Tales of Celestis - La Città Delle Nebbie

di Carlos Olivera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** PRIMA PARTE ***
Capitolo 3: *** 1 ***
Capitolo 4: *** 2 ***
Capitolo 5: *** 3 ***
Capitolo 6: *** 4 ***
Capitolo 7: *** 5 ***
Capitolo 8: *** 6 ***
Capitolo 9: *** 7 ***
Capitolo 10: *** 8 ***
Capitolo 11: *** 9 ***
Capitolo 12: *** 10 ***
Capitolo 13: *** 11 ***
Capitolo 14: *** 12 ***
Capitolo 15: *** 13 ***
Capitolo 16: *** 14 ***
Capitolo 17: *** 15 ***
Capitolo 18: *** 16 ***
Capitolo 19: *** 17 ***
Capitolo 20: *** 18 ***
Capitolo 21: *** 19 ***
Capitolo 22: *** 20 ***
Capitolo 23: *** 21 ***
Capitolo 24: *** 22 ***
Capitolo 25: *** 23 ***
Capitolo 26: *** 24 ***
Capitolo 27: *** 25 ***
Capitolo 28: *** 26 ***
Capitolo 29: *** 27 ***
Capitolo 30: *** 28 ***
Capitolo 31: *** 29 ***
Capitolo 32: *** 30 ***
Capitolo 33: *** 31 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 

 

Illuminata dalla luce azzurrina di Erithium, il suo gemello minore, l’unico dei due satelliti di Celestis che brillasse di luce propria, la Zona Oscura di Neos scintillava di un bagliore innaturale, che colorava di un colore celeste spento la sua superficie solitamente bianca, puntellata di crateri e crepacci più o meno vasti, frutto delle innumerevoli collisioni sia con meteoriti ed asteroidi sia con satelliti, scarti di astronave e altra pattumiera che gravitava in quella parte di spazio.

Rinchiuso nella propria tuta protettiva, il dottore scrutava pensieroso l’oceano di stelle che si stagliava sopra la sua testa, reso opaco e fuligginoso dalla superficie traslucida della barriera magica che come una cupola avvolgeva quella porzione di satellite rendendo l’atmosfera, se non respirabile, almeno un po’ più somigliante a quella del pianeta, facilitando i lavori di scavo e rendendo il lungo periodo di permanenza in quell’eremo di desolazione e solitudine un po’ meno faticoso da sopportare.

Erano ormai molti mesi che, seguendo le cronache e le poche informazioni che era stato possibile mettere insieme, la spedizione si era avventurata in quei luoghi, ma a detta dei più le possibilità di trovare qualcosa, e soprattutto ciò che i committenti del dottore stavano effettivamente cercando, erano quasi nulle.

Troppo tempo era passato, senza contare che stando a quegli stessi resoconti niente di ciò che stavano cercando era sopravvissuto alla più grande opera di insabbiamento della storia dell’umanità. Ma dopotutto non era lui a metterci i soldi, così come non gli interessava sapere cosa i suoi capi stessero effettivamente cercando.

D’un tratto, un collega gli si fece incontro, sopraggiungendo tutto trafelato fino a raggiungerlo in cime alla piccola roccia ai margini del campo sopra la quale era seduto.

«Dottore! Abbiamo trovato qualcosa!»

«Ne siete sicuri!?» esclamò lui volgendosi di scatto

«Più che sicuri! Venga a vedere, presto!».

Il dottore seguì il collega fin sulle pendici frastagliate di Venus Canyon, più una stretta e ripida gola che un canyon vero e proprio, e saliti su di un montacarichi di fortuna scesero entrambi nelle viscere della spaccatura fino a raggiungerne il fondo, dove l’attività era assai più frenetica che in superficie.

Il rumore assordante dei macchinari di scavo, reso udibile dall’atmosfera artificiale, era solo parzialmente mitigato dal casco, e i fari accesi per combattere l’oscurità di quello strettissimo pertugio era perfino troppo forte, tanto da risultare quasi accecante se guardata negl’occhi.

Al centro di quella specie di cantiere, circondati da una piccola folla di curiosi ansiosi e un po’ spaventati, come archeologi intenti a disseppellire un prezioso reperto due operai stavano delicatamente rimuovendo strati di roccia lunare e polveri da quello che, a vista, appariva come il fossile pietrificato di una strana quanto inquietante creatura, per buona parte ancora imprigionato nella pietra.

Come fu condotto alla presenza del reperto, anche il dottore rimase un momento di stucco.

Era molto più grosso di una persona, anche se stabilirne con precisione l’altezza era quanto mai difficile, sia per via dei detriti che ancora lo avvolgevano sia perché, a ben guardarlo, mancava sia della testa che della parte inferiore delle gambe, dal ginocchio in giù. In compenso aveva ancora le braccia, grosse e sproporzionatamente lunghe, terminanti in mani con tre sole dita, e un lungo collo simile a quello di una giraffa, avvolto su sé stesso quasi a volerne diminuire l’estensione avvicinando la testa al resto del corpo; la vertebra più alta appariva poi stranamente levigata, come se la testa fosse stata recisa di netto da qualcosa di molto affilato.

Anche la coda, lunga e carnosa, appariva recisa, anche se di essa, forse a causa della permanenza alle intemperie, aveva risentito maggiormente del deterioramento, risultando molto più difficile e complessa da analizzare.

Ciò nonostante era una fossilizzazione strana, anomala, con la struttura corporea che, per quanto consumata, sembrava essersi in qualche modo conservata, indurendosi assieme alle ossa fino a diventare simile alla pietra. La pelle, se di pelle si poteva parlare, era nera e secca, come fosse stata bruciata, e ad una rapida occhiata il dottore ipotizzò che forse era stato proprio grazie ad una qualche eccezionale fonte di calore, unita al freddo della superficie e dello spazio cosmico, a permettere quella specie di calcificazione.

«Oh, mio Dio…» balbettò il dottore sgranando gli occhi.

 

Dodici anni dopo

 

Il Direttore Harlow interruppe un momento di scorrere uno dei tanti rapporti che intasavano la memoria del suo computer, strofinandosi gli occhi stanchi e cercando nel contempo a tentoni la sua pipa di legno che sapeva essere da qualche parte sopra la scrivania.

Erano quelli i momenti in cui rimpiangeva di aver accettato il trasferimento ad un lavoro d’ufficio per gli ultimi anni di servizio nella MAB.

 Tutto il giorno chiuso in una stanza a leggere e compilare scartoffie non faceva per lui, non dopo venti e passa anni spesi a pattugliare rotte commerciali inseguendo pirati e contrabbandieri, e, anche se da giovane aveva coltivato il sogno di far parte della Tactical Magician Division, non era certo quello ciò che aveva sempre immaginato.

Il comando del TMD non era certo una mansione da prendere alla leggera, ma dopo tanto tempo speso tra le stelle sentiva di non avere più la stoffa per guidare nella maniera più consona le squadre speciali dell’agenzia, dove le parole d’ordine erano prontezza, esperienza ed efficienza.

Esperienza ed efficienza non gli facevano difetto, ma la prontezza non era esattamente il suo forte, o almeno non quel genere di prontezza che ci si aspettava lì dentro.

E quello che era peggio, negli ultimi mesi si era reso conto di essere rimasto indietro di trent’anni per quanto riguardava l’insegnamento e l’applicazione delle dottrine magiche, con giovani e promettenti stregoni che spuntavano come funghi. Ai suoi tempi tutti coloro, militari e civili, che si presentavano agli esami per l’ammissione nel TMD avevano un decennio o più di studio forsennato sulle spalle, e impiegavano una vita ad ottenere anche solo di essere ammessi alla prova pratica, ora invece era difficile trovarne uno non odorasse ancora di accademia.

Gillian non sapeva se questa potesse essere considerata o meno una cosa buona; era vero che la nuova generazione stava dimostrando una capacità di apprendimento della magia che quelli della sua età potevano solo sognarsi, ma mettere troppe responsabilità sulle spalle di ragazzi a momenti neanche ventenni gli sembrava troppo, soprattutto in un momento come quello.

Quello di una eccessiva diffusione della magia in strati sociali sempre più ampi era un problema di cui si dibatteva molto negli ultimi tempi, e la recente escalation di incidenti legati ai suo utilizzo era il cavallo di battaglia preferito di chi chiedeva una revisioni delle leggi in materia; ormai era troppo facile apprendere e sfruttare la magia pur non possedendo la necessaria esperienza per farlo, e la magia non era certo qualcosa con cui si potesse giocare.

Anche l’Ammiraglio in una certa misura la pensava così, però allo stesso tempo non gli sembrava giusto tarpare le ali a giovani promettenti e volenterosi. Del resto, non che potesse farci qualcosa.

Di colpo gli venne voglia di vederli. Di vedere coi suoi occhi la futura generazione di stregoni militari che avrebbero costituito la punta di diamante della MAB del futuro.

Raccolta la sua pipa e spento il computer lasciò l’ufficio, percorse il breve corridoio del trentesimo piano e si infilò nel più vicino ascensore, dirigendosi verso il cortile interno dove erano in corso gli allenamenti mattutini delle nuove reclute.

I membri del TMD erano una via di mezzo tra una squadra sportiva e una affiatata unità speciale dell’esercito; vivevano in comunità, nei convitti a loro riservati in un’altra ala dell’edificio, salvo occasionali periodi di congedo che potevano andare dai due ai sei mesi. Questo creava maggiore affiatamento e senso di appartenenza, entrambe cose indispensabili in un gruppo scelto dove la fiducia reciproca poteva essere spesso qualcosa di vitale.

Non erano tutti soldati, o quantomeno non provenivano tutti da altre divisioni o altri uffici della MAB; anche i civili potevano accedere nel TMD, e in quel caso diventavano personale militare a tutti gli effetti, pur con diverse qualifiche e privi di un grado che non fosse quello di membri della squadra.

L’addestramento di un TMD variava a seconda del campo a cui si veniva assegnati, ma lo studio delle arti marziali e della stregoneria era ovviamente basilare.

Quarant’anni appena compiuti, il Capitano istruttore Julian Vyce era uno degli elementi più brillanti che il TMD, per non dire la stessa MAB, avessero mai avuto.

Aveva fatto parte delle forze di sicurezza per molto tempo, almeno fino al giorno in cui cinque anni prima, nessuno sapeva bene perché, aveva deciso di ritirarsi dalle prime linee per dedicarsi all’attività di addestramento; la sua esperienza nella stregoneria era notevole, e uno degli ultimi provvedimenti assunti dal precedente Direttore della squadra era stato proprio di nominarlo istruttore capo delle reclute TMD.

Tutte le mattine, dalle nove alle undici, le reclude si addestravano al combattimento e all’esercizio fisico. Quando il Direttore raggiunse il cortile i suoi ragazzi stavano rientrando dai trenta minuti di corsa nel parco antistante la sede della squadra, piegati dal caldo di inizio estate ma composti e in riga come si conveniva ad una futura elite di stregoni militari.

Erano quasi tutti ragazzi, con sole quattro o cinque ragazze, e quasi tutti avevano un’età compresa tra i quindici e i ventitre anni. Alcuni maschi si erano rasati, obbedendo ad una vecchia tradizione che voleva le reclute immediatamente distinguibili, le ragazze invece o portavano i capelli corti o li tenevano annodati in una coda di cavallo, come etica militare comandava.

Come al solito, alla testa della colonna, stava il Capitano Vyce, con quella sua chioma nero fumo un po’ scompigliata, imperlata di sudore, quei lineamenti duri e gentili al tempo stesso e quel viso rude, ben proporzionato, ingentilito da occhi marroni penetranti e vigorosi.

Julian si accorse della presenza dell’Ammiraglio quando aveva già comandato l’alt, e prima che i suoi uomini avessero il tempo di rompere i ranghi per riprendere fiato.

«Saluto!» comandò, e tutti, qualcuno sbuffando vistosamente, si misero sull’attenti

«Riposo, riposo.» minimizzò Harlow con un cenno della mano. «Tu li fai lavorare troppo questi poveri ragazzi, Capitano.»

«È indispensabile, signore».

Caratterialmente l’Ammiraglio e il Capitano erano quasi agli antipodi, bendisposto e permissivo il primo, stacanovista e poco incline al compromesso il secondo, ma erano accomunati entrambi dalla volontà di usare con le reclute, e in particolar modo coi nuovi arrivati, fermezza, buon senso e tolleranza.

Di primedonne presuntuose e fanatici arrivisti ce n’erano già troppi in giro, anche nella MAB, e il TMD certo non ne aveva bisogno.

Su consiglio dell’Ammiraglio, il Capitano ordinò di rompere le righe, concedendo una volta tanto alle sue reclute qualche minuto di riposo.

«Posso fare qualcosa per lei, Ammiraglio?» chiese quindi il giovane ufficiale

«Niente di che. Ero solo venuto a dare un’occhiata.» quindi l’Ammiraglio gettò uno sguardo sulle reclute, raccolte tutte in un angolo a litigarsi la precedenza al distributore automatico. «Sono molto giovani.»

«Purtroppo, è così che funziona. Ormai l’agenzia li recluta quando sono ancora alle superiori».

Gillian non riuscì a non provare, se non tristezza, quantomeno una certa apprensione al pensiero che ragazzi così giovani potessero trovarsi coinvolti in questioni che rischiavano di essere troppo grandi per loro.

Per anni l’umanità si era adagiata troppo sulla convinzione che la m-technology fosse una scienza senza difetti, e ora stava iniziando a pagarne scotto.

Come qualunque altra scienza, anche la magia era pericolosa, e spesso era compito del TMD porre rimedio ai vari incidenti che potevano verificarsi in questi casi.

Non per niente, la MAB esisteva proprio per garantire e regolamentare il corretto utilizzo della magia; o almeno, questo era il proposito con cui era stata istituita.

«D’accordo, Capitano.» disse tornando alle pratiche che aveva lasciato. «Continui pure.»

«Sissignore.» rispose Vyce richiamando all’ordine le reclute. «Avanti voi! Rimettetevi in riga!».

 

Carmy O’Neill rientrò nel suo piccolo appartamento anche più tardi del solito, distrutta come non ricordava di essere mai stata.

Lavorare all’archivio della procura distrettuale della MAB di Kyrador era davvero una tortura, e poco importava che avesse accettato volutamente quell’incarico dopo aver terminato il corso di preparazione per entrare nell’agenzia.

La sorte non era stata particolarmente benigna nei suoi confronti.

Come tanti altri giovani della sua età, era arrivata dalla campagna nella grande città per inseguire il sogno che aveva coltivato fin dall’infanzia, forte di una esperienza e di una conoscenza della magia che riteneva non le facessero difetto.

E invece, alla prova di ammissione al termine dei tre anni del corso di formazione, aveva ottenuto un punteggio mediocre, insufficiente per poter aspirare ad uffici o cariche di un certo rilievo, il che aveva notevolmente ristretto le sue possibilità di scelta, e in base al regolamento avrebbe dovuto attendere almeno trenta mesi per poter sostenere nuovamente l’esame.

Di tornare a casa, dopo quella enorme delusione, non se l’era sentita, non dopo che per compiere quel passo era arrivata a sfidare la volontà dei genitori, così aveva chiesto aiuto a quella che sarebbe diventata la sua migliore amica, Julienne, che le aveva concesso metà del suo appartamento. In questo modo aveva potuto restare in città, ma certo non si aspettava che l’ufficio logistico le avrebbe assegnato un impiego così poco gratificante.

In buona sostanza, il lavoro di Carmy consisteva nel fare da segretaria al procuratore Griffith, che per quanto fosse una persona gentile, ben disposta e con una forte personalità era peggio di un sergente istruttore, mai propenso a prendersi una pausa né tanto meno a concederla ai suoi collaboratori.

Non esattamente ciò che aveva in mente quando sognava il suo futuro nella MAB, e come se non bastasse il lavoro che le era stato assegnato, oltre a fornirle ben poche nozioni per ampliare la sua esperienza e accrescere il suo livello di preparazione in vista del prossimo esame, la teneva occupata a tal punto da lasciarle pochissimo tempo per studiare ed esercitarsi.

Purtroppo, era così che funzionava nella MAB.

A meno di non essere uscito da una scuola ufficiali, o aver avuto una grossa raccomandazione, era necessario partire dal basso, e solo in seguito si poteva sperare in qualche avanzamento di carriera.

Carmy, barcollando per la stanchezza, andò in cucina; Julienne aveva il turno di notte alla centrale operativa, ma le aveva lasciato del minestrone e dell’insalata. La ragazza, però, voleva solo andare a letto, così si infilò direttamente sotto la doccia e quindi, con ancora indosso l’accappatoio, si chiuse in camera.

Stava quasi per prendere sonno, quando, con l’ultimo scampolo di raziocinio, le venne in mente di agitare un dito nell’aria, aprendo la sua casella di posta virtuale.

C’erano i soliti messaggi degli amici di Mablith e un po’ di pubblicità, niente di davvero importante.

«Judith diventa sempre più brava.» disse divertita riferendosi alla sorella minore, che le aveva spedito le foto della sua recita scolastica.

Giusto per un eccesso di zelo la ragazza aprì anche la sua casella privata dell’agenzia, trovandovi però, con una certa sorpresa, un messaggio dell’ufficio logistico.

«Che sarà successo?» si domandò aprendolo.

Probabilmente si trattava dell’ennesima comunicazione per della documentazione non consegnata, o qualche sollecito.

C’erano solo poche righe. Le lesse.

 

Al Soldato Semplice Carmy O’Neill

Le comunichiamo il suo trasferimento alla polizia militare a partire dal prossimo mese.

È pregata di presentarsi quanto prima per ulteriori informazioni e le specifiche del nuovo incarico.

Ufficio Logistico

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Spero che questo prologo sia stato di vostro gradimento, e vi abbia interessato.

Allora, andiamo per ordine.

Quello che avete letto è il prologo di un romanzo sci-fic (immagino si sia capito) che ho iniziato faticosamente a scrivere riadattando un mio vecchio soggetto.

Il fatto è che, dopo aver ultimato il mio primo, vero romanzo, questo non ha riscontrato le attenzioni e le simpatie degli editori, e dopo breve tempo in verità ha incominciato a non convincere più neanche me.

Così, ho deciso di ricominciare tutto daccapo, lasciando inalterata l’idea originale (un mondo in cui coesistono magia e scienza) ma cambiando sostanzialmente il contesto e il plot narrativo, sì da avere anche una maggiore libertà creativa (la storia originale era ameientata nella nostra epoca, anche se in una realtà alternativa).

Questo prologo è a tutti gli effetti un esperimento.

Nuovo stile, nuova trama. Tutto nuovo insomma.

A seconda delle vostre impressioni, dei vostri pareri, e anche delle vostre critiche, cercherò di perfezionare tanto la storia quanto lo stile di scrittura, nella speranza di realizzare un romanzo che attiri finalmente l’edizione di qualche editore.

Per cui mi raccomando, commentate numerosi. Qualsiasi cosa direte, anche la più piccola, sarà ben accetta e costruttiva.

A presto!^_^

Carlos Olivera.

 

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Capitolo 2
*** PRIMA PARTE ***


PRIMA PARTE

IL REGNO DI CRISTALLO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“L’utopia deve accettare

il giogo della realtà”

(Victor Hugo)

 

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Capitolo 3
*** 1 ***


1

 

 

Dall’alto Kyrador, la capitale di Caldesia, mostrava tutta la sua bellezza ed imponenza, capaci di atterrire ed impressionare anche l’occhio più esigente e attento ai dettagli.

S'affacciava su un golfo, protendendosi elegantemente e finemente verso la costa, in una forma vagamente ottagonale, con il lato più lontano dall’oceano leggermente più schiacciato ed oblungo, quasi un gigante invisibile l’avesse voluta sospingere a forza verso lo specchio d’acqua. Verso nord, ad un paio di miglia dalla costa al di fuori del golfo, stava Harris Island, sede delle principali attività portuali, che un mirabile ponte sospeso congiungeva alla periferia a nord, il quartiere delle attività industriali e dei cantieri, che costituiva quasi una realtà a sé tanto era laborioso e pullulante di vita.

Osservando l'entroterra, lo sguardo cadeva sulle immense pianure che racchiudevano Kyrador come una perla tra le valve; il verde regnava sovrano, intonandosi nei suoi brillanti cromatismi alla città stessa, intervallato in vari punti dal terreo risaltare di innumerevoli piantagioni, rese fertili e produttive da un suolo che di risorse ne aveva in gran quantità.

Senza spezzare con troppa violenza quel gradevole idillio, le strade che collegavano Kyrador al resto del paese si srotolavano con la stessa grazia di un fiume argentato, senza colpire troppo l'occhio, perdendosi nel nulla fin oltre l’orizzonte.

Verso sud, leggermente scostato rispetto al centro, e circondato da una cornice di strade ampie e spaziose come da un muro invisibile, si ergeva una sorta di acropoli costituita dagli edifici più rilevanti della vita politica della città, tra cui la Marble Tower, sede centrale e cuore operativo della MAB, un arabesco di ghiaccio che con le sue tre torri svettava assieme ai palazzi circostanti sul resto della città, un giudice severo ed inflessibile che dall’alto del suo scranno, con occhi di superba aquila, sembrava voler osservare il mondo intero.

Una vasta rete di strade divideva i quartieri secondo criteri rigidamente geometrici, con viadotti sotterranei ed imponenti sopraelevate che scavalcando o aggirando gli edifici tagliavano i quartieri come linee su una tela garantendo una rapida mobilità, resa ancor più efficace da una sofisticata rete metropolitana costituita da più linee distribuite su più di cinque livelli.

Jake guardò fuori dal finestrino accanto al suo sedile, sospirando.

Era bello tornare a casa.

Non credeva che Kyrador gli sarebbe mancata fino a questo punto, ma sei mesi sulla stazione militare Ares erano abbastanza per far sentire la mancanza anche solo della terra sotto i piedi.

Il corso di perfezionamento voluto dai suoi superiori era stato molto duro, abbastanza da riuscire a mettere in seria difficoltà anche un giovane prodigio come lui, e averlo completato era motivo di grande soddisfazione; da quel momento in poi, avrebbe potuto ambire al comando di una squadra tutta sua, se e quando i comandanti lo avrebbero ritenuto opportuno.

Prima ancora che l’altoparlante annunciasse l’inizio della discesa sull’aeroporto di Kyrador, all’estrema periferia sud della città, lungo la linea della costa, Jake si allacciò freneticamente la cintura, e appena i portelli furono aperti fu uno dei primi a scendere, avviandosi con tutta fretta verso il terminal con la frenesia e l’impeto di chi non vede l’ora di ritornare a casa e rivedere gente amica.

Visto che i suoi genitori abitavano lontano, e dovevano comunque badare alla fattoria, sapeva che non sarebbero potuti venire, ma certo non si aspettava che sarebbe venuto a prenderlo proprio il capitano Vyce.

«Capitano.» disse andandogli incontro e stringendogli la mano come ad un caro amico

«Guarda, guarda.» disse Julian compiaciuto notando i gradi sulla divisa «Un tenente.»

«Ho cercato di fare del mio meglio.» rispose Jake con leggero imbarazzo «Ma il merito è anche suo. Il rapporto che ha inoltrato ha impressionato molto gli istruttori.»

«Non serve che mi ringrazi. Ho scritto solo la verità.

Allora, vogliamo andare? Il direttore ha chiesto di vederti».

 

Vyce era arrivato all’aeroporto direttamente da casa con la sua macchina sportiva, un vizio che si era voluto togliere grazie al generoso stipendio da istruttore, e con la macchina portò Jake alla sede del TSD, dove lo attendeva il direttore Harlow.

«Avanti.» disse il direttore sentendo bussare alla sua porta.

I due soldati entrarono, mettendosi sull’attenti.

«Tenente Aulas a rapporto, signore.»

«Riposo, tenente. Mi fa piacere rivederla tra di noi. La sua assenza si è fatta sentire molto in questi mesi.»

«La ringrazio del complimento, signore.»

«Spero che questo periodo di addestramento sia stato produttivo, e abbia contribuito a formare ancora di più la sua esperienza.»

«Lo è stato, signore.»

«Avrà modo di dimostrare quanto prima la sua efficienza. Di questi tempi, purtroppo, il lavoro non manca. Per ora, si goda un meritato periodo di riposo.»

«Signore, io sono pronto a cominciare anche da subito.»

«Non sia impetuoso. Lei viene da una lunga e faticosa esperienza, e tra l’altro è appena tornato dallo spazio.

Chiunque avrebbe bisogno di tempo per recuperare, anche se lei ancora non lo percepisce. E poi, sei mesi lontano da casa sono molti. Sono certo che avrebbe piacere di rivedere anche la sua famiglia.

Vada pure. Le concedo due settimane di licenza.

La farò convocare al comando se ci dovesse essere bisogno di lei».

Jake non era molto sicuro di volersi prendere questi quindici giorni di riposo, sentiva di essere pronto a riprendere il suo posto nella squadra anche subito, ma d’altra parte il pensiero di poter tornare a casa non lo lasciava indifferente.

Alla fine accettò l’offerta del direttore, il quale gli chiese a quel punto di lasciare lui e Vyce da soli per poter parlare.

«Che ne pensi?» domandò Gil appena il giovane tenente se ne fu andato «Come lo vedi?»

«Giovane.» rispose schietto il capitano «E capace. Può diventare uno dei migliori elementi del TSD.»

«Non era questo che intendevo.»

«Signore?»

«Lo vedi pronto a dirigere una squadra?».

A quella domanda Vyce esitò, come a voler temporeggiare.

«Come ho detto, abilità e capacità non gli fanno difetto, così come l’indubbio potenziale. Ma se devo essere sincero, non sono ancora del tutto convinto.

Per quello che ne so, non insegnano il cinismo all’accademia di specializzazione.»

«Esattamente quello che pensavo anch’io.» replicò il direttore poggiando i gomiti sul tavolo «Non è il talento di quel ragazzo a darmi pensiero, quanto piuttosto il suo carattere.

Nessuno dubita della sua dedizione, ma ci vuole ben altro per guidare una squadra. Come io e lei sappiamo molto bene, essere capi significa anche saper prendere decisioni difficili e spesso controverse, e non sono del tutto sicuro che quel ragazzo sia capace di potersi prendere un giorno una tale responsabilità.»

«Ha qualcosa in mente, direttore?»

«Per il momento no. Ma domani, chissà. Per il momento, mi accontento di una buona tazza di tè. Mi fa compagnia, capitano?».

 

Carmy, pur nella sua semplicità e bontà d’animo, aveva un mare di difetti.

Primo fra tutti, la mattina non le riusciva proprio di svegliarsi, e così ogni volta era costretta a fare le corse per riuscire ad arrivare in orario al lavoro.

Quella mattina, poi, era anche più stanca del solito, visto che per quasi tutta la notte non era stata capace di chiudere occhio tanta era la sua agitazione.

«Hai intenzione di dormire fino a stasera?» gli domandò Julienne irrompendo nella sua stanza e buttandola giù dal letto «Devo ricordarti che oggi inizi con il tuo nuovo lavoro?»

«Accidenti, quanto è tardi.» esclamò la ragazza guardando l’orologio.

Non poteva certo permettersi di arrivare in ritardo al suo primo giorno alla Polizia Militare.

Messasi in ordine a tempo di record, e cercando di sembrare il più presentabile possibile, si avviò verso l’uscita con la giacca dell’uniforme ancora da abbottonare.

«Non fai colazione?» chiese Julienne sorseggiando il suo caffè e pettinandosi nel contempo i lunghi capelli rossi

«Non ho tempo. Se perdo il treno arriverò in ritardo di sicuro».

Un’ora dopo il completo sorgere del sole, Kyrador stava ultimando il proprio risveglio. La grande luna Erithium ed il suo satellite minore, Neos, non erano ancora del tutto scomparsi sotto l’orizzonte, la temperatura era buona e non si vedeva neanche una nuvola; di sicuro, sarebbe stata una splendida giornata.

Per fortuna la casa di Carmy non era troppo lontana dalla fermata della metropolitana, così la giovane poté raggiungere il palazzo della polizia militare giusto in tempo per potersi presentare nell’ufficio del colonnello Graham all’ora concordata.

Il colonnello aveva una certa notorietà negli ambienti della MAB, tanto che nonostante i suoi quarantatre anni ne era considerata quasi un’istituzione.

Si diceva che in gioventù avesse fatto anche parte della Tactical Sorcerer, ma era solo una voce che finora non aveva mai trovato conferme.

A parte il comandante in capo della polizia militare di Caldesia, e ovviamente il Consiglio di Sicurezza dell’agenzia, dal punto di vista della catena di comando non aveva quasi nessuno sopra di sé, un risultato a dir poco invidiabile vista le sua età non troppo avanzata.

Fisicamente si presentava come una donna trasudante fermezza e autorevolezza, i capelli neri perennemente raccolti, gli occhi scuri nascosti dietro ad un paio di lenti rettangolari ed un viso semplice, essenziale, sul quale era costantemente impressa un’espressione composta ed imparziale.

Qualcuno aveva detto a Carmy che fosse anche una persona piuttosto strana, o quantomeno ambigua, e fin dal primo momento O’Neill si convinse che forse era la verità.

Appena ammessa nel suo ufficio, come prassi comandava, si mise sull’attenti davanti alla scrivania, ma il colonnello spese molti dei minuti successivi senza proferire parola, limitandosi a consultare sulla sua finestra virtuale il dossier della nuova recluta che aveva di fronte.

«Soldato scelto Carmy O’Neill?» disse così, d’improvviso, dopo essersi sistemata un momento gli occhiali

«Sì!» rispose meccanicamente la ragazza

«Dunque, vediamo. Carmy O’Neill. Ventidue anni, nata a Mablith il nove del decimo mese. Scuola superiore militare a Darmigan, specializzazione in Scienze della Magia, ammissione alla MAB, nove messi alle dipendenze della procura militare qui a Kyrador, e in ultimo» il colonnello mostrò un foglio di carta che aveva appoggiato davanti a sé «Una lettera di raccomandazione dal procuratore distrettuale Griffith.

Notevole, vista la sua età».

Carmy si sentì un momento a disagio.

Sapeva bene quanto il suo capo avesse premuto per farla trasferire alla polizia militare nonostante alcune sue lacune nella preparazione necessaria, e lo aveva più volte ringraziato. Da una prima occhiata, però, il colonnello non sembrava il tipo di persona propensa ad accogliere a braccia aperte i raccomandati.

Zari squadrò la ragazza come a volerla dissezionare, poi posò il foglio.

«Il procuratore mi ha detto che sta tentando di accedere al TSD.»

«È così.» rispose lei dopo qualche esitazione

«Non ho l’abitudine di fare distinzioni tra i miei subalterni. Per me tutti, dall’usciere al caposquadra, sono sullo stesso piano, e tutti devono fare il proprio lavoro, soprattutto in questo periodo.

È ovvio che un periodo di specializzazione presso la Polizia Militare arricchirebbe la sua formazione e la sua esperienza sul campo, ma questo non la esonera dai suoi doveri di pubblico ufficiale.

Il procuratore distrettuale ha garantito per lei, e questo mi basta, ma se dovesse venir meno ai compiti che le verranno assegnati per un qualsiasi motivo tornerà seduta stante ad impilare fascicoli al Palazzo Azzurro.

Sono stata chiara?»

«Perfettamente, signore.» rispose lei cercando di non tradire emozioni.

Zari faceva la voce grossa, ma non era completamente sfiduciata nei confronti di quella ragazza.

Conosceva il procuratore Griffith abbastanza bene da sapere che tipo di persona fosse, e se lui si era mosso in prima persona per convincerla a prendere con sé il soldato scelto significa che vedeva in lei delle potenzialità

Chissà, forse O’Neill rientrava in quel gruppi di giovani e promettenti stregoni che secondo la visione del procuratore costituivano la speranza per il futuro dell’Agenzia.

In un certo modo, l’atteggiamento del procuratore aveva incuriosito Zari, e ora che la ragione di quel trambusto era davanti a lei cercava di capire cosa ci fosse di così speciale in quella ragazza all’apparenza così ordinaria.

«Molto bene. Era solo per mettere le cose in chiaro. In tanti seguono un periodo di specializzazione in qualche altro ramo dell’agenzia prima di tentare l’ammissione al TSD, e la concorrenza è tanta, come avrà già avuto modo di vedere.

Ciò nonostante, voglio credere che lei farà comunque del suo meglio nella Polizia Militare.»

«Ci conti, signore».

Un bussare gentile alla porta interruppe la discussione.

«Avanti».

Carmy si volse alle proprie spalle, vedendo entrare nell’ufficio una giovane donna. Doveva avere un’età compresa tra i ventisei e i ventotto anni, portamento austero e raffinato, quasi da nobile; l’uniforme nera, superbamente portata, anche a non guardare i gradi la identificava come un capitano, nonché caposquadra.

«Mi ha fatto chiamare, direttore?»

«Capitano Stirling. Le presento il soldato scelto Carmy O’Neill. Da oggi, sarà assegnata alla sua squadra. Conto su di lei perché le sia spiegata ogni cosa.»

«Sissignore.» fu la risposta, meccanica e rispettosa, della giovane

«Il capitano sarà il suo superiore. È uno dei membri più importanti dell’anticrimine. Confido che vedrà in lei un’ottima insegnante.»

«Ho capito, signore. La ringrazio.»

«Questo è tutto. Potete andare».

Terminato l’incontro le due ragazze rispettosamente si congedarono, e appena fu uscita dall’ufficio Carmy tirò un sospiro di sollievo; non era mai stata brava a reggere la tensione.

«Il direttore fa quest’effetto ai nuovi arrivati.» disse divertita Alexia.

Solo allora Carmy si ricordò di avere ancora davanti un suo superiore.

«Mi… mi scusi!» esclamò imbarazzata

«Non fa niente. È stato così anche per me.» e detto questo il capitano le porse la mano «Sono il capitano Alexia Stirling».

Nuovamente, stavolta solo con il pensiero, Carmy sospirò, sentendosi sollevata; ancora una volta, avrebbe potuto contare su quello che aveva tutta l’aria di essere un ottimo superiore.

«Soldato scelto Carmy O’Neill.» disse ricambiando la stretta «Lieta di conoscerla, capitano.»

«Ti preannuncio fin da ora che non sarà facile per te lavorare e studiare allo stesso tempo. Ma se il procuratore ha voluto darti questa occasione, evidentemente ritiene che tu possa farcela.»

«Farò del mio meglio.»

«Ne sono convinta. Vieni, ora. Ti faccio conoscere il resto della squadra».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

È passato più tempo di quello che credevo, ma alla fine sono riuscito ad aggiornare.

Malgrado questo sia solo il primo capitolo, quasi tutti i personaggi che prenderanno parte alla storia, o almeno quelli principali, hanno già fatto la loro comparsa.

Per ora si è trattato di un capitolo piuttosto semplice, e anche decisamente più corto della mia media abituale, ma sotto quest’ultimo aspetto ho deciso di diversificare ed evolvere un po’ il mio stile. Quanto all’azione state tranquilli, arriverà.

Ringrazio chi ha letto e recensito.

Un ringraziamento speciale a Flea, che mi ha aiutato a realizzare la prima parte, nonché per i suoi consigli.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 4
*** 2 ***


2

 

 

Gli uffici dell’Anticrimine, situati al decimo dei sedici piani del palazzo sede della Polizia Militare, somigliavano alla sala di lettura di una grande biblioteca.

Ogni squadra era assegnata ad un box, una dozzina più o meno, collocati uno accanto all’altro lungo la parete principale; dalla parte opposta vi erano uffici, sale congressi e anche stanze per gli interrogatori, mentre al centro, a forma cilindrica e interamente in vetro, quasi a voler tenere sempre d’occhio tutti i suoi sottoposti, stava l’ufficio personale del direttore dell’anticrimine, il maggiore Dietrich Owens.

Carmy si sentì un po’ a disagio nel mettere piede in quell’immensa sala. Alla procura generale le era stato assegnato un ufficio di pochi metri quadrati, e aveva accompagnato il procuratore in udienza solo in un paio di occasioni; il pensiero di dovere lavorare in un posto così grande, e all’apparenza così complesso, un po’ quasi la spaventava.

«Da questa parte.» le disse Alexia conducendola all’interno del sesto box dall’ingresso.

Qui, Carmy fece la conoscenza di quelli che, almeno per i prossimi diciotto mesi, sarebbero stati i suoi colleghi di lavoro.

Il primo, sui trent’anni o poco più, era alto, magrolino ma di bella presenza, capelli neri crespi e riccioluti e occhi scuri, e vestiva in modo elegante e ricercato, quasi come un personaggio politico. Il suo compagno invece era leggermente tarchiato, un po’ più giovane, un viso paffutello che incuteva simpatia; anche lui era ben vestito e portava la cravatta, a differenza del suo collega, e così, a tatto, non diede a Carmy l’impressione di essere uno stregone né un soldato.

«Capitano.» salutò rispettosamente lo smilzo poggiando il suo caffè sulla scrivania

«Lei è Carmy O’Neill. Il nuovo agente.»

«Incantato.» continuò ancora il magro, che alzatosi piegò la schiena in una parvenza di inchino per poi fare una battutina «Li sfornano sempre più giovani. Non che sia un difetto, del resto.»

«Dacci un taglio.» lo rimproverò il collega prima ancora di notare l’imbarazzo di Carmy «Sono l’agente Pierre Lucas, e lui invece è Thomas Cane.

Piacere di conoscerti.»

«Piacere mio.» rispose O’Neill dopo un attimo di smarrimento.

Lucas, come Carmy avrebbe appreso in seguito, era un esperto di informatica e comunicazioni, laureato con lode all’Università Reale di Fhirland, la sua nazione, mentre il maresciallo Cane era un esperto di politica internazionale e aveva lavorato per qualche anno come agente di bordo sulla nave Europa.

Carmy si sentiva tranquilla e in ansia allo stesso tempo, e cercò di capire così, su due piedi, che tipo di persone dovessero essere i suoi nuovi colleghi, anche se una prima idea se l’era già fatta.

«Questa sarà la tua postazione.» le disse Alexia indicandole la scrivania di fronte a quella di Thomas.

Vedendola così, vuota e spoglia, l’agente O’Neill fu presa da un dubbio.

«Che ne è stato di quello che era qui prima di me?».

Alexia sorrise divertita, e anche Thomas e Pierre risero sotto i denti.

«Tranquilla. Morgan è solo andato in pensione.»

«In pensione?»

«Sei mesi fa. E da allora, ho preso il suo posto.»

«Per nostra sfortuna.» mugugnò scherzosamente Thomas tra sé e sé.

Carmy ci mise poco ad abituarsi al suo nuovo posto di lavoro, ma non ebbe neanche il tempo di assimilare del tutto l’idea di far parte di una squadra della Polizia Militare che squillò il telefono sulla scrivania di Alexia.

«In sella.» disse il capitano chiudendo la comunicazione «Aggressione con tentato omicidio alla periferia ovest della città.»

«La giornata inizia alla grande.» commentò Pierre.

Neanche era arrivata, pensò Carmy con un po’ di ansia, e già era giunto il momento di affrontare la sua prima scena del crimine.

 

In base alle leggi internazionali, la Polizia Militare della MAB aveva priorità d’intervento in qualsiasi contesto in cui fosse coinvolto personale legato all’agenzia, ma quando necessario poteva esercitare la propria autorità anche in casi legati alla magia o a chi ne faceva uso.

Erano pochi quelli che facevano i salti di gioia nel vedere i militari venire a ficcare il naso nelle proprie indagini, e l’ufficiale di polizia che con i suoi uomini era intervenuto per primo sulla scena del crimine non nascose il proprio risentimento vedendo comparire una stazione operativa mobile al seguito di una delle berline nere dell’agenzia.

«A cosa devo il piacere?» domandò ironico andando incontro ad Alexia

«Avrebbe dovuto aspettartelo, maresciallo Onir.» rispose la ragazza, che già lo conosceva

«Se con altro con te si può ancora cercare di ragionare. I tuoi colleghi di lavoro starebbero già sbraitando per farci andare via.»

«Non ho interesse a scatenare un conflitto tra forze dell’ordine e polizia militari. Di problemi ce ne sono già a sufficienza.

Allora, che succede?».

Il maresciallo sorrise compiaciuto sotto gli spessi baffi marroni, quindi condusse Alexia e i suoi uomini all’interno.

Carmy si sentiva confusa, fuori luogo, e mentre faceva per varcare la soglia di quella piccola e ridente casa di periferia vide due paramedici portare fuori in barella un uomo di mezza età gravemente ferito, caricandolo in tutta fretta sull’ambulanza.

Preso un bel respiro, entrò a sua volta, e già la vista di un tavolino da arredamento buttato in terra e circondato di sangue fu sufficiente a farle venire un momento di capogiro.

Aveva già visto molte scene del crimine nelle foto degli atti giudiziari che aveva ordinato per il procuratore, ma quella era la prima volta che si vedeva costretta ad affrontarne una.

Seduto ad una poltroncina del salotto, con espressione inebetita e occhi persi nel vuoto, c’era un giovane, un soldato senza dubbio a giudicare dai muscoli e dal taglio di capelli; indossava solo un paio di calzoni, aveva le mani e la faccia sporche di sangue, e i due agenti che gli stavano davanti cercavano, senza riuscirci, di richiamarne l’attenzione con cenni della mani e schiocchi di dita.

«Questo è proprio andato.»

«Che cosa è successo?» chiese Alexia mentre Pierre faceva alcuni scatti e Thomas ispezionava la casa

«Ci ha chiamato una vicina. Il vostro agente ha quasi sfondato la testa al padre dopo una litigata. Quando siamo arrivati abbiamo trovato il padre a terra davanti all’ingresso e lui così come lo vedete.

Grazie al cielo gli ha fatto meno male di quanto si potrebbe pensare.»

«Capisco. Avete provato a parlargli?»

«Magari. Non ha aperto bocca per tutto questo tempo. Ho paura che gli si sia fritto il cervello».

La diagnosi era fin troppo chiara.

Esaurimento da stress magico.

Anche lo stregone più dotato ed esperto era  obbligato ad usare la magia con moderazione, poiché abusandone si rischiava di andare incontro ai traumi psicofisici più disparati, a cominciare appunto da violente alterazioni dell’umore fino ad una vera e propria demenza.

Di fronte all’apparente apatia dimostrata dal ragazzo, i due agenti che lo circondavano rinunciarono a cercare di attirarne l’attenzione.

«È inutile.» disse uno «Questo qui è proprio andato. Avanti, portiamolo via».

Il suo compagno gli andò di fronte per sollevarlo a peso dalla sedia, e prima di farlo volle guardarlo un’ultima volta negli occhi, quasi a sperare di vedere una qualche risposta.

Nessuno poteva prevedere quello che sarebbe accaduto.

Il giovane soldato, da un istante all’altro, sollevò la testa; le sue pupille, da opache che erano, si accesero e si dilatarono allo spasimo, e ringhiando come un animale saltò addosso all’agente buttandolo a terra.

Sembrava impazzito, sbavava e graffiava in ogni direzione, e probabilmente se non fosse stato per il colletto metallico della sua divisa l’agente si sarebbe visto strappare via la gola a morsi.

«Aiutatemi!» urlò l’uomo tentando disperatamente di togliersi di dosso quella bestia inferocita.

Il suo compagno afferrò il sospetto tentando di allontanarlo, ma quello, reso folle e fortissimo dalla bomba di magia che gli era esplosa dentro, con un solo braccio lo afferrò per il colletto scagliandolo contro il muro della stanza.

Quasi subito arrivarono anche gli altri agenti presenti sul posto, due dei quali riuscirono finalmente a mettere in salvo il loro compagno afferrando l’assalitore per un braccio ciascuno e scaraventandolo lontano.

«Sparategli!» si sentì urlare, e senza porsi domande tutti i poliziotti misero mano alle pistole.

Era chiaro che quello che era cominciato come un semplice esaurimento stava tramutandosi in un vero e proprio caso di EDA; era questo l’acronimo con cui venivano identificate tutte quelle creature, umane e non, generate da incidenti legati all’uso della magia.

Per ora si trattava di una situazione ancora gestibile, ma era solo una questione di tempo prima che la mutazione prodotta dallo scompenso magico in atto nel corpo di quel poveretto diventasse irreversibile.

I poliziotti spararono, se non altro nel tentativo di fermare l’aggressore, ma questi schivò le pallottole saltando e attaccandosi letteralmente al soffitto, per poi scappare via camminando a testa in giù come un ragno senza che lo si potesse fermare.

Carmy se lo vide comparire davanti da un momento all’altro, e trovandola sulla propria via di fuga l’assalitore fulmineo le saltò addosso colpendola violentemente e buttandola a terra. Tutto accadde così rapidamente che il giovane tenente non si accorse quasi di nulla, e probabilmente sarebbe potuta andare anche peggio per lei se Thomas, che aveva riflessi più affinati dei suoi, non fosse giunto ad aiutarla.

L’agente Cane affrontò senza timore il nemico, afferrandolo saldamente e buttandolo a terra, quindi gli si buttò sopra e lo colpì violentemente al centro del petto, un solo colpo che tuttavia lo mise subito fuori combattimento.

Quello era l’unico modo per avere ragione di un EDA al primo stadio senza essere costretti ad abbatterlo, indurre uno shock magico uguale a quello che aveva causato lo scompenso per annullarli entrambi.

Pur spaventata, Carmy restò anche un momento incredula. Allora Thomas non era il farfallone bellimbusto che si era inizialmente immaginata.

«Pericolo neutralizzato.» disse l’agente Cane constatando che l’aggressore aveva effettivamente perso i sensi.

In quella arrivò tutto trafelato anche Pierre, di ritorno dal primo piano dove era andato a fare un sopralluogo.

«Che è successo?»

«Prenditela comoda un’altra volta.» commentò sarcastico Thomas.

Confermato il cessato allarme, Alexia rinfoderò insieme agli altri la pistola e si avvicinò a Carmy, aiutandola ad alzarsi.

«Stai bene?»

«Abbastanza.» rispose lei massaggiandosi una spalla un po’ dolorante

«Non male come primo giorno di lavoro.» disse ancora l’agente Cane.

L’aggressore fu caricato a sua volta in ambulanza e portato via.

Sembrava tutto finito, ma il maresciallo Onir notò il sacchetto per le prove che Pierre aveva tra le mani, e riconoscendone il contenuto glielo strappò di mano per vederlo più da vicino.

«Non è possibile, ancora?»

«Che succede?» chiese Alexia.

Pierre allora lo mostrò anche a lei.

A prima vista sembrava un comune ago elettronico, ma lo strano liquido iridescente contenuto delle fiale da iniezione era qualcosa di ben diverso da un medicinale.

Il nome scientifico era macomorfina, ma nel gergo comune aveva assunto il nome di Lilith. Un miscuglio di sostanze psicotrope e composti chimici in grado di spingere oltre il limite le capacità magiche di un essere umano, ma dagli effetti collaterali imprevedibili e molto pericolosi.

Ormai erano parecchi mesi che aveva iniziato a diffondersi in diversi strati della popolazione, persino in quelli più impensabili, e c’era chi giurava che vi fosse la Lilith dietro l’escalation di incidenti degli ultimi tempi.

«Portatela al laboratorio per le analisi.» disse mestamente Alexia consegnandola agli uomini della scientifica «Noi torniamo alla centrale per redigere il rapporto».

Nonostante dicesse di sentirsi bene Carmy era visibilmente provata dall’esperienza appena vissuta, come era naturale che fosse. Alla fine, con il dolore alla spalla che diventava sempre più forte, dovette ricorrere alle cure di alcuni paramedici.

«Non è niente.» le disse uno passando una mano sul gonfiore e applicando un incantesimo lenitivo «Solo una piccola contusione. Questo incantesimo dovrebbe bastare, ma per sicurezza le consiglio di applicare una pomata per i prossimi due o tre giorni.»

«Capisco. La ringrazio».

Mentre lei e gli altri risalivano in macchina, Pierre notò la sua espressione e cercò di confortarla.

«Riprendi fiato.» le disse offrendole una lattina di tè freddo «Ci farai l’abitudine.»

«Credevo che le misure antidroga fossero molto efficaci.» disse come una bambina che vede per la prima volta qualcosa che non si aspetta

«Per i canali abituali sì. Ma i fornitori e gli spacciatori trovano sempre nuovi metodi per aggirare i controlli.» disse Thomas

«Quello che mi preoccupa» disse Alexia, seduta accanto a Carmy sul sedile posteriore «È che ora la Lilith sta iniziando a diffondersi anche all’interno dell’agenzia.»

«Sì, la capisco. La MAB non ci fa certo una bella figura.»

«Se non arrestiamo quanto prima questo fenomeno diventerà incontrollabile, e potremmo avere altri incidenti».

 

Il procuratore generale Griffith, come al solito, uscì dall’ufficio molto più tardi degli altri, tanto che quando finalmente si decise a raggiungere il parcheggio per tornare a casa nella sede della procura militare non c’era quasi più nessuno a parte le guardie notturne e qualche impiegato che faceva gli straordinari.

Una volta tanto, era felice di tornare a casa.

Il lavoro nell’ultima settimana era stato davvero pesante, e non vedeva l’ora di andare fuori città per il weekend. Passeggiate in campagna, pesca sul lago e un meritato riposo con moglie e figli.

Vedendolo passare davanti al suo box di sorveglianza, Louis Carlitz, una giovane guardia part-time, gli andò incontro per salutarlo e augurargli la buonanotte.

«Grazie per quei libri che mi ha procurato.» gli disse accompagnandolo alla macchina «Mi saranno sicuramente molto utili.»

«Figurati. E fammi sapere quando discuterai la tua tesi. Così se potrò, cercherò di essere presente.»

«Ne sarei onorato».

Il procuratore era già in procinto di salire sulla sua affascinante sportiva bianco perla quando si accorse, cercandole nelle tasche, di aver dimenticato in ufficio le chiavi di casa.

«Ma dove ho la testa?» mugugnò «Si vede che non ho più Carmy a tenermi d’occhio.»

«Quanto è passato da quando è passata alla polizia militare?»

«Due settimane. Ma a me sembra già un secolo. Ora mi tocca tornare di sopra.»

«Se vuole, posso portare la sua macchina fino all’ingresso. Così al ritorno risparmia la strada».

Griffith sapeva quanto a Louis piacessero le belle macchine, e anche se non aveva mai permesso a nessuno di toccare il suo gioiello volle accontentarlo e gli lasciò le chiavi.

«Quando sarò avvocato.» disse il ragazzo salendo a bordo «Spero di potermi permettere anch’io una macchina così.»

«Non te lo auguro.» rispose divertito il procuratore «Di diventare avvocato, intendo».

Detto questo Griffith tornò verso l’ingresso del parcheggio sotterraneo, mentre Louis volle godersi appieno quel momento saggiando l’atmosfera e l’adrenalina di quel magnifico abitacolo prima di avviare il motore.

«Avanti, bella. Fammi sentire come canti.» e girò la chiave nel quadro.

Al rombo intonato del motore seguì come una specie di brevissimo fischio, e un istante dopo il procuratore, che era quasi arrivato all’ascensore, fu scaraventato a terra da un tremendo spostamento d’aria arrivatogli alle spalle, accompagnato da un fragore a dir poco assordante, reso ancor più violento dall’ambiente chiuso.

In un attimo l’aria si caricò di fumo, luce rossastra e del crepitare delle fiamme, e detriti fumanti presero a cadere in ogni direzione; anche dal tetto piovvero dei calcinacci.

Il procuratore impiegò diversi secondi a riprendere i sensi, e poco dopo giunsero sul posto alcune altre guardie di sicurezza.

«Si faccia forza, signor procuratore.» disse una aiutandolo a rialzarsi.

Griffith era ancora frastornato, ma nonostante ciò riuscì a distinguere benissimo la sua macchia sportiva sventrata dall’interno e avvolta dalle fiamme.

«Louis!».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Scusate per questa lunga assenza, ma ho avuto parecchio da fare negli ultimo giorni, e solo l’altro giorno sono riuscito finalmente a trovare il tempo di scrivere.

Eccoci dunque al secondo capitolo. La storia inizia pian piano a delinearsi, ma per ora siamo comunque ancora solo ai preamboli. I veri avvenimenti, quelli davvero importanti, accadranno solo in seguito, e coinvolgeranno di volta in volta ora questo ora quel personaggio.

Comincio a sentirmi sempre più a mio agio con questi capitoli brevi, e anche lo stile di scrittura piano piano si sta evolvendo.

Grazie a tutti quelli che leggono e recensiscono.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 5
*** 3 ***


3

 

 

«La nostra guerra contro questa società decadente e corrotta, che ha dimenticato le proprie radici e si crogiola in un vivaio di false certezze, è pronta a raggiungere un nuovo livello.

L’attacco contro il Procuratore Viktor Griffith è stato il primo atto della nostra seconda venuta, e questa volta non ci fermeremo fino a quando il nostro scopo non sarà raggiunto.

Per troppi anni la MAB si è illusa di avere il controllo su questo pianeta e tutti i suoi alleati. Quello che doveva essere un nuovo ordine votato al progresso e alla pacifica convivenza ha assunto negli anni i connotati di uno stato di polizia, governato da militari e politici corrotti che si servono delle possibilità offerte dalla magia senza curarsi minimamente dei rischi che essa comporta.

Quando, duecento anni fa, i nostri padri arrivarono qui dalla Terra, essi costruirono questa società perché fosse un modello del progresso e delle potenzialità del genere umano. Ma coloro che ci governano hanno storpiato e insudiciato quel sogno, e ne hanno fatto il loro parco divertimenti.

Noi non ci fermeremo fino a quando la società che i nostri padri hanno sognato posando per primi i piedi su questo pianeta non verrà riscoperta, e coloro che l’hanno distrutta per i loro fini deviati non avranno ricevuto il castigo divino.

Noi siamo Avalon.

Siamo tornati».

Il generale Nives chiuse con un cenno della mano la finestra virtuale e si volse a guardare i propri colleghi radunati attorno al grande tavolo ovale mentre le tende della stanza venivano riaperte.

Il Consiglio di Sicurezza della MAB era quasi al completo. Unici membri ad essere presenti solo con la propria proiezione spirituale erano gli ammiragli Hinkel e Khoral, collegati dai ponti delle rispettive navi in orbita attorno a Celestis.

Dal lato opposto, l’anziano direttore generale Van Adler se ne stava in silenzio, come in meditazione, tenendo il capo chino e passandosi di tanto in tanto una mano sulla folta barba bianca.

«Il messaggio è stato recapitato alle sedi di cinque diverse stazioni televisive all’alba di questa mattina.» disse il generale Nives

«La notizia si è diffusa?» domandò preoccupato il generale Boginski

«Dopo quanto accaduto al Palazzo Azzurro eravamo in stato di allerta, quindi siamo riusciti ad agire per tempo. L’attentato al procuratore è stato fatto passare per un semplice incidente, e le televisioni hanno accettato di mantenere segreta la rivendicazione dei terroristi.»

«Incredibile, Avalon.» mugugnò tra sé l’ammiraglio Khoral dopo un momento di enigmatico silenzio «E dire che speravo fosse una storia chiusa.»

«Che cosa sappiamo di questo gruppo?» chiese l’ammiraglio Hinkel, l’ultima in ordine di tempo ad essere entrata a far parte del consiglio

«Sono degli anarchici, fondamentalmente.» rispose Nives «Con una storia di oltre quindici anni. Il loro teatro operativo è da sempre il territorio di Caldesia, e da questo punto di vista sono stati per anni il gruppo più potente e pericoloso di questo Paese.»

«Ma avevo sentito dire che il gruppo era stato smembrato e distrutto.»

«Così credevamo, almeno.» disse il direttore generale Van Adler «Sei anni fa riuscimmo ad arrestare il Barone Auguste Delaroche, il capo storico e fondatore di Avalon.»

«Tralasciando l’importanza della famiglia Delaroche.» spiegò il generale Wei «Il gruppo godeva del sostegno e dei finanziamenti di molte personalità influenti di Caldesia, e persino di un certo consenso popolare. Fu come scoperchiare il vaso di pandora.»

«L’arresto del barone e dei suoi collaboratori potrò ben presto Avalon alla rovina.» disse Boginski «Ma a quanto pare, devono essersi riorganizzati. E se posso esprimere un parere, ci metto la mano sul fuoco che è coinvolto il figlio di Delaroche

«Intendi dire Valerian?» chiese Nives «È molto probabile. Dal giorno dell’arresto come suo padre è sparito nel nulla. Abbiamo ricevuto un paio di segnalazioni sul  suo conto, ma è sempre stato più veloce di noi.»

«Ma come avrà fatto a ricostruire il gruppo in così poco tempo?» chiese l’ammiraglio Khoral «Se non sbaglio Valerian non era mai stato coinvolto negli affari del padre.»

«Avrà sfruttato la rete di conoscenze e di fiancheggiatori intessuta da suo padre, lavorando con quelli che sono sfuggiti all’arresto. I beni dei Delaroche sono stati confiscati dopo la cattura del patriarca, ma vista la portata degli interessi della famiglia non mi sorprenderebbe se qualcosa ci fosse sfuggito.»

«Ma per quanto ne so, mettere una bomba al nucleo d’espansione nell’auto di un procuratore non ha mai fatto parte del modus operandi della vecchia Avalon.» disse Boginski

«Se è per questo, Avalon non aveva neanche mai colpito direttamente a Kyrador.» disse Nives «È probabile che fosse un modo per il barone e i suoi alleati di tenere lontani i sospetti.»

«Questo è un gran male.» disse sconsolata Hinkel «Significa che non sono prevedibili.»

«E che non temono le conseguenze delle loro azioni.» aggiunse Wei «Sono pronti a colpire dovunque e chiunque, e hanno voluto farcelo sapere.

A conti fatti, è solo per una pura coincidenza se il procuratore Griffith non è rimasto ucciso».

Il direttore generale guardò un momento i suoi uomini, respirando tra i denti senza tradire emozioni.

«Prima ci occupiamo di questo problema, meno tempo gli daremo per crescere. Avviamo subito un’indagine approfondita. Bisogna scoprire se Valerian Delaroche è effettivamente il nuovo capo di Avalon. Cerchiamo di capire quali siano i loro obiettivi, e se possibile dove intendano colpire.

Mettiamo il TSD e le altre unità speciali in stato di allerta; il mio istinto mi dice che l’attentato al procuratore è stato solo l’inizio, e che continueranno a colpire in città.»

«Sissignore.» risposero alcuni, mentre altri si limitarono ad annuire

«Manteniamo la versione dell’incidente. Niente fughe di notizie alla stampa o alla televisione. L’ultima cosa che ci serve è il panico generale.»

«Sarà fatto.» rispose il generale Nives, che era praticamente il suo secondo.

Dopo pochi minuti la riunione ebbe fine e tutti si congedarono.

 

Jake camminava, in silenzio e con molta circospezione, all’interno di un vecchio edificio abbandonato di qualche squallida e anonima periferia, le mani strette attorno al fucile d’assalto e i sensi tesi allo spasimo.

Il buio lo avvolgeva, solo in parte rischiarato dal bagliore delle due lune e dal lampeggiare stentato di qualche lampadina mezza fulminata, serrandolo in un abbraccio carico di tensione. Sentiva il sudore rigargli spietato le tempie, ambasciatore di un’ansia che solo in parte riusciva a mitigare, scendendo lentamente lungo il volto per andare a depositarsi sul colletto della sua uniforme.

La corazza d’acciaio che indossava come un giubbotto antiproiettile gli sembrava anche più pesante del solito, minacciando di limitare non di poco la sua libertà di movimento, ma cercava di non pensarci.

Anche il silenzio era spaventoso, rotto di quando in quando solo da brevi spifferi di vento o dallo scricchiolare della polvere sotto gli scarponi.

Doveva concentrarsi.

Molto dipendeva da quello che avrebbe fatto, a cominciare dalla vita di una persona.

Avanzò lentamente, il fucile puntato davanti a sé, mentre il vento freddo gli scorreva sulla pelle minacciando di farlo tremare.

Doveva fare come gli era stato insegnato, estraniarsi totalmente dal mondo.

Non c’era niente di diverso dalle altre volte. O almeno, voleva sforzarsi di crederlo.

Un rumore, che l’istinto gli disse non essere prodotto da un gatto saltato fuori dal suo nascondiglio o da chissà quale altro animale, riecheggiò alle sue spalle.

Fulmineo, si girò, ed ebbe appena il tempo di scorgere un vagabondo armato di fucile sbucare fuori da una pila di casse prima di riempire l’aria col fragore di una raffica e fulminarlo in pieno petto.

Quel rumore assordante fu come il rimbombare di un allarme, e da un istante all’altro decine di altri nemici sbucarono da ogni dove con le armi puntate.

Jake, però, non si fece intimidire; nulla che un soldato abile e addestrato come lui non potesse affrontare. Rapidamente e con efficacia il giovane affrontò gli avversari che gli si pararono davanti, riuscendo ad abbatterne la maggior parte, e correndo nel contempo in ogni direzione per confonderli.

Raggiunta la più vicina rampa di scale si gettò rapidamente verso i piani alti, ostacolato di quando in quando da alcuni  altri avversari che lo attendevano sui pianerottoli, fino a giungere all’ultimo piano.

Anche qui, però, trovò ad attenderlo un nutrito comitato di benvenuto, tanto che come tentò di affacciarsi sul corridoio al termine della rampa dovette subito rotolare dietro ad un tavolo ribaltato per evitare di finire crivellato di colpi.

Messosi al sicuro gettò un occhio all’esterno, per capire la situazione; poco più avanti il corridoio deviava ad angolo retto, e nascosti dietro vi erano almeno quattro ostili che lo tenevano sotto tiro e non smettevano un attimo di bersagliarlo.

Era un’eventualità che non aveva considerato.

«D’accordo, lo ammetto.» disse vedendosi apparentemente in trappola «Forse sono stato un po’ impulsivo».

Se solo avesse cautelativamente lanciato una granata prima di lasciare la tromba delle scale le cose si sarebbero fatte molto più facili, ma ora che aveva fatto l’errore era inutile starci a riflettere.

Sparò un paio di colpi, riuscendo ad abbattere uno degli ostili, ma poi, sfortuna nella sfortuna, il suo fucile si inceppò.

«Maledizione, proprio adesso?» ringhiò cercando di sbloccarlo.

Accortisi che il loro bersaglio era in difficoltà, e convinti di averlo messo alle strette, due dei tre aggressori superstiti provarono a raggiungerlo per dargli il colpo di grazia. Jake gettò dunque via il fucile inutile e sfoderò il bastone d’ordinanza, un classico type-30 in argento lavorato dal basso potenziale, e ad una sua parola i due poveri sventurati si videro franare il pavimento sotto i piedi, precipitando assieme a cumoli di macerie.

Prima che il loro compagno potesse assimilare quanto accaduto Jake gli fu addosso, lo disarmò, e dopo averlo ingaggiato in un breve corpo a corpo riuscì ad abbatterlo scaricandogli un incantesimo stordente dritto nell’addome.

Sfortunatamente, volendo essere sicuro di assestare un colpo mortale, Jake spinse il potere dello scettro ben al di là delle possibilità offerte dall’arma, che infatti gli si sgretolò tra le mani passato il pericolo.

«Perfetto, ci mancava anche questa».

Rimasto con la sola pistola Jake continuò lungo quel corridoio seguendo le direttive di missione, fino a raggiungere la stanza dove secondo i superiori si trovava il suo obiettivo. In giro non si vedeva nessuno, ma nella concitazione del momento il giovane non arrivò neanche a calcolare che quella potesse essere una cosa strana.

Giusto il tempo di guardarsi un momento attorno, proprio per essere certo di non avere nessuno attorno, e con un calcio Jake sfondò la porta facendo irruzione. All’interno della stanza, circondata dal buio e dalla sporcizia, c’era solo una donna, una diplomatica a giudicare dal bel vestito nero, riversa a terra apparentemente svenuta.

Riposta l’arma Jake le si avvicinò, tastandole il battito e confermando che era viva.

Tirò un sospiro di sollievo.

La missione era conclusa. E nonostante tutto il suo autocontrollo e senso di responsabilità, non riuscì a non farsi sfuggire un sorriso soddisfatto.

«Eagle01 a QG.» disse alla ricetrasmittente «Ostaggio in salvo, ma servono cure mediche immediate.»

«L’ostaggio può essere mosso?» chiesero dal domando

«Affermativo.»

«Raggiungi il punto d’incontro all’ingresso. Il mezzo per l’estrazione è già sul posto.»

«Ricevuto QG. Chiudo».

Jake fece per caricarsi la donna sulle spalle, ma dal momento in cui aveva fatto irruzione si era  preoccupato a tal punto di accertare le condizioni di salute dell’ostaggio da non accorgersi che la stanza aveva una seconda porta, sulla parete a destra di quella da cui era entrato.

Tutto accadde in pochi istanti che parvero farsi secoli.

Un nuovo aggressore la buttò giù con una spallata, apparendo da un secondo all’altro pistola alla mano e pronto a sparare. Jake lo notò con la coda dell’occhio, e lasciata cadere la donna si girò più in fretta che poteva, allargando le braccia come a volerle fare da scudo.

«Schild Süden!» tuonò solennemente.

Partirono tre colpi, esplosi dall’arma del nemico, che andarono a scontrarsi contro un impenetrabile muro di luce vermiglia materializzatosi dal nulla davanti a Jake e alla sua protetta, spesso meno di un centimetro e abbastanza grande da coprire interamente lo spazio tra una parete e l’altra e tra il pavimento ed il soffitto.

Colto alla sprovvista, quasi non si aspettasse di avere a che fare con uno stregone, l’aggressore parve esitare, e fu la sua condanna. Nel momento in cui le sue tre pallottole cadevano tintinnando sul pavimento sudicio, una quarta andò a piantarsi dritta nella sua fronte lasciandolo a terra senza vita.

Era accaduto tutto così in fretta che Jake impiegò qualche istante a realizzare quello che aveva fatto, e a comprendere che in qualche modo era riuscito a scampare al pericolo salvando sia sé stesso che l’ostaggio.

Giusto per un eccesso di prudenza, con la pistola pronta a sparare, il giovane si avvicinò alla sua vittima per accertarsi che fosse effettivamente morta, e solo una volta che ne fu assolutamente sicuro si risolse a recuperare la donna e lasciare finalmente quel posto sporco e maleodorante.

Correndo come meglio poteva, ma sempre attento e pronto a rispondere a qualsiasi minaccia esterna, Jake ritornò in tutta fretta all’esterno, trovando una camionetta della squadra ad attenderlo nel piazzale antistante al palazzo.

Il tempo di avvicinarsi e mettere una mano sulla portiera, ed ogni cosa attorno a lui parve cristallizzarsi, facendosi immobile. L’aria cessò di soffiare, la polvere di scricchiolare, e il motore del veicolo di borbottare. Un piccione che aveva preso il volo spaventato dal suo arrivo si bloccò per aria proprio davanti ai suoi occhi, le ali immobili come fosse stato imbalsamato.

Una voce, tonante ma piatta, rimbombò tutto attorno.

«Fine della simulazione».

Pochi secondi dopo tutto scomparve, disfacendosi come un disegno. Tutto tranne Jake, che chiusi un momento gli occhi, quando li riaprì si avvide di essere tornato dove in verità era sempre stato, nell’immensa stanza di addestramento al quartier generale del TSD.

Vista dall’alto appariva come una gigantesca cupola, talmente grande e traboccante di sapere scientifico che al suo interno poteva essere ricreata praticamente qualsiasi cosa, da una semplice stanza ad interi edifici.

Nuovamente, Jake sospirò sollevato e un po’ soddisfatto. Finalmente era finita.

Era passato un po’ di tempo da quando aveva sostenuto l’ultima prova pratica, ancora ai tempi dell’addestramento sulla stazione Ares, e rispetto al passato i miglioramenti portati dal duro esercizio, almeno per lui, erano evidenti.

Come uno studente alle prese con un difficile esame universitario, cominciò a contare febbrilmente i secondi nell’attesa che qualcuno venisse a dargli il risultato.

C’erano state due o tre sbavature, ma a conti fatti era abbastanza sicuro di aver fatto una buona prova, abbastanza perché potessero prendere in considerazione, se non un comando, almeno l’abilitazione all’impiego operativo.

Vyce discusse un momento con gli altri esaminatori presenti in sala  di controllo, giusto per essere sicuro che confermassero la sua valutazione di addestratore esperto, quindi raggiunse l’amico nello spogliatoio per comunicargliela.

«Allora?» chiese Jake tutto ansioso ed impaziente «Come sono andato?».

La differenza di grado in teoria avrebbe dovuto prevedere ben altro approccio, ma ormai lui e il capitano si conoscevano da così tanto tempo da potersi permettere, almeno in privato, di dare un calcio all’etichetta.

«Non è andata troppo male. Onestamente mi aspettavo di peggio.»

«Ti ringrazio.» rispose il giovane sollevato e, bisogna dirlo, anche un po’ inorgoglito «E che punteggio ho totalizzato?».

Vyce si lasciò sfuggire un sorriso, uno strano sorrisetto che il suo interlocutore non seppe come interpretare, quindi passò a Jake il suo palmare perché potesse vedere lui stesso.

Il giovane la prese e lesse sullo schermo, ma l’espressione che gli comparve sul volto dopo pochi istanti tutto poteva significare meno che soddisfazione.

«Settantasei punti!?» esclamò sorpreso e anche un po’ arrabbiato.

Era inaudito.

Settantasei era un punteggio da matricola. Come avevano potuto dargli un voto così basso?

«Ma non è possibile. Deve esserci un errore.»

«Nessuno errore, Jake. E ti dirò di più. Sono stato io a proporre questa valutazione, in quanto esaminatore capo. I miei colleghi avrebbero voluto darti anche di meno.»

«Che cosa ho mai fatto per meritare un punteggio simile?»

«Da che cosa dovrei cominciare? Dal fatto che hai polverizzato il tuo bastone magico restando quasi senza equipaggiamento prima ancora di aver recuperato l’ostaggio, o da quella tua bravata da kamikaze nella stanza dove era rinchiuso?».

Punto sul vivo, Jake non seppe cosa rispondere.

«Tralasciando l’esitazione che hai dimostrato più volte nel corso delle sparatorie, è palese che tu sia stato fin troppo impulsivo.»

«Credevo che la rapidità fosse uno dei requisiti fondamentali del TSD.» replicò Jake con una punta di insofferenza

«Ma non l’avventatezza. Prendi quanto accaduto in cima alle scale. Se quegli ostili avessero avuto un po’ più di mira la tua missione sarebbe finita lì.

Certo, hai risposto all’imprevisto con inventiva ed efficacia, ma non sempre il nemico ti concede il tempo per ovviare ad un errore. Anzi, non lo fa quasi mai».

Jake si sentì venire la pelle d’oca, un segnale che non gli piaceva: nel suo caso era un segno di nervosismo. Cercò di controllarsi, anche se il suo capitano, severo come non mai, non smetteva un momento di rinfacciargli tutti i suoi errori.

Era come essere tornati al primo giorno di accademia.

«E di quello che è successo nella stanza dell’ostaggio che cosa mi dici? Il manuale parla chiaro, prima di entrare in un ambiente ostile è prima necessario sterilizzarlo, o quantomeno accertarsi dell’assoluta assenza di pericoli.

Se avessi notato subito la porta secondaria e avessi preso provvedimenti non si sarebbe arrivati a quella situazione ad alto rischio.»

«Volevo accertarmi delle condizioni dell’ostaggio.» si giustificò Jake «E comunque, ho risposto alla minaccia in modo rapido ed efficace.»

«Su questo non discuto. Sei stato scattante e inventivo. Ma anche incredibilmente fortunato.»

«Fortunato!?»

«Hai usato lo Schild Süden. E a meno che non mi ricordi male, negli ambienti chiusi il manuale prevede l’utilizzo dello Stahlwand

«Non sono mai stato molto bravo ad usarlo.» disse Jake con espressione sempre più affranta e contrita «Lo Schild Süden mi viene più facile, e so controllarlo meglio.»

«Sì, me ne sono accorto. Ciò non toglie che hai corso un bel rischio. Lo Schild Süden è un incantesimo per la difesa di massa, e può espandersi in maniera considerevole se non controllato a dovere. Se non fossi riuscito a bloccarne l’ingrandimento in tempo le pareti, il soffitto e il pavimento si sarebbero incrinati, e l’intera stanza ti sarebbe crollata addosso uccidendo te e l’ostaggio.

A conti fatti, devi ammettere di aver corso un bel rischio».

Poi Jake si fece anche più severo, quasi cattivo.

«Essere troppo sicuri di sé non è mai una buona idea nel bel mezzo di una missione, soprattutto se c’è di mezzo la vita di qualcun altro, e in special modo di un innocente.

Sei stato impulsivo, avventato e ingenuo. Il mix perfetto per un potenziale aspirante suicida».

Il tenente Aulas avvertì prima un senso di rabbia, che lo spinse a distogliere lo sguardo e stringere i pugni, sostituito subito dopo da uno di impotenza.

Possibile che fosse stato tutto inutile? Che tutti quei mesi di sofferenze e addestramenti sulla stazione Ares non gli fossero serviti a nulla?

«Il regolamento parla chiaro.» concluse severamente il capitano «Con settantasei punti niente operazioni sul campo, figuriamoci poi dirigere una squadra. Per ora farai parte del gruppo di Madison, ma solo come osservatore e coordinatore esterno. Se ne riparlerà tra qualche mese. Nel frattempo, continua ad addestrarti. Tutto chiaro?».

Jake non rispose; era troppo perso nei suoi pensieri e troppo arrabbiato per farlo.

«Tutto chiaro?» ripeté Vyce a denti stretti e guardandolo dritto negl’occhi

«Sì, signore.» balbettò il giovane ricambiando a fatica lo sguardo.

Sembrò finire tutto lì, ma solo dopo essere rimasto solo Jake realizzò appieno quanto era accaduto, e la furia dentro di lui esplose incontenibile.

«Al diavolo!» tuonò calciando la panca, che cadde a terra con un rumore sordo e violento.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Eccoci qui, in questa domenica uggiosa (almeno qui a Venezia) con un nuovo capitolo.

Finalmente, dopo due capitoli (tre contando anche il prologo) di pura introduzione stiamo rapidamente passando alle vie di fatto.

Da questo momento in poi sarà un continuo connubio tra situazioni calme e quotidiane e altre di pura adrenalina, cercando tuttavia di restare sempre entro certi limiti per non trasformare questa storia in un’accozzaglia indistinta di botti ed esplosioni.

Ora dovete darmi qualche giorno, perché il prossimo capitolo rischia di essere un po’ rognoso da scrivere, ma confido di farcela entro la settimana.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 6
*** 4 ***


4

 

 

Carmy aveva sparato poche volte in vita sua, e comunque mai a qualcuno che non fosse un bersaglio olografico o comunque finto, malgrado come tutti gli agenti portasse sempre con sé una pistola d’ordinanza.

Dopo quello che era accaduto nella sua prima scena del crimine, però, qualcosa dentro di lei si era acceso, e da quel giorno si recava quasi quotidianamente, la mattina presto o la sera dopo il servizio, al poligono nei sotterranei del commissariato per fare un po’ di esercizio.

Mentre sparava, pensava.

Pensava a quanto successo, e a quante altre cose avrebbe visto da lì in avanti.

Doveva farci l’abitudine.

Essere un TSD, o anche semplicemente un membro della MAB, voleva dire anche questo, e poco importava che lei fosse solita portare con sé caricatori pieni di pallottole neutralizzanti, o avesse imparato nei suoi studi di stregoneria incantesimi offensivi adatti unicamente a neutralizzare un nemico senza ucciderlo.

«Ormai passi più tempo qui che in ufficio.» sentì dire appena tolte le cuffie, saltando un momento per lo spavento

«Agente Cane.» disse volgendo lo sguardo verso la porta del poligono, solitamente deserto a quell’ora del mattino

«Avanti, sei qui da più di un mese. Che ne diresti di chiamarmi semplicemente Thomas? Tanto più che siamo nella stessa squadra».

Thomas aveva un talento naturale per risollevare il morale, e a Carmy bastò guardare il suo sorriso sbarazzino per ritrovare un po’ di buonumore. L’agente Cane richiamò quindi a sé il bersaglio sul quale Carmy aveva appena svuotato il suo caricatore quotidiano, restandone piacevolmente colpito.

«Però, niente male.» disse notando i sei colpi di sicuro invalidanti «C’è stato un miglioramento. Una volta andava bene se andavi a segno una volta su tredici».

Thomas intuiva perché Carmy fosse così chiusa e riservata da qualche settimana a quella parte, ma non voleva forzarla a confidarsi. In certi casi, e lo sapeva per esperienza, bisognava dare tempo al tempo, e attendere che tutto si metabolizzasse da sé.

Carmy sapeva di aver fallito in un certo senso il suo battesimo del fuoco, e quindi non si era sorpresa nel vedersi negare la possibilità di intervenire nelle altre scene del crimine che si erano succedute nei giorni a seguire.

«Su, avanti.» le disse Thomas dandole un buffetto come ad una bambina colta a commettere una mascalzonata «Se ti fai trovare in ritardo alla tua scrivania dal capitano la poca mira potrebbe diventare l’ultimo dei tuoi problemi.»

«Hai ragione.» rispose lei un po’ più serena.

 

L’ammiraglio Constance Forrest era quasi una leggenda nell’aeronautica di Caldesia.

Aveva comandato per anni l’Aurora, ed era stata la prima donna a ricoprire, seppur solo per pochi mesi, il ruolo di comandante in capo delle forze armate caldesiane.

Nessuno sapeva esattamente perché avesse voluto congedarsi, proprio all’apice della sua carriera, ritirandosi totalmente dalla vita politica e militare per chiudersi in una sorta di eremitaggio nella sua sfarzosa residenza di famiglia nelle campagne di Loitres, a quasi duecento miglia dalla capitale.

 Non aveva mai avuto né famiglia né figli. Aveva solo un nipote, Victor, sottufficiale dell’esercito nazionale, ma a quanto si diceva non lo vedeva da anni, perché i rapporti con il fratello erano da sempre assai tesi.

Salvo attendenti e servitori in quella villa non viveva nessuno a parte lei, e questo rendeva ancor più incomprensibile quella sorta di esilio che sembrava essersi autoimposta.

La sua giornata era scandita e ordinata come quella di una religiosa, dall’ora della sveglia a quella dei pasti, fino ai passatempi. In particolare, se il tempo lo permetteva, tutti i giorni, dalle dieci a mezzogiorno, l’ammiraglio era solita prendere il tè all’ombra del gazebo di pietra al centro del suo giardino di rose, assaporando nella solitudine e nella tranquillità la bellezza e gli aromi di quel piccolo angolo di paradiso che aveva curato fin da bambina.

«Mi scusi, signora.» le disse rispettosamente Benjamin, il suo maggiordomo, probabilmente la sola persona in quella casa più vecchia di lei «È arrivato un ospite.»

«Fallo accomodare.» rispose la donna intuendo di chi si trattasse.

Il maggiordomo si congedò brevemente, e quando, dopo poco, Constance sollevò lo sguardo dal romanzo che stava leggendo lo vide ricomparire con al seguito il suo vecchio amico Harlow.

«Mi fa piacere rivederti, amico mio.» disse Constance alzandosi e scambiandosi un bacio sulla guancia con il direttore

«Ti trovo bene, Constance. Il congedo a quanto pare non ti ha impigrita.»

«Nonostante tutto, faccio del mio meglio per tenermi impegnata».

Si accomodarono sotto il gazebo, e Benjamin venne a portare loro dell’altro tè per poi lasciarli nuovamente soli.

«Di solito, quando vieni qui è sintomo di cattive novelle.» scherzò l’ammiraglio

«Che crudeltà. Non posso neanche far visita ad una vecchia amica?».

Constance lo guardò.

«Non sei mai stato bravo a mentire, Gillian. Con quello che sta accadendo in città e Avalon che ha ricominciato a farsi sentire, dubito che tu abbia fatto duecento miglia in macchina nel tuo unico giorno di riposo da un mese a questa parte solo per vedere una vecchia amica.».

Gillian restò prima un momento incredulo, poi accennò un sorriso di complicità; esiliata dal mondo o meno, Constance sapeva ancora come venire a conoscenza anche delle informazioni più riservate.

«Le notizie viaggiano veloci, a quanto vedo.» commentò il direttore tra l’ironia e la frustrazione

«Non sono stata un ufficiale caldesiano per quarant’anni per amore delle apparenze.

Allora, di che vuoi parlarmi?».

Gillian non volle temporeggiare oltre e spiegò ogni cosa.

Non che ci fosse qualcosa da spiegare, del resto. Anche Constance aveva visto con i suoi occhi quanto Avalon potesse arrivare ad essere pericolosa per l’ordine politico e sociale dell’intero pianeta, e non soltanto per i suoi attentati e i suoi proclami apocalittici.

«Sei preoccupato per le possibili reazioni?» domandò la donna senza mezzi termini

«C’eri anche tu dodici anni fa, mi pare. Ricordi quante teste sono saltate prima e dopo che l’organizzazione fosse smantellata?».

L’ammiraglio tacque, intinse delicatamente una zolletta di zucchero nella sua tazza e ne sorseggiò un goccio. Era preoccupata.

«In un certo senso, da quando è nata Avalon non ha fatto altro che convertire in parole e fatti quello che molti in realtà hanno sempre pensato.

E non mi riferisco solo ai cittadini esasperati da tutti questi incidenti».

Gillian si schiarì la gola, un gesto che fu interpretato dall’ammiraglio come un segno di nervosismo.

«Anche se l’attentato al procuratore è stato fatto passare come un incidente, la situazione in città non è molto tranquilla.» disse sconfortato il direttore

«Potete oscurare e occultare tutte le notizie che volete. La gente di questo pianeta in un certo senso ha imparato a rendersi conto quando qualcosa non và per il verso giusto.

Alla favoletta della società pacifica e priva di mali che i nostri antenati si sono portati dietro dalla Terra ormai non ci crede più nessuno.

In questo, forse, quei fanatici assassini non hanno poi tutti i torti.»

«C’è preoccupazione. Questo lo ammetto. Forse non sarò nel Consiglio di Sicurezza dell’agenzia, ma so capire quando ai piani alti cercano di nascondermi qualcosa».

L’ammiraglio guardò Gillian negli occhi.

«Pensi a del marcio nell’agenzia?»

«Non lo so. Ma certo è che è parecchio strano. Come avranno fatto quelli di Avalon a seminare i germogli della propria rinascita senza che nessuno si accorgesse di nulla?»

