Chiamami Nessuno

di xmagslaugh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto capitolo ***
Capitolo 5: *** Quinto capitolo ***
Capitolo 6: *** Sesto capitolo ***



Capitolo 1
*** Primo capitolo ***


Scaravento a terra il cellulare rabbiosamente. Potrebbe aiutare a rintracciarmi, e l'ultima cosa che voglio è tornare a casa. Contro ogni mia previsione resta intatto, il che mi fa arrabbiare ancora di più. Lo raccolgo, e inizio a scavare una buca con le mani. La terra mi entra nelle unghie, e la pioggia mi sferza il viso. Forse oggi non era il giorno migliore per scappare. E probabilmente nemmeno la stagione. Sono finalmente riuscita a fare un piccolo buco di una ventina di centimetri, ci butto dentro il telefono e ricopro tutto con la terra. Mi guardo le mani, sporche di fango, i capelli bagnati, i vestiti anche. Serro i pugni repentinamente, ho voglia di urlare, ma tutto quello che esce dalla mia bocca è un singhiozzo sommesso. Mi accascio a terra, tremo come un bambino. Le lacrime si mescolano alla pioggia e mi rialzo in piedi. Non posso lasciarmi andare in questo modo. Sono scappata di casa, non posso permettermi di cedere alle emozioni. L'unica cosa che conta è trovare un riparo, e se non chiedo troppo, asciutto. Sento la suoneria del cellulare. Sotto venti centimetri di terra, nel fango. Continua a suonare. Inizio a correre come una disperata. Non so dove andare, non so cosa fare. Per ora corro e basta. Devo raggiungere la città, è l'unica possibilità che ho. Lì potrei trovare uno scantinato abbandonato, un edificio in disuso in cui ripararmi. E potrei rovistare nei cassonetti, in cerca di cibo. In campagna, dove sono nata e vissuta fino ad oggi, la gente non butta mai niente. Hanno tutti troppa fame e troppi pochi soldi. In città è diverso. Sono sempre andata a scuola in città, e so più o meno com'è la vita lì. Continuo a correre, sperando che la direzione che ho preso mi porti nel posto giusto, mi sto attaccando completamente a una speranza. Supero i campi, le vecchie case dei contadini, seguendo la strada, il nero asfalto punteggiato di qualche macchina qui e là. Penso a chi ho lasciato. Nessuno. O almeno nessuno che mi volesse bene. Mia madre è morta e mio padre non me ne vuole. In fondo non ho fatto mai nulla per farmi volere bene. Fumo, la sera torno spesso dopo mezzanotte, a scuola vado male, quando ci vado. Stranamente non sono mai andata a letto con nessuno, forse perchè non mi interessa l'amore. Dal canto suo, mio padre mi picchia e bestemmia, beve, e a volte si droga. Lui è stato arrestato cinque volte, io una. Stavamo bene insieme. A me non fregava niente di lui, a lui non fregava niente di me. Ma poi qualcosa che ha spezzato il nostro delicato e impalpabile equilibrio.

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Capitolo 2
*** Secondo capitolo ***


