Quando gli occhi mentono

di That_Lady
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 0. ***
Capitolo 3: *** 0.5 - Memoria di un incontro ***
Capitolo 4: *** 1. ***
Capitolo 5: *** 1.5 - Festa di compleanno ***
Capitolo 6: *** 2. ***
Capitolo 7: *** 2.5 - Un incarico ***
Capitolo 8: *** 3. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

Quando gli occhi mentono

 

Prologo

Amanda Hillbarns aveva diciotto anni.

Frequentava l’ultimo anno alla Frederick Douglass High School, situata una quindicina di chilometri a nord-ovest da Atlanta, in Georgia. Era alta attorno al metro e settanta, lunghi capelli tra il biondo e il castano, la pelle di un bel colore bronzeo e gli occhi nocciola.
Era stata reginetta della scuola per tre anni di seguito e sempre tra le ragazze più popolari dell’istituto. Una ragazza pon-pon di alto livello, una brillante studentessa con una grande passione per la musica che coltivava fin dall’infanzia con il suo amato violino. Aveva anche vinto una borsa di studio alla Columbia.
Il padre è avvocato, mentre la madre una dottoressa all’ospedale del nostro paese.
La sorella maggiore, Eveline, ha finito da poco gli studi per diventare infermiera.

Questi sono i pensieri che la maggior parte delle persone che mi circondano hanno in questo momento.
Era una ragazza fantastica, ma in pochi la conoscevano realmente. Aveva molti amici, ma pochi di cui si fidava sul serio. Questo è ciò che io penso.

Amanda Hillbarns era una persona speciale e superdotata.

Ma ora è morta.

Io l’ho uccisa.

Mi chiamo Natalie Jones e ho diciotto anni. Ero la migliore amica di Amanda Hillbarns, e questo è il suo funerale.

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Capitolo 2
*** 0. ***


 

0.

Oggi dovrebbe essere, per me, uno di quei giorni in cui la gente è solita ripetersi mille volte che non dimenticherà mai nella sua intera vita.

Beh, non per me. O almeno non per il motivo per cui tutti lo ricorderanno.

Io lo ricorderò solamente come una giornata immensamente lunga e stancante e non quella in cui hanno seppellito la mia migliore amica.

Ho sempre odiato Amanda.

Non per invidia, non invidiavo la sua popolarità e la naturalezza con cui faceva qualsiasi cosa.

Odiavo la sua falsità. Il modo in cui si mostrava agli altri, altri che non erano me.

Perché la reginetta scolastica non era altro che una falsa impostora, e io lo sapevo meglio di chiunque altro. Lo avevo sperimentato su la mia stessa pelle. Giorno dopo giorno da quando ci siamo conosciute, quindici anni fa.

Mi stendo sul letto e fisso il soffitto.

Non mi sento spaventata o sconvolta, ma nemmeno del tutto tranquilla.

C’è qualcosa di strano in me, qualcosa che non riesco a spiegarmi. Una sensazione diversa, nuova.

Non sono sicura che si tratti di rimpianto. In fondo, posso benissimo non essere stata io la colpevole. La polizia non ha prove, nessuna. Non sono nemmeno una lontana sospettata.

Alla fine, il mio ruolo l’ho recitato bene, e di sicuro ho avuto un’ottima insegnante.

Getto le scarpe a caso per terra e mi infilo sotto le coperte, ma solo dopo essermi strappata di dosso l’orribile vestito nero.

Lo lancio in un angolo della stanza e mi accoccolo sotto il piumone beige rapida.

Non mi addormento subito. Da tre notti, oramai, rimango immobile nel buio della mia camera per ore, ad ascoltare il mio cuore e a cercare di ricordare se quello di Amanda, quando dormiva qui con me, aveva lo stesso battito.

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Capitolo 3
*** 0.5 - Memoria di un incontro ***


 

0.5 - Memoria di un incontro

 

Il giorno in cui conobbi Amanda Hillbarns, si mostrò fin dall’inizio uno di quei giorni in cui tutto sarebbe andato male.

Era il primo giorno d’asilo, per me, e cominciò con il ritrovamento del cadavere del mio gatto, Elliot, a una cinquantina di metri da casa nostra.

Era stato investito  e nessuno l’aveva spostato fino alle 8.45 di quella mattina quando io uscì, inizialmente allegra, per il mio primo giorno d’asilo.

