Double Mess -

di grenade_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXIX ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXX ***
Capitolo 31: *** reminder ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


               
La velocità è il rapporto tra lo spazio percorso e il tempo impiegato per percorrerlo.
Per calcolare lo spazio finale non dobbiamo far altro che sommare allo spazio iniziale il prodotto tra la velocità e il tempo.
Spazio e velocità sono direttamente proporzionali.
Un moto rettilineo uniformemente accelerato è caratterizzato da traiettoria rettilinea e accelerazione costante.
La velocità finale la calcoliamo sommando alla velocità iniziale il prodotto tra accelerazione e tempo. Per lo spazio basta sommare alla velocità iniziale la metà del prodotto tra accelerazione e tempo alla seconda. Se non abbiamo il tempo, possiamo ricavarci il doppio prodotto di accelerazione e spazio, sottraendo alla velocità finale quella iniziale, senza dimenticare di elevare alla seconda.
Quando un corpo è in caduta libera l’accelerazione è sempre espressa dalla gravità, che è di 9,8 sulla Terra. Quando il corpo è lanciato verso il basso l’accelerazione è positiva, mentre se lo lanciamo verso l’alto si ha una decelerazione.
«Buongiorno Smartie!»
Non spostai lo sguardo né ad accennai ad un saluto, intento a fissare la parabola in bella mostra sulla pagina del mio libro di fisica. Mi accingevo a studiare quella materia da ben tre anni, eppure non avevo ancora compreso né il suo significato né il suo scopo, fermamente convinto che mai in vita mia avrei avuto bisogno di misurare la mia accelerazione in metri al secondo quadrato, né mi sarebbe servito sapere la funzione dei vasi comunicanti, o distinguere se uno schiaccianoci è una leva di prima o secondo genere. Era semplicemente insignificante, quattro ore settimanali piazzate lì con l’unica intenzione di mandare gli studenti in una profonda crisi di nervi, istigarli al suicidio forse. Fatto sta che la odiavo con ogni fibra del mio corpo, e avrei volentieri  sostituito quelle ore di disperazione comune con educazione fisica, nonostante tamburellare col piede a ritmo di musica fosse da sempre la mia unica attività durante quelle ore. Così il professor Kingley passava i suoi 60 minuti più a fissare la professoressa Kennedy dall’altro lato del campo e sorriderle come un ebete che ad arbitrare le abituali partite di calcio, ed io riuscivo a svignarmela tranquillamente, ma la mia A in pagella rimaneva imperturbata e intoccabile. Sì, forse sarebbe stato meglio. D’altro canto, quella C in fisica era il mio unico ostacolo dall’avere una media scolastica pressoché perfetta.
Velocemente due mani entrarono nella mia visuale, e prima che potessi ribattere il pesante tomo era stato chiuso e strappato dalle mie mani, quindi alzai lo sguardo con espressione indignata verso l’autrice del misfatto, che mi sorrideva innocente. «Ho detto buongiorno, Martin.» ripeté.
Osservai il suo sorriso sornione, le sue palpebre che sbattevano ripetutamente, e non potei fare a meno di ridacchiare. Stephanie invece incatenò gli occhi scuri ai miei, poi scosse la testa. Si avvicinò e schioccò un bacio sulla mia guancia, prima di stringere la mia vita con le braccia e posare la testa sulla mia spalla, i capelli lunghi a solleticarmi il collo come da perfetta routine quotidiana. E anche quella mattina portai il mio braccio dietro le sue spalle e la cullai per qualche secondo, mentre il suo profumo alla vaniglia mi inebriava le narici. Era strano, profumava sempre di vaniglia, ed io la adoravo per questo. Era ormai la mia migliore amica da nove anni, quando per sbaglio il suo gelato alla vaniglia, per l’appunto, aveva causato la prima macchia sulla mia camicia nuova. Mi aveva preso per mano dopo essersi accorta del disastro e portato da sua madre, pregandola di tornare a casa e lavarla lei stessa. Io avevo insistito per non farlo, ma due giorni dopo la mia camicia era perfettamente lavata e profumata, esattamente come nuova se non per un lieve e piacevole odore di vaniglia.
