di buona lena alla tastiera, per me è un’avventura a sé, e… insomma, non si può mai sapere per certo in quale modo potrebbe volgere questo o quel capitolo!

Al prossimo aggiornamento!^^

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9: Gli ultimi ribelli ***


Capitolo 9

Gli ultimi ribelli

 

 

Auguste respirò profondamente l’atmosfera intorno a sé. Era diversa, per quanto egli tentasse d’inabissarsi con la mente nei suoi ricordi e di rievocare l’effluvio salino che aleggiava sulla città portuale nella quale lui e Lucien, costretti all’esilio, avevano trovato rifugio.

La delicata brezza marina spirava giorno e notte dall’ampio braccio di mare che separava quei luoghi dalla sua terra natia.

Le limpide acque, severe custodi, parevano proteggere quel luogo dalla corruzione dei secoli con il loro incantesimo. La vita scorreva attraverso le vie tortuose come se il tempo si fosse fermato, preservato dal mormorio ipnotico delle onde.

- Passerà – era stata la ferma promessa di Lucien – L’esilio è una fase obbligata e necessaria, se vogliamo tornare vivi a Noir Trésor ed attuare quel che abbiamo in mente. Attenderemo che le acque si siano calmate. Non lasceremo la nostra città in pasto al tiranno. Non senza lottare, perlomeno – l’aveva frequentemente rassicurato.

Glielo aveva ripetuto fino alla nausea, a dire il vero. Eppure, Auguste non stava bene. La mancanza della sua patria e la consapevolezza di essere scampato da vile convergevano nella sua mente in una perenne, febbrile attesa ed un’amarezza che si concretizzava nella più cocente disillusione. Sempre più spesso si era ritrovato, suo malgrado, a riflettere su quanto vano e remoto, in quel momento, gli apparisse ogni tentativo di riscatto; ed il suo animo ruggente, prigioniero nel lento progredire di giornate vuote e prive del suo slancio ideale, si risolveva in un disperato ripiegamento su se stesso che gli lacerava il cuore.

Il pallido trascorrere dei giorni si cristallizzava nelle pareti scrostate della modesta locanda nella quale risiedeva senza una meta, sospeso tra una forza che veniva meno e la volontà disperata d’impugnare ancora le armi e scacciare l’usurpatore.

Ma il giovane Auguste aveva smesso da tempo di cullarsi nel limbo delle illusioni: quando il duca du Lac, appoggiato dalla nobiltà reazionaria, si era insediato al potere a Noir Trésor con la forza delle armi, la città, scossa dai sanguinosi avvenimenti, era insorta, tentando una confusa e folle difesa

Auguste aveva visto con i suoi occhi l’impeto patriottico di giovani intellettuali e dei loro seguaci soffocato in una carneficina in piena regola.

Non aveva dimenticato come il duca, privati i cittadini della loro libertà, avesse indiscriminatamente marchiato con l’accusa di tradimento chiunque avesse osato opporsi e posti così a tacere gli ultimi focolai di resistenza alla sua ascesa al potere.

Non si era smarrito nel limbo dei suoi ricordi il sangue che ancora era stato versato nelle sommarie esecuzioni dei giovani patrioti. Lo sapeva, Auguste: alcuni avrebbero terminato i loro giorni nei carceri; altri avevano scelto volontariamente la via dell’esilio, lasciando che a Noir Trésor l’incendio divampasse fino a scemare e che il duca cessasse di dare la caccia agli ultimi ribelli o presunti tali.

 

Non era vigliaccheria, da parte loro. Non era codardia, si ostinava a ripetersi, fino a stordirsi nel turbinio dell’ossessione, mentre fissava il soffitto biancastro.

Non riusciva a dissipare la fitta di angoscioso smarrimento che gli si agitava nel petto. Ripensava all’amaro destino dei loro compagni, periti sopra un patibolo o durante i sanguinosi scontri in città tra le bande armate dei ribelli e l’esercito mercenario del duca.

Auguste aveva sofferto la sua decisione fino all’ultimo istante.

Nei medesimi istanti in cui i suoi amici pagavano sulla forca il proprio orgoglio e l’amore di patria, lui stava al sicuro in una località sconosciuta, intento a leccarsi le ferite e ad ubriacarsi in tranquillità. Sospirò dolorosamente: non era stato d’aiuto a nessuno.

Non era necessario che qualcuno lo marchiasse come vigliacco: il suo tacito senso di colpa bastava da solo a trafiggerlo come uno spillo nelle carni che non gli offriva tregua.

Era scivolato in uno stato di prostrazione e d’apatia in un limbo assurdo ed asfissiante. Trascorreva ormai il suo tempo chiuso in quella scalcinata locanda, annegando nell’alcool e nella solitudine la frustrazione e la rabbia impotente. Viveva alla giornata. Le scorte di denaro che, nella furia di abbandonare Noir Trésor, era riuscito a portare con sé, stavano progressivamente esaurendosi.

Avrebbe dovuto in qualche modo prendere in pugno la situazione, raccogliere le sue forze e ristabilire una parvenza d’ordine nella sua vita. Rimediare un impiego come sguattero o come gazzettiere per procurarsi da vivere d’ora in avanti era stata la prospettiva più valida e sensata che gli si fosse aperta dinnanzi. Se solo ne avesse avuto la volontà e la forza. In verità, riflettendoci con emotivo, altezzoso distacco, considerò che ficcare il naso nel buco della serratura di qualche chiacchierato aristocratico dei dintorni per conto di un libellista senza scrupoli era davvero l’ultima delle sue velleità.

Espirò, contrariato: l’oste reclamava già i soldi dell’alloggio, e lui tergiversava. In quelle poche settimane in cui era approdato in città, aveva già avuto modo di farsi conoscere presso gli avventori della locanda: l’avevano sarcasticamente apostrofato il filosofo, l’intellettuale annoiato, a causa dell’alone di mistero che promanava il suo sguardo perennemente assorto.

Noir Trésor appariva ora ai suoi occhi una realtà che distava mille miglia; l’ipotesi di farvi ritorno era divenuta utopia.

 

Non fossero mai tornati…

 

Il fatto che Lucien, ripescato per i capelli, fosse uscito indenne da una morte pressoché sicura per annegamento, era forse stato un segnale propizio.

Già, poi vi era lui: Lucien.

Lucien era un maestro nel non lasciar trapelare la sua aspra frustrazione ed il suo sconforto. La lastra di ghiaccio che costituiva la sua pelle nivea sembrava aver congelato al suo interno le sue pulsioni più negative. Lucien aveva dissimulato il proprio dispiacere sin dal momento in cui il suo obbiettivo principale, dacché avevano lasciato Noir Trésor, era divenuto infondere nuovamente coraggio nel suo amico. A volte, a dire il vero, i suoi stessi cedimenti facevano sì che i ruoli si capovolgessero e che divenisse dovere preciso di Auguste offrirgli tutto il supporto di cui aveva bisogno.

Lucien doveva essere per lui un sostegno, non un deterrente; per questo motivo, raramente si lasciava sorprendere in momenti di sconforto: doveva riscuotere il leone, non gravarlo delle proprie insicurezze.

Auguste taceva e si fidava della sua buonafede; di tanto in tanto lo stringeva tra le braccia e lo confortava a sua volta.

Nulla era stato più accennato da parte loro riguardo al bacio sulla nave.

 

Giaceva indolente sul suo piccolo letto cigolante, il tricorno calato sulla fronte per proteggersi dalla luce fulva del crepuscolo che penetrava nella camera, proiettandovi particolari bagliori. Il suo sguardo scorreva distratto scrutando ora il soffitto, ora la punta dei propri stivali, ora i particolari della stanza intorno a lui.

Fu l’ingresso di Lucien ad interrompere il suo momentaneo isolamento.

I capelli che gli accarezzavano la schiena erano umidi e lasciavano dedurre che Lucien si era da poco immerso in una tinozza d’acqua calda a sciacquare via dalle sue membra stanchezza e nervosismo e schiarire la mente mentre il corpo si rilassava: uno dei pochi “lussi” al quale si abbandonavano con voluttà.

Auguste non comprendeva quale nesso coesistesse tra i suoi grigi e tetri pensieri e lo strano disagio che gli provocava la presenza dell’amico. Gli eventi erano precipitati sulle sue spalle con impeto tale da rendergli difficile sciogliere la confusione che avvertiva dentro di sé e fugare gli incoerenti ed insensati pensieri che albergavano in lui.

Nella mente, si raffigurava mille gocce percorrere rapide come minuscole cascate il corpo tornito di Lucien, colare dai capelli intrisi d’acqua e scorrere lungo le gambe.

La tensione sprigionatasi nell’esiguo spazio che li separava era tangibile. Rapito da quell’insolito fervore, Auguste scorse con lo sguardo sul torace dell’amico, scoperto dalla camicia, e nella sua mente se lo figurò indugiare pigramente con un morbido panno sul corpo bagnato, lambendo gentilmente ogni stilla d’acqua dalla sua pelle.

Auguste si riscosse dai suoi insensati deliri mordendosi il labbro, ed ebbe la grazia di arrossire, quando lo sguardo ceruleo dell’amico si posò su di lui.

La completa apatia in cui si era confinato tradiva il bisogno di agire concretamente e avere la mente impegnata, al punto che il suo pensiero, non potendo vagare giorno e notte su affanni e sensi di colpa, traeva spunto da qualunque pretesto capace di accendergli il cuore.

Avrebbe voluto guardare Lucien negli occhi nutrendo la sola, disinteressata amicizia che sempre aveva avvertito nei suoi confronti, ma, più passavano i giorni, più si rendeva conto che le morbide labbra del suo amico bruciavano sulle sue con maggior intensità.

Lo osservò, di spalle, mentre si spazzolava distrattamente i capelli.

Se non avesse afferrato il lenzuolo sotto di sé e, facendo appello a tutte le sue forze, non avesse ordinato al proprio corpo di restare ancorato a quel letto, avrebbe raggiunto Lucien di fronte alla specchiera ed avrebbe insinuato le dita tra i suoi capelli, impossessandosi gelosamente delle sue labbra. Mentalmente, udì il tonfo della piccola spazzola che cadeva sul pavimento, mentre Lucien cedeva ai suoi baci o, nella peggiore delle ipotesi, lo scostava bruscamente con il gelo negli occhi. Una raffinata forma di tradimento alla loro amicizia? In quel momento, il suo amico era uno scrigno prezioso da proteggere e tenere stretto ad ogni costo, e il suo corpo assurgeva a inedito ricettacolo d’incontenibile sensualità. Perché la loro amicizia era stata minata dall’attrazione fisica, morbo insidioso che poteva portarli alla felicità o alla depravazione e all’agonia?

Non era così: lo amava. Il terrore di perderlo su quella maledetta nave ed una serie di sensazioni contrastanti avevano innescato in lui reazioni emotive troppo rapide e violente per essere sintetizzate con chiarezza.

- Seta?

Le dita di Auguste scorsero tentennanti sul nastro che riteneva la chioma corvina di Lucien.

- Che bel damerino da salotto…

Nelle sue brevi parole vi era una doppia sfumatura di sensualità e di pungente ironia.

- Spero tu non voglia rassomigliare a quei polli incipriati – soggiunse.

- Vorresti paragonarmi ad uno dei nostri infingardi nobili che si sono venduti al duca du Lac? Potrei offendermi – replicò Lucien con il medesimo atteggiamento sarcastico – Cos’altro potrei fare? – riprese, il volto serio – Lasciarmi andare all’indolenza e alla delusione, come… qualcuno di mia conoscenza?

Tornò a scrutare con freddezza la propria immagine riflessa.

Auguste scosse stancamente il capo.

Potrei essere il ritratto della decadenza di ogni ideale, dedusse Auguste, esaminando a sua volta nello specchio il proprio volto segnato da due leggere occhiaie ed i capelli arruffati. Non si era neppure preso il disturbo di ravviarseli, dopo essersi immerso nel solito bacile fumante a compiacersi del proprio gelido disincanto, fissando il vuoto dinnanzi a sé fino ad uscire rabbrividendo dall’acqua ormai fredda, i palmi coperti di grinze.

- Se tu ti biasimi – riprese Lucien – Cosa dovrebbero fare i polli incipriati che durante gli scontri si sono rintanati nei loro lussuosi palazzi, per poi “sfilare dietro il carro del vincitore”?

- Dovrebbero andare tutti all’inferno, ecco che cosa! I nostri amici sono morti. Ho visto un ragazzo piangere, mentre suo padre era trainato verso il patibolo sul carro dei condannati a morte. Ed io non ho potuto fare nulla per loro.

- Auguste, non sei un ragazzino. Ogni rivoluzione vede i suoi vincitori… e i suoi vinti – ribatté tristemente.

- Non sono neppure un ingenuo. A cosa ci porterà, ora, l’aver combattuto in prima fila per poi retrocedere dinnanzi al pericolo della morte e scegliere la via più semplice?

- La via più semplice? La tua faccia, in questo momento, non dice esattamente che tu abbia scelto la strada più facile. Che cosa avresti creduto di ottenere sventolando la bandiera dell’oppositore sulla faccia del duca e finendo dritto sulla forca?

- Un ribelle in meno – proseguì Auguste con petulanza – E un uomo in più.

- I morti non sono più d’aiuto a nessuno.

- Anch’io, a molte miglia di distanza, non sono d’aiuto a nessuno. Il duca ha messo a ferro e fuoco la città, sulle tracce dei sovversivi. Se io ed altri ci fossimo consegnati nelle sue mani, forse quel cane avrebbe evitato di impiccare metà della popolazione.

Lucien scosse nuovamente il capo.

- Ascoltami, Auguste. Voglio che stavolta rifletta seriamente. Secondo te, è più facile accettare di morire per una causa, oppure sacrificare la personale autoaffermazione e, nelle nostre possibilità, continuare ad operare in silenzio, guardando alla realtà e confidando che, se non nell’immediato, il nostro progetto potrà essere attuato in un prossimo futuro, con le basi che noi stiamo costruendo?

- Dovrei affidare ai cari posteri le mie responsabilità?

- Auguste, è più semplice presentarsi come oppositore e lavarsi la coscienza nel sangue, oppure chinare il capo, ingoiare bocconi amari, ma con la consapevolezza che saremo noi, in seguito, ad alimentare una speranza?

- Parlami di azioni concrete, Lucien, non di voli della mente. Non posso vivere da illuso, sognando un Deus ex machina che arrivi e si faccia carico delle mie responsabilità?

- Non mi sono spiegato – riprese Lucien, alterato – Tu sai che torneremo a Noir Trésor. E sai che senza una guerra civile di mezzo, il duca non potrà trovare un pretesto qualsiasi per condannarci deliberatamente. Terremo gli occhi aperti. Se davvero vogliamo rovesciare la tirannia, dobbiamo aspettare che la situazione si assesti. Prima di tentare qualsiasi azione, abbiamo bisogno di tempo per capire i punti deboli del duca du Lac. Una rivolta non si organizza in pochi giorni e con un cappio parzialmente legato attorno al collo. Noi dobbiamo creare le premesse, perché sarà il popolo a far cadere il tiranno, non Lucien, o Auguste il martire.

Auguste sorrise sarcasticamente.

- Dopo che il duca avrà ben accomodato il suo blasonato fondoschiena sul suo trono da usurpatore, dubito che vi sarà ancora qualcuno disposto ad assestargli una spinta.

- In un clima rovente come quello che attualmente dilaga a Noir Trésor, con il duca fresco di vittoria, opporsi significa soccombere. Ma presto il duca s’illuderà di aver vinto ed abbasserà la guardia. Un popolo sottomesso, per lui, è un popolo innocuo. Auguste, credi ancora nella nostra causa?

- Vorrei che non fosse tutto inutile.

- Non è mai inutile vivere per uno scopo preciso. E tu ti stai battendo come un leone.

Auguste rise amaramente.

- Fuggire significa lottare?

- Nessuno di noi ha mai ceduto. Io non mi sono mai arreso, e nemmeno tu. Fra tutte le strade che potevamo intraprendere, noi abbiamo scelto quella più irta di sofferenze. Marchiati come vigliacchi, come traditori. Abbiamo visto il sangue dei nostri amici schizzare su di noi e trafiggerci come spilli arroventati. La loro morte bruciava su di noi, eppure non potevamo fare nulla. Lasciavamo Noir Trésor con l’orgoglio che ci gelava il sangue e la dignità a pezzi, ma non è così. Se fossimo morti, ora chi porterebbe avanti il nostro progetto? Chi si macererebbe l’esistenza per un frammento di giustizia?

- Non lo so, Lucien, non lo so!

- Cosa faremmo da morti?

- Staremmo sotto una lapide? – Auguste sollevò le sopracciglia, spazientito – Anzi, no, in una fossa comune con uno strato di calce viva.

- A chi potremmo apportare il nostro aiuto? A nessuno. Il nostro progetto potrebbe essere attuato in futuro? Non lo puoi sapere, se non esisti più.

- Non so cosa significa esistere o non esistere. So cosa vuol dire vivere.

- Moriresti per un ideale?

Auguste distolse lo sguardo per un momento, a disagio.

- Mi sentirei un ipocrita se ti rispondessi immediatamente di sì. No. A bruciapelo, non posso saperlo.

- Tu hai fatto di più. Hai stretto i denti e hai scelto di resistere.

Auguste ammutolì, sconcertato.

- Personalmente – riprese Lucien – Non so che farmene del concetto di “eroe”. Ti reputo una persona generosa, Auguste. La gloria personale non ha mai arrecato benefici duraturi ad un popolo, e poco ha a che vedere con la felicità. Le morti intrepide non sempre apportano aiuto a qualcuno, e raramente sono i singoli a cambiare le cose.

- A parte qualche mostro sanguinario che con la forza piega la realtà a proprio arbitrio, direi di sì.

Tacque. Non seppe sostenere con precisione se fosse la forza delle argomentazioni di Lucien a farlo momentaneamente desistere su quel terreno, o il calore che gli bruciava il petto.

- Cos’hai in progetto, stasera? – gli domandò Lucien, cambiando bruscamente argomento.

Auguste scosse le spalle.

- Nulla. Sono stanco e non mi va di passare la notte nelle osterie.

- L’alcool non servirà a farti sentire meglio.

- Ho parlato di “alcool”, nel particolare?

Auguste sollevò un sopracciglio con fare sagace, nell’istante in cui prese una piccola bottiglia di vetro e si servì di un’abbondante sorsata, sin quando il liquido paglierino non gli riscaldò piacevolmente la gola.

Lucien alzò gli occhi al cielo e si risparmiò ogni commento.

- Io voglio aiutarti – proruppe in un sussurro.

Auguste gli fece cenno di fermarsi.

- Tu stai facendo l’impossibile. Ho compreso qual è la mia situazione, ma, nonostante tutto, non riesco ancora ad accettarlo. Non riesco a stare tranquillo.

- È normale. Come tutti noi, nutrivi delle speranze e sei stato orribilmente deluso. Cerca soltanto di non farne un’ossessione e non lasciarti trascinare dallo sconforto.

- Come potrei non pensarci? Sai meglio di me che certe immagini non mi abbandoneranno mai.

- La ferita è troppo fresca. Non puoi pretendere di estinguere in un battito di ciglia il senso di colpa che avverti. Un senso di colpa che non ha ragion d’essere – le sue parole sfumarono.

- Non sono un codardo – ripeté Auguste, più per auto convincersene che per altro – E non sono neppure un eroe. Sono soltanto… confuso, e non riesco a togliermi dalla mente certi folli pensieri. Che cosa sono, allora?

- Vuoi che sia io a darti una risposta? – lo provocò Lucien.

Auguste annuì stancamente, mettendo giù la penna d’oca che fino ad un momento prima si era ingegnato ad affilare. Voleva tentare di buttare giù qualche riga ed offrirsi di collaborare alla gazzetta. Cercava una motivazione.

Nel tumulto dei suoi pensieri, si rese conto che la soluzione, e forse la sua gioia, era lì a portata di mano, malgrado non riuscisse ad afferrarla.

Il cielo iniziava ad imbrunire, dissolvendo il riverbero sempre più fievole del tramonto.

D’un tratto, gli occhi di Auguste, abituati al seppur debole lume, piombarono nell’oscurità, nell’istante in cui qualcuno soffiò sulla candela.

Prima che potesse esalare un respiro, due mani gli si posarono sulle spalle, leggere e scure come le ali di un corvo.

Auguste respirò affannosamente e cercò di svincolarsi da quella presa che, benché lieve, lo tratteneva con una forza d’origine oscura; ma i suoi piedi sembravano ancorati al pavimento.

In un anelito di lucidità, il ragazzo si accorse di non poter stabilire in quale punto particolare del suo corpo indugiassero quelle mani sottili: le sentì nello stesso momento accarezzare i suoi fianchi, risalire sul petto e scivolare lungo la schiena poco protetta dal tessuto sottile della camicia.

Quante erano le carezze che scorrevano su di lui? Non riusciva a riordinare nel tempo ogni singolo evento, ogni singolo, erotico tocco.

Lucien gli scostò i capelli dal collo con un gesto fluido.

Solo quando avvertì sulla pelle il suo respiro, Auguste dedusse che non era stato un ingannevole parto della sua immaginazione.

- Non sarei di grande aiuto se rispondessi alla tua domanda, Auguste. Nessuno è totalmente obiettivo, quando si tratta della persona che si ama.

Auguste rabbrividì, quando Lucien gli soffiò sul collo quelle parole brucianti e repentine.

Tremante, si volse verso di lui svincolandosi dall’abbraccio etereo che gli circondava il busto. Scuotendo le palpebre per snebbiare la vista, riuscì a distinguere gli occhi di Lucien aperti e lucidi nell’oscurità, i tratti regolari del suo volto composti in un’espressione serena. Due dita pallide scivolarono su di lui, seguendo il perimetro della sua guancia.

- Mi dispiace, Auguste.

Il giovane scosse nervosamente la testa: Lucien aveva interpretato la sua iniziale perplessità come un tacito cenno di rifiuto?

- Di cosa?

Sorridendo, Auguste lo cinse timidamente con le braccia ed unì le labbra alle sue. Ora posso.

Lucien sfiorò la sua bocca in punta di lingua, ed un estatico formicolio agitò il corpo di Auguste, percorrendogli la spina dorsale ed avviando la sua graduale ascesa verso vette che non conosceva.

- Non resisto, Lou. Non ti resisto… – ansimò.

- Non dire sul serio – gli ingiunse Lucien, prendendosi benevolmente gioco di lui – Io ho resistito. Dalla notte sulla nave, per la precisione.

- Non ricordarmi quella notte – gli sussurrò Auguste – Sarei morto, se ti fosse accaduto qualcosa.

- Invece, se sono qui, lo devo a te. Indipendentemente da ciò, concedimelo, in questi anni non mi sono mancate le occasioni per capire che ti amavo.

Per un istante, entrambi tacquero, l’uno tra le braccia dell’altro, scossi e turbati al ricordo dell’incidente durante il viaggio.

 

Era stato un comodo movente? Una provvidenziale scintilla? Non era importante; contava soltanto la reciproca consapevolezza.

 

Insinuandosi con le labbra nell’incavo del collo, Auguste risalì lentamente sino a mordicchiare il lobo dell’orecchio del suo amico.

Sussultando in seguito al suo attacco, Lucien lo attirò a sé stringendogli la vita tra le mani e portando i fianchi di Auguste a contatto con i propri. Se avesse potuto guardarlo in viso in piena luce, gli occhi scintillanti ed il volto accaldato sarebbero stati indizi sufficienti di quanto Auguste fosse eccitato, senza ricercare morbosamente inequivocabili conferme.

Auguste trasalì ad un contatto così intimo e, come riflesso dell’intenso stimolo ricevuto, accostò le labbra sulla spalla di Lucien, baciandolo avidamente e contendendosi con la lingua e con i denti la conquista di ogni palmo della sua pelle. Stringendo Lucien a sé, indietreggiò quel poco che bastava per raggiungere il letto alle sue spalle. Ricadde sul materasso, e Lucien con lui.

- Ti ho fatto male? – gli domandò Lucien, crollato disteso lungo sul suo corpo, mentre, d’istinto, gli posava un bacio sulla fronte.

- Non è nulla… – fece Auguste di rimando, troppo impegnato a slacciare l’ampio colletto della camicia del compagno.

Lo amava: quella miscela caotica di acute sensazioni, connessa al suo stato d’animo, gli procurava un languore ed un’eccitazione senza uguali.

Spudorato come un assassino, Lucien liberò la camicia di Auguste dalla cintola ed introdusse indiscretamente una mano all’interno dell’indumento, lambendogli il torace bollente.

Auguste inarcò la schiena, sciogliendo ogni reticenza in un lungo sospiro e meditando che, per quella notte, Lucien non gli avrebbe dato respiro: non si sarebbe accontentato di estendere i suoi baci lungo la gola e sulla porzione scoperta del petto.

Armeggiando convulsamente con i lacci, tentoni, Lucien tentava di spogliarlo della camicia. Le sue labbra si schiusero impietosamente su di lui e corsero a lambire generosamente quella linea immaginaria che, dallo sterno, s’inabissava a separare gli ampi pettorali.

 

Non vi è da stupirsi se basta lambirmi appena per farmi tremare: è sufficiente sfiorarmi con lo sguardo per evocare in me un piacere senza uguali.

 

L’amore che Auguste sentiva verso di lui – che sempre aveva provato – gli divampò nel petto come una scossa; il suo cuore, immettendo indecifrabili sensazioni a ciascuna fibra del suo corpo, rendeva ogni brano della sua pelle recettivo ed estremamente sensibile al più debole sfioramento che Lucien gli rivolgeva. Era come se fosse avvolto da una cortina invisibile che, anziché ripararlo da assalti esterni, lo esponeva quanto mai al godimento che le carezze di Lucien gli procuravano.

Amarlo potenziava l’effetto di ogni bacio e di ogni carezza. Ogni singolo gesto di Lucien infondeva in lui un oscuro piacere la cui causa fondamentale era l’amore che gli ardeva nelle vene e rendeva il suo corpo e la sua volontà plasmabili come creta.

Avvertì le mani di Lucien scendere sui suoi fianchi ed indugiarvi, mentre le labbra si avventuravano ad esplorare insaziabili la pelle vellutata ed i muscoli modellati con grazia sull’addome asciutto che digradavano sinuosamente fino alle anche in rilievo.

Risvegliatosi dal suo erotico torpore, Auguste si sfilò spasmodicamente la camicia, che oramai giaceva inutilmente arrotolata intorno al torace, e si sollevò a sedere.

- Ti amo. È tutto – gli ripeté ancora Lucien, prima di accostarsi al suo volto ed impossessarsi delle sue labbra morbide e dischiuse – Potrei dire che ti amo perché mi hai salvato la vita; o perché sei così bello. Le mie parole sono riduttive: capisci? È come volersi spiegare perché il sole sta nel cielo. Perdonami – rise imbarazzato – Dico una marea di stupidaggini.

Sul volto di Auguste comparve un sorriso enigmatico. L’ombra sempre più densa che calava nella stanza rendeva ovattati i contorni delle cose, così come i loro volti. Ancora una volta, Auguste si sentiva sospeso in una soffusa, intangibile sensazione d’estasi profonda. Il corpo era il veicolo attraverso il quale stavano ponendo fisicamente in atto un amore di tipo sensuale, che tuttavia non racchiudeva l’unico aspetto della situazione; le loro menti vagavano in una dimensione cristallina, trasmettendo al corpo impalpabili sensazioni tradotte in piacere carnale.

Inaspettatamente, Auguste sospinse Lucien con dolcezza, portandolo a giacere supino sotto di sé, e riprese a baciarlo avidamente, ricambiando generosamente le convulse carezze con cui il suo compagno indugiava a piene mani sulla sua schiena.

Strusciare la propria erezione contro quella altrettanto pulsante di Lucien ad ogni loro flessuoso movimento si stava trasformando in un’estenuante e lenta tortura, una morsa dalla quale temette di non uscire più.

Abbandonò momentaneamente quella bocca che aveva ferocemente bramato e scivolò al fianco di Lucien, trafelato.

Un istante di respiro, implorò silenziosamente, vinto dalle raffiche di piacere che si abbattevano su di lui. Uno soltanto

Veloce, Lucien si gettò impietoso sulla preda, sfiorando implacabile la striscia di pelle sopra la cintola dei calzoni e soffermandosi con la lingua a disegnare voluttuosi circoli di concentrica ostinazione intorno all’ombelico.

Il gemito che emise Auguste fu una manifesta ambivalenza fra la dichiarata soglia di sopportazione dell’esasperante piacere ed il desiderio bruciante di un contatto più intimo. Smanioso, intrecciò le dita tra i capelli setosi del suo amico.

- Ti fidi? – gli domandò Lucien a bruciapelo, dopo aver posato un tenero bacio sulla sua pelle accaldata e percorsa da minuscole gocce di sudore.

Auguste annuì, riprendendo fiato.

- Vuoi che continui? – incalzò Lucien.

Auguste rispose un flebile “sì”, il cuore in subbuglio e la voce arrochita dal desiderio.

Lucien gli abbracciò la vita, in un misto di tenerezza e desiderio di possesso. Il suo sguardo, esitando giù in basso, lo percorse come un tocco leggero.

Auguste trattenne un mugolio strozzato, quando la mano di Lucien discese lungo il ventre ed affondò con irruenza oltre i pantaloni, sfiorandogli l’inguine nudo in un’estenuante carezza.

La tensione gli s’incuneò fin nelle ossa, mentre cinque dita ardenti si facevano strada alla cieca là dove era più sensibile, fino a tastare con impazienza la sua erezione prepotente.

Si morse il labbro e, con la mano malferma, raggiunse quella di Lucien. La prima idea che lo sfiorò fu quella di bloccare il suo amico, prima che il suo folle desiderio spezzasse ogni ultimo, flebile baluardo di resistenza, erompendo con ferocia e gettandoli in un subisso di sensazioni sconosciute. Strinse le palpebre, scosso da uno spasmo di piacere, e le sue dita tremanti sfiorarono il braccio di Lucien in un debole tocco che sancì il suo completo assenso.

 

Spalancò gli occhi, sforzando la sua vista nell’oscurità della stanza. Intravide confusamente i loro abiti sparsi sul letto e sul pavimento. Nudi, si apprestavano ad amarsi. Scorse la sagoma flessuosa di Lucien. Chino sul suo corpo, si prendeva cura di lui e del suo piacere come di un cucciolo bisognoso d’attenzioni. Rapito dall’estasi erotica, Auguste gli regalò istintivamente una lenta carezza, ricambiando in parte il piacere che Lucien gli regalava. In silenzio, sfiorò in punta di dita le sue labbra, umide dei baci roventi che si erano scambiati. Le stesse labbra che erano calate implacabili sul suo sesso, derubandolo di ogni stilla di lucidità.

Lo cinse tra le braccia, sfiorandogli il petto con le labbra e perdendosi nel suo profumo. Lucien gli rivolse un sorriso rassicurante, benché, nella penombra, i suoi contorni fossero appena distinguibili, e lo lasciò andare dolcemente disteso tra le lenzuola.

- Auguste – mormorò roco Lucien – Posso fare l’amore con te?

- Ti voglio, Lou… – riuscì a rispondergli – Ti voglio che potrei morirne.

Auguste vide il proprio inguine scomparire nuovamente dietro la massa scura dei capelli di Lucien. Sussultò, quando, come una scossa, avvertì le sue dita sfiorarlo tra i glutei e, pochi istanti dopo, qualcosa di umido lo lambì nello stesso punto, reso ancor più sensibile da quelle brevi, studiate carezze. Da principio, fu colto da un singolare senso d’intrusione, non appena avvertì la prima falange affondare prudentemente in lui, e si contrasse d’istinto.

- Sta’ tranquillo, Auguste, non temere. Sei con me – gli ingiunse dolcemente Lucien, per poi riprendere a toccarlo con circospezione.

Auguste sospirò: avrebbe voluto riprendere le redini della situazione, com’era sempre stata sua abitudine, lanciandosi su Lucien ed uccidendolo di piacere; ma, ora come ora, la sua volontà pareva essersi annullata al servizio dell’urgenza incalzante di unirsi alla persona che amava.

Il piacere che Lucien gli procurava era qualcosa di vago ed indecifrabile che non poteva riassumere a parole; mai come in quel momento si era reso conto di non riuscire a stabilire se fossero più intensi gli impulsi che le sue facoltà sensibili irradiavano al suo sesso, o il liquido piacere che gli allagava il petto al pensiero che stava per fare l’amore con Lucien. Era certo che il suo piacere, fisico ed emotivo, nel percorso dalla mente ad ogni estremità del suo corpo, passava necessariamente attraverso il cuore.

I ricordi di quei momenti erano quanto mai annebbiati: la sua logica e la percezione temporale erano venute meno.

Al buio, udì soltanto il loro respiro grondante d’impazienza, lo strusciare dei loro corpi sulle seriche lenzuola ed il lieve schioccare delle labbra di Lucien che si dischiudevano ritmicamente sulla sua pelle sensibile in una miriade di baci.

Ricordava di aver artigliato affannosamente il lenzuolo sotto di sé, quando Lucien era penetrato in lui.

Si morse il labbro, trattenendo un gemito d’ambigua natura, ogni muscolo del corpo teso fino allo spasmo. La fronte contratta era imperlata di sudore ed i capelli gli ricadevano scomposti sul viso, complici dell’oscurità nell’occultare la sua espressione.

Riuscì in parte a rilassarsi gonfiando d’ossigeno i polmoni ed espirando profondamente.

- Vuoi che smetta?

Dal tremito della voce di Lucien, Auguste dedusse quanto l’aveva intimorito l’idea di causargli in qualche modo dolore.

Si sollevò faticosamente sui gomiti, scuotendo energicamente il capo.

- No. Resta un attimo così. Non muoverti…

Ubbidiente, Lucien arrestò la sua corsa. Lo abbracciò timidamente congiungendo le mani all’altezza del torace, per poi discendere a ghermirgli il sesso fremente, ammansendo con instancabili carezze la tensione che attanagliava il corpo di Auguste e dirottando sapientemente le sue sensazioni.

Auguste non aveva mai immaginato di poter trarre tale piacere dall’agognata unione con la persona che amava. A ben pensarci, niente di tutto ciò che stava provando era lontanamente quantificabile. Era difficile razionalizzare che lui e Lucien in quell’istante fossero un’unica cosa e che, per mezzo dei loro corpi, si erano congiunti inscindibilmente.

Abbandonato. Era così che si sentiva: abbandonato dalle proprie forze, dalla ragione e dalla facoltà di riflettere e formulare pensieri coerenti a proposito di quel che stava accadendo dentro di lui. La sua mente l’aveva abbandonato a sé nello stesso modo in cui il suo corpo si era accasciato piacevolmente sconfitto sotto le audaci carezze di Lucien; prigioniero, per propria volontà, dell’impeto della sua passione.

A dire il vero, riflettendoci, Auguste si rese conto che, paradossalmente, era piuttosto Lucien ad aver quasi disatteso se stesso per dedicarsi solamente a lui, artefice incontrastato del suo piacere.

Rimase in bilico tra vaghe sensazioni, nel momento in cui un affondo delicato ed intenso gli tolse il respiro, incendiandogli i lombi.

Tremante, Auguste ricadde su un fianco. Il suo respiro accelerò vertiginosamente e si risolse in un lungo sospiro, finché le labbra di Lucien non premettero provvidenzialmente sulle sue. Le loro lingue s’intrecciarono e si strinsero in una lotta sensuale in sintonia con i loro corpi vibranti.

Il singolo fatto di avvertire le iridi cristalline di Lucien su di sé, di giacere fra le sue braccia e di assaporare i suoi baci era sufficiente ad infiammarlo e a scalfire sino ad un punto di non ritorno la sua ferrea volontà. La verità era che, sin dal primo istante in cui aveva messo piede in quella stanza – e, forse, nella sua vita –, Lucien non aveva fatto altro che porre mano alla sua corazza di freddezza e disincanto per poi scinderla pezzo dopo pezzo.

Ora, quel che la consapevolezza di trattenere Lucien nelle sue carni gli provocava non era esprimibile con la sola forza delle parole. Lucien l’aveva smontato e ricreato, sciogliendo il suo cuore e la sua razionalità, plasmandolo come bronzo fuso sotto di sé. Lucien aveva sgretolato la sua maschera e gli aveva offerto senza riserve la consapevolezza di amare.

Sentì le labbra di Lucien farsi strada tra i capelli umidi che gli aderivano al collo. I suoi baci ricaddero spietati sul muscolo teso della spalla, per poi morire sulla schiena. Il suo respiro profondo, come un soffio fresco sulla pelle, concesse per un attimo una sorta di pallido refrigerio alla sua schiena accaldata.

I movimenti di Lucien erano diventati convulsi, il respiro ansante; le sue mani si strinsero possessivamente su di lui sussultando. Le dita avvolsero come una morsa il suo membro in una presa che suonò quasi violenta.

Auguste non si avvide subito che entrambi erano giunti al limite.

Quasi non si accorse che Lucien si era abbandonato con la testa sulla sua spalla, in una muta resa.

Non si rese conto del flebile mugolio che fece vibrare l’aria intorno a sé, né del calore che gli invase il basso ventre, sospinto da un’ondata di piacere particolarmente acuta che scosse ogni sua fibra nervosa. Si sentì nudo – era forse simile a quel che aveva provato Adamo, scacciato dal Paradiso Terrestre? –, fluttuante in un mare di tiepido etere e sfiorato da fiamme che, lambendolo, non gli causavano dolore. Cadde in deliquio.

Avvertì su di sé fu la morbida carezza del lenzuolo che Lucien fece scorrere gentilmente su di lui. Poi, il sonno lo vinse.

 

Le tende ingiallite e di modesta fattura che schermavano la finestra ondeggiarono come fantasmi evanescenti, mosse dalla brezza del mattino. Una stanza disadorna di una modesta locanda di una sperduta cittadina portuale, crocevia di mercanti e, non di rado, di fuggiaschi, era divenuta il teatro del loro amore, manifestatosi a chiare lettere come inciso sul metallo fuso. Le pareti avrebbero protetto e custodito il loro segreto: un segreto che li avrebbe aiutati a sopportare le avversità di un esilio che giorno dopo giorno era sempre più ingrato ed incerto.

Si erano amati. Per Auguste si era aperta una dimensione sconosciuta che lui, giovane di ventiquattro anni, bramava di scoprire e di godere nelle sue migliori accezioni.

Le irregolari pareti dall’intonaco screpolato per via dell’umidità erano state mute testimoni della loro unione fisica ed emotiva. Sempre in quella stanza, Auguste aveva accolto Lucien tra le braccia e l’aveva fatto suo, ricambiando in parte il piacere che quella notte gli aveva donato la consapevolezza di non essere solo. Si erano amati ed appartenuti.

 

* * *

 

Cos’era cambiato, ora? Quale pazzia, quale luccichio aveva deteriorato un sentimento che, di suo, sembrava nato per progredire incontaminato da qualsiasi agente esterno?

 

Il campanile di Noir Trésor batteva il mattino, ed Auguste, accecato dalle lacrime, stringeva nel pugno il nastro blu che la prima notte in cui aveva fatto l’amore con lui, rimembrava, si era confuso sulla nuca di Lucien con il nero dei suoi capelli.

Il suo carattere si era presto indurito. Il ritorno a Noir Trésor aveva fatto sì che giorno dopo giorno il suo animo s’irrorasse di stille di veleno che avevano esacerbato in lui il germe della vendetta. Da passione politica, la sua era divenuta ossessione unita alla brama di vendetta e di potere.

Era mai stato, il suo, un amore di patria disinteressato, come per lungo tempo aveva desiderato lasciar credere a se stesso e agli altri, o la sua amarezza, al contatto con il suo animo inquieto, aveva inesorabilmente finito per corrompere ogni puro sentimento?

 

Cos’è cambiato?

Me lo chiedo invano ogni giorno. Sento che prima o poi impazzirò senza giungere ad alcuna risposta. Noir Trésor ha inquinato la mia anima. Dovevo tenermene alla larga; e questo avrei potuto comprenderlo quando ancora ero in tempo. Invece, come il canto di una perfida sirena, la promessa del riscatto mi ha ricondotto qui ad avvelenare la mia vita con una vendetta che, a distanza di anni, apparentemente non ha più un senso, se non quello di dannarmi l’anima e agitarmi da una parte all’altra come una scheggia impazzita, senza lasciarmi approdare ad alcuna conclusione. E questo sarà il medesimo destino di chi ancora è abbastanza folle da starmi accanto.

 

Quale riscatto? Io non volevo questo. Non lo volevo. Ricordo, come se fosse ieri, la morte dei miei amici. Esiste forse una giusta lotta che non esiga l’esoso tributo di sangue?

Probabilmente, è soltanto una mia utopia: un’utopia che mi sta trascinando all’inferno. La mia rivoluzione non doveva essere improntata ad un nuovo bagno di sangue e al proliferare dell’odio fra bande rivali. Doveva piuttosto spazzare via quest’inferno. E invece, quando noi riprenderemo in pugno le armi, non faremo che prolungare all’infinito quest’infernale, eterna catena di rancori e vendette che non trova soluzione, nel momento in cui ho imparato a mie spese che il sangue non può che richiamare altro sangue. Può apparire scomodo, ma è così.

Sono stato capace di tutto pur di seguire ciecamente una causa che, senza che me ne accorgessi in tempo, ha divorato lentamente il mio cuore come un morbo. Mi sono lasciato trasportare dall’insano desiderio di ripulire il nostro dolore con il sangue del tiranno: fu questo il mio terribile errore di valutazione. Ho disatteso tutto, e poco importava del tesoro che possedevo nell’amore di Lucien senza che ne fossi consapevole appieno.

Da quando sono tornato a Noir Trésor, tutto si è inquinato, sporcato, avvelenato, corrotto; ogni slancio di speranza acquistava per me un volto cupo e al tempo stesso tremendamente allettante, strettamente correlato alla smania di rivalsa che mi ha contaminato. Il desiderio di autoaffermazione si è fatto strada in me, e così ho tradito ogni mio principio.

Il mio rapporto con Lucien è degenerato; non vi era giorno che non stesse ad ascoltare, inorridito, scuotendo tristemente il capo, le mie bacate teorie. Non mi riconosceva più, e non mi riconoscevo nemmeno io.

Non l’ho ascoltato, e sono andato per la mia strada senza rendere conto a nessuno. La mia passione patriottica, nata con i più altruistici presupposti, ha avvelenato la mia esistenza come una maledizione.

L’immondo circolo di vendette è ricominciato, e stavolta io ho pagato il prezzo più alto.

 

È davvero così, Auguste? Sei sicuro che sia troppo tardi per cambiare?

 

Ora non ha più senso. Ho già scontato la pena più terribile. Persino la mia vita sarebbe stata un prezzo irrisorio, paragonata al veder morire per causa mia l’unica persona che ho amato. Non ha senso combattere, non ha senso restare, non ha senso fuggire via da vigliacco, non ha senso morire, non ha più senso nulla!

 

Oggi, una donna dorme nel mio letto. Ho preso con me la prima donna nei cui occhi abbia scorto qualcosa che somigliasse anche vagamente all’amicizia o all’amore.

 

Perché hai mentito a te stesso sin dal primo istante, Auguste? Perché il tuo ritorno a Noir Trésor è stato sin da subito minato dal compromesso e dall’ipocrisia? Perché tutto ha preso avvio da una bieca farsa di te stesso?

 

Perché dovevo darmi un’apparenza rispettabile, che domande! Monsieur Auguste de la Garde tornava a Noir Trésor ed era cambiato, capisci? Non più il ragazzo scapestrato dal passato sedizioso. Auguste sarebbe passato inosservato all’elite reazionaria e conservatrice e, quando sarebbe giunto il momento, sotto le mentite spoglie di un cittadino qualsiasi, si sarebbe trasformato nella peggiore spina nel fianco del tiranno.

 

Pensavi che convivere con una donna dall’indubbia reputazione, senza alcun vincolo riconosciuto, avrebbe giovato alla tua fama?

 

Emilie non è una poco di buono. Se giungesse a vergognarsi di me, ne avrebbe ogni sacrosanto diritto. Soltanto lei può sapere cos’ha passato accollandosi la responsabilità non solo di reggere il mio gioco, ma addirittura di offrirmi il suo amore.

Non potevo sposarla. Almeno questo, glielo dovevo. Lucien mi avrebbe capito, se, per contrastare ogni sospetto riguardo al mio inatteso ritorno, avessi cercato di costruirmi un’effimera parvenza di vita. Lucien ha visto il peggio di me, e mi ha perdonato, benché il nostro rapporto fosse ormai incrinato.

Non potevo fargli anche questo. Non potevo.

 

Auguste buttò le gambe fuori del letto e si strinse le tempie pulsanti. Non aveva preso sonno nemmeno per un istante.

Ora come ora, non sapeva cosa avrebbe fatto quel giorno. Né quello che avrebbe fatto in capo ad un’ora o ad un minuto.

C’era ancora spazio, per lui, a Noir Trésor? All’inferno, solitamente ognuno trova il girone che più gli si addice.

Lo scricchiolio del legno risuonò nella stanza, mentre faceva scorrere lentamente il cassetto. Estrasse la sua rivoltella.

Restò a rimirare in estatico silenzio l’arma che si adattava agevolmente alla sua salda presa, abbagliato dall’ambiguo splendore dell’impugnatura scolpita nel ferro e della forma così armoniosa della canna.

Non aveva mai amato l’uso delle armi, nonostante il suo animo reclamasse vendetta, sì da aver alienato in lui ogni impulso propriamente umano. Retaggio delle tremende lotte alle quali aveva preso parte in gioventù prima di veder perire i suoi amici, la sola vista del sangue era sufficiente a stringergli lo stomaco in una morsa d’angoscia.

 

Resterò a Noir Trésor? Godrò ancora per un po’ del personale soggiorno che mi fa pregustare la dannazione? Ancora non lo so. Non so cosa farò domani. Non so cosa farò di me stesso. Ma prima che si compia il mio destino, qualunque esso sia, ben due conti aspettano di essere saldati.

Vorrei che un proiettile d’argento trovasse presto la sua nobile dimora nel bel mezzo della fronte del duca, di colui che è più colpevole di chiunque altro. Eppure, stavolta Auguste saprà accontentarsi…

 

Un triste sogghigno tagliò in due il suo volto, mentre uno sfuggente luccichio risplendette per un istante nei suoi occhi.

Si affrettò a mettere via la sua pistola, quando udì lo scricchiolare del letto ed un breve mugolio che annunciarono il risveglio di Emilie.

I due si vestirono senza parlare.

Vide Emilie, riposto nella toeletta il morbido piumino impregnato di cipria, dirigersi all’ingresso. Non vi badò. Il mondo che stava là fuori non era in cima alla lista dei suoi pensieri.

Si riscosse solo quando la donna fece la sua ricomparsa nella stanza, rossa in volto e palesemente agitata. Auguste avvertì il proprio cuore accelerare, benché, dopo la scoperta della notte precedente, ormai avvertisse tutto distante da sé.

- Cos’altro succede, Emilie?

 

Potrebbe succedere qualcos’altro?

 

- Non ti piacerà, Auguste – rispose asciutta la donna.

Gli porse una manciata di fogli che, a prima vista, gli parvero la bozza non opportunamente rifinita di una gazzetta.

Auguste vi posò distrattamente lo sguardo e, non appena qualche insolito particolare attrasse la sua attenzione, il suo volto sbiancò.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

 

Salute a tutti voi, lettori di Noir Trésor!

Ringrazio innanzitutto Monella per il suo immancabile commento. Lieta che NT continui ad appassionarti e che sia stata... come dire, "comprensiva" per quanto riguarda i miei sbalzi narrativi! Eh sì, come vedi, amo alternare spesso l'azione alle lunghe introspezioni, nella speranza che tutto ciò, a lungo andare, non diventi troppo pesante. Comunque, presto si passerà all'azione concreta. Ti rivelo un'altra cosa: inizialmente ero abbastanza combattuta sul genere in cui collocare NT: ora come ora, chi legge, penserà "Hai visto forse un vampiro?". Diciamo che anche quella parte arriverà, sempre per lo stesso motivo per il quale amo dilungarmi.

Inutile dire che ringrazio tantissimo i miei lettori... Potreste lasciare un commentino ogni tanto, no?

 

Alla prossima!^^

 

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10: Braccata ***


Capitolo 10

Braccata

 

 

Ambrosie scosse la testa bionda; il suo sguardo si posò distratto sul sole nascente.

Si morse il labbro con fare pensoso: il suo primo, per così dire, “incarico” di una certa rilevanza era stato condotto a termine senza alcun apparente intralcio e, fra non molto, la sottile alchimia delle parole che lei e suo fratello si erano ingegnati a trasferire sulla carta, avrebbe dato il suo contributo alla causa iniettando a piccole dosi nella coscienza del popolo la consapevolezza e la speranza che resistere al tiranno non era più un’illusione sepolta nel grigiore degli anni.

In realtà, ancor prima di virtuosismi dialettici atti a persuadere la gente ad abbracciare astratte idee di libertà, erano stati la penuria di cibo ed il vertiginoso ammontare delle imposte a scuotere la popolazione facendo leva sulla paura di una carestia imminente.

Allarmato dal fioco ma sempre costante dilagare delle proteste, il duca du Lac si era premurato di far arrestare a titolo d’esempio alcuni fra i presunti istigatori degli sporadici tumulti e di porre la città sotto presidio armato.

La situazione era ferma ad un punto di stallo: entrambi i contendenti, da una parte il popolo e dall’altra il tiranno, temporeggiavano in un eterno aut-aut.

Ambrosie era fermamente convinta che buona parte dei mali che affliggevano gli uomini fosse imputabile all’avidità di coloro che, traendo quasi necessariamente il proprio benessere dal sangue e dalle lacrime altrui, esasperavano le naturali difficoltà che la vita presenta. Il duca non rappresentava un’eccezione alla categoria, ma la ragazza rammentava che spesso non era soltanto la sete di potere ed il logorio di un dominio ingiusto a rendere gli uomini spietati soverchiatori, ma persino la quotidiana lotta per la sopravvivenza in un tessuto sociale incerto e la stanchezza di chi ha sempre vissuto sotto il giogo di qualcun altro.

 

Tutto questo, si domandava Ambrosie, aveva direttamente a che fare con lei? Ogni giorno che passava, sentiva sempre più incostante e precario, come un abito troppo stretto, quel posto che con fatica si era ritagliata a Noir Trésor, e la sua mente vagava nel dubbio se quella realtà nella quale si stava prepotentemente ingerendo le appartenesse veramente.

Tutto sembrava assurdo e privo di qualsiasi connotazione logica: dalla certezza sempre più fragile che questo facesse effettivamente parte della sua vita era ormai scaturito un dubbio costante che minava i suoi fragili equilibri. Non era sicura che Noir Trésor le appartenesse, e non era più un evento raro, oramai, percepire ogni accezione della realtà che la circondava come fuori di lei.

Era credibile, almeno ai suoi stessi occhi, che il suo arrivo e la sua permanenza in città fossero stati del tutto casuali e disinteressati, motivati soltanto da semplice afflato umanitario e da un evanescente amore per la libertà? A dire la verità, Ambrosie temeva che da un momento all’altro il suo io gettasse la maschera, rivelandole che il suo strenuo prodigarsi era stato soltanto frutto di un egoistico desiderio di autoaffermazione accortamente dissimulato dietro una facciata di millantato altruismo.

Lei e suo fratello erano soltanto due ragazzi che, quasi per partito preso, avevano deciso di porsi contro una realtà deludente uccidendo simbolicamente la figura immaginaria del “tiranno” che imbrigliava i loro slanci e sulla quale riversavano ogni frustrazione.

Che cosa aveva a che fare la mediocrità della sua vita con i problemi di un popolo che moriva di fame e al quale lei non apparteneva né per nascita né per mentalità? Le sue passioni sembravano non convergere in alcun punto in comune: eppure, la policromia del suo animo, spezzata e distorta da contraddittorie aspirazioni, si rispecchiava idealmente nei bisogni e nelle esigenze di un popolo angariato da un potere arbitrario.

Il suo io si disgregava, e da quelle mille frammentazioni scaturiva il denominatore comune delle tendenze più inconciliabili: Ambrosie vedeva se stessa negli occhi di tutti coloro che bramavano senza poter raccogliere l’oggetto di un desiderio sempre più divampante e vitale.

In secondo luogo, Ambrosie desiderava quasi con prepotenza essere testimone dei cambiamenti che lentamente si profilavano. Di più: adoperandosi in prima persona, lei stessa sarebbe stata complice ed artefice.

Ma ora, improvvisamente, il sistema precario sul quale, giorno dopo giorno, si era convinta di aver sommariamente stabilito le sue priorità, stava crollando tra le sue mani come un castello di carte.

Gli occhi chiusi e privi di vita di un uomo che, per un certo periodo, aveva collaborato con loro, Lucien, le avevano impietosamente rivelato quanto astratta, inutile e nociva fosse stata la loro decantata missione; e tutto, per Ambrosie, era evaporato dinnanzi ai suoi occhi come un ameno inganno sul quale, per un breve periodo, era stato piacevole far affidamento. Le loro false speranze erano state utili soltanto ad uccidere uno di loro: forse non il primo, forse neppure l’ultimo. La responsabilità della morte di Lucien era imputabile in piccola parte ad ognuno di loro.

Tutti avevano dato il loro inconsapevole contributo alla disgrazia che si era consumata sotto i loro occhi impotenti: a causa della leggerezza e della vanagloria di un drappello di ragazzi immaturi ed avventati, Auguste aveva perso Lucien. Il solo pensiero era sufficiente a farle tremare i polsi, in un eccesso di dolore e frustrazione.

Aveva sempre ammirato in silenzio la lucidità di Lucien ed il coraggio di Auguste. Le loro esistenze erano state stravolte e traumatizzate dall’arrivo del duca du Lac: il loro spirito di ribellione e le loro odierne aspirazioni poggiavano su basi concrete e contavano su una precisa ragione insita nella realtà.

Lei era soltanto una comparsa, una fanciulla riottosa che, quasi senza riflettere, aveva deciso di abbracciare una causa e di impugnare la bandiera del ribelle. Sospirò: non sarebbe mai stata come loro. La coerenza di pensiero e d’azione era un’ancora di salvezza che non faceva altro che ricercare, ma che le appariva distante come un miraggio; e più la inseguiva, più finiva per inciampare sui suoi stessi passi.

Lucien aveva combattuto la sua battaglia nella sua terra e ne aveva pagato il prezzo per tutti. Auguste – così forte che, fino a quel momento, nulla le era parso in grado di scalfirlo –, non riuscendo più a soffocare il dolore dentro di sé, spinto quasi sull’orlo della follia, le aveva confessato fra le lacrime la disperazione di aver perso l’unica persona che amava.

E tutto era finito lì.

Dopo quel che era accaduto – quasi un monito funesto –, la sua mente si era prontamente riaccesa al pensiero della missione che stava accingendosi a portare a termine, inebriata dalla speranza di successo. Si era infilata di soppiatto alla stamperia, come da copione, e aveva adempiuto con disinvoltura al proprio compito, quasi non fosse mai accaduto nulla.

Niente l’aveva fermata o dissuasa dal suo proposito; niente era stato in grado di spegnere la sua ingannevole eccitazione e distoglierla dalle sue velleità. Se solo per un istante avesse ragionato con mente lucida, avrebbe rinunciato, almeno in una simile contingenza, ad agire di testa sua e si sarebbe decorosamente ritirata nella sua dimora a leccarsi una ferita ben più profonda.

Per rendersi dolorosamente conto di quanto fatuo ed irragionevole fosse il suo attaccamento alla causa, le era sufficiente riflettere su quanto la paura dell’assassino in circolazione e il dolore per la morte di uno dei ribelli si fossero dissipati come neve sotto i primi raggi primaverili, quando Raphäel Lemoine era comparso improvvisamente al suo fianco.

 

Cosa sei, Ambrosie? Cosa sei? Non sei ancora pronta a combattere, eppure vuoi assumerti con leggerezza fardelli più grossi di te. Se davvero fossi abbastanza matura, riusciresti a fermarti un istante e riflettere: sono più importanti i tuoi avventati disegni dal dubbio esito o il fatto che uno di voi è morto in circostanze ambigue? La morte, almeno il suo pensiero, dovrebbe bastare a farti ritornare per un istante sui tuoi passi.

 

Raphäel era una delle fragili motivazioni che, come una goccia d’acqua che scava la roccia, aveva fatto inconsapevolmente maturare in lei la decisione definitiva di accettare la propria sfida e addentrarsi nel complesso tessuto di Noir Trésor.

Raphäel l’aveva trascinata di soppiatto in un angolo e le aveva domandato per quale motivo si arrischiava a quell’ora tarda della notte. Non era normale e nemmeno prudente, da parte sua, girovagare per le strade a notte inoltrata.

Quasi si era pentita, quando, presa dal timore e dallo sgomento, gli si era rivoltata contro come una gatta selvatica.

 

Potrei chiederti la stessa cosa, Raphäel. A qualche isolato di distanza, un uomo è appena stato ucciso. Nel momento in cui nessuno può dirsi totalmente al sicuro, né in casa propria né fuori, non trovi nulla di più costruttivo da fare che terrorizzare il raro, incauto passante?

 

* * *

 

- Calma, Ambrosie. Ho visto, ero presente a quel che è accaduto. Quando è arrivata la polizia, ho preferito allontanarmi per non essere costretto a rispondere a domande imbarazzanti circa la mia presenza. Tutti ci stavamo recando da Lucien per uno dei nostri incontri. Concorderai con me che le autorità, è tanto meglio per tutti restino all’oscuro sulla natura delle nostre riunioni.

Palesemente scosso, Raphäel si ravviò nervosamente i ciuffi scomposti.

Ambrosie lasciò scorrere con noncuranza il suo sguardo, lungo inesauribili istanti, sulla figura alta del ragazzo che le stava accanto, quasi tentasse di nutrisse il suo animo di un nettare dolcissimo.

Era strano, eppure, non fu capace di impedire ai suoi occhi di soffermarsi tanto a lungo su dettagli apparentemente così marginali.

Il corpo sottile del ragazzo avrebbe fatto pensare ad un osservatore distratto che si sarebbe spezzato da un momento all’altro; eppure, mai come in quel momento Raphäel le era parso così solido e rassicurante. Il suo incarnato candido pareva risplendere di una luce cristallina sotto il freddo chiarore dei lampioni.

Il suo sguardo indugiò sul volto affusolato del ragazzo, seguendo il profilo della fronte spaziosa che s’inarcava lievemente in prossimità dell’attaccatura dei capelli. Lunghi e folti riccioli scuri gli ricadevano sulle spalle, legati con noncuranza. Gli occhi, due ferite affilate che sembravano scavare in profondità il volto niveo, la fissavano con spontanea indiscrezione, quasi desiderassero disarmarla.

- Sei sicura che Madame Bertie abbia ancora intenzione di prendersi a cuore i nostri “giochetti” senza secondi fini?

Era stato Raphäel ad interrompere finalmente quel lungo ed ingombrante silenzio. Aveva preso a camminare al suo fianco, scortandola compitamente lungo il suo percorso.

Ambrosie lo ringraziò mentalmente per aver infranto la barriera d’insidioso, sottile imbarazzo che per una lunga manciata di secondi si era frapposta tra loro, impegnati a studiarsi e a scrutarsi a vicenda.

- La faccenda è più complicata di quanto possa immaginare. Sembrava semplice, all’inizio. Era un gioco – riprese la ragazza, assorta – “Giocavamo” a fare i ribelli. Giocavamo ad un gioco che credevamo di conoscere e che eravamo quasi certi di poter vincere. Ora ci siamo dentro fino al collo, e le regole non sono più tanto facili da comprendere, perché mutano a seconda del nemico che ci troviamo di fronte. Nemico che non sempre sappiamo riconoscere in tempo.

- Pensi che una reazione del duca abbia a che fare con… la morte di Lucien? – Raphäel pareva voler sondare prudentemente il terreno.

- Non lo so, Raphäel. Procedo a tentativi. È la sola risposta che mi sia venuta in mente. Se ne escludessimo l’eventualità, saremmo costretti, d’ora in avanti, a dubitare costantemente gli uni degli altri.

- Hai mai pensato che tra noi ci sia un traditore? Una spia? – insinuò Raphäel, tagliente.

- Che sciocchezze… – Ambrosie affrettò il passo, superando il ragazzo – Chiunque sia stato e qualunque sia stato il motivo che l’ha spinto a farlo, di certo per l’assassino sarebbe vantaggioso riuscire a seminare fra noi il morbo del sospetto e della sfiducia. Beh, credo di poter fugare ogni dubbio: Auguste è giunto per primo da Lucien e, credimi, ho ottimi motivi per non considerare nemmeno per un istante l’ipotesi che ci abbia mentito. Ho incontrato Dorian lungo la strada. Fernand era ancora a casa, quando sono uscita, e ci ha raggiunti subito dopo. Non potrei sospettare di nessuno di loro, e in nessun caso.

Raphäel annuì pensieroso, mentre arcane congetture si scontravano con la logica del resoconto della ragazza.

- Perché hai scelto di portare avanti questa causa nonostante tutto, Ambrosie?

Come?

La domanda a bruciapelo colpì la ragazza come il fulmine che annuncia la tempesta.

Era uno degli aspetti di Raphäel che maggiormente la infastidiva e, nello stesso tempo, la attraeva e la inquietava: sapeva sempre, misteriosamente, quale tasto premere, quale corda far vibrare per persuaderla, per far vacillare le sue certezze o sondare il suo animo impenetrabile. Raphäel aveva un difetto: riusciva a penetrare la sua corazza. Con lui, la maschera era destinata a crollarle dal volto ed infrangersi al suolo.

 

Un gran brutto difetto, Raphäel, grazie al quale, giorno dopo giorno, mi hai conquistato.

 

Che cosa avrebbe dovuto dire? Che, salvo i ribelli e tutto ciò che concerneva loro, Ambrosie non esisteva, era pura ombra evanescente? Che il prodigarsi per una causa forse persa in partenza fosse l’unica cosa in grado di riaccenderle il cuore, di renderla viva, di tradurre la sua stessa esistenza, ai suoi occhi, in qualcosa di più completa e degno di essere vissuto fino in fondo; che tutto questo per lei rappresentava una speranza ed un motivo per restare in piedi e che, solo procedendo verso un preciso scopo, la sua vita acquisiva un senso, impedendole di smarrirsi?

 

Ci sono tante contraddizioni in me: io stessa ne sono consapevole. Non di rado è accaduto che le azioni più nobili prendessero avvio da motivazioni personali non necessariamente sublimi e volte ad un bene comune. Non m’importa molto, in fin dei conti, come e perché è iniziato tutto questo; ora m’interessa soltanto andare fino in fondo e lasciarmi alle spalle questa notte maledetta.

 

Fissò lo sguardo verso le stelle sopra di sé, riuscendo finalmente a distogliere lo sguardo da Raphäel. Prese un po’ di tempo nel tentativo di eludere la domanda che le era stata rivolta senza alcun preavviso.

Il solo fatto che Raphäel camminasse e respirasse ad un palmo da lei era sufficiente a renderla tesa come la corda di un violino.

La sua mente girava a vuoto intorno all’ostacolo: la verità era che aveva paura, e non le bruciava tanto ammetterlo, quanto focalizzarne il vero motivo. Raphäel le gettava addosso un’ansia che la ragazza poteva spiegarsi solo alla luce del fatto che l’unico timore che in quell’istante la attraversava era che lui non fosse suo.

 

Cosa significa aver vissuto parte della tua esistenza svincolandoti con fierezza da qualunque condizione abbia minato la tua libertà, e poi renderti conto che esiste al mondo una persona, una realtà, un’accezione in grado di esercitare un tale potere su di te; e che più la vorresti fuggire, più risenti dell’attrazione, come il metallo e la calamita?

Probabilmente, non accuserei le conseguenze del mio desiderio, se soltanto avvicinarsi al fuoco non comportasse necessariamente bruciarsi. Riuscirei persino ad ignorare le mie sensazioni, se mi fosse possibile concepire unicamente Raphäel come un semplice compagno, complice o alleato. Ma non è nulla di tutto questo, e la distanza mi fa più paura del saperlo vicino.

 

Lei stessa si rendeva conto che, alla presenza di Raphäel, la sua inquietudine diveniva tangibile: il controllo che la ragione esercitava su di lei doveva essere costantemente ricercato e quasi forzato, poiché la sua mente si smarriva altrove. Ogni sua percezione era tanto amplificata da rendere instabili i suoi stati d’animo: lo spavento derivante dall’essersi trovata, per un istante, ghermita da un assalitore senza volto ed il successivo sollievo avevano prodotto in lei uno scatto quasi rabbioso; ora, la vicinanza di Raphäel quasi le impediva di formulare pensieri coerenti e di trovare una via di fuga in quel vicolo cieco in cui la loro discussione si era arenata.

 

Chi sei, in realtà, Raphäel?

 

Non erano chiari neppure i rapporti che univano Raphäel ai ribelli. Sapeva che, come Auguste, anche Raphäel era guardato con sospetto dal duca e dai suoi fedelissimi, i quali vedevano in lui un potenziale agitatore. E che collaborava con una setta sovversiva, la quale operava in città con gran segretezza e con un’organizzazione così capillare da rendere oltremodo arduo carpire informazioni in proposito.

Sapeva, inoltre, che da qualche tempo Auguste accarezzava l’iniziativa di avvicinarsi a questo misterioso e ben più esteso movimento rivoluzionario. Ambrosie non aveva potuto che guardare di buon occhio all’idea, benché le opinioni in proposito fossero state quanto più divergenti. Lucien si era dichiarato favorevole, almeno inizialmente, pur sostenendo quanto fosse necessario procedere con la massima discrezione e ritenendo a maggior ragione che piccoli gruppi operanti su diversi fronti per lo stesso obiettivo risultassero meno controllabili da parte del duca. Per contro, coalizzarsi in un’unica, importante congrega a livello cittadino e non più privato avrebbe comportato maggiori rischi nell’essere identificati. Fernand si era opposto con veemenza all’iniziativa, asserendo senza parafrasi che sarebbe stato più conveniente per loro affidarsi al demonio in persona, piuttosto che a Raphäel Lemoine. Persino Dorian le era parso piuttosto refrattario all’idea; tuttavia, a differenza di Fernand, sembrava nutrire per Raphäel un’ammirazione più che notevole.

Auguste aveva cercato astutamente di portare Raphäel dalla propria parte; il ragazzo, dal canto suo, aveva sempre offerto generosamente la propria collaborazione, restando però sul vago riguardo alle proprie iniziative. In seguito, il comportamento ambiguo di Raphäel aveva esacerbato l’animo di Fernand, il quale aveva finito per scagliarsi contro Auguste, colpevole, a suo avviso, di aver posto la propria congrega in posizione subalterna rispetto a Raphäel; e la discussione che ne era conseguita per poco non era degenerata in una vera e propria lite.

Ambrosie non riteneva corretto sfruttare il proprio innegabile ascendente su Raphäel per estorcergli informazioni: stranamente, sin da principio il ragazzo le era parso disponibile a parlarle spontaneamente circa alcuni suoi progetti, ritenendola non a torto una persona discreta.

- Le tre – mormorò asciutta, intenta ad osservare la torre dell’orologio che svettava in uno scorcio della piazza, sovrastando gli alti edifici che ne impedivano la completa visuale – Madame Bertie ci friggerà vivi!

La stamperia clandestina, situata in una via secondaria, era stata ricavata nel retrobottega di una modesta caffetteria nella quale ogni mattino si procedeva alla vendita autorizzata della gazzetta e, di tanto in tanto, alla distribuzione, rigorosamente sottobanco, di scritti satirici volti ad attaccare il potere politico con modalità non sempre tra le più velate. Era “Madame” ad occuparsi di coordinare i lavori e finanziare il progetto.

Al loro ingresso, Ambrosie e Raphäel furono accolti dalla voce acuta ed isterica della donna.

- Avete tempo due ore. Due ore! Dopodiché, quel che si farà in tempo a stampare, sarà stampato, e arrivederci a tutti. Avete aperto bene le orecchie, voialtri, imbrattacarte e mangiapane a tradimento?

Il viso incipriato si corrugò in una smorfia indecifrabile, quando i suoi occhi ebbero messo a fuoco i due nuovi arrivati. Ambrosie la vide distintamente modellare il volto rugoso in un sorriso sarcastico, impegnata com’era a trattenere fra i denti una nuova, stizzita sequela d’improperi all’indirizzo dei suoi indolenti collaboratori. Madame Bertie era una donna oltremodo stravagante dalla loquela sofisticata capace di saltare con disinvoltura dalla più aulica declamazione alle imprecazioni più fantasiose.

- È completamente squilibrata – mormorò Raphäel con il solo labiale, curandosi bene che “Madame” non lo udisse.

- Mademoiselle Ambrosie! – la donna la soppesò con un sorriso ipocrita che faceva rassomigliare la sua faccia ad una grottesca maschera di gesso – Di quale sordida eresia brami rendermi scellerata complice e sostenitrice, quest’oggi? Razza illegittima di Giuda, ah, maledetti ragazzacci! Nulla si salva, ormai, dalle vostre dannate penne. È restato forse qualcosa che per voi sia sacro ed inviolabile? Sciocchezze! E chissà cosa direbbe di voi il duca, se giungesse a sapere come ricambiate la sua grandezza d'animo? Ah, disgraziati!

Ambrosie le porse gli articoli, mentre un sorriso obliquo che cercava di sembrare spavaldo le affiorò sul volto pallido.

“Madame” seguitò a recitare fino alla nausea le solite, beffarde invettive sui giovani “dissacratori”, ponendo l’accento, con una sorta di malcelato orgoglio, su quanto lei stessa fosse la principale artefice ed ispiratrice del progetto e su quanto parteggiasse apertamente per gli oppositori del duca.

La donna arpionò senza cerimonie il polso di Ambrosie, attanagliandolo tra le dita scheletriche.

- E voi che diavolo ci fate qua, monsieur Lemoine? Non vi hanno ancora chiuso in gabbia? – proruppe, mordace – Avete accompagnato la signorina, capisco. Beh, v’istruirò sulla pressoché totale vanità delle vostre gesta, mio baldo figliolo: a costei basterebbe aprire bocca e mettere in movimento la sua forcuta e velenosa lingua per atterrire un’intera banda di briganti.

Ambrosie e Raphäel si scambiarono uno sguardo d’ironica rassegnazione.

- Continuate a far lavorare gli artigli, voialtri! E poche chiacchiere – ringhiò la donna, rimbeccando sguaiatamente i lavoratori distratti – Vado a meditare sull’inutilità della compilazione di un nuovo “poema”.

“Madame” la trascinò con sé in un angolo della stanza. La ragazza la udì mormorare tra sé ingiurie confuse verso la categoria maschile.

- Uomini: credono che ogni dama abbia bisogno di un cavaliere con la spada? Razza di Giuda!

Inforcò gli occhiali, scorse scrupolosamente il manoscritto, confutando e polemizzando di tanto in tanto e, solo quando ritenne soddisfacente il risultato, finalmente la strega la licenziò con modi spicci.

Raphäel sembrava essersi dileguato, mentre era stata impegnata a discutere con “Madame”. Le venne incontro trafelato, in capo a qualche minuto, ed insieme ripresero la via di casa.

 

* * *

 

Ora, ripensando all’ardire di quella notte, Ambrosie si sentiva rabbrividire. Un omicidio che, quasi certamente, racchiudeva qualche raccapricciante segreto, si era consumato soltanto poche ore prima; tutti, compresa la loro stessa organizzazione, erano in pericolo. Raphäel l’aveva gentilmente scortata durante tutto il percorso fino alla stamperia e, da lì, fin sulla porta di casa. Era stata una fortuna, ora che ci pensava. Fortuna, già: se soltanto il suo cortese accompagnatore non si fosse chiamato Raphäel Lemoine; se soltanto nella loro vicinanza non vi fosse insito un rischio ben più oscuro ed inafferrabile.

 

Pazza: non riesci che a pensare a te stessa ed alle tue dannate ossessioni.

 

Se l’assassino fosse stato ancora in giro, ognuno di loro, quella notte, gli avrebbe generosamente offerto su un piatto d’argento la possibilità di eliminare il secondo ribelle della serata: lei o Raphäel; forse Dorian o Auguste o, magari, Fernand.

Non aveva avuto alcuna esitazione a penetrare nelle tenebre di Noir Trésor in una notte come quella. Ora, il semplice stare alla finestra della sua dimora la rendeva nervosa: tremava e non riusciva a spiegarsene il motivo. Si sentiva stranamente osservata, braccata, eppure sapeva che non poteva esserci nessuno in casa, ad eccezione sua e di suo fratello.

 

Anche Lucien, forse, ha pensato questo.

 

Ambrosie cercò di scacciare dalla mente certe insensate suggestioni, quando un tonfo – forse una porta che si chiudeva, forse un oggetto caduto accidentalmente – la fece trasalire. Il cuore le si fermò per un attimo, per poi riprendere a martellarle nel petto con un ritmo sempre più incalzante.

 

Stai calma. Non è nulla. Non può esserci nessuno. Nessuno!

 

Dov’era Fernand? Ora che il pensiero l’aveva sfiorata, rammentò di non averlo visto né sentito, dopo che la via del ritorno per loro si era divisa al quadrivio presso la piazza.

 

Calma, Ambrosie. Cerca di mantenere per un attimo la calma e di ragionare.

 

Già, ragionare: non è facile, quando la paura ha ormai preso il sopravvento su di te, congelando sul nascere ogni facoltà intellettiva. E se è vero che il terrore può uccidere, in questo momento la tua mano brandisce nientemeno che un pugnale.

 

Raphäel era con me: non può essergli accaduto nulla, sempre che il probabile assassino non si sia arrischiato ad aggredirlo nel breve tragitto che divide le nostre dimore.

Dorian era con mio fratello, ma, per il resto, nulla mi vieta di pensare che…

No, è assurdo. Dovrei pensare a trarre deduzioni logiche, non perdere la testa.

Fernand respira nella stanza a fianco…

 

Chi mi garantisce che respira ancora?

 

Eppure, Raphäel era con me. Con mio fratello vi era Dorian. Soltanto Auguste ha preferito stare da solo, e spero vivamente che non gli sia accaduto nulla; né a lui né a nessun altro.

 

Gli occhi vigili e dilatati per la paura, le membra tese e lo stiletto in pugno, Ambrosie si avvicinò con circospezione alla stanza nella quale riposava suo fratello.

 

Sono fortunata che casa mia sia piccola e che possa controllarla agevolmente con uno sguardo. Se mi fossi trovata in spazi più ampi, ora avrei già gridato.

 

Inspirò l’aria troppo immobile intorno a sé e batté qualche debole colpo alla porta con il dorso della mano.

- Fernand! Sei in casa? – la voce le uscì dalle labbra roca e spezzata.

Nessuno rispose. L’aria intorno a lei era troppo rarefatta ed evanescente e non rendeva il suo respiro più agevole. Un sibilo incessante le punse le orecchie.

 

Troppo silenzio. Troppa calma. Tutto troppo immobile per sembrare… Naturale.

 

- Fernand!

La ragazza girò la maniglia con uno strattone e spalancò la porta. Una lieve, insolita folata di vento la fece sussultare atterrita.

Un istante dopo si riscosse.

 

Dannati spifferi! Lo sapevo: doveva esserci una spiegazione logica. Terrorizzata da semplici correnti d’aria che hanno fatto sbattere una porta o qualche imposta o chissà cos’altro.

 

Con cautela, la ragazza mollò la presa sulla maniglia dietro di sé, sospingendola lievemente. La porta sbatté alle sue spalle.

 

Avevo ragione? Nulla di cui temere.

 

Eppure, Ambrosie non riusciva a dissipare la tensione che ancora avvertiva intorno a sé. La stanza pareva come più grande rispetto al solito, gli spazi dilatati. L’ambiente circostante stava letteralmente sfuggendo al suo controllo.

Sto impazzendo, ammise. Sto semplicemente impazzendo. Sono questi i princìpi della follia?

Avvertì qualcosa frusciare sotto i suoi piedi. Fogli: le bozze di suo fratello sparse sul pavimento. Un catino d’acqua rovesciato. Di fronte a sé, il letto sfatto.

 

Non di nuovo. No!

 

Fernand era pallido, ed il suo petto si alzava e si abbassava impercettibilmente sotto la camicia stropicciata.

Ambrosie lo afferrò e lo scosse energicamente. Il sollievo le invase il cuore come un balsamo refrigerante, quando due occhi di cobalto si spalancarono assenti, fissandosi nei suoi.

- Ambrosie, che diavolo… – riuscì a biascicare il ragazzo, sbattendo le palpebre ed abituandosi gradualmente alla luce.

- Fernand, stai bene?

- Uh?

Lentamente, Fernand si tirò su a sedere e si massaggiò le tempie.

- Stai calma, Ambrosie. È tutto a posto. Non so cosa ti abbia spaventata tanto, ma non è successo nulla.

- Oh, dei! – la ragazza sedette al fianco del fratello, respirando profondamente e cercando di riprendere il controllo di sé.

- Ti sei soltanto lasciata impressionare, tutto qui; e non sei la sola.

- Potevi degnarti di rispondere.

- Devo aver perso i sensi per qualche istante. Mi sono alzato pochi minuti fa e, mentre mi lavavo la faccia, devo aver avuto un capogiro o qualcosa del genere. Ho fatto in tempo a raggiungere il letto e sdraiarmi.

- Come ti senti, adesso? – gli domandò Ambrosie, aiutandolo a distendersi di nuovo.

- Non so – Fernand scosse il capo, confuso – Soltanto un po’ debole.

- Devo preoccuparmi? – la ragazza gli sfiorò la fronte con le labbra – Non sei caldo, per fortuna.

- “Madame” ha sollevato questioni come sempre? – cambiò repentinamente discorso Fernand.

- Non mi ha trattenuta molto a lungo. Sembrava relativamente tranquilla, rispetto al solito – Ambrosie controllò l’ora – Se siamo fortunati, in questo momento gli opuscoli dovrebbero già essere in giro.

La ragazza mosse lo sguardo, soprappensiero. Infine, decise saggiamente di omettere il dettaglio di chi era con lei. Al solo pensiero che Raphäel avesse avuto la possibilità di infilare il naso nei loro affari, Fernand sarebbe saltato su come un gatto arruffato.

Non era sicuramente la situazione adatta. Era meglio, per il momento, che Fernand se ne stesse tranquillo. Avrebbe avuto tempo a sufficienza, in seguito, per litigare con suo fratello riguardo Raphäel.

- Cerca di riposare, Fernand – gli ingiunse con dolcezza – Potevi almeno chiamarmi, se ti sei accorto di non stare bene.

- Non era necessario disturbarti solo per questo, Ambrosie.

- Già… Razza di sciagurato!

La ragazza incrociò le braccia sul seno, mentre un finto broncio le affiorava sulle labbra.

 

Grazie al cielo è tutto a posto, almeno stavolta. Voglio solo che Fernand stia bene: soltanto questo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

 

Buonasera, lettori di NT!

Comincio subito a ringraziare quanti ancora seguono il mio racconto con passione, nuovi e vecchi lettori (le new-entry sono sempre ben accette!), nonché quanti, di recente, hanno inserito “Noir Trésor” fra i loro Preferiti.

Vi ringrazio tutti, commentatori e lettori ancora “nell’ombra”, con particolare riferimento a:

Monella, la quale non mi fa mai mancare il suo impagabile appoggio. Ti ringrazio tantissimo, tesoro… Spero che il decimo capitolo sia di tuo gradimento!

Kathlyne: che bello, una new-entry! Inutile dire che la tua recensione mi ha fatto incredibilmente piacere! Lieta che la mia fiction ti stia piacendo e sia di tuo gusto. Mi raccomando, continua a seguire NT!^^

 

Alla prossima, augurandomi che questo capitolo, causa impegni universitari, non sia un pochino “frammentato” fra i vari “sbalzi di stesura”.

A presto!^^

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11: Incomprensioni ***


Capitolo 11

Incomprensioni

 

 

Con una mossa tesa ed impacciata, Ambrosie cercò di nascondere dietro la schiena lo stiletto che, terrorizzata, aveva preso con sé come ultima precauzione, prima di varcare l’ingresso della stanza di suo fratello.

Sospirò, contrita: non voleva che Fernand si rendesse conto di quanto, ancora una volta, quelle arcane sensazioni senza alcun realistico riscontro l’avessero gettata nel panico.

Arricciò ansiosamente le labbra delicate: probabilmente era stata tutta una delirante allucinazione derivante dalla tensione degli ultimi avvenimenti, ma, d’altro canto, Ambrosie era quasi convinta che l’atmosfera sinistra che le si era improvvisamente addensata intorno, chiudendosi su di lei in una morsa angosciosa, fosse stata qualcosa di più che un’astrusa suggestione. C’era qualcosa, ma non riusciva a stabilire se si trattasse di una minaccia concreta o, ancora una volta, di una sua proiezione mentale.

Persino Fernand, la notte precedente, era stato colto sulla via del ritorno dalle sue medesime sensazioni, tanto da lasciarsi trarre in inganno dal semplice movimento furtivo di un gatto. Sospirò: ricordava com’era scattato fulmineo sulla difensiva, gli occhi blu sgranati per la paura che spiccavano come buchi neri sul volto esangue e contratto.

Suo fratello era strano: non poteva negarlo. Le aveva assicurato, senza giri di parole, di star bene; ma, dopo il sollievo iniziale, la ragazza, non pienamente convinta, aveva cominciato a nutrire dei dubbi.

Fernand era pallido, e Ambrosie, intrecciando casualmente le dita alle sue e facendo sì che lui ricambiasse la stretta, aveva tastato con le sue stesse mani quanto fosse debole.

- Saresti così gentile, sorella cara – proruppe sommessamente il ragazzo – da mettere via il gingillo affilato che nascondi dietro di te?

La ragazza trasalì. Sfuggito alla sua presa febbrile, il pugnale ricadde sul pavimento.

- Risparmiati l’ironia – gli intimò, piccata, mettendo via l’arma, quasi la sola vista le procurasse fastidio e imbarazzo – Ero terrorizzata: va meglio così? E sono quasi certa di aver sentito chiaramente una porta aprirsi e richiudersi di scatto. Ti saresti raggelato, se, per un’intera notte, non avessi fatto altro che nutrire sempre più fortemente il sospetto che qualcosa ti stia dando la caccia.

 

* * *

 

Porta che sbatteva? Dio… Dorian!

 

Il ragazzo ebbe la presenza di spirito di nascondere il viso tra le mani, mascherando così l’incontenibile rossore che l’aveva imporporato fino alla radice dei capelli.

Seguì con lo sguardo il movimento fluido di Ambrosie, la quale si diresse pensierosa verso la finestra, tutta intenta e concentrata a seguire il filo delle sue inestricabili congetture.

 

Sarebbe stato meglio se Ambrosie e Dorian si fossero incrociati; se non altro, non sarebbe stato compito mio trovare una spiegazione plausibile alla sua presenza. Ma, fortunatamente, Ambrosie non si è resa conto di nulla.

 

- Credo proprio – annunciò Ambrosie, assorta, dopo essersi schiarita la voce – Che, fra qualche istante, avremo visite.

- Eh? – Fernand si riscosse di colpo, sollevandosi a sedere.

- Direi con assoluta certezza – proseguì la ragazza – che l’uomo che si sta dirigendo in questo momento verso casa sia proprio Auguste. E non mi sembra si stia recando in visita di cortesia.

Il panico travolse Fernand come una marea impazzita. Il ragazzo non riuscì a trattenere un ansito di sorpresa.

- Possibile che abbia già scoperto tutto?

- A quanto sembra, è possibile – Ambrosie non si scompose – Che cosa intendi fare?

- Di certo, è qui per chiedere la mia testa – proruppe Fernand con un moto risentito – Non è chiaro, è cristallino: qualcuno alza il becco contro il duca e decide di parlare al popolo con libera lingua. Chi è l’autore del misfatto? Quel pazzo di Fernand: è matematico.

Ambrosie vide gli occhi del fratello scintillare imploranti.

- Se chiede di me, digli che non mi sento bene.

La ragazza incrociò le braccia, irritata, sovrastando la pallida figuretta accoccolata tra le coperte aggrovigliate.

- Prima o poi, dovrai affrontare le conseguenze del tuo “piano geniale” – ribatté seccamente.

Fernand si tirò le lenzuola fin sopra il naso, inasprendo lo sguardo ed imitando il medesimo atteggiamento contrariato della sorella.

- Ah, adesso che qualcuno se l’è presa a cuore, il piano sarebbe mio? Parlerò con lui. Ma non adesso – si rigirò stancamente, sistemandosi la coperta intorno alle spalle con il fare ostinato di chi non avrebbe mutato le proprie intenzioni neppure sotto le più affilate minacce – Il mondo non gira intorno ad Auguste, così com’è vero che nessuno di noi ha mai stipulato un giuramento di eterna fedeltà nei suoi confronti. Ne discuterò con lui più tardi, alla locanda, se e quando sarà il momento, e sempre che lui, nel frattempo, non abbia già provveduto a scorticarmi vivo.

- Immagino che tu sia troppo debole perché possa alzarti da quel letto – lo pungolò Ambrosie, sarcastica.

- È la verità – rispose asciutto il fratello.

 

- Razza di sfrontato! – mormorò Ambrosie a denti stretti, mentre si dirigeva a lunghi passi all’ingresso – Un momento! – gridò.

- Apri, Ambrosie.

La voce concitata di Auguste le giunse dall’altra parte del portone, risoluta ed energica, mentre lei lottava contro il massiccio passante.

Nel momento in cui l’uscio si spalancò, Auguste la spinse da parte non troppo bruscamente e si diresse spedito verso il modesto salone. Si guardò minuziosamente intorno, come un falco alla ricerca della preda ambita; dopodiché, la sua attenzione si concentrò su Ambrosie.

- So che Fernand è in casa.

- Auguste – lo richiamò la donna, un’espressione interrogativa sul volto – Azzardo troppo, se ti chiedo di spiegarmi a cosa devo tanto fervore?

Ambrosie si morse il labbro, rendendosi conto di quanto la sua voce, nel maldestro tentativo di apparire tranquilla e padrona della situazione, suonasse artefatta e piena d’apprensione.

- Ho bisogno di parlare con tuo fratello, Ambrosie. È molto importante – reclamò Auguste, tentando, a sua volta, di mantenere il controllo.

La ragazza respirò profondamente, guadagnando tempo. Lo sguardo febbrile di Auguste saettava inquieto per la stanza, inquadrato negli occhi pesti e cerchiati di chi non ha dormito neppure un istante. I capelli gli ricadevano disordinati sulle guance.

L’uomo le rivolse un breve ed eloquente gesto del capo, attendendo impaziente una risposta.

Ambrosie pregò che la sua mezza verità suonasse credibile: la persona che le stava di fronte non sembrava disposta a tollerare alcun compromesso.

- Fernand non si sente bene. Da stamattina.

Auguste alzò gli occhi al cielo.

- Ambrosie, non è il momento di giocare, te lo assicuro. Lo dico per entrambi.

- È la verità – la ragazza balzò sulla difensiva, lo sguardo duro – Non abbiamo motivi per mentirti, credimi.

- Tu, forse. Ma credo possa ugualmente offrirmi un’esaustiva spiegazione. Riconosci questi opuscoli?

Auguste le consegnò un plico di fogli rozzamente rilegati. Seduto sul divano, accavallò altezzosamente le lunghe gambe, mentre la ragazza scorreva i fogli con finta noncuranza.

- Devo attendere ancora a lungo, perché il signorino mi degni della sua venerabile presenza? – scandì l’uomo, mordace.

- Ti pregherei di non infierire. Sono seriamente preoccupata per mio fratello.

Ambrosie gli posò addosso uno sguardo che non ammetteva repliche. Almeno quella era la verità.

Auguste respirò profondamente, imponendosi ancora una volta di restare calmo. All’occorrenza, quella donna riusciva a rendersi più esasperante di Fernand. Sospirò: ammirava la giovane Ambrosie, ma, in quell’occasione, l’avrebbe volentieri scrollata fino a farsi confessare la verità riguardo alle manovre inconsulte di quel piccolo irresponsabile di suo fratello. Scacciò con decisione l’idea dalla sua mente: l’ultima cosa che avrebbe voluto mettere in pratica in vita sua era mettere le mani addosso ad una ragazza.

Osservò Ambrosie, soppesandola con lo sguardo. Gli parve così minuta da apparire quasi fragile: tutta la sua forza sembrava risiedere nell’espressione ferma ed imperscrutabile del volto. Dieci anni esatti in meno di lui, lo sguardo fiero e pulito, lo stesso orgoglio tracotante del fratello. Non sta mentendo.

Sorrise. Era completamente diversa da Emilie: una bellezza fredda, immersa nel suo biondo pallore impenetrabile, le mani sottili che si muovevano con grazia nervosa, le membra delicate ed eleganti, i fianchi ed i seni poco pronunciati. Una vena d’inquietudine negli occhi.

- Qualcosa non va, Ambrosie? – la sua voce si ammorbidì.

- È… Fernand – sussurrò la ragazza, prestando sufficiente attenzione affinché l’oggetto del suo discorso, che riposava nella stanza a fianco, non la udisse – Poco fa, ha avuto un malore.

- E ora, sai dirmi come sta? – incalzò l’uomo.

Ambrosie si strinse nelle spalle.

- Non saprei. Sta riposando. Sembrava molto debole, e lui stesso ignora la causa del suo malessere.

- Hai pensato di farlo visitare da un medico?

La ragazza gli scoccò un’occhiata ironica.

- Sai com’è fatto Fernand.

- Già, lo conosci bene, e credo di conoscerlo abbastanza anch’io. Fernand pretende troppo da se stesso.

- Spero non via sia nulla di cui preoccuparsi. Se l’episodio dovesse ripetersi, giuro che da un medico ce lo spedisco a calci!

Auguste si ravviò i capelli in un gesto brusco. L’intera faccenda, ad essere sincero, cominciava ad allarmarlo.

La sua attenzione tornò a focalizzarsi sugli opuscoli.

- Dunque, Ambrosie, cosa pensi delle “utili” letture che ti ho procurato?

- Tutto il bene possibile – rispose la ragazza, non senza una punta di malizia – Insomma, Auguste! Era tempo che qualcuno si rendesse conto che mezza Noir Trésor fa la fame in mezzo a nugoli di avvoltoi.

- Smettiamola, una buona volta, di scherzare! Non è divertente – ribatté, secco – Tu, piuttosto, sapevi nulla? – insinuò, serafico.

- Ci puoi scommettere.

La ragazza gli rivolse un mezzo sorriso astuto: aveva la situazione sotto controllo.

- Ma certo! Come non averci pensato prima? – Auguste schioccò le dita, tagliente – Giustamente, avete macchinato il tutto alla perfezione, tanto che, come sempre, l’unico ad esserne rimasto all’oscuro era Auguste, lo scemo. È così?

- Mi dispiace – Ambrosie chinò lo sguardo – Avremmo dovuto discuterne all’ultima riunione.

- Già – l’uomo distolse il viso a sua volta, il cuore trafitto da mille strali di dolore – Spero almeno che abbiate agito con discrezione, benché non condivida i vostri metodi.

- Guardiamo in faccia la realtà, Auguste – Ambrosie si sforzò di non suonare troppo pungente – Quale altro strumento abbiamo a nostra disposizione, se non tentare di trasmettere consapevolezza? – il volto della ragazza s’illuminò – Io credo che un popolo cosciente di questo stato di cose e delle angherie che da molto tempo è costretto a sopportare, possa fare molto. Infondere speranza e consapevolezza dovrebbe essere fra i nostri principali obiettivi. Vorrei fosse possibile fare dell’informazione e della coscienza della gente le nostre armi contro il dispotismo e l’ignoranza, sua complice. In alternativa, quale altra concreta possibilità possiamo proporci? Presentarci al duca du Lac e sparargli un colpo di pistola?

- Onestamente – mormorò Auguste, soprappensiero – è un’idea che, per un certo periodo, io stesso avevo preso in considerazione. Ma promettimi di non dirlo mai a Fernand: matto com’è, il nostro amico sarebbe capace di tradurre veramente in pratica il proposito.

 

 

…E io non voglio vederlo marcire in una lurida prigione. Non voglio vederlo pagare sul patibolo per un’idea che in realtà riguarda noi tutti. Non voglio riporre sulle sue giovani spalle una responsabilità tanto grave. Non voglio che Fernand soffra come ho sofferto io.

 

Auguste tacque, un velo di tristezza ad annebbiargli gli occhi chiari.

La ragazza strinse le palpebre, a disagio. Ancora una volta, il dolore palpabile che si annidava in quel volto stanco e tirato l’aveva gettata in una condizione di lacerante impotenza. Quasi senza riflettere, Ambrosie circondò la mano di Auguste con le sue e se la portò sulla guancia, sfiorandola appena.

I minuti scivolarono su di loro, rapidi come gocce di pioggia.

- Ambrosie, Ambrosie – la voce di Auguste risuonò stanca e vagamente allucinata – Vorrei che mi sciogliessi da un terribile dubbio. Spiegami: da che parte stai?

- Dalla vostra, è naturale – rispose la ragazza, con prontezza.

- Continui a sfuggirmi. Cerco di trovare un nesso alle tue azioni, ma non riesco a seguire un filo comune. Non credevo che anche tu appoggiassi le avventate ed infantili iniziative di tuo fratello.

- Se entrambi vi sforzaste di parlare, almeno una volta, anziché aggredirvi a vicenda, forse avremmo un inconveniente in meno. Io mi sforzo di non cogliere tutto il negativo da una parte e il giusto dall’altra. Ci provo o, per lo meno, cerco di mantenere il proposito. Le nostre fatiche rischiano di cadere nel vuoto, finché tra noi vi saranno tensioni e motivi di rancore. Apprezzo l’impegno di mio fratello; ma, per certi aspetti, non posso non esprimere la mia contrarietà.

- Se intendi ciò che riguarda Raphäel Lemoine, sai bene quanto ritenga importante l’avvicinarmi ad una congrega di più ampio respiro. E spero caldamente che almeno tu riesca a trovare un compromesso con Fernand. Chiunque condivida un progetto di resistenza alla tirannia dovrebbe restare unito. Non approderemo mai ad una conclusione, se continueremo a lottare divisi ed osteggiarci a vicenda.

- Sono d’accordo – lo interruppe Ambrosie – Potrò anche azzardare, se dico che tu e mio fratello ne siete l’esempio più rilevante. Sbagliate entrambi, e prima porrete fine alle vostre controversie, meglio sarà per tutti: credimi.

Auguste respirò profondamente, spazientito.

- Conosci un modo indolore per far ragionare Fernand? Saprai meglio di me quando mi sia difficile trovare il modo giusto di prenderlo, sì da evitare di attaccarlo o essere attaccato: è questa la verità. Parlaci e prova tu a farlo ragionare: è il più grande aiuto che puoi darmi.

La ragazza annuì, il volto serio.

- Un’ultima cosa – la trattenne Auguste, posando con malagrazia i libelli sul tavolo – State attenti nel manovrare questa roba. E scegliete con cura le persone cui è bene divulgarla.

Si diresse verso la porta.

- Dove vai, se non sono indiscreta? – accennò Ambrosie.

- Dove vado? – la mano di Auguste esitò sulla maniglia, mentre la superficie dei suoi occhi tremava umida – Devo andare da lui.

Il cuore della ragazza si strinse in uno spasmo angoscioso. Gli posò maternamente una mano sulla spalla, gli occhi lucidi.

- Auguste, se hai bisogno di… conforto, di qualunque cosa, io…

- Lascia stare – declinò l’uomo, un lieve sorriso carico di tristezza che si allargava sul suo volto – Vai. Ti ringrazio di tutto.

La ragazza lo seguì con lo sguardo, mentre Auguste, spedito, si allontanava dalla sua vista.

 

I suoi passi la condussero nuovamente da Fernand.

- Dunque – la interrogò suo fratello, una punta d’asprezza nella voce – Sei riuscita ad ammansirlo?

La ragazza assentì stancamente.

- Parliamo chiaro, Fernand. Auguste sta soffrendo orribilmente per la scomparsa di Lucien: ti prego di non peggiorare la situazione. Rimandate, almeno per un po’, le vostre discussioni.

Fernand le voltò le spalle con il pretesto di guardare al di là della finestra. Le parole di Ambrosie, involontariamente, l’avevano ferito. Cercò d’impedire ai propri occhi di riempirsi di lacrime, ma il sole che gli bruciava sul volto rendeva ancor più ostico il suo intento. Infine, si lasciò andare ad un triste sospiro.

 

Evita di snervarlo. Non peggiorare la situazione. Non angustiarlo.

Perché sei capace soltanto di irritarlo, di esasperarlo e di complicargli ulteriormente l’esistenza. Non puoi essergli utile: cerca almeno di non essergli dannoso.

 

Non ho mai voluto essere “utile”! Non utile come può essere uno sterile strumento, un seguace senza volto, un burattino senz’anima.

Non voglio essere un intralcio, per lui. Non voglio gravare sulle sue spalle, insieme al dolore che lo consuma. Non voglio essere per lui la causa di altri mali.

 

Vorrei soltanto proseguire diritto lungo la strada che ho scelto, senza incertezze, evitando scontri sempre più dolorosi da cui usciamo entrambi sconfitti. Le ferite bruciano ancora.

 

Vorrei fuggire da questa prigione che mi sono ritagliato addosso senza saperlo. Vorrei tornare indietro e non inciampare più sulla sua strada.

Ma non posso. Non voglio!

 

Rinunceresti all’aria che respiri?

 

Auguste mi ha preso e smembrato lentamente. Io l’ho ripagato di tutto senza sconti. Ma il dolore non è un pretesto che basti a mantenermi lontano da lui.

Si può voler fuggire la propria condanna e, nello stesso tempo, non poter più farne a meno?

Non so cosa voglio. Ma, nello stesso tempo, ne ho paura.

 

- Fernand, perdonami – la voce femminile scivolò morbida su di lui.

Ambrosie gli prese il volto tra le mani.

È davvero tanto debole il mio controllo sulle emozioni più subdole?

Fernand si morse dolorosamente il labbro.

- Vorrei mettere in chiaro una cosa – le sussurrò, atono – Io non odio Auguste. Detesto l’idea di accumulare altro insensato rancore. Questa situazione mi pesa. La nostra… ostilità – Fernand sollevò gli occhi al cielo, confuso.

 

Il solo parlare di “ostilità” è un masso che mi opprime il petto. Chi ha stabilito che deve essere così?

“Odio”: chi è così stolto da credere a simili assurdità?

 

- … la nostra ostilità non avrebbe motivo d’esistere. Non ha nessuna ragion d’essere, Ambrosie; se solo… Non lo so. È più forte di me.

- Tieni molto a lui, è così? – le dita di Ambrosie scivolarono sulle sue spalle tremanti.

- Io apprezzo molto Auguste. Come ti sentiresti a sapere che la persona che stimi più di tutte, ti ritiene poco più che una spina nel fianco?

 

Fratello mio, se così fosse anche per me?

 

- Non è così, Fernand – Ambrosie si sforzò di dissuaderlo – Auguste è una persona fredda e pragmatica, intransigente con se stessa e con gli altri, ma riconosce il valore di chi ha di fronte. Non lasciarti ingannare dalle apparenze: io mi fido del suo giudizio.

Scioltosi dall’abbraccio della sorella, Fernand si diresse in silenzio verso la piccola toeletta e prese a spazzolarsi distrattamente i capelli.

- Stai bene, ora? – indagò la ragazza.

Fernand annuì col capo.

- Adesso va meglio. Ho solo bisogno d’aria. Usciamo, andiamo a far colazione.

 

* * *

 

Un cero ardeva al centro della sala, unica fonte d’illuminazione, proiettando tutt’intorno un chiarore cupo e solenne ed un’impercettibile caligine che offuscava la vista ai presenti. Le imposte erano chiuse, ed il lutto si mescolava all’aroma opprimente della cera che si scioglieva e dello stoppino che bruciava.

La stanza era spoglia ed asettica, magicamente ripulita d’ogni traccia dell’orrore che vi aveva avuto luogo. Un lugubre drappo color fumo celava alla vista dei presenti la superficie del divano, striata da scure e larghe chiazze di sangue. Lui, Auguste, sapeva cosa vi si celava. Distolse lo sguardo.

Quel divano.

Quella stanza.

Rabbrividendo, si premette le mani sugli occhi che bruciavano. L’atmosfera funerea che, sin dal primo istante in cui aveva di nuovo messo piede in quella casa, gli si era incanalata fin nelle ossa, turbandolo quasi quanto l’essersi ritrovato dinnanzi a Lucien privo di vita.

Disagio, vergogna, imbarazzo, dolore ed una sorta d’angoscia inspiegabile: le sole sensazioni ad aver preso il sopravvento su di lui.

Sino a quel momento, aveva scioccamente ritenuto che la sua pena fosse qualcosa da covare in solitudine e da custodire gelosamente dentro di sé. Ma ora non era più solo in quella casa. Il dolore non era una sua esclusiva.

Invano si sforzò, nella confusione, di mettere a fuoco i volti dei presenti, finché la sua attenzione non fu catturata da una pallida figura dal portamento austero, la cui bellezza a tratti vagheggiava la compostezza neoclassica di un’antica dea, di una Diana prematuramente sfiorita dagli affanni e dall’impassibile scorrere del tempo. Qualcosa scattò nella mente di Auguste: i lisci capelli corvini, severamente raccolti; gli occhi azzurri, il profilo aristocratico e le labbra sottili. I tratti sin troppo familiari.

 

Dopo tanto tempo…

Fa’ che non sia lei: la madre di Lucien, Rose. Non riuscirò a sostenerne lo sguardo. Non ne avrò il coraggio.

 

Auguste si strinse tristemente nel soprabito scuro, fissando il candido lenzuolo che copriva la salma di Lucien. Gli addetti all’ingrato compito avrebbero chiuso per sempre le nobili spoglie del suo amico in una gelida cassa lignea e, di lì, il mattino seguente, si sarebbero svolte le esequie.

Era tutto così… impersonale, sprofondato nella più gretta, indifferente quotidianità, mentre lui, lui aveva perso una ragione di vita.

 

La madre di Lucien piange sommessamente. E, a fianco a lei, suo marito fissa il vuoto.

 

La donna mosse alcuni passi verso di lui e gli posò timidamente una mano sulla spalla. Auguste per poco non avvertì il proprio cuore esplodergli nel petto. Inghiottì le lacrime. Incapace di articolare qualsiasi frase coerente, strinse a sé la donna, tremante.

- Tu non hai colpa, Auguste. Non hai colpa – singhiozzò Rose con discrezione – Hai fatto tutto quel che hai potuto per il mio Lucien. Solo, non sei giunto in tempo, ma non potevi sapere. Non potevi sapere…

La donna sussultò flebilmente, soffocando le lacrime sulla spalla di Auguste, il quale strizzò dolorosamente le palpebre arrossate, perdendosi nei suoi pensieri.

Il padre di Lucien stava compunto in un angolo. Non gli si accostò. Si limitò a fissarlo, torvo.

 

Auguste si accinse ad abbandonare quel luogo, annaspando alla ricerca d’aria.

È troppo. Troppo… Straziante.

Una mano forte gli attanagliò il polso. Auguste cedette, arrestando i propri passi.

 

Manca poco. Così poco, alla mia rovina. Straziatemi anche voi, e poi lasciatemi morire del veleno che mi soffoca il cuore.

 

Gli occhi di Emmanuel, il padre di Lucien, bruciavano nei suoi come lava.

- Vi piace ancora giocare a fare i ribelli?

Auguste avvertì le parole dell’uomo, ferme e vagamente deliranti, stridere come cardini non oliati. Chinò lo sguardo, sconfitto, colpito a morte da quella voce e da quello sguardo enigmatico e pieno d’astio.

