Ichigo ichie

di avalon9
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Lacrime ***
Capitolo 3: *** 2. Stanchezza ***
Capitolo 4: *** Piccolo dizionario ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Autore: Avalon9

Autore: Avalon9

Genere: Introspettivo, Malinconico,

Personaggi Principali: Shinichi Kudo; Heiji Hattori; Kaito Kid; Saguru Hakuba

Altri Personaggi: un po’ tutti, in verità^^ Ho cercato di creare una storia corale

Rating: Rosso

In proposito: Ichigo ichie” le sussurrò, uno sbuffo di riso. Perché poteva essere l’ultima volta. Perché era sempre un’ultima volta. E aveva imparato a non volere rimpianti.

Uno sparo; un amico ferito; forse una traccia. . Sono passati sei anni da quando Shinichi a recuperato il suo reale aspetto. Sei anni passati a scappare dai MIB, vivendo alla macchia. Da solo. Sei anni in cui le vite degli altri sono andate avanti, mentre la sua si è fermata a quando di anni ne aveva ancora sedici. Eppure anche lui è cresciuto. E non da solo.

Disclaimer: i personaggi sono di Gosho Aoyama; la situazione invece la rivendico mia^^

Note:long-fic; post-series

Cose: perché dopo Solo una notte mi è rimasto il desiderio di riempire gli anni passati sotto silenzio. Perché mi piace immaginare una complicità fra i Gosho boys che vada oltre all’occasionale collaborazione. Perché, in attesa del finale (odissiaco) del manga, immaginarmi un dopo è stato stuzzicante. Perché li voglio vedere cresciuti, con più sicurezza e più paure.

Ho cercato di rispettare il Canon dei personaggi, anche se, per esigenze di trama e temporali, alcuni elementi saranno evoluti. Sì: evoluti. Shinichi, come Ran, come gli altri personaggi non sono più né bambini né ragazzi. Sono uomini e donne; sono adulti di ventisei anni, con le loro esperienze e le loro paure. Con i loro sbagli, i loro segreti e i loro rimpianti. Certe scelte potrebbero non piacere, vi avviso. Con il tempo, con gli accadimenti, qualcosa potrebbe risultare indigesto. Ma se avrete pazienza. Chissà.

Il backgorund, infine. Sono passati sei anni da quando Shinichi a recuperato il suo reale aspetto. Sei anni passati a scappare dai MIB, vivendo alla macchia. Da solo. Sei anni in cui le vite degli altri sono andate avanti, mentre la sua si è fermata a quando di anni ne aveva ancora sedici. Eppure anche lui è cresciuto. E non da solo.

Ultimo appunto: certi fatti saranno accennati e mai spiegati. Non è una mia pigrizia, ma il fatto che la storia va inserita in una serie ancora in divenire. Ne ho già scritta una parte Solo una notte, che cronologicamente di colloca quasi interamente dopo questa vicenda. Ne sto scrivendo un’altra, che la precede. Incentrata principalmente su Shinichi e Heiji. Quindi i salti alogici ci sono. E ne sono consapevole. Ho scelto tuttavia di mantenere quest’andamento diacronico. Un po’ per comodità. Un po’ perché, con i miei tempi di pubblicazione, non si sa mai^^

 

 

 

Ichigo ichie

 

 

 

 

 

 

Prologo

 

 

 

Crak.

Pluch.

Shinichi sospirò, mentre osservava le piccole bollicine condensarsi e scoppiare attorno alla sim, nella fontanella. Era il terzo telefono che buttava, in tre giorni. E prima di partire avrebbe dovuto procurarsene un altro.

Ma in fondo andava bene così. Troppo rischioso lasciarlo acceso o usarlo di nuovo. Appena avesse avuto il nuovo numero, avrebbe inviato un sms. Veloce, facile e relativamente sicuro. In definitiva, quello era solo il cellulare per le emergenze. L’altro, tutto sommato, poteva conservarlo anche per qualche giorno.

O forse.

Lo estrasse dalla tasca, ricalcolando velocemente da quanto lo possedesse. Giovedì sarebbe stato un mese. Troppo. Realizzò arricciando le labbra. Troppo tempo.

Staccò la cover, tolse la batteria e la sim e la spezzò. Lo avrebbe lasciato in un cestino vicino a un centro per auto a noleggio. Doveva essercene uno, lungo la strada, se ricordava bene. Se fosse stato in qualche modo tracciato, sarebbe riuscito a depistarli per un po’ almeno.

Dopo quello che era successo, dovevano essere in allarme.

Alzò il bavaro della giacca e si incamminò verso l’uscita del parco. La linea Kintetsu distava circa 20 minuti a piedi; poteva arrivarci come un normale turista, senza destare sospetti.

Con noncuranza, finse di fermarsi a controllare l’apparecchiatura fotografica. I piccoli gruppi che lo superavano sul lastricato del tempio gli consentivano di confondersi senza necessità di particolari accorgimenti.

Nel doppio fondo, trovò il passaporto e la carta d’identità, assieme ai soldi per le emergenze. Perfetto si compiacque. Saizo Fukura sarebbe scomparso dalla sua stanza d’albergo, lasciandosi dietro una valigia con pochi vestiti dozzinali e nessun appunto. Difficile che alla reception ricordassero il suo volto, e dalle poche telecamere di sorveglianza gli inquirenti avrebbero potuto al massimo ottenere alcuni sfuocati fotogrammi dei cappellini che indossava.

Sostituì i documenti nel portafogli.