Ero rientrata a casa presto, verso le otto, mio padre doveva ancora arrivare. Mentre cenavo davanti al televisore con un pacchetto di patatine, sentii la porta d'ingresso aprirsi. Delle risate soffuse, poi riconobbi la voce di mio padre, stranamente calda e accomodante, e poi quella di una donna. Mi recai all'ingresso, nascondendomi dietro lo spigolo del muro per non essere vista. Accanto alla figura di mio padre c'era una donna alta, bionda, molto più giovane di lui. Era incinta. Mio padre continuava a massaggiarle la pancia, sorridendo come un beota. Mi appiattii al muro, le mani iniziarono a sudare. Ero angosciata, perchè temevo che papà si fosse fatto una nuova vita, dimenticando definitivamente quella con mia madre, e di conseguenza dimenticandosi completamente di me. In parte, se l'era già fatta. L'alcol era la sua compagna. Certo, a volte tornava a casa con qualche conquista delle sue serate nei pub, ma non mi preoccupavo troppo perchè sapevo che non era tipo da prendere impegni. Ma quel pancione, era come la firma ad un contratto, un contratto che lo obbligava ad una vita con la bella biondina. Magari il figlio non era suo, e tutte le paure erano infondate. Uscii dal mio nascondiglio e mi piazzai alla fine del corridoio, impettita. Presi fiato.
- Il figlio è tuo? - chiesi nel tono più distaccato possibile a mio padre, indicando il ventre della donna.
Si girò di scatto, perchè non si era accorto della mia presenza. Non rispose. La donna mi guardava con gli occhi sgranati, azzurri, che brillavano come fanali nella notte.
- Chi è lei? - domandò con espressione dura, come consapevole che mio padre le stesse nascondendo qualcosa.
- Nessuno. - rispose lui secco.
- Mi chiamo Nicole. Sono sua figlia.
Silenzio. Silenzio che inghiottiva le mie parole, e la determinazione con cui le avevo dette. Gli occhi della donna cercavano di trattenere le lacrime, e la sua espressione, quasi indecifrabile, tentava di nascondere quello che provava. Tradimento.
- Perché non mi hai detto niente? - riuscì a chiedere con voce spezzata dall’ira e dal pianto.
Mio padre rimase in silenzio osservandosi la punta delle scarpe. Per un secondo, mi sembrò che stesse sorridendo. Un sorriso scaltro e fuggente. Poi nascose il viso fra le mani.
- Perché ti amo troppo, ecco perché. Non volevo che tu soffrissi. E perché non voglio che nostro figlio soffra. Voglio solo che quello che è successo in passato venga dimenticato. Voglio che non ne rimanga traccia.
La ragazza si avvicinò lentamente. Gli tolse le mani dal viso e lo baciò. Faceva male. Troppo. Come un arpione, che si impiglia nelle carni, strappandole senza pietà. Da quel momento ebbi la certezza che non sarei più riuscita a guardare mio padre in faccia, non lo avrei sopportato.
Inciampo, affondo col viso nel fango. E ritorno a piangere, piango tutte le lacrime che ho, e mi sento più leggera, liberata da un peso inutile. Così mi addormento, fra la pioggia, il fango e tutta l'amarezza ancora serrata dentro di me. Che probabilmente non ne uscirà mai.

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Capitolo 3
*** Terzo capitolo ***


Mi sveglio con la voglia di piangere, ma ho gli occhi troppo asciutti. Ha smesso di piovere, e una leggera foschia ricopre come una coperta i campi circostanti. Fa freddo, tutti i miei abiti sono umidi. Potrei prendere una polmonite e morire, sarebbe meglio così. Il sole cerca timidamente di liberarsi dalle mura di nubi che lo intrappolano. Una grigia giornata di novembre, niente di più. Sento un rumore, rami spezzati. Altri fruscii soffocati, poi da dietro ad un albero spunta una figura eterea, quasi impalpabile. Una bimba a cui non darei più di otto anni, piccola, fragile. Le scarpette nere eleganti che puntellano la terra umida, il vestito bianco, leggero, la giacchetta di pelle sgualcita. Mi guarda timidamente. Si avvicina silenziosa e si siede accanto a me.
- Ciao. - inizio dolcemente.
La ragazzina esita.
- Ciao. - risponde con voce sommessa. Rimaniamo in silenzio per qualche minuto, scrutando l'orizzonte. Non so chi è lei, non so che intenzioni ha. Cosa posso dirle?
- Chi sei? - chiede come se mi avesse letto nel pensiero.
Quanto sono stata stupida, era così facile.
- Mi chiamo Nicole. Ho quindici anni - esito - sono scappata di casa.
Mi osserva, osserva i miei abiti macchiati di fango, i capelli unti, le unghie sporche.
- Perchè? - domanda con una purezza consumata. Ho l'impressione che la sua innocenza di bambina, la sua ingenuità sia stata rovinata da qualcosa, forse da qualche dolore.
- Perchè sì. - ribatto dura. I motivi per cui sono scappata non sono cose per una ragazzina.
- Non sono stupida. Anche io vorrei scappare. Stamattina, affacciandomi alla finestra ti ho vista, distesa in mezzo al nulla. Ho pensato che fossi morta, ma quando mi sono avvicinata respiravi. Ho voluto aspettare che ti svegliassi, nascosta dietro a quell'albero - e indica un pioppo malconcio, a qualche metro di distanza. La guardo interessata e mi lascio sfuggire una risata.
- Perchè vorresti scappare? - chiedo in tono ironico.
- Perchè sì.
Questa bambina è sveglia. Non devo sottovalutarla, o sopravvalutarmi solo perchè sono più grande. A questo punto mi chiedo chi delle due meriti di usare l'ironia. Mi sono sentita superiore, solo per qualche attimo, davanti a quella bimba che probabilmente ne sa più di me.
- Come hai fatto... ad addormentarti qui? - domanda.
Nei suoi occhi leggo la curiosità, la speranza che io possa aiutarla. Esito qualche secondo.
- Voglio raggiungere la città. Correvo, sono inciampata e... non avevo le forze per rialzarmi. Mi sono addormentata. - Io so come si arriva in città. Portami con te, ti prego. Soffoco un'altra risata di superiorità.
- Non posso. Sei troppo piccola, e per i tuoi genitori sarebbe un immenso dolore.
- I miei genitori non soffriranno. Per loro sono un peso, e scommetto che tireranno un sospiro di sollievo quando me ne andrò.
Quelle parole risvegliano il ricordo di mio padre, della sua noncuranza nei miei confronti. La sofferenza che è dentro di me emerge e ricomincio a soffrire, le gambe raggruppate fra le braccia, scruto l'alba in tutti i suoi colori, le morbide velature che sembrano pennellate nel cielo, le sfumature. D'un tratto mi sembra di conoscere da una vita la bimba, perchè in lei vedo me stessa. So cosa prova, riesco persino a ripercorrere tutti i suoi pensieri dalla nascita, e ripercorrendo i suoi affiorano i miei. Il dolore straziante, quando mia madre è morta, l'insicurezza e l'angoscia quando mio padre ha preso la via sbagliata, la rassegnazione quando l'ho seguito. La solitudine, quando mi ha abbandonato, il mio desiderio di scappare, di liberarmi delle catene che mi legavano a lui, il desiderio che riconosco anche dagli occhi della ragazzina e dalle sue parole profonde, sincere, schiette. Perchè solo con la sofferenza diventi una persona, una persona che sa veramente cos'è la vita, che ha perso tutto, ma che spera nel domani. E così quella ragazzina mi appare talmente sofferente, in cerca della sua strada, desiderosa di gioia, affamata di serenità, che merita qualcosa di più. Pretende una possibilità dalla vita, come me, e nel suo caso, come nel mio, questa possibilità può essere solo rappresentata dalla fuga da tutto ciò che non le consente di raggiungere i suoi desideri, da tutto ciò che la ancora a terra.
- Come ti chiami?
- Sara.
- Bene, Sara. Prendi le tue cose e andiamocene.