Quando arrivai all’entrata, incrociammo una donna con delle scarpe nere lucide e tacchi da capogiro, che teneva per mano una bambina con un vestitino azzurro e un cappello di quelli apparentemente fatti di paglia, ed era intenta a chiacchierare animatamente con l’insegnante.

Non passò molto prima che facessi la conoscenza dell’altra mia coetanea, perché non appena passammo di fronte a loro, lei mi sorrise raggiante, -piacere. Io sono Amanda Hillbarns- si staccò dalla madre e mi afferrò per un braccio. –Sono proprio felice che hai deciso di diventare mia amica, e ora ho proprio bisogno di qualcuno con cui parlare, sai… Mentre venivamo un brutto gattaccio grigio si è messo sulla nostra strada. La mia mamma ha preso un colpo, ma fortunatamente ora stiamo bene-, mi guardava con quegli grandi occhi nocciola, mentre con una mano si accarezzava il dorso dell’altra.

-Mi chiedo chi siano quei matti che lascino un gatto randagio solo per le strade del paese…-

Smisi di ascoltarla e mi voltai dall’altro lato. Quello non era un gattaccio randagio. Era il mio piccolo Elliot. E quella bambina l’aveva appena ucciso.

Volevo andarmene, ma lei non mi lasciava il braccio.

Mi ricordo che sorrise alle nostre mamme e a Samantha, la nostra maestra, poi mi trascinò dentro.

Non mi chiese il nome, e non lo fece per i seguenti quattro o cinque anni, appioppandomene uno ogni volta che mi afferrava per il braccio al mattino, finché non le regalarono un cellulare e si accorse che le serviva uno fisso per salvare il mio numero.

Quando rientrai a casa, quel pomeriggio, mi chiusi in camera e scoppiai in un interrotto pianto per ore.

Quando mia madre entrò, promettendomi che mi avrebbe comprato un altro gatto il più possibile simile a Elliot -il mio Elliot- le urlai di uscire lanciando il mio bambolotto preferito contro le specchio, che finì in frantumi, regalandomi sette lunghi anni di sfortuna.

Che poi, diciamo, raddoppiarono.

Chissà se ora che la causa di tutto ciò non c’è più, sia sparita anche la sfortuna con essa.

 

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Capitolo 4
*** 1. ***


(Ho visto che con quel carattere usciva troppo piccolo, perciò ho cambiato! Buona lettura…)

 

1.

Lunedì. Caro diario…

È  il primo giorno dopo il funerale di Amanda. Il terzo dal ritrovamento del corpo, ed il quarto da quello in cui l’ho uccisa.

 

È lunedì mattina, e mia madre dopo un intero semestre in cui mi ha costretto ad usare l’autobus scolastico, si è offerta di darmi un passaggio a scuola.

Già così, sembra un buon inizio. Forse la sfortuna comincia a sparire sul serio.

Peccato però, che non sia sparita ovunque: la scuola è completamente in lutto.

I corridoi sono silenziosi, e gli studenti bisbigliano come se non volessero svegliare il loro vicino di banco.

La partita della squadra di basket di questo pomeriggio è stata annullata, e così anche quelle di rugby e baseball del resto della settimana.

A pranzo mi siedo vicino a Chelsea, una ragazza pon-pon finita (come me) nel circolo di Amanda, anche se non pareva le dispiacesse più di tanto.  

-Ciao- la saluto. 

Lei accenna appena un movimento del capo nella mia direzione, -ciao…- risponde.

La squadro per un istante, poi prendo posto e comincio a mangiare.

Poco dopo ci raggiungono altre quattro ragazze, sempre della squadra, assieme a Michael, Tyler e Rob. Tre giocatori della squadra di basket.

-Salve- ci saluta Rob, mentre gli altri non fiatano.

Sento salire il nervoso.

Traggo un profondo respiro, -fate qualcosa questo pomeriggio?- Chiedo poi.

Chelsea si volta a guardarmi un istante, mentre gli altri fissano i loro piatti silenziosi. -Penso che me ne starò a casa. Devo studiare per il test di settimana prossima- risponde alla fine la ragazza, lanciando un’occhiatina veloce agli altri.

Annuisco e mi alzò senza aver praticamente toccato cibo.  -D’accordo. Ci vediamo a lezione…- Mi allontano rapida, stringendo le mani sul vassoio.