Teika Ishii avrebbe lasciato il tempio Todaiji abbandonandosi alle spalle un mucchietto di plastica bruciata dall’odore fastidioso.

Avrebbe preso l’espresso Kyuku. Controllò l’ora e con un rapido calcolo si convinse che, senza correre, sarebbe riuscito a prendere il prossimo treno per Kyoto. Quarantacinque minuti. In quarantacinque minuti sarebbe stato nell’antica capitale, senza inconvenienti. A Yamato Saidaiji avrebbe dovuto cambiare, ma con il JR ci avrebbe messo lo stesso tempo. Non conviene. Avrebbero controllato la linea più veloce, era prevedibile.

In fondo, se era riuscito a sfuggir loro così a lungo lo doveva anche al basso profilo che continuava a tenere.

Fa niente.

Doveva solo cercare di arrivare. Vivo e senza inseguitori, possibilmente.

A Kyoto avrebbe solo dovuto prendere il JR per Osaka. Altri trenta minuti. E poi. Shinichi socchiuse gli occhi, aggiustandosi gli occhiali da sole e la visiera del cappellino. Non era una bella giornata. Il cielo era basso e grigio, con un sottile vento che pungeva il viso. Avrebbe dovuto liberarsi anche di quei vestiti. Appena arrivato a Osaka. Forse ancora a Kyoto sarebbe stato meglio.

Non ho tempo si ricordò, schivando alcuni bambini che gli correvano incontro. Non ho tempo si ripetè, costringendosi a ordinare i pensieri in modo logico, cercando di non pensare al dopo. A quello che avrebbe potuto trovare una volta arrivato a Osaka. O a quello che non avrebbe potuto trovare.

Kuso.

Doveva aspettarselo. Prima o poi sarebbe successo. Ma pensarci in quel momento; pensarci mentre l’unica cosa importante era salire su quel maledetto treno senza attirare l’attenzione; pensarci mentre doveva solo preoccuparsi di non lasciare tracce.

Kuso imprecò di nuovo. Questa me la paga.

 

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Capitolo 2
*** 1. Lacrime ***


Capitolo 1

 

 

 

Capitolo 1

Kemuri no namida

 

 

In tutte le lacrime indugia una speranza.

Simone de Beauvoir, I mandarini, 1954

 

 

 

 

“Fumare è un pessimo vizio.”

Lo aveva svegliato l’odore. Un misto di amaro e dolciastro che era penetrato fin dentro quel limbo grigio fluttuante dove non c’era tempo, spazio, pensieri. Era stata una brutta sensazione, decisamente sgradevole. Il profumo di caffè mescolato a quello del fumo. Prima ancora di realizzare cosa fosse quell’odore, il suo stomaco si era stretto in un conato. Il soffitto era stata la prima cosa. Un soffitto bianco con un’ombra di luce rossastra. Forse di tramonto forse di neon. Non sembrava un ospedale; non c’era nemmeno l’odore dell’ospedale.

Non aveva voluto pensare a cosa fosse, quel soffitto. A dove fosse.

Non sentiva il corpo; non sentiva i pensieri.

C’era solo l’odore del fumo e quella luce rossastra che andava scemando lentamente. Troppo lentamente per essere un’insegna. È il tramonto.

Voltare appena il viso era stata nausea e fatica; era stato il sudore sulla fronte accaldata e scosse lungo tutta la colonna vertebrale. E quel corpo che non sentiva era esploso, doloroso e lancinante in ogni più piccola fibra. Come la voce.

Quanto aveva impiegato ad articolare una frase? Quanta fatica e boccheggiare erano costate quelle poche parole strascicate e roche, simili al grattare del metallo sull’asfalto? Quanta era stata l’attesa, seguendo le volute corpose del fumo oltre la finestra?

“Mi dicono che anche farsi sparare è poco salutare.”

Sorrise. Non si era aspettato una risposta diversa; forse non l’aveva nemmeno attesa davvero, quella risposta. In fondo, la voglia di parlare non c’era e quelle quattro parole rotolate nella bocca erano state una piccola innocua sfida a se stesso. Eppure.

Sì. Dovette ammettere che sentirla, quella risposta. Quella risposta ironica e un po’ distaccata; quella risposta che non voleva sentire, che non si aspettava di sentire. Quella risposta era stata ossigeno. Era stata la consapevolezza dell’ovvietà, di una normalità tanto anormale, da risultare quasi patetica.

Avrebbe riso, se ogni respiro non fosse stato uno strazio. Sì; avrebbe riso.

“Oh” riuscì a biascicare, la bocca secca e la lingua gonfia. “Sì; hai ragione. L’ho sentito anch’io.”

Shinichi sospirò.

L’acero aveva le foglie rosse dell’ultimo autunno e nell’aria c’era ancora un vago sentore di pioggia e umido. Avrebbe dovuto trovarsi a Naha, in quel momento. In attesa di un aereo che avrebbe fatto scalo prima alle Hawaii e poi a Los Angeles. Avrebbe dovuto essere in viaggio per l’America, per quell’appuntamento con Jodie Sterling. Avrebbe. C’erano dei dossier da discutere, vecchio materiale di Akai ritrovato in una delle sue case sicure. C’erano. C’erano da vagliare la possibilità per lui di entrare nel programma di protezione testimoni e di collaborare regolarmente come fonte esterna alle indagini. C’erano.

C’erano tante cose. Da fare. Da pianificare.