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Capitolo 4
*** Quarto capitolo ***


- Dovremmo essere quasi arrivate. Li vedi i palazzi, in lontananza?
Li vedo. Si stagliano nel cielo ormai al tramonto, le cime nascoste dal fumo denso delle ciminiere che si intreccia in un gioco di forme e colori con gli ultimi bagliori della giornata. Davanti a quello spettacolo, mi sento talmentente impotente, talmente fragile. Stringo i pugni, pensando a quanto sono piccola. Pensando alla bellezza di quel tramonto, qualcosa che non potrò mai eguagliare, qualsiasi cosa faccia nella vita. Mi lascio di nuovo divorare dallo sconforto.
- Qualcosa non va?
- No. Tutto a posto.
Sara mi guarda, perplessa. Si gratta la nuca, con aria pensosa.
- Come ti chiami? Non ricordo di avertelo mai chiesto. - chiede titubante.
- Nicole. Alcuni preferiscono chiamarmi Nessuno.
- A me piace di più Nicole.
Mi sfugge un sorriso, arrivato da chissà dove. Non pensavo che ci fosse ancora la possibilità di sorridere, nella mia vita. Mi prende per mano. Il suo tocco delicato, fresco, come la brezza primaverila mi fanno rabbrividire e per un attimo provo una sensazione di piacere che non avevo mai provato prima. Mi lascio guidare, quasi ad occhi chiusi, gustando i profumi della sera.
Arriviamo alle porte della città e tutto svanisce. L'ansia ha preso il posto del piacere e ora continuo a torturarmi con mille domande. Dove dormiremo? Cosa mangeremo? E, soprattutto, come crescerò una bambina ancora avvolta nella sua purezza in modo da non toglierle nulla di tutto ciò che avrebbe potuto avere se non l'avessi portata con me? La responsabilità che ho nei confronti di Sara inizia a gravarmi sulle spalle e all'improvviso mi sento più stanca e affaticata. La bambina continua a trascinarmi per i vicoli bui della città, fino a quando si ferma davanti ad un bar, attratta, o forse semplicemente spaventata, dagli schiamazzi, le bestemmie, le risate fragorose di ubriachi che provengono da dentro il locale. La strattono per portarla via da quel luogo pieno delle cose che hanno allontanato da me mio padre, un po' alla volta. Sara non deve venire a conoscenza di quel mondo fatto solo di alcol, sesso e droga, un mondo volubile, fragile, che scompare con un soffio e che, quando ne esci, ti porta a fare i conti con la realtà.
- Sara, andiamocene.
- Nicole - inizia, guardando preoccupata al di là dei vetri del locale - c'è una ragazza. Le fanno male.
Stanno picchiando una ragazza, nel bar. La vedo, sta gridando. Uomini ridotti ad animali abusano di lei e del suo corpo. Guardo Sara, sul punto di mettersi a piangere.
- Non piangere, è tutto uno scherzo. Non le stanno facendo nulla, giocano.
La bambina non è stupida, lo so. Almeno ci ho provato. Dal vetro incrocio lo sguardo della ragazza che stanno picchiando. Mi implora, con quel silenzio che vale più di milioni di parole. Vedo il trucco che le cola dal viso, gli abiti strappati. Un uomo dalla barba incolta e probabilmente ancora sotto gli effluvi dell'alcol si trascina al bancone e dice qualcosa al barista. Vedo le labbra muoversi, non riesco a cogliere le parole. Poi lo grida più forte, ed allora capisco.
- Un altro boccale per tutti, offro io.
Sento l'esultanza feroce degli ubriachi, le urla, i fischi e gli applausi. Si precipitano tutti al bancone come animali, graffiandosi, arrampicandosi, per avere il loro boccale di birra, dimenticandosi completamente della ragazza. Stesa a terra, fra il sangue e l'alcol, capisce che c'è ancora una speranza. Si mette a quattro zampe, con una smorfia di dolore e si trascina lentamente fino alla porta. Riesce ad uscire, viene verso di noi con le braccia che tengono la pancia, come se cercasse di tenersi dentro le budella. Arriva zoppicando davanti a me, mi rivolge uno sguardo di supplica. Poi si accascia a terra.