- Sia maledetta la vostra amicizia – proseguì l’uomo – Maledetti i vostri stupidi sogni di gloria e la vostra dannata pazzia! Se foste annegati voi tutti nella vostra sciagurata, folle ambizione, e se tu non ti fossi mai avvicinato a lui, ora mio figlio starebbe ancora in piedi. Adesso, però, devi ascoltarmi attentamente.

La presa dell’uomo si strinse convulsamente sul polso di Auguste, quasi volesse stritolarlo. Il ragazzo serrò stoicamente i denti, sentendo le ossa scricchiolare nella stretta sempre più assillante.

Vide la mano libera di Emmanuel infilarsi furtiva dentro il mantello scuro, per poi trarne un oggetto acuminato. Un coltello.

Auguste deglutì a fatica, il volto cereo.

Finiscimi, implorò silenziosamente, gli occhi stretti a fessura nello spasmo angoscioso che lo scuoteva. Lava via il sangue di tuo figlio con il mio, se questo ritieni necessario. Metti a tacere il mio dolore ed il mio rimorso come giudichi più opportuno, e che tutto finisca per sempre.

Con grande incredulità da parte di Auguste, l’uomo allentò la presa sul polso arrossato e dolorante e, imponendogliene la presa, gli mise forzatamente in mano il pugnale e gli chiuse le dita sul manico.

- Sai molte cose riguardo a Lucien, ragazzo – gli soffiò in faccia con voce roca – Di certo, tu conoscerai molti più retroscena intorno alla tua morte di quel che dici di sapere. Vai e trova l’assassino. È tutto.

Auguste assentì in un debole cenno, il volto teso ed una sensazione di gelo a percorrergli la spina dorsale, irradiandosi alle sue membra.

- Condoglianze, Auguste.

Emmanuel si congedò con un rigido abbraccio meno rassicurante di quanto sarebbe voluto apparire, e sparì oltre la soglia dell’abitazione.

Auguste si massaggiò miseramente il polso indolenzito. Era nuovamente solo. Lui e la sua disperazione. Sospirò, pentendosi di aver rifiutato l’offerta da parte di Ambrosie di accompagnarlo. La ragazza avrebbe forse rappresentato per lui una parvenza di supporto nell’affrontare il suo inferno; eppure, ancora una volta, aveva finito per agire secondo la sua maledetta volontà, ignorando quelle insolite, amorevoli offerte d’aiuto che di rado gli erano rivolte.

Si diresse mestamente alla volta della piazza cittadina.

 

* * *

 

Il tardo pomeriggio investiva Noir Trésor della luce ramata del crepuscolo, intercalata qua e là dalle lunghe ombre proiettate lungo le vie dalle case e dagli edifici.

A quell’ora della sera, la locanda pullulava già di avventori: giovani senza meta, agitatori nell’ombra, gente del popolo che, di ritorno dal duro lavoro, sfruttava la sua unica, astratta possibilità di esprimere senza censure i propri malumori riguardo al cattivo governo e alle condizioni economiche sempre più precarie, se non addirittura prossime alla miseria.

L’odore pungente del vino si mescolava a quello dell’olio che bruciava nelle lucerne e al fumo dei sigari che aleggiava nell’ambiente in morbide spirali, formando una torbida cappa sopra le testa degli avventori.

- Ehi, ragazzo – un giovane dai capelli biondi e dal fiero portamento che contrastava stranamente con lo sguardo gentile, richiamò l’attenzione dello sguattero – Altro vino per me e per il mio amico. Pulito, stavolta, il bicchiere – gli intimò scherzosamente.

- Ebbene, mon ami – Dorian si rassettò con certosina precisione lo jabot merlettato – A cosa brindiamo?

Uno sguardo deliziosamente luciferino lampeggiò nelle iridi di Fernand.

- Alla riuscita del nostro piano – Fernand schioccò la lingua con fare eloquente – Guarda come si agitano. Guarda come hanno divorato i nostri articoli: fioccano le idee, la protesta si estende. Presto le nuove istanze e le sollevazioni raggiungeranno Palazzo du Lac con un’intensità ed un’iniziativa tale da travolgere il duca come un fiume che, stavolta, gli sarà impossibile arginare.

Il ragazzo accompagnò le sue parole con un sorriso cospiratore.

Dorian sentì le labbra inaridirsi: il vino non era sufficiente a placare l’agitazione derivante dai recenti avvenimenti e dalla vista di Fernand. Represse l’ardente, inconsulto desiderio di stringerlo a sé.

Alla sua sinistra, Ambrosie si guardava intorno nervosamente, con fare sospettoso. La sua presenza era del tutto inconsueta in un luogo come quello, ma la ragazza, intuendo la tempesta che di lì a poco si sarebbe scatenata, aveva insistito, con un pretesto, per accompagnare i due amici.

- Dimmi, Ambrosie: che te ne pare, dunque, del nostro “campo di battaglia”? – Dorian rivolse il suo sguardo sulla donna, la quale si sistemò distrattamente una forcina dalla quale era sfuggita una lunga ciocca color miele.

- Splendi come un diamante nel fango, Dorian. A dover essere sincera, non mi è parso di scorgere qua intorno molte facce rassicuranti. Sarebbe un azzardo, da parte nostra, far subito leva sul malcontento immediato di una massa incontrollabile la cui aspirazione è creare disordini di certo controproducenti. Dobbiamo prestare attenzione: la situazione può facilmente sfuggire di mano.

Fernand irrigidì le spalle.

- Non capisco dove voglia arrivare – controbatté, risentito – Ma comincio a chiedermi come sia possibile che la sola, momentanea vicinanza di quell’uomo sia sufficiente a volgerti contro di me.

- Ora stai esagerando, Fernand. Non è come pensi. Se provassi ad evitare, almeno qualche volta, di riversare su Auguste le cause di ogni tuo problema, riusciresti ad essere realistico: il discorso, in questo momento, riguarda noi due. Vorresti concedermi, gentilmente, la possibilità di rivolgerti un consiglio senza che ciò comporti necessariamente urtare la tua sensibilità? – Ambrosie lo fissò con espressione arguta.

- Mi spiace, Ambrosie – il ragazzo chinò lo sguardo, in palese disagio; non voleva alienarsi l’approvazione di sua sorella, fra i pochi che ancora lo appoggiavano; ma il solo sentir nominare Auguste era in grado di tendere i suoi nervi.

- Non era ciò che intendevo – proseguì, la voce malferma – Volevo dire soltanto che prima si muoverà il popolo, meglio sarà per tutti.

- Ed io volevo ricordarti che un piede in fallo, stavolta, equivale a mandare davvero tutto all’aria.

Dorian, rimasto in disparte sino a quel momento, intento a seguire la schermaglia verbale dei due fratelli, si rivolse al ragazzo:

- Ragiona, Fernand: credo che, per oggi, sia stato fatto abbastanza. Riconosco che il nostro è un passo piuttosto breve, a dispetto di quel che ci proponevamo, ma cerca di capire che, per una mossa tanto arrischiata, non vale la pena rischiare ulteriormente.

Fernand intrecciò le braccia sul petto, inquieto.

- Io sono convinto, al contrario, che la situazione abbia bisogno di una scossa. Ancora non basta, ragazzi, capite? Abbiamo corso gravi rischi nel portare a termine la nostra operazione, e, se nessuno raccoglierà l’occasione, entro domani tutto sarà già inutile e dimenticato. Ora hanno un pretesto per scagliarsi contro il duca. Guarda intorno a te: leggono, inveiscono, fanno sfoggio della loro indignazione. Eppure, di organizzare una resistenza unita ancora non si parla. Domani, i libelli per i quali abbiamo rischiato la galera saranno poco più che testi arguti sui quali sghignazzare in privato.

Il ragazzo si ravviò all’indietro i capelli con fare contrariato. Si alzò di scatto e prese a misurare a lunghi passi lo stretto corridoio che, dall’ingresso della taverna, si diramava, fra isole disordinate di tavoli e panche, fino al malandato bancone in cui l’oste mesceva da bere.

- Non so cos’abbia in mente tuo fratello – Dorian si morse il labbro, impensierito – Ma non mi piace per nulla.

- Ha bevuto? – indagò Ambrosie.

- Soltanto qualche bicchiere di vino.

La ragazza scosse il capo, sconcertata.

- Allora, è chiaro. Dobbiamo fermarlo, prima che commetta qualche altra imprudenza.

- Credo sia troppo tardi…

Rassegnato, Dorian puntò lo sguardo in direzione di Fernand.

Ambrosie sgranò gli occhi, impressionata, portandosi contemporaneamente le mani sul volto in un gesto rassegnato.

 

Basta stare a guardare! Basta osservare impotenti mentre si muore di fame! È giunto il momento che si dia avvio ad un’iniziativa rivoluzionaria che spazzi via il duca du Lac ed il suo dominio sulla città.

 

- Troppo tardi, troppo tardi – la ragazza saettò con lo sguardo dal viso di Dorian alla scena che si stava consumando a qualche passo da lei.

Presa parola alla discussione sempre più accalorata che si era accesa fra gli avventori della locanda, Fernand si era posto in testa alle requisitorie in qualità d’arringatore.

 

I vostri figli fanno la fame…

 

I nostri concittadini muoiono, vittime di un sistema che vuole soffocare ogni libertà attraverso il panico diffuso…

 

Le parole di Fernand si persero confuse nella mente di Ambrosie.

Taci, ti supplico. Prima che sia troppo tardi.

 

Dobbiamo prendere le armi e scuotere l’ingiusta supremazia sin dalle radici per mezzo delle quali si è ancorata nella nostra terra e nelle nostre vite…

 

L’ambiente piombò nel silenzio, mentre le parole di Fernand frustavano l’aria, impetuose. Qualcuno fischiò nella sua direzione, qualcun altro applaudì, altri ancora lo imitarono, entusiasti.

- Questo ragazzo ha ragione – un uomo attempato si accostò al giovane e gli tese la mano con deferenza – Siamo stanchi di chinare il capo davanti all’usurpatore e di accettare ogni sua prevaricazione.

 

Non dice nulla di nuovo: niente che ancora non si sappia. Ma è tutto ciò che la gente vuole sentirsi dire. E la situazione sta degenerando.

Basta!

 

- Dorian, dobbiamo fermarlo – la voce di Ambrosie risuonò stridula.

Si aggrappò al braccio di Dorian

- È mezzo ubriaco, ha perso il senso del pericolo ed ora ha ottenuto i consensi di tutto il locale.

- Se permettete, potete lasciarlo a me.

Dorian e Ambrosie sobbalzarono, quando la figura di Auguste comparve alle loro spalle.

Gli ansiti che gli scuotevano il respiro, i capelli sciolti e gli abiti in disordine lasciavano intuire che Auguste si era precipitato in quel luogo di corsa, palesemente sconvolto. Reggeva tra le mani, stretto al petto, un mazzo di opuscoli.

- È tutta qui la vostra… discrezione? – gli occhi dell’uomo si posarono gelidi su Ambrosie – Non mi pare abbiate scelto bene le persone a cui indirizzare i vostri dannatissimi libelli. Questi, li ho confiscati nella piazza: è meglio che stiano con me al sicuro. Avete la più pallida idea di ciò che avete fatto? Avete sobillato un’intera città; se queste… cose finiscono in mano a qualche autorità, sarà un bagno di sangue.

Auguste si diresse con passi furenti verso il giovane arringatore.

- Hai controllato non vi siano in giro oggetti contundenti? – Ambrosie si coprì gli occhi – Finirà male. Malissimo.

Dorian seguì Auguste.

- Basta, Fernand; credo che per oggi possa bastare.

Dietro Auguste e Dorian, Ambrosie scorse Raphäel, il quale pareva essere spuntato dal nulla

Perfetto, si disse. Ora, il quadro è al completo.

Auguste spintonò bruscamente Dorian.

- Fatti da parte, Dorian. In casi come questo, il tuo amico capisce un solo linguaggio, purtroppo.

Sul viso di Fernand comparve un sorrisetto subdolo, quando scorse Auguste.

- Osserva con i tuoi occhi.

- Ho visto già abbastanza – gli occhi dell’uomo scintillarono di collera – Davvero, i miei complimenti: hai quasi gettato sulla forca un intero popolo facilmente suggestionabile… Per sua sfortuna. Sei felice, ora? Puoi riprenderti questi.

In uno scatto d’ira, Auguste scagliò gli opuscoli, mirando al volto di Fernand. I fogli si sparsero per il pavimento della stanza.

- Solo tu ti ostini a non capire di cosa ha bisogno Noir Trésor. Quanto, ancora, dobbiamo chinare la testa, mentre il duca sfrutta e raggira come meglio può i suoi schiavetti ubbidienti?

- Il popolo di Noir Trésor ha bisogno di riforme che un tiranno non potrà mai garantirgli. Ha bisogno di costruire solide basi economiche e morali per rovesciare una tirannia; di certo, non di un ragazzino sciocco, egoista e megalomane. Credi che gettarsi nella bocca del leone sia un modo per risolvere i problemi?

Il ragazzo indietreggiò, ferito dalle sue parole.

- Neppure patteggiare con certa gente è una valida alternativa – gli occhi di Fernand si strinsero con disappunto, fissandosi su Raphäel – Che ti prende, Auguste? Hai trovato un nuovo socio in affari?

Un nuovo socio con cui rimpiazzare quello vecchio? Fernand tacque, arrossendo: solo un istante dopo, si avvide, nella collera, di aver involontariamente sottinteso qualcosa che non avrebbe voluto.

Una cinquantina sguardi saettarono nervosamente da Fernand ad Auguste. L’aria tesa preannunciava non troppo velatamente che di lì a poco i due contendenti si sarebbero quasi di certo divorati a vicenda.

Fu Dorian a frapporsi tra loro.

- Auguste, ascoltami per un momento: Fernand non intendeva insultare nessuno, men che mai…

L’uomo se lo scrollò di dosso, sordo ai suoi richiami, continuando a fissare gelidamente Fernand. Gli occhi gli s’inumidirono, mentre il respiro accelerava paurosamente.

- È questo che pensi, Fernand?

- Non intendevo… quello. Non oserei mai. Il tuo problema, Auguste, è che hai sempre avuto paura.

Le parole del ragazzo risuonarono come una tromba che annuncia la battaglia imminente.

- È questo che pensi di me? – ripeté Auguste, investendo il ragazzo – Un vigliacco che si circonda di altrettanti vigliacchi. Compreso lui. È così? – il suo viso si corrugò in una maschera di dolore – Perché mi fai questo, Fernand?

 

Perché mi fai questo?

 

Il braccio di Auguste si mosse fulmineo, ed il dorso della mano colpì Fernand in pieno volto.

Il ragazzo arretrò, stordito. Incespicando sui propri stessi piedi, si ritrovò, in capo ad un istante, disteso sul pavimento appiccicoso della locanda, un fianco dolorante e mille occhi su di sé.

Immobile, le piccole losanghe bianche e nere del pavimento che si confondevano sotto il suo sguardo, il cuore sanguinante ed il gelido biasimo trasudante dagli occhi di Auguste che bruciava su di lui, inchiodandolo a terra.

 

Potrei dire l’identica cosa: perché mi fai questo, Auguste? Perché non riusciamo a condividere lo stesso ossigeno senza dilaniarci?

 

Era deluso, triste, furente: deluso, per l’infima considerazione che Auguste aveva dimostrato possedere nei suoi riguardi. Triste, perché, colpendolo, aveva sancito il suo disprezzo; furente, perché, nonostante tutto, non riusciva a odiare quel bastardo capace soltanto di umiliarlo e di arrecargli disperazione e sofferenze.

Ignorò la mano che gli tese Dorian. Ignorò Raphäel che cercava di calmare Auguste e di farlo ragionare; fino a quel momento, su di lui non avrebbe speso neppure un soldo: ora, per un istante, il suo comportamento gli parve quasi ammirevole.

A fatica, si risollevò in piedi.

 

Perché mi fai questo, Fernand?

 

- Di certo, non devo rendere conto a nessuno di quel che faccio – sibilò ad Auguste – Men che mai ad uno stronzo come te!

Senza rendersi pienamente conto del proprio gesto, il ragazzo tirò indietro il pugno e glielo sfracellò in faccia.

Ignorò il veleno che gli mordeva l’anima e l’orribile senso di oppressione che gli invadeva il petto. Ignorò le lacrime che gli accarezzavano le ciglia, mentre i propri passi irruenti lo conducevano fuori di quella sudicia locanda, il freddo che gli pungeva il viso ed il cuore. Fuggì finché gli occhi non cominciarono a bruciargli, finché la sua corsa non disperse le lacrime nel vento.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12: Prospettive ***


Capitolo 12

Prospettive

 

 

- Fernand, torna indietro, ti prego.

Sordo alle esortazioni di Dorian, Fernand sgusciò via come una freccia, eludendo il debole tentativo, da parte dell’amico, di trattenerlo e riportarlo alla ragione. Si dileguò senza una parola.

Solo allora, Ambrosie si diresse là dove aveva appena avuto luogo la lite, i cui fuochi si erano appena estinti nell’aria sotto il gelo dell’amarezza.

Alcuni avventori, delusi dallo spettacolo ormai definitivamente andato a monte, ripresero a bere e conversare fra loro come se nulla fosse accaduto; solo qualche spirito particolarmente acceso, allettato dall’eventualità di un’insurrezione, proseguì sulla scia di Fernand, indugiando pigramente intorno all’argomento della serata nella discrezione che conferiva qualche tavolo appartato.

Sembra che la tempesta si sia placata, rifletté la ragazza, avvertendo l’atmosfera, scossa dalla tensione fra due contendenti, acquietarsi lentamente, non senza lasciare dietro di sé una scia di languore.

 

A dire il vero, la tempesta vera e propria è stata addirittura scongiurata; peccato, soltanto, che il preavviso non sia stato sufficiente a disperdere i fumi del rancore.

 

In mezzo al fitto mormorio, da uno dei tavoli vicini, una voce attirò la sua attenzione.

- Questa è sfortuna bella e buona. Avrei addirittura puntato sul de la Garde.

- Io sul ragazzo. Sembrava determinato.

Ambrosie si morse la lingua, benché, dinnanzi a quelle sciocche affermazioni, fosse stata presa dal desiderio di scagliarsi contro chi aveva appena ridotto l’accaduto alla mera scommessa di un combattimento fra cani. Sospirò, mentre il fiele scemava lentamente.

Era preferibile cercare di passare inosservata il più possibile, almeno quella sera: le erano stati sufficienti i commenti osceni di alcuni uomini, non appena aveva messo piede in quel luogo corrotto di miseria morale, per farle capire che quello non era il suo posto. Lo sapeva da sé e, in quel momento, non le importava.

- Vado a cercare Fernand – Dorian si premette il tricorno scuro sul capo, imboccando l’uscita.

La ragazza gli rivolse uno sguardo supplichevole, aggrottando nervosamente le sopracciglia fini.

- So quello che stai per chiedermi – Dorian tornò rapidamente sui suoi passi, prendendo dolcemente le mani di Ambrosie tra le sue.

Lo sguardo della ragazza tornò quello indefesso di sempre.

- Devono riconciliarsi: non possiamo permetterci che la spaccatura fra loro diventi incolmabile. Dobbiamo convincerli a parlare.

 

Prima che si lacerino a vicenda: mio fratello ci sta sputando il sangue, su questa dannata faccenda.

 

Ambrosie rivolse la sua attenzione su Auguste. L’uomo giaceva prostrato a terra, accasciato su se stesso, le mani premute sul viso insanguinato. Raphäel, chino al suo fianco, si accertò sulle sue condizioni, per poi aiutarlo a rimettersi in piedi.

- Oste! – reclamò Raphäel, rivolgendosi all’uomo ben in carne indaffarato dietro il banco – Una camera: vi pago la differenza.

Prima che il ragazzo raggiungesse il locandiere, Ambrosie si diresse dinnanzi all’uomo e, con noncuranza, pagò di sua tasca.

- Madaaame!

Sussultò, atterrita, quando il soggetto dall’aria poco rassicurante che, completamente ubriaco, stazionava ormai da ore nell’osteria infastidendo i presenti, le stracciò di mano il sacchetto di stoffa contenente il denaro.

L’uomo si rigirò tra le dita adunche le poche monete, esaminandole con occhio critico.

- Sono tutti qua i vostri risparmi, signora? – le sibilò, beffardo.

- Restituitemi i miei soldi!

Ambrosie si avvide di quanto la sua voce suonasse tremante ed acuta, come quella di una bambina privata di un giocattolo.

- Mia bella signora, quanta fretta! – l’uomo nascose il sacchetto dietro la schiena, allontanandolo dalla sua portata – Che ne dite di scendere ad un accordo? Avrete il triplo di quanto contenuto qua dentro, se solo vi mostrerete gentile… – tentò di irretirla.

Ambrosie avvampò per la collera e l’imbarazzo. Sentì il sangue schizzarle fin nel cervello e pulsarle spasmodicamente nelle tempie.

- Come osate? – ruggì.

- Rendile i suoi soldi e fatti da parte, balordo!

La voce di Raphäel risuonò dura ed inflessibile come mai Ambrosie ricordò di averla udita.

- Se no, cosa succede, piccolo cicisbeo? – l’uomo sghignazzò, sprezzante – Ti concederai al posto della tua damigella? – e scoppiò in una risata volgare.

Ambrosie rammentò, in seguito, di non aver mai scorto negli occhi di Raphäel tanta furia ferina. Vide il volto del ragazzo tingersi di un pallore cereo. Gli occhi, assottigliandosi pericolosamente, risplendettero delle fiamme dell’inferno.

La ragazza strinse il braccio di Auguste e si rifugiò nell’anticamera disadorno che separava il locale dal retrobottega. Sulla destra, due rampe di scale che conducevano alle stanze al piano di sopra s’inerpicavano ripide di fianco alla parete irregolare. Porse ad Auguste un fazzoletto con cui tamponarsi il naso sanguinante.

- Non osare toccarla – sibilava intanto Raphäel, glaciale, rivolto all’uomo che aveva tentato d’importunarla e derubarla.

- Vuoi altre grane, stasera, Lemoine?

 

Dio… Non era sufficiente la lite fra Auguste e mio fratello.

 

Sconvolta, Ambrosie osservò Raphäel arrotolarsi la manica della camicia all’altezza del gomito con studiata lentezza. Un sorriso sornione si dipinse sul suo volto pallido.

- Cominci a darmi sui nervi, Lemoine! – mormorò l’avversario.

Il ragazzo si sottrasse con grazia al suo assalto, scostandosi rapidamente. Si volse verso l’aggressore, fronteggiandolo altezzoso, e gli si scagliò addosso a sua volta.

Ambrosie vide con sorpresa l’avversario rovinare pesantemente tra i tavoli sotto l’assalto di Raphäel, rovesciando diverse sedie nella caduta. L’uomo biascicò alcune bestemmie sommesse, terrorizzato, improvvisamente ed in modo del tutto inaspettato, dalla presenza del ragazzo, e si allontanò rapidamente.

- Raphäel, ti ringrazio – sussurrò Ambrosie, mentre il ragazzo le porgeva i suoi soldi con un sorriso – Ma non era necessario, davvero, commettere altre imprudenze.

- Sciocchezze – Raphäel si diresse su per le scale, sorreggendo Auguste e ricambiando lo sguardo malevolo del proprietario della locanda – Era un vecchio pazzo ubriaco. Se Fernand fosse stato qui, l’avrebbe fatto nero per molto meno – ridacchiò.

Non sei spiritoso, Raphäel. La ragazza seguì i due uomini nella stanza loro assegnata.

 

* * *

 

Per tutto il tempo trascorso, da quando Fernand, in un moto del tutto imprevisto, l’aveva scaraventato a terra con un pugno, Auguste si era chiuso impenetrabilmente nei suoi pensieri, quasi assente a tutto ciò che lo circondava, limitandosi ad assecondare passivamente Raphäel e Ambrosie.

Dischiuse faticosamente le palpebre; ma non era il dolore al volto a tormentarlo. Sospirò: a nulla era valso imporsi di scacciare la collera ed il dolore che infuriavano dentro di sé, di evitare di interpretare in maniera distorta il più lieve fremito ostile intorno a sé e scagliarsi furioso su chi gli stava di fronte, sfogando su di esso la propria immane sofferenza e frustrazione.

Lui era capace soltanto di distruggere inesorabilmente tutto ciò che toccava, e stavolta era stato Fernand a subirne gli effetti.

Gli aveva fatto male quasi senza avvedersene, trascinato dalla furia crescente. Il dolore fisico che aveva impresso in lui colpendolo al volto non era che una trascurabile componente dello scudo di rovi che stava innalzando dinnanzi a sé. Si era avventato su Fernand senza riflettere nemmeno per un attimo intorno alle conseguenze del suo gesto.

 

Troppo comodo, Auguste, troppo comodo, ora, ricercare veri o presunti colpevoli al di fuori di te.

 

Senza neppure rendersene conto, aveva finito quasi per demonizzare l’inoffensivo Fernand, attribuendo erroneamente al comportamento di quello strano ed avventato ragazzo quanto di più cinico la sua mente fosse stata in grado di articolare.

L’aveva soppesato gelidamente, a sole poche ore dalla morte di Lucien, il sangue del suo amico ancora caldo sulla camicia, e, in un guizzo di follia – la follia di chi sente di dover rigettare il proprio odio su qualcuno –, aveva interpretato il suo apparente distacco come una sorta di macabro compiacimento della fine di una persona che non di rado aveva osteggiato le sue iniziative.

Invece, Fernand non aveva altra colpa se non quella di essersi avvicinato non troppo cautamente alla belva ferita e di aver tentato, a modo suo, di riscuoterla e lenire in qualche modo il suo dolore, per poi ricevere in cambio il rifiuto, l’indifferenza e il disprezzo.

Quando Fernand l’aveva accusato di vigliaccheria – o così aveva creduto –, Auguste aveva perso la ragione: non potendo sopportare l’accusa insita nelle sue parole, l’aveva colpito, cieco di collera, incurante delle ripercussioni.

 

La veglia per Lucien, gli sguardi ostili su di me, carichi di biasimo e sospetto; il pensiero che il mio amico non c’è più; il rischio di un’incauta sollevazione contro il duca, proprio nel momento in cui, prostrato dalla disperazione, ben poco posso fare per stornare gli effetti deleteri di un’improvvisata ribellione; e la rabbia dell’essere stato ingannato, mi hanno inflitto il colpo di grazia, annientando definitivamente l’unica parvenza di senno che mi era rimasta.

Non ho visto più nulla oltre lo spesso strato di dolore che mi ha annebbiato la vista.

Non ho visto gli occhi di Fernand scintillare di qualcosa che non era disprezzo: ed era molto più semplice ed immediato leggervi quello e quello soltanto, e avventarmi su di lui. Ho ignorato la mano che mi ha teso: ho visto ingiustamente in lui uno sciacallo che approfitta meschinamente della mia debolezza.

 

Picchiarlo, colpire simbolicamente l’arroganza di chi, al culmine della tua follia, ti sembra guardare con sufficienza ed irridere alla tua disperazione, ti ha fatto stare meglio?

 

No, perché, un istante dopo, quando ho visto sanguinare le ferite che io stesso ho prodotto, scalfendolo senza pietà e abbattendolo al suolo, ho desiderato soltanto morire.

 

Non devo rendere conto a nessuno di quel che faccio; men che meno ad uno stronzo come te!

 

Non hai detto nulla, Fernand: è il minimo.

 

È così: io distruggo tutto ciò che sfioro, come un perverso re Mida. E quanti provano ad avvicinarsi a me tendendomi una mano ed offrendomi il loro appoggio, sono coloro che maggiormente pagano il prezzo.

 

Fernand non ha colpa se Lucien non c’è più.

Fernand ha solo provato a soccorrerti.

 

Ed io non ho solo ignorato e respinto il suo aiuto, ho fatto di più: l’ho annientato con uno sguardo, gli ho sputato in faccia tutto il veleno che ho covato, ingiustamente, per tutto questo tempo.

L’ho ferito ed umiliato. Sono stato ingiusto con lui. Ingiusto e stronzo, come sempre.

 

- È meglio fargli qualche impacco con acqua fredda; diversamente, domani si ritroverà un livido esteso su tutta la faccia. Certo che tuo fratello ha un bel destro, Ambrosie.

La ragazza sedette sul bordo del letto, accigliata, meditando che forse non sarebbe stata una cattiva idea trattare il bel faccino di Raphäel nello stesso modo in cui Fernand si era preso cura di quello di Auguste, e dimostrargli che, probabilmente, l’attitudine a menar sodo era virtù di famiglia.

Si massaggiò vigorosamente le tempie, espirando irritata. La situazione all’interno della congrega non avrebbe potuto prendere una piega peggiore: ora, il problema fondamentale non era costituito più da Raphäel, bensì da Fernand ed Auguste.

Certo, il tormentato periodo recentemente trascorso aveva gettato impietosamente luce su una serie di fattori che avevano portato all’esasperazione le spaccature e le spinte individuali già presenti: la smania vagamente accentratrice di Auguste, i dissidi con Lucien, la successiva rappacificazione fra i due nel momento in cui, nell’orizzonte dei ribelli, aveva fatto il suo irruente ingresso Fernand. Entrambi avevano convogliato le proprie energie nel gestire quel ragazzo troppo impetuoso.

Ma la sua visuale cambiava del tutto nel momento in cui, a bruciapelo, aveva scoperto che tra Lucien e Auguste vi era stato qualcosa che andava oltre il vincolo dell’amicizia. Da parte sua, la ragazza non era ancora riuscita a razionalizzare il dato di fatto e dargli la giusta collocazione negli intricati meandri di alleanze e contrasti nei quali più si addentrava con la mente, più difficilmente riusciva a tracciare un quadro coerente.

I frequenti scontri e dissensi fra Auguste e Fernand non avevano mai assunto una levatura simile, rammentava Ambrosie, neppure quando era misteriosamente comparso sulla scena Raphäel. Tuttavia, l’ostinazione in proposito da parte di Fernand e Auguste, asserragliati sulle rispettive posizioni e intenti a non concedere all’altro un solo palmo di terreno, era stata quasi decisiva nell’alimentare il muro che era sorto tra i due e che si era ripercosso all’interno della stessa fazione.

I fragili equilibri, già duramente compromessi, non avevano retto alla prematura scomparsa di Lucien, il quale, in mancanza di obbiettività da parte di tutti gli altri, troppo impegnati a ribadire le proprie posizioni, sembrava essere rimasto l’unico capace di riportare una sorta di armonia. La disgrazia, piuttosto che raffreddare gli animi e spingere i membri del clan a riavvicinarsi, aveva generato l’effetto diametralmente opposto, ossia far esplodere tutto il rancore e l’amarezza che Auguste e Fernand si erano sforzati, sino allora, di contenere.

La ragazza sospirò: avevano commesso un tragico errore nel non rimandare la diffusione dei loro dannati opuscoli. Strinse le labbra, pervasa dallo sconforto: Auguste aveva comprensibilmente interpretato il gesto come una sfida manifesta nei suoi confronti nel momento in cui era più vulnerabile.

Avevano sbagliato tutto: erano stati stolti e privi di riguardo verso ciò che era appena accaduto.

Il litigio fra Auguste e Fernand spinto fino alle percosse fisiche, Raphäel, l’assassinio di Lucien… Pensieri sempre più opprimenti e confusi convergevano nella mente di Ambrosie.

La ragazza si sollevò in piedi, scuotendo la testa: basta! L’intera faccenda la stava facendo diventare matta, e, dettaglio non propriamente trascurabile, la presenza di Raphäel non era affatto l’ideale per infonderle la calma necessaria a sciogliere le proprie perplessità, affrontare il discorso con Auguste e convincerlo a riconciliarsi con Fernand.

Il suo sguardo si posò stanco su Raphäel, quando, all'improvviso, riprese forma dinnanzi a lei la scena della rissa con l’ubriaco della locanda e le balenò nella mente ciò che inspiegabilmente aveva innescato in lei tanta inquietudine: quel ragazzo, con la furia di un unico attacco, aveva piegato come un fuscello un avversario più grosso e più forte di lui, di certo avvezzo a fare a botte nelle osterie. Era vecchio e ubriaco, aveva addotto Raphäel come fiera giustificazione.

Ma Ambrosie non poteva negare di aver avvertito un fremito di puro terrore serpeggiarle lungo la schiena, quando, nel tumulto, aveva intercettato gli occhi del ragazzo arrossati e stravolti dall’ira. Rabbrividì: le era quasi parso che, in quel momento, Raphäel sarebbe stato capace d’incenerire il nemico con il solo sguardo.

Osservò il corpo del ragazzo: intuì la slanciata eleganza del busto sotto il frusciare della candida camicia che accompagnava gentilmente i suoi movimenti. Raphäel era alto e aveva le spalle squadrate, anche se non particolarmente robuste, e la vita piuttosto fine.

Gli esaminò le mani: non aveva i palmi induriti e le dita nodose di un alacre lavoratore, né gli avambracci solidi e abbruniti dal sole di chi coltiva la terra. Le sue mani somigliavano piuttosto a quelle di un pianista, e i polsi e le braccia, che la ragazza poté vedere sotto all’orlo delle maniche rimboccate, avevano un tratto sottile e raffinato. L’unico segno che lo identificava come uomo del popolo, oltre agli abiti umili, era rappresentato dalle lievi screpolature sulle dita, tipiche di chi è poco avvezzo a lavorare duramente.

L’incarnato pallido del viso risentiva appena delle lunghe ore sotto il sole impietoso, e la vaga sfumatura rosea sulle guance era la sola nota di colore sulla sua persona.

Raphäel non aveva il fisico del picchiatore delle taverne, ma neppure un’apparenza fragile. Era soltanto un ragazzo forte al quale l’evenienza aveva insegnato a non farsi massacrare dai prepotenti, rifletté Ambrosie, sebbene la scena di poco prima l’avesse oltremodo inquietata.

Esaminando l’espressione gentile sul suo viso e la generosità con cui ora si prendeva cura di Auguste, bagnandogli la faccia e ripulendolo dal sangue, per un attimo non riuscì ad attribuire alla stessa persona l’espressione diabolica che aveva visto aleggiare sul suo volto.

- Mi spiace per tuo fratello – azzardò Raphäel – Ma stavolta ha oltrepassato ogni limite.

Ambrosie annuì, assente. Non poteva dargli torto, benché lei stessa si stesse sforzando di trovare un punto in comune per riconciliare Fernand ed Auguste. Pregò in cuor suo che almeno Dorian riuscisse a persuadere quella testa calda di suo fratello.

- Non è così, Raphäel – ribatté Auguste, rivolgendogli la parola per la prima volta da quando si era consumato il feroce scontro con Fernand.

- Auguste – il ragazzo scattò verso di lui – Stai bene?

L’uomo annuì, distratto. Si sollevò a sedere, massaggiandosi la spalla dolorante in seguito alla caduta.

- Credo di sì. Scusate – mormorò – Ero soprappensiero.

Lo sguardo di Auguste si posò duro su Ambrosie.

- Sottovaluti tuo fratello. Ha un concetto piuttosto vago di concordia, ma, in compenso, potrebbe tornare utile per abbattere a suon di pugni le guardie personali del duca.

Punta dalla sua aspra ironia, Ambrosie prese fiato prima di parlare, riordinando i pensieri.

- Auguste, so che non servirà a nulla, ma sappi che sono molto dispiaciuta per quanto è accaduto e, sempre che per te abbia qualche valore, sono pronta a porgerti le scuse anche da parte di mio fratello.

L’uomo la interruppe con un gesto secco della mano.

- Lasciami finire, Ambrosie – nei suoi occhi affiorò un’espressione più condiscendente, quasi rassegnata – Non c’è bisogno che ti scusi in qualche modo. Non è questo il punto. Fernand ha sbagliato, ma, se non altro, il pugno è servito a farmi riflettere un po’: sono stato io, da principio, a condurre all’esasperazione le nostre divergenze e, dopo aver fomentato inconsapevolmente una serie di reazioni da parte sua, ho proseguito per la stessa strada fino ad assestargli il colpo finale.

Sul volto di Ambrosie si dipinse un’espressione confusa.

- Perché dici questo? Tu hai soltanto cercato d’impedire che Fernand combinasse quello che per te sarebbe stato un disastro.

Lo sguardo di Auguste si posò sull’altro uomo presente.

- Perdonami, Raphäel – gli ingiunse – Potrei discutere un momento in privato con Ambrosie?

- Non è necessario – s’intromise la ragazza, ma Raphäel si era già avviato compitamente verso la porta.

Auguste scosse malinconicamente il capo.

- I danni sono all’origine, Ambrosie. Il mio atteggiamento nei confronti di Fernand è sempre stato scorretto: l’ansia di controllarlo e porre un limite alla sua impulsività mi ha fatto esplodere la situazione fra le mani. Fernand non ha visto in me un alleato, ma un nemico che cercava di manovrarlo, e ha preso le distanze. Per tutto questo tempo, non ho fatto altro che osteggiare ogni sua iniziativa e, peggio di tutto, umiliarlo, ed ho inasprito sempre di più i nostri rapporti. E quando Fernand ha cercato di avvicinarsi a me, io l’ho sempre respinto ed ignorato. Non è del tutto colpa sua: non ha creato lui questa situazione, e forse non l’ha mai voluta. Ma ora che finalmente sono riuscito a farmi odiare, non vedo alcuna soluzione.

- Fernand ha tanti difetti, ma non ti odia – affermò Ambrosie con inflessibile sicurezza – E’ l’unica cosa di cui sono certa. Conosco mio fratello e credo di saper almeno intuire ciò che gli si agita nella mente. Cerca di analizzare lucidamente i fatti, Auguste: Fernand non ti disprezza; al contrario, ha quasi una venerazione nei tuoi confronti, al di là di quel che può apparire. Il tuo comportamento apparentemente ostile gli ha fatto perdere la testa. Pensa ai suoi gesti, avventati e discutibili quanto vuoi, alla luce di ciò: la prospettiva dell’accaduto cambia radicalmente.

- Dopo questo, Ambrosie? – Auguste sollevò un sopracciglio, scettico – Lo pensi ancora? Non credo che Fernand possa più nutrire uno straccio di stima e di rispetto nei riguardi di una persona che affibbia una frustata dietro l’altra al suo orgoglio. Quale sentimento farebbe maturare in te, Ambrosie, anche con le più buone intenzioni di questo mondo, una persona capace di farti solo del male? Che tu lo desideri oppure no, il dolore che procuri, legittimamente, non può che richiamare l’odio verso quella che è la causa della propria sofferenza.

Ambrosie tacque per qualche istante, turbata dalle sue affermazioni. Il ragionamento di Auguste, come sempre, racchiudeva in sé una logica disarmante, per quanto la ragazza si sforzasse di coglierne le intrinseche contraddizioni. Nonostante questo, non riusciva a far combaciare idealmente le congetture di Auguste con le motivazioni di fondo che avevano spinto il braccio di Fernand a colpirlo.

Il discorso non fa una piega, rifletté: ma non è questo il caso di Fernand.

- I tuoi intenti non erano cattivi, Auguste. Fernand capirà che da parte tua non vi è mai stato disprezzo verso di lui, e che volevi soltanto proteggerlo dalle conseguenze di un’azione rischiosa.

- Io parlo della nostra situazione in generale, non esclusivamente a quel che è successo oggi. Ho tirato la corda troppo a lungo, con lui: cosa può avergli dimostrato, tutto ciò? Una persona che lo disapprova in quanto tale e che non si è mai posta il problema che il proprio atteggiamento lo facesse soffrire: è questa la realtà. Se, dopo quanto è successo, Fernand mi detesta, ha ottimi motivi per farlo.

Ambrosie distolse mestamente lo sguardo, mentre cercava di ritrovare il consueto slancio.

- Per questo devi parlargli, Auguste: è stato tutto un malinteso, un dannato malinteso, capisci? Non commettere gli stessi errori di mio fratello. Se non provi a risolvere con lui le vostre incomprensioni, non farai altro che incrementare la portata della questione. Fernand si convincerà definitivamente che tu lo disprezzi, ed i vostri contrasti non si saneranno più. Soffrirete: neppure mio fratello voleva la vostra inimicizia.

- L’ho compreso troppo tardi. Ho avuto bisogno di un pugno in piena faccia che mi schiarisse le idee. Lui non desiderava essermi ostile. Io, piuttosto, ho fatto tutto quel che potevo fare per meritarmi tutto il suo risentimento.

- Parlerò con mio fratello – Ambrosie si alzò in piedi di scatto, spazientita – Siete entrambi così ottusi da tenere per voi le vostre astruse conclusioni in proposito, senza confrontarvi in modo costruttivo; preferite soffrire e farvi del male l’un l’altro.

- Lascia stare, Ambrosie. Chiederò perdono a Fernand: almeno questo, glielo devo.

- Non sei l’unico a doversi far perdonare qualcosa – mormorò la ragazza, accennando con lo sguardo al livido violaceo che si stava formando sotto l’occhio di Auguste, vicino al naso.

L’uomo s’infilò nuovamente la giacca, pronto ad abbandonare quel luogo orribile. Sospirò, esasperato.

- Non so cosa fare con lui, Ambrosie: è la verità.

- La differenza fra me e te, Auguste – azzardò la ragazza – è che vediamo la situazione da due angolazioni opposte. Ma credo di conoscere meglio di te mio fratello – puntualizzò – Tu, come Fernand, sei convinto che questo scontro abbia suggellato irreparabilmente la vostra inimicizia. Tra voi ci sono pesanti incomprensioni, eppure non vedo l’ombra del rancore. Pensa un po’ a tutta la situazione da questo punto di vista: la lite ha fatto sì esplodere le vostre fragilità e incertezze; ma credo che uno sfogo apparentemente distruttivo, in questo caso, potrebbe porre le basi affinché possiate chiarire le vostre ostilità e riuscire finalmente a comprendervi, senza travisare i reciproci atteggiamenti e tormentarvi a vicenda.

- Il tuo ragionamento non è inesatto, Ambrosie. Ma guarda quel che è accaduto: l’ho picchiato, capisci? L’ho avvilito. Gli ho gettato addosso nel modo più eloquente un rancore che, l’ho capito solo un istante dopo, non aveva ragione d’esistere.

- Con le parole avresti potuto fargli ancora più male. Certo, questo non giustifica che l’abbia schiaffeggiato.

- Non pretendo assolutamente che Fernand mi perdoni. Sarebbe già un passo considerevole se non abbandonasse definitivamente la nostra associazione, magari continuando a portare avanti la sua causa autonomamente: è sempre stato il suo sogno. Ma penso che nemmeno in quel caso si libererebbe tanto facilmente di me – ammise, una punta d’imbarazzo a velargli lo sguardo triste – Credo che riuscirei a stargli ugualmente addosso per proteggerlo dalla sua incoscienza.

- Hai davvero così poca fiducia in lui? – insinuò Ambrosie, graffiante, mentre, quasi aggrappata alla ringhiera, discendeva con circospezione i rozzi ed irregolari scalini di pietra.

- Ne abbiamo già discusso, Ambrosie – la precedette Auguste, anticipando l’attacco che la ragazza era in procinto di sferrargli – Ho capito il mio errore e, soprattutto, ho compreso che la situazione attuale deriva innanzitutto dai miei atteggiamenti: Fernand ha commesso l’ennesima imprudenza nel tentativo di svincolarsi da qualcuno che gli teneva il fiato sul collo. Non interferirò più nelle decisioni di Fernand, ma non per questo lascerò che si getti liberamente nelle fauci del lupo. La mia non è diffidenza nei suoi confronti: ho intuito la piega che sta prendendo il suo atteggiamento e so a cosa può condurlo.

- Non riesci proprio a mutare atteggiamento con lui?

- Non ce la faccio. Fernand è capace di spiazzarmi anche soltanto aprendo bocca. È libero di odiarmi e di disprezzarmi: non ha torto. Io ero come lui, fino a non molto tempo fa: imprudente, sconsiderato, coraggioso fino all’avventatezza… Volevo tutto e lo volevo subito. Mi dicevo di essere disposto anche a morire per la nostra rivoluzione. Capisci? Sai a cosa sarebbe tornata utile la fine gloriosa del giovane Auguste, sacrificato sull’altare di una libertà che ancora non esiste? A nulla. Lucien mi ha insegnato ad affrontare la situazione non come un ragazzino incosciente, ma come un uomo. Ed è una vita che io ci sto provando.

La superficie degli occhi di Auguste luccicò di disarmante malinconia. Le iridi d’antracite, per un istante, divennero così fonde e cupe da richiamare in sé l’abisso di sterminato dolore in cui la sua stessa anima sembrava essersi smarrita, fluttuando in un limbo oscuro che assumeva tratti sempre più infernali.

Ambrosie temette per un attimo che Auguste stesse per piangere e gli posò debolmente una mano sulla spalla.

- A volte chinare momentaneamente il capo e lavorare nell’ombra per un progetto più grande comportano maggior sacrificio che sventolare la bandiera del ribelle ed immolarsi gratuitamente per un ideale – la voce di Auguste tremò, arrochita dal pianto che gli bruciava in gola, mentre ripeteva le parole di Lucien – Fernand non è molto diverso da me.

Ambrosie si strinse mestamente nelle spalle, mentre Auguste, al suo fianco, inghiottiva a fatica le lacrime.

 

Capisco come ti senti, Auguste. Ed io non sono in grado di darti l’aiuto di cui avresti bisogno. Ho soltanto tirato fuori ad una ad una le tue debolezze, dopo averle ricercate con una lanterna in mano: non so quanto questo sia servito a farti stare meglio. Ho suscitato in te il senso di colpa nei confronti di Fernand, e non era ciò che volevo.

Io desidero soltanto che le ferite che tu e mio fratello vi siete procurati si rimarginino. Perché voi, ragazzi, siete tutto ciò che resta di me, l’unico punto fermo della mia vita che scorre inutile, senza che io la avverta su di me e la comprenda, ma lasciandomi andare passivamente ad essa. Sono brava a portare impietosamente alla luce le vulnerabilità altrui, ma se mi fermassi un attimo e guardassi dentro di me, non avrei di che rallegrarmi.

La differenza fondamentale tra noi è che voi vivete, amate, odiate, sperimentate sulla vostra pelle la gioia ed il dolore. Io vivo, gioisco, soffro, ma di riflesso: m’ingerisco quasi di prepotenza in questioni che, fino a non molto tempo fa, poco avevano a che fare con me e con la mia vita, pur di restare in piedi.

 

Io voglio vivere. Voglio vivere, provare l’ebbrezza del rischio che buttarsi a capofitto nella vita comporta. Ma ho paura. E non ho certezze.

 

- È meglio che tu vada a riposare – la voce di Ambrosie aveva assunto una sfumatura più dolce, benché venata di un’incomprensibile inquietudine.

Auguste annuì con un mezzo sorriso, immobile dinnanzi al portone della sua dimora. La strada era letteralmente scivolata sotto i suoi piedi durante il tragitto senza che egli se ne rendesse conto, quasi i suoi passi, sinora, si fossero agitati sospesi nella nebbia.

- Domani mattina mi aspetta la prova più dura: il funerale di Lucien.

Pronunciò le ultime parole con voce quasi priva d’espressione, come se gli strascichi di dolore l’avessero ripiegato su se stesso, prosciugando ogni sua energia e instillando in lui una cupa rassegnazione.

- Stavolta non ti abbandono – lo rassicurò la ragazza.

Auguste rigirò lentamente la chiave nella serratura.

- Dovrei riaccompagnarti a casa, Ambrosie. Sta imbrunendo.

- Non è necessario – declinò la ragazza – è appena ad un isolato di distanza. Me la caverò.

 

Ambrosie si diresse verso casa.

Il sole era tramontato da un pezzo, e sulle strette e polverose vie incombevano le ombre della sera, intercalate qua e là dalla luce pallida dei lampioni. Qualche debole bava di vento tentava di spazzare via i sottili nastri di nebbia che erano calati sulla città insieme ad una notte priva di stelle.

Raphäel era già andato via, rammentò la ragazza, quando aveva lasciato la locanda in compagnia di Auguste. Non avrebbe voluto estrometterlo così bruscamente dalle loro discussioni, ma Auguste era stato categorico.

Sospirò: era già sufficiente che lei si fosse presa il lusso di soppesare sfacciatamente le azioni ed i sentimenti altrui. Ma si trattava di suo fratello e di Auguste, un uomo che stimava profondamente.

Si trattava di loro. In quel momento, loro rappresentavano la sua famiglia, il suo punto fermo e l’unica parte di mondo che ruotasse intorno a lei.

Senza i ribelli, Ambrosie era polvere, era un’ombra stanca che si affannava ad inseguire il nulla.

Raphäel … La voce della ragazza si spezzò nei suoi pensieri. Perché sei distante? Non fai che sfuggirmi. Sfuggi ad ogni parvenza di controllo. La tua vicinanza mi mette addosso un brivido che non riesco a spiegarmi, ma la lontananza mi distrugge.

Sei piombato sulla mia esistenza come un uragano; ed io non avevo alcuna certezza come arma di difesa.

Non è possibile!

Dovrei fuggire. Fuggire, prima che sia troppo tardi. Invece, continuo ad avvicinarmi alle fiamme come una ragazzina capricciosa che sfida impertinente il Fato.

 

Vivere non significa necessariamente poter operare con serenità le proprie scelte. Ed io non ne ho la forza. Non ho la forza di lasciarmi andare…

 

Rivide il suo modesto appartamento nel quartiere popolare. Le tende di un delicato color crema e la malinconia dei suoi ospiti appesa alle pareti immacolate.

Almeno stavolta, poteva risparmiarsi di dover starsene in pensiero per suo fratello: sapeva che con Dorian era al sicuro, al sicuro da quel che all’esterno si complottava per loro.

Dorian non era tornato all’osteria: era impossibile che non fosse riuscito a raggiungere Fernand. Evidentemente, l’opera di convincimento si era rivelata più problematica del previsto.

 

Eppure, non riesco a star bene. Non sto bene.

 

Le dita sottili della ragazza catturarono la stoffa impalpabile delle tende. Le ginocchia le cedettero. Pianse.

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

 

Buonasera! Ebbene sì, non sono stata molto puntuale con gli aggiornamenti, devo ammettere. Si tratta, stavolta, di un capitolo, per così dire, “di passaggio”, ma spero ugualmente che apprezzerete.

Ringrazio tutti coloro che continuano a seguire “Noir Trésor”, anche senza aver ancora lasciato un commentino.

In particolare, tra coloro che leggono e commentano NT, ringrazio

Cami: bentornata, carissima! Sono felice che NT non stia deludendo le tue aspettative! Beh, per quanto riguarda la questione degli impegni universitari, non potrei darti torto, soprattutto adesso che ci sono dentro anch’io! È faticoso conciliare gli aggiornamenti delle proprie fiction (viaggio nella media di due aggiornamenti al mese, quando va bene), lettura delle fiction preferite ed incombenze di studio.

 

Al prossimo aggiornamento!^^

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13: Sbronza triste ***


Capitolo 13

Sbronza triste

 

 

Fernand corse all’impazzata, senza meta. La brezza tagliente frustava impietosa il suo viso. Fuggiva: la sua corsa rabbiosa gli aveva regalato l’illusione di poter disperdere nel vento il dolore che gli appannava i sensi.

Oltrepassò alla cieca le strade grigie che scorrevano come ombre sotto i suoi piedi; ignorò il tumulto dei passanti affrettati che incrociavano il suo cammino, l’aria dal sapore di fiele che gli penetrava con prepotenza nei polmoni, i vicoli angusti e solitari e la tetra solitudine che gli mordeva l’anima.

- Guarda dove vai, razza di sciagurato! – lo apostrofò duramente un mercante che rincasava dopo una lunga giornata di lavoro.

Urtandolo, per poco non aveva ribaltato il carretto con la mercanzia che lo sconosciuto trasportava con zelante fatica.

Ma a Fernand non importava nulla di ciò che si agitava e si muoveva al di fuori di sé, da quando il suo mondo si era configurato chiaramente per lui nei begli occhi scintillanti d’odio che Auguste gli aveva incollato addosso, un istante prima di atterrarlo con un manrovescio carico di quella collera e quel rancore che gli aveva serbato per mesi, chiuso nel suo astioso silenzio, e che soltanto allora gli aveva scaraventato addosso con la furia bruciante di un anatema. Fernand l’aveva compreso soltanto allora.

Lo zigomo colpito bruciava come marchiato a fuoco, mentre il vento infieriva crudele sulla sua carne e sul suo animo straziato.

Arrestò la sua corsa solamente quando, sostenendosi disperatamente alla parete di un edificio ruvida e priva d’appigli, realizzò che un ulteriore passo l’avrebbe schiantato al suolo, stroncato dalla fatica.

Le gambe non gli ressero, tanto che in una manciata di secondi si ritrovò accasciato in un cantuccio della strada polverosa. In quel vicolo così fosco, tetro, squallido e claustrofobico poteva idealmente rispecchiarsi il suo animo strappato da una forza oscura che gli spezzava il respiro. Ignorando le membra doloranti ed i palmi delle mani escoriati, Fernand lottò per riprendere a respirare regolarmente e soffocare i singulti di pianto che si sovrapponevano prepotentemente all’intenso ansimare e al battito convulso. La sua mano corse ad artigliare affannosamente il petto dolorante che si alzava e si abbassava nello spasimo, quasi il cuore fosse in procinto di sfondare la prigione della cassa toracica, anelando la libertà.

Si passò nervosamente una mano sul volto congestionato, madido di lacrime e di sudore: il mondo aveva ripreso a ruotare vorticosamente intorno ai suoi occhi, nel caleidoscopio di confusi bagliori che lo schermo delle lacrime proiettava dinnanzi a sé.

Le sue dita si strinsero intorno alle sbarre sottili della bassa finestra in linea con il piano della strada che permetteva alla fioca luce della sera di illuminare il seminterrato sottostante.

 

Maledetto, sibilò. Maledetto, schifoso bastardo!

Ti odio. Ti odio, perché nessuno, prima d’ora, mi aveva mai inflitto tanto dolore con un semplice sguardo, condito da un’umiliante percossa.

Chi sei, maledetto? Chi sei tu, in grado di farmi questo?

Vorrei provare a odiarti, in verità. Forse, la prospettiva neppure ti dispiacerebbe.

Vorrei non poter provare nei tuoi confronti nulla che prescinda dal disprezzo, ma, ora come ora, so che non farò in tempo ad alzarmi da quest’oscuro angolo d’inferno che sarò immancabilmente pronto a ricadere nel mio cruciale e tremendo errore.

 

Fernand respirò profondamente, tentando di riscuotersi e di governare i pensieri che si agitavano incontrollati nella sua mente in subbuglio.

 

Mi ha picchiato. Non ha minimamente esitato a colpirmi, spedendomi dritto lungo il pavimento della locanda, come uno straccio sporco.

 

Auguste, chi è, per te, Fernand?

Una sciagura che ti è disgraziatamente piombata sul capo e che ogni volta ti costa la fatica di ricondurre al proprio posto.

 

È andata così: appurato che i libelli ed i miei discorsi alla locanda avevano suscitato nella gente l’entusiasmo di opporsi alla tirannia del duca, Auguste ha avuto paura di questo giovane sciagurato ed ha pensato che il modo migliore per stornare la tragedia in atto fosse umiliare pubblicamente l’arringatore di troppo, uccidendo il suo presunto ascendente sulla folla.

Il gesto di Auguste racchiude quest’unico significato: tutto qui. Per quanto concerne me, non vi è nient’altro. Niente che giustifichi la sua ostilità.

Io, Fernand, cosa sono per lui, in fin dei conti? Una spina nel fianco, una piaga infetta da sanare al più presto.

 

Rabbrividendo, Fernand sfiorò la mano con cui, di rimando, aveva colpito il volto di Auguste, e gli parve che il violento impatto gli bruciasse ancora sulle nocche.

Si era risollevato, furente. La rabbia, unico alito vitale, era stato il solo impulso che, in quel momento, l’aveva indotto a puntare i palmi delle mani sul pavimento e far leva per rialzarsi in piedi.

La collera più densa: il solo sentimento, potente ed adrenalinico come una scossa, che in quell’istante aveva provato nei confronti di Auguste.

Rabbia, perché non conoscevano altro modo di comprendersi ed interagire, se non dilaniarsi reciprocamente.

Rabbia, pura, cristallina, priva di sfumature, perché, in un guizzo di lucidità, Fernand aveva sbattuto duramente la faccia contro la verità priva di veli: tutto ciò cui lo stava conducendo il vago sentimento d’ammirazione morbosa ed affetto incondizionato verso Auguste era la disperazione che quell’uomo gli elargiva a piene mani.

Solo dolore, dispiacere, umiliazioni: era l’unico modo in cui quel dannato bastardo ripagava il suo amore.

 

Non riesco a odiarlo, neppure dopo quello che mi ha fatto; la consapevolezza mi trafigge il petto come mille lame acuminate.

Non era così che doveva andare. Volevo parlargli; volevo stargli vicino e prendermi cura del suo dolore. Volevo provare ad essergli amico. Invece, a causa di un mio capriccio, non ho fatto altro che incanalare la sua collera su di me.

L’ho colpito perché ho visto nei suoi occhi la freddezza e l’indifferenza. L’ho colpito, perché non potevo sopportare un istante di più quello sguardo carico di disprezzo.

 

Eppure, non ho scelto io di amarlo.

 

Fernand nascose il volto fra le mani, in un eccesso di dolore.

Una pioggia sottile prese a conficcarsi su di lui come tanti gelidi spilli che gli rigavano il volto, mescolandosi al tepore bruciante delle sue lacrime.

 

Non è colpa sua se tutto ciò che è in grado di assicurarmi, come compenso per la mia molesta presenza, è il dolore, unico risvolto. Ed io non riesco a mantenere quel distacco che mi consentirebbe di non stare male. Odiarlo sarebbe un balsamo sulle mie ferite: eppure, non mi è concesso.

E’ un tormento che non conosce sollievo. La sua sofferenza mi si ripercuote addosso, perché vederlo soffrire e non poter fare nulla per lui è un veleno che mi corrompe. Senza volerlo, ho ottenuto soltanto di infierire su di lui: nulla di più.

Tante volte il suo sguardo si è posato su di me, impenetrabile, ed ogni volta ho vissuto nel terrore, perché sapevo che ogni suo cenno di riprovazione sarebbe stato uno schiaffo in pieno volto.

L’unico sistema di difesa che sia riuscito a mettere in atto per dissimulare l’influsso che Auguste, inconsciamente, esercita su di me, è stato agire di mia iniziativa e fingere che il suo giudizio per me non contasse nulla. Ho sbagliato in pieno, perché lui ha interpretato il mio atteggiamento come astio da incrementare.

Ci siamo ingannati a vicenda. Quando crollerà il muro di freddezza e rancore che abbiamo eretto fra noi?

 

Fernand si accoccolò in un angolo squallido di quel vicolo e pianse la disperazione che in quegli ultimi mesi aveva fomentato dentro di sé, sospeso in un insopportabile limbo.

La pioggia fine e pungente saettava in mille scaglie umide davanti ai suoi occhi, disegnando lievi e caliginose voragini sospinte dal vento ed infilandosi tra i suoi capelli umidi.

 

- L’ho visto. È fuggito da quella parte.

Un urlo lo riscosse bruscamente dal suo abisso. Fernand si sollevò in piedi, trafelato.

Un uomo lo fronteggiava con gli occhi stravolti che lampeggiavano di collera sotto la bassa fronte bruna ed il cappellaccio calcato sul capo.

Il mercante che ho quasi travolto: cosa vuole, ora?

- Restituiscimi il maltolto, pezzo di farabutto!

Fernand arretrò di un passo, preso alla sprovvista, non riuscendo a schivare il poderoso pugno che l’uomo gli vibrò all’addome. Contrasse istintivamente i muscoli dello stomaco, evitando d’incassare in pieno il colpo, ma l’intensità della percossa fu tale da fargli perdere l’equilibrio e piegarlo al suolo.

- Ti ho visto scappare, maledetto – lo sconosciuto lo afferrò di malagrazia per i risvolti della marsina, strattonandolo e costringendolo a sollevare il capo – Restituiscimi la borsa, disgraziato, se vuoi conservare integro il faccino da damerino che ti porti appresso!

Fernand si ritrovò nuovamente scaraventato contro la dura terra, il volto ferito dalla polvere. Per un attimo, divenne tutto scuro dinnanzi a lui.

- Lascialo andare, o ti ammazzo come un porco! – ruggì una voce, sopraggiunta alle sue spalle solo in quel momento.

Vide il braccio del suo aggressore trattenuto da un giovane dai lunghi capelli biondi che brandiva minaccioso un lungo stiletto, dirigendolo alla gola dell’uomo.

- Vattene – soggiunse il ragazzo armato, un sussurro che non ammetteva repliche.

Il mercante indietreggiò un paio di passi, il volto livido, fino ad allontanarsi con passi sempre più spediti, tirandosi dietro il suo modesto carretto.

- A proposito: rieccoti la tua roba – Dorian scagliò nella sua direzione una piccola borsa, che rimbalzò con un tonfo sordo sul selciato – Ti è caduta – precisò con un velo di sarcasmo, la voce glaciale.

Fernand si tirò su a sedere, frastornato.

- È tutto a posto? – Dorian si chinò su di lui.

Non c’è nulla che stia al suo posto.

- Sto bene – un sussulto.

Fernand avrebbe voluto schermare il suo dolore, ricomponendo all’istante l’armatura di gelo che sempre anteponeva fra le proprie debolezze ed il resto del mondo, ma il fluire disperato delle lacrime non aveva cessato di solcargli il volto pallidissimo.

Il pianto trattenuto dentro di sé era un nodo d’angoscia che gli soffocava il respiro e lo costringeva alla bocca dello stomaco come un duro fardello. Aveva creduto che sopprimere le lacrime avesse potuto preservare lo scudo di freddezza che si ostinava ad innalzare quale baluardo di difesa sulle proprie fragilità. Parimenti, lo sfogo delle lacrime avrebbe potuto se non altro costituire per lui un momentaneo sollievo: dolore represso che sgorgava via dal suo animo inquieto sotto forma di acqua salata che purifica le passioni più contorte e laceranti. Invece, il liquido rovente che gli irrorava le guance sortiva piuttosto un effetto corrosivo sul suo cuore.

 

Il sangue che cola dalla ferita è soltanto una mera conseguenza che non apporta alcun sollievo alla medesima.

 

- Sicuro che vada tutto bene? – Dorian diresse lo sguardo su Fernand, esaminandolo.

- Non è nulla, Dorian – soggiunse il più giovane – Ai pugni nello stomaco ci sono abituato – ribatté con amarezza.

- Perché sei scappato? – incalzò Dorian.            

Fernand chinò il capo, il volto in fiamme, evitando quanto possibile lo sforzo di formulare una risposta.

- Non capisco, Fernand – Dorian gli cinse le spalle con un braccio, attirandolo su di sé, mentre con la mano libera scostava la lunga ciocca ondulata che gli era ricaduta sul viso.

Non capisco neppure io: cosa pretendi di cavarne fuori?

- è… difficile. Difficile accollarsi il disprezzo e l’avversione da parte di una persona che… – Fernand sollevò gli occhi al cielo, alla ricerca di un termine adeguato – a cui tieni; la cui considerazione, per te, nonostante tutto è importante. Capisci?

- Dovevi restare e costringerlo a ragionare, a costo di prenderlo a pugni. D’altronde, stavolta Auguste non ha tutti i torti a dire che siamo stati degli incoscienti nel far scoppiare la bega degli opuscoli in un momento tutt’altro che favorevole – riprese Dorian, quasi parlando fra sé – Ed è stato folle illudersi che Auguste avrebbe chiuso entrambi gli occhi.

Svincolandosi dall’abbraccio che tentava di riscaldarlo, Fernand ancorò uno sguardo tagliente su Dorian con fare sarcastico ed inquisitore.

- “Te l’avevo detto, Fernand”? – alzò gli occhi al cielo, esasperato – A quando l’immancabile conclusione della faccenda? Mi meraviglio.

- Non servirebbe a nulla – replicò asciutto Dorian.

- Cosa non serve a nulla?

Il giovane dai capelli biondi si portò una mano alla fronte, disorientato.

- Recriminare quel che è accaduto.

Fernand incrociò le braccia sul petto. Benché si sforzasse di sostenere il confronto con gelida noncuranza, non riusciva ad impedire al proprio corpo di sussultare, scosso da un violento affanno, né alla superficie dei suoi occhi arrossati di tremolare sotto lo scintillio delle stille di dolore che lottava per ricacciare indietro.

- Dorian, non c’è nulla. Nulla, capisci?

- Perché non gli hai spiegato le tue ragioni, anziché aggredirvi a vicenda?

Fernand sbuffò.

- Non potevo perdere la faccia ancora una volta.

- E forse, neppure avrebbe capito – concluse tristemente Dorian in un sussurro – Era accecato dal dolore e dalla rabbia.

Fernand si morse il labbro che tremava pericolosamente. Sollevò il capo nel vano tentativo d’impedire a roventi fiotti di lacrime di scivolare lungo le guance inermi.

Non credevo potessi sentirmi così… Confuso, umiliato, mortificato.

- Non posso fare nulla. Nulla. Ho gettato al vento l’ultima carta rimasta da giocare. Potrei tornare indietro, ecco: tornare indietro a qualche mese fa ed evitare accuratamente d’incrociare la mia esistenza con quella di quel dannatissimo Auguste de la Garde. Ma non è possibile. Non è possibile!

- Ti prego, Fernand, ti prego.

Dorian chinò mestamente il capo e lasciò che Fernand affondasse il volto nell’incavo della sua spalla, scosso da spasmodici singulti e vacillante sulle proprie gambe. Si strinse a sua volta nelle spalle sussultanti del ragazzo, abbrancandogli la giacca con le dita nervose. Serrò dolorosamente le palpebre.

 

Cosa mi succede? Vi è qualcosa di strano nel non tollerare l’esistenza di qualcosa in grado di ridurlo in questo stato?

Mi tremano le mani: se lo sconosciuto che ha osato colpirlo avesse indugiato ancora qualche istante davanti a me, credo l’avrei ucciso, accecato dalla frustrante consapevolezza che tornare alla locanda e spezzare qualche osso ad Auguste non sarebbe utile a nessuno.

Non serve a nulla: la mia collera gioverebbe poco a Fernand, e non posso semplificare tutto riversando ogni colpa su Auguste. Dopo tutto ciò che gli è piombato sulla testa nel corso di soli due giorni, non mi meraviglio che sia così poco in sé.

Non sono stato capace d’impedire che il nostro dolore ci si ritorcesse contro, annullando la nostra volontà di reagire e portandoci a riversare le nostre angosce gli uni sugli altri. Non sono stato in grado neppure di proteggere Fernand.

Stiamo soffrendo tutti, e questo ci spinge soltanto ad esasperare i nostri dissensi. Perché non ho impedito a Fernand ed Ambrosie di consegnare i maledetti libelli nelle mani di quella donna senza scrupoli? Perché siamo stati così ciechi, così presi dalle nostre spinte egoistiche da non curarci di Auguste?

Non so neppure come avrei reagito, al suo posto, se dopo la perdita di una persona cara i miei compagni non avessero saputo far altro che banchettare sopra le mie sciagure e portare avanti in tutta tranquillità dubbie iniziative: con ogni probabilità, anch’io l’avrei vissuta come un tradimento.

Fernand non ha mai avuto cattive intenzioni nei confronti di Auguste, e così nessuno di noi. Ma abbiamo peccato solo d’ingenuità.

Perché neppure l’odio nei confronti di colui che è responsabile dei nostri mali riesce ad unirci?

Non ha colpa Fernand né Auguste.

 

- Dov’è mia sorella, Dorian?

- Alla locanda, con Auguste e…

Tacque: Il nome di Raphäel, in quel momento, sarebbe stato per Fernand un pugno in pieno petto.

- Ho già capito – il volto di Fernand assunse una piega risentita – Non contento di plagiare Auguste, quel cane sta tentando di portare anche Ambrosie dalla sua parte. Non ha proprio remore di nulla.

- Basta così, Fernand: cercare a tutti i costi un responsabile non ti aiuterà a stare meglio.

- Dici sul serio? In fondo, parte della colpa è sua, se Auguste si sta allontanando da noi e se Ambrosie sembra nascondere qualcosa.

- Lascia fuori Raphäel da faccende che non lo riguardano. In questo momento, il problema è fra te ed Auguste.

- Neppure tu puoi fare a meno di lasciarti trasportare dal diabolico ascendente di quel damerino vestito da straccione che irretisce le gonnelle con il suo musetto da bravo ragazzo? È così?

Le mani sottili di Fernand si strinsero sul colletto di Dorian in una morsa svogliata.

L’alcool ed il dispiacere gli hanno dato il colpo di grazia.

- Perché bevi, Fernand? Il vino ti fa smarrire la lucidità.

- Al diavolo l’alcool, e al diavolo voi tutti!

- Ti fai del male: dici cose di cui ti pentiresti, agisci in maniera avventata. Perché, Fernand?

- Non lo so neanch’io, Dorian: non lo so! – il giovane si strofinò le labbra nel debole tentativo di eliminare l’aroma d’alcool fastidiosamente incollato alla bocca – Portami via da questo vicolo ripugnante.

Dorian lasciò scorrere una flebile carezza sul volto di Fernand, sfiorando pensieroso il segno che la percossa aveva tracciato sullo zigomo d’avorio.

- È solo un graffio – replicò Fernand, con distacco – Aveva un anello o qualcosa del genere.

Dorian gli prese affettuosamente il viso tra le mani, squadrandolo con infinita malinconia.

- A casa, cercherò qualcosa per medicarti. Ora, andiamo via: la pioggia ti sta inzuppando da capo a piedi. Hai freddo?

Istintivamente, fece per sfilarsi il lungo soprabito che lo proteggeva dalla pioggia sottile e sferzante.

- Ti ringrazio, Dorian; non è necessario – con un gesto della mano, Fernand respinse l’offerta – Casa tua non è poi così distante.

 

* * *

 

- Fernand, mi spiace: purtroppo, nonostante sia ormai maggio inoltrato, nel mio appartamento, la sera, si gela.

Il giovane annuì con un cenno del capo, chiuso nei suoi pensieri, osservandolo distrattamente sfilarsi il cappotto gocciolante.

Lo vide dirigersi verso il caminetto a riattizzare un fuoco quasi morto.

- Siediti ad asciugarti, Fernand: ti prenderai una polmonite.

- Devo aver dimenticato il mantello alla locanda – mugugnò il ragazzo.

Chiuse gli occhi, assorto, proteggendosi dallo sfolgorio delle fiamme che lo abbagliava.

- I tuoi capelli sono fradici – osservò Dorian, tastandogli una ciocca increspata tra le dita – E la giacca non è ridotta meglio. Ti porto qualcosa di asciutto?

Fernand si sfilò l’indumento, riponendolo su di una sedia.

- Lascia stare; non è importante – allungò pigramente le gambe verso il caminetto acceso – Si asciugherà in fretta. Sono molto stanco, davvero.

Chiuse gli occhi, abbandonandosi in un indolente languore, quando Dorian prese a tamponargli i capelli umidi con un panno pulito.

- Hai sentito la novità? – riprese a parlare Fernand.

- Uh?

- Il duca du Lac ha fatto arrestare alcuni presunti intellettuali dalla lingua troppo affilata e sottoporre tutte le stampe a censura; come se non bastasse, ha inviato delle truppe in città: dunque, Noir Trésor è ufficialmente sotto il presidio dei suoi sciacalli.

- Già – annuì mestamente Dorian – Ho saputo soltanto stasera: motivo in più per cui Auguste ha fatto la cosa giusta, almeno una volta, nel far sparire i nostri opuscoli dalla circolazione, prima che la diffusione divenisse irreparabile e si estendesse fino a raggiungere le mani sbagliate.

Dorian intinse il suo fazzoletto di stoffa in un catino d’acqua tiepida e se ne servì per ripulire la leggera abrasione sul viso di Fernand.

- E così, ancora una volta, Fernand ha fatto la figura dell’idiota – mormorò il ragazzo con voce vagamente delirante.

Dorian trasalì, quando Fernand, distendendo il proprio corpo alla ricerca della posizione più comoda, gli sfiorò la spalla con la testa, per poi accostarsi dolcemente a lui. Gli arruffò gentilmente i capelli.

- Tu ed Auguste vi chiarirete, o vi ci potrei persino costringere. In fondo è stata colpa dell’incoscienza di quella donnaccia, Madame Bertie o come diavolo si fa chiamare, se i nostri libelli hanno rischiato di finire nelle tasche sbagliate. Auguste voleva soltanto proteggerti: ne sono sicuro.

Fernand scosse il capo.

- Lo dici soltanto per cercare di non allarmarmi: ad un primo sguardo, tutto lascia pensare che Auguste abbia ogni interesse di questo mondo a stornare il pericolo dai suoi compagni. In realtà, la situazione è più complessa: Auguste mi detesta, ed ora più che mai.

- Perché ne sei così strenuamente convinto?

Fernand scrollò tristemente le spalle, strette nella camicia leggera che si asciugava lentamente nel dolce tepore che rapidamente si diffondeva nella piccola sala.

- Auguste mi sempre disapprovato ciò che facevo e, dacché sono entrato a far parte di questa fottuta organizzazione, non ha fatto altro che avversare apertamente tutte le mie iniziative come per partito preso. Inoltre, credo che, giunti a questo punto, fare un passo indietro sarebbe impensabile: Auguste ha gettato la maschera, ha dichiarato apertamente il suo disprezzo e, peggio di tutto, credo mi ritenga in qualche modo responsabile della morte di Lucien.

Dorian si volse di scatto verso di lui.

- Che assurdità è questa? Cosa c’entrano le tue iniziative con Lucien?

- Recentemente, le divergenze fra loro si erano in qualche modo placate. Fatto sta che, nel corso di queste ultime riunioni, ogni qual volta io ed Auguste abbiamo dissentito su qualcosa, Lucien ha spesso preso le difese del suo amico, schierandosi esplicitamente contro di me. Auguste non perdona la mia presunta malevolenza e, quasi quasi, riterrà che io sia in qualche modo compiaciuto della sua fine. Non lo so, Dorian, è una sensazione a pelle: è dall’altra sera che Auguste non fa che evitarmi e sembra tollerare sempre meno la mia presenza.

- No, Fernand, assolutamente: credo che le spiegazioni stiano altrove.

- Hai qualche idea migliore a riguardo? – un’ombra di sarcasmo vibrò per un istante sul volto di Fernand.

- Non lo so. Ma escludo a priori che Auguste ti odi. Sarebbe un’ipotesi troppo fantasiosa: si può odiare l’uomo che dall’alto del suo potere ci opprime e ci abbandona a noi stessi nel momento del bisogno; di certo, Auguste avrà in odio chi ha ucciso il suo amico, ma non te.

- Il fatto, Dorian, è che in fondo abbiamo ucciso noi Lucien. Ognuno ha la sua parte di colpa. Noi ci siamo esposti, Lucien ne ha pagato il prezzo.

- No, Fernand: non ti seguo. Ti stai contorcendo sempre di più nei tuoi ragionamenti, forse perché vuoi ad ogni costo un pretesto plausibile per giustificare la tua malata convinzione che Auguste ti detesti.

- Cosa te ne dà la certezza?

Dorian alzò gli occhi al cielo.

- Non vi è ragione. Dovrebbe guardarti in faccia e decidere di odiarti, ma… Non sarebbe possibile. Non è possibile.

Lo sguardo di Dorian scivolò curioso sul viso di Fernand, studiando minuziosamente ogni sfumatura malinconica dipinta su quei tratti minuti e raffinati.

Fernand distolse il volto, a disagio, senza riuscire a scandagliare l’espressione indecifrabile che l’amico gli rivolgeva, sì da coglierne le contraddizioni.

- Stai tranquillo, Fernand: proverò a parlare con Auguste. Quell’uomo avrà pure le sue pecche, ma sa essere ragionevole.

- Vorrei tanto chiarire che io non ho mai desiderato nulla di male riguardo Lucien; e se a volte ho agito in maniera impulsiva, non ho avuto intenzioni negative. Io… – il ragazzo si raggomitolò su se stesso, gli occhi lucidi – Sto male, se penso a quel che è accaduto a Lucien: sul serio. Lui… Non meritava questo. Nessuno lo meritava. Mi spezza il cuore pensare che una persona che ho conosciuto e stimato non ci sia più; che non la rivedrò mai più. Il mio peggior rimpianto è certamente il non essere riuscito ad avvicinarmi un po’ di più a lui e a comprendere le sue ragioni e le sue angosce. So che non mi ha mai apprezzato come desideravo, ma era sincero. Ed era sempre gentile con me; è stato il primo a venire in mio soccorso, quando, appena approdato a Noir Trésor, ero come un cucciolo smarrito e davvero non sapevo dove sbattere la testa.

Fernand tirò su col naso, gli occhi arrossati.

D’un tratto, Dorian si drizzò in piedi, turbato dalla crudeltà del ricordo, quasi a voler tenere soltanto per sé il suo personale momento di sconforto. Compì il giro della stanza con passi rapidi ed inquieti, per poi riprendere la sua postazione al fianco di Fernand. In silenzio, gli circondò le spalle con un braccio.

- Che hai, Dorian?

- Niente – rispose il giovane, riavviandosi nervosamente i capelli – Soltanto un po’ di mal di testa.

- Non sono l’unico ad aver alzato il gomito, stasera.

- Già – rincarò la dose Dorian, affibbiandogli un buffetto sulla guancia – Ma vorrei che non lo facessi più. Fermati, finché sei in tempo: la disperazione porta con sé cattivi doni.

- A volte, Dorian – riprese Fernand – Mi capita di pensare a quanti pericoli corriamo a causa delle nostre attività, e a quanto Auguste, in questo momento in particolare, sia vulnerabile e privo di difese. Potrei morire, se di nuovo accadesse qualcosa ad uno di voi. Qualcuno vuole danneggiarci, ed il fatto che siamo divisi in un momento così critico non potrà che agevolare le sue future manovre. Mi viene da rabbrividire. Se soltanto, ancora una volta, non ne avessi combinata un’altra delle mie, e se qualche volta non avessi dato ascolto al mio maledetto orgoglio, forse tra noi non ci sarebbe questa spaccatura incolmabile, e forse non ci ritroveremmo così soli ed esposti al pericolo.

Dorian gli rivolse un sorriso benevolo.

- Questa situazione ti pesa enormemente, Fernand: prima Lucien, ora i dissidi con Auguste – sospirò – So quanto ti fa star male. Farò il possibile per riconciliarti con lui: te lo prometto.

 

Coraggio, Fernand, dillo; se non a Dorian o ad Ambrosie o a chiunque altro ti sia stato vicino in questi momenti, almeno a te stesso. Ammettilo con te stesso.

 

Io amo Auguste: è questa la verità.

 

Fernand attese in silenzio, lasciandosi andare e aderendo maggiormente al corpo dell’amico.

- Dorian?

- Sì?

- Perché fai tutto questo?

Il ragazzo lo strinse maggiormente a sé.

- Mi fa male vederti soffrire.

Gli occhi turchesi di Fernand si fissarono su di lui come lanterne, non paghi della sua risposta. Sorrise, quando due chiazze color porpora infiammarono le gote di Dorian.

- Vuoi torturarmi: è così – Dorian gli prese il mento tra le dita – Ti diverti a mettermi a disagio, come se non ti sia bastato il mio imbarazzo la notte scorsa, la fatica di riuscire a confessarti che…

Fernand ammirò in estatico silenzio il volto pallido e teso di Dorian, scrutando quegli occhi azzurri che bruciavano nei suoi. Scorse lentamente lungo il suo profilo che si stagliava in controluce nel riverbero del focolare, sulla linea delicata degli zigomi e del naso sottile ed affilato, vagamente appuntito. Seguì i mutevoli giochi di luce che la danza delle fiamme proiettava sul suo viso, accarezzando con lo sguardo i capelli ondulati che sfuggivano dal nastro, ombreggiandogli le guance.

Lo sguardo di Dorian scorreva febbrile tutt’intorno, per poi tornare ad indugiare assetato sul suo, attirato sul suo volto come una calamita.

- Ti ringrazio, Dorian. Ti ringrazio… di esserci ora, per me. Sei l’unica persona veramente amica.

La bocca di Fernand si posò languidamente su quella di Dorian, schiudendosi in un umido bacio.

- … ti voglio bene, Fernand. Non mi lasci nemmeno concludere – gli ingiunse scherzosamente Dorian, prima di riprendere possesso con voluttà delle labbra roventi del suo amico.

 

Cullato dalle carezze di Dorian, sfinito, Fernand si era assopito sul divano, adagiato tra il morbido schienale ed il calore del corpo dell’amico che aderiva al suo.

Le dieci. Così tardi… Il tempo è un tiranno, un mostro affamato di vita che non ci dà tregua.

Dorian buttò giù le gambe dall’improvvisato giaciglio, avendo cura di non ridestare bruscamente Fernand dal suo sonno leggero. Si erano addormentati un paio d’ore.

- Fernand, svegliati… – gli sussurrò dolcemente vicino all’orecchio, colpendo inavvertitamente la pelle sensibile con l’erotica carezza del suo respiro.

Poi, un insolito particolare catturò la sua attenzione. Gli scostò delicatamente i capelli dal collo.

- Fernand!

Il giovane dischiuse gli occhi e strinse la mano di Dorian, facendo leva per sollevarsi a sedere.

- Scusami: devo essermi addormentato – mugolò insonnolito.

- Solleva un attimo la testa – gli ingiunse Dorian, un’inspiegabile venatura allarmata nella voce.

- Ehi, vuoi dirmi che ti prende?

- Che hai fatto sul collo?

Dorian sfiorava dolcemente due minuscoli segni rossi che, soltanto in quel momento, aveva intravisto sul lato sinistro del collo.

- Che strano! Pensa che, sinora, non mi ero accorto di nulla. Ti fa male così?

Esercitò una lieve pressione con le dita.

- No, al massimo mi fai il solletico – Fernand si ritrasse – Mi spieghi cos’ho?

Il ragazzo gli porse uno specchio.

- Giudica tu.

Fernand esaminò perplesso i due forellini allineati che spiccavano quasi impercettibili sulla gola pallida.

- Non saprei. Mi avrà punto qualche insetto.

Dorian si strinse nelle spalle, confuso, scosso da uno strano fremito d’apprensione.

- Coraggio, dobbiamo andare.

- Già; prima che mia sorella mi spelli vivo!

- Ambrosie non mi sembra il tipo di donna che si comporta da mamma-chioccia con i suoi pulcini.

- Già – il ragazzo s’infilò il soprabito che Dorian gli porse per proteggersi dall’umidità della notte – A quest’ora, sempre che non si sia trattenuta con Auguste, dovrebbe essere a casa e ancora non ha avuto mie notizie. Senza contare che ognuno di noi, da solo in un simile momento, è una preda appetitosa per i sicari del duca o per chiunque altro abbia deciso di sbarazzarsi di noi. Temo soprattutto per mia sorella: non mi va di mollarla a casa o in giro da sola.

- Dobbiamo fare in fretta, Fernand: fra mezz’ora c’è il coprifuoco.

Fernand sgranò gli occhi.

- È davvero arrivato a tanto, quel fottuto aguzzino?

Dorian sollevò un sopracciglio con fare mordace.

- Sa che i “miserabili traditori” amano congiurare nell’ombra e colpire col favore delle tenebre come i vampiri, i ladri e gli assassini.

- Sarà – Fernand si morse un’unghia, soprappensiero, mentre un mezzo sorriso cospiratore si faceva largo sul suo volto – Tuttavia, se ci pensi bene, questa situazione può offrirci spunti interessanti.

Dorian inasprì il suo sguardo.

- Basta, Fernand. Almeno per il momento, deponi le armi.

Il più giovane arricciò le labbra, vagamente contrariato.

- Scherzavo. Hai ragione tu. Abbiamo altro cui pensare.

Fernand si tirò il cappello sulla fronte, per poi incamminarsi mestamente con Dorian attraverso le strade buie e tortuose, sulla via di casa.

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

 

Buonasera a tutti coloro che ancora seguono (e apprezzano… Spero!) NT!^^

Stavolta mi sono lasciata un po’ attendere, lo ammetto, causa scrittura “su due fronti” e impegni universitari!

Avrei voluto preparare qualcosa di più originale come augurio di Buon Natale ai lettori, ma, come vedete, il tempo è stato davvero “tiranno”; dunque, spero vivamente che apprezziate lo stesso questo tredicesimo capitolo. Sono contenta di essere riuscita ad aggiornare prima di Natale: spero che il risultato non deluda le aspettative.

 

Al prossimo aggiornamento e… Buone feste a tutti!^^

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Capitolo 14
*** Capitolo 14: Calano le tenebre ***


Capitolo 14

Calano le tenebre

 

 

Ambrosie si riscosse dal proprio doloroso torpore in un guizzo di disperata lucidità. Si passò una mano sugli occhi, dissipando con un gesto secco le lacrime che le avevano intriso il volto e premevano imperiose tra le lunghe ciglia.

Scosse la testa come a voler liberarsi da un pensiero insopportabilmente molesto: erano davvero queste le antiche, vaghe promesse ed illusioni che il suo gelido e dilagante scetticismo aveva irreparabilmente distorto, trasfigurando dinnanzi a lei ogni singolo aspetto della realtà che, ora come ora, le appariva pervaso di un grigio piombo sempre più tendente al nero totale?

Sospirò: il continuo crogiolarsi nell’amarezza si era insinuato nella sua quotidianità come una linfa nociva, cristallizzando lentamente la facoltà di recepire la realtà con la carica di sentimento che essa reca con sé, e che ora giaceva miseramente sepolta sotto il rigore di un’arida ragione.

Rabbrividendo, Ambrosie fu sfiorata dal timore di aver perso la capacità di offrire sollievo, in qualche modo, al dolore che nascondeva accuratamente dentro di sé. Da quanto tempo, ormai, non piangeva? La tragica ed improvvisa morte di Lucien era stata capace soltanto di farle inumidire lievemente gli occhi, nulla di più. Per il resto, il gelo totale: timori taciuti ed una disperazione dal sapore oscuro che procedeva inesorabile dentro di lei, soffocandole il respiro e minando ogni slancio ideale verso il resto del mondo che non fosse dettato da stimoli esterni o forzati.

Era stata questa, sinora, la sua esistenza? Una recita malriuscita fra scenari polverosi: vivere la grigia realtà del borgo, troppo stretta dentro la propria pelle, per poi tentare, un giorno come un altro, di spiccare il volo come un passero appena uscito dal nido che non tiene in conto in conto l’eventualità di fracassarsi al suolo; e, una volta raggiunta la meta fisica delle proprie illusioni, scontrarsi contro un muro di pietra e rendersi contro, proprio malgrado, di non essere in grado di stabilire alcuna corrispondenza al di fuori di sé.

 

Senza una maschera sul cuore, sarei davvero priva di difese, incapace di reggere con la sola forza delle spalle il mio fardello.

Cosa c’è, fuori di queste mura? Vi ho sbattuto la testa più e più volte, inutilmente; mi chiedo se sia mai una mia colpa o una sorta di strana maledizione, il fatto di vivere la realtà di riflesso, come dietro ad uno specchio, e non riuscire a stabilire rapporti con l’altro che vadano al di là della semplice cordialità o del mero interesse.

Il fatto è che neppure il pensiero della morte di un amico è stato in grado di scuotermi dalla mia rigida ed impenetrabile staticità: sono come un fantasma che rivive la sua vita percorrendola a ritroso senza assaporarla. L’unica cosa, l’unico pensiero veramente importante che sia capace, di tanto in tanto, di farmi sputare sangue e lacrime, è costituito unicamente da me stessa.

Il peso della mia inettitudine è un affanno così egoistico e deleterio da monopolizzare totalmente le mie energie, affievolendo su di me persino l’idea della morte.

 

Vorrei che Fernand si facesse vivo al più presto: solo questo; poi, sarò libera d’infilarmi tra le lenzuola fredde ed aspettare pazientemente che almeno il sonno rechi con sé una sorta di conforto, vincendo la mia tristezza.

 

Un lieve bussare la distolse dai propri pensieri. La ragazza si diresse spedita verso la porta. Quasi senza riflettere, fece per sollevare il passante, quando un improvviso lampo di lucidità le fece abbandonare l’immediato proposito. Una fredda sensazione di terrore, istintivamente, la fece arretrare.

- Sei tu, Fernand? – la voce tremò.

- Ambrosie? Sono Raphäel.

Un misto di sollievo e lieve disagio prese languidamente possesso della sua mente. Ambrosie si strofinò nuovamente la mano sugli occhi, nel disperato tentativo di cancellare gli ultimi segni di pianto.

Non mi vedrai piangere. No.

Ignorò i propri capelli che, sfuggiti dall’improvvisata impalcatura di forcine, ciondolavano in folte ciocche sulla schiena ad ogni suo movimento.

 

Perché ciò che in un determinato momento sembra essere in grado di procurarmi una sorta di gioia fuggevole, inspiegabile ed inebriante, è inesorabilmente destinato a finire annacquato nell’angoscia che prende il sopravvento?

 

La ragazza aprì con circospezione, quel poco che bastò a permettere l’ingresso al ragazzo dal soprabito scuro schizzato di pioggia. I lunghi capelli arruffati gli ricadevano scomposti sulle spalle, intrisi d’acqua, e sul volto risoluto vi era una sfumatura inaspettatamente allarmata.

- Cosa fai in giro a quest’ora, Raphäel? Non sai del nuovo decreto del duca? – proruppe Ambrosie.

Raphäel scosse impercettibilmente le spalle, mentre una piega ironica gli percorreva fugace le labbra pallide.

- Una persona che negli ultimi quattro anni della sua vita non ha fatto altro che muoversi da cospiratore sotto una tirannia, sa quali accorgimenti adottare per aggirare gli ostacoli ed evitare di farsi sorprendere in flagrante.

La ragazza annuì distrattamente.

Continui a non raccontarla giusta. Cosa ti spinge qui, Raphäel?

- Fernand non ha ancora fatto ritorno? – incalzò il ragazzo.

Ambrosie scosse il capo in segno di diniego, mentre il timore che qualcosa non fosse andato per il verso giusto, ancora una volta, prese a farsi strada in lei come un veleno che, gradualmente, comincia a scorrere nel sangue.

- Non credo sia il caso di… – per un attimo, il suo sguardo si soffermò tristemente sul volto di Raphäel.

Tacque prima di lasciarsi inavvertitamente sfuggire qualcosa di poco gentile.

Il ragazzo parve intuire il suo pensiero ed annuì con imperturbabile rassegnazione.

- Hai perfettamente ragione, Ambrosie: in questo momento, forse sono l’ultima persona che tuo fratello ha intenzione di trovarsi di fronte.

Se è così, dunque, perché sei qua?

- Sono preoccupato per Fernand – la precedette Raphäel.

- Sono sicura che Dorian sia riuscito a recuperarlo e a parlargli – soggiunse la ragazza, tentando di alleggerire l’atmosfera opprimente – Ma ora entra e siediti a scaldarti, Raphäel – indicò con la mano il focolare – I tuoi abiti ed i tuoi capelli sono fradici.

 

Ambrosie si strinse istintivamente nelle spalle, mentre il suo sguardo scorreva distrattamente sulla figura di Raphäel e seguiva i movimenti nervosi ed aggraziati delle dita sottili del ragazzo che provvedeva a slacciare i bottoni della giacca. Il chiarore della fiamma conferiva al suo viso un aspetto quasi etereo.

La ragazza accostò le mani l’una all’altra, palesemente a disagio, tentando di scaldarsi nel tepore del fuoco acceso. Il silenzio che avvolgeva la stanza stava diventando ingombrante.

- Vado a prendere del vino – annunciò.

- Non capisco cosa stia prendendo a tuo fratello – Raphäel scrollò istintivamente il capo, dopo che Ambrosie gli ebbe porto una coppa di denso liquido color cremisi.

- Non so cos’abbia in mente, ma, ad essere sincera, un po’ mi preoccupa. Non mi piace l’atmosfera che si respira ultimamente: è come se tutto ci piombasse sul capo all’improvviso, senza lasciarci neppure il tempo di trovare un riparo. Spero che Fernand e Dorian si facciano vivi al più presto e che, nel frattempo, non siano andati alla ricerca di qualche nuova grana.

- Hai visto come si è scagliato su Auguste? – rincarò la dose Raphäel, alludendo direttamente alla lite della locanda – Sembrava furibondo. Mi spiace che sia così difficile, per lui, accettare questa situazione; e mi pare di comprendere in modo piuttosto chiaro che il mio ingresso nella congrega abbia contribuito ad infiammare gli animi.

- Fernand non ce l’ha con te – lo interruppe Ambrosie, quasi meccanicamente – è soltanto un po’… diffidente. Ha bisogno di certezze.

- Non credo sia il solo motivo della sua ostilità. Ho la sensazione che sin dal primo istante tuo fratello si sia impuntato inflessibilmente contro ogni proposta di collaborazione fra le due associazioni. Quando, poi, si è ritrovato costretto a fare i conti con Auguste e Lucien… Beh, credo che questo l’abbia esasperato nell’inasprire le sue posizioni.

- Fernand teme che la situazione degeneri – intervenne prontamente la ragazza – Non per causa tua, Raphäel. Io sono fermamente convinta che il nodo del problema dipenda esclusivamente da Auguste e Fernand e dalle loro ataviche divergenze. Non penso che Fernand nutra personali rancori nei tuoi confronti, ma, al tempo stesso, dopo tutto quel che è stato detto e fatto, non credo sia disposto ad ammettere con tanta leggerezza che Auguste aveva ragione.

Ambrosie chinò il capo, distogliendo lo sguardo: sapeva quanto il suo indefesso ingegnarsi ad imbastire pallide giustificazioni a quel che, ormai, era diventato troppo chiaro agli occhi di tutti per poter essere facilmente dissimulato, non sarebbe stata un’impresa da poco. Ancor meno lo sarebbe stato convincere Raphäel che Fernand non gli serbasse aperto risentimento.

Sospirò tristemente: non poteva certo andare a raccontare al diretto interessato che suo fratello, molto più credibilmente, non aveva mai visto di buon occhio il rapporto che si era instaurato fra loro, e l’unica cosa che desiderava in proposito, al momento, era far sì che Raphäel Lemoine si eclissasse dalle loro vite così come vi era piombato, prima che nascessero ulteriori implicazioni. La vera ragione della malevolenza da parte di Fernand, ora come ora, non era imputabile ad altri se non a lei e Raphäel ed al loro ambiguo rapportarsi.

- Fernand ed Auguste sono un dato di fatto – annuì il ragazzo, pensoso – Ma ciò non esclude che i miei rapporti con tuo fratello non siano mai stati particolarmente amichevoli.

- Credo sia una mera questione d’orgoglio, Raphäel: Fernand non tollera di essere stato osteggiato e messo da parte da Auguste.

- Io e lui non siamo mai stati amici, Ambrosie – precisò il ragazzo, socchiudendo stancamente gli occhi – E davvero temo che mai lo saremo.

Quattro secchi colpi vibrati dall’esterno al portone d’ingresso, per la seconda volta, consentirono provvidenzialmente ad Ambrosie di spezzare la languida sensazione d’attesa e sospetto che aveva attanagliato entrambi.

- Sono loro – dichiarò Raphäel con voce atona.

La ragazza avvertì l’affermazione del ragazzo vibrarle nella mente, mentre si accingeva ad assicurarsi dell’effettiva presenza di Dorian e Fernand e ad aprire loro l’ingresso.

- Fernand, tutto a posto? – Ambrosie si gettò al collo del fratello – Dobbiamo parlare – soggiunse con circospezione.

- Più tardi – le sussurrò Dorian, alle sue spalle, con un vago gesto della mano.

Dorian si diresse verso il salone, abbozzando un mezzo sorriso ed un cenno di saluto a Raphäel. Fernand fece il suo ingresso subito dietro di lui, per poi fermarsi basito in capo a pochi passi.

- Ehm…

I due contendenti si squadrarono in silenzio per una lunga manciata di secondi, in un torbido miscuglio d’imbarazzo ed ostilità.

- Salve, Raphäel – fu Fernand ad interrompere il pesante scambio di occhiate che per un breve istante aveva quasi cristallizzato l’atmosfera intorno a loro, senza premurarsi che il proprio scostante saluto suonasse di particolare calore.

Ambrosie si schiarì la voce prima di apprestarsi a parlare, ed una rapida occhiata sui volti dei presenti fu sufficiente a farle percepire con vertiginosa intensità la crescente tensione che pervadeva la stanza.

- Raphäel, Dorian. Credo sia meglio non vi avventuriate ancora per le strade, sotto il coprifuoco. Dunque, per farla breve, accettate la nostra ospitalità.

- Sono d’accordo con Ambrosie – assentì prontamente Dorian, sorridendo prima in direzione della ragazza, poi di Fernand.

Cogliendo la sottile allusione alla notte precedente, trascorsa in compagnia di Dorian, il ragazzo si sentì avvampare. Chinò il capo, seguendo il gioco mutevole delle fiamme che volteggiavano in cima all’esiguo cumulo di legna e brace: un’altra notte con Dorian a pochi passi da lui non poteva essere propriamente definita una scelta tranquilla. Per un attimo, gli balenò nella mente la terrificante eventualità di essere sorpreso da sua sorella – o, peggio, da Raphäel Lemoine – con le labbra di Dorian incollate alle sue, mentre una mano si faceva strada dentro la sua camicia. Un rischio irrisorio, a ben vedere, in confronto a quel che sarebbe accaduto, nell’ipotesi peggiore, se soltanto avesse scorto con i suoi occhi Raphäel sfiorare sua sorella. Represse all’istante le folli supposizioni che l’alcool ancora in circolo nel suo corpo gli aveva fatto partorire, mentre, al solo pensiero, sentì le mani formicolargli e il sangue ribollire nelle tempie.

- Un’idea fantastica! – replicò acidamente, storcendo le labbra in un’espressione sarcastica – Dato che abbiamo un po’ di tempo da trascorrere, potremmo sempre inaugurare un nuovo modello di vita comunitaria, come tanti piccoli monaci – concluse.

- Hai forse un’idea migliore? – lo rimbeccò Ambrosie, scoccandogli un’occhiataccia.

- Non credo sia una cattiva intenzione evitare di isolarci, dopo quanto è successo – ribadì Dorian.

- Per me può andar bene – mormorò impassibile Fernand, di spalle, intento a versarsi un bicchiere d’acqua, obbligandosi a mantenere la calma.

Ambrosie e Dorian abbandonarono la stanza e, in silenzio, si diressero a preparare i letti per i due ospiti.

- È quasi un miracolo, Ambrosie! Alla fine, siamo persino riusciti a mettere momentaneamente d’accordo cane e gatto – le fece il giovane.

Poi, assicurandosi cautamente di non essere udito dagli altri due, una venatura maliziosa a percorrergli sguardo, le insinuò:

- Se per te va bene, potrei aiutarti a tenere a bada il fratellino, cosicché tu possa trascorrere in tutta serenità un po’ di tempo con lui.

La ragazza arrossì di colpo: possibile che il lieve interesse che sentiva, suo malgrado, nei confronti di quello strano ragazzo, fosse divenuto così evidente?

- Dorian? Va’ pure al diavolo! – gli scandì, apprestandosi a sistemare le lenzuola pulite.

 

Fernand esalò un profondo respiro, accostandosi rigidamente al camino e portandosi il bicchiere alle labbra.

Poteva avvertire, ad un palmo da lui, gli occhi di Raphäel scrutarlo al di sotto del morbido ventaglio delle ciglia scure. Trasse un secondo, intenso sospiro, cercando di apparire disinvolto e padrone di sé, benché fastidiosamente osservato e soppesato fino all’osso da due occhi indagatori. Infine, prese coraggio e si schiarì la voce.

- Raphäel? Ti spiace se approfitto per parlarti ad un certo proposito? – esordì con voce piatta.

Il ragazzo annuì appena.

Fernand prese per sé un pugno di secondi, scavando nei meandri della propria mente alla ricerca di una formula indolore attraverso la quale proporre la sua idea all’interessato.

- Non mi piace per niente la situazione che si è creata al di fuori e all’interno della congrega – valutò l’espressione indolente di Raphäel – Soltanto ora mi sono reso conto di quanto Lucien avesse ragione, quando tentava, invano, di metterci in guardia e di dissuaderci da iniziative avventate. Nessuno ha preso sul serio la plausibilità dei segnali che volevano avvertirci che i nostri delicati progetti non erano più al sicuro. Fino a quando non c’è scappato il morto, appunto. Capisci cosa intendo dire? Le spie del duca, o forse qualche banda rivale, potrebbero essere da tempo sulle nostre tracce. Dopo quanto è accaduto, credo che la soluzione migliore sia sospendere momentaneamente le nostre manovre ed attendere che si calmino le acque: operare con sicurezza, come vedi, non è più possibile.

Soltanto allora, Raphäel si risolse ad incrociare il suo sguardo. Fernand sentì le iridi scure bruciare insistenti sulle sue.

- Potresti aver ragione, dopotutto. Ma questi discorsi, credo sarebbe meglio li affrontassi direttamente con Auguste. Oppure, cerchi in me un alleato? – le labbra del ragazzo s’incurvarono in una piega vagamente sarcastica.

Fernand incassò il colpo e distolse lo sguardo, cercando, ancora una volta, di mantenere il controllo.

- Non è questo il punto della situazione, Raphäel – la sua voce tremò appena, scossa da un singulto d’indignazione prontamente soffocato – Anche tu, se è vero quanto dici, appoggi un’organizzazione le cui mire sono affini alle nostre, benché non abbia mai fornito precisi chiarimenti in merito a ciò o riguardo ai tuoi complici. Se davvero vogliamo allontanarci dal mirino di chi ci stia dando la caccia, non penso che mettersi su a negoziare improbabili alleanze e collaborazioni, in questo momento, sia la carta vincente per non attirare su di noi l’attenzione di chi ci sta braccando da vicino. Credo sarebbe bene, almeno per il momento, allentare la presa; senza mettere in conto che, unendoci, offriamo loro l’opportunità di stanarci al gran completo.

- Un gran bel giro di parole, Fernand, e tutto per intimarmi di farmi da parte? – il ragazzo sollevò scetticamente un sopracciglio.

- Stammi a sentire, Raphäel – Fernand alzò gli occhi al cielo con fare esasperato – Non ti è forse bastato che Lucien ci abbia rimesso la vita?

Raphäel gli sorrise, tagliente.

- Questa è bella da parte tua, Fernand, dico sul serio: citare a tuo favore la morte di un amico ed usare quanto è accaduto in funzione dei tuoi interessi, per liberarti in maniera semplice e pulita di chi ti è scomodo. È quasi… – Raphäel sollevò uno sguardo mordace su di lui, ispirato – Nobile, oserei dire, da parte tua, uomo della rivoluzione.

Fernand si sentì fremere. Artigliò duramente il bicchiere che reggeva in mano; le dita vibrarono pericolosamente sulla presa, facendo ondeggiare il boccale al punto che il suo contenuto, per poco, non si sparse sul pavimento.

- Stammi a sentire, Raphäel! Se ti sforzassi, una volta in vita tua, di guardare appena più in là del tuo naso, si potrebbe eventualmente riuscire a concludere qualcosa di concreto. Se ci tieni, sappi che è una battaglia persa in partenza, da parte tua, la malata pretesa che mi metta a scalpitare per sbandierare la mia buona fede di fronte ad un essere infarcito di preconcetti sul mio conto che non vuole schiodarsi dalla mente l’idea - troppo comoda, in fin dei conti, per essere accantonata con leggerezza - del Fernand estremista ed accentratore!

- E quindi, sentiamo: quale sarebbe la scelta migliore?

Gli occhi di Fernand lampeggiarono alteri.