«Forse su questo pianeta in pochi pensano ancora che la nostra sia quella società senza macchia che si credeva.» replicò Constance tornando a concentrarsi sul suo tè «Ma certo è che nonostante tutto ci si vuole credere. Anche a costo di far finta di non vedere. Ma c’è un limite alla polvere che si può nascondere sotto al tappeto.»

«E se non fosse così?» obiettò il direttore quasi minaccioso.

Nuovamente si fissarono, enigmatici e in silenzio, come a voler cercare di cercare di leggere i pensieri l’uno dell’altro, poi l’ammiraglio aprì una finestra accanto a sé contenente tutti i nominativi e i dossier degli alti ufficiali dell’esercito nazionale. Gil pensò bene di non chiederle come facesse ad averli.

«Anche tralasciando simpatizzanti e anticonformisti di poco conto, sono in molti a cavalcare l’onda dell’insoddisfazione e del nazionalismo, soprattutto nell’esercito. Per la maggior parte si tratta di vecchi ufficiali provenienti dalla nobiltà di Kyrador.

Tutta gente molto potente e influente. È un terreno pericoloso quello su cui vuoi camminare.»

«Sei fuori strada. Non sarò io a prendermi questa patata bollente. Non subito, almeno.»

«E allora perché sei venuto qui?» domandò provocatoria l’ammiraglio

«Ricordo fin troppo bene cosa successe dodici anni fa, mentre davamo la caccia ad Avalon.» rispose Gillian facendosi scuro in volto e sfiorando con un dito il bordo della tazza «Quando si parla di loro quasi sempre si parla anche di incidenti, e quando si parla di incidenti sono i miei ragazzi ad andarci di mezzo. Se dovesse mai succedere qualcosa, voglio sapere a chi dovrò andare a chiedere conto».

L’ammiraglio accennò un’espressione ironica. Anche lontano dal ponte di comando di una nave da guerra e con dieci anni in più sulle spalle, Gillian era ancora l’uomo tutto d’un pezzo che conosceva.

«Latte o limone?».

 

Per tutti gli anni in cui aveva camminato per Caldesia come uno degli uomini più ricchi e potenti della nazione, Auguste Delaroche aveva da sempre coltivato una grande quantità di hobby e passioni.

Tra queste, però, una spiccava sulle altre, ed era quella per i cavalli.

Amava cavalcare, come qualsiasi nobile che si rispetti, e per potersi dedicare a loro in tutta tranquillità si era fatto costruire in gran segreto una villa con maneggio nelle campagne vicino al villaggio di Trendville, non troppo lontano da Kyrador.

Trenta acri di prati, avvallamenti soffici e anche un piccolo frutteto, dove il barone era solito ritirarsi per lunghi periodi di riposo, lontano dal mondo e dalla frenesia della città.

Nessuno aveva mai saputo della sua esistenza, né chi ne fosse il proprietario, e così non sorprendeva che a distanza di anni la MAB o l’esercito non l’avessero ancora requisita, anche se con l’arresto del suo padrone era con il tempo caduta in rovina.

Ormai non ne restava altro che un vecchio rudere soffocato dalla vegetazione che gli cresceva senza sosta attorno, opaco residuo dei fasti di un tempo, uno spauracchio buono per stimolare storie di fantasmi e strane apparizioni.

La gente del posto in effetti parlava spesso di strane luci e suoni misteriosi che la notte animavano quella tetra dimora abbandonata, ma si trattava di chiacchiere di paese come se ne sentivano tante, e nessuno o quasi ci credeva sul serio.

Ma qualcosa c’era davvero.

Da qualche mese a quella parte, quasi ogni notte, strane presenze erano solite aggirarsi attorno ai cancelli arrugginiti che circondavano la villa, scivolando silenzio attraverso una fessura nelle sbarre nei pressi del cancello principale e dirigendosi cautamente verso il portone aggirando erba alta, serpenti e i ricordini di molti cani randagi che avevano eletto quel posto a proprio rifugio.

Fu così anche quella notte.

Erano quasi undici, quando due uomini, due giovani poco più che ventenni, sopraggiungendo a piedi da una stradina laterale che tagliava la campagna circostante si portarono nei pressi della recinzione, aggirandola per poi raggiungere a passo spedito il sontuoso portone in legno lavorato.

Le persiane e le imposte erano tutte sprangate, ma guardando bene si poteva scorgere distintamente una debole luce proveniente dall’interno.

Uno dei due bussò leggermente tre volte, e dopo qualche attimo sulla porta si aprì uno spioncino ricavato alla meno peggio da cui fece capolino la faccia sospettosa di un terzo uomo.

«Siete in ritardo.»

«Siamo passati per le campagne.» si giustificò quello che aveva bussato «C’è un sacco di polizia in giro.»

«Entrate».

I due giovani furono fatti entrare, e assieme a quello che aveva loro aperto la porta si incamminarono attraverso i corridoi semibui e sudici della villa fino alla vecchia sala da pranzo, l’unica stanza di tutta la magione che fosse stata quasi del tutto rimessa a nuovo.

Al centro torreggiava l’imponente tavolo ovale, circondato da pregiate sedie di ebano, quadri di classe decoravano le pareti, e un superbo lampadario di cristallo un po’ offuscato dalla polvere pendeva dal soffitto.

La riunione fissata per quella sera era già entrata nel vivo. Alle sedie e ai vari divanetti che correvano lungo i bordi della sala erano accomodati i membri più importanti della nuova Avalon, tutti raccolti attorno al loro capo, il principe stando al suo nome in codice.

Valerian Delaroche sembrava un diamante coperto di fango. Nonostante i lunghi anni dell’esilio e della latitanza ne avessero incrinato il fascino quasi leggendario, nel suo volto risplendeva ancora il fulgore di quel portamento che solo la nobiltà poteva plasmare, elegantemente incorniciato dai lunghi capelli neri raccolti in una coda ed esaltato da due scintillanti occhi blu.

Gli abiti umili e un po’ sporchi che la fuga e la necessità di passare inosservato lo costringevano a indossare non gli rendevano giustizia. Non somigliava neanche lontanamente a suo padre, che di contro era stato punito con fattezze non esattamente ammalianti.

«È inaudito.» disse Percival, il secondo in comando dopo Valerian «Abbiamo lanciato la nostra rivendicazione a reti unificate, e a distanza di tre settimane non una sola emittente lo ha trasmesso.

Anche sulla rete non ve ne è traccia.»

«La MAB e questo governo sono molto bravi a nascondere le notizie.» commentò Bediverre «Lo sappiamo tutti molto bene. E il fatto che l’attentato non sia andato a buon fine li ha aiutati molto a mascherare il nostro operato come un normale incidente.»

«Io vi avevo avvertito.» disse, nella massima noncuranza, un giovane di bell’aspetto con corti capelli paglierini e occhi marroni «La bomba nella macchina del procuratore non è stata una gran mossa. Credevate sul serio che avrebbero permesso ad una notizia simile di diffondersi senza controllo?»

«Sei di poco aiuto, Owain.» lo rimproverò Lancillotto

«In queste cose è sempre necessario procedere a tappe. Se volete la notorietà, se volete che la gente vi veda, dovete fare in modo che la verità sia sotto gli occhi di tutti.»

«Come osa questo novellino arrogante dirci quello che dobbiamo fare?» sbottò Tristano alzandosi in piedi a battendo con forza i pugni sul tavolo «Ti ricordo che tu qui sei l’ultimo arrivato, e se proprio vuoi saperlo qui dentro sono in tanti a dubitare di te.»

«Smettila, sei ridicolo.» disse Bediverre «Ha ragione lui. Anche se fossimo riusciti ad uccidere il procuratore, lo abbiamo fatto in un luogo dove nessuno lo avrebbe potuto vedere.»

«Ne consegue» proseguì tranquillo Owain «Che comunque fosse andata, non avremmo ottenuto comunque quello che cercavamo. Su questo mi pareva di essere stato chiaro all’ultima riunione.

Ora sanno che siamo qui, che siamo determinati, e che non abbiamo intenzione di andarci per il sottile. Che poi tradotto sarebbe, ci staranno col fiato sul collo.» quindi fulminò spavaldo Tristano, che era stato l’ideatore di quel piano «Ne converrai dunque che la tua non è stata una gran bella pensata».

L’interessato digrignò i denti per la rabbia e tornò a sedersi.

«Stai pensando di colpire alla luce del sole?»

«Noi vogliamo che la gente di questo Paese apra gli occhi. Ma anche se molti considerano giuste le nostre rivendicazioni, e possiamo vantare un buon numero di sostenitori, noi per i più non siamo nulla più che comuni terroristi. E nessuno darà mai ascolto alle rivendicazioni di terroristi, per quanto giuste e sensate possano essere.»

«Io credo abbia ragione.» disse Lancillotto «Possiamo avere simpatizzanti nell’esercito, nella polizia, o addirittura nella stessa MAB. Ma senza il sostegno dell’opinione pubblica, noi non siamo niente.»

«E il sostegno dell’opinione pubblica non si ottiene certo scrivendo attentato a caratteri cubitali su ogni nostra azione.» incalzò Owain alzandosi e avvicinandosi al tavolo

«Allora che cosa proporresti?» domandò sprezzante Tristano.

Owain rispose con un sorriso compiaciuto, quindi mise una mano nella tasca interna del suo giaccone, prendendone fuori due oggetti che poggiò sulla tavola.

«Questi dovranno essere i nostri soli strumenti d’azione».

Molti restarono perplessi, qualcuno si passò una mano sulla fronte, Tristano invece quasi scoppiò a ridere.

«Un cacciavite e una provetta?» disse con spaventosa ironia «Non sarà che quella botta è stata più forte del previsto?».

L’unico che capì al volo che cosa uno dei suoi consiglieri preferiti avesse in mente fu proprio Valerian, che fissò negli occhi Owain come a voler essere certo di aver capito bene.

«Ne sei sicuro?»

«Fidatevi di me. Vista la società in cui viviamo, un incidente di troppo può avere più effetto di qualunque attentato terroristico».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Ci è voluto più tempo del previsto, ma finalmente sono riuscito ad aggiornare.

In questo periodo sono funestato da imprevisti e situazioni impossibili, ma grazie al cielo finalmente e sono uscito e a breve dovrei poter ricominciare ad aggiornare con più tranquillità.

Ringrazio con tutto il cuore flea, ivan e i miei beta per tutti i loro preziosi consigli, che mi aiutano ad accrescere il livello e la qualità della mia storia nella speranza che possa avere un domani.

I capitoli ricorretti e riadattati in base ai loro suggerimenti potete trovarli nel mio blog.

Che cosa avranno in mente gli uomini di Avalon?

Lo scoprirete già nel prossimo capitolo.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 7
*** 5 ***


5

 

 

Tra le tante cose che gli abitanti di Celestis si erano portati dietro dalla Terra c’erano la suddivisione dell’anno in settimane e il rito della gita fuori porta la domenica.

Kyrador era una città piena di divertimenti per tutte le età, tanto da rendere superflue, almeno secondo i più, le lunghe e sfibranti uscite in campagna, tra ingorghi, stazioni ferroviarie sovraffollate e aeroporti sempre pieni.

Solo nell’area metropolitana si contavano oltre un centinaio di aree verdi più o meno grandi e oltre quindici diversi parchi dei divertimenti, il più grande dei quali era il Fantasy Castle a Swansea Park, nel nord della città.

Oltre alle giostre, ai chioschi e al vicino parco acquatico, tutte le domeniche il parco organizzava grandi spettacoli circensi, amatissimi dai bambini, con animali, pagliacci e numeri di prestigio, uno nella tarda serata di sabato e un altro nel primo pomeriggio della domenica.

Quel giorno, tra la primavera ormai avanzata e il ponte per la festa nazionale, c’era anche più gente del solito ad affollare i cinquecento mila metri quadri del parco, e già verso mezzogiorno il grande anfiteatro degli spettacoli era andato riempiendosi al punto da scoppiare.

Anche in un mondo dove la magia era all’ordine del giorno era ancora possibile utilizzarla per impressionare e meravigliare gli ospiti, e tra i tanti numeri proposti nel corso dello spettacolo il più atteso era sempre quello di Bozo The Wizard, un clown i cui numeri facevano da intermezzo tra una metà e l’altra della rappresentazione suscitando la meraviglia dei bambini.

Bozo era talmente famoso che il parco aveva una intera sezione dedicata a lui, con giostre e stand per la vendita di giocattoli e manifesti, ed era considerato una vera miniera d’oro.

Certo, avrebbe sorpreso molti il fatto che questo simpatico clown con mascherone bianco, naso rosso e parruccone giallo sole in realtà non fosse nemmeno uno stregone.

Come molti, Bozo ovviava alla propria mancanza usando strumenti tecnologici in grado di simulare la magia, come nel suo caso un lungo guanto metallico a batteria che nascondeva sotto l’ingombrante veste rossa.

Se l’era costruito da sé, cosa illegale a dire la verità, ma in tanti anni aveva sempre funzionato benissimo, ed era solito farvi una continua manutenzione. Per non correre rischi, vi aveva montato anche un limitatore a manopola, sì da evitare sovraccarichi o incidenti di varia natura che potevano arrecare pericoli a lui e ai suoi spettatori.

Alle due del pomeriggio, terminato lo spettacolo degli unicorni, la folla prese a chiamare a gran voce il simpaticissimo clown.

Era accaduto tutto così rapidamente che Bozo, chiuso nel suo camerino, stava ancora finendo di applicare il mascherone, così mandò uno degli altri figuranti a prendergli il guanto nel deposito degli attrezzi per risparmiare tempo.

«Strano.» disse l’operaio notando che la porta era aperta «Credevo la tenessero chiusa a chiave».

Senza stare a pensarci troppo il ragazzo prese il guanto dalla sua custodia in cima ad un armadio e tornò in tutta fretta dietro la scena aiutando Bozo ad indossarlo.

«Maledizione.» mugugnò il clown assicurando l’ultima cinghia, azionando la manopola al minimo e coprendo il tutto con la manica della grossa giacca viola «Ogni volta è un calvario».

Chissà cosa avrebbero pensato i bambini se avessero saputo che il loro idolo, lontano dal palco, era solito aspirare tabacco e lanciare improperi con la regolarità di uno scaricatore di porto.

Dopo qualche attimo l’annunciatore, che aveva cercato faticosamente di guadagnare tempo con qualche barzelletta di gusto discutibile, annunciò finalmente che l’evento più atteso dal pubblico era pronto ad incominciare, e Bozo the Wizard fece il suo ingresso in scena tra applausi scroscianti.

Il programma prevedeva una serie di numeri, piccole trovate che avrebbero fatto ridere qualsiasi stregone, ma che per i bambini era come trovarsi in una fiaba, il tutto arricchito da giochi di luce, siparietti comici e numeri acrobatici.

Furono dieci minuti di spettacolo puro, anche più divertente e sorprendente del solito, come se Bozo avesse trovato il modo per rendere ancor più pirotecnico il proprio repertorio, fino al gran numero del Tunnel del Drago che chiudeva tradizionalmente l’esibizione.

Si trattava di una prova dannatamente pericolosa, almeno secondo il punto di vista di chi la osservava; in realtà Bozo, cavalcando un monociclo, non faceva altro che spegnere per lo spazio di un istante i cerchi di fuoco posizionati lungo la rotaia che percorreva a tutta velocità, così da attraversarli senza conseguenze quando invece agli spettatori sembrava davvero che stesse solcando pareti incandescenti.

Fu chiesto il silenzio, poi il clown, fatto un cenno al suo pubblico si lanciò giù dalla discesa mentre tutti trattenevano il respiro.

Ci fu un momento di panico al passaggio del secondo cerchio, perché sembrava che Bozo stesse perdendo l’equilibrio, come se qualcosa lo avesse distratto, ma poi il clown riuscì a completare il numero senza incidenti, guadagnandosi esclamazioni di giubilo mentre eseguiva un ultimo spettacolare giro della morte prima di tornare sul palco con le proprie gambe.

Il pubblico era impazzito, e i bambini sventolavano a piene mani i pupazzi in vendita fuori dall’anfiteatro chiamando il nome del loro beniamino, che prima eseguì un inchino e subito dopo prese a lanciare getti di vapore dalla manica della sua giacca come un estintore.

Tutti risero, gustandosi quel fuori programma, non accorgendosi minimamente di quanto lo stesso Bozo non sembrasse comprendere a propria volta la natura di quel fenomeno.

«Che sta facendo?» si domandò il capo della compagnia da dietro le quinte vedendo il suo clown girare su sé stesso come una trottola, gridando di dolore e paura e dandosi colpi sul braccio.

Servirono molti, troppi secondi perché ci si accorgesse che quello non era un numero da circo, ma la verità si fece evidente solo quando il divertente e spassosissimo Bozo the Wizard iniziò a gonfiarsi davanti a tutti come un pallone, sventrando e lacerando il proprio vestito di scena fino a tramutarsi in una orrenda creatura alta più di due metri, resa ancor più grottesca e spaventosa dal mascherone che ne copriva ancora la faccia.

La pelle si era fatta marrone e squamosa, i vestiti strappati lo coprivano a malapena, ma la cosa più orrenda era il suo braccio sinistro, che si era gonfiato fino a diventare il doppio del destro ed era coperto da scaglie di metallo che spuntavano direttamente dalla carne.

Seguì un silenzio spaventoso, interrotto come in un sogno da un ruggito della belva che scatenò il panico più totale.

Tutti presero a scappare, urlando e calpestandosi tra di loro, dirigendosi di corsa verso le uscite senza che il personale del parco, terrorizzato a sua volta, potesse fare qualcosa per contenere la folla. Per fortuna Bozo preferì prendersela con una statua di scena che lo raffigurava nel suo aspetto umano che con la gente in fuga, e questo diede al pubblico il tempo di mettersi in salvo.

In pochi minuti, sul Fantasy Castle divenne una città fantasma. Le gioie della domenica pomeriggio, di tante famiglie in gita, erano state spazzate via, tramutando un lussureggiante parco dei divertimenti nell’ennesimo terreno di caccia di un EDA.

 

Jake si sentiva doppiamente perseguitato dalla sfortuna.

Non solo era finito a fare l’assistente, ma gli era pure toccato il servizio nel finesettimana di festa. Così, mentre tutti i membri della squadra erano in giro per la città o in congedo premio a divertirsi, lui era costretto a starsene al bar del comando centrale, gli occhi piantati sul bancone legnoso e l’espressione contrita.

Poco distante, i suoi nuovi compagni di squadra ammazzavano il tempo giocando con le freccette o guardando il canale sportivo che mandava la diretta di un incontro dei preliminari nazionali di chandra, tifando chi per il campione in carica Warewolf chi per la sua conturbante avversaria, Yumiko.

Dalle porte finestre affacciate sul cortile entravano tiepidi raggi di sole, che rendevano ancor più insopportabile per il Tenente Aulas il pensiero di doversene stare rinchiuso lì dentro a rimuginare sui suoi pensieri, nell’attesa di una qualsivoglia chiamata che poteva anche non arrivare mai.

Madison, il caposquadra, era un uomo semplice, ma dalla forte volontà, che trattava i suoi uomini come fratelli, ma che più volte era stato richiamato per quella sua tendenza a fare di testa propria ignorando gli ordini.

Oltre a Madison, della squadra facevano parte Ruth, l’esperta di ricognizioni, tipa tosta e battagliera, con un passato nell’esercito di Ebridan, Shiffon, una montagna nera di muscoli, fedelissimo del suo caposquadra, Dylan, il sabotatore e mago dei computer, per il quale nessun sistema era inespugnabile, più altri cinque giovani ancora in attesa di farsi le ossa.

Jake non riusciva a capire il Capitano.

Era cosa nota nell’unità che la squadra di Madison era composta esclusivamente da membri dei reparti di incursione e maghi specializzati, quindi perché mettere un aspirante incursore come lui in un gruppo che invece necessitava come il pane di uno o due elementi dei gruppi d’assalto?

Vedendo il nuovo venuto che continuava a restare in disparte, Shiffon, di sicuro il più amichevole della squadra, si alzò dal tavolo offrendogli una bottiglia di analcolico. Il ragazzo lo guardò, respirando tra i denti come stizzito, quindi tornò a fissare il bancone.

Gli altri osservarono in silenzio.

«Questo atteggiamento non ti porterà da nessuna parte, ragazzo.»

«Non sono dell’umore adatto.»

«Questo lo vedo.»

«Lascialo stare.» comandò Madison.

Shiffon allora rinunciò, lasciando comunque la bottiglia sul bancone, e tornò a sedersi, mentre alcuni suoi compagni facevano cerchio attorno a lui.

«Ma chi si crede di essere?» mugugnò uno

«Cercate di capirlo.» lo giustificò Ruth «Nove mesi a spaccarsi la schiena senza sosta sulla stazione Ares, e appena tornato gli negano l’idoneità e lo sbattono a fare il portaborse nei weekend. Al suo posto sarei su di giri anch’io.»

«Gli è andata anche troppo bene.» replicò Dylan volutamente ad alta voce «Dalle voci che girano, col punteggio che ha ottenuto alla prova pratica è fortunato ad aver avuto una squadra.».

Jake si drizzò come un toro davanti al drappo rosso, fulminando Dylan con una occhiataccia che tuttavia il tecnico non mancò di ricambiare.

L’aria si fece di colpo più pesante.

«Dylan…» tentò di dire Shiffon, ma era noto che quando quel serpente iniziava a parlare fermarlo era impossibile

«Settantasei punti. Tanto valeva prendere una recluta. Almeno quando ero io nei tuoi panni ne servivano ottanta anche solo per lucidare le scarpe al caposquadra. Ormai il TMD accetta cani e porci.».

La risatina ironica di Dylan fu interrotta prima di iniziare da un diretto da knockout dritto allo zigomo. Cadde all’indietro, ma evitò di rovinare a terra appoggiandosi al tavolo, e prima ancora di rialzarsi ricambiò il colpo con uno dei suoi sinistri micidiali.

Per fortuna gli altri membri della squadra erano già sull’attenti, e i due furono separati a forza prima che finissero per farsi male sul serio.

«Basta, smettetela!» tentò di dire Shiffon trattenendo Jake

«Vieni a dirmelo in faccia, maledetto!» sbraitò Aulas

«Prega che non succeda!» disse di rimando Dylan, che si scaldava altrettanto facilmente

«Finitela!» tuonò Madison alzandosi in piedi.

Pareva un orco tanto metteva paura, con quella mascella squadrata e quegli occhi piccoli che fulminavano come proiettili. Ad un suo comando tornò il silenzio, e quei due scalmanati finalmente si calmarono.

«Non dimenticare mai i gradi, Dylan.» disse il caposquadra al suo subalterno, che malgrado la tracotanza e tutto il resto era solo un soldato scelto «Potrei farti rapporto.».

Ma ce n’era anche per Jake.

«E tu ragazzo, impara a controllare la tua irruenza. Se non sbaglio è stata quella a farti finire qui.».

Entrambi i contendenti furono lasciati andare. Col Capitano frapposto nel mezzo, era superfluo trattenerli perché restassero divisi.

«Scusatevi l’un l’altro, e farò finta che non sia successo niente.».

Alla fine, per amore o per forza, sia Jake che Dylan dovettero fare buon viso a cattivo gioco e chiesero scusa, uscendone rispettivamente con un occhio tumefatto e un labbro spaccato. Teoricamente Jake avrebbe potuto denunciare Dylan per aggressione ad un proprio superiore, ma per quel giorno quanto restava del suo orgoglio era già abbastanza compromesso e tornò a sedersi al bancone.

Anche tutti gli altri si calmarono, riprendendo chi a giocare chi a guardare l’incontro alla televisione, ma il Capitano seguitava a tenere gli occhi sul ragazzo. Dopo poco, lo raggiunse, accomodandosi accanto a lui.

«Senti, per quello che vale, io credo che tu stia facendo un errore.».

Jake quasi non lo stette a sentire, tanto era di cattivo umore, e fu solo grazie al soldato che era in lui che non mandò quel brav’uomo a quel paese come aveva fatto con Shiffon.

«Ho saputo quello che è successo alla prova pratica.»

«Come tutta la squadra, a quanto pare.» replicò il ragazzo tra i denti

«Non posso capire come ti senti, perché in verità non ci sono mai passato. Ma conosco abbastanza bene Vyce da sapere che non prende mai decisioni alla leggera.».

In quel momento a Jake tornò in mente quello che aveva sentito dire già diverso tempo fa, sul fatto che il Capitano avesse fatto parte per qualche tempo della squadra di Madison, ma non ci fece caso.

«Se posso darti un consiglio, dovresti considerare tutto questo non come una punizione, ma piuttosto come un’opportunità.».

Di nuovo, Jake si trattenne dal fare qualcosa di inopportuno, come scagliare qualcosa contro il muro o ridere in faccia al suo superiore.

Era un galoppino. Un mero subalterno che doveva solo scrivere i rapporti e tenere in ordine l’equipaggiamento. Come si poteva considerarla un’opportunità?

L’allarme interruppe qualsiasi altro pensiero, scotendo e facendo scattare in piedi tutti per la seconda volta in pochi minuti.

Prima ancora che avesse il tempo di raggiungere il più vicino interfono per chiedere spiegazioni, Madison sentì squillare il proprio telefono d’ordinanza.

«Parla Madison. Sì… d’accordo.»

«Che è successo, Capitano?» chiese Ruth

«Preparatevi. EDA al Fantasy Castle di Swansea Park.»

«Che bello, andiamo tutti al parco divertimenti.» ironizzò Ruth «Chi me lo offre lo zucchero filato?»

«Brava, così ti vengono i foruncoli.» disse divertito Shiffon.

Jake fu pronto anche prima degli altri, facendosi trovare sessantatre secondi dopo già davanti al furgone blindato, divisa lucidata, placche assicurate e il fucile in spalla.

«Quello non ti servirà.» rise il solido Dylan «Lascialo fare ai professionisti questo lavoro.»

«Il giorno che ti tapperai la bocca sarà sempre troppo tardi.» commentò Shiffon.

Madison salì per ultimo, il portellone si chiuse e il furgone lasciò i parcheggi sotterranei dirigendosi fuori città.

 

La passione preferita di Vyce era senza dubbio il cinema.

In un mondo in cui gli ologrammi e la realtà virtuale la facevano da padroni, il Capitano aveva speso una piccola fortuna per accumulare alcuni vecchi dvd, veri pezzi d’antiquariato che costituivano una piccola parte del bagaglio culturale che gli esseri si erano portati dietro dalla terra quasi quattrocento anni prima.

Trovarli era molto difficile, e comportava quasi sempre l’uso di pratiche illegali, perché le poche copie che erano state riprodotte erano in mano soprattutto a grandi collezioni private o archivi storici, ma ancor più difficile era trovare le apparecchiature necessarie a poterli visionare.

Con molta pazienza e l’aiuto di un amico appassionato di tecnologia terrestre il Capitano era riuscito faticosamente a costruirsene uno, e tutte le domeniche, al buio del suo appartamento, era solito godersi in tranquillità uno di quei vecchi film, sorseggiando caffè o mangiando manciate di quelle caramelle bianche alla liquirizia che amava alla follia.

Aveva più film di quanti avrebbe potuto vederne in dieci anni, e per lui era un po’ come aprire una finestra sul passato, su un luogo e di un mondo di cui, come tutti, aveva solo sentito parlare, ma che era in realtà era e sarebbe stato per sempre parte della sua anima.

Ogni tanto fantasticava di poter vedere un giorno la Terra, quel pianeta azzurro che ormai sopravviveva solo attraverso vecchie immagini come quelle che guardava appena aveva un po’ di tempo a disposizione, ma sapeva bene come questo fosse, per il momento, impossibile.

Cento anni erano serviti ai loro antenati per arrivare su Celestis, e anche con tutta la tecnologia ed il sapere accumulato in quei quattro secoli ne sarebbero serviti altrettanti per poterci arrivare, più di quanti potesse trascorrerne chiuso in un congelatore personalizzato in animazione sospesa.

I suoi amici, scherzando, non facevano che ripetergli quanto il suo assomigliasse ad un vecchio salotto terrestre, per quanto potevano saperne della terra, con quel tappetino rettangolare, quel tavolino di vetro, quella poltrona reclinabile in gommapiuma e pelle, quel vecchio impianto audiovisivo fatto in casa e quei contenitori di DVD pieni da scoppiare.

Ma a lui la cosa non dispiaceva. Anzi, tirare le tende della sua stanza e assaporare la bellezza di quei piccoli pezzi di storia con quattrocento anni o più sulle spalle era il modo migliore che conosceva per godersi serenamente il proprio giorno libero.

Quel pomeriggio non aveva scelto un film particolarmente avvincente, una storia strappalacrime di un pittore povero in canna e una ragazza nobile che si conoscevano e si innamoravano a bordo di una nave che ora stava affondando, ed era quasi sul punto di addormentarsi tanto lo trovava noioso.

Il telefono lo fece trasalire.

Sospirò di disappunto. Neanche la domenica lo lasciavano in pace.

«Vyce.».

All’altro capo c’era l’ufficio logistico, e quello che avevano da dirgli gli fece spalancare gli occhi, tramutando l’espressione annoiata con cui aveva risposto in una di sgomento.

«Un Classe Alfiere!? Avete allertato i gruppi d’assalto?».

Passò un istante, e allo sgomento si sostituì la rabbia.

«Come sarebbe a dire che non ce ne sono?» tuonò scattando in piedi e rovesciando senza volerlo il secchiello di mentine appoggiato sulle gambe «Trovatene qualcuno, dannazione. Io vengo subito. Intanto avvisate il Direttore.».

Mentre infilava in tutta fretta la giacca e usciva di casa, il Capitano non riuscì a non trovare la cosa, se non strana, quantomeno preoccupante.

Un’EDA di Classe Alfiere nel bel mezzo di un luogo notoriamente sempre molto affollato in un giorno festivo; la combinazione perfetta per una tragedia.

 

 

Note dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Ora le cose iniziano a farsi serie.

Avevo in mente di passare subito allo scontro tra il TMD (sì, ha cambiato nome) e l’EDA, ma poi ho pensato a questo breve intermezzo su Vyce, tanto più che essendo uno dei due protagonisti ho pensato meritasse qualche annotazione in più sul suo carattere e la sua personalità.

A questo proposito, appunto, ho deciso di sostituire il termine Sorcerer con il più classico Magician; questo perché la traduzione più corretta Sorcerer è fattucchiere, mentre invece ne volevo uno che indicasse propriamente il mago inteso come colui che lancia incantesimi.

Nel prossimo capitolo, un po’ di vera azione stile SWAT.

A presto!^_^

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Capitolo 8
*** 6 ***


6

 

 

Al calare della sera, le luci elettriche dei fari della polizia illuminavano i cieli del Fantasy Castle al posto degli abituali fuochi d’artificio della domenica.

Tutti gli ingressi del parco erano stati bloccati, e l’odore nauseabondo dell’kriloetanolo disperso lungo il perimetro per costringere l’EDA all’interno impestava l’aria peggio di una pila di corpi in decomposizione.

Nessuno osava tentare l’irruzione; un’EDA di classe Alfiere era più di quanto chiunque, ad eccezione ovviamente dei TMD, avesse il coraggio di affrontare.

L’allarme lanciato preventivamente aveva permesso l’evacuazione del parco, ma poco dopo essere arrivati sul posto Madison e la sua squadra erano stati informati dalla polizia che un gruppo di persone, in tutto poco più di una decina, non avevano fatto in tempo a raggiungere le uscite, ed erano ora barricate nel ristorante vicino alle montagne russe, proprio al centro della struttura, lontani da qualsiasi salvezza.

Era la materializzazione di un incubo. Un gruppo di civili in trappola e in balia di un EDA che poteva stanarli e mangiarseli, letteralmente, in qualsiasi momento.

Anche se la reale entità della potenziale catastrofe non era ancora arrivata ai giornalisti, le varie troupe accorse come mosche sul miele si erano rese conto dall’ingente dispiegamento di forze e dall’arrivo dei reparti speciali che la situazione doveva essere davvero molto seria, e seguitavano a portare avanti le loro edizioni straordinarie in attesa dell’evolversi degli eventi.

Nel campo provvisorio allestito all’entrata del parco, davanti allo sfavillante castello delle fiabe che faceva da arco d’ingresso, Madison e i suoi attendevano l’autorizzazione ad entrare in azione per liberare i civili. Di combattere non se ne parlava neppure; un Classe Alfiere non era roba per gruppi d’assalto o stregoni d’elite, a meno di non avere aspirazioni suicide.

Jake non sapeva come sentirsi, se in fibrillazione per il suo battesimo del fuoco o sconfortato per la consapevolezza che in ogni caso lo avrebbe vissuto stando in panchina.

Comunque, per quanto poco gratificante gli sembrasse, cercava di fare ciò per il quale era assegnato all’interno della squadra, e prima ancora che il furgone li sbarcasse sul teatro delle operazioni aveva iniziato a studiare le planimetrie del parco per preparare una eventuale irruzione.

Dato che nessuno aveva ancora idea di quale fosse la reale situazione nella zona a rischio, su ordine di Madison Dylan inviò un piccolo drone vespa comandato telepaticamente a fare un sopralluogo.

Quello che lui e i suoi compagni videro sul monitor fece loro gelare il sangue.

Oltre i cancelli, il luna park somigliava ad un campo battaglia subito dopo il termine dello scontro.

Regnava un silenzio spettrale, rotto solo dal rumore prodotto da cartacce e altro materiale che mosso dal vento rotolava sul selciato.

Tutto era desolazione e devastazione; ovunque si vedevano i segni del passaggio della marea umana nella corsa verso la salvezza, e se l’EDA, a sentire i testimoni, non aveva fatto in tempo ad assalire nessuno, ci aveva pensato la paura a fare le sue vittime, che ora giacevano inerti e senza vita, messaggeri di morte in un luogo che doveva essere invece terra di svago e divertimento.

Ma la cosa più orrenda era che l’EDA non aveva perso tempo per dare inizio al suo infernale banchetto, e come un predatore saprofago si era già avventato su alcuni dei cadaveri, dilaniandoli orribilmente e nutrendosi delle loro interiora.

Quello era l’unico metodo che il loro istinto gli suggeriva per impedire l’inevitabile disgregazione a cui in breve tempo andavano incontro tutti gli EDA; divorare qualsiasi creatura dotata di M-Code per assorbirne l’energia. Inoltre gli EDA per loro stessa natura erano attratti da tutto ciò che generava potere magico, e gli esseri umani, o i loro cadaveri, non facevano eccezione.

Madison e la sua squadra ormai si erano abituati a simili orrori, ma Jake dovette farsi forza per riuscire a non vomitare.

Vedere cose simili nelle simulazioni al computer e nelle istantanee proiettate a lezione non era neanche paragonare al trovarsi tutto quanto buttato in faccia. E ancora doveva vederlo con i suoi occhi.

Cercando di non pensarci, tornò a concentrarsi sul suo piano.

«Capitano.» disse dopo qualche minuto di riflessione «Forse c’è una soluzione».

Madison si affrettò a raggiungerlo, e così fecero anche molti degli altri, raggruppandosi attorno alla mappa tridimensionale del parco.

«Vedete questo punto?» disse Jake indicando quello che sembrava l’ingresso di una galleria proprio sotto l’arco d’ingresso «Il parco ha dei corridoi sotterranei di servizio per il personale che corrono lungo tutta la sua superficie. Se passiamo da lì, dovremmo poter raggiungere i civili e portarli in salvo senza grossi problemi.»

«Niente male.» osservò Shiffon «Sicuro e discreto.»

«Sento che c’è un ma in arrivo.» obiettò Dylan, sarcastico come sempre

«Il ma è che dall’uscita più vicina al ristorante ci sono comunque alcune decine di metri.»

«Dieci metri sono tanti con quell’EDA in giro.» osservò Ruth

«E al ritorno avremo i civili appresso.» disse Madison «Se l’EDA ci fiuta, ci verrà dietro fin dentro le gallerie.»

«È un rischio. Ma è anche l’unica alternativa che mi sento di suggerire. Gli ostaggi sono una decina, troppi per poterli evacuare dall’alto, e al momento non disponiamo di blindati con cui tentare un assalto diretto. Di affrontare l’EDA poi non se ne parla neanche,  visto che stiamo parlando di un classe alfiere».

I membri della squadra si consultarono con lo sguardo, poi un agente di polizia informò il capitano che il direttore Harlow voleva parlargli.

Madison si allontanò per rispondere alla telefonata, ma prima ancora che potesse parlare loro del piano per portare in salvo i civili gli fu ordinato di aspettare l’arrivo dei reparti d’assalto prima di procedere. Al comando erano troppo preoccupati della pericolosità di quell’ennesimo EDA, e non volevano correre il rischio di mandare una squadra al macello per recuperare poche decine di civili in una missione ad altissimo rischio.

L’ordine, pertanto, era di aspettare i due elementi dei reparti d’assalto richiamati al servizio e inviati dal quartier generale, che tuttavia non sarebbero arrivati prima di mezz’ora o più.

Ringhiando come una tigre in gabbia, il capitano tornò dai suoi per comunicargli le decisioni dei capoccia della torre, come era solito chiamarli, raccogliendo la stessa malcelata insoddisfazione.

«Che significa aspettare?» ringhiò Dylan «Cos’è, di punto in bianco hanno deciso che non valiamo nulla?

Anche senza una latta ambulante dei reparti d’assalto, mi pare che ce la siamo cavata egregiamente in situazioni peggiori di questa.»

«Vallo a spiegare a loro.» osservò mestamente Ruth

«Signore, con tutto il rispetto, è una follia.» disse rispettosamente ma fermamente Jake «Man mano che continua a nutrirsi dei cadaveri l’EDA diventa sempre più potente. Aspettare significherebbe solo peggiorare le cose, e rendere il salvataggio dei civili ancor più problematico».

Il capitano temporeggiò, guardando ora i suoi uomini ora la mappa tridimensionale del parco che ruotava lentamente su sé stessa davanti ai suoi occhi. Poi, decise di fare come aveva fatto molte altre volte.

«Al diavolo anche gli ordini!» sbraitò, e imbracciato il suo fucile corse verso l’arco d’ingresso «Andiamo!».

I suoi fedelissimi, gli unici autorizzati a seguirlo durante qualcuno dei suoi colpi di testa, lo seguirono.

«Ragazzo, tu dacci le indicazioni. Non voglio finire per perdermi là sotto.»

«Ci conti signore.» rispose Jake lasciandosi sfuggire un’espressione soddisfatta «La guiderò come se fossi accanto a lei».

 

Per trovare in tempo due membri dei reparti d’assalto che non avessero approfittato proprio di quella domenica per marcare visita nel modo più completo del termine, Vyce era stato costretto ad andarli a recuperare a Niichtar, nel vicino distretto di Taguar, e ora assieme a loro stava dirigendosi in elicottero verso il Fantasy Castle.

Il capitano se ne restava in silenzio, immerso nei suoi pensieri, ma di tanto in tanto gettava lo sguardo verso quei due ragazzi, Tanner e Doyle, seduti dirimpetto a lui, già rinchiusi all’interno delle loro armature metalliche, ingombranti ma necessarie sia per proteggerli sia per permettere loro di gestire l’enorme quantità di energia che erano costretti a maneggiare.

Accanto a loro, oltre agli elmetti, le loro armi, una specie di mastodontici cannoni a mano che al momento giusto avrebbero assicurato per mezzo di un cavo di alimentazione al generatore che portavano come una protuberanza della corazza dietro la schiena.

Vyce provava una certa soggezione a guardarli, tornando brevemente con la memoria al tempo in cui anche lui era solito vestirsi in quel modo. Ma si trattava di giorni lontani, prima che si rendesse conto come quella non fosse cosa per lui, e di come fosse molto più gratificante ed importante istruire i membri della squadra piuttosto che sedere in mezzo a loro.

«Capitano!» esclamò ad un certo punto uno dei due piloti togliendosi le cuffie «La squadra speciale al luna park ha fatto irruzione.»

«Che cosa!? Chi ha dato l’ordine?»

«Non lo so.»

«Muovetevi. Dobbiamo arrivare laggiù il prima possibile.»

«Sissignore.»

«Maledetta testa calda.» mugugnò tra sé Vyce pensando al suo vecchio mentore «Una ne pensa e cento ne fa».

 

Le gallerie di servizio sotterraneo erano un vero labirinto, un dedalo inestricabile di tunnel intasati in vari punti da attrezzature e materiale buttato lì e mai gettato via, o destinato ad usi sporadici come eventi speciali o feste a tema.

C’erano anche delle stanze usate come sgabuzzini, e alcune luci non funzionavano o andavano a intermittenza.

«Questo posto è un vero letamaio.» commentò Shiffon, che oltretutto con la sua altezza ciclopica rischiava continuamente di battere la testa sulle tubature.

«Prendete il corridoio tredici.» disse Jake guidandoli dalla superficie «Vi condurrà all’uscita giusta».

La squadra obbedì, ma fatti pochi passi la trasmissione cominciò ad essere disturbata, con la voce di Jake che si faceva sempre più distorta.

«Che succede? Non si sente più nulla.» disse Madison cercando di combattere l’effetto nebbia

«Lo so, sto cercando di capire. Aspetti un attimo».

A Jake bastò una rapida occhiata sulla mappa tridimensionale del parco per capire quale fosse il problema.

«C’è un’antenna con ripetitore per la diffusione di energia sul tetto del ristorante. Probabilmente si è guastata, e ora disturba le comunicazioni.

È probabile che una volta entrati all’interno del suo campo perderemo del tutto il segnale.»

«Ottimo. Come se non avessimo già abbastanza problemi. D’accordo, resta in contatto. Ci faremo risentire appena potremo».

Madison e il resto della squadra risalirono lungo la scala a pioli al termine del corridoio, e giunti davanti alla porta d’uscita si guardarono un momento tra loro, scambiandosi un cenno d’intesa, quindi Dylan l’aprì lentamente e tutti uscirono all’esterno.

Il parco era in uno stato pietoso.

Dal vivo era anche peggio: danni ovunque, segni evidenti del panico prodotto dalla paura, luci spente o danneggiate, e ovunque corpi senza vita di chi non ce l’aveva fatta ad andarsene in tempo o era stato travolto dalla folla.

«Jake, mi ricevi?» provò Madison alla radio, rendendosi però conto che la linea era effettivamente saltata a causa delle interferenze.

Dell’EDA, fortunatamente, nessuna traccia. In silenzio e con la massima circospezione, coprendo le spalle l’un l’altro, Madison e i suoi arrivarono al ristorante, trovando però la porta sprangata. Dovettero quindi lanciare dei rampini arrampicandosi lungo il muro ed entrare da un lucernario direttamente nella sala da pranzo.

«Calmatevi.» si affrettò a dire il capitano ai civili terrorizzati «Siamo del TMD. Siamo venuti a portarvi in salvo».

In tutto c’erano due uomini, quattro donne, di cui una abbastanza anziana, due bambini tra i sei e i dieci anni e un adolescente. Il vero problema, però, era un bambino di neanche due anni, che a detta dei superstiti da che era cominciato il putiferio non la smetteva un momento di piangere.

«E adesso che facciamo, capitano?» domandò Dylan quando la squadra si fu appartata per decidere il da farsi «Con tutto questo strillare è un miracolo che l’EDA non li abbia già stanati e massacrati. Portare fuori quel moccioso sarebbe come disegnarsi un bersaglio in fronte.»

«Non possiamo certo lasciarli qui.» disse Ruth «Di sicuro non dopo tutta la fatica fatta per arrivare».

Il frignare senza sosta del bambino non faceva altro che aggiungere tensione e stress ad una situazione che ne aveva già in abbondanza, ma grazie al cielo dopo qualche attimo quella piccola peste decise che ne aveva abbastanza e si calmò, addormentandosi esausto tra le braccia della madre.

«Meno male.» sospirò Shiffon «Per un attimo ho pensato che volesse andare avanti fino a domani mattina.»

«Dobbiamo approfittarne adesso. Ora o mai più. Se riusciamo a portarli nelle gallerie è fatta».

Si trattava di fare una volata. I genitori furono invitati a prendere in braccio i bambini più piccoli, e appena Shiffon e Dylan ebbero sgombrato l’ingresso il gruppo prese la via del ritorno, sempre cercando di fare il minor rumore possibile.

I civili erano terrorizzati, e lo furono ancora di più nel vedere quello che restava dei corpi dilaniati dall’EDA; non sarebbe occorso molto, con tutta quella missione e quello spettacolo orripilante davanti agli occhi, prima che a qualcuno saltassero i nervi, e Madison cercò per quanto possibile di affrettare il passo.

Sembrava stesse andando tutto liscio, ma proprio quando mancavano pochi metri per raggiungere il passaggio sotterraneo l’EDA avvertì il rumore di passi con il suo udito finissimo e raggiunse di gran lena i fuggitivi, afferrando nella corsa un cavallino da giostra e scagliandolo contro il gruppo come bambino lancerebbe un sasso nello stagno.

«Attenti!» gridò Ruth accorgendosi del pericolo.

Fortunatamente Shiffon fece in tempo a lanciare via due donne prima che venissero investite, ma ormai erano stati scoperti, e l’EDA, distante una decina di metri, li stava già puntando. La sua faccia incerata e quel grosso naso rosso, che nella trasformazione si era praticamente fuso con il resto del vivo, lo rendevano spaventoso, e i bambini piansero nel vederlo comparire.

«Avete… paura… dei clown?» continuava a ripetere senza sosta con voce gracchiante e acuta, quasi inumana.

«Maledizione!» imprecò Shiffon «Ce l’avevamo quasi fatta!»

«Ruth! Porta i civili fuori da qui! Noi ti copriremo!»

«Ma, signore…» tentò di dire la giovane donna

«Avanti, non discutere!».

Madison infilò una granata nel suo fucile e sparò. L’EDA la intercettò a mezz’aria, schiacciandola nella sua possente mano come fosse stata una mosca fastidiosa, e anche se praticamente gli esplose addosso non ne subì alcun danno apparente. Nel tempo che impiegò a rigenerare le sue ferite, però, il capitano, Shiffon e Dylan lo avevano già circondato.

«Muoviti!» ordinò ancora Madison

«D’accordo.» si risolse infine Ruth «Mi raccomando, resistete! Tornerò quanto prima!».

Ruth se ne andò portando i civili al sicuro, e i tre rimasero da soli.

Scappare non era un’opzione. Ora che l’EDA li aveva puntati, li avrebbe inseguiti anche in capo al mondo, ed era troppo pericoloso per lasciare che uscisse dal luna park.

«Avanti, bello.» disse Dylan «Fammi vedere di che cosa sei capace».

L’EDA si concentrò subito su di lui, forse perché tra tutti era quello con le capacità magiche più sviluppate, e gli bastò agitare un braccio per provocare un violento spostamento d’aria in direzione dell’agente, così forte da incrinare le mattonelle del selciato e agitare furiosamente le fronde degli alberi circostanti.

«Flash Move!» sentenziò Dylan, che come una scheggia prese a muoversi rapidissimo da una parte all’altra evitando tutte le bombe di vento lanciate in successione.

Madison ne approfittò per svuotare un intero caricatore sul nemico, ma quella bestia era decisamente troppo potente perché i proiettili, per quanto speciali, potessero fargli qualcosa.

L’unico che poteva avere qualche speranza in più era Dylan, ma la fortuna decise improvvisamente di voltargli le spalle quando la sua fuga da una parte all’altra venne infine bloccata da una bomba d’aria che lo centrò in pieno scagliandolo via; se non fosse stato per la corazza che indossava e che assorbiva in parte l’effetto degli incantesimi, quasi sicuramente quel colpo gli avrebbe fatto esplodere il ventre.

«Maledetta… bestiaccia.» mugolò cercando di rialzarsi.

L’unica cosa da fare era cercare di guadagnare tempo, e restare vivi fino all’arrivo delle truppe d’assalto.

 

All’esterno, Jake stava diventando nervoso.

Il tempo passava, e il capitano non si faceva risentire. Per colpa di quella maledetta antenna non poteva contattarli finché restavano in superficie, e ci voleva troppo tempo per installare un attenuatore o cercare di forzare il segnale.

«Capitano?» continuava a dire alla radio «Signore, mi risponda».

Poi, erano cominciati a risuonare colpi d’arma da fuoco e ad intravedersi strani bagliori, e la semplice ansia si era fatta preoccupazione.

Dopo qualche minuto da che era cominciato il putiferio, Jake e le squadre speciali videro Ruth sbucare fuori dall’interno dell’arco d’ingresso alla testa di un gruppetto di civili malconci e terrorizzati che furono subito affidati ai paramedici.

«Dove accidenti sono quei maledetti gruppi d’assalto?» sbraitò la ragazza all’indirizzo del soldato più vicino «Il capitano e gli altri stanno vedendosela con l’EDA!»

«Li stiamo ancora aspettando.» tentò di spiegare il poveretto

«Che si sbrighino, per Dio!».

Senza pensarci troppo su Ruth girò i tacchi e tornò indietro accompagnata da un paio degli altri membri più giovani della squadra, gli unici temerari abbastanza coraggiosi o pazzi da volerla seguire, ma fatti pochi passi si fermò girandosi verso Jake.

«Hai intenzione di restartene lì imbambolato ancora per molto? Muoviti!».

Jake dapprincipio non seppe cosa fare o che pensare, ma poi la sua determinazione prevalse e si accodò al gruppo.

Quando raggiunsero nuovamente gli altri membri della squadra, Madison, Dylan e Shiffon erano impantanati in una situazione a dir poco complicata. Quell’EDA classe Alfiere era così resistente e testardo da incassare senza difficoltà qualsiasi colpo gli venisse scagliato contro, e ormai i tre TMD cominciavano a sentire il peso della stanchezza, soprattutto Dylan.

L’EDA poi si era reso chiaramente conto del potenziale del rosso, concentrandosi prevalentemente su di lui, e questo aveva costretto Dylan ad un continuo mordi e fuggi che aveva in breve prosciugato le sue energie.

Rischiava di essere una situazione senza uscita.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Lo so, è un ritardo a dir poco osceno, ma prima la frenesia e i mille impegni delle vacanze di pasqua, e subito dopo il trantran burocratico per il tirocinio universitario che ho incominciato lunedì, hanno limitato ai minimi storici il mio tempo libero.

Ho dovuto scrivere nei momenti più impensabili della giornata, e finalmente sono riuscito ad aggiornare.

Allora, che ve ne pare?

Questo è il primo capitolo d’azione di tutta la storia. Alcuni dicono che siano quelli che mi riescono meglio, ma vero è che non ne sono mai del tutto soddisfatto. Anche il prossimo avrà un incipit rocambolesco che chiuderà la vicenda iniziata qui, per poi tornare su toni molto più distesi.

Spero di non aver perduto nel frattempo tutti i miei lettori.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 9
*** 7 ***


7

 

 

Dylan era il più esausto di tutti.

Usare la magia richiedeva uno sforzo fisico e psicologico notevole, che e prolungato poteva portare a pesanti conseguenze per l’organismo. Era come essere impegnati in una maratona.

In quanto TMD e membro del reparto operativo Dylan poteva vantare resistenza e potenzialità superiori a quelle dei suoi compagni, ma anche lui aveva i suoi limiti.

Su sufficiente una disattenzione di troppo, dettata dalla stanchezza e dal fiato corto, e l’EDA gli saltò addosso investendolo come una manata che in teoria avrebbe dovuto staccargli la testa dal corpo tanto fu potente. Ancora una volta, il rosso fu salvato dal basic life support in dotazione al suo equipaggiamento, che percependo la minaccia lo avvolse all’ultimo secondo in una barriera difensiva salvandogli la vita.

Nonostante ciò Dylan fu comunque scagliato via come una pietra, rovinando malamente sul selciato e procurandosi una leggera lussazione ad una spalla. Sarebbe stato sicuramente travolto dalla carica dirompente del mostro, se l’intervento provvidenziale di Jake con l’evocazione dello Schild Süden che sbarrò la strada all’EDA lasciandolo anche tramortito dal violento impatto.

«Non mi pare il momento di riposare sul lavoro.» disse Aulas ironico arrivandogli appresso ed aiutandolo a rialzarsi «Tutto bene?»

«Sopravvivrò.» tagliò corto Dylan minimizzando.

L’EDA accusò pesantemente la tremenda batosta contro il muro di luce comparsogli davanti, barcollando per alcuni secondi, quel tanto che bastava per consentire a Shiffon di approfittarne.

«Fatti un goccio, bastardo!» strillò arrivandogli sotto e inondandolo con lo spruzzatore collegato alle bombole di kryloetanolo che aveva dietro la schiena.

Anche Jake non perse l’attimo. Recuperato dalla cintura un fumogeno di segnalazione, lo accese e lo lanciò addosso al mostro, che coperto di kryloetanolo si tramutò in una torcia vivente coperta di fiamme azzurre che scaldavano e bruciavano il doppio del fuoco normale.

Quel poveraccio prese ad urlare come un dannato, dimenandosi e correndo in ogni direzione nel tentativo di spegnersi, e per un attimo sembrò quasi che la squadra potesse incredibilmente avere la meglio.

Ma quello era pur sempre un Classe Alfiere, e contro una simile bestia c’era poco che le armi convenzionali potessero fare. Pur indebolito e avvolto dalle fiamme, l’EDA mostrò di essere ancora pericoloso, riuscendo a concentrare tutte le fiamme che aveva addosso nel palmo della mano per poi scagliarle violentemente contro Madison e i suoi.

L’attacco per fortuna andò a vuoto, ma produsse una poderosa vampata rovente che li scagliò tutti a terra lasciandoli indifesi.

Inutile girarci attorno, pensò Jake vedendo i suoi compagni faticare a rialzarsi; un nemico di quel livello era troppo per loro.

Poteva andare a finire molto male, anche perché ora l’EDA era davvero infuriato, e la comparsa tanto sospirata dei due elementi dei Gruppi d’Assalto fu quanto mai provvidenziale a salvare la vita ai loro compagni.

«Magma Rage!» ordinò Tanner, e dal suo cannone portatile si generò un flusso vermiglio che investì l’EDA con la forza di un treno in corsa scagliandolo contro una vicina parete, che a sua volta finì in polvere per la potenza del colpo.

Contemporaneamente, Doyle comparve quasi dal nulla alle spalle del gruppo, avvolgendoli in una piacevole brezza che restituì loro un po’ di forze.

«Avevate bisogno di una mano?» disse scherzosamente

«Era ora, finalmente.» commentò Ruth «Ve la siete presa comoda.»

«Sai com’è, era domenica».

L’EDA, ferito ma non domo, tentò di reagire, ma contro i generatori al krylium in dotazione ai Reparti d’Assalto non c’era sfida.

Doyle, che era portato per la magia contenitiva e di supporto, immobilizzò sul nascere la reazione del mostro rinchiudendolo in una gabbia di luce, dando al suo amico Tanner tutto il tempo necessario per metterlo al centro del mirino.

«Cammino tra la Luce ed il Buio.» prese a salmodiare l’agente rimuovendo la sicura alla sua arma, mentre tutto attorno a lui si sprigionavano scintille di luce e le bobine del fucile iniziavano a girare allo spasimo «Sfido lo Spazio ed il Tempo. Sono il Dio della Morte che viene a prendere la tua anima».

Come videro comparire davanti al cannone un cerchio magico ridondante di energia, Madison e i suoi si gettarono immediatamente a terra coprendosi la testa; Jake esitò un momento, meravigliato da una tale capacità nella stregoneria, poi fece altrettanto.

«Aufreinigung!».

Il cerchio generò una nuova onda incandescente, questa volta dal colore arancio tramonto, talmente potente da sventrare il selciato sotto di sé e sradicare gli alberi più sottili nel raggio di dieci metri.

«Avete paura dei clown?» ripeté un’ultima volta l’EDA prima di finire incenerito.

A quel punto, era davvero finita, e a Tanner non restò altro da fare che aprire gli sfiatatoi dell’arma per raffreddarla e fare uscire l’energia in eccesso, poi sia lui che Doyle poterono togliersi l’elmo.

«Non c’è che dire, capitano.» disse Tanner, che ben conosceva il naturale modo d’agire di Madison «Lei ha un talento naturale per cacciarsi nei guai. Spero che ci offrirà almeno un drink per esserle venuti appresso la domenica sera.»

«Ma anche un paio, se non basta.» replicò divertito Madison «Dopotutto, ci avete appena salvato il didietro».

 

Passata la tempesta, fu il momento di contare i danni.

Ringraziando il cielo non era andata così male come ci si aspettava inizialmente, almeno sotto il profilo delle vittime.

«Questo è quanto.» disse uno degli agenti di polizia facendo rapporto a Vyce «Tredici morti e settantadue feriti, di cui per fortuna solo quattro in gravi condizioni.

Meno male che i civili rimasti intrappolati nel parco sono riusciti ad uscire incolumi, o il bilancio avrebbe potuto essere anche peggiore».

Madison e la sua squadra ne erano usciti quasi incolumi, fatta salva qualche contusione non troppo grave. Il capitano si era appena liberato dei paramedici che insistevano per medicarlo, che il suo vecchio apprendista, e ormai suo superiore, gli si fece incontro con aria a dir poco contrariata.

Stava per ricominciare la solita tiritera.

«Siamo alle solite.» esordì Vyce «Alle volte mi sentirei più tranquillo a mettere un bambino a capo della squadra.»

«Ciao ragazzo, anch’io sono felice di vederti.» ironizzò Madison

«Stavate per lasciarci la pelle. Tu e la tua squadra.»

«Ma sono tutti salvi. E anche i civili.»

«Hai messo in pericolo Jake.» soffiò Vyce trattenendo la collera «Non te l’ho affidato perché tu lo coinvolga nelle tue bravate da kamikaze.»

«E allora per quale motivo, se posso chiedere?».

Vyce avrebbe voluto mettersi a gridare.

Ogni volta era la stessa storia.

Poteva anche essere diventato il suo superiore, ma di fatto era come se fossero ancora maestro e allievo. Già Madison era una testa calda di suo, e nonostante tutto non c’era verso per Vyce di riuscire a farsi valere con lui.

«Voglio un rapporto dettagliato domani mattina nel mio studio.» tagliò corto con l’evidente volontà d chiuderla il prima possibile «E fossi in te mi preparerei a pagare una bella ammenda.»

«Serviti pure. Il numero di conto ormai dovresti conoscerlo a memoria.»

«Và al diavolo».

Malgrado fosse ancora scosso dai postumi della sua prima esperienza sul campo, Jake non mancò di restare sorpreso.

«Non posso crederci. Ero convinto che come minimo ci avrebbero dato gli arresti di punizione.»

«Ragazzo, c’è una cosa che il capitano ha imparato fin troppo bene.» gli disse Shiffon «E cioè che nel TMD, se si vuole ad ogni costo disobbedire agli ordini è sempre meglio avere la certezza di stare facendo la cosa giusta.»

«E di essere pronti a farsene carico.» precisò Ruth.

Solo in futuro Jake avrebbe compreso sul serio il significato di quelle parole.

 

«Non è andata esattamente come speravamo.» commentò Percival spegnendo il televisore del salotto

«Cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno.» rispose Lancillotto «Poteva andare peggio. Nel timore che qualcuno potesse vederlo il mio uomo ha fatto le cose abbastanza di fretta. Comunque, devo ammettere che non avrei mai immaginato che potesse venirne fuori un Classe Alfiere.»

«Che ti aspettavi?» disse il suo amico passandogli una birra «Con tutte le cianfrusaglie e le trappole magiche fatte in casa da ingegneri improvvisati, non sai mai cosa può capitare.

Probabilmente sarebbe successo comunque prima o poi.»

«Hai ragione. Dopotutto, è anche a questo che ci opponiamo. E Owain ha trovato il modo per far sì che tutti siano costretti a capirlo.

Dobbiamo ammetterlo. Checché ne dica Tristano, quel ragazzo sa quello che vuole».

Percival si fermò un attimo prima di poggiare le labbra sul beccuccio e guardò Lancillotto a metà tra la complicità e lo stupore.

«Quindi tu credi che mirasse proprio a questo?»

«La società di questo pianeta è come un castello costruito sul fango. Se vai a incrinare le fondamenta, prima o poi il tutto viene giù. E le fondamenta in questo caso sono l’opinione pubblica e i media.»

«Ma alla MAB potrebbero scoprire che si è trattato di un sabotaggio.»

«Forse.» disse Owain comparendo nella stanza e facendo saltare un momento sul posto i due compagni «Ma anche se fosse, non lo ammetterebbero mai.»

«Vuoi farci morire di paura per caso?» domandò Lancillotto

«In certi casi è molto più semplice parlare di incidente senza addossare colpe che rivelare la verità e fare la figura degli ingenui. E poi, come avete detto voi, visto il mondo in cui viviamo è molto più facile credere ad un incidente che ad un sabotaggio o un attentato.»

«Perché ho il sospetto che la cosa non ti dispiaccia?» ironizzò Percival

«Perché un incidente, se ben orchestrato, in questi casi può fare molto più rumore di qualsiasi bomba o dichiarazione pubblica.

Capirete presto di che sto parlando».

 

Non servì molto tempo perché le parole di Owain iniziassero ad acquisire senso.

Appena poche ore dopo, la notizia di quanto accaduto a Fantasy Castle, rimbalzata attraverso la rete e i canali televisivi, aveva già fatto il giro del pianeta.

Che si verificassero incidenti più o meno seri era un fatto a cui ormai la gente ci stava quasi facendo l’abitudine, eppure ogni volta era come andare a toccare un nervo scoperto. Oltretutto, stavolta c’era di mezzo un posto da sempre ritenuto sicuro, un ritrovo per le famiglie, ma soprattutto dove c’erano tanti bambini.

Fino a che si trattava di fabbriche, impianti industriali o strutture militari era un conto, ma in un luogo di divertimento nessuno si aspetterebbe di veder accadere una cosa del genere.

La gente era preoccupata, e il risalto mediatico dato all’evento non aiutava a calmare gli animi.

Nei giorni che seguirono fu necessaria una decisa pressione sui media da parte delle forze di polizia e della stessa MAB per far sì che le acque iniziassero timidamente a calmarsi, ma la sensazione predominante, anche tra le stesse forze dell’ordine, era che se le cose fossero continuate così arrestare la marea sarebbe diventato sempre più difficile, se non impossibile.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Come avete notato stavolta si tratta di un capitolo piuttosto breve, di transizione per così dire.

Da qui in poi infatti inizierà un nuovo arco narrativo, quindi ho ritenuto giusto chiudere in maniera netta la questione legata all’EDA di Fantasy Castle per poi passare ad altro con un nuovo capitolo.

Ringrazio come sempre tutti coloro che leggono e recensiscono, invitando coloro che volessero conoscere maggiori dettagli inerenti alla trama, o anche solo leggere i capitoli riveduti e corretti dalla mia bravissima e disponibilissima beta, a fare un salto sulla mia pagina facebook o il mio blog.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 10
*** 8 ***


8

 

 

Carmy arrivò alla stazione centrale di Kyrador poco dopo le undici del mattino, un’ora prima dell’orario concordato, e dopo aver dato uno sguardo alle tabelle degli arrivi nel salone principale si accomodò in sala d’aspetto mettendosi in attesa.

La notizia era arrivata come un fulmine a ciel sereno, sottoforma di un videomessaggio comparso da un momento all’altro nella sua casella personale.

Sua madre Morea stava arrivando in città per una commissione e aveva bisogno di qualcuno che le facesse da guida.

Carmy si era sentita mancare quando l’aveva saputo. Erano ormai otto mesi che lei e la sua famiglia non si vedevano, e non si poteva dire che il loro distacco fosse stato dei più pacifici.

Il fatto che sarebbe venuta solo sua madre un po’ la tranquillizzava, ma era sicura che in modo o nell’altro si sarebbe finito per parlare del momento in cui aveva scelto di andare per la sua strada incurante del parere e del veto dei genitori, che non volevano saperne di vedere la loro figlia arruolata in una istituzione che a loro non era mai andata particolarmente a genio.

Avrebbero litigato. Senza dubbio.

Per un attimo aveva ventilato l’idea di inventare una scusa, il che non sarebbe stato difficile, ma alla fine si era detta che sarebbe stato solo un modo per rimandare ulteriormente il problema. Così, si era presa un giorno di permesso e quella mattina, dopo una notte quasi insonne, si era recata mestamente alla fermata della metro.

I successivi trenta minuti furono tra i peggiori della sua vita, in cui l’attesa non faceva altro che aumentare l’ansia; neanche la maestosità e lo sfarzo della stazione, che pure l’aveva lasciata senza parole al suo primo arrivo nella grande città, riusciva a distoglierla dai suoi pensieri.

Cercò di pensare ad altro, magari al suo lavoro, ma fu proprio il pensiero del lavoro a spingerla a formulare la più terribile delle ipotesi.

Forse avevano scoperto la verità. Forse sapevano.

Già era stato difficile per suo padre accettare l’idea di avere una figlia arruolata nell’agenzia, e il solo pensiero di come avrebbe potuto reagire sapendola ora nella polizia militare fu sufficiente per indurre a Carmy un brivido che dalla testa le si propagò come una scarica elettrica in tutto il corpo.

Si sforzò di calmarsi, e di pensare positivo. Non potevano saperlo. Da che era entrata in polizia non aveva mai fatto parlare di sé, né si era messa in mostra in presenza di giornalisti o troupe televisive. E sicuramente, lei non si era mai lasciata sfuggire una parola con chiunque avesse potuto informare i suoi genitori, neanche con sua sorella Judith.

Judith.

Pensando a lei, Carmy riuscì finalmente a trovare un motivo per sorridere. Le mancava molto la sua adorata sorellina scalmanata e battagliera.

Ancora poco e avrebbe finito le elementari, ma nel suo caso la scuola di magia non era un’opzione; troppo basso il suo livello di potere, troppo poco sviluppato il suo codice genetico. I difetti di avere un solo genitore stregone.

«Il treno rapido da Midgral è in arrivo al binario undici.» la riscosse improvvisa la voce dell’altoparlante.

Era il suo treno.

Preso un respiro, e cercando di darsi un contegno, Carmy si diresse al binario indicato, e dopo che il treno si fu fermato prese a cercare con lo sguardo tra i passeggeri in arrivo la persona che stava aspettando.

In pochi attimi la sua attenzione fu catturata da una donna di bell’aspetto, capelli di un biondo paglierino piuttosto corti e lasciati cadere elegantemente fino alla base del collo, sguardo fermo ma gentile e un viso di forma vagamente ovale, con una punta leggera.

Non doveva essere più giovanissima, ma ciò nonostante conservava un indubbio fascino, dimostrando forse qualcosa di meno degli anni che doveva avere.

La giovane donna notò Carmy, facendole un cenno con la mano, e la ragazza, tratto un nuovo, profondo respiro, le andò incontro.

«Ciao, mamma.»

«Mi fa piacere rivederti, Carmy.» disse la donna dopo un attimo di silenzio.

Nonostante l’apparente gentilezza Carmy notò in quel semplice saluto un tono che lasciava trasparire qualcosa di strano, come un che di malcelato rimprovero. Da che le aveva messe al mondo Morea non aveva alzato la voce con nessuna delle sue figlie, ma questo non sminuiva per nulla il suo ruolo di madre, e quando voleva sapeva bene come far capire ad entrambe quanto fosse contrariata o delusa dal loro comportamento.

Per la prima volta in tutti quei mesi a Carmy venne da tirare un momento le somme del modo in cui si era comportata fino a quel momento.

Da che se ne era andata di casa i rapporti con i genitori, e con il padre in particolare, si erano quasi del tutto spenti, e anche se Morea aveva sempre mostrato una certa complicità nell’assecondare, o quantomeno nel prendere in considerazioni le aspirazioni della figlia maggiore era evidente dal suo sguardo che neanche lei era rimasta soddisfatta dalla piega presa dagli eventi.

«Allora, che cosa ti porta qui?» tentò di tagliare corto la ragazza

«Ero venuta per sbrigare una commissione.» rispose Morea con la stessa semplicità «Ma visto che il tempo non mi manca, pensavo di fare un giro per la città.»

«Un giro?» si preoccupò Carmy.

Qualcosa non quadrava, e non si sentiva tranquilla.

«Non ci vediamo da otto mesi, direi che la puoi dedicare qualche ora a tua madre».

Carmy conosceva sua madre abbastanza bene da sapere che era impossibile smuoverla da una sua decisione, quindi, mestamente, accettò di compiere quel piccolo sacrificio. Dentro di sé si stava convincendo sempre di più che quel viaggio avesse un solo scopo, e non voleva che la cosa durasse più del dovuto.

In ogni caso sapeva già come comportarsi. Nel momento in cui sua madre le avesse chiesto, probabilmente su mandato del marito, di tornare a casa, lei si sarebbe rifiutata, ribadendo gli stessi concetti espressi il giorno in cui aveva lasciato il villaggio: che era grande, libera di decidere, e che sapeva di stare facendo la cosa giusta.

«È un sacco di tempo che non mettevo piede a Kyrador.» disse Morea ritrovando il suo solito sorriso gentile «Ho proprio voglia di rivederla.

Allora, vogliamo andare?».

Appena uscite dalla stazione le due donne salirono sul primo taxi, che partì verso una non meglio precisata destinazione, con la sola indicazione per l’autista di dirigersi verso il centro.

«Che spettacolo.» disse Morea guardando oltre il finestrino mentre percorrevano la circonvallazione che girava tutto attorno ai quartieri principali «Questa città è cambiata davvero molto rispetto all’ultima volta.»

«Non sapevo fossi già stata a Kyrador.» disse Carmy come a voler smorzare la tensione che lei sola sembrava percepire

«Ho vissuto qui per sei mesi durante l’università. È stato per il mio praticantato di medicina. Parliamo di oltre vent’anni fa. A quell’epoca, chi si sarebbe mai aspettato che un giorno sarei stata madre di due splendide ragazze?».

Carmy arrivò a ipotizzare che quella frase all’apparenza così innocua nascondesse in realtà un silenzioso rimprovero, il che non mancò di metterla ancora di più sotto pressione; a differenza di sua madre, infatti, lei non era stata disposta a dare un calcio alle sue aspirazioni, anche se era significato andare contro la sua famiglia.

Di nuovo, tentò di virare su un discorso più tranquillo.

«Allora? Dove vuoi andare?»

«A dire il vero non lo so. Perché intanto non mi fai vedere dove lavori?».

Carmy saltò sul posto.

«Come, scusa?»

«Ma sì, dai. Sono curiosa. Come segretaria del procuratore distrettuale avrai molto da fare. Inoltre, ho sentito che il procuratore è una bravissima persona. Mi piacerebbe conoscerlo.»

«Mamma, credevo che tu e papà non amaste la MAB.»

«È pur sempre il capo di mia figlia. Papà non lo saprà mai, tranquilla».

Nei pochi secondi che ebbe a disposizione la ragazza cercò di inventare la scusa più credibile.

«Il fatto è che il procuratore non c’è.» disse tutto d’un fiato e quasi gridando

«Ah no?»

«No. È dovuto partire proprio ieri per seguire un caso in Lisitria

«In Lisitria? Credevo che l’isola fosse al di fuori della giurisdizione di Kyrador

«È per un caso a cui ha lavorato tempo fa. Una faccenda intricata, che coinvolge più distretti».

Era la scusa più pietosa e risibile che si potesse immaginare, eppure Morea parve cascarci e non insistette.

«Capisco. È per questo che ti è stato così facile ottenere un giorno di permesso».

In realtà era stato un vero ricatto. Per avere quel giorno libero senza accumulare lavoro extra era stata costretta a chiedere a Cane di fare gli straordinari, e quello sfruttatore in cambio aveva preteso la stessa cosa il successivo finesettimana per andarsene al mare con la sua ultima fidanzata.

«Ho un’idea.» disse Carmy «Ti porto in uno dei miei posti preferiti. Sono sicura che già lo conosci».

Il posto preferito di Carmy era una grande via pedonale a due passi dal centro, una vera isola di tranquillità e relax nel cuore caotico e sovraffollato della capitale. Non a caso, molti impiegati degli uffici tutto attorno e semplici cittadini erano soliti spendervi la propria pausa pranzo o farvi brevi passeggiate, e quel pomeriggio, complice il bel tempo, c’era anche più gente del solito.

«La via di Saint Augustine.» disse Morea scendendo dal taxi «Quanti pomeriggi ho passato qui a studiare seduta ad una di queste panchine.»

«Ero sicura che ti sarebbe piaciuta. Ogni tanto mi capita di venire qui con amici e colleghi a rilassarmi dopo il lavoro.»

«Kyrador sarà anche cambiata, ma invece questo posto è rimasto esattamente come lo ricordavo.»

«Allora, che ne dici? Andiamo a fare un giro?».

Camminarono per un po’ lasciandosi trasportare dalla quiete del luogo e fermandosi di quando in quando ad ammirare le vetrine di alcune delle numerose sartorie e gioiellerie che si affacciavano sul viale principale, poi, sul fare delle due, si accomodarono ad un dei tavolini esterni di una caffetteria per consumare un breve pasto.

«Finalmente.» disse Morea quando il cameriere le mise davanti i dolcetti al pan di zucchero a forma di rosa che aveva ordinato come dessert «Quanto mi erano mancati.»

«Ti piacciono così tanto le rose fiorite?» domandò Carmy

«Non sai quanto. Da noi al villaggio ce ne sono pochissime, e quelle che servono alla caffetteria dell’ospedale poi sono del tutto immangiabili. Bisogna dirlo, qui a Kyrador non ti fanno mancare proprio nulla».

Malgrado si fosse apparentemente un po’ calmata, Carmy era ancora sulle spine.

Non riusciva a capire il perché di tutto quel tentennamento, né perché sua madre stesse temporeggiando tanto nel fare ciò per il quale, secondo lei, era venuta.

Era sempre stata una persona un po’ con la testa fra le nuvole, a volte più bambina delle sue stesse figlie, ma aveva un talento naturale per andare sempre al cuore del problema in una qualsiasi discussione, pertanto Carmy non riusciva a spiegarsi per quale motivo si stesse temporeggiando tanto.

Forse si sbagliava.

Forse non era per rimproverarla o per convincerla a tornare a casa che sua madre si era fatta tutte quelle ore di treno.

Ma se era così, la ragazza non riusciva ad immaginare quale altro motivo ci potesse essere, soprattutto se pensava a quanto Morea detestasse allontanarsi dalla quiete del suo paesello e del suo piccolo ospedale di campagna.

Avrebbe voluto andare diretta al sodo, mettere la madre con le spalle al muro e farsi dire in modo chiaro e diretto cosa ci fosse venuta a fare a Kyrador, ma qualcosa dentro di lei le impediva da farlo.

Non ricordava neppure l’ultima volta che avevano passato la giornata insieme, sia come donne che come madre e figlia, e una parte di lei non voleva rovinare quel momento così piacevole.

C’era un bel sole, l’aria non era troppo fredda, tirava un vento piacevole, ed erano l’una accanto all’altra in uno dei posti più belli della città, a mangiare dolci e parlare delle cose più svariate, nessuna delle quali si avvicinava neanche lontanamente a ciò che Carmy aveva temuto per giorni di sentirsi dire.

«E allora, come sta il papà?» arrivò a domandare ad un certo punto

«Abbastanza bene. La vita di un poliziotto di campagna può essere molto più complicata di quanto uno possa immaginare.»

«Ci sono stati problemi?»

«Non particolarmente. O almeno, escludendo quelli creati da lui. Lo sai com’è fatto. La sua pignoleria è quasi leggendaria. Per lui, se una cosa non è fatta bene, si può rifarla anche dieci volte.»

«È sempre stato un suo pregio.» commentò scherzosamente Carmy.

Mai avrebbe pensato di finire per tessere le lodi di suo padre.

Era spesso burbero e scontroso, e alle volte sapeva essere davvero insopportabile. Eppure Carmy gli aveva sempre voluto bene, perché era soprattutto grazie a lui e al suo senso del giusto se era maturato in lei il desiderio di proteggere e aiutare gli altri.

«Accidenti, quanto è tardi.» disse ad un certo punto Morea guardando l’orologio «Venendo qui si perde il senso del tempo.

Ho il treno di ritorno alle cinque, e devo ancora fare quella commissione.»

«Vuoi che ti accompagni?» chiese Carmy d’istinto, senza riflettere e senza esitare

«Non vedo perché no. Forza, sbrighiamoci. Se non ricordo male è anche parecchio lontano da qui».

 

Cane, ringraziando il cielo, non aveva mai dovuto subire l’umiliazione di un lavoro d’ufficio.

Era un uomo d’azione, non un impiegato, e l’unica cosa che gli capitava di fare quando era seduto alla sua scrivania era giocare al computer sorseggiando caffè. Al massimo ci pensava Lucas a redigere i rapporti per l’archivio.

Quando Carmy gli aveva chiesto di sostituirlo per quel giorno si era detto che era solo per poche ore, e che quel lavoro non sarebbe mai stato più difficile dello schivare pallottole in mezzo ad una sparatoria. E poi c’era la possibilità di avere il finesettimana libero.

Ma la verità era che il lavoro da scrivania era molto peggio di quello che si sarebbe aspettato. Bisognava redigere e ricontrollare rapporti, visionare riprese video, ascoltare e catalogare registrazioni di interrogatori, archiviare le prove e via dicendo.

Già al primo pomeriggio era allo stremo.

«Ma come fa Carmy a fare questo lavoro tutti i giorni?» domandò tra sé buttandosi con la testa sul banco «Io lo sto facendo da poche ore e sono già sull’orlo di una crisi isterica.»

«Lavorare non è sempre tutto rose e fiori.» commentò ironico Lucas

«Sta zitto, topo di biblioteca. Se sei tanto saccente e sicuro di te, perché non lo fai tu?»

«Scordatelo.» replicò Alexia «Lucas ha già i rapporti che tu gli scarichi addosso da finire di redigere. E poi direi che è quello che ti meriti, visto che in cambio di questo favore hai costretto quella poveretta a lavorare nel finesettimana della Festa dell’Istituzione.»

«Siete due veri amici.»

«Lo sappiamo.» risposero in coro gli interessati.

Cane doveva trovarsi qualcosa di diverso da fare, o sarebbe impazzito.

Casualmente, nel risollevare la testa, gli cadde l’occhio sul primo cassetto della scrivania, quello che Carmy aveva provveduto a bloccare montandoci una serratura, e allora la sua curiosità perversa prese il sopravvento.

«Signori, voltatevi.» disse ai suoi colleghi prendendo dalla tasca il suo fidato coltello multiuso

«Carmy ti ammazza se scopre che hai frugato tra le sue cose.» sospirò Lucas senza alzare gli occhi dal suo monitor

«Voi la vedete qua attorno, per caso?».

Per uno scassinatore come lui furono sufficienti pochi secondi per aprire una serratura tanto semplice, e il mondo segreto di Carmy gli comparve davanti agli occhi. Credeva di trovarci dentro chissà quali tesori nascosti, e invece, con sua stessa enorme sorpresa, c’era dentro solo un dossier.

«Capitano, guardi.» disse incredulo.

Alexia e Lucas si avvicinarono, e il capitano, incuriosita quanto il suo sottoposto, aprì il fascicolo.

«È una copia del dossier del tentato omicidio a Heaven’s Village.» disse Lucas «Il primo caso a cui ha lavorato.»

«Il giorno che si è unita alla squadra.» puntualizzò Cane.

Oltre alla documentazione nota, però, c’era anche dell’altro, qualcosa che Alexia non ricordava di aver inserito nel rapporto ufficiale. C’era anche la trascrizione di un interrogatorio, tutta spiegazzata e visibilmente logora, con diversi punti evidenziati, dati clinici e analisi chimiche, più foto della scena del crimine scattate all’apparenza in un momento successivo al primo sopralluogo.

«Un punto all’intraprendenza.» sorrise Lucas.

Ad Alexia bastò una telefonata alla sua amica Sasha che lavorava al laboratorio del primo piano per avere la conferma che Carmy era stata lì qualche settimane prima a richiedere l’analisi di alcuni campioni.

«Ma che cosa si è messa in testa?» domandò tra sé e sé, iniziando subito a contare i secondi che mancavano al momento in cui glielo avrebbe chiesto di persona.

 

 

Nota dell’Autore

Rieccomi!

In questo ponte del primo maggio torno con un nuovo capitolo.

Ora la situazione và chiaramente delineandosi, e nei prossimi capitoli emergeranno sempre più particolari in vista del prossimo evento “catastrofico” che avverrà di qui a breve.

Questo, come avete notato, è stato un capitolo abbastanza distensivo, come avevo promesso, e altrettanto dovrebbe esserlo il prossimo. Un po’ di azione ritornerà in quello successivo, anche se per il sopracitato “botto” ci vorrà ancora un po’.

A presto!^_^

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Capitolo 11
*** 9 ***


9

 

 

«E sarebbe questo il posto dove dovevi andare?» disse Carmy incredula.

Il taxi, dalla via di Saint Augustine, su indicazione di Morea le aveva portate direttamente all’ingresso del palazzetto dello sport, il tempio mondiale del chandra.

Carmy l’aveva sempre visto solo da lontano, anche dalla finestra del suo ufficio, ma ora che vi era sotto riusciva a comprenderne sul serio la reale imponenza. Sembrava una grande astronave, un disco volante piacevolmente adagiato sulla sommità di una delle colline della città, luccicante di bianco, con alti pennoni che si stagliavano verso l’alto dominando, oltre all’edificio, anche il piazzale circostante, delimitato da un’alta recinzione e coperto interamente da aree verdi e ritrovi per le famiglie.

Malgrado non fosse il finesettimana c’era parecchia gente, soprattutto ragazzi e giovanissimi, cosa che non colpiva più di tanto visto il fascino che il chandra esercitava sulle giovani generazioni.

«C’è un’apertura al pubblico.» lesse Carmy sul cartello all’ingresso

«Sembra interessante.» disse Morea già sovreccitata «Andiamo a dare un’occhiata.»

«Aspetta, ma non eri qui per fare una commissione?» tentò di protestare la ragazza, ma ormai sua madre si era già aggregata al prossimo gruppo in entrata «Incredibile. A volte mi sento io sua madre».

 

Essendo la nazione dove il chandra era nato ormai quasi cinquant’anni prima, Caldesia era anche il luogo dove era possibile ammirare le ultime novità tecnologiche destinate ad incrementare il livello e le potenzialità di quello che era ormai considerato uno sport.

Tra dilettanti e professionisti iscritti ad una palestra o affiliati ad una squadra si contavano oltre trenta milioni di partecipanti, e i campionati, a partire dagli incontri di lega per arrivare ai mondiali, erano uno degli eventi mediatici più attesi del pianeta.

Per alcuni era un gioco, uno dei tanti ideati per intrattenere gli abitanti di Celestis, ma per i più era un vero e proprio sport non tanto dissimile da una comune arte marziale.