E invece si trovava lì, a fissare un acero rosso e il tramonto di Osaka.

“Bene” soffiò con il fumo della sigaretta. “Visto che ne sei consapevole, sei pregato di restartene qui buono a riposare.”

“Uh! Che cordialità!”

Shinichi socchiuse gli occhi: non capiva nemmeno se essere arrabbiato o rasserenato. Quando lo avevano chiamato, a Nara, aveva sentito il cuore soffocarlo nella gola. Una chiamata del genere; una chiamata su quel numero. Un numero creato apposta; un numero cui non avrebbe mia voluto rispondere. Quando era arrivata quella chiamata, Shinichi aveva sentito il cuore nella gola e la terra girare. Aveva avuto paura, mentre le mani tremavano e un grumo di saliva era rimasto lì, annodato da qualche parte. Aveva avuto paura; e aveva risposto.

Ran.

Ran era stato il primo pensiero. E poi il sollievo. E l’ansia nella voce metallica del cellulare; i rumori, le parole inghiottite. Sì. Sirene. Sì, è la polizia. Un’esplosione. No. Ferito. Sangue. Tanto. Osaka.

Osaka.

Un nome che gli era rimbombato nella testa per tutto il viaggio; un nome che aveva detestato e che martellava nella testa ogni secondo che passava. Osaka. Sempre Osaka.

Aveva fretta. Fretta di arrivarci; fretta di capire; fretta di assicurarsi di.

Che cosa? Che fosse vivo lo sapeva già.

No; non era quello che voleva sapere. Forse era perché. O forse nemmeno quello. Lo sapeva, il perché. Era lo stesso che teneva lui lontano da tutti; quel maledetto motivo che lo faceva vivere da ricercato, sempre scappando, sempre guardandosi le spalle. Quel perché che gli aveva distrutto la vita e che continuava a permettergli di condizionarlo.

Ma quel perché.

Quel perché era anche una speranza di vita. Era tutta la vita che gli era rimasta; e forse la follia forse l’illusione o l’irrazionale speranza di avere ancora un domani diverso; un domani da vivere come se l’era immaginato a diciassette anni. Quel domani che se ne era andato per troppa curiosità e poca esperienza.

No. Non era sollievo.

E non era nemmeno rabbia. Era semplicemente rassegnazione. Perché prima o dopo, lo sapeva, ci si sarebbe trovato, in quella situazione. Di nuovo. Perché presto o tardi, ne era consapevole, qualcosa sarebbe sfuggito al suo controllo e qualcuno ne avrebbe pagato le conseguenze. E il peso di quella responsabilità sarebbe stato suo. Solo suo.

E osservando il viso pallido, gli occhi segnati e quel sorriso strafottente che non se ne voleva andare; guardando forse se stesso forse una proiezione inconscia, Shinichi si chiese se l’avrebbe mai avuta, la forza, per sostenere quella responsabilità. E se era giusto costringersi, costringerli, in quel modo.

“Sei pensieroso” lo riscosse quella voce ancora flebile e arrochita. “Stai cercando le parole giuste per farmi la predica?”

“Servirebbe?”

“No. Lo sai.”

Sì, lo sapeva. E in fondo non ne aveva nemmeno l’intenzione. Doveva bruciare. La consapevolezza di esser finito in trappola e di avercela fatta solo per un gioco della sorte. Doveva bruciare. Tanto. Forse troppo. E lui. Cosa avrebbe fatto, lui, se si fosse trovato al suo posto? Probabilmente avrebbe agito allo stesso modo. Ne era consapevole. Forse si sarebbe soffermato un po’ di più a riflettere o forse no. Ma comunque avrebbe agito.

Quindi, erano inutili prediche o consigli. Erano inutili da lui, che puntualmente disattendeva quelli rivoltigli.

“Non c’era bisogno che venissi.”

“Già” gli concesse Shinichi, gettando il mozzicone di sigaretta e richiudendo la finestra. “In fondo ti hanno solo quasi ammazzato.”

“Eri preoccupato?” cercò di sorridere, e il gesto gli strappò una smorfia.

“Stai fermo” lo riprese Shinichi, trascinando la sedia della scrivania accanto al letto. “Kazuha-neechan ha faticato, a ricucirti.”

Kazuha-neechan?” bofonchiò, divertito della sorpresa di Shinichi stesso a quel modo confidenziale che ancora ogni tanto gli sfuggiva. “Le abitudini sono dure a morire, ne?”

Kuroba.”

“Ah. Scusa scusarise ancora Kaito, un singhiozzo simile ad un rantolo. Scherzare con Kudo; ripetere quei piccoli bisticci verbali, quelle piccola gare di arguzia e battutine; riscoprire il gioco dei ruoli e delle parti da recitare. La normalità. Era quella normalità che gli conferiva un senso di sicurezza calda, come quiete. Anche se sapeva che Kudo non avrebbe mai ammesso nulla; anche se sapeva che Kudo avrebbe trovato una scusa qualunque per giustificare la sua venuta a Osaka. Anche se sapeva che quello sguardo che gli aveva visto, fugace, l’increspatura di un attimo, non si sarebbe ripetuto. Va bene. Andava bene comunque. Era quello che cercava; quello che voleva. Né pietà né condiscendenza.