- A quanto pare – riprese il ragazzo con voce più calma – non ti accontenti di una versione edulcorata della realtà – allargò le braccia, teatralmente rassegnato – Seguimi con attenzione. Io non so che tipo di persona sei, non so cos’abbia in mente né in che cosa consistano, nella prassi, i tuoi fantomatici propositi, ma la mia idea non è completamente assurda come sembra: chi ci garantisce che colui che ha ucciso Lucien avesse proprio noi nel suo obiettivo? Qualcosa potrebbe farti pensare, dico eventualmente, che i sicari non stessero cercando noi, ma fossero in realtà sulle tue tracce? I tuoi spostamenti li hanno condotti, per puro caso, a Lucien, ed il resto, come puoi vedere da te, è storia.

- Arriva al dunque – gli ingiunse Raphäel, secco.

Le labbra di Fernand si arricciarono in un moto sprezzante.

- è presto fatto: sarai d’accordo con me, ora, nel riconoscere che la tua presenza potrebbe costituire per noi un pericolo. Ti darò un consiglio, Raphäel: fossi in te, abbandonerei Noir Trésor quanto prima, almeno per un po’. Se rifletti un attimo, ti renderai conto da te che tutti i problemi, per una strana combinazione, sono iniziati nel momento in cui Auguste ti ha avvicinato. E, se proprio ci tieni, sappi che potrei estendere il discorso ad una ben nutrita gamma di questioni, come i dissidi fra i ribelli. Sbaglio, se dico che, da quando sei qui, non hai fatto altro che generare contrasti a non finire? Come se non bastasse, ogni stabilità vien meno, e tutti, ora come ora, siamo quanto mai esposti e sguarniti nell’eventualità di un'altra offensiva. È abbastanza? Certo che tu ed Auguste avete avuto una magnifica idea, quel giorno: non vi è altro da aggiungere. E ciò che mi fa imbestialire delle persone come te, Raphäel, non è tanto che attirate guai e controversie come api al miele, quanto il fatto che coloro che hanno la disgrazia di starvi accanto ne scontano le conseguenze. E neppure questo è in grado di distogliervi dalle vostre brighe. Il coronamento della situazione, dopo settimane di atteggiamenti pericolosi ed ambigui, è che Lucien ora è morto. Ti pare ancora una serie di coincidenze?

- Ora basta! – gli occhi di Raphäel si ridussero ad una fessura che a malapena lasciava filtrare la luce.

I suoi passi lo condussero verso il ragazzo. Lo sovrastò.

- Parli come se tutto ti fosse dovuto – proseguì, gli occhi arrossati e scintillanti di collera – Hai mai pensato che il fattore scatenante della discordia potresti essere proprio tu? Messa su questo piano, la definizione di piantagrane potrebbe calzare meglio su di te, credimi. Agisci di testa tua appena puoi, senza domandare pareri a nessuno; contesti ostinatamente, il più delle volte a vuoto, tutto ciò che sul momento non ti va giù. Sei quello che più di chiunque altro causa continue discussioni: all’inizio, vi siete scannati per bene tu e Lucien, poi è toccato ad Auguste e, infine, è venuto il mio turno, e sono cascato male. È sufficiente? A volte mi chiedo, Fernand, se davvero t’importi qualcosa della nostra causa o se il tuo sia piuttosto un perverso teatrino per catapultare ogni attenzione su di te. Forse, in particolare, l’attenzione di Auguste.

Fernand sentì il sangue montargli in volto e dovette controllare l’impulso di scagliargli addosso il bicchiere che stringeva tra le dita.

- Il titolo di lustrascarpe di Auguste non può più sottrartelo nessuno. Cosa dire, a questo proposito, di uno zerbino che scodinzola come un cane davanti all’osso per accattivarsi la benevolenza di mia sorella? Adulare il prossimo, del resto, è tutto ciò che ti riesce bene – gli insinuò Fernand con voce gelida.

- Vacci piano, amico mio. È forse un torto, il fatto che la mia presenza sia gradita alle donne? La tua, anche ai ragazzi, in base alle mie supposizioni.

Raphäel non proseguì la sua provocazione, investito da un getto d’acqua gelida in pieno volto. Il bicchiere finì sul pavimento in migliaia di scaglie di vetro.

- Maledetto bastardo… – Fernand sussultò da capo a piedi, il volto cereo e gli occhi iniettati d’odio – Ringrazia che ho rotto il bicchiere, o non mi sarei accontentato di battezzarti con il solo contenuto. Ad ogni modo, immagino che gli uomini d’onore come te agli oggetti contundenti preferiscano le mani.

Il ragazzo fece per gettarsi sul rivale, ma il suo slancio furente abortì sul nascere. Vacillò, tentando di riacquistare l’equilibrio e portandosi contemporaneamente una mano alla fronte terrea e madida di sudore.

Il tono di Raphäel si tinse di una nota allarmata; il suo viso aveva perso all’improvviso il piglio irriverente, ed il panico si era impossessato di lui.

- Fernand! Fernand, che ti prende, ora?

Arretrò di un passo, quando Fernand, abbandonato il tentativo di sorreggersi provvisoriamente alla mensola del camino, gli si accasciò addosso.

- Fernand, sollevati, ti prego.

Raphäel lo sorresse per le spalle, cercando di rimetterlo in piedi.

- Non… toccarmi… – mugolò flebilmente il giovane, il volto pallidissimo seminascosto dalle mani e dall’intrico dei capelli scomposti.

Tentò di sottrarsi di scatto alla presa di Raphäel, ma, troppo debole per reggersi da solo, ricadde sulle ginocchia.

- Fernand…

- Raphäel – gli sussurrò con una stilla di voce, lottando contro le proprie palpebre che, minacciando di richiudersi, avevano gettato un nero sipario sulla porzione confusa e ondeggiante della stanza che scorgeva dinnanzi a sé.

Le dita di Fernand artigliarono con fare convulso un lembo della camicia di Raphäel.

- Io… ti avverto per l’ultima volta – proseguì – Vattene da Noir Trésor ed evita, quantomeno, d’includere Ambrosie nelle tue mire. Tu… Devi stare lontano. Lontano da noi.

 

Si sentì risollevare contro la propria volontà da due mani forti, mentre la realtà intorno a lui si dibatteva nel caos. Il mulinare confuso di voci si confondeva nella sua mente in una sorta di giostra infernale, facendogli pulsare le tempie. Fu la stretta di Dorian sulla sua mano ed il tocco confuso sulle gote esangui a tener vigile la sua attenzione ed evitargli di sprofondare nell’incoscienza.

Ora si sentiva più sereno. L’aria fresca gli penetrò nei polmoni. Gli parve di affondare lentamente nell’oblio, mentre la visuale della stanza diveniva sempre più ovattata e distante. Le lenzuola candide e soffici sotto le dita, la mano sottile di Ambrosie stretta alla sua. Sospirò impercettibilmente: stava bene.

- Fernand, che ti succede?

- Non è la prima volta – replicò cupa la ragazza.

- Sembra svenuto.

- Fernand, riesci a sentirmi?

Ambrosie.

- Ti vedo e ti sento – riuscì a replicare – È solo che… sono molto stanco.

- Cos’hai, Fernand? – la mano di Dorian gli sfiorò la fronte imperlata di un madore gelido – Tu non stai bene.

- Non ho nulla, davvero – si affrettò a ribattere Fernand.

Tentò di riaprire gli occhi ed allungare una carezza in direzione dell’amico, volendo istintivamente rassicurarlo, ma la visuale sempre più sfocata davanti a sé lo dissuase dal proposito.

- Ho solo bisogno di riposare. Sono stanco – ripeté.

- Sai dirmi cosa ti senti? – incalzò la sorella.

- Niente, davvero. Soltanto un po’ di debolezza. È un banale capogiro: te lo assicuro. Tra poco starò meglio. Passa in fretta… di solito.

- In soli due giorni – azzardò la sorella – Non è più tanto normale, Fernand.

Il ragazzo mutò espressione, ignorando le sue parole.

- Ambrosie, ora avvicinati – le ingiunse repentinamente, il debole sguardo color turchese che tentava di ritagliarsi uno spiraglio fra le palpebre socchiuse.

La strinse a sé, per quel che l’esigua forza delle braccia gli permise, finché i loro volti quasi non si sfiorarono.

- Non andare via, Ambrosie.

La voce spezzata e carica d’apprensione s’incuneò nella mente della ragazza, facendola trasalire.

- Io… Non me ne vado di qui, Fernand. Ma non capisco cosa cerchi di dirmi… – mormorò Ambrosie, un debole squittio pervaso d’angoscia.

- Allontana quell’uomo – le sussurrò Fernand, il volto quasi allucinato, quando fu abbastanza vicino – Ora. Non permettere che inquini la nostra esistenza dividendoci e ponendoci l’uno contro l’altro. Allontanalo, prima che sia troppo tardi, prima che…

- Fernand, non capisco, davvero.

- Ti sta avvelenando. Sta avvelenando tutto. Non lasciare che distrugga quel che ci rimane.

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

 

Buonasera a tutti!^^

Fra un intervallo e l’altro dello studio matto e disperatissimo, ritorno (non proprio) puntuale ad aggiornare NT. Non è lunghissimo, come capitolo, ma spero risulti ugualmente di vostro gradimento.

Volevo ringraziare i lettori, in particolare hanabi che, con il suo gentilissimo commento, mi ha fatto infinitamente piacere (soprattutto nel paragonare le atmosfere di NT a quelle della Rice, scrittrice che stimo tantissimo)! Ringrazio inoltre chi, sinora, mi ha aggiunta tra i preferiti. Scusandomi per l’ormai impronunciabile ritardo con cui aggiorno, vi do appuntamento al prossimo capitolo!^^

 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15: Anime stanche ***


Capitolo 15

Anime stanche

 

 

Accasciato sul divano con fare indolente, Auguste fissava assorto il soffitto sopra di sé, le dita pallide e nervose che indugiavano incuranti a ravviare i capelli arruffati che gli ombreggiavano il volto tirato e privo d’espressione. Trasalì, quando i suoi occhi intercettarono improvvisamente lo sguardo interrogativo di Emilie che lo scrutava in viso. Sobbalzò, quasi una presenza estranea ed arcana fosse giunta presso di lui senza alcun preavviso, furtiva nel cuore della notte, a spezzare il filo dei suoi incubi.

- Che hai fatto alla faccia, Auguste? – la voce della donna rimbombò nella sua testa con lo stesso cupo vigore di una campana che annuncia lo stato di pericolo.

Soltanto allora, riscossosi dal proprio angoscioso torpore, l’uomo si avvide che l’oggetto dell’attenzione di Emilie era l’ematoma che campeggiava sul suo volto, tracciando una piccola mezzaluna violacea a metà strada fra il naso e l’occhio sinistro.

Si morse nervosamente il labbro, mentre la mano scorreva sul volto con rassegnazione, tastando sotto le dita il mento reso ispido dalla barba di qualche giorno. Avrebbe preferito far fronte a qualunque cosa: tutto, in quel momento, ma non rammentare il carico di rancore che la sua ennesima lite con Fernand gli aveva rovesciato addosso, costringendolo ancora una volta a guardare in faccia la propria degradazione.

- Sono caduto – mentì.

- È lecito, da parte mia, immaginare che tu abbia nuovamente fatto a botte? – lo precedette la donna, tuonando la sua secca riprovazione.

Auguste scrollò le spalle con risentita indifferenza.

- Ho avuto una discussione con Fernand – sentenziò, asciutto, evitando lo sguardo di Emilie, la quale, a sua volta, distolse il viso con malcelata irritazione.

- Anche questo, ora – mormorò la donna tra sé.

- Ad ogni modo, preferirei non parlarne, se non ti dispiace. Non ora – si affrettò a troncare il discorso Auguste.

Vide Emilie indugiare soprappensiero sul proprio volto riflesso nello specchio della piccola toeletta e sciogliere con un gesto fluido la chioma bruna raccolta in un nodo sulla nuca, lasciandola ricadere morbidamente sulle spalle.

- Ho sentito dire – proruppe in capo a qualche istante, tentando di squarciare l’insopportabile tensione – che “Madame” ha in progetto una serie d’incontri nel suo salotto.

- A voler essere sincero – Auguste ricambiò brevemente il suo sguardo – Non m’importa molto delle iniziative di quella megera; finché non interferiscono con le mie, perlomeno. Dopo quel che è accaduto a causa dei libelli e della loro imprudente diffusione, tutto ciò che desidero a proposito della Bertie è che si tenga alla larga da tutto ciò che ha lontanamente a che fare con la nostra associazione.

Lo sguardo della donna s’inasprì. Calando pigramente la spazzola sui propri capelli, scrutò il compagno attraverso lo specchio.

- Non riesci a pensare a nient’altro – mormorò con voce gelida – Ormai, le tue trame ai danni del duca stanno diventando una specie di ossessione insanabile.

Auguste avvertì la laconica e bruciante rapidità della sentenza percuotergli il volto come una violenta sferzata, la cui fulminea intensità si diradava lentamente in lui, lasciandogli addosso un lungo strascico d’angoscia. Una sensazione di vuoto e di doloroso rimorso, non troppo dissimile da ciò che aveva provato un istante dopo aver schiaffeggiato Fernand, cristallizzò le sue parole in punta di labbra.

Tacque e chinò mestamente il capo, ferito.

- Immagino sia completamente superfluo – rincarò la dose Emilie – Domandarti di venire con me.

Auguste sentì un lampo di collera attraversargli repentino le tempie come una rapida fitta.

Era davvero rimasto l’unico, fra tutti, a non rendersi conto che il mondo si muoveva, che le ore scorrevano ed i giorni s’accavallavano l’un l’altro senza curarsi minimamente se lui si sentisse pronto oppure no a riprendere a respirare?

Perché la manifestazione evidente della sua disperazione, così potente da essere divenuta l’inevitabile prospettiva attraverso la quale si era rassegnato a raffrontarsi con la sua vita, suonava così tremendamente assurda agli occhi di chi contemplava dall’esterno la sua miseria?

Perché nessuno si sforzava di comprendere o, se non altro, di considerare con lucidità quel che gli ultimi avvenimenti avevano prodotto in lui?

Non poté trattenersi.

- Ti sei già risposta da sola – replicò, tagliente – Punto numero uno: non metterei piede nel salotto… “culturale” di quella donna neppure imbalsamato. In secondo luogo, preferirei che tu, Emilie, evitassi con me certe provocazioni ambigue e che parlassi chiaramente.

- Tu non ci sei mai – sbottò la donna, con fare requisitorio – Non ci sei per me, non ci sei per nessuno: completamente assente, preso soltanto da te stesso e dai tuoi ribelli. Cosa sei in questa casa, Auguste? Chi sei veramente? Te lo sei mai domandato? Non ho torto a credere che tutto questo, per te, non sia nient’altro che un insensato pretesto per non restare solo, la notte. Cos’altro rappresenta?

Questo no si disse Auguste. Strinse le palpebre, soffocando un eccesso di dolore, rassegnato alla cruda consapevolezza di ciò che era diventato. Per Emilie, per Lucien… Per Fernand, che inutilmente aveva tentato di scavare nel torbido della sua disperazione.

Emilie aveva ragione: lui non c’era mai stato per nessuno e soltanto ora si rendeva conto di quanto non fosse mai stato facile, per lei, fare i conti ogni giorno con una presenza indecifrabile, sfuggente e profondamente lacerata in mille frammenti di realtà che continuavano a sfuggirle via tra le dita.

 

Un uomo che non la ama: squallidamente, questo è quanto. Sfiderei chiunque a non essersene reso conto.

È dura confrontarsi ogni giorno con una realtà che sembra tramarti contro, ridurti a mera scenografia dell’impronunciabile tragedia che si consuma dinnanzi ai tuoi occhi, e poi tentare, senza successo, di ricucire insieme i brandelli e di donare una parvenza di normalità ed una coerenza a ciò che è irragionevole ed assurdo per antonomasia.

Ma io non ho più la volontà né la forza per donare amore o qualunque cosa ne possa rappresentare un debole surrogato. Non ne sono più capace, se mai lo sono stato: io non so amare nessuno, tranne me stesso, forse. E Lucien.

 

- è… successo così di fresco – esalò timidamente – Dammi un po’ di tempo per accettarlo. Te ne prego.

Chi credi d’ingannare, ancora, tu ed i tuoi pretesti?

- Tutto questo non penso abbia nulla a che vedere con il nostro rapporto, Auguste. Io non mi riferisco al particolare di ciò che sta accadendo oggi. Non è questa la causa né il nodo del problema: c’è sicuramente dell’altro – ribatté duramente Emilie.

 

E tu mi chiedi ora, ora che non sono in grado neppure di guardare lucidamente a me stesso e decidere cosa fare nel mio immediato, di riprendere in mano un legame esausto e deteriorato per causa mia e di ingegnarmi a tenere insieme un rapporto – o qualunque cosa gli somigli?

 

Auguste si morse dolorosamente il labbro.

- Vuoi qualcuno che ti tenga compagnia nelle tue serate? Il mondo è pieno di damerini da salotto.

 

Ecco: puntuale e preciso, il dardo colpisce nel segno. Quando il gioco si fa difficile, ecco allora che Auguste sfodera prontamente il suo unico asso nella manica.

Ma io sto per recarmi al funerale della persona che amavo: il nesso è chiaro, è il tassello mancante del mosaico che nessuno, nell’ottica ristretta di ciò che appare dal di fuori, può riuscire a decifrare.

Perché mi si domanda di affrontare la mia desolazione come un uomo nel pieno delle proprie facoltà, ora che sono poco più che uno spettro e desidererei soltanto trovare il modo più indolore per annegare nella mia disperazione?

 

- Vuoi farne una malattia e continuare a ridurre la tua vita ad un mucchio di macerie? Come preferisci.

- Un giorno, Emilie! – la rimbeccò Auguste – È trascorso appena un giorno. E tu mi chiedi di indossare una maschera e di gettarmi tutto dietro le spalle?

- No. Ti chiedo solo di non trasformare la tua esistenza in un inferno di rancore e di rimpianti. Per il tuo bene e di chi ti sta accanto.

Emilie si lisciò nervosamente la scollatura del pallido negligé, per poi avviarsi con fare irritato verso il letto matrimoniale.

Auguste non rispose. Indugiò nella penombra, indeciso se distendersi al fianco della sua donna e tentare di occultare nel sonno il dolore disperato che gli ammorbava l’anima, oppure abbandonare dignitosamente il teatro della sua sconfitta.

Infine, prese con sé una coperta ed una bottiglia di vino e si raggomitolò di fronte al focolare, pronto, un’altra notte, ad affrontare privo di alcun supporto, sepolto nel cumulo di stracci della sua esistenza, la sua personale battaglia con il suo fantasma.

La verità era che nulla pareva in grado di donargli conforto. Se anche qualcuno vi aveva tentato, era stato subito costretto, suo malgrado, a deporre le armi dinnanzi al muro di orgogliosa insofferenza che lui, Auguste, aveva opposto di fronte a sé, ed evitare, piuttosto, di essere investito dagli strali di veleno che costituivano quella sorta di scudo impenetrabile.

Sospirò: la sua rabbia l’aveva condotto soltanto a maltrattare il giovane Fernand, incrementando così l’insanabile frattura tra i suoi uomini e umiliando senza motivo quel ragazzo irruente che – ripensandoci, soltanto ora – non era mai stato in cattiva fede.

Chinò tristemente il capo, scuro in volto: era riuscito a travolgere con la sua furia cieca ed autodistruttrice persino la donna che viveva con lui.

In silenzio, Auguste portò la bottiglia alle labbra, assaporando il liquido forte che gli scaldava il petto e cullandosi nell’illusione che qualche sorso di vino potesse costituire per lui un blando sollievo. Immobile, seguì pigramente con lo sguardo la danza ipnotica delle fiamme dinnanzi a sé, lasciando che il calore del fuoco gli infiammasse le gote.

Qualcosa scattò nella sua mente. Destatosi all’improvviso, si risollevò in piedi ed attese, incerto su dove andare, respirando profondamente l’aria secca e pungente. Senza riflettere, girò sui tacchi e si diresse nuovamente in camera, rapito dai suoi stessi gesti e dal flebile calpestio dei propri passi sul pavimento. Lasciò scorrere in un cigolio sinistro l’ultimo cassetto del comodino dal quale, senza riflettere, estrasse la sua pistola, per poi affrettarsi ad abbandonare in silenzio la stanza, nutrendo silenziosamente la speranza che Emilie non si fosse accorta delle sue manovre equivoche.

Si deterse distrattamente con il dorso della mano la fronte umida. Il freddo metallo dell’arma che stringeva fra le dita gli aveva trasmesso un brivido carico di languore lungo la schiena, immediatamente seguito da una violenta sensazione di vertigine. Allentò la presa: la vista della brace rossastra e delle fiamme che tremolavano come minuscoli spettri, aveva fatto sì per un istante che l’orribile visione del sangue s’imponesse con ferocia nella sua mente. Distolse rapidamente lo sguardo.

 Ritornano, puntuali: vecchi fantasmi che si sovrappongono ad angosce presenti.

Nascondendo il volto tra le mani, Auguste tentò di recuperare il controllo. Da quando la sua esistenza era stata travolta dalla guerra civile a Noir Trésor, seguita dal colpo di Stato che aveva concesso al duca du Lac d’insediarsi al potere in città, Auguste aveva conservato dentro di sé, come doloroso strascico dei drammatici eventi vissuti, un’irrazionale e morbosa avversione per le armi ed il sangue. Ora, il pensiero di quel che stava accingendosi a portare a compimento, non poteva che rievocare disperatamente in lui l’immagine di Lucien privo di vita, un rivo di sangue sul collo che colava fino ad inzuppare la camicia.

Quasi gli cedettero le gambe, mentre, inebriato, seguitò a percorrere con lo sguardo il manico intarsiato della pistola, per poi soffermarsi a contemplare per intero il fulgido, ambiguo splendore dell’arma.

Serrò le palpebre: doveva farlo.

Per lui, forse; per Lucien o, molto più probabilmente, per se stesso: ogni implicazione era relativa.

Sarebbe stato utile a qualcosa? Sapeva che nulla gli avrebbe restituito Lucien, ma la sua coscienza – o quel che ne era restato – gli suggeriva che, se la morte del suo amico fosse rimasta ignorata ed impunita, lui sarebbe impazzito.

Un mero, egoistico, personale desiderio di vendetta; nulla di eroico o degno di lode. Nulla, se non l’ennesimo gesto autodistruttivo e sconsiderato di un uomo distrutto.

 

Pensi che sarà più semplice, dopo, guardarti nello specchio al mattino?

 

Ho forti dubbi.

 

Non spendere altro tempo in superflue riflessioni. Vinci la tua paura.

 

Qualcuno potrà trarre qualche vantaggio dal mio gesto?

 

Trascurabile dettaglio di cui, in questo momento, non m’importa. Non a me.

 

Un amaro sorriso tagliò in due il suo volto, rischiarato appena dalla pallida luce tremolante; gli occhi grigi lampeggiarono di follia, quando il suo sguardo afferrò dietro le imposte il movimento di due figure che strisciavano nell’ombra.

Un sibilo acuto gli sfuggì dalle labbra; le membra tremanti si contrassero nella tensione, mentre si accertava che la pistola fosse carica e, in un gesto divenuto ormai istintivo, tastò all’interno nella tasca, assicurandosi della presenza del pugnale.

L’una per difendersi, l’altro per offendere.

Brandì l’arma dinnanzi a sé ed attese, immobile, dietro l’uscio.

Sento freddo. Mai freddo come ora. Devo mantenere il controllo: soltanto questo.

Auguste serrò le palpebre, stordito dall’orribile rimescolio di sensazioni contrastanti che gli ribolliva nel petto, il respiro ridotto ad un sibilo ansimante, mentre discostava il portone con malagrazia.

Immobile, esaminò le due figure, la pistola stretta dietro la schiena.

Ce la puoi fare?

Auguste scrutò i due uomini dinnanzi a sé, tentando di dissimulare la propria tensione in una maschera indecifrabile.

Il più anziano dei due distorse in un breve sogghigno il volto bruno e coriaceo, solcato dalle rughe e da una cicatrice che gli segnava trasversalmente la fronte, fino a morire sullo zigomo.

- Armi e munizioni com’era nei patti, direttamente dal deposito degli sciacalli del duca – sentenziò il più giovane, che ad Auguste parve poco più che un ragazzo avido e collerico.

- Bene – ribatté Auguste con voce piatta.

Pensoso, lasciò scorrere ancora per qualche istante il proprio sguardo sui due fuorilegge, soffermandosi sulle else dei pugnali che spuntavano non troppo celatamente dalle cinture.

 

Un sicario che si rispetti non se ne va mai in giro senza recare con sé, per ogni sfortunata evenienza, qualche ferro del mestiere; specie se va a spasso dopo il coprifuoco in una città controllata da un altro criminale e si reca a far visita ad un uomo rispettabile.

 

Auguste dovette sforzarsi di camuffare in qualche modo la risata isterica che gli era salita alla gola.

- Che aspetti? Tira fuori la somma per la quale ci si è accordati dopo tanta fatica, e a mai più rivederci.

- Intanto, prova a chiudere per bene la tua boccaccia – ribatté Auguste – o rischierai di svegliare la mia donna.

- Oh, abbiamo una donna?

- Non osare avvicinarti – gli soffiò Auguste, perentorio.

Mosse lo sguardo. Troppo tardi.

Richiamata dalle voci, immobile all’ingresso della stanza, Emilie fissava sconcertata i presenti.

- Auguste, chi diavolo…

- Torna in camera e sbarra la porta, Emilie – le ingiunse, il volto contratto – Ora.

- Ehi, Auguste, quanta fretta! – lo interruppe il più giovane dei due sicari – Stai sereno: nel caso in cui non abbia con te tutti i soldi, potremmo sempre chiudere un occhio e, in cambio, prenderci la signora per una mezz’oretta…

- Torna dentro, Emilie. Ti spiegherò più tardi – Auguste alzò la voce, gli occhi venati d’inquietudine – E tu – soggiunse, rivolto al giovane – Cerca di tornare nell’argomento della serata, se non vuoi ritrovarti a sputare sangue.

- Non ci siamo intesi – intervenne il più anziano con fare sospettoso, quando la donna ebbe abbandonato la stanza – Sarai l’unico a sputare sangue, stasera, se non ti deciderai a collaborare e se non onorerai il tuo debito quanto prima.

- Soltanto un momento – Auguste prese tempo, costringendosi a fissare negli occhi l’uomo che gli aveva parlato – Siete sicuri che non vi sia stato alcun impiccio?

- Noi sappiamo come rimettere al proprio posto i ficcanaso – replicò il vecchio, scuotendo impaziente la lunga e rada capigliatura ormai ingrigita – A parte un… piccolo, insignificante contrattempo che, fortunatamente, non ha provocato guai di sorta, direi che tutto è filato come l’olio.

- Già. È andato tutto per il meglio. Meraviglioso – sussultando impercettibilmente, Auguste tentò di farsi ombra con la mano in modo tale da mascherare una lacrima che era fuggita prepotente che ora gli scivolava lungo lo zigomo.

- Bene, Auguste, il necessario per armare i rivoltosi è al sicuro. Ora, fuori i quattrini.

- Ho giusto con me – scandì Auguste, lo sguardo circonfuso di un alone di follia – una quantità piuttosto interessante di belle monete d’argento. Dal valore approssimativo di cinquecento scudi. Pensa un po’: sono proprio cinquecento! – ripeté con voce cantilenante ed assorta.

- Allora, che diavolo aspetti? Tirale fuori, e piantala, una volta per sempre, con certi giochetti! – lo aggredì il giovane, assestandogli uno scossone.

- Che diavolo avete capito?

Lui stesso si stupì di quanto la sua voce suonasse stranamente calma.

- Intendevo, per l’esattezza, un altro tipo di monete d’argento. Queste.

Auguste tese rigidamente l’arma dinnanzi a sé.

Intravide la realtà precipitare davanti ai suoi occhi, caotica e indistinta come in un sogno confuso, come in un infernale carosello, ma non smarrì la propria lucidità. Fulmineo, tirò indietro il braccio, cercando di colpire con la canna della pistola il ragazzo che, dopo lo sgomento iniziale, si era lanciato su di lui nel maldestro tentativo di disarmarlo. Il giovane riuscì a schivare il colpo, ma il repentino movimento lo sbilanciò, facendogli perdere l’equilibrio.

- Bravo – cinguettò Auguste, sarcastico – Resta pure seduto. Ora, da ragazzo ragionevole quale sei, da’ qua il tuo pugnale e le altre armi che tieni nascoste. E tu, nonno – soggiunse, rivolto all’altro – Segui il buon esempio.

- Pagherai cara la tua schifosa impudenza, Auguste de la Garde, maledetto figlio di una cagna! – inveì il vecchio tra i denti.

- Certo, certo – Auguste tese nuovamente la pistola dinnanzi a sé, mantenendo i due uomini sotto tiro – Pagherò, come desiderate. Io estinguo sempre i miei debiti: di me, non potete certo dubitare. Adesso, se lor signori me lo consentono, si va a fare un lungo giro. Non c’è niente di meglio di una passeggiata al chiaro di luna, quando gli affari sono andati a gonfie vele, ed un buon uomo ha tutto il sacrosanto diritto di riposare e godersi i frutti della propria fatica. È andato tutto per il meglio, non trovate? Salvo qualche contrattempo lungo la strada, a ben dire: ma nulla cui una stilettata ed una buona dose di fortuna non sappiano porre rimedio, no? Nulla che un sicario di professione non sappia sistemare a dovere!

- Non so cosa tu stia biascicando né cos’altro abbia in mente. Stai molto attento, de la Garde: sei sempre stato furbo, ma stavolta hai oltrepassato il limite.

- Me ne ricorderò senz’altro; ma adesso, preoccupatevi piuttosto di alzare i tacchi. E niente scherzi.

Ignorando le minacce e le proteste dell’uomo, Auguste spinse i due oltre la porta, pronto a seguirli nella notte, mentre, sotto il velo di discrezione che le tenebre gli offrivano, il suo volto si corrugava nell’impulso della disperazione, e due fiotti di lacrime roventi gli annebbiavano la vista.

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

Bene bene… Finalmente sono riuscita ad aggiornare NT, anche se in tempi un tantino “biblici” causa impegni universitari.

Ringrazio, come sempre, tutti i lettori, in particolare coloro che hanno lasciato le loro recensioni. In particolare:

 

Mikayla: carissima, sono contenta che NT sia di tuo gradimento! Ho molto apprezzato la tua recensione ed i tuoi consigli. Effettivamente, mi capita di tanto in tanto di rileggere la storia e di correggere e cambiare qualcosina qua e là (dettagli puramente stilistici, la trama, ovviamente, resta invariata), in quanto capita anche a me di scoprire qualche frase che “stona” leggermente”… Credo sia tutto da imputare al fatto che, man mano che si acquisisce dimestichezza scrivendo, lo stile tende ad evolvere… Beh, in meglio, si spera! Spero che continui a seguire Noir Trésor e che la storia sia di tuo gradimento!^^

 

Poppy: ti ringrazio tantissimo per la tua recensione! Sono contenta che i personaggi siano di tuo gradimento… In particolare, sono molto lieta che Ambrosie ti piaccia: in effetti, nonostante sia io una ragazza, trovo stranamente più complesso caratterizzare un personaggio femminile. Dunque, sono contenta di essere, in parte, riuscita nel mio intendo! Alla prossima!^^

 

Renovatio: ti ringrazio tantissimo per la tua recensione, graditissima! Sono contenta che abbia apprezzato il mio modo di scrivere, nonché i personaggi. Naturalmente, la trama pian piano si dipanerà ed emergeranno sempre di più le implicazioni emotive dei vari personaggi… Ed i misteri, pian piano, finiranno per venire alla luce. Spero che NT continui ad essere di tuo gradimento e che continui a seguire l’evolversi della storia. A presto!^^

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16: Inquietudine ***


Capitolo 16

Inquietudine

 

 

Un flebile gemito, accompagnato dal lieve agitarsi del corpo stanco fra le lenzuola sottili, fu sufficiente a ridestare l’attenzione di Dorian, distogliendolo bruscamente dal lieve torpore che l’aveva pervaso per qualche indecifrabile istante.

Il giovane trasalì; sbatté le palpebre, liberandosi della nebbia del sonno che proiettava un velo opaco dinnanzi alla propria visuale, ed il suo sguardo si concentrò nuovamente sulla figura immersa nel sonno. Un guizzo di terrore gli serpeggiò lungo la schiena informicolita, quando avvertì il respiro di Fernand accelerare improvvisamente. Spalancando le palpebre per distinguerne più agevolmente i contorni nella penombra, Dorian lo osservò far leva sulle deboli spalle, nell’inconscio e vano tentativo di mutar posizione sullo scomodo giaciglio.

Deglutendo a fatica, Dorian seguì con lo sguardo il movimento del suo giovane amico, il braccio che si sollevava tremante, portando la mano delicata a sfiorare mollemente il collo. Il volto di Fernand si modellò in un’espressione di eloquente fastidio, come se qualcosa avesse appena scalfito la parte che ora indugiava a strofinare con sonnolento languore.

Il cuore di Dorian saltò un battito, arrestando per un istante il proprio palpitare furioso, mentre, come un doloroso, lugubre scampanellio nella testa, i frammenti del mosaico precipitarono nella sua mente fino a tentare di assumere una certa forma di coerenza, avvicinandosi pericolosamente a quella che, in un lampo, parve essere la loro postazione corretta. Trattenne il fiato.

                     

Nessun segnale era del tutto innocente.

 

Immobile, osservò accigliato i tratti del viso di Fernand distendersi nuovamente nella quiete del sonno ed il movimento del braccio ricadere molle sulle lenzuola. Ritorse nervosamente una ciocca di capelli biondi tra le dita, in attesa, scosso da un brivido d’indefinibile angoscia che gli si era sinistramente insinuato lungo la spina dorsale.

 

Non era stata un’allucinazione.

 

Intento a vegliare meticolosamente su Fernand, su ogni moto impercettibile che il suo sonno tradiva, Dorian si avvide soltanto allora dell’ombra sottile comparsa alle sue spalle. Ambrosie si accostò al capo del letto, il volto indecifrabile nel suo pallore altero ed accennò in direzione di Fernand con un gesto lieve.

Dorian prese un lungo respiro, rovistando nella propria mente alla ricerca di parole adatte a rivelare ad Ambrosie le proprie nebulose constatazioni riguardo all’improvviso malessere di Fernand. Esitando con mano incerta, scostò dal collo del giovane adagiato sul letto i lunghi capelli scomposti ed indicò con un gesto la fonte dei propri timori.

Vide Ambrosie sbiancare alla luce tremolante della candela e portarsi una mano alle labbra con fare pensoso, in quell’unico gesto di debolezza che mai la vide manifestare, dall’istante in cui Fernand si era accasciato privo di forze.

 

Ghiaccio.

Simile al ghiaccio, ad un primo, superficiale contatto.

Chiunque, in questo momento, comincerebbe a nutrire i propri timori sulla natura di eventi che non sembrano prestarsi a ragionevoli spiegazioni: ora come ora, Ambrosie non rappresenta un’eccezione. Ma neppure un giustificato terrore pare piegarla al punto da tradire in lei qualche sintomo di fragilità e scalfire la sua coltre di gelida razionalità.

Il ghiaccio non cede dinnanzi alla paura.

 

Un lampo di consapevolezza lo scosse: non era la prima volta che Fernand si era sentito male.

 

Non è la prima volta… Non è la prima volta che Fernand accusa malori ingiustificati? Che si abbatte al suolo sotto i nostri occhi, senza apparente motivo?

Se davvero le cose sono andate così, non è una mia malata allucinazione che tutto ciò cominci ad assumere contorni inquietanti.

 

- Cos’ha sul collo? – Ambrosie sfiorò la gola del fratello in corrispondenza degli impercettibili forellini rosso vivo che spiccavano sulla carne pallida.

Dorian scosse il capo, scuro in volto, impotente dinnanzi agli eventi, la voce che s’incrinava sotto la cappa di un’angosciosa e ancor torbida consapevolezza.

- Vorrei saperlo, Ambrosie.

La ragazza si morse dolorosamente il labbro, soffocandone il tremito.

- Tisi? – mormorò in un fievole squittio.

Il giovane serrò le labbra in segno di diniego.

- è la prima cosa che ho escluso – rispose asciutto, reprimendo dentro di sé la propria angoscia.

- Fernand non fa che ignorare il problema. Perché non me ne hai parlato subito, Dorian? – incalzò Ambrosie, il cui fare inquisitorio e nervoso si amalgamava ormai perfettamente all’ansia martellante che lentamente riguadagnava il sopravvento.

- Io non credevo… – Dorian si morse nervosamente le unghie, la mente in subbuglio.

- Bisogna chiamare un dottore! – lo interruppe bruscamente la ragazza.

Riguadagnata repentinamente la propria fermezza, la voce di Ambrosie echeggiò roca e priva di sfumature di panico nella sua impronta risoluta.

Il ragazzo annuì mestamente. Mosse gli occhi tutt’intorno, a disagio, pervaso da un vago senso d’oppressione.

- Dannato du Lac! – la mano corse ad artigliare il petto in un gesto carico di profonda frustrazione, ormai fuori d’ogni controllo.

Un bagliore d’ira, di rimando, percorse gli occhi di Ambrosie.

- Che diavolo… Dorian, cosa dici? Credi che questo abbia importanza, ora? Il divieto di vagare di notte per la città? Se è questo ciò che temi, allora io dico che il duca du Lac e le sue recenti disposizioni possono andarsene bellamente all’inferno! – proruppe la donna, trafelata, lasciando che la propria lucidità, parsa incrollabile fino a quel momento, sfumasse in un sibilo acuto – Mio fratello ha bisogno di un medico.

Dorian indugiò sul da farsi, misurando la piccola stanza con passi incerti.

Serrò le palpebre, tastando dolcemente fra le dita il polso di Fernand. Il calore della pelle dell’amico e la percezione del battito regolare sotto il suo tocco gli infusero una tenue, incomprensibile parvenza di serenità.

- Fernand… Sta soltanto dormendo – sussurrò, rapito – Lamentava una grande stanchezza. Ed averlo ammesso è già tanto, per uno come tuo fratello. Fernand ha solo bisogno di riposare.

Ambrosie corrugò la fronte. Crollò sulla sedia di fianco al capezzale del fratello, il volto fra le mani.

- Non è normale, Dorian. Non di nuovo! – scrollò le spalle in un mesto sospiro, sprofondata in quell’angolo della stanza, all’ombra delle proprie opprimenti riflessioni – Non ce la faccio. Vorrei che gli ultimi giorni trascorsi fossero stati semplicemente una specie d’incubo spaventoso. Un orribile incubo.

È ciò che vorremmo tutti.

Dorian fece per dischiudere le labbra come a voler replicare, per poi risolversi al silenzio. Immobile accanto alla finestra chiusa, fissò la nuca bionda di Ambrosie.

- Forse… è meglio che io vada a chiamarlo io – azzardò.

La ragazza si volse nella sua direzione, posando lo sguardo su di lui.

- Lascia stare, Dorian – gli sussurrò, accompagnando le sue parole con un gesto stanco – Per stanotte.

- Sembrava solamente… Stanco – mormorò il ragazzo in una sorta d’ipnotica, fioca cantilena, il respiro che faticava ad oltrepassare l’ostica barriera delle labbra tremolanti – Finché non è crollato in questo strano torpore. E tutto può sembrare, fuorché un sonno tranquillo.

Il flusso dei pensieri che, fuori controllo, Dorian manifestava ad alta voce, s’interruppe solo quando, con un gesto perentorio della mano, Ambrosie gli impose di tacere. Un colpo secco vibrato al portone si propagò per l’ambiente. La ragazza aggrottò le sopracciglia, mentre lo sguardo circospetto mutava fulmineamente la sua prospettiva, allontanandosi dal viso contratto di Dorian ed indugiando tentoni in direzione del rumore sordo che li aveva distolti dalle loro congetture.

- Fernand… Ambrosie! Aprite!

Ambrosie si sollevò di scatto, un istante dopo aver identificando la voce che la reclamava al di là dell’ingresso.

Emilie… Cosa fa, a quest’ora?

Sollevò il passante.

- Emilie, che diavolo…

- Fammi entrare, Ambrosie.

La ragazza non fece quasi in tempo a richiudersi l’uscio alle spalle, che Emilie la spinse da parte, precipitandosi oltre l’ingresso con passi furiosi, il volto congestionato dalla tensione.

Ambrosie e Dorian si scambiarono un’occhiata sgomenta; persino Raphäel, raggomitolato fino a quel momento in un angolo dell’androne in un muto dormiveglia, lasciando quasi in sospeso la propria presenza, riemerse dalla propria indolente solitudine e posò uno sguardo vigile ed interrogativo sulla donna appena sopraggiunta.

Dorian avvertì l’angoscia strisciargli nel petto con un’intensità tale che, per un istante, ebbe l’illusione che il proprio corpo ne fosse scalfito fino in superficie.

- Cos’altro è accaduto? – il giovane incrociò le braccia sul petto, controllandone il tremito.

- Non si tratta di me – puntualizzò Emilie.

Il duro sguardo color caffè, che Dorian giurò di non aver mai visto sconvolto come in quel momento, saettò intorno alla stanza e sui presenti.

- Riguarda Auguste.

 

* * *

 

Il volto di Fernand s’increspò in un misto fra paura e frustrazione, quando Emilie ebbe concluso il proprio confuso resoconto.

Si era ridestato di soprassalto, richiamato dall’improvviso trambusto e dal parlare concitato della donna che era piombata improvvisamente in casa sua. Era stato sufficiente udire il nome di Auguste risuonare fra le pareti con funerea intensità, perché Fernand si fosse precipitato nell’androne come una furia, il volto disfatto, le membra nervose e gli stivali ai piedi.

Rivide per un istante gli occhi di Auguste bruciare nei propri in un monito di disapprovazione. In una rocambolesca panoramica, rivide la mano dell’uomo che lo stava conducendo sull’orlo della follia scattare fulminea e colpirlo.

 

Ma, con ogni probabilità, ora è Auguste ad essere in pericolo, e di tutto il resto poco importa. Non so cos’abbia in mente né cos’abbia a che vedere tutto ciò con i ribelli o con Lucien, malgrado qualunque congettura in proposito mi terrorizzi.

Auguste gioca con la propria vita come in una volgare scommessa fra gli ubriachi di un’osteria, ed io non posso aiutarlo.

 

Non so dove sei né dove vuoi arrivare questa notte, ma so che stai andando incontro alla rovina, lentamente, forse in questo momento, forse domani stesso, ed io non posso nulla per impedirlo.

 

- Io… Devo andare da lui – fu la sua risposta istintiva.

Il volto di Fernand s’infiammò di collera e malcelata delusione, nel momento in cui ravvisò sui volti dei presenti lo stesso disarmante, inappellabile dissenso che da sempre – tanto da averlo reso ormai avvezzo – aveva percepito negli occhi di Auguste, posto di fronte alle sue più stravaganti iniziative.

 

No, non andrai da nessuna parte, Fernand.

 

C’era forse bisogno di puntualizzarlo?

 

Chinò mestamente lo sguardo, la sconfitta che gli bruciava sulla carne viva. Per un istante, il suo inconscio si era nuovamente illuso di poter in qualche modo offrire ad Auguste il proprio aiuto. Qualunque fosse stata la natura effettiva delle circostanze. Invece, si era ritrovato con la propria volontà ancorata al pavimento, privo di qualsiasi certezza e possibilità d’azione concreta. Nessuna certezza riguardo a ciò che aveva in mente Auguste: il buio.

Fernand sapeva di essere in grado a malapena di reggersi in piedi – Ambrosie aveva ragione, e a rammentarglielo nella sua bruciante oggettività era bastato un solo sguardo categorico. Aveva ignorato le premure di sua sorella e di Dorian. Si era lasciato andare stancamente sul divano, le tempie pulsanti ed una sgradevole sensazione di vertigine ad assillarlo.

Ma quella notte, Auguste aveva deciso di regolare fantomatiche faccende in sospeso di proprio conto e di mettere a repentaglio se stesso.

Fernand aveva dovuto rassegnarsi a restare a guardare, e la snervante consapevolezza di essere ancora una volta impossibilitato a muovere un solo dito per Auguste fece sì che il suo ultimo baluardo di giudizio si smarrisse fra le trame della disperazione.

Immobile sul divano disadorno, Fernand si strinse nella camicia stropicciata, rabbrividendo al gelo dello sconforto, nella cocente, sfiancante attesa di una soluzione che non giungeva dalla bocca di nessuno dei presenti.

Emilie stava compunta accanto al camino, il volto tirato che tradiva un’inquietudine accortamente dissimulata, e Fernand ebbe la netta sensazione che fosse più infastidita che preoccupata dagli avvenimenti che si erano consumati dinnanzi ai suoi occhi, dei quali si era impegnata a tracciare un resoconto pressoché chiaro ed attendibile.

In ansia più per le effettive sorti di un amore che aveva estorto ad Auguste con l’astuzia, giorno dopo giorno, piuttosto che per le reali intenzioni del suo uomo. Maledetta arpia.

 

Troppo comodo se fosse davvero così, Fernand?

 

Lo sguardo di Raphäel indugiava troppo di frequente in direzione di Ambrosie, in attesa, quasi, di un gesto d’assenso da parte della ragazza. Le iridi corvine che fremevano fra le palpebre delicate, spiccavano come due perle scure sull’incarnato d’alabastro. Fernand intercettò dolorosamente lo scambio di sguardi, prima di distogliere il viso in un moto d’insofferenza.

 

Hai forse capito come giocare la situazione a tuo favore, Raphäel. Hai compreso lo spirito di questa città, ma ciò non ti fa onore. Hai intravisto in tutto questo un’occasione appetitosa che ti consentirà di farti bello agli occhi di mia sorella, di Auguste o, forse, dei ribelli al gran completo?

 

Dorian pareva l’unico ancora in grado di ragionare lucidamente circa le cause ed il significato degli strani avvenimenti che avevano visto Auguste discutere concitatamente con due sconosciuti poco affidabili, per poi condurli verso i suoi propositi con la minaccia. Troppo preso dalle proprie congetture, Dorian, lo sguardo smarrito in un punto impreciso dinnanzi a sé, per curarsi dell’eventualità di captare possibili risvolti d’interesse personale insiti nelle loro sventure.

Grazie al cielo, qualcuno è ancora in possesso di un cervello pensante.

 

- Non azzardo – dichiarò Emilie con malcelata petulanza – Ma i due uomini che Auguste ha minacciato di morte, credo fossero a conoscenza di segreti poco convenienti. E questo, Auguste sembrava saperlo bene.

L’angoscia e l’incertezza erano ormai sfumati sul volto di Emilie, recando spazio al suo tono consueto, autoritario e vagamente pretenzioso.

- Cosa volete insinuare? – la interruppe Fernand, il volto acceso di un malcelato livore.

Raphäel parve condividere le sue perplessità dinnanzi all’atteggiamento astioso e diffidente della donna.

 

Persino il buon Raphäel comincia a nutrire dei dubbi. Ma lui, con ogni probabilità, è proprio il tipo che non riporrebbe completa fiducia neppure su sua madre. Il presunto ascendente che esercita su Ambrosie è l’unico dato certo che lo riguarda.

 

- Intendo proprio dire, Fernand – riprese Emilie, sibillina – che Auguste non è uno sprovveduto e, se ha ritenuto di dover… convincere quei due uomini a seguirlo, è ben consapevole di quale sia la ragione.

Il ragazzo avvertì un fremito d’irritazione attraversarlo fino alla punta delle dita.

- Intendete forse dire che nasconde qualcosa? Auguste ha perso il suo miglior amico ed è comprensibilmente furioso. Non so cos’abbia a che vedere con tutto questo, ma i vostri sospetti sono così… Tremendamente stupidi ed infamanti! Pretendete forse di conoscere tutto di lui?

- Fernand!

Vide Ambrosie tentare di dissuaderlo con un’occhiata carica di rimprovero dalla strada rischiosa che stava impudentemente imboccando, malgrado, con ogni probabilità, lei stessa condividesse i suoi punti di vista.

La diretta interessata ignorò il blando tentativo da parte della ragazza di sedare gli animi e rivolse a Fernand uno sguardo sarcastico.

- Credi di saperlo tu, ragazzo? Allora, ti pregheremo fin da ora di illuminarci in proposito! Perdonami – insinuò, tagliente – Non ho tenuto in conto che forse eri forse troppo impegnato a fare a botte nelle taverne e a divulgare opuscoli satirici illegali, trascinando Auguste nelle tue trovate, perché potessi cogliere simili sottigliezze. È così?

Un intenso rossore incipriò le gote di Fernand. Il giovane chinò lo sguardo, ferito.

- è questo ciò che pensate? – squittì – Non vi è mai andata giù la causa per la quale lottiamo: è così. Perché non vi sforzate di essere obiettiva almeno nei riguardi di Auguste?

- Lo sarei, Fernand – Emilie lo soppesò con lo sguardo duro – Se avessi la più pallida garanzia che tutto ciò non rappresenti per lui il passaggio obbligato verso la rovina. Sei troppo giovane: forse, se riuscissi almeno una volta a guardare obiettivamente ai vostri intenti e levarti dagli occhi quelle bende d’idealismo sconsiderato, capiresti che la posta in gioco è ben più elevata di quanto immagini.

- Credo possa bastare.

Fu Ambrosie a frapporsi con decisione tra i due contendenti.

Gli occhi di Dorian, diventati all’improvviso tremendamente seri, saettarono da lui ad Emilie, soppesando entrambi con gravità.

- Scannarvi non vi servirà a nulla – soggiunse, asciutto – Credo sia più opportuno mettere per il momento da parte le vostre… divergenze d’opinione e concentrarvi su fatti reali, piuttosto che su strane supposizioni.

Fernand annuì, assorto.

- A dire il vero – sussurrò impercettibilmente – Credevo di aver deposto le armi da tempo.

Emilie stette ritta ed immobile a contemplare il fuoco morente; poi, inaspettatamente, mosse qualche timido passo in direzione del ragazzo.

Fernand credette di aver scorto per la prima volta in quelle iridi altezzose una sorta di manifestazione benevola nei suoi riguardi.

- Non ti sono ostile, Fernand. Non voglio accusarti di nulla, e non credo che tu desideri trascinare nei guai i tuoi compagni – le labbra piene, una macchia rossa che s’imponeva prepotente sull’incarnato chiaro, si dischiusero appena, abbozzando un vago sorriso – Entrambi desideriamo che Auguste rientri a casa stanotte. Non sei convinto?

Il giovane si strinse mestamente nelle spalle.

 

Non sono certo se sia la mia percezione ad ingannarmi, ma credo – temo, piuttosto? – di aver intravisto in lei qualcosa che mi porta a dedurre, non a torto, che Emilie abbia deciso, per una volta, di anteporre il bene di Auguste ai propri voleri.

 

Serrò le palpebre, cullandosi languidamente nel cupo, insidioso sconforto che sentiva scorrere inarrestabile dentro di sé. La fredda luce della luna filtrava nella sala, mescolandosi al tiepido chiarore delle candele accese e delle ultime fiamme del focolare che si avviavano al proprio declino in una triste danza.

Sua sorella Ambrosie guardava risoluta dinnanzi a sé, posando gli occhi di tanto in tanto sui volti dei presenti. Sembrava risoluta e fiera, improvvisamente decisa su cosa fare. Fernand trasalì appena, sconcertato dal mutato atteggiamento, e prese a soppesare silenziosamente i gesti volitivi che tradivano l’ansia febbrile della ragazza e lasciavano intuire il malcelato nervosismo che le attraversava la mente.

Il ragazzo sentì il proprio cuore procurargli una fitta lungo il petto: ancora una volta, gli occhi azzurri di Ambrosie puntavano chiaramente su di lui. Trattenne il respiro.

Si sforzò di non considerare quanto la figura di Raphäel si fosse scolpita inesorabilmente in lei e nel suo animo, talora turbandola, talora infondendole quella strana ed inspiegabile eccitazione, quello slancio irrequieto e adrenalinico che la spingevano ad impugnare le redini dell’iniziativa e a muoversi con inconsueto slancio e sicurezza.

Fernand serrò i pugni fino a far sbiancare le nocche, le unghie che si conficcavano dolorosamente sul palmo della mano.

 

Troppe. Troppe volontà, troppe forze si dibattono alla cieca le une contro le altre fuori di me, fuggendo dinnanzi ai miei occhi, troppo fulminee perché io possa afferrarle. Mi perdo…

 

In fin dei conti, Raphäel non è cattivo; è solo troppo infiocchettato di buoni pensieri, ai miei occhi, piuttosto che d’intenzioni realmente tangibili.

Se davvero fosse così, perché non riesco a non sentirmi come vittima di una trama oscura che sembra condizionare e manipolare tutto ciò che si muove intorno a me?

 

- Dobbiamo trovare Auguste – proruppe d’un fiato Raphäel.

Un silenzio teso pervase la stanza come una cappa caliginosa.

- Dobbiamo trovarlo – proseguì – e assicurarci che stia bene.

Fernand intravide nelle parole del ragazzo l’impronta delle intenzioni che Dorian ed Ambrosie avevano nutrito sin dal momento in cui Emilie aveva rivelato loro l’accaduto.

- Non è semplice, Raphäel – lo interruppe Emilie, il volto scettico – Nessuno ha idea di dove sia diretto, né di che intenzioni abbia davvero.

Il volto pallido del giovane si corrugò in un sorriso indecifrabile, mentre un chiarore sibillino gli rischiarava le iridi.

- Ammettiamo per un’assurda ipotesi, madame – esordì, la voce soffusa di una sottile venatura sarcastica.

Distolse furbescamente lo sguardo dalla donna.

- Ammettiamo che un’idea circa la meta di Auguste stia prendendo forma nella mia mente. Per quanto io possa sbagliarmi.

Fernand corrugò la fronte, soprappensiero. Raphäel cerca di confondere le idee all’avversario, considerò, studiandolo di nascosto.

La voce di Raphäel echeggiava nella sua mente con una cadenza ipnotica ed estremamente affascinante, evocando nell’animo di Fernand le movenze sinuose ed allettanti di un serpente.

 

Eppure, le sue intenzioni non sono malvagie. Non possono esserlo. Se così fosse, non affiderei tanto spregiudicatamente l’incolumità di Auguste – del mio Auguste! – alle sue enigmatiche deduzioni.

 

- Chissà… – proseguì Raphäel, cogitabondo – Se ci impegnassimo a ragionare con un po’ di calma e a ricordare, potrebbero sempre emergere particolari interessanti. Chi sono i due uomini che discutevano con Auguste, Emilie?

- Non lo so – si affrettò a ribadire la donna con falso zelo.

Negli occhi vigili di Emilie trapelava ormai con chiarezza disarmante una diffidenza tangibile nei riguardi del ragazzo e la ferrea ostinazione nei propri intenti.

- So soltanto che Auguste non si fidava di loro, e a ragione – concluse.

Raphäel scosse le spalle, annuendo con fare indolente.

- Se non altro, dalla vostra camera siete senz’altro riuscita a udire parte della loro discussione, dico bene?

Emilie lo fissò con somma frustrazione. Arricciò le labbra, sconfitta, ritraendosi come una gatta al cospetto di un aggressore più forte di lei.

Aveva ottime ragioni a voler tenere per sé quanto era riuscita a carpire riguardo alle intenzioni di Auguste e non era del tutto sicura di quanto, nell’interesse del suo compagno, fosse opportuno ragguagliare Raphäel e gli altri circa gli avvenimenti di quella notte.

Raphäel la sovrastava da vicino con la sua figura alta, lo sguardo fiero e pulito di chi sa come ottenere quanto gli occorre senza ricorrere alle minacce o all’inganno. Emilie cedette.

- Parlavano d’impadronirsi di armi e munizioni destinate alle milizie del duca – sputò fuori le parole come a volersi liberare di un boccone amaro – Di un lavoro sporco svolto dai due malviventi per suo conto… Di qualche compromesso. Poi, evidentemente, qualcosa non è andato per il verso giusto.

- Capisco – Raphäel sorrise trionfante, e l’apparente gentilezza del suo sguardo sortì l’effetto di inasprire in modo quasi inconsapevole la propria vittoria su Emilie, la quale lo fulminò con un’occhiata gelida ed ostile.

Non aveva prestato riguardo al turbinio di reazioni che i nuovi particolari in merito sortirono nei presenti.

Dorian fu il primo a riscuotersi dal momentaneo, iniziale sgomento e dalle rapide riflessioni che avevano seguito le rivelazioni della donna. Rivolse uno sguardo d’intesa a Fernand ed Ambrosie, per poi annuire con benevolenza in direzione di Raphäel.

- Hai idea su cosa fare ora, Raphäel? – Dorian sorrise ambiguo, calandosi il tricorno sul capo.

- Al deposito di munizioni – lo precedette – È là che sono diretti.

- È meglio che venga con voi – s’intromise di colpo Fernand e, in un gesto meccanico, indossò la giacca.

 

Le tue intenzioni sono così prevedibili, Fernand; i tuoi gesti avventati, come sempre, sono trasparenti come uno specchio d’acqua alla luce dell’alba. E qualcuno, in questa stanza, ha ben compreso come tenere a bada i fervori dei fratelli LaRoche.

 

Persino Ambrosie si mosse in direzione di Dorian e Raphäel, alla disperata ricerca di un ferreo pretesto per prendere parte alla spedizione dei due uomini.

- Fernand.

Il ragazzo non poté fare a meno di trasalire, quando una mano pallida si posò delicata e prepotente sulla sua spalla, trattenendolo sul posto con una presa appena percettibile. Fernand si volse rapito in direzione di Raphäel, ormai ad un palmo da lui. Immobile, il giovane sbatté le palpebre e lo fissò in viso. Raphäel lo sovrastava di una spanna, così vicino da poterne percepire il respiro su di lui. Fernand indugiò con lo sguardo sulla massa arruffata di folti capelli corvini che circondava il volto bianchissimo di Raphäel; in silenzio, ne studiò i tratti sottili, nitidi nella penombra, composti in fattezze intrinsecamente attraenti nella loro irregolarità, lo sguardo fermo circonfuso di un alone indecifrabile e vagamente inquietante.

- Ascoltami – esordì mestamente Raphäel in un sussurro – Stavolta, sono convinto che una persona in più non farà alcuna apprezzabile differenza. Un solo uomo sarebbe davvero poco, in fin dei conti; ma tre, siamo già in troppi – si morse il labbro – Per il duca, tre ribelli in un unico colpo sarebbero una vera fortuna: è già abbastanza rischioso avventurarsi sotto il coprifuoco, con le guardie del duca che pattugliano la città. Ma non si tratta soltanto di questo: in un’altra situazione, nessuno rifiuterebbe il tuo intervento, ma non questa notte. Sei ancora così debole… È meglio così, Fernand: credimi.

Se quello stesso individuo, quel Raphäel Lemoine che aveva sedotto sua sorella, si era introdotto in casa sua, l’aveva insultato e provocato al punto tale da generare in lui una reazione violenta, avesse osato indirizzargli un simile discorso soltanto poche ore prima, Fernand era certo che gli avrebbe lasciato un segno sulla faccia come ricordo, prima ancora che riuscisse ad avvicinarsi a lui con atteggiamento così confidenziale.

- Non m’importa – replicò il ragazzo, il volto angosciato e confuso – A me interessa soltanto che qualcuno ritrovi Auguste quanto prima.

 

Ed ora, che diavolo succede? Vi è qualcosa di nuovo nel fatto che Fernand LaRoche manchi totalmente della capacità di starsene al proprio posto?

Non voglio compatimenti da parte di nessuno. Non voglio sentire “mi dispiace, Fernand”.

Ora, mi aspetta soltanto l’attesa.

 

Chinando lo sguardo, troppo orgoglioso per insistere, Fernand annuì distratto e si strinse al braccio di Ambrosie, la quale parve condividere la sua medesima frustrazione, benché avesse pilotato di nascosto la situazione, trasmettendo i propri intenti a Dorian e Raphäel.

Dorian gli rivolse un sorriso appena accennato e velato di tristezza, mentre con un dito gli scostava un ricciolo dalla guancia.

- Non dovete preoccuparvi – sussurrò a Fernand ed Ambrosie – Auguste non è uomo da correre rischi senza aver calcolato, e sono certo che Raphäel abbia un asso nella manica.

- Io farei a meno di coltivare cieche convinzioni, Dorian – Emilie sovrastò il gruppetto con un moto di disappunto.

- Abbiamo forse una scelta migliore? – ribatté il giovane con petulanza – Salvo, com’è ovvio, ignorare completamente il fatto che Auguste potrebbe eventualmente essere in difficoltà ed abbandonarlo alla propria mercé. O magari… Ma che sciocco, perché non averci pensato prima? Avvertire le autorità e lasciare tutto nelle loro mani: sono certo che, nella posizione di Auguste, non vi sua alternativa più valida! – concluse, sarcastico.

Emilie seguì con lo sguardo carico di disprezzo il tragitto di Raphäel e Dorian, finché quest’ultimo non richiuse il portone alle proprie spalle.

- Pazzi! – sibilò con cupa amarezza, quando i due ebbero abbandonato la dimora di Ambrosie e Fernand – Sono completamente pazzi. Che cosa sperano di ottenere?

Ambrosie non poté trattenere un mezzo sorriso compiaciuto, nonostante un filo d’angoscia le stringesse il petto al pensiero di cosa, in quel momento, si stesse inevitabilmente consumando fra le mura di Noir Trésor.

- E tu, Ambrosie, non sei migliore di loro.

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

Salve a tutti!

Innanzitutto, chiedo infinitamente scusa per il ritardo (mai accumulato un intervallo così lungo. *Soltanto* qualche mesetto innocente, che volete sia mai!^^). Purtroppo, tra lezioni, esami, crisi d’ispirazione e casini vari, le cose hanno finito per procedere inevitabilmente a rilento.

Passo subito subito ai ringraziamenti: ai lettori, a quanti finora hanno seguito le vicissitudini di Noir Trésor – magari spedendomi sotto sotto qualche improperio, causa atroce ritardo nell’aggiornamento –, a coloro che hanno aggiunto NT tra i Preferiti, nonché a tutti coloro che hanno lasciato una piccola recensione al mio lavoro.

In particolare, Renovatio, la cui recensione con relativa, splendida analisi del personaggio di Auguste mi ha fatto incredibilmente piacere!^^

Acqua torbida in superficie che non ha paragoni con quella del fondo… Ho amato questa frase, capace di riassumere nelle sue sfaccettature la personalità di Auguste. Estendo i miei ringraziamenti e mi scuso in anteprima se ho dimenticato qualcuno… Purtroppo, alle 3.37 della notte di fronte alla pagina di Word può accadere questo e altro!

Alla prossima!^^

 

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17: Dove finisce la notte? ***


Capitolo 17

Dove finisce la notte?

 

 

Dorian affondò leggermente con gli stivali nello strato di fango che appesantiva il suo passo sulla via di terra battuta duramente fustigata dalla pioggia incessante. Arrestò forzosamente il proprio cammino, ansimando per la fatica e sorreggendosi precariamente alle mura di un’abitazione.

Quanto tempo era trascorso, senza fermarsi un istante, dacché si erano buttati in quella folle ricerca? Immobile, Dorian si strofinò il volto fradicio di pioggia, martoriato dall’infuriare crudele del vento che rendeva ogni singola stilla di pioggia una minuscola, tagliente sferzata sulla pelle; sbatté rapidamente le ciglia, nel tentativo di liberare le palpebre dalle gocce d’acqua piovana che gli irritavano gli occhi. Ansimando profondamente, approfittò dei brevi istanti di riposo di cui si era fortuitamente impossessato per riprendere fiato, ma un’improvvisa folata d’aria gelida gli penetrò sin nei polmoni, mozzandogli il respiro in una stretta che ben presto si tradusse in una sgradevole sensazione di soffocamento. I suoi occhi s’inumidirono; tempestivo, scacciò via le lacrime in un gesto secco, per poi dirigere nuovamente lo sguardo dinnanzi a sé e tentare di penetrare con le proprie facoltà visive oltre la coltre caliginosa che la pioggia e l’oscurità della notte proiettavano sulla propria visuale.

Scorrendo distrattamente sulla figura ammantata di nero che procedeva davanti a lui, Dorian fu certo di percepirne il passo nervoso legato dalla sua medesima fatica, benché il procedere spavaldo non tradisse il più debole accenno di stanchezza.

Raphäel si volse indietro solo quando non avvertì più alle proprie spalle il passo ormai arrancante del compagno.

- Dorian? Tutto a posto?

 

No. Ti pare logico?

 

Il giovane si fece schermo con la mano, proteggendosi dalla pioggia che gli batteva insistente sulla faccia e dallo smorto chiarore del lampione che lo abbagliava, finché non mise a fuoco Raphäel Lemoine che gli tendeva la mano.

- Coraggio…

Dorian avvertì per un istante il calore amichevole della sua voce attraversarlo come una fugace carezza lungo il viso; poi, una fitta dolorosa lo colse alla sprovvista, trafiggendogli le tempie. Annaspò a mezz’aria, tastando con una punta di sollievo il braccio che Raphäel gli aveva teso ed aggrappandosi affannosamente a quell’unico supporto. Un languore sfiancante s’impadronì di lui, offuscando la sua coscienza, e Dorian avvertì dentro di sé la sensazione, priva di ragione e fondamento, che il proprio corpo stremato fosse in procinto di sciogliersi come fango sotto la pioggia.

Si piegò in avanti, accecato da una sorta di vertigine, mentre i suoi sensi sollecitati evocavano prepotenti nella sua mente quella sensazione ormai familiare di vuoto opprimente, simile del tutto a ciò che aveva provato cinque anni prima, quando Noir Trésor si era svelata dinnanzi a lui come se fosse stata la prima volta. E, stringendo ossessivamente fra le dita il mantello di Raphäel quale unico appiglio con la realtà circostante, Dorian si avvide dolorosamente che, sebbene avesse tentato spasmodicamente d’ingannare se stesso, disperdendo le proprie energie in mille pretesti, mai, neppure per un istante era cessata in lui la tragica consapevolezza di essere desolatamente solo, senza impronta di conforto, dinnanzi alla propria condanna all’oblio.

 

Il primo ricordo che riusciva a richiamare alla memoria riguardo alla propria esistenza, era stato osservare le vie e le mura della città con gli occhi di un uccellino appena uscito dal nido, nella mente l’ineluttabile consapevolezza che quella che gli era stato detto essere la sua patria, la sua vita, la sua esistenza, in quell’istante si era rivelata, ai suoi occhi privi di ricordi, estranea e perduta come la percezione remota di una realtà tramandata nei secoli. E frugare spasmodicamente in frammentate reminiscenze, alla ricerca di un passato del quale si era reso conto, con drammatica lucidità, di non rammentare più un solo brandello, era equivalso per lui ad ispezionare giorno dopo giorno, con l’ardore della follia ed una sempre rinnovata delusione, un cesto vuoto.

- Dove andiamo, Raphäel? – mormorò con voce febbrile.

Dorian fu certo di aver scorto lo sguardo risoluto ed imperscrutabile dell’altro colorarsi di un tono inquieto.

- A cercare Auguste – rispose il ragazzo con ovvietà, fissandolo.

- Auguste… – Dorian si lasciò andare sfinito contro il corpo di Raphäel.

Il lembo del lungo soprabito che stringeva in mano in un guizzo di forza spasmodica, fu per lui, in quell’istante, il solo ponte di contatto fra la sua mente in delirio e la realtà tangibile.

Ignorò le miriadi di gocce incandescenti che sulla sua fronte madida di sudore si mescolavano a quelle gelide della pioggia.

- Auguste – proseguì in un’inquietante cantilena, lo sguardo perso – mi doveva delle risposte. Mi deve la verità. Mi deve ciò che forse nessun altro potrà mai rivelarmi.

Le iridi scure di Raphäel scintillarono di bruciante perplessità, immerse nel pallore del suo volto che, sotto il lampeggiare di un fulmine, assunse un aspetto quasi perlaceo.

- Di che diavolo parli? – lo incalzò, non senza abbandonare la presa sul suo corpo barcollante.

- È importante, Raphäel, è importante. Devi credermi – farneticò, gli occhi lucidi – Cos’è un uomo che, tolti cinque anni della sua esistenza trascorsi nel dubbio e nell’errore, non sa chi è?

- Vorrei saperlo. Vorrei davvero saperlo, cos’è in realtà – sussurrò Raphäel, immerso in fumosi pensieri, dopodiché aiutò Dorian a trascinare i suoi passi esausti fino alla rientranza di un portone, parzialmente al riparo dalla pioggia.

Scostò dal suo volto i capelli ormai fradici e gli tastò la fronte.

- Come immaginavo – mormorò sommessamente.

Dorian accennò a un debole sorriso, assaporando il momentaneo sollievo arrecatogli dal tocco refrigerante della mano fredda sulla fronte rovente.

- Stai letteralmente bruciando di febbre, amico mio, e ti reggi a malapena – Raphäel mosse lo sguardo intorno a sé, angosciato, alla ricerca disperata di una soluzione nella sua mente labirintica – Non puoi proseguire – considerò.

Il giovane non ebbe il tempo necessario a risollevare lo sguardo sulla figura pallida ed arruffata in bilico dinnanzi a sé, quando, in capo a qualche secondo, le dita di Dorian si avvinghiarono sul suo polso come tenaglie.

- Al diavolo! – ringhiò il ragazzo, l’espressione del viso stravolta.

Serrò le labbra, la mascella tremante e contratta per la tensione.

- Io… Posso farcela.

Raphäel lo squadrò con fare scettico.

- Sei più cocciuto di tutti i tuoi compagni messi insieme.

- Oh, al diavolo tutto! – rincarò la dose Dorian, ignorando con ferrea ostinazione lo sguardo carico di dissenso fisso sul proprio volto – Dobbiamo trovare Auguste prima che sia troppo tardi, sperando che qualcuno non gli abbia già fatto la festa. Auguste sa molte cose, ed io non posso lasciare che quell’impiastro si porti nella tomba le risposte su cui… Su cui è una vita che non fa che tergiversare.

 

Raphäel corrugò la fronte, stranito dinnanzi a nebulose, inattese rivelazioni; era certo che Dorian non stesse delirando: al contrario, a udire le sue parole, si faceva strada in lui la sensazione sempre più lampante di non aver mai visto il suo amico lucido e razionale come in quel momento.

Aveva catturato sin da principio l’espressione un po’ superficiale e indolente, dal primo istante in cui aveva posato lo sguardo per la prima volta su quel ragazzo dai folti capelli biondi, i grandi occhi malinconici d’aquila ferita, attorniato alla sua destra ed alla sua sinistra da due ragazze dalle labbra dipinte e lo sguardo adescatore. Era il quadro che gli si era presentato da principio, perlomeno fino al momento in cui Auguste e Lucien avevano accolto quel giovane riottoso nelle fila degli oppositori del duca, imbottendolo di chiacchiere sovversive fino ad ottenere il suo assenso.

Dorian il rivoluzionario, cinico e astuto cospiratore ai danni del duca! Raphäel aveva visto in lui, in un secondo momento, il ritratto della persona fredda, intuendo le egoistiche ragioni che quasi certamente, al di là di un attaccamento veritiero, lo spingevano a perseguire la sua missione. Aveva visto il ragazzo sfuggente e malinconico che di tanto in tanto s’infiamma e agisce d’impulso, rivelando inediti sprazzi collerici. Aveva visto l'insospettabile dolcezza, mentre si prendeva cura del suo giovane amico Fernand e rassicurava Ambrosie. Aveva intuito la razionale fiducia che egli pareva riporre nella ragazza, lasciandosi istintivamente guidare dal suo fervore. E, certo non ultimo, l’aveva visto liberarsi senza rimpianti della sua ennesima maschera.

 

- Continuo a non capire. Parli… degli avvenimenti dell’altra notte? – azzardò Raphäel, rabbrividendo, il volto che si corrugava in un moto d’apprensione – Credi anche tu che Auguste sappia più di quel che dice riguardo alla morte di Lucien?

Dorian scosse il capo con decisione, come a volersi liberare di un pensiero assillante e nocivo. Tentò di mettere ordine nei suoi pensieri.

- Prima, Raphäel, molto prima di tutto ciò; non si tratta esclusivamente di questi ultimi avvenimenti – distolse il viso, come a voler eludere il discorso – Nell’assurda ipotesi che sia questo il nodo della discussione, sappi che sono pronto a giurare in qualsiasi momento che Auguste non avrebbe mai fatto del male a Lucien. Ma quel che dici è vero in parte: Auguste nasconde tante cose. Nasconde la verità sul mio conto, nasconde ciò che accadde veramente i primi anni che seguirono la guerra civile; ed ancora, a distanza di anni, continua a celare dettagli su dettagli riguardo a fantomatiche iniziative che preferisce portare avanti di suo conto, senza chiedere consiglio a nessuno. Auguste è un dissimulatore, ma agisce a fin di bene, o, almeno, qualcosa gli fa credere che sia così. Non è facile intuire i suoi punti deboli. Non è mai stato facile, in qualunque modo si sia tentato di decifrarlo.

- E teme di rivelarti qualcosa sul tuo passato… – meditò Raphäel, abbandonato ogni strascico di circospezione nel voler sondare le reticenze di quel ragazzo enigmatico verso il quale ancora non riusciva a nutrire piena fiducia.

Dorian trasalì impercettibilmente, ed un guizzo di razionalità insinuò in lui il dubbio che non sarebbe stata una buona idea rendere partecipe della propria miseria quello che, fino a qualche ora prima, altro non era se non un mezzo sconosciuto dalla mente perspicace avida di segreti altrui. Immobile, senza dire nulla, fissò il proprio sguardo su di lui, nel tentativo disperato di carpire una provvidenziale sfumatura che gli permettesse di comprendere se egli agisse in buona fede oppure no.

Gli occhi di Raphäel lo scrutavano penetranti e seri, spilli acuminati che lo trafiggevano in un involontario battito di ciglia. Dorian fu certo, per un istante, di percepire in quello sguardo quanto mai allettante una venatura rassicurante e sincera, soffusa di un inconsueto afflato altruistico. Stava dinnanzi a lui, ritto e orgoglioso come una statua scolpita nel marmo, incurante del temporale che gli aveva inzuppato i capelli e gli abiti, le rare movenze del corpo spontanee e nervose, il volto pulito e risoluto di colui al quale non occorre tessere fallaci promesse pur di procacciarsi l’altrui fiducia.

Meticoloso come un mercante che esamina con sospetto l’acquirente sconosciuto, Dorian scrutò le iridi corvine di Raphäel che parevano irradiare un vago senso di calore, e percepì la strana inquietudine che il movimento rapido della mano affusolata fra i capelli tradiva, insieme ad un’inconscia brama di controllo. Un presentimento liquido e dilagante eruppe nella mente di Dorian, accrescendo, insieme al potere di quello sguardo, il peso della solitudine che gli gravava sul cuore.

Chinò lo sguardo, combattuto fra un’eccessiva diffidenza che lo metteva in guardia dal rivelare ulteriori particolari circa la sua condizione, giacché sapeva – e temeva – di essersi svelato sin troppo; dall’altra parte, la consapevolezza della propria solitaria malinconia che lasciava scaturire in lui lo slancio ed il desiderio di squarciare il velo del proprio gelido ed autolesionistico riserbo.

- Vedi il segno che ho sulla testa?

Dorian si scostò con la mano la lunga ciocca ondulata che gli ricadeva sul viso, scoprendo la tempia delicata percorsa dalla cicatrice leggera di una profonda scalfittura parzialmente celata all’attaccatura dei capelli. Sul suo volto comparve un sorriso sarcastico.

- Ciò che vedi è quel che resta dell’amorevole omaggio del duca du Lac, la sera in cui i traditori gli consegnarono la città. Tutto quello che ora posso dirti, fu Auguste a rivelarmelo, a dire il vero, senza preoccuparsi particolarmente di quanto, sin d’allora, avessi compreso che mentiva. Stando a quanto mi disse, quella notte, insieme a dei compagni, organizzai un’imboscata ad un contingente del duca acquartierato sotto le mura della città posta sotto presidio armato, ma l’iniziativa non andò a buon fine, e fummo catturati e condotti nei carceri. Mentre la guerra civile infuriava, il duca decretò sommarie condanne a morte per tutti i prigionieri accusati di tradimento… Tradimento, capisci, Raphäel? – Dorian rise istericamente – All’alba, le prigioni furono circondate ed invase dai ribelli con un attacco a sorpresa il cui fine era impedire l’esecuzione delle sentenze a morte. Non servì a nulla: Auguste disse che nessuno dei prigionieri riuscì a salvarsi.

Dorian respirò profondamente, il volto estatico, mentre un fiume di sensazioni pareva premergli incessante sulle labbra, desiderando di liberarsi degli argini ormai irrimediabilmente abbattuti della sistematica reticenza conservata fino a quel momento.

- Fui tra i pochi a riportare a casa la pelle, benché ancora oggi non riesca a capacitarmene – riprese, in capo ad una manciata di secondi – Durante lo scontro, un mercenario del duca tentò di portare a termine l’ordine ricevuto e mi colpì alla testa. Credeva di avermi ucciso insieme ad altri prigionieri, e, in effetti, riuscii a scampare solo per miracolo alle ferite riportate e all’incendio che divampò. Fu Auguste a trascinarmi fuori da quell’inferno e a portarmi in salvo. Non ha mai chiarito il perché del suo gesto, e il resoconto sull’accaduto, se vi rifletti per qualche istante, ha dei risvolti… improbabili, diciamo così. Ad ogni modo, mi svegliai soltanto un paio di giorni dopo, Dio sa in quali condizioni… Non ricordavo nulla, così come tu mi vedi in questo momento.

Dorian tacque, interrompendo il fluire frenetico del proprio racconto. Fissò la mano che Raphäel gli aveva posato sulla spalla, quasi ad incoraggiarlo a proseguire.

- Auguste fece a malapena in tempo ad informarmi di quanto mi era accaduto – riprese in un mesto sussurrare che contrastava visibilmente con la frenesia che l’aveva pervaso fino a pochi istanti prima – O forse si limitò ad imbastirmene una versione pressoché attendibile, chi può dirlo? Mi affidò a persone per così dire di sua fiducia e, con Lucien, scomparve dalla circolazione. Si rifece vivo in capo ad un anno, mi rintracciò e si prese cura di me, o almeno vi tentò; era come se si sentisse in colpa per qualche oscura ragione – Dorian chinò tristemente il viso, lasciando sfumare il discorso nei propri pensieri.

- Ma… – Raphäel prese fiato prima di parlare, guadagnando tempo – Perdona la mia indiscrezione: Auguste non ti fece mai parola almeno riguardo alla tua famiglia?

Dorian sobbalzò, preso alla sprovvista. Scostò di malagrazia la mano amichevole che aveva indugiato sulla sua spalla, trasmettendogli l’illusione di una confessione indolore. Raphäel lo studiava senza mutare espressione, gli occhi neri avidi di penetrare nei suoi intimi pensieri come la volpe che s’introduce di soppiatto nell’ovile incustodito.

 

Sapevo che l’avresti detto, prima o poi. Cosa ti dà il diritto di carpire i miei segreti senza che io possa nulla per impedirlo, vittima di diaboliche congiunzioni che m’incatenano ai tuoi occhi, nella vaga illusione di potermi fidare?

 

Dorian distolse dolorosamente lo sguardo. Tentò di recuperare il controllo di sé in modo da non permettere che la propria disperazione erompesse furiosamente in un oceano di lacrime e di amarezza. Non sarebbe crollato. La pioggia che gli bagnava il volto, con ogni probabilità, si sarebbe confusa tra le lacrime che, quasi senza preavviso, avevano preso a scorrergli lungo le guance. I suoi occhi luccicarono minacciosi nella penombra.

- Di mia madre non ho mai saputo nulla – replicò con voce atona, sbrigativo – Nulla, capisci? Mio padre, a quel che mi fu detto, perì durante gli scontri, e non so nient’altro.

 Raphäel annuì mestamente.

- Perdonami, Dorian.

Il giovane scosse il capo, quasi a voler cancellare l’impressione che Raphäel si sentisse in qualche modo responsabile della sua angoscia.

- Non volevo farti stare peggio. Ne hai mai parlato con nessuno? – seguitò.

- No – rispose Dorian, quasi in automatico – Ne siamo al corrente soltanto noi due, se eccettui Ambrosie e Fernand. In parte.

 

Fernand, già. Il mio giovane amore infelice, condannato, per un sadico, tremendo gioco del destino, ad un amore altrettanto infelice. Ambrosie, il mio debole lume di coscienza, l’unico spiraglio che mi è parso d’intravedere in questa tana di lupi feriti, troppo presi a fuggire dai propri fantasmi per costituire un autentico punto di forza cui aggrapparsi; lei è un appiglio che mi sfugge dalle mani, che vorrei e non riesco ad afferrare.

E Raphäel Lemoine che si aggira indisturbato nella mia mente, pronto a dissolvere le mie vane certezze, disposto tanto ad offrire la propria spalla, quanto a lasciarmi vacillare.

 

Respirò profondamente, la mente confusa, lasciando diradare i propri pensieri nella greve cappa di silenzio che era calata fra loro, lo sguardo di Raphäel che vagava sibillino su di lui.

 

Ed ora, cosa ti aspetti che faccia? Non dici più nulla? Non hai ottenuto tutto ciò che desideravi sapere: è così? Dovrei forse lasciarmi andare sotto il parziale riparo di uno squallido portone, in attesa dell’alba, sperando che le forze mi consentano di barcollare fino a casa? Dovrei elemosinare la tua pietà?

 

Dorian si riscosse bruscamente.

- Ora potremmo riprendere la nostra ricerca, se non chiedo troppo – esordì con voce asciutta – Sempre che tu abbia la buona grazia di spiegarmi dove diavolo hai intenzione di trascinarmi.

Raphäel corrugò la fronte, soprappensiero.

- Hai udito le parole di Emilie? Auguste aveva in sospeso alcuni affari con rivenditori d’armi rubate. Per la precisione, armi e munizioni destinate, in origine, all’esercito del duca. Se ho ben compreso la faccenda, credo di avere un’idea piuttosto chiara sull’identità delle persone con cui ha a che fare e sul luogo della ricettazione.

Dorian annuì.

- Se ne sei davvero convinto, aggiungerei che non c’è un istante da perdere: nella possibilità remota che Auguste si sia lasciato fregare e, in questo momento, si trovi impegnato in una sana capatina all’altro mondo, la speranza di poter estorcergli le verità cui ambisco finirebbe immancabilmente a prostituirsi – scandì con fare sarcastico, lo sguardo duro.

Sul volto di Raphäel comparve un sorriso d’ironico, sfrontato compiacimento.

- Fiero e diritto al bersaglio, poche chiacchiere e sentimentalismi di sorta – commentò – La vita di Auguste conta nella misura in cui può tornarti utile un’illuminante chiacchierata riguardo ai vecchi tempi: è così?

Il volto di Dorian avvampò per la sorpresa e il risentimento. Vai a farti fottere, Raphäel, fu tentato di rispondergli, al colmo dell’imbarazzo. Poi, inaspettatamente, una risatina isterica gli graffiò la gola.

- Finiamola una volta per sempre di sparare idiozie. Con tutto il rispetto che nutro nei tuoi riguardi, Raphäel, proprio tu, non puoi venire qui e propinarmi certe piacevolezze! La tua bella concezione così disinteressata, illuminata ed infiorettata di buoni propositi, tanto accorata e densa d’ideali, può far presa su Auguste, forse, su Ambrosie, benché io nutra giusto qualche perplessità in proposito, ma, di certo, non su di me. Raccontala a qualcun altro, amico mio, la favola del buon rivoluzionario che opera animato solo ed unicamente dalla volontà di perseguire il bene di un popolo che è pronto a puntare il dito su di lui e spedirlo, dalla piazza o dalla locanda in cui arringa il suo incostante uditorio, direttamente in carcere e sulla forca non appena i cani da guardia del duca incalzano. Nessuno si giocherebbe la propria vita senza una buona ragione per farlo. È inutile che t’intestardisca a sondare la vera o presunta plausibilità delle intenzioni altrui e cercare di sancire la differenza fra il patriota che agisce per puro scopo altruistico, e il comune mortale che conserva un occhio di riguardo per i possibili risvolti d’interesse personale che potrebbero derivargli dall’impugnare una bandiera scomoda soltanto in apparenza. Per cui, con me puoi pure gettare la maschera – Dorian gli sorrise indulgente – Ti preferisco schietto e privo di inutili fronzoli, mon ami.

Raphäel ricambiò di buon grado il suo sguardo d’intesa, mascherando il lieve turbamento che aveva prodotto in lui quel discorso franco e privo di consolatori eufemismi attraverso il quale, per la prima volta, qualcuno si era avvicinato pericolosamente a denudare una minuscola porzione di lui.

- Libero di credere quel che preferisci – replicò Raphäel, senza lasciar trapelare il leggero smarrimento che l’aveva colto – Ad ogni modo, Dorian, accusarti su due piedi di non avere a cuore nemmeno per un po’ la vita di un amico non rientra esattamente nel mio stile.

- Parliamo chiaro – lo interruppe Dorian – Non posso certo dirmi entusiasta, a pochi giorni dall’uccisione di Lucien, all’idea di perdere un’altra persona. Ad ogni modo, Raphäel, ora che conosci il nodo che mi lega ad Auguste, ti pregherei, d’ora innanzi, di non giudicare i miei intenti e di non sottovalutare i motivi che mi spingono a ricercare la verità ad ogni costo né il mio attaccamento alla causa e ai miei compagni.

- Sei sicuro di farcela a proseguire? – mutò repentinamente discorso Raphäel.

- Non è la prima volta che prendo un colpo di freddo, e non credo morirò per questo – lo liquidò Dorian con decisione.

- Sei ancora molto caldo.

- Ed ho la testa che mi scoppia, tanto per fare il punto della situazione – istintivamente, portò la mano a sfiorare la vecchia ferita ormai appena visibile sulla tempia, ferita che gli aveva lasciato come strascico la perdita della memoria e occasionali fitte di dolore – Proseguiamo.

 

* * *

 

- È stata una trovata di tutto rispetto, la tua, devo riconoscerlo.

Il volto di Dorian s’incupì in un’espressione di stizzito sarcasmo. Tamburellò nervosamente con le dita, le braccia incrociate sul petto, nel tentativo di dissimulare la stanchezza ed il profondo malessere che lo rendevano malfermo sulle gambe.

- Non capisco. Sul serio, non capisco. Eppure non vi è altra spiegazione, ed i miei calcoli non erano campati in aria – lo sguardo vigile di Raphäel saettò a destra e a manca, confuso.

- Già – replicò Dorian – Se solo potessimo spingerci all’esterno delle mura di questa città maledetta!

- Con i soldati di guardia pronti a coglierci in flagrante, sarebbe certo l’ideale – rincarò la dose Raphäel – E poi, senza dubbio, avremo modo e tempo per spiegare come c’eravamo soltanto avventurati alla ricerca di un nostro amico in vena di scherzi che, giusto per ingannare la monotonia, non aveva trovato un diversivo migliore della compravendita clandestina di armi trafugate al duca in persona; e avrebbe senz’altro restituito il maltolto, come necessariamente si deduce.

Dorian ansimò dolorosamente. Serrò le palpebre, eludendo il senso di vertigine che la vista annebbiata gli procurava. Represse un moto d’ira.

- Riesci a vedere qualcosa?

 Raphäel scosse il capo.

- Qua, dubito che vi sia anima viva, se si eccettuano le guardie sugli spalti.

Protetto dal fortuito nascondiglio che la penombra di un vicolo periferico gli aveva offerto, il giovane aguzzò la vista e tentò di proiettare lo sguardo al di là della densa foschia, spingendosi con le proprie facoltà visive oltre le porte della città accuratamente presidiate. Al di là delle mura superbe, la campagna addormentata, disseminata da rare dimore intercalari e baracche di pescatori, si estendeva a perdita d’occhio, immersa nella notte ormai in declino e rischiarata ad oriente dal pallido chiarore dell’alba che lasciava intravedere, simile ad una scia serpentina fra la bruna vegetazione, il solco argenteo del fiume fino al molo poco distante. La pioggia era cessata, il vento si stava placando. Raphäel si massaggiò le tempie in un moto di cupa frustrazione, alla ricerca di una soluzione alternativa che potesse offrire motivazioni lineari e plausibili alla scomparsa di Auguste.

- Potrà sembrarti una follia – proruppe infine con fare ambiguo, un sorriso paradossalmente divertito che campeggiava sul suo viso – ma temo di aver compreso i movimenti del nostro uomo.

Dorian annuì, lo sguardo assente, sentendosi vacillare; poi, senza che un disperato guizzo d’accortezza lo inducesse a cercare un provvidenziale sostegno, avvertì il dolore al capo ottenebrargli i sensi, finché non si lasciò andare a peso morto contro il corpo di Raphäel.

 

- Io… Sto bene, dannazione… – biascicò, il volto cereo corrugato in una smorfia sofferente – Ora è passato, Raphäel, dico davvero – soggiunse, tradendo nella voce un malcelato nervosismo.

Sbatté le palpebre, la realtà circostante che seguitava a vorticare in una danza furiosa davanti ai suoi occhi, la mente in deliquio, i pensieri che vi si addensavano senza seguire alcun disegno coerente, e l’alta figura di Raphäel Lemoine china a sostenere il suo corpo tremante.

- Credo possa bastare così, Dorian. Torniamo indietro.

Il ragazzo emise un indecifrabile mugugno d’assenso. Con fatica, si raddrizzò sulle proprie gambe. Non sarebbe stato particolarmente gravoso stringere i denti un’altra mezz’ora di cammino: le membra lo avrebbero retto ancora, ma la testa gli faceva troppo male.

- Sono stanco. E… Non ricordavo facesse tanto freddo – sussurrò.

Raphäel gli passò un braccio attorno alle spalle.

- Sei allo stremo delle forze, amico mio. Riesci a resistere ancora per qualche isolato?

Il ragazzo acconsentì con un cenno appena percettibile del capo; chiuse gli occhi, quando, per la seconda volta, fu sfiorato da un tocco quanto mai fresco e delicato. Scosso da un impercettibile sospiro, intrecciò le dita a quelle di Raphäel in un gesto del tutto istintivo e portò per un istante la sua mano sulla propria guancia accaldata.

In silenzio, volgendosi di lato, il giovane strinse le palpebre fin quando la fitta caligine che gli ottenebrava la visuale si diradò, consentendogli, via via che i tratti divenivano sempre più nitidi dinnanzi a sé, di discernere il volto di Raphäel nel gioco di luminescenze confuse che lo abbagliava, individuando progressivamente i capelli scuri e la bocca rosata che spiccava sul candore del viso.

- E così, Raphäel… – rammentò, delirante – Ora sai tutto quel che mi riguarda. Io… Non dovevo metterti di mezzo, capisci?

- Non devi preoccuparti – Raphäel gli scostò i capelli biondi dal viso.

In quel momento, Dorian si avvide della breve, pericolosa distanza che divideva i loro volti. Rabbrividì, distogliendo lo sguardo in un sussulto, ed i suoi occhi s’inumidirono di lacrime trattenute.

 

Dunque, questo è quanto, Raphäel. La mia bocca sarebbe dovuta restare serrata dinnanzi a qualunque tipo di richiesta; non avevo tenuto in conto di poter spiattellare i fatti miei ad un mezzo estraneo. Eppure, la fragilità della mia solitudine mi ha vinto miseramente.

Guardami negli occhi, Raphäel: nulla è come appare. Non oserei mai formulare una mera richiesta d’aiuto. Le mie labbra si chiudono saldamente soltanto all’idea, ma nessuno si è mai avvicinato a tal punto a quella parte di me che bramavo soltanto tenere nascosta. Eccetto Fernand, e in una sola occasione.

Fuggo, quando in realtà vorrei gettarmi ai tuoi piedi e chiederti di non abbandonarmi al mio dolore.

Non lasciarmi solo, Raphäel. Non mi abbandonare anche tu. Ho tentato di aggrapparmi ad Auguste, l’unico che avrebbe potuto offrirmi il suo aiuto se soltanto non si fosse chiuso nella sua muta ed ostinata reticenza, ma lui mi ha voltato le spalle, rifiutandosi di rendermi partecipe di una verità che mi appartiene.

Ed ora… Non capisco che cosa stia avvenendo in me. Perché sento l’esigenza che tu mi stia accanto? Quale incantesimo, quale maledizione i tuoi occhi hanno tessuto su di me?

Non abbandonarmi, Raphäel. Non chiedo nulla, ma questa sta divenendo più che una semplice richiesta d’aiuto.

 

Senza rendersi conto pienamente di quanto stesse accadendo, Dorian si strinse a Raphäel. Tremante, pervaso da un languore dal sapore oscuro, insinuò il proprio volto nell’incavo fra il collo e la spalla, lasciando morire le proprie lacrime sul panno scuro del soprabito del compagno. Immobile, abbrancò possessivamente le spalle di Raphäel, aggrappandosi con furia spasmodica al mantello gocciolante e constatando dolorosamente quanto non vi fosse altra via d’uscita, nemmeno la più glaciale indifferenza, che potesse opporre una sfacciata resistenza ai propri mali: neppure cercare di relegarli nell’oblio. La sua ancora di salvezza, l’unica in grado di concedere al suo animo prostrato un rasserenante tepore, in quel momento si configurava paradossalmente con le ampie spalle del giovane Raphäel Lemoine, immobile ed impassibile dinnanzi al suo abbraccio carico di disperazione, sordo alla sua muta richiesta di un gesto d’affetto, di un moto di comprensione e solidarietà che costituisse per lui un balsamo leggero sulle ferite. Le braccia di Raphäel ricaddero rigide lungo i fianchi, il volto atteggiato in un sorriso imbarazzato e sorpreso, appena impressionato dal gesto dell’altro; il suo sguardo, gentile ma scostante, non tradiva in sé alcuno slancio di dedizione, quasi sfiorato, improvvisamente, dal dubbio di essersi avvicinato troppo, di avergli offerto simbolicamente il proprio aiuto e dato prova, erroneamente, di un attaccamento che non sentiva.

Si era mostrato falsamente partecipe del suo dolore soltanto per ottenere le informazioni che desiderava? Se il suo corpo ne avesse avuto la forza necessaria, se la sua volontà in quel momento non fosse stata così fragile, Dorian ne fu certo, gli avrebbe afferrato e stretto fra le mani il lungo collo bianco fino a fargli sputare fuori a che diavolo di gioco stesse giocando.

Quasi senza il tempo necessario a razionalizzare i propri timori, Dorian percepì la mano sottile di Raphäel carezzargli la nuca ed insinuarsi fra i suoi capelli. Non aveva ricambiato il suo abbraccio anelante un appiglio, considerò, ma nel suo sguardo aleggiava un impulso amichevole.

In silenzio, lambì con lo sguardo la piega rosea delle labbra di Raphäel, incurvata in un vago sorriso benevolo che desiderava infondere sicurezza; scorse rapito lungo l’ovale fine del volto, la fronte ampia e serena, seguendo il contorno del profilo affilato e leggermente irregolare, non privo di una delicata raffinatezza. I capelli, ravviati disordinatamente all’indietro, gli ruscellavano fin sulle scapole come una soffice criniera. Non era esattamente bello: tuttavia, Dorian non riuscì a decifrare quale delicata alchimia componesse i lineamenti alteri e vagamente appuntiti del suo viso in una proporzione tanto attraente.

Raphäel gli rivolse un breve tocco rassicurante sulla spalla, per poi riprendere il tragitto.

- Dove hai intenzione di portarmi, ora? – proruppe Dorian a metà percorso, nel breve istante di lucidità cui pervenne dacché si era accasciato esausto e febbricitante tra le braccia di Raphäel – Casa mia si trova esattamente dall’altra parte della città.

- È troppo distante – replicò Raphäel, sibillino – Molto meglio chiedere “asilo politico” da Auguste: non sei d’accordo?

Auguste?

Dorian spalancò le palpebre, smarrito: cadeva nel vuoto persino il motivo per cui quella notte si erano avventurati alla fantomatica ricerca di Auguste.

Il suo volto si modellò in un sorrisetto spazientito: era troppo, con Raphäel che pareva nutrire un insano divertimento nel disorientarlo con le sue idee astruse. Troppi misteri, troppi punti oscuri che lo confondevano. Ripensò a tutte le stranezze nelle ultime ore trascorse, rendendosi progressivamente conto di quanto quegli strani atteggiamenti divenissero sempre più esasperanti.

- Ma Auguste non… – tacque di colpo, interrompendo il flusso delle proprie parole.

Il suo volto s’illuminò, quando, quasi inaspettatamente, comprese quale intuizione si stesse aggirando da un bel po’ nella mente del compagno.

- Hai capito bene, Dorian. Ora come ora, chi può escludere che Auguste, in questo momento, non dorma serenamente il sonno del giusto?

Dorian trattenne a stento una risata fuori luogo, meditando fra sé che “serenamente” e “Auguste” non parevano esattamente vocaboli adatti a convivere pacificamente all’interno di un’unica frase. Tuttavia, accantonò, per una volta, l’intenzione di dar voce alle proprie bizzarre riflessioni: il malessere e la tensione facevano oscillare pericolosamente il suo animo dalla tristezza ad una sorta di malata ironia. Chiuse gli occhi, sostenuto da Raphäel lungo il cammino, lasciandosi guidare istintivamente dai suoi passi.

 

- Avevo ragione – Raphäel scosse il capo, meditabondo – C’è un lume acceso. Se siamo abbastanza fortunati, qualcosa mi dice che Auguste non si è lasciato fregare.

Dorian annuì, assorto, troppo debole per sollevare lo sguardo sul tenue chiarore che filtrava dalla finestra chiusa.

- Dammi la tua pistola, Dorian.

Il giovane inarcò il sopracciglio in uno sguardo stranito.

- Cos’altro hai in mente, per stasera? Credevo fossero finite le sorprese.

Raphäel socchiuse gli occhi con fare sagace.

- Una candela accesa, Dorian. O Auguste si è affrettato con le… trattative e, nella migliore delle ipotesi, è riuscito ad uscirne integro e a non causare altri disastri. Oppure qualcun altro si è introdotto in casa sua. Sappiamo soltanto che c’è qualcuno in casa… Non necessariamente di chi si tratta.

Un lampo di paura balenò per un istante nelle iridi azzurre di Dorian, stemperato dal languore che la febbre aveva prodotto in lui: se soltanto fosse stato in pieno possesso delle proprie facoltà, a quel punto, considerò, con ogni probabilità, si sarebbe introdotto in casa armato del primo oggetto contundente che gli fosse capitato sotto mano. Stavolta, fu costretto ad accasciarsi sfinito accanto al portone, lasciando l’iniziativa a Raphäel.

- È soltanto una precauzione: non voglio allarmarti.

Uno sguardo di leggero disappunto si posò su Dorian.

- Avrei dovuto riaccompagnarti a casa e procedere da solo – meditò fra sé Raphäel – In due, potevamo certo sentirci più al sicuro, ma così, non sono certo di riuscire a proteggere due persone.

Dorian chinò mestamente il capo, rendendosi conto di quanto, in quel momento, la sua presenza rappresentasse un fardello ed un pericolo per entrambi, impossibilitato com’era a proteggere se stesso e, eventualmente, l’altro.

L’espressione fredda di Raphäel mutò in un mezzo sorriso incoraggiante. Circospetto, tastò il portone.

- Come immaginavo – sussurrò – La porta è aperta.

È un mistero come, nel momento in cui ci coglie la paura, temendo un generico pericolo, ci lasciamo ingannare da banali accorgimenti, rifletté distrattamente Dorian, e il suo pensiero corse a Fernand, la notte in cui soltanto il suo provvidenziale intervento aveva posto rimedio alla sua imprudente disattenzione.

La notte in cui Lucien era morto aveva sconvolto ogni loro certezza, annegandoli nella confusione e ridefinendo i contorni del rischio concreto cui ogni giorno andavano incontro; Dorian rammentò il sentimento di rabbia inconsulta che aveva colto Fernand, al punto da annebbiargli la mente, alla vista di Raphäel che s’ingeriva con disinvoltura nelle sue iniziative con il benestare di sua sorella. Ora, riflettendovi, Dorian si rese conto che, al di là di tutto il resto, la vicinanza di Raphäel non era poi così male.

Lo udì lasciarsi andare ad un sospiro di sollievo, quando la porta si fu spalancata dinnanzi a lui. I lineamenti del suo volto si rilassarono in un’espressione di sollievo.

- Per questa volta ci è andata bene – sibilò.

Entrarono. Il tiepido bagliore di una candela accesa rischiarava l’androne immerso nella semioscurità, creando un curioso gioco di chiaroscuri sulle pareti in fondo alla stanza e nella fosca cavità del focolare spento e polveroso. Una bottiglia di vino vuota giaceva abbandonata in un angolo. Dorian sbatté le palpebre, ed i suoi occhi, abituandosi gradualmente alla penombra, poterono finalmente mettere a fuoco ciò che gli premeva più di ogni altra cosa. Deglutì, immobile, il braccio rigido intorno alle spalle di Raphäel che l’avevano sorretto durante il tragitto.

Auguste giaceva sul divano, le membra distese in una posa indolente, ed il respiro affannoso ed il profondo sollevarsi e abbassarsi del torace tradivano l’intensa agitazione che gli attanagliava le viscere, come se qualcosa l’avesse spaventato a morte. I capelli arruffati incollati al viso, la fronte umida e gli zigomi lievemente chiazzati di rosso denunciavano una modesta ebbrezza. Sobbalzò, percosso da una folata di puro terrore, nell’attimo in cui percepì all’interno della stanza il movimento delle due figure nell’ombra. I tratti del suo volto tornarono distesi, non appena identificò dei due intrusi.

Dorian si avvide di quanto l’ombra terrorizzata e sconvolta che offuscava la superficie tremante e lucida degli occhi di Auguste non si fosse diradata. Avvertì il suo sguardo trafiggerlo come una coltellata ben assestata, non appena fu nel raggio della sua visuale.

Auguste soppesò Raphäel e Dorian, atterrito, le sopracciglia aggrottate come se una pena infinita gli gravasse sul cuore, tentando di mascherare l’espressione stravolta ed indifesa.

- Che diavolo ci fate da queste parti?

Raphäel attese prima di rispondere. Lasciò andare Dorian su una poltrona e gli rivolse uno sguardo eloquente, facendogli intendere che avrebbe pensato lui a chiarire la faccenda con Auguste.

- Eravamo solo preoccupati per te – replicò laconicamente – Tua moglie ci ha detto tutto – si affrettò a precisare con circospezione.

Auguste distolse lo sguardo, senza reprimere una nota di contrarietà nella voce.

- Emilie non è mia moglie, non è una dei ribelli e non sa cosa significhi esserlo – tagliò corto – È tipico di chi ancora non c’è dentro fino al midollo, ragionare nella semplice ottica del pericolo.

- Non cercare di confondere le acque – gli intimò Raphäel, lo sguardo duro – Che hai fatto delle armi?

Il volto di Auguste impallidì. Serrò le palpebre, distogliendo lo sguardo.

- Non mi va di discuterne, Raphäel, non ora. Lasciami tranquillo – mormorò.

- Mi spiace approfittare della fragilità dei tuoi nervi, Auguste, ma, nel momento in cui un tuo gesto poco cosciente rischia di mettere seriamente a repentaglio le nostre iniziative, penso che abbiamo tutti il diritto di sapere cos’è accaduto stanotte. Che ne è stato dell’acquisto delle armi?

- Di che armi parli, Raphäel? – Auguste gli rivolse un breve sogghigno sarcastico, mutando repentinamente espressione.

- Sai a quali armi mi riferisco, e non mi pare il caso di perderci in futili dettagli – soggiunse il più giovane con voce asciutta.

Auguste lo studiò in silenzio, le braccia incrociate sul petto, gli occhi socchiusi in un moto infastidito.