Il palazzetto di Kyrador era un po’ come una vetrina; tutto quanto c’era di nuovo prima passava da lì, e le aperture occasionali al pubblico erano sempre molto frequentate.

La prima tappa del giro fu la sala dei campioni. Per tradizione lo stadio ospitava la fase finale dei campionati mondiali fin dall’istituzione dei primi tornei, e in quella sala, oltre a cimeli e materiale fotografico, allineati lungo le pareti vi erano i ritratti di tutti i campioni che si erano succeduti nel corso degli anni, ognuno con affianco una raffigurazione tridimensionale a grandezza naturale del proprio personaggio.

Ultimo arrivato, da soli sei mesi, Nicholas Thorpe, il Cacciatore di Glasnet, e il suo personaggio Warewolf, ma il volto più cercato e fotografato, soprattutto dalle giovani ragazze, era ovviamente quello di Helena Loyde, alias Octavia, la rosa di Kyrador, quasi un tesoro nazionale per gli appassionati di Caldesia.

Per i più era ancora lei l’indiscussa campionessa del mondo in carica, nonostante tutte le maldicenze messe in giro dai giornali e la classifica ufficiale.

Il mezzo busto con cui era ritratta esaltava ancora di più la fermezza dei suoi tratti, sbarazzini ma austeri. I capelli, corti e rossicci, si arricchivano qui e là di sfumature artificiali di un giallo dorato, penetranti occhi di un marrone vigoroso ingentilivano il volto, e l’espressione composta delle labbra le conferiva un aspetto fermo e rispettabile.

A differenza della maggior parte degli atleti aveva scelto per il suo vessel, il suo alter ego virtuale, delle fattezze non troppo simili all’originale, con lunghi capelli biondi e un abito piacevolmente barocco arricchito dalla cintura in cuoio da cui pendeva il suo ormai leggendario stocco da battaglia.

«Ha una parvenza davvero energica e carismatica.» disse Morea osservando la foto

«Hai ragione. Non mi meraviglia che sia così popolare.» disse Carmy.

La tappa successiva fu l’arena, il cuore pulsante dello stadio.

Vi si accedeva tramite un lungo tunnel, lo stesso che i concorrenti percorrevano prima dei loro incontri, e una volta all’interno sembrava di trovarsi nell’occhio di un ciclone. Circondato da tre anelli concentrici di spalti che salivano ininterrottamente verso l’alto, e illuminato dall’alto da decine di luci psichedeliche capaci di produrre ogni sorta di effetto, il possente campo di battaglia circolare troneggiava proprio al centro della struttura, rialzato rispetto al suolo e dal diametro di dieci metri. Ai due lati, opposte l’una all’altra, le postazioni dei contendenti, somiglianti a enormi gusci d’uovo rivestiti di metallo dorato, grandi abbastanza da contenere al loro interno una persona.

«La Magic Arena è il tempio incontrastato del chandra.» spiegò la guida «Come molti di voi sicuramente sapranno, questo stadio ha ospitato le fasi finali della coppa del mondo ininterrottamente dall’anno duecentottantasette ad oggi.

È dotato di tutte le più recenti apparecchiature nel campo della tecnologia e della stregoneria,  e possiede uno dei sistemi informatici più sofisticati del globo.»

«A che età di solito si può aspirare a diventare dei campioni?» domandò improvvisamente Morea

«Mamma.» disse incredula Carmy

«È quello che tua sorella avrebbe chiesto.»

«Benché non esistano tecnicamente età minime di partenza.» rispose la giovane addetta «Di solito l’età media in cui un aspirante professionista inizia a praticare si aggira tra i sedici e i diciotto anni.

Dopo cinque o sei anni, a seconda degli incontri vinti e dei campionati dilettanteschi affrontati, si può aspirare ad una promozione tra i professionisti, e a quel punto è tutta questione di allenamento e un po’ di fortuna. I campionati nazionali sono aperti a tutti i chandristi in possesso di un attestato di lega, ma è necessario ottenere un buon piazzamento per poter almeno aspirare ai playoff che consentono l’accesso al campionato mondiale.

Ovviamente, ci sono delle eccezioni».

Il riferimento ad Helena “OctaviaLoyde era evidente.

«Ora, signori, dirigiamoci al luogo che sicuramente aspettavate con maggiore impazienza. I campi di allenamento. Seguitemi agli ascensori».

 

I campi di allenamento, tappa finale del giro turistico, si trovavano al primo livello sotterraneo, ed avevano le stesse dimensioni dello stadio soprastante.

Qui, oltre ad una quantità incalcolabile di apparecchiature informatiche ed attrezzi ginnici, c’erano anche una decina di arene minori, molto più piccole di quella originale, e destinate principalmente a incontri di riscaldamento o esercizi di vario genere.

C’era tantissima gente, ed era naturale, perché poter provare in prima persona l’esperienza di un lottatore di chandra non era una cosa che capitava tutti i giorni.

Soprattutto chi non aveva la fortuna di poter usare la magia, vedeva in quello sport l’occasione unica di provare un senso di onnipotenza che solo l’arena virtuale sapeva infondere con tanto realismo. A ragione di ciò, non sorprendeva che la grande maggioranza degli atleti professionisti fossero persone normali.

I bambini del gruppo ci rimasero male quando gli fu detto che le machina, gli apparecchi per misurarsi nel chandra, non erano adatti a loro, mentre tra gli adulti nessuno dapprincipio ebbe l’ardire di chiedere di fare un tentativo, vuoi per timore vuoi per altri motivi.

Ancora una volta, e prima che Carmy potesse fermarla, fu Morea a rompere gli schemi.

«Voglio provarci.» disse, e un istante dopo era già seduta all’interno dell’unica machina libera

«Mamma, aspetta. Sei sicura che sia una buona idea?»

«Potrebbe essere divertente. Che male c’è a fare un tentativo?»

«Ma rifletti. Non sei mai riuscita a maneggiare neanche i videogiochi di Judith.»

«Sei proprio uguale a tuo padre. Sempre a preoccuparti».

In ogni caso non c’era niente da fare.

«Accidenti a te, testaccia di legno.» mugugnò la ragazza rinunciando a ulteriori pressioni.

La guida approfittò del volontario per spiegare nei dettagli in cosa consisteva l’uso della machina.

«Queste machina sono modelli base. Di solito i chandristi alla loro prima esperienza creano con le loro mani il proprio vessel. In questo caso sono stati caricati dei modelli preesistenti destinati al pubblico. Gliene sarà assegnato uno a caso.»

«Sembra interessante. Cosa devo fare?»

«Assolutamente nulla.» rispose la guida assicurandola al voluminoso sedile imbottito e applicandone una specie di elettrodi sulla fronte «Quando avvierò il programma la machina elaborerà una sua immagine virtuale e la proietterà nell’arena, assegnandole un vestiario e dell’equipaggiamento. A quel punto, potrà comandarla come se fosse il suo vero corpo.»

«Proceda pure. Io sono pronta».

La  guida si allontanò, portandosi alla consolle che controllava l’arena. Morea ebbe appena il tempo di fare un cenno alla figlia e godersi il momento prima che il portello della machina si chiudesse sopra di lei lasciandola per un momento al buio.

Poi, si accesero ovunque delle soffuse luci rossastre, e un attimo dopo la donna ebbe come la sensazione di venire violentemente strappata via del sedile, e d’istinto chiuse gli occhi cercando di rimanere seduta.

Ci vollero dieci, forse quindici secondi, e Morea riaperti gli occhi si ritrovò nuovamente in piedi, proprio al centro dell’arena, con la figlia e gli altri visitatori che la guardavano meravigliati. Impiegò qualche attimo a realizzare quello che era accaduto, ma dopo aver visto il suo corpo fisico come assopito all’interno della machina tramite uno schermo accanto ad essa realizzò appieno.

«È stupefacente.» disse meravigliata guardandosi le mani «Il mio corpo è lì, eppure sono anche qui.»

«La sua coscienza è stata collegata al computer, e quindi proiettata nell’arena all’interno del suo personaggio.» le spiegò la guida.

Solo in un secondo momento la donna pensò di guardarsi per scoprire che aspetto avesse assunto. I tratti somatici ed il viso erano rimasti gli stessi, ma al posto del suo vestito indossava ora una specie di tunica verde smeraldo stretta in vita da una cintura, stivaletti all’apparenza di cuoio e un voluminoso copricapo a metà tra un cappello e una cuffia. Alla mano destra poi, un guanto metallico terminante in un piccolo artiglio ricurvo per ogni dito.

Morea non poteva capirlo, ma sia la guida che Carmy si resero conto che qualcosa non andava.

«Ma…» disse la guida «È un’alchimista.»

«Un’alchimista!?» ripeté Morea

«È un personaggio di supporto.» rispose Carmy attingendo a quel poco che sapeva del chandra «È specifico per i combattimenti di squadra.»

«Purtroppo, come ho detto, la scelta è del tutto casuale.» si giustificò la guida «Vorrà dire che inserirò un normale programma di allenamento».

Morea era così impegnata a contemplare quello che le era successo e a salutare la figlia che la osservava l’arena da non accorgersi della comparsa, da un momento all’altro, di una decina di sfere di luce rossa simili a grosse bolle che quasi tutte insieme presero a schizzare come saette in ogni direzione, rimbalzando sulla parete evanescente che delimitava i bordi del campo come su un muro di gomma.

«Mamma, attenta!» gridò Carmy vedendone una arrivarle alle spalle.

La donna fece appena in tempo ad accorgersi del pericolo prima di ricevere il colpo in pieno torace; la sfera si dissolse al contatto col suo corpo come fosse stata d’aria, ma ciò nonostante Morea avvertì sia il contraccolpo che il conseguente dolore.

«Fa davvero male.» mugolò tenendosi la parte colpita «Come si fa a bloccare queste cose?»

«Devi cercare di colpirli, mamma.» cercò di spiegarle Carmy «Usa i tuoi poteri.»

«I miei poteri? Io non ho poteri».

Era come parlare al muro.

Di solito gli appassionati di chandra, pur non avendo mai messo piede su di un campo di gara, ne sapevano abbastanza da sapersi arrangiare, ma Morea se non fosse stato per l’ossessione di Judith il chandra non avrebbe nemmeno saputo cosa fosse, e inoltre l’atletica non era mai stata una sua abilità.

Furono sufficienti altri due di quei globi, uno dietro la schiena e uno ad una spalla, che la sua immagine virtuale si dissolse, e lei, da un istante all’altro, si ritrovò nuovamente all’interno del proprio vero corpo.

«Stai bene?» corse a domandarle la figlia appena la machina si fu riaperta

«È chiaro che non fa per me.» sorrise Morea «Però è stato divertente».

L’orologio che svettava sopra l’ingresso principale della palestra segnava le tre del pomeriggio.

Non c’era davvero più tempo da perdere.

«Santo cielo, ogni volta perdo il senso del tempo.» disse Morea per poi rivolgersi alla guida «Scusi, l’area negozio?».

 

Oltre a ristoranti, sale giochi e altre strutture ricreative la Magic Arena aveva anche un proprio centro commerciale, con un angolo tutto dedicato a souvenir e oggettistica per turisti e appassionati.

Comprendendo che era quello il posto in cui sua madre voleva andare, e il motivo per cui era venuta a Kyrador, Carmy non seppe spiegarsene la ragione.

Non c’era assolutamente nulla in quella trappola per turisti che non si potesse trovare in qualunque negozio o supermercato della loro regione, almeno a prima vista.

«Accidenti, questo posto è davvero immenso.» commentò Morea notando la vastità del centro.

Quasi subito si diresse a passo spedito verso il reparto videotape del settore riservato ai gadget, fermandosi davanti alla sezione documentari.

«Mamma, ma si può sapere che cosa stai cercando?».

Ma Morea non le rispose nemmeno, tanto era impegnata a frugare in quel mare di schede rinchiuse nelle loro custodie.

Per ammazzare il tempo, visto che non sembrava esserci verso di ottenere risposta, prese a visionare alcuni trailer proiettati su uno schermo a parte.

Si avvicinava il periodo delle grandi uscite cinematografiche, e c’erano così tanti titoli a disposizione da scoraggiare il cinefilo più forsennato.

A Carmy prese un momento di malinconia. Il cinema era stato una delle sue grandi passioni fin da bambina, eppure non ricordava di esserci mai andata da che era arrivata a Kyrador. Pur avendone uno quasi sotto casa, la sera, quando rincasava, era troppo stanca per andarci, e nei finesettimana passava il suo tempo a dormire o a sbrigare faccende lasciate in sospeso.

Pensandoci bene, non era neanche più uscita a bere qualcosa con Julienne.

Il lavoro alla polizia militare la stava assorbendo più di quanto si fosse immaginata, e solo ora stava iniziando a rendersene conto.

Forse, si disse chinando un momento il capo, sua madre non avrebbe avuto tutti i torti a rimproverarla. Si era gettata anima e corpo nel lavoro, senza alcuna garanzia di veder premiati i propri sforzi in futuro, e tutto questo prima ancora di aver compiuto ventisei anni.

Il tempo dei rimpianti arriva sempre troppo presto.

Questa era una delle frasi più amate dal suo adorato nonno.

Da piccola l’aveva interpretata come un monito a fare presto, a realizzare quanto prima tutte le sue aspirazioni e i suoi desideri, e da un momento all’altro si ritrovò a domandarsi se per caso non avesse frainteso.

«Eccolo!» esclamò sua madre sollevando vittoriosa una delle schede.

Carmy non riuscì a leggerne il titolo fino a quando non furono fuori dal palazzetto. Era la telecronaca del campionato mondiale di due anni prima, l’ultimo vinto da Octavia, commentato da uno dei più popolari giornalisti sportivi e corredato da interviste esclusive ai partecipanti.

«Ma che cosa te ne fai? A te non piace il chandra

«Non è per me. È per tua sorella, ovviamente. Sono mesi che me lo chiede.»

«Per Judith? E tu hai fatto quattrocento miglia in treno solo per venirle a Kyrador a comprare un documentario sportivo?»

«Non mi sembra che sia una cosa tanto strana, data la circostanza.»

«La circostanza?».

Morea guardò la figlia come un datore di lavoro avrebbe guardato l’impiegato colpevole di aver mancato un incarico di fiducia.

«Non ci posso credere. Davvero ti sei dimenticata cosa è tra due giorni?»

«Tra due giorni?».

Un fulmine cadde dal cielo colpendo la ragazza in pieno ed accendendole la mente.

Si era completamente dimenticata del compleanno di Judith.

Una ulteriore prova di quanto il lavoro l’avesse allontanata dal mondo. Una volta non dimenticava neppure i compleanni di quelle persone che conosceva a malapena, e ora stava per scordarsi persino quello di sua sorella.

«Non vorrai farmi credere di essertene dimenticata sul serio.» la rimproverò Morea con il tono, pur arrabbiato, di chi non era sorpreso

«Mi dispiace.» tentò di giustificarsi «Sono stata così impegnata in questi giorni. Ho perso completamente il senso del tempo.»

«E io che ero venuta a Kyrador anche per prendere il tuo regalo e portarglielo».

Doveva fare qualcosa. Non poteva fare una simile figura. Era tardi per ammettere la propria immaturità, ma forse poteva ancora farsi perdonare.

In pochi secondi tentò di pensare a qualcosa, una cosa che Judith potesse apprezzare, ma che allo stesso tempo fosse abbastanza per dimostrare il proprio pentimento.

Le venne un’idea pazza. C’era una cosa che Judith desiderava sopra ogni altra, e forse era nelle condizioni di poterla ottenere, anche se si trattava di rischiare.

«Carmy, dove vai?» chiese Morea vedendola prendere il contenitore con la scheda e correre verso la fermata dei taxi

«Tu torna alla stazione. Ci vediamo lì».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Che dire, pensavo di concludere con questo capitolo le vicende legate a questa breve rimpatriata madre-figlia, ma poi una pagina ha seguito l’altra e così ho deciso di chiuderla qui.

Col prossimo questa parentesi si chiuderà di sicuro, e l’azione tornerà lentamente a farsi sentire.

Tuttavia, vi chiedo di essere un attimo pazienti. In questi giorni ho molto da fare, e potrebbe volermici un po’ per riuscire ad aggiornare ancora.

Ma non dubitate che lo farò.

Grazie come sempre a chi legge e recensisce.

A presto!^_^

Carlos Olivera!

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Capitolo 12
*** 10 ***


10

 

 

Quando Helena aveva iniziato a praticare il chandra sapeva che vincere le poteva aprire molte porte, ma certo non si aspettava che un domani le avrebbe permesso di alloggiare in un attico tutto suo di Heaven’s Gate, uno dei maggiori grattacieli di Pleinarth, il quartiere residenziale più lussuoso ed esclusivo della città.

Dalla finestra panoramica del salone si poteva godere di una delle vedute più magiche e spettacolari di Kyrador, dalla sponda meridionale di Capo Sorion fino all’isola portuale di Edesna sul fronte opposto della baia.

Quell’appartamento non se l’era neppure comprato. Le era stato donato dai suoi sponsor. Uno dei tanti pregi dell’essere la più promettente stella dell’arena da un decennio quella parte.

E tutto questo prima ancora di compiere venticinque anni.

Fino a poco tempo prima non si era mai fatta pregare di presenziare a tutte le ricorrenze ed eventi pubblici a cui veniva invitata, ma da qualche mese a quella parte, dal giorno del suo famoso forfait dell’ultimo minuto alla tappa finale del campionato mondiale, quell’appartamento sembrava essersi tramutato in una gabbia dorata.

Non faceva entrare nessuno, neppure il suo allenatore, i suoi agenti, o qualcuno dei suoi fan più fedeli. Qualche volta capitava che  non tirasse neppure le tende fino al calare del sole, forse nel timore che qualche paparazzo ostinato riuscisse a strapparle una foto.

Era come se si fosse voluta rinchiudere in una specie di eremitaggio, proprio nel cuore della più grande e caotica città del mondo.

Giornali e commentatori si erano scatenati nel cercare di interpretare un simile comportamento, ma la verità era nota solo a lei,  e fino a quel giorno nessun altro ne era stato messo al corrente.

Era un pomeriggio come tutti gli altri.

Helena sedeva nel suo salotto, le tende tirate e le luci accese, gli occhi come persi nel vuoto, che di tanto in tanto andavano a posarsi senza attenzione sul libro che la ragazza aveva poggiato sulle ginocchia. Non ricordava neppure di che libro si trattasse, tanto distrattamente lo aveva recuperato dal ripiano appoggiato alla parete alle sue spalle.

Nel centro della stanza, come un ologramma, apparve una giovane donna molto attraente, capelli scuri annodati in una crocchia ed elegante abito di Fhirland che scendeva fino ai piedi coprendoli elegantemente, ma dai tratti quasi irreali, come fosse stato nulla più che una semplice raffigurazione virtuale.

«Signorina, hanno suonato alla porta.» disse con una voce gentile, ma fredda e quasi piatta, come quella di una macchina.

«Non voglio vedere nessuno.» rispose Helena girandosi dall’altra parte «Né giornalisti né nessun altro. Se è il mio agente poi, digli pure di andare al diavolo.»

«Come desidera».

La ragazza mora scomparve, per poi ricomparire qualche secondo dopo.

«Non si tratta di ammiratori o giornalisti. È un agente della MAB. Una signorina. O almeno così dice, visto che non ha potuto esibire il proprio distintivo.»

«Non mi interessa.» sentenziò ancora Helena stizzita «Mandala via.»

«Ci ho provato, ma dice che è molto urgente. Deve conferire assolutamente con lei».

Helena si passò una mano tra i capelli, sbuffando contrariata.

«E va bene, falla entrare».

 

Già solo osservare il corridoio traboccante di luci, rifiniture e sculture d’arredo su cui si affacciava l’appartamento della signorina Loyde, oltre all’atrio luccicante che le si era parato davanti all’ingresso nel palazzo, era stato abbastanza per lasciare Carmy senza parole.

Non credeva che potesse esistere tanto lusso.

Allora era vero che con il chandra si poteva arrivare dovunque.

Quello era lo stile di vita che una come lei non si sarebbe mai potuta permettere. Come minimo avrebbe dovuto aspirare al comando del TMD per poter ottenere una sistemazione che fosse anche solo la metà di ciò di cui Octavia si circondava quotidianamente.

Era passato un minuto da quando la voce del citofono l’aveva messa in attesa, e intanto l’ansia montava sempre di più, alimentata dalla consapevolezza del tempo che passava. Sua madre non l’avrebbe aspettata per sempre.

Cominciò a pensare che fosse una causa persa.

Octavia per il mondo era ormai un fantasma, e non c’era ragione di sperare che potesse fare un’eccezione per lei.

Forse era stato un azzardo troppo grande. Forse aveva peccato di superbia.

Stava per tornare sui suoi passi, quando per incanto le porte dinnanzi a lei si spalancarono, lentamente e da sole, introducendola al piccolo anticamera che immetteva nel cuore dell’appartamento.

Là dentro lo sfarzo era se possibile ancora più sgargiante.

Tuttavia, c’era qualcosa di strano. Aleggiava un’atmosfera cupa, quasi inquietante, e le pareti, dominate da colori scuri su cui risaltavano gli intarsi dorati ed i quadri, sembravano come avvolte da una patina di amarezza, gettando su tutto l’ambiente una luce irreale di solitudine e tormento.

«Benvenuta, agente O’Neill.» disse la voce che l’aveva accolta riecheggiando in tutto l’ambiente «Prego voglia raggiungere il salone. La signorina Loyde la sta aspettando».

Carmy raggiunse il salotto, ma inizialmente Helena neanche si scomodò a guardarla in volto. Quando finalmente poté guardarla negli occhi, Carmy notò quanto strani, quasi inquietanti, fossero nella loro opacità.

Non riusciva a credere che quella fosse la stessa Helena che per due anni aveva fatto alzare gli stadi al solo sentir nominare il suo nome o vederla comparire nell’arena.

Cercando di non darlo a vedere, senza in verità riuscirci, si guardò attorno; tutte le tende erano tirate, le luci ridotte al minimo indispensabile. Sembrava la dimora di un vampiro, che rifuggiva il sole per timore di venirne consumato.

«Scusi il disturbo.» disse quasi a volersi giustificare «Sono l’agente Carmy O’Neill, della polizia militare.»

«So chi siete.» tagliò corto Helena fissandola dritta in volto «Ha detto di dovermi parlare con urgenza. Di che si tratta?».

Carmy temporeggiò, colta dall’imbarazzo.

Se un attimo prima gli occhi di Helena le facevano quasi compassione, ora invece se ne sentiva atterrita.

Doveva sembrare davvero pietosa. Non stava neppure indossando la divisa, e stava quasi per morire di vergogna quando, al citofono, si era accorta di non aver potuto esibire il distintivo. Di solito non se ne separava mai, ma nervosa com’era quella mattina doveva esserselo dimenticato in camera prima di uscire.

Il suo silenzio parve quasi incuriosire Helena, che si alzò dalla poltrona per avvicinarsi e guardarla più da vicino.

«Certo non sembra davvero un agente di polizia.»

«Me lo dicono spesso.» replicò d’istinto Carmy, non sapeva se per sdrammatizzare o cercare di calmare l’imbarazzo.

Helena continuò a fissarla, e infine tornò sui propri passi.

«Francine.» disse sedendosi, e facendo accomodare anche la sua ospite.

La donna virtuale comparve nuovamente.

«Desiderate, signorina?»

«Prepara del caffè.»

«Come volete.»

«Un aiutante virtuale.» disse un po’ incredula Carmy vedendo la proiezione sparire e la caffettiera che, subito dopo, si metteva in funzione da sola.

Quella era roba da ricchi, soprattutto perché, costo a parte, il possesso e la libera circolazione delle intelligenze artificiali erano strettamente vincolati da leggi molto severe.

«Non sono mai stata brava nelle faccende domestiche. E ultimamente, come può immaginare,  non ho molta voglia di avere gente che gira per casa. Lei lavora al posto mio.»

«Potessi avercela anch’io un’aiutante così. La mia coinquilina ha il disordine nel sangue, e spesso devo sistemare la casa per tutte e due ogni domenica.»

«Non potreste semplicemente dividervi i compiti?»

«Lei lavora spesso di notte, e di giorno dorme fino al pomeriggio. Non me la sento di disturbarla».

Il suono della caffettiera interruppe il discorso, ed Helena si alzò dalla poltrona per andare in cucina. Mentre aspettava il suo ritorno Carmy si guardò attorno, ancora incredula davanti a tanto sfarzo, fino a che i suoi occhi non incrociarono un portafoto d’argento poggiato in un angolo della libreria.

Nonostante tutta la tecnologia e le alternative poste in essere dal progresso, erano ancora molti a confidare nel potere delle fotografie per sigillare e preservare ricordi o momenti preziosi. Incuriosita si alzò, avvicinandosi per poterla guardare meglio, senza accorgersi che Helena nel frattempo era tornata nella stanza e ora la osservava senza parlare.

La foto raffigurava Helena, probabilmente tre o quattro anni prima, alle spalle del palazzetto dello sport e con al suo fianco una ragazza, ad occhio e croce della sua stessa età. Sorridevano entrambe, abbracciandosi amichevolmente, e Carmy non faticò a riconoscere nell’altra ragazza una forte somiglianza con l’assistente virtuale che aveva visto apparire poco prima.

Eccezion fatta per i vestiti e il taglio di capelli, erano praticamente identiche.

«È una mia vecchia amica.» parlò Helena alle sue spalle, facendola sobbalzare «Si chiama Luna.»

«È una chandrista

«In un certo qual modo».

Carmy guardò un’altra volta l’immagine.

«Io non seguo molto il chandra, ma non mi pare di averla mai vista. È da molto che pratica questo sport?»

«Abbiamo iniziato insieme. Ma ormai è da sei mesi che non è più in grado di calcare l’arena».

Solo allora Carmy si accorse che le mani di Helena tremavano.

«Mi dispiace.» si affrettò a dire «Non sono affari miei, dopotutto».

Helena posò il vassoio sul tavolino, continuando a lanciare enigmatiche occhiate alla sua ospite, quindi avvicinatasi alla tenda la scostò leggermente, quanto bastava per far entrare nella stanza pochi raggi di luce.

Ormai si appressava il tramonto, e quanto rimaneva del sole aveva già iniziato a scomparire dietro i grattacieli, che avvolgevano Heaven’s Gate come le sbarre di una gabbia, proiettando lunghe ombre sulle strade sottostanti e i marciapiedi affollati di pedoni.

«Siamo cresciute insieme.» disse cercando di scorgere il sole oltre i palazzi «Vivevamo nello stesso quartiere. Immagino sappia a che cosa mi riferisco.»

«Credo di sì.» rispose timidamente Carmy.

«Lei ora, come tutti del resto, mi vede così. Ricca, agiata e benestante. Ma per i primi sedici anni della mia vita ho vissuto in un lurido condominio nella parte più squallida di questa città.

Ogni giorno, andando a scuola, guardavo il centro di Kyrador svettare sopra i nostri miseri palazzi, e mi sembrava un paradiso.

Per una come me, una persona comune cresciuta nei bassifondi, quello doveva essere un mondo irraggiungibile.

È stata Luna a farmi capire che c’era un modo, per tutte e due, di arrivare lassù».

«Il chandra.» rispose Carmy dopo qualche attimo di esitazione.

Helena si volse, tornando a sedersi, si versò del caffè e ne bevve un sorso.

«I nostri genitori non volevano né potevano sostenere le spese necessarie per farci coltivare questo nostro sogno. Solo per poterci pagare l’iscrizione alla palestra abbiamo lavorato entrambe come delle schiave, tutti i giorni dopo la scuola, per più di sei mesi.

Agli occhi dei più tutto appare facile e a portata di mano in questa città, ma se sei una persona normale, e per di più abitante dei bassifondi, la vita può essere un vero inferno.

Anche dopo esserci iscritte è stata ugualmente dura. Nessuna delle due voleva rinunciare allo studio per il chandra, e comunque i nostri genitori non ce lo avrebbero mai permesso. Andavamo a scuola di giorno, ci allenavamo al pomeriggio e studiavamo la notte. Quando avevamo del tempo libero lavoravamo per poter pagare la quota di iscrizione mensile».

Una goccia di pioggia tintinnò sul vetro. Il cielo si era improvvisamente rannuvolato, e da un istante all’altro uno scrosciante acquazzone estivo si abbatté su Kyrador avvolgendola in un mantello di acqua.

«La fortuna scelse di favorire solo una di noi due. Al torneo che poteva farci entrare in lega e aprirci la strada alle competizioni ufficiali, per cinque miseri punti, Luna fu esclusa.

Dovette trascorrere un anno prima che potesse ritentare, ma in quel lasso di tempo, per quanto riguarda me, erano successe molte cose».

Quella parte della storia era superflua da raccontare, visto che bene o male la conoscevano tutti, soprattutto lì a Caldesia.

In un solo anno, il suo primo anno da dilettante, Helena aveva racimolato quindici vittorie e zero sconfitte, che le avevano permesso di potersi presentare subito al primo torneo per la promozione tra i professionisti, superato con qualche affanno ma comunque nell’incredulità generale.

Prima di lei nessuno era stato in grado di passare dall’anonimato al professionismo in così poco tempo, e da quel momento per lei era stato un susseguirsi di successi che ne avevano fatto una stella mondiale, fino alla consacrazione con la conquista del titolo mondiale per due anni consecutivi.

Carmy, senza volerlo, stava iniziando a scalfire un muro di mistero e di incognite che prima di lei nessuno era mai riuscito neppure a scorgere.

«Avevo aspettato così tanto di poter avere la mia occasione, e ora ce l’avevo davanti.» continuò Helena come parlando a sé stessa «Anche Luna aveva del talento, e tanto. Ma aveva anche un fisico debole. La spiacevole conseguenza del vivere nei bassifondi, con un pasto al giorno e spesso neanche troppo abbondante.

Cominciò ad avere i primi problemi di resistenza già dopo qualche mese, ma come me era troppo orgogliosa e determinata per ammettere i propri limiti.

Immagino sappia quanto sforzo richiede poter sostenere un incontro di chandra

«Credo di sì. Anche se non ho mai provato.»

«Quella sconfitta aveva significato molto per lei. Anche più della vittoria. Da parte mia, il mondo in cui mi ero ritrovata da un momento all’altro ben presto mi aveva consumata.

In certi momenti faticavo persino a riconoscermi.

La persi di vista. Fino a che non divenne nulla più di uno dei miei tanti ammiratori persi tra la folla. Da parte sua, Luna non smise un momento di sognare di raggiungere i miei stessi traguardi. Lei meritava di riuscirci. Poteva diventare una grande chandrista, più grande di me.»

«Credo di poterla capire.» disse Carmy quasi timorosa, rievocando un ricordo troppo felice della sua vita «Una volta ho conosciuto un ragazzo, quando frequentavo la scuola di magia. Era bravo, ma poco portato. Passava tutto il suo tempo a cercare di migliorarsi, fino a che il suo fisico non ha retto.»

«E mi dica, cosa ne è stato di questo ragazzo?» domandò Helena come stranita, tenendo il capo rivolto verso terra

«Ha avuto un collasso, ma per fortuna se l’è cavata. Anche se alla fine ha dovuto rinunciare e ha lasciato la scuola.

I medici temevano troppo per lui, e lo hanno convinto a desistere.»

Una strana luce si accese negli occhi di Helena, e a Carmy parve quasi di scorgervi una lacrima faticosamente trattenuta.

«Avrei dovuto farlo anch’io».

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Lo so, avevo detto che con questo capitolo si sarebbe chiusa la questione relativa alla rimpatriata madre-figlia.

Il fatto è che scrivendo mi sono appassionato sempre più al personaggio di Helena, così ho deciso di dedicarci più spazio di quello inizialmente programmato.

Noterete che questo capitolo è un po’ più breve rispetto alla mia media abituale, questo perché il prossimo inizierà con un lungo flashback che chiarirà le questioni lasciate in sospeso e che preluderà (stavolta per davvero) alla conclusione di questa vicenda.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 13
*** 11 ***


11

 

 

Helena aveva trascorso così tanto tempo sotto i riflettori, attorniata da una selva inestricabile di sostenitori e guardie del corpo, che con il passare dei mesi la sua coscienza sembrava come essersi annichilita, schiacciata dal peso di una fama e di una rivalsa inseguite per così tanti anni e ora talmente ingombrarti da non riuscire a sopportarne il fardello.

Tutto quello che diceva, faceva, o addirittura pensava, avveniva in diretta, sotto gli occhi del mondo intero, e anche se con il tempo stava iniziando ad abituarsi a quella condizione, prendendo ad assaporare tutte quelle gioie che nell’infanzia le erano state negate, qualcosa in lei perdurava a rendere parzialmente amara tutto quel trionfo.

Soldi, fama, prestigio. Con le sole armi del talento e della dedizione aveva conquistato un posto nell’olimpo dei grandi, eppure non si sentiva del tutto felice.

Sentiva di avere perso qualcosa, qualcosa di importante che non riusciva a ricordare.

Fino al giorno in cui non ricevette una lettera, apparentemente una delle tante dalle quali la sua casella virtuale era perennemente intasata.

Era una mattina di inizio primavera. Dopo tante settimane spese tra allenamenti, incontri ed impegni vari, Helena era riuscita finalmente a ritagliarsi una giornata di riposo, ma come ogni volta si era ritrovata a spenderla nel suo appartamento, seduta davanti al computer a leggere distrattamente i messaggi di ammiratori e spasimanti nel tentativo di far scorrere le ore.

Di uscire non se ne parlava. A meno di non camuffarsi da capo a piedi era impossibile ormai per lei frequentare un qualsiasi luogo pubblico senza venire notata, e di conseguenza accerchiata, da chiunque le passasse accanto. Con il tempo quell’appartamento così a lungo sognato aveva finito per tramutarsi in una gabbia dorata, l’unico al posto sulla faccia del pianeta in cui la giovane donna potesse trascorrere un po’ di tempo con sé stessa.

A prima vista sembrava una mail come tante altre, ma questa aveva qualcosa di speciale, perché era indirizzata ad una certa Yuppie. Un nome che Helena conosceva fin troppo bene, dal momento che era stato quello del suo primo avatar.

Chiunque ne fosse il mittente doveva essere una persona molto speciale, qualcuno diverso dagli altri, perché solo chi l’aveva conosciuta nella sua infanzia poteva conoscere quel nome, uno dei suoi pochi segreti che la stampa e le riviste di gossip non erano riuscite a disseppellire.

Leggendola, Helena per un attimo sentì una fitta al petto.

Era della Lynne Warner, la madre di Luna, che le chiedeva di fare visita alla figlia in ospedale, dove era stata ricoverata in seguito ad un non meglio specificato malore.

Helena avrebbe voluto sprofondare per la vergogna, nel momento in cui si rese conto da quanto e quale divario avesse finito per generarsi tra lei e quella che teoricamente era la sua migliore amica, ora che appartenevano a due mondi diversi.

Fino a qualche anno prima erano state come sorelle, sempre vicine e sempre indivisibili. Quando una aveva bisogno di qualcosa, l’altra accorreva prima ancora di venire chiamata, e adesso invece, se non fosse stato per quella lettera, non avrebbe mai neanche saputo che la sua migliore amica era in ospedale.

Non solo. Chissà in quanti altri modi Lynne doveva aver tentato senza successo di mettersi in contatto con lei, se per riuscire ad attirare la sua attenzione era stata costretta ad usare quell’espediente.

Senza pensarci sopra un momento salì in macchina e raggiunse l’ospedale St.Julius, nel quartiere popolare dove era nata e cresciuta.

Nel momento in cui rivide le vecchie strade, le umili case, le viuzze sporche e poco curate, fu come se un velo fosse stato improvvisamente sollevato da sopra i suoi occhi, rammentandole tante cose che nell’ebbrezza del successo aveva dimenticato.

Lei proveniva da lì.

Era quello il suo mondo, il mondo dove era nata e cresciuta. Non i palazzi scintillanti o i salotti buoni di quell’aristocrazia supponente e ipocrita che dentro di sé aveva sempre detestato.

Forse, si disse entrando nel piccolo ospedale di periferia dove Luna era stata ricoverata, era questo ciò di cui sentiva di essersi dimenticata.

Quando la vide venirle incontro, la signora Warner quasi pianse di gioia.

«Per fortuna sei qui.» le disse abbracciandola «Ho cercato così tante volte di contattarti.»

«Mi dispiace. Che cosa è successo a Luna?».

La donna spiegò ogni cosa, e ad ogni sua parola lo sguardo di Helena divenne sempre più segnato dallo stupore e dallo sgomento.

Luna, a sentire la madre, era stata colta da un malore durante una sessione di allenamento in vista del campionato che avrebbe potuto segnare il suo passaggio tra i professionisti, e già da due settimane era ricoverata in ospedale per disintossicare il proprio corpo dalle scorie magiche prodotte dalla continua permanenza nella machina.

All’inizio era sembrato un normale esaurimento, come succedeva di tanto in tanto agli atleti troppo spregiudicati, ma poi, impietoso, era arrivato il giudizio finale dei medici.

Lo scompenso era stato tale da avere effetto sul fisico di Luna, minando in maniera forse definitiva la sua soglia di resistenza al contatto con la  magia.

In altre parole, Luna quasi sicuramente avrebbe dovuto dire addio al chandra.

«Ma ne sono sicuri?» domandò non volendo crederci.

«Le ho parlato. Le hanno parlato anche i medici. Ma tu la conosci. È testarda e ostinata. Ma forse, se le parlassi te, riusciresti a farla ragionare».

Helena entrò nella stanza dopo molte esitazioni, temendo in modo in cui sarebbe stata accolta, ma ciò che si trovò di fronte la lasciò senza parole.

Quella che era distesa sul letto, attaccata ad una macchina per il drenaggio dell’energia, non sembrava neanche lontanamente la Luna che aveva conosciuto. La rivelazione ricevuta dai medici e dalla madre aveva svuotato il suo sguardo di quella ostinata determinazione che l’aveva portata fino a lì, e il suo stesso corpo appariva segnato dall’enorme stress che era stato costretto a subire, scavato nella carne e debilitato nel fisico.

«Ciao, Luna.» disse Helena quasi balbettando.

Lei la guardò, e la giovane donna sentì quasi una fitta di dolore vedendosi piantare addosso quegli occhi spenti e senza vita.

«Mia madre ti ha mandato qui per convincermi a mollare tutto?» domandò dopo una breve quanto scarna risposta al saluto

«Luna, cerca di capire.» replicò Helena tentando di recuperare la freddezza e l’autocontrollo «Questa volta ti è andata bene, ma la prossima potresti morire, o anche peggio. E tu sai di cosa parlo, vero?»

«Sei tu che non capisci.» rispose Luna mordendosi le labbra «Non importa cosa possa darmi o dove possa condurmi.

Io amo il chandra. È tutta la mia vita. Ogni volta che salgo sul ring, sento di trovarmi nel posto che più mi si addice. Mi sento me stessa».

Helena si sentì morire dentro, comprendendo finalmente ciò che la sua coscienza aveva continuato insistentemente a cercare di rammentarle.

Il chandra era uno sport. Lo sport più bello del mondo. Sia lei che Luna lo avevano amato fin da bambine, trascorrendo l’infanzia a sognare il giorno in cui avrebbero potuto finalmente praticarlo loro stesse.

Si diede della stupida.

Quando la passione si era tramutata in semplice strumento? Quando il volgare profitto, la necessità di dover essere sempre la migliore, aveva preso il posto del puro e semplice agonismo al fine di migliorarsi?

Le lacrime di rabbia e di dolore che bagnavano il volto di Luna furono per Helena più dolorose di un coltello piantato nel cuore.

In lei, per un attimo, rivide sé stessa, al tempo in cui il chandra non era un dovere ma una passione, e ogni battaglia non una guerra da dover vincere ad ogni costo per restare grande ma un’occasione per migliorare e puntare in alto.

Non se la sentì di distruggere i suoi sogni.

Forse, pensò, Luna poteva arrivare ad essere una campionessa vera, pura, non come lei, corrotta da quel mondo di soldi e notorietà che aveva inseguito per tutti quegli anni. Non le importava che il successo per la sua migliore amica potesse segnare la fine per lei e il suo prestigio, come non le era mai importato per tutto il tempo in cui avevano lottato spalla a spalla.

In quel momento voleva solo che Luna potesse continuare a sperare.

C’era un modo per far sì che il suo sogno potesse proseguire.

 

La Magic Arena e le sue apparecchiature all’avanguardia erano inavvicinabili per chiunque non fosse un professionista tesserato, ma alla grande Octavia non si negava mai un favore.

Grazie ad esse, e ad un programma d’allenamento sviluppato direttamente dal nerboruto mister Keith, il preparatore atletico dei grandi campioni, Luna poté tornare ad esercitarsi in relativa sicurezza, sotto la guida della sua migliore amica, perennemente monitorata per tenere sotto controllo i suoi sbalzi onde evitare nuove ricadute.

I medici, nell’autorizzare con molte riserve la prosecuzione dell’attività agonistica, avevano raccomandato sedute brevi e poco estenuanti, per non sottoporre l’organismo ad inutili stress eccessivi, e per i primi mesi tutto andò alla perfezione.

Luna si sentì rinascere, ed Helena con lei, perché per la prima volta in tanti mesi stava ricominciando ad amare sinceramente il chandra, e a riscoprire emozioni troppo a lungo dimenticate.

Forse fu anche per questo, soprattutto per questo, e per la volontà di non calpestare i sogni della sua migliore amica, che Helena vide, o finse di non vedere, dei segni che avrebbero dovuto metterla in allarme. Nei tre mesi in cui si sottopose allo speciale allenamento in vista del torneo che avrebbe potuto portarla al professionismo Luna alternò momenti di iperattività ad altri di cronica debolezza.

Un giorno era dilaniata da una fame insaziabile, l’altro non aveva quasi appetito. Una volta poteva allenarsi e correre per un giorno intero senza fatica, quello dopo era costretta a bere fino a star male per placare una sete senza fine.

Convinta, o forse illusa, della assoluta sicurezza del programma sviluppato appositamente per lei dal miglior preparatore atletico del mondo, Helena lasciò le cose come stavano, impaziente come la sua amica che arrivasse quel momento così a lungo atteso.

 

Finalmente, venne l’ultimo giorno. L’ultimo tramonto prima che si alzasse il sipario sull’inizio del grande torneo dilettantesco di Kyrador.

I primi quattro classificati avrebbero ottenuto la promozione tra i professionisti, e per il campione vi sarebbe stato il grande vanto di poter sfidare in un incontro amichevole sua altezza Octavia in persona.

«Ci siamo.» disse Luna osservando dall’alto degli spalti l’arena in cui il giorno dopo avrebbe avuto in mano il suo destino «È domani».

Helena era al suo fianco, come era stato per ogni singolo giorno degli ultimi tre mesi. Per poterle stare accanto aveva cancellato o posticipato incontri pubblici, contratti pubblicitari, interviste e anche alcuni incontri, gettando al fumo contratti da milioni di kylis, ma questo era niente in rapporto alla possibilità di recuperare il tempo perduto.

«Promettimi una cosa.» disse Luna dopo un breve silenzio carico di emozione

«Che cosa?»

«Promettimi che se domani sarò io a vincere, e a scontrarmi con te, tu ti batterai con tutte le tue forze. Ed io farò altrettanto. Siamo d’accordo?»

«Certo.» rispose Helena sorridendo gentile «Te lo prometto».

Si strinsero la mano, come avevano fatto ogni volta fin da bambine per ribadire il legame speciale che le univa, poi Luna propose alla sua migliore amica di fare un ultimo incontro amichevole. Così, per riscaldamento.

«Se domani dovessi riuscire a diventare una professionista, allora da quel momento noi due saremmo ufficialmente rivali. Quindi, concediamoci la nostra ultima partita da semplici amiche».

In realtà il loro legame non si sarebbe mai spezzato, ed Helena era la prima a saperlo.

Dapprincipio pensò di rifiutare, se non altro perché il giorno dopo Luna avrebbe necessitato di tutte le sue forze per potersi misurare nel torneo, ma data l’insistenza della ragazza alla fine si lasciò convincere.

«D’accordo.» disse avviandosi giù per la scaletta «Ma solo dieci minuti».

Normalmente serviva un attendente per poter manovrare le apparecchiature dell’arena, ma Helena ovviò impostando il timer per limitare la durata dell’incontro, quindi lei e Luna entrarono nelle machina ricomparendo sul terreno di gioco al comando dei rispettivi vessel.

Luna aveva modellato la sua Electra ispirandosi all’eroina di uno dei suoi fumetti preferiti, con spezzoni di armatura laccata rosso rubino a sormontare una voluminosa tunica bianca, lunghi capelli argentei chiusi dietro la nuca da un nastro nero e lasciati cadere in una coda fluente, occhi azzurri taglienti come rasoi e come arma una lunga lancia a due punte che negli anni aveva imparato a maneggiare con grande maestria.

«Non ti trattenere.» disse Luna roteando la sua arma

«Sta tranquilla, non intendevo farlo.» rispose beffarda Helena.

Fu effettivamente un incontro acceso, senza esclusione di colpi, scandito dallo scorrere dei minuti sul cronometro che sovrastava l’arena.

Luna sembrava aver assimilato bene i frutti dell’allenamento, si batteva con efficacia senza apparentemente risentire della fatica o dello stress. Aveva solo un po’ di fiatone, ma a quei livelli e con un tale sforzo Helena pensò che fosse una cosa normale.

A metà della sfida, l’esito era ancora incredibilmente incerto, come era naturale che fosse per due avversarie che si conoscevano a memoria.

Quello che iniziò a non sembrare naturale, però, era il continuo ansimare di Luna. D’accordo che si stavano battendo senza tregua, ma non era normale essere così sfiatati dopo soli cinque minuti di battaglia.

Helena iniziò a preoccuparsi.

«Qualcosa non và?» domandò all’amica in un momento di tregua «Possiamo fermarci se vuoi.»

«Non ce n’è bisogno.» rispose Luna appena riuscì a trovare il fiato «Devo aumentare la resistenza, o domani non durerò a lungo.»

«Nessuno degli avversari che incontrerai sarà al tuo livello. Non avrai difficoltà a qualificarti. Ora però è meglio che ti fermi.»

«È impossibile.» replicò Luna con una insolita ira «Se non riesco a reggere un incontro di dieci minuti contro di te che ti conosco a menadito, come farò quando sarò una professionista e dovrò affrontare avversari fortissimi di cui non so nulla?

Andiamo avanti!».

Helena non sapeva cosa stava facendo, fatto sta che ancora una volta scelse di avere fiducia nella sua amica e assecondò il suo desiderio, riprendendo lo scontro.

Il fiatone non smise per un attimo, ignorato per quanto possibile da Luna, ma nel momento in cui a questo andrò ad unirsi una furia aggressiva assolutamente non comune Helena si rese finalmente conto che le cose stavano prendendo una brutta piega.

«Adesso basta, Luna.» disse tentando di farla ragionare «Dobbiamo smettere. Disconnettiti».

Ma era come parlare al muro. Luna non voleva saperne di arrendersi prima che l’incontro fosse finito, e visto che nessuno poteva forzarla dall’esterno a terminare la simulazione l’unica cosa da fare era sconfiggerla ponendo fine all’incontro.

Helena tentò alcuni dei suoi assalti più noti e letali, ma in quella specie di furia da battaglia in cui era caduta Luna respinse buona parte degli attacchi, ai quali rispose con insolita ed incontrollabile violenza. Guardandola negli occhi, Helena quasi stentò a riconoscervi la propria amica.

«Basta Luna!» continuava a dire nel tentativo di farla ragionare «Ti prego, smettila!».

Mancavano ancora due minuti alla fine dell’incontro, e quel punto l’unica cosa da fare per Helena era lasciarsi sconfiggere, nella speranza che Luna in quella specie di pazzia in cui sembrava essere sprofondata non esitasse  a colpire un’avversaria rinunciataria.

Helena aveva già gettato la spada a terra offrendo la gola per ricevere il colpo di grazia, quando Luna d’improvviso prese a dimenarsi come una dannata, urlando e dimenandosi come se l’avessero trafitta migliaia di lame.

«Luna!».

Tentò di correrle incontro, ma un attimo prima che potesse afferrarla il suo vessel le si dissolse tra le mani. Un pessimo auspicio. Poteva significare solo che qualcosa nella mente di Luna si stava deteriorando.

Per fortuna Helena fece in tempo a gettarsi sulla lancia un attimo prima che scomparisse dissolvendosi a sua volta, ma grande fu la sua angoscia quando, una volta tornata nella machina, si accorse di non poterne comunque uscire.

Tutta colpa della fretta con cui aveva programmato l’arena, che le aveva fatto dimenticare di programmare l’arresto preventivo con conseguente apertura delle machina prima che il tempo si fosse esaurito.

«Avanti apriti, stramaledetta!».

A forza di spinte riuscì a far saltare i cardini che serravano il portello, e uscita raggiunse di corsa la capsula ancora chiusa di Luna attivando l’apertura d’emergenza. Le luci che lampeggiavano ad intermittenza non erano per niente un buon segno.

Come la machina si aprì, una strana sostanza verde acqua simile a gel prese a colare dall’interno del vano, e appena Helena poté guardare all’interno il suo sguardo, da sgomento, si fece di puro terrore.

La sua amica Luna era completamente avvolta da quella sostanza, i vestiti sembravano essersi come liquefatti, e gli occhi erano completamente vuoti, due biglie bianche la cui pupilla era a malapena visibile.

Avrebbe voluto aiutarla, cercare di tirarla fuori, ma era talmente terrorizzata da restare immobile. E anzi, quando Luna, trascinandosi, uscì dalla machina, rantolando come moribonda sul pavimento freddo dello stadio, tutto quello che inizialmente Helena riuscì a fare fu camminare all’indietro, cercando ossessivamente di togliersi di dosso il gel che aveva sulle mani e sui vestiti.

Solo in un secondo tempo, quando si vide guardare da quelle sfere bianche invocanti aiuto, riacquistò l’autocontrollo.

«Luna!» gridò inginocchiandosi e cercando di sollevarla.

La ragazza alzò il capo, tremante, e dalla sua espressione, per quanto parzialmente nascosta da quella poltiglia disgustosa che sembrava scaturire direttamente dal suo corpo, era chiaro che sapeva cosa le stesse succedendo.

«Helena…» disse con una voce che di umano non aveva quasi nulla «Aiutami…».

Furono le sue ultime parole.

Colpita da una specie di violento conato, Luna prese a vomitare altro gel, facendo arretrare Helena inorridita. Quella sostanza la ricoprì sempre di più, fino a che il suo stesso corpo non parve mutarsi a sua volta in qualcosa di viscido, senza una vera forma, gocciolante di poltiglia fangosa.

Ma i suoi occhi, quelli, sembravano ancora gli stessi, per quanto vuoti, ridotti ormai a due vetrini senza espressione. In essi, Helena riconosceva ancora la sua amica che aveva conosciuto fin dall’infanzia, con cui era andata a scuola, aveva fatto i compiti, giocato. La persona con cui aveva deciso di iniziare un sogno condiviso, fatto di speranze, e della promessa di vivere sempre l’una per l’altra.

Luna, o quello che restava di lei, lanciò un urlo terrificante, quasi a voler espellere la poca umanità che le rimaneva, e dopo qualche attimo nell’arena arrivarono tutte le guardie di sicurezza dell’edificio, allertate dalle immagini riprese dalle telecamere.

Si trattava di un’EDA di classe inferiore, poco più che un’inezia, e loro dato l’incarico che svolgevano erano armati con proiettili speciali.

«Sparate! Sparate!» ordinò il loro capo.

Helena, trattenuta e tirata indietro a forza da due delle guardie, non poté fare altro che osservare, urlante e impotente, gli altri uomini della sicurezza circondare Luna e spararle contro senza esitazioni. La creatura quasi non tentò di difendersi, come non chiedesse altro che venire uccisa, e dopo aver incassato oltre cinquanta colpi, accasciatasi, emise un ultimo gemito per poi spirare.

 

Nota dell’Autore

Salve a Tutti!^_^

Sì, sono proprio io!

Sono ancora vivo! Credevate che me ne fossi andato. Il fatto è che sono stato incredibilmente impegnato in questo periodo, tra una cosa da fare e un’altra, e proprio perché non sapevo in che altro modo tenermi impegnato non ho trovato niente di meglio da fare che iscrivermi ad un paio di contest.

Ma bando alle ciance.

Ancora una volta vengo meno alle mie promesse, fermandomi prima di concludere la vicenda legata all’incontro tra Carmy e sua madre. Stavolta però prometto solennemente, qui lo dico e qui lo affermo, di chiudere con il prossimo, anche perché ormai siamo davvero in dirittura d’arrivo.

Poi, finalmente, e prima di dimenticarceli, torneranno sulla scena anche Jake e Vyce.

Ecco, ho detto tutto.

Saluti dalla Germania

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 14
*** 12 ***


12

 

 

La pioggia era cessata, e le nuvole iniziavano lentamente ad aprirsi lasciando intravedere il sole ormai prossimo a scomparire. Dall’esterno, tramite i vetri imperlati d’acqua, i suoi ultimi raggi gettavano nella stanza una tenue luce rosata, generando una foresta di ombre scure che come tanti fantasmi si protendevano sul pavimento di legno facendone una specie di mosaico dal disegno inestricabile.

Carmy stette a lungo ad osservare Helena che, come sotto ipnosi, fissava senza sosta le proprie mani tremanti. Una strana espressione si era gradualmente materializzata sul suo viso mentre raccontava quella storia.

Sembrava un sorriso, ma che invece di gioia trasmetteva un senso di rassegnazione e sconforto così forte da poterlo quasi scorgere ad occhio nudo.

Quanto alla giovane agente, il suo stupore glielo si leggeva nello sguardo.

«Non ho mai saputo nulla di questa storia.» disse cercando di trovare le parole «Ero alla Magic Arena solo poche ore fa, e nessuno ne ha mai fatto parola.»

«È naturale.» rispose Helena con la più ironica rassegnazione «Anche se nessuno a parte Luna teoricamente ne aveva colpa, se una cosa del genere si fosse venuta a sapere sarebbero stati in molti a pagarne le conseguenze. La società che gestisce lo stadio. Quelle che finanziano i grandi tornei. I gruppi industriali che hanno creato i sistemi informatici, le machina e l’arena virtuale. Persino i miei sponsor».

Le sue mani, da tremanti che erano, si irrigidirono di colpo, facendosi come di pietra, e serrandosi con tale vigore attorno alla tazza da farla scricchiolare.

«Prima di allora non avevo mai visto tutte quelle serpi maledette andare così d’accordo su cosa fare e come.

Tutta la vicenda fu fatta passare sotto silenzio. Ufficialmente nessuno seppe mai cosa era accaduto in quell’arena. Fu come se Luna Warner non fosse mai esistita. Quanto a me, non ebbi il coraggio neanche di andare al suo funerale.

Mi sarebbe sembrato il più ipocrita dei gesti. Non sono mai riuscita neanche ad andare al cimitero».

Carmy comprendeva che Helena si sentiva chiaramente responsabile per quanto accaduto alla sua amica. Forse era anche per quello che si era imposta quell’esilio forzato lontano dai riflettori. Ma probabilmente, ciò che l’aveva spinta ad allontanare quello che per anni era stato il suo grande sogno era il peso dei ricordi.

Ogni volta che fosse entrata in uno stadio, si fosse seduta all’interno di una machina, avrebbe finito per ripensare a Luna, e a quello che le era successo. Un peso troppo grande da sopportare, anche per lei, che aveva fatto della forza di volontà somma virtù.

«Da quel giorno, non me la sono più sentita.» disse rassegnata posando la tazzina «Ho tagliato ogni ponte, ogni legame. E sono venuta qui, da sola. A fare o ad aspettare che cosa, non lo so».

Fece una pausa, nascondendo un momento il volto dietro una mano.

«Spesso si passa così tanto tempo ad inseguire le proprie aspirazioni che non si tiene conto del fatto che ogni cosa, anche i sogni che rincorriamo a volta per tutta la vita, hanno il loro rovescio della medaglia.

Denaro. Fama. Gloria. Ammiratori. Quando mi allenavo in una palestra sgangherata con machina tenute insieme per miracolo sono arrivata al punto da non pensare ad altro che al giorno in cui avuto tutto questo. E ora che ce l’ho, quasi non so che cosa farmene.

Luna era diversa. Anche lei voleva ascendere, ma a differenza di me non è mai arrivata a considerare il chandra solo uno strumento. Anzi, probabilmente sarebbe stata disgustata da quello che è in realtà lo sport per il quale ha faticato fino a rimetterci la vita.»

In quel particolare momento Carmy si sentiva l’ultima persona in grado di fornire lezioni di vita, ma quella sorta di empatia che aveva percepito man mano che lei ed Helena seguitavano a conoscersi l’una con l’altra non le permetteva di restare indifferente all’evidente malessere interiore che turbava l’animo della grande campionessa.

«Anche io sono venuta in questa città per realizzare un sogno. Anche per me non è stato facile, ma a differenza di lei la mia è una famiglia abbastanza benestante, con delle ideologie piuttosto intransigenti. Mio padre ha sempre contestato il sistema in cui viviamo, e nonostante i miei tentativi non sono mai riuscita a fargli comprendere che se avevo accettato di farne parte non era perché lo approvassi, ma perché volevo cercare di migliorarlo.»

«E ci è riuscita?»

«Non credo. E onestamente, dubito di riuscirci mai».

Seguì un lungo silenzio. Le due ragazze si osservarono l’un l’altra, cercando di cogliere i rispettivi pensieri.

«Comunque, io non ho intenzione di tornare indietro sulla mia decisione. Che mio padre lo accetti o meno, e per quanto difficile possa essere, non posso gettare al vento tutto quello che ho fatto per arrivare fino a qui.

E, se posso permettermi, dovrebbe farlo anche lei.»

«Come?» replicò Helena interdetta

«Non credo di poter comprendere davvero quello che prova, ma da come me ne ha parlato è evidente che il chandra le piace ancora, così come piaceva a Luna. Ha passato tutta la sua vita ad inseguire l’obiettivo che si era prefissata, e ora ha finalmente ottenuto quello che desiderava non le sembra stupido gettare via tutto?».

Helena batté violentemente il pugno sul tavolino, colta da una furia improvvisa.

«Tu non capisci. Con che coraggio potrei far finta che non sia successo niente e tornare alla mia vecchia vita? Dopo quello che ho fatto? Dopo quello che sono diventata?»

«Nessuno ha detto che deve dimenticare.» rispose Carmy per nulla intimorita, con la gentilezza di sempre «Farlo sarebbe il vero crimine. Il fatto che questa storia la faccia soffrire così tanto è la prova che i suoi sentimenti e il suo animo non sono così avvizziti come lei crede».

Detto questo Carmy prese fuori dalla tasca della giacca il regalo per sua sorella e lo mostrò ad Helena.

«Ci sono molte persone, molti ragazzi pieni di sogni come i suoi, che la ammirano e credono in lei. Pensa davvero che la adorerebbero così tanto se la vedessero sotto la luce in cui lei si vede ora? Persino Luna ha continuato a credere in lei fino all’ultimo, senza mai dubitare del vostro legame o della sua forza d’animo».

Helena rimase in silenzio, gli occhi spalancati e l’espressione attonita.

«Sono consapevole che la sua è stata un’esperienza terribile. Chiunque ne sarebbe rimasto schiacciato. Il consiglio che mi sento di darle è, invece che permettere al senso di colpa e al rimorso di sopraffarla, provi a fare tesoro di quanto successo per riscoprire ciò che realmente l’ha portata fin qui».

Carmy guardò nuovamente la foto, e anche Helena fece altrettanto.

«Non pensa che Luna lo avrebbe voluto? In fin dei conti, ora sta a lei portare avanti ciò in cui entrambe avete creduto».

Ci fu un nuovo, lungo silenzio, poi Helena si alzò dalla poltroncina, si avvicinò nuovamente alle tende e spinse un pulsante, aprendole. In lontananza si intravedeva la Magic Arena, una cupola specchiata che si stagliava al centro di un grande parco.

«Come ha fatto una come te a finire nella MAB?» domandò in tutta schiettezza, e riuscendo perfino ad abbozzare un sorriso «Sembri davvero troppo semplice e onesta per accompagnarti a gente simile.»

«Nella MAB ci sono persone indegne del ruolo che ricoprono. Ma è così in ogni istituzione. È nella natura umana che qualcuno anteponga sempre e comunque i propri interessi al bene della collettività o al proprio dovere. Ma può credermi se le dico che c’è anche tanta gente perbene, che ama il proprio lavoro e si adopera davvero per aiutare questa società.»

«Sembra quasi impossibile. Ma vedendo te, mi viene da pensare che forse potresti anche avere ragione».

Carmy sorrise, alzandosi a sua volta.

«Allora?» disse nuovamente Helena «Se non sbaglio non mi hai ancora detto per quale motivo sei venuta qui.»

«Accidenti, è vero!» esclamò Carmy cadendo nuovamente dalle nuvole «Effettivamente, avrei bisogno di una piccola cortesia da parte sua.»

«E cioè?».

 

Carmy, correndo con tutto il fiato che aveva dopo essere saltata giù dal taxi, raggiunse la madre giusto pochi minuti prima della partenza del rapido per Midgral che l’avrebbe riportata a casa.

«Si può sapere dove sei stata?» le domandò Morea mentre la figlia cercava di riprendersi

«Scusami, ci ho messo più del previsto.» rispose la ragazza, che poi riconsegnò alla madre il regalo per Judith «Ecco qui. Falle gli auguri da parte mia».

Morea lo prese, guardandolo.

L’autografo di Helena “OctaviaLoyde capeggiava in bella vista al centro della custodia.

«Carmy.» disse incredula

«Ho pensato che potesse essere un bel regalo per la mia sorellina. Così su due piedi, non mi è venuto in mente altro».

All’interno, ripiegato, c’era anche un foglietto scritto a mano.

«Ad una giovane e promettente ammiratrice.» lesse la donna «In attesa di poterci scontrare.»

«Ho dovuto togliere la scheda dall’incarto. Bisognerà che tu lo faccia riapplicare. E dille che mi dispiace per essermi dimenticata del suo compleanno.»

«Non credo sarà necessario.» rispose Morea con un sorriso «Sono sicura che te ne sarà infinitamente grata».

L’altoparlante annunciò che il treno era ormai in partenza. Morea si avvicinò a Carmy, che si sentì abbracciare come quando era una bambina, un abbraccio pieno di affetto e calore che le fece mancare nuovamente il respiro.

«È stata una bella giornata.» disse Mora guardandola negl’occhi «E qualunque cosa accada, voglio che tu sappia che io e tuo padre siamo e saremo sempre fieri di te.

Fai quello che ritieni giusto, e nessuno ti biasimerà. In fin dei conti, questa è la tua vita.»

«Mamma…».

Vi fu un nuovo abbraccio, più breve ma ugualmente intenso, poi Morea dovette salire a bordo prima che le porte si chiudessero.

«Ah già, dimenticavo.» disse affacciandosi dal finestrino e porgendo qualcosa a Carmy «Ti è caduto questo quando prima sei scappata via».

Vedendo di che si trattava, Carmy divenne bianca come un cencio.

Sapeva di non essersi dimenticata a casa il distintivo. Il suo distintivo di agente della MAB.

«Ecco, veramente…» cercò vanamente di giustificarsi.

Morea rispose con una risatina divertita.

«Non sei mai stata brava a raccontare bugie. Peccato, perché questa ti era riuscita bene.» poi si fece seria, materna «Mi raccomando. Continua farci sentire fieri della nostra testardissima figlia».

Un silenzio incredulo fu la risposta di Carmy, e quando il treno partì la ragazza stette a lungo ad osservarlo mentre si allontanava verso nord, con il cuore che batteva all’impazzata ad una strana sensazione al centro del petto, famigliare e molto piacevole.

Era stata davvero una lunga giornata. Lunga e speciale.

Il trillare del suo telefono la riportò alla realtà.

«Julienne. Sei tornata prima del solito. Come? Una cena al ristorante? Certo, perché no. Dove ti trovi?».

 

Qualche giorno dopo, la sparuta folla riunitasi per assistere ad un piccolo torneo regionale di periferia avrebbe avuto il grande onore e piacere di veder comparire, per la prima volta dopo sei mesi, la leggendaria Octavia, comparsa dal nulla come un fantasma mentre era in corso la premiazione.

Il suo arrivo fu salutato da un’ovazione degna di una finale, e quando chiese di potersi misurare in un duello amichevole con la vincitrice, una ragazzina appena adolescente, questa non ci pensò due volte accettare.

La notizia si diffuse in un batter d’occhio, tanto che nel momento in cui le due contendenti si materializzarono sull’arena quel piccolo palazzetto dello sport, da vuoto che era, si era riempito in ogni ordine di posto, ed erano arrivate persino le più importanti televisioni cittadine.

Erano tutti talmente eccitati al pensiero di poter assistere al primo combattimento della Rosa di Kyrador dopo tutti quei mesi che quasi nessuno si accorse del leggero cambiamento di look di Octavia, i cui lunghi capelli biondi, a differenza del passato, erano ora raccolti poco sopra le punte da un nastro nero elegantemente annodato.

Octavia alzò gli occhi al cielo, in direzione del sole, in parte nascosto da alcune fastidiose nuvole che durante il torneo avevano anche portato un accenno di pioggia, ed una strana luce si accese nei suoi occhi.

«Concorrenti ai posti!» ordinò l’arbitro «Fight!» e le due avversarie si lanciarono l’una contro l’altra.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Sono tornato dal regno delle ombre!^_^

No, a parte gli scherzi. Il fatto è che poco dopo aver pubblicato l’ultimo capitolo ho avuto la malsana idea di iscrivermi a ben due contest organizzati nel forum, e se a questo aggiungete l’inevitabile concitazione e mole di studio che caratterizza il mese di giugno capirete che non è stato facile trovare il tempo per riprendere in mano ToC.

Come avrete sicuramente notato è un capitolo di una brevità quasi disarmante, almeno per i miei standard. Il fatto è che ormai questa storia relativa al viaggio della madre di Carmy a Kyrador stava andando davvero troppo per le lunghe, così ho ritenuto opportuno chiudere la questione senza ulteriori giri di parole per tornare a seguire il sentiero principale.

Potete considerare questa come una lunga digressione grazie alla quale è stato possibile esplorare un po’ sia la psicologia di uno dei due protagonisti sia una fetta del contesto generale in cui si ambienta la storia

Grazie per aver avuto tanta pazienza, e spero continuerete a seguirmi.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 15
*** 13 ***


13

 

 

Il giorno successivo Carmy si presentò al lavoro come al solito.

Quelli che incontrò lungo il tragitto dall’ingresso al decimo piano, a cominciare dalla vecchia signora Pilkins che gestiva la caffetteria, non mancarono di notare quanto fosse stranamente allegra, anche più del solito.

Effettivamente Carmy non ricordava di essersi mai sentita così in pace con sé stessa. Le notizie giunte da casa l’avevano liberata di buona parte delle sue paure, e adesso non vedeva l’ora di poter sfruttare i primi giorni liberi per poter tornare al villaggio e passare un po’ di tempo con la sua famiglia.

Il suo buonumore tuttavia subì un duro colpo quando, entrando in ufficio, vide il proprio saluto mattutino ricambiato dai suoi compagni di squadra da sguardi molto strani, quasi giudicatori.

«Che succede?» domandò quasi con spavento.

Nessuno rispose, poi Alexia si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla ragazza tenendo in mano un dossier che Carmy riconobbe quasi subito.

«Trenta kylis che la sbatte come un tappeto.» mormorò Cane a Lucas

«Ci sto.»

«Mi potresti spiegare questo?» domandò il capitano senza giri di parole «Non ricordo che tu me ne abbia mai parlato.»

«Le carte di quell’indagine mi sono ricapitate in mano per puro caso.» tentò di giustificarsi dopo un lungo, imbarazzato silenzio «Volevo tenermi impegnata, e così ho iniziato a fare qualche ricerca.»

«C’è qualche motivo in particolare per cui hai scelto proprio questo caso?»

«È stato in buona parte per puro caso. Ma in effetti è stato più che altro per la vittima.»

«La vittima? Intendi il padre?»

«No, intendo in ragazzo.»

«Vittima!?» ripeté Cane «Ha quasi aperto la testa al suo vecchio.»

«Ho parlato con i suoi amici e i suoi compagni di accademia. Era una persona normalissima, come voi e me, prima di venire in contatto con la lilith. Ha iniziato a drogarsi dopo la separazione dalla fidanzata, e da quel momento ha perso tutto un pezzo alla volta.»

«È il prezzo che si paga per voler avere a che fare con quella roba.» disse schietto Lucas «D’altra parte, l’umanità convive con le droghe praticamente da sempre. La lilith è solo l’ultima in ordine di tempo.»

«La lilith genera mostri. Mostri che poi aggrediscono e uccidono altri innocenti. I fenomeni EDA nelle grandi città come Kyrador sono più che raddoppiati da quando la lilith ha iniziato a diffondersi massicciamente nei quartieri poveri. Se si potesse in qualche modo arrestare il diffondersi di questa droga, forse riusciremmo ad evitare alcuni di questi incidenti.»

«Tu la fai facile, ma non lo è.» replicò Cane «Sono mesi che la MAB cerca di venire a capo di questo fenomeno, fin da quando è cominciato.»

«Thomas ha ragione.» disse Alexia «Purtroppo non siamo mai riusciti a prendere nessuno, a parte piccoli spacciatori senza importanza. È chiaro che dietro vi è una organizzazione molto ben strutturata, ma proprio per questo riuscire ad incrinarla o a leggerne i segreti non è un’impresa semplice.»

«Ma io ho un nome.» esclamò Carmy come un fulmine a ciel sereno.

I suoi colleghi saltarono sulla sedia.

«Che cosa!?» esclamò Lucas

«Volevo parlarvene appena avessi avuto qualcosa di più in mano.» disse Carmy recuperando alcuni fogli dalla cartella che Alexia aveva in mano «Quando sono andata alla comunità a parlare con quel ragazzo non sono riuscita ad ottenere niente di preciso.

La sua mente era ormai compromessa, ma ha ripetuto più volte un nome».

Cercando tra i suoi appunti infine la ragazza trovò il nome in questione.

«Eccolo qui.» disse indicandolo al suo caposquadra

«Timur.» lesse Alexia «Sei sicura che sia un nome?»

«Sì.» poi Carmy parve esitare «Almeno credo. Avrei controllato nel database, ma non ho l’accesso agli archivi della polizia».

Alexia restò in silenzio. Non sembrava molto convinta.

«Timur.» mugugnò d’un tratto Cane «Perché questo nome non mi giunge nuovo?».

Bastò una rapida occhiata nell’archivio perché Cane comprendesse come mai quel nome gli sembrava famigliare.

«Che hai trovato?» domandò Lucas vedendolo sorridere compiaciuto

«Plivis Emeraude.» rispose Cane indicando la foto di riconoscimento che capeggiava sul suo monitor «Meglio noto come Padre Timur. È uno dei capi della locale comunità del Culto di Ela».

Alexia e Lucas raggiunsero l’amico alla sua scrivania.

«La setta religiosa?» disse il capitano «Sei sicuro?»

«Sicurissimo. E per essere un sedicente religioso ha una lista di precedenti lunga un chilometro. Aggressione, profanazione, discriminazione razziale, e via dicendo.»

«Un normale discepolo di Ela, insomma.» commentò ironico Lucas

«Il Culto di Ela non è nuovo a problemi con gli stupefacenti.» ipotizzò Alexia

«Vero.» rispose Cane «Fumano e sniffano di tutto nel corso dei loro rituali perversi. E sappiamo per certo che sono consumatori abituali di lilith, infatti Padre Timur è stato arrestato proprio a seguito di una indagine a questo senso.»

«Il ragazzo può essere venuto a contatto con la droga durante uno dei loro rituali.»

«O forse.» irruppe Carmy rompendo il silenzio in cui era calata quasi subito all’inizio di tutto quel trambusto «Sono stati loro a fornirgliela».

Tutti la guardarono, visibilmente perplessi.

«Carmy, i membri del Culto di Ela sono fanatici integralisti. Non spacciatori.» tentò di spiegarle Alexia garbatamente ma con fermezza «E di certo non possono averla creata loro. Anche se hanno degli ammiratori influenti, sono più poveri di quanto vogliano far credere».

Più per sfizio che per altro Lucas si sedette al proprio computer per fare qualche altra ricerca veloce sul conto di Padre Timur, e ciò che vide lo lasciò senza parole.

«Talmente poveri da potersi permettere un villino nel quartiere residenziale Mystral da diecimila kylis al mese?»

«Come dici!?» esclamò Cane

«Il nostro povero, squattrinato pastore ha stipulato un contratto d’affitto per un villino in uno dei quartieri più esclusivi della città giusto nove mesi fa.»

«O il fanatismo religioso è diventato improvvisamente lucrativo» scherzò Cane «O il nostro servo di Ela ha ricevuto la grazia.

Che ci sia davvero il culto di Ela dietro alla comparsa della lilith?».

Carmy non riusciva quasi a stare dietro a tutto quel discorso. Non perché fosse troppo difficile, ma più che altro perché non riusciva a credere che da un’indagine apparentemente così banale, presa in mano più per mettersi alla prova che per vera determinazione, potesse venire fuori qualcosa del genere.

Nella deduzione di Cane c’era però qualcosa che non andava, e Alexis non mancò di farlo notare.

Il problema era lo status sociale di Padre Timur all’interno della sua setta. Non era sicuramente un semplice adepto, ma non era neanche un priore. Era solo un semplice pastore, un grado intermedio che non garantiva potere o influenza particolari.

«Potrebbe essere anche lui uno strumento.» ipotizzò Lucas «Un intermediario tra le alte gerarchie della setta e gli spacciatori.»

«Aspettate, non corriamo troppo.» interruppe Alexia tornando coi piedi per terra «Abbiamo solo i vaneggiamenti di quasi omicida con la mente distrutta dalla droga. Qualsiasi procuratore si metterebbe a ridere, figuriamoci chiedere un mandato.»

«Informarsi non costa nulla.» disse Cane quasi con malizia «Un giretto alla chiesa gestita dal nostro pastore milionario non guasterebbe. Giusto per tastare il terreno».

Seguì un lungo ed enigmatico silenzio.

I membri della squadra si guardarono tra loro, quasi a voler leggere i rispettivi pensieri, poi tutti gli sguardi si concentrarono su Alexia, che stette parecchi secondi immobile ad osservare la cartella aperta tra le mani.

«D’accordo.» disse richiudendola «Thomas, vai a dare un’occhiata al tempio gestito da padre Timur. Se è vero che là attorno spacciano lilith non dovrebbe essere difficile scoprirlo.»

«Al volo, capo.» rispose il giovane agente balzando in piedi

«Io intanto porterò questi documenti al maggior Owens. Vedrò di convincerlo ad avviare un’indagine ufficiale. Tu intanto Pierre fai qualche altro controllo sul Culto di Ela. Guarda se hanno legami con qualcuno che conosciamo coinvolto nel traffico di droga.»

«Come fatto».

In due secondi Cane aveva già infilato il cappotto, e dopo aver lasciato con disappunto una banconota sulla scrivania di Lucas si stava avviando verso l’uscita, ma all’ultimo Alexia lo fermò.

«Porta Carmy con te».

Tutti allora si volsero a guardarla increduli, a cominciare da Carmy, che nel frattempo era tornata alla sua scrivania.

«È la tua indagine se non sbaglio».

La ragazza rimase un momento basita, poi si alzò dalla sedia con la più ineguagliabile felicità dipinta sul viso.

«Grazie infinite, capitano.»

«E da ora in poi, cerca di non nascondermi più niente.» la rimproverò Alexia con un sorriso gentile «Ricorda che fai parte di una squadra.»

«Non si ripeterà più, ha la mia parola.» rispose Carmy, che recuperata la giacca dell’uniforme si accodò in tutta fretta a Cane seguendolo agli ascensori.

 

Per buona parte del viaggio in macchina Carmy non riuscì ad aprire bocca, seguitando ad osservare la strada con la testa appoggiata al finestrino e l’espressione abbattuta, quasi triste.

«Non avere quell’aria sconfortata.» disse d’improvviso Cane «O penserò di stare trasportando un cadavere.»

«Scusami. È solo che…»

«Ti pagano per fare il tuo lavoro, se non sbaglio. E l’hai fatto. Punto».

Carmy lo guardò perplessa.

«Quindi… non siete arrabbiati?»

«Certo, come ha detto il capitano, dovresti tenere a mente che siamo una squadra, ma se c’è una cosa che Alexia ammira è l’intraprendenza. Hai dimostrato perspicacia e spirito d’osservazione, che nel nostro lavoro sono qualità basilari ma che non tutti possiedono. E questo è senza dubbio un punto a tuo favore.»

«Grazie Thomas.» disse a quel punto Carmy molto più sollevata «Sei sempre un amico.»

«Non c’è di che. Fa parte del mio naturale sex appeal dopotutto».

Lasciata la circonvallazione Cane imboccò il viadotto diretto a nord, abbandonando anche questo al quarto casello, e fatti pochi chilometri i due raggiunsero il quartiere periferico dell’ildagar, una delle zone dove la Chiesa di Ela aveva il maggior numero di sedi.

Il tempio gestito da padre Timur, in realtà il sudicio sotterraneo di un palazzo in disuso, si trovava in un vicolo laterale non lontano dalla piazza del mercato, facilmente riconoscibile come tutti i luoghi sacri del culto per via dei vistosi e decisamente lugubri orpelli che decoravano l’entrata, dalle candele verde smeraldo al teschio di unicorno appeso sull’architrave.

Cane fermò la macchina dall’altro lato della strada, e per qualche minuto lui e Carmy stettero ad osservare in incognito l’andirivieni continuo di persone che entravano e uscivano dal tempio.

Molte delle facce che si potevano intravedere al di sotto dei voluminosi cappucci degli adepti erano di sicuro poco raccomandabili, ma così a vista nessuno aveva l’aria dello spacciatore, né tanto meno del drogato in cerca di una dose.

«Sembra tutto normale.» osservò Carmy «Forse mi sono sbagliata.»

«Non avere fretta.» la ammonì Cane «In queste cose ci vuole molta pazienza».

Passarono quindi alcune ora, durante le quali non accadde nulla di significativo. Per cercare di rendere l’attesa meno opprimente e combattere i morsi della fame Carmy andò a recuperare dei panini da un chiosco poco distante, e mentre lei e Cane stavano finendo di mangiare Padre Timur arrivò al  tempio scortato da due dei suoi adepti più fedeli.

La vistosa pelata e gli abiti sgargianti, forse anche troppo per uno che a parte il santone non si sapeva bene cosa facesse per vivere, lo rendevano facilmente riconoscibile, ma quello che stupì di più i due agenti fu l’atteggiamento stranamente guardingo del loro uomo.

Da come si guardava attorno sembrava quasi che si sentisse seguito, e la cosa preoccupò Carmy, ancora troppo inesperta per avere la capacità di mascherare al meglio il proprio link, l’energia eterea che come un’aura permetteva agli stregoni di percepirsi e riconoscersi tra di loro.

«Sta tranquilla.» le disse Cane vedendola in ansia e indicandole una specie di antenna che spuntava dal cruscotto «Questa macchina è schermata.»

«Però indosso l’uniforme…»

«Non credo possa vedere così lontano. E comunque i vetri sono specchiati».

La prova dei fatti sembrò dare ragione a Cane; Timur si avvicinò cautamente all’ingresso del tempio, quindi guardatosi un’ultima volta attorno si infilò all’interno seguito dai suoi uomini.

«Visto? Tutto a posto.»

«Mi è sembrato molto guardingo.»

«Forse anche troppo.»

«A me è sembrato che stesse cercando qualcuno. Forse aspetta visite.»

«Già. Ma da parte di chi? È questo che vorrei tanto sapere».

Passò qualche altro minuto, e alla radio arrivò una richiesta di assistenza da parte di una pattuglia della polizia municipale per un incidente stradale accaduto a pochi isolati di distanza; c’erano stati dei feriti, alcuni erano gravi, e si richiedevano degli stregoni per operare i primi soccorsi in attesa delle ambulanze.

«Vado a dare loro una mano.» disse Cane scendendo dalla macchina «Tu aspetta qui.»

«Aspetta, che cosa devo fare?»

«Quello che fai di solito. Osserva e analizza.» si congedò l’agente con un ammiccamento «A quanto si è visto ti riesce bene».

A quel punto Carmy restò sola, e per interminabili momenti la sua mente fu occupata da un mare di pensieri su quello che le era capitato.

Forse non era poi così inadatta per quel tipo di lavoro, come aveva quasi finito per convincersi all’indomani della sua prima, mediocre esperienza sul campo.

Recuperata la freddezza, la ragazza tornò ben presto a concentrarsi sul proprio compito, e lenti magiche materializzate davanti agli occhi prese ad osservare con attenzione ogni faccia che entrava e usciva dal tempio, usando la propria memoria fotografica per memorizzare tutte quelle che le parevano sospette.

Verso le due del pomeriggio, quando Cane se n’era già andato da un pezzo, Carmy notò qualcuno di strano avvicinarsi al tempio, la stessa aria guardinga di padre Timur e il medesimo fare sospettoso. Indossava anche lui il cappuccio del culto e non poté vederlo bene, ma riuscì a scorgere un mento appuntito, dalle linee gentili, contornato da un leggero accenno di barba.

Non doveva essere una persona benestante, i suoi abiti erano piuttosto consumati, ma nonostante ciò Carmy intravide qualcosa di luccicante e dall’aria preziosa al polso sinistro, forse un bracciale o un orologio.

Seguì quell’individuo con lo sguardo fino a che le fu possibile, e mentre lo vedeva avvicinarsi all’ingresso non riusciva a decidersi su cosa dovesse fare; da una parte c’era l’ordine di limitarsi ad osservare, dall’altra il desiderio di scoprire l’identità di quella figura che il suo istinto percepiva come sospettosa.

Abbassò gli occhi, come a volersi sforzare di prendere una decisione, e nel momento in cui li rialzò quel tipo si era già defilato.

Carmy era presa a tal punto a domandarsi se avesse fatto la cosa giusta ad esitare che quasi saltò sul sedile quando sentì qualcuno battere delicatamente sul finestrino del passeggero. Si girò, già pronta a coprire Cane di insulti per lo spavento che le aveva fatto prendere, ma invece che del suo collega incrociò il volto di un giovane di bell’aspetto che la guardava in modo gentile, capelli biondo paglierino a spazzola, portamento rispettabile e un volto dai tratti marcati addolcito però da seducenti occhi blu.