Vorrei prendere a pugni ogni viso che mi compare davanti. Ogni occhiata compassionevole delle mezzecartucce del primo e secondo anno.

Serro la mascella, abbandono il vassoio ed esco dalla mensa.

Le ore pomeridiane sono come un masso di pietra enorme che mi cade in testa molto lentamente. Sento il peso della noia e della stanchezza schiacciarmi pian piano, finché suona l’ultima campanella.

Mia madre ha parcheggiato in uno dei primi posti vuoti appena all’uscita della scuola e mi sorride benevola quando mi vede. –Ciao tesoro, com’è andata?-

La mia risposta è secca e senza mezzi termini. Dopo averla accontentata mi volto a fissare le case che spariscono rapide oltre il vetro del finestrino. Le persone che camminano spensierate e allegre, i bambini che tornano a casa tenendosi per mano, saltando e raccontando la loro fantastica giornata scolastica ai genitori, che li guardano con un largo sorriso in volto.
Di colpo mi ritrovo a pensare se nella mia memoria ci sia il ricordo di un’immagine simile a questa, e mentre la macchina svolta nel vicolo di casa nostra, sento la risposta picchiettarmi ben chiara contro la tempia.

Scendo dall’auto ed entro in casa senza fare troppe cerimonie.

Afferro una mela dal bancone e un succo dal frigo, accenno un rapido gesto verso mia madre e salgo in camera.

No.

Non ho un passato nemmeno lontanamente simile a quello.

Ma Amanda sì. O almeno ce l’aveva.

 

 

---Commenti? Accetto anche critiche tranquilli!---

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Capitolo 5
*** 1.5 - Festa di compleanno ***


 

1.5 - Festa di compleanno

 

La prima volta che Amanda mi invitò al suo compleanno rimasi completamente senza parole alla vista del luogo in cui lei era nata e in cui stava felicemente crescendo.

Il grande giardino era decorato in maniera a dir poco esagerata. Vi erano una cinquantina di invitati. Bambini di età compresa tra i cinque e i sette o otto anni.

Da un lato vedevi i figli dei compagni di lavoro del padre e della madre, tutti in giacca e cravatta o, per le bambine,  agghindate e con vestitini di seta color panna o rosa.

Dall’altro lato, ben distanti dai primi, vi erano i compagni dell’asilo, quelli di grado più basso.

Bambini in jeans o semplice tuta e una maglietta a maniche corte a cui bastava divertirsi e mangiare il più  numero possibile di caramelle o altri dolciumi.

L’immensa piramide di regali regnava al centro del tutto. In mezzo potevi intravederne qualcuno già scartato; come la grande casa delle barbie che io per prima desideravo da tanto, un pupazzo-pony gigantesco, una bici nuova e altro che ora mi sfugge.

Il signor e la signora Hillbarns non si allontanarono da lei nemmeno un istante, compiacendola in ogni suo mezzo capriccio.

La vedevo sorridere, stringere i denti e ordinare con voce gentile qualsiasi cosa le passasse per la testa al momento.

Era il suo compleanno, infondo doveva essere accontentata.

Mi ricordo che mi prese per mano, con quel mio vestito azzuro, e mi presentò alla “prima classe” come la sua –più cara amica-. Poi si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia.

Ricordo le risate degli altri genitori. Le occhiate sbigottite degli altri bambini.

E ricordo il suo sguardo freddo, diretto ed esigente che ordinava silenziosamente dì non osare a controbattere.

Ricordo che mi tenne stretta a sé per tutto il pomeriggio; che il suo cane mi saltò addosso sporcandomi tutto il vestito e fui costretta a farmene prestare uno da lei.

Ricordo che quella sera mi strappai l’abito di dosso e scoppiai in un pianto interrotto, come accadeva spesso in quel periodo.

Odiavo Amanda Hillbarns. La sua casa perfetta, la sua famiglia perfetta. Odiavo la sua perfezione.

Ma soprattutto, odiavo ciò che a causa sua ero arrivata a fare.

 

 

Prendo in considerazione l’idea di mettere da parte i ricordi per un po’, mentre afferro il libro di algebra con l’intenzione di mettermi a studiare.

Di colpo mi accorgo che non ho nulla da fare. Fisso il libro aperto ad una pagina a caso di fronte a me, poi mi allungo sulla scrivania e  sfoglio il diario.