- Niente armi – decretò infine.

Raphäel vide comparire nelle sue mani un piccolo sacco di tela rigonfio.

- Questi sono i vostri cinquecento scudi e, nel momento in cui l’affare è saltato, non mi servono più. È stato un piacere.

Raphäel fece scorrere fra le mani le monete d’argento che gli erano state porte, disorientato.

- Che cosa significa questo, Auguste?

- Significa che due bastardi hanno cercato d’ingannarci. Non c’è stato alcun furto – improvvisò Auguste, lo sguardo alterato.

- C’è stato, te lo posso assicurare – lo contraddisse Raphäel con logica inoppugnabile – Che fine ha fatto, piuttosto, la refurtiva?

- Sparita, presuppongo. I nostri uomini “di fiducia”, chissà per quale ragione, avevano una gran fretta di portare a termine l’affare e darsi alla macchia senza lasciare tracce che potessero ricollegarli al furto. Avrebbero poi recuperato in tutta calma il bottino. Cos’altro c’è che non va, Raphäel? – sbottò infine, recuperando il proprio piglio rigido e sprezzante – Lo scambio è andato a farsi benedire, sono d’accordo, ma a te questo non importa, nel momento in cui hai di nuovo con te i soldi. Ed ora, se non ti dispiace, vorrei non sentir più parlare di questa faccenda. Fine della questione – gli intimò fra i denti.

Raphäel serrò le labbra, annuendo poco convinto. Vide Auguste allungarsi stancamente sul divano, l’espressione impenetrabile del volto tradita dall’inquietante luccichio in fondo allo sguardo allucinato a causa dell’alcool e dall’apprensione.

- Spero di aver sciolto ogni dubbio – Auguste chiuse gli occhi, ravviandosi i capelli con fare indolente.

Raphäel si volse nuovamente verso Dorian, meditando fra sé che forse sarebbe stato meglio tornare sull’argomento nel momento in cui Auguste avesse recuperato la propria lucidità, quando qualcosa richiamò l’attenzione di entrambi.

- Che diavolo hai fatto al braccio, Auguste?

- Eh? – il giovane sollevò il braccio innanzi a sé in un istintivo moto di difesa.

Senza preamboli, Raphäel serrò le dita sul suo polso, esaminando impressionato la manica che ricadeva abbondante. Vide distintamente Auguste mordersi il labbro, irritato. Persino Dorian lo fissava con gli occhi sgranati, e sul suo volto vi era una grande tensione.

- Questo è sangue, Auguste, fino a prova contraria.

Auguste si ritrasse in un sibilo frustrato, come un gatto impreparato dinnanzi ad un attacco improvviso.

- È fondamentale, per te, sapere che quei due hanno… Come dire, opposto resistenza? C’è stata una colluttazione, tutto qui, e, se tutto ci fa ben sperare, credo che i nostri uomini abbiano abbandonato ogni velleità di raggirarci – esaminò l’ampia chiazza rossa sulla propria camicia, meditabondo – Non è sangue mio, ad ogni modo.

Un largo sorriso tagliò in due il volto pallido di Raphäel come uno squarcio sanguinolento.

- Geniale, Auguste. E ora, ti aspetti forse che io ti creda?

Le mani di Raphäel si strinsero come tenaglie sul suo colletto.

- Libero di pensarla come preferisci. In ogni caso, non sono tenuto a rendere conto a te – gli sussurrò Auguste con petulanza e, con uno scatto infastidito, si liberò della sua presa.

- Se è andata esattamente come dici tu – replicò Raphäel, livido in faccia – Cosa mi garantisce che i tuoi complici non tenteranno di ricattarci?

- Non tenteranno di fare un bel nulla, a quanto sembra – la voce di Auguste tremò – Te lo posso assicurare: la mia è pressoché una certezza. Del resto, la roba è ancora nelle loro mani: ne facciano quel che preferiscono. Non sarebbe astuto, da parte loro, denunciarmi per aver commissionato il furto ed ammettere di essere stati loro a sottrarre le munizioni del duca. Inoltre, se mi conosci bene, Raphäel, il sangue non mi è mai piaciuto. Polveri e fucili per armare il popolo contro la tirannia? Divertente, se quel che desideri è una carneficina in piena regola. Se la cosa non ti dispiace, amico mio, la nostra collaborazione termina qui – sentenziò.

Raphäel trasalì alle sue parole. Il suo volto avvampò di collera.

- Se è così che stanno le cose – mormorò con freddezza – Tu non hai capito nulla di me. Non sono un fanatico né un tagliagole.

- Buon per te, ragazzo. Ora, se non vi sono altre richieste che presuppongano la mia collaborazione, ti pregherei di andare a riposare e di togliere il disturbo non appena cesserà il coprifuoco – un sorriso di carta gli increspò le labbra – Non sono così vigliacco da buttarti fuori e procurarti altri rischi da sommare a quelli che hai già corso di tua iniziativa.

- Io avrei un’altra richiesta, se la cosa non ti dispiace troppo.

Soltanto in quel momento, Auguste si avvide della presenza ostile di Dorian, gli occhi cerulei che bruciavano nei suoi lampeggiando di dolore e di una collera oscura.

- Saresti stato pronto a mettere in pericolo la tua vita e l’esistenza di una congrega di persone che lottano per restituire la libertà al popolo ed abbattere il tiranno – lo aggredì – Pronto a portarti il mio passato nella tomba. È così, Auguste? Non ti è mai importato di nulla, in verità. Accusi Fernand di comportarsi da incosciente e di rappresentare un pericolo per la nostra sicurezza, sei capace di trattarlo alla stregua di un appestato, ma non sei migliore. Non fai che mettere in dubbio la buona fede di chiunque ti si avvicini, ma raramente ti poni il dubbio di essere effettivamente nel giusto oppure no. Proprio tu, Auguste, la cui unica definizione che ti calza bene è bugiardo: sono anni che con noncuranza mi neghi ciò che ho diritto di conoscere sul mio passato. A me non importa molto ciò che sei veramente; sono solo stanco di essere preso in giro, e non sarai tu a levarmi dalla mente una convinzione che ormai è divenuta certezza: mi devi molte spiegazioni.

Lo sguardo di Auguste saettò fulmineo dall’uno all’altro dei presenti, pervaso da un’intrinseca angoscia che gli faceva palpitare il cuore come impazzito. Le parole fluirono dalle sue labbra pervase da una cupa agitazione.

- Tieni fuori Fernand dalle nostre beghe – gli intimò, risentito – In secondo luogo, Dorian, io non ti devo proprio nulla. Credo che quel che sai possa bastarti. Smetti di tormentarmi: è perfettamente inutile.

Gli occhi di Dorian lampeggiarono di follia. Nonostante la debolezza che gli ottundeva i sensi, in capo ad un istante gli fu addosso. Auguste si ritrovò riverso sul freddo pavimento, la spalla dolorante per il duro impatto ed il peso di Dorian che lo inchiodava al suolo.

- Solo quando tu smetterai di nascondermi la verità con i tuoi giochi patetici – scandì Dorian, il viso arrossato e stravolto.

Auguste tentò di puntellarsi sui gomiti.

- Credimi, è meglio così. Che tu non sappia… – mormorò, allucinato.

- Cos’è che non devo sapere? – gridò Dorian.

- Tornatene a casa e fatti una bella dormita, Dorian. Hai una febbre da cavallo. Riprenderemo il discorso quando sarai un po’ più lucido, se è questo ciò che desideri.

Gli occhi del ragazzo si socchiusero minacciosi nella penombra.

- È una bugia – sussurrò – Un’ennesima bugia. Un altro dei tuoi trucchetti per idioti.

Auguste volse il capo da una parte all’altra, in una spasmodica ricerca d’aiuto.

- Te ne stai immobile, Raphäel? Fa’ qualcosa… Portalo a casa, drogalo, immobilizzalo, fa’ come ti pare, ma toglimelo di dosso! È completamente uscito di senno.

Dorian sussultò, ferito, per un istante, dalla fulminea brutalità delle sue parole; distrazione che permise ad Auguste di risollevarsi a sedere e scrollarselo di dosso con uno strattone. Raphäel si precipitò su di lui, cercando di calmarlo, ma Dorian fu più veloce. Tempestivo, gli occhi gonfi di lacrime, allungò il braccio in direzione di Auguste e lo schiaffeggiò.

Colpito, il giovane si ritrasse come scalfito da un pugnale.

I momenti che seguirono parvero a Dorian galleggiare in un inferno invaso dalla nebbia. Auguste si portò lentamente una mano alla guancia colpita, lo sguardo freddo come un’arma puntata, un istante prima di vibrare il colpo mortale.

- È quello che vuoi, Dorian? – sussurrò Auguste, il volto triste e la voce priva di sfumature.

Il ragazzo ebbe appena la forza di sollevare il capo verso di lui. Le lacrime avevano preso a rigargli il volto.

- Che cosa accadde quel giorno, Auguste? Chi è veramente Dorian Desgrais? – cantilenò.

Il viso di Auguste si corrugò dolorosamente, pervaso dall’angoscia di un peso infinito sul cuore.

- Chi è Dorian Desgrais… – ripeté, immerso nei suoi pensieri – È una buona domanda.

Il suo volto s’illuminò di uno strano sorriso che strideva con lo strazio immane che si annidava in fondo ai suoi occhi. Allungò la mano verso il basso tavolino posto accanto al divano, recuperando un bicchiere di vino. Si servì di una lunga sorsata prima di rispondere, nella vana illusione di recuperare una stilla di razionalità. Strinse le palpebre in un eccesso di dolore.

- Un’ottima domanda. Dorian Desgrais non esiste.

 

Dorian Desgrais non esisteva.

 

Allora… Che cos’era? Che cosa era stato, per tutto quel tempo, se non un’ignobile farsa?

 

Non vide la mano di Auguste lisciargli paternamente i capelli, per poi sostare sul suo viso, immergendosi nel fluire imperioso ed incontrollato delle sue lacrime. Non avvertì il calore delle braccia di Raphäel avvolgergli le spalle nell’abbraccio che gli aveva negato in precedenza.

Accoccolato in un angolo della stanza, appena cosciente, la mente in subbuglio, il cuore lacerato, il corpo che sussultava come impazzito in preda a singulti, annegato nel suo stesso pianto.

Rimase così, senza che lo scorrere del tempo influisse sulle proprie percezioni, finché la febbre, il dolore e la stanchezza non lo vinsero.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

Salve a tutti coloro che ancora seguono NT!^^

Tirando un sospiro di sollievo, posso dire di essere finalmente riuscita ad aggiornare e a vincere la crisi d’ispirazione.

Passo subito a ringraziare i lettori, in particolare Francesca Akira89, che ringrazio per avermi scritto le sue impressioni sulla storia. Lieta che la storia ti sia risultata interessante! Dunque: l’elemento sovrannaturale della storia, per il momento, è molto, molto velato… Dissemina qualche fuggevole indizio qua e là, ma non si svela o, per lo meno, non si rivela in maniera del tutto implicita. Penso che la storia riserverà molte sorprese!

Diciamo che la “brutta bestia” è stata riuscire a trovare la giusta “collocazione” per NT (in Sovrannaturale – Vampiri)… Essendo presente l’elemento sovrannaturale, ho ritenuto questa la sezione più adatta, anche se, a ben vedere, la definizione vera e propria di “genere” risulta un pochino ostica.

Infine, sul fatto che fra quattro personaggi maschili, chi più chi meno, tutti presentino tendenze omosessuali… Eh, qua ammetto di non aver fatto nulla per abbattere lo “stereotipo” per eccellenza delle shounen ai (e, in effetti, non mi sono adoperata per questo, a ben vedere)! XD… A dire il vero, un personaggio si rivelerà etero, ora che ci penso… Okay, okay, basta, non spoilero altro!

 

Alla prossima! =^.^=

 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18: Incognite ***


Capitolo 18

Incognite

 

 

Dorian Desgrais non esiste; tasselli confusi s’incastrano in un indefinito mosaico, fino a dar vita a un’immagine fumosa e vaga. La nebbia della menzogna che ottunde i contorni di ogni oggetto è tappa obbligata e necessaria.

E in un confuso, inestricabile agglomerato di contraddizioni, la mia ragione cessa di sintetizzare la realtà e si frantuma in un turbinio impazzito, la cui caotica dispersione in mille frammenti confonde le coordinate stesse, sospese in precario equilibrio, su cui regge il significato di esistere. È quanto.

 

E se questo, per assurdo, fosse vero, quale diabolico artificio fa sì che, in questo preciso istante, in un luogo poco importante ai fini di tutto ciò, un uomo di carne e di sangue, da tutti conosciuto come Dorian Desgrais, respiri, pensi, soffra e contempli l’assurdo dinnanzi a sé?

 

* * *

 

Un cielo d’aprile inoltrato riverberava un mite chiarore, ammantando di un velo d’austera ed impercettibile malinconia la campagna che si stendeva a perdita d’occhio e le acque tranquille del fiume, fino alla linea immaginaria dell’orizzonte. Il sole ormai alto nel cielo rischiarava una tersa mattinata primaverile.

Doveva essere mattino, sebbene una fitta caligine gli adombrasse la vista, proiettando sui tenui colori del paesaggio delicato un alone sommesso che sulla tela della sua immaginativa evocava piuttosto le parvenze di un’aurora brumosa o di un crepuscolo appena accennato.

Nel punto in cui la via polverosa, biforcandosi al crocicchio, tagliava il paesaggio disseminato d’arbusti fioriti in due percorsi, l’uno che correva verso la riserva di caccia, l’altro che si snodava superbo verso il fiume, fino al molo, un ragazzo avanzava con incedere sereno, batuffolo d’aria in sella ad un nervoso destriero, il volto infantile incorniciato da una massa d’indisciplinati riccioli biondi e gli occhi socchiusi sotto i raggi del sole che lo abbagliavano.

Il giovane si arrestò, piantando gli speroni sui fianchi possenti della propria cavalcatura, la cui mole appariva spropositata in rapporto alla figura piccola ed esile che la dominava. Si volse in direzione della città.

Non poteva avere più di tredici anni, rifletté Dorian, e la sua mente assorta considerò quanto, in quegli attimi sospesi fra sentieri remoti del suo animo, gli fossero del tutto ignote le circostanze e le ragioni della sua evanescente presenza, quale ruolo e quale prospettiva essa rivestisse; e per quale motivo il suo sguardo, quasi mosso da oscuri, imperscrutabili legami, indugiasse liberamente ad inquadrare da scorci inediti la figuretta snella che procedeva fiera, incurante della sua presenza. Poteva accarezzarne ogni dettaglio, dalla giovanile superbia del portamento alla svagata incuria del laccio che gli riteneva i capelli sulla nuca, fino alle dita forti e sottili che impugnavano le redini con molle sicurezza.

E, in quello stesso istante, Dorian avvertì alle proprie spalle, inconfondibile nel brusio ovattato e remoto che lo circondava, lo scalpitare di un cavallo che trottava nella sua direzione. Non ebbe il tempo di allontanarsi, i piedi ancorati al terreno in una sorta d’incantesimo, la volontà cristallizzata nell’innata consapevolezza che nessuno si sarebbe avveduto della sua presenza. Neppure lui.

Lo scalpiccio sul terreno presto divenne nitido, finché un secondo cavaliere, che egli non fece in tempo a vedere in volto, s’impose sulla sua visuale, procedendo ignaro verso il ragazzino dai capelli biondi.

Poi, la visione cominciò a sfumare davanti ai suoi occhi, sfocata ed incerta come un sogno che svanisce in prossimità di un risveglio denso di languore, i suoni sempre più smorzati e confusi.

- Ora ti raggiungo, Dorian! – proruppe il secondo arrivato all’indirizzo del suo giovane amico.

 

…Dorian?

 

 

Ricorda, Dorian.

Ricorda il cavallo che scalpita al quadrivio, ricorda il profumo di un lontano mattino d’aprile, ricorda le corse per la campagna, il sole e la brezza sul viso. Ricorda il ragazzo esile e biondo che doma senza difficoltà l’orgoglioso destriero.

 

Eri tu, Dorian.

 

E poi, ecco che l’idillio svanisce, la rugiada evapora in superficie, e tutto si dissolve in un tempestivo risveglio.

 

Soltanto un sogno.

 

* * *

 

Dorian avvertì una mano, lieve come una carezza, scostargli la lunga ciocca dispettosa che gli era ricaduta sul viso. Ammiccò appena, un debole sussulto trattenuto fra le labbra, quando il suo sguardo fu trafitto con la medesima intensità di una fucilata dal riverbero prepotente che si riversava sul suo volto attraverso le imposte spalancate sulla stanza.

- Ben svegliato, principino.

Il giovane socchiuse debolmente le palpebre sottili e sbatté le ciglia finché la vista non si snebbiò. I suoi sensi, immersi in un sonnolento torpore, percepirono la voce suadente di Raphäel Lemoine vibrare nell’aria intorno a sé in perfetta sintonia con quanto lo circondava: le coperte soffici, le lenzuola fresche sul suo corpo, il placido chiarore del mattino che, se in un primo istante l’aveva fastidiosamente abbagliato, ora si colorava di dolci sfumature dorate. E Raphäel, la cui presenza l’aveva lasciato un attimo interdetto, torreggiava accanto al suo capezzale, gli occhi vivaci ed il viso sereno di un angelo dai capelli neri. Leggiadro e incantevole, si ritrovò a considerare, suo malgrado, Dorian, la mente affollata da nebulosi pensieri ed i sensi illanguiditi dal recente risveglio.

Stretto nella giacca scura e nella candida semplicità dello jabot annodato sul petto, i riccioli luminosi e l’incarnato chiaro acceso di un insolito colorito rosato, l’oggetto della sua concentrazione stava diritto dinnanzi a lui, intento a soppesare con assorta disinvoltura i tomi sistemati con cura certosina sulla libreria antistante.

- Vai ad una festa? – esordì Dorian, la voce cantilenante impastata di sonno.

- Non esattamente – gli occhi di Raphäel si posarono solerti su di lui, lame incandescenti fra le ciglia scure, e nel suo sguardo non vi era neppure l’ombra dell’etereo distacco della notte precedente.

Dorian fu quasi sfiorato dal pensiero che fossero trascorsi giorni interi, dal momento in cui gli pareva non potesse coesistere legame alcuno fra il gelido e razionale atteggiamento che Raphäel aveva ostentato non molte ore prima – qualche ora? Un intero mattino? Non era in grado di stabilire con esattezza coordinate logiche e temporali fra un prima e un dopo – ed il calore che in quel momento trasudava il suo sguardo affabile.

- Un funerale, ad essere sincero – proseguì il ragazzo – Fra tre ore.

- Oh, cielo… – proruppe Dorian, scattando a sedere come un fulmine – Il funerale! Io… Devo…

- No, Dorian, non è necessario – lo interruppe Raphäel, perentorio – Nelle tue condizioni, sei dispensato.

Il braccio di Raphäel gli circondò le spalle nude. Obbediente, il volto rassegnato, Dorian acconsentì a distendersi di nuovo.

- Non prendere il mio come il capriccio di un bimbo malato, Raphäel. Si dà il caso che ora stia meglio – mormorò roco, fronteggiandolo.

Raphäel socchiuse gli occhi, una piega di sagace, furtiva ironia che gli percorreva le labbra.

- Sarei pronto a crederti sulla parola, Dorian, se giusto cinque ore fa non fosse stato proprio il sottoscritto a riportarti a casa. Di peso, mon ami.

Dorian intrecciò le braccia sul petto, vagamente infastidito da tanta premurosa diffidenza.

- Ah, dunque, le cose stanno così. Agli ordini, mamma – cinguettò serafico, punto sul vivo all’idea che Raphäel potesse rinfacciargli di essersi preso cura di lui, benché, non a torto, Dorian presumesse che fargli pesare un atto generoso da parte sua non rientrasse esattamente nello stile di un tipo come Raphäel.

Il giovane parve ignorare la velata polemica, indulgendo sulla palese provocazione che trapelava dalle brevi parole indirizzategli. Si chinò su di lui, e la mano fulminea corse a tastargli la fronte.

Dorian trasalì: il suo sguardo saettò disperatamente intorno alla stanza come un naufrago in cerca di un appiglio tra i flutti che lo sballottano senza posa e a proprio piacere; ma la luce intensa del giorno lo schiaffeggiava in pieno viso, lasciando cadere nel vuoto ogni speranza, seppure remota, di celare dietro un velo provvisorio il rossore che gli era montato furiosamente sulle guance. Sbatté le palpebre, stordito, in preda ad un oscuro languore che gli ribolliva nelle vene; invano, s’impose di smettere di fissare con occhi liquidi ed assenti il lieve movimento del torace di Raphäel che si alzava e si abbassava ritmicamente sotto la camicia, in sintonia con il respiro, e la curva delicata delle clavicole in rilievo che scompariva al di là delle vesti, là dove il suo sguardo si era arenato e seguitava ad indugiare pericolosamente.

E l’inspiegabile calore che dal petto gli pervadeva le membra, accompagnato da un tremito che egli si sforzava di rendere quanto più impercettibile, dissonava curiosamente con l’aggraziata fermezza che accompagnava i gesti di Raphäel e la fresca, asciutta sensazione che emanava il suo corpo sottile: sensazioni che parevano accrescere, per contrasto, la vivida tensione che attanagliava Dorian.

- A quanto pare, ora stai meglio – mormorò Raphäel – La temperatura è calata, ringraziando il cielo.

Ma Dorian non lo ascoltava più: immobile, si morse nervosamente l’unghia del pollice, lo sguardo basso perso fra le pieghe delle lenzuola e l’aroma della colonia di cui Raphäel si era generosamente cosparso incollato alle labbra.

 

Calma. Puoi ancora mantenere una parvenza di controllo. È solo l’apprensione che ti ha giocato strani scherzi.

Il sogno di stanotte, per quanto reale ed inquietante possa apparirti, non è sintomo di alcuna fantomatica rivelazione: la sola fonte delle tue verità di nome fa Auguste de la Garde, e lui non vuole, non deve o, forse, non può rivelarti: è tutto ciò che sai.

E la sola presenza di Raphäel non basta ad innescare in te una tale agitazione e a giustificare la tua libera caduta nel panico.

 

Ma quel profumo…!

Gli parli quasi con asprezza, per poi scoprirti inspiegabilmente sconfitto in un casuale sfioramento.

 

- Dorian? Dicevo che non mi pare una buona idea uscire e strapazzarti ulteriormente. Ora che succede?

Il ragazzo scosse il capo, assorto.

- È… è accaduto di nuovo – sussurrò.

- Cosa, Dorian? – Raphäel aguzzò lo sguardo, mentre le mani si stringevano paternamente alle sue.

- I sogni… Quelle cose lì, Raphäel – tagliò corto Dorian, d’un fiato – Non capita spesso. Era… confuso. Eppure, mi sono visto, tredicenne, cavalcare al di là del fiume. Poi… Nulla.

Le dita sinuose di Raphäel s’intrecciarono alle sue con crescente vigore.

- Tranquillo, Dorian, tranquillo – gli sussurrò in una dolce cadenza – Cerca solo di ricordare cos’hai visto. Che qualche reminiscenza tenti di venire alla luce? – azzardò.

Il giovane scosse tristemente il capo, pentendosi, un istante dopo, delle proprie azzardate confessioni.

- No, è tutto qui, non vi è nient’altro. Solo, volevo domandarti un favore, Raphäel: l’ultimo, per oggi.

Deglutì, lo sguardo incredibilmente lucido fisso sull’altro: prima fosse riuscito a troncare la questione, meglio sarebbe stato per tutti.

- Ti chiedo di dimenticare ciò che hai visto e udito stanotte.

Raphäel scosse il capo, frastornato.

- Temo non sia possibile, Dorian. Non fuggire da chi vuole aiutarti.

 

È mero, disinteressato altruismo, Raphäel, è solo semplice curiosità o vi è un fine nascosto in tutto quel che fai? Vale la pena fidarsi di te: è la mia situazione a essere troppo complessa perché io possa crearmi delle illusioni.

 

Dorian tese la mano dinnanzi a sé, categorico.

- Alt. Non otterrai nulla a prenderti a cuore propositi astrusi destinati in partenza al nulla di fatto e rovinarti l’esistenza dietro ad una vana follia. Dimentica.

Distolse il volto, reso altero da una piega ostinata che pareva non concedere alcuna replica. No, era meglio che Raphäel si mettesse l’anima in pace: lui non avrebbe fatto nulla, stavolta. Niente più iniziative azzardate.

E, fra le trame di una disperazione che prendeva corpo con crescente forza, ponendo sempre più a dura prova il reggersi delle sue vaghe speranze, veniva meno in lui la disincantata sfrontatezza che gli era propria; veniva meno la smania di agire, di acciuffare il primo disgraziato di turno che si fosse preso a cuore la sua causa e coinvolgerlo in arcane iniziative.

- Non è così – Raphäel lo fissò, lo sguardo infiammato di una cieca insistenza – Auguste prima o poi si deciderà a cantare. Crollerà: se quel che si ostina a riserbare per sé è davvero importante, non reggerà ancora a lungo – convenne, un luccichio d’indecifrabile malizia che tremolava in fondo agli occhi scuri.

Dorian spalancò le palpebre, sbigottito dinnanzi all’atteggiamento indefesso e spregiudicato del compagno.

- Approfitteresti di un momento in cui è fragile?

Come fai a restare così calmo e imperturbabile?

- No, decisamente no. Non ve ne sarà bisogno – Raphäel sorrise, sibillino – Auguste non è il bastardo che credi. Non del tutto, almeno.

- Ne sei davvero convinto? – proruppe Dorian con voce alterata – Potrei considerarmi fortunato a decifrare soltanto un decimo di tutto ciò che ruota intorno ad Auguste. Il sangue sulla sua camicia, giusto per fare un esempio, e lui completamente illeso… Questo, ti dice nulla? Ai tuoi occhi, Auguste appare ancora come un uomo sul quale riporre la propria fiducia?

Raphäel si sfiorò le labbra con fare meditabondo.

- Non correre, Dorian. È credibile che Auguste si sia premurato di dare il benservito ai due sciacalli che erano quasi riusciti a giocarci e si apprestavano ad abbandonare indisturbati la città con il nostro denaro. Deve essere andata così, Dorian, almeno fino a quando qualcosa non proverà il contrario. Ma questo, a ben vedere, ha poco a che spartire con ciò che ti riguarda.

- Ce l’ha eccome, ed Auguste è riuscito a incantare anche te. Dovrei ancora starmene buono ai suoi ordini e riporre il valore della mia esistenza spezzata sulle reticenze di una persona che dice di giocare a carte scoperte, per poi rivelarsi nient’altro che un fumoso ammasso d’incoerenze che sfugge ad ogni spiegazione razionale? Auguste si guarda bene dal lasciar trapelare ciò che vuol fare della nostra associazione.

- Auguste è stato chiaro nel giustificare la sua assenza.

- Ed è stato ancora più bravo nel privarci di dieci anni di vita, scomparendo all’improvviso alla vigilia del funerale di Lucien – soggiunse Dorian, risentito.

- Dobbiamo informare gli altri. Ancora non sanno se Auguste è vivo oppure no – mutò repentinamente discorso Raphäel, soprappensiero – Emilie non ha sue notizie dalla notte scorsa, Fernand era addirittura terrorizzato.

- Da fare quanto prima – tagliò corto Dorian – Ma ora, se me lo concedi, preferirei chiudere qui la nostra discussione.

Sospirò: sarebbe stato tutt’altro che saggio da parte sua, quel giorno, tentare ancora di parlare con Auguste. Vide Raphäel annuire contrito in un cenno impercettibile del capo, prima di distogliere lo sguardo.

 

- Raphäel… – Dorian accennò in direzione dell’amico, dopo un intervallo in cui nessuno dei due ebbe proferito parola, limitandosi a gettare di tanto in tanto  occhiate furtive sull’altro, in un silenzio terso che pareva foriero di tensioni taciute – Mi avvicineresti la camicia?

Raphäel lo squadrò con fare diffidente.

- Non avrai intenzione di uscire? – squittì.

Insisti?

Dorian sollevò gli occhi al cielo, spazientito, le labbra increspate in un finto broncio.

- Magari, soltanto di vestirmi? – ribatté con fare sprezzante.

- Se ti osservassi un po’ meglio intorno, ti accorgeresti che la camicia è sotto il tuo naso – gli occhi di Raphäel luccicarono ironici.

Dorian si tirò il lenzuolo sulle spalle, scoccandogli uno sguardo teatralmente implorante e chiedendosi per quale arcana ragione Raphäel seguitasse a stargli addosso come un’ombra ineffabile, intercettando abilmente le sue frecciatine e scherzandoci insieme come vecchi compari. E malgrado lui, Dorian, l’avesse trattato con freddezza, premurandosi di troncare bruscamente il precario legame che li univa. Il segreto che, per un caso fortuito, si erano ritrovati a condividere quella notte, fra le vie scure di Noir Trésor. L’aveva tagliato fuori dalla questione in un battito di ciglia, semplificando il tutto in vorticosi e confusi giri di parole, il cui significato effettivo pareva recitare letteralmente: evita, da questo momento, di mettere bocca su quanto hai appreso, e noi due andremo molto d’accordo.

L’aveva trattato da estraneo, piuttosto che da amico: che diritto aveva, ora, di abusare ancora della sua disponibilità?

Raphäel lo fissò interdetto e, inaspettatamente, esplose in una risata improvvisa.

- E adesso, che diavolo succede? – Dorian si riscosse bruscamente.

- Oh, santo cielo! – balbettò Raphäel – Dimmi che non è così, te ne prego! Proprio non riesco, non riesco a immaginare un Dorian così altezzoso da… Evitare di farsi vedere nudo… [1]

Dorian ebbe la matematica certezza di essere arrossito. L’avrebbe preso volentieri a pugni per quell’impunita, innata sfrontatezza con cui si divertiva a metterlo in imbarazzo. E doveva svicolare prima possibile dall’imbarazzante malinteso, prima di dare spazio a nuovi equivoci, modellando il proprio viso in un’espressione di sfida.

Un mezzo sorriso che sapeva di scherno ed irriverente malizia comparve sul suo volto, quando, scrollandosi di dosso le coperte, si tirò su a sedere, pronto a riappropriarsi della sua dannata camicia.

 

È questo il Dorian che tutti conoscono, la variante di più semplice individuazione: esasperante nel suo evanescente, smaccato velo d’ironia, l’umore mutevole che oscilla senza posa fra la tristezza e la riflessione, in mezzo a sporadiche sfumature pungenti e sarcastiche. Un pazzo, forse?

 

Dissimulò abilmente il lieve senso di vertigine che l’aveva colto nell’attimo in cui si era risollevato in piedi. Sentì la testa girargli, ma si sforzò di non farci caso.

- Non sono nudo, per la cronaca.

- Però sei vanitoso – Raphäel si ravviò i capelli in un gesto distratto, raccogliendo tacitamente la sfida.

Dorian arricciò le labbra, avvertendo il suo sguardo bruciare su di lui.

 

In mancanza d’altro, ci si appiglia a qualunque cosa si presti ad essere anteposta provvisoriamente al nulla… Chiamala bellezza, amico mio, chiamala vanità, chiamala l’amara ironia di chi si barcamena in uno stentato equilibrio su fili di metallo, troppo sottili perché possano reggere, ma abbastanza duri da ferirti.

E guerra sia, caro il mio Raphäel.

 

Scostò i riccioli biondi dalla spalla e si avviò con l’incedere lento e sfrontato di un gatto, i soli calzoni indosso a proteggerlo dalla completa nudità, verso l’agognata camicia che giaceva abbandonata su una sedia a pochi passi dal letto.

- Fine dello spettacolo, Raphäel – sibilò, tagliente, sistemandosi con cura il serico indumento sulle spalle ampie.

Raphäel tacque, limitandosi a ghignare divertito nella sua direzione.

- E gradirei anche potermi dare una rinfrescata al viso, con il vostro permesso – insistette Dorian – Sempre che per te questo non implichi l’inedito pericolo che mi defili da sotto il tuo naso da un momento all’altro, pronto di tutto punto, sfuggendo alla tua custodia non appena ti distrarrai.

Uscirei da questa stanza, certo: lo farei soltanto per il gusto di tapparti la bocca.

- Fa’ pure con comodo, Dorian: con te posso persino correre il rischio di lasciarti fuggire – Raphäel gli sorrise con fare amichevole dal lato opposto della stanza, la lunga mano affusolata che tastava distrattamente la consistenza sottile della tenda, lo sguardo che mirava indolente, al di là della finestra, la via sottostante, il brulichio di gente indaffarata che si dirigeva alla volta del piccolo mercato nella piazza del rione.

Dorian si tamponò il viso con un panno pulito, dopo essersi sciacquato con cura, indugiando sul proprio riflesso nello specchio antistante. Immobile, fissò il proprio volto disfatto in seguito all’orribile notte trascorsa, i begli occhi azzurri incassati nelle occhiaie scure che spiccavano sul pallore cereo e quasi innaturale.

Il ragazzo piegò la testa all’indietro nell’atto di radunare la massa dei suoi capelli in un codino, ma qualcosa calamitò la sua attenzione. Trattenne il fiato.

Sulla pelle della gola che riluceva di un candore immacolato, due punture allineate spiccavano in corrispondenza della giugulare, rosse di sangue fresco.

- No! – ruggì.

Sussultando, il giovane si portò la mano alle minuscole ferite aperte, avvertendo la ruvida consistenza della pelle sottile smangiata ai bordi.

- No, no, no! – seguitò in un’atroce nenia.

- Dorian!

Raphäel fu subito al suo fianco, il volto pervaso d’inquietudine.

- Anche… Anche Fernand. Raphäel, è accaduta la stessa cosa a Fernand – gemette Dorian con voce stridula – Stessi sintomi, stessi segni sul collo, e non sono il solo a essersene reso conto. Non era una mia impressione, non era una sciocca coincidenza! E ora…

Paralizzato dal terrore, Dorian crollò in ginocchio sul pavimento, la scacchiera di losanghe bianche e nere che roteava sotto i suoi occhi, le membra scosse da un tremito violento e spasmodico e il capo stretto fra le mani, finché l’accesso di terrore non gli confluì dolorosamente in gola, dispiegandosi in un grido lancinante.

 

Nulla è più come prima.

Ed ora, fra le trame di un nuovo timore oscuro ed inafferrabile, ecco che tutto sembra quasi perdere consistenza ai tuoi occhi: il fanciullo biondo del tuo sogno, il funerale, l’impianto confuso che regge e motiva la tua esistenza, Auguste e le sue ambiguità; perfino il desiderio immotivato ed improvviso, privo di cause e antecedenti, di stracciare la camicia buona di Raphäel Lemoine ed accostare timidamente le labbra alla sua pelle color alabastro, perde di significato – ed è così: il desiderio ha percorso la tua mente, Dorian, anche solo per un istante, e nessuno lo sa meglio di te, per quanto ti guardi bene dall’ammetterlo.

Ma in questo momento, scaraventato fra le trame di un ignoto pericolo a causa dell’oscuro morbo che ti prosciuga le vene, tutto questo non conta che relativamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Doverosa precisazione: la scena quivi riportata, con gli arrangiamenti del caso, strizza l’occhio ad una scena presente in Versailles no bara (o Lady Oscar che dir si voglia), manga che adoro: praticamente, Oscar è stata ferita, e, nel momento in cui le si deve cambiarle le bende, la nonnina scaccia André ed il conte di Fersen presenti nella stanza. E quest’ultimo, astuto, fa alla ragazza (convinto che si tratti di un lui): “Non sarete così altezzoso da non farvi vedere nudo”! Beh, capirete da voi che i due casi sono “lievemente” diversi: nel caso di Oscar, si trattava di un seno da nascondere, onde evitare di palesarsi inequivocabilmente come donna.

Nel caso di Dorian, rassicuro da eventuali malintesi: si tratta semplicemente di un canonico torace maschile! E di una battuta idiota.

Ho ritenuto giusto precisare le fonti per correttezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

 

Buonasera a tutti!^^

Bene. Eccomi finalmente giunta alla sezione ringraziamenti, più varie & eventuali.

Avendo ripreso finalmente a scrivere a pieno ritmo (e anche a studiare…), stavolta posso dire di aver aggiornato in tempi un po’ meno tremendi!

*Sospiro di sollievo*: questo è un capitolo che, in un certo qual modo, segna una “svolta”. Qualcosa comincia a dipanarsi fra le maglie del mistero… Ma siccome preferisco “lasciar intuire” piuttosto che palesare (e sì, sono bastardissima in questo!), che dire: lascio l’eventualità nelle mani del lettore. Tutto è a sua discrezione, sacro ed inviolabile diritto.

 

Passando ai ringraziamenti veri e propri, come non citare la recensione di Renovatio? Ancora una volta, carissima, leggere le tue impressioni ed i tuoi commenti sulle vicende mi ha fatto incredibilmente piacere. Per me, e penso un po’ per ogni autore, il commento del lettore è indispensabile ed irrinunciabile!

Dunque, dunque: Emilie, per quanto non si erga particolarmente quanto a statura morale, non è un personaggio del tutto negativo (sebbene antipatico. E sono felice di essere riuscita a “centrare” la scarsa simpatia del personaggio!)… Anche se sono propensa a pensare che il suo innegabile fondo di negatività sia dato soprattutto dal ruolo che riveste nel tessuto della trama e nel rapporto con gli altri personaggi (tanto per spezzare una lancia: sfiderei chiunque a stare al fianco di Auguste, che con la testa non è che ci sia proprio del tutto, e a mantenere un impeccabile equilibrio…). Sono felice che tu sia riuscita a cogliere la contrapposizione fra le due donne… Per quanto ambedue ne riservino delle belle!

Auguste e Fernand: l’indissolubile binomio fra cose non dette e totale incapacità d’interagire pacificamente, evitando possibilmente di divorarsi a vicenda. Un motivo c’è… Forse anche due o tre, ora che ci penso.

Stavolta è stato il turno di Dorian di “raccontare” la propria parte in causa nella storia e, esponendo il suo buon carico di angosce, di guadagnarsi il proprio “quarto d’ora di celebrità”. Il biondino piomba nel baratro delle proprie incertezze, e il buon Raphäel tergiversa… Okay, glisso ora, prima che fra i tasti scappi qualche spoiler!

Spero che anche questo capitolo sia di tuo gradimento: ancora grazie e buon proseguimento!

Ps: “Auguste è fuori di testa, lucidamente fuori di testa”… Giuro: qua ho riso davvero! Quel che io ho impiegato pagine e paginare a sciorinare nelle prospettive più disparate e nelle più impensabili sfaccettature… Beh, è stato un po’ riassunto in poche parole! XD

 

Ringrazio ancora i lettori al completo, coloro che si palesano e coloro che stanno nell’ombra… Al prossimo aggiornamento!

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Capitolo 19
*** Capitolo 19: Brandelli di solitudine ***


Capitolo 19

Brandelli di solitudine

 

 

 

Orrore e dubbio confondono i suoi pensieri affannati

E dal profondo l’Inferno gli si agita dentro

Poiché l’Inferno ha dentro di sé

L’Inferno attorno a sé

E non c’è passo che valga ad allontanarlo

Dall’Inferno che in lui alberga.

(Milton, Paradiso Perduto)

 

 

 

 

Nessun timore. Nessuna emozione, nessun riflusso di quel dolore disperato che l’aveva incatenato per due giorni e due notti, fino alla parziale conclusione, aveva percorso il cuore di Auguste, nell’istante in cui aveva allungato la mano dinnanzi a sé, sospingendo per l’ultima volta l’uscio appena accostato che riparava da sguardi indiscreti l’interno della dimora di Lucien, ingrato sepolcro aperto al pubblico.

Si morse nervosamente il labbro, avvertendo per un poco il sapore aspro ed acuto del proprio sangue.

 

Eppure, non vi è sangue che tenga, quando nelle proprie vene non scorre altro che veleno e rancore; non vi è sofferenza utile a espiare la colpa, alleviando la consapevolezza della propria bestialità.

Non vi è rimpianto nel cuore di chi ha consacrato la propria anima alla più cupa dannazione, spogliandosi di ogni residuo d’umanità e gettando in pasto ai cani la propria coscienza nell’attimo stesso in cui ha stretto l’arma in pugno con gli occhi iniettati di una follia che, indefessa, segue il proprio tragico corso senza conoscere vincoli né rimpianti.

Non può essere ricettacolo di un amore assoluto e libero da condizionamenti dettati dall’odio, l’animo di colui che maledice l’uccisore, per poi ripulire il sangue versato con altrettanto sangue.

E questo non cancellerà quel che è stato, non mi salverà dall’abisso trasudante fiele nel quale sto annegando, non mi dispenserà dal disprezzo e dall’odio che si deve all’assassino.

Ad Auguste de la Garde è stato risparmiato il paradossale sollievo che gli avrebbe arrecato piangere le lacrime del giusto dinnanzi alla salma della persona che porterà con sé nella tomba l’ultimo residuo d’umanità del suo amante, insieme a quell’irrazionale, dolce sentimento spezzato da un colpo di pugnale alla gola e corroso dal germe della follia.

Non sono l’angelo vendicatore, non sono l’eroe che vendica l’amato ucciso: sono la belva ferita che si pasce della distruzione dei propri stessi assassini; e non sarei degno neppure di pronunciare il nome di Lucien, se quell’atavica ipocrisia che regola il mio atteggiarmi fra altrettante maschere di circostanza non mi riempisse la bocca.

 

Auguste si osservò tutt’intorno, smarrito: lo sguardo assente non indugiò più di qualche breve istante sui volti che incrociava, non s’impresse abbastanza a lungo da identificare le ombre che fluttuavano dinnanzi a lui. Non gli importava.

In silenzio, contemplò la stanza per l’ultima volta; l’androne immerso nel buio, così ampio, ai suoi occhi, da infondergli un fatale senso d’instabilità. Seguì il triste tremolio della fiammella in cima al cero che ardeva nella penombra, dinnanzi alla bara aperta. Ma nessuna, nessuna delle sensazioni che l’avevano pervaso soltanto una sera prima, nel momento in cui aveva rimesso piede in quella casa, attraversava in quel momento la sua mente ormai svuotata, immobile, scevra da ogni implicazione; soltanto un brivido di freddo che gli attanagliava il petto in una morsa gelida e gli s’incuneava nelle ossa, diffondendosi nel resto del corpo in un fremito d’orrore che lo scuoteva fino alle estremità.

 

È così. Non vi è rimorso, non vi è rimpianto, non vi è in me la disperazione che mi spingerebbe a gettarmi ai piedi della cassa e darmi la morte con lo stesso pugnale attraverso cui ho creduto di poter se non altro placare la mia sterile, deleteria brama di vendetta. E questo, se possibile, è il tormento peggiore che possa patire.

 

L’amore per Lucien non ha bilanciato l’odio verso coloro che ti hanno privato di ciò che amavi più di ogni altra cosa al mondo.

Non è un’equazione complessa, Auguste: lo slancio che ti porta ad impugnare le insegne dell’odio, semplicemente, agisce su di te con maggior intensità rispetto a tutto ciò che dovrebbe condurre le tue azioni ad un fine positivo. Desolatamente, è tutto qui, e prima ne prenderai coscienza, prima imparerai a convivere con ciò che sei diventato. O che sei sempre stato.

 

Auguste distolse bruscamente lo sguardo dalla fiammella che gli ardeva in fondo alle iridi e serrò le palpebre con vigore, impedendo al leggero madore impigliato fra le ciglia sottili di tramutarsi in una fragile lacrima sugli occhi che bruciavano.

E ciò che egli maggiormente avvertiva come un angosciante paradosso non era il dolore inafferrabile che gli ribolliva nel petto sotto una cappa d’indifferenza, smorzato dalla furia degli eventi ed occultato sotto il cono d’ombra del proprio straniamento, quanto il rimescolio di sensazioni ovattate che rifiutava di essere catalogato con semplicità sotto l’appellativo di “sentimento” o “sensazione”. Era di più: era una prospettiva, una patina che velava la realtà dinnanzi ai suoi occhi, un modo alienante di esistere.

Auguste deglutì a fatica, avvertendo la familiare consistenza di una stilla di pianto scorrere impercettibile lungo la guancia, granello di sabbia innocuo solo in apparenza e prossimo a divenire valanga. E, facendo appello al proprio coraggio, insinuò lo sguardo oltre il lungo cilindro di candida cera che si consumava con molle ed ineluttabile intensità, simile al lento stillicidio che scavava voragini di palpitante angoscia sul suo cuore, e si costrinse a proiettare la propria visuale sulla cassa lignea che ospitava ed avrebbe racchiuso per l’eternità il corpo senza vita di Lucien.

Arriveranno presto. Vengono, chiudono la bara, e poi

Auguste trasalì, il cuore scalfito in superficie dalle parole che percepiva confuse intorno a sé.

 

Nell’indifferenza. Tutto si consumerà nell’indifferenza, nell’ozioso, consolatorio distacco che lentamente sta trascinando anche me, seppure recalcitrante a riconoscerlo appieno.

È davvero così riduttivamente semplice? È la mia stoltezza a non permettermi di accettare serenamente che, non appena tutto sarà compiuto, ogni brandello che resta della mia coscienza non sarà che fumo negli occhi, ancora per un po’, prima di dissolversi nel progredire dei giorni? È… è normale. Tutto assurdamente, tragicamente “normale”. È forse così? Non vi è nient’altro.

La mia stella polare smette di brillare, cessa d’indicare la via, e il marinaio prosegue nel suo viaggio incurante di ciò, nell’ingenua consapevolezza a priori che nulla sia mutato nel cielo sopra di sé.

 

Deglutendo a fatica, Auguste calò lo sguardo su Lucien. Il volto candido, sfiorato appena dalla danza inquietante del pallido lume, gli apparve rischiarato da uno statuario splendore nel chiaroscuro di luminescenze ed ombre fuggevoli. Carezzò con il proprio sguardo le labbra delicate soffuse di un tenue barlume rosato, le dita morbidamente intrecciate sul petto, il bavero rialzato che, sorretto dalla voluminosa cravatta, celava con discrezione la ferita mortale che gli aveva perforato la gola.

 

Sei bello. Sei tanto bello che il pensiero di vederti deporre sotto la nuda terra da braccia sconosciute, protetto da un guscio gelido, e di non vederti mai più, potrebbe rendermi preda di una furia cieca e distruttrice, di una follia che mi spingerebbe a gettarmi su coloro che fra qualche istante ti strapperanno definitivamente anche alla mia vista.

I miei occhi si cullano e s’ingannano in questi ultimi istanti, ed io m’illudo di poter ininterrottamente accarezzare con le mie facoltà visive l’armonia del tuo viso d’avorio, di confondere in eterno realtà e sogno perdendomi nella curvatura impalpabile delle tue ciglia, nel velluto dei tuoi capelli corvini, nella tua immagine impressa dinnanzi a me, e mi sforzo d’ignorare che, tempo qualche istante, sarò privato anche della puerile, effimera, irragionevole illusione.

 

Il suo estatico torpore fu dissolto dal muto palesarsi dinnanzi a sé di due figure che lentamente si accostarono al suo fianco, di fronte al feretro scoperto: Monsieur e Madame Mirand, i genitori di Lucien.

 

E così, il momento è giunto. Il momento in cui… devo salutarti, Lou.

 

Auguste sobbalzò impercettibilmente. Scorse Emmanuel Mirand, il volto sciupato atteggiato in un luttuoso contegno, abbandonare il braccio della moglie e muoversi verso di lui. Un lieve sfioramento sul gomito gli ricordò che il suo compito era concluso. Chinò il capo, mentre il cuore gli tormentava furiosamente il petto.

Emmanuel accennò al portone d’ingresso con un vago gesto del capo, ed Auguste annuì in una lieve scrollata di spalle, il volto pallido e smarrito, intercettando per un istante lo sguardo di Rose Mirand aleggiare alle spalle del marito con fare inquisitore, carico di un risentito disappunto, per poi addolcirsi con fare sottilmente complice nel posarsi su di lui.

 

Forse, posso ancora contare su un alleato.

La signora Mirand potrebbe rivelarsi l’unica persona in grado di tenere in scacco gli impulsi irragionevoli di suo marito ed alleviare gli effetti deleteri del dolore di un padre che non ha mai accettato le scelte di un figlio rivoluzionario fino alla morte. Ed ora che Lucien non c’è più, Rose è una donna infelice: amava suo figlio e desiderava fosse libero; ha anteposto la felicità di Lucien persino nel momento in cui vivere in accordo con la libertà del cuore ha significato per lui accogliere sulle proprie spalle il fardello del pericolo e di una posizione arrischiata. Rose è simile a Lou: conosceva bene suo figlio, certo sa degli accordi fra me ed Emmanuel e ha compreso tutto.

Ma che senso ha, ora?

 

Auguste attese una manciata di secondi, lo sguardo che schizzava nervoso dal portone semichiuso al volto impenetrabile della signora Mirand. Imboccò furtivamente l’uscita diretta sul viottolo che costeggiava l’abitazione.

- Che notizie mi porti, Auguste?

Il giovane sollevò lo sguardo privo d’espressione; senza indugio, le dita tremanti, cercò all’interno del mantello ed estrasse il pugnale.

- È vostro, Monsieur Mirand – mormorò con voce asciutta, controllando il fremito d’angoscia che gli stringeva la gola.

Il padre di Lucien spalancò gli occhi. Auguste non riuscì a cogliere nel suo sguardo nessuna sfumatura condiscendente nei suoi riguardi: nessun guizzo d’umanità per il pazzo che, nel momento in cui vi era in gioco la vita, aveva trascinato Lucien con sé nel baratro, fino al misero epilogo che, per un caso sciagurato, era toccato soltanto ad uno di loro.

 

Eppure, una volta mi voleva bene; era gentile con lo strano ragazzo che stravedeva Lucien.

Ma io non merito nulla di tutto ciò; non merito nessuna forma d’indulgenza. Perché si tratterebbe in ogni caso di una bugia.

 

- Cosa diavolo significa? – Emmanuel Mirand soppesò fra le mani l’arma che gli era stata restituita – Parla chiaro con me, Auguste, perché non ho alcuna intenzione di tollerare ancora a lungo le tue commedie.

- Significa che ho fatto come voi mi avete detto – Auguste lo fronteggiò con espressione dura – E, come finalmente avrete inteso, non è servito a nulla. A nulla, perché vendicarvi in contemporanea di chi fisicamente ha vibrato il colpo e di colui che, inconsapevolmente, ha condotto Lucien alla morte, non vi restituirà vostro figlio.

- Tu…?

Auguste serrò le palpebre: le sue parole sferzanti, della cui intrinseca indiscrezione si era avveduto soltanto un istante dopo averle pronunciate, avrebbero con ogni probabilità sortito in Emmanuel, di lì a poco, una reazione violenta. Era pronto ad incassare il colpo senza replicare.

- Proprio io – proseguì – Sono ciò che voi avete prodotto quando mi avete messo in mano un coltello. Ma non l’ho fatto per voi e neppure per Lucien. Lucien non mi avrebbe mai… Persuaso ad uccidere. Posso però dire… Che l’ho fatto per me stesso e nulla di più. Nessuno di noi lo desiderava veramente, ma io non ho considerato nulla di tutto ciò.

Auguste tacque, sconcertato dal gelido impatto delle parole che fluivano dalle sue stesse labbra, stille di veleno.

 

E non vi è nulla su cui vale la pena ragionare, Emmanuel, poiché significherebbe assumere con leggerezza su di sé la licenza d’impazzire dietro assurdi ripiegamenti, girare in tondo senza approdare a nulla.

Guardami: ciò che vedi dinnanzi a te, padre, non è nient’altro che ciò che tu stesso hai plasmato con le tue mani, ciò che deliberatamente hai voluto fare di me. Hai creato il mostro, Emmanuel, e la tua folle creatura è sfuggita alla tua supervisione. Volevi usarmi come un’arma priva di anima, e la tua sfortuna, contro ogni umana aspettativa, è che ce l’hai fatta per davvero. Hai voluto il sicario, l’assassino, il vendicatore: cosa puoi fare, ora, se non ingegnarti a convivere pacificamente con il rancore ed il debito crudele che ci lega a doppio filo?

 

Emmanuel lo misurò lentamente fino alla punta dei capelli, per poi proiettare il proprio sguardo oltre la sua persona, quasi fosse divenuto evanescente. Auguste arretrò di un passo.

- Dunque, l’hai fatto veramente – mormorò Emmanuel, ed Auguste fu certo di scorgere negli occhi del padre di Lucien il più cocente, spassionato disprezzo, disprezzo verso tutto ciò che era: cospiratore, assassino, vigliacco.

- Volete forse denunciarmi?

- Se avessi voluto farlo, credimi, avrei agito tempo addietro. Sarebbe stato meglio se mi fossi liberato di te prima che attirassi la disgrazia su mio figlio.

Auguste strinse le palpebre in un impulso di dolore e di collera impotente. Va’ all’inferno, avrebbe voluto gridargli, va’ all’inferno e restaci, maledetto bastardo! Perché non sei meno responsabile di me della morte di Lucien. Perché mi avresti estromesso dalla sua vita, fosse dipeso da te, con i suoi sogni, per quanto ingannevole e deleterio fosse ciò che io incarnavo per lui, e ti saresti battuto per impedire a tuo figlio di vivere come desiderava, in nome delle vostre fottute paure.

- Eppure, non farò nulla di tutto ciò. Non l’ho fatto prima, non lo farò in futuro – Emmanuel gli si fece più vicino – Non posso impedirti di entrare in chiesa e partecipare al suo funerale, ma, dopo stasera, desidero che tu sparisca dalla nostra esistenza e non ti ripresenti più. Mia moglie insiste nel voler scoprire cosa veramente sia accaduto a nostro figlio, capisci, ma tu terrai la bocca chiusa, e con questo spero vivamente che non mi faccia pentire di aver desistito dal proposito di gettarti a marcire in prigione. È tutto.

Auguste annuì con cieca rassegnazione, scosso dal repentino, violento impulso di allontanarsi da quella strada, da quel luogo, da quella gente: era tutto ciò che gli restava di lui, insieme ai ricordi che ogni istante di più gli facevano pesare il mero fatto di essere ancora vivo. Era la gabbia di lacrime che l’avrebbe inseguito dovunque egli si fosse recato.

- Ora vattene, Auguste de la Garde. Sparisci.

 

Sparisci.

 

Ed io me ne andrò, monsieur Mirand, come desiderate voi. Ma in me non svanirà il ricordo straziante, né in voi la consapevolezza.

 

Senza aggiungere altro, Auguste imboccò la stretta via che l’avrebbe condotto fisicamente lontano dal suo incubo, il volto allucinato, i pensieri impigliati in qualche remoto angolo della sua mente svuotata e confusa. La strada, umida e fangosa per le ultime tracce di pioggia, irriducibili dinnanzi al calore del sole, scorreva sotto i suoi passi quasi senza che egli ne avvertisse l’impatto.

Il rimpianto, unico ed infido compagno, solitario residuo del suo amore disperato, avrebbe circoscritto le trame della sua esistenza, scolpito nella sua mente con la forza erosiva dello scalpello che intacca la resistenza del marmo, come il nome di Lucien sulla candida pietra sepolcrale.

Auguste socchiuse mestamente gli occhi, fessure gravide di languore che luccicavano sul volto livido, per poi portare tristemente i propri passi oltre l’angolo della via.

Era finita. Tutto era compiuto, eppure la consapevolezza non aveva arrecato in lui un solo spiraglio di sollievo.

 

Un impatto violento lo fece trasalire bruscamente, e la repentina intensità dell’urto gli serpeggiò addosso, arrestando i suoi passi in un precario equilibrio, mentre la mano cercava tentoni una rientranza sulla parete cui potersi provvisoriamente appigliare per non incespicare sui suoi stessi passi e ritrovarsi con la faccia nella polvere. Auguste sospirò flebilmente, il respiro affannoso, portando distrattamente la mano a sfiorare il petto dolorante nel punto in cui quel qualcosa o qualcuno l’aveva urtato con forza. Fissò lo sguardo dinnanzi a sé.

Che diavolo

- Perché non guardi dove vai? – proruppe collericamente l’incauta figura che gli era piombata addosso, un istante dopo aver ripreso stabilità sulle proprie gambe facendo leva sul suo soprabito.

Sollevò lo sguardo. La massa disordinata di setosi capelli biondo scuro celava parzialmente alla vista un viso minuto dai tratti gradevolmente irregolari. I grandi occhi affilati dalle iridi di cobalto luccicavano orgogliosi, incorniciati da lunghe ciglia mirabilmente scure.

Per un istante, i due si squadrarono in volto con fare interrogativo.

- … Auguste?! – sussultò il più giovane.

L’interpellato inarcò impercettibilmente il sopracciglio.

 

In persona. E… Potrei dire di te le stesse identiche cose, Fernand.

 

Tacquero. Il velo opaco del silenzio era calato come un gelido sipario sul volto di Fernand, adombrato dalle tracce inconfondibili di una notte insonne, la fronte corrugata che tradiva l’ineffabile processo logico in atto nella mente: restare fermo e ancorato in quel misero riquadro lastricato all’incrocio fra le due vie deserte ed affrontare lucidamente lo spettro delle proprie incertezze, oppure allontanarsi con fare sdegnoso?

In silenzio, Auguste fissò il proprio sguardo alle spalle del ragazzo, verso un breve scorcio di cielo mattutino impregnato di uno slavato chiarore e inquadrato fra le sagome delle abitazioni svettanti. Nubi d’organza sottile filtravano i fievoli raggi dorati che si frantumavano dinnanzi ai suoi occhi in un pulviscolo luccicante, producendo un curioso contrasto con la figura in ombra di Fernand, muta ed indecifrabile di fronte a lui. L’espressione altera del bel volto era stemperata dalla venatura di lieve estenuazione che gli circondava le orbite e dal tremore che gli impacciava le labbra.

- Auguste, io…

Il giovane mosse qualche passo confuso, le sopracciglia aggrottate in una ragnatela di fulminei, convulsi pensieri, tanto che Auguste fu sfiorato per un istante dall’idea che egli non desiderasse altro se non allontanarsi al più presto dall’uomo che soltanto una sera prima aveva approfittato di un semplice pretesto per rivoltarglisi contro come un gatto selvatico sorpreso a pochi palmi dal suo potenziale assalitore.

Non ebbe il tempo necessario a addurre improvvisate scusanti, che la mano di Auguste, tempestiva, gli attanagliò il polso sottile in una presa che di certo non sortì in lui l’effetto rassicurante che avrebbe desiderato infondervi.

Un raggio improvviso riversò uno spiraglio di luce oltre il largo cornicione aggettante di un palazzo, facendosi largo oltre l’intrico di nubi olivastre che percorrevano l’aria satura di vapore ed illuminando i capelli arruffati di Fernand di una tenue aureola in controluce.

Auguste non avvertì la brezza pungente fustigargli il viso accaldato e dissipare il gelido madore che gli aveva inumidito la fronte durante la patetica resa dei conti con Emmanuel Mirand. Percepì soltanto il battito sostenuto di Fernand infuriare nelle vene dei polsi, la pelle fredda sotto le sue dita. Corrugò la fronte. L’avrebbe abbracciato, forse, l’avrebbe pregato di dimenticare quanto era accaduto, se questo fosse stato utile a farlo stare meglio e se soltanto egli stesso non difettasse a tal punto nella volontà di porre rimedio ai propri errori.

- Sei freddo – mormorò assorto, sciogliendolo dolcemente dalla sua morsa.

Lo vide buttare distrattamente lo sguardo sull’impronta bianca e rossa che, per un istante, gli spiccò netta sul polso, le labbra percorse da un fugace sorriso, prima che le sopracciglia scure gli si contraessero in una piega angosciata. Il suo volto s’irrigidì nuovamente in un’espressione tesa.

Fernand sembrava smarrito, turbato, la mente che arrancava nel sintetizzare repentinamente nuove informazioni, fin quando non realizzò di poter accantonare, per il momento, il timore assillante che Auguste avesse davvero posto a repentaglio la propria vita.

- Stai bene, Auguste? – esordì, la voce malferma.

Auguste trasalì. Il ragazzo gli artigliò le spalle, cingendolo in una stretta spasmodica colma d’inquietudine e malcelato sollievo.

- Fernand… – le braccia di Auguste ricaddero rigide lungo i fianchi.

Serrò le palpebre, un impulso doloroso e indecifrabile che no, non voleva saperne di tramutarsi in sollievo.

Fernand non lo odiava per quel che gli aveva fatto: non aveva fuggito irosamente il suo sguardo, non gli aveva rinfacciato l’offesa. Fernand aveva temuto in silenzio per lui, quando Emilie gli si era precipitata in casa mettendolo convulsamente al corrente di com’era scomparso nella notte in compagnia di due sconosciuti ai quali lo univano ignote trame, e una pistola stretta nel pugno – lui! Auguste, che feriva piuttosto con le parole e con la dura, spiazzante razionalità dei gelidi occhi grigi; il cui solo pensiero della fredda impugnatura dell’arma stretta fra le dita era in grado di farlo trasalire, di fargli franare la terra sotto i piedi, di trasmettergli quell’alienante sensazione di capogiro.

L’aveva percosso e umiliato, eppure in quel momento a Fernand pareva non importare altro che l’esserselo ritrovato integro dinnanzi agli occhi.

 

Cosa diavolo aveva fatto, quella notte? Quale spirale autodistruttiva lo induceva a fuggire qualunque conforto?

 

Non fu un abbraccio affettuoso, circonfuso di calore. Le mani di Fernand erano rigide, strenuamente aggrappate alle sue spalle, il corpo tremante, i nervi a fior di pelle.

Il volto di Auguste si rilassò in un sorriso stanco, le dita corsero a sfiorare istintivamente lo zigomo di Fernand percorso da una leggera escoriazione nel punto in cui l’aveva colpito.

Fernand

Auguste serrò le palpebre, le membra pervase da un fervido languore che la mente si sforzava d’incanalare in ogni fibra del suo corpo, alla ricerca di un fragile appiglio da contrapporre alla disperazione; ogni sua percezione era concentrata su quei soffici capelli irrimediabilmente scompigliati che gli accarezzavano il collo.

- Fernand, io… Mi dispiace – sussurrò.

- Ti dispiace…?

La reazione lucida di Fernand esplose fulminea. Per un istante, Auguste si ritrovò costretto, suo malgrado, ad indietreggiare di qualche passo, preso alla sprovvista dal violento strattone per mezzo del quale il giovane l’aveva allontanato da sé. Immobile, fissò il volto di Fernand contorto in un’espressione accigliata, le guance chiazzate di rosso, i frementi occhi azzurri che bruciavano su di lui come spilli arroventati. La mano chiusa a pugno vibrava stretta contro il petto.

 

Vuoi colpirmi di nuovo, Fernand? Fallo ancora, se è ciò che desideri, ma poi dimentica. Per favore.

 

Il ragazzo dischiuse appena le labbra per dire qualcosa, i tratti del viso percorsi da una profonda agitazione, le narici dilatate come un giovane levriero pronto a lanciarsi sulla preda. Poi, inaspettatamente, il risentimento e l’apprensione sfumarono sul suo volto sotto il tepore rasserenante di un crescente sollievo.

- Sei proprio stronzo – gli soffiò.

Auguste sollevò gli occhi al cielo, l’angolo della bocca incurvato in un mezzo sorriso sbilenco.

- Preferirei passare direttamente alle novità, se non ti dispiace.

- Le novità? – Fernand gli scoccò uno sguardo eloquente – Queste, dovresti riferirmele tu. Puoi spiegarmi almeno che cosa diavolo ti sta passando per la testa?

Come da copione.

Auguste deglutì nervosamente. Distolse lo sguardo, cercando di guadagnare tempo alla ricerca di una risposta che giustificasse in maniera quanto più esauriente le sue mosse. Sospirò, contrito: non voleva parlarne, non voleva ritrovarsi con le spalle al muro, com’era avvenuto nell’alienante, patetico confronto che aveva visto Raphäel e Dorian coalizzati e decisi a strappargli di bocca rivelazioni dalla portata insidiosa di un’arma a doppio taglio. Dorian, già: quel piccolo serpente l’aveva messo alle strette nel momento in cui era più vulnerabile, e solo per miracolo era riuscito a non tradirsi. Dorian si era limitato a rivelare ai propri occhi l’altro volto di Auguste: un angosciante labirinto i cui meandri vorticosi da altro non erano costituiti se non da miriadi di cassetti che al loro interno celavano ad occhiate indagatrici nuove maschere, bugie, mezze rivelazioni, segreti rivestiti da barriere di carta, un altro e un altro ancora.

Non Fernand, ora, non di nuovo, essere sorpreso in quello stato, oltre la coltre nebbiosa che occultava i suoi passi, il suo mal architettato teatrino ed i suoi schermi fuorvianti. Non in quel modo e non in quel momento.

- Cos’è successo stanotte, Auguste? – incalzò il più giovane.

I denti candidi scintillarono fra le labbra tirate di Auguste, dischiuse in un sorriso forzato e sofferto. Allungò una mano sulla spalla di Fernand in una presa falsamente rassicurante. Il ragazzo trasalì al suo tocco come punto da uno strale arroventato.

 

Resisti, Auguste: resisti ora, e potrai farlo in qualunque momento.

 

- È tutto a posto ora, Fernand – tagliò corto – Ho sistemato tutto: non vi è nulla da temere; non nell’immediato, se non altro.

- Non tergiversare.

- Se davvero vuoi i particolari – sul volto teso di Auguste comparve un breve luccichio di spazientita indignazione – puoi sempre interpellare il tuo amico Raphäel: sono certo che saprà ragguagliarti al meglio.

- Non è mio amico – si affrettò a ribattere Fernand con voce gelida.

- Eppure avete tanti di quei punti in comune che una vostra eventuale collaborazione mi fa quasi paura – lo sguardo di Auguste assunse un’impronta duramente sarcastica – Volete agire, volete la rivoluzione, volete il sangue del tiranno e dei suoi cani da guardia: volete tutto e lo volete subito. È tutto per voi. Ed io ho persino seguito i tuoi accalorati suggerimenti - pensavo proprio a te, Ferdinand, alla linea di lotta da te a lungo propugnata, quando ho disposto la fornitura di fucili e munizioni commissionando il furto. Ho accettato, perché sono una fottuta testa calda.

Ferdinand: l’aveva volutamente apostrofato con il suo nome di battesimo, quasi a voler sancire la gravità delle proprie affermazioni.

Il ragazzo sbatté le palpebre, trafitto dall’impeto delle parole di Auguste, ma la sua attenzione fu subito riscossa da una risata tagliente.

- Sarebbe stato divertente, Fernand, se tutto fosse andato a buon fine, non credi anche tu? Rivoltare contro il duca le sue stesse armi, quelle che in origine erano destinate a lui!

- Ed ora? – Fernand lo fissò in volto, disorientato.

- Nulla – Auguste si ricompose – Non se n’è fatto nulla.

Lentamente, Auguste portò la mano a sollevare delicatamente il volto di Fernand fino a dirigere il suo sguardo su di sé, le dita che indugiavano distratte in un impercettibile sfioramento lungo il contorno fragile della mandibola. La sua espressione si addolcì.

- Non sono arrabbiato con te, Fernand – gli sussurrò gentilmente, modellando il proprio viso in un’espressione che potesse apparire vagamente serena.

Fernand sembrava confuso, stordito, la mente annebbiata dinnanzi all’andirivieni incessante di caotiche sensazioni che gli era stato riversato addosso con fare convulso, fumo negli occhi.

- Auguste… – il giovane annuì debolmente, l’ombra di un sorriso vagamente accennata sul viso delicato.

Auguste lo fissò senza dire nulla, assorto, il volto privo d’espressione, un grumo di tristezza ancorato al petto che si scioglieva gradualmente, allentando la sua morsa man mano che lo sguardo di Fernand indugiava benevolo su di lui, privo di asperità, per la prima volta, di sfumature ostili, indecifrabili o diffidenti. Lo vide allungare cautamente una mano verso di lui.

- Stai piangendo – mormorò Fernand, sfiorandogli il viso nel punto in cui una lacrima rovente gli rigava la pelle.

Auguste scosse la testa, come a volersi liberare in un fulmineo battito di ciglia di quell’effetto improvviso.

- Dici? – sottrasse di scatto il proprio volto al tocco di Fernand.

Serrò dolorosamente le mascelle, prima di chinare il capo ed abbattersi sconfitto sul ragazzo.

Scosso da sussulti, le braccia allacciate intorno a Fernand, la fronte premuta contro la consistenza ruvida della giacca. Il viso sprofondato nell’incavo della spalla, perché no, non gli avrebbe offerto uno spettacolo tanto patetico.

Fissò distratto l’alone biancastro che le sue lacrime avevano lasciato sulla stoffa scura, insieme alla cipria con la quale aveva tentato, con pessimi risultati, di occultare il livido bluastro sul proprio volto.

Un damerino dal viso ben rasato e incipriato che con fredda noncuranza si reca al funerale della persona che egli stesso ha contribuito a portare alla tomba, il volto duro ed impassibile dinnanzi a chi, non del tutto a torto, lo addita quale vero responsabile: il ritratto dell’ipocrisia.

Scrutò interrogativo il viso di Fernand oltre il velo caliginoso che gli ottenebrava la vista, i lineamenti affilati che si confondevano dinnanzi a lui in un caleidoscopio di lacrime e mutevoli luminescenze. L’ovale pallido gli apparve come lo schizzo appena abbozzato di un ritrattista frettoloso che con rapide pennellate ne aveva descritto i contorni. E Fernand sembrava tanto piccolo ed esile, stretto contro il suo corpo, benché egli, Auguste, non lo sovrastasse eccessivamente.

Era crollato per la seconda volta, la seconda dacché Lucien era morto, una muta resa fra le braccia di una persona nella quale aveva intuito un flebile anelito di comprensione. Com’era avvenuto con Ambrosie, quell’orribile notte, sulla soglia della stanza in cui l’unica persona che egli amava era stata uccisa. Ambrosie, fiera e labirintica razionalità che si sforzava di celare al proprio interno gli impulsi più irrazionali della passionalità; e Fernand, orgoglio disperato che si dibatteva fra passioni imperscrutabili e discordanti, opponendo un fervore dirompente, quasi sconsiderato, al gelo che irradiava dentro di lui un cuore ferito.

Auguste allentò la propria stretta, costringendosi a non fuggire lo sguardo. Tirò su col naso.

- Il padre di Lucien ha acconsentito a malapena che io assista al funerale, nonostante detesti la mia presenza. Non poteva impedirmelo – sibilò con voce atona – Implicitamente, mi ritiene responsabile della sua morte. Hanno compreso, Fernand. Hanno compreso tutti; ed io sono l’unico che si sforza… Di non capire.

Tacque, prima che le sue stesse parole lo spingessero a barcamenarsi in direzioni in cui non desiderava addentrarsi. Per quanto ancora sarebbe rimasto un segreto, il fatto che lui e Lucien erano amanti? Forse non era ancora il momento. E se Emmanuel Mirand avesse già subodorato qualcosa, con ogni probabilità, non si sarebbe limitato a scacciarlo. O forse, a suo tempo poteva aver quanto meno sospettato, preferendo poi tacere fino alla fine nel timore che tutto ciò potesse gettare discredito su suo figlio, sedotto dal demonio che l’aveva lasciato affondare con sé nell’abisso.

- Che cosa, Auguste? – Fernand parve alterarsi – Chi può nutrire un’idea simile?

Auguste scosse il capo, strofinandosi gli occhi congestionati col dorso della mano.

- Non servirà parlare, stavolta. È tutto finito.

Il giovane lo stringeva ancora a sé, le dita che scorrevano fra i capelli arruffati. Nella sottile penombra che il bavero rialzato proiettava sul suo volto, Auguste intravide lo sguardo di Fernand luccicare fremente, la scura gradazione cobalto dell’iride vibrare imperiosa sul volto arrossato.

- Non è finita. Abbiamo bisogno di te.

Auguste sgranò gli occhi per un istante, interdetto: era l’ultima affermazione che avrebbe giurato potesse fuoriuscire dalla bocca di Fernand.

- Ricordi… La sera dell’ultimo dell’anno – riprese il ragazzo con voce pacata, perso nei propri pensieri, mutando drasticamente discorso non appena ebbe compreso che non sarebbe riuscito a cavare da Auguste una parola di più – Ancora non saprei dire, quella sera, chi fosse più ubriaco fra me e Dorian. Hai pensato tu a trascinarci fuori di lì, quando ormai non ero nemmeno in grado di reggermi sulle mie gambe. È logico pensare che tu fossi l’unico sobrio, là dentro?

Auguste sorrise sbigottito: Fernand aveva troncato improvvisamente la discussione e stava certamente cercando di confonderlo nel momento in cui proseguire su quella scia avrebbe comportato sempre più il rischio d’inoltrarsi per sentieri pericolosi.

 

Dove ha deciso di colpire, stavolta? Dove vuole arrivare?

Che voglia soltanto… Distrarmi, almeno per qualche istante, con ricordi inoffensivi?

 

- Ricordo, Fernand – la mano di Auguste scivolò distrattamente su una ciocca ondulata dell’amico.

Poi, un groppo improvviso gli strinse la gola, spezzandogli il respiro. Arrestò il flusso dei propri pensieri.

 

Possibile che…

 

- Io… – biascicò il ragazzo – Non credevo…

Auguste riprese il controllo. Beffardo, considerò in tutta tranquillità di poter accarezzare con mano, in un ineffabile gioco di sguardi, la confusione e il turbamento che affioravano sul volto di Fernand.

Pensò a quanto sarebbe stato bello, in quel momento, relegare le proprie azioni in una sorta di paradosso onirico, una prospettiva in cui, eccezionalmente, un gesto avventato da parte sua non avrebbe compromesso i precari equilibri fra lui e Fernand, ripercuotendosi negativamente su eventi futuri.

 

Sarebbe tanto, troppo semplice…

 

- Hai capito, Fernand – gli prese dolcemente il mento fra due dita – Se è quel che intendo. Un ricordo sfumato di labbra sconosciute. Questo – sussurrò.

Auguste sentì il tremore delle sue membra, le palpebre spalancate per la sorpresa, le gote che avvampavano. Percepì il respiro fresco di Fernand accarezzare dolcemente le proprie labbra fino a morire in un soffuso sfioramento.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20: Rosso sensazione ***


Capitolo 20

Rosso sensazione

 

 

Auguste sentì le labbra di Fernand scivolare soffici e delicate in un lento strofinio sotto le sue; lambendolo in punta di labbra in un soffio sfuggente, percorse il contorno sottile della mandibola lungo l’ovale del volto che digradava dolcemente, e lasciò che la vaga carezza scemasse a un filo dal suo orecchio.

Avvertì il battito del ragazzo infuriare sotto la pelle, il respiro giocare distrattamente sui suoi capelli, lo sguardo illanguidire e velarsi di nebbia.

Vacillò, le palpebre socchiuse, i muscoli tesi nel tentativo di contrastare l’impertinente, torrida sensazione di formicolio all’altezza del basso ventre.

- Auguste… – la voce affiorò nella gola secca di Fernand come provata da una lunga apnea – Cosa…

- …Cerco di fare?

Un mero istinto di sopravvivenza lo indusse ad atteggiare il volto in un’espressione di falsa sicurezza.

 

Quale inspiegabile luccichio gli martellava nella testa?

 

- Cercavo solo di darti un’idea, uh, di quel che è successo quella famosa notte di Capodanno, cheri – azzardò Auguste con voce roca, un sorriso sarcastico atto a mascherare il proprio disagio in quell’assurdo vicolo cieco di ricordi sfumati e mere supposizioni in cui aveva voluto cacciarsi per forza.

Perché le stesse parole ed i pensieri di Fernand avevano finito per precipitare liberamente in quella direzione?

- Qualunque cosa io abbia fatto in quella tristemente famosa notte non fa testo, se consideri che ero completamente, inequivocabilmente ubriaco – scattò Fernand, il volto accaldato.

Auguste annuì con fare sagace.

- Mi spiace solo non poterti offrire una dimostrazione pratica di quella che è stata la tua performance, Fernand. E converrai con me che non sarebbe carino, in mezzo ad una strada, per quanto deserta sia…

Tacque. Il volto di Fernand gli parve in procinto di andare a fuoco.

- Cosa diavolo vuoi dire? – stridette il giovane, disorientato.

Istintivamente, Auguste si passò la lingua sul labbro superiore, compiaciuto.

- Che se fino a questo momento, a domanda precisa, avrei giurato quasi certamente di sopportarti meglio da sbronzo che da sobrio, ora dovrò ritrattare ed ammettere che non è poi così male, in condizioni normali e per la prima volta in assoluto, intrattenere qualcosa che somigli ad un dialogo pacifico con l’inamovibile Ferdinand laRoche. Magari, col tempo, riusciremmo persino a non scannarci e scambiare qualche battuta come fra vecchi amici.

 

Un mezzo sorriso indulgente percorse le labbra di Fernand. Erano divenuti un’eventualità così sporadica, quegli inediti frammenti di rilassata quotidianità aventi come protagonista l’indefesso Auguste de la Garde, sempre più cupo e scuro, lo sguardo mobile ed inquieto incastonato nelle orbite cerchiate di stanchezza, perso in fondo alle sue angosce di cospiratore maledetto. Come se, da un certo momento in poi, in un personale eccesso di responsabilità o di puntiglio, si fosse tacitamente imposto di rinunciare alla tregua di un istante di abbandono e ad ogni parvenza di serenità.

Riprendere a respirare; tornare fra i comuni mortali ed abbandonare, almeno per un momento, i panni ingombranti del rivoluzionario dalla volontà di roccia e dai nervi a pezzi, meditò Fernand con una punta di sarcasmo.

Eppure, quasi senza avvedersene, sfiorando nel buio dell’inconsapevolezza il filo di un pensiero alternativo, era riuscito in qualche modo a pizzicare una di quelle rare corde capaci di distoglierlo dal suo inferno e catalizzare la sua attenzione su ricordi indolori. E lui, Fernand, sarebbe stato ancora più felice se la scelta fosse quantomeno ricaduta su qualcosa che non implicasse per lui l’increscioso risvolto di farlo sprofondare nell’imbarazzo.

Auguste non aveva fatto mai nulla per contenere la spiccata attitudine a stuzzicare di proposito la sua irascibilità: benché i loro rapporti non fossero mai stati squisiti al punto da lasciarli indulgere placidamente in cameratesche confidenze, e malgrado entrambi assecondassero quasi per natura la reciproca tendenza ad infiammarsi l’un contro l’altro, nessuno dei due si era mai preoccupato di approfondire in sede privata i loro rapporti, se non altro per cercare di comprendere ed appianare le cause delle loro tensioni.

Auguste sembrava nutrire il solito gusto perverso nel provocarlo e tentare di scombussolare le sue certezze; eppure, unica palpabile differenza, quello che Fernand vedeva in quel momento dinnanzi a sé ricordava piuttosto un amico che gioca a punzecchiarti in maniera tutto sommato inoffensiva e priva di cattive intenzioni, che non la figura dall’apparenza ostile dalla quale guardarsi costantemente le spalle.

Auguste, il suo Auguste stava lì di fronte a lui, a dispetto delle previsioni meno rosee intessute nell’arco di quella notte di estenuante attesa; Auguste non lo guardava più con ostilità, e lui, con la sua stessa presenza, lasciandolo sfogare tra le sue braccia e tendendogli quasi casualmente un cenno amichevole, pareva inaspettatamente aver infuso sulle sue spalle quella stilla di momentaneo sollievo in grado, se non altro, di mantenerlo in piedi sulle sue gambe.

Auguste fuori di sé, che oscilla incessante fra la reticenza, il rimorso e la disperazione, incatenandolo ai suoi occhi arrossati in una muta e quanto mai implicita richiesta d’aiuto, per poi, beffardo, stravolgere di colpo le regole e scagliarsi rapace su di lui.

E poi c’era quella caliginosa sensazione di morbido fiele, quelle labbra – non più sconosciute –, quel profumo che l’aveva sfiorato come velluto impalpabile, trasmettendogli nel brivido del distacco quel sapore che, nel fumoso delirio di una notte ormai lontana nel tempo, aveva gustato sul filo dell’inconsapevolezza. Auguste l’aveva fatto e non si era posto scrupoli di sorta, sadico e leggero come il leone che approfitta dell’indifesa gazzella.

- Dobbiamo parlare, Auguste – accennò il ragazzo con rinnovata compostezza, un lampo di freddo raziocinio in fondo alle iridi.

Auguste gli rivolse un impercettibile cenno del capo, trasalendo appena, lo sguardo sfuggente.

- Non è indispensabile – un mezzo sorriso gli increspò le labbra.

Fernand spalancò le palpebre, interdetto.

- La… la faccenda di quei dannati libelli, Auguste. Io… Mi dispiace – esalò in un sussurro.

Auguste agitò debolmente la mano come a voler vanificare un pensiero superfluo e molesto.

- Lascia stare, Fernand – il suo sguardo parve arenarsi in un punto impreciso sulla fronte del ragazzo ed indugiare brevemente su di lui, fragile pretesto nel suo raggio visivo – Sono convinto che non avrebbe senso ricominciare da capo e scandagliare nel dettaglio. Non sarà necessario, stavolta.

- Vorrei soltanto – Fernand respirò profondamente, quasi a ricercare il coraggio in un sottile alito di sollievo nel suo petto – Capire se… Se la mia presenza sia ormai di troppo, dopo quanto è successo.

Auguste ripose fulmineo la sua attenzione su di lui.

- Dopo che cosa?

- Dopo quel che è accaduto a Lucien.

Auguste scosse il capo.

- Non vedo un nesso logico.

- Sembrava quasi che mi ritenessi… Responsabile, forse. Che la mia presenza fosse divenuta un peso.

Auguste si ritrasse come percosso da una frustata. Le sopracciglia si corrugarono in un moto perplesso.

- Cosa ti fa pensare…

Fernand chinò tristemente lo sguardo, dissentendo.

- Tutto ciò che è successo ha reso evidente quanto le nostre linee di lotta siano diventate inconciliabili, e che un eterno “muro contro muro” fra menti discordi non può durare ancora a lungo.

- È una sciocchezza – lo interruppe Auguste.

- Allora, parla chiaro – la voce di Fernand s’indurì senza che egli se ne avvedesse, gli occhi assottigliati in una piega risoluta – Spiegami ora, Auguste! L’ultima cosa che desidero in proposito è ritrovarmi nuovamente preso alla sprovvista nel limbo dei tuoi perenni “non dire” che sembrano promettere cambiamenti di veduta, illudermi che i problemi siano risolti, quando in realtà si limitano a giacere sul fondo, per poi ritrovarci punto e a capo, stasera o domani o chissà quando, a contrariarci a vicenda e a prenderci a pugni nelle locande.

- No, non accadrà – Auguste pareva ribadire un concetto oltremodo ovvio – Perché ora cambia tutto.

- Che cosa cambia? Cosa vuoi fare della congrega, Auguste? – le labbra di Fernand fremettero.

Auguste sollevò gli occhi al cielo alla ricerca di una risposta che non sarebbe arrivata.

- Dammi solo un po’ di tempo per riflettere, Fernand – per un istante, il suo sguardo parve accendersi dell’antico slancio nel perseguire l’unico scopo che mai gli fosse parso congeniale – Tutto si appianerà. Parlerò con voi, te lo prometto – la voce sfumò sibillina.

- Quanti anni hai, Fernand?

La domanda a bruciapelo scosse Fernand come un improvviso mutamento di rotta in mare aperto.

- Come?

- Quanti anni hai, Fernand? – Auguste sorrise con quel fare sfuggente che cominciava ormai a fiaccare la pazienza di Fernand.

- Venti.

- Vent’anni – Auguste gli rivolse uno sguardo paterno – Avevo vent’anni come te, Fernand. Mi piaceva definirmi rivoluzionario, nonostante avessi solo una vaga idea di ciò che significasse, e con la mia poca coscienza nel calarmi nel ruolo, le idee astratte e la scarsa sottigliezza nel concretizzarle, avrei fatto impallidire persino la Bertie. Gli amici dell’Accademia, in qualche modo, dovevano aver instillato nella mia mente giovane ed influenzabile tante di quelle idee contorte, inattuabili e dense d’interpretazioni distorte che, se le cose fossero andate diversamente, con ogni probabilità mi sarei persuaso che la città avrebbe potuto sollevarsi da un giorno all’altro, spodestare i du Lac e tirar su una repubblica in quattro e quattr’otto. Avrai capito che razza di testa calda dalle idee confuse sarebbe venuta fuori da quell’impasto incoerente di parole vuote, cattive interpretazioni della realtà e posizioni prive di consapevolezza di un ragazzo che aveva fame d’illusioni. Poi venne il duca Alphonse e ci fece rimpiangere il ramo diretto della dinastia. Tu – una piega affabile, velata d’amarezza, percorse il viso di Auguste – hai una linearità di pensiero, Fernand. Nonostante tutto. Filtrata dai tuoi occhi, la realtà non è un’impalcatura astratta di nette antitesi, ma ne hai compreso le contraddizioni in atto. Ragioni come un uomo, non come un ragazzo inesperto infarcito di concetti sistematicamente distorti, serviti su una tavola mal apparecchiata da parte di chi vuol fare di un popolo una scheggia impazzita.

- Cosa te lo fa pensare? – Fernand distolse lo sguardo.

Si strinse nel soprabito, a disagio.

- Sai riconoscere i tuoi errori, ad esempio.

- Dopo che qualcuno mi lancia in testa i miei scritti come corpi contundenti e mi prende a schiaffi – puntualizzò polemicamente Fernand, lo sguardo asciutto.

Auguste ringraziò, per la prima volta, che un discreto rossore sul proprio volto l’avesse fatto apparire, almeno ai suoi stessi occhi, un po’ meno impunito.

- Hai capito che la causa dei nostri mali non è esclusivamente quel tiranno arroccato lassù, divenuto quasi immaginario sulla bocca della gente e contro cui è diventato ormai sin troppo semplice, quasi proverbiale, puntare il dito ed inveire sottovoce, scaricando ogni responsabilità.

Fernand aggrottò le sopracciglia.

- Ma è anche vero che nessuno più del duca du Lac trae vantaggio da un popolo soggiogabile e si danna l’esistenza affinché a nessuno passi mai per la mente l’idea, traducibile in pratica, di ridimensionare il suo potere.

- I bravi uomini dalla mente illuminata e dai forbiti discorsi hanno molte cose più urgenti di cui occuparsi – un lampo di sarcastica indignazione attraversò le iridi di Auguste – Certo capirai, impegnati come sono a fare e rompere alleanze, ad addormentarsi la sera avendo in odio il duca ed a risvegliarsi suoi amici. Per codardia, per avidità di ricchezze e potere che tacita ogni scrupolo morale, o per l’odio che li spinge a tradirsi gli uni gli altri e servirsi di bassezze e menzogne come pretesto per vendicare vecchi torti. Non sono migliori del duca: solo questo, Fernand, per quanto sia bene rifuggire le semplificazioni. L’odio, la miseria esistenziale, l’avidità di chi desidera avere tutto e subito, l’invidia e la rivalità che spingono bande rivali e singoli individui ad osteggiarsi a vicenda, dimenticando la matrice comune dei loro scopi, ed a consegnare al duca i propri avversari. L’incertezza, Fernand, il sospetto, la tristezza, la paura astratta radicata nelle menti, il rancore e la disperazione che ormai permeano la città come trame invisibili. Cinque mesi di discussioni, di incontri, di progetti e disaccordi, di idee che sembrano, ad un primo sguardo in superficie, l’una l’antitesi dell’altra, Fernand, stavano quasi per spaccarci. Eppure, stavolta non accadrà. Non fra noi – concluse.

- Non hai ancora risposto alla mia domanda – Fernand concentrò lo sguardo su di lui – Cosa vuoi fare… Dei ribelli, dei progetti ancora in atto?

Auguste abbozzò un sorriso come se ciò gli costasse un’immane fatica.

- Saprai a tempo debito, Fernand – concluse con fare sbrigativo, troncando la discussione sul nascere.

Si calcò il tricorno sulla testa e distolse lo sguardo col fare pacato e indulgente di chi avrebbe sorriso, magari, avrebbe certo confuso le acque in sfuggenti giri di parole, ma, risoluto, avrebbe serrato le labbra dinnanzi alla prospettiva di rivelare ciò che all’interlocutore premeva; e si sarebbe negato fino allo sfinimento, se l’occasione lo avesse richiesto.

Fernand serrò il pugno abbandonato lungo il fianco in un riflusso di frustrazione.

- Dove vai, ora?

Auguste accorciò il passo, permettendo a Fernand di coprire il breve tratto che li aveva distanziati.

- Da Dorian.

- Credevo dovesse raggiungerci.

Auguste scosse il capo.

- Se è come credo, non ne sono troppo sicuro.

- Auguste. Sforzati ogni tanto di parlar chiaro! – Fernand si stupì di come, dopo tutta l’angoscia e le fisime che gli aveva procurato quell’uomo, riuscisse ancora ad eludere del tutto spontaneamente l’artificioso filtro della ragione sulle proprie parole e a rivolgersi a lui con imperiosa confidenza – Vi siete incontrati?

Auguste scosse il capo in un cenno affermativo.

- Raphäel era con lui.

Dunque? Gli occhi blu di Fernand si dilatarono in un’espressione eloquente, in attesa.

- Mi sono piombati in casa come due fantasmi. Erano preoccupati – Auguste serrò le labbra, disarmato, riflettendo su quanto, ormai, valesse la pena vuotare parzialmente il sacco – Dorian si è sentito male.

- Che diavolo gli è successo?

- Raphäel praticamente lo sorreggeva su di sé. Aveva la febbre molto alta e… diceva un sacco di cose assurde – si risolse Auguste, un nodo d’amarezza che gli offuscava le iridi e gli faceva tremare la voce.

- E ora? – Fernand seguitò a stare al passo, il volto allarmato e lo sguardo diretto e limpido che puntava persistente su Auguste, malgrado egli s’ingegnasse in tutti i modi a distogliere lo sguardo cercando di non suscitare l’impressione di sentirsi a disagio o di voler celare qualcosa.

- E ora stiamo andando a vedere come sta – replicò, asciutto – È stata una fortuna che Raphäel sia rimasto con lui.

Fernand si morse istintivamente il labbro, un’impercettibile nota d’inquietudine e di lieve irritazione che gli fece allungare il passo alla volta della piazza.

 

* * *

 

- Perché non aprite, dannazione! – mormorò tra i denti Fernand, il braccio bloccato a mezz’aria nell’atto di vibrare un colpo secco col dorso della mano sul legno del portone chiuso.

Auguste lo seguì con la coda dell’occhio, tormentando distrattamente fra le dita un capo del nastro stretto intorno al codino. Sospirò: Fernand non faceva nulla per nascondere il nervosismo e quel filo sottile di livore, esacerbato dal crescente, logorante sospetto che quella notte Raphäel Lemoine avesse approfittato dei riflessi indeboliti di Dorian. Libero, in base alle suggestive illazioni che la sua mente contorta s’impegnava ad intrecciare con la realtà, di soggiogarlo a suo piacimento e, magari, intessere fruttuose conversazioni tese a ricavare informazioni appetitose sul conto suo o di Ambrosie.

Gli occhi rivolti al cielo, il volto rassegnato, Auguste si chiese se l’ossessione numero uno di Fernand ed i suoi infondati, snervanti sospetti avessero mai cessato di agitarsi in quella testolina arruffata sempre in fermento.

- Sei geloso? – gli soffiò con voce incolore, arrischiandosi in un inavveduto pretesto finalizzato a distogliere la sua attenzione, piuttosto che ad innescare le solite sequele di vani battibecchi che facilmente ne conseguivano.

Se ne avvide tuttavia solo l’istante immediatamente successivo, quando Fernand si volse verso di lui, il sopracciglio deliziosamente inarcato.

- Oh, va’ al diavolo anche tu! – ribatté, superata l’iniziale perplessità che gli aveva trattenuto l’imprecazione in punta di labbra.

- Hai un vocabolario sempre più limitato, mon ami.

Il ragazzo scosse nervosamente il capo, spazientito.

- E tu somigli a Dorian in maniera sempre più esasperante, quando cerchi di “farmi ragionare”. Sarei curioso almeno di scoprire quale nuova, bizzarra teoria ha ricamato la tua mente fino a giungere ad una mia fantomatica… “gelosia”? – Fernand incrociò le braccia sul petto, un pallido sorrisetto sulle labbra delicate che pareva anticipare l’ennesimo duello a base di sarcasmo e colpi serrati.

Attese.

- Via, Fernand. Sei talmente geloso di Raphäel che raramente riesci a scindere questioni di causa maggiore da personali dissapori.

Lo vide affondare le mani nelle tasche del farsetto, scuro in volto.

- Se questa è la tua idea, potrei citare a mia discolpa motivazioni ben più ragionevoli che chiariscano una volta per sempre perché l’amicizia disinteressata del buon Raphäel non mi abbia mai convinto ad accettare senza riserve il pacco completo e ad accollarmi con leggerezza tutte le sue ombre e le sue reticenze, senza risposte e senza certezze. Ne abbiamo già parlato, Auguste – concluse, annoiato.

- Ho imparato a fidarmi di lui, Fernand. E sono convinto che sia un ragazzo migliore di quel che appare; le sue prospettive d’azione racchiudono un’impronta di fondo di gran lunga più generosa e ideale di quanto non abbiano mai implicato per il sottoscritto. È un pregio e un difetto, a ben vedere, la sua onestà e la totale mancanza di distacco nel reagire all’ingiustizia, ed avrai di certo capito cosa intendo – i suoi occhi indugiarono insistenti su Fernand – quando dico che un aspetto comune a voi due, da un certo momento in poi, ha iniziato a farmi paura. Il tuo atteggiamento nei suoi confronti ha molto di personale, Fernand. Non nego l’evidenza del forte ascendente che Raphäel sembra esercitare attorno a sé e capisco quanto tutto questo possa sembrare fumo negli occhi sulle sue vere intenzioni. E tu, Fernand, sembri averne direttamente paura.

- Quella specie di… carisma - oh, Dio, chiamalo pure come preferisci! - …che riversa da tutti i pori, come vedi e come sarebbe meglio che al più presto qualcuno, gentilmente, lo rendesse edotto, non lo ripara dallo spettro delle cattive intenzioni che ognuno di noi, prima o dopo, finisce per trascinarsi dietro come fardello accessorio. La cappa immacolata del buon rivoluzionario, del ragazzo del popolo che si spacca la schiena giorno e notte, la sua abilità a conciliare vita privata, povertà annessa, e velleità sovversive, svicolando come un’anguilla dalle più legittime pretese di una garanzia sul suo conto, e magari adempire in tutta calma ai propri affari, non credo resterà incontaminata ancora a lungo, seguitando a fare di lui, agli occhi di tutti, la persona di cui potersi fidare a scatola chiusa. Rigirala come meglio preferisci, Auguste, ma sono tuttora scettico di fronte a scintille troppo manifeste. E per quanto riguarda il resto, di lui mi sembra di capire sempre meno ogni giorno che passa. Piace molto ad Ambrosie; Emilie, che sembrava detestarlo a priori in quanto ribelle, non ha esitato, al momento opportuno, a spiattellare a lui e soltanto a lui, il campione dell’arrampicata verbale, tutto ciò che è riuscita ad origliare della tua chiacchierata con i tuoi ricettatori di fiducia – gli affibbiò una gomitata sul fianco, pressato da un ennesimo dubbio incalzante, e lo soppesò con occhi glaciali – altra faccenda di cui mi racconterai con calma e a tempo debito. E poi Dorian, Dorian che fino all’altro giorno non l’aveva degnato di qualcosa in più di uno sguardo, eccolo, in un battito di ciglia, scoprirsi il suo compagno prediletto di scorribande notturne.

- Dorian stava così male che, probabilmente, non avrebbe fatto una piega neppure se a scortarlo fino a casa fosse stato il du Lac in persona – convenne Auguste – Io cercherei di guardare a Raphäel, e a chiunque altro al suo posto, con l’oggettività che la nostra posizione richiede e considerare quanto più possibile la persona nel suo agire, tralasciando i luccichii accessori; e ti assicuro che, almeno fino a questo momento, Raphäel Lemoine si è rivelato un collaboratore prezioso.

Per un istante, Auguste fu certo di aver scorto negli occhi di Fernand un’ombra carica di tristezza.

- Pensi che io… – azzardò il ragazzo – Sia geloso del suo ascendente? Del fatto che si procacci benevolenza e fiducia a piene mani, come e quando vuole, sciogliendosi con disinvoltura da ogni straccio di sospetto circa la sua buona fede? Della rete di rapporti, di situazioni, di legami di fiducia sulla parola che è riuscito ad intessere intorno a sé, attirando nella sua orbita persino Ambrosie e Dorian e rigirandosi attorno al dito mignolo la mole d’implicazioni in atto che ha innescato intorno a sé con il suo comportamento?

Auguste deglutì a fatica, un lampo di repentina consapevolezza, rendendosi conto di quanto sconsideratamente si fosse avventurato sul filo di una lama sguainata, e di quanto poco sarebbe bastato, ancora, per sortire definitivamente in Fernand uno scoppio d’ira e ritrovarsi scaraventato di nuovo al doloroso punto di partenza.

 

Ho sbagliato di nuovo, con lui. Sbagliato il momento, sbagliato il modo in cui, senza avvedermene, lascio vacillare fino a cadere nel vuoto quell’unico spiraglio d’opportunità che in qualche modo mi era stato fortuitamente offerto per riaggiustare le ferite. Un errore, un grosso errore, sollecitare i suoi punti deboli senza rendermi conto appieno della portata delle mie insinuazioni. E questo è solo uno dei tanti demeriti.

Di nuovo lì, punto e a capo, ad interrogarmi su cosa è giusto e cosa non lo è; dove far leva, ora come ora, per dissipare le sue angosce o esasperarle, a mia scelta.

 

- Lui t’inquieta – azzardò Auguste – Irrazionalmente. Sfugge al più raffinato dei tuoi schemi mentali. Questo è chiaro, malgrado non riesca ad afferrarne le cause. E, con ogni probabilità, non parleresti in questo modo, se la questione non si fosse estesa fino a coinvolgere direttamente i tuoi affetti. È così?

Fernand lasciò scorrere uno sguardo assorto su di lui, quasi senza osservarlo, sfidando lungo l’arco ingannevole di un istante la propria forza di sopportazione. Si riscosse.

- Oh, al diavolo!

Auguste sbatté le palpebre stanche, disorientato, quando Fernand, senza preavviso, si lanciò sul portone chiuso con tutto il peso del suo corpo, assestandogli una vigorosa spallata. Ebbe la presenza di spirito di afferrarlo, ormai sbilanciato in avanti, evitandogli per un soffio di volare lungo disteso sul pavimento dell’anticamera, oltre la porta forzatamente dischiusa dinnanzi a lui.

Si ritrasse di colpo, il braccio proteso davanti agli occhi a fargli scudo dal tiepido riverbero del sole che dall’imposta spalancata s’infrangeva nella sala come dietro ad un caleidoscopio, una miriade di confusi bagliori d’ambra pallida fra le candide tende. Auguste lasciò che la propria vista, immersa fino a quel momento nella penombra di un grigio pianerottolo, si riabituasse all’impatto violento con la luce diretta. Avvertì Fernand ansimare contro di lui. Inspirò profondamente, trattenendosi a stento da qualunque reazione dettata dall’impulso: rientrava tutto a pieno titolo nello stile di Fernand, in quel genere di trovate improvvise che gli faceva montare su una gran voglia di prenderlo a schiaffi.

- Stai bene?

Il ragazzo annuì, massaggiandosi distrattamente la spalla.

Auguste si osservò intorno in silenzio.

- Dove diavolo sono andati? – Fernand mosse lo sguardo qua e là per la stanza, nervoso, un velo d’inquietudine a gravargli sulle palpebre spalancate.

- Da nessuna parte – lo rassicurò Auguste, guardingo – Dorian, per lo meno, non può essere da nessun’altra parte, nelle sue condizioni. Vieni!

 

La prima, fulminea sensazione che Auguste, sul limitare della porta, avvertì serpeggiare lungo la spina dorsale e, da lì, sovrapporsi prepotente ad ogni altra percezione, fu un dolore acuto al braccio, accompagnato dall’impressione di un imminente soffocamento. Un istante dopo, il suo sguardo intercettò la mano di Fernand stretta sul suo braccio in un muto spasimo di terrore, le dita chiuse a tenaglia e le unghie quasi conficcate nella carne. Soffocò un’imprecazione.

Un gemito soffuso e continuo, simile al lamento di un animale ferito, aleggiava nella stanza come una nenia sommessa e distante di cui, in un primo momento, Auguste ignorò la provenienza. Vide le sopracciglia di Fernand contrarsi sul volto livido in una morsa carica d’inquietudine, tacita conferma dei suoi timori.

Districando i propri sensi da ogni deleteria suggestione, Auguste lasciò confluire le proprie percezioni sulla figura raggomitolata in un angolo della stanza, un bozzolo tremante dai lunghi capelli biondi. Affilò lo sguardo.

Dorian.

Sembrava stringere qualcosa in mano con forza spasmodica, ma quel che s’impose ferocemente dinnanzi agli occhi di Auguste, riducendo ad irrilevante scenografia ogni altro elemento dinnanzi a sé – la stanza, i presenti, l’intero impianto razionale intorno a lui – fu la piccola pozza scarlatta che si allargava sotto il braccio del ragazzo accoccolato sul marmo gelido, liquido insulto sulla mano pallida che lo imbrattava fino al polso e fra le dita.

Socchiuse gli occhi, sforzandosi di vedere oltre lo strato di nebbia che incrinava la sua visuale. E poi una figura vestita di scuro, china accanto a Dorian, reclamarlo in un fioco sussurro, il viso contratto in un moto d’agitazione improvvisa e le gote accese di un vivo rossore. Si ritrasse. Era Raphäel Lemoine.

 

Auguste sentì la testa girargli ed una sorta di nube color sangue calare pesantemente sui suoi occhi. Boccheggiò, le gambe in procinto di cedere, la mano stretta allo stipite della porta, l’altra che vagava alla ricerca di un provvidenziale appiglio su Fernand, e le labbra aride socchiuse in un ansito di terrore che non trovò sfogo. Invano la mente si dibatteva nel ripudiare dal suo campo visivo l’immagine che vi si era ossessivamente imposta; invano quel suo unico anelito di disperata lucidità lottava per impedire al suo sguardo di arenarsi all’infinito, come in un delirante incantesimo, in quell’oceano tinto di cremisi. Strizzò le palpebre, tentando di scacciare il doloroso groppo d’angoscia che gli si era ancorato al petto, spezzandogli il respiro ed irradiando in lui un malessere oscuro, un suadente richiamo all’oblio.

Fu il precipitare degli eventi intorno a lui a riscuoterlo ed impedirgli di perdere i sensi, insieme alle urla che gradualmente si imponevano sul ronzio caotico ed ovattato che gli martellava nella testa.

Vide Fernand, venuta meno la sua molle presa su di lui, fiondarsi al centro della stanza vorticante e gettarsi come una furia su Raphäel, allontanandolo da Dorian con uno strattone ed inchiodandolo al pavimento.

- Cosa gli hai fatto, maledetto bastardo?

- Fernand, cosa diavolo ti salta in mente, ora? – gli sussurrò Auguste, la voce ridotta ad un sibilo roco, portandosi faticosamente a separare i due contendenti.

Stordito, Raphäel si risollevò a fatica, massaggiandosi la nuca dolorante. Per un istante, i suoi occhi si socchiusero su Fernand in due fessure gravide di un acceso rancore e di una furente, oscura frustrazione, tanto che Auguste temette di vederlo scagliarsi su Fernand con il ferreo proposito di fargli quanto più male possibile. Tuttavia, Raphäel si limitò a chinare mestamente il capo, i lineamenti sottili composti in un’espressione indecifrabile.