Indossava un giubbetto sportivo marrone scuro dall’aria costosa, e portava al collo un bel pendente dalla forma indistinguibile, simile al profilo di un leone.

«Mi scusi.» si affrettò a dire vedendo la giovane che respirava profondamente «Non volevo spaventarla.»

«No, si figuri.» rispose Carmy abbassando il finestrino

«È un agente della MAB?»

«Infatti».

Quel giovane uomo aveva un modo di fare molto garbato, che colpì e in un certo qual modo affascinò Carmy, facendola immediatamente calmare.

«Come mai si trova qui, agente? È forse accaduto qualcosa? Sa, abito da queste parti.»

«Niente di serio.» preferì mentire lei dopo un momento di esitazione «Solo una chiamata per dei disordini.»

«Capisco. Beh, meglio così. Ma è da sola?»

«Abbiamo ricevuto un’altra chiamata per un incidente d’auto poco distante. Il mio collega è andato a controllare.»

«D’accordo. Allora, non la disturbo oltre. Buona giornata.»

«Anche a lei».

Il giovane a quel punto se ne andò salutando rispettosamente Carmy, e svoltato l’angolo si incamminò lungo l’ampio viale che costituiva la principale arteria stradale del quartiere.

 

Regnava una grande confusione sui marciapiedi, affollati anche più del solito, ma pur seguitando a tenere gli occhi rivolti al selciato il giovane procedeva sicuro, schivando agilmente la maggior parte di coloro che procedevano nella direzione opposta.

In quello stesso momento Vyce stava procedendo lungo la medesima strada, diretto alla locale caserma di polizia per chiedere lumi di un recente aumento di casi EDA nella zona. Lui e il giovane si urtarono all’ingresso della metropolitana, ma erano entrambi troppo presi dai propri pensieri per prestarsi vicendevolmente attenzione.

«Chiedo scusa.» disse distrattamente il capitano rivolto allo sconosciuto.

Solo qualche attimo dopo, con il senno di poi, Vyce ebbe come una specie di presentimento.

Non aveva visto bene il volto della persona che aveva urtato, anzi, non l’aveva visto per niente, ma gli era parso di notare qualcosa, come un che di famigliare.

Un’espressione di stupore si materializzò sul suo viso. Si immobilizzò, spalancando gli occhi, volgendosi subito alle proprie spalle alla ricerca del misterioso sconosciuto, senza tuttavia riuscire a scorgerlo.

Con l’espressione attonita e la bocca impastata da una improvvisa assenza di saliva ridiscese nuovamente nella metropolitana, gettando frettolosamente un occhio ad ogni volto che incrociava ed aumentando sempre più il proprio passo, che divenne in breve vera e propria corsa.

Stava passando per la zona dei negozi quando, nuovamente, lo intravide, mescolato tra la folla come a non voler essere individuato.

«Ehi tu!» lo chiamò, ma quello non si volse, né diede segno di aver sentito, e allora Vyce riprese l’inseguimento «Aspetta!».

Di nuovo lo perse, e di nuovo incominciò a cercarlo nella calca, seguendone di volta in volta la presenza eterea e quasi sovrannaturale fin sui binari, dove tuttavia arrivò quando l’unico convoglio in transito in quel momento aveva appena lasciato la stazione.

Vyce a quel punto rimase a lungo immobile, come pietrificato, gli occhi persi nel vuoto e la mente in subbuglio.

Con il passare dei secondi si convinse sempre più dell’infondatezza di ciò che aveva visto, eppure una parte di lui continuava a dire che non si era sbagliato.

«No.» si disse infine «È impossibile.» e tornò, seppur esitante, da dove era venuto.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Ve l’avevo detto che stavolta non vi avrei fatti attendere.

Come avevo promesso, chiusa la parentesi “visita di famiglia” siamo tornati ad occuparci delle cose serie. Ora la trama và delineandosi nel vero senso della parola, e non ci vorrà molto perché i nodi vengano al pettine.

Confesso che nella prima bozza del capitolo Carmy e Vyce si sarebbero dovuti incontrare, ma poi ho pensato che fosse troppo presto per far incontrare i due protagonisti e così ho modificato il lavoro in corso d’opera. Spero che anche così risulti verosimile.

A breve il nuovo capitolo, stavolta quasi certamente incentrato per buona parte su Vyce, Jake e Avalon.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 16
*** 14 ***


14

 

 

«La situazione mi è parsa abbastanza tranquilla.» disse Cane facendo il suo rapporto «Spiantati e pochi di buono come se piovesse, ma niente che faccia sospettare ad attività legate al commercio di droga.»

«Come era da prevedersi.» osservò mestamente Lucas «Saranno anche pazzi infervorati, ma non sono di certo degli stupidi. Almeno per quanto riguarda i capi della setta.»

«E comunque, quel posto mi è sembrato decisamente troppo alla portata di chiunque per celare un segreto tanto pericoloso. La gente andava e veniva senza problemi. Scommetto che avrebbero lasciato entrare anche me. Non dava certo l’aria di un luogo a cui potevano eccedere solo pochi privilegiati».

Carmy abbassò lo sguardo.

Forse si era sbagliata. Forse la sua determinazione a voler dimostrare di essere degna dell’opportunità che le era stata concessa l’aveva spinta ad eccessivi voli di fantasia, facendole vedere cose che in realtà non esistevano.

«Comunque.» disse Cane quasi a voler gettare acqua sul fuoco «È vero che molta della gente che frequenta quel posto non ha l’aria molto raccomandabile. Potranno anche non essere signori della droga, ma le mani in pasta in qualcosa di poco chiaro gli adepti della chiesa, o quantomeno quelli che gravitano attorno a padre Timur, ce le hanno di sicuro.»

«Se non altro.» disse Alexia mostrando un documento sul suo apparecchio virtuale «Abbiamo l’autorizzazione del comandante per un’indagine informale. Niente di che, ma almeno potremo muoverci liberamente.

Comunque non mi aspetterei granché».

Carmy non riusciva a capire se l’atteggiamento di Alexia e Lucas, così scettici e rinunciatari, fosse dettato da pura e semplice schiettezza o da una sorta di determinazione a farle comprendere i suoi errori. In quel momento solo Cane sembrava dalla sua parte, malgrado lo scetticismo avesse sicuramente contagiato anche lui.

«In ogni caso, non saltiamo alle conclusioni.» sentenziò il capitano «Prima di prendere qualunque decisione, cerchiamo di condurre un’indagine seria.»

«Sono d’accordo.» commentò Cane «Dopotutto è per questo che ci pagano».

 

«Quel maledetto santone arrogante!» sbottò Tristano entrando nel salone della villa al seguito di Valerian e andando a sedersi alla prima poltrona libera

«Che è successo?» chiese Lancillotto

«Timur ha alzato il prezzo di vendita.» spiegò Valerian «Ora vuole quattrocento kylis per ogni dose che ci fornisce.»

«Quattrocento kylis!?» ripeté Gareth «È quasi il trenta per cento in più. È forse impazzito?».

Tristano si attaccò ad una bottiglia di vino nel tentativo, infruttuoso, di sbollire la rabbia.

«Avido bastardo. Forse dimentica che siamo stati noi a dargli i mezzi per entrare nel mercato della lilith

«Purtroppo noi possiamo anche aver sviluppato la droga.» osservò mestamente Percival «Ma i fondi per avviare l’industria Timur li ha reperiti trafugandoli dalle casse della sua setta. E se non colma l’ammanco quanto prima, i priori lo sventreranno.»

«Magari lo facessero. Sarebbe la fine più giusta per quel maledetto porco.»

«Non si tratta di uno scherzo.» incalzò Gareth, che era un po’ il cassiere del gruppo «Se dobbiamo pagare così tanto per rifornirci di droga, poi saremo costretti ad alzare a nostra volta il prezzo di vendita. E se lo alziamo troppo, i nostri compratori andranno altrove.»

«Per non parlare del fatto che più della metà delle dosi che acquistiamo vengono messe da parte per le nostre attività.» puntualizzò Caradoc «Soldi che escono senza che ne entrino altri.»

«Potremmo tagliare i ponti con Timur e arrangiarci per conto nostro.» ipotizzò Lancillotto, pur consapevole di quanto ciò non fosse fattibile.

C’era una ragione se il gruppo aveva preferito delegare ad altri la produzione della lilith, tenendo per sé solo la semplice attività di spaccio.

La MAB dava la caccia ai signori della droga molto più di quanto non la desse ai terroristi, pertanto si trattava di un business troppo pericoloso per chi come loro aveva la necessità di attirare meno attenzione possibile.

«Non abbiamo altra scelta che accontentarlo.» fu l’unica conclusione di Valerian

«Ma così andremo in rosso.» tentò di protestare Caradoc

«Ho ancora i fondi segreti della mia famiglia. Useremo quelli.»

«Sarai povero in canna entro un anno.» commentò Percival

«I soldi non sono un problema. E comunque, se il nostro piano avrà successo, non servirà tutto questo tempo».

Owain sembrava fuori dalla conversazione. Restava seduto al suo solido divanetto, il gomito poggiato sul bracciolo e la testa sorretta dal pugno semichiuso, come soprapensiero.

Anche lui aveva accompagnato Valerian e Tristano all’incontro richiesto da Timur, ma era stato lasciato fuori, a fare la guardia.

«Qualcosa non và?» gli chiese Valerian

«No, niente.» rispose lui con uno strano sorriso «Ripensavo ad un vecchio amico».

 

Quando aveva lasciato la divisa, che non aveva mai sentito adatta a sé, per dedicarsi alla politica, il giovane ex senatore Connor Fujitaka non immaginava neanche lontanamente un giorno sarebbe giunto a sedere sullo scranno più alto della sua nazione.

Prima di lui mai Caldesia aveva avuto un presidente sotto i quarantacinque anni.

Dopo quasi vent’anni di dominio conservatore il popolo aveva scelto di percorrere la strada del cambiamento, decidendo di dare fiducia a quel giovane politico sbucato dal nulla, senza pedigree, ma testardo quanto bastava per sparare a zero nei suoi comizi su alcuni dei dogmi ritenuti più inviolabili della politica caldesiana senza curarsi delle conseguenze.

Non era un ingenuo.

Sapeva quanto governare Caldesia non fosse un compito facile. Tra la MAB, un esercito pieno di nazionalisti, un predominio internazionale che ne faceva talvolta una scomoda alleata, Caldesia era una nazione spaccata sotto molti aspetti.

Secondo la stampa era proprio per questo che i conservatori avevano perso. Perché alla lunga non erano stati capaci di ragionare in un’ottica moderna, seguitando a tenere un atteggiamento freddo con la MAB e imperioso nei confronti delle nazioni alleate, nel tentativo di ribadire la sovranità nazionale e, nonostante tutto, il ruolo di Caldesia come guida del blocco filo-agenzia.

Tuttavia non era ipotizzabile un governo stabile e duraturo per la Repubblica dei Gigli senza l’appoggio dell’esercito e una dichiarazione di amicizia coi conservatori moderati, e così Fujitaka aveva scelto di includere due militari e due membri dei moderati nel suo esecutivo, che ora, a due settimane dalla nomina ufficiale, si preparava ad annunciare.

Era teso mentre attendeva il via libera dei tecnici per la presentazione, e continuava a sfiorare con il dito l’asticella degli occhiali camminando avanti e indietro per la biblioteca del palazzo presidenziale.

«Non essere così nervoso.» gli disse Ingrid, la sua giovane assistente, sistemandogli la cravatta «Eri quasi più calmo prima del giuramento da presidente.»

«Chi l’avrebbe mai immaginato che un giorno mi sarei rivolto in diretta all’intera nazione?» disse tremando per l’emozione «È incredibile. Non riesco a far cessare questo tremore. Mi sento come uno studente impreparato il giorno dell’esame.»

«Tu sei preparato. Il più preparato di tutti. Altrimenti non saresti arrivato qui».

Rincuorato da quelle parole Connor riuscì a calmarsi, o perlomeno a smettere di tremare.

Strinse amorevolmente la mano di Ingrid nelle sue, guardandola come il giorno in cui le aveva chiesto di sposarlo, e avvertendo nell’animo lo stesso calore che aveva provato quando si era visto rispondere con un imbarazzato ma felice cenno di assenso.

«Grazie per essermi rimasta vicina per tutto questo tempo.»

«Io ho sempre creduto in te.» disse lei con lo stesso tono gentile «Sia come assistente che come moglie. Questa nazione e questo pianeta hanno molte cose da sistemare, e tu sei l’unico che possa riuscirci.»

«Sei davvero sicura che ci riuscirò?».

Lei sorrise.

«Ti ricordi quando hai cominciato la tua carriera politica? Avevi solo una stanza d’appartamento, un computer e tante idee. Un poco alla volta quelle idee si sono trasformate in azioni, e con i tuoi discorsi appassionati hai conquistato il cuore di intere regioni. La gente ha creduto in te perché in te ha visto quel cambiamento che tanto desiderano.»

«Stai sbagliato.» le disse baciandola sulla guancia «Avevo anche te quando ho cominciato. E non credo che sarei arrivato fino a qui senza il tuo sostegno e il tuo appoggio.»

«Intendi morale o materiale?» ammiccò Ingrid «Dopotutto è stata la mia famiglia a pagare buona parte delle spese per la tua campagna elettorale».

Non vi era malizia in quel commento, pertanto Connor non se la prese, anche perché in fin dei conti era la verità. Un umile figlio di piccoli imprenditori come lui non si sarebbe mai potuto permettere una corsa per la poltrona di presidente, non senza un generoso finanziatore alle spalle. Sotto questo aspetto, conoscere Ingrid durante uno dei suoi tanti comizi di quartiere era stato come vincere alla lotteria.

«Dovrò ricordarmi di ringraziare di nuovo tuo padre.» sorrise divertito il giovane presidente

Di nuovo si baciarono, un bacio pieno d’amore, interrotto al culmine della passione da un inopportuno bussare alla porta.

«Signor presidente.» disse un tecnico scostando leggermente il battente «Siamo pronti.»

«Molto bene.» balbettò lui.

Per un attimo sentì nuovamente montare l’ansia, ma gli bastò guardare nuovamente negli occhi la moglie per ritrovare la calma.

«Ci siamo.» disse sospirando.

Con Ingrid al seguito, Connor percorse i corridoi del palazzo fino alla stanza dorata, dove i tecnici avevano finito di montare gli apparecchi di registrazione. Giusto il tempo di sistemarsi un’ultima volta la cravatta e farsi asciugare il sudore, quindi si sedette alla sua nuova scrivania, rivolgendo un’ultima occhiata sorridente alla moglie prima di posare il proprio sguardo dritto in macchina.

«È tutto pronto signor presidente.» disse il regista facendo un cenno «In onda fra tre, due, uno…».

Le luci si abbassarono, quelle della telecamera si accesero, e un istante dopo l’ologramma di Connor Fujitaka, neoeletto presidente della Repubblica di Caldesia, compariva nelle case di tutti i suoi concittadini.

«Buonasera, cittadini di Caldesia».

 

Il generale Rex Hetworth aprì il portasigari dalla sua scrivania, recuperandone uno ed offrendone anche al suo poco gradito ospite, che tuttavia declinò rispettosamente.

In quanto alto ufficiale dell’esercito caldesiano il suo compito era proteggere e amministrare la sicurezza nazionale, ma come neonato ministro della difesa del governo da poco eletto alla guida del Paese aveva anche il dovere di garantire buoni rapporti sia tra Caldesia e le altre nazioni sia tra Caldesia e l’alto comando della MAB.

Poche persone a Caldesia erano ostili al sistema di governo che reggeva la politica internazionale quanto lui, ma se da una parte deprecava l’eccessiva influenza della MAB nella politica di varie nazioni, e della sua in particolare, dall’altra non poteva tollerare chi usava il terrorismo per cercare di cambiare il sistema.

A volte era davvero difficile capire cosa gli andasse meno a genio, se gli atteggiamenti autoritari della MAB o quelli sovversivi dei terroristi come Avalon.

«Allora?» chiese avvicinando un fiammifero alla punta del sigaro «A cosa devo il piacere di questa visita, ammiraglio Forrest? Se non sbaglio era da un pezzo che non ti si vedeva in città.»

«Vediamo di evitare la cortesia forzata, Rex.» rispose asciutta Constance «Io non piaccio a te, e tu non piaci a me. Questo è evidente. Sono qui solo perché Fujitaka me lo ha chiesto».

Il generale rise sotto i pasciuti e ben curati baffi marroni.

«Che gran bel presidente ci ritroviamo. Visto che non ha abbastanza spina dorsale per venirmi a parlare di persona, ha incaricato la sua vecchia amica e istruttrice di venire a farlo per lui.

Dopo tutti questi anni, ancora non ti sei stancata di fargli da segretaria?»

«Modera i toni, Rex. Fujitaka non è più il ragazzino ingenuo e remissivo che hai avuto sotto di te nell’esercito. Ora è il presidente di questa nazione, e ti ricordo che è per merito suo se ora poggi le tue grosse e tronfie natiche su quella poltrona.»

«Un soldato che sceglie il congedo anticipato per trasformarsi in un politico non avrà mai il mio rispetto. Questa poltrona prima o dopo l’avrei ottenuta comunque, con lui o con qualunque altro presidente.»

«Ma ora sei ministro. E sia come ministro che come soldato, lui è il tuo superiore. E questo ti obbliga a tenere un certo tipo di condotta, che ti piaccia o no.»

«Vieni al sodo. Questo discorso inizia ad andare per le lunghe.»

«Come vuoi. Allora la farò breve. Devi darci un taglio col tuo metterti in mostra».

Lo sguardo ironico del generale fu più che eloquente. Aveva capito benissimo di cosa si stesse parlando, ma ciò nonostante,e a scanso di equivoci, Constance volle essere il più chiara possibile.

«I tuoi proclami oltranzisti sono stati tollerati fino a questo momento in virtù del prestigio di cui godi tuttora nell’esercito, ma ora che sei ministro sarebbe il caso di moderare i toni».

Seguì un silenzio lungo e teso. Il generale non aveva mai fatto mistero a proposito della sua linea di pensiero riguardo a quelli che riteneva i difetti della società, intervenendo spesso in dibattiti e occasioni pubbliche, ma fino a quando a parlare era un militare la cosa poteva anche risultare accettabile.

Le forze armate caldesiane d’altro canto non erano mai state troppo accomodanti con la MAB, ma da un politico, e soprattutto da un ministro, ci si aspettava un atteggiamento più consono e propenso alla tolleranza.

«Caldesia non può permettersi un nemico come il Bureau, e tu lo sai.» lo provocò l’ammiraglio «Non in questo momento».

Di nuovo ci fu silenzio, quindi Rex schiacciò il sigaro ancora mezzo intatto nel posacenere accanto allo scrittoio sibilando tra i denti.

«Mi state tappando la bocca.»

«Ti sto chiedendo di pensare sul serio al benessere del tuo Paese. Sei diventato ministro perché il presidente voleva mandare un segno di distensione al Bureau e al resto della coalizione internazionale che lo sostiene.» quindi Constance sorrise beffarda «Hai tutto da guadagnarci a startene buono, e a favorire una pacifica collaborazione tra il governo e la MAB.

C’è tanta gente vicina al presidente a cui non importa nulla di tenere buoni rapporti con l’elite militare.

Se per qualche motivo Connor dovesse trovarsi nei guai con l’agenzia, che la causa di tutto sia tu o meno la prima testa a saltare sarà la tua.

Chiaro il concetto?»

«D’accordo.» soffiò dopo qualche attimo il generale «Per il momento me ne starò tranquillo. Ma non contate di potermi tenere imbavagliato per sempre.»

«Per il momento questo mi basta.» replicò Constance col solito tono fortemente ironico «Ma ricordati bene che ti terrò sempre d’occhio.»

«Anche tu faresti meglio a ricordarti una cosa.» le rispose per le rime Rex, con negli occhi la più ceca determinazione «Come soldato mi sono sempre sentito in dovere di proteggere il mio Paese, e da ministro quel sentimento è diventato se possibile ancora più forte.

Se avrò il sentore che chiunque, inclusa la MAB, rappresenti una minaccia per Cladesia e i suoi cittadini, non esiterò ad agire di conseguenza».

 

 

Nota dell’Autore

Rieccomi!

In questi giorni vado veramente come un treno.

Tempo libero, ispirazione ed estasi creativa sono dalla mia parte, e mi portano a scrivere per ore senza fermarmi mai.

Ma passiamo al nuovo capitolo.

Finalmente ci siamo.

Con l’ingresso sulla scena del presidente Fujitaka e del generale Hetworth tutti i personaggi della storia sono sulla scena, e la vicenda può iniziare a delinearsi finalmente in tutti i suoi aspetti.

Entrambi questi nuovi personaggi andranno un po’ in sordina per qualche tempo, per poi tuttavia arrivare a giocare un ruolo sempre più importante man mano che ci avvicineremo al finale.

Grazie come sempre a chi legge questa mia storia, e mi raccomando.

Seguite anche il mio blog.

A breve, una sorpresina.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 17
*** 15 ***


15

15

 

 

La tradizione prevedeva che la domenica successiva alla nomina ufficiale del nuovo governo di Caldesia questo venisse presentato alla nazione nel corso di un ricevimento da tenersi all’Hotel Gardenia, trenta miglia a ovest di Kyrador. Un avveniristico edificio il cui fiore all’occhiello era il salone dei ricevimenti, realizzato interamente in vetro e cristallo ed elegantemente poggiato lungo tutta la superficie occidentale del lago di Bayris.

Tutta la nobiltà, l’alta politica e le forze armate di Caldesia e non solo, per un giorno, concentrati in un immerso salone che emergeva come per incanto dall’acqua del lago nella quiete e nell’amenità della campagna caldesiana.

Con la benedizione di un piacevole sole di inizio estate, e di un caldo reso decisamente sopportabile dalla piacevole brezza che scendeva dalle montagne, anche quella volta la tradizione era stata rispettata, e delegati di quasi ogni nazione erano accorsi per conoscere il primo presidente progressista di Caldesia da un ventennio a quella parte e la squadra di ministri che lo avrebbero accompagnato per i successivi quattro anni.

Il presidente Fujitaka sembrava essersi immediatamente calato nel proprio ruolo. Parlava con scioltezza, rispondendo colpo su colpo alle domande dei giornalisti e degli invitati, alcuni dei quali sembravano non aspettare altro che un suo passo falso per chiederne conto, sempre con accanto la sua fedele consorte.

Da lontano, l’ammiraglio Forrest lo seguiva con lo sguardo, indifferente alle discussioni del piccolo gruppo di alti ufficiali nel quale era finita a fare conversazione. Aveva visto crescere quel ragazzo e aveva creduto nelle sue potenzialità, al punto da finanziare la sua campagna elettorale, e anche se era ingiusto pensare che lo avesse fatto per tornaconto personale una punta di ambizione vi era comunque.

Dopo tanti anni di isolamento cominciava a sentire la mancanza degli ambienti in cui aveva nuotato per decenni, e Fujitaka poteva essere il mezzo ideale per tornare a rivestire una posizione che la rendesse capace di contribuire nuovamente al benessere del suo Paese.

«Signor presidente.» domandò un giornalista «Voi avete fatto della ridiscussione dello statuto in materia di stregoneria uno dei pilastri della sua campagna elettorale. È ancora determinato a proseguire per questa strada?»

«Assolutamente. Come primo provvedimento del mio mandato, ho intenzione di proporre una profonda revisione delle leggi magiche e del codice sulla stregoneria.»

«Ma le leggi sulla stregoneria sono legate a vincoli internazionali.» obiettò un inviato di un’altra rete

«Non tutte. Dei cambiamenti possono essere fatti senza dover per forza ottenere l’autorizzazione delle Nazioni Unite. È mia intenzione partire da questo, nella speranza che ciò possa spronare anche gli altri capi di stato e di governo a rivedere in toto il codice legislativo internazionale.»

«Ma non crede che ciò potrebbe essere rischioso? Dopotutto l’attuale codice è supportato e approvato anche da esponenti influenti del suo partito.»

«Questo codice sulla stregoneria è vecchio di quasi trent’anni. Alcuni elementi risalgono addirittura al primo secolo della nostra storia. Sono convinto che sia giunto il momento di aggiornarlo. Gli incidenti di quest’ultimo periodo dovrebbero fare riflettere, e spingerci a capire che questa è la cosa più giusta da fare.»

«Crede sul serio di poterci riuscire?»

«Di sicuro farò tutto quanto è in mio potere per adempiere a questa promessa. Sarà un cammino molto lungo e difficile, perché come avete fatto notare anche voi i problemi non mancano, ma io credo che con la giusta determinazione e volontà ci si potrà riuscire».

Dopo poco i giornalisti se ne andarono a cercare qualcun altro da sommergere di domande, lasciando finalmente Connor libero di godersi il ricevimento. Ma era destino che non potesse farlo a lungo.

«Non sarà facile far approvare un simile disegno di legge.» disse Constance raggiungendolo al tavolo degli antipasti «Non senza scontentare parecchia gente.»

«Ne sono consapevole.» rispose calmo Fujitaka «Ma è necessario. Non possiamo permettere al motore indispensabile della nostra esistenza di funzionare ed essere regolamentato con i criteri di mezzo secolo fa.

Il mondo cambia, si evolve, e noi dobbiamo cambiare con lui.»

«Eppure c’è chi trova questo mondo e ciò che lo regola felice ed appagante così com’è. Questa gente non vedrà di buon occhio i cambiamenti di cui parli, e farà di tutto per impedirti di realizzarli.»

«Io agirò nel modo che ritengo più giusto. E sei poi mi accorgerò di aver fatto un errore, o di aver agito incautamente, me ne assumerò la piena responsabilità».

Si guardarono, e Constance non riuscì a trattenere un sorrisino di compiacimento.

«Grazie per aver parlato al generale. Non credo che a me avrebbe dato retta.» disse Fujitaka

«Stento quasi a riconoscerti. Fino a pochi anni fa eri un ragazzino spaurito gettato a forza in un mondo più grande di te, e guardati adesso. Presidente di una nazione.»

«Devo a lei parte del merito, ammiraglio. I suoi consigli e il suo appoggio sono stati indispensabili per permettermi di arrivare dove sono ora, e non lo dimenticherò.»

«Non perdiamoci in cerimonie. E poi ormai questo tuo atteggiamento è fuori luogo. Ora sono io ad essere alle tue dipendenze.»

«Le cose tra noi due sono rimaste esattamente le stesse.» rispose divertito Fujitaka «Per quanto io possa arrivare in alto lei sarà sempre il mio ufficiale in comando, e io il suo attendente in cerca di consiglio».

Poi, il presidente fece una pausa, si guardò attorno e si avvicinò un po’ di più, abbassando ulteriormente il tono della voce.

«E con tutto il rispetto, vorrei che continuasse ad essere così».

Constance gli lanciò uno sguardo di complicità, avvicinandosi a sua volta.

«Mi creda, avrei voluto proporla per un incarico ufficiale. Ma sa come funziona in politica.»

«Sì, lo so. È già dura per questi burocrati conservatori dover accettare dei militari nei palazzi della politica, figuriamoci un ex ammiraglio congedato che si è fatto nemici in entrambi gli schieramenti. Sarebbe sembrato un atto di sfida, e in questo momento ciò che serve di più al Paese è la stabilità.»

«Vedo che ha colpito nel segno. Ma questo non significa che farò a meno dei suoi consigli. Ciò che hai fatto con il generale per placare i suoi bollori mi ha dato la prova che posso fidarmi di lei. Quindi, se per lei non è un problema, vorrei che continuasse ad essere il mio consigliere, almeno in via ufficiosa.»

«Signor presidente.» rispose l’ammiraglio dopo un attimo di riflessione «Se posso fare qualcosa, qualunque cosa, per portare prosperità al mio Paese e servirlo degnamente, sarò felice di dare il mio contributo.»

«La ringrazio, ammiraglio. Grazie davvero».

Poi, Constance ammiccò enigmatica.

«Proprio perché mi considera un consigliere, mi permette di parlare con franchezza?»

«Ovviamente.»

«Tu lo sai, vero, che non ci riuscirai? Lo sai che non riuscirai a far passare questa legge?».

Connor si accogliò, ma non rispose.

«Troppe persone sono soddisfatte dell’equilibrio attuale su cui poggiano lo studio e l’utilizzo della magia. Persone influenti. E troppi interessi ci sono in gioco.

I tuoi stessi colleghi di partito sono scettici. Questa cosa ti brucerà. Sarai già fortunato se riuscirai ad arrivare indenne alla fine del tuo mandato».

Di nuovo vi fu silenzio, e per un attimo il vociare ininterrotto che li circondava sembrò quasi scomparire, lasciando maestra e allievo soli al mondo ad affrontare la loro sfida.

«Guardati attorno.» disse Fujitaka «Che cosa vedi?».

Constance obbedì, e quasi subito rispose.

«Un mare di squali voraci e saprofagi, che ti girano attorno aspettando solo il momento buono in cui potranno azzannare la tua carcassa. Certo, c’è anche qualche pesce rosso che ti somiglia, ma è probabile che farà la tua stessa fine.»

«Non è quello che vedo io. Non solo almeno».

Il presidente indicò verso l’ingresso del salone. Oltre il colonnato, sulla terraferma, il cordone di sicurezza montava la guardia a protezione del ricevimento, più folto e armato del solito.

«Questo Paese, anzi questo mondo, ha qualcosa di profondamente sbagliato. La magia è alla base della nostra stessa sopravvivenza, ma finora ce ne siamo sempre serviti in modo troppo avventato. E i risultati si sono visti. La magia è qualcosa che controllato, altrimenti i suoi effetti possono rivelarsi catastrofici. È stato proprio a causa della nostra incapacità di comprendere tutto questo che siamo arrivati a questa situazione.

Non dico che la magia sia un male, dico solo che bisogna rivedere il nostro modo di servircene. L’abbiamo data per scontata per troppo tempo. È come un bambino che gioca con il fuoco. Non devi aspettare che si scotti per fargli capire che è pericoloso.»

«Però.» disse Constance quasi rassegnata «A volte è l’unico modo per farglielo capire.»

«Direi che ci siamo scottati anche troppo, non le pare? Tutti questi incidenti, e questo clima di perenne tensione. Un genitore che accompagna il figlio al parco divertimenti non deve avere paura che il bimbo possa vedere qualcosa che lo traumatizzerà a vita. Un uomo non può recarsi in ufficio senza sapere se riuscirà a tornare a casa la sera.»

«Potrebbe anche avere un incidente d’auto, o cadere dalle scale.» ironizzò la donna «La magia ha i suoi rischi, come qualsiasi altra cosa. Il rischio fa parte del gioco.»

«E allora dobbiamo cercare di renderlo il più sicuro possibile, questo gioco. Di ridurre al minimo i rischi. E poi, non possiamo negare che ci siano persone che hanno usato la magia e le sue potenzialità al solo scopo di accrescere il proprio potere e la propria influenza, e questo non bene. Per come la vedo io, dare nuove regole alla diffusione della magia è il primo passo per cambiare in meglio questo nostro mondo.»

«Sei sempre stato un idealista, Connor.» sospirò Constance abbozzando un sorriso «Ma guardandoti mi viene da pensare che forse una possibilità, anche minima, potresti avercela. E pertanto, sarò felice di darti il mio aiuto.»

«La ringrazio infinitamente. Ne avrò bisogno.»

«E voglia il cielo che tu non debba scottarti per davvero. Sarebbe molto doloroso, temo».

 

Buio, assoluto, impalpabile, ma avvolgente quanto una coltre ben distesa in inverno.

Ombre sfocate ed indistinguibili gli passavano davanti scomposte come i fotogrammi di una pellicola riavvolta malamente, in un concerto impazzito di grida umane e disumane, che sembrava eseguito da un quartetto di strumentisti privi di spartito e raziocinio.

In quel mare di eterno caos, spalancò gli occhi, cercando disperatamente di scrutare lo spazio circostante.

Le pallottole rimbalzavano ovunque come una folata gelida, impedendogli di pensare.

Là, da qualche parte nella sua testa, qualcosa pulsava dolorosamente, e un generale torpore infiacchiva le membra, pesanti come un ammasso di metallo.

Inspirò a fatica, I polmoni affaticati da chissà che cosa.

Dovevano essere soldati a giudicare dalla divisa comune, quelli che scappavano in ogni direzione come un formicaio impazzito.

"Sparate, sparate!" Gli giunse ad un certo punto.

Sullo sfondo di quel teatro di marionette malate, esseri rivoltanti avanzavamo a gran velocità, facendo scempio tutto quello che si metteva davanti a loro.

Altri abomini, di dimensioni ridotte ma ugualmente spaventosi, simili a grossi cani a sei zampe, che galoppando in ogni direzione, azzannavano e dilaniavano chiunque incontrassero.

Impotente,Una ad una vide quelle vite spegnersi con la stessa facilità di una piccola fiamma in balia del vento.

Ne rimase uno, ancora più sfocato e indistinguibile degli altri, che urlava nella sua direzione, senza che lui riuscisse ad afferrare ciò che diceva.

Indicava lui, o qualcosa alle sue spalle.

Con un colpo di reni e volontà si volse, pesante come un massiccio innevato, e l'ultimo, tremendo atto di quel dramma senza copione fu un'ombra priva di contorni piombargli addosso, facendo ricadere ogni cosa ancora una volta nel buio, seguito da un altro, interminabile dolore.

 

Vyce scattò in piedi, la bocca spalancata in modo quasi innaturale e gli occhi fuori dalle orbite, tanto da venire momentaneamente accecati dai pochi raggi di luce che filtravano dalle tapparelle chiuse.

Le coperte del letto erano fradice di sudore, i capelli anche più spettinati del solito, e per quanto ci provasse non riusciva a farsi passare il tremendo fiato corto che gli mozzava il respiro.

Più che un incubo, era un tormento.

Da anni ormai quei fantasmi non gli davano tregua, tormentandolo giorno e notte, sussurrandogli ininterrottamente nell’orecchio tanto nel sonno quanto nella veglia.

Non sapeva cosa desiderare maggiormente, se la loro sparizione o il poterli vedere con maggiore nitidezza, tramutandoli in immagini vere, distinguibili, che lo rendessero finalmente capace di guardare negli occhi il suo peccato.

Era la punizione peggiore per un soldato.

Sapere di essere stato lì, di avere avuto quelle colpe, ma non riuscire a ricordarsene in alcun modo.

Tutto quello che aveva erano quei frammenti, immagini sfocate e senza senso che forse mai sarebbero andate al loro posto.

Si passò una mano sul viso nel tentativo di riprendersi, portando con un gesto i capelli umidi dalla fronte alla sommità della testa.

Come soldato sapeva che quella era una reazione naturale, una risposta della sua mente ad un evento che cercava allo stesso tempo di recuperare e di cancellare, ma il fatto che tutto ciò fosse ripreso improvvisamente negli ultimi giorni dopo un lungo periodo di apparente calma lo inquietò profondamente.

In ogni caso, non poteva permettere ai suoi fantasmi di avere il sopravvento, o la sua professionalità ne avrebbe risentito.

Cercando di non pensarci si alzò dal letto, si preparò ed uscì anche più presto del solito, raggiungendo i campi di allenamento attigui al quartier generale ben prima dell’ora tradizionale di arrivo delle reclute.

«Era ora che arrivaste, massa di sfaticati!» sbraitò contro i cadetti quando questi si presentarono all’appello alla solita ora «Lo sapete quanto è che vi sto aspettando?».

Nessuno protestò, come era naturale, ma tutti bene o male compresero che il capitano doveva essersi svegliato decisamente con la luna storta: aveva l’espressione stanca, le borse sotto agli occhi ed era insolitamente pallido.

«E ora forza, cominciate a correre!»

«Per quanti giri, signore?» chiese, con il dovuto rispetto Leonard, il capo squadriglia

«Per tutti quelli che dirò io! Muovetevi!».

Quelli obbedirono, fiduciosi nel giudizio e nell’operato del proprio addestratore, che mai una volta aveva dato motivo per voler dubitare di lui e del suo attaccamento alle reclute, ma quasi subito ci si accorse che quella mattina qualcosa decisamente non andava.

Oltre ad essere stanco Vyce era anche visibilmente nervoso, seguitava ad ingiuriare e provocare i suoi ragazzi con epiteti poco cortesi e a volte denigratori, e dopo oltre dieci giri completi della pista non sembrava ancora intenzionato a farli fermare.

«Alte quelle gambe! E metteteci un po’ di grinta! Una volta là fuori la velocità vi servirà per sopravvivere!».

Solo al ventunesimo giro, ringraziando il cielo, Vyce comandò l’alt, ma a differenza delle altre volte la sua reazione, vedendo alcuni dei cadetti più giovani crollare al suolo senza fiato, fu assai più scomposta del solito.

«Cos’è, siete già stanchi? Abbiamo appena iniziato! In piedi!».

 

Jake stava iniziando a sentirsi sempre più a suo agio all’interno della squadra.

Dopo la sua bella prestazione nel corso della sua prima operazione sul campo Ruth e gli altri avevano iniziato a considerarlo sempre più come uno di loro.

Persino Dylan, passata l’arrabbiatura iniziale per essere stato salvato proprio da lui, con il tempo aveva iniziato a cambiare atteggiamento, e anche se i due non perdevano mai occasione per punzecchiarsi a vicenda la stima che nutrivano l’uno nell’altro si era notevolmente accresciuto.

Da parte sua Jake non aveva abbandonato per nulla i propri iniziali propositi, e contava febbrilmente i giorni che mancavano al suo prossimo esame abilitativo, la sua nuova occasione per poter aspirare ad un proprio comando.

Madison si era affezionato molto a lui, forse perché in lui, come altri, vedeva la parte migliore dell’Agenzia, e una volta di più lo aveva preso sotto la sua protezione. Tutte le mattine di buon’ora, prima dell’entrata in servizio, entrambi si recavano al campo di addestramento numero tre, quello riservato alle squadre operative, per fare pratica nel combattimento e nelle armi.

Malgrado l’età il vecchio capitano era ancora agile come uno scolaretto, e l’esperienza non gli faceva difetto, tanto che dopo due mesi Jake non era ancora riuscito a batterlo neanche una volta in nessuna delle discipline.

Quella mattina era stato il turno della lotta con i bastoni, per affinare agilità e riflessi, e come tutte le altre volte il risultato per Jake si era tradotto in una sonora ripassata.

«È tutto inutile.» disse dopo aver rimediato uno schiaffone allo zigomo ed essere rovinato sul tappeto gommoso «Non c’è speranza che io ti batta.»

«Sciocchezze.» sorrise Madison aiutandolo a rialzarsi «Stai migliorando. Mi ci sono voluti molti più scambi dell’ultima volta per farti desistere.»

«Ma al tappeto ci sono finito comunque.»

«In certi casi talvolta è molto meglio perdere. Ti fa capire i tuoi limiti».

Un concetto che fino a poco tempo prima Jake avrebbe rifiutato a priori, ma che ora non gli sembrava più così sbagliato.

In fin dei conti, come gli era sempre stato insegnato in accademia, la crescita era data dall’esperienza.

«Avanti ragazzo, ricomponiti. Il nostro turno inizia tra mezz’ora. Infilati sotto una doccia e fai un salto in infermeria per far controllare quel livido. Tra trenta minuti ti voglio pronto a prendere servizio.»

«Sarà fatto, capitano».

Mentre Jake si rimetteva in sesto Madison, come da tradizione, si diresse al bar per concedersi un buon caffè prima di iniziare la giornata, ma ciò che vide passando davanti al campo di addestramento principale lo lasciò sbigottito.

Delle oltre venti reclute affidate a Vyce, oltre la metà erano a terra ai margini della griglia di simulazione virtuale, piegati in due dal dolore o dalla fatica, i rimanenti invece sembravano sul punto di crollare a loro volta sotto la spinta martellante del loro istruttore, che non smetteva un momento di spronarli aumentando sempre più la velocità e la frequenza delle sfere di luce che come schegge impazzite volavano in ogni direzione tutto attorno a loro.

«Più forza in quegli scatti, avanti!» continuava a ripetere Vyce «E riflessi pronti!».

Quei poveretti erano ormai allo stremo, ma per quanti ne crollassero il capitano non sembrava avere intenzione di fermarsi, quasi si trattasse di un sadico gioco di sopravvivenza per scoprire chi fosse durato di più.

Poi, quando a crollare fu Leonard, la reazione di Vyce fu a dir poco esagerata, al punto che lo stesso Madison faticò a capacitarsene.

«Proprio tu, maledetto incapace?» sbraitò fermando tutto e gettandosi dentro la griglia circolare rosso di rabbia

«Mi… mi dispiace signore.» mugolò il poveretto con lo stomaco quasi aperto in due dal globo preso in pieno

«Tu devi diventare caposquadra! Avrai le loro vite nelle tue mani! Il tuo compito è essere d’esempio per tutti! E invece che fai, crolli anche tu? Sei inqualificabile!»

«La prego di perdonarmi.»

«Forse è il caso che tu te ne vada subito! Con queste prestazioni te lo sogni che io dia la mia approvazione per farti avere una squadra! E comunque, non vorrei essere nei panni dei disgraziati che avranno la sfortuna di essere al tuo comando!».

Vyce sembrava sul punto di sollevare a forza Leonard per schiaffeggiarlo come un figlio disubbidiente, ma nell’istante in cui, forse senza volerlo, alzò la mano come a voler iniziare la tempesta di ceffoni, la mano imponente e muscolosa di Madison afferrò con forza il suo polso.

«Adesso basta, ragazzo.» gli disse molto severamente il suo vecchio istruttore «Direi che così è più che sufficiente.»

«Tu pensa agli affari tuoi.» soffiò Vyce con gli occhi sbarrati

«C’è qualcosa che non in te Vyce. Dammi retta, prenditi una giornata. È chiaro che ne hai bisogno.»

«Decido io quando ho bisogno di una paura. Questi sono i miei cadetti.»

«Non lo saranno più di questo passo. Ti avverto, un’altra parola e farò rapporto al direttore».

I due si guardarono in cagnesco, come belve feroci in procinto di saltarsi addosso, poi Vyce, digrignando i denti per la rabbia, ritrasse violentemente il braccio. In quel momento, per un attimo, a Madison parve quasi di notare delle lacrime nei suoi occhi.

«Per oggi basta così! Potete andare!» e lasciò quasi scappando il campo d’addestramento.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Non c’è che dire, in questi giorni vado come un treno.

Avevo promesso che il prossimo capitolo sarebbe stato dedicato tutto o quasi a Vyce e Jake, e come potete vedere ho mantenuto la mia promessa.

Adesso e per un po’ il ritmo sarà abbastanza altalenante, ora serrato ora maggiormente pacato e riflessivo, almeno fino all’inizio di una nuova “sequenza famigliare” con protagonista Carmy che farà da secondo spartiacque e precluderà ad un veloce crescendo degli eventi.

Grazie come sempre a chi legge e recensisce.

A presto!^_^

Carlos Olivera

 

Ps. Avevo parlato di una sorpresa, ebbene eccola qui. Un mio carissimo amico e compagno di allenamento, venuto a sapere di questa storia, ha voluto realizzare un fan trailer per farla conoscere anche al di fuori di EFP. Potete trovarlo sul blog, sulla fanpage di FB e su youtube a questo indirizzo.

https://www.youtube.com/watch?v=14BShoJoKz4

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Capitolo 18
*** 16 ***


16

16

 

 

Kyrador, tra i suoi vari soprannomi, aveva quello di Città dei Nove Distretti, dal numero di zone in cui, escludendo l’Acropoli, l’immaginario forte ottagonale a due livelli che circondava gli uffici amministrativi e i palazzi del potere, era suddivisa.

Ogni distretto aveva un numero variabile di quartieri, e ognuno era concepito come una sorta di città nella città, autonomo dal punto di vista dei servizi e dell’approvvigionamento energetico.

Osservando la città dall’alto con gli occhi di un’aquila, i Nove Distretti apparivano in tutta la loro nitidezza, organi separati che, sotto la supervisione e la guida dell’Acropoli, andavano a formare il più perfetto dei corpi. Ognuno aveva una propria anima ed una propria forma unica nel suo genere, con le imponenti arterie sopraelevate a fungere da immaginarie linee di confine, possenti tracciati che nello stesso tempo separavano e univano come vasi sanguigni gli organi di Kyrador, seguitando a tenerli uniti pur lasciando ad ognuno la propria unicità.

Con l’esclusione dei cantieri navali di Harris Island, più ci si allontanava dalla costa più i palazzi diminuivano di altezza e di prestigio, fino ad arrivare ai distretti più settentrionali e lontani dal mare, dove agli alti grattacieli scintillanti di bianco si sostituivano per la maggior parte bassi edifici color tramonto, e stradine strette brulicanti di vita.

In una di queste stradine, all’incrocio tra Orwill Plaza e Rotgard Street nell’Ottavo Distretto, si trovava un piccolo negozio di elettronica, gestito da un tale Mortimer Cromwell, un ultraquarantenne bassetto e dai capelli radi che tutti chiamavano semplicemente Marty. In realtà, ed era un fatto noto a tutti nella zona, Marty nel suo negozio vendeva ben più di qualche elettrodomestico ormai obsoleto.

Già un paio di volte i suoi traffici di merce rubata gli avevano procurato problemi, ma in un modo o nell’altro era sempre riuscito a cavarsela con poco, quasi nulla.

In fin dei conti una persona come lui, molto ben inserita nel substrato e nelle frequentazioni importanti del distretto notoriamente più problematico della città poteva rappresentare un discreto vantaggio per le forze di polizia; ma invece che tenere un basso profilo, Marty aveva imparato a sfruttare la protezione di cui godeva per proseguire indisturbato la propria attività.

Ad ogni modo si spaventava sempre alla vista di una divisa, o di chiunque potesse anche solo assomigliare ad un agente in borghese, quindi Cane, che lo conosceva bene, non si stupì più di tanto quando, entrando nel suo negozio una mattina molto presto, lo vide scappare via verso il retrobottega veloce come il fulmine.

Ma proprio perché lo conosceva, Cane sapeva anche cosa aspettarsi da quel rigattiere disonesto, così cercando di scappare dal retro Marty si ritrovò a tu per tu con Lucas, che prima lo immobilizzò e poi lo riportò di peso nel negozio.

«E tratti così un amico in visita?» domandò amichevolmente Cane mentre Lucas lo sbatteva sul bancone per tenerlo fermo

«Che volete con me? Io ho smesso con il contrabbando.»

«Non siamo qui per i tuoi affari segreti.» disse Lucas. «Abbiamo bisogno di un piccolo aiuto da parte tua.»

«Io non aiuto più la MAB!» rispose Marty in uno scatto d’orgoglio. «Lo sapete quante ne ho passate l’ultima volta? Per poco non sono finito appeso ad un lampione.»

«Come preferisci.» rispose calmo Cane. «Vorrà dire che farò sapere alla corporazione del distretto delle soffiate che ci passi, così ti ripescano dalla baia con gli occhi in bocca.»

«Abbiamo solo bisogno delle tue conoscenze tra la gente del posto.» gli disse Lucas nel tentativo di calmare gli animi.

Dopo qualche attimo Marty parve tranquillizzarsi, tanto che venne lasciato andare, anche se Cane pensò bene di frapporsi tra il suo vecchio amico e l’uscita per impedirgli qualunque colpo di testa.

«Che volete stavolta?»

«Che cosa sai della Chiesa di Ela giù all’Ildagar?» domandò Cane

«Quella gestita da Timur?» chiese il commerciante «Che volete sapere?»

«Tutto quello che c’è da sapere. Soprattutto sul loro capo.»

«Sono un branco di tossicomani assatanati. E Timur un viscido leccapiedi, con le labbra sempre appiccicate al sedere dei suoi superiori.»

«Non basta. Hanno a che fare con la droga?»

«Sarebbe strano il contrario. Timur ha spacciatori disseminati in tutto il quartiere. Ma non sperate di torchiarne qualcuno per cavarne fuori qualcosa. Più della metà ha il cervello fritto dagli intrugli che ingoiano nei loro rituali perversi, i restanti sono talmente assuefatti o spaventati da lui e dai suoi picchiatori che si farebbero cavare i denti piuttosto che parlare con la polizia.»

«Vuoi dire che ha il monopolio del traffico di droga nel quartiere.» commentò incredulo Lucas «Non ha problemi con le altre bande?»

«Ha fatto un accordo con la corporazione. Loro tengono le altre bande del quartiere al loro posto, e lui divide con loro i proventi dello spaccio.»

Quindi venne il momento della domanda più importante.

«Che tu sappia.» sussurrò Cane a mezza voce «Hanno a che fare anche con la Lilith?».

Marty si lasciò sfuggire uno strano piegamento degli occhi, che i due agenti immediatamente notarono reputandolo un buon segno.

«Sono girate delle voci, ultimamente. Fino a poco tempo fa il nettare blu era un’esclusiva di quelli del quartiere Thirys, ma da qualche tempo a questa parte si sono viste un sacco di facce nuove tra i corrieri e i piccoli spacciatori da strada. Non fanno parte della Chiesa di Timur, ma ciò non toglie che quella zona sia diventata particolarmente frequentata negli ultimi mesi».

Cane e Lucas si guardarono, annuendo, quindi tornarono a guardare Marty.

«Dobbiamo parlare con qualcuno della chiesa.» disse Lucas «Qualcuno che possa darci delle informazioni sugli affari sporchi di Timur

«Gente fidata, possibilmente.» puntualizzò Cane con una certa ironia.

Anche se veniva sempre pagato per il suo disturbo, Marty non saltava mai di gioia quando veniva usato da quella coppia di sfruttatori per facilitare le loro indagini.

D’altra parte però, se voleva continuare a vivere tranquillo, poteva solo ubbidire.

«Come volete. Cercherò tra i miei contatti.»

«Così mi piaci.» sorrise Cane rifilandogli uno dei suoi buffetti

«Risentiamoci tra due giorni.»

«Facciamo stasera.» disse Lucas «Al solito posto.»

«D’accordo.» sibilò Marty «E ora sparite prima che mi venga voglia di spararvi.»

 

Vyce odiava il giovedì.

Erano ormai quasi due anni che ogni giovedì, tutte le settimane, aveva appuntamento con la dottoressa Miranda Harken, la psicanalista nominata dalla commissione militare d’inchiesta per seguire il suo caso.

Quella donna bassetta e tarchiata, che odorava peggio di un negozio di profumi e si riempiva di lacca i pochi capelli grigiastri, aveva in mano il suo destino. Una sua relazione poteva permettere a Vyce di riottenere il porto d’armi e il rientro in servizio attivo, che peraltro il capitano non desiderava in ogni caso, o cacciarlo per sempre dalla squadra.

La cosa che più lo irritava erano i velati tentativi della dottoressa di andare a scavare nel suo subconscio, come ogni strizzacervelli che si rispetti, alla ricerca dei motivi che lo avevano portato lì.

Vyce aveva sempre detestato che qualcuno andasse a rovistare nella sua mente.

Da parte sua la dottoressa, tuttavia, aveva dimostrato la giusta dose di sensibilità, accettando per una volta di mettere da parte tutte le più recenti scoperte magiche per l’esplorazione della psiche, più rapide ma decisamente più invasive, in favore delle armi più antiche, ma anche più efficaci, dello psicanalista: conversazione, analisi e deduzione.

Ormai Miranda conosceva Vyce abbastanza bene da riuscire ad intuire il suo stato d’animo anche solo con una semplice occhiata, e quel pomeriggio il capitano le era parso subito particolarmente nervoso e provato.

Il perché non le fu difficile intuirlo.

«Ha avuto ancora gli incubi, capitano?» chiese accomodandosi a quella sua scrivania che per poco non la batteva in altezza.

Non rispose, ma non ce n’era alcun bisogno. Il suo borbottare e quel particolare movimento degli occhi lo fecero per lui.

«Sempre lo stesso sogno?» incalzò la dottoressa.

Di nuovo non ci fu risposta. Non verbale almeno.

«Era da un po’ di tempo che non capitava. Le è forse successo qualcosa? È stato sotto stress?»

«Niente di particolare.» si degnò questa volta di balbettare annoiato Vyce «E no, non sono stressato.»

La dottoressa parve quasi abbozzare un sorriso ironico.

«Non le manca neanche un po’ l’impiego operativo? Eppure, stando al suo stato di servizio, fino a pochi anni fa era uno dei migliori.

Davvero non aspira a riottenere il proprio vecchio posto nella squadra?»

«Per mettere in pericolo altri giovani soldati e chissà quanti civili? No, grazie.»

«Perché è così severo con stesso? Non è stanco di rodersi l’anima dopo tutto questo tempo?».

Vyce aggrottò le sopracciglia e distolse lo sguardo, contrariato.

«Come si fa a far finta che non sia successo niente?» bofonchiò con voce roca

«Nel suo caso, per quanto la riguarda.» disse la dottoressa con fare quasi di scherno «Non è davvero successo niente.»

«Questo non significa niente!» si inalberò di colpo Vyce «Io ero lì. Lo so.»

«Ma non se ne ricorda. O sbaglio?».

Punto sul vivo il capitano rimase di stucco lasciandosi cadere nuovamente sulla poltrona.

«Perché vuole ad ogni costo darsi delle colpe, quando lo stesso procedimento disciplinare disposto nei suoi riguardi ha dimostrato che non ne ha?»

«Ero io a comandare quei ragazzi. Tutti loro credevano in me. Erano sicuri che li avrei guidati, protetti, e ricondotti a casa.»

«In fin dei conti, lei comandava una squadra TMD. Una unità d’assalto specializzata in operazioni ad alto rischio. La prospettiva di cadere in azione è una componente inscindibile di questo lavoro, e i suoi uomini lo sapevano bene. Tutti loro avevano messo in conto il fatto che la loro divisa sarebbe potuta diventare anzitempo il loro abito funebre.»

«Ma erano i miei uomini. Chi comanda ha sempre delle responsabilità.»

Vyce si passò una mano sul volto, fattosi improvvisamente ceruleo.

«Soprattutto se è l’unico ad uscirne vivo.»

La dottoressa si sistemò i buffi occhiali rettangolari scivolati sulla punta del naso protendendosi leggermente in avanti, fino a scorgere l’ombra oscura addensatasi negli occhi di Vyce, e che il capitano cercava senza riuscirci di nascondere dietro la mano.

«Non riesce proprio ad accettare il fatto di essere sopravvissuto, signor Vyce?»

«Perché solo io?» replicò il capitano serrando i pugni «Perché solo io mi sono salvato? Cosa ha fatto sì che sia stato l’unico ad uscire vivo da quell’edificio?

E se fossi scappato? Mi hanno ritrovato nella zona di carico, non lontano dall’uscita, e ben lontano dal posto in cui quasi tutti i miei compagni sono stati uccisi. E se avessi deciso di abbandonare i miei uomini solo per salvare la mia vita?»

«Si crede davvero capace di fare una cosa del genere?» chiese la dottoressa come se sapesse già la risposta

«Non lo so.» rispose sconfortato Vyce «Non so più niente.

L’unica cosa che so è che a parte me nessuno è uscito vivo da lì dentro, e solo questo conta. Io sono vivo, mentre quei ragazzi non ce l’hanno fatta.

Punto.»

Di nuovo la dottoressa Harken dovette andare a recuperare gli occhiali in fondo al naso, abbozzando una specie di strano sorriso.

«Ora, perdoni la franchezza di ciò che sto per dirle, ma è davvero convinto che il suo malessere sia dovuto solo a questo? Alla colpa che sente di avere?»

Vyce la guardò basito.

«Come?»

«Lei cerca in tutti i modi di darsi delle responsabilità per quanto accaduto, nonostante la gran parte degli eventi di cui si ritiene responsabile non riesca neppure a ricordarli.

Lei si vergogna di essere sopravvissuto alla sua squadra, e questo è l’unico motivo per il quale vuole in ogni modo avere delle colpe.

Perché è il solo modo che ha per riuscire a convivere con il fatto di essere l'unico sopravvissuto.»

Vyce scattò nuovamente in piedi con negli occhi un’ira mista a sgomento, ma prima ancora che potesse aprire bocca quell’impeto furioso si dissolse, facendolo abbandonare ancora una volta sulla poltrona perso nei suoi pensieri.

Forse quello che diceva la dottoressa, pur con tutta la sua boria e il suo scarso tatto, era vero.

Forse cercava solo di attribuirsi colpe che non aveva per combattere la responsabilità, ancora più grande, di essere sopravvissuto alla sua squadra.

Per come la vedeva lui, era molto meglio essere schiacciati dal senso di colpa che dal disonore. Non ricordava cosa gli aveva permesso di sopravvivere, e fino a che non vi fosse riuscito era più facile convivere con la propria incapacità di essere un buon caposquadra che con la vergogna di aver abbandonato i propri compagni per salvare la propria vita.

«Direi che così è sufficiente.» decise di propria iniziativa «A giovedì prossimo.» e detto questo lasciò l’ufficio seguito con gli occhi dalla dottoressa.

 

La Trappola di Morgana era uno dei locali più frequentati, ma anche dei più pericolosi, dell’Ottavo Distretto.

Lì dentro si poteva trovare di tutto, dai criminali in libertà vigilata alle prostitute in cerca di clienti.

Era un posto dove ognuno si faceva i fatti propri, senza troppo badare alle facce dei nuovi venuti, purché non odorassero di polizia, per questo Cane e Lucas lo avevano eletto da tempo a luogo favorito per incontrarsi coi loro contatti nel distretto.

Dovette passare più tempo del solito, ma poi, poco prima di mezzanotte, un tipetto basso e quasi calvo entrò nel locale, e notati i due uomini seduti ad un tavolino molto appartato gli andò incontro accomodandosi accanto a loro.

«Sei Paris?» chiese Cane

«Lo sono. E voi siete gli amici di Marty.»

«Amici è una parola grossa.» rise Lucas «Diciamo che siamo conoscenti.»

«Ho voluto infiocchettare la cosa. In realtà lui ha usato un altro termine.

Allora, che cosa volete?»

«Stiamo cercando informazioni sul tempio di Padre Timur. Tu ne fai parte, non è vero?»

«Sono stato un adepto per qualche anno.» rispose Paris con una qualche ironia «Adesso teoricamente sarei un reclutatore.»

«Cerchiamo informazioni sugli affari sporchi della chiesa.» disse Cane «Sai per caso se di recente Timur ha avuto a che fare con la lilith?»

«Girava e gira ancora molta droga di ogni tipo nei templi di Ela. La lilith sarebbe solo una delle tante.»

«Non parliamo di consumo. Vogliamo sapere se Timur e i suoi l’hanno mai prodotta per venderla.»

La luce comparsa di colpo negli occhi dell’uomo convinse Cane e Lucas di essere sulla strada giusta.

«Poco prima che mi arrestassero, circa un anno fa, ricordo degli strani tizi che entravano e uscivano continuamente dall’ufficio di Timur. Non erano i soliti drogati. Era gente pericolosa, e piena di soldi. Non il genere di spiantati che puoi vedere girare da queste parti. Ora che ci penso, la lilith ha iniziato a girare massicciamente tra gli adepti più o meno in quel periodo.»

«Forse Timur si è messo in affari con qualcuno.» ipotizzò Lucas «Qualche produttore o finanziatore.»

«Qualche giorno fa mi è capitato di parlare con un vecchio compagno. Secondo lui quella gente la si vede ancora abbastanza spesso entrare e uscire dal tempio sull’Ildagar

A Cane tornò in mente il tipo sospetto descritto da Carmy dopo la prima ispezione, quello che sembrava fare come il palo fuori dal tempio. Un’idea gli si accese nella mente.

«Hai detto di essere un reclutatore.»

«Dovrei andare in giro a insultare il sistema, imbrattare le chiese, circuire tossicomani e poveri spiantati senza futuro. Questo genere di cose.»

«Non mi sembri soddisfatto del tuo incarico.»

«Quelli sono tutti suonati. Sono stato al loro gioco fino a che soldi e droga scorrevano nelle mie tasche, poi grazie al cielo mi sono disintossicato, e ora mi tengo molto alla larga da quel posto.

Ho un lavoro, sapete? Certo, per voi dei distretti alti sembrerà una banalità, ma in questo genere di posti anche solo avere la fedina penale pulita è da reputarsi un lusso.»

«Insomma non ti più di avere a che fare con Timur e i suoi seguaci.» mormorò Cane con uno strano cipiglio negli occhi.

Paris esitò, sorseggiando un po’ del drink che i due agenti gli avevano offerto appena arrivato.

«Duemila kylis.» borbottò facendo ondeggiare il bicchiere

«Mille.» contrattò Cane

«Mille e cinque.»

«Andata.»

«Dimmi che non stai pensando quello che credo.» disse Lucas leggendo nella mente dell’amico

«Se ci rifletti, è il modo per riuscire a scoprire qualcosa.»

«In ogni caso voi non andate bene.» tagliò corto Paris capendo a sua volta cosa Cane avesse in mente «Timur non è certamente uno stupido. Potete imbruttirvi a sufficienza per imbrogliare questi tossicomani e avanzi di galera, ma per uno con un po’ più di cervello odorate di poliziotto a un miglio di distanza.

Sareste scoperti prima ancora di entrare, e io non ho voglia di finire appeso per i piedi con la gola tagliata.»

«Cane, forse dovremmo prima parlarne con il capitano.»

«Sta tranquillo.» rispose l’agente ignorando totalmente Lucas «Credo di avere la persona adatta per questo incarico.»

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Accidenti, questo caldo finirà per uccidermi.

Non so voi, ma io infilerei la testa in una ghiacciaia tanto mi fuma. Ieri ero nel reparto frigo di un centro commerciale all’ingrosso, dove si dovrebbe entrare coi cappotti che ti mettono a disposizione. Io ci sono entrato così com’ero, e ancora non mi bastava!^_^

Ma bando alle ciance.

Che ve ne pare di questo nuovo capitolo? Un capitolo di transizione, certamente, in cui ho cercato di raccontare un altro po’ della psicologia e della personalità dei vari personaggi, sia principali che secondari. Per l’azione vera ci vorrà un altro po’, ma non disperate. Arriverà anche quella.

Grazie a tutti quelli che leggono e recensiscono, vi voglio bene!

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 19
*** 17 ***


17

 

 

«Assolutamente no!» sbottò Alexia nel sentire il piano proposto da Cane «Non coinvolgerete Carmy in tutta questa storia.»

«Capitano, è l’unica soluzione che mi viene in mente.»

«È troppo pericoloso, e lei è qui solo per fare esperienza.»

«È quello che ho cercato di dirgli anche io.» disse Lucas

«Stando a quel tizio, Paris, Timur è diventato anche più sospettoso e guardingo del solito nell’accogliere nuovi adepti nella sua chiesa.

Se mandiamo uno dei nostri ganci c’è il rischio che venga scoperto.»

«Non vedo dove sia il problema. Cerchiamone uno di qualche altro distretto.»

«Sai come sono fatte quelle fogne. Là tutti sussurrano, tutti parlano alle spalle. La rete di conoscenze che c’è tra quella gente è talmente complessa da non riuscire a starci dietro. E se è vero che alla chiesa dell’Ildagar la guardia si è alzata, se reclutassimo qualcuno dei bassifondi non ci metterebbe molto a farsi scoprire.

Carmy viene da fuori città. Non ha legami particolarmente saldi, poca gente la conosce, e non ha mai frequentato i distretti degradati. Inoltre è stata bocciata all’esame di ammissione al TMD, e ufficialmente non ha un lavoro, visto che attualmente si trova in un limbo tra la procura distrettuale e la polizia militare.»

«Capisco.» mugugnò Lucas, quasi fosse sul punto di convincersi «Anche se cercassero, non troverebbero nulla che la colleghi all’agenzia.»

«La ragazza di campagna senza più prospettive dopo che ha visto infrangersi il sogno che l’ha condotta nella grande città. È un profilo che ben si addice ad un’aspirante adepta».

Alexia temporeggiò, mordicchiandosi un labbro mentre camminava su e giù per l’ufficio. Sembrava quasi sul punto di accettare.

«Rimango dell’idea che è una cosa troppo rischiosa.» disse con l’ultimo scampolo di indecisione «Carmy è giovane. Non ha esperienza in questo genere di incarichi. Perché non ci rivolgiamo a qualche altro collega? C’è gente nella MAB che delle indagini sotto copertura ha fatto il suo pane.»

«Ho già controllato.» replicò deluso Cane «Chi non è già impegnato in altre indagini non ha il profilo di cui abbiamo bisogno. Nessuno degli agenti sotto copertura disponibili ha meno di cinquant’anni, e stando a Paris l’unico adepto lì dentro con più di mezzo secolo sulle spalle è proprio Timur. La chiesa di Ela, o almeno quella di cui stiamo parlando, non è fatta per attempati padri di famiglia, ma per giovani dallo spinello facile da spremere di soldi».

Nessuno dei tre si era accorto che nel frattempo Carmy era arrivata al lavoro, ed in quel momento per la prima volta la ragazza sentì montare dietro di sé una vampata d’orgoglio impossibile da arrestare.

«Lo faccio».

Solo allora tutti si accorsero di lei, e voltatisi la guardarono attoniti, restando però parimenti colpiti dalla determinazione che traspariva dai suoi occhi.

«Ecco, questo è lo spirito giusto!» sentenziò bellamente Cane «Diventi un po’ più poliziotto ogni giorno che passa.»

«Ma se hai appena detto tu stesso che non lo sembro neanche un po’?» sibilò lei malevola, ma senza cattiveria

«Sì, ma in senso buono. Il che ti rende perfetta per questo incarico.»

«Carmy.» disse Alexia poggiandole una mano sulla spalla e guardandola dritta negl’occhi «Non sei obbligata a farlo. Potrebbe essere molto pericoloso, e tu sei ancora molto giovane.»

«Sono qui per imparare, no?» replicò lei sforzandosi di ostentare tutta la sua volontà «E per essere di aiuto. Se davvero sono la persona più adatta per questo lavoro, ho il dovere di fare la mia parte.»

«Questo è parlare.» disse ancora Cane «Comunque non temere. Ci saremo io e Lucas a guardarti le spalle, e poi ci sarà anche Paris. Se ci saranno problemi, interverremo subito. Sarai più protetta che in casa tua.»

«Ha sentito, direttore? La prego, mi dia fiducia. Le prometto che saprò meritarmela».

Alexia sospirò passandosi una mano sulla fronte. Non immaginava che potesse essere una ragazza tanto testarda.

«D’accordo, facciamo un tentativo.» disse, correggendo però subito il tiro «Ma sia chiaro, al primo accenno di pericolo salta tutto. Non voglio essere costretta a venire al tuo funerale».

 

Si diceva che un TMD avesse a disposizione solo due cose con cui cercare di ottenere un po’ di meritato riposo. Il congedo e la sua bara.

Una delle prime cose che veniva detta a tutti quelli che ogni anno premevano per entrare nella squadra era che una volta dentro si avrebbe speso il resto della propria vita come soldati al fronte, alla perenne attesa dell’insorgere di un’emergenza, un problema serio che sarebbe toccato a loro di risolvere.

Molti di quelli che tentavano l’ammissione erano attratti soprattutto dalla paga, assai più alta che nella maggior parte degli altri rami dell’agenzia, ma mai come nel TMD il compenso era inversamente proporzionale ai margini di rischio.

Anche se la percentuale di mortalità si era notevolmente abbassata rispetto a qualche anno prima, nella sola Kyrador almeno tre volte l’anno il cortile interno della sede centrale diventava la sede di un funerale, e tutti coloro che entravano nella squadra sapevano bene che un giorno con quella divisa avrebbero potuto finirci sepolti.

Per di più, essere un TMD significava spesso trovarsi a che fare con scene raccapriccianti, tali da far venire i conati agli stomaci più forti. Dopotutto il loro lavoro consisteva quasi sempre nel confrontarsi con gli EDA, e un’EDA non era molto diverso da un comune predatore, che cacciava, sbranava e mangiava ogni essere vivente gli si parasse davanti.

Jake aveva visto con i suoi occhi molti dei cadetti della stazione Ares crollare svenuti o rigurgitare anche l’anima alla semplice vista dei filmati di repertorio o di fronte ai cadaveri anatomici, e ogni volta aveva ripetuto a sé stesso di rimanere lucido in ogni situazione, perché la mancanza di autocontrollo era la via più rapida per il cimitero.

Con il passare dei mesi si era rafforzato quanto bastava per riuscire a sopportare quasi tutto, ma con tutti gli incidenti che stavano capitando nell’ultimo periodo non passava quasi giorno senza che la sua o qualche altra squadra fosse chiamata all’azione.

Kyrador sembrava essersi trasformata in un colabrodo della sicurezza.

Di problemi con la magia ce n’erano quotidianamente, come era naturale che fosse, ma da qualche settimana a quella parte quasi sempre questi avevano come risultato la comparsa di un’EDA, e anche se nella maggior parte dei casi la polizia riusciva a provvedere da sé il TMD si trovava costretto a fare gli straordinari.

Quel giorno la chiamata sopraggiunse poco dopo mezzogiorno, proprio un attimo prima che Madison e tutta la sua squadra si sedessero a pranzare.

Stavolta l’EDA era comparso all’interno di un’azienda chimica nel quartiere del porto, dove un circuito difettoso, inizialmente scambiato per un banale guasto tecnico, aveva folgorato il tecnico addetto alla riparazione provocandone la mutazione.

Niente di particolarmente serio, ma data la pericolosità del materiale stoccato nella struttura era stato scelto di rivolgersi comunque agli specialisti.

La squadra raggiunse il prefabbricato che l’edificio era già stato evacuato, vi si introdusse e localizzato l’EDA lo eliminò con poche scariche di colpi. Il colpo di grazia lo inflisse come al solito Dylan con il panzershot, il suo cavallo di battaglia, che ridusse il nemico ad un tizzone ardente.

«Minaccia neutralizzata.» disse lo stregone constatando il decesso del mostro «Pericolo rientrato.»

«Di questi tempi che ne sono sempre di più in giro.» disse Ruth «Dovremmo chiedere un aumento sugli straordinari».

Jake, che aveva contribuito personalmente al completamento dell’incarico, non riuscì a resistere alla vista dell’ennesima mattanza provocata da un’EDA e uscì velocemente dall’edificio, togliendosi l’elmetto che lo soffocava per respirare un po’ meglio.

Per quanto ci si potesse fare l’abitudine, certe scene erano troppo se affrontate con tale frequenza, soprattutto per qualcuno alle prime armi come lui.

Stava cercando di riprendere fiato quando sentì una mano amichevole poggiarsi sulla sua spalla.

«Tutto a posto, ragazzo?» gli chiese Madison

«Mi scusi, capitano. È stato un attimo.»

«Non devi scusarti. In certi casi è dura riuscire a resistere. La prima volta che ho affrontato un teatro operativo avevo più o meno la tua età, e ricordo di aver vomitato anche le budella».

Quella specie di macabra battuta suscitò in Jake un sorriso divertito che riuscì a farlo calmare.

«Lei è nel TMD fin quasi dalla sua fondazione, vero?» domandò abbandonandosi con lui sulla cima di un basso muretto

«Quando ho iniziato io, l’unità esisteva sì e no da un decennio. Allora non c’erano tutta la tecnologia e l’equipaggiamento di oggi, e neppure tutti i dispositivi di sicurezza per prevenire gli incidenti. Cose del genere accadevano quasi più spesso che oggi, e al cimitero militare si scavavano in media una decina di fosse l’anno.»

«Ma è davvero così difficile creare le condizioni per rendere la magia più sicura? Se ci fosse più controllo, se i sistemi fossero più efficienti, forse tutto questo potrebbe essere evitato.»

«L’uomo ha imparato a controllare il fuoco migliaia di anni fa.» replicò Madison schiacciando un cumulo di terriccio sotto lo scarpone «Ma gli incendi scoppiano ancora oggi».

Jake lo guardò perplesso.

«Quello che voglio dire ragazzo, è che queste cose succedono, e succederanno sempre. Non c’è niente di perfetto a questo mondo. Abbiamo voluto votarci alla magia, e quindi dobbiamo accettare di convivere anche con i suoi aspetti più pericolosi.

Per come la vedo io, avere a che fare con la magia non è tanto diverso da maneggiare un qualsiasi macchinario pericoloso. Sai dal principio che potrebbe succedere qualcosa».

Neanche a farlo apposta, in quel momento un’assordante voce roca, ingigantita dagli effetti di un altoparlante, catturò l’attenzione dei due agenti.

«Accidenti, sono già arrivati.» mugugnò contrariato Madison alzando lo sguardo.

Davanti ai cancelli della struttura si era radunata una piccola folla di esaltati, che bandiere e striscioni alla mano aveva preso a sbraitare i soliti cori all’indirizzo della MAB, del TMD e della società in generale.

Li guidava un tizio sulla sessantina, basso e tarchiato, capelli bianchi come il latte, il più infervorato di tutti; era soprannominato La Mosca, per il suo essere sempre presente e l’incapacità cronica di potersi disfare di lui, ma secondo i più semplicemente per il suo essere insopportabile.

Il suo modo di pensare era quantomeno contraddittorio. Cacciava le telecamere accusandole di essere asservite a quel sistema che tanto contestava, ma quando necessario ci si piazzava davanti per usarle come scudo contro le repressioni a cui spesso andavano incontro lui e i suoi sostenitori, che non si facevano certo parlare dietro quando si trattava di lanciare provocazioni.

Data la rapidità con il quale l’incidente di quel giorno si era manifestato ed era stato represso non aveva fatto a tempo a radunare tutti i suoi molti sostenitori, ma questo non impediva loro di affollare il piazzale e la strada retrostante, tenuti indietro a fatica dal cordone di agenti che cinturava il capannone.

«Ma non hanno di niente di meglio da fare?» disse ancora Madison

«Non ne possiamo più!» urlava al megafono La Mosca «Ogni giorno succede qualcosa! Ogni giorno qualche innocente muore! Quanti altri ne dovranno morire perché ci si decida a fare la cosa giusta?».

Tutti lo applaudirono, e lui, notati Jake e Madison che lo fissavano malamente da lontano, riprese con ancora più veemenza.

«E quello che è peggio, viviamo in una società militarizzata! Non è per questo che i nostri antenati sono venuti qui! Non fatevi ingannare da coloro che dicono di proteggervi, perché non sono altro che cani! Ladri e mercenari che si assicurano che tutto resti com’è, e che chi ha il potere di decidere continui a mantenerlo! Tutto quello che diciamo e facciamo avviene sotto gli occhi di un deus ex machina che pretende di governare su ogni cosa! E guai a contraddirlo, se vi è caro il vivere pacificamente! Ma tutto questo può cambiare! Possiamo trasformare questo pianeta in ciò che abbiamo sempre sognato, e non saranno dei vigliacchi venduti in armatura a fermare la nostra legittima riscossa!».

Jake, che tante cose riusciva a sopportare meno che venire provocato in modo tanto sprezzante, fece per andare a dire la sua, ma Madison gli afferrò il polso appena fece per avanzare.

«Lascia stare. Non le vale la pena.»

«Mi sono stufato delle sue provocazioni.»

«Gli darai solo un pretesto per darci dentro ancora di più. E poi, non che abbia tutti i torti.»

«Ma, capitano…»

«Ha ragione quando dice che bisognerebbe cercare di cambiare le cose.» rispose Madison guardandolo quasi con ironia «L’hai detto anche tu se non sbaglio».

Jake rimase spiazzato, non riuscendo ad obiettare, e poco dopo mestamente risalì sul furgone blindato che li riportò verso il quartier generale, assordato ma quasi indifferente agli improperi lanciati contro di loro da quegli scalmanati.

 

Carmy trasse un profondo respiro e chiuse gli occhi, cercando di calmare i battiti del cuore.

«Se vuoi tirarti indietro, questa è l’ultima occasione.» le disse Lucas affacciandosi dal posto di guida

«Sto bene.» si affrettò a rispondere la ragazza.

Accanto a lei Paris, ugualmente nervoso, che si domandava in quale modo perverso fossero riusciti a convincerlo ad entrare in tutta quella storia.

«Ora mi tocca pure fare da balia ad una ragazzina fresca di liceo.» mugugnò tra sé e sé

«Ricorda, io e Pierre saremo sempre qui intorno, pronti a intervenire.» la rassicurò Cane «E mi raccomando,  se le cose dovessero per qualunque motivo prendere una brutta piega, molla tutto e vattene da lì.»

«D’accordo.» mormorò lei assorta nei suoi pensieri.

Cane la scrutò un po’ meglio, poi scambiò un’occhiata obliqua con Paris.

«Ora scusa, potresti scendere? Dobbiamo discutere di alcuni dettagli con Paris».

Carmy non chiese spiegazioni e obbedì, scendendo dalla macchina ferma a lato della strada dopo essersi sistemata alla bene meglio il gilè sdrucito che costituiva parte del suo completo da ragazza dei bassifondi.

Rimasto solo con i due agenti, Paris si vide piantare addosso le due paria di occhi più severi e minacciosi che avesse mai visto.

«Ricorda quello che ti ho detto.» lo minacciò Cane «Se le succede qualcosa, qualunque cosa, sarà meglio per te lasciare la città prima che riesca a metterti le mani addosso.»

«Per non parlare di quello che ti farà il capitano.» precisò Lucas

«Se siete così in ansia, perché la state gettando in quella fogna?» protestò l’interessato a mezza voce

«La cosa non ti riguarda.» sentenziò Cane «Spero di essere stato chiaro».

Lanciata un’ultima occhiataccia ai due agenti anche Paris scese dalla macchina, avviandosi assieme a Carmy lungo un vicoletto laterale.

«Allora, ripassiamo alcune cose fondamentali.» disse il reclutatore mentre camminavano «Prima cosa, se sarai accettata, da quel momento non parlare mai fuori luogo.»

«Cosa significa?»

«È la regola. I novizi e i discepoli non possono parlare con chi è più alto in grado, mentre tra di loro possono farlo solo quando non ci sono dei superiori.

Mai usare la prima persona quando parli. È considerato immorale ed egocentrico.

E cosa molto importante, se incontrerai Timur o qualcuno dei suoi secondi, non alzare mai gli occhi. Ai novizi è proibito guardare in faccia i propri superiori.»

«Ho capito.»

«Ah, prima che mi dimentichi. Ci sono alcune zone, all’interno del tempio, contrassegnate da una maschera. Quelli sono luoghi assolutamente proibiti, dove nessuno a parte chi ne abbia ricevuto esplicito permesso può accedere.»

«Sai per quale motivo?»

«No, e non mi interessa. Ti direi di starci lontana, ma visto il motivo per cui sei qui credo sarebbe fiato sprecato. Tieni solo presente che in ballo c’è anche la mia vita, quindi ti pregherei di fare attenzione.»

«Stai tranquillo. Non ho intenzione di metterti nei guai.»

«Lo spero. Ora datti un contegno e cerca di calmarti, siamo arrivati».

Proprio in quel momento i due avevano imboccato il vicolo stretto e sporco che a metà del suo percorso aveva l’ingresso al tempio.

Un uomo alto e scuro, una specie di molosso, montava la guardia, e quando vide i nuovi venuti gli andò incontro. Carmy in un primo momento si preoccupò, ma poi vide che il tipo stava sorridendo in modo amichevole, imitato da Paris.

«Ehi, vecchio ladro di polli.» disse il gigante dando a Paris una vigorosa pacca sulla spalla «Che ci fai da queste parti?»

«Ci faccio il mio lavoro, Golgot. A differenza di te.»

«Era da un po’ che non ti si vedeva. Pensavamo che ormai avessi mollato.»

«Invece ti sbagli. Ho giusto qui con me una nuova aspirante adepta».

Il tizio si concentrò quindi su Carmy, che cercò per quanto possibile di non tradire eccessiva soggezione alla vista di quel nerboruto bisonte di cento e passa chili. Visto che voleva apparire come una frequentatrice di quartieri malfamati, si presumeva che fosse abituata alla vista di simili avanzi di galera.

«Certo che il mestiere di reclutatore può riservare davvero delle belle soddisfazioni.» commentò sarcastico Golgot squadrandola da capo a piedi «Queste poi riesci a trovarle sempre e solo tu. Che ci troveranno poi le ragazze in uno spiantato delinquente mancato come te, non sono mai riuscito a capirlo.»

«Si chiama fascino, gorilla senza cervello.» rispose sarcastico Paris «Dovresti provarci anche tu, invece di guardare ogni ragazza che ti capita davanti come se volessi saltarle addosso e strapparle i vestiti».

Golgot apparentemente non se la prese, anzi rise sguaiatamente.

«Non cambi proprio mai, vero?»

«Sua eccellenza Timur è qui?» tagliò corto il reclutatore

«È appena rientrato. Di sicuro ora è nella cappella. Forza, entrate».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Spero che la vostra estate stia trascorrendo serena e piacevole.

La mia la passo così, coltivando idee e scrivendo in attesa di settembre, quando finalmente sarà anche per me tempo di viaggi.

Questo è stato un capitolo di transizione. Nel prossimo, scopriremo qualcosa di più sul passato di Carmy.

In che modo?

Diciamo che sarà una sorpresa.

Grazie a tutti quelli che leggono e recensiscono.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 20
*** 18 ***


18

 

 

Varcata la soglia, Carmy si ritrovò in quello che aveva tutta l’aria di essere null’altro che il sotterraneo dell’edificio soprastante, angusto e stretto.

Il locale era stato ingrandito buttando giù alcune pareti superflue, sì da farlo sembrare più esteso di quanto in realtà fosse.

Dall’ingresso principale, scendendo una stretta e ripida scala metallica, si accedeva all’anticamera, e da qui alla cappella che costituiva il cuore del tempio. Il resto di quel sotterraneo era adibito a stanze private del priore e luoghi di ritrovo per i membri della setta; vi erano anche delle porte, ricavate artigianalmente e quasi tutte con l’emblema della maschera ben visibile sull’architrave, ma dove conducessero e cosa custodissero questo era impossibile da stabilire.

L’aria era densa del fumo delle candele, molte luci andavano ad intermittenza, e si respirava un insopportabile olezzo di erba mista a sangue, probabilmente quello degli animali sacrificati durante i riti.

Ovunque, sottoforma di bassorilievi, dipinti e statuette votive collocate in nicchie artificiali piene di erbe e doni, figuravano rappresentazioni di Ela, la dea della vita e della morte. Benché nella sua natura divina e soprannaturale non avesse una raffigurazioni standardizzata, la maggior parte delle immagini sacre la rappresentavano come una donna coperta da un lungo velo che la cingeva interamente lasciando scoperte solo le mani, rivolte verso l’alto come ad implorare una benedizione.