Nulla.

Sbigottita lo richiudo e prendo in mano il Black Berry, ho già intenzione di farmi regalare un cellulare nuovo, il momento in cui ho aperto il regalo di compleanno da parte di Amanda quattro mesi fa, ritrovandomi questo marchingegno identico al suo, è vivido come tutti gli altri passati in sua compagnia; per mia sfortuna. Ma voglio fare di tutto perché lei sparisca dalla mia vita, e liberarmi di questo dannato telefono, giusto per cominciare, non è una poi così brutta idea.

-Natalie? Natalie, ci sei?-

Scrollo il capo e mi affretto a rimettere in ordine i pensieri –ehi, Chels, senti-, mi passo una mano sulla fronte cercando di ricordarmi perché l’avessi chiamata.

Ah, giusto. Algebra.

-Volevo sapere i compiti di Mr York per domani, devo essermi dimenticata di segnarli…-

In un primo momento penso sia caduta la linea, poi sento un mezzo respiro dal lato opposto della ricezione, -Chels?-

-Sì, ci sono. È che Mr York non ci ha assegnato nulla per domani-, sembra titubante.

Picchietto con la penna sul legno scuro della scrivania, -sei sicura? Mi sembra strano…- Sembra sul serio che la fortuna sia finalmente a mio favore, accenno a un sorriso tra me e me.

-Sì…- Bisbiglia lei.

Annuisco, -d’accordo, allora che mi dici di chimica? Mrs Davson dovrebbe averci lasciato qualcosa in preparazione al test di settimana prossima-.

Chelsea sembra gemere, -Nat, senti, mi dispiace ma…- Non termina la frase, e questo mi da molto fastidio. Mi irrigidisco sulla sedia, -per cosa ti dispiace?-

Sospira, -nessuno ci ha assegnato compiti per domani, Nat- conclude rapidamente.

Sento la fronte corrugarsi, cosa c’è da dispiacersi?

-Nat, posso chiederti una cosa?-

-Certo Chels, di che si tratta?- Cosa c’è che non va? Sono confusa.

-Puoi dirmi cosa abbiamo fatto le prime tre ore questa mattina?-

Ora sono sicura che è impazzita, -‘sta mattina?- Chiedo stupita.

-Sì, Nat, ‘sta mattina…-

Sbatto le ciglia, mi raddrizzo sulla sedia e lancio un’occhiata all’orario sul diario, -chimica, inglese e algebra- rispondo poi.

Non sento la risposta. -C’è qualcosa che non va?- Le chiedo allora.

Sospira, nuovamente: -sì Nat. C’è qualcosa che non va-.

Sento del ghiaccio attorno a me, come se la temperatura nella stanza fosse scesa a meno dieci gradi Celsius.

-Non abbiamo fatto chimica questa mattina, né inglese, né algebra. Eravamo tutti nella sala delle cerimonie, abbiamo passato lì tre ore in onore di Amanda, ed eri seduta alla mia sinistra-.
Rimango in silenzio. Non è vero. Non può  essere vero.

Sento qualcuno fare il mio nome e mi alzo dalla sedia, -scusa Chels, devo andare-. Non aspetto una risposta e riattacco.

Entro nel bagno e mi risciacquo più volte il viso, poi mi guardo allo specchio.

Niente.

Vuoto totale. Non mi ricordo mezzo minuto della cerimonia di quella mattina. Eppure ero lì.

Com’è possibile?

Sollevò le mani dal lavandino e ritorno in stanza; sopra il comò la sveglia segna le 00.01.

Trattengo il respiro per mezzo minuto, poi afferro lo zaino e vi butto dentro la roba per il giorno seguente.

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Capitolo 6
*** 2. ***


 

---Eccovi un nuovo capitolo! Siccome sono nuova in questo sito, vorrei sapere cosa ne pensate del mio modo di scrivere (: Fatemi sapere… Grazie e buona lettura!---

 

2.

 

-Nat-, mi volto, incontrando il sorriso indeciso di Chelsea.

Torno a concentrarmi su ciò che stavo facendo e finisco di tirare fuori i libri e quaderni per le tre ore successive. –Ciao Chels- borbotto chiudendo l’anta dell’armadietto.

Lei fa un mezzo passo indietro ma non smette di fissarmi, -è tutto a posto?- Chiede con un filo di voce.

La guardo, sollevando le sopracciglia, sono ancora su di giri per il comportamento della squadra poco fa nella mensa ma non pensavo di averlo dato tanto a vedere. Quel che so per certo, è che Chelsea non si era mai avvicinata prima per chiedermi come mi sentivo.

-Sì, tutto a posto, perché?- Mi avvio lungo il corridoio e lei mi segue.

-Mi sembri… Diversa. Sei scontrosa, distratta, non parli con nessuno. Se ce qualcosa che posso fare per te…?-  

Smetto di camminare e la guardo fissa. Non so di cosa stia parlando, non capisco da dove tira fuori queste idee e non so nemmeno cosa risponderle.

-Dico sul serio Chels, sto bene-.

Lei annuisce e abbassa per un istante la testa. -È che avevo cominciato a preoccuparmi, dopo la nostra chiacchierata di ieri…-

Non ricordo di aver parlato con Chelsea durante il funerale.

Scuoto il capo, -non c’è nulla di cui preoccuparsi-. Le sorrido per mezzo secondo prima di allontanarmi.

La voce di Chelsea mi raggiunge comunque, -io ed Elen siamo da Clair questo pomeriggio, ti unisci a noi?-

Sento ogni singolo muscolo del corpo irrigidirsi, la guardo, -pensavo aveste tutti troppo da fare, oggi pomeriggio…-

Chelsea sbatte le palpebre e per un istante mi sembra di intravedere la paura nei suoi occhi.

-Prima, in mensa, avete detto che…- Cerco di convincerla; ma lei scuote appena la testa e fa per aprire bocca.

Mi volto e mi allontano con passo rapido, il cuore mi batte forte nel petto, riesco a sentirne il rimbombo nella testa. Ho la gola secca.

Sto scappando, ma da cosa?

Sapevo cosa Chelsea stesse per dirmi, l’avevo capito subito dopo aver incrociato il suo sguardo sperduto in risposta alla mia mezza domanda.

-Non eri seduta con noi in mensa, Nat…-

Spalanco la porta del bagno, stringo le mani ai lati della tavoletta e dò di stomaco.

 

Sto camminando lungo i corridoi deserti della scuola, sola, mentre penso a cosa è successo.

A cosa sta succedendo.

Chiudo gli occhi, la schiena contro la parete, e cerco di mettere in chiaro le idee.

Tanto per cominciare, che giorno è oggi, Nat?   Lunedì.

E che materie hai avuto al mattino?  Chimica, inglese, algebra e due ore di arte.

Sento qualcosa contorcersi nello stomaco.
Apro gli occhi e mi avvicino ad un aula, sbircio dalla finestrella della porta la lavagna e fisso la data segnata col gesso bianco in cima a destra.

Giovedì 20 Settembre 2012.

Serro gli occhi all’istante e mi allontano di qualche passo.

Non può essere.

Stringo le mani a pugno  lungo i fianchi. Ho il corpo percosso da spasmi che non riesco a controllare, finché non sento le fredde mattonelle del pavimento sotto la testa, e ogni cosa intorno a me perde consistenza.

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Capitolo 7
*** 2.5 - Un incarico ***


2.5 – Un incarico

Avevo quattro anni e mezzo, quando portai a termine il primo vero incarico per Amanda Hillbarns.

Fu terribile.

Ero piccola, eravamo piccole, eppure lei non lo sembrava affatto.

Mi ricordo ancora ora il suo sguardo freddo ed esigente. Il modo diretto in cui spartiva gli ordini, ed il modo in cui io li eseguivo senza fiatare, a capo chino, per compiacerla.

-Natasha non mi piace-, mi disse.

La guardai, mentre finivo di infilare il vestito rosa alla barbie. Kent la stava aspettando sull’auto bianca fuori dalla loro villetta, doveva sbrigarsi.

-A me sì- risposi mentre facevo scendere le scale alla bambola e aiutavo Kent ad aprirle la portiera.

Amanda mi fissava, sentivo il suo sguardo di fuoco bruciarmi la pelle sopra la nuca, da dove mi osservava da dieci minuti buoni.

-Beh, non importa- tagliò corto lei.

Tornai a guardarla, confusa, -cosa c’è di male in Natasha? È sempre simpatica e gentile con tutti, mi ha anche regalato un braccialetto, guarda!- Sorridente le mostrai il bracciale di perline azzurre che mi aveva regalato qualche giorno prima.

Amanda fece una smorfia, mi afferrò il polso e strappò il braccialetto. Le perline finirono ovunque in giro per la stanza.

Mi fece segno di tacere.

Trattenni a stento le lacrime, la guardai, mi sentivo tradita. –Perché l’hai fatto?- Balbettai.

Lei sorrise, poi lasciò cadere il filo e chiamò a gran voce il nome di Natasha. Fece un passo avanti e mi spinse.

Il mio piede scivolò su alcune perline e poco dopo mi ritrovai a fissare il soffitto. Piangevo, la testa mi faceva male.

Sentì la maestra accorrere, e quando mi prese in braccio chiedendomi cosa fosse successo, non aspettai ad indicare con rabbia la persona in piedi di fronte a me, urlando ciò che mi aveva fatto con il viso inondato dalle lacrime.

Ma Amanda  non c’era, e non era lei la bambina a fissarmi con gli occhi spalancati dalla paura e il filo del braccialetto in mano.

L’altra educatrice afferrò Natasha e la trascinò nella stanza della punizione, prima di dirigersi a chiamare i genitori dallo studio.

Quando uscì dall’infermeria, Amanda mi si avvicinò con un largo sorriso sul volto. Mi prese la mano e vi infilò un bracciale con le perline bianche.

-Ottimo lavoro, amica- mi sussurrò all’orecchio.

 

-

 

-Cos’è successo Mr York?-

-L’abbiamo trovata a terra a pochi metri dall’aula di biologia dopo la fine dell’ora. Dev’essere svenuta-.

-Signorina, mi sente?-.

Sì che vi sento…

Lentamente apro gli occhi. Sopra di me ci sono tre teste a fissarmi preoccupate, e ne noto una quarta poco più in là.

-Oh tesoro!- Mia madre mi accarezza la fronte preoccupata. Cosa ci fa lei qui?

-Ciao, mamma…-

-Si ricorda cos’è successo, signorina Jones?-

Mi metto seduta sul lettino dell’infermeria e guardo i due docenti, mia madre e la signora Hastings fissarmi di rimando.

Poi ricordo.

-Che giorno è?- Chiedo di getto.

Mr York sbatte le palpebre, riesco a vedere lo stupore negli occhi di tutti i presenti

-È martedì 25 Settembre, cara…-  Risponde l’infermiera.

Sposto lo sguardo sulla donna in camice bianco che mi ha risposto,  la signora Hastings, e non riesco a fare a meno di ricordare quella volta in cui ho accompagnato Amanda proprio in questa stanza perché si era rivelata allergica ad una sostanza che stavamo utilizzando in laboratorio.

Soltanto quel pomeriggio scoprii che era una messa in scena da lei organizzata in modo a dir poco impeccabile.

Chiudo gli occhi, -martedì?- domando con un filo di voce.

Non sento la risposta, così scendo da letto, -Signor York, è un problema si torno a casa?- Chiedo seccamente.

Quando metto piede in salotto, mia madre non aspetta a dare il via al suo infinito interrogatorio.

-Sto bene- sbotto la quarta volta che mi chiede cosa sento. -Mamma dico sul serio. Ero senza pranzo, ero stanca, stressata… Voglio solo andare a riposarmi un po’-.

Lei mi fissa, poi annuisce. –D’accordo, allora ti porto il tè di sopra tra poco-.

Evitò di controbattere e salgo in camera.

 

 

Martedì. Caro diario…

È  il secondo giorno dopo il funerale di Amanda. Il quarto dal ritrovamento del corpo, ed il quinto da quello in cui l’ho uccisa.

 

È l’unico modo che ho per distinguere la follia dalla vita reale.


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Capitolo 8
*** 3. ***


 

3.

Giovedì. Caro diario…

È  il quarto giorno dopo il funerale di Amanda. Il sesto dal ritrovamento del corpo, ed il settimo da quello in cui l’ho uccisa.

 

Una settimana, ecco quanto è passato dall’ultima volta che ho visto Amanda. Eppure è curioso, perché sono in piedi di fronte a lei, in questo momento.

È freddo, e forse è colpa mia dato che sono uscita alle cinque del mattino in maniche corte.

Ieri non mi sono presentata alle lezioni, avevo bisogno di rimettere in ordine i pensieri, avevo cominciato a perdere la cognizione del tempo, ma sento di stare già migliorando.

Osservo silenziosa la lapide in marmo e rileggo per la decima volta la scritta incisa in un corsivo ordinato: -Amanda Hillbarns, adorata figlia, brillante studentessa, cara e fidata amica-.

Un lieve sorriso mi sale alle labbra. Allungò il braccio e sfioro le ultime parole con la punta delle dita. Cara, non ricordo di aver mai trovato Amanda cara, come già ho dimostrato, e tantomeno fidata…

 

-È lui?- Amanda mi strinse il braccio con forza.

-Ahi!- spalancai gli occhi e mi voltai di scatto a guardarla, -posso sapere che diamine ti prende?!-

Lei alzò il mento senza allentare la presa, -attenta a come ti rivolgi a me, Jones-. Mi rifererì in un sussurro.

M’irrigidii, ma senza fiatare.

D’un tratto sorrise, mi lasciò andare e mi prese a braccetto, -volevo sapere, se il giovane fortunato è Mitch Holmes-. Agitò la mano lanciandomi un’occhiatina complice.

Spostai lo sguardo, sentivo il cuore accelerare i battiti. Non avevo intenzione di confidarmi con lei.

-Natalie…- canticchiò.

-Amanda smettila, non è vero niente. Lo sappiamo bene entrambe che Mitch è…- Non so come concludere la frase, perché non so cosa dire di lui, se non che è maledettamente carino.

-È…?- M’incalza lei.

Sto per cominciare a tremare. Il suo tono di voce è calmo, pacato, ma allo stesso tempo terrorizzante.

-Avanti Nat, ci conosciamo da una vita, sai di poterti confidare con me…-

Certo…

-Te lo ripeto per l’ultima volta, Amanda. Non mi importa nulla di quello là. È un completo idiota-.

Amanda scoppiò a ridere, -sono d’accorda con te, Nat, ma c’è qualcos’altro che lui è, prima di idiota…Ovvero: non è adatto a te-.

La fisso impassibile, cercando di capire dove vuole arrivare. Lei mi trascina per qualche metro così che io potessi vederlo bene.

-Guardalo, Nat, è alto, occhi chiari, uno dei migliori giocatori di basket dell’istituto, non gli importa niente della scuola, e si porta a letto una ragazza a sera…-

Questa volta fui io ad alzare il mento ma, come altre volte, si rivelò una pessima idea; -e quale sarebbe il suo tipo, esattamente… Tu?-

Mi guardò fisso prima di portarmi vicino al gruppo. Sentivo le gambe tremarmi mentre la seguivo.

Quando ormai eravamo al centro della pista da ballo di casa Holmes, lei mi liberò del tutto della sua ferrea presa.

Si allontanò, lasciandomi sola in mezzo alla folla.

Raggiunse Mitch, gli sussurrò qualcosa all’orecchio prima di indicarmi.

Lui alzò lo sguardo su di me, sorrise, poi si voltò verso Amanda, lasciò il bicchiere di birra ad un passante e le prese il viso tra le mani. Mi girò la testa mentre guardavo le loro labbra muoversi insieme, la mano di lui palparla ovunque e lei avvinghiarsi alle sue spalle e premergli contro come se si dissetasse con quel bacio.

Di colpo lei si staccò, gli accarezzò una guancia e tornò verso di me.

Quando mi passò accanto mi sfiorò la mano, -hai ancora dubbi, Natalie?- Incrociò le dita alle mie alla mia, -tu sei mia, Nat, mettitelo in testa. Sei mia perché io ti sopporto, sei mia perché io posso farti come voglio; senza di me, tu, non sei nulla-.

 

Allontano la mano dalla lapide.

Momenti come questo sono ancora ben fissi nella mia mente, ma sono consolata al pensiero che d’ora in poi non accadrà più nulla di simile.

Non c’è più, mi ripeto.

Alzò il mento, proprio come faceva lei: no che non ci sei più, ti ho uccisa con le mie stesse mani.

Mi abbasso, afferro un pungo di terra e lo scaglio contro il suo nome inciso nel marmo freddo.

‘Possa tu riposare in pace’, aveva detto il parroco.

-Possa tu bruciare all’inferno-, sibilo allontanandomi.

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