- Io… – sembrava confuso.

Sollevò il viso su di lui, lo sguardo allucinato come reduce da un incubo.

Auguste non ebbe altra scelta se non sforzarsi, nonostante tutto, di mantenere una parvenza di controllo. Raphäel sembrava sconvolto; Fernand squadrava la sua nemesi vivente con il fermo proposito di farla a pezzi, non appena si fosse allentato il suo sguardo vigile su di lui. Dorian giaceva rannicchiato ai suoi piedi, appena cosciente, il volto cereo corrugato in una maschera di dolore, il palmo della mano attraversato da un lungo taglio, e tutti i suoi sforzi residui sembravano concentrati ad arrestarne l’abbondante sanguinamento con un panno ormai zuppo.

- Raphäel – Auguste gli posò la mano sulla spalla, sforzandosi d’imprimere nel suo tocco un’impronta rassicurante – Cos’ha Dorian? Che cos’è successo?

- Già: cos’è accaduto, mentre era con te? – Fernand rimarcò le sue parole in una sfumatura carica di veleno.

Raphäel si morse stizzosamente il labbro, un impercettibile lampo di collera ad increspargli la fronte. Allungò una mano sul pavimento, per poi agitare sotto il naso arricciato di Fernand una grossa scheggia di vetro.

- Uno specchio rotto, Fernand – gli soffiò con voce falsamente carezzevole – Ci si è ferito inavvertitamente.

Auguste vide il sangue affluire sulle gote di Fernand e correre ad infiammargli il volto fino alla radice dei capelli.

- E dunque? – proruppe il giovane, una venatura vagamente isterica nella voce – Se… se è vero che fino a qualche ora fa bruciava di febbre, che diavolo ci faceva in mezzo a questa stanza? Qua c’è dell’altro. Io… non credo di aver mai visto Dorian così terrorizzato in tutta la sua vita. E tu non hai detto tutto.

- Che diavolo ci faccia Dorian in mezzo alla stanza, accanto al lavabo, è una buona domanda, Fernand – gli sussurrò Raphäel con voce gelida – Che si stesse semplicemente lavando la faccia? – scandì le proprie parole con fare sarcastico, mimando teatralmente l’atto con enfasi melodrammatica.

- Dorian, come ti senti? – Fernand circondò premurosamente con un braccio le spalle dell’amico.

Auguste scosse il capo in direzione di Raphäel, rassegnato; quindi, lottando a denti stretti contro il panico e il senso di nausea che la vista del sangue aveva prodotto in lui, avvolse provvisoriamente in un panno pulito la mano ferita del ragazzo e lo cinse con un braccio attorno alla vita, aiutandolo a rimettersi in piedi. Lo sguardo severo saettò repentino da Fernand a Raphäel, una muta intimazione a evitare di azzuffarsi in quel breve intervallo.

Li vide scrutarsi con occhi ostili – incerti entrambi se mollare la presa fosse una scelta opportuna oppure no – e sperò in cuor suo che, almeno per il momento, quei due sciagurati avessero la buona grazia di deporre le armi.

Si lasciò ricadere stancamente su una sedia, il capo stretto fra le mani, mille ombre dinnanzi ai suoi occhi, cercando di recuperare il bandolo della vorticosa realtà che gli ribolliva nella mente in tumulto.

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21: In caduta libera ***


Capitolo 21

In caduta libera

 

 

Auguste socchiuse le palpebre sotto le lame di luce che occhieggiavano nella stanza; lentamente, cercò di convogliare la propria attenzione su quanto si muoveva intorno a lui, sforzandosi per quanto possibile, fra le spire di quell’inquietudine ormai attecchita nella sua mente, di allontanare da sé la sensazione martellante che qualcosa non andasse; che qualche oscuro, basilare, sconosciuto tassello gli fosse stato taciuto.

Il suo sguardo si concentrò sulla figura di Fernand, curva al capezzale di Dorian, la mano pallida strettamente allacciata a quella dell’amico; profusa in quel gesto, quella dolcezza fraterna che difficilmente avrebbe attribuito proprio a lui, così misurato e trattenuto nelle sue esternazioni d’affetto.

In silenzio, nella discrezione che quell’angolo in disparte gli aveva fortuitamente offerto, li aveva osservati confabulare fitto fitto, ed un’incomprensibile nota allarmata nella voce gli aveva fatto aguzzare i sensi su quel mormorio concitato e sconnesso del quale era riuscito a captare poco e nulla.

Poi Raphäel aveva fatto nuovamente ingresso nella stanza, scuro in volto, e Fernand si era affrettato a troncare la conversazione, lo sguardo palpitante di sospettosa frustrazione fisso su di lui.

Ora Dorian si era leggermente assopito – doveva fingere, ne era sicuro – inconsapevole cuscinetto fra i due contendenti che, uno alla sua destra ed uno alla sua sinistra, continuavano a scrutarsi di sottecchi con fare ostile.

Un quadro non poco esaustivo, considerò Auguste, nel tentativo d’ingannare le incontrollabili riflessioni che sentiva affiorare nella sua mente, al limite del delirio. E la mano di Fernand indugiava ancora, troppo insistente, su quella di Dorian. Troppo a lungo. Auguste cercò d’ignorare il nodo di bruciante amarezza che, inaspettatamente, aveva preso a tormentarlo alla bocca dello stomaco.

D’istinto, si schiarì voce, ricacciando indietro quell’impressione di soffocamento che, in un’alienante reazione a catena, gli aveva indotto da principio la vista del sangue, denso suggello di allucinanti reminiscenze e suggestioni, i cui effetti affievolivano lentamente la presa su di lui. Detergendosi la fronte, si costrinse a concentrare la propria attenzione su un qualche dettaglio, un pensiero qualsiasi che non fosse l’esile contatto tra Fernand e Dorian.

Le dita bianche di Raphäel che scorrevano agili nell’intrico dei lunghi riccioli bruni.

Fernand non aveva completamente torto, rifletté: tutto in Raphäel, riscossosi dalla sorpresa iniziale, faceva pensare ad un sadico piacere nel reggere con indefessa ostinazione lo sguardo astioso di quello che, senza ragioni apparenti, era divenuto il suo naturale antagonista. E non si preoccupava di alimentare così la collera dell’altro, ogni istante di più, mentre con la mano seguitava a giocherellare insistentemente sui propri capelli come in uno strano rituale.

 

Gli piace il controllo sugli altri; vuole tastare le mosse altrui, avere la situazione in pugno. Ciò che a te non è mai riuscito.

 

Stai diventando paranoico, Auguste, maledettamente paranoico ed ossessivo, perché ti ostini a vedere segreti, complotti e cattive intenzioni dovunque metta piede. E poi, magari, riesci persino a far quadrare i conti, se è vero che dieci minuti non sono stati sufficienti né a Raphäel né a Dorian a sciorinare una versione chiara e coerente sull’accaduto.

 

- Sta meglio ora? – biascicò a mezza voce, giusto per spezzare la tensione.

Fernand si limitò ad annuire distrattamente.

Raphäel intercettò il suo sguardo con espressione vagamente smarrita, come distolto senza preavviso dalla trama di arcane congetture.

- La febbre è calata del tutto; è strano, per com’era stanotte, ma penso che entro domani sarà come nuovo.

- Da quando sei diventato più esperto del medico del borgo, Raphäel? – lo pungolò Fernand con intento esplicitamente polemico.

Raphäel gli rivolse un sorrisetto sarcastico, le sopracciglia inarcate in un cipiglio non troppo indulgente.

- Da quando studio medicina – si affrettò a puntualizzare.

- Tu? – Fernand arricciò il naso – Amico, sarei felice del tuo “salto di qualità”; ma vedi, con i fedelissimi del duca infiltrati ovunque ed ogni aspetto della vita in città tenuto sotto controllo capillare… Non vedo per noi grandi prospettive. Università, accademie, corporazioni: ai loro occhi, fucine di potenziali cospiratori da asserragliare sotto la loro supervisione. Con rispetto, e visti gli infelici precedenti, non sono così convinto che uno come te… – il suo sguardo scivolò rapidamente lungo la figura di Raphäel – sarebbe il benvenuto. Senza ricchezze, intendo dire, senza nessuno che garantisca per te. A meno di cospicue donazioni come lasciapassare, e non mi pare questo il tuo caso.

Raphäel fece spallucce, tradendo tuttavia l’espressione piccata.

- Forse che gli stracci, amico mio, non precludono la passione e l’intelletto; sarà pure che sono bravo e non mi manca l’intuito. Ad esempio, Fernand, ultimamente ti vedo un po’… debole, emaciato. Sembreresti quasi un po’ anemico, se l’apparenza non mi trae in inganno.

Fernand fissò sbigottito il sorriso di cera che stirava le labbra di Raphäel. Benché lungi dal godere della sua piena stima – e Fernand doveva riconoscerlo – Lemoine non era un individuo meschino, capace di giocare sporco sfruttando i punti deboli dell’avversario; ciò nonostante, la sua lapidaria sentenza tradiva in sé una tale sicurezza, frammista ad una sorta di malcelato dispiacere, che Fernand parve smarrirsi.

Pericolosamente vicino a lui, una luce sibillina in fondo alle pupille, Raphäel allungò la mano e tastò con due dita il collo di Fernand.

Il giovane represse un moto di fastidio.

- Ti si legge in faccia – gli soffiò Raphäel, serafico – Il consiglio più semplice che posso darti, Fernand, è di farti un bicchiere di vino rosso alla nostra salute. Bello tranquillo – concluse con una pacca sulla spalla troppo affettata per poter dirsi amichevole.

Fernand si portò una mano alla gola, in soggezione.

Troppo tardi. Aveva già visto quanto c’era da vedere.

- Fernand, che hai?

Senza che il ragazzo potesse impedirlo, Auguste gli aveva allentato il colletto fino a scoprire la parte incriminata, radunando tutta la sua attenzione su quelle che parevano due minuscole punture quasi cicatrizzate.

Auguste trattenne un ansito di sollievo, sebbene quel sordo, indecifrabile sospetto, incuneato a fondo nella sua mente, non l’avesse sciolto completamente da un dubbio che rifiutava di prendere una forma ben distinta nella sua testa.

- Cos’hai fatto?

Fernand indietreggiò, eludendo la sua presa, il volto alterato.

- Cosa vuoi che ne sappia! L’unica cosa che mi viene in mente è che mi sia tagliato radendomi.

- È strano. Pensare che non l’avevo notato. A prima vista, non sembrano esattamente dei tagli.

- Allora non ne ho assolutamente idea – tagliò corto il ragazzo – Piuttosto – riprese in capo a qualche secondo con rinnovata prontezza – Credo sia ora di andare.

- No, non così in fretta, mon ami.

 

Fernand sentì il proprio cuore saltare un battito, quando quelle brevi parole strascicate lo raggiunsero sul limitare della porta.

- Troppa fretta – mormorò Dorian, la voce roca ed impastata di chi, con scarso successo, tenta a più riprese di recuperare un po’ di sonno perduto – Perché, sai, a questo punto, e bando ai segreti idioti, sarei curioso anch’io di conoscere la ragione di quei dannati segni sul collo che, al contrario di me, sembrano lasciarti tanto indifferente. Sì, è successo anche a me, se ancora non lo sapessi.

Fernand impallidì. Prima che supposizioni di qualsiasi natura si facessero largo in lui, volse lo sguardo in direzione di Dorian e lo fulminò con un’occhiata al veleno.

 

Di’ dello svenimento e ti ammazzo!

 

- Lascia perdere! – biascicò a labbra strette.

 

- Che avete ancora da confabulare, voi due?

 

Auguste. Ora siamo al completo.

 

In silenzio, Fernand fissò Dorian con occhi imploranti. Nonostante tutto, Raphäel non l’aveva tradito – non del tutto, perlomeno. Si era limitato a tirare il sasso e poi sorvolare abilmente. Perché avrebbe dovuto farlo proprio Dorian?

- Raphäel, arriviamo al dunque. Penso che almeno tu sappia dirmi cosa… – incalzò Auguste.

- Te ne ho parlato, Auguste – lo interruppe Raphäel – Dorian non stava bene, la febbre deve avergli provocato qualche mezza allucinazione. Non è un evento così singolare.

- Raphäel, diglielo! – lo aggredì Dorian, puntellandosi sui gomiti – Hai visto anche tu i segni sul mio collo? Magari, se provi ad osservare meglio… – con la mano sana, si slacciò la camicia fino al petto, lasciandola ciondolare molle sulle spalle.

- Che cosa, Dorian? – lo fronteggiò Raphäel con fare esasperato.

- Ero senza camicia – scandì Dorian con voce gelida – È praticamente impossibile che non abbia notato la stessa cosa che ho notato io; a giudicare poi dalla… “attenzione” con cui mi hai soppesato – un violento rossore gli crebbe rapidamente sulle gote, contrastando con il piglio strafottente – Dubito ti sia lasciato sfuggire qualcosa di così lampante.

Per poco Fernand non cadde dalla sedia. Non vide l’immediata reazione di Raphäel.

Un intenso formicolio all’altezza del petto, come un disperato frullare di ali, si tradusse rapidamente in una specie di sussulto seguito dal liquido, soffocante calore di un impulso indefinito, privo di aggettivi, che in un primo momento non riuscì a focalizzare.

Dorian! A cosa diavolo stava alludendo? La sua voce era piombava su quell’affermazione come un fendente; un sussurro lascivo e beffardo ed il luccichio che preannuncia il colpo di grazia.

E poi la rabbia, come uno schiaffo in pieno volto, a bruciare su di lui; un inspiegabile, corrosivo rancore verso Raphäel ed i suoi occhi impertinenti, verso Dorian e la sua espressione ambigua, e la flebile speranza che quell’immagine fuorviante abbandonasse al più presto la sua mente.

Dorian, nudo. O quasi, la pelle d’avorio sottile tesa sulla delicata impalcatura di ossa e muscoli, fremente e vulnerabile sotto il fuoco ingannevole dello sguardo di Raphäel che, distratto, la accarezzava con occhi sfuggenti senza mai sfiorarne le fragili trame.

C’era qualcosa che non andava. Era tutto distante, capovolto. Nulla quadrava, tutto cambiava. Tutto da riscrivere, il ruolo di Raphäel in primo luogo.

Osservò Dorian, le sterminate iridi di cielo in fondo a quelle palpebre gentili, i capelli scomposti sulle spalle. L’amico che l’aveva protetto ed accarezzato, che l’aveva stretto a sé quando Auguste gli aveva vomitato addosso la sua rabbia. Il dolore bruciava ancora. Frammenti di un desiderio taciuto che, ferendolo, gli sfuggivano come sabbia fra le dita; e quella sua parte di mondo, quel fragile, sconosciuto nido di serenità e certezza, sconvolto, minato alle fondamenta e spazzato via da un paio d’occhi di fredda ardesia.

- Raphäel – riprese Auguste – è vero?

Fernand seguì minuziosamente le mosse di Raphäel, intento a fissare soprappensiero il volto di Dorian contorto in collerica trepidazione, soffermandosi poi su Auguste, sul suo sguardo fermo e inflessibile che lo rendeva, ad un’occhiata sommaria, tutto fuorché propenso ad accettare bizzarre teorie suffragate dalla parola di un ragazzo in palese stato d’agitazione, febbricitante fino a poche ore prima, e di uno che, messo tra due fuochi, pareva non sapere da che parte guardare. Attese.

- Non ricordo, Auguste, non posso confermare – Raphäel deglutì rumorosamente, a disagio – Dorian sembrava terrorizzato da qualcosa, non lo nego; ho provato a tranquillizzarlo, ma non sono riuscito a capire cosa l’avesse sconvolto a tal punto. Era molto debole, ha avuto un capogiro e si è ferito con lo specchio. È tutto quello che so.

- Dorian, fa’ vedere! – proruppe Auguste, spazientito, trascinandosi verso di lui.

- Non aspettavo altro – gli soffiò il giovane con petulanza, esponendo il collo alla vista – Ora vi convincerete che non sono un visionario.

- Dorian, per favore! – mormorò Fernand con un filo di voce.

- Lascia che veda con i suoi occhi – lo interruppe Dorian, mellifluo – Se non altro si convincerà che io la dico, ogni tanto, la verità – lo sguardo allucinato aleggiò a più riprese su Auguste, mentre una sfumatura astiosa gli modellava il volto in una smorfia carica di veleno – Chi meglio di te, Auguste, che ne sei il detentore?

Auguste indietreggiò come percosso da una frustata, mentre un cupo strascico di dolore calava sul suo viso, scavando un abisso di nebbia nei suoi occhi.

Fernand si sentiva confuso, impotente di fronte a quei tasselli privi di una propria collocazione che gli piovevano sul capo come gocce di un temporale estivo, senza lasciargli il tempo di trovare un riparo, di inquadrarli in un contorno provvisorio. Non capiva. Vide Raphäel frapporsi tra i due, plausibilmente ad un passo dalla lite, ed Auguste, rigido, limitarsi a scoccare una breve occhiata di trasverso in direzione di Dorian, sussurrandogli con voce piatta:

- Dorian, non hai nulla; sarà stata la tua impressione, un sogno o chissà cos’altro, credimi.

- N-nulla? – il viso di Dorian divenne cinereo.

- È tutto a posto, Dorian – Raphäel gli arruffò gentilmente i capelli, prima di avviarsi verso la porta in un vago cenno di saluto.

Sembrava non desiderare altro che andarsene al più presto.

- Ma… Non è vero, non può essere, io… – Dorian sembrava stordito, la voce ridotta ad un sussurro.

Fernand riuscì ad infilare lo sguardo nell’incavo del collo di Dorian, esaminandolo da ambo le parti. I forellini rossi erano spariti. O non vi erano mai stati.

- Te lo sarai immaginato, è così – rincarò la dose, in attesa che Raphäel e Auguste varcassero la porta.

Dorian restò per un istante ammutolito a fissare il vuoto. Poi, di scatto, prese a risistemarsi la camicia con fare alterato.

- Fernand? – gli soffiò – Vattene a fanculo anche tu!

- Ti dico di calmarti! – gli ingiunse Fernand tra i denti, afferrandolo poco cerimoniosamente per un braccio e costringendolo a sdraiarsi – Ne parliamo. Aspetta soltanto che vadano via!

- Fernand! – la voce roca di Auguste lo raggiunse dall’angusto pianerottolo.

Raphäel stava compunto al suo fianco, bianco e nero nella penombra incolore, e Fernand riuscì a cogliere per un istante l’espressione stranamente sollevata sul suo volto. Le labbra rosee gli conferivano un aspetto quasi sensuale.

- Cominciate pure ad andare. Io… Preferisco restare con lui.

- Buona idea, Fernand. Già che ci sei, assicurati che se ne stia a letto e non faccia qualche altra cazzata – soggiunse Auguste con fare irritato, accennando brevemente col capo al riottoso occupante della stanza attigua.

 

Fernand non riuscì a far altro che tirare un sospiro di sollievo, quando la porta si fu richiusa alle sue spalle, un gelido ammasso d’amarezza che gli s’insinuava lungo la schiena.

Dorian l’avrebbe spellato vivo. Se non altro, non sarebbe stato l’unico ad aver da chiarire, rifletté, mordendosi nervosamente il labbro.

- Spiegami che cosa diavolo ti è preso! – Dorian l’aveva raggiunto di soppiatto nella sala d’ingresso, contro ogni raccomandazione, vestito e calzato di tutto punto.

- E tu cerca di filare a letto, se non vuoi che ti ci spedisca a calci – lo rimbeccò Fernand con voce ferma, cercando di assumere su di sé una parvenza d’autorità.

Dorian gli rise in faccia.

- Punto numero uno, sono in casa mia. Punto numero due, non prendo ordini da un ragazzino.

Fernand lo fissò accigliato, incassando tacitamente la provocazione: sapeva quanto odiasse essere definito “ragazzino”.

- Errore. Chiamarmi “ragazzino”, ottenendo così di mandarmi in bestia, è un privilegio speciale di cui può godere soltanto il tuo amico Auguste.

- E tu rispondi alla mia domanda: hai per caso deciso di coalizzarti con lui contro di me?

Fernand sollevò gli occhi verso il soffitto.

- Non hai capito. Cercavo solo di evitare di mettere in piazza gli affari miei e tuoi in loro presenza. Volevo mandare all’aria il discorso quanto prima, senza destare sospetti, e parlarne direttamente con te.

Dorian annuì con espressione scettica.

- Come ti senti ora? – incalzò Fernand.

- Quantomeno riesco a reggermi in piedi. Meglio, rispetto a prima.

Non convinto, Fernand allungò la mano e gli tastò la fronte.

- Non sei caldo. È molto strano, stando al resoconto di Auguste.

- Auguste esagera sempre – lo precedette Dorian con una punta d’asprezza.

- Concorderai però con me quanto non sia perfettamente normale che una persona che brucia di febbre, in capo a qualche ora non solo sia fresca come una rosa, ma sembri essersi rimessa di tutto punto.

- Di tutto punto, non esattamente, ma concordo con te che forse non è del tutto normale. Io… non lo so. Mi sembra d’impazzire.

Fernand prese un respiro profondo, guadagnando tempo. Neppure lo stesso Dorian, in fin dei conti, sembrava avere un’idea chiara.

- Mi racconti cos’è successo?

- Non sono stato bene. Quando mi sono svegliato, stamattina, sembrava fosse tutto finito, e mi sono alzato per darmi una rinfrescata… Forse ho avuto una ricaduta, ma l’unica cosa che ricordo con esattezza sono quei forellini insanguinati sul collo, proprio com’è successo a te – Dorian si tastò istintivamente la gola, là dove le minuscole ferite sembravano non aver lasciato alcuna traccia, e la pelle era levigata sotto il suo tocco.

Non contento, si osservò scrupolosamente allo specchio.

- Poi… – proseguì – Raphäel dice che ho avuto una crisi di nervi.

- E lui che faceva? Dormiva? – lo pungolò Fernand, e l’assurdo sospetto che aveva ripreso a serpeggiargli nella mente gli fece contrarre istintivamente i muscoli del viso.

- Stava lì e basta. Mi ha riaccompagnato a casa ed è restato con me durante la notte. È stato gentile. Ah, prima che ricominci con le solite requisitorie, ti annuncio che non è affatto stronzo come… “alcuni” lo dipingono.

- Bene – Fernand annuì nell’atto di ravviarsi distrattamente i capelli.

Ignorò quell’oscuro groppo di tristezza che lo tormentava con insistenza.

- Basta, Dorian: puoi dirlo – sbottò.

- Dirti cosa? – Dorian sbatté le palpebre, disorientato.

Fernand ebbe la sensazione che la terra fosse in procinto di cedere sotto i suoi piedi e dovette fare appello a tutta la sua forza d’animo per dar voce alle torbide supposizioni che gli si accalcavano nella mente. Sapeva di essere sul punto di inoltrarsi per sentieri malagevoli, ma la volontà di cavarsi dal dubbio aveva concretamente prevalso su una ragionevole reticenza. Svelata la propria diffidenza, non gli restava in pugno neppure la manciata di secondi necessaria ad imbastire un’alternativa compatibile con la luce equivoca che gli era balenata negli occhi, dritta su Dorian.

- Avete… Insomma, avete fatto l’amore, o qualcosa del genere? – sputò fuori, quasi d’inerzia.

Era fatta.

Un attimo, ed una parte di lui rimpianse di aver parlato avventatamente, quando vide Dorian avvampare in viso.

- Oh, dannazione! Fernand, fottiti!

- Touché! Ti ha praticamente spogliato con gli occhi, amico mio, stando almeno a ciò che tu stesso mi hai inavvertitamente confermato – Fernand assaporò con una venatura sadica il prepotente imbarazzo di Dorian, il retrogusto amaro della sua stessa frustrazione incollato alle labbra.

Sarebbe stato quasi divertente proseguire su quella scia, simulando abilmente una disinvoltura in realtà lungi da lui.

- Ero spogliato.

- Peggio.

Dorian nascose il volto fra le mani con plateale esasperazione.

- Mio Dio, Fernand, che diavolo hai nella testa? Segatura?

- Ti avrà toccato, baciato… – proseguì – Come immaginavo. Vi sarete divertiti.

 

Idiota, idiota, idiota! Perché vuoi farti del male a tutti i costi?

 

- Davvero pretendi una risposta? – Dorian quasi gridava, i begli occhi cerulei deliziosamente luccicanti sul volto in fiamme – No. No! Nulla di tutto questo. Dio, Fernand, questa è follia! Hai un’opinione assurda di Raphäel, di me… di tutto, se davvero hai pensato a questo. Capisco da parte tua non ritenerlo un buon rivoluzionario, ma se per ipotesi fosse andata davvero come tu dici, tecnicamente lo stai accusando di un abuso in piena regola.

Fernand socchiuse le labbra, per poi costringersi definitivamente a tacere. La stanza era divenuta all’improvviso troppo piccola intorno a lui, le pareti troppo strette, nauseanti schermi di quell’incubo insensato in cui era caduto con tutte e due le gambe. Sconfitto, si affrettò a distogliere lo sguardo, meditando fra sé di non aver mai desiderato come in quel momento che le losanghe scure del pavimento si aprissero in una voragine sotto i suoi piedi, lasciandolo sprofondare fra le macerie. Lui, le sue folli congetture e la deviante, irragionevole insicurezza che gli lasciava dar voce ad uno sproposito dopo l’altro.

 

Bel colpo, Fernand. Il migliore di una lunga serie. Semplicemente patetico.

 

Sospirò, ipnotizzato dalla punta delle proprie scarpe. Si stava giocando per pochi scudi la fiducia di Dorian.

- Io… Perdonami – azzardò.

Dorian gli posò una mano sulla spalla. Era freddo, scostante, palesemente a disagio.

- Lascia stare.

- Non intendevo appioppargli difetti secondo la mia immaginazione – insistette – È solo che, per un attimo, ho avuto l’impressione che...

Dorian lo osservò di sguincio, dissimulando l’espressione tagliente in un sorriso spazientito.

- D’accordo, proviamo a semplificare un po’ tutto: il fatto che io sia affascinante non implica necessariamente che abbiamo scopato – replicò con una punta di caustica supponenza.

- Ma va’ al diavolo!

- Sei monotematico.

Fernand distolse lo sguardo. Neppure la pressante inquietudine riguardo agli ultimi eventi impediva a Dorian di darsi da fare a logorare la sua pazienza in una sofisticata alchimia di affermazioni a doppia chiave di lettura.

 

- Fernand?

Dorian era tornato serio, le iridi offuscate da una patina di gravità che a Fernand parve quasi innaturale, dissonante sul suo viso.

- S-si vede così tanto? – biascicò, la voce resa instabile da un singulto soffocato.

 

Cosa, Dorian?

Che sei confuso, che temi di essere impazzito, che non riesci più a fissare coordinate plausibili, a districare i labili confini fra ciò che è realtà e ciò che, con ogni probabilità, potrebbe a tempo debito rivelarsi l’accidentale reflusso di una tua fuorviante suggestione?

Che sei caduto preda di un’angoscia indefinita, subdola, paralizzante, uno stillicidio privo di contorni entro cui prendere forma, ma in grado di rendere vano ogni tuo slancio vitale e di inchiodare la tua volontà in una tela dalle trame di metallo?

Che vorresti negare, cancellare per sempre, catalogare come un parto malato della tua testa, l’essenza di Raphäel, la sua immagine tenacemente ancorata nella tua mente ed ogni singola manifestazione della sua presenza radicata in te fino a procurarti dolore? Che vorresti fuggire, mentire fino alla follia, negare a te stesso il fatto che in lui c’è qualcosa che non riesci ad afferrare con mano, rifiutare la possibilità che tutto questo sia in grado di farti male.

E non lo diresti, nessun logorante sospetto ti sconvolgerebbe la mente, se già non fossi caduto nella tua stessa rete, se già non ti fossi inconsapevolmente aggrappato alla mutevole corrente d’aria di un desiderio irragionevole.

Allora è così: ho visto giusto, dopotutto. Se fossi saggio, lo ammettesti senza girarci intorno, perché, vedi, ho visto abbastanza: ho colto il semplice dettaglio, sono stato tratto in inganno, ma, da qui in poi, non è stato difficile estrapolare la sostanza. Ti aggrapperai a lui. Seguirai la scia di Ambrosie.

Ed io perderò uno dei pochi appigli che mi restano.

 

- Va tutto bene, Dorian – mormorò con voce assorta, soppesando distrattamente una ciocca bionda dei suoi capelli.

 

Non convinci neppure te stesso, Fernand. È il dubbio che ti rende evasivo, facile alla menzogna, ma troppo inadatto a recitare una parte soddisfacente.

 

Gli occhi di Dorian luccicarono febbrili.

- Attento, Fernand – proruppe in una strana cantilena.

- A cosa dovrei… Stare attento?

Dorian spalancò gli occhi nella luce vivida che colpiva in pieno il suo volto dall’espressione indecifrabile.

- Tu… Mi credi? Mi credi, quando ti dico che ho visto quei segni rossi spiccare sulla mia gola, quasi come il morso di un animale?

Fernand lasciò scorrere le dita tremanti su di lui, fra le onde irregolari dei suoi capelli, fino a sfiorare prudentemente il collo dal candore incontaminato. Gli accarezzò distrattamente la nuca e lo esaminò in silenzio.

Era bello. Un’avvenenza oggettiva, priva d’implicazioni, disegnata con pennellate sottili di vivace immediatezza, ora pervasa di un’impronta consunta, languida, sofferente. Era pallido come se avesse addosso la tisi, i solchi della stanchezza marcati intorno alle orbite scure, come se le pieghe di una profonda estenuazione gli avessero scavato i lineamenti.

- Non hai nulla, Dorian, come avrai visto tu stesso – gli ribadì con espressione incolore.

- Ma io ho visto! – la voce di Dorian divenne un sibilo acuto saturo d’angoscia – Le ho viste, quelle strane ferite, le ho toccate con queste mani, non stavo sognando!

Fernand deglutì, a disagio: Dorian gli aveva piantato in faccia un’occhiata bruciante, gli occhi sgranati nelle orbite arrossate, segno che non avrebbe tollerato obiezioni, come un ultimatum.

- Non ho detto che stai mentendo, Dorian: non avendo visto con i miei occhi ciò che mi hai descritto, concedimi il beneficio di mettere in conto l’eventualità che tu stesso sia stato tratto in inganno!

Indietreggiò, atterrito, quando vide Dorian sollevarsi di scatto. Per un attimo temette una reazione impulsiva da parte sua.

- Accidenti, Fernand! – lo incalzò, un sorriso tagliente appena abbozzato, in attesa di colpire – A sentirti parlare così, giuro, per un attimo ho temuto che Auguste avesse preso il controllo della tua mente. O ti avesse rifilato un qualche raffinato lavaggio del cervello. Sono felice che non sia davvero così… Se è tutto come credo, se queste sono le tue parole e non le sue. Un solo consiglio, Fernand: non lasciarti trarre in inganno da lui e dal suo modo di capovolgere la realtà pur di far quadrare i conti come più gli aggrada. Non dare per scontata la sua buona fede – sussurrò, gli occhi gonfi di una gelida frustrazione – Ha sempre cercato di mostrarsi affidabile e ragionevole; da qui, guadagnarsi la fiducia, e poi colpire una volta al riparo. Il tuo adorato Auguste, con ogni probabilità, starà preparando il terreno per la mia disfatta, e presto vedrai con i tuoi occhi quali pretesti tirerà fuori pur di dipingermi come un paranoico. Se i miei calcoli non m’ingannano, Auguste ha troppo interesse, stavolta, a minare la mia credibilità… Per un sacco di motivi che ora, davvero, non mi va di raccontare – s’interruppe.

- Stupendo, Dorian! In queste condizioni, a chi dovrei credere?

Dorian gli rivolse un gesto vago con la mano, come a voler allontanare da sé qualche dettaglio di scarsa importanza. Sembrava stanco.

- Fa’ finta di non aver sentito l’ultima parte. Ora come ora, per me Auguste può andarsene bellamente a farsi fottere. Sappi soltanto che non è sincero come vuole far credere. Non con me.

Fernand sospirò, stremato: d’un tratto, era come venuto a gravargli sulle spalle il desiderio insopprimibile di un istante di normalità, senza discorsi fumosi e assurde congetture a tormentargli il sonno e la veglia. Un altro segreto ancora, un’altra teoria stravagante come goccia finale, ne era sicuro, e si sarebbe abbattuto al suolo in preda ad un collasso.

- Basta così, Dorian! – lo supplicò – Io non ci capisco più nulla. È… è assurdo, con te che continui a trascurare dettagli che non ti fanno comodo e a propinarmi frammenti sconnessi. Cambiamo discorso, per favore; non ti obbligo a rivelarmi qualcosa che non vuoi, ma finiamola qui.

- Come desideri tu – Dorian non pareva troppo dispiaciuto – Volevo solo che almeno tu mi credessi.

- Non ho mai dubitato un solo momento che tu dica il vero. Il problema è stabilire fino a che punto fossi lucido in quel momento.

Dorian scosse mestamente il capo, rassegnato.

Sapeva come la pensava: quello era un discorso che avrebbe visto volentieri e con maggior immedesimazione sulla bocca di Auguste, non su di lui. Auguste che, senza mezzi termini, Dorian doveva ritenere poco più che un intrigante, e al quale non doveva riserbare una miglior considerazione di quella che lui nutriva nei riguardi di Raphäel Lemoine. Dorian e Auguste erano in pericolosa rotta di collisione, e lui non riusciva a comprendere le reciproche implicazioni. Nessuno, a dire il vero, si era preoccupato che lui capisse.

Dorian era troppo confuso, centellinava gelosamente le informazioni, sorvolando su tutto ciò che desiderava tenere per sé; Auguste troppo ermetico, inquadrato in prospettive troppo discordi l’una dall’altra, di volta in volta, a seconda di colui che parlava.

 

Dorian si lasciò andare ad un accorato sospiro, le braccia mollemente incrociate come uno scolaretto svogliato, le spalle curve sotto il peso di un alienante abbandono.

Lo vide radunarsi i capelli dietro la nuca in un gesto nervoso – e si rese conto che sarebbe stato in grado di ripercorrere fedelmente ognuno di quei singoli gesti, basandosi unicamente sulla propria memoria. Gli occhi erano velati di un cupo sconforto, le dita affusolate annaspavano incerte fra i riccioli scomposti.

Un incontenibile, doloroso riverbero di dolcezza gli accelerò il battito, recando con sé un familiare calore all’altezza del petto, mentre scorreva con lo sguardo sul broncio tipicamente infantile che campeggiava sulle labbra sottili di Dorian, in antitesi con l’espressione troppo dura su quei contorni levigati, troppo vecchia su quegli occhi dalla fredda, giovanile bellezza; troppo grave su quei laghi dalla luce mutevole.

E il sorriso rassegnato che si aprì sul suo volto, la triste consapevolezza nei suoi occhi, fu sufficiente per un attimo ad arrestargli il sangue nel suo circolo forsennato, scavando un baratro d’angoscia davanti a lui. Gli occhi erano lucidi, frementi in quel pallido sprazzo d’ombra, ma Dorian non piangeva, le mascelle contratte nel rifiuto sdegnoso della manifestazione stessa del suo dolore, fiero rigetto di ogni accessoria sublimazione. Una realtà, il guizzo di un miraggio dal quale lui, Fernand, per il momento era escluso.

- Dorian…

Il suo viso era caldo, la pelle sottile sotto il suo tocco; i capelli che ricadevano disordinatamente sulle spalle gli insinuarono fra le dita la sensazione di soffice seta. Chiuse gli occhi. Anche la sua bocca avrebbe mantenuto intatto il suo tepore, l’intrinseca possibilità di regalargli l’illusione dell’oblio. E, forse, nel dischiudere le labbra sulle sue, catturandole in una fluida carezza, sarebbe riuscito persino a sentirlo un po’ più suo.

Avvertì il suo respiro sfiorargli il viso; istintivamente, socchiuse le palpebre nella luce viva che lo colpiva di lato, proiettando un ricamo di luminescenze rosso acceso dinnanzi ai suoi occhi. Ammiccò nervosamente, scacciando la sensazione che l’aveva fastidiosamente distolto dal suo intento.

Le ciglia di Dorian scintillavano debolmente in controluce, i contorni così vicini da apparirgli sfocati. Lo accarezzò attraverso la camicia. Era bello tenerlo stretto ancora una volta, affondare il volto nell’incavo fra collo e spalla, sentire i suoi capelli sfiorargli il viso, le labbra fremere sotto le sue, malgrado non fosse riuscito a ricacciare in un remoto cantuccio della sua mente quella spiacevole sensazione di distanza, di barriere invisibili.

Non era come con Auguste. Auguste era desiderio taciuto, bruciante, acuto; era una stilettata in pieno petto nel suo irrealizzabile, utopistico appagamento; era fumo in faccia dal profumo cui non poteva rinunciare, era la sistematica negazione di ogni certezza. E faceva male.

Dorian era stato per lui quanto di più simile vi fosse ad un nido accogliente, ad una colonna in grado, seppure in mancanza di supporti accessori, di tenere in piedi la sua esistenza. Era l’unica fonte di luce rimastagli, così fragile e delicata, e lui non l’avrebbe perduta.

Fernand sentì la presa sulle labbra venir meno, la sua bocca incresparsi debolmente in una sorta di sorriso, le mani strette su di lui all’attaccatura del bacino. Gemette.

- Dorian? Dorian, io… – la voce fuggì dalle sue labbra come un mormorio indistinto.

Dorian lo baciò con impaziente voluttà, la nostalgia del distacco impressa nel contatto fulmineo.

- …Credo di dover andare.

- Vai via di già? – ora giocherellava sui merletti della sua camicia, riassettandola distrattamente.

Fernand si sfiorò istintivamente le labbra arrossate. Si strinse nelle spalle.

- Gliel’ho promesso. Sono da te appena possibile. Tu non…?

Dorian lo precedette, scrollando svogliatamente il capo in segno di dissenso.

- Non credo che Auguste mi voglia in mezzo alle scatole.

- Era soltanto preoccupato per te.

- Mah, fa lo stesso – Dorian gli rivolse un gesto annoiato con la mano, come a voler scivolare su una questione non troppo rilevante.

- Che fai, ora? – Fernand raccattò il proprio soprabito e se lo sistemò sulle spalle con studiata lentezza.

Non si sentiva tranquillo al pensiero di lasciarlo solo.

- Ne approfitto per darmi una sistemata come si conviene. Tu, piuttosto, tieni a mente quel che ti ho detto – gli ingiunse Dorian, sibillino.

 

Che non siamo più al sicuro? Che Auguste si rigira intorno al dito mignolo le nostre insicurezze, o chissà quali altre fantasiose teorie.

La paura, Dorian, non è la carta giusta per barcamenarsi agevolmente fra le trame di ciò che non si arriva a comprendere. E tu hai tradotto tutto nel dubbio, da ogni prospettiva.

 

Fernand barcollò nella penombra lungo la scalinata irregolare della vecchia abitazione, sfiorando con dita incerte la parete ruvida, in cerca di potenziali appigli. Si volse indietro, verso Dorian immobile sulla porta. Non sorrideva più.

 

* * *

 

Il campanile a vela svettava bianco contro il chiarore malato del cielo, la piccola chiesa era per lui una visione sfocata in fondo allo stretto vialetto ricoperto di ghiaia, incastonata nel proliferare indiscriminato di pericolanti edifici gli uni a ridosso degli altri nel quartiere ovest della città, le mura severe che incombevano al di là delle fronde degli alberi.

L’acciottolato irregolare aveva reso precari i suoi passi, tanto che Auguste dovette più e più volte ricercare un appiglio provvidenziale su Raphäel. Accecato dalle gocce di sudore che gli scivolavano prepotenti fra le ciglia, gli occhi che bruciavano, si liberò del proprio cappello. Non ne avrebbe avuto bisogno. Immobile, lasciò vagare il proprio sguardo lungo il percorso serpentino di quel viottolo periferico ormai in stato d’abbandono, sui lunghi fili d’erba che spuntavano impertinenti fra i ciottoli, e poi su, lungo il nastro di cielo che emergeva a stento, stretto fra gli alti cornicioni e l’angustiante distanza che divideva i due opposti lati della via.

Annaspando in un ovattato tumulto di sensazioni, la paura del vuoto annegata nel gelo di un disperato, viscerale impulso di difesa, Auguste si sforzò di allontanare il proprio sguardo dalla mano affilata di Raphäel che indugiava sulla sua spalla in un gesto intrinsecamente rassicurante, come a voler captare la sua tristezza e convogliarla in un indolore, rasserenante fluire di ricordi.

Auguste era certo che in un altro momento, con ogni probabilità, non avrebbe esitato a confermare la fiducia riposta su quel ragazzo né si sarebbe lasciato sfuggire l’eventualità di scandagliare l’uomo Raphäel dietro la figura sfuggente di Raphäel Lemoine il rivoluzionario. Se solo Fernand non gli avesse insinuato un dubbio così assillante, e se lo stesso Raphäel non fosse divenuto così inspiegabilmente fumoso dinnanzi a domande precise, messo alle strette di fronte al delirio di Dorian.

Sarebbe forse stato altrettanto piacevole approfondire la sua conoscenza in altra sede, si ritrovò a domandarsi, la sua attenzione strettamente allacciata all’eloquio allettante di Raphäel, tanto da dissipare in lui, per un istante, il pensiero di Lucien. E di Fernand.

 

“La cappa immacolata del buon rivoluzionario non credo resterà incontaminata ancora a lungo, seguitando a fare di Raphäel, agli occhi di tutti, la persona di cui potersi fidare a scatola chiusa”.

Attento, Auguste.

 

Perché, Fernand, perché ti ostini a non voler guardare alla realtà che sta dinnanzi ai tuoi occhi, preferendo accanirti sull’esile filo di spiegazioni alternative che qualche labirintico recesso della tua mente non vuole abbandonare?

Il vero Raphäel è quello che vedi dinnanzi a te, e l’ho sempre saputo: non esiste discrimine fra la persona generosa, capace di ascoltare e di prendersi a cuore le difficoltà di chi gli sta accanto, ed il rivoluzionario di ghiaccio dalla volontà indefessa e dagli oscuri propositi. E non vi è nulla da temere in tutto ciò.

 

Auguste strinse le palpebre come insopportabilmente ferito dai raggi del sole; vacillò, quando il pensiero di Fernand e Dorian lampeggiò nella sua mente in tutta la sua devastante chiarezza, le loro dita che si sfioravano, i segreti ed i progetti che li univano a doppio filo, chiusi fra quelle quattro mura soltanto per loro, gli sguardi complici, l’ansia febbrile di pianificare quelle che sarebbero state le loro mosse successive, di condividere una realtà.

Fernand non aveva dimenticato chi poteva considerare amico, a chi poter palesare le proprie incertezze, e lui era rimasto fuori senza appello, occasionale intruso.

Era stato un imprudente abbaglio, da parte sua.

 

Stai andando a seppellire Lucien, e neppure in certi frangenti il tuo cuore è immune dal pensiero ossessivo di te stesso, dall’angoscia ammorbante e terribilmente egoistica che l’idea della solitudine continua a provocare in te.

 

Scosse il capo, cercando d’ingannare la propria mente scorrendo con lo sguardo sulla gente che sostava sul sagrato della chiesa. Raphäel pareva completamente assorto su un qualche punto lontano e impreciso dinnanzi a sé, le braccia incrociate sul petto in una posa indolente. Il caldo e la mancanza di riposo durante la notte sembravano averlo sfiancato, eppure non erano del tutto vani i suoi sforzi nel dissimulare l’incipiente stanchezza. Inconsciamente, Auguste si ritrovò ad imitarne l’atteggiamento.

- Arrivano – gli sussurrò Raphäel, assorto, accennando impercettibilmente alla piccola processione che si era formata dinnanzi a loro – Strano non riesca a individuare Ambrosie.

- Temo le prenderà un colpo nel vedermi qui. Non sono sicuro che Fernand si sia dato una gran pena per informare gli altri del cessato allarme – ribatté Auguste con una punta d’acidità.

Raphäel lo perforò con lo sguardo.

- Credo che i convenevoli con Dorian lo impegneranno più del dovuto.

Auguste distolse il viso: Raphäel aveva tanti pregi, ma fra questi non doveva propriamente rientrare il buon senso di sorvolare su considerazioni spiacevoli.

- Ecco tua moglie.

Auguste socchiuse le labbra nell’atto quasi meccanico di correggere quell’improprio “moglie” con qualche termine che meglio rendesse l’idea, ma qualcosa trattenne ogni sua esternazione sul nascere. Perfino Raphäel ammutolì vistosamente, il volto più pallido di quanto non fosse di consueto.

Emilie, impronta familiare e sbiadita confusa nella moltitudine, una fugace apparizione nel lento andirivieni di ombre e figure che si muovevano dinnanzi ai suoi occhi con enfatica gravità. Ipocriti.

E lei. Un’andatura da regina, il velo scuro che frusciava al suo passaggio, adombrando il viso altero.

Che diavolo ci fa?

Auguste seguì rapito quell’incedere sinuoso, quell’apparizione discreta, fino a quando la sua figura non fu inghiottita nella penombra della chiesa, in un denso viavai di stoffe scure e di occhi ignari dall’artificiosa parvenza contrita.

Emilie. Al suo fianco, un giovane sconosciuto dai tratti nordici la scortava compito.

Auguste avvertì come di riflesso una fitta bruciante, priva di strascichi emozionali, attraversargli il cuore ormai assuefatto, insensibile ad ogni caparbia sollecitazione, la gola arida, il freddo nelle ossa. Remoto, distante, come un sogno dai contorni sfumati che lascia dietro di sé un indecifrabile vuoto nel petto al risveglio.

Lui l’aveva compreso da subito, e quello non era altro che il prevedibile rovescio, ideale risposta alla sua perenne assenza.

Auguste fu distolto soltanto dalle dita di Raphäel che gli si chiusero sul polso. Sembrava impressionato.

- Ch… chi era quel…? – riuscì a proferire con voce stentata.

Raphäel socchiuse gli occhi finché le iridi sottili non si ridussero a specchi d’intellegibile oscurità nella fessura delle palpebre. Scosse il capo.

- Non ho idea. È un forestiero, mi pare si chiami Etienne Giroud, ma non so nient’altro, solo che è in città da poco tempo.

Auguste si sentì girare la testa in una vertiginosa alternanza di collera e indifferenza. Scrollò le spalle.

- Auguste, io… – gli occhi di Raphäel scintillarono umidi.

Sentì la sua stretta farsi irruente sul polso e si costrinse a sorridere, senza poter impedire alla propria mente d’inerpicarsi altrove.

Ma Raphäel non era Lucien: così bello e gentile, fragile solo nell’apparenza, ma non era Lucien, come non lo era Fernand – così esasperante e sfuggente – e non lo era neppure Emilie.

Etienne Giroud o come diavolo si chiamava. Sembrava giovane. Improvvisamente, Auguste sentì i suoi ventinove anni gravargli sul petto come un macigno insopportabile, come se qualcosa d’indefinito gli stesse sfilando via la vita fra le mani, ogni istante più inarrestabile.

Vissuto, vecchio persino per Emilie che, quasi come naturale decorso della loro parabola discendente, aveva finito per trattare con lui né più né meno di come avrebbe fatto con un fratello più giovane di sei anni.

 

Bugiardo, contraddittorio, fedifrago, cospiratore, criminale. E vecchio.

Buono soltanto a celare dietro un fragile velo tutto ciò che lo riguarda, escluso il suo nome di battesimo, nonché a servirsi di te per mascherare agli occhi di tutti, te compresa, l’amore per un altro uomo.

Non potevi trovare di meglio, Emilie.

 

Inspiegabilmente, Auguste sentì il principio di una risata isterica solleticargli la gola. Annaspando, abbandonò con uno strattone il braccio di Raphäel e raggiunse un angolo solitario del viottolo deserto, un lembo del mantello a contenere il debole sussulto di quell’accesso di risa senza senso.

Pensò a Lou. A quel legittimo dolore, cristallizzato sotto la sua pelle, che egli si sforzava di alimentare con enfasi ossessiva, indugiando fra le pieghe più profonde del proprio animo; a quell’unica angolatura emotiva capace di farlo sentire vivo, ancorché vulnerabile.

Ed era soltanto l’inizio. L’inizio della sua rovina.

Ritornò composto sui propri passi.

 

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22: Lenzuola stropicciate ***


Capitolo 22

Lenzuola stropicciate

 

 

- Dorian? Sono io.

Fernand avanzò tentoni nella penombra, non prima di essersi richiuso la porta alle spalle. Braccia strette sul petto, si lasciò andare accanto al focolare spento, il sole cocente di mezzodì che arroventava l’aria al di là delle imposte chiuse, il caldo alito primaverile sopraggiunto troppo bruscamente a infiacchire i suoi passi – e il bizzoso mutare del vento, troppo secco e repentino, verso sera, per rinunciare allo scudo simbolico di un rigido soprabito, ingombrante carezza sulle spalle.

Un profumo dolciastro di fiori di campo catturò i suoi sensi come un assalto prepotente, forzò le maglie sottili del silenzio e della penombra che facevano da taciturni compagni alla sua attesa, e Fernand considerò quanto non fosse propriamente un toccasana, per uno che rientrava da un funerale.

Scosse il capo, vano tentativo di sgombrare la mente dalle accidentali, confuse corrispondenze che sentiva propagarsi spontanee in lui, dalla mente fino alle estreme propaggini sensoriali, destabilizzandolo. Sospirò: lui desiderava solo un rifugio momentaneo in qualche breve istante tranquillo, la mente vuota e i secondi che scorrono fra le dita, ma un senso d’oppressione al petto gli impediva d’ingannarsi fra innocui dettagli.

Pensò al funerale. Aveva voglia di piangere.

 

Ambrosie: non l’aveva individuata subito nel chiaroscuro della navata gremita, nella massa priva di colori e di volti – solo vesti scure, bisbigli e sguardi palpitanti, e un senso soffocante d’attesa.

Solo in un secondo momento i suoi sensi erano riusciti a modellarsi su quella sorta di composto estraniamento, i fumi densi d’incenso che gli bruciavano in fondo alle pupille.

Ecco i suoi ribelli, macchie d’inchiostro solitarie, disseminate nella moltitudine, qua gli uomini, là le donne; Ambrosie celata sotto la veletta scura, Auguste che non sembrava più neanche umano; e il brusio e i graffi delle spine di rosa nell’atto di deporre i fiori sulla bara, nell’intreccio caotico di mani pietose.

E quel persistente, ineffabile timore che gli pungeva il petto, trepidante sentore di assenza che gli scavava una voragine nel cuore.

La paura che Auguste cedesse al gelo della sconfitta. Che da un momento all’altro venisse a mancargli l’aria, soffocato, sprofondato in quell’ossimoro di caotica solennità; che perdesse le redini di quell’irreale autocontrollo, smarrito in fondo al cieco labirinto della propria disperazione.

Perché sarebbe caduto con lui.

E i Mirand. Li aveva scorti di sfuggita, solo un attimo, al termine della funzione, nello spiazzo antistante alla chiesa – doveva presumibilmente averli avuti dinnanzi agli occhi per tutta la durata delle esequie, pur essendosene avveduto solo in quel momento.

Un persistente campanello d’allarme gli era esploso nella mente, mentre gli occhi scrutavano spasmodicamente ogni volto lungo la sua traiettoria in un caotico, infernale viavai. Alla ricerca di lui.

Ma Auguste aveva provveduto quanto prima a sottrarsi alla vista.

E questo, Fernand non l’aveva previsto. E da lì l’aveva perso.

 

- Fernand, sono in camera. Io… Non credevo fossi già di ritorno.

Fernand lo ringraziò mentalmente per aver provvidenzialmente spezzato il suo involontario, meticoloso ripercorrere ogni istante del proprio limbo. Sbatté le palpebre sotto i colpi leggeri di quel richiamo suadente, ovattato, e fece per raggiungerlo.

 

- Tu… Tu sei un incosciente! Si può sapere cosa ti passa per la testa?

Fernand si prese il volto fra le mani, le palpebre ostinatamente socchiuse nello strato denso di vapore che l’aveva schiaffeggiato in pieno petto, i sensi invasi da quel profumo delicato che ben presto si era sostituito di prepotenza ad un preesistente sentore d’amarezza, di ombra indecifrabile che gli martellava nella mente.

Che l’aria stessa possa risentire della paura appiccicata alle pareti?

L’abisso che non conosci, può avere un odore?

Vide Dorian inarcare placidamente il sopracciglio, immerso fino al petto e alle ginocchia in quella tinozza d’acqua calda, i capelli bagnati che gli gocciolavano sulla schiena nuda, la mano coperta da una fasciatura sottile tenuta compitamente fuori, le dita che sfioravano distratte il pavimento, e ogni piega di tensione dissolta sul suo viso.

Fernand deglutì, cercò di distogliere lo sguardo, l’impatto fresco della visione che gli rimbalzava nella mente, attutita dal caliginoso strato di vapore che ottundeva i contorni.

- Cosa c’è che non va, stavolta, mon ami? Preferivi che me ne stessi tutto sfatto?

- Sei pazzo! Se… se per disgrazia ti fossi sentito male, non ci sarebbe stato nessuno ad aiutarti: a questo avevi pensato?

- Basta così, Fernand… – Dorian lo liquidò in un mugolio annoiato, gesticolando pigramente in quella che pareva una blanda negazione – Io. Sto. Bene. Non so se dovrò scrivermelo da qualche parte e firmarlo dieci volte, prima che te ne convinca del tutto, ma sto così bene che potrei addormentarmi.

- Ecco, appunto. Può bastare.

Fernand indugiò davanti alla porta, incerto se restare oppure uscire, lasciandogli il tempo di risistemarsi.

- No, resta! – gli occhi di Dorian si dischiusero limpidi su di lui, precedendolo, quasi avesse deciso solo in quel momento di degnarlo della sua completa attenzione.

Incrociò le gambe con disinvoltura, il movimento flessuoso appena percepibile tra le crespe sfilacciate di schiuma. Le linee sinuose d’ambra pallida, l’intreccio delicato della muscolatura che emergeva in controluce, a Fernand parevano configurarsi davanti a lui come parte integrante della caligine sottile che intrappolava le sue percezioni.

Sbatté le palpebre, i sensi impigliati fra contorni evanescenti, soffusi. Non era pronto a riprendere il controllo, a costringere il suo volto in una maschera risoluta, a dirgli vestiti, ora, Dorian, ho bisogno di parlarti. Troppo fragile, la mente imbrogliata altrove.

- Fernand, ti senti bene?

Il giovane annuì, gli occhi lucidi.

- Auguste? – azzardò Dorian.

- Sparito così com’è arrivato – gli soffiò impercettibilmente Fernand, quasi a voler allontanare i suoi pensieri come pulviscolo nell’aria.

- Mi dispiace, Fernand. Avrei dovuto esserci – Dorian si morse nervosamente l’unghia – Anche se Auguste… Non mi voleva, sì, si era ben capito.

- Volevi goderti un po’ di sana, ingessata formalità. E certe facce…! – Fernand rabbrividì – Beh, alla fine ti consolerà se non altro sapere che Raphäel era con lui. Già, Raphäel, l’amico di tutti; la sua presenza era da protocollo.

- O magari… Che ad Auguste servisse la solita spalla per la sua commedia quotidiana. A questo hai pensato, Fernand?

- Non parliamo di Auguste, per favore! Almeno, non in questi termini. È già distrutto di suo, senza bisogno che qualcuno infierisca.

- Se davvero volessi elencarti ogni singolo motivo su cui poter eventualmente infierire, Fernand, allora fai finta che non abbia mai detto nulla! Auguste dovrebbe almeno imparare a non nascondersi dietro al solito dito. Oh, sono troppe, troppe le cose che non sai! – soggiunse Dorian in un sussurro appena udibile – D’accordo: come non detto – lo anticipò – Non ho voglia di litigare.

Ma Fernand non lo ascoltava più; tratteneva il fiato, la mente rapita da ciò che vedeva emergere lentamente dinnanzi ai suoi occhi nella sua struttura portante: la crescente certezza, dentro di lui, che ancora una volta Dorian stesse giocando senza scoprirsi: sornione, vestito solo di sottili ricami di vapore, tergiversava, scagliava il dardo, saggiava di soppiatto le sue reazioni e prendeva le misure, studiando il momento esatto per colpire, in che modo colpire, quali corde far vibrare.

Veloce, si liberò della giacca, la camicia allentata sul collo che si arricciava in pieghe sottili sui gomiti e sulle spalle. Boccheggiava, la gola inaridita, il ribollio del sangue a percuotergli le tempie per il repentino accesso di calore al viso. Gli occhi lacrimavano sotto l’impertinente, destabilizzante carezza di quel profumo ingannevole.

Nulla era casuale. Dorian aveva qualcosa in mente: aveva allestito la scena con l’accortezza di uno stratega, e gli sguardi penetranti e furtivi che di tanto in tanto gli piantava in volto, dovevano di certo far parte di quella fine, complessa strategia illusoria. Persino la nudità sfacciata, appena celata sotto nubi leggere di schiuma.

 

Che scherzo è questo, Dorian?

Bastardo: tu avevi previsto. Avevi previsto ogni sfumatura.

 

Si sentì vacillare.

- Fernand? Sei sicuro di star bene?

Il giovane riuscì per un soffio ad evitare di scivolare sul pavimento umido. Si costrinse ad allacciare nuovamente lo sguardo a quello di Dorian, vago desiderio di rubare il segreto, la chiave di lettura dalla superficie di quelle iridi agitate da uno scintillio mutevole.

- Tu, piuttosto. Mi stupisce come possa non bruciare di caldo, là dentro.

Dorian scosse le spalle.

- C’è davvero tanto caldo qui dentro? Sarà la tua impressione.

- No, non credo – Fernand agitò il braccio in un ampio gesto, cercando di diradare quella caligine opprimente che, con ogni probabilità, doveva esistere unicamente nella sua testa, come parto imperfetto di una mente che amplifica le percezioni.

In silenzio, Fernand si portò alle sue spalle. La pelle bagnata riluceva di deboli bagliori, sottili rivoletti d’acqua che si confondevano lungo la curva della schiena.

- Scusami se la situazione… – Dorian si tirò indietro i capelli fradici, descrivendo un minuscolo ricamo di gocce d’acqua sul pavimento retrostante – Come dire, potrebbe risultare… imbarazzante.

Fernand si strinse nelle spalle e sorrise compiaciuto.

 

E qua sei stato prevedibile, Dorian: sei meno astuto di quanto tu pensi, nonostante tutto.

 

- A dire il vero, non sono io quello che potrebbe eventualmente sentirsi in imbarazzo.

- Bravo.

Dorian si portò nuovamente sulla spalla la massa dei capelli intrisi d’acqua, scoprendo la base del collo.

Un’idea balenò furtiva nella mente di Fernand, fugace, repentina. Per un istante, fu tentato di scagliargli addosso qualcosa di poco contundente – un cuscino avrebbe fatto al caso suo. Poi sentì l’impronta rasserenante di un sorriso distendergli meccanicamente i muscoli del viso.

Dorian: lui, ancora una volta. Il Dorian che conosceva. Fantasioso, lunatico. Indecifrabile. Immagini contraddittorie in sospeso nella sua mente, realtà in apparente contrasto, caselle immaginarie prive d’incastro.

Aveva temuto da un certo momento in poi che la questione Raphäel prima, in un secondo momento Auguste, potessero in qualche modo segnare il discrimine fra loro. E lui avrebbe certo preferito che Dorian smettesse una volta per sempre di opporre quel muro di amarezza e sarcasmo, utile soltanto a distorcere ulteriormente la realtà, ogni qual volta il nome di Auguste rimbalzava sulle sue labbra. O quanto meno provasse a renderlo partecipe di quelle che potevano essere le sue ragioni. Gliene avrebbe parlato, ma non ora. Aveva detto e fatto abbastanza.

Nella sua mente si configurava la sola costante che, nel suo immaginario, fosse riuscito a circoscrivere su Dorian. L’amico affettuoso e comprensivo, i baci che si erano scambiati, il liquido contatto che bruciava su di lui. La reticenza apparente, le guance accaldate che bruciano di desiderio e qualche strascico d’imbarazzo. Un istante, un soffio, le labbra che si uniscono in un ipnotico, rasserenante tepore simile all’incoscienza. E magari era anche giusto che fosse andata così, o forse no. Non sapeva dirlo.

L’ossessivo, continuo ripetersi di un gesto, scandito dal trascorrere dei giorni e dalla paura di privarsene. Innamorarsi ogni giorno di una medesima scena di una medesima pièce, senza che l’emozione della novità venisse meno, ogni volta ignorandone paradossalmente l’epilogo sospeso a metà. Un puntuale ripercorrersi, con la stessa enfasi ossessiva, voluto, ricercato; rivivere il medesimo istante, le medesime sensazioni replicate all’infinito, sospese in un irrinunciabile rituale, con un prima e un dopo a far da momentanea cornice.

Seguì la curva delle sue spalle, l’armonia dei contorni.

E il suo nome, persino il suo nome pareva inconsapevolmente rimarcare le morbide volute color grano dei suoi capelli, gli spigoli appena accennati che scandivano i tratti del suo viso. Dorian: la durezza iniziale, l’esplosione preceduta dalla lingua che batte sugli alveoli, per poi scivolare con dolcezza fino a sfumare.

Non lo stava ingannando. Non mi sto ingannando, si ripeté.

Voleva però cavarsi il dubbio, afferrare le sue intenzioni. Ed ora aveva la possibilità di suggellare, di raccogliere qualcosa che, per qualche istante, aveva temuto di smarrire.

Dorian tremò, quando la sua mano gli sfiorò la spalla, indugiando lenta lungo il petto.

L’avrebbe baciato di nuovo, fino ad imprimersi in lui, senza perdersi ancora una volta nel suo alienante vicolo cieco, rivivendo tutto da principio come un’inappagata ossessione. Perché era stato lui stesso ad innescare il meccanismo, sin dal momento in cui, fingendo di dormire, aveva ricambiato il suo bacio per la prima volta.

Avvertì sotto le sue labbra la pelle sottile dell’orecchio; sorrise, quando lo udì trasalire: doveva aver catturato il suo punto debole.

- Fernand…

Dorian si ritrasse, sornione. Senza vederlo in volto, Fernand ebbe quasi la certezza che avesse socchiuso le palpebre, anticipando la sua resa. Reclinò il capo all’indietro.

 

Attento, Dorian: sei stato astuto, devo sinceramente complimentarmi con te, ma avevi dimenticato di mettere in gioco te stesso, il tuo ruolo in primo piano.

 

- Ti piacciono le cose a metà? – il debole sussurro fuggì dalle labbra di Fernand quasi involontario, sciolto dai vincoli della ragione, confuso intreccio di parole e pensiero.

Percepì appena il leggero vibrare della sua voce sulla pelle di Dorian.

- A dir la verità, le adoro – Dorian si morse il labbro – Adoro la possibilità di lasciarmi andare a qualcosa che amo particolarmente. Che forse verrebbe meno, sottoposto a un razionale divenire.

- Interessante teoria… – Fernand si chinò su Dorian fino ad assaporarne pienamente il profumo.

In silenzio, incurante della propria camicia che s’inzuppava a contatto con il corpo bagnato, lo circondò con le braccia, la pelle levigata del ventre che scorreva sotto le sue dita.

Aveva gettato lì sul tavolo la sua sfida, senza una logica in atto a supportare le sue stesse azioni, e ora l’avrebbe baciato, un’altra volta e poi ancora, se necessario, il desiderio che affiorava in punta di labbra, troppo palese agli occhi dell’altro.

Dorian parve assecondare la sua tacita richiesta; mosse le labbra sulle sue, poi, senza preavviso, lo morse delicatamente.

- Che fai?

- È… è meglio che mi asciughi.

Era arrossito.

Fernand distolse il viso: avrebbe potuto infierire, ma non era il caso.

- Buona idea, allora. Ti aspetto di là.

Dorian annuì col capo, un’impronta di sollievo così tangibile sul volto, che per poco Fernand non scoppiò a ridere: quasi di certo, a Dorian doveva essere balenato in mente che sarebbe stato troppo, davvero troppo – rifletté – palesargli di colpo, così incautamente, la propria eccitazione. Come se ciò non fosse stato implicito, senza bisogno di scrutarlo in basso, attraverso quel provvidenziale velo di schiuma che lo celava dalla vita in giù.

Fernand si limitò ad abbracciare con lo sguardo la stanza circostante.

Si erano tessuti a vicenda la stessa rete, e lui si era lasciato annebbiare la mente come da una melodia tremendamente allettante; complice e vittima, aveva dato il suo tacito assenso, ed ora non gli restava che completare l’opera trascinando anche Dorian con sé, senza implicazioni accessorie, senza pensare ad altro se non a far chiarezza con la sola luce dell’istinto.

Un fruscio alle sue spalle ridestò nuovamente la sua attenzione, e la figura di Dorian riemerse oltre la tenda che divideva la stanza in due ambienti.

- Vedo che ora ti senti più a tuo agio – Fernand lasciò scivolare il proprio sguardo su Dorian, i calzoni indosso e il torace scoperto.

- Sei strano oggi, Fernand. Cosa ti prende? – Dorian scosse il capo, stranito, allungando la mano sul suo viso fino a dirigerlo verso di sé.

- C’è che… Quel che è accaduto poco fa: avrei potuto anche offendermi – Fernand eluse con noncuranza la presa di quelle dita sottili sul mento.

Dorian sospirò.

- Volevo che ci pensassi almeno qualche minuto, prima di prendere qualunque decisione.

Era serio.

- Chi dice che ce ne fosse realmente bisogno? – Fernand scosse il capo, sibillino.

Dorian gli sorrise, indulgente.

- Qual è il tuo gioco, Fernand?

Un ghigno impercettibile attraversò il volto del ragazzo.

- No, Dorian: qual è il tuo.

- Nessuno in particolare. A parte, in questo preciso momento, cercare di capire cosa ti sta dicendo la tua mente.

Fernand annuì con fare impacciato.

- Beh, è abbastanza, se ti dico che… ad un certo punto, sembrava volessi chiedermi di fare l’amore con te, ma è come se qualcosa ti abbia fatto desistere improvvisamente.

Dorian distolse lo sguardo per qualche istante, soprappensiero.

- Può darsi.

- Non hai che da spiegare. Ci sono molte cose da cui potresti cominciare – Fernand agitò la mano come a voler abbracciare simbolicamente la stanza.

Avrebbe colto la sua provvidenziale occasione.

- Perché certe contraddizioni mi confondono terribilmente. Devo portare qualche esempio? L’indecisione che sembra accompagnarti costantemente; questo è qualcosa che davvero, in effetti, meriterebbe attenzione. Troppi punti in sospeso. Che motivi hai per non fidarti di Auguste, per dare puntualmente in escandescenze qualora si parli di fiducia. Cosa ci trovi in Raphäel. Il… perché dei tuoi atteggiamenti inconciliabili nei miei diretti confronti: lanci il sasso e ti tiri indietro. Mi baci come… Come se fosse sempre la prima volta, fingi che non sia successo niente, e poi torni all’attacco.

- Non lo so – Dorian si strinse nelle spalle, l’espressione troppo guardinga per apparire spontanea; sembrava nervoso – Se vuoi prenderla larga e andare di nuovo a parare su quel che è successo ieri notte, dovrai accontentarti del fatto che ne so quanto te.

- Non mi riferisco a quello, te l’ho spiegato, e non mi accontenterò di un “non so, non mi va di parlarne, è una storia lunga”.

- Da dove vuoi cominciare? – Dorian prese a spazzolarsi distrattamente i capelli umidi.

- Da Auguste… Ad esempio – rispose istintivamente il giovane.

- Da Auguste… – gli fece eco Dorian, come a voler radunare le proprie idee nel giro di un istante, selezionare ciò che sarebbe stato opportuno dire e ciò che invece non lo sarebbe stato – Non è una cattiva scelta. Prima, però, vorrei chiederti qualcosa anch’io – una luce indistinta gli percorse le iridi, lo sguardo saettò vivido su di lui attraverso lo specchio.

- Cosa…

- Com’eri quando eri piccolo, Fernand? – Dorian accavallò lentamente le gambe, come nel mezzo di una chiacchierata distensiva da assaporare tra ameni ricordi – Sai, me lo chiedevo. Ero curioso.

Fernand spalancò le palpebre, interdetto di fronte al brusco salto di prospettiva.

- Cosa c’entra ora questo…?

- Nulla di che. Pensavo - non chiedermi il motivo - a come fosse Fernand da bambino.

La cadenza della voce tradiva una tenerezza tale che le labbra di Fernand si distesero inavvertitamente in un sorriso.

- Un piantagrane come adesso, temo. Ma… Non capisco il tuo discorso. Sul serio. Ti ho… raccontato tante volte la mia storia, almeno per sommi capi… Sei tu, al solito, quello che parte all’assalto e poi rimane sul vago.

Dorian annuì distrattamente, come a voler fuggire qualche immaginario dettaglio.

- Lo credi davvero? Pensare che fino a stamattina ero in vena di confidenze!

- Ad esempio? – lo incalzò Fernand.

- Ad esempio – Dorian sollevò gli occhi al cielo, l’espressione turbata, le guance deliziosamente chiazzate di cremisi – Forse non ti ho mai raccontato veramente del mio primo periodo in città. Il fatto è che… mi ero invaghito di Lucien. Sì, esatto. La cosa andò avanti per mesi, da parte mia, con una convinzione tale da rasentare il patologico – sorrise dietro ad un improvviso velo d’amarezza – E oggi, guarda oggi, com’è strano che ben tre persone, fino all’ultimo momento e del tutto inconsapevolmente, abbiano quasi congiurato per tenermi segregato in casa senza lasciarmelo neanche salutare per l’ultima volta! Sarebbe quasi buffo, se le circostanze non fossero state così tragiche.

- Dorian, sei stato male tutta la notte, se te ne fossi dimenticato, e non devi assolutamente sentirti in colpa né biasimare chi ha preferito lasciarti tranquillo ed evitarti almeno i funerali. Se vuoi sapere come la penso – Fernand sollevò il viso con petulanza – è molto meglio che Lucien lo ricordi vivo. Per quanto riguarda il resto… Se davvero me ne avessi parlato in precedenza, dubito che avrei potuto dimenticarmi tanto in fretta.

Gli sfiorò la guancia con un tocco leggero, confidenziale, nelle sue parole l’intento di dirottare rapidamente il discorso là dove gli premeva, anche a costo di sommergerlo nel fiume di caotiche curiosità e considerazioni che gli si rimestavano nella mente.

- Hai parlato del tuo “primo periodo in città”, se non sbaglio – riprese – Se ho ben compreso, non era solo la mia impressione, da quando ti ho conosciuto, che anche tu venissi da fuori. Nord, immagino. E… se così fosse, chissà, forse hai anche qualche antenato aristocratico. Molte famiglie nobili hanno ascendenza nordica.

- Basta così, Fernand!

Gli occhi di Dorian luccicavano imperiosi sotto un precario ventaglio di lacrime parzialmente trattenute.

Fernand trasalì. Si costrinse infine a tacere, stordito. Ancora una volta, senza avvedersene, doveva essere andato a sfiorare inavvertitamente corde troppo suscettibili d’essere scosse.

- Dorian? Tutto bene? – riprese in un timido sussurro – Fammi capire almeno cos’ho detto di male, se non chiedo troppo.

- Non… Oh, ti prego, lascia stare! Davvero.

Fernand vide il volto di Dorian infiammarsi di una decisa sfumatura purpurea. Lottava per contenere l’agitazione che gli faceva tremare le dita, le vene percorse dal battito martellante sotto il suo stesso tocco, gli occhi lucidi.

Di colpo, Fernand si trovò chino davanti a lui, seduto sui talloni, le dita sottili strettamente intrecciate a quelle dell’amico, a lenire quell’esplosione d’angoscia repentina.

- No, Dorian. Non lascerò correre – si risolse – Non posso non sforzarmi quanto meno di capire.

Dorian gli accarezzò distrattamente i capelli, l’espressione combattuta.

- Mi hai accennato tante volte al tuo passato, Fernand – riprese con voce pacata in capo a lunghi istanti in cui era parso del tutto assorto a riordinare disorganici ammassi di pensieri – E… Non riuscirò mai a dirti quanto mi abbia fatto piacere. Ti sarai chiesto sicuramente cos’avrò fatto in tutto questo tempo – una pausa grondante tristezza, lo sguardo che fuggiva, l’inquietudine che gli si addensava nella voce – Ecco: me lo sono chiesto anch’io.

- Cosa ti sei chiesto? – di riflesso, Fernand serrò la presa sulle sue mani.

- Cosa sono stati per me gli anni di cui non ricordo quasi nulla, Fernand. Escludendo il raccontino mal costruito che Auguste avrà imbastito anche a te, non appena gli si sarà presentata l’occasione, sul perché mi abbia raccattato, chissà come, chissà dove, e un mucchio di altre balle – soggiunse in un guizzo irritato.

- Non ricordi? C-cos’è che… non ricordi? Posso aiutarti? In… che senso non ricordi? – Fernand sbatté nervosamente le palpebre, interdetto.

Sentì il proprio cuore saltare un battito, e per poco non cadde a sedere sul pavimento.

- Nel senso letterale del termine: che ad un certo punto… c’è come un vuoto, e tutto il resto è incomprensibile e confuso, e non mi fido di Auguste. E questo, almeno, posso provarlo. Ti ho… sconvolto? Ho fugato qualche tua perplessità?

- Aspetta, Dorian, aspetta! – Fernand scosse vigorosamente il capo come a voler rimettere idealmente a posto nella sua testa i frammenti – Io so solo quel che ha detto Auguste. Della guerra civile… Di come ti ha aiutato a scampare alla forca. E ti ha nascosto fino al suo ritorno, quando la scia di processi e condanne a morte era ormai esaurita.

- Ecco, bravo. Conosci anche tu la versione di Auguste. Ora, prego, dimmi se tutto ciò sta in piedi. Cinque anni fa, quando il du Lac prese il potere, quanti anni avevo? Diciotto, esatto. Come sono arrivato ad unirmi alle bande dei ribelli? Un mistero – Dorian sollevò i palmi delle mani verso il cielo in un gesto rassegnato – E tu conosci Auguste, non è così?

Fernand aggrottò le sopracciglia, stranito. Stava per perdere nuovamente il filo.

- Ecco, se conosci Auguste, saprai quanto è probabile che lui, proprio lui, che prima di fare qualunque cosa deve ponderare cento e mille volte, lui che sembra ritenere tutti troppo avventati o incompetenti o direttamente troppo stupidi per i suoi schemi cavillosi… Com’è che può aver spedito un ragazzo di diciott’anni allo sbaraglio nel pieno di una guerra civile, a farsi ammazzare in una dannata polveriera? Non regge, Fernand, e ho avuto tempo e modo d’informarmi su certi… dettagli.

- E conoscendo te, Dorian – azzardò Fernand – Nulla toglie che abbia agito di tua diretta iniziativa, e che poi sia toccato magari ad Auguste o a qualcun altro toglierti d’impiccio.

Dorian gli rivolse un sorrido grondante amarezza.

- Auguste come lo conosco io, nel suo unico habitat naturale, intento ad architettare tutto fino allo sfinimento, che si lascia sfuggire sotto il naso un manipolo di disperati, felici di andare a far danni mentre fuori infuria una rivoluzione? Piuttosto, mi avrebbe ficcato in catene dentro una nave e imbarcato per un altro continente.

Fernand tacque, a disagio.

- Quando ormai il mio destino sembrava già bello e pattuito e centellinavo i miei ultimi giorni in una cella, una nutrita schiera di guerriglieri armati circondò i carceri… E sì, c’era anche il nostro Auguste, nonostante, ora come ora, sia ben difficile immaginare che sappia anche solo impugnare un fucile. Il resto è storia.

Dorian attese, lo sguardo vigile, quasi a cercar conferma negli occhi di Fernand, se proseguire oppure no.

- Altra incongruenza clamorosa. Non riuscendo a cavare il sangue da solo, ho raccolto informazioni in lungo e in largo da fonti neutre, e sai la conclusione? Auguste ha infilato un’incoerenza dietro l’altra, come volevasi dimostrare. Un giorno ti farò vedere il famoso carcere, e poi mi dirai se secondo te è a prova d’assedio oppure no.

- Se non è possibile penetrare una fortezza con un regolare assedio, l’inganno può essere un’alternativa efficace. Infiltrare qualcuno, che so… – tentò di tenergli testa Fernand.

- No, c’è di meglio, credimi! Fonti certe, Fernand: all’epoca delle due guerre civili, le prigioni non avevano esattamente la funzione che Auguste mi ha descritto in un primo momento. C’era forse l’urgenza sistematica di intasare le celle di rivoltosi sopraffatti durante azioni di guerriglia, in attesa di regolari processi che non sarebbero mai avvenuti? I ribelli presi in flagranza di reato, salvo casi eccezionali, venivano direttamente passati a filo di spada. Al massimo impiccati, e senza un processo. Se le cose fossero davvero andate come dice Auguste, ora non starei qui a parlarne con te.

Fernand socchiuse le palpebre, disorientato; fra le mani, un tentativo di difesa sempre più effimero.

- Auguste era presente a questi eventi – insistette – e non è un idiota: se anche avesse voluto mentire deliberatamente, non si sarebbe invischiato in errori tanto palesi e smascherabili.

- Oh, ma è proprio questo il punto – gli occhi di Dorian scintillarono luciferini sotto le ciglia morbide – A quanto pare, Auguste semplicemente non ha avuto il tempo materiale di prepararsi una bella bugia a prova di sciocco, e sarà stato senz’altro costretto ad abbozzare qualcosa su due piedi all’ultimo momento. Perché all’epoca in cui furbescamente ha “spostato” gli avvenimenti, lui probabilmente neppure si trovava più a Noir Trésor; era matematicamente impossibile che potesse afferrarci su ogni singolo dettaglio e far collimare ogni tassello senza sbavature, nel momento in cui si è trovato a mentire in quel poco tempo che gli restava a disposizione. Presumibilmente, Auguste non vide che i primi fuochi della fallimentare rivoluzione del popolo contro il tiranno: quando le forche a pieno regime e le palle di cannone cominciarono ad impartire i primi seri “avvertimenti”, Auguste era già in viaggio con Lucien verso luoghi di cui non ricordo neppure il nome. Auguste, esatto. E… Se davvero in città correvo tutti questi pericoli, dopo essere stato tirato fuori di prigione per i capelli, non ti pare un controsenso, da parte sua, evitare di spedire anche me in qualche posto dimenticato dalla civiltà, lontano dal duca, ma piuttosto mollarmi in città sotto gli ultimi fuochi della guerra civile?

Fernand strizzò le palpebre, stretto in un accesso d’angoscia che gli rimordeva il petto.

Pensò ad Auguste: al suo desiderio di soccorrerlo, di stringerlo, di non lasciarlo precipitare in quella voragine di disperazione spalancata sotto di lui, di cui non pareva lontanamente quantificabile né dove né quanto se ne estendessero i confini. Pensò a quel bacio appena accennato, alla sua concezione di ribelle, di rivoluzione, di essere uomo, a quella patina di tristezza nei suoi occhi, e per poco non si sentì mancare.

Sempre peggio, sempre più in basso. Contorni sempre più ingannevoli, soffusi, sfuggenti. Sempre più giù, verso il baratro.

A chi doveva credere?

E poi avvertì la presa di Dorian salda sulle sue spalle, il volto che mutava espressione, esaurita l’enfasi nervosa del ragionamento in atto.

- D’accordo, ho sbagliato ancora una volta – la sua voce tremò sotto lo sfolgorio indistinto che gli attraversava le iridi chiare – Ti prego solo, Fernand: ragiona! Tu non c’entri niente con tutto questo. Auguste ti vuole bene… Qualsiasi cosa nasconda, qualunque idea malata abbia in mente, sono pronto a credere che non abbia agito in cattiva fede nei nostri diretti riguardi. Certo, lo detesto un po’ per questo, ma mi rifiuto di credere che sia andata esattamente così. E Lucien, che è stato al suo fianco fino all’ultimo istante, non gli avrebbe permesso di giocare sporco nei nostri confronti.

Fernand si sentiva girare la testa. La stanchezza, l’angoscia, la frustrazione di non capire, il ribollio emotivo di una giornata infernale gli premevano sulle tempie doloranti come piccole spade di Damocle sul suo capo, una sensazione di nebbia davanti agli occhi che gli ottundeva i sensi.

- E tu, invece – un flebile mormorio affiorò sulla sua bocca, una cadenza roca che, in un primo istante, quasi non riconobbe come sua – Sei certo di volermi bene, Dorian Alexandre Desgrais? – scandì.

Fernand percepì la sua stessa presa sugli avambracci di Dorian divenire serrata, convulsa, attirarlo a sé fino a trainarlo d’inerzia sul pavimento nudo, accanto a lui. Fece scorrere le dita fra i capelli umidi che, asciugandosi all’aria, s’inanellavano in un delizioso turbinio sulle spalle nude. Rapito, la mente oscurata da una sorda, disperata sete di fisicità, percorse con lo sguardo quelle ciocche ondulate che gli ombreggiavano il viso e la linea nitida, quasi tagliente, del naso e degli zigomi.

Riemerse da quel sogno quando le sue dita artigliarono Dorian alla nuca, e le labbra premettero sulle sue.

- Basta verità arrischiate, per ora! – biascicò in una punta irriverente, la voce delirante che gli raschiava la gola – Questo… è reale, Dorian.

Tacque. La furia del desiderio impellente di baciarlo, di toccarlo, di sentirlo era tale che per un istante temette di cadere in deliquio, un formicolio dal sapore oscuro che gli divampava nel petto.

Inerte, riuscì a malapena ad assecondare lo sforzo da parte di Dorian di aiutarlo a tirarsi su in piedi, per poi spingerlo sul letto.

Sentì il peso del suo corpo su di lui, l’avanzare inarrestabile e repentino delle sue labbra sulla superficie della gola tradursi ben presto in minuscole fitte, come spilli conficcati sotto la pelle in un’ondata di concentrica ostinazione.

La mano di Dorian esplorava la sua pelle sotto la camicia come guidata da una sorta di desiderio puntiglioso, spire di puerile curiosità che si accanivano su di lui. Un gemito roco gli sfuggì dalle labbra strette a fessura, le membra tese, senza che egli avvertisse più su di sé le redini di quel crudele autocontrollo atto a contenere il visibile, urlante manifestarsi della sua eccitazione.

Serrò furiosamente le dita sulle lenzuola, una fitta particolarmente intensa a sconvolgere la stabilità delle sue membra e gli impianti mentali che avevano sorretto e motivato i suoi gesti fino a quel momento, quando Dorian provò a sfilargli delicatamente la camicia. Avvertì il morbido fruscio della seta sulla pelle martoriata di brividi, il respiro ridotto ad un rantolo affannoso, torrido, insufficiente a recare sollievo alla gola riarsa. L’estasi come una stoccata diretta allo stomaco, tanto intensa da recare con sé, serpeggiando lungo la spina dorsale, uno strascico quasi doloroso, lancinante.

- Fernand? – la voce di Dorian lo riportò alla realtà per qualche breve istante – Fernand, ti sto solo accarezzando…

Si era fermato, catturando rapidamente il suo viso in un’occhiata di traverso, una vena vagamente allarmata sul volto, la mano che gli sfiorava con noncuranza il torace scoperto ed i capezzoli contratti sotto il suo tocco.

Fernand gettò indietro la testa in un mugolio appena comprensibile.

- Uhh… C-così è… È peggio!

Dorian lo soppesò con occhi curiosamente beffardi, per poi chinarsi su di lui e afferrargli il lobo dell’orecchio fra le labbra. Rise.

- Così impari a farmi fare certe… “figure”! – gli soffiò, sarcastico, lasciandogli il tempo d’inquadrare la sottile allusione al problema di non poca rilevanza che a sua volta gli aveva provocato a tradimento, mentre stava immerso nell’acqua, senza nulla con cui coprirsi se non un’evanescente coltre di schiuma.

- Carogna… – gli sibilò Fernand di rimando, quasi divertito da quell’insolita, dispettosa schermaglia.

- È ciò che volevi, Fernand, non è così? – Dorian indugiò febbrile, un lieve sussurro disturbato dal respiro ansante, sfiorandolo con dita leggere là dove i calzoni stretti lo costringevano in una morsa impietosa.

Approfittava delle sue incertezze, della debolezza della sua volontà strettamente impegolata fra schemi inestricabili e confusi.

Il giovane annuì disperatamente, un gemito gutturale che si spense in una selva di ansiti impazienti, il corpo proteso verso Dorian.

Sentì la stoffa bruciante dell’ultimo indumento scivolare lungo le cosce, le labbra lucide di Dorian troppo vicine alla sua erezione prepotente, e il suo profumo su di lui.

Chiuse gli occhi. Si sentiva esposto, vulnerabile, come se persino l’aria immobile intorno a lui sfregasse sulle parti scoperte con lo stesso vigore di una brezza persistente, facendolo sentire scoperto, bagnato, la sensibilità ridotta all’estrema soglia di sopportazione.

 

Non credevo fosse… così. Con un amico che conosce il tuo corpo come conosce se stesso.

 

Fernand sussultò, percosso dalla duplice carezza dei suoi capelli sciolti e del respiro accelerato che infieriva sulla pelle in fiamme: un’estenuante sensazione di solletico che fiaccava la sua resistenza. Dorian lo baciò su un fianco.

- Fernand, l’hai mai fatto? – un velo d’imbarazzo calò sul volto del giovane.

Sembrava soprappensiero, esitante.

Fernand soffocò un accesso di risa isteriche: era strano provare a impostare qualcosa che somigliasse a un discorso osservandosi negli occhi da quella prospettiva così insolita, così intima.

- Non con un ragazzo – precisò.

Dorian annuì meditabondo, le mani che gli massaggiavano distrattamente le cosce. Inaspettatamente, puntellandosi sui gomiti, si portò su di lui e lo strinse sotto di sé, per poi calare sulla sua bocca indifesa.

- Shh…

Fernand inarcò la schiena sotto l’assalto di una carezza, squassato dal respiro affannoso, due dita delicate che indugiavano intorno al capezzolo arrossato. Sospirò.

- Lascia fare a me… – proseguì Dorian – Rilassati e lascia fare a me!

- Rilassarmi? Rilassarmi? D-Doriaan… – Fernand non poté spiegarsi neppure in seguito, neppure a grandi linee, dove stesse attingendo l’energia, l’impulso logico necessario a ribattere alle sue parole; la voce era un lamento appena percettibile, i muscoli rilassati a sottintendere la sua resa – Non ce la faccio…

Dorian lo baciò a labbra chiuse, allungandogli una carezza sulla fronte madida.

- Va tutto bene, Fernand. E… sembra che ti piaccia – lo stuzzicò – Forse un po’ troppo.

 

Basta, Dorian, basta, avrebbe voluto gridargli. Basta giocare, finiscila qui, oppure… Smetti di esitare!

 

Distolse lo sguardo. Avrebbe voluto trovare un rifugio, anche solo per pochi istanti, in qualche recesso razionale in fondo alla sua mente, sfuggire a quel tremito feroce che lo attanagliava fin nelle ossa. E non era facile, non era facile con le labbra di Dorian incollate alla gola a seguire la linea della giugulare, il suo profilo sfocato davanti agli occhi, il contorno delle anche in rilievo che si muovevano sulle sue come un delicato gioco a incastro, e quelle stilettate di piacere sempre più serrate che lo istigavano a perseverare in quella sorta di folle rituale.

Un sibilo acuto gli invase la gola, quando la frustrante scossa del distacco improvviso si manifestò in un’illusoria folata di freddo su di lui, i capelli umidi incollati alle guance, la sensazione bruciante di essere il solo ad aver perso totalmente il controllo. La sua volontà giaceva sul fondo, offuscata dai brividi che gli rimordevano la cute delicata e da un’idea allettante e ingannevole che gli si era radicata nella mente fino a distorcere ogni profilo razionale, convogliando ogni dubbio verso direzioni prestabilite.

Ed ora attendeva, rassegnato e impaziente, la consapevolezza di sé, della sua collocazione, come una visuale sempre più distante: foschia all’orizzonte.

Dorian gli sorrideva fiducioso, e Fernand fu tentato per un istante di dirgli fermati, riflettici ancora un attimo; forse non doveva andare così, ti sto ingannando. Ci stiamo ingannando: era una possibilità troppo invitante, troppo semplice da attuare, troppo attraente per essere abbandonata alla leggera, e noi ci siamo precipitati a capofitto, senza alcuna coerenza.

Solo per un istante.

L’ultimo quadro propriamente nitido dinnanzi a sé fu Dorian accucciato fra le sue gambe – che egli aveva istintivamente spalancato, scalciando pigramente per liberarsi dell’intralcio dei pantaloni arrotolati a mezza coscia. E quelle mani che gli cingevano i fianchi, quasi a rassicurarlo, i capelli biondi sparsi sul suo ventre a celare ai suoi stessi occhi la sua eccitazione.

Socchiuse le palpebre, giocando a indovinare, oltre le proprie ciglia, le linee della figura che sostava dinnanzi a lui, focalizzando l’oggetto della sua attenzione nel caleidoscopio di una prospettiva tanto intima: la testa bionda china su di lui, l’ondeggiamento così sensuale e ipnotico, le labbra sottili e delicate che si dischiudevano su di lui, introducendolo in un universo caldo e sconosciuto, come uno sguardo distratto sull’ignoto.

Fernand gridò, le dita strette ad artiglio sul proprio viso, pallido tentativo di attutire l’urlo che gli era salito in gola. Uno spasimo nervoso gli fece inarcare il bacino, mentre quell’ineffabile, umida sensazione di vuoto lo agitava fino alla punta delle dita. Lo stava sentendo e assaporando con il proprio corpo; lui, l’altro di sé, il suo Dorian, stretto nella debole presa delle sue gambe, un abbraccio immaginario che desiderava tenerlo avvinto a sé il più a lungo possibile.

 

…Forse non è che un singolo aspetto di quel che può dirsi “conoscenza” dell’altro: una profonda e destabilizzante accezione, libera di sofisticati condizionamenti; la perfetta complementarietà di frammenti non omogenei della stessa materia.

 

E lui, loro: la dolcezza di un paio di labbra e di una lingua delicata che saggiavano curiose i suoi rilievi, come un prudente sfioramento; dal lato opposto, il suo sesso eretto, l’appendice più sensibile del suo corpo quale mezzo ricettivo attraverso cui sentire l’altro di sé, il calore di quelle labbra accoglienti, la cavità umida e rovente della bocca, la lingua che si muoveva impaziente sulla pelle in fiamme.

D’istinto, Fernand gli insinuò le dita fra i capelli, accarezzandolo con accorta delicatezza, quasi con il timore di scalfirlo, d’infrangere la sua visione. Si morse le labbra, rabbrividendo, scivolando nell’ombra liquida di un nebuloso oblio.

 

Vivi, Fernand; vivi e chiudi gli occhi. Lasciati vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio cantuccio:

 

Buonasera a tutti!^^ Finalmente riesco ad aggiornare in tempi “moderatamente” lunghi… Purtroppo, causa affollamento di esami (due nello stesso giorno, e portati a termine con successo!^^) e, soprattutto, quindici giorni di morte apparente del pc, le cose hanno finito inevitabilmente per protrarsi più a lungo di quanto previsto!

Ringrazio come sempre i lettori, nonché le sempre graditissime new-entry che hanno inserito NT tra i Preferiti o le Storie seguite, per poi passare ad un ringraziamento ad personam a coloro che hanno lasciato i loro commenti e le loro impressioni, ovvero

 

Witch: carissima, ben ritrovata! Probabilmente non dirò nulla di nuovo, ma il tuo commento mi ha fatto infinitamente piacere^^, non vedo perché non dirlo. Come dire, è bellissimo cogliere le varie sfumature dall’angolazione propria del lettore. “Fumoso, nebbioso, soffocante”: aggettivi che, in effetti, ben s’addicono al capitolo, con il suo intrecciarsi di punti di vista differenti, verità che, in effetti – e lo dico io per prima, proprietaria “di fatto” dei pg, ma forse, per il resto, priva di un controllo effettivo su di loro, sul loro interagire: come dire, hanno *quasi* una vita propria che puoi limitarti solo a registrare fedelmente, a intuire dietro il velo, in base a ciò che pian piano appare –, riflette in sé, idealmente, il progressivo smarrirsi dei personaggi, i misteri che vengono a galla ma senza svelare verità incontestabili. E sono molto contenta che abbia colto sfumature che, quasi inconsapevolmente, ho voluto conferire, in parallelo con il muoversi dei personaggi sulla scena. Poi, certo, non svelerò ora chi di loro effettivamente, tra Auguste, Fernand e Dorian, ha visto giusto, chi mente e chi invece s’inganna. E *se* le loro percezioni saranno confermate dagli eventi oppure no. Mi ha molto colpito il paragone con la “Zattera della Medusa” (giusto per divagare un po’, con questo tuo paragone sono tornata indietro con la mente al periodo in cui ho studiato quest’opera e relativo autore col programma di storia dell’arte della quinta liceo… Che nostalgia, nonostante siano passati appena due anni da allora!): oscurità che sembra non lasciare speranza, una luce ingannevole all’orizzonte. Fra parentesi, adoro quell’opera!^^ Raphäel: un mistero, credo sia il termine che più di ogni altro può calzargli. Un mistero anche per me, in una certa misura. Ed è strano, devo ammettere, gestire l’intrecciarsi delle reazioni degli altri personaggi in sua presenza: quando scrivo di lui, mi è praticamente impossibile tralasciare la mole d’implicazioni, di perplessità, di reazioni contrastanti che muove intorno a sé. Fernand, pur non provando stima per lui ed essendo alquanto sospettoso in merito (ma quel ragazzo è tutto fatto a modo suo, eh: da prendere con le pinze, in effetti), ne è inconsciamente inquietato; Dorian (che, sì, è propriamente sull’orlo di una crisi di nervi, e di certo la sua situazione, le sue angosce, quel vuoto di memoria che gli pesa sulle spalle, sembrano condizionarne non poco gli sviluppi; fa addirittura male, per certi versi, specie quando adotto il suo PoV, che spero essere riuscita precedentemente a rendere senza stucchevolezze di sorta), che da un lato se ne sente un filo soggiogato, dall’altro è spinto ad osservarlo da prospettive inedite, che non necessariamente finiranno per sovrapporsi ai tratti che emergono ad una prima occhiata; e anche Auguste, da un certo momento in poi, sembra riuscire ad andare oltre la figura asettica del complice senza aggettivi che fino a quel momento era stata per lui la visione dominante, a vederne il lato propriamente umano, disposto anche a stabilire un velo d’empatia. Spero davvero di non aver rivelato troppo: il fatto è che quando m’immergo a parlare di *loro* potrei andare avanti per ore. Mi ha fatto molto piacere il tuo commento e spero che questo nuovo capitolo non deluda le tue aspettative (spero soprattutto che la lemon – che poi chiarirò meglio nel prossimo capitolo, ormai ufficialmente “in cantiere” – risulti ben inserita e motivata nel contesto!). Un bacio!

 

Fata: tesoro, innanzitutto, ben ritrovata su questi lidi! Quando ho letto la tua recensione, ad essere sincera, sono rimasta inizialmente senza parole: potrei estendere questo discorso ad ogni commento ricevuto, in privato, in pubblico, qua o su altri lidi, in cui trapela decisamente come il lettore ha “sentito” le vicende, i pg, le implicazioni emotive sottese; l’analisi che sta alla base e che, paradossalmente, permette all’autore di trovare corrispondenze, significati, angolature nuove tramite il lettore. Vi è una reciprocità, in effetti; raramente l’interazione è lineare, parlante-ascoltatore. Per farla breve, mi ha fatto infinitamente piacere, e forse non riesco neppure ad esprimere effettivamente quanto.^^ Partiamo da Auguste: in effetti, a voler proprio sintetizzare il tutto, nei casini l’avevamo lasciato, con poche certezze riguardo alla sua incolumità, e nei casini lo ritroviamo. Devo ammettere innanzitutto che neppure per me è stato facile gestirlo in questi particolari frangenti: un po’ perché ha una sua personalità ben spiccata, poverino, ed è giusto lasciarlo esprimere, dargli carta bianca, nel bene o nel male (se no, entra in sciopero); un po’ perché, anche quando il quadro si palesa – e neanche del tutto, a dire il vero – non è facile tradurlo. Fa male, quasi, vederlo agitarsi in un grigio piombo dalle rare sfumature, con tutta una mole d’implicazioni inattese che sembra precipitargli sulle spalle, quasi senza tangerlo più visibilmente, e, da autrice, dar voce a queste sue sfaccettature. Lucien, Emilie, Fernand: ognuno di loro, in proporzioni differenti, ha o ha avuto per lui un impatto positivo e negativo, che pian piano sta venendo alla luce. Forse Lucien l’avrebbe salvato; forse Auguste ha intravisto qualcosa in Fernand, ma uno scudo sempre presente fra loro, capace di manifestarsi nelle accezioni più differenti, ha rimesso tutto in gioco, regalandogli un dubbio, un “freno” non pienamente definibile. Emilie: per quanto, da “matrigna letteraria”, non condivida alcuni suoi atteggiamenti, mi ritrovo costretta ad ammettere che, con ogni probabilità, forse le cose non sarebbero potute andare altrimenti: o magari sì, ma con un contesto di partenza diverso da parte di entrambi, diversa la cornice, la materia su cui intervenire. In effetti, ben poco fra loro sembra essere nato sotto i migliori auspici, e di certo si potrebbe citare eventualmente, come parziale attenuante, senza giustificazioni o consolazioni di sorta, il fatto che la poveretta si è beccata Auguste nel momento peggiore. Per la faccenda dei forellini sul collo, in effetti, ci sarebbe tanto da dire, se ciò non comportasse cominciare a tirar fuori spoiler grandi quanto una casa – e, considerata la proverbiale logorrea che mi coglie quando si parla di NT, fra le righe qualcosa potrebbe sempre uscir fuori, mea culpa. Le effettive spiegazioni in merito, chissà, potrebbero rivelarsi insospettate. O magari rivelarsi neppure così insospettabilmente fantasiose… Chissà! Per il resto, in una riflessione più propriamente conclusiva (se no il capitolo che sta qui sopra chissà quando finirò per pubblicarlo!), posso dire di aver *adorato* ogni sillaba di questa tua analisi: dalle riflessioni generali sull’impianto della storia – e sono *loro*, in effetti, i personaggi, a dipanare i fili: a me spetta l’onore di riannodarli man mano che la storia procede, e spero di rendere il lavoro al meglio – fino ai singoli personaggi. Come avrò sicuramente avuto modo di dire tante volte, lo sguardo approfondito del lettore rappresenta certamente un momento di riflessione, una prospettiva irrinunciabile che non di rado getta luce su singoli punti, implicazioni, angolature magari rimaste apparentemente nell’ombra. Ed NT, sicuramente, è anche un prodotto di tutto questo. So che mi comprendi! Sperando che questo nuovo capitolo – parzialmente scritto sotto esame, riveduto&corretto in seguito, ma su, son dettagli: ho fatto di peggio!^^ – sia di tuo gradimento (con annessa lemon^^), do appuntamento alla prossima. Un bacio!

 

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23: Smarrirsi ***


Capitolo 23

Smarrirsi

 

 

Il corpo di Fernand fu percorso da un contatto accogliente, caldo sulla pelle; avvertì il fruscio delle lenzuola candide raggrinzate intorno a lui, l’impronta tiepida di membra amiche scolpita sulle pieghe del lino, il suo profumo rassicurante così vivo su di lui. E un letto che non era il suo.

Tutto, qualunque accenno intorno a lui gli riportasse alla mente l’immagine del suo Dorian, riviveva nell’impalpabile sinfonia di colori che i suoi sensi evocavano davanti a lui, non appena le palpebre stanche proiettavano un sipario rosso vivo sulla sua visuale. Il serpeggiare d’ambra pallida dei suoi capelli, lo specchio di cobalto e fiducia incondizionata in fondo alle pupille, la fiducia che Dorian aveva riposto in lui, e il candore di un sorriso, le labbra come seta nella penombra.

Dorian sorrideva. Sorrideva sempre – aveva ormai imparato ad indagare le linee mutevoli del suo viso, Fernand – un attimo prima che la sua bocca si richiudesse avida su qualche piega particolarmente sensibile del suo corpo così esposto. Tanto da fargli rivivere istante dopo istante, ancora caldo sulla pelle, l’oscillare vertiginoso fra l’agognare e il rifuggire l’ebbrezza, il sollievo, la sferza temibile e devastante di un orgasmo.

Fernand si sentì quasi mancare, il ricordo di quelle mani leggere che lo lambivano, che viaggiavano su di lui come su un bizzarro strumento musicale, un’arpa o un cembalo; corde sottili da far vibrare in un impalpabile strofinio, tasti su cui scorrere con amorevole perizia. Arrossì, quando l’impatto di uno strascico tangibile, non più tassello incerto e solitario supportato unicamente dal suo pensiero, lo schiaffeggiò nella forma di un’impronta arrossata appena visibile intorno al capezzolo.

La sua mente non si capacitava ancora di quali fantomatici artifizi si fosse servito Dorian per definire ed estendere i contorni di quanto vi fosse al mondo in grado di regalargli la scossa di un brivido, di produrre in lui un’estasi capace di scompaginare i suoi impianti emotivi a ogni singolo livello; il suo respiro, i suoi sensi, la sua razionalità, come sogno e realtà che si compenetrano.

Non si capacitava dell’istante in cui, di colpo, la sua cute fosse divenuta tanto sensibile e ricettiva da rendere l’impulso di un leggero sfioramento insopportabilmente vivo su di lui, come una scintilla sulla pelle nuda; né di come una sorta di rilettura ex novo, di prospettiva sconosciuta gli si fosse spalancata dinnanzi agli occhi, regalandogli le membra meravigliose di Dorian da congiungere idealmente alle sue, e l’esistenza di anfratti così vivi e incontaminati della sua coscienza, della sua percettività così lungamente sollecitata. O forse persino del suo stesso corpo, rifletté; sin dal primo istante in cui Dorian aveva preso ad esplorarlo, scorrendo con le sue mani e le sue labbra su di lui: perché mai aveva sfiorato così da vicino il rischio concreto di perdere i sensi fra le braccia di un amante.

Dorian aveva riscritto i confini, gli estremi entro cui tendere e lasciar vibrare le corde più fragili.

Fernand distolse istintivamente il viso, le palpebre strizzate al ricordo concreto di quelle labbra sul suo petto, sul suo ventre, strette intorno al suo sesso palpitante. I suoi ricordi si allungavano in propaggini sfilacciate e confuse fin dove un vago sentore di consapevolezza – dello spazio che lo circondava, dei frammenti di tempo che gocciavano su di lui, scanditi dal respiro ansante – aveva rivestito le sue percezioni, per poi perdersi fra le maglie di un’estasi dilagante.

Poi, uno spesso strato di nebbia era calato sui suoi occhi, ogni coordinata sensoriale sconvolta e ricreata di prepotenza, i lombi avvolti in fiamme, quando Dorian era affondato in lui in una sottile intrusione in punta di dita, spingendosi sfrontato là dove nessuno aveva mai osato e ridisegnando sul suo corpo, come su una tela intatta, una linea immaginaria di straziante suscettibilità sotto il solo imperio delle sue mani.

Era Dorian a creare l’alchimia in grado di farlo smarrire, a calcare il percorso proibito. E a lui non restava che lasciarsi rendere passivamente edotto della possibilità messa in atto, la razionalità perduta, soffocata nell’intreccio d’inedite corrispondenze che il suo demone dagli occhi gentili tesseva per lui.

Fernand sbatté le palpebre, la mente in subbuglio, le membra scosse da brividi. Sollevò lo sguardo.