La cosa originale era che la dèa era raffigurata sempre con due volti, uno giovane ed effimero ed uno, posto solitamente all’altezza del ventre, appena visibile sotto la tunica, orrido e minaccioso. Essi simboleggiavano la doppia natura, di madre premurosa nel dare la vita e di spietata custode nel fato nel toglierla.

Stando alle voci il patriarca del culto aveva ricevuto un sogno premonitore dalla dèa in persona, una rivelazione in cui Ela lo aveva esortato a costruire una nuova chiesa, una diversa da quella della Santa Croce, accusata di essere troppo vicina all’ottica del mondo comunemente accettata, e per questo tanto illiberale e corrotta quanto il sistema che i seguaci di Ela dicevano di combattere.

Carmy restava alle spalle di Paris, camminando dietro di lui e cercando, nel contempo, di placare il proprio cuore, tornato a battere furiosamente appena varcata la soglia d’ingresso.

Appoggiati alle pareti vi erano tantissimi adepti, quasi tutti molto giovani, la maggior parte svenuti o storditi dalla droga, gli occhi persi nel vuoto e le teste che ondeggiavano scompostamente da una parte all’altra.

«Stammi vicina.» le sussurrò Paris.

L’uomo la guidò lungo una scala ai margini della cappella che scendeva ancora più basso, al secondo dei tre livelli sotterranei dell’edificio, e una volta qui davanti ad una delle poche porte prive della maschera, alla quale bussò in modo pacato e rispettoso.

«Avanti.» disse da dentro una suadente voce maschile.

Trovandosi per la prima volta faccia a faccia con padre Timur Carmy avvertì un senso come di soggezione nel guardarlo negl’occhi, come se a quel sinistro santone fosse sufficiente uno sguardo per rubare la volontà ed il cuore a tutti coloro che incontrava. Di certo carisma e capacità di persuasione non dovevano fargli difetto.

La ragazza non seppe cosa pensare. Non doveva avere tutte le rotelle al suo posto, ma così di primo pelo non le pareva il tipo di persona capace di gestire facilmente chissà quale industria della droga.

«Paris, ragazzo mio.» disse il priore alzandosi dalla sua semplice scrivania e andando loro incontro «Da quanto tempo non ti si vedeva frequentare questo tempio.»

«Il tuo adepto chiede rispettosamente perdono.» rispose lui con un leggero cenno del capo «La prigione gli aveva fatto smarrire la strada, e ha voluto prendersi un po’ di tempo per riflettere. Ora però è pronto a ritornare sul sentiero.»

«E la nostra madre Ela è felice di riprenderti nel suo grembo. Ma chi porti con te?»

«Un’anima perduta alla ricerca di certezze, che umilmente chiede di essere ammessa all’amore di Ela».

Timur posò allora i propri occhi su Carmy, uno sguardo magnetico e quasi affascinante che la ragazza faticò a sopportare.

«Come ti chiami, figlia mia?»

«Lei si chiama Carmy, vostra grazia.» rispose lei come le era stato insegnato, guadagnandosi un sorriso di merito «Carmy O’Neill

«E da dove arrivi, Carmy?»

«Da Mablith, nella prefettura di Midgral

«Una zona ricca.» osservò il priore «Con tante possibilità per i giovani. Come mai sei venuta a Kyrador».

Carmy si concesse qualche secondo per rispondere.

«Lei» disse a capo chino «Voleva entrare nella MAB».

Il sorriso gentile sul volto di Timur si mutò in un’espressione indagatrice, e per un attimo Paris sentì un colpo al cuore.

«E ci sei riuscita?»

«Non nella maniera che lei sperava. Ha lavorato per qualche tempo alla procura distrettuale, poi qualche cosa non è andata per il verso giusto e lei è stata esclusa».

Sentendola parlare, Paris ne restò quasi colpito. Anche se giovane quella ragazza stava rivelando un certo talento nella recitazione.

«Che cosa è successo, figliola?»

«Lei ha avuto dei problemi con un suo superiore. La importunava, ed era diventato molto invadente. Così lei ha denunciato il suo molestatore, ma questi aveva amici potenti che prima hanno fatto cadere ogni accusa e poi, per vendetta, hanno compromesso la sua carriera facendola cacciare.»

«Sei andata a sbattere contro la vera faccia di quel tempio corrotto del vizio e dell’ipocrisia.» le disse Timur quasi a volerla consolare «Purtroppo quello non è posto per le persone di buon cuore.

Ma se la tua situazione è così dura, perché non sei tornata al tuo paese? Forse in qualche ufficio di periferia potresti ancora cercare di riavere il tuo posto.»

«Lei per venire a Kyrador ad inseguire i suoi sogni è andata contro la sua stessa famiglia.» rispose Carmy bagnando i suoi occhi con lacrime solo in parte fasulle «Non può tornare da loro dopo quello che ha fatto.

Cercare un altro lavoro è stato inutile. Solo impieghi saltuari e malpagati. È solo grazie all’ospitalità offertale da un’amica se può ancora permettersi un tetto sopra la testa.»

«È una storia molto triste. Sei venuta a contatto con la parte più marcia e spietata di questa città. Anzi, di questo stesso mondo.

Però, sono curioso. Come mai hai cercato di entrare nell’agenzia?».

Carmy si prese un attimo prima di rispondere.

«Lei voleva fare qualcosa per gli altri. Le avevano raccontato che la MAB aiutava le persone.»

«La MAB aiuta solo il sistema corrotto cui fa parte. Sono i cani fedeli che si assicurano di lasciare le cose come stanno.

Risolvono i problemi che loro stessi hanno creato con il loro uso sconsiderato della magia, ma poi hanno l’ardire di rimproverare le vittime dicendo loro che avrebbero dovuto fare maggiore attenzione. Questa è la summa dell’ipocrisia».

Timur le passò una mano sulla guancia, un gesto di inconsueta dolcezza che stupì lo stesso Paris.

«Purtroppo, figlia mia, sei venuta a contatto con la parte più marcia di questa società».

Poi, il priore fece un’altra cosa che Paris non gli aveva mai visto fare. Allargò le braccia e strinse brevemente a sé Carmy, un gesto che solitamente compiva solo con le persone di cui si fidava maggiormente.

I casi erano tre.

O aveva capito tutto, e stava facendo la commedia in attesa di scannarli; o quella ragazza aveva una qualche capacità di far perdere il lume della ragione a chi le stava vicino; oppure, molto più probabilmente, il piano stava funzionando.

Carmy, almeno nella sua finta identità, incarnava bene il tipo di giovane disilluso e senza aspirazioni che piaceva a Timur, di quelli che potevano essere facilmente plasmati a proprio piacimento per farne degli adepti fedeli a cui poter chiedere qualunque cosa, certi che avrebbero obbedito.

«La grande madre Ela ti apre le braccia ed il cuore, figlia mia. Noi abbiamo sempre bisogno di nuovi adepti, e tu necessiti di ritrovare la retta via dopo essere stata per troppo tempo soffocata dalle tenebre».

Tutto sembrava stare andando per il verso giusto.

«La nostra chiesa è sempre pronta ad accogliere nuovi fedeli» disse Timur tornando verso la sua scrivania e prendendo un piccolo contenitore ligneo da dentro un cassetto. «Ma d’altra parte, chiunque venga a cercare la benevolenza di Ela deve comunque dimostrare di meritarla.

Quindi mi capirai se adesso ti chiederò di sopportare una prova».

Sia Carmy che Paris saltarono non visti sul posto, guardandosi preoccupati in cerca di reciproche spiegazioni.

Erano stati colti di sorpresa.

In circostanze normali le prove di fede erano indispensabili per essere ammessi nella comunità, ma per quanto Paris ne sapeva, e aveva ripetuto più volte durante la fase di preparazione, l’aver ottenuto il beneplacito di un reclutatore che garantiva per lui costituiva già di per sé una prova di fede con cui un aspirante adepto poteva dimostrare la propria volontà ad entrare a far parte del culto.

«Vostra eccellenza, la parola del tuo umile servitore non è sufficiente?»

«Non averne male, figlio mio. Purtroppo sono finiti i tempi in cui bastava l’autorizzazione tua o dei tuoi pari per essere ammessi. Come ho già detto ci sono tante persone da salvare, troppe, e quindi siamo costretti a fare una selezione ancor più severa.

Solo chi mostra di amare veramente la Madre Ela può essere degno di ricevere i suoi insegnamenti».

Dalla scatoletta Timur prese fuori una piccola pasticca rosso sangue, offrendola a Carmy assieme ad un bicchiere d’acqua.

«Per poter accettare e comprendere gli insegnamenti di Ela, devi anzitutto avere la forza di confrontarti con i motivi che ti hanno condotto qui.

Questa potente sostanza richiamerà a sé i ricordi più funesti del tuo passato. Dovrai affrontarli, ma da essi ricaverai la forza necessaria a rinnegare tutto ciò per cui sei vissuta fino ad oggi, e ad incamminarti per sempre sulla via della Grande Madre».

Carmy guardò la compressa, indecisa e un po’ spaventata.

Non immaginava che le cose avrebbero preso una piega del genere, e temeva le parole del priore.

Con il suo passato era già difficile conviverci, e doverlo rivedere non era una bella prospettiva.

Anche Paris era spaventato, se possibile ancora più di lei.

Cane era stato chiaro parlando della salvaguardia di quella ragazza, e dal tono che lui e il suo amico avevano usato era evidente che le loro non erano state minacce a vuoto.

Per un momento Carmy esitò, meditando l’idea di fare come le era stato detto e tirarsi indietro, poi le tornarono alla mente tutti i suoi buoni propositi, e in un istante rivide come in un film molti di quei motivi di cui aveva parlato Timur.

In fin dei conti conviveva con quei ricordi ogni giorno da almeno due anni, e se voleva dimostrare una volta di più di essere cresciuta doveva avere la forza di affrontarli ancora una volta.

Chiusi gli occhi, e trattenendo il respiro, la ragazza afferrò la pillola, e senza neanche aiutarsi con l’acqua la ingurgitò.

I primi effetti si fecero sentire quasi subito, sottoforma di un bruciore alla gola che diventava ogni secondo più forte, poi ad esso si aggiunsero conati, dolore in varie parti del corpo e, in ultimo, un insopportabile e lacerante fischio nella testa.

Carmy si sforzò di mantenere il controllo come le era stato insegnato, nel timore che lasciandosi andare avrebbe reso l’effetto della droga ancora più violento, ma la sua resistenza durò meno di qualche minuto.

Sopraffatta dal dolore, cadde sul pavimento sporco tenendosi la testa, gli occhi innaturalmente aperti e la bocca piegata in un’esclamazione di dolore che non le riusciva di esternare; Paris tentò di aiutarla, ma venne bloccato da Timur, secondo lui era necessario che Carmy riuscisse a cavarsela da sola.

La ragazza tentò di tacitare il fiume di pensieri che con l’andare dei secondi avevano preso a riaffiorare dalla sua mente come un vulcano in eruzione, ma il dolore era così forte che in poco tempo perse il controllo delle sue stesse emozioni, e a quel punto, sopraffatta dai ricordi, svenne.

 

Era una tradizione consolidata che università, aziende prestigiose e persino le forze armate facessero proselitismo nelle accademie, nelle scuole superiori e persino nelle scuole di magia di tutta la nazione, soprattutto verso il finire dell’anno scolastico.

Gli stregoni di buona caratura o con un avvenire promettente servivano come il pane, in ogni ambito di ogni settore, e trovarli quando erano ancora grezzi era una priorità.

Per questo motivo le scuole organizzavano seminari ed incontri con gli studenti, spesso abbinati ai festival della cultura e dello sport che si tenevano all’inizio dell’estate, durante i quali i ragazzi avevano modo di orientarsi e decidere il proprio futuro.

La scuola militare di Darmigan, cinque chilometri dal villaggio di Mablith, era considerata una delle accademie di magia più ostiche di Caldesia, e per anni aveva sfornato ufficiali e soldati scelti di ogni campo, dalla medicina agli alti comandi.

Carmy vi era stata iscritta da suo padre appena compiuti i quindici anni, e da allora vi aveva trascorso un intero triennio nove mesi all’anno, dividendosi tra l’edificio scolastico e i convitti che stavano all’interno del campus.

Non si era fatta molti amici, anche per via del suo carattere un po’ chiuso, e dopo tre anni ancora non sapeva cosa vi facesse in un posto simile.

Ovviamente il desiderio di suo padre, da fervente patriota quale era, era di vederla un domani arruolata nelle forze armate come medico militare, ma il pensiero di dover affrontare un altro decennio di studio condito da tre anni di internato per la specializzazione era abbastanza da toglierle il sonno.

Non si sentiva portata per quella strada, ma d’altra parte non sapeva in che altro modo poter mettere a frutto ciò che aveva appreso lì dentro, e per quasi tutta la giornata degli incontri non aveva fatto altro che transitare distrattamente tra una bancarella e l’altra, quasi sorda alle parole al miele riservatele dai vari reclutatori e troppo presa dai suoi pensieri per prestare attenzione a quanto scritto sugli innumerevoli depliant informativi che di volta in volta andavano a riempire le tasche della sua uniforme bianco sporco da studentessa dell’accademia.

Tutte quelle persone le parlavano in modo troppo distante, troppo asettico, per suscitare in lei una qualche reazione.

Non sembravano uomini, ma solo cacciatori di teste quali erano, interessati non tanto alle persone da reclutare quanto, per l’appunto, a trovarne il più possibile, perché la prima cosa che contava in quel genere di manifestazioni era il numero di candidati che si era riusciti a fare propri.

Solo un uomo riuscì ad accendere il lei una scintilla di interesse.

Era un tenente, non troppo giovane ma neanche anziano, e di tutta la marea di facce incontrate o intraviste nell’arco di quella giornata la sua era l’unica che Carmy, a distanza di quattro anni, riuscisse a ricordare con una certa nitidezza.

Non aveva mai saputo come si chiamasse, ma ne ricordava ancora le fattezze, tra cui una sparuta barba scura, capelli riccioluti tendenti al nero e penetranti occhi marroni, da soldato di ventura, che nonostante le molte prove sopportate nella vita non aveva perso la propria umanità.

Carmy ascoltò ciò che quell’uomo aveva da dirle prima ancora di comprendere appieno davanti a quale bancarella fosse capitata.

Solo quando sentì nominare la MAB le venne in mente di leggere il nome riportato sui volantini, ma già dalla poca gente che gravitava lì attorno avrebbe dovuto immaginare di essere capitata davanti al banco del TMD.

Nella regione di Midgral era più facile incontrare una mosca bianca che un sostenitore dell’agenzia, e nelle campagne la situazione era se possibile anche peggiore.

Eppure, nonostante tutte le storie che aveva sentito da suo padre e dai suoi compagni di accademia, Carmy non riuscì a non scorgere qualcosa di molto umano in quell’uomo, che le dava un senso di quiete e di sicurezza.

Le avevano sempre detto che la MAB era quanto di più corrotto ed ipocrita vi fosse al mondo, ma vedendo la sincerità e la forte volontà che scintillava in quegli occhi veniva quasi difficile riuscire a crederlo.

«Non dovresti ascoltare tutte quelle favole sul nostro conto» le aveva detto con un sorriso l’anonimo tenente. «Il TMD non è quell’accozzaglia di mercenari e assassini che tutti dicono. Tutto quello che facciamo è proteggere l’incolumità delle persone.»

«Però» obiettò Carmy quasi a volersi uniformare alla massa. «Siete pur sempre una squadra d’assalto. Quando intervenite voi, quasi sempre qualcuno muore.»

«Le persone, o meglio, le creature che uccidiamo di fatto sono già morte. Sono morte nel momento in cui la magia in cui riponevano fiducia le ha tradite e corrotte. È vero, il nostro spesso è un lavoro sporco, ma se noi non uccidessimo quelle creature, molte altre persone rischierebbero la loro vita».

Secondo alcuni il problema non era tanto nel TMD, del quale bene o male tutti riconoscevano l’importanza e l’utilità, quanto il fatto che restasse sempre e comunque una divisione della MAB, con tutte le inevitabili e spiacevoli conseguenze a livello di immagine.

«La gente tende a vedere la MAB come una sorta di anatema» disse ancora il tenente. «Un mostro dal quale difendersi.

È vero, forse certi suoi comportamenti sono difficili e difficilmente tollerabili, ma è anche vero che senza l’aiuto dell’agenzia la civiltà che è stata costruita su questo mondo probabilmente non si sarebbe mai formata, o si sarebbe sgretolata sotto il peso della naturale imperfezione umana».

Era un discorso che non faceva una grinza, ma che nessuno si sarebbe mai sognato di fare alla luce del sole.

Tutti su Celestis credevano, o volevano credere, di vivere in una società al limite dell’utopia, dimenticandosi che i veri mali, quelli che avevano più volte portato l’umanità al limite dell’estinzione, non erano certo derivati dal loro grado di civiltà, ma da qualcosa di diverso, che veniva da dentro di loro e che mai sarebbe scomparso.

«La MAB vuole assicurarsi che il sogno che ha condotto qui i nostri antenati non vada perduto. E per farlo, ha bisogno anche di noi.

E poi, le squadre TMD che abbattono gli EDA sono solo la punta dell’iceberg della MAB. Dietro di loro ci sono tecnici, scienziati, ricercatori, e persino medici. La MAB è come una grande famiglia, dove ognuno fa la sua parte.

Certo, bisogna dimostrare di avere le caratteristiche per entrare in questa famiglia, ma una volta che si viene a farne parte, e parlo per esperienza personale, si può assaporare la convinzione di stare facendo qualcosa di utile per questo mondo come non sarebbe possibile in nessun altro ufficio, azienda o istituzione di questo mondo, puoi credermi».

Forse fu il carisma di quell’uomo, o forse l’intima convinzione di aver sempre saputo dentro di sé che le cose erano davvero così, o ancora il voler convincersi che fossero così, fatto sta che fu in quel momento che Carmy iniziò a maturare la propria decisione.

Sapeva che non sarebbe stato facile. Sapeva di rischiare tutto, a cominciare dalla sua stessa vita, che non sarebbe più stata la stessa, ma con il passare dei giorni la voce dentro di lei divenne sempre più forte, al punto da non poter più essere ignorata.

Alla fine, sentì che la sua strada era tracciata. Non le restava altro da fare se non percorrerla.

 

Carmy sapeva fin troppo bene cosa sarebbe successo se la sua famiglia avesse saputo la verità, e per questo scelse di mantenere il segreto.

Non voleva mentire ai suoi genitori, ma aveva anche paura che potessero fermarla, così per i mesi a venire non disse nulla, glissando l’argomento quando possibile con frasi di circostanza e illusorie promesse, nell’attesa di trovare il momento e la forza per essere sincera.

Quella forza non la trovò mai, almeno fino al giorno in cui, terminata l’accademia ed espletati tutte le pratiche necessarie, in una fredda domenica invernale suo padre la vide rientrare in casa da un viaggio di natura ignota a Midgral indossando l’uniforme blu oltremare dell’agenzia.

A sua madre cadde il vassoio, frantumando il servizio da tè regalatole dal fratello il giorno del suo matrimonio, mentre suo padre, calmati i battiti del cuore dopo aver quasi rischiato l’infarto, digrignò i denti come una belva furiosa.

«Che cosa hai fatto, maledetta?» ringhiò gettando a terra tutti i premi e i riconoscimenti ricevuti in anni di onorata carriera come medico accuratamente disposti su una mensola del soggiorno.

Ally, che allora aveva sette anni, pianse nel sentire tutto quel baccano, venendo immediatamente condotta via da sua madre, cosicché padre e figlia potessero stare da soli.

Carmy rimase composta e rispettosa, come le era stato insegnato, sedendosi alla sua solita poltroncina del salotto, e dinnanzi al suo austero genitore annunciò, educatamente ma con fermezza, quella che ormai era una decisione dalla quale non poteva più tirarsi indietro.

«Io voglio fare qualcosa di buono per le persone.» disse sforzandosi di trattenere le lacrime «So di averti deluso, ma spero che vorrai cercare di capirmi.

Io ti ammiro tantissimo. Sei un grande medico. Ma io non sono come te. Non riuscirei mai ad essere al tuo livello. Devo fare qualcosa di cui sentirmi fiera.»

«E lavorare per quella maledetta agenzia che vampirizza da secoli il nostro mondo la consideri una cosa di cui andare fieri?»

«La MAB sta cercando di proteggere il sogno che ci ha condotti su questo mondo, padre.»

«La MAB quel sogno lo ha stuprato! Era una semplice forza di polizia sulla Terra, ora è una organizzazione internazione che si arroga il diritto di fare tutto quello che vuole, e che nasconde i suoi propositi di dominio dietro finti ideali! E tu sei stata così stupida da credergli!»

«Io voglio credere che sia così, padre. E se un giorno dovessi scoprire di essermi sbagliata, allora sarò pronta a venire da te implorando il tuo perdono. Ma fino a quel giorno, semmai dovesse arrivare, voglio fare tutto quanto è in mio potere per renderti orgoglioso di me.

Anche io voglio essere di aiuto alle persone proprio come fai tu ogni giorno curando i pazienti dell’ospedale, ed è per questo che mi impegnerò con tutta me stessa.

Tra pochi giorni sarò trasferita a Kyrador. Mi hanno assegnata alla procura distrettuale. So che non è molto, ma grazie alla determinazione e ai valori che mi hai insegnato spero di riuscire a conquistare una posizione di rilievo, che mi permetta di poter davvero fare qualcosa per riuscire nell’obiettivo che mi sono imposta.

Ma prima di farlo, anche se so di averti delusa, vorrei che tu mi dessi la tua benedizione. Non ti chiedo di appoggiarmi, solo di capirmi, come donna, e soprattutto come figlia, che vuole onorare suo padre. Niente di più».

La risposta arrivò nello spazio di un batter di ciglia, e fu la peggiore.

«Tu hai smesso di essere mia figlia nel momento in cui hai indossato quell’uniforme. Vattene subito da questa casa, e fino a quando ce l’avrai addosso non osare mostrarti di nuovo ai miei occhi».

Carmy avrebbe voluto piangere, ma mantenne il controllo, ostentando nel suo sguardo l’espressione più risoluta che il dolore provato intimamente le consentiva, e chinata la testa in un rispettoso saluto lasciò quella casa per non farvi mai più ritorno, con i singhiozzi di sua madre a fare da unica, desolante canzone d’addio.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Mi sono preso una breve pausa da questa storia, che come qualcuno probabilmente già sa è servita a realizzare la storia breve I Love You, Kyrador, che da tempo serbavo il desiderio di scrivere.

Non si è trattato della prima storia breve dedicata all’universo di Tales, infatti ne ho già in fase di studio altre due, che saranno pubblicate tra qualche tempo e che, posso già anticiparvelo, racconteranno la prima il viaggio delle navi coloniali e la seconda il periodo immediatamente successivo all’approdo di queste su Celestis.

Vi anticipo subito che, dati i contenuti e il tipo di ambientazione, probabilmente non le pubblicherò qui nella sezione fantasy, ma in quella dedicata alla fantascienza.

Ecco, ho detto tutto.

Questo è un capitolo molto importante, poiché come avete visto viene svelata una parte del passato di Carmy, e con l’andare del tempo scopriremo sempre più cose relative alle vicende personali dei vari protagonisti.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 21
*** 19 ***


19

 

 

Carmy scattò in piedi, la fronte sudata e gli occhi fuori dalle orbite, lanciando uno straziante grido di dolore.

«Sta calma» le disse Paris, in piedi accanto a lei, afferrandole le spalle. «È tutto finito».

Solo il un secondo momento, quando gli effetti stordenti della droga iniziarono a svanire, la ragazza si accorse di essere stata adagiata sul divanetto dell’ufficio.

La testa le faceva ancora un gran male, e per quanto ci provasse non riusciva a scacciare quelle immagini così dolorose. Non avrebbe mai immaginato di rivivere quell’esperienza in modo così nitido, né che farlo le sarebbe costato un tale supplizio.

Timur era ancora lì, seduto alla propria poltrona, e la scrutava enigmatico, rigirandosi una penna tra le dita.

«Avresti dovuto dare retta a tuo padre, ragazza mia» le disse a metà tra il rimprovero ed il tentativo di consolarla. «La MAB non è posto per le persone sincere e di buon cuore come te».

Carmy sussultò. Allora non solo quell’uomo l’aveva costretta a rivivere i suoi ricordi più tristi, ma era anche stato in grado di guardarli, sicuramente con qualche espediente magico.

«Perdona l’esperienza. Immagino non sarà stato piacevole. Ma come ho già detto, solo coloro che accettano di affrontare il dolore che hanno nell’animo e di guardarlo negli occhi sono degni di ricevere la luce e la saggezza di Ela.

Se devo essere sincero, non credevo che avresti avuto il coraggio di fare ciò che hai fatto. Una volta tanto le mie iniziali impressioni si erano sbagliate, e umilmente lo riconosco».

Alzatosi dalla sedia Timur si avvicinò a Carmy, porgendole la mano per aiutarla a rimettersi in piedi.

«Benvenuta nella nostra umile confraternita, figlia mia. Da oggi, questa sarà la tua nuova famiglia».

Una strana sensazione si destò nel petto di Carmy, come una sorta di strano ed inquietante calore, che la ragazza faticosamente tacitò rammentando a sé stessa il vero motivo per il quale si trovava lì.

«Lei umilmente vi ringrazia, vostra eccellenza. E farà di tutto per dimostrare la sua riconoscenza.»

«Che la benedizione di Ela scenda su di te. Scoprirai ben presto quanto amore e quanta grazia la nostra grande madre possa far discendere su chi ha fede ceca in lei e nei suoi ministri».

 

Il presidente Fujitaka non aveva avuto neanche il tempo di ambientarsi all’interno del palazzo presidenziale che subito era stato costretto, in concomitanza con l’inizio del periodo più caldo, a spostarsi nella residenza estiva ufficiale di Grober Hall, nella regione centrale delle Monagan Mountains.

Lassù era un vero paradiso, un piacevole trionfo di basse montagne coperte di pascoli e foreste baciate da un sole che riscaldava al punto giusto, dove soffiava costantemente un piacevole vento frizzante profumato di erbe e l’unica compagnia, nel raggio di decine di chilometri, era quella offerta dalla natura.

La residenza era, se possibile, ancor più sfarzosa di quella di Kyrador, e benché fosse realizzato per buona parte in legno la sua forma aggraziata, richiamante vagamente una elle, era una gioia per gli occhi e per il cuore. Con quel vasto portico che correva lungo tutto il perimetro della casa, quel tetto scuro e spiovente per impedire alla neve di depositarsi, e quella suggestiva terrazza panoramica ancorata alla roccia e sospesa sul nulla, dalla quale si poteva ammirare per intero il grandioso spettacolo delle Monagan Mountains, dal Monte Sorel fino al Monte Libra, sembrava una casa dei sogni, dove per secoli i presidenti di Caldesia si erano potuti concedere momenti di solitario riposo lontani dal caos e dai mille problemi della grande città.

All’interno, nel grande salotto da dove attraverso la porta finestra si poteva arrivare in terrazza, la storia della villa correva lungo la parete, attraverso i ritratti dei più illustri tra coloro che l’avevano abitata. L’unica differenza rispetto alla Sala della Gloria che nel palazzo presidenziale di Kyrador faceva da cornice ai numerosi incontri pubblici era che lì vi erano solo alcuni degli oltre cinquanta presidenti che si erano succeduti alla guida della nazione, coloro che maggiormente avevano contribuito a segnare il destino non solo di Caldesia, ma del mondo intero.

C’erano il presidente Williamson, il Patriarca, primo presidente della storia caldesiana; il presidente Steins, l’Innovatore, che aveva proposto la riforma sulle leggi magiche che era alla base dell’attuale codice internazionale sulla stregoneria; il presidente Chen, l’Ostinato, che aveva guidato Caldesia negli anni più difficili della Guerra Fredda e della contrapposizione globale tra Agenzia e Chiesa; il presidente Stoodman, il Magnifico, che aveva firmato il Trattato di Ebridan che aveva messo fine alle tensioni; il presidente Hidwing, il Mecenate, patrono delle arti, della cultura e della scienza, amante della filosofia e della storia, che tanto aveva fatto per rendere Caldesia il centro della cultura mondiale gettando le basi per il Secolo dell’Oro; e, infine, il presidente Martens, uno dei pochi presidenti donna che Caldesia avesse mai avuto, la Donna di Ferro, che al prezzo della sua stessa carica aveva epurato i palazzi del potere da fanatici e sovversivi.

Connor e sua moglie si concessero un po’ di tempo per esplorare tutta l’abitazione, mentre il solito picchetto di sicurezza montava la guardia rendendo anche un luogo sperduto e apparentemente alla portata di tutti come quello a prova di intruso.

«Chissà.» disse Ingrid «Forse un giorno ci sarà anche il tuo ritratto in questa stanza.»

«Ne dubito, se non mi danno prima il tempo di fare qualcosa» commentò Connor a metà tra il sarcastico e il rassegnato. «Sono presidente da neanche un mese e mi obbligano a venire in questo posto fuori dal mondo a guardare gli uccellini e pisolare sull’amaca.»

«È una tradizione consolidata che il presidente spenda la prima settimana del settimo mese in questo chalet. In fin dei conti hai trascorso gli ultimi nove mesi a fare la spola da una piazza all’altra per i tuoi comizi elettorali. Direi che una vacanza te la sei meritata» poi Ingrid sorrise ironica. «E poi la montagna ti è sempre piaciuta».

Connor la guardò, andandole incontro, e scambiandosi con lei un fugace ma amorevole bacio.

«Ti odio» disse lui. «Riesci sempre ad avere ragione.»

«Sono pur sempre tua moglie».

Uno sgradito bussare alla porta interruppe sul nascere quel momento sereno.

«Signor presidente.» disse Potter, il nerboruto e minaccioso gigante nero che negli anni aveva protetto ben quattro presidenti come capo della scorta d’ordinanza «Ho fatto preparare la macchina, come aveva chiesto.»

«Molto bene. Ho propria voglia di andarmi a fare un giro al villaggio» poi guardò la moglie. «E questa sera, cena al ristorante. Era da tanto che non lo facevamo.»

«Lo vedi? Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto».

Potter fece per lasciarli nuovamente soli quando il suo comunicatore prese a squillare, e lui, senza pensarci, rispose prima di chiudere la porta.

«Doug.» disse riconoscendo la voce del suo collega, che aveva lasciato a guardia del palazzo presidenziale «Come ti salta in mente di chiamarmi al lavoro? Sono con il presidente».

Poi i suoi occhi si spalancarono, e lui si fece pallido come un morto.

«Che cosa hai detto!?» esclamò venendo udito in tutta la casa e guadagnandosi uno sguardo perplesso da parte della coppia presidenziale «Starai scherzando spero!»

«Che è successo?» chiese preoccupato Fujitaka

«Presto signor presidente, accenda la televisione».

Connor e Ingrid si guardarono tra loro preoccupati, quindi la first lady usò il suo talento per far accendere da sé il televisore affisso tra i ritratti dei presidenti Williamson e Chen, e ciò che videro e sentirono nei minuti successivi avrebbe fatto rivoltare nella tomba quegli uomini straordinari.

«Interrompiamo tutti i programmi per una edizione straordinaria, e ci colleghiamo immediatamente con la nostra inviata a Kearney.

Conney, ci sei?».

La telecamera, abbandonato lo studio della CNN, si accese su quello che sembrava davvero un teatro di guerra, con boati, urla e piccoli incendi, che con la loro luce spettrale accendevano la notte di una città, Kearney, immersa in una innaturale e spaventosa oscurità.

Alle spalle della giovane giornalista, rinchiusa all’interno di una barriera protettiva corporea e talmente spaventata da trovare a stento la forza di non scappare, vi era la centralissima Piazza di Luglio, affollata all’inverosimile di gente che gridava e scandiva cori, sovrastata di quando in quando da violente scariche di armi da fuoco.

«La situazione è precipitata qui nella Repubblica di Amara. Circa sei ore fa, quando qui era da poco passato mezzogiorno il ministro dell’economia Ziros ha annunciato la sua uscita dalla coalizione che sosteneva il governo del presidente Borte, e appena la notizia si è diffusa la gente è scesa in strada scatenando una vera e propria guerriglia, sostenuta persino da elementi della polizia e della guardia cittadina. Solo poche ore dopo le dimissioni del ministro le truppe del generale Perry stanziate nella vicina base di Sidonai sono entrate in città, ma invece che cercare di riportare l’ordine si sono unite esse stesse alla rivolta.

La polizia rimasta fedele al governo e la guardia presidenziale si sono arrese quasi subito, e come potete vedere ora il palazzo è circondato dall’esercito.

Il generale ha decretato la legge marziale, ma ciò nonostante le strade sono piene di cittadini inferociti che danno la caccia ai membri del partito conservatore.

Correva voce che il presidente avesse lasciato la città, ma da alcune indiscrezioni pervenuteci negli ultimi minuti sembra che invece sia stato messo agli arresti da parte dell’esercito assieme a tutta la sua famiglia e si trovi ora in qualche caserma di polizia.

Il presidente era diventato molto impopolare a seguito delle durissime manovre economiche resesi indispensabili ovviare alla crisi energetica seguita agli scandali sulla corruzione nell’industria pubblica dell’estrazione della magia, e la bocciatura di tutte e tre le proposte di riforma avanzate dal ministro Ziros per privatizzare la rete abbattendo i costi avevano reso Amara una polveriera che aspettava solo di esplodere.

Le dimissioni del ministro sono arrivate al fallimento della quarta trattativa per l’attuazione della riforma. Fino a stamattina sembrava che gli spiragli per trattare fossero considerevoli, anche alla luce delle esortazioni giunte da parte internazionale onde evitare l’esacerbarsi degli animi. Con l’uscita di scena di Ziros però la manovra economica è diventata esecutiva, e a quel punto la rabbia dei cittadini è esplosa violentemente in tutta la nazione. Si segnalano infatti scontri anche nelle altre principali città, e in questo preciso momento quanto resta del governo si è riunito per concedere al generale i poteri speciali per riportare la situazione sotto controllo.

Questo è un vero e proprio colpo di stato».

Il presidente e sua moglie si fecero pallidi come la morte.

Una cosa del genere mai era accaduta prima d’ora, in nessuna nazione di Celestis.

Certo, si sapeva che la situazione ad Amara non era molto florida, soprattutto da quando erano venuti alla luce tutti quei casi di corruzione, ma come detto dalla stessa giornalista nessuno si aspettava che la situazione potesse farsi tanto grave.

Agli occhi di Connor, poi, appariva sicuramente peggio di come la vedevano la maggior parte delle persone e dei capi di stato di tutto il mondo. Amara aveva rapporti molto stretti con Caldesia, ed era forse l’unico vero alleato dell’Agenzia in Nuova Carolina, un faro in una tempesta di nazioni filo-ecclesiastiche.

Il servizio non era ancora finito che squillò anche il comunicatore di Ingrid, che proprio nei momenti come quelli era chiamata a svolgere al meglio il suo ruolo di assistente.

Questa volta, era il Ministro degli Esteri in persona.

«Sono Ingrid. Sì, signor ministro. Sì, sappiamo già tutto. … Ho capito. … Và bene. La prego, teneteci informati.»

«Che cosa hanno detto?» domandò Connor con un filo di voce, quasi che la sua mente non si trovasse più lì

«È stata convocata una seduta di emergenza del governo, ed è stato richiamato il nostro ambasciatore.»

«Sì, capisco…».

Ingrid strinse la mano del marito, che la guardò con aria assente e confusa.

«E ora che facciamo?» le chiese lui, il presidente

«Dobbiamo sforzarci di tenere la questione circoscritta. Se intervenissero le Nazioni Unite, gli equilibri del potere in Nuova Carolina potrebbero venire stravolti. D’altro canto Amara è l’unica nazione davvero fedele alla MAB del suo continente, e anche se trovo difficile che vi possano essere contaminazioni ecclesiastiche sotto una dittatura militare non possiamo permettere che vada alla deriva».

Gli occhi spenti del presidente si posarono su Ingrid, quasi alla ricerca di un modo per tornare a brillare specchiandosi in quelli forti e senza paura della donna.

«Hai ragione.» disse cercando di mostrarsi più risoluto «In questo caso, credo sia meglio rientrare subito a Kyrador» e si rivolse a Potter, che non se n’era mai andato. «Chiama l’aeroporto, e fai preparare l’aeronave.»

«Sì, signor presidente.»

«No Potter, aspetta!»

«Ma, Ingrid…»

«Cerchi di capire, signor presidente. Non dobbiamo mostrare timore, o far credere che non siamo padroni della situazione. Se diamo l’idea di essere nel panico, i nostri detrattori potrebbero spingere per costringerci a rimettere la questione nelle mani delle Nazioni Unite, e se dovesse accadere le nostre possibilità di azioni sarebbero seriamente compromesse.

Per questo motivo, almeno a livello d’immagine, dobbiamo fingere che non sia successo niente. Se il presidente interrompe le sue vacanze per seguire la questione sarebbe interpretato come un segno del fatto che riteniamo questa una situazione molto seria, e nazioni come Amaltea potrebbero approfittarne, per non parlare dei partiti che ci sono avversi.»

«Loro mi criticheranno anche se resto qui.» rispose rassegnato Connor

«E tu lascia che critichino. Meglio dare fiato alle parole di dissidenti interni che dover fare i conti col giudizio internazionale, non trovi?».

Connor abbassò il capo, insicuro, ma alla fine si convinse che quella era la decisione più giusta.

Così, mentre a Kyrador il governo si riuniva in seduta di emergenza, lui come programmato si recò in paese assieme alla moglie, ma con uno spirito ed un morale molto diversi da quelli che si era inizialmente immaginato.

 

Valerian sedeva nel silenzio del capannone abbandonato di Harris Island, non lontano dalla Statua dell’Esploratore che svettava sull’estremità della punta settentrionale dell’isolotto.

Sembrava che aspettasse qualcuno, e guardava continuamente in direzione del portone spalancato, dal quale entravano incessantemente il fragore delle onde ed il profumo della salsedine.

Una nave da crociera fischiò all’orizzonte transitando nel braccio di mare tra l’isola e Punta Dunier che collegava il golfo all’oceano: per qualcuno iniziavano le tanto agognate vacanze estive.

Valerian tornò per un attimo con la mente a quando era bambino, ricordando con un sorriso i lunghi viaggi per mare con suo padre a bordo del loro magnifico yacht privato, un vero castello delle favole galleggiante a bordo del quale poteva immaginare di tutto, dall’essere un pirata all’arrembaggio di un ricco bastimento al calarsi nei panni del comandante di una nave spaziale in esplorazione nel cosmo.

Suo padre era sempre molto disponibile nei suoi confronti, giocava spesso con lui e non gli aveva mai fatto mancare niente, a differenza di sua madre, che di contro gli aveva sempre fatto quasi paura, con quei suoi modi severi e la rigida etichetta che aveva cercato di imporgli.

Crescendo, si era reso conto che la vita reale tutto poteva essere meno che una favola, soprattutto dopo che, un brutto giorno, tutto era finito, ed il mondo fantastico in cui era vissuto era crollato fragorosamente come una casa costruita sul fango, non lasciandogli nulla che non fosse una montagna di odio e la voglia di vendicarsi.

Del destino del suo Paese gli importava solo fino ad un certo punto.

Quello che voleva davvero era restituire con gli interessi il favore fatto alla sua famiglia dai loro presunti amici, quella massa indegna di politicanti e affaristi che per salvare sé stessi avevano venduto il loro onore e distrutto il casato dei Delaroche.

Quando era riuscito a sottrarsi alla cattura sparendo nel nulla era convinto di essere rimasto senza nulla. Poi, però, nel suo peregrinare senza meta da un capo all’altro della nazione nascondendosi tra i rifiuti, qualcuno lo aveva riconosciuto, ma invece che darlo in pasto alla giustizia gli aveva offerto un’ancora di salvezza, promettendogli tutto quello che dal giorno della rovina sua e dei suoi cari aveva bramato, oltre alla possibilità di raddrizzare una volta per tutte quella società così marcia ed ipocrita.

Ed era proprio il suo generoso benefattore che ora stava aspettando.

Poco dopo mezzanotte, finalmente, si udì l’inconfondibile rumore di un potente motore, e dopo qualche attimo una macchina di grossa cilindrata color pece entrò lentamente nel magazzino, illuminando con i suoi potenti fari le pareti sudice e le montagne di immondizia accatastate in ogni dove, tratto quest’ultimo abbastanza comune nei luoghi dove erano soliti trovare rifugio gentaglia e stracciaioli.

Valerian attese che la vettura si fermasse e spegnesse i fari per avvicinarsi, ma pur riuscendo ad intravedere una figura oltre il vetro scuro della portella del guidatore, avendola riconosciuta, non si azzardò ad aprire, ben sapendo quanto il suo finanziatore e partner tenesse al proprio spazio personale.

«Non immaginavo che sarebbe venuto di persona» ironizzò all’indirizzo dell’ombra. «Deve essere davvero una cosa seria.»

«Cerca di non fare troppo lo spiritoso» rispose da dentro l’individuo con voce roca, parzialmente distorta dalla barriera invisibile che proteggeva la macchina «Questa storia non è affatto uno scherzo.»

«Ho sentito la radio. Ma davvero è così grave come dicono?»

«No, ragazzo. È anche peggio. Sapevo che era destinato a succedere, ma francamente non mi aspettavo che la situazione ad Amara sarebbe precipitata così in fretta, e in modo tanto violento.»

«Sbaglierò, ma sono convinto che lei ci abbia messo del suo. A quanto ne so le amicizie non le mancano.»

«Questo non deve riguardarti».

In realtà era vero.

Il suo benefattore e finanziatore aveva un sacco di contatti in tutti i luoghi che contavano, grazie ad anni di lungo e rispettato lavoro, e se non fosse stato per lui tutti quei casi di corruzione nei vertici di Amara non sarebbero mai venuti alla luce.

«Allora, cosa succederà adesso?» chiese ancora Valerian

«Per il momento è probabile che la faccenda rimarrà confinata in un ambito puramente interno.

Amara di fatto è lo stato satellite di Caldesia in Nuova Carolina. Sono convinto che perfino l’Agenzia si muoverà in prima persona per tentare di arrestare il problema prima che si ingigantisca troppo.»

«E lei crede che ci riusciranno?»

«Che ci riescano o meno, và comunque a nostro favore. Con la giusta pressione mediatica si può ottenere tutto. La verità, in fin dei conti, è un concetto estremamente relativo, e la gente di questi tempi è disposta a bersi qualunque cosa purché sia credibile.

A tal proposito, devo ammettere che state facendo un ottimo lavoro. Tra attentati presunti e finti incidenti, i più scalmanati hanno già i nervi a fior di pelle. Se andate avanti di questo passo, non ci vorrà molto prima che anche in questa città la situazione inizi a farsi veramente seria.»

«Giusto perché siamo in tema, Timur negli ultimi tempi sta iniziando a dare parecchi problemi.»

«Quel fetido animale di periferia» sogghignò l’ombra, lasciando scorgere a Valerian un sorriso divertito. «Si crede tanto importante.»

«Non mi fido del tutto degli uomini di cui si circonda. Anzi, non mi fido affatto. Ma il vero problema è un altro. Le sue richieste si fanno ogni giorno più esose, e le mie risorse si stanno esaurendo rapidamente.»

«Te l’ho già detto, mi pare. Non posso far sbloccare troppi tuoi conti. C’è il rischio che qualcuno se ne accorga».

Valerian si fece provocatorio.

«E se i soldi finiscono e quel santone per ripicca decide di lasciare tutto, o magari addirittura di andare a fare la spia?».

L’ombra parve crucciarsi, e serrò i denti contrariata.

«D’accordo, vedrò quello che posso fare. Tanto, questa sarà probabilmente l’ultima volta. Quando avremo completato le ricerche sulla nuova Lilith, quell’approfittatore schifoso non sarà più necessario».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Sono tornato.

Dai, questa volta ho aggiornato in modo un po’ più rapido rispetto alle ultime volte, e prima di dovermi fermare nuovamente per qualche altro giorno attorno alla metà di ottobre vorrei comunque riuscire ad inserire almeno altri uno o due capitoli.

Ora la storia ha davvero preso una direzione definita, e ci stiamo avviando a grandi passi verso la conclusione della prima metà della vicenda,  che vedrà importanti sviluppi e farà passare leggermente in secondo piano, ma solo in via temporanea, la questione relativa a Carmy e alla sua squadra.

Ringrazio tutti quelli che leggono questa storia, ma anche coloro che semplicemente l’hanno inserita tra le preferite, le seguite o le ricordate.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 22
*** 20 ***


20

 

 

Le chiese di Ela erano strutturate come un ufficio. Ad eccezione degli avanzi di galera e dei disadattati che frequentavano il tempio solo per procurarsi la dose giornaliera, i veri appartenenti al culto erano organizzati in una società a piramide: esistevano dei gruppi, ed ogni gruppo faceva capo ad un responsabile di livello più alto, il quale a sua volta faceva parte di un gruppo subordinato ad una figura ancora più elevata, e così via fino alla cima della piramide.

Alla base c’erano i discepoli, al di sopra dei quali vi erano gli apostoli. Ogni apostolo aveva sotto di sé uno o più discepoli, ed il suo compito era più che altro assicurarsi che non infrangessero le regole o minacciassero in qualche modo l’integrità e la sopravvivenza della chiesa. Indottrinarli era compito dei prelati, o di chi stava ancora più in alto.

Agli occhi di chi occupava le zone più alte della piramide non vi era molta differenza tra apostoli e discepoli; venivano trattati dai propri superiori alla medesima maniera, con sufficienza e pugno di ferro.

In verità, se possibile gli apostoli se la passavano anche peggio, poiché se qualcuno dei discepoli sotto di loro creava qualche problema era il suo supervisore il primo a risponderne, e in molti casi le punizioni tutto erano fuorché indolori.

Carmy era stata affidata alle cure di Noce, un giovane poco più grande di lei fresco di promozione, il quale a sua volta si trovava a dover gestire il suo primo discepolo.

Fin dal momento in cui Timur li aveva presentati Carmy si era sentita a disagio con lui. Oltre ad essere sgarbato e dalla bestemmia facile, quel suo modo di fare così arcigno e supponente faceva venir voglia di strozzarlo persino a qualcuno come lei, che tanti bocconi amari era stata costretta ad ingoiare per opera di gente simile.

Oltretutto non dava la minima importanza all’apparire, con quella camicia perennemente sbottonata e il felpone grigio insozzato di chissà quale delle numerose porcherie piene di unto che ingurgitava abitualmente; ed era un po’ un peccato, perché invece di faccia era piuttosto carino, con quel mento piacevolmente curvilineo, i penetranti occhi grigi e i lunghi capelli scuri raccolti in un codino.

Eppure non sembrava avere problemi di soldi. Ogni volta che qualcuno, non importava chi, gliene chiedeva, lui prendeva fuori il suo borsello nero, chiuso da un laccetto di cuoio color vino, ed elargiva la somma richiesta, a prescindere da quale fosse, e senza mai pretendere a prima vista alcun tipo di garanzia per riaverli indietro.

Sulle prime Carmy aveva pensato fosse uno spacciatore, ma una rapida occhiata negli archivi di polizia non aveva rivelato alcun precedente, neppure una segnalazione.

«I casi sono due.» aveva detto Cane al fallimento del controllo «O è stato molto bravo a non farsi mai beccare, o i soldi che ha gli arrivano da qualche altra parte».

Alexia aveva suggerito di non dare troppa importanza a Noce, visto che si trattava in ogni caso di un membro troppo basso di grado, e di conseguenza troppo insignificante, ai fini dell’indagine, ma l’istinto suggeriva a Carmy che c’era qualcosa di molto strano in quel ragazzo, e voleva capirne di più.

Nel frattempo, cercava per quanto possibile di non passare inosservata.

Come adepta i suoi incarichi erano piuttosto basilari, per non dire irrisori. Doveva tenere in ordine l’altare, partecipare a quante più messe ed incontri possibili, e qualche  volta uscire a raccogliere offerte da destinare alla comunità.

E poi c’era la droga.

Ne scorreva davvero a fiumi, e in tutte le formi.

Tutte le mattine, prima di uscire di casa, si iniettava una dose di tumadoxone, un agente artificiale che se iniettato o ingoiato per tempo annullava gli effetti della maggior parte delle droghe, ma che ben poco poteva fare contro la Lilith. Per fortuna non le era ancora capitato di dover provare il nettare blu, e a dire la verità durante le prime settimane di indagine Carmy non aveva visto girare una sola dose di quella roba all’interno del tempio.

Evidentemente Timur non voleva lasciare tracce, e stando ai controlli fatti da Cane e Lucas in giro per il cantiere persino gli spacciatori in qualche modo riconducibili a lui si tenevano ad almeno due isolati di distanza dal tempio, scappando al minimo segnale di pericolo.

La polizia sembrava impotente, o forse più semplicemente, come suggerito mestamente dal Capitano, era complice di tutto quel marcio. Se Marty aveva ragione sul fatto dell’accordo con la corporazione, allora era plausibile che anche qualcuno nei comandi del distretto avesse accettato di prendere una parte della torta in cambio dell’omertà. Che nei distretti degradati ci fosse tanta corruzione era una cosa che bene o male tutti sapevano, ma ogni volta faceva male.

Carmy cominciava a sentire il peso di quell’incarico.

Doveva mentire a tutti, anche a coloro di cui si era sempre fidata, a cominciare da Julienne, l’unica persona di quella immensa città con la quale si fosse mai confidata a cuore aperto.

E poi c’erano tutta la desolazione e la disperazione che doveva affrontare quotidianamente al tempio. Lì dentro dilagavano fanatismo e follia, e quelli che non avevano la mente ormai quasi completamente annebbiata dalla droga passavano la giornata a farsi indottrinare dai sermoni dei predicatori durante le messe.

Qualche volta persino Timur prendeva la parola, e Carmy fu quasi sorpresa nel sentire nelle sue parole molto meno odio rispetto alla maggior parte dei suoi subalterni. La sua sembrava una sorta di cupa rassegnazione, come una consapevolezza dell’impossibilità di cambiare quel sistema che tanto detestavano, ma ciò nonostante segnata dal suo più assoluto rifiuto.

Ogni volta che assisteva ad una predica Carmy ripeteva a sé stessa che quello che sentiva erano solo le assurde farneticazioni di fanatici integralisti, alle quali non prestare ascolto per nessun motivo, eppure di contro qualche volta era stata quasi rapita dalle parole e dal carisma del maestro.

Stava succedendo anche quel pomeriggio, nel corso di uno dei tanti sermoni giornalieri.

Timur parlava in modo così pacato, così apparentemente amorevole, che tutti nella cappella pendevano dalle sue labbra.

«Non abbiate paura di testimoniare quello che avete nel cuore.» disse camminando in mezzo ai suoi adepti «Non abbiate paura di credere fino alla fine nella vostra fede. Che vi accusino o vi deridano, non dimenticate mai che se lo fanno è solo per ignoranza.

Il mondo in cui viviamo ha inebriato ci ha inebriati tutti, a tal punto che abbiamo abbandonato la retta via.

Ma voi, ed io, ora sappiamo. Aprendo il cuore e la mente ad Ela, madre di tutte le cose, ci è stato concesso di tornare a vedere. Di tornare ad esistere.

In questo mondo che ha smarrito la via, perso nell’opulenza e in un crogiolo di false certezze, noi siamo riusciti a squarciare il velo, e a vedere nuovamente le cose per quello che sono.

Solo attraverso una nuova e più armoniosa visione dell’esistenza, saremo capaci di comprendere la vera felicità».

Nel mentre Timur si era avvicinato a Carmy, che vedendosi guardare negl’occhi avvertì il cuore batterle forte.

«E a quel punto, quando avremo percorso fino alla fine il duro cammino verso la luce di Ela, ci sarà dato di conoscere finalmente la vera felicità».

Terminata la funzione gli adepti lasciarono alla spicciolata la cappella, ma Carmy invece restò al suo posto, gli occhi rivolti a terra e l’espressione persa, confusa.

Una mano poggiata sulla spalla la fece trasalire.

«Sta attenta, Alice» le sussurrò Noce nell’orecchio. «Se ti addentri troppo nel Paese delle Meraviglie, non ne torni più».

La giovane si riscosse, ma quando si girò alle proprie spalle Noce aveva già preso la porta.

Un sospetto atroce si accese dentro di lei, tenendola inchiodata in quella cappella deserta.

“Non mi avrà mica scoperta?” pensò, non volendoci neanche pensare.

Rialzatasi, gli corse dietro, riuscendo a raggiungerlo appena fuori dell’ingresso.

«Aspetta!» lo chiamò. «Che stavi cercando di dirmi?».

Lui in un primo momento non le rispose, guardando ora in alto ora in basso, e sbuffando come contrariato.

«Ne ho viste tante come te» disse girandosi finalmente a guardarla «Ragazzine borghesi deluse dalla vita che si danno a questo genere di cose convinte che siano la risposta a tutti i problemi. E sai dove le ho riviste dopo la prima volta? In un sacco per cadaveri. O in alternativa, quando gli andava bene, in un centro i igiene mentale, con il cervello completamente fuso».

Di nuovo, Carmy sentì il cuore andarle a mille nell’istante in cui si vide fissare dritta negli occhi.

«È evidente che non sei fatta per un posto simile. Certo, i buoni propositi non ti mancano, ma quelle come te da queste parti sono le prime a rimetterci la pelle.

Sia bene inteso, non me ne frega niente che tu muoia o meno, ma visto che sarei anche io ad andarci di mezzo se dovesse capitarti qualcosa, apprezzerei che tu te ne andassi da qui il prima possibile.

Ti saluto».

Detto quello che aveva da dire, Noce riprese ad andare per la sua strada.

«Starò via un paio di giorni. Ricordati di andare per offerte. Se serve, chiedi a Gustaph.» e se ne andò, lasciando la ragazza sola con i suoi dubbi.

 

Jake era stato più che contento quando, alla luce delle molte missioni sostenute e delle eccellenti prestazioni  dimostrate, lui e la sua squadra si erano visti assegnare due inaspettate settimane di permesso premio.

Ormai erano diversi mesi che mancava da casa, tra l’addestramento e il nuovo incarico, e senza stare a pensarci troppo su era salito sul primo treno diretto ad est.

Mieza, il suo paese natale, si trovava ad appena un centinaio di chilometri da Kyrador, ma rispetto alla capitale sembrava di trovarsi in un altro mondo.

Soffici colline coperte di prati si intervallavano a basse montagne, mentre le acque del fiume Serk scendevano placidamente dal nord, tuffandosi nel lago a pochi passi dal limitare della cittadina per poi riprendere, sulla sponda opposta, nella loro corsa verso il mare.

La campagna dominava incontrastata, e lasciato il villaggio si entrava in un mondo quasi alieno, fatto di stradine strette e spesso sterrate, boschi di betulle, immense distese di campi coltivati e, soprattutto, tanto silenzio.

Appena sceso dal trenino campagnolo che lo aveva portato fin lì dalla vicina Easwick, l’uniforme verde sbiadito dell’unità ancora indosso e la sacca militare a tracolla, Jake scorse, appoggiato ad un vecchio fuoristrada coperto di fango, un signore di mezza età dall’aria gioviale, che vistolo gli andò sorridendo incontro stringendolo in un caloroso abbraccio.

«Ragazzo mio. Quanto tempo.»

«È un piacere rivederti, zio Ernest.»

«Accidenti, quanto sei cresciuto. Eri poco più di un moccioso quando ti ho visto salire su quel treno diretto verso la grande città, e guardati adesso.

Un militare.»

«Non esagerare, zio.» scherzò Jake «Sono sempre quello di una volta.»

«Staremo a vedere. Ora forza, vieni a casa. Tuo padre e tua madre non vedono l’ora di rivederti».

Zio Ernest era un amante della velocità, e avrebbe lanciato il suo vecchio macinino a tutta forza anche in mezzo ad un campo minato. Dal canto suo Jake si era ormai abituato alla sua guida folle, così riuscì a non farsi venire il voltastomaco quando il parente, ingranata la quinta, si inerpicò come un pazzo su per una strada stretta cinta da ripidi fossi che passava attraverso una vasta distesa di alberi secolari.

Le ruote grattavano l’asfalto consumato come gli artigli di una lince, e nonostante gli anni che aveva sulle spalle il motore cantava ancora che era una meraviglia; l’unica nota dolente erano le sospensioni, fattesi più rigide della pietra, cosicché ogni più piccola buca a Jake sembrava un burrone.

«Le strade di Kyrador sono tutta un’altra cosa, vero?» domandò zio Ernest vedendo che Jake iniziava a sentirsi male

«Non sarebbe un problema se tu guidassi con un po’ più di coscienza.»

«Sei diventato proprio un moccioso di città. Quando eri piccolo non facevi che chiedermi di andare più veloce.»

«Chiamala incoscienza giovanile. Una cosa di cui tu invece non ti sei mai liberato».

Quella specie di rodeo durò per almeno una ventina di minuti, poi, d’improvviso, una vampata di luce colpì il parabrezza del pickup accecando momentaneamente Jake, che riaperti gli occhi vide comparire dinnanzi a sé una verdeggiante e sterminata distesa di campi, racchiusi come una perla all’interno dell’anello di alberi che si erano appena lasciati alle spalle.

Jake sentì un moto di calore nel petto.

Tutti quei terreni baciati dal sole, quei campi di grano dove aveva speso la sua infanzia, quelle viti in mezzo alle quali aveva corso nei pomeriggi autunnali. E poi i canali per l’irrigazione, il laghetto artificiale dove fare il bagno, e laggiù, infondo, la cascina, con i suoi tre imponenti edifici cinti da un basso muro di mattoni.

Era il piccolo feudo delle imprese agricole Aulas. Il suo bisnonno l’aveva fondato, suo nonno l’aveva plasmato, suo padre lo aveva reso prospero, facendone, oltre che una fiorente industria, anche una rinomata meta turistica, frequentata da chiunque fosse alla ricerca di un angolo di tranquillità non troppo lontano dalla caotica Kyrador.

Un giorno, tutto quel ben di Dio sarebbe  appartenuto a sua sorella Agnes, visto che lui aveva scelto di rinunciare alla sua parte di eredità per inseguire il suo sogno; il sogno di rassomigliare un domani alla persona che più di chiunque altro, ad eccezione ovviamente della sua famiglia, aveva impresso un’impronta fondamentale nella sua formazione.

Amava quella terra, e amava farvi ritorno, e se quel giorno a scuola non avesse incontrato il capitano probabilmente avrebbe percorso la stessa strada dei suoi antenati, fatta di lavoro nei campi, cura del bestiame e svezzamento di una nutrita prole.

Varcato il cancello, Jake non attese neppure che lo zio parcheggiasse il furgone nell’aia per correre incontro a sua madre Theresa, che vedendolo dalla finestra della cucina lasciò perdere lo stufato per andare ad abbracciarlo saltando come una scolaretta.

«Mamma!»

«Jake!» disse lei mettendosi in punta di piedi per potergli arrivare al collo. «Finalmente sei a casa! Dopo tutti questi mesi.»

«Mi dispiace di non essere più tornato. Sono successe delle cose, e per un motivo o per l’altro…»

«Non pensarci neanche. Quello che conta è che tu sia tornato. Questi mesi saranno stati sicuramente duri, e chissà cosa ti avranno fatto ingurgitare in quella caserma.

Ma ora ci pensa la tua mamma a farti tornare il buonumore».

Nel gergo della signora Aulas, buonumore era sinonimo di pancia piena, così la donna, dato un ennesimo abbraccio al figlio, fece ritorno in tutta fretta a quel suo personale regno chiamato cucina.

«Dov’è papà?» domandò Jake guardandosi attorno

«È giù al generatore tre» rispose lo zio, visto che Theresa ormai era già rientrata in casa. «Quella vecchia massa di ferraglia si è rotto un’altra volta».

Jake allora raggiunse il maneggio, sellò uno dei tanti cavalli usati per le passeggiate turistiche e raggiunse il punto più distante della fattoria, ai piedi della collina panoramica dove stava l’antenna che forniva energia all’intero complesso.

Il generatore tre era il più vecchio di tutti, e alimentava la corrente in tutta la parte settentrionale della tenuta, ma proprio per la sua veneranda età aveva la tendenza a guastarsi spesso.

Neanche il tempo di smontare da cavallo, che dal casotto in legna e mattoni mezzo nascosto dall’erba Jake vide sbucare fuori il suo vecchio, coperto di kryloetanolo condensato da sembrare un mostro.

Tobias Aulas era un uomo che amava spaccarsi la schiena. Dalla vita non aveva avuto in dono niente, perché se quella tenuta andava così bene era dovuto soprattutto al duro lavoro che svolgeva ogni giorno.

Aveva impartito la cultura del sudore anche ai suoi figli, ed essi l’avevano acquisita, ma poi Jake aveva deciso di andare a cercare fortuna nella grande città, sperando di diventare come il suo eroe. Un po’ a Tobias gli era dispiaciuto, ma a giudicare dall’espressione serena e soddisfatta impressa sul volto di quel figlio che rivedeva per la prima volta dopo tanti mesi doveva essere stata un’esperienza positiva, e questo gli bastava.

«Eccolo il mio ragazzo» disse togliendosi il largo cappello e abbracciandolo forte, poi notò i capelli tagliati molto corti e sorrise. «E questi?»

«È il regolamento.» rispose Jake passandovi una mano sopra

«Non c’è che dire, tra quei capelli e la divisa sembri davvero un militare navigato.»

«Si è guastato un’altra volta?»

«Già» disse mestamente Tobias. «Dannato pezzo di ferraglia. È da stamattina alle cinque che ci armeggio e non c’è verso di farlo ripartire.»

«Posso dargli un’occhiata?».

Tobias lo guardò sorpreso.

«Fai pure» disse, e sorridendo accompagnò il figlio nuovamente all’interno del casotto. «Tuo zio continua a dire che dovrei decidermi a cambiarlo, e comincio a pensare che forse abbia ragione. Ma lo sai come sono fatto.»

«Altroché» replicò ironico Jake. «Un tirchio di prima categoria.»

«Do il giusto valore ai soldi» puntualizzò il suo vecchio. «Che male c’è?».

Inginocchiatosi davanti al possente e vecchio dispositivo coperto di polvere Jake vi passò una mano sopra, nel tentativo di percepirne le vibrazioni.

«E ora che stai facendo?» domandò interdetto Tobias

«Ogni cosa in cui scorre della magia possiede proprie vibrazioni. Analizzando il modo in cui l’energia vibra, è possibile riuscire a comprendere la natura di un problema, ed eventualmente risolverlo.»

«È un’altra di quelle tue corbellerie da stregone?»

«Non sono corbellerie, papà. È scienza» rispose Jake continuando nel suo lavoro. «Ogni cosa creata dall’uomo esiste in funzione della magia, persino questo generatore. Persino tutta questa azienda.»

«Ho sempre pensato che magia e scienza si escludessero a vicenda. E in un certo senso, continuo a pensarlo ancora oggi. Come si fa a chiamare magia qualcosa su cui ci pubblicano testi scientifici?»

«Il modo di intendere la magia non è più quello di mille anni fa. Ogni cosa che esiste nell’universo ha una sua logica, e comprendere questa logica è la chiave per ottenerne il controllo. Questo concetto è all’introduzione di qualunque testo di stregoneria».

Compreso il problema, a Jake non restò altro da fare che incidersi leggermente un dito e sfiorare la superficie del generatore; il macchinario fu avvolto da un bagliore, coprendosi per un attimo di simboli arcani, quindi, dopo aver emesso uno strano gorgoglio, riprese a funzionare, inondando nuovamente il casotto e gli edifici vicini di energia.

Tobias rimase di stucco. Sapeva che suo figlio era portato per la magia, perché il test attitudinale lo aveva provato, ma non pensava che un domani sarebbe stato capace di fare cose simili, non dopo che alle scuole medie non era mai stato capace neanche di far accendere una candela.

«Soddisfatto?»

«Per me è solo una grande perdita di tempo» tagliò corto il genitore. «Niente altro che un costosissimo gioco di prestigio. E se penso che ho persino pagato per farti imparare cose simili mi sento male».

Poi, però, il vecchio padre sorrise, e allungato un braccio strinse amichevolmente la spalla del figlio in segno di ammirazione.

«Bentornato a casa, ragazzo.»

«Grazie, papà.»

«E ora forza, a casa. Non so tu, ma io è da stamattina che sto con una tazza di caffè, e tua madre diventa sempre molto generosa con le portate ogni volta che ti fai vivo.»

«Non cambi mai».

Mentre lasciavano il casotto, poi, a Jake tornò in mente una cosa.

«Non vedo Gilas» disse riferendosi al tuttofare che qualche anno prima Tobias aveva preso a servizio. «Non era lui che di solito si occupava di queste cose?»

«Ti prego, non me ne parlare.» tagliò corto suo padre apponendo il lucchetto alla porta di legno «Maledetto il momento che l’ho preso a lavorare con me. Non hai idea di quante volte l’ho beccato brillo o stordito per via della robaccia che si procurava in paese.

Mi dicevo sempre, quelli come lui hanno bisogno di comprensione, così impareranno e troveranno la strada giusta. Risultato, sono rimasto fregato.»

«Se n’è andato?!»

«Una settimana fa, più o meno. Da un giorno all’altro ha preso le sue cose ed è sparito. Ha anche pensato bene di portarsi via qualche centinaio di kylis che tenevo in un cassetto. Sai che ti dico? Affari suoi. La sua occasione io gliel’ho data, ora che si arrangi».

 

Nella notte di Caldesia, un autocarro percorreva quasi in solitaria la superstrada che collegava tra di loro le regioni del nord e del sud, uno dei pochi tracciati che non avesse un collegamento diretto con Kyrador.

Era una delle arterie più antiche della nazione, e nonostante non transitasse in nessuna città degna di nota eccezion fatta per Midgral era molto frequentata.

Noce guidava da solo, immerso nel silenzio della cabina di guida, e ascoltava la radio per tentare di restare sveglio.

Non era la prima volta che faceva di quei viaggi. Timur si fidava di lui, perché sapeva quanta importanza desse ai soldi, e al fatto che non se ne avevano mai abbastanza.

Per lui niente era troppo immorale o illegale, se la percentuale era sufficientemente generosa.

La schietta e semplice logica di pensiero di qualcuno che non chiedeva altro che di poter abbandonare il buco schifoso in cui viveva.

Si fermò in un’area di sosta, non lontano dal casello per accedere alla Superstrada Uno che portava a Kyrador, e qui stette in attesa.

Non dovette aspettare molto, perché meno di dieci minuti dopo due macchine comparve da dietro la curva a fari bassi, fermandosi davanti e dietro al camion.

A bordo di una c’erano due uomini, a bordo dell’altra uno solo, ma solo i guidatori scesero per andare incontro a Noce, che a sua volta, smontato dall’abitacolo, rimase appoggiato al portello rimasto aperto come a volerlo difendere.

«Mezz’ora di ritardo.» esordì Lancillotto

«Non è mica facile percorrere queste strade senza dare nell’occhio. E comunque, stavolta siamo dovuti andarli a cercare molto lontano.»

«Per quale motivo?» chiese Gareth

«Ci sono state troppe sparizioni in città di questi tempi, e qualcuno ha iniziato a fare troppe domande.

Questi, per esempio, vengono tutti dalla zona di Easwick

«Sono tutti in buona salute?» chiese Lancillotto

«Controllate voi stessi, se volete.» rispose sprezzante il ragazzo.

I due uomini, non troppo convinti, si fecero aprire il portello posteriore, illuminando con una torcia una schiera di individui, quasi tutti vagabondi a giudicare dagli stracci che li coprivano, sedati e incatenati alle pareti laterali come tanti animali da macello pronti per la mannaia.

«Se non altro sono migliori dei rifiuti umani dei distretti di Kyrador.» ironizzò Gareth «Questi almeno sembrano ancora capaci di reggersi in piedi.»

«Mi piacerebbe restare qui a chiacchierare con voi» tagliò corto Noce «Ma sono due giorni che mi trascino dietro questo bestione per tutto il meridione, e vista l’ora ho una gran voglia di andarmene a letto.

Allora, concludiamo?».

Lancillotto e Gareth si guardarono tra di loro, quindi Gareth lanciò al ragazzo le chiavi della sua macchina.

«I soldi sono dentro. Prendi il tutto e sparisci».

Il ragazzo non commentò né chiese spiegazioni, e richiuso il portello si avviò verso la macchina.

Più di una volta si era domandato cosa se ne facessero quei tipi che non aveva mai conosciuto nello specifico di tutti quei drogati, straccioni e senzatetto che raccattavano, vendevano e compravano come gli oggetti che erano, ma la cosa in verità non gli importava minimamente.

Gli bastava avere la sua parte, ed infilatosi nella tasca una parte dei soldi trovati nel bauletto del passeggero mise in modo e se ne andò svoltando in direzione di Kyrador.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Finalmente un po’ di pace.

Tra una cosa e l’altra sono stato un po’ impegnato in quest’ultimo periodo, ma finalmente un po’ per volta mi sono liberato momentaneamente di tutte le scocciature e ho potuto riprendere a scrivere.

Ora siamo davvero nel vivo della questione.

Ben presto la situazione inizierà ad evolversi a ritmi piuttosto sostenuti, per poi finire inevitabilmente per precipitare, con tutte le inevitabili conseguenze.

Ora è probabile che mi prenderò qualche giorno per dedicarmi ad altre storie, ma conto di aggiornare Tales in tempi piuttosto contenuti.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 23
*** 21 ***


21

 

 

Poco lontano dall’appartamento di Carmy c’era un piccolo parco pubblico, risibile rispetto al centralissimo Luminous Park in quanto a dimensioni e impianti sportivi, ma all’interno del quale vi era comunque un piccolo centro di allenamento per i praticanti di stregoneria.

Carmy vi si recava con una certa regolarità, solitamente tutti i martedì e giovedì dopo il lavoro.

I programmi di preparazione in uso nella MAB e nella polizia militare erano troppo avanzati per lei, per non parlare del rischio di rendersi ridicola davanti ai propri colleghi, così preferiva esercitarsi lì, lontano da occhi indiscreto e superiori dal giudizio facile.

La sua specialità erano da sempre le barriere e gli scudi magici, che aveva perfezionato nel corso degli anni e che erano da sempre in cima alla sua personale lista di abilità conseguite durante gli studi accademici.

Generare uno scudo era relativamente facile, perché richiedeva simboli magici molto semplici e facili da tenere a mente, e in molti casi non necessitava neppure di pronunciare una formula.

L’incantesimo noto come Toirelles costituiva la base di partenza per qualsiasi magia protettiva, e Carmy vi aveva apportato delle proprie personali modifiche, ricavandone il Reditum e il Grand Mirage.

Il Reditum funzionava come un muro di gomma, assorbendo metà di un eventuale assalto per poi ritorcerne il restante contro chi lo aveva lanciato; il Grand Mirage invece non era altro che una normale barriera difensiva riadattata a strumento d’attacco, che una volta generata veniva scagliata sul bersaglio con un effetto simile al diretto scagliato da una mano gigante.

Esistevano centinaia di altri incantesimi nei testi di stregoneria che avevano simili effetti, ma ciò che rendeva davvero speciale la magia era la possibilità per gli stregoni di adattarla alle proprie esigenze, ed era anche grazie a questo che l’attività di docenti e studiosi non aveva mai fine.

Il centro era costituito da una decina di campi posti l’uno accanto all’altro, non tanto dissimili da una qualsiasi palestra all’aperto, e fatto salvo l’utilizzo di pallini di cuoio al posto delle proiezioni eteree era molto simile agli impianti in dotazione all’agenzia.

Carmy prese posto al centro della pedana, impostando una difficoltà media per non strafare troppo, e tratto un lungo respiro spinse l’interruttore di accensione. Subito i cinque cannoncini a levitazione posti a trenta metri da lei all’altro capo del campo presero a sparare pallini nella sua direzione, spostandosi di continuo da una parte all’altra per rendere tutto un po’ più difficile.

Il concetto di quell’allenamento era cercare di respingere il maggior numero possibile di pallini con le proprie capacità magiche, ma Carmy cercava in egual misura di schivare e rispondere, anche perché la frequenza ed il numero di pallini che le venivano scagliati contro al suo attuale livello erano troppi per poterli respingere tutti.

In questo modo si affinavano anche i riflessi, che come le era stato insegnato al corso di preparazione erano una componente fondamentale per un aspirante membro di qualunque reparto speciale.

Carmy si difese bene, facendo tesoro della sua capacità di creare e maneggiare scudi difensivi, riuscendo anche ad intercettare e distruggere alcuni bersagli quando questi erano ancora ad una certa distanza da lei, e al termine della prima ondata aveva incassato solo dieci colpi su oltre duecento che le erano stati scagliati contro.

In altre circostanze si sarebbe accontentata, ma quel giorno Carmy aveva troppa voglia di mettersi alla prova e riavviò il programma quasi subito, aumentando anche di due punti il livello di difficoltà. Si rese conto troppo tardi di aver forse ecceduto nella spavalderia, ma nonostante tutto la sua continuò ad essere una prestazione discreta, seppur con qualche sbavatura, tanto che mentre si allenava fu notata da un nerboruto ma molto affascinante giovane uomo dai capelli scuri che stava facendo un po’ di jogging lungo il vialetto che costeggiava i campi.

Questi, fermatosi per riprendere fiato, la notò, e colpito dalla determinazione che la ragazza stava mettendo nel respingere quella pioggia di pallini stette ad osservarla fino a che non ebbe finito.

«Una buona prova.» disse quando Carmy tornò verso la panchina doveva aveva lasciato l’asciugamano

«Non ancora perfetta, però.» sospirò la ragazza

«Per la perfezione c’è tempo. Certo il talento non ti manca. Che scuola di magia hai frequentato?»

«L’accademia militare di Darmigan, vicino a Mablith

«L’accademia militare? Sei un soldato?»

«Più o meno» rispose lei porgendo la mano. «Carmy O’Neill. Sono nella polizia militare.»

«Julian Vyce. Istruttore capo.»

«Che unità?»

«TMD».

Nel sentir nominare il TMD, Carmy ebbe un sussulto. Aveva sempre ammirato chi ne faceva parte, a differenza di una larga fetta della popolazione, e trovava il loro un compito utile, anche se ingrato.

«Voglio che sappia che non condivido per nulla quello che dicono su di voi.» si affrettò a puntualizzare «Trovo che siate un grande corpo, che rischia costantemente la vita per affrontare le situazioni più difficili».

Vyce la guardò perplesso.

«Ammetto che sentirmi dire una cosa simile da una ragazza così giovane mi fa un certo che. Giovani e ragazzi sono tra i nostri più agguerriti detrattori di questi tempi» quindi si lasciò scappare una risatina. «Forse è il tuo sangue di sbirro.»

«Salvate vite ogni giorno» replicò Carmy con la massima serietà. «Eppure certa gente non trova niente di meglio da fare che gettarvi fango addosso. Io ammiro ciò che fate e quello che siete, e non nascondo che un domani, semmai ne fossi degna, mi piacerebbe molto entrare a far parte della vostra squadra».

Di nuovo, Vyce rimase basito, e quasi si sentì scaldare il cuore nello scorgere la sincera determinazione che bruciava negli occhi di quella ragazza.

Abbassò la testa.

«Quanti anni hai?»

«Ventidue, signore.» rispose lei come una recluta davanti al suo superiore

«E vorresti davvero entrare nel TMD?»

«Se un giorno sarà possibile, sì.»

«Scordatelo».

Carmy spalancò gli occhi, immobile come una statua.

«Perché, signore?» balbettò a fatica

«L’hai appena detto tu. Il nostro è un lavoro ingrato, oltre che molto rischioso. Ci sono già troppi giovani e promettenti cadetti alle mie dipendenze che scalciano per entrare, e so già fin d’ora che probabilmente vivrò molti più anni rispetto ad alcuni di loro.»

«Gli incidenti possono capitare» tentò di obiettare Carmy. «Che si faccia parte o meno del TMD, il rischio di morire è una componente imprescindibile del nostro lavoro.»

«Sì» rispose Vyce allacciandosi una scarpa. «Ma quando sei nel TMD, quel rischio si moltiplica per cento. Noi dobbiamo affrontare pericoli ai quali tutti gli altri non oserebbero neppure avvicinarsi, e molto spesso dobbiamo pagarne pegno.

Ne ho abbastanza di assistere ai funerali di giovani promettenti e capaci come te, ragazzi che hanno gettato via la propria vita prima di poterla realmente vivere.

Per questo ti dico che forse è il caso che tu ti scelga un’altra strada. Puoi fare molto per questo Paese e per gli altri senza bisogno di giocarti la vita».

Carmy avvertì uno strano freddo, accompagnato da una sensazione come di smarrimento, cosicché quando Vyce si allontanò riprendendo a correre non fu in grado né di salutarlo né di guardarlo, tanto quelle parole così dure l’avevano ferita.

 

L’estate era il momento dell’anno in cui la fattoria lavorava di più, e Jake, malgrado fosse tornato al suo nido soprattutto per riposarsi, fu ben felice di dare il suo contributo.

La mattina, assieme al padre e allo zio, si recava nei campi, dividendosi tra la cura dei frutteti e quella degli uliveti. All’ora di pranzo tornava a casa per aiutare sua madre e sua sorella a servire i clienti dell’albergo, quindi dopo un momento di riposo all’ombra del porticato davanti all’ingresso veniva il momento di dedicarsi alla mietitura.

Da vecchio scorbutico nemico della tecnologia quale era il suo vecchio non amava circondarsi dei moderni strumenti per facilitarsi il lavoro; tutto quello che aveva era una vecchia mietitrebbia, un paio di autocarri per il trasporto di merci e bestiame e tanto olio di gomito, oltre ad una schiera ben nutrita di infaticabili braccianti provenienti per la maggior parte dagli altri paesi della valle.

Per velocizzare il lavoro, data la vastità dei campi, mentre la mietitrebbia falciava da una parte gli uomini lo facevano da un’altra, più lentamente ma in modo, a detta del vecchio, molto più rispettabile.

La campana in cima alla torretta dell’edificio principale per tradizione scandiva la fine del lavoro, e dopo un’intera giornata spesa a spaccarsi la schiena tutti la salutavano con un generale sospiro di sollievo.

Jake sentì una ondata di commozione nel sentirla suonare dopo tanto tempo, e lasciata cadere la pesante falce che aveva brandito per ore senza mai posarla si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore, che scivolando lungo il torace nudo lo faceva quasi luccicare.

«Niente male» osservò suo zio. «Credevo che la città ti avesse rammollito.»

«La città non rammollisce» rispose il ragazzo, sornione. «Anzi, che tu ci creda o meno, alle volte fortifica.»

«Ho qualche dubbio. Ma nel tuo caso, mi riservo di decidere. Forza, torniamo indietro».

Dopo una molto salutare doccia rinfrescante, che servì a lavare via tanto il puzzo quanto le fatiche, come quando era piccolo Jake si ritrovò seduto alla grande tavola della taverna assieme a tutti i suoi parenti.

Alla sera ci pensavano le inservienti e i camerieri assunti part-time ad occuparsi del ristorante, così l’intera famiglia Aulas aveva modo di consumare la propria cena in tutta tranquillità, e come al solito la signora Aulas non si fece parlare dietro in quanto ad abbondanza.

«Forse dovrei chiedere ai superiori di proporti a responsabile della nostra mensa» scherzò Jake vedendosi riempire il piatto dal cognato Pence «Le porzioni che ci propinano laggiù sono terribilmente risicate.»

«Fossi matta. Non baratterei mai questa bella valle con quella città così caotica. Non sono fatta per posti simili, lo sai.»

«Allora, Jake» intervenne Tobias, seduto come al solito a capotavola. «Parlami ancora di questo capitano Vyce. A quanto pare, lo stimi particolarmente.»

«Il capitano Vyce…» disse Jake con gli occhi che scintillavano come quelli di un bambino «È una persona molto speciale. Un ottimo maestro. Certo, alle volte può sembrare una persona burbera, ma è schietto e risoluto.

Non ha paura di dire quello che pensa. E soprattutto, tiene ai suoi subalterni più di chiunque altro io conosca. Sono certo che morirebbe pur di salvarne anche solo uno.»

«Secondo me tu sei innamorato.» disse Agnes indicandolo con la forchetta «Ne parli come se fosse il tuo amante.»

«Non sei spiritosa.» la ammonì la madre

«Eppure, se non sbaglio non ha ancora raggiunto la quarantina. Come mai non è ancora in servizio sul campo?»

«Questo è una specie di mistero. In verità non è nemmeno nativo di Kyrador. Viene da Eldkin

«Un montanaro.» commentò Pierce alludendo al più classico dei luoghi comuni che distinguevano la terza città del Paese.

«Per quanto ne so fino a cinque o sei anni fa era di servizio laggiù. Poi, nessuno sa perché, ha ottenuto il congedo dal servizio attivo ed è stato trasferito a Kyrador dopo aver ottenuto la promozione a capitano e la qualifica di istruttore tattico.»

«Forse si era stufato della vita in prima linea.» commentò ancora Tobias

«L’impressione è questa» si incupì Jake. «Però, ogni tanto, ho come il sospetto che vi sia anche dell’altro.»

«Tutti hanno dei piccoli segreti. E non è cosa educata volerci ficcare il naso. Se davvero non vuole che si sappia il vero motivo per il quale ha scelto di ritirarsi, non c’è ragione per cercare ad ogni costo di scoprirlo.»

«Tu prendi sempre le cose troppo alla leggera, papà.»

«E tu troppo seriamente. Magari come detto era semplicemente stufo di rischiare la vita tutti i santi giorni per quei quattro soldi che vi passano.»

«Quattro soldi? È il ramo dell’agenzia che paga meglio. Vai a chiedere ai dipendenti del tribunale o della procura distrettuale. Là sì che si può parlare di stipendio da fame.»

«Personalmente non baratterei mai il più ricco degli stipendi con la mia vecchia pellaccia. Ma d’altra parte, se tu sei felice così, io come detto non ho il diritto di metterci il naso. Tanto più che mi sembri convinto oggi come allora.»

«Adesso però basta parlare di lavoro» intervenne la signora Aulas. «Jake non è tornato a casa perché tu possa stressarlo con la tua filosofia da maestro di vita».

Tutti sorrisero all’ammonimento della sola e unica padrona di casa, e ben presto l’argomento Vyce scomparve dalla discussione, per fare posto ad altri molto più ameni ed innocui. In fin dei conti, si disse Jake, sua madre aveva ragione: se lui era lì, era solo per riposarsi, e questo voleva fare.

 

Nella villa di campagna, residenza estiva del Direttore Generale Van Adler, era in corso il più grande ricevimento che la città ed i suoi più alti rappresentanti avessero mai visto, tanto che i giornali lo avevano già da tempo indicato come l’evento mondano dell’anno.