“Sto bene” gli rispose all’occhiata perplessa che Kudo gli aveva gettato mentre cercava di sollevarsi meglio contro il cuscino. “Davvero. Dammi alcuni giorni e sarò di nuovo in forma” lo rassicurò ancora, senza che chiedesse. E in fondo più che Shinichi Kaito voleva rassicurare se stesso; realizzare di esserci andato vicino, quella volta. Maledettamente vicino. Scosse la testa. Kuso. Ricordava lo sparo; e il dolore. Ricordava la canna della pistola sotto il riflesso al neon; e parole. Parole urlate. Forse il suo nome forse delle imprecazioni. Poi.

Poi era stata la voce constante di Hakuba che lo costringeva a restare sveglio, la sua mano premuta nella carne e luce. La luce intermittente che lo accecava continuamente. La consapevolezza di un’altra persona. E poi.

Poi era stato il soffitto di una stanza. E Kudo nel tramonto.

“Quando te ne andrai?”

“Non ho intenzione di farlo” lo sorprese Shinichi, giocherellando distrattamente con una penna. “Non per il momento, almeno.”

“È pericoloso” gli ricordò Kaito, abbandonando completamente l’ironia solita.

“Non più che altrove” minimizzò Shinichi, ignorando la sensazione di tensione che ancora non scemava, nonostante la certezza di trovarsi relativamente protetto. Almeno finchè fosse rimasto nascosto in quella casa.

“Penso che non riuscirò a farti cambiare idea. Ne?”

Shinichi gli sorrise appena. No. Non aveva intenzione di andarsene; non subito almeno. Doveva capire cos’era successo. Doveva capire come avessero fatto a prevenire Kuroba e ad aspettarlo al varco. Doveva capire se si trattava di un regolamento di contri all’interno della malavita o se fosse coinvolta direttamente l’Organizzazione. E soprattutto doveva capire perché Kuroba avesse deciso all’improvviso, con un’imprudenza che non gli apparteneva, con una sconsideratezza che mai avrebbe arrischiato. Lui così preciso nei suoi piani; lui che calcolava ogni sorpresa e ogni apparizione per ottenere il massimo effetto.

“È stato un mio errore, Kudo.”

“Non un errore così banale, Kuroba” ragionò a voce alta Shinichi.

“Capita anche ai migliori” scherzò Kaito. “Ho sottovalutato la situazione. Succede.”

“Non a te.”

“Lo prenderò per un complimento.”

Shinichi sospirò. Kuroba non collaborava. Ironizzava, svicolava, scherzava. Cercava di non affrontare l’argomento con la serietà necessaria; cercava di non svelare i suoi trucchi e il perché di quanto successo.

Non lo avevano pianificato, e Kuroba aveva deciso d’impulso. Ma doveva essere un colpo facile. Ma c’era quel buco. Quel buco di dieci minuti fra il furto e il momento in cui Hakuba aveva trovato Kuroba ferito e vicino all’essere arrestato.

E se Kaito Kid aveva ritardato la sua fuga non era per una pianificazione affrettata o uno spiegamento di forze troppo massiccio. Non era nemmeno per l’improvvisa arguzia dell’ispettore Nakamori.

Nakamori. Nakamori non spara. Nakamori non avrebbe mai sparato a Kaito Kid.

Nakamori no. Ma.

“Loro.”

Nani?

“Sono stati loro a sparati. Sono stati loro a sorprenderti” incalzò Shinichi, sporgendosi verso Kaito. “Ho ragione, Kuroba? È con loro che ti sei scontrato.”

“E se fosse?”

Era stata una risposta sgarbata; una risposta sulla difensiva. Una risposta assolutamente non da Kuroba. Shinichi capì di aver colto nel segno; capì di aver scoperto quello che, probabilmente, Hakuba gli avrebbe confermato una volta finiti i rilievi.

Baka” sibilò, e la rabbia e la preoccupazione si fusero in un sussurro simile a un ringhio. “Eravamo d’accordo. Niente iniziative personali. Te lo ricordi? Avevamo detto…”

“…-ko” sussurrò Kaito, stringendo forte le coperte, la fronte bassa.

“Cosa?”

Aoko. Poteva esserci Aoko” singhiozzò senza lacrime, la voce che bruciava la gola.

Shinichi sospirò, lasciandosi cadere sul letto, le mani fra le gambe e la testa all’improvviso pesante. Non riusciva a guardare Kuroba; non voleva scoprire il suo sguardo, la disperazione in quei lineamenti sempre allegri e spensierati. Non voleva rivedere le sue paure e i suoi timori si quel viso tanto sconvolto.

Nakamura-chan è”

“Lo so.”

E fu un urlo strozzato. Furono lacrime inghiottite fra rabbia e incredulità, fra dolore e annientamento.

“Lo so” ripetè più piano, coprendosi gli occhi con una mano. “Lo so. Eppure. Eppure io.”

Shinichi strinse forte le mani.

Avrebbe aspettato. Avrebbe aspettato, osservando la notte avanzare su Osaka.

Avrebbe aspettato, consumando nella cenere di una sigaretta il dolore e il senso di impotenza; il sollievo o forse la rabbia.

Avrebbe aspettato, mentre un pianto silenzioso riempiva il tempo che passava.

 

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Capitolo 3
*** 2. Stanchezza ***


Capitolo 2

Capitolo 2

Hiro

 

 

 

Esiste una stanchezza dell'intelligenza astratta

ed è la più terribile delle stanchezze.

Non è pesante come la stanchezza del corpo,

e non è inquieta come la stanchezza dell'emozione.

 È un peso della consapevolezza del mondo,

 una impossibilità di respirare con l'anima.