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Capitolo 5
*** Quinto capitolo ***


Corro con la ragazza sulle spalle, il gelo mi irrigidisce tutte le articolazioni. Trascino Sara per mano, entrambe col fiato corto che fuoriesce bianco dalle nostre labbra come il fumo di una sigaretta. Girando alla cieca riesco a trovare un vicolo cieco buio e deserto. Due cassonetti e una mela rancida per terra. Appoggio la ragazza esanime contro il muro e mi lascio cadere di fianco a lei. Sara è in piedi, di fronte a me. Guarda la giovane donna.
- È bellissima. - osserva con un sussurro.
Osservo anche io la ragazza senza sensi che respira affannosamente, madida di sudore mescolato a sangue. I capelli ricci che le incorniciano il viso, la pelle scura ambrata che sembra splendere alla luce della luna, le ciglia lunghissime. Il corpo perfetto, la freschezza dei riccioli che le ricadono sul viso.
- Già. - rispondo.
La ragazza fa un colpo di tosse soffocato che mi fa sobbalzare. Alza leggermente le palpebre per qualche secondo, scoprendo due perle nere lucenti traboccanti di sofferenza e dolore. Poi chiude di nuovo gli occhi e cade addormentata. Le sposto un ricciolo dalla fronte sudata. Geme, si agita. Forse ha un incubo e sta combattendo contro qualcuno. O qualcosa. Sara si siede appoggia la testa sul petto della ragazza.
- Sento il suo cuore. Batte fortissimo. - osserva in tono quasi impercettibile, come un soffio di vento. Si addormenta abbracciata alla giovane donna. Provo qualcosa che non ho mai provato prima. La gelosia. La bellezza di questa ragazza, il fatto che Sara si sia addormentata sul suo petto anziché sul mio mi fanno ardere dentro. Vorrei alzarmi e andarmene, ma la figura della bimba addormentata mi ancora a questo vicolo; è freddo e ho paura che congeli. Mi tolgo il maglione e cerco goffamente di avvolgerla, ma è troppo piccolo. Sento la rabbia che ribolle, così mi alzo e vado ad accucciarmi in un angolino lontano da quell’abbraccio che mi congela il cuore. Mi addormento.
Quando apro gli occhi il vicolo è illuminato dal baluginio sole di fine novembre, pallido e smunto. La ragazza si è svegliata. Se alla luce della luna sembrava una stella, adesso è più bella del sole. È seduta a gambe conserte, con gli occhi chiusi che cercano la luce. Sara è dietro di lei, appoggiata sulle ginocchia, che le raccoglie minuziosamente i capelli in piccole trecce. Sorride. Quando si accorge che sono sveglia mi fa cenno con il dito di avvicinarmi.

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Capitolo 6
*** Sesto capitolo ***


Quando ho raggiunto Sara mi siedo a gambe conserte. La ragazza continua a tenere gli occhi chiusi.
- Lei è Yendry. - dice Sara, con dolcezza, continuando a giocherellare con i suo capelli.
Yendry apre di scatto gli occhi, quasi spaventata. Mi fissa dritta negli occhi, cerco di decifrare il suo sguardo. O forse è lei che sta cercando di decifrare il mio. Mi porge la mano, ma sono talmente concentrata che non me ne accorgo. Sono persa in quei grandi occhi scuri, riconoscenti, ma allo stesso tempo diffidenti. È Sara a intervenire.
- Lei è Nicole. – mi aiuta, sottolineando ogni parola.
Finalmente le stringo la mano. Poi succede qualcosa che non avrei mai previsto. Yendry si lancia su di me, in una stretta soffocante. La stringo anche io, lei inizia a singhiozzare.
- Grazie. – geme – Grazie! – dice, quasi lo volesse gridare.
Non riesco a rispondere. Sento la gola bloccata, le labbra serrate. Gli occhi che si riempiono di lacrime. Mi accorgo che vorrei piangere anche io. Per ogni lacrima della ragazza, che racchiude una sua sofferenza. Da come piange le ha tenute dentro per troppo tempo, le soffoca. E ogni lacrima racconta una storia, un avvenimento. Così quando si asciuga sulla manica del suo vestito credo di conoscerla meglio di chiunque altro al mondo. E la gelosia è sparita.
- Nicole… - la voce flebile di Sara mi riporta alla realtà.
Inizio a girarmi la testa, so già cosa deve dirmi. Non voglio che lo dica, non voglio.
- Nicole, io ho fame. - sussurra in una smorfia.
La testa adesso inizia a fare davvero male, sento che potrei cadere a terra da un momento all’altro. Accecata dalla gelosia per la giovane donna mi ero completamente dimenticata della cosa più importante. Sara deve mangiare. Se fossi solo io potrei anche morire di fame, ma con me c’è la bambina. L’ho condannata ad un’esistenza inutile, come la mia. L’egoismo mi ha portato a trascinarla in questa avventura senza capo nè coda. Non imparerà nè a leggere, nè a scrivere, nè a fare i conti. Non avrà mai una casa decorosa, una famiglia vera, un lavoro. L’ho condannata. Mi alzo in piedi, prendo Sara per mano. Guardo Yendry, intrufolandomi nei suoi occhi, cercando di capire che intenzioni ha.
- Non lasciatemi da sola. Di nuovo. - dice con voce stridula alterata dal recente pianto.
- Di nuovo? - osservo, probabilmente con il tatto di un elefante.
Resta in silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto. Mi pento subito di ciò che ho detto troppo impulsivamente. Sara guarda la ragazza, poi me, rivolgendomi uno sguardo di rimprovero. Fa male. Essere rimproverata da una bambina. Di solito i bambini non riescono a vedere i difetti delle persone più grandi, o almeno io la penso così. I più grandi sono il modello di un bambino, così se il genitore è una persona senza valori, per il quale i sentimenti valgono meno di niente, lo diventa anche il figlio. O la figlia, nel mio caso. Mi sento una bambina, una bambina troppo cresciuta. Non potrò mai sostituire la madre di Sara, anche se speravo di poterlo fare. Non sono abbastanza matura. Sara crescerà senza un persona grande a cui aggrapparsi. Yendry continua a contemplare il vuoto, e lo sguardo di Sara fa riaffiorare tutti i sensi di colpa di tutta la mia vita. Ed improvvisamente mi sento piccola e meschina.
- Ah, dannazione! - sbotto - Ne ho abbastanza. È sempre colpa mia! Ogni cosa che succede e che succederà! È un peso troppo grande che grava tutto sulle mie spalle. Ma nessuno se ne rendete conto, dannazione.
Probabilmente non sanno nemmeno di cosa sto parlando, perchè ciò che mi tormenta, che pesa sulle mie spalle, è il futuro di della bambina. E Sara non sa quanto io mi torturi la coscienza a causa sua. Sara non sa di essere un peso per me. Cerco di far intendere che è solo colpa loro, la mia reazione. Lascio la mano di Sara, esco dal vicolo e mi metto a correre, senza una meta precisa. Voglio solo allontanarmi da Sara, da Yendry e dai miei sensi di colpa. Pensavo che la bimba mi avrebbe seguito per fermarmi, avrebbe gridato il mio nome, disperata. Ma non è così. Mentre corro mi giro alcune volte per guardare se la bimba è dietro di me, se sta cercando di raggiungermi. Non si azzarda ad uscire dal vicolo, il che mi fa innervosire e corro ancora più veloce. Mentre mi giro nuovamente, qualcosa mi viene incontro e cado a terra. Apro gli occhi, accanto a me vedo una bicicletta scaraventata per terra con un ragazzo ancora in sella.

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