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Illuminata dalla luce
azzurrina di Erithium, il suo gemello minore, l’unico
dei due satelliti di Celestis che brillasse di luce
propria, la Zona Oscura di Neos scintillava di un
bagliore innaturale, che colorava di un colore celeste spento la sua superficie
solitamente bianca, puntellata di crateri e crepacci più o meno vasti, frutto
delle innumerevoli collisioni sia con meteoriti ed asteroidi sia con satelliti,
scarti di astronave e altra pattumiera che gravitava in quella parte di spazio.
Rinchiuso
nella propria tuta protettiva, il dottore scrutava pensieroso l’oceano di
stelle che si stagliava sopra la sua testa, reso opaco e fuligginoso dalla
superficie traslucida della barriera magica che come una cupola avvolgeva
quella porzione di satellite rendendo l’atmosfera, se non respirabile, almeno
un po’ più somigliante a quella del pianeta, facilitando i lavori di scavo e
rendendo il lungo periodo di permanenza in quell’eremo di desolazione e
solitudine un po’ meno faticoso da sopportare.
Erano
ormai molti mesi che, seguendo le cronache e le poche informazioni che era
stato possibile mettere insieme, la spedizione si era avventurata in quei
luoghi, ma a detta dei più le possibilità di trovare qualcosa, e soprattutto
ciò che i committenti del dottore stavano effettivamente cercando, erano quasi
nulle.
Troppo
tempo era passato, senza contare che stando a quegli stessi resoconti niente di
ciò che stavano cercando era sopravvissuto alla più grande opera di insabbiamento
della storia dell’umanità. Ma dopotutto non era lui a metterci i soldi, così
come non gli interessava sapere cosa i suoi capi stessero effettivamente
cercando.
D’un
tratto, un collega gli si fece incontro, sopraggiungendo tutto trafelato fino a
raggiungerlo in cime alla piccola roccia ai margini del campo sopra la quale
era seduto.
«Dottore!
Abbiamo trovato qualcosa!»
«Ne
siete sicuri!?» esclamò lui volgendosi di scatto
«Più che
sicuri! Venga a vedere, presto!».
Il dottore
seguì il collega fin sulle pendici frastagliate di Venus
Canyon, più una stretta e ripida gola che un canyon vero e proprio, e saliti su
di un montacarichi di fortuna scesero entrambi nelle viscere della spaccatura
fino a raggiungerne il fondo, dove l’attività era assai più frenetica che in
superficie.
Il rumore
assordante dei macchinari di scavo, reso udibile dall’atmosfera artificiale,
era solo parzialmente mitigato dal casco, e i fari accesi per combattere l’oscurità
di quello strettissimo pertugio era perfino troppo forte, tanto da risultare
quasi accecante se guardata negl’occhi.
Al centro
di quella specie di cantiere, circondati da una piccola folla di curiosi
ansiosi e un po’ spaventati, come archeologi intenti a disseppellire un
prezioso reperto due operai stavano delicatamente rimuovendo strati di roccia
lunare e polveri da quello che, a vista, appariva come il fossile pietrificato
di una strana quanto inquietante creatura, per buona parte ancora imprigionato
nella pietra.
Come fu
condotto alla presenza del reperto, anche il dottore rimase un momento di
stucco.
Era molto
più grosso di una persona, anche se stabilirne con precisione l’altezza era quanto
mai difficile, sia per via dei detriti che ancora lo avvolgevano sia perché, a
ben guardarlo, mancava sia della testa che della parte inferiore delle gambe,
dal ginocchio in giù. In compenso aveva ancora le braccia, grosse e
sproporzionatamente lunghe, terminanti in mani con tre sole dita, e un lungo
collo simile a quello di una giraffa, avvolto su sé stesso quasi a volerne
diminuire l’estensione avvicinando la testa al resto del corpo; la vertebra più
alta appariva poi stranamente levigata, come se la testa fosse stata recisa di
netto da qualcosa di molto affilato.
Anche la
coda, lunga e carnosa, appariva recisa, anche se di essa, forse a causa della
permanenza alle intemperie, aveva risentito maggiormente del deterioramento,
risultando molto più difficile e complessa da analizzare.
Ciò nonostante
era una fossilizzazione strana, anomala, con la struttura corporea che, per
quanto consumata, sembrava essersi in qualche modo conservata, indurendosi
assieme alle ossa fino a diventare simile alla pietra. La pelle, se di pelle si
poteva parlare, era nera e secca, come fosse stata bruciata, e ad una rapida
occhiata il dottore ipotizzò che forse era stato proprio grazie ad una qualche
eccezionale fonte di calore, unita al freddo della superficie e dello spazio
cosmico, a permettere quella specie di calcificazione.
«Oh, mio
Dio…» balbettò il dottore sgranando gli occhi.
Dodici anni dopo
Il Direttore Harlow interruppe un momento di scorrere uno dei tanti
rapporti che intasavano la memoria del suo computer, strofinandosi gli occhi
stanchi e cercando nel contempo a tentoni la sua pipa di legno che sapeva essere
da qualche parte sopra la scrivania.
Erano
quelli i momenti in cui rimpiangeva di aver accettato il trasferimento ad un
lavoro d’ufficio per gli ultimi anni di servizio nella MAB.
Tutto il giorno chiuso in una stanza a leggere
e compilare scartoffie non faceva per lui, non dopo venti e passa anni spesi a
pattugliare rotte commerciali inseguendo pirati e contrabbandieri, e, anche se
da giovane aveva coltivato il sogno di far parte della TacticalMagicianDivision, non era
certo quello ciò che aveva sempre immaginato.
Il
comando del TMD non era certo una mansione da prendere alla leggera, ma dopo tanto
tempo speso tra le stelle sentiva di non avere più la stoffa per guidare nella
maniera più consona le squadre speciali dell’agenzia, dove le parole d’ordine erano
prontezza, esperienza ed efficienza.
Esperienza
ed efficienza non gli facevano difetto, ma la prontezza non era esattamente il
suo forte, o almeno non quel genere di prontezza che ci si aspettava lì dentro.
E quello
che era peggio, negli ultimi mesi si era reso conto di essere rimasto indietro
di trent’anni per quanto riguardava l’insegnamento e l’applicazione delle
dottrine magiche, con giovani e promettenti stregoni che spuntavano come
funghi. Ai suoi tempi tutti coloro, militari e civili, che si presentavano agli
esami per l’ammissione nel TMD avevano un decennio o più di studio forsennato
sulle spalle, e impiegavano una vita ad ottenere anche solo di essere ammessi
alla prova pratica, ora invece era difficile trovarne uno non odorasse ancora
di accademia.
Gillian non
sapeva se questa potesse essere considerata o meno una cosa buona; era vero che
la nuova generazione stava dimostrando una capacità di apprendimento della
magia che quelli della sua età potevano solo sognarsi, ma mettere troppe
responsabilità sulle spalle di ragazzi a momenti neanche ventenni gli sembrava
troppo, soprattutto in un momento come quello.
Quello
di una eccessiva diffusione della magia in strati sociali sempre più ampi era
un problema di cui si dibatteva molto negli ultimi tempi, e la recente
escalation di incidenti legati ai suo utilizzo era il cavallo di battaglia
preferito di chi chiedeva una revisioni delle leggi in materia; ormai era
troppo facile apprendere e sfruttare la magia pur non possedendo la necessaria
esperienza per farlo, e la magia non era certo qualcosa con cui si potesse
giocare.
Anche
l’Ammiraglio in una certa misura la pensava così, però allo stesso tempo non
gli sembrava giusto tarpare le ali a giovani promettenti e volenterosi. Del resto,
non che potesse farci qualcosa.
Di colpo
gli venne voglia di vederli. Di vedere coi suoi occhi la futura generazione di
stregoni militari che avrebbero costituito la punta di diamante della MAB del
futuro.
Raccolta
la sua pipa e spento il computer lasciò l’ufficio, percorse il breve corridoio
del trentesimo piano e si infilò nel più vicino ascensore, dirigendosi verso il
cortile interno dove erano in corso gli allenamenti mattutini delle nuove
reclute.
I membri
del TMD erano una via di mezzo tra una squadra sportiva e una affiatata unità
speciale dell’esercito; vivevano in comunità, nei convitti a loro riservati in
un’altra ala dell’edificio, salvo occasionali periodi di congedo che potevano
andare dai due ai sei mesi. Questo creava maggiore affiatamento e senso di
appartenenza, entrambe cose indispensabili in un gruppo scelto dove la fiducia
reciproca poteva essere spesso qualcosa di vitale.
Non
erano tutti soldati, o quantomeno non provenivano tutti da altre divisioni o
altri uffici della MAB; anche i civili potevano accedere nel TMD, e in quel
caso diventavano personale militare a tutti gli effetti, pur con diverse
qualifiche e privi di un grado che non fosse quello di membri della squadra.
L’addestramento
di un TMD variava a seconda del campo a cui si veniva assegnati, ma lo studio
delle arti marziali e della stregoneria era ovviamente basilare.
Quarant’anni
appena compiuti, il Capitano istruttore JulianVyce era uno degli elementi più brillanti che il TMD, per
non dire la stessa MAB, avessero mai avuto.
Aveva
fatto parte delle forze di sicurezza per molto tempo, almeno fino al giorno in
cui cinque anni prima, nessuno sapeva bene perché, aveva deciso di ritirarsi
dalle prime linee per dedicarsi all’attività di addestramento; la sua
esperienza nella stregoneria era notevole, e uno degli ultimi provvedimenti
assunti dal precedente Direttore della squadra era stato proprio di nominarlo
istruttore capo delle reclute TMD.
Tutte le
mattine, dalle nove alle undici, le reclude si addestravano al combattimento e
all’esercizio fisico. Quando il Direttore raggiunse il cortile i suoi ragazzi
stavano rientrando dai trenta minuti di corsa nel parco antistante la sede
della squadra, piegati dal caldo di inizio estate ma composti e in riga come si
conveniva ad una futura elite di stregoni militari.
Erano
quasi tutti ragazzi, con sole quattro o cinque ragazze, e quasi tutti avevano
un’età compresa tra i quindici e i ventitre anni. Alcuni maschi si erano
rasati, obbedendo ad una vecchia tradizione che voleva le reclute immediatamente
distinguibili, le ragazze invece o portavano i capelli corti o li tenevano
annodati in una coda di cavallo, come etica militare comandava.
Come al
solito, alla testa della colonna, stava il Capitano Vyce,
con quella sua chioma nero fumo un po’ scompigliata, imperlata di sudore, quei
lineamenti duri e gentili al tempo stesso e quel viso rude, ben proporzionato,
ingentilito da occhi marroni penetranti e vigorosi.
Julian si
accorse della presenza dell’Ammiraglio quando aveva già comandato l’alt, e prima
che i suoi uomini avessero il tempo di rompere i ranghi per riprendere fiato.
«Saluto!»
comandò, e tutti, qualcuno sbuffando vistosamente, si misero sull’attenti
«Riposo,
riposo.» minimizzò Harlow con un cenno della mano.
«Tu li fai lavorare troppo questi poveri ragazzi, Capitano.»
«È
indispensabile, signore».
Caratterialmente
l’Ammiraglio e il Capitano erano quasi agli antipodi, bendisposto e permissivo
il primo, stacanovista e poco incline al compromesso il secondo, ma erano
accomunati entrambi dalla volontà di usare con le reclute, e in particolar modo
coi nuovi arrivati, fermezza, buon senso e tolleranza.
Di
primedonne presuntuose e fanatici arrivisti ce n’erano già troppi in giro,
anche nella MAB, e il TMD certo non ne aveva bisogno.
Su
consiglio dell’Ammiraglio, il Capitano ordinò di rompere le righe, concedendo
una volta tanto alle sue reclute qualche minuto di riposo.
«Posso
fare qualcosa per lei, Ammiraglio?» chiese quindi il giovane ufficiale
«Niente
di che. Ero solo venuto a dare un’occhiata.» quindi l’Ammiraglio gettò uno
sguardo sulle reclute, raccolte tutte in un angolo a litigarsi la precedenza al
distributore automatico. «Sono molto giovani.»
«Purtroppo,
è così che funziona. Ormai l’agenzia li recluta quando sono ancora alle
superiori».
Gillian non
riuscì a non provare, se non tristezza, quantomeno una certa apprensione al
pensiero che ragazzi così giovani potessero trovarsi coinvolti in questioni che
rischiavano di essere troppo grandi per loro.
Per anni
l’umanità si era adagiata troppo sulla convinzione che la m-technology
fosse una scienza senza difetti, e ora stava iniziando a pagarne scotto.
Come
qualunque altra scienza, anche la magia era pericolosa, e spesso era compito
del TMD porre rimedio ai vari incidenti che potevano verificarsi in questi
casi.
Non per
niente, la MAB
esisteva proprio per garantire e regolamentare il corretto utilizzo della
magia; o almeno, questo era il proposito con cui era stata istituita.
«D’accordo,
Capitano.» disse tornando alle pratiche che aveva lasciato. «Continui pure.»
«Sissignore.»
rispose Vyce richiamando all’ordine le reclute.
«Avanti voi! Rimettetevi in riga!».
Carmy O’Neill rientrò
nel suo piccolo appartamento anche più tardi del solito, distrutta come non
ricordava di essere mai stata.
Lavorare
all’archivio della procura distrettuale della MAB di Kyrador
era davvero una tortura, e poco importava che avesse accettato volutamente
quell’incarico dopo aver terminato il corso di preparazione per entrare
nell’agenzia.
La sorte
non era stata particolarmente benigna nei suoi confronti.
Come
tanti altri giovani della sua età, era arrivata dalla campagna nella grande
città per inseguire il sogno che aveva coltivato fin dall’infanzia, forte di
una esperienza e di una conoscenza della magia che riteneva non le facessero
difetto.
E
invece, alla prova di ammissione al termine dei tre anni del corso di
formazione, aveva ottenuto un punteggio mediocre, insufficiente per poter
aspirare ad uffici o cariche di un certo rilievo, il che aveva notevolmente
ristretto le sue possibilità di scelta, e in base al regolamento avrebbe dovuto
attendere almeno trenta mesi per poter sostenere nuovamente l’esame.
Di
tornare a casa, dopo quella enorme delusione, non se l’era sentita, non dopo
che per compiere quel passo era arrivata a sfidare la volontà dei genitori,
così aveva chiesto aiuto a quella che sarebbe diventata la sua migliore amica, Julienne, che le aveva concesso metà del suo appartamento.
In questo modo aveva potuto restare in città, ma certo non si aspettava che
l’ufficio logistico le avrebbe assegnato un impiego così poco gratificante.
In buona
sostanza, il lavoro di Carmy consisteva nel fare da
segretaria al procuratore Griffith, che per quanto fosse una persona gentile,
ben disposta e con una forte personalità era peggio di un sergente istruttore,
mai propenso a prendersi una pausa né tanto meno a concederla ai suoi
collaboratori.
Non
esattamente ciò che aveva in mente quando sognava il suo futuro nella MAB, e
come se non bastasse il lavoro che le era stato assegnato, oltre a fornirle ben
poche nozioni per ampliare la sua esperienza e accrescere il suo livello di
preparazione in vista del prossimo esame, la teneva occupata a tal punto da
lasciarle pochissimo tempo per studiare ed esercitarsi.
Purtroppo,
era così che funzionava nella MAB.
A meno
di non essere uscito da una scuola ufficiali, o aver avuto una grossa
raccomandazione, era necessario partire dal basso, e solo in seguito si poteva
sperare in qualche avanzamento di carriera.
Carmy,
barcollando per la stanchezza, andò in cucina; Julienne
aveva il turno di notte alla centrale operativa, ma le aveva lasciato del
minestrone e dell’insalata. La ragazza, però, voleva solo andare a letto, così
si infilò direttamente sotto la doccia e quindi, con ancora indosso
l’accappatoio, si chiuse in camera.
Stava
quasi per prendere sonno, quando, con l’ultimo scampolo di raziocinio, le venne
in mente di agitare un dito nell’aria, aprendo la sua casella di posta
virtuale.
C’erano
i soliti messaggi degli amici di Mablith e un po’ di
pubblicità, niente di davvero importante.
«Judith
diventa sempre più brava.» disse divertita riferendosi alla sorella minore, che
le aveva spedito le foto della sua recita scolastica.
Giusto
per un eccesso di zelo la ragazza aprì anche la sua casella privata dell’agenzia,
trovandovi però, con una certa sorpresa, un messaggio dell’ufficio logistico.
«Che
sarà successo?» si domandò aprendolo.
Probabilmente
si trattava dell’ennesima comunicazione per della documentazione non
consegnata, o qualche sollecito.
C’erano
solo poche righe. Le lesse.
Al Soldato Semplice Carmy
O’Neill
Le comunichiamo il suo trasferimento alla
polizia militare a partire dal prossimo mese.
È pregata di presentarsi quanto prima per
ulteriori informazioni e le specifiche del nuovo incarico.
Ufficio Logistico
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Spero che questo prologo sia stato di
vostro gradimento, e vi abbia interessato.
Allora, andiamo per ordine.
Quello che avete letto è il prologo di un
romanzo sci-fic (immagino si sia capito) che ho
iniziato faticosamente a scrivere riadattando un mio vecchio soggetto.
Il fatto è che, dopo aver ultimato il mio
primo, vero romanzo, questo non ha riscontrato le attenzioni e le simpatie
degli editori, e dopo breve tempo in verità ha incominciato a non convincere
più neanche me.
Così, ho deciso di ricominciare tutto
daccapo, lasciando inalterata l’idea originale (un mondo in cui coesistono
magia e scienza) ma cambiando sostanzialmente il contesto e il plot narrativo,
sì da avere anche una maggiore libertà creativa (la storia originale era ameientata nella nostra epoca, anche se in una realtà
alternativa).
Questo prologo è a tutti gli effetti un
esperimento.
Nuovo stile, nuova trama. Tutto nuovo
insomma.
A seconda delle vostre impressioni, dei
vostri pareri, e anche delle vostre critiche, cercherò di perfezionare tanto la
storia quanto lo stile di scrittura, nella speranza di realizzare un romanzo
che attiri finalmente l’edizione di qualche editore.
Per cui mi raccomando, commentate
numerosi. Qualsiasi cosa direte, anche la più piccola, sarà ben accetta e
costruttiva.
Dall’alto
Kyrador, la capitale di Caldesia,
mostrava tutta la sua bellezza ed imponenza, capaci di atterrire ed
impressionare anche l’occhio più esigente e attento ai dettagli.
S'affacciava su un golfo, protendendosi
elegantemente e finemente verso la costa, in una forma vagamente ottagonale,
con il lato più lontano dall’oceano leggermente più schiacciato ed oblungo,
quasi un gigante invisibile l’avesse voluta sospingere a forza verso lo
specchio d’acqua. Verso nord, ad un paio di miglia dalla costa al di fuori del
golfo, stava Harris Island, sede delle principali attività portuali, che un
mirabile ponte sospeso congiungeva alla periferia a nord, il quartiere delle
attività industriali e dei cantieri, che costituiva quasi una realtà a sé tanto
era laborioso e pullulante di vita.
Osservando l'entroterra, lo sguardo cadeva sulle
immense pianure che racchiudevano Kyrador come una
perla tra le valve; il verde regnava sovrano, intonandosi nei suoi brillanti
cromatismi alla città stessa, intervallato in vari punti dal terreo risaltare
di innumerevoli piantagioni, rese fertili e produttive da un suolo che di
risorse ne aveva in gran quantità.
Senza spezzare con troppa violenza quel
gradevole idillio, le strade che collegavano Kyrador
al resto del paese si srotolavano con la stessa grazia di un fiume argentato,
senza colpire troppo l'occhio, perdendosi nel nulla fin oltre l’orizzonte.
Verso sud, leggermente scostato rispetto al
centro, e circondato da una cornice di strade ampie e spaziose come da un muro
invisibile, si ergeva una sorta di acropoli costituita dagli edifici più
rilevanti della vita politica della città, tra cui la Marble Tower, sede centrale e cuore operativo della MAB, un
arabesco di ghiaccio che con le sue tre torri svettava assieme ai palazzi
circostanti sul resto della città, un giudice severo ed inflessibile che
dall’alto del suo scranno, con occhi di superba aquila, sembrava voler
osservare il mondo intero.
Una vasta rete di strade divideva i quartieri
secondo criteri rigidamente geometrici, con viadotti sotterranei ed imponenti
sopraelevate che scavalcando o aggirando gli edifici tagliavano i quartieri
come linee su una tela garantendo una rapida mobilità, resa ancor più efficace
da una sofisticata rete metropolitana costituita da più linee distribuite su
più di cinque livelli.
Jake guardò
fuori dal finestrino accanto al suo sedile, sospirando.
Era bello tornare a casa.
Non credeva che Kyrador
gli sarebbe mancata fino a questo punto, ma sei mesi sulla stazione militare
Ares erano abbastanza per far sentire la mancanza anche solo della terra sotto
i piedi.
Il corso di perfezionamento voluto dai suoi
superiori era stato molto duro, abbastanza da riuscire a mettere in seria
difficoltà anche un giovane prodigio come lui, e averlo completato era motivo
di grande soddisfazione; da quel momento in poi, avrebbe potuto ambire al
comando di una squadra tutta sua, se e quando i comandanti lo avrebbero
ritenuto opportuno.
Prima ancora che l’altoparlante annunciasse
l’inizio della discesa sull’aeroporto di Kyrador,
all’estrema periferia sud della città, lungo la linea della costa, Jake si allacciò freneticamente la cintura, e appena i
portelli furono aperti fu uno dei primi a scendere, avviandosi con tutta fretta
verso il terminal con la frenesia e l’impeto di chi non vede l’ora di ritornare
a casa e rivedere gente amica.
Visto che i suoi genitori abitavano lontano, e
dovevano comunque badare alla fattoria, sapeva che non sarebbero potuti venire,
ma certo non si aspettava che sarebbe venuto a prenderlo proprio il capitano Vyce.
«Capitano.» disse andandogli incontro e
stringendogli la mano come ad un caro amico
«Guarda, guarda.» disse Julian
compiaciuto notando i gradi sulla divisa «Un tenente.»
«Ho cercato di fare del mio meglio.» rispose Jake con leggero imbarazzo «Ma il merito è anche suo. Il
rapporto che ha inoltrato ha impressionato molto gli istruttori.»
«Non serve che mi ringrazi. Ho scritto solo la
verità.
Allora, vogliamo andare? Il direttore ha
chiesto di vederti».
Vyce era arrivato all’aeroporto
direttamente da casa con la sua macchina sportiva, un vizio che si era voluto
togliere grazie al generoso stipendio da istruttore, e con la macchina portò Jake alla sede del TSD, dove lo attendeva il direttore Harlow.
«Avanti.» disse il direttore sentendo bussare
alla sua porta.
I due soldati entrarono, mettendosi
sull’attenti.
«Tenente Aulas a
rapporto, signore.»
«Riposo, tenente. Mi fa piacere rivederla tra
di noi. La sua assenza si è fatta sentire molto in questi mesi.»
«La ringrazio del complimento, signore.»
«Spero che questo periodo di addestramento sia
stato produttivo, e abbia contribuito a formare ancora di più la sua
esperienza.»
«Lo è stato, signore.»
«Avrà modo di dimostrare quanto prima la sua
efficienza. Di questi tempi, purtroppo, il lavoro non manca. Per ora, si goda
un meritato periodo di riposo.»
«Signore, io sono pronto a cominciare anche da
subito.»
«Non sia impetuoso. Lei viene da una lunga e
faticosa esperienza, e tra l’altro è appena tornato dallo spazio.
Chiunque avrebbe bisogno di tempo per
recuperare, anche se lei ancora non lo percepisce. E poi, sei mesi lontano da
casa sono molti. Sono certo che avrebbe piacere di rivedere anche la sua
famiglia.
Vada pure. Le concedo due settimane di
licenza.
La farò convocare al comando se ci dovesse
essere bisogno di lei».
Jake non era
molto sicuro di volersi prendere questi quindici giorni di riposo, sentiva di
essere pronto a riprendere il suo posto nella squadra anche subito, ma d’altra
parte il pensiero di poter tornare a casa non lo lasciava indifferente.
Alla fine accettò l’offerta del direttore, il
quale gli chiese a quel punto di lasciare lui e Vyce
da soli per poter parlare.
«Che ne pensi?» domandò Gil appena il giovane
tenente se ne fu andato «Come lo vedi?»
«Giovane.» rispose schietto il capitano «E
capace. Può diventare uno dei migliori elementi del TSD.»
«Non era questo che intendevo.»
«Signore?»
«Lo vedi pronto a dirigere una squadra?».
A quella domanda Vyce
esitò, come a voler temporeggiare.
«Come ho detto, abilità e capacità non gli
fanno difetto, così come l’indubbio potenziale. Ma se devo essere sincero, non
sono ancora del tutto convinto.
Per quello che ne so, non insegnano il cinismo
all’accademia di specializzazione.»
«Esattamente quello che pensavo anch’io.»
replicò il direttore poggiando i gomiti sul tavolo «Non è il talento di quel
ragazzo a darmi pensiero, quanto piuttosto il suo carattere.
Nessuno dubita della sua dedizione, ma ci
vuole ben altro per guidare una squadra. Come io e lei sappiamo molto bene,
essere capi significa anche saper prendere decisioni difficili e spesso
controverse, e non sono del tutto sicuro che quel ragazzo sia capace di potersi
prendere un giorno una tale responsabilità.»
«Ha qualcosa in mente, direttore?»
«Per il momento no. Ma domani, chissà. Per il
momento, mi accontento di una buona tazza di tè. Mi fa compagnia, capitano?».
Carmy,
pur nella sua semplicità e bontà d’animo, aveva un mare di difetti.
Primo fra tutti, la mattina non le riusciva
proprio di svegliarsi, e così ogni volta era costretta a fare le corse per
riuscire ad arrivare in orario al lavoro.
Quella mattina, poi, era anche più stanca del
solito, visto che per quasi tutta la notte non era stata capace di chiudere
occhio tanta era la sua agitazione.
«Hai intenzione di dormire fino a stasera?»
gli domandò Julienne irrompendo nella sua stanza e
buttandola giù dal letto «Devo ricordarti che oggi inizi con il tuo nuovo
lavoro?»
«Accidenti, quanto è tardi.» esclamò la
ragazza guardando l’orologio.
Non poteva certo permettersi di arrivare in
ritardo al suo primo giorno alla Polizia Militare.
Messasi in ordine a tempo di record, e cercando
di sembrare il più presentabile possibile, si avviò verso l’uscita con la
giacca dell’uniforme ancora da abbottonare.
«Non fai colazione?» chiese Julienne sorseggiando il suo caffè e pettinandosi nel
contempo i lunghi capelli rossi
«Non ho tempo. Se perdo il treno arriverò in
ritardo di sicuro».
Un’ora dopo il completo sorgere del sole, Kyrador stava ultimando il proprio risveglio. La grande
luna Erithium ed il suo satellite minore, Neos, non erano ancora del tutto scomparsi sotto
l’orizzonte, la temperatura era buona e non si vedeva neanche una nuvola; di
sicuro, sarebbe stata una splendida giornata.
Per fortuna la casa di Carmy non era troppo
lontana dalla fermata della metropolitana, così la giovane poté raggiungere il
palazzo della polizia militare giusto in tempo per potersi presentare
nell’ufficio del colonnello Graham all’ora concordata.
Il colonnello aveva una certa notorietà negli
ambienti della MAB, tanto che nonostante i suoi quarantatre anni ne era
considerata quasi un’istituzione.
Si diceva che in gioventù avesse fatto anche
parte della TacticalSorcerer,
ma era solo una voce che finora non aveva mai trovato conferme.
A parte il comandante in capo della polizia
militare di Caldesia, e ovviamente il Consiglio di
Sicurezza dell’agenzia, dal punto di vista della catena di comando non aveva
quasi nessuno sopra di sé, un risultato a dir poco invidiabile vista le sua età
non troppo avanzata.
Fisicamente si presentava come una donna
trasudante fermezza e autorevolezza, i capelli neri perennemente raccolti, gli
occhi scuri nascosti dietro ad un paio di lenti rettangolari ed un viso
semplice, essenziale, sul quale era costantemente impressa un’espressione
composta ed imparziale.
Qualcuno aveva detto a Carmy che fosse anche
una persona piuttosto strana, o quantomeno ambigua, e fin dal primo momento O’Neill si convinse che forse era la verità.
Appena ammessa nel suo ufficio, come prassi
comandava, si mise sull’attenti davanti alla scrivania, ma il colonnello spese
molti dei minuti successivi senza proferire parola, limitandosi a consultare
sulla sua finestra virtuale il dossier della nuova recluta che aveva di fronte.
«Soldato scelto Carmy O’Neill?»
disse così, d’improvviso, dopo essersi sistemata un momento gli occhiali
«Sì!» rispose meccanicamente la ragazza
«Dunque, vediamo. Carmy O’Neill.
Ventidue anni, nata a Mablith il nove del decimo
mese. Scuola superiore militare a Darmigan, specializzazione
in Scienze della Magia, ammissione alla MAB, nove messi alle dipendenze della
procura militare qui a Kyrador, e in ultimo» il
colonnello mostrò un foglio di carta che aveva appoggiato davanti a sé «Una
lettera di raccomandazione dal procuratore distrettuale Griffith.
Notevole, vista la sua età».
Carmy si sentì un momento a disagio.
Sapeva bene quanto il suo capo avesse premuto
per farla trasferire alla polizia militare nonostante alcune sue lacune nella
preparazione necessaria, e lo aveva più volte ringraziato. Da una prima
occhiata, però, il colonnello non sembrava il tipo di persona propensa ad
accogliere a braccia aperte i raccomandati.
Zari squadrò la ragazza come a volerla
dissezionare, poi posò il foglio.
«Il procuratore mi ha detto che sta tentando
di accedere al TSD.»
«È così.» rispose lei dopo qualche esitazione
«Non ho l’abitudine di fare distinzioni tra i miei
subalterni. Per me tutti, dall’usciere al caposquadra, sono sullo stesso piano,
e tutti devono fare il proprio lavoro, soprattutto in questo periodo.
È ovvio che un periodo di specializzazione
presso la Polizia Militare arricchirebbe la sua formazione e la sua esperienza
sul campo, ma questo non la esonera dai suoi doveri di pubblico ufficiale.
Il procuratore distrettuale ha garantito per
lei, e questo mi basta, ma se dovesse venir meno ai compiti che le verranno
assegnati per un qualsiasi motivo tornerà seduta stante ad impilare fascicoli
al Palazzo Azzurro.
Sono stata chiara?»
«Perfettamente, signore.» rispose lei cercando
di non tradire emozioni.
Zari faceva la voce grossa, ma non era
completamente sfiduciata nei confronti di quella ragazza.
Conosceva il procuratore Griffith abbastanza
bene da sapere che tipo di persona fosse, e se lui si era mosso in prima
persona per convincerla a prendere con sé il soldato scelto significa che
vedeva in lei delle potenzialità
Chissà, forse O’Neill
rientrava in quel gruppi di giovani e promettenti stregoni che secondo la
visione del procuratore costituivano la speranza per il futuro dell’Agenzia.
In un certo modo, l’atteggiamento del
procuratore aveva incuriosito Zari, e ora che la ragione di quel trambusto era
davanti a lei cercava di capire cosa ci fosse di così speciale in quella
ragazza all’apparenza così ordinaria.
«Molto bene. Era solo per mettere le cose in
chiaro. In tanti seguono un periodo di specializzazione in qualche altro ramo
dell’agenzia prima di tentare l’ammissione al TSD, e la concorrenza è tanta,
come avrà già avuto modo di vedere.
Ciò nonostante, voglio credere che lei farà
comunque del suo meglio nella Polizia Militare.»
«Ci conti, signore».
Un bussare gentile alla porta interruppe la
discussione.
«Avanti».
Carmy si volse alle proprie spalle, vedendo
entrare nell’ufficio una giovane donna. Doveva avere un’età compresa tra i
ventisei e i ventotto anni, portamento austero e raffinato, quasi da nobile;
l’uniforme nera, superbamente portata, anche a non guardare i gradi la
identificava come un capitano, nonché caposquadra.
«Mi ha fatto chiamare, direttore?»
«Capitano Stirling. Le
presento il soldato scelto Carmy O’Neill. Da oggi,
sarà assegnata alla sua squadra. Conto su di lei perché le sia spiegata ogni
cosa.»
«Sissignore.» fu la risposta, meccanica e
rispettosa, della giovane
«Il capitano sarà il suo superiore. È uno dei
membri più importanti dell’anticrimine. Confido che vedrà in lei un’ottima
insegnante.»
«Ho capito, signore. La ringrazio.»
«Questo è tutto. Potete andare».
Terminato l’incontro le due ragazze
rispettosamente si congedarono, e appena fu uscita dall’ufficio Carmy tirò un
sospiro di sollievo; non era mai stata brava a reggere la tensione.
«Il direttore fa quest’effetto ai nuovi
arrivati.» disse divertita Alexia.
Solo allora Carmy si ricordò di avere ancora
davanti un suo superiore.
«Mi… mi scusi!»
esclamò imbarazzata
«Non fa niente. È stato così anche per me.» e
detto questo il capitano le porse la mano «Sono il capitano Alexia Stirling».
Nuovamente, stavolta solo con il pensiero,
Carmy sospirò, sentendosi sollevata; ancora una volta, avrebbe potuto contare
su quello che aveva tutta l’aria di essere un ottimo superiore.
«Soldato scelto Carmy O’Neill.»
disse ricambiando la stretta «Lieta di conoscerla, capitano.»
«Ti preannuncio fin da ora che non sarà facile
per te lavorare e studiare allo stesso tempo. Ma se il procuratore ha voluto
darti questa occasione, evidentemente ritiene che tu possa farcela.»
«Farò del mio meglio.»
«Ne sono convinta. Vieni, ora. Ti faccio
conoscere il resto della squadra».
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
È passato
più tempo di quello che credevo, ma alla fine sono riuscito ad aggiornare.
Malgrado
questo sia solo il primo capitolo, quasi tutti i personaggi che prenderanno
parte alla storia, o almeno quelli principali, hanno già fatto la loro
comparsa.
Per ora si
è trattato di un capitolo piuttosto semplice, e anche decisamente più corto
della mia media abituale, ma sotto quest’ultimo aspetto ho deciso di
diversificare ed evolvere un po’ il mio stile. Quanto all’azione state
tranquilli, arriverà.
Ringrazio
chi ha letto e recensito.
Un
ringraziamento speciale a Flea, che mi ha aiutato a
realizzare la prima parte, nonché per i suoi consigli.
Gli
uffici dell’Anticrimine, situati al decimo dei sedici piani del palazzo sede
della Polizia Militare, somigliavano alla sala di lettura di una grande
biblioteca.
Ogni squadra era assegnata ad un box, una
dozzina più o meno, collocati uno accanto all’altro lungo la parete principale;
dalla parte opposta vi erano uffici, sale congressi e anche stanze per gli
interrogatori, mentre al centro, a forma cilindrica e interamente in vetro,
quasi a voler tenere sempre d’occhio tutti i suoi sottoposti, stava l’ufficio
personale del direttore dell’anticrimine, il maggiore Dietrich Owens.
Carmy si sentì un po’ a disagio nel mettere
piede in quell’immensa sala. Alla procura generale le era stato assegnato un
ufficio di pochi metri quadrati, e aveva accompagnato il procuratore in udienza
solo in un paio di occasioni; il pensiero di dovere lavorare in un posto così
grande, e all’apparenza così complesso, un po’ quasi la spaventava.
«Da questa parte.» le disse Alexia
conducendola all’interno del sesto box dall’ingresso.
Qui, Carmy fece la conoscenza di quelli che,
almeno per i prossimi diciotto mesi, sarebbero stati i suoi colleghi di lavoro.
Il primo, sui trent’anni o poco più, era alto,
magrolino ma di bella presenza, capelli neri crespi e riccioluti e occhi scuri,
e vestiva in modo elegante e ricercato, quasi come un personaggio politico. Il
suo compagno invece era leggermente tarchiato, un po’ più giovane, un viso
paffutello che incuteva simpatia; anche lui era ben vestito e portava la
cravatta, a differenza del suo collega, e così, a tatto, non diede a Carmy
l’impressione di essere uno stregone né un soldato.
«Capitano.» salutò rispettosamente lo smilzo
poggiando il suo caffè sulla scrivania
«Lei è Carmy O’Neill.
Il nuovo agente.»
«Incantato.» continuò ancora il magro, che
alzatosi piegò la schiena in una parvenza di inchino per poi fare una battutina
«Li sfornano sempre più giovani. Non che sia un difetto, del resto.»
«Dacci un taglio.» lo rimproverò il collega
prima ancora di notare l’imbarazzo di Carmy «Sono l’agente Pierre Lucas, e lui
invece è Thomas Cane.
Piacere di conoscerti.»
«Piacere mio.» rispose O’Neill
dopo un attimo di smarrimento.
Lucas, come Carmy avrebbe appreso in seguito,
era un esperto di informatica e comunicazioni, laureato con lode all’Università
Reale di Fhirland, la sua nazione, mentre il
maresciallo Cane era un esperto di politica internazionale e aveva lavorato per
qualche anno come agente di bordo sulla nave Europa.
Carmy si sentiva tranquilla e in ansia allo
stesso tempo, e cercò di capire così, su due piedi, che tipo di persone
dovessero essere i suoi nuovi colleghi, anche se una prima idea se l’era già
fatta.
«Questa sarà la tua postazione.» le disse Alexia
indicandole la scrivania di fronte a quella di Thomas.
Vedendola così, vuota e spoglia, l’agente O’Neill fu presa da un dubbio.
«Che ne è stato di quello che era qui prima di
me?».
Alexia sorrise divertita, e anche Thomas e
Pierre risero sotto i denti.
«Tranquilla. Morgan è solo andato in
pensione.»
«In pensione?»
«Sei mesi fa. E da allora, ho preso il suo
posto.»
«Per nostra sfortuna.» mugugnò scherzosamente Thomas
tra sé e sé.
Carmy ci mise poco ad abituarsi al suo nuovo
posto di lavoro, ma non ebbe neanche il tempo di assimilare del tutto l’idea di
far parte di una squadra della Polizia Militare che squillò il telefono sulla
scrivania di Alexia.
«In sella.» disse il capitano chiudendo la
comunicazione «Aggressione con tentato omicidio alla periferia ovest della
città.»
«La giornata inizia alla grande.» commentò
Pierre.
Neanche era arrivata, pensò Carmy con un po’
di ansia, e già era giunto il momento di affrontare la sua prima scena del
crimine.
In
base alle leggi internazionali, la Polizia Militare della MAB aveva priorità
d’intervento in qualsiasi contesto in cui fosse coinvolto personale legato
all’agenzia, ma quando necessario poteva esercitare la propria autorità anche
in casi legati alla magia o a chi ne faceva uso.
Erano pochi quelli che facevano i salti di
gioia nel vedere i militari venire a ficcare il naso nelle proprie indagini, e
l’ufficiale di polizia che con i suoi uomini era intervenuto per primo sulla
scena del crimine non nascose il proprio risentimento vedendo comparire una
stazione operativa mobile al seguito di una delle berline nere dell’agenzia.
«A cosa devo il piacere?» domandò ironico
andando incontro ad Alexia
«Avrebbe dovuto aspettartelo, maresciallo Onir.» rispose la ragazza, che già lo conosceva
«Se con altro con te si può ancora cercare di
ragionare. I tuoi colleghi di lavoro starebbero già sbraitando per farci andare
via.»
«Non ho interesse a scatenare un conflitto tra
forze dell’ordine e polizia militari. Di problemi ce ne sono già a sufficienza.
Allora, che succede?».
Il maresciallo sorrise compiaciuto sotto gli
spessi baffi marroni, quindi condusse Alexia e i suoi uomini all’interno.
Carmy si sentiva confusa, fuori luogo, e
mentre faceva per varcare la soglia di quella piccola e ridente casa di
periferia vide due paramedici portare fuori in barella un uomo di mezza età
gravemente ferito, caricandolo in tutta fretta sull’ambulanza.
Preso un bel respiro, entrò a sua volta, e già
la vista di un tavolino da arredamento buttato in terra e circondato di sangue
fu sufficiente a farle venire un momento di capogiro.
Aveva già visto molte scene del crimine nelle
foto degli atti giudiziari che aveva ordinato per il procuratore, ma quella era
la prima volta che si vedeva costretta ad affrontarne una.
Seduto ad una poltroncina del salotto, con
espressione inebetita e occhi persi nel vuoto, c’era un giovane, un soldato
senza dubbio a giudicare dai muscoli e dal taglio di capelli; indossava solo un
paio di calzoni, aveva le mani e la faccia sporche di sangue, e i due agenti
che gli stavano davanti cercavano, senza riuscirci, di richiamarne l’attenzione
con cenni della mani e schiocchi di dita.
«Questo è proprio andato.»
«Che cosa è successo?» chiese Alexia mentre
Pierre faceva alcuni scatti e Thomas ispezionava la casa
«Ci ha chiamato una vicina. Il vostro agente
ha quasi sfondato la testa al padre dopo una litigata. Quando siamo arrivati
abbiamo trovato il padre a terra davanti all’ingresso e lui così come lo
vedete.
Grazie al cielo gli ha fatto meno male di
quanto si potrebbe pensare.»
«Capisco. Avete provato a parlargli?»
«Magari. Non ha aperto bocca per tutto questo
tempo. Ho paura che gli si sia fritto il cervello».
La diagnosi era fin troppo chiara.
Esaurimento da stress magico.
Anche lo stregone più dotato ed esperto
eraobbligato ad usare la magia con
moderazione, poiché abusandone si rischiava di andare incontro ai traumi
psicofisici più disparati, a cominciare appunto da violente alterazioni
dell’umore fino ad una vera e propria demenza.
Di fronte all’apparente apatia dimostrata dal
ragazzo, i due agenti che lo circondavano rinunciarono a cercare di attirarne
l’attenzione.
«È inutile.» disse uno «Questo qui è proprio
andato. Avanti, portiamolo via».
Il suo compagno gli andò di fronte per sollevarlo
a peso dalla sedia, e prima di farlo volle guardarlo un’ultima volta negli
occhi, quasi a sperare di vedere una qualche risposta.
Nessuno poteva prevedere quello che sarebbe
accaduto.
Il giovane soldato, da un istante all’altro,
sollevò la testa; le sue pupille, da opache che erano, si accesero e si
dilatarono allo spasimo, e ringhiando come un animale saltò addosso all’agente
buttandolo a terra.
Sembrava impazzito, sbavava e graffiava in
ogni direzione, e probabilmente se non fosse stato per il colletto metallico
della sua divisa l’agente si sarebbe visto strappare via la gola a morsi.
«Aiutatemi!» urlò l’uomo tentando
disperatamente di togliersi di dosso quella bestia inferocita.
Il suo compagno afferrò il sospetto tentando
di allontanarlo, ma quello, reso folle e fortissimo dalla bomba di magia che
gli era esplosa dentro, con un solo braccio lo afferrò per il colletto
scagliandolo contro il muro della stanza.
Quasi subito arrivarono anche gli altri agenti
presenti sul posto, due dei quali riuscirono finalmente a mettere in salvo il
loro compagno afferrando l’assalitore per un braccio ciascuno e scaraventandolo
lontano.
«Sparategli!» si sentì urlare, e senza porsi
domande tutti i poliziotti misero mano alle pistole.
Era chiaro che quello che era cominciato come
un semplice esaurimento stava tramutandosi in un vero e proprio caso di EDA;
era questo l’acronimo con cui venivano identificate tutte quelle creature,
umane e non, generate da incidenti legati all’uso della magia.
Per ora si trattava di una situazione ancora
gestibile, ma era solo una questione di tempo prima che la mutazione prodotta
dallo scompenso magico in atto nel corpo di quel poveretto diventasse
irreversibile.
I poliziotti spararono, se non altro nel
tentativo di fermare l’aggressore, ma questi schivò le pallottole saltando e
attaccandosi letteralmente al soffitto, per poi scappare via camminando a testa
in giù come un ragno senza che lo si potesse fermare.
Carmy se lo vide comparire davanti da un
momento all’altro, e trovandola sulla propria via di fuga l’assalitore fulmineo
le saltò addosso colpendola violentemente e buttandola a terra. Tutto accadde
così rapidamente che il giovane tenente non si accorse quasi di nulla, e
probabilmente sarebbe potuta andare anche peggio per lei se Thomas, che aveva
riflessi più affinati dei suoi, non fosse giunto ad aiutarla.
L’agente Cane affrontò senza timore il nemico,
afferrandolo saldamente e buttandolo a terra, quindi gli si buttò sopra e lo
colpì violentemente al centro del petto, un solo colpo che tuttavia lo mise
subito fuori combattimento.
Quello era l’unico modo per avere ragione di
un EDA al primo stadio senza essere costretti ad abbatterlo, indurre uno shock
magico uguale a quello che aveva causato lo scompenso per annullarli entrambi.
Pur spaventata, Carmy restò anche un momento
incredula. Allora Thomas non era il farfallone bellimbusto che si era
inizialmente immaginata.
«Pericolo neutralizzato.» disse l’agente Cane
constatando che l’aggressore aveva effettivamente perso i sensi.
In quella arrivò tutto trafelato anche Pierre,
di ritorno dal primo piano dove era andato a fare un sopralluogo.
Confermato il cessato allarme, Alexia
rinfoderò insieme agli altri la pistola e si avvicinò a Carmy, aiutandola ad
alzarsi.
«Stai bene?»
«Abbastanza.» rispose lei massaggiandosi una
spalla un po’ dolorante
«Non male come primo giorno di lavoro.» disse
ancora l’agente Cane.
L’aggressore fu caricato a sua volta in
ambulanza e portato via.
Sembrava tutto finito, ma il maresciallo Onir notò il sacchetto per le prove che Pierre aveva tra le
mani, e riconoscendone il contenuto glielo strappò di mano per vederlo più da
vicino.
«Non è possibile, ancora?»
«Che succede?» chiese Alexia.
Pierre allora lo mostrò anche a lei.
A prima vista sembrava un comune ago
elettronico, ma lo strano liquido iridescente contenuto delle fiale da
iniezione era qualcosa di ben diverso da un medicinale.
Il nome scientifico era macomorfina,
ma nel gergo comune aveva assunto il nome di Lilith. Un miscuglio di sostanze
psicotrope e composti chimici in grado di spingere oltre il limite le capacità
magiche di un essere umano, ma dagli effetti collaterali imprevedibili e molto
pericolosi.
Ormai erano parecchi mesi che aveva iniziato a
diffondersi in diversi strati della popolazione, persino in quelli più
impensabili, e c’era chi giurava che vi fosse la Lilith dietro l’escalation di
incidenti degli ultimi tempi.
«Portatela al laboratorio per le analisi.»
disse mestamente Alexia consegnandola agli uomini della scientifica «Noi
torniamo alla centrale per redigere il rapporto».
Nonostante dicesse di sentirsi bene Carmy era
visibilmente provata dall’esperienza appena vissuta, come era naturale che
fosse. Alla fine, con il dolore alla spalla che diventava sempre più forte,
dovette ricorrere alle cure di alcuni paramedici.
«Non è niente.» le disse uno passando una mano
sul gonfiore e applicando un incantesimo lenitivo «Solo una piccola contusione.
Questo incantesimo dovrebbe bastare, ma per sicurezza le consiglio di applicare
una pomata per i prossimi due o tre giorni.»
«Capisco. La ringrazio».
Mentre lei e gli altri risalivano in macchina,
Pierre notò la sua espressione e cercò di confortarla.
«Riprendi fiato.» le disse offrendole una
lattina di tè freddo «Ci farai l’abitudine.»
«Credevo che le misure antidroga fossero molto
efficaci.» disse come una bambina che vede per la prima volta qualcosa che non
si aspetta
«Per i canali abituali sì. Ma i fornitori e
gli spacciatori trovano sempre nuovi metodi per aggirare i controlli.» disse
Thomas
«Quello che mi preoccupa» disse Alexia, seduta
accanto a Carmy sul sedile posteriore «È che ora la Lilith sta iniziando a
diffondersi anche all’interno dell’agenzia.»
«Sì, la capisco. La MAB non ci fa certo una
bella figura.»
«Se non arrestiamo quanto prima questo
fenomeno diventerà incontrollabile, e potremmo avere altri incidenti».
Il
procuratore generale Griffith, come al solito, uscì dall’ufficio molto più
tardi degli altri, tanto che quando finalmente si decise a raggiungere il
parcheggio per tornare a casa nella sede della procura militare non c’era quasi
più nessuno a parte le guardie notturne e qualche impiegato che faceva gli
straordinari.
Una volta tanto, era felice di tornare a casa.
Il lavoro nell’ultima settimana era stato
davvero pesante, e non vedeva l’ora di andare fuori città per il weekend.
Passeggiate in campagna, pesca sul lago e un meritato riposo con moglie e
figli.
Vedendolo passare davanti al suo box di
sorveglianza, Louis Carlitz, una giovane guardia
part-time, gli andò incontro per salutarlo e augurargli la buonanotte.
«Grazie per quei libri che mi ha procurato.»
gli disse accompagnandolo alla macchina «Mi saranno sicuramente molto utili.»
«Figurati. E fammi sapere quando discuterai la
tua tesi. Così se potrò, cercherò di essere presente.»
«Ne sarei onorato».
Il procuratore era già in procinto di salire
sulla sua affascinante sportiva bianco perla quando si accorse, cercandole
nelle tasche, di aver dimenticato in ufficio le chiavi di casa.
«Ma dove ho la testa?» mugugnò «Si vede che
non ho più Carmy a tenermi d’occhio.»
«Quanto è passato da quando è passata alla
polizia militare?»
«Due settimane. Ma a me sembra già un secolo.
Ora mi tocca tornare di sopra.»
«Se vuole, posso portare la sua macchina fino
all’ingresso. Così al ritorno risparmia la strada».
Griffith sapeva quanto a Louis piacessero le
belle macchine, e anche se non aveva mai permesso a nessuno di toccare il suo
gioiello volle accontentarlo e gli lasciò le chiavi.
«Quando sarò avvocato.» disse il ragazzo
salendo a bordo «Spero di potermi permettere anch’io una macchina così.»
«Non te lo auguro.» rispose divertito il
procuratore «Di diventare avvocato, intendo».
Detto questo Griffith tornò verso l’ingresso
del parcheggio sotterraneo, mentre Louis volle godersi appieno quel momento saggiando
l’atmosfera e l’adrenalina di quel magnifico abitacolo prima di avviare il
motore.
«Avanti, bella. Fammi sentire come canti.» e
girò la chiave nel quadro.
Al rombo intonato del motore seguì come una
specie di brevissimo fischio, e un istante dopo il procuratore, che era quasi
arrivato all’ascensore, fu scaraventato a terra da un tremendo spostamento
d’aria arrivatogli alle spalle, accompagnato da un fragore a dir poco
assordante, reso ancor più violento dall’ambiente chiuso.
In un attimo l’aria si caricò di fumo, luce
rossastra e del crepitare delle fiamme, e detriti fumanti presero a cadere in
ogni direzione; anche dal tetto piovvero dei calcinacci.
Il procuratore impiegò diversi secondi a
riprendere i sensi, e poco dopo giunsero sul posto alcune altre guardie di
sicurezza.
«Si faccia forza, signor procuratore.» disse
una aiutandolo a rialzarsi.
Griffith era ancora frastornato, ma nonostante
ciò riuscì a distinguere benissimo la sua macchia sportiva sventrata
dall’interno e avvolta dalle fiamme.
«Louis!».
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Scusate
per questa lunga assenza, ma ho avuto parecchio da fare negli ultimo giorni, e
solo l’altro giorno sono riuscito finalmente a trovare il tempo di scrivere.
Eccoci dunque
al secondo capitolo. La storia inizia pian piano a delinearsi, ma per ora siamo
comunque ancora solo ai preamboli. I veri avvenimenti, quelli davvero
importanti, accadranno solo in seguito, e coinvolgeranno di volta in volta ora
questo ora quel personaggio.
Comincio a
sentirmi sempre più a mio agio con questi capitoli brevi, e anche lo stile di
scrittura piano piano si sta evolvendo.
«La
nostra guerra contro questa società decadente e corrotta, che ha dimenticato le
proprie radici e si crogiola in un vivaio di false certezze, è pronta a
raggiungere un nuovo livello.
L’attacco contro il Procuratore Viktor Griffith
è stato il primo atto della nostra seconda venuta, e questa volta non ci
fermeremo fino a quando il nostro scopo non sarà raggiunto.
Per troppi anni la MAB si è illusa di avere il
controllo su questo pianeta e tutti i suoi alleati. Quello che doveva essere un
nuovo ordine votato al progresso e alla pacifica convivenza ha assunto negli
anni i connotati di uno stato di polizia, governato da militari e politici
corrotti che si servono delle possibilità offerte dalla magia senza curarsi
minimamente dei rischi che essa comporta.
Quando, duecento anni fa, i nostri padri
arrivarono qui dalla Terra, essi costruirono questa società perché fosse un
modello del progresso e delle potenzialità del genere umano. Ma coloro che ci
governano hanno storpiato e insudiciato quel sogno, e ne hanno fatto il loro
parco divertimenti.
Noi non ci fermeremo fino a quando la società
che i nostri padri hanno sognato posando per primi i piedi su questo pianeta
non verrà riscoperta, e coloro che l’hanno distrutta per i loro fini deviati
non avranno ricevuto il castigo divino.
Noi siamo Avalon.
Siamo tornati».
Il generale Nives chiuse con un cenno della
mano la finestra virtuale e si volse a guardare i propri colleghi radunati
attorno al grande tavolo ovale mentre le tende della stanza venivano riaperte.
Il Consiglio di Sicurezza della MAB era quasi
al completo. Unici membri ad essere presenti solo con la propria proiezione
spirituale erano gli ammiragli Hinkel e Khoral, collegati dai ponti delle rispettive navi in orbita
attorno a Celestis.
Dal lato opposto, l’anziano direttore generale
Van Adler se ne stava in silenzio, come in meditazione, tenendo il capo chino e
passandosi di tanto in tanto una mano sulla folta barba bianca.
«Il messaggio è stato recapitato alle sedi di
cinque diverse stazioni televisive all’alba di questa mattina.» disse il
generale Nives
«La notizia si è diffusa?» domandò preoccupato
il generale Boginski
«Dopo quanto accaduto al Palazzo Azzurro
eravamo in stato di allerta, quindi siamo riusciti ad agire per tempo.
L’attentato al procuratore è stato fatto passare per un semplice incidente, e
le televisioni hanno accettato di mantenere segreta la rivendicazione dei
terroristi.»
«Incredibile, Avalon.» mugugnò tra sé
l’ammiraglio Khoral dopo un momento di enigmatico
silenzio «E dire che speravo fosse una storia chiusa.»
«Che cosa sappiamo di questo gruppo?» chiese
l’ammiraglio Hinkel, l’ultima in ordine di tempo ad
essere entrata a far parte del consiglio
«Sono degli anarchici, fondamentalmente.»
rispose Nives «Con una storia di oltre quindici anni. Il loro teatro operativo
è da sempre il territorio di Caldesia, e da questo
punto di vista sono stati per anni il gruppo più potente e pericoloso di questo
Paese.»
«Ma avevo sentito dire che il gruppo era stato
smembrato e distrutto.»
«Così credevamo, almeno.» disse il direttore
generale Van Adler «Sei anni fa riuscimmo ad arrestare il Barone Auguste Delaroche, il capo storico e fondatore di Avalon.»
«Tralasciando l’importanza della famiglia Delaroche.» spiegò il generale Wei
«Il gruppo godeva del sostegno e dei finanziamenti di molte personalità
influenti di Caldesia, e persino di un certo consenso
popolare. Fu come scoperchiare il vaso di pandora.»
«L’arresto del barone e dei suoi collaboratori
potrò ben presto Avalon alla rovina.» disse Boginski
«Ma a quanto pare, devono essersi riorganizzati. E se posso esprimere un
parere, ci metto la mano sul fuoco che è coinvolto il figlio di Delaroche.»
«Intendi dire Valerian?»
chiese Nives «È molto probabile. Dal giorno dell’arresto come suo padre è
sparito nel nulla. Abbiamo ricevuto un paio di segnalazioni sulsuo conto, ma è sempre stato più veloce di
noi.»
«Ma come avrà fatto a ricostruire il gruppo in
così poco tempo?» chiese l’ammiraglio Khoral «Se non
sbaglio Valerian non era mai stato coinvolto negli
affari del padre.»
«Avrà sfruttato la rete di conoscenze e di
fiancheggiatori intessuta da suo padre, lavorando con quelli che sono sfuggiti
all’arresto. I beni dei Delaroche sono stati
confiscati dopo la cattura del patriarca, ma vista la portata degli interessi
della famiglia non mi sorprenderebbe se qualcosa ci fosse sfuggito.»
«Ma per quanto ne so, mettere una bomba al
nucleo d’espansione nell’auto di un procuratore non ha mai fatto parte del
modus operandi della vecchia Avalon.» disse Boginski
«Se è per questo, Avalon non aveva neanche mai
colpito direttamente a Kyrador.» disse Nives «È
probabile che fosse un modo per il barone e i suoi alleati di tenere lontani i
sospetti.»
«Questo è un gran male.» disse sconsolata Hinkel «Significa che non sono prevedibili.»
«E che non temono le conseguenze delle loro
azioni.» aggiunse Wei «Sono pronti a colpire dovunque
e chiunque, e hanno voluto farcelo sapere.
A conti fatti, è solo per una pura coincidenza
se il procuratore Griffith non è rimasto ucciso».
Il direttore generale guardò un momento i suoi
uomini, respirando tra i denti senza tradire emozioni.
«Prima ci occupiamo di questo problema, meno
tempo gli daremo per crescere. Avviamo subito un’indagine approfondita. Bisogna
scoprire se ValerianDelaroche
è effettivamente il nuovo capo di Avalon. Cerchiamo di capire quali siano i
loro obiettivi, e se possibile dove intendano colpire.
Mettiamo il TSD e le altre unità speciali in
stato di allerta; il mio istinto mi dice che l’attentato al procuratore è stato
solo l’inizio, e che continueranno a colpire in città.»
«Sissignore.» risposero alcuni, mentre altri
si limitarono ad annuire
«Manteniamo la versione dell’incidente. Niente
fughe di notizie alla stampa o alla televisione. L’ultima cosa che ci serve è
il panico generale.»
«Sarà fatto.» rispose il generale Nives, che
era praticamente il suo secondo.
Dopo pochi minuti la riunione ebbe fine e
tutti si congedarono.
Jake camminava, in silenzio e con molta
circospezione, all’interno di un vecchio edificio abbandonato di qualche
squallida e anonima periferia, le mani strette attorno al fucile d’assalto e i
sensi tesi allo spasimo.
Il buio lo avvolgeva, solo in parte
rischiarato dal bagliore delle due lune e dal lampeggiare stentato di qualche
lampadina mezza fulminata, serrandolo in un abbraccio carico di tensione.
Sentiva il sudore rigargli spietato le tempie, ambasciatore di un’ansia che
solo in parte riusciva a mitigare, scendendo lentamente lungo il volto per
andare a depositarsi sul colletto della sua uniforme.
La corazza d’acciaio che indossava come un
giubbotto antiproiettile gli sembrava anche più pesante del solito, minacciando
di limitare non di poco la sua libertà di movimento, ma cercava di non
pensarci.
Anche il silenzio era spaventoso, rotto di
quando in quando solo da brevi spifferi di vento o dallo scricchiolare della
polvere sotto gli scarponi.
Doveva concentrarsi.
Molto dipendeva da quello che avrebbe fatto, a
cominciare dalla vita di una persona.
Avanzò lentamente, il fucile puntato davanti a
sé, mentre il vento freddo gli scorreva sulla pelle minacciando di farlo
tremare.
Doveva fare come gli era stato insegnato,
estraniarsi totalmente dal mondo.
Non c’era niente di diverso dalle altre volte.
O almeno, voleva sforzarsi di crederlo.
Un rumore, che l’istinto gli disse non essere
prodotto da un gatto saltato fuori dal suo nascondiglio o da chissà quale altro
animale, riecheggiò alle sue spalle.
Fulmineo, si girò, ed ebbe appena il tempo di
scorgere un vagabondo armato di fucile sbucare fuori da una pila di casse prima
di riempire l’aria col fragore di una raffica e fulminarlo in pieno petto.
Quel rumore assordante fu come il rimbombare
di un allarme, e da un istante all’altro decine di altri nemici sbucarono da
ogni dove con le armi puntate.
Jake, però,
non si fece intimidire; nulla che un soldato abile e addestrato come lui non
potesse affrontare. Rapidamente e con efficacia il giovane affrontò gli
avversari che gli si pararono davanti, riuscendo ad abbatterne la maggior
parte, e correndo nel contempo in ogni direzione per confonderli.
Raggiunta la più vicina rampa di scale si
gettò rapidamente verso i piani alti, ostacolato di quando in quando da
alcunialtri avversari che lo
attendevano sui pianerottoli, fino a giungere all’ultimo piano.
Anche qui, però, trovò ad attenderlo un
nutrito comitato di benvenuto, tanto che come tentò di affacciarsi sul
corridoio al termine della rampa dovette subito rotolare dietro ad un tavolo
ribaltato per evitare di finire crivellato di colpi.
Messosi al sicuro gettò un occhio all’esterno,
per capire la situazione; poco più avanti il corridoio deviava ad angolo retto,
e nascosti dietro vi erano almeno quattro ostili che lo tenevano sotto tiro e
non smettevano un attimo di bersagliarlo.
Era un’eventualità che non aveva considerato.
«D’accordo, lo ammetto.» disse vedendosi
apparentemente in trappola «Forse sono stato un po’ impulsivo».
Se solo avesse cautelativamente lanciato una
granata prima di lasciare la tromba delle scale le cose si sarebbero fatte
molto più facili, ma ora che aveva fatto l’errore era inutile starci a
riflettere.
Sparò un paio di colpi, riuscendo ad abbattere
uno degli ostili, ma poi, sfortuna nella sfortuna, il suo fucile si inceppò.
«Maledizione, proprio adesso?» ringhiò
cercando di sbloccarlo.
Accortisi che il loro bersaglio era in
difficoltà, e convinti di averlo messo alle strette, due dei tre aggressori
superstiti provarono a raggiungerlo per dargli il colpo di grazia. Jake gettò dunque via il fucile inutile e sfoderò il
bastone d’ordinanza, un classico type-30 in argento lavorato dal basso
potenziale, e ad una sua parola i due poveri sventurati si videro franare il
pavimento sotto i piedi, precipitando assieme a cumoli di macerie.
Prima che il loro compagno potesse assimilare
quanto accaduto Jake gli fu addosso, lo disarmò, e
dopo averlo ingaggiato in un breve corpo a corpo riuscì ad abbatterlo
scaricandogli un incantesimo stordente dritto nell’addome.
Sfortunatamente, volendo essere sicuro di
assestare un colpo mortale, Jake spinse il potere
dello scettro ben al di là delle possibilità offerte dall’arma, che infatti gli
si sgretolò tra le mani passato il pericolo.
«Perfetto, ci mancava anche questa».
Rimasto con la sola pistola Jake continuò lungo quel corridoio seguendo le direttive di
missione, fino a raggiungere la stanza dove secondo i superiori si trovava il
suo obiettivo. In giro non si vedeva nessuno, ma nella concitazione del momento
il giovane non arrivò neanche a calcolare che quella potesse essere una cosa
strana.
Giusto il tempo di guardarsi un momento
attorno, proprio per essere certo di non avere nessuno attorno, e con un calcio
Jake sfondò la porta facendo irruzione. All’interno
della stanza, circondata dal buio e dalla sporcizia, c’era solo una donna, una
diplomatica a giudicare dal bel vestito nero, riversa a terra apparentemente
svenuta.
Riposta l’arma Jake
le si avvicinò, tastandole il battito e confermando che era viva.
Tirò un sospiro di sollievo.
La missione era conclusa. E nonostante tutto
il suo autocontrollo e senso di responsabilità, non riuscì a non farsi sfuggire
un sorriso soddisfatto.
«Eagle01 a QG.» disse alla ricetrasmittente
«Ostaggio in salvo, ma servono cure mediche immediate.»
«L’ostaggio può essere mosso?» chiesero dal
domando
«Affermativo.»
«Raggiungi il punto d’incontro all’ingresso.
Il mezzo per l’estrazione è già sul posto.»
«Ricevuto QG. Chiudo».
Jake fece per
caricarsi la donna sulle spalle, ma dal momento in cui aveva fatto irruzione si
erapreoccupato a tal punto di accertare
le condizioni di salute dell’ostaggio da non accorgersi che la stanza aveva una
seconda porta, sulla parete a destra di quella da cui era entrato.
Tutto accadde in pochi istanti che parvero
farsi secoli.
Un nuovo aggressore la buttò giù con una
spallata, apparendo da un secondo all’altro pistola alla mano e pronto a
sparare. Jake lo notò con la coda dell’occhio, e
lasciata cadere la donna si girò più in fretta che poteva, allargando le
braccia come a volerle fare da scudo.
«SchildSüden!» tuonò solennemente.
Partirono tre colpi, esplosi dall’arma del
nemico, che andarono a scontrarsi contro un impenetrabile muro di luce
vermiglia materializzatosi dal nulla davanti a Jake e
alla sua protetta, spesso meno di un centimetro e abbastanza grande da coprire
interamente lo spazio tra una parete e l’altra e tra il pavimento ed il
soffitto.
Colto alla sprovvista, quasi non si aspettasse
di avere a che fare con uno stregone, l’aggressore parve esitare, e fu la sua
condanna. Nel momento in cui le sue tre pallottole cadevano tintinnando sul
pavimento sudicio, una quarta andò a piantarsi dritta nella sua fronte
lasciandolo a terra senza vita.
Era accaduto tutto così in fretta che Jake impiegò qualche istante a realizzare quello che aveva
fatto, e a comprendere che in qualche modo era riuscito a scampare al pericolo
salvando sia sé stesso che l’ostaggio.
Giusto per un eccesso di prudenza, con la
pistola pronta a sparare, il giovane si avvicinò alla sua vittima per
accertarsi che fosse effettivamente morta, e solo una volta che ne fu
assolutamente sicuro si risolse a recuperare la donna e lasciare finalmente
quel posto sporco e maleodorante.
Correndo come meglio poteva, ma sempre attento
e pronto a rispondere a qualsiasi minaccia esterna, Jake
ritornò in tutta fretta all’esterno, trovando una camionetta della squadra ad
attenderlo nel piazzale antistante al palazzo.
Il tempo di avvicinarsi e mettere una mano
sulla portiera, ed ogni cosa attorno a lui parve cristallizzarsi, facendosi
immobile. L’aria cessò di soffiare, la polvere di scricchiolare, e il motore
del veicolo di borbottare. Un piccione che aveva preso il volo spaventato dal
suo arrivo si bloccò per aria proprio davanti ai suoi occhi, le ali immobili
come fosse stato imbalsamato.
Una voce, tonante ma piatta, rimbombò tutto
attorno.
«Fine della simulazione».
Pochi secondi dopo tutto scomparve,
disfacendosi come un disegno. Tutto tranne Jake, che
chiusi un momento gli occhi, quando li riaprì si avvide di essere tornato dove
in verità era sempre stato, nell’immensa stanza di addestramento al quartier
generale del TSD.
Vista dall’alto appariva come una gigantesca
cupola, talmente grande e traboccante di sapere scientifico che al suo interno
poteva essere ricreata praticamente qualsiasi cosa, da una semplice stanza ad
interi edifici.
Nuovamente, Jake
sospirò sollevato e un po’ soddisfatto. Finalmente era finita.
Era passato un po’ di tempo da quando aveva
sostenuto l’ultima prova pratica, ancora ai tempi dell’addestramento sulla
stazione Ares, e rispetto al passato i miglioramenti portati dal duro
esercizio, almeno per lui, erano evidenti.
Come uno studente alle prese con un difficile
esame universitario, cominciò a contare febbrilmente i secondi nell’attesa che
qualcuno venisse a dargli il risultato.
C’erano state due o tre sbavature, ma a conti
fatti era abbastanza sicuro di aver fatto una buona prova, abbastanza perché
potessero prendere in considerazione, se non un comando, almeno l’abilitazione
all’impiego operativo.
Vyce discusse
un momento con gli altri esaminatori presenti in saladi controllo, giusto per essere sicuro che
confermassero la sua valutazione di addestratore esperto, quindi raggiunse
l’amico nello spogliatoio per comunicargliela.
«Allora?» chiese Jake
tutto ansioso ed impaziente «Come sono andato?».
La differenza di grado in teoria avrebbe
dovuto prevedere ben altro approccio, ma ormai lui e il capitano si conoscevano
da così tanto tempo da potersi permettere, almeno in privato, di dare un calcio
all’etichetta.
«Non è andata troppo male. Onestamente mi
aspettavo di peggio.»
«Ti ringrazio.» rispose il giovane sollevato
e, bisogna dirlo, anche un po’ inorgoglito «E che punteggio ho totalizzato?».
Vyce si lasciò
sfuggire un sorriso, uno strano sorrisetto che il suo interlocutore non seppe
come interpretare, quindi passò a Jake il suo palmare
perché potesse vedere lui stesso.
Il giovane la prese e lesse sullo schermo, ma
l’espressione che gli comparve sul volto dopo pochi istanti tutto poteva
significare meno che soddisfazione.
«Settantasei punti!?» esclamò sorpreso e anche
un po’ arrabbiato.
Era inaudito.
Settantasei era un punteggio da matricola.
Come avevano potuto dargli un voto così basso?
«Ma non è possibile. Deve esserci un errore.»
«Nessuno errore, Jake.
E ti dirò di più. Sono stato io a proporre questa valutazione, in quanto
esaminatore capo. I miei colleghi avrebbero voluto darti anche di meno.»
«Che cosa ho mai fatto per meritare un
punteggio simile?»
«Da che cosa dovrei cominciare? Dal fatto che
hai polverizzato il tuo bastone magico restando quasi senza equipaggiamento
prima ancora di aver recuperato l’ostaggio, o da quella tua bravata da kamikaze
nella stanza dove era rinchiuso?».
Punto sul vivo, Jake
non seppe cosa rispondere.
«Tralasciando l’esitazione che hai dimostrato
più volte nel corso delle sparatorie, è palese che tu sia stato fin troppo
impulsivo.»
«Credevo che la rapidità fosse uno dei
requisiti fondamentali del TSD.» replicò Jake con una
punta di insofferenza
«Ma non l’avventatezza. Prendi quanto accaduto
in cima alle scale. Se quegli ostili avessero avuto un po’ più di mira la tua
missione sarebbe finita lì.
Certo, hai risposto all’imprevisto con
inventiva ed efficacia, ma non sempre il nemico ti concede il tempo per ovviare
ad un errore. Anzi, non lo fa quasi mai».
Jake si sentì
venire la pelle d’oca, un segnale che non gli piaceva: nel suo caso era un
segno di nervosismo. Cercò di controllarsi, anche se il suo capitano, severo
come non mai, non smetteva un momento di rinfacciargli tutti i suoi errori.
Era come essere tornati al primo giorno di
accademia.
«E di quello che è successo nella stanza
dell’ostaggio che cosa mi dici? Il manuale parla chiaro, prima di entrare in un
ambiente ostile è prima necessario sterilizzarlo, o quantomeno accertarsi
dell’assoluta assenza di pericoli.
Se avessi notato subito la porta secondaria e
avessi preso provvedimenti non si sarebbe arrivati a quella situazione ad alto
rischio.»
«Volevo accertarmi delle condizioni dell’ostaggio.»
si giustificò Jake «E comunque, ho risposto alla
minaccia in modo rapido ed efficace.»
«Su questo non discuto. Sei stato scattante e
inventivo. Ma anche incredibilmente fortunato.»
«Fortunato!?»
«Hai usato lo SchildSüden. E a meno che non mi ricordi male, negli
ambienti chiusi il manuale prevede l’utilizzo dello Stahlwand.»
«Non sono mai stato molto bravo ad usarlo.»
disse Jake con espressione sempre più affranta e
contrita «Lo SchildSüden
mi viene più facile, e so controllarlo meglio.»
«Sì, me ne sono accorto. Ciò non toglie che
hai corso un bel rischio. Lo SchildSüden è un incantesimo per la difesa di massa, e può
espandersi in maniera considerevole se non controllato a dovere. Se non fossi
riuscito a bloccarne l’ingrandimento in tempo le pareti, il soffitto e il
pavimento si sarebbero incrinati, e l’intera stanza ti sarebbe crollata addosso
uccidendo te e l’ostaggio.
A conti fatti, devi ammettere di aver corso un
bel rischio».
Poi Jake si fece
anche più severo, quasi cattivo.
«Essere troppo sicuri di sé non è mai una
buona idea nel bel mezzo di una missione, soprattutto se c’è di mezzo la vita
di qualcun altro, e in special modo di un innocente.
Sei stato impulsivo, avventato e ingenuo. Il
mix perfetto per un potenziale aspirante suicida».
Il tenente Aulas
avvertì prima un senso di rabbia, che lo spinse a distogliere lo sguardo e
stringere i pugni, sostituito subito dopo da uno di impotenza.
Possibile che fosse stato tutto inutile? Che tutti
quei mesi di sofferenze e addestramenti sulla stazione Ares non gli fossero
serviti a nulla?
«Il regolamento parla chiaro.» concluse
severamente il capitano «Con settantasei punti niente operazioni sul campo,
figuriamoci poi dirigere una squadra. Per ora farai parte del gruppo di
Madison, ma solo come osservatore e coordinatore esterno. Se ne riparlerà tra
qualche mese. Nel frattempo, continua ad addestrarti. Tutto chiaro?».
Jake non
rispose; era troppo perso nei suoi pensieri e troppo arrabbiato per farlo.
«Tutto chiaro?» ripeté Vyce
a denti stretti e guardandolo dritto negl’occhi
«Sì, signore.» balbettò il giovane ricambiando
a fatica lo sguardo.
Sembrò finire tutto lì, ma solo dopo essere
rimasto solo Jake realizzò appieno quanto era
accaduto, e la furia dentro di lui esplose incontenibile.
«Al diavolo!» tuonò calciando la panca, che
cadde a terra con un rumore sordo e violento.
Nota
dell’Autore
Salve a
tutti!^_^
Eccoci
qui, in questa domenica uggiosa (almeno qui a Venezia) con un nuovo capitolo.
Finalmente,
dopo due capitoli (tre contando anche il prologo) di pura introduzione stiamo
rapidamente passando alle vie di fatto.
Da questo
momento in poi sarà un continuo connubio tra situazioni calme e quotidiane e
altre di pura adrenalina, cercando tuttavia di restare sempre entro certi
limiti per non trasformare questa storia in un’accozzaglia indistinta di botti
ed esplosioni.
Ora dovete
darmi qualche giorno, perché il prossimo capitolo rischia di essere un po’
rognoso da scrivere, ma confido di farcela entro la settimana.
Carmy
aveva sparato poche volte in vita sua, e comunque mai a qualcuno che non fosse
un bersaglio olografico o comunque finto, malgrado come tutti gli agenti
portasse sempre con sé una pistola d’ordinanza.
Dopo quello che era accaduto nella sua prima
scena del crimine, però, qualcosa dentro di lei si era acceso, e da quel giorno
si recava quasi quotidianamente, la mattina presto o la sera dopo il servizio,
al poligono nei sotterranei del commissariato per fare un po’ di esercizio.
Mentre sparava, pensava.
Pensava a quanto successo, e a quante altre
cose avrebbe visto da lì in avanti.
Doveva farci l’abitudine.
Essere un TSD, o anche semplicemente un membro
della MAB, voleva dire anche questo, e poco importava che lei fosse solita
portare con sé caricatori pieni di pallottole neutralizzanti, o avesse imparato
nei suoi studi di stregoneria incantesimi offensivi adatti unicamente a
neutralizzare un nemico senza ucciderlo.
«Ormai passi più tempo qui che in ufficio.»
sentì dire appena tolte le cuffie, saltando un momento per lo spavento
«Agente Cane.» disse volgendo lo sguardo verso
la porta del poligono, solitamente deserto a quell’ora del mattino
«Avanti, sei qui da più di un mese. Che ne
diresti di chiamarmi semplicemente Thomas? Tanto più che siamo nella stessa
squadra».
Thomas aveva un talento naturale per
risollevare il morale, e a Carmy bastò guardare il suo sorriso sbarazzino per
ritrovare un po’ di buonumore. L’agente Cane richiamò quindi a sé il bersaglio
sul quale Carmy aveva appena svuotato il suo caricatore quotidiano, restandone
piacevolmente colpito.
«Però, niente male.» disse notando i sei colpi
di sicuro invalidanti «C’è stato un miglioramento. Una volta andava bene se andavi
a segno una volta su tredici».
Thomas intuiva perché Carmy fosse così chiusa
e riservata da qualche settimana a quella parte, ma non voleva forzarla a
confidarsi. In certi casi, e lo sapeva per esperienza, bisognava dare tempo al
tempo, e attendere che tutto si metabolizzasse da sé.
Carmy sapeva di aver fallito in un certo senso
il suo battesimo del fuoco, e quindi non si era sorpresa nel vedersi negare la
possibilità di intervenire nelle altre scene del crimine che si erano succedute
nei giorni a seguire.
«Su, avanti.» le disse Thomas dandole un
buffetto come ad una bambina colta a commettere una mascalzonata «Se ti fai
trovare in ritardo alla tua scrivania dal capitano la poca mira potrebbe
diventare l’ultimo dei tuoi problemi.»
«Hai ragione.» rispose lei un po’ più serena.
L’ammiraglio
Constance Forrest era quasi una leggenda
nell’aeronautica di Caldesia.
Aveva comandato per anni l’Aurora, ed era
stata la prima donna a ricoprire, seppur solo per pochi mesi, il ruolo di
comandante in capo delle forze armate caldesiane.
Nessuno sapeva esattamente perché avesse
voluto congedarsi, proprio all’apice della sua carriera, ritirandosi totalmente
dalla vita politica e militare per chiudersi in una sorta di eremitaggio nella
sua sfarzosa residenza di famiglia nelle campagne di Loitres,
a quasi duecento miglia dalla capitale.
Non
aveva mai avuto né famiglia né figli. Aveva solo un nipote, Victor,
sottufficiale dell’esercito nazionale, ma a quanto si diceva non lo vedeva da
anni, perché i rapporti con il fratello erano da sempre assai tesi.
Salvo attendenti e servitori in quella villa
non viveva nessuno a parte lei, e questo rendeva ancor più incomprensibile
quella sorta di esilio che sembrava essersi autoimposta.
La sua giornata era scandita e ordinata come
quella di una religiosa, dall’ora della sveglia a quella dei pasti, fino ai
passatempi. In particolare, se il tempo lo permetteva, tutti i giorni, dalle
dieci a mezzogiorno, l’ammiraglio era solita prendere il tè all’ombra del
gazebo di pietra al centro del suo giardino di rose, assaporando nella
solitudine e nella tranquillità la bellezza e gli aromi di quel piccolo angolo di
paradiso che aveva curato fin da bambina.
«Mi scusi, signora.» le disse rispettosamente
Benjamin, il suo maggiordomo, probabilmente la sola persona in quella casa più
vecchia di lei «È arrivato un ospite.»
«Fallo accomodare.» rispose la donna intuendo
di chi si trattasse.
Il maggiordomo si congedò brevemente, e
quando, dopo poco, Constance sollevò lo sguardo dal
romanzo che stava leggendo lo vide ricomparire con al seguito il suo vecchio
amico Harlow.
«Mi fa piacere rivederti, amico mio.» disse Constance alzandosi e scambiandosi un bacio sulla guancia
con il direttore
«Ti trovo bene, Constance.
Il congedo a quanto pare non ti ha impigrita.»
«Nonostante tutto, faccio del mio meglio per
tenermi impegnata».
Si accomodarono sotto il gazebo, e Benjamin
venne a portare loro dell’altro tè per poi lasciarli nuovamente soli.
«Di solito, quando vieni qui è sintomo di
cattive novelle.» scherzò l’ammiraglio
«Che crudeltà. Non posso neanche far visita ad
una vecchia amica?».
Constance lo
guardò.
«Non sei mai stato bravo a mentire, Gillian. Con quello che sta accadendo in città e Avalon che
ha ricominciato a farsi sentire, dubito che tu abbia fatto duecento miglia in
macchina nel tuo unico giorno di riposo da un mese a questa parte solo per
vedere una vecchia amica.».
Gillian restò
prima un momento incredulo, poi accennò un sorriso di complicità; esiliata dal
mondo o meno, Constance sapeva ancora come venire a
conoscenza anche delle informazioni più riservate.
«Le notizie viaggiano veloci, a quanto vedo.»
commentò il direttore tra l’ironia e la frustrazione
«Non sono stata un ufficiale caldesiano per quarant’anni per amore delle apparenze.
Allora, di che vuoi parlarmi?».
Gillian non volle
temporeggiare oltre e spiegò ogni cosa.
Non che ci fosse qualcosa da spiegare, del
resto. Anche Constance aveva visto con i suoi occhi
quanto Avalon potesse arrivare ad essere pericolosa per l’ordine politico e sociale
dell’intero pianeta, e non soltanto per i suoi attentati e i suoi proclami
apocalittici.
«Sei preoccupato per le possibili reazioni?»
domandò la donna senza mezzi termini
«C’eri anche tu dodici anni fa, mi pare.
Ricordi quante teste sono saltate prima e dopo che l’organizzazione fosse
smantellata?».
L’ammiraglio tacque, intinse delicatamente una
zolletta di zucchero nella sua tazza e ne sorseggiò un goccio. Era preoccupata.
«In un certo senso, da quando è nata Avalon
non ha fatto altro che convertire in parole e fatti quello che molti in realtà
hanno sempre pensato.
E non mi riferisco solo ai cittadini
esasperati da tutti questi incidenti».
Gillian si
schiarì la gola, un gesto che fu interpretato dall’ammiraglio come un segno di
nervosismo.
«Anche se l’attentato al procuratore è stato
fatto passare come un incidente, la situazione in città non è molto
tranquilla.» disse sconfortato il direttore
«Potete oscurare e occultare tutte le notizie
che volete. La gente di questo pianeta in un certo senso ha imparato a rendersi
conto quando qualcosa non và per il verso giusto.
Alla favoletta della
società pacifica e priva di mali che i nostri antenati si sono portati dietro
dalla Terra ormai non ci crede più nessuno.
In questo, forse, quei fanatici assassini non
hanno poi tutti i torti.»
«C’è preoccupazione. Questo lo ammetto. Forse
non sarò nel Consiglio di Sicurezza dell’agenzia, ma so capire quando ai piani
alti cercano di nascondermi qualcosa».
L’ammiraglio guardò Gillian
negli occhi.
«Pensi a del marcio nell’agenzia?»
«Non lo so. Ma certo è che è parecchio strano.
Come avranno fatto quelli di Avalon a seminare i germogli della propria
rinascita senza che nessuno si accorgesse di nulla?»
«Forse su questo pianeta in pochi pensano
ancora che la nostra sia quella società senza macchia che si credeva.» replicò Constance tornando a concentrarsi sul suo tè «Ma certo è
che nonostante tutto ci si vuole credere. Anche a costo di far finta di non
vedere. Ma c’è un limite alla polvere che si può nascondere sotto al tappeto.»
«E se non fosse così?» obiettò il direttore
quasi minaccioso.
Nuovamente si fissarono, enigmatici e in
silenzio, come a voler cercare di cercare di leggere i pensieri l’uno dell’altro,
poi l’ammiraglio aprì una finestra accanto a sé contenente tutti i nominativi e
i dossier degli alti ufficiali dell’esercito nazionale. Gil pensò bene di non
chiederle come facesse ad averli.
«Anche tralasciando simpatizzanti e
anticonformisti di poco conto, sono in molti a cavalcare l’onda
dell’insoddisfazione e del nazionalismo, soprattutto nell’esercito. Per la
maggior parte si tratta di vecchi ufficiali provenienti dalla nobiltà di Kyrador.
Tutta gente molto potente e influente. È un
terreno pericoloso quello su cui vuoi camminare.»
«Sei fuori strada. Non sarò io a prendermi
questa patata bollente. Non subito, almeno.»
«E allora perché sei venuto qui?» domandò
provocatoria l’ammiraglio
«Ricordo fin troppo bene cosa successe dodici
anni fa, mentre davamo la caccia ad Avalon.» rispose Gillian
facendosi scuro in volto e sfiorando con un dito il bordo della tazza «Quando
si parla di loro quasi sempre si parla anche di incidenti, e quando si parla di
incidenti sono i miei ragazzi ad andarci di mezzo. Se dovesse mai succedere
qualcosa, voglio sapere a chi dovrò andare a chiedere conto».