Fernando Pessoa

 

 

 

“Se continui così dovrai metterli davvero, gli occhiali.”

Heiji lasciò scorrere la fusuma. La penombra della stanza era appena rischiarata dalle shoji lasciate socchiuse. Si mosse lento, per abituarsi e evitare di urtare qualcosa. Shinichi era seduto contro lo stipite, gli occhi socchiusi e documenti ovunque.

Hakuba lo ha appena inviato” gli disse, porgendogli il fascicolo con il risultato dei rilievi e dell’inchiesta sul furto di quattro giorni prima.

Domo.”

Shinichi lo accettò con un gesto stanco, iniziando a sfogliarlo alla fioca luce che proveniva dall’esterno, stringendo gli occhi arrossati.

“Dovresti riposare” lo riprese Heiji, sedendosi accanto.

“Sì ” minimizzò Shinichi, continuando a sfogliare il dossier. Gli ultimi rilievi effettuati dalla scientifica forse gli avrebbero permesso di comprendere cosa esattamente fosse successo. Confidava nella precisione quasi maniacale del collega, e nella possibilità di ottenere qualche informazione in più da Kuroba se gli avesse parlato con una maggior cognizione dei fatti. Avrebbe anche voluto vedere la scena del furto, certo. Ma era rischioso; decisamente troppo rischioso.

Come lo era essere a Osaka; come lo era restarsene lì, seminascosto da una shoji socchiusa a indovinare il trascorrere delle ore sulla città; ad aspettare un foglio, una parola, una telefonata. Ad aspettare e pensare. Soprattutto pensare.

Kudo.”

Le mani libere all’improvviso e il viso di Hattori a pochi centimetri, fra l’irritato e il preoccupato, furono come cadere. Non se ne era accorto. Né delle parole che doveva avergli rivolto né del fatto che si fosse fermato accanto a lui. Credeva. Credeva che se e fosse andato; credeva che la fusuma fosse stata aperta e chiusa e di trovarsi di nuovo da solo.

Da solo.

“Non hai ascoltato. Giusto?”

“Hm.”

Heiji sospirò massaggiandosi esasperato la testa. Lo conosceva; lo conosceva da anni ormai. E sapeva che quando l’attenzione di Kudo era attratta da un caso, non riusciva a pensare ad altro, non riusciva a concentrarsi su altro. Ma questa volta.

Questa volta era diverso, Heiji lo sapeva. Non era uno dei soliti casi in cui poteva trovarsi coinvolto; uno di quei casi che lo riportavano indietro, a quando era un ragazzino e li risolveva con mille attenzioni e una sottile vena di orgoglio. Quasi un malsano conforto per un ragazzo imprigionato nel corpo di un bambino.

No. Non era nulla di simile. Aveva smesso di essere un gioco da troppo tempo ormai; aveva smesso di essere solo un’indagine alla giornata da troppi anni. E di Shinichi Kudo, del ragazzo incontrato per una sfida d’orgoglio; di un ragazzo smascherato e costretto all’amicizia; di un ragazzo che gli aveva insegnato la determinazione e con cui era cresciuto. Di quel ragazzo restava solo un uomo dal viso troppo scavato e con tanta solitudine dentro.

Haibara è tornata a Tokyo” gli disse, sedendosi sul tatami. “Ha detto di richiamarla se ci fosse bisogno, ma non dovrebbero esserci complicazioni.”

“È stato un rischio. Farla venire qui.”

“Sì. Lo so” sospirò Heiji, socchiudendo maggiormente la fusuma. Nel giardino della casa, il piccolo laghetto mandava riflessi incerti e un refolo freddo muoveva appena le foglie. “Ma l’alternativa era l’ospedale. E lo sai anche tu: sarebbe stato peggio.”

“Non era un rimprovero” soffiò Shinichi, socchiudendo gli occhi e appoggiandosi maggiormente allo stipite alle sue spalle. “Ne abbiamo già parlato. Era la soluzione migliore.”

Hakuba ci raggiungerà domani. In serata” continuò Heiji, studiando di sfuggita l’espressione dell’amico.

“Bene.” Shinichi sollevò pigramente un foglio, socchiudendo gli occhi, come se la debole luce dell’esterno lo infastidisse. “Quando arriverà, vedremo di fare il punto della situazione.”

“E allora dimmi cos’hai.”

“Nulla. Perché?”

Heiji sorrise. Un sorriso sottile, a metà fra lo scherzo e la delusione. Perché faceva male. Faceva male vedere come, dopo tutti quegli anni, dopo quanto condiviso, dopo gli inganni, i sotterfugi, le parole e le promesse, Kudo ancora cercasse di mentirgli.

Faceva male. E faceva rabbia.

Perché era proprio da Kudo indossare sempre quella maschera di forza e sicurezza; era proprio da Kudo cercare di mascherare le proprie paure e le proprie insicurezze. E addossarsi le colpe. Addossarsi la responsabilità per ogni cosa, procedendo senza chiedere né aiuto né appoggio.

“Siamo ancora a questo punto, Kudo?” gli chiese stancamente, stringendo le mani sulle ginocchia.

Quante? Quante volte ancora dovrà costringerlo a quel discorso, per farglielo capire? Quante volte ancora dovranno litigare e arrabbiarsi, perché Kudo accetti semplicemente che è stata una sua scelta, quella di seguirlo in quell’operazione? Quante volte ancora lo vedrà sparire, senza sapere se mai lo rivedrà? Quante volte una chiamata lo farà tremare, nella paura di ascoltare dall’altra parte del ricevitore qualcosa che non vorrebbe mai sentire. Quante volte ancora?