Il padrone di casa festeggiava due ricorrenze molto importanti in quello stesso giorno, e non si era badato a spese per renderlo speciale. Da una parte vi erano i lodevoli settantacinque anni di vita lascatisi alle spalle, dall’altra, ugualmente importante, il terzo anniversario dalla sua nomina a guida suprema dell’Agenzia, che a detta di molti ne faceva l’uomo più potente del mondo.

Neanche lo storico ricevimento per l’insediamento del nuovo presidente di qualche tempo prima sembrava reggere il confronto, con la sterminata sala da ballo di Villa Van Adler che pullulava letteralmente di stemmi, titoli nobiliari e teste coronate.

Era un trionfo di gioielli, decorazioni e abiti sfarzosi; molti erano persino arrivati in carrozza, un mezzo di trasporto non nuovo alla ricca e raffinata nobiltà di Kyrador, testimone un gusto per l’eleganza che faceva scuola nel resto del mondo.

Come era logico che fosse, non vi era responsabile, comandante o alto esponente di qualsivoglia ufficio della MAB che non fosse presente, e tra le uniformi bianche dell’aeronautica, quelle blu delle forze di sicurezza, e quelle nere della polizia militare, sembrava di trovarsi ad una riunione generale degli alti comandi piuttosto che ad una festa di compleanno.

Il direttore generale faceva gli onori di casa, affiancato dalla sua affascinante consorte, la granduchessa Sephira de Bois, figlia del fu presidente Duvalier, e sorella dell’attuale ministro degli esteri del governo Fujitaka, che nonostante l’età appariva elegante e rispettabile come ai tempi della sua più antica gioventù.

Anche le molte giovincelle e giovani donne presenti alla festa però non sfiguravano, anzi, pareva quasi che facessero a gara per farsi ammirare, tanto sfavillanti e lussuosi erano gli abiti che portavano e le pietre preziose che sfoggiavano.

All’arrivo della torta, una torre a sei strati che solo a guardarla faceva venire il diabete, il capo della Polizia Militare Bargas prese la parola.

«E ora, signori» disse al microfono del palchetto dove si esibiva l’orchestra. «Propongo un brindisi al più capace, caparbio, e cocciuto comandante in capo che la nostra agenzia abbia mai avuto.

Che abbia cento di questi giorni. Dopotutto, nessuno qui ha davvero voglia di prendere il suo posto, ho ragione?».

Tutti risero, soprattutto quelli che potevano aspirare davvero alla carica. Essere il capo supremo della MAB portava potere ed influenza, ma le grane che spesso si che si era chiamati ad affrontare superavano di gran lunga i vantaggi, per non parlare del circo mediatico che si scatenava ad ogni più piccolo problema.

«Quindi, cari amici, ad Archibald Van Adler!»

«Ad Archibald Van Adler!» risposero tutti in coro alzando i calici.

Il festeggiato rispose con un sorriso di circostanza ed un cenno della mano, poco abituato com’era a quel genere di celebrazioni.

L’orchestra riprese a suonare, e la maggior parte degli invitati, dopo il rituale del taglio della torta, si rigettò in pista tra le note soavi di un valzer.

«Qualcosa non và, Colonnello Graham?» domandò il Direttore Harlow notando lo sguardo assente della collega. «Non si sta divertendo?»

«Alla fine, non è venuto.» rispose lei come se non lo avesse sentito.

Non serviva un genio per capire a chi il capo della Polizia Militare di Caldesia si stesse riferendo.

Come tutti si aspettavano, tra le varie personalità politiche e diplomatiche di vari Paesi presenti alla festa non vi era nessuno proveniente da Amara.

L’ambasciatore Dragos era sempre stato un fedelissimo del partito di Borte, e dopo il colpo di stato si era di fatto trasformato in un rifugiato politico, svuotato tanto di qualsiasi autorità quanto del suo stesso ruolo.

Correva voce che fosse stato espressamente invitato, se non altro per ribadire ancora una volta come la MAB continuasse a riconoscere il governo deposto dai militari come unica e sola autorità politica di Amara, ma era molto probabile che la sua mancata partecipazione fosse stata espressamente voluta.

«Non sarebbe stato saggio tirare eccessivamente la corda» commentò Gillian leggendole nel pensiero. «Anche se né l’Agenzia né Caldesia hanno ancora riconosciuto il governo golpista, né intendono farlo, la presenza dell’ambasciatore a questa festa a così pochi giorni dalla caduta del governo avrebbe potuto indispettire i sostenitori dei militari».

Zari aveva ben ragione di essere preoccupata.

Anche se la sua famiglia era emigrata da quella terra isolata e senza prospettive quando lei era ancora piccola alcuni suoi consanguinei abitavano ancora nella capitale, e anche se aveva ricevuto rassicurazioni del fatto che fossero tutti in buona salute non riusciva a stare tranquilla.

«Sono passate quasi due settimane da quando i militari hanno preso il potere, e ancora non è stato fatto nulla.» puntualizzò Zari con una certa insoddisfazione

«L’Agenzia e il governo di Caldesia stanno cercando di mediare una soluzione senza coinvolgere le Nazioni Unite, ma fino ad ora non sono stati avviati veri e propri contatti.»

«Ovviamente. Parlando con loro sarebbe come legittimare il loro colpo di stato. A quanto ho avuto modo di studiare, sulle Terra questioni di questo genere venivano risolte in tutt’altro modo.»

«Qui non siamo sulla Terra, Colonnello. E comunque, la situazione è molto più complicata di quanto lei potrebbe immaginarsi.

Non serve che le ricordi come Amara sia una nazione strategicamente molto importante tanto per noi quanto per la fazione occidentale che Caldesia comanda. Perdere il controllo su quel territorio significherebbe perdere tutta la Nuova Carolina. Ma in ogni caso, non possiamo in alcun modo venire meno ai principi che sono alla base del nostro codice internazionale».

Zari lanciò e Graham una strana ed oscura occhiata obliqua, quindi tornò a fissare quella massa indistinta e indistinguibile di potenti che seguitava a godersi la serata tra balli, banchetti e bella musica.

«Fa ribrezzo vedere quello che siamo diventati. È davvero questo ciò che si erano immaginati i nostri antenati venendo qui?».

Graham abbassò gli occhi, non sapendo cosa o come rispondere.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Mi ci è voluto un pochino, ma finalmente sono ritornato.

E così, alla fine, le strade di due dei personaggi chiave della storia si sono incrociate. Non è stato un incontro molto felice, ma certamente non sarà l’unico, e presto anche il sentiero di Jake andrà ad incrociarsi con quello di Carmy.

A parte ciò, possiamo considerare questo come un capitolo di transizione, che segna il passaggio da una situazione tutto sommato tranquilla ad un susseguirsi di emozioni forti e momenti frenetici che stanno per venire.

Grazie come sempre a tutti quelli che leggono e recensiscono, ma anche a coloro che hanno inserito questa storia tra le seguite o le ricordate.

Grazie a tutti!^_^

A presto!^_^

 

PS. E per finire, permettevi di mostrarsi questa bellissima locandina, realizzata da una mia affezionata lettrice. È o non è una bellezza?

 

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Capitolo 24
*** 22 ***


22

 

 

Carmy cercava di fare finta che non fosse successo niente, ma quella breve conversazione col capitano Vyce l’aveva molto inquietata.

Per cercare di non pensarci si era buttata nel lavoro, profondendovi più dedizione ed impegno di quanto già non facesse.

Le sue visite al tempio si facevano di giorno in giorno più frequenti, tanto da divenire una presenza fissa agli occhi dei più attenti; Timur in particolare sembrava positivamente colpito dall’apparente dedizione con cui la nuova arrivata svolgeva i suoi doveri, e ogni volta che la notava attraverso la finestrella del suo ufficio passava molto tempo ad osservarla.

Una mattina presto Timur, seduto un po’ in disparte all’interno del tempio a fare dei conti, la vide entrare con un mazzo di fiori, fare un rispettoso inchino all’effige della dea e posarli con cura all’interno di un vaso, facendo attenzione a non spezzarne o imbruttirne nemmeno uno.

Sorrise, e Carmy per un momento si spaventò nel sentire la sua voce alle proprie spalle.

«La tua devozione è ammirevole.»

«Lei fa quello che può» rispose Carmy rispettosa. «Si rammarica solo che non sia abbastanza.»

«Non essere così negativa. La Grande Madre non guarda certo alla grandezza dell’offerta, quanto alla dedizione e all’impegno che vi vengono profusi.»

«Lei è grata alla Grande Madre per averle fatto conoscere un po’ di serenità per la prima volta dopo tanto tempo, e vuole cercare di dimostrarlo, anche con piccole cose».

Una strana luce si accese negli occhi del priore, che Carmy non faticò a riconoscere, e che malgrado tutto interpretò come un buon segno.

«Sei una ragazza semplice e caparbia. Qualità lodevoli, soprattutto perché rare nei giovani d’oggi.

Tuo padre ti ha educata bene.»

«E lei lo ha deluso.»

«Non è detto» replicò Timur posandole una mano sulla spalla. «Ogni tua azione virtuosa nei riguardi della Madre Ela monda una parte dei tuoi peccati. E un giorno, se la Madre lo vorrà, il tuo cammino di espiazione ti condurrà dritta verso il germogliare di una ritrovata serenità con la tua famiglia.»

«Lei se lo augura veramente. E farà tutto quello che è in suo potere per far sì che quel giorno arrivi quanto prima».

Di nuovo Timur sorrise, e Carmy ci mise del suo meglio per sembrare sorpresa.

«Vieni con me».

Timur condusse Carmy nell’ufficio, dove la ragazza non era più entrata dal giorno del suo ingresso nella setta.

«Come ben sai» disse il priore aprendo un cassetto. «La nostra confraternita non nuota nell’oro. Ma ancor più del denaro, manca di persone meritevoli e degne di fiducia che possano garantirle una sopravvivenza decorosa.»

«Lei non comprende, Vostra Grazia» disse Carmy facendo la finta tonta.

«Questa città è piena di vizi, e affoga nel peccato. Ma se da quel peccato possiamo ricavare quel poco che ci serve per portare avanti la nostra piccola crociata, allora la Grande Madre lo considera un sacrificio accettabile.»

«Voi dite?».

Timur alzò gli occhi guardandola severamente, e subito Carmy abbassò la testa.

«Perdonatela. Lei non voleva dubitare della vostra parola.»

«Non ne dubito» rispose Timur.

Dal cassetto il priore prese fuori una busta, che Carmy non faticò ad immaginare piena di soldi.

«I nostri adepti svolgono vari compiti che ci aiutano a mantenere in salute le casse della nostra confraternita, e malgrado tu possa non crederci il lavoro non manca mai.

Si tratta di una vera e propria offerta al tempio, non tanto diversa da quelle che tu compi quotidianamente con tutto il cuore.»

«Qualsiasi cosa il tempio necessiti, lei è pronta a fare la sua parte» rispose Carmy senza esitazione, e forse con un pizzico di incoscienza. «Vuole dimostrare alla Madre Ela e ai suoi confratelli tutta la sua riconoscenza, ed essergli utile.»

«Molto bene.» rispose Timur con un sorriso sinistro.

Quindi, fatto qualche passo avanti, mise l’involucro nelle mani di Carmy.

«Conosci la taverna da Dupont, nei pressi di Einrich Street?»

«Sì, certo.»

«Tra un’ora, una persona verrà a consegnarti qualcosa nel parcheggio.»

«Come potrà lei riconoscerlo?»

«Ti riconoscerà lui. Dagli questa in cambio, e porta quello che riceverai al numero trentaquattro dell’Eruvere Building. È sottinteso che non ti è permesso di aprire né questa busta né ciò che ti verrà dato in seguito. Sii discreta ed efficiente, e avrai reso un grande servizio alla nostra comunità».

Carmy non fece altre domande, e recuperato l’involucro lo infilò alla meno peggio nella voluminosa tasca del gilè, congedandosi dopo aver fatto il tradizionale inchino al maestro.

Come se ne fu andata Timur uscì a sua volta, seguendola con gli occhi fino a che non la vide imboccare la rampa che conduceva all’esterno, quindi chiamò con un cenno uno dei suoi.

«Seguila.» ordinò, e quello le si accodò immediatamente.

 

Lucas aveva sbottato contro Cane quando il collega era entrato nel vecchio e sudicio monolocale che avevano preso in affitto nel palazzo di fronte al tempio, visto che come al solito era arrivato con abbondante ritardo rispetto al concordato.

«Lo sai che ore sono?» brontolò indicando l’orologio. «Il tuo turno inizia alle otto, sono le otto e mezza!»

«Che vuoi che siano trenta minuti? Ti ricordo che mentre tu stai qui a girarti i pollici, io e Alexia alla centrale dobbiamo fare gli straordinari per sbrigare anche le tue pratiche.

O credi che questa sia l’unica indagine che seguiamo?».

Rapidamente l’atmosfera si calmò, soprattutto quando Cane porse a Lucas il caffè al ginseng che gli aveva comprato prima di salire.

«Allora, che è successo?» domandò bevendo il proprio

«Niente di nuovo. Carmy è entrata circa venti minuti fa.»

«La nostra recluta continua a stupirmi. Onestamente non pensavo che avrebbe retto così a lungo.»

«Io credo che un po’ tutti abbiamo sottovalutato Carmy. Quella ragazza ha stoffa e dedizione da vendere. È un peccato che sia finita alla polizia militare. Meriterebbe sicuramente qualcosa di più.»

«Non dirglielo.» scherzò Cane «Che poi si molta la testa».

Giusto il tempo di lasciare che il suo collega finisse il suo caffè e Lucas gli cedette il posto sulla pedana da cui si aveva il controllo delle decine di microcamere piazzate in tutto il quartiere, gettandosi come morto sul vecchio divanetto appoggiato al muro per concedersi qualche ora di sonno prima di andare in ufficio.

Per sua sfortuna, neanche dieci minuti dopo Cane vide Carmy uscire dal vicolo, alzare per un attimo gli occhi verso l’alto e grattarsi la fronte con un dito, e subito dopo rimettersi a camminare.

«Giù dalla branda!» strillò scagliando il bicchiere vuoto in faccia all’amico. «Carmy ha fatto il segnale!».

Lucas quasi saltò per la paura, ma recuperato il raziocinio si affrettò a seguire Cane giù per le scale.

«Che segnale ha fatto?»

«Trasporto. Forse ci siamo».

Scesi in strada i due si infilarono, rapidamente ma cercando di non dare nell’occhio, in un anonimo furgone sgangherato, che in realtà nascondeva al suo interno quanto erano riusciti a farsi assegnare dal magazzino divisionale tra apparecchi di analisi, pietre magiche e strumenti di intercettazione.

Carmy dal canto suo sapeva perfettamente di avere qualcuno alle costole oltre a Cane e Lucas, e pregava che anche loro se ne accorgessero quanto prima.

Per fortuna i suoi colleghi non erano degli sprovveduti, senza contare che quell’energumeno rapato che camminava venti passi dietro di lei, oltre ad essere appariscente già di per sé, non ci metteva granché impegno nel cercare di passare inosservato.

Facendo finta di niente si incamminò lungo la via più diretta tra il tempio e la sua destinazione, distante non più di un paio di chilometri.

C’era molta gente, anche più del solito, e l’aria era particolarmente viziata per via del caldo che da qualche giorno aveva preso ad imperversare sulla città.

Il sudore bagnava i vestiti, rendendoli appiccicosi, e avere addosso roba bagnata era una cosa che a Carmy non era mai piaciuta.

Cercò di non pensarci, e asciugatasi la fronte proseguì per la sua strada, sforzandosi di ignorare la figura che non le staccava mai un momento gli occhi di dosso e che intercettava di tanto in tanto nel riflesso di qualche specchio o vetrina.

Impiegò poco più di mezz’ora a raggiungere la sua destinazione.

Il Dupont era un localaccio di terz’ordine in una delle zone più inospitali e pericolose del distretto, situato proprio sotto la possente sopraelevata che collegava direttamente il centro cittadino al resto della regione sorvolando la periferia.

Nel parcheggio era un trionfo di brutte facce e sguardi obliqui, che Carmy cercò per quanto possibile di ignorare, e obbedendo alle direttive ricevute si mise in attesa appoggiandosi ad un lampione arrugginito in un angolo nascosto del piazzale.

Passarono solo pochi minuti, e con largo anticipo rispetto al previsto una macchina non troppo appariscente le si accostò, ed il passeggero abbassò il finestrino.

Vedendolo, la ragazza ebbe un sussulto.

Era pallido come la morte, la pelle raggrinzita come quella di un anziano, le occhiaie leggermente scavate, e i capelli visibilmente tinti di un nero eccessivo. Doveva avere al massimo una trentina d’anni, almeno a giudicare dagli occhi ancora attenti e dalla corporatura tutto sommato abbastanza tonica, ma a guardarlo in faccia ne dimostrava più del doppio.

«Da quando in qua Timur si serve di ragazzine per questo genere di lavori?».

Carmy non rispose, ma l’indecisione che l’individuo lesse sul suo volto non era dovuta solo alla necessità di fingere per essere credibile.

«Lasciamo perdere. Hai portato i soldi?».

Era la conferma ai suoi sospetti. Non ce vi fosse bisogno di averla, del resto.

Timidamente, Carmy allungò la busta che aveva con sé; il tipo in nero quasi gliela strappò di mano, non nascondendo una punta di delusione nel constatarne il contenuto.

Doveva essere abituato a cifre decisamente maggiori.

«Vecchio taccagno. Gioca sempre al ribasso» mugugnò, ed aperto il bauletto allungò alla ragazza un pacchetto sigillato non troppo grande. «Digli che da ora in poi o mi paga secondo i miei prezzi o si cerca un altro fornitore».

Detto questo il passeggero rialzò il finestrino, e come era arrivata la macchina ripartì sparendo dietro l’angolo del locale.

Carmy stette qualche momento a fissare il nulla come soprapensiero, ma guardando il pacchetto non si fidò ad usare le sue capacità per cercare di capire cosa vi fosse all’interno. Se per caso, oltre al contenuto, vi era stato inserita una spia o un rilevatore di energia magica sarebbe stata la fine, e a meno di non disporre di conoscenze che lei ancora non possedeva era impossibile eludere tali sistemi di protezione.

Messi momentaneamente da parte i dubbi si rimise a camminare, ma data la distanza che la separava dalla sua nuova destinazione preferì optare per i mezzi pubblici, salendo su di una navetta che la scaricò nei pressi di Piazza Albany, nel cuore del nono distretto; da lì l’Eruvere Building distava solo poche centinaia di metri.

Il tipo rasato non la mollava un momento; era salito sul suo stesso mezzo, e seguitava a starle venti passi indietro senza toglierle gli occhi di dosso, ma aveva la mente talmente annebbiata da quello che sniffava quotidianamente che non sembrava essersi accorto del fatto di essere ormai stato riconosciuto.

D’improvviso, alzando gli occhi, Carmy si vide venire incontro un tipo dall’aria famigliare.

Era ben vestito, una tenuta non molto in linea con il tipo di zona in cui si trovavano, ma a giudicare dall’andatura incerta e dagli occhi fuori dalle orbite non era difficile intuire cosa avesse portato un tipo così nei bassifondi.

«Chi si rivede!» esclamò fermandola ed afferrandola per un braccio «Tesoro bello, che ci fai qui in questa fogna?».

Lei lo guardò a metà tra lo spaventato e il disgustato.

«Allora?» gli chiese ancora quel tipo «Ti ho fatto una domanda.»

«Lasciami.» rispose infine la ragazza «Non osare toccarmi. Mi fai schifo.»

«Che paroloni. Il tuo carattere non si è addolcito dall’ultima volta. E comunque, da quando si da del tu ad un superiore?»

«È colpa tua se sono stata licenziata.»

«Te la sei voluta. Non avresti dovuto mettere in giro tutte quelle false voci.»

«False voci!? Tu mi hai molestata!».

Sfuriate di pubblico dominio ed eventi fuori dall’ordinario erano la quotidianità in quel quartiere, eppure si era radunata una piccola folla di spettatori più o meno incuriositi. Tra questi vi era anche l’energumeno di Timur, il quale nel momento in cui vide l’uomo afferrare Carmy tirandola violentemente verso di sé fu sul punto di intervenire.

Ma Carmy non gliene diede il tempo. Accadde tutto molto in fretta, anche troppo, cosicché quasi nessuno si accorse di uno strano movimento della mano dell’aggressore, che forse nel tentativo di palpeggiare la sua vittima finì invece per affondare in una tasca del gilè, scivolandone immediatamente fuori.

La ragazza infatti, con un coraggio inaspettato, assestò all’uomo una ginocchiata tremenda allo stomaco, seguita subito dopo da un solenne ceffone prima ancora che il poveretto avesse il tempo di piegarsi in due per il dolore.

«Toglimi le mani di dosso!».

Molti tutto attorno risero, gustando piacevolmente l’immagine di un damerino dei quartieri alti raggomitolato a terra come un cane bastonato, con il respiro corto e la faccia rossa.

«Mi hai fatto male, maledizione.» mormorò quello come non volesse farsi sentire.

Fiato sprecato, perché come cercò di tirarsi su arrivò una seconda ginocchiata, stavolta al mento, che per poco non gli portò via la lingua.

A quel punto fu l’ilarità generale, ed il malcapitato non ebbe altra scelta che darsela a gambe masticando imprecazioni all’indirizzo della sua vittima, che di contro venne quasi portata in trionfo dalla gente tutto attorno prima di tornare sui propri passi riprendendo a camminare, perennemente seguita dall’energumeno rasato.

 

Se poco prima Lucas aveva imprecato all’indirizzo di Cane, dopo aver assistito a sua volta a quella specie di siparietto non riuscì a trattenere una risatina nel vederlo entrare nel retro del furgone tutto frastornato per le botte ricevute.

«Ma quella è pazza!» imprecò liberandosi delle false sembianze con la magia e cercando, nel contempo, di riacquistare la sensibilità alla mandibola. «A momenti mi stacca tutti i denti.»

«Non credo lo abbia fatto per caso» ironizzò Lucas. «Così impari a frugare nel suo cassetto».

Cane gli passò stizzito il plico che Carmy gli aveva allungato.

«Dacci un taglio e analizzalo».

Pierre obbedì, e recuperato l’involucro lo posizionò all’interno di uno scanner che, senza bisogno di toccarlo, lo esaminò da cima a fondo, esaminando sia l’esterno che, soprattutto, il contenuto.

Alla vista dei risultati, i due agenti rimasero di stucco.

«È uno scherzo, vero?» disse Cane.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Con un po’ di ritardo rieccomi con un nuovo capitolo.

È piuttosto breve, ma si tratta di un capitolo di transizione, visto che nel prossimo vi saranno alcune rivelazioni importanti, e ho preferito tenermele da parte per esprimerle tutte insieme invece che spezzettarle.

Ecco, non credo che ci sia altro da aggiungere.

Grazie a tutti quelli che leggono, recensiscono e betano il mio lavoro.

Siete fantastici!

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 25
*** 23 ***


23

 

 

Risalita sul treno alla più vicina stazione Carmy viaggiò fino al settimo distretto, quindi, sempre tallonata dal gigante che Timur le aveva messo alle costole, avviandosi poi a piedi verso la sua nuova destinazione.

L’Eruvere Building era un complesso di case popolari di basso livello, abitato soprattutto da operai e impiegati delle ferrovie; sorgeva giusto a poche centinaia di metri dal Pugno d’Argento, la palestra di Chandra che, come i veri appassionati ben sapevano, era stata la prima frequentata dalla pluricampionessa Octavia.

Giusto un attimo prima di incamminarsi lungo l’ultimo tratto di strada, non senza una qualche esitazione, la giovane venne accidentalmente urtata da un tipetto grassoccio dall’aria un po’ brilla, tanto da rischiare di cadere; lei prontamente lo sostenne, e lui, in quell’unico istante in cui furono a stretto contatto, fece scivolare qualcosa all’interno della sua giacca.

«Mi scusi.» disse educatamente il signore riprendendo la sua strada.

Non era una reazione molto credibile per qualcuno che viveva in quella parte della città, ma Carmy non aveva mai pensato a Lucas come ad un bravo attore.

Senza perdere altro tempo la giovane varcò il cancello, e preso l’ascensore raggiunse l’appartamento indicatole, bussando tre volte per farsi riconoscere. Passarono solo pochi istanti prima che la porta si aprisse, e vedendo la sua allieva palesarsi davanti a sé Noce non riuscì a nascondere il suo disappunto.

«Che ci fai qui?» domandò oscurando l’interno con la propria figura

«Mi hanno mandata a consegnare un pacco.» rispose lei timidamente.

Preso il plico dalla tasca, lo pose, spaventata ma educatamente, al proprio superiore, che dopo averle lanciato una nuova occhiataccia lo prese quasi strappandoglielo di mano.

«Ti avevo detto di non farti coinvolgere più del dovuto, stupida. Peggio per te.» e senza dire altro le sbatté la porta in faccia.

Carmy non aveva tempo di stare a piangersi addosso o a rimuginare, anche se lo avrebbe tanto voluto, e correndo riuscì a tornare alla stazione giusto in tempo per prendere la circonvallazione che la riportò in meno di venti minuti nello stesso punto da cui era partita.

Aveva lasciato il tempio di Ela poco dopo le nove, vi tornò che non era neppure mezzogiorno.

Timur fu quasi sorpreso di vederla entrare nel suo ufficio un attimo prima di uscire per andare a mangiare al suo ristorante preferito con gli altri capi del tempio, e lo fu ancora di più quando, chiamando per sincerarsi che tutto fosse andato per il meglio, venne informato che il plico era effettivamente arrivato a destinazione, integro e senza problemi.

«Sei stata brava. Non credevo ci avresti messo così poco. Come ho già detto, la tua dedizione è ammirevole.»

«Lei è felice di sentirselo dire, vostra eccellenza.»

«Oggi hai reso alla madre Ela un grande favore» disse soddisfatto Timur, che preso dal tavolo una busta contenente un paio di centinaia di kylis e qualche dose di bebbasin, poco più che camomilla, la lanciò alla ragazza. «Questa te la sei meritata. Ora và pure a casa. Per oggi hai fatto abbastanza».

Rispettosamente, Carmy lasciò prima l’ufficio e poi la chiesa, ma non tornò a casa come le era stato suggerito.

Uscita in strada, ed accertatasi di non avere più quell’energumeno butterato alle costole, la giovane si infilò velocissima in un altro vicolo, e una volta qui direttamente nel vano dell’anonimo furgone bianco posteggiato ai piedi di un fatiscente edificio.

«Allora?» domandò prima ancora di aver richiuso la portiera.

Cane e Lucas, ancora con gli occhi rivolti ai monitor degli apparecchi di analisi, la guardarono come basiti, guadagnandosi a loro volta uno sguardo perplesso.

«Che c’è?».

 

Cane accese il monitor dell’ufficio con un cenno della mano, mostrando ad Alexia e a Carmy i risultati delle analisi condotte sul pacchetto, e i risultati lasciarono entrambe le ragazze perplesse.

«Sangue.»

«Sangue!?» replicò il capitano.

«Per essere più precisi, sangue di stregone» puntualizzò Lucas. «La concentrazione di particelle magiche è decisamente alta. E per di più tutti i flaconi hanno impresso il marchio della città.

Non c’è dubbio, vengono da un deposito comunale.»

«E che se ne fanno del sangue di stregone?» commentò Alexia. «Se lo bevono?»

«Visto di chi stiamo parlando, non mi sorprenderebbe» disse ironicamente Cane.

«Ad ogni modo, il  sangue non è così facile da procurare, soprattutto se magico. Le banche del sangue tengono traccia di tutti i prelievi e i depositi effettuati, e i controlli sono serrati. Come hanno fatto a metterci le mani sopra?»

«Quelli che me lo hanno venduto non avevano proprio l’aria di impiegati statali.» disse Carmy sfiorandosi la fronte con un dito «Sembravano piuttosto abitanti dei bassifondi.»

«Quanto glielo hai pagato?» chiese Lucas

«Da quel poco che ho potuto vedere, direi sui duemila kylis

«Una bella cifra per pochi centilitri di sangue. Evidentemente era compresa la percentuale.»

«Io continuo a non capire il senso di tutto questo» ripeté Cane. «Cosa se ne fa la chiesa di Ela del sangue di stregone? Mi sembra un prezzo decisamente troppo alto per qualcosa destinato a chissà quale cerimonia mistica».

Tra gli agenti calò un riflessivo silenzio, ma fu Lucas ad avere l’illuminazione.

«E se lo usassero proprio per preparare la lilith

«La lilith!?» ripeté Cane

«Uno dei componenti principali della lilith è il kuriziksone, uno steroideo a base di krilyum usato in medicina per trattare casi EDA. È caro, e difficile da reperire, così alcuni gruppi lo sostituiscono con comune sangue di stregone, che ha una componente chimico-energetica simile al farmaco.»

«In buona sostanza, tu stai dicendo che la nostra ipotesi sarebbe fondata» tagliò corto Alexia. «Che la Chiesa di Ela, o quantomeno quella di Timur, produce e spaccia lilith

«Se il mio sospetto fosse realtà, sì. Ma non possiamo provarlo se non scopriamo dove e come la producono.»

«Di certo non in quella casa» disse Carmy riferendosi all’abitazione di Noce. «È troppo piccola e troppo esposta. Credo abbiano bisogno come minimo di un laboratorio attrezzato.»

«Il che ci obbliga a cercare fuori città. Di certo quel Noce ha le mani in pasta in parecchie cose che scottano. Prima quella disponibilità di denaro, e ora la sua casa che probabilmente funge da punto di scambio per depistare eventuali indagini.

Io prenderei in considerazione l’idea di arrestarlo, forse interrogandolo verremo a capo di qualcosa.»

«Ecco, bravo.» disse sarcastico Cane «Così Timur mangia la foglia, la copertura di Carmy salta, e tutta la nostra inchiesta finisce giù per lo scarico.

Gran bella pensata».

I due agenti si guardarono come due cani che si contendono un osso, ma il capitano riportò subito l’ordine.

«Cane ha ragione. Se arrestiamo Noce avremo preso solo un altro pesce piccolo. Cerchiamo piuttosto di scoprire dove preparano la droga. Se avremo le prove schiaccianti che Timur e i suoi adepti producono la lilith non avremo problemi a farlo arrestare.»

«È una parola, capitano» obiettò Lucas. «Qui siamo solo in quattro, e attualmente lavoriamo come bestie solo per tenere d’occhio la chiesa. Chi ci mandiamo a seguire le tracce di quel Noce?».

Alexia, nel tentativo di trovare una risposta, andò a parlare con il capo, ma la faccia che aveva al proprio rientro non lasciava presagire nulla di buono.

«Niente da fare. Senza prove più certe Owens non intende coinvolgere altre squadre. Con tutti questi problemi e fenomeni EDA sono tutti impegnati in altre indagini».

Bene o male era la risposta che tutti si aspettavano, ma ciò significava anche dover operare una scelta. Qualcuno perennemente alle spalle di Noce significava un agente in meno che teneva d’occhio il tempio e Carmy con lui, e salvo casi di emergenza Alexia non se la sentiva di lasciare la sua giovane recluta da sola in un posto che di giorno in giorno si stava rivelando sempre più pericoloso.

Dal canto suo Carmy cercava in ogni modo di ricordare meglio che poteva le fattezze dell’individuo che le aveva consegnato il plico; in quel momento era rimasta così impressionata dalla vista di quel tipo da aver faticato ad imprimerne con chiarezza l’immagine nella sua mente, e senza un ricordo il più possibile nitido era impossibile tracciare un identikit.

Approfittando del fatto che il capitano e i suoi due agenti stavano parlottando tra di loro la ragazza usò la magia per isolarsi all’interno della sua stessa mente, aprendola dinnanzi a sé come il sistema operativo di un computer, con le sue cartelle, i suoi documenti e le sue sezioni.

In questo modo riuscire a recuperare anche ciò che apparentemente si era dimenticato era molto più facile; occorreva solo non perdere il contatto con la realtà, o “seguire il bianconiglio”, come si diceva nel gergo degli psichiatri, ma Carmy aveva studiato medicina e alcuni fondamenti di psicologia all’accademia e conosceva gli espedienti per mantenere il controllo.

Con calma, e senza lasciarsi sopraffare, rivisse i ricordi di quella mattina, andando a cercare di volta in volta nuove informazioni per renderli sempre più vividi, fino a che l’immagine di quell’uomo non apparve di nuovo, nitida e precisa come una fotografia.

Tornata alla realtà, non dovette fare altro che puntare la mano verso il monitor, che immediatamente quel fotogramma vi si impresse sopra quasi fosse stato estratto direttamente dalla sua testa.

«Eccolo» disse. «È lui la persona a cui ho consegnato i soldi».

Tutti la guardarono, restandone ugualmente colpiti. Un cadavere dell’obitorio avrebbe avuto più espressività di quel mucchio di ossa e pelle rinsecchita, per non parlare dei tatuaggi che servivano solo a renderlo più inquietante.

Nonostante ciò Cane, dopo l’iniziale stupore, piegò le labbra in uno dei suoi ironici sorrisi.

«Guarda un po’. Questa faccia da teschio non mi è nuova.»

«Lo conosci?»

«Si chiama Lucius. Lucius Autax. Ho avuto a che fare con lui quando lavoravo a Volgorad. È uno dei lacchè di Arman Valakis

«Valakis!?» ripeté Lucas «Il capo della comunità dei vampiri di Eyban?»

«Proprio lui» quindi Cane ammiccò a Carmy «Non c’è che dire piccola, sei una vera calamita per i pezzi grossi.»

«Ora tutto ha più senso» disse Alexia. «Sappiamo bene che i vampiri non hanno problemi a mettere le mani su grandi quantitativi di sangue. Praticamente la metà delle banche di Caldesia e non solo appartiene a loro o a qualcuno dei loro estimatori.»

«Autax sta sempre appiccicato al sedere di Valakis, quindi lui è senza dubbio in città» disse ancora Cane «E dato che non si soffia neppure il naso senza il suo boss lo sappia, scommetto un diamante contro un fondo di bottiglia che Arman sa qualcosa.»

«Incredibile, ora anche i vampiri» sospirò Lucas «Questa cosa diventa ogni ora più articolata».

Alexia non fece a tempo a girare lo sguardo che Cane aveva già in mano le chiavi della macchina.

«Andiamo a fare due chiacchiere con il nostro funereo amico?».

 

Piacevolmente arroccato sulla cima della scogliera più alta tra le tante che, alzandosi dal terreno collinare tutto attorno, andavano a gettarsi nei flutti azzurri del Lago Biwa, il più grande della nazione montana di Amaltea, il Palazzo Papale che dominava dall’alto la capitale Otisa era da oltre cento anni la dimora ufficiale del supremo vicario della Chiesa della Santa Croce, la più popolare e praticata fede religiosa di Celestis.

Durante il Grande Gelo, quel lungo periodo ormai distante nei secoli che aveva visto il pianeta spaccato in due, il papa era stato sia capo politico che religioso della nazione di Amaltea, ma ormai le cose erano profondamente cambiate, e la chiesa era tornata a fare l’unica cosa che davvero le competeva, curando le anime e le menti dei suoi fedeli con giustizia e benevolenza.

L’attuale pontefice, Vittorio Visconti, era molto amato dai suoi figli, per la sua semplicità e spontaneità; il giorno della sua nomina si diceva avesse augurato scherzosamente ogni sorta di sventura ai cardinali che lo avevano eletto, avendogli messo addosso un peso più grande di quanto le sue spalle ormai vecchie e stanche fossero in grado di portare, ma da allora aveva svolto il suo compito con inumana bontà.

Come tradizione imponeva, aveva selezionato il proprio vicario tra l’alto clero femminile che popolava il palazzo papale, e la sua scelta era ricaduta su Lydia Asmodan, vescovo di Aporel, una delle poche chieriche caldesiane che componevano l’alto dicastero.

Non aveva ancora compiuto quarant’anni, tanto da risultare il vicario più giovane della storia della Chiesa, eppure nonostante ciò la sua era stata senza alcun dubbio una nomina felice. Come il papa, anche Lydia svolgeva al meglio il compito cui era stata destinata, che poi era quello di amministrare nei fatti la cura e la gestione degli affari ecclesiastici, svolgendo tutti quei compiti meramente materiali dei quali il Santo Padre, per la sua stessa condizione, non poteva né doveva occuparsi.

Tra le varie mansioni che le spettavano in quanto vicario vi era anche accogliere ed intrattenere i delegati stranieri, nonché più in generale curare i rapporti tra la santa sede e le varie ambasciate di Otisa.

Per questo, non la riprese il fatto di aver ricevuto una richiesta di udienza da parte di una persona che ben conosceva, e che rivedeva sempre con molto piacere.

Alle tre del pomeriggio, puntuale come sempre, la sua gradita ospite nonché vecchia guida si presentò nell’ufficio, annunciata via finestra virtuale dall’anziano prelato che le faceva da segretario.

Alzatasi dalla sua scrivania, le andò incontro.

«È passato tanto tempo, Lydia.» disse Constance

«Troppo, Professoressa.» rispose la donna chinando leggermente la testa alla maniera dell’esercito caldesiano

«Professoressa. Ormai sono solo una vecchia bacucca. Non ricordo neanche più l’ultima volta che ho messo piede alla scuola ufficiali.»

«Per me voi siete sempre la mia rispettabile docente.»

«Ti trovo bene.» commentò Constance squadrando quella che era stata tra le sue più promettenti allieve nel poco tempo in cui aveva insegnato «Anche se all’epoca non avrei mai immaginato di vederti un giorno in queste vesti.»

«In effetti, questa mi calza meglio di un’uniforme» sorrise il prelato sistemandosi la pesante tonaca nera «Ma accomodatevi. Non intendo certo farvi restare in piedi».

Si accomodarono ai divanetti attigui alla porta, e il prelato servì loro una tazza dell’ottimo caffè amalteco che germogliava solo nelle asciutte montagne attorno ad Otisa.

«Che cosa vi porta ad Amaltea, professoressa? Avevo sentito dire che vi eravate ritirata a vita privata nelle vostre proprietà di campagna.»

«Mio nipote si sposerà tra pochi giorni, ma visto che la sposa attualmente è al monastero di Otisa in attesa di prendere i voti il matrimonio avverrà qui. Con i suoi genitori le cose non vanno ancora troppo bene, ma gli avevo promesso che ci sarei stata.»

«Victor si sposa? Mi sembra ieri che era piccolo così e vi chiamava nonna. Gli faccia i miei migliori auguri. Se non fossi così impegnata mi avrebbe fatto piacere venire.»

«Non c’è bisogno di scusarsi. Gli porterò i tuoi saluti».

Constance non aveva più incontrato Lydia dal giorno in cui lei le aveva confidato di voler lasciare l’accademia e il suo Paese per intraprendere la carriera ecclesiastica, ma aveva seguito da lontano i suoi progressi nelle alte sfere della Chiesa, e vederla così, felice oltremodo della nuova strada che si era scelta, le infondeva un piacevole senso di serenità.

«Immagino che per te non sia facile dover ricevere un ex ufficiale dell’esercito di Caldesia» disse ancora.

«Per un po’ lo sono stato anch’io» replicò Lydia zuccherando il suo caffè. «Per fortuna i tempi del Grande Gelo sono ormai lontani.»

«È per questo motivo che sono qui» tagliò corto Constance senza ulteriori giri di parole. «Vorrei mettere alla prova questa tua affermazione».

Da un momento all’altro Lydia si accigliò, contagiando la propria vecchia insegnante con l’ombra addensatasi nei suoi occhi.

«Che intendete dire?»

«Il presidente Fujitaka sarà a Otisa il mese prossimo in visita ufficiale. E per l’occasione, sperava di poter avere un colloquio privato anche con sua santità.»

«È una richiesta pericolosa quella che mi state facendo» disse schietto il vicario «Finché l’incontro è con personalità caldesiane minori o tra il presidente e il vicario è una cosa, ma è quasi un secolo che il papa non ha un incontro ufficiale con un presidente di Caldesia.»

«Non hai appena detto tu stessa che il Grande Gelo ormai è acqua passata?».

Lydia posò la tazza con un gesto delicato, senza farla tintinnare.

«Potrà esserlo per alcuni, forse anche la maggior parte, ma non per tutti. Questa chiesa e questa fede sono nate proprio in conseguenza dell’atteggiamento tenuto da Caldesia e dalla MAB nel gestire la politica internazionale.

Più in generale, si può dire che la Chiesa della Santa Croce sia sorta a risposta dell’ordine mondiale, scientifico e spirituale che la società di oggi, a cominciare da Caldesia, hanno costruito nei secoli.

A ragione di ciò, comprenderete che non è facile per chi ha ancora ben presente tutto questo, a cominciare dai fedeli, accettare l’idea che il papa possa incontrare il rappresentante della nazione da cui in sostanza tutto è partito».

Le labbra di Constance si piegarono in uno strano sorriso.

«Fujitaka è stato tuo compagno oltre che mio allievo. Davvero ti sorprende che abbia fatto una simile richiesta?».

Il vicario socchiuse gli occhi, illuminati appena dal sole che entrava attraverso le tende socchiuse.

«Hai ragione quando dici che non si può dimenticare quello che è successo prima e durante il Grande Gelo, e tu che sei caldesiana probabilmente l’hai capito meglio di chiunque altro. Ma molti sono i mali che affliggono la nostra società, e Connor vuole fare quanto è in suo potere per dare una mano.

D’altra parte, non si può sperare di lasciarsi alle spalle decenni di tensione senza che entrambe le parti facciano uno sforzo per venirsi incontro. Connor questo sforzo vuole farlo, e sperava ardentemente di trovare qualcuno che potesse spronare il sommo pontefice a fare altrettanto.»

«E ha mandato voi perché sapeva che non sarei riuscita a dire di no alla mia vecchia professoressa.» sentenziò ironica Lydia. «D’accordo, vedrò cosa posso fare. Parlerò con gli altri vescovi. Se riesco a convincere la maggioranza del dicastero, dovrei riuscire ad organizzare la cosa per tempo».

Di nuovo Constance si lasciò sfuggire un sorriso; sapeva di poter contare su quella donna coscienziosa.

«Ti ringrazio. Ti devo un favore.»

«Aspettate a ringraziarmi. Non posso promettere niente. Ad ogni modo, vi terrò informata.

Dove posso contattarvi?»

«Alloggio all’Hotel Jupiter. Stanza 324.»

«D’accordo. Allora, se servirà, vi chiamerò io».

Constance avrebbe voluto spendere qualche minuto in più a chiacchierare del più o del meno, ma il dovere di un vicario non conosceva attimi di riposo e l’incontro, pur con qualche rimpianto, dovette concludersi.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Finalmente, era ora!

Anzitutto, buon natale e felice anno nuovo a tutti!

Lo so, ci ho messo un po’, ma di questi tempi, anche se sembra il contrario, il tempo libero latita, e sarà così almeno fino alla fine del mese.

Due giorni fa poi sono tornato da una vacanza all’estero, che nonostante tutto mi ha lasciato un po’ più di tempo libero, così sono riuscito a terminare finalmente questo capitolo iniziato nei tempi che furono.

Ora finalmente entriamo nel vivo dell’azione.

L’indagine di Carmy non durerà ancora a lungo, e dopo che questa sarà finita vi preannuncio che l’asse della narrazione inizierà a vertere di più sulle vicende di Vyce e Jake, per farsi poi sempre più caotica man mano che ci avvicineremo al finale.

Ecco, questo è tutto.

Ancora tanti auguri a tutti!

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 26
*** 24 ***


24

 

 

La comunità dei vampiri era strutturata come un alveare.

Ogni club aveva il suo capo, e anche se a prima vista poteva sembrare il contrario in realtà erano tutti collegati tra di loro a livello nazionale, con un unico individuo al vertice della piramide che comandava sopra ogni cosa.

Nella sola Caldesia la polizia era arrivata a contare oltre un migliaio di club, un terzo dei quali solamente a Kyrador, e questo senza contare i numerosi ritrovi temporanei e quelli sconosciuti alle autorità.

Solitamente non correva buon sangue tra le comunità delle varie nazioni, ma già da qualche mese correva voce che i gruppi di Eyban e Caldesia avessero siglato una qualche alleanza al fine di rafforzarsi e potersi opporre più facilmente al giro di vite che le forze dell’ordine avevano voluto dare nei loro confronti, soprattutto nella nazione nordica.

Muoversi in mezzo ai vampiri non era facile, e di certo non era nemmeno sicuro.

Bisognava riuscire a destreggiarsi nella fitta rete sociale nella quale vivevano, guadagnandosi il loro rispetto senza lasciarsi attrarre dalle loro tradizioni; ma soprattutto, era necessario trovare il modo di aggirare le loro molte conoscenze ad alti livelli i tutti gli strati di potere che contavano.

Che molti tra politici, magnanti e persino alti ufficiali dell’esercito fossero frequentatori abituali dei club per vampiri pur non essendolo a loro volta era un fatto risaputo, e negli anni erano saltate molte teste proprio per via degli scandali seguiti allo smantellamento di questo o quel ritrovo.

Ma più ancora dei loro capi o del piacere del sangue, i vampiri veneravano il silenzio, ed anche per questo era difficile riuscire ad ottenere l’accesso al loro mondo tanto discusso; Alexia e i suoi lo sapevano, ma sapevano anche che una buona bustarella era un eccellente strumento di persuasione, e solitamente funzionava.

Lei, Cane e Lucas spesero quasi tutto il giorno a girovagare per tutti i nove distretti, passando come in un videogioco da un livello all’altro a suon di informatori, soffiate e, quando necessario, quale ceffone per vincere i più reticenti, sempre più in alto verso il vertice della piramide.

Finalmente, a sera tarda, il loro peregrinare li portò in uno dei ritrovi per vampiri più esclusivi della città, una discoteca del secondo distretto molto conosciuta e frequentata da tanta gente facoltosa.

Secondo le informazioni ricevute, era lì che Valakis aveva fissato il proprio quartier generale durante la sua presenza a Kyrador che, sempre stando alle soffiate, aveva lo scopo di allontanarlo per un po’ dai circoli del potere di Volgorad dopo che uno scandalo aveva travolto molti suoi sostenitori.

Come scesero dalla macchina, i tre agenti si videro piantare addosso gli sguardi obliqui e poco raccomandabili di molti degli avventori che si attardavano attorno all’ingresso del locale; i vampiri non erano difficili da riconoscere, ma molti di loro negli ultimi tempi avevano preso l’abitudine di mascherarsi per non essere notati, e molti di quei giovanotti all’apparenza tanto ordinari a ben guardarli tutto potevano essere fuorché umani.

«Però, che facce.» commentò Cane «Di sicuro è stata una buona idea lasciare Carmy a casa, almeno per questa volta.»

«Si può sapere perché la tratti come se fosse una bambina?» lo rimproverò Lucas. «Carmy sa badare benissimo a sé stessa, e te l’ha dimostrato egregiamente. O la ginocchiata nelle parti basse ha già smesso di farti male?»

«Quanto sei spiritoso.»

«Ricomponetevi» ordinò Alexia. «Ricordate che stiamo entrando in una tana di lupi.»

«In tutti i sensi.» scherzò ancora Cane con discutibile spirito.

Entrare nel locale pubblico fu facile; il difficile era riuscire ad accedere all’area vip situata oltre una porta in una zona distaccata della sala principale. Da lì la gente entrava ed usciva come voleva, ma non serviva un genio per capire che prima di arrivare alla zona proibita ci sarebbe stato da attraversare un secondo varco, sicuramente presidiato.

Alexia e gli altri attesero che gli occhi dei clienti troppo guardinghi e sospettosi si rivolgessero altrove per infilarsi in quella porta, e come previsto al termine di un breve corridoio giunsero in una saletta circolare dove c’era una sola porta, ben guardata e sorvegliata da una coppia di tipacci tatuati da capo a piedi.

Non erano sicuramente stregoni, perché non esisteva vampiro dotato di poteri magici capace di mantenere un aspetto florido bevendo sangue dalla mattina alla sera, ma questo non li rendeva meno spaventosi e minacciosi.

Dapprincipio i tre non si capacitarono del perché a guardia dell’ingresso vi fossero due esseri umani, per quanto imponenti e sicuramente pericolosi, ma nel momento in cui misero piede nel salottino circolare Alexia e Cane si sentirono immediatamente un po’ più deboli.

«Barriera magica» mugugnò Cane cercando con lo sguardo, ma senza trovarli, i dispositivi che la generavano. «Previdenti».

Come fecero un ulteriore passo avanti, subito i due gorilla fecero un passo di lato sbarrando l’ingresso, oltre il quale, nonostante la porta insonorizzata, giungeva il suono inconfondibile di musica lanciata a tutto volume.

«Non si passa.» furono le sole parole di uno dei due.

Per nulla spaventata, Alexia anzi lo prese di petto, benché quell’energumeno fosse quasi il doppio di lei.

«Vorremmo incontrare Valakis. Ci hanno detto che è qui.»

«Non ci senti, tesoro? Niente sbirri qui dentro. E comunque Valakis non c’è. Ora girate i tacchi e andatevene, se non volete una ripassata.»

«Non fare il gradasso con lei, amico» gli disse Cane quasi scherzando. «Dammi retta, non ti conviene».

Quello non diede segno di voler ascoltare, e anzi sogghignò beffardo, quindi, di fronte alla reticenza del capitano, fece per afferrarle il bavero; Alexia non aspettò neanche di sentire la stretta sul petto, e caricata una bomba stordente nel palmo della mano la scaraventò sotto il mento del malcapitato, sparandolo letteralmente sul soffitto per poi farlo ricadere mezzo intontito sul parquet.

Colto alla sprovvista,  il suo compagno cercò di reagire, ma Alexia era molto più veloce di lui e lo stese alla medesima maniera, con la differenza che quel poveretto invece che contro il  muro fu scagliato addosso alla parete con un diretto dritto nella pancia.

«Te l’avevo detto» disse ancora Cane prima di varcare, per ultimo, la soglia appena spalancata.

In quanto agenti di polizia, Alexia e gli altri erano abituati a scene raccapriccianti, ma quello che trovarono in quella specie di mattatoio mascherato da club esclusivo avrebbe fatto venire i conati anche al patologo più esperto.

L’odore di sangue e di interiora era tale da far vomitare, ovunque vi erano calici, coppe, e persino bacinelle grondanti di sangue, una parte trattato e annacquato con aperitivi di vario genere ma la grandissima parte fresco; ne avevano persino nebulizzato in gran quantità, facendone una sostanza vaporosa molto densa che veniva spruzzata incessantemente da degli erogatori appestando ulteriormente un’aria già viziata all’inverosimile.

Non c’erano solo vampiri, e quelli che non lo erano si riconoscevano ad occhio nudo.

Per essere vampiri bisognava anzitutto essere stregoni, e una volta che si prendeva quella strada era impossibile tornare indietro.

Bere sangue, soprattutto se impregnato di magia, per uno stregone era come assumere un mix di sostanze steroidee e inibitori della crescita che effettivamente aveva come l’effetto principale quello di cristallizzare i tessuti rallentandone il disfacimento, ma che a lungo andare comportava come effetto collaterale quasi appassimento degli stessi; tutto si traduceva una sorta di invecchiamento precoce, quantomeno a livello esteriore, caratterizzato da pelle rinsecchita, giunture indebolite, e più in generale un indebolimento cronico delle funzioni vitali.

Si diventava indubbiamente più potenti, e con un po’ di fantasia si poteva anche cercare di mascherare alcuni degli effetti collaterali, ma il prezzo da pagare era di vivere una sempiterna terza età, senza cioè, almeno per come la pensava Alexia, avere la concreta possibilità di fare un qualche uso dei poteri che si acquisivano.

Per quanto si sforzasse Cane non riusciva a capire come potessero esistere persone tanto stupide da spendere fino a diecimila kylis per partecipare ad una sola di quelle feste; d’accordo che abbondavano begli e facili potenziali partner con cui darsi ai giochi erotici più perversi, ma doveva esserci qualcosa di profondamente malato nella mente di chi trovava eccitante tutto quel letamaio.

Metà della gente lì dentro era talmente malridotta da far venire male solo a guardarla; visto che quello era l’unico posto dove nessuno poteva giudicare i vampiri o storcere il naso al solo guardarlo, non vi era interesse alcuno di mascherare il proprio vero aspetto.

Appena entrati, i tre agenti si videro subito piantare addosso gli occhi di coloro, pochi per la verità, che si erano accorti del loro arrivo; loro però, cercando di non lasciarsi suggestionare, proseguirono nella loro ricerca, e gli fu sufficiente guardarsi un po’ attorno per scorgere Valakis seduto ad uno dei tavoli, circondato dai suoi uomini, ma soprattutto da un gran numero di giovani donne, sia umane che vampire.

Il confronto tra le prime e le seconde era impietoso, almeno per quanto riguardava l’aspetto esteriore, ma il capo dei vampiri di Eyban era noto per le sue stravaganze e i suoi gusti particolari.

«Sempre il solito materialista» esordì Cane parlando prima ancora del suo capo. «Ma non sei mai contento?».

Il vampiro alzò gli occhi, non prima di aver infilato per l’ennesima volta la lingua nella bocca di una delle sue tante accompagnatrici, e riconoscendo gli chi stava di fronte abbozzò un enigmatico sorriso.

«Agente Cane. Quanto tempo. Cosa ci fa qui a Kyrador?»

«Potrei chiederti la stessa cosa, Armand» replicò l’agente, ben sapendo quanto il vampiro odiasse essere chiamato per nome. «Fare casino a Volgorad non ti bastava più? Dovevi per forza portare la tua carcassa putrescente anche qui?».

Gli animi si accesero subito, e l’unico a non raccogliere apparentemente la provocazione fu proprio il diretto interessato.

«Non è cambiato affatto, agente Cane. Sempre a fare la voce grossa, quando in realtà potrei schiacciarla quando voglio come l’insetto molesto che è.»

«Anche tu non sei cambiato. Sempre a farti parare il culo dai tuoi guardaspalle e dai tuoi amici altolocati.»

«Basta, Cane» lo redarguì Alexia. «Non siamo qui per litigare, signor Valakis. Vogliamo delle informazioni».

Valakis la guardò, ammiccando.

«Chi è la signorina?»

«Capitano Alexia Stirling, polizia militare.»

«Capitano!? Agente Cane, ti fai comandare a bacchetta da questo bel pezzo di manzo che trasuda di feromoni? Forse la MAB non è poi così male dopotutto.»

«Il pezzo di manzo ha trattato i tuoi buttafuori come sacchi da boxe» replicò Cane. «Al tuo posto modererei le parole.»

«Ci servono informazioni sul Tempio di Ela nell’Ottavo Distretto» replicò Alexia lasciando perdere le buone maniere. «Sappiamo che sei in affari con loro».

La luce che si accese negli occhi di Valakis era più che eloquente, ma ciò nonostante il vampiro sembrava deciso a fare il finto tonto.

«Che cosa avrei mai a che spartire con quei fanatici religiosi? Mi tengo ben lontano da gente simile.»

«Non fare la commedia» intervenne Lucas, cercando di mostrarsi galvanizzato dalla baldanza dei suoi colleghi. «Abbiamo le prove che vendi regolarmente sangue di stregone a Timur e ai suoi seguaci.

Vogliamo sapere perché.»

«Prima di tutto, io non fornisco sangue a nessuno.» replicò beffardo il vampiro. «E anche ammesso che lo facessi, ribadisco, cosa potrei avere a che spartire con quei mitomani esagitati?»

«Forse i soldi? Un testimone ha visto uno dei tuoi uomini farsi pagare migliaia di kylis da un membro della setta per del sangue di stregone.»

«Quindi, o sei un grandissimo bugiardo, che è un fatto risaputo» sentenziò malevolo Cane. «O, visto che in caso contrario qualcuno dei tuoi starebbe agendo alle tue spalle, un grandissimo idiota, che è anche peggio».

Anche Arman a quel punto diede l’idea di stare iniziando ad arrabbiarsi, ma in nome del suo riconosciuto autocontrollo cercò di ostentare la solita, insopportabile sicurezza. Alexia, tuttavia, lo vide chiaramente fulminare con lo sguardo Autax, che stava in piedi alla sua destra, e che di colpo si fece piccolissimo.

«Ci sono metodi molto più facili per fare soldi. Perché dovrei andare a rischiare in un affare tanto pericoloso? E se anche qualcuno dei miei ragazzi avesse cercato di arrotondare un po’ il suo stipendio, del che comunque io dubito, che male ci sarebbe? Questa è la città delle opportunità, dopotutto» quindi fece un cenno ad una delle ragazze, che versò nel calice bordato d’oro appoggiato sul tavolo un liquido rosato dall’odore acre, probabilmente sangue misto a qualche liquore. «E ora, se non avete nient’altro, io vorrei godermi ancora questa serata».

Valakis si protese per prenderlo, ma Alexia lo intercettò e con una manata lo mandò a colorare la moquette nero fumo.

Gli animi si accesero all’inverosimile.

«Ora stammi a sentire, pomposo succhiasangue. Non mi importa un bel niente di quanti politici, imprenditori e capitani d’industria strisciano ai tuoi piedi. O mi dai quello che voglio, o tra contrabbando, ricettazione e un’altra mezza dozzina di capi d’accusa i tuoi amici avvocati avranno molto da fare».

In posti del genere parole come legge e polizia erano, per l’appunto, solo parole, e finito il momento delle discussione giunse quello dei fatti.

Lucas aveva con sé due pistole, una delle quali caricata con proiettili speciali antimago, e inaspettatamente fu il più veloce ad estrarle, puntandole contro i due vampiri a lui più vicini, i quali lo presero a loro volta di mira, uno con le armi l’altro con un globo magico pronto ad essere scagliato; Cane non fu da meno, stendendo con un diretto il vampiro che gli stava accanto e schiacciandolo sotto la scarpa, rivolgendo la pistola contro di lui e minacciando un suo compagno con la mano avvolta da una vampata di fiamme.

Questi, invece che tentare di aggredire Cane, rivolse la sua pistola contro Alexia, così come gli altri due gorilla di Valakis, ma nel tempo che impiegarono a prenderla di mira la ragazza aveva già la pistola a due centimetri dalla fronte del loro capo.

Tutto avvenne nello spazio di un batter di ciglia, e con la stessa velocità gli avventori terrorizzati scavarono un solco tra sé stessi ed il tavolo, pronti ad assistere a quella che aveva tutta l’aria di stare per trasformarsi in una carneficina.

Ancora una volta, l’unico a non scomporsi fu proprio Valakis, che nello spaventoso silenzio venutosi a creare, rotto solo da una musica ancora assordante cui nessuno però faceva più caso, stette a lungo a fissarsi negli occhi con Alexia, quasi a volerle leggere l’anima.

«Fossi in te non lo farei» disse calmo. «Lo sai vero, che i riflessi di un vampiro sono tre volte quelli d un essere umano? Saresti morta prima ancora di premere il grilletto.»

«Se vuoi provare, io sono pronta.»

«Capitano, col dovuto rispetto, temo che la cosa sia andata un po’ troppo oltre.»

«Taci, Lucas.» replicò lei senza neanche guardarlo.

Alexia e Valakis seguitarono a fissarsi, immobili come statue, e si aspettava solo di capire i nervi di chi avrebbero ceduto per primi.

«Credevo che quelli della MAB fossero bravi solo a parole!» disse infine il vampiro facendosi una grassa risata soddisfatta «Finalmente incontro qualcuno con un po’ di fegato!».

Detto questo fece un cenno ai suoi uomini, i quali, con stupore degli stessi Lucas e Cane, abbassarono le armi e cessarono gli incantesimi, riportando la calma; dal canto loro i due agenti non erano per nulla convinti di potersi fidare, ma nel momento in cui anche Alexia abbassò la pistola rimettendo la sicura si risolsero a fare altrettanto, pur seguitando a tenerle ben strette in mano.

«D’accordo, avete vinto. È vero, ho fornito del sangue alla chiesa di Ela sull’Ottavo Distretto. Ve lo giuro, quei tipi sono suonati.

Volevano sangue di stregone raffinato al più alto grado di purezza. Niente scorie o altro. Ovviamente gli avevano detto subito che la cosa gli sarebbe costata parecchio, ma quelli non si sono tirati indietro. Anzi, hanno detto che i soldi non erano un problema.»

«Quanto ti hanno pagato?» chiese Alexia

«Tra una spedizione e l’altra, cinquantamila kylis. Più diecimila all’inizio del nostro… chiamiamolo rapporto di lavoro, come forma di garanzia.»

«Hai idea di che cosa ci facciano con tutto quel sangue?» domandò Cane

«Di solito non mi curo di questo genere di cose, ma stavolta me lo sono chiesto anch’io. Pensavo volessero usarlo in qualcuno dei loro riti feticisti, ma ne hanno chiesto decisamente troppo perchè il motivo possa essere questo.

Così, una volta, ho fatto seguire uno dei corrieri da uno dei miei, che lo ha visto sparire da qualche parte nel vecchio distretto industriale su Harris Island.»

«In quella fogna a cielo aperto!?» mugugnò Lucas tra sé

«Ottimo posto per nascondersi.» puntualizzò il suo collega «O per nascondere qualcosa».

Quasi per sfida Valakis ordinò ad una delle sue donne di offrire degli aperitivi ai tre agenti, quale segno di buoni trascorsi e della reciproca volontà di non serbare rancore per quello che lui stesso definì un piccolo screzio senza importanza.

Lucas e Cane non ci pensarono neanche a ingoiare quell’intruglio, mentre invece Alexia, senza quasi battere ciglio, afferrò il bicchiere tracannandone in un sol colpo il contenuto.

La percentuale di sangue era minima, annacquato all’inverosimile con del gin e distillato al punto da non avere quasi sapore, ma questo non gli impedì di fare lo stesso effetto di una colata di brodo bollente infilata dritta nello stomaco.

I suoi uomini restarono basiti, e anche Valakis si meravigliò visibilmente del coraggio dimostrato dalla giovane donna.

«Ce ne fossero di più di tipi come te nella tua agenzia.»

«Grazie per il drink» rispose arcigna lei lasciando cadere a terra il bicchiere vuoto per poi andarsene con i due colleghi.

 

A metà strada tra il continente di Columbia e quello occidentale di Valaras, nel cuore del braccio di oceano che separava tra loro le coste di Caldesia e Dagrea, si trovava il piccolo arcipelago di Nuove St.Etienne.

Uno sparuto gruppo di isole raccolte attorno ad una vasta laguna, poco più di macchie di sabbia che emergevano a malapena dalla superficie cristallina del mare colorate dal verde delle palme che crescevano sempre più fitte man mano che ci si avvicinava al centro degli atolli, troppo piccole per ospitare grandi alberghi o complessi balneari e comunque troppo lontane dalle coste per risultare degli appetibili centri balneari.

Originariamente vi erano stati costruiti solo un centro meteorologico e un ripetitore magico, ma proprio per via dell’estremo isolamento con gli anni quello sperduto arcipelago era diventato la sede di uno dei più frequentati circoli aviatori del mondo.

Quella per le piccole aeronavi da escursione era una passione che accomunava gente di ogni ceto sociale, ma solo chi aveva del fegato da vendere, e comunque tanti soldi da potersi permettere sia l’attraversata che l’eventuale nolo nelle rimesse dell’isola principale, era ammesso a frequentare il circolo delle St.Etienne.

Grazie ai ricettori posti sulle vele di materiale speciale, quelle piccole e rapide imbarcazioni volanti erano in grado di prendere il flusso di energia magica che attraversava incessantemente la superficie del pianeta nello stesso modo in cui una vela normale prendeva il vento, ma visto che le correnti attorno a St.Etienne erano note per la loro imprevedibilità ci voleva tanta esperienza per riuscire a domarle.

E il giovane Alek Walcott, sportivo estremo di fama internazionale, detto la Tigre di Ebridan, come suggeriva il suo nome d’arte di fegato ne aveva da vendere.

Per giorni una serie allucinante di temporali gli aveva impedito di uscire, ma quella mattina, al primo sprazzo di sole, era saltato sul suo catamarano da quindici metri e aveva immediatamente preso il largo, sordo agli avvertimenti che giungevano dal centro meteorologico circa l’arrivo imminente di nuove perturbazioni che avevano convinto la maggior parte dei suoi colleghi a rimanere a terra.

Mancavano solo tre giorni alla chiusura dell’attività del circolo per l’inizio della stagione dei monsoni, e Alek non aveva alcuna intenzione di chiudere le due settimane di escursione sulle isole con tre sole uscite di poche ore ciascuna per colpa del brutto tempo.

Verso mezzogiorno la Tigre era già giunto ai limiti dello spazio di volo autorizzato, e tranne qualche nuvola di passaggio le condizioni, nonostante tutto, sembravano reggere.

Sotto di lui, niente altro che oceano

Non c’era niente che facesse sentire maggiormente liberi come sfrecciare a mille metri d’altezza, nel silenzio più assoluto, con il caldo sole tropicale sulla faccia, il cielo velato dai nuvole che parevano tracciate col gesso, e in basso la superficie azzurra del mare.

Era il paradiso.

Alek si lasciò trasportare dalla tranquillità prima che dal vento, facendo trascorrere serenamente le ore tra il momento di relax e la cura dell’imbarcazione, che nonostante gli anni e le molte traversie viaggiava ancora leggera e soave come una rondine.

«Avanti bella» continuava a dire direzionando la vela in base all’intensità delle linee colorate che la solcavano formando una griglia e che funzionando come degli indicatori permettevano anche a chi non era uno stregone di recepire i movimenti delle correnti magiche «Oggi sei bravissima».

Aveva appena finito di riposizionarle, che dalla radio montata accanto al suo seggiolino giunse la voce squillante e baldanzosa della sua amica Marisol.

«Stazione meteo a Seagull. Alek ci sei?»

«Ti sento forte e chiaro, farfallina.» scherzò lui.

Tutti nel circolo chiamavano Marisol farfallina per via della sua voce, ma le opinioni erano divise tra chi riteneva che quel soprannome fosse dovuto al fatto che per lei l’aria e le correnti tutto attorno a St.Etienne non avevano segreti e chi invece, malignamente, lo trovava un modo molto poco galante di riferirsi alle sue dimensioni, triste lascito di una vita troppo improntata alla sedentarietà del suo lavoro abbinata ai piaceri della tavola.

«Caro signor Walcott, le sarei grata se riportasse le sue chiappe nere al campo di volo» rise la donna.

«E per quale motivo? Mi sto divertendo così tanto.»

«Non fare il cretino, Alex. C’è un sistema temporalesco che transiterà ottanta miglia dalle isole entro tre ore. Non c’è bisogno che ti dica cosa potrebbe succedere se decidesse improvvisamente di virare verso sud.»

«L’ottimismo è sempre il tuo tratto distintivo, non è vero farfallina.

Tranquillizzati, per ora qui è tutto calmo. Nessuna traccia di correnti anomale né di formazioni nuvolose. Anche il flusso energetico è tranquillo.»

«Non è tutto. Stando al radar ti trovi a poca distanza dallo spazio aereo militare dell’aeronautica caldesiana. Ben inteso, non mi dispiacerebbe vederti esplodere come un fuoco d’artificio centrato da un missile assieme a tutta la tua baldanza, ma preferirei che non succedesse durante il mio turno.»

«Grazie mille. Lo apprezzo molto. Ma farmi abbattere dai caldesiani non è attualmente nella mia lista di cose da fare, e credo di saperne abbastanza di questa zona di mare da evitare di dover fare la fine di un bersaglio d’allenamento».

Marisol conosceva molto bene l’esperienza di Alek, anche se come molti altri lo trovava davvero insopportabile, e qualche minuto dopo averlo lasciato fare prendendo a fare altro il trillare di una delle numerose postazioni disseminate per il suo ufficio attirò la sua attenzione.

Spingendosi sulle ruote della sedia lo raggiunse, digitando un momento sulla tastiera per capire l’origine del problema; da un istante all’altro, nei i suoi occhi sia accesero del più vivo terrore.

«Oh, mio Dio!» esclamò.

Prego che la previsione del computer fosse sbagliata, ma un rapido quanto disperato controllo confermò i suoi timori.

Alzatasi, e quasi inciampando sul pavimento scivoloso sotto il peso della sua enorme massa, si avventò nuovamente sulla radio, ma ormai la frequenza era stata spostata.

«Alek! Alek!» disse continuando a viaggiare tra i vari canali «Ti prego, rispondi!».

Finalmente, riuscì a recuperare il contatto.

«Che c’è adesso, farfallina?»

«Alek, vattene subito da lì! Allontanati!»

«Ancora con questa storia? Te l’ho già detto, qui è tutto calmo.»

«Tu non capisci Alek. Sta arrivando una blitzstorm! Si sta formando proprio ora, e proprio dove ti trovi tu! Allontanati subito, o ti travolgerà!».

Di fronte ad una simile rivelazione dapprima Alek non volle credervi; se non che, da un istante all’altro, nuvole fitte e nere presero ad addensarsi senza apparente motivo a poche miglia dalla sua posizione, accese con spaventosa frequenza da bagliori di lampi, e per quanto fosse ancora lontana l’eco dei tuoni giungeva fin lì.

Era quella la blitzstorm.

Una dei pochi eventi atmosferici propri del pianeta Celestis, e probabilmente tra i più insidiosi. Una tempesta improvvisa e violenta, capace di generarsi nello spazio di pochi secondi, abbattendosi con potenza inaudita in una zona tutto sommato ristretta per poi esaurirsi, spesso abbastanza rapidamente, dopo aver esaurito la sua energia.

Si formavano solo in due punti della superficie, in quello stretto braccio di mare la Columbia e Valaras e nella zona dell’oceano orientale diametralmente opposta, e anche se tutti erano concordi nell’attribuirne gran parte della causa ad una specie di torrente sottomarino che collegando i due poli sospingeva continuamente masse di acqua gelida attraverso i due più grandi oceani di Celestis in realtà nessuno era ancora stato in grado di capire realmente cosa le generasse.

Una cosa però era certa: trovarsi sulla loro traiettoria, soprattutto se a bordo di una piccola imbarcazione da crociera, voleva dire rischiare seriamente la vita, e anche se si considerava un amante delle sfide Alek non si sognava nemmeno di sfidare l’unica cosa capace di terrorizzarlo.

«Merda!» strillò mettendosi subito al timone.

Con molta fatica riuscì a prendere il flusso quanto bastava per navigare nella direzione opposta, ma nel tempo che impiegò ad invertire la rotta la tempesta gli fu addosso, travolgendolo in pieno con una scarica di pioggia, fulmini e vento fortissimo.

Alek tentò di manovrare in quota, ma quasi subito dovette scendere il più possibile per uscire dalle nuvole dopo che un fulmine per poco non si era abbattuto sulla sua barchetta usando l’albero come un parafulmine.

Di ammarare non se ne parlava. Le onde erano alte decine di metri, abbastanza da stritolare una piccola imbarcazione come quella.

Il Seagull veniva sballottato incessantemente da una parte all’altra come una barchetta di carta inondata d’acqua, e ad ogni secondo Alek, che già faceva fatica a manovrare con tutto quel vento e quella pioggia, avvertiva costantemente nuovi scricchiolii.

Alla fine, per quanto la cosa lo avvilisse, fu costretto a chiedere aiuto.

«Mayday, mayday!» disse alla radio sperando che ci fosse qualcuno a sentirlo «Parla l’aeronave da turismo Seagull! Sono incappato in una blitzstorm! La mia barca è danneggiata! Richiedo soccorso immediato!».

Tuttavia, nel momento in cui fece per leggere le coordinate, si avvide sgomento che il rilevatore di posizione e il radar erano saltati, così come tutti gli apparecchi elettronici; colpa delle scariche elettromagnetiche che interessavano quel genere di tempeste.

«Maledizione!» imprecò quasi distruggendo la radio con un pugno.

Per interminabili minuti il Seagull seguitò a venire spinto da tutte le parti sotto la furia incontrastata delle correnti, faticosamente tenuto orizzontale da Alek che ormai sentiva le braccia e le mani talmente rigide da sembrare sul punto di staccarsi.

Era abbastanza sicuro di aver sforato abbondantemente entro la zona di sicurezza di cui gli aveva parlato Marisol, ma in quel momento era l’ultimo dei suoi problemi; anzi, semmai questo accresceva le possibilità che qualcuno avesse ricevuto il suo segnale di SOS.

Poi, d’improvviso, si udì un violento rimbombo, che non sembrava quello di un tuono, e una strana luce parve accendersi sopra le nuvole a circa mezzo miglio dal Seagull. Alek riuscì appena ad accorgersene, che dal nulla un fascio di luce di enormi dimensioni discese dal cielo bucando la tempesta per poi inabissarsi violentemente in mare.

Seguì un violento spostamento d’aria, così forte che per poco non riuscì a far ribaltare la barca, ma in qualche modo Alek riuscì a tenerla dritta senza perdere tuttavia il contatto visivo con lo strano ed incredibile fenomeno.

Il bagliore perdurò per alcuni secondi, poi, come era comparso, si dissolse, e con esso, sotto gli occhi stupefatti di Alek, andò scomparendo lentamente la tempesta, che diminuì gradualmente di intensità fino a smaterializzarsi letteralmente, con il foro creato nella coltre di nuvole dalla luce che si ingrandì sempre di più fino ad inghiottirla.

I venti cessarono, la pioggia smise di cadere, ed il sole tornò a splendere su quel remoto angolo di mare a metà strada tra i due più grandi continenti di Celestis.

Alek era senza parole.

Aveva già visto altre volte una blitzstorm esaurirsi rapidamente, ma non gli era mai capitato di vederne scomparire una ad una tale velocità.

Era come se quello strano raggio di luce le avesse succhiato via l’energia proprio nel suo massimo momento di esplosione, un qualcosa che non stava né in cielo né in terra, tanto che per diversi minuti il giovane, pensò di aver avuto un’allucinazione, seguitando inebetito ad osservare l’orizzonte mentre la sua barca, troppo malconcia per continuare a volare, si posava gentilmente sul fondo del mare.

«E quello che diavolo era?».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Scusate per il ritardo osceno, ma ho avuto parecchio da fare in quest’ultimo periodo e non ho avuto molto tempo libero a disposizione per scrivere.

Inoltre, come potete vedere, questo capitolo è particolarmente lungo, il che ha ulteriormente rallentato la velocità di aggiornamento.

Per fortuna quello che si apre con oggi è un mese relativamente tranquillo, che mi renderà un po’ meno complicato riuscire a trovare del tempo libero.

Tanto più che, come mi ero promesso, ho iniziato a mandare alcuni capitoli in giro per case editrici, quindi devo sbrigarmi a finire nel caso (sì, come no…) qualcuna decidesse di contattarmi.

Ecco ho detto tutto.
Grazie come sempre a chi legge, commenta e recensisce.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 27
*** 25 ***


25

 

 

Pur trovandosi dall’altra parte della città rispetto ai distretti considerati più a rischio, Harris Island era nota come uno dei luoghi maggiormente pericolosi e mal frequentati di tutta Kyrador.

Su quella specie di scoglio roccioso di forma vagamente triangolare, con il vertice occidentale allungato verso il mare aperto, Harris Island aveva ospitato il primo embrione della futura Kyrador all’indomani dell’arrivo dei primi coloni sul pianeta, e anche a seguito dello spostamento del cuore della città sulla terraferma aveva continuato a prosperare, ospitando numerose attività commerciali legate soprattutto al trasporto marittimo.

Per più di due secoli Harris Island era stata la porta aperta verso l’oceano nel cuore della baia di Kyrador, ma poi era stato realizzato il distretto industriale a nord con annessi cantieri navali e zone per lo stoccaggio delle merci, e nell’arco di pochi decenni l’isola aveva conosciuto un lento ed inesorabile declino.

Ed era un po’ un peccato, perché il Rainbow Bridge, che collegava Harris Island alla terraferma all’altezza del museo di storia naturale, era uno dei simboli per eccellenza di Kyrador, nonché una delle costruzioni esteticamente più belle di tutta la città.

Seguendo le indicazioni di Valakis, quella notte stessa Alexia, Cane e Lucas raggiunsero uno dei magazzini più lontani e nascosti dell’isola, situato quasi sulla sponda opposta rispetto al ponte, e ben nascosto da una serie di altri edifici fatiscenti che lo schiacciavano su tutti e tre i lati.

«Il posto è questo.» disse Lucas.

Si guardarono attorno, ma pur avendo fermato la macchina abbastanza lontano e in penombra per non farsi scorgere da eventuali sentinelle in giro non si vedeva nessuno.

«Non è che il tuo amico ci ha bidonati?»

«Valakis non è stupido» replicò Cane quasi stizzito. «Anzi, forse un po’ sì, ma non abbastanza da mettere a rischio i suoi affari più importanti per salvarne uno che considera comunque secondario».

Alexia usò l’Ocus Omniscentis per sondare l’interno della struttura, constatando l’assenza di movimento al suo interno.

«È pulito. Andiamo a dare un’occhiata.»

«Non servirebbe una cosa che mi pare si chiami mandato?» chiese Lucas

«Per entrare in un rottame fatiscente? A chi lo mostriamo, ai ratti?».

Scivolando nel buio i tre agenti raggiunsero e oltrepassarono tramite un pertugio il muretto che delimitava il cortile asfaltato dell’edificio, e aperto il pesante portone in metallo chiuso solo da un vecchio catenaccio arrugginito entrarono, facendosi luce con alcuni globi luminosi appositamente evocati.

L’interno era fatiscente quanto l’esterno, se non di più.

Ovunque era un trionfo del degrado, muffa e ruggine regnavano sovrane, e, alla prova del sistema di illuminazione, non c’era una lampadina che funzionasse.

A giudicare dai macchinari e dalle apparecchiature lasciati a marcire un po’ dappertutto quel posto un tempo doveva essere stato una raffineria, dove si lavorava il krylium in arrivo da oltreoceano da destinare poi ai centri specializzati per la creazione dei sistemi di alimentazione da cui dipendeva praticamente ogni apparecchiatura elettrica ed elettronica del pianeta.

Ma doveva essere tutto abbandonato da un bel pezzo, visto e considerato che oltretutto molte di quelle attrezzature erano palesemente obsolete, e comunque quel posto tutto sembrava meno che una centrale di produzione della droga.

«Questo letamaio deve aver conosciuto tempi migliori.» commentò Cane.

Provarono a cercare qualche traccia, qualunque cosa potesse aiutarli a capire come mai il correre si fosse recato proprio lì, ma ad una rapida occhiata non venne trovato assolutamente nulla di associabile alla Chiesa di Ela o alla lilith.

«Sei ancora convinto che il tuo amico non ci abbia fregati?» disse ironico Lucas, quasi fiero di poter imbeccare il collega almeno per una volta.

Cane era sul punto di sbottare tanto gli bruciava dover ammettere di aver fatto davvero la figura del fesso, se non che, guardando per caso dietro un tavolo ribaltato, trovò qualcosa che invece lo fece tornare di colpo quello di sempre.

«Vieni a vedere un po’ qui, criticone.» disse a Lucas, che gli stava a pochi metri.

Come lo raggiunse, Pierre si vide sbattere sul naso un contenitore pieno di fialette rotte o scheggiate, e a giudicare dall’odore ferroso che emanavano c’erano pochi dubbi su cosa avessero a suo tempo contenuto.

«Ti risulta che le raffinerie di krylium usino il sangue?»

«D’accordo, avevi ragione. Però mi sembra evidente che se davvero preparano la lilith non è qui che lo fanno.»

«Beh, però è già qualcosa».

Uno strano rumore, appena percettibile nonostante il silenzio, mise tutti e tre sul chi vive. Sembrava un rumore di vetri rotti, forse calpestati.

I tre agenti si appiattirono il più possibile sul pavimento, ed Alexia cercò i suoi con lo sguardo, trovandoli dal lato opposto del capannone.

Per fortuna, tra le sue varie abilità di maga vi era anche la telepatia.

«Lo hai sentito?» domandò col pensiero

«Eccome.» rispose Cane, che condivideva il medesimo talento.

Si separarono, tenendosi però d’occhio l’uno con l’altro, e cercando nel contempo di capire l’origine di quel rumore.

Cane, pistola alla mano, si era diretto verso la zona più lontana dall’uscita, da dove gli era parso fosse giunto quel rumore; tutto il capannone era un’unica immensa stanza, perciò chiunque fosse il colpevole, se un colpevole c’era davvero, doveva per forza trovarsi lì.

Un’ombra velocissima scivolò alla sua sinistra, intercettata con la coda dell’occhio, lo fece trasalire, e benché non fosse del tutto sicuro di aver visto bene si mosse in quella direzione, in un punto dell’edificio dove vi era un gran numero di grossi macchinari industriali, allineati l’uno accanto all’altro come tante statue arrugginite.

Fu contro una di queste macchine che l’agente si appoggiò, serrando ancora più forte la mano attorno al calcio della pistola.

L’istinto gli suggeriva che non si era sbagliato.

Trasse un respiro, chiudendo un momento gli occhi per respingere un fastidioso riflesso prodotto dalla luce dei lampioni su alcune finestre rotte, quindi uscì allo scoperto, puntando l’arma davanti a sé.

Un grosso gatto nero, probabilmente randagio, stava raggomitolato in un angolo, il pelo ritto e l’espressione minacciosa, più determinato che mai a difendere il topolino che teneva stretto tra le fauci.

Meno male che Lucas non si era accorto di nulla, o si sarebbe messo a ridere.

«Spero ti vada di traverso.» bofonchiò.

Il gatto seguitò a guardare l’intruso che aveva interrotto impunemente la sua caccia, e quando questi si girò tornando sui propri passi lasciò stranamente cadere a terra la propria preda, per poi avviarsi furtivo nella direzione opposta.

Una piccola meteora di luce, poco più di un petardo, lo mancò di pochissimo, facendolo saltare per lo spavento.

«Pensavi sul serio di fregarmi?» esclamò Cane correndogli incontro. «Venite, è qui!».

Il gatto, per nulla spaventato, caricò il suo assalitore, riuscendo con due balzi a superarlo forte della propria agilità per poi puntare velocissimo verso la più vicina finestra.

«Fermatelo!».

Vicino al pertugio c’era Alexia, che velocissima toccò la parete con il palmo della mano, facendo ricoprendo sia quella finestra che tutte le altre lungo quel lato di una spessa coltre di ghiaccio sbarrando la strada.

Il gatto inchiodò, ritrovandosi in trappola, e Lucas cercò di saltargli addosso prendendolo alle spalle, ma di nuovo quella specie di freccia nera riuscì a cavarsi d’impaccio dirigendosi al portone, lasciato imprudentemente aperto.