L’ammiraglio accennò un’espressione ironica.
Anche lontano dal ponte di comando di una nave da guerra e con dieci anni in
più sulle spalle, Gillian era ancora l’uomo tutto
d’un pezzo che conosceva.
«Latte o limone?».
Per
tutti gli anni in cui aveva camminato per Caldesia come uno degli uomini più
ricchi e potenti della nazione, Auguste Delaroche aveva da sempre coltivato una
grande quantità di hobby e passioni.
Tra queste, però, una spiccava sulle altre, ed
era quella per i cavalli.
Amava cavalcare, come qualsiasi nobile che si
rispetti, e per potersi dedicare a loro in tutta tranquillità si era fatto
costruire in gran segreto una villa con maneggio nelle campagne vicino al
villaggio di Trendville, non troppo lontano da Kyrador.
Trenta acri di prati, avvallamenti soffici e
anche un piccolo frutteto, dove il barone era solito ritirarsi per lunghi
periodi di riposo, lontano dal mondo e dalla frenesia della città.
Nessuno aveva mai saputo della sua esistenza,
né chi ne fosse il proprietario, e così non sorprendeva che a distanza di anni
la MAB o l’esercito non l’avessero ancora requisita, anche se con l’arresto del
suo padrone era con il tempo caduta in rovina.
Ormai non ne restava altro che un vecchio
rudere soffocato dalla vegetazione che gli cresceva senza sosta attorno, opaco
residuo dei fasti di un tempo, uno spauracchio buono per stimolare storie di
fantasmi e strane apparizioni.
La gente del posto in effetti parlava spesso
di strane luci e suoni misteriosi che la notte animavano quella tetra dimora
abbandonata, ma si trattava di chiacchiere di paese come se ne sentivano tante,
e nessuno o quasi ci credeva sul serio.
Ma qualcosa c’era davvero.
Da qualche mese a quella parte, quasi ogni
notte, strane presenze erano solite aggirarsi attorno ai cancelli arrugginiti
che circondavano la villa, scivolando silenzio attraverso una fessura nelle
sbarre nei pressi del cancello principale e dirigendosi cautamente verso il
portone aggirando erba alta, serpenti e i ricordini di molti cani randagi che
avevano eletto quel posto a proprio rifugio.
Fu così anche quella notte.
Erano quasi undici, quando due uomini, due
giovani poco più che ventenni, sopraggiungendo a piedi da una stradina laterale
che tagliava la campagna circostante si portarono nei pressi della recinzione,
aggirandola per poi raggiungere a passo spedito il sontuoso portone in legno
lavorato.
Le persiane e le imposte erano tutte
sprangate, ma guardando bene si poteva scorgere distintamente una debole luce
proveniente dall’interno.
Uno dei due bussò leggermente tre volte, e
dopo qualche attimo sulla porta si aprì uno spioncino ricavato alla meno peggio
da cui fece capolino la faccia sospettosa di un terzo uomo.
«Siete in ritardo.»
«Siamo passati per le campagne.» si giustificò
quello che aveva bussato «C’è un sacco di polizia in giro.»
«Entrate».
I due giovani furono fatti entrare, e assieme
a quello che aveva loro aperto la porta si incamminarono attraverso i corridoi
semibui e sudici della villa fino alla vecchia sala da pranzo, l’unica stanza
di tutta la magione che fosse stata quasi del tutto rimessa a nuovo.
Al centro torreggiava l’imponente tavolo
ovale, circondato da pregiate sedie di ebano, quadri di classe decoravano le
pareti, e un superbo lampadario di cristallo un po’ offuscato dalla polvere
pendeva dal soffitto.
La riunione fissata per quella sera era già
entrata nel vivo. Alle sedie e ai vari divanetti che correvano lungo i bordi
della sala erano accomodati i membri più importanti della nuova Avalon, tutti
raccolti attorno al loro capo, il principe stando al suo nome in codice.
Valerian Delaroche
sembrava un diamante coperto di fango. Nonostante i lunghi anni dell’esilio e
della latitanza ne avessero incrinato il fascino quasi leggendario, nel suo
volto risplendeva ancora il fulgore di quel portamento che solo la nobiltà
poteva plasmare, elegantemente incorniciato dai lunghi capelli neri raccolti in
una coda ed esaltato da due scintillanti occhi blu.
Gli abiti umili e un po’ sporchi che la fuga e
la necessità di passare inosservato lo costringevano a indossare non gli rendevano
giustizia. Non somigliava neanche lontanamente a suo padre, che di contro era
stato punito con fattezze non esattamente ammalianti.
«È inaudito.» disse Percival,
il secondo in comando dopo Valerian «Abbiamo lanciato
la nostra rivendicazione a reti unificate, e a distanza di tre settimane non una
sola emittente lo ha trasmesso.
Anche sulla rete non ve ne è traccia.»
«La MAB e questo governo sono molto bravi a
nascondere le notizie.» commentò Bediverre «Lo
sappiamo tutti molto bene. E il fatto che l’attentato non sia andato a buon
fine li ha aiutati molto a mascherare il nostro operato come un normale
incidente.»
«Io vi avevo avvertito.» disse, nella massima
noncuranza, un giovane di bell’aspetto con corti capelli paglierini e occhi
marroni «La bomba nella macchina del procuratore non è stata una gran mossa. Credevate
sul serio che avrebbero permesso ad una notizia simile di diffondersi senza
controllo?»
«Sei di poco aiuto, Owain.»
lo rimproverò Lancillotto
«In queste cose è sempre necessario procedere
a tappe. Se volete la notorietà, se volete che la gente vi veda, dovete fare in
modo che la verità sia sotto gli occhi di tutti.»
«Come osa questo novellino arrogante dirci
quello che dobbiamo fare?» sbottò Tristano alzandosi in piedi a battendo con
forza i pugni sul tavolo «Ti ricordo che tu qui sei l’ultimo arrivato, e se
proprio vuoi saperlo qui dentro sono in tanti a dubitare di te.»
«Smettila, sei ridicolo.» disse Bediverre «Ha ragione lui. Anche se fossimo riusciti ad
uccidere il procuratore, lo abbiamo fatto in un luogo dove nessuno lo avrebbe
potuto vedere.»
«Ne consegue» proseguì tranquillo Owain «Che comunque fosse andata, non avremmo ottenuto
comunque quello che cercavamo. Su questo mi pareva di essere stato chiaro all’ultima
riunione.
Ora sanno che siamo qui, che siamo
determinati, e che non abbiamo intenzione di andarci per il sottile. Che poi
tradotto sarebbe, ci staranno col fiato sul collo.» quindi fulminò spavaldo
Tristano, che era stato l’ideatore di quel piano «Ne converrai dunque che la
tua non è stata una gran bella pensata».
L’interessato digrignò i denti per la rabbia e
tornò a sedersi.
«Stai pensando di colpire alla luce del sole?»
«Noi vogliamo che la gente di questo Paese
apra gli occhi. Ma anche se molti considerano giuste le nostre rivendicazioni,
e possiamo vantare un buon numero di sostenitori, noi per i più non siamo nulla
più che comuni terroristi. E nessuno darà mai ascolto alle rivendicazioni di terroristi,
per quanto giuste e sensate possano essere.»
«Io credo abbia ragione.» disse Lancillotto
«Possiamo avere simpatizzanti nell’esercito, nella polizia, o addirittura nella
stessa MAB. Ma senza il sostegno dell’opinione pubblica, noi non siamo niente.»
«E il sostegno dell’opinione pubblica non si
ottiene certo scrivendo attentato a caratteri cubitali su ogni nostra azione.»
incalzò Owain alzandosi e avvicinandosi al tavolo
«Allora che cosa proporresti?» domandò
sprezzante Tristano.
Owain rispose
con un sorriso compiaciuto, quindi mise una mano nella tasca interna del suo
giaccone, prendendone fuori due oggetti che poggiò sulla tavola.
«Questi dovranno essere i nostri soli
strumenti d’azione».
Molti restarono perplessi, qualcuno si passò
una mano sulla fronte, Tristano invece quasi scoppiò a ridere.
«Un cacciavite e una provetta?» disse con
spaventosa ironia «Non sarà che quella botta è stata più forte del previsto?».
L’unico che capì al volo che cosa uno dei suoi
consiglieri preferiti avesse in mente fu proprio Valerian,
che fissò negli occhi Owain come a voler essere certo
di aver capito bene.
«Ne sei sicuro?»
«Fidatevi di me. Vista la società in cui
viviamo, un incidente di troppo può avere più effetto di qualunque attentato
terroristico».
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Ci è
voluto più tempo del previsto, ma finalmente sono riuscito ad aggiornare.
In questo
periodo sono funestato da imprevisti e situazioni impossibili, ma grazie al
cielo finalmente e sono uscito e a breve dovrei poter ricominciare ad
aggiornare con più tranquillità.
Ringrazio
con tutto il cuore flea, ivan
e i miei beta per tutti i loro preziosi consigli, che mi aiutano ad accrescere
il livello e la qualità della mia storia nella speranza che possa avere un
domani.
I capitoli
ricorretti e riadattati in base ai loro suggerimenti potete trovarli nel mio
blog.
Tra
le tante cose che gli abitanti di Celestis si erano portati dietro dalla Terra
c’erano la suddivisione dell’anno in settimane e il rito della gita fuori porta
la domenica.
Kyrador era una
città piena di divertimenti per tutte le età, tanto da rendere superflue,
almeno secondo i più, le lunghe e sfibranti uscite in campagna, tra ingorghi,
stazioni ferroviarie sovraffollate e aeroporti sempre pieni.
Solo nell’area metropolitana si contavano
oltre un centinaio di aree verdi più o meno grandi e oltre quindici diversi
parchi dei divertimenti, il più grande dei quali era il Fantasy Castle a Swansea Park, nel nord
della città.
Oltre alle giostre, ai chioschi e al vicino
parco acquatico, tutte le domeniche il parco organizzava grandi spettacoli
circensi, amatissimi dai bambini, con animali, pagliacci e numeri di prestigio,
uno nella tarda serata di sabato e un altro nel primo pomeriggio della
domenica.
Quel giorno, tra la primavera ormai avanzata e
il ponte per la festa nazionale, c’era anche più gente del solito ad affollare
i cinquecento mila metri quadri del parco, e già verso mezzogiorno il grande
anfiteatro degli spettacoli era andato riempiendosi al punto da scoppiare.
Anche in un mondo dove la magia era all’ordine
del giorno era ancora possibile utilizzarla per impressionare e meravigliare
gli ospiti, e tra i tanti numeri proposti nel corso dello spettacolo il più
atteso era sempre quello di Bozo The Wizard, un clown
i cui numeri facevano da intermezzo tra una metà e l’altra della
rappresentazione suscitando la meraviglia dei bambini.
Bozo era talmente famoso che il parco aveva una
intera sezione dedicata a lui, con giostre e stand per la vendita di giocattoli
e manifesti, ed era considerato una vera miniera d’oro.
Certo, avrebbe sorpreso molti il fatto che
questo simpatico clown con mascherone bianco, naso rosso e parruccone giallo
sole in realtà non fosse nemmeno uno stregone.
Come molti, Bozo ovviava alla propria mancanza
usando strumenti tecnologici in grado di simulare la magia, come nel suo caso
un lungo guanto metallico a batteria che nascondeva sotto l’ingombrante veste
rossa.
Se l’era costruito da sé, cosa illegale a dire
la verità, ma in tanti anni aveva sempre funzionato benissimo, ed era solito
farvi una continua manutenzione. Per non correre rischi, vi aveva montato anche
un limitatore a manopola, sì da evitare sovraccarichi o incidenti di varia
natura che potevano arrecare pericoli a lui e ai suoi spettatori.
Alle due del pomeriggio, terminato lo
spettacolo degli unicorni, la folla prese a chiamare a gran voce il
simpaticissimo clown.
Era accaduto tutto così rapidamente che Bozo,
chiuso nel suo camerino, stava ancora finendo di applicare il mascherone, così
mandò uno degli altri figuranti a prendergli il guanto nel deposito degli
attrezzi per risparmiare tempo.
«Strano.» disse l’operaio notando che la porta
era aperta «Credevo la tenessero chiusa a chiave».
Senza stare a pensarci troppo il ragazzo prese
il guanto dalla sua custodia in cima ad un armadio e tornò in tutta fretta
dietro la scena aiutando Bozo ad indossarlo.
«Maledizione.» mugugnò il clown assicurando
l’ultima cinghia, azionando la manopola al minimo e coprendo il tutto con la
manica della grossa giacca viola «Ogni volta è un calvario».
Chissà cosa avrebbero pensato i bambini se
avessero saputo che il loro idolo, lontano dal palco, era solito aspirare
tabacco e lanciare improperi con la regolarità di uno scaricatore di porto.
Dopo qualche attimo l’annunciatore, che aveva
cercato faticosamente di guadagnare tempo con qualche barzelletta di gusto
discutibile, annunciò finalmente che l’evento più atteso dal pubblico era
pronto ad incominciare, e Bozo the Wizard fece il suo
ingresso in scena tra applausi scroscianti.
Il programma prevedeva una serie di numeri,
piccole trovate che avrebbero fatto ridere qualsiasi stregone, ma che per i
bambini era come trovarsi in una fiaba, il tutto arricchito da giochi di luce,
siparietti comici e numeri acrobatici.
Furono dieci minuti di spettacolo puro, anche
più divertente e sorprendente del solito, come se Bozo avesse trovato il modo
per rendere ancor più pirotecnico il proprio repertorio, fino al gran numero
del Tunnel del Drago che chiudeva tradizionalmente l’esibizione.
Si trattava di una prova dannatamente
pericolosa, almeno secondo il punto di vista di chi la osservava; in realtà
Bozo, cavalcando un monociclo, non faceva altro che spegnere per lo spazio di
un istante i cerchi di fuoco posizionati lungo la rotaia che percorreva a tutta
velocità, così da attraversarli senza conseguenze quando invece agli spettatori
sembrava davvero che stesse solcando pareti incandescenti.
Fu chiesto il silenzio, poi il clown, fatto un
cenno al suo pubblico si lanciò giù dalla discesa mentre tutti trattenevano il
respiro.
Ci fu un momento di panico al passaggio del
secondo cerchio, perché sembrava che Bozo stesse perdendo l’equilibrio, come se
qualcosa lo avesse distratto, ma poi il clown riuscì a completare il numero
senza incidenti, guadagnandosi esclamazioni di giubilo mentre eseguiva un
ultimo spettacolare giro della morte prima di tornare sul palco con le proprie
gambe.
Il pubblico era impazzito, e i bambini
sventolavano a piene mani i pupazzi in vendita fuori dall’anfiteatro chiamando
il nome del loro beniamino, che prima eseguì un inchino e subito dopo prese a
lanciare getti di vapore dalla manica della sua giacca come un estintore.
Tutti risero, gustandosi quel fuori programma,
non accorgendosi minimamente di quanto lo stesso Bozo non sembrasse comprendere
a propria volta la natura di quel fenomeno.
«Che sta facendo?» si domandò il capo della
compagnia da dietro le quinte vedendo il suo clown girare su sé stesso come una
trottola, gridando di dolore e paura e dandosi colpi sul braccio.
Servirono molti, troppi secondi perché ci si
accorgesse che quello non era un numero da circo, ma la verità si fece evidente
solo quando il divertente e spassosissimo Bozo the Wizard
iniziò a gonfiarsi davanti a tutti come un pallone, sventrando e lacerando il
proprio vestito di scena fino a tramutarsi in una orrenda creatura alta più di
due metri, resa ancor più grottesca e spaventosa dal mascherone che ne copriva
ancora la faccia.
La pelle si era fatta marrone e squamosa, i
vestiti strappati lo coprivano a malapena, ma la cosa più orrenda era il suo
braccio sinistro, che si era gonfiato fino a diventare il doppio del destro ed
era coperto da scaglie di metallo che spuntavano direttamente dalla carne.
Seguì un silenzio spaventoso, interrotto come
in un sogno da un ruggito della belva che scatenò il panico più totale.
Tutti presero a scappare, urlando e
calpestandosi tra di loro, dirigendosi di corsa verso le uscite senza che il
personale del parco, terrorizzato a sua volta, potesse fare qualcosa per
contenere la folla. Per fortuna Bozo preferì prendersela con una statua di
scena che lo raffigurava nel suo aspetto umano che con la gente in fuga, e
questo diede al pubblico il tempo di mettersi in salvo.
In pochi minuti, sul Fantasy Castle divenne una città fantasma. Le gioie della domenica
pomeriggio, di tante famiglie in gita, erano state spazzate via, tramutando un
lussureggiante parco dei divertimenti nell’ennesimo terreno di caccia di un
EDA.
Jake si sentiva doppiamente perseguitato
dalla sfortuna.
Non solo era finito a fare l’assistente, ma
gli era pure toccato il servizio nel finesettimana di festa. Così, mentre tutti
i membri della squadra erano in giro per la città o in congedo premio a
divertirsi, lui era costretto a starsene al bar del comando centrale, gli occhi
piantati sul bancone legnoso e l’espressione contrita.
Poco distante, i suoi nuovi compagni di
squadra ammazzavano il tempo giocando con le freccette o guardando il canale
sportivo che mandava la diretta di un incontro dei preliminari nazionali di chandra, tifando chi per il campione in carica Warewolf chi per la sua conturbante avversaria, Yumiko.
Dalle porte finestre affacciate sul cortile
entravano tiepidi raggi di sole, che rendevano ancor più insopportabile per il Tenente
Aulas il pensiero di doversene stare rinchiuso lì
dentro a rimuginare sui suoi pensieri, nell’attesa di una qualsivoglia chiamata
che poteva anche non arrivare mai.
Madison, il caposquadra, era un uomo semplice,
ma dalla forte volontà, che trattava i suoi uomini come fratelli, ma che più
volte era stato richiamato per quella sua tendenza a fare di testa propria
ignorando gli ordini.
Oltre a Madison, della squadra facevano parte
Ruth, l’esperta di ricognizioni, tipa tosta e battagliera, con un passato
nell’esercito di Ebridan, Shiffon,
una montagna nera di muscoli, fedelissimo del suo caposquadra, Dylan, il
sabotatore e mago dei computer, per il quale nessun sistema era inespugnabile,
più altri cinque giovani ancora in attesa di farsi le ossa.
Jake non
riusciva a capire il Capitano.
Era cosa nota nell’unità che la squadra di
Madison era composta esclusivamente da membri dei reparti di incursione e maghi
specializzati, quindi perché mettere un aspirante incursore come lui in un
gruppo che invece necessitava come il pane di uno o due elementi dei gruppi
d’assalto?
Vedendo il nuovo venuto che continuava a
restare in disparte, Shiffon, di sicuro il più
amichevole della squadra, si alzò dal tavolo offrendogli una bottiglia di
analcolico. Il ragazzo lo guardò, respirando tra i denti come stizzito, quindi
tornò a fissare il bancone.
Gli altri osservarono in silenzio.
«Questo atteggiamento non ti porterà da
nessuna parte, ragazzo.»
«Non sono dell’umore adatto.»
«Questo lo vedo.»
«Lascialo stare.» comandò Madison.
Shiffon allora
rinunciò, lasciando comunque la bottiglia sul bancone, e tornò a sedersi,
mentre alcuni suoi compagni facevano cerchio attorno a lui.
«Ma chi si crede di essere?» mugugnò uno
«Cercate di capirlo.» lo giustificò Ruth «Nove
mesi a spaccarsi la schiena senza sosta sulla stazione Ares, e appena tornato
gli negano l’idoneità e lo sbattono a fare il portaborse nei weekend. Al suo
posto sarei su di giri anch’io.»
«Gli è andata anche troppo bene.» replicò
Dylan volutamente ad alta voce «Dalle voci che girano, col punteggio che ha
ottenuto alla prova pratica è fortunato ad aver avuto una squadra.».
Jake si drizzò
come un toro davanti al drappo rosso, fulminando Dylan con una occhiataccia che
tuttavia il tecnico non mancò di ricambiare.
L’aria si fece di colpo più pesante.
«Dylan…» tentò di
dire Shiffon, ma era noto che quando quel serpente
iniziava a parlare fermarlo era impossibile
«Settantasei punti. Tanto valeva prendere una
recluta. Almeno quando ero io nei tuoi panni ne servivano ottanta anche solo
per lucidare le scarpe al caposquadra. Ormai il TMD accetta cani e porci.».
La risatina ironica di Dylan fu interrotta
prima di iniziare da un diretto da knockout dritto allo zigomo. Cadde all’indietro,
ma evitò di rovinare a terra appoggiandosi al tavolo, e prima ancora di
rialzarsi ricambiò il colpo con uno dei suoi sinistri micidiali.
Per fortuna gli altri membri della squadra
erano già sull’attenti, e i due furono separati a forza prima che finissero per
farsi male sul serio.
«Basta, smettetela!» tentò di dire Shiffon trattenendo Jake
«Vieni a dirmelo in faccia, maledetto!»
sbraitò Aulas
«Prega che non succeda!» disse di rimando
Dylan, che si scaldava altrettanto facilmente
«Finitela!» tuonò
Madison alzandosi in piedi.
Pareva un orco tanto metteva paura, con quella
mascella squadrata e quegli occhi piccoli che fulminavano come proiettili. Ad un
suo comando tornò il silenzio, e quei due scalmanati finalmente si calmarono.
«Non dimenticare mai i gradi, Dylan.» disse il
caposquadra al suo subalterno, che malgrado la tracotanza e tutto il resto era
solo un soldato scelto «Potrei farti rapporto.».
Ma ce n’era anche per Jake.
«E tu ragazzo, impara a controllare la tua
irruenza. Se non sbaglio è stata quella a farti finire qui.».
Entrambi i contendenti furono lasciati andare.
Col Capitano frapposto nel mezzo, era superfluo trattenerli perché restassero
divisi.
«Scusatevi l’un l’altro, e farò finta che non
sia successo niente.».
Alla fine, per amore o per forza, sia Jake che Dylan dovettero fare buon viso a cattivo gioco e
chiesero scusa, uscendone rispettivamente con un occhio tumefatto e un labbro
spaccato. Teoricamente Jake avrebbe potuto denunciare
Dylan per aggressione ad un proprio superiore, ma per quel giorno quanto
restava del suo orgoglio era già abbastanza compromesso e tornò a sedersi al
bancone.
Anche tutti gli altri si calmarono,
riprendendo chi a giocare chi a guardare l’incontro alla televisione, ma il Capitano
seguitava a tenere gli occhi sul ragazzo. Dopo poco, lo raggiunse,
accomodandosi accanto a lui.
«Senti, per quello che vale, io credo che tu
stia facendo un errore.».
Jake quasi non
lo stette a sentire, tanto era di cattivo umore, e fu solo grazie al soldato
che era in lui che non mandò quel brav’uomo a quel paese come aveva fatto con Shiffon.
«Ho saputo quello che è successo alla prova
pratica.»
«Come tutta la squadra, a quanto pare.»
replicò il ragazzo tra i denti
«Non posso capire come ti senti, perché in
verità non ci sono mai passato. Ma conosco abbastanza bene Vyce
da sapere che non prende mai decisioni alla leggera.».
In quel momento a Jake
tornò in mente quello che aveva sentito dire già diverso tempo fa, sul fatto
che il Capitano avesse fatto parte per qualche tempo della squadra di Madison,
ma non ci fece caso.
«Se posso darti un consiglio, dovresti
considerare tutto questo non come una punizione, ma piuttosto come un’opportunità.».
Di nuovo, Jake si
trattenne dal fare qualcosa di inopportuno, come scagliare qualcosa contro il
muro o ridere in faccia al suo superiore.
Era un galoppino. Un mero subalterno che
doveva solo scrivere i rapporti e tenere in ordine l’equipaggiamento. Come si
poteva considerarla un’opportunità?
L’allarme interruppe qualsiasi altro pensiero,
scotendo e facendo scattare in piedi tutti per la seconda volta in pochi
minuti.
Prima ancora che avesse il tempo di
raggiungere il più vicino interfono per chiedere spiegazioni, Madison sentì
squillare il proprio telefono d’ordinanza.
«Parla Madison. Sì…
d’accordo.»
«Che è successo, Capitano?» chiese Ruth
«Preparatevi. EDA al Fantasy Castle di Swansea Park.»
«Che bello, andiamo tutti al parco
divertimenti.» ironizzò Ruth «Chi me lo offre lo zucchero filato?»
«Brava, così ti vengono i foruncoli.» disse
divertito Shiffon.
Jake fu pronto
anche prima degli altri, facendosi trovare sessantatre secondi dopo già davanti
al furgone blindato, divisa lucidata, placche assicurate e il fucile in spalla.
«Quello non ti servirà.» rise il solido Dylan
«Lascialo fare ai professionisti questo lavoro.»
«Il giorno che ti tapperai la bocca sarà
sempre troppo tardi.» commentò Shiffon.
Madison salì per ultimo, il portellone si
chiuse e il furgone lasciò i parcheggi sotterranei dirigendosi fuori città.
La
passione preferita di Vyce era senza dubbio il
cinema.
In un mondo in cui gli ologrammi e la realtà
virtuale la facevano da padroni, il Capitano aveva speso una piccola fortuna
per accumulare alcuni vecchi dvd, veri pezzi d’antiquariato che costituivano
una piccola parte del bagaglio culturale che gli esseri si erano portati dietro
dalla terra quasi quattrocento anni prima.
Trovarli era molto difficile, e comportava
quasi sempre l’uso di pratiche illegali, perché le poche copie che erano state
riprodotte erano in mano soprattutto a grandi collezioni private o archivi
storici, ma ancor più difficile era trovare le apparecchiature necessarie a
poterli visionare.
Con molta pazienza e l’aiuto di un amico
appassionato di tecnologia terrestre il Capitano era riuscito faticosamente a
costruirsene uno, e tutte le domeniche, al buio del suo appartamento, era
solito godersi in tranquillità uno di quei vecchi film, sorseggiando caffè o
mangiando manciate di quelle caramelle bianche alla liquirizia che amava alla
follia.
Aveva più film di quanti avrebbe potuto
vederne in dieci anni, e per lui era un po’ come aprire una finestra sul passato,
su un luogo e di un mondo di cui, come tutti, aveva solo sentito parlare, ma
che era in realtà era e sarebbe stato per sempre parte della sua anima.
Ogni tanto fantasticava di poter vedere un
giorno la Terra, quel pianeta azzurro che ormai sopravviveva solo attraverso
vecchie immagini come quelle che guardava appena aveva un po’ di tempo a
disposizione, ma sapeva bene come questo fosse, per il momento, impossibile.
Cento anni erano serviti ai loro antenati per
arrivare su Celestis, e anche con tutta la tecnologia ed il sapere accumulato
in quei quattro secoli ne sarebbero serviti altrettanti per poterci arrivare,
più di quanti potesse trascorrerne chiuso in un congelatore personalizzato in
animazione sospesa.
I suoi amici, scherzando, non facevano che
ripetergli quanto il suo assomigliasse ad un vecchio salotto terrestre, per
quanto potevano saperne della terra, con quel tappetino rettangolare, quel
tavolino di vetro, quella poltrona reclinabile in gommapiuma e pelle, quel
vecchio impianto audiovisivo fatto in casa e quei contenitori di DVD pieni da
scoppiare.
Ma a lui la cosa non dispiaceva. Anzi, tirare
le tende della sua stanza e assaporare la bellezza di quei piccoli pezzi di
storia con quattrocento anni o più sulle spalle era il modo migliore che
conosceva per godersi serenamente il proprio giorno libero.
Quel pomeriggio non aveva scelto un film
particolarmente avvincente, una storia strappalacrime di un pittore povero in
canna e una ragazza nobile che si conoscevano e si innamoravano a bordo di una
nave che ora stava affondando, ed era quasi sul punto di addormentarsi tanto lo
trovava noioso.
Il telefono lo fece trasalire.
Sospirò di disappunto. Neanche la domenica lo
lasciavano in pace.
«Vyce.».
All’altro capo c’era l’ufficio logistico, e
quello che avevano da dirgli gli fece spalancare gli occhi, tramutando l’espressione
annoiata con cui aveva risposto in una di sgomento.
«Un Classe Alfiere!? Avete allertato i gruppi
d’assalto?».
Passò un istante, e allo sgomento si sostituì
la rabbia.
«Come sarebbe a dire che non ce ne sono?»
tuonò scattando in piedi e rovesciando senza volerlo il secchiello di mentine
appoggiato sulle gambe «Trovatene qualcuno, dannazione. Io vengo subito.
Intanto avvisate il Direttore.».
Mentre infilava in tutta fretta la giacca e
usciva di casa, il Capitano non riuscì a non trovare la cosa, se non strana,
quantomeno preoccupante.
Un’EDA di Classe Alfiere nel bel mezzo di un luogo
notoriamente sempre molto affollato in un giorno festivo; la combinazione
perfetta per una tragedia.
Note
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Ora le
cose iniziano a farsi serie.
Avevo in
mente di passare subito allo scontro tra il TMD (sì, ha cambiato nome) e l’EDA,
ma poi ho pensato a questo breve intermezzo su Vyce,
tanto più che essendo uno dei due protagonisti ho pensato meritasse qualche
annotazione in più sul suo carattere e la sua personalità.
A questo
proposito, appunto, ho deciso di sostituire il termine Sorcerer
con il più classico Magician; questo perché la
traduzione più corretta Sorcerer è fattucchiere,
mentre invece ne volevo uno che indicasse propriamente il mago inteso come
colui che lancia incantesimi.
Nel
prossimo capitolo, un po’ di vera azione stile SWAT.
Al
calare della sera, le luci elettriche dei fari della polizia illuminavano i
cieli del Fantasy Castle al posto degli abituali
fuochi d’artificio della domenica.
Tutti gli ingressi del parco erano stati
bloccati, e l’odore nauseabondo dell’kriloetanolo
disperso lungo il perimetro per costringere l’EDA all’interno impestava l’aria
peggio di una pila di corpi in decomposizione.
Nessuno osava tentare l’irruzione; un’EDA di
classe Alfiere era più di quanto chiunque, ad eccezione ovviamente dei TMD,
avesse il coraggio di affrontare.
L’allarme lanciato preventivamente aveva
permesso l’evacuazione del parco, ma poco dopo essere arrivati sul posto
Madison e la sua squadra erano stati informati dalla polizia che un gruppo di
persone, in tutto poco più di una decina, non avevano fatto in tempo a
raggiungere le uscite, ed erano ora barricate nel ristorante vicino alle
montagne russe, proprio al centro della struttura, lontani da qualsiasi
salvezza.
Era la materializzazione di un incubo. Un
gruppo di civili in trappola e in balia di un EDA che poteva stanarli e
mangiarseli, letteralmente, in qualsiasi momento.
Anche se la reale entità della potenziale
catastrofe non era ancora arrivata ai giornalisti, le varie troupe accorse come
mosche sul miele si erano rese conto dall’ingente dispiegamento di forze e
dall’arrivo dei reparti speciali che la situazione doveva essere davvero molto
seria, e seguitavano a portare avanti le loro edizioni straordinarie in attesa
dell’evolversi degli eventi.
Nel campo provvisorio allestito all’entrata
del parco, davanti allo sfavillante castello delle fiabe che faceva da arco
d’ingresso, Madison e i suoi attendevano l’autorizzazione ad entrare in azione
per liberare i civili. Di combattere non se ne parlava neppure; un Classe
Alfiere non era roba per gruppi d’assalto o stregoni d’elite, a meno di non
avere aspirazioni suicide.
Jake non sapeva come sentirsi, se in
fibrillazione per il suo battesimo del fuoco o sconfortato per la
consapevolezza che in ogni caso lo avrebbe vissuto stando in panchina.
Comunque, per quanto poco gratificante gli
sembrasse, cercava di fare ciò per il quale era assegnato all’interno della
squadra, e prima ancora che il furgone li sbarcasse sul teatro delle operazioni
aveva iniziato a studiare le planimetrie del parco per preparare una eventuale
irruzione.
Dato che nessuno aveva ancora idea di quale
fosse la reale situazione nella zona a rischio, su ordine di Madison Dylan inviò
un piccolo drone vespa comandato telepaticamente a fare un sopralluogo.
Quello che lui e i suoi compagni videro sul
monitor fece loro gelare il sangue.
Oltre i cancelli, il luna park
somigliava ad un campo battaglia subito dopo il termine dello scontro.
Regnava un silenzio spettrale, rotto solo dal
rumore prodotto da cartacce e altro materiale che mosso dal vento rotolava sul
selciato.
Tutto era desolazione e devastazione; ovunque
si vedevano i segni del passaggio della marea umana nella corsa verso la
salvezza, e se l’EDA, a sentire i testimoni, non aveva fatto in tempo ad
assalire nessuno, ci aveva pensato la paura a fare le sue vittime, che ora
giacevano inerti e senza vita, messaggeri di morte in un luogo che doveva
essere invece terra di svago e divertimento.
Ma la cosa più orrenda era che l’EDA non aveva
perso tempo per dare inizio al suo infernale banchetto, e come un predatore
saprofago si era già avventato su alcuni dei cadaveri, dilaniandoli
orribilmente e nutrendosi delle loro interiora.
Quello era l’unico metodo che il loro istinto
gli suggeriva per impedire l’inevitabile disgregazione a cui in breve tempo
andavano incontro tutti gli EDA; divorare qualsiasi creatura dotata di M-Code
per assorbirne l’energia. Inoltre gli EDA per loro stessa natura erano attratti
da tutto ciò che generava potere magico, e gli esseri umani, o i loro cadaveri,
non facevano eccezione.
Madison e la sua squadra ormai si erano
abituati a simili orrori, ma Jake dovette farsi forza per riuscire a non
vomitare.
Vedere cose simili nelle simulazioni al
computer e nelle istantanee proiettate a lezione non era neanche paragonare al
trovarsi tutto quanto buttato in faccia. E ancora doveva vederlo con i suoi
occhi.
Cercando di non pensarci, tornò a concentrarsi
sul suo piano.
«Capitano.» disse dopo qualche minuto di
riflessione «Forse c’è una soluzione».
Madison si affrettò a raggiungerlo, e così
fecero anche molti degli altri, raggruppandosi attorno alla mappa
tridimensionale del parco.
«Vedete questo punto?» disse Jake indicando
quello che sembrava l’ingresso di una galleria proprio sotto l’arco d’ingresso
«Il parco ha dei corridoi sotterranei di servizio per il personale che corrono
lungo tutta la sua superficie. Se passiamo da lì, dovremmo poter raggiungere i
civili e portarli in salvo senza grossi problemi.»
«Niente male.» osservò Shiffon «Sicuro e
discreto.»
«Sento che c’è un ma in arrivo.» obiettò
Dylan, sarcastico come sempre
«Il ma è che dall’uscita più vicina al
ristorante ci sono comunque alcune decine di metri.»
«Dieci metri sono tanti con quell’EDA in
giro.» osservò Ruth
«E al ritorno avremo i civili appresso.» disse
Madison «Se l’EDA ci fiuta, ci verrà dietro fin dentro le gallerie.»
«È un rischio. Ma è anche l’unica alternativa
che mi sento di suggerire. Gli ostaggi sono una decina, troppi per poterli
evacuare dall’alto, e al momento non disponiamo di blindati con cui tentare un
assalto diretto. Di affrontare l’EDA poi non se ne parla neanche,visto che stiamo parlando di un classe
alfiere».
I membri della squadra si consultarono con lo
sguardo, poi un agente di polizia informò il capitano che il direttore Harlow
voleva parlargli.
Madison si allontanò per rispondere alla
telefonata, ma prima ancora che potesse parlare loro del piano per portare in
salvo i civili gli fu ordinato di aspettare l’arrivo dei reparti d’assalto
prima di procedere. Al comando erano troppo preoccupati della pericolosità di
quell’ennesimo EDA, e non volevano correre il rischio di mandare una squadra al
macello per recuperare poche decine di civili in una missione ad altissimo
rischio.
L’ordine, pertanto, era di aspettare i due
elementi dei reparti d’assalto richiamati al servizio e inviati dal quartier
generale, che tuttavia non sarebbero arrivati prima di mezz’ora o più.
Ringhiando come una tigre in gabbia, il
capitano tornò dai suoi per comunicargli le decisioni dei capoccia della torre,
come era solito chiamarli, raccogliendo la stessa malcelata insoddisfazione.
«Che significa aspettare?» ringhiò Dylan
«Cos’è, di punto in bianco hanno deciso che non valiamo nulla?
Anche senza una latta ambulante dei reparti
d’assalto, mi pare che ce la siamo cavata egregiamente in situazioni peggiori
di questa.»
«Vallo a spiegare a loro.» osservò mestamente
Ruth
«Signore, con tutto il rispetto, è una
follia.» disse rispettosamente ma fermamente Jake «Man mano che continua a
nutrirsi dei cadaveri l’EDA diventa sempre più potente. Aspettare
significherebbe solo peggiorare le cose, e rendere il salvataggio dei civili
ancor più problematico».
Il capitano temporeggiò, guardando ora i suoi
uomini ora la mappa tridimensionale del parco che ruotava lentamente su sé
stessa davanti ai suoi occhi. Poi, decise di fare come aveva fatto molte altre
volte.
«Al diavolo anche gli ordini!» sbraitò, e
imbracciato il suo fucile corse verso l’arco d’ingresso «Andiamo!».
I suoi fedelissimi, gli unici autorizzati a
seguirlo durante qualcuno dei suoi colpi di testa, lo seguirono.
«Ragazzo, tu dacci le indicazioni. Non voglio
finire per perdermi là sotto.»
«Ci conti signore.» rispose Jake lasciandosi
sfuggire un’espressione soddisfatta «La guiderò come se fossi accanto a lei».
Per
trovare in tempo due membri dei reparti d’assalto che non avessero approfittato
proprio di quella domenica per marcare visita nel modo più completo del
termine, Vyce era stato costretto ad andarli a recuperare a Niichtar,
nel vicino distretto di Taguar, e ora assieme a loro
stava dirigendosi in elicottero verso il Fantasy Castle.
Il capitano se ne restava in silenzio, immerso
nei suoi pensieri, ma di tanto in tanto gettava lo sguardo verso quei due
ragazzi, Tanner e Doyle,
seduti dirimpetto a lui, già rinchiusi all’interno delle loro armature
metalliche, ingombranti ma necessarie sia per proteggerli sia per permettere
loro di gestire l’enorme quantità di energia che erano costretti a maneggiare.
Accanto a loro, oltre agli elmetti, le loro
armi, una specie di mastodontici cannoni a mano che al momento giusto avrebbero
assicurato per mezzo di un cavo di alimentazione al generatore che portavano
come una protuberanza della corazza dietro la schiena.
Vyce provava una certa soggezione a guardarli,
tornando brevemente con la memoria al tempo in cui anche lui era solito
vestirsi in quel modo. Ma si trattava di giorni lontani, prima che si rendesse
conto come quella non fosse cosa per lui, e di come fosse molto più
gratificante ed importante istruire i membri della squadra piuttosto che sedere
in mezzo a loro.
«Capitano!» esclamò ad un certo punto uno dei
due piloti togliendosi le cuffie «La squadra speciale al luna park ha fatto irruzione.»
«Che cosa!? Chi ha dato l’ordine?»
«Non lo so.»
«Muovetevi. Dobbiamo arrivare laggiù il prima
possibile.»
«Sissignore.»
«Maledetta testa calda.» mugugnò tra sé Vyce
pensando al suo vecchio mentore «Una ne pensa e cento ne fa».
Le
gallerie di servizio sotterraneo erano un vero labirinto, un dedalo
inestricabile di tunnel intasati in vari punti da attrezzature e materiale
buttato lì e mai gettato via, o destinato ad usi sporadici come eventi speciali
o feste a tema.
C’erano anche delle stanze usate come
sgabuzzini, e alcune luci non funzionavano o andavano a intermittenza.
«Questo posto è un vero letamaio.» commentò
Shiffon, che oltretutto con la sua altezza ciclopica rischiava continuamente di
battere la testa sulle tubature.
«Prendete il corridoio tredici.» disse Jake
guidandoli dalla superficie «Vi condurrà all’uscita giusta».
La squadra obbedì, ma fatti pochi passi la
trasmissione cominciò ad essere disturbata, con la voce di Jake che si faceva
sempre più distorta.
«Che succede? Non si sente più nulla.» disse
Madison cercando di combattere l’effetto nebbia
«Lo so, sto cercando di capire. Aspetti un
attimo».
A Jake bastò una rapida occhiata sulla mappa
tridimensionale del parco per capire quale fosse il problema.
«C’è un’antenna con ripetitore per la
diffusione di energia sul tetto del ristorante. Probabilmente si è guastata, e
ora disturba le comunicazioni.
È probabile che una volta entrati all’interno
del suo campo perderemo del tutto il segnale.»
«Ottimo. Come se non avessimo già abbastanza
problemi. D’accordo, resta in contatto. Ci faremo risentire appena potremo».
Madison e il resto della squadra risalirono
lungo la scala a pioli al termine del corridoio, e giunti davanti alla porta
d’uscita si guardarono un momento tra loro, scambiandosi un cenno d’intesa,
quindi Dylan l’aprì lentamente e tutti uscirono all’esterno.
Il parco era in uno stato pietoso.
Dal vivo era anche peggio: danni ovunque,
segni evidenti del panico prodotto dalla paura, luci spente o danneggiate, e
ovunque corpi senza vita di chi non ce l’aveva fatta ad andarsene in tempo o
era stato travolto dalla folla.
«Jake, mi ricevi?» provò Madison alla radio,
rendendosi però conto che la linea era effettivamente saltata a causa delle
interferenze.
Dell’EDA, fortunatamente, nessuna traccia. In
silenzio e con la massima circospezione, coprendo le spalle l’un l’altro,
Madison e i suoi arrivarono al ristorante, trovando però la porta sprangata.
Dovettero quindi lanciare dei rampini arrampicandosi lungo il muro ed entrare
da un lucernario direttamente nella sala da pranzo.
«Calmatevi.» si affrettò a dire il capitano ai
civili terrorizzati «Siamo del TMD. Siamo venuti a portarvi in salvo».
In tutto c’erano due uomini, quattro donne, di
cui una abbastanza anziana, due bambini tra i sei e i dieci anni e un
adolescente. Il vero problema, però, era un bambino di neanche due anni, che a
detta dei superstiti da che era cominciato il putiferio non la smetteva un
momento di piangere.
«E adesso che facciamo, capitano?» domandò
Dylan quando la squadra si fu appartata per decidere il da farsi «Con tutto
questo strillare è un miracolo che l’EDA non li abbia già stanati e massacrati.
Portare fuori quel moccioso sarebbe come disegnarsi un bersaglio in fronte.»
«Non possiamo certo lasciarli qui.» disse Ruth
«Di sicuro non dopo tutta la fatica fatta per arrivare».
Il frignare senza sosta del bambino non faceva
altro che aggiungere tensione e stress ad una situazione che ne aveva già in
abbondanza, ma grazie al cielo dopo qualche attimo quella piccola peste decise
che ne aveva abbastanza e si calmò, addormentandosi esausto tra le braccia
della madre.
«Meno male.» sospirò Shiffon «Per un attimo ho
pensato che volesse andare avanti fino a domani mattina.»
«Dobbiamo approfittarne adesso. Ora o mai più.
Se riusciamo a portarli nelle gallerie è fatta».
Si trattava di fare una volata. I genitori
furono invitati a prendere in braccio i bambini più piccoli, e appena Shiffon e
Dylan ebbero sgombrato l’ingresso il gruppo prese la via del ritorno, sempre
cercando di fare il minor rumore possibile.
I civili erano terrorizzati, e lo furono
ancora di più nel vedere quello che restava dei corpi dilaniati dall’EDA; non
sarebbe occorso molto, con tutta quella missione e quello spettacolo
orripilante davanti agli occhi, prima che a qualcuno saltassero i nervi, e
Madison cercò per quanto possibile di affrettare il passo.
Sembrava stesse andando tutto liscio, ma
proprio quando mancavano pochi metri per raggiungere il passaggio sotterraneo
l’EDA avvertì il rumore di passi con il suo udito finissimo e raggiunse di gran
lena i fuggitivi, afferrando nella corsa un cavallino da giostra e scagliandolo
contro il gruppo come bambino lancerebbe un sasso nello stagno.
«Attenti!» gridò Ruth accorgendosi del
pericolo.
Fortunatamente Shiffon fece in tempo a
lanciare via due donne prima che venissero investite, ma ormai erano stati
scoperti, e l’EDA, distante una decina di metri, li stava già puntando. La sua
faccia incerata e quel grosso naso rosso, che nella trasformazione si era
praticamente fuso con il resto del vivo, lo rendevano spaventoso, e i bambini
piansero nel vederlo comparire.
«Avete…paura… dei clown?» continuava a ripetere senza sosta con
voce gracchiante e acuta, quasi inumana.
«Maledizione!» imprecò Shiffon «Ce l’avevamo
quasi fatta!»
«Ruth! Porta i civili fuori da qui! Noi ti
copriremo!»
«Ma, signore…» tentò
di dire la giovane donna
«Avanti, non discutere!».
Madison infilò una granata nel suo fucile e
sparò. L’EDA la intercettò a mezz’aria, schiacciandola nella sua possente mano
come fosse stata una mosca fastidiosa, e anche se praticamente gli esplose
addosso non ne subì alcun danno apparente. Nel tempo che impiegò a rigenerare
le sue ferite, però, il capitano, Shiffon e Dylan lo avevano già circondato.
«Muoviti!» ordinò ancora Madison
«D’accordo.» si risolse infine Ruth «Mi
raccomando, resistete! Tornerò quanto prima!».
Ruth se ne andò portando i civili al sicuro, e
i tre rimasero da soli.
Scappare non era un’opzione. Ora che l’EDA li
aveva puntati, li avrebbe inseguiti anche in capo al mondo, ed era troppo
pericoloso per lasciare che uscisse dal luna park.
«Avanti, bello.» disse Dylan «Fammi vedere di
che cosa sei capace».
L’EDA si concentrò subito su di lui, forse
perché tra tutti era quello con le capacità magiche più sviluppate, e gli bastò
agitare un braccio per provocare un violento spostamento d’aria in direzione
dell’agente, così forte da incrinare le mattonelle del selciato e agitare
furiosamente le fronde degli alberi circostanti.
«Flash Move!»
sentenziò Dylan, che come una scheggia prese a muoversi rapidissimo da una
parte all’altra evitando tutte le bombe di vento lanciate in successione.
Madison ne approfittò per svuotare un intero
caricatore sul nemico, ma quella bestia era decisamente troppo potente perché i
proiettili, per quanto speciali, potessero fargli qualcosa.
L’unico che poteva avere qualche speranza in
più era Dylan, ma la fortuna decise improvvisamente di voltargli le spalle
quando la sua fuga da una parte all’altra venne infine bloccata da una bomba
d’aria che lo centrò in pieno scagliandolo via; se non fosse stato per la
corazza che indossava e che assorbiva in parte l’effetto degli incantesimi,
quasi sicuramente quel colpo gli avrebbe fatto esplodere il ventre.
«Maledetta…
bestiaccia.» mugolò cercando di rialzarsi.
L’unica cosa da fare era cercare di guadagnare
tempo, e restare vivi fino all’arrivo delle truppe d’assalto.
All’esterno,
Jake stava diventando nervoso.
Il tempo passava, e il capitano non si faceva
risentire. Per colpa di quella maledetta antenna non poteva contattarli finché
restavano in superficie, e ci voleva troppo tempo per installare un attenuatore
o cercare di forzare il segnale.
«Capitano?» continuava a dire alla radio
«Signore, mi risponda».
Poi, erano cominciati a risuonare colpi d’arma
da fuoco e ad intravedersi strani bagliori, e la semplice ansia si era fatta
preoccupazione.
Dopo qualche minuto da che era cominciato il
putiferio, Jake e le squadre speciali videro Ruth sbucare fuori dall’interno
dell’arco d’ingresso alla testa di un gruppetto di civili malconci e
terrorizzati che furono subito affidati ai paramedici.
«Dove accidenti sono quei maledetti gruppi
d’assalto?» sbraitò la ragazza all’indirizzo del soldato più vicino «Il
capitano e gli altri stanno vedendosela con l’EDA!»
«Li stiamo ancora aspettando.» tentò di
spiegare il poveretto
«Che si sbrighino, per Dio!».
Senza pensarci troppo su Ruth girò i tacchi e
tornò indietro accompagnata da un paio degli altri membri più giovani della
squadra, gli unici temerari abbastanza coraggiosi o pazzi da volerla seguire,
ma fatti pochi passi si fermò girandosi verso Jake.
«Hai intenzione di restartene lì imbambolato
ancora per molto? Muoviti!».
Jake dapprincipio non seppe cosa fare o che
pensare, ma poi la sua determinazione prevalse e si accodò al gruppo.
Quando raggiunsero nuovamente gli altri membri
della squadra, Madison, Dylan e Shiffon erano impantanati in una situazione a
dir poco complicata. Quell’EDA classe Alfiere era così resistente e testardo da
incassare senza difficoltà qualsiasi colpo gli venisse scagliato contro, e
ormai i tre TMD cominciavano a sentire il peso della stanchezza, soprattutto
Dylan.
L’EDA poi si era reso chiaramente conto del
potenziale del rosso, concentrandosi prevalentemente su di lui, e questo aveva
costretto Dylan ad un continuo mordi e fuggi che aveva in breve prosciugato le
sue energie.
Rischiava di essere una situazione senza
uscita.
Nota
dell’Autore
Salve a
tutti!^_^
Lo so, è
un ritardo a dir poco osceno, ma prima la frenesia e i mille impegni delle
vacanze di pasqua, e subito dopo il trantran burocratico per il tirocinio
universitario che ho incominciato lunedì, hanno limitato ai minimi storici il
mio tempo libero.
Ho dovuto
scrivere nei momenti più impensabili della giornata, e finalmente sono riuscito
ad aggiornare.
Allora,
che ve ne pare?
Questo è
il primo capitolo d’azione di tutta la storia. Alcuni dicono che siano quelli che
mi riescono meglio, ma vero è che non ne sono mai del tutto soddisfatto. Anche
il prossimo avrà un incipit rocambolesco che chiuderà la vicenda iniziata qui,
per poi tornare su toni molto più distesi.
Spero di
non aver perduto nel frattempo tutti i miei lettori.
Usare la magia richiedeva uno sforzo fisico e
psicologico notevole, che e prolungato poteva portare a pesanti conseguenze per
l’organismo. Era come essere impegnati in una maratona.
In quanto TMD e membro del reparto operativo
Dylan poteva vantare resistenza e potenzialità superiori a quelle dei suoi
compagni, ma anche lui aveva i suoi limiti.
Su sufficiente una disattenzione di troppo,
dettata dalla stanchezza e dal fiato corto, e l’EDA gli saltò addosso
investendolo come una manata che in teoria avrebbe dovuto staccargli la testa
dal corpo tanto fu potente. Ancora una volta, il rosso fu salvato dal basic life support in dotazione
al suo equipaggiamento, che percependo la minaccia lo avvolse all’ultimo
secondo in una barriera difensiva salvandogli la vita.
Nonostante ciò Dylan fu comunque scagliato via
come una pietra, rovinando malamente sul selciato e procurandosi una leggera
lussazione ad una spalla. Sarebbe stato sicuramente travolto dalla carica
dirompente del mostro, se l’intervento provvidenziale di Jake con l’evocazione
dello SchildSüden che
sbarrò la strada all’EDA lasciandolo anche tramortito dal violento impatto.
«Non mi pare il momento di riposare sul
lavoro.» disse Aulas ironico arrivandogli appresso ed
aiutandolo a rialzarsi «Tutto bene?»
«Sopravvivrò.» tagliò corto Dylan minimizzando.
L’EDA accusò pesantemente la tremenda batosta
contro il muro di luce comparsogli davanti, barcollando per alcuni secondi,
quel tanto che bastava per consentire a Shiffon di approfittarne.
«Fatti un goccio, bastardo!» strillò
arrivandogli sotto e inondandolo con lo spruzzatore collegato alle bombole di kryloetanolo che aveva dietro la schiena.
Anche Jake non perse l’attimo. Recuperato
dalla cintura un fumogeno di segnalazione, lo accese e lo lanciò addosso al
mostro, che coperto di kryloetanolo si tramutò in una
torcia vivente coperta di fiamme azzurre che scaldavano e bruciavano il doppio
del fuoco normale.
Quel poveraccio prese ad urlare come un
dannato, dimenandosi e correndo in ogni direzione nel tentativo di spegnersi, e
per un attimo sembrò quasi che la squadra potesse incredibilmente avere la
meglio.
Ma quello era pur sempre un Classe Alfiere, e
contro una simile bestia c’era poco che le armi convenzionali potessero fare.
Pur indebolito e avvolto dalle fiamme, l’EDA mostrò di essere ancora
pericoloso, riuscendo a concentrare tutte le fiamme che aveva addosso nel palmo
della mano per poi scagliarle violentemente contro Madison e i suoi.
L’attacco per fortuna andò a vuoto, ma
produsse una poderosa vampata rovente che li scagliò tutti a terra lasciandoli
indifesi.
Inutile girarci attorno, pensò Jake vedendo i
suoi compagni faticare a rialzarsi; un nemico di quel livello era troppo per
loro.
Poteva andare a finire molto male, anche
perché ora l’EDA era davvero infuriato, e la comparsa tanto sospirata dei due
elementi dei Gruppi d’Assalto fu quanto mai provvidenziale a salvare la vita ai
loro compagni.
«Magma Rage!» ordinò
Tanner, e dal suo cannone portatile si generò un
flusso vermiglio che investì l’EDA con la forza di un treno in corsa
scagliandolo contro una vicina parete, che a sua volta finì in polvere per la
potenza del colpo.
Contemporaneamente, Doyle
comparve quasi dal nulla alle spalle del gruppo, avvolgendoli in una piacevole
brezza che restituì loro un po’ di forze.
«Avevate bisogno di una mano?» disse
scherzosamente
«Era ora, finalmente.» commentò Ruth «Ve la
siete presa comoda.»
«Sai com’è, era domenica».
L’EDA, ferito ma non domo, tentò di reagire,
ma contro i generatori al krylium in dotazione ai
Reparti d’Assalto non c’era sfida.
Doyle, che era
portato per la magia contenitiva e di supporto, immobilizzò sul nascere la
reazione del mostro rinchiudendolo in una gabbia di luce, dando al suo amico Tanner tutto il tempo necessario per metterlo al centro del
mirino.
«Cammino tra la Luce ed il Buio.» prese a
salmodiare l’agente rimuovendo la sicura alla sua arma, mentre tutto attorno a
lui si sprigionavano scintille di luce e le bobine del fucile iniziavano a
girare allo spasimo «Sfido lo Spazio ed il Tempo. Sono il Dio della Morte che
viene a prendere la tua anima».
Come videro comparire davanti al cannone un
cerchio magico ridondante di energia, Madison e i suoi si gettarono immediatamente
a terra coprendosi la testa; Jake esitò un momento, meravigliato da una tale
capacità nella stregoneria, poi fece altrettanto.
«Aufreinigung!».
Il cerchio generò una nuova onda
incandescente, questa volta dal colore arancio tramonto, talmente potente da
sventrare il selciato sotto di sé e sradicare gli alberi più sottili nel raggio
di dieci metri.
«Avete paura dei clown?» ripeté
un’ultima volta l’EDA prima di finire incenerito.
A quel punto, era davvero finita, e
a Tanner non restò altro da fare che aprire gli
sfiatatoi dell’arma per raffreddarla e fare uscire l’energia in eccesso, poi
sia lui che Doyle poterono togliersi l’elmo.
«Non c’è che dire, capitano.» disse
Tanner, che ben conosceva il naturale modo d’agire di
Madison «Lei ha un talento naturale per cacciarsi nei guai. Spero che ci
offrirà almeno un drink per esserle venuti appresso la domenica sera.»
«Ma anche un paio, se non basta.» replicò
divertito Madison «Dopotutto, ci avete appena salvato il didietro».
Passata
la tempesta, fu il momento di contare i danni.
Ringraziando il cielo non era andata così male
come ci si aspettava inizialmente, almeno sotto il profilo delle vittime.
«Questo è quanto.» disse uno degli agenti di
polizia facendo rapporto a Vyce «Tredici morti e settantadue feriti, di cui per
fortuna solo quattro in gravi condizioni.
Meno male che i civili rimasti intrappolati
nel parco sono riusciti ad uscire incolumi, o il bilancio avrebbe potuto essere
anche peggiore».
Madison e la sua squadra ne erano usciti quasi
incolumi, fatta salva qualche contusione non troppo grave. Il capitano si era
appena liberato dei paramedici che insistevano per medicarlo, che il suo
vecchio apprendista, e ormai suo superiore, gli si fece incontro con aria a dir
poco contrariata.
Stava per ricominciare la solita tiritera.
«Siamo alle solite.» esordì Vyce «Alle volte
mi sentirei più tranquillo a mettere un bambino a capo della squadra.»
«Ciao ragazzo, anch’io sono felice di
vederti.» ironizzò Madison
«Stavate per lasciarci la pelle. Tu e la tua
squadra.»
«Ma sono tutti salvi. E anche i civili.»
«Hai messo in pericolo Jake.» soffiò Vyce
trattenendo la collera «Non te l’ho affidato perché tu lo coinvolga nelle tue
bravate da kamikaze.»
«E allora per quale motivo, se posso
chiedere?».
Vyce avrebbe voluto mettersi a gridare.
Ogni volta era la stessa storia.
Poteva anche essere diventato il suo
superiore, ma di fatto era come se fossero ancora maestro e allievo. Già
Madison era una testa calda di suo, e nonostante tutto non c’era verso per Vyce
di riuscire a farsi valere con lui.
«Voglio un rapporto dettagliato domani mattina
nel mio studio.» tagliò corto con l’evidente volontà d chiuderla il prima
possibile «E fossi in te mi preparerei a pagare una bella ammenda.»
«Serviti pure. Il numero di conto ormai dovresti
conoscerlo a memoria.»
«Và al diavolo».
Malgrado fosse ancora scosso dai postumi della
sua prima esperienza sul campo, Jake non mancò di restare sorpreso.
«Non posso crederci. Ero convinto che come
minimo ci avrebbero dato gli arresti di punizione.»
«Ragazzo, c’è una cosa che il capitano ha
imparato fin troppo bene.» gli disse Shiffon «E cioè che nel TMD, se si vuole
ad ogni costo disobbedire agli ordini è sempre meglio avere la certezza di
stare facendo la cosa giusta.»
«E di essere pronti a farsene carico.» precisò
Ruth.
Solo in futuro Jake avrebbe compreso sul serio
il significato di quelle parole.
«Non
è andata esattamente come speravamo.» commentò Percival
spegnendo il televisore del salotto
«Cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo
pieno.» rispose Lancillotto «Poteva andare peggio. Nel timore che qualcuno
potesse vederlo il mio uomo ha fatto le cose abbastanza di fretta. Comunque,
devo ammettere che non avrei mai immaginato che potesse venirne fuori un Classe
Alfiere.»
«Che ti aspettavi?» disse il suo amico
passandogli una birra «Con tutte le cianfrusaglie e le trappole magiche fatte
in casa da ingegneri improvvisati, non sai mai cosa può capitare.
Probabilmente sarebbe successo comunque prima
o poi.»
«Hai ragione. Dopotutto, è anche a questo che
ci opponiamo. E Owain ha trovato il modo per far sì
che tutti siano costretti a capirlo.
Dobbiamo ammetterlo. Checché ne dica Tristano,
quel ragazzo sa quello che vuole».
Percival si fermò
un attimo prima di poggiare le labbra sul beccuccio e guardò Lancillotto a metà
tra la complicità e lo stupore.
«Quindi tu credi che mirasse proprio a questo?»
«La società di questo pianeta è come un
castello costruito sul fango. Se vai a incrinare le fondamenta, prima o poi il
tutto viene giù. E le fondamenta in questo caso sono l’opinione pubblica e i
media.»
«Ma alla MAB potrebbero scoprire che si è
trattato di un sabotaggio.»
«Forse.» disse Owain
comparendo nella stanza e facendo saltare un momento sul posto i due compagni
«Ma anche se fosse, non lo ammetterebbero mai.»
«Vuoi farci morire di paura per caso?» domandò
Lancillotto
«In certi casi è molto più semplice parlare di
incidente senza addossare colpe che rivelare la verità e fare la figura degli ingenui.
E poi, come avete detto voi, visto il mondo in cui viviamo è molto più facile
credere ad un incidente che ad un sabotaggio o un attentato.»
«Perché ho il sospetto che la cosa non ti
dispiaccia?» ironizzò Percival
«Perché un incidente, se ben orchestrato, in
questi casi può fare molto più rumore di qualsiasi bomba o dichiarazione
pubblica.
Capirete presto di che sto parlando».
Non
servì molto tempo perché le parole di Owain
iniziassero ad acquisire senso.
Appena poche ore dopo, la notizia di quanto
accaduto a Fantasy Castle, rimbalzata attraverso la
rete e i canali televisivi, aveva già fatto il giro del pianeta.
Che si verificassero incidenti più o meno seri
era un fatto a cui ormai la gente ci stava quasi facendo l’abitudine, eppure
ogni volta era come andare a toccare un nervo scoperto. Oltretutto, stavolta
c’era di mezzo un posto da sempre ritenuto sicuro, un ritrovo per le famiglie,
ma soprattutto dove c’erano tanti bambini.
Fino a che si trattava di fabbriche, impianti
industriali o strutture militari era un conto, ma in un luogo di divertimento
nessuno si aspetterebbe di veder accadere una cosa del genere.
La gente era preoccupata, e il risalto
mediatico dato all’evento non aiutava a calmare gli animi.
Nei giorni che seguirono fu necessaria una
decisa pressione sui media da parte delle forze di polizia e della stessa MAB per
far sì che le acque iniziassero timidamente a calmarsi, ma la sensazione
predominante, anche tra le stesse forze dell’ordine, era che se le cose fossero
continuate così arrestare la marea sarebbe diventato sempre più difficile, se
non impossibile.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Come avete
notato stavolta si tratta di un capitolo piuttosto breve, di transizione per
così dire.
Da qui in
poi infatti inizierà un nuovo arco narrativo, quindi ho ritenuto giusto
chiudere in maniera netta la questione legata all’EDA di Fantasy Castle per poi passare ad altro con un nuovo capitolo.
Ringrazio
come sempre tutti coloro che leggono e recensiscono, invitando coloro che
volessero conoscere maggiori dettagli inerenti alla trama, o anche solo leggere
i capitoli riveduti e corretti dalla mia bravissima e disponibilissima beta, a
fare un salto sulla mia pagina facebook o il mio
blog.
Carmy
arrivò alla stazione centrale di Kyrador poco dopo le
undici del mattino, un’ora prima dell’orario concordato, e dopo aver dato uno
sguardo alle tabelle degli arrivi nel salone principale si accomodò in sala
d’aspetto mettendosi in attesa.
La notizia era arrivata come un fulmine a ciel
sereno, sottoforma di un videomessaggio comparso da un momento all’altro nella
sua casella personale.
Sua madre Morea
stava arrivando in città per una commissione e aveva bisogno di qualcuno che le
facesse da guida.
Carmy si era sentita mancare quando l’aveva
saputo. Erano ormai otto mesi che lei e la sua famiglia non si vedevano, e non
si poteva dire che il loro distacco fosse stato dei più pacifici.
Il fatto che sarebbe venuta solo sua madre un
po’ la tranquillizzava, ma era sicura che in modo o nell’altro si sarebbe
finito per parlare del momento in cui aveva scelto di andare per la sua strada
incurante del parere e del veto dei genitori, che non volevano saperne di
vedere la loro figlia arruolata in una istituzione che a loro non era mai
andata particolarmente a genio.
Avrebbero litigato. Senza dubbio.
Per un attimo aveva ventilato l’idea di
inventare una scusa, il che non sarebbe stato difficile, ma alla fine si era
detta che sarebbe stato solo un modo per rimandare ulteriormente il problema.
Così, si era presa un giorno di permesso e quella mattina, dopo una notte quasi
insonne, si era recata mestamente alla fermata della metro.
I successivi trenta minuti furono tra i
peggiori della sua vita, in cui l’attesa non faceva altro che aumentare
l’ansia; neanche la maestosità e lo sfarzo della stazione, che pure l’aveva
lasciata senza parole al suo primo arrivo nella grande città, riusciva a
distoglierla dai suoi pensieri.
Cercò di pensare ad altro, magari al suo
lavoro, ma fu proprio il pensiero del lavoro a spingerla a formulare la più
terribile delle ipotesi.
Forse avevano scoperto la verità. Forse
sapevano.
Già era stato difficile per suo padre
accettare l’idea di avere una figlia arruolata nell’agenzia, e il solo pensiero
di come avrebbe potuto reagire sapendola ora nella polizia militare fu
sufficiente per indurre a Carmy un brivido che dalla testa le si propagò come
una scarica elettrica in tutto il corpo.
Si sforzò di calmarsi, e di pensare positivo.
Non potevano saperlo. Da che era entrata in polizia non aveva mai fatto parlare
di sé, né si era messa in mostra in presenza di giornalisti o troupe
televisive. E sicuramente, lei non si era mai lasciata sfuggire una parola con
chiunque avesse potuto informare i suoi genitori, neanche con sua sorella
Judith.
Judith.
Pensando a lei, Carmy riuscì finalmente a
trovare un motivo per sorridere. Le mancava molto la sua adorata sorellina
scalmanata e battagliera.
Ancora poco e avrebbe finito le elementari, ma
nel suo caso la scuola di magia non era un’opzione; troppo basso il suo livello
di potere, troppo poco sviluppato il suo codice genetico. I difetti di avere un
solo genitore stregone.
«Il treno rapido da Midgral
è in arrivo al binario undici.» la riscosse improvvisa la voce
dell’altoparlante.
Era il suo treno.
Preso un respiro, e cercando di darsi un
contegno, Carmy si diresse al binario indicato, e dopo che il treno si fu
fermato prese a cercare con lo sguardo tra i passeggeri in arrivo la persona
che stava aspettando.
In pochi attimi la sua attenzione fu catturata
da una donna di bell’aspetto, capelli di un biondo paglierino piuttosto corti e
lasciati cadere elegantemente fino alla base del collo, sguardo fermo ma
gentile e un viso di forma vagamente ovale, con una punta leggera.
Non doveva essere più giovanissima, ma ciò
nonostante conservava un indubbio fascino, dimostrando forse qualcosa di meno
degli anni che doveva avere.
La giovane donna notò Carmy, facendole un
cenno con la mano, e la ragazza, tratto un nuovo, profondo respiro, le andò
incontro.
«Ciao, mamma.»
«Mi fa piacere rivederti, Carmy.» disse la
donna dopo un attimo di silenzio.
Nonostante l’apparente gentilezza Carmy notò
in quel semplice saluto un tono che lasciava trasparire qualcosa di strano,
come un che di malcelato rimprovero. Da che le aveva messe al mondo Morea non aveva alzato la voce con nessuna delle sue
figlie, ma questo non sminuiva per nulla il suo ruolo di madre, e quando voleva
sapeva bene come far capire ad entrambe quanto fosse contrariata o delusa dal
loro comportamento.
Per la prima volta in tutti quei mesi a Carmy
venne da tirare un momento le somme del modo in cui si era comportata fino a
quel momento.
Da che se ne era andata di casa i rapporti con
i genitori, e con il padre in particolare, si erano quasi del tutto spenti, e
anche se Morea aveva sempre mostrato una certa
complicità nell’assecondare, o quantomeno nel prendere in considerazioni le
aspirazioni della figlia maggiore era evidente dal suo sguardo che neanche lei
era rimasta soddisfatta dalla piega presa dagli eventi.
«Allora, che cosa ti porta qui?» tentò di
tagliare corto la ragazza
«Ero venuta per sbrigare una commissione.»
rispose Morea con la stessa semplicità «Ma visto che
il tempo non mi manca, pensavo di fare un giro per la città.»
«Un giro?» si preoccupò Carmy.
Qualcosa non quadrava, e non si sentiva
tranquilla.
«Non ci vediamo da otto mesi, direi che la
puoi dedicare qualche ora a tua madre».
Carmy conosceva sua madre abbastanza bene da
sapere che era impossibile smuoverla da una sua decisione, quindi, mestamente,
accettò di compiere quel piccolo sacrificio. Dentro di sé si stava convincendo sempre
di più che quel viaggio avesse un solo scopo, e non voleva che la cosa durasse
più del dovuto.
In ogni caso sapeva già come comportarsi. Nel
momento in cui sua madre le avesse chiesto, probabilmente su mandato del
marito, di tornare a casa, lei si sarebbe rifiutata, ribadendo gli stessi
concetti espressi il giorno in cui aveva lasciato il villaggio: che era grande,
libera di decidere, e che sapeva di stare facendo la cosa giusta.
«È un sacco di tempo che non mettevo piede a Kyrador.» disse Morea ritrovando
il suo solito sorriso gentile «Ho proprio voglia di rivederla.
Allora, vogliamo andare?».
Appena uscite dalla stazione le due donne
salirono sul primo taxi, che partì verso una non meglio precisata destinazione,
con la sola indicazione per l’autista di dirigersi verso il centro.
«Che spettacolo.» disse Morea
guardando oltre il finestrino mentre percorrevano la circonvallazione che
girava tutto attorno ai quartieri principali «Questa città è cambiata davvero
molto rispetto all’ultima volta.»
«Non sapevo fossi già stata a Kyrador.» disse Carmy come a voler smorzare la tensione che
lei sola sembrava percepire
«Ho vissuto qui per sei mesi durante
l’università. È stato per il mio praticantato di medicina. Parliamo di oltre
vent’anni fa. A quell’epoca, chi si sarebbe mai aspettato che un giorno sarei
stata madre di due splendide ragazze?».
Carmy arrivò a ipotizzare che quella frase
all’apparenza così innocua nascondesse in realtà un silenzioso rimprovero, il
che non mancò di metterla ancora di più sotto pressione; a differenza di sua
madre, infatti, lei non era stata disposta a dare un calcio alle sue
aspirazioni, anche se era significato andare contro la sua famiglia.
Di nuovo, tentò di virare su un discorso più
tranquillo.
«Allora? Dove vuoi andare?»
«A dire il vero non lo so. Perché intanto non
mi fai vedere dove lavori?».
Carmy saltò sul posto.
«Come, scusa?»
«Ma sì, dai. Sono curiosa. Come segretaria del
procuratore distrettuale avrai molto da fare. Inoltre, ho sentito che il
procuratore è una bravissima persona. Mi piacerebbe conoscerlo.»
«Mamma, credevo che tu e papà non amaste la
MAB.»
«È pur sempre il capo di mia figlia. Papà non
lo saprà mai, tranquilla».
Nei pochi secondi che ebbe a disposizione la
ragazza cercò di inventare la scusa più credibile.
«Il fatto è che il procuratore non c’è.» disse
tutto d’un fiato e quasi gridando
«Ah no?»
«No. È dovuto partire proprio ieri per seguire
un caso in Lisitria.»
«In Lisitria?
Credevo che l’isola fosse al di fuori della giurisdizione di Kyrador.»
«È per un caso a cui ha lavorato tempo fa. Una
faccenda intricata, che coinvolge più distretti».
Era la scusa più pietosa e risibile che si
potesse immaginare, eppure Morea parve cascarci e non
insistette.
«Capisco. È per questo che ti è stato così
facile ottenere un giorno di permesso».
In realtà era stato un vero ricatto. Per avere
quel giorno libero senza accumulare lavoro extra era stata costretta a chiedere
a Cane di fare gli straordinari, e quello sfruttatore in cambio aveva preteso
la stessa cosa il successivo finesettimana per andarsene al mare con la sua
ultima fidanzata.
«Ho un’idea.» disse Carmy «Ti porto in uno dei
miei posti preferiti. Sono sicura che già lo conosci».
Il posto preferito di Carmy era una grande via
pedonale a due passi dal centro, una vera isola di tranquillità e relax nel
cuore caotico e sovraffollato della capitale. Non a caso, molti impiegati degli
uffici tutto attorno e semplici cittadini erano soliti spendervi la propria pausa
pranzo o farvi brevi passeggiate, e quel pomeriggio, complice il bel tempo,
c’era anche più gente del solito.
«La via di Saint Augustine.»
disse Morea scendendo dal taxi «Quanti pomeriggi ho
passato qui a studiare seduta ad una di queste panchine.»
«Ero sicura che ti sarebbe piaciuta. Ogni
tanto mi capita di venire qui con amici e colleghi a rilassarmi dopo il
lavoro.»
«Kyrador sarà anche
cambiata, ma invece questo posto è rimasto esattamente come lo ricordavo.»
«Allora, che ne dici? Andiamo a fare un giro?».
Camminarono per un po’ lasciandosi trasportare
dalla quiete del luogo e fermandosi di quando in quando ad ammirare le vetrine
di alcune delle numerose sartorie e gioiellerie che si affacciavano sul viale
principale, poi, sul fare delle due, si accomodarono ad un dei tavolini esterni
di una caffetteria per consumare un breve pasto.
«Finalmente.» disse Morea
quando il cameriere le mise davanti i dolcetti al pan di zucchero a forma di
rosa che aveva ordinato come dessert «Quanto mi erano mancati.»
«Ti piacciono così tanto le rose fiorite?»
domandò Carmy
«Non sai quanto. Da noi al villaggio ce ne
sono pochissime, e quelle che servono alla caffetteria dell’ospedale poi sono
del tutto immangiabili. Bisogna dirlo, qui a Kyrador
non ti fanno mancare proprio nulla».
Malgrado si fosse apparentemente un po’
calmata, Carmy era ancora sulle spine.
Non riusciva a capire il perché di tutto quel
tentennamento, né perché sua madre stesse temporeggiando tanto nel fare ciò per
il quale, secondo lei, era venuta.
Era sempre stata una persona un po’ con la
testa fra le nuvole, a volte più bambina delle sue stesse figlie, ma aveva un
talento naturale per andare sempre al cuore del problema in una qualsiasi
discussione, pertanto Carmy non riusciva a spiegarsi per quale motivo si stesse
temporeggiando tanto.
Forse si sbagliava.
Forse non era per rimproverarla o per
convincerla a tornare a casa che sua madre si era fatta tutte quelle ore di
treno.
Ma se era così, la ragazza non riusciva ad
immaginare quale altro motivo ci potesse essere, soprattutto se pensava a
quanto Morea detestasse allontanarsi dalla quiete del
suo paesello e del suo piccolo ospedale di campagna.
Avrebbe voluto andare diretta al sodo, mettere
la madre con le spalle al muro e farsi dire in modo chiaro e diretto cosa ci
fosse venuta a fare a Kyrador, ma qualcosa dentro di
lei le impediva da farlo.
Non ricordava neppure l’ultima volta che
avevano passato la giornata insieme, sia come donne che come madre e figlia, e
una parte di lei non voleva rovinare quel momento così piacevole.
C’era un bel sole, l’aria non era troppo
fredda, tirava un vento piacevole, ed erano l’una accanto all’altra in uno dei
posti più belli della città, a mangiare dolci e parlare delle cose più
svariate, nessuna delle quali si avvicinava neanche lontanamente a ciò che
Carmy aveva temuto per giorni di sentirsi dire.
«E allora, come sta il papà?» arrivò a
domandare ad un certo punto
«Abbastanza bene. La vita di un poliziotto di
campagna può essere molto più complicata di quanto uno possa immaginare.»
«Ci sono stati problemi?»
«Non particolarmente. O almeno, escludendo
quelli creati da lui. Lo sai com’è fatto. La sua pignoleria è quasi
leggendaria. Per lui, se una cosa non è fatta bene, si può rifarla anche dieci
volte.»
«È sempre stato un suo pregio.» commentò
scherzosamente Carmy.
Mai avrebbe pensato di finire per tessere le
lodi di suo padre.
Era spesso burbero e scontroso, e alle volte
sapeva essere davvero insopportabile. Eppure Carmy gli aveva sempre voluto
bene, perché era soprattutto grazie a lui e al suo senso del giusto se era
maturato in lei il desiderio di proteggere e aiutare gli altri.
«Accidenti, quanto è tardi.» disse ad un certo
punto Morea guardando l’orologio «Venendo qui si
perde il senso del tempo.
Ho il treno di ritorno alle cinque, e devo
ancora fare quella commissione.»
«Vuoi che ti accompagni?» chiese Carmy
d’istinto, senza riflettere e senza esitare
«Non vedo perché no. Forza, sbrighiamoci. Se
non ricordo male è anche parecchio lontano da qui».
Cane,
ringraziando il cielo, non aveva mai dovuto subire l’umiliazione di un lavoro
d’ufficio.
Era un uomo d’azione, non un impiegato, e
l’unica cosa che gli capitava di fare quando era seduto alla sua scrivania era
giocare al computer sorseggiando caffè. Al massimo ci pensava Lucas a redigere
i rapporti per l’archivio.
Quando Carmy gli aveva chiesto di sostituirlo
per quel giorno si era detto che era solo per poche ore, e che quel lavoro non
sarebbe mai stato più difficile dello schivare pallottole in mezzo ad una
sparatoria. E poi c’era la possibilità di avere il finesettimana libero.
Ma la verità era che il lavoro da scrivania
era molto peggio di quello che si sarebbe aspettato. Bisognava redigere e
ricontrollare rapporti, visionare riprese video, ascoltare e catalogare
registrazioni di interrogatori, archiviare le prove e via dicendo.
Già al primo pomeriggio era allo stremo.
«Ma come fa Carmy a fare questo lavoro tutti i
giorni?» domandò tra sé buttandosi con la testa sul banco «Io lo sto facendo da
poche ore e sono già sull’orlo di una crisi isterica.»
«Lavorare non è sempre tutto rose e fiori.»
commentò ironico Lucas
«Sta zitto, topo di biblioteca. Se sei tanto
saccente e sicuro di te, perché non lo fai tu?»
«Scordatelo.» replicò Alexia «Lucas ha già i
rapporti che tu gli scarichi addosso da finire di redigere. E poi direi che è
quello che ti meriti, visto che in cambio di questo favore hai costretto quella
poveretta a lavorare nel finesettimana della Festa dell’Istituzione.»
«Siete due veri amici.»
«Lo sappiamo.» risposero in coro gli interessati.
Cane doveva trovarsi qualcosa di diverso da
fare, o sarebbe impazzito.
Casualmente, nel risollevare la testa, gli
cadde l’occhio sul primo cassetto della scrivania, quello che Carmy aveva
provveduto a bloccare montandoci una serratura, e allora la sua curiosità
perversa prese il sopravvento.
«Signori, voltatevi.» disse ai suoi colleghi
prendendo dalla tasca il suo fidato coltello multiuso
«Carmy ti ammazza se scopre che hai frugato
tra le sue cose.» sospirò Lucas senza alzare gli occhi dal suo monitor
«Voi la vedete qua attorno, per caso?».
Per uno scassinatore come lui furono
sufficienti pochi secondi per aprire una serratura tanto semplice, e il mondo
segreto di Carmy gli comparve davanti agli occhi. Credeva di trovarci dentro
chissà quali tesori nascosti, e invece, con sua stessa enorme sorpresa, c’era
dentro solo un dossier.
«Capitano, guardi.» disse incredulo.
Alexia e Lucas si avvicinarono, e il capitano,
incuriosita quanto il suo sottoposto, aprì il fascicolo.
«È una copia del dossier del tentato omicidio
a Heaven’sVillage.» disse
Lucas «Il primo caso a cui ha lavorato.»
«Il giorno che si è unita alla squadra.»
puntualizzò Cane.
Oltre alla documentazione nota, però, c’era
anche dell’altro, qualcosa che Alexia non ricordava di aver inserito nel
rapporto ufficiale. C’era anche la trascrizione di un interrogatorio, tutta
spiegazzata e visibilmente logora, con diversi punti evidenziati, dati clinici
e analisi chimiche, più foto della scena del crimine scattate all’apparenza in
un momento successivo al primo sopralluogo.
«Un punto all’intraprendenza.» sorrise Lucas.
Ad Alexia bastò una telefonata alla sua amica
Sasha che lavorava al laboratorio del primo piano per avere la conferma che
Carmy era stata lì qualche settimane prima a richiedere l’analisi di alcuni
campioni.
«Ma che cosa si è messa in testa?» domandò tra
sé e sé, iniziando subito a contare i secondi che mancavano al momento in cui
glielo avrebbe chiesto di persona.
Nota dell’Autore
Rieccomi!
In questo ponte del
primo maggio torno con un nuovo capitolo.
Ora la situazione và
chiaramente delineandosi, e nei prossimi capitoli emergeranno sempre più
particolari in vista del prossimo evento “catastrofico” che avverrà di qui a
breve.
Questo, come avete
notato, è stato un capitolo abbastanza distensivo, come avevo promesso, e
altrettanto dovrebbe esserlo il prossimo. Un po’ di azione ritornerà in quello
successivo, anche se per il sopracitato “botto” ci vorrà ancora un po’.
«E
sarebbe questo il posto dove dovevi andare?» disse Carmy incredula.
Il taxi, dalla via di Saint Augustine, su indicazione di Morea
le aveva portate direttamente all’ingresso del palazzetto dello sport, il
tempio mondiale del chandra.
Carmy l’aveva sempre visto solo da lontano,
anche dalla finestra del suo ufficio, ma ora che vi era sotto riusciva a
comprenderne sul serio la reale imponenza. Sembrava una grande astronave, un
disco volante piacevolmente adagiato sulla sommità di una delle colline della
città, luccicante di bianco, con alti pennoni che si stagliavano verso l’alto
dominando, oltre all’edificio, anche il piazzale circostante, delimitato da
un’alta recinzione e coperto interamente da aree verdi e ritrovi per le
famiglie.
Malgrado non fosse il finesettimana c’era
parecchia gente, soprattutto ragazzi e giovanissimi, cosa che non colpiva più
di tanto visto il fascino che il chandra esercitava
sulle giovani generazioni.
«C’è un’apertura al pubblico.» lesse Carmy sul
cartello all’ingresso
«Sembra interessante.» disse Morea già sovreccitata «Andiamo a dare un’occhiata.»
«Aspetta, ma non eri qui per fare una
commissione?» tentò di protestare la ragazza, ma ormai sua madre si era già
aggregata al prossimo gruppo in entrata «Incredibile. A volte mi sento io sua
madre».
Essendo
la nazione dove il chandra era nato ormai quasi
cinquant’anni prima, Caldesia era anche il luogo dove era possibile ammirare le
ultime novità tecnologiche destinate ad incrementare il livello e le
potenzialità di quello che era ormai considerato uno sport.
Tra dilettanti e professionisti iscritti ad
una palestra o affiliati ad una squadra si contavano oltre trenta milioni di
partecipanti, e i campionati, a partire dagli incontri di lega per arrivare ai
mondiali, erano uno degli eventi mediatici più attesi del pianeta.
Per alcuni era un gioco, uno dei tanti ideati
per intrattenere gli abitanti di Celestis, ma per i più era un vero e proprio
sport non tanto dissimile da una comune arte marziale.
Il palazzetto di Kyrador
era un po’ come una vetrina; tutto quanto c’era di nuovo prima passava da lì, e
le aperture occasionali al pubblico erano sempre molto frequentate.
La prima tappa del giro fu la sala dei
campioni. Per tradizione lo stadio ospitava la fase finale dei campionati
mondiali fin dall’istituzione dei primi tornei, e in quella sala, oltre a cimeli
e materiale fotografico, allineati lungo le pareti vi erano i ritratti di tutti
i campioni che si erano succeduti nel corso degli anni, ognuno con affianco una
raffigurazione tridimensionale a grandezza naturale del proprio personaggio.
Ultimo arrivato, da soli sei mesi, Nicholas Thorpe, il Cacciatore di Glasnet,
e il suo personaggio Warewolf, ma il volto più
cercato e fotografato, soprattutto dalle giovani ragazze, era ovviamente quello
di Helena Loyde, alias Octavia,
la rosa di Kyrador, quasi un tesoro nazionale per gli
appassionati di Caldesia.
Per i più era ancora lei l’indiscussa
campionessa del mondo in carica, nonostante tutte le maldicenze messe in giro
dai giornali e la classifica ufficiale.
Il mezzo busto con cui era ritratta esaltava
ancora di più la fermezza dei suoi tratti, sbarazzini ma austeri. I capelli, corti
e rossicci, si arricchivano qui e là di sfumature artificiali di un giallo
dorato, penetranti occhi di un marrone vigoroso ingentilivano il volto, e
l’espressione composta delle labbra le conferiva un aspetto fermo e
rispettabile.
A differenza della maggior parte degli atleti aveva
scelto per il suo vessel, il suo alter ego virtuale, delle fattezze non troppo
simili all’originale, con lunghi capelli biondi e un abito piacevolmente barocco
arricchito dalla cintura in cuoio da cui pendeva il suo ormai leggendario
stocco da battaglia.