“Sì Hattori. Lo siamo ancora” sospirò Shinichi.

Perché? Perché non voleva capire? Aiutarlo; coprirlo; nasconderlo. Ogni parole; ogni gesto; ogni pensiero. Tutto. Tutto quello che aveva fatto e che avrebbe fatto lo metteva in pericolo. Lo esponeva all’Organizzazione e a possibili, anzi certe, ritorsioni. Non era solo una questione di sicurezza. Per Shinichi il solo pensiero che potessero arrivare a lui attraverso una qualsiasi delle persone che lo conoscevano era un cancro che lo consumava giorno dopo giorno, minuto dopo minuto.

Eppure.

Eppure non ce la faceva. Sapeva che avrebbe dovuto tagliare i ponti con tutto, una volta ritornato adulto. Lo aveva sempre saputo. E non ce l’aveva fatta. Non era riuscito a guardare Ran e dirle addio. Non era riuscito a cancellare il numero di Hattori. Non ce l’aveva fatta.

Qualcosa. Qualcosa dentro di lui glielo aveva impedito; lo aveva costretto ad aggrapparsi con tutte le sue forze a quei pochi numeri imparati a memoria, a quei pochi visi che poteva ricordare con una malinconia confortante.

Non ce l’aveva fatta, a dimenticare. A gettarsi tutto alle spalle e continuare da solo la sua fuga. Non ci era riuscito; e non riusciva a perdonarsi.

Perché ogni telefonata poteva essere una traccia lasciata.

Perché ogni incontro fugace poteva concludersi in una trappola.

Perché ogni volta poteva essere un’ultima volta, e Shinichi viveva nella speranza che, se fosse successo, sarebbe stato per lui e non per loro.

Aho” scattò Heiji, afferrandolo per le spalle e strattonandolo. “Aho. Lo abbiamo deciso insieme, ricordi? Io l’ho deciso. Ti avrei aiutato; avresti sempre potuto contare su di me. Te lo ricordi? Kuso, Kudo. Te lo ricordi o no?”

“Me lo ricordo” soffiò Shinichi, senza riuscire ad alzare la testa. “E ricordo anche che hai rischiato la vita, per me, Hattori.”

“Ma sono vivo. L’ho scampata.”

“Sì. Sei vivo” ne convenne. “Ma la prossima?” gli chiese a bruciapelo, con negli occhi il terrore. Con negli occhi la pazzia di provare di nuovo quella paura, di sentire di nuovo le mani viscide di sangue che non si ferma e la voce graffiare nella gola. Con negli occhi il dolore di essere impotente.

“La prossima volta potresti non farcela” continuò affannato. “Guarda Kuroba. È vivo solo per un colpo di fortuna.”

“Allora cercheremo di avere sempre fortuna” scherzò Heiji, strizzandogli l’occhio in segno di complicità.

“Sono serio, Hattori.”

“Anch’io” gli rispose, e in quel tono. In quel tono più basso e maturo; nella piega del volto e nella presa più salda sulle sue spalle. In quello sguardo all’improvviso più maturo e cinico; in quegli occhi senza ombra di ironia e leggerezza, Shinichi vide l’uomo. Vide l’uomo che gli anni avevano creato. Vide la determinazione e la forza che la vita aveva insegnato ad Hattori. Quel coraggio travestito da leggerezza e ironia che gli aveva fatto scegliere il rischio ad una vita su una sedia a rotelle.

Quasi trasognato, Shinichi afferrò una delle mani di Hattori, ancora ferme sulle sue spalle. È salda. Quella mano non stava tremando. Quella mano c’era sempre stata e prometteva di esserci ancora. Quella mano. La stessa che Hattori gli aveva offerto sotto i ciliegi in fiore, una primavera di aprile. Quando le scuse non avevano parole e il rimorso era un nodo in fondo allo stomaco; quando il sorriso di Hattori era l’ancora davanti al suo corpo immobile su una sedia a rotelle.

È salda. Ed è qui.

Cosa c’era negli occhi di Shinichi? Cos’era quel velo di incredulità, quella punta di sorpresa che li attraversava? Heiji gliel’aveva vista una sola volta, in passato. Sotto i petali d’aprile, quando gli aveva offerto la mano e un perdono che Kudo sembrava incapace di accettare. Quando gli aveva detto mi farò operare. Vedrai: non ti libererai così facilmente di me.

Kudo aveva quello sguardo. Lo sguardo del bambino che era stato; lo sguardo di chi non è bravo con i sentimenti e ha paura di fidarsi. Kudo ha quello sguardo: di quando non ci vuole credere, di potersi fidare. Di quando ha paura che dare fiducia significhi ancora farsi del male.

“Sono serio anch’io, Kudogli ripetè, ricambiando la stretta della mano di Shinichi. “È pericoloso? Lo sapevo già. L’ho sempre saputo. Ma non ti mollo, amico. Hai capito? Non ho alcuna intenzione di farlo. Quindi non chiedermelo mai più. Va bene?”

Shinichi annuì.

C’era la forza, negli occhi di Hattori. O forse la sconsideratezza. C’era il desiderio di trasmettergli quella convinzione; quella volontà che nulla sembrava poter scalfire. C’era l’amicizia. Quell’amicizia che non si era preso né il dolore né la distanza; non era stata piegata dagli attriti né dai pericoli. Quell’amicizia che era cresciuta, fra piccole complicità e passioni affini; quell’alchimia di serietà e ironia che esisteva solo fra loro, ambigua e intricata, eppure così salda.