Il suo demone torreggiava su di lui, un’impronta vagamente sarcastica sul viso fiero, il sorriso placido e sornione che spiccava sull’incarnato roseo, sulle labbra delicate tese sulla fila candida dei denti. Lo soppesava in silenzio.

Fernand sentì un fremito profondo percorrergli la spina dorsale; fissò quel sorriso d’intrinseca, fallace innocenza, l’espressione ferma e tranquilla del suo volto, e per un istante fu sfiorato dalla bramosia irrazionale di sporcare, in qualche modo, contaminare quelle labbra vellutate: raschiare via quell’impressione di candore apparente, magari attaccandole di soppiatto con l’irruenza dirompente di un bacio, fino ad imprimervi quella patina lucida di voluttà manifesta, l’aspetto di labbra bagnate che hanno amato e giocato fino allo sfinimento.

Aveva quasi dovuto lottare, solo pochi istanti prima, per spazzare via quell’innaturale autocontrollo che aveva reso Dorian, fino ad un certo momento, concentrato esclusivamente sul piacere dell’altro. Fernand ricordava, come in un sogno, di essergli quasi piombato addosso, il tremito di un desiderio rabbioso in punta di dita; di averlo premuto su di sé, accanendosi su di lui fino a infondergli momentaneamente il suo stesso nebuloso deliquio.

Dorian lo studiava con occhi vigili, il volto che non accennava a tradire l’emozione, neppure sotto il ricamo imprevedibile del suo tocco che lo stimolava distrattamente. Fernand tentava di stabilire dove stesse la linea continua, la corrispondenza diretta che correlasse con chiarezza quel viso angelico a quel corpo che chiedeva attenzione, cavalcioni su di lui, l’erezione prepotente che strusciava contro la sua.

Fernand si affrettò a dissipare gli irragionevoli, bellicosi propositi su cui s’inerpicava la sua mente nell’eludere domande dall’impatto destabilizzante, quando un movimento fluido da parte di Dorian lo riportò alla realtà, catturandolo nella centellinata dolcezza di un bacio dall’impronta rassicurante.

Deglutì, soprappensiero, un nodo di pressante incertezza che gli stringeva la gola. Vi era una nota eccentrica in tutto ciò; qualcosa che strideva nel quadro d’insieme, e che lui non si era posto lo scrupolo d’indagare.

- Tutto bene, Fernand? – Dorian sollevò lo sguardo su di lui, le iridi circonfuse di calore.

Fernand dischiuse le labbra come a voler formulare una richiesta, ma un velo d’imbarazzo gli congelò le parole sulla punta della lingua. Distolse il viso, a disagio.

Era un’idea assurda.

- Dorian… – gli prese il volto fra le mani, e la fisica consapevolezza delle proprie anche strette fra le sue cosce lo fece inarcare istintivamente – Dorian, io… Ti voglio. In me.

 

Fernand distolse il viso. Aveva spezzato, stravolto ogni parvenza d’equilibrio: e certo Dorian nutriva per lui e per la loro amicizia un rispetto troppo radicato, troppo intimo e profondo, perché nella sua ottica pensasse, anche solo per un istante, di approfittare sadicamente della sua debolezza, di quel desiderio irrazionale e incalzante. Aveva avuto tempo e modo, Dorian, di chiarire le sue posizioni, e aveva scongiurato, rifuggito la sola eventualità di scardinare le basi su cui fin da principio si fondava il loro rapporto, la loro reciproca fiducia. Sarebbe stato come corroderne le fondamenta. E lui aveva preferito lasciare tutto così. Intatto, sospeso. Deliziosamente a metà.

Ora, il consenso manifesto da parte sua cambiava tutto: aveva dissolto in un battito di ciglia le loro elucubrazioni più fantasiose, i discorsi lasciati a metà e quelli mai pronunciati, la tensione erotica così viva nel contatto casuale delle mani: tensione che aveva offuscato, imbrigliato i loro orizzonti in qualcosa parso quanto mai evanescente fino a quel momento; una sorta di calamita, di molla invisibile che li aveva proiettati idealmente l’uno verso l’altro in un labirinto di percorsi imprevisti.

E lui, lui voleva fare l’amore con Dorian. Lo voleva!

Incuneò lo sguardo su di lui, gli occhi blu dilatati sul volto pallido che tentavano di cogliere nelle linee della sua espressione qualsiasi sfumatura potesse suggerirgli la direzione potenziale di ciò che sarebbe stato in seguito. Un rifiuto, un assenso. Qualcosa.

Dorian aveva distolto lo sguardo come sorpreso nella tana del lupo, un lampo d’imbarazzo ad incendiargli le guance, la tensione del dubbio improvviso nascosta in fondo alle iridi chiare. Poi, senza che Fernand potesse sottrarsi alla tirannia di mani desiderose di sentire il tepore della sua pelle sotto le dita, si portò su di lui, le braccia salde intorno al suo corpo, le labbra pericolosamente vicine.

Fernand sospirò, l’eccitazione che si miscelava dolorosamente al dilemma, all’angoscia di una risposta che non arrivava; e più tardava ad arrivare, più la sua mente paventava complesse teorie direttamente dalla bocca di Dorian.

Il suo piccolo demone sembrava aver ripreso fattezze e limiti umani, il volto combattuto, le labbra mobili, tremanti, indecise fra il silenzio e la parola.

- Fernand – la voce oltrepassò a fatica la barriera della labbra dischiuse, lasciando dietro a sé uno strascico che Fernand sentì come sofferto.

Come se quel che stava per dire gli costasse troppo.

Trattenne il fiato.

Si sentiva girare la testa, il suo nuovo, provvisorio impianto che cedeva il passo ad un’oscurità densa e viscosa come inchiostro, quando Dorian riaprì bocca.

- Questo, mon ami… Dovresti chiederlo a chi ami davvero – gli sussurrò.

 

Fernand sentì come qualcosa incrinarsi in lui. Boccheggiò, il respiro disturbato dal contrasto quasi doloroso di quel fremito dilagante che gli contraeva i muscoli; stordito, attese che la sua mente gli cucisse idealmente sulle labbra le parole, la formula corretta di una richiesta fattibile di spiegazioni. Perché tutto, tutto ciò aveva dell’assurdo. Avrebbe voluto gridare, ribaltare sotto di sé in un colpo di reni quell’enigma vivente dai capelli biondi che lo dominava con la sua presenza; schiaffeggiarlo, dirgli come osava, come osava insinuargli lui stesso idee che non gli appartenevano, possibilità ingannevoli cui non aveva neppure prestato attenzione o che si era sforzato di ignorare, di rilegare in un angolo della sua mente; o forse, verità cui Dorian era pervenuto prima di lui stesso.

E come osava inabissarsi nella sua mente, scrutare nelle pieghe più recondite del suo animo, svelare l’eventualità che lui voleva negare con tutte le forze e ricacciare nel dimenticatoio: chiudere gli occhi su ogni implicazione sfavorevole e precipitare a capofitto in quel limbo dai contorni deliziosamente sfumati, godendone le sole accezioni rassicuranti.

Voleva Dorian, senza compromessi, senza mezze parole, senza risvolti dal sapore aspro.

Lo vide sorridere quasi stentatamente, una patina malinconica, indecifrabile sulle palpebre sottili, e sul suo viso vi era una piega d’inesprimibile rimpianto che in qualche modo lo faceva apparire più vecchio.

Dorian gli prese il volto fra le dita, sfiorandogli la punta del naso in un gesto confidenziale, come a volergli estorcere un assenso, hai ragione, è così, dimentica. La conferma che dalle sue labbra non sarebbe mai uscita.

Fernand scosse il capo, la fronte madida, le membra che cedevano sotto l’assalto prolungato di un corpo che smaniava di conoscere, di percorrere spasmodicamente, fino a forzare le resistenze della sua anima e rubarne il segreto.

Non era così. Non è così, Dorian. Ti stai ingannando.

- No! – sussultò, un sorriso imbarazzato sulle labbra distese – Io... Non è così. Io… Ti sbagli, Dorian, è così, ti sbagli, devi credermi!

- Shh… – Dorian discese in punta di dita fino alla fessura delle labbra socchiuse, categorico, mimando su di lui il gesto che intima il silenzio – Va bene così.

Fernand serrò le labbra, soffocando l’impulso di urlare, un guizzo di frustrazione che correva in parallelo con le ondate di piacere procurate in lui dal contatto, dallo strofinio ipnotico e continuo di quella pelle dalla consistenza serica sulla sua.

Smarrito, si aggrappò istintivamente a Dorian, le dita che tremavano sotto l’assalto di una brama ferina. Le mani strette intorno alla vita del compagno, scorse lungo la linea squadrata della schiena, la pastosità della muscolatura apprezzabile sotto le dita, per poi ridiscendere a descrivere nell’arco di una carezza la compatta rotondità dei glutei. Sospirò: per un istante fu tentato di imitare l’impeto giocoso e impunito che il bel Dorian aveva usato nei suoi riguardi, indugiare con noncuranza lungo la fessura morbida delle natiche, spingersi dov’era più vulnerabile. E magari, abbandonarlo sadicamente a sé, nella sua selva di brividi e singulti di piacere, dopo averlo ingannevolmente trainato verso il punto di non ritorno, barcamenandosi in bilico fra sensi ed emozione e colpendo a tradimento quel bottone in grado di scatenare in lui la scossa di un piacere alienante, torrido, repentino.

Dorian avrebbe perso il controllo, avrebbe abbandonato la sua presa su di lui, avrebbe smesso di giocare con le sue residue certezze, scivolando nella sua stessa rete: era un’idea che non gli dispiaceva.

Perché inserire ora in un’ottica razionale le parole di Dorian avrebbe significato accettare l’eventualità di un ipotetico fraintendimento che forse aveva tratto in inganno entrambi, foderato i loro occhi e le loro percezioni di evanescenti promesse. E piangere per quel sentimento dal reciproco valore che si era soltanto limitato a sfiorare il risvolto tangibile. Dorian gli aveva instillato a piccole dosi il dubbio martellante e crudele di un’ipotesi verosimile ma non realizzata.

Serrò le palpebre, il movimento fluido dei fianchi di Dorian mentre s’inarcava su di lui, i sensi ottenebrati da un irreale turbinio: avvertì il movimento convulso di Dorian che puntava le ginocchia, avanzava su di lui col bacino, il frusciare ipnotico delle lenzuola sotto di lui.

Fernand arretrò d’istinto, le palpebre serrate, una frustata delirante, piacere inquinato da angosce residue: avrebbe fermato Dorian, in un altro momento, l’avrebbe esortato a parlare e avrebbe respinto ogni arcana congettura. Il guizzare persistente di una dolorosa frustrazione, la rabbiosa urgenza di smentire astruse, forvianti riletture da parte del suo amico – perché doveva, doveva essere così! – si diradò in lui come un nastro di nebbia al mattino, il pensiero che si sfaldava sotto le sferzate ripetute di un liquido estraniamento, la ragione che allentava la presa, quando, stretto nella tela, percepì soltanto le movenze di Dorian che cercava la giusta angolazione su di lui, le gambe che cedevano, le carni che si aprivano ad accoglierlo; poi, il contatto bruciante, una scossa lancinante lungo la schiena che lo investì fino alle estremità. Gridò.

Dorian non sorrideva più. Fernand indugiò con occhi tremanti su quel viso raffinato, deliziosamente contratto sotto l’infuriare imperioso di fitte più intense e serrate di quanto lui stesso avesse previsto. O forse gli aveva fatto inavvertitamente male, ma la stessa rappresentazione mentale, l’idea stessa, da parte di Dorian, di sentirlo e trattenerlo dentro di sé, aveva scombussolato e ridefinito le sue percezioni.

Era bello, etereo, solenne, composto, le membra tese mentre lo lasciava scivolare in lui, le gote arrossate, gli occhi luccicanti sotto le palpebre socchiuse, la fronte imperlata di un madore sottile nel chiaroscuro delle tende tirate, nel riverbero tremolante di un pomeriggio dal chiarore rovente che avevano rilegato al di là delle imposte chiuse, fuori del loro piccolo cielo.

Dorian era crollato, vittima quanto lui di un’estasi che soffocava la sua volontà, spezzava le redini del suo controllo su ogni dinamica, condizionava e sconvolgeva le sue impalcature. Aveva smarrito il suo controllo, la mente in deliquio, i muscoli contratti nel convogliare il suo desiderio destabilizzante in direzioni di più agevole calibratura.

Fernand agitò impercettibilmente il bacino verso di lui, cercando l’intesa, l’intreccio ideale, la reciprocità. Rise, quando lo vide cedere, trafitto, teso in uno spasimo incandescente.

 

* * *

 

Il bicchiere vuoto oscillava tra le dita malferme di Auguste, il chiarore traballante di vecchie lucerne si rifrangeva attraverso la superficie irregolare del vetro in caleidoscopici frammenti davanti a lui. Strizzò le palpebre, cercando di snebbiare la sua visuale oltre i bagliori ondeggianti che gli bruciavano in fondo alle iridi, disturbato dalla cortina di capelli scuri che gli schermava il viso, la superficie ruvida del tavolo a contatto della guancia. Non aveva la forza di ritirarsi su.

Trasalì, il respiro mozzato a metà da un conato improvviso, una stilettata decisa al diaframma che si stemperò tuttavia in un ansito soffocato, quando avvertì la mano dello sguattero sfilargli timidamente il bicchiere dalla debole presa della mano. Tossì.

- Cercavo… te – mormorò con voce roca, lievemente strascicata, senza sollevare la testa né lo sguardo dal piano del tavolo – Un altro, per favore.

- Eh? – il ragazzo si osservò tutt’intorno, confuso, alla ricerca dell’ombra di un assenso da parte dell’oste dietro il banco: se assecondare le richieste degli ultimi avventori della serata oppure, a risposta negativa, cosa fare dell’ubriacone che pareva aver messo radici in quell’angolo silenzioso e appartato sin dal tardo pomeriggio, deciso, con ogni probabilità, a prosciugare entro sera le loro riserve di vino.

Auguste sorrise al pensiero.

- Di certo, non ti ho chiesto l’acquasantiera, ragazzo – sollevò lo sguardo sul giovane, cogliendone sommariamente i tratti in un alone vorticante e sfocato – Altro vino, no? E… già che ci sei, potresti pure riferire al tuo padrone - da parte mia, è chiaro - di evitare di sfruttare ragazzini nella sua lurida bettola. Potrebbero incappare in qualche brutto incontro…

Girò lo sguardo per la stanza semivuota.

La presenza di prostitute agghindate e ceffi poco raccomandabili sembrava essere ben tollerata dal locandiere, al fronte della possibilità di un maggior profitto che affondava le sue radici in un agile destreggiarsi con le altrui debolezze.

- Ho… sei fratelli, io, monsieur. I Lambert sono stati generosi – azzardò timidamente il giovane, rosso in viso.

Lo sguardo di Auguste aleggiò diffidente sulla figura rubizza e corpulenta che continuava a mescere da bere. Strinse le palpebre, scuro in volto.

- Che faccia da porco! Non ci vuole molto a capire che… – mormorò fra sé, la voce ridotta ad un soffio indignato – Attento a te, ragazzo!

Soprappensiero, sfiorò con lo sguardo la figuretta scattante intenta a profondersi in un breve inchino, caracollare spedita verso l’oste e di lì sparire nel labirinto di tavoli e panche sbeccati e polverosi.

Gli ricordava vagamente Fernand, ma non aveva i suoi colori decisi – pelle bianca e iridi di profondo cobalto come una pennellata fredda – né i suoi lineamenti cesellati. E lui stava diventando pazzo.

Socchiuse gli occhi, crollando nuovamente sul piano dinnanzi a sé, i capelli in faccia, la visuale offuscata sotto l’avanzare di un violento capogiro.

Il suo Lucien sottoterra; Emilie, indispettita al punto tale da infliggergli, senza alcun riguardo per il funerale, il luogo, il morto, per quella giornata, per suo dolore lancinante, lo sgarbo e l’umiliazione di presentarsi davanti a lui al braccio del suo nuovo amante dalla faccia lattiginosa e dallo slavato, giovanile vigore. L’aveva ferito. E il patetico incontro con Dorian, il suo incubo personale, lo strazio di dover tacere, fuggire i suoi sguardi, negare, ancora e ancora e ancora. Dorian, che lo considerava un ipocrita e che di certo, fosse dipeso da lui, in quelle ultime ventiquattro ore avrebbe trovato cento e mille pretesti per strangolato, per la sola colpa di esistere e di tacere.

E Fernand, infine. Quel cucciolo dagli occhi affilati e dai gesti impetuosi che, gentilmente, aveva declinato ogni offerta di coinvolgimento da parte sua, estromettendolo cordialmente dai suoi immediati orizzonti, quasi a trattare con un vecchio, collerico genitore che cerca di arginare la tua libertà, di ghermirti con i suoi tentacoli, confonderti la mente e portarti sui suoi propositi con raffinati e alienanti giri di parole. Era stato un abbaglio. Un rovinoso abbaglio.

Avrebbe preferito scomparire, piuttosto che trovarsi ridotto ancora una volta a polverosa, irrilevante tappezzeria, impotente ed inutile dinnanzi agli interpreti che popolavano il suo mondo, il cuore gonfio di pena e le labbra serrate in un grido senza voce. Ingollò d’un fiato il vino che gli era appena stato porto. Forse avrebbe potuto contare su Ambrosie, unico, potenziale supporto, e guadagnare se non altro la fiducia e l’appoggio dei due Laroche, ma non aveva idea, non da dove cominciare, non se tutto questo fosse davvero importante.

Ma ciò che faceva più male, più di tutto il resto, era il riscontro, nudo e privo di attenuanti, di ogni singolo anello che egli fosse riuscito a identificare quale fonte d’angoscia immediata. No, non era abbastanza, non ancora; men che mai poteva rappresentare un senso pienamente compiuto, perché era il minimo, era l’abito nero del lutto, la facciata immediatamente riscontrabile, la prima, sfavorevole impressione, l’infinitesima parte del suo inferno.

E lui doveva dimenticare, dimenticare per non impazzire; smettere di risollevarsi invano per poi precipitare di nuovo, in capo a pochi istanti, di cercare ingannevoli appigli là dove non trovava altro che ulteriori inganni: prendere coraggio e lasciarsi scivolare oltre il liscio dirupo dell’incoscienza. Almeno una manciata d’ore dai contorni scuri, quella notte soltanto. Costrinse nuovamente la sua visuale sotto palpebre di piombo.

Un sensibile formicolio nella testa, un mormorio debole ed insistente di sottofondo pervase le sue facoltà uditive.

Inavvertitamente, aguzzò i sensi.

 

- Sei sicura, Louise, di non conoscerlo?

 

- No, non mi sembra una faccia familiare.

 

- Ti dico di sì: l’avrai visto quasi di certo in compagnia di Monsieur Desgrais e di… oh, loro, i soliti, insomma. Magari, proprio in cerca di un posto sicuro dove la gente si faccia gli affari propri.

 

- Intendi… Monsieur de la Garde? Santo cielo, non può essere: non può essersi combinato così!

 

- Invece è proprio lui, è Auguste de la Garde: insisto. Cosa può essergli capitato, poveretto, da essere ridotto in questo stato?

 

- Monsieur Auguste, mi sentite?

 

Auguste si sentì scuotere per le spalle da mani sconosciute. Avvertì qualcuno scostargli dal volto i capelli arruffati, la sagoma confusa di una figura sgargiante imporsi dinnanzi a lui, e le voci, il mormorio, le sue percezioni sempre più distanti, ovattate, scoordinate al punto d’arrivo.

Poi si abbatté al suolo.

 

- In fede mia, da tempo non ricordavo nella mia locanda una sbronza simile… Di solito, preferiscono prendere una stanza o altrimenti imboscarsi fuori di qui, per le loro porcherie!

Una voce dalla carica rabbiosa lo sovrastò di prepotenza, percosse i suoi sensi offuscati, senza tuttavia sfiorarlo con il suo ruvido impatto.

 

- Monsieur Lambert, siate generoso: accettate la differenza per una stanza! Solo una notte.

 

- Scordatevelo! Non affitto stanze a una prostituta, a nessuna cifra. È troppo, davvero troppo quello che mi state chiedendo, Mademoiselle Ginette: non m’importa che voi siate puntualmente qua ogni sera a adescare clienti: su questo, come vedete, lascio correre come nei patti. Ma se qualche imparruccato venisse stanotte a ficcare il naso nei miei affari, beh, non ci metterebbe molto a farsi due o tre conti e, di qui, accusarmi su due piedi di tenere abusivamente luoghi di malaffare non autorizzati o concedere addirittura le mie stanze. Ed io, sia chiaro, non ho alcuna intenzione di andare in galera o mandare in malora la mia unica fonte di guadagno a causa di uno sciagurato che non sa neppure quanto vino è in grado di mandar giù. È… fuori discussione!

 

- Oh, ma non c’è granché da preoccuparsi – una punta aspra, sarcasmo dal profumo di beffarda indecenza – C’è sempre il commissario vostro cugino[1], che certo non manca di apprezzare i particolari servigi che solo quelle come noi sanno offrirgli al meglio. Quando si reca qua in visita, è raro se ne torni nel suo ovile senza una delle sue puttane preferite.

 

- Questo non significa nulla, e niente mi autorizza a concedere trattamenti di favore. Sia chiaro: voglio il vostro amico ed i suoi quattro stracci fuori di qui entro un’ora e, in ogni caso, prima che scatti il coprifuoco. Per il resto, arrangiatevi!

 

Auguste faticò a districare dinnanzi a sé le linee di una visuale confusa, a rimettere a posto la coerenza delle figure. Era la squallida locanda dei Lambert, il soffitto basso e scrostato sopra di lui, che ogni volta gli dava l’impressione di schiacciarlo al suolo. Deglutì a fatica, tentando d’ingannare il senso di nausea che gli stringeva lo stomaco; sussultò, quando avvertì la timida carezza di qualcosa di umido e freddo – che sospettò essere uno straccio sporco – sulle tempie doloranti.

Un senso improvviso di disagio, di torpore alla schiena riportò la sua attenzione sulla superficie rigida del tavolo sopra il quale doveva essere stato adagiato senza troppe cerimonie. Fece per rimettersi in piedi, più per liberarsi da una posizione scomoda che per altri motivi, ma la sua impresa fallì miseramente sotto l’assalto di un repentino capogiro che lo spedì dritto fra le braccia della giovane prostituta dai capelli scuri.

- Monsieur de la Garde

- Monsieur. Monsieur…! – una risata gracchiante guidò lo sguardo di Auguste sull’uomo trasandato che lo fissava con occhi porcini dall’espressione sprezzante e sospettosa – Se per voi, Mademoiselle Louise, questo qua è un signore, beh, per me non è che un disgraziato che è stato sbattuto fuori di casa dalla moglie, magari non ha neppure con sé i soldi per pagare, e certo non merita miglior considerazione di un topo di fogna – infierì.

- La vostra facciata di finto perbenismo, in un luogo schifoso come la vostra locanda, è al dir poco rivoltante! – lo rimbeccò la ragazza, piccata.

- Ragazzo, stai meglio, adesso? Ce la fai a uscire di qui con le tue gambe?

Auguste si sentì tirare su di prepotenza e toccare la faccia da mani rozze. Volse il capo, d’istinto.

- Monsieur Lambert, ha bisogno di stendersi, deve riposare – di nuovo la voce della ragazza che non era ancora riuscito a vedere in volto – È… una brava persona, vi prometto che non avrete guai con lui.

- Fosse pure il capo delle Guardie o il duca du Lac in persona – ribadì Lambert, sprezzante – dovrà ritenersi fortunato che mi fidi sulla sua parola, sul fatto che verrà a saldare di persona non appena si sarà ripreso. E voi garantirete per lui. Nel frattempo, preferisco che se ne vada a ubriacarsi, a vomitare e a contrattare con le puttane dove preferisce, ma se non altro fuori di qui.

- Temete che un gendarme di passaggio butti uno sguardo troppo da vicino sui vostri… “affari”, Monsieur Lambert? E che, prima o poi, non basti più vostro cugino a coprire i vostri impicci? – lo affrontò la donna con petulanza.

- Fuori. Di. Qui!

Auguste abbandonò momentaneamente la presa sulla ragazza, sorreggendosi in precario equilibrio al pilastro portante, troppo stanco per assimilare e razionalizzare gli insulti che gli erano stati affibbiati da quell’uomo untuoso ed opportunista. Tutto scivolava sulla pelle come olio.

Strinse le palpebre, cercando di diradare le luminescenze sfocate che disturbavano la sua visuale. Doveva essersi leggermente ripreso. Appena più lucido.

- Lambert. O come diavolo vi chiamate – gli intimò con voce asciutta, appena trascinata, un barlume di gelida razionalità, fra le mani un piccolo sacco con poche monete – Lambert, dico bene: come quel voltabandiera di vostro cugino. Tenetevi stretto quanto vi dovevo, controllate se c’è tutto, e a mai più rivederci!

Barcollando in precario affidamento sul senso di equilibrio che gli trasmetteva il contatto delle dita sulle pareti, si affrettò a guadagnare sdegnosamente l’uscita sul viottolo antistante la locanda, il cielo che imbruniva sopra di lui.

- Monsieur de la Garde, aspettate! – la prostituta con i capelli rossi, ansante sul limitare della porta, catalizzò nuovamente la sua attenzione trattenendolo per la manica – Io… Permettetemi di accompagnarvi!

Auguste si strinse nelle spalle, lasciandosi andare sotto un viscido ammasso d’amarezza, schiena contro il muro, disorientato, prostrato come da una lunga apnea che non gli avesse lasciato in corpo forze sufficienti a ricominciare a respirare, una volta fuori dell’acqua; soltanto la sterile, inespressa, vitale necessità d’aria pulita, smania impotente.

Si era lasciato alle spalle il funerale e la famiglia di Lucien in tutta fretta. Aveva vagato qua e là senza un’idea precisa su dove portare i propri passi – non a casa, perché non aveva nessuna intenzione di affrontare Emilie, d’incontrare il suo sguardo, un altro pugnale conficcato nel fianco.

Non ricordava di preciso come poi fosse finito nella fatiscente locanda dei Lambert, a contemplare con rassegnato distacco la propria cieca apatia, la propria polverosa miseria. Aveva smarrito ogni impianto razionale che potesse far da tramite ideale fra l’azione impulsiva e il ragionamento in atto e mantenere un raccordo sottile tra follia e consapevolezza. E lui, quelle redini non le aveva ancora riprese in mano: vi aveva preferito il buio, la negazione della propria volontà.

- Dove vorreste accompagnarmi, mesdemoiselles? – biascicò, senza staccare lo sguardo dal cielo livido del tardo crepuscolo – A casa, forse? Non sarebbe una cattiva idea, se io lo avessi ancora, un posto dove andare.

- Oh, non dite sciocchezze! – la seconda delle due ragazze, i capelli scuri portati sfacciatamente sciolti sotto un voluminoso cappello, era comparsa al suo fianco senza neppure concedergli una manciata di secondi per razionalizzare l’assalto su doppio fronte – La vostra donna. Starà attendendo il vostro ritorno. A meno che per stasera non preferiate… – gli insinuò con occhi cospiratori.

- Non sono sposato, non c’è alcun problema – la precedette con voce gelida.

- Oh!

Auguste vide le due donne scambiarsi uno sguardo sinistramente complice e confabulare ridacchiando al suo indirizzo.

- Ecco, non era poi così difficile dedurre che persino la signora Emilie, dall’alto delle sue pretese da matrona schizzinosa, non fosse poi così diversa da noi che non siamo delle signore.

- È… perché non siamo sposati? Tutto qui? – Auguste sentì un impercettibile impulso di collera risalire serpeggiando sulle gote accaldate – Questa è davvero una stronzata, perdonatemi: la signora Emilie è adulta e responsabile di se stessa, non ha genitori o mariti o fratelli a cui render conto, e non è colpa sua se io non ho alcuna intenzione di sposarla.

- Beh, ad ogni modo, non potete restare qui in eterno – convenne la ragazza dai capelli rossi, una breve occhiata d’assenso in direzione della compagna – Avete bevuto troppo; se non ve la sentite di rientrare in questo stato, per stanotte potremmo ospitarvi noi.

- Voi? – Auguste sentì le gambe cedere per un istante, frastornato dinnanzi alla proposta dalla logica stringente da parte della ragazza.

Henriette, Georgette… Ginette. Doveva chiamarsi Ginette, Ginette o qualcosa di simile.

Chinò il capo: non aveva scelta.

La sua lucidità veniva meno, abbandonandolo e riaccendendosi a tratti, barlumi sempre più sporadici ad attraversargli la mente, a dominare la sua volontà con mani sempre più deboli.

 

Una casa di malaffare?

Auguste strizzò le palpebre, sorretto dalle due donne in una provvidenziale stretta che – Auguste ormai non contava più le singole occasioni – gli aveva più volte evitato di ritrovarsi a baciare forzatamente il duro lastricato. Barcollava ormai vistosamente, quando giunsero a destinazione, alle loro spalle un reticolo serpeggiante di viuzze di terra battuta che Auguste dubitava sarebbe stato in grado, in quel momento, di ripercorrere a ritroso seguendone l’identico percorso.

Un chiarore slavato di vecchie lucerne pervadeva l’ambiente chiuso che gli si palesò dinnanzi agli occhi quasi di prepotenza, un alienante tripudio di colori chiassosi, di scarno mobilio infiorettato con gusto dozzinale, di profumi che sapevano di polveroso, di stantio. E a lui girava la testa.

 

Dovrai accontentarti, per stanotte, Auguste, ed è inutile che storci il naso, perché non sei il migliore, e non è facile stabilire se farà prima lo sporco di questo luogo a contaminare i tuoi abiti puliti, o se saranno piuttosto il tuo veleno e la tua tristezza a invaderne ed offuscarne i colori, come una densa patina scura sulle pareti.

 

- N-non capisco… – mormorò, la voce impastata – Com’è che siete finite… Qui?

- Oh, non è difficile immaginare, cheri – gli sussurrò Louise con discrezione, lo sguardo circospetto – Ricordate una certa compagnia di attori girovaghi? Ci esibivamo alle feste rionali o nei giorni di mercato. Beh, la compagnia ha fallito, e attualmente, per vivere contiamo solo su quella che è la nostra “seconda attività”.

Auguste annuì distrattamente; chiuse gli occhi, cercando di eludere le fitte che gli martellavano nelle tempie con crescente vigore. Vacillò.

- Si mette male! – un lamentio ovattato e confuso in fondo alla sua testa, le due donne che si affrettavano a stringere la presa sulle sue spalle – Ancora qualche passo, da questa parte, e poi potrete riposare fino a domani mattina, ce la fate?

 

Non ancora. Non ancora.

 

- Non è stata un’impresa facile, trascinarvi sin qui.

Auguste si ravviò i capelli in un gesto indolente. Esausto, nella nebbia che ottundeva i sensi e quell’unica stilla di razionalità, cercava d’inquadrare il motivo per cui quelle due ragazze che gli avevano prestato aiuto sostassero imperterrite sul limitare della porta, gli occhi fissi su di lui, senza accennare ad un saluto.

Sospirò, in attesa che le due togliessero il disturbo: voleva liberare le proprie membra distrutte da quegli abiti ormai spiegazzati e polverosi, sprofondare nell’etere del sonno e dimenticare tutto fino al mattino seguente.

Abbozzò un breve cenno con il capo, a metà strada fra un cortese inchino di commiato ed un saluto sbrigativo, ma il lieve sbilanciamento in avanti fu il colpo di grazia che, in capo a qualche minuto o qualche secondo – non riusciva a stabilire quanti sottomultipli di tempo avessero percosso l’aria intorno a lui in quel singolo istante, e tutto era ovattato e tremolante, in bilico – lo proiettò in avanti in un accesso di vertigini, sorretto al volo e quasi per miracolo.

- Va tutto bene, io…

- Non ce la fate proprio – due paia d’occhi lo inchiodarono al suolo con fare interrogativo, meditabondo – Voi avete bisogno di qualcuno che vi aiuti, che si prenda cura di voi – sentenziò una voce studiatamente calma.

- Non sarà necessario – tentò di precederle Auguste – Il… letto non è che a pochi passi. Ce la posso fare. Io… vi ringrazio di tutto e…

- Il letto, già. Hai detto bene – un sorriso speculare piegò deliziosamente due paia di labbra dipinte, enigmatiche bambole di porcellana dallo sguardo languido e sfuggente.

Auguste deglutì a fatica.

Erano passate di colpo dal “voi” al “tu”.

E lo spintonavano dolcemente verso il suo giaciglio.

- Siediti, Auguste! È ora di mettersi un po’ in libertà.

- In… libertà? – Auguste reclinò istintivamente il capo all’indietro, quando due mani pallide s’infilarono sfacciate fra i suoi capelli, sfilandogli il nastro che gli riteneva il codino, per poi passare con giocosità impunita a godere del contatto con la sua cute sensibile, e di lì riservare alla sua cravatta lo stesso trattamento del nastro.

- I tuoi vestiti – considerò con espressione sorniona la prostituta dai capelli rossi – Ora ce li giochiamo! Potresti star scomodo, soffrire il caldo durante la notte… Con questo rischieresti di strozzarti nel sonno!

Accennò maliziosamente al davantino della camicia, per poi allungare di soppiatto la mano su di lui, strapparne un lembo fino a scioglierne l’intreccio e scoprire una stretta porzione di torace.

- Non esagerate, Ginette!

Auguste si sentì afferrare delicatamente per le spalle e sospingere lungo disteso sul comodo giaciglio, i polsi presto bloccati sopra il capo, tenuti uniti dal nastro che gli era stato sottratto. Provò a divincolarsi debolmente, ma era troppo ubriaco per coordinare membra e cervello in una reazione concreta, e il torpore che pervadeva la sua mente e i suoi sensi era troppo pesante, troppo radicato ad ogni singolo fascio di nervi, per lasciargli intatte le facoltà necessarie a stabilire cosa fosse giusto fare, quando decidere di fermarsi, e com’era che si articolava la parola “basta”, quando il momento esatto per desistere, la circostanza in cui abbozzare un fiacco disappunto.

Serrò le palpebre. Non sapeva neppure quanto tempo fosse trascorso, perché la sua visuale assumeva un’impronta via via più dilatata, troppo molle e ineffabile per impiantarvi punti di riferimento tangibili.

Giaceva su quel letto intatto, i polsi languidamente legati, il capo reclinato all’indietro a suggere baci, assaporando soltanto lo sfregare di labbra umide e il lento fruscio degli indumenti che gli venivano sfilati, senza che nessuno, in quella stanza, si preoccupasse del suo completo consenso.

 

- La camicia, Louise! Sarà il caso di liberargli le braccia?

 

- Soltanto un attimo; in ogni caso, è talmente ubriaco che, anche se lo volesse, non potrebbe opporre alcuna resistenza…!

 

I suoi abiti si accumulavano a terra, composti ai piedi del letto come pezzi della sua dignità, della sua consapevolezza di sé, del suo essere razionale; l’uno dopo l’altro, in ordine, con zelo, giacca cravatta camicia scarpe calzoni. E poi, poi restava lui con la sua debolezza, le sue fragilità.

- È andato, oh, è andato! – le due sembravano invasate.

E ridevano, pregustando il momento successivo.

Auguste sentì il velo scuro dell’oblio, un’estasi vorace calare su di lui con dita prepotenti, invischiando ogni sensazione, ed una fitta acuta e dilagante propagarsi rapidamente in lui, risalire le estremità fino ad esplodere in un’eco languida nel petto, nella forma acuta e inequivocabile di piacere fisico.

Un paio di labbra ostinate indugiavano capricciose sulla sua bocca riarsa, discendevano esitanti lungo la linea del collo, per poi attaccare con bramosia la pelle nuda del torace; e un altro paio di labbra, più in basso, avevano trovato il loro momentaneo trastullo, strette con impeto possessivo sulla sua erezione.

Auguste si morse le labbra, la mente prigioniera di un’attesa liquida e dilagante che pareva aver smarrito in se stessa le lenti attraverso cui osservare coerentemente la realtà dall’altra parte del suo caleidoscopio e recepire la portata effettiva degli eventi.

Non era male il pensiero che non avrebbe ricordato nulla, risvegliandosi al mattino tra quelle lenzuola che evocavano dinnanzi a lui la polvere dei secoli, il profumo nauseabondo di cipria stantia e un beffardo, ingannevole sentore di tenebra.

 

* * *

 

Fernand si avvolse torpidamente le lenzuola intorno alle spalle, una lama di luce che, filtrando dallo spiraglio tra le imposte accostate, gli tremolava distrattamente sul volto, stuzzicando le palpebre socchiuse, e una sorta di peso tiepido sul petto. Sospirò. Al suo fianco, Dorian che di tanto in tanto lo stringeva blandamente a sé, il suo respiro su di lui.

Assottigliò le palpebre nella penombra, combattuto tra quel filo di luce della strada che gli impicciava la vista, e l’oscurità vischiosa della stanza, cui le pupille stentavano a adattarsi. Fu un improvviso battito d’ali al di là delle imposte socchiuse a ridestare i suoi sensi, come un pipistrello che annaspa a vuoto; poi, un dolce alito di vento sulla pelle, la freschezza del crepuscolo a rinfrancargli le membra accaldate. O forse era quasi l’alba. Rabbrividì appena, confuso, tentando di cambiare posizione con l’accortezza di non ridestare Dorian a causa di uno scossone improvviso, le palpebre pesanti che minacciavano di richiudersi e proiettarlo di nuovo nella nebbia del sonno.

Dorian ansimò appena, il respiro palpitante contro la sua spalla, il volto disteso nel dormiveglia. D’istinto, allungò le dita su di lui, scorrendo sulla superficie serica del torace fino a tastargli dolcemente un capezzolo sotto il palmo.

Fernand sorrise: era la sua nuova, momentanea, personale monomania. La sua pelle, il suo profumo a pervadergli ogni facoltà sensibile, a guidare le sue mani fra i meandri dell’inconsapevolezza di un sonno leggero e gravido di parole taciute, di sensazioni dai confini sfilacciati e dall’incerta collocazione, il corpo stanco languidamente adagiato accanto a lui, spalla contro spalla, le dita che indugiavano possessive sulla cute delicata. Fernand seguì distrattamente con lo sguardo i contorni appena soffusi nella semioscurità, l’ombra delle ciglia che sporgeva sulle guance, la linea del naso leggermente appuntita. Diverso, ancora diverso dal folletto dalla dispettosa, irruente sensualità che si era lasciato andare su di lui, che l’aveva lasciato libero di indugiare curioso e insistente sulla sua pelle, chissà se questo farà impazzire anche te, Dorian, o se preferisci essere accarezzato in quest’altro punto, mentre ti muovi su di me.

- Fernand… – Dorian sussultò appena, sfiorato dal suo flebile abbraccio come da una coltre evanescente.

Fernand considerò per un istante quanto la voce del suo amico suonasse ancora più bella, più profonda, leggermente arrochita dal sonno. Assorto, ritorse una lunga ciocca bionda fra le dita.

- Dorian, sei sveglio?

Il ragazzo annuì in silenzio, le membra ancora intorpidite, agganciandosi ancor più strettamente a lui, una mano sul suo fianco.

- Bene – Fernand deglutì, a disagio, lasciando alla propria mente il tempo necessario a plasmare il dubbio che gli rimordeva nella testa – Ora, però, dovresti ascoltarmi – sentenziò.

- Fernaand…! – Dorian si agitò sommessamente nella penombra, un sospiro lamentoso appena impercettibile – Qualunque cosa, ma ora, ti supplico, non rovinare questo momento! Ti prego.

Fernand sbuffò, le braccia incrociate sul petto, liberandosi di una ciocca arruffata che gli era ricaduta sul volto e gli solleticava le labbra.

 

Ecco cosa intendo, Dorian, quando dico che sei e-sa-spe-ran-te.

 

- Vorrei parlar chiaro, se possibile – esordì, sforzandosi di mantenere un neutro distacco.

Ancora per poco.

- Ma io avevo già capito.

- No, non hai capito.

Fernand fremette alla ricerca di qualcosa, un preambolo, una versione edulcorata con cui tamponare quel breve, imbarazzante lasso di silenzio.

- D’accordo – si risolse – Io non… capisco il tuo rifiuto, ecco.

- Infatti, ho pensato bene di spiegartene il motivo… in anteprima – lo corresse Dorian.

- Dorian, caro – il viso di Fernand si modellò in un sorrisetto spazientito – A questo punto avrei preferito che come scusa mi dicessi… Ma non lo so! Che morivi dalla voglia di sentirmi dentro di te? – lo stuzzicò, una punta di tagliente sarcasmo a contrargli i lineamenti.

Dorian rise.

- Potrebbe essere vero – gli concesse, lo sguardo vagamente torbido, attraversato dal semplice ricordo – Ma sai che non è neppure questo, il nocciolo.

- Grazie, l’avevo capito da solo – lo fulminò Fernand, gelido.

- E allora, dov’è il problema, mon ami?

- Va’ al diavolo! Il problema è che ci sono restato male, ecco. Va bene, ora? E… Accidenti, riesci a turbarmi ogni volta che apri bocca per espormi un dubbio. Mi cuci addosso… cose a cui non avrei mai neppure pensato, se non fossi arrivato tu a mettermi il tarlo nella testa.

- Fantastico, Fernand! – Dorian si sollevò sui gomiti, il volto così vicino da sfiorarlo – Ascolta un po’: l’ho capito io guardandoti in faccia, che vi era, in effetti, qualche stonatura di troppo, e non l’hai capito tu. Ma no, non ancora; tu devi negare, ignorare la realtà.

- Quale realtà, Dorian? – Fernand sbatté le palpebre, disorientato.

- Che non avrei dovuto essere io, il primo. Non sarebbe stato corretto.

- Dove sta scritto?

- Questo dovresti saperlo tu, mon ami. Sta nella tua testolina.

- Non chiamarmi mon ami! – gli ringhiò Fernand, facendogli grottescamente il verso.

- Perché mai? – Dorian gli prese il viso tra le mani, un sorriso ironicamente benevolo, la voce fastidiosamente calma, gentile – Non sei più il mio miglior amico?

Fernand sorrise, gli occhi pericolosamente assottigliati. Gli schioccò un bacio sulle labbra, veloce, a tradimento.

- Io sì, lo sono, il tuo miglior amico; tu, un inenarrabile imbecille! – gli soffiò.

- Oh, meno male! – Dorian levò gli occhi al cielo in un gesto teatrale – Mi stavo preoccupando. Sì, sei tu, Fernand. E se davvero si tratta di te, dovevo aspettarmelo da un momento all’altro, un immancabile elogio. Beh, in tutta sincerità, mi aspettavo che l’effetto durasse più a lungo. Qualcosa tipo “sei bello” sarebbe stato meglio.

- Ma non sarebbe stato originale.

 

Fernand si tirò su a sedere, sfinito, lo sguardo che vagava rapito su Dorian, la figura aggraziata che spuntava nell’intrico delle lenzuola sfatte, la sottile peluria bionda sul torace che riluceva nel chiarore sommesso della stanza; e quegli occhi pensosi, distratti, le sopracciglia scolpite a rimarcare i lineamenti affilati, quasi aguzzi.

In silenzio, Fernand cercava d’imprimere nella sua mente ogni dettaglio. Lui, Dorian, il suo faro, bianco e biondo in quella penombra sempre più fragile davanti ai suoi occhi; la luce che, per un’astrusa associazione d’idee, la sua visuale gli richiamava nella mente. Dorian si stava assopendo di nuovo.

Fernand strizzò le palpebre: sentì il respiro abbandonarlo d’un tratto, mozzarsi in gola al pensiero del sospetto che Dorian aveva insinuato in lui – o di ciò che forse aveva visto davvero in lui – scardinando ancora una volta le sue certezze. Sospirò, maledicendo il suo sguardo troppo acuto o la sua mente troppo visionaria.

E lui, lui aveva bruciato la sua chance con il suo Dorian, il suo amico prezioso.

- Dorian, scusa. Io… avrei bisogno di pensare. Vorrei stare un po’ da solo – esalò.

Lo udì mugugnare qualcosa d’incomprensibile in risposta, la mente che ormai precipitava nel sonno.

Si risollevò in piedi, la sensazione di essere arrossito almeno un po’, mentre, nudo, raccattava con diligenza i suoi indumenti e si rivestiva con solerzia, ben presto confortato dalla certezza che, se anche Dorian avesse gettato uno sguardo su di lui, pure scorrendovi con famelica ostinazione, non avrebbe assaporato nient’altro che il corpo che egli stesso aveva baciato ed esplorato con sapiente e meticolosa passione in ogni singola curvatura.

Tacque, impossibilitato a cavarsi fuori di lì senza uno sforzo considerevole; ogni momento, ogni formula gli sembrava sbagliata, azzardata e frettolosa.

- Dorian… Sto andando via – mormorò con un filo di voce, i pugni stretti lungo i fianchi.

Sentiva l’impulso spasmodico di piangere, di ridestare di colpo Dorian, gettarsi di prepotenza fra le sue braccia e urlargli zitto, la prossima volta, zitto, stupido, non mettermi in testa bizzarre idee che fanno star male entrambi! Non dire più nulla, nulla!

Scorse rapidamente con lo sguardo sull’amico placidamente addormentato. L’ultima volta, si ripromise, l’ultima volta, e poi sarebbe andato; solo un attimo, prima di catapultare i propri passi fuori di casa e, di lì, sul freddo lastricato della via sottostante, gli abiti leggeri a proteggere maldestramente il suo corpo, il mantello penzoloni sulle spalle e il cuore pesante.

Ed era l’alba, oppure il tramonto?

Invano tentò di staccare dalla propria mente almeno per un istante il pensiero univoco e persistente di Dorian, la sensazione sempre più pressante di aver scorto il luccichio di una lacrima lungo la sua guancia, poco prima di uscire da quella stanza e imboccare veloce la stretta scalinata, verso Noir Trésor che riposava. Di essere poi tornato timidamente sui suoi passi, ancora pochi scalini sotto i suoi piedi, la realtà ovattata dinnanzi ai suoi occhi stanchi, come un’ossessione; come aveva cercato di captare qualcosa al di là di quel portone che solo qualche istante prima aveva richiuso pesantemente alle proprie spalle, il solito pipistrello distratto che urtava contro le finestre con le sue ali d’organza scura.

E avvertiva salda su di lui la presa di una profonda suggestione, una sottile bava di vento che, come un’allucinazione, recava vaghe parole recepite oltre il portone e trascinate con sé; la voce bassa che lui amava, una nenia confusa, qualcosa tipo scusa, Fernand, scusa, cerca di capire, volevo essere amico fino all’ultimo. Perdonami, amico, perdonami perdonami perdonami!

 

 

 

 

 

[1] Ricordate il commissario che fece la sua breve “comparsata” nel secondo capitolo?

 

 

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24: In confidenza ***


Capitolo 24

In confidenza

 

 

Un irresistibile impulso ad arretrare attanagliò le membra di Fernand davanti alla porta di casa, non appena fu giunto a destinazione, un passo e poi un altro, polvere sottile sotto i tacchi.

Per un istante, fu tentato d’indugiare ancora nel labirinto corrosivo e alienante del dubbio che gli intossicava la mente; caracollare ancora un po’, senza posa, sotto gli occhi indifferenti di quella falce di luna ancora alta nel cielo livido.

Si chiedeva quanto fosse trascorso; se qualcuno, nel frattempo, avesse accusato la sua momentanea assenza. E di certo il letto di Dorian bruciava ancora, caldo di lui, dello strofinio incandescente dei loro corpi.

Aveva cercato, anelato, preteso con l’ossessione di un capriccio quei baci, quell’amplesso rovente, crepitante di lacrime e di risposte negate. Si era lasciato andare, esausto, sulle lenzuola arrotolate, la pelle di Dorian che ancora palpitava sotto l’assalto delle sue mani. E non aveva trovato le spiegazioni che cercava. Solo l’inganno di nuove incoerenze.

La sua ultima visuale. Lui, il suo miglior amico, la simmetria carica di languore delle membra placidamente distese sul letto in disordine, l’illusione di una stilla di pianto sul volto rilassato in una pallida imitazione del sonno.

Allungò il passo, e l’ordine inconsapevole degli eventi disposti lungo la scia dell’abitudine lo proiettò dentro casa, il portone chiuso alle sue spalle, e dritto, di lì, dritto verso il suo letto freddo e vuoto. Per non pensare più.

Soltanto ad Ambrosie avrebbe regalato a pieno diritto la vista dei suoi occhi gonfi di lacrime, le guance roventi, le dita tremanti a rendere difficoltosa la presa sugli oggetti. Se proprio non avesse potuto farne a meno.

E solo a lei avrebbe permesso di lasciar scorrere le dita candide fra i suoi capelli. Per trovare un momento di pace e scivolare nell’incoscienza.

 

Solo lei ed io. E via tutto il resto, fuori, fuori di qui! Riportatemi indietro il mio Dorian, il mio amico prezioso!

 

- Vuoi parlare?

 

Fernand tirò su col naso. Soltanto allora si rese conto di essere capitolato barcollante fra le braccia di sua sorella, un nodo d’angoscia che finalmente trovava il suo sterile sfogo in forma di lacrime, come ghiaccio fra le ciglia.

Sbatté le palpebre: la verità era che mancava un aggancio, un appiglio razionale, un qualcosa che giustificasse con parole sicure la sua angoscia, che potesse ricondurre la sua esplosione disperata a un qualsivoglia frammento di realtà con una motivazione logica a far da cemento; mancava un’etichetta in grado di raccogliere, di denominare le sue sensazioni, la sintesi di un rapporto causa-effetto. Perché stava male, perché le lacrime?

Mancava la scintilla da cui lasciar dispiegare il suo provvidenziale sfogo, e non era facile risolversi a confidarsi o a tacere. Avrebbe preferito precipitare fra le dita pesanti del sonno e addormentarsi, sfinito, magari assaporando ancora un po’ la blandizia di rivoletti salati lungo gli zigomi, sulle labbra socchiuse, e di lì direttamente sulla veste di Ambrosie. Chiuse gli occhi, in attesa, gli ultimi singulti di un pianto silenzioso che gli morivano nel petto. Ma lei, forse lei avrebbe compreso.

Si tirò su a fatica e scosse il capo, stordito, accogliendo quasi come un soffio di vuoto momentaneo l’assenza delle carezze che avevano percorso pazienti il suo viso, mondandolo di ogni traccia di pianto. Non era Ambrosie, in realtà, il problema, né l’impatto con gli indecifrabili cambiamenti in atto intorno a loro. Non era neppure il timore d’incuneare lo sguardo in fondo a quelle iridi dall’impronta volitiva a frenare i suoi passi, quanto la tragica assenza di un ponte fra parola e sensazione, l’utopia di un codice ideale attraverso il quale attribuire un nome concreto ad un oggetto dai contorni soffusi.

Gli occhi di Ambrosie fissi nei suoi non gli avevano regalato l’immagine di un freddo inquisitore pronto a indagare a proprio uso e consumo i suoi stati d’animo, quanto piuttosto la sensazione di scrutare in fondo alle proprie pupille viste attraverso uno specchio, un reciproco indagarsi di due strappi gemelli dello stesso angolo di cielo. Come una miscela alienante di soggezione e coscienza di sé.

- È… successo – sussurrò debolmente, senza sapere, in concreto, dove le sue parole l’avrebbero condotto.

- Cosa, Fernand?

Il ragazzo si lasciò sfuggire un breve sospiro rassegnato, un velo di conforto sul volto teso, quando l’impatto leggero di un abbraccio dissipò parzialmente il cocente imbarazzo, la frustrazione di non trovare le parole, guancia contro guancia.

E il respiro di Ambrosie palpitava su di lui, come alla ricerca di un indizio attraverso il filtro della sua pelle.

- Non è il tuo profumo, Fernand – decretò infine la ragazza, un sorriso languidamente beffardo sul viso delicato, le iridi di freddo cobalto così tragicamente uguali, gemelle, speculari alle sue.

La consapevolezza non gli dava il conforto sperato, perché era come non trovare le parole dinnanzi a se stesso e a nessun altro.

- Sei un’indovina? – Fernand incrociò le braccia sul petto, sospettoso.

Perplesso, vide Ambrosie allungare la mano pallida verso di lui e sollevargli dolcemente il viso verso di sé, sì da ottenere la piena visuale sulla sua gola. Fernand si ritrasse di scatto.

- Posso sapere cos’ho, stavolta, e che cosa ti prende? Cos’è preso a tutti voi, a dire il vero, che nelle ultime ventiquattro ore sembrate trovare nel mio collo la fonte principale del vostro interesse… – sogghignò – Temete forse i vampiri?

Ambrosie scosse candidamente la testa bionda. Una luce placidamente sarcastica, annidata in fondo alle iridi, che forse in un’altra occasione l’avrebbe mandato su tutte le furie. Tacitamente, sadicamente provocatoria. E sembrava esserne non poco consapevole.

- No, niente “vampiri”, stavolta – dichiarò Ambrosie con fare condiscendente, una residua venatura d’ironia a percorrerne i lineamenti – Oh, giudica tu! – si risolse infine, brandendo uno specchio dinnanzi a sé e puntandolo verso suo fratello.

Fernand vide distintamente i propri occhi dilatarsi e spiccare lucidi nell’accesso di rossore che gli era esploso repentino sulle gote, e di lì fino alla radice dei capelli, nell’istante in cui tutta la sua attenzione fu calamitata dall’isoletta color cremisi che spezzava, ampia e frastagliata come una chiazza di vino, la superficie immacolata della gola.

Il primo impulso fu di portarsi le mani dinnanzi alla bocca a trattenere un’imprecazione, quando vide sua sorella scoppiare a ridere nel modo che sua madre avrebbe di certo apostrofato come “del tutto sconveniente per una signora”.

Fernand si tirò il bavero della giacca fin sotto il mento e, per un istante, temette che il palpitare furioso del sangue sulle tempie degenerasse in un collasso.

- Oh, accidenti a lui! È… Cazzo! È orribile! – esplose un istante dopo, mordendosi il labbro.

Ambrosie si deterse distrattamente le lacrime che le erano affiorate sulle ciglia.

- Dio, Fernand! Eviterò d’infilare il coltello ancora più a fondo, ma permettimi di dire che era da un bel pezzo che non ti trovavo divertente fino a questo punto!

- Grazie tante! – ribatté Fernand con una punta d’asprezza.

Si sentiva ridicolo. Ridicolamente colto in flagrante e puntualmente deriso.

- Continua, avanti, continua a “divertirti”! – le sibilò con voce gelida – Caso mai, nel frattempo m’ingegnerò a trovare il modo più rapido e indolore per sprofondare sotto le mattonelle.

- Non è così grave, sul serio – ora Ambrosie cercava di tamponare il suo imbarazzo, dopo l’infelice exploit – A patto che tutto ciò resti fra noi, s’intende – puntualizzò, ricomponendosi di fretta.

Fernand chiuse gli occhi, a disagio, assecondando in silenzio l’iniziativa della ragazza di coprire alla meglio l’impronta dispettosa della sua ultima serata sotto uno strato di cipria. Gli risistemò premurosamente il nodo della cravatta.

- Ecco, così va decisamente meglio – decretò con malcelata ironia, lo sguardo che vagava critico sulla sua opera.

 

Fernand deglutì a fatica, considerando fra sé quanto l’attenzione esercitata dalla punta delle proprie scarpe rivestisse per lui l’alternativa del tutto provvidenziale per evitare ulteriori scambi di sguardi nel giro di qualche istante. Avrebbe preferito che la sua riluttanza immotivata crollasse dal suo volto come una maschera di creta, lasciandogli il sollievo di condividere la sua inesprimibile, irrazionale angoscia con la persona che più di tutte, nell’arco della sua vita, fosse riuscita a frugare in fondo alle sue reticenze, a vedere oltre lo specchio dei suoi occhi sfuggenti. Ma le parole non gli affioravano nella testa, come quando aveva maldestramente esortato Dorian a chiarire le sue ennesime ambiguità. Il buio.

- Dove sei stata, Ambrosie?

Fernand tacque. Non era una richiesta originale, e lui conosceva la risposta, la stessa che in capo a qualche istante gli si era modellata nella mente come un marchio. Per un attimo fu sfiorato dalla sensazione angustiante di essere stato tragicamente tagliato fuori dai suoi orizzonti.

Erano cambiate troppe cose, in quella manciata d’ore. Non abbastanza da dividere le loro vie, considerò in uno sprazzo di sollievo misto a pungente rammarico. Doveva riguadagnare terreno, disperatamente, urgentemente: almeno con lei, adesso che era in tempo. Aveva già rischiato di perdere Dorian, di mettere azzardatamente a repentaglio le sue uniche certezze, i suoi capisaldi – o chissà che non avessero già provveduto da soli, a logorare tutto.

- Ti assicuro che è tutto a posto, Fernand – lo precedette Ambrosie – Fra noi non cambia nulla. Tu, piuttosto. Se è come ho compreso, giurami che non dovrò temere da un momento all’altro di essere chiamata “zia”! No, no, aspetta – lo incalzò – Una ragione dev’esserci per forza, e prego, prego che tu non venga a dirmi che non si tratti di quella… Com’è che si chiamava? Clothilde… Che ti abbia seguito appositamente fin qui e messo nuovamente gli occhi addosso – avesse voluto Dio che fossero stati soltanto gli occhi, quella volta…?

- Perché ora vuoi ritirare fuori quella maledetta faccenda? Non ti è mai andata giù, è così. Dopo tanto tempo. Quando la smetterai? – Fernand sorrise, sibillino.

Sapeva che Ambrosie non diceva sul serio, malgrado avesse ritirato fuori l’argomento del tutto a sproposito e senza alcun preavviso. Sapeva che non l’avrebbe spuntata facilmente, stavolta, perché quasi di certo lei aveva ancora un asso nella manica. Neppure Ambrosie avrebbe però potuto contare su solide garanzie di vittoria.

- È completamente diverso – proruppe la ragazza, e Fernand fu certo di aver scorto sulle sue guance un luccichio di fiera indignazione.

- Completamente diverso, stavolta, capisci? Avevi sedici anni. Quella… Clothilde – sputò fuori quel nome quasi si trattasse di qualcosa di sgradevolmente dolciastro incollato alla lingua – Aveva spudoratamente approfittato della situazione, alla festa del borgo. Ricordi? Ti aveva attirato nel vecchio fienile e… Di certo avrà avuto di che gloriarsi, con le sue degne comari – concluse con un velo di divertita acidità che Fernand avvertì insopportabilmente caustico.

- Sei incorreggibile – il ragazzo sollevò gli occhi al cielo – Ad ogni modo… Non mi era piaciuto veramente. Sei più felice, ora? Poi… Non lo so. So soltanto che qualche mese più tardi Clothilde andava in sposa a quel giovane marchese di città, e da lì non seppi più nulla. Mercanti da generazioni, esattamente come nostro padre, prima che cadesse in disgrazia. Poi, per loro, la svolta: si legano al duca Alphonse du Lac, seguono il suo astro nascente e investono parte delle proprie rendite nell’acquisto del titolo nobiliare; a quel punto, non restava che maritare le figlie con ottimi partiti dal nome altisonante, ed ecco che i sacrifici di una vita intera trovano il loro giusto coronamento su tutti i fronti. Fine delle trattative. Come vedi, fra me e lei non fu che uno scambio equo.

- Da quando sei diventato cinico, Fernand? Non volevo che stessi male, tutto qui – la voce di Ambrosie si era addolcita – E non lo voglio nemmeno adesso.

- Ma ora è passato, avrai compreso. Non è stata un’esperienza edificante, sono d’accordo con te. Ma, come vedi, sono ancora in piedi – sentenziò Fernand – E tu non hai motivo di rinverdire la vecchia sagra della gelosia.

- Lo so – gli occhi di Ambrosie si assottigliarono minacciosamente – Mi limito soltanto a ripagarti con la stessa moneta.

Fernand fu scosso da un lampo d’irritazione.

- Ah, bene, tutto comincia a quadrare. E noto con piacere come si siano invertiti i ruoli. E se è davvero qui che vuoi arrivare, puoi tranquillamente scordartelo, sorella cara, che riveda da cima a fondo le mie considerazioni su Raphäel Lemoine e su quel tuo insano e pericoloso capriccio!

- Ho forse fatto il suo nome? – la ragazza si volse alla finestra, offrendogli il profilo, le labbra irrigidite in un’espressione dura.

Sarebbe parsa quasi buffa, gli occhi grandi, i lineamenti minuti e quell’espressione grave dipinta sul viso.

- Lasciami scegliere la mia felicità, te ne supplico, Fernand! – la sua voce sembrava essersi accesa in un pigolio supplicante, quasi insolito su quelle labbra capricciose – Non asserragliarti in posizioni di principio che potrebbero portarti soltanto a cozzare contro il muro che tu stesso hai sollevato! – lo redarguì.

Fernand fu preso dall’impulso di afferrarla, di stringere le dita su quel polso sottile. Tuttavia, un istintivo sfioramento fu sufficiente a farlo ritrarre come se la sua pelle scottasse. E avvertì la vecchia ferita bruciare come sotto una manciata di sale.

- Non dire così, perché non è così! – serrò le mascelle, trattenendo un singulto isterico – La tua felicità? Come ti vengono in mente certe cose? Raphäel non è quello che sembra. Ci sta giocando tutti come tante graziose marionette. Scusami se insisto, ma del resto non sappiamo che obbiettivi ha con noi, non abbiamo alcuna garanzia. E lui agisce indisturbato: sa tutto di noi, è libero di rigirarci a suo piacimento.

- A che devo l’ennesima filippica, Fernand? – Ambrosie lo fronteggiò con espressione tagliente – È sempre lo stesso discorso. Giorni, settimane, mesi! Hai paura che ti porti via la tua sorellina. Che mi illuda di qualcosa e poi getti tutto nel dimenticatoio. Che io m’intestardisca e punti i piedi fino a scontrarmi con la cruda realtà. E allora… Povera Ambrosie, la piccola, sciocca, sentimentale idealista! È ciò che pensi.

- Forse, perché in fondo lo sei. E lui ha già illuso tutti – mormorò Fernand con voce strascicata, l’unghia del pollice stretta fra i denti, sì da poter negare all’occorrenza.

Socchiuse le palpebre, aspettandosi da un momento all’altro uno scoppio d’ira, seguito dall’ennesima, esasperante discussione priva di un approdo concreto. L’ultima di una triste serie. O uno scappellotto sulla nuca.

Invece, con sua sorpresa, Ambrosie gli sorrise cameratescamente, l’espressione sagace che le era così diabolicamente congeniale quando si trattava di architettare fantasiosi complotti come fra le spire di un gioco affascinante e pericoloso, adrenalina in punta di dita.

Cosa si erano messi in testa, quel giorno?

Sarebbe stato bello scherzare all’infinito, poter giocare ancora ai ribelli, vivere tutto come un sogno da bambini viziati, le cui conseguenze non sarebbero giunte a disturbarli durante la veglia.

- Ti amo, fratello mio – Ambrosie lo strinse fra le braccia, e i capelli biondi danzarono fra le sue dita.

La sovrastava. Fernand considerò che avrebbe potuto avvolgerla completamente fra le sue braccia, come una bambola insospettabilmente riottosa. Forse, era ancora lui il fratello maggiore.

- Una volta, però, non eri molto più alto di me – gli soffiò la ragazza, delicatezza estrema che fluiva dalle labbra, un sussurro vagamente delirante – Ora no. Sei diventato un uomo. Ho fiducia in te. E… Lui avrà compreso.

Per poco Fernand non si sentì mancare.

- Come fai a sapere che…?!

- Che è un lui? Parole tue – seguitò a pungolarlo Ambrosie, le iridi indagatrici fisse sul suo viso.

Fernand roteò gli occhi verso il cielo.

- Rettifico: tu non sei una donna, sei una specie di inquisitore. Ma… Cosa cambia per te, in fin dei conti?

- Cambia tutto, Fernand. Cambia che sei innamorato. E… tutto questo, in verità, non mi rende più tranquilla.

- Forse ho risolto un certo tuo problema basilare, Ambrosie: non volevi correre il rischio che un’altra donna ti mettesse da parte. Astuta…

- Basta pensare questo di me, Fernand! – Ambrosie si riscosse, un luccichio di collera in fondo alle pupille – Non c’entra nulla. Che razza di opinione schifosa e becera ti sei fatto di me? Pensi davvero che sia così egocentrica e meschina?

- No, non lo penso, a dire il vero – Fernand arretrò d’un passo, la mano che correva istintiva a sistemare la lunga ciocca bionda che le era caduta sul viso – Penso solo che non vi sia sistema più facile per farti arrabbiare.

- Va’ al diavolo!

 

- Come sta Raphäel? – azzardò Fernand.

- Certe domande suonano quasi imbarazzanti, sulla tua bocca – il volto di Ambrosie era tornato serio.

- Anche se non gode esattamente delle mie simpatie, ciò non significa che debba passarsela male, non credi?

La ragazza scosse il capo.

- No, comunque sia. Non se la passa meglio del solito, a dire il vero. Cosa pensavi? Non è ancora iniziata la stagione della mietitura. Ora come ora, non ha un’occupazione – concluse con malcelato nervosismo.

- Già. Ed ora, pare che se ne sia messa in testa un’altra delle sue: diventare medico. Ci pensi? Raphäel medico! Cosa farà? Venderà sua nonna per entrare nella corporazione? Non che voglia fare il guastafeste, ma… è strano.

- La sua forza di volontà è ammirevole, invece. Non lo sottovaluterei. È strano che abbia studiato. Che sia così… colto. Sa un sacco di cose che non immagineresti. E si esprime quasi come un nobile. Eppure, da quando lo conosco, non ha svolto che lavori di bassa manovalanza, come se volesse ostinatamente restare nell’ombra.

- Che tipo! L’ho sempre detto che per me nascondeva qualcosa.

- Se n’è andato di casa. Non ha vissuto sempre in questa città.

- Pare sia nata una nuova usanza, tra quelli che amano sfidare lo spauracchio della miseria: partire in cerca di grane – ribatté Fernand, avvertendo per la prima volta quello strano ragazzo affine, in una certa misura, alla sua realtà.

- Tu, per lo meno, quando la situazione ha iniziato a pesarti, hai trovato il pretesto buono per andartene: curare gli affari in città per conto di nostro padre – constatò Ambrosie – Lui, invece… Sembra scollegato da tutto, sospeso nell’aria. Tutto ostinatamente alla giornata.

- Avrà avuto qualche guaio con la giustizia là dove viveva prima, suppongo. Conoscendolo anche solo superficialmente, non scarterei l’ipotesi. Qualcosa di cui non vuole parlare, chissà. Anche se ci sono troppe cose di cui “non si vuol parlare”, a dire il vero; e lui non è un’eccezione.

- Un motivo in meno per venire a fare il solletico al duca da vicino, se ci pensi – ribatté logicamente la ragazza.

Fernand si alzò di scatto.

- Perché stiamo qua a interrogarci su cosa Raphäel abbia combinato in passato per comportarsi in tutto e per tutto come un reietto che cerca di ridare un’assurda parvenza di normalità alla sua vita?

- Non lo so. Vorrei solo aiutarlo.

- Non sai nulla di lui. Raphäel Lemoine, provenienza non si sa, condizione personale non si sa, vent’anni o giù di lì.

- Ventuno. Ha ventun anni – lo corresse meccanicamente Ambrosie.

- Questa te la concedo – Fernand sollevò gli occhi al cielo, spazientito, folgorato all’improvviso dal desiderio pressante di lasciar cadere il discorso quanto prima.

Qualunque cosa, considerò in un fulmineo accesso d’imbarazzo incandescente: persino il resoconto del suo ultimo incontro con Dorian – non aveva racimolato neppure il coraggio di fare il suo nome. Persino quella sarebbe stata un’alternativa degna di considerazione, pur di abbandonare le acque torbide in cui si stava inoltrando.

- Avevo ragione, dunque? – proseguì tuttavia, sforzandosi di contenere entro i limiti dell’impercettibilità quella sottile venatura d’accusa che gli serpeggiava nella voce – Resta il fatto che non sai quasi nulla di lui, Ambrosie. Non più di quello che sappiamo tutti, per lo meno. Tranne il fatto che è affascinante, che sembra avere un seguito in città; e, se si trattasse solo di questo, di certo non morirebbe per non aver mai nulla di appropriato da dire per tirarsi fuori d’impiccio.

- Per te è davvero così importante… sapere di lui? – indagò la ragazza.

- Se vuoi metterla su questo piano, sì, lo è eccome. Vorrei soltanto togliermi il dubbio che Raphäel non sia veramente dei nostri. O che nutra qualche interesse personale.

- Accantonando per un attimo Raphäel e quel che lo riguarda, al momento c’è dell’altro a cui pensare. Auguste. Ci ha convocati tutti in mattinata, nel caso nessuno ti avesse ancora riferito il messaggio. E a quanto ho capito, pare abbia in serbo qualcosa di urgente. Per tutti – mormorò la ragazza, a bruciapelo.

Fernand sentì un ammasso gelido stringergli la spina dorsale, per poi annidarsi tenacemente all’altezza della nuca. Le labbra asciutte, cercò di controllare il tremito nella voce.

- C-come lo sai? Chi ti ha detto… – abbozzò.

- Raphäel. Era con lui. È proprio qui che volevo arrivare.

- Già… – Fernand annuì, disorientato.

Auguste aveva in mente qualcosa. Di nuovo. Aveva deciso da solo. Fernand tremò.

- Ho paura, Ambrosie. Ho paura di ciò che può essergli saltato in mente stavolta. Se le cose stanno come temo, allora sarà meglio raggiungerlo quanto prima – concluse.

 

* * *

 

Un fluire discontinuo di sensazioni, sprazzi isolati e confusi di coscienza a rimestargli nella mente. Nessuna riflessione, nessun pensiero articolato su un filo lineare.

Solo il ricordo di quel delirio vibrante in bilico tra voluttà e repulsione, l’immagine delle due donne dal volto dipinto nel suo stesso letto, due maschere inquietanti e sfuggenti che vorticavano davanti ai suoi occhi.

Poi, il breve paradosso di un istante tranquillo, quando aveva riaperto gli occhi, ormai mattino inoltrato, la mente sgombra, annebbiata. Accoccolata contro il suo corpo nudo, reduce della notte trascorsa, la ragazza dai capelli scuri si era stretta a lui nella nebbia del sonno. L’aveva sentita mugolare qualche frase incomprensibile; “sei bello”, o qualcosa del genere.

E forse era stato allora che l’improvvisata impalcatura di nebbia che velava le sue percezioni si era disciolta dinnanzi ai suoi occhi. Ed era tornata la consapevolezza, prepotente come un’ossessione. Nel turbinio ingannevole di un istante, gli era balenato nella mente che nessuno gliel’aveva mai detto. Che era bello. Tranne Lucien.

Aveva tentato di scacciare l’idea dalla mente, si era riappropriato della sua roba e, senza una parola, aveva calcato con passi furiosi il percorso tortuoso che l’aveva riportato a casa.

Poi, ricordava solo di essere stato male, l’alcool che gli ribolliva ancora nelle vene, o forse un fastidioso residuo ancorato al cervello. Emilie non era tornata.

E lui aveva maturato la sua decisione sulla scia un istinto sbagliato che, martellandogli nella coscienza, ogni volta tentava di ispirargli la scelta giusta. La scelta giusta!

Restava solo da attendere che i suoi compagni si facessero vivi, e anche stavolta sarebbe andata, scivolando via tra le dita.

Respirò profondamente, gli occhi socchiusi nella luce troppo intensa che gli scavava voragini di pulsante dolore alle tempie.

Fu uno schianto improvviso a schiaffeggiargli brutalmente la realtà sulla faccia. E no, non sarebbe stato facile.

Buongiorno, Auguste! È una bella giornata, dopotutto.

 

- Perché l’hai fatto, Dorian, perché l’hai fatto?

Auguste si premette le mani sulla fronte, una fitta prepotente che gli esplodeva nel cranio. Era bastata una maledetta porta sbattuta a farlo sobbalzare.

- Cos’avrei fatto di male, stavolta?

- Accidenti a te e a quella diavolo di porta!

Strizzò le palpebre, quasi a impedire che gli salissero le lacrime agli occhi. Dorian indugiava intorno a lui mantenendo una certa distanza, come se temesse di scalfirlo o di esserne scalfito. Trattenne il fiato.

- Stai bene, Auguste? – Dorian si era fatto coraggio e gli aveva posato una mano amichevole sulla spalla.

Ora sembrava seriamente preoccupato.

- Mi rispondi, Auguste? Cosa ti prende?

Auguste provò a riaprire prudentemente gli occhi. L’aspetto di Dorian aveva in sé un impatto notevole, e del malessere di due notti prima pareva non conservare altro che la fasciatura alla mano. La febbre gli era calata un po’ troppo in fretta del previsto, a dire il vero, e sul suo volto erano scomparsi quasi del tutto i segni di quella leggera estenuazione che gli aveva percorso i lineamenti, quando l’aveva sorpreso in preda ai brividi, raggomitolato sul pavimento, di fianco alla suggestiva pozza di sangue di una ferita da niente. Era davvero bastato così poco a mandare entrambi nel panico?

- Hai bevuto di nuovo, è così – constatò il giovane con voce piatta.

- Da cosa puoi dedurlo, stavolta? – Auguste considerò quanto non fosse una cattiva idea guadagnare un po’ di tempo.

- Hai un aspetto orribile.

Auguste per poco non scoppiò a ridere di fronte a quell’aristocratico nasetto a punta che si arricciava impercettibilmente. Era quanto mai consolidato che Dorian non possedesse esattamente il dono della diplomazia, e da certe sue uscite in particolare non era poi così difficile dedurre che, sotto molti aspetti, fosse ancora un ragazzino. Un ragazzino cresciuto male, spezzato e sospeso a metà, considerò in una punta di sordo rimorso. Gli faceva quasi tenerezza.

- Ti ringrazio. La faccia, comunque, me la sono lavata, stamattina.

- Non ti sei preso la briga di guardarti bene allo specchio, a quanto sembra.

Auguste inspirò profondamente, fingendosi oltremodo seccato.

- Sempre più divertente, Dorian.

- Oh, insomma! Lo dicevo per te. Volevo… che ti distraessi per qualche attimo su qualcosa di poco importante – Dorian aveva preso a tormentarsi nervosamente le dita, a disagio – Hai bisogno di qualcosa? Di un bicchiere d’acqua, di distenderti…

Auguste scosse il capo.

- No, Dorian. Ti ringrazio.

- Perché ci hai convocati, se non ti senti bene?

- Tra un po’ starò meglio – lo precedette Auguste, sibillino.

Dorian incrociò le braccia sul petto, il volto stranito.

- Hai vinto. Ed io continuo a non capire nulla.

- Capirai tra un po’ – per un istante, Auguste sentì le forze venire meno.

Si prese il capo fra le mani, sorreggendosi sui gomiti.

- Aspetta soltanto che arrivino gli altri. Solo questo – soggiunse.

I suoi occhi fissarono Dorian e, per un istante, Auguste sentì i propri lineamenti modellarsi in uno strano sorriso, un fioco desiderio di fiducia che tuttavia lasciò nuovamente spazio alla tristezza, non appena l’impulso scomparve.

Vide Dorian stringersi nelle spalle, scettico, per poi distogliere rapidamente lo sguardo. Doveva essersi arreso all’evidenza.

- Non puoi restare così – riprese in capo a una manciata di secondi.

Auguste scosse mestamente il capo; gli occhi chiusi, seguitò a massaggiarsi distrattamente le tempie.

- Aspetto che passi. Cos’altro faresti, al mio posto?

- Non berrei? – azzardò il ragazzo.

- Già, grazie per avermelo ricordato.

Dorian scorse su di lui con lo sguardo venato di sottile sarcasmo. Poi, del tutto inaspettatamente, Auguste si sentì strattonare pigramente per il risvolto della marsina.

- Ho trovato – Dorian stava escogitando qualcosa – Prova a levarti la giacca, Auguste!

- Uh?

- Levati la giacca, ti dico!

Auguste si lasciò andare a un sospiro teatrale.

- È proprio necessario continuare a tormentarmi?

- Starai meglio, dopo, te l’assicuro.

- Non è il caldo né tanto meno la mia giacca, il problema, se non ci avessi fatto caso – azzardò.

Ma prima che avesse il tempo di sottrarsi ad un’estranea iniziativa, avvertì le sue mani scorrere sui bottoni della giacca e scuoterlo per il colletto, come per indurlo a sfilarsela del tutto. Auguste irrigidì le spalle, d’istinto, per poi acconsentire in capo a qualche istante, persuaso che forse, se avesse finto di assecondarlo, Dorian l’avrebbe lasciato un po’ in pace.

- Si può sapere cos’avete tutti quanti, oggi, contro i miei vestiti? – proruppe, di getto, per poi morsicarsi la lingua in capo a qualche istante, avvampando in viso.

Era meglio che nessuno sapesse. Dorian in particolar modo.

- A cosa ti riferisci? – il ragazzo si sporse verso di lui, le iridi cerulee percorse da una luce interrogativa.

- A nulla, Dorian. Dimentica quello che ho detto!

Il giovane scrollò le spalle.

- Oh, come preferisci.

Auguste inspirò profondamente, confidando in cuor suo che forse il mal di testa si sarebbe attenuato almeno un po’, prima che giungessero gli altri. Aveva bisogno della propria completa lucidità.

Il suo cuore mancò un battito, quando, senza preavviso, sentì le mani di Dorian scivolare come serpenti su di lui, scostargli i capelli ed ancorarsi saldamente alle sue spalle, i pollici che affondavano decisi alla base del collo, scorrendo fin sotto le scapole. Trasalì.

- Dorian! Posso sapere cosa ti è saltato in mente stavolta?

- Sta’ calmo, Auguste, e cerca di rilassarti! Salti su davvero per poco. E se davvero sei sempre così… – gli insinuò con voce melliflua – Sempre sul “chi vive” e con i nervi costantemente a pezzi, allora capisco davvero perché invecchi in fretta. Beh, ora cerca solo di stare un po’ zitto! – la voce di Dorian suonò imperativa – Sei così teso che mi sembra di massaggiare una lastra di marmo.

Auguste tentò di distogliere momentaneamente il fulcro delle proprie percezioni da quelle dita divine che infierivano su di lui, scorrendo in tondo sulla cute che rabbrividiva e sciogliendogli lentamente i muscoli del collo.

- Bravo, Dorian. Spiacente, ma io non sto invecchiando: non ancora, per lo meno; e poi, dimmi un po’: per caso sei venuto fin qui per subissarmi di inutili osservazioni che non hanno capo né piedi?

- No. Ho solo visto che non stavi per niente bene e, come vedi, provo a fare ciò che è nelle mie possibilità per aiutarti.

Auguste fremette, in attesa di vibrare il suo prossimo affondo. Gli veniva da ridere.

- Sempre che non mi stia sbagliando, Dorian, ma non eri tu quello che fino all’altro ieri pareva detestarmi in modo più che appassionato? – lo pungolò.

Dorian sussultò leggermente, circondando a piene mani le spalle di Auguste e indugiando lentamente sulle clavicole in rilievo che spuntavano dallo scollo lento della camicia.

- Non ti sbagli affatto… – Auguste non poteva vedere Dorian in viso, tuttavia in quel momento ebbe pressoché la certezza che un gran sorriso beffardo e compiaciuto gli fosse affiorato sul volto – Ti detesto ancora, disperatamente e con passione.

- Bene – asserì con voce asciutta – Posso solo esserne felice, di stare in qualche modo nei tuoi pensieri.

Un affondo secco e repentino di dita risolute intervenne a strappargli un gemito stupefatto, un attimo prima di convogliare la fredda tensione che gli percorreva i muscoli in un turbinare di brividi lungo la schiena. Auguste serrò le palpebre, un debole sussulto che moriva tra le labbra, testimone solitario dell’ansito disperato che aveva prontamente ricacciato nel petto. Tremò.

 

Smettila, Dorian, smettila con questo gioco idiota! Ora.

 

Lo udì ridacchiare sommessamente, presenza indecifrabile alle sue spalle, per poi sfilargli il nastro dal codino, a tradimento.

Quel gesto… Auguste avvertì per un istante uno spiacevole formicolio all’altezza dello stomaco, un impercettibile lampo di disgusto. Annaspò a vuoto, l’impulso di stracciargli dalle mani quello stupido nastro, ma Dorian fu più svelto. Auguste deglutì a vuoto, quando avvertì la morbida consistenza del tessuto stringergli dolcemente la gola. E il respiro di Dorian accarezzargli i capelli.

- Sei sorpreso, Auguste? – un sussurro strisciante gli solleticò l’orecchio – No, non dimenarti, fa’ il bravo! E dimmi: sei proprio sicuro, in questa situazione, che non saresti pronto a confessare… qualunque cosa desiderassi chiederti?

Auguste sbatté le palpebre, gli occhi umidi di lacrime soffocate, la paura che si congelava in un groppo di tristezza e nessun altro pensiero nella mente. Dorian stava impazzendo.

- M-mi dispiace, Dorian, te lo giuro… – Auguste sentiva la pressione del laccio aumentare, un fremito di terrore che gli attanagliava la gola.

Corse qua e là con lo sguardo, nel tentativo impossibile di infilare lo sguardo in quello di Dorian e fissarlo in volto. Ma Dorian gli stava alle spalle, seguitando imperterrito nella patetica farsa di tenerlo in pugno. Che magari, chissà, non si sarebbe neppure rivelata una farsa.

 

Scusami, piccolo, scusa per tutto! Se ti ho fatto impazzire. Se ho fatto di te qualcosa che non saresti voluto essere. Perdonami, se ho reso tutto difficile!

 

Il respiro leggero che gli sfiorava la pelle scandiva i secondi con una quieta regolarità che per lui profumava inspiegabilmente di diabolico. Come un martellare ipnotico in fondo alla testa.

Poi, l’incubo si diradò dinnanzi ai suoi occhi, così come le sue percezioni viziate l’avevano evocato. Il nastro gli ricadde sulle ginocchia. Volse lo sguardo, stranito. Dorian rideva fino alle lacrime, piegato in due sul basso tavolino di legno.

- Sei così suggestionabile, Auguste. Dio, davvero credevi che…

Auguste spalancò le palpebre, sbigottito. Poi venne la collera, una secchiata gelida in pieno volto.

- Va’ in malora, stronzo! Ti sembra… Ti sembra divertente?

- Non arrabbiarti, Auguste! Ti vengono le rughe… – Dorian era scivolato nuovamente al suo fianco, reggendosi precariamente sullo schienale della sedia.

Lo accarezzò timidamente.

- Era… La mia offerta di pace, se non sono inopportuno – proseguì.

- Tu sei sempre inopportuno – Auguste se lo scrollò di dosso con un moto infastidito – Mi fa… rabbrividire la tua superficialità. Cielo, ti rendi conto? Il fatto che sia capace di scherzare su… Oh, non ti reputavo così sciocco!

- Lo so, è stato di cattivo gusto, te lo concedo. Ma era una tentazione troppo appetitosa, giocare con i tuoi nervi tesi. E, per inciso, nemmeno io ti reputavo così sciocco da caderci con tutte e due le gambe.

- Una tentazione veramente appetitosa, rubarmi dieci anni di vita – lo interruppe Auguste, facendogli grottescamente il verso – Va bene, lo ammetto: ero davvero spaventato, e tu sai essere orrendamente inquietante. E Auguste è un deficiente che se la fa sotto. Ora che hai raggiunto il tuo scopo, puoi anche andartene tranquillo all’inferno.

Dorian tentava di recuperare un filo d’equilibrio, le membra rese fragili dall’accesso di risa, finché non riuscì a sporgersi verso di lui e a schioccargli un bacio sulla guancia.

- Perdonami, davvero, ti giuro che sarà l’ultima volta che mi prendo gioco di te.

- Della mia salute mentale – lo corresse Auguste con voce ghiaccia.

Sospirò, gli occhi socchiusi a fessura, una maschera d’indignazione sul viso. Se almeno fino a quel momento era riuscito a trattenere l’istinto di picchiarlo, con ogni probabilità lo doveva soltanto a quel fragile luccichio d’innocenza offuscata in fondo alle iridi, scevro di cattive intenzioni palesi, che aveva intercettato mentre il suo sguardo si posava su di lui, inquadrato in quegli occhi dal taglio malinconico.

- Non… non potrei mai farti una cosa simile. E no, non scherzo stavolta – Dorian sembrava meno intenzionato che mai a lasciarlo respirare.

Gli si era nuovamente accostato come una presenza ingombrante, le mani che si facevano timidamente strada sulle sue spalle, quasi a voler chiedergli perdono, ricercando nel contatto casuale delle mani una qualche forma di sostegno e le parole che faticava a trovare nella sua mente.

I pensieri quasi certamente giravano a vuoto dinnanzi a lui senza lasciarsi afferrare ed inquadrare nella forma di una frase.

- Non è vero che ti detesto, Auguste. Cioè, qualche volta soltanto. D’accordo: mentirei se dicessi di non averti detestato almeno una volta. Volevo soltanto dire… – le sue labbra s’incresparono nell’incertezza, gli occhi si smarrirono – Sei pur sempre l’uomo che mi ha salvato da morte certa. E credo di aver imparato a volerti bene, in un certo qual modo, anche se sono in collera con te e non accetterò mai le ragioni con cui cerchi di giustificare il tuo silenzio.

- Dorian, ti prego, basta così, basta, te ne supplico!

Auguste si riscosse solo quando si rese conto di averlo attirato istintivamente a sé nell’enfasi di troncare d’urgenza il discorso che l’aveva spinto a gettarglisi addosso e gridargli contro. Fissò la testa bionda morbidamente accostata alla sua spalla, e per un attimo sentì bruciare dentro di sé il desiderio irrazionale che quel flusso di disorganiche e confuse considerazioni cessasse per sempre e non tornasse mai più a tormentare la sua coscienza, il sonno e la veglia.

Che Dorian se ne stesse almeno un po’ tranquillo finché non fossero giunti gli altri: gli sarebbe bastato questo.

Sospirò, centellinando il fiato residuo che gli era rimasto nei polmoni. Lasciò vagare il proprio sguardo fra le crepe della parete dinnanzi a sé, la consapevolezza di quei pallidi occhi azzurri fermi su di lui che gli trasmettevano un’intrinseca vulnerabilità direttamente sotto la pelle, per osmosi.

Vulnerabilità dall’impatto sfuggente, delicata come i suoi colori, dissimulata nei lineamenti sottili del volto ingannevolmente sereno; e quegli occhi malinconici, la tristezza caliginosa in fondo alle pupille che emergeva come una chiazza di sangue su una veste immacolata, inquietante stonatura nell’insieme, come un terribile errore d’esecuzione a malapena percettibile.

 

- È… è strano vederti degnarmi di qualcosa in più di uno sguardo di sufficienza – le sopracciglia di Dorian s’inarcarono in un moto sarcastico.

- Pensi che ti sia ostile? – Auguste trasalì leggermente.

Il ragazzo annuì vigorosamente, prima ancora che egli potesse terminare la frase.

- Sei ingiusto, Dorian – Auguste si riscosse appena, un mormorio impercettibile intrappolato fra le labbra socchiuse – Non era così diverso cinque anni fa. Non siamo sempre stati animati da sfiducia reciproca.

Distolse il volto, cercando di sfuggire per un momento da quegli occhi che indugiavano curiosi su di lui, una nube sospettosa sul viso.

- Che motivo avresti avuto, per tenermi fra le braccia, mentre, fino a prova contraria, nel periodo che intendi, te ne stavi a farti onestamente i fatti tuoi Dio solo sa dove?

Auguste mosse disperatamente lo sguardo intorno alla stanza, alla ricerca di un diversivo, di un alleato che non arrivava. Dorian incalzava nell’ombra, e lui stavolta non aveva pronti gli argini per contenere l’ennesima, legittima irruzione da parte di quel ragazzo che lui stesso non aveva fatto altro che prendere e rivoltare a suo piacimento, verità e menzogne sapientemente intrecciate, nel desiderio egoistico e folle di tenerlo sotto quella malefica campana di vetro fatta di abili distorsioni orchestrate ad hoc, con l’indefesso terrore di affrontare le conseguenze reali e tangibili delle sue azioni, senza maschere, una volta che avrebbe tolto il velo; perso in quell’assurda ossessione che ancora la sua mente usava erroneamente denominare come “proteggerlo”.

Un raggio di sole, diretto, ruvido di polverosa foschia, rischiarò le guance di Dorian, il viso così vicino al suo da descriverne contorni nitidi, rivelando nelle iridi torbide la lecita sete di conoscenza perennemente frustrata dagli esiti delle ricerche, come un’equazione sospesa nel vuoto.

Auguste artigliò convulsamente un lembo della propria camicia, serrò le palpebre per non gridare.

Maledetto lui!

Maledetto per quelle domande insidiose che gli ficcava a viva forza nella testa, fino a farlo impazzire; maledetto per essere riuscito ancora una volta a prenderlo in trappola, soli fra quelle quattro pareti e costretti a guardarsi in faccia. Maledetto, perché aveva maledettamente ragione, e per quell’ossessione disperata e legittima. E maledetto lui stesso per aver accettato la soluzione assurda che quel giorno lontano la propria mente gli aveva suggerito: voltare la faccia dall’altra parte e dissimulare quanto sapeva dentro ad un’assurda quanto appetibile cornice di precarie bugie.

 

Non era stata dissimile la sua reazione, cinque anni prima, la guerra civile che infuriava sopra la sua testa, il suo nome sulla lista di proscrizione e un groppo oscuro che gli annebbiava il cervello, quando si era stretto al braccio di Lucien come per trovare la forza. La smania incontenibile ed il bisogno quasi logistico di condividere almeno con lui il recente segreto.

Attraverso i passaggi sottostanti la città, di cui le fazioni ribelli si erano servite per lungo tempo quali strategici collegamenti fra basi e nascondigli sotterranei sparsi lungo l’intero raggio abitato, aveva condotto Lucien fino allo scantinato della locanda dei Bertrand, punto di raccordo tra i cunicoli scavati nella pietra.

- È la taverna dei Bertrand… Non capisco, Auguste.

Lucien l’aveva fissato con le iridi d’acquamarina visibilmente agitate da un presentimento angoscioso, le orbite scure che spiccavano nitide sul volto livido di troppe notti insonni.

L’aveva rimproverato a lungo, ricordava, in seguito. L’aveva messo in guardia. Persino lui.

- Ti mostrerò una cosa, Lucien.

Tremante, lasciando che la vista immersa nella penombra si abituasse al debole chiarore della lucerna, l’aveva preceduto oltre le spesse tende rattoppate che riparavano una porzione dell’ambiente.

Dinnanzi a loro, un pagliericcio coperto da lenzuola lise e, sprofondato in quell’improvvisato giaciglio, un giovane dai capelli biondi su un letto di sangue e fuliggine, il respiro rantolante e la faccia sporca.

Auguste aveva trattenuto il fiato, in attesa di una reazione. Ricordava ancora il lampo d’inquietudine rabbiosa che aveva attraversato il volto di Lucien. Rammentava come si era portato le mani al volto, trasalendo; come si era rivoltato contro di lui, il terrore che viaggiava nelle vene come adrenalina, spontaneamente convogliato in un accesso di collera tale che, per un momento, Auguste aveva temuto che lo colpisse.

- Chi è questo ragazzo, Auguste? Sta molto male, cosa ci fa qui?

- È sopravvissuto all’incendio nelle carceri. È uscito vivo per miracolo. Un attimo in più, e ci avremmo rimesso la pelle entrambi – solo una neutra constatazione aveva trovato spazio sulle sue labbra tremanti.

- Chi è questo ragazzo, Auguste?

 

Stessa domanda, stessa luce tagliente in fondo ad occhi intorbidati dal sospetto: cinque anni di distanza. Prima Lucien, il suo Lou, ora Dorian in prima persona.

Auguste sentì il cuore contrarglisi dolorosamente nel petto, i ricordi che lo sommergevano, sollecitando beffardi le sue percezioni annebbiate. Per un istante temette di non riprendersi più, come se il torrente di lacrime che gli bruciava negli occhi potesse tormentarlo in eterno, senza mai risolversi a scivolare lungo le gote.

 

- Osservalo meglio, Lucien! L’hai già visto; qualche settimana fa, ricordi? Era con noi.

Aveva scostato il telo da quella figuretta prostrata nell’incoscienza, i lunghi capelli intrisi di sangue.

Lucien aveva distolto lo sguardo, sbigottito, le parole congelate in fondo alla gola.

- Sì, è così come pensi, Lucien – l’aveva preceduto d’impulso, senza attendere risposta, una lieve nota impertinente nella voce; e fu certo, almeno per un istante, di essersi sentito egoisticamente fiero, come a stringere un trofeo – Esattamente colui che temi che sia.

- Tu sei pazzo, Auguste. Completamente pazzo!

- Cos’avresti fatto tu, al mio posto? – rammentava di essere scattato in piedi, fronteggiandolo quasi con rabbia – L’avresti lasciato morire? L’avresti consegnato al duca Alphonse in cambio di un bel purosangue con cui abbandonare la città in attesa di tempi migliori?

- Ha bisogno di cure. Cure che noi non siamo nelle condizioni di garantirgli. È ridotto male. E noi siamo in guerra, Auguste, ci siamo immersi fino agli occhi, e là fuori c’è un esercito schierato, con il duca che smania di mettere le mani su ogni ribelle ancora vivo in città: non possiamo tenerlo nascosto a lungo, a meno che tu non voglia lasciarlo morire in questa prigione.

- No, ce la farà, invece. Lui vuole vivere, è caduto tra braccia sicure mentre gli altri perivano, e non mollerà adesso. È un dono del cielo, non capisci?

- Ha perso molto sangue. Cosa vuoi fare di questo ragazzo, Auguste?

- Lui è uno di noi. Il miglior asso nella manica che potessimo desiderare. Il problema, Lucien, più che la ferita alla testa, è che è rimasto esposto troppo a lungo al fumo, prima che potessi raggiungerlo e caricarmelo sulle spalle.

- Cosa vuoi fare, Auguste?

- Sarà più al sicuro quando i disordini saranno cessati e noi saremo lontani da qui.

- Ragioni su tempi troppo lunghi, Auguste. Sono questi, i giorni che potrebbero essergli fatali.

- Madame Bertrand e suo marito se ne prenderanno cura fino al nostro ritorno.

- Serve un medico, in questo momento, non una balia.

- Rimandiamo la nostra partenza, Lucien: te ne prego!

- Hai bisogno di lui?

- No. Dorian ha solo diciotto anni. Non deve morire. Sappiamo entrambi chi è, ma nessuno deve sapere, tranne noi. Il duca crede che sia morto, non è a lui che darà la caccia.

- Dorian. Lui è Dorian! Ne parli come se fosse un tuo vecchio amico o un fratello di sangue. Per te è già uno di noi.

- È uno di noi e starà con noi.

 

E poi più nulla, spezzoni confusi, trattative dell’ultimo minuto. Lucien l’aveva stretto al petto, e da quel punto in poi non riusciva a riallacciare altri ricordi frammentari, altri pezzi di discorsi rubati all’enfasi angosciosa di quegli attimi.

Il capo gli doleva, e la smania di riallacciare ogni tassello diveniva un peso sempre più insopportabile ed assurdo, come scavarsi il cuore a mani nude.

Dorian era vivo e stava bene, seguitò a ripetersi come un mantra: era tutto ciò che contava. Tutto sarebbe filato liscio, se lui avesse continuato a tacere.

Avrebbe continuato a mantenere la situazione perfettamente sotto controllo, scongiurando ogni tentativo, da parte di quell’incosciente dai nervi in ebollizione, di rovinare la sua opera d’arte, magari commettendo qualche sciocchezza e offrendosi al duca su un piatto d’argento. Non avrebbe reso vana la sua fatica di strapparlo alle fiamme, di nasconderlo, di proteggerlo, di crearlo dal nulla. Dorian Alexandre Desgrais, che tentava di ribellarsi alla confortante cappa di velluto da cui si era lasciato plagiare. Questo no, non dopo tutti i suoi sforzi.

Lui era il suo affanno, le sue lacrime; era il sangue di Lucien, in ultima istanza, e il prodotto di tutto questo.

 

- Fai l’uomo, Dorian, anziché il bambino, te ne prego! – si risolse, infine, allontanandolo bruscamente da sé e ripristinando con il suo scatto gelido le antiche distanze – Gli altri stanno per arrivare.

Ed erano arrivati, puntuali al richiamo del loro stanco mentore.

Ambrosie e Fernand, stretti in un inquieto mutismo carico d’interrogativi circa quella convocazione dalla pretenziosa ufficialità.

Raphäel li seguiva a pochi passi, gli occhi vivaci incassati nelle orbite stanche, carichi di un’ottimistica, fiduciosa perplessità, braccia incrociate sul petto. In attesa di qualche trovata geniale che gli fosse balenata nella testa durante la notte; qualcosa su cui profondere la sua energia, fosse stato uno spunto, un’idea, magari un’inversione di rotta improvvisa e non per questo priva di una sua ragion d’essere. Era un ragazzo giudizioso, Raphäel.

Non vi era nulla di nuovo sotto il sole, d’altronde. Ma non stavolta, non per loro. Chissà se avrebbero mai sospettato…

Si schiarì la voce. Evitò accuratamente lo sguardo di Fernand che sentiva bruciargli addosso con insistenza, frustrato da quella reciprocità negata con indefessa, noncurante ostinazione.

Dorian sedeva in disparte, come offeso dal suo atteggiamento che ora era tornato quello di sempre, freddo e scostante, quasi un getto di veleno.

- Io… Abbandono il progetto.

 

 

* * *

 

 

Buonasera a tutti, ben ritrovati su queste pagine!

Capitolo per alcuni versi “di passaggio” (alla faccia delle quindici pagine e rotte), ma che mi ha permesso e di approfondire maggiormente il rapporto tra quei due mattacchioni di Auguste e Dorian e di aprire finalmente qualche scorcio sul passato di quest’ultimo. Un *piccolo* scorcio, vabbè… Ma questi son dettagli.^^

Aggiornamento che approda su questi lidi con più ritardo di quanto in realtà avessi previsto, in effetti. Mea culpa, stavolta ho scassato un po’ anch’io, devo ammetterlo: il capitolo era pressoché concluso, solo che poi sono ricominciate le lezioni, e da lì è stata un po’ una salita. Non sono mancati scleri e perplessità di vario genere, ma alla fine, come dire, ad avere la meglio è stata la mia indefessa passione per questa storia che ormai viaggia per i due annetti e passa, dacché vide la luce nella mia testolina e sul web, alla quale sono morbosamente affezionata e che – lo dico con malcelato orgoglio – se non ci fosse stata, forse io in primis sarei diversa da come sono, e forse non mi avrebbe permesso di addentrarmi in punta di piedi nel mondo meraviglioso e affascinante della scrittura che ormai sento parte di me.

Ringrazio tutti coloro che seguono o che continuano a seguire questa storia, coloro che hanno aggiunto Noir Trésor tra i Preferiti e le Storie Seguite, nonché chi mi ha aggiunto tra gli Autori Preferiti. Un *grazie* speciale va ovviamente a coloro che con le loro impressioni hanno allietato il mio rientro dalle vacanze (ebbene sì, purtroppo risale ad allora l’ultimo aggiornamento) nonché, in particolare, il mio cuoricino di autrice perfezionista e capricciosa che, senza false modestie di sorta, ammette in tutta sincerità che NT non sarebbe ciò che è senza i loro commenti, analisi e incoraggiamenti.

In particolare:

 

Fata: fermo restando che attendo sempre con ansia di leggere le tue splendide recensioni, fermo restando che quando mi scrivi che senti NT un po’ parte di te, non posso che annuire commossa e versare pure qualche lacrimuccia di gioia in proposito, poiché riconosco che senza i tuoi commenti, le tue stupende analisi, la sensibilità con la quale leggi i ragazzi di NT, le inedite angolature attraverso le quali, commento dopo commento, mi permetti d’inquadrare i personaggi, i loro tormenti, i sentimenti, il dipanarsi delle situazioni, questa storia non sarebbe ciò che è attualmente; forse qualche volta avrei faticato un po’ di più a ritrovare il bandolo della matassa. Forse io stessa non sentirei i pg esattamente nel modo in cui li sento. Forse Auguste starebbe peggio. Insomma, *grazie*, in una sola parola. Fermo restando tutto questo bel po’ po’ di cose, si diceva, ero rientrata la sera stessa dalle vacanze estive, e ho acceso il pc. Ho trovato due meravigliosi commenti di due meravigliose lettrici. Ho pianto. O, se non altro, devo esserci andata vicina. Perché quando trovi qualcuno che ti regala letture così appassionate, capaci quasi di svelarti in anteprima quelle pieghe che forse ancora giacevano in una sorta di volteggiare nebuloso, c’è poco, davvero poco da aggiungere. E credo che, forse, in questi casi, un semplice “grazie” sia un pochino riduttivo.

Ora proverò ad procedere un po’ con ordine a questa mia non breve risposta, se no chissà dove andrei a parare. Questione vampiri: non ti sei sbagliata. E sì, la faccenda è rimasta in ombra, in effetti, a favore di altre dinamiche. Volevo inizialmente costruire il mondo, le trame necessarie ad accoglierli: così è cominciata. Sono nati Auguste, Fernand, Dorian, Ambrosie… Catalizzando prepotentemente ogni singola sfaccettatura della storia con le *loro* storie. Non che abbia tenuto del tutto da parte la questione sovrannaturale, ecco, così come non ho potuto fare a meno di disseminare messaggi tutt’altro che sublimali qua e là, ma ecco, hai perfettamente ragione a dire che è stata la dimensione emotiva a farla da padrona. Forse, in soldoni, è proprio lei l’incontrastata protagonista della storia, si tratti nello specifico di umani, vampiri, di questo o quel personaggio.

Dorian, Fernand e Auguste: la triade che, nei fatti, s’impone nell’impianto della storia. Dorian forse è “nato” con qualche mesetto di ritardo rispetto agli altri due, Dorian come lo conosciamo ora, intendo, ma la cosa non fa poi una gran differenza. Sembra quasi di vederlo lì che sgomita per “rubare lo scettro” agli altri due. È “cresciuto” in questi ultimi mesi, a dir la verità, e ti dirò che per me si rivela di volta in volta una sorpresa sempre maggiore trattare di lui, riportare sulla carta la sua storia, i suoi tormenti, il contributo che con la sua impronta sta donando a NT. Da certi punti di vista, lui è un mistero anche per me, così enigmatico e contraddittorio, con la sua generosità quasi al limite, ma trovo piacevolissimo “rigirarlo”, dipingerlo, scoprirlo, crearlo pian piano. Dal tuo commento ho evinto che, fortunatamente, nonostante il tempo che intercorra tra un capitolo e l’altro, nonché tra il momento in cui il personaggio prese vita nella mia mente e ora, sono riuscita a mantenere IC Fernand (e, esperienza, può succedere anche di mandare OOC un proprio pg originale; è un po’ difficile, ma può succedere anche questo). Ciò non significa che il più piccolino non sia destinato a crescere. Forse è cambiato leggermente il mio modo di rapportarmi a lui… Diciamo che il rapporto autore-personaggio si è “evoluto”, in un certo qual modo.