«Ha una parvenza davvero energica e carismatica.»
disse Morea osservando la foto
«Hai ragione. Non mi meraviglia che sia così
popolare.» disse Carmy.
La tappa successiva fu l’arena, il cuore
pulsante dello stadio.
Vi si accedeva tramite un lungo tunnel, lo
stesso che i concorrenti percorrevano prima dei loro incontri, e una volta
all’interno sembrava di trovarsi nell’occhio di un ciclone. Circondato da tre anelli
concentrici di spalti che salivano ininterrottamente verso l’alto, e illuminato
dall’alto da decine di luci psichedeliche capaci di produrre ogni sorta di
effetto, il possente campo di battaglia circolare troneggiava proprio al centro
della struttura, rialzato rispetto al suolo e dal diametro di dieci metri. Ai
due lati, opposte l’una all’altra, le postazioni dei contendenti, somiglianti a
enormi gusci d’uovo rivestiti di metallo dorato, grandi abbastanza da contenere
al loro interno una persona.
«La Magic Arena è il
tempio incontrastato del chandra.» spiegò la guida
«Come molti di voi sicuramente sapranno, questo stadio ha ospitato le fasi
finali della coppa del mondo ininterrottamente dall’anno duecentottantasette ad
oggi.
È dotato di tutte le più recenti
apparecchiature nel campo della tecnologia e della stregoneria,e possiede uno dei sistemi informatici più
sofisticati del globo.»
«A che età di solito si può aspirare a
diventare dei campioni?» domandò improvvisamente Morea
«Mamma.» disse incredula Carmy
«È quello che tua sorella avrebbe chiesto.»
«Benché non esistano tecnicamente età minime
di partenza.» rispose la giovane addetta «Di solito l’età media in cui un
aspirante professionista inizia a praticare si aggira tra i sedici e i diciotto
anni.
Dopo cinque o sei anni, a seconda degli
incontri vinti e dei campionati dilettanteschi affrontati, si può aspirare ad
una promozione tra i professionisti, e a quel punto è tutta questione di
allenamento e un po’ di fortuna. I campionati nazionali sono aperti a tutti i chandristi in possesso di un attestato di lega, ma è
necessario ottenere un buon piazzamento per poter almeno aspirare ai playoff
che consentono l’accesso al campionato mondiale.
Ovviamente, ci sono delle eccezioni».
Il riferimento ad Helena “Octavia”
Loyde era evidente.
«Ora, signori, dirigiamoci al luogo che
sicuramente aspettavate con maggiore impazienza. I campi di allenamento.
Seguitemi agli ascensori».
I
campi di allenamento, tappa finale del giro turistico, si trovavano al primo
livello sotterraneo, ed avevano le stesse dimensioni dello stadio soprastante.
Qui, oltre ad una quantità incalcolabile di
apparecchiature informatiche ed attrezzi ginnici, c’erano anche una decina di
arene minori, molto più piccole di quella originale, e destinate principalmente
a incontri di riscaldamento o esercizi di vario genere.
C’era tantissima gente, ed era naturale,
perché poter provare in prima persona l’esperienza di un lottatore di chandra non era una cosa che capitava tutti i giorni.
Soprattutto chi non aveva la fortuna di poter
usare la magia, vedeva in quello sport l’occasione unica di provare un senso di
onnipotenza che solo l’arena virtuale sapeva infondere con tanto realismo. A
ragione di ciò, non sorprendeva che la grande maggioranza degli atleti
professionisti fossero persone normali.
I bambini del gruppo ci rimasero male quando
gli fu detto che le machina, gli apparecchi per
misurarsi nel chandra, non erano adatti a loro,
mentre tra gli adulti nessuno dapprincipio ebbe l’ardire di chiedere di fare un
tentativo, vuoi per timore vuoi per altri motivi.
Ancora una volta, e prima che Carmy potesse
fermarla, fu Morea a rompere gli schemi.
«Voglio provarci.» disse, e un istante dopo
era già seduta all’interno dell’unica machina libera
«Mamma, aspetta. Sei sicura che sia una buona
idea?»
«Potrebbe essere divertente. Che male c’è a
fare un tentativo?»
«Ma rifletti. Non sei mai riuscita a
maneggiare neanche i videogiochi di Judith.»
«Sei proprio uguale a tuo padre. Sempre a
preoccuparti».
In ogni caso non c’era niente da fare.
«Accidenti a te, testaccia di legno.» mugugnò
la ragazza rinunciando a ulteriori pressioni.
La guida approfittò del volontario per
spiegare nei dettagli in cosa consisteva l’uso della machina.
«Queste machina sono
modelli base. Di solito i chandristi alla loro prima
esperienza creano con le loro mani il proprio vessel. In questo caso sono stati
caricati dei modelli preesistenti destinati al pubblico. Gliene sarà assegnato
uno a caso.»
«Sembra interessante. Cosa devo fare?»
«Assolutamente nulla.» rispose la guida
assicurandola al voluminoso sedile imbottito e applicandone una specie di
elettrodi sulla fronte «Quando avvierò il programma la machina
elaborerà una sua immagine virtuale e la proietterà nell’arena, assegnandole un
vestiario e dell’equipaggiamento. A quel punto, potrà comandarla come se fosse
il suo vero corpo.»
«Proceda pure. Io sono pronta».
Laguida si allontanò, portandosi alla consolle che controllava l’arena. Morea ebbe appena il tempo di fare un cenno alla figlia e
godersi il momento prima che il portello della machina
si chiudesse sopra di lei lasciandola per un momento al buio.
Poi, si accesero ovunque delle soffuse luci
rossastre, e un attimo dopo la donna ebbe come la sensazione di venire
violentemente strappata via del sedile, e d’istinto chiuse gli occhi cercando
di rimanere seduta.
Ci vollero dieci, forse quindici secondi, e Morea riaperti gli occhi si ritrovò nuovamente in piedi,
proprio al centro dell’arena, con la figlia e gli altri visitatori che la
guardavano meravigliati. Impiegò qualche attimo a realizzare quello che era
accaduto, ma dopo aver visto il suo corpo fisico come assopito all’interno
della machina tramite uno schermo accanto ad essa
realizzò appieno.
«È stupefacente.» disse meravigliata
guardandosi le mani «Il mio corpo è lì, eppure sono anche qui.»
«La sua coscienza è stata collegata al
computer, e quindi proiettata nell’arena all’interno del suo personaggio.» le
spiegò la guida.
Solo in un secondo momento la donna pensò di
guardarsi per scoprire che aspetto avesse assunto. I tratti somatici ed il viso
erano rimasti gli stessi, ma al posto del suo vestito indossava ora una specie
di tunica verde smeraldo stretta in vita da una cintura, stivaletti
all’apparenza di cuoio e un voluminoso copricapo a metà tra un cappello e una
cuffia. Alla mano destra poi, un guanto metallico terminante in un piccolo
artiglio ricurvo per ogni dito.
Morea non
poteva capirlo, ma sia la guida che Carmy si resero conto che qualcosa non
andava.
«Ma…» disse la guida
«È un’alchimista.»
«Un’alchimista!?» ripeté Morea
«È un personaggio di supporto.» rispose Carmy
attingendo a quel poco che sapeva del chandra «È
specifico per i combattimenti di squadra.»
«Purtroppo, come ho detto, la scelta è del
tutto casuale.» si giustificò la guida «Vorrà dire che inserirò un normale
programma di allenamento».
Morea era così
impegnata a contemplare quello che le era successo e a salutare la figlia che
la osservava l’arena da non accorgersi della comparsa, da un momento all’altro,
di una decina di sfere di luce rossa simili a grosse bolle che quasi tutte
insieme presero a schizzare come saette in ogni direzione, rimbalzando sulla
parete evanescente che delimitava i bordi del campo come su un muro di gomma.
«Mamma, attenta!» gridò Carmy vedendone una
arrivarle alle spalle.
La donna fece appena in tempo ad accorgersi
del pericolo prima di ricevere il colpo in pieno torace; la sfera si dissolse
al contatto col suo corpo come fosse stata d’aria, ma ciò nonostante Morea avvertì sia il contraccolpo che il conseguente
dolore.
«Fa davvero male.» mugolò tenendosi la parte
colpita «Come si fa a bloccare queste cose?»
«Devi cercare di colpirli, mamma.» cercò di
spiegarle Carmy «Usa i tuoi poteri.»
«I miei poteri? Io non ho poteri».
Era come parlare al muro.
Di solito gli appassionati di chandra, pur non avendo mai messo piede su di un campo di
gara, ne sapevano abbastanza da sapersi arrangiare, ma Morea
se non fosse stato per l’ossessione di Judith il chandra
non avrebbe nemmeno saputo cosa fosse, e inoltre l’atletica non era mai stata
una sua abilità.
Furono sufficienti altri due di quei globi,
uno dietro la schiena e uno ad una spalla, che la sua immagine virtuale si
dissolse, e lei, da un istante all’altro, si ritrovò nuovamente all’interno del
proprio vero corpo.
«Stai bene?» corse a domandarle la figlia
appena la machina si fu riaperta
«È chiaro che non fa per me.» sorrise Morea «Però è stato divertente».
L’orologio che svettava sopra l’ingresso
principale della palestra segnava le tre del pomeriggio.
Non c’era davvero più tempo da perdere.
«Santo cielo, ogni volta perdo il senso del
tempo.» disse Morea per poi rivolgersi alla guida
«Scusi, l’area negozio?».
Oltre
a ristoranti, sale giochi e altre strutture ricreative la Magic
Arena aveva anche un proprio centro commerciale, con un angolo tutto dedicato a
souvenir e oggettistica per turisti e appassionati.
Comprendendo che era quello il posto in cui
sua madre voleva andare, e il motivo per cui era venuta a Kyrador,
Carmy non seppe spiegarsene la ragione.
Non c’era assolutamente nulla in quella
trappola per turisti che non si potesse trovare in qualunque negozio o
supermercato della loro regione, almeno a prima vista.
«Accidenti, questo posto è davvero immenso.»
commentò Morea notando la vastità del centro.
Quasi subito si diresse a passo spedito verso
il reparto videotape del settore riservato ai gadget, fermandosi davanti alla
sezione documentari.
«Mamma, ma si può sapere che cosa stai
cercando?».
Ma Morea non le
rispose nemmeno, tanto era impegnata a frugare in quel mare di schede rinchiuse
nelle loro custodie.
Per ammazzare il tempo, visto che non sembrava
esserci verso di ottenere risposta, prese a visionare alcuni trailer proiettati
su uno schermo a parte.
Si avvicinava il periodo delle grandi uscite
cinematografiche, e c’erano così tanti titoli a disposizione da scoraggiare il
cinefilo più forsennato.
A Carmy prese un momento di malinconia. Il
cinema era stato una delle sue grandi passioni fin da bambina, eppure non
ricordava di esserci mai andata da che era arrivata a Kyrador.
Pur avendone uno quasi sotto casa, la sera, quando rincasava, era troppo stanca
per andarci, e nei finesettimana passava il suo tempo a dormire o a sbrigare
faccende lasciate in sospeso.
Pensandoci bene, non era neanche più uscita a
bere qualcosa con Julienne.
Il lavoro alla polizia militare la stava
assorbendo più di quanto si fosse immaginata, e solo ora stava iniziando a
rendersene conto.
Forse, si disse chinando un momento il capo,
sua madre non avrebbe avuto tutti i torti a rimproverarla. Si era gettata anima
e corpo nel lavoro, senza alcuna garanzia di veder premiati i propri sforzi in
futuro, e tutto questo prima ancora di aver compiuto ventisei anni.
Il tempo dei rimpianti arriva sempre troppo
presto.
Questa era una delle frasi più amate dal suo
adorato nonno.
Da piccola l’aveva interpretata come un monito
a fare presto, a realizzare quanto prima tutte le sue aspirazioni e i suoi
desideri, e da un momento all’altro si ritrovò a domandarsi se per caso non
avesse frainteso.
«Eccolo!» esclamò sua madre sollevando
vittoriosa una delle schede.
Carmy non riuscì a leggerne il titolo fino a
quando non furono fuori dal palazzetto. Era la telecronaca del campionato
mondiale di due anni prima, l’ultimo vinto da Octavia,
commentato da uno dei più popolari giornalisti sportivi e corredato da
interviste esclusive ai partecipanti.
«Ma che cosa te ne fai? A te non piace il chandra.»
«Non è per me. È per tua sorella, ovviamente. Sono
mesi che me lo chiede.»
«Per Judith? E tu hai fatto quattrocento
miglia in treno solo per venirle a Kyrador a comprare
un documentario sportivo?»
«Non mi sembra che sia una cosa tanto strana,
data la circostanza.»
«La circostanza?».
Morea guardò la
figlia come un datore di lavoro avrebbe guardato l’impiegato colpevole di aver
mancato un incarico di fiducia.
«Non ci posso credere. Davvero ti sei
dimenticata cosa è tra due giorni?»
«Tra due giorni?».
Un fulmine cadde dal cielo colpendo la ragazza
in pieno ed accendendole la mente.
Si era completamente dimenticata del
compleanno di Judith.
Una ulteriore prova di quanto il lavoro l’avesse
allontanata dal mondo. Una volta non dimenticava neppure i compleanni di quelle
persone che conosceva a malapena, e ora stava per scordarsi persino quello di
sua sorella.
«Non vorrai farmi credere di essertene
dimenticata sul serio.» la rimproverò Morea con il
tono, pur arrabbiato, di chi non era sorpreso
«Mi dispiace.» tentò di giustificarsi «Sono
stata così impegnata in questi giorni. Ho perso completamente il senso del
tempo.»
«E io che ero venuta a Kyrador
anche per prendere il tuo regalo e portarglielo».
Doveva fare qualcosa. Non poteva fare una
simile figura. Era tardi per ammettere la propria immaturità, ma forse poteva
ancora farsi perdonare.
In pochi secondi tentò di pensare a qualcosa,
una cosa che Judith potesse apprezzare, ma che allo stesso tempo fosse abbastanza
per dimostrare il proprio pentimento.
Le venne un’idea pazza. C’era una cosa che
Judith desiderava sopra ogni altra, e forse era nelle condizioni di poterla
ottenere, anche se si trattava di rischiare.
«Carmy, dove vai?» chiese Morea
vedendola prendere il contenitore con la scheda e correre verso la fermata dei
taxi
«Tu torna alla stazione. Ci vediamo lì».
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Che dire,
pensavo di concludere con questo capitolo le vicende legate a questa breve
rimpatriata madre-figlia, ma poi una pagina ha seguito l’altra e così ho deciso
di chiuderla qui.
Col prossimo
questa parentesi si chiuderà di sicuro, e l’azione tornerà lentamente a farsi
sentire.
Tuttavia,
vi chiedo di essere un attimo pazienti. In questi giorni ho molto da fare, e
potrebbe volermici un po’ per riuscire ad aggiornare
ancora.
Quando
Helena aveva iniziato a praticare il chandra sapeva
che vincere le poteva aprire molte porte, ma certo non si aspettava che un
domani le avrebbe permesso di alloggiare in un attico tutto suo di Heaven’sGate, uno dei maggiori
grattacieli di Pleinarth, il quartiere residenziale
più lussuoso ed esclusivo della città.
Dalla finestra panoramica del salone si poteva
godere di una delle vedute più magiche e spettacolari di Kyrador,
dalla sponda meridionale di Capo Sorion fino
all’isola portuale di Edesna sul fronte opposto della
baia.
Quell’appartamento non se l’era neppure
comprato. Le era stato donato dai suoi sponsor. Uno dei tanti pregi dell’essere
la più promettente stella dell’arena da un decennio quella parte.
E tutto questo prima ancora di compiere
venticinque anni.
Fino a poco tempo prima non si era mai fatta pregare
di presenziare a tutte le ricorrenze ed eventi pubblici a cui veniva invitata,
ma da qualche mese a quella parte, dal giorno del suo famoso forfait
dell’ultimo minuto alla tappa finale del campionato mondiale,
quell’appartamento sembrava essersi tramutato in una gabbia dorata.
Non faceva entrare nessuno, neppure il suo
allenatore, i suoi agenti, o qualcuno dei suoi fan più fedeli. Qualche volta
capitava chenon tirasse neppure le
tende fino al calare del sole, forse nel timore che qualche paparazzo ostinato
riuscisse a strapparle una foto.
Era come se si fosse voluta rinchiudere in una
specie di eremitaggio, proprio nel cuore della più grande e caotica città del
mondo.
Giornali e commentatori si erano scatenati nel
cercare di interpretare un simile comportamento, ma la verità era nota solo a
lei,e fino a quel giorno nessun altro
ne era stato messo al corrente.
Era un pomeriggio come tutti gli altri.
Helena sedeva nel suo salotto, le tende tirate
e le luci accese, gli occhi come persi nel vuoto, che di tanto in tanto
andavano a posarsi senza attenzione sul libro che la ragazza aveva poggiato
sulle ginocchia. Non ricordava neppure di che libro si trattasse, tanto
distrattamente lo aveva recuperato dal ripiano appoggiato alla parete alle sue
spalle.
Nel centro della stanza, come un ologramma,
apparve una giovane donna molto attraente, capelli scuri annodati in una
crocchia ed elegante abito di Fhirland che scendeva
fino ai piedi coprendoli elegantemente, ma dai tratti quasi irreali, come fosse
stato nulla più che una semplice raffigurazione virtuale.
«Signorina, hanno suonato alla porta.» disse
con una voce gentile, ma fredda e quasi piatta, come quella di una macchina.
«Non voglio vedere nessuno.» rispose Helena
girandosi dall’altra parte «Né giornalisti né nessun altro. Se è il mio agente
poi, digli pure di andare al diavolo.»
«Come desidera».
La ragazza mora scomparve, per poi ricomparire
qualche secondo dopo.
«Non si tratta di ammiratori o giornalisti. È
un agente della MAB. Una signorina. O almeno così dice, visto che non ha potuto
esibire il proprio distintivo.»
«Non mi interessa.» sentenziò ancora Helena
stizzita «Mandala via.»
«Ci ho provato, ma dice che è molto urgente.
Deve conferire assolutamente con lei».
Helena si passò una mano tra i capelli,
sbuffando contrariata.
«E va bene, falla entrare».
Già
solo osservare il corridoio traboccante di luci, rifiniture e sculture d’arredo
su cui si affacciava l’appartamento della signorina Loyde,
oltre all’atrio luccicante che le si era parato davanti all’ingresso nel
palazzo, era stato abbastanza per lasciare Carmy senza parole.
Non credeva che potesse esistere tanto lusso.
Allora era vero che con il chandra
si poteva arrivare dovunque.
Quello era lo stile di vita che una come lei
non si sarebbe mai potuta permettere. Come minimo avrebbe dovuto aspirare al
comando del TMD per poter ottenere una sistemazione che fosse anche solo la
metà di ciò di cui Octavia si circondava
quotidianamente.
Era passato un minuto da quando la voce del
citofono l’aveva messa in attesa, e intanto l’ansia montava sempre di più,
alimentata dalla consapevolezza del tempo che passava. Sua madre non l’avrebbe
aspettata per sempre.
Cominciò a pensare che fosse una causa persa.
Octavia per il
mondo era ormai un fantasma, e non c’era ragione di sperare che potesse fare
un’eccezione per lei.
Forse era stato un azzardo troppo grande.
Forse aveva peccato di superbia.
Stava per tornare sui suoi passi, quando per
incanto le porte dinnanzi a lei si spalancarono, lentamente e da sole,
introducendola al piccolo anticamera che immetteva nel cuore dell’appartamento.
Là dentro lo sfarzo era se possibile ancora
più sgargiante.
Tuttavia, c’era qualcosa di strano. Aleggiava
un’atmosfera cupa, quasi inquietante, e le pareti, dominate da colori scuri su
cui risaltavano gli intarsi dorati ed i quadri, sembravano come avvolte da una
patina di amarezza, gettando su tutto l’ambiente una luce irreale di solitudine
e tormento.
«Benvenuta, agente O’Neill.»
disse la voce che l’aveva accolta riecheggiando in tutto l’ambiente «Prego
voglia raggiungere il salone. La signorina Loyde la
sta aspettando».
Carmy raggiunse il salotto, ma inizialmente
Helena neanche si scomodò a guardarla in volto. Quando finalmente poté
guardarla negli occhi, Carmy notò quanto strani, quasi inquietanti, fossero
nella loro opacità.
Non riusciva a credere che quella fosse la
stessa Helena che per due anni aveva fatto alzare gli stadi al solo sentir
nominare il suo nome o vederla comparire nell’arena.
Cercando di non darlo a vedere, senza in verità
riuscirci, si guardò attorno; tutte le tende erano tirate, le luci ridotte al
minimo indispensabile. Sembrava la dimora di un vampiro, che rifuggiva il sole
per timore di venirne consumato.
«Scusi il disturbo.» disse quasi a volersi
giustificare «Sono l’agente Carmy O’Neill, della
polizia militare.»
«So chi siete.» tagliò corto Helena fissandola
dritta in volto «Ha detto di dovermi parlare con urgenza. Di che si tratta?».
Carmy temporeggiò, colta dall’imbarazzo.
Se un attimo prima gli occhi di Helena le
facevano quasi compassione, ora invece se ne sentiva atterrita.
Doveva sembrare davvero pietosa. Non stava
neppure indossando la divisa, e stava quasi per morire di vergogna quando, al
citofono, si era accorta di non aver potuto esibire il distintivo. Di solito
non se ne separava mai, ma nervosa com’era quella mattina doveva esserselo
dimenticato in camera prima di uscire.
Il suo silenzio parve quasi incuriosire
Helena, che si alzò dalla poltrona per avvicinarsi e guardarla più da vicino.
«Certo non sembra davvero un agente di
polizia.»
«Me lo dicono spesso.» replicò d’istinto
Carmy, non sapeva se per sdrammatizzare o cercare di calmare l’imbarazzo.
Helena continuò a fissarla, e infine tornò sui
propri passi.
«Francine.» disse
sedendosi, e facendo accomodare anche la sua ospite.
La donna virtuale comparve nuovamente.
«Desiderate, signorina?»
«Prepara del caffè.»
«Come volete.»
«Un aiutante virtuale.» disse un po’ incredula
Carmy vedendo la proiezione sparire e la caffettiera che, subito dopo, si
metteva in funzione da sola.
Quella era roba da ricchi, soprattutto perché,
costo a parte, il possesso e la libera circolazione delle intelligenze
artificiali erano strettamente vincolati da leggi molto severe.
«Non sono mai stata brava nelle faccende
domestiche. E ultimamente, come può immaginare,non ho molta voglia di avere gente che gira per casa. Lei lavora al
posto mio.»
«Potessi avercela anch’io un’aiutante così. La
mia coinquilina ha il disordine nel sangue, e spesso devo sistemare la casa per
tutte e due ogni domenica.»
«Non potreste semplicemente dividervi i
compiti?»
«Lei lavora spesso di notte, e di giorno dorme
fino al pomeriggio. Non me la sento di disturbarla».
Il suono della caffettiera interruppe il
discorso, ed Helena si alzò dalla poltrona per andare in cucina. Mentre
aspettava il suo ritorno Carmy si guardò attorno, ancora incredula davanti a
tanto sfarzo, fino a che i suoi occhi non incrociarono un portafoto d’argento
poggiato in un angolo della libreria.
Nonostante tutta la tecnologia e le
alternative poste in essere dal progresso, erano ancora molti a confidare nel
potere delle fotografie per sigillare e preservare ricordi o momenti preziosi.
Incuriosita si alzò, avvicinandosi per poterla guardare meglio, senza
accorgersi che Helena nel frattempo era tornata nella stanza e ora la osservava
senza parlare.
La foto raffigurava Helena, probabilmente tre
o quattro anni prima, alle spalle del palazzetto dello sport e con al suo
fianco una ragazza, ad occhio e croce della sua stessa età. Sorridevano entrambe,
abbracciandosi amichevolmente, e Carmy non faticò a riconoscere nell’altra
ragazza una forte somiglianza con l’assistente virtuale che aveva visto
apparire poco prima.
Eccezion fatta per i vestiti e il taglio di
capelli, erano praticamente identiche.
«È una mia vecchia amica.» parlò Helena alle sue
spalle, facendola sobbalzare «Si chiama Luna.»
«È una chandrista?»
«In un certo qual modo».
Carmy guardò un’altra volta l’immagine.
«Io non seguo molto il chandra,
ma non mi pare di averla mai vista. È da molto che pratica questo sport?»
«Abbiamo iniziato insieme. Ma ormai è da sei
mesi che non è più in grado di calcare l’arena».
Solo allora Carmy si accorse che le mani di
Helena tremavano.
«Mi dispiace.» si affrettò a dire «Non sono
affari miei, dopotutto».
Helena posò il vassoio sul tavolino, continuando
a lanciare enigmatiche occhiate alla sua ospite, quindi avvicinatasi alla tenda
la scostò leggermente, quanto bastava per far entrare nella stanza pochi raggi
di luce.
Ormai si appressava il tramonto, e quanto
rimaneva del sole aveva già iniziato a scomparire dietro i grattacieli, che
avvolgevano Heaven’sGate
come le sbarre di una gabbia, proiettando lunghe ombre sulle strade sottostanti
e i marciapiedi affollati di pedoni.
«Siamo cresciute insieme.» disse cercando di
scorgere il sole oltre i palazzi «Vivevamo nello stesso quartiere. Immagino sappia
a che cosa mi riferisco.»
«Credo di sì.» rispose timidamente Carmy.
«Lei ora, come tutti del resto, mi vede così. Ricca,
agiata e benestante. Ma per i primi sedici anni della mia vita ho vissuto in un
lurido condominio nella parte più squallida di questa città.
Ogni giorno, andando a scuola, guardavo il
centro di Kyrador svettare sopra i nostri miseri
palazzi, e mi sembrava un paradiso.
Per una come me, una persona comune cresciuta
nei bassifondi, quello doveva essere un mondo irraggiungibile.
È stata Luna a farmi capire che c’era un modo,
per tutte e due, di arrivare lassù».
«Il chandra.»
rispose Carmy dopo qualche attimo di esitazione.
Helena si volse, tornando a sedersi, si versò
del caffè e ne bevve un sorso.
«I nostri genitori non volevano né potevano
sostenere le spese necessarie per farci coltivare questo nostro sogno. Solo per
poterci pagare l’iscrizione alla palestra abbiamo lavorato entrambe come delle
schiave, tutti i giorni dopo la scuola, per più di sei mesi.
Agli occhi dei più tutto appare facile e a
portata di mano in questa città, ma se sei una persona normale, e per di più
abitante dei bassifondi, la vita può essere un vero inferno.
Anche dopo esserci iscritte è stata ugualmente
dura. Nessuna delle due voleva rinunciare allo studio per il chandra, e comunque i nostri genitori non ce lo avrebbero
mai permesso. Andavamo a scuola di giorno, ci allenavamo al pomeriggio e
studiavamo la notte. Quando avevamo del tempo libero lavoravamo per poter
pagare la quota di iscrizione mensile».
Una goccia di pioggia tintinnò sul vetro. Il cielo
si era improvvisamente rannuvolato, e da un istante all’altro uno scrosciante
acquazzone estivo si abbatté su Kyrador avvolgendola
in un mantello di acqua.
«La fortuna scelse di favorire solo una di noi
due. Al torneo che poteva farci entrare in lega e aprirci la strada alle
competizioni ufficiali, per cinque miseri punti, Luna fu esclusa.
Dovette trascorrere un anno prima che potesse
ritentare, ma in quel lasso di tempo, per quanto riguarda me, erano successe
molte cose».
Quella parte della storia era superflua da
raccontare, visto che bene o male la conoscevano tutti, soprattutto lì a
Caldesia.
In un solo anno, il suo primo anno da
dilettante, Helena aveva racimolato quindici vittorie e zero sconfitte, che le
avevano permesso di potersi presentare subito al primo torneo per la promozione
tra i professionisti, superato con qualche affanno ma comunque nell’incredulità
generale.
Prima di lei nessuno era stato in grado di
passare dall’anonimato al professionismo in così poco tempo, e da quel momento
per lei era stato un susseguirsi di successi che ne avevano fatto una stella
mondiale, fino alla consacrazione con la conquista del titolo mondiale per due
anni consecutivi.
Carmy, senza volerlo, stava iniziando a
scalfire un muro di mistero e di incognite che prima di lei nessuno era mai
riuscito neppure a scorgere.
«Avevo aspettato così tanto di poter avere la
mia occasione, e ora ce l’avevo davanti.» continuò Helena come parlando a sé stessa
«Anche Luna aveva del talento, e tanto. Ma aveva anche un fisico debole. La spiacevole
conseguenza del vivere nei bassifondi, con un pasto al giorno e spesso neanche
troppo abbondante.
Cominciò ad avere i primi problemi di
resistenza già dopo qualche mese, ma come me era troppo orgogliosa e
determinata per ammettere i propri limiti.
Immagino sappia quanto sforzo richiede poter
sostenere un incontro di chandra.»
«Credo di sì. Anche se non ho mai provato.»
«Quella sconfitta aveva significato molto per
lei. Anche più della vittoria. Da parte mia, il mondo in cui mi ero ritrovata
da un momento all’altro ben presto mi aveva consumata.
In certi momenti faticavo persino a
riconoscermi.
La persi di vista. Fino a che non divenne
nulla più di uno dei miei tanti ammiratori persi tra la folla. Da parte sua,
Luna non smise un momento di sognare di raggiungere i miei stessi traguardi. Lei
meritava di riuscirci. Poteva diventare una grande chandrista,
più grande di me.»
«Credo di poterla capire.» disse Carmy quasi
timorosa, rievocando un ricordo troppo felice della sua vita «Una volta ho
conosciuto un ragazzo, quando frequentavo la scuola di magia. Era bravo, ma
poco portato. Passava tutto il suo tempo a cercare di migliorarsi, fino a che
il suo fisico non ha retto.»
«E mi dica, cosa ne è stato di questo
ragazzo?» domandò Helena come stranita, tenendo il capo rivolto verso terra
«Ha avuto un collasso, ma per fortuna se l’è
cavata. Anche se alla fine ha dovuto rinunciare e ha lasciato la scuola.
I medici temevano troppo per lui, e lo hanno
convinto a desistere.»
Una strana luce si accese negli occhi di
Helena, e a Carmy parve quasi di scorgervi una lacrima faticosamente
trattenuta.
«Avrei dovuto farlo anch’io».
Nota
dell’Autore
Salve a
tutti!^_^
Lo so,
avevo detto che con questo capitolo si sarebbe chiusa la questione relativa
alla rimpatriata madre-figlia.
Il fatto è
che scrivendo mi sono appassionato sempre più al personaggio di Helena, così ho
deciso di dedicarci più spazio di quello inizialmente programmato.
Noterete che
questo capitolo è un po’ più breve rispetto alla mia media abituale, questo perché
il prossimo inizierà con un lungo flashback che chiarirà le questioni lasciate
in sospeso e che preluderà (stavolta per davvero) alla conclusione di questa
vicenda.
Helena
aveva trascorso così tanto tempo sotto i riflettori, attorniata da una selva
inestricabile di sostenitori e guardie del corpo, che con il passare dei mesi
la sua coscienza sembrava come essersi annichilita, schiacciata dal peso di una
fama e di una rivalsa inseguite per così tanti anni e ora talmente ingombrarti
da non riuscire a sopportarne il fardello.
Tutto quello che diceva, faceva, o addirittura
pensava, avveniva in diretta, sotto gli occhi del mondo intero, e anche se con
il tempo stava iniziando ad abituarsi a quella condizione, prendendo ad
assaporare tutte quelle gioie che nell’infanzia le erano state negate, qualcosa
in lei perdurava a rendere parzialmente amara tutto quel trionfo.
Soldi, fama, prestigio. Con le sole armi del
talento e della dedizione aveva conquistato un posto nell’olimpo dei grandi, eppure
non si sentiva del tutto felice.
Sentiva di avere perso qualcosa, qualcosa di
importante che non riusciva a ricordare.
Fino al giorno in cui non ricevette una
lettera, apparentemente una delle tante dalle quali la sua casella virtuale era
perennemente intasata.
Era una mattina di inizio primavera. Dopo
tante settimane spese tra allenamenti, incontri ed impegni vari, Helena era
riuscita finalmente a ritagliarsi una giornata di riposo, ma come ogni volta si
era ritrovata a spenderla nel suo appartamento, seduta davanti al computer a
leggere distrattamente i messaggi di ammiratori e spasimanti nel tentativo di
far scorrere le ore.
Di uscire non se ne parlava. A meno di non
camuffarsi da capo a piedi era impossibile ormai per lei frequentare un
qualsiasi luogo pubblico senza venire notata, e di conseguenza accerchiata, da
chiunque le passasse accanto. Con il tempo quell’appartamento così a lungo
sognato aveva finito per tramutarsi in una gabbia dorata, l’unico al posto
sulla faccia del pianeta in cui la giovane donna potesse trascorrere un po’ di
tempo con sé stessa.
A prima vista sembrava una mail come tante
altre, ma questa aveva qualcosa di speciale, perché era indirizzata ad una
certa Yuppie. Un nome che Helena conosceva fin troppo bene, dal momento che era
stato quello del suo primo avatar.
Chiunque ne fosse il mittente doveva essere
una persona molto speciale, qualcuno diverso dagli altri, perché solo chi
l’aveva conosciuta nella sua infanzia poteva conoscere quel nome, uno dei suoi
pochi segreti che la stampa e le riviste di gossip non erano riuscite a
disseppellire.
Leggendola, Helena per un attimo sentì una
fitta al petto.
Era della Lynne
Warner, la madre di Luna, che le chiedeva di fare visita alla figlia in
ospedale, dove era stata ricoverata in seguito ad un non meglio specificato
malore.
Helena avrebbe voluto sprofondare per la
vergogna, nel momento in cui si rese conto da quanto e quale divario avesse
finito per generarsi tra lei e quella che teoricamente era la sua migliore
amica, ora che appartenevano a due mondi diversi.
Fino a qualche anno prima erano state come
sorelle, sempre vicine e sempre indivisibili. Quando una aveva bisogno di
qualcosa, l’altra accorreva prima ancora di venire chiamata, e adesso invece,
se non fosse stato per quella lettera, non avrebbe mai neanche saputo che la
sua migliore amica era in ospedale.
Non solo. Chissà in quanti altri modi Lynne doveva aver tentato senza successo di mettersi in
contatto con lei, se per riuscire ad attirare la sua attenzione era stata
costretta ad usare quell’espediente.
Senza pensarci sopra un momento salì in
macchina e raggiunse l’ospedale St.Julius, nel
quartiere popolare dove era nata e cresciuta.
Nel momento in cui rivide le vecchie strade,
le umili case, le viuzze sporche e poco curate, fu come se un velo fosse stato
improvvisamente sollevato da sopra i suoi occhi, rammentandole tante cose che
nell’ebbrezza del successo aveva dimenticato.
Lei proveniva da lì.
Era quello il suo mondo, il mondo dove era
nata e cresciuta. Non i palazzi scintillanti o i salotti buoni di
quell’aristocrazia supponente e ipocrita che dentro di sé aveva sempre
detestato.
Forse, si disse entrando nel piccolo ospedale
di periferia dove Luna era stata ricoverata, era questo ciò di cui sentiva di
essersi dimenticata.
Quando la vide venirle incontro, la signora
Warner quasi pianse di gioia.
«Per fortuna sei qui.» le disse abbracciandola
«Ho cercato così tante volte di contattarti.»
«Mi dispiace. Che cosa è successo a Luna?».
La donna spiegò ogni cosa, e ad ogni sua
parola lo sguardo di Helena divenne sempre più segnato dallo stupore e dallo
sgomento.
Luna, a sentire la madre, era stata colta da
un malore durante una sessione di allenamento in vista del campionato che
avrebbe potuto segnare il suo passaggio tra i professionisti, e già da due
settimane era ricoverata in ospedale per disintossicare il proprio corpo dalle
scorie magiche prodotte dalla continua permanenza nella machina.
All’inizio era sembrato un normale
esaurimento, come succedeva di tanto in tanto agli atleti troppo spregiudicati,
ma poi, impietoso, era arrivato il giudizio finale dei medici.
Lo scompenso era stato tale da avere effetto
sul fisico di Luna, minando in maniera forse definitiva la sua soglia di
resistenza al contatto con lamagia.
In altre parole, Luna quasi sicuramente
avrebbe dovuto dire addio al chandra.
«Ma ne sono sicuri?» domandò non volendo
crederci.
«Le ho parlato. Le hanno parlato anche i
medici. Ma tu la conosci. È testarda e ostinata. Ma forse, se le parlassi te,
riusciresti a farla ragionare».
Helena entrò nella stanza dopo molte
esitazioni, temendo in modo in cui sarebbe stata accolta, ma ciò che si trovò
di fronte la lasciò senza parole.
Quella che era distesa sul letto, attaccata ad
una macchina per il drenaggio dell’energia, non sembrava neanche lontanamente
la Luna che aveva conosciuto. La rivelazione ricevuta dai medici e dalla madre
aveva svuotato il suo sguardo di quella ostinata determinazione che l’aveva
portata fino a lì, e il suo stesso corpo appariva segnato dall’enorme stress
che era stato costretto a subire, scavato nella carne e debilitato nel fisico.
«Ciao, Luna.» disse Helena quasi balbettando.
Lei la guardò, e la giovane donna sentì quasi
una fitta di dolore vedendosi piantare addosso quegli occhi spenti e senza
vita.
«Mia madre ti ha mandato qui per convincermi a
mollare tutto?» domandò dopo una breve quanto scarna risposta al saluto
«Luna, cerca di capire.» replicò Helena
tentando di recuperare la freddezza e l’autocontrollo «Questa volta ti è andata
bene, ma la prossima potresti morire, o anche peggio. E tu sai di cosa parlo,
vero?»
«Sei tu che non capisci.» rispose Luna
mordendosi le labbra «Non importa cosa possa darmi o dove possa condurmi.
Io amo il chandra. È
tutta la mia vita. Ogni volta che salgo sul ring, sento di trovarmi nel posto
che più mi si addice. Mi sento me stessa».
Helena si sentì morire dentro, comprendendo
finalmente ciò che la sua coscienza aveva continuato insistentemente a cercare
di rammentarle.
Il chandra era uno
sport. Lo sport più bello del mondo. Sia lei che Luna lo avevano amato fin da
bambine, trascorrendo l’infanzia a sognare il giorno in cui avrebbero potuto
finalmente praticarlo loro stesse.
Si diede della stupida.
Quando la passione si era tramutata in
semplice strumento? Quando il volgare profitto, la necessità di dover essere
sempre la migliore, aveva preso il posto del puro e semplice agonismo al fine
di migliorarsi?
Le lacrime di rabbia e di dolore che bagnavano
il volto di Luna furono per Helena più dolorose di un coltello piantato nel
cuore.
In lei, per un attimo, rivide sé stessa, al
tempo in cui il chandra non era un dovere ma una
passione, e ogni battaglia non una guerra da dover vincere ad ogni costo per
restare grande ma un’occasione per migliorare e puntare in alto.
Non se la sentì di distruggere i suoi sogni.
Forse, pensò, Luna poteva arrivare ad essere
una campionessa vera, pura, non come lei, corrotta da quel mondo di soldi e
notorietà che aveva inseguito per tutti quegli anni. Non le importava che il
successo per la sua migliore amica potesse segnare la fine per lei e il suo
prestigio, come non le era mai importato per tutto il tempo in cui avevano
lottato spalla a spalla.
In quel momento voleva solo che Luna potesse
continuare a sperare.
C’era un modo per far sì che il suo sogno
potesse proseguire.
La
Magic Arena e le sue apparecchiature all’avanguardia
erano inavvicinabili per chiunque non fosse un professionista tesserato, ma
alla grande Octavia non si negava mai un favore.
Grazie ad esse, e ad un programma d’allenamento
sviluppato direttamente dal nerboruto mister Keith, il preparatore atletico dei
grandi campioni, Luna poté tornare ad esercitarsi in relativa sicurezza, sotto
la guida della sua migliore amica, perennemente monitorata per tenere sotto
controllo i suoi sbalzi onde evitare nuove ricadute.
I medici, nell’autorizzare con molte riserve
la prosecuzione dell’attività agonistica, avevano raccomandato sedute brevi e
poco estenuanti, per non sottoporre l’organismo ad inutili stress eccessivi, e
per i primi mesi tutto andò alla perfezione.
Luna si sentì rinascere, ed Helena con lei, perché
per la prima volta in tanti mesi stava ricominciando ad amare sinceramente il chandra, e a riscoprire emozioni troppo a lungo
dimenticate.
Forse fu anche per questo, soprattutto per
questo, e per la volontà di non calpestare i sogni della sua migliore amica,
che Helena vide, o finse di non vedere, dei segni che avrebbero dovuto metterla
in allarme. Nei tre mesi in cui si sottopose allo speciale allenamento in vista
del torneo che avrebbe potuto portarla al professionismo Luna alternò momenti
di iperattività ad altri di cronica debolezza.
Un giorno era dilaniata da una fame
insaziabile, l’altro non aveva quasi appetito. Una volta poteva allenarsi e
correre per un giorno intero senza fatica, quello dopo era costretta a bere
fino a star male per placare una sete senza fine.
Convinta, o forse illusa, della assoluta
sicurezza del programma sviluppato appositamente per lei dal miglior
preparatore atletico del mondo, Helena lasciò le cose come stavano, impaziente
come la sua amica che arrivasse quel momento così a lungo atteso.
Finalmente, venne l’ultimo giorno. L’ultimo
tramonto prima che si alzasse il sipario sull’inizio del grande torneo
dilettantesco di Kyrador.
I primi quattro classificati avrebbero
ottenuto la promozione tra i professionisti, e per il campione vi sarebbe stato
il grande vanto di poter sfidare in un incontro amichevole sua altezza Octavia in persona.
«Ci siamo.» disse Luna osservando dall’alto degli
spalti l’arena in cui il giorno dopo avrebbe avuto in mano il suo destino «È
domani».
Helena era al suo fianco, come era stato per
ogni singolo giorno degli ultimi tre mesi. Per poterle stare accanto aveva
cancellato o posticipato incontri pubblici, contratti pubblicitari, interviste
e anche alcuni incontri, gettando al fumo contratti da milioni di kylis, ma questo era niente in rapporto alla possibilità di
recuperare il tempo perduto.
«Promettimi una cosa.» disse Luna dopo un
breve silenzio carico di emozione
«Che cosa?»
«Promettimi che se domani sarò io a vincere, e
a scontrarmi con te, tu ti batterai con tutte le tue forze. Ed io farò
altrettanto. Siamo d’accordo?»
«Certo.» rispose Helena sorridendo gentile «Te
lo prometto».
Si strinsero la mano, come avevano fatto ogni
volta fin da bambine per ribadire il legame speciale che le univa, poi Luna
propose alla sua migliore amica di fare un ultimo incontro amichevole. Così,
per riscaldamento.
«Se domani dovessi riuscire a diventare una
professionista, allora da quel momento noi due saremmo ufficialmente rivali. Quindi,
concediamoci la nostra ultima partita da semplici amiche».
In realtà il loro legame non si sarebbe mai
spezzato, ed Helena era la prima a saperlo.
Dapprincipio pensò di rifiutare, se non altro perché
il giorno dopo Luna avrebbe necessitato di tutte le sue forze per potersi
misurare nel torneo, ma data l’insistenza della ragazza alla fine si lasciò
convincere.
«D’accordo.» disse avviandosi giù per la
scaletta «Ma solo dieci minuti».
Normalmente serviva un attendente per poter
manovrare le apparecchiature dell’arena, ma Helena ovviò impostando il timer per
limitare la durata dell’incontro, quindi lei e Luna entrarono nelle machina ricomparendo sul terreno di gioco al comando dei
rispettivi vessel.
Luna aveva modellato la sua Electra
ispirandosi all’eroina di uno dei suoi fumetti preferiti, con spezzoni di armatura
laccata rosso rubino a sormontare una voluminosa tunica bianca, lunghi capelli
argentei chiusi dietro la nuca da un nastro nero e lasciati cadere in una coda
fluente, occhi azzurri taglienti come rasoi e come arma una lunga lancia a due
punte che negli anni aveva imparato a maneggiare con grande maestria.
«Non ti trattenere.» disse Luna roteando la
sua arma
«Sta tranquilla, non intendevo farlo.» rispose
beffarda Helena.
Fu effettivamente un incontro acceso, senza
esclusione di colpi, scandito dallo scorrere dei minuti sul cronometro che
sovrastava l’arena.
Luna sembrava aver assimilato bene i frutti
dell’allenamento, si batteva con efficacia senza apparentemente risentire della
fatica o dello stress. Aveva solo un po’ di fiatone, ma a quei livelli e con un
tale sforzo Helena pensò che fosse una cosa normale.
A metà della sfida, l’esito era ancora incredibilmente
incerto, come era naturale che fosse per due avversarie che si conoscevano a
memoria.
Quello che iniziò a non sembrare naturale,
però, era il continuo ansimare di Luna. D’accordo che si stavano battendo senza
tregua, ma non era normale essere così sfiatati dopo soli cinque minuti di
battaglia.
Helena iniziò a preoccuparsi.
«Qualcosa non và?» domandò all’amica in un
momento di tregua «Possiamo fermarci se vuoi.»
«Non ce n’è bisogno.» rispose Luna appena
riuscì a trovare il fiato «Devo aumentare la resistenza, o domani non durerò a
lungo.»
«Nessuno degli avversari che incontrerai sarà
al tuo livello. Non avrai difficoltà a qualificarti. Ora però è meglio che ti
fermi.»
«È impossibile.» replicò Luna con una insolita
ira «Se non riesco a reggere un incontro di dieci minuti contro di te che ti
conosco a menadito, come farò quando sarò una professionista e dovrò affrontare
avversari fortissimi di cui non so nulla?
Andiamo avanti!».
Helena non sapeva cosa stava facendo, fatto
sta che ancora una volta scelse di avere fiducia nella sua amica e assecondò il
suo desiderio, riprendendo lo scontro.
Il fiatone non smise per un attimo, ignorato
per quanto possibile da Luna, ma nel momento in cui a questo andrò ad unirsi
una furia aggressiva assolutamente non comune Helena si rese finalmente conto
che le cose stavano prendendo una brutta piega.
«Adesso basta, Luna.» disse tentando di farla
ragionare «Dobbiamo smettere. Disconnettiti».
Ma era come parlare al muro. Luna non voleva
saperne di arrendersi prima che l’incontro fosse finito, e visto che nessuno
poteva forzarla dall’esterno a terminare la simulazione l’unica cosa da fare
era sconfiggerla ponendo fine all’incontro.
Helena tentò alcuni dei suoi assalti più noti
e letali, ma in quella specie di furia da battaglia in cui era caduta Luna
respinse buona parte degli attacchi, ai quali rispose con insolita ed incontrollabile
violenza. Guardandola negli occhi, Helena quasi stentò a riconoscervi la
propria amica.
«Basta Luna!» continuava a dire nel tentativo
di farla ragionare «Ti prego, smettila!».
Mancavano ancora due minuti alla fine dell’incontro,
e quel punto l’unica cosa da fare per Helena era lasciarsi sconfiggere, nella
speranza che Luna in quella specie di pazzia in cui sembrava essere sprofondata
non esitassea colpire un’avversaria
rinunciataria.
Helena aveva già gettato la spada a terra
offrendo la gola per ricevere il colpo di grazia, quando Luna d’improvviso
prese a dimenarsi come una dannata, urlando e dimenandosi come se l’avessero
trafitta migliaia di lame.
«Luna!».
Tentò di correrle incontro, ma un attimo prima
che potesse afferrarla il suo vessel le si dissolse tra le mani. Un pessimo
auspicio. Poteva significare solo che qualcosa nella mente di Luna si stava
deteriorando.
Per fortuna Helena fece in tempo a gettarsi
sulla lancia un attimo prima che scomparisse dissolvendosi a sua volta, ma
grande fu la sua angoscia quando, una volta tornata nella machina,
si accorse di non poterne comunque uscire.
Tutta colpa della fretta con cui aveva
programmato l’arena, che le aveva fatto dimenticare di programmare l’arresto
preventivo con conseguente apertura delle machina
prima che il tempo si fosse esaurito.
«Avanti apriti, stramaledetta!».
A forza di spinte riuscì a far saltare i
cardini che serravano il portello, e uscita raggiunse di corsa la capsula
ancora chiusa di Luna attivando l’apertura d’emergenza. Le luci che
lampeggiavano ad intermittenza non erano per niente un buon segno.
Come la machina si
aprì, una strana sostanza verde acqua simile a gel prese a colare dall’interno
del vano, e appena Helena poté guardare all’interno il suo sguardo, da
sgomento, si fece di puro terrore.
La sua amica Luna era completamente avvolta da
quella sostanza, i vestiti sembravano essersi come liquefatti, e gli occhi
erano completamente vuoti, due biglie bianche la cui pupilla era a malapena
visibile.
Avrebbe voluto aiutarla, cercare di tirarla
fuori, ma era talmente terrorizzata da restare immobile. E anzi, quando Luna,
trascinandosi, uscì dalla machina, rantolando come
moribonda sul pavimento freddo dello stadio, tutto quello che inizialmente Helena
riuscì a fare fu camminare all’indietro, cercando ossessivamente di togliersi
di dosso il gel che aveva sulle mani e sui vestiti.
Solo in un secondo tempo, quando si vide
guardare da quelle sfere bianche invocanti aiuto, riacquistò l’autocontrollo.
«Luna!» gridò inginocchiandosi e cercando di
sollevarla.
La ragazza alzò il capo, tremante, e dalla sua
espressione, per quanto parzialmente nascosta da quella poltiglia disgustosa
che sembrava scaturire direttamente dal suo corpo, era chiaro che sapeva cosa
le stesse succedendo.
«Helena…» disse con
una voce che di umano non aveva quasi nulla «Aiutami…».
Furono le sue ultime parole.
Colpita da una specie di violento conato, Luna
prese a vomitare altro gel, facendo arretrare Helena inorridita. Quella sostanza
la ricoprì sempre di più, fino a che il suo stesso corpo non parve mutarsi a
sua volta in qualcosa di viscido, senza una vera forma, gocciolante di
poltiglia fangosa.
Ma i suoi occhi, quelli, sembravano ancora gli
stessi, per quanto vuoti, ridotti ormai a due vetrini senza espressione. In essi,
Helena riconosceva ancora la sua amica che aveva conosciuto fin dall’infanzia,
con cui era andata a scuola, aveva fatto i compiti, giocato. La persona con cui
aveva deciso di iniziare un sogno condiviso, fatto di speranze, e della promessa
di vivere sempre l’una per l’altra.
Luna, o quello che restava di lei, lanciò un
urlo terrificante, quasi a voler espellere la poca umanità che le rimaneva, e
dopo qualche attimo nell’arena arrivarono tutte le guardie di sicurezza dell’edificio,
allertate dalle immagini riprese dalle telecamere.
Si trattava di un’EDA di classe inferiore,
poco più che un’inezia, e loro dato l’incarico che svolgevano erano armati con
proiettili speciali.
«Sparate! Sparate!» ordinò il loro capo.
Helena, trattenuta e tirata indietro a forza
da due delle guardie, non poté fare altro che osservare, urlante e impotente,
gli altri uomini della sicurezza circondare Luna e spararle contro senza
esitazioni. La creatura quasi non tentò di difendersi, come non chiedesse altro
che venire uccisa, e dopo aver incassato oltre cinquanta colpi, accasciatasi,
emise un ultimo gemito per poi spirare.
Nota
dell’Autore
Salve a
Tutti!^_^
Sì, sono
proprio io!
Sono
ancora vivo! Credevate che me ne fossi andato. Il fatto è che sono stato
incredibilmente impegnato in questo periodo, tra una cosa da fare e un’altra, e
proprio perché non sapevo in che altro modo tenermi impegnato non ho trovato
niente di meglio da fare che iscrivermi ad un paio di contest.
Ma bando
alle ciance.
Ancora una
volta vengo meno alle mie promesse, fermandomi prima di concludere la vicenda
legata all’incontro tra Carmy e sua madre. Stavolta però prometto solennemente,
qui lo dico e qui lo affermo, di chiudere con il prossimo, anche perché ormai
siamo davvero in dirittura d’arrivo.
Poi,
finalmente, e prima di dimenticarceli, torneranno sulla scena anche Jake e
Vyce.
La
pioggia era cessata, e le nuvole iniziavano lentamente ad aprirsi lasciando
intravedere il sole ormai prossimo a scomparire. Dall’esterno, tramite i vetri
imperlati d’acqua, i suoi ultimi raggi gettavano nella stanza una tenue luce
rosata, generando una foresta di ombre scure che come tanti fantasmi si
protendevano sul pavimento di legno facendone una specie di mosaico dal disegno
inestricabile.
Carmy stette a lungo ad osservare Helena che,
come sotto ipnosi, fissava senza sosta le proprie mani tremanti. Una strana
espressione si era gradualmente materializzata sul suo viso mentre raccontava
quella storia.
Sembrava un sorriso, ma che invece di gioia
trasmetteva un senso di rassegnazione e sconforto così forte da poterlo quasi
scorgere ad occhio nudo.
Quanto alla giovane agente, il suo stupore
glielo si leggeva nello sguardo.
«Non ho mai saputo nulla di questa storia.»
disse cercando di trovare le parole «Ero alla Magic
Arena solo poche ore fa, e nessuno ne ha mai fatto parola.»
«È naturale.» rispose Helena con la più
ironica rassegnazione «Anche se nessuno a parte Luna teoricamente ne aveva
colpa, se una cosa del genere si fosse venuta a sapere sarebbero stati in molti
a pagarne le conseguenze. La società che gestisce lo stadio. Quelle che
finanziano i grandi tornei. I gruppi industriali che hanno creato i sistemi
informatici, le machina e l’arena virtuale. Persino i
miei sponsor».
Le sue mani, da tremanti che erano, si
irrigidirono di colpo, facendosi come di pietra, e serrandosi con tale vigore
attorno alla tazza da farla scricchiolare.
«Prima di allora non avevo mai visto tutte
quelle serpi maledette andare così d’accordo su cosa fare e come.
Tutta la vicenda fu fatta passare sotto
silenzio. Ufficialmente nessuno seppe mai cosa era accaduto in quell’arena. Fu
come se Luna Warner non fosse mai esistita. Quanto a me, non ebbi il coraggio
neanche di andare al suo funerale.
Mi sarebbe sembrato il più ipocrita dei gesti.
Non sono mai riuscita neanche ad andare al cimitero».
Carmy comprendeva che Helena si sentiva
chiaramente responsabile per quanto accaduto alla sua amica. Forse era anche
per quello che si era imposta quell’esilio forzato lontano dai riflettori. Ma
probabilmente, ciò che l’aveva spinta ad allontanare quello che per anni era
stato il suo grande sogno era il peso dei ricordi.
Ogni volta che fosse entrata in uno stadio, si
fosse seduta all’interno di una machina, avrebbe
finito per ripensare a Luna, e a quello che le era successo. Un peso troppo
grande da sopportare, anche per lei, che aveva fatto della forza di volontà
somma virtù.
«Da quel giorno, non me la sono più sentita.»
disse rassegnata posando la tazzina «Ho tagliato ogni ponte, ogni legame. E
sono venuta qui, da sola. A fare o ad aspettare che cosa, non lo so».
Fece una pausa, nascondendo un momento il
volto dietro una mano.
«Spesso si passa così tanto tempo ad inseguire
le proprie aspirazioni che non si tiene conto del fatto che ogni cosa, anche i
sogni che rincorriamo a volta per tutta la vita, hanno il loro rovescio della
medaglia.
Denaro. Fama. Gloria. Ammiratori. Quando mi
allenavo in una palestra sgangherata con machina
tenute insieme per miracolo sono arrivata al punto da non pensare ad altro che
al giorno in cui avuto tutto questo. E ora che ce l’ho, quasi non so che cosa
farmene.
Luna era diversa. Anche lei voleva ascendere,
ma a differenza di me non è mai arrivata a considerare il chandra
solo uno strumento. Anzi, probabilmente sarebbe stata disgustata da quello che è
in realtà lo sport per il quale ha faticato fino a rimetterci la vita.»
In quel particolare momento Carmy si sentiva
l’ultima persona in grado di fornire lezioni di vita, ma quella sorta di
empatia che aveva percepito man mano che lei ed Helena seguitavano a conoscersi
l’una con l’altra non le permetteva di restare indifferente all’evidente
malessere interiore che turbava l’animo della grande campionessa.
«Anche io sono venuta in questa città per
realizzare un sogno. Anche per me non è stato facile, ma a differenza di lei la
mia è una famiglia abbastanza benestante, con delle ideologie piuttosto
intransigenti. Mio padre ha sempre contestato il sistema in cui viviamo, e
nonostante i miei tentativi non sono mai riuscita a fargli comprendere che se
avevo accettato di farne parte non era perché lo approvassi, ma perché volevo
cercare di migliorarlo.»
«E ci è riuscita?»
«Non credo. E onestamente, dubito di riuscirci
mai».
Seguì un lungo silenzio. Le due ragazze si
osservarono l’un l’altra, cercando di cogliere i rispettivi pensieri.
«Comunque, io non ho intenzione di tornare
indietro sulla mia decisione. Che mio padre lo accetti o meno, e per quanto
difficile possa essere, non posso gettare al vento tutto quello che ho fatto
per arrivare fino a qui.
E, se posso permettermi, dovrebbe farlo anche
lei.»
«Come?» replicò Helena interdetta
«Non credo di poter comprendere davvero quello
che prova, ma da come me ne ha parlato è evidente che il chandra
le piace ancora, così come piaceva a Luna. Ha passato tutta la sua vita ad
inseguire l’obiettivo che si era prefissata, e ora ha finalmente ottenuto
quello che desiderava non le sembra stupido gettare via tutto?».
Helena batté violentemente il pugno sul tavolino,
colta da una furia improvvisa.
«Tu non capisci. Con che coraggio potrei far
finta che non sia successo niente e tornare alla mia vecchia vita? Dopo quello
che ho fatto? Dopo quello che sono diventata?»
«Nessuno ha detto che deve dimenticare.» rispose
Carmy per nulla intimorita, con la gentilezza di sempre «Farlo sarebbe il vero
crimine. Il fatto che questa storia la faccia soffrire così tanto è la prova
che i suoi sentimenti e il suo animo non sono così avvizziti come lei crede».
Detto questo Carmy prese fuori dalla tasca
della giacca il regalo per sua sorella e lo mostrò ad Helena.
«Ci sono molte persone, molti ragazzi pieni di
sogni come i suoi, che la ammirano e credono in lei. Pensa davvero che la
adorerebbero così tanto se la vedessero sotto la luce in cui lei si vede ora?
Persino Luna ha continuato a credere in lei fino all’ultimo, senza mai dubitare
del vostro legame o della sua forza d’animo».
Helena rimase in silenzio, gli occhi
spalancati e l’espressione attonita.
«Sono consapevole che la sua è stata
un’esperienza terribile. Chiunque ne sarebbe rimasto schiacciato. Il consiglio
che mi sento di darle è, invece che permettere al senso di colpa e al rimorso
di sopraffarla, provi a fare tesoro di quanto successo per riscoprire ciò che
realmente l’ha portata fin qui».
Carmy guardò nuovamente la foto, e anche
Helena fece altrettanto.
«Non pensa che Luna lo avrebbe voluto? In fin
dei conti, ora sta a lei portare avanti ciò in cui entrambe avete creduto».
Ci fu un nuovo, lungo silenzio, poi Helena si
alzò dalla poltroncina, si avvicinò nuovamente alle tende e spinse un pulsante,
aprendole. In lontananza si intravedeva la Magic
Arena, una cupola specchiata che si stagliava al centro di un grande parco.
«Come ha fatto una come te a finire nella
MAB?» domandò in tutta schiettezza, e riuscendo perfino ad abbozzare un sorriso
«Sembri davvero troppo semplice e onesta per accompagnarti a gente simile.»
«Nella MAB ci sono persone indegne del ruolo
che ricoprono. Ma è così in ogni istituzione. È nella natura umana che qualcuno
anteponga sempre e comunque i propri interessi al bene della collettività o al
proprio dovere. Ma può credermi se le dico che c’è anche tanta gente perbene,
che ama il proprio lavoro e si adopera davvero per aiutare questa società.»
«Sembra quasi impossibile. Ma vedendo te, mi
viene da pensare che forse potresti anche avere ragione».
Carmy sorrise, alzandosi a sua volta.
«Allora?» disse nuovamente Helena «Se non sbaglio
non mi hai ancora detto per quale motivo sei venuta qui.»
«Accidenti, è vero!» esclamò Carmy cadendo
nuovamente dalle nuvole «Effettivamente, avrei bisogno di una piccola cortesia
da parte sua.»
«E cioè?».
Carmy,
correndo con tutto il fiato che aveva dopo essere saltata giù dal taxi,
raggiunse la madre giusto pochi minuti prima della partenza del rapido per Midgral che l’avrebbe riportata a casa.
«Si può sapere dove sei stata?» le domandò Morea mentre la figlia cercava di riprendersi
«Scusami, ci ho messo più del previsto.»
rispose la ragazza, che poi riconsegnò alla madre il regalo per Judith «Ecco
qui. Falle gli auguri da parte mia».
Morea lo prese,
guardandolo.
L’autografo di Helena “Octavia”
Loyde capeggiava in bella vista al centro della
custodia.
«Carmy.» disse incredula
«Ho pensato che potesse essere un bel regalo
per la mia sorellina. Così su due piedi, non mi è venuto in mente altro».
All’interno, ripiegato, c’era anche un
foglietto scritto a mano.
«Ad una giovane e promettente ammiratrice.»
lesse la donna «In attesa di poterci scontrare.»
«Ho dovuto togliere la scheda dall’incarto. Bisognerà
che tu lo faccia riapplicare. E dille che mi dispiace per essermi dimenticata
del suo compleanno.»
«Non credo sarà necessario.» rispose Morea con un sorriso «Sono sicura che te ne sarà
infinitamente grata».
L’altoparlante annunciò che il treno era ormai
in partenza. Morea si avvicinò a Carmy, che si sentì
abbracciare come quando era una bambina, un abbraccio pieno di affetto e calore
che le fece mancare nuovamente il respiro.
«È stata una bella giornata.» disse Mora
guardandola negl’occhi «E qualunque cosa accada, voglio che tu sappia che io e
tuo padre siamo e saremo sempre fieri di te.
Fai quello che ritieni giusto, e nessuno ti
biasimerà. In fin dei conti, questa è la tua vita.»
«Mamma…».
Vi fu un nuovo abbraccio, più breve ma
ugualmente intenso, poi Morea dovette salire a bordo
prima che le porte si chiudessero.
«Ah già, dimenticavo.» disse affacciandosi dal
finestrino e porgendo qualcosa a Carmy «Ti è caduto questo quando prima sei
scappata via».
Vedendo di che si trattava, Carmy divenne
bianca come un cencio.
Sapeva di non essersi dimenticata a casa il
distintivo. Il suo distintivo di agente della MAB.
«Ecco, veramente…»
cercò vanamente di giustificarsi.
Morea rispose
con una risatina divertita.
«Non sei mai stata brava a raccontare bugie. Peccato,
perché questa ti era riuscita bene.» poi si fece seria, materna «Mi raccomando.
Continua farci sentire fieri della nostra testardissima figlia».
Un silenzio incredulo fu la risposta di Carmy,
e quando il treno partì la ragazza stette a lungo ad osservarlo mentre si
allontanava verso nord, con il cuore che batteva all’impazzata ad una strana sensazione
al centro del petto, famigliare e molto piacevole.
Era stata davvero una lunga giornata. Lunga e
speciale.
Il trillare del suo telefono la riportò alla
realtà.
«Julienne. Sei
tornata prima del solito. Come? Una cena al ristorante? Certo, perché no. Dove
ti trovi?».
Qualche
giorno dopo, la sparuta folla riunitasi per assistere ad un piccolo torneo
regionale di periferia avrebbe avuto il grande onore e piacere di veder
comparire, per la prima volta dopo sei mesi, la leggendaria Octavia,
comparsa dal nulla come un fantasma mentre era in corso la premiazione.
Il suo arrivo fu salutato da un’ovazione degna
di una finale, e quando chiese di potersi misurare in un duello amichevole con
la vincitrice, una ragazzina appena adolescente, questa non ci pensò due volte
accettare.
La notizia si diffuse in un batter d’occhio,
tanto che nel momento in cui le due contendenti si materializzarono sull’arena
quel piccolo palazzetto dello sport, da vuoto che era, si era riempito in ogni
ordine di posto, ed erano arrivate persino le più importanti televisioni
cittadine.
Erano tutti talmente eccitati al pensiero di
poter assistere al primo combattimento della Rosa di Kyrador
dopo tutti quei mesi che quasi nessuno si accorse del leggero cambiamento di
look di Octavia, i cui lunghi capelli biondi, a
differenza del passato, erano ora raccolti poco sopra le punte da un nastro
nero elegantemente annodato.
Octavia alzò gli
occhi al cielo, in direzione del sole, in parte nascosto da alcune fastidiose
nuvole che durante il torneo avevano anche portato un accenno di pioggia, ed
una strana luce si accese nei suoi occhi.
«Concorrenti ai posti!» ordinò l’arbitro «Fight!» e le due avversarie si lanciarono l’una contro l’altra.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Sono
tornato dal regno delle ombre!^_^
No, a
parte gli scherzi. Il fatto è che poco dopo aver pubblicato l’ultimo capitolo
ho avuto la malsana idea di iscrivermi a ben due contest organizzati nel forum,
e se a questo aggiungete l’inevitabile concitazione e mole di studio che
caratterizza il mese di giugno capirete che non è stato facile trovare il tempo
per riprendere in mano ToC.
Come
avrete sicuramente notato è un capitolo di una brevità quasi disarmante, almeno
per i miei standard. Il fatto è che ormai questa storia relativa al viaggio
della madre di Carmy a Kyrador stava andando davvero
troppo per le lunghe, così ho ritenuto opportuno chiudere la questione senza
ulteriori giri di parole per tornare a seguire il sentiero principale.
Potete considerare
questa come una lunga digressione grazie alla quale è stato possibile esplorare
un po’ sia la psicologia di uno dei due protagonisti sia una fetta del contesto
generale in cui si ambienta la storia
Grazie per
aver avuto tanta pazienza, e spero continuerete a seguirmi.
Il
giorno successivo Carmy si presentò al lavoro come al solito.
Quelli che incontrò lungo il tragitto
dall’ingresso al decimo piano, a cominciare dalla vecchia signora Pilkins che gestiva la caffetteria, non mancarono di notare
quanto fosse stranamente allegra, anche più del solito.
Effettivamente Carmy non ricordava di essersi
mai sentita così in pace con sé stessa. Le notizie giunte da casa l’avevano
liberata di buona parte delle sue paure, e adesso non vedeva l’ora di poter
sfruttare i primi giorni liberi per poter tornare al villaggio e passare un po’
di tempo con la sua famiglia.
Il suo buonumore tuttavia subì un duro colpo
quando, entrando in ufficio, vide il proprio saluto mattutino ricambiato dai
suoi compagni di squadra da sguardi molto strani, quasi giudicatori.
«Che succede?» domandò quasi con spavento.
Nessuno rispose, poi Alexia si alzò dalla
scrivania e si avvicinò alla ragazza tenendo in mano un dossier che Carmy
riconobbe quasi subito.
«Trenta kylis che la
sbatte come un tappeto.» mormorò Cane a Lucas
«Ci sto.»
«Mi potresti spiegare questo?» domandò il
capitano senza giri di parole «Non ricordo che tu me ne abbia mai parlato.»
«Le carte di quell’indagine mi sono ricapitate
in mano per puro caso.» tentò di giustificarsi dopo un lungo, imbarazzato
silenzio «Volevo tenermi impegnata, e così ho iniziato a fare qualche ricerca.»
«C’è qualche motivo in particolare per cui hai
scelto proprio questo caso?»
«È stato in buona parte per puro caso. Ma in
effetti è stato più che altro per la vittima.»
«La vittima? Intendi il padre?»
«No, intendo in ragazzo.»
«Vittima!?» ripeté Cane «Ha quasi aperto la
testa al suo vecchio.»
«Ho parlato con i suoi amici e i suoi compagni
di accademia. Era una persona normalissima, come voi e me, prima di venire in
contatto con la lilith. Ha iniziato a drogarsi dopo
la separazione dalla fidanzata, e da quel momento ha perso tutto un pezzo alla
volta.»
«È il prezzo che si paga per voler avere a che
fare con quella roba.» disse schietto Lucas «D’altra parte, l’umanità convive
con le droghe praticamente da sempre. La lilith è
solo l’ultima in ordine di tempo.»
«La lilith genera
mostri. Mostri che poi aggrediscono e uccidono altri innocenti. I fenomeni EDA
nelle grandi città come Kyrador sono più che
raddoppiati da quando la lilith ha iniziato a
diffondersi massicciamente nei quartieri poveri. Se si potesse in qualche modo
arrestare il diffondersi di questa droga, forse riusciremmo ad evitare alcuni
di questi incidenti.»
«Tu la fai facile, ma non lo è.» replicò Cane
«Sono mesi che la MAB cerca di venire a capo di questo fenomeno, fin da quando
è cominciato.»
«Thomas ha ragione.» disse Alexia «Purtroppo
non siamo mai riusciti a prendere nessuno, a parte piccoli spacciatori senza importanza.
È chiaro che dietro vi è una organizzazione molto ben strutturata, ma proprio
per questo riuscire ad incrinarla o a leggerne i segreti non è un’impresa
semplice.»
«Ma io ho un nome.» esclamò Carmy come un
fulmine a ciel sereno.
I suoi colleghi saltarono sulla sedia.
«Che cosa!?» esclamò Lucas
«Volevo parlarvene appena avessi avuto
qualcosa di più in mano.» disse Carmy recuperando alcuni fogli dalla cartella
che Alexia aveva in mano «Quando sono andata alla comunità a parlare con quel
ragazzo non sono riuscita ad ottenere niente di preciso.
La sua mente era ormai compromessa, ma ha
ripetuto più volte un nome».
Cercando tra i suoi appunti infine la ragazza
trovò il nome in questione.
«Eccolo qui.» disse indicandolo al suo
caposquadra
«Timur.» lesse Alexia
«Sei sicura che sia un nome?»
«Sì.» poi Carmy parve esitare «Almeno credo.
Avrei controllato nel database, ma non ho l’accesso agli archivi della
polizia».
Alexia restò in silenzio. Non sembrava molto
convinta.
«Timur.» mugugnò
d’un tratto Cane «Perché questo nome non mi giunge nuovo?».
Bastò una rapida occhiata nell’archivio perché
Cane comprendesse come mai quel nome gli sembrava famigliare.
«Che hai trovato?» domandò Lucas vedendolo
sorridere compiaciuto
«PlivisEmeraude.» rispose Cane indicando la foto di riconoscimento
che capeggiava sul suo monitor «Meglio noto come Padre Timur.
È uno dei capi della locale comunità del Culto di Ela».
Alexia e Lucas raggiunsero l’amico alla sua
scrivania.
«La setta religiosa?» disse il capitano «Sei
sicuro?»
«Sicurissimo. E per essere un sedicente
religioso ha una lista di precedenti lunga un chilometro. Aggressione,
profanazione, discriminazione razziale, e via dicendo.»
«Un normale discepolo di Ela, insomma.»
commentò ironico Lucas
«Il Culto di Ela non è nuovo a problemi con
gli stupefacenti.» ipotizzò Alexia
«Vero.» rispose Cane «Fumano e sniffano di
tutto nel corso dei loro rituali perversi. E sappiamo per certo che sono
consumatori abituali di lilith, infatti Padre Timur è stato arrestato proprio a seguito di una indagine a
questo senso.»
«Il ragazzo può essere venuto a contatto con
la droga durante uno dei loro rituali.»
«O forse.» irruppe Carmy rompendo il silenzio
in cui era calata quasi subito all’inizio di tutto quel trambusto «Sono stati
loro a fornirgliela».
Tutti la guardarono, visibilmente perplessi.
«Carmy, i membri del Culto di Ela sono
fanatici integralisti. Non spacciatori.» tentò di spiegarle Alexia garbatamente
ma con fermezza «E di certo non possono averla creata loro. Anche se hanno
degli ammiratori influenti, sono più poveri di quanto vogliano far credere».
Più per sfizio che per altro Lucas si sedette
al proprio computer per fare qualche altra ricerca veloce sul conto di Padre Timur, e ciò che vide lo lasciò senza parole.
«Talmente poveri da potersi permettere un
villino nel quartiere residenziale Mystral da
diecimila kylis al mese?»
«Come dici!?» esclamò Cane
«Il nostro povero, squattrinato pastore ha
stipulato un contratto d’affitto per un villino in uno dei quartieri più
esclusivi della città giusto nove mesi fa.»
«O il fanatismo religioso è diventato
improvvisamente lucrativo» scherzò Cane «O il nostro servo di Ela ha ricevuto
la grazia.
Che ci sia davvero il culto di Ela dietro alla
comparsa della lilith?».
Carmy non riusciva quasi a stare dietro a
tutto quel discorso. Non perché fosse troppo difficile, ma più che altro perché
non riusciva a credere che da un’indagine apparentemente così banale, presa in
mano più per mettersi alla prova che per vera determinazione, potesse venire
fuori qualcosa del genere.
Nella deduzione di Cane c’era però qualcosa
che non andava, e Alexis non mancò di farlo notare.
Il problema era lo status sociale di Padre Timur all’interno della sua setta. Non era sicuramente un
semplice adepto, ma non era neanche un priore. Era solo un semplice pastore, un
grado intermedio che non garantiva potere o influenza particolari.
«Potrebbe essere anche lui uno strumento.»
ipotizzò Lucas «Un intermediario tra le alte gerarchie della setta e gli
spacciatori.»
«Aspettate, non corriamo troppo.» interruppe
Alexia tornando coi piedi per terra «Abbiamo solo i vaneggiamenti di quasi
omicida con la mente distrutta dalla droga. Qualsiasi procuratore si metterebbe
a ridere, figuriamoci chiedere un mandato.»
«Informarsi non costa nulla.» disse Cane quasi
con malizia «Un giretto alla chiesa gestita dal nostro pastore milionario non
guasterebbe. Giusto per tastare il terreno».
Seguì un lungo ed enigmatico silenzio.
I membri della squadra si guardarono tra loro,
quasi a voler leggere i rispettivi pensieri, poi tutti gli sguardi si
concentrarono su Alexia, che stette parecchi secondi immobile ad osservare la
cartella aperta tra le mani.
«D’accordo.» disse richiudendola «Thomas, vai
a dare un’occhiata al tempio gestito da padre Timur.
Se è vero che là attorno spacciano lilith non
dovrebbe essere difficile scoprirlo.»
«Al volo, capo.» rispose il giovane agente
balzando in piedi
«Io intanto porterò questi documenti al
maggior Owens. Vedrò di convincerlo ad avviare
un’indagine ufficiale. Tu intanto Pierre fai qualche altro controllo sul Culto
di Ela. Guarda se hanno legami con qualcuno che conosciamo coinvolto nel
traffico di droga.»
«Come fatto».
In due secondi Cane aveva già infilato il
cappotto, e dopo aver lasciato con disappunto una banconota sulla scrivania di
Lucas si stava avviando verso l’uscita, ma all’ultimo Alexia lo fermò.
«Porta Carmy con te».
Tutti allora si volsero a guardarla increduli,
a cominciare da Carmy, che nel frattempo era tornata alla sua scrivania.
«È la tua indagine se non sbaglio».
La ragazza rimase un momento basita, poi si
alzò dalla sedia con la più ineguagliabile felicità dipinta sul viso.
«Grazie infinite, capitano.»
«E da ora in poi, cerca di non nascondermi più
niente.» la rimproverò Alexia con un sorriso gentile «Ricorda che fai parte di
una squadra.»
«Non si ripeterà più, ha la mia parola.»
rispose Carmy, che recuperata la giacca dell’uniforme si accodò in tutta fretta
a Cane seguendolo agli ascensori.
Per
buona parte del viaggio in macchina Carmy non riuscì ad aprire bocca,
seguitando ad osservare la strada con la testa appoggiata al finestrino e
l’espressione abbattuta, quasi triste.
«Non avere quell’aria sconfortata.» disse
d’improvviso Cane «O penserò di stare trasportando un cadavere.»
«Scusami. È solo che…»
«Ti pagano per fare il tuo lavoro, se non
sbaglio. E l’hai fatto. Punto».
Carmy lo guardò perplessa.
«Quindi… non siete
arrabbiati?»
«Certo, come ha detto il capitano, dovresti
tenere a mente che siamo una squadra, ma se c’è una cosa che Alexia ammira è
l’intraprendenza. Hai dimostrato perspicacia e spirito d’osservazione, che nel
nostro lavoro sono qualità basilari ma che non tutti possiedono. E questo è
senza dubbio un punto a tuo favore.»
«Grazie Thomas.» disse a quel punto Carmy
molto più sollevata «Sei sempre un amico.»
«Non c’è di che. Fa parte del mio naturale sex
appeal dopotutto».
Lasciata la circonvallazione Cane imboccò il
viadotto diretto a nord, abbandonando anche questo al quarto casello, e fatti
pochi chilometri i due raggiunsero il quartiere periferico dell’ildagar, una delle zone dove la Chiesa di Ela aveva il
maggior numero di sedi.
Il tempio gestito da padre Timur,
in realtà il sudicio sotterraneo di un palazzo in disuso, si trovava in un
vicolo laterale non lontano dalla piazza del mercato, facilmente riconoscibile
come tutti i luoghi sacri del culto per via dei vistosi e decisamente lugubri
orpelli che decoravano l’entrata, dalle candele verde smeraldo al teschio di
unicorno appeso sull’architrave.
Cane fermò la macchina dall’altro lato della
strada, e per qualche minuto lui e Carmy stettero ad osservare in incognito
l’andirivieni continuo di persone che entravano e uscivano dal tempio.
Molte delle facce che si potevano intravedere
al di sotto dei voluminosi cappucci degli adepti erano di sicuro poco
raccomandabili, ma così a vista nessuno aveva l’aria dello spacciatore, né
tanto meno del drogato in cerca di una dose.
«Sembra tutto normale.» osservò Carmy «Forse
mi sono sbagliata.»
«Non avere fretta.» la ammonì Cane «In queste
cose ci vuole molta pazienza».
Passarono quindi alcune ora, durante le quali
non accadde nulla di significativo. Per cercare di rendere l’attesa meno
opprimente e combattere i morsi della fame Carmy andò a recuperare dei panini
da un chiosco poco distante, e mentre lei e Cane stavano finendo di mangiare
Padre Timur arrivò altempio scortato da due dei suoi adepti più fedeli.
La vistosa pelata e gli abiti sgargianti,
forse anche troppo per uno che a parte il santone non si sapeva bene cosa
facesse per vivere, lo rendevano facilmente riconoscibile, ma quello che stupì
di più i due agenti fu l’atteggiamento stranamente guardingo del loro uomo.
Da come si guardava attorno sembrava quasi che
si sentisse seguito, e la cosa preoccupò Carmy, ancora troppo inesperta per
avere la capacità di mascherare al meglio il proprio link, l’energia eterea che
come un’aura permetteva agli stregoni di percepirsi e riconoscersi tra di loro.
«Sta tranquilla.» le disse Cane vedendola in
ansia e indicandole una specie di antenna che spuntava dal cruscotto «Questa
macchina è schermata.»
«Però indosso l’uniforme…»
«Non credo possa vedere così lontano. E
comunque i vetri sono specchiati».
La prova dei fatti sembrò dare ragione a Cane;
Timur si avvicinò cautamente all’ingresso del tempio,
quindi guardatosi un’ultima volta attorno si infilò all’interno seguito dai
suoi uomini.
«Visto? Tutto a posto.»
«Mi è sembrato molto guardingo.»
«Forse anche troppo.»
«A me è sembrato che stesse cercando qualcuno.
Forse aspetta visite.»
«Già. Ma da parte di chi? È questo che vorrei
tanto sapere».
Passò qualche altro minuto, e alla radio
arrivò una richiesta di assistenza da parte di una pattuglia della polizia
municipale per un incidente stradale accaduto a pochi isolati di distanza;
c’erano stati dei feriti, alcuni erano gravi, e si richiedevano degli stregoni
per operare i primi soccorsi in attesa delle ambulanze.
«Vado a dare loro una mano.» disse Cane
scendendo dalla macchina «Tu aspetta qui.»
«Aspetta, che cosa devo fare?»
«Quello che fai di solito. Osserva e analizza.»
si congedò l’agente con un ammiccamento «A quanto si è visto ti riesce bene».
A quel punto Carmy restò sola, e per
interminabili momenti la sua mente fu occupata da un mare di pensieri su quello
che le era capitato.
Forse non era poi così inadatta per quel tipo
di lavoro, come aveva quasi finito per convincersi all’indomani della sua
prima, mediocre esperienza sul campo.
Recuperata la freddezza, la ragazza tornò ben
presto a concentrarsi sul proprio compito, e lenti magiche materializzate
davanti agli occhi prese ad osservare con attenzione ogni faccia che entrava e
usciva dal tempio, usando la propria memoria fotografica per memorizzare tutte
quelle che le parevano sospette.
Verso le due del pomeriggio, quando Cane se n’era
già andato da un pezzo, Carmy notò qualcuno di strano avvicinarsi al tempio, la
stessa aria guardinga di padre Timur e il medesimo
fare sospettoso. Indossava anche lui il cappuccio del culto e non poté vederlo
bene, ma riuscì a scorgere un mento appuntito, dalle linee gentili, contornato
da un leggero accenno di barba.
Non doveva essere una persona benestante, i
suoi abiti erano piuttosto consumati, ma nonostante ciò Carmy intravide
qualcosa di luccicante e dall’aria preziosa al polso sinistro, forse un
bracciale o un orologio.
Seguì quell’individuo con lo sguardo fino a
che le fu possibile, e mentre lo vedeva avvicinarsi all’ingresso non riusciva a
decidersi su cosa dovesse fare; da una parte c’era l’ordine di limitarsi ad
osservare, dall’altra il desiderio di scoprire l’identità di quella figura che
il suo istinto percepiva come sospettosa.
Abbassò gli occhi, come a volersi sforzare di
prendere una decisione, e nel momento in cui li rialzò quel tipo si era già
defilato.
Carmy era presa a tal punto a domandarsi se
avesse fatto la cosa giusta ad esitare che quasi saltò sul sedile quando sentì
qualcuno battere delicatamente sul finestrino del passeggero. Si girò, già
pronta a coprire Cane di insulti per lo spavento che le aveva fatto prendere,
ma invece che del suo collega incrociò il volto di un giovane di bell’aspetto
che la guardava in modo gentile, capelli biondo paglierino a spazzola,
portamento rispettabile e un volto dai tratti marcati addolcito però da
seducenti occhi blu.
Indossava un giubbetto sportivo marrone scuro
dall’aria costosa, e portava al collo un bel pendente dalla forma indistinguibile,
simile al profilo di un leone.
«Mi scusi.» si affrettò a dire vedendo la
giovane che respirava profondamente «Non volevo spaventarla.»
«No, si figuri.» rispose Carmy abbassando il
finestrino
«È un agente della MAB?»
«Infatti».
Quel giovane uomo aveva un modo di fare molto
garbato, che colpì e in un certo qual modo affascinò Carmy, facendola
immediatamente calmare.
«Come mai si trova qui, agente? È forse
accaduto qualcosa? Sa, abito da queste parti.»
«Niente di serio.» preferì mentire lei dopo un
momento di esitazione «Solo una chiamata per dei disordini.»
«Capisco. Beh, meglio così. Ma è da sola?»
«Abbiamo ricevuto un’altra chiamata per un
incidente d’auto poco distante. Il mio collega è andato a controllare.»
«D’accordo. Allora, non la disturbo oltre. Buona
giornata.»
«Anche a lei».
Il giovane a quel punto se ne andò salutando
rispettosamente Carmy, e svoltato l’angolo si incamminò lungo l’ampio viale che
costituiva la principale arteria stradale del quartiere.
Regnava
una grande confusione sui marciapiedi, affollati anche più del solito, ma pur
seguitando a tenere gli occhi rivolti al selciato il giovane procedeva sicuro,
schivando agilmente la maggior parte di coloro che procedevano nella direzione
opposta.
In quello stesso momento Vyce stava procedendo
lungo la medesima strada, diretto alla locale caserma di polizia per chiedere
lumi di un recente aumento di casi EDA nella zona. Lui e il giovane si urtarono
all’ingresso della metropolitana, ma erano entrambi troppo presi dai propri
pensieri per prestarsi vicendevolmente attenzione.
«Chiedo scusa.» disse distrattamente il
capitano rivolto allo sconosciuto.