Come la mano di Hattori.

Sono stanco Hattori. Così stanco” sussurrò Shinichi, premendogli la fronte contro la spalla, quasi a sottolineare con quel gesto così inatteso, così estraneo a Shinichi Kudo, tutta la debolezza di quel momento.

“Dormi un po’, allora.”

“Non mi riferivo a quello.”

“Lo so.”

La risata strozzata che sentì sembrava un singhiozzo. Eppure Heiji avvertì il sollievo. Era la prima volta. Nonostante gli anni passati, era la prima vera volta che Kudo gli parlava così, apertamente, senza maschere e dissimulazione. Era la prima, e Heiji sapeva che probabilmente sarebbe stata anche l’unica volta, in cui Kudo cercava davvero il suo appoggio, il suo aiuto. E si accorse dell’abbandono della testa contro il suo braccio; si accorse della stanchezza di ore passate nel dormiveglia, gli occhi chiusi e la mano alla pistola sotto il cuscino. Realizzò il logorio mentale e fisico di mesi passati in fuga, sempre in allerta, sempre pronto a scappare di nuovo. Vide la solitudine nelle ombre scure sotto gli occhi, nel viso scavato e pallido, nell’abbandono sfinito del corpo di Kudo.

Eppure non si era ancora arreso. Non si sarebbe mai arreso.

C’era una pistola, accanto a Kudo. Quella pistola con cui lo aveva salutato anni prima, quando quella fuga era iniziata. Quella pistola da cui Kudo mai si separava, cosciente del pericolo nascosto in ogni ombra. Quella pistola che Kudo gli aveva affidato, in una notte di pioggia che gli era rimasta impressa nelle ossa e nella memoria. Quella notte in cui aveva capito davvero cosa significasse mettersi contro l’organizzazione. Quella notte che era stato un lampo di dolore azzurro e la prospettiva di perdere tutto con il sangue che se ne andava.

Quella pistola. E l’ossessione di Kudo di non cedere.

“Voglio aprire un’agenzia, Kudo” soffiò ad un tratto Heiji, quando ormai il silenzio era il loro respiro ritmico

“Auguri, allora” biascicò Shinichi dal futon. Era caldo, sotto quelle coperte e la presenza di Hattori accanto alle shoji aveva un che di confortante. Quando Shinichi aveva cercato di congedarlo con una scusa, più per l’imbarazzo che per reale volontà di cacciarlo, Hattori aveva risposto sistemando un futon e chiudendo bene le shoji. Non glielo avrebbe mai chiesto, né Shinichi l avrebbe mai confessato, Heiji lo sapeva; eppure era quello ciò di cui aveva bisogno, in quel momento. Una semplice dormita, sapendo, per una volta, di potersi completamente rilassare, si essere davvero al sicuro.

Era strano. Per quanto Hattori fosse sempre stato pronto ad aiutarlo, avesse sempre fatto di tutto per lui, solo in quel momento Shinichi accettò davvero quell’aiuto semplice e discreto che gli dava: il conforto di un letto e la sicurezza di avere le spalle coperte per alcune ore. Anche se Hattori si era preso un proiettile al suo posto; anche se Hattori aveva rischiato la paralisi a vita per causa sua; anche se Hattori si era fatto operare anche per lui. Nulla sminuiva il debito che Shinichi sapeva avere con Hattori, e nulla glielo fece avvertire, forte e presente e costante, come quel momento.

“Forse non mi sono spiegato” sorrise Heiji nella penombra, continuando il discorso incrociando le mani dietro la testa. “Voglio aprila con te.”

Baka.”

“Lo so” acconsentì. “Non è possibile. Non per il momento. Ma un giorno. Chissà.”

“Un giorno” sussurrò Shinichi, rigirandosi nel letto prima di alzarsi a sedere massaggiandosi la fronte. “Certo che ne hai di idee strane, tu.”

Aveva voglia di ridere. Una voglia che gli premeva nel petto come da troppo tempo non accadeva. La voglia di non avere né pensieri né preoccupazioni; la voglia di aprire gli occhi i trovarsi Ran accanto, di baciarla e fare di nuovo l’amore con lei. L’avrebbe svegliata, e l’avrebbe fatta arrabbiare, ma quel pensiero. Il pensiero di stringerla fra le braccia e poi. E poi immaginare. Immaginare davvero un dopo. Immaginare un’agenzia; una collaborazione. Gli anni, i mesi, i giorni. Immaginare giorni senza dover pianificare le mosse, una vita scandita da un routine fatta di casi, lavoro, famiglia. Una routine in cui l’unico pericolo potesse essere non far arrabbiare Ran perché ritardava con il lavoro. Una vita diversa; una vita senza la paura di essere preso; una vita senza essere braccato.

Hattori gli stava regalando un’illusione; forse un’immagine di un futuro.

Gli stava regalando una certezza cui aggrapparsi, un sogno cui aspirare per impedirgli di cedere. Per non lasciarlo andare nemmeno quando, di nuovo, si fossero trovati lontani.

“Però ti piace. Sa Kudo?”

“Sì” sorrise Shinichi. “Mi piace.”