E poi arriva Auguste. A volte penso che Auguste, sotto sotto, almeno un filino debba detestarmi. Almeno qualche volta. O forse sarà il contrario, chissà. Perché ogni volta che tutti siamo convinti che quest’uomo abbia toccato il fondo, immediatamente lui, non contento di ciò, comincia a scavare. Dal momento che i fatti lasciano pensare che abbia fatto tutto da solo e che la sottoscritta c’entri nella misura in cui si è limitata a riportare per iscritto, declino parzialmente sulla responsabilità dell’accaduto. Che poi, trattare di lui a volte fa anche male. E chissà che mi direte di ciò che il signor de la Garde combina giusto qua sopra…

Qua, a dir la verità, ci starebbe bene anche qualche piccola riga di scuse causa scleri assortiti su LJ e dintorni. Il momento nero c’è stato e non posso negarlo. Posso però, in questo preciso istante, tirare un sospiro di sollievo e ammettere che anche stavolta, incrociando le dita che tutto andasse bene, tra me e il momento semi-depressivo, ho vinto ancora io. Almeno, spero. Che poi, sarebbe un discorso anche lunghetto da riassumere, ma mi rendo conto a posteriori di come NT in tutto il calderone di cattivi pensieri c’entrasse solo e soltanto relativamente, e pure in una piccola percentuale. E che ha ragione chi dice che smettendo di scrivere (o anche solo di condividere quanto scritto) mi fregherei da sola, se è vero che NT e tutto quel che vi gira intorno rappresentano una parte importante di me. E sul fatto che ciò è vero potrei metterci la mano sul fuoco. A meno che proprio l’ispirazione non si volatilizzasse così, da un momento all’altro. Ipotesi che reputo remota – e nel dubbio, in mancanza d’altro, tocco ferro!

Che poi, con lettori come voi, se parlassi di mancanza di riscontro sui generis, il discorso somiglierebbe un po’ ad una bestemmia. Perché leggere queste due recensioni è stata un’iniezione di adrenalina. Di gioia. Di autostima. Poi è venuta la momentanea tempesta, anche se NT c’entrava soltanto di sfuggita.

Sulla questione stile, che dire: lo stile è un po’ un mistero. La prima versione (quella del 2007, diciamo, i primi capitoli non ancora riveduti e corretti) presentava narratore onnisciente e talvolta PoV misti, almeno in una certa misura; poi, da un certo momento in poi, ho provato ad usare PoV singoli, o comunque più definiti, e in effetti, così, mi è sembrato di poter gestire meglio la storia. Di dare un impatto a prima vista più professionale e soprattutto più intimistico, più naturale, meno “forzato” dalla mano del narratore. Così ho cercato di “riadattare” un po’ il tutto. Su Ysal mi pare circoli ancora la vecchia stesura. L’ambientazione simil-Francia diciottesimo secolo, in effetti, è stata un inconsapevole terno al lotto: per quanto difficile sia per me ricondurre NT a un filone, a un genere ben definito, un po’ strizza l’occhio al gotico-fantasy, anche se non del tutto. Generi che nella forma canonica prediligono ambientazioni o richiami medievaleggianti. Qua c’è stata la prima, inconsapevole inversione di tendenza, nel momento in cui ho scelto l’ambientazione simil-settecentesca. Vi è poi da aggiungere che, appena cominciato a scrivere NT, non avevo letto ancora le Cronache dei Vampiri della Rice (alle quali va tutta la mia imperitura ammirazione).

Termino qui, perché ci sarebbe davvero tanto da dire, se no non so a che ora finirò, e perché credo che ormai sappia tutto ciò che penso in proposito. Un bacio, alla prossima!^^

 

Witch: ben ritrovata, tesoro!^^

Dunque, dunque, come dicevo poc’anzi, in effetti contavo stavolta di accumulare meno ritardo nell’aggiornamento. Eppure, eccomi qui (soprattutto perché adesso posso cominciare con tutta tranquillità il prossimo capitolo… E sai a che mi riferisco nello specifico!^^).

Innanzitutto, mi ha fatto enormemente piacere leggere le tue opinioni a proposito di questi ultimi due capitoli – che poi, erano l’uno il continuo dell’altro, per non sfornare un mega capitolo di una trentina di pagine; quindi, condivido appieno la scelta di recensirli insieme. Sono davvero molto felice che i due capitoli ti abbiano impressionato positivamente, così come sono lieta del fatto che Dorian, “colui che – nella mia mente – nacque dopo gli altri”, rientri fra le tue preferenze: ho investito molto in questo personaggio, in effetti, e, non di meno, ho finito per affezionarmici in maniera quasi morbosa. Nondimento, sono felice di leggere i riscontri circa l’imporsi sulla scena di questo ragazzo un po’ sfuggente. Trattare con Dorian, far luce sulle sue sfaccettature, devo ammettere che si rivela di volta in volta qualcosa di diverso: questo personaggio sembra vivere una dimensione emotiva tutta sua, forse anche leggermente “sfasata” – come “sfasati” sono i suoi ricordi, ciò che dovrebbe rappresentare per lui delle ideali radici in cui identificarsi –, ravvisabile nelle sue reazioni, nei suoi mutevoli percorsi emotivi, nei suoi sbalzi, nel suo vivere le sensazioni e le situazioni che via via gli si presentano in un rimescolio cerebrale tutto suo, dagli esiti poco prevedibili. Diciamo che tende a “metabolizzare” le cose a ritmi un po’ anomali, instabili: la percezione di un sentimento evolve a ritmi forse eccessivi rispetto a quella che grosso modo dovrebbe essere la norma. E lui è tanto capace di affezionarsi morbosamente a qualcosa, quanto poi non dico a disinteressarsene rapidamente, ma se non altro a lasciar evolvere, a sintetizzare e convertire il sentimento in qualcosa di diverso. O forse è un espediente, un debole tentativo di difesa per non essere scalfito dalla possibilità che un suo affetto non sia contraccambiato.

Credo che nel rapporto con Fernand l’ambiguità propria di Dorian emerga in tutta la sua estensione: un po’ amico, un po’ amante, lo vuole, non lo vuole, lo attrae nelle sue spire, poi si tira indietro, gli si concede per non dover concedergli di essere il primo per lui. Qui c’è stato proprio un capovolgimento dei ruoli, un lento virare dei sentimenti che Dorian nutre nei confronti di Fernand verso approdi meno ingombranti e meno portatori d’illusioni e dolore di quanto avrebbe potuto rivelarsi, almeno in teoria, un “innamoramento” sui generis. Nonostante ciò, nulla nega che lui sia innamorato o che questo brusco convogliamento dei suoi sentimenti verso porti apparentemente più sicuri sia stato per lui indolore – anzi, credo che rinunciare simbolicamente e accettare il ruolo dell’amico al cento per cento l’abbia scalfito nel profondo. Perché c’è l’ombra di Auguste fra loro: Dorian lo sente, eppure lo accetta. E questo è sufficiente a scombussolare il ruolo che avrebbe potuto ricoprire nella vita di Fernand.

Non posso non darti ragione, poi, quando dici che tra Dorian e Fernand è davvero difficile stabilire chi sia più innocente. Dorian e il suo altruismo esasperato, il suo modo singolare di “farsi da parte”, di annaspare alla ricerca di una collocazione ideale in quel tessuto, o Fernand e la sua totale confusione?

Fernand, poveretto, è davvero perso: così poco consapevole di ciò che vuole effettivamente, che quasi quasi ha fatto prima Dorian, dall’esterno, a cavargli la verità di bocca senza bisogno di interrogarlo in proposito. O di fidarsi ciecamente delle sue parole. L’ha capito prima Dorian di lui, che non sarebbe stata la scelta ideale, almeno da un certo punto di vista, eppure il più giovane dei due continua a navigare nel buio. A temere l’eventualità e a voler strenuamente cercare un rifugio alternativo.

Che dire poi di Auguste: una parte di lui sembra essere morta con Lucien. E, senza di questa, lui naviga nel buio, quasi privo di difese da contrapporre alla disperazione che si fa strada in lui senza accennare a qualche battuta d’arresto. Auguste non è facile da rendere, in effetti: oltre ad andare per conto suo, masochisticamente, il più delle volte, finisce pure per fare male. Sente una grandissima responsabilità pendere sul suo capo, e mai come ora sente questa responsabilità pesargli così enormemente. Dorian, Fernand, i ribelli, le macerie nelle quali si aggira: per lui è come se tutto stia precipitando lentamente in una miscela quasi letale. Per quanto riguarda il segreto di Dorian, è il caso emblematico di quei punti oscuri che si è sempre ostinato a serbare per sé, con tutte le insidie e il senso di colpa che la scelta poteva comportare. Ancora una volta, Lucien era l’unica persona con la quale avesse la possibilità di condividere parzialmente il suo fardello.

Il particolare del piccolo pipistrello che sbatte le ali sulle imposte chiuse, lo ammetto in tutta sincerità, è stato “vagamente” un colpo basso: non ho potuto resistere a piazzarci il dettaglio ad hoc, il messaggio smaccatamente allusivo, e in effetti è stato “suggestivo” e utile alla circostanza! Che poi, chiunque sia il vampiro (ehm… Ehm!), pare avere giusto *due* preferenze quando si dedica pazientemente alle sue scorribande al calar del sole. Spero che comunque la questione vampiri (da cui, non per altro, la storia omaggia innanzitutto con la scelta della categoria di scritti in cui è smistata), nel momento in cui s’imporrà nel tessuto della storia, risulti all’altezza delle aspettative.

Bene, bene, ora è meglio che mi affretti a pubblicare, se no è sempre in agguato il rischio di accumulare ulteriore ritardo…! Di molte cose si era già parlato, mi sarò sicuramente ripetuta un’infinità di volte, ma il piacere di dilungarmi ancora un po’ sulla questione NT, come sempre, è stato irrinunciabile e voluta.

Alla prossima, un bacio!^^

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 25: Conosci te stesso ***


Capitolo 25

Conosci te stesso

 

 

Una tacita sinfonia di sguardi percorse la stanza in un crescendo di tensioni taciute, un allacciarsi sussultante e reciproco.

Fernand sbatté le palpebre, il respiro impigliato in fondo alla gola come un pugno vibrato sullo sterno. Osservò il volto di Auguste: lo sguardo febbrile, così solenne sul volto cereo – solo un istante prima! – pareva aver smarrito la sua forza galoppante nell’istante stesso in cui l’ultima sillaba era rotolata giù dalle labbra, costrette in un’espressione rigida.

Lo vide voltarsi di scatto, provò a catturare per un istante il tumulto di quegli occhi luccicanti, le pieghe sottili che fino a quel momento gli avevano contratto la fronte sotto la stretta di una decisione in atto, prossime a disciogliersi sul suo viso come una coltre di lacrime, come un velo scomodo. E poi il suo sguardo si era fatto esausto, vuoto, una mano che correva a reggere la fronte, ogni traccia dell’antica energia dissipata in una nube scura di deliranti propositi.

E fu forse in quell’istante che comprese che no, stavolta Auguste non sarebbe tornato indietro, neppure se fosse precipitato in fondo al baratro, sempre più giù.

Fernand lasciò ricadere il proprio sguardo a lambire il suolo, abbandonata ogni frenetica velleità di guardare in faccia Auguste, d’intrecciare il proprio sguardo con il suo e domandargli perché. Per un attimo temette che sarebbero crollati a terra entrambi, privi di forze, in un’inquietante, grottesca simultaneità.

Invece riuscì soltanto a raccogliere gli ultimi residui di coraggio e fissare nuovamente in viso i presenti. I capelli di Dorian ricadevano indolenti come pigri raggi di sole sulle spalle rilassate, sul volto inquadrato in un ritratto di noia e cerea incredulità. Dorian, immobile come una scultura fredda, immerso nel suo angolo isolato, l’espressione diffidente.

Fernand sentì una fitta d’angoscia attraversarlo, come un’eco dolorosa sulla pelle. Lo voleva.

E poi un sospiro rassegnato, l’intensità di una frustata capace di scuotere l’aria immota tutt’intorno. Quasi non riuscì a sintetizzare nella propria mente, a collocare nello schema di una successione lineare, la marcia indignata che condusse Dorian fuori dalla stanza, un ampio gesto delle mani a sottintendere un nervoso disappunto.

È solo una sceneggiata allestita su due piedi, Fernand, gli parve di sentirlo ruminare fra i denti, la rete di un’apatica, sdegnosa indolenza a imbrigliare potenziali slanci di collera. Vuole soltanto fare l’eroe ribelle. Tranquillo, ha tutto sotto controllo. Come sempre.

Fernand scosse il capo, combattuto, frenesia in punta di dita. Quasi non avvertì la stanza scorrere dinnanzi a lui né i suoi stessi passi echeggiare sul pavimento lungo la sua traiettoria. Avvertì però chiaramente gli stupidi svolazzi della camicia di Auguste arricciarsi fra le proprie dita strette a tenaglia, e lo scossone violento che costrinse il cadavere che gli stava davanti a rivolgere forzatamente lo sguardo su di lui, i capelli svolazzanti intorno al viso, fuggiti allo straccetto inutile che gli penzolava sulla spalla. Auguste che lottava per fuggire il suo sguardo.

Fernand sentì le proprie dita tremare, chiuse intorno al suo trofeo. Per un attimo fu tentato di scrollarlo fino a cavare da quel buco nero che era la sua testa una spiegazione plausibile a tutto ciò, ma poi fu sfiorato dal terrore che Auguste potesse intuire in lui l’impronta di un pianto sapientemente trattenuto, gli occhi come tizzoni ardenti.

- Era… era davvero questa la tua… sorpresa? – gli soffiò con voce incolore – Era questa la tua fantomatica soluzione a ogni problema? Tutto orrendamente… premeditato, e tu lo sapevi. Due giorni fa… Mi hai ingannato. I tuoi bei discorsi… Ti sarai divertito, ti sarai goduto la mia faccia di fronte alle tue bugie?

Serrò le palpebre. Avrebbe voluto piangere, gridargli addosso e scalfire a suon di schiaffi quelle gote di gesso fino a veder mutare quell’espressione orrendamente assente, persa in un abisso d’angoscia, di recenti e antiche menzogne. A costo di vedere il sangue.

Furono due paia di mani ferme a staccarlo da lui. Il volto colmo d’apprensione, Ambrosie osservava Auguste, le sopracciglia corrugate sul viso delicato e la superficie mutevole degli occhi accesa di un umido bagliore. Le mani di Raphäel lo trattenevano in una presa quasi gentile, vellutata su di lui, le dita sottili come ganci metallici ancorati alle spalle. Avvertì le proprie labbra incresparsi impercettibilmente in un singulto di pianto, la voce smarrirsi.

- Fernand, ora basta! – gli ingiunse bonariamente Ambrosie, l’espressione allarmata del viso stemperata dalla calma apparente che cercava di infondervi – Almeno per ora. Non vedi che sta male?

E Dorian che sostava altezzoso sul limitare della porta, le membra nervose fasciate dagli indumenti eleganti, inquietante binomio con l’espressione insofferente che conferiva al suo volto una sfumatura quasi inumana. Annuì con un secco cenno del capo.

- Ha ragione lei, Fernand – acconsentì, lo sguardo basso sul pavimento – Non è il momento; non otterrai nulla, se lo prenderai a pugni.

E poi, tutto precipitava. Inesorabile, come una valanga in procinto di venirgli addosso, e i suoi piedi ancorati al suolo.

- Fernand… – come un sogno, vide Auguste barcollare incerto verso di lui, fino a trovare un precario appiglio su Raphäel.

Deglutì, a disagio, lo sguardo fisso su quegli occhi febbricitanti, su quelle labbra distese in un mezzo sorriso sarcastico, privo di qualunque venatura di gioia.

- Fernand… – sussurrò, beffardo – Basta sceneggiate. Dovresti solo essere felice, immagino: non c’è più nessuno a tenerti alla catena, come vedi; nessuno a rimetterti al tuo posto o ad annoiarti con discorsi da vecchi pusillanimi e rincretiniti. Nessun capetto borioso ad ostacolarti con le sue chiacchiere inutili: sono tutti andati via, guarda un po’! – una risata amara, prossima all’aggressione verbale, uno squillo di campane funebri – Non vedi la nostra piccola congrega? È tua, ora. Fanne ciò che preferisci… nei limiti in cui gli altri saranno d’accordo, ben inteso. Per il resto, è tutto tuo. Come volevi. Era il tuo sogno. Ora, divertiti!

- Che diavolo stai farneticando? – Fernand sentì due fiotti di lacrime scorrergli senza preavviso sul volto, come lava incandescente – Cosa significa questo? Sei impazzito? Era… Mentivi, allora. Mentivi, l’altro giorno. Tutti i tuoi fottuti discorsi da manipolatore schifoso… Mi ritieni solo un… un odioso parassita capace nonostante tutto di approfittare della tua debolezza per ottenere quello che desidera. Come osi? Mi hai preso in giro. Volevi tastare le mie reazioni, volevi veder scorrere il sangue e assestarmi il colpo di grazia. È la tua vendetta? Di cosa dovevi vendicarti, stavolta?

 

Del fatto che ti amo, maledetto figlio di puttana?

 

- Non ho detto che vuoi approfittare della mia difficoltà – Auguste pareva quasi aver recuperato un barlume di lucidità, dopo le deliranti, caustiche insinuazioni che gli aveva vomitato addosso – Ho detto soltanto che con questo bel progetto che vedi davanti a te, io non c’entro più nulla. Fanne quello che preferisci! Ti chiedo però di perdonarmi, se in questo momento la tua vista potrebbe urtarmi leggermente. È… è più forte di me. Forse non sei il ragazzino ficcanaso e arrivista che credevo fino a non molto tempo fa… Ma proprio non riesco a sopportare la tua congrega, la tua iniziativa un istante di più. La tua dannata bramosia di agire che ha finito per ammorbare tutto, per trascinarci ancora più a fondo in questa follia. Quell’entusiasmo malato, eppure così stranamente opportuno. Quasi… provvidenziale. Ecco, da questo momento in poi, a me non importa più nulla. Sarete voi gli artefici.

- Stai mentendo… Menti anche adesso, e forse neppure t’importa che la tua farsa sia così malriuscita da sfiorare il ridicolo. Almeno, spero per te che sia così. Perché io non voglio nemmeno crederci – Fernand si sforzò di ricacciare indietro un groppo di tristezza inchiodato al petto che difficilmente, comprese, sarebbe riuscito a sopprimere del tutto.

Non era vero niente. Era solo il desiderio malato e fuori luogo di autoconvincersi che si trattasse dell’ennesima, maldestra recita di Auguste. Aveva ragione Dorian, per forza, e non poteva essere diversamente.

- Se questo ti aiuta a stare meglio, sogna, Fernand!

- Preferisco pensare che tu sia completamente ubriaco, che magari ti sia bevuto il cervello, oppure che questo sia il tuo ennesimo tentativo di prenderci in giro a dovere, intorbidare un po’ le acque per poi riprendere a fare i tuoi comodi con il benestare di tutti. A confondermi le idee, a spedirmi sull’altare o all’inferno a seconda di come ti svegli al mattino o dall’atteggiamento che di volta in volta ti si rivela utile per manovrare la situazione a puntino. Ma com’è buono Auguste, com’è saggio Auguste! – Fernand proruppe in uno scroscio di risa isteriche – Perché questa, tutto sommato, è la cosa che ti riesce meglio. Se davvero è così, permettimi almeno di chiamare le cose con il loro nome. E queste, se me lo concedi, non sono altro che le patetiche acrobazie di un vigliacco impostore.

Fernand tentò di mordersi la lingua, convulsamente, ma le parole che gli premevano sulle labbra erano sgorgate via di getto, come lacrime non trattenute. Aveva usato la parola magica, e qualcosa, per un istante, gli parve balenare in fondo alle iridi di Auguste. Arretrò, d’istinto, afferrandosi provvidenzialmente al braccio di Ambrosie, quando vide Auguste riscuotersi dal suo torpore allucinato, divincolarsi da Raphäel e gettarsi sulla sua traiettoria.

- Questo no, Fernand! – gli soffiò – Sei libero di pensare ciò che preferisci, ma io non sono un vigliacco né, tanto meno, un impostore.

- E allora dimmelo tu, in queste circostanze, che cosa sei. Qual è l’appellativo che ti descrive meglio, sentiamo… – Fernand si morse nervosamente il labbro, temendo un epilogo violento da un momento all’altro.

Lo vide distogliere lo sguardo, scuotere il capo, rassegnato.

- Di me non hai capito un accidente, Fernand.

- E non credo di essere l’unico, qua dentro – lo interruppe Fernand, una sensazione fredda come veleno che gli corrodeva la gola – E sono convinto che la cosa non sia mai stata tanto reciproca, fra noi.

- Non ho mai chiesto di capirti né di entrare nella tua testa. Ho detto solo che non m’immischierò più in faccende di vitale importanza che ora, com’è giusto che sia, dipenderanno esclusivamente da voi e non più da me. Ho sbagliato… Forse eri tu la persona adatta a coordinare l’iniziativa, sin dall’inizio. Non lo so, ma non vedo neppure perché dovrei sforzarmi di sopportare ancora a lungo – concluse con un mezzo sorriso – Alla luce di questo, Fernand, mi meraviglio soltanto di come tu possa pensare che io non nutra stima e fiducia nei tuoi riguardi. Non sei contento, almeno un po’? Ti sto cedendo tutto, se non l’hai capito. Che diavolo vuoi ancora? Non è abbastanza? Hai vinto.

Fernand sentiva la testa vorticargli come in preda al mal di mare e, per un istante, gli parve di scorgere sul volto tirato di Auguste una nota di rimpianto accuratamente dissimulata in strafottenza, un messaggio da decifrare.

- Non… non era così che volevo che andasse – gemette – Non era ciò che volevo. A te non importa nulla, non mi apprezzi, non ti fidi di me e l’altro giorno mi hai solo riempito la testa di parole vuote. Non t’importa di sapere se la tua è una decisione appropriata oppure no. Vuoi scaricare parte della tua responsabilità su qualcun altro, perché è troppo gravoso accollartela da solo. Vuoi... umiliarmi, chissà! Lavarti la coscienza. Ed io della tua generosa concessione non so che farmene, se vuoi metterla su questo piano. Credevi che stessi qui a dannarmi l’esistenza giorno e notte e a condividere il tuo fardello per intrufolarmi nel tuo impero di menzogne e rubarti il cibo di bocca, prendendomi meriti che non mi appartengono… E con questo posso solo dire che di come sono, Auguste, di cosa volevo in realtà, non hai capito un cazzo.

 

* * *

 

- Auguste. Cosa significa… questo? Avremmo… ripreso quel discorso, se ne avessi sentito il bisogno. Cos’è successo, ora?

 

Ambrosie.

Arriva la seconda dose. Non è stato ancora abbastanza.

 

Auguste si sentì stringere la nuca da un doloroso riflusso di rimpianto. Se lo chiedeva anche lui: cos’era successo, in quel frattempo? Perché Ambrosie aveva le mani rigidamente piantate sui fianchi, perché qualunque vaga impronta d’indulgenza sembrava scomparsa dal suo viso? Gli stessi occhi blu di Fernand, lo sguardo strettamente incollato al suo.

Sembravano trascorsi secoli. Lei aveva mantenuto viva la speranza in quella discussione dall’impronta ragionevole, la mente aperta alla novità, alla scintilla di un risvolto ottimistico.

Auguste lasciò ingannare la propria vista nel riverbero di luce sulla parete.

- Vorrei sapere dov’è che non vedi il nesso, Ambrosie. O forse, proprio non ricordi cosa si era detto a proposito di tuo fratello. La mia fiducia come irrinunciabile pegno di pace, come inizio. È così importante, ora, che la mia presenza non sia più inclusa nel pacchetto?

Lei scosse il capo, uno sfolgorio d’indignazione in fondo alle pupille. La mano di Raphäel le copriva la spalla. Forse assentiva, o chissà cos’altro gli stesse dicendo la sua mente contorta.

- Sarà l’inizio di un bel nulla, Auguste. Ti prendi gioco di lui, poi improvvisamente gli vuoi far carico di qualcosa che reputi già scomodo per te, quasi per spregio. Dio, Auguste! Ti sei bevuto il cervello?

Auguste si sentì attraversare da un freddo riverbero d’irritazione. Chinò lo sguardo, risentito. Dieci anni in meno di lui, fuoco liquido in fondo alle iridi come specchi d’acqua in tempesta, un impeto d’istintivo, feroce dissenso. Troppo causticamente dissonante, lì davanti a lui; troppo simile a Fernand. Incontrollabile. Poi, inaspettatamente, avvertì una risata liberatoria bruciargli in fondo alla gola, le labbra tirate in un sorriso non voluto.

- Perché no? E tu saresti la sua luogotenente ideale.

- Ti ringrazio da parte di Fernand per il regalo – un sibilo freddo pervase la voce di Ambrosie, l’espressione piccata.

Auguste si morse nervosamente il labbro. Lasciò saettare lo sguardo intorno alla stanza, alla ricerca di un indizio utile.

 

Lasciami in pace, donna. Non sei che un cucciolo dal cuore sazio d’informe ambizione di protagonismo, un ragazzo mancato. E tuo fratello, la manifestazione visibile della mia deliziosa, personale maledizione!

Fernand, Ambrosie, Raphäel, Dorian: un esperimento degno di suscitare il mio morboso interesse. Se soltanto fosse almeno tale, se solo vi sforzaste di capire. Ma io non sarò più qui. Rien ne va plus.

 

- Ho sbagliato, Ambrosie. Avrei dovuto comprenderlo… molto tempo addietro. La vostra fottuta missione sentiva il bisogno di una seppur minima componente d’irrazionalità. Di… un moto ideale a far da sottofondo, una passione in gioco, una volontà appassionata, non una specie d’impalcatura indefinita, retta da nient’altro che un impersonale senso del dovere campato in aria, nel quale non riesci più a credere nemmeno tu. Di un cuore, dopotutto, oltre che di una mente logica. Un coraggio spontaneo, audace, fantasioso. Mi piace Fernand, da questo punto di vista. Sarebbe semplicemente fantastico. Ed io ho capito che non ero la persona giusta: sappi che mi fa male ammetterlo, ma è tutto qui, nulla di cervellotico.

- Ci prendi in giro, Auguste. Oppure sei completamente impazzito. È il tuo ennesimo colpo di testa. Tu e Lucien non parlavate così.

- Lucien, certo. Lui era il sistema compiuto. In lui c’era… una coerenza logica tra aspirazione e gesti concreti, tra mente e cuore. Una base notevole, un sogno, la persona di cui in quel momento avevamo bisogno. Cosa nega, ora, che questa specie di chimera possa essere incarnata proprio da Fernand? Mi meraviglio solo che proprio tu, che lo conosci meglio di chiunque altro, proprio non riesca a riconoscerne lo slancio. Nemmeno lui stesso, del resto. Eppure ha tutte le carte in regola.

Gli occhi di Ambrosie si strinsero minacciosamente. Scosse il capo, scettica.

- Io invece mi chiedo che senso ha ora arrovellarsi il cervello, cercare di estrapolare qualcosa di buono da un calderone di assurdità assortite. Lo farai di nuovo, Auguste. Lo umilierai nello stesso modo in cui adesso sembri volergli elargire una possibilità in cui non credi neppure tu. Ti godrai il canovaccio in anteprima? E poi, cos’altro farai?

- Ne sei veramente convinta, Ambrosie. Cosa pensi in realtà?

- Credo che Fernand non meriti i tuoi stupidi regali. Che non è un inetto. E, se le cose dovessero davvero andare come dici tu, se non altro con lui non dovremmo guardarci da bugie, improvvisi salti nel buio e teatrini mal imbastiti.

- È assoldato: non riesci proprio ad accettare che l’opportunità che ho dato a Fernand sia qualcosa su cui meditavo da tempo e che per me ha una ragion d’essere. Lo istruirò su tutto quello che vorrà, se ce ne sarà bisogno. Sarò a sua totale disposizione. Ma no, Ambrosie, non chiedermi d’includere anche me al vostro fianco come prova della mia credibilità. Da questo momento, siete liberi di considerare prive di valore le mie parole e gestirvi come meglio preferite. A me non importa più nulla, stavolta non entrerò in merito.

Ambrosie si strinse nelle spalle, lo sguardo che dardeggiava tagliente su di lui, inchiodandolo al pavimento, in attesa dell’appellativo calzante da indirizzargli.

- Mi hai deluso – chinò il capo – Il tuo è solo un… modo non troppo villano di uscirtene comodamente di scena, anche se non del tutto. Ti conosco, ormai.

Auguste strinse la presa sul legno rassicurante della sedia cui si era provvidenzialmente aggrappato, le membra molli, sopraffatte dalla sconfitta come in seguito ad una lotta dalla quale fosse uscito malconcio.

- Come tu desideri, Ambrosie – le sorrise, la scrutò di sottecchi.

Seguì a denti stretti il moto collerico del capo che le fece danzare i capelli intorno al volto, un bagliore confuso davanti a lui.

- Preferirei parlarne con te quando avrai lasciato smaltire del tutto gli strascichi dell’alcool, Auguste. E ora è meglio che tu vada a riposare, sul serio, e che la smetta di fare discorsi astrusi.

Auguste distolse lo sguardo. Osservò Raphäel. Stava compunto al fianco della ragazza, lo sguardo rigido davanti a sé, distaccato, come di fronte ad un manipolo di attori mediocri intenti ad agitarsi sulla scena in modo poco credibile. Un moto d’irritazione gli attraversò le membra.

Ambrosie aveva il volto stanco, pervaso di una sottile indignazione; Raphäel sembrava quasi divertito di fronte ad uno spettacolo vano.

 

E tu da che parte stai, Raphäel, stavolta? Sei ambiguo, non parli più. Sei d’accordo con lei? Vi siete riempiti entrambi la bocca delle medesime, confusionarie idee? E tu condividi il suo pensiero, la sua opinione su di me e sulle mie decisioni, o, in alternativa, ci reputi tutti quanti stupidi.

 

- Ambrosie, basta, ora. Auguste non sta bene.

Per un istante, gli parve di scorgere il viso della ragazza solcato da una collera silenziosa, quasi smorzata, tremante. Gli occhi scintillanti. Poi, di colpo, si sottrasse alla mano che la tratteneva: all’improvviso, sembrava non importarle troppo.

Raphäel teneva le braccia intrecciate sul petto, l’abbozzo di un sorriso freddo che gli increspava un angolo della bocca. Auguste si sentì tremare.

- Prova a farlo ragionare tu, Raphäel, se ci riesci – rimarcò Ambrosie, pungente, gli occhi fissi sul ragazzo come su una statua indifferente – Quando non è ubriaco, magari.

 

E non è altro che un gioco, dunque, una farsa patetica che rischia di consumare le nostre energie, che ci sta trascinando alla deriva, dietro qualcosa che non vale la pena, forse? Lo credi anche tu, Ambrosie?

Io sono ubriaco, d’accordo. Sono molto ubriaco. Potrei mettermi a danzare per la stanza, se questo servisse ad avvallare ulteriormente un dato inequivocabile. Vorrei soltanto essere lasciato solo, ora; sul serio, lo vorrei disperatamente.

 

Si sentì barcollare, i passi incerti. Avrebbe bevuto di nuovo, forse, avrebbe baciato ancora Fernand, com’era stato in quel lontano giorno di festa, e si sarebbe goduto la sua confusione, la sua faccia sconvolta, il tremolio delle labbra. L’avrebbe accarezzato fino a vederlo avvampare, sciogliersi sotto il suo tocco, gli occhi assenti, venati di follia. Fino ad annientare il suo fantasma ineffabile.

 

* * *

 

Fernand era pressoché certo che quel vestito color tortora dalla stoffa morbida avesse visto circostanze migliori, rispetto all’ormai monotono rituale delle sue lacrime che ne inumidivano il davanti. Tutto ciò lo faceva sentire umiliato, se ne rendeva conto: era come ripercorrere una trama già scritta di cui non potesse fare a meno. Più forte di lui, di nuovo.

Era schizzato fuori dalla stanza, un attimo prima di esplodere, incerto se vomitare tutta la sua rabbia addosso a quel pazzo o saltargli alla gola, oppure abbandonarsi al profondo smarrimento che gli offuscava la vista e lasciarsi crollare di fronte ai suoi occhi gelidi e folli.

 

Ambrosie, abbracciami!

 

Le dita strette sulle sue spalle, il viso nascosto nel suo petto, tra le sue braccia, i capelli ondulati che si confondevano nei suoi.

 

Non volevo realmente incontrare lui, immergermi nel suo mondo come in un lago di pece e restarne invischiato fino a tal punto.

E forse non sarei nemmeno dovuto scappare come un reietto, abbandonando la mia casa con un pretesto casuale. Mi sarebbe bastato restare con te, Ambrosie. Vorrei soltanto restare così, chiuso fra queste braccia.

 

- Era completamente, orrendamente ubriaco. Non aveva mai parlato così.

- Non ce la faccio più… Fernand si sentiva cedere, le forze che scemavano sotto l’imperio di un abbraccio.

Avvertiva alle proprie spalle la presenza di Dorian, qualcosa che gli vibrava sulla nuca scossa da singulti. Non se ne curava. Lo sguardo ceruleo del suo amico scorreva su di lui, poi su Ambrosie e viceversa.

- Non credo ad una parola di tutto ciò che ha detto.

 

Diversamente, caro Dorian, non si spiega il motivo per cui sei rimasto così calmo e indifferente, e Raphäel con te. Siete ottimisti, quasi fiduciosi, per quanto concerne Auguste: non riuscite neppure a concepire che possa arrivare a tanto. A perdere il lume della ragione e riporre tutto nelle mani di quell’inenarrabile testa calda di Fernand. Auguste dovrebbe essere come minimo impazzito, ad aver rivalutato nell’arco di una notte il suo tradizionale avversario. Invece, ha preferito tirarsi fuori lui: troppi i galli dalla cresta ben spiegata che richiedevano costante attenzione.

 

- …Perché, se dovessi prendere come attendibile ogni singola cazzata che ha detto poco fa, sarei costretto a farmi di lui l’idea di un pazzo furioso a cui per caso è frullata in testa l’idea di giocare un tiro crudele ai danni del suo compagno più giovane.

 

Basta così, Dorian.

 

Fernand serrò le palpebre. Era come percorrere fedelmente, dinnanzi a sé, il gesticolare nervoso con cui Dorian accompagnava le proprie parole, i riccioli dorati che vorticavano intorno alle gote arrossate.

Si morse il labbro, mentre l’immagine, il ricordo prepotente balzava ai suoi occhi a tradimento. La sera prima, il volto estatico di Dorian a un filo dall’orgasmo, un grido soffocato in fondo alle iridi delicate, come un segreto fra loro. Il corpo teso e meraviglioso che si agitava lentamente, fino a contrarsi in uno spasmo quasi doloroso.

Dorian che gli scompigliava affettuosamente i capelli, che confabulava sottovoce con Ambrosie, sguardi furtivi che s’intrecciavano, cospiratori nell’ombra.

 

Vattene, Dorian. Non contaminare il mio momento. Non dopo avermi respinto miseramente. Lasciami a lei.

 

Dorian lo accarezzava lentamente, gli torturava i capelli fra le dita, sussurrandogli parole rassicuranti sulla pelle. Un quadro meraviglioso nella sua mente. Stretto fra le braccia di Ambrosie, il pianto che scemava e le carezze di Dorian che gli piovevano sul capo.

Ora, mio Dorian. Faresti ancora l’amore con me?

 

- Fernand, forse dovresti… Provare a riparlare con Auguste in un secondo momento – azzardò Ambrosie dopo un lasso di tempo che a tutti e tre i presenti era parso poco meno che eterno – Quando… Avrà ripreso a ragionare, dico.

Fernand ebbe la sensazione di riemergere da una sorta di limbo d’ovatta, le voci soffuse intorno a lui. Per un istante temette di essere sprofondato nel sonno e di aver smarrito qualche nodo fondamentale, i capelli appiccicati alle guance arrossate.

- Che diavolo dovrei dirgli ancora? – sussurrò, confuso – Di andare a farsi fottere, lui e i suoi lampi di genio? Neppure tu riesci a renderti conto che Auguste, nella sua follia, questa volta stava parlando sul serio. Non è forse così? – si prese il capo fra le mani, esasperato, i capelli arruffati strettamente avviluppati nel movimento convulso delle dita – Mi sembra di stare nel bel mezzo di una congiura. È la congiura degli scettici!

- No, non è neanche così – Ambrosie scosse il capo, lo sguardo vago, soprappensiero.

- E allora, è troppo chiedere di essere resi edotti su certe raffinate sottigliezze che solo voi riuscite a cogliere? – incalzò Fernand, spazientito.

- C’è qualcos’altro. Auguste non era completamente in preda alla follia di un disegno assurdo che solo la sua mente sembrava conoscere – una pausa imbarazzata, alla ricerca delle parole giuste attraverso le quali propinare ad un interlocutore la più bizzarra delle teorie – Però, credo che abbia volutamente omesso qualcosa. Così, forse, la sua ultima trovata potrebbe anche acquistare un senso.

- Sarebbe bello. Peccato che io non sia così stupido da lasciarmi abbagliare un’altra volta dalle sue occasionali lusinghe. Che diavolo vuole da me, stavolta? Aspetterà che metta un piede in fallo, per poi riprendere il vecchio discorso da capo?

- Fernand ha ragione – Dorian mosse un passo in avanti, il volto pensoso – Auguste non ha in mente nulla in particolare. È solo stanco, distrutto dalla situazione; ha tessuto tante di quelle trame che ora non sa più nemmeno lui come districarsi, dove riafferrare il bandolo. Vorrà soltanto… Gettare l’esca, prendere un po’ di tempo. Farsi coccolare, sentirsi dire quanto è meraviglioso e speciale, la sua presenza irrinunciabile, per poi riprendere in pugno la situazione non appena si sentirà abbastanza corteggiato.

- Eppure… – Ambrosie si strinse nelle spalle, persa nelle sue riflessioni – L’idea di Auguste, ripensandoci, non è poi così assurda come può sembrare. Solo, vorrei che gettasse via la maschera sulle sue intenzioni e chiarisse per filo e per segno quali saranno i limiti del gioco, stavolta. Penso che dovrebbe parlare chiaramente, Fernand, senza lasciare zone d’ombra, evitando di farti carico del suo ennesimo colpo di testa per poi nascondersi con noncuranza.

Fernand indugiò su Ambrosie e Dorian, i loro occhi fissi su di lui, in attesa di una risposta. Sua sorella e il suo miglior amico.

A calamitare definitivamente la sua attenzione fu la fasciatura sottile che avvolgeva la mano di Dorian e, dalla disinvoltura del suo gesticolare e del suo imprimere la presa sugli oggetti, Fernand dedusse che doveva essere completamente pazzo, a non prestarvi attenzione neppure per un istante. Oppure, che la ferita fosse davvero superficiale.

Distolse lo sguardo, stordito.

- Ora basta! – scosse il capo – Vi rendete almeno conto di che razza di teorie assurde state sviscerando? Vi ascoltate, almeno, mentre parlate? Io… Continuo a non capirci nulla, sul serio.

- Fernand, lascia stare. Una cosa soltanto – Ambrosie catturò repentinamente il suo sguardo, e a Fernand parve quasi di avvertire, come un’ombra, una sorta di tacito consenso da parte di Dorian – Cerca di parlare con Auguste. È lui che può, che deve chiarirti le sue trovate, nel momento in cui stavolta ti riguardano così da vicino. Prendilo per i capelli, se sarà necessario, fa’ come preferisci, ma cerca di farti spiegare come stanno davvero le cose, che razza di idea ha partorito stavolta.

- Grazie dello spassionato suggerimento! – Fernand distolse lo sguardo, un’impronta di lieve sarcasmo sul volto tirato.

Forse Ambrosie non lo pensava sul serio, rifletté. Non era del tutto prevenuta nei riguardi di Auguste, o forse aveva qualche asso nella manica pronto nell’evenienza. A che gioco stava giocando, anche lei?

E Dorian sembrava sulle spine, teso come se il suo corpo fosse fatto di corda, l’espressione del viso resa volutamente imperscrutabile da qualche scintilla di disperato autocontrollo.

 

* * *

 

Dorian scosse il capo, quasi a volersi liberare di un pensiero ancora nebuloso, embrionale, eppure insopportabilmente fastidioso. Troppe cose che non andavano, passaggi troppo sfuggenti e repentini per riuscire a coglierli in tutta la loro pienezza, ad attribuirvi un significato ed una sistemazione.

- Dorian, qualcosa non va? Sei pallido…

 

Taci, Raphäel. Taci, ché è meglio per tutti. È un consiglio spassionato, il mio. Non esasperare la situazione, perché sarà sufficiente una piuma, stavolta, per far pendere l’ago da una parte o dall’altra.

 

Volse il capo, quasi infastidito dalla sua presenza, da quella mano diretta sulla sua spalla.

 

È troppo comodo, ora, Raphäel. Mi hai illuso, anche tu. Hai simulato abilmente un’amicizia nei miei riguardi che in realtà era ben lungi da te. Almeno, finché ti sono stato utile per estorcermi con calma tutte le informazioni che desideravi. Ora il quadro sarà di certo più chiaro nella tua mente. Giochi con me, o è solo la mia impressione?

 

- Non c’è nulla che non va, davvero – le sue dita si strinsero intorno alla falda del cappello che teneva fra le mani, quasi non sapesse che cosa farne.

Accennò con un breve cenno del capo alla stanza di fianco, la porta semiaperta che lasciava filtrare uno spiraglio di luce.

- Come sta Auguste? È rinsavito, oppure dobbiamo aspettarci altre bestialità?

Vide Raphäel chinare per un istante lo sguardo, come se davvero gli fosse importato qualcosa. Alla sua destra, Ambrosie incalzava, lo sguardo mobile, vivo.

 

Per caso non è ancora paga di aver spedito suo fratello dritto dritto nella tana del leone?

Persino tu, Dorian: l’hai incoraggiato, hai annuito di fronte alla sua idea. Non gli hai detto “fermati, lascia stare, lascialo perdere, lascialo cuocere ancora un po’ nel suo brodo”.

Che imperdonabili incoscienti!

 

- Considerato che è reduce da una notte in cui ha alzato un po’ troppo il gomito e che mangia poco e nulla da giorni, direi neanche troppo male.

 

Che diavolo vi siete detti, in quella stanza? Che diavolo ha da confabulare, in questo preciso istante, con Fernand?

 

Ambrosie sembrava tesa come una corda di violino, gli occhi scintillanti. Dalla foga nervosa con cui cercava di convogliare le proprie parole in una richiesta non troppo impertinente, Dorian dedusse che gli interrogativi che le si addensavano nella mente non dovevano discostarsi troppo dai suoi.

- Cosa vi siete detti? – proruppe infine.

Dorian fu preso da un insolito impulso ilare che per un istante gli contrasse le labbra in una specie di sorriso di scherno. Ambrosie non aveva retto alla smania di sapere ed aveva finito per parlare per entrambi. Un vero calcio in faccia alla diplomazia.

Raphäel scosse il capo in un cenno di diniego.

- Nulla di particolare. Solo che aveva bevuto e che preferiva parlarne in un secondo momento. Sono riuscito a propinargli una scodella di minestra, tanto per riscaldarsi un po’ lo stomaco, e a convincerlo a riposare.

- E… Fernand?

Se Ambrosie sembrava sull’orlo di una crisi di nervi, Raphäel sembrava non dare gran peso alle domande che gli erano rivolte.

 

Ce l’hai spedito tu in questa situazione, mia cara, avrebbe voluto gettarle in faccia Dorian. Hai fatto leva sulle sue crescenti perplessità. Che cosa pretendi, adesso?

Che bravi amici, noi due!

 

- Nulla. Ha detto soltanto che avrebbe voluto riparlarne direttamente con lui.

- …E ci ha praticamente sbattuti fuori – concluse Dorian al suo posto, una malcelata punta d’orgoglio nello sguardo a mascherare la leggera indignazione.

E da dove gli derivava, ora, quello scintillio d’angoscia che lo faceva sentire malfermo sulla sua rassicurante postazione?

Si tirò su in piedi, di scatto.

- Che ti prende, Dorian? Non vorrai metterti a… origliare i loro discorsi? – Ambrosie gli rivolse un’occhiata complice.

- Perché no? Non è qualcosa che riguarda soltanto loro – azzardò, avvertendo le proprie guance avvampare incomprensibilmente.

 

Cos’era che non andava, per l’ennesima volta?

 

- Ne sei davvero sicuro, Dorian?

 

Dannazione, Dorian! Non eri neppure l’unico a non sapere.

 

- Andiamo… – proseguì la ragazza, conciliante – È chiaro come il sole che il problema di Auguste si chiama Fernand Laroche.

 

Almeno ha la decenza di arrossire, meditò Dorian fra sé.

Gran bella gabbia di matti: i miei complimenti. Una gabbia di matti in cui ognuno si compiace della reciproca follia come dogma condiviso.

Fra te e tuo fratello, Ambrosie, non so davvero chi…

 

Fu Raphäel a spezzare quell’ineffabile gioco di sguardi.

- Bene, bene: a quanto pare, il segreto di Pulcinella non è più un segreto per nessuno. A questo punto, dico, potremmo anche avere il buongusto di togliere il disturbo, non trovate?

Dorian sentì un accesso di collera esplodergli in volto. Collera che riuscì agevolmente a convogliare in un moto sarcastico.

- Tu sei il peggiore di tutti, Raphäel – ringhiò – Davvero, mi rifiuto di immaginare cosa stia pasticciando in questo momento nella tua mente. Mi vengono i brividi al solo pensiero.

- Non essere ingenuo, amico mio.

Dorian colse l’impercettibile, fulmineo inarcamento del sopracciglio sotto i riccioli scuri che gli ricadevano mollemente sul viso.

Distolse lo sguardo.

Possibile debba far così male?

- Cominciate pure ad andare, davvero.

- Tu che diavolo farai, ora? – Ambrosie gli si era aggrappata al braccio, quasi implorante, lo sguardo colmo di febbrile agitazione.

Le labbra di Dorian si distesero in un sorriso.

- Ti riferirò, naturalmente – le soffiò, circospetto, stretto nella morsa di un’evanescente promessa.

Sarebbe bastato portare i propri passi verso quella maledetta porta in fondo alla stanza e buttarvi dentro lo sguardo con disinvolta noncuranza. Deglutì a fatica.

 

Ce l’ho spinto io, Fernand, in questa situazione. Io gli ho infilato il tarlo nella testa, e Ambrosie ha fatto il resto. E ora, a chi crediamo di darla a bere, la nostra beata ingenuità?

Vadano al diavolo anche Raphäel e la sua espressione sagace, le iridi come schegge pronte a conficcarsi nella mia carne. Bravo, Raphäel, perché non ci voleva un genio per arrivarci: come dici, scusa? Soffrirò? Ci resterò male, qualunque cosa vedrò al di là di quella dannata porta? Bella scoperta. Fernand mi farà male, d’accordo. Ma non che tu sia riuscito a fare meglio. Vi equivalete, in questo senso.

 

Era una voce che gli martellava in fondo alla testa: l’hai voluto tu, Dorian. Hai caldeggiato per bene l’epilogo ideale di questa situazione. E hai avuto l’occhio lungo. Cosa puoi desiderare di più, adesso? Il prodotto resterà comunque uguale.

 

Forzò la propria vista sotto la luce diretta che per un istante l’aveva abbagliato, cogliendolo di sorpresa. Si costrinse poi a posare uno sguardo fugace sulle due figure immobili su quel letto spoglio, impersonale, le lenzuola immacolate.

C’era un grosso gatto grigio fumo che ronfava placidamente, acciambellato ai piedi del suo padrone.

Dorian respirò profondamente. Si era avveduto solo in quel momento della presenza dell’animale.

Scorse sulla figura di Auguste, le lunghe gambe distese. E Fernand, i capelli arruffati sulla nuca, spalle rivolte verso di lui. Si era costretto ad osservarlo solo in quel momento, venuta meno in lui l’ostinazione di lasciar impigliare la propria attenzione in giro per la stanza, indugiando su particolari di scarsa rilevanza. Come il gatto che si stiracchiava inarcando la schiena o la giacca di Auguste abbandonata su una sedia.

E poi Auguste si era mosso, l’eleganza di un cigno impressa nelle membra stanche. Così diverso dalla creatura pallida e arruffata di poc’anzi, in preda ad un’autentica crisi di nervi, mentre accusava Fernand.

E ora. Attirava Fernand su di sé come se si trattasse del gesto più naturale del mondo, e Dorian in un primo momento aveva faticato a discernere dove terminassero i capelli dell’uno e iniziassero quelli dell’altro. Sfumavano l’uno nell’altro in una sorta di umida carezza, come di labbra che si strofinano lentamente le une sulle altre ad assaporare il reciproco contatto.

Un palpito ipnotico aveva riempito la stanza dinnanzi ai suoi occhi, denso come una patina di fumo. Dorian aveva distolto lo sguardo, cercando di autoconvincersi che serrare le palpebre sino a farsi dolere i muscoli della faccia sarebbe stata la soluzione ideale. Aveva portato i propri passi lontano da lì senza neppure accorgersene, per poi crollare inerme sul pavimento, ginocchia strette contro il petto. Come se qualcosa gli avesse impedito di respirare per un lasso di tempo interminabile, ed ora si trovasse suo malgrado a lottare per riemergere dal fondo, da una lunga, forzata apnea. Come se qualcuno gli avesse cacciato la testa dentro un recipiente colmo di veleno, costringendolo a respirarne gli effluvi. Intossicato.

 

Dannazione, Dorian. Respira! Che diavolo ti aspettavi di diverso? L’hai voluto tu, ficcatelo bene in testa, affinché ora non te ne vada a nasconderti dietro al solito, delicato dito. Hai fatto carte false per spingere Fernand verso l’inevitabile. Verso ciò che sapevi, dopotutto. Ed ora, se la cosa non ti dispiace, potresti anche iniziare a raccogliere i frutti.

 

Scappare: era l’unica azione coerente che le sue membra si sentissero di mettere in atto. Uscire da quella casa prima di diventare matto.

Perché si sentiva… così, maledizione? Cosa gliene dava il diritto?

La luce, lo spazio aperto della via antistante gli dava le vertigini, i vicoli maledettamente polverosi che turbinavano sotto i suoi piedi.

 

Non ti è andata così male, Dorian. È tutto sotto controllo, come previsto, senza sbavature. Pulito, una volta tanto, nello stesso modo che avevi facilmente pronosticato. O così sembra.

 

Eppure, alla luce di tutto questo, cosa diavolo sono quelle stupide lacrime sulla tua faccia? Che diavolo è successo?

 

Auguste l’ha umiliato, ancora una volta. Soltanto mezz’ora fa. Gli ha sputato addosso il veleno della sua immane frustrazione.

Ed ora – proprio in questo momento – cosa gli dà il diritto di fare ciò che fa?

C’è qualcosa che sfugge: frammenti smarriti malauguratamente nel fondo del baratro. Ho perso qualche nodo fondamentale. Cosa manca a completare il quadro? E… mi è mai importato tanto, dopotutto?

 

Va’ al diavolo, Auguste! E prova a restarci abbastanza a lungo, stavolta, se la cosa non è di troppo disturbo.

 

* * *

 

Il chiarore tremolante di una candela, solitaria nella stanza, vibrava fra le pieghe delle tende che piovevano dall’alto baldacchino. Schermavano il dormiente da sguardi indiscreti.

Un lampo in fondo alle iridi, nostalgia di un inganno feroce; dinnanzi a lui, la luce si confondeva fra le pieghe della stoffa pesante, creando zone d’ombra quasi livide. Troppo debole per ferire i suoi occhi, non era che la pallida imitazione del brivido crudele che ogni giorno gli incuneava nella mente, come un morbo, la smania di una sfida personale, tracotante ai limiti della stoltezza. Così contraria ad una natura che ancora si sforzava di non accettare come ineluttabile.

E poi quel lusso, quel lusso sfacciato che non era nelle sue corde: non lo era mai stato, non avrebbe cominciato adesso, e il ricordo di lenzuola di seta, arazzi e tende di fine broccato bruciava ancora sulla pelle. Quella stanza lo metteva orribilmente in soggezione, per contrasto, come una macchia scura su un pavimento immacolato, mille dita puntate contro come spade sguainate, giudici inflessibili poco inclini al perdono. Come trovarsi al di fuori del proprio elemento.

Un istante, un unico gesto istintivo, secco. Quasi strappò quelle stupide tende poste come schermo ingannevole, un’ansia bramosa e febbrile che gli serpeggiava nelle dita pallide. Cinque ganci acuminati protesi verso la stoffa scura, come vermi pronti a corrodere quella stanza voluttuosa, l’impatto beffardo dinnanzi ai suoi occhi.

E poi, un sorriso si allargò sulle sue labbra sottili, un fremito d’insolita dolcezza che scorreva nelle sue vene come un balsamo refrigerante. Avrebbe pianto, se non si fosse affrettato a soffocare quanto prima il tumulto di un sentimento improvviso. E se la mente capricciosa non l’avesse riportato, prepotente, sull’urgenza incalzante della sete che gli tormentava la gola riarsa. Si sentì quasi vacillare, quando il suo corpo finalmente acconsentì a lasciarsi andare sul bordo del letto, ad imitare una postura seduta; piano, per non svegliarlo troppo bruscamente. Lui, lì, pochi passi ritagliati nello spazio che li separava.

- Ben svegliata, mia splendida stella.

L’altro si mosse veloce, tirandosi su a sedere, le palpebre stanche, pesanti di sonno residuo.

E lui riusciva a percepire la sua mente come in un bozzolo di nebbia.

- Che diavolo… – afferrò il movimento delle labbra incolori: no, non era un buon segno, e lui non aveva ancora molto tempo a disposizione.

Attraverso il tocco leggero delle dita che tentavano di allacciarsi timidamente alle sue, poté percepire la confusione, il profondo senso di vertigine che gli faceva portare le mani a massaggiare le tempie, come a lenire un dolore immaginario, illusorio. Ma no, non doveva sentire male, in realtà.

Sospirò: avrebbe provveduto a lui come aveva fatto tutte le notti, dacché l’aveva osservato dormire sul suo letto, avvolto da un pesante torpore. Ma le sue sole forze, stavolta, non gliel’avrebbero concesso. Doveva uscire, costruire la sua libertà, fornirgliene lo strumento irrinunciabile. Si era cullato troppo a lungo nell’attesa, ma ormai era tempo di agire.

- Non sei più la mia stella? – gli soffiò, un’inconsapevole venatura capricciosa nella voce, come una nenia infantile – Ora sei la mia stella. La mia splendida stella della sera – soggiunse in un mugolio impercettibile, dalla consistenza evanescente di un pensiero, la mano che correva ad accarezzargli i capelli, possessiva.

Lui era suo. La sua creatura meravigliosa. Ed era pronto ad affrontarne le conseguenze.

Lo vide sorridere, beffardo. Sembrava un gioco protratto troppo a lungo.

- Non scherzare. Che cosa vuoi dire?

- Shh… – sibilò fra i denti, tracciando un’immaginaria linea verticale sulle labbra dell’altro, come ad intimargli dolcemente il silenzio – Dico che ti devo delle scuse… A dire il vero.

Il semplice gesto di sfiorarlo fu una scossa che serpeggiò fra le loro carni, una sorta di ponte ideale.

E le sue labbra, così pallide. Preoccupante, orrendamente preoccupante. Sarebbe cominciato così: una generica mancanza che ti serpeggia addosso, una sorta di disagio, come starsene infilati dentro una veste troppo stretta. E poi sarebbe arrivato il tormento della sete, come una stilettata, come uno scatto fulmineo a tenderti i muscoli di tutto il corpo, a privarti della tua ragione.

Doveva fare qualcosa, al più presto.

Quel che temevo: un quarto d’ora, per la verità.

- Non ti ho chiesto delle scuse – gli ingiunse l’altro con fare conciliante – Mi accontenterei… di una spiegazione. Solo questo.

Ma lui aveva già scosso il capo in un cenno di muto diniego, interrompendolo di colpo attraverso quel linguaggio non verbale che, in capo a qualche tempo, sarebbe divenuto il tramite ideale, la forza di una crescente intimità. Un filo invisibile fra loro, un solo gesto dalla potenza disarmante di una fucilata, un messaggio stampato a chiare lettere, sospeso fra loro, intrappolato fra due solitudini.

- Il fatto è che… Temo di aver esagerato con il laudano, amico mio. Tutto qui – si affrettò a replicare – Sei rimasto incosciente tre notti di fila. Guarda un po’…!

Distolse lo sguardo. L’altro rideva, la camicia che, dispettosa,  gli scivolava giù dalla spalla, scoprendo la perfezione lattea della pelle come uno squarcio su marmo ben levigato; era quasi inquietante: una statua dagli occhi vividi, la materia dura quasi opalescente sotto quel debole bagliore ormai agonizzante.

- Davvero fa … ridere?

- Rido perché ciò che vedo davanti a me parla chiaro. Non resisterai ancora a lungo, amico. È la tua natura.

E lui, a quelle parole, avvertì i propri lineamenti indurirsi involontariamente sul viso, la pelle tirare come uncinata da fili invisibili pronti a tenderla a loro piacimento. L’espressione aspra, categorica, priva di sfumature.

 

Sta’ zitto e ascolta! Raccogli quanto più di ciò che è necessario sapere, perché non ci sarà una “prossima volta”. Non sarà neanche necessario, a dir la verità.

 

- Non è un gioco. La mia… natura? – sorrise – La controllo come e quando voglio, credimi, e non sarà questo il mio problema. Imparerai anche tu.

- Bugiardo.

Sentiva la collera martellargli nel petto. Ed ora, se le sue azioni fossero state abbastanza impulsive da sgusciare via dal suo rigido autocontrollo, gli si sarebbe avventato addosso, inchiodandolo al suolo sotto il proprio peso.

No: tutto sarebbe sfociato in una lotta inutile, come due ubriachi o due cani selvatici che si contendono un osso. E, se avessero indugiato ancora in quelle stanze, sarebbe giunto presto il momento in cui ognuno di loro non sarebbe stato in grado di aiutare l’altro. Dovevano uscire. Prima possibile.

- Vestiti, anziché stare lì a fissarmi – lo apostrofò con voce incolore, lo sguardo che fuggiva – Devo mostrarti una cosa. È fondamentale – lasciò che le sue parole si colorassero di una velatura maliziosa, sibillina.

- Ti sei deciso a… istruirmi, dunque?

 

Come una madre farebbe con la sua creatura: esattamente.

 

Il suo sguardo saettò ancora un istante intorno alla stanza, collerico, come una bestia braccata e ferita. Assottigliò minacciosamente le palpebre. Il pensiero di ciò che sarebbe accaduto in capo a pochi minuti era sufficiente a gelargli il cuore in una morsa di spine.

- Penso solo che sia giunto il nostro momento. E, bada bene, sarà la prima e l’ultima volta che ti lascerò il privilegio di… assistere – puntualizzò, perentorio.

Avvertì soltanto l’eco delle sue ultime parole, smarrite in qualche angolo oscuro dei suoi appartamenti, impigliate in un’immaginaria voluta di quell’aria tiepida e rarefatta che colmava il vuoto fra loro. E forse, con un po’ di fortuna, quell’ultimo strascico sospeso fra parola e pensiero doveva essere stato pressoché impercettibile fra loro. Sarebbe restato così, latente, una frase in sospeso, uno sguardo complice scoccato di sfuggita nell’atto di abbandonare la stanza con passo leggero, per poi fermarsi e misurare la breve attesa.

Prima ed unica volta, amico mio.

Penso non mi vedrai farlo di nuovo, stella mia. Non in tua presenza.

Manterrò il mio sepolcrale riserbo, e ti sarà sufficiente ciò che vedrai.

 

- Sta’ indietro! – l’aveva investito con voce ringhiosa, entrambi avvolti nella penombra sotto il vecchio arco di pietra che fungeva da filtro provvisorio tra i quartieri popolani e Noir Trésor la bella, la cittadella ben arroccata con i palazzi aristocratici e il castello del duca e le mura dall’impatto severo.

La consistenza della pietra sotto il palmo delicato era tiepida, ruvida, come un vibrare di vita propria, di antichi segreti da cui abbeverarsi attraverso i sensi. Socchiuse le palpebre. Isolati, inaccessibili frammenti di vita, remoti, perduti; antico e presente. E le sue dita erano fredde.

Si sforzò di procedere, un sibilo appena accennato all’altezza dell’orecchio, la voce ferma che tentava di sottrarsi all’ansia crescente.

- Mi hai sentito? Non devi muoverti né prendere iniziative o, peggio, fermarti a discutere su quanto ti dirò. E, soprattutto – proseguì in un gemito roco, gravido di una complicità quasi perversa, le dita contratte ad artigliargli la spalla – Cerca di tenere su quel maledetto cappuccio. Guai se qualcuno ci vedesse – lo redarguì.

Il suo sguardo vagò per qualche istante sui lunghi capelli che spuntavano dal bavero tirato fin sulla bocca, ombre soffici e mutevoli su guance d’alabastro.

Trasalì, e la frustata di una cocente necessità vibrò fin sulla punta delle dita, un’isteria oscura a far da cornice alla sua maledizione, pronta a risolversi in una reazione incontrollabile, qualora avesse disatteso un istante di più l’improrogabile urgenza. Un bieco istinto d’autoconservazione o qualcosa di ben più terribile, di inafferrabile? Come una battaglia con se stesso perduta in partenza. Deglutì a vuoto.

 

Osserva bene, figlio; impara bene la lezione; dopo, sarai libero di maledire e detestare questo per tutti i giorni in cui continuerai a calcare questo mondo con i tuoi passi.

 

- Lui… – la sua voce vibrò, i lineamenti del volto che si contraevano nella follia – Lui che corre! Le lacrime bruciano ancora…

Riuscì a percepire un lieve fremito d’orrore sul volto del compagno. Un gemito infernale che implodeva nella sua testa. Un grido privo di voce, una specie di “no” dall’eco infinita. Le ultime forze di quella fievole scintilla che aveva lottato strenuamente, venivano meno, si ritraevano, sconfitte. L’ultimo fremito di un’umana consapevolezza che si dimenava in lui, a vuoto, e non accettava l’ineluttabilità crudele. Prima dell’inevitabile.

Hai perso di nuovo la tua scommessa, caro mio.

Collassò su se stesso.

 

La sua dolce, piccola preda piangeva, schiena contro il muro… Oh, la dolcezza inafferrabile della mano con cui si strofinava goffamente la faccia, desiderio manifesto di disperdere nel vento le lacrime, il dolore che gli pungeva il petto. E quanto male inutile, intorno a quell’essenza così delicata…

E forse sarebbe stato sufficientemente accorto da rendersi conto per tempo dell’orrido esserino dalle grandi ali scure che zigzagava da un capo all’altro dello stretto viottolo. Se solo la sua visuale non fosse stata compromessa a tal punto dalle lacrime che gli bruciavano gli occhi, tanto da infrangere la porzione di mondo che si mostrava dinnanzi a lui.

Lo sentiva: i riccioli biondi scomposti, la trama sfilacciata di un pensiero in tumulto.

E poi lo vide annaspare a vuoto, le braccia protese davanti al viso, pallido tentativo di scongiurare il rischio di uno scontro di cui si era avveduto troppo tardi; troppo tardi, per poterlo eludere del tutto.

L’impatto gli esplose addosso, espandendosi dal centro da cui traeva origine ogni fibra del piccolo corpo, quando, in quel preciso frangente, il diabolico incantesimo s’infranse. Un urlo inudibile, la materia che costituiva il suo corpo ormai in procinto di riprendere la forma originaria, di trasformarsi e ridar vita ai muscoli deliziosamente allungati sulla solida impalcatura delle ossa, alle dita simili ad affilate, graziose propaggini per indagare l’ignoto, forzarlo alla propria mercé.

 

Un pipistrello ingannato dai propri sensi sottili, acuti come minuscole lame?

Certo non ti sarà capitato spesso: è tutto così grottescamente surreale, e tu sei un ragazzo giudizioso, Dorian, poco incline a lasciarti ingannare.

 

Neppure la presenza alle sue spalle, celata dal lungo mantello, doveva essere troppo dissimile, ai suoi occhi stravolti dal terrore, da quei sogni angosciosi nelle prime ore del mattino, quando il torpore che avviluppa i sensi si sfalda in un risveglio che ti coglie di soprassalto, la coscienza ancora impregnata di paura.

 

Ben svegliato, Dorian. Credo che non sia mai stato splendido come in questo momento.

 

Sapeva cosa fare. Qualcosa tipo attirarlo a sé, una mano premuta sulla bocca a soffocare l’urlo che presto gli sarebbe salito alla gola sotto l’imperio dell’istinto; e l’altra mano, attenta a non spezzargli qualche osso sotto la pressione di una forza dirompente sulla materia cedevole.

 

Sei così fragile e delicato. Da divorare dolcemente, senza alcuna fretta a rovinare il nostro momento.

Lotti come una piccola belva costretta in cattività, le dita tese ad artigliare il vuoto, come a voler dilaniare il tuo assalitore, e il tuo corpo si dibatte invano.

 

L’ultimo indugio fu il movimento impalpabile con cui provvide a scostargli i capelli che celavano il collo alla sua vista. Un gesto soave della mano lo indusse a reclinare dolcemente il capo sotto la sola luce dell’istinto, rivelando il candore paradisiaco di quel ritaglio di pelle fra orecchio e collo, la mandibola deliziosamente contratta sotto la cute alabastrina, pulsante di sangue e di vita; e, di lì, il suo sguardo prese a scorrere sempre più giù, lungo il percorso della gola, prima d’inabissarsi oltre le vesti.

Intuì il percorso della giugulare, il battito ben scandito sotto le sue dita mentre lo sfiorava e protendeva il volto verso di lui, lambendo per un attimo in punta di labbra il tracciato spezzato e tortuoso di una lacrima sulla guancia rovente, spazzata via dalla furia di quegli ultimi istanti.

E poi non vide più nulla, nel momento in cui s’immerse prepotente in lui, piccoli denti acuminati come spilli contro la carne tenera di quella gola fantastica. Nient’altro, se non la sua essenza che esplodeva viva dentro di lui: il sangue di Dorian, il suo corpo che si tendeva inconsapevole verso di lui nella morsa di un delirio selvaggio, devastante, i sensi che si confondevano in una danza infernale, fino a sbiadire l’uno nell’altro.

 

Sei tanto, tanto bello, mio piccolo Dorian…

Respira anche per me e per la mia giovane creatura, mio Dorian, e te ne sarò quanto mai grato.

Perché, in capo a qualche ora, quando l’estasi mi avrà abbandonato e sarò tornato in me, allora giacerò sotto il peso della più cocente disperazione, e la colpa mi corroderà le viscere.

Respira anche per me, stanotte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ps: dedico questo capitolo – l’ultima parte in particolare^^ – alla mia carissima Witch che ama tanto i vampiri… Sperando di non aver strizzato troppo l’occhio ad Anne Rice, scrittrice che, parentesi, adoro.

 

Pps: ultimo capitolo per questo 2009 che va ormai agli sgoccioli, in cui approfitto anche per lasciare a chi passerà da queste parti i miei più cari auguri per uno splendido 2010.

A presto!

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 26: La sete ***


 

Capitolo 26

La sete

 

 

Capovolto. Il mondo capovolto dinnanzi ai suoi occhi, vivo, pulsante di suggestioni inafferrabili, la linea spezzata di un pensiero che, stravolgendo l’ordine logico delle cose, annacquava e plasmava senza criterio ogni singolo oggetto.

Una pressione crescente gli pungeva il cranio, come se perfino i suoi capelli fossero divenuti un peso insopportabile che lo attirava dolorosamente in basso. Tante minuscole trafitture di spillo sotto la cute, come se il suo corpo fosse stato tramutato in fragile vetro.

E forse a quella cosa non importava granché, se le sue giunture cominciavano a dolere, a bruciare sotto la pelle tesa.

 

Piangevo… per Fernand. È tutto ciò che riesco a ricordare, a convogliare in una successione coerente; l’unica sensazione viva, come un ferro rovente incuneato a forza dentro la ferita.

E no, non rimuoverlo, ti prego: farà male. So che ne morirò, ma ti prego, lascia tutto così. Scorrerà meno sangue.

 

E poi… Tutto in fumo. Ogni impianto scompaginato da uno sbuffo d’aria nella notte; la variazione impercettibile di un istante in cui nulla, nulla rappresenta più un legame con quella realtà che pesa come piombo.

Il buio.

 

I suoi sensi riuscivano solo a frantumare le percezioni in un groviglio in cui tutto era stravolto, trasfigurato, precipitato nel caos, in un inestricabile tumulto fra realtà e immaginazione, annegato in un intrico di percezioni sconnesse che la sua sensibilità cutanea sintetizzava a fatica, che la mente si rifiutava di raccogliere. Una nenia ipnotica nella testa a far da cornice, da sottofondo illusorio della sua discesa vertiginosa nell’incoscienza.

Eppure faceva caldo tra le sue braccia, nonostante il suo respiro così freddo, un’unica nota carezzevole che ne stemperava l’impatto metallico, innaturale sul suo viso.

Attendeva, Dorian, sulla pelle i brividi di un desiderio improvviso, inconsulto. Qualcosa di conosciuto, un alienante déjà-vu che gli serpeggiava nelle carni. Tutto amplificato intorno a lui, nebuloso, distorto. Strizzò le palpebre. Tutto così… assurdo!

Vieni, avrebbe voluto ingiungergli con voce soffice. Alla creatura che lo teneva sotto il proprio imperio insindacabile. Ti desidero. Non indugiare ancora, metti fine all’agonia di un’attesa snervante.

 

Sei bellissimo, Dorian.

 

Solo un sibilo confuso nella sua mente, un debole miraggio. E il suo corpo scosso da un moto convulso, quando un formicolio intenso gli si addensò alla base del collo e risalì sottopelle con un moto circolare, ipnotico. Tanto da ritrovarsi inarcato verso la creatura che lo teneva avvinto a sé. Come la falena attratta dalla fiamma, oscillava verso di lui a chiedergli di più. Desiderio dirompente e sconosciuto, eco remota dall’intensità tremenda.

Ogni percezione giaceva capovolta davanti ai suoi occhi. E tutto sfumava, diventava vivo, divampava di mille luccichii confusi, il battito del cuore un rombo martellante che gli esplodeva nelle tempie, un intenso languore che gli mordeva il petto, sovrapponendosi ad ogni altra facoltà sensoriale.

E poi, di nuovo, il buio. L’insondabile buio.

 

* * *

 

Era stato poco più che un istante. La presa del suo compagno salda su di lui, quasi dolorosa. Lui. Il vampiro giovane. L’aveva ghermito alle spalle di sorpresa, unghie di diamante a perforargli la carne, e l’aveva scagliato lontano.

Niente male, per un novizio, avrebbe detto in un’altra occasione. Davvero niente male. Ora invece sentì la pelle del volto tendersi in uno spasimo d’ira, le labbra contratte in un soffio, come una fiera a cui è stato strappato il cibo di bocca.

Lui. La sua creatura torreggiava su di lui, le dita frementi di rabbia. L’aveva afferrato come uno straccio e strappato via, lontano da Dorian, per poi scaraventarlo contro il muro. Lontano da lui.

Digrignò i denti, un lampo di frustrazione a contrargli le viscere. Poi, lentamente, la rabbia scivolò via come gocce di pioggia, e un guizzo di razionalità riaffiorò sul suo volto livido, modellandolo in un’espressione meno ferina.

Sospirò: un secondo soltanto, e avrebbe potuto annientarlo. La sua creatura. L’aveva tradito.

Distratto, si portò una mano alle labbra, nettandole dal sangue rappreso.

 

Come stille di veleno. Veleno che torna a perseguitarmi, puntuale, appena le stelle tramontano sulla volta del cielo.

 

E per un istante riuscì persino a non curarsi di lui né di quel tremito oscuro in punta di labbra, come il battito di un cuore impazzito: c’era solo l’istante in cui lui e Dorian erano stati una sola cosa che respirava, una sola sorgente di sangue e spirito dirompente. Poi due mani l’avevano strappato via di lì, infrangendo la sua estasi.

Il suo compagno immortale gli volgeva le spalle, chino sul corpo privo di sensi di Dorian. Veloce, se lo strinse al petto come un fagotto, appena si avvide di quanto fosse vicino. I suoi occhi serpeggiarono di collera.

- Dannazione! – gli parve di sentirlo soffiare tra i denti.

Quei piccoli, adorabili canini vergini. Bianchi e incontaminati come il suo volto, come il manto di tristezza che gli aveva gettato addosso.

- Dio, è… È Dorian! – il suo sguardo scorse su di lui, in attesa; poi una specie di ringhio basso, gutturale – Che cosa gli hai fatto?

E lui, in tutta risposta, lo fissò con rabbia. Come se, di colpo, la sola vista gli desse la nausea. E il desiderio di schiaffeggiarlo.

- Avanti… – lo incalzò con un sussurro gelido, buttando le sue rimostranze nel dimenticatoio – Forza. Fammi vedere se hai imparato la lezione.

- Rispondi alla mia domanda.

- La mia era una risposta. Pensi che per te sarà… diverso? Migliore? Pensi di resistere ancora a lungo alla sete? Hai le labbra livide. Hai bisogno di sangue.

Il suo sguardo scivolò sul volto di Dorian. Il colore gli era già fuggito dalle guance. Avrebbe resistito ancora un po’. All’assalto della seconda delle belve affamate che avevano fatto di lui il loro singolare banchetto.

Ignorando le proteste del suo compagno che cercava di sottrarglielo, accostò il viso alla gola di Dorian e lo ripulì del filo di sangue che colava dalla piccola ferita. Un attimo prima di riporre lo sguardo su di lui e affrontarlo.

- Coraggio, mordilo! – gli sibilò con voce ghiaccia, dopo un lasso di tempo che gli parve eterno.

Gli premette le dita sulle labbra incontaminate.

Ridacchiò fra sé, quando avvertì le piccole zanne penetrare nel polpastrello con un impeto collerico che lo fece sussultare.

Ce l’hai ancora con me, piccolo? Non avevamo altra scelta: lo sapevi.

- Osserva – proseguì – Un piccolo… accorgimento, se così vorrai chiamarlo. Stavolta non lascerò niente al caso. Promesso. Niente errori… da principianti! Potevamo mandare tutto in fumo, capisci? Scatenare il panico. Stavolta, invece, starò attento a non lasciare tracce.

Un piacere sadico gli annacquò i sensi, quando vide i lineamenti scolpiti sulla carnagione di marmo della sua creatura contrarsi in uno spasmo inorridito. Metodico, attese che qualche goccia di sangue di vampiro dalle sue dita colasse sui piccoli fori sul collo di Dorian.

Lui aveva distolto lo sguardo, quando i margini delle minuscole ferite si riaccostarono l’un l’altro, celando ogni segno visibile. Sorrise.

- Un piccolo trucco per amici sospettosi dalla vista acuta – concluse.

- E… adesso? – il volto della sua creatura era il ritratto del terrore.

Indugiava.

- Adesso cìbati di lui, se lo desideri. Ma fallo con garbo, mon ami.

- Sei un bastardo. Vuoi esasperarmi.

- E tu cerca di muoverti! – lo redarguì, spazientito, allungando il passo lungo la strada, i suoi rimbrotti a rimestargli nella testa, ossessivi, come una cantilena inquietante.

- Tu sei pazzo! Qualcuno… Ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui. Non risponde più, dannazione…! Cosa gli hai fatto?

Qualcosa gli folgorò nella mente. Tornò sui suoi passi, le labbra increspate in un mezzo sorriso accondiscendente. Non aveva mai avuto l’intenzione di abbandonarlo lì, al centro della città, giovane e inesperto, con il corpo del reato stretto fra le mani. Ma voleva misurare le sue reazioni, la sua paura, saggiarlo lentamente.

Era vicino, adesso. E Dorian, esanime tra le sue braccia, un cumulo di stracci estremamente prezioso. I capelli biondi, ributtati disordinatamente all’indietro, rilucevano sotto il pallido chiarore lunare.

- Dorian, mi senti? – seguitava quell’altro, indefesso, un fastidioso miagolio che gli pungeva le orecchie.

Povero piccolo sciocco! Sei quasi peggio di me.

- Dobbiamo… portarlo via.

- Taci una volta per tutte, incosciente! – lui stesso trasalì al sibilo metallico che gli aveva spezzato la voce – Ci mancherebbe che non fosse svenuto! Che ci vedesse in faccia.

 

Dorian…!

 

Contrasse le palpebre, un accesso di dolore inchiodato al petto.

 

Fingi che non sia accaduto nulla.

 

- Dove l’hai perso, stavolta, il tuo unico barlume di umanità? – gli insinuò il vampiro giovane, beffardo – L’ultima volta era sotto il tuo letto…

E lui si sforzò ancora una volta di rimanere calmo, un sorriso esasperato sulle labbra scarlatte.

- Parli di… umanità? La tua è avventatezza, la forma peggiore di stupidità che potessi cacciare fuori – veloce, accennò con il mento alla bassa costruzione in fondo alla strada, al crocevia – Per di là. È tutto sotto controllo, e la locanda dei viscidissimi Lambert farà al caso nostro. Ci sono le lenzuola pulite e le puttane ad allietare la compagnia: cosa pretendi di più?

Si fissarono per lunghi istanti, in attesa.

Sciocco principiante!

L’avrebbe rispedito a casa a suon di calci e l’avrebbe tenuto lì fino a che non fosse stato di nuovo in grado di mettere il cervello all’opera. Se solo la sua presenza non fosse così dannatamente utile.

Lentamente, volse la testa verso di lui con un sorriso carico d’indulgenza.

- Avvicinati… – gli sussurrò – E promettimi che non farai nulla. Nessuna iniziativa da incoscienti.

Veloce, sollevò la manica fino al gomito; strinse le palpebre, nell’attimo in cui le sue stesse unghie si conficcarono nella pelle candida del polso, e il disegno violaceo delle vene in rilievo fu infranto dalla furia dell’artiglio acuminato che penetrava a fondo. Dal sangue che sprizzò tutt’intorno, frantumando davanti ai suoi occhi quella visione eburnea.

Barcollò sotto la cappa torbida di un orgasmo. In un ultimo guizzo di lucidità, afferrò il compagno per la nuca e gli premette la faccia sulla ferita pulsante. Come un cucciolo a cui insegnare come bere il latte dal piatto.

E poi fu solo la pace, una carezza liquida che gli sfiorò il viso, catalizzando di prepotenza ogni altra percezione. Si sentì venir meno, la mano libera premuta sul volto a soffocare un grido devastante, i cuori che acceleravano all’unisono.

 

Bevi da me, piccolo disgraziato! Sei un bambino che abbisogna di essere imboccato.

 

- Può bastare – gli ingiunse, categorico, respingendolo con un gesto che non ammetteva reazioni.

Si pulì con noncuranza e gli allungò una carezza sui capelli.

Lui aveva mutato espressione, le labbra deliziose bagnate di rosso come un ragazzino ingordo che si imbratta la faccia avventandosi sul cibo con voracità – e il pensiero lo nauseò. I suoi capelli erano morbidi, le iridi vibranti di sensazioni taciute sotto le sue dita, la bocca un frutto delicato. Era bellissimo.

La malinconia che gli serrava il respiro negli attimi immediatamente successivi al forzato banchetto, incalzò su di lui come una brezza gelida, una carezza beffarda prossima a diventare bufera. La magia sarebbe svanita, e un altro pezzo di sé stesso perduto, una scommessa azzardata al tavolo dei bari.

- Voglio andare via… – era la propria voce, ed era cambiata: la sentì scorrere nella gola, leggera, smarrita.

Lui gli si stagliò davanti agli occhi, visione prepotente come un agglomerato di contrasti abbaglianti – il volto di candida biacca, le labbra cremisi voluttuose. L’indecisione crescente e la consapevolezza del cambiamento impallidivano in un’impronta severa, risoluta.

- Prima dovrai… rimediare a questo – gli rammentò, accennando con occhi fugaci alla figura arruffata di Dorian accoccolata ai suoi piedi, il respiro leggero.

E lui annuì scuotendo il capo, e il corpo di Dorian fu di nuovo tra le sue braccia.

- Resta qui. Lo porterò alla locanda.

- Non così.

Immobile al centro della via, per poco non scoppiò in lacrime. Il suo granitico autocontrollo cedeva sotto i colpi serrati di un disperato estraniamento; e stavolta era stato lui, il suo giovanissimo novizio, la sua creatura, a porre rimedio alla sua avventatezza. Soffiò, infastidito. E poi osservò il fardello che reggeva tra le braccia con disinvoltura, e provò a considerare fra sé dove stesse l’inganno, stavolta.

Dorian aveva una statura notevole, e l’ampiezza generosa delle spalle lasciava intuire un corpo asciutto e muscoloso. Avrebbe suscitato curiosità, là dentro, il fatto che lui lo sollevasse come un gatto senza tracce di fatica sul volto.

La sua creatura aveva l’occhio lungo. Sarebbe stato perfetto. Un perfetto intrigante.

Svelto, lasciò tintinnare fra le dita un pugno di monete.

- Sistemerò tutto: non devi preoccuparti.

- Come sta Dorian? – seguitò l’altro, imperterrito, con l’insistenza di un ossesso – Gli hai fatto… male?

Sospirò. Sarebbe divenuta la nuova monomania, se non avesse provveduto a fugare quanto prima quel suo dubbio ancestrale. Lo fissò con occhi beffardi. Lui e la sua bocca impiastricciata di sangue.

- Ti risulta che io ti abbia fatto del male?

Lo soppesò di capo a piedi, il sopracciglio impercettibilmente inarcato.

- Non… non ricordo – le palpebre gli si assottigliarono nell’incertezza.

Se non altro, è sincero.

Distolse lo sguardo. Restavano due opzioni: troncare là il discorso, oppure chiudergli una volta per tutte quella bocca che sapeva di sangue con qualcosa davvero in grado di destabilizzarlo. Ghignò, mentre sceglieva le pedine da scagliare sul tavolo da gioco, un sorriso insinuante ad increspargli il volto.

- Allora… Prova a immaginare l’orgasmo di un uomo. Ecco… Pensa ora di travalicare il limite fisico. Qualcosa che sia fisicamente impossibile, come… Un orgasmo di seguito all’altro, senza sosta, potenziato fino all’estremo, nel giro di pochi secondi. Fisicamente insopportabile e meravigliosamente devastante per queste membra ancora tenere e cedevoli. Ecco, qualcosa di simile – cinguettò, accennando maliziosamente a Dorian.

 

Piccolo, sensuale Dorian…!

 

Se qualcuno – l’oste, magari – gli avesse chiesto spiegazioni sul momento, gli avrebbe raccontato del suo amico dai lunghi capelli biondi, della sua sbronza colossale e dell’assoluto bisogno di una dormita.

 

La tua ubriachezza non sarebbe fuori luogo, se qualcuno dei tuoi amici apprendesse la tua destinazione per questa notte, mio caro Dorian. Noi sappiamo entrambi il perché, ed entrambi sapremo fornire – quanto meno a noi stessi – una spiegazione passabile per vera.

I soldi sono al sicuro dentro il tuo mantello. Paga la notte e vattene a casa.

Ho pensato a tutto.

 

Indugiò con lo sguardo sul suo volto privo di espressione, immobile in una specie di trance indotta, mentre si premurava di infilarlo sotto coltri candide, rimboccate fin sotto il mento.

Per un attimo assaporò il desiderio di sfiorargli la fronte con un bacio, impalpabile come un ansito leggero. La sua pelle calda palpitò sotto le sue labbra, veicolo inconsapevole per sondarlo impunemente nella notte, i suoi pensieri come sogni confusi che si sovrapponevano l’uno sull’altro, come un tenero calore capace di immergerlo totalmente nella visione, di accoglierlo in sé.

 

Perdonami… Dorian.

 

* * *

 

La sera di Auguste fu un torpore febbricitante venato di incubi sconnessi e pieni d’angoscia; il suo unico, debole frangente di lucidità gli rammentò soltanto di Raphäel Lemoine, il volto pallido serrato in un’espressione rasserenante, nell’atto di somministrargli qualcosa.

 

Tutti cominciano a temere per la mia incolumità fisica. Credono che il mio sia un suicidio distillato nella danza crudele dei giorni e dei mesi, ben occultato fra essi. Una morte annunciata e consumata con comodo, un lungo stillicidio. Gettare la spugna e smettere di mantenersi in vita.

 

Da quando non mandavi giù un pasto decente, Auguste? Da quando non trascorrevi una notte di vero riposo?

È come giacere su un letto di spine la sera e ingoiare vetro nell’arco della giornata.

No, non lasciarti morire: lo avevi promesso. Tutto, ricordi? Tutto, ma non la resa ultima. Non la fuga, il nulla da cui non si torna indietro, l’insulto estremo alla sua memoria.

Qualunque altra cosa, Auguste.

Anche se ti sembra che il tuo stesso corpo rifiuti di mantenerti in vita, e ogni respiro è una boccata di fiele.

 

Sto bene. Non mi lascerò andare: promesso.

 

E poi, il delirio. Un lungo incubo privo di immagini che non lascia tracce al risveglio: neppure il ricordo, solo il sudore sulla fronte e il respiro come un torchio impazzito.

 

Quel… quell’incosciente, maledetto Raphäel Lemoine: deve avermi drogato senza farne parola con nessuno. Accidenti a lui, dannato moccioso intrigante, e al suo stupido intruglio.

 

Strizzando le palpebre nella spessa coltre di nebbia che gli incatenava i sensi, avvertì per un istante un bagliore luminoso dinnanzi a sé, una lama di luce che comunicava con il mondo esterno. O forse con lo stesso limbo in cui era precipitato.

D’istinto, piantò le unghie sulle lenzuola sfatte, artigliandole, sopraffatto da un capogiro nel faticoso tentativo di sollevare il capo.

L’unica sensazione fu un lungo brivido, come un battito mancato. E poi un volto che, in un lampo, mise a fuoco.

Un viso che no, non era quello di Raphäel Lemoine, sedicente cerusico da quattro soldi.

Era un volto di ragazzo, incorniciato da lunghi capelli ondulati, con occhi come tizzoni ardenti piantati nella neve e un sorriso sarcastico, l’immagine distorta da una sensazione fissa, persistente.

Auguste sbatté le palpebre e si costrinse ad incatenare lo sguardo sulla sua visione estatica. La morbidezza di tratti peccaminosamente androgini. Non ricordava cosa fosse accaduto in capo a qualche ora prima. C’era lui e c’era il caos, la caligine che ottunde le percezioni.

Fernand.

È restato a vegliare in silenzio, dopo che gli ho detto di tutto. Dev’essere impazzito.

Forse ho davvero oltrepassato il limite.

 

Perché ricordo la quiete dopo la tempesta, la droga che entra sfacciatamente in circolo senza che me ne renda conto, la pelliccia serica di un gatto accoccolato accanto a me, il corpo che vibra contro la mia mano aperta.

E poi lui che irrompe dinnanzi a me, il volto congestionato che si sforza di apparire indifferente. Gli occhi scintillanti, la smania di chiudere al più presto una maledetta questione, prima di impazzire persi in fondo alla strada sbagliata.

E poi, lottando contro il tremito che fino a pochi istanti prima gli impacciava le membra, cerca di ingannare l’insopprimibile cappa d’imbarazzo allungando una carezza al mio gatto, prima di ritagliarsi un proprio angolo all’estremo opposto del letto e sedere in disparte, raccolto su se stesso. Lui e il gatto.

 

Ricordo il fremente nervosismo con cui si ravviava i capelli dietro la nuca. Sulle spine, indeciso su quale fosse il filo più inoffensivo da cui iniziare a sbrogliare il sermone della pace.

Ricordo di averlo odiato, almeno per un istante. Per un attimo avrei preferito lasciarlo marcire nella sua angoscia, nel suo dolore.

Solo perché è lui, Fernand Laroche.

E, se fossi abbastanza malvagio, forse riuscirei a detestarlo almeno un po’, per il fatto di esistere e di essere foschia inafferrabile.

Per tutto ciò che è e rappresenta. Perché esiste, respira a pochi centimetri dalla mia faccia e osa presentarsi davanti a me con il suo dannato bagaglio.

Perché non è altro che un fatale conglomerato di tutto ciò che non sono e non potrò mai essere.

È gelo negli occhi, è istinto di fiamma. È coraggio, volontà indefessa e incorrotta. È l’animo fiero che ruggisce in faccia all’ingiustizia, e non lo farebbe, no, se non per un moto sincero del cuore.

È il corollario di tutto ciò di cui difetto tragicamente. È lo slancio e la purezza. È un piccolo angelo appena nato, e la luce implacabile che lo avvolge.

 

Perdonami se ti ho fatto del male, Fernand. Se l’unica impressione che ti ho lasciato addosso, incollata alle ossa, è di averti preso e stracciato in due, per poi lasciarti lì, col cuore agonizzante.

Ma tu sei… meraviglioso, anche se dalla mia bocca non le sentirai mai, queste parole. Perché, se anche è vero che ti ho lasciato un’eredità scomoda, non devi ringraziarmi mai, ma sputarmi in faccia, perché ti sto cacciando nel profondo inferno, e credimi, è il male minore.

È il tuo odioso momento di gloria, mio Fernand.

 

Lui se ne stava lì di fronte a me, senza muoversi. Potevo intuire la linea delicata del suo volto, l’ovale pallido come una visione nella nebbia, nel brusio che offuscava ogni percezione.

 

Sei tu, Fernand? A inchiodarmi dolorosamente a terra, impotente e sconfitto, o sono i tuoi occhi, la piega vagamente diabolica delle tue labbra?

 

Lui socchiudeva le palpebre.

 

Non parlare, Fernand. Ecco, non ora. Perché sentirei e ascolterei soltanto ciò che la mente seleziona sulla base di criteri oscuri. Sentirei la conferma dei miei timori.

E la tua sola vista, le labbra che smaniano per parlare, è sufficiente a far defluire il sangue dal mio viso.

 

Il suo volto è un velo di verità intrinseca, di chi ha deciso di denudarsi senza rimpianti. È un’artistica macchia di sangue su un drappo di seta.

Si tormenta una ciocca di capelli con dita rapide, tremanti. E poi si decide a parlare.

 

Quindi sarei io, la soluzione di tutto?

Preferisci tagliare corto, Auguste, puntare dritto alla soluzione che ti sembra più facile: lasciare tutto in sospeso e convincere la tua mente che sì, che non potevi più accollarti le tue responsabilità e continuare a lottare con noi?

Cosa sono io, Auguste, in tutto questo?

Sono la scelta di comodo, il male minore, l’insulto ben dissimulato, l’occasione di ripiombarmi addosso nel momento meno opportuno, di sviscerare i miei errori e dire “sì, Fernand, avevo ragione; te l’avevo detto, Fernand, ora levati dai piedi e lascia stare”?

 

Ma tu sei la giovinezza e il coraggio che non ho, Fernand. Io… sono stanco. Non sono la persona che credevi. Perché grido e giro attorno al dramma senza approdare a nulla, nell’ipotesi buona. Moltiplicando la portata del danno, nell’ipotesi peggiore. E questo è quanto.

Non puoi dire che non sia stato un buon “capo”, da questo punto di vista: non posso dire di aver scelto male i collaboratori. Ti sembra poco?

Non puoi dire che non abbia l’onestà di tirarmi fuori dalla questione, quando la mia presenza è di troppo, un cattivo burattinaio che non riesce più a tirare le fila.

È davvero così… detestabile, piena di interpretazioni distorte, la mia decisione? Se è così, incasserò il tuo parere e andrò per la mia strada. Perché non rimpiango ciò che ho fatto.

Il resto sarà carta bianca, nei limiti della vostra incolumità.

 

Lui impallidiva sotto il chiarore smorto di una luce stentata, malaticcia. Diceva che ero un dannatissimo testardo – ancora una volta. Che ero completamente pazzo, se pensavo davvero certe cose. O che baravo in modo così spudorato da non lasciare un margine d’errore. In tal caso, avrebbe provveduto personalmente a prendermi a calci fino a convincermi a riprendere in mano quello che secondo lui sarebbe stato il mio preciso dovere.

 

Non chiedo la luna, Auguste. Chiedo di recuperare il recuperabile. Non gettare tutto sul banco delle scommesse, alla rinfusa, il Caso unico giudice dagli occhi velati.

 

Ma io voglio andare via, Fernand. Vorrei solo specchiarmi in questi occhi di prezioso cobalto e dire che la mia vita inizia e finisce qua.

 

Cos’è questa… storia, Auguste? Hai forse paura? Illuminami.

 

La paura non è cosa di cui vergognarsi, Fernand. E stavolta non ho peccato di incoerenza.

 

È una soluzione stronza, Auguste. E… sbagliata. Vuoi sbarazzarti di te stesso. Di noi. Di tutto ciò in cui credevi.

 

Non è così, Fernand.

Decidi almeno tu che cosa fare: vattene oppure resta.

 

Non ricordo cosa sia accaduto dopo, perché i contorni si confondevano sull’orlo del precipizio. Credo di aver perduto il filo.

 

Ti stai uccidendo con le tue mani.

Diceva.

 

Può darsi. Perché neppure il duca, neppure il fatto di non vivere in una città libera, può togliermi l’ultima libertà. Ma non è il mio caso.

 

Tu hai bisogno di… qualcosa che ti faccia di nuovo vedere quel maledetto spiraglio, Auguste. Hai bisogno di qualcosa da amare davvero.

 

Amare può diventare il tuo supplizio permanente, Fernand, e mi meraviglio che proprio tu non te ne sia reso conto.

Non si può amare un cumulo di polvere che ti schiaffeggia in viso durante il sonno.

Per quanto mi riguarda, non ho bisogno di nulla, e questa è già una proiezione eccessiva, se ci pensi, un ragionamento troppo alto, prematuro. Possibile non te ne sia ancora reso conto, Ferdinand? È così… elementare.

Ho solo bisogno di seguire ancora un po’ con lo sguardo il gioco di luci sulle pareti in penombra, un bagliore improvviso a rischiarare le mie impalcature. E di osservare le farfalle al di là della mia finestra. Chiedo davvero troppo?

 

Ricordo che ad un certo punto abbiamo riso entrambi. A lungo, in un modo quasi… isterico. Liberatorio.

Prima che il suo volto d’aria impalpabile e sottile non si confondesse in un delirio di lava incandescente; qualcosa di tremendamente imprevisto, come l’innocenza stessa, che si posava a sfiorarmi le labbra.

E poi, giuro, è stato solo un subisso di brividi sotto la pelle, un’allucinazione più tangibile delle altre, un lento precipitare in un mosaico di follia, dove ogni singolo tassello si confondeva sotto il mio tocco.

Le labbra che scorrevano le une sulle altre come un incastro perfetto.

Sì, questo siamo noi, Ferdinand.

 

Ed ecco: morire adesso, per la seconda volta, non è una scelta da scartare a priori.

 

* * *

 

Fernand sorrideva dall’angolo opposto della stanza. In maniche di camicia, le braccia strette contro il petto, in attesa. Il sorriso che emergeva con strafottenza.

 

Che diavolo è successo, stanotte?

 

Aveva un nonsoché di beffardo, il modo in cui si avvicinava, i capelli scomposti intorno al volto di ghiaccio sottile.

 

Che. Diavolo. È. Successo. Stanotte.

 

- Cosa ci fai qui?

Fernand si limitò a ravviarsi in un gesto civettuolo, divertito, i capelli che gli erano ricaduti sulla faccia.

- Nulla. Dormivi. Come ti senti?

Auguste si tirò su a sedere, constatando con sorpresa quanto, in capo a… qualche ora? Qualche minuto? Non avrebbe saputo stabilirlo. Quanto ogni traccia di malessere fosse scomparsa in lui. L’incubo che gradualmente si era dissolto davanti ai suoi occhi, a parte quel sibillino sentore di stanchezza accumulato sulle ossa, reduce da un sonno scomposto che non ha apportato il sollievo dovuto.

- Meglio…

Distolse lo sguardo. Era stato ingannato, la sua razionalità strappata via, presa in prestito per una manciata di ore.

Si strofinò la faccia. Perché voleva ricordare. Lo voleva disperatamente.

Fernand sollevò gli occhi al cielo come se attendesse una risposta. Scosse il capo.

- Perché… proprio io, Auguste?

 

Te l’ho spiegato. Dannato ragazzino.

 

- Fingerò di non aver sentito, Fernand… – sogghignò: voleva godersi le scintille di rabbia che presto avrebbero increspato quel volticino senza tempo.

- Non ho intenzione di ripetermi – rimarcò.

- Non stiamo giocando, Auguste.

- Lo dico per questo.

Silenzio.

Fernand si lasciò scivolare sul pavimento, il mento sulle ginocchia, in attesa che gli spigoli vivi del sospetto più cocente scemassero nell’aria.

Auguste distolse lo sguardo. La nebbia che continuava a oscillare davanti ai suoi occhi.

 

C’è un altro motivo cruciale, anche se sarebbe meglio che non lo sapessi. E no: scordatelo che venga a dirti a viso aperto che sono un vigliacco. Ciò che tu, nella tua posizione mentale, chiameresti vigliaccheria.

 

Si tirò su in piedi, si diede un’occhiata sommaria. Aveva gli abiti stazzonati, ma, per il resto, non sembrava reduce da un torpore delirante. Non sentiva più la testa pulsare.

- Avvicinati, Fernand.

Lo osservò da vicino. Aveva gli occhi arrossati dal dubbio, le sopracciglia delicate modellate in un’espressione serena. Solo le labbra tradivano un che d’infantile e di sfrontato: il modo in cui le arricciava impercettibilmente.

Per un attimo, si ritrovò a distogliere il viso dal suo. Aveva maturato l’occasione, ed erano labbra che conosceva, tiepide contro le sue.

Era soltanto questo.

Ed era dannatamente diverso, ora, come una sensazione amplificata, assaporare la sua bocca senza che la visuale fosse offuscata da filtri come la disperazione o come l’intruglio che dona l’oblio che Raphäel gli aveva somministrato a tradimento.

 

Fermami adesso, Fernand. Te ne prego. Perché è così… dannatamente sbagliato, imprevisto. Non sono ciò che tu pensi.

 

Fernand non parlava. Non accennava a respingerlo. Dischiudeva le labbra, e in lui non vi era il gelo del rifiuto né uno sguardo d’accusa. Esplodeva contro di lui, la sua stessa presenza come un’esplosione di colore; era il sangue che correva ad incendiargli le gote, il respiro che vibrava sotto il guscio sottile della gola.

Era la voluttà aggressiva, costellata di deboli sprazzi di controllo, con cui lasciava scivolare le labbra sulle sue.

Era la frenesia con cui gli prendeva le mani e se le portava intorno ai fianchi, Fernand, le spalle scosse da un fremito profondo.

Erano mille tasselli che collimavano sul suo viso, che stravolgevano il suo ritratto.

 

È atrocemente… sbagliato, Fernand. Non è giusto. Non siamo nel giusto.

Abbiamo fatto l’amore, stanotte, Fernand?

Non farebbe una gran differenza dissipare la tenebra del sospetto. Non è cambiato nulla.

 

Lui premeva il proprio corpo contro il suo e con il respiro gli sussurrava che lo voleva, che voleva essere suo, una lacrima capricciosa a tracciare un languido ricamo sul suo volto.

Auguste serrò le palpebre, assaporando il suo profumo. Perché dopo, dopo nulla sarebbe stato come prima, e non sarebbero tornati indietro.

 

Vieni, mio Fernand. Sali su quest’altare e chiudi gli occhi, e non pensare neanche per sbaglio che qualcosa non ti sia dovuto.

 

Era una tela bianca da dipingere, Fernand. Da orlare di rosso e di lacrime roventi.

Era il colletto arioso della camicia troppo grande che gli oscillava intorno ai fianchi, mentre il corpo emergeva dall’intrico dei vestiti, fine alabastro culminante in un paio di spalle squadrate.

Era quella decina di dita sottili che gli insinuava alla base della nuca, spingendolo verso di lui, sempre più giù.

Era il ricciolo scomposto che gli ondeggiava candidamente sulla spalla, mentre, in silenzio, lasciava che due labbra sconosciute disegnassero una rete di vibrante estenuazione intorno alle clavicole.

Era il calore che lo assaliva all’inguine, mentre si lasciava trascinare schiena contro il tavolo.

Era il gemito che incideva l’aria intorno a lui, il respiro come una rapida carezza, Fernand. Il profumo in cui si sarebbe cullato in eterno.

Stava lì, chino tra le gambe di Fernand voluttuosamente distese, a modellare il suo corpo in una fitta d’impaziente desiderio. A scavargli addosso le voragini di una bramosia dirompente.

Sapeva di miele, Fernand, di una smania oscura e prepotente. Auguste lo osservava, beveva la sua lenta deriva della coscienza, il suo crescente smarrirsi.

I suoi fianchi dicevano . Che lui, Fernand, voleva fare l’amore con lui, e non sarebbe tornato indietro. Era pallido e grondava d’impazienza, le labbra socchiuse in un lungo sospiro, il corpo che ondeggiava lento contro il suo, il piacere convulso tradotto in uno strofinio ipnotico.

Auguste l’aveva accarezzato a lungo, mentre lo esplorava con impellente accanimento, assaporandolo lentamente e ascoltando il vibrare sotto la pelle.

Aveva un’enfasi quasi… sofferta, Fernand, abbandonato su se stesso, furioso nell’accogliere ogni fitta di piacere che gli veniva donata. Come se il languore di una sensazione protratta a lungo fosse semplicemente… troppo. Troppo per lui. Di un’intensità dolorosa, prossima a sprofondarlo nel delirio.

Era nudo, desiderio privo di filtri. Era ghiaccio reso ardente da qualche strano gioco di luci; era bellezza e piacere incontaminato.

Auguste tremò, nell’istante in cui penetrò in lui, e Fernand lo accolse con un morbido assenso, la mente ottenebrata dal deliquio. Si contorse in uno spasimo, la schiena inarcata.

Fu un istante. Fernand gemette, un sospiro roco, spezzato, pulsante. Si tirò su facendo leva sui gomiti, i muscoli contratti. Strizzò le palpebre come sotto una raffica violenta, il corpo che si distendeva sotto il suo, quasi a volerlo accogliere dentro di sé con ogni singola cellula. Le sue membra si serrarono su di lui come un guscio, il volto acceso di una sensazione sconosciuta; e per un attimo Auguste ebbe l’impulso di piangere, di interrompere quel folle volo e deporre Fernand su un letto di piume, nudo e intatto nel marmo pregiato della sua pelle. Così come l’aveva trovato.

 

Perdonami, piccolo…

 

Solo che poi sentì i suoi fianchi cedere, avanzare lentamente, attorcigliarsi a lui e mulinare dolcemente, in attesa. Era un fascio di nervi guizzanti. Lui. Fernand.

Distratto, Auguste gli disegnò una carezza lungo il petto, e indugiò ancora una volta, a lungo, sul suo sesso, pressato nello strofinio crudele di due epidermidi di diversa gradazione.

Fernand si sarebbe lasciato morire, fuso in quell’abbraccio famelico, un oceano di lava in punta di dita, e poi sarebbe caduto in deliquio, il battito sconnesso.

Lui invece preferì celare il proprio volto nell’incavo della sua spalla, immergersi nel labirinto dei suoi capelli e baciarlo, ripagarlo del dolore che gli aveva arrecato da sempre, dal giorno in cui, per un caso fortuito, si erano trovati nella stessa stanza a dividersi la stessa manciata d’ossigeno, in un luogo e in un tempo qualunque.

Aveva voglia di piangere. Di lasciar collassare ogni frustrante malinteso nel grido di un orgasmo; orgasmo che gli avrebbe offerto a piene mani.

A lui, il suo bellissimo Fernand che cercava le sue labbra e lo teneva stretto a sé.

Al suo Fernand che si lasciava annegare in un’ampolla d’etere dolcissimo, un guizzo d’incoscienza nelle iridi d’inchiostro liquido, mentre scivolava contro la superficie del tavolo, il cuore leggero e il volto assente, scavato nella nebbia.

Auguste udì soltanto un mugolio incomprensibile; osservò la propria mano, bagnata del seme di Fernand, rilucere lievemente nella penombra, e per un istante avvertì un moto di tenerezza, un senso profondo di appartenenza.

Poi Fernand si abbatté su di lui, la cute solcata da brividi.

E chissà, chissà quali frammenti di pensiero fluttuavano in quell’istante nella sua mente scollegata da tutto il resto, velata. Frammenti che sarebbero restati così. Incontaminati, raccolti sotto la barriera delle palpebre socchiuse.