«Sta scappando!» strillò Alexia.

Lucas provò a rincorrerlo, incespicando però sul terreno reso scivoloso dalle infiltrazioni e facendo un volo da antologia, e a quel punto sembrò non esservi più alcuna speranza di bloccare il fuggitivo.

Se non che, nell’istante in cui poggiò le proprie zampe sull’uscio pronto a darsela a gambe, il gatto si vide spuntare da sotto il pavimento una selva di catene metalliche, che come un nugolo di serpenti animati di vita propria gli si annodarono attorno al corpo inchiodandolo a terra.

Tentò di liberarsi, ma la stretta era troppo forte, anche per lui, e mentre ancora si sforzava a lottare un bagliore lo ricoprì interamente, ingrandendosi sempre di più; poi, quando la luce si spense, al posto del gatto vi era un giovane uomo sulla trentina, capelli neri e portamento trasandato, quasi da vagabondo, ancora avvolto nella sua rete di catene, allargatesi per evitare di soffocarlo senza però lasciargli comunque possibilità di uscirne.

Solo quando i tre agenti si avvicinarono le catene si dissolsero tramutandosi in sabbia, ma a quel punto per il fuggitivo non c’era più nulla da fare.

«Fine della corsa, bello!» disse Cane. «Per fortuna che l’ingenuo qui presente aveva avuto l’idea di piazzare questa trappola.»

«Aspettate, sono un poliziotto!»

«Vallo a raccontare a qualcun altro!» fu la risposta acida di Lucas, alquanto contrariato per il  ruzzolone appena fatto.

Alexia avrebbe voluto interrogare il prigioniero immediatamente, ma il risuono di alcune voci, probabilmente spiantati richiamati dal fracasso, costrinse i tre a cambiare aria quanto prima.

«Mettiamolo in macchina. Lo interrogheremo in centrale».

 

Il sospettato venne portato all’Eruvere Building e chiuso in una stanza per gli interrogatori tappezzata di inibitori, ma ad ogni domanda che gli venne posta da quel momento in avanti la sua risposta rimase la stessa.

Sosteneva di essere un agente di polizia infiltrato, e che non avrebbe detto altro fino a quando i suoi superiori non fossero venuti a prenderlo.

Dapprincipio Alexia e gli altri non vollero credere ad una simile storia, anche se l’assenza di un riscontro facciale negli archivi della polizia locale non bastava comunque a classificarla come una favola; se davvero si trattava di un agente sotto copertura, era ovvio che i dati su di lui fossero stati nascosti o cancellati.

All’alba, i tre agenti non erano ancora arrivati a niente, e la notte passata in bianco si stava facendo sentire. A confronto dei loro colleghi, freschi e riposati, sembravano dei morti viventi, coi vestiti sgualciti, le borse sotto gli occhi e un continuo sbadigliare.

«E io che ieri sera volevo andarmene al cinema.» continuava a brontolare Lucas.

Quello che non sapevano era che cercando i dati del fermato nel database avevano fatto scattare un apposito allarme, e quando alle nove il maggiore Owens arrivò nel suo ufficio fece convocare immediatamente l’intera squadra. Aveva un diavolo per capello, e benché avesse sempre trattato Alexia con un occhio di riguardo considerandola uno dei suoi migliori agenti stavolta non sembrava intenzionato ad agire in tal senso.

«Sapete chi mi ha dato il buongiorno questa mattina?

Il comandante dell’anticrimine caldesiana Fittzwater. Ha detto che avete preso uno dei suoi uomini, e sta venendo qui a riprenderselo».

I tre chinarono i capo, ma non per la vergogna.

«Allora quel famiglio diceva la verità alla fin fine.» osservò mestamente Cane

«Prima che io vi faccia l’ennesima predica sul rispetto delle regole e sull’osservanza dei gradi, vi dispiacerebbe spiegarmi che diavolo è successo?».

Alexia fece un rapido riassunto della paradossale sequenza di eventi capitati quella notte, e allora il maggiore sprofondò nella sua poltrona passandosi una mano sugli occhi.

«Quando ti ho detto che volevo un rapporto, non prevedeva che dovessi venire io a chiedertelo.»

«Mi dispiace, signore. È successo tutto così in fretta. Contavo di avvisarla appena avessimo saputo qualcosa.»

«Prima di tutto, che ti è saltato in mente di incontrare Valakis senza dirmi nulla? Data la situazione, sono sorpreso che non vi abbiano trovati a galleggiare nella baia.»

«È stato Valakis a condurci a quel magazzino. Sospettavamo che potesse essere un centro per la produzione della droga.»

«Ma invece della lilith, abbiamo trovato quel tipo.» irruppe Cane

«Il tipo in questione è un agente infiltrato.»

«È quello che ci ha detto, ma dapprincipio non gli abbiamo creduto.» spiegò Alexia. «Quando lo abbiamo scoperto ha cercato di scappare, e per tutta la notte si è rifiutato di rivelarci i dettagli del suo incarico».

Proprio in quel momento, nell’ufficio che dominava gli uffici dell’anticrimine irruppe il comandante Abram Fittzwater, accompagnato da un altro dei suoi uomini.

«Tu hai qualcosa di mio, Dietrich.» esordì.

«Abram.» lo salutò il maggiore.

«Sapevo che la MAB era poco propensa a condividere la gloria, ma non mi aspettavo certo che sareste arrivati a mettere il naso in una nostra indagine.»

«Potremmo dire la stessa cosa» punse Cane. «Dovrebbe mettere al guinzaglio ai suoi famigli.»

«Si moderi, agente Cane» lo redarguì il suo comandante il capo. «Anche se devo ammettere che non ha tutti i torti. Qui non si tratta di gloria o prestigio.»

«Se stavate indagando anche voi sul conto della chiesa, avreste dovuto dircelo» replicò Fittzwater quasi contrariato

«Possiamo andare avanti a rimpallarci le responsabilità fino a stasera, o possiamo venirci incontro. Innanzitutto, perché non ci spieghi cosa ci faceva un tuo famiglio in un edificio legato alla chiesa di Ela?».

Fittzwater serrò i denti per il senso di impotenza, masticando silenziosamente tutte le imprecazioni che conosceva. Visto che si trovava in un palazzo della MAB non poteva permettersi il lusso di fare lo spaccone, tanto più che avevano in mano uno dei suoi uomini.

«D’accordo, avete vinto. Stiamo indagando.»

«Sulla chiesa di Ela?» chiese Owens «O forse su Timur?»

«Timur è solo un pesce piccolo. C’è qualcuno dietro di lui. Qualcuno di molto ricco. Abbastanza da avergli fornito apparecchiature e conoscenze necessarie a tramutare una anonima centrale di produzione della droga in un piccolo impero degli stupefacenti che dopo aver fatto il bello e il cattivo tempo nei distretti periferici ora sta iniziando a incancrenire l’intera città.»

«Quindi sapevate già che Timur è coinvolto nella produzione della Lilith.» disse Alexia

«Voi della MAB siete sempre due passi indietro. Sono tre anni che la polizia criminale di Caldesia segue le tracce di Timur, e già da due anni il mio famiglio era riuscito a introdursi in mezzo a loro.

All’inizio il nostro scopo era solo trovare le prove per incriminare Timur in merito agli affari sporchi da lui condotti con le corporazioni al fine ottenere il controllo dell’Ottavo Distretto, ma quando ci siamo resi conto che si era messo a lavorare anche con la lilith abbiamo deciso di continuare ad indagare.»

«Quindi» chiese Lucas. «Anche il suo uomo era in quel magazzino per cercare il luogo in cui producono la droga?»

«Niente affatto.» replicò seccato il comandante. «Quello è solo uno dei loro tanti centri di raccolta e smistamento. Era lì su ordine di Timur per occuparsi di uno scambio, e grazie al cielo il corriere è arrivato prima di voi, o a quest’ora alla chiesa avrebbero già scoperto tutto.»

A quel punto Fittzwater si incupì ancora di più, fulminando con uno sguardo Alexia e i suoi uomini.

«Il mio famiglio si è fatto in quattro per ottenere la fiducia di Timur, e se non fosse stato per la vostra ragazzina a quest’ora probabilmente sarebbe già stato destinato alla raffineria vera e propria, invece è finito di nuovo a fare il galoppino.

Spero non vi aspetterete che io vi ringrazi».

I tre agenti saltarono sul posto, e anche il maggiore piegò le labbra preoccupato.

«Come sa di Carmy?»

«Ci avete presi per stupidi, per caso? Forse non abbiamo i vostri mezzi, ma sappiamo fare il nostro lavoro. Sapevamo chi era nell’istante in cui ha messo piede per la prima volta nella chiesa.»

«Se sapevate che c’era anche uno dei nostri, potevate anche avvisarci.» disse Lucas insolitamente contrariato. «Ci saremmo evitati di pestarci i piedi a vicenda.»

«Per quanto ne so la MAB non ama condividere la gloria.» replicò sarcastico Fittzwater. «E comunque non erano affari nostri. O meglio, non lo erano fino a quando la vostra intromissione non ha mandato in fumo mesi di lavoro.»

«Che vuoi dure?» domandò Owens

«Il mio famiglio ci ha messo quasi un anno per ottenere anche solo mansioni da corriere, mentre la vostra ragazzina ci è riuscita in meno di due mesi, a tutto svantaggio del mio infiltrato. Forse Timur ha una passione perversa per le ragazzine che ancora odorano di college, fatto sta che il suo arrivo ci ha scombinato i piani.

Tipico per voi della MAB essere una perenne fonte di guai.»

«Se cerca la rissa, non ha che da chiederla.» rispose provocatoriamente Cane. «Mi basta tirare giù le tapparelle».

Di fronte a quella che era più una sparata che una vera intimidazione, il comandante sorrise ironico e allargò le braccia.

«Via, via. Non buttiamola sul personale. Consideratelo il legittimo sfogo di un professionista gabbato sul più bello.

Non voglio per nulla sminuire le capacità del vostro agente. Se è riuscita ad arrivare così lontano in così poco tempo, il merito sarà soprattutto suo.

In ogni caso, l’uno o l’altro non fa differenza. Quello che contava era avere una persona fidata accanto a Timur, e ora ci siamo riusciti».

Alexia replicò con la medesima espressione, se possibile in modo ancor più malevolo.

«Ci sta proponendo di lavorare insieme?»

«Non sempre ci si può scegliere gli alleati.» sorrise Fittzwater «Dopotutto i generali fanno la guerra coi soldati che hanno.

È evidente che vogliamo entrambi la stessa cosa. E visto che nessuno dei due ha la minima intenzione di rinunciare alla propria indagine, tanto vale collaborare.

Allora, che ne dite?».

I quattro agenti si consultarono con gli sguardi. Tra tutti, quello di Cane era di certo il più eloquente; in quanto unico del gruppo a poter vantare sul suo stato di servizio dei trascorsi sia nell’Agenzia che nella polizia ordinaria, per lui più che per tutti gli altri era facile comprendere la vera natura dell’atteggiamento così apparentemente amichevole di Fittzwater, e se non fosse stato per il fatto che anche il comandante era un mago avrebbe condiviso subito i suoi pensieri con i colleghi tramite la telepatia.

D’altra parte, però, non si potevano negare i vantaggi di una simile offerta.

«Mettiamo il caso che noi accettiamo.» disse Owens quasi con sfida. «Voi che cosa ci date in cambio?»

«Forse, tutte le informazioni che abbiamo raccolto nel corso di questi tre anni?»

«Non servirebbe il permesso dei piani superiori?»

«Sono io i piani superiori. Questa è la mia operazione.»

«Vediamo prima quali sono queste informazioni.» sentenziò Alexia.

Fittzwater ringhiò come un leone messo all’angolo, preoccupando persino il suo secondo famiglio che dall’inizio se ne era rimasto da una parte senza aprire bocca, ma alla fine dovette cedere. Con un cenno evocò una proiezione tridimensionale della città che occupava da sola buona parte della stanza levitando ad un metro da terra, e in mezzo alla quale lampeggiavano svariati puntini gialli.

«Quello che abbiamo scoperto finora, è che Timur non è sicuramente l’unico membro della Chiesa coinvolto nel traffico di droga, ma certamente è certamente colui che occupa il vertice della piramide, nonché per quanto ne sappiamo l’unica persona a tenere contatti stretti con i suoi finanziatori.

Abbiamo condotto controlli a tappeto su tutte le persone a lui vicine, e separando la paglia dal grano siamo riusciti ad isolare un certo numero di individui che riteniamo occupino una posizione di un certo rilievo all’interno dello scacchiere in questione.

Le luci che vedete lampeggiare sono tutti i centri di smistamento che siamo riusciti a identificare in giro per la città, più alcuni depositi e magazzini dove viene custodita la droga prima di venire immessa sul mercato. I materiali e gli ingredienti necessari alla produzione arrivano prevalentemente da fuori, e nel corso del tempo attraversano a più riprese questi luoghi passando di mano in mano fino ad arrivare in quelle dei corrieri di più alto livello, che si occuperanno di portarli a destinazione perché siano convertiti nel prodotto finito per poi occuparsi di far avere la droga agli spacciatori.

Sappiamo per certo che il laboratorio in cui viene prodotta la lilith, oltre a molti altri stupefacenti si trova da qualche parte qui a Kyrador, ma ancora non sappiamo dove.

Abbiamo già controllato i distretti più periferici e alcune zone di quelli considerati maggiormente sensibili, oltre ad un buon numero di siti sensibili nell’immediato fuori città, ma senza risultati».

Un cerchio rosso si formò nel mezzo della mappa, colorandone una porzione corrispondente alla zona a cavallo tra il quinto e il sesto distretto.

«La distribuzione e la posizione dei vari siti di scambio recentemente ci ha portati a credere che il laboratorio possa trovarsi in questa zona, e un po’ per volta stiamo iniziando a perquisirla.

È solo questione di tempo, prima o poi salterà fuori.»

«Comandante, se permette» disse Alexia indicando un punto della mappa e facendovi comparire altri due puntini gialli. «Vorrei aggiungere questi altri due punti di scambio. Qui la mia agente ha preso contatto con i vampiri, e qui invece ha consegnato ai membri della Chiesa il sangue che riteniamo serva a produrre la Lilith».

Fittzwater la guardò molto male, e dietro di lui Cane e Lucas non riuscirono a trattenere un sorrisetto divertito.

«E già che ci siamo» disse ancora la ragazza inserendo la foto di Noce nello schedario in alto a sinistra «Metta anche questo ragazzo tra i personaggi sensibili. Maneggia abitualmente una grande quantità di soldi e sembra molto ben inserito nella gerarchia di Timur, senza contare che è stato lui a ritirare il sangue dalle mani della mia agente. Le direi di tenere d’occhio anche i vampiri facenti capo ad Armand Valakis, ma dubito che possa ricavare da loro altre informazioni oltre a quelle che siamo riusciti a carpire noi».

A quel punto il sorriso di Lucas e Cane si tramutò in una risatina divertita, e lo sguardo funereo di Fittzwater in vera e propria occhiataccia.

«Complimenti, niente male.» si sforzò di dire il poliziotto

«Direi che è tutto. Se ha altre talpe nella chiesa sarebbe il caso che ce lo dicesse. Così sarà più facile coordinare i nostri movimenti.»

«Non ce ne sono» replicò seccato Fittzwater facendo sparire la mappa e lo schedario. «E ora, se volete scusarmi, ho del lavoro da fare.»

«È stato un piacere rivederti, amico mio» disse Owens alzandosi dalla sua poltrona e porgendogli la mano, che ovviamente il collega rifiutò. «Ti offrirei un caffè, ma non so perché ho il sospetto che ti risulterebbe alquanto indigesto. E già che ci sei, dì al tuo famiglio di ripassare i fondamentali. Se persino Cane è stato capace di smascherarlo, suggerisco un corso d’aggiornamento».

Fittzwater fulminò anche lui, quindi se ne andò sbattendo la porta al seguito dell’altro suo famiglio, e finalmente Cane e Lucas poterono esternare quella risata così a lungo repressa, seguiti quasi subito dal loro caposquadra; persino Owens non riuscì a non sorridere.

«Và bene, basta così» disse appena riuscì a tornare credibile. «Fatemi avere un rapporto quanto prima. Inoltre, per evitare problemi sarà meglio che O’Neill non si faccia vedere alla chiesa per qualche giorno, giusto il tempo di organizzare questa operazione congiunta.

E ora fuori di qui, devo ancora fare colazione».

Cane e Lucas se ne andarono, ma Owens ordinò ad Alexia di restare un attimo di più.

«Hai corso un bel rischio, lo sai vero?» le disse in modo severo ma gentile

«Lo so, signore» rispose lei come una figlia disubbidiente chiamata a pentirsi. «Mi dispiace. Non succederà più.»

«Non è mia intenzione tarparti le ali. Se non avessi avuto fiducia nelle tue capacità non ti avrei assegnato questa indagine. Ma d’ora in poi non tenermi più all’oscuro di quello che fate».

Il maggiore fece quasi per sfiorarle i lunghi capelli biondi, lasciati insolitamente cadere lungo le spalle in barba al costume tenuto dalla maggior parte delle altre agenti, ma all’ultimo ritrasse la mano.

«Mi raccomando. Sono stato al funerale di tuo padre, e non vorrei dover venire anche al tuo.»

«Sissignore».

Fatto il saluto, anche Alexia se ne andò.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Eccomi qua con un nuovo aggiornamento.

Ci è voluto un po’ (un po’ tanto) ma finalmente sono tornato. Il fatto è che ultimamente sono molto preso, inoltre mi sono iscritto ad un contest con una fic che credevo facile da scrivere, ma che invece mi sta mettendo a dura prova (Il Gatto Rosso, ennesimo Missing Moment di questa storia).

Alla fine però si è rivelato piuttosto facile da scrivere, perché una volta che mi ci sono messo sono riuscito a completarlo in pochi giorni.

Dal prossimo torneremo a concentrarci sulle vicende di Vyce e della Nuova Avalon, ma ormai le vicende relative all’indagine avviata da Carmy e dai suoi compagni si stanno avviando verso la conclusione.

Come finirà?

Lo scoprirete presto!

Per ora, alla prossima!

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 28
*** 26 ***


26

 

 

Impossibile stabilire se alla base di tutti gli incidenti che stavano capitando da qualche mese a quella parte sia a Kyrador che in altre parti di Caldesia ci fosse la semplice e spietata influenza del caso o una qualche strategia della tensione, ma di certo la cosa stava iniziando ad assumere dimensioni preoccupanti.

Ormai non passava giorno senza che succedesse qualcosa. Anche escludendo gli incidenti di piccola entità, come crolli, esplosioni o altre cose legate a malfunzionamenti di varie apparecchiature magiche, si era arrivati al punto che in alcune parti della città veniva segnalato almeno un caso EDA al giorno.

Per le squadre TMD il lavoro non mancava mai, e in tutta Kyrador aveva iniziato ad addensarsi un’atmosfera che diventava di giorno in giorno sempre più pesante.

Jake stava iniziando a comprendere il significato vero e proprio della vita in prima linea, quando non si aveva mai un attimo di pace, e la sirena del comando riecheggiava in continuazione.

L’unica consolazione era che gli incidenti, bene o male, erano quasi sempre di piccola entità, in cui spesso la convocazione dei membri del TMD da parte della polizia ordinaria era più una precauzione che una necessità vera e propria, ma questo non rendeva la situazione meno stressante.

La tensione era tale che Jake aveva finito per riscoprire un suo brutto vizio dei tempi del liceo, e nei brevi momenti liberi lui e il suo caposquadra si ritrovavano spesso nel cortile per farsi una sigaretta.

«Non mi piace la situazione che si sta mettendo.» disse un pomeriggio Madison, di rientro dall’ennesima missione «Siamo sempre sul chi vive, e il nervosismo sta aumentando.»

«Avete mai avuto simili picchi di lavoro qui in città?»

«Qualche volta, ma mai per archi di tempo così lunghi. Ormai è parecchi mesi che và avanti questa storia».

Madison tirò una lunga boccata, inondando di fumo l’aria già pesante per l’arrivo dei primi acquazzoni estivi.

«Vorrei tanto sapere che accidenti sta succedendo. Tra intossicazioni da lilith e incidenti vari, non riesco a credere che possa trattarsi solo di coincidenze.»

«Crede che ci stiano nascondendo qualcosa?»

«Noi siamo soldati, ragazzo. Obbediamo in silenzio.» e detto questo Madison schiacciò la cicca sotto il piede, volgendo nel contempo uno sguardo verso l’edificio principale dall’altra parte della piazza «Anche se, in tutta onestà, anche io vorrei tanto sapere cosa sanno realmente i capoccia dei piani alti».

 

Anche Vyce con il tempo aveva iniziato a farsi la stessa domanda, ma a differenza del suo ex insegnante e del suo giovane allievo aveva abbastanza autorità e considerazione per potersi permettere di andare a farla personalmente.

Nel vederlo entrare in ufficio con quel cipiglio scuro, le occhiaie scavate e l’espressione tirata, il direttore Harlow non parve quasi sorprendersi; probabilmente, si aspettava che da un momento all’altro il suo uomo migliore sarebbe venuto a chiedere conto della situazione.

«Posso parlare liberamente, signore?»

«Accordato.»

«Ci sono state dodici chiamate negli ultimi quindici giorni, più del doppio della media abituale» tagliò corto il capitano. «E ogni volta, subito dopo un intervento, i miei uomini hanno visto arrivare quelli della sezione antiterrorismo.

C’è forse qualcosa che dovrei sapere, signore?»

«Perché me lo chiede, capitano?» domandò Harlow quasi a voler dissimulare

«Forse ultimamente non ha fatto un giro in sala mensa direttore, ma anche i soldati più addestrati hanno il loro limite.

Wilkinson e Lunardi sono in ospedale, Orwell ha rischiato di morire nell’ultimo intervento, la squadra di Morales esce in missione un giorno sì e uno no, e poi c’è la divisione antiterrorismo.

Quelli sono i miei ragazzi, signore. Mandarli alla carica senza sapere cosa stanno realmente affrontando non mi fa stare tranquillo».

Harlow girò la poltrona verso la finestra.

Kyrador, nonostante i nuvoloni neri, non smetteva un attimo di essere magnifica, anche a guardarla da così in basso.

«Quello che sto per dirle, capitano Vyce, non dovrà mai uscire da questa stanza.

Ci siamo capiti?»

«Perfettamente, signore».

Il direttore si guardò attorno, e giratosi nuovamente stacco sia il sistema di alimentazione del computer sia la linea diretta con la segretaria, inoltre spense il comunicatore.

«Avalon. Sono tornati».

Per un attimo, gli occhi scuri del capitano si spensero totalmente, mutandosi in biglie senza vita, mentre nella sua mente tornavano ad agitarsi immagini ormai tramutatesi negli anni in un incubo surreale.

«Avalon?» ripeté quasi catatonico

«Sono ricomparsi circa sei mesi fa. Ricordi l’incidente al procuratore Griffith? In realtà è stato il loro primo attentato, ed è stato solo per un caso che Griffith non è morto. In quel caso la MAB ha intercettato il messaggio di rivendicazione prima che venisse diffuso dalla stampa, ma da allora per quanto ne so non ne sono arrivati altri. Ciò nonostante, sia all’antiterrorismo che nello stesso Consiglio di Sicurezza sono in molti a sospettare che ci siano loro dietro a questa escalation di incidenti».

Vyce tentennò, strofinandosi la testa per cercare di riacquistare il controllo.

«Questo è insolito. Di solito Avalon rivendicava sempre, o quasi sempre, i suoi attacchi.»

«Indubbiamente si tratta di un gruppo nuovo, probabilmente di recente formazione. L’indagine è ancora in corso, ma fino ad oggi non siamo ancora venuti a capo di nulla. Non sappiamo ne chi né quanti siano, e soprattutto come riescano a finanziarsi.

Secondo alcuni potrebbero essere implicati nel traffico della lilith, visto che attualmente in città ne sta girando parecchia. Ho sentito dire che alla polizia militare stanno seguendo un’indagine orientata in questo senso.»

«Insomma, non sappiamo nulla.» rispose Vyce in un moto di stizza

«Deve capire, capitano, che non è il genere di informazione che possiamo permetterci di diffondere. Avalon godeva di grande considerazione nell’opinione pubblica, e anche se forse si trattasse solo di emulatori il sostegno della gente è l’unica cosa che non possiamo permettergli di ottenere.»

«Se è così, far passare tutti questi sospetti attentati per incidenti non fa altro che avvantaggiarli. Così gli animi si esasperano, i nervi saltano, e Avalon l’avrebbe vinta senza neanche dover pronunciare il suo nome.»

«Non possiamo essere sicuri che questi incidenti siano stati provocati da Avalon. Sono state trovate prove di un loro coinvolgimento solo in un ristretto numero di casi, per gli altri la tesi della disgrazia rimane la più accreditata.»

«È una strategia della tensione in piena regola. Sono anni che si và parlando di una riforma delle leggi magiche, che tra l’altro era uno dei principali cavalli di battaglia della vecchia Avalon, e non è mai stato fatto niente.

E in quanto nazione che più di ogni altra intrattiene rapporti di amicizia e collaborazione con l’Agenzia, Caldesia è il luogo perfetto per provocare disordini e fare proselitismo.»

«Ne sono consapevole, capitano. Sfortunatamente, al momento questo Paese, come pure il resto del mondo, ha altre priorità.

La situazione ad Amara si fa ogni giorno più ingarbugliata. Ieri è addirittura arrivata la notizia che alcuni membri del vecchio governo avrebbero lasciato il Paese e chiesto asilo politico a Caldesia, con ovvie ripercussioni sul piano diplomatico.

Se le cose dovessero andare avanti di questo passo, temo sia solo una questione di tempo prima che venga convocata una riunione di emergenza alle Nazioni Unite».

Vyce si guardò attorno, sembrava perplesso.

«Se non le dispiace, signore» mormorò con un filo di voce. «Avrei bisogno di prendermi una breve pausa. Diciamo un paio di giorni.»

«Accordato» rispose Harlow senza esitazioni. «Vada pure. Si prenda tutto il tempo che vuole».

Rialzatosi e fatto il saluto, il capitano se ne andò.

 

C’era voluta molta diplomazia e qualche compromesso, ma alla fine l’incontro storico tra il presidente di Caldesia e il sommo pontefice di Amaltea era sul punto di concretizzarsi.

Vittorio Visconti e Connor Fujitaka si incontrarono nel cortile principale del Palazzo Papale, dinnanzi al picchetto d’onore schierato, ma dopo le classiche foto di rito per i molti fotografi intervenuti il pontefice condusse il proprio ospite non nella tradizionale sala degli specchi, dove solitamente venivano ricevuti i dignitari stranieri, bensì nel planetario all’ultimo piano della torre astronomica che svettava quasi sulla sommità della scogliera.

Un piccolo accorgimento per vincere le reticenze di quella parte degli alti prelati che, pur costretti ad accettare quell’incontro, avevano storto il naso all’idea che esso potesse svolgersi nella maniera in cui venivano condotti tutti gli altri. Forse, un domani, tra Caldesia e la Chiesa avrebbe potuto esservi una pace più serena e duratura, ma per ora era ancora troppo presto.

Un altro strappo alla regola, stavolta però a favore dei sostenitori di un evento politicamente così importante, era stato da parte del pontefice l’aver voluto accogliere personalmente il presidente Fujitaka al suo arrivo al palazzo al posto del suo alto prelato, contrariamente alla tradizione; ciò nonostante Lydia rimase comunque al suo fianco per tutto il tempo, lasciando soli i due leader solo quando venne per loro il momento di incontrarsi faccia a faccia, lontani dalle telecamere e da altri occhi indiscreti.

«Le dirò, in tutta onestà, che la sua richiesta d’incontro mi ha molto sorpreso.»

«Troppo improvvisa?»

«Non è questo né il momento né il luogo per tornare a rivangare sul passato, ma del resto i rapporti tra Caldesia e la Chiesa non sono mai stati idilliaci.»

«Ponendo fine al periodo di contrasto, Caldesia si è assunta la responsabilità delle proprie azioni.

L’Incidente del Megonia ormai è un fatto lontano nel tempo, e ritengo sia giunta l’ora di lasciarselo definitivamente alle spalle. Per questo ho voluto incontrarla.»

«Le sue sono parole sincere, signor presidente. E io sono il primo a riconoscere che la Chiesa stessa ha avuto la sua parte di responsabilità nel far sì che il mondo rimanesse spaccato a metà per quasi un trentennio.

Ma deve capire che ci sono ancora molte persone che non hanno dimenticato. Dopotutto, basta guardarsi attorno per capire come i problemi che hanno permesso trent’anni di attrito in realtà sono ancora ben presenti.»

«Con il dovuto rispetto, santità, Caldesia non è disposta a rivedere in alcun modo il suo rapporto fiduciario con la MAB, se è a questo che si riferisce».

Il pontefice restò in silenzio, posizionandosi meglio gli occhiali scivolati sulla punta del naso e mettendosi a sedere meglio sulla poltrona imbottita.

«In quanto capo di una realtà che si propone di essere unicamente religiosa, non intendo affrontare né discutere questioni che spettano unicamente al campo della politica.

La MAB  è senza dubbio un’utile istituzione, che fino ad oggi ha fatto del suo meglio per adempiere al proprio ruolo di garante dell’ordine mondiale e del corretto uso della magia, che è alla base della nostra civiltà.

Tuttavia, a questo punto, mi sorge spontanea una domanda: possiamo essere davvero sicuri che questo ordine e questa civiltà siano davvero così perfetti ed appaganti come noi tutti vorremmo giustamente che fossero?».

Detto questo il sommo pontefice pronunciò un comando, mentre il suo schienale si piegava all’indietro, e lo specchio magico in cima alla volta cancellò in un battito di ciglia il cielo e le nuvole, facendo apparire dinnanzi ai due capi la sconfinata e maestosa volta celeste, come fosse stato l’oblò gigantesco di una nave spaziale.

«Secondo lei, cosa volevano realmente coloro che secoli fa ci mandarono qui? Che creassimo un’altra Terra, fatta di nazioni divise che si salutano un giorno e si detestano il giorno dopo, o forse che dessimo vita a qualcosa di più grande?

Perché vede, è questa la domanda che mi sono fatto per tanti, tantissimi anni. Fin dal giorno in cui ho incominciato a guardare le stelle.»

«È questo il punto, vostra santità. L’ordine che ha retto il mondo negli ultimi centocinquant’anni è ormai vecchio e superato. Serve un profondo cambiamento. E mettere fine, almeno pubblicamente, a questo lungo periodo di reciproco sospetto tra le due anime del nostro mondo ritengo sia un primo, importante passo nella giusta direzione.»

«Nessuno più di me vuole che Celestis ed i suoi abitanti si incamminino lungo un sentiero nuovo e migliore, signor presidente» replicò il papa con una strana emozione nella voce. «Ma le basi sulle quali poggia questa società, per quanto imperfette, sono anche fortemente radicate.

Difficile che qualcuno, per quanto determinato, possa riuscire a scuoterle nel profondo.»

«È proprio per questo che sono qui, santità. Per chiedere il vostro aiuto».

I due si fissarono, scrutandosi negli occhi a vicenda in un silenzio assoluto.

«A che cosa si riferisce, esattamente?»

«Come forse saprà, è mia ferma intenzione proporre una profonda riforma delle leggi magiche di Caldesia. Fare questo, malgrado tutto, mi dovrebbe essere relativamente facile. Quello che voglio davvero però è ridiscutere i codici internazionali.»

«Sta proponendo una riforma dell’RMA?» domandò il pontefice con una punta d’ansia nella voce

«L’RMA è stato riformato per l’ultima volta più di trecento anni fa, e ancora oggi costituisce l’ossatura delle norme sull’apprendimento e l’esercizio della stregoneria di quasi tutte le nazioni del globo; tuttavia, è stato ampiamente dimostrato che i suoi paletti sono troppo larghi, e ritengo sia a causa di ciò che gli incidenti negli ultimi anni sono aumentati di continuo.

Per questo è necessario che la riforma sia di livello globale. Una volta che l’RMA sarà stato riformato, di riflesso dovrebbero evolversi anche le normative di tutti gli stati che lo hanno sottoscritto.»

«Un progetto molto ambizioso. Ma, se posso permettermi, per quale motivo avrebbe bisogno del mio aiuto?»

«Vostra santità» rispose Fujitaka sfoggiando un sorriso di circostanza «Sapete bene che ci sono molti influenti leader politici che tengono in grande considerazione le vostre idee.

Se voi poteste sfruttare l’ascendente di cui disponete nei confronti di persone che difficilmente si mostrerebbero disponibili a trattare con me, mettendo una buona parola tanto nei confronti della mia persona quanto, soprattutto, del progetto che vorrei realizzare, allora forse questa mia idea potrebbe non sembrare più così irrealizzabile».

Il santo padre parve sogghignare divertito, e mossa una mano fece volteggiare verso di sé un calice di cristallo poggiato su di un ripiano.

«Bello, non è vero? Alto artigianato dell’est. Un dono di un dignitario straniero che fece visita a papa Giuliano Rio quasi cent’anni fa.

Questa piccola opera d’arte è un po’ come un’idea. Una nuova idea. Bella. Desiderabile. Apparentemente perfetta».

Quindi strinse il pugno, e il calice andò in pezzi, che piovvero qua e là tintinnando sul pavimento.

«Ma basta un niente, ed essa può rivelarsi null’altro che polvere. E nessuno, pur con tutto il buon cuore, avrebbe il coraggio di affidare il destino di un intero pianeta e dei suoi abitanti alla polvere».

Fujitaka rispose con il medesimo sguardo, ma non essendo dotato come il suo interlocutore di poteri magici dovette ricorrere alle capacità del supporter che portava al polso come un bracciale, grazie al quale riuscì a ricostruire il calice riportandolo alla sua forma originale.

«Un’idea deve essere anzitutto giusta. Poco importa che sia nuova o meno. Perché in questo modo, per quanto chi si ostina a non volerla accettare ci provi, non potrà mai essere distrutta. Non fino a che ci saranno persone capaci di fare la differenza che crederanno in ciò che può portare».

Seguì un nuovo silenzio, più lungo dei precedenti, poi Fujitaka e il santo padre si alzarono dalle proprie poltrone, e dopo essersi guardati un’ultima volta l’uno negl’occhi dell’altro si scambiarono una stretta di mano.

«Questo mondo ha davvero bisogno di un cambiamento.

Forse l’Onnipotente ha decido che finalmente è giunta l’ora di metterlo in atto.»

«Grazie, vostra santità. Grazie di cuore».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Un mese e più di assenza, ma finalmente sono tornato.

Per tutto il mese di maggio sono stato sballottato da un contest all’altro, e alla luce dei risultati (una storia partecipa a due contest andati deserti e quindi annullati) mi domando se ne sia valsa la pena.

Messo da parte quest’argomento, torniamo alle vicende principali.

Come promesso, per qualche capitolo non sentiremo parlare ancora di Carmy, lasciandola in pace a condurre la sua indagine, che come già detto ormai procede verso la conclusione (almeno, per quel che la riguarda).

Nel prossimo capitolo, alcuni tasselli del passato di Vyce inizieranno ad andare al loro posto, poi finalmente cominceranno ad arrivare le prime, vere risposte.

Grazie come sempre a tutti quelli che leggono e/o recensiscono.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 29
*** 27 ***


27

 

 

Carmy stava iniziando a perderci il sonno.

Non sapeva più cosa pensare.

Era sicura, anzi, praticamente certa che Timur fosse implicato in qualcosa che andava ben oltre il semplice spaccio della Lilith. Le percentuali sulla produzione e sulla vendita della droga non bastavano a giustificare quel suo stile di vita fatto di eccessi e piaceri, né le mille precauzioni che lui ed i suoi uomini si prendevano nel garantire che la macchina continuasse a funzionare alla perfezione.

E poi c’era la faccenda del sangue; sicuramente serviva a preparare la Lilith, ma se la portata e la quantità del materiale smerciato era davvero quella di cui aveva parlato Valakis allora ne girava decisamente troppo, visto e considerato che per ogni grammo di lilith era necessario poco più di un decigrammo di sangue.

O la Chiesa di Ela produceva molta più droga di quella che girava abitualmente in città, oppure erano coinvolti in qualcos’altro, ma era questo altro che Carmy non riusciva in alcun modo a spiegarsi.

Comunque, per ora la priorità era trovare quella centrale di produzione, e sotto questo senso la collaborazione con la polizia cittadina si rivelò fin dalle prime battute particolarmente utile; Fittzwater e il suo famiglio guardiano, Railey, avevano raccolto molte informazioni nei loro mesi di indagine, e grazie a loro fu possibile venire a conoscenza di tutta una serie di corrieri, centri di smistamento, depositi e altre zone strategiche che come una fitta rete caratterizzavano non soltanto l’Ottavo Distretto, ma quasi l’intera città.

Su pressione dei vertici della polizia, e in accordo con la MAB, nei giorni immediatamente successivi all’incidente su Harris Island erano già state condotte le prime operazioni, con l’arresto di alcuni corrieri e lo smantellamento dei centri più periferici: nulla che potesse realmente allarmare Timur e i suoi uomini, ma nei piani di Fittzwater questo avrebbe costretto i vertici della setta a ridistribuire gli incarichi, prendendo magari in considerazione due giovani adepti di affidabilità apparentemente comprovata come Railey e la stessa Carmy.

E il piano si era rivelato vincente.

Da un giorno all’altro Railey era stato destinato alla supervisione dello spaccio nel Settimo Distretto, con la possibilità di decidere, e nel caso di rendere nota a chi di dovere, la posizione e l’identità di ogni singolo corriere, spacciatore ed eventuale acquirente, mentre Carmy vide il Priore avvicinarla a sé ogni giorno di più, fino a fare di lei una sorta di segretaria che lo seguiva quasi ovunque.

Grazie a questa insperata promozione le fu possibile avventurarsi per la prima volta nel complesso substrato di illegalità che Timur aveva costruito nel corso degli anni, oltre ad avere libero accesso ai suoi numerosi possedimenti a cui nessun altro adepto del suo stesso rango avrebbe mai potuto mettere piede. Era stato in questo modo che Carmy aveva potuto rendersi conto di come Timur, fuori dai confini di Kyrador, possedesse un vero e proprio impero delle comodità fatto di molteplici residenze ed appartamenti, tra i quali una villa al mare poco lontano da Ladner, macchine e moto di lusso, vasti possedimenti e tenute di caccia e persino una piccola aeronave personale, il che era alla base del suo attuale stato d’animo.

Come avesse fatto quel santone  a mettere insieme una tale fortuna era qualcosa di assolutamente inspiegabile. Era quasi troppo persino per un magnante della droga, figuriamoci per quello che appariva sempre più come un semplice intermediario.

Ma se davvero Timur era solo il braccio, una forza lavoro che agiva con il benestare e il supporto di qualcuno, chiunque fosse alle sue spalle doveva disporre di mezzi davvero considerevoli per poter tirare fuori tanti soldi.

Un’altra questione importante, almeno secondo Carmy, era quella relativa a Noce.

Anche lui aveva beneficato dei colpi di poco conto inferti alla Chiesa dalla polizia, ottenendo la promozione a Fedele e il diritto di portare il pendaglio della fratellanza e smettere di usare la terza persona durante i discorsi con qualcuno che non fosse il Priore.

Benché Fittzwater non lo ritenesse un elemento importante su pressioni di Carmy, ma soprattutto di Alexia, gli era stato messo un uomo alle costole, e costui malgrado lo scetticismo iniziale del Comandante aveva riportato parecchie informazioni interessanti; che il ragazzo fosse ben fornito di soldi ormai si sapeva, ma le molte escursioni che era solito fare fuori città erano alquanto enigmatiche, poiché era quasi sempre dopo aver fatto ritorno a Kyrador che il suo portafogli si riempiva: troppo per un semplice incarico da corriere o mediatore.

Di una cosa però Carmy era sicura: lui era diverso.

Nei suoi occhi non leggeva né il fanatismo cieco dei membri più esaltati della setta né l’obbedienza sottomessa e intontita dalla droga dei galoppini o degli altri servi affezionati. Poiché non era mai stato arrestato né vi erano imputazioni a suo carico era difficile capire fino infondo le sue ragioni o le sue origini, ma indagando un po’ era venuta fuori una situazione famigliare non molto serena, con una madre ignota e un padre con parecchi problemi che andavano dal gioco agli alcolici.

Forse era per questo che gli servivano tutti quei soldi: mantenersi non doveva essere facile quando non si aveva nessuno su cui contare né un titolo di studio con cui sperare di costruirsi un futuro. E come molti altri giovani nelle sue stesse condizioni, quel poveretto aveva deciso di fare fortuna nel modo sbagliato.

Forse Cane aveva intuito ciò che Carmy in cuor suo pensava di Noce, e un giorno, presala da parte, le aveva fato una doverosa quanto spietata raccomandazione.

«Non farti coinvolgere» le aveva detto guardandola negl’occhi. «Per nessuna ragione. Devi essere sempre distaccata. Se permetti alle emozioni di pregiudicare il tuo comportamento finirai solo col metterti in pericolo.»

Un’affermazione più che giusta, che la giovane O’Neill si era sentita ripetere più e più volte nel corso della preparazione per quell’incarico, ma che in quel momento le veniva molto difficile riuscire a tenere a mente.

Non si capacitava perché Noce, che dimostrava senza dubbio una grande lungimiranza e capacità di adattamento, si fosse ridotto in quel modo, e non voleva credere che per un ragazzo dei bassifondi quella fosse l’unica via.

Kyrador era la città delle possibilità, dove chiunque, con perseveranza e un pizzico di fortuna, poteva dare una svolta alla propria vita: lei ne era l’esempio vivente.

Alla fine, la sua coscienza l’ebbe vinta. Un pomeriggio, Carmy stava avviandosi ad eseguire l’ennesima commissione per conto del Priore in un altro distretto, quando subito dopo aver varcato la soglia del tempio vide Noce giungere dalla direzione opposta.

E come al solito, l’accoglienza del ragazzo fu gelida.

«Che stai facendo?» domandò vedendola con un nuovo pacchetto tra le mani

«Lei… lei ha ricevuto un incarico dal Priore. Deve portare questo in un magazzino dell’Ottavo Distretto.»

«E non parlare così, stupida. Ti rendi solamente ridicola.»

Carmy non ce la fece più.

«Se posso permettermi, mi sembri una persona molto intelligente e dotata» domandò di getto, mentre lui era sul punto di entrare. «Per quale motivo sei venuto proprio qui? Voglio dire, con le tue capacità…».

Non poté dire altro, perché alzata la testa Noce le piantò addosso due occhi di ghiaccio, che mettevano quasi paura per la severità che avevano dentro.

«Potrei farti la stessa domanda» replicò prima di afferrarla e gettarla con una certa forza contro il muro, facendole cadere il pacco che aveva in mano. «Quelli come te, che gettano via quello che hanno e passano il tempo a commiserarsi, mi mandano fuori di testa.

Tu non sai cosa voglia dire non avere niente, essere cresciuto in questo posto schifoso, e passare ogni singolo giorno con la certezza che non ci potrà mai essere niente di diverso, perché per il mondo là fuori tu vali meno della spazzatura.

Tu invece avevi qualcosa. Anzi, forse avevi anche più di quello che avresti meritato. E che cosa hai fatto? Hai buttato tutto dalla finestra per inseguire un desiderio irrealizzabile.

E allora, sai che ti dico? Rovinati pure l’esistenza. E semmai allora dovessi avere ancora abbastanza coscienza da ricordare, quando sarai ridotta ad una schiava drogata senza volontà ripensa a quello che ti ho detto.»

Come Noce la lasciò andare Carmy si lasciò cadere lungo la parete, ritrovandosi seduta in terra a fissare il nulla mentre il ragazzo, dato un lieve calcio al pacchetto, riprendeva la propria strada.

 

Trenta chilometri a est di Eldkin, a due passi dal confine che divideva Caldesia da Botera, una vasta recinzione di metallo tappezzata di cartelli e divieti avvolgeva come una gabbia quasi cinque ettari di foresta che si inerpicava lungo le pendici del Monte Isa, la terza vetta della nazione, fermandosi verso nord solo lungo le pendici dell’alto canyon sul fondo del quale scorreva il fiume Malone ed allungandosi, a sud, fino a lambire la piccola strada montana che dalla periferia della città proseguiva in direzione dei villaggi più isolati.

Erano passati anni da quando l’esercito aveva chiuso e recintato quella zona, ma a distanza di tanto tempo nessuno dei residenti sapeva ancora con certezza cosa fosse venuto di così grave al suo interno; si era parlato di una qualche fuga di materiale biologico, come i segnali lasciati a pendere dalla recinzione sembravano confermare, altri invece avevano ipotizzato un incidente relativo all’estrazione del krylium, dati i molti giacimenti sparsi nella zona; quale che fosse la verità, il fitto della vegetazione la nascondeva completamente, e grazie al sofisticato sistema di sorveglianza quello sperduto pezzo di terra, a distanza di tanto tempo, seguitava a risultare un inviolabile santuario.

Vyce sostava immobile dinnanzi al varco nella recinzione, saldamente chiuso, gli occhi persi e il volto cristallizzato in un’espressione smarrita.

Lui sapeva. Sapeva cosa c’era oltre quel punto.

E se avesse voluto, avrebbe potuto accedervi quando voleva, semplicemente esibendo il proprio distintivo alla locale sede dell’Agenzia.

Ma non ci riusciva. Non ci era mai riuscito.

Più volte aveva provato a varcare quel confine, quella soglia non solo fisica ma soprattutto psicologica, che lo separava dal luogo in cui la sua vita era stata stravolta per sempre. E così, di nuovo, non era riuscito a fare altro che restare lì, immobile e in silenzio, ad osservare quel cancello sbarrato nella speranza, o forse nel timore, che i ricordi di quel giorno lontano potessero tornare.

Dentro di sé provava rabbia, verso sé stesso e la sua incapacità, che gli bruciava nel petto fin quasi a farlo impazzire, ma anche un senso di smarrimento e di malinconica impotenza per non essere mai riuscito a trovare la forza per andare fino infondo, fino a quel luogo maledetto che distava non più di qualche centinaio di metri, quasi nel timore che i fantasmi dei suoi compagni fossero ancora lì ansiosi di giudicarlo.

«Capitano?» sentì dire d’un tratto alle sue spalle.

Un giovane poliziotto di provincia, la divisa azzurro chiaro con cappello a cilindro della gendarmeria e i gradi di caporale cuciti sul petto, lo osservava a cavallo di una bici da passeggio ferma sul ciglio della strada.

Vyce si volse quasi con indifferenza, ma i suoi occhi riacquistarono un po’ di vita quando lesse in quel volto i lineamenti di un vecchio amico.

«Phil?».

Lasciata perdere la bici il giovane poliziotto corse a stringere la mano a Vyce, salutandolo con il rispetto ed il calore che solo un forte legame, oltre ad una incrollabile fiducia, potevano generare.

«Capitano. È passato tanto tempo. Sono felice di rivederla.»

«Felice di rivedere anche te, Phil. Sei entrato in polizia, a quanto vedo.»

«Così pare. Sarei anche entrato nell’Agenzia, ma mi hanno scartato alla prova d’esame. Dopo quell’esperienza nella leva volontaria, ho capito che era questa la vita che faceva per me. Anche se da queste parti per la verità non succede mai niente di interessante.»

«Mi fa piacere.»

Notato lo sguardo adombratosi di colpo del suo Capitano, Phil si diede dell’idiota.

«Mi dispiace. Non volevo.»

«Tranquillo. Non fa niente.»

Entrambi gettarono quindi gli occhi sulla recinzione, e allora anche Phil si lasciò per un attimo prendere dallo sconforto, gettando l’aria circostante in un profondo silenzio che solo il frusciare delle foglie mosse dal vento di montagna riusciva a spezzare.

«Capitano, le và di bere qualcosa? Sto giusto tornando in città.»

Il giovane dovette insistere un po’, ma alla fine l’ebbe vinta, così lui e Vyce raggiunsero il vicino Harry’s Bar, a metà strada tra Eldkin e l’area di quarantena, il luogo di ritrovo per eccellenza sia per i poliziotti che per i membri dell’agenzia della zona.

Anche quel posto non era per nulla cambiato negli ultimi anni; la stessa atmosfera casereccia, lo stesso profumo di legno intriso di birra, e la stessa parete cui erano appese le foto, sempre più numerose, degli agenti caduti in servizio.

Si sedettero ad uno dei tavoli che stavano tutto attorno alla zona centrale, dove i soliti noti si erano dati appuntamento come tutte le sere per le tradizionali partite di biliardo, e Phil dopo essersi assentato un momento tornò con due grandi boccali di birra.

«È un peccato che gli altri non siano qui. Sarebbero stati felici di vederla.»

«E degli altri che ne è stato?» domandò con tono di circostanza Vyce alludendo alla combriccola di amici con cui Phil si accompagnava ai tempi della leva

«Brady lavora nel campo dell’elettronica. Produce videogiochi. Se non sbaglio, si è trasferito anche lui a Kyrador, due o tre anni fa.»

«Cercherò di rintracciarlo quando sarò tornato. E Nancy e Gunther, invece?»

«Gunther si è arruolato nell’esercito. Ora è Tenente. Lo aveva fatto anche Nancy, ma qualche tempo fa si è presa un congedo per occuparsi di certe questioni…» e Phil mosse le mani sulla pancia a indicare lo stato interessante.

Vyce spalancò gli occhi, riuscendo persino a trovare la forza di sorridere.

«Davvero!? Aspetta!?»

«Esatto. E per la precisione, aspetta il mio.»

Solo in quel momento il Capitano si accorse che il giovane poliziotto portava l’anello al dito, e per la prima volta da due giorni a quella parte sentì dentro di sé una scintilla di calore, accompagnata da un modo di felicità.

«Quindi, tu e lei…»

«Ebbene sì. Alla fine mi ha fregato.»

«Congratulazioni. Sono felice per voi.»

«Ho cercato di invitarla al nostro matrimonio, ma non sono mai riuscito a rintracciarla. Ci avevano detto che era stato trasferito a Kyrador, ma non essendo io dell’Agenzia si sono sempre rifiutati di darmi informazioni, e tra il lavoro e il resto non mi è mai stato possibile venirla a cercare di persona.»

«Sono stati anni un po’ turbolenti.»

«Adesso cosa fa? È ancora in servizio?»

«Sono un addestratore. Mi occupo di formare le reclute della squadra.»

«Un ruolo che le si addice, se posso dirlo.»

«Qualcuno lo pensa.»

Nonostante tutto Vyce non riusciva a lasciarsi trasportare dalla tranquillità di quella conversazione né dalla gentilezza del suo vecchio allievo, perché a pochi minuti dal suo ingresso nel bar, appena qualcuno lo aveva riconosciuto diffondendo la voce, nell’aria si era iniziata a respirare tutt’altra atmosfera.

Un bicchiere di troppo, vecchi attriti mai sopiti, e due soldati della vicina base militare, Juan e Manuel, che come Phil erano stati volontari durante la leva di formazione, si avvicinarono al tavolo con fare sprezzante assieme ad un loro compagno.

«Hai un bel coraggio a tornare qui, Capitano» disse Manuel ponendo particolare enfasi sull’ultima parola.

«Capitano? Quale Capitano?» domandò provocatorio Juan. «Quale ufficiale o sottufficiale si riempirebbe le bocca con parole come dedizione, sacrificio, collaborazione e fedeltà per poi scappare con la coda tra le gambe lasciando i suoi compagni da soli a morire?»

«Tappati la bocca, Juan.» lo ammonì Phil a denti stretti.

Ma quello non aveva alcuna intenzione di tacere, e anzi rincarò la dose, mentre le musiche, le chiacchiere e le risate si acquietavano sempre di più, e gli sguardi silenziosi di tutti si proiettavano verso quell’unico tavolo.

«Io ho perso mio fratello in quell’inferno. Perché questo pezzo di sterco è qui e lui no? In quanto caposquadra, non avrebbe dovuto anteporre la vita dei suoi uomini alla sua?»

Vyce non controbatteva, ma stringeva i pugni con tutta la sua forza, lo sguardo piantato sul ripiano ligneo e le tempie rigate da un sudore innaturale.

«State passando il limite.»

«Non hai il coraggio di guardarmi, bastardo? Voglio che mi guardi, invece. Voglio che mi guardi e che pensi a Miguel. Che pensi a come deve essersi sentito sapendo di stare per morire e vedendo te che, invece di aiutarlo, te la davi a gambe come un coniglio abbandonandolo in pasto ai mostri.»

«Lascia perdere, Juan. Questo tizio non sa cosa sia il coraggio. E nemmeno l’onore. Perché se ne avesse avuto almeno un po’, a quest’ora si sarebbe già infilato una pallottola in bocca.»

Come una tigre che balza addosso ad un cacciatore, Phil scattò dalla panca quasi capottando il tavolo, e fu solo per rispetto alla divisa che portava se dopo aver steso Manuel con un diretto dei suoi riuscì a non fare lo stesso anche con Juan, limitandosi a prenderlo violentemente per il bavero.

«Un’altra parola e ti faccio ingoiare tutti i denti!»

«Perché gli sei tanto amico? Erano anche tuoi amici!»

«Tu sai che tipo di persona è il Capitano! Ti sembra il tipo capace di scappare e abbandonare i suoi uomini?»

«Quello che penso io non importa! L’ha fatto e basta! Questa è la realtà!».

A quel punto Tom, il padrone del locale, decise d’intervenire, e mazza da baseball alla mano andò a separare i due contendenti.

«Direi che per stasera voi due avete bevuto abbastanza» disse prendendo le difese del suo poliziotto preferito. «Aria.»

Manuel però non sembrava intenzionato a desistere, e l’aria iniziò a riempirsi velocemente di una tensione che, tra la birra e il resto, in qualunque momento poteva tramutarsi in rissa.

Nel silenzio venutosi a creare, il rumore degli scarponi di Vyce che rimbombavano sul legno spinse i più a volgere nuovamente lo sguardo nella sua direzione.

«Grazie della birra» disse, e se ne andò lasciando sul tavolo il boccale mezzo pieno.

 

«Non capisco perché tu te la prenda tanto.» disse Cane sguardo al cielo guardando Carmy che, da che era tornata, se ne stava immobile sulla sedia davanti alle tende, tirate, che guardavano verso la strada, il volto nascosto tra le ginocchia rannicchiate e un’espressione che più avvinta e sconfortata non si poteva.

L’appartamento di fronte alla sede della Chiesa era stato reso un po’ più vivibile, tanto che Lucas era riuscito anche a preparare una cena degna di questo nome, ma se Cane ne aveva fatto piazza pulita in un paio di bocconi la giovane O’Neill non sembrava proprio dell’umore adatto per mangiare.

«In fin dei conti stai solo recitando una parte.»

«È proprio questo il punto. Lui crede che sia quella la vera Carmy. E a me dispiace dover continuare ad agire alle sue spalle.»

«Non vedo dove sia il problema. In fin dei conti, sapevi fin dall’inizio che avresti dovuto raccontare montagne di frottole. Non si chiamano incarichi sotto copertura per niente, dopotutto.»

«Il fatto è che… mentire a uno come Timur è una cosa. Non mi crea problemi. Ma Noce… lui è diverso.

Quel posto non è fatto per lui. Merita di meglio.»

«Posso essere d’accordo sul fatto che sia diverso dagli altri, ma hai dato uno sguardo ai precedenti?

Tribunale dei minorenni a tredici anni, riformatorio a sedici, fermato due volte per tentata rapina, una per porto illegale d’armi. Senza contare le segnalazioni per questioni legate allo spaccio.

Un perfetto gentiluomo.»

«Suo padre era un ubriacone violento, che dopo aver perso il lavoro si è dilapidato i risparmi della madre morta nel gioco d’azzardo e nelle bische.

Ha dovuto tirare avanti come poteva.»

«Senti, non sto dicendo che sia colpa sua. Dico solo che quando si viene al mondo in posti del genere prendere la strada sbagliata è fin troppo facile.

Lui ha fatto la sua scelta.»

«E tutti quei soldi che distribuisce in giro? Per quanto ne so ha aiutato e aiuta tuttora molte persone.»

«Cane non sta dicendo che infondo non sia una brava persona» cercò di smorzare Lucas. «È solo che anche lui ha fatto degli errori. Forse questo è il suo modo di redimersi.»

Carmy non ne era per niente convinta.

In cuor suo voleva credere che Noce fosse veramente diverso, e che avesse scelto di aderire alla Chiesa, caricandosi di tutti i suoi ambigui e pericolosi segreti, solo perché convinto che fosse l’unica soluzione che uno come lui, un povero disperato uscito da uno degli angoli più squallidi di Kyrador, potesse avere.

Ma più di ogni altra cosa, a farle male era il pensiero che, anche estrapolandole dal contesto in cui erano state pronunciate, le parole di Noce non erano del tutto fuori luogo; in fin dei conti, recita a parte, lei aveva davvero rinunciato a qualcosa di rassicurante ed appagante come poteva esserlo una famiglia affezionata in nome di qualcosa che, a conti fatti, era riuscita ad ottenere solo grazie ad una fortunosa serie di eventi favorevoli.

Se non avesse incontrato Julienne, o il procuratore Griffith, o la caposquadra Alexia, difficile immaginare che le cose per lei sarebbero andate così bene, ed il pensiero di cosa sarebbe potuto accaderle se il destino non avesse voluto esserle amico in così tante occasione le faceva tremare le ossa.

«Mi rincresce dirtelo, Carmy» incalzò ancora Cane. «Ma se è l’onestà che volevi, ti sei scelta l’organizzazione sbagliata.»

Carmy saltò sul posto, spalancando gli occhi come fulminata.

«Il nostro lavoro ci porta a mentire di continuo. Dobbiamo indagare il torbido, e tutto quello che possiamo fare è evitare di venirne contaminati a nostra volta.

Non importa se Noce o chi per lui ha avuto su di sé tutte le disgrazie di questo mondo, resta il fatto che è implicato in qualcosa di molto serio. E al momento della verità, sarà chiamato a rispondere delle sue colpe, vita d’inferno pregressa o meno.

Quanto a te, non è la prima volta che menti a qualcuno e sicuramente non sarà l’ultima. Dopo questa indagine ce ne sarà un’altra, e un’altra ancora. Dovrai entrare a contatto con realtà anche peggiori di questa, e le dovrai accettare.

È così che si va avanti. È così che gira il mondo.»

Era troppo.

Da una parte Carmy sapeva che quella era la verità, dall’altra non voleva accettarlo. Non voleva accettare che tutto ciò che aveva sempre creduto di sapere sul mondo in cui viveva non fosse altro che una gigantesca allucinazione.

In altri momenti non avrebbe preso la cosa in modo tanto personale e sconvolgente, ma in quel particolare caso le emozioni e i pensieri che ribollivano dentro di lei erano tali che, trattenendosi a stento dal piangere, raccolse il suo zaino e corse via sbattendo la porta, sotto lo sguardo quasi inebetito di Cane.

«Ma che ho detto?»

«E poi ti sorprendi di essere ancora single?» lo rimproverò Lucas. «Al confronto tuo anche i roghtar hanno un cuore.»

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Eoni dopo il mio ultimo aggiornamento, finalmente mi rifaccio vivo.

Chiedo scusa per questa lunga e indecorosa assenza, ma una storia breve dopo l’altra sono stato talmente preso da altri racconti da aver colpevolmente messo da parte la storia principale.

Chiedo scusa profondendomi in mille inchini!^_^

Comunque, la situazione ormai sta arrivando alle battute conclusive, almeno per quanto riguarda questa prima parte di storia.

Molto presto le indagini sulla Chiesa di Ela prenderanno una svolta inaspettata, e a quel punto entreremo nella seconda parte della narrazione, più breve ma anche più adrenalinica rispetto alla prima, che da sola rappresenta probabilmente quasi metà dell’intera storia.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 30
*** 28 ***


28

 

 

Fittzwater si sentiva soddisfatto e pieno di sé come non ricordava di essere mai stato.

In quanto capo dell’Anticrimine di Kyrador lui era stato uno dei più accesi sostenitori di quel Progetto Vormund, e adesso non vedeva l’ora di mostrarne i risultati nella cerimonia di apertura della Trentesima Esposizione Internazionale della Tecnologia, dinnanzi alla grande platea di autorità, giornalisti e semplici cittadini accorsi per l’occasione ai piedi del palco al centro del padiglione fieristico a due passi da Luminous Park.

Il Capo della Polizia gli aveva persino concesso di fare gli onori di casa, un privilegio che Fittzwater era determinato più che mai a gustarsi pienamente, se non altro per staccare un po’ la spina dalle questioni che ultimamente lo tormentavano ogni giorno.

Unica nota stonata in quella giornata che si preannunciava grandiosa, il non aver potuto far sfilare quei nuovi, piccoli gioielli nella parata militare per la Festa della Fondazione di qualche settimana prima, come inizialmente programmato: tutta colpa di un difetto di realizzazione che aveva richiesto una revisione dei prototipi.

«A nome del corpo di polizia cittadino, vi ringrazio per essere accorsi così numerosi» disse aprendo la presentazione. «Abitanti di Kyrador. Voi tutti sicuramente sapete che la nostra città, nonostante tutto, soffre di molti problemi.

La criminalità e l’illegalità, dalle periferie, ultimamente si sono allargate anche ai distretti ritenuti fino ad ora più sicuri, e il numero crescente di incidenti magici delle ultime settimane rappresenta indubbiamente un ulteriore ostacolo alla vostra comunità.

Ma Kyrador, come qualunque altra città del nostro Paese, deve essere sicura e protetta. D’altra parte, però, con gli effettivi in numero insufficiente per garantire un’adeguata protezione non è sempre facile essere ovunque e dove serve, senza contare che alle volte l’intervento stesso della polizia non risulta sufficiente per arginare una eventuale minaccia.

Per questo, negli ultimi anni, il corpo di polizia di Kyrador, coadiuvato dall’Università Nazionale e le Forze Armate, ha dato vita ad un innovativo progetto volto a creare nuovi e più efficaci strumenti di controllo e prevenzione.

E oggi, siamo qui per mostravene i risultati.»

Detto questo Fittzwater invitò tutti a guardare alle proprie spalle, e dall’ampia strada che dall’ingresso conduceva fino al centro del piazzale giunsero due motoblindo nere dall’apparenza imponente, quasi minacciosa, con l’abitacolo interamente rivestito e una sorta di alettoni verticali posti a protezione delle gambe dei piloti, che sbucavano da apposite fessure lungo le fiancate.

«Permettetemi di presentarvi il futuro delle operazioni di polizia.»

Sotto gli sguardi dei presenti, e avanzando in parallelo, i due mezzi salirono sul palco, cosicché tutti potessero vederli meglio; a prima vista non sembravano molto dissimili dalle moto da pattuglia già in dotazione alla polizia cittadina, fatto salvo il colore diverso dal solito bianco sporco e la linea un po’ più grezza, quasi spigolosa, inoltre a guardarle non presentavano alcun tipo di arma o equipaggiamento da ingaggio.

Forse leggendo questi pensieri nelle espressioni degli astanti Fittzwater, invece di preoccuparsi, sembrò anzi farsi ancor più sicuro di sé, e come schioccò le dita dinnanzi agli occhi di tutti quei due veicoli dall’aria a prima vista così inoffensiva cominciarono a trasformarsi come giocattoli.

Le sospensioni e i pneumatici diventarono gambe e cingoli, gli alettoni spalliere, e la cabina si modellò fino ad assumere le parvenze di un busto umano, liberando sopra di sé una protuberanza simile ad una testa triangolare, che altro non era se non la sommità del muso anteriore della moto riadattato per fungere da telecamera di sorveglianza, sì da consentire al pilota all’interno di avere una completa visione dell’ambiente circostante pur restando completamente avvolto in un guscio d’acciaio.

In ultimo, da sotto i due alettoni spuntarono altrettante protuberanze articolabili, terminanti rispettivamente in una mitragliatrice binata da ventotto millimetri e in una grossa lama ricurva orientabile in ogni direzione.

Di fronte a quello spettacolo, i mugugni interlocutori si tramutarono ben presto in esclamazioni di stupore, accompagnate dagli ininterrotti flash dei fotografi.

«Signore e signori. Vi presento il Role Keeper Cinquantatre Modello Due. Altrimenti detto, RK53-02, o Vormund02.

Sedici ore di autonomia, struttura in titanio rinforzato e lega di krylium. Può ingaggiare qualunque avversario umano e non grazie alle sue potenti armi, ma è programmato e pensato anche per svolgere funzioni di pubblica sicurezza, pronto intervento e primo soccorso.

L’alta adattabilità e le meccaniche migliorate gli permettono di passare dalla modalità di guida a quella d’intervento in soli dieci secondi.

In particolare, il Vormund02 è stato pensato per funzioni di pattuglia nelle zone della città considerate maggiormente sensibili.

Oltre a questi due modelli, altri quindici sono già quasi completati, e saranno consegnati alle forze di polizia dei principali distretti entro due settimane.

Questo naturalmente è solo l’inizio. Presto, tutte le principali città del Paese potranno dotarsi di questa tecnologia, e abbiamo già ricevuto manifestazioni d’interessamento da parte di altre nazioni interessate ad ottenere i progetti di costruzione.

Il Vormund02 sarà solo primo della sua categoria. Partendo dalla medesima idea, le forze di polizia e l’esercito di Caldesia stanno già lavorando ad altri due modelli, lo 06 e lo 09, quest’ultimo destinato a scopi prettamente militari. Confido che potremo mostrarvi entrambi entro la fine di quest’anno» quindi, concluse. «Il tempo in cui la polizia era inerme di fronte a minacce di categoria elevata è ufficialmente finito. Grazie a questa nuova tecnologia, il cittadino saprà di avere sempre una valida difesa pronta ad intervenire in qualunque momento, celermente ed efficacemente.»

Gli applausi arrivarono a pioggia, e Fittzwater se li godette come la più armoniosa delle poesie.

Per il lavoro e le preoccupazioni c’era tempo: ora era il momento del trionfo.

 

Percival e gli altri seguitavano a guardare quella strana sostanza violacea racchiusa nel contenitore stagno con aria enigmatica, immersi ognuno nei propri pensieri.

Gli attentati condotti a Kyrador mediante il sabotaggio dei vessel e l’immissione sul mercato di un sempre maggior quantitativo di lilith avevano effettivamente prodotto dei risultati, ma si era ancora ben lontani dal provocare quella sollevazione popolare che il gruppo auspicava.

L’unico a gioire della situazione era Tristano, perché in questo modo gli era dato far notare ogni santo giorno come quel piano, spacciato per rivoluzionario ma i cui frutti stentavano ad arrivare, fosse stato tutto un’idea di Owain, il quale invece seguitava nonostante tutto a conservare quel suo atteggiamento calmo e composto, quasi scostante.

Valerian aveva parlato della questione con i vertici del progetto, e questi, pur dicendosi comunque soddisfatti della piega che gli eventi andavano prendendo, avevano garantito al gruppo l’arrivo quanto prima di nuovi ritrovati con i quali portare avanti la propria strategia della tensione.

Qualche giorno prima, finalmente, era arrivata dai laboratori la notizia che il ritrovato in questione era finalmente pronto, e Valerian era andato velocemente a recuperarlo al solito punto di scambio, trovando al luogo dell’incontro solo quel contenitore e una scheda di memoria contenente tutte le informazioni necessarie su come e quando farne uso.

«Colore a parte, non mi sembra molto diversa dalla normale lilith» osservò Gareth dando nel contempo un’occhiata ai dati chimici della sostanza

«Le apparenze ingannano, amico mio. Il livello di tossicità di questo nuovo composto è almeno trenta volte quello della lilith abituale. Chiunque entri in contatto con questa roba, corre il serio rischio di andare incontro ad una mutazione irreversibile.»

«Subappalteremo la produzione anche di questa?» chiese Percival

«No. È troppo rischioso. Inoltre Ela non ha i mezzi per produrre questo genere di cosa, né abbiamo alcun interesse a fornirglieli. La produrranno loro, e ce la faranno avere di volta in volta man mano che ne avremo bisogno.»

«E come faremo a far circolare abbastanza di questa roba da provocare incidenti seri?» domandò Lancillotto. «Mi risulta che anche loro siano alquanto oberati di lavoro di questi tempi.»

«Sembra che ne abbiano da parte una certa quantità. A quanto ho capito, questa roba è venuta fuori nel corso degli studi inerenti a Ragnarock. Non sapevano cosa farsene e l’hanno messa da parte, ma non l’hanno mai buttata.

Avranno sicuramente pensato potesse servire al nostro scopo.»

«Spiegati meglio.»

«Non ci arrivi?» intervenne Owain. «Se questa nuova lilith è tossica come dicono, allora basterebbe farne circolare anche solo una dose per essere sicuri di veder comparire un’EDA.»

«Certo che con tutte le cavie che gli abbiamo procurato, avrebbero anche potuto cavarne fuori qualcosa di meglio.»

«Un momento, mi pare che qua si stia uscendo dal seminato» irruppe Gareth. «Se è davvero così pericolosa e letale, che senso ha farla circolare?

Noi vogliamo cambiare questa società, non distruggerla. Non possiamo far comparire centinaia di EDA in giro per tutta la nazione.»

A quelle parole Valerian tacque, chinando cupamente la testa.

«Ma certo» disse Owain con un sorriso. «Attacchi suicidi.»

Dovettero passare diversi secondi perché il giovane capo di Avalon riuscisse a trovare la forza per replicare, e nel frattempo tutti o quasi si erano fatti pallidi come la morte.

«Secondo loro è un metodo efficace e di sicuro successo. Oltre alla droga ci hanno passato anche le informazioni necessarie per costruire degli appositi apparecchi di inoculazione e manomettere i vessel come stiamo già facendo.»

«E tu hai accettato!?» esclamò Percival

«In teoria è fattibile» commentò Gareth dopo aver dato una rapida occhiata ai dati in questione. «Sabotare i vessel in questo modo non dovrebbe essere troppo complicato, e si può fare con poche nozioni di ingegneria.»

Tristano distolse un momento gli occhi dal tavolo, muovendo le labbra in un’espressione sdegnata.

«Ora ci facciamo dare direttive da quei bastardi? Credevo di essermi unito a questo gruppo per combattere il sistema, non per esserci asservito.»

«Lo so che non è una cosa facile da accettare» rispose Valerian quasi offeso. «Anche per me è difficile. Però, vorrei ricordare a tutti che senza di loro questa organizzazione non sarebbe mai venuta alla luce.

I loro metodi possono essere altamente discutibili, ma abbiamo accettato di comune accordo di fare questo passo, e posso garantirvi che si battono per cambiare questo mondo tanto quanto noi.»

«Forse» sibilò Owain. «Ma bisogna vedere se la nostra, la tua idea di cambiamento coincide con la loro.»

Di nuovo seguirono interminabili attimi di silenzio, e dalle espressioni di molti fu chiaro a Valerian che Owain non era il solo a pensarla in quei termini; anche lui, dopotutto, si era fatto più di una volta qualche domanda sulle reali intenzioni della grande confraternita di cui era entrato a fare parte, quindi in qualche modo riusciva a capire le rimostranze dei suoi uomini.

«La discussione è chiusa» si risolse infine a dire, calmo ma con fermezza. «Fino a prova contraria, il capo qui sono ancora io.

Abbiamo procurato disperati e tossicodipendenti in tutta la nazione ben sapendo a cosa andati incontro. Usarli a nostra volta non dovrebbe essere meno immorale. Per quanto riguarda i sabotaggi, non saranno certamente i primi che avremo messo in atto.

Ricordate che tutto ciò ha sempre e comunque un fine più grande, e per quanto i popoli tutti possano maledirci da qui all’eternità per le nostre azioni, la storia e il mondo riconosceranno in futuro la nobiltà e il valore del nostro operato.»

L’orazione ebbe il risultato sperato; con il carisma Valerian aveva conquistato il cuore dei suoi uomini, e con esso avrebbe continuato a guadagnarsi la loro fiducia.

«In ogni caso, prima di agire condurremo una prova sul campo.

Tra due giorni dovremo incontrare il solito ragazzino inviato da Timur per una nuova compravendita di cavie. In quell’occasione siamo già d’accordo che gli consegneremo sia la droga che un prototipo di dispositivo di occultamento.

Se l’esperimento che Timur sta organizzando dovesse avere successo, inizieremo ad agire in questo senso.

È tutto.»

 

Ogni prima domenica dell’ottavo mese, quale atto conclusivo della settimana di celebrazioni per la nazionale Festa della Fondazione, si teneva nella grande arena di Otisa una giostra cavalleresca cui partecipavano rappresentanti di ogni città dello Stato.

I concorrenti si sfidavano in singolar tenzone a disarcionarsi da cavallo, o ad accumulare punti colpendo le varie parti dell’armatura nemica con la propria lancia, al fine di aggiudicarsi la corona d’oro della vittoria e la possibilità, per il trionfatore del torneo, di vedere la propria città nominata per un anno capitale simbolica di Amaltea.

Sia il presidente che il Santo Padre presenziavano all’evento, ognuno accompagnato dal suo ricco seguito, coi rispettivi palchi posti simbolicamente l’uno di fronte all’altro all’altezza della linea di mezzana in cui avveniva il contatto fisico tra i due contendenti.

Era una splendida giornata di sole, una delle più calde dell’anno, e l’arena era piena in ogni ordine di posto.

I primi avversari avevano già incrociato le lance, e cresceva l’attesa per l’imminente discesa in campo della città attuale campione in carica, Rubinheim, chiamata a difendere il suo titolo di capitale simboleggiato, oltre che dalla corona cucita sul gonfalone, anche dalla piuma bianchissima che addobbava l’elmo del suo cavaliere.

In quanto originario di Rubinheim papa Visconti non poteva non fare segretamente il tifo per il rappresentante della sua città, ma da bravo pontefice non faceva trasparire emozioni limitandosi a seguire l’incedere del torneo con la sua fidata attendente seduta accanto a lui.

«Notevole» commentò ad un certo punto, quando uno dei contendenti riuscì a disarcionare l’avversario al primo colpo. «Sembra che quest’anno sarà un torneo combattuto.»

«Credo sia così, Santità.»

Nell’ultimo periodo, da quel famoso colloquio tra sua Santità e il presidente Fujitaka, anche Lydia appariva più pensierosa, quasi preoccupata; del resto, gli eventi che andavano delineandosi la toccavano doppiamente, sia come cardinale che come caldesiana.

«Sei preoccupata?»

La giovane donna non rispose, almeno non con le parole, guadagnandosi un’occhiata interlocutoria da parte del pontefice, il quale subito dopo rivolse un cenno di saluto al Presidente Heinz che contraccambiò sorridente.

«È ironico, se ci pensi» disse ancora. «In fin dei conti, da che è stata fondata, questa nazione è sempre stata retta da un presidente democraticamente eletto, come quasi ogni altro Paese del pianeta.

Eppure il tuo vecchio amico e compagno Fujitaka, invece che andare dal Presidente Heinz, è venuto da me. Ma io sono un semplice servo del nostro Grande Signore.»

Lydia chinò la testa strusciandosi le mani, chiaramente imbarazzata.

«Non c’è bisogno che tu dica niente. Lo sappiamo tutti e due molto bene, in fin dei conti. La verità è che in quanto alti rappresentanti della Santa Croce, agli occhi di chi riesce a guardare oltre l’aspetto della mera fede siamo anzitutto dei politici, prima ancora che degli uomini di chiesa.»

«Vostra Santità…» disse Lydia guardandolo sorpresa

«Dopotutto, era inevitabile. All’atto della sua fondazione, la nostra Chiesa non ha fatto altro che raccogliere attorno a sé tutti coloro che avversavano la nostra società e l’ordine mondiale in cui viviamo. E con il passare del tempo i nostri prelati hanno finito per comportarsi sempre meno da chierici e sempre più da uomini di stato.

Ora, è tempo di raccogliere ciò che i nostri antenati e noi stessi abbiamo seminato. Ci siamo voluti atteggiare a politici, ed è giunto il tempo di comportarci come tali.»

«Quindi, volete davvero aiutare il Presidente Fujitaka nel suo progetto?»

Il Santo Padre si sfiorò con un dito la punta del naso.

«Non sono del parere che tutto ciò servirà realmente a realizzare il sogno che il Presidente ha nel cuore. Tanto più che i problemi che tanto lo affliggono sono anzitutto problemi di Caldesia, contro i quali noi possiamo fare ben poco.

D’altro canto però, come ho detto anche a lui, la Chiesa ha le sue responsabilità, siano esse etiche o politiche. E se il nostro operato servirà a dare un volto più umano a questo mondo, allora ognuno deve essere pronto a fare la sua parte.»

L’espressione di complicità che i due si scambiarono fu più eloquente di mille altri discorsi.

«Come desiderate, Santità. Inizierò subito ad organizzare dei nuovi viaggi pastorali.»

«Certo che i miei antenati mi hanno lasciato un gran bel peso sulle spalle.» commentò il Santo Padre prima di distrarsi, piacevolmente, con lo spettacolo offerto dal cavaliere di Rubinheim che concludeva con il botto la propria gara d’apertura disarcionando l’avversario al secondo assalto.

 

La prima cosa che Alexia sentì svegliandosi fu un tremendo mal di schiena, seguito subito dopo però da un delicato profumo di caffè.

«Buongiorno, principessa» disse Cane sovrastandola come un colosso.

Come una bambina tirata giù dal letto anzitempo il capitano si strofinò gli occhi, cercando di fare mente locale. Solo in un secondo momento si ricordò di non essere mai tornata a casa, di essere ancora nel suo ufficio; quindi, immaginando quale dovesse essere il suo aspetto, rossa d’imbarazzo si affrettò a darsi una ripassata.

«Ma che ore sono?» domandò cercando di sciogliersi i capelli annodati

«Sono quasi le sette» rispose Cane, e allungata una mano le offrì uno dei bicchieri che aveva con sé, oltre ad un sacchettino di carta sbucato fuori da una delle sue tasche che profumava di zucchero. «Hai fatto le nottate un’altra volta?»

«Avevo dei rapporti da finire di scrivere. Ma tu che ci fai qui?»

«Vengo ora dalla Chiesa. Avevo il turno di notte, ricordi? Volevo accompagnarti in ufficio e poi andare a casa, ma quel tuo amico mellifluo mi ha detto che tu a casa non ci eri proprio tornata. Questi dolcetti ti piacciono proprio, vero?»

«Ti risulta così difficile chiamarlo per nome? Lui si chiama Brando. E questi» disse Alexia prendendo fuori dal sacchetto un biscottino bianco di zucchero a velo, «Si chiamano Etoile.»

Più per cortesia che per altro gliene offrì uno, ma la risposta, oltre che prevedibile, fu secca.

«No grazie. Non vado matto per i dolci.»

Cane nutriva una strana avversione verso Brando, un vecchio amico di Alexia che da alcuni mesi, da quando si era trasferito a Kyrador per inseguire come tanti altri un sogno di carriera, era andato a vivere da lei, e per quanto ci provasse la giovane non riusciva a comprenderne la ragione.

Della squadra attuale Cane era l’unico a poter dire di aver lavorato con Alexia fin dal principio; come Carmy, anche Lucas era arrivato in un secondo momento, e forse era anche per questo che il rapporto di complicità tra loro due era così ben collaudato.

Inoltre, in qualcosa, sentivano di essere un po’ simili, se non altro per la spiccata attinenza a non farsi calpestare da nessuno, che era valsa a Cane la considerazione del suo capo e ad Alexia il rispetto dei suoi subalterni.

«C’era un bel po’ di movimento a casa tua, comunque. Ti stai preparando a traslocare?»

«Non io. Brando. Ora che sta per avviare l’attività, ha deciso di trasferirsi più vicino al suo negozio.»

«E… ti dispiace?»

La donna guardò in alto, lasciandosi andare un attimo sullo schienale.

«In qualche modo, mi ero abituata a lui. Lo conosco fin da quando eravamo piccoli, e in qualche modo ci sono affezionata.

Altrimenti, non mi spiego come mai su due piedi io abbia deciso di farlo vivere da me quando si è trasferito.»

«Quindi lui… se ne va.»

«E spero che accada quanto prima. Mi ha messo sottosopra l’appartamento. L’altro giorno per poco non faceva portare via Micio dalla ditta di traslochi.»

«Il vostro gatto!?»

«Lo aveva chiuso per sbaglio lo scatolone dove stava dormendo, ti rendi conto? Sarà pure un bravo pasticcere, ma alle volte ha davvero la testa tra le nuvole.

Forse dovrei farmi pagare una buonuscita per avergli fatto da babysitter.»

«Lui potrebbe dire lo stesso, suppongo.»

Cane non sapeva perché, ma la notizia sembrò far tintinnare dentro di lui le piacevoli corde del sollievo. Era vero quando Alexia diceva che quel tipo non gli era mai andato completamente a genio, anche se, alla luce dei fatti, non sapeva spiegarsene la ragione.

Alexia si stiracchiò di nuovo, incapace di scacciare il torpore alle ossa.

«Dovresti avere un po’ più cura di te stessa. Ormai è parecchio tempo che dormi poco.»

«Vale lo stesso anche per voi» rispose lei dandosi una informale stiracchiata. «Questa indagine ci sta sfibrando tutti.»

«A questo proposito, sono preoccupato per Carmy.»

«Sì, Lucas mi ha detto tutto. Le ho parlato. Per ora i nervi reggono, ma è pur sempre una ragazzina. Abbiamo concordato con il capo che andremo avanti al massimo altre due settimane. Se per allora non accadrà nulla, cercheremo di pensare ad un’altra soluzione.»

«Non credo che sarà necessario» esclamò, non senza soddisfazione, il capo Owens in persona, palesandosi all’ingresso del box e facendo saltare entrambi per lo spavento. «Venite, presto. A quanto pare la polizia sa ancora fare il suo lavoro.»

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

L’avevo promesso che sarei stato più veloce delle ultime volte.

Ecco, ora la cosa sta decisamente procedendo in discesa. Ancora poco, e questa prima parte sarà finita.

Come, direte voi? Lo scoprirete molto presto, garantito!

Ma preparatevi ad una serie di situazioni drammatiche e a violenti ribaltamenti di fronte, oltre che ad una (fugace, per ora) adunanza.

Grazie a tutti coloro che leggono e/o recensiscono.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 31
*** 29 ***


29

 

 

«L’abbiamo trovato» esordì, ebbro di gioia, Fittzwater prima ancora che Lucas potesse chiudere la porta dell’ufficio.

Nel frattempo era arrivata anche Carmy, per consegnare il suo solito rapporto settimanale prima di raggiungere nuovamente il tempio all’Ottavo Distretto, e anche lei venne convocata.