Solo qualche attimo dopo, con il senno di poi,
Vyce ebbe come una specie di presentimento.
Non aveva visto bene il volto della persona
che aveva urtato, anzi, non l’aveva visto per niente, ma gli era parso di
notare qualcosa, come un che di famigliare.
Un’espressione di stupore si materializzò sul
suo viso. Si immobilizzò, spalancando gli occhi, volgendosi subito alle proprie
spalle alla ricerca del misterioso sconosciuto, senza tuttavia riuscire a
scorgerlo.
Con l’espressione attonita e la bocca
impastata da una improvvisa assenza di saliva ridiscese nuovamente nella
metropolitana, gettando frettolosamente un occhio ad ogni volto che incrociava
ed aumentando sempre più il proprio passo, che divenne in breve vera e propria
corsa.
Stava passando per la zona dei negozi quando,
nuovamente, lo intravide, mescolato tra la folla come a non voler essere
individuato.
«Ehi tu!» lo chiamò, ma quello non si volse, né
diede segno di aver sentito, e allora Vyce riprese l’inseguimento «Aspetta!».
Di nuovo lo perse, e di nuovo incominciò a
cercarlo nella calca, seguendone di volta in volta la presenza eterea e quasi
sovrannaturale fin sui binari, dove tuttavia arrivò quando l’unico convoglio in
transito in quel momento aveva appena lasciato la stazione.
Vyce a quel punto rimase a lungo immobile,
come pietrificato, gli occhi persi nel vuoto e la mente in subbuglio.
Con il passare dei secondi si convinse sempre
più dell’infondatezza di ciò che aveva visto, eppure una parte di lui
continuava a dire che non si era sbagliato.
«No.» si disse infine «È impossibile.» e
tornò, seppur esitante, da dove era venuto.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Ve l’avevo
detto che stavolta non vi avrei fatti attendere.
Come avevo
promesso, chiusa la parentesi “visita di famiglia” siamo tornati ad occuparci
delle cose serie. Ora la trama và delineandosi nel vero senso della parola, e
non ci vorrà molto perché i nodi vengano al pettine.
Confesso che
nella prima bozza del capitolo Carmy e Vyce si sarebbero dovuti incontrare, ma
poi ho pensato che fosse troppo presto per far incontrare i due protagonisti e
così ho modificato il lavoro in corso d’opera. Spero che anche così risulti
verosimile.
A breve il
nuovo capitolo, stavolta quasi certamente incentrato per buona parte su Vyce,
Jake e Avalon.
«La
situazione mi è parsa abbastanza tranquilla.» disse Cane facendo il suo
rapporto «Spiantati e pochi di buono come se piovesse, ma niente che faccia
sospettare ad attività legate al commercio di droga.»
«Come era da prevedersi.» osservò mestamente
Lucas «Saranno anche pazzi infervorati, ma non sono di certo degli stupidi.
Almeno per quanto riguarda i capi della setta.»
«E comunque, quel posto mi è sembrato
decisamente troppo alla portata di chiunque per celare un segreto tanto
pericoloso. La gente andava e veniva senza problemi. Scommetto che avrebbero
lasciato entrare anche me. Non dava certo l’aria di un luogo a cui potevano
eccedere solo pochi privilegiati».
Carmy abbassò lo sguardo.
Forse si era sbagliata. Forse la sua
determinazione a voler dimostrare di essere degna dell’opportunità che le era
stata concessa l’aveva spinta ad eccessivi voli di fantasia, facendole vedere
cose che in realtà non esistevano.
«Comunque.» disse Cane quasi a voler gettare
acqua sul fuoco «È vero che molta della gente che frequenta quel posto non ha
l’aria molto raccomandabile. Potranno anche non essere signori della droga, ma
le mani in pasta in qualcosa di poco chiaro gli adepti della chiesa, o
quantomeno quelli che gravitano attorno a padre Timur,
ce le hanno di sicuro.»
«Se non altro.» disse Alexia mostrando un
documento sul suo apparecchio virtuale «Abbiamo l’autorizzazione del comandante
per un’indagine informale. Niente di che, ma almeno potremo muoverci
liberamente.
Comunque non mi aspetterei granché».
Carmy non riusciva a capire se l’atteggiamento
di Alexia e Lucas, così scettici e rinunciatari, fosse dettato da pura e
semplice schiettezza o da una sorta di determinazione a farle comprendere i
suoi errori. In quel momento solo Cane sembrava dalla sua parte, malgrado lo scetticismo
avesse sicuramente contagiato anche lui.
«In ogni caso, non saltiamo alle conclusioni.»
sentenziò il capitano «Prima di prendere qualunque decisione, cerchiamo di
condurre un’indagine seria.»
«Sono d’accordo.» commentò Cane «Dopotutto è
per questo che ci pagano».
«Quel
maledetto santone arrogante!» sbottò Tristano entrando nel salone della villa al
seguito di Valerian e andando a sedersi alla prima
poltrona libera
«Che è successo?» chiese Lancillotto
«Timur ha alzato il prezzo
di vendita.» spiegò Valerian «Ora vuole quattrocento kylis per ogni dose che ci fornisce.»
«Quattrocento kylis!?»
ripeté Gareth «È quasi il trenta per cento in più. È
forse impazzito?».
Tristano si attaccò ad una bottiglia di vino
nel tentativo, infruttuoso, di sbollire la rabbia.
«Avido bastardo. Forse dimentica che siamo
stati noi a dargli i mezzi per entrare nel mercato della lilith.»
«Purtroppo noi possiamo anche aver sviluppato
la droga.» osservò mestamente Percival «Ma i fondi
per avviare l’industria Timur li ha reperiti
trafugandoli dalle casse della sua setta. E se non colma l’ammanco quanto
prima, i priori lo sventreranno.»
«Magari lo facessero. Sarebbe la fine più
giusta per quel maledetto porco.»
«Non si tratta di uno scherzo.» incalzò Gareth, che era un po’ il cassiere del gruppo «Se dobbiamo
pagare così tanto per rifornirci di droga, poi saremo costretti ad alzare a
nostra volta il prezzo di vendita. E se lo alziamo troppo, i nostri compratori
andranno altrove.»
«Per non parlare del fatto che più della metà
delle dosi che acquistiamo vengono messe da parte per le nostre attività.»
puntualizzò Caradoc «Soldi che escono senza che ne
entrino altri.»
«Potremmo tagliare i ponti con Timur e arrangiarci per conto nostro.» ipotizzò
Lancillotto, pur consapevole di quanto ciò non fosse fattibile.
C’era una ragione se il gruppo aveva preferito
delegare ad altri la produzione della lilith, tenendo
per sé solo la semplice attività di spaccio.
La MAB dava la caccia ai signori della droga
molto più di quanto non la desse ai terroristi, pertanto si trattava di un
business troppo pericoloso per chi come loro aveva la necessità di attirare
meno attenzione possibile.
«Non abbiamo altra scelta che accontentarlo.»
fu l’unica conclusione di Valerian
«Ma così andremo in rosso.» tentò di protestare
Caradoc
«Ho ancora i fondi segreti della mia famiglia.
Useremo quelli.»
«Sarai povero in canna entro un anno.»
commentò Percival
«I soldi non sono un problema. E comunque, se
il nostro piano avrà successo, non servirà tutto questo tempo».
Owain sembrava
fuori dalla conversazione. Restava seduto al suo solido divanetto, il gomito
poggiato sul bracciolo e la testa sorretta dal pugno semichiuso, come
soprapensiero.
Anche lui aveva accompagnato Valerian e Tristano all’incontro richiesto da Timur, ma era stato lasciato fuori, a fare la guardia.
«Qualcosa non và?» gli chiese Valerian
«No, niente.» rispose lui con uno strano
sorriso «Ripensavo ad un vecchio amico».
Quando
aveva lasciato la divisa, che non aveva mai sentito adatta a sé, per dedicarsi
alla politica, il giovane ex senatore ConnorFujitaka non immaginava neanche lontanamente un giorno
sarebbe giunto a sedere sullo scranno più alto della sua nazione.
Prima di lui mai Caldesia aveva avuto un
presidente sotto i quarantacinque anni.
Dopo quasi vent’anni di dominio conservatore
il popolo aveva scelto di percorrere la strada del cambiamento, decidendo di
dare fiducia a quel giovane politico sbucato dal nulla, senza pedigree, ma
testardo quanto bastava per sparare a zero nei suoi comizi su alcuni dei dogmi
ritenuti più inviolabili della politica caldesiana
senza curarsi delle conseguenze.
Non era un ingenuo.
Sapeva quanto governare Caldesia non fosse un
compito facile. Tra la MAB, un esercito pieno di nazionalisti, un predominio
internazionale che ne faceva talvolta una scomoda alleata, Caldesia era una
nazione spaccata sotto molti aspetti.
Secondo la stampa era proprio per questo che i
conservatori avevano perso. Perché alla lunga non erano stati capaci di
ragionare in un’ottica moderna, seguitando a tenere un atteggiamento freddo con
la MAB e imperioso nei confronti delle nazioni alleate, nel tentativo di
ribadire la sovranità nazionale e, nonostante tutto, il ruolo di Caldesia come
guida del blocco filo-agenzia.
Tuttavia non era ipotizzabile un governo
stabile e duraturo per la Repubblica dei Gigli senza l’appoggio dell’esercito e
una dichiarazione di amicizia coi conservatori moderati, e così Fujitaka aveva scelto di includere due militari e due
membri dei moderati nel suo esecutivo, che ora, a due settimane dalla nomina
ufficiale, si preparava ad annunciare.
Era teso mentre attendeva il via libera dei
tecnici per la presentazione, e continuava a sfiorare con il dito l’asticella
degli occhiali camminando avanti e indietro per la biblioteca del palazzo
presidenziale.
«Non essere così nervoso.» gli disse Ingrid,
la sua giovane assistente, sistemandogli la cravatta «Eri quasi più calmo prima
del giuramento da presidente.»
«Chi l’avrebbe mai immaginato che un giorno mi
sarei rivolto in diretta all’intera nazione?» disse tremando per l’emozione «È
incredibile. Non riesco a far cessare questo tremore. Mi sento come uno studente
impreparato il giorno dell’esame.»
«Tu sei preparato. Il più preparato di tutti.
Altrimenti non saresti arrivato qui».
Rincuorato da quelle parole Connor riuscì a calmarsi, o perlomeno a smettere di
tremare.
Strinse amorevolmente la mano di Ingrid nelle
sue, guardandola come il giorno in cui le aveva chiesto di sposarlo, e
avvertendo nell’animo lo stesso calore che aveva provato quando si era visto
rispondere con un imbarazzato ma felice cenno di assenso.
«Grazie per essermi rimasta vicina per tutto
questo tempo.»
«Io ho sempre creduto in te.» disse lei con lo
stesso tono gentile «Sia come assistente che come moglie. Questa nazione e
questo pianeta hanno molte cose da sistemare, e tu sei l’unico che possa
riuscirci.»
«Sei davvero sicura che ci riuscirò?».
Lei sorrise.
«Ti ricordi quando hai cominciato la tua
carriera politica? Avevi solo una stanza d’appartamento, un computer e tante
idee. Un poco alla volta quelle idee si sono trasformate in azioni, e con i
tuoi discorsi appassionati hai conquistato il cuore di intere regioni. La gente
ha creduto in te perché in te ha visto quel cambiamento che tanto desiderano.»
«Stai sbagliato.» le disse baciandola sulla
guancia «Avevo anche te quando ho cominciato. E non credo che sarei arrivato
fino a qui senza il tuo sostegno e il tuo appoggio.»
«Intendi morale o materiale?» ammiccò Ingrid
«Dopotutto è stata la mia famiglia a pagare buona parte delle spese per la tua
campagna elettorale».
Non vi era malizia in quel commento, pertanto Connor non se la prese, anche perché in fin dei conti era
la verità. Un umile figlio di piccoli imprenditori come lui non si sarebbe mai
potuto permettere una corsa per la poltrona di presidente, non senza un
generoso finanziatore alle spalle. Sotto questo aspetto, conoscere Ingrid
durante uno dei suoi tanti comizi di quartiere era stato come vincere alla
lotteria.
«Dovrò ricordarmi di ringraziare di nuovo tuo
padre.» sorrise divertito il giovane presidente
Di nuovo si baciarono, un bacio pieno d’amore,
interrotto al culmine della passione da un inopportuno bussare alla porta.
«Signor presidente.» disse un tecnico
scostando leggermente il battente «Siamo pronti.»
«Molto bene.» balbettò lui.
Per un attimo sentì nuovamente montare l’ansia,
ma gli bastò guardare nuovamente negli occhi la moglie per ritrovare la calma.
«Ci siamo.» disse sospirando.
Con Ingrid al seguito, Connor
percorse i corridoi del palazzo fino alla stanza dorata, dove i tecnici avevano
finito di montare gli apparecchi di registrazione. Giusto il tempo di
sistemarsi un’ultima volta la cravatta e farsi asciugare il sudore, quindi si
sedette alla sua nuova scrivania, rivolgendo un’ultima occhiata sorridente alla
moglie prima di posare il proprio sguardo dritto in macchina.
«È tutto pronto signor presidente.» disse il
regista facendo un cenno «In onda fra tre, due, uno…».
Le luci si abbassarono, quelle della
telecamera si accesero, e un istante dopo l’ologramma di ConnorFujitaka, neoeletto presidente della Repubblica di
Caldesia, compariva nelle case di tutti i suoi concittadini.
«Buonasera, cittadini di Caldesia».
Il
generale Rex Hetworth aprì il portasigari dalla sua
scrivania, recuperandone uno ed offrendone anche al suo poco gradito ospite,
che tuttavia declinò rispettosamente.
In quanto alto ufficiale dell’esercito caldesiano il suo compito era proteggere e amministrare la
sicurezza nazionale, ma come neonato ministro della difesa del governo da poco
eletto alla guida del Paese aveva anche il dovere di garantire buoni rapporti
sia tra Caldesia e le altre nazioni sia tra Caldesia e l’alto comando della
MAB.
Poche persone a Caldesia erano ostili al
sistema di governo che reggeva la politica internazionale quanto lui, ma se da
una parte deprecava l’eccessiva influenza della MAB nella politica di varie
nazioni, e della sua in particolare, dall’altra non poteva tollerare chi usava
il terrorismo per cercare di cambiare il sistema.
A volte era davvero difficile capire cosa gli
andasse meno a genio, se gli atteggiamenti autoritari della MAB o quelli
sovversivi dei terroristi come Avalon.
«Allora?» chiese avvicinando un fiammifero
alla punta del sigaro «A cosa devo il piacere di questa visita, ammiraglio
Forrest? Se non sbaglio era da un pezzo che non ti si vedeva in città.»
«Vediamo di evitare la cortesia forzata, Rex.»
rispose asciutta Constance «Io non piaccio a te, e tu
non piaci a me. Questo è evidente. Sono qui solo perché Fujitaka
me lo ha chiesto».
Il generale rise sotto i pasciuti e ben curati
baffi marroni.
«Che gran bel presidente ci ritroviamo. Visto
che non ha abbastanza spina dorsale per venirmi a parlare di persona, ha
incaricato la sua vecchia amica e istruttrice di venire a farlo per lui.
Dopo tutti questi anni, ancora non ti sei
stancata di fargli da segretaria?»
«Modera i toni, Rex. Fujitaka
non è più il ragazzino ingenuo e remissivo che hai avuto sotto di te
nell’esercito. Ora è il presidente di questa nazione, e ti ricordo che è per
merito suo se ora poggi le tue grosse e tronfie natiche su quella poltrona.»
«Un soldato che sceglie il congedo anticipato
per trasformarsi in un politico non avrà mai il mio rispetto. Questa poltrona
prima o dopo l’avrei ottenuta comunque, con lui o con qualunque altro
presidente.»
«Ma ora sei ministro. E sia come ministro che
come soldato, lui è il tuo superiore. E questo ti obbliga a tenere un certo
tipo di condotta, che ti piaccia o no.»
«Vieni al sodo. Questo discorso inizia ad
andare per le lunghe.»
«Come vuoi. Allora la farò breve. Devi darci
un taglio col tuo metterti in mostra».
Lo sguardo ironico del generale fu più che
eloquente. Aveva capito benissimo di cosa si stesse parlando, ma ciò
nonostante,e a scanso di equivoci, Constance volle
essere il più chiara possibile.
«I tuoi proclami oltranzisti sono stati
tollerati fino a questo momento in virtù del prestigio di cui godi tuttora
nell’esercito, ma ora che sei ministro sarebbe il caso di moderare i toni».
Seguì un silenzio lungo e teso. Il generale
non aveva mai fatto mistero a proposito della sua linea di pensiero riguardo a
quelli che riteneva i difetti della società, intervenendo spesso in dibattiti e
occasioni pubbliche, ma fino a quando a parlare era un militare la cosa poteva
anche risultare accettabile.
Le forze armate caldesiane
d’altro canto non erano mai state troppo accomodanti con la MAB, ma da un
politico, e soprattutto da un ministro, ci si aspettava un atteggiamento più
consono e propenso alla tolleranza.
«Caldesia non può permettersi un nemico come
il Bureau, e tu lo sai.» lo provocò l’ammiraglio «Non in questo momento».
Di nuovo ci fu silenzio, quindi Rex schiacciò
il sigaro ancora mezzo intatto nel posacenere accanto allo scrittoio sibilando
tra i denti.
«Mi state tappando la bocca.»
«Ti sto chiedendo di pensare sul serio al
benessere del tuo Paese. Sei diventato ministro perché il presidente voleva
mandare un segno di distensione al Bureau e al resto della coalizione
internazionale che lo sostiene.» quindi Constance
sorrise beffarda «Hai tutto da guadagnarci a startene buono, e a favorire una
pacifica collaborazione tra il governo e la MAB.
C’è tanta gente vicina al presidente a cui non
importa nulla di tenere buoni rapporti con l’elite militare.
Se per qualche motivo Connor
dovesse trovarsi nei guai con l’agenzia, che la causa di tutto sia tu o meno la
prima testa a saltare sarà la tua.
Chiaro il concetto?»
«D’accordo.» soffiò dopo qualche attimo il
generale «Per il momento me ne starò tranquillo. Ma non contate di potermi
tenere imbavagliato per sempre.»
«Per il momento questo mi basta.» replicò Constance col solito tono fortemente ironico «Ma ricordati
bene che ti terrò sempre d’occhio.»
«Anche tu faresti meglio a ricordarti una
cosa.» le rispose per le rime Rex, con negli occhi la più ceca determinazione
«Come soldato mi sono sempre sentito in dovere di proteggere il mio Paese, e da
ministro quel sentimento è diventato se possibile ancora più forte.
Se avrò il sentore che chiunque, inclusa la
MAB, rappresenti una minaccia per Cladesia e i suoi
cittadini, non esiterò ad agire di conseguenza».
Nota
dell’Autore
Rieccomi!
In questi
giorni vado veramente come un treno.
Tempo
libero, ispirazione ed estasi creativa sono dalla mia parte, e mi portano a
scrivere per ore senza fermarmi mai.
Ma
passiamo al nuovo capitolo.
Finalmente
ci siamo.
Con l’ingresso
sulla scena del presidente Fujitaka e del generale Hetworth tutti i personaggi della storia sono sulla scena,
e la vicenda può iniziare a delinearsi finalmente in tutti i suoi aspetti.
Entrambi
questi nuovi personaggi andranno un po’ in sordina per qualche tempo, per poi
tuttavia arrivare a giocare un ruolo sempre più importante man mano che ci
avvicineremo al finale.
Grazie
come sempre a chi legge questa mia storia, e mi raccomando.
La tradizione prevedeva che
la domenica successiva alla nomina ufficiale del nuovo governo di Caldesia questo venisse presentato
alla nazione nel corso di un ricevimento da tenersi all’Hotel Gardenia, trenta
miglia a ovest di Kyrador. Un avveniristico edificio
il cui fiore all’occhiello era il salone dei ricevimenti, realizzato
interamente in vetro e cristallo ed elegantemente poggiato lungo tutta la
superficie occidentale del lago di Bayris.
Tutta la
nobiltà, l’alta politica e le forze armate di Caldesia
e non solo, per un giorno, concentrati in un immerso salone che emergeva come
per incanto dall’acqua del lago nella quiete e nell’amenità della campagna caldesiana.
Con la
benedizione di un piacevole sole di inizio estate, e
di un caldo reso decisamente sopportabile dalla piacevole brezza che scendeva
dalle montagne, anche quella volta la tradizione era stata rispettata, e
delegati di quasi ogni nazione erano accorsi per conoscere il primo presidente
progressista di Caldesia da un ventennio a quella
parte e la squadra di ministri che lo avrebbero accompagnato per i successivi
quattro anni.
Il
presidente Fujitaka sembrava essersi immediatamente
calato nel proprio ruolo. Parlava con scioltezza, rispondendo colpo su colpo
alle domande dei giornalisti e degli invitati, alcuni dei
quali sembravano non aspettare altro che un suo passo falso per
chiederne conto, sempre con accanto la sua fedele consorte.
Da
lontano, l’ammiraglio Forrest lo seguiva con lo sguardo, indifferente alle
discussioni del piccolo gruppo di alti ufficiali nel quale era finita a fare
conversazione. Aveva visto crescere quel ragazzo e aveva creduto nelle sue
potenzialità, al punto da finanziare la sua campagna elettorale, e anche se era
ingiusto pensare che lo avesse fatto per tornaconto personale una punta di
ambizione vi era comunque.
Dopo
tanti anni di isolamento cominciava a sentire la
mancanza degli ambienti in cui aveva nuotato per decenni, e Fujitaka
poteva essere il mezzo ideale per tornare a rivestire una posizione che la
rendesse capace di contribuire nuovamente al benessere del suo Paese.
«Signor presidente.» domandò un giornalista «Voi avete fatto
della ridiscussione dello statuto in materia di stregoneria uno dei pilastri
della sua campagna elettorale. È ancora determinato a proseguire per questa
strada?»
«Assolutamente.
Come primo provvedimento del mio mandato, ho intenzione di proporre una
profonda revisione delle leggi magiche e del codice
sulla stregoneria.»
«Ma le
leggi sulla stregoneria sono legate a vincoli internazionali.» obiettò un
inviato di un’altra rete
«Non tutte.
Dei cambiamenti possono essere fatti senza dover per forza ottenere
l’autorizzazione delle Nazioni Unite. È mia intenzione partire da questo, nella
speranza che ciò possa spronare anche gli altri capi di stato e di governo a
rivedere in toto il codice legislativo internazionale.»
«Ma non crede
che ciò potrebbe essere rischioso? Dopotutto l’attuale codice è supportato e
approvato anche da esponenti influenti del suo partito.»
«Questo
codice sulla stregoneria è vecchio di quasi trent’anni. Alcuni elementi
risalgono addirittura al primo secolo della nostra storia. Sono convinto che
sia giunto il momento di aggiornarlo. Gli incidenti di quest’ultimo periodo
dovrebbero fare riflettere, e spingerci a capire che questa è la cosa più
giusta da fare.»
«Crede
sul serio di poterci riuscire?»
«Di
sicuro farò tutto quanto è in mio potere per adempiere a
questa promessa. Sarà un cammino molto lungo e difficile, perché come avete
fatto notare anche voi i problemi non mancano, ma io credo
che con la giusta determinazione e volontà ci si potrà riuscire».
Dopo
poco i giornalisti se ne andarono a cercare qualcun altro da sommergere di
domande, lasciando finalmente Connor libero di
godersi il ricevimento. Ma era destino che non potesse
farlo a lungo.
«Non
sarà facile far approvare un simile disegno di legge.» disse Constance raggiungendolo al tavolo degli antipasti «Non
senza scontentare parecchia gente.»
«Ne sono
consapevole.» rispose calmo Fujitaka«Ma è necessario. Non possiamo permettere al motore
indispensabile della nostra esistenza di funzionare ed essere regolamentato con
i criteri di mezzo secolo fa.
Il mondo
cambia, si evolve, e noi dobbiamo cambiare con lui.»
«Eppure
c’è chi trova questo mondo e ciò che lo regola felice ed
appagante così com’è. Questa gente non vedrà di buon occhio i cambiamenti di
cui parli, e farà di tutto per impedirti di realizzarli.»
«Io agirò nel
modo che ritengo più giusto. E sei poi mi accorgerò di aver fatto un errore, o
di aver agito incautamente, me ne assumerò la piena responsabilità».
Si
guardarono, e Constance non riuscì a trattenere un
sorrisino di compiacimento.
«Grazie per
aver parlato al generale. Non credo che a me avrebbe dato retta.» disse Fujitaka
«Stento quasi
a riconoscerti. Fino a pochi anni fa eri un ragazzino spaurito gettato a forza
in un mondo più grande di te, e guardati adesso. Presidente di una nazione.»
«Devo a lei
parte del merito, ammiraglio. I suoi consigli e il suo appoggio sono stati
indispensabili per permettermi di arrivare dove sono ora, e non lo
dimenticherò.»
«Non
perdiamoci in cerimonie. E poi ormai questo tuo atteggiamento è fuori luogo.
Ora sono io ad essere alle tue dipendenze.»
«Le cose
tra noi due sono rimaste esattamente le stesse.»
rispose divertito Fujitaka «Per quanto io possa
arrivare in alto lei sarà sempre il mio ufficiale in comando, e io il suo
attendente in cerca di consiglio».
Poi, il
presidente fece una pausa, si guardò attorno e si avvicinò un po’ di più,
abbassando ulteriormente il tono della voce.
«E con tutto
il rispetto, vorrei che continuasse ad essere così».
Constance gli
lanciò uno sguardo di complicità, avvicinandosi a sua volta.
«Mi creda,
avrei voluto proporla per un incarico ufficiale. Ma sa
come funziona in politica.»
«Sì, lo so. È
già dura per questi burocrati conservatori dover accettare dei militari nei
palazzi della politica, figuriamoci un ex ammiraglio
congedato che si è fatto nemici in entrambi gli schieramenti. Sarebbe sembrato
un atto di sfida, e in questo momento ciò che serve di più al Paese è la stabilità.»
«Vedo che ha
colpito nel segno. Ma questo non significa che farò a
meno dei suoi consigli. Ciò che hai fatto con il generale per placare i suoi
bollori mi ha dato la prova che posso fidarmi di lei.
Quindi, se per lei non è un problema, vorrei che continuasse ad
essere il mio consigliere, almeno in via ufficiosa.»
«Signor presidente.» rispose l’ammiraglio dopo un attimo di
riflessione «Se posso fare qualcosa, qualunque cosa, per portare prosperità al
mio Paese e servirlo degnamente, sarò felice di dare il mio contributo.»
«La ringrazio, ammiraglio. Grazie davvero».
Poi, Constance ammiccò enigmatica.
«Proprio
perché mi considera un consigliere, mi permette di parlare con franchezza?»
«Ovviamente.»
«Tu lo sai,
vero, che non ci riuscirai? Lo sai che non riuscirai a far passare questa
legge?».
Connor si accogliò, ma non rispose.
«Troppe
persone sono soddisfatte dell’equilibrio attuale su cui poggiano lo studio e
l’utilizzo della magia. Persone influenti. E troppi interessi ci sono in gioco.
I tuoi
stessi colleghi di partito sono scettici. Questa cosa ti brucerà. Sarai già
fortunato se riuscirai ad arrivare indenne alla fine del tuo mandato».
Di nuovo
vi fu silenzio, e per un attimo il vociare ininterrotto che li circondava
sembrò quasi scomparire, lasciando maestra e allievo soli al
mondo ad affrontare la loro sfida.
«Guardati
attorno.» disse Fujitaka «Che cosa vedi?».
Constance
obbedì, e quasi subito rispose.
«Un mare di
squali voraci e saprofagi, che ti girano attorno aspettando solo il momento
buono in cui potranno azzannare la tua carcassa. Certo, c’è anche qualche pesce
rosso che ti somiglia, ma è probabile che farà la tua stessa fine.»
«Non è quello
che vedo io. Non solo almeno».
Il
presidente indicò verso l’ingresso del salone. Oltre il colonnato, sulla
terraferma, il cordone di sicurezza montava la guardia a protezione del
ricevimento, più folto e armato del solito.
«Questo
Paese, anzi questo mondo, ha qualcosa di profondamente sbagliato. La magia è
alla base della nostra stessa sopravvivenza, ma finora ce ne siamo sempre
serviti in modo troppo avventato. E i risultati si sono visti. La magia è
qualcosa che và controllato, altrimenti i suoi effetti
possono rivelarsi catastrofici. È stato proprio a causa della nostra incapacità
di comprendere tutto questo che siamo arrivati a questa situazione.
Non dico
che la magia sia un male, dico solo che bisogna rivedere il nostro modo di
servircene. L’abbiamo data per scontata per troppo tempo. È come un bambino che
gioca con il fuoco. Non devi aspettare che si scotti per fargli capire che è
pericoloso.»
«Però.»
disse Constance quasi rassegnata «A volte è l’unico
modo per farglielo capire.»
«Direi
che ci siamo scottati anche troppo, non le pare? Tutti
questi incidenti, e questo clima di perenne tensione. Un genitore che
accompagna il figlio al parco divertimenti non deve avere paura che il bimbo
possa vedere qualcosa che lo traumatizzerà a vita. Un uomo non può recarsi in
ufficio senza sapere se riuscirà a tornare a casa la sera.»
«Potrebbe
anche avere un incidente d’auto, o cadere dalle scale.» ironizzò la donna «La magia ha i suoi rischi, come qualsiasi altra cosa. Il
rischio fa parte del gioco.»
«E allora
dobbiamo cercare di renderlo il più sicuro possibile, questo gioco. Di ridurre
al minimo i rischi. E poi, non possiamo negare che ci siano persone che hanno
usato la magia e le sue potenzialità al solo scopo di accrescere il proprio
potere e la propria influenza, e questo non và bene.
Per come la vedo io, dare nuove regole alla diffusione della magia è il primo
passo per cambiare in meglio questo nostro mondo.»
«Sei
sempre stato un idealista, Connor.» sospirò Constance abbozzando un sorriso «Ma
guardandoti mi viene da pensare che forse una possibilità, anche minima,
potresti avercela. E pertanto, sarò felice di darti il mio aiuto.»
«La ringrazio
infinitamente. Ne avrò bisogno.»
«E voglia il
cielo che tu non debba scottarti per davvero. Sarebbe molto doloroso, temo».
Buio, assoluto, impalpabile, ma avvolgente quanto una coltre ben distesa in
inverno.
Ombre
sfocate ed indistinguibili gli passavano davanti
scomposte come i fotogrammi di una pellicola riavvolta malamente, in un
concerto impazzito di grida umane e disumane, che sembrava eseguito da un
quartetto di strumentisti privi di spartito e raziocinio.
In quel
mare di eterno caos, spalancò gli occhi, cercando disperatamente di scrutare lo
spazio circostante.
Le
pallottole rimbalzavano ovunque come una folata gelida, impedendogli di
pensare.
Là, da
qualche parte nella sua testa, qualcosa pulsava dolorosamente, e un generale
torpore infiacchiva le membra, pesanti come un ammasso di metallo.
Inspirò
a fatica, I polmoni affaticati da chissà che cosa.
Dovevano
essere soldati a giudicare dalla divisa comune, quelli che scappavano in ogni
direzione come un formicaio impazzito.
"Sparate,
sparate!" Gli giunse ad un certo punto.
Sullo
sfondo di quel teatro di marionette malate, esseri rivoltanti avanzavamo a gran velocità, facendo scempio tutto quello che
si metteva davanti a loro.
Altri abomini, di dimensioni ridotte ma ugualmente spaventosi,
simili a grossi cani a sei zampe, che galoppando in ogni direzione, azzannavano
e dilaniavano chiunque incontrassero.
Impotente,Una ad una vide quelle vite spegnersi con la stessa
facilità di una piccola fiamma in balia del vento.
Ne
rimase uno, ancora più sfocato e indistinguibile degli altri, che urlava nella
sua direzione, senza che lui riuscisse ad afferrare ciò che diceva.
Indicava
lui, o qualcosa alle sue spalle.
Con un
colpo di reni e volontà si volse, pesante come un massiccio innevato, e
l'ultimo, tremendo atto di quel dramma senza copione fu un'ombra priva di
contorni piombargli addosso, facendo ricadere ogni cosa ancora una volta nel
buio, seguito da un altro, interminabile dolore.
Vyce scattò in piedi, la bocca spalancata in
modo quasi innaturale e gli occhi fuori dalle orbite, tanto da venire momentaneamente accecati dai pochi raggi di luce che
filtravano dalle tapparelle chiuse.
Le
coperte del letto erano fradice di sudore, i capelli anche più spettinati del
solito, e per quanto ci provasse non riusciva a farsi
passare il tremendo fiato corto che gli mozzava il respiro.
Più che
un incubo, era un tormento.
Da anni
ormai quei fantasmi non gli davano tregua, tormentandolo giorno e notte,
sussurrandogli ininterrottamente nell’orecchio tanto nel sonno quanto nella
veglia.
Non
sapeva cosa desiderare maggiormente, se la loro sparizione o il poterli vedere
con maggiore nitidezza, tramutandoli in immagini vere, distinguibili, che lo
rendessero finalmente capace di guardare negli occhi il suo peccato.
Era la
punizione peggiore per un soldato.
Sapere di essere stato lì, di avere avuto quelle colpe, ma non
riuscire a ricordarsene in alcun modo.
Tutto
quello che aveva erano quei frammenti, immagini
sfocate e senza senso che forse mai sarebbero andate al loro posto.
Si passò
una mano sul viso nel tentativo di riprendersi, portando con un gesto i capelli
umidi dalla fronte alla sommità della testa.
Come soldato
sapeva che quella era una reazione naturale, una risposta della sua mente ad un evento che cercava allo stesso tempo di recuperare e
di cancellare, ma il fatto che tutto ciò fosse ripreso improvvisamente negli
ultimi giorni dopo un lungo periodo di apparente calma lo inquietò
profondamente.
In ogni
caso, non poteva permettere ai suoi fantasmi di avere il sopravvento, o la sua
professionalità ne avrebbe risentito.
Cercando
di non pensarci si alzò dal letto, si preparò ed uscì
anche più presto del solito, raggiungendo i campi di allenamento attigui al
quartier generale ben prima dell’ora tradizionale di arrivo delle reclute.
«Era ora
che arrivaste, massa di sfaticati!» sbraitò contro i cadetti quando questi si
presentarono all’appello alla solita ora «Lo sapete quanto è che vi sto
aspettando?».
Nessuno protestò,
come era naturale, ma tutti bene o male compresero che
il capitano doveva essersi svegliato decisamente con la luna storta: aveva l’espressione
stanca, le borse sotto agli occhi ed era insolitamente pallido.
«E ora
forza, cominciate a correre!»
«Per
quanti giri, signore?» chiese, con il dovuto rispetto Leonard, il capo squadriglia
«Per tutti
quelli che dirò io! Muovetevi!».
Quelli obbedirono,
fiduciosi nel giudizio e nell’operato del proprio
addestratore, che mai una volta aveva dato motivo per voler dubitare di lui e
del suo attaccamento alle reclute, ma quasi subito ci si accorse che quella
mattina qualcosa decisamente non andava.
Oltre ad
essere stanco Vyce era anche visibilmente nervoso,
seguitava ad ingiuriare e provocare i suoi ragazzi con
epiteti poco cortesi e a volte denigratori, e dopo oltre dieci giri completi
della pista non sembrava ancora intenzionato a farli fermare.
«Alte quelle
gambe! E metteteci un po’ di grinta! Una volta là fuori la velocità vi servirà
per sopravvivere!».
Solo al
ventunesimo giro, ringraziando il cielo, Vyce comandò
l’alt, ma a differenza delle altre volte la sua reazione, vedendo alcuni dei
cadetti più giovani crollare al suolo senza fiato, fu assai più scomposta del
solito.
«Cos’è, siete
già stanchi? Abbiamo appena iniziato! In piedi!».
Jake stava iniziando a sentirsi sempre più a
suo agio all’interno della squadra.
Dopo la
sua bella prestazione nel corso della sua prima operazione sul campo Ruth e gli
altri avevano iniziato a considerarlo sempre più come uno di loro.
Persino Dylan,
passata l’arrabbiatura iniziale per essere stato salvato proprio da lui, con il
tempo aveva iniziato a cambiare atteggiamento, e anche se i due non perdevano
mai occasione per punzecchiarsi a vicenda la stima che nutrivano
l’uno nell’altro si era notevolmente accresciuto.
Da parte
sua Jake non aveva abbandonato per nulla i propri
iniziali propositi, e contava febbrilmente i giorni che mancavano al suo
prossimo esame abilitativo, la sua nuova occasione per poter
aspirare ad un proprio comando.
Madison
si era affezionato molto a lui, forse perché in lui,
come altri, vedeva la parte migliore dell’Agenzia, e una volta di più lo aveva
preso sotto la sua protezione. Tutte le mattine di buon’ora, prima dell’entrata
in servizio, entrambi si recavano al campo di addestramento numero
tre, quello riservato alle squadre operative, per fare pratica nel
combattimento e nelle armi.
Malgrado l’età
il vecchio capitano era ancora agile come uno scolaretto, e l’esperienza non
gli faceva difetto, tanto che dopo due mesi Jake non
era ancora riuscito a batterlo neanche una volta in nessuna delle discipline.
Quella mattina
era stato il turno della lotta con i bastoni, per affinare agilità e riflessi,
e come tutte le altre volte il risultato per Jake si era tradotto in una sonora ripassata.
«È tutto
inutile.» disse dopo aver rimediato uno schiaffone allo zigomo ed essere
rovinato sul tappeto gommoso «Non c’è speranza che io ti batta.»
«Sciocchezze.»
sorrise Madison aiutandolo a rialzarsi «Stai
migliorando. Mi ci sono voluti molti più scambi dell’ultima volta per farti
desistere.»
«Ma al tappeto ci sono finito comunque.»
«In certi
casi talvolta è molto meglio perdere. Ti fa capire i tuoi limiti».
Un concetto
che fino a poco tempo prima Jake avrebbe rifiutato a
priori, ma che ora non gli sembrava più così sbagliato.
In fin
dei conti, come gli era sempre stato insegnato in
accademia, la crescita era data dall’esperienza.
«Avanti
ragazzo, ricomponiti. Il nostro turno inizia tra mezz’ora. Infilati sotto una
doccia e fai un salto in infermeria per far
controllare quel livido. Tra trenta minuti ti voglio
pronto a prendere servizio.»
«Sarà
fatto, capitano».
Mentre Jake si rimetteva in sesto Madison, come da tradizione, si
diresse al bar per concedersi un buon caffè prima di iniziare la giornata, ma
ciò che vide passando davanti al campo di addestramento principale lo lasciò
sbigottito.
Delle oltre
venti reclute affidate a Vyce, oltre la metà erano a
terra ai margini della griglia di simulazione virtuale, piegati in due dal
dolore o dalla fatica, i rimanenti invece sembravano sul punto di crollare a
loro volta sotto la spinta martellante del loro
istruttore, che non smetteva un momento di spronarli aumentando sempre più la
velocità e la frequenza delle sfere di luce che come schegge impazzite volavano
in ogni direzione tutto attorno a loro.
«Più
forza in quegli scatti, avanti!» continuava a ripetere Vyce
«E riflessi pronti!».
Quei poveretti
erano ormai allo stremo, ma per quanti ne crollassero
il capitano non sembrava avere intenzione di fermarsi, quasi si trattasse di un
sadico gioco di sopravvivenza per scoprire chi fosse durato di più.
Poi,
quando a crollare fu Leonard, la reazione di Vyce fu a dir poco esagerata, al punto che lo stesso
Madison faticò a capacitarsene.
«Proprio
tu, maledetto incapace?» sbraitò fermando tutto e gettandosi dentro la griglia circolare rosso di rabbia
«Mi… mi
dispiace signore.» mugolò il poveretto con lo stomaco quasi aperto in due dal
globo preso in pieno
«Tu devi
diventare caposquadra! Avrai le loro vite nelle tue mani! Il tuo compito è
essere d’esempio per tutti! E invece che fai, crolli
anche tu? Sei inqualificabile!»
«La
prego di perdonarmi.»
«Forse è il
caso che tu te ne vada subito! Con queste prestazioni te lo sogni che io dia la
mia approvazione per farti avere una squadra! E comunque, non vorrei essere nei
panni dei disgraziati che avranno la sfortuna di essere al tuo comando!».
Vyce sembrava
sul punto di sollevare a forza Leonard per schiaffeggiarlo come un figlio
disubbidiente, ma nell’istante in cui, forse senza volerlo, alzò la mano come a
voler iniziare la tempesta di ceffoni, la mano
imponente e muscolosa di Madison afferrò con forza il suo polso.
«Adesso
basta, ragazzo.» gli disse molto severamente il suo vecchio istruttore «Direi
che così è più che sufficiente.»
«Tu
pensa agli affari tuoi.» soffiò Vyce con gli occhi sbarrati
«C’è
qualcosa che non và in te Vyce.
Dammi retta, prenditi una giornata. È chiaro che ne hai bisogno.»
«Decido io
quando ho bisogno di una paura. Questi sono i miei cadetti.»
«Non lo
saranno più di questo passo. Ti avverto, un’altra
parola e farò rapporto al direttore».
I due si
guardarono in cagnesco, come belve feroci in procinto di saltarsi addosso, poi Vyce, digrignando i denti per la rabbia, ritrasse
violentemente il braccio. In quel momento, per un attimo, a Madison parve quasi
di notare delle lacrime nei suoi occhi.
«Per oggi
basta così! Potete andare!» e lasciò quasi scappando
il campo d’addestramento.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Non c’è che dire,
in questi giorni vado come un treno.
Avevo promesso
che il prossimo capitolo sarebbe stato dedicato tutto o quasi a Vyce e Jake, e come potete vedere ho mantenuto la mia promessa.
Adesso e per un po’
il ritmo sarà abbastanza altalenante, ora serrato ora
maggiormente pacato e riflessivo, almeno fino all’inizio di una nuova “sequenza
famigliare” con protagonista Carmy che farà da
secondo spartiacque e precluderà ad un veloce crescendo degli eventi.
Grazie come
sempre a chi legge e recensisce.
A presto!^_^
Carlos Olivera
Ps. Avevo parlato di una sorpresa, ebbene
eccola qui. Un mio carissimo amico e compagno di allenamento, venuto a sapere
di questa storia, ha voluto realizzare un fan trailer per farla conoscere anche
al di fuori di EFP. Potete trovarlo sul blog, sulla fanpage di FB e su youtube a
questo indirizzo.
Kyrador, tra i suoi vari soprannomi, aveva quello
di Città dei Nove Distretti, dal numero di zone in cui, escludendo l’Acropoli,
l’immaginario forte ottagonale a due livelli che circondava gli uffici
amministrativi e i palazzi del potere, era suddivisa.
Ogni
distretto aveva un numero variabile di quartieri, e ognuno era concepito come
una sorta di città nella città, autonomo dal punto di vista dei servizi e
dell’approvvigionamento energetico.
Osservando
la città dall’alto con gli occhi di un’aquila, i Nove Distretti apparivano in
tutta la loro nitidezza, organi separati che, sotto la supervisione e la guida
dell’Acropoli, andavano a formare il più perfetto dei corpi. Ognuno aveva una
propria anima ed una propria forma unica nel suo
genere, con le imponenti arterie sopraelevate a fungere da immaginarie linee di
confine, possenti tracciati che nello stesso tempo separavano e univano come
vasi sanguigni gli organi di Kyrador, seguitando a
tenerli uniti pur lasciando ad ognuno la propria unicità.
Con
l’esclusione dei cantieri navali di Harris Island, più ci si allontanava dalla
costa più i palazzi diminuivano di altezza e di prestigio, fino ad arrivare ai
distretti più settentrionali e lontani dal mare, dove agli alti grattacieli
scintillanti di bianco si sostituivano per la maggior parte bassi edifici color
tramonto, e stradine strette brulicanti di vita.
In una
di queste stradine, all’incrocio tra OrwillPlaza e Rotgard
Street nell’Ottavo Distretto, si trovava un piccolo negozio di elettronica,
gestito da un tale MortimerCromwell,
un ultraquarantenne bassetto e dai capelli radi che tutti chiamavano
semplicemente Marty. In realtà, ed era un fatto noto
a tutti nella zona, Marty nel suo negozio vendeva ben
più di qualche elettrodomestico ormai obsoleto.
Già un
paio di volte i suoi traffici di merce rubata gli avevano
procurato problemi, ma in un modo o nell’altro era sempre riuscito a cavarsela
con poco, quasi nulla.
In fin
dei conti una persona come lui, molto ben inserita nel substrato e nelle
frequentazioni importanti del distretto notoriamente più problematico
della città poteva rappresentare un discreto vantaggio per le forze di polizia;
ma invece che tenere un basso profilo, Marty aveva
imparato a sfruttare la protezione di cui godeva per proseguire indisturbato la
propria attività.
Ad ogni
modo si spaventava sempre alla vista di una divisa, o di chiunque potesse anche
solo assomigliare ad un agente in borghese, quindi
Cane, che lo conosceva bene, non si stupì più di tanto quando, entrando nel suo
negozio una mattina molto presto, lo vide scappare via verso il retrobottega
veloce come il fulmine.
Ma proprio
perché lo conosceva, Cane sapeva anche cosa aspettarsi da quel rigattiere
disonesto, così cercando di scappare dal retro Marty
si ritrovò a tu per tu con Lucas, che prima lo immobilizzò e poi lo riportò di
peso nel negozio.
«E
tratti così un amico in visita?» domandò amichevolmente Cane mentre Lucas lo
sbatteva sul bancone per tenerlo fermo
«Che volete
con me? Io ho smesso con il contrabbando.»
«Non
siamo qui per i tuoi affari segreti.» disse Lucas. «Abbiamo bisogno di un
piccolo aiuto da parte tua.»
«Io non
aiuto più la MAB!»
rispose Marty in uno scatto d’orgoglio. «Lo sapete quante ne ho passate l’ultima volta? Per poco non
sono finito appeso ad un lampione.»
«Come
preferisci.» rispose calmo Cane. «Vorrà dire che farò sapere alla corporazione
del distretto delle soffiate che ci passi, così ti ripescano dalla baia con gli
occhi in bocca.»
«Abbiamo
solo bisogno delle tue conoscenze tra la gente del posto.» gli disse Lucas nel
tentativo di calmare gli animi.
Dopo
qualche attimo Marty parve tranquillizzarsi, tanto
che venne lasciato andare, anche se Cane pensò bene di
frapporsi tra il suo vecchio amico e l’uscita per impedirgli qualunque colpo di
testa.
«Che
volete stavolta?»
«Che
cosa sai della Chiesa di Ela giù all’Ildagar?»
domandò Cane
«Quella
gestita da Timur?» chiese il commerciante «Che volete
sapere?»
«Tutto quello
che c’è da sapere. Soprattutto sul loro capo.»
«Sono un
branco di tossicomani assatanati. E Timur
un viscido leccapiedi, con le labbra sempre appiccicate al sedere dei suoi
superiori.»
«Non basta.
Hanno a che fare con la droga?»
«Sarebbe
strano il contrario. Timur ha spacciatori disseminati
in tutto il quartiere. Ma non sperate di torchiarne
qualcuno per cavarne fuori qualcosa. Più della metà ha il cervello fritto dagli
intrugli che ingoiano nei loro rituali perversi, i restanti sono talmente
assuefatti o spaventati da lui e dai suoi picchiatori che si farebbero cavare i
denti piuttosto che parlare con la polizia.»
«Vuoi
dire che ha il monopolio del traffico di droga nel quartiere.» commentò
incredulo Lucas «Non ha problemi con le altre bande?»
«Ha fatto un
accordo con la corporazione. Loro tengono le altre bande del quartiere al loro
posto, e lui divide con loro i proventi dello spaccio.»
Quindi venne
il momento della domanda più importante.
«Che tu
sappia.» sussurrò Cane a mezza voce «Hanno a che fare anche con la Lilith?».
Marty si lasciò
sfuggire uno strano piegamento degli occhi, che i due
agenti immediatamente notarono reputandolo un buon segno.
«Sono girate
delle voci, ultimamente. Fino a poco tempo fa il nettare blu era un’esclusiva
di quelli del quartiere Thirys, ma da qualche tempo a
questa parte si sono viste un sacco di facce nuove tra i corrieri e i piccoli
spacciatori da strada. Non fanno parte della Chiesa di Timur,
ma ciò non toglie che quella zona sia diventata particolarmente frequentata
negli ultimi mesi».
Cane e Lucas
si guardarono, annuendo, quindi tornarono a guardareMarty.
«Dobbiamo
parlare con qualcuno della chiesa.» disse Lucas «Qualcuno che possa darci delle informazioni sugli affari sporchi di Timur.»
«Gente
fidata, possibilmente.» puntualizzò Cane con una certa ironia.
Anche se
veniva sempre pagato per il suo disturbo, Marty non saltava mai di gioia quando veniva usato da
quella coppia di sfruttatori per facilitare le loro indagini.
D’altra
parte però, se voleva continuare a vivere tranquillo, poteva solo ubbidire.
«Come volete.
Cercherò tra i miei contatti.»
«Così mi
piaci.» sorrise Cane rifilandogli uno dei suoi buffetti
«Risentiamoci
tra due giorni.»
«Facciamo
stasera.» disse Lucas «Al solito posto.»
«D’accordo.»
sibilò Marty «E ora sparite prima che mi venga voglia
di spararvi.»
Vyce odiava il giovedì.
Erano
ormai quasi due anni che ogni giovedì, tutte le settimane, aveva appuntamento
con la dottoressa Miranda Harken, la psicanalista
nominata dalla commissione militare d’inchiesta per seguire il suo caso.
Quella
donna bassetta e tarchiata, che odorava peggio di un
negozio di profumi e si riempiva di lacca i pochi capelli grigiastri, aveva in
mano il suo destino. Una sua relazione poteva permettere a Vyce
di riottenere il porto d’armi e il rientro in servizio attivo, che peraltro il
capitano non desiderava in ogni caso, o cacciarlo per sempre dalla squadra.
La cosa
che più lo irritava erano i velati tentativi della dottoressa di andare a
scavare nel suo subconscio, come ogni strizzacervelli che si rispetti, alla
ricerca dei motivi che lo avevano portato lì.
Vyce aveva
sempre detestato che qualcuno andasse a rovistare nella sua mente.
Da parte
sua la dottoressa, tuttavia, aveva dimostrato la giusta dose di sensibilità,
accettando per una volta di mettere da parte tutte le più recenti scoperte
magiche per l’esplorazione della psiche, più rapide ma decisamente
più invasive, in favore delle armi più antiche, ma anche più efficaci, dello
psicanalista: conversazione, analisi e deduzione.
Ormai
Miranda conosceva Vyce abbastanza bene da riuscire ad intuire il suo stato d’animo anche solo con una semplice
occhiata, e quel pomeriggio il capitano le era parso subito particolarmente
nervoso e provato.
Il
perché non le fu difficile intuirlo.
«Ha
avuto ancora gli incubi, capitano?» chiese accomodandosi a quella sua scrivania
che per poco non la batteva in altezza.
Non
rispose, ma non ce n’era alcun bisogno. Il suo borbottare e quel particolare
movimento degli occhi lo fecero per lui.
«Sempre
lo stesso sogno?» incalzò la dottoressa.
Di nuovo
non ci fu risposta. Non verbale almeno.
«Era da un
po’ di tempo che non capitava. Le è forse successo qualcosa? È stato sotto
stress?»
«Niente
di particolare.» si degnò questa volta di balbettare annoiato Vyce «E no, non sono stressato.»
La
dottoressa parve quasi abbozzare un sorriso ironico.
«Non le manca
neanche un po’ l’impiego operativo? Eppure, stando al suo stato di servizio,
fino a pochi anni fa era uno dei migliori.
Davvero
non aspira a riottenere il proprio vecchio posto nella squadra?»
«Per mettere
in pericolo altri giovani soldati e chissà quanti civili? No, grazie.»
«Perché
è così severo con sé stesso? Non è stanco di rodersi
l’anima dopo tutto questo tempo?».
Vyce aggrottò
le sopracciglia e distolse lo sguardo, contrariato.
«Come si
fa a far finta che non sia successo niente?» bofonchiò con voce roca
«Nel suo
caso, per quanto la riguarda.» disse la dottoressa con fare quasi di scherno
«Non è davvero successo niente.»
«Questo
non significa niente!» si inalberò di colpo Vyce «Io ero lì. Lo so.»
«Ma non se ne
ricorda. O sbaglio?».
Punto
sul vivo il capitano rimase di stucco lasciandosi cadere nuovamente sulla
poltrona.
«Perché
vuole ad ogni costo darsi delle colpe, quando lo
stesso procedimento disciplinare disposto nei suoi riguardi ha dimostrato che
non ne ha?»
«Ero io a
comandare quei ragazzi. Tutti loro credevano in me. Erano sicuri che li avrei guidati, protetti, e ricondotti a casa.»
«In fin dei
conti, lei comandava una squadra TMD. Una unità
d’assalto specializzata in operazioni ad alto rischio. La prospettiva di cadere
in azione è una componente inscindibile di questo
lavoro, e i suoi uomini lo sapevano bene. Tutti loro avevano messo in conto il
fatto che la loro divisa sarebbe potuta diventare anzitempo il loro abito
funebre.»
«Ma erano i
miei uomini. Chi comanda ha sempre delle
responsabilità.»
Vyce si passò
una mano sul volto, fattosi improvvisamente ceruleo.
«Soprattutto
se è l’unico ad uscirne vivo.»
La
dottoressa si sistemò i buffi occhiali rettangolari scivolati sulla punta del
naso protendendosi leggermente in avanti, fino a scorgere l’ombra oscura
addensatasi negli occhi di Vyce, e che il capitano
cercava senza riuscirci di nascondere dietro la mano.
«Non
riesce proprio ad accettare il fatto di essere sopravvissuto, signor Vyce?»
«Perché
solo io?» replicò il capitano serrando i pugni «Perché
solo io mi sono salvato? Cosa ha fatto sì che sia
stato l’unico ad uscire vivo da quell’edificio?
E se
fossi scappato? Mi hanno ritrovato nella zona di carico, non lontano dall’uscita,
e ben lontano dal posto in cui quasi tutti i miei compagni sono stati uccisi. E
se avessi deciso di abbandonare i miei uomini solo per salvare la mia vita?»
«Si
crede davvero capace di fare una cosa del genere?» chiese la dottoressa come se
sapesse già la risposta
«Non lo
so.» rispose sconfortato Vyce«Non
so più niente.
L’unica
cosa che so è che a parte me nessuno è uscito vivo da
lì dentro, e solo questo conta. Io sono vivo, mentre quei ragazzi non ce l’hanno fatta.
Punto.»
Di nuovo
la dottoressa Harken dovette andare a recuperare gli
occhiali in fondo al naso, abbozzando una specie di strano sorriso.
«Ora,
perdoni la franchezza di ciò che sto per dirle, ma è davvero convinto che il
suo malessere sia dovuto solo a questo? Alla colpa che
sente di avere?»
Vyce la
guardò basito.
«Come?»
«Lei cerca in
tutti i modi di darsi delle responsabilità per quanto accaduto, nonostante la
gran parte degli eventi di cui si ritiene responsabile non riesca neppure a
ricordarli.
Lei si
vergogna di essere sopravvissuto alla sua squadra, e questo è l’unico motivo
per il quale vuole in ogni modo avere delle colpe.
Perché è
il solo modo che ha per riuscire a convivere con il fatto di essere l'unico
sopravvissuto.»
Vyce scattò
nuovamente in piedi con negli occhi un’ira mista a sgomento,
ma prima ancora che potesse aprire bocca quell’impeto furioso si dissolse,
facendolo abbandonare ancora una volta sulla poltrona perso nei suoi pensieri.
Forse quello
che diceva la dottoressa, pur con tutta la sua boria e il suo scarso tatto, era
vero.
Forse
cercava solo di attribuirsi colpe che non aveva per
combattere la responsabilità, ancora più grande, di essere sopravvissuto alla
sua squadra.
Per come
la vedeva lui, era molto meglio essere schiacciati dal senso di colpa che dal
disonore. Non ricordava cosa gli aveva permesso di sopravvivere, e fino a che
non vi fosse riuscito era più facile convivere con la
propria incapacità di essere un buon caposquadra che con la vergogna di aver
abbandonato i propri compagni per salvare la propria vita.
«Direi
che così è sufficiente.» decise di propria iniziativa «A
giovedì prossimo.» e detto questo lasciò l’ufficio seguito con gli occhi
dalla dottoressa.
La Trappola di Morgana era uno dei locali più
frequentati, ma anche dei più pericolosi, dell’Ottavo Distretto.
Lì dentro
si poteva trovare di tutto, dai criminali in libertà vigilata alle prostitute
in cerca di clienti.
Era un
posto dove ognuno si faceva i fatti propri, senza
troppo badare alle facce dei nuovi venuti, purché non odorassero di polizia,
per questo Cane e Lucas lo avevano eletto da tempo a luogo favorito per
incontrarsi coi loro contatti nel distretto.
Dovette passare
più tempo del solito, ma poi, poco prima di mezzanotte, un tipetto basso e
quasi calvo entrò nel locale, e notati i due uomini seduti ad
un tavolino molto appartato gli andò incontro accomodandosi accanto a loro.
«Sei Paris?» chiese Cane
«Lo sono. E voi
siete gli amici di Marty.»
«Amici è
una parola grossa.» rise Lucas «Diciamo che siamo
conoscenti.»
«Ho voluto
infiocchettare la cosa. In realtà lui ha usato un altro termine.
Allora,
che cosa volete?»
«Stiamo cercando
informazioni sul tempio di Padre Timur. Tu ne fai
parte, non è vero?»
«Sono
stato un adepto per qualche anno.» rispose Paris con
una qualche ironia «Adesso teoricamente sarei un reclutatore.»
«Cerchiamo
informazioni sugli affari sporchi della chiesa.» disse Cane «Sai per caso se di
recente Timur ha avuto a che fare con la lilith?»
«Girava e
gira ancora molta droga di ogni tipo nei templi di Ela. La lilith
sarebbe solo una delle tante.»
«Non parliamo
di consumo. Vogliamo sapere se Timur e i suoi l’hanno
mai prodotta per venderla.»
La luce
comparsa di colpo negli occhi dell’uomo convinse Cane e Lucas di essere sulla
strada giusta.
«Poco prima
che mi arrestassero, circa un anno fa, ricordo degli strani tizi che entravano
e uscivano continuamente dall’ufficio di Timur. Non erano
i soliti drogati. Era gente pericolosa, e piena di soldi. Non il genere di
spiantati che puoi vedere girare da queste parti. Ora che ci penso,
la lilith ha iniziato a girare massicciamente tra gli
adepti più o meno in quel periodo.»
«Forse Timur si è messo in affari con qualcuno.» ipotizzò Lucas «Qualche
produttore o finanziatore.»
«Qualche
giorno fa mi è capitato di parlare con un vecchio compagno. Secondo lui quella
gente la si vede ancora abbastanza spesso entrare e
uscire dal tempio sull’Ildagar.»
A Cane
tornò in mente il tipo sospetto descritto da Carmy
dopo la prima ispezione, quello che sembrava fare come il palo fuori dal
tempio. Un’idea gli si accese nella mente.
«Hai
detto di essere un reclutatore.»
«Dovrei
andare in giro a insultare il sistema, imbrattare le chiese, circuire
tossicomani e poveri spiantati senza futuro. Questo genere di cose.»
«Non mi
sembri soddisfatto del tuo incarico.»
«Quelli sono
tutti suonati. Sono stato al loro gioco fino a che soldi e droga scorrevano nelle mie tasche, poi grazie al cielo mi sono
disintossicato, e ora mi tengo molto alla larga da quel posto.
Ho un
lavoro, sapete? Certo, per voi dei distretti alti sembrerà una banalità, ma in
questo genere di posti anche solo avere la fedina penale pulita è da reputarsi
un lusso.»
«Insomma
non ti và più di avere a che fare con Timur e i suoi seguaci.» mormorò Cane con uno strano
cipiglio negli occhi.
Paris esitò,
sorseggiando un po’ del drink che i due agenti gli avevano offerto appena
arrivato.
«Duemila
kylis.» borbottò facendo ondeggiare il bicchiere
«Mille.»
contrattò Cane
«Mille e
cinque.»
«Andata.»
«Dimmi
che non stai pensando quello che credo.» disse Lucas leggendo nella mente dell’amico
«Se ci rifletti,
è il modo per riuscire a scoprire qualcosa.»
«In ogni
caso voi non andate bene.» tagliò corto Paris capendo
a sua volta cosa Cane avesse in mente «Timur non è certamente uno stupido. Potete imbruttirvi a
sufficienza per imbrogliare questi tossicomani e avanzi di galera, ma per uno
con un po’ più di cervello odorate di poliziotto a un miglio di distanza.
Sareste scoperti
prima ancora di entrare, e io non ho voglia di finire
appeso per i piedi con la gola tagliata.»
«Cane,
forse dovremmo prima parlarne con il capitano.»
«Sta
tranquillo.» rispose l’agente ignorando totalmente Lucas «Credo di avere la
persona adatta per questo incarico.»
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Accidenti, questo caldo finirà per
uccidermi.
Non so voi, ma io infilerei la testa in
una ghiacciaia tanto mi fuma. Ieri ero nel reparto frigo di un centro
commerciale all’ingrosso, dove si dovrebbe entrare coi
cappotti che ti mettono a disposizione. Io ci sono entrato così com’ero, e
ancora non mi bastava!^_^
Ma bando alle ciance.
Che ve ne pare di questo nuovo capitolo? Un
capitolo di transizione, certamente, in cui ho cercato di raccontare un altro
po’ della psicologia e della personalità dei vari personaggi, sia principali che secondari. Per l’azione vera ci vorrà un altro po’, ma
non disperate. Arriverà anche quella.
Grazie a tutti quelli che leggono e
recensiscono, vi voglio bene!
«Assolutamente no!» sbottò
Alexia nel sentire il piano proposto da Cane «Non coinvolgerete Carmy in tutta
questa storia.»
«Capitano,
è l’unica soluzione che mi viene in mente.»
«È
troppo pericoloso, e lei è qui solo per fare esperienza.»
«È
quello che ho cercato di dirgli anche io.» disse Lucas
«Stando
a quel tizio, Paris, Timur
è diventato anche più sospettoso e guardingo del solito nell’accogliere nuovi
adepti nella sua chiesa.
Se
mandiamo uno dei nostri ganci c’è il rischio che venga scoperto.»
«Non
vedo dove sia il problema. Cerchiamone uno di qualche altro distretto.»
«Sai
come sono fatte quelle fogne. Là tutti sussurrano, tutti parlano alle spalle.
La rete di conoscenze che c’è tra quella gente è talmente complessa da non
riuscire a starci dietro. E se è vero che alla chiesa dell’Ildagar
la guardia si è alzata, se reclutassimo qualcuno dei bassifondi non ci
metterebbe molto a farsi scoprire.
Carmy
viene da fuori città. Non ha legami particolarmente saldi, poca gente la
conosce, e non ha mai frequentato i distretti degradati. Inoltre è stata
bocciata all’esame di ammissione al TMD, e ufficialmente non ha un lavoro,
visto che attualmente si trova in un limbo tra la procura distrettuale e la
polizia militare.»
«Capisco.»
mugugnò Lucas, quasi fosse sul punto di convincersi «Anche se cercassero, non
troverebbero nulla che la colleghi all’agenzia.»
«La
ragazza di campagna senza più prospettive dopo che ha visto infrangersi il
sogno che l’ha condotta nella grande città. È un profilo che ben si addice ad
un’aspirante adepta».
Alexia
temporeggiò, mordicchiandosi un labbro mentre camminava su e giù per l’ufficio.
Sembrava quasi sul punto di accettare.
«Rimango
dell’idea che è una cosa troppo rischiosa.» disse con l’ultimo scampolo di
indecisione «Carmy è giovane. Non ha esperienza in questo genere di incarichi.
Perché non ci rivolgiamo a qualche altro collega? C’è gente nella MAB che delle
indagini sotto copertura ha fatto il suo pane.»
«Ho già
controllato.» replicò deluso Cane «Chi non è già impegnato in altre indagini
non ha il profilo di cui abbiamo bisogno. Nessuno degli agenti sotto copertura
disponibili ha meno di cinquant’anni, e stando a Paris
l’unico adepto lì dentro con più di mezzo secolo sulle spalle è proprio Timur. La chiesa di Ela, o almeno quella di cui stiamo
parlando, non è fatta per attempati padri di famiglia, ma per giovani dallo
spinello facile da spremere di soldi».
Nessuno
dei tre si era accorto che nel frattempo Carmy era arrivata al lavoro, ed in
quel momento per la prima volta la ragazza sentì montare dietro di sé una
vampata d’orgoglio impossibile da arrestare.
«Lo
faccio».
Solo
allora tutti si accorsero di lei, e voltatisi la guardarono attoniti, restando
però parimenti colpiti dalla determinazione che traspariva dai suoi occhi.
«Ecco,
questo è lo spirito giusto!» sentenziò bellamente Cane «Diventi un po’ più
poliziotto ogni giorno che passa.»
«Ma se
hai appena detto tu stesso che non lo sembro neanche un po’?» sibilò lei
malevola, ma senza cattiveria
«Sì, ma
in senso buono. Il che ti rende perfetta per questo incarico.»
«Carmy.»
disse Alexia poggiandole una mano sulla spalla e guardandola dritta negl’occhi
«Non sei obbligata a farlo. Potrebbe essere molto pericoloso, e tu sei ancora
molto giovane.»
«Sono
qui per imparare, no?» replicò lei sforzandosi di ostentare tutta la sua
volontà «E per essere di aiuto. Se davvero sono la persona più adatta per
questo lavoro, ho il dovere di fare la mia parte.»
«Questo
è parlare.» disse ancora Cane «Comunque non temere. Ci saremo io e Lucas a
guardarti le spalle, e poi ci sarà anche Paris. Se ci
saranno problemi, interverremo subito. Sarai più protetta che in casa tua.»
«Ha
sentito, direttore? La prego, mi dia fiducia. Le prometto che saprò
meritarmela».
Alexia
sospirò passandosi una mano sulla fronte. Non immaginava che potesse essere una
ragazza tanto testarda.
«D’accordo,
facciamo un tentativo.» disse, correggendo però subito il tiro «Ma sia chiaro,
al primo accenno di pericolo salta tutto. Non voglio essere costretta a venire
al tuo funerale».
Si diceva che un TMD avesse
a disposizione solo due cose con cui cercare di ottenere un po’ di meritato
riposo. Il congedo e la sua bara.
Una
delle prime cose che veniva detta a tutti quelli che ogni anno premevano per
entrare nella squadra era che una volta dentro si avrebbe speso il resto della
propria vita come soldati al fronte, alla perenne attesa dell’insorgere di
un’emergenza, un problema serio che sarebbe toccato a loro di risolvere.
Molti di
quelli che tentavano l’ammissione erano attratti soprattutto dalla paga, assai
più alta che nella maggior parte degli altri rami dell’agenzia, ma mai come nel
TMD il compenso era inversamente proporzionale ai margini di rischio.
Anche se
la percentuale di mortalità si era notevolmente abbassata rispetto a qualche
anno prima, nella sola Kyrador almeno tre volte l’anno il cortile interno della
sede centrale diventava la sede di un funerale, e tutti coloro che entravano
nella squadra sapevano bene che un giorno con quella divisa avrebbero potuto
finirci sepolti.
Per di
più, essere un TMD significava spesso trovarsi a che fare con scene
raccapriccianti, tali da far venire i conati agli stomaci più forti. Dopotutto
il loro lavoro consisteva quasi sempre nel confrontarsi con gli EDA, e un’EDA
non era molto diverso da un comune predatore, che cacciava, sbranava e mangiava
ogni essere vivente gli si parasse davanti.
Jake
aveva visto con i suoi occhi molti dei cadetti della stazione Ares crollare
svenuti o rigurgitare anche l’anima alla semplice vista dei filmati di
repertorio o di fronte ai cadaveri anatomici, e ogni volta aveva ripetuto a sé
stesso di rimanere lucido in ogni situazione, perché la mancanza di
autocontrollo era la via più rapida per il cimitero.
Con il
passare dei mesi si era rafforzato quanto bastava per riuscire a sopportare
quasi tutto, ma con tutti gli incidenti che stavano capitando nell’ultimo
periodo non passava quasi giorno senza che la sua o qualche altra squadra fosse
chiamata all’azione.
Kyrador
sembrava essersi trasformata in un colabrodo della sicurezza.
Di
problemi con la magia ce n’erano quotidianamente, come era naturale che fosse,
ma da qualche settimana a quella parte quasi sempre questi avevano come
risultato la comparsa di un’EDA, e anche se nella maggior parte dei casi la
polizia riusciva a provvedere da sé il TMD si trovava costretto a fare gli
straordinari.
Quel
giorno la chiamata sopraggiunse poco dopo mezzogiorno, proprio un attimo prima
che Madison e tutta la sua squadra si sedessero a pranzare.
Stavolta
l’EDA era comparso all’interno di un’azienda chimica nel quartiere del porto,
dove un circuito difettoso, inizialmente scambiato per un banale guasto
tecnico, aveva folgorato il tecnico addetto alla riparazione provocandone la
mutazione.
Niente
di particolarmente serio, ma data la pericolosità del materiale stoccato nella
struttura era stato scelto di rivolgersi comunque agli specialisti.
La
squadra raggiunse il prefabbricato che l’edificio era già stato evacuato, vi si
introdusse e localizzato l’EDA lo eliminò con poche scariche di colpi. Il colpo
di grazia lo inflisse come al solito Dylan con il panzershot,
il suo cavallo di battaglia, che ridusse il nemico ad un tizzone ardente.
«Minaccia
neutralizzata.» disse lo stregone constatando il decesso del mostro «Pericolo
rientrato.»
«Di
questi tempi che ne sono sempre di più in giro.» disse Ruth «Dovremmo chiedere
un aumento sugli straordinari».
Jake,
che aveva contribuito personalmente al completamento dell’incarico, non riuscì
a resistere alla vista dell’ennesima mattanza provocata da un’EDA e uscì
velocemente dall’edificio, togliendosi l’elmetto che lo soffocava per respirare
un po’ meglio.
Per
quanto ci si potesse fare l’abitudine, certe scene erano troppo se affrontate con
tale frequenza, soprattutto per qualcuno alle prime armi come lui.
Stava
cercando di riprendere fiato quando sentì una mano amichevole poggiarsi sulla
sua spalla.
«Tutto a
posto, ragazzo?» gli chiese Madison
«Mi
scusi, capitano. È stato un attimo.»
«Non
devi scusarti. In certi casi è dura riuscire a resistere. La prima volta che ho
affrontato un teatro operativo avevo più o meno la tua età, e ricordo di aver
vomitato anche le budella».
Quella
specie di macabra battuta suscitò in Jake un sorriso divertito che riuscì a
farlo calmare.
«Lei è
nel TMD fin quasi dalla sua fondazione, vero?» domandò abbandonandosi con lui
sulla cima di un basso muretto
«Quando
ho iniziato io, l’unità esisteva sì e no da un decennio. Allora non c’erano
tutta la tecnologia e l’equipaggiamento di oggi, e neppure tutti i dispositivi
di sicurezza per prevenire gli incidenti. Cose del genere accadevano quasi più
spesso che oggi, e al cimitero militare si scavavano in media una decina di
fosse l’anno.»
«Ma è
davvero così difficile creare le condizioni per rendere la magia più sicura? Se
ci fosse più controllo, se i sistemi fossero più efficienti, forse tutto questo
potrebbe essere evitato.»
«L’uomo
ha imparato a controllare il fuoco migliaia di anni fa.» replicò Madison
schiacciando un cumulo di terriccio sotto lo scarpone «Ma gli incendi scoppiano
ancora oggi».
Jake lo
guardò perplesso.
«Quello
che voglio dire ragazzo, è che queste cose succedono, e succederanno sempre.
Non c’è niente di perfetto a questo mondo. Abbiamo voluto votarci alla magia, e
quindi dobbiamo accettare di convivere anche con i suoi aspetti più pericolosi.
Per come
la vedo io, avere a che fare con la magia non è tanto diverso da maneggiare un
qualsiasi macchinario pericoloso. Sai dal principio che potrebbe succedere qualcosa».
Neanche
a farlo apposta, in quel momento un’assordante voce roca, ingigantita dagli
effetti di un altoparlante, catturò l’attenzione dei due agenti.
«Accidenti,
sono già arrivati.» mugugnò contrariato Madison alzando lo sguardo.
Davanti
ai cancelli della struttura si era radunata una piccola folla di esaltati, che
bandiere e striscioni alla mano aveva preso a sbraitare i soliti cori
all’indirizzo della MAB, del TMD e della società in generale.
Li
guidava un tizio sulla sessantina, basso e tarchiato, capelli bianchi come il
latte, il più infervorato di tutti; era soprannominato La Mosca, per il suo
essere sempre presente e l’incapacità cronica di potersi disfare di lui, ma
secondo i più semplicemente per il suo essere insopportabile.
Il suo
modo di pensare era quantomeno contraddittorio. Cacciava le telecamere
accusandole di essere asservite a quel sistema che tanto contestava, ma quando
necessario ci si piazzava davanti per usarle come scudo contro le repressioni a
cui spesso andavano incontro lui e i suoi sostenitori, che non si facevano
certo parlare dietro quando si trattava di lanciare provocazioni.
Data la
rapidità con il quale l’incidente di quel giorno si era manifestato ed era
stato represso non aveva fatto a tempo a radunare tutti i suoi molti
sostenitori, ma questo non impediva loro di affollare il piazzale e la strada
retrostante, tenuti indietro a fatica dal cordone di agenti che cinturava il
capannone.
«Ma non
hanno di niente di meglio da fare?» disse ancora Madison
«Non ne
possiamo più!» urlava al megafono La Mosca «Ogni giorno succede qualcosa! Ogni
giorno qualche innocente muore! Quanti altri ne dovranno morire perché ci si
decida a fare la cosa giusta?».
Tutti lo
applaudirono, e lui, notati Jake e Madison che lo fissavano malamente da
lontano, riprese con ancora più veemenza.
«E
quello che è peggio, viviamo in una società militarizzata! Non è per questo che
i nostri antenati sono venuti qui! Non fatevi ingannare da coloro che dicono di
proteggervi, perché non sono altro che cani! Ladri e mercenari che si
assicurano che tutto resti com’è, e che chi ha il potere di decidere continui a
mantenerlo! Tutto quello che diciamo e facciamo avviene sotto gli occhi di un
deus ex machina che pretende di governare su ogni
cosa! E guai a contraddirlo, se vi è caro il vivere pacificamente! Ma tutto
questo può cambiare! Possiamo trasformare questo pianeta in ciò che abbiamo
sempre sognato, e non saranno dei vigliacchi venduti in armatura a fermare la
nostra legittima riscossa!».
Jake,
che tante cose riusciva a sopportare meno che venire provocato in modo tanto
sprezzante, fece per andare a dire la sua, ma Madison gli afferrò il polso
appena fece per avanzare.
«Lascia
stare. Non le vale la pena.»
«Mi sono
stufato delle sue provocazioni.»
«Gli
darai solo un pretesto per darci dentro ancora di più. E poi, non che abbia
tutti i torti.»
«Ma, capitano…»
«Ha
ragione quando dice che bisognerebbe cercare di cambiare le cose.» rispose
Madison guardandolo quasi con ironia «L’hai detto anche tu se non sbaglio».
Jake
rimase spiazzato, non riuscendo ad obiettare, e poco dopo mestamente risalì sul
furgone blindato che li riportò verso il quartier generale, assordato ma quasi
indifferente agli improperi lanciati contro di loro da quegli scalmanati.
Carmy trasse un profondo
respiro e chiuse gli occhi, cercando di calmare i battiti del cuore.
«Se vuoi
tirarti indietro, questa è l’ultima occasione.» le disse Lucas affacciandosi
dal posto di guida
«Sto
bene.» si affrettò a rispondere la ragazza.
Accanto a
lei Paris, ugualmente nervoso, che si domandava in
quale modo perverso fossero riusciti a convincerlo ad entrare in tutta quella
storia.
«Ora mi
tocca pure fare da balia ad una ragazzina fresca di liceo.» mugugnò tra sé e sé
«Ricorda,
io e Pierre saremo sempre qui intorno, pronti a intervenire.» la rassicurò Cane
«E mi raccomando,se le cose dovessero
per qualunque motivo prendere una brutta piega, molla tutto e vattene da lì.»
«D’accordo.»
mormorò lei assorta nei suoi pensieri.
Cane la
scrutò un po’ meglio, poi scambiò un’occhiata obliqua con Paris.
«Ora
scusa, potresti scendere? Dobbiamo discutere di alcuni dettagli con Paris».
Carmy
non chiese spiegazioni e obbedì, scendendo dalla macchina ferma a lato della
strada dopo essersi sistemata alla bene meglio il gilè sdrucito che costituiva
parte del suo completo da ragazza dei bassifondi.
Rimasto solo
con i due agenti, Paris si vide piantare addosso le
due paria di occhi più severi e minacciosi che avesse mai visto.
«Ricorda
quello che ti ho detto.» lo minacciò Cane «Se le succede qualcosa, qualunque
cosa, sarà meglio per te lasciare la città prima che riesca a metterti le mani
addosso.»
«Per non
parlare di quello che ti farà il capitano.» precisò Lucas
«Se
siete così in ansia, perché la state gettando in quella fogna?» protestò l’interessato
a mezza voce
«La cosa
non ti riguarda.» sentenziò Cane «Spero di essere stato chiaro».
Lanciata
un’ultima occhiataccia ai due agenti anche Paris
scese dalla macchina, avviandosi assieme a Carmy lungo un vicoletto laterale.
«Allora,
ripassiamo alcune cose fondamentali.» disse il reclutatore mentre camminavano
«Prima cosa, se sarai accettata, da quel momento non parlare mai fuori luogo.»
«Cosa
significa?»
«È la
regola. I novizi e i discepoli non possono parlare con chi è più alto in grado,
mentre tra di loro possono farlo solo quando non ci sono dei superiori.
Mai usare
la prima persona quando parli. È considerato immorale ed egocentrico.
E cosa
molto importante, se incontrerai Timur o qualcuno dei
suoi secondi, non alzare mai gli occhi. Ai novizi è proibito guardare in faccia
i propri superiori.»
«Ho
capito.»
«Ah,
prima che mi dimentichi. Ci sono alcune zone, all’interno del tempio,
contrassegnate da una maschera. Quelli sono luoghi assolutamente proibiti, dove
nessuno a parte chi ne abbia ricevuto esplicito permesso può accedere.»
«Sai per
quale motivo?»
«No, e
non mi interessa. Ti direi di starci lontana, ma visto il motivo per cui sei
qui credo sarebbe fiato sprecato. Tieni solo presente che in ballo c’è anche la
mia vita, quindi ti pregherei di fare attenzione.»
«Stai
tranquillo. Non ho intenzione di metterti nei guai.»
«Lo
spero. Ora datti un contegno e cerca di calmarti, siamo arrivati».
Proprio in
quel momento i due avevano imboccato il vicolo stretto e sporco che a metà del
suo percorso aveva l’ingresso al tempio.
Un uomo
alto e scuro, una specie di molosso, montava la guardia, e quando vide i nuovi
venuti gli andò incontro. Carmy in un primo momento si preoccupò, ma poi vide
che il tipo stava sorridendo in modo amichevole, imitato da Paris.
«Ehi,
vecchio ladro di polli.» disse il gigante dando a Paris
una vigorosa pacca sulla spalla «Che ci fai da queste parti?»
«Ci
faccio il mio lavoro, Golgot. A differenza di te.»
«Era da
un po’ che non ti si vedeva. Pensavamo che ormai avessi mollato.»
«Invece
ti sbagli. Ho giusto qui con me una nuova aspirante adepta».
Il tizio
si concentrò quindi su Carmy, che cercò per quanto possibile di non tradire
eccessiva soggezione alla vista di quel nerboruto bisonte di cento e passa
chili. Visto che voleva apparire come una frequentatrice di quartieri
malfamati, si presumeva che fosse abituata alla vista di simili avanzi di
galera.
«Certo
che il mestiere di reclutatore può riservare davvero delle belle
soddisfazioni.» commentò sarcastico Golgot
squadrandola da capo a piedi «Queste poi riesci a trovarle sempre e solo tu. Che
ci troveranno poi le ragazze in uno spiantato delinquente mancato come te, non
sono mai riuscito a capirlo.»
«Si
chiama fascino, gorilla senza cervello.» rispose sarcastico Paris
«Dovresti provarci anche tu, invece di guardare ogni ragazza che ti capita
davanti come se volessi saltarle addosso e strapparle i vestiti».
Golgot apparentemente
non se la prese, anzi rise sguaiatamente.
«Non
cambi proprio mai, vero?»
«Sua eccellenza
Timur è qui?» tagliò corto il reclutatore
«È
appena rientrato. Di sicuro ora è nella cappella. Forza, entrate».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Spero che la vostra estate stia trascorrendo
serena e piacevole.
La mia la passo così, coltivando idee e
scrivendo in attesa di settembre, quando finalmente sarà anche per me tempo di
viaggi.
Questo è stato un capitolo di transizione.
Nel prossimo, scopriremo qualcosa di più sul passato di Carmy.
Varcata la soglia, Carmy si
ritrovò in quello che aveva tutta l’aria di essere null’altro che il
sotterraneo dell’edificio soprastante, angusto e stretto.
Il locale
era stato ingrandito buttando giù alcune pareti superflue, sì da farlo sembrare
più esteso di quanto in realtà fosse.
Dall’ingresso
principale, scendendo una stretta e ripida scala metallica, si accedeva
all’anticamera, e da qui alla cappella che costituiva il cuore del tempio. Il
resto di quel sotterraneo era adibito a stanze private del priore e luoghi di
ritrovo per i membri della setta; vi erano anche delle porte, ricavate
artigianalmente e quasi tutte con l’emblema della maschera ben visibile sull’architrave,
ma dove conducessero e cosa custodissero questo era impossibile da stabilire.
L’aria
era densa del fumo delle candele, molte luci andavano ad intermittenza, e si
respirava un insopportabile olezzo di erba mista a sangue, probabilmente quello
degli animali sacrificati durante i riti.
Ovunque,
sottoforma di bassorilievi, dipinti e statuette votive collocate in nicchie
artificiali piene di erbe e doni, figuravano rappresentazioni di Ela, la dea
della vita e della morte. Benché nella sua natura divina e soprannaturale non
avesse una raffigurazioni standardizzata, la maggior parte delle immagini sacre
la rappresentavano come una donna coperta da un lungo velo che la cingeva
interamente lasciando scoperte solo le mani, rivolte verso l’alto come ad implorare
una benedizione.
La cosa
originale era che la dèa era raffigurata sempre con due volti, uno giovane ed
effimero ed uno, posto solitamente all’altezza del ventre, appena visibile
sotto la tunica, orrido e minaccioso. Essi simboleggiavano la doppia natura, di
madre premurosa nel dare la vita e di spietata custode nel fato nel toglierla.
Stando
alle voci il patriarca del culto aveva ricevuto un sogno premonitore dalla dèa
in persona, una rivelazione in cui Ela lo aveva esortato a costruire una nuova
chiesa, una diversa da quella della Santa Croce, accusata di essere troppo
vicina all’ottica del mondo comunemente accettata, e per questo tanto
illiberale e corrotta quanto il sistema che i seguaci di Ela dicevano di
combattere.
Carmy
restava alle spalle di Paris, camminando dietro di
lui e cercando, nel contempo, di placare il proprio cuore, tornato a battere
furiosamente appena varcata la soglia d’ingresso.
Appoggiati
alle pareti vi erano tantissimi adepti, quasi tutti molto giovani, la maggior
parte svenuti o storditi dalla droga, gli occhi persi nel vuoto e le teste che
ondeggiavano scompostamente da una parte all’altra.
«Stammi
vicina.» le sussurrò Paris.
L’uomo
la guidò lungo una scala ai margini della cappella che scendeva ancora più
basso, al secondo dei tre livelli sotterranei dell’edificio, e una volta qui
davanti ad una delle poche porte prive della maschera, alla quale bussò in modo
pacato e rispettoso.
«Avanti.»
disse da dentro una suadente voce maschile.
Trovandosi
per la prima volta faccia a faccia con padre Timur
Carmy avvertì un senso come di soggezione nel guardarlo negl’occhi, come se a
quel sinistro santone fosse sufficiente uno sguardo per rubare la volontà ed il
cuore a tutti coloro che incontrava. Di certo carisma e capacità di persuasione
non dovevano fargli difetto.