«Come va con la fisica?» domandò, i polpastrelli ad accarezzare il mio palmo.
Sospirai, affranto. «Il mio odio per lei cresce in modo uniformemente accelerato.»
Stephanie ridacchiò, prima di liberarsi della mia presa ed alzarsi, coi boccoli pendenti ad un lato. Afferrai la mano che mi tese, e quando fui in piedi mi riconsegnò il libro, prendendomi sotto braccio. «Non capisco il tuo bisogno di eccellere in qualsiasi cosa, hai praticamente la media più alta della classe.»
«Dici così solo perché tu non hai mai preso una C. E’ frustrante, credo quella donna mi detesti.»
«Tu credi che qualunque professore ti detesti, solo perché prendi delle B ogni tanto.» mi schernì.
Le diedi un leggero spintone per controbattere, ma la mia attenzione fu catturata da qualcos’altro, in piedi davanti a me. Emma Desmore, bassa e dal fisico minuto, gli occhi scuri coperti dalla frangia di capelli rossi, era di spalle, pertanto non poteva notarmi. Non l’avrebbe fatto in ogni caso. Credo di essermi innamorato di lei all’età di 13 anni, quando lei ne aveva solo 10 ed io la seguivo praticamente ovunque. Ho sempre creduto che ad incantarmi fossero stati i suoi lunghi capelli rossi, la voce stridula e le fossette sulle guance, che la rendevano adorabile. Era estremamente fuori controllo, un vero uragano, il sorriso illuminava il suo volto perennemente, e ogni cosa facesse o dicesse non faceva altro che immobilizzarmi, farmi entrare in un completo stato di trance solo quando i suoi occhi incrociavano i miei.
Si voltò e sentii le ginocchia molli quando mi sorrise calorosamente, mentre le farfalle erano nel bel mezzo di un torneo di pugilato nel mio stomaco. Ricambiai il sorriso impacciato, non sapendo bene cosa fare, quindi mi fermai ad analizzare il suo sguardo. Era più in alto di qualche centimetro, non era puntato verso di me ma verso qualcosa alle mie spalle. Sospirai, desolato. Come avevo potuto pensare che stesse sorridendo a me? Non lo aveva mai fatto, perché avrebbe dovuto cominciare proprio adesso, quando neppure mi conosceva se non per nome e cognome? Stupido, stupido Martin.
Quando però mi voltai per intercettare il suo sguardo il broncio scomparve dalla mia bocca, per trasformarsi in un ghigno furioso. Zack Payne camminava lentamente per il vialetto scolastico, con lo zaino ad una spalla e il sorriso dipinto sulle labbra, intento a lanciare occhiate a ciascuna delle ragazze che gli sorrideva imbarazzata, quasi stessero ammirando un adone greco sceso in terra. Capelli castani abitualmente sistemati in maniera maniacale, profondi occhi azzurri, alto e dal fisico magro e piazzato, studente dell’ultimo anno e capitano della squadra di basket, conosciuto per la sua fama da incorreggibile casanova. Per me, era solo il mio irritante fratello gemello, per il quale oltretutto la mia Emma aveva una cotta da circa tre anni. E lui non faceva altro che lusingarla per farmi un dispetto, aumentando di gran lunga la mia voglia di spiaccicare la sua faccia al suolo o tagliargli la lingua, così che non avrebbe più potuto darmi fastidio in nessun caso.
Si fermò davanti a noi e rivolse un caloroso sorriso ad entrambi, indugiando a dovere su Stephanie, che sostenne il suo sguardo con una smorfia. Poi tornò a me, nonostante stesse osservando qualcosa alle mie spalle.
«E’ davvero carina oggi la Desmore, non è vero?»
Assottigliai lo sguardo con espressione minacciosa, avrei voluto sferrargli un pugno dritto nello stomaco se l’avesse ancora degnata di un’occhiata, ma il suono della campanella me lo impedì. Gli studenti cominciarono a disperdersi nell’abitacolo, mentre Zack ci rivolse un ultimo saluto.
«Ci vediamo in classe, fratellino.»