«Avete trovato il laboratorio!?» disse Alexia.

Gongolando come un bambino il Comandante aprì una nuova mappa tridimensionale, rappresentante stavolta l’intricata rete di ferrovie e metropolitane che correva al di sotto della città; l’attenzione di tutti cadde su di un piccolo riquadro che lampeggiava di rosso.

«Non l’avremmo localizzato neanche a cercarlo cent’anni.

Crediamo si tratti di un vecchio edificio risalente all’epoca della prima colonizzazione, successivamente interrato durante i numerosi lavori per l’edificazione della città.

Vi si accede da un ingresso di servizio lungo la galleria della Linea Bartley

«Come ci siete arrivati?» domandò Owens

«Grazie al mio uomo. Ora che coordina gli spacciatori ha avuto accesso a varie informazioni e strutture riservate dell’organizzazione, e così è stato messo al corrente della posizione del laboratorio.»

«Lo avete visto?» chiese Alexia

«Non all’interno, ma siamo comunque sicuri di aver fatto centro. Combinando la posizione dell’edificio con la distribuzione e circolazione della droga, appare evidente come esso costituisca il principale nodo di scambio fra tutte le entità coinvolte» quindi Fittzwater si girò verso Carmy, che di contro sembrava stranamente assente, quasi rattristata. «Persino quel vostro Noce fa continuamente avanti e indietro da qui, a sentire il mio uomo.

Mi secca ammetterlo, ma avevate ragione a dubitare di quel tipo. E visto che sono abbastanza maturo da ammettere quando sbaglio, riconosco di avervi giudicato male.»

«Potrebbe piovere.» ironizzò Owens

Se quello che diceva Fittzwater era vero al momento della verità, che sicuramente sarebbe arrivato di lì a breve, le cose per Noce si sarebbero messe veramente male; tra ricettazione, spaccio di droga, e solo il cielo sapeva cos’altro, non se la sarebbe cavata con qualche mese di carcere, e per quanto si sforzasse di pensare che la legge, malgrado tutto, era quella, una parte di lei non riusciva ad accettarlo.

«Allora, direi che a questo punto possiamo considerare conclusa questa indagine» osservò Owens. «In quel laboratorio ci saranno sicuramente prove sufficienti che Timur e i suoi sono coinvolti nella produzione di Lilith oltre che nel suo traffico, e abbiamo raccolto abbastanza materiale per sbattere lui e i suoi lacchè al fresco per un bel po’.

Chissà che in questo modo non riesca a fermare la circolazione di questa droga maledetta almeno per un po’.»

A quell’affermazione Fittzwater si grattò un momento il naso guardando a terra, un gesto che ad Owens non piacque per niente.

«E adesso che altro c’è?»

«In realtà il laboratorio lo abbiamo trovato già da qualche giorno, e l’ho fatto tenere d’occhio. Stando al rapporto del mio famiglio, il volume di droga che esce da lì è considerevole, ma non abbastanza da compensare l’immenso quantitativo di lilith che gira attualmente in città.»

La spiegazione era fin troppo semplice.

«Avevate detto che c’era un solo laboratorio» disse Cane quasi a protestare.

«Ed è così. Ma potrebbero essercene altri fuori città, o nella periferia più lontana. Quello schifoso di Timur ha acquistato edifici a destra e a manca negli ultimi mesi. Forse ce ne è sfuggito qualcuno, o forse usa alcuni di essi come copertura per produrre la droga.»

«Che siano uno o cento, non ha importanza» volle tagliare corto Alexia. «Ci bastava trovarne uno. Una volta decapitata quella cellula di Ela i laboratori non avranno più un capo, e anche se riuscissero a sopravvivere impiegheranno mesi a riorganizzarsi. Per allora, avremo già adottato tutte le misure necessarie per localizzarli ed eliminarli appena tenteranno di riprendere a far circolare la droga.»

«E se quei laboratori fossero gestiti da figure esterne alla chiesa che cosa conterete di fare? Ne avremmo ricavato solo di metterli in allarme, e la circolazione della lilith subirà solo una piccola battuta di arresto.

Io voglio spazzare quella droga via dalla mia città e dalla mia nazione. E scommetto anche voi.»

I tre agenti e il Direttore Owens chinarono il capo dubbiosi.

La teoria di Fittzwater non era poi così campata in aria, e a ben rifletterci agendo troppo precipitosamente c’era il rischio di compromettere un’indagine che, nonostante lo scetticismo iniziale, stava rivelando risvolti sempre più interessanti.

«E in ogni caso,» disse ancora Fittzwater affondando il colpo «Questa è fondamentalmente un’operazione di polizia. Anche se è coinvolto il traffico di lilith, fino a quando non capita a qualcosa di serio la giurisdizione ricade sotto l’egida dell’Antidroga e dell’Anticrimine, ed entrambi sono d’accordo nel proseguire l’indagine» quindi intercettò Carmy con lo sguardo. «Se la MAB vuole chiamarsi fuori però, per noi non c’è problema.»

La ragazza chinò un momento la testa, sembrava sul punto di gettare la spugna, ma una luce nei suoi occhi convinse Alexia che il Soldato Scelto O’Neill, nonostante tutto, non era ancora determinata a gettare la spugna.

«Io posso farlo!» disse veemente. «Datemi ancora un po’ di tempo, e potrei scoprire qualcosa di più.

Per me non è un problema.»

«Ne è sicura, Agente?» domandò Owens dopo un attimo di silenziosa incredulità

«Sì, Signore. Sicurissima. Mi lasci continuare con il mio incarico. Potremmo davvero riuscire a eliminare la lilith da questa città, e forse da tutta la nazione.

Dobbiamo fare un tentativo.»

Alexia e il Direttore si consultarono con lo sguardo, quindi Owens abbassò gli occhi asciugandosi la fronte già sudaticcia di primo mattino.

«D’accordo, vediamo fin dove ci porta. Per ora andiamo avanti così. Ma se la situazione dovesse evolversi, o peggio ancora degenerare, prenderemo provvedimenti.»

Carmy si sentì sollevata e rasserenata come se da quella decisione fosse dipesa tutta la sua vita, ma mentre lasciava per prima l’ufficio Alexia la prese con sé.

«Io ammiro la tua determinazione. Ma non basterà questo a fermare la lilith

«Ma possiamo rallentarne la diffusione. Se una sola persona riuscirà a non andare incontro a quella sorte orrenda, non sarà stato un lavoro inutile.»

 

Il ventesimo giorno dell’ottavo mese ricorreva una data importante nella storia della onorata Famiglia Stirling.

Eleonor Stirling, come ogni anno, si recò di prima mattina al cimitero monumentale di Grey Point, che dall’alto della sua imponente scogliera a picco sul mare guardava direttamente verso Kyrador, verso quel mondo che molti di coloro che riposavano lì avevano contribuito a proteggere e sorvegliare.

Molte lapidi, per l’occasione, erano state ammantate con le bandiere di varie nazioni, con quella di Caldesia a svettare sulle altre, a ricordo di coloro che nei secoli avevano dato le loro vite per la salvaguardia e la grandezza non solo delle rispettive nazioni, ma del mondo intero in generale.

Vi era una lapide, però, che di bandiere a decorarla ne aveva ben due, i Tre Gigli di Caldesia e la Croce Dorata coi Quattro Unicorni di Amaltea; e fu davanti ad essa che la donna, dopo aver notato quasi con sorpresa una rosa deposta con cura sul blocco di marmo levigato, si fermò, ricevendo il saluto militare dai due soldati, un corazziere amalteco e una guardia d’onore caldesiana, che sorvegliavano il monumento, uno dei pochi rinchiusi entro un cancelletto metallico e separato da tutti gli altri.

Un simile onore non era alla portata di tutti, e il ricevere allo stesso tempo gli onori da Caldesia e da Amaltea era un evento più unico che raro, ma il Comandante di Vascello Arlen Stirling non era mai stato una persona come le altre.

In verità, sotto quella pietra, non riposavano realmente le sue spoglie mortali, poiché, ed Eleonor lo sapeva bene, poiché dell’uomo che era stato suo marito non restava neanche la cenere.

Ricordava ancora quel giorno, quella mattina tanti anni prima, quando lo aveva visto decollare trionfante a bordo della prima nave ad energia alternata della storia dell’umanità, capace di raggiungere i confini del sistema solare in meno di un mese, solo per seguire la sorte di molti altri pionieri prima di lui, uccisi dalle loro stesse creazioni.

Il motore a energia alternata sfruttava un sistema di approvvigionamento derivato dall’utilizzo in simultanea di krylium allo stato solido e liquido; una composizione altamente instabile, che neppure le innumerevoli precauzioni e protezioni poste a sua difesa erano state in grado di contenere.

Quando il motore era entrato in fase critica, il Comandante Stirling aveva fatto appena in tempo a spingere tutti i suoi uomini alle scialuppe di salvataggio per poi guidare, da solo, la nave il più lontano possibile da Celestis, impedendo così al campo magico generatosi dall’esplosione di devastare i sistemi energetici sulla superficie del pianeta spegnendoli completamente.

Per questo suo sacrificio era stato onorato in tutti i modi possibili, ma tutte le medaglie e i titoli onorifici non avrebbero mai restituito alla signora Stirling l’uomo che aveva amato fin da adolescente.

Di quell’amore spezzato in modo così tragico restavano solo tanti ricordi, alcune foto, e una figlia; una figlia che, fin dal giorno in cui aveva deciso di seguire le orme del padre ed entrare nell’Agenzia, non aveva smesso un momento di farla preoccupare.

Negli ultimi tempi si erano sentite poco, soprattutto da quando la Dottoressa Stirling aveva iniziato il suo lungo peregrinare per le cattedre di Storia della Terra più importanti del mondo, ma in verità i rapporti tra di loro non erano mai stati troppo espansivi, soprattutto dalla morte di Arlen.

Eleonor posò sul basamento la rosa blu che aveva con sé, coprendo parzialmente lo stemma del Cavaliere della Santa Croce che campeggiava sopra il nome in lettere placcate, e avvertendo il cancelletto cigolare alle sua spalle si volse lentamente riconoscendo il volto di un vecchio amico.

«Grazie di essere venuto.»

«Non sarei potuto mancare.»

Owens depose a propria volta una rosa sulla tomba, quindi entrambi stettero per lungo tempo in silenzio, gli occhi fissi sulla lapide e la mente racchiusa in preghiera.

«Come sta Alexia?»

«Abbastanza bene. È sempre stata molto ligia al dovere, ma da quando è caposquadra tenerla lontana dal suo lavoro è quasi impossibile» quindi il Direttore sorrise. «Assomiglia proprio a sua madre.»

«A volte ne dubito. Io alla sua età non avevo la sua testardaggine. Sarà perché ero già sposata, con una figlia piccola di cui dovermi occupare ed un marito che non c’era mai.»

Rievocando il passato, Owens non riuscì a non ripensare anche alla sua, di giovinezza; e allora, lo stesso pensiero che da anni gli ronzava per la testa tornò a farsi vivo.

«A volte mi domando cosa sarebbe successo se fossi stato lì. Avrei potuto completare l’accademia navale e diventare anche io ufficiale. Così, forse…»

Ma era un’idea che lo stesso Owens, malgrado tutto, sapeva essere inconcepibile; non si era mai sentito adeguato né abbastanza preparato per quel tipo di carriera, e forse non era solo questo ad averlo spinto invece per scegliere la carriera del poliziotto.

«Hai fatto una scelta di convenienza» gli lesse nella mente Eleonor. «Un lavoro che ti desse garanzie e possibilità di carriera allo stesso tempo, piuttosto di uno che ti avrebbe tenuto per molto tempo lontano dalla tua famiglia.»

L’uomo abbassò di nuovo gli occhi e restò in silenzio.

«È tardi, ora devo andare. Ho una conferenza alle undici all’auditorium dell’università nazionale.»

Eleonor quindi se ne andò, lasciando Owens da solo con i suoi pensieri ed i suoi dubbi.

«Eh, amico mio» sospirò. «Mi hai lasciato davvero una figlia complicata da gestire.»

 

Carmy sapeva di non avere più tempo.

Benché Alexia e gli altri avessero deciso di darle fiducia, ma per quanto Fittzwater potesse bluffare era implicito che il caso, sfruttando i giusti cavilli, poteva facilmente passare nelle mani della MAB in qualunque momento, e la ragazza aveva l’impressione che Owens non fosse disposto ad aspettare troppo tempo.

Forse, in cuor suo, cercava di avere un’ultima occasione con Noce.

Il poliziotto che era in lei le diceva che, redento o meno, quel giovane avrebbe dovuto rendere conto del proprio operato, di cui il coinvolgimento nella questione della Lilith rischiava di essere solo una parte, ma d’altro canto ciò che lui le aveva detto l’ultima volta che si erano visti aveva rafforzato dentro di lei la convinzione che non fosse quello il suo posto.

Purtroppo, da quel giorno, Noce sembrava essersi dissolto; i pochi sani di mente presenti al tempio avevano parlato dei soliti viaggi che il giovane faceva spesso fuori città, ma Carmy aveva come l’impressione che la stesse evitando.

Cercando di non pensarci la ragazza si buttò anima e corpo nell’indagine; tese l’orecchio, scorse documenti, esponendosi talvolta anche più del necessario, e ben presto sia lei che i suoi compagni dovettero riconoscere che Fittzwater aveva ragione: in base ai resoconti e agli spostamenti dei colleghi, infatti, divenne ben presto evidente che dovevano esserci almeno altri due laboratori, da qualche parte nelle vicinanze di Kyrador.

Quello scoperto nel sottosuolo della città era probabilmente il più grande, nonché quello da dove partiva quasi tutta la droga che veniva spacciata nei distretti poveri, ma forse nel tentativo di confondere le acque Timur si era assicurato di rifornire le zone ricche della città attraverso altri canali, più nascosti e quindi maggiormente difficili da localizzare.

Nel mentre, però, Carmy non scordava di continuare ad apparire quello che tutti là dentro la credevano, ovvero un’umile e devota adepta totalmente persa dietro la devozione a Timur, di cui soddisfaceva ogni più piccolo capriccio in una via di mezzo tra un attendente e una servetta.

Un pomeriggio la ragazza stava pulendo la cappella, quando fu chiamata nell’ufficio del prelato dove Timur la attendeva assieme a Dax, il suo secondo.

«Entra pure, tesoro» le disse dolcemente. «Accomodati.»

«Lei preferisce restare in piedi, eminenza.»

Dax sorrise quasi divertito, e anche Timur parve apprezzare quell’atteggiamento.

«Sei sempre così mite e pacata. È per questo ho una così grande fiducia in te.»

«Lei è onorata di sentirlo.»

«Hai fatto molto da quanto di sei unita alla nostra grande famiglia, e senza mai pretendere nulla in cambio.

Inoltre, a differenza di molti altri, ti sei sforzata di mantenerti integra, sia nel corpo che nella mente. Per quale motivo?»

«Lei pensa che così potrà servire meglio la Madre Ela, eminenza.»

Dax e Timur si scambiarono un cenno come di assenso.

«Ho una cosa per te» disse quindi il priore, ed aperto un cassetto ne prese fuori un braccialetto color lilla, apparentemente di plastica. «Consideralo un regalo. Per la tua devozione e il tuo impegno.»

Come regalo non era esattamente il massimo, ma Carmy lo considerò comunque di buon auspicio, reputandolo un segnale del fatto che, almeno per il momento, la sua copertura non solo reggeva, ma anzi diventava sempre più solida e convincente.

Su invito di Timur porse il braccio destro, e la chiusura magnetica fece avvolgere immediatamente il bracciale attorno al polso; era un po’ stretto, ma non fastidioso, e a ben guardarlo era anche piuttosto carino.

«Lei vi ringrazia con tutto il cuore, eminenza, e non sente di meritarlo.»

«Invece sì, tesoro. E ti dirò di più. Questo è solo il primo dei molti riconoscimenti che la nostra chiesa ti concederà, se continuerai a servire e onorare fedelmente la nostra confraternita.»

«Lei non mancherà. Avete la sua parola.»

Uno strano sorriso si palesò sul volto di Timur, ma sul momento Carmy non se ne accorse.

«Molto brava. Ora, però, ho un altro incarico per te.»

«Dite pure. Lei vi ascolta.»

«Non è niente di che. Conosci l’università nazionale, vero?»

«Sì, eccellenza. Ma in questo periodo dell’anno è chiusa.»

«Non preoccuparti. Tu vacci ugualmente.»

«Come desidera. Lei può sapere cosa deve fare una volta laggiù?»

«Solo restare lì. Quando sarà il momento, la risposta verrà da sé.»

Non era raro che Timur si rivolgesse a lei in modo tanto sibillino; forse pensava di riuscire a tenerla maggiormente in suo potere con quel fare aulico e misterioso, o forse non si fidava ancora abbastanza di lei per dire apertamente in cosa consistevano gli incarichi che lui continuava ad affidarle a distanza di tanto tempo, a riprova che comunque la considerava un elemento valido.

Quindi, senza fare ulteriori domande, la ragazza uscì dal tempio, e fatto il solito cenno rivolto alla finestra al quarto piano dell’appartamento di fronte al vicolo si avviò verso la monorotaia.

«Come mai hai scelto lei?» domandò Dax quando furono rimasti soli. «Credevo ti piacesse.»

«È troppo pura. Le preferisco quando sono un po’ più… spregiudicate.» replicò Timur sorridendo sinistro. «E poi, la nostra Grande Madre Ela non ci dice di liberarci sempre dalle tentazioni?»

 

Noce non era più riuscito a farsi uscire dalla testa le parole di quella ragazzina.

Erano come un tarlo, un maledetto parassita che scavandogli dentro gli aveva tolto il sonno, l’appetito, e persino la voglia di spendere come più gli aggradava i soldi che a fiumi scorrevano nelle sue tasche, e che di colpo aveva preso a guardare con occhi diversi.

Non c’era nulla da fare.

Per uno come lui non esisteva altra vita al di fuori di quella.

Forse lo pensava veramente, o forse era quello che scientemente si ostinava a voler continuare a credere, per non dover fare i conti con una realtà diversa che in realtà lo spaventava a morte. Il mondo là fuori, oltre le strade sudice e i palazzi scrostati dall’incuria, era infinitamente più complicato, e aveva sempre pensato di non avere la forza necessaria per affrontarlo.

Da piccolo non aveva mai desiderato altro che andarsene quanto prima dalla fogna in cui era nato, nella convinzione che la città dei sogni avesse qualcosa da dare anche a lui, ma una dopo l’altra aveva visto scivolare via tutte le sue certezze, fino a convincerci che quello fosse l’unico mondo in cui uno come lui potesse vivere.

Così vi si era adeguato, cogliendo tutte le opportunità e le occasioni su cui riusciva ad arrivare, e quando si era presentata quell’insperata miniera d’oro lavorando per conto della Chiesa di Ela la ricchezza che sembrava aver raggiunto gli aveva annebbiato la mente. E anche se questo lo aveva obbligato a chiudere gli occhi su tante cose vi si era adeguato, fedele alla massima da lui stesso creata e il braccio doveva solo obbedire agli ordini della mente, e che se tali ordini erano abominevoli la colpa non era certo di chi li eseguiva.

Una parte di lui però non aveva dimenticato i suoi propositi originari, altrimenti non avrebbe dilapidato più della metà dei suoi guadagni aiutando chiunque meritasse un piccolo sostegno.

Ma ora era il momento di dire basta.

Aveva taciuto sulla droga, sui traffici illeciti, e persino sul contrabbando di persone. Ma se ciò che aveva capito dell’ultimo materiale consegnato era vero, allora si era decisamente passata la misura, e per nessuna ragione voleva essere coinvolto in cose del genere.

Di colpo, la vita umana, e degli altri in particolar modo, sembrò acquisire di nuovo un qualche valore ai suoi occhi, e quando se ne era reso conto aveva maledetto segretamente quella ragazzina per avergli fatto venire simili tormenti.

Se ne sarebbe andato.

Ormai aveva deciso.

Gli ci era voluto tanto tempo per trovare la forza di farlo, ma quel giorno si era recato alla Chiesa proprio per manifestare apertamente la propria decisione: Timur poteva dire o fare quello che voleva, ma non avrebbe più contato sul suo aiuto né, forse, sul suo silenzio. Per quanto riguardava tutti gli altri, quelli che aveva sostenuto con prestiti e simili, li aveva già assistiti abbastanza; ora stava a loro cercare di cavarsela.

Aveva quasi raggiunto la chiesa, stava per svoltare l’ultimo angolo, quando udì distrattamente le conversazioni di due spacciatori, che come se niente fosse distribuivano la loro merce alla luce del sole in una delle vie più trafficate del quartiere.

«Ti pare giusto? Quella mocciosa è con noi solo da tre mesi, e il capo già la tratta come una principessa. Le ha persino fatto un regalo, ti rendi conto?»

«E quello me lo chiami regalo?» alzò le spalle l’altro. «Io l’ho visto. È solo uno schifoso braccialetto. Al mercato delle pulci roba così te la tirano dietro.»

Una scossa elettrica paralizzò il corpo del giovane, che spalancati gli occhi si ritrovò a fissare il vuoto come inebetito per pochi istanti.

«Di che stai parlando?» tuonò voltandosi infervorato ed afferrando per il bavero uno dei due. «Quale braccialetto?»

«Calmati, amico. Quell’altra, Carmy. Ho sentito che Timur le ha regalato un braccialetto stamattina, e gliel’ho visto al polso poco dopo quando l’ho incrociata per strada.»

«Dov’è andata ora! Dimmelo!»

«E che ne so? L’ho solo incrociata all’uscita della monorotaia. Però in quel momento stava arrivando la linea dodici per il centro. Forse ha preso quella.»

«Non potevi essere più preciso, lurido drogato?» strillò Noce, e scaraventato giù il tipo dalla sua moto ci saltò sopra partendo a tutta velocità.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Questa volta ho fatto a tempo di record.

D’altronde, l’avevo promesso.

E ora che succederà? Quale destino attende i protagonisti in questo finale di primo tempo?

Tranquilli, non impiegherete molto a scoprirlo. Ormai, per quanto riguarda questa parte, siamo davvero alle battute conclusive.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 32
*** 30 ***


30

 

 

La monorotaia correva talmente in alto da passare senza difficoltà sopra gli edifici, e Cane, malgrado si fosse studiato a più riprese i percorsi più vantaggiosi, aveva le sue belle difficoltà a stare dietro con la macchina al trenino che sopra le loro teste stava portando Carmy verso il centro cittadino.

Lucas non poteva sentirli, ma i due non smettevano un momento di parlarsi attraverso il contatto telepatico instaurato con la magia, anche se Cane parlava ad alta voce per consentire anche al collega di capire il senso del discorso.

«Definire quell’uomo eccentrico è sminuirlo» disse Cane. «Che mai ci deve fare all’università?»

«Forse c’è un nuovo incontro.» ipotizzò Carmy

«Un incontro!? In un’aula magna piena di gente?»

«Non sarebbe la prima volta che mi fa effettuare scambi e consegne in luoghi insoliti. Una volta è stato in un centro commerciale, un’altra in una biblioteca.»

«Ma non era mai successo che ti mandasse così lontano. Voglio dire, il centro è il centro. Lì non è facile passare inosservati, soprattutto se odori lontano un miglio di zona degradata.»

Lucas se ne stava sulle sue, sfiorandosi il mento con due dita come era solito fare quando era soprapensiero.

«Ma certo!» esclamò ad un certo punto, facendo saltare Cane. «All’aula magna oggi si tiene una conferenza.»

«In piena estate!? Ma non hanno niente di meglio da fare questi cervelloni? Voglio dire, io in questo momento farei carte false per essere in spiaggia, e questi vanno ad ascoltare gli sproloqui intellettuali di qualche cervelloni.»

«Fai meno lo spiritoso. Se non sbaglio, tra gli invitati c’è anche la Signora Stirling, oltre a parecchi docenti e personalità della cultura. Forse ci saranno anche i media.»

Cane si voltò a guardarlo.

«Ho una brutta sensazione.» mormorò

«Siamo in due. Forse dovremmo chiedere rinforzi.»

«No, aspettate» li bloccò Carmy. «Se chi devo incontrare dovesse vedere troppa polizia potrebbe capire tutto, e allora andrebbe tutto all’aria. Non possiamo permettercelo.»

«Ma non possiamo neanche correre il rischio di ritrovarci da soli a gestire una situazione difficile.»

«Io intanto chiamo Alexia» disse Lucas aprendo la finestra della macchina. «Visto che c’è di mezzo sua madre, vorrà essere informata.»

 

Alexia si rigirava nel letto senza riuscire a prendere sonno.

Tra il suo coinquilino che tra scatoloni sbattuti a terra, sibili di nastro adesivo, imprecazioni varie per cose che non riusciva a trovare, non smetteva un attimo di far rumore, ed il pensiero per un anniversario a cui, vuoi per reale impedimento vuoi per il timore di doversi confrontare con qualcuno, aveva presenziato giusto il tempo di una preghiera, era destino che quelle poche ore di tranquillità non potessero venire allietate da un sonno ristoratore.

La pietra tombale di quella mattinata che si annunciava orribile fu lo squillare del comunicatore, al suono del quale la ragazza si mise a sedere malamente sul materasso masticando in silenzio tutte le imprecazioni che conosceva.

«Stirling.» disse aprendo la linea audio, ma non ovviamente quella visiva.

Da un attimo all’altro, però, il suo sguardo assonnato ed il volto pallido mutarono drasticamente.

«Come hai detto? Sì… no, non fate niente. Io arrivo subito».

Giusto il tempo di infilare la testa sotto il lavandino del bagno e indossare in tutta fretta la divisa, compito assai agevole dal momento che tra la voglia di andare a dormire all’arrivo e il caldo del’estate si era buttata a letto indossando nulla più dell’intimo.

«Te ne vai già?» domandò Brando, il suo coinquilino, un bel giovane più o meno della sua età, vedendola procedere a passo spedito verso la porta. «Stamattina sei tornata prestissimo.»

«Ho un’emergenza. Starò via per un po’. E già che ci sei, approfittane per dare una sistemata a questo letamaio.»

 

Noce aveva agito d’istinto, ma benché quella specie di foga mista a paura non si fosse per nulla dissolta, al contrario semmai, quanto restava del suo raziocinio gli aveva fatto capire di non avere la benché minima idea di dove quella scriteriata fosse diretta.

La linea dodici andava verso il centro cittadino, e lungo il suo tragitto transitava nei pressi di una infinità di luoghi sensibili, ideali per ciò che quello che il giovane temeva stesse per accadere. In un primo momento aveva anche pensato che il bersaglio potesse essere l’esposizione internazionale, salvo poi rendersi conto che si trovava da tutt’altra parte, e a quel punto si era ritrovato senza idee.

In quel momento, tutto quello che riusciva a pensare era Carmy.

Non voleva né poteva permettere che le capitasse in sorte un destino simile. E perché stesse facendo tutto ciò, non gli riusciva di spiegarselo: sapeva solo che voleva proteggerla.

Ad un certo punto, arrivato al limitare del secondo distretto, il conflitto interiore dentro di lui lo costrinse a fermarsi per riordinare le idee, inchiodando nel bel mezzo della strada e prendendosi quindi sonore parolacce dagli altri automobilisti.

«Dannazione, ma dove diavolo sarà andata!» tuonò impotente ed iracondo.

Tutto attorno, la vita in uno dei luoghi più affollati della città scorreva come quella di qualunque altra giornata.

Le strade pulite brulicavano di automobili, gli ampi marciapiedi scoppiavano di gente, per la maggior parte cittadini che sfruttavano la giornata insolitamente mite per quell’estate così afosa per girovagare senza meta o concedersi, una volta tanto, il piacere di andare al lavoro a piedi.

Alcuni di questi, i più sfaccendati, si attardavano a guardare i trailer promozionali o le edizioni speciali dei principali notiziari sui maxischermi o le finestre tridimensionali che come finestre aperte sul resto del mondo spuntavano qua e là appesi alle pareti dei palazzi o sospesi nel vuoto, senza contare i pannelli informativi che davano conto delle principali notizie economiche provenienti dalla vicina borsa.

Alzati gli occhi verso uno degli schermi quasi per caso, Noce si vide arrivare come un’illuminazione.

«In diretta dall’aula magna dell’Università Nazionale.» disse la giornalista, in piedi e con alle spalle l’ingresso monumentale ed affollato di quello che sembrava il giardino di un grande edificio. «Oggi, alla presenza di alcune fra le più eminenti autorità nel campo accademico, si apre l’annuale seminario di Storia della Terra. Luminari e semplici appassionati di ogni angolo della nazione sono giunti qui per ascoltare la conferenza di apertura della professoressa Eleonor Stirling che darà il via alla manifestazione.»

Ora era chiaro.

La linea dodici aveva una fermata apposita per l’università che scendeva direttamente all’interno del campus.

Un sacco di gente, molti volti noti, e la copertura della stampa: cosa si poteva desiderare di meglio?

«Quel bastardo, pazzo figlio di…» masticò il giovane rimettendosi in marcia, pallido come un cencio, rischiando persino di finire investito da un autobus.

 

L’Università Nazionale aveva diverse aule magne e sale conferenze, e la più importante di queste altro non era che un enorme anfiteatro all’aperto che durante l’anno ospitava,oltre a seminari ed incontri culturali, anche rappresentazioni teatrali, operistiche e musicali di vario genere.

In linea con la tradizione, che faceva dell’istituto il più importante al mondo in materia di studi della Terra, il complesso era stato costruito richiamandosi alla forma di un antico teatro romano, con una forma semicircolare, ampie gradinate, una scenografia fissa di colonne e profili di case ed un palco rialzato, il tutto realizzato di marmo traslucido che illuminato dal sole emetteva un tenue e piacevole chiarore.

Per non farsi notare troppo Carmy si era seduta ad una panchina poco distante dall’anfiteatro, ma poteva comunque sentire le voci che giungevano dall’interno e anche assistervi attraverso i vari monitor disseminati per tutto il campus. Il contatto che era stata mandata ad incontrare al momento non si vedeva, ma la ragazza ingannava l’attesa ascoltando distrattamente il comizio tenuto dalla professoressa Stirling.

Aveva sentito dire che la madre del suo superiore fosse una stimata docente universitaria, ma quella era la prima volta che la vedeva di persona, e guardandola non riuscì a non considerarla una donna bellissima, molto somigliante alla figlia.

«Mi ricevete?» mormorò a bassa voce. «State vedendo tutto?»

Cane e Lucas si erano fermati proprio alle spalle del muro di cinta, in un piccolo spiazzo che fungeva da parcheggio, e con poche semplici mosse Pierre era riuscito a violare il sistema di sorveglianza dell’università, sì da poter proiettare nel computer interno della macchina tutte le riprese dei globi perimetrali che gravitavano sia dentro il campus che, soprattutto, nel cortile.

«Per ora tutto tranquillo» commentò Lucas vedendo che da tutti gli ingressi non sembrava transitare nessuna persona sospetta.

Carmy poi era attratta anche dal bracciale che le aveva regalato Timur; aveva come la sensazione che negli ultimi minuti si fosse come ristretto, serrandosi un po’ più forte attorno al suo polso, ma essendo estate pensò fosse una sorta di riflesso della pelle prodotto dal caldo e dal sudore.

«Forse è un segnale per farsi riconoscere.» ipotizzò Cane.

La ragazza però aveva una strana sensazione, come un presentimento che qualcosa non sesse andando per il verso giusto; e lo stesso poteva dirsi dei suoi due guardiani, tanto che Lucas aveva già preventivamente impostato la linea radio d’emergenza per una eventuale richiesta di aiuto.

All’improvviso, le guardie che sorvegliavano il monumentale ingresso principale dell’università videro una moto di grossa cilindrata sopraggiungere veloce come una freccia dall’ampio viale prospiciente l’ingresso; inutilmente tentarono di ordinare l’alt, ma il centauro alla guida, un delinquente dei bassifondi senza dubbio, non si preoccupò neanche di rallentare, e dopo averli quasi investiti prese a sfrecciare come un pazzo per le stradine acciottolate e i giardini all’inglese, girovagando senza meta in tutte le direzioni sotto gli sguardi increduli e un po’ spaventati di chi stava assistendo.

Il frastuono attirò anche Carmy, che fece appena in tempo ad alzarsi dalla panchina prima che l’individuo in questione, notatala, corresse verso di lei, balzando giù dalla moto prima ancora di spegnerla e mandandola così a schiantarsi contro un muro.

«Noce!? Che cosa ci fai qui? Sei forse tu…»

«Presto, levati quest’affare!» urlò senza darle retta e prendendo a strattonare violentemente il bracciale quasi a volerlo rompere.

La serratura magnetica fece resistenza, anche troppa in verità, tanto che Carmy finì per graffiarsi leggermente, e solo dopo molti tentativi Noce riuscì finalmente a rompere il monile strappandolo a forza dal polso della ragazza.

Nel momento in cui il magnete saltò via, però, si udì una sorta di fischio acuto e breve, e un istante dopo sul volto di Noce, comparve una malcelata smorfia di dolore, ed il giovane, serrando i denti, lasciò cadere a terra il bracciale dopo averlo stretto appena qualche secondo.

Lungo tutta la parte interna era comparsa una fila di inquietanti aghi metallici, e quando il giovane, tenendosi il polso, aprì la mano, Carmy la vide ricoperta da piccoli fori che sprizzavano sangue.

Procedura contenitiva.

Era così che la chiamavano; una precauzione contro chi avesse avuto la malaugurata idea di ripensarci circa il proprio destino, e che faceva scattare istantaneamente il meccanismo di inoculazione nel momento in cui si cercava di rimuovere il bracciale. In quel caso era scattato con un leggero ritardo, ma solo perché si trattava di un prototipo ancora non del tutto completo.

Noce spalancò gli occhi, ben sapendo cosa lo attendeva: poteva già sentire il fuoco prendere a scorrergli violentemente nelle vene incendiano ogni muscolo, ogni osso, mentre avere il controllo dei propri pensieri gli veniva sempre più difficile.

«Noce, ma cosa…»

«Stammi lontana!» urlò iracondo.

La mano con la quale allontanò la ragazza rivelò una forza tale da scaraventarla lontano, e prima ancora di poterla ritirare Noce la vide gonfiarsi e ingrandirsi enormemente assieme al resto del braccio, fino a lacerare la manica della maglietta apparendo in tutta la sua grottesca forma.

Così come il braccio, in pochi attimi tutto il corpo del ragazzo iniziò ad aumentare di volume, assumendo oltretutto una colorazione rosso fuoco innaturale e spaventosa; le gambe divennero zampe, le articolazioni delle ginocchia si piegarono violentemente e orrendamente all’indietro, mentre il braccio destro, a differenza del sinistro, arrivò ad assumere dei connotati quasi scheletrici, venendo come scarnificato. Ma fu la parte superiore del corpo ad andare incontro alla mutazione più mostruosa, ingigantendosi e deformandosi in una forma ovoidale sormontata da un’enorme gobba e con la testa, di cui restava solamente il volto sfigurato, a sbucare dal davanti; sembrava il gigantesco corpo spiumato di un enorme pollo.

Quando Carmy riuscì a risollevare lo sguardo dopo essere stata scaraventata con forza contro un albero la mutazione era già completata, e del ragazzo chiamato Noce non restava più nulla.

«No…» fu l’unica parola che il terrore e lo sgomento riuscirono a farle mormorare.

I guardiani che avevano seguito la moto impazzita nel suo peregrinare sul campo si ritrovarono al loro arrivo faccia a faccia con la creatura, e quelli che riuscirono a non restare impietriti se la diedero a gambe senza stare troppo a pensarci.

L’EDA lanciò violentemente il suo ruggito, cui fece eco subito dopo il risuonare violento dell’allarme interno dell’università, installato apposta per avvertire gli studenti ed il personale del verificarsi di qualsivoglia incidente magico.

Cane e Lucas, che ancora attendevano fuori, assistettero a loro volta alla scena grazie al sistema di sorveglianza, ma dovettero passare parecchi, lunghissimi istanti prima che entrambi potessero capacitarsi di ciò cui stavano assistendo.

«Maledizione!» urlò Cane scattando fuori dalla macchina e scavalcando con l’High Jump l’alto muro di cinta senza neanche chiudere la portiera.

Lucas lo seguì quasi a ruota, anche se, paura a parte, ebbe la prontezza di lanciare l’allarme radio.

«Qui Squadra MAB Due-Uno-Otto! A tutte le forze in ascolto! Massima priorità! Abbiamo un nove-uno all’Università Nazionale! Si richiede intervento immediato!»

«Unità Vormund02, squadra Echo della polizia cittadina!» risposero fortunatamente subito all’altro capo. «Messaggio ricevuto! Saremo lì in dieci minuti!»

«Potrebbe non esserci nessuno da salvare tra dieci minuti, muovetevi!» e anche Lucas corse via pistola in pugno.

 

Il suono dell’allarme fece salire istantaneamente la tensione tra i partecipanti al seminario, ma quando dall’altoparlante arrivò l’esortazione a lasciare rapidamente il cortile per non meglio specificati problemi di ordine pubblico in molti si convinsero che doveva essere accaduto qualcosa di grave.

Dal canto suo l’EDA, almeno inizialmente, parve quasi disinteressato alla possibilità di attaccare qualcuno, rimanendo stranamente immobile a guardarsi attorno come spaesato, almeno fino a quando una delle guardie, più per paura che per altro, non ebbe la sciagurata idea di sparargli; le pallottole penetrarono nella carne molliccia senza produrre alcun effetto che quello di far infuriare la creature, che ruggendo ancora una volta saltò addosso allo sfortunato aggressore facendone scempio per poi scagliarsi contro tutto ciò che gli capitava a tiro, spaccando rocce, sradicando alberi e tirando poderosi pugni nel terreno facendolo perfino tremare.

Il frastuono della distruzione unito a quello dell’allarme che seguitava incessantemente a risuonare riempiva le orecchie di Carmy con potenza assordante, impedendole di provare qualunque cosa che non fosse un autentico terrore; tutto quello che riusciva a fare era osservare quell’essere abominevole scagliarsi su ogni cosa, ma quando la sua attenzione fu catturata da un gruppo di ospiti che si erano sfortunatamente trovati a passare di lì in cerca di una via di fuga qualcosa in lei scattò.

«Noce, smettila!» urlò d’istinto, sapendo però dentro di sé che quello però non era più il ragazzo che aveva conosciuto.

Rimanendo sordo all’appello il mostro si preparò a caricare, ma prima che potesse farlo una raffica di fuoco lo travolse in pieno scaraventandolo a terra, mentre nell’aria riecheggiava forte il comando Burning emesso con voce tonante.

«Lucas, portali via!» comandò Cane attirando in questo modo su di sé l’attenzione della creatura.

Il suo collega, obbedendo all’ordine, si frappose a propria volta tra il nemico e i civili, indicando a questi ultimi la via di fuga e riuscendo così a farli allontanare prima che il mostro avesse il tempo di rialzarsi.

Di solito una simile scarica di energia era più che sufficiente, se non ad abbattere, quantomeno a stordire un’EDA anche di considerevole forza, ma quell’animale riuscì a rimettersi in piedi nel giro di pochi secondi, mostrando di aver incassato il colpo alla perfezione. In risposta all’attacco afferrò una targa commemorativa e la scagliò come un mortale frisbee contro l’agente, che riuscì a gettarsi a terra per poi una seconda e più potente versione del Burning.

Ancora una volta il colpo andò a segno, ma l’EDA mise il braccio davanti a sé per proteggersi il volto, e caricando alla ceca puntò dritto contro Cane; di nuovo l’agente fece in tempo a spostarsi, e subito dopo Lucas si unì allo scontro prendendo a scaricare sul mostro i suoi proiettili speciali, stando però attento ad usarli con moderazione avendone con sé un solo caricatore.

Nel mentre erano arrivati altri agenti di sicurezza, che circondato il nemico riuscirono a tenerlo il tempo impegnato da permettere a Cane e Lucas di mettere in salvo Carmy e altri due guardiani rimasti feriti prima del loro arrivo portandoli dietro ad una vicina statua.

«Pensa tu a loro!» ordinò Cane a Carmy prima di gettarsi nuovamente nella mischia assieme al collega.

Carmy provò ad arrecare conforto ai feriti, ma era ancora talmente scossa dalla situazione ai limiti che stava vivendo e dall’infuriare della battaglia che la bolla curativa le scoppiò per due volte tra le mani prima di poterla applicare.

«Coraggio!» si intimò riuscendo, al terzo tentativo, a portare finalmente a compimento l’incantesimo.

Nel mentre la situazione stava facendosi sempre più seria.

Le guardie di sicurezza avevano fegato da vendere, ed erano addestrate ad avere a che fare con gli EDA, ma quella bestia maledetta si stava rivelando ben più pericolosa di qualunque altro mostro che chiunque tra i presenti avesse mai visto. La sua pericolosità e la sua resistenza ai colpi erano troppo persino per un Classe Alfiere, in assoluto gli EDA più potenti e pericolosi che si fossero mai visti.

All’ennesima carica il mostro puntò stavolta verso Lucas, che pur riuscendo ad evitare di finire travolto venne comunque colpito di striscio facendo un brutto volo.

«Pierre!» gridò Carmy correndo istintivamente in suo aiuto

«Niente di grave!» si affrettò a puntualizzare lui, ma in verità doveva essersi come minimo slogato un braccio.

Entrambi rischiavano di essere investiti dall’ennesima carica dell’EDA, ma proprio in quell’istante una macchina arrivò a tutta velocità nel cortile caricando a propria volta la creatura.

Alexia riuscì a buttarsi fuori appena in tempo, e nonostante la drammaticità della situazione non riuscì a non provare un po’ di tristezza nel vedere la sua adorata sportiva grigia andarsi a sfracellare contro la creatura, riuscendo tuttavia nell’intento di dissuaderla dall’attaccare ancora.

«Complimenti per l’entrata spettacolare.» scherzò Cane

«Ho fatto il prima possibile.»

«Le spiegazioni a dopo! Ora abbattiamo questa cosa!»

Neanche una macchina da millecinquecento chili piombata addosso a sessanta chilometri orari tuttavia fu capace di danneggiare seriamente l’EDA, che riavutosi dalla batosta tornò a minacciare i suoi aggressori scagliando loro addosso tutto quello che gli capitava a tiro.

Cane ed Alexia, forti del lavoro di gruppo, tentarono a più riprese di immobilizzarlo, ma ogni incantesimo paralizzante, dal chain whip al freeze, si rivelò quasi completamente inefficace, riuscendo a bloccare quell’essere solo per pochi attimi prima di venirne sopraffatto.

«Maledizione, quei rinforzi arrivano o no?» urlò infuriato Cane, ormai allo stremo delle forze.

Oltretutto, l’evacuazione dall’università non era stata ancora ultimata, e la ressa venutasi a creare alla più vicina uscita di emergenza aveva spinto alcuni dei partecipanti all’incontro, inconsapevoli del pericolo, ad avventurarsi per i cortili alla ricerca di un’altra strada.

D’un tratto, distolto per un attimo lo sguardo dal nemico, Alexia vide un volto a lei famigliare palesarsi da dietro un angolo, rimanendo immobile per lo sgomento e la paura alla vista della creatura; questa, quasi a leggere i pensieri della sua avversaria, si accorse a propria volta della nuova arrivata, e forse intuendone la debolezza non esitò a caricarla.

«Mamma!»

La giovane donna dovette fare ricorso all’Accelerate, un incantesimo pericoloso perché altamente dispendioso di energie, così quando riuscì a raggiungere la madre frapponendosi tra lei ed il mostro le restò a malapena l’energia necessaria per erigere una debole barriera trasparente.

L’EDA colpì col taglio della mano con tutta la sua forza, facendo brandelli dello scudo e colpendo in pieno Alexia, che scagliata via come una bambola di pezza andò a schiantarsi contro la parete di un edificio per poi rovinare, inerme e svenuta, sull’erba circostante.

«Alexia!» gridarono quasi all’unisono Cane ed Eleonor.

Quando vide l’EDA pronto ad infliggere il colpo di grazia alla sua vittima Cane evocò istintivamente il Minefield, e una miriade di globi luminosi grandi come palloni da calcio si materializzarono tutto attorno all’Agente Stirling formando una sorta di cupola.

Così come l’Accelerate, anche il Minefield era un incantesimo pericoloso, poiché bastava sfiorare una di quelle sfere per generare istantaneamente un’esplosione, che se non controllata poteva provocare una letale reazione a catena tale da mettere in pericolo persino l’individuo che, teoricamente, doveva esserne protetto, e nelle sue condizioni Cane non era sicuro di aver creato il giusto equilibrio.

L’EDA, vedendo comparire quelle sfere, parve esitare, e quando, avvicinata la mano ad una di esse, la vide risplendere un po’ più forte, si risolse ad abbandonare i suoi propositi, non senza un certo stupore da parte degli spettatori.

La situazione sembrò andare verso un punto morto; le guardie di sicurezza, accortesi della loro impotenza, erano scappate o si erano risolte ad assumere una posizione più attendista, e ciò aveva limitato di molto le perdite, e la montagna di colpi subiti sembrava finalmente iniziare ad avere i suoi effetti sulla resistenza del bersaglio, che andava visibilmente affaticandosi.

Anche Cane, però, ormai era senza forze, mentre Lucas aveva da tempo esaurito il caricatore e Alexia, pur ripresasi, aveva chiaramente accusato pesanti danni, tanto da non riuscire ad alzarsi.

Quanto a Carmy, non aveva idea di che cosa fare; le sue abilità di maga si limitavano al supporto e al primo soccorso, e gli incantesimi offensivi non erano mai stati la sua specialità. Inoltre non era armata, e a parte curare i feriti e generare di volta in volta qualche barriera per gli uomini impegnati in battaglia non era stata in grado di fare altro.

Poi, come una benedizione, proprio quando l’EDA sembrava sul punto di riprendersi, due sirene riecheggiarono in lontananza, e una coppia di Vormund02 si palesò sul luogo dello scontro accompagnata da una camionetta dei Reparti Speciali da cui scesero sei agenti in tenuta da combattimento che in un primo momento si tennero a distanza, lasciando campo libero ai due veicoli speciali.

I Vormund erano pilotati da due tenenti, Martinez e Tucker, che fatti passare i loro mezzi in modalità d’ingaggio fermarono l’EDA un attimo prima che tentasse un’altra carica.

Forse fu per via della fatica, forse grazie ai proiettili di grosso calibro in dotazione ai Vormund, ma stavolta la creatura parve accusare subito i colpi ricevuti, e delle raffiche di colpi che gli furono sparati addosso furono più quelli che riuscirono a penetrare di quelli che la sua pelle limacciosa gommosa fu capace di respingere.

In un ultimo, disperato tentativo di ribaltare le sorti dello scontro il mostro tentò di caricare uno dei due veicoli, e a quel punto entrarono in azione i reparti speciali, che prima circondarono la creatura e poi, piantati a terra i propri bastoni magici a uguale distanza l’uno dall’altro, generarono un vero e proprio reticolo magico che imprigionò inesorabilmente l’EDA come un pesce nella rete, schiacciandolo sempre più al suolo.

La creatura emise ancor più forti i gemiti di dolore che da qualche minuto non aveva mai smesso di rantolare, e guardandola così, moribonda e sofferente, Carmy provò una sensazione strana, che la portò quasi sull’orlo delle lacrime.

Poi, nel momento in cui i loro sguardi si incontrarono, quella scossa interiore si ripresentò di colpo, più violenta ed impetuosa di prima.

«Noce!» gridò

Cane dovette trattenerla a forza dal correre verso la creatura, ma nonostante ciò la ragazza seguitò a dimenarsi nel tentativo di raggiungerlo.

«È inutile, Carmy! È troppo tardi!»

I due Vormund passarono il controllo dalle mitragliatrici binate ai cannoncini a canna corta, presero la mira, e spararono all’unisono alla testa dell’EDA, che emesso un ultimo sospiro, quasi un lamento, alla fine spirò.

Come battesimo del fuoco, nel caso dei Vormund, non c’era nulla da dire: collaudo positivo.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi di nuovo!^_^

Ormai ci siamo!

Ancora un capitolo, e questa prima parte di Tales Of Celestis – La Città delle Nebbie sarà completata.

Che dire? La narrazione ha assunto una svolta decisamente drammatica, oltre che imprevedibile.

E ora? Cosa succederà?

Lo scoprirete quanto prima!

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 33
*** 31 ***


31

 

 

All’arrivo dei soccorsi fu fatta una prima conta dei danni; in tutto si contarono cinque morti e dodici feriti, inclusi gli agenti di sicurezza del campus e le varie forze dell’ordine intervenute per contrastare l’EDA.

A conti fatti era un bilancio decisamente modesto, rispetto al potenziale di vittime che avrebbe potuto esserci qualora la manovra di contenimento non fosse avvenuta in tempi così rapidi.

Tra i feriti, Alexia era sicuramente uno dei più seri, tanto che i paramedici si affrettarono a caricarla, ancora incosciente, a bordo della prima ambulanza disponibile, che partì a sirene spiegate diretta al più vicino ospedale; secondo una prima diagnosi non era in pericolo di vita, ma occorrevano esami approfonditi per capire la vera entità delle numerose ferite interne che il combattimento le aveva lasciato.

Anche Cane e Lucas erano un po’ ammaccati, con i postumi di uno stress da affaticamento per il primo e una lussazione per il secondo che avrebbe richiesto quasi sicuramente un’ingessatura.

Carmy a paragone se l’era cavata con poco, giusto qualche graffio, ma era niente in confronto alla ferita che i suoi colleghi sapevano essersi aperta nel suo animo.

Mentre i paramedici finivano di medicarla, sedeva in silenzio, gli occhi nel vuoto e l’espressione spenta, tanto che il delegato di polizia incaricato di redigere il rapporto aveva rinunciato sul nascere a prendere la sua deposizione.

Non sapeva se sentirsi sollevata per l’incredibile combinazione di eventi che le aveva evitato di finire sotto quel telone che come una collinetta artificiale si innalzava ora nel mezzo del cortile, o rattristata e piena di vergogna per ciò che la sua fortuna aveva invece comportato.

Sarebbe potuto capitare a lei; anzi, era destino dovesse capitare a lei. Ma quello stesso destino aveva deciso altrimenti, e pur senza volerlo era stata un'altra persona a prendere il suo posto in quella specie di perversa prova sul campo che qualcuno aveva voluto organizzare.

Perché questo era stato: un esperimento.

Ma più di ogni altra cosa, si vergognava della sua incapacità. Vedere tutte quelle persone ferite, tutti quei morti, e ripensare a ciò che non era stata in grado di fare nel mezzo della battaglia, aumentava il suo senso di impotenza, facendola sentire ancora più in colpa per ciò che era accaduto.

Ma più di ogni cosa, ripensava a Noce. L’aveva visto trasformarsi in quel mostro davanti ai suoi occhi, e nel suo sguardo aveva letto la paura, unita ad una disperata richiesta di aiuto lanciata nell’ultimo momento di lucidità cui lei non era stata in grado di rispondere.

Cane, che dei tre colleghi era sicuramente quello messo meglio, le si avvicinò, ma per lungo tempo i due non riuscirono a scambiarsi neanche una sillaba, lui perché non riusciva a trovare le parole giuste lei perché troppo presa nei suoi pensieri.

«Stai bene?» si risolse infine a domandare Cane

«Il Capitano?» chiese invece lei dopo un interminabile silenzio

«Tranquilla, non morirà per così poco» ma subito dopo l’uomo si rifece serio. «Comunque io parlavo di te.»

E allora, di nuovo, Carmy tacque.

«Non se lo meritava.» mormorò con gli occhi lucidi

«Nessuno si merita una sorte simile. Sono cose che succedono.»

«Qui non c’entra il caso. È stato voluto. Lo hanno volutamente trasformato in quella… quella cosa. Anzi, volevano farlo con me! Se non fosse stato per lui, io ora…»

Poi, nei suoi occhi apparve la rassegnazione, unita ad una punta di sarcastica autocommiserazione.

«Avevi ragione tu. La Kyrador in cui io credevo in realtà non esiste.

Non è mai esistita» e guardò verso gli agenti in tuta protettiva che iniziavano l’opera di dissezione del mostro per poterlo portare via. «Quella. Quella è la vera Kyrador.»

Cane non riuscì a dire niente; forse perché, fin dall’inizio, anche lui l’aveva pensata allo stesso modo.

 

Se non fosse stato per la piega drammatica che avevano preso gli eventi, Fittzwater sarebbe entrato negli uffici della Polizia Militare gongolando per l’ottima prova di battaglia mostrata dalle sue nuovissime unità, ma in quel momento la resa persino superiore alle attese dei Vormund contro un’EDA si classe elevata era l’ultima delle sue preoccupazioni.

Owens schiumava di rabbia, e malgrado la porta dell’ufficio fosse chiusa gli urlacci che i due presero a scambiarsi quasi subito furono tali da catturare l’attenzione di tutti i presenti.

La situazione era precipitata, e in un certo senso lo sapevano entrambi; certo, nessuno dei due si aspettava che le cose potessero precipitare fino a quel punto. Ciò che li divideva era la decisione circa la prossima mossa da seguire, che secondo Owens poteva essere una sola.

«Fino a che si trattava di una questione di droga era un conto, ma qui siamo di fronte ad un attentato terroristico in piena regola!»

«E secondo te quell’imbecille di Timur avrebbe i mezzi e la sagacia per mettere in piedi una cosa del genere? Sono sicuro quanto te che si è trattato di un attentato, ma scommetto quello che vuoi che non è stata un’idea sua!»

«Di chi sia stata non mi importa! E non importa neanche ai piani alti! Dopo quello che è successo, mi sorprende che non siano già venuti qui a rilevare tutto il materiale raccolto finora e a prendere il controllo dell’indagine.

E comunque vada, la mia squadra stava quasi per restarci secca! Quindi, per quel che mi riguarda, non intendo aspettare un minuto di più!»

«Aspetta, ti prego» tentò disperatamente Fittzwater quando l’amico aveva già le mani sulla tastiera del telefono. «In questo modo manderai all’aria mesi di indagini. Non te ne importa niente? Tutti quei laboratori di cui non sappiamo ancora nulla…»

«Si fottano i laboratori» ringhiò Owens a denti stretti. «Fino a quando mi sarà possibile, intendo fare a modo mio, e non intendo perdere altro tempo.»

Quindi il Direttore guardò dritto negl’occhi Fittzwater, fulminandolo.

«Da questo momento l’indagine passa sotto il controllo della Sezione Speciale dell’Agenzia, e quelli non sono abituati come me e te alle finezze estetiche. Tutto quello che possiamo fare è cercare di prendere Timur vivo prima che lo facciano loro, o Lilith a parte questa indagine finirà dritta nel cesso. Quindi, ti consiglio di preparare i tuoi uomini. Più posti assalteremo nello stesso momento, più possibilità abbiamo di sradicare quanti più rami della setta possibili» e come il centralino di controllo attivò la linea, ordinò perentorio. «Chiamatemi il TMD!»

Fittzwater guardò un’ultima volta il suo vecchio amico, supplicandolo con lo sguardo di fermarsi, ma di fronte ad una seconda occhiata perentoria poté solo andarsene sbattendo con forza la porta fin quasi a buttarla giù.

 

Due minuti dopo, nella caserma dei reparti speciali, l’allarme d’intervento scaraventò la squadra di Jake dalla sala da pranzo direttamente a bordo della camionetta d’intervento che già li aspettava per partire.

«Qual è l’incarico?» domandò Ruch

«Una cattura» replicò scherzosamente Madison leggendo le direttive arrivate sul suo comunicatore. «C’è una Chiesa di Ela da ripulire all’Ottavo Distretto. Abbiamo l’ordine di recuperarne il capo.»

«E ci chiamano per una scemenza simile?» protestò Dylan

«Pare che sia collegato con quello che è successo ieri all’università.

Gli ordini sono di mettere in sicurezza l’edificio in cui si trova il bersaglio e arrestare quante più persone possibili. L’arresto del capo di quegli esaltati, Plivis Emeraude, è classificato come priorità uno. In altre parole, qualunque cosa accada, dobbiamo prenderlo vivo.»

«Per quale motivo un piccolo prelato dovrebbe essere così importante?» chiese Jake

«Queste non sono cose che ci riguardano. In ogni caso si tratta di una operazione congiunta con la polizia cittadina, pertanto la sincronia d’intervento sarà fondamentale.

Il bersaglio si trova in un edificio residenziale a Ladner, nella zona di Hestrid Point. La Polizia Militare ci ha fornito tutte le mappe, le informazioni e le planimetrie di cui avremo bisogno.»

Rapidamente vennero assegnati gli incarichi e fu illustrato il piano d’attacco: Madison, Ruth e Shiffon avrebbero creato un diversivo e attirato l’attenzione delle guardie, mentre Dylan e Jake avrebbero raggiunto velocemente il retro della villa facendo irruzione e catturando il bersaglio prima che questi potesse avere il tempo necessario per poter fuggire.

«E ora forza, Bravo! Andiamo a guadagnarci la paga!»

 

Timur da parte sua, come aveva saputo dell’avvenuta riuscita del piano, ma anche del modo in cui esso era andato in parte a rotoli per l’intromissione di quel Noce che aveva sempre considerato un idiota, aveva deciso di lasciare velocemente la città e ritirarsi nella sua tenuta sul mare.

Non solo in questo modo poteva dare tempo alle acque di calmarsi, ma soprattutto la villa costituiva un’ottima postazione difensiva, dalla quale era facile accorgersi di eventuali minacce e agire di conseguenza.

Di certo però Timur e i suoi uomini non si aspettavano di doversi confrontare con una squadra TMD, contro la quale i sistemi d’allarmi e le armi di piccolo calibro che la scorta del prelato aveva con sé erano ben poca cosa.

A cento metri dalla casa, cui si accedeva per una strada stretta e tortuosa che attraversava un boschetto, la camionetta d’assalto lanciò alcune delle granate fumogene, che colpito il cortile con estrema precisione generarono una densa e fitta coltre bianca.

Protetto dal fumo il mezzo sfondò il cancello, travolgendo anche due guardie che fecero appena in tempo a spostarsi, e come le portiere posteriori si aprirono la squadra di Madison sciamò all’esterno armi in pugno aprendo subito il fuoco.

La minuscola guarnigione, formata per buona parte da ex membri dell’esercito congedati con disonore, oppose una difesa piuttosto stentata, ma prima che potessero arrendersi Jake e Dylan, passando sotto il loro naso grazie alla cortina fumogena, erano già all’interno della villa, dove tuttavia avevano trovato ad attenderli altra resistenza.

Dax, che aveva sniffato Lilith in polvere fino a poco prima, si presentò nel salone prospiciente l’ingresso con una mitraglietta per mano, l’espressione infervorata e la faccia che ancora parzialmente tinta di polvere blu sembrava quella di un demone infernale.

L’uomo oppose una resistenza quasi insensata, tanto che alla fine i due agenti furono costretti ad abbatterlo, anche se Dax aveva tanta di quella droga in corpo che nell’atto della morte questa irrigidì tutti i muscoli, tramutandolo in una statua che con le dita paralizzate sui grilletti seguitò a sparare fino all’esaurimento dei caricatori, saturando l’aria di fumo acre e devastando completamente il salone.

«Muoviamoci!» ordinò allora Jake.

Nel mentre, però, Timur se l’era già data a gambe, e sfruttando un passaggio segreto in cantina aveva imboccato la scala lunga e stretta scavata direttamente nelle viscere della scogliera che, scendendo verso il basso, lo condusse fino ad una grotta marina segreta, ben nascosta dall’esterno da una parete magica, dove un motoscafo lo attendeva per scappare.

«Avanti, metti in moto!» ordinò con gli occhi fuori dalle orbite, solo per scoprire in un secondo momento che l’autista era sparito.

Subito dopo, un rumore di passi attirò la sua attenzione, e alzati gli occhi il priore si trovò a tu per tu con una faccia famigliare.

«Che ci fai tu qui?

Ce li hai portati tu per caso? Comunque vada, sappiate che io mi chiamo fuori! Non mi avevate detto che sarebbe stato così pericoloso! Ora salgo sulla mia barca, prendo la prima aeronave per Callisto, e tanti saluti! Tenetevi i soldi e tutto il resto, io non voglio più saperne nulla!»

Poi, di colpo, la sua espressione si trasformò, facendosi atterrita e piena di terrore.

«Aspetta! Che vuoi fare? No, ti prego! No!».

 

Nel mentre, in superficie, la situazione all’interno della villa era stata pacificata, e sia Jake che Dylan si erano messi alla ricerca di Timur, senza però riuscire a trovarlo.

Non era occorso molto perché i due agenti si imbattessero invece nel passaggio segreto, lasciato imprudentemente spalancato dal priore, ma mentre lo stavano ancora percorrendo il fragore di uno sparo riempì quel cunicolo stretto e angusto con potenza assordante.

«Merda, corri!» gridò Dylan, che procedeva in testa.

Quando arrivarono alla grotta, però, era già troppo tardi; Timur giaceva sul terreno umido, un braccio parzialmente immerso nell’acqua, la tunica fradicia del sangue che usciva a fiotti da un foro nella gola; accanto a lui, una pistola ancora fumante.

«È ancora vivo!» esclamò Jake che, inginocchiatosi davanti a lui, lo vide muovere leggermente le palpebre. «Presto, aiutalo!»

Dylan fece il possibile, e fu anche ordinato di portare quanto prima sul posto l’unità medica di emergenza, ma quasi subito fu evidente che per quanti incantesimi curativi si potesse usare per quel poveretto non c’era speranza.

Con le sue ultime forze, come a voler implorare aiuto, il priore afferrò il polso di Dylan, guardandolo con i suoi occhi spalancati che, di secondo in secondo, diventavano sempre più bianchi.

«M… on… a…» mormorò, tossendo fiotti di sangue

Quindi, sfinito da un’ennesima convulsione, rantolò nuovamente sulla roccia esalando l’ultimo respiro.

Jake e Dylan si guardarono tra di loro, poi il primo, ancora scosso per le parole incomprensibili che Timur gli aveva rivolto prima di morire, prese la radio.

«Bravo Quattro» disse con un filo di voce. «Il bersaglio è morto. Obiettivo fallito. Ripeto. Il bersaglio è morto. Obiettivo fallito.»

«Bravo Quattro, ricevuto.» rispose, dopo qualche attimo, la voce di Madison

 

Alexia si risvegliò solo quattro giorni dopo i fatti dell’università, ritrovandosi con sua stessa sorpresa ancora viva e distesa su di un letto dell’ospedale di St. John.

Ad assistere al suo risveglio, il Direttore Owens, che vedendola aprire gli occhi cercò di nascondere dietro ad un sincero sorriso di sollievo il suo reale stato d’animo.

«Ehi, finalmente. Era ora che ti svegliassi. Lo sai quanto mi hai fatto stare in pensiero?»

«Direttore!?»

Nel momento del risveglio, e nonostante i sedativi, Alexia aveva sentito un gran dolore in tutto il corpo, ma quando cercò istintivamente di alzarsi una tremenda fitta le fece quasi scoppiare lo sterno, per non parlare della spalla destra che sembrò quasi volersi staccare.

«Calma, calma» le disse il Direttore aiutandola a rimettersi distesa. «Forse non te ne rendi conto, ma hai quattro costole fratturate, una spalla incrinata, il polso destro spezzato, e se fossi nata trecento anni fa a quest’ora non avresti più né milza né pancreas.

Tutto questo senza contare l’esaurimento magico che ha richiesto una procedura di emergenza per non farti perdere le tue capacità di maga.

In altre parole, nonostante tutto, sei ridotta piuttosto male.

Ma consolati. Si tratta di cose pienamente superabili. Qualche mese di riposo, e sarai di nuovo in piena forma.»

Alexia, appena fu in grado di farlo, chiese notizie della missione e dei suoi risvolti, e già dall’espressione che Owen assunse alla sua domanda la giovane donna si rese conto che molte cose non dovevano essere andate per il verso giusto.

«Timur è morto» disse mestamente il Direttore al termine del suo racconto. «Dalle prime informazioni sembra si sia suicidato. Abbiamo smantellato il laboratorio principale, alcuni di quelli minori, e tutte le attività secondarie disseminate per la città.

Di certo è un brutto colpo per il mercato della Lilith qui a Kyrador, ma sono pronto a scommettere che quelli delle altre città ne hanno risentito solo in parte.

Timur dopotutto non aveva contatti né affiliati a Eldkin o a Midgral, e stando ai miei colleghi pare che lì la droga stia circolando tuttora in gran quantità.»

E purtroppo, le brutte notizie non erano finite.

«Il corpo dell’EDA è stato analizzato da cima a fondo.

C’era abbastanza droga in quel braccialetto infernale per generare una decina di EDA, figuriamoci se iniettata in una sola persona. Che siamo di fronte ad una Lilith diversa da quella fino ad ora conosciuta è fuori di dubbio, il problema è che non ne abbiamo trovato traccia. Questa nuova droga viene assorbita dall’organismo molto in fretta, ed è infinitamente più letale.»

«Signore» mormorò Alexia attraverso la maschera per l’ossigeno. «Sappiamo bene che Timur non può aver creato una cosa del genere da solo.»

«Ne sono consapevole» rispose Owens nascondendo per un attimo il volto tra le mani. «Sfortunatamente, Capitano, è una questione che non ci riguarda più.»

«Che significa?»

«Il caso da ieri è ufficialmente di competenza dell’unità Indagini Speciali. La Polizia Militare continuerà a gestire l’indagine relativa al traffico di droga, ma tutto il resto passa nelle mani del Consiglio di Sicurezza.»

Affranta, Alexia girò la testa dall’altra parte, osservando mestamente la città che andava tingendosi del rosso del tramonto.

«Mi dispiace» riuscì solo a balbettare Owens, che subito dopo però cercò di risollevare sia il proprio morale che quello della giovane sottoposta. «Comunque, per ora, non ci pensiamo tu. Tu pensa solo a rimetterti in sesto.

E a questo proposito, credo che fuori ci sia qualcuno che vuole vederti.»

Detto questo Owens uscì lasciando la porta aperta, e da questa dopo qualche secondo entrò, l’espressione quasi sconvolta ed il fiato accorciato sia da una breve corsa che da un’ansia crescente, una persona che Alexia negli ultimi tempi aveva visto molto poco, ma di cui aveva sempre rimpianto quello sguardo così amorevole ed affettuoso, celato dietro ad una sottile parete di freddo autocontrollo.

«Ciao, mamma.»

 

«L’avevo detto fin dall’inizio che non avremmo dovuto fidarci di quel tipo!» sbottò Tristano tirando pugni sul tavolo. «Per poco non ci ha fatti scoprire!»

«Imprevisti a parte,» commentò Percival. «Direi che la prova è stata piuttosto buona. Secondo i nostri informatori nella polizia, le analisi autoptiche condotte sull’EDA generato dalla nuova Lilith non sono riuscite a rilevare né la composizione né la natura effettiva di questa droga.»

«In altre parole,» intervenne Gareth. «Non ci sarà modo per la MAB di distinguere in futuro gli attacchi compiuti da noi dagli incidenti occasionali.

Direi che questa è decisamente una buona notizia.»

«Lo è altrettanto che Timur sia morto» disse Valerian. «Se fosse rimasto in vita, conoscendolo, anche nel caso in cui fosse riuscito a sfuggire al TMD sarebbe stato capace di vendersi in cambio di qualche privilegio.

Per fortuna lo abbiamo trovato noi prima dei cani della MAB.»

Il giovane erede dei Delaroche rivolse quindi uno sguardo carico di ringraziamento verso Owain, che sedeva al suo solito divanetto con fare apparentemente distaccato; da qualche giorno aveva iniziato ad intagliare un vecchio pezzo di legno ritrovato casualmente in soffitta, e dopo molto lavoro cominciava ad intravedersi un volto di donna emergere dalla superficie annerita e graffiata dagli anni.

«Noi tutti abbiamo un grande debito nei tuoi confronti. Senza il tuo aiuto, la situazione avrebbe potuto assumere contorni drammatici.

Hai tutta la nostra gratitudine.»

«Doveva essere fatto, prima o poi. Quelli come Timur non possono essere lasciati vivi a lungo.»

«Ammetto che in qualche occasione ho dubitato della tua fedeltà. Ma ora, non succederà più.

Hai la mia parola.»

«Mi fa piacere sentirlo.»

I loro sguardi si incrociarono, in un muto scambio di idee e sentimenti, quindi Valerian tornò a concentrarsi sulla riunione.

«L’unico problema, è che il meccanismo di incenerimento del bracciale non ha funzionato.» disse Lancillotto

«Probabilmente si è trattato di un guasto inaspettato» minimizzò Gareth. «Stiamo parlando pur sempre di un prototipo.»

«Ci hanno assicurato che i prossimi modelli saranno più efficaci» disse Valerian. «Da questo momento, inizia la seconda fase del nostro progetto. Per minimizzare il dispendio di risorse, concentreremo i nostri sforzi su Kyrador. I proventi della mia famiglia e quelli derivati dai nostri introiti sullo spaccio della Lilith nelle altre regioni ci forniranno la disponibilità economica per portare avanti la nostra campagna.

Gli ordini sono di mantenere alta la tensione il più possibile, ma senza esagerare. Prima di passare alla fase tre, dobbiamo dare il tempo ai ricercatori di mettere a punto Ragnarock. Ma più caldi saranno gli animi al momento di sferrare il nostro attacco, maggiori saranno le possibilità che esso sia coronato da successo.»

Detto questo, l’erede dei Delaroche ed i suoi compagni presero ognuno uno dei dodici calici d’argento disposti in circolo al centro del tavolo, piccoli capolavori d’artigianato amalteco intagliati e lavorati a formare eleganti altorilievi; la cosa curiosa era che, a parte le decorazioni floreali e la forma della coppa rievocante i petali spalancati di u giglio, ogni calice aveva raffigurato il mezzobusto di un cavaliere in armatura, ognuno diverso da tutti gli altri.

Il primo capo di Avalon, Auguste Delaroche, aveva fatto creare quei calici per i suoi più fidati consiglieri ed amici, ed era stato nel momento in cui Valerian li aveva casualmente trovati, sotterrati nel vecchio orto della villa, che dentro di lui era nata la convinzione di dover proseguire nel sentiero tracciato da suo padre per costruire un mondo nuovo.

Anche Owain raccolse il proprio calice, che fu lo stesso Valerian a porgergli di fronte alla sua apparente esitazione, e come tutti i recipienti furono pieni fino all’orlo di ottimo vino ognuno dei presenti si incise leggermente l’indice destro, lasciando cadere una goccia del proprio sangue nella bevanda, tingendola lievemente di un rosso un po’ più acceso.

«Ora e sempre.» proclamò Valerian alzando il Calice del Re

La parola d’ordine dei loro predecessori; ora Avalon, almeno per loro, era tornata in vita.

«Ora e sempre.» risposero in coro i suoi compagni

 

Carmy, per quanto ci provasse, non riusciva a smettere di pensare a Noce, e le notizie giunte dall’ospedale circa le condizioni di salute del Capitano le avevano ulteriormente affossato il morale.

Era talmente distratta e persa nei suoi pensieri da non essere ancora riuscita, a distanza di quattro giorni, a finire di stendere il suo rapporto finale sulla missione, e dal momento che il termine ultimo per consegnarlo era ormai prossimo a scadere si era vista costretta e restare oltre il termine del turno.

Uno dopo l’altro tutti se n’erano andati, e ormai nell’ufficio restava solo lei, avvolta da un buio quasi assoluto a malapena rischiato dalla luce della lampada da scrivania e da quella della finestra virtuale del computer.

Ma anche così, non le riusciva di lavorare; continuava a rileggere le poche righe che aveva scritto, spesso digitando senza volerlo la stessa frase più volte o cancellando intere sezioni dopo essersi resa conto, ad una prima lettura, di quanto fossero ortograficamente e grammaticalmente inaccettabile per una persona adulta e vaccinata come lei.

L’espressione spaventata e sconvolta di Noce era ancora davanti a lei. La vedeva ovunque, nei manifesti pubblicitari come sulle riviste, navigando in rete o semplicemente chiudendo gli occhi, inoltre aveva dormito molto poco, tanto che persino una ragazza paziente come Julienne alla fine aveva sbottato.

Della Carmy O’Neill che quattro mesi prima aveva messo piede per la prima volta in quell’ufficio sembrava non esserci più traccia, schiacciata dal peso di una realtà che non avrebbe mai voluto vedere.

Che ne era stato di quel sogno chiamato Kyrador, si domandava? Possibile che fosse marcito fino a tal punto?

All’improvviso, uno scalpiccio spedito e pesante risuonò nel silenzio tutto attorno, e Cane si palesò all’interno del box con aria contrariata e risoluta.

«Cane, non eri andato a casa?» domandò Carmy tornando in sé

«Vieni con me.»

«Aspetta, cosa…» ma prima che la ragazza potesse aprire bocca un’altra volta l’agente l’aveva già presa per un braccio, portandola quasi a forza al più vicino ascensore.

Mentre salivano verso l’alto Cane seguitò a mantenere uno sguardo freddo ed un atteggiamento ostile, tanto che Carmy non ebbe più il coraggio di domandare nulla, restando a sua volta ferma ed in silenzio a leggere i numeri sul display che aumentavano sempre di più.

Le porte si riaprirono al sessantesimo piano, l’ultimo, su di un piccolo corridoio al termine del quale i due incontrarono una stretta scala a chiocciola.

«Avanti, sali.»

Carmy obbedì, troppo confusa e spaventata per chiedere informazioni, e con Cane che la tallonava un gradino più indietro percorse verso l’alto tutta la scala fino a raggiungere una piccola porta chiusa a chiave, con un cartello di divieto vecchio e sbiadito lasciato a pendere da una catenella piena di ruggine.

Fattosi avanti, e senza apparente esitazione, Cane fece scattare la serratura, e come spalancò l’uscio verso l’esterno una ventata d’aria fredda colpì la faccia di Carmy, sulla quale si accese come d’incanto un’espressione carica di meraviglia.

Kyrador, la Città dei Nove Distretti, risplendeva sotto i suoi piedi.

Milioni di luci di palazzi, lampioni, schermi e quant’altro formavano uno scintillante mosaico in continua mutazione, che diventando sempre più luminoso man mano che ci si avvicinava al centro si protendeva ad ovest fin sul bordo del male, disperdendosi invece fin oltre l’orizzonte in tutte le altre direzioni.

Da lassù, dalla torre panoramica della sede della polizia militare, si poteva vedere tutto, dai bagliori intermittenti delle navi che andavano e venivano dalle darsene a nord al traffico di luci in continuo movimento delle principali arterie stradali, sia a livello del suolo che sopraelevate.

Sulla collina più alta, il palazzo presidenziale, e poco distante la colonna bianchissima della Marble Tower che scintillava come una stella. Un po’ discostate dal centro, le fronde degli alberi di Luminous Park spezzavano un momento la linea dei palazzi, dando però un tocco di gentile raffinatezza che accresceva il colpo d’occhio invece che penalizzarlo.

Rainbow Bridge, malgrado ciò che era diventata Harris Island, conservava intatto tutto il suo splendore, rassomigliando con i suoi imponenti tralicci e i cavi a spirale alle canne possenti di un gigantesco organo. E alle sue spalle, avvolta nel buio dell’oceano, appena visibile sul bordo dell’orizzonte, scintillava una piccola luce, simile ad un faro.

Dovette passare parecchio tempo prima che Carmy riuscisse a riprendersi, tanto quello spettacolo, che mai aveva immaginato potesse apparire dal tetto del posto in cui lavorava, l’aveva lasciata senza parole, la bocca spalancata e gli occhi che scintillavano come quelli di una bambina.

«Questa è Kyrador.» disse Cane distendendo il volto e calmando la voce.

Un rumore giunse alle loro spalle, e Carmy, voltatasi, vide Lucas sbucare a sua volta sulla terrazza con tre seggiole pieghevoli in una mano e una rete di birre fresche di congelatore nell’altra, queste ultime sollevate in alto come un trofeo.

Così, quella serata si concluse come la ragazza non si sarebbe mai immaginata, seduta a pochi passi dal bordo con una lattina ghiacciata tra le mani e lo spettacolo impagabile della città illuminata sotto i piedi.

Eppure, dapprincipio, neanche questo, inclusa la vicinanza di quei colleghi che tanto dovevano averla cuore, parve bastare in un primo tempo per scuoterla dal suo tormento.

«Tutti ci siamo passati prima o dopo» disse d’un tratto Cane posando la sua birra e ritraendo i piedi comodamente poggiati sul parapetto. «Io. Il Capitano. Forse anche il Direttore. Persino il nerd qui presente.»

«Grazie tante.» protestò l’interessato

«Quello che voglio dire, Carmy, è che tutti in un primo momento siamo cresciuti con la convinzione che il nostro mondo fosse scintillante, pacifico, forse addirittura perfetto.

È una cosa a cui tutti si sforzano di credere, anche qui a Kyrador. Anzi, forse addirittura più qui che in qualunque altra parte del globo.»

Un piccolo cristallo di ghiaccio scivolò lentamente lungo la superficie levigata della lattina, seguito da Cane con sguardo come pensieroso.

«Questa città, in fin dei conti, è un po’ come un cristallo. Può assumere diverse forme, e apparire in vari modi, a seconda del punto di vista da cui lo si osserva e da come la luce lo colpisce.

La maggior parte degli abitanti si sforza di guardare solo quello che più li appaga, e distoglie lo sguardo quando ciò che vedono non gli piace più.

Ma chi fa un lavoro come il nostro è obbligato a guardare ogni singola sfaccettatura, bella o brutta che sia. Ed è allora, quando il miraggio di perfezione svanisce, che la vera Kyrador, il vero Celestis, emergono per quello che sono.»

Carmy sobbalzò, stringendo senza volerlo un po’ più forte la sua lattina.

«In fin dei conti però, non è così male» commentò Lucas. «Più una cosa è diversa, più è bella. C’è più gusto a scoprirla. E poi, bene e male sono concetti imprescindibili, oltre che relativi. In quanto agenti di polizia, ma soprattutto membri della MAB, il nostro compito è far sì che l’equilibrio su cui poggia la nostra società non venga danneggiato.»

«E questo equilibrio,» concluse Cane. «Poggia inevitabilmente sul rapporto tra il lato luminoso e quello oscuro, a Kyrador come in tutto Celestis.»

«Quindi,» mormorò Carmy a capo chino. «Sarà sempre così?»

Cane rispose con un’alzata di spalle.

«L’utopia semplicemente non può esistere. Sarebbe la negazione della natura umana. La gente lì fuori vuole credere che Celestis sia una realtà superiore, ma in verità probabilmente non è tanto diverso dal mondo che i nostri antenati lasciarono centinaia di anni fa.»

Sospirando l’agente si portò la lattina alla bocca, lasciandosi cullare dal piacere della birra fredda che scendeva nella gola.

«D’altra parte però, se la sai osservare, questa città è anche bellissima. In fin dei conti, a ben pensarci, forse è davvero quanto di più vicino all’utopia potresti trovare in questo mondo. Dopotutto, i nostri avi l’hanno costruita perché fosse il simbolo ultimo della civiltà che volevano costruire, e che volevano con tutte le loro forze rendere perfetta.

Quindi, forse, un briciolo di perfezione Kyrador ce l’ha, nascosto tra la nebbia che quotidianamente la nasconde e la soffoca.»

Carmy guardava ora in alto ora in basso, mentre il cuore le batteva forte.

«Non è stata la prima volta, e non sarà l’ultima» concluse Cane riassumendo un tono un po’ più serio. «Ma se saprai convincerti che c’è una Kyrador migliore rispetto a quella che talvolta ti troverai costretta a guardare negl’occhi, allora troverai la forza per andare avanti. Altrimenti, te lo garantisco, questa città ti stritolerà nei suoi tentacoli fino a soffocarti.

Accetta le sue regole, sottomettiti al suo corso, e saprà darti abbastanza gioie da compensare in parte i dolori che ti metterà di fronte.

È così che si va avanti. È così che si sopravvive a questo Regno di Cristallo.»

Da un momento all’altro, fu come se un velo nero si fosse immediatamente dissolto dinnanzi agli occhi e nell’animo di Carmy, alleggerendo il suo cuore e lasciando dietro di sé solo un fastidioso, ma in qualche modo inevitabile, senso di consapevolezza.

Cane aveva ragione; come tutti, si era sforzata di credere che il suo fosse un mondo fantastico, e Kyrador il miraggio di perfezione tanto osannato e decantato da poeti, cantanti e politici dalla dialettica suadente.

Forse, in cuor suo, voleva sforzarsi di crederci ancora, ma non poteva né doveva chiudere gli occhi dinnanzi ai suoi lati più oscuri e controversi.

Si alzò dal seggiolino, lasciandosi ammaliare una volta di più dal turbinio di suoni, luci e odori che giungevano da sotto i suoi piedi; forse Kyrador era davvero una Città delle Nebbie, un luogo in cui tutto era il contrario di tutto, in cui le passioni e i turbinii dell’essere umano assumevano le forme di scintillanti palazzi, ampi viali, vaste strade e grandi parchi, e dove ogni cosa esisteva in funzione del suo opposto. Ma, allo stesso tempo, come diceva Cane, era anche un Regno di Cristallo, fragile e magnifico allo stesso tempo, capace di diffondere una luce divina e allo stesso tempo riflettere al suo interno i lati più ambigui ed oscuri della società.

Trovare l’equilibrio.

Era questo il segreto.

Ma nel suo caso l’importante non era solo trovarlo; era preservarlo.

Lei era un agente di polizia. Un membro della MAB. Quella città, quel mondo, erano tutto ciò che era chiamata a tutelare.

Tutto per non lasciar spegnere quella luce, quel frammento di perfezione che giaceva da qualche parte nel cuore della più grande e splendente città di Celestis.

«Avete ragione» disse con uno strano, liberatorio sorriso. «Questa è Kyrador.»

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

E così, eccoci arrivati alla fine di questa prima parte!

Molti enigmi sono stati sciolti, altrettanti attendono ancora una soluzione, e in quel piccolo mondo di nome Celestis si vanno delineando scenari sempre più ambigui ed inquietanti.

E ora cosa accadrà?

Quali sono i piani di Avalon? Sono davvero loro il vero nemico, o c’è qualcuno che agisce alle loro spalle?

Cos’altro attende Kyrador e il resto del mondo?

Lo scoprirete nella Seconda Parte, “La Tomba dell’Ambizione”, che inizierò a pubblicare al mio rientro dalle vacanze.

Grazie a tutti quelli che hanno letto e recensito questa storia.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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