 

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Capitolo 4
*** Piccolo dizionario ***


PICCOLO DIZIONARIO

PICCOLO DIZIONARIO

 

 

 

Nato dall’unione e dalla rivisitazione del materiale raccolto come documentazione per la fanfic, come già da abitudine in “Un soffio di vita, questo piccolo dizionario, lungi dall’essere esaustivo e completo, vorrebbe offrire un piccolo aiuto interpretativo in relazione all’impiego di termini in giapponese. Senza volontà di offendere chi già possiede una solida base di conoscenze di tali termini, ha invece lo scopo di dissipare eventuali dubbi a chi per la prima volta s’imbattesse in parole dal significato oscuro.

 

 

AVVERTENZA

Per i nomi di persona o di luogo in lingua giapponese, trascritti secondo il sistema Hepburn, le vocali si pronunciano come in italiano e le consonanti come in inglese. In proposito si noti che:

ch è un’affricata come la cdell’italiano "cesto" (p.e. "Chica-chan" va letto "Cicacian")

g è velare come nell’italiano "gatto" (p.e. "Akagi" va letto "Acaghi")

h è sempre aspirata, come nell’inglese “hotel”

j è un’affricata come la gdi "gioco"

s è sorda come nell’italiano“sasso”

sh è una fricativa come scnell’italiano "scelta" (p.e. "sashimi" va letto "sascimi")

w va pronunciata come una umolto rapida

y è consonantico e va letto come la i italiana di“ieri”

z è dolce come nell’italiano“rosa” o “smetto”, o come in “zona” se iniziale o dopo n

La lingua giapponese non conosce i generi maschile e femminile quindi si è liberi di assegnare il genere in base alle regole italiane: si dirà pertanto "la katana", "il tanto". La trascrizione in caratteri europei rende abbastanza fedelmente il suono delle parole giapponesi. In giapponese non esiste quasi l’accento tonico e perciò ogni sillaba ha lo stesso valore; non si deve, quindi, pronunziare katànao katanà, ma kà-tà-nà, senza troppo accentuare l’ultima sillaba poiché, in tal caso, l’orecchio, per sua impostazione, sentirebbe il tutto come se fosse stato detto katana!

Una piccola precisazione. Nella fanfic ho cercato di riprodurre le differenze dialettali e la coloritura linguistica del dialetto di Tokyo e di quello di Osaka. Di conseguenza, Heiji e Shinichi possono adottare espressioni diverse per esprimere la medesima cosa. Nel dizionario sono riportati i termini in entrambi i casi, con il corrispettivo nei due dialetti.

Infine, per alcuni termini o modi di dire si rimanda al blog Hanazakari no mori per una trattazione più esaustiva.

 

A

 

Aho: forma familiare del parlato giovanile per indicare sciocco, stupido. È la forma più comune, variabile a seconda delle regioni e dei dialetti. A Tokyo la forma corrispettiva è Baka, che comunque è utilizzata anche fuori dal Kanto.

 

 

B

 

Baka: forma familiare del parlato giovanile per indicare sciocco, stupido. È la forma più comune, variabile a seconda delle regioni e dei dialetti. Ad Osaka la forma corrispettiva è Aho, che comunque è utilizzata anche fuori dal Kansai.

 

C

 

Chan: suffisso, che si aggiunge al nome di una persona per indicare un linguaggio familiare, usato soprattutto per le ragazze o per gli animali piccoli.

 

D

 

Domo: forma giovanile e molto informale di grazie, al posto del più tradizionale arigato. È un’espressione propria dello slang giovanile, soprattutto maschile.

 

E

 

 

 

F

 

Fusuma: porta scorrevole da interni formata da un’intelaiatura inlegno su cui sono montati pannelli in carta di riso decorati nelle parti “a vista”, scivola sul pavimento mediante delle cabalette disposte in alto e in basso.

 

G

 

 

 

H

 

 

 

I

 

 

 

J

 

 

 

K

 

Kuso: o anche Chikuso è un’imprecazione volgare, ma comune. Il nostro merda, cazzo usato come intercalare nervoso.

 

L

 

 

 

M

 

 

 

N

 

Nani: cosa, il semplice sostantivo usato spesso nelle interrogative.

 

Ne: è un intercalare proprio della lingua giapponese, senza una sua precisa traduzione italiana. Un modo per richiamare l’attenzione o sottolineare un concetto. Potrebbe avvicinarsi al nostro “no” pleonastico con cui spesso vengono chiuse le frasi. Nel dialetto di Osaka la forma corrispettiva è sa.

 

Nee-chan: sorella maggiore. Un altro termine corrispondente è aneki,“nobile sorella maggiore”. É molto importante ricordarsi che in Giappone, fin dall’antichità, l’età è stato un forte fattore sociale, tanto che ogni grado di parentela assume kanji differenti in base a chi lo pronuncia. È inoltre un modo comune dei bambini per rivolgersi a persone più grandi, ma non considerate ancora completamente adulte.

 

O

 

 

 

P

 

 

 

Q

 

 

 

R

 

 

 

S

 

Sa: è un intercalare proprio della lingua giapponese, senza una sua precisa traduzione italiana. Un modo per richiamare l’attenzione o sottolineare un concetto. Potrebbe avvicinarsi al nostro “no” pleonastico con cui spesso vengono chiuse le frasi. Nel dialetto di Tokyo la forma corrispettiva è ne.

 

Shoji: porta scorrevole che separa l’interno dall’esterno della casa, costituita da un graticcio di legno rivestito con carta di riso.

 

T

 

 

 

U

 

 

 

V

 

 

 

W

 

 

 

X

 

 

 

Y

 

 

 

Z

 

 

 

 

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