Il Delitto Svelato

di Orient_Express
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


Istruzioni per l'uso


La narrazione procede attraverso l'alternarsi di quattro voci narranti, ognuna in prima persona: sono consapevole del fatto che non sia esattamente d'immediata compresione!
Sperando che possa essere d'aiuto, ho deciso d'impaginarla in modo tale che due personaggi (Andrés, Rafael) utilizzino l'allineato a sinistra e gli altri due (Juan, Diego) utilizzino l'allineato a destra. Il punto di vista passa dall'uno all'altro con un "a capo", uno spazio bianco, mentre i tre asterischi sono utilizzati per segnalare il cambio-scena.
La storia si divide in tre capitoli, piuttosto lunghi, ma molto "ariosi": la pagina è più bianca che nera... Tutto ciò che qui può risultare ancora oscuro sarà chiarissimo alla fine del secondo capitolo.
Alla fine del terzo capitolo troverete qualche altra parola, considerazione, 
ringraziamento.

Come segnalato nell'anteprima, questa storia ha partecipato al contest "Le sfumature del dolore" di phoenix_esmeralda con il prompt "tradimento" (filo conduttore dell'intero racconto) aggiudicandosi la prima posizione, successo assolutamente inaspettato che mi riempie di gioia e di orgoglio!

Ringrazio phoenix_esmeralda, per aver indetto questo bel contest, e chiunque vorrà fermarsi a leggere. Auguro a tutti una buona lettura, spero di cuore che apprezzerete!

-R.



 

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I
Giovedì 24 maggio

La giostra è inarrestabile.

 

L’hai tirata così tanto, che si è spezzata.
È tanto grave se un gay diserta le lezioni del pomeriggio per andare a trovare a casa un altro gay, quando tutti e due stanno ormai rinunciando a tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva?
E se il primo gay lo fa all’insaputa del proprio fidanzato pure gay, ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso?
Perché suona tanto come un tradimento?
Cammino sul marciapiede a testa bassa, in modo automatico, quasi meccanico, osservo intensamente la punta delle mie scarpe in tela, che entrano ed escono dal mio campo visivo a ritmo regolare, cadenzato.
In testa ho solo un indirizzo, un indirizzo e mille frammenti di un passato felice che mi chiedo che fine abbia fatto.
E un migliaio di pensieri vorticosi e aggrovigliati da cui non riesco a trarre alcuna conclusione.
L’indirizzo è quello di Diego.
E Diego è anche il soggetto di quasi tutti i miei pensieri.
Diego che ho chiamato dopo la litigata furiosa con Juan, no, dopo la pioggia acida di parole che Juan mi ha sputato addosso, ognuna bruciante sull’orgoglio come piccole schegge infuocate, 
Diego che ha ascoltato i miei sfoghi al telefono alle undici di sera, 
Diego che non sapeva cosa dire, 
Diego che non ha riattaccato anche se non sapeva cosa dire, 
Diego che ha aspettato in silenzio al telefono ascoltando il mio respiro, 
Diego che mi ha detto vediamoci con la sua voce che quella sera mi è sembrata così calda,
Diego che mi ha lasciato l’indirizzo, 
Diego che mi aspetta in casa propria, 
Diego che non si vergogna di quello che è, 
Diego che non lo nega, 
Diego che mi capisce, 
Diego che mi è vicino, 
Diego che ha dignità, 
Diego che ha coraggio, 
Diego che è un vero uomo, 
Diego e le sue spalle, 
Diego e le sue mani belle, 
Diego e il pomo d’Adamo, 
Diego e la pelle scura, 
Diego e… e il suo…
Diego che è nella testa, 
Diego in ogni pensiero, 
Diego nella pancia dietro l’ombelico dove le farfalle si alzano in volo e sembrano non lasciarmi respirare, 
Diego in ogni battito del cuore, 
Diego e il tradimento cerebrale che è all’inizio di ogni tradimento vero, che è già tradimento vero, 
Diego e la paura, 
Diego e il senso di colpa, 
Diego e il desiderio di fare male, 
Diego e il desiderio.
Mi blocco.
Ho sbagliato strada.

***

Non sono più un dipendente modello.
Chiedere due giorni di ferie nella stessa settimana e nessuno dei due per malattia è più di quanto il mio amor proprio possa sopportare; e che il secondo sia per Juan, adesso, mi sembra quasi naturale.
Non ci provo neanche più a raccontarmi la bella favola del dipendente modello, del fidanzato perfetto che non sono mai stato ma che in fondo fino all’ultimo speravo di poter essere. 
In caduta libera. 
Ho perso la bussola.
Il castello di carte si sta sfaldando davanti ai miei occhi e la verità inizia ad emergere in trasparenza sotto i giorni di menzogne, sotto il loro trucco sbavato. La bella favola è diventata una parata in maschera grottesca e patetica a cui non credo più nemmeno io.
Nessuno è così bravo a mentire a se stesso.
Fisso a lungo il legno della porta, la targhetta con il suo nome sul campanello.
Rafael Rodríguez, a caratteri stampati sulla stessa targhetta, sotto il suo nome, mi urla in faccia l’intimità violata di cui sto rubando il calore e l’energia, l’intimità che sto infettando con la mia presenza immorale, illegale, con il mio dolore indecente e la mia patetica ricerca di… qualcosa…
Non lo so bene, di cosa.
Di calore, probabilmente.
Ricerco una connessione.
Premo con forza il campanello, mi preparo ad entrare nella terra proibita.

***

«Vieni, entra pure!»
«È permesso…?»
«Entra, entra, benvenuto!»
«Ciao!»
«Come stai?»
«Bene, scusa il ritardo…»
«L’hai trovata bene, casa?»
«Mi sono perso…»
«Ah!»

Diego scoppia a ridere.

«Forse ti ho spiegato male…?»
«No… ero distratto…»
«Non farci caso, c’è un po’ di casino…»

Mi guardo intorno.

«Non farci caso, ho detto! Vieni, andiamo in salotto… È che… ho lavorato stamattina e allora… sì, non ho avuto tempo di riordinare…»

Scrollo le spalle.

«Non fa niente, anche da me c’è casino»

Entriamo in salotto. Faccio per sedermi sulla poltrona in stile vittoriano quando Diego mi afferra per un braccio.

«Vieni qui…»

Mi tira lievemente verso il divano.

«Ah… va bene…»

Mi lascio sprofondare proprio in mezzo al divano, affondo tra i cuscini.

«E di pomeriggio non lavori?»
«Ho chiesto il pomeriggio libero»
«Per…?»
«In che senso?»
«Per fare cosa?»

Lui si mordicchia il labbro inferiore.

«Per… beh, per stare qui, no?»

***

Varco la soglia, entro nella terra proibita.
Juan mi accoglie abbastanza sbrigativo, privo di complimenti o cerimonie come suo solito, ma neanche io gli presto molta attenzione: le mie attenzioni sono tutte per Rafael, che osservo ora davvero per la prima volta. Lo osservo ora per la prima volta perché ieri ero così concentrato a capire nel profondo che questa era la casa di Juan da non aprire gli occhi alla cruda verità: questa è anche la casa di Rafael.
Rafael è in ogni angolo della casa, in ogni oggetto. Da ogni muro mi osserva compiere movimenti stranieri nel territorio altrui e mi ricorda che per me qui non c’è posto, mi ricorda che in questo posto sarò sempre il corpo estraneo, l’intruso, il virus, mi ricorda che non posso continuare a chiudere gli occhi alla realtà, non posso raccontarmi ancora a lungo la favola bella a cui non credo più nemmeno io.
Rafael è in ogni angolo della casa, in ogni oggetto: nella fila di scarpe di due diverse misure allineate all’ingresso, nei libri di medicina lasciati in disordine sul tavolino della cucina, nella fotografia appoggiata quasi distrattamente sul comodino dove compare per la prima volta con un viso, con un sorriso.
Nella fotografia Rafael non è più una figura immaginata in cui la sola realtà concreta è data dal nome e dal ruolo, una presenza incorporea frantumata in cinquanta metri quadrati che mi ricorda ogni secondo che non sono il solo: ora Rafael ha un viso, un sorriso, che piega quelle labbra rosa come un’onda. Rafael e Juan sorridono all’autoscatto sventolando qualcosa che sembra tanto un biglietto di qualche evento, qualcosa che osservo solo per un secondo prima di distogliere lo sguardo, ho prurito alle mani, vorrei strappare quel sorriso in mille frammenti, ferire l’onda sottile delle sue labbra rosa, vorrei scrollare con forza le spalle di Juan e urlargli contro
ma come fai?
Con che coraggio?
Nessuno merita questo dolore!

 

«Andrés
«Eh?»

Mi riscuoto all’improvviso, non ho idea di cosa Juan mi abbia detto.

«Stai bene?»
«Sì… sì, certo, perché?»
«Hai gli occhi rossi»
«Ah»,

tiro su col naso,

«No, non è niente»

Juan mi osserva sospettoso.

«Sei sicuro?»
«Ma certo…»
«Okay»,

scrolla le spalle.

«Juan?»
«Sì?»
«La… copriresti… la foto?»

Indico col pollice verso il comodino, senza neanche guardarla.
Mi sembra un attimo sorpreso, come se non si fosse accorto dell’oggetto finché non gliel’ho indicato, forse perché col tempo tutti gli oggetti di casa propria smettono di essere rilevanti, perdono progressivamente di spessore affinché chi lì ci abita possa concentrarsi solo sulle novità, solo su ciò che lì non dovrebbe esserci.
Per un secondo soltanto sembra mettere a fuoco la fotografia e un guizzo negli occhi mi fa pensare che lui non è qui, per un istante soltanto non è più qui con me ma è lì con lui, in quella foto, è tornato a quel giorno, ma è solo un istante e il guizzo si spegne mentre borbotta

«Certo»

e si affretta a girarla.
Juan… Neanche tu meriti questo dolore…

***

Mi guardo intorno, perché nelle case degli altri fermo non so starci, e se non avessi questo lieve timore di sembrare maleducato mi alzerei addirittura in piedi e inizierei a girare nella stanza toccando ogni oggetto e osservandolo a lungo, con cura.
Non sono mai stato capace di farmi gli affari miei, né sono mai stato capace di far sembrare al padrone di casa che mi stessi facendo gli affari miei, osservando con discrezione e nonchalance, dissimulando.
L’incubo di mia madre, convinta di non avermi educato bene.
Mi giro e mi rigiro sul divano, mi guardo intorno studiando il salotto di Diego alla ricerca di qualcosa, senza sapere neanch’io di cosa, quasi mi aspettassi di trovare qualcosa d’interessante, da un momento all’altro.

«Vuoi bere qualcosa?»,

mi chiede Diego, forse per sciogliere la tensione o forse per spostare il mio sguardo indagatore dal suo disordine.
Torno a focalizzare la mia attenzione su di lui, annuisco, soltanto, con un sorriso lieve che m’increspa le labbra:

«Grazie»
«Un gazpacho

Si vede proprio che stai con un meridionale…

«È troppo freddo per il gazpacho… E poi l’aglio puzza»
«E allora? Devi baciare qualcuno?»

No di certo.

«Senti, ma non ce l’hai un succo di frutta?»,

cambio discorso.

«Ah…! Ma quindi c'è qualcuno che vuoi baciare… o sbaglio?»

Che hai da ghignare?

«Lo bevo solo alla pera»

La mia apparente mancanza di malizia lo lascia per un attimo in silenzio.
Sospira:

«Ne ho di tutti i tipi, tanto già lo sai… Però bevi dal bicchiere»
«Non sono un animale…!»

Alzo appena la voce per farmi sentire, Diego sta già andando in cucina.
Forse la battuta mi è uscita un po’ pesante.
E sinceramente, non lo so bene neanch’io il perché.
Non so perché all’improvviso mi sono sentito libero di essere stronzo verso questo fidanzato che ora non c’è, questo fidanzato che beve i succhi di frutta direttamente dal contenitore senza neanche chiudere il frigorifero, questo fidanzato che non getta nella spazzatura i cartoni del succo di frutta neanche quando dentro ci sono solo due gocce, tutto quello che fa impazzire Diego di fastidio.
Questo fidanzato di cui so già tutti i difetti senza averlo mai incontrato ma di cui so già anche la bellezza, il fascino.
Forse per questo l’ho soltanto intravisto in un paio di fotografie nel salotto che non ho di certo intenzione di osservare attentamente, perché non vorrei riconoscerlo, se mai un giorno mi capiterà d’incontrarlo in giro, perché forse non c’è poi neanche niente da osservare attentamente, non c’è niente di eccezionale nella camicia bianca e nei capelli biondi che ho solo intravisto nella fotografia. Perché mi piace continuare a pensare che sia così, che il suo fidanzato non sia poi niente di speciale, che chiunque potrebbe essere meglio di lui, che io stesso potrei essere meglio di lui, perché il fidanzato ora non c’è e perché per un tempo breve, brevissimo, ma ancor più prezioso proprio perché breve, finalmente, ci sono solo io: solo io in casa di Diego, seduto sul suo divano, io bevo i suoi succhi di frutta e rubo solo per me qualche minuto dalla vita del suo fidanzato.
Mi piace pensare di poter essere l’unico, fosse anche solo per un istante.

***

«Lepu [1], l'hai mai fatto di lato?»,

la domanda di Andrés mi prende alla sprovvista.

«Scusa?»
«Dico, sdraiato su un fianco»

Ci penso un attimo. La rassegna delle più memorabili scopate con Rafael mi scorre davanti agli occhi, ognuna fa male come uno schiaffo preso in pieno viso.
Scuoto la testa, più per scacciare il pensiero che per dire di no.

«Lepu
«Mh?»
«L’hai mai fatto?»
«No…»
«Ti va di provare?»
«Certo…»

Per un secondo nessuno di noi dice niente, nessuno si muove.

«Però devi fare qualcosa per quei peli, perché ieri mi hai fatto male!»,

continuo io.

«Eh, però ieri non ti lamentavi…»

Andrés sogghigna.

«Stai scherzando? Mi hai sfondato

Ridacchia soltanto, senza parlare.

«E se vuoi continuare a fare sesso con me, devi farteli crescere!»,

riprendo, ignorando la sua risata leggera.

«Okay, okay, ho capito!»
«Ma come fa il tuo ragazzo?»

Il sorriso gli si congela in bocca.

«Ho capito»,

ripete secco, prima di alzarsi e raccogliere da terra i jeans attillatissimi, abbandonati sul pavimento.
Prende qualcosa dalla tasca.

«Cos’è?»,

gli chiedo incuriosito, indicando col mento la piccola confezione circolare, di metallo leggero, simile a quella di una crema per mani.

«Burro di karité»
«E che devi farci?»
«Cerco di non farti piangere»

Andrés passa un dito sulla sostanza bianca, cremosa, ne raccoglie una piccola quantità sulla punta dell’indice e se la passa sui peli pubici tagliati corti solo mezzo centimetro, lasciandone uno strato sottilissimo, leggero e trasparente.

«Perché, chi l’ha deciso che sarai tu a scoparmi di nuovo?»
«L’ho deciso io. E poi mi sembra proprio che l’abbia deciso anche tu, no?»

Non raccolgo la provocazione, mi limito ad osservarlo, scettico.

«Dici che funziona?»
«Proviamo»

Immerge nuovamente il dito nel barattolino e stavolta si passa il burro di karité sulle labbra, sulle mani, sui gomiti.
Un sorriso divertito mi arriccia gli angoli delle labbra.

«Senti, ma se mi fa male ti scopo io»
«Okay»

Mi porge il burro di karité.
Non capisco.

«Ma… non mi serve…»
«Fidati, ti serve»

Ehi, non ammiccare così.

«Eh?»
«Te l’ho detto che non ti sei lamentato, ieri»

Sogghigna con una smorfia beffarda.
Ma allora avevi usato qualcosa!

«Okay, okay, faccio io!»
«Eh? Tu fai cosa
«Senti, le tue dita sono spaventose!»

Gli strappo di mano la confezione e ci immergo il dito, raccolgo il burro di karité con la punta dell’indice. 
Andrés non risponde niente, non si muove, ma il suo sguardo si muove, lo sento affamato sulla pelle, il suo sguardo pesante e presente assaggia ogni centimetro che gli offro alla vista.

«Fermo!»,

le sue dita bianche, da maschio, si serrano attorno al mio polso,

«Non puoi fare così»
«Che c’è?»,

non capisco dove vuoi andare a parare.

«C’è… c’è…»,

distoglie lo sguardo, arrossisce appena,

«C’è che sei troppo bello»

All’improvviso si annusa il dorso della mano, non mi lascia il tempo di ribattere.

«Questo burro di karité puzza!»
«Di che puzza?»
«Boh… di… di burro. Di grasso…»

Mi chino sul suo pube e gli sfioro i peli con le labbra, con la punta del naso, faccio solo finta di annusarlo.

«Dici che puzza? Io non sento niente…»
«Senti meglio…»

Passa le dita tra i miei capelli, mi spinge lievemente la testa verso il basso.

***

Mi siedo accanto a lui sul divano:

«Come stai?»

Rafael stringe il bicchiere tra le mani, scalda il vetro con i palmi e ogni tanto beve un sorso. Giocherella con la cannuccia nera senza usarla, la muove solo tra i polpastrelli di indice e pollice, guardando distrattamente il liquido freddo.

«Tu come stai?»

Piego solo gli angoli delle labbra nell’ombra di un sorriso.

«Io sto bene…»,

mento a me stesso,

«Tu come stai?»

Osservo il suo profilo, il velo leggerissimo di lentiggini che gli accarezza le guance, come le accarezzavano ad Andrés prima che le facesse ripulire con il trattamento laser.

«Mh, sai…»,

inizia lui, il preludio di un discorso che con la domanda non c’entra niente, forse perché rispondere a come stai? non è facile, vero, Rafa?, quando chi lo chiede vuole saperlo per davvero,

«Quando ho incontrato Juan io non cercavo niente»
«Mh»

Annuisco. 
Non trovo nient’altro da dire, perché ci metto sempre qualche secondo prima di seguirlo su una nuova pista, e forse anche perché per una volta vorrei tanto che non fosse sempre lui il soggetto immobile dei suoi discorsi, il suo fidanzato gay che dice di non essere gay e che ha paura di essere ciò che è.

«Beh, sì»,

riprende Rafael, quasi parlasse a se stesso:

«C’è stato in realtà un periodo della mia vita in cui volevo assolutamente avere un ragazzo, ma era prima, è stato prima, ero giovane, mi ero appena lasciato, sai… le solite cose… Poi è passato, non lo so, mi è passata, così, mi è passata e basta, sono cresciuto, ho iniziato a star bene così, da solo. Mi sembrava di non aver bisogno di nessuno, quasi non lo volevo, un ragazzo!»

Fa una breve pausa, giusto il tempo di prendere fiato.

«Insomma, pensavo… di non aver bisogno dell’amore, per essere felice… Così ho smesso di cercare. E lo ero davvero, sai? Felice. Poi non so, è successo. E basta. L’ho visto. È successo e basta. E non so dire…»,

bisbiglia appena,

«…se quella mattina d’aprile l’ho salutato per sbaglio o se invece lo sapevo… che era quello giusto»

Beve un sorso di succo di frutta, si passa la lingua sulle labbra.

«Mi capisci?»,

mi chiede a bassa voce.
Non rispondo.
Non capisco.
Spiegami tu.
Riprende a parlare, quasi mi leggesse nel pensiero. 
Perde lo sguardo in un passato remoto, o forse in un futuro troppo delicato per poter alzare la voce, per potersi permettere brusche curvature di tono, pause troppo prolungate, questo tremore alle corde vocali che non riesce a far tacere.

«Sto dicendo che quando mi sono innamorato io non cercavo l'amore e questo mi ha permesso di viverlo bene perché non volevo niente, perché non pretendevo niente, ma ora è diverso, ho iniziato a pretendere, ora voglio qualcos’altro e se si vuole qualcosa allora sì che sono cazzi perché la realtà rischia sempre di non essere all’altezza di quello che vogliamo, e così non ci accontentiamo mai e continuiamo a chiederci e se fosse quello giusto?, perché quello giusto lo stiamo aspettando e non è che arriva e basta, e ora che di nuovo voglio qualcosa io ho incontrato te, e ora come facciamo?»

Finalmente mi guarda negli occhi. 
Brilla una lucina, lì in fondo al pozzo scuro delle sue pupille.
Ha l’espressione preoccupata di chi non sa risolvere un problema troppo grande.
Non puoi essere un po’ più romantico?
Lui è così: prende i sentimenti e li espone come se fossero un problema di algebra, li scorpora, li seziona con una lucidità disarmante, con la candidezza di un bambino.

«Mi capisci?»,

insiste.

«Il mio ragazzo mi tradisce»,

dico all’improvviso.

***

«Allora…? Fa male…?»

Ti sussurro all’orecchio, il mio respiro caldo ti accarezza la pelle e le labbra la sfiorano, morbide.

«No»
«Mh… Visto…?»

Ti accarezzo di baci la linea del collo, la curva della spalla, deposito sulla tua pelle sudata questa scia di piccoli baci umidi a labbra socchiuse, ognuno fa sentire un piccolo schiocco, un risucchio sottile. Passo solo la punta della lingua lungo l’orecchio, bagnandolo appena, succhio piano la pelle morbida del lobo mentre con le mani ti accarezzo come se volessi disegnarti, come per assaggiare questa pelle così presente così bella che è il luogo del delitto, questa pelle su cui si consuma il dramma struggente della mia costante ricerca di calore.
Ti fa male, questo abbraccio?

«Juan…»

Vorrei chiederti
perché hai bisogno di soffrire così?

Vorrei dirti
smettila... di farti male...

Vorrei dirti adesso la cosa giusta e la cosa giusta non so neanche qual è, non so neanche se c’è, non so come dirtelo che ho questo nodo che fa male in fondo al petto e mi dice che l’addio è vicino, che la storia d’amore è agli sgoccioli, sta esalando l’ultimo respiro, perché quando si arriva troppo vicini alla fine è meglio andare da soli, e non so come dirtelo, che a dirti addio non sono pronto.
Io ho proprio la sensazione… che non ti rivedrò mai più…
E fare l’amore non è mai stato così triste.

«Juan…»
«Mh…?»

Ti prendo una mano, intreccio le dita alle tue.
Le tue mani sono così piccole…
Soffi aria tra i denti.
Porto la tua mano alla bocca, bacio lentamente il palmo, quasi al centro, raccolgo con le labbra le perle di sudore della tua pelle che suda freddo e inspiro a fondo, per un istante soltanto mi accarezza la mente l’idea di morire soffocato da questa mano piccola e rovinata che mi accarezza piano la guancia.
Ti lascio, riporti la mano sul materasso, stringi il lenzuolo mentre ti stringo tra le braccia e sussurro di nuovo il tuo nome.

«Sì…?»

Non dico niente.
Una lieve pressione sulla tua spalla e ti giri indietro, verso di me.
Mi chino in avanti.
Quando le nostre labbra si sfiorano le tue mani stringono con più forza il lenzuolo, le mie mani stringono le tue, le accarezzano lente.

***

Il mio ragazzo mi tradisce.
La voce di Diego mi rimbomba ancora nelle orecchie.

Succede a volte che qualcuno parli e sia necessario qualche momento prima di capire cos’ha detto, quasi prima di capire che ha parlato davvero, e in questi brevi istanti la voce resta come impigliata nell’orecchio e lì si ripete, sempre uguale, finché finalmente non ci accorgiamo che quel suono ha un significato e allora ci affrettiamo a rispondere.
La sua voce adesso è così, si ripete sempre uguale nelle mie orecchie che della sua voce non mi stancherebbero mai, anche se quando parla Diego aspira appena la S.

«O forse…»,

continua guardando il pavimento,

«…sono io che mi lascio tradire»

Non mi affretto a rispondere.
Non so cosa dire.
Non so quasi neanche cosa pensare.

«Non è che l’ho scoperto… Non me l’ha neanche detto…»

Sembra parlare da solo, con questo tono di voce basso e quasi dolce e lo sguardo perso, triste.

«Lo so e basta, perché quando succede te ne accorgi. Lo senti dentro, che l’hai perso…»

Continuo a non dire niente.
Non ascolto il suo monologo, la sua confessione. 
Ho solo la sua voce nella testa che mi sussurra all’orecchio mi lascio tradire.
Quindi è colpa tua…?
E forse in fondo un po’ mi piace anche, questa prospettiva illogica, irrazionale, questa idea assurda e perversa per cui se un uomo viene tradito la colpa è sua.
Diego tace.
Il suo ragazzo lo tradisce.
Diego lo tradisce da mesi con la televisione accesa.
Lo tradisce ogni volta che dorme sul divano invece di aspettarlo sveglio al rientro da lavoro.
Lo tradisce ogni volta che fuma in casa, ogni volta che lascia le ciabatte in disordine sul pavimento del salotto.
Lo tradisce ogni volta che gli mente per uscire con me, per chiacchierare ipocritamente innocenti davanti a un cappuccino con questo sguardo scuro ancorato nel fondo degli occhi, in fondo alla nuca.
Anch’io tradisco Juan nella testa, il tradimento cerebrale che è l’inizio di ogni tradimento vero, che è già tradimento vero.
Taccio.
Sussulto quando Diego mi appoggia una mano sul ginocchio: il livido fa ancora male sotto la sua pressione calda, delicata, una pressione lieve ma così decisa che di lui dice tutto, che mi parla dentro, mi arriva nel profondo e mi fa girare a guardarlo, incrocio il suo sguardo e il suo sguardo è talmente limpido che ora posso leggerlo, Diego mi viene così vicino che sento il suo fiato caldo sulle labbra socchiuse mentre sussurra a due centimetri da me

«Rafa… parlare con te… mi sta dando… davvero tanto…»

e io sento che all’improvviso ha capito tutto, di lui.

 

Sai, Andrés?
A volte penso che ne ho abbastanza. 
Ne ho abbastanza della tua complessità… 
della tua ricchezza, 
della tua confusione… 
Ne ho abbastanza delle tue ambizioni, 
delle tue frustrazioni, 
ne ho abbastanza dei tuoi orari e anche dei tuoi sogni.
A volte penso che vorrei una relazione meno complicata, 
che vorrei un uomo dalla psicologia più lineare.
Vorrei un uomo che avrà degli orari normali… 
A volte penso…
…che vorrei un uomo come lui.

 

Taccio e sussulto solo appena alla pressione leggera ma decisa della sua mano sul mio ginocchio e mentre sussurra a due centimetri dalle mie labbra io sento che senza dir nulla ora di lui ho capito tutto e in questo istante, l’istante di respiro che prelude un bacio da film, in questo istante preciso penso a tutte le domande che non gli ho fatto e che avrei voluto fargli, penso a tutte le domande che non gli farò mai.
Hai mai rischiato di morire?
Hai mai salvato la vita a qualcuno?
Hai mai amato incondizionatamente?
Hai mai odiato senza freni?
Hai mai sentito il desiderio pericoloso di provare emozioni troppo forti?
Come un’automobile lanciata a tutta velocità che s’accartoccia contromano?
Come l’ebbrezza proibita di ammazzare qualcuno con le tue mani per toccarne il sangue caldo?
Come il calore di un bacio traditore strappato al tempo delle facili promesse?
Mi ami?
Mi ameresti per tutta la vita?
Lo lasceresti per stare con me?

***

Con Andrés è tutto facile.
Il piacere è facile, il calore è facile, persino l’orgasmo è facile.
A letto duro sempre poco ma con lui sembra sempre più leggero, sembra tutto più leggero.
Essere me stesso è così semplice, quando sono con lui.
Mi giro a guardarlo mentre riprendiamo fiato, i nostri petti sudati e sfiniti si alzano e si abbassano riempiti da quest’aria calda e consumata che sembra non bastare mai.

«Andrés…?»
«Mh…?»

Ti stanchi mai di essere così bello?

«Perché… con te… è tutto facile…?»

Anche tu mi guardi, hai gli occhi lucidi.
Tiri sul col naso, apri la bocca per parlare ma non te ne do il tempo:

«Beh, ti sei commosso?»
«No, è solo che–

non riesce a finire la frase perché all’improvviso starnutisce quattro o cinque volte di fila, senza neanche mettere la mano davanti alla bocca.

«Sei malato?!»,

strillo inorridito e mi allontano istintivamente da lui.

«No…»,

tira di nuovo su col naso.

«Sicuro?»
«Sì…»
«E allora cos’è?»
«Boh… non è niente, non ci pensare…»
«Mh… okay…»

Mi sdraio di nuovo sul letto, poco convinto.

«Ce l’hai mica un fazzolettino?»

Indico il comodino di Rafael con un cenno del mento, senza parlare.

 

Sul comodino c’è una di quelle confezioni di cartone che mi ricordano tanto gli studi degli psicologi, una di quelle in cui si preleva un fazzoletto tirandolo per l’estremità sporgente ed ecco che subito esce l’angolo di un altro fazzoletto, e così via, e sinceramente non lo so neanch’io perché una confezione di fazzoletti di questo tipo mi ricordi lo studio di uno psicologo: probabilmente è perché ho sempre pensato che la gente possa sentire il bisogno di piangere durante una seduta di terapia, eppure sono sicuro che non è per raccogliere le lacrime che Juan tiene i fazzoletti sul comodino. Sono sicuro che Juan tenga i fazzoletti sul comodino esattamente per lo stesso scopo per cui servono a me adesso.
Ne prendo un paio e mi pulisco, raccolgo lo sperma e il burro di karité.

«Ti scoccia se soffio il naso?»
«Prego»

Prendo un altro fazzolettino, soffio sonoramente due o tre volte e quasi mi diverte lo sguardo che mi riservi, disgustato senz’altro dal potenziale di microbi e batteri contenuti nel fazzoletto.
Tiro di nuovo su col naso.

«Meglio?»
«Ma sì, dai…»,

scrollo le spalle e appoggio sul lenzuolo i fazzolettini appallottolati.

«Dai, vieni qui, malato mio…»

Mi tiri per un braccio, stringendolo appena.
Mi rannicchio accanto a te e mi lascio coccolare, per un po’.

***

Non so, se mi piaci o no… [2]
L’istante è durato troppo a lungo, il bacio non arriva.
Un respiro sottile s’inserisce come una lama nella mia coscienza, un attimo di lucidità in cui ho il tempo di riscuotermi dal torpore e di pensare che forse è tutto sbagliato.
Mi allontano di scatto, Diego ritrae la mano lasciando sul mio ginocchio una sensazione quasi di freddo, mi guardo intorno, poso il bicchiere sul tavolino basso accanto al divano, mi trema leggermente la mano.

«Devo andare!»

Scatto in piedi, il cuore batte velocissimo, sento le gambe tremare, perché non mi hai baciato?
Faccio un paio di passi verso la porta.
Perché ti sei fermato?
I due centimetri diventano subito due metri e Diego non dice niente, non tenta neanche di fermarmi, non mi chiama.
Juan…
Mi blocco.
Respiro a fondo.
Prendo aria prima del tuffo…
Decido.
Juan, è colpa tua!
Torno sui miei passi, deciso, le gambe non tremano più, il cuore se possibile batte ancora più veloce, mi siedo sul divano accanto a Diego e gli poso le labbra sulle labbra.
Perché suona tanto come un tradimento?
Perché questo è un tradimento.

Non ho mai pensato di essere capace di tradire.
Ho sempre pensato che le persone, certe cose, o sanno farle o non sanno farle: non è vero che messi alle strette tutti possono ammazzare, alcuni possono farlo per natura e altri no, e messi alle strette alcuni ammazzano perché ce l’hanno dentro, e altri no, e basta, non c’è nient’altro da dire, niente bei discorsi sulla natura umana, alcuni non ci riescono proprio ad ammazzare, fosse anche per vendetta, o per autodifesa, per sopravvivenza. Non ho mai pensato che tutti sono uguali e che tutti sanno fare le stesse cose: messi alle strette, alcuni tradiscono e altri no, semplicemente, perché le persone sono diverse e il tradimento dentro non ce l’hanno tutti, e se anche ce l’avevo nella testa, speravo in fondo che lì potesse restare, morire, perché il tradimento nella testa è già tradimento vero ma è meno grave, lo so bene che è meno grave del tradimento fisico di chi il tradimento cerebrale lo tira fuori e tradisce in due.
Non faccio più parte di quelli che non sanno
So tradire, ho sempre saputo tradire, solo che per tradire può servire la persona giusta e il tradimento cerebrale Diego me l’ha tirato fuori in questo bacio leggero strappato al tempo delle facili promesse.
Gli appoggio leggero il tradimento sulle labbra, Diego le socchiude quasi istintivamente e ho la sensazione che forse per un secondo soltanto non capisce neanche cos’è, questo bacio.
Mi allontano solo di un centimetro:

«Per fortuna non hai bevuto l’aglio…»,

gli sussurro alle labbra.
Soffoca sulle mie labbra ogni tentativo d’umorismo.
Annulla il centimetro, azzera la distanza, mi stringe i capelli dietro la nuca mentre mi bacia le labbra, apro la bocca, accolgo la sua lingua, accolgo le sue mani che mi percorrono le spalle, il petto, i fianchi, gli stringo le spalle, le sue spalle… Amo le spalle degli uomini, amo le spalle di Diego, amo stringerle mentre le sue mani mi stringono i fianchi e mi tirano verso di sé, lo bacio, lo bacio, lo bacio, mi sto eccitando, mi spingo in avanti, Diego s’inclina sul divano e mi tira verso di sé, sopra di sé, amo le sue mani calde che mi stringono i fianchi e al dolore alle ginocchia neanche ci penso, amo le sue mani calde che mi stringono i glutei, amo il suo principio di erezione che sento premere contro il fianco e la sua gamba tra le gambe che preme, calda.

***

Vorrei proprio sapere come posso cambiare le lenzuola due giorni di seguito senza insospettire Rafael. Non so se ieri ce n’era proprio bisogno, ma ora che sì, ne ho davvero bisogno, ora che non posso farne a meno, ora non so proprio cosa inventarmi per renderlo credibile.
Posso sempre dire che il gatto è salito sul letto, ma dubito che se la beva, anche perché proprio da qualche giorno Rafael stesso ha preso l’abitudine di far entrare il gatto dentro casa e non sarebbe la prima volta che sale sul letto.
Sbuffo. 
Non voglio pensarci adesso.

«Andrés
«Mh?»
«Oh, dormi?»
«No…»
«Dai, svegliati»
«Non dormo…»,

risponde con la voce impastata, gli occhi socchiusi.

«Dai, alzati»

Lo scuoto piano per le spalle.

«Ho capito!»

Sbuffa, finalmente lucido.
Incrocia le braccia sul petto e mette il broncio.
Ti mangerei quando fai così.
Gli schiocco un bacio sul labbro inferiore, appena sporgente.

«Ti va una caramella?»

Andrés torna di buon umore.

«Dipende, che tipo?»
«Guarda»

Allungo una mano sul comodino e gli porgo il sacchettino di carta.

«Uuh!»

Fa un urletto di gioia e batte tre o quattro volte le mani, come un bambino.

«Quelle gommose sono le più buone!»
«È vero?»,

sorrido,

«Prova le verdi, sono le migliori»
«Grazie!»

Calca l’accento sulla seconda sillaba, mi fa ridere.
Lo guardo mentre mastica soddisfatto e senza fare i complimenti infila la mano nella piccola busta e si prende altre due caramelle, sempre verdi, e non riesco a non sorridere.
È strano come finiamo per affezionarci alle persone, anche a quelle di cui non sappiamo nulla.
Andrés mi guarda, interrompe il mio momento tutto per me e in questo momento mi scopro intenerito, il mio sorriso appena più dolce sorprende anche me e mi fa sentire a disagio.
Distolgo lo sguardo, cerco qualcosa da dire.

«Vuoi fare la doccia?»
«No, grazie, la faccio a casa»
«Sicuro?»
«Sì… Anzi, ora vado»
«Di già?»
«Certo»
«Perché…?»
«E me lo chiedi?»
«Dai, che fretta c’è?»
«Non dovrei essere qui…»
«Ma tu non sei qui, sei al lavoro»
«Già, e se arriva Rafael? Glielo dici tu che sono al lavoro?»
«Non arriverà… È a lezione»

***

Il suo profumo è inebriante.
Non ho ancora capito se mi piace o no e penso che mai lo capirò, ma già lo so, che Moschino mi rimarrà per sempre nel petto. 
Sarà forse per l’avidità con cui gli respiro la pelle?

 

Non è male, farsi accarezzare da queste mani. Diego ha davvero le mani belle e la foga con cui mi tocca non mi ricorda la professionalità del massaggiatore, questa fretta nella punta delle dita mi incide addosso la fame dell’amante. Non è male sentire le sue dita affamate sulla pelle bianca all’altezza dei reni, sotto la stoffa leggera della maglietta, non è male sentirle scivolare più giù fino ad infilarne solo la punta sotto l’elastico dei boxer, che sporge dal bordo dei jeans attillati.
Le sue mani sembrano arrivare ovunque, il mio corpo si dischiude e si scalda sotto il suo tocco feroce, in questo bacio affamato. 

 

Lascio la sua bocca per riprendere fiato, gli passo le labbra sul collo, respiro a fondo, mi riempio la testa di Moschino, Rafael si sorregge facendo pressione con una mano sul divano, con l’altra mi stringe una spalla, sostengo il suo peso, gli premo con forza una gamba contro il pube caldo mentre con le dita sicure gli slaccio il bottone dei jeans.

***

«Allora io vado a lavarmi»

Juan si alza in piedi e si stiracchia.

«Okay lepu»

Gli osservo l’osso del gomito. Quando distende le braccia Juan riesce a piegarle oltre i centottanta gradi: la parte dalla spalla al gomito è dritta e poi improvvisamente, dal gomito al polso, il braccio si piega in un modo innaturale sottoponendo l’osso ad una pressione eccessiva. 
Arriccio le labbra, distolgo lo sguardo.

«Sicuro che non vuoi, eh?»
«Senti, ma tu non ti lavi mai! Potrò lavarmi quando lo dico io?»
«Okay, okay! Tranquillo… lepu

Alza le mani in segno di resa.

«Oppure stai cercando di dirmi che vuoi fare la doccia con me e non sai come dirmelo?»

Non ribatte, scoppia a ridere ed esce dalla stanza senza dire altro, si gira solo per farmi la linguaccia.
Sospiro.
Soffermo lo sguardo in direzione della porta, dove un attimo prima c’era lui. 
Sento gli angoli delle labbra piegarsi verso l’alto, un sorriso troppo dolce, decisamente troppo dolce…
Scuoto la testa.
Prendo un altro fazzoletto, soffio di nuovo il naso.

***

Gli abbasso la cerniera dei jeans e infilo le dita sotto la stoffa dei boxer, accarezzo coi polpastrelli la pelle morbida della pancia e con la mano tendo appena la stoffa, tanto che guarderei in quei cinque centimetri di spazio che mi si sono aperti se solo la posizione non lo impedisse.

 

Con le dita scendi a toccarmi i peli pubici e quando mi sfiori con le nocche la punta del pene mi lascio sfuggire un sospiro, perché le tue dita calde ora non sembrano più tanto calde e perché da queste mani non voglio farmi solo sfiorare…
Socchiudo le labbra, forse per respirare meglio o forse per sospirare di nuovo, chiudo gli occhi al piacere e mi concentro solo sulle tue dita non più così calde che mi avvolgono e che ora diventano il mio centro del mondo e che sembrano promettere grandi cose, perché mani che fanno massaggi così con quale impeto faranno l’amore?, socchiudo le labbra e sospiro e chiudo gli occhi e in questo sospiro forse sospiro anche il tuo nome, non lo so, non ho il tempo di capirlo, non ho il tempo di raccogliere la mia voce nelle orecchie e di ascoltarmi riecheggiare lì per un po’ perché all’improvviso il suono più odioso, il più spaventoso, mi violenta le orecchie.
Il suono del campanello.
L’unica cosa che non doveva succedere.

 

Rafael trasalisce e spalanca gli occhi, si alza di scatto, in ginocchio sul divano, tanto che mi ritrovo in un secondo con la mano fuori dai suoi boxer e con questa stessa mano gli afferro un polso per fermarlo e non gli do il tempo di alzarsi in piedi:

«Fermo! Fermo, fermo, tranquillo,

gli strattono il polso per farlo restare sul divano,

«È dalla vicina!»

 

Lo guardo un istante senza guardarlo davvero.
Impiego un breve momento a capire quello che mi ha detto e dopo un momento capisco, capisco e cerco di calmarmi, ma non riesco a regolarizzare i battiti cardiaci accelerati.
Mi ricordo all’improvviso del dolore alle ginocchia, mi metto seduto e solo dopo un lungo momento Diego mi lascia andare la mano. La sua presa era così salda…
Lo guardo negli occhi.
Lo sguardo di Diego non è più limpido, non so più leggerlo.

 

Sai, Andrés?
Altre volte… 
…penso che queste sono solo cazzate.

 

Non ho bisogno di parlare per capire che il suono del campanello è entrato come un corpo estraneo nel tempo breve e prezioso in cui finalmente nella sua vita c’ero solo io, non ho bisogno di parlare per capire che nell’attimo in cui ci ha riportati brutalmente alla realtà quel suono ha rotto qualcosa, tra noi. 
Nell’aria si è frantumato qualcosa, qualcosa si è perso.

***

Apro piano la porta del bagno. Non busso ma la spingo così lentamente che Juan potrebbe dirmi di uscire in qualunque momento, se non mi vuole.
Non dice niente, forse non mi sente. Mi accoglie solo lo scrosciare della doccia.

«Posso?»
«Sì»
«Dove li butto?»
«Che?»
«I fazzoletti»
«Nel cesso… Scarica bene!»

Tiro un paio di volte lo sciacquone, il getto dell’acqua risucchia i fazzolettini stropicciati e appiccicosi. 
Che ci sarà mai di sospetto, in un paio di quadrati di carta appallottolati nel cestino, o spappolati in fondo al water… Non sei mica fidanzato con Sherlock Holmes!
Mi giro a guardarlo attraverso il vetro smerigliato.
Ripenso per un istante al vetro della mia cabina della doccia, così liscio e trasparente da non lasciare neanche un centimetro di privacy.
Ho sempre amato sedermi sullo sgabello e osservare Diego che si faceva la doccia, ho sempre amato il suo modo così naturale di ignorarmi, di fare come se io non ci fossi, ho sempre amato il suo modo di lavarsi regalandosi generoso alla mia vista e facendo però finta di non darmi importanza.
Scuoto la testa. 
Sotto lo scrosciare del getto dell’acqua che mi riempie la testa di ricordi le loro due figure sembrano sovrapporsi, scontrarsi e confondersi. 
Forse per questo scuoto con forza la testa e mi giro a guardarlo attraverso il vetro smerigliato, per ferirmi gli occhi con la sua pelle così viva da far venire voglia di piangere…
La sua figura è scomposta in una miriade di schegge color carne, che della solidità del suo corpo non hanno più nulla.
Juan adesso è un puzzle di pixel, un ologramma, una pellicola virtuale frammentata in un mosaico privo di spessore che riacquista concretezza solo quando chiude il getto della doccia e apre l’anta della cabina, e mette fuori un piede. 
Torna al mondo.
Il suo corpo si ricompatta.
Mangio il suo corpo con gli occhi affamati, ho la gola asciutta come se avessi ingoiato sabbia, non riesco a inghiottire. Lo seguo con lo sguardo mentre cammina col suo incedere appena pesante e lascia goccioline trasparenti su tutto il pavimento, e che non sia un tipo preciso l’ho già capito.
Juan prende un asciugamano di spugna da una pila di asciugamani posati su uno sgabellino di legno e se lo avvolge intorno alla vita, copre questo fisico così concreto da lasciarmi senza fiato, senza fiato anche quando non mi tocca, anche ora che lo guardo e basta. 
Tra guardare una persona e farci sesso la distanza è immensa, perché l’intimità che si crea nel lasciarsi guardare è più calda delle braccia che mi stringono mentre facciamo l’amore.

***

Nell’aria si è frantumato qualcosa, qualcosa si è perso.
Questo mi dice il tuo sguardo, indecifrabile, questo mi dice senza parlare.
Le realtà torna ad insinuarsi nelle pieghe delle nostre vite, che per un tempo breve e prezioso sono state così vicine da toccarsi davvero, da aprirci all’altro senza barriere; la realtà torna e la realtà è il suono di un campanello, la realtà è il suo fidanzato gay traditore dalla camicia bianca e i capelli biondi, la realtà è il mio fidanzato pure gay che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso, la realtà è tutto questo e la realtà è questo bacio traditore strappato al tempo delle facili promesse e la realtà fa male.
L’ho avuto, il mio tempo breve, brevissimo, ma ancor più prezioso proprio perché breve, in cui finalmente per te ci sono stato solo io. 
L’ho avuto e che sia durato poco non importa, questo tempo basta.
Basterà.
Ti guardo negli occhi e il tuo sguardo non è più limpido, non so leggerlo, ma non importa, non ho bisogno di leggerlo per sapere che c’è uno sguardo simile nei miei stessi occhi dove di solito in fondo brilla una lucina, come una fiammella sempre accesa, come dici tu, non ho bisogno di leggerlo per sapere che il nostro tempo è finito, che qualcosa si è perso.
Pensi mai che sia tutto sbagliato…?
Allaccio lentamente i jeans, non ho fretta.
Diego tace.
Lo guardo di nuovo, lo guardo negli occhi e il suo sguardo è così triste, come triste è il mio sguardo in cui forse la fiammella si è spenta, lo guardo negli occhi e gli accarezzo una guancia, l’accenno ruvido di barba mi graffia le dita…

«Mi dispiace…»

 

Ti stringo la mano, la stringo così forte da fare male, da farmi male, la stringo e vorrei solo dirti la cosa giusta ma lo so che la cosa giusta da dire non c’è,

«Anche a me, Rafa… Anche a me…»,

lo so bene che questo è un addio e che il nostro tempo è finito e che qualcosa si è rotto, e fa male, so che va bene così, ma fa male, e so che va bene che faccia male.

«Mi dispiace…»

La tua voce è un sussurro.

«Sh…»

Ti accarezzo il dorso della mano dolcemente, lentamente, il cuore pieno di Moschino che non è mai stato così triste. 
Prolungo più che posso gli ultimi istanti della nostra storia d’amore che non è mai nata. 
Mi preparo a lasciarti, e lascio la mano, lascio andare il profumo.

 

Penso a queste mani, alle carezze che non mi daranno.
Penso a tutte le domande che non ti ho mai fatto, a tutte le domande che non ti farò mai. 
Penso a tutte le risposte che non sentirò.
Pensi mai che avresti preferito non incontrarmi?
Hai qualche rimpianto?
Qualche rimorso?
Qual è il ricordo più brutto della tua vita?
Quale il più bello?
È meglio lui di me?
Mi avresti amato per tutta la vita?
Penserai mai alla storia d’amore che non abbiamo avuto?
Al sesso che non abbiamo mai fatto?
L’avresti lasciato per stare con me?
È meglio lui di me?
Mi avresti amato per tutta la vita?
Mi avresti amato per tutta la vita?
Penso a tutte le lacrime che vorrei versare per te ma dalle ciglia non sanno staccarsi.
Nella gola mi fa male un nodo talmente stretto da non lasciarmi quasi respirare.

***

Andrés si butta a peso morto sul letto. Fruga tra le lenzuola, recupera gli slip striminziti.

«Me lo fai vedere il coniglietto?»

Sgrano gli occhi:

«Eh?! È una cosa porno?»,

scoppio a ridere.

«No-o!»

Sbuffa e arriccia le labbra,

«Il coniglietto, dai!»,

lo ripeti come se questo dovesse spiegare tutto, e invece non spiega proprio niente!
Lo ignoro, cerco un paio di boxer nel cassetto.

«Lepu

Andrés mi tira addosso gli slip.

«Oh, dai, che schifo!!»

Glieli ritiro in piena faccia, lui scoppia a ridere nella sua risata forte e fresca, scrosciante.
Si stiracchia.
Tolgo l’asciugamano, infilo i boxer e una t-shirt, quella grigia, che ho scelto apposta perché aderisce ai muscoli dell’addome, delle braccia.
Andrés fa un sonoro sbadiglio e stiracchia un’altra volta le braccia, mi piace guardarlo con la coda dell’occhio e vederlo passarsi la lingua sulle labbra.
Mi piace sapere i suoi occhi fissi su di me, posso sentire il calore del suo sguardo riempire l’aria della stanza.

«Tu non ti vesti?»
«Sei mica mia madre?»
«Cos’è il coniglietto?»
«Non ti piaccio?»
«Eh?»
«Non ti piaccio?»
«Cos’è il coniglietto?»
«Ti piaccio?»,

all’improvviso, è diventato serissimo.
Lo osservo per un lungo momento. 
Dio, quanto vorrei guardarti anche il ‘lato B’! Hai un culo che parla…

«Sì. Ma guarda che mi piaci anche se ti vesti»

Sbadiglia di nuovo.

«Ho capito…»

Infila gli slip e si sdraia su un fianco, intrufolando la mano sotto il cuscino.

«Oh, che fai?»
«Perché?»
«Vieni di qua»

Gli indico col braccio l’altra metà del letto.

«Che succede?»

Quello è il lato di Rafael.

«Lì voglio starci io»

Scrolla le spalle:

«Okay»
«Allora ti fermi un po’?»
«Solo cinque minuti»
«Cos’è il coniglietto?»
«Fai il muscolo»

Piega il braccio per farmi vedere come fare, trattiene a stento un sonoro sbadiglio.

«Così…?»

Il mio bicipite si gonfia.

«Vedi? Quello è il coniglietto…»,

indica il muscolo,

«Non sembra un coniglietto accovacciato? No, okay, il tuo sembra più una pantera in agguato, ma insomma, hai capito?»

Scoppio a ridere.

«Viene solo se sei muscoloso»,

mi spiega prima di affondare la faccia sul cuscino.

«Oh, dormi?»
«No…»
«Perché volevi vedere il coniglietto?»
«Dov’è il burro di karité…?»,

si guarda un attimo intorno, gli occhi stanchi.

«Non lo so…»

Sbuffa.

«Senti…»
«Mh?»
«Non dormire…»
«Non dormo»

Si gira di spalle, si sistema meglio sul cuscino.

«Andrés?»
«Mh…?»
«Mi ascolti?»
«Ah ah…»
«Svegliati!»
«Ma ti sento…!»

Si gira di nuovo verso di me,

«Dimmi»,

mormora senza neanche aprire del tutto gli occhi, le palpebre si socchiudono pesanti e subito dopo le richiude, un battito d’ali, come di farfalla morente, penso distrattamente.

«Io…»

Io sono gay.

«Sì, io, ecco…»

Mi mordicchio il labbro inferiore.

«Mh…»

Prendo fiato, sono pronto a dirmi per la prima volta la verità.
Se ora mi chiedessi di nuovo, tu come lo sai?, io ti risponderei: l'ho saputo grazie a te.

«Andrés, io sono–

il tempo di girarmi a guardarti e ammutolisco all’istante.

«Andrés…?»

Si è addormentato.
E va bene, ti sveglio tra cinque minuti.

***

Ho deciso di rientrare a piedi.
Non so quanto tempo ci metterò, ma non m’interessa, non voglio pensarci. 
So solo che non voglio rientrare troppo presto in casa, non voglio vedere troppo presto il viso di Juan con quell’espressione rancorosa che mi farà solo sentire peggio di quanto già non mi senta, non voglio lasciare andare troppo presto il ricordo di Diego che ancora conserva sulla mia pelle un lieve calore.
Quando smetterà di fare male?
Nessuno merita questo dolore.
Non lo merita Diego, non lo merita Juan e non lo merita neanche il fidanzato traditore.
Traditore?
Diego…
Adesso… siamo tutti traditori.
Vorrei tornare a venti minuti fa, per non interrompere il bacio, vorrei tornare a venticinque minuti fa per non girarmi, per non tornare sui miei passi e per non posare le mie labbra sulle sue, vorrei tornare a quel pomeriggio fuori dal centro estetico in cui Diego mi ha chiesto se ti va un caffè? per rispondergli che scusami, vado di fretta, vorrei tornare a quella mattina d’aprile per non salutare Juan alla fermata dell’autobus, perché anche se lo sapevo che era quello giusto non avrei mai immaginato che col tempo sarebbe stato tutto sbagliato, vorrei solo che qualcuno mi desse la soluzione e vorrei non sapere con questa lucidità disincantata e dolorosa che la soluzione al mio problema non c’è.
Ripercorro all’infinito quello che è stato, quello che non è stato, quello che sarebbe dovuto essere, quello che non sarebbe dovuto essere e quello che non sarà mai e non so trovare via d’uscita. 
Il mio cuore è un labirinto.
Preso in trappola, spalle al muro. 
Qualunque cosa farò sarà la cosa sbagliata. 
Il cielo è coperto da un sottile strato di nuvole.
Vorrei vedere la luna: il suo cerchio piatto e candido o la sua falce sottile e luminosa, non importa, perché tanto non le so le fasi lunari.
Non si vede neanche una stella.
Non mi piace questo mese di maggio, l’estate sembra non arrivare mai.       
Quella mattina d’aprile di quattro anni fa, invece, faceva così caldo…
Ora il cielo è coperto da un sottile strato di nuvole che si addensano rapide e non promettono niente di buono.
Accelero il passo: non voglio rientrare troppo presto, ma non voglio neanche che la pioggia mi lavi via questo calore dalla pelle.
Voglio che sia il tempo a diradare le sue impronte. 
[3]

***

Mi appoggio meglio al cuscino di Rafael, troppo sottile per i miei gusti, e lo osservo.
Sempre così sicuro di me nei miei settanta chili di muscoli, non mi ero mai accorto di quanto io sia in realtà piccolo rispetto ad Andrés.
Rispetto a Rafael, no, sembro solo basso: l’eterno dramma della mia vita, una promettente carriera sportiva stroncata all’età di diciassette anni, scartato dalla squadra di basket del liceo. E una promettente carriera sportiva nel judo che in quello stesso anno mi si è aperta davanti, questo sì, ma sempre con quella punta di amarezza di chi sa che è il corpo che ha scelto il suo futuro, perché io il corpo non potevo sceglierlo.
Comunque, vicino a Rafael sono sempre sembrato basso, sono sempre stato basso, fin dal primo giorno, Rafael a vent’anni mi sorpassava già di quei venti centimetri che la natura non mi ha dato e che ad essere meno stronza poteva anche darmi.
Vicino ad Andrés, invece, sembro proprio piccolo. Eppure, sarà forse sei o sette centimetri più basso di Rafael, e di certo non è un ragazzo dal fisico massiccio.
Solo ora, all’età di ventisette anni, posso rimettere in discussione tutto ciò che sono o che ho sempre pensato di essere, metto in discussione l’immagine che ho sempre avuto di me, metto in discussione la mia realtà più intima, la più profonda. 
Mi metto in discussione anche nel corpo.
Osservo più attentamente Andrés che dorme e per la prima volta vedere qualcuno che dorme non mi fa ridere. 
Osservo il bel viso rilassato, la bocca rosa semiaperta, le mani da maschio immaginate e nascoste sotto il cuscino, il bianco della sua pelle bianca abbandonato all’aria della stanza, alla luce della lampadina, scoperto, svelato, nudo, abbandonato allo sguardo stanco di chi lo osserva senza malizia, finalmente senza desiderio perché il desiderio dorme, appagato. 
Lo osservo con lo sguardo limpido e curioso di chi si avvicina a un’opera d’arte per la prima volta nella vita.
Il suo fisico si può descrivere solo in negativo, dicendo quello che non è, o attraverso coppie di aggettivi contrapposti: come il David di Michelangelo, si può solo togliere tutto ciò che non è ‘Andrés’ fino ad ottenere il suo corpo per contrasto. Si può descrivere solo per approssimazione, accostando sempre di più la parola alla realtà senza per questo riuscire a renderla aderente: rimarrà sempre un margine di nebbia tra il suo corpo e la descrizione, che potrà essere colmato solo con lo sguardo. Il suo corpo è un quadro impressionista, di un candore impressionante, descrivibile solo per tocchi progressivi che man mano ne costruiscono l’immagine globale, senza la pretesa di rendere la fisicità di questo corpo che è un corpo davvero, con un peso e una massa e una densità così presenti nello spazio. 
Andrés occupa lo spazio con una naturalezza che sa lasciare senza parole, persino senza le parole per descriverlo. 
Anche quando dorme. 

***

Apro la porta.
E quello strap, che si legge sempre nei libri e che nessuno prova mai davvero, quel suono come di qualcosa che si rompe dentro, adesso lo sento: e lo strap è il suono del castello di carte che si sfascia davanti ai miei occhi, è il suono del castello di menzogne che si fracassa ai miei piedi e mi ferisce gli occhi con questa verità troppo cruda per non mozzare il fiato, troppo bianca e troppo vera per non fare male.
È colpa mia.
E il paio di scarpe in più nell’ingresso non l’avevo neanche notato.

 

 


 

[1] Abbreviazione del termine affettuoso lepurush che in Albanese significa “coniglietto” o “leprotto”.
[2] Casomai, Martino Corti.
[3] Frase ispirata alla canzone di Giovanni Amirante, Saraghina, “Lascia che sia il tempo a diradare le tue impronte”.

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Capitolo 2
*** II ***


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II

Lunedì 7 maggio

«Non sei pronto? Guarda che siamo in ritardo!»
«Non siamo in ritardo, mancano venticinque minuti!»
«Saremo in ritardo se non partiamo entro cinque minuti»
«Tu parti ora, io parto tra cinque minuti»
«Non ricominciare… Non oggi, eh… Oggi no, proprio no!»
«Tu non ricominciare. Lo sai che è così»
«E tu sai che io non lo sopporto! Almeno oggi!»
«E tu sai che io non sopporto–
«Che cosa? Che ti vedano con me?»
«Che pensino che sono gay»
«Ma tu sei gay!!»
«Non lo sono! Ma che vuoi saperne tu

Nella stanza cade il silenzio.

«Fai come ti pare»,

ribatte gelido,

«Vado da solo»,

esce di casa così, senza neanche girarsi a guardarmi.

***

Ieri sera io volevo solo fare l’amore con te…
…ma tu hai dormito per l’ennesima volta sul divano.

***

Apro deciso la porta del piccolo centro estetico, una pioggia di campanelli tintinna e annuncia il mio arrivo.

«Buongiorno!»,

la ragazza alla reception mi accoglie con un sorriso allegro e cordiale, ricambio solo con un cenno del capo.

«Ho appuntamento per un massaggio alle quattro, Rodríguez»
«Certo, mi faccia controllare… Ah… ma… non dovevate essere in due…?»
«C’è stato un contrattempo, sono solo»
«Sì, chiedo scusa. Può accomodarsi nella stanza in fondo al corridoio a sinistra, il massaggiatore le dirà cosa fare»

***

Apro deciso la porta della piccola sala giochi, i rumori dell’interno m’investono e accrescono solo il mio malumore.

«Buongiorno, è libero un tavolo da biliardo?»
«Buongiorno!»,

l’uomo di mezza età controlla al computer,

«Sì, è libero il tavolo tre»

Lascio i soldi sul bancone e salgo le scale.
Mi avvicino al ripiano delle stecche e ne scelgo una; sto per dirigermi al tavolo che mi è stato indicato quando mi accorgo di un ragazzo biondo, che mi fissa da uno dei tavoli vicino alle finestre.
Mi fermo un attimo, lo guardo a mia volta.
È solo, ha interrotto il gioco e mi sta fissando, senza nessuna espressione particolare. Ha la pelle chiara e i tratti del viso precisi, puliti.
Deglutisco.
Mi avvicino.

«Posso allenarmi qui?»

Il ragazzo allarga le belle labbra in un sorriso, scopre i denti bianchissimi:

«Prego»,

mi fa l’occhiolino.
Non guardarmi così.
Non sono gay.

***

Il massaggiatore è un ragazzo alto, forse qualche centimetro più basso di me, ma comunque alto, e potrà avere venticinque o ventisei anni, credo. È un ragazzo carino dalla pelle scura: accenno di barba sulle guance, ruvida alla vista, e capelli mossi legati in un codino.
Le sue dita lunghe premono più volte nello stesso punto, all’inizio sembra non succedere nulla ma poi le sento affondare nella carne, i nodi nei muscoli si sciolgono uno alla volta.

«Cerca di rilassarti di più…»,

il massaggiatore ha anche una bella voce profonda,

«Così non riesco ad entrare»
«Sono stressato»
«Infatti, per questo devi cercare di rilassarti»
«Senti, il mio ragazzo mi ha dato buca, è normale se sono stressato, no?»

***

Mi guardi con il sorriso sfacciato, lo sguardo frizzante.
Smettila.
M’innervosisce.
Non sono gay.
Le dita m’iniziano a sudare, la presa sulla stecca si fa meno salda.
Non dovevo passare il gesso sulla punta?
Mi chino sul tavolo, posso sentire il tuo sguardo percorrermi la linea della schiena, del sedere, delle cosce.
Sono gay.
L’erezione preme indesiderata contro il bordo del tavolo.
No, non sono gay.
La biglia schizza come impazzita e si scontra più volte sul legno del bordo, totalizzando punteggio zero.
Il ragazzo mi si avvicina e mi appoggia la mano sulla spalla.
Non smette di sorridere.

«Perché non la finiamo in privato, la partita?»

Non sono gay.

«Magari la metti in buca… stavolta…»

Ma vorrei.*[1]

***

Ho finito il turno, sto per uscire quando il cellulare mi vibra nella tasca dei jeans.

          Non faccio in tempo oggi pomeriggio, 
          ho incontrato un vecchio amico. 
          Ci vediamo per cena!

Il ragazzo a cui ho appena fatto il massaggio passa davanti, Rafael, mi pare, e si chiude alle spalle la porta del centro estetico senza una parola di saluto.
Rimetto in tasca il telefono e lo seguo in strada, d’istinto, senza pensarci.

«Aspetta… Ehm… Rafael, giusto?»

Si gira.

«Sì…?»
«Ho… un’ora libera… inaspettata. Ti va un caffè?

***

«Ah…! Mh… sì… Ah! Aah…»
«Nh…! Mh…»
«Sì… sì, così…»

I respiri sono irregolari, rumorosi.
Ho la pelle sudata e non abbiamo nemmeno usato il preservativo.
Il ragazzo resta sdraiato sul letto e mi chiede piano, senza guardarmi:

«Come ti chiami?»
«Juan… Tu?»

Non Rafael
Ti prego, non Rafael

«Andrés…»
«Beh, Andrés… È stato un piacere…»
«Ahah… Piacere mio…»

Faccio un sorriso tirato e inizio a vestirmi, non voglio restare in quest’albergo da quattro soldi neanche un secondo di più.

«È stato bello…»,

continua lui,

«Ci rivediamo?»
«Non giudicarmi… Io…»

Non sono gay.

«…io sono fidanzato…»

All’improvviso, il suo sguardo sembra farsi assente.

«Non ti giudico… Ho il ragazzo anch’io…»

Bisbiglia appena.
C’è quest’attimo sospeso in cui mi guarda negli occhi con uno sguardo che sembra quasi… triste.
Eppure… 
Ci scambiamo lo stesso i numeri di telefono…

***

«Posso prendere l’ordinazione?»
«Sì, per me un cappuccino»
«Per lei?»
«Anche»

La cameriera si allontana.

«Mi chiamo Diego»
«Sempre Rafael»
«Certo… Piacere»,

sorride.
Non c’è niente da ridere. Sono pessimo, con le battute.

«Piacere mio»

Ci stringiamo la mano, o meglio, lui mi stringe la mano in una morsa ferrea.

«Allora… mh… sei fidanzato…»
«Sì»
«Da quanto tempo…?»
«Quattro anni. Quattro anni oggi… Il massaggio era per festeggiare, sai, volevamo fare qualcosa di carino… Però oggi il mio ragazzo m’ha fatto incazzare»

Annuisce appena, come se capisse.

«Sì, anche il mio… ieri sera…»

Lo guardo in faccia, all’improvviso interessato.

«Ah… Io… capisco… Quindi… anche tu…»

Sei gay.

«Sì…»
«Mh…»

Annuisco.

«Il mio ragazzo dice di non essere gay»,

gli dico all’improvviso.
Sai?, non è mica una cosa che dico a tutti.
Nella vita c’è bisogno di un po’ di pudore.
Forse è perché gli somigliavi tanto, la pelle scura e il sorriso caldo, la curva solida delle tue spalle, le mani così diverse ma forti come le sue.
O forse, invece, è perché non gli somigliavi affatto.
Forse è stato per il modo in cui hai sgranato gli occhi scuri, profondi, bellissimi anche nel loro lieve strabismo, forse è per questo che ho fatto quel gesto con la mano che voleva dirti ‘ma questo non è importante, certo che è gay’ e ti ho raccontato di mio padre, che sa che sto con un uomo e non so come l’ha presa, ma l’ha presa, in un modo o nell’altro, e ti ho raccontato di mio padre che non l’ha mai incontrato perché lui non vuole farsi vedere in giro con me, forse è stato per quello sgranare degli occhi, per i laghi profondi dei tuoi grandi occhi scuri, forse è per quello che ti ho raccontato di come lui ami ripetersi la bella favola del ‘tu sei l’unica eccezione’ e di come, tra tutti i possibili modi di amare, quello non era più il modo giusto di amare me.
O forse è stato per gioco.
Forse è per gioco che anche tu mi hai raccontato dei suoi orari strampalati, delle ore passate a farsi il bagno in piena notte in compagnia delle sue riviste, delle frustrazioni di cameriere che si spacca la schiena in quel ristorante di lusso, delle ambizioni di aspirante chef che non riesce a realizzare neanche continuando a spaccarsi la schiena in quel ristorante di lusso, forse è per gioco che mi hai parlato dei suoi succhi di frutta.
Forse è sempre per gioco che mi hai offerto il cappuccino.
Sì, forse è iniziata per gioco.
L’inizio è sempre per gioco.

***

Appena entro in casa Andrés mi viene incontro nel piccolo ingresso.

«Bentornato»,

un incontro fugace di labbra e già si allontana,

«Vieni a vedere cos’ho cucinato!»,

mi dice sorridente.
Entro in cucina: un’enorme torta al cioccolato a tre strati troneggia sul tavolino.
Serro le labbra in una piega dura.

«Cos’è, ceniamo con questa?»

Cazzo, sono stato troppo acido.
Ma non lo capisci che a me serve una cena vera?

«Beh, poteva essere un’idea…»,

borbotta, offeso come solo lui sa offendersi, con quell’atteggiamento sdegnoso da principessina.
Non ribatto, apro il frigorifero e prendo i resti della cena di ieri.

«Oggi è venuto un ragazzo a farsi fare un massaggio…»,

dico così, per smorzare la tensione, tanto per fargli sapere che non siamo l’unica coppia fatta male al mondo.

«Doveva venire col suo fidanzato, ma quello gli ha dato buca e allora si è incazzato»
«Col suo fidanzato?! E tu che ne sai?»
«Me l’ha detto lui…»
«Perché te l’ha detto?»

Assottiglia lo sguardo, sospettoso.
Oh, non cominciare.

«Boh, sarà stato così tanto incazzato da abbassare la guardia… Perché il suo ragazzo dice di non essere gay…»
«Cazzo, che situazione… Ma tu perché lo sai?»
«Perché qualcuno ha dato buca anche a me e allora ci siamo presi un caffè insieme…»

Sbuffa:

«Oh, scusami… Sono stato trattenuto…»
«Già… Com’è andata, almeno?»
«Mah, così… Abbiamo fatto due chiacchiere…»
«Ma con chi?»
«È… mh… un ragazzo che faceva il corso di cucina con me… ma tu non lo conosci…»
«Beh, ti sei divertito?»
«Non lo so…»,

scrolla le spalle,

«A ripensarci, preferivo venire con te…»
«Già, ci pensi sempre dopo…»
«Oh, che c’è?»
«Niente»
«Sicuro…?»
«Sì…»
«Davvero?»
«Ho detto di sì!»

Sbuffa di nuovo.

«Okay, okay…»,

alza le mani come a dire beh, scusami e riscalda il riso nel forno a microonde.

 

Diego si versa le porzioni nel piatto e si siede al piccolo tavolo della cucina, inizia a mangiare senza neanche aspettarmi.
Carino, sì, davvero carino.
Ma c’avremmo messo cinque minuti a cucinare!
Mi siedo accanto a lui senza apparecchiare, tanto t'incazzi sempre perché non so mettere bene i tovaglioli e le posate ai bordi del piatto, e non sei lateralizzato, e come fai a non riconoscere la destra dalla sinistra, sei un cameriere e manco sai apparecchiare, stronzo, fallo tu il cameriere di merda, no?
Inizio a mangiare il cibo avanzato direttamente dai contenitori di plastica, che umiliazione, un aspirante cuoco che mangia così… Questa è l’immagine di me che non vorrei mai mostrare a nessuno.

«Ascolta…»,

inizio dopo un po’, facendo il vago,

«Ho un po’ di mal di schiena… Perché non mi fai un massaggio…? Magari con… ehm… due candele… o… non so, un po’ d’incenso…»
«Scusami, sono stanco… Perché invece non vediamo un film?»
«E sposatela, quella maledetta tv!»
«Ehi, ehi! Calmino!»
«Sono calmissimo»,

ribatto, gelido,

«Ho solo pensato che nel mio giorno libero avresti voluto stare da solo con me»
«E io ho pensato che nel tuo giorno libero avresti voluto farmi trovare qualcosa di pronto–
«Ho cucinato la torta!»,

lo interrompo.

«Qualcosa tipo una cena! Per mettermi di buon umore…!»
«Ah, quindi è colpa mia se non hai voglia!»
«Non è questo, sono stanco»
«Finché ti pagano, non sei stanco!»
«Ma ti senti? Per favore… E di cosa stiamo parlando?»
«Lo sai benissimo di cosa stiamo parlando!»,

quand’è stata l’ultima volta che hai fatto l’amore con me?,

«Quand’è stata l’ultima volta che hai fatto un massaggio a me?!»
«Andrés, per favore!!»,

mi urla in faccia,

«Quand’è stata l’ultima volta che tu hai cucinato per me?!»

Ammutolisco.
Ferito nell’orgoglio.
Non mi capacito di ciò che ho appena sentito.
Per dieci secondi nessuno parla, non ci guardiamo neanche negli occhi.
Perché finisce sempre così?
Perché devi sempre rinfacciarmi tutto?
Non è colpa mia!
Sento la rabbia crescermi dentro, sento gli occhi pizzicare, due lacrime di frustrazione premono per uscire.
Mi alzo di scatto e me ne vado senza dire nulla, mi chiudo in bagno sbattendomi rumorosamente la porta alle spalle.

 

Sbuffo di frustrazione, volevo condurre una conversazione civile e invece ho perso il controllo un’altra volta.
Non ne posso più di vedermi davanti agli occhi il tuo viso contratto da quell’espressione dura, la piega rigida verso il basso delle tue belle labbra.
Esco dalla cucina, all’improvviso mi si è chiuso lo stomaco. Mi accascio sul divano e passo una mano tra i capelli.

«Ma sì, bravo… Complimenti… Dai, che così andiamo lontano…»,

e non so neanche con chi sto parlando davvero.

 

Perché non fai più l’amore con me…?
D’istinto, quasi senza pensarci, mi ritrovo a scrivere al cellulare. Mando a Juan un messaggio, gli chiedo di fare un’altra partita a biliardo.

***

          Opzioni:
          cancella messaggio.
          Sicuro di voler cancellare questo messaggio?
          Cancella.

Metto in standby il cellulare e lo riappoggio sul comodino.

«Chi era?»

Resto qualche secondo sovrappensiero, con lo sguardo perso nel vuoto.
Rafael mi dà un colpetto leggero sulla spalla.

«Allora, chi era…?»
«Eh?»,

mi riscuoto.

«Il messaggio…»
«Ah, sì… Mia madre…»
«Non rispondi?»
«Rispondo domani… Vuole solo sapere come sto…»
«Che figlio terribile…»,

commenta senza distogliere lo sguardo dalla televisione, che trasmette gli ultimi successi musicali.
Non rispondo. Distendo le gambe nel letto e riprendo in mano il libro, cerco di concentrarmi nella lettura ma mi sorprendo a percorrere più volte la stessa riga con gli occhi senza capire neanche una parola. Appoggio anche il libro sul comodino, mi giro verso Rafael e gli metto a tradimento una mano tra le gambe.

«Oh! Che fai? Sono ancora arrabbiato per oggi!»

Dolce come sempre, eh, tesoro mio?

«Scusami…»

Mi dispiace tanto, Rafael. Mi dispiace tanto…

«Non ti va…?»,

addolcisco il tono, quando lo sento irrigidirsi appena sotto le dita.

«Sì…»,

anche lui addolcisce la voce,

«Mi va…»


 

Martedì 8 maggio

Mi sveglio a mezzogiorno passato.
Non sono più abituato ad addormentarmi presto, e neanche a svegliarmi presto.
Apro lo sportello del frigorifero e deformo la bocca in un’espressione di disgusto. Mi nausea l’odore dei cibi salati così di prima mattina.
Prendo il cartone del succo di frutta all’ananas, svito il tappo e bevo appoggiandoci direttamente le labbra, senza versarlo in un bicchiere, senza neanche chiudere il frigorifero. Richiudo la confezione e la rimetto dentro, anche se la sento talmente leggera da capire benissimo che ormai è quasi vuota.
Tutto ciò che fa impazzire Diego di fastidio: mi pare di sentire la sua voce nella testa, chiudi quello sportello, e prenditi un bicchiere, perché non butti il cartone?
Scrollo le spalle.
Al cellulare ho un messaggio non letto, chissà quando è arrivato.
Juan?
Ho una leggera stretta allo stomaco che non so bene se sia speranza o paura.

          Buongiorno, principessa!*[2]
          Scusami per ieri sera.
          La torta era buonissima, come sempre…
          Non riesco a tornare per pranzo, 
          ma non volevo lasciarti a bocca asciutta…
          Visto che non sono bravo come te, 
          ho ordinato a domicilio al ristorante greco, 
          te lo portano alle tre.
          Puoi pagare con i soldi nel mio comodino!

Il messaggio è stato scritto senza neanche un’abbreviazione.
Non capisco perché Diego ha interrotto gli studi dopo il liceo: tra le persone che conosco, è quello che padroneggia la grammatica in assoluto meglio di tutti.
Spero quasi che Juan non risponda mai al mio messaggio.

***

«Sei sicuro che è gay?»
«Eh?»

Camminiamo affiancati in direzione centro estetico, dopo un pranzo improvvisato e inaspettato al ristorante greco dove Rafael ha voluto portarmi a tutti i costi per ricambiare il cappuccino di ieri.

«No, dico… Il tuo ragazzo. Come fai a saperlo? Forse lo sa lui, no?»
«No»

Scuote la testa con una sicurezza di sé che non ammette repliche,

«Perché lui… fa l’amore con me…»,

bisbiglia.

 

E vorrei dirtelo, che fa l’amore vuol dire che si fa scopare e che questo gli piace e che sempre ci dà di potenza e non di resistenza e anche se quando lo prende dura appena di più dura sempre poco e si vede, che gli piace, e se non sei gay non ti piace, punto e basta.
Vorrei dirtelo e sto per farlo ma non lo faccio, perché mi anticipi:

«Comunque è facile: ho letto da qualche parte che gli etero pensano al sesso ogni nove secondi e i gay ogni cinque, quindi basta controllare se ogni cinque secondi ti guarda tra le gambe oppure no»

Libero una risata leggera, scuoto appena la testa e ci penso su un attimo.
Lo farò.
Ci farò caso.
Lo penso anche se so benissimo che questa è una di quelle cose a cui invece non farò mai caso.

«Non pensi mai che magari è solo prudente? Non è una cosa che puoi dire al primo che passa»
«Ma non è questo: lui non lo nasconde, capisci? Lui lo nasconde a se stesso! È una questione di principio, se me lo dicesse chiaramente, almeno a me, o almeno a se stesso, pace, potrei sopportare questa vita da latitante, che sarebbe anche saggia, perché no, ma così… Lo so che mi sbilancio, lo so che esagero, ma mi ci porta anche, certe volte… Non sopporto che lo neghi così spudoratamente anche a me!»

Non lo sai ancora, ma tutta la mia vita è basata su principi ferrei: coerenza, sincerità con se stessi, onestà, onore alla parola data, puntualità e professionalità.
Ma soprattutto sincerità con se stessi.

«Ma tu sei… il suo primo ragazzo…?»
«È chiaro»
«E ragazze?»
«Boh…»

Scrollo le spalle.

«Che ne so, non gliel’ho mica mai chiesto. Non voglio sapere…»
«E lui anche, è il primo?»

Scuoto piano la testa.

«Come l’hai conosciuto?»

Ridacchio.

«È imbarazzante! C’ho fatto una figura di merda… L’ho salutato alla fermata dell’autobus perché l’avevo scambiato per un amico di mia sorella. È che… avevano i capelli tinti uguali! Quando ho visto che non era lui, niente, ormai gli ho detto scusami, ti ho scambiato per un altro e poi… niente… l’ho… diciamo stalkerato, per un po’…»

Diego sorride.

«E poi… all’inizio gli dava fastidio, credo… Perché si vedeva che ci stavo provando… E poi, beh…»

Ci fermiamo, siamo davanti al centro estetico.

«E poi?»
«E poi cosa?»
«Beh, cos’è successo?»
«Eh…»

Mi stringo nelle spalle, imbarazzato.

«E poi non si può dire…»

“Rafa… Non sono gay…”
“Sh…”
“Rafael…”
“Non importa…”
“Mi piaci…”

 

«Rafa?»
«Eh?»
«Posso chiamarti così?»
«Certo»
«Allora?»,

insisto.

«Allora che?»
«Allora…? Che è successo?»
«Ma niente…!»

Incrocia le braccia: ovviamente il discorso si chiude qui.

«Che schifoso…»,

mormora con un sorriso che va da un orecchio all’altro.

«E tu?»,

chiede di botto, forse per cambiare discorso.

«Che cosa?»
«Ah… ehm… come… com’è successo?»
«Ah… Ma… guarda… non c’è proprio niente da raccontare. Eravamo al liceo insieme, il primo anno ci parlavamo solo ogni tanto, mi sembrava carino, sì, ma alla fin fine, erano di più le volte che ci ignoravamo… Poi, il secondo anno abbiamo fatto una recita di classe, e… dovevi vederlo… Dovrebbe fare spettacolo, sul palcoscenico è così diverso… Dà il meglio di sé, ha… qualcosa… come un’aura… Sprigiona una luce, non so dire, i suoi occhi illuminavano la sala… Lì ho capito che lo volevo. Poi niente, c’abbiamo messo qualche anno, eh, ma alla fine ce l’abbiamo fatta…»

“Perché non la smettiamo, e basta? Siamo sinceri… È faticoso, continuare così…”
“Cos’è faticoso? Cosa dovremmo smettere?”

Me l’hai chiesto con quello sguardo furbetto di chi aveva già capito tutto.
E in quel momento anch’io l’ho capito, che potevo averti.
Ho capito che saresti stato mio.

***

Al rientro dal lavoro, Andrés mi viene incontro vestito di tutto punto e con i calzettoni di spugna ai piedi.

«Bentornato…»
«Ehi, stai già uscendo?»
«No, tra poco…»
«Ma hai un’ora d’anticipo! Tu sei troppo professionale»
«Non esiste troppo! O sei professionale, o non lo sei»
«Mh, se lo dici tu…»,

scrollo le spalle.
Andrés mi segue mentre vado in camera e inizio a spogliarmi.

«Ti è piaciuto il pranzo?»
«Sì, era buono»
«Magari la prossima volta ci andiamo insieme»
«Magari, sì…»

 

Appena rimasto in boxer, Diego entra nel bagno.

«Ti ho lasciato la cena pronta»

Sorride soddisfatto, mette i boxer nella cesta dei panni sporchi ed entra nella cabina della doccia.

«Ti ho comprato anche il vino»
«L’hai comprato a me? Che, devo ubriacarmi da solo?»
«Ma che c’entra?»
«Niente, scherzo…»

Mi appoggio alla parete, le braccia incrociate sul petto. Mi ostino a guardarmi la punta dei piedi, la stoffa pesante dei calzettoni di spugna che isola appena il freddo delle piastrelle.
Sono certo che anche ora Diego mi stia ignorando in quel suo modo così naturale, dall’altra parte del vetro talmente liscio e trasparente da non lasciare neanche un centimetro di privacy. Sono certo che anche adesso si stia lavando con quel suo particolare modo di fare come se io non ci fossi, regalandosi generoso alla mia vista e facendo però finta di non darmi importanza.
Ma ora sono io a non darti importanza, mi ostino a non guardare i tuoi svariati centimetri di privacy negata e generosamente offerta alla vista e cerco di trovare qualcosa d’interessante tra le fibre spesse dei calzettoni di spugna, che isolano appena il freddo delle piastrelle.

«Mi passi l’accappatoio?»
«Tieni»

Si siede sul coperchio del water e inizia ad asciugarsi.

«Andrés?»,

corruga la fronte, come fa sempre quando gli viene in mente qualcosa, qualcosa di dubbio, quasi sempre, e mi guarda serissimo negli occhi:

«Che devi farti perdonare?»

Ma te ne accorgi?
Le vedi le mie guance che sbiancano?
Le vedi o non te ne accorgi, perché la mia pelle è sempre chiarissima?
La senti la tensione che mi strizza i muscoli e m’immobilizza?
Capisci che non riesco a respirare senza dilatare le narici? 
C’è un tremolio in fondo ai miei occhi sbarrati?
Perché davanti a te devo sempre sentirmi così nudo?
Te ne accorgi che mi spogli con le parole? Che mi strappi di dosso i vestiti e la pelle, e non lasci respirare nessuna menzogna?

 

Andrés si stampa in faccia il suo migliore sorriso sfacciato:

«Lo sai benissimo…»
«No»,

ribatto lentamente,

«Non lo so»

Andrés torna serio.

«Scusami per ieri. E… per…–
«Va bene»,

Lo interrompo e lo abbraccio, non m’importa che l’accappatoio possa inumidirgli la giacca,

«Perché non resti un po’ con me?»,

gli sussurro all’orecchio, sfiorandogli il lobo con le labbra.

 

Quando sussurri, la tua voce sa essere straordinariamente sexy.

«Io… devo andare…»,

mi piange il cuore per quest’occasione mancata.

«Ma sei in anticipo…»

Mi passa una mano lungo la schiena, ma gliela blocco appena sopra le natiche.

«Non posso… Per favore…»

È già abbastanza brutto così.
Non ho mai odiato tanto il mio lavoro.

«Ho capito»,

Diego si stacca.

«Sei incazzato
«Non ho due anni. Sono dispiaciuto»

Ti guardo senza rispondere, triste.

«E non guardarmi così! Posso sempre farmi una sega»
«Ma io no!»,

ribatto stizzito.

«Questa è la logica conseguenza delle tue scelte»

Non riesco a decifrare questa intonazione. Dopo più di sei anni, pensavo di conoscerti un po’ meglio.

 

«Andrés?»
«Sì?»
«Io… ehm…»

Ti amo.

«Buon lavoro»,

gli sorrido sincero.

«Grazie»,

sorride anche lui.

***

«Ci sei?»,

chiedo ad alta voce non appena entro in casa, abitudine che non riesco a togliermi anche se so perfettamente che Rafael è già in casa perché la porta non era chiusa a chiave.

«Sono in bagno!»,

mi urla dall’altra parte del piccolo appartamento.
Mi accascio sul divano e mi passo entrambe le mani sulla faccia. Calcio via le scarpe, facendo pressione con la punta del piede destro contro il tallone della scarpa sinistra e viceversa. Ricadono pesantemente sul parquet del pavimento. Forse è il caso di comprarne un paio più leggero, appena il tempo si riscalda un po’. Sfilo la giacca, la lascio sulla spalliera del divano dietro di me e mi ci appoggio sopra.
Sono sfinito.
Anche se lavoro solo di pomeriggio, sono sfinito. Devo allentare un po’ i ritmi con la palestra del mattino.

 

«Bentornato»
«Grazie»,

risponde aprendo appena gli occhi.

«Dai, non dormire, ti ho preparato una cosa»

Vado in cucina e torno con due bicchieri colmi di frullato alla banana.

«Uuh, banana… Grazie!»

Juan appoggia le labbra al bicchiere e beve fino all’ultima goccia, densa, che riesce a colare lungo le pareti di vetro e staccarsi. Nel punto in cui si è accumulato più liquido cerca di raccoglierlo con la lingua, leccando l’interno del bicchiere. Non soddisfatto, si alza e va in cucina, mentre io lo seguo con il frullato ancora quasi intatto, concentrato solo nel decidere quale sarà il momento giusto per parlare. Juan prende un cucchiaino con cui raccoglie accuratamente tutto il frullato avanzato e finalmente, una volta colmo, lo mette in bocca e sorride trionfante.

«Hai da fare stasera?»,

mi butto, ora o mai più.

«No»

Risponde solo questo, mentre mette bicchiere e cucchiaino nel lavello e ci lascia scorrere sopra un po’ d’acqua.

«Allora… ti va di stare con me?»
«Certo»,

si appoggia al ripiano della cucina e incrocia le braccia.
Lascio il bicchiere semipieno sul tavolino e prendo fiato.

«Ti va di stare con me anche se io intanto sto anche con altre persone?»

 

Lo chiede parlando talmente veloce che per qualche secondo penso d’aver capito male.

«Che vuoi dire?»,

m’irrigidisco.

«Non metterti subito sulla difensiva!»
«Non ho fatto niente»

 

Non è vero!
Ti aspetti che io ti attacchi da un momento all’altro!

«Mia sorella fa una piccola cena per il suo compleanno, solo la famiglia e qualche amico, e niente, ha invitato anche noi»
«Perché anch’io?»
«Perché stai con me? È una cosa normale tra fidanzati, sai?»,

forse ho inacidito troppo il tono di voce,

«Non mi sembra molto educato se non vieni, vuole solo conoscerti»
«Non se ne parla»

 

Con la tua famiglia e tutti gli altri?
Vuoi umiliarmi così davanti a tutti quei maschi?

«Juan, è mia sorella
«Appunto, vacci tu»
«Ma veramente non te ne frega un cazzo di conoscere la mia famiglia? Io non sono nato d-da… da… da un fungo
«Senti, se a te va bene di fare il frocio davanti a tuo padre, a tuo cognato e a tutti gli altri, fai, io
«Io non faccio il frocio, Juan!»,

urla Rafael interrompendomi,

«Io lo sono!! E se stai con me, allora sei frocio pure tu!»

 

Juan deforma la bocca in una smorfia come se avesse ingoiato acido e fa per lasciare la stanza.

«Scappi dalla realtà?»,

lo spingo con le mani sulle spalle e cerco di ricacciarlo indietro, ma lui non si sposta, saldo nei suoi settanta chili di muscoli. Mi si blocca davanti alla distanza di dieci centimetri e si limita a sollevare la testa per guardarmi negli occhi con aria di sfida.

«Dici di non essere gay, giusto?»,

torno calmo.

«Non lo sono»
«Perfetto. Allora se non sei gay e se hai qualche considerazione della famiglia che mi ha cresciuto vieni stasera e dillo anche a loro, no? Diglielo, dai, sto con tuo figlio ma non sono frocio, come ho capito io capiranno loro, o ti vergogni forse di stare con me?»
«Non capiranno»
«E perché non capiranno? Non provare a dire che sono stupidi perché tu non sai proprio un cazzo di niente! Non capiranno perché è una stronzata, perché fa acqua da tutti i buchi e perché non ci credi manco tu! Perché se tu credessi tu per primo a quello che dici non esiteresti un secondo a venire con me stasera e dimostrare che hai ragione! Ma lo senti anche tu che cazzate t’inventi?»

 

Ora ti allungo uno schiaffo.

«Non sono gay!! Sei solo tu, perché non vuoi capirlo?!»

“Come ti chiami?”
“Juan… Tu?”
“Andrés…”

M’immobilizzo.
Non sei più l’unico.
La figura di Rafael davanti ai miei occhi si fa sfocata e la sua voce prende a rimbombarmi nelle orecchie. Lascio la cucina con le gambe improvvisamente malferme e la testa che pulsa, mi siedo sul divano e sprofondo il viso nel palmo delle mani mentre tutto mi sembra improvvisamente vuoto e privo di senso.
La consapevolezza somiglia sempre così tanto ad un mattone lanciato in pieno petto?
Fa sempre così male?
La realtà
la mia sola realtà
si è sbriciolata.
Non so più neanche se Rafael di là continui a strepitare, se mi abbia seguito fin qui o se invece se ne sia già andato in camera.
Ho bisogno di un po’ di tempo…

«Lasciami in pace…»,

bisbiglio all’orrenda vocetta, che poi è la mia voce, che nella testa continua a ripetermi frocio.

***

Quando attraverso la stanza per uscire, Juan non si muove, non alza nemmeno lo sguardo.
Lo guardo per un attimo, la mano già appoggiata sulla maniglia. Lo guardo così fragile, così piccolo e solo su quel divano, guardo le sue spalle ricoperte di muscoli ora completamente inutili per proteggerlo dalle insidie del mondo, del suo mondo interiore che lo sta consumando e in cui io non posso entrare.
Lo guardo e penso che da qualche parte esisterà pure un universo parallelo in cui io adesso sto attraversando l’ingresso, lo sto baciando e gli sto sussurrando ti amo
Ma non in questo, in questo universo faccio solo un piccolo sospiro triste e mi chiudo la porta alle spalle.

***

Sono gay sono gay
No non sono gay non sono gay
Dopo un certo intervallo di tempo che non ho nessun interesse nel quantificare, mi decido finalmente a uscire dall’immobilità in cui ero caduto e alzo piano la testa, mi guardo intorno.
Fuori sta già facendo buio. Forse ricomincerà a piovere.
Infilo la mano nella tasca della giacca e prendo il cellulare.
Ieri non so che mi è successo.
Forse tu sei una strega e io sono stato vittima del tuo incantesimo.
Ma oggi non succederà niente.
Io non sono gay.
Scrivo un messaggio.

***

          Non posso.
          Lavoro tutte le sere al ristorante Vesuvio*[3]
.

Rispondo solo questo e spengo il telefono, convinto che ciò basti per non rivederlo mai più.
Nina mi chiama, è ora di iniziare il turno.

***

Quando finisco la pizza, apro il frigorifero per prendere una lattina di birra fresca. Il vino rosso non l’ho neanche aperto, è qualcosa che si beve in due.
Appena vedo la confezione del succo di frutta la afferro di scatto per buttarla (forse nel secchio dell’immondizia, forse giù dalla finestra), ma mi fermo subito: è quasi piena.
Di quella vuota, non c’è neanche traccia.

***

Il Vesuvio è un posto veramente chic.
Il ristorante italiano più chic del quartiere: l’arredamento è chic, il personale è chic, il sorriso della signorina che prende le prenotazioni telefoniche, le mani del ragazzo che appende i soprabiti dei clienti, le uniformi dei camerieri, i cuscini delle sedie, le luci soffuse, le tende, i colori, i calici di vino, la carta del menù, la grafia con cui sono scritti i nomi di piatti che non conosco, i sorrisi dei camerieri, il tenue profumo dei cibi… tutto è tremendamente chic.
Mi guardo intorno: inizio a pentirmi di essermi precipitato qui di fretta senza curare più di tanto l’abbigliamento. È sgradevole questa sensazione di trovarmi in un posto che sembra non pensato per me, anzi: sembra pensato esattamente per tutto quello che io non sono. Mi sento un estraneo, uno straniero brutto, sporco e goffo in un mondo di persone dannatamente chic. Per fortuna, anche senza prenotare sono riuscito a trovare un posto in un piccolo tavolo all’angolo. Per essere un posto tanto chic, e di conseguenza pericolosamente costoso (per inciso, spero di riuscire a cavarmela con i soldi che ho nel portafoglio), è piuttosto affollato.
Finalmente, una giovane cameriera inizia a muoversi in quella che spero si mantenga la mia direzione. Ha un’eleganza raffinata nei modi, nello sguardo e nel lieve sorriso.
Quasi nello stesso istante Andrés entra nel mio campo visivo illuminando tutta la sala con lo sguardo magnetico dei suoi occhi scuri e all’improvviso non penso più a niente. All’improvviso il cuore e i pantaloni mi si fanno stretti e riesco solo a rimpiangere di non aver messo, se non la cravatta, almeno la camicia.

 

Nina cambia improvvisamente direzione e mi si avvicina discreta, m’intercetta a circa quattro metri dal tavolo.

«Andrés…? Che fai? Quello è uno dei miei tavoli…»
«Ah, sì… Scusami… Lo conosco, vorrei servirlo io…»

Mi guarda un attimo perplessa.

«Sì… certo. Allora, io faccio il tredici al posto tuo…»
«Grazie»

 

Non appena Andrés mi arriva davanti, il sorriso gli si spegne all’istante.

«Che vuoi?»,

sibila con le labbra tirate in quello che dovrebbe essere la pallida imitazione di un sorriso di circostanza.

«Non so, lei che mi consiglia?»
«Non ti ho chiesto cosa prendi, ti ho chiesto cosa vuoi da me»
«È un ristorante, no? Voglio solo cenare»
«Allora sei nel posto giusto. Spero che tu non abbia particolari esigenze economiche…»
«I conti in tasca me li faccio da me, grazie»,

piego le labbra in una smorfia acida, che sono certo non somigli a un vero sorriso più di quanto gli somiglia l’espressione ancora congelata sul suo viso.

«Allora, che ti prendi? Un primo, un secondo?»
«Cos’avete di primo?»
«C’è scritto lì»,

indica svogliatamente il menù.

«Il personale è sempre così disponibile?»
«Di primo abbiamo gnocchetti al Sagrantino, tortellini di carne alla panna e prosciutto, bucatini all’amatriciana»,

ha impostato la voce monocorde di chi ripete un copione già acquisito da tempo,

«Vuoi che ti dica a memoria tutto il menù?»
«No, grazie. C’è farina di grano?»
«Certo»

Schiocco la lingua con disappunto.

«Allora niente, sono celiaco»
«Ah. Sennò abbiamo risotto allo zafferano–
«Meglio un secondo»
«Di carne o di pesce?»
«Una fiorentina va bene. E un bicchiere di vino rosso, quello che vuoi tu»
«Va bene. Fiorentina alla griglia e vino rosso, quello che voglio io»
«Non prendi appunti?»

S’indica la tempia e si lascia andare a quello che sembra il primo sorriso sincero della serata, una luce beffarda gli brilla negli occhi.

«È tutto qui dentro»

Si gira e fa per andarsene ma non ha il tempo di muovere neanche un passo che lo richiamo.

«Sì…?»
«Non è vero che voglio solo cenare»

Andrés si irrigidisce.
Vestito così, sei straordinariamente sexy.

«Io… vorrei anche parlare… con te. Ho avuto una brutta giornata»
«E hai pensato a me…»
«È così»

Si guarda intorno, con espressione indecifrabile.

«Aspetta. Ti porto la fiorentina quanto prima»

 

Mentre mi destreggio tra un tavolo e l’altro, rifletto febbrilmente.
Sono sempre stato un dipendente modello, non ho mai dato motivo di lamentarsi a nessuno: né ai clienti, né ai miei colleghi, né tantomeno ai superiori.
Arrivo sempre con almeno mezz’ora d’anticipo, sono tra gli ultimi a lasciare il ristorante, non mi tiro mai indietro quando c’è da fare degli straordinari o da sostituire qualche collega, ho scambiato il giorno libero con Nina ogni volta che lei me l’ha chiesto, non mi sono mai concesso un’assenza da lavoro se non per malattia, neanche quella volta che Diego voleva portarmi alla beauty farm per il nostro sesto anniversario.
Sospiro, da un lato Diego ha ragione: sono troppo scrupoloso ed è colpa mia se la nostra storia d’amore è ormai alla deriva.
Dall’altro lato, sicuramente non c’è niente di male se mi prendo un paio d’ore di permesso con la scusa di accusare mal di testa e sento cosa ha da dirmi Juan. Il proprietario dovrebbe concedermelo senza problemi e anche gli altri sicuramente copriranno la mia assenza se non volentieri, almeno senza protestare.
Da un altro lato ancora, probabilmente Juan non avrà proprio nulla da dirmi: l’ha capito molto bene, non sono un adolescente alle prime esperienze. Ma proprio perché non sono un adolescente alle prime esperienze posso permettermi di andare con lui e partire quando più lo riterrò opportuno. Confido ancora nella mia capacità di gestire le situazioni.
E poi… sinceramente, in fondo m’intriga questo giovane uomo così concreto e un po’ sbrigativo, così diverso da me.

 

Finalmente, Andrés si avvicina con la tanto ambita fiorentina e l’altrettanto ambito responso.

«Ecco qua. Non ti ho portato il pane…»
«Grazie»
«Buon appetito»

Mi serve anche il vino e mentre lo versa nel bicchiere ne approfitta per bisbigliarmi all’orecchio:

«Va bene, tra un’ora finisco il turno, tu aspettami fuori, okay?»
«Sì»

Prima di allontanarsi mi guarda serissimo negli occhi:

«Solo due chiacchiere»
«È ovvio»

***

«Duri sempre così poco?»

Sono fradicio di sudore.

«Sei venuto subito anche tu…»,

borbotta Juan senza guardarmi, sdraiato su un fianco.

«È un caso»
«Anche ieri?»
«È che sei troppo bravo»
«Che puttana…! Prima mi insulti e poi fai il ruffiano!»
«È la verità»

Gli palpo il sedere.

«Beh, che fai?!»,

Si gira di scatto dalla mia parte.

«Scusa. Il tuo culo voleva toccarmi la mano»

Juan si lascia scappare una risata leggera.
Mi accoccolo vicino a lui e inizio a toccarlo.

«Non sei contento? Abbiamo ancora tempo per un’altra volta…»

***

«Ti piace…?»
«Sì… mi piace…»
«Sono più bravo… del tuo ragazzo…?»

Non me lo ricordo più, come facevo l’amore con lui…

«Sei molto bravo…»
«Anche tu… Sei bellissimo, Andrés… Sei bellissimo… sei bellissimo…»
«Sono più bello di lui…?»
«Sì…»

 

Non ho mai trovato bello Rafael.
Non ha mai pensato che fosse brutto, solo… non ho mai neanche pensato che fosse bello.
Mi sono innamorato, e basta.

 

Mercoledì 9 maggio

Apro la porta di casa.
Sono stanco.
Calcio via le scarpe infangate e tolgo la giacca inzuppata di pioggia. Lascio che sgoccioli sul pavimento, le gocce precipitano al suolo e formano una piccola pozzanghera.
Un bel temporale notturno è proprio quello che ci voleva per concludere in bellezza la giornata.
Il solito brusio proveniente dall’altra stanza mi accoglie come ogni notte ed è la traccia più viva e più vera della nostra vita vissuta in due. 
Nessun bentornato, nessun abbraccio.
Nessun calore.

«Buongiorno a te, carissima…»,

sussurro alla voce metallica.
Inizio a sentire in bocca il sapore amaro del caffè, eppure non ho bevuto caffè. Ho fame. Sempre lo stesso sapore amaro ogni volta che mi viene fame, dovrò chiedere al medico se è questione di succhi gastrici…
Per aver passato nove ore a digiuno e aver fatto più attività fisica del solito, non me la sto cavando male. Dovrei stare già morendo di fame.
Non mi piace solo cucinare, mi piace molto anche mangiare, solo che ora di mangiare non ho proprio voglia.
Apro la credenza, prendo una confezione di succo di frutta alla pesca e la apro. Bevo appoggiando direttamente le labbra, finché non mi sento dissetato e momentaneamente sazio.
Devo andare a dormire prima che mi torni fame.
Non ho neanche voglia di farmi il bagno, cazzo, Juan, mi fai passare la voglia di mangiare, mi fai passare la voglia di fare il bagno, ma cosa sei?
Sono contento d’aver speso due minuti in più a farmi la doccia prima di rientrare.
Entro in bagno e mi spoglio di tutti vestiti, anche quelli puliti o miracolosamente asciutti, li tolgo e li butto a lavare come chi si libera di una giornata troppo pesante, come se lavare i vestiti bastasse a ripulirmi la coscienza.
Mi guardo allo specchio.
Juan mi ha graffiato una spalla.
Tre strisce rosse mi marchiano a fuoco la pelle bianca come il latte.
L’hai fatto apposta?
O io stesso mi sono lasciato marchiare appositamente affinché Diego possa scoprirmi e porre la parola fine a questo dolore?
Indosso uno striminzito paio di slip e il pigiama: la t-shirt arancione perché da un paio di giorni non ritrovo quella azzurra, e i pantaloncini azzurri perché da un paio di giorni non ritrovo quelli arancioni, ma pazienza, nella vita succede anche di questo.
Entro in salotto.
Diego russa piano sul divano, accompagnando il rumore soffuso della tv.
La televisione parla e parla al suo corpo addormentato riempiendogli il cervello di chissà quali messaggi subliminali.
La spengo.
Il buio si impossessa della stanza, della casa, della mia testa.
Quasi come fosse diretta conseguenza della mia cecità momentanea, un altro senso, l’olfatto, percepisce nuovi stimoli.
Diego ha di nuovo fumato in casa.
Mi avvicino alla finestra, incerto, la apro. Un vento gelido che sembra venuto direttamente dalla Siberia mi fa rizzare ogni pelo del corpo e rabbrividisco sotto il pigiama leggero.
La richiudo.
Cerco di farmi strada verso la poltrona in stile vittoriano che non si abbina a nessun altro mobile della casa, ma era troppo comoda e non ho saputo resistere alla tentazione di comprarla. Lungo il breve tragitto, inciampo nelle ciabatte di Diego.

«Mmh…!!»

Non so se con questo mugolio di protesta, basso e prolungato, spero di svegliarti e per questo motivo non sono rimasto zitto, o se invece spero di non svegliarti e per questo motivo non ho urlato.
Comunque, non ti svegli.
Mi accoccolo sulla poltrona.
Il sonno mi schiaccia le palpebre, il cervello, le idee.
Affondo la testa nelle braccia e due lacrime sottili mi rotolano giù dagli occhi.
Diego, ti odio. Ti odio perché non riesci a non fumare in casa, non riesci a non lasciare le ciabatte in mezzo alla stanza e non riesci a spegnere quella cazzo di televisione, non riesci ad aspettarmi sveglio, a letto, a venirmi incontro quando rientro da lavoro, ti odio perché non mi sussurri più alle labbra bentornato, non mi tocchi, non mi baci, ti odio perché non fai più l’amore con me.
Mi odio così tanto perché tu non fai più l’amore con me.
Sai, mi ricordo ancora perfettamente il motivo per cui mi sono innamorato di te, non riesco a dimenticare l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore che diventa giorno dopo giorno più sfocata, lontana, confusa e irreale… e tutto questo è così… patetico
Mi odio perché non riesco a mettere la nostra storia d’amore prima del mio lavoro e delle mie ambizioni, mi odio perché non riesco a lasciarti e, maledizione, non riesco neanche a non tradirti.
E sai, Juan?, odio anche te, perché con te è talmente facile trovare un po’ di piacere…

***

«Juan…?»
«Mh…?»

Ceniamo uno di fronte all’altro, lentamente e in silenzio.

«Sei… ancora arrabbiato…?»

Juan sospira.

«Non lo so. Non so più che dirti, guarda… Sono arrabbiato con te, sono arrabbiato con me, sono incazzato col mondo intero e poi sono amareggiato, triste, e dispiaciuto, mi sento in colpa, vorrei prenderti a schiaffi, ho voglia di piangere, di lasciar tutto e… e di…»,

sospira di nuovo,

«Non lo so»,

prende aria e sbuffa sonoramente, soffiandola tra le labbra e gonfiando le guance,

«Scusami»

Mi mordo il labbro inferiore e lo guardo in silenzio.
Una volta mi hai detto che la mia espressione tipica è indecifrabile come quella di una sfinge. Sono sicuro che stai pensando questo anche adesso, della mia faccia.

«Juan?»
«Sì?»
«Pensi mai…»
«Cosa?»
«Che…»
«Mh…?»

Che sarebbe meglio se non m’avessi incontrato?

«Che…»
«Oh! Stai balbettando»

Mi sa che non voglio sentire la risposta.

«L’ho dimenticato»
«Che bugiardo»
«E se rapissi Mozart?»
«E chi è Mozart?»
«Il gatto, quello che gira qua intorno da un po’»
«Ah! Ma guarda che è una gatta»

Strabuzzo gli occhi.

«No!»
«Eh sì»
«E come lo sai?»
«Sì vede. Cioè, non si vede… che… che è un maschio»
«Che schifoso! Guardi i genitali degli animali?»
«Ma! Ma che cazzo dici? Non è che ci guardo, l’ho visto, e basta…»
«Me l’ero scordato… che esistono anche le gatte…»
«Eh, sveglio…»
«Ma ora non ci va più bene il nome Mozart?»
«Perché?»
«Non lo so, è una femmina…»
«E beh? Mozart è un cognome… E poi non è tua, quindi non puoi dargli un nome»

Lo guardo torvo.

«Penso che non se ne accorge nessuno se me la prendo. Passa più tempo qua…! E poi che faccio se un giorno prende e se ne va?»
«La lasci andare così com’è venuta, perché questa è la cosa giusta. Sai, no?, come si dice, se ami qualcuno devi lasciarlo libero di andare?»
«E da quando sei così filosofo?»

Juan schiocca la lingua nel suo tipico verso di disappunto.

«Non è questione di filosofia. Sarà anche solo un gatto, ma se non sei capace di lasciare libero neanche un gatto, come pensi di cavartela con gli esseri umani?»
«Mi stai lasciando?»

Mi guarda allibito.

«Rafa»,

parla lentamente, pesa le parole,

«Ti lascio alla prossima cazzata che dici, eh?»

Increspo appena gli angoli delle labbra in un sorriso. Una volta mi hai detto anche che non so sorridere. È vero.

«Hai ragione tu, non so cavarmela con gli esseri umani»
«Cioè?»
«Cioè non credo che sarei capace di lasciarti andare. Forse…»,

bisbiglio, quasi non volessi davvero farti sentire,

«…forse ti ammazzerei…»

Juan non risponde niente, perso in chissà quali pensieri.
Poso distrattamente lo sguardo sull’orologio appeso alla parete e per un paio di minuti non lo vedo neanche, non mi accorgo del ticchettio delle lancette e del loro rincorrersi ritmato e sempre uguale. Poi, come riscosso dal torpore, metto a fuoco l’ora.

«Okay, devo andare!»,

scatto in piedi.

«Dove vai?»
«Gelato con gli amici, vieni con noi?»

Serra le mascelle talmente forte che mi sembra di sentire lo stridio dei suoi denti digrignati.
Non gli do neanche il tempo di rispondere:

«Ho capito»

Mi hai rotto qualcosa dentro una volta di troppo.

«Juan»,

e se ti sembra che io ti stia minacciando, bravo, è perché ti sto minacciando,

«Non tirarla troppo, o prima o poi si spezza»

 

Apro la bocca per ribattere e io? Che dovrei dire, io? Sempre lì a pungolarmi con questa storia insopportabile! ma Rafael ha già lasciato la stanza.
Il problema è che le fratture possono crearsi in qualunque momento durante un rapporto e questa sembra proprio una di quelle fratture insanabili. Siamo corpo a corpo, due monoliti inamovibili, due ingranaggi che non s’incastrano, due guerrieri alla resa dei conti, ai ferri corti, un amore messo a ferro e a fuoco, due anime gemelle distanti anni luce che non sanno stare lontane eppure non riescono neanche a stare insieme senza farsi male.
Maledizione.

***

«Pronto, Diego…?»
«Ehi, ciao!»
«Sei a cena?»
«No, ho finito…»
«Ti disturbo…?»
«No no…»
«Sei… solo…?»
«Sono tutto tuo!»
«Ehm…»

Deglutisco rumorosamente e un po’ a fatica, la gola sembra essersi fatta più stretta.
È tanto grave se un gay chiede il numero di cellulare a un altro gay?
E se glielo chiede quando tutti e due stanno disperatamente tentando con le unghie e con i denti di tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva?
E se uno dei due gay chiama l’altro gay quando arriva ai ferri corti con il fidanzato pure gay, ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso?

«Rafa?»
«Scusa, non ti sentivo!»
«Ora mi senti…?»
«Sì, dimmi pure»
«No, tu dimmi! M’hai chiamato tu, eh…»
«Oh, giusto. Ehm, sì, ehm, hai… hai molto da fare adesso?»
«No, perché?»
«No, così, perché, non è un appuntamento, eh?, mi chiedevo solo… è… che sono libero e… mi sto annoiando e allora… magari…»
«Mi stai chiedendo di uscire?»
«No!»
«Rafael?»
«Eh, sì, scusa, non parlavo con te, ma ora parlo con te, sì, insomma, ti va un gelato?»

È tanto grave se un gay disdice un impegno con gli amici per stare insieme a un altro gay a cui ha precedentemente chiesto il numero di telefono, quando tutti e due stanno disperatamente tentando con le unghie e con i denti di tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva? 
E se il primo gay fa tutto questo all’insaputa del proprio fidanzato pure gay ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso?
Perché suona tanto come un tradimento?

***

«Ah, lui mi piace un sacco!»,

indico col cucchiaino verso la televisione, sta passando in onda la pubblicità di un telefilm in prima mondiale e l’attore coprotagonista è tutto ciò che si potrebbe volere in un uomo,

«È proprio il mio tipo!»
«Cazzo, che figo! Credo che sia il tipo di tutti! E lui, gli somiglia?»
«Sì, come no»,

rispondo sarcastico e sghignazzo,

«Soprattutto l’altezza»
«Perché?, è basso?»
«È alto un cazzo e un barattolo! E non solo è nano, è uno scimmione peloso tutto muscoli e niente cervello–
«Oh, oh! Tutto muscoli!»,

Diego ammicca e mi interrompe, ma io lo ignoro:

«…e non si zitta un secondo! Non fa altro che sparare cazzate da mattina a sera con la sua vocetta acuta che non si può sentire!»

A parte quando canta…
Anche se ultimamente non canta più tanto…
E non ride… neanche tanto…

«Perché niente cervello, poveraccio?»
«Cioè, no, secondo me in realtà è molto intelligente, eh, però ha studiato poco, perché fin da piccolino è stato avviato alla carriera sportiva–
«È un atleta?»
«Adesso fa l’allenatore di judo ma fino a qualche anno fa faceva proprio le gare e ha vinto anche qualche medaglia, se lo cerchi in internet forse trovi anche qualche video… Però per fare lo sportivo non ha finito il liceo… All’inizio, figurati, è stato contentissimo, tanto la scuola fa schifo a tutti, poi però… ogni tanto penso che sia un po’… forse non pentito, ma almeno amareggiato, o almeno… da quello che dice… È che ormai non studia più praticamente da dieci anni e un po’ si sente, quando parla… Fa qualche errore un po’ stupido… e va beh, nessuno è perfetto… E tra voi due, chi parla meglio?»

 

Mi prendi in contropiede.

«Ehm… Boh… è importante?»

Rafael scrolla le spalle.

«Nah… sono solo curioso»
«È che… non posso dirlo bene, perché Andrés non è di qui, viene da… un posto vicino Almería»
«Aah… Andaluso»,

c’è una traccia d’ironia nel modo in cui pronunci la parola ‘Andaluso’.
Sì, l’unico andaluso bianco della nazione, lentiggini capelli biondi e pelle da Biancaneve.
Potrebbe tranquillamente essere venuto qui da un altro mondo.

«Che c’è, non ti piace l’accento?»
«Non tanto…»
«Già, neanche a me. Ma tanto ormai parlo anch’io come lui…»
«Ma no, neanche tanto, sai? Non si sente troppo»

Immergo la punta del cucchiaino nel cappuccino, perso nei miei pensieri.

 

«Piuttosto, ma lo sai che Mozart è una femmina?»
«Il gatto? Quello che mi dicevi ieri?»

Diego mi risponde con leggerezza, concentrato a raccogliere la schiuma soffice e bianca.

«»
«E allora?»
«E allora?!»,

ma perché nessuno si accorge della gravità di questa rivelazione?

 

«E allora questo è terribile! Io… ma perché non l’avevo pensato? Che stupido! Ma io… io non ricordavo proprio che esistevano le gatte! Ho dato per scontato che un gatto fosse maschio, e… è… è stato uno shock!»
«E come l’hai scoperto?»,

ridacchio sotto i baffi, faccio solo finta di seguire il filo del discorso mentre in realtà mi sto prendendo gioco di lui, ma bonariamente, con affetto. È divertente quella faccia da bambino con cui parli del mondo, ogni volta che apri bocca è una nuova sorpresa.

«Me l’ha detto Juan…»
«E insomma, per te esistono solo i maschi, eh…?»

Rafael mette il broncio e guarda fuori dal vetro del bar, verso la strada, le luci, le persone.

«Per te no…?»,

borbotta.
Sorrido, finisco il cappuccino e non dico niente.
Certo, anche per me.

«Diego…?»
«Sì…?»
«Da dove viene il fascino?»
«Boh… Perché?»

Scrolla le spalle.

«Perché io non sono affascinante»
«Eeh…»,

emetto un suono prolungato che dovrebbe essere solo l’inizio di una parola all’inizio di una frase che dovrebbe smentirlo, ma dopo un lungo secondo rinuncio al mio proposito,

«No, in effetti»
«Eh, lo so»
«Però sei molto carino»

Te lo dico serio e lo penso davvero, mentre ti guardo negli occhi, non lo dico solo per consolarti. Non lo so neanch’io dove, ma tu sei indubbiamente carino.

«Grazie…»,

abbassa lo sguardo per un istante soltanto.

«Sì, ma da dove viene il fascino?»,

riprende subito dopo, senza darmi tregua,

«È qualcosa che si più ottenere col tempo o ci si nasce? È legato a una parte fisica del corpo oppure no?»

Devo pensarci un momento.
Penso ad Andrés, senza dubbio uno dei ragazzi più affascinanti che abbia mai incontrato.

«Mmh… Sai, forse… è nel viso… negli occhi o nel sorriso… no, negli occhi no, nello sguardo…»
«È diverso secondo te?»
«Non lo so… Ma penso che se ipoteticamente si potesse togliere gli occhi a qualcuno e metterli a qualcun altro senza che questo sia, scusami, fosse?, scusa, non lo so, straordinariamente schifoso, mi segui?, se si potesse fare probabilmente non avrebbero lo stesso sguardo, perché lo sguardo è dato da tutto il viso, dalla pressione dei muscoli facciali, da… boh, non lo so neanch’io da cosa…»

Mi stai guardando negli occhi con lo sguardo fisso di un bambino, serio e interessato, e solo adesso noto qualcosa…

«No, però forse mi sbaglio… Perché tu hai qualcosa come una lucina che ti brilla in fondo agli occhi…»
«Smettila! È imbarazzante!»

Rafael volta la testa di lato, di scatto.

«Scusa… Quindi forse non è lo sguardo…»
«Non lo so, non ho mai riflettuto sullo sguardo. La voce, forse?»

Penso di nuovo ad Andrés e scuoto deciso la testa.

«No, la voce no, decisamente. Forse è solo una questione di atteggiamento generale, il modo di muoversi o di occupare lo spazio o qualcosa del genere»,

concludo con un’alzata di spalle, non saprei che altro dire.

«Insomma, ho capito, non riuscirò mai ad essere affascinante»
«Non puoi solo accontentarti di essere carino?»
«Carino può essere straordinariamente simile a bruttino»
«Non dire cazzate, carino è carino e basta, altrimenti direi che sei bruttino, no?»

Piega verso l’alto solo un angolo della bocca, simultaneamente alla spalla destra.

«Se lo dici tu. Senti, ma… e se fossi un sentimento… Quale saresti?»

Il discorso sul fascino t’ha già stancato?
Tu t’annoi subito, eh?

«Un sentimento? Certo che fai domande strane. Tu che saresti?»
«L’ansia da prestazione»
«Eeh?!»
«Ma non sessuale! Quell’ansia che ti viene prima di una prova…»
«Sei un tipo ansioso?»

Si mordicchia il labbro inferiore.

«Un po’, ma tanto non si vede. Cioè, Juan dice che sono glaciale, che non riesco a esprimere bene le mie emozioni, che non ho il pieno controllo dei muscoli facciali, che soffro della Sindrome di Asperger, un volta m’ha chiamato Vergine di Ghiaccio, sai?, ma insomma, non è colpa mia, sono fatto così, non tutti hanno i pensieri che gli si leggono sul viso come un libro aperto, che c’è di ma–
«E se fossi una pratica sessuale?»

 

«Eh?! Che cazzo chiedi?»
«Quale saresti?»
«No, non mi piace questa domanda»
«E dai, si fa per parlare…»
«Tu che saresti?»
«Di sicuro qualche preliminare… Che so…»
«Tipo un massaggio erotico?»
«Ah ah… Sì, tipo. Tu invece…»
«No»
«Secondo me saresti…»
«E dai, smettila»
«Qualcosa di molto perverso!»
«Non urlare, cazzo!»
«Mmh…!»

Fai la classica faccia di chi è arrivato a qualche soluzione geniale e assolutamente inaspettata, con un sorrisino buffo e gli occhi che brillano, e io della tua soluzione geniale e assolutamente inaspettata ho paura.

«Bukkake!»

Sento le guance infuocarsi.

«Non so se esiste un altro termine per dirlo»
«Fa niente, ho capito»,

mormoro mentre mi guardo intorno, agitato, spero solo che nessuno abbia sentito.

«Allora…?»
«Che?»
«Ti piace?»

E a te?
A te piace? 
Me l’hai detto perché vorresti…? 
Con me…? 
Vorresti farlo… a me…? 
Su di me?

«Ehi, ti sei offeso?»
«No... »

Ti accarezzo il corpo con lo sguardo, mi sembra di vederti per la prima volta sotto una luce nuova.
Attraverso il cotone morbido, grigio, dei pantaloni da ginnastica posso vedere le tue forme… Un rigonfiamento tenue e perfetto che sembra promettere grandi cose…
È tanto grave se un gay si ritrova a spiare la bozza nei pantaloni di un altro gay quando tutti e due stanno disperatamente tentando con le unghie e con i denti di tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva? 
E se il primo gay, dimenticandosi per un istante solo del proprio fidanzato pure gay ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso, immagina di prenderglielo in bocca?
Scuoto la testa, schifato da me stesso.
Perché suona tanto come un tradimento?

 

Giovedì 10 maggio

“Ti piace…?
Sì… sì, così…
Sono più bravo… del tuo ragazzo…?
Sì… mi piace…
Sei molto bravo…
Come ti chiami?
Ah…! Mh… sì… Ah! Aah…
Andrés...
Sì… sì, così…
Sei molto bravo…
Anche tu…
Sei bellissimo, Andrés…
Sei bellissimo…
Sei bellissimo…”

***

«Ahi!»

Mi sveglio di soprassalto, Juan mi ha tirato una gomitata tra le costole.

«Ma che cazzo…?»

Lo spingo dalla sua parte di letto, lui beato continua a dormire e trascina con sé coperte e lenzuola.
Mi stropiccio gli occhi.
Non ho il coraggio di controllare l’ora… Tanto saranno le tre, o le quattro. O le cinque. No, le cinque no. Le quattro, forse. Comunque notte fonda, troppo fonda per essere svegliato da una gomitata tra le costole.
Afferro le lenzuola e le tiro verso di me un centimetro alla volta.
Mi giro a guardare Juan, intravedo la sua sagoma nella penombra della stanza. Attraverso le tende filtra sempre un tenue bagliore.
Si contorce piano, nel tipico modo in cui si muove chi sta facendo un sogno erotico.
Gli passo una mano sugli slip.

«Hi!»

Sussulta e si sveglia, spaventato e confuso.

«Sh… Sono io… Continua a dormire…»

Grugnisce appena e affonda la faccia sul cuscino.
Io infilo la mano sotto la stoffa.


 

Martedì 15 maggio

La tua collega è bellissima.
L’avrei pensato subito, quella sera al Vesuvio, se solo in quello stesso momento tu non fossi entrato nel mio campo visivo illuminando tutta la sala con lo sguardo magnetico dei tuoi occhi scuri.
E invece, in quel momento tu sei entrato nel mio campo visivo illuminando tutta la sala con lo sguardo magnetico dei tuoi occhi scuri e io ho sentito il cuore e i pantaloni farsi improvvisamente stretti e non ho più pensato né alla tua collega né a nessun’altra donna, bella o brutta che fosse, ho solo rimpianto di non aver messo, se non la cravatta, almeno la camicia, e la mia attenzione è stata tutta, senza speranza né possibilità d’appello, per te.
E questo m’infastidisce estremamente, perché ora la guardo e penso che sia davvero bellissima, lo penso per la prima volta perché al Vesuvio non ho avuto il tempo di pensarlo, la guardo e penso che avrei voluto pensarlo, avrei voluto pensare che era bellissima e non mi piace pensare che nonostante bellissima lo sia davvero non è comunque abbastanza bella da poter attirare prepotentemente il mio sguardo come invece sai fare tu, che senza far nulla, senza guardarmi neanche, entri di forza nella mia vita, nei miei pensieri, ti pianti lì come un chiodo rovente in mezzo al cervello e ti autoproclami il centro del mondo.
Sbuffo, innervosito.
Vi volto le spalle.
Una coppia di belli che guarda le vetrine solo una decina di metri più giù, a guardarvi potreste esser fidanzati, che ritratto patetico di questa felicità negata.
Vi volto le spalle, un grumo di disgusto mi opprime la gola, percorro rapidamente la via affollata del centro, in direzione opposta, ostinata e contraria.*[4]

 

«Andrés, che c’è?»
«Eh?»

Mi giro di scatto verso di lei, colto in flagrante.

«Che cosa?»
«Non mi stai ascoltando…»
«Scusa»
«Lo conosci?»
«Chi?»
«Quel ragazzo…»
«No…»

Lei si ferma un attimo a guardarlo più attentamente.

«Come, no? Non è il tuo amico? Dai, quello che è venuto a cena l’altro giorno?»

Lo osservo.
No, faccio solo finta di osservarlo.
No, no, lo osservo.
Gli passo il raggio laser sulle cosce, sul culo, sulle spalle…

«Andrés?»
«Eh? No, no, non lo conosco… È… sì, gli somiglia solo… molto»

Mi giro per guardarlo di nuovo, ma Juan se n’è andato.

«Andrés?»

Nina mi appoggia dolcemente una mano sul braccio e mi guarda dritto negli occhi, sembra appena preoccupata:

«Tutto bene…?»
«Sì, tranquilla»,

sorrido, e ancora non l’ho mica capito se quel corso di recitazione del liceo mi è tornato utile nella vita o se invece è stato solo una delle tappe nel mio naturale sviluppo di bugiardo, perché a recitare, a mentire, sono sempre stato bravo, bravo soprattutto quando mento a se stesso.

***

          Carina la tua collega.

Sei una maledizione.

          Grazie

          Hai da fare?

Sei una persecuzione.

          Lavoro

          Domani mattina?

Assolutamente no.

          Alle 10 è ok
 

 
Mercoledì 16 maggio

È buffo come, qualunque cosa io faccia, finisco sempre per ritrovarmi con te.
Ti inserisci nelle pieghe della mia vita come l’acqua, sei in ogni interstizio, in ogni crepa, in ogni fessura, riempi tutti i vuoti con la tua presenza così concreta, più concreta della televisione accesa, delle pantofole lasciate in mezzo alla stanza, della puzza dei mozziconi di sigaretta.

«Piove»
«»
«Aspettiamo?»
«»

No, non è buffo.
È preoccupante.
Se iniziamo a darci l’appuntamento, non ne usciremo mai più.

 
Andrés è sdraiato sul letto a pancia in giù e punta i gomiti sul cuscino. Con le gambe piegate verso l’alto, lascia dondolare i piedi mollemente e ogni tanto li sbatte contro il materasso producendo un tonfo attutito.
Guardo pigramente fuori dalla finestra di questa stanza d’albergo e le gocce di pioggia che s’infrangono leggere contro il vetro aumentano la mia sonnolenza.

«Non li usi mai i preservativi?»
«Sì sì, li usiamo. Non sempre, ma insomma… spesso. Rafa ha paura delle malattie»
«È il tuo ragazzo?»
«Sì…»

Si gira su un fianco e mi dà una leggera pacca sulla spalla.

«Bravo ragazzo, continua»
«Perché?! Hai qualche malattia?!»

Andrés scoppia a ridere, la sua risata cristallina è così forte e spontanea che mi serve un lungo momento prima di sentirmi deriso.

«Sarai mica tu ad aver paura, eh?!»,
 
continua lui, impietoso.

«Non ho paura!»
«No…?»

Metto il broncio.

«Forse… solo un po’…»
«Se hai paura puoi usarli, a me non dà fastidio»
«Stiamo facendo una cosa molto pericolosa, vero?»

Mi guarda serio. Troppo serio.

«Da che prospettiva?»
«Da tutte»

Ci mette un po’ a rispondere.

«Non ho malattie»,

dice lentamente, alla fine.

«Il tuo ragazzo?»

Schiocca la punta della lingua, verso che interpreto come un no, forse perché è così simile a come io schiocco la lingua quando voglio dire di no.

«Il tuo?»
«Usiamo il preservativo»
«Già. Bravo piccolo lepu»
«Piccolo… che?!»
«Coniglietto!»
«Eh?? Una cosa meno gay?»
«Ma io sono gay»

La tua sincerità fa paura.

«E come lo sai?»
«Ma che domanda è…? Lo so e basta, no? Tu come lo sai?»

Contraggo ogni muscolo del corpo.
Io non lo so.
Mi sembra di annaspare alla ricerca di aria, alla ricerca di una risposta.
Io non lo sono.
All’improvviso sento, fortissimo, il bisogno irresistibile di picchiare qualcuno.

***

 
Destro
Sinistro
Sono gay sono gay
Destro
Sinistro
No non sono gay non sono gay
Un pugno
Sono gay
Un altro
Non sono gay
Un altro
Rafa
I piedi scalzi
Ti odio
I calzoncini
Ti amo
Il pavimento freddo
Ti odio
Il sudore
Rafa, sono gay, non sono gay, sono quello che vuoi
Destro
Sinistro
Destro
Sinistro
Destro
Andrés, ti odio, ti odio, non sono gay non sono gay sono gay
Sinistro
I muscoli
Dolenti
Sono gay sono gay no non sono gay non sono gay sono gay
Un pugno
I tonfi sordi
Un altro
Un altro
Un altro
Frocio schifoso!
Scappi dalla realtà? 
Codardo
Se stai con me sei frocio pure tu!
Io non lo so!
Tu come lo sai?
Sono gay sono gay
Io non lo sono!
Bugiardo
No non sono gay non sono gay
Ma io sono gay!
Io non faccio il frocio, io lo sono!

Mi stai lasciando?
Traditore
Destro
Destro
Lasciatemi tutti in pace!!
Perdo il ritmo, colpisco con il palmo della mano, uno schiaffo alla vita, alla mia miseria, il sacco da boxe finora quasi immobile ondeggia lontano e poi si riavvicina pesante, cerco di colpirlo ma il sudore mi cola dalle ciglia e lacrime di frustrazione mi offuscano la vista e ormai ho perso l’equilibrio e la concentrazione e sono troppo sbilanciato e riesco a toccarlo solo di striscio.
Il sacco mi colpisce in pieno viso.
Cazzo!
Sento il naso pizzicare.
Mi ha rotto il setto nasale?
Mi lascio cadere a terra.
Mi porto le mani al volto, il naso fa malissimo.
È umiliante.
Ricevere un colpo al viso è così umiliante.
Non riesco a fermare le lacrime, lacrime di dolore, lacrime in risposta fisiologica al colpo ricevuto, lacrime di chi non ne può davvero più.
Non ne posso più, non mi capisco, non mi riconosco e mi do anche un po’ fastidio.
Lacrime liberatorie di un senso di colpa troppo grande.
Mi copro il viso con le mani e mi lascio piangere, per un po’.
 
***

Andrés rientra in casa.
Mi stacco dal silenzio della stanza, gli vado incontro e gli sorrido e lo bacio leggero sulle labbra, abitudine che non ho mai avuto ma che ad Andrés fa piacere, e a me fa piacere sforzarmi di ricordarmelo, ogni tanto.
Lo guardo incuriosito.

«Mattiniero…! Com’è che sei uscito stamattina?»
«Ah, ehm… Sì… Che ci fai qui?»
«Ci vivo»

Libera nell’aria una risatina nervosa.

«Già, l’avevo scordato. La palestra?»
«Ho finito prima. Allora? Che hai fatto?»
«Niente… commissioni… Pranziamo insieme?»
«Okay»
«Che profumo hai messo oggi?»

Sussulta.

«Eh? Ma… che dici?»,

si porta un lembo di stoffa davanti al naso e annusa la maglietta,

«Ma no… Nessun profumo…»

Mi avvicino e lo annuso anche io, affondo il naso nell’incavo del suo collo, vicino all’orecchio.
Andrés cerca di ritrarsi.

«Come, no? È buono»

Socchiudo gli occhi.

«L’hai… provato in qualche profumeria…?»

Avanti…
Ti sto dando la scusa perfetta… 
Dimmi di sì… 
Dimmi di sì…

«No…»,

sembra confuso,

«Ah! Forse… Sì, c’era… questo tipo… con… un profumo fortissimo… accanto a me… Sì, sull’autobus. Forse mi è rimasto addosso…»

Eppure… 
Non ascolto neanche cosa risponde, smetto di prestargli attenzione, improvvisamente mi viene in mente qualcosa.
È che mi sembra proprio di averlo già sentito… 
…da qualche parte…

 
Giovedì 17 maggio
 
Apro deciso la porta del piccolo centro estetico, una pioggia di campanelli tintinna e annuncia il mio arrivo.

«Buongiorno!»,
 
la ragazza alla reception mi accoglie con un sorriso allegro e cordiale.

«Buongiorno a lei, ho appuntamento per un massaggio alle quattro»
«Certamente, può dirmi il suo nome…?»
«Rodríguez, Rafael. Avevo telefonato… per chiedere…»

La ragazza scorre rapidamente una lista di nomi su un registro, non so neanche se mi sta ascoltando.
Seguo la punta del suo dito indice con lo sguardo, quando si ferma all’altezza del mio nome annuisce:  

«Sì, mi ricordo di lei, ha chiesto espressamente di Diego, giusto…?»

***

«Ah, Rafael, che sorpresa!»,

Diego mi accoglie con un sorriso beffardo, lo sguardo brillante.

«Anche stavolta dovevate essere in due…?»
«No, Juan non lo sa»
«Che ti faccio, oggi?»

Dio, tutto quello che vuoi.
È molto grave se un gay salta le lezioni del pomeriggio all’insaputa del proprio fidanzato pure gay, ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso?
E fa tutto questo per andare a farsi fare un massaggio da un altro gay, quando tutti e due stanno disperatamente tentando con le unghie e con i denti di tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva?
Perché suona tanto come un tradimento?
Deglutisco, nervoso, e mi guardo intorno.

«Tu che mi consigli?»
«Un massaggio concentrato sulla pancia…?»
«Perché sulla pancia?»
«Prima di tutto, perché è molto piacevole. E poi anche perché serve una certa dose di fiducia per farsi toccare sulla metà davanti del corpo, no? C’hai mai fatto caso?»
«È vero…»
«Allora, ti va bene?»
«Sì…»

 
Rafael si sdraia sulla schiena seguendo le mie indicazioni.
All’inizio gli appoggio solamente le mani all’altezza dell’ombelico e le lascio lì, così, per una manciata di secondi, ad alzarsi e abbassarsi seguendo il suo respiro che gli riempie l’addome come se fosse un neonato.
Poi, poco alla volta, sotto la pressione delle mie dita la sua pelle diventa più elastica e morbida.

«Rafa, ma tu che profumo usi?»

C’è qualcosa che mi inquieta fin nel midollo.
Ecco dove l’ho sentito.

«Eh? Moschino… Perché?»
 
Scuoto la testa, istintivamente, e scrollo le spalle, anche se Rafael non può vedermi.

«No, niente… È… è buonissimo…»
«Ti piace?»
«Sì…»
«Grazie»

Non m’importa niente del nome del profumo, i miei pensieri si attorcigliano tutti attorno alla stessa idea e le mani vanno quasi da sole sul corpo di Rafael che nella mia testa arriva a perdere consistenza e a somigliare forse più a materia informe da plasmare con il mio tocco, molto più di quanto mi ricordi un corpo umano, con un viso, un nome, una vita, una voce, un profumo. Sono sicuro che questa sia esattamente la stessa fragranza che ho sentito addosso ad Andrés ieri, quella fragranza che prima non avevo colto sul corpo di Rafael ma che deve essermi rimasta incastrata da qualche parte nel naso e nel cervello e nei ricordi perché mi sembra proprio di averla già sentita, da qualche parte, quella stessa fragranza che potrebbe essersi accumulata nelle poche eppure intense ore che abbiamo passato insieme, ore in cui mi è sembrato di avvicinarmi a Rafael molto più di quanto si possa esprimere a parole, perché mi sembra di sentir vibrare una connessione, tra di noi. Quella stessa fragranza che ha riattivato un qualche sensore ieri quando l’ho sentita addosso al mio fidanzato e che ora sta attivando un campanello d’allarme molto, molto pericoloso: quella fragranza che senza quasi avvertirla davvero forse stavo iniziando a trovare sexy sul corpo di Rafael e che ora trovo solo spaventosamente inquietante.
Il tuo corpo è un terreno molto pericoloso.
Lo conosci? 
Rafa, è possibile… 
…che tu…? 
Lo conosci?
Sei tu?
Puoi farmi questo?
E tu, Andrés?
Puoi farmi questo?

«Diego, quanti motivi ci sono per fare sesso?»

Interrompe il mio groviglio di dubbi e sospetti, lasciandomi un attimo interdetto. Mi viene spontanea una risatina leggera.

«Mah, infiniti, credo. Per amore per noia per soldi… Per fare la pace, per affermare potere, per divertirsi un po’… Per chiedere scusa…»
«Si può fare sesso anche per fare male a qualcuno?»
«Hai fatto sesso con qualcuno che ti ha fatto male?»

Sento qualcosa di amaro in fondo alla gola, al solo pensiero.

«No, dicevo… Fare sesso con qualcuno per fare male a un altro…»
«In che senso? Tipo… un tradimento?»
«Sì»
«Mi sembra un ottimo modo per fare male»

Gli esercito una pressione più forte sulla pelle, per attirare la sua attenzione.

«Rafa?»

Socchiude gli occhi.

«Mh?»
«Vuoi fargli del male?»
«No… Non ne sarei capace. Dicevo così, tanto per dire»

 

Venerdì 18 maggio

Se iniziamo a darci appuntamento, non ne usciremo mai più.
L’appuntamento ce lo siamo dato di nuovo, perché quando si inizia a nuotare in acque tanto pericolose è difficile tornare a riva, tornare a galla.
L’appuntamento è venerdì mattina dopo la palestra, per Juan, da quanto ho capito.
Per me, è venerdì mattina dopo sei ore di sonno invece di nove ore di sonno: una simile eccezione non l’ho mai fatta neanche per mia madre, neanche per Diego, neanche per me stesso, e nel giro di tre giorni è già la seconda volta che trasgredisco forse per Juan o forse per me stesso, per trovare un po’ di pace, per farmi un po’ di male, per sentirmi un po’ apprezzato.
Osservo di nascosto Juan che, semisdraiato, guarda fisso un punto sul muro rosa pallido davanti a sé.
Il suo corpo è così solido… La pelle è scura, calda, sudata, elastica, il suo fisico basso, ma compatto, muscoloso, sottile di profilo ma dalle spalle ampie… Lo osservo di nascosto e gli passo il corpo esausto e nudo ai raggi X e penso che una tale intesa sessuale con un’altra persona diversa da me deve essere una specie di miracolo, com’è possibile trovare in un altro così… tanto…? Con Juan è tutto semplice, il sesso è semplice, il piacere è semplice, la sua compagnia è una compagnia facile, è naturale, quasi scontata, se non c’è non ci penso ma se c’è esiste solo lui al mondo, Juan è una presenza confortante e così concreta nella mia vita…
Mi avvicino e gli appoggio il mento sopra l’anca, sulla fossetta, a dieci centimetri solo dal suo pene afflosciato di lato. Gli tocco la mano sinistra con la punta delle dita.

«Juan, che profumo usi?»
«Mh? Moschino, perché?»
«È forte…»
«Non ti piace?»
«Sì. È buonissimo… Però…»,
soppeso le parole,
«Mi rimane addosso…»

Juan annuisce lentamente, all’inizio non risponde niente. Poi parla e quando lo fa dice qualcosa che proprio non mi aspettavo: Juan ha una prospettiva tutta sua sulla vita.

«Allora compralo anche tu, no?»
«Mh…»
«Ti ha detto qualcosa?»
«Chi?»
«Il tuo ragazzo. Come si chiama?»
«Diego. Sì, ieri… No, insomma, l’ultima volta»
«Ho capito. Beh, basta che compri lo stesso profumo e poi non si farà più domande, no?»
«Già… Tu sei un truffatore nato!»
«Eh, che vuoi farci…! Uno deve imparare a cavarsela!»
«Ma che c’entra!»

Mi volta le spalle all’improvviso, sottraendo il suo corpo che mi manteneva in equilibrio. Affondo il mento sul materasso, troppo vicino al suo fondoschiena, cazzo, allontano subito il viso. Juan si sporge giù dal letto, fruga nel borsone della palestra e all’improvviso mi punta contro qualcosa come fosse un’arma:

«Ta daan!!»,

mi spruzza profumo su tutto il corpo.


«Aah! Dai!!»

Andrés strilla in un modo talmente gay da farmi venire la nausea, acutizza in modo innaturale la voce che altrimenti è piuttosto profonda e tossisce anche un paio di volte,

«Ma che fai?!»
«Tanto lo compri, no? Così adesso abbiamo lo stesso profumo!»
«Sì, io, te e Rafael!»

Nella stanza cade il gelo.
Serro la mascella.

«Ma come fai…?»,

mi chiede piano.
Appoggio la boccetta sul materasso con un sospiro, gli volto le spalle e passo un braccio sotto il cuscino.
La stessa domanda vorrei farla a te.
Ma in realtà la stessa domanda vorrei farla a me stesso e vorrei anche trovare una risposta, una qualsiasi, una che vada bene.
Perché Rafael è bastato per tutta la vita e ora non basta più?
Con che coraggio posso fargli una cosa del genere?
A chi sto facendo davvero male, a Rafa o a me stesso?
Cosa cerco di dimostrare con Andrés, a me stesso o a Rafael non lo so neanche più?
Perché continuo a cercarlo?
A dirgli di sì quando vengo cercato?
A stare così tanto bene con lui, con una facilità spaventosa?
Sono gay?
Vorrei solo trovare il coraggio di rispondermi sinceramente, per una volta nella vita.
Ma non oggi.
Ancora no.

«Non dirmi niente»

***
Andrés, mi farai impazzire.
Conosci un ragazzo che si chiama Rafael?
Lo conosci?
Se te lo chiedessi…
…tu…
…saresti sincero?
Andrés, sono stanco.
Stanco di rientrare in casa e sentire il suo profumo spaventoso sulla tua pelle.
Sono stanco di chiedermi, e se fosse con lui?, senza riuscire a darmi una risposta, senza trovare neanche il coraggio di chiedere e scoprirla, la risposta.
Sono stanco di non capire se la amo o la detesto, questa fragranza ricorrente, stanco di non riuscire a decidere se la trovo straordinariamente sexy o profondamente disgustosa.
Faccio un profondo sospiro.
Andrés sfoglia distrattamente una rivista sprofondato sulla poltrona in stile vittoriano che non si abbina a nessun altro mobile della casa, ma a sentir lui era troppo comoda e non poteva non comprarla.
Sfilo le cuffie dalle orecchie, spengo la musica, che ho iniziato ad ascoltare perché tanto con te non c’è dialogo, sempre con il naso incollato tra quelle pagine patinate, e ancora non hai buttato via il cartone del succo di frutta, e guai ad accendere la tv, se ci sei tu in salotto, poi!, bisognerebbe essere degli aspiranti suicidi per azzardare tanto, e allora meglio la musica, almeno mi illudo di stare con te, anche se tu distante un solo metro sei quanto di più lontano esiste al mondo, anche se sei diventato una terra straniera, sconosciuto e irraggiungibile come l’universo profondo.
Ma adesso basta, adesso sospiro e spengo la musica, e sfilo le cuffie, e ti guardo serio, deciso, e basta adesso perché adesso ho sentito il profumo, perché solo adesso ha trovato la via per le mie narici, l’odiato, l’amato profumo, amato perché mi ricorda Rafael e la sua parlata sciolta e le sue domande strane e la sua psicologia lineare e i suoi discorsi contorti, e la luce accesa in fondo ai suoi occhi, e odiato e temuto perché vorrei solo lavarlo via dalla pelle del mio uomo insieme al dubbio di due metà della mia vita che si uniscono senza di me e il dolore di non riuscire più a toccarti senza sfiorare anche il dubbio è diventato atroce, così atroce che

«Adesso basta»


«Eh?»

Sollevo lo sguardo dalla rivista, sorpreso:

«Come dici?»
«Andrés»

Non chiudi la S in fondo al mio nome, difetto di pronuncia che hai preso da me.
Mi guardi serio. C’è una sfumatura strana nella tua voce.
Come di supplica.
O di minaccia.

«Sì»

Avverto il peso della tua voce scura, appoggio a terra la rivista e ti guardo, aspetto.

«Hai ancora lo stesso profumo»
«Sì…»

Chiudo gli occhi e di recitare non ho più voglia, di mentire, anche a me stesso.
Faccio un profondo sospiro, prendo aria prima del tuffo, prima della caduta libera, prima di schiantarmi a terra, prendo aria e mi copro la faccia con le mani e forse li sento anche inumidirsi appena, i palmi delle mani, due gocce di rugiada sottilissima mi bagnano la pelle.

«Diego… è… è del…»
 
È del mio amante.
Diego, è da dieci giorni che ti tradisco.
Non ce la faccio più.
Ti amo.
Non so niente di lui, ma lui è tutto quello che tu non sei.
Diego, tu mi tradisci da mesi con la televisione accesa.
Ti odio.
Perdonami.
È colpa mia.
Lasciami.
No, è colpa tua.
Non mi ami più, vero?
Non sono degno di fare l’amore con te?
E tu?
Mi tradisci anche tu?
Diego, lui mi fa sentire bello.
Te lo ricordi?, quando mi hai detto

«Andrés da dove viene il profumo?!»
 
Mi afferri di scatto per le spalle mi spaventi mi scuoti con forza mi urli in faccia.

«L’ho provato in profumeria»
 
Non lo so, da che angolo del mio cervello sia nata e automaticamente uscita una bugia tanto spontanea, una schifezza così perfetta.
Mi guardi sorpreso.
 

 «In profumeria»,
 
ripeti lentamente, sembri non capire.

«Sì, tu… l’altro giorno… ti piaceva, no? Insomma, mi era sembrato che ti piacesse»
«Sei andato in profumeria?»
«Stamattina. Ho cercato un po’ ma poi l’ho trovato»

 
Mi guardi, sospettoso.

«E… come si chiama?»
«Moschino»

 
Quasi non ho il coraggio di battere le ciglia, forse per paura che la rugiada possa staccarsi e rigarmi le guance.

«E quanto costa?»
 
Passo al ventaglio una serie di ipotesi alla velocità della luce, non lo so non ho chiesto non mi ricordo sparo una cifra a caso era in sconto.

«Uffa, tu rovini sempre tutto!»,
 
sbuffo dopo solo un secondo e incrocio le braccia, piego le labbra in un’espressione imbronciata.
Diego mi guarda allibito:

«Perché?»
«Volevo farti un regalo! Non posso dirtelo, quanto costa! Ma mi rovini sempre tutte le sorprese!»
«Un regalo…!»,

 
ripete a bassa voce,

«Un regalo…»,
 
mi guarda col sorriso e scuote appena la testa, e chissà perché decidi di credermi, di berti le mie stronzate e d’ignorare questo stridio fastidioso che sono io che mi arrampico patetico sugli specchi.
Mi abbraccia.

«Torno al lavoro…»,
 
mi sussurra all’orecchio.
Annuisco piano, neanche il tempo di parlare e Diego è già uscito dal salotto.
Ha dimenticato le cuffie sul divano.
Batto un paio di volte le ciglia. Finalmente la rugiada si stacca, brucia sulla pelle come fosse fuoco.


 
Lunedì 21 maggio

La tua spalla è così solida.
Amo le spalle di Juan, le ho sempre amate. 
Me lo ricordo ancora lì alla fermata dell’autobus quattro anni fa, con i capelli tinti di chiaro e le braccia scoperte, quando ancora non aveva le spalle così solide eppure io già le amavo, tanto che a volte mi chiedo se davvero ho sbagliato persona quella mattina d’aprile quando Juan aveva le braccia scoperte e i capelli tinti di chiaro e io l’ho salutato chiamandolo con un altro nome, mi chiedo a volte se ho sbagliato persona o se invece in fondo lo sapevo già, che lui era quello giusto, anche se che ne esista uno solo giusto non l’ho mai creduto, ma già lo amavo, quella mattina d’aprile, quando l’ho salutato alla fermata dell’autobus e già lo sapevo che quelle sarebbero state spalle su cui appoggiare la testa mentre si guardano i film, spalle da stringere mentre si fa l’amore, e adesso, adesso che guardiamo pigramente un film al computer sprofondati sul divano, penso che sì, decisamente quella mattina non ho sbagliato persona, e le sue sono le uniche spalle su cui vorrò per sempre appoggiare la testa mentre guardiamo i film e stringere quando facciamo l’amore.


Guardiamo svogliati un film al computer, Rafael con la testa appoggiata sulla mia spalla mentre mi stringe piano una mano, mi accarezza coi polpastrelli le dita rovinate.

«Juan?»
«Mh?»
«Quando inizia il tradimento?»

Sussulto.
Dovunque inizi, io quel punto l’ho varcato.

«Perché?»

Scrolla le spalle, senza alzare la testa.
Mi chiedo distrattamente come faccia a sopportare i personaggi del film che si muovono inclinati da un lato, mi chiedo come può tollerarli mentre sfidano la forza di gravità e vivono le loro vite da una prospettiva tutta nuova.

«Così. Per sapere»
«Secondo te dove inizia?»
«Nella testa»,

risponde tranquillo, come se a questa cosa ci avesse pensato tanto.
Scuoto subito la testa e lo allontano da me, contrariato.

«Come, nella testa?»
«Sì, perché chi ama davvero qualcuno non ha bisogno di nessun altro, no? O anche se non ami… insomma, è questione di rispetto. Se stai con una persona non ha senso neanche che tu ci pensi a un altro, perché non dovresti neanche sentirne il bisogno»
«Cioè, mi stai dicendo che se penso di fare sesso con un altro uomo è tanto grave quanto se io ci faccio veramente sesso?»
«Ah! Hai detto con un altro uomo!»
«Non cominciare»
«Secondo me sì, se pensi a un altro già mi tradisci. Se stai con me ti devo bastare solo io, puoi anche dire, sì, passa un ragazzo, o le vedi in tv, e dici, non lo so, è bello, è proprio il mio tipo, me lo farei, anche, va bene, ma non davvero! Se inizi veramente a pensare di potermi tradire con qualcuno… stai già nella giusta direzione per tradirmi, quindi, in un certo senso, già tradisci. La fedeltà inizia nella testa»

Scuoto di nuovo la testa.

«Non sono d’accordo. No, ascoltami, non fare così! Nella testa siamo liberi, no? Solo nella testa possiamo fare tutto quello che ci pare senza fare male a nessuno. Si può mettere in carcere una persona perché ammazza, ma non perché immagina di ammazzare, neanche se dichiara di aver immaginato di uccidere, finché non agisce, non è un criminale, no? Perché con il tradimento è diverso? Io non sono un assassino perché penso di uccidere, quindi non posso essere un traditore perché penso di tradire, se togli la libertà di pensiero… che ci rimane?»
«Ma non c’entra niente! Ammazzare è illegale, tradire è solo un’ignobile bastardata! E anche una prova del fatto che non hai le palle. Un tu generico, eh! Non puoi confondere i due piani»

Accuso il colpo.

«Ma non pensi invece… che io ti dimostro molto di più il mio amore se non tradisco anche quando magari ho avuto… un pensiero…?»

Rafael scuote piano la testa, sconsolato.
Mi sembra di sentire ogni cellula del tuo corpo protesa al vano tentativo di farmi cambiare idea, di farmi pensare come te, c’è un moto di repulsione e di rifiuto verso le mie parole che si stacca dalle tue labbra nel momento in cui le serri e torturi con i denti quel punto un po’ più arrossato, irritato.

«Il punto è che io dovrei essere il centro del mondo per te! So che ci sono molti ragazzi molto più belli di me, ma se stai con me perché dovresti pensare a loro?»

Mi alzo in piedi e mi metto a sedere cavalcioni sulle sue cosce magre, puntando le ginocchia sul divano ai lati dei suoi fianchi.

«E io? Sono il tuo centro del mondo?»
«Sì!»,

neanche un’esitazione, mi bacia le labbra e sorride, poi mi appoggia le mani sui fianchi e inizia ad accarezzarmi lentamente.

«Juan, io lo so che non ho nessuna possibilità di convincerti, ma ti amo e vorrei fare una cosa con te, e credo…»,

abbassa la voce,

«…che se mi ami tu questa cosa la devi fare e basta…»

Sento una sgradevole sensazione, come di brutte notizie in arrivo, e anche una molto gradevole sensazione, che sono le mani di Rafael che mi stanno toccando, accidenti, il ragazzo ci sa fare.

«Dimmi»

 
«Tre mesi fa ho comprato due biglietti per il concerto della mia cantante preferita che stasera fa l’unica tappa a Madrid»
«Ho capito»
«E se non vieni con me…»,

mi balena in mente l’immagine di altre spalle, un po’ meno muscolose ma dalla linea curva così gradevole alla vista, dalla pelle scura come quella di Juan, due spalle su cui potrei appoggiare la testa anche durante un concerto perché Diego non nasconderebbe quello che siamo davanti agli altri, ma dura solo un secondo perché ecco che una figura senza volto ma con un nome ben preciso appoggia la testa su quella spalla e mi riscuote all’improvviso dai miei pensieri,

«Se non vieni con me–
«Lo so, si spezza»

Juan sembra molto tranquillo.
Quasi rassegnato.
Sospiro.

«No, fai quello che vuoi. Se non vieni con me lo chiedo a un amico»

Non riesco a capire se non lo sto ricattando perché un amore basato sul ricatto è un amore malato, oppure perché in realtà spero che dica di no così da poter chiedere a Diego.
Ma mi convinco della prima ipotesi quando Juan mi dice:

«Quello che voglio è venire con te»

E aggiunge in fretta:

«Anche se ovviamente noi due non stiamo insieme»
 

Rafael sorride che sembra un bambino.

«Questo è chiaro! Ma va bene, sono contento!»,

mi bacia di nuovo sulle labbra.
E voglio venire con te perché non so più chi è il mio centro del mondo e voglio che sia tu.

***

La cantante è davvero brava.
Sono contento di essere uscito, mi piace la sua voce forte, ma dolce, forse appena nasale e allo stesso tempo un po’ raschiante come se avesse una grattugia in gola che quando canta la sfibra appena.
La cantante è brava anche perché suona molti strumenti, alcuni dei quali neanche li conosco e li vedo adesso per la prima volta in vita mia e non so dare loro un nome.
Il concerto è all’aperto, in un parco enorme dove non ci sono nemmeno le sedie e tutti stanno seduti sull’erba, e non cantano, e non si muovono, ascoltano solo come se fosse a teatro e applaudono alla fine delle canzoni, e basta.
E forse non è neanche tanto famosa perché a vederla, anzi, a sentirla non siamo più di due o trecento, un’atmosfera intima e raccolta tanto che mi chiedo chi glielo abbia fatto fare di venire fin qui per guadagnare così poco, visto che da quel che ho capito anche il prezzo del biglietto era misero.
Tra lo scroscio di applausi mi guardo intorno furtivo, ma nessuno mi sta guardando, perché stiamo un po’ indietro e perché è buio e perché tutti hanno gli occhi puntati su di lei, che così esile con questa voce portentosa si inchina più volte con un sorriso quasi imbarazzato e biascica un graziestentato e i suoi lunghissimi capelli castani le vanno tutti davanti alla faccia.
Mi guardo intorno ma nessuno mi sta guardando e quando Rafael, estasiato, smette di applaudire allora allungo quasi con timore una mano e stringo la sua, dolcemente.
Vorrei solo dirti che non lo so se sono gay ma non me ne frega un cazzo, sono solo così contento di stare con te stasera sotto le stelle, ma Rafael sobbalza e si gira a guardarmi e mi stringe più forte la mano e mi sorride che sembra un bambino e poi si guarda intorno furtivo e immagino per star più sicuri mi lascia la mano, e il momento passa, e non dico nulla, e pazienza, lo dirò dopo, ed ecco che inizia un’altra canzone.

***

La porta di casa. 
Sbatte. 
I piedi calciano via 
malamente 
le scarpe leggere. 
Una confusione di mani sui corpi.
Le giacche cadono a terra.
Labbra.
Contro le labbra.
Ti mordo, succhio avido le sue labbra carnose.
Labbra sulla pelle del collo,
mani sul petto,
Rafael passa le mani sulle mie spalle le stringe mi spinge una gamba tra le gambe.

«Hai visto…? È andato tutto bene…»
«Sì… facciamo l’amore…»
«Sì…»

Mani sotto la stoffa, 
gli passo le mani sui fianchi, 
alzo la maglietta lo spoglio.

«Facciamolo qui…»

Lo mordo gli stringo la vita sottile strattono il bottone dei jeans.

«No… vieni in camera…»


Lo butto sul letto.
Juan si lascia spingere, si lascia spogliare.
Faccio pressione con un ginocchio contro il suo inguine, 
scopro il suo bellissimo petto.
I peli.
Ascellari.
Mi lecco le labbra mi chino alle grotte segrete.
Juan mi afferra i capelli 
sottili
dietro la nuca.

«Ah…!»

Li tira all’indietro, cedo alla forza apro appena la bocca.

«Juan–
«Sh…! Leccati questo…»

Slaccia il bottone.
Mi lascia i capelli.
Lo bacio
lo bacio
lo bacio
le mie mani frugano.


Sospiri
leggeri.
Mi lecca.
La lingua.
La saliva.
La tua bocca calda.
Il respiro è pesante e
gonfio
di piacere.

«Facciamolo in piedi…»
«Perché in piedi…?»
«Perché mi va…»


Mi spinge contro il muro,
i palmi aperti sulla parete fredda.
Il petto
chiaro
magro si alza e si abbassa 
veloce
di paura di voglia,
l’aria non basta il cuore non pompa
abbastanza
sangue
il sangue
è tutto a ingrossarmi il membro che Juan scopre quando abbassa a fatica i jeans attillati e i boxer,
a mezza coscia al ginocchio in terra, intorno alle caviglie.


Rafael che non è mai stato bello ora è bellissimo così chiaro nudo contro il muro bianco.
Le spalle larghe magre il punto vita stretto.
Gli premo il sesso tra le gambe lo schiaccio contro il muro gelido con il peso del mio petto caldo 


e il contrasto
freddo improvviso
davanti
ai capezzoli
al basso ventre
e bollente
dietro
sui reni
tra i glutei
bollente sui fianchi dove Juan stringe una mano calda
sudata
il contrasto
mi secca la gola.


Esisti solo tu che non sei mai stato bello ma che ora sei così vero e così bello contro il muro bianco, 
le mani contro la parete le dita bene aperte
la fronte appoggiata sul muro la nuca sudata
le spalle contratte che si alzano e si abbassano con il respiro
le gambe che tremano appena, 
solo questo esiste davanti a me,
il mio centro del mondo è il tuo corpo di spalle davanti a me che senza far niente
senza guadarmi neanche mi si pianta come un chiodo rovente in mezzo al cervello.
Stringo di più sui fianchi e lo faccio piegare con forza sulle gambe, lo faccio abbassare di quei dieci centimetri che bastano, quei dieci centimetri in più che la natura non mi ha dato e che ad essere meno stronza poteva anche darmi, lo faccio abbassare e quasi non sento le sue lamentele per le ginocchia che sbattono ripetutamente contro il muro gelido, ogni colpo secco dell’osso contro il muro è una spinta possente dentro di lui, 


Juan mi riempie con forza, con una naturalezza che mi sorprende ogni volta, con il suo calore, con le sue spinte profonde, con le sue dita che mi affondano nella carne molle del ventre e forse anche con la sua voce bella solo quando canta, non ne sono sicuro, ma mi sembra di sentirla riempirmi l’orecchio quando sussurra
«Rafa, mi dispiace… Io… Mi dispiace tanto…»

 
Martedì 22 maggio

Esco di casa sfoggiando alle ginocchia due lividi violacei grossi come noci.
Nessuno può vederli sotto la stoffa forse un po’ troppo leggera dei pantaloni chiari, ma io li sento, lì, presenti, dolenti, sull’osso appuntito, due lividi grossi come noci fonti di tutta la sicurezza che mi serve per uscire di casa ed andare in palestra, anche se all’attività fisica sono allergico, unica eccezione il ballo.
Li sfoggio con orgoglio nel tragitto tra lo spogliatoio e la sala degli attrezzi, sotto i pantaloncini da ginnastica di cui non mi vergogno anche se sono troppo corti, troppo attillati e di un rosso improponibile in contrasto con la mia pelle bianca e con i lividi violacei alle ginocchia, e non mi vergogno neanche dei lividi che ora tutti possono vedere, anzi ne sono orgoglioso, vorrei quasi dire, guardate, guardate tutti, questa è la prova che noi ci amiamo, perché queste macchie di blu sulle ginocchia sono il più autentico pegno d’amore di Juan per la mia pazienza ferita, frustrata, delusa, e finalmente ripagata ieri sera, con una stretta di mano inaspettata bella come l’aurora, e finalmente appagata contro un muro bianco gelido come il ghiaccio che m’ha colorato le ginocchia d’amore.
Entro nella sala degli attrezzi con i miei pantaloncini di un rosso improponibile e la pelle bianca come il latte e i lividi viola che fanno male ad ogni passo ma di un dolore quasi bello, che mi danno forse quasi il diritto di entrare nella sala degli attrezzi con questa tranquillità e con la sicurezza di chi si sente padrone del mondo sicuro di me e della mia presenza qui nella sala degli attrezzi e dell’assenza da lezione che se continuo così quei due esami mi resteranno indietro per sempre, entro e vado a passo sicuro verso Juan che fa gli addominali su un tappetino all’angolo e


quando lo vedo quasi mi strozzo con la saliva e smetto di fare gli addominali e scatto a sedere e riesco solo a dire lentamente

«Che ci fai qui…?»

e la testa mi pulsa: ho fatto un movimento troppo brusco. Avverto anche un leggero capogiro, maledettissima pressione bassa.

 
«La palestra è pubblica»,

rispondo solo, mentre cerco di convincermi che no, quel tono non può essere davvero così odiosamente freddo.
Più freddo del muro bianco.


«Da quando te ne frega qualcosa dell’attività fisica?»

Mi alzo lentamente in piedi e intanto non posso fare a meno di guardarmi intorno, furtivo come un ladro, colpevole, sempre colpevole, di amare Rafael, di tradire Rafael, di essere gay, di nascondere di essere gay, colpevole con lui e senza di lui, colpevole di ritagliarmi un minuscolo spazio tutto per me e colpevole anche ora che in questo spazio minuscolo siamo in due.

 
«Stai tranquillo, anche ieri è andato tutto bene… Voglio solo fare un po’ d’esercizio…»,

cerco di tranquillizzarlo a bassa voce, anche se dell’esercizio me ne frego e speravo solo di poter pretendere un po’ di più, dopo ieri sera.


«Non nella mia palestra!»,

lo sibilo ma in realtà vorrei urlarlo, vorrei solo urlarti in faccia che questo è il mio territorio! Qui non sono gay e non sono etero e nessuno pretende niente da me!
Ma se non urlo è perché il terrore di essere notato con Rafael è già schizzato alle stelle e forse è per questo che divento aggressivo, come un animale all’angolo, braccato, con il fiato sul collo, ogni volta che Rafael mi mette alle strette, ogni volta che pretende sincerità da me. Sincerità con me stesso, soprattutto. Quasi sempre.
O forse no.
Forse se non urlo è per via di questo ragazzo alto e molto carino che ho già visto qualche altra volta in palestra e che ora si avvicina pericolosamente a noi, cammina nella nostra direzione con quell’odioso sorriso di chi ha capito tutto di me, mi ha scoperto, ci ha scoperti, lui sa, e a solo un metro di distanza mi volta quasi le spalle ignorandomi e saluta Rafael con un caldo sorriso:

«Buongiorno!»


Sbarro gli occhi e forse un lieve rossore mi colora le guance e il cuore mi batte talmente forte nel petto che sono sicuro che Juan stia contando ogni colpo colpevole e traditore del mio cuore confuso e pericolosamente accelerato e messo alle strette in un fuoco incrociato tra il gelo di Juan e il calore di Diego riesco solo a balbettare la frase sbagliata:

«Ah! C-ciao, anche tu qui? Questo è Juan!»
«Questo è troppo»,

sbotta Juan e si allontana senza più guardarci.

***

Rientro in casa con un peso sul cuore.
Mi hai rotto qualcosa dentro una volta di troppo.
In cielo si stanno addensando le nuvole, sembrano batuffoli di cotone: le tipiche nuvole che portano pioggia, e che palle quest’estate che non vuole arrivare.
La casa è silenziosa, e semibuia, ma lo so che Juan è già dentro. Lo so o almeno lo spero, o forse invece lo temo: forse vorrei non rivederlo più per questa sera, vorrei non rivederlo più per l’intera settimana o magari per tutta la vita. 
Ma una parte di me, al contrario, vuole solo affrontarlo subito e porre la parola fine a questo dolore.
Mi chiudo la porta alle spalle con un peso sul cuore.
Spingo piano la porta della camera.

«Juan…?»
«Sta’ zitto»

È sdraiato sulla schiena, immobile e completamente vestito sul letto intatto. Tiene i palmi delle mani a coprirsi la faccia, anche la voce esce appena distorta, più profonda, rimbomba appena colorandosi di una tinta diversa.
Mi avvicino lentamente e mi fermo a circa un metro dal letto.

«Ehi… Non è successo niente…»,

sussurro.
Juan scopre il viso, si puntella su un gomito.

«Hai detto a quel tipo che stiamo insieme»,

m’interrompe, brusco. Il suo sguardo è truce.

«M-ma no, che dici? Non gli ho detto niente…»,

guardo nervoso a destra e a sinistra, non riesco a sostenere il suo sguardo accusatore.

«Perché sapeva tutto di me?»,

ogni frase è uno schiaffo alla coscienza.

«Non sa niente…»

Mi zittisce con un gesto della mano.

«Ma smettila! Che cazzate t’inventi?»
«E a te che te ne frega a chi racconto della mia vita?»,

gli ribatto, acido,

«Ho anche degli amici, sai? Ma tanto fuori da questa casa siamo due estranei…!»
«Tu non capisci!!»

 
Scatto in piedi e per un secondo mi si offusca la vista, Rafael si fa sfocato davanti ai miei occhi e mi gira anche la testa, il sangue prende a pulsarmi violento nelle tempie.

«Che cosa–
«Sta’ zitto! Sta’ zitto!»,

gli urlo contro come non ho mai fatto prima,

«Tu non mi conosci! Non hai capito un cazzo di me! Ma che vuoi saperne? E vai in giro a dire al primo stronzo che passa per strada, vai a dirgli–
«Io posso–
«No!»,


fa un passo verso di me, minaccioso, indietreggio,

«No, cazzo, tu dovevi solo stare zitto! Te l’ho detto subito, non sono gay! E poi, e poi, lo sapevi com’era! Potevi non starci se poi dovevi starmi a rompere il cazzo ogni secondo a pretendere cose da me–
«Avresti prefer–
«Stai sempre lì a dirmi cosa devo fare, e lasciami in pace per una volta! Non voglio uscire con te, è così difficile?!»

Indietreggio istintivamente e mi sembra anche di sentirmi inumidire gli occhi.

«Non voglio che vieni in palestra, non voglio che vieni in palestra, cazzo! Quello è il mio posto, non puoi solo lasciarmi in pace per una volta?!»,

ad ogni mio passo indietro Juan ne fa uno in avanti e le sue urla riempiono l’appartamento, colpiscono le pareti della stanza e le pareti della mia testa, colpiscono le pareti della mia coscienza e mi riempiono la testa e non ne posso più delle tue urla che fanno male,

«E stai sempre lì a dirmi chi sono, lo so io chi cazzo sono! Smettila! Smettila! Smettila! Non hai mai capito un cazzo di me! Pretendi sempre, ma quando dai? Sempre a chiedermi cose che non sopporto, e tu non vuoi farlo un cazzo di sforzo? Sono solo io quello sbagliato? Sempre lo stronzo! E no, eh, sei stronzo pure tu! Dici che mi ami, e non m’accetti per come sono! Ma che cazzo vuoi da me?»
«Sincerità–
«Non ti fidi?! Non mi credi?»

Tocco la schiena contro il muro gelido.
Juan mi urla contro a mezzo metro da me, la parete è talmente fredda da far venire voglia di piangere.


«Non lo sopporto! Non lo sopporto! Non sono gay! Non sono gay!! E tu devi solo fartene una ragione! E basta! Smettila! Mi vuoi? Sono così! E non dire ai tuoi cazzo di amici cose che non sai!!»,

gli afferro la mandibola e la stringo talmente forte da far diventare bianche le nocche.

«Mi fai male…»,

bisbiglia Rafael in un filo di voce.
Lo lascio all’istante, spingendogli la testa all’indietro con un movimento brusco che gli fa sbattere la nuca contro il muro.


Non avevo mai visto Juan così incazzato, e incazzato Juan mi fa paura.

«Io lo so che sono fatto male,

la sua voce non urla più, si sta incrinando. Vedo le mie stesse lacrime bagnarti le ciglia, tu piangi sempre così facilmente,

«E vorrei essere meno complicato! Ma tu dove cazzo sei quando ho bisogno di te?! Quando ho solo bisogno di un po’ di comprensione?»

 
Andrés non pretende mai niente da me!
Non riesco più a dire una parola, la mia testa è improvvisamente vuota e la stanza anche si svuota nel silenzio improvviso, rotto solo da un odioso singhiozzo che mi sfugge tra le labbra e dalla voce fredda di Rafael, che forse ha assorbito il gelo del muro e me lo sputa addosso con voce appena tremante, ma acida da fare male:

«Sai, Juan? Io non ho mai creduto, neanche per un istante, che al mondo c’è una persona sola giusta per noi»,

lo guardo sgranando gli occhi senza riuscire a spiccicare parola, senza sapere neanche cosa pensare,

«Quindi perché non mi lasci e ti trovi una ragazza che va bene per te?»


Juan scuote la testa:

«Tu non sai che cazzo dici…!»,

ma io non voglio vederlo un secondo di più, lo scanso con una spallata ed esco dalla stanza, sbattendo sonoramente la porta.

***

Sono sempre stato un dipendente modello, non ho mai dato motivo di lamentarsi a nessuno: né ai clienti, né ai miei colleghi, né tantomeno ai superiori.
Arrivo sempre al lavoro con almeno mezz’ora d’anticipo, sono tra gli ultimi a lasciare il ristorante, non mi tiro mai indietro quando c’è da fare degli straordinari o da sostituire qualche collega, non mi sono mai concesso un’assenza da lavoro se non per malattia.
E per Juan, ma questo è un pensiero talmente spinoso da farmi paragonare Juan a una malattia, una malattia del cuore incurabile e mortale, perché solo così posso sopportarlo: un pensiero così spinoso che preferisco resettarlo dai ricordi e convincermi che tutto sommato, sì, resto ancora un dipendente modello e, nonostante questo, o magari proprio per questo, oggi mi sono permesso di chiedere un giorno di ferie. L’ho chiesto perché non ne chiedo mai, e per questo il capo mi ha detto che sì, non c'è problema. L’ho chiesto perché ieri ho fatto di nuovo gli straordinari, come se fare gli straordinari potesse automaticamente promuovermi dal ruolo banale di cameriere a quello ambito di chef, che mi darebbe molti più problemi nella vita ma anche molte più soddisfazioni, ma insomma, ho fatto di nuovo gli straordinari e ho rinunciato al giorno libero, e ho rinunciato a Diego, alla sua televisione accesa e alle sue ciabatte sparse sul pavimento e alla puzza delle sue sigarette, ai suoi continui rimproveri, alle sue domande sospettose. Ma ho rinunciato anche alle sue labbra, alle sue mani, alla sua pelle calda… L’ho chiesto perché oggi è il giorno che ho scelto per salvare la mia relazione dal naufragio, perché chiedere un’assenza dal lavoro per Diego mi permetterà forse di perdonarmi per averne chiesta una sola in tutta la vita e di averlo fatto per Juan, mi permetterà forse di guarire il mio cuore dalla sua malattia incurabile e mortale.
Tavolo apparecchiato per due, i piatti preferiti di Diego, bottiglia di vino ancora sigillata dall’altra volta e che stavolta ci aiuterà forse a sciogliere i cuori (ma niente lume di candela perché per essere una quasi-coppia-sposata in crisi mi sembra eccessivo): mi viene da sorridere mentre contemplo il mio lavoro, mi sento come se stessi corteggiando Diego una seconda volta, e non sono più neanche tanto sicuro di essere stato io, a corteggiarlo la prima volta. Non sono neanche sicuro che basti una cena romantica per portarmi a letto un ragazzo, il mio ragazzo, quello che non dovrei aver bisogno di corteggiare per farci l’amore, quello che non ho mai provato a corteggiare con una cena romantica e a letto insieme ci sono finito lo stesso, una volta, due volte, sei anni, senza riuscire più neanche a ricordare se sono stato io a corteggiarlo o se invece sono stato corteggiato, ma stavolta va bene, andrà bene, lo corteggerò con una cena romantica anche senza lume di candela e faremo l’amore e ci perdoneremo e dimenticherò Juan una volta per tutte e guarirò da questa malattia incurabile e mortale e anche la nostra relazione guarirà, la salverò dal naufragio, anche senza lume di candela.


Rientro in casa proprio quando sta iniziando a piovere, e che palle quest’estate che non vuole arrivare.
Giro la chiave nella toppa e mi sorprendo di non trovare la porta chiusa a doppia mandata, la giro verso sinistra e dopo neanche mezzo giro la serratura scatta e la porta si apre.

«Andrés…?»
«Sono in cucina!»

Lascio le scarpe all’ingresso accanto alle sue e appoggio l’impermeabile sulla sua giacca leggera.
Andrés mi viene incontro e mi bacia leggero sulla bocca, abitudine che non ha mai perso e che io non ho mai avuto e che comunque non vorrei mai che perdesse.
Non ricambio il bacio, lo allontano spingendolo delicatamente sulle spalle e lo osservo con un mezzo sorriso.
Wow.
Andrés indossa la divisa da cameriere: camicia bianca infilata nel bordo pantaloni neri, con le maniche arrotolate a metà braccio, cravatta nera e grembiule pure nero, lungo fino ai piedi. E calzettoni di spugna bianca, perché tutto non si può avere dalla vita.

 
«Allora, ti sei incantato?»,
 
gli chiedo senza trattenere un sorriso, orgoglioso dell’espressione con cui mi stai guardando.
Scuote piano la testa.

«Stai bene…»,

mormora, anche lui con il sorriso sulle labbra.

«Grazie»

 
Dopo un secondo mi riscuoto, all’improvviso:

«Perché sei a casa?»
«Ho chiesto un giorno»

Annuisco.

«Non sei contento?»
«Sì, sì, sono contento»
«Dai, vieni a mangiare…»,

mi prende per mano,

«La cena si fredda»
«Arrivo subito, passo un attimo in bagno»
 
***
 
La cucina è un tripudio di odori.
Entro in casa mia e non la riconosco, il calore che si respira è tutto nuovo, inaspettato, e non è dovuto solo al forno che ci dissanguerà il portafoglio quando arriverà la bolletta.
Sono appena confuso, ma piacevolmente, come dopo una bella sorpresa.

«Andrés…?»
«Sì…?»
«C’è forse… qualcosa… che vuoi dirmi?»


Chiudo gli occhi, stringo i pugni sulle ginocchia, sotto il tavolo, faccio un profondo respiro.
Ora t’insulto, ti sputo addosso, spacco tutto, confesso, confesso.

«Sì»,

apro gli occhi.
Sembri sorpreso.

«Che cosa?»
«Scusami per ieri»

Scusa se ho messo un’altra volta il mio amato odiato lavoro prima della nostra relazione.

«E… e per…»
«Sì…?»
«…per tutti i succhi di frutta»

Diego scoppia a ridere:

«Lo vedi? Quando sei carino hai sempre qualcosa da farti perdonare»

Faccio un sorriso tirato.
Mantieni il controllo.
Avanti, fallo questo cazzo di sforzo.

«Non lo sai? I ragazzi sono così, no?»,

rispondo con nonchalance,

«O dobbiamo chiedere scusa, o vogliamo ottenere qualcosa!»

E nel mio caso, tutt’e due.

«Puoi dirlo forte!»
«E poi io sono carino»
«No»
«Eh?»,

sgrano gli occhi, non ci credo!

«Così non sei carino, sei molto sexy»

Ridacchio.

«Non te l’ho mai detto?»,

insiste Diego.
Scuoto la testa, anche se forse Diego me l’ha già detto, anzi, no, sicuramente me l’ha detto, più volte, ma mai abbastanza e certamente non di recente.

«Così come
«Con la divisa da cameriere»
«Ti piaccio?»
«Sì»
«Ti piaccio più con o senza?»
«Ahah…»
«Vuoi un po’ di vino?»
«Sì… grazie»

 
Osservo le sue mani da uomo muoversi sicure, esperte: ha le nocche delle dita grandi e le ossa formano un disegno in rilievo che sembra parlare, raccontare storie. Ho sempre amato le sue mani, anche quando dieci anni fa avevamo sedici anni e solo le mani di Andrés erano uomo: avevamo sedici anni, le spalle strette e neanche un pelo ma già le mani da uomo.
Tutta la sua virilità è concentrata nelle mani, che osservo con attenzione mentre stappano sicure la bottiglia di vino e me lo versano nel calice a stelo. Il liquido è di un rosso denso, intenso, di una tinta affascinante, da far venire voglia di fissarlo a lungo per imprimerne bene il colore nella mente prima di assaggiarlo.
Le sue mani virili si muovono sicure ed esperte anche quando tagliano i cibi con forchetta e coltello, quando mi versano il cibo nel piatto e poi quando tolgono i piatti sporchi e li mettono l’uno sopra l’altro in un’alta colonna e li appoggiano nel lavello.
Tutta la sua virilità è concentrata nelle mani, ma ora anche tutta la sua professionalità è concentrata nelle mani: la sicurezza con cui gestisce la cena è un piacere per gli occhi.
E poi parliamo.
Parliamo molto.
Andrés parla a bocca piena e sputacchia anche un po’, e ride di gusto e gesticola e parla e parla e parla, parla con le mani, parla con gli occhi e con la bocca piena. Andrés ha sempre monopolizzato l’attenzione, da sempre, da quando avevamo sedici anni ormai dieci anni fa, ma a me non dà fastidio. Non mi ha mai dato fastidio.
Andrés mi appoggia i piedi sulle cosce, sbattendo piano le ginocchia contro il tavolo, e sento il suo calore attraverso i calzettoni di spugna.
Mentre lo guardo ridere e parlare e gesticolare torno con la mente al liceo, al susseguirsi infinito di pranzi alla mensa quando guardavo Andrés mangiare e parlare e ridere e gesticolare e monopolizzare l’attenzione e io pensavo solo alle sue mani da uomo da cui volevo farmi toccare e alle sue labbra perfette da baciare con dolcezza e alla sua pelle liscia e candida da sfiorare con le dita tremanti o da stringere con forza con le mani sudate, a quella pelle del viso macchiata solo dal velo sottile di lentiggini che la sporcavano appena, che io adoravo e che Andrés si è fatto ripulire col trattamento laser come regalo per i suoi venti anni, e quando anni dopo gli ho chiesto perché? e lui ha risposto per piacerti di più allora finalmente mi è piaciuto davvero di più, per il pensiero e non per il gesto. Nel susseguirsi infinito di pranzi alla mensa io pensavo solo a quel velo di lentiggini e alla sua pelle candida e liscia e alle sue labbra perfette e alle mani da uomo e ai suoi occhi luminosi che avevano quello sguardo di chi capiva tutto di me e io non l’avevo capito, io di lui invece non avevo capito niente: per me quello sguardo era solo lo sguardo di chi diceva scopami e mi ricordo benissimo di come volessi farci l’amore ogni volta che incrociavo il suo sguardo luminoso e magnetico, perché anche se il suo non è mai stato un corpo di una bellezza mozzafiato il suo sguardo faceva miracoli, e mi ricordo anche della prima volta in cui finalmente abbiamo fatto l’amore e ancora non l’avevo capito, che quello sguardo, lascivo e voglioso solo ai miei occhi, in realtà era lo sguardo intelligente e vivo di chi di me aveva capito tutto, di chi riusciva a leggermi dentro.
Andrés mi legge dentro anche adesso, mentre mi serve il dolce e torna a sedersi e toglie la cravatta e slaccia un paio di bottoni della camicia e sorride e mi ammicca, e i suoi occhi brillano, due fiammelle gli ardono dentro.
Sarà il vino, sarà il cioccolato del dolce che come è risaputo ha effetti afrodisiaci, sarà il suo sguardo luminoso, ma adesso inizio a sentire caldo.
E poi, Andrés con la divisa è veramente sexy.
O la t-shirt, o la camicia, questo ho sempre pensato: due capi d’abbigliamento senza troppe pretese, ma indubbiamente i migliori per valorizzare il suo fisico. E tra i due, meglio la camicia.
Il suo corpo che non è mai stato di una bellezza mozzafiato ora ai miei occhi, forse innamorati forse ubriachi, sembra quanto di più ambito ci sia al mondo.
Come dieci anni fa.
Sono sempre stato consapevole della non-bellezza-mozzafiato del suo corpo, eppure la consapevolezza non è mai riuscita a spegnere il desiderio.
Forse era la luce nei suoi occhi a tenerlo acceso.
Eppure, il fisico di Andrés è obiettivamente strano: è abbastanza alto ma non lo sembra. Ha anche le spalle piuttosto larghe, eppure anche questo non colpisce la vista se non gli si dedica sufficiente attenzione (e io gliene ho sempre dedicata, molta). Ha le ossa grandi senza apparire massiccio, è magro ma non per questo risulta snello, o esile o sottile. Le gambe sono sode, perché a causa del lavoro passa molto tempo in piedi, camminando, e tuttavia, per il resto, non ha un filo di muscoli. In conclusione, il suo corpo non ha davvero nulla di eccezionale: è molto carino, questo sì, ma di una bellezza contenuta cui bisogna prestare attenzione, perché altrimenti rischia di passare inosservata.
Questo succede perché la sua bellezza si trova altrove. Le sue mani da maschio sono belle, le sue labbra rosa sono belle, la precisione indescrivibile dei suoi lineamenti è bella, il suo sguardo magnetico è bello, ma anche questo sbiadisce in confronto a ciò che è veramente bello, di Andrés: la presenza con cui lui vive il corpo.
E ora il corpo chiede di essere vissuto in due.

«Certo che devi averne combinata una proprio grossa, eh…»
«Perché…?»
«Stasera mi hai viziato troppo. Così rischio di abituarmi…»

Sorride:

«Se vieni a letto ti vizio un altro po’…»

A questo punto, è quasi naturale lasciare i piatti sporchi nel lavello e la tovaglia piena di briciole sul tavolo.
 
***

Gli appoggio le mani dietro al collo, gli accarezzo la pelle calda con la punta delle dita, lì dove si sentono appena le ultime vertebre, e sfioro le sue labbra calde con le mie, leggere come due ali di farfalla.

 
Le mie mani gli slacciano i bottoni della camicia, lentamente, e prima ancora di averla sbottonata del tutto sono già sulla sua pelle bianca, sotto la stoffa bianca, ad assaggiarla con le dita mentre la bocca gli assaggia le labbra di velluto, mai una screpolatura perché le nutre generoso di burro di karité in ogni periodo dell’anno. Le assaggio con le mie mentre scopro di nuovo il piacere della sua pelle sotto le mani, stringo la stoffa bianca tra le dita e la tiro leggero verso il basso, gli scopro una spalla, affonda il viso nell’incavo del collo e respiro il suo odore e finalmente del Moschino non c’è più traccia, non c’è traccia di Rafael sulla sua pelle, affondo il viso nell’incavo del suo collo e a Rafael non penso, penso ad altre labbra rosa e ad altre dita da maschio e a un altro candore di pelle, penso al profumo lieve di mandorle che è il bagnodoccia di Andrés quasi finito.


Gli sfilo la maglietta, lo spingo lievemente sul petto per farlo sdraiare, spingo una gamba tra le sue mentre mi chino e gli lecco un capezzolo, scuro, delicato tra le mie labbra.
Diego fa un verso basso e gutturale, di protesta, perché gliel’ho stretto troppo tra i denti.


Andrés sghignazza con la sua solita faccia da schiaffi quando gli afferro il colletto della camicia e lo tiro verso di me e lo bacio mentre mi porto una sua mano sul pube, sul cotone grigio dei pantaloni da ginnastica. 


Interrompo il bacio, faccio scorrere la mano sotto la stoffa dei pantaloni e sotto quella dei boxer e affondo il viso a leccare i suoi peli ascellari, impregnati di quell’odore acre di sudore che non è ancora sgradevole, o che almeno per me non lo è. 


Ma Andrés due cose insieme non sa farle e così accompagno la mia mano alla sua per non perdere il ritmo, e quando la spalla inizia a farmi male lo scanso e lo spingo verso il basso e Andrés me lo prende in bocca, e di bocca lavora bene, ha sempre lavorato bene, tanto che la prima volta quasi non ci credevo che non avesse avuto nessun altro, perché uno come lui non poteva restare inviolato troppo a lungo: davvero nessuno ti aveva voluto? Davvero non avevi voluto nessuno? E dove avevi imparato, a succhiarlo così? Andrés due cose insieme non sa farle ma se ne fa una sola per volta allora sa farla bene, e ha sempre saputo leccarlo da far vedere le stelle.
Ma neanch’io me la cavo male, solo che io ho imparato con lui, col tempo, un po’ ho imparato da lui e un po’ ho imparato per lui, per vederlo chiudere gli occhi e aprire la bocca e sospirare discreto e per sentire le sue dita da maschio tra i capelli spingermi più giù in gola il sesso sì piccolo ma capace di grandi cose, per sentire quella vena un po’ più sporgente pulsarmi viva tra le labbra, per sentirlo sospirare discreto come sta facendo adesso che ho ribaltato la posizione e gli sto succhiando piano la punta e

 
          She said
          you can’t be committed
          I said
          baby I don’t really get it
          She said
          you’re not the right type…*
[5]

Il telefono entra prepotente nella nostra vita, viola prepotente la nostra intimità e quello che era un passo a due ora diventa una relazione a tre, io, te, e lui, e mi sembra quasi di sentire Moschino nell’aria.

«Hai personalizzato la suoneria?»,
 
mi chiede Andrés con sospetto.
«No…»,

mento. Non ho bisogno di guardare il telefono per sapere quale nome c’è scritto,
 
«L’ho cambiata…»

Afferro il cellulare e metto la vibrazione, perché non sia mai che mi arrivi un’altra chiamata e Andrés scopra la meschinità di questa bugia.


Riappoggia il cellulare sul comodino e quello continua a vibrare per una decina di secondi e poi tace, di nuovo.
Lo guardo sospettoso per un lungo momento, poi decido di non rovinare tutto proprio adesso.

«Dai, continua…»,

gli sorrido di un sorriso appena forzato mentre gli accarezzo una guancia, l’accenno ruvido di barba mi graffia le dita.


Gli bacio leggero le labbra con un peso sul cuore, e in questo momento il telefono ricomincia a vibrare.
Ci stacchiamo, all’istante.

 
«Chi ti chiama?»,

gli chiedo secco, con un tono appena più acido del voluto.
«È un amico»

 
Andrés assottiglia gli occhi, ridotti a due fessure:
 
«Chi è…?»
 
Sbuffo, guardo il telefono, che vibra ancora, guardo Andrés, guardo il telefono, che adesso tace, guardo di nuovo Andrés.
 
«Non cominciare, è solo un amico»
«E non lo conosco?»
«No»


Serro la mascella.
«Un amico che ti chiama alle undici di sera?»
«Che c’è di male?»
«Spegnilo…»,

il mio tentativo di addolcire la voce non è andato a buon fine.
Diego prende il telefono in mano, la sua erezione si sta smosciando a vista d’occhio, la mia è già scemata da un pezzo.


          Chiamata in arrivo:
          Rafael

«Insistente, il tuo amico»,
 
commenta Andrés con tono antipatico.
Rifiuto la chiamata.
Dopo neanche dieci secondi il telefono riprende a vibrare.

 
«Spegnilo!!»,

non sopporto più la vista del tuo pene moscio! Non sopporto l’esitazione con cui guardi il telefono senza riuscire a scegliere!


Scelgo.

«Scusami»
 
Mi tiro su i pantaloni con una mano ed esco dalla camera rispondendo alla chiamata.

 
«Diego!»
«Pronto
»
 
Batto un pugno sul muro con un grido di rabbia disarticolato.
«Ahi! Cazzo…»,

mi massaggio la mano dolente.

***
 
Il telecomando si schianta contro il muro, lo sportellino si apre, le pile rimbalzano al suolo, pezzetti di plastica grigia schizzano da tutte le parti, e il tonfo deve essere arrivato anche alle orecchie di Diego, chiuso in bagno a parlare al telefono.
Non so cosa mi trattenga dal fracassare anche il televisore.

 
Mercoledì 23 maggio

Mi sento vecchio.
Il lavoro mi ha invecchiato, la convivenza m’ha invecchiato, questo gioco mal riuscito di compromessi e patteggiamenti di vecchi strateghi stanchi che l’arte della diplomazia l’hanno scordata, il dolore mi ha invecchiato, il brusio a notte fonda che mi sussurra ‘bentornato’, il dolore e la distanza, il tradimento.
Mi hanno reso vecchio.
Ho tradito le mie speranze, le buone intenzioni, il me stesso di vent’anni che si affacciava all’amore convinto di essere appena migliore, non tanto, in realtà, ma forse un po’ sì, convinto che corteggiare Diego o lasciarsi forse corteggiare da lui fosse il nucleo denso dell’amore, convinto che quello fosse l’amore.
Un gioco di sguardi in cui si vince in due.     
Un gioco.
Il gioco più bello dei nostri vent’anni.
L’amore mi ha invecchiato.
Mi sembra anche di vedere qualche ruga intorno agli occhi gonfi. 
Credo solo a ciò che è semplice, alle braccia forti di chi come me non ha più niente da perdere.

***

Quando mi arriva il messaggio lo capisco subito che è un indirizzo, che è il luogo dell’appuntamento. Lo leggo dopo poco perché mi sono svegliato presto, perché ho dormito male, perché alla presenza di Diego nel letto non c’ero più abituato e per sentirlo così nel buio distante ed assente era meglio non sentirlo per niente, era meglio non sentire il suo fiato pesante, restando sveglio a contare i respiri e a cercare di adagiare il mio respiro al suo che era il respiro lento e profondo di chi dorme, per cercare un po’ di pace che da lui non poteva venire. Era meglio non sentire la sua odiosa sveglia delle sette e i suoi movimenti bruschi di chi apre gli armadi e cerca i vestiti e non si cura neanche di chiudere la porta prima di andare in cucina, e forse per questo ho dormito male o forse è per colpa dei pensieri dei rimpianti dei rimorsi dei sensi di colpa e del rancore che mi offuscano la mente, o forse è stato per colpa di quel messaggio che mi è arrivato di mattina presto e la vibrazione mi ha svegliato di nuovo, quel messaggio che tanto se non fosse arrivato l’avrei mandato io, e invece è arrivato e così anche io sono arrivato, al luogo dell’appuntamento, stanco, assonnato e vecchio.
L’avevo capito che era un indirizzo ma non avevo capito dove Juan mi aveva mandato, dove m’aveva voluto. E quando lo capisco vorrei forse per un secondo girare i tacchi e tornare da dove sono venuto: perché questa porta con il campanello e il suo nome scritto sopra fa troppa paura, perché varcare questa soglia vuol dire entrare come un corpo estraneo nella vita di un altro, nella vita di altri, pretendendo una legittimità che so di non poter avere, perché questa stessa porta è l’unica vera prova del fatto che Juan esista davvero. Più concreto ancora del suo corpo nudo c’è il legno della porta, che nasconde una persona vera, con una vita, un passato, dei pensieri, delle idee riguardo il mondo, delle paure, degli interessi, un certo gusto nell’arredare la casa, un armadio pieno di vestiti, una famiglia, dei sogni, un dopobarba, certe allergie, piccole manie, una televisione, le pantofole, la vasca oppure la doccia, oppure entrambe, viaggi passati e viaggi mentali, un titolo di studio, una crema per le mani, uno spazzolino, un fidanzato.
Tutto questo nasconde la porta e tutto questo mi piove addosso nell’istante in cui leggo il suo nome sul campanello, e tutto questo fa paura.
Juan per la prima volta è un ragazzo vero, non è la mia valvola di sfogo affettiva e sessuale che nasce dal nulla quando ne ho più bisogno e nel nulla ritorna, di fretta e senza fare la doccia.
Juan è vero.
È quasi più vero ora che non c’è.
Juan esiste.
E vive qui.
Non so perché Juan mi abbia voluto qui ma un istante prima di andarmene, nell’istante in cui sto per girarmi, proprio nell’istante in cui ho deciso che no, non entrerò, ecco che mi ritrovo a suonare il campanello.
Sono sempre stato pieno di contraddizioni.

***
 
Ho il respiro irregolare, breve, frenetico, Andrés ce l’avrà pure piccolo ma sa fare male, sudo freddo, mi tremano le braccia, vistosamente, ma non sono io, sono le spinte troppo possenti che mi sconquassano, i miei muscoli si liquefanno, si sciolgono come cera, come burro, l’impianto si sfascia, si accascia, non mi reggo sulle braccia, affondo la faccia sul cuscino, che assorbe il mio fiato, i miei gemiti, la saliva, le lacrime, il sudore, stringo il cuscino tra le dita, stringo il sesso di Andrés tra le natiche, stringo la consapevolezza che fa male: non è la prima volta, ma è la prima volta con un maschio che non sei tu, e i suoi peli pubici tagliati corti solo mezzo centimetro mi stanno sfregando la pelle e la irritano e bruciano e non capisco da dove Andrés tragga tanta forza, davvero quello che gemeva languido sotto di me è questa stessa forza della natura così presente dentro di me?, io che c’ho sempre dato di potenza e non di resistenza non ho mai saputo davvero cos’è la forza.


Sembri così piccolo rannicchiato sul letto mentre reggi tutto il mio rancore che ti sconquassa le ossa le cosce ti tremano vorrei dirti le senti?
Le senti o le assorbe la t-shirt, queste due gocce di rugiada che mi cadono dagli occhi e muoiono sulla tua schiena sudata?
Sono così sottili, così trasparenti, così belle, che per un attimo non ho il coraggio di ammettere a me stesso che è tutto sbagliato Juan che soffre per dimostrare qualcosa a qualcuno per fare male chissà poi a chi Diego che è lo stronzo ma io sono più stronzo e Rafael che viene stuprato in casa propria e tutto è sbagliato e per questo due lacrime mi cadono dagli occhi e muoiono sulla schiena sudata di Juan che suda freddo e chissà se le sente, e non ho il coraggio di ammettere che è tutto sbagliato e per questo cerco di convincermi che no, sto piangendo perché all’improvviso gli occhi mi bruciano e mi cola anche un po’ il naso e trattengo a stento uno starnuto che è strano perché da qualche giorno non starnutivo più, queste due lacrime sono così belle che cerco di nasconderle con altre lacrime fisiologiche che chissà da dove mi vengono e le nascondo con forza nel corpo sconquassato di Juan che sembra così piccolo rannicchiato sul letto mentre regge tutto il mio rancore con le cosce che tremano e chissà se le sente, queste due gocce di rugiada.


Ad ogni spinta possente di Andrés dentro di me affonda sempre più in profondità nel mio cervello un’idea:
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay





sì,
 
«Sì! Sì! Sì! Sì! Sì! Sì! Sì! Così! Così!»,
 
sì,
sono gay, 
sono gay,
e non me ne frega un cazzo,
m’importa solo del tuo fiato sul collo, all’orecchio, che sembra sussurrare qualcosa, o forse sono solo io a dare un senso al tuo respiro, senza capire neanch’io quale sia, forse sono solo io che vorrei che tu mi sussurrassi adesso qualcosa all’orecchio, ma Andrés non sussurra, geme discreto di un gemito acuto e prolungato appena e s’immobilizza e chissà se respira o se il fiato gli si spezza in gola come si spezza a me ora che trattengo una bolla di respiro in fondo alla gola e chissà se anche tu trattieni una bolla simile in fondo alla gola mentre t’immobilizzi e gemi discreto e mi riversi dentro tutto il piacere facile che riusciamo a costruire in due.


Circondo la vita di Juan con le braccia e mi accascio contro di lui, appoggiandogli la fronte sudata contro la schiena, muscolosa, che si alza e si abbassa con il respiro e sostiene il mio peso.
Per un lungo minuto non ci diciamo niente: i nostri polmoni vivono di uno stesso ritmo e respirano di un solo respiro.
Prolunghiamo questo momento d’intimità vera, in cui per la prima volta abbassiamo davvero ogni barriera e ci accarezziamo a vicenda l’anima sorella.


Mercoledì 7 maggio, quattro anni prima

Non è facile resistere agli assalti del destino.
Soprattutto quando il destino si presenta sotto forma di un ragazzino spilungone e secco come un chiodo e i suoi assalti sono così petulanti.
Cammino verso casa, in un pomeriggio di maggio così caldo da non sembrare affatto maggio, così umido che posso sentire il sudore gocciolarmi schifosamente lungo la schiena.
Anche Rafael cammina verso casa, verso casa mia, mentre parla e parla e parla e non so nemmeno cosa mi sta dicendo.
È da un mese che il destino ripropone i suoi assalti, da quella mattina che m’hai salutato alla fermata dell’autobus, da quel giorno d’aprile che, sai?, non te l’ho mica detto, era il giorno del mio compleanno, è da un mese che il destino ripropone i suoi assalti e non so davvero come posso continuare a permetterglielo.
Sarà forse perché gli assalti del destino sono così intriganti, tanto da provocarmi un lieve prurito sulla pelle…? Un desiderio così incomunicabile da lasciarmi disarmato?
Davanti alla porta di casa, Rafael ammutolisce.
Infilo la chiave nella toppa, la giro, apro la porta.
Ci guardiamo per un attimo negli occhi.
Entrerai?
Non entrerai?
Resisterò ancora agli assalti del destino o cederò al desiderio incomunicabile?
Quando il destino fa un passo in avanti, non posso fare che un passo di lato, lasciarlo passare.
Non ho mai pensato tanto a quella giusta.
Sarà perché dopo qualche esperienza ho capito l’unica cosa di cui, da quel momento in poi, sono sempre stato convinto: quella giusta non esiste.
E non esiste perché quella giusta è quella per cui si fa l’eccezione, quella giusta è l’eccezione, forse: perché quando s’incontra quella per cui fare l’eccezione lei diventa automaticamente quella giusta, anche se è precisamente tutto quello che non ho mai pensato giusto per me.
Sarò io a renderla giusta.
Rafael fa un passo deciso verso la porta di casa. 
Io faccio un passo di lato. 
Lo lascio passare, decido forse di accoglierlo nella mia vita, di non chiuderlo fuori.
E poi, e poi è semplice.
Non ricordo più bene se sono stato io a baciare Rafael o se da lui mi sono lasciato baciare, ma quel giorno io e Rafael ci siamo baciati e questo ricordo adesso sotto la pioggia, ricordo il calore di un bacio e la fretta bambina di quattro mani che esplorano sentieri mai visti prima e una stretta bella allo stomaco che fa battere il cuore un po’ più veloce e il gusto proibito di questa bocca che mi ha placato il prurito e la mia voce tremante che gli ha detto all’orecchio

«Rafa»

che gli ha detto

«Non sono gay…»
«Sh…»
«Rafael…»

e la sua voce chiara che sulle labbra sussurrava

«Non importa…»

e ricordo il coraggio di dirgli

«Mi piaci…»

Mi piace Rafael nelle mani forti aggrappate alle mie spalle mentre facciamo l’amore, mi piace nella pietra dura del pomo d’Adamo che si alza e si abbassa come Rafael deglutisce e sospira alla ricerca di aria, mi piace nel bianco della sua pelle bianca che tra le dita affamate si tinge di caldo.
Non mi piacciono i maschi.
Ma se tu mi piaci così tanto da farmi fare l’eccezione devi proprio essere quello giusto.
Mi piace ricordare come un giorno lontano in un pomeriggio di maggio tra le lenzuola stremate mi sono sentito finalmente me stesso.
Forse per questo ho pensato che la nostra complicatissima storia d’amore avesse più senso…
…della mia vita senza te.



–––



*[1] Frase liberamente ispirata alla canzone di Daniele Silvestri, Gino e l'Alfetta. Lo stesso vale per tutte le frasi più o meno simili presenti nel corso della storia.
*[2] Celebre battuta tratta dal film La vita è bella.
*[3] Nome tratto dalla serie televisiva Last cop.
*[4] Dal titolo della prima antologia ufficiale postuma di Fabrizio de André, In direzione ostinata e contraria.
*[5] Uncommitted, XIA Junsu.
   

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Capitolo 3
*** III ***


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III
Ancora giovedì 24 maggio

Apro la porta.
Sai, Diego…
Mi ricorderò di lui per tutta la vita. 
È talmente bello… e si è fottuto il mio ragazzo.
Diego, è colpa mia.

 

Sussulto, mi sveglio di soprassalto al rumore della porta.
Smascherato.
Scoperto.
Sono solo davanti alla mia meschinità. 
Il mio delitto è messo a nudo, il crimine è sotto gli occhi di tutti.
C’è qualcosa di bello nel viso di Rafael.

 

Sussulto, mi sveglio di soprassalto al rumore della porta.
Non ho quasi il coraggio di respirare: Rafael sta guardando me, proprio me, mi guarda come se non credesse ai suoi occhi, mi guarda e mi ricorda di non essere l’unico, d’aver sempre condiviso Juan con qualcun altro, con una figura senza volto che ora acquista corpo e voce e profumo, mi ricorda che per me qui non ci sarà mai posto. Mi ricorda che Juan ha un fidanzato e il fidanzato è un ragazzo vero, con questo dolore negli occhi che riconosco dentro di me e nella testa mi rimbomba amplificato mille volte.
Juan non dice niente, non è come sembra, posso spiegare, perdonami, niente, non dice niente, quest’uomo solo dignitoso davanti al proprio delitto, svelato, non dice niente e forse non ha neanche fatto niente per non farsi scoprire, forse si è persino fatto scoprire di proposito, per porre la parola fine a questo dolore.
Rafael è un fiore.
Non c’è traccia delle mani rovinate di Juan sulle sue mani bianche né delle mie occhiaie sotto i suoi occhi lucidi. 
Invidio la sua giovinezza, vorrei succhiargliela via dal corpo.

 

C’è qualcosa di bello nel viso di Rafael, una traccia di bellezza intensa e perversa nei suoi occhi stralunati e nell’espressione stravolta.

 

Copriti!
La tua nudità è indecente!
La casa l’ha assorbita e me la risputa addosso mille volte nel bianco delle lenzuola, nel bianco dei muri gelidi, nel bianco della luce che amplifica il bianco doloroso della tua pelle, il bianco della tua pelle nuda che acceca la vista, insopportabile per chi ha la coscienza sporca.
Diego…
Hai mai voluto uccidere davvero?
Guardo per un lunghissimo momento questo ragazzo che è nel mio letto a fare quello che dovrei fare io eppure non sono io, questo ragazzo che dovrei essere io eppure non mi somiglia neanche un po’, e non c’è niente da fare: il fatto di non essere io questo ragazzo mi fa male.
Non piangere…
Da qualche parte, ci sarà pure un universo in cui lui non esiste… 
In cui tu solo hai mai toccato il suo corpo…
Dilato le narici per respirare, il prurito alle mani mi riscuote da tutto questo bianco e poso il mio sguardo stravolto su Juan, ancora immobile, ancora zitto.
Vorrei solo prenderti a schiaffi fino a sfigurare il tuo bel viso!

«Frocio… schifoso…»,

non riesco ad articolare bene, il dolore e il disgusto mi deformano la bocca,

«Con… che… coraggio…? Quattro anni, cazzo! Non vieni neanche a Natale! E tu… ti porti a letto il primo stronzo che vedi per strada!!»,

urlo, gli lancio contro la prima cosa che trovo sottomano, sento due lacrime affacciarmisi agli occhi, ma non piango per me, per la mia fiducia ferita.
Piango per te.
Per la tua miseria.

«Juan, mi fai pena…»

Non sopporto più la vista di quest’altro me così diverso e così perfetto: il candore della sua pelle nuda è nauseante.
Mi volto di scatto, corro via, dove non lo so, lontano da tutto quel bianco, lontano dalla tristezza di una vita intera passata a mentire.

***

Mi alzo in piedi di scatto, il movimento repentino di Rafael m’ha svegliato, più della porta che si è aperta interrompendomi il sonno, più della boccetta dura di Moschino contro lo sterno, più del suo sguardo stralunato e delle sue parole mi fai pena.
Il gesto repentino di Rafael mi sveglia finalmente dall’immobilismo e mi alzo in piedi di scatto, la testa mi gira, mi si offusca la vista, l’intera stanza s’inclina di lato. 
Mi accascio contro il materasso.
In un secondo sono di nuovo in piedi, le tempie pulsanti, recupero i pantaloni da ginnastica dal pavimento e li infilo, esco dalla stanza e corro via scalzo senza curarmi più né di Andrés né di chiudere la porta di casa.
Il rumore brusco di una frenata mi fa trasalire, sento lo stridio della gomma che graffia l’asfalto.
No…
Ti prego…

***

Sbatto un paio di volte le palpebre.
Nella stanza regna il silenzio, l’aria si svuota di ogni rumore.
Le urla di Rafael m’hanno lasciato intontito, come se avessi preso un sonoro schiaffo in pieno viso, anche se non lo so come sarebbe prendere uno schiaffo in pieno viso perché non l’ho mai preso e per fortuna, ma sento che sicuramente uno schiaffo mi lascerebbe così, umiliato, intontito e con un silenzio assordante che mi rimbomba nelle orecchie, come questo silenzio assordante che le urla di Rafael si sono lasciate dietro.
Fine dei giochi.
Sono solo in una casa in cui non tornerò più. 
In una casa in cui sono entrato senza permesso, di nascosto, come un ladro, portando con me solo il mio dolore indecente, in una casa che ho infettato con la mia presenza immorale giustificandola a me stesso con questa patetica ricerca di connessione, di calore che ho trovato e che ho perso, che mi ha lasciato dentro un dolore maggiore di quello con cui sono entrato, perché perdere qualcosa fa più male che non averla mai avuta: un dolore amplificato dagli occhi di Rafael in cui per un istante soltanto l’ho visto riflesso e l’ho saputo, che quel dolore era tutto mio.
Mi alzo in piedi, mi rivesto.
Prima di uscire prendo un altro fazzolettino e sto per soffiarmi di nuovo il naso quando lo sguardo mi cade per caso sull’altro comodino.
Prendo in mano la fotografia.
Rafael e Juan sorridono all’autoscatto, Rafael sorride con questo sorriso che gli piega le labbra rosa e che ora so d’aver strappato in mille frammenti.
Sospiro.
Lascio la foto sul comodino, appoggiata alla piccola lampada, spengo la luce e mi affretto ad uscire.

***

Esco in strada, Mozart si spaventa e scappa via, corre in mezzo alla strada, una macchina inchioda, la gomma graffia l’asfalto, lo stridio delle ruote e il rumore brusco della frenata sovrastano il picchiettio ritmato e sempre uguale della pioggia.
No…
Ti prego…
Lei apre lo sportello e scende di corsa dalla macchina, lui la segue in strada.
Lei si accuccia davanti alla macchina.

«Ehi, gattino…»

Allunga una mano e fa dei versi per chiamarlo.

«Dio, è un gatto!»,

sbotta lui, esasperato.
Lei prende il gatto in braccio e si alza.

«Mozart»,

forse il mio sussurro la spaventa, le sue spalle sussultano e si gira di scatto.

«Ehi… stai… stai bene…?»

Fa un passo nella mia direzione.
Annuisco, allungo le braccia verso di lei.

«Ma… è il tuo gatto…?»
«È… è la… mia… g-gatta…»,

riesco appena a balbettare. Tiro su col naso.

«Ah…»,

mi lascia la gatta tra le braccia, Mozart inizia a fare le fusa così rumorosamente che può sentirle anche lei.

«Io… scusalo… è… è comparso all’improvviso e… io… io credo che stia bene…»

Qualcuno suona un clacson, un’altra automobile si è fermata dietro la loro e lui la chiama per ripartire.

«Mi dispiace… Ma penso che stia bene!»,

mi dice ancora lei prima di rientrare in macchina, ma figurati, il povero gatto sta sicuramente meglio di me.
Mozart…
…non ho che te…
Resto imbambolato sul posto, tiro di nuovo su col naso e non so distinguere le lacrime che mi cadono dagli occhi dalla pioggia che mi picchietta sulla testa, questa pioggerella sottile che quasi non si sente sulla pelle, che mi bagna i capelli e mi inumidisce le guance.
Stringo tra le dita convulse il suo bel pelo grigio, inzuppato di pioggia, gli artigli del gatto mi affondano nella carne fredda delle braccia, ignoro i suoi tentativi di liberarsi dalla presa disperata con cui me lo stringo al petto.
Diego…
Hai mai avuto uno scoppio di pianto così feroce da non fermare le lacrime?
Da non zittire i singhiozzi?
Due braccia forti mi stringono, sussulto spaventato e allento la presa.
Mozart si divincola, balza a terra.

***

Lascio la porta della casa socchiusa.
Sto per uscire e scendere in strada quando un gatto mi corre tra i piedi e s’intrufola nell’appartamento, spingendo la porta con il muso e spaventandomi anche un po’. Nel buio dell’atrio non l’avevo visto arrivare.
Già, un gatto.
Non riesco a evitare un tenue sorriso, gli angoli delle labbra si piegano verso l’alto.
Ora sì che si spiega tutto, gli occhi lucidi gli starnuti il naso che cola.
Scuoto piano la testa, dovrò buttare a lavare i vestiti.
Ho dimenticato il burro di karité.
Non ho nessuna intenzione di tornare a cercarlo.
Esco in strada e m’incammino deciso senza fermarmi a cercare Juan con lo sguardo, lo sguardo basso, solo la pioggia leggera che mi bagna la fronte con queste goccioline sottili e il fresco umido contro la pelle, sul viso, sulle mani e sulle caviglie.
M’incammino deciso, lo sguardo basso, e non cerco Juan con lo sguardo, perché ora lo so che non lo vedrò mai più e che quello era un addio e che la nostra storia d’amore ha esalato l’ultimo respiro, e non mi giro a cercarlo perché la fine è arrivata e anche se a dirgli addio non ero pronto quando si arriva così vicini alla fine è meglio andare da soli. E non mi giro a cercarlo perché non voglio vedere com’è finita, perché voglio immaginarlo, perché voglio pensare che sia finita bene perché spero tanto che Rafael ti perdoni, perché ho visto quanto ti ama e ho visto anche quanto lo ami.
E perché pensare che finirà bene mi scioglie un po’ questo nodo che fa male in fondo al petto.
E spero tanto…
…che Diego perdoni me.

***

Il gatto si divincola e balza a terra, anche Rafael strattona e cerca di divincolarsi ma lo stringo tra le braccia e non cedo alla gomitata che mi affonda tra le costole né ai colpetti confusi con cui cerca di farmi male sulle braccia né alle sue mani che tremano di rabbia e si aggrappano disperate alle mie mani e mi afferrano le dita e cercano di allentarne la presa, senza riuscirci, perché lo stringo così forte da farci male alle braccia e aderisco il petto alla sua schiena magra umida di pioggia e in quella stoffa umida affondo la fronte, cerco senza riuscirci di asciugarci le ciglia.

«Lasciami!! Subito!»
«No!»
«Schifoso! Lasciami! Non mi toccare!»
«Rafa ti prego–
«Stronzo!»
«Ti prego
… Mi sento una merda–
«Lo sei!»
«Lo so! Non mi lasciare!»
«Ma smettila! Frocio! Adesso non ti vergogni?»
«No Rafael non mi vergogno sono frocio e sono una merda ti prego non mi lasciare lasciali guardare non me ne frega ti prego è questo che sono che guardino tutti ti prego ti prego non mi lasciare…»

 

La sua voce si fa un sussurro confuso contro la mia spalla, Juan singhiozza patetico con la faccia affondata nella stoffa della maglietta e balbetta cose senza senso, mi soffia il respiro caldo sulla pelle bagnata che ad ogni respiro si scopre sempre più fredda.
Vorrei soffocare…
...ogni respiro che fai…*
[1]
Serro le mani attorno alle sue, non ho più forza se non nelle dita che stringono le sue mani piccole e rovinate, ci conficco dentro le unghie finché non le sento affondare nella carne sempre calda delle sue dita ma Juan non dice niente, Juan non fa niente, non molla la presa.
Passa qualche automobile e i fari ci illuminano impietosi e crudeli, restituiscono al mondo e a noi stessi il ritratto di questo dolore, due figure patetiche e grottesche sul ciglio della strada scalze seminude abbracciate immobili bagnate di pioggia e di lacrime, ma guardate pure! Non soffrite mai, voi?
Inclino appena la testa all’indietro e mi sorprendo a desiderare che Juan sia appena più alto per potergli appoggiare la nuca contro la spalla, le spalle che amo tanto, che ho sempre amato, vorrei che fosse più alto anche solo di dieci centimetri, adesso basterebbero, ma perché in preda al dolore si pensano sempre le cose più assurde?
Perché farti male è così difficile?
Inclino la testa all’indietro e guardo il cielo coperto di nuvole e la pioggia picchietta ritmata e sempre uguale sul mio viso e lava via le lacrime non appena si formano tra le ciglia e scivolano giù, e finalmente scopro la meraviglia del pianto, di questo pianto talmente feroce da non riuscire a zittire i singhiozzi, e mi appoggio al suo petto senza smettere di stringergli le mani di ferirgli le dita senza riuscire a rilassare i muscoli contratti della schiena delle spalle e delle braccia e lo so, che servirà tanto tempo per riuscire di nuovo a rilassarmi così a stretto contatto così contro il suo petto caldo e non lo so ancora, se a questo abbraccio disperato seguiranno
glaciali silenzi
ore di parole
urla
pianti
altri abbracci disperati
perdoni
insulti
porte sbattute in faccia
o timidi sorrisi,
mani che forse asciugheranno le lacrime dagli occhi arrossati
mani strette con forza a toccare le mani
o baci umidi di rugiada…
Non so ancora quando tornerà il giorno in cui tra le sue braccia forse meno disperate riuscirò finalmente a rilassare di nuovo i muscoli contratti e a chiudere gli occhi abbandonarmi al profumo e stringere le spalle che voglio credere di essere l’unico ad aver mai stretto mentre facevamo l’amore, non lo so quando arriverà quel giorno ma quello che so nel profondo è che se qualcosa potrà salvare questa relazione dal naufragio, se un giorno qualcosa potrà forse portarmi nel petto il perdono, se qualcosa mi darà mai pace so che sarà quel bacio, sarà quel bacio e saranno le parole di Diego il mio ragazzo mi tradisce.
O forse… sono io che mi lascio tradire…
Ed è per quel giorno, che adesso rientro in casa e non lo abbandono qui per sempre scalzo sotto la pioggia leggera.

***

Apro la porta di casa.
Sono stanco.
L’appartamento è buio e silenzioso. 
Ma soprattutto silenzioso.
Nessun brusio.
E questo è strano, perché la porta non era chiusa a chiave e quindi mi aspettavo di trovare Diego in salotto, perché è appena passata l’ora di cena, perché è proprio l’ora in cui Diego sta stravaccato sul divano a guardare la tv invece di venirmi incontro e sussurrarmi alle labbra ‘bentornato’, perché ogni ora è l’ora in cui Diego sta stravaccato sul divano a guardare la tv e invece ora il silenzio assoluto della casa all’improvviso cancella ogni traccia della nostra vita vissuta in due.
Scrollo le spalle.
Sarà uscito dimenticandosi di chiudere a chiave la porta.
Tolgo le scarpe mentre cerco di far tacere quest’orrendo sospetto che mi stringe le viscere e mi rosicchia da dentro.
Ma dove sei?
Mi hai tradito?
Scuoto la testa, cerco di non pensarci, tolgo le scarpe e lascio che la giacca sgoccioli sul pavimento.
La pioggia precipita al suolo e forma una piccola pozzanghera, questa pioggia che mi ha lavato la pelle e la coscienza, quasi che a lavarmi la pelle potessi davvero ripulirmi dentro, lavare via il ricordo di Juan troppo bello e troppo brutto per non paragonarlo ad una malattia mortale da cui il mio cuore guarirà, il ricordo di Rafael troppo brutto e basta, perché uno dei due o io o lui doveva semplicemente non esistere, per non fare male, il ricordo del ragazzino di vent’anni che sono stato tanti anni fa e che si affacciava all’amore convinto di essere appena migliore, non tanto, in realtà, ma forse un po’ sì, convinto fino all’ultimo di poter essere il fidanzato perfetto che non sono mai stato.
Questa pioggia è proprio quello che ci voleva per concludere la giornata, per iniziare una nuova vita, la vita che sempre inizia dall’acqua, dai liquidi.
Anche la mia nuova vita inizierà dai liquidi, e il liquido sono le lacrime che ho visto come un velo sugli occhi di Rafael, il liquido è questa pioggia che mi ha allentato un po’ il nodo che faceva male nel petto e il liquido è il succo di frutta alla pesca.
Entro in cucina, accendo la luce, apro il frigorifero, prendo il cartone del succo di frutta, quando ho aperto quello alla pera?, chiudo il frigorifero, prendo un bicchiere, verso il succo di frutta nel bicchiere, ce n’è così poco da riempirlo solo di un paio di dita, bevo lentamente il succo freddo stringendo il vetro freddo tra le dita e quando non ce n’è più neanche una goccia appoggio il bicchiere nel lavello.
Ci lascio scorrere dentro un po’ d’acqua fredda. Lo sciacquo, senza sapone, passo le dita sulla superficie gelida bagnata dall’acqua gelida per ripulirlo. Lo asciugo.
Asciugo le mani.
Lo rimetto al suo posto.
Verso un pochino d’acqua nel cartone vuoto, lo scuoto.
Lo svuoto.
Lo accartoccio e lo getto via differenziando il tappo nella plastica e il contenitore nella carta.
Questo è il primo passo della mia nuova vita.
Esco dalla cucina.
Voglio farmi un bagno.
Voglio spogliarmi di tutti vestiti, buttarli a lavare e liberarmi degli allergeni del gatto, come chi si libera di una giornata troppo pesante, come se lavare i vestiti potesse bastare a ripulirmi la coscienza.
Voglio raschiarmi via il Moschino dalla pelle.
Ma prima voglio accasciarmi sulla poltrona in stile vittoriano e chiudere gli occhi e affondare il viso tra le braccia e forse dormire, o piangere forse, ricordare per l’ultima volta o per l’ennesima volta.
Voglio accasciarmi sulla poltrona e aspettare Diego, se mai tornerà, voglio trovare le parole giuste per dirgli che di mentire non ho più voglia, a nessuno dei due.
Entro in salotto e accendo la luce.

«Aah!»

Cristo santo, che spavento!

«Mi hai fatto paura!»
«Scusa»

Diego è seduto sul divano, alza la testa e mi guarda negli occhi.

«Ma…»,

mi porto una mano al petto, il cuore batte furioso,

«Che facevi al buio?»

Scrolla le spalle, non risponde.

«Pensavo non ci fossi…»
«Perché sei già a casa?»

Non ha nessuna intonazione particolare, nessuna espressione.
Faccio un lungo sospiro, mi prendo il tempo che mi serve.
Mi avvicino al divano, mi accuccio davanti a lui, gli appoggio le mani sulle ginocchia.
Picchietto i polpastrelli sulla stoffa dei pantaloni, dal mignolo all’indice, con un solo colpo secco, e poi di nuovo dal mignolo all’indice, un altro colpo secco, e così via, senza dire niente e senza guardarlo.

 

Non dico niente, gli osservo solo le dita bianche e lunghe, con le nocche grandi e le ossa che formano un disegno in rilievo e sembrano parlare, anche ora che Andrés sta zitto.

«Diego… io devo dirti una cosa…»

Parla con la voce bassa e grave di chi il nodo non se lo tiene più dentro, e questo mi fa paura.

«Non dirla»
«No, ascolta»,

alza lo sguardo su di me e il suo sguardo è deciso, fermo,

«Io–
«Andrés non voglio saperlo»,

gli appoggio una mano sulla mano e la stringo appena,

«Va bene così»
«No…! Non va bene…!»

Sussurra con gli occhi lucidi, sembra deglutire a fatica, la pietra dura del suo pomo d’Adamo si alza e si abbassa,

«Se non mi fai parlare, io…»
«Non dire nulla»
«No, tu non capisci! Io non sono come pensi tu!»
«Lo so»

Spalanca gli occhi e scuote la testa, il labbro inferiore trema appena, gli premo con forza una mano contro la bocca prima che parli e soffoco su quelle labbra ogni parola.

«Andrés, ho capito, lo so. Non dire altro, ti prego. Io l’ho capito…»

Neanch’io sono come pensi tu.
Chiude gli occhi.
Si alza lentamente, interrompe il contatto.
Mi alzo insieme a lui.
Mi appoggia la fronte sulla spalla, mi circonda la vita con le braccia.
Inizio ad accarezzargli lentamente la schiena.

«Ehi…»
«Mh…?»
«Ultimamente, mi sembri molto stanco… Forse… posso farti un massaggio…?»

Annuisce, senza alzare la testa dalla mia spalla.

«Grazie…»,

lo sento mormorare contro il mio petto.
In questo abbraccio stanco sento sulla pelle di entrambi l’odore di un altro uomo.
L’amato, l’odiato profumo, lo sento e lo so che da qualche parte nel mondo c’è uno stronzo con lo stesso profumo di Rafael e non lo so, se questo profumo mi piace oppure no, e penso che mai lo saprò, ma già l’ho capito, che Moschino mi rimarrà per sempre nel petto.

 

Respiro sulla mia pelle il suo profumo, anche adesso porto Moschino nell’aria: il profumo di una storia d’amore mai nata, di una storia d’amore rinata e di una storia d’amore ferita. Il profumo di questo amore rinato che mi trema nel petto, spaventoso e spaventato. Il profumo di questo amore fragile che forse si salverà dal naufragio.


 


 

*[1] Frase ispirata alla canzone dei Modà, Meschina, “[…] che soffocherei… tutti i respiri che fai”.



Ringraziamenti

Ringrazio mia sorella eos_92 per aver letto in anteprima questo racconto e per aver ragionato pazientemente con me su ogni aspetto di cui io avessi voglia di ragionare; ringrazio taemotional per aver letto anche lei la storia in anteprima, per aver ragionato con me sui nomi dei personaggi e per aver realizzato il banner a inizio capitolo; questo racconto originariamente era stato pensato come fanfic sugli SHINee, che ho effettivamente pubblicato qui su EFP con il titolo "Il Castello dei Destini Incrociati": rinnovo dunque i miei ringraziamenti a chiunque ho già ringraziato in quella sede.
Ringrazio di cuore chiunque abbia letto fin qui, chi ha impiegato del tempo a lasciarmi un commento, chi ha inserito questa storia tra le seguite, le preferite o le ricordate.

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