La
ragazza non seppe cosa pensare. Non doveva avere tutte le rotelle al suo posto,
ma così di primo pelo non le pareva il tipo di persona capace di gestire
facilmente chissà quale industria della droga.
«Paris, ragazzo mio.» disse il priore alzandosi dalla sua
semplice scrivania e andando loro incontro «Da quanto tempo non ti si vedeva
frequentare questo tempio.»
«Il tuo
adepto chiede rispettosamente perdono.» rispose lui con un leggero cenno del
capo «La prigione gli aveva fatto smarrire la strada, e ha voluto prendersi un
po’ di tempo per riflettere. Ora però è pronto a ritornare sul sentiero.»
«E la
nostra madre Ela è felice di riprenderti nel suo grembo. Ma chi porti con te?»
«Un’anima
perduta alla ricerca di certezze, che umilmente chiede di essere ammessa
all’amore di Ela».
Timur posò
allora i propri occhi su Carmy, uno sguardo magnetico e quasi affascinante che
la ragazza faticò a sopportare.
«Come ti
chiami, figlia mia?»
«Lei si
chiama Carmy, vostra grazia.» rispose lei come le era stato insegnato,
guadagnandosi un sorriso di merito «Carmy O’Neill.»
«E da
dove arrivi, Carmy?»
«Da Mablith, nella prefettura di Midgral.»
«Una
zona ricca.» osservò il priore «Con tante possibilità per i giovani. Come mai
sei venuta a Kyrador».
Carmy si
concesse qualche secondo per rispondere.
«Lei»
disse a capo chino «Voleva entrare nella MAB».
Il
sorriso gentile sul volto di Timur si mutò in
un’espressione indagatrice, e per un attimo Paris
sentì un colpo al cuore.
«E ci
sei riuscita?»
«Non nella
maniera che lei sperava. Ha lavorato per qualche tempo alla procura
distrettuale, poi qualche cosa non è andata per il verso giusto e lei è stata
esclusa».
Sentendola
parlare, Paris ne restò quasi colpito. Anche se
giovane quella ragazza stava rivelando un certo talento nella recitazione.
«Che
cosa è successo, figliola?»
«Lei ha
avuto dei problemi con un suo superiore. La importunava, ed era diventato molto
invadente. Così lei ha denunciato il suo molestatore, ma questi aveva amici
potenti che prima hanno fatto cadere ogni accusa e poi, per vendetta, hanno
compromesso la sua carriera facendola cacciare.»
«Sei
andata a sbattere contro la vera faccia di quel tempio corrotto del vizio e
dell’ipocrisia.» le disse Timur quasi a volerla
consolare «Purtroppo quello non è posto per le persone di buon cuore.
Ma se la
tua situazione è così dura, perché non sei tornata al tuo paese? Forse in
qualche ufficio di periferia potresti ancora cercare di riavere il tuo posto.»
«Lei per
venire a Kyrador ad inseguire i suoi sogni è andata contro la sua stessa
famiglia.» rispose Carmy bagnando i suoi occhi con lacrime solo in parte
fasulle «Non può tornare da loro dopo quello che ha fatto.
Cercare
un altro lavoro è stato inutile. Solo impieghi saltuari e malpagati. È solo
grazie all’ospitalità offertale da un’amica se può ancora permettersi un tetto
sopra la testa.»
«È una
storia molto triste. Sei venuta a contatto con la parte più marcia e spietata
di questa città. Anzi, di questo stesso mondo.
Però,
sono curioso. Come mai hai cercato di entrare nell’agenzia?».
Carmy si
prese un attimo prima di rispondere.
«Lei
voleva fare qualcosa per gli altri. Le avevano raccontato che la MAB aiutava le
persone.»
«La MAB
aiuta solo il sistema corrotto cui fa parte. Sono i cani fedeli che si assicurano
di lasciare le cose come stanno.
Risolvono
i problemi che loro stessi hanno creato con il loro uso sconsiderato della
magia, ma poi hanno l’ardire di rimproverare le vittime dicendo loro che
avrebbero dovuto fare maggiore attenzione. Questa è la summa dell’ipocrisia».
Timur le
passò una mano sulla guancia, un gesto di inconsueta dolcezza che stupì lo
stesso Paris.
«Purtroppo,
figlia mia, sei venuta a contatto con la parte più marcia di questa società».
Poi, il
priore fece un’altra cosa che Paris non gli aveva mai
visto fare. Allargò le braccia e strinse brevemente a sé Carmy, un gesto che
solitamente compiva solo con le persone di cui si fidava maggiormente.
I casi
erano tre.
O aveva
capito tutto, e stava facendo la commedia in attesa di scannarli; o quella
ragazza aveva una qualche capacità di far perdere il lume della ragione a chi
le stava vicino; oppure, molto più probabilmente, il piano stava funzionando.
Carmy,
almeno nella sua finta identità, incarnava bene il tipo di giovane disilluso e
senza aspirazioni che piaceva a Timur, di quelli che
potevano essere facilmente plasmati a proprio piacimento per farne degli adepti
fedeli a cui poter chiedere qualunque cosa, certi che avrebbero obbedito.
«La
grande madre Ela ti apre le braccia ed il cuore, figlia mia. Noi abbiamo sempre
bisogno di nuovi adepti, e tu necessiti di ritrovare la retta via dopo essere
stata per troppo tempo soffocata dalle tenebre».
Tutto
sembrava stare andando per il verso giusto.
«La
nostra chiesa è sempre pronta ad accogliere nuovi fedeli» disse Timur tornando verso la sua scrivania e prendendo un
piccolo contenitore ligneo da dentro un cassetto. «Ma d’altra parte, chiunque
venga a cercare la benevolenza di Ela deve comunque dimostrare di meritarla.
Quindi
mi capirai se adesso ti chiederò di sopportare una prova».
Sia
Carmy che Paris saltarono non visti sul posto,
guardandosi preoccupati in cerca di reciproche spiegazioni.
Erano
stati colti di sorpresa.
In
circostanze normali le prove di fede erano indispensabili per essere ammessi
nella comunità, ma per quanto Paris ne sapeva, e
aveva ripetuto più volte durante la fase di preparazione, l’aver ottenuto il
beneplacito di un reclutatore che garantiva per lui costituiva già di per sé
una prova di fede con cui un aspirante adepto poteva dimostrare la propria
volontà ad entrare a far parte del culto.
«Vostra
eccellenza, la parola del tuo umile servitore non è sufficiente?»
«Non
averne male, figlio mio. Purtroppo sono finiti i tempi in cui bastava
l’autorizzazione tua o dei tuoi pari per essere ammessi. Come ho già detto ci
sono tante persone da salvare, troppe, e quindi siamo costretti a fare una
selezione ancor più severa.
Solo chi
mostra di amare veramente la Madre Ela può essere degno di ricevere i suoi
insegnamenti».
Dalla scatoletta
Timur prese fuori una piccola pasticca rosso sangue,
offrendola a Carmy assieme ad un bicchiere d’acqua.
«Per
poter accettare e comprendere gli insegnamenti di Ela, devi anzitutto avere la
forza di confrontarti con i motivi che ti hanno condotto qui.
Questa
potente sostanza richiamerà a sé i ricordi più funesti del tuo passato. Dovrai
affrontarli, ma da essi ricaverai la forza necessaria a rinnegare tutto ciò per
cui sei vissuta fino ad oggi, e ad incamminarti per sempre sulla via della
Grande Madre».
Carmy
guardò la compressa, indecisa e un po’ spaventata.
Non
immaginava che le cose avrebbero preso una piega del genere, e temeva le parole
del priore.
Con il
suo passato era già difficile conviverci, e doverlo rivedere non era una bella
prospettiva.
Anche Paris era spaventato, se possibile ancora più di lei.
Cane era
stato chiaro parlando della salvaguardia di quella ragazza, e dal tono che lui
e il suo amico avevano usato era evidente che le loro non erano state minacce a
vuoto.
Per un
momento Carmy esitò, meditando l’idea di fare come le era stato detto e tirarsi
indietro, poi le tornarono alla mente tutti i suoi buoni propositi, e in un
istante rivide come in un film molti di quei motivi di cui aveva parlato Timur.
In fin
dei conti conviveva con quei ricordi ogni giorno da almeno due anni, e se
voleva dimostrare una volta di più di essere cresciuta doveva avere la forza di
affrontarli ancora una volta.
Chiusi
gli occhi, e trattenendo il respiro, la ragazza afferrò la pillola, e senza
neanche aiutarsi con l’acqua la ingurgitò.
I primi
effetti si fecero sentire quasi subito, sottoforma di un bruciore alla gola che
diventava ogni secondo più forte, poi ad esso si aggiunsero conati, dolore in
varie parti del corpo e, in ultimo, un insopportabile e lacerante fischio nella
testa.
Carmy si
sforzò di mantenere il controllo come le era stato insegnato, nel timore che
lasciandosi andare avrebbe reso l’effetto della droga ancora più violento, ma
la sua resistenza durò meno di qualche minuto.
Sopraffatta
dal dolore, cadde sul pavimento sporco tenendosi la testa, gli occhi
innaturalmente aperti e la bocca piegata in un’esclamazione di dolore che non
le riusciva di esternare; Paris tentò di aiutarla, ma
venne bloccato da Timur, secondo lui era necessario
che Carmy riuscisse a cavarsela da sola.
La
ragazza tentò di tacitare il fiume di pensieri che con l’andare dei secondi
avevano preso a riaffiorare dalla sua mente come un vulcano in eruzione, ma il
dolore era così forte che in poco tempo perse il controllo delle sue stesse
emozioni, e a quel punto, sopraffatta dai ricordi, svenne.
Era una tradizione
consolidata che università, aziende prestigiose e persino le forze armate
facessero proselitismo nelle accademie, nelle scuole superiori e persino nelle
scuole di magia di tutta la nazione, soprattutto verso il finire dell’anno
scolastico.
Gli
stregoni di buona caratura o con un avvenire promettente servivano come il
pane, in ogni ambito di ogni settore, e trovarli quando erano ancora grezzi era
una priorità.
Per
questo motivo le scuole organizzavano seminari ed incontri con gli studenti,
spesso abbinati ai festival della cultura e dello sport che si tenevano
all’inizio dell’estate, durante i quali i ragazzi avevano modo di orientarsi e
decidere il proprio futuro.
La
scuola militare di Darmigan, cinque chilometri dal
villaggio di Mablith, era considerata una delle
accademie di magia più ostiche di Caldesia, e per anni aveva sfornato ufficiali
e soldati scelti di ogni campo, dalla medicina agli alti comandi.
Carmy vi
era stata iscritta da suo padre appena compiuti i quindici anni, e da allora vi
aveva trascorso un intero triennio nove mesi all’anno, dividendosi tra
l’edificio scolastico e i convitti che stavano all’interno del campus.
Non si
era fatta molti amici, anche per via del suo carattere un po’ chiuso, e dopo
tre anni ancora non sapeva cosa vi facesse in un posto simile.
Ovviamente
il desiderio di suo padre, da fervente patriota quale era, era di vederla un
domani arruolata nelle forze armate come medico militare, ma il pensiero di
dover affrontare un altro decennio di studio condito da tre anni di internato
per la specializzazione era abbastanza da toglierle il sonno.
Non si
sentiva portata per quella strada, ma d’altra parte non sapeva in che altro
modo poter mettere a frutto ciò che aveva appreso lì dentro, e per quasi tutta
la giornata degli incontri non aveva fatto altro che transitare distrattamente
tra una bancarella e l’altra, quasi sorda alle parole al miele riservatele dai
vari reclutatori e troppo presa dai suoi pensieri per prestare attenzione a
quanto scritto sugli innumerevoli depliant informativi che di volta in volta
andavano a riempire le tasche della sua uniforme bianco sporco da studentessa
dell’accademia.
Tutte
quelle persone le parlavano in modo troppo distante, troppo asettico, per
suscitare in lei una qualche reazione.
Non
sembravano uomini, ma solo cacciatori di teste quali erano, interessati non
tanto alle persone da reclutare quanto, per l’appunto, a trovarne il più
possibile, perché la prima cosa che contava in quel genere di manifestazioni
era il numero di candidati che si era riusciti a fare propri.
Solo un
uomo riuscì ad accendere il lei una scintilla di interesse.
Era un
tenente, non troppo giovane ma neanche anziano, e di tutta la marea di facce
incontrate o intraviste nell’arco di quella giornata la sua era l’unica che
Carmy, a distanza di quattro anni, riuscisse a ricordare con una certa
nitidezza.
Non
aveva mai saputo come si chiamasse, ma ne ricordava ancora le fattezze, tra cui
una sparuta barba scura, capelli riccioluti tendenti al nero e penetranti occhi
marroni, da soldato di ventura, che nonostante le molte prove sopportate nella
vita non aveva perso la propria umanità.
Carmy
ascoltò ciò che quell’uomo aveva da dirle prima ancora di comprendere appieno
davanti a quale bancarella fosse capitata.
Solo
quando sentì nominare la MAB le venne in mente di leggere il nome riportato sui
volantini, ma già dalla poca gente che gravitava lì attorno avrebbe dovuto
immaginare di essere capitata davanti al banco del TMD.
Nella
regione di Midgral era più facile incontrare una
mosca bianca che un sostenitore dell’agenzia, e nelle campagne la situazione
era se possibile anche peggiore.
Eppure,
nonostante tutte le storie che aveva sentito da suo padre e dai suoi compagni
di accademia, Carmy non riuscì a non scorgere qualcosa di molto umano in
quell’uomo, che le dava un senso di quiete e di sicurezza.
Le
avevano sempre detto che la MAB era quanto di più corrotto ed ipocrita vi fosse
al mondo, ma vedendo la sincerità e la forte volontà che scintillava in quegli
occhi veniva quasi difficile riuscire a crederlo.
«Non
dovresti ascoltare tutte quelle favole sul nostro conto» le aveva detto con un
sorriso l’anonimo tenente. «Il TMD non è quell’accozzaglia di mercenari e
assassini che tutti dicono. Tutto quello che facciamo è proteggere l’incolumità
delle persone.»
«Però»
obiettò Carmy quasi a volersi uniformare alla massa. «Siete pur sempre una
squadra d’assalto. Quando intervenite voi, quasi sempre qualcuno muore.»
«Le
persone, o meglio, le creature che uccidiamo di fatto sono già morte. Sono
morte nel momento in cui la magia in cui riponevano fiducia le ha tradite e
corrotte. È vero, il nostro spesso è un lavoro sporco, ma se noi non
uccidessimo quelle creature, molte altre persone rischierebbero la loro vita».
Secondo
alcuni il problema non era tanto nel TMD, del quale bene o male tutti
riconoscevano l’importanza e l’utilità, quanto il fatto che restasse sempre e
comunque una divisione della MAB, con tutte le inevitabili e spiacevoli
conseguenze a livello di immagine.
«La
gente tende a vedere la MAB come una sorta di anatema» disse ancora il tenente.
«Un mostro dal quale difendersi.
È vero,
forse certi suoi comportamenti sono difficili e difficilmente tollerabili, ma è
anche vero che senza l’aiuto dell’agenzia la civiltà che è stata costruita su
questo mondo probabilmente non si sarebbe mai formata, o si sarebbe sgretolata
sotto il peso della naturale imperfezione umana».
Era un
discorso che non faceva una grinza, ma che nessuno si sarebbe mai sognato di
fare alla luce del sole.
Tutti su
Celestis credevano, o volevano credere, di vivere in una società al limite
dell’utopia, dimenticandosi che i veri mali, quelli che avevano più volte
portato l’umanità al limite dell’estinzione, non erano certo derivati dal loro
grado di civiltà, ma da qualcosa di diverso, che veniva da dentro di loro e che
mai sarebbe scomparso.
«La MAB
vuole assicurarsi che il sogno che ha condotto qui i nostri antenati non vada
perduto. E per farlo, ha bisogno anche di noi.
E poi,
le squadre TMD che abbattono gli EDA sono solo la punta dell’iceberg della MAB.
Dietro di loro ci sono tecnici, scienziati, ricercatori, e persino medici. La
MAB è come una grande famiglia, dove ognuno fa la sua parte.
Certo,
bisogna dimostrare di avere le caratteristiche per entrare in questa famiglia,
ma una volta che si viene a farne parte, e parlo per esperienza personale, si
può assaporare la convinzione di stare facendo qualcosa di utile per questo
mondo come non sarebbe possibile in nessun altro ufficio, azienda o istituzione
di questo mondo, puoi credermi».
Forse fu
il carisma di quell’uomo, o forse l’intima convinzione di aver sempre saputo
dentro di sé che le cose erano davvero così, o ancora il voler convincersi che fossero
così, fatto sta che fu in quel momento che Carmy iniziò a maturare la propria
decisione.
Sapeva
che non sarebbe stato facile. Sapeva di rischiare tutto, a cominciare dalla sua
stessa vita, che non sarebbe più stata la stessa, ma con il passare dei giorni
la voce dentro di lei divenne sempre più forte, al punto da non poter più
essere ignorata.
Alla
fine, sentì che la sua strada era tracciata. Non le restava altro da fare se
non percorrerla.
Carmy sapeva fin troppo
bene cosa sarebbe successo se la sua famiglia avesse saputo la verità, e per
questo scelse di mantenere il segreto.
Non
voleva mentire ai suoi genitori, ma aveva anche paura che potessero fermarla,
così per i mesi a venire non disse nulla, glissando l’argomento quando
possibile con frasi di circostanza e illusorie promesse, nell’attesa di trovare
il momento e la forza per essere sincera.
Quella
forza non la trovò mai, almeno fino al giorno in cui, terminata l’accademia ed
espletati tutte le pratiche necessarie, in una fredda domenica invernale suo
padre la vide rientrare in casa da un viaggio di natura ignota a Midgral indossando l’uniforme blu oltremare dell’agenzia.
A sua
madre cadde il vassoio, frantumando il servizio da tè regalatole dal fratello
il giorno del suo matrimonio, mentre suo padre, calmati i battiti del cuore
dopo aver quasi rischiato l’infarto, digrignò i denti come una belva furiosa.
«Che
cosa hai fatto, maledetta?» ringhiò gettando a terra tutti i premi e i
riconoscimenti ricevuti in anni di onorata carriera come medico accuratamente
disposti su una mensola del soggiorno.
Ally, che
allora aveva sette anni, pianse nel sentire tutto quel baccano, venendo
immediatamente condotta via da sua madre, cosicché padre e figlia potessero
stare da soli.
Carmy
rimase composta e rispettosa, come le era stato insegnato, sedendosi alla sua
solita poltroncina del salotto, e dinnanzi al suo austero genitore annunciò,
educatamente ma con fermezza, quella che ormai era una decisione dalla quale
non poteva più tirarsi indietro.
«Io
voglio fare qualcosa di buono per le persone.» disse sforzandosi di trattenere
le lacrime «So di averti deluso, ma spero che vorrai cercare di capirmi.
Io ti
ammiro tantissimo. Sei un grande medico. Ma io non sono come te. Non riuscirei
mai ad essere al tuo livello. Devo fare qualcosa di cui sentirmi fiera.»
«E
lavorare per quella maledetta agenzia che vampirizza da secoli il nostro mondo
la consideri una cosa di cui andare fieri?»
«La MAB
sta cercando di proteggere il sogno che ci ha condotti su questo mondo, padre.»
«La MAB
quel sogno lo ha stuprato! Era una semplice forza di polizia sulla Terra, ora è
una organizzazione internazione che si arroga il diritto di fare tutto quello
che vuole, e che nasconde i suoi propositi di dominio dietro finti ideali! E tu
sei stata così stupida da credergli!»
«Io
voglio credere che sia così, padre. E se un giorno dovessi scoprire di essermi
sbagliata, allora sarò pronta a venire da te implorando il tuo perdono. Ma fino
a quel giorno, semmai dovesse arrivare, voglio fare tutto quanto è in mio
potere per renderti orgoglioso di me.
Anche io
voglio essere di aiuto alle persone proprio come fai tu ogni giorno curando i
pazienti dell’ospedale, ed è per questo che mi impegnerò con tutta me stessa.
Tra
pochi giorni sarò trasferita a Kyrador. Mi hanno assegnata alla procura
distrettuale. So che non è molto, ma grazie alla determinazione e ai valori che
mi hai insegnato spero di riuscire a conquistare una posizione di rilievo, che
mi permetta di poter davvero fare qualcosa per riuscire nell’obiettivo che mi
sono imposta.
Ma prima
di farlo, anche se so di averti delusa, vorrei che tu mi dessi la tua
benedizione. Non ti chiedo di appoggiarmi, solo di capirmi, come donna, e
soprattutto come figlia, che vuole onorare suo padre. Niente di più».
La risposta
arrivò nello spazio di un batter di ciglia, e fu la peggiore.
«Tu hai
smesso di essere mia figlia nel momento in cui hai indossato quell’uniforme.
Vattene subito da questa casa, e fino a quando ce l’avrai addosso non osare
mostrarti di nuovo ai miei occhi».
Carmy
avrebbe voluto piangere, ma mantenne il controllo, ostentando nel suo sguardo
l’espressione più risoluta che il dolore provato intimamente le consentiva, e
chinata la testa in un rispettoso saluto lasciò quella casa per non farvi mai
più ritorno, con i singhiozzi di sua madre a fare da unica, desolante canzone
d’addio.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Mi sono preso una breve pausa da questa
storia, che come qualcuno probabilmente già sa è servita a realizzare la storia
breve I Love You, Kyrador, che da tempo serbavo il
desiderio di scrivere.
Non si è trattato della prima storia breve
dedicata all’universo di Tales, infatti ne ho già in
fase di studio altre due, che saranno pubblicate tra qualche tempo e che, posso
già anticiparvelo, racconteranno la prima il viaggio delle navi coloniali e la
seconda il periodo immediatamente successivo all’approdo di queste su Celestis.
Vi anticipo subito che, dati i contenuti e
il tipo di ambientazione, probabilmente non le pubblicherò qui nella sezione
fantasy, ma in quella dedicata alla fantascienza.
Ecco, ho detto tutto.
Questo è un capitolo molto importante, poiché
come avete visto viene svelata una parte del passato di Carmy, e con l’andare
del tempo scopriremo sempre più cose relative alle vicende personali dei vari
protagonisti.
Carmy scattò in piedi, la
fronte sudata e gli occhi fuori dalle orbite, lanciando uno straziante grido di
dolore.
«Sta
calma» le disse Paris, in piedi accanto a lei,
afferrandole le spalle. «È tutto finito».
Solo il
un secondo momento, quando gli effetti stordenti della droga iniziarono a
svanire, la ragazza si accorse di essere stata adagiata sul divanetto
dell’ufficio.
La testa
le faceva ancora un gran male, e per quanto ci provasse non riusciva a
scacciare quelle immagini così dolorose. Non avrebbe mai immaginato di rivivere
quell’esperienza in modo così nitido, né che farlo le sarebbe costato un tale
supplizio.
Timur era
ancora lì, seduto alla propria poltrona, e la scrutava enigmatico, rigirandosi
una penna tra le dita.
«Avresti
dovuto dare retta a tuo padre, ragazza mia» le disse a metà tra il rimprovero
ed il tentativo di consolarla. «La MAB non è posto per le persone sincere e di
buon cuore come te».
Carmy
sussultò. Allora non solo quell’uomo l’aveva costretta a rivivere i suoi
ricordi più tristi, ma era anche stato in grado di guardarli, sicuramente con
qualche espediente magico.
«Perdona
l’esperienza. Immagino non sarà stato piacevole. Ma come ho già detto, solo
coloro che accettano di affrontare il dolore che hanno nell’animo e di
guardarlo negli occhi sono degni di ricevere la luce e la saggezza di Ela.
Se devo
essere sincero, non credevo che avresti avuto il coraggio di fare ciò che hai
fatto. Una volta tanto le mie iniziali impressioni si erano sbagliate, e
umilmente lo riconosco».
Alzatosi
dalla sedia Timur si avvicinò a Carmy, porgendole la mano
per aiutarla a rimettersi in piedi.
«Benvenuta
nella nostra umile confraternita, figlia mia. Da oggi, questa sarà la tua nuova
famiglia».
Una
strana sensazione si destò nel petto di Carmy, come una sorta di strano ed
inquietante calore, che la ragazza faticosamente tacitò rammentando a sé stessa
il vero motivo per il quale si trovava lì.
«Lei
umilmente vi ringrazia, vostra eccellenza. E farà di tutto per dimostrare la
sua riconoscenza.»
«Che la
benedizione di Ela scenda su di te. Scoprirai ben presto quanto amore e quanta
grazia la nostra grande madre possa far discendere su chi ha fede ceca in lei e
nei suoi ministri».
Il presidente Fujitaka non aveva avuto neanche il tempo di ambientarsi
all’interno del palazzo presidenziale che subito era stato costretto, in
concomitanza con l’inizio del periodo più caldo, a spostarsi nella residenza
estiva ufficiale di Grober Hall, nella regione
centrale delle Monagan Mountains.
Lassù
era un vero paradiso, un piacevole trionfo di basse montagne coperte di pascoli
e foreste baciate da un sole che riscaldava al punto giusto, dove soffiava
costantemente un piacevole vento frizzante profumato di erbe e l’unica
compagnia, nel raggio di decine di chilometri, era quella offerta dalla natura.
La
residenza era, se possibile, ancor più sfarzosa di quella di Kyrador, e benché
fosse realizzato per buona parte in legno la sua forma aggraziata, richiamante
vagamente una elle, era una gioia per gli occhi e per il cuore. Con quel vasto
portico che correva lungo tutto il perimetro della casa, quel tetto scuro e
spiovente per impedire alla neve di depositarsi, e quella suggestiva terrazza
panoramica ancorata alla roccia e sospesa sul nulla, dalla quale si poteva
ammirare per intero il grandioso spettacolo delle Monagan
Mountains, dal Monte Sorel fino al Monte Libra,
sembrava una casa dei sogni, dove per secoli i presidenti di Caldesia si erano
potuti concedere momenti di solitario riposo lontani dal caos e dai mille
problemi della grande città.
All’interno,
nel grande salotto da dove attraverso la porta finestra si poteva arrivare in
terrazza, la storia della villa correva lungo la parete, attraverso i ritratti
dei più illustri tra coloro che l’avevano abitata. L’unica differenza rispetto
alla Sala della Gloria che nel palazzo presidenziale di Kyrador faceva da
cornice ai numerosi incontri pubblici era che lì vi erano solo alcuni degli
oltre cinquanta presidenti che si erano succeduti alla guida della nazione,
coloro che maggiormente avevano contribuito a segnare il destino non solo di
Caldesia, ma del mondo intero.
C’erano
il presidente Williamson, il Patriarca, primo presidente
della storia caldesiana; il presidente Steins, l’Innovatore, che aveva proposto la riforma sulle
leggi magiche che era alla base dell’attuale codice internazionale sulla
stregoneria; il presidente Chen, l’Ostinato, che
aveva guidato Caldesia negli anni più difficili della Guerra Fredda e della
contrapposizione globale tra Agenzia e Chiesa; il presidente Stoodman, il Magnifico, che aveva firmato il Trattato di Ebridan che aveva messo fine alle tensioni; il presidente Hidwing, il Mecenate, patrono delle arti, della cultura e
della scienza, amante della filosofia e della storia, che tanto aveva fatto per
rendere Caldesia il centro della cultura mondiale gettando le basi per il
Secolo dell’Oro; e, infine, il presidente Martens,
uno dei pochi presidenti donna che Caldesia avesse mai avuto, la Donna di
Ferro, che al prezzo della sua stessa carica aveva epurato i palazzi del potere
da fanatici e sovversivi.
Connor e sua
moglie si concessero un po’ di tempo per esplorare tutta l’abitazione, mentre
il solito picchetto di sicurezza montava la guardia rendendo anche un luogo
sperduto e apparentemente alla portata di tutti come quello a prova di intruso.
«Chissà.»
disse Ingrid «Forse un giorno ci sarà anche il tuo ritratto in questa stanza.»
«Ne
dubito, se non mi danno prima il tempo di fare qualcosa» commentò Connor a metà tra il sarcastico e il rassegnato. «Sono
presidente da neanche un mese e mi obbligano a venire in questo posto fuori dal
mondo a guardare gli uccellini e pisolare sull’amaca.»
«È una
tradizione consolidata che il presidente spenda la prima settimana del settimo
mese in questo chalet. In fin dei conti hai trascorso gli ultimi nove mesi a
fare la spola da una piazza all’altra per i tuoi comizi elettorali. Direi che
una vacanza te la sei meritata» poi Ingrid sorrise ironica. «E poi la montagna
ti è sempre piaciuta».
Connor la
guardò, andandole incontro, e scambiandosi con lei un fugace ma amorevole
bacio.
«Ti
odio» disse lui. «Riesci sempre ad avere ragione.»
«Sono
pur sempre tua moglie».
Uno
sgradito bussare alla porta interruppe sul nascere quel momento sereno.
«Signor
presidente.» disse Potter, il nerboruto e minaccioso gigante nero che negli
anni aveva protetto ben quattro presidenti come capo della scorta d’ordinanza
«Ho fatto preparare la macchina, come aveva chiesto.»
«Molto
bene. Ho propria voglia di andarmi a fare un giro al villaggio» poi guardò la
moglie. «E questa sera, cena al ristorante. Era da tanto che non lo facevamo.»
«Lo
vedi? Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto».
Potter
fece per lasciarli nuovamente soli quando il suo comunicatore prese a
squillare, e lui, senza pensarci, rispose prima di chiudere la porta.
«Doug.»
disse riconoscendo la voce del suo collega, che aveva lasciato a guardia del
palazzo presidenziale «Come ti salta in mente di chiamarmi al lavoro? Sono con
il presidente».
Poi i
suoi occhi si spalancarono, e lui si fece pallido come un morto.
«Che
cosa hai detto!?» esclamò venendo udito in tutta la casa e guadagnandosi uno
sguardo perplesso da parte della coppia presidenziale «Starai scherzando
spero!»
«Che è
successo?» chiese preoccupato Fujitaka
«Presto
signor presidente, accenda la televisione».
Connor e Ingrid
si guardarono tra loro preoccupati, quindi la first lady usò il suo talento per
far accendere da sé il televisore affisso tra i ritratti dei presidenti Williamson e Chen, e ciò che
videro e sentirono nei minuti successivi avrebbe fatto rivoltare nella tomba
quegli uomini straordinari.
«Interrompiamo
tutti i programmi per una edizione straordinaria, e ci colleghiamo
immediatamente con la nostra inviata a Kearney.
Conney, ci
sei?».
La
telecamera, abbandonato lo studio della CNN, si accese su quello che sembrava
davvero un teatro di guerra, con boati, urla e piccoli incendi, che con la loro
luce spettrale accendevano la notte di una città, Kearney,
immersa in una innaturale e spaventosa oscurità.
Alle
spalle della giovane giornalista, rinchiusa all’interno di una barriera
protettiva corporea e talmente spaventata da trovare a stento la forza di non
scappare, vi era la centralissima Piazza di Luglio, affollata all’inverosimile
di gente che gridava e scandiva cori, sovrastata di quando in quando da
violente scariche di armi da fuoco.
«La
situazione è precipitata qui nella Repubblica di Amara. Circa sei ore fa,
quando qui era da poco passato mezzogiorno il ministro dell’economia Ziros ha annunciato la sua uscita dalla coalizione che
sosteneva il governo del presidente Borte, e appena
la notizia si è diffusa la gente è scesa in strada scatenando una vera e
propria guerriglia, sostenuta persino da elementi della polizia e della guardia
cittadina. Solo poche ore dopo le dimissioni del ministro le truppe del generale
Perry stanziate nella vicina base di Sidonai sono
entrate in città, ma invece che cercare di riportare l’ordine si sono unite
esse stesse alla rivolta.
La
polizia rimasta fedele al governo e la guardia presidenziale si sono arrese
quasi subito, e come potete vedere ora il palazzo è circondato dall’esercito.
Il generale
ha decretato la legge marziale, ma ciò nonostante le strade sono piene di
cittadini inferociti che danno la caccia ai membri del partito conservatore.
Correva
voce che il presidente avesse lasciato la città, ma da alcune indiscrezioni
pervenuteci negli ultimi minuti sembra che invece sia stato messo agli arresti
da parte dell’esercito assieme a tutta la sua famiglia e si trovi ora in
qualche caserma di polizia.
Il
presidente era diventato molto impopolare a seguito delle durissime manovre
economiche resesi indispensabili ovviare alla crisi energetica seguita agli
scandali sulla corruzione nell’industria pubblica dell’estrazione della magia,
e la bocciatura di tutte e tre le proposte di riforma avanzate dal ministro Ziros per privatizzare la rete abbattendo i costi avevano
reso Amara una polveriera che aspettava solo di esplodere.
Le
dimissioni del ministro sono arrivate al fallimento della quarta trattativa per
l’attuazione della riforma. Fino a stamattina sembrava che gli spiragli per
trattare fossero considerevoli, anche alla luce delle esortazioni giunte da
parte internazionale onde evitare l’esacerbarsi degli animi. Con l’uscita di
scena di Ziros però la manovra economica è diventata
esecutiva, e a quel punto la rabbia dei cittadini è esplosa violentemente in
tutta la nazione. Si segnalano infatti scontri anche nelle altre principali
città, e in questo preciso momento quanto resta del governo si è riunito per
concedere al generale i poteri speciali per riportare la situazione sotto
controllo.
Questo è
un vero e proprio colpo di stato».
Il
presidente e sua moglie si fecero pallidi come la morte.
Una cosa
del genere mai era accaduta prima d’ora, in nessuna nazione di Celestis.
Certo,
si sapeva che la situazione ad Amara non era molto florida, soprattutto da
quando erano venuti alla luce tutti quei casi di corruzione, ma come detto
dalla stessa giornalista nessuno si aspettava che la situazione potesse farsi tanto
grave.
Agli
occhi di Connor, poi, appariva sicuramente peggio di
come la vedevano la maggior parte delle persone e dei capi di stato di tutto il
mondo. Amara aveva rapporti molto stretti con Caldesia, ed era forse l’unico
vero alleato dell’Agenzia in Nuova Carolina, un faro in una tempesta di nazioni
filo-ecclesiastiche.
Il
servizio non era ancora finito che squillò anche il comunicatore di Ingrid, che
proprio nei momenti come quelli era chiamata a svolgere al meglio il suo ruolo
di assistente.
Questa
volta, era il Ministro degli Esteri in persona.
«Sono
Ingrid. Sì, signor ministro. Sì, sappiamo già tutto. … Ho capito. … Và bene. La
prego, teneteci informati.»
«Che
cosa hanno detto?» domandò Connor con un filo di
voce, quasi che la sua mente non si trovasse più lì
«È stata
convocata una seduta di emergenza del governo, ed è stato richiamato il nostro
ambasciatore.»
«Sì, capisco…».
Ingrid
strinse la mano del marito, che la guardò con aria assente e confusa.
«E ora
che facciamo?» le chiese lui, il presidente
«Dobbiamo
sforzarci di tenere la questione circoscritta. Se intervenissero le Nazioni
Unite, gli equilibri del potere in Nuova Carolina potrebbero venire stravolti.
D’altro canto Amara è l’unica nazione davvero fedele alla MAB del suo
continente, e anche se trovo difficile che vi possano essere contaminazioni
ecclesiastiche sotto una dittatura militare non possiamo permettere che vada
alla deriva».
Gli
occhi spenti del presidente si posarono su Ingrid, quasi alla ricerca di un
modo per tornare a brillare specchiandosi in quelli forti e senza paura della
donna.
«Hai
ragione.» disse cercando di mostrarsi più risoluto «In questo caso, credo sia
meglio rientrare subito a Kyrador» e si rivolse a Potter, che non se n’era mai
andato. «Chiama l’aeroporto, e fai preparare l’aeronave.»
«Sì,
signor presidente.»
«No
Potter, aspetta!»
«Ma, Ingrid…»
«Cerchi
di capire, signor presidente. Non dobbiamo mostrare timore, o far credere che
non siamo padroni della situazione. Se diamo l’idea di essere nel panico, i
nostri detrattori potrebbero spingere per costringerci a rimettere la questione
nelle mani delle Nazioni Unite, e se dovesse accadere le nostre possibilità di
azioni sarebbero seriamente compromesse.
Per
questo motivo, almeno a livello d’immagine, dobbiamo fingere che non sia
successo niente. Se il presidente interrompe le sue vacanze per seguire la
questione sarebbe interpretato come un segno del fatto che riteniamo questa una
situazione molto seria, e nazioni come Amaltea
potrebbero approfittarne, per non parlare dei partiti che ci sono avversi.»
«Loro mi
criticheranno anche se resto qui.» rispose rassegnato Connor
«E tu
lascia che critichino. Meglio dare fiato alle parole di dissidenti interni che
dover fare i conti col giudizio internazionale, non trovi?».
Connor
abbassò il capo, insicuro, ma alla fine si convinse che quella era la decisione
più giusta.
Così,
mentre a Kyrador il governo si riuniva in seduta di emergenza, lui come
programmato si recò in paese assieme alla moglie, ma con uno spirito ed un
morale molto diversi da quelli che si era inizialmente immaginato.
Valerian sedeva nel silenzio del capannone
abbandonato di Harris Island, non lontano dalla Statua dell’Esploratore che
svettava sull’estremità della punta settentrionale dell’isolotto.
Sembrava
che aspettasse qualcuno, e guardava continuamente in direzione del portone
spalancato, dal quale entravano incessantemente il fragore delle onde ed il
profumo della salsedine.
Una nave
da crociera fischiò all’orizzonte transitando nel braccio di mare tra l’isola e
Punta Dunier che collegava il golfo all’oceano: per
qualcuno iniziavano le tanto agognate vacanze estive.
Valerian
tornò per un attimo con la mente a quando era bambino, ricordando con un
sorriso i lunghi viaggi per mare con suo padre a bordo del loro magnifico yacht
privato, un vero castello delle favole galleggiante a bordo del quale poteva
immaginare di tutto, dall’essere un pirata all’arrembaggio di un ricco
bastimento al calarsi nei panni del comandante di una nave spaziale in
esplorazione nel cosmo.
Suo
padre era sempre molto disponibile nei suoi confronti, giocava spesso con lui e
non gli aveva mai fatto mancare niente, a differenza di sua madre, che di
contro gli aveva sempre fatto quasi paura, con quei suoi modi severi e la
rigida etichetta che aveva cercato di imporgli.
Crescendo,
si era reso conto che la vita reale tutto poteva essere meno che una favola,
soprattutto dopo che, un brutto giorno, tutto era finito, ed il mondo
fantastico in cui era vissuto era crollato fragorosamente come una casa
costruita sul fango, non lasciandogli nulla che non fosse una montagna di odio
e la voglia di vendicarsi.
Del
destino del suo Paese gli importava solo fino ad un certo punto.
Quello
che voleva davvero era restituire con gli interessi il favore fatto alla sua
famiglia dai loro presunti amici, quella massa indegna di politicanti e
affaristi che per salvare sé stessi avevano venduto il loro onore e distrutto
il casato dei Delaroche.
Quando
era riuscito a sottrarsi alla cattura sparendo nel nulla era convinto di essere
rimasto senza nulla. Poi, però, nel suo peregrinare senza meta da un capo
all’altro della nazione nascondendosi tra i rifiuti, qualcuno lo aveva
riconosciuto, ma invece che darlo in pasto alla giustizia gli aveva offerto
un’ancora di salvezza, promettendogli tutto quello che dal giorno della rovina
sua e dei suoi cari aveva bramato, oltre alla possibilità di raddrizzare una
volta per tutte quella società così marcia ed ipocrita.
Ed era
proprio il suo generoso benefattore che ora stava aspettando.
Poco
dopo mezzanotte, finalmente, si udì l’inconfondibile rumore di un potente
motore, e dopo qualche attimo una macchina di grossa cilindrata color pece
entrò lentamente nel magazzino, illuminando con i suoi potenti fari le pareti
sudice e le montagne di immondizia accatastate in ogni dove, tratto
quest’ultimo abbastanza comune nei luoghi dove erano soliti trovare rifugio
gentaglia e stracciaioli.
Valerian
attese che la vettura si fermasse e spegnesse i fari per avvicinarsi, ma pur
riuscendo ad intravedere una figura oltre il vetro scuro della portella del
guidatore, avendola riconosciuta, non si azzardò ad aprire, ben sapendo quanto
il suo finanziatore e partner tenesse al proprio spazio personale.
«Non
immaginavo che sarebbe venuto di persona» ironizzò all’indirizzo dell’ombra.
«Deve essere davvero una cosa seria.»
«Cerca
di non fare troppo lo spiritoso» rispose da dentro l’individuo con voce roca,
parzialmente distorta dalla barriera invisibile che proteggeva la macchina
«Questa storia non è affatto uno scherzo.»
«Ho
sentito la radio. Ma davvero è così grave come dicono?»
«No,
ragazzo. È anche peggio. Sapevo che era destinato a succedere, ma francamente
non mi aspettavo che la situazione ad Amara sarebbe precipitata così in fretta,
e in modo tanto violento.»
«Sbaglierò,
ma sono convinto che lei ci abbia messo del suo. A quanto ne so le amicizie non
le mancano.»
«Questo
non deve riguardarti».
In
realtà era vero.
Il suo
benefattore e finanziatore aveva un sacco di contatti in tutti i luoghi che
contavano, grazie ad anni di lungo e rispettato lavoro, e se non fosse stato
per lui tutti quei casi di corruzione nei vertici di Amara non sarebbero mai
venuti alla luce.
«Allora,
cosa succederà adesso?» chiese ancora Valerian
«Per il
momento è probabile che la faccenda rimarrà confinata in un ambito puramente
interno.
Amara di
fatto è lo stato satellite di Caldesia in Nuova Carolina. Sono convinto che
perfino l’Agenzia si muoverà in prima persona per tentare di arrestare il
problema prima che si ingigantisca troppo.»
«E lei
crede che ci riusciranno?»
«Che ci
riescano o meno, và comunque a nostro favore. Con la giusta pressione mediatica
si può ottenere tutto. La verità, in fin dei conti, è un concetto estremamente
relativo, e la gente di questi tempi è disposta a bersi qualunque cosa purché
sia credibile.
A tal
proposito, devo ammettere che state facendo un ottimo lavoro. Tra attentati
presunti e finti incidenti, i più scalmanati hanno già i nervi a fior di pelle.
Se andate avanti di questo passo, non ci vorrà molto prima che anche in questa
città la situazione inizi a farsi veramente seria.»
«Giusto
perché siamo in tema, Timur negli ultimi tempi sta
iniziando a dare parecchi problemi.»
«Quel
fetido animale di periferia» sogghignò l’ombra, lasciando scorgere a Valerian un sorriso divertito. «Si crede tanto importante.»
«Non mi
fido del tutto degli uomini di cui si circonda. Anzi, non mi fido affatto. Ma
il vero problema è un altro. Le sue richieste si fanno ogni giorno più esose, e
le mie risorse si stanno esaurendo rapidamente.»
«Te l’ho
già detto, mi pare. Non posso far sbloccare troppi tuoi conti. C’è il rischio
che qualcuno se ne accorga».
Valerian si
fece provocatorio.
«E se i
soldi finiscono e quel santone per ripicca decide di lasciare tutto, o magari
addirittura di andare a fare la spia?».
L’ombra
parve crucciarsi, e serrò i denti contrariata.
«D’accordo,
vedrò quello che posso fare. Tanto, questa sarà probabilmente l’ultima volta.
Quando avremo completato le ricerche sulla nuova Lilith, quell’approfittatore
schifoso non sarà più necessario».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Sono tornato.
Dai, questa volta ho aggiornato in modo un
po’ più rapido rispetto alle ultime volte, e prima di dovermi fermare
nuovamente per qualche altro giorno attorno alla metà di ottobre vorrei
comunque riuscire ad inserire almeno altri uno o due capitoli.
Ora la storia ha davvero preso una
direzione definita, e ci stiamo avviando a grandi passi verso la conclusione
della prima metà della vicenda,che
vedrà importanti sviluppi e farà passare leggermente in secondo piano, ma solo
in via temporanea, la questione relativa a Carmy e alla sua squadra.
Ringrazio tutti quelli che leggono questa
storia, ma anche coloro che semplicemente l’hanno inserita tra le preferite, le
seguite o le ricordate.
Le chiese di Ela erano
strutturate come un ufficio. Ad eccezione degli avanzi di galera e dei
disadattati che frequentavano il tempio solo per procurarsi la dose
giornaliera, i veri appartenenti al culto erano organizzati in una società a
piramide: esistevano dei gruppi, ed ogni gruppo faceva capo ad un responsabile
di livello più alto, il quale a sua volta faceva parte di un gruppo subordinato
ad una figura ancora più elevata, e così via fino alla cima della piramide.
Alla
base c’erano i discepoli, al di sopra dei quali vi erano gli apostoli. Ogni
apostolo aveva sotto di sé uno o più discepoli, ed il suo compito era più che
altro assicurarsi che non infrangessero le regole o minacciassero in qualche
modo l’integrità e la sopravvivenza della chiesa. Indottrinarli era compito dei
prelati, o di chi stava ancora più in alto.
Agli
occhi di chi occupava le zone più alte della piramide non vi era molta
differenza tra apostoli e discepoli; venivano trattati dai propri superiori
alla medesima maniera, con sufficienza e pugno di ferro.
In
verità, se possibile gli apostoli se la passavano anche peggio, poiché se
qualcuno dei discepoli sotto di loro creava qualche problema era il suo
supervisore il primo a risponderne, e in molti casi le punizioni tutto erano
fuorché indolori.
Carmy
era stata affidata alle cure di Noce, un giovane poco più grande di lei fresco
di promozione, il quale a sua volta si trovava a dover gestire il suo primo
discepolo.
Fin dal
momento in cui Timur li aveva presentati Carmy si era
sentita a disagio con lui. Oltre ad essere sgarbato e dalla bestemmia facile,
quel suo modo di fare così arcigno e supponente faceva venir voglia di
strozzarlo persino a qualcuno come lei, che tanti bocconi amari era stata costretta
ad ingoiare per opera di gente simile.
Oltretutto
non dava la minima importanza all’apparire, con quella camicia perennemente
sbottonata e il felpone grigio insozzato di chissà
quale delle numerose porcherie piene di unto che ingurgitava abitualmente; ed
era un po’ un peccato, perché invece di faccia era piuttosto carino, con quel
mento piacevolmente curvilineo, i penetranti occhi grigi e i lunghi capelli
scuri raccolti in un codino.
Eppure
non sembrava avere problemi di soldi. Ogni volta che qualcuno, non importava
chi, gliene chiedeva, lui prendeva fuori il suo borsello nero, chiuso da un
laccetto di cuoio color vino, ed elargiva la somma richiesta, a prescindere da
quale fosse, e senza mai pretendere a prima vista alcun tipo di garanzia per
riaverli indietro.
Sulle
prime Carmy aveva pensato fosse uno spacciatore, ma una rapida occhiata negli
archivi di polizia non aveva rivelato alcun precedente, neppure una
segnalazione.
«I casi
sono due.» aveva detto Cane al fallimento del controllo «O è stato molto bravo
a non farsi mai beccare, o i soldi che ha gli arrivano da qualche altra parte».
Alexia
aveva suggerito di non dare troppa importanza a Noce, visto che si trattava in
ogni caso di un membro troppo basso di grado, e di conseguenza troppo
insignificante, ai fini dell’indagine, ma l’istinto suggeriva a Carmy che c’era
qualcosa di molto strano in quel ragazzo, e voleva capirne di più.
Nel
frattempo, cercava per quanto possibile di non passare inosservata.
Come
adepta i suoi incarichi erano piuttosto basilari, per non dire irrisori. Doveva
tenere in ordine l’altare, partecipare a quante più messe ed incontri
possibili, e qualchevolta uscire a
raccogliere offerte da destinare alla comunità.
E poi
c’era la droga.
Ne
scorreva davvero a fiumi, e in tutte le formi.
Tutte le
mattine, prima di uscire di casa, si iniettava una dose di tumadoxone,
un agente artificiale che se iniettato o ingoiato per tempo annullava gli
effetti della maggior parte delle droghe, ma che ben poco poteva fare contro la
Lilith. Per fortuna non le era ancora capitato di dover provare il nettare blu,
e a dire la verità durante le prime settimane di indagine Carmy non aveva visto
girare una sola dose di quella roba all’interno del tempio.
Evidentemente
Timur non voleva lasciare tracce, e stando ai
controlli fatti da Cane e Lucas in giro per il cantiere persino gli spacciatori
in qualche modo riconducibili a lui si tenevano ad almeno due isolati di
distanza dal tempio, scappando al minimo segnale di pericolo.
La
polizia sembrava impotente, o forse più semplicemente, come suggerito
mestamente dal Capitano, era complice di tutto quel marcio. Se Marty aveva ragione sul fatto dell’accordo con la
corporazione, allora era plausibile che anche qualcuno nei comandi del
distretto avesse accettato di prendere una parte della torta in cambio
dell’omertà. Che nei distretti degradati ci fosse tanta corruzione era una cosa
che bene o male tutti sapevano, ma ogni volta faceva male.
Carmy
cominciava a sentire il peso di quell’incarico.
Doveva
mentire a tutti, anche a coloro di cui si era sempre fidata, a cominciare da Julienne, l’unica persona di quella immensa città con la
quale si fosse mai confidata a cuore aperto.
E poi
c’erano tutta la desolazione e la disperazione che doveva affrontare
quotidianamente al tempio. Lì dentro dilagavano fanatismo e follia, e quelli
che non avevano la mente ormai quasi completamente annebbiata dalla droga
passavano la giornata a farsi indottrinare dai sermoni dei predicatori durante
le messe.
Qualche
volta persino Timur prendeva la parola, e Carmy fu
quasi sorpresa nel sentire nelle sue parole molto meno odio rispetto alla
maggior parte dei suoi subalterni. La sua sembrava una sorta di cupa
rassegnazione, come una consapevolezza dell’impossibilità di cambiare quel
sistema che tanto detestavano, ma ciò nonostante segnata dal suo più assoluto
rifiuto.
Ogni
volta che assisteva ad una predica Carmy ripeteva a sé stessa che quello che
sentiva erano solo le assurde farneticazioni di fanatici integralisti, alle
quali non prestare ascolto per nessun motivo, eppure di contro qualche volta
era stata quasi rapita dalle parole e dal carisma del maestro.
Stava succedendo
anche quel pomeriggio, nel corso di uno dei tanti sermoni giornalieri.
Timur parlava
in modo così pacato, così apparentemente amorevole, che tutti nella cappella
pendevano dalle sue labbra.
«Non
abbiate paura di testimoniare quello che avete nel cuore.» disse camminando in
mezzo ai suoi adepti «Non abbiate paura di credere fino alla fine nella vostra
fede. Che vi accusino o vi deridano, non dimenticate mai che se lo fanno è solo
per ignoranza.
Il mondo
in cui viviamo ha inebriato ci ha inebriati tutti, a tal punto che abbiamo
abbandonato la retta via.
Ma voi,
ed io, ora sappiamo. Aprendo il cuore e la mente ad Ela, madre di tutte le
cose, ci è stato concesso di tornare a vedere. Di tornare ad esistere.
In
questo mondo che ha smarrito la via, perso nell’opulenza e in un crogiolo di
false certezze, noi siamo riusciti a squarciare il velo, e a vedere nuovamente
le cose per quello che sono.
Solo
attraverso una nuova e più armoniosa visione dell’esistenza, saremo capaci di
comprendere la vera felicità».
Nel
mentre Timur si era avvicinato a Carmy, che vedendosi
guardare negl’occhi avvertì il cuore batterle forte.
«E a
quel punto, quando avremo percorso fino alla fine il duro cammino verso la luce
di Ela, ci sarà dato di conoscere finalmente la vera felicità».
Terminata
la funzione gli adepti lasciarono alla spicciolata la cappella, ma Carmy invece
restò al suo posto, gli occhi rivolti a terra e l’espressione persa, confusa.
Una mano
poggiata sulla spalla la fece trasalire.
«Sta
attenta, Alice» le sussurrò Noce nell’orecchio. «Se ti addentri troppo nel
Paese delle Meraviglie, non ne torni più».
La
giovane si riscosse, ma quando si girò alle proprie spalle Noce aveva già preso
la porta.
Un
sospetto atroce si accese dentro di lei, tenendola inchiodata in quella
cappella deserta.
“Non mi
avrà mica scoperta?” pensò, non volendoci neanche pensare.
Rialzatasi,
gli corse dietro, riuscendo a raggiungerlo appena fuori dell’ingresso.
«Aspetta!»
lo chiamò. «Che stavi cercando di dirmi?».
Lui in
un primo momento non le rispose, guardando ora in alto ora in basso, e
sbuffando come contrariato.
«Ne ho
viste tante come te» disse girandosi finalmente a guardarla «Ragazzine borghesi
deluse dalla vita che si danno a questo genere di cose convinte che siano la
risposta a tutti i problemi. E sai dove le ho riviste dopo la prima volta? In
un sacco per cadaveri. O in alternativa, quando gli andava bene, in un centro i
igiene mentale, con il cervello completamente fuso».
Di
nuovo, Carmy sentì il cuore andarle a mille nell’istante in cui si vide fissare
dritta negli occhi.
«È
evidente che non sei fatta per un posto simile. Certo, i buoni propositi non ti
mancano, ma quelle come te da queste parti sono le prime a rimetterci la pelle.
Sia bene
inteso, non me ne frega niente che tu muoia o meno, ma visto che sarei anche io
ad andarci di mezzo se dovesse capitarti qualcosa, apprezzerei che tu te ne
andassi da qui il prima possibile.
Ti
saluto».
Detto
quello che aveva da dire, Noce riprese ad andare per la sua strada.
«Starò
via un paio di giorni. Ricordati di andare per offerte. Se serve, chiedi a Gustaph.» e se ne andò, lasciando la ragazza sola con i
suoi dubbi.
Jake era stato più che
contento quando, alla luce delle molte missioni sostenute e delle eccellenti
prestazionidimostrate, lui e la sua
squadra si erano visti assegnare due inaspettate settimane di permesso premio.
Ormai
erano diversi mesi che mancava da casa, tra l’addestramento e il nuovo
incarico, e senza stare a pensarci troppo su era salito sul primo treno diretto
ad est.
Mieza, il suo
paese natale, si trovava ad appena un centinaio di chilometri da Kyrador, ma
rispetto alla capitale sembrava di trovarsi in un altro mondo.
Soffici
colline coperte di prati si intervallavano a basse montagne, mentre le acque
del fiume Serk scendevano placidamente dal nord, tuffandosi
nel lago a pochi passi dal limitare della cittadina per poi riprendere, sulla
sponda opposta, nella loro corsa verso il mare.
La
campagna dominava incontrastata, e lasciato il villaggio si entrava in un mondo
quasi alieno, fatto di stradine strette e spesso sterrate, boschi di betulle,
immense distese di campi coltivati e, soprattutto, tanto silenzio.
Appena
sceso dal trenino campagnolo che lo aveva portato fin lì dalla vicina Easwick, l’uniforme verde sbiadito dell’unità ancora
indosso e la sacca militare a tracolla, Jake scorse, appoggiato ad un vecchio
fuoristrada coperto di fango, un signore di mezza età dall’aria gioviale, che
vistolo gli andò sorridendo incontro stringendolo in un caloroso abbraccio.
«Ragazzo
mio. Quanto tempo.»
«È un
piacere rivederti, zio Ernest.»
«Accidenti,
quanto sei cresciuto. Eri poco più di un moccioso quando ti ho visto salire su
quel treno diretto verso la grande città, e guardati adesso.
Un
militare.»
«Non
esagerare, zio.» scherzò Jake «Sono sempre quello di una volta.»
«Staremo
a vedere. Ora forza, vieni a casa. Tuo padre e tua madre non vedono l’ora di
rivederti».
Zio
Ernest era un amante della velocità, e avrebbe lanciato il suo vecchio macinino
a tutta forza anche in mezzo ad un campo minato. Dal canto suo Jake si era
ormai abituato alla sua guida folle, così riuscì a non farsi venire il
voltastomaco quando il parente, ingranata la quinta, si inerpicò come un pazzo
su per una strada stretta cinta da ripidi fossi che passava attraverso una
vasta distesa di alberi secolari.
Le ruote
grattavano l’asfalto consumato come gli artigli di una lince, e nonostante gli
anni che aveva sulle spalle il motore cantava ancora che era una meraviglia;
l’unica nota dolente erano le sospensioni, fattesi più rigide della pietra,
cosicché ogni più piccola buca a Jake sembrava un burrone.
«Le
strade di Kyrador sono tutta un’altra cosa, vero?» domandò zio Ernest vedendo
che Jake iniziava a sentirsi male
«Non
sarebbe un problema se tu guidassi con un po’ più di coscienza.»
«Sei
diventato proprio un moccioso di città. Quando eri piccolo non facevi che
chiedermi di andare più veloce.»
«Chiamala
incoscienza giovanile. Una cosa di cui tu invece non ti sei mai liberato».
Quella
specie di rodeo durò per almeno una ventina di minuti, poi, d’improvviso, una
vampata di luce colpì il parabrezza del pickup accecando momentaneamente Jake,
che riaperti gli occhi vide comparire dinnanzi a sé una verdeggiante e
sterminata distesa di campi, racchiusi come una perla all’interno dell’anello
di alberi che si erano appena lasciati alle spalle.
Jake
sentì un moto di calore nel petto.
Tutti
quei terreni baciati dal sole, quei campi di grano dove aveva speso la sua
infanzia, quelle viti in mezzo alle quali aveva corso nei pomeriggi autunnali.
E poi i canali per l’irrigazione, il laghetto artificiale dove fare il bagno, e
laggiù, infondo, la cascina, con i suoi tre imponenti edifici cinti da un basso
muro di mattoni.
Era il
piccolo feudo delle imprese agricole Aulas. Il suo
bisnonno l’aveva fondato, suo nonno l’aveva plasmato, suo padre lo aveva reso
prospero, facendone, oltre che una fiorente industria, anche una rinomata meta
turistica, frequentata da chiunque fosse alla ricerca di un angolo di
tranquillità non troppo lontano dalla caotica Kyrador.
Un
giorno, tutto quel ben di Dio sarebbeappartenuto a sua sorella Agnes, visto che lui aveva scelto di
rinunciare alla sua parte di eredità per inseguire il suo sogno; il sogno di
rassomigliare un domani alla persona che più di chiunque altro, ad eccezione
ovviamente della sua famiglia, aveva impresso un’impronta fondamentale nella
sua formazione.
Amava
quella terra, e amava farvi ritorno, e se quel giorno a scuola non avesse
incontrato il capitano probabilmente avrebbe percorso la stessa strada dei suoi
antenati, fatta di lavoro nei campi, cura del bestiame e svezzamento di una
nutrita prole.
Varcato
il cancello, Jake non attese neppure che lo zio parcheggiasse il furgone
nell’aia per correre incontro a sua madre Theresa, che vedendolo dalla finestra
della cucina lasciò perdere lo stufato per andare ad abbracciarlo saltando come
una scolaretta.
«Mamma!»
«Jake!»
disse lei mettendosi in punta di piedi per potergli arrivare al collo. «Finalmente
sei a casa! Dopo tutti questi mesi.»
«Mi
dispiace di non essere più tornato. Sono successe delle cose, e per un motivo o
per l’altro…»
«Non
pensarci neanche. Quello che conta è che tu sia tornato. Questi mesi saranno
stati sicuramente duri, e chissà cosa ti avranno fatto ingurgitare in quella
caserma.
Ma ora
ci pensa la tua mamma a farti tornare il buonumore».
Nel
gergo della signora Aulas, buonumore era sinonimo di
pancia piena, così la donna, dato un ennesimo abbraccio al figlio, fece ritorno
in tutta fretta a quel suo personale regno chiamato cucina.
«Dov’è
papà?» domandò Jake guardandosi attorno
«È giù
al generatore tre» rispose lo zio, visto che Theresa ormai era già rientrata in
casa. «Quella vecchia massa di ferraglia si è rotto un’altra volta».
Jake
allora raggiunse il maneggio, sellò uno dei tanti cavalli usati per le
passeggiate turistiche e raggiunse il punto più distante della fattoria, ai
piedi della collina panoramica dove stava l’antenna che forniva energia
all’intero complesso.
Il generatore
tre era il più vecchio di tutti, e alimentava la corrente in tutta la parte
settentrionale della tenuta, ma proprio per la sua veneranda età aveva la
tendenza a guastarsi spesso.
Neanche
il tempo di smontare da cavallo, che dal casotto in legna e mattoni mezzo
nascosto dall’erba Jake vide sbucare fuori il suo vecchio, coperto di kryloetanolo condensato da sembrare un mostro.
TobiasAulas era un uomo che amava spaccarsi la schiena. Dalla vita
non aveva avuto in dono niente, perché se quella tenuta andava così bene era
dovuto soprattutto al duro lavoro che svolgeva ogni giorno.
Aveva
impartito la cultura del sudore anche ai suoi figli, ed essi l’avevano
acquisita, ma poi Jake aveva deciso di andare a cercare fortuna nella grande
città, sperando di diventare come il suo eroe. Un po’ a Tobias
gli era dispiaciuto, ma a giudicare dall’espressione serena e soddisfatta
impressa sul volto di quel figlio che rivedeva per la prima volta dopo tanti mesi
doveva essere stata un’esperienza positiva, e questo gli bastava.
«Eccolo il
mio ragazzo» disse togliendosi il largo cappello e abbracciandolo forte, poi
notò i capelli tagliati molto corti e sorrise. «E questi?»
«È il
regolamento.» rispose Jake passandovi una mano sopra
«Non c’è
che dire, tra quei capelli e la divisa sembri davvero un militare navigato.»
«Si è
guastato un’altra volta?»
«Già»
disse mestamente Tobias. «Dannato pezzo di ferraglia.
È da stamattina alle cinque che ci armeggio e non c’è verso di farlo
ripartire.»
«Posso
dargli un’occhiata?».
Tobias lo
guardò sorpreso.
«Fai
pure» disse, e sorridendo accompagnò il figlio nuovamente all’interno del
casotto. «Tuo zio continua a dire che dovrei decidermi a cambiarlo, e comincio
a pensare che forse abbia ragione. Ma lo sai come sono fatto.»
«Altroché»
replicò ironico Jake. «Un tirchio di prima categoria.»
«Do il
giusto valore ai soldi» puntualizzò il suo vecchio. «Che male c’è?».
Inginocchiatosi
davanti al possente e vecchio dispositivo coperto di polvere Jake vi passò una
mano sopra, nel tentativo di percepirne le vibrazioni.
«E ora
che stai facendo?» domandò interdetto Tobias
«Ogni
cosa in cui scorre della magia possiede proprie vibrazioni. Analizzando il modo
in cui l’energia vibra, è possibile riuscire a comprendere la natura di un
problema, ed eventualmente risolverlo.»
«È un’altra
di quelle tue corbellerie da stregone?»
«Non
sono corbellerie, papà. È scienza» rispose Jake continuando nel suo lavoro. «Ogni
cosa creata dall’uomo esiste in funzione della magia, persino questo
generatore. Persino tutta questa azienda.»
«Ho
sempre pensato che magia e scienza si escludessero a vicenda. E in un certo
senso, continuo a pensarlo ancora oggi. Come si fa a chiamare magia qualcosa su
cui ci pubblicano testi scientifici?»
«Il modo
di intendere la magia non è più quello di mille anni fa. Ogni cosa che esiste
nell’universo ha una sua logica, e comprendere questa logica è la chiave per
ottenerne il controllo. Questo concetto è all’introduzione di qualunque testo
di stregoneria».
Compreso
il problema, a Jake non restò altro da fare che incidersi leggermente un dito e
sfiorare la superficie del generatore; il macchinario fu avvolto da un
bagliore, coprendosi per un attimo di simboli arcani, quindi, dopo aver emesso
uno strano gorgoglio, riprese a funzionare, inondando nuovamente il casotto e
gli edifici vicini di energia.
Tobias rimase
di stucco. Sapeva che suo figlio era portato per la magia, perché il test
attitudinale lo aveva provato, ma non pensava che un domani sarebbe stato
capace di fare cose simili, non dopo che alle scuole medie non era mai stato
capace neanche di far accendere una candela.
«Soddisfatto?»
«Per me
è solo una grande perdita di tempo» tagliò corto il genitore. «Niente altro che
un costosissimo gioco di prestigio. E se penso che ho persino pagato per farti
imparare cose simili mi sento male».
Poi,
però, il vecchio padre sorrise, e allungato un braccio strinse amichevolmente
la spalla del figlio in segno di ammirazione.
«Bentornato
a casa, ragazzo.»
«Grazie,
papà.»
«E ora
forza, a casa. Non so tu, ma io è da stamattina che sto con una tazza di caffè,
e tua madre diventa sempre molto generosa con le portate ogni volta che ti fai
vivo.»
«Non
cambi mai».
Mentre lasciavano
il casotto, poi, a Jake tornò in mente una cosa.
«Non
vedo Gilas» disse riferendosi al tuttofare che
qualche anno prima Tobias aveva preso a servizio.
«Non era lui che di solito si occupava di queste cose?»
«Ti prego,
non me ne parlare.» tagliò corto suo padre apponendo il lucchetto alla porta di
legno «Maledetto il momento che l’ho preso a lavorare con me. Non hai idea di
quante volte l’ho beccato brillo o stordito per via della robaccia che si
procurava in paese.
Mi dicevo
sempre, quelli come lui hanno bisogno di comprensione, così impareranno e
troveranno la strada giusta. Risultato, sono rimasto fregato.»
«Se n’è
andato?!»
«Una
settimana fa, più o meno. Da un giorno all’altro ha preso le sue cose ed è
sparito. Ha anche pensato bene di portarsi via qualche centinaio di kylis che tenevo in un cassetto. Sai che ti dico? Affari suoi.
La sua occasione io gliel’ho data, ora che si arrangi».
Nella notte di Caldesia, un
autocarro percorreva quasi in solitaria la superstrada che collegava tra di
loro le regioni del nord e del sud, uno dei pochi tracciati che non avesse un
collegamento diretto con Kyrador.
Era una
delle arterie più antiche della nazione, e nonostante non transitasse in
nessuna città degna di nota eccezion fatta per Midgral
era molto frequentata.
Noce
guidava da solo, immerso nel silenzio della cabina di guida, e ascoltava la
radio per tentare di restare sveglio.
Non era
la prima volta che faceva di quei viaggi. Timur si
fidava di lui, perché sapeva quanta importanza desse ai soldi, e al fatto che
non se ne avevano mai abbastanza.
Per lui
niente era troppo immorale o illegale, se la percentuale era sufficientemente
generosa.
La schietta
e semplice logica di pensiero di qualcuno che non chiedeva altro che di poter
abbandonare il buco schifoso in cui viveva.
Si fermò
in un’area di sosta, non lontano dal casello per accedere alla Superstrada Uno
che portava a Kyrador, e qui stette in attesa.
Non dovette
aspettare molto, perché meno di dieci minuti dopo due macchine comparve da
dietro la curva a fari bassi, fermandosi davanti e dietro al camion.
A bordo
di una c’erano due uomini, a bordo dell’altra uno solo, ma solo i guidatori
scesero per andare incontro a Noce, che a sua volta, smontato dall’abitacolo,
rimase appoggiato al portello rimasto aperto come a volerlo difendere.
«Mezz’ora
di ritardo.» esordì Lancillotto
«Non è
mica facile percorrere queste strade senza dare nell’occhio. E comunque,
stavolta siamo dovuti andarli a cercare molto lontano.»
«Per
quale motivo?» chiese Gareth
«Ci sono
state troppe sparizioni in città di questi tempi, e qualcuno ha iniziato a fare
troppe domande.
Questi,
per esempio, vengono tutti dalla zona di Easwick.»
«Sono
tutti in buona salute?» chiese Lancillotto
«Controllate
voi stessi, se volete.» rispose sprezzante il ragazzo.
I due
uomini, non troppo convinti, si fecero aprire il portello posteriore,
illuminando con una torcia una schiera di individui, quasi tutti vagabondi a
giudicare dagli stracci che li coprivano, sedati e incatenati alle pareti
laterali come tanti animali da macello pronti per la mannaia.
«Se non
altro sono migliori dei rifiuti umani dei distretti di Kyrador.» ironizzò Gareth «Questi almeno sembrano ancora capaci di reggersi in
piedi.»
«Mi
piacerebbe restare qui a chiacchierare con voi» tagliò corto Noce «Ma sono due
giorni che mi trascino dietro questo bestione per tutto il meridione, e vista l’ora
ho una gran voglia di andarmene a letto.
Allora,
concludiamo?».
Lancillotto
e Gareth si guardarono tra di loro, quindi Gareth lanciò al ragazzo le chiavi della sua macchina.
«I soldi
sono dentro. Prendi il tutto e sparisci».
Il ragazzo
non commentò né chiese spiegazioni, e richiuso il portello si avviò verso la
macchina.
Più di
una volta si era domandato cosa se ne facessero quei tipi che non aveva mai
conosciuto nello specifico di tutti quei drogati, straccioni e senzatetto che
raccattavano, vendevano e compravano come gli oggetti che erano, ma la cosa in
verità non gli importava minimamente.
Gli bastava
avere la sua parte, ed infilatosi nella tasca una parte dei soldi trovati nel
bauletto del passeggero mise in modo e se ne andò svoltando in direzione di
Kyrador.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Finalmente un po’ di pace.
Tra una cosa e l’altra sono stato un po’
impegnato in quest’ultimo periodo, ma finalmente un po’ per volta mi sono
liberato momentaneamente di tutte le scocciature e ho potuto riprendere a
scrivere.
Ora siamo davvero nel vivo della
questione.
Ben presto la situazione inizierà ad
evolversi a ritmi piuttosto sostenuti, per poi finire inevitabilmente per
precipitare, con tutte le inevitabili conseguenze.
Ora è probabile che mi prenderò qualche
giorno per dedicarmi ad altre storie, ma conto di aggiornare Tales in tempi piuttosto contenuti.
Poco lontano dall’appartamento
di Carmy c’era un piccolo parco pubblico, risibile rispetto al centralissimo Luminous Park in quanto a dimensioni e impianti sportivi,
ma all’interno del quale vi era comunque un piccolo centro di allenamento per i
praticanti di stregoneria.
Carmy vi
si recava con una certa regolarità, solitamente tutti i martedì e giovedì dopo
il lavoro.
I
programmi di preparazione in uso nella MAB e nella polizia militare erano
troppo avanzati per lei, per non parlare del rischio di rendersi ridicola
davanti ai propri colleghi, così preferiva esercitarsi lì, lontano da occhi
indiscreto e superiori dal giudizio facile.
La sua
specialità erano da sempre le barriere e gli scudi magici, che aveva
perfezionato nel corso degli anni e che erano da sempre in cima alla sua personale
lista di abilità conseguite durante gli studi accademici.
Generare
uno scudo era relativamente facile, perché richiedeva simboli magici molto
semplici e facili da tenere a mente, e in molti casi non necessitava neppure di
pronunciare una formula.
L’incantesimo
noto come Toirelles costituiva la base di partenza
per qualsiasi magia protettiva, e Carmy vi aveva apportato delle proprie
personali modifiche, ricavandone il Reditum e il GrandMirage.
Il Reditum funzionava come un muro di gomma, assorbendo metà
di un eventuale assalto per poi ritorcerne il restante contro chi lo aveva
lanciato; il GrandMirage
invece non era altro che una normale barriera difensiva riadattata a strumento
d’attacco, che una volta generata veniva scagliata sul bersaglio con un effetto
simile al diretto scagliato da una mano gigante.
Esistevano
centinaia di altri incantesimi nei testi di stregoneria che avevano simili
effetti, ma ciò che rendeva davvero speciale la magia era la possibilità per
gli stregoni di adattarla alle proprie esigenze, ed era anche grazie a questo
che l’attività di docenti e studiosi non aveva mai fine.
Il centro
era costituito da una decina di campi posti l’uno accanto all’altro, non tanto
dissimili da una qualsiasi palestra all’aperto, e fatto salvo l’utilizzo di
pallini di cuoio al posto delle proiezioni eteree era molto simile agli
impianti in dotazione all’agenzia.
Carmy
prese posto al centro della pedana, impostando una difficoltà media per non
strafare troppo, e tratto un lungo respiro spinse l’interruttore di accensione.
Subito i cinque cannoncini a levitazione posti a trenta metri da lei all’altro
capo del campo presero a sparare pallini nella sua direzione, spostandosi di
continuo da una parte all’altra per rendere tutto un po’ più difficile.
Il concetto
di quell’allenamento era cercare di respingere il maggior numero possibile di
pallini con le proprie capacità magiche, ma Carmy cercava in egual misura di
schivare e rispondere, anche perché la frequenza ed il numero di pallini che le
venivano scagliati contro al suo attuale livello erano troppi per poterli
respingere tutti.
In
questo modo si affinavano anche i riflessi, che come le era stato insegnato al
corso di preparazione erano una componente fondamentale per un aspirante membro
di qualunque reparto speciale.
Carmy si
difese bene, facendo tesoro della sua capacità di creare e maneggiare scudi
difensivi, riuscendo anche ad intercettare e distruggere alcuni bersagli quando
questi erano ancora ad una certa distanza da lei, e al termine della prima ondata
aveva incassato solo dieci colpi su oltre duecento che le erano stati scagliati
contro.
In altre
circostanze si sarebbe accontentata, ma quel giorno Carmy aveva troppa voglia
di mettersi alla prova e riavviò il programma quasi subito, aumentando anche di
due punti il livello di difficoltà. Si rese conto troppo tardi di aver forse
ecceduto nella spavalderia, ma nonostante tutto la sua continuò ad essere una
prestazione discreta, seppur con qualche sbavatura, tanto che mentre si
allenava fu notata da un nerboruto ma molto affascinante giovane uomo dai
capelli scuri che stava facendo un po’ di jogging lungo il vialetto che
costeggiava i campi.
Questi,
fermatosi per riprendere fiato, la notò, e colpito dalla determinazione che la
ragazza stava mettendo nel respingere quella pioggia di pallini stette ad
osservarla fino a che non ebbe finito.
«Una
buona prova.» disse quando Carmy tornò verso la panchina doveva aveva lasciato
l’asciugamano
«Non
ancora perfetta, però.» sospirò la ragazza
«Per la
perfezione c’è tempo. Certo il talento non ti manca. Che scuola di magia hai
frequentato?»
«L’accademia
militare di Darmigan, vicino a Mablith.»
«L’accademia
militare? Sei un soldato?»
«Più o
meno» rispose lei porgendo la mano. «Carmy O’Neill.
Sono nella polizia militare.»
«Julian Vyce. Istruttore capo.»
«Che
unità?»
«TMD».
Nel
sentir nominare il TMD, Carmy ebbe un sussulto. Aveva sempre ammirato chi ne
faceva parte, a differenza di una larga fetta della popolazione, e trovava il
loro un compito utile, anche se ingrato.
«Voglio
che sappia che non condivido per nulla quello che dicono su di voi.» si
affrettò a puntualizzare «Trovo che siate un grande corpo, che rischia
costantemente la vita per affrontare le situazioni più difficili».
Vyce la
guardò perplesso.
«Ammetto
che sentirmi dire una cosa simile da una ragazza così giovane mi fa un certo
che. Giovani e ragazzi sono tra i nostri più agguerriti detrattori di questi
tempi» quindi si lasciò scappare una risatina. «Forse è il tuo sangue di
sbirro.»
«Salvate
vite ogni giorno» replicò Carmy con la massima serietà. «Eppure certa gente non
trova niente di meglio da fare che gettarvi fango addosso. Io ammiro ciò che
fate e quello che siete, e non nascondo che un domani, semmai ne fossi degna,
mi piacerebbe molto entrare a far parte della vostra squadra».
Di
nuovo, Vyce rimase basito, e quasi si sentì scaldare il cuore nello scorgere la
sincera determinazione che bruciava negli occhi di quella ragazza.
Abbassò
la testa.
«Quanti
anni hai?»
«Ventidue,
signore.» rispose lei come una recluta davanti al suo superiore
«E
vorresti davvero entrare nel TMD?»
«Se un
giorno sarà possibile, sì.»
«Scordatelo».
Carmy
spalancò gli occhi, immobile come una statua.
«Perché,
signore?» balbettò a fatica
«L’hai
appena detto tu. Il nostro è un lavoro ingrato, oltre che molto rischioso. Ci
sono già troppi giovani e promettenti cadetti alle mie dipendenze che scalciano
per entrare, e so già fin d’ora che probabilmente vivrò molti più anni rispetto
ad alcuni di loro.»
«Gli
incidenti possono capitare» tentò di obiettare Carmy. «Che si faccia parte o
meno del TMD, il rischio di morire è una componente imprescindibile del nostro
lavoro.»
«Sì»
rispose Vyce allacciandosi una scarpa. «Ma quando sei nel TMD, quel rischio si
moltiplica per cento. Noi dobbiamo affrontare pericoli ai quali tutti gli altri
non oserebbero neppure avvicinarsi, e molto spesso dobbiamo pagarne pegno.
Ne ho
abbastanza di assistere ai funerali di giovani promettenti e capaci come te,
ragazzi che hanno gettato via la propria vita prima di poterla realmente
vivere.
Per
questo ti dico che forse è il caso che tu ti scelga un’altra strada. Puoi fare
molto per questo Paese e per gli altri senza bisogno di giocarti la vita».
Carmy
avvertì uno strano freddo, accompagnato da una sensazione come di smarrimento,
cosicché quando Vyce si allontanò riprendendo a correre non fu in grado né di
salutarlo né di guardarlo, tanto quelle parole così dure l’avevano ferita.
L’estate era il momento
dell’anno in cui la fattoria lavorava di più, e Jake, malgrado fosse tornato al
suo nido soprattutto per riposarsi, fu ben felice di dare il suo contributo.
La
mattina, assieme al padre e allo zio, si recava nei campi, dividendosi tra la
cura dei frutteti e quella degli uliveti. All’ora di pranzo tornava a casa per
aiutare sua madre e sua sorella a servire i clienti dell’albergo, quindi dopo
un momento di riposo all’ombra del porticato davanti all’ingresso veniva il
momento di dedicarsi alla mietitura.
Da
vecchio scorbutico nemico della tecnologia quale era il suo vecchio non amava
circondarsi dei moderni strumenti per facilitarsi il lavoro; tutto quello che
aveva era una vecchia mietitrebbia, un paio di autocarri per il trasporto di
merci e bestiame e tanto olio di gomito, oltre ad una schiera ben nutrita di
infaticabili braccianti provenienti per la maggior parte dagli altri paesi
della valle.
Per
velocizzare il lavoro, data la vastità dei campi, mentre la mietitrebbia
falciava da una parte gli uomini lo facevano da un’altra, più lentamente ma in
modo, a detta del vecchio, molto più rispettabile.
La
campana in cima alla torretta dell’edificio principale per tradizione scandiva
la fine del lavoro, e dopo un’intera giornata spesa a spaccarsi la schiena
tutti la salutavano con un generale sospiro di sollievo.
Jake
sentì una ondata di commozione nel sentirla suonare dopo tanto tempo, e
lasciata cadere la pesante falce che aveva brandito per ore senza mai posarla
si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore, che scivolando lungo il
torace nudo lo faceva quasi luccicare.
«Niente
male» osservò suo zio. «Credevo che la città ti avesse rammollito.»
«La
città non rammollisce» rispose il ragazzo, sornione. «Anzi, che tu ci creda o
meno, alle volte fortifica.»
«Ho
qualche dubbio. Ma nel tuo caso, mi riservo di decidere. Forza, torniamo
indietro».
Dopo una
molto salutare doccia rinfrescante, che servì a lavare via tanto il puzzo
quanto le fatiche, come quando era piccolo Jake si ritrovò seduto alla grande
tavola della taverna assieme a tutti i suoi parenti.
Alla
sera ci pensavano le inservienti e i camerieri assunti part-time ad occuparsi
del ristorante, così l’intera famiglia Aulas aveva
modo di consumare la propria cena in tutta tranquillità, e come al solito la
signora Aulas non si fece parlare dietro in quanto ad
abbondanza.
«Forse
dovrei chiedere ai superiori di proporti a responsabile della nostra mensa»
scherzò Jake vedendosi riempire il piatto dal cognato Pence
«Le porzioni che ci propinano laggiù sono terribilmente risicate.»
«Fossi
matta. Non baratterei mai questa bella valle con quella città così caotica. Non
sono fatta per posti simili, lo sai.»
«Allora,
Jake» intervenne Tobias, seduto come al solito a
capotavola. «Parlami ancora di questo capitano Vyce. A quanto pare, lo stimi
particolarmente.»
«Il
capitano Vyce…» disse Jake con gli occhi che
scintillavano come quelli di un bambino «È una persona molto speciale. Un
ottimo maestro. Certo, alle volte può sembrare una persona burbera, ma è
schietto e risoluto.
Non ha
paura di dire quello che pensa. E soprattutto, tiene ai suoi subalterni più di
chiunque altro io conosca. Sono certo che morirebbe pur di salvarne anche solo
uno.»
«Secondo
me tu sei innamorato.» disse Agnes indicandolo con la forchetta «Ne parli come
se fosse il tuo amante.»
«Non sei
spiritosa.» la ammonì la madre
«Eppure,
se non sbaglio non ha ancora raggiunto la quarantina. Come mai non è ancora in
servizio sul campo?»
«Questo
è una specie di mistero. In verità non è nemmeno nativo di Kyrador. Viene da Eldkin.»
«Un
montanaro.» commentò Pierce alludendo al più classico dei luoghi comuni che
distinguevano la terza città del Paese.
«Per
quanto ne so fino a cinque o sei anni fa era di servizio laggiù. Poi, nessuno
sa perché, ha ottenuto il congedo dal servizio attivo ed è stato trasferito a
Kyrador dopo aver ottenuto la promozione a capitano e la qualifica di
istruttore tattico.»
«Forse
si era stufato della vita in prima linea.» commentò ancora Tobias
«L’impressione
è questa» si incupì Jake. «Però, ogni tanto, ho come il sospetto che vi sia
anche dell’altro.»
«Tutti
hanno dei piccoli segreti. E non è cosa educata volerci ficcare il naso. Se
davvero non vuole che si sappia il vero motivo per il quale ha scelto di
ritirarsi, non c’è ragione per cercare ad ogni costo di scoprirlo.»
«Tu
prendi sempre le cose troppo alla leggera, papà.»
«E tu
troppo seriamente. Magari come detto era semplicemente stufo di rischiare la
vita tutti i santi giorni per quei quattro soldi che vi passano.»
«Quattro
soldi? È il ramo dell’agenzia che paga meglio. Vai a chiedere ai dipendenti del
tribunale o della procura distrettuale. Là sì che si può parlare di stipendio
da fame.»
«Personalmente
non baratterei mai il più ricco degli stipendi con la mia vecchia pellaccia. Ma
d’altra parte, se tu sei felice così, io come detto non ho il diritto di
metterci il naso. Tanto più che mi sembri convinto oggi come allora.»
«Adesso
però basta parlare di lavoro» intervenne la signora Aulas.
«Jake non è tornato a casa perché tu possa stressarlo con la tua filosofia da
maestro di vita».
Tutti
sorrisero all’ammonimento della sola e unica padrona di casa, e ben presto
l’argomento Vyce scomparve dalla discussione, per fare posto ad altri molto più
ameni ed innocui. In fin dei conti, si disse Jake, sua madre aveva ragione: se
lui era lì, era solo per riposarsi, e questo voleva fare.
Nella villa di campagna,
residenza estiva del Direttore Generale Van Adler, era in corso il più grande
ricevimento che la città ed i suoi più alti rappresentanti avessero mai visto,
tanto che i giornali lo avevano già da tempo indicato come l’evento mondano
dell’anno.
Il
padrone di casa festeggiava due ricorrenze molto importanti in quello stesso
giorno, e non si era badato a spese per renderlo speciale. Da una parte vi
erano i lodevoli settantacinque anni di vita lascatisi alle spalle, dall’altra,
ugualmente importante, il terzo anniversario dalla sua nomina a guida suprema
dell’Agenzia, che a detta di molti ne faceva l’uomo più potente del mondo.
Neanche
lo storico ricevimento per l’insediamento del nuovo presidente di qualche tempo
prima sembrava reggere il confronto, con la sterminata sala da ballo di Villa
Van Adler che pullulava letteralmente di stemmi, titoli nobiliari e teste
coronate.
Era un
trionfo di gioielli, decorazioni e abiti sfarzosi; molti erano persino arrivati
in carrozza, un mezzo di trasporto non nuovo alla ricca e raffinata nobiltà di
Kyrador, testimone un gusto per l’eleganza che faceva scuola nel resto del
mondo.