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 27: Il male minore ***


Capitolo 27

Il male minore

 

 

Auguste sbatté le palpebre sotto il cono di luce calda gli si era abbattuto sul volto, forzando il suo risveglio.

L’intero istante successivo fu dominato dalla visione di Fernand accoccolato lì accanto, i capelli chiari che gli ruscellavano sulle spalle. Riposava al suo fianco, il capo timidamente reclinato sulla sua spalla, e per un istante i suoi lineamenti delicati che sfumavano davanti ai suoi occhi in un velo sottile di caligine, tra il biancore abbagliante delle lenzuola e le curve dell’oblio che gli offuscavano la mente.

Scosse le ciglia, quasi a voler sottrarsi al magnete che continuava a proiettare il suo sguardo su di lui, un velo sottile di penombra che si addensava intorno agli occhi socchiusi e sotto le ciglia, inedita dolcezza raccolta nella piega delle labbra.

Sospirò. L’aveva sorretto tra le braccia e deposto sul letto come un fagotto estremamente prezioso. Solo qualche ora prima. E Fernand aveva accostato la guancia umida alla sua, offrendosi debolmente alla sua stretta.

Auguste avvertì il suo essere collassare nelle scintille di quella notte.

Un istante. Fernand che gridava il suo piacere di fuoco liquido e si lasciava andare alla deriva. Forse aveva davvero perso i sensi tra le sue braccia – oppure era troppo stanco, stremato dall’ondata densa di piacere che gli si era infranta addosso; troppo, per riprendere di coscienza e trascinarsi a letto con la sola forza delle sue gambe.

 

La lama di luce che lo aveva distolto dal suo sonno di piombo riprese a solleticargli le ciglia. Il suo primo istinto fu di stringersi a Fernand, braccia abbandonate lungo i fianchi e muscoli rilassati, il viso immerso nel sonno simile ad uno strato di marmo sottile appena mosso in superficie. La trama di un istante fissata in un sospiro leggermente strascicato.

Auguste sbatté le palpebre, mentre Fernand si allungava lentamente al suo fianco. Sembrava… diverso, intimamente diverso – solo rispetto a poche ore prima –, come se la frenesia di quella notte si fosse adoperata a riempire una tela vuota. In silenzio, osservò i suoi capelli allargarsi sul guanciale come una cascata, come il ricamo deliziosamente cesellato delle sue giunture. Pelle bianca e muscoli tesi sotto la cute, e il petto e le spalle ricettacoli di eburnea perfezione.

Mio Ferdinand

Era stato con lui. I suoi capelli intrecciati fra le dita, labbra contro labbra, e le loro intimità a sfiorarsi.

Si strinse a lui: no, non l’avrebbe distolto dal suo torpore. Voleva solo sentirlo caldo e vivo sulla propria pelle, strettamente allacciato a lui com’era stato quella notte. Perché tutto era accaduto in una notte.

Spalancò gli occhi nell’incertezza. Fernand si mosse nella nebbia del sonno che si affievoliva dinnanzi a lui, e per qualche attimo si lasciò cullare dalle sue braccia.

Auguste gli scostò i capelli dal viso, scendendo poi a disegnare in punta di dita il contorno nitido delle spalle. Serrò le palpebre, la confusione liquida e mutevole del risveglio che gli scompaginava la mente.

Lo amava. Era solo questo. Nient’altro, in fin dei conti.

Avvertì un morso di tenerezza, un atavico istinto di protezione serrargli lo stomaco, quando Fernand rotolò verso di lui, imprimendo un contatto più stretto fra loro. E respirando contro il suo petto.

Un bacio appena accennato sulla fronte fu sufficiente ad accelerare la sua ascesa dall’oblio alla veglia. Fernand si riscosse.

- Auguste, io… – biascicò con voce roca, come un gatto geloso d’attenzioni: attenzioni che presto si affrettò a reclamare, piantandogli addosso i suoi occhi di metallo e sussurrandogli obbedisci.

Auguste immaginò la linea diritta dei suoi fianchi nell’atto di ruotare verso di lui, il movimento morbido attutito dalle lenzuola. Non era ancora giunto il gelo della consapevolezza a spezzare l’incanto, né la percezione nominale di ogni implicazione esterna.

Un lampo che gli esplodeva nella mente, repentino. Lucien, Emilie. Dorian. Ambrosie e Raphäel che forse – chissà… – giocavano a farlo impazzire con i loro giochetti d’astuzia, lei con l’intreccio ipnotico delle parole, lui con quegli occhi ambigui e con la somministrazione di droghe a tradimento.

E chissà quale altro conflitto nell’aria.

Ed ora, era innocente ciò che era accaduto, oppure si trattava ancora una volta d’imboccare la strada sbagliata con il più ampio margine di rischio?

Fernand scosse il capo, quasi a leggere i suoi dubbi.

- Auguste, non serve dubitare ora. Mi basta quello che ho visto. Che ho sentito sulla pelle. È reale. Siamo io e te.

 

Non parlare in astratto, Fernand. Non recitare filastrocche imbastite sul momento. Non tentare l’ennesima astuzia. Vuoi chiedermi se tutto questo, per me, ha significato qualcosa?

 

- Non vedo di cosa potrei dubitare, Fernand. Abbiamo fatto l’amore, è piuttosto chiaro.

- Abbiamo fatto l’amore… – gli fece eco Fernand, la voce pericolosamente serpentina, per poi stringersi nelle spalle.

Auguste distolse lo sguardo. Avvertì l’impronta di un sorriso formicolargli sulle labbra, al pensiero di conoscere ormai pressoché alla perfezione ciò che si celava sotto le lenzuola. La pallida levigatezza della sua pelle, l’armonia delle sue membra decise. Il calore palpitante del suo sesso mentre lo stringeva a sé.

- E questo non toglie che lo rifarei – si affrettò a sottolineare.

- Cosa succede, Auguste? – Fernand si tirò su, puntellandosi sui gomiti.

Una ciocca di capelli gli ricadde davanti al viso.

- Succede che hai vinto.

- Io non… – Fernand lasciò vagare lo sguardo intorno alla stanza, smarrendosi nei suoi pensieri.

O, chissà, forse voleva solo guadagnare tempo. Estirpargli le parole a tempo debito con un paio di tenaglie affilate.

- Credo di amarti, Fernand. È questo che ti getta nel panico?

Fernand aggrottò la fronte. Per un istante, Auguste fu certo di veder scorrere sul suo viso un lampo quasi sofferente. E poi una sorta di sorriso – un’ombra sfuggente sulle labbra, presto celata dalla massa arruffata dei suoi capelli –, mentre si lasciava avvolgere dal suo abbraccio.

- Quindi, Auguste… Era questo. Il tuo problema impronunciabile!

- Non si chiama problema e non è soltanto questo, Fernand.

- Si chiama gelosia, Auguste. Ti sei ficcato in testa che per qualche strano motivo io avrei i requisiti per portare a buon fine ciò che tu ti sei limitato a iniziare. E se questo da una parte ti era sembrato utile per sollevarti delle tue responsabilità, dall’altra ti sta portando all’ossessione. È così? Da quanto?

Auguste si sforzò di mantenere lo sguardo fermo.

- Dannazione, Fernand! Perché riesci sempre ad inquinare tutto a tutti i costi, a vedere il marcio dappertutto e in qualsiasi momento?

- Oh, era una piccola constatazione. Ed è qualcosa che ora riguarda me e te a pieno titolo, stavolta. Avrò forse il diritto di sapere perché improvvisamente vuoi che stia con te?

- Che razza di domanda idiota…!

- Cos’ha riacceso il tuo interesse nei miei confronti, Auguste? Fino a ieri mi guardavi come se mi odiassi. Poi sei diventato… strano.

Auguste soffocò l’impulso di scoppiare a ridere.

- Sei bello, Ferdinand. Come dovrei guardarti, scusa?

- ‘fanculo!

- Sei terribile! – Auguste si svincolò lentamente dall’abbraccio, un misto d’ironia e perplessità – Ti rendi conto almeno un po’? Mi abbracci e al tempo stesso cerchi di ferirmi… Dannata lingua tagliente!

- Quindi – Fernand sorrise, sibillino – Sarei una specie di demone tentatore… È corretto?

- No. Penso solo che tu sia un po’ troppo abile a confondere le idee. Non marciarci sopra a lungo, Fernand. Pensi che non stia giocando a carte scoperte?

- È che… non è chiaro dove tu voglia arrivare. Solo questo – Fernand si ravviò nervosamente i capelli.

- E dove vorrei arrivare…? Sentiamo un po’ dove vorrei arrivare.

- Oh, questo dovresti saperlo tu. A indorare la pillola fino a portarmi sui tuoi propositi, naturalmente. È la logica del male minore, Auguste: meglio quella gran testa calda del Laroche… di qualcuno tipo Dorian, magari – un sorrisetto sagace gli increspò le labbra, gli occhi stretti a fessura.

Auguste fece appello a tutta la propria volontà per mascherare la sensazione di gelo che gli aveva attanagliato le ossa, non appena il nome di Dorian gli era rimbalzato nella testa.

- Mi fido di te, Fernand – si limitò a sussurrargli.

- Non ti fidi di Dorian.

- Dorian non c’entra nulla. Si parla di me e di te, in questo momento.

- Già. Però, se permetti, vorrei essere sicuro di meritare davvero la fiducia dell’ultima persona che mi sarei aspettato. E della persona con cui ho appena fatto l’amore.

Auguste stirò le labbra in un mezzo sorriso spazientito: adesso era guerra aperta.

- Immagino che il tuo amico dai riccioli biondi ti abbia riempito la testa a dovere. Della sua versione, naturalmente. Sai, Fernand: sono meno sprovveduto di quanto voi pensiate. È difficile immaginare che lui non si sia mai lasciato andare a qualche confessione al suo miglior amico davanti a un bicchiere di vino. Sbaglio? – sorrise, condiscendente.

Giocare sulle reazioni di Fernand stava diventando un’allettante caccia al tesoro. E, se fosse stato abbastanza cauto, sarebbe persino riuscito a non sconfinare nella lite.

- Questo non è importante, Auguste – Fernand scosse il capo, le braccia incrociate sul petto – Io vorrei… poter fare qualcosa, davvero.

- No – lo interruppe Auguste – Tu non farai un bel niente. Lascia stare. Non parlarne. Fai conto di non aver mai sentito nulla.

- Non posso fingere di non sapere nulla. Pensi che io sia… venuto a letto con te per perorare la sua causa?

- Non è neanche questo – Auguste si sforzò di sorridere, rassicurante – No, Fernand… Dannazione! Penso che il signor Desgrais abbia messo un po’ troppo di suo dentro questa testolina – gli soffiò, le dita che correvano ad arruffargli i capelli sulle tempie.

- Il signor Desgrais che non è il signor Desgrais? – puntualizzò Fernand, caustico.

- Dio…! – Auguste sollevò gli occhi al cielo, il fianco scoperto di fronte alla stoccata improvvisa.

Per un istante si domandò quanto sarebbe stato lecito e conveniente impacchettare ben stretti in catene quei due sciagurati e spedirli in qualche posto lontano e sicuro senza colpo ferire.

- Fernand, non sono affari che ti riguardano!

- Pardon, io credevo che mi riguardassero eccome… – un bagliore luciferino gli lampeggiò in fondo alle iridi – Sono o non sono il nuovo… capo? Avrò diritto di sapere come diavolo muovermi nel marasma che ti sei lasciato alle spalle?

- Innanzitutto, tu non sei a capo di nulla e non sei il capo di nessuno – si affrettò a redarguirlo Auguste – Come se non bastasse, le cose a cui ti riferisci non hanno niente a che vedere con te né con ciò che ti chiedo di fare.

- D’accordo, come vuoi tu… –Fernand annuì, lo sguardo scettico fisso in un punto imprecisato in fondo alla stanza – Anche se non sono sicuro di aver capito.

- Hai capito, Ferdinand! – Auguste lo scosse per le spalle, lo sguardo fermo – Lascia fuori Dorian da questa faccenda. Non metterti e non farlo mettere in situazioni di pericolo. E dato che il tuo amico ti sta molto a cuore, la cosa migliore che puoi fare per lui è fare in modo che se ne stia il più possibile alla larga. Lontano, esposto il meno possibile… Non lasciare che agisca in prima linea. Che si avvicini a Palazzo du Lac.

- Insomma… – Fernand arrotolò distrattamente una ciocca di capelli tra le dita – Dovrei tramutarmi né più e né meno in ciò che tu sei stato per mesi nei nostri confronti. Dovrei recitare la mia parte. Trattarvi tutti da bambini scemi e imbastire segreti uno dopo l’altro. Sai che noia…!

- Proprio così. Non c’è nulla di divertente – replicò Auguste, secco – E assecondare Dorian è quanto di più imprudente possa fare.

- Dove vuoi arrivare? – Fernand spalancò le palpebre, interdetto.

- Non voglio vedervi giocare a viso aperto.

- Tipo?

- Tipo scatenare tumulti in città… Perché lo so, Fernand, vi conosco, non sono un ingenuo: è la prima cosa che cerchereste di fare, che state caldeggiando da secoli, non è così? Vi dareste alla pazza gioia. Ed è ciò che temo più di tutto il resto. Soprattutto per Dorian… non è mai stato troppo ragionevole da questo lato. Pensa che uccidendo il duca risolverebbe ogni problema.

- Auguste, parla chiaro! – Fernand scosse la testa, spazientito – Perché non provi a… parlare con lui? Con Dorian, anziché con me?

Auguste chinò lo sguardo. Per un attimo fremette nel desiderio bruciante di aggredirlo con parole abbastanza dure da cancellare in lui ogni velleità d’infilare il naso nelle faccende tra lui e Dorian. E, con Fernand, sapeva che sarebbe stata una scommessa persa in partenza: avrebbe finito soltanto per esacerbare il desiderio di Fernand di agire di testa sua.

Sospirò: era chiaro come il sole che la piccola serpe aveva agito in modo da far pendere l’ago della bilancia dalla propria parte, a fare di Fernand un suo alleato prezioso. E doveva averlo imbottito per bene di chiacchiere, rifletté, mordendosi nervosamente il labbro.

E ora era necessario contrapporre qualcosa a proprio favore. Ad esempio, snocciolargli la sua versione dei fatti, la sua campana – ma era quanto di più avventato avesse potuto fare.

- Ferdinand… – gli sussurrò alla fine – Basta così. Non ne verresti a capo.

- Ma Dorian… sta male. Non si fida di te, non si fida più di nessuno.

- Me ne ero reso conto anche da solo. Ed è il male minore – concluse, serrando le labbra.

Era quasi ipnotico il modo in cui Fernand giocherellava con il bordo del lenzuolo. Distrattamente. Qualcosa gli suggeriva che il piccolo intrigante numero due avesse qualche altra carta consistente da giocare.

- Allora, mettiamola così – Fernand mosse di nuovo lo sguardo su di lui, i palmi in bella vista come a dire non c’è trucco e non c’è inganno – Io non metterò il naso nelle tue… nelle vostre faccende personali. Non farò domande. Questo però non toglie che esiga chiarezza almeno da parte tua – chinò lo sguardo, colpevole – Io non c’entro nulla, siamo d’accordo. Però credo che tu sia l’unico, in questo momento, a dover aiutare Dorian. Soltanto questo.

Auguste sorrise, accondiscendente.

- Temo ti stia chiedendo se ciò che ho fatto finora, qualunque cosa sia, abbia avuto lontanamente a che fare con il bene di Dorian: è questo il dubbio che ti rode?

Fernand gettò il capo all’indietro, soprappensiero, un misto di stupore e sollievo a pervadergli i lineamenti.

- Esatto… – cinguettò, sornione – Riesci a leggermi nel pensiero?

Ad Auguste parve pressoché doveroso regalargli un breve sorriso. Si sporse verso di lui. Non è stato difficile, stavolta.

- Perché avrei scelto te, se non fosse così? – gli sussurrò – In ogni caso, la risposta è . Per Dorian sarebbe il danno minore.

- Il danno minore? Devastarlo di dubbi? Tenerlo all’oscuro… di se stesso, del suo passato… della stessa causa per cui sta lottando? È… meglio?

Auguste fu tentato di domandargli a bruciapelo fino a che punto Dorian l’avesse introdotto alla conoscenza di cose che non avrebbe dovuto sapere. Fino a che punto si fosse spinto in là con le sue confidenze da ubriaco – perché doveva essere stato senz’altro ubriaco, Dorian, per lasciarsi andare a confessioni da perfetto incosciente.

Tuttavia, qualcosa, ancora una volta, gli disse che ancora una volta tacere sarebbe stata la scelta migliore. Barcamenarsi a stento, in bilico su un filo di lana, basandosi sulla semplice intuizione e sulle mezze verità che galleggiavano in quel delizioso cervello in fermento.

- Non è il momento, Fernand. La posizione di Dorian è delicata, e vorrei che tu mi aiutassi a… proteggerlo da quello che potrebbe fare – Auguste sentì la testa girargli, la sua stessa richiesta come una spada arroventata a un soffio dalla sua pelle – Per favore.

- E da cosa dovrei proteggerlo? – Fernand inarcò un sopracciglio, dubbioso.

 

Legittimo, dannazione. Dubbio legittimo. E legittimo, a questo punto, chiedersi se la persona con cui ha appena condiviso il letto non sia completamente pazza o in preda a strane visioni.

 

- Da se stesso, Fernand. Da certi gesti avventati pienamente nel suo stile. Ora, se permetti, preferirei chiudere la questione. Almeno… per adesso – tentò di risolvere.

E poi tacque. In silenzio, osservò Fernand, raggomitolarsi sotto il velo sottile delle lenzuola, meditabondo, un velo di tristezza incollato alle palpebre. Per un istante gli si figurò nella mente il suo corpo nudo, le braccia nervose tese ad abbracciarsi le ginocchia e i brividi sulla sua cute, sotto quell’unico schermo di stoffa sottile che li divideva, celandogli il suo corpo – e la loro notte di cristallo fragile, splendido nei suoi bagliori mutevoli.

Fu colto da un fremito di dolcezza. Era lì accanto a lui, una barriera sottilissima a separarli, e solo un istante per squarciare l’intrico dei dubbi che continuavano a rincorrersi, interponendosi tra loro.

Fernand si fissò le mani, quasi a evitare i suoi occhi.

- Perché hai scelto me, Auguste? – domandò di colpo, riaccendendo come per magia l’enfasi di un discorso che si era sforzato di ricacciare nel limbo del non detto.

- Mi pare di avertene parlato. Mi fido di te, Fernand.

Lo vide trattenere a stento una risatina beffarda.

- Tu ti fidi di me?! Del Fernand impulsivo, scavezzacollo e menefreghista? – sogghignò.

- È ovvio che non lo sei – Auguste s’impose la calma – Dannazione: vuoi costringermi a riprendere da capo fottutissimi discorsi, visti cento e mille volte? Vuoi che ricominci a elencarti per filo e per segno tutto ciò che penso? Credevo di essere stato esaustivo. Possibile che trovi divertente rifugiarti ancora in vecchi pregiudizi?

Fernand sollevò gli occhi al cielo.

- Non eri in te quella sera, Auguste. Stavi andando a seppellire Lucien, non eri lucido e l’unica cosa che desideravi era sbarazzarti del tuo fardello.

- Io voglio sbarazzarmi di un fardello, Fernand. Ma vorrei anche lasciarlo in buone mani. Se possibile, migliori di quelle che le hanno precedute.

Era così. Sputò fuori la mezza rivelazione che si teneva annodata alla gola da giorni o forse da mesi, come un veleno covato troppo a lungo, come una pallottola conficcata nella ferita, da rimuovere al più presto.

Fernand si dondolò su se stesso, gli occhi semichiusi.

- Voglio tornare al borgo… – mormorò sul filo di un pensiero espresso a voce alta, le labbra malferme – Preferisco gli occhi di mio padre che mi guardano con sufficienza, come il ragazzino viziato e troppo schizzinoso per sporcarsi le mani…

- Questo non è vero – Auguste alzò la voce senza quasi rendersene conto, interrompendolo – Tu non desideri tornare a casa, Fernand.

- Perché proprio me, Auguste? – Fernand gli scoccò un’occhiata implorante.

Auguste chinò lo sguardo. La verità bruciava. Era sufficiente anche un solo brandello.

- Perché io ho sbagliato, Ferdinand – proruppe – Ho sbagliato sin dal primo istante. A guardarti come un ragazzo petulante e vanaglorioso… Troppo freddo e concentrato su se stesso per portare avanti qualcosa non finalizzato alla propria autoaffermazione. Invece no, non è stato così. Ho scelto te perché era la cosa più giusta – deglutì, a disagio – Perché sei la sintesi delle qualità che mi mancano per portare tutto a compimento come dovrei. Perché io… non sono come te, Fernand. C’è bisogno di qualcuno a cui non tremi la mano, che non si porti addosso il fango di troppe sconfitte e incertezze.

- Questo non è corretto, Auguste… Ti stai dando del vigliacco da solo – Fernand cercava di tergiversare con un’enfasi che gli riempì il cuore di nostalgia – Che diavolo avrei io di speciale?

- Fa’ come ti ho detto, Fernand. Sono domande inutili. Ti basti sapere che c’è bisogno di Fernand e non di Auguste. Io non ho il tuo coraggio. Sei giovane, sai come stanno le cose, ed io ho stima e fiducia per te. Cosa manca?

- Una motivazione che stia in piedi.

Auguste lasciò che sulle sue labbra affiorasse un sorriso tirato.

- Rigirala come vuoi, ma non hai molta scelta. Se io abbandono il campo, dopo di me resti tu. Pensi che mi sia divertito, in tutto questo tempo…? Ciò che fa male, Fernand, è che io l’ho sempre saputo. E bruciava, maledizione. Pensare che in casa mia esistesse qualcuno più adatto di me e che io mi stessi semplicemente rifiutando di vederlo, di ammetterlo a me stesso, mentre usurpavo qualcosa che non mi apparteneva più da tempo… Questa era la mia causa, Fernand. Poi sei arrivato tu… è arrivato qualcuno migliore di me. Eri la persona giusta, ed io non avevo più senso. Specie dopo quel che è successo. O io o te, Fernand.

- Sei geloso…

- Di cosa? Del fatto che tu abbia dieci anni in meno di me, che non ti trascini certi errori dietro le spalle e che abbia ancora i nervi sani? Non c’è nulla di cui essere gelosi né di andare fieri, Fernand. La tua presenza è un dono del cielo.

- Non adularmi, ora. È che non vuoi Dorian tra i piedi. E ti sei tirato elegantemente fuori dalla questione al momento giusto.

- Hai indovinato – Auguste si costrinse a fissarlo negli occhi – Non voglio Dorian tra i piedi per la sua incolumità personale. Ma chissà, volendo potrei estendere lo stesso discorso a chiunque altro. A te, o a tua sorella.

- Che cosa diavolo ti ha fatto Dorian?

Auguste ebbe l’illuminazione, tanto che per un momento temette di esplodere in una risata inarrestabile. Cosa gli aveva fatto Dorian… La tentazione di prenderlo in giro, di metterlo definitivamente nel sacco era più forte che mai.

- Nulla di personale, Fernand… A parte questo – gli soffiò, sfiorandogli la gola nel punto in cui un segno rosso campeggiava in tutta la sua evidenza.

Il chiarore del mattino, sempre più esteso nella stanza, giocò a suo favore.

Un’espressione di trionfo gli stirò i muscoli del volto, quando vide Fernand avvampare di colpo. E poi si rese conto che era meglio di mettere fine al suo giochetto nel momento stesso in cui era iniziato, e prima che Fernand equivocasse sul serio.

- Queste sono sciocchezze, Auguste…

- Scusa… Non ho potuto resistere.

- Bravo, Auguste. Sei riuscito a farmi sentire in imbarazzo.

- Non si può dire sia stata una passeggiata.

Silenzio. Fernand fece saettare lo sguardo su di lui, le labbra che si dischiudevano in un sorriso indecifrabile.

- Non puoi farlo, Auguste.

- Che cosa non posso fare? – Auguste trasalì; una parte di lui fu tentata di scoccargli un’occhiata divertita.

- Confondere le due cose, mischiarle fra loro. La fiducia che sembri volermi accordare, e il fatto che…

Auguste indietreggiò d’istinto, puntellandosi i gomiti, mentre Fernand accostava il viso al suo, con noncuranza.

- Beh. Che ti sia invaghito di me, no? Io ti piaccio… – scandì con tutta naturalezza, un lungo miagolio che gli s’incuneò sottopelle.

- Sei terribile… – Auguste scosse il capo, scettico, evitando lo sguardo.

A tentoni, allungò la mano oltre il bordo del letto, verso il pavimento, alla ricerca della propria camicia abbandonata da qualche parte intorno al letto.

Poi Fernand si sporse verso di lui, il volto punteggiato da una viva enfasi ironica e, sfrontato, gli catturò le labbra con le sue.

- Così diventi prevedibile, mon ami… – gli sibilò, a un filo della superficie ultrasensibile della sua bocca.

Auguste lasciò scorrere una mano sul suo petto – contorni da tracciare dolcemente, in punta di dita –, vana ambizione di cancellare dai suoi occhi quell’espressione sfacciatamente padrona di sé, da burattinaio astuto.

- Non c’entra nulla, Fernand – tentò di rassicurarlo – Sono due cose separate, e questa è l’insinuazione più fantasiosa che abbia mai sentito.

E poi, qualcosa lo costrinse a socchiudere gli occhi. Trattenne il fiato. Non vedeva Fernand in volto, ma poteva sentirlo ridacchiare sommessamente, mentre si piegava su di lui e lo attaccava di sorpresa alla gola in un tripudio di leggeri sfioramenti. Il suo respiro pareva uno spasimo di gioia all’idea di farlo fremere sotto di sé, di calibrare dolcemente ogni sua sensazione. Illudersi di tenerlo per qualche istante in proprio pugno.

- Non del tutto, Auguste – Fernand sollevò il capo, piantandogli nuovamente addosso le iridi azzurre – Questo… baciarmi, toccarmi, fare sesso con me, ti dà motivo di conoscermi nel suo significato più completo. E forse di manipolarmi in futuro, chissà… Sono un foglio bianco ben mappato.

- Che sciocchezze, Fernand! Come puoi prendere per buone delle assurdità simili? Mi accusi di… sfruttarti? Di manipolarti usando il mio corpo? Mi dai della puttana? – Auguste sentì uno sgradevole formicolio stringergli la gola come un senso di strangolamento: era la vertigine che gli provocavano le velate provocazioni di Fernand, in sospeso tra la convinzione sentita e il ragionamento astruso – Allora potrei dire la stessa cosa di te: perché abbiamo appena fatto l’amore e tu mi parli di Dorian? Dopotutto, sei stato anche con lui…

Fernand impallidì, scostandosi da lui come alla ricerca di una boccata d’aria, di una via di fuga. Tanto che per un attimo Auguste credette che fosse davvero sul punto di scappare, lasciandolo in pasto ai dubbi che lui stesso gli aveva spinto a forza nella testa.

- Mi stai umiliando… – Fernand tirò su con naso, i capelli buttati sulla faccia come a voler schermare gli occhi lucidi – Ti giuro che non lo farei mai.

- Fernand – cautamente, Auguste gli prese il volto tra le mani, stringendolo in una carezza – Non… dubitavo di te. Davvero. Non mentivi stanotte né in questo momento. Non l’ho pensato nemmeno per un istante.

Fernand sbatté le ciglia. Una patina di fiducia fece capolino nei suoi occhi come un alone appena percettibile.

- Allora sarò sincero. È come dici. È vero: sono stato con Dorian. Abbiamo parlato a lungo, e lui… mi ha raccontato la sua storia.

- Cosa sai di lui, adesso? – Auguste temette di cedere all’impulso di vacillare o di compiere qualche passo falso.

E poi il viso di Fernand si indurì in un sorriso astuto.

- Le stesse identiche cose che dovresti sapere tu, Auguste. Tranne ciò che non dici. E che riguarda lui.

- Mi dispiace.

Auguste trattenne il fiato. Osservò Fernand inarcare un sopracciglio, scettico, un mesto scuotimento del capo.

- Devi parlare a Dorian, non a me – ripeté, quasi una nenia.

- D’accordo. Allora parliamo di noi – azzardò.

Nel silenzio carico che seguì, Auguste avvertì distintamente le labbra di Fernand serrarsi, le ciglia ondeggiare lentamente. Le sue braccia lo circondarono, il viso tornò a nascondersi nell’incavo della sua spalla, come a rivolgergli una domanda a cui neppure lui stesso avrebbe voluto dare voce.

Non vi era l’ansia di baciarlo, di accostarsi a lui e poi ritirarsi fulmineo in uno scatto sornione e sensuale. C’erano i suoi lunghi capelli ondulati a nascondergli il volto, e quella stretta, quella vicinanza quasi ossessiva che gli impediva di mettere a fuoco i contorni, l’espressione rivelatrice del suo viso.

- Fernand – riprese, un sussurro – Decidi tu cosa fare. Se restare o andare via. Se fidarti di me oppure no. Se… sei con me o con Dorian.

E, prima che lui stesso se ne rendesse conto, le sue dita corsero a sfiorare di nuovo la piccola impronta arrossata sulla gola di Fernand. Il segno delle labbra di Dorian. Si ritrasse, di colpo.

Perché, no, stavolta non aveva diritto di pretendere una risposta, di sentirsi infelice o messo da parte, di avanzare velate pretese o rivolgergli sorrisini caustici sotto cui celare il suo profondo, irrazionale senso di abbandono. Non aveva il diritto di raffigurarsi nella mente Fernand e Dorian stretti l’uno all’altro sotto lo stesso cielo, né domandarsene la ragione. O sentire il proprio cuore vacillare pericolosamente all’idea.

- Devo rispondere adesso? – Fernand gli affondò il viso nella spalla, respirando contro i suoi capelli.

Lasciandogli, come strascico imprevisto, un brivido lungo la spina dorsale.

- No, Fernand. Perdonami… – si morse il labbro.

 

Non ho diritto di domandare, di pretendere, di dichiararmi parte in causa, di stabilire un ultimatum.

Non c’ero, per te, Fernand. Non ci sono mai stato.

Tutto quello che ci ha uniti a doppio filo, fino a questo momento, si riduce a qualche occhiata in tralice dal significato incerto, all’ostilità reciproca, alla volontà di sbranarsi alla prima occasione pur di cancellare l’incubo di non riuscire a sfiorarsi. La paura di dover lasciare i sentimenti a giacere sul fondo, di sentire la loro morsa appena attutita, la rabbia che ribollisce sotto le macerie. Come un malefico sostrato con cui confrontarsi costantemente.

Meglio evitare di estinguere le fiamme e rischiare dopo di morire nel gelo.

Meglio urlarsi addosso ad armi snudate, se necessario, piuttosto che reprimere la tensione, smorzare il grido, lasciarlo spegnere nella polvere, e nel mentre posare le pietre per innalzare un muro sempre più alto.

 

Fernand si prese il capo fra le mani, soprappensiero.

- Cosa vuoi che faccia, adesso? – squittì, angosciato, capitolando.

Come se le sue braccia fossero l’unico rifugio disponibile nell’intero perimetro della stanza – l’unico angolo strategico che non lo costringesse a guardarlo negli occhi per l’eccessiva vicinanza –, proprio accanto alla fonte dei timori che gli rimestavano nella testa.

- Niente, Fernand. Niente che tu non vorrai. Non sei obbligato a scegliere se restare o andartene… Non è a me che devi rendere conto – Auguste si ritrovò a pronunciare le ultime parole come una sorta di maledizione in punta di lingua – Parla con tua sorella. Con Dorian… Con chi ritieni necessario. Se vuoi.

Fernand annuì distrattamente, uno strofinio di capelli sulla spalla nuda. L’espressione di chi non vede l’ora di abbandonare un discorso troppo fumoso e denso di pericoli. Un’arma a doppio taglio.

In silenzio, avvolto da una sorta di momentaneo torpore, Auguste si ritrovò a tracciare distrattamente con le dita una linea lungo il torace di Fernand. Dalla grazia nervosa della fossetta giugulare alla linea dello sterno, dove lasciò morire la sua carezza palpitante. Fernand sussultò a quella vibrazione sottile – la cute si costellò di brividi. Intrecciò le dita alle sue, cercando di lenire in un gesto dal sapore fraterno la scintilla di libidine residua che inavvertitamente aveva scatenato il contatto dei loro corpi.

- È strano, Auguste – Fernand socchiuse gli occhi – Abbiamo fatto l’amore, e tu sai pensare solo alla tua adorata congrega… A cosa faremo adesso.

Ecco un’altra stoccata in pieno petto.

- Shh… – Auguste pensò che intrappolare le labbra di Fernand sotto le sue fosse un sistema sicuro e collaudato per allisciare la piega difficile che il discorso stava per riprendere.

Fernand che tornava alla carica, disarmante e senza peli sulla lingua.

- Devo chiederti se ti è piaciuto? – proseguì.

- Domanda banale e scontata – Fernand gli piantò addosso un’occhiata sarcastica, la voce strascicata – E conosci anche la risposta. Io e te non potremmo… barare, neanche volendo, credimi.

Auguste pensò che l’ideale sarebbe stato starsene così in eterno – con Fernand stretto tra le braccia, e lui tra le sue, il volto accostate al suo – e tutto il resto chiuso fuori da quella porta. Senza angosce.

Fu l’unico pensiero che gli attraversò la mente, mentre Fernand aderiva con tutto il suo corpo a lui, il desiderio di assaporare la sua pelle che danzava nel sangue. Si umettò le labbra, sornione, a metà strada tra un felino selvatico e dispettoso e un soldato ribelle.

Ed era inutile continuare a logorare quegli istanti con la barriera fuorviante della parola. Auguste distolse lo sguardo, sorridendo, ogni tassello che tornava magicamente a posto.

Dopotutto, lì di fronte a sé non vi era che lui, Fernand. Il ragazzo inaffidabile e imprevedibile che, a poche ore dalla morte sospetta di uno di loro, diffondeva libelli vergati di suo pugno e tentava di convertire in fiamma di dissenso la noia degli avventori di un’osteria. Il ragazzo che gli sferrava un pugno sul naso, per poi presenziare pallido e avvilito, il giorno seguente, al funerale del compagno caduto. E poi, ancora, eccolo di nuovo tentare di infrangere la sua armatura di dolore. Con una parola aspra e provocatoria o con una carezza.

Sospirò: era come se a un certo punto si fosse spezzato un tramite fra prima e dopo. E ora Fernand non era che l’amante. L’uomo del destino.

E lui, Auguste, ci avrebbe riflettuto all’infinito, si sarebbe cullato nel suo enigma di miele – pensieri sin troppo palesi addensati nelle pieghe della fronte, destinati ad esaurirsi in un’eco –, se solo quattro colpi secchi, come un bussare impaziente, non avessero frantumato il suo idillio.

 

* * *

 

Gli ultimi residui del livore della notte adombravano ancora il cielo, quando il vampiro si trovò a rimettere di nuovo piede nelle sue stanze.

Un appartamento nel piano seminterrato di un quartiere tranquillo sarebbe ancora stato un rifugio solido e dignitoso. Congedò il suo giovane compagno con un gesto stanco della mano, prima di tornare a liberare nella sua mente il ribollire dei pensieri, reso impenetrabile dalla maschera gelida del volto. Una piccola finestra sbarrata, dinnanzi a lui, proiettava la sua vista direttamente sulla via retrostante, il piano dell’acciottolato irregolare in linea con i suoi occhi. Sorrise: quella pallida apertura ignorata dagli stanchi passanti sarebbe stato l’ultimo pertugio in cui i raggi del sole avrebbero osato penetrare.

E lui era stanco: tremendamente stanco, e il rischio sfiorato troppo grande, quando aveva preso Dorian tra le sue braccia, per permettersi di dissipare le sue preziose energie offrendo il proprio volto ai capricci del chiarore diurno che di lì a poco sarebbe sopraggiunto. Soprappensiero, scrutò il proprio volto nello specchio, il colorito rosa soffuso sulle guance che per almeno qualche ora avrebbe reso il suo aspetto quello di un comune ventenne, piacente anche se non esattamente bello, i riccioli scuri tirati indietro sulla fronte pallida e vagamente inclinata, il profilo tagliente. Lo sguardo facile ad ammorbidirsi o a diventare di pietra. Il ragazzo ingenuo che era stato. L’ossessione di non accettare fino in fondo la sua natura era forse l’ultima traccia tangibile del suo passato, del suo spirito generoso, delle antiche utopie.

Era stanco della sua crudele follia, dell’illusione di continuare a condurre la vita che per un uomo mortale sarebbe stata la norma. Di rivelare a se stesso la propria natura soltanto la notte, quando la sete sopraffaceva ogni altra percezione, e allora diveniva belva senza altro scrupolo se non quello di trarre dalla carne e dal sangue il suo piacere e la sua sussistenza.

Aveva subito la sua seconda metamorfosi: da uomo mortale a bevitore di sangue che vorrebbe volgere verso un fine benevolo il suo potere sovrumano; a eclettico mago della sorte, capace di procedere il bilico su un filo troppo sottile, di giocare tra vita e morte, renderle entità interscambiabili. Lui, che aveva salvato la vita di quello che ora era il suo novizio e compagno immortale, bevendo la sua vita e donandogli lui stesso la morte. La morte per beffare la morte stessa.

 

Perché ridevi, sciocco? Pensi possa esserci ancora del bello, del buono, del nobile e misericordioso, in ciò che ho fatto quando ti ho reso uguale a me?

Ho voluto mostrarti l’altro lato della scomoda medaglia che portiamo appesa al collo senza averlo scelto. Ti insegnerò il poco che conosco, che ho appreso col dolore delle lacrime e del sudore di sangue.

Ti insegnerò a volgere al bene il tuo potere sotto la luce del sole. E ti insegnerò a diventare belva e a cibarti di sangue e di vita, prima che l’Aurora rosata porti con sé il sollievo di un dolce tepore e ci schiaffeggi crudelmente il male che abbiamo fatto, l’orgia mostruosa grazie alla quale siamo ancora in piedi, sanguisughe dalle guance brillanti e gli occhi accesi di vita. Di qualche vita rubata durante la notte.

 

- Che cosa succede, adesso? – lui.

Ancora lui. Sogghignava, sardonico nella sua parziale ignoranza. Accarezzava distrattamente le pesanti tende rosso cupo.

- Sei triste. È il senso di colpa per ciò che hai fatto.

- Taci, figlio. Non era una provocazione né un compendio dei vantaggi dell’essere vampiri. E prima imparerai quanto occorre, meno dovrò ripetermi.

- Sono tuo figlio, adesso? – arrotolò una ciocca di capelli lisci tra le dita di marmo, voluttuoso.

- Non puoi capire. Ti ho mostrato il lato crudele. Quello di cui non potrai mai fare a meno e che ti manterrà in vita fino ai tuoi ultimi giorni. Non devi biasimare tutto ciò né lasciarti andare ad una scandalosa ironia. Non sottovalutare la vita.

- È un male necessario.

- Potrebbe non esserlo.

- Quindi, adesso che cosa farai? Trascorrerai cinque giorni e cinque notti ignorando il morso della sete, fino a quando non sarai troppo debole per sollevarti dalla tua cassa e mi implorerai di procurarti il sangue che ti occorre?

- Potrei resistere all'impulso – dichiarò, petulante – Si tratterebbe solo di trovare l’alternativa.

E, per un istante, vide gli occhi del giovane oscurarsi minacciosamente.

- Ti reputavo saggio. Non ho mai sentito che un vampiro abbia prosperato  andando contro la propria natura e rifiutando il sangue, e nonostante ciò restare in vita. Devi essere disperato... È la disperazione e il rimorso per ciò che hai fatto. È il pianto per le perdite che hai provocato notte dopo notte. Non sei saggio, amico. Non sarà meglio, dopo.

- Non ce la faccio. Sto... male. Stavo per uccidere Dorian. E gli avrei chiuso gli occhi per sempre, se avessi perso il controllo anche solo per un istante.

- Sei un vampiro.

- Nemmeno tu ne eri felice. Sembravi inorridito. Mi hai odiato, è così? Hai visto la belva divoratrice, l’assassino che non si ferma di fronte a nulla.

- Ma poi ho compreso la lezione nuda e cruda, senza spiegazioni di sorta. È il male necessario.

- Piccolo ingenuo! Credi sia finita qui? Pensi che io sia un mostro, un essere maledetto. Ed è così. Io sono quell’essere. È solo che grazie alla mia maledizione tu sei scampato alla morte. Forse non era ciò che desideravi veramente, ma in quel momento hai visto in me l’eroe della fiaba. Una specie di dio luminoso che ti restituiva la vita con lo scotto di una menzogna. Invece non hai visto altro che un essere immondo. Che non ti ha reso la vita.

- Vorresti morire? Mandare tutto all’aria? - il vampiro giovane sembrava smarrito, terrorizzato.

Buon per te, mio giovane amico.

- Non potrei. Neanche se lo volessi.

- Potresti gettarti nel fuoco.

- Ma tu me lo impediresti. Non è una soluzione. Io devo trovare la soluzione. Non capisci? Abbiamo il segreto dell’immortalità tra le mani. Potremmo... rinnovare quest’esistenza. Il significato stesso di esistere. Creare una nuova stirpe. Trasformare la nostra condizione di demoni in quella di divinità benevole. Abbiamo un grande potere.

Il giovane sollevò gli occhi al cielo come di fronte ai deliri di un vecchio pazzo.

- E allora, sentiamo: come concilieresti la tua santa volontà di cambiare il mondo con il fatto che non riesci neppure a scacciare il piccolo tiranno di una cittadina da nulla? È questo che ti suggerisce il tuo nobile animo volto al bene?

- Infatti è l’ennesima menzogna... Non dicevo neppure sul serio. Non siamo divinità, ed è orribile anche solo ritenerlo possibile. Siamo due cadaveri mantenuti in vita da sangue innocente che accresce il loro potere con l’andare del tempo. E non ci rendiamo conto di essere irrimediabilmente sconfitti sin dal primo momento in cui iniziamo a nutrirci di sangue, a mietere le prime vittime.

Il giovane si accucciò ai suoi piedi. Fiducioso, come anche lui era stato a suo tempo.

- Cosa vuoi che faccia?

- Voglio che impari tutto ciò che avrò da insegnarti. Da questo momento in poi. Che faccia gelosamente tuo tutto ciò che apprenderai e che da qui cercherai una nuova strada.

- Ma sono un dannato cadavere strappato alla tomba! Sono uguale a te.

- Sei un vampiro. Sei felice?

- Sei stato tu a volerlo. Non io.

- E per questo mi serberai rancore a vita? Un giorno impazzirai, mi darai la caccia e cercherai di annientarmi? Oppure mi amerai, perché come una seconda madre ti ho restituito una vita che non è propriamente vita?

- Basta sofismi da quattro soldi! Io sto in piedi. Penso, vedo, sento. Osservo il mondo da angolature che non avrei mai immaginato. Vedo con occhi di vampiro. Posso assaporare la bellezza, la gioia. Ridipingerla di nuovi colori.

- La bellezza, già. La gioia. E il dolore. Non dimenticarlo. Cento volte tanto.

- Non ti ringrazio. E non ti odio. Le tue intenzioni non erano malvagie. Hai disposto della mia vita, ma fino all’ultimo hai tentato quanto fosse in tuo potere per salvarmi.

- Cosa avresti fatto, se fossi stato al mio posto?

- Non lo so. Non sono al tuo posto. Non ho la tua anima, il tuo cuore. Né i tuoi occhi, le tue mani. I tuoi capelli... – e, con un guizzare fulmineo, la sua mano corse ad accarezzargli il viso.

Scivolò veloce sul suo collo, lisciandogli i capelli e radunandoli in una coda sulla nuca.

- Potresti apprenderlo, piccolo, lo sai? Potresti bere da me, aprire le tue vene e la tua mente e accogliermi in te. Penetrare la mia anima, scandagliare la mia mente, i miei pensieri. Essere una cosa sola.

- È come fare l’amore?

- Non altrettanto intenso. Non altrettanto... umano. Sai qual è il tuo difetto peggiore, figlio? Pensi ancora come un uomo. E non sei un uomo.

- Devi insegnarmi tu.

- Bugiardo. Ti stai ingannando. O mi stai ingannando... Chi potrà dirlo? Tutto ciò che vedi davanti a te, è come se fosse stato riscritto da capo. Vedi e percepisci ciò che prima non potevi vedere né percepire con facoltà sensoriali limitate. Ora sono cambiate le categorie con cui osservi e assapori tutto ciò che ti svolazza intorno. Pensa a un prisma, a un caleidoscopio attraverso cui puoi guardare la realtà. È cambiato. Diverso. Tutto più intenso, amplificato, le sfaccettature moltiplicate all’infinito, in un modo che si avvicina sempre più intimamente all’essenza ultima delle cose. E tu invece no: continui a inciampare, a ingannarti. A parlare come se potessi ancora servirti delle stesse categorie mentali di quando eri mortale. Non è così. Lo sai, ma parli come se il sottoscritto non avesse ancora capito che la tua è una scherzosa ripicca.

E poi, improvvisamente, si accorse di avere il volto fradicio di lacrime. Un ricamo rosso sangue sulle ciglia e giù lungo gli zigomi.

- Perdonami.

- Io... Ho assalito Dorian! Non m’importava nulla, in quel momento. E se avessi premuto un po’ più intensamente sulla giugulare, lui a quest’ora si dibatterebbe tra la vita e la morte, sfiancato e prosciugato.

- Ma ti sei trattenuto. Dorian sta bene. Te ne sei accertato tu stesso. Sul momento, non mi sono neppure fidato sulla tua parola. Ho preferito assicurarmene personalmente.  Ammetto di averti odiato, in quell’istante. Di aver desiderato spazzarti via. Sembravi... diverso. Freddo, insensibile persino al dolore.

- Bravo. Ed è ciò che sono. Ciò che siamo veramente… La nostra versione più autentica. È il momento solenne in cui si esplicita la nostra natura nella sua pura accezione. E fai bene a disprezzare tutto ciò.

- Ma non l’hai fatto. Hai avuto rispetto per la vita di Dorian. Vuoi tornare alla locanda e controllare che stia bene? – azzardò il vampiro giovane.

- Potrei. Ma è superfluo.

E poi, per un attimo, fu quasi certo che il suo novizio l’avesse preso in parola e, goffamente, cercasse di affinare i suoi nuovi poteri per potergli leggere nell’animo, oltre il filtro mobile delle iridi. Per un attimo temette quasi di potersi commuovere. Il suo piccolo… Così adorabile, ingenuo e puro!

- Lo ami – domandò il più giovane – È così? Ami Dorian?

E lui decise che era giunto il momento di interrompere il breve legame mente con mente, spirito e spirito. Accavallò le gambe, distogliendo lo sguardo e abbozzando un sorriso di labbra sanguigne.

- Può anche darsi. Non lo so. L’amore come l’hai inteso in questo momento è concetto tipicamente umano. Ma può essere qualcosa che si avvicina, qualcosa in grado di eguagliarlo. Sì. Amo te. Amo Dorian. Ma vorrei che lui non ricambiasse mai il legame. Ed io stavo quasi per legarlo a me. Non potevamo rischiare.

- Cosa farai adesso?

- Nulla, figliolo. Aspetterò che si svegli e dimentichi tutto. Tutto ciò che ricorderà avrà lo stesso valore di un sogno frutto dell’ebbrezza.

Il vampiro giovane sorrise.

- È strano pensare che... Un ragazzo poco più che ventenne, sia mio padre.

Lui si strinse nelle spalle.

- Sono colui che ti ha creato. Non basarti sul mio aspetto, sulle poche rughe della mia faccia. Ho sei anni in più di te.

- Eri un ragazzo, allora, quando qualcuno ti ha reso come sei ora.

- Non è passato molto tempo. Sono tra i più giovani e deboli della mia razza. Avevo ventun anni, quando sono stato fatto vampiro.

 

* * *

 

Fernand avvertì un sibilo stupefatto morirgli in gola, le braccia di Auguste scioglierlo dalla loro stretta.

Qualcuno che bussava giù in strada. Quattro tocchi taglienti, nocche ossute sul legno.

Quasi si catapultò giù dal letto, coprendosi distrattamente con il lenzuolo e affrettandosi a indossare pantaloni e camicia. Per un istante quasi maledì se stesso e la fastidiosa, imprevedibile tonalità vermiglia che gli aveva incendiato le guance, quando gli occhi impertinenti di Auguste, laghi perfettamente calmi in superficie, gli si erano riversati addosso, scorrendo su di lui quasi fosse un’interessante suppellettile. Sui riquadri di pelle lasciata nuda dalla foga di rivestirsi alla meno peggio e di dare un nome a quelle insistenti, fastidiose percosse sulla porta.

Distolse lo sguardo: una parte della sua mente, quella lucida e assai più disincantata, gli diceva che non c’era alcun bisogno di comportarsi come una fanciullina pudica, e che Auguste aveva già avuto modo e tempo, quella notte, di concentrarsi vista e tatto sulle sue intimità generosamente scoperte. Neppure la sua sorellina Ambrosie aveva battuto ciglio o dato segni di chissà quale profondo sconvolgimento, quando le aveva rivelato di essere stato con Dorian, con un altro ragazzo ovvero con il suo miglior amico.

L’altra parte, invece, gli sussurrava che qualcosa nell’aria si era spezzato.

Infastidito, si mosse in direzione della finestra.

- Ti piace quello che vedi, Auguste? – gli sibilò a bruciapelo.

Vagamente inacidito.

- Sei vestito, Fernand. Cosa potrei vedere che non abbia già visto? Sei bello in ogni possibile declinazione.

Fernand si ritrasse con un soffio inferocito. E infilò lo sguardo oltre la finestra. Pentendosi subito dopo, quando una fitta al petto, qualcosa a metà fra la gelosia e il timore di essere miseramente scoperto, contribuì a rendere il suo decisivo risveglio una scudisciata in pieno volto.

- Visite per te, Auguste – sussurrò, gelido, senza spiegarsi quella sfumatura di rabbia impotente che gli serpeggiava nella voce e nel tremore delle dita.

- Emilie?

Fernand si vergognò solo un po’ del proprio fremito di trionfo, quando vide Auguste sbiancare.

- Proprio così – sogghignò – È venuta a chiedere la tua testa, suppongo. Sei un… marito? Compagno? Irresponsabile. Inaffidabile, lunatico e completamente fuori di testa. Cosa pensi che voglia, ancora, da te?

Auguste inarcò un sopracciglio con quel modo di fare flemmatico che finiva sempre per dargli sui nervi.

- Hai esaurito la lista dei titoli onorifici, Fernand? Io credo che Emilie sia qui per mandarmi all’inferno una volta per sempre. Sai, qualcosa mi dice che non abbia alcuna intenzione di stare ancora con me.

- Oh, alleluia! Però, ecco, c’è una conseguenza a cui non avevo pensato…

Fernand avrebbe voluto imporsi di tacere, ma un nodo d’amarezza stretto alla gola gli impediva di tener ferma la lingua. Si passò una mano sulle labbra, meditabondo.

– Se Emilie ti ha lasciato – sputò fuori – Quale migliore occasione per mandare al diavolo ogni scrupolo del caso e divertirti con uno scemo disposto ad assecondarti?

- Fernand, sei una serpe! Vuoi provocarmi ignorando che sono stato sincero e mi sono confidato con te? Mi reputi tanto stupido? Mio Dio… Ti butterei fuori a calci, se fossi sicuro che è ciò che pensi veramente e che non siano stupidi giochetti di parole, bugie per cavar fuori verità! È così? E allora ripeto che non ho nulla da nasconderti; che ho una sola faccia, ed è quella che vedi in questo momento e la stessa che hai visto stanotte.

- Va bene, Auguste, hai ragione… – Fernand si impose di annuire, esasperato, senza riuscire tuttavia a scacciare quel cattivo presentimento che assumeva i contorni di un magone strisciante - È meglio che vada – si risolse, stringendosi nelle spalle.

E, mentre si accingeva a sciacquarsi il viso nel catino d’acqua che Auguste gli aveva porto, per un attimo sperò gli tornasse utile a dissipare almeno un po’ il sospetto e la nebbia dagli occhi.

- Cerca di fare in fretta – gli ingiunse Auguste, un velo di risentimento nella voce.

Fernand si diresse verso la porta, zoppicando su uno stivale solo e lottando per infilare l’altro, quando il volto bianco di Emilie s’impose sul suo campo visivo come un miraggio di folti capelli scuri finemente acconciati. Trattenne il fiato.

Così poco tempo a disposizione per schiarire le idee e tentare di far tornare ogni cosa al proprio posto… Di imbastire una storia verosimile. Fernand, l’idiota sentimentale, e gli squilibri ormonali di casa de la Garde.

E poi, deglutendo con fatica, i lineamenti del volto modellati in una specie di smorfia, si costrinse ad abbozzare un sorriso forzato. Anche se lo svantaggio di saper arricciare il naso in un moto di istintivo disprezzo fu sufficiente a rendere vano lo sforzo.

- Salve, Ferdinand.

Che diavolo ci fai qui, maledetto impiastro? Maledetta testa calda che insieme ad altre vipere hai rischiato di mandare il mio Auguste in rovina… Ecco, se Emilie l’avrebbe detto a voce oltre che con gli occhi, se non altro le sue parole sarebbero suonate un po’ più sincere.

- Io… stavo andando via – riuscì a biascicare, sillaba dopo sillaba trascinate controvoglia una dietro l’altra.

 

Grazie, signori, ma preferirei non essere presente, quando volerà qualche oggetto contundente che, data la mia fortuna nel capitare tra incudine e martello, potrebbe colpirmi in pieno.

 

E, solo quando fu sicuro di aver oltrepassato la porta, il battito impazzito del suo cuore cominciò ad acquietarsi lentamente, suggerendogli che forse ora era al sicuro, all’aperto a respirare l’aria tersa del mattino. Un cenno di saluto lasciato in sospeso dietro a sé e il rischio non calcolato, nella fretta, di prendere male le misure e ritrovarsi lungo disteso sul pavimento dell’anticamera, vittima di un incontro ravvicinato tra la propria fronte e lo spigolo della porta.

Lontano dai fumi dell’ira di casa de la Garde, prima che l’ordigno delle menzogne e del rancore gli esplodesse in faccia. Prima di ritrovarsi a piangere lacrime amare, lì, come un bambino lasciato solo al buio. Erano forse un po’ meno aspre, quelle che gli infuriavano giù per le guance bollenti, mentre si precipitava all’altro capo della via?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Buonasera a tutti!^^

Ventisettesimo capitolo concluso, quasi non ci credo. Poiché lo studio e gli appelli di settembre incombono, passo subito ai ringraziamenti dovuto, ossia i lettori abituali e non, nonché coloro che hanno aggiunto NT tra i preferiti e le seguite.

Il mio ringraziamento va in particolare a Witch e Yami che mi hanno lasciato il loro commento, perciò passo subito a rispondere alle recensioni.

 

Witch: carissima, grazie innanzitutto del tuo commento^^. Nonostante se ne sia parlato tantissimo in chat… Piccoli spoiler annessi, XD. Sono contenta che il pezzo sui due vampiri, che finalmente cominciano a svelare la loro maschera (uhm… ma forse no: diciamo che ci hanno fatto l’onore mostrarsi sulla scena, nel bel mezzo dell’azione, ecco), ti sia piaciuto. Abbia raggiunto il livello di tensione che desideravo, ecco. Dorian è un cucciolo, povero… Inizialmente il capitolo mi sembrava un po’ confuso… I nomi per il momento non vanno svelati (XD), anche se le eventuali *ipotesi* lettori mettono sempre una certa curiosità!

 

Yami: ciao, carissima, ti ringrazio per aver recensito questo capitolo, nonché per continuare a seguire NT, nonostante le attese tra un aggiornamento e l’altro, XD. Dunque: ammetto di essere stata un po’ cattivella nell’aver accuratamente evitato di svelare nemmeno in parte l’identità dei due vampiri… Come sempre, le ipotesi del lettore mettono sempre una certa curiosità! Chissà, forse in questo capitolo ci sarà qualche tassello in più sulle motivazioni del vampiro più anziano, del suo modo di vivere la propria condizione, della sua personalità. E qualche piccolo indizio all’orizzonte. La lemon Auguste/Fernand era nell’aria sin dal primo capitolo (XD)… E sono contenta di essere riuscita a rendere il fatto che Auguste si fosse curato più di Fernand che si se stesso. Insomma, tendo a rifuggire un po’ dalla lemon meccanica fine a se stesse, un po’ stereotipata. O, almeno, spero di essere riuscita a rendere questo. In questo capitolo vedremo un po’ le reazioni dei due la mattina dopo, al risveglio. Ovviamente entrambi hanno ben pensato di fare le bizze, e poco mancava che litigassero. Insomma, hanno caratteri che s’infiammano facilmente e di tanto in tanto rischiano persino di rovinare in un battito di ciglia ciò che hanno appena faticosamente costruito. Terribili, insomma, XD. Dorian… Penso che a questo punto ciò che prova per Fernand vada molto, molto più in là della semplice amicizia con contatto fisico annesso (e che contatto!). Io stessa ho tirato quasi un sospiro di sollievo al fatto che il vampiro non sia intenzionato a fargli del male. Sì, perché ormai, naturalmente, sono loro a comandare, a decidere le trame.

 

Okay. Penso di aver concluso. Ringrazio ancora tutti, ricordando ancora una volta che i commenti sono l’Amore, e sperando che quest’ultimo capitolo sia di vostro gradimento.^^

Un abbraccio, alla prossima! =(^.^)=

 

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 28: Il prezzo da pagare ***


 

Capitolo 28

Il prezzo da pagare

 

 

Seduto in un angolo in penombra, nell’ozio mattutino della locanda, Dorian lasciava scorrere lo sguardo su ogni avventore al suo passaggio. Nessun elemento dell’intera stanza catturava la sua attenzione per un lasso di tempo accettabile: beveva ogni dettaglio dell’ambiente, ma senza vederlo davvero.

Il solo interrogativo che gli rimbalzava nella mente, perché lì e non nella sua casa, tra le sue quattro mura familiari. E quale volo assurdo, quella notte, l’aveva proiettato da casa di Auguste – dal suo intento masochistico di seguire attimo dopo attimo la complessa opera di seduzione di Fernand ai danni del padrone di casa – alla strada cosparsa di polvere sotto il baluginio malevolo dei lampioni; e poi, da lì, per qualche assurdo sbalzo temporale, qualche bicchiere di troppo – o chissà quale altra astruseria gli avesse suggerito il morso di un’irrazionale gelosia –, direttamente alla locanda dei Lambert immersa nel mattino inoltrato. Un salto repentino che la mente faticava a ricomporre in una trafila logica.

Dorian posò il bicchiere sul tavolo e si prese il viso tra le mani. Impossibile tentare di ricucire la successione logica degli eventi: troppi punti oscuri.

Chissà se davvero, a un certo punto, gli fosse saltato in mente di mettere a tacere l’odioso ribollire dell’animo con una dose d’alcool; se la sua coscienza si fosse attenuata, annegata insieme alla piccola moltitudine infelice che come lui, quella sera, aveva portato i propri passi fino alla bettola dietro l’angolo. Se davvero, a un certo punto, un’anima pietosa l’avesse raccattato privo di sensi e infilato sotto le lenzuola di una stanza qualsiasi.

Sospirò. Qualcosa l’aveva dispensato da una notte all’addiaccio, perché difficilmente i Lambert avrebbero tollerato avventori ubriachi a bottega chiusa.

Chiuse gli occhi. No, non poteva, in quelle condizioni, essere stato in grado di trascinarsi fino al piano di sopra, con la mente tanto annebbiata da non trattenere nessun frammento di ricordo. Buio completo, da quando aveva abbandonato la dimora di Auguste fino al mattino, quando aveva strizzato gli occhi sotto il chiarore pungente dell’alba, tra pareti sconosciute e l’odore dolciastro e nauseabondo di mobili vecchi e qualche strano intruglio che ribolliva nelle cucine. Per un istante, prima che i sensi mettessero bene a fuoco la stanza, con orrore l’aveva sfiorato dal dubbio che una ronda di passaggio l’avesse pescato ubriaco in un vicolo e sbattuto in cella. Per una volta, ringraziò la signora Bertrand e le sue abitudini mattiniere.

Il motivo per cui quella mattina, per quanto si sforzasse, non sarebbe riuscito a cavar fuori un resoconto attendibile della sua notte brava, stava in quei frammenti che, per uno strano gioco della sua memoria, sembravano essere stati cancellati dalla sua mente.

Sospirò. Non era un sintomo che deponeva a suo favore, e qualcosa, nelle occhiate ostili dei Lambert, sembrava rammentarglielo con enfasi ossessiva.

Dorian distolse lo sguardo e si sentì avvampare. Se davvero aveva bevuto tanto da non ricordare più nulla, l’ebbrezza poteva essersi rivelata causa di azioni avventate, così come sembravano suggerirgli quelle occhiatacce. Come aprire bocca più del dovuto, o al limite invitare qualche compiacente sconosciuto a fare l’amore con lui lì su un tavolo sgombro, incurante di tutto e con l’unica speranza di affogare al più presto il proprio fiele in un abbraccio rovente. Magari, ingannarsi e fingere di essere Fernand tra le braccia di Auguste – perché Dorian lo stupido ce lo aveva spinto a viva forza, nell’onda di quella passione latente, e questa era la giusta conclusione. O Auguste che bacia Fernand, ignaro di un paio d’occhi fatalmente abili che si muovono nell’ombra; e poi di nuovo Dorian che si ripete di aver agito per il bene del suo miglior amico, nel momento in cui vorrebbe solo strapparsi i capelli e distruggere tutto. Tornare indietro e scegliere di non essere lui, la mano invisibile che fa precipitare gli eventi.

Non c’era stata altra scelta, gli diceva una voce sottile nella sua testa. Non c’era stata mai una scelta; e se anche ci fosse stata, decidere non sarebbe spettato a te.

Era andata così: una grigia, nauseante via di mezzo senza sentieri all’orizzonte; solo il rischio calcolato di proseguire per quella strada obbligata senza sapere cosa cercare.

Il suo intervento non era stato determinante nell’accelerare qualcosa già in atto.

La sua parte meno razionale a tratti gli suggeriva di tornare là e scaraventare Auguste contro il muro; ma solo per un attimo, un serpeggiante, puerile desiderio di ripicca senza soluzioni concrete.

Sarebbe tornato sui propri passi con il cuore pesante, continuando a domandarsi cosa ci facesse in quella dannata locanda senza un percorso tangibile che ce l’avesse condotto.

Soprappensiero, si massaggiò le tempie doloranti e attese un’illuminazione. Silenzio. Per quanto sforzasse la propria memoria, nulla gli rammentava di essere uscito da casa di Auguste con l’intenzione di bere o scopare o escogitare qualche altro modo ancora più raffinato per farsi del male.

Non c’erano i postumi di un’ubriacatura coi fiocchi, rifletté, il polso che tremava appena nel sorreggere il bicchiere colmo. Solo un senso di sfinimento, niente di più; niente che si potesse ricondurre al vino più che alla stanchezza.

Se davvero quella sera aveva bevuto tanto da annullare ogni ricordo, allora non era possibile che, in capo a un paio d’ore, si fosse diretto sulle sue gambe giù per le scale, a chiedere una ciotola di sciacquatura dei piatti.

Unica traccia visibile dell’illustre sconosciuto che l’aveva traghettato fino al piano di sopra, le quattro monete di bronzo che si era ritrovato addosso. Ricordava bene: non aveva dei soldi con sé, quella sera. Non era neppure uscito di casa intenzionato, alla prima occasione, di lasciarsi andare a qualche bicchiere di troppo. Non era stato previsto.

Si strinse nelle spalle. Forse erano solo vecchie crisi di amnesia che riprendevano le briglie della sua esistenza, l’abisso come destinazione, perché tutto ciò che circondava la notte appena trascorsa, era nebbia e ignoto.

Il crescente brusio che invase la stanza, lo riscosse dai suoi pensieri. Dorian sollevò lo sguardo, inquadrando di colpo davanti a sé la faccia incipriata del commissario Lambert. Un paio di occhi porcini che luccicavano nella sua direzione.

Fu un attimo, e lo stomaco gli si contrasse in un conato di vomito, quando dinnanzi ai suoi occhi balenò il dubbio di aver tanto perso il controllo, quella notte, da lasciarsi sedurre da un uomo simile. Che magari ammirava compiaciuto la carcassa sanguinante, residuo dell’ultimo banchetto, da qualche cantuccio in penombra.

Rabbrividì, ma l’istinto gli suggeriva di escludere l’ennesima, catastrofica ipotesi, ogni sforzo teso a dissipare l’oscurità che velava la sua mente, un orribile presentimento a serrargli la gola.

Il commissario gli rivolse un cenno con la mano e passò oltre. Dorian si impose di accantonare la questione. Con la coda dell’occhio, intravide un codazzo festante radunarsi intorno al vecchio, prostitute comprese.

Dorian chinò lo sguardo sulla superficie irregolare del tavolo. Pregò di passare inosservato. Il sangue aveva iniziato a rimbombargli dolorosamente nelle tempie, e non aveva nessuna intenzione di lanciarsi in bizzarri convenevoli.

Fu quasi un accordo siglato con lo sguardo. Louise e Ginette sfilarono davanti ai suoi occhi senza degnarlo di uno sguardo, caracollando vicino al commissario in una duplice, affettata sinfonia di ossequi.

- Signore mie, cosa ci fate qui a quest’ora? – proruppe Lambert – Non si era detto al tramonto…?

L’allusione beffarda suscitò nelle due ragazze una risata argentina.

Dorian arricciò il naso, mentre cercava di aguzzare l’udito. Tutto quel che sarebbe riuscito a captare si risolse in un sottile chiacchiericcio. Intuì solo che, dopo le idiozie di circostanza berciate a gran voce, il commissario doveva aver scucito una notizia tanto appetitosa da doversi riferire a bassa voce e da tacitare immediatamente il piccolo uditorio. L’atmosfera di triviale convivialità si era ripiegata in un acuto, nervoso bisbiglio.

E poi, senza preavviso, il commissario fissò lo sguardo nel suo con un sorrisetto storto e procedette verso di lui. Dorian chinò lo sguardo, rassegnato, giacché il suo progetto di svignarsela ed evitare così sgraditi convenevoli, era naufragato sul nascere. Con uno sforzo non indifferente, riuscì a modellare i propri muscoli facciali in un sorriso smaccato, camuffando la delusione. C’erano urgenze ben più martellanti su cui sputare il sangue.

- Ecco, Dorian, diteglielo anche voi! – la voce acuta di Ginette lo perforò da una tempia all’altra.

La prostituta lo raggiunse agitando i riccioli rossi e allargando le braccia verso il cielo con fare declamatorio. Prese posto al suo fianco, abbarbicandosi al suo braccio e sporgendo in avanti le labbra in un falso broncetto.

- Diteglielo anche voi che non è modo di trattare con una signora!

Dorian cercò di sottrarsi alla sua stretta e sollevò lo sguardo sull’altra ragazza, Louise: dall’espressione delusa, speculare alla sua, dedusse che almeno loro ce le avevano provate tutte, fino a quel momento, per distogliere le attenzioni del commissario da lui ed evitargli qualche seccatura. O forse stava bollendo qualcosa di più grosso.

Il volto del commissario si contrasse in un ghigno.

- Voi lo sapete, Dorian? No che non lo sapete, figurarsi, così giovane e bello… – cinguettò con voce querula – E questo piace alle signore, del resto. Tuttavia, si può dire la stessa cosa della… “qualità” delle prestazioni, se la vostra testa bionda ha colto ciò che intendo?

Per un attimo Dorian si sentì comprimere tra la nausea che gli contraeva lo stomaco, e l’esigenza di replicare qualcosa di abbastanza volgare da ammutolirlo almeno per un po’.

Non seppe dire se fosse già accaduto, di trovare tanto fastidiosa la presenza del commissario, ma quella vocetta insinuante lo stava mettendo a dura prova peggio del previsto.

- Certo che lo capite, non siete un bambino. Il latte dalla bocca ve l’hanno già leccato via. Quello che voglio dire, che mademoiselle Ginette continua a negare, è che spesso i giovani di bell’aspetto come voi si rivelano… freddi. Belli da vedere, ma al dunque, una collezione di borse dell’acqua calda. Come dire, non badano alla… “sostanza”, pensano basti un faccino grazioso. Una donna vuole un amante capace, non solo un bel damerino da salotto. Ma non tutti sapete mettere a frutto gli insegnamenti dei più anziani – sussurrò, per poi scoccargli un’occhiata impertinente in mezzo alle gambe, a bruciapelo – Sì, non si può dire a voi manchi la “sostanza” là sotto, però… Può essere che la giovinezza, il fatto che quei capelli là siano ancora i vostri, vi facciano trascurare le doti del buon amante.

Dorian meditò se insultarlo fosse una decisione saggia. Forse il fatto che non indossasse la divisa e figurasse di fronte a lui come un compagno di bevute qualunque, gli avrebbe concesso piccole licenze senza il rischio di incappare in qualche grana.

- Non mi riferisco al caso vostro, Dorian – Lambert rincarò la dose – Vogliate scusarmi se vi ho tirato in mezzo, ma la piccola sfrontata pretende la ragione… – soggiunse, un cenno divertito verso Ginette.

- Il signor Dorian non è un cliente, commissario – chiosò la ragazza con voce sottile – Non ha bisogno di pagare per una bella donna nel suo letto.

Dorian intrecciò le braccia sul petto, le labbra serrate in un sorrisetto spazientito.

- Se sono tutte quale notizie del giorno, commissario, con permesso, io leverei il disturbo. Abbiamo scoperto che chi è stato premiato da Madre Natura non si impegna abbastanza a scopare, buono.

- Beh, una vera novità ci sarebbe – il commissario sollevò gli occhi al cielo; una pausa, come a soppesare la tensione – Ma prima è meglio salutare le signorine Ginette e Louise. Non vorrei che qualche mio sottoposto le sorprendesse in qualche ronda di controllo, finissimo tutti nei guai. Niente puttane, a quest’ora. Il duca ha raddoppiato i controlli in città. È la legge – sussurrò, senza trattenere una nota sarcastica – …che va rispettata. Alla lettera.

Rimasti soli di fronte a un tavolo traballante e due bicchieri mezzi pieni, il commissario Lambert si guardò intorno e prese posto di fronte a Dorian. Aveva cambiato faccia.

- Tenete gli occhi aperti, ragazzo – masticò – E parlate piano, ché i tavoli hanno occhi e orecchie.

 

O forse Louise e Ginette hanno avuto il loro daffare per riferirmi le novità prima che voi ci metteste le zampe.

 

- Preferite aspettare che sia quella cornacchia della Bertie a darvi l’annuncio… o qualche serpe tra i vostri amici? – ridacchiò a bassa voce.

Dorian sollevò un sopracciglio. Accettò con uno strattone il sigaro che il suo insolito compare gli aveva appena allungato.

- Prendete, amico. Ne avrete bisogno – incalzò il commissario.

Dorian sentì gli occhi bruciare per la profonda boccata. Poi un piacevole raschiare in fondo alla gola, e l’aroma del tabacco che aleggiava intorno a lui.

- Posso sapere cos’è successo, commissario, o avete già cambiato idea? – lo pungolò.

- Due cadaveri, ragazzo.

Dorian annuì, distratto, scuotendo le palpebre.

- Ce ne sono già tanti, in città. Là fuori, ad esempio. Vedete quanti morti che camminano…?

Alcuni siedono pure dietro i tavoli delle questure…

- Lasciatemi parlare, maledizione! Stamattina, all’alba. Li hanno trovati dei pescatori, a ovest dietro il molo. La corrente li ha spinti verso le rocce, e stamattina galleggiavano a riva. Non erano in buono stato, ma sembrano un vecchio e un ragazzo. C’erano fori di proiettile.

Dorian soffiò via una piccola nube di fumo, meditabondo.

- Non sarebbe la prima volta che qualcuno da quelle parti cerchi di fare il furbo e si dia al bracconaggio. Un banale incidente, e il responsabile avrà ben pensato di far sparire il risultato della sua “distrazione”…

- È ciò che contavo di fare all’inizio: archiviare tutto come incidente di caccia, fare un po’ di domande in giro e dissipare presto il panico. È solo che… tre cadaveri nel giro di due settimane, non è normale. Non passeranno inosservati. Prima il figlio di Emmanuel Mirand… Adesso questi due disgraziati che non hanno nemmeno un nome.

Dorian deglutì a vuoto. Posò il sigaro e intrecciò le braccia sul petto per mascherare il tremore delle mani.

- E cosa pensate di fare?

- Se fosse per me, assolutamente nulla. Non voglio guai. Ma di là… – il commissario puntò lo sguardo verso la finestra aperta, e poi da lì verso l’alto, la cittadella – Dubito che si lasceranno convincere da una spiegazione banale… e sospetta. Respingerebbero i fascicoli e non archivierebbero proprio un accidente. Mi ci farebbero tornare su all’infinito, e non sarebbero contenti fino a sbattere qualcuno sul patibolo. Comunque andranno le cose, passerà molto tempo. Potrei aspettare che se ne dimentichino, parlare con qualche amico dei piani alti, ché dichiari chiusa la questione a tempo e luogo. Ma la macchia si sta allargando troppo per passare inosservata. Prima il vostro amico Mirand… Ora questi due. Dovrò almeno fingere che le indagini procedano e pizzicare qualche testa calda – una pausa studiata, durante la quale Dorian non si accorse che il volto del commissario aveva mutato espressione – Il vostro amico Auguste de la Garde. Si decidesse a collaborare, una volta tanto! Invece lui fa il furbo: sa tutto, ma al dunque, come per magia non ha mai visto niente.

Dorian mise giù il bicchiere di scatto. Per un istante fu quasi certo che il suo autocontrollo non avrebbe retto a ciò che si andava delineando nella sua mente, e tutto quel che vedeva lasciava solo emergere dinnanzi a lui un ritratto a sangue vivo. Un bicchiere lasciato infrangere inavvertitamente al suolo o un tremore da servetta impressionabile avrebbero offerto uno spunto in più ai sospetti della serpe.

Con orrore, vide un sorrisetto viscido allargarsi sul volto del commissario. Lo vide all’improvviso, quando due dita ruvide calarono sul suo volto e gli artigliarono rudemente le guance.

- Dopotutto… – biascicò a mezza bocca il commissario, e sul suo volto pareva scomparso ogni accenno di tensione e ragionevolezza: solo una brama ferina – Potrebbe essere necessario un piccolo… “incoraggiamento”, affinché il sottoscritto sia ancora più solerte nel lavorarsi qualche vecchio, aristocratico somaro là sopra, e potrei pure cambiare idea su quelli come voi, Dorian, e convincermi che dopotutto anche i giovani e belli chiavano bene… Stasera alle nove. Puntuale.

 

* * *

 

La porta richiusa alle sue spalle, Dorian mosse qualche passo nel suo appartamento e si sentì svenire. Barcollò incerto per la stanza, fino a lasciarsi andare inerte contro la parete, il capo stretto fra le mani.

Non era il momento adatto perché il panico si impadronisse di ogni stilla di lucidità. Poco tempo per riflettere, e l’unica cosa che lui desiderava era barricarsi dentro casa e scomparire almeno per una decina di giorni. Come se Lambert fosse uno stupido.

Ansimando, si sfregò la faccia, cercando di dominare la tensione, le lacrime che gli pungevano in fondo agli occhi e il tremito feroce.

Se Lambert commissario aveva detto “alle nove”, significava un’ora a disposizione per patteggiare, da lì al coprifuoco. Forse c’era persino la possibilità che il bastardo avesse buttato giù quella specie di ricatto per gonfiare i muscoli e dimostrare di saper adoperare, all’occorrenza, tutto il potere di coercizione che il suo status gli conferiva. E pure abusarne.

Oppure, rifletté con orrore, si sarebbe trascorso la sua seconda notte in quel posto orribile. Dopo il coprifuoco non ci sarebbe più stato scampo.

Dorian strinse le palpebre, respirando profondamente. Poi, un lampo.

Auguste. Rammentava bene il suo stato, la sera in cui era penetrato in casa sua con Raphäel. L’istantaneo, profondo sollievo nel saperlo tutto intero, al sicuro nelle sue stanze. Sollievo e qualche punto interrogativo di troppo

Adesso, come un incubo, le tessere del mosaico tornavano dolorosamente a posto. E l’immagine balenò davanti ai suoi occhi nella sua logica inappuntabile. Come un vortice che lo trascinava giù.

Auguste fuori di sé, una bottiglia di vino tracannata a metà e la faccia stravolta di chi ha appena visto il diavolo.

Auguste con l’aria affannata di chi è rientrato di corsa, inseguito dai lupi. Riverso sul divano, a recuperare il respiro e la ragione in tutta calma.

Auguste reduce dalla sua notte di calcolata follia. La reticenza a parlare. La refurtiva svanita nel nulla, le monete restituite a Raphäel…

Poi la febbre era giunta a togliergli la lucidità, insieme alle frecce avvelenate che neppure quella volta Auguste aveva mancato di scagliargli addosso.

E lui non era un ingenuo: immaginava quali fossero i delitti di chiunque avesse preso parte a una guerra civile, ma ora che ogni frammento occupava il suo posto in quel dannato quadro, tutto gridava al peggio.

Tutto gli parlava di Auguste, l’uomo che l’aveva salvato e gli aveva insegnato a ricominciare a respirare. Un uomo che non aveva esitato ad uccidere a sangue freddo e portare avanti la sua recita infame, mentendo e ingannando tutti.

Forse lui stesso aveva messo in pericolo Lucien e ne aveva pagato le conseguenze. E di nuovo, come se niente fosse, decideva di farsi da parte, di concludere l’opera e tirarsene fuori da vigliacco. Lavarsi la coscienza e scaricare tutto sulle loro spalle. Il terribile meccanismo a catena che lui aveva innescato, in cui lui li aveva tirati dentro. La sottile guerra sotterranea alla quale lui stesso aveva dato inizio, circondato da altri disperati e da ragazzini sprovveduti.

Auguste era in preda alla follia, o forse così terribilmente lucido che il vero suicidio sarebbe stato fidarsi ancora di lui.

Dorian avvertì la collera scorrergli addosso come uno spasmo doloroso. Per un attimo fu tentato di rinunciare a raggiungere il commissario alla locanda, a patteggiare la salvezza di Auguste e la sopravvivenza della congrega. Lasciarlo cadere nelle mani del nemico senza battere ciglio.

Se davvero le cose erano andate così. Se davvero Auguste li aveva ingannati.

Se per caso la sua mente non avesse in serbo qualcosa di così raffinato da ritenere inopportuno coinvolgere persino loro, piccoli stupidi che si fidavano di lui.

Se davvero, nel giro di quattro anni, quello stesso Auguste, assassino e così pieno di scheletri da non venirne mai a capo, avesse fatto qualcos’altro che non fosse raccoglierlo dalla strada e allontanare da lui ogni concreta velleità di attentare alla vita del duca. Era stato lui a distoglierlo dall’idea di assassinare l’uomo che gli aveva tolto il padre e tutta la sua vita.

 

Bravo, Auguste. Hai giocato a meraviglia. Ti sei procacciato la nostra stima e hai agito alle nostre spalle.

 

Dorian si raggomitolò sul pavimento e strinse i pugni, le lacrime che premevano sulle ciglia.

La prima volta che Auguste l’aveva condotto con sé… L’aveva chiamato con il suo nome e gli aveva ficcato nel petto quelle sei parole.

Tuo padre? L’ha ucciso il duca.

Dopo, solo il filarsi impercettibile di vetri rotti, qualcosa che scricchiola, e un grido che per qualche strana combinazione sembrava proprio provenire dalla sua gola, come un raschiare sulla carne viva, come una singolare esplosione.

Ricordava un insolito brusio e Auguste che lo stringeva a sé, che gli premeva il viso contro il suo petto; cullandolo tra le sue braccia, gli aveva sussurrato tra i capelli e trasmesso tutto ciò che conosceva.

Un assassino come educatore. Che aveva domato la sua collera inconsapevole e gli aveva regalato un’effimera ragione di vita.

Adesso era polvere davanti ai suoi occhi; non serviva cercare i puntelli per scongiurare il crollo, sforzarsi di mantenere in piedi la menzogna.

L’ineffabile Auguste l’aveva ingannato. Gli aveva mentito perché non impazzisse. E poi era inciampato sui suoi stessi passi.

Non era abbastanza ciò che si ostinava a tenergli nascosto, e che bruciava come fuoco. Ciò che si ostinava a tenere nascosto in un angolo, distante da ogni sguardo, a sedimentarsi giorno dopo giorno.

Era giusto che lui gli dovesse qualcosa?

Perché se avesse mancato alla sua resa dei conti, se avesse lasciato che qualcun altro si ingegnasse a stabilire comodi collegamento tra la morte di Lucien e i cadaveri in riva al fiume, le conclusioni sarebbero precipitate dinnanzi a lui senza speranza di arginare l’imprevedibile. Lambert avrebbe fatto il vigliacco come sempre.

Trasalì. L’occasione che il duca e il suo entourage attendevano da anni, fiere acquattate tra i cespugli.

Dorian si sforzò di fare mente locale. Auguste l’aveva detto mille volte: il duca non si sarebbe mai abbassato a intervenire in occasione di reati comuni e zuffe tra disgraziati. Non se la questione non si fosse fatta politicamente interessante. Se mai Auguste fosse finito sotto processo, allora sarebbe stato uno schiocco di dita; un nobile fedele al duca avrebbe corrotto i testimoni, e senza colpo ferire si sarebbero sbarazzarsi di una vecchia conoscenza. Sarebbe bastato lasciar agire uno dei suoi fedelissimi, signorotti ambiziosi, piccole spie disseminate in città e gendarmi corrotti.

Dorian si prese il capo fra le mani, il cuore in tumulto. Qualcuno, a suo tempo, aveva compreso che per prendere Auguste nella rete sarebbe stato più facile annullare la condanna in contumacia e permettergli di fare ritorno in città. Meglio che lasciare le serpi fuori città, libere di fare danni e organizzare sacche di resistenza.

Quattro anni di clandestinità, e Auguste non era ancora diventato abbastanza astuto da non perdersi in trucchetti da prestigiatore e smanie da rivoluzionario fallito. Come un ragnetto troppo ambizioso che alla fine si ritrova invischiato nella propria tela.

Le conseguenze sarebbero giunte come un fiume in piena. A meno che non fosse stato lui a giocarsi la sua possibilità e sperare in un buon patteggiamento. Troncare le gambe alla faccenda sul nascere. Non c’era più molto tempo per spremersi le meningi alla ricerca di una strategia. Avrebbe dovuto parlare con… con Ambrosie, con Raphäel. Con Auguste. E mollargli un pugno di tutto cuore.

Oppure cedere a Lambert – arginare l’inondazione quando è ancora pioggia sottile, corrompendo un uomo da nulla.

Sarebbe stato umiliante e patetico, rivelare il prezzo da pagare per quel salvataggio sull’orlo del burrone. Il commissario non avrebbe collaborato a insabbiare il caso, finché lui non avesse dato il via.

Non si accorse di essere precipitato in una nube di sogni agitati.

 

* * *

 

C’era il pallore di vetro del volto di Lucien dietro un velo di fumo, le dita di marmo intrecciate sul petto; l’aveva sfiorato e gli era parso di sentire il fremito del respiro perduto. Auguste stava in piedi di fronte a lui, il viso simile a gesso, tanto da fargli dubitare quale fosse tra i due il morto: quello disteso o quello in piedi. Non vi era aria di funerale. C’era un’indifferenza diffusa. C’era l’ossessione serpeggiante sul volto di Fernand, e Ambrosie e Raphäel seduti su un divanetto in fondo alla stanza, lei sulle ginocchia di lui in un gesto da considerarsi azzardato. Discutevano fitto.

Poi la stanza evaporò, e vide di nuovo Auguste, intento a minacciare il commissario Lambert con una pistola e intimargli di sparire; solo che poi nello scontro partiva un colpo che rischiarava a giorno la stanza, uno sprazzo lampeggiante che gli lasciava distinguere a malapena i contorni.

All’improvviso era per strada, con una pioggia insistente che picchiava sul selciato, e nastri di nebbia striscianti che si sollevavano dal suolo, impicciando i suoi passi. Poi Lucien lo trascinava fino ad una specie di taverna per ripararsi dalla pioggia. Là dentro, qualcuno cianciava alle sue spalle: una voce sottile come uno stiletto gli dava del miserabile e lo chiamava bastardo, puttana ufficiale di una masnada di traditori.

 

* * *

 

Si ridestò di soprassalto, la faccia premuta contro il pavimento e un braccio insensibile, la mente annebbiata dall’accozzaglia di sequenze illogiche che gli aveva recato il suo sonno sul letto di spine. Non era passato il senso di vertigine che l’aveva ridestato il mattino.

Nei suoi sogni, Lucien era un’immagine tangibile e nessuno faceva menzione della sua morte. E Auguste era inquietante come sempre.

Dorian si strofinò la faccia, infastidito. Era pomeriggio inoltrato, uno squallido chiarore giallastro che inondava i muri delle case al di là della finestra, monito beffardo del giorno che declinava. Una nuvola di pulviscolo dorato danzava davanti ai suoi occhi, colpito da un cono di luce viva – lo stesso che aveva gentilmente provveduto a strapparlo via dal suo sonno.

Mancava poco, e un nodo d’angoscia gli costringeva la gola alla sola prospettiva di mettere piede fuori casa. Non quella sera, non dopo quei discorsi.

Ricordò che una volta aveva davvero vagabondato nelle stradine periferiche sotto la pioggia fino a perdersi, riparandosi di tanto in tanto nelle rientranze dei portoni. Case troppo alte che si richiudevano su di lui in una morsa di tenebra. Poi era successo qualcosa, e si era ritrovato di fronte al volto familiare di Lucien Mirand, uno degli esiliati che avevano da poco fatto rientro in città senza professioni d’innocenza.

Ricordava la terra battuta e le mura fradice, il selciato gelido sotto le scarpe troppo leggere, le braccia avvolte intorno al corpo per proteggersi dal freddo, i vestiti fradici incollati addosso. La taverna dei Lambert, l’olio che bruciava nelle lucerne e l’odore di chiuso di stanze non arieggiate.

A ridestarlo completamente fu il contatto dell’acqua fredda sulla faccia, che lo fece trasalire.

Tre giorni prima, Auguste aveva fatto irruzione in casa sua buttando giù la porta. Dorian si guardò intorno alla ricerca di uno specchio, un’imprecazione soffocata fra i denti. Lo specchio rotto che per poco non gli aveva distrutto la mano…

Sospirò: non avrebbe potuto adoperare la forza di entrambe le mani, in caso di impellente bisogno di stringere il collo al commissario Lambert. O ad Auguste, e non immeritatamente.

E poi, il cuore in subbuglio, la mente impacciata al pensiero di dover mettere le parole una di seguito all’altra per stornare il peggio, sbatté l’uscio alle proprie spalle e scese in strada.

 

* * *

 

Mezz’ora all’apocalisse. Dorian raccattò il bicchiere colmo dalle mani dello sguattero e scosse il capo in un blando ringraziamento. Il ragazzo si profuse in un breve inchino e filò via di gran volata.

Dorian socchiuse gli occhi nel baluginio tremolante delle lucerne. L’odore d’olio bruciato gli fece girare la testa, un principio di nausea come una calamita irresistibile che lo trascinava in basso. Aguzzò l’udito, tentando disperatamente di ritagliarsi fuori dall’odioso brusio che gli pungeva le orecchie.

La risata dell’oste per un attimo gli rammentò quella, simile e altrettanto perforante, del commissario Lambert.

Ventotto minuti all’alba. Lambert minore che strillava qualcosa all’indirizzo del giovane sguattero, prima di rispedirlo tra gli avventori. Dorian avvertì un accesso di collera rimordergli lo stomaco. Strinse i denti: se avesse osato maltrattare il ragazzino, e qualcosa lì in fondo al retrobottega gli avesse confermato il peggio, non avrebbe più risposto di sé, e tutto sarebbe andato a puttane: l’accordo di cinque minuti con Lambert maggiore, l’insabbiamento del caso, il gioco da consumarsi sul filo di lana. Tutto.

Lentamente, soppesò il bicchiere tra le dita. Seguì le ombre che danzavano sulla superficie oscillante del liquido.

Dorian si sentì quasi soffocare, nell’attimo in cui ingollò d’un fiato il liquore. Un pugno dritto allo sterno. Trattenne il respiro, gli occhi che bruciavano, lasciandosi andare con la schiena contro il muro, la panca malandata che cigolava sotto il suo peso. Sollevò lo sguardo al soffitto, mentre una specie di artificiosa tranquillità – non dissimile dalla follia – gli distendeva i muscoli, e si sentì meglio.

Il commissario Lambert approfittò di quell’istante ritagliato nell’ovatta per palesare la propria presenza, inquadrato nella porta ad arco tra bottega e sottoscala.

Dorian deglutì a fatica. I suoi nervi si tesero per qualche attimo, ma subito cedettero al curioso calore che gli montò fin nel cervello. Socchiuse gli occhi, le labbra distese in un sorriso.

Lambert gli scoccò un’occhiata sardonica e accennò verso un angolo appartato.

Dorian annuì di sottecchi. Si risollevò in piedi con le gambe molli e accettò il secondo sigaro della giornata.

Si lasciò ricadere seduto di fronte al commissario. Non riuscì a domandarsi dove i suoi stessi gesti volessero portarlo. Improvvisava. Lo sguardo perso sulle mosche che volavano, accostò il sigaro alle labbra in un gesto fluido, studiato. Ammiccante.

Ridacchiò. Forse stava diventando un po’ isterico. Forse, stordendosi abbastanza, avrebbe retto tranquillo fino all’indomani mattina. Comunque fosse andata. E poi il sonno si sarebbe trascinato via il ricordo.

- Vuoi qualcosa da bere? – il commissario schioccò le dita in direzione dello sguattero.

Allungandosi verso il tavolo, cercava di allentare le distanze.

Dorian annuì, muscoli della faccia costretti in un sorriso smaccato. Un conato di vomito, presto messo a tacere da un’abbondante sorsata dritta in gola, e poi tutto andò liscio. Perfettamente al suo posto.

Il volto del commissario era tutto un ghigno compiaciuto, ogni gesto calmo, misurato. Una piega sarcastica nell’angolo della bocca, mentre gli sfilava il bicchiere di mano contro la sua volontà. Un brusio impercettibile dentro la testa.

Continuò ad annuire senza ascoltare una sola parola, come un tic, come un sogno in cui il tempo scorre veloce.

Annuì persino quando Lambert lo afferrò per una manica e lo costrinse ad alzarsi. Vacillò per un attimo, la stanza un bagliore confuso che gli vibrava nella testa. L’alcool che faceva il suo corso, le gote in fiamme e una gran voglia di scoppiare a ridere, dire qualcosa di irriverente e mandare tutto a monte.

Aggrappato al corrimano, il passo malfermo, un’inedita scintilla di lucidità gli fece buttare lo sguardo sulla schiena del commissario che procedeva davanti a lui. Il sorriso di creta gli morì sulle labbra, e per la terza volta fu tentato di tornare indietro, di fingere che fosse stato tutto un orrendo malinteso, di non reprimere ancora la sensazione di disgusto – ma fu solo un istante.

In silenzio, osservò Lambert. Più basso di lui, robusto ma con un nonsoché di rilasciato. Il passo trascinato di un paio di gambe sottili che si tiravano dietro con una certa agilità un corpo da bevitore consumato. Sorrise: più che del vecchio puttaniere in pensione, gli dava l’idea piuttosto di un grosso tacchino. Strinse i pugni: avrebbe potuto sopraffarlo con facilità e tagliare la corda in tempo. In un’altra occasione e senza la testa di Auguste da portare in salvo.

Con un gesto nervoso, scostò via alcune ciocche di capelli che erano andate a solleticargli il viso. Tirò su col naso e poi rimase lì, a metà strada tra piano terra e primo piano, accasciato contro la ringhiera.

Il commissario fece tintinnare un mazzo di chiavi, si volse di scatto e lo soppesò da capo a piedi. Una piega interrogativa sulla fronte e le guance paonazze, e quel sorriso odioso, come una maschera grottesca.

Dorian distolse lo sguardo, uno strano senso di déjà-vu che non voleva saperne di andarsene. Abbozzò un passo, e un brivido giù per la schiena gli fece quasi perdere l’equilibrio. L’ennesima vampata di calore al viso giunse a sciogliergli i nervi. Altri quattro passi verso il baratro. Un sospiro.

Le pareti danzarono intorno a lui come fantasmi, quando varcò la soglia della camera. La stanza lo accolse con il suo abbraccio polveroso e il rumore di porte sbattute.

Dorian si osservò intorno; osservò il commissario che si era lasciato andare su una seggiola e lo scrutava come l’attrazione principale di una fiera ben riuscita. Scorse il mazzo di chiavi che gli pendeva dalla cintura, e comprese di essere in gabbia. Immobile al centro della stanza, come un albero spazzato dal vento.

Lambert sollevò gli occhi al cielo. Si grattò la nuca, soprappensiero – qualche capello scuro che sfuggiva dalla parrucca. Tese le mani davanti a sé, il viso composto in un’espressione accondiscendente, come a dover trattare con un bambino o con un matto.

- Non ho pagato per osservare il tuo bel faccino, Desgrais – masticò.

Aveva tolto quel “voi”, così fuori luogo tra cliente e puttana.

- Non voglio i vostri soldi – Dorian si morse il labbro.

Lo morse a sangue.

- Già… – il commissario si passò una mano sulla faccia rasata, meditabondo – Tu vuoi qualcosa di più. Vuoi che copra il culo a quel tuo amico… anche se in cambio mi prenderò il tuo, e non mi pare t’importi granché. Curioso.

 

Il vostro non lo scollereste da quella dannata sedia neppure se vi rapissero vostra madre sotto gli occhi. È così che vi destreggiate con i ratti più grossi: spaventando quelli piccoli.

 

Dorian intrecciò le braccia sul petto, spostando il peso da un piede all’altro, il soffitto scuro che pendeva su di lui come un ammasso di ragnatele; il disegno monotono della tappezzeria come un intreccio di serpenti.

Lambert spalancò gli occhi come alla ricerca di qualcosa, di una nota stonata nell’aria.

- …che ti spogli io, ragazzo, non mi pare sia compreso nel prezzo – cinguettò.

Dorian si sforzò di deglutire e reprimere la rabbia, ma si rese conto in quel momento di avere la bocca terribilmente asciutta. La gola riarsa e le labbra come corteccia, e il sapore dell’alcool incollato alla lingua.

Il commissario si sfilò la giacca e la gettò sul tavolo. Un aroma di cipria e di qualche profumo dozzinale si sparse nella stanza, schiaffeggiandolo in pieno volto. Dorian indietreggiò.

Vide Lambert socchiudere le palpebre, indulgente. E fissarlo in volto con due iridi come spilli.

- Ho capito – riprese a lisciarsi la pettorina, meditabondo – Non ti ricordi come si fa. È passato anche del tempo, da quando eri nel giro. Eppure l’arte di prenderlo in bocca non si dimentica da oggi a domani – e gli scoccò l’ennesimo sorrisetto storto.

Dorian si sentì stringere da una morsa d’angoscia e per un attimo fu sul punto di rotolare al suolo. Dovette stringere le palpebre e concentrarsi per restare in piedi, la fronte corrugata e un senso di vuoto in fondo al petto.

C’era il solito, fottuto tassello che non tornava mai a posto. E il commissario lo prendeva in giro: per lui era tutto uno scherzaccio tra compagnoni di bevuta. Si era tanto immedesimato nel ruolo, da rendersi straordinariamente credibile a trattarlo da puttana.

- Spogliati, dai – Lambert si esaminò distrattamente i polsini della camicia, annoiato.

Forse stava perdendo interesse.

- Hai un bel pacco e un bel fondoschiena, d’accordo? – rincarò la dose – L’unico peccato è che continui a startene impalato.

Dorian si morse il labbro, sforzandosi di mantenere la calma e lo stato allucinatorio necessario a staccarsi al più presto da inevitabili contingenze.

Non era neppure la prima volta.

Un lampo di consapevolezza lo fece trasalire; a malincuore, obbedì al comando e si contorse per liberarsi della giacca. Quindi, con dita incerte, esitò tra le pieghe della cravatta, sciogliendo lentamente il nodo.

Lambert sollevò un sopracciglio, scettico.

- Sì, così mi fai addormentare… – sussurrò.

Dorian chinò lo sguardo. Il pavimento a scacchiera gli ondeggiava sotto gli occhi, nel chiarore tremolante delle candele. A breve sarebbe calata la notte, chiudendolo dentro il suo incubo di cristallo. Ma i suoi occhi si sarebbero abituati alla tenebra, e lui avrebbe serrato le palpebre lasciandosi cullare dolcemente, in attesa della deriva.

Quando la sua mente cominciò a vacillare, la luce delle candele bruciava sulla sua pelle nuda. Tutto ridicolmente distante, confuso sotto uno spesso strato di vapore.

Lambert si lasciò sfuggire un fischio d’approvazione e si coprì il volto con le mani. Una risatina maligna si spanse nell’aria, penetrando nella nebbia.

- Santo Iddio… – borbottò – Sei biondo dappertutto.

Dorian chiuse gli occhi, il viso verso il cielo, ogni brano di pelle esposto alla luce e all’ombra. E a uno sguardo che scivolava addosso come inchiostro viscido, come qualcosa che lascia impronte di fango che non vengono via. Lo sentì colare lentamente lungo le spalle, addensarsi intorno ai fianchi, giù lungo il ventre. Sulle gambe diritte che lo inchiodavano al suolo.

Dorian chiuse gli occhi, il silenzio era piombo fuso incollato alle pareti. Sentì la testa girare e barcollò fino alla piccola toeletta all’angolo. Puntò i gomiti, le palpebre serrate per non scorgere il proprio riflesso nello specchio, e mille altre immagini – solo nella sua testa –, annunciate da una cantilena sottile.

 

Rilassati e finirà presto.

Non pensare a nulla.

Soffia sulla candela, spegni la mente e stai sereno. Distaccato, gelido. Non sei tu, quello piegato in una posizione equivoca sul mobile da toeletta.

Non pensare alle mani che violano il corpo. Che indugiano verso l’inguine e si muovono.

È tutto… meccanico. Solo un gesto freddo e meccanico. Le sue mani che tastano dove sanno di poterti estorcere qualche brivido. Di terrore.

Rilassati, e tutto andrà meglio.

 

- Cerca di fare in fretta! – ringhiò, quando sentì un paio di dita calde scorrergli lungo la colonna vertebrale.

- Ehi! – il commissario si scostò appena, prorompendo in una risata beffarda.

E poi, con orrore, Dorian avvertì quelle stesse dita ruvide avvitarsi dolcemente intorno al suo sesso. Strinse i denti, e un impulso improvviso di sfuggire il contatto. Chiuse gli occhi, pressato contro il mobile da toeletta, desiderando di diventare aria e cenere.

- È un peccato, sai? Certo, se proprio vuoi, posso accontentarti adesso – Lambert gli soffiò tra le scapole; scese più in basso – Ma qui ci avrei fatto miracoli…

Dorian socchiuse gli occhi, la vista annebbiata, tentando di smarrirsi nel luccichio tremolante della candela. A interrompere il suo estraniamento fu uno strattone improvviso alla nuca, e i capelli che gli ricaddero davanti al viso. Poi sentì Lambert sogghignare, mentre gli tormentava un ricciolo biondo.

Dorian si chiese se non fosse eccessivo vivere quel gesto come un’intima umiliazione, o se fosse piuttosto il liquore ingurgitato, quella sera, a non decidersi a fare il proprio dovere.

- …e anche tu avresti potuto fare miracoli, Dorian. Qualche annetto fa. Con un fondoschiena simile, a quest’ora ti saresti vestito d’oro.

Dorian inspirò profondamente e si morse le dita. Non poteva imprecare o divincolarsi; al massimo poteva mordersi il labbro.

- Muoviti… – biascicò tra i denti.

Muoviti, vecchio schifoso. Falla finita con questa tortura. Ora.

- D’accordo, quanta fretta…

Dorian represse un grido, quando Lambert entrò in lui. Boccheggiò, il respiro incastrato in gola.

Lambert rideva, ma lui non lo ascoltava.

- Visto, io ho provato ad avvertirti…

Il secondo affondo gli spezzò il fiato. Dorian premette il viso contro la superficie fredda del piano, la coscienza coagulata in qualche anfratto nascosto.

Obbedisci e poi vattene.

- No, non sei cretino. Lo sapevi che avrebbe fatto male. Ora sta’ calmo…

Dorian conficcò le unghie nel legno.

Solo un atto meccanico, senza nessuna implicazione.

Il commissario si piegò su di lui fino a schiacciarlo sotto di sé. Dorian si sentì soffocare.

Non sentirai un mezzo sussurro

Un attimo, e una mano impertinente corse a scostargli i capelli dalla faccia. Dorian scosse il capo per scansarsi. Poi sentì le dita di Lambert sfiorargli il collo.

- Ma che bel monile… – tubò.

Dorian trasalì. Le solite dita prepotenti soppesavano l’anellino d’oro che portava appeso all’orecchio.

- Strano, un prostituto di strada che se ne va in giro con questa roba addosso… – sghignazzò – Che damerino!

Dorian sentì un accesso di collera esplodergli nel petto. Il suo unico, incerto spiraglio visuale si colorò di vermiglio. Di scatto, schiaffò via quella mano appiccicosa e fece per liberarsi della sgradita presenza con un colpo di reni. Avrebbe ribaltato la situazione a suo favore – in un’altra occasione, forse –, perché non era un fuscello esposto al vento, dannazione, e il commissario era vecchio e flaccido.

Ma stavolta la ribellione fu presto domata da un paio di mani risolute che lo abbrancarono per i fianchi con un gesto rude, premendolo contro quel dannato mobile traballante.

- Lascialo! – soffiò Dorian, portandosi una mano all’orecchio – È di mia madre.

Il commissario si lasciò sfuggire un sibilo e allentò la presa.

- Diavolo… Tua madre!

Tutto ciò che mi resta di lei…

- Regalo di un cliente ricco – altre risa sguaiate – E tu sei tutto tua madre, vedo.

No, sua madre no. Non ne aveva diritto. Dorian strinse le palpebre. Tentò di afferrare qualcosa oltre il velo di lacrime che gli adombrava la vista. Non il suo volto riflesso, e quell’immagine orribile, con un bastardo che torreggiava su di lui, lo teneva stretto e lo tastava tra le gambe. Non gli importava: era tutta un’orribile farsa.

E poi, di colpo, tutto fu di nuovo sereno, un senso di freschezza che gli pervase piacevolmente i polmoni. Le gambe cedettero, e scivolò nell’oblio.

 

  

 

 

 

 

 

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Buonasera a tutti!^^ Dopo tempi biblici, finalmente torno ad aggiornare questa storia che è ormai diventata una storia infinita... Ringrazio i nuovi e i vecchi lettori, ringrazio chi ha recensito e chi ha aggiunto NT tra le storie preferite/seguite/da ricordare.

Poiché le note a piè di pagina non vengono mai per caso (specie dopo la *geniale* trovata delle risposte immediate ai commenti), approfitto per fare un po’ di pubblicità non-occulta. Se vi capita e, dopo 14 pagine di capitolo, siete ancora in vena di affaticarvi le retine tramite lettura al pc, consiglio

Portami a vedere le stelle, originale scritta a quattro mani con Lady Aika; e

Il bacio dell’aspide, altra mia originale, venuta alla luce dopo NT, ma a cui sono ugualmente affezionata.

Bene, ringrazio chiunque sia arrivato sin qui e do appuntamento al prossimo capitolo!^^ <3  

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