Racchiuse la guancia di Stephanie tra pollice ed indice e vi posò un bacio, che lei cancellò strofinando così a lungo la pelle da farla diventare rossastra. Si voltò ad osservarlo entrare, scuotendo la testa con espressione disgustata. «Fatico a credere che abbiate gli stessi geni.»
Sospirai, non potendo fare altro. Cosa potevo farci? Forse avrei semplicemente dovuto rassegnarmi all’idea che lui avrebbe sempre ottenuto quello che desiderava, io no. La sua vita sarebbe stata sempre più facile, il suo aspetto migliore, la sua popolarità maggiore, e poi lui aveva Emma. Lo studio era l’unico campo in cui primeggiavo al posto suo, ma avrei di gran lunga preferito avere una sfilza di C, purché i suoi occhi scuri guardassero me e non lui.
Stephanie sbuffò sonoramente, attirando la mia attenzione.
«Andiamo in classe, ci aspettano due entusiasmanti ore di storia.»
 
Ore 14.00. Il momento tanto atteso era giunto, e mai come allora ero stato più nervoso. Avevo studiato in qualsiasi ora della giornata nonostante le continue lamentele di Stephanie, saltato la pausa pranzo ed adesso ero seduto al mio abituale posto in seconda fila, intento a ticchettare con la penna in attesa che la professoressa arrivasse. Tutti gli studenti erano al proprio posto e sembravano tranquilli, ma forse erano solo stanchi e assonnati per permettersi di preoccuparsi. O forse ero solo io quello fuori di testa.
Sentii il cellulare vibrare in tasca, e così in modo discreto lo tirai fuori, leggendo velocemente il nuovo sms da parte di Stephanie. ‘Buona fortuna per il test, ricorda di stare calmo e andrà tutto bene. Ti aspetto fuori per eventuali crisi di depressione cronica :) x’ recitava,  ma non potei fare in tempo a rispondere che la professoressa Wellington fece il suo ingresso sorridendo cortese, nonostante il mio sguardo attento notò prima la pila di fogli che aveva tra le mani.  
Ci intimò di fare silenzio e svuotare i banchi, poi puntò lo sguardo su di me. «Dov’è il tuo gemello?»
Uscii dal mio stato di trance giusto per qualche secondo per guardarmi attorno, appurando che effettivamente di Zack non ve n’era nemmeno l’ombra. Mi ricordai di non averlo neppure visto a pranzo, dunque supposi avesse finto un malanno e fosse corso a casa a farsi coccolare da mia madre, ma ovviamente non dissi nulla del genere alla professoressa, limitandomi ad una scrollata di spalle.
La professoressa sospirò e cominciò a distribuire i fogli banco per banco, e fui seriamente tentato di strappare il mio quando mi fu consegnato. Era pieno zeppo di formule, figure, diagrammi e roba varia, ma sorrisi quando mi resi conto di saper svolgere la maggior parte degli esercizi se non tutti quanti.
Cominciai a muovere velocemente la matita sul foglio bianco con tratti leggeri, fin quando la mia attenzione non venne catturata da una figura sulla soglia, fintamente trafelata e col respiro affannoso. Era chiaro Zack non avesse mai avuto tutta quella fretta di arrivare a lezione, oltretutto per un test, ma riuscì comunque ad ammaliare la professoressa con un innocente sorriso di scuse, che questa ricambiò, accompagnando il gesto da un dolce ‘prendi posto, Zack’.
Ignorai l’apposito tono smielato che aveva usato, scossi la testa e tornai al mio compito, con il solo unico obbiettivo di prendere una A, la mia prima A in fisica.
Erano passati ormai tre quarti d’ora quando consegnai il test, portato a termine nelle minime peculiarità. Stephanie aveva avuto ragione, il compito era stato più facile di quanto pensassi, ed io ero più che soddisfatto di me stesso per aver svolto tutti i quesiti e, almeno credevo, nel migliore dei modi.
Sorrisi fiero alla Wellington che ricambiò il mio entusiasmo e tornai al mio posto, osservando i miei compagni disperarsi. C’era chi fissava il foglio impassibile, chi suggeriva e si passava bigliettini ripiegati più volte, chi letteralmente dormiva chinato sul banco. Ma io avevo finito il mio compito, dunque ero sollevato.
Sentii la voce familiare di mio fratello chiamare la professoressa, così mi voltai per assistere alla scena, convinto che Zack fosse disperato come quasi tutta la classe. E lo era, lo si poteva leggere dal suo sguardo smarrito. Sorrisi esternamente, felice che avesse almeno una piccolissima lezione, così magari avrebbe imparato ad usare i libri per studiarci, non come soprammobili.
La professoressa Wellington,  i capelli biondi sulle spalle, si avvicinò a lui col solito sorriso addolcito che rivolgeva a quasi tutti gli studenti, e Zack ricambiò calorosamente. Il loro movimento continuo delle bocche era senza dubbio la prova che stessero nel procinto di un discorso, ma non riuscii a capire bene cosa si stessero dicendo. Tutto quello che vidi fu la mano di Zack risalire furtivamente la coscia della professoressa, che si immobilizzò per qualche istante. Poi assunse lo stesso sorriso e si passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mentre Zack la teneva inchiodata con lo sguardo. Fu uno scambio veloce, e in pochi secondi quelli che credevo essere i risultati del test furono nelle mani di mio fratello, che ringraziò la professoressa con un sorriso sincero, mentre questa tornava alla cattedra, come se nulla fosse.
La campanella trillò quindici minuti dopo, dichiarando la fine delle lezioni. Le facce abbattute e i corpi trascinati dei miei compagni si accalcarono alla cattedra per consegnare i test, la maggior parte dei quali, ci avrei scommesso, erano del tutto bianchi se non per la presenza di nome e cognome. Anche mio fratello posò il suo sull’ammasso, salutando la professoressa con un cordiale ‘buo n pomeriggio, Mrs. Wellington’. Lei lo salutò altrettanto sorridente e fece lo stesso con me, che seguii il mio gemello fin fuori al corridoio, furioso come mai.
Quando gli fui abbastanza vicino lo afferrai per le spalle, costringendolo a voltarsi, visibilmente annoiato. «Non ci posso credere, ti sei fatto dare i risultati del test!» lo accusai, incurante del mio tono di voce, che era diventato stridulo.
Zack mi rivolse un’occhiata, come se fossi matto, poi replicò. «No, non è vero.»
«Certo che è vero, ti ho visto!» continuai. «Hai palpato la coscia della Wellington e lei ti ha dato i risultati!»
Zack sbuffò, poi inclinò la testa. Posò la mano sulla mia spalla destra, come sempre quando si preparava a lanciarmi una delle sue battutine poco sarcastiche, e avrei potuto fulminare il suo dorso solamente con lo sguardo, se solo ne fossi stato capace. «Mio caro Martie, devi davvero imparare a vedere tutti i lati di una faccenda, prima di lanciare un’accusa di questo spessore.» proclamò, mentre aveva passato un braccio attorno alle mie spalle. «E’ stata lei a consegnarmeli, non io a chiederli. Forse non sono io a meritare il comportamento da papino severo, non credi?»
Inarcò le labbra in un broncio derisorio e poi le sciolse in un sorriso, battendo dei colpi sulla mia spalla. «Ci vediamo a casa, fratellino.» , e girò i tacchi.
Non feci nient’altro, tranne rimanere imbambolato nel bel mezzo del corridoio, ad osservarlo andar via. Stephanie accennò ad un’occhiataccia quando si imbatté in lui, andando nel verso opposto, poi mi raggiunse correndo. Si fermò davanti a me, e il sorriso scomparve per far posto ad un’espressione confusa.
«Cos’è successo, Martin?»
Sospirai e scossi la testa lentamente, rassegnato.
«Vorrei solo essere figlio unico, tutto qui.»



Ciao! :) nuova fan fiction, nuova ambientazione, nuovi personaggi. 
La storia sarà raccontata da quattro diversi punti di vista e pertanto utilizzerò un colore diverso per ognuno di loro, per contraddistinguerli. Martin sarà blu, Stephanie viola, Zack