Come era
logico che fosse, non vi era responsabile, comandante o alto esponente di
qualsivoglia ufficio della MAB che non fosse presente, e tra le uniformi
bianche dell’aeronautica, quelle blu delle forze di sicurezza, e quelle nere
della polizia militare, sembrava di trovarsi ad una riunione generale degli
alti comandi piuttosto che ad una festa di compleanno.
Il direttore
generale faceva gli onori di casa, affiancato dalla sua affascinante consorte,
la granduchessa Sephira de Bois,
figlia del fu presidente Duvalier, e sorella
dell’attuale ministro degli esteri del governo Fujitaka,
che nonostante l’età appariva elegante e rispettabile come ai tempi della sua
più antica gioventù.
Anche le
molte giovincelle e giovani donne presenti alla festa però non sfiguravano,
anzi, pareva quasi che facessero a gara per farsi ammirare, tanto sfavillanti e
lussuosi erano gli abiti che portavano e le pietre preziose che sfoggiavano.
All’arrivo
della torta, una torre a sei strati che solo a guardarla faceva venire il
diabete, il capo della Polizia Militare Bargas prese
la parola.
«E ora,
signori» disse al microfono del palchetto dove si esibiva l’orchestra.
«Propongo un brindisi al più capace, caparbio, e cocciuto comandante in capo
che la nostra agenzia abbia mai avuto.
Che abbia
cento di questi giorni. Dopotutto, nessuno qui ha davvero voglia di prendere il
suo posto, ho ragione?».
Tutti risero,
soprattutto quelli che potevano aspirare davvero alla carica. Essere il capo
supremo della MAB portava potere ed influenza, ma le grane che spesso si che si
era chiamati ad affrontare superavano di gran lunga i vantaggi, per non parlare
del circo mediatico che si scatenava ad ogni più piccolo problema.
«Quindi,
cari amici, ad Archibald Van Adler!»
«Ad Archibald Van Adler!» risposero tutti in coro alzando i
calici.
Il festeggiato
rispose con un sorriso di circostanza ed un cenno della mano, poco abituato com’era
a quel genere di celebrazioni.
L’orchestra
riprese a suonare, e la maggior parte degli invitati, dopo il rituale del
taglio della torta, si rigettò in pista tra le note soavi di un valzer.
«Qualcosa
non và, Colonnello Graham?» domandò il Direttore Harlow notando lo sguardo
assente della collega. «Non si sta divertendo?»
«Alla
fine, non è venuto.» rispose lei come se non lo avesse sentito.
Non serviva
un genio per capire a chi il capo della Polizia Militare di Caldesia si stesse
riferendo.
Come tutti
si aspettavano, tra le varie personalità politiche e diplomatiche di vari Paesi
presenti alla festa non vi era nessuno proveniente da Amara.
L’ambasciatore
Dragos era sempre stato un fedelissimo del partito di
Borte, e dopo il colpo di stato si era di fatto
trasformato in un rifugiato politico, svuotato tanto di qualsiasi autorità
quanto del suo stesso ruolo.
Correva voce
che fosse stato espressamente invitato, se non altro per ribadire ancora una
volta come la MAB continuasse a riconoscere il governo deposto dai militari
come unica e sola autorità politica di Amara, ma era molto probabile che la sua
mancata partecipazione fosse stata espressamente voluta.
«Non
sarebbe stato saggio tirare eccessivamente la corda» commentò Gillian leggendole nel pensiero. «Anche se né l’Agenzia né Caldesia
hanno ancora riconosciuto il governo golpista, né intendono farlo, la presenza
dell’ambasciatore a questa festa a così pochi giorni dalla caduta del governo
avrebbe potuto indispettire i sostenitori dei militari».
Zari aveva
ben ragione di essere preoccupata.
Anche se
la sua famiglia era emigrata da quella terra isolata e senza prospettive quando
lei era ancora piccola alcuni suoi consanguinei abitavano ancora nella capitale,
e anche se aveva ricevuto rassicurazioni del fatto che fossero tutti in buona
salute non riusciva a stare tranquilla.
«Sono
passate quasi due settimane da quando i militari hanno preso il potere, e
ancora non è stato fatto nulla.» puntualizzò Zari con una certa insoddisfazione
«L’Agenzia
e il governo di Caldesia stanno cercando di mediare una soluzione senza
coinvolgere le Nazioni Unite, ma fino ad ora non sono stati avviati veri e
propri contatti.»
«Ovviamente.
Parlando con loro sarebbe come legittimare il loro colpo di stato. A quanto ho
avuto modo di studiare, sulle Terra questioni di questo genere venivano risolte
in tutt’altro modo.»
«Qui non
siamo sulla Terra, Colonnello. E comunque, la situazione è molto più complicata
di quanto lei potrebbe immaginarsi.
Non serve
che le ricordi come Amara sia una nazione strategicamente molto importante
tanto per noi quanto per la fazione occidentale che Caldesia comanda. Perdere il
controllo su quel territorio significherebbe perdere tutta la Nuova Carolina. Ma
in ogni caso, non possiamo in alcun modo venire meno ai principi che sono alla
base del nostro codice internazionale».
Zari lanciò
e Graham una strana ed oscura occhiata obliqua, quindi tornò a fissare quella
massa indistinta e indistinguibile di potenti che seguitava a godersi la serata
tra balli, banchetti e bella musica.
«Fa
ribrezzo vedere quello che siamo diventati. È davvero questo ciò che si erano
immaginati i nostri antenati venendo qui?».
Graham abbassò
gli occhi, non sapendo cosa o come rispondere.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Mi ci è voluto un pochino, ma finalmente
sono ritornato.
E così, alla fine, le strade di due dei
personaggi chiave della storia si sono incrociate. Non è stato un incontro
molto felice, ma certamente non sarà l’unico, e presto anche il sentiero di
Jake andrà ad incrociarsi con quello di Carmy.
A parte ciò, possiamo considerare questo
come un capitolo di transizione, che segna il passaggio da una situazione tutto
sommato tranquilla ad un susseguirsi di emozioni forti e momenti frenetici che
stanno per venire.
Grazie come sempre a tutti quelli che
leggono e recensiscono, ma anche a coloro che hanno inserito questa storia tra
le seguite o le ricordate.
Grazie a tutti!^_^
A presto!^_^
PS. E per finire,
permettevi di mostrarsi questa bellissima locandina, realizzata da una mia
affezionata lettrice. È o non è una bellezza?
Carmy cercava di fare finta
che non fosse successo niente, ma quella breve conversazione col capitano Vyce
l’aveva molto inquietata.
Per
cercare di non pensarci si era buttata nel lavoro, profondendovi più dedizione
ed impegno di quanto già non facesse.
Le sue
visite al tempio si facevano di giorno in giorno più frequenti, tanto da
divenire una presenza fissa agli occhi dei più attenti; Timur in particolare
sembrava positivamente colpito dall’apparente dedizione con cui la nuova
arrivata svolgeva i suoi doveri, e ogni volta che la notava attraverso la
finestrella del suo ufficio passava molto tempo ad osservarla.
Una
mattina presto Timur, seduto un po’ in disparte all’interno del tempio a fare
dei conti, la vide entrare con un mazzo di fiori, fare un rispettoso inchino
all’effige della dea e posarli con cura all’interno di un vaso, facendo
attenzione a non spezzarne o imbruttirne nemmeno uno.
Sorrise,
e Carmy per un momento si spaventò nel sentire la sua voce alle proprie spalle.
«La tua
devozione è ammirevole.»
«Lei fa
quello che può» rispose Carmy rispettosa. «Si rammarica solo che non sia
abbastanza.»
«Non
essere così negativa. La Grande Madre non guarda certo alla grandezza
dell’offerta, quanto alla dedizione e all’impegno che vi vengono profusi.»
«Lei è
grata alla Grande Madre per averle fatto conoscere un po’ di serenità per la
prima volta dopo tanto tempo, e vuole cercare di dimostrarlo, anche con piccole
cose».
Una
strana luce si accese negli occhi del priore, che Carmy non faticò a
riconoscere, e che malgrado tutto interpretò come un buon segno.
«Sei una
ragazza semplice e caparbia. Qualità lodevoli, soprattutto perché rare nei
giovani d’oggi.
Tuo
padre ti ha educata bene.»
«E lei
lo ha deluso.»
«Non è
detto» replicò Timur posandole una mano sulla spalla. «Ogni tua azione virtuosa
nei riguardi della Madre Ela monda una parte dei tuoi peccati. E un giorno, se
la Madre lo vorrà, il tuo cammino di espiazione ti condurrà dritta verso il
germogliare di una ritrovata serenità con la tua famiglia.»
«Lei se
lo augura veramente. E farà tutto quello che è in suo potere per far sì che
quel giorno arrivi quanto prima».
Di nuovo
Timur sorrise, e Carmy ci mise del suo meglio per sembrare sorpresa.
«Vieni
con me».
Timur
condusse Carmy nell’ufficio, dove la ragazza non era più entrata dal giorno del
suo ingresso nella setta.
«Come
ben sai» disse il priore aprendo un cassetto. «La nostra confraternita non
nuota nell’oro. Ma ancor più del denaro, manca di persone meritevoli e degne di
fiducia che possano garantirle una sopravvivenza decorosa.»
«Lei non
comprende, Vostra Grazia» disse Carmy facendo la finta tonta.
«Questa
città è piena di vizi, e affoga nel peccato. Ma se da quel peccato possiamo
ricavare quel poco che ci serve per portare avanti la nostra piccola crociata,
allora la Grande Madre lo considera un sacrificio accettabile.»
«Voi
dite?».
Timur
alzò gli occhi guardandola severamente, e subito Carmy abbassò la testa.
«Perdonatela.
Lei non voleva dubitare della vostra parola.»
«Non ne
dubito» rispose Timur.
Dal
cassetto il priore prese fuori una busta, che Carmy non faticò ad immaginare
piena di soldi.
«I
nostri adepti svolgono vari compiti che ci aiutano a mantenere in salute le
casse della nostra confraternita, e malgrado tu possa non crederci il lavoro
non manca mai.
Si
tratta di una vera e propria offerta al tempio, non tanto diversa da quelle che
tu compi quotidianamente con tutto il cuore.»
«Qualsiasi
cosa il tempio necessiti, lei è pronta a fare la sua parte» rispose Carmy senza
esitazione, e forse con un pizzico di incoscienza. «Vuole dimostrare alla Madre
Ela e ai suoi confratelli tutta la sua riconoscenza, ed essergli utile.»
«Molto
bene.» rispose Timur con un sorriso sinistro.
Quindi,
fatto qualche passo avanti, mise l’involucro nelle mani di Carmy.
«Conosci
la taverna da Dupont, nei pressi di Einrich Street?»
«Sì,
certo.»
«Tra
un’ora, una persona verrà a consegnarti qualcosa nel parcheggio.»
«Come
potrà lei riconoscerlo?»
«Ti
riconoscerà lui. Dagli questa in cambio, e porta quello che riceverai al numero
trentaquattro dell’Eruvere Building. È sottinteso che
non ti è permesso di aprire né questa busta né ciò che ti verrà dato in seguito.
Sii discreta ed efficiente, e avrai reso un grande servizio alla nostra
comunità».
Carmy
non fece altre domande, e recuperato l’involucro lo infilò alla meno peggio
nella voluminosa tasca del gilè, congedandosi dopo aver fatto il tradizionale
inchino al maestro.
Come se
ne fu andata Timur uscì a sua volta, seguendola con gli occhi fino a che non la
vide imboccare la rampa che conduceva all’esterno, quindi chiamò con un cenno
uno dei suoi.
«Seguila.» ordinò, e quello le si accodò immediatamente.
Lucas aveva sbottato contro
Cane quando il collega era entrato nel vecchio e sudicio monolocale che avevano
preso in affitto nel palazzo di fronte al tempio, visto che come al solito era
arrivato con abbondante ritardo rispetto al concordato.
«Lo sai
che ore sono?» brontolò indicando l’orologio. «Il tuo turno inizia alle otto, sono
le otto e mezza!»
«Che
vuoi che siano trenta minuti? Ti ricordo che mentre tu stai qui a girarti i
pollici, io e Alexia alla centrale dobbiamo fare gli straordinari per sbrigare
anche le tue pratiche.
O credi
che questa sia l’unica indagine che seguiamo?».
Rapidamente
l’atmosfera si calmò, soprattutto quando Cane porse a Lucas il caffè al ginseng
che gli aveva comprato prima di salire.
«Allora,
che è successo?» domandò bevendo il proprio
«Niente
di nuovo. Carmy è entrata circa venti minuti fa.»
«La nostra
recluta continua a stupirmi. Onestamente non pensavo che avrebbe retto così a
lungo.»
«Io
credo che un po’ tutti abbiamo sottovalutato Carmy. Quella ragazza ha stoffa e
dedizione da vendere. È un peccato che sia finita alla polizia militare.
Meriterebbe sicuramente qualcosa di più.»
«Non
dirglielo.» scherzò Cane «Che poi si molta la testa».
Giusto
il tempo di lasciare che il suo collega finisse il suo caffè e Lucas gli
cedette il posto sulla pedana da cui si aveva il controllo delle decine di
microcamere piazzate in tutto il quartiere, gettandosi come morto sul vecchio
divanetto appoggiato al muro per concedersi qualche ora di sonno prima di
andare in ufficio.
Per sua
sfortuna, neanche dieci minuti dopo Cane vide Carmy uscire dal vicolo, alzare
per un attimo gli occhi verso l’alto e grattarsi la fronte con un dito, e
subito dopo rimettersi a camminare.
«Giù
dalla branda!» strillò scagliando il bicchiere vuoto in faccia all’amico.
«Carmy ha fatto il segnale!».
Lucas
quasi saltò per la paura, ma recuperato il raziocinio si affrettò a seguire
Cane giù per le scale.
«Che
segnale ha fatto?»
«Trasporto.
Forse ci siamo».
Scesi in
strada i due si infilarono, rapidamente ma cercando di non dare nell’occhio, in
un anonimo furgone sgangherato, che in realtà nascondeva al suo interno quanto
erano riusciti a farsi assegnare dal magazzino divisionale tra apparecchi di
analisi, pietre magiche e strumenti di intercettazione.
Carmy
dal canto suo sapeva perfettamente di avere qualcuno alle costole oltre a Cane
e Lucas, e pregava che anche loro se ne accorgessero quanto prima.
Per
fortuna i suoi colleghi non erano degli sprovveduti, senza contare che
quell’energumeno rapato che camminava venti passi dietro di lei, oltre ad
essere appariscente già di per sé, non ci metteva granché impegno nel cercare
di passare inosservato.
Facendo
finta di niente si incamminò lungo la via più diretta tra il tempio e la sua
destinazione, distante non più di un paio di chilometri.
C’era
molta gente, anche più del solito, e l’aria era particolarmente viziata per via
del caldo che da qualche giorno aveva preso ad imperversare sulla città.
Il
sudore bagnava i vestiti, rendendoli appiccicosi, e avere addosso roba bagnata
era una cosa che a Carmy non era mai piaciuta.
Cercò di
non pensarci, e asciugatasi la fronte proseguì per la sua strada, sforzandosi
di ignorare la figura che non le staccava mai un momento gli occhi di dosso e
che intercettava di tanto in tanto nel riflesso di qualche specchio o vetrina.
Impiegò
poco più di mezz’ora a raggiungere la sua destinazione.
Il
Dupont era un localaccio di terz’ordine in una delle zone più inospitali e
pericolose del distretto, situato proprio sotto la possente sopraelevata che
collegava direttamente il centro cittadino al resto della regione sorvolando la
periferia.
Nel
parcheggio era un trionfo di brutte facce e sguardi obliqui, che Carmy cercò
per quanto possibile di ignorare, e obbedendo alle direttive ricevute si mise
in attesa appoggiandosi ad un lampione arrugginito in un angolo nascosto del
piazzale.
Passarono
solo pochi minuti, e con largo anticipo rispetto al previsto una macchina non
troppo appariscente le si accostò, ed il passeggero abbassò il finestrino.
Vedendolo,
la ragazza ebbe un sussulto.
Era
pallido come la morte, la pelle raggrinzita come quella di un anziano, le
occhiaie leggermente scavate, e i capelli visibilmente tinti di un nero
eccessivo. Doveva avere al massimo una trentina d’anni, almeno a giudicare
dagli occhi ancora attenti e dalla corporatura tutto sommato abbastanza tonica,
ma a guardarlo in faccia ne dimostrava più del doppio.
«Da
quando in qua Timur si serve di ragazzine per questo genere di lavori?».
Carmy
non rispose, ma l’indecisione che l’individuo lesse sul suo volto non era
dovuta solo alla necessità di fingere per essere credibile.
«Lasciamo
perdere. Hai portato i soldi?».
Era la
conferma ai suoi sospetti. Non ce vi fosse bisogno di averla, del resto.
Timidamente,
Carmy allungò la busta che aveva con sé; il tipo in nero quasi gliela strappò
di mano, non nascondendo una punta di delusione nel constatarne il contenuto.
Doveva
essere abituato a cifre decisamente maggiori.
«Vecchio
taccagno. Gioca sempre al ribasso» mugugnò, ed aperto il bauletto allungò alla
ragazza un pacchetto sigillato non troppo grande. «Digli che da ora in poi o mi
paga secondo i miei prezzi o si cerca un altro fornitore».
Detto
questo il passeggero rialzò il finestrino, e come era arrivata la macchina
ripartì sparendo dietro l’angolo del locale.
Carmy
stette qualche momento a fissare il nulla come soprapensiero, ma guardando il
pacchetto non si fidò ad usare le sue capacità per cercare di capire cosa vi
fosse all’interno. Se per caso, oltre al contenuto, vi era stato inserita una
spia o un rilevatore di energia magica sarebbe stata la fine, e a meno di non
disporre di conoscenze che lei ancora non possedeva era impossibile eludere
tali sistemi di protezione.
Messi
momentaneamente da parte i dubbi si rimise a camminare, ma data la distanza che
la separava dalla sua nuova destinazione preferì optare per i mezzi pubblici,
salendo su di una navetta che la scaricò nei pressi di Piazza Albany, nel cuore
del nono distretto; da lì l’Eruvere Building distava
solo poche centinaia di metri.
Il tipo
rasato non la mollava un momento; era salito sul suo stesso mezzo, e seguitava
a starle venti passi indietro senza toglierle gli occhi di dosso, ma aveva la
mente talmente annebbiata da quello che sniffava quotidianamente che non
sembrava essersi accorto del fatto di essere ormai stato riconosciuto.
D’improvviso,
alzando gli occhi, Carmy si vide venire incontro un tipo dall’aria famigliare.
Era ben
vestito, una tenuta non molto in linea con il tipo di zona in cui si trovavano,
ma a giudicare dall’andatura incerta e dagli occhi fuori dalle orbite non era
difficile intuire cosa avesse portato un tipo così nei bassifondi.
«Chi si
rivede!» esclamò fermandola ed afferrandola per un braccio «Tesoro bello, che
ci fai qui in questa fogna?».
Lei lo
guardò a metà tra lo spaventato e il disgustato.
«Allora?»
gli chiese ancora quel tipo «Ti ho fatto una domanda.»
«Lasciami.»
rispose infine la ragazza «Non osare toccarmi. Mi fai schifo.»
«Che
paroloni. Il tuo carattere non si è addolcito dall’ultima volta. E comunque, da
quando si da del tu ad un superiore?»
«È colpa
tua se sono stata licenziata.»
«Te la
sei voluta. Non avresti dovuto mettere in giro tutte quelle false voci.»
«False
voci!? Tu mi hai molestata!».
Sfuriate
di pubblico dominio ed eventi fuori dall’ordinario erano la quotidianità in
quel quartiere, eppure si era radunata una piccola folla di spettatori più o
meno incuriositi. Tra questi vi era anche l’energumeno di Timur, il quale nel
momento in cui vide l’uomo afferrare Carmy tirandola violentemente verso di sé
fu sul punto di intervenire.
Ma Carmy
non gliene diede il tempo. Accadde tutto molto in fretta, anche troppo,
cosicché quasi nessuno si accorse di uno strano movimento della mano
dell’aggressore, che forse nel tentativo di palpeggiare la sua vittima finì
invece per affondare in una tasca del gilè, scivolandone immediatamente fuori.
La
ragazza infatti, con un coraggio inaspettato, assestò all’uomo una ginocchiata
tremenda allo stomaco, seguita subito dopo da un solenne ceffone prima ancora
che il poveretto avesse il tempo di piegarsi in due per il dolore.
«Toglimi
le mani di dosso!».
Molti
tutto attorno risero, gustando piacevolmente l’immagine di un damerino dei
quartieri alti raggomitolato a terra come un cane bastonato, con il respiro
corto e la faccia rossa.
«Mi hai
fatto male, maledizione.» mormorò quello come non volesse farsi sentire.
Fiato
sprecato, perché come cercò di tirarsi su arrivò una seconda ginocchiata, stavolta
al mento, che per poco non gli portò via la lingua.
A quel
punto fu l’ilarità generale, ed il malcapitato non ebbe altra scelta che
darsela a gambe masticando imprecazioni all’indirizzo della sua vittima, che di
contro venne quasi portata in trionfo dalla gente tutto attorno prima di
tornare sui propri passi riprendendo a camminare, perennemente seguita
dall’energumeno rasato.
Se poco prima Lucas aveva
imprecato all’indirizzo di Cane, dopo aver assistito a sua volta a quella
specie di siparietto non riuscì a trattenere una risatina nel vederlo entrare
nel retro del furgone tutto frastornato per le botte ricevute.
«Ma
quella è pazza!» imprecò liberandosi delle false sembianze con la magia e cercando,
nel contempo, di riacquistare la sensibilità alla mandibola. «A momenti mi
stacca tutti i denti.»
«Non
credo lo abbia fatto per caso» ironizzò Lucas. «Così impari a frugare nel suo
cassetto».
Cane gli
passò stizzito il plico che Carmy gli aveva allungato.
«Dacci
un taglio e analizzalo».
Pierre
obbedì, e recuperato l’involucro lo posizionò all’interno di uno scanner che,
senza bisogno di toccarlo, lo esaminò da cima a fondo, esaminando sia l’esterno
che, soprattutto, il contenuto.
Alla
vista dei risultati, i due agenti rimasero di stucco.
«È uno
scherzo, vero?» disse Cane.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Con un po’ di ritardo rieccomi
con un nuovo capitolo.
È piuttosto breve, ma si tratta di un
capitolo di transizione, visto che nel prossimo vi saranno alcune rivelazioni
importanti, e ho preferito tenermele da parte per esprimerle tutte insieme
invece che spezzettarle.
Ecco, non credo che ci sia altro da
aggiungere.
Grazie a tutti quelli che leggono,
recensiscono e betano il mio lavoro.
Risalita sul treno alla più
vicina stazione Carmy viaggiò fino al settimo distretto, quindi, sempre
tallonata dal gigante che Timur le aveva messo alle costole, avviandosi poi a
piedi verso la sua nuova destinazione.
L’Eruvere
Building era un complesso di case popolari di basso livello, abitato
soprattutto da operai e impiegati delle ferrovie; sorgeva giusto a poche
centinaia di metri dal Pugno d’Argento, la palestra di Chandra che, come i veri
appassionati ben sapevano, era stata la prima frequentata dalla
pluricampionessa Octavia.
Giusto
un attimo prima di incamminarsi lungo l’ultimo tratto di strada, non senza una
qualche esitazione, la giovane venne accidentalmente urtata da un tipetto
grassoccio dall’aria un po’ brilla, tanto da rischiare di cadere; lei
prontamente lo sostenne, e lui, in quell’unico istante in cui furono a stretto
contatto, fece scivolare qualcosa all’interno della sua giacca.
«Mi
scusi.» disse educatamente il signore riprendendo la sua strada.
Non era
una reazione molto credibile per qualcuno che viveva in quella parte della
città, ma Carmy non aveva mai pensato a Lucas come ad un bravo attore.
Senza
perdere altro tempo la giovane varcò il cancello, e preso l’ascensore raggiunse
l’appartamento indicatole, bussando tre volte per farsi riconoscere. Passarono
solo pochi istanti prima che la porta si aprisse, e vedendo la sua allieva
palesarsi davanti a sé Noce non riuscì a nascondere il suo disappunto.
«Che ci
fai qui?» domandò oscurando l’interno con la propria figura
«Mi
hanno mandata a consegnare un pacco.» rispose lei timidamente.
Preso il
plico dalla tasca, lo pose, spaventata ma educatamente, al proprio superiore,
che dopo averle lanciato una nuova occhiataccia lo prese quasi strappandoglielo
di mano.
«Ti
avevo detto di non farti coinvolgere più del dovuto, stupida. Peggio per te.» e
senza dire altro le sbatté la porta in faccia.
Carmy
non aveva tempo di stare a piangersi addosso o a rimuginare, anche se lo
avrebbe tanto voluto, e correndo riuscì a tornare alla stazione giusto in tempo
per prendere la circonvallazione che la riportò in meno di venti minuti nello
stesso punto da cui era partita.
Aveva
lasciato il tempio di Ela poco dopo le nove, vi tornò che non era neppure
mezzogiorno.
Timur fu
quasi sorpreso di vederla entrare nel suo ufficio un attimo prima di uscire per
andare a mangiare al suo ristorante preferito con gli altri capi del tempio, e
lo fu ancora di più quando, chiamando per sincerarsi che tutto fosse andato per
il meglio, venne informato che il plico era effettivamente arrivato a
destinazione, integro e senza problemi.
«Sei
stata brava. Non credevo ci avresti messo così poco. Come ho già detto, la tua
dedizione è ammirevole.»
«Lei è
felice di sentirselo dire, vostra eccellenza.»
«Oggi
hai reso alla madre Ela un grande favore» disse soddisfatto Timur, che preso
dal tavolo una busta contenente un paio di centinaia di kylis
e qualche dose di bebbasin, poco più che camomilla,
la lanciò alla ragazza. «Questa te la sei meritata. Ora và pure a casa. Per
oggi hai fatto abbastanza».
Rispettosamente,
Carmy lasciò prima l’ufficio e poi la chiesa, ma non tornò a casa come le era
stato suggerito.
Uscita
in strada, ed accertatasi di non avere più quell’energumeno butterato alle costole,
la giovane si infilò velocissima in un altro vicolo, e una volta qui
direttamente nel vano dell’anonimo furgone bianco posteggiato ai piedi di un
fatiscente edificio.
«Allora?»
domandò prima ancora di aver richiuso la portiera.
Cane e
Lucas, ancora con gli occhi rivolti ai monitor degli apparecchi di analisi, la
guardarono come basiti, guadagnandosi a loro volta uno sguardo perplesso.
«Che
c’è?».
Cane accese il monitor
dell’ufficio con un cenno della mano, mostrando ad Alexia e a Carmy i risultati
delle analisi condotte sul pacchetto, e i risultati lasciarono entrambe le
ragazze perplesse.
«Sangue.»
«Sangue!?»
replicò il capitano.
«Per
essere più precisi, sangue di stregone» puntualizzò Lucas. «La concentrazione
di particelle magiche è decisamente alta. E per di più tutti i flaconi hanno
impresso il marchio della città.
Non c’è
dubbio, vengono da un deposito comunale.»
«E che
se ne fanno del sangue di stregone?» commentò Alexia. «Se lo bevono?»
«Visto
di chi stiamo parlando, non mi sorprenderebbe» disse ironicamente Cane.
«Ad ogni
modo, ilsangue non è così facile da
procurare, soprattutto se magico. Le banche del sangue tengono traccia di tutti
i prelievi e i depositi effettuati, e i controlli sono serrati. Come hanno
fatto a metterci le mani sopra?»
«Quelli
che me lo hanno venduto non avevano proprio l’aria di impiegati statali.» disse
Carmy sfiorandosi la fronte con un dito «Sembravano piuttosto abitanti dei
bassifondi.»
«Quanto
glielo hai pagato?» chiese Lucas
«Da quel
poco che ho potuto vedere, direi sui duemila kylis.»
«Una
bella cifra per pochi centilitri di sangue. Evidentemente era compresa la
percentuale.»
«Io
continuo a non capire il senso di tutto questo» ripeté Cane. «Cosa se ne fa la
chiesa di Ela del sangue di stregone? Mi sembra un prezzo decisamente troppo
alto per qualcosa destinato a chissà quale cerimonia mistica».
Tra gli
agenti calò un riflessivo silenzio, ma fu Lucas ad avere l’illuminazione.
«E se lo
usassero proprio per preparare la lilith?»
«La lilith!?» ripeté Cane
«Uno dei
componenti principali della lilith è il kuriziksone, uno steroideo a base di krilyum
usato in medicina per trattare casi EDA. È caro, e difficile da reperire, così
alcuni gruppi lo sostituiscono con comune sangue di stregone, che ha una
componente chimico-energetica simile al farmaco.»
«In
buona sostanza, tu stai dicendo che la nostra ipotesi sarebbe fondata» tagliò
corto Alexia. «Che la Chiesa di Ela, o quantomeno quella di Timur, produce e
spaccia lilith.»
«Se il
mio sospetto fosse realtà, sì. Ma non possiamo provarlo se non scopriamo dove e
come la producono.»
«Di
certo non in quella casa» disse Carmy riferendosi all’abitazione di Noce. «È
troppo piccola e troppo esposta. Credo abbiano bisogno come minimo di un
laboratorio attrezzato.»
«Il che
ci obbliga a cercare fuori città. Di certo quel Noce ha le mani in pasta in
parecchie cose che scottano. Prima quella disponibilità di denaro, e ora la sua
casa che probabilmente funge da punto di scambio per depistare eventuali
indagini.
Io
prenderei in considerazione l’idea di arrestarlo, forse interrogandolo verremo
a capo di qualcosa.»
«Ecco,
bravo.» disse sarcastico Cane «Così Timur mangia la foglia, la copertura di
Carmy salta, e tutta la nostra inchiesta finisce giù per lo scarico.
Gran
bella pensata».
I due
agenti si guardarono come due cani che si contendono un osso, ma il capitano
riportò subito l’ordine.
«Cane ha
ragione. Se arrestiamo Noce avremo preso solo un altro pesce piccolo. Cerchiamo
piuttosto di scoprire dove preparano la droga. Se avremo le prove schiaccianti
che Timur e i suoi adepti producono la lilith non
avremo problemi a farlo arrestare.»
«È una
parola, capitano» obiettò Lucas. «Qui siamo solo in quattro, e attualmente
lavoriamo come bestie solo per tenere d’occhio la chiesa. Chi ci mandiamo a
seguire le tracce di quel Noce?».
Alexia,
nel tentativo di trovare una risposta, andò a parlare con il capo, ma la faccia
che aveva al proprio rientro non lasciava presagire nulla di buono.
«Niente
da fare. Senza prove più certe Owens non intende
coinvolgere altre squadre. Con tutti questi problemi e fenomeni EDA sono tutti
impegnati in altre indagini».
Bene o
male era la risposta che tutti si aspettavano, ma ciò significava anche dover
operare una scelta. Qualcuno perennemente alle spalle di Noce significava un
agente in meno che teneva d’occhio il tempio e Carmy con lui, e salvo casi di
emergenza Alexia non se la sentiva di lasciare la sua giovane recluta da sola
in un posto che di giorno in giorno si stava rivelando sempre più pericoloso.
Dal
canto suo Carmy cercava in ogni modo di ricordare meglio che poteva le fattezze
dell’individuo che le aveva consegnato il plico; in quel momento era rimasta
così impressionata dalla vista di quel tipo da aver faticato ad imprimerne con
chiarezza l’immagine nella sua mente, e senza un ricordo il più possibile
nitido era impossibile tracciare un identikit.
Approfittando
del fatto che il capitano e i suoi due agenti stavano parlottando tra di loro
la ragazza usò la magia per isolarsi all’interno della sua stessa mente,
aprendola dinnanzi a sé come il sistema operativo di un computer, con le sue
cartelle, i suoi documenti e le sue sezioni.
In
questo modo riuscire a recuperare anche ciò che apparentemente si era
dimenticato era molto più facile; occorreva solo non perdere il contatto con la
realtà, o “seguire il bianconiglio”, come si diceva
nel gergo degli psichiatri, ma Carmy aveva studiato medicina e alcuni
fondamenti di psicologia all’accademia e conosceva gli espedienti per mantenere
il controllo.
Con
calma, e senza lasciarsi sopraffare, rivisse i ricordi di quella mattina,
andando a cercare di volta in volta nuove informazioni per renderli sempre più
vividi, fino a che l’immagine di quell’uomo non apparve di nuovo, nitida e
precisa come una fotografia.
Tornata
alla realtà, non dovette fare altro che puntare la mano verso il monitor, che
immediatamente quel fotogramma vi si impresse sopra quasi fosse stato estratto
direttamente dalla sua testa.
«Eccolo»
disse. «È lui la persona a cui ho consegnato i soldi».
Tutti la
guardarono, restandone ugualmente colpiti. Un cadavere dell’obitorio avrebbe
avuto più espressività di quel mucchio di ossa e pelle rinsecchita, per non
parlare dei tatuaggi che servivano solo a renderlo più inquietante.
Nonostante
ciò Cane, dopo l’iniziale stupore, piegò le labbra in uno dei suoi ironici
sorrisi.
«Guarda
un po’. Questa faccia da teschio non mi è nuova.»
«Lo
conosci?»
«Si
chiama Lucius. LuciusAutax. Ho avuto a che fare con lui quando lavoravo a Volgorad. È uno dei lacchè di ArmanValakis.»
«Valakis!?» ripeté Lucas «Il capo della comunità dei vampiri
di Eyban?»
«Proprio
lui» quindi Cane ammiccò a Carmy «Non c’è che dire piccola, sei una vera
calamita per i pezzi grossi.»
«Ora
tutto ha più senso» disse Alexia. «Sappiamo bene che i vampiri non hanno problemi
a mettere le mani su grandi quantitativi di sangue. Praticamente la metà delle
banche di Caldesia e non solo appartiene a loro o a qualcuno dei loro
estimatori.»
«Autax sta sempre appiccicato al sedere di Valakis, quindi lui è senza dubbio in città» disse ancora
Cane «E dato che non si soffia neppure il naso senza il suo boss lo sappia,
scommetto un diamante contro un fondo di bottiglia che Arman
sa qualcosa.»
«Incredibile,
ora anche i vampiri» sospirò Lucas «Questa cosa diventa ogni ora più articolata».
Alexia
non fece a tempo a girare lo sguardo che Cane aveva già in mano le chiavi della
macchina.
«Andiamo
a fare due chiacchiere con il nostro funereo amico?».
Piacevolmente arroccato
sulla cima della scogliera più alta tra le tante che, alzandosi dal terreno
collinare tutto attorno, andavano a gettarsi nei flutti azzurri del Lago Biwa, il più grande della nazione montana di Amaltea, il Palazzo Papale che dominava dall’alto la
capitale Otisa era da oltre cento anni la dimora
ufficiale del supremo vicario della Chiesa della Santa Croce, la più popolare e
praticata fede religiosa di Celestis.
Durante
il Grande Gelo, quel lungo periodo ormai distante nei secoli che aveva visto il
pianeta spaccato in due, il papa era stato sia capo politico che religioso della
nazione di Amaltea, ma ormai le cose erano
profondamente cambiate, e la chiesa era tornata a fare l’unica cosa che davvero
le competeva, curando le anime e le menti dei suoi fedeli con giustizia e
benevolenza.
L’attuale
pontefice, Vittorio Visconti, era molto amato dai suoi figli, per la sua
semplicità e spontaneità; il giorno della sua nomina si diceva avesse augurato
scherzosamente ogni sorta di sventura ai cardinali che lo avevano eletto,
avendogli messo addosso un peso più grande di quanto le sue spalle ormai
vecchie e stanche fossero in grado di portare, ma da allora aveva svolto il suo
compito con inumana bontà.
Come
tradizione imponeva, aveva selezionato il proprio vicario tra l’alto clero
femminile che popolava il palazzo papale, e la sua scelta era ricaduta su LydiaAsmodan, vescovo di Aporel, una delle poche chieriche caldesiane
che componevano l’alto dicastero.
Non
aveva ancora compiuto quarant’anni, tanto da risultare il vicario più giovane
della storia della Chiesa, eppure nonostante ciò la sua era stata senza alcun
dubbio una nomina felice. Come il papa, anche Lydia
svolgeva al meglio il compito cui era stata destinata, che poi era quello di
amministrare nei fatti la cura e la gestione degli affari ecclesiastici,
svolgendo tutti quei compiti meramente materiali dei quali il Santo Padre, per
la sua stessa condizione, non poteva né doveva occuparsi.
Tra le
varie mansioni che le spettavano in quanto vicario vi era anche accogliere ed
intrattenere i delegati stranieri, nonché più in generale curare i rapporti tra
la santa sede e le varie ambasciate di Otisa.
Per
questo, non la riprese il fatto di aver ricevuto una richiesta di udienza da
parte di una persona che ben conosceva, e che rivedeva sempre con molto
piacere.
Alle tre
del pomeriggio, puntuale come sempre, la sua gradita ospite nonché vecchia
guida si presentò nell’ufficio, annunciata via finestra virtuale dall’anziano
prelato che le faceva da segretario.
Alzatasi
dalla sua scrivania, le andò incontro.
«È
passato tanto tempo, Lydia.» disse Constance
«Troppo,
Professoressa.» rispose la donna chinando leggermente la testa alla maniera
dell’esercito caldesiano
«Professoressa.
Ormai sono solo una vecchia bacucca. Non ricordo neanche più l’ultima volta che
ho messo piede alla scuola ufficiali.»
«Per me
voi siete sempre la mia rispettabile docente.»
«Ti
trovo bene.» commentò Constance squadrando quella che
era stata tra le sue più promettenti allieve nel poco tempo in cui aveva
insegnato «Anche se all’epoca non avrei mai immaginato di vederti un giorno in
queste vesti.»
«In
effetti, questa mi calza meglio di un’uniforme» sorrise il prelato sistemandosi
la pesante tonaca nera «Ma accomodatevi. Non intendo certo farvi restare in
piedi».
Si
accomodarono ai divanetti attigui alla porta, e il prelato servì loro una tazza
dell’ottimo caffè amalteco che germogliava solo nelle
asciutte montagne attorno ad Otisa.
«Che
cosa vi porta ad Amaltea, professoressa? Avevo sentito
dire che vi eravate ritirata a vita privata nelle vostre proprietà di
campagna.»
«Mio
nipote si sposerà tra pochi giorni, ma visto che la sposa attualmente è al
monastero di Otisa in attesa di prendere i voti il
matrimonio avverrà qui. Con i suoi genitori le cose non vanno ancora troppo
bene, ma gli avevo promesso che ci sarei stata.»
«Victor
si sposa? Mi sembra ieri che era piccolo così e vi chiamava nonna. Gli faccia i
miei migliori auguri. Se non fossi così impegnata mi avrebbe fatto piacere
venire.»
«Non c’è
bisogno di scusarsi. Gli porterò i tuoi saluti».
Constance non
aveva più incontrato Lydia dal giorno in cui lei le
aveva confidato di voler lasciare l’accademia e il suo Paese per intraprendere
la carriera ecclesiastica, ma aveva seguito da lontano i suoi progressi nelle
alte sfere della Chiesa, e vederla così, felice oltremodo della nuova strada
che si era scelta, le infondeva un piacevole senso di serenità.
«Immagino
che per te non sia facile dover ricevere un ex ufficiale dell’esercito di
Caldesia» disse ancora.
«Per un
po’ lo sono stato anch’io» replicò Lydia zuccherando
il suo caffè. «Per fortuna i tempi del Grande Gelo sono ormai lontani.»
«È per
questo motivo che sono qui» tagliò corto Constance
senza ulteriori giri di parole. «Vorrei mettere alla prova questa tua
affermazione».
Da un
momento all’altro Lydia si accigliò, contagiando la
propria vecchia insegnante con l’ombra addensatasi nei suoi occhi.
«Che
intendete dire?»
«Il
presidente Fujitaka sarà a Otisa
il mese prossimo in visita ufficiale. E per l’occasione, sperava di poter avere
un colloquio privato anche con sua santità.»
«È una
richiesta pericolosa quella che mi state facendo» disse schietto il vicario «Finché
l’incontro è con personalità caldesiane minori o tra
il presidente e il vicario è una cosa, ma è quasi un secolo che il papa non ha
un incontro ufficiale con un presidente di Caldesia.»
«Non hai
appena detto tu stessa che il Grande Gelo ormai è acqua passata?».
Lydia posò la
tazza con un gesto delicato, senza farla tintinnare.
«Potrà
esserlo per alcuni, forse anche la maggior parte, ma non per tutti. Questa chiesa
e questa fede sono nate proprio in conseguenza dell’atteggiamento tenuto da
Caldesia e dalla MAB nel gestire la politica internazionale.
Più in
generale, si può dire che la Chiesa della Santa Croce sia sorta a risposta dell’ordine
mondiale, scientifico e spirituale che la società di oggi, a cominciare da
Caldesia, hanno costruito nei secoli.
A ragione
di ciò, comprenderete che non è facile per chi ha ancora ben presente tutto
questo, a cominciare dai fedeli, accettare l’idea che il papa possa incontrare
il rappresentante della nazione da cui in sostanza tutto è partito».
Le
labbra di Constance si piegarono in uno strano
sorriso.
«Fujitaka è stato tuo compagno oltre che mio allievo. Davvero
ti sorprende che abbia fatto una simile richiesta?».
Il vicario
socchiuse gli occhi, illuminati appena dal sole che entrava attraverso le tende
socchiuse.
«Hai
ragione quando dici che non si può dimenticare quello che è successo prima e
durante il Grande Gelo, e tu che sei caldesiana
probabilmente l’hai capito meglio di chiunque altro. Ma molti sono i mali che
affliggono la nostra società, e Connor vuole fare
quanto è in suo potere per dare una mano.
D’altra
parte, non si può sperare di lasciarsi alle spalle decenni di tensione senza
che entrambe le parti facciano uno sforzo per venirsi incontro. Connor questo sforzo vuole farlo, e sperava ardentemente di
trovare qualcuno che potesse spronare il sommo pontefice a fare altrettanto.»
«E ha
mandato voi perché sapeva che non sarei riuscita a dire di no alla mia vecchia
professoressa.» sentenziò ironica Lydia. «D’accordo,
vedrò cosa posso fare. Parlerò con gli altri vescovi. Se riesco a convincere la
maggioranza del dicastero, dovrei riuscire ad organizzare la cosa per tempo».
Di nuovo
Constance si lasciò sfuggire un sorriso; sapeva di
poter contare su quella donna coscienziosa.
«Ti
ringrazio. Ti devo un favore.»
«Aspettate
a ringraziarmi. Non posso promettere niente. Ad ogni modo, vi terrò informata.
Dove posso
contattarvi?»
«Alloggio
all’Hotel Jupiter. Stanza 324.»
«D’accordo.
Allora, se servirà, vi chiamerò io».
Constance avrebbe
voluto spendere qualche minuto in più a chiacchierare del più o del meno, ma il
dovere di un vicario non conosceva attimi di riposo e l’incontro, pur con
qualche rimpianto, dovette concludersi.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Finalmente, era ora!
Anzitutto, buon natale e felice anno nuovo
a tutti!
Lo so, ci ho messo un po’, ma di questi
tempi, anche se sembra il contrario, il tempo libero latita, e sarà così almeno
fino alla fine del mese.
Due giorni fa poi sono tornato da una
vacanza all’estero, che nonostante tutto mi ha lasciato un po’ più di tempo
libero, così sono riuscito a terminare finalmente questo capitolo iniziato nei
tempi che furono.
Ora finalmente entriamo nel vivo dell’azione.
L’indagine di Carmy non durerà ancora a
lungo, e dopo che questa sarà finita vi preannuncio che l’asse della narrazione
inizierà a vertere di più sulle vicende di Vyce e Jake, per farsi poi sempre
più caotica man mano che ci avvicineremo al finale.
La comunità dei vampiri era
strutturata come un alveare.
Ogni
club aveva il suo capo, e anche se a prima vista poteva sembrare il contrario
in realtà erano tutti collegati tra di loro a livello nazionale, con un unico
individuo al vertice della piramide che comandava sopra ogni cosa.
Nella
sola Caldesia la polizia era arrivata a contare oltre un migliaio di club, un
terzo dei quali solamente a Kyrador, e questo senza contare i numerosi ritrovi
temporanei e quelli sconosciuti alle autorità.
Solitamente
non correva buon sangue tra le comunità delle varie nazioni, ma già da qualche
mese correva voce che i gruppi di Eyban e Caldesia avessero siglato una qualche
alleanza al fine di rafforzarsi e potersi opporre più facilmente al giro di
vite che le forze dell’ordine avevano voluto dare nei loro confronti,
soprattutto nella nazione nordica.
Muoversi
in mezzo ai vampiri non era facile, e di certo non era nemmeno sicuro.
Bisognava
riuscire a destreggiarsi nella fitta rete sociale nella quale vivevano, guadagnandosi
il loro rispetto senza lasciarsi attrarre dalle loro tradizioni; ma
soprattutto, era necessario trovare il modo di aggirare le loro molte
conoscenze ad alti livelli i tutti gli strati di potere che contavano.
Che
molti tra politici, magnanti e persino alti ufficiali dell’esercito fossero
frequentatori abituali dei club per vampiri pur non essendolo a loro volta era
un fatto risaputo, e negli anni erano saltate molte teste proprio per via degli
scandali seguiti allo smantellamento di questo o quel ritrovo.
Ma più
ancora dei loro capi o del piacere del sangue, i vampiri veneravano il
silenzio, ed anche per questo era difficile riuscire ad ottenere l’accesso al
loro mondo tanto discusso; Alexia e i suoi lo sapevano, ma sapevano anche che
una buona bustarella era un eccellente strumento di persuasione, e solitamente
funzionava.
Lei,
Cane e Lucas spesero quasi tutto il giorno a girovagare per tutti i nove
distretti, passando come in un videogioco da un livello all’altro a suon di
informatori, soffiate e, quando necessario, quale ceffone per vincere i più
reticenti, sempre più in alto verso il vertice della piramide.
Finalmente,
a sera tarda, il loro peregrinare li portò in uno dei ritrovi per vampiri più
esclusivi della città, una discoteca del secondo distretto molto conosciuta e
frequentata da tanta gente facoltosa.
Secondo
le informazioni ricevute, era lì che Valakis aveva
fissato il proprio quartier generale durante la sua presenza a Kyrador che,
sempre stando alle soffiate, aveva lo scopo di allontanarlo per un po’ dai circoli
del potere di Volgorad dopo che uno scandalo aveva
travolto molti suoi sostenitori.
Come
scesero dalla macchina, i tre agenti si videro piantare addosso gli sguardi
obliqui e poco raccomandabili di molti degli avventori che si attardavano
attorno all’ingresso del locale; i vampiri non erano difficili da riconoscere,
ma molti di loro negli ultimi tempi avevano preso l’abitudine di mascherarsi
per non essere notati, e molti di quei giovanotti all’apparenza tanto ordinari
a ben guardarli tutto potevano essere fuorché umani.
«Però,
che facce.» commentò Cane «Di sicuro è stata una buona idea lasciare Carmy a
casa, almeno per questa volta.»
«Si può
sapere perché la tratti come se fosse una bambina?» lo rimproverò Lucas. «Carmy
sa badare benissimo a sé stessa, e te l’ha dimostrato egregiamente. O la
ginocchiata nelle parti basse ha già smesso di farti male?»
«Quanto
sei spiritoso.»
«Ricomponetevi»
ordinò Alexia. «Ricordate che stiamo entrando in una tana di lupi.»
«In
tutti i sensi.» scherzò ancora Cane con discutibile spirito.
Entrare
nel locale pubblico fu facile; il difficile era riuscire ad accedere all’area
vip situata oltre una porta in una zona distaccata della sala principale. Da lì
la gente entrava ed usciva come voleva, ma non serviva un genio per capire che
prima di arrivare alla zona proibita ci sarebbe stato da attraversare un
secondo varco, sicuramente presidiato.
Alexia e
gli altri attesero che gli occhi dei clienti troppo guardinghi e sospettosi si
rivolgessero altrove per infilarsi in quella porta, e come previsto al termine
di un breve corridoio giunsero in una saletta circolare dove c’era una sola
porta, ben guardata e sorvegliata da una coppia di tipacci tatuati da capo a
piedi.
Non
erano sicuramente stregoni, perché non esisteva vampiro dotato di poteri magici
capace di mantenere un aspetto florido bevendo sangue dalla mattina alla sera,
ma questo non li rendeva meno spaventosi e minacciosi.
Dapprincipio
i tre non si capacitarono del perché a guardia dell’ingresso vi fossero due
esseri umani, per quanto imponenti e sicuramente pericolosi, ma nel momento in
cui misero piede nel salottino circolare Alexia e Cane si sentirono
immediatamente un po’ più deboli.
«Barriera
magica» mugugnò Cane cercando con lo sguardo, ma senza trovarli, i dispositivi che
la generavano. «Previdenti».
Come
fecero un ulteriore passo avanti, subito i due gorilla fecero un passo di lato
sbarrando l’ingresso, oltre il quale, nonostante la porta insonorizzata,
giungeva il suono inconfondibile di musica lanciata a tutto volume.
«Non si
passa.» furono le sole parole di uno dei due.
Per
nulla spaventata, Alexia anzi lo prese di petto, benché quell’energumeno fosse
quasi il doppio di lei.
«Vorremmo
incontrare Valakis. Ci hanno detto che è qui.»
«Non ci
senti, tesoro? Niente sbirri qui dentro. E comunque Valakis
non c’è. Ora girate i tacchi e andatevene, se non volete una ripassata.»
«Non
fare il gradasso con lei, amico» gli disse Cane quasi scherzando. «Dammi retta,
non ti conviene».
Quello
non diede segno di voler ascoltare, e anzi sogghignò beffardo, quindi, di
fronte alla reticenza del capitano, fece per afferrarle il bavero; Alexia non
aspettò neanche di sentire la stretta sul petto, e caricata una bomba stordente
nel palmo della mano la scaraventò sotto il mento del malcapitato, sparandolo
letteralmente sul soffitto per poi farlo ricadere mezzo intontito sul parquet.
Colto
alla sprovvista,il suo compagno cercò
di reagire, ma Alexia era molto più veloce di lui e lo stese alla medesima
maniera, con la differenza che quel poveretto invece che contro ilmuro fu scagliato addosso alla parete con un
diretto dritto nella pancia.
«Te
l’avevo detto» disse ancora Cane prima di varcare, per ultimo, la soglia appena
spalancata.
In
quanto agenti di polizia, Alexia e gli altri erano abituati a scene
raccapriccianti, ma quello che trovarono in quella specie di mattatoio
mascherato da club esclusivo avrebbe fatto venire i conati anche al patologo
più esperto.
L’odore
di sangue e di interiora era tale da far vomitare, ovunque vi erano calici, coppe,
e persino bacinelle grondanti di sangue, una parte trattato e annacquato con
aperitivi di vario genere ma la grandissima parte fresco; ne avevano persino
nebulizzato in gran quantità, facendone una sostanza vaporosa molto densa che
veniva spruzzata incessantemente da degli erogatori appestando ulteriormente
un’aria già viziata all’inverosimile.
Non
c’erano solo vampiri, e quelli che non lo erano si riconoscevano ad occhio
nudo.
Per
essere vampiri bisognava anzitutto essere stregoni, e una volta che si prendeva
quella strada era impossibile tornare indietro.
Bere
sangue, soprattutto se impregnato di magia, per uno stregone era come assumere
un mix di sostanze steroidee e inibitori della crescita che effettivamente
aveva come l’effetto principale quello di cristallizzare i tessuti
rallentandone il disfacimento, ma che a lungo andare comportava come effetto
collaterale quasi appassimento degli stessi; tutto si traduceva una sorta di
invecchiamento precoce, quantomeno a livello esteriore, caratterizzato da pelle
rinsecchita, giunture indebolite, e più in generale un indebolimento cronico
delle funzioni vitali.
Si
diventava indubbiamente più potenti, e con un po’ di fantasia si poteva anche
cercare di mascherare alcuni degli effetti collaterali, ma il prezzo da pagare
era di vivere una sempiterna terza età, senza cioè, almeno per come la pensava
Alexia, avere la concreta possibilità di fare un qualche uso dei poteri che si
acquisivano.
Per
quanto si sforzasse Cane non riusciva a capire come potessero esistere persone
tanto stupide da spendere fino a diecimila kylis per
partecipare ad una sola di quelle feste; d’accordo che abbondavano begli e
facili potenziali partner con cui darsi ai giochi erotici più perversi, ma
doveva esserci qualcosa di profondamente malato nella mente di chi trovava
eccitante tutto quel letamaio.
Metà
della gente lì dentro era talmente malridotta da far venire male solo a
guardarla; visto che quello era l’unico posto dove nessuno poteva giudicare i
vampiri o storcere il naso al solo guardarlo, non vi era interesse alcuno di
mascherare il proprio vero aspetto.
Appena
entrati, i tre agenti si videro subito piantare addosso gli occhi di coloro,
pochi per la verità, che si erano accorti del loro arrivo; loro però, cercando
di non lasciarsi suggestionare, proseguirono nella loro ricerca, e gli fu
sufficiente guardarsi un po’ attorno per scorgere Valakis
seduto ad uno dei tavoli, circondato dai suoi uomini, ma soprattutto da un gran
numero di giovani donne, sia umane che vampire.
Il
confronto tra le prime e le seconde era impietoso, almeno per quanto riguardava
l’aspetto esteriore, ma il capo dei vampiri di Eyban era noto per le sue
stravaganze e i suoi gusti particolari.
«Sempre
il solito materialista» esordì Cane parlando prima ancora del suo capo. «Ma non
sei mai contento?».
Il
vampiro alzò gli occhi, non prima di aver infilato per l’ennesima volta la
lingua nella bocca di una delle sue tante accompagnatrici, e riconoscendo gli
chi stava di fronte abbozzò un enigmatico sorriso.
«Agente
Cane. Quanto tempo. Cosa ci fa qui a Kyrador?»
«Potrei
chiederti la stessa cosa, Armand» replicò l’agente, ben sapendo quanto il
vampiro odiasse essere chiamato per nome. «Fare casino a Volgorad
non ti bastava più? Dovevi per forza portare la tua carcassa putrescente anche
qui?».
Gli
animi si accesero subito, e l’unico a non raccogliere apparentemente la
provocazione fu proprio il diretto interessato.
«Non è
cambiato affatto, agente Cane. Sempre a fare la voce grossa, quando in realtà
potrei schiacciarla quando voglio come l’insetto molesto che è.»
«Anche
tu non sei cambiato. Sempre a farti parare il culo dai tuoi guardaspalle e dai
tuoi amici altolocati.»
«Basta,
Cane» lo redarguì Alexia. «Non siamo qui per litigare, signor Valakis. Vogliamo delle informazioni».
Valakis la
guardò, ammiccando.
«Chi è
la signorina?»
«Capitano
Alexia Stirling, polizia militare.»
«Capitano!?
Agente Cane, ti fai comandare a bacchetta da questo bel pezzo di manzo che
trasuda di feromoni? Forse la MAB non è poi così male dopotutto.»
«Il pezzo
di manzo ha trattato i tuoi buttafuori come sacchi da boxe» replicò Cane. «Al
tuo posto modererei le parole.»
«Ci
servono informazioni sul Tempio di Ela nell’Ottavo Distretto» replicò Alexia lasciando
perdere le buone maniere. «Sappiamo che sei in affari con loro».
La luce
che si accese negli occhi di Valakis era più che
eloquente, ma ciò nonostante il vampiro sembrava deciso a fare il finto tonto.
«Che
cosa avrei mai a che spartire con quei fanatici religiosi? Mi tengo ben lontano
da gente simile.»
«Non
fare la commedia» intervenne Lucas, cercando di mostrarsi galvanizzato dalla
baldanza dei suoi colleghi. «Abbiamo le prove che vendi regolarmente sangue di
stregone a Timur e ai suoi seguaci.
Vogliamo
sapere perché.»
«Prima
di tutto, io non fornisco sangue a nessuno.» replicò beffardo il vampiro. «E
anche ammesso che lo facessi, ribadisco, cosa potrei avere a che spartire con
quei mitomani esagitati?»
«Forse i
soldi? Un testimone ha visto uno dei tuoi uomini farsi pagare migliaia di kylis da un membro della setta per del sangue di stregone.»
«Quindi,
o sei un grandissimo bugiardo, che è un fatto risaputo» sentenziò malevolo
Cane. «O, visto che in caso contrario qualcuno dei tuoi starebbe agendo alle
tue spalle, un grandissimo idiota, che è anche peggio».
Anche Arman a quel punto diede l’idea di stare iniziando ad
arrabbiarsi, ma in nome del suo riconosciuto autocontrollo cercò di ostentare
la solita, insopportabile sicurezza. Alexia, tuttavia, lo vide chiaramente
fulminare con lo sguardo Autax, che stava in piedi
alla sua destra, e che di colpo si fece piccolissimo.
«Ci sono
metodi molto più facili per fare soldi. Perché dovrei andare a rischiare in un
affare tanto pericoloso? E se anche qualcuno dei miei ragazzi avesse cercato di
arrotondare un po’ il suo stipendio, del che comunque io dubito, che male ci
sarebbe? Questa è la città delle opportunità, dopotutto» quindi fece un cenno
ad una delle ragazze, che versò nel calice bordato d’oro appoggiato sul tavolo
un liquido rosato dall’odore acre, probabilmente sangue misto a qualche
liquore. «E ora, se non avete nient’altro, io vorrei godermi ancora questa
serata».
Valakis si
protese per prenderlo, ma Alexia lo intercettò e con una manata lo mandò a
colorare la moquette nero fumo.
Gli
animi si accesero all’inverosimile.
«Ora
stammi a sentire, pomposo succhiasangue. Non mi
importa un bel niente di quanti politici, imprenditori e capitani d’industria
strisciano ai tuoi piedi. O mi dai quello che voglio, o tra contrabbando,
ricettazione e un’altra mezza dozzina di capi d’accusa i tuoi amici avvocati
avranno molto da fare».
In posti
del genere parole come legge e polizia erano, per l’appunto, solo parole, e
finito il momento delle discussione giunse quello dei fatti.
Lucas
aveva con sé due pistole, una delle quali caricata con proiettili speciali
antimago, e inaspettatamente fu il più veloce ad estrarle, puntandole contro i
due vampiri a lui più vicini, i quali lo presero a loro volta di mira, uno con
le armi l’altro con un globo magico pronto ad essere scagliato; Cane non fu da
meno, stendendo con un diretto il vampiro che gli stava accanto e
schiacciandolo sotto la scarpa, rivolgendo la pistola contro di lui e
minacciando un suo compagno con la mano avvolta da una vampata di fiamme.
Questi,
invece che tentare di aggredire Cane, rivolse la sua pistola contro Alexia,
così come gli altri due gorilla di Valakis, ma nel
tempo che impiegarono a prenderla di mira la ragazza aveva già la pistola a due
centimetri dalla fronte del loro capo.
Tutto
avvenne nello spazio di un batter di ciglia, e con la stessa velocità gli
avventori terrorizzati scavarono un solco tra sé stessi ed il tavolo, pronti ad
assistere a quella che aveva tutta l’aria di stare per trasformarsi in una
carneficina.
Ancora
una volta, l’unico a non scomporsi fu proprio Valakis,
che nello spaventoso silenzio venutosi a creare, rotto solo da una musica
ancora assordante cui nessuno però faceva più caso, stette a lungo a fissarsi
negli occhi con Alexia, quasi a volerle leggere l’anima.
«Fossi
in te non lo farei» disse calmo. «Lo sai vero, che i riflessi di un vampiro
sono tre volte quelli d un essere umano? Saresti morta prima ancora di premere
il grilletto.»
«Se vuoi
provare, io sono pronta.»
«Capitano,
col dovuto rispetto, temo che la cosa sia andata un po’ troppo oltre.»
«Taci,
Lucas.» replicò lei senza neanche guardarlo.
Alexia e
Valakis seguitarono a fissarsi, immobili come statue,
e si aspettava solo di capire i nervi di chi avrebbero ceduto per primi.
«Credevo
che quelli della MAB fossero bravi solo a parole!» disse infine il vampiro
facendosi una grassa risata soddisfatta «Finalmente incontro qualcuno con un
po’ di fegato!».
Detto
questo fece un cenno ai suoi uomini, i quali, con stupore degli stessi Lucas e
Cane, abbassarono le armi e cessarono gli incantesimi, riportando la calma; dal
canto loro i due agenti non erano per nulla convinti di potersi fidare, ma nel
momento in cui anche Alexia abbassò la pistola rimettendo la sicura si
risolsero a fare altrettanto, pur seguitando a tenerle ben strette in mano.
«D’accordo,
avete vinto. È vero, ho fornito del sangue alla chiesa di Ela sull’Ottavo
Distretto. Ve lo giuro, quei tipi sono suonati.
Volevano
sangue di stregone raffinato al più alto grado di purezza. Niente scorie o
altro. Ovviamente gli avevano detto subito che la cosa gli sarebbe costata
parecchio, ma quelli non si sono tirati indietro. Anzi, hanno detto che i soldi
non erano un problema.»
«Quanto
ti hanno pagato?» chiese Alexia
«Tra una
spedizione e l’altra, cinquantamila kylis. Più
diecimila all’inizio del nostro… chiamiamolo rapporto
di lavoro, come forma di garanzia.»
«Hai
idea di che cosa ci facciano con tutto quel sangue?» domandò Cane
«Di
solito non mi curo di questo genere di cose, ma stavolta me lo sono chiesto
anch’io. Pensavo volessero usarlo in qualcuno dei loro riti feticisti, ma ne
hanno chiesto decisamente troppo perchè il motivo
possa essere questo.
Così,
una volta, ho fatto seguire uno dei corrieri da uno dei miei, che lo ha visto
sparire da qualche parte nel vecchio distretto industriale su Harris Island.»
«In
quella fogna a cielo aperto!?» mugugnò Lucas tra sé
«Ottimo
posto per nascondersi.» puntualizzò il suo collega «O per nascondere qualcosa».
Quasi
per sfida Valakis ordinò ad una delle sue donne di
offrire degli aperitivi ai tre agenti, quale segno di buoni trascorsi e della
reciproca volontà di non serbare rancore per quello che lui stesso definì un
piccolo screzio senza importanza.
Lucas e
Cane non ci pensarono neanche a ingoiare quell’intruglio, mentre invece Alexia,
senza quasi battere ciglio, afferrò il bicchiere tracannandone in un sol colpo
il contenuto.
La
percentuale di sangue era minima, annacquato all’inverosimile con del gin e
distillato al punto da non avere quasi sapore, ma questo non gli impedì di fare
lo stesso effetto di una colata di brodo bollente infilata dritta nello
stomaco.
I suoi
uomini restarono basiti, e anche Valakis si
meravigliò visibilmente del coraggio dimostrato dalla giovane donna.
«Ce ne
fossero di più di tipi come te nella tua agenzia.»
«Grazie
per il drink» rispose arcigna lei lasciando cadere a terra il bicchiere vuoto
per poi andarsene con i due colleghi.
A metà strada tra il
continente di Columbia e quello occidentale di Valaras,
nel cuore del braccio di oceano che separava tra loro le coste di Caldesia e Dagrea, si trovava il piccolo arcipelago di Nuove St.Etienne.
Uno
sparuto gruppo di isole raccolte attorno ad una vasta laguna, poco più di
macchie di sabbia che emergevano a malapena dalla superficie cristallina del
mare colorate dal verde delle palme che crescevano sempre più fitte man mano
che ci si avvicinava al centro degli atolli, troppo piccole per ospitare grandi
alberghi o complessi balneari e comunque troppo lontane dalle coste per
risultare degli appetibili centri balneari.
Originariamente
vi erano stati costruiti solo un centro meteorologico e un ripetitore magico,
ma proprio per via dell’estremo isolamento con gli anni quello sperduto
arcipelago era diventato la sede di uno dei più frequentati circoli aviatori
del mondo.
Quella
per le piccole aeronavi da escursione era una passione che accomunava gente di
ogni ceto sociale, ma solo chi aveva del fegato da vendere, e comunque tanti
soldi da potersi permettere sia l’attraversata che l’eventuale nolo nelle
rimesse dell’isola principale, era ammesso a frequentare il circolo delle St.Etienne.
Grazie
ai ricettori posti sulle vele di materiale speciale, quelle piccole e rapide
imbarcazioni volanti erano in grado di prendere il flusso di energia magica che
attraversava incessantemente la superficie del pianeta nello stesso modo in cui
una vela normale prendeva il vento, ma visto che le correnti attorno a St.Etienne erano note per la loro imprevedibilità ci voleva
tanta esperienza per riuscire a domarle.
E il
giovane AlekWalcott,
sportivo estremo di fama internazionale, detto la Tigre di Ebridan,
come suggeriva il suo nome d’arte di fegato ne aveva da vendere.
Per
giorni una serie allucinante di temporali gli aveva impedito di uscire, ma
quella mattina, al primo sprazzo di sole, era saltato sul suo catamarano da
quindici metri e aveva immediatamente preso il largo, sordo agli avvertimenti
che giungevano dal centro meteorologico circa l’arrivo imminente di nuove
perturbazioni che avevano convinto la maggior parte dei suoi colleghi a
rimanere a terra.
Mancavano
solo tre giorni alla chiusura dell’attività del circolo per l’inizio della
stagione dei monsoni, e Alek non aveva alcuna
intenzione di chiudere le due settimane di escursione sulle isole con tre sole
uscite di poche ore ciascuna per colpa del brutto tempo.
Verso
mezzogiorno la Tigre era già giunto ai limiti dello spazio di volo autorizzato,
e tranne qualche nuvola di passaggio le condizioni, nonostante tutto,
sembravano reggere.
Sotto di
lui, niente altro che oceano
Non
c’era niente che facesse sentire maggiormente liberi come sfrecciare a mille
metri d’altezza, nel silenzio più assoluto, con il caldo sole tropicale sulla
faccia, il cielo velato dai nuvole che parevano tracciate col gesso, e in basso
la superficie azzurra del mare.
Era il
paradiso.
Alek si
lasciò trasportare dalla tranquillità prima che dal vento, facendo trascorrere
serenamente le ore tra il momento di relax e la cura dell’imbarcazione, che
nonostante gli anni e le molte traversie viaggiava ancora leggera e soave come
una rondine.
«Avanti
bella» continuava a dire direzionando la vela in base all’intensità delle linee
colorate che la solcavano formando una griglia e che funzionando come degli
indicatori permettevano anche a chi non era uno stregone di recepire i
movimenti delle correnti magiche «Oggi sei bravissima».
Aveva
appena finito di riposizionarle, che dalla radio montata accanto al suo
seggiolino giunse la voce squillante e baldanzosa della sua amica Marisol.
«Stazione
meteo a Seagull. Alek ci
sei?»
«Ti
sento forte e chiaro, farfallina.» scherzò lui.
Tutti
nel circolo chiamavano Marisol farfallina per via
della sua voce, ma le opinioni erano divise tra chi riteneva che quel
soprannome fosse dovuto al fatto che per lei l’aria e le correnti tutto attorno
a St.Etienne non avevano segreti e chi invece,
malignamente, lo trovava un modo molto poco galante di riferirsi alle sue
dimensioni, triste lascito di una vita troppo improntata alla sedentarietà del
suo lavoro abbinata ai piaceri della tavola.
«Caro
signor Walcott, le sarei grata se riportasse le sue
chiappe nere al campo di volo» rise la donna.
«E per
quale motivo? Mi sto divertendo così tanto.»
«Non
fare il cretino, Alex. C’è un sistema temporalesco che transiterà ottanta
miglia dalle isole entro tre ore. Non c’è bisogno che ti dica cosa potrebbe
succedere se decidesse improvvisamente di virare verso sud.»
«L’ottimismo
è sempre il tuo tratto distintivo, non è vero farfallina.
Tranquillizzati,
per ora qui è tutto calmo. Nessuna traccia di correnti anomale né di formazioni
nuvolose. Anche il flusso energetico è tranquillo.»
«Non è
tutto. Stando al radar ti trovi a poca distanza dallo spazio aereo militare
dell’aeronautica caldesiana. Ben inteso, non mi
dispiacerebbe vederti esplodere come un fuoco d’artificio centrato da un
missile assieme a tutta la tua baldanza, ma preferirei che non succedesse
durante il mio turno.»
«Grazie
mille. Lo apprezzo molto. Ma farmi abbattere dai caldesiani
non è attualmente nella mia lista di cose da fare, e credo di saperne
abbastanza di questa zona di mare da evitare di dover fare la fine di un
bersaglio d’allenamento».
Marisol
conosceva molto bene l’esperienza di Alek, anche se
come molti altri lo trovava davvero insopportabile, e qualche minuto dopo
averlo lasciato fare prendendo a fare altro il trillare di una delle numerose
postazioni disseminate per il suo ufficio attirò la sua attenzione.
Spingendosi
sulle ruote della sedia lo raggiunse, digitando un momento sulla tastiera per
capire l’origine del problema; da un istante all’altro, nei i suoi occhi sia
accesero del più vivo terrore.
«Oh, mio
Dio!» esclamò.
Prego
che la previsione del computer fosse sbagliata, ma un rapido quanto disperato
controllo confermò i suoi timori.
Alzatasi,
e quasi inciampando sul pavimento scivoloso sotto il peso della sua enorme
massa, si avventò nuovamente sulla radio, ma ormai la frequenza era stata
spostata.
«Alek! Alek!» disse continuando a
viaggiare tra i vari canali «Ti prego, rispondi!».
Finalmente,
riuscì a recuperare il contatto.
«Che c’è
adesso, farfallina?»
«Alek, vattene subito da lì! Allontanati!»
«Ancora
con questa storia? Te l’ho già detto, qui è tutto calmo.»
«Tu non
capisci Alek. Sta arrivando una blitzstorm!
Si sta formando proprio ora, e proprio dove ti trovi tu! Allontanati subito, o
ti travolgerà!».
Di fronte
ad una simile rivelazione dapprima Alek non volle
credervi; se non che, da un istante all’altro, nuvole fitte e nere presero ad
addensarsi senza apparente motivo a poche miglia dalla sua posizione, accese
con spaventosa frequenza da bagliori di lampi, e per quanto fosse ancora
lontana l’eco dei tuoni giungeva fin lì.
Era
quella la blitzstorm.
Una dei
pochi eventi atmosferici propri del pianeta Celestis, e probabilmente tra i più
insidiosi. Una tempesta improvvisa e violenta, capace di generarsi nello spazio
di pochi secondi, abbattendosi con potenza inaudita in una zona tutto sommato
ristretta per poi esaurirsi, spesso abbastanza rapidamente, dopo aver esaurito
la sua energia.
Si formavano
solo in due punti della superficie, in quello stretto braccio di mare la
Columbia e Valaras e nella zona dell’oceano orientale
diametralmente opposta, e anche se tutti erano concordi nell’attribuirne gran
parte della causa ad una specie di torrente sottomarino che collegando i due
poli sospingeva continuamente masse di acqua gelida attraverso i due più grandi
oceani di Celestis in realtà nessuno era ancora stato in grado di capire
realmente cosa le generasse.
Una cosa
però era certa: trovarsi sulla loro traiettoria, soprattutto se a bordo di una
piccola imbarcazione da crociera, voleva dire rischiare seriamente la vita, e
anche se si considerava un amante delle sfide Alek
non si sognava nemmeno di sfidare l’unica cosa capace di terrorizzarlo.
«Merda!»
strillò mettendosi subito al timone.
Con
molta fatica riuscì a prendere il flusso quanto bastava per navigare nella
direzione opposta, ma nel tempo che impiegò ad invertire la rotta la tempesta
gli fu addosso, travolgendolo in pieno con una scarica di pioggia, fulmini e
vento fortissimo.
Alek tentò di
manovrare in quota, ma quasi subito dovette scendere il più possibile per
uscire dalle nuvole dopo che un fulmine per poco non si era abbattuto sulla sua
barchetta usando l’albero come un parafulmine.
Di
ammarare non se ne parlava. Le onde erano alte decine di metri, abbastanza da stritolare
una piccola imbarcazione come quella.
Il Seagull veniva sballottato incessantemente da una parte
all’altra come una barchetta di carta inondata d’acqua, e ad ogni secondo Alek, che già faceva fatica a manovrare con tutto quel
vento e quella pioggia, avvertiva costantemente nuovi scricchiolii.
Alla
fine, per quanto la cosa lo avvilisse, fu costretto a chiedere aiuto.
«Mayday,
mayday!» disse alla radio sperando che ci fosse qualcuno a sentirlo «Parla
l’aeronave da turismo Seagull! Sono incappato in una blitzstorm! La mia barca è danneggiata! Richiedo soccorso
immediato!».
Tuttavia,
nel momento in cui fece per leggere le coordinate, si avvide sgomento che il
rilevatore di posizione e il radar erano saltati, così come tutti gli
apparecchi elettronici; colpa delle scariche elettromagnetiche che
interessavano quel genere di tempeste.
«Maledizione!»
imprecò quasi distruggendo la radio con un pugno.
Per
interminabili minuti il Seagull seguitò a venire
spinto da tutte le parti sotto la furia incontrastata delle correnti,
faticosamente tenuto orizzontale da Alek che ormai
sentiva le braccia e le mani talmente rigide da sembrare sul punto di
staccarsi.
Era
abbastanza sicuro di aver sforato abbondantemente entro la zona di sicurezza di
cui gli aveva parlato Marisol, ma in quel momento era
l’ultimo dei suoi problemi; anzi, semmai questo accresceva le possibilità che
qualcuno avesse ricevuto il suo segnale di SOS.
Poi, d’improvviso,
si udì un violento rimbombo, che non sembrava quello di un tuono, e una strana
luce parve accendersi sopra le nuvole a circa mezzo miglio dal Seagull. Alek riuscì appena ad
accorgersene, che dal nulla un fascio di luce di enormi dimensioni discese dal
cielo bucando la tempesta per poi inabissarsi violentemente in mare.
Seguì un
violento spostamento d’aria, così forte che per poco non riuscì a far ribaltare
la barca, ma in qualche modo Alek riuscì a tenerla
dritta senza perdere tuttavia il contatto visivo con lo strano ed incredibile
fenomeno.
Il bagliore
perdurò per alcuni secondi, poi, come era comparso, si dissolse, e con esso,
sotto gli occhi stupefatti di Alek, andò scomparendo
lentamente la tempesta, che diminuì gradualmente di intensità fino a
smaterializzarsi letteralmente, con il foro creato nella coltre di nuvole dalla
luce che si ingrandì sempre di più fino ad inghiottirla.
I venti
cessarono, la pioggia smise di cadere, ed il sole tornò a splendere su quel
remoto angolo di mare a metà strada tra i due più grandi continenti di Celestis.
Alek era
senza parole.
Aveva già
visto altre volte una blitzstorm esaurirsi
rapidamente, ma non gli era mai capitato di vederne scomparire una ad una tale
velocità.
Era come
se quello strano raggio di luce le avesse succhiato via l’energia proprio nel
suo massimo momento di esplosione, un qualcosa che non stava né in cielo né in
terra, tanto che per diversi minuti il giovane, pensò di aver avuto un’allucinazione,
seguitando inebetito ad osservare l’orizzonte mentre la sua barca, troppo
malconcia per continuare a volare, si posava gentilmente sul fondo del mare.
«E
quello che diavolo era?».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Scusate per il ritardo osceno, ma ho avuto
parecchio da fare in quest’ultimo periodo e non ho avuto molto tempo libero a
disposizione per scrivere.
Inoltre, come potete vedere, questo
capitolo è particolarmente lungo, il che ha ulteriormente rallentato la
velocità di aggiornamento.
Per fortuna quello che si apre con oggi è
un mese relativamente tranquillo, che mi renderà un po’ meno complicato
riuscire a trovare del tempo libero.
Tanto più che, come mi ero promesso, ho
iniziato a mandare alcuni capitoli in giro per case editrici, quindi devo
sbrigarmi a finire nel caso (sì, come no…) qualcuna
decidesse di contattarmi.
Ecco ho detto tutto.
Grazie come sempre a chi legge, commenta e recensisce.
Pur trovandosi dall’altra
parte della città rispetto ai distretti considerati più a rischio, Harris
Island era nota come uno dei luoghi maggiormente pericolosi e mal frequentati
di tutta Kyrador.
Su
quella specie di scoglio roccioso di forma vagamente triangolare, con il
vertice occidentale allungato verso il mare aperto, Harris Island aveva
ospitato il primo embrione della futura Kyrador all’indomani dell’arrivo dei
primi coloni sul pianeta, e anche a seguito dello spostamento del cuore della
città sulla terraferma aveva continuato a prosperare, ospitando numerose
attività commerciali legate soprattutto al trasporto marittimo.
Per più
di due secoli Harris Island era stata la porta aperta verso l’oceano nel cuore
della baia di Kyrador, ma poi era stato realizzato il distretto industriale a
nord con annessi cantieri navali e zone per lo stoccaggio delle merci, e
nell’arco di pochi decenni l’isola aveva conosciuto un lento ed inesorabile
declino.
Ed era
un po’ un peccato, perché il Rainbow Bridge, che
collegava Harris Island alla terraferma all’altezza del museo di storia
naturale, era uno dei simboli per eccellenza di Kyrador, nonché una delle costruzioni
esteticamente più belle di tutta la città.
Seguendo
le indicazioni di Valakis, quella notte stessa
Alexia, Cane e Lucas raggiunsero uno dei magazzini più lontani e nascosti
dell’isola, situato quasi sulla sponda opposta rispetto al ponte, e ben
nascosto da una serie di altri edifici fatiscenti che lo schiacciavano su tutti
e tre i lati.
«Il
posto è questo.» disse Lucas.
Si
guardarono attorno, ma pur avendo fermato la macchina abbastanza lontano e in
penombra per non farsi scorgere da eventuali sentinelle in giro non si vedeva
nessuno.
«Non è
che il tuo amico ci ha bidonati?»
«Valakis non è stupido» replicò Cane quasi stizzito. «Anzi,
forse un po’ sì, ma non abbastanza da mettere a rischio i suoi affari più
importanti per salvarne uno che considera comunque secondario».
Alexia
usò l’OcusOmniscentis per
sondare l’interno della struttura, constatando l’assenza di movimento al suo
interno.
«È
pulito. Andiamo a dare un’occhiata.»
«Non
servirebbe una cosa che mi pare si chiami mandato?» chiese Lucas
«Per
entrare in un rottame fatiscente? A chi lo mostriamo, ai ratti?».
Scivolando
nel buio i tre agenti raggiunsero e oltrepassarono tramite un pertugio il
muretto che delimitava il cortile asfaltato dell’edificio, e aperto il pesante
portone in metallo chiuso solo da un vecchio catenaccio arrugginito entrarono,
facendosi luce con alcuni globi luminosi appositamente evocati.
L’interno
era fatiscente quanto l’esterno, se non di più.
Ovunque
era un trionfo del degrado, muffa e ruggine regnavano sovrane, e, alla prova
del sistema di illuminazione, non c’era una lampadina che funzionasse.
A
giudicare dai macchinari e dalle apparecchiature lasciati a marcire un po’
dappertutto quel posto un tempo doveva essere stato una raffineria, dove si
lavorava il krylium in arrivo da oltreoceano da
destinare poi ai centri specializzati per la creazione dei sistemi di
alimentazione da cui dipendeva praticamente ogni apparecchiatura elettrica ed
elettronica del pianeta.
Ma
doveva essere tutto abbandonato da un bel pezzo, visto e considerato che
oltretutto molte di quelle attrezzature erano palesemente obsolete, e comunque
quel posto tutto sembrava meno che una centrale di produzione della droga.
«Questo
letamaio deve aver conosciuto tempi migliori.» commentò Cane.
Provarono
a cercare qualche traccia, qualunque cosa potesse aiutarli a capire come mai il
correre si fosse recato proprio lì, ma ad una rapida occhiata non venne trovato
assolutamente nulla di associabile alla Chiesa di Ela o alla lilith.
«Sei
ancora convinto che il tuo amico non ci abbia fregati?» disse ironico Lucas,
quasi fiero di poter imbeccare il collega almeno per una volta.
Cane era
sul punto di sbottare tanto gli bruciava dover ammettere di aver fatto davvero
la figura del fesso, se non che, guardando per caso dietro un tavolo ribaltato,
trovò qualcosa che invece lo fece tornare di colpo quello di sempre.
«Vieni a
vedere un po’ qui, criticone.» disse a Lucas, che gli stava a pochi metri.
Come lo
raggiunse, Pierre si vide sbattere sul naso un contenitore pieno di fialette
rotte o scheggiate, e a giudicare dall’odore ferroso che emanavano c’erano
pochi dubbi su cosa avessero a suo tempo contenuto.
«Ti
risulta che le raffinerie di krylium usino il
sangue?»
«D’accordo,
avevi ragione. Però mi sembra evidente che se davvero preparano la lilith non è qui che lo fanno.»
«Beh,
però è già qualcosa».
Uno
strano rumore, appena percettibile nonostante il silenzio, mise tutti e tre sul
chi vive. Sembrava un rumore di vetri rotti, forse calpestati.
I tre
agenti si appiattirono il più possibile sul pavimento, ed Alexia cercò i suoi
con lo sguardo, trovandoli dal lato opposto del capannone.
Per
fortuna, tra le sue varie abilità di maga vi era anche la telepatia.
«Lo hai
sentito?» domandò col pensiero
«Eccome.»
rispose Cane, che condivideva il medesimo talento.
Si
separarono, tenendosi però d’occhio l’uno con l’altro, e cercando nel contempo di
capire l’origine di quel rumore.
Cane,
pistola alla mano, si era diretto verso la zona più lontana dall’uscita, da
dove gli era parso fosse giunto quel rumore; tutto il capannone era un’unica
immensa stanza, perciò chiunque fosse il colpevole, se un colpevole c’era davvero,
doveva per forza trovarsi lì.
Un’ombra
velocissima scivolò alla sua sinistra, intercettata con la coda dell’occhio, lo
fece trasalire, e benché non fosse del tutto sicuro di aver visto bene si mosse
in quella direzione, in un punto dell’edificio dove vi era un gran numero di
grossi macchinari industriali, allineati l’uno accanto all’altro come tante
statue arrugginite.
Fu
contro una di queste macchine che l’agente si appoggiò, serrando ancora più
forte la mano attorno al calcio della pistola.
L’istinto
gli suggeriva che non si era sbagliato.
Trasse
un respiro, chiudendo un momento gli occhi per respingere un fastidioso
riflesso prodotto dalla luce dei lampioni su alcune finestre rotte, quindi uscì
allo scoperto, puntando l’arma davanti a sé.
Un
grosso gatto nero, probabilmente randagio, stava raggomitolato in un angolo, il
pelo ritto e l’espressione minacciosa, più determinato che mai a difendere il
topolino che teneva stretto tra le fauci.
Meno
male che Lucas non si era accorto di nulla, o si sarebbe messo a ridere.
«Spero
ti vada di traverso.» bofonchiò.
Il gatto
seguitò a guardare l’intruso che aveva interrotto impunemente la sua caccia, e
quando questi si girò tornando sui propri passi lasciò stranamente cadere a
terra la propria preda, per poi avviarsi furtivo nella direzione opposta.
Una
piccola meteora di luce, poco più di un petardo, lo mancò di pochissimo,
facendolo saltare per lo spavento.
«Pensavi
sul serio di fregarmi?» esclamò Cane correndogli incontro. «Venite, è qui!».
Il
gatto, per nulla spaventato, caricò il suo assalitore, riuscendo con due balzi
a superarlo forte della propria agilità per poi puntare velocissimo verso la
più vicina finestra.
«Fermatelo!».
Vicino
al pertugio c’era Alexia, che velocissima toccò la parete con il palmo della
mano, facendo ricoprendo sia quella finestra che tutte le altre lungo quel lato
di una spessa coltre di ghiaccio sbarrando la strada.
Il gatto
inchiodò, ritrovandosi in trappola, e Lucas cercò di saltargli addosso
prendendolo alle spalle, ma di nuovo quella specie di freccia nera riuscì a
cavarsi d’impaccio dirigendosi al portone, lasciato imprudentemente aperto.
«Sta
scappando!» strillò Alexia.
Lucas
provò a rincorrerlo, incespicando però sul terreno reso scivoloso dalle
infiltrazioni e facendo un volo da antologia, e a quel punto sembrò non esservi
più alcuna speranza di bloccare il fuggitivo.
Se non
che, nell’istante in cui poggiò le proprie zampe sull’uscio pronto a darsela a
gambe, il gatto si vide spuntare da sotto il pavimento una selva di catene metalliche,
che come un nugolo di serpenti animati di vita propria gli si annodarono
attorno al corpo inchiodandolo a terra.
Tentò di
liberarsi, ma la stretta era troppo forte, anche per lui, e mentre ancora si
sforzava a lottare un bagliore lo ricoprì interamente, ingrandendosi sempre di
più; poi, quando la luce si spense, al posto del gatto vi era un giovane uomo
sulla trentina, capelli neri e portamento trasandato, quasi da vagabondo,
ancora avvolto nella sua rete di catene, allargatesi per evitare di soffocarlo
senza però lasciargli comunque possibilità di uscirne.
Solo
quando i tre agenti si avvicinarono le catene si dissolsero tramutandosi in
sabbia, ma a quel punto per il fuggitivo non c’era più nulla da fare.
«Fine
della corsa, bello!» disse Cane. «Per fortuna che l’ingenuo qui presente aveva
avuto l’idea di piazzare questa trappola.»
«Aspettate,
sono un poliziotto!»
«Vallo a
raccontare a qualcun altro!» fu la risposta acida di Lucas, alquanto
contrariato per ilruzzolone appena
fatto.
Alexia
avrebbe voluto interrogare il prigioniero immediatamente, ma il risuono di
alcune voci, probabilmente spiantati richiamati dal fracasso, costrinse i tre a
cambiare aria quanto prima.
«Mettiamolo
in macchina. Lo interrogheremo in centrale».
Il sospettato venne portato
all’Eruvere Building e chiuso in una stanza per gli interrogatori tappezzata di
inibitori, ma ad ogni domanda che gli venne posta da quel momento in avanti la
sua risposta rimase la stessa.
Sosteneva
di essere un agente di polizia infiltrato, e che non avrebbe detto altro fino a
quando i suoi superiori non fossero venuti a prenderlo.
Dapprincipio
Alexia e gli altri non vollero credere ad una simile storia, anche se l’assenza
di un riscontro facciale negli archivi della polizia locale non bastava
comunque a classificarla come una favola; se davvero si trattava di un agente
sotto copertura, era ovvio che i dati su di lui fossero stati nascosti o
cancellati.
All’alba,
i tre agenti non erano ancora arrivati a niente, e la notte passata in bianco
si stava facendo sentire. A confronto dei loro colleghi, freschi e riposati,
sembravano dei morti viventi, coi vestiti sgualciti, le borse sotto gli occhi e
un continuo sbadigliare.
«E io
che ieri sera volevo andarmene al cinema.» continuava a brontolare Lucas.
Quello che
non sapevano era che cercando i dati del fermato nel database avevano fatto
scattare un apposito allarme, e quando alle nove il maggiore Owens arrivò nel suo ufficio fece convocare immediatamente
l’intera squadra. Aveva un diavolo per capello, e benché avesse sempre trattato
Alexia con un occhio di riguardo considerandola uno dei suoi migliori agenti
stavolta non sembrava intenzionato ad agire in tal senso.
«Sapete
chi mi ha dato il buongiorno questa mattina?
Il
comandante dell’anticrimine caldesianaFittzwater. Ha detto che avete preso uno dei suoi uomini, e
sta venendo qui a riprenderselo».
I tre
chinarono i capo, ma non per la vergogna.
«Allora
quel famiglio diceva la verità alla fin fine.» osservò mestamente Cane
«Prima
che io vi faccia l’ennesima predica sul rispetto delle regole e sull’osservanza
dei gradi, vi dispiacerebbe spiegarmi che diavolo è successo?».
Alexia
fece un rapido riassunto della paradossale sequenza di eventi capitati quella
notte, e allora il maggiore sprofondò nella sua poltrona passandosi una mano
sugli occhi.
«Quando
ti ho detto che volevo un rapporto, non prevedeva che dovessi venire io a
chiedertelo.»
«Mi
dispiace, signore. È successo tutto così in fretta. Contavo di avvisarla appena
avessimo saputo qualcosa.»
«Prima
di tutto, che ti è saltato in mente di incontrare Valakis
senza dirmi nulla? Data la situazione, sono sorpreso che non vi abbiano trovati
a galleggiare nella baia.»
«È stato
Valakis a condurci a quel magazzino. Sospettavamo che
potesse essere un centro per la produzione della droga.»
«Ma
invece della lilith, abbiamo trovato quel tipo.»
irruppe Cane
«Il tipo
in questione è un agente infiltrato.»
«È
quello che ci ha detto, ma dapprincipio non gli abbiamo creduto.» spiegò
Alexia. «Quando lo abbiamo scoperto ha cercato di scappare, e per tutta la
notte si è rifiutato di rivelarci i dettagli del suo incarico».
Proprio
in quel momento, nell’ufficio che dominava gli uffici dell’anticrimine irruppe
il comandante AbramFittzwater,
accompagnato da un altro dei suoi uomini.
«Tu hai
qualcosa di mio, Dietrich.» esordì.
«Abram.» lo salutò il maggiore.
«Sapevo
che la MAB era poco propensa a condividere la gloria, ma non mi aspettavo certo
che sareste arrivati a mettere il naso in una nostra indagine.»
«Potremmo
dire la stessa cosa» punse Cane. «Dovrebbe mettere al guinzaglio ai suoi
famigli.»
«Si
moderi, agente Cane» lo redarguì il suo comandante il capo. «Anche se devo
ammettere che non ha tutti i torti. Qui non si tratta di gloria o prestigio.»
«Se
stavate indagando anche voi sul conto della chiesa, avreste dovuto dircelo»
replicò Fittzwater quasi contrariato
«Possiamo
andare avanti a rimpallarci le responsabilità fino a stasera, o possiamo
venirci incontro. Innanzitutto, perché non ci spieghi cosa ci faceva un tuo
famiglio in un edificio legato alla chiesa di Ela?».
Fittzwater
serrò i denti per il senso di impotenza, masticando silenziosamente tutte le
imprecazioni che conosceva. Visto che si trovava in un palazzo della MAB non
poteva permettersi il lusso di fare lo spaccone, tanto più che avevano in mano
uno dei suoi uomini.
«D’accordo,
avete vinto. Stiamo indagando.»
«Sulla
chiesa di Ela?» chiese Owens «O forse su Timur?»
«Timur è
solo un pesce piccolo. C’è qualcuno dietro di lui. Qualcuno di molto ricco.
Abbastanza da avergli fornito apparecchiature e conoscenze necessarie a
tramutare una anonima centrale di produzione della droga in un piccolo impero
degli stupefacenti che dopo aver fatto il bello e il cattivo tempo nei
distretti periferici ora sta iniziando a incancrenire l’intera città.»
«Quindi
sapevate già che Timur è coinvolto nella produzione della Lilith.» disse Alexia
«Voi
della MAB siete sempre due passi indietro. Sono tre anni che la polizia
criminale di Caldesia segue le tracce di Timur, e già da due anni il mio
famiglio era riuscito a introdursi in mezzo a loro.
All’inizio
il nostro scopo era solo trovare le prove per incriminare Timur in merito agli
affari sporchi da lui condotti con le corporazioni al fine ottenere il
controllo dell’Ottavo Distretto, ma quando ci siamo resi conto che si era messo
a lavorare anche con la lilith abbiamo deciso di
continuare ad indagare.»
«Quindi»
chiese Lucas. «Anche il suo uomo era in quel magazzino per cercare il luogo in
cui producono la droga?»
«Niente
affatto.» replicò seccato il comandante. «Quello è solo uno dei loro tanti
centri di raccolta e smistamento. Era lì su ordine di Timur per occuparsi di
uno scambio, e grazie al cielo il corriere è arrivato prima di voi, o a
quest’ora alla chiesa avrebbero già scoperto tutto.»
A quel
punto Fittzwater si incupì ancora di più, fulminando
con uno sguardo Alexia e i suoi uomini.
«Il mio
famiglio si è fatto in quattro per ottenere la fiducia di Timur, e se non fosse
stato per la vostra ragazzina a quest’ora probabilmente sarebbe già stato destinato
alla raffineria vera e propria, invece è finito di nuovo a fare il galoppino.
Spero
non vi aspetterete che io vi ringrazi».
I tre
agenti saltarono sul posto, e anche il maggiore piegò le labbra preoccupato.
«Come sa
di Carmy?»
«Ci
avete presi per stupidi, per caso? Forse non abbiamo i vostri mezzi, ma
sappiamo fare il nostro lavoro. Sapevamo chi era nell’istante in cui ha messo
piede per la prima volta nella chiesa.»
«Se
sapevate che c’era anche uno dei nostri, potevate anche avvisarci.» disse Lucas
insolitamente contrariato. «Ci saremmo evitati di pestarci i piedi a vicenda.»
«Per
quanto ne so la MAB non ama condividere la gloria.» replicò sarcastico Fittzwater. «E comunque non erano affari nostri. O meglio,
non lo erano fino a quando la vostra intromissione non ha mandato in fumo mesi
di lavoro.»
«Che
vuoi dure?» domandò Owens
«Il mio
famiglio ci ha messo quasi un anno per ottenere anche solo mansioni da
corriere, mentre la vostra ragazzina ci è riuscita in meno di due mesi, a tutto
svantaggio del mio infiltrato. Forse Timur ha una passione perversa per le
ragazzine che ancora odorano di college, fatto sta che il suo arrivo ci ha
scombinato i piani.
Tipico
per voi della MAB essere una perenne fonte di guai.»
«Se
cerca la rissa, non ha che da chiederla.» rispose provocatoriamente Cane. «Mi
basta tirare giù le tapparelle».
Di
fronte a quella che era più una sparata che una vera intimidazione, il
comandante sorrise ironico e allargò le braccia.
«Via,
via. Non buttiamola sul personale. Consideratelo il legittimo sfogo di un
professionista gabbato sul più bello.
Non
voglio per nulla sminuire le capacità del vostro agente. Se è riuscita ad
arrivare così lontano in così poco tempo, il merito sarà soprattutto suo.
In ogni
caso, l’uno o l’altro non fa differenza. Quello che contava era avere una
persona fidata accanto a Timur, e ora ci siamo riusciti».
Alexia
replicò con la medesima espressione, se possibile in modo ancor più malevolo.
«Ci sta
proponendo di lavorare insieme?»
«Non
sempre ci si può scegliere gli alleati.» sorrise Fittzwater
«Dopotutto i generali fanno la guerra coi soldati che hanno.
È
evidente che vogliamo entrambi la stessa cosa. E visto che nessuno dei due ha
la minima intenzione di rinunciare alla propria indagine, tanto vale
collaborare.
Allora,
che ne dite?».
I
quattro agenti si consultarono con gli sguardi. Tra tutti, quello di Cane era
di certo il più eloquente; in quanto unico del gruppo a poter vantare sul suo
stato di servizio dei trascorsi sia nell’Agenzia che nella polizia ordinaria,
per lui più che per tutti gli altri era facile comprendere la vera natura
dell’atteggiamento così apparentemente amichevole di Fittzwater,
e se non fosse stato per il fatto che anche il comandante era un mago avrebbe
condiviso subito i suoi pensieri con i colleghi tramite la telepatia.
D’altra
parte, però, non si potevano negare i vantaggi di una simile offerta.
«Mettiamo
il caso che noi accettiamo.» disse Owens quasi con
sfida. «Voi che cosa ci date in cambio?»
«Forse,
tutte le informazioni che abbiamo raccolto nel corso di questi tre anni?»
«Non
servirebbe il permesso dei piani superiori?»
«Sono io
i piani superiori. Questa è la mia operazione.»
«Vediamo
prima quali sono queste informazioni.» sentenziò Alexia.
Fittzwater
ringhiò come un leone messo all’angolo, preoccupando persino il suo secondo
famiglio che dall’inizio se ne era rimasto da una parte senza aprire bocca, ma
alla fine dovette cedere. Con un cenno evocò una proiezione tridimensionale
della città che occupava da sola buona parte della stanza levitando ad un metro
da terra, e in mezzo alla quale lampeggiavano svariati puntini gialli.
«Quello
che abbiamo scoperto finora, è che Timur non è sicuramente l’unico membro della
Chiesa coinvolto nel traffico di droga, ma certamente è certamente colui che
occupa il vertice della piramide, nonché per quanto ne sappiamo l’unica persona
a tenere contatti stretti con i suoi finanziatori.
Abbiamo
condotto controlli a tappeto su tutte le persone a lui vicine, e separando la
paglia dal grano siamo riusciti ad isolare un certo numero di individui che
riteniamo occupino una posizione di un certo rilievo all’interno dello
scacchiere in questione.
Le luci
che vedete lampeggiare sono tutti i centri di smistamento che siamo riusciti a
identificare in giro per la città, più alcuni depositi e magazzini dove viene
custodita la droga prima di venire immessa sul mercato. I materiali e gli
ingredienti necessari alla produzione arrivano prevalentemente da fuori, e nel
corso del tempo attraversano a più riprese questi luoghi passando di mano in
mano fino ad arrivare in quelle dei corrieri di più alto livello, che si
occuperanno di portarli a destinazione perché siano convertiti nel prodotto
finito per poi occuparsi di far avere la droga agli spacciatori.
Sappiamo
per certo che il laboratorio in cui viene prodotta la lilith,
oltre a molti altri stupefacenti si trova da qualche parte qui a Kyrador, ma
ancora non sappiamo dove.
Abbiamo
già controllato i distretti più periferici e alcune zone di quelli considerati
maggiormente sensibili, oltre ad un buon numero di siti sensibili
nell’immediato fuori città, ma senza risultati».
Un
cerchio rosso si formò nel mezzo della mappa, colorandone una porzione
corrispondente alla zona a cavallo tra il quinto e il sesto distretto.
«La
distribuzione e la posizione dei vari siti di scambio recentemente ci ha
portati a credere che il laboratorio possa trovarsi in questa zona, e un po’
per volta stiamo iniziando a perquisirla.
È solo
questione di tempo, prima o poi salterà fuori.»
«Comandante,
se permette» disse Alexia indicando un punto della mappa e facendovi comparire
altri due puntini gialli. «Vorrei aggiungere questi altri due punti di scambio.
Qui la mia agente ha preso contatto con i vampiri, e qui invece ha consegnato
ai membri della Chiesa il sangue che riteniamo serva a produrre la Lilith».
Fittzwater la
guardò molto male, e dietro di lui Cane e Lucas non riuscirono a trattenere un
sorrisetto divertito.
«E già
che ci siamo» disse ancora la ragazza inserendo la foto di Noce nello schedario
in alto a sinistra «Metta anche questo ragazzo tra i personaggi sensibili.
Maneggia abitualmente una grande quantità di soldi e sembra molto ben inserito
nella gerarchia di Timur, senza contare che è stato lui a ritirare il sangue
dalle mani della mia agente. Le direi di tenere d’occhio anche i vampiri
facenti capo ad Armand Valakis, ma dubito che possa
ricavare da loro altre informazioni oltre a quelle che siamo riusciti a carpire
noi».
A quel
punto il sorriso di Lucas e Cane si tramutò in una risatina divertita, e lo
sguardo funereo di Fittzwater in vera e propria
occhiataccia.
«Complimenti,
niente male.» si sforzò di dire il poliziotto
«Direi
che è tutto. Se ha altre talpe nella chiesa sarebbe il caso che ce lo dicesse. Così
sarà più facile coordinare i nostri movimenti.»
«Non ce
ne sono» replicò seccato Fittzwater facendo sparire
la mappa e lo schedario. «E ora, se volete scusarmi, ho del lavoro da fare.»
«È stato
un piacere rivederti, amico mio» disse Owens
alzandosi dalla sua poltrona e porgendogli la mano, che ovviamente il collega
rifiutò. «Ti offrirei un caffè, ma non so perché ho il sospetto che ti
risulterebbe alquanto indigesto. E già che ci sei, dì al tuo famiglio di
ripassare i fondamentali. Se persino Cane è stato capace di smascherarlo, suggerisco
un corso d’aggiornamento».
Fittzwater
fulminò anche lui, quindi se ne andò sbattendo la porta al seguito dell’altro suo
famiglio, e finalmente Cane e Lucas poterono esternare quella risata così a
lungo repressa, seguiti quasi subito dal loro caposquadra; persino Owens non riuscì a non sorridere.
«Và
bene, basta così» disse appena riuscì a tornare credibile. «Fatemi avere un
rapporto quanto prima. Inoltre, per evitare problemi sarà meglio che O’Neill non si faccia vedere alla chiesa per qualche giorno,
giusto il tempo di organizzare questa operazione congiunta.
E ora
fuori di qui, devo ancora fare colazione».
Cane e Lucas
se ne andarono, ma Owens ordinò ad Alexia di restare
un attimo di più.
«Hai
corso un bel rischio, lo sai vero?» le disse in modo severo ma gentile
«Lo so,
signore» rispose lei come una figlia disubbidiente chiamata a pentirsi. «Mi
dispiace. Non succederà più.»
«Non è
mia intenzione tarparti le ali. Se non avessi avuto fiducia nelle tue capacità
non ti avrei assegnato questa indagine. Ma d’ora in poi non tenermi più all’oscuro
di quello che fate».
Il maggiore
fece quasi per sfiorarle i lunghi capelli biondi, lasciati insolitamente cadere
lungo le spalle in barba al costume tenuto dalla maggior parte delle altre
agenti, ma all’ultimo ritrasse la mano.
«Mi
raccomando. Sono stato al funerale di tuo padre, e non vorrei dover venire
anche al tuo.»
«Sissignore».
Fatto il
saluto, anche Alexia se ne andò.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Eccomi qua con un nuovo aggiornamento.
Ci è voluto un po’ (un po’ tanto) ma
finalmente sono tornato. Il fatto è che ultimamente sono molto preso, inoltre
mi sono iscritto ad un contest con una fic che
credevo facile da scrivere, ma che invece mi sta mettendo a dura prova (Il Gatto Rosso, ennesimo Missing Moment di questa storia).
Alla fine però si è rivelato piuttosto
facile da scrivere, perché una volta che mi ci sono messo sono riuscito a
completarlo in pochi giorni.
Dal prossimo torneremo a concentrarci
sulle vicende di Vyce e della Nuova Avalon, ma ormai le vicende relative all’indagine
avviata da Carmy e dai suoi compagni si stanno avviando verso la conclusione.
Impossibile stabilire se
alla base di tutti gli incidenti che stavano capitando da qualche mese a quella
parte sia a Kyrador che in altre parti di Caldesia ci fosse la semplice e
spietata influenza del caso o una qualche strategia della tensione, ma di certo
la cosa stava iniziando ad assumere dimensioni preoccupanti.
Ormai
non passava giorno senza che succedesse qualcosa. Anche escludendo gli
incidenti di piccola entità, come crolli, esplosioni o altre cose legate a
malfunzionamenti di varie apparecchiature magiche, si era arrivati al punto che
in alcune parti della città veniva segnalato almeno un caso EDA al giorno.
Per le
squadre TMD il lavoro non mancava mai, e in tutta Kyrador aveva iniziato ad
addensarsi un’atmosfera che diventava di giorno in giorno sempre più pesante.
Jake
stava iniziando a comprendere il significato vero e proprio della vita in prima
linea, quando non si aveva mai un attimo di pace, e la sirena del comando
riecheggiava in continuazione.
L’unica
consolazione era che gli incidenti, bene o male, erano quasi sempre di piccola
entità, in cui spesso la convocazione dei membri del TMD da parte della polizia
ordinaria era più una precauzione che una necessità vera e propria, ma questo
non rendeva la situazione meno stressante.
La
tensione era tale che Jake aveva finito per riscoprire un suo brutto vizio dei
tempi del liceo, e nei brevi momenti liberi lui e il suo caposquadra si
ritrovavano spesso nel cortile per farsi una sigaretta.
«Non mi
piace la situazione che si sta mettendo.» disse un pomeriggio Madison, di
rientro dall’ennesima missione «Siamo sempre sul chi vive, e il nervosismo sta
aumentando.»
«Avete
mai avuto simili picchi di lavoro qui in città?»
«Qualche
volta, ma mai per archi di tempo così lunghi. Ormai è parecchi mesi che và
avanti questa storia».
Madison
tirò una lunga boccata, inondando di fumo l’aria già pesante per l’arrivo dei
primi acquazzoni estivi.
«Vorrei
tanto sapere che accidenti sta succedendo. Tra intossicazioni da lilith e incidenti vari, non riesco a credere che possa
trattarsi solo di coincidenze.»
«Crede
che ci stiano nascondendo qualcosa?»
«Noi
siamo soldati, ragazzo. Obbediamo in silenzio.» e detto questo Madison
schiacciò la cicca sotto il piede, volgendo nel contempo uno sguardo verso
l’edificio principale dall’altra parte della piazza «Anche se, in tutta onestà,
anche io vorrei tanto sapere cosa sanno realmente i capoccia dei piani alti».
Anche Vyce con il tempo
aveva iniziato a farsi la stessa domanda, ma a differenza del suo ex insegnante
e del suo giovane allievo aveva abbastanza autorità e considerazione per
potersi permettere di andare a farla personalmente.
Nel
vederlo entrare in ufficio con quel cipiglio scuro, le occhiaie scavate e
l’espressione tirata, il direttore Harlow non parve quasi sorprendersi;
probabilmente, si aspettava che da un momento all’altro il suo uomo migliore
sarebbe venuto a chiedere conto della situazione.
«Posso
parlare liberamente, signore?»
«Accordato.»
«Ci sono
state dodici chiamate negli ultimi quindici giorni, più del doppio della media
abituale» tagliò corto il capitano. «E ogni volta, subito dopo un intervento, i
miei uomini hanno visto arrivare quelli della sezione antiterrorismo.
C’è
forse qualcosa che dovrei sapere, signore?»
«Perché
me lo chiede, capitano?» domandò Harlow quasi a voler dissimulare
«Forse
ultimamente non ha fatto un giro in sala mensa direttore, ma anche i soldati
più addestrati hanno il loro limite.
Wilkinson
e Lunardi sono in ospedale, Orwell ha rischiato di morire nell’ultimo
intervento, la squadra di Morales esce in missione un
giorno sì e uno no, e poi c’è la divisione antiterrorismo.
Quelli
sono i miei ragazzi, signore. Mandarli alla carica senza sapere cosa stanno
realmente affrontando non mi fa stare tranquillo».
Harlow
girò la poltrona verso la finestra.
Kyrador,
nonostante i nuvoloni neri, non smetteva un attimo di essere magnifica, anche a
guardarla da così in basso.
«Quello
che sto per dirle, capitano Vyce, non dovrà mai uscire da questa stanza.
Ci siamo
capiti?»
«Perfettamente,
signore».
Il
direttore si guardò attorno, e giratosi nuovamente stacco sia il sistema di
alimentazione del computer sia la linea diretta con la segretaria, inoltre
spense il comunicatore.
«Avalon.
Sono tornati».
Per un
attimo, gli occhi scuri del capitano si spensero totalmente, mutandosi in
biglie senza vita, mentre nella sua mente tornavano ad agitarsi immagini ormai
tramutatesi negli anni in un incubo surreale.
«Avalon?»
ripeté quasi catatonico
«Sono
ricomparsi circa sei mesi fa. Ricordi l’incidente al procuratore Griffith? In
realtà è stato il loro primo attentato, ed è stato solo per un caso che
Griffith non è morto. In quel caso la MAB ha intercettato il messaggio di
rivendicazione prima che venisse diffuso dalla stampa, ma da allora per quanto
ne so non ne sono arrivati altri. Ciò nonostante, sia all’antiterrorismo che
nello stesso Consiglio di Sicurezza sono in molti a sospettare che ci siano
loro dietro a questa escalation di incidenti».
Vyce
tentennò, strofinandosi la testa per cercare di riacquistare il controllo.
«Questo
è insolito. Di solito Avalon rivendicava sempre, o quasi sempre, i suoi
attacchi.»
«Indubbiamente
si tratta di un gruppo nuovo, probabilmente di recente formazione. L’indagine è
ancora in corso, ma fino ad oggi non siamo ancora venuti a capo di nulla. Non
sappiamo ne chi né quanti siano, e soprattutto come riescano a finanziarsi.
Secondo
alcuni potrebbero essere implicati nel traffico della lilith,
visto che attualmente in città ne sta girando parecchia. Ho sentito dire che
alla polizia militare stanno seguendo un’indagine orientata in questo senso.»
«Insomma,
non sappiamo nulla.» rispose Vyce in un moto di stizza
«Deve
capire, capitano, che non è il genere di informazione che possiamo permetterci
di diffondere. Avalon godeva di grande considerazione nell’opinione pubblica, e
anche se forse si trattasse solo di emulatori il sostegno della gente è l’unica
cosa che non possiamo permettergli di ottenere.»
«Se è
così, far passare tutti questi sospetti attentati per incidenti non fa altro
che avvantaggiarli. Così gli animi si esasperano, i nervi saltano, e Avalon
l’avrebbe vinta senza neanche dover pronunciare il suo nome.»
«Non
possiamo essere sicuri che questi incidenti siano stati provocati da Avalon.
Sono state trovate prove di un loro coinvolgimento solo in un ristretto numero
di casi, per gli altri la tesi della disgrazia rimane la più accreditata.»
«È una
strategia della tensione in piena regola. Sono anni che si và parlando di una
riforma delle leggi magiche, che tra l’altro era uno dei principali cavalli di
battaglia della vecchia Avalon, e non è mai stato fatto niente.
E in
quanto nazione che più di ogni altra intrattiene rapporti di amicizia e
collaborazione con l’Agenzia, Caldesia è il luogo perfetto per provocare
disordini e fare proselitismo.»
«Ne sono
consapevole, capitano. Sfortunatamente, al momento questo Paese, come pure il
resto del mondo, ha altre priorità.
La
situazione ad Amara si fa ogni giorno più ingarbugliata. Ieri è addirittura
arrivata la notizia che alcuni membri del vecchio governo avrebbero lasciato il
Paese e chiesto asilo politico a Caldesia, con ovvie ripercussioni sul piano
diplomatico.
Se le
cose dovessero andare avanti di questo passo, temo sia solo una questione di
tempo prima che venga convocata una riunione di emergenza alle Nazioni Unite».
Vyce si
guardò attorno, sembrava perplesso.
«Se non
le dispiace, signore» mormorò con un filo di voce. «Avrei bisogno di prendermi
una breve pausa. Diciamo un paio di giorni.»
«Accordato»
rispose Harlow senza esitazioni. «Vada pure. Si prenda tutto il tempo che
vuole».
Rialzatosi
e fatto il saluto, il capitano se ne andò.
C’era voluta molta
diplomazia e qualche compromesso, ma alla fine l’incontro storico tra il
presidente di Caldesia e il sommo pontefice di Amaltea
era sul punto di concretizzarsi.
Vittorio
Visconti e ConnorFujitaka
si incontrarono nel cortile principale del Palazzo Papale, dinnanzi al
picchetto d’onore schierato, ma dopo le classiche foto di rito per i molti
fotografi intervenuti il pontefice condusse il proprio ospite non nella
tradizionale sala degli specchi, dove solitamente venivano ricevuti i dignitari
stranieri, bensì nel planetario all’ultimo piano della torre astronomica che
svettava quasi sulla sommità della scogliera.
Un
piccolo accorgimento per vincere le reticenze di quella parte degli alti prelati
che, pur costretti ad accettare quell’incontro, avevano storto il naso all’idea
che esso potesse svolgersi nella maniera in cui venivano condotti tutti gli
altri. Forse, un domani, tra Caldesia e la Chiesa avrebbe potuto esservi una
pace più serena e duratura, ma per ora era ancora troppo presto.
Un altro
strappo alla regola, stavolta però a favore dei sostenitori di un evento
politicamente così importante, era stato da parte del pontefice l’aver voluto
accogliere personalmente il presidente Fujitaka al
suo arrivo al palazzo al posto del suo alto prelato, contrariamente alla tradizione;
ciò nonostante Lydia rimase comunque al suo fianco
per tutto il tempo, lasciando soli i due leader solo quando venne per loro il
momento di incontrarsi faccia a faccia, lontani dalle telecamere e da altri
occhi indiscreti.
«Le
dirò, in tutta onestà, che la sua richiesta d’incontro mi ha molto sorpreso.»
«Troppo
improvvisa?»
«Non è
questo né il momento né il luogo per tornare a rivangare sul passato, ma del
resto i rapporti tra Caldesia e la Chiesa non sono mai stati idilliaci.»
«Ponendo
fine al periodo di contrasto, Caldesia si è assunta la responsabilità delle
proprie azioni.
L’Incidente
del Megonia ormai è un fatto lontano nel tempo, e
ritengo sia giunta l’ora di lasciarselo definitivamente alle spalle. Per questo
ho voluto incontrarla.»
«Le sue
sono parole sincere, signor presidente. E io sono il primo a riconoscere che la
Chiesa stessa ha avuto la sua parte di responsabilità nel far sì che il mondo
rimanesse spaccato a metà per quasi un trentennio.
Ma deve
capire che ci sono ancora molte persone che non hanno dimenticato. Dopotutto,
basta guardarsi attorno per capire come i problemi che hanno permesso trent’anni
di attrito in realtà sono ancora ben presenti.»
«Con il
dovuto rispetto, santità, Caldesia non è disposta a rivedere in alcun modo il
suo rapporto fiduciario con la MAB, se è a questo che si riferisce».
Il
pontefice restò in silenzio, posizionandosi meglio gli occhiali scivolati sulla
punta del naso e mettendosi a sedere meglio sulla poltrona imbottita.
«In
quanto capo di una realtà che si propone di essere unicamente religiosa, non
intendo affrontare né discutere questioni che spettano unicamente al campo
della politica.
La
MABè senza dubbio un’utile istituzione,
che fino ad oggi ha fatto del suo meglio per adempiere al proprio ruolo di garante
dell’ordine mondiale e del corretto uso della magia, che è alla base della
nostra civiltà.
Tuttavia,
a questo punto, mi sorge spontanea una domanda: possiamo essere davvero sicuri
che questo ordine e questa civiltà siano davvero così perfetti ed appaganti
come noi tutti vorremmo giustamente che fossero?».
Detto
questo il sommo pontefice pronunciò un comando, mentre il suo schienale si
piegava all’indietro, e lo specchio magico in cima alla volta cancellò in un
battito di ciglia il cielo e le nuvole, facendo apparire dinnanzi ai due capi
la sconfinata e maestosa volta celeste, come fosse stato l’oblò gigantesco di
una nave spaziale.
«Secondo
lei, cosa volevano realmente coloro che secoli fa ci mandarono qui? Che
creassimo un’altra Terra, fatta di nazioni divise che si salutano un giorno e
si detestano il giorno dopo, o forse che dessimo vita a qualcosa di più grande?
Perché
vede, è questa la domanda che mi sono fatto per tanti, tantissimi anni. Fin dal
giorno in cui ho incominciato a guardare le stelle.»
«È
questo il punto, vostra santità. L’ordine che ha retto il mondo negli ultimi centocinquant’anni è ormai vecchio e superato. Serve un
profondo cambiamento. E mettere fine, almeno pubblicamente, a questo lungo
periodo di reciproco sospetto tra le due anime del nostro mondo ritengo sia un
primo, importante passo nella giusta direzione.»
«Nessuno
più di me vuole che Celestis ed i suoi abitanti si incamminino lungo un
sentiero nuovo e migliore, signor presidente» replicò il papa con una strana
emozione nella voce. «Ma le basi sulle quali poggia questa società, per quanto
imperfette, sono anche fortemente radicate.
Difficile
che qualcuno, per quanto determinato, possa riuscire a scuoterle nel profondo.»
«È
proprio per questo che sono qui, santità. Per chiedere il vostro aiuto».
I due si
fissarono, scrutandosi negli occhi a vicenda in un silenzio assoluto.
«A che
cosa si riferisce, esattamente?»
«Come
forse saprà, è mia ferma intenzione proporre una profonda riforma delle leggi
magiche di Caldesia. Fare questo, malgrado tutto, mi dovrebbe essere
relativamente facile. Quello che voglio davvero però è ridiscutere i codici
internazionali.»
«Sta
proponendo una riforma dell’RMA?» domandò il pontefice con una punta d’ansia
nella voce
«L’RMA è
stato riformato per l’ultima volta più di trecento anni fa, e ancora oggi
costituisce l’ossatura delle norme sull’apprendimento e l’esercizio della
stregoneria di quasi tutte le nazioni del globo; tuttavia, è stato ampiamente
dimostrato che i suoi paletti sono troppo larghi, e ritengo sia a causa di ciò
che gli incidenti negli ultimi anni sono aumentati di continuo.
Per
questo è necessario che la riforma sia di livello globale. Una volta che l’RMA
sarà stato riformato, di riflesso dovrebbero evolversi anche le normative di
tutti gli stati che lo hanno sottoscritto.»
«Un
progetto molto ambizioso. Ma, se posso permettermi, per quale motivo avrebbe
bisogno del mio aiuto?»
«Vostra
santità» rispose Fujitaka sfoggiando un sorriso di
circostanza «Sapete bene che ci sono molti influenti leader politici che
tengono in grande considerazione le vostre idee.
Se voi
poteste sfruttare l’ascendente di cui disponete nei confronti di persone che
difficilmente si mostrerebbero disponibili a trattare con me, mettendo una
buona parola tanto nei confronti della mia persona quanto, soprattutto, del
progetto che vorrei realizzare, allora forse questa mia idea potrebbe non
sembrare più così irrealizzabile».
Il santo
padre parve sogghignare divertito, e mossa una mano fece volteggiare verso di sé
un calice di cristallo poggiato su di un ripiano.
«Bello,
non è vero? Alto artigianato dell’est. Un dono di un dignitario straniero che
fece visita a papa Giuliano Rio quasi cent’anni fa.
Questa piccola
opera d’arte è un po’ come un’idea. Una nuova idea. Bella. Desiderabile. Apparentemente
perfetta».
Quindi strinse
il pugno, e il calice andò in pezzi, che piovvero qua e là tintinnando sul
pavimento.
«Ma
basta un niente, ed essa può rivelarsi null’altro che polvere. E nessuno, pur
con tutto il buon cuore, avrebbe il coraggio di affidare il destino di un
intero pianeta e dei suoi abitanti alla polvere».
Fujitaka
rispose con il medesimo sguardo, ma non essendo dotato come il suo
interlocutore di poteri magici dovette ricorrere alle capacità del supporter
che portava al polso come un bracciale, grazie al quale riuscì a ricostruire il
calice riportandolo alla sua forma originale.
«Un’idea
deve essere anzitutto giusta. Poco importa che sia nuova o meno. Perché in
questo modo, per quanto chi si ostina a non volerla accettare ci provi, non
potrà mai essere distrutta. Non fino a che ci saranno persone capaci di fare la
differenza che crederanno in ciò che può portare».
Seguì un
nuovo silenzio, più lungo dei precedenti, poi Fujitaka
e il santo padre si alzarono dalle proprie poltrone, e dopo essersi guardati un’ultima
volta l’uno negl’occhi dell’altro si scambiarono una stretta di mano.
«Questo
mondo ha davvero bisogno di un cambiamento.
Forse l’Onnipotente
ha decido che finalmente è giunta l’ora di metterlo in atto.»
«Grazie,
vostra santità. Grazie di cuore».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Un mese e più di assenza, ma finalmente
sono tornato.
Per tutto il mese di maggio sono stato
sballottato da un contest all’altro, e alla luce dei risultati (una storia
partecipa a due contest andati deserti e quindi annullati) mi domando se ne sia
valsa la pena.
Messo da parte quest’argomento, torniamo
alle vicende principali.
Come promesso, per qualche capitolo non
sentiremo parlare ancora di Carmy, lasciandola in pace a condurre la sua
indagine, che come già detto ormai procede verso la conclusione (almeno, per
quel che la riguarda).
Nel prossimo capitolo, alcuni tasselli del
passato di Vyce inizieranno ad andare al loro posto, poi finalmente
cominceranno ad arrivare le prime, vere risposte.
Grazie come sempre a tutti quelli che
leggono e/o recensiscono.
Era
sicura, anzi, praticamente certa che Timur fosse implicato in qualcosa che
andava ben oltre il semplice spaccio della Lilith. Le percentuali sulla
produzione e sulla vendita della droga non bastavano a giustificare quel suo stile
di vita fatto di eccessi e piaceri, né le mille precauzioni che lui ed i suoi
uomini si prendevano nel garantire che la macchina continuasse a funzionare
alla perfezione.
E poi
c’era la faccenda del sangue; sicuramente serviva a preparare la Lilith, ma se
la portata e la quantità del materiale smerciato era davvero quella di cui
aveva parlato Valakis allora ne girava decisamente
troppo, visto e considerato che per ogni grammo di lilith
era necessario poco più di un decigrammo di sangue.
O la
Chiesa di Ela produceva molta più droga di quella che girava abitualmente in
città, oppure erano coinvolti in qualcos’altro, ma era questo altro che Carmy non riusciva in alcun
modo a spiegarsi.
Comunque,
per ora la priorità era trovare quella centrale di produzione, e sotto questo
senso la collaborazione con la polizia cittadina si rivelò fin dalle prime
battute particolarmente utile; Fittzwater e il suo
famiglio guardiano, Railey, avevano raccolto molte
informazioni nei loro mesi di indagine, e grazie a loro fu possibile venire a
conoscenza di tutta una serie di corrieri, centri di smistamento, depositi e
altre zone strategiche che come una fitta rete caratterizzavano non soltanto
l’Ottavo Distretto, ma quasi l’intera città.
Su
pressione dei vertici della polizia, e in accordo con la MAB, nei giorni
immediatamente successivi all’incidente su Harris Island erano già state
condotte le prime operazioni, con l’arresto di alcuni corrieri e lo
smantellamento dei centri più periferici: nulla che potesse realmente allarmare
Timur e i suoi uomini, ma nei piani di Fittzwater
questo avrebbe costretto i vertici della setta a ridistribuire gli incarichi,
prendendo magari in considerazione due giovani adepti di affidabilità
apparentemente comprovata come Railey e la stessa
Carmy.
E il
piano si era rivelato vincente.
Da un
giorno all’altro Railey era stato destinato alla
supervisione dello spaccio nel Settimo Distretto, con la possibilità di
decidere, e nel caso di rendere nota a chi di dovere, la posizione e l’identità
di ogni singolo corriere, spacciatore ed eventuale acquirente, mentre Carmy
vide il Priore avvicinarla a sé ogni giorno di più, fino a fare di lei una
sorta di segretaria che lo seguiva quasi ovunque.
Grazie a
questa insperata promozione le fu possibile avventurarsi per la prima volta nel
complesso substrato di illegalità che Timur aveva costruito nel corso degli
anni, oltre ad avere libero accesso ai suoi numerosi possedimenti a cui nessun
altro adepto del suo stesso rango avrebbe mai potuto mettere piede. Era stato in
questo modo che Carmy aveva potuto rendersi conto di come Timur, fuori dai
confini di Kyrador, possedesse un vero e proprio impero delle comodità fatto di
molteplici residenze ed appartamenti, tra i quali una villa al mare poco
lontano da Ladner, macchine e moto di lusso, vasti
possedimenti e tenute di caccia e persino una piccola aeronave personale, il
che era alla base del suo attuale stato d’animo.
Come
avesse fatto quel santonea mettere
insieme una tale fortuna era qualcosa di assolutamente inspiegabile. Era quasi
troppo persino per un magnante della droga, figuriamoci per quello che appariva
sempre più come un semplice intermediario.
Ma se
davvero Timur era solo il braccio, una forza lavoro che agiva con il benestare
e il supporto di qualcuno, chiunque fosse alle sue spalle doveva disporre di
mezzi davvero considerevoli per poter tirare fuori tanti soldi.
Un’altra
questione importante, almeno secondo Carmy, era quella relativa a Noce.
Anche
lui aveva beneficato dei colpi di poco conto inferti alla Chiesa dalla polizia,
ottenendo la promozione a Fedele e il diritto di portare il pendaglio della
fratellanza e smettere di usare la terza persona durante i discorsi con
qualcuno che non fosse il Priore.
Benché Fittzwater non lo ritenesse un elemento importante su
pressioni di Carmy, ma soprattutto di Alexia, gli era stato messo un uomo alle
costole, e costui malgrado lo scetticismo iniziale del Comandante aveva
riportato parecchie informazioni interessanti; che il ragazzo fosse ben fornito
di soldi ormai si sapeva, ma le molte escursioni che era solito fare fuori
città erano alquanto enigmatiche, poiché era quasi sempre dopo aver fatto
ritorno a Kyrador che il suo portafogli si riempiva: troppo per un semplice
incarico da corriere o mediatore.
Di una
cosa però Carmy era sicura: lui era diverso.
Nei suoi
occhi non leggeva né il fanatismo cieco dei membri più esaltati della setta né
l’obbedienza sottomessa e intontita dalla droga dei galoppini o degli altri
servi affezionati. Poiché non era mai stato arrestato né vi erano imputazioni a
suo carico era difficile capire fino infondo le sue ragioni o le sue origini,
ma indagando un po’ era venuta fuori una situazione famigliare non molto
serena, con una madre ignota e un padre con parecchi problemi che andavano dal
gioco agli alcolici.
Forse
era per questo che gli servivano tutti quei soldi: mantenersi non doveva essere
facile quando non si aveva nessuno su cui contare né un titolo di studio con
cui sperare di costruirsi un futuro. E come molti altri giovani nelle sue
stesse condizioni, quel poveretto aveva deciso di fare fortuna nel modo
sbagliato.
Forse
Cane aveva intuito ciò che Carmy in cuor suo pensava di Noce, e un giorno,
presala da parte, le aveva fato una doverosa quanto spietata raccomandazione.
«Non
farti coinvolgere» le aveva detto guardandola negl’occhi. «Per nessuna ragione.
Devi essere sempre distaccata. Se permetti alle emozioni di pregiudicare il tuo
comportamento finirai solo col metterti in pericolo.»
Un’affermazione
più che giusta, che la giovane O’Neill si era sentita
ripetere più e più volte nel corso della preparazione per quell’incarico, ma
che in quel momento le veniva molto difficile riuscire a tenere a mente.
Non si
capacitava perché Noce, che dimostrava senza dubbio una grande lungimiranza e capacità
di adattamento, si fosse ridotto in quel modo, e non voleva credere che per un
ragazzo dei bassifondi quella fosse l’unica via.
Kyrador
era la città delle possibilità, dove chiunque, con perseveranza e un pizzico di
fortuna, poteva dare una svolta alla propria vita: lei ne era l’esempio
vivente.
Alla
fine, la sua coscienza l’ebbe vinta. Un pomeriggio, Carmy stava avviandosi ad
eseguire l’ennesima commissione per conto del Priore in un altro distretto,
quando subito dopo aver varcato la soglia del tempio vide Noce giungere dalla
direzione opposta.
E come
al solito, l’accoglienza del ragazzo fu gelida.
«Che
stai facendo?» domandò vedendola con un nuovo pacchetto tra le mani
«Lei… lei ha ricevuto un incarico dal Priore. Deve portare
questo in un magazzino dell’Ottavo Distretto.»
«E non
parlare così, stupida. Ti rendi solamente ridicola.»
Carmy
non ce la fece più.
«Se
posso permettermi, mi sembri una persona molto intelligente e dotata» domandò
di getto, mentre lui era sul punto di entrare. «Per quale motivo sei venuto
proprio qui? Voglio dire, con le tue capacità…».
Non poté
dire altro, perché alzata la testa Noce le piantò addosso due occhi di
ghiaccio, che mettevano quasi paura per la severità che avevano dentro.
«Potrei
farti la stessa domanda» replicò prima di afferrarla e gettarla con una certa
forza contro il muro, facendole cadere il pacco che aveva in mano. «Quelli come
te, che gettano via quello che hanno e passano il tempo a commiserarsi, mi
mandano fuori di testa.
Tu non
sai cosa voglia dire non avere niente, essere cresciuto in questo posto
schifoso, e passare ogni singolo giorno con la certezza che non ci potrà mai
essere niente di diverso, perché per il mondo là fuori tu vali meno della
spazzatura.
Tu
invece avevi qualcosa. Anzi, forse avevi anche più di quello che avresti
meritato. E che cosa hai fatto? Hai buttato tutto dalla finestra per inseguire
un desiderio irrealizzabile.
E
allora, sai che ti dico? Rovinati pure l’esistenza. E semmai allora dovessi
avere ancora abbastanza coscienza da ricordare, quando sarai ridotta ad una
schiava drogata senza volontà ripensa a quello che ti ho detto.»
Come
Noce la lasciò andare Carmy si lasciò cadere lungo la parete, ritrovandosi
seduta in terra a fissare il nulla mentre il ragazzo, dato un lieve calcio al
pacchetto, riprendeva la propria strada.
Trenta chilometri a est di Eldkin, a due passi dal confine che divideva Caldesia da Botera, una vasta recinzione di metallo tappezzata di
cartelli e divieti avvolgeva come una gabbia quasi cinque ettari di foresta che
si inerpicava lungo le pendici del Monte Isa, la terza vetta della nazione,
fermandosi verso nord solo lungo le pendici dell’alto canyon sul fondo del
quale scorreva il fiume Malone ed allungandosi, a sud, fino a lambire la
piccola strada montana che dalla periferia della città proseguiva in direzione
dei villaggi più isolati.
Erano
passati anni da quando l’esercito aveva chiuso e recintato quella zona, ma a
distanza di tanto tempo nessuno dei residenti sapeva ancora con certezza cosa
fosse venuto di così grave al suo interno; si era parlato di una qualche fuga
di materiale biologico, come i segnali lasciati a pendere dalla recinzione
sembravano confermare, altri invece avevano ipotizzato un incidente relativo
all’estrazione del krylium, dati i molti giacimenti
sparsi nella zona; quale che fosse la verità, il fitto della vegetazione la
nascondeva completamente, e grazie al sofisticato sistema di sorveglianza
quello sperduto pezzo di terra, a distanza di tanto tempo, seguitava a
risultare un inviolabile santuario.
Vyce
sostava immobile dinnanzi al varco nella recinzione, saldamente chiuso, gli
occhi persi e il volto cristallizzato in un’espressione smarrita.
Lui
sapeva. Sapeva cosa c’era oltre quel punto.
E se
avesse voluto, avrebbe potuto accedervi quando voleva, semplicemente esibendo
il proprio distintivo alla locale sede dell’Agenzia.
Ma non
ci riusciva. Non ci era mai riuscito.
Più
volte aveva provato a varcare quel confine, quella soglia non solo fisica ma
soprattutto psicologica, che lo separava dal luogo in cui la sua vita era stata
stravolta per sempre. E così, di nuovo, non era riuscito a fare altro che
restare lì, immobile e in silenzio, ad osservare quel cancello sbarrato nella
speranza, o forse nel timore, che i ricordi di quel giorno lontano potessero
tornare.
Dentro
di sé provava rabbia, verso sé stesso e la sua incapacità, che gli bruciava nel
petto fin quasi a farlo impazzire, ma anche un senso di smarrimento e di
malinconica impotenza per non essere mai riuscito a trovare la forza per andare
fino infondo, fino a quel luogo maledetto che distava non più di qualche
centinaio di metri, quasi nel timore che i fantasmi dei suoi compagni fossero
ancora lì ansiosi di giudicarlo.
«Capitano?»
sentì dire d’un tratto alle sue spalle.
Un
giovane poliziotto di provincia, la divisa azzurro chiaro con cappello a
cilindro della gendarmeria e i gradi di caporale cuciti sul petto, lo osservava
a cavallo di una bici da passeggio ferma sul ciglio della strada.
Vyce si
volse quasi con indifferenza, ma i suoi occhi riacquistarono un po’ di vita
quando lesse in quel volto i lineamenti di un vecchio amico.
«Phil?».
Lasciata
perdere la bici il giovane poliziotto corse a stringere la mano a Vyce,
salutandolo con il rispetto ed il calore che solo un forte legame, oltre ad una
incrollabile fiducia, potevano generare.
«Capitano.
È passato tanto tempo. Sono felice di rivederla.»
«Felice
di rivedere anche te, Phil. Sei entrato in polizia, a quanto vedo.»
«Così
pare. Sarei anche entrato nell’Agenzia, ma mi hanno scartato alla prova
d’esame. Dopo quell’esperienza nella leva volontaria, ho capito che era questa
la vita che faceva per me. Anche se da queste parti per la verità non succede
mai niente di interessante.»
«Mi fa
piacere.»
Notato
lo sguardo adombratosi di colpo del suo Capitano, Phil si diede dell’idiota.
«Mi
dispiace. Non volevo.»
«Tranquillo.
Non fa niente.»
Entrambi
gettarono quindi gli occhi sulla recinzione, e allora anche Phil si lasciò per
un attimo prendere dallo sconforto, gettando l’aria circostante in un profondo
silenzio che solo il frusciare delle foglie mosse dal vento di montagna
riusciva a spezzare.
«Capitano,
le và di bere qualcosa? Sto giusto tornando in città.»
Il
giovane dovette insistere un po’, ma alla fine l’ebbe vinta, così lui e Vyce
raggiunsero il vicino Harry’s Bar, a metà strada tra Eldkin e l’area di quarantena, il luogo di ritrovo per
eccellenza sia per i poliziotti che per i membri dell’agenzia della zona.
Anche
quel posto non era per nulla cambiato negli ultimi anni; la stessa atmosfera casereccia,
lo stesso profumo di legno intriso di birra, e la stessa parete cui erano
appese le foto, sempre più numerose, degli agenti caduti in servizio.
Si
sedettero ad uno dei tavoli che stavano tutto attorno alla zona centrale, dove
i soliti noti si erano dati appuntamento come tutte le sere per le tradizionali
partite di biliardo, e Phil dopo essersi assentato un momento tornò con due
grandi boccali di birra.
«È un
peccato che gli altri non siano qui. Sarebbero stati felici di vederla.»
«E degli
altri che ne è stato?» domandò con tono di circostanza Vyce alludendo alla
combriccola di amici con cui Phil si accompagnava ai tempi della leva
«Brady lavora nel campo dell’elettronica. Produce
videogiochi. Se non sbaglio, si è trasferito anche lui a Kyrador, due o tre
anni fa.»
«Cercherò
di rintracciarlo quando sarò tornato. E Nancy e Gunther,
invece?»
«Gunther si è arruolato nell’esercito. Ora è Tenente. Lo
aveva fatto anche Nancy, ma qualche tempo fa si è presa un congedo per
occuparsi di certe questioni…» e Phil mosse le mani
sulla pancia a indicare lo stato interessante.
Vyce
spalancò gli occhi, riuscendo persino a trovare la forza di sorridere.
«Davvero!?
Aspetta!?»
«Esatto.
E per la precisione, aspetta il mio.»
Solo in
quel momento il Capitano si accorse che il giovane poliziotto portava l’anello
al dito, e per la prima volta da due giorni a quella parte sentì dentro di sé
una scintilla di calore, accompagnata da un modo di felicità.
«Quindi,
tu e lei…»
«Ebbene
sì. Alla fine mi ha fregato.»
«Congratulazioni.
Sono felice per voi.»
«Ho
cercato di invitarla al nostro matrimonio, ma non sono mai riuscito a
rintracciarla. Ci avevano detto che era stato trasferito a Kyrador, ma non
essendo io dell’Agenzia si sono sempre rifiutati di darmi informazioni, e tra
il lavoro e il resto non mi è mai stato possibile venirla a cercare di persona.»
«Sono
stati anni un po’ turbolenti.»
«Adesso
cosa fa? È ancora in servizio?»
«Sono un
addestratore. Mi occupo di formare le reclute della squadra.»
«Un
ruolo che le si addice, se posso dirlo.»
«Qualcuno
lo pensa.»
Nonostante
tutto Vyce non riusciva a lasciarsi trasportare dalla tranquillità di quella
conversazione né dalla gentilezza del suo vecchio allievo, perché a pochi
minuti dal suo ingresso nel bar, appena qualcuno lo aveva riconosciuto
diffondendo la voce, nell’aria si era iniziata a respirare tutt’altra
atmosfera.
Un
bicchiere di troppo, vecchi attriti mai sopiti, e due soldati della vicina base
militare, Juan e Manuel, che come Phil erano stati volontari durante la leva di
formazione, si avvicinarono al tavolo con fare sprezzante assieme ad un loro
compagno.
«Hai un
bel coraggio a tornare qui, Capitano» disse Manuel ponendo particolare enfasi
sull’ultima parola.
«Capitano?
Quale Capitano?» domandò provocatorio Juan. «Quale ufficiale o sottufficiale si
riempirebbe le bocca con parole come dedizione, sacrificio, collaborazione e
fedeltà per poi scappare con la coda tra le gambe lasciando i suoi compagni da
soli a morire?»
«Tappati
la bocca, Juan.» lo ammonì Phil a denti stretti.
Ma
quello non aveva alcuna intenzione di tacere, e anzi rincarò la dose, mentre le
musiche, le chiacchiere e le risate si acquietavano sempre di più, e gli
sguardi silenziosi di tutti si proiettavano verso quell’unico tavolo.
«Io ho
perso mio fratello in quell’inferno. Perché questo pezzo di sterco è qui e lui
no? In quanto caposquadra, non avrebbe dovuto anteporre la vita dei suoi uomini
alla sua?»
Vyce non
controbatteva, ma stringeva i pugni con tutta la sua forza, lo sguardo piantato
sul ripiano ligneo e le tempie rigate da un sudore innaturale.
«State
passando il limite.»
«Non hai
il coraggio di guardarmi, bastardo? Voglio che mi guardi, invece. Voglio che mi
guardi e che pensi a Miguel. Che pensi a come deve essersi sentito sapendo di
stare per morire e vedendo te che, invece di aiutarlo, te la davi a gambe come
un coniglio abbandonandolo in pasto ai mostri.»
«Lascia
perdere, Juan. Questo tizio non sa cosa sia il coraggio. E nemmeno l’onore.
Perché se ne avesse avuto almeno un po’, a quest’ora si sarebbe già infilato
una pallottola in bocca.»
Come una
tigre che balza addosso ad un cacciatore, Phil scattò dalla panca quasi
capottando il tavolo, e fu solo per rispetto alla divisa che portava se dopo
aver steso Manuel con un diretto dei suoi riuscì a non fare lo stesso anche con
Juan, limitandosi a prenderlo violentemente per il bavero.
«Un’altra
parola e ti faccio ingoiare tutti i denti!»
«Perché
gli sei tanto amico? Erano anche tuoi amici!»
«Tu sai
che tipo di persona è il Capitano! Ti sembra il tipo capace di scappare e
abbandonare i suoi uomini?»
«Quello
che penso io non importa! L’ha fatto e basta! Questa è la realtà!».
A quel
punto Tom, il padrone del locale, decise d’intervenire, e mazza da baseball
alla mano andò a separare i due contendenti.
«Direi che
per stasera voi due avete bevuto abbastanza» disse prendendo le difese del suo
poliziotto preferito. «Aria.»
Manuel
però non sembrava intenzionato a desistere, e l’aria iniziò a riempirsi
velocemente di una tensione che, tra la birra e il resto, in qualunque momento
poteva tramutarsi in rissa.
Nel
silenzio venutosi a creare, il rumore degli scarponi di Vyce che rimbombavano
sul legno spinse i più a volgere nuovamente lo sguardo nella sua direzione.
«Grazie
della birra» disse, e se ne andò lasciando sul tavolo il boccale mezzo pieno.
«Non capisco perché tu te
la prenda tanto.» disse Cane sguardo al cielo guardando Carmy che, da che era
tornata, se ne stava immobile sulla sedia davanti alle tende, tirate, che
guardavano verso la strada, il volto nascosto tra le ginocchia rannicchiate e
un’espressione che più avvinta e sconfortata non si poteva.
L’appartamento
di fronte alla sede della Chiesa era stato reso un po’ più vivibile, tanto che
Lucas era riuscito anche a preparare una cena degna di questo nome, ma se Cane
ne aveva fatto piazza pulita in un paio di bocconi la giovane O’Neill non sembrava proprio dell’umore adatto per mangiare.
«In fin
dei conti stai solo recitando una parte.»
«È
proprio questo il punto. Lui crede che sia quella la vera Carmy. E a me dispiace
dover continuare ad agire alle sue spalle.»
«Non
vedo dove sia il problema. In fin dei conti, sapevi fin dall’inizio che avresti
dovuto raccontare montagne di frottole. Non si chiamano incarichi sotto
copertura per niente, dopotutto.»
«Il
fatto è che… mentire a uno come Timur è una cosa. Non
mi crea problemi. Ma Noce… lui è diverso.
Quel
posto non è fatto per lui. Merita di meglio.»
«Posso
essere d’accordo sul fatto che sia diverso dagli altri, ma hai dato uno sguardo
ai precedenti?
Tribunale
dei minorenni a tredici anni, riformatorio a sedici, fermato due volte per
tentata rapina, una per porto illegale d’armi. Senza contare le segnalazioni
per questioni legate allo spaccio.
Un
perfetto gentiluomo.»
«Suo
padre era un ubriacone violento, che dopo aver perso il lavoro si è dilapidato
i risparmi della madre morta nel gioco d’azzardo e nelle bische.
Ha
dovuto tirare avanti come poteva.»
«Senti,
non sto dicendo che sia colpa sua. Dico solo che quando si viene al mondo in
posti del genere prendere la strada sbagliata è fin troppo facile.
Lui ha
fatto la sua scelta.»
«E tutti
quei soldi che distribuisce in giro? Per quanto ne so ha aiutato e aiuta
tuttora molte persone.»
«Cane
non sta dicendo che infondo non sia una brava persona» cercò di smorzare Lucas.
«È solo che anche lui ha fatto degli errori. Forse questo è il suo modo di
redimersi.»
Carmy
non ne era per niente convinta.
In cuor
suo voleva credere che Noce fosse veramente diverso, e che avesse scelto di
aderire alla Chiesa, caricandosi di tutti i suoi ambigui e pericolosi segreti,
solo perché convinto che fosse l’unica soluzione che uno come lui, un povero
disperato uscito da uno degli angoli più squallidi di Kyrador, potesse avere.
Ma più
di ogni altra cosa, a farle male era il pensiero che, anche estrapolandole dal
contesto in cui erano state pronunciate, le parole di Noce non erano del tutto
fuori luogo; in fin dei conti, recita a parte, lei aveva davvero rinunciato a
qualcosa di rassicurante ed appagante come poteva esserlo una famiglia
affezionata in nome di qualcosa che, a conti fatti, era riuscita ad ottenere
solo grazie ad una fortunosa serie di eventi favorevoli.
Se non
avesse incontrato Julienne, o il procuratore
Griffith, o la caposquadra Alexia, difficile immaginare che le cose per lei
sarebbero andate così bene, ed il pensiero di cosa sarebbe potuto accaderle se
il destino non avesse voluto esserle amico in così tante occasione le faceva
tremare le ossa.
«Mi
rincresce dirtelo, Carmy» incalzò ancora Cane. «Ma se è l’onestà che volevi, ti
sei scelta l’organizzazione sbagliata.»
Carmy saltò
sul posto, spalancando gli occhi come fulminata.
«Il
nostro lavoro ci porta a mentire di continuo. Dobbiamo indagare il torbido, e
tutto quello che possiamo fare è evitare di venirne contaminati a nostra volta.
Non importa
se Noce o chi per lui ha avuto su di sé tutte le disgrazie di questo mondo, resta
il fatto che è implicato in qualcosa di molto serio. E al momento della verità,
sarà chiamato a rispondere delle sue colpe, vita d’inferno pregressa o meno.
Quanto a
te, non è la prima volta che menti a qualcuno e sicuramente non sarà l’ultima. Dopo
questa indagine ce ne sarà un’altra, e un’altra ancora. Dovrai entrare a
contatto con realtà anche peggiori di questa, e le dovrai accettare.
È così
che si va avanti. È così che gira il mondo.»
Era troppo.
Da una
parte Carmy sapeva che quella era la verità, dall’altra non voleva accettarlo. Non
voleva accettare che tutto ciò che aveva sempre creduto di sapere sul mondo in
cui viveva non fosse altro che una gigantesca allucinazione.
In altri
momenti non avrebbe preso la cosa in modo tanto personale e sconvolgente, ma in
quel particolare caso le emozioni e i pensieri che ribollivano dentro di lei
erano tali che, trattenendosi a stento dal piangere, raccolse il suo zaino e
corse via sbattendo la porta, sotto lo sguardo quasi inebetito di Cane.
«Ma che
ho detto?»
«E poi
ti sorprendi di essere ancora single?» lo rimproverò Lucas. «Al confronto tuo
anche i roghtar hanno un cuore.»
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Eoni dopo il mio ultimo aggiornamento,
finalmente mi rifaccio vivo.
Chiedo scusa per questa lunga e indecorosa
assenza, ma una storia breve dopo l’altra sono stato talmente preso da altri
racconti da aver colpevolmente messo da parte la storia principale.
Chiedo scusa profondendomi in mille
inchini!^_^
Comunque, la situazione ormai sta
arrivando alle battute conclusive, almeno per quanto riguarda questa prima
parte di storia.
Molto presto le indagini sulla Chiesa di
Ela prenderanno una svolta inaspettata, e a quel punto entreremo nella seconda
parte della narrazione, più breve ma anche più adrenalinica rispetto alla
prima, che da sola rappresenta probabilmente quasi metà dell’intera storia.
Fittzwater si sentiva soddisfatto e pieno di sé come
non ricordava di essere mai stato.
In
quanto capo dell’Anticrimine di Kyrador lui era stato uno dei più accesi
sostenitori di quel Progetto Vormund, e adesso non
vedeva l’ora di mostrarne i risultati nella cerimonia di apertura della
Trentesima Esposizione Internazionale della Tecnologia, dinnanzi alla grande
platea di autorità, giornalisti e semplici cittadini accorsi per l’occasione ai
piedi del palco al centro del padiglione fieristico a due passi da Luminous Park.
Il Capo
della Polizia gli aveva persino concesso di fare gli onori di casa, un
privilegio che Fittzwater era determinato più che mai
a gustarsi pienamente, se non altro per staccare un po’ la spina dalle
questioni che ultimamente lo tormentavano ogni giorno.
Unica
nota stonata in quella giornata che si preannunciava grandiosa, il non aver
potuto far sfilare quei nuovi, piccoli gioielli nella parata militare per la
Festa della Fondazione di qualche settimana prima, come inizialmente
programmato: tutta colpa di un difetto di realizzazione che aveva richiesto una
revisione dei prototipi.
«A nome
del corpo di polizia cittadino, vi ringrazio per essere accorsi così numerosi»
disse aprendo la presentazione. «Abitanti di Kyrador. Voi tutti sicuramente
sapete che la nostra città, nonostante tutto, soffre di molti problemi.
La
criminalità e l’illegalità, dalle periferie, ultimamente si sono allargate
anche ai distretti ritenuti fino ad ora più sicuri, e il numero crescente di
incidenti magici delle ultime settimane rappresenta indubbiamente un ulteriore
ostacolo alla vostra comunità.
Ma
Kyrador, come qualunque altra città del nostro Paese, deve essere sicura e
protetta. D’altra parte, però, con gli effettivi in numero insufficiente per
garantire un’adeguata protezione non è sempre facile essere ovunque e dove
serve, senza contare che alle volte l’intervento stesso della polizia non
risulta sufficiente per arginare una eventuale minaccia.
Per questo,
negli ultimi anni, il corpo di polizia di Kyrador, coadiuvato dall’Università
Nazionale e le Forze Armate, ha dato vita ad un innovativo progetto volto a
creare nuovi e più efficaci strumenti di controllo e prevenzione.
E oggi,
siamo qui per mostravene i risultati.»
Detto
questo Fittzwater invitò tutti a guardare alle
proprie spalle, e dall’ampia strada che dall’ingresso conduceva fino al centro
del piazzale giunsero due motoblindo nere
dall’apparenza imponente, quasi minacciosa, con l’abitacolo interamente
rivestito e una sorta di alettoni verticali posti a protezione delle gambe dei
piloti, che sbucavano da apposite fessure lungo le fiancate.
«Permettetemi
di presentarvi il futuro delle operazioni di polizia.»
Sotto
gli sguardi dei presenti, e avanzando in parallelo, i due mezzi salirono sul
palco, cosicché tutti potessero vederli meglio; a prima vista non sembravano
molto dissimili dalle moto da pattuglia già in dotazione alla polizia
cittadina, fatto salvo il colore diverso dal solito bianco sporco e la linea un
po’ più grezza, quasi spigolosa, inoltre a guardarle non presentavano alcun
tipo di arma o equipaggiamento da ingaggio.
Forse
leggendo questi pensieri nelle espressioni degli astanti Fittzwater,
invece di preoccuparsi, sembrò anzi farsi ancor più sicuro di sé, e come
schioccò le dita dinnanzi agli occhi di tutti quei due veicoli dall’aria a
prima vista così inoffensiva cominciarono a trasformarsi come giocattoli.
Le
sospensioni e i pneumatici diventarono gambe e cingoli, gli alettoni spalliere,
e la cabina si modellò fino ad assumere le parvenze di un busto umano,
liberando sopra di sé una protuberanza simile ad una testa triangolare, che
altro non era se non la sommità del muso anteriore della moto riadattato per
fungere da telecamera di sorveglianza, sì da consentire al pilota all’interno
di avere una completa visione dell’ambiente circostante pur restando
completamente avvolto in un guscio d’acciaio.
In
ultimo, da sotto i due alettoni spuntarono altrettante protuberanze
articolabili, terminanti rispettivamente in una mitragliatrice binata da
ventotto millimetri e in una grossa lama ricurva orientabile in ogni direzione.
Di
fronte a quello spettacolo, i mugugni interlocutori si tramutarono ben presto
in esclamazioni di stupore, accompagnate dagli ininterrotti flash dei
fotografi.
«Signore
e signori. Vi presento il RoleKeeper
Cinquantatre Modello Due. Altrimenti detto, RK53-02,
o Vormund02.
Sedici
ore di autonomia, struttura in titanio rinforzato e lega di krylium.
Può ingaggiare qualunque avversario umano e non grazie alle sue potenti armi,
ma è programmato e pensato anche per svolgere funzioni di pubblica sicurezza,
pronto intervento e primo soccorso.
L’alta
adattabilità e le meccaniche migliorate gli permettono di passare dalla
modalità di guida a quella d’intervento in soli dieci secondi.
In particolare,
il Vormund02 è stato pensato per funzioni di pattuglia nelle zone della città
considerate maggiormente sensibili.
Oltre a
questi due modelli, altri quindici sono già quasi completati, e saranno consegnati
alle forze di polizia dei principali distretti entro due settimane.
Questo
naturalmente è solo l’inizio. Presto, tutte le principali città del Paese
potranno dotarsi di questa tecnologia, e abbiamo già ricevuto manifestazioni
d’interessamento da parte di altre nazioni interessate ad ottenere i progetti
di costruzione.
Il
Vormund02 sarà solo primo della sua categoria. Partendo dalla medesima idea, le
forze di polizia e l’esercito di Caldesia stanno già lavorando ad altri due
modelli, lo 06 e lo 09, quest’ultimo destinato a scopi prettamente militari.
Confido che potremo mostrarvi entrambi entro la fine di quest’anno» quindi,
concluse. «Il tempo in cui la polizia era inerme di fronte a minacce di
categoria elevata è ufficialmente finito. Grazie a questa nuova tecnologia, il
cittadino saprà di avere sempre una valida difesa pronta ad intervenire in
qualunque momento, celermente ed efficacemente.»
Gli
applausi arrivarono a pioggia, e Fittzwater se li
godette come la più armoniosa delle poesie.
Per il lavoro
e le preoccupazioni c’era tempo: ora era il momento del trionfo.
Percival e gli altri seguitavano a guardare quella
strana sostanza violacea racchiusa nel contenitore stagno con aria enigmatica,
immersi ognuno nei propri pensieri.
Gli
attentati condotti a Kyrador mediante il sabotaggio dei vessel e l’immissione
sul mercato di un sempre maggior quantitativo di lilith
avevano effettivamente prodotto dei risultati, ma si era ancora ben lontani dal
provocare quella sollevazione popolare che il gruppo auspicava.
L’unico
a gioire della situazione era Tristano, perché in questo modo gli era dato far
notare ogni santo giorno come quel piano, spacciato per rivoluzionario ma i cui
frutti stentavano ad arrivare, fosse stato tutto un’idea di Owain,
il quale invece seguitava nonostante tutto a conservare quel suo atteggiamento
calmo e composto, quasi scostante.
Valerian
aveva parlato della questione con i vertici del progetto, e questi, pur
dicendosi comunque soddisfatti della piega che gli eventi andavano prendendo,
avevano garantito al gruppo l’arrivo quanto prima di nuovi ritrovati con i
quali portare avanti la propria strategia della tensione.
Qualche
giorno prima, finalmente, era arrivata dai laboratori la notizia che il
ritrovato in questione era finalmente pronto, e Valerian
era andato velocemente a recuperarlo al solito punto di scambio, trovando al
luogo dell’incontro solo quel contenitore e una scheda di memoria contenente
tutte le informazioni necessarie su come e quando farne uso.
«Colore
a parte, non mi sembra molto diversa dalla normale lilith»
osservò Gareth dando nel contempo un’occhiata ai dati
chimici della sostanza
«Le
apparenze ingannano, amico mio. Il livello di tossicità di questo nuovo
composto è almeno trenta volte quello della lilith
abituale. Chiunque entri in contatto con questa roba, corre il serio rischio di
andare incontro ad una mutazione irreversibile.»
«Subappalteremo
la produzione anche di questa?» chiese Percival
«No. È
troppo rischioso. Inoltre Ela non ha i mezzi per produrre questo genere di
cosa, né abbiamo alcun interesse a fornirglieli. La produrranno loro, e ce la
faranno avere di volta in volta man mano che ne avremo bisogno.»
«E come
faremo a far circolare abbastanza di questa roba da provocare incidenti seri?»
domandò Lancillotto. «Mi risulta che anche loro siano alquanto oberati di
lavoro di questi tempi.»
«Sembra
che ne abbiano da parte una certa quantità. A quanto ho capito, questa roba è
venuta fuori nel corso degli studi inerenti a Ragnarock.
Non sapevano cosa farsene e l’hanno messa da parte, ma non l’hanno mai buttata.
Avranno
sicuramente pensato potesse servire al nostro scopo.»
«Spiegati
meglio.»
«Non ci
arrivi?» intervenne Owain. «Se questa nuova lilith è tossica come dicono, allora basterebbe farne
circolare anche solo una dose per essere sicuri di veder comparire un’EDA.»
«Certo
che con tutte le cavie che gli abbiamo procurato, avrebbero anche potuto
cavarne fuori qualcosa di meglio.»
«Un
momento, mi pare che qua si stia uscendo dal seminato» irruppe Gareth. «Se è davvero così pericolosa e letale, che senso
ha farla circolare?
Noi
vogliamo cambiare questa società, non distruggerla. Non possiamo far comparire
centinaia di EDA in giro per tutta la nazione.»
A quelle
parole Valerian tacque, chinando cupamente la testa.
«Ma
certo» disse Owain con un sorriso. «Attacchi
suicidi.»
Dovettero
passare diversi secondi perché il giovane capo di Avalon riuscisse a trovare la
forza per replicare, e nel frattempo tutti o quasi si erano fatti pallidi come
la morte.
«Secondo
loro è un metodo efficace e di sicuro successo. Oltre alla droga ci hanno
passato anche le informazioni necessarie per costruire degli appositi
apparecchi di inoculazione e manomettere i vessel come stiamo già facendo.»
«E tu
hai accettato!?» esclamò Percival
«In teoria
è fattibile» commentò Gareth dopo aver dato una
rapida occhiata ai dati in questione. «Sabotare i vessel in questo modo non
dovrebbe essere troppo complicato, e si può fare con poche nozioni di
ingegneria.»
Tristano
distolse un momento gli occhi dal tavolo, muovendo le labbra in un’espressione
sdegnata.
«Ora ci
facciamo dare direttive da quei bastardi? Credevo di essermi unito a questo
gruppo per combattere il sistema, non per esserci asservito.»
«Lo so
che non è una cosa facile da accettare» rispose Valerian
quasi offeso. «Anche per me è difficile. Però, vorrei ricordare a tutti che
senza di loro questa organizzazione non sarebbe mai venuta alla luce.
I loro
metodi possono essere altamente discutibili, ma abbiamo accettato di comune
accordo di fare questo passo, e posso garantirvi che si battono per cambiare
questo mondo tanto quanto noi.»
«Forse»
sibilò Owain. «Ma bisogna vedere se la nostra, la tua
idea di cambiamento coincide con la loro.»
Di nuovo
seguirono interminabili attimi di silenzio, e dalle espressioni di molti fu
chiaro a Valerian che Owain
non era il solo a pensarla in quei termini; anche lui, dopotutto, si era fatto
più di una volta qualche domanda sulle reali intenzioni della grande
confraternita di cui era entrato a fare parte, quindi in qualche modo riusciva
a capire le rimostranze dei suoi uomini.
«La
discussione è chiusa» si risolse infine a dire, calmo ma con fermezza. «Fino a
prova contraria, il capo qui sono ancora io.
Abbiamo
procurato disperati e tossicodipendenti in tutta la nazione ben sapendo a cosa
andati incontro. Usarli a nostra volta non dovrebbe essere meno immorale. Per
quanto riguarda i sabotaggi, non saranno certamente i primi che avremo messo in
atto.
Ricordate
che tutto ciò ha sempre e comunque un fine più grande, e per quanto i popoli
tutti possano maledirci da qui all’eternità per le nostre azioni, la storia e
il mondo riconosceranno in futuro la nobiltà e il valore del nostro operato.»
L’orazione
ebbe il risultato sperato; con il carisma Valerian
aveva conquistato il cuore dei suoi uomini, e con esso avrebbe continuato a
guadagnarsi la loro fiducia.
«In ogni
caso, prima di agire condurremo una prova sul campo.
Tra due
giorni dovremo incontrare il solito ragazzino inviato da Timur per una nuova
compravendita di cavie. In quell’occasione siamo già d’accordo che gli
consegneremo sia la droga che un prototipo di dispositivo di occultamento.
Se
l’esperimento che Timur sta organizzando dovesse avere successo, inizieremo ad
agire in questo senso.
È
tutto.»
Ogni prima domenica dell’ottavo
mese, quale atto conclusivo della settimana di celebrazioni per la nazionale
Festa della Fondazione, si teneva nella grande arena di Otisa
una giostra cavalleresca cui partecipavano rappresentanti di ogni città dello
Stato.
I
concorrenti si sfidavano in singolar tenzone a disarcionarsi da cavallo, o ad
accumulare punti colpendo le varie parti dell’armatura nemica con la propria
lancia, al fine di aggiudicarsi la corona d’oro della vittoria e la
possibilità, per il trionfatore del torneo, di vedere la propria città nominata
per un anno capitale simbolica di Amaltea.
Sia il
presidente che il Santo Padre presenziavano all’evento, ognuno accompagnato dal
suo ricco seguito, coi rispettivi palchi posti simbolicamente l’uno di fronte
all’altro all’altezza della linea di mezzana in cui avveniva il contatto fisico
tra i due contendenti.
Era una
splendida giornata di sole, una delle più calde dell’anno, e l’arena era piena
in ogni ordine di posto.
I primi
avversari avevano già incrociato le lance, e cresceva l’attesa per l’imminente
discesa in campo della città attuale campione in carica, Rubinheim,
chiamata a difendere il suo titolo di capitale simboleggiato, oltre che dalla
corona cucita sul gonfalone, anche dalla piuma bianchissima che addobbava
l’elmo del suo cavaliere.
In
quanto originario di Rubinheim papa Visconti non
poteva non fare segretamente il tifo per il rappresentante della sua città, ma
da bravo pontefice non faceva trasparire emozioni limitandosi a seguire
l’incedere del torneo con la sua fidata attendente seduta accanto a lui.
«Notevole»
commentò ad un certo punto, quando uno dei contendenti riuscì a disarcionare
l’avversario al primo colpo. «Sembra che quest’anno sarà un torneo combattuto.»
«Credo
sia così, Santità.»
Nell’ultimo
periodo, da quel famoso colloquio tra sua Santità e il presidente Fujitaka, anche Lydia appariva
più pensierosa, quasi preoccupata; del resto, gli eventi che andavano
delineandosi la toccavano doppiamente, sia come cardinale che come caldesiana.
«Sei
preoccupata?»
La
giovane donna non rispose, almeno non con le parole, guadagnandosi un’occhiata
interlocutoria da parte del pontefice, il quale subito dopo rivolse un cenno di
saluto al Presidente Heinz che contraccambiò sorridente.
«È
ironico, se ci pensi» disse ancora. «In fin dei conti, da che è stata fondata,
questa nazione è sempre stata retta da un presidente democraticamente eletto,
come quasi ogni altro Paese del pianeta.
Eppure
il tuo vecchio amico e compagno Fujitaka, invece che
andare dal Presidente Heinz, è venuto da me. Ma io sono un semplice servo del
nostro Grande Signore.»
Lydia chinò
la testa strusciandosi le mani, chiaramente imbarazzata.
«Non c’è
bisogno che tu dica niente. Lo sappiamo tutti e due molto bene, in fin dei
conti. La verità è che in quanto alti rappresentanti della Santa Croce, agli
occhi di chi riesce a guardare oltre l’aspetto della mera fede siamo anzitutto
dei politici, prima ancora che degli uomini di chiesa.»
«Vostra Santità…» disse Lydia guardandolo
sorpresa
«Dopotutto,
era inevitabile. All’atto della sua fondazione, la nostra Chiesa non ha fatto
altro che raccogliere attorno a sé tutti coloro che avversavano la nostra
società e l’ordine mondiale in cui viviamo. E con il passare del tempo i nostri
prelati hanno finito per comportarsi sempre meno da chierici e sempre più da
uomini di stato.
Ora, è
tempo di raccogliere ciò che i nostri antenati e noi stessi abbiamo seminato.
Ci siamo voluti atteggiare a politici, ed è giunto il tempo di comportarci come
tali.»
«Quindi,
volete davvero aiutare il Presidente Fujitaka nel suo
progetto?»
Il Santo
Padre si sfiorò con un dito la punta del naso.
«Non
sono del parere che tutto ciò servirà realmente a realizzare il sogno che il
Presidente ha nel cuore. Tanto più che i problemi che tanto lo affliggono sono
anzitutto problemi di Caldesia, contro i quali noi possiamo fare ben poco.
D’altro
canto però, come ho detto anche a lui, la Chiesa ha le sue responsabilità,
siano esse etiche o politiche. E se il nostro operato servirà a dare un volto
più umano a questo mondo, allora ognuno deve essere pronto a fare la sua
parte.»
L’espressione
di complicità che i due si scambiarono fu più eloquente di mille altri
discorsi.
«Come
desiderate, Santità. Inizierò subito ad organizzare dei nuovi viaggi
pastorali.»
«Certo che
i miei antenati mi hanno lasciato un gran bel peso sulle spalle.» commentò il
Santo Padre prima di distrarsi, piacevolmente, con lo spettacolo offerto dal
cavaliere di Rubinheim che concludeva con il botto la
propria gara d’apertura disarcionando l’avversario al secondo assalto.
La prima cosa che Alexia
sentì svegliandosi fu un tremendo mal di schiena, seguito subito dopo però da
un delicato profumo di caffè.
«Buongiorno,
principessa» disse Cane sovrastandola come un colosso.
Come una
bambina tirata giù dal letto anzitempo il capitano si strofinò gli occhi,
cercando di fare mente locale. Solo in un secondo momento si ricordò di non
essere mai tornata a casa, di essere ancora nel suo ufficio; quindi,
immaginando quale dovesse essere il suo aspetto, rossa d’imbarazzo si affrettò
a darsi una ripassata.
«Ma che
ore sono?» domandò cercando di sciogliersi i capelli annodati
«Sono
quasi le sette» rispose Cane, e allungata una mano le offrì uno dei bicchieri
che aveva con sé, oltre ad un sacchettino di carta sbucato fuori da una delle
sue tasche che profumava di zucchero. «Hai fatto le nottate un’altra volta?»
«Avevo
dei rapporti da finire di scrivere. Ma tu che ci fai qui?»
«Vengo
ora dalla Chiesa. Avevo il turno di notte, ricordi? Volevo accompagnarti in
ufficio e poi andare a casa, ma quel tuo amico mellifluo mi ha detto che tu a
casa non ci eri proprio tornata. Questi dolcetti ti piacciono proprio, vero?»
«Ti
risulta così difficile chiamarlo per nome? Lui si chiama Brando. E questi»
disse Alexia prendendo fuori dal sacchetto un biscottino bianco di zucchero a
velo, «Si chiamano Etoile.»
Più per
cortesia che per altro gliene offrì uno, ma la risposta, oltre che prevedibile,
fu secca.
«No
grazie. Non vado matto per i dolci.»
Cane
nutriva una strana avversione verso Brando, un vecchio amico di Alexia che da
alcuni mesi, da quando si era trasferito a Kyrador per inseguire come tanti
altri un sogno di carriera, era andato a vivere da lei, e per quanto ci
provasse la giovane non riusciva a comprenderne la ragione.
Della
squadra attuale Cane era l’unico a poter dire di aver lavorato con Alexia fin
dal principio; come Carmy, anche Lucas era arrivato in un secondo momento, e
forse era anche per questo che il rapporto di complicità tra loro due era così
ben collaudato.
Inoltre,
in qualcosa, sentivano di essere un po’ simili, se non altro per la spiccata
attinenza a non farsi calpestare da nessuno, che era valsa a Cane la
considerazione del suo capo e ad Alexia il rispetto dei suoi subalterni.
«C’era
un bel po’ di movimento a casa tua, comunque. Ti stai preparando a traslocare?»
«Non io.
Brando. Ora che sta per avviare l’attività, ha deciso di trasferirsi più vicino
al suo negozio.»
«E… ti dispiace?»
La donna
guardò in alto, lasciandosi andare un attimo sullo schienale.
«In qualche
modo, mi ero abituata a lui. Lo conosco fin da quando eravamo piccoli, e in
qualche modo ci sono affezionata.
Altrimenti,
non mi spiego come mai su due piedi io abbia deciso di farlo vivere da me
quando si è trasferito.»
«Quindi lui… se ne va.»
«E spero
che accada quanto prima. Mi ha messo sottosopra l’appartamento. L’altro giorno per
poco non faceva portare via Micio dalla ditta di traslochi.»
«Il
vostro gatto!?»
«Lo
aveva chiuso per sbaglio lo scatolone dove stava dormendo, ti rendi conto? Sarà
pure un bravo pasticcere, ma alle volte ha davvero la testa tra le nuvole.
Forse dovrei
farmi pagare una buonuscita per avergli fatto da babysitter.»
«Lui
potrebbe dire lo stesso, suppongo.»
Cane non
sapeva perché, ma la notizia sembrò far tintinnare dentro di lui le piacevoli
corde del sollievo. Era vero quando Alexia diceva che quel tipo non gli era mai
andato completamente a genio, anche se, alla luce dei fatti, non sapeva
spiegarsene la ragione.
Alexia
si stiracchiò di nuovo, incapace di scacciare il torpore alle ossa.
«Dovresti
avere un po’ più cura di te stessa. Ormai è parecchio tempo che dormi poco.»
«Vale lo
stesso anche per voi» rispose lei dandosi una informale stiracchiata. «Questa
indagine ci sta sfibrando tutti.»
«A
questo proposito, sono preoccupato per Carmy.»
«Sì,
Lucas mi ha detto tutto. Le ho parlato. Per ora i nervi reggono, ma è pur
sempre una ragazzina. Abbiamo concordato con il capo che andremo avanti al
massimo altre due settimane. Se per allora non accadrà nulla, cercheremo di
pensare ad un’altra soluzione.»
«Non
credo che sarà necessario» esclamò, non senza soddisfazione, il capo Owens in persona, palesandosi all’ingresso del box e
facendo saltare entrambi per lo spavento. «Venite, presto. A quanto pare la
polizia sa ancora fare il suo lavoro.»
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
L’avevo promesso che sarei stato più veloce
delle ultime volte.
Ecco, ora la cosa sta decisamente
procedendo in discesa. Ancora poco, e questa prima parte sarà finita.
Come, direte voi? Lo scoprirete molto
presto, garantito!
Ma preparatevi ad una serie di situazioni
drammatiche e a violenti ribaltamenti di fronte, oltre che ad una (fugace, per
ora) adunanza.
Grazie a tutti coloro che leggono e/o
recensiscono.
«L’abbiamo trovato» esordì,
ebbro di gioia, Fittzwater prima ancora che Lucas
potesse chiudere la porta dell’ufficio.
Nel
frattempo era arrivata anche Carmy, per consegnare il suo solito rapporto
settimanale prima di raggiungere nuovamente il tempio all’Ottavo Distretto, e
anche lei venne convocata.
«Avete
trovato il laboratorio!?» disse Alexia.
Gongolando
come un bambino il Comandante aprì una nuova mappa tridimensionale, rappresentante
stavolta l’intricata rete di ferrovie e metropolitane che correva al di sotto
della città; l’attenzione di tutti cadde su di un piccolo riquadro che lampeggiava
di rosso.
«Non
l’avremmo localizzato neanche a cercarlo cent’anni.
Crediamo
si tratti di un vecchio edificio risalente all’epoca della prima
colonizzazione, successivamente interrato durante i numerosi lavori per l’edificazione
della città.
Vi si
accede da un ingresso di servizio lungo la galleria della Linea Bartley.»
«Come ci
siete arrivati?» domandò Owens
«Grazie
al mio uomo. Ora che coordina gli spacciatori ha avuto accesso a varie
informazioni e strutture riservate dell’organizzazione, e così è stato messo al
corrente della posizione del laboratorio.»
«Lo
avete visto?» chiese Alexia
«Non
all’interno, ma siamo comunque sicuri di aver fatto centro. Combinando la
posizione dell’edificio con la distribuzione e circolazione della droga, appare
evidente come esso costituisca il principale nodo di scambio fra tutte le
entità coinvolte» quindi Fittzwater si girò verso
Carmy, che di contro sembrava stranamente assente, quasi rattristata. «Persino
quel vostro Noce fa continuamente avanti e indietro da qui, a sentire il mio
uomo.
Mi secca
ammetterlo, ma avevate ragione a dubitare di quel tipo. E visto che sono
abbastanza maturo da ammettere quando sbaglio, riconosco di avervi giudicato
male.»
«Potrebbe
piovere.» ironizzò Owens
Se
quello che diceva Fittzwater era vero al momento
della verità, che sicuramente sarebbe arrivato di lì a breve, le cose per Noce
si sarebbero messe veramente male; tra ricettazione, spaccio di droga, e solo
il cielo sapeva cos’altro, non se la sarebbe cavata con qualche mese di
carcere, e per quanto si sforzasse di pensare che la legge, malgrado tutto, era
quella, una parte di lei non riusciva ad accettarlo.
«Allora,
direi che a questo punto possiamo considerare conclusa questa indagine» osservò
Owens. «In quel laboratorio ci saranno sicuramente
prove sufficienti che Timur e i suoi sono coinvolti nella produzione di Lilith
oltre che nel suo traffico, e abbiamo raccolto abbastanza materiale per
sbattere lui e i suoi lacchè al fresco per un bel po’.
Chissà che
in questo modo non riesca a fermare la circolazione di questa droga maledetta
almeno per un po’.»
A
quell’affermazione Fittzwater si grattò un momento il
naso guardando a terra, un gesto che ad Owens non
piacque per niente.
«E
adesso che altro c’è?»
«In
realtà il laboratorio lo abbiamo trovato già da qualche giorno, e l’ho fatto
tenere d’occhio. Stando al rapporto del mio famiglio, il volume di droga che
esce da lì è considerevole, ma non abbastanza da compensare l’immenso
quantitativo di lilith che gira attualmente in
città.»
La
spiegazione era fin troppo semplice.
«Avevate
detto che c’era un solo laboratorio» disse Cane quasi a protestare.
«Ed è
così. Ma potrebbero essercene altri fuori città, o nella periferia più lontana.
Quello schifoso di Timur ha acquistato edifici a destra e a manca negli ultimi
mesi. Forse ce ne è sfuggito qualcuno, o forse usa alcuni di essi come
copertura per produrre la droga.»
«Che
siano uno o cento, non ha importanza» volle tagliare corto Alexia. «Ci bastava
trovarne uno. Una volta decapitata quella cellula di Ela i laboratori non
avranno più un capo, e anche se riuscissero a sopravvivere impiegheranno mesi a
riorganizzarsi. Per allora, avremo già adottato tutte le misure necessarie per
localizzarli ed eliminarli appena tenteranno di riprendere a far circolare la
droga.»
«E se
quei laboratori fossero gestiti da figure esterne alla chiesa che cosa
conterete di fare? Ne avremmo ricavato solo di metterli in allarme, e la
circolazione della lilith subirà solo una piccola
battuta di arresto.
Io
voglio spazzare quella droga via dalla mia città e dalla mia nazione. E
scommetto anche voi.»
I tre
agenti e il Direttore Owens chinarono il capo
dubbiosi.
La
teoria di Fittzwater non era poi così campata in
aria, e a ben rifletterci agendo troppo precipitosamente c’era il rischio di
compromettere un’indagine che, nonostante lo scetticismo iniziale, stava
rivelando risvolti sempre più interessanti.
«E in
ogni caso,» disse ancora Fittzwater affondando il
colpo «Questa è fondamentalmente un’operazione di polizia. Anche se è coinvolto
il traffico di lilith, fino a quando non capita a
qualcosa di serio la giurisdizione ricade sotto l’egida dell’Antidroga e
dell’Anticrimine, ed entrambi sono d’accordo nel proseguire l’indagine» quindi
intercettò Carmy con lo sguardo. «Se la MAB vuole chiamarsi fuori però, per noi
non c’è problema.»
La
ragazza chinò un momento la testa, sembrava sul punto di gettare la spugna, ma
una luce nei suoi occhi convinse Alexia che il Soldato Scelto O’Neill, nonostante tutto, non era ancora determinata a
gettare la spugna.
«Io
posso farlo!» disse veemente. «Datemi ancora un po’ di tempo, e potrei scoprire
qualcosa di più.
Per me
non è un problema.»
«Ne è
sicura, Agente?» domandò Owens dopo un attimo di
silenziosa incredulità
«Sì,
Signore. Sicurissima. Mi lasci continuare con il mio incarico. Potremmo davvero
riuscire a eliminare la lilith da questa città, e
forse da tutta la nazione.
Dobbiamo
fare un tentativo.»
Alexia e
il Direttore si consultarono con lo sguardo, quindi Owens
abbassò gli occhi asciugandosi la fronte già sudaticcia di primo mattino.
«D’accordo,
vediamo fin dove ci porta. Per ora andiamo avanti così. Ma se la situazione
dovesse evolversi, o peggio ancora degenerare, prenderemo provvedimenti.»
Carmy si
sentì sollevata e rasserenata come se da quella decisione fosse dipesa tutta la
sua vita, ma mentre lasciava per prima l’ufficio Alexia la prese con sé.
«Io
ammiro la tua determinazione. Ma non basterà questo a fermare la lilith.»
«Ma
possiamo rallentarne la diffusione. Se una sola persona riuscirà a non andare
incontro a quella sorte orrenda, non sarà stato un lavoro inutile.»
Il ventesimo giorno
dell’ottavo mese ricorreva una data importante nella storia della onorata
Famiglia Stirling.
EleonorStirling, come ogni anno, si recò di prima mattina al
cimitero monumentale di Grey Point, che dall’alto
della sua imponente scogliera a picco sul mare guardava direttamente verso
Kyrador, verso quel mondo che molti di coloro che riposavano lì avevano
contribuito a proteggere e sorvegliare.
Molte
lapidi, per l’occasione, erano state ammantate con le bandiere di varie
nazioni, con quella di Caldesia a svettare sulle altre, a ricordo di coloro che
nei secoli avevano dato le loro vite per la salvaguardia e la grandezza non
solo delle rispettive nazioni, ma del mondo intero in generale.
Vi era
una lapide, però, che di bandiere a decorarla ne aveva ben due, i Tre Gigli di
Caldesia e la Croce Dorata coi Quattro Unicorni di Amaltea;
e fu davanti ad essa che la donna, dopo aver notato quasi con sorpresa una rosa
deposta con cura sul blocco di marmo levigato, si fermò, ricevendo il saluto
militare dai due soldati, un corazziere amalteco e
una guardia d’onore caldesiana, che sorvegliavano il
monumento, uno dei pochi rinchiusi entro un cancelletto metallico e separato da
tutti gli altri.
Un
simile onore non era alla portata di tutti, e il ricevere allo stesso tempo gli
onori da Caldesia e da Amaltea era un evento più
unico che raro, ma il Comandante di Vascello ArlenStirling non era mai stato una persona come le altre.
In
verità, sotto quella pietra, non riposavano realmente le sue spoglie mortali,
poiché, ed Eleonor lo sapeva bene, poiché dell’uomo
che era stato suo marito non restava neanche la cenere.
Ricordava
ancora quel giorno, quella mattina tanti anni prima, quando lo aveva visto
decollare trionfante a bordo della prima nave ad energia alternata della storia
dell’umanità, capace di raggiungere i confini del sistema solare in meno di un
mese, solo per seguire la sorte di molti altri pionieri prima di lui, uccisi
dalle loro stesse creazioni.
Il
motore a energia alternata sfruttava un sistema di approvvigionamento derivato
dall’utilizzo in simultanea di krylium allo stato
solido e liquido; una composizione altamente instabile, che neppure le
innumerevoli precauzioni e protezioni poste a sua difesa erano state in grado
di contenere.
Quando
il motore era entrato in fase critica, il Comandante Stirling
aveva fatto appena in tempo a spingere tutti i suoi uomini alle scialuppe di
salvataggio per poi guidare, da solo, la nave il più lontano possibile da
Celestis, impedendo così al campo magico generatosi dall’esplosione di
devastare i sistemi energetici sulla superficie del pianeta spegnendoli
completamente.
Per
questo suo sacrificio era stato onorato in tutti i modi possibili, ma tutte le
medaglie e i titoli onorifici non avrebbero mai restituito alla signora Stirling l’uomo che aveva amato fin da adolescente.
Di
quell’amore spezzato in modo così tragico restavano solo tanti ricordi, alcune
foto, e una figlia; una figlia che, fin dal giorno in cui aveva deciso di
seguire le orme del padre ed entrare nell’Agenzia, non aveva smesso un momento
di farla preoccupare.
Negli
ultimi tempi si erano sentite poco, soprattutto da quando la Dottoressa Stirling aveva iniziato il suo lungo peregrinare per le
cattedre di Storia della Terra più importanti del mondo, ma in verità i
rapporti tra di loro non erano mai stati troppo espansivi, soprattutto dalla
morte di Arlen.
Eleonor posò
sul basamento la rosa blu che aveva con sé, coprendo parzialmente lo stemma del
Cavaliere della Santa Croce che campeggiava sopra il nome in lettere placcate,
e avvertendo il cancelletto cigolare alle sua spalle si volse lentamente
riconoscendo il volto di un vecchio amico.
«Grazie
di essere venuto.»
«Non
sarei potuto mancare.»
Owens depose
a propria volta una rosa sulla tomba, quindi entrambi stettero per lungo tempo
in silenzio, gli occhi fissi sulla lapide e la mente racchiusa in preghiera.
«Come
sta Alexia?»
«Abbastanza
bene. È sempre stata molto ligia al dovere, ma da quando è caposquadra tenerla
lontana dal suo lavoro è quasi impossibile» quindi il Direttore sorrise.
«Assomiglia proprio a sua madre.»
«A volte
ne dubito. Io alla sua età non avevo la sua testardaggine. Sarà perché ero già
sposata, con una figlia piccola di cui dovermi occupare ed un marito che non
c’era mai.»
Rievocando
il passato, Owens non riuscì a non ripensare anche
alla sua, di giovinezza; e allora, lo stesso pensiero che da anni gli ronzava
per la testa tornò a farsi vivo.
«A volte
mi domando cosa sarebbe successo se fossi stato lì. Avrei potuto completare
l’accademia navale e diventare anche io ufficiale. Così, forse…»
Ma era
un’idea che lo stesso Owens, malgrado tutto, sapeva
essere inconcepibile; non si era mai sentito adeguato né abbastanza preparato
per quel tipo di carriera, e forse non era solo questo ad averlo spinto invece
per scegliere la carriera del poliziotto.
«Hai
fatto una scelta di convenienza» gli lesse nella mente Eleonor.
«Un lavoro che ti desse garanzie e possibilità di carriera allo stesso tempo,
piuttosto di uno che ti avrebbe tenuto per molto tempo lontano dalla tua
famiglia.»
L’uomo
abbassò di nuovo gli occhi e restò in silenzio.
«È
tardi, ora devo andare. Ho una conferenza alle undici all’auditorium dell’università
nazionale.»
Eleonor
quindi se ne andò, lasciando Owens da solo con i suoi
pensieri ed i suoi dubbi.
«Eh,
amico mio» sospirò. «Mi hai lasciato davvero una figlia complicata da gestire.»
Carmy sapeva di non avere
più tempo.
Benché Alexia
e gli altri avessero deciso di darle fiducia, ma per quanto Fittzwater
potesse bluffare era implicito che il caso, sfruttando i giusti cavilli, poteva
facilmente passare nelle mani della MAB in qualunque momento, e la ragazza
aveva l’impressione che Owens non fosse disposto ad
aspettare troppo tempo.
Forse,
in cuor suo, cercava di avere un’ultima occasione con Noce.
Il
poliziotto che era in lei le diceva che, redento o meno, quel giovane avrebbe
dovuto rendere conto del proprio operato, di cui il coinvolgimento nella
questione della Lilith rischiava di essere solo una parte, ma d’altro canto ciò
che lui le aveva detto l’ultima volta che si erano visti aveva rafforzato
dentro di lei la convinzione che non fosse quello il suo posto.
Purtroppo,
da quel giorno, Noce sembrava essersi dissolto; i pochi sani di mente presenti
al tempio avevano parlato dei soliti viaggi che il giovane faceva spesso fuori
città, ma Carmy aveva come l’impressione che la stesse evitando.
Cercando
di non pensarci la ragazza si buttò anima e corpo nell’indagine; tese
l’orecchio, scorse documenti, esponendosi talvolta anche più del necessario, e
ben presto sia lei che i suoi compagni dovettero riconoscere che Fittzwater aveva ragione: in base ai resoconti e agli
spostamenti dei colleghi, infatti, divenne ben presto evidente che dovevano
esserci almeno altri due laboratori, da qualche parte nelle vicinanze di
Kyrador.
Quello
scoperto nel sottosuolo della città era probabilmente il più grande, nonché
quello da dove partiva quasi tutta la droga che veniva spacciata nei distretti
poveri, ma forse nel tentativo di confondere le acque Timur si era assicurato
di rifornire le zone ricche della città attraverso altri canali, più nascosti e
quindi maggiormente difficili da localizzare.
Nel
mentre, però, Carmy non scordava di continuare ad apparire quello che tutti là
dentro la credevano, ovvero un’umile e devota adepta totalmente persa dietro la
devozione a Timur, di cui soddisfaceva ogni più piccolo capriccio in una via di
mezzo tra un attendente e una servetta.
Un
pomeriggio la ragazza stava pulendo la cappella, quando fu chiamata
nell’ufficio del prelato dove Timur la attendeva assieme a Dax,
il suo secondo.
«Entra
pure, tesoro» le disse dolcemente. «Accomodati.»
«Lei
preferisce restare in piedi, eminenza.»
Dax sorrise
quasi divertito, e anche Timur parve apprezzare quell’atteggiamento.
«Sei
sempre così mite e pacata. È per questo ho una così grande fiducia in te.»
«Lei è
onorata di sentirlo.»
«Hai
fatto molto da quanto di sei unita alla nostra grande famiglia, e senza mai
pretendere nulla in cambio.
Inoltre,
a differenza di molti altri, ti sei sforzata di mantenerti integra, sia nel
corpo che nella mente. Per quale motivo?»
«Lei
pensa che così potrà servire meglio la Madre Ela, eminenza.»
Dax e Timur
si scambiarono un cenno come di assenso.
«Ho una
cosa per te» disse quindi il priore, ed aperto un cassetto ne prese fuori un
braccialetto color lilla, apparentemente di plastica. «Consideralo un regalo.
Per la tua devozione e il tuo impegno.»
Come regalo
non era esattamente il massimo, ma Carmy lo considerò comunque di buon
auspicio, reputandolo un segnale del fatto che, almeno per il momento, la sua
copertura non solo reggeva, ma anzi diventava sempre più solida e convincente.
Su
invito di Timur porse il braccio destro, e la chiusura magnetica fece avvolgere
immediatamente il bracciale attorno al polso; era un po’ stretto, ma non
fastidioso, e a ben guardarlo era anche piuttosto carino.
«Lei vi
ringrazia con tutto il cuore, eminenza, e non sente di meritarlo.»
«Invece
sì, tesoro. E ti dirò di più. Questo è solo il primo dei molti riconoscimenti
che la nostra chiesa ti concederà, se continuerai a servire e onorare
fedelmente la nostra confraternita.»
«Lei non
mancherà. Avete la sua parola.»
Uno
strano sorriso si palesò sul volto di Timur, ma sul momento Carmy non se ne
accorse.
«Molto
brava. Ora, però, ho un altro incarico per te.»
«Dite
pure. Lei vi ascolta.»
«Non è
niente di che. Conosci l’università nazionale, vero?»
«Sì,
eccellenza. Ma in questo periodo dell’anno è chiusa.»
«Non
preoccuparti. Tu vacci ugualmente.»
«Come
desidera. Lei può sapere cosa deve fare una volta laggiù?»
«Solo
restare lì. Quando sarà il momento, la risposta verrà da sé.»
Non era
raro che Timur si rivolgesse a lei in modo tanto sibillino; forse pensava di
riuscire a tenerla maggiormente in suo potere con quel fare aulico e
misterioso, o forse non si fidava ancora abbastanza di lei per dire apertamente
in cosa consistevano gli incarichi che lui continuava ad affidarle a distanza di
tanto tempo, a riprova che comunque la considerava un elemento valido.
Quindi,
senza fare ulteriori domande, la ragazza uscì dal tempio, e fatto il solito
cenno rivolto alla finestra al quarto piano dell’appartamento di fronte al
vicolo si avviò verso la monorotaia.
«Come
mai hai scelto lei?» domandò Dax quando furono
rimasti soli. «Credevo ti piacesse.»
«È
troppo pura. Le preferisco quando sono un po’ più…
spregiudicate.» replicò Timur sorridendo sinistro. «E poi, la nostra Grande
Madre Ela non ci dice di liberarci sempre dalle tentazioni?»
Noce non era più riuscito a
farsi uscire dalla testa le parole di quella ragazzina.
Erano come
un tarlo, un maledetto parassita che scavandogli dentro gli aveva tolto il sonno,
l’appetito, e persino la voglia di spendere come più gli aggradava i soldi che
a fiumi scorrevano nelle sue tasche, e che di colpo aveva preso a guardare con
occhi diversi.
Non c’era
nulla da fare.
Per uno
come lui non esisteva altra vita al di fuori di quella.
Forse lo
pensava veramente, o forse era quello che scientemente si ostinava a voler
continuare a credere, per non dover fare i conti con una realtà diversa che in
realtà lo spaventava a morte. Il mondo là fuori, oltre le strade sudice e i
palazzi scrostati dall’incuria, era infinitamente più complicato, e aveva
sempre pensato di non avere la forza necessaria per affrontarlo.
Da piccolo
non aveva mai desiderato altro che andarsene quanto prima dalla fogna in cui
era nato, nella convinzione che la città dei sogni avesse qualcosa da dare
anche a lui, ma una dopo l’altra aveva visto scivolare via tutte le sue
certezze, fino a convincerci che quello fosse l’unico mondo in cui uno come lui
potesse vivere.
Così vi
si era adeguato, cogliendo tutte le opportunità e le occasioni su cui riusciva
ad arrivare, e quando si era presentata quell’insperata miniera d’oro lavorando
per conto della Chiesa di Ela la ricchezza che sembrava aver raggiunto gli
aveva annebbiato la mente. E anche se questo lo aveva obbligato a chiudere gli
occhi su tante cose vi si era adeguato, fedele alla massima da lui stesso
creata e il braccio doveva solo obbedire agli ordini della mente, e che se tali
ordini erano abominevoli la colpa non era certo di chi li eseguiva.
Una
parte di lui però non aveva dimenticato i suoi propositi originari, altrimenti
non avrebbe dilapidato più della metà dei suoi guadagni aiutando chiunque
meritasse un piccolo sostegno.
Ma ora
era il momento di dire basta.
Aveva taciuto
sulla droga, sui traffici illeciti, e persino sul contrabbando di persone. Ma
se ciò che aveva capito dell’ultimo materiale consegnato era vero, allora si
era decisamente passata la misura, e per nessuna ragione voleva essere
coinvolto in cose del genere.
Di colpo,
la vita umana, e degli altri in particolar modo, sembrò acquisire di nuovo un
qualche valore ai suoi occhi, e quando se ne era reso conto aveva maledetto
segretamente quella ragazzina per avergli fatto venire simili tormenti.
Se ne
sarebbe andato.
Ormai aveva
deciso.
Gli ci
era voluto tanto tempo per trovare la forza di farlo, ma quel giorno si era
recato alla Chiesa proprio per manifestare apertamente la propria decisione:
Timur poteva dire o fare quello che voleva, ma non avrebbe più contato sul suo
aiuto né, forse, sul suo silenzio. Per quanto riguardava tutti gli altri, quelli
che aveva sostenuto con prestiti e simili, li aveva già assistiti abbastanza;
ora stava a loro cercare di cavarsela.
Aveva
quasi raggiunto la chiesa, stava per svoltare l’ultimo angolo, quando udì
distrattamente le conversazioni di due spacciatori, che come se niente fosse
distribuivano la loro merce alla luce del sole in una delle vie più trafficate
del quartiere.
«Ti pare
giusto? Quella mocciosa è con noi solo da tre mesi, e il capo già la tratta
come una principessa. Le ha persino fatto un regalo, ti rendi conto?»
«E
quello me lo chiami regalo?» alzò le spalle l’altro. «Io l’ho visto. È solo uno
schifoso braccialetto. Al mercato delle pulci roba così te la tirano dietro.»
Una scossa
elettrica paralizzò il corpo del giovane, che spalancati gli occhi si ritrovò a
fissare il vuoto come inebetito per pochi istanti.
«Di che
stai parlando?» tuonò voltandosi infervorato ed afferrando per il bavero uno
dei due. «Quale braccialetto?»
«Calmati,
amico. Quell’altra, Carmy. Ho sentito che Timur le ha regalato un braccialetto stamattina,
e gliel’ho visto al polso poco dopo quando l’ho incrociata per strada.»
«Dov’è
andata ora! Dimmelo!»
«E che
ne so? L’ho solo incrociata all’uscita della monorotaia. Però in quel momento
stava arrivando la linea dodici per il centro. Forse ha preso quella.»
«Non
potevi essere più preciso, lurido drogato?» strillò Noce, e scaraventato giù il
tipo dalla sua moto ci saltò sopra partendo a tutta velocità.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Questa volta ho fatto a tempo di record.
D’altronde, l’avevo promesso.
E ora che succederà? Quale destino attende
i protagonisti in questo finale di primo tempo?
Tranquilli, non impiegherete molto a
scoprirlo. Ormai, per quanto riguarda questa parte, siamo davvero alle battute
conclusive.
La monorotaia correva
talmente in alto da passare senza difficoltà sopra gli edifici, e Cane,
malgrado si fosse studiato a più riprese i percorsi più vantaggiosi, aveva le
sue belle difficoltà a stare dietro con la macchina al trenino che sopra le
loro teste stava portando Carmy verso il centro cittadino.
Lucas
non poteva sentirli, ma i due non smettevano un momento di parlarsi attraverso
il contatto telepatico instaurato con la magia, anche se Cane parlava ad alta
voce per consentire anche al collega di capire il senso del discorso.
«Definire
quell’uomo eccentrico è sminuirlo» disse Cane. «Che mai ci deve fare
all’università?»
«Forse
c’è un nuovo incontro.» ipotizzò Carmy
«Un
incontro!? In un’aula magna piena di gente?»
«Non
sarebbe la prima volta che mi fa effettuare scambi e consegne in luoghi
insoliti. Una volta è stato in un centro commerciale, un’altra in una
biblioteca.»
«Ma non
era mai successo che ti mandasse così lontano. Voglio dire, il centro è il
centro. Lì non è facile passare inosservati, soprattutto se odori lontano un
miglio di zona degradata.»
Lucas se
ne stava sulle sue, sfiorandosi il mento con due dita come era solito fare
quando era soprapensiero.
«Ma
certo!» esclamò ad un certo punto, facendo saltare Cane. «All’aula magna oggi
si tiene una conferenza.»
«In
piena estate!? Ma non hanno niente di meglio da fare questi cervelloni? Voglio
dire, io in questo momento farei carte false per essere in spiaggia, e questi
vanno ad ascoltare gli sproloqui intellettuali di qualche cervelloni.»
«Fai
meno lo spiritoso. Se non sbaglio, tra gli invitati c’è anche la Signora Stirling, oltre a parecchi docenti e personalità della
cultura. Forse ci saranno anche i media.»
Cane si
voltò a guardarlo.
«Ho una
brutta sensazione.» mormorò
«Siamo
in due. Forse dovremmo chiedere rinforzi.»
«No,
aspettate» li bloccò Carmy. «Se chi devo incontrare dovesse vedere troppa
polizia potrebbe capire tutto, e allora andrebbe tutto all’aria. Non possiamo
permettercelo.»
«Ma non
possiamo neanche correre il rischio di ritrovarci da soli a gestire una
situazione difficile.»
«Io
intanto chiamo Alexia» disse Lucas aprendo la finestra della macchina. «Visto
che c’è di mezzo sua madre, vorrà essere informata.»
Alexia si rigirava nel
letto senza riuscire a prendere sonno.
Tra il
suo coinquilino che tra scatoloni sbattuti a terra, sibili di nastro adesivo,
imprecazioni varie per cose che non riusciva a trovare, non smetteva un attimo
di far rumore, ed il pensiero per un anniversario a cui, vuoi per reale
impedimento vuoi per il timore di doversi confrontare con qualcuno, aveva
presenziato giusto il tempo di una preghiera, era destino che quelle poche ore
di tranquillità non potessero venire allietate da un sonno ristoratore.
La
pietra tombale di quella mattinata che si annunciava orribile fu lo squillare
del comunicatore, al suono del quale la ragazza si mise a sedere malamente sul
materasso masticando in silenzio tutte le imprecazioni che conosceva.
«Stirling.» disse aprendo la linea audio, ma non ovviamente
quella visiva.
Da un
attimo all’altro, però, il suo sguardo assonnato ed il volto pallido mutarono
drasticamente.
«Come
hai detto? Sì… no, non fate niente. Io arrivo
subito».
Giusto
il tempo di infilare la testa sotto il lavandino del bagno e indossare in tutta
fretta la divisa, compito assai agevole dal momento che tra la voglia di andare
a dormire all’arrivo e il caldo del’estate si era buttata a letto indossando
nulla più dell’intimo.
«Te ne
vai già?» domandò Brando, il suo coinquilino, un bel giovane più o meno della
sua età, vedendola procedere a passo spedito verso la porta. «Stamattina sei
tornata prestissimo.»
«Ho
un’emergenza. Starò via per un po’. E già che ci sei, approfittane per dare una
sistemata a questo letamaio.»
Noce aveva agito d’istinto,
ma benché quella specie di foga mista a paura non si fosse per nulla dissolta,
al contrario semmai, quanto restava del suo raziocinio gli aveva fatto capire
di non avere la benché minima idea di dove quella scriteriata fosse diretta.
La linea
dodici andava verso il centro cittadino, e lungo il suo tragitto transitava nei
pressi di una infinità di luoghi sensibili, ideali per ciò che quello che il
giovane temeva stesse per accadere. In un primo momento aveva anche pensato che
il bersaglio potesse essere l’esposizione internazionale, salvo poi rendersi
conto che si trovava da tutt’altra parte, e a quel punto si era ritrovato senza
idee.
In quel
momento, tutto quello che riusciva a pensare era Carmy.
Non
voleva né poteva permettere che le capitasse in sorte un destino simile. E
perché stesse facendo tutto ciò, non gli riusciva di spiegarselo: sapeva solo
che voleva proteggerla.
Ad un
certo punto, arrivato al limitare del secondo distretto, il conflitto interiore
dentro di lui lo costrinse a fermarsi per riordinare le idee, inchiodando nel
bel mezzo della strada e prendendosi quindi sonore parolacce dagli altri automobilisti.
«Dannazione,
ma dove diavolo sarà andata!» tuonò impotente ed iracondo.
Tutto
attorno, la vita in uno dei luoghi più affollati della città scorreva come
quella di qualunque altra giornata.
Le
strade pulite brulicavano di automobili, gli ampi marciapiedi scoppiavano di
gente, per la maggior parte cittadini che sfruttavano la giornata insolitamente
mite per quell’estate così afosa per girovagare senza meta o concedersi, una
volta tanto, il piacere di andare al lavoro a piedi.
Alcuni
di questi, i più sfaccendati, si attardavano a guardare i trailer promozionali
o le edizioni speciali dei principali notiziari sui maxischermi o le finestre
tridimensionali che come finestre aperte sul resto del mondo spuntavano qua e
là appesi alle pareti dei palazzi o sospesi nel vuoto, senza contare i pannelli
informativi che davano conto delle principali notizie economiche provenienti
dalla vicina borsa.
Alzati
gli occhi verso uno degli schermi quasi per caso, Noce si vide arrivare come
un’illuminazione.
«In
diretta dall’aula magna dell’Università Nazionale.» disse la giornalista, in
piedi e con alle spalle l’ingresso monumentale ed affollato di quello che
sembrava il giardino di un grande edificio. «Oggi, alla presenza di alcune fra
le più eminenti autorità nel campo accademico, si apre l’annuale seminario di
Storia della Terra. Luminari e semplici appassionati di ogni angolo della
nazione sono giunti qui per ascoltare la conferenza di apertura della
professoressa EleonorStirling
che darà il via alla manifestazione.»
Ora era
chiaro.
La linea
dodici aveva una fermata apposita per l’università che scendeva direttamente
all’interno del campus.
Un sacco
di gente, molti volti noti, e la copertura della stampa: cosa si poteva
desiderare di meglio?
«Quel
bastardo, pazzo figlio di…» masticò il giovane
rimettendosi in marcia, pallido come un cencio, rischiando persino di finire
investito da un autobus.
L’Università Nazionale
aveva diverse aule magne e sale conferenze, e la più importante di queste altro
non era che un enorme anfiteatro all’aperto che durante l’anno ospitava,oltre a
seminari ed incontri culturali, anche rappresentazioni teatrali, operistiche e
musicali di vario genere.
In linea
con la tradizione, che faceva dell’istituto il più importante al mondo in
materia di studi della Terra, il complesso era stato costruito richiamandosi
alla forma di un antico teatro romano, con una forma semicircolare, ampie
gradinate, una scenografia fissa di colonne e profili di case ed un palco
rialzato, il tutto realizzato di marmo traslucido che illuminato dal sole
emetteva un tenue e piacevole chiarore.
Per non
farsi notare troppo Carmy si era seduta ad una panchina poco distante
dall’anfiteatro, ma poteva comunque sentire le voci che giungevano dall’interno
e anche assistervi attraverso i vari monitor disseminati per tutto il campus.
Il contatto che era stata mandata ad incontrare al momento non si vedeva, ma la
ragazza ingannava l’attesa ascoltando distrattamente il comizio tenuto dalla
professoressa Stirling.
Aveva
sentito dire che la madre del suo superiore fosse una stimata docente
universitaria, ma quella era la prima volta che la vedeva di persona, e
guardandola non riuscì a non considerarla una donna bellissima, molto
somigliante alla figlia.
«Mi
ricevete?» mormorò a bassa voce. «State vedendo tutto?»
Cane e
Lucas si erano fermati proprio alle spalle del muro di cinta, in un piccolo
spiazzo che fungeva da parcheggio, e con poche semplici mosse Pierre era
riuscito a violare il sistema di sorveglianza dell’università, sì da poter proiettare
nel computer interno della macchina tutte le riprese dei globi perimetrali che
gravitavano sia dentro il campus che, soprattutto, nel cortile.
«Per ora
tutto tranquillo» commentò Lucas vedendo che da tutti gli ingressi non sembrava
transitare nessuna persona sospetta.
Carmy
poi era attratta anche dal bracciale che le aveva regalato Timur; aveva come la
sensazione che negli ultimi minuti si fosse come ristretto, serrandosi un po’
più forte attorno al suo polso, ma essendo estate pensò fosse una sorta di
riflesso della pelle prodotto dal caldo e dal sudore.
«Forse è
un segnale per farsi riconoscere.» ipotizzò Cane.
La
ragazza però aveva una strana sensazione, come un presentimento che qualcosa
non sesse andando per il verso giusto; e lo stesso poteva dirsi dei suoi due
guardiani, tanto che Lucas aveva già preventivamente impostato la linea radio
d’emergenza per una eventuale richiesta di aiuto.
All’improvviso,
le guardie che sorvegliavano il monumentale ingresso principale dell’università
videro una moto di grossa cilindrata sopraggiungere veloce come una freccia
dall’ampio viale prospiciente l’ingresso; inutilmente tentarono di ordinare
l’alt, ma il centauro alla guida, un delinquente dei bassifondi senza dubbio,
non si preoccupò neanche di rallentare, e dopo averli quasi investiti prese a
sfrecciare come un pazzo per le stradine acciottolate e i giardini all’inglese,
girovagando senza meta in tutte le direzioni sotto gli sguardi increduli e un
po’ spaventati di chi stava assistendo.
Il
frastuono attirò anche Carmy, che fece appena in tempo ad alzarsi dalla
panchina prima che l’individuo in questione, notatala, corresse verso di lei,
balzando giù dalla moto prima ancora di spegnerla e mandandola così a
schiantarsi contro un muro.
«Noce!?
Che cosa ci fai qui? Sei forse tu…»
«Presto,
levati quest’affare!» urlò senza darle retta e prendendo a strattonare
violentemente il bracciale quasi a volerlo rompere.
La
serratura magnetica fece resistenza, anche troppa in verità, tanto che Carmy
finì per graffiarsi leggermente, e solo dopo molti tentativi Noce riuscì
finalmente a rompere il monile strappandolo a forza dal polso della ragazza.
Nel
momento in cui il magnete saltò via, però, si udì una sorta di fischio acuto e
breve, e un istante dopo sul volto di Noce, comparve una malcelata smorfia di
dolore, ed il giovane, serrando i denti, lasciò cadere a terra il bracciale
dopo averlo stretto appena qualche secondo.
Lungo
tutta la parte interna era comparsa una fila di inquietanti aghi metallici, e
quando il giovane, tenendosi il polso, aprì la mano, Carmy la vide ricoperta da
piccoli fori che sprizzavano sangue.
Procedura
contenitiva.
Era così
che la chiamavano; una precauzione contro chi avesse avuto la malaugurata idea
di ripensarci circa il proprio destino, e che faceva scattare istantaneamente
il meccanismo di inoculazione nel momento in cui si cercava di rimuovere il
bracciale. In quel caso era scattato con un leggero ritardo, ma solo perché si
trattava di un prototipo ancora non del tutto completo.
Noce spalancò
gli occhi, ben sapendo cosa lo attendeva: poteva già sentire il fuoco prendere
a scorrergli violentemente nelle vene incendiano ogni muscolo, ogni osso,
mentre avere il controllo dei propri pensieri gli veniva sempre più difficile.
«Noce,
ma cosa…»
«Stammi
lontana!» urlò iracondo.
La mano
con la quale allontanò la ragazza rivelò una forza tale da scaraventarla
lontano, e prima ancora di poterla ritirare Noce la vide gonfiarsi e
ingrandirsi enormemente assieme al resto del braccio, fino a lacerare la manica
della maglietta apparendo in tutta la sua grottesca forma.
Così
come il braccio, in pochi attimi tutto il corpo del ragazzo iniziò ad aumentare
di volume, assumendo oltretutto una colorazione rosso fuoco innaturale e
spaventosa; le gambe divennero zampe, le articolazioni delle ginocchia si
piegarono violentemente e orrendamente all’indietro, mentre il braccio destro,
a differenza del sinistro, arrivò ad assumere dei connotati quasi scheletrici,
venendo come scarnificato. Ma fu la parte superiore del corpo ad andare
incontro alla mutazione più mostruosa, ingigantendosi e deformandosi in una forma
ovoidale sormontata da un’enorme gobba e con la testa, di cui restava solamente
il volto sfigurato, a sbucare dal davanti; sembrava il gigantesco corpo
spiumato di un enorme pollo.
Quando Carmy
riuscì a risollevare lo sguardo dopo essere stata scaraventata con forza contro
un albero la mutazione era già completata, e del ragazzo chiamato Noce non
restava più nulla.
«No…» fu l’unica parola che il terrore e lo sgomento
riuscirono a farle mormorare.
I guardiani
che avevano seguito la moto impazzita nel suo peregrinare sul campo si
ritrovarono al loro arrivo faccia a faccia con la creatura, e quelli che riuscirono
a non restare impietriti se la diedero a gambe senza stare troppo a pensarci.
L’EDA
lanciò violentemente il suo ruggito, cui fece eco subito dopo il risuonare
violento dell’allarme interno dell’università, installato apposta per avvertire
gli studenti ed il personale del verificarsi di qualsivoglia incidente magico.
Cane e
Lucas, che ancora attendevano fuori, assistettero a loro volta alla scena
grazie al sistema di sorveglianza, ma dovettero passare parecchi, lunghissimi
istanti prima che entrambi potessero capacitarsi di ciò cui stavano assistendo.
«Maledizione!»
urlò Cane scattando fuori dalla macchina e scavalcando con l’High Jump l’alto muro di cinta senza neanche chiudere la
portiera.
Lucas lo
seguì quasi a ruota, anche se, paura a parte, ebbe la prontezza di lanciare l’allarme
radio.
«Qui
Squadra MAB Due-Uno-Otto! A tutte le forze in
ascolto! Massima priorità! Abbiamo un nove-uno all’Università
Nazionale! Si richiede intervento immediato!»
«Unità
Vormund02, squadra Echo della polizia cittadina!»
risposero fortunatamente subito all’altro capo. «Messaggio ricevuto! Saremo lì
in dieci minuti!»
«Potrebbe
non esserci nessuno da salvare tra dieci minuti, muovetevi!» e anche Lucas
corse via pistola in pugno.
Il suono dell’allarme fece
salire istantaneamente la tensione tra i partecipanti al seminario, ma quando
dall’altoparlante arrivò l’esortazione a lasciare rapidamente il cortile per
non meglio specificati problemi di ordine pubblico in molti si convinsero che
doveva essere accaduto qualcosa di grave.
Dal
canto suo l’EDA, almeno inizialmente, parve quasi disinteressato alla
possibilità di attaccare qualcuno, rimanendo stranamente immobile a guardarsi
attorno come spaesato, almeno fino a quando una delle guardie, più per paura
che per altro, non ebbe la sciagurata idea di sparargli; le pallottole
penetrarono nella carne molliccia senza produrre alcun effetto che quello di
far infuriare la creature, che ruggendo ancora una volta saltò addosso allo
sfortunato aggressore facendone scempio per poi scagliarsi contro tutto ciò che
gli capitava a tiro, spaccando rocce, sradicando alberi e tirando poderosi pugni
nel terreno facendolo perfino tremare.
Il frastuono
della distruzione unito a quello dell’allarme che seguitava incessantemente a
risuonare riempiva le orecchie di Carmy con potenza assordante, impedendole di
provare qualunque cosa che non fosse un autentico terrore; tutto quello che
riusciva a fare era osservare quell’essere abominevole scagliarsi su ogni cosa,
ma quando la sua attenzione fu catturata da un gruppo di ospiti che si erano sfortunatamente
trovati a passare di lì in cerca di una via di fuga qualcosa in lei scattò.
«Noce,
smettila!» urlò d’istinto, sapendo però dentro di sé che quello però non era
più il ragazzo che aveva conosciuto.
Rimanendo
sordo all’appello il mostro si preparò a caricare, ma prima che potesse farlo
una raffica di fuoco lo travolse in pieno scaraventandolo a terra, mentre nell’aria
riecheggiava forte il comando Burning emesso con voce tonante.
«Lucas,
portali via!» comandò Cane attirando in questo modo su di sé l’attenzione della
creatura.
Il suo
collega, obbedendo all’ordine, si frappose a propria volta tra il nemico e i
civili, indicando a questi ultimi la via di fuga e riuscendo così a farli
allontanare prima che il mostro avesse il tempo di rialzarsi.
Di solito
una simile scarica di energia era più che sufficiente, se non ad abbattere,
quantomeno a stordire un’EDA anche di considerevole forza, ma quell’animale
riuscì a rimettersi in piedi nel giro di pochi secondi, mostrando di aver
incassato il colpo alla perfezione. In risposta all’attacco afferrò una targa
commemorativa e la scagliò come un mortale frisbee contro l’agente, che riuscì
a gettarsi a terra per poi una seconda e più potente versione del Burning.
Ancora una
volta il colpo andò a segno, ma l’EDA mise il braccio davanti a sé per
proteggersi il volto, e caricando alla ceca puntò dritto contro Cane; di nuovo
l’agente fece in tempo a spostarsi, e subito dopo Lucas si unì allo scontro
prendendo a scaricare sul mostro i suoi proiettili speciali, stando però
attento ad usarli con moderazione avendone con sé un solo caricatore.
Nel mentre
erano arrivati altri agenti di sicurezza, che circondato il nemico riuscirono a
tenerlo il tempo impegnato da permettere a Cane e Lucas di mettere in salvo
Carmy e altri due guardiani rimasti feriti prima del loro arrivo portandoli
dietro ad una vicina statua.
«Pensa
tu a loro!» ordinò Cane a Carmy prima di gettarsi nuovamente nella mischia assieme
al collega.
Carmy provò
ad arrecare conforto ai feriti, ma era ancora talmente scossa dalla situazione
ai limiti che stava vivendo e dall’infuriare della battaglia che la bolla
curativa le scoppiò per due volte tra le mani prima di poterla applicare.
«Coraggio!»
si intimò riuscendo, al terzo tentativo, a portare finalmente a compimento l’incantesimo.
Nel mentre
la situazione stava facendosi sempre più seria.
Le guardie
di sicurezza avevano fegato da vendere, ed erano addestrate ad avere a che fare
con gli EDA, ma quella bestia maledetta si stava rivelando ben più pericolosa
di qualunque altro mostro che chiunque tra i presenti avesse mai visto. La sua
pericolosità e la sua resistenza ai colpi erano troppo persino per un Classe
Alfiere, in assoluto gli EDA più potenti e pericolosi che si fossero mai visti.
All’ennesima
carica il mostro puntò stavolta verso Lucas, che pur riuscendo ad evitare di
finire travolto venne comunque colpito di striscio facendo un brutto volo.
«Pierre!»
gridò Carmy correndo istintivamente in suo aiuto
«Niente
di grave!» si affrettò a puntualizzare lui, ma in verità doveva essersi come
minimo slogato un braccio.
Entrambi
rischiavano di essere investiti dall’ennesima carica dell’EDA, ma proprio in
quell’istante una macchina arrivò a tutta velocità nel cortile caricando a
propria volta la creatura.
Alexia riuscì
a buttarsi fuori appena in tempo, e nonostante la drammaticità della situazione
non riuscì a non provare un po’ di tristezza nel vedere la sua adorata sportiva
grigia andarsi a sfracellare contro la creatura, riuscendo tuttavia nell’intento
di dissuaderla dall’attaccare ancora.
«Complimenti
per l’entrata spettacolare.» scherzò Cane
«Ho
fatto il prima possibile.»
«Le
spiegazioni a dopo! Ora abbattiamo questa cosa!»
Neanche una
macchina da millecinquecento chili piombata addosso a sessanta chilometri orari
tuttavia fu capace di danneggiare seriamente l’EDA, che riavutosi dalla batosta
tornò a minacciare i suoi aggressori scagliando loro addosso tutto quello che
gli capitava a tiro.
Cane ed
Alexia, forti del lavoro di gruppo, tentarono a più riprese di immobilizzarlo,
ma ogni incantesimo paralizzante, dal chainwhip al freeze, si rivelò quasi
completamente inefficace, riuscendo a bloccare quell’essere solo per pochi
attimi prima di venirne sopraffatto.
«Maledizione,
quei rinforzi arrivano o no?» urlò infuriato Cane, ormai allo stremo delle
forze.
Oltretutto,
l’evacuazione dall’università non era stata ancora ultimata, e la ressa venutasi
a creare alla più vicina uscita di emergenza aveva spinto alcuni dei
partecipanti all’incontro, inconsapevoli del pericolo, ad avventurarsi per i
cortili alla ricerca di un’altra strada.
D’un
tratto, distolto per un attimo lo sguardo dal nemico, Alexia vide un volto a
lei famigliare palesarsi da dietro un angolo, rimanendo immobile per lo
sgomento e la paura alla vista della creatura; questa, quasi a leggere i pensieri
della sua avversaria, si accorse a propria volta della nuova arrivata, e forse
intuendone la debolezza non esitò a caricarla.
«Mamma!»
La giovane
donna dovette fare ricorso all’Accelerate, un incantesimo pericoloso perché altamente
dispendioso di energie, così quando riuscì a raggiungere la madre frapponendosi
tra lei ed il mostro le restò a malapena l’energia necessaria per erigere una
debole barriera trasparente.
L’EDA
colpì col taglio della mano con tutta la sua forza, facendo brandelli dello
scudo e colpendo in pieno Alexia, che scagliata via come una bambola di pezza
andò a schiantarsi contro la parete di un edificio per poi rovinare, inerme e
svenuta, sull’erba circostante.
«Alexia!»
gridarono quasi all’unisono Cane ed Eleonor.
Quando vide
l’EDA pronto ad infliggere il colpo di grazia alla sua vittima Cane evocò
istintivamente il Minefield, e una miriade di globi
luminosi grandi come palloni da calcio si materializzarono tutto attorno all’Agente
Stirling formando una sorta di cupola.
Così come
l’Accelerate, anche il Minefield era un incantesimo
pericoloso, poiché bastava sfiorare una di quelle sfere per generare
istantaneamente un’esplosione, che se non controllata poteva provocare una
letale reazione a catena tale da mettere in pericolo persino l’individuo che,
teoricamente, doveva esserne protetto, e nelle sue condizioni Cane non era
sicuro di aver creato il giusto equilibrio.
L’EDA,
vedendo comparire quelle sfere, parve esitare, e quando, avvicinata la mano ad
una di esse, la vide risplendere un po’ più forte, si risolse ad abbandonare i
suoi propositi, non senza un certo stupore da parte degli spettatori.
La situazione
sembrò andare verso un punto morto; le guardie di sicurezza, accortesi della
loro impotenza, erano scappate o si erano risolte ad assumere una posizione più
attendista, e ciò aveva limitato di molto le perdite, e la montagna di colpi
subiti sembrava finalmente iniziare ad avere i suoi effetti sulla resistenza
del bersaglio, che andava visibilmente affaticandosi.
Anche Cane,
però, ormai era senza forze, mentre Lucas aveva da tempo esaurito il caricatore
e Alexia, pur ripresasi, aveva chiaramente accusato pesanti danni, tanto da non
riuscire ad alzarsi.
Quanto a
Carmy, non aveva idea di che cosa fare; le sue abilità di maga si limitavano al
supporto e al primo soccorso, e gli incantesimi offensivi non erano mai stati
la sua specialità. Inoltre non era armata, e a parte curare i feriti e generare
di volta in volta qualche barriera per gli uomini impegnati in battaglia non
era stata in grado di fare altro.
Poi,
come una benedizione, proprio quando l’EDA sembrava sul punto di riprendersi, due
sirene riecheggiarono in lontananza, e una coppia di Vormund02 si palesò sul
luogo dello scontro accompagnata da una camionetta dei Reparti Speciali da cui
scesero sei agenti in tenuta da combattimento che in un primo momento si
tennero a distanza, lasciando campo libero ai due veicoli speciali.
I Vormund erano pilotati da due tenenti, Martinez
e Tucker, che fatti passare i loro mezzi in modalità
d’ingaggio fermarono l’EDA un attimo prima che tentasse un’altra carica.
Forse fu
per via della fatica, forse grazie ai proiettili di grosso calibro in dotazione
ai Vormund, ma stavolta la creatura parve accusare
subito i colpi ricevuti, e delle raffiche di colpi che gli furono sparati
addosso furono più quelli che riuscirono a penetrare di quelli che la sua pelle
limacciosa gommosa fu capace di respingere.
In un
ultimo, disperato tentativo di ribaltare le sorti dello scontro il mostro tentò
di caricare uno dei due veicoli, e a quel punto entrarono in azione i reparti
speciali, che prima circondarono la creatura e poi, piantati a terra i propri
bastoni magici a uguale distanza l’uno dall’altro, generarono un vero e proprio
reticolo magico che imprigionò inesorabilmente l’EDA come un pesce nella rete,
schiacciandolo sempre più al suolo.
La creatura
emise ancor più forti i gemiti di dolore che da qualche minuto non aveva mai
smesso di rantolare, e guardandola così, moribonda e sofferente, Carmy provò
una sensazione strana, che la portò quasi sull’orlo delle lacrime.
Poi, nel
momento in cui i loro sguardi si incontrarono, quella scossa interiore si
ripresentò di colpo, più violenta ed impetuosa di prima.
«Noce!»
gridò
Cane
dovette trattenerla a forza dal correre verso la creatura, ma nonostante ciò la
ragazza seguitò a dimenarsi nel tentativo di raggiungerlo.
«È
inutile, Carmy! È troppo tardi!»
I due Vormund passarono il controllo dalle mitragliatrici binate
ai cannoncini a canna corta, presero la mira, e spararono all’unisono alla
testa dell’EDA, che emesso un ultimo sospiro, quasi un lamento, alla fine
spirò.
Come battesimo
del fuoco, nel caso dei Vormund, non c’era nulla da
dire: collaudo positivo.
Nota dell’Autore
Eccomi di nuovo!^_^
Ormai ci siamo!
Ancora un capitolo, e questa prima parte
di TalesOf Celestis – La Città
delle Nebbie sarà completata.
Che dire? La narrazione ha assunto una
svolta decisamente drammatica, oltre che imprevedibile.
All’arrivo dei soccorsi fu
fatta una prima conta dei danni; in tutto si contarono cinque morti e dodici
feriti, inclusi gli agenti di sicurezza del campus e le varie forze dell’ordine
intervenute per contrastare l’EDA.
A conti
fatti era un bilancio decisamente modesto, rispetto al potenziale di vittime
che avrebbe potuto esserci qualora la manovra di contenimento non fosse
avvenuta in tempi così rapidi.
Tra i
feriti, Alexia era sicuramente uno dei più seri, tanto che i paramedici si
affrettarono a caricarla, ancora incosciente, a bordo della prima ambulanza
disponibile, che partì a sirene spiegate diretta al più vicino ospedale;
secondo una prima diagnosi non era in pericolo di vita, ma occorrevano esami
approfonditi per capire la vera entità delle numerose ferite interne che il
combattimento le aveva lasciato.
Anche Cane
e Lucas erano un po’ ammaccati, con i postumi di uno stress da affaticamento
per il primo e una lussazione per il secondo che avrebbe richiesto quasi
sicuramente un’ingessatura.
Carmy a
paragone se l’era cavata con poco, giusto qualche graffio, ma era niente in
confronto alla ferita che i suoi colleghi sapevano essersi aperta nel suo
animo.
Mentre i paramedici finivano di
medicarla, sedeva in silenzio, gli occhi nel vuoto e l’espressione spenta,
tanto che il delegato di polizia incaricato di redigere il rapporto aveva
rinunciato sul nascere a prendere la sua deposizione.
Non sapeva se sentirsi sollevata
per l’incredibile combinazione di eventi che le aveva evitato di finire sotto
quel telone che come una collinetta artificiale si innalzava ora nel mezzo del
cortile, o rattristata e piena di vergogna per ciò che la sua fortuna aveva
invece comportato.
Sarebbe potuto capitare a lei;
anzi, era destino dovesse capitare a lei. Ma quello stesso destino aveva deciso
altrimenti, e pur senza volerlo era stata un'altra persona a prendere il suo
posto in quella specie di perversa prova sul campo che qualcuno aveva voluto
organizzare.
Perché
questo era stato: un esperimento.
Ma più
di ogni altra cosa, si vergognava della sua incapacità. Vedere tutte quelle
persone ferite, tutti quei morti, e ripensare a ciò che non era stata in grado
di fare nel mezzo della battaglia, aumentava il suo senso di impotenza,
facendola sentire ancora più in colpa per ciò che era accaduto.
Ma più
di ogni cosa, ripensava a Noce. L’aveva visto trasformarsi in quel mostro
davanti ai suoi occhi, e nel suo sguardo aveva letto la paura, unita ad una
disperata richiesta di aiuto lanciata nell’ultimo momento di lucidità cui lei
non era stata in grado di rispondere.
Cane,
che dei tre colleghi era sicuramente quello messo meglio, le si avvicinò, ma
per lungo tempo i due non riuscirono a scambiarsi neanche una sillaba, lui
perché non riusciva a trovare le parole giuste lei perché troppo presa nei suoi
pensieri.
«Stai
bene?» si risolse infine a domandare Cane
«Il
Capitano?» chiese invece lei dopo un interminabile silenzio
«Tranquilla,
non morirà per così poco» ma subito dopo l’uomo si rifece serio. «Comunque io
parlavo di te.»
E
allora, di nuovo, Carmy tacque.
«Non se
lo meritava.» mormorò con gli occhi lucidi
«Nessuno
si merita una sorte simile. Sono cose che succedono.»
«Qui non
c’entra il caso. È stato voluto. Lo hanno volutamente trasformato in quella… quella cosa. Anzi, volevano farlo con me! Se non
fosse stato per lui, io ora…»
Poi, nei
suoi occhi apparve la rassegnazione, unita ad una punta di sarcastica
autocommiserazione.
«Avevi
ragione tu. La Kyrador in cui io credevo in realtà non esiste.
Non è
mai esistita» e guardò verso gli agenti in tuta protettiva che iniziavano
l’opera di dissezione del mostro per poterlo portare via. «Quella. Quella è la
vera Kyrador.»
Cane non
riuscì a dire niente; forse perché, fin dall’inizio, anche lui l’aveva pensata
allo stesso modo.
Se non fosse stato per la
piega drammatica che avevano preso gli eventi, Fittzwater
sarebbe entrato negli uffici della Polizia Militare gongolando per l’ottima
prova di battaglia mostrata dalle sue nuovissime unità, ma in quel momento la
resa persino superiore alle attese dei Vormund contro
un’EDA si classe elevata era l’ultima delle sue preoccupazioni.
Owens
schiumava di rabbia, e malgrado la porta dell’ufficio fosse chiusa gli urlacci che i due presero a scambiarsi quasi subito furono
tali da catturare l’attenzione di tutti i presenti.
La
situazione era precipitata, e in un certo senso lo sapevano entrambi; certo,
nessuno dei due si aspettava che le cose potessero precipitare fino a quel
punto. Ciò che li divideva era la decisione circa la prossima mossa da seguire,
che secondo Owens poteva essere una sola.
«Fino a
che si trattava di una questione di droga era un conto, ma qui siamo di fronte
ad un attentato terroristico in piena regola!»
«E
secondo te quell’imbecille di Timur avrebbe i mezzi e la sagacia per mettere in
piedi una cosa del genere? Sono sicuro quanto te che si è trattato di un
attentato, ma scommetto quello che vuoi che non è stata un’idea sua!»
«Di chi
sia stata non mi importa! E non importa neanche ai piani alti! Dopo quello che
è successo, mi sorprende che non siano già venuti qui a rilevare tutto il
materiale raccolto finora e a prendere il controllo dell’indagine.
E
comunque vada, la mia squadra stava quasi per restarci secca! Quindi, per quel
che mi riguarda, non intendo aspettare un minuto di più!»
«Aspetta,
ti prego» tentò disperatamente Fittzwater quando
l’amico aveva già le mani sulla tastiera del telefono. «In questo modo manderai
all’aria mesi di indagini. Non te ne importa niente? Tutti quei laboratori di
cui non sappiamo ancora nulla…»
«Si
fottano i laboratori» ringhiò Owens a denti stretti.
«Fino a quando mi sarà possibile, intendo fare a modo mio, e non intendo
perdere altro tempo.»
Quindi
il Direttore guardò dritto negl’occhi Fittzwater,
fulminandolo.
«Da
questo momento l’indagine passa sotto il controllo della Sezione Speciale
dell’Agenzia, e quelli non sono abituati come me e te alle finezze estetiche. Tutto
quello che possiamo fare è cercare di prendere Timur vivo prima che lo facciano
loro, o Lilith a parte questa indagine finirà dritta nel cesso. Quindi, ti
consiglio di preparare i tuoi uomini. Più posti assalteremo nello stesso
momento, più possibilità abbiamo di sradicare quanti più rami della setta
possibili» e come il centralino di controllo attivò la linea, ordinò
perentorio. «Chiamatemi il TMD!»
Fittzwater
guardò un’ultima volta il suo vecchio amico, supplicandolo con lo sguardo di
fermarsi, ma di fronte ad una seconda occhiata perentoria poté solo andarsene
sbattendo con forza la porta fin quasi a buttarla giù.
Due
minuti dopo, nella caserma dei reparti speciali, l’allarme d’intervento
scaraventò la squadra di Jake dalla sala da pranzo direttamente a bordo della
camionetta d’intervento che già li aspettava per partire.
«Qual è
l’incarico?» domandò Ruch
«Una cattura»
replicò scherzosamente Madison leggendo le direttive arrivate sul suo
comunicatore. «C’è una Chiesa di Ela da ripulire all’Ottavo Distretto. Abbiamo
l’ordine di recuperarne il capo.»
«E ci
chiamano per una scemenza simile?» protestò Dylan
«Pare
che sia collegato con quello che è successo ieri all’università.
Gli
ordini sono di mettere in sicurezza l’edificio in cui si trova il bersaglio e
arrestare quante più persone possibili. L’arresto del capo di quegli esaltati, PlivisEmeraude, è classificato
come priorità uno. In altre parole, qualunque cosa accada, dobbiamo prenderlo
vivo.»
«Per
quale motivo un piccolo prelato dovrebbe essere così importante?» chiese Jake
«Queste
non sono cose che ci riguardano. In ogni caso si tratta di una operazione
congiunta con la polizia cittadina, pertanto la sincronia d’intervento sarà
fondamentale.
Il
bersaglio si trova in un edificio residenziale a Ladner,
nella zona di Hestrid Point. La Polizia Militare ci
ha fornito tutte le mappe, le informazioni e le planimetrie di cui avremo
bisogno.»
Rapidamente
vennero assegnati gli incarichi e fu illustrato il piano d’attacco: Madison,
Ruth e Shiffon avrebbero creato un diversivo e attirato l’attenzione delle
guardie, mentre Dylan e Jake avrebbero raggiunto velocemente il retro della
villa facendo irruzione e catturando il bersaglio prima che questi potesse
avere il tempo necessario per poter fuggire.
«E ora
forza, Bravo! Andiamo a guadagnarci la paga!»
Timur da parte sua, come
aveva saputo dell’avvenuta riuscita del piano, ma anche del modo in cui esso
era andato in parte a rotoli per l’intromissione di quel Noce che aveva sempre
considerato un idiota, aveva deciso di lasciare velocemente la città e
ritirarsi nella sua tenuta sul mare.
Non solo
in questo modo poteva dare tempo alle acque di calmarsi, ma soprattutto la
villa costituiva un’ottima postazione difensiva, dalla quale era facile
accorgersi di eventuali minacce e agire di conseguenza.
Di certo
però Timur e i suoi uomini non si aspettavano di doversi confrontare con una
squadra TMD, contro la quale i sistemi d’allarmi e le armi di piccolo calibro
che la scorta del prelato aveva con sé erano ben poca cosa.
A cento
metri dalla casa, cui si accedeva per una strada stretta e tortuosa che
attraversava un boschetto, la camionetta d’assalto lanciò alcune delle granate
fumogene, che colpito il cortile con estrema precisione generarono una densa e
fitta coltre bianca.
Protetto
dal fumo il mezzo sfondò il cancello, travolgendo anche due guardie che fecero
appena in tempo a spostarsi, e come le portiere posteriori si aprirono la
squadra di Madison sciamò all’esterno armi in pugno aprendo subito il fuoco.
La
minuscola guarnigione, formata per buona parte da ex membri dell’esercito
congedati con disonore, oppose una difesa piuttosto stentata, ma prima che
potessero arrendersi Jake e Dylan, passando sotto il loro naso grazie alla cortina
fumogena, erano già all’interno della villa, dove tuttavia avevano trovato ad
attenderli altra resistenza.
Dax, che
aveva sniffato Lilith in polvere fino a poco prima, si presentò nel salone
prospiciente l’ingresso con una mitraglietta per mano, l’espressione
infervorata e la faccia che ancora parzialmente tinta di polvere blu sembrava
quella di un demone infernale.
L’uomo
oppose una resistenza quasi insensata, tanto che alla fine i due agenti furono
costretti ad abbatterlo, anche se Dax aveva tanta di
quella droga in corpo che nell’atto della morte questa irrigidì tutti i
muscoli, tramutandolo in una statua che con le dita paralizzate sui grilletti
seguitò a sparare fino all’esaurimento dei caricatori, saturando l’aria di fumo
acre e devastando completamente il salone.
«Muoviamoci!»
ordinò allora Jake.
Nel
mentre, però, Timur se l’era già data a gambe, e sfruttando un passaggio
segreto in cantina aveva imboccato la scala lunga e stretta scavata
direttamente nelle viscere della scogliera che, scendendo verso il basso, lo
condusse fino ad una grotta marina segreta, ben nascosta dall’esterno da una
parete magica, dove un motoscafo lo attendeva per scappare.
«Avanti,
metti in moto!» ordinò con gli occhi fuori dalle orbite, solo per scoprire in
un secondo momento che l’autista era sparito.
Subito
dopo, un rumore di passi attirò la sua attenzione, e alzati gli occhi il priore
si trovò a tu per tu con una faccia famigliare.
«Che ci
fai tu qui?
Ce li
hai portati tu per caso? Comunque vada, sappiate che io mi chiamo fuori! Non mi
avevate detto che sarebbe stato così pericoloso! Ora salgo sulla mia barca,
prendo la prima aeronave per Callisto, e tanti saluti! Tenetevi i soldi e tutto
il resto, io non voglio più saperne nulla!»
Poi, di
colpo, la sua espressione si trasformò, facendosi atterrita e piena di terrore.
«Aspetta!
Che vuoi fare? No, ti prego! No!».
Nel mentre, in superficie,
la situazione all’interno della villa era stata pacificata, e sia Jake che
Dylan si erano messi alla ricerca di Timur, senza però riuscire a trovarlo.
Non era
occorso molto perché i due agenti si imbattessero invece nel passaggio segreto,
lasciato imprudentemente spalancato dal priore, ma mentre lo stavano ancora
percorrendo il fragore di uno sparo riempì quel cunicolo stretto e angusto con
potenza assordante.
«Merda,
corri!» gridò Dylan, che procedeva in testa.
Quando
arrivarono alla grotta, però, era già troppo tardi; Timur giaceva sul terreno
umido, un braccio parzialmente immerso nell’acqua, la tunica fradicia del
sangue che usciva a fiotti da un foro nella gola; accanto a lui, una pistola
ancora fumante.
«È
ancora vivo!» esclamò Jake che, inginocchiatosi davanti a lui, lo vide muovere
leggermente le palpebre. «Presto, aiutalo!»
Dylan
fece il possibile, e fu anche ordinato di portare quanto prima sul posto
l’unità medica di emergenza, ma quasi subito fu evidente che per quanti
incantesimi curativi si potesse usare per quel poveretto non c’era speranza.
Con le
sue ultime forze, come a voler implorare aiuto, il priore afferrò il polso di Dylan,
guardandolo con i suoi occhi spalancati che, di secondo in secondo, diventavano
sempre più bianchi.
«M…on…a…»
mormorò, tossendo fiotti di sangue
Quindi,
sfinito da un’ennesima convulsione, rantolò nuovamente sulla roccia esalando
l’ultimo respiro.
Jake e
Dylan si guardarono tra di loro, poi il primo, ancora scosso per le parole
incomprensibili che Timur gli aveva rivolto prima di morire, prese la radio.
«Bravo
Quattro» disse con un filo di voce. «Il bersaglio è morto. Obiettivo fallito.
Ripeto. Il bersaglio è morto. Obiettivo fallito.»
«Bravo
Quattro, ricevuto.» rispose, dopo qualche attimo, la voce di Madison
Alexia si risvegliò solo quattro
giorni dopo i fatti dell’università, ritrovandosi con sua stessa sorpresa
ancora viva e distesa su di un letto dell’ospedale di St. John.
Ad
assistere al suo risveglio, il Direttore Owens, che
vedendola aprire gli occhi cercò di nascondere dietro ad un sincero sorriso di
sollievo il suo reale stato d’animo.
«Ehi,
finalmente. Era ora che ti svegliassi. Lo sai quanto mi hai fatto stare in
pensiero?»
«Direttore!?»
Nel
momento del risveglio, e nonostante i sedativi, Alexia aveva sentito un gran
dolore in tutto il corpo, ma quando cercò istintivamente di alzarsi una
tremenda fitta le fece quasi scoppiare lo sterno, per non parlare della spalla
destra che sembrò quasi volersi staccare.
«Calma,
calma» le disse il Direttore aiutandola a rimettersi distesa. «Forse non te ne
rendi conto, ma hai quattro costole fratturate, una spalla incrinata, il polso
destro spezzato, e se fossi nata trecento anni fa a quest’ora non avresti più
né milza né pancreas.
Tutto
questo senza contare l’esaurimento magico che ha richiesto una procedura di
emergenza per non farti perdere le tue capacità di maga.
In altre
parole, nonostante tutto, sei ridotta piuttosto male.
Ma
consolati. Si tratta di cose pienamente superabili. Qualche mese di riposo, e
sarai di nuovo in piena forma.»
Alexia,
appena fu in grado di farlo, chiese notizie della missione e dei suoi risvolti,
e già dall’espressione che Owen assunse alla sua domanda la giovane donna si
rese conto che molte cose non dovevano essere andate per il verso giusto.
«Timur è
morto» disse mestamente il Direttore al termine del suo racconto. «Dalle prime
informazioni sembra si sia suicidato. Abbiamo smantellato il laboratorio
principale, alcuni di quelli minori, e tutte le attività secondarie disseminate
per la città.
Di certo
è un brutto colpo per il mercato della Lilith qui a Kyrador, ma sono pronto a
scommettere che quelli delle altre città ne hanno risentito solo in parte.
Timur
dopotutto non aveva contatti né affiliati a Eldkin o
a Midgral, e stando ai miei colleghi pare che lì la
droga stia circolando tuttora in gran quantità.»
E purtroppo,
le brutte notizie non erano finite.
«Il
corpo dell’EDA è stato analizzato da cima a fondo.
C’era
abbastanza droga in quel braccialetto infernale per generare una decina di EDA,
figuriamoci se iniettata in una sola persona. Che siamo di fronte ad una Lilith
diversa da quella fino ad ora conosciuta è fuori di dubbio, il problema è che
non ne abbiamo trovato traccia. Questa nuova droga viene assorbita dall’organismo
molto in fretta, ed è infinitamente più letale.»
«Signore»
mormorò Alexia attraverso la maschera per l’ossigeno. «Sappiamo bene che Timur
non può aver creato una cosa del genere da solo.»
«Ne sono
consapevole» rispose Owens nascondendo per un attimo
il volto tra le mani. «Sfortunatamente, Capitano, è una questione che non ci
riguarda più.»
«Che
significa?»
«Il caso
da ieri è ufficialmente di competenza dell’unità Indagini Speciali. La Polizia
Militare continuerà a gestire l’indagine relativa al traffico di droga, ma
tutto il resto passa nelle mani del Consiglio di Sicurezza.»
Affranta,
Alexia girò la testa dall’altra parte, osservando mestamente la città che
andava tingendosi del rosso del tramonto.
«Mi
dispiace» riuscì solo a balbettare Owens, che subito
dopo però cercò di risollevare sia il proprio morale che quello della giovane
sottoposta. «Comunque, per ora, non ci pensiamo tu. Tu pensa solo a rimetterti
in sesto.
E a
questo proposito, credo che fuori ci sia qualcuno che vuole vederti.»
Detto questo
Owens uscì lasciando la porta aperta, e da questa
dopo qualche secondo entrò, l’espressione quasi sconvolta ed il fiato
accorciato sia da una breve corsa che da un’ansia crescente, una persona che
Alexia negli ultimi tempi aveva visto molto poco, ma di cui aveva sempre
rimpianto quello sguardo così amorevole ed affettuoso, celato dietro ad una
sottile parete di freddo autocontrollo.
«Ciao,
mamma.»
«L’avevo detto fin dall’inizio
che non avremmo dovuto fidarci di quel tipo!» sbottò Tristano tirando pugni sul
tavolo. «Per poco non ci ha fatti scoprire!»
«Imprevisti
a parte,» commentò Percival. «Direi che la prova è
stata piuttosto buona. Secondo i nostri informatori nella polizia, le analisi
autoptiche condotte sull’EDA generato dalla nuova Lilith non sono riuscite a
rilevare né la composizione né la natura effettiva di questa droga.»
«In
altre parole,» intervenne Gareth. «Non ci sarà modo
per la MAB di distinguere in futuro gli attacchi compiuti da noi dagli
incidenti occasionali.
Direi che
questa è decisamente una buona notizia.»
«Lo è altrettanto
che Timur sia morto» disse Valerian. «Se fosse
rimasto in vita, conoscendolo, anche nel caso in cui fosse riuscito a sfuggire
al TMD sarebbe stato capace di vendersi in cambio di qualche privilegio.
Per fortuna
lo abbiamo trovato noi prima dei cani della MAB.»
Il giovane
erede dei Delaroche rivolse quindi uno sguardo carico di ringraziamento verso Owain, che sedeva al suo solito divanetto con fare
apparentemente distaccato; da qualche giorno aveva iniziato ad intagliare un
vecchio pezzo di legno ritrovato casualmente in soffitta, e dopo molto lavoro
cominciava ad intravedersi un volto di donna emergere dalla superficie annerita
e graffiata dagli anni.
«Noi
tutti abbiamo un grande debito nei tuoi confronti. Senza il tuo aiuto, la
situazione avrebbe potuto assumere contorni drammatici.
Hai tutta
la nostra gratitudine.»
«Doveva
essere fatto, prima o poi. Quelli come Timur non possono essere lasciati vivi a
lungo.»
«Ammetto
che in qualche occasione ho dubitato della tua fedeltà. Ma ora, non succederà
più.
Hai la mia
parola.»
«Mi fa
piacere sentirlo.»
I loro
sguardi si incrociarono, in un muto scambio di idee e sentimenti, quindi Valerian tornò a concentrarsi sulla riunione.
«L’unico
problema, è che il meccanismo di incenerimento del bracciale non ha
funzionato.» disse Lancillotto
«Probabilmente
si è trattato di un guasto inaspettato» minimizzò Gareth.
«Stiamo parlando pur sempre di un prototipo.»
«Ci
hanno assicurato che i prossimi modelli saranno più efficaci» disse Valerian. «Da questo momento, inizia la seconda fase del
nostro progetto. Per minimizzare il dispendio di risorse, concentreremo i
nostri sforzi su Kyrador. I proventi della mia famiglia e quelli derivati dai
nostri introiti sullo spaccio della Lilith nelle altre regioni ci forniranno la
disponibilità economica per portare avanti la nostra campagna.
Gli ordini
sono di mantenere alta la tensione il più possibile, ma senza esagerare. Prima di
passare alla fase tre, dobbiamo dare il tempo ai ricercatori di mettere a punto
Ragnarock. Ma più caldi saranno gli animi al momento
di sferrare il nostro attacco, maggiori saranno le possibilità che esso sia
coronato da successo.»
Detto questo,
l’erede dei Delaroche ed i suoi compagni presero ognuno uno dei dodici calici d’argento
disposti in circolo al centro del tavolo, piccoli capolavori d’artigianato amalteco intagliati e lavorati a formare eleganti
altorilievi; la cosa curiosa era che, a parte le decorazioni floreali e la
forma della coppa rievocante i petali spalancati di u giglio, ogni calice aveva
raffigurato il mezzobusto di un cavaliere in armatura, ognuno diverso da tutti
gli altri.
Il primo
capo di Avalon, Auguste Delaroche, aveva fatto creare quei calici per i suoi
più fidati consiglieri ed amici, ed era stato nel momento in cui Valerian li aveva casualmente trovati, sotterrati nel
vecchio orto della villa, che dentro di lui era nata la convinzione di dover
proseguire nel sentiero tracciato da suo padre per costruire un mondo nuovo.
Anche Owain raccolse il proprio calice, che fu lo stesso Valerian a porgergli di fronte alla sua apparente
esitazione, e come tutti i recipienti furono pieni fino all’orlo di ottimo vino
ognuno dei presenti si incise leggermente l’indice destro, lasciando cadere una
goccia del proprio sangue nella bevanda, tingendola lievemente di un rosso un
po’ più acceso.
«Ora e
sempre.» proclamò Valerian alzando il Calice del Re
La
parola d’ordine dei loro predecessori; ora Avalon, almeno per loro, era tornata
in vita.
«Ora e
sempre.» risposero in coro i suoi compagni
Carmy, per quanto ci
provasse, non riusciva a smettere di pensare a Noce, e le notizie giunte dall’ospedale
circa le condizioni di salute del Capitano le avevano ulteriormente affossato
il morale.
Era talmente
distratta e persa nei suoi pensieri da non essere ancora riuscita, a distanza
di quattro giorni, a finire di stendere il suo rapporto finale sulla missione,
e dal momento che il termine ultimo per consegnarlo era ormai prossimo a
scadere si era vista costretta e restare oltre il termine del turno.
Uno dopo
l’altro tutti se n’erano andati, e ormai nell’ufficio restava solo lei, avvolta
da un buio quasi assoluto a malapena rischiato dalla luce della lampada da
scrivania e da quella della finestra virtuale del computer.
Ma anche
così, non le riusciva di lavorare; continuava a rileggere le poche righe che
aveva scritto, spesso digitando senza volerlo la stessa frase più volte o
cancellando intere sezioni dopo essersi resa conto, ad una prima lettura, di
quanto fossero ortograficamente e grammaticalmente inaccettabile per una
persona adulta e vaccinata come lei.
L’espressione
spaventata e sconvolta di Noce era ancora davanti a lei. La vedeva ovunque, nei
manifesti pubblicitari come sulle riviste, navigando in rete o semplicemente
chiudendo gli occhi, inoltre aveva dormito molto poco, tanto che persino una
ragazza paziente come Julienne alla fine aveva
sbottato.
Della Carmy
O’Neill che quattro mesi prima aveva messo piede per
la prima volta in quell’ufficio sembrava non esserci più traccia, schiacciata
dal peso di una realtà che non avrebbe mai voluto vedere.
Che ne
era stato di quel sogno chiamato Kyrador, si domandava? Possibile che fosse
marcito fino a tal punto?
All’improvviso,
uno scalpiccio spedito e pesante risuonò nel silenzio tutto attorno, e Cane si
palesò all’interno del box con aria contrariata e risoluta.
«Cane,
non eri andato a casa?» domandò Carmy tornando in sé
«Vieni
con me.»
«Aspetta,
cosa…» ma prima che la ragazza potesse aprire bocca
un’altra volta l’agente l’aveva già presa per un braccio, portandola quasi a
forza al più vicino ascensore.
Mentre salivano
verso l’alto Cane seguitò a mantenere uno sguardo freddo ed un atteggiamento
ostile, tanto che Carmy non ebbe più il coraggio di domandare nulla, restando a
sua volta ferma ed in silenzio a leggere i numeri sul display che aumentavano
sempre di più.
Le porte
si riaprirono al sessantesimo piano, l’ultimo, su di un piccolo corridoio al
termine del quale i due incontrarono una stretta scala a chiocciola.
«Avanti,
sali.»
Carmy
obbedì, troppo confusa e spaventata per chiedere informazioni, e con Cane che
la tallonava un gradino più indietro percorse verso l’alto tutta la scala fino
a raggiungere una piccola porta chiusa a chiave, con un cartello di divieto
vecchio e sbiadito lasciato a pendere da una catenella piena di ruggine.
Fattosi avanti,
e senza apparente esitazione, Cane fece scattare la serratura, e come spalancò
l’uscio verso l’esterno una ventata d’aria fredda colpì la faccia di Carmy,
sulla quale si accese come d’incanto un’espressione carica di meraviglia.
Kyrador,
la Città dei Nove Distretti, risplendeva sotto i suoi piedi.
Milioni di
luci di palazzi, lampioni, schermi e quant’altro formavano uno scintillante
mosaico in continua mutazione, che diventando sempre più luminoso man mano che
ci si avvicinava al centro si protendeva ad ovest fin sul bordo del male, disperdendosi
invece fin oltre l’orizzonte in tutte le altre direzioni.
Da lassù,
dalla torre panoramica della sede della polizia militare, si poteva vedere tutto,
dai bagliori intermittenti delle navi che andavano e venivano dalle darsene a
nord al traffico di luci in continuo movimento delle principali arterie
stradali, sia a livello del suolo che sopraelevate.
Sulla collina
più alta, il palazzo presidenziale, e poco distante la colonna bianchissima
della Marble Tower che scintillava come una stella. Un
po’ discostate dal centro, le fronde degli alberi di Luminous
Park spezzavano un momento la linea dei palazzi, dando però un tocco di gentile
raffinatezza che accresceva il colpo d’occhio invece che penalizzarlo.
Rainbow
Bridge, malgrado ciò che era diventata Harris Island, conservava intatto tutto
il suo splendore, rassomigliando con i suoi imponenti tralicci e i cavi a
spirale alle canne possenti di un gigantesco organo. E alle sue spalle, avvolta
nel buio dell’oceano, appena visibile sul bordo dell’orizzonte, scintillava una
piccola luce, simile ad un faro.
Dovette
passare parecchio tempo prima che Carmy riuscisse a riprendersi, tanto quello
spettacolo, che mai aveva immaginato potesse apparire dal tetto del posto in
cui lavorava, l’aveva lasciata senza parole, la bocca spalancata e gli occhi
che scintillavano come quelli di una bambina.
«Questa
è Kyrador.» disse Cane distendendo il volto e calmando la voce.
Un rumore
giunse alle loro spalle, e Carmy, voltatasi, vide Lucas sbucare a sua volta
sulla terrazza con tre seggiole pieghevoli in una mano e una rete di birre
fresche di congelatore nell’altra, queste ultime sollevate in alto come un
trofeo.
Così,
quella serata si concluse come la ragazza non si sarebbe mai immaginata, seduta
a pochi passi dal bordo con una lattina ghiacciata tra le mani e lo spettacolo
impagabile della città illuminata sotto i piedi.
Eppure,
dapprincipio, neanche questo, inclusa la vicinanza di quei colleghi che tanto
dovevano averla cuore, parve bastare in un primo tempo per scuoterla dal suo
tormento.
«Tutti
ci siamo passati prima o dopo» disse d’un tratto Cane posando la sua birra e
ritraendo i piedi comodamente poggiati sul parapetto. «Io. Il Capitano. Forse
anche il Direttore. Persino il nerd qui presente.»
«Grazie
tante.» protestò l’interessato
«Quello
che voglio dire, Carmy, è che tutti in un primo momento siamo cresciuti con la
convinzione che il nostro mondo fosse scintillante, pacifico, forse addirittura
perfetto.
È una
cosa a cui tutti si sforzano di credere, anche qui a Kyrador. Anzi, forse
addirittura più qui che in qualunque altra parte del globo.»
Un piccolo
cristallo di ghiaccio scivolò lentamente lungo la superficie levigata della
lattina, seguito da Cane con sguardo come pensieroso.
«Questa
città, in fin dei conti, è un po’ come un cristallo. Può assumere diverse
forme, e apparire in vari modi, a seconda del punto di vista da cui lo si
osserva e da come la luce lo colpisce.
La maggior
parte degli abitanti si sforza di guardare solo quello che più li appaga, e
distoglie lo sguardo quando ciò che vedono non gli piace più.
Ma chi
fa un lavoro come il nostro è obbligato a guardare ogni singola sfaccettatura,
bella o brutta che sia. Ed è allora, quando il miraggio di perfezione svanisce,
che la vera Kyrador, il vero Celestis, emergono per quello che sono.»
Carmy sobbalzò,
stringendo senza volerlo un po’ più forte la sua lattina.
«In fin dei
conti però, non è così male» commentò Lucas. «Più una cosa è diversa, più è
bella. C’è più gusto a scoprirla. E poi, bene e male sono concetti imprescindibili,
oltre che relativi. In quanto agenti di polizia, ma soprattutto membri della
MAB, il nostro compito è far sì che l’equilibrio su cui poggia la nostra
società non venga danneggiato.»
«E
questo equilibrio,» concluse Cane. «Poggia inevitabilmente sul rapporto tra il lato
luminoso e quello oscuro, a Kyrador come in tutto Celestis.»
«Quindi,»
mormorò Carmy a capo chino. «Sarà sempre così?»
Cane
rispose con un’alzata di spalle.
«L’utopia
semplicemente non può esistere. Sarebbe la negazione della natura umana. La gente
lì fuori vuole credere che Celestis sia una realtà superiore, ma in verità
probabilmente non è tanto diverso dal mondo che i nostri antenati lasciarono
centinaia di anni fa.»
Sospirando
l’agente si portò la lattina alla bocca, lasciandosi cullare dal piacere della
birra fredda che scendeva nella gola.
«D’altra
parte però, se la sai osservare, questa città è anche bellissima. In fin dei
conti, a ben pensarci, forse è davvero quanto di più vicino all’utopia potresti
trovare in questo mondo. Dopotutto, i nostri avi l’hanno costruita perché fosse
il simbolo ultimo della civiltà che volevano costruire, e che volevano con
tutte le loro forze rendere perfetta.
Quindi,
forse, un briciolo di perfezione Kyrador ce l’ha, nascosto tra la nebbia che
quotidianamente la nasconde e la soffoca.»
Carmy
guardava ora in alto ora in basso, mentre il cuore le batteva forte.
«Non è
stata la prima volta, e non sarà l’ultima» concluse Cane riassumendo un tono un
po’ più serio. «Ma se saprai convincerti che c’è una Kyrador migliore rispetto
a quella che talvolta ti troverai costretta a guardare negl’occhi, allora
troverai la forza per andare avanti. Altrimenti, te lo garantisco, questa città
ti stritolerà nei suoi tentacoli fino a soffocarti.
Accetta
le sue regole, sottomettiti al suo corso, e saprà darti abbastanza gioie da
compensare in parte i dolori che ti metterà di fronte.
È così
che si va avanti. È così che si sopravvive a questo Regno di Cristallo.»
Da un
momento all’altro, fu come se un velo nero si fosse immediatamente dissolto
dinnanzi agli occhi e nell’animo di Carmy, alleggerendo il suo cuore e
lasciando dietro di sé solo un fastidioso, ma in qualche modo inevitabile,
senso di consapevolezza.
Cane aveva
ragione; come tutti, si era sforzata di credere che il suo fosse un mondo
fantastico, e Kyrador il miraggio di perfezione tanto osannato e decantato da
poeti, cantanti e politici dalla dialettica suadente.
Forse,
in cuor suo, voleva sforzarsi di crederci ancora, ma non poteva né doveva
chiudere gli occhi dinnanzi ai suoi lati più oscuri e controversi.
Si alzò
dal seggiolino, lasciandosi ammaliare una volta di più dal turbinio di suoni,
luci e odori che giungevano da sotto i suoi piedi; forse Kyrador era davvero una
Città delle Nebbie, un luogo in cui tutto era il contrario di tutto, in cui le
passioni e i turbinii dell’essere umano assumevano le forme di scintillanti
palazzi, ampi viali, vaste strade e grandi parchi, e dove ogni cosa esisteva in
funzione del suo opposto. Ma, allo stesso tempo, come diceva Cane, era anche un
Regno di Cristallo, fragile e magnifico allo stesso tempo, capace di diffondere
una luce divina e allo stesso tempo riflettere al suo interno i lati più
ambigui ed oscuri della società.
Trovare l’equilibrio.
Era questo
il segreto.
Ma nel
suo caso l’importante non era solo trovarlo; era preservarlo.
Lei era
un agente di polizia. Un membro della MAB. Quella città, quel mondo, erano
tutto ciò che era chiamata a tutelare.
Tutto
per non lasciar spegnere quella luce, quel frammento di perfezione che giaceva
da qualche parte nel cuore della più grande e splendente città di Celestis.
«Avete
ragione» disse con uno strano, liberatorio sorriso. «Questa è Kyrador.»
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
E così, eccoci arrivati alla fine di
questa prima parte!
Molti enigmi sono stati sciolti,
altrettanti attendono ancora una soluzione, e in quel piccolo mondo di nome
Celestis si vanno delineando scenari sempre più ambigui ed inquietanti.
E ora cosa accadrà?
Quali sono i piani di Avalon? Sono davvero
loro il vero nemico, o c’è qualcuno che agisce alle loro spalle?
Cos’altro attende Kyrador e il resto del
mondo?
Lo scoprirete nella Seconda Parte, “La
Tomba dell’Ambizione”, che inizierò a pubblicare al mio rientro dalle vacanze.
Grazie a tutti quelli che hanno letto e
recensito questa storia.