Le notti di Gerico

di Jericho XVIII
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Notte 3 ***
Capitolo 2: *** Giorno 1 ***
Capitolo 3: *** Notte 2 ***
Capitolo 4: *** Giorno 3 ***
Capitolo 5: *** Giorno 3 - seconda parte ***
Capitolo 6: *** Giorno 4 - Finale ***



Capitolo 1
*** Notte 3 ***



NOTA La storia, i personaggi e l'ambientazione appartengono esclusivamente a me. Il plagio è punibile di Avada Kedavra.



 


Le notti di Gerico

o “la morte e lo stalliere”


Ad Attila


 

Notte 3

 

Sentivo ancora le sue braccia sfregare contro le mie, e quel respiro regolare contro il mio collo.

La notte era scura, fatta di ombre tremolanti e luci soffuse, i rumori soltanto un borbottio che faceva vibrare il legno. Esattamente come tutti le notti a Gerico. Esattamente come la notte prima. Ma stavolta la domanda era stata una sola.

 

« Perché non so mai cosa ti passa per la testa? »

Un sibilo gettato dall'alto, una freccia lanciata da quelle labbra carn  ose, nient'altro che un profondo sussurro nel silenzio più assoluto. Il muro di terra contro la seta della mia tunica, le spalle premute su uno di quei grumi di roccia che i bambini della città usavano come appigli per arrampicarsi. Il prurito.

Avevo pensato: volevo soltanto morire.

Un sospiro.

La luce.

Lui non c'era più.

Quant'era facile dimenticarsi che non tutti parlano col pensiero.
 


 

 

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Capitolo 2
*** Giorno 1 ***


Giorno 1

 

Vendo tre quarti della tua vita

Al mercante Dal Mare,

in cambio dell'oro

dell'incenso

e della solitudine.

 

Firmato,

                                              Tuo fratello Hanid

 

La lessi mentre ancora la componeva nella sua testa. A colazione. Una ciotola si ruppe, latte di hakko schizzò ovunque, un singhiozzo spezzò l'aria e rapidamente svanì.

Quant'era difficile ricordare che qualcuno legge il pensiero in famiglia.

Lui. Un bambino di otto anni. Un genio, l'erede, il mercante. La dodicesima prova genetica dopo me, il rito tradizionale, la prole biologica. Tra me e lui, dieci figli morti. E alla fine, il definitivo successore della terza famiglia di mercanti più importante di Gerico. Hanid, “Subbuglio”, Hanid “Pelle di Serpe”, Hanid “Re dei ricami”, Hanid “Cacciatore d'argenti”.

Hanid “vendo tre quarti della tua vita per vivere quarantacinque anni in più”.

Il bambino di otto anni alzò il suo capo perfetto raccogliendo il mio viso scomposto e lasciò con compostezza che il latte smettesse di gocciolare dal suo turbante. Dai suoi abissali occhi viola si sprigionò una mite determinatezza che fece di fuoco le sue parole.

Bene, ora lo sai. Fai ciò che ti resta”.

Ho quattordici anni meno tre giorni. cosa vuoi che mi resti, fratello mio?

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Capitolo 3
*** Notte 2 ***


Notte 2

 

La notte sui tetti di Gerico è come un torrente che tenta di affogare un pesce. Per quanto essa si tenda sulla città, per quanto essa sia scura, sempre le luci la ricacciano indietro, senza sosta e senza fretta, mai violente, soltanto corpo di un bagliore che proviene da dietro ogni tenda chiusa, da ogni fessura del legno, della roccia, dei mattoni. E la torre, la grande Torre, sempre squarcia quel manto color pece col grande Osservatorio che dal tramonto all'alba proietta un fascio di stelle nel grande schermo del cielo. Perché le stelle non si vedono molto, con i bagliori della città; si vede poco e niente, a parte una strada di lumi che collega i sette spigoli delle mura. A volte ci si dimentica pure di essere in mezzo al deserto, che là fuori non c'è altro per miglia: sabbia dura, sabbia morbida, un mare di affilate e minuscole pietruzze dorate che la gente infila nelle tasche come souvenir.

A quest'ora l'aviazione è vietata: nessuna aereonave romba a disturbare la falsa quiete di Gerico. L'unica ombra celeste visibile è concessa all'oscurità.

C'è chi guarda questa notte, accovacciato sul legno di una pedana che sporge al di sopra di una piazza silenziosa. Sillaba con le sue labbra carnose una canzone, forse una ninna nanna, perché tra le braccia stringe un cucciolo di cane tutt'ossa e zampe che gli si sta addormentando sul braccio, il muso tutto teso in qualche sogno da lupo.

Attorno al ragazzo vortica una piccola luce, come una fata ma senza il grazioso aspetto che esse hanno: è più un minuscolo colibrì dal muso felino con grandi ali bianche, che sbatte tanto velocemente da creare quell'alone luminoso tutto intorno a sé. Anche il cane non è proprio un cane, ma più una creatura lunga e sinuosa con la coda piumata ed il pelo appuntito come aculei.

Il ragazzo invece è proprio un ragazzo. Ha la pelle pallida come una delle lune che cerca in quel cielo inquinato da stelle finte, capelli castani, braccia forti e asciutte. Sulla sua pelle sono passati diciassette anni fatti di fruste, artigli, pungiglioni, troppe poche carezze e ciascuna di queste cose ha lasciato un segno, anche se leggero, da qualche parte. Ma ciò che ora lo fa tremare è più importante di tutti questi e non si può vedere sulla sua schiena nuda: vive sottopelle, e gli sta regalando qualcosa di molto più indelebile di una cicatrice.

Uno schiocco.

Luce.

Lui non c'è più.

 

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Capitolo 4
*** Giorno 3 ***


 

Giorno 3

 

Mi alzai a metà mattina. Un ronzio tra le coperte mi informò che l'ora delle medicine era passata da un pezzo e che per l'ennesima volta avrei dovuto raddoppiare la dose di sera. Mi scrollai di dosso i cuscini e gli abiti della notte per tuffarmi direttamente nella vasca calda che la servitù aveva preparato. Le grandi finestre ad arco delle mie stanze davano sul cortile privato del nostro bazar; sebbene sopra di noi avessimo altre case, altre strade e altre piazze – la città era tutta costruita così, arrampicata su se stessa – potevo essere certo che nessuno usava il mio balcone come marciapiede, come succedeva ovunque altrove. La nostra casa era grande come un quartiere. Sentii fruscii di vesti, ticchettare di marchingegni, uno scroscio fumante; la giornata già correva tra le compra-vendite, nella corsa folle del baratto che faceva tutti un po' più oggetti e meno umani.

Ma tra tutto si udiva anche qualche risata, le voci levarsi e poi bofonchiare, di tanto in tanto il trillo di una ragazza. Giungeva tutto attutito. Rimasi nella vasca finché non sentii la pelle raggrinzita e poi mi alzai, avvolgendomi in un telo rosato. Il pavone sulla poltrona scelse quel momento per svegliarsi a sua volta e levare il suo canto. Lo zittii con una carezza, levando poi le piume cadute nella notte dalle sue sei ali rossastre.

Mentre mi vestivo dalla porta di servizio entrò una donna a chiedermi se volevo il pasto, ma rifiutai cortesemente. Tra le mani avevo la grande spilla con la città di Gerico sormontata dallo stemma del mio casato, uno dei quattro simboli dell'Osservatorio: il pavone. Avrei dovuto appuntarmelo al petto. Non lo feci.

Mi voltai per andare verso la soglia, e lui era lì.

La testa appoggiata alla colonna, braccia incrociate, un lume irrequieto sulla spalla. Binko era il nome di quel faerie che aveva raccolto nella pattumiera di un circo quand'era bambino. Era Binko a farlo sparire ed apparire.

« Oggi hai lezione, dimenticato? » mi domandò.

« Buon giorno »

« Har baje »

Il saluto mi colpì come un coltello e sentii il mio viso contrarsi. “Har Baje”, “che tu possa vivere per sempre”. Mi portai una mano sullo stomaco. Lo vidi avvicinarsi con circospezione, cercando di guardarmi negli occhi. « Stai bene? » domandò. « Possiamo rimandare, se vuoi ».

« No. Andiamo. Ti prego, Skandar »

 

Una grande arena circolare era il campo degli allenamenti. Avevo studiato per anni cosa fosse un hakko, il grande erbivoro che stava alla base della nostra fortuna, che ci dava la lana per i tessuti, il latte come cibo e preziosissimi utensili e gioielli con l'avorio delle sue corna ricurve – carne mai, la carne di hakko era velenosa. Avrei potuto elencare con precisione ogni singolo muscoli che lo faceva muovere, il numero dei suoi denti, il colore del suo pelo in tutte le varianti, gli usi del suo sangue, le qualità del suo latte, i nomi di ogni incrocio possibile all'interno della razza; ma non bastava. Era tradizione che i mercanti, allevatori di hakko, fossero anche loro sublimi cavalieri, in ordine con la tradizione che vedeva questi animali addomesticati per primi e usati come cavalcature dai pastori del deserto che avevano fondato la città. Così io prendevo lezioni. Da dieci anni.

Era così che avevo incontrato Skandar. Figlio di nessuno, assistente di uno stalliere, per il suo sesto senso con le bestie aveva scavalcato allevatori e domatori fino ad arrivare a diventare l'allenatore personale delle migliori famiglie di mercanti di sete. Non aveva molto lavoro, dato che gli eredi per famiglia in genere erano uno o due – i mercanti non si preoccupavano di insegnare a cavalcare alle altre dozzine di figli non legittimi che tenevano in casa, ma quello che aveva l'aveva reso in breve in condizioni economiche più che ottime. Tuttavia si ostinava a lavorare ancora per il suo vecchio padrone, uno stalliere della Bassa Città che faceva commissioni per la gente comune.

Non cavalcavamo sempre gli stessi hakko. Erano bestie che crescevano molto velocemente, tanto da raddoppiare le loro dimensioni per i primi due mesi di vita di settimana in settimana e da lì la crescita proseguiva inarrestabile.

Gli hakko da cavalcare dovevano necessariamente essere tra il secondo e il terzo anno di vita, appena prima che la crescita iniziasse a rallentare. Avevano le dimensioni di un sidecar per aereonave, quattro metri di lunghezza per circa due al garrese, il pelo morbido ancora poco lungo, quasi quanto un braccio, e le corna – le corna erano nel loro periodo di maggior splendore.

Le corna di hakko passavano dal bianco latteo della nascita al nero ossidiana della vecchiaia, e nel mentre sfumavano tutto lo spettro dei colori, con due momenti di culmine del colore. Il più tardo, da molti preferito, era al momento della morte: nel momento stesso in cui l'animale iniziava a spirare, l'ossidiana sbiancava fino a tornare al colore della nascita, talmente brillante da creare un alone; se le corna venivano recise in quel momento, continuavano a brillare per sempre. Altrimenti l'avorio cominciava ad assottigliarsi e a diventare traslucido, come spegnendosi dall'interno, per poi sfibrarsi e sgretolarsi nel nulla. Il primo momento invece era proprio quello attorno ai tre anni.

Davanti al mio hakko, Juska, rimasi a contemplare lo spendore delle corna. Rivoli di verde smeraldo le percorrevano in venature circolari, penetrandone la lunga spirale di blu e celeste che ne seguiva la forma ritorta. Alla base, il blu si scuriva e passava al rosso vermiglio; sulle punte, il verde sfumava in un intenso giallo paglierino. Il pelo dell'hakko, color crema, faceva loro da sfondo.

Skandar era già in sella. Al posto delle briglie, gli animali venivano governati utilizzando delle appendici carnose che scendevano dal loro collo. Ve ne erano due appena davanti le spalle; si trattava semplicemente di un filo color crema, come un'antenna, che finiva con un globo luminoso da stringere nel pugno o da assicurarsi al palmo con una striscia di stoffa.

Skandar diceva che cavalcare con un hakko era come danzare il ballo del tauro, il ballo che le donne del paese oltre il mare da cui proveniva facevano sul dorso di grandi tori ammaestrati. Era tutta questione di equilibrio; di equilibrio e di classe. Avevo visto uomini cavalcare un hakko con le mani sul grembo, muovendo appena le dita sui globi; altri seguire ogni movimento dell'animale con l'intero corpo, muovendosi sinuosi in sincrono come uccelli appollaiati sulla loro schiena.

Montai su Juska, appoggiandomi sul moncone duro sul suo fianco dove stavano spuntando le ali. Una grossa membrana le copriva, ormai sottile, e la loro forma si distingueva facilmente sotto il pelo. La bestia mandò una nota veloce, segno che aveva voglia di muoversi, e iniziò a sgranchire le sei gambe.

« Sei pronto? » chiese Skandar.

Era bellissimo. Sul suo viso si era dipinto quel sorriso tranquillo e senza tempo che si ritrova in ogni uomo o donna, bambini o vecchi che siano, quando in loro si fa forte la consapevolezza che non negli altri uomini si può trovare comprensione, ma solo in un animale. In Skandar splendeva. In Skandar, il bambino perduto trovato in una cesta nella Terra del Fuoco, cimitero di bestie estinte come i draghi o le pantere, quel sorriso era più di un sentirsi compresi: era un tornare a casa. Lo aveva per ogni hakko o gatto o cavallo o topo che fosse, e mai, mai in due anni, mai l'avevo visto rivolto ad un essere umano.

Annuii fissandolo ancora. Collegato all'hakko, mi assicurai che l'arena sotterranea fosse sgombra dagli assistenti e spronai Juska. Skandar non voleva mai iniziare per primo, cercando di insegnarmi l'intraprendenza che una cavalcatura richiede al suo cavaliere.

La corsa iniziò a divertirmi. Snello, Juska smuoveva la sabbia e seguiva volentieri le piroette che gli suggerivo, avvitandosi sul corpo sottile e mettendo a dura prova la forza delle mie gambe poste attorno al suo ventre. La sella mi teneva al sicuro dalle cadute, ma non dalle corna; il suo collo saettava avanti e indietro, a distanza di sicurezza dal suo viso ma non abbastanza se avesse impennato. Finiti i percorsi colsi il segno implicito di Skandar e ci dirigemmo a parti opposte dell'arena per una gara di velocità. « Al via! » gridò. Juska lanciò un grido eccitato e appena l'altro hakko diede il segnale si tuffò galoppando sulla pista.

Mi misi a ridere.

Forse fu quello a distrarre l'altro hakko, che Skandar aveva condotto molto più velocemente di me nella nostra direzione. Le due bestie si scontrarono, e Juska sbandò a destra; in pochi secondi fummo contro la parete dell'arena, e ci saremmo schiantati se non avessi guidato l'hakko in una manovra azzardata. Fletté due zampe sulla sabbia e con le altre quattro spinse contro la parete, lanciandoci verso l'alto. Ci fu uno strappo fortissimo, e vidi uno schizzo di sangue violaceo partire obliquamente verso il basso. Eravamo in aria. E ci rimanemmo.

Qualche secondo, il tempo che Juska impiegò a rendersi conto che per rimanere sospeso avrebbe dovuto battere le sue nuove quattro ali. Poi fummo a terra.

Skandar era euforico. « Ya-hoo! Hai fatto qualcosa di incredibile » Scrollò le spalle mentre mi aiutava a liberarmi dalla sella e dal peso dell'hakko, che era precipitato sopra parte del mio corpo.

Non dissi nulla.

Pensavo a quanto mi sarebbe piaciuto imparare a volare.

Era il passo successivo alla cavalcata. Però... si iniziava a sedici anni.


 

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Capitolo 5
*** Giorno 3 - seconda parte ***


 

Giorno 3

 

Appena finito quell'allenamento. Di sera. Ancora coperto di quel sangue violaceo dal potere tonificante, rigenerante e altro che avrei potuto elencare, sulla via di casa, dopo un breve pasto insieme a Bassa Città. La strada vuota. Il suo scatto, le sue braccia che portano le mie, olivastre, al muro, la calma, la determinazione, il guizzo di paura. Quella domanda.

« Perché non so mai cosa ti passa per la testa? »

Se solo tu potessi sapere.

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Capitolo 6
*** Giorno 4 - Finale ***


 

Giorno 4

 

Nel sogno, una carezza. I miei capelli corvini scompigliati e rimessi a posto. Il calore di una mano, poi il vuoto. Un ticchettio. Come di un piede che batte sul pavimento.

Aprii gli occhi e Skandar mi mise un dito davanti alle labbra. Mi strinsi tra le coperte soffocando un urlo, fissando il suo viso trasfigurato per metà in quello della donna della servitù. Ammiccò in direzione di Binko. La creatura scintillò intensamente per un attimo, e il suo sorriso tornò intero.

« Auguri » bisbigliò.

Era una situazione troppo assurda perché mi ricordassi che giorno fosse. « Cosa ci fai qui? »

« Un rapimento. Un premio. Un regalo. Una pretesa. Decidi tu »

Si girò, in attesa. Capii che dovevo vestirmi. Mi infilai rapidamente gli abiti del giorno prima e mi piazzai di fronte a lui.

Gli occhi di Skandar mi percorsero, critici. « No. Prendi quelli. » Mi indicò i vestiti fuori dalle finestre ad arco, i calzoni di tela della servitù ed una giubba rossa molto ampia.

Lo feci senza protestare. Ci defilammo dalla porta di servizio.

La città era in subbuglio per la festa di mezza estate che coincideva con il mio compleanno. Carichi di mercanzia e persone bloccavano le strade principali, mentre le vie attorno e sulle case pullulavano degli individui più stravaganti e dalla mercanzia meno usuale. Skandar si intrattenne per dieci minuti con un nano che vendeva uova puntinate e ne intascò sei barattandole con il frammento di uno specchio d'oro che aveva raccolto nelle mie stanze. Mentre continuavamo a fendere la folla mi porse due dei suoi nuovi acquisti con un sorrisetto. « Guardale con attenzione » mi intimò, « quella con le macchie azzurre, sai indovinare cos'ha dentro? »

« Un drago? » tentai.

Schivò il manico di una pala che sporgeva da un carretto e mi aiutò a fare altrettanto.
« Sbagliato! Quaglia. E quell'altra allora? »

« Sempre quaglia? »

Skandar si fermò un momento per sorridermi con complicità. « È un uovo del pavos yerikù che fa da simbolo alla tua casata. Anche le altre quattro lo sono, quella di quaglia è l'unica che non ho visto bene. Non valgono un frammento del tuo specchio. Valgono tre volte la tua camera »

Me le mostrò tra le dita, quattro ovali perfettamente anonimi non più grandi di un grosso bottone.

« La cosa divertente è che le due uova sono perfettamente uguali a parte quella differenza di colore. Azzurre la quaglia del deserto, grigio-azzurrino il pavone... credo » mi spiegò, riprendendole tutte.

A me parevano esattamente identiche. Ma parlandomi Skandar doveva essersi distratto, perché finì contro la bestia da tiro di un buffo carretto tutto scomparti. Il vecchio alla guida fece arrestare il cavallo.

« Whoo, Zaradè, whoo! Scusateci. » Le facce di due bambini spuntarono dal carretto, incuriosite.

Skandar però era immobile, scrutando il cavallo. Che non era proprio un cavallo. « È... » mormorò, prendendo il muso striato della bestia tra le mani.

« Ibrido. Bionico. Shht, ragazzo. Non so come tu riconosca la differenza ma - fidati, non è cosa per le piazze di Gerico » La voce del vecchio era cambiata, si era fatta seria e autorevole.

Ma Skandar sorrise. Un sorriso grande, simile a quello che avrei voluto vedere. Mi strinsi a lui, con la folla che ci spingeva contro.

« È cosa soltanto da grandi inventori » mormorò con aria complice.

Il vecchio si fece tutto una luce. « Skandar? »

« Ah, vecchio stupido! Come potevo non riconoscere Zaradè? Chi te l'ha fatto aggiustare, chi? »

Insieme risero e si diedero grandi pacche sulla schiena, per poi iniziare a parlare fitto a bassa voce. Il vecchio chiedeva, Skandar rispondeva con serietà. Alla fine il vecchio mi guardò, un lungo sguardo. « Andate dagli hakko? »

« Come lo hai capito? » si meravigliò Skandar.

« La postura da cavaliere. E la pelle. Solo la tua famiglia ha quel colore olivastro qua a Gerico... » rispose rivolto a me.

Mi coprii le spalle, a disagio. Cercavo di tenermi distante dalla mente del vecchio, come sempre facevo con gli sconosciuti, ma sentivo come un messaggio provenire da lui.

L'anziano ci squadrò un momento, Skandar soprattutto, poi chiese al bambino di prendergli una cosa da dentro il carretto e ce la porse. La presi io e la ficcai velocemente nella borsa, come Skandar mi fece cenno. Poi il vecchio ci ammiccò e salutò con calore Skandar, lanciando un'altra lunga occhiata su di me.

Finalmente, mentre il carro ci oltrepassava, mi aprii alla sua mente.

Hai avuto fortuna a trovare uno come Skandar per te. Buona fortuna.

 

« Come fai a sapere dove sono gli allevamenti? » chiesi.

Le basi erano segrete. Dal momento che gli hakko si muovevano pressoché liberi, il problema non era lo spazio, visto il deserto sconfinato attorno a Gerico, ma che nessuno sapesse esattamente dove. A me la visita era stata fatta fare da piccolo, durante una cerimonia che avevo dimenticato.

« Mi ci portano a prelevare gli esemplari da cavalcare » disse stringendosi nelle spalle. Sospettai che non fosse solo per quello. Banko scintillava in un taschino della sua giacca. Così capii.

« Non ti preoccupare e avvicinati a me » mi intimò. Mi prese per un braccio e poggiò la fronte sulla mia. « Vai pure, Banko ».

Una luce, e non fummo più.

 

Il piccolo pezzo di terra galleggiava nel vuoto. Cercai di non guardare in basso.

« Paura del vuoto? » chiese Skandar urlando sopra il vento.

« Mi viene voglia di buttarmi giù » risposi. Lo sentii scoppiare a ridere.

« Anche a me! » replicò, facendomi voltare, « ma poi qualcuno mi ha insegnato a fare di meglio... »

Lo spettacolo che avevamo davanti mi fece indietreggiare di qualche passo, rischiando di farmi cadere. Ma c'era Skandar a sostenermi.

 

Hakko. Ovunque. Le zolle di terra galleggiavano come arcipelaghi tra le nuvole, facendosi ombra a vicenda o coprendo col loro oscillare i tre soli di Gerico. A terra, il deserto mandava bagliosi che ne illuminavano la parte inferiore facendone svanire i contorni. E sopra ogni cosa, sguscianti, veloci, a fare piroette e a lanciarsi verso il basso o a gettarsi in alto, gli hakko. Hakko di tutti i colori e varietà, dal pelo crema, indaco, rosso spento, oro, acquamarina, corto a raso pelle o lungo e setoso, con le ali piccole e spesse o sottili e ampie, le corna lunghe come se non fossero mai state tagliate, talmente cresciute da affiancare le zampe ed arrivare quasi alla coda in alcuni. Le loro dimensioni. Finora avevo visto gli hakko adulti solo in immagine, ma non mi sarei mai aspettato che fossero veramente così grandi. A lezione mi avevano parlato dei giganti marini di Atlantis; gli hakko dalle corna marroni e nere erano di quella stazza. Decine e decine di metri di pelo tosato o meno, corna ritorte come riccioli, il muso gentile, ammorbidito dall'età, e zampe forti che con un solo movimento avrebbero spazzato via Bassa Città. Le madri, dalle corna già brune e quindi molto grandi, si muovevano pigramente attorno alle zolle sospese più grandi, con i piccoli a terra o attaccati al pelo della schiena.

E il canto regnava su ogni suono.

Bastò che il vento cambiasse un attimo perché venissimo investiti da quella sinfonia di voci.

Le corde vocali degli hakko, di tripla estensione rispetto agli umani, possedevano uno strumento naturale alla base che rendeva il suono che producevano fino a quattro volte più lungo del normale. Un hakko adulto poteva tenere la stessa nota per ore, senza mai smettere di respirare.

Quel branco sembrava cantare da tutta una vita.

Le note si alzavano e scendevano, acceleravano e rallentavano, composte da mille gole diverse nei mille modi possibili. Non mi ci volle più di un secondo per rendermi conto che la melodia seguiva il volo degli animali. Coordinati col vento, col movimento delle ali, delle zampe e della coda essi producevano continuamente un suono che naturalmente si accordava con quello dei loro vicini, esattamente nel modo in cui si regolavano nel dividersi lo spazio di volo. C'era spazio per ogni movimento, per ogni accordo. Il frusciare del vento sul loro pelo morbido faceva appena da accompagnamento.

Sentii la voce di Skandar accanto al mio orecchio. « Vuoi volare, piccolo pavone? »

 

Era enorme. Una distesa soffice e calda al tatto, percorsa dall'aria calda che spirava tra le zolle e dalle vibrazioni del canto dell'hakko stesso e degli altri. Non ebbi da prendere il comando; i globi mi aderirono automaticamente alle palme delle mani, tanto lunghi da attorcigliarmisi attorno ai polsi in una stretta che non era un legame ma un abbraccio. Le corna lunghissime della bestia mi sfioravano la pelle senza mai ferirmi, passando a neanche un centimetro dalle mie tempie nelle evoluzioni del collo, perfettamente a tempo con tutto, senza compiere neanche il minimo errore.

E iniziammo a danzare. O a volare. O a ballare. E fu fantastico. I globi nelle mie mani bruciavano ma senza che sentissi dolore, ed io e la bestia eravamo una cosa sola – tanto che neanche per un momento pensai di essere io a guidarlo, per quanto facessi ballare le braccia attorno al mio corpo e al suo, né che fosse lui a muovere me – anche nella voce. Mi uscì senza che potessi farne a meno, e appena un istante dopo avvertii quella forte di Skandar farmi eco – mi volava accanto, a petto nudo su di un hakko vermiglio dalle corna color cobalto, intervallando il canto ad una risata forte e piena che riempiva il vento, riempiva l'aria, faceva guizzare gli hakko vicini contagiati dalla sua allegria. Volammo per un'ora, per due, forse per quattro o per cinque, sul deserto non c'è il tempo, oltre le nuvole non c'è il tempo, non finisce il giorno con tre soli diversi che guardano lo spettacolo e ascoltando chiedono soltanto il bis.

Ci posarono a terra, sfiniti, su di una zolla che pareva appoggiata direttamente le cielo. Le note dei nostri hakko calarono mentre loro calavano noi sull'erba. Skandar rimase con la fronte sul suo per qualche istante, in un silenzioso ringraziamento.

Il mio strofinò la coda contro il mio fianco e mandò un saluto acuto, per poi tornare tra le nuvole. Non ero il suo padrone, lì. Non ero nessuno. Ricordai le parole di Skandar. Non sono nessuno. Per quelle bestie, in quel momento, non c'erano eredi, non c'erano famiglie, non c'era Gerico, non c'era nulla. C'erano solo i venti, tre soli e un unico cielo da saziare col canto. E di cui saziarsi cantando.

Mi sentii a casa come mai mi ero sentito tra le quattro mura delle mie stanze o nell'abbraccio del padre che di me aveva fatto undici cloni migliori.

« Skandar! » gridai in preda ad un moto di gioia, e mi tuffai su di lui. Cademmo e rotolando finimmo ad un passo dall'abisso. Togliendoci la terra dai capelli raggiungemmo un posto sicuro e là ci sdraiammo, fronte alle nuvole e al serpeggiare di bestie che ad intermittenza ci facevano ombra.

Voltò il viso verso di me. « Auguri » ripeté.

E mi sembrò di capire altro oltre le parole. Altro che forse faceva parte di quel linguaggio di cui mi aveva parlato, che forse prima non avevo mai capito, per imparare il quale forse serviva volare e ballare con un hakko, o magari... essere semplicemente se stessi, anche per un secondo soltanto.

Ma capii. E un grazie non bastava.

Così gli raccontai tutto.

 

Non so se vidi le sue lacrime o erano le mie a fare il tutto un po' più triste di quello che fu. La notte calava ma non così il canto. Anzi sembrava che gli hakko alzassero la voce per convincere i soli a rimanere ancora un poco, e forse riuscendoci, ma il freddo del deserto già raggiungeva le zolle sospese. Skandar prese dalla mia borsa il fagotto che gli aveva dato il vecchio e lo aprì. Era come un globo in cui entrammo, e dentro v'erano solo coperte e cuscini e un caldo che fece sentire caldo quel qualcosa dentro entrambi.

Quando la notte arrivò definitivamente e le nostre parole finirono, Skandar disse: « Ascolta. Per tredici anni hai sentito il giorno del tuo compleanno la città celebrare la mezza estate con un'ora intera di silenzio, ovunque, in ascolto. E a tutti pareva che la città cantasse in lontananza. Capisci di che canto si tratta, ora? »

Ci fu poco più di un minuto di silenzio, poi il canto esplose. E fu più grandioso di ogni altra mezza estate della mia vita. Sembrava che il cielo si stesse sciogliendo in musica, che le stelle suonassero la notte stessa. Durò un'ora. Quando infine la musica si affievolì, le nostre bocche che non concepivano più altro suono si cercarono, si trovarono, e celebrarono il silenzio.

 

A notte fonda mi svegliai sul suo petto.

Guardammo le stelle. Avevo visto la luce a Gerico e mai ero andato per più di mezza giornata nel deserto. Per me era uno spettacolo completamente nuovo. Skandar mi parlò dei loro nomi, mi tracciò le loro forme, inventò animali nelle loro linee. Io per lui creai storie di eroi che addomesticavano le fiere o se le facevano amiche. Avremmo continuato fino all'alba se non avessimo all'improvviso sentito un pigolio.

Scostammo i cuscini. In un punto particolarmente caldo dove avevo lasciato i miei vestiti, tra gusci rotti e liquidi, cinque pulcini cinguettavano verso di noi.

« Ma sono quaglie! Allora il sesto uovo era... » si meravigliò con disappunto Skandar.

Risi forte e lui mi baciò.

Per un anno ancora, sarei stato il ragazzo più felice di tutta la grande città di Gerico. Poi... chissà.

Har baje.

 

 

Urbino,

6-7 dicembre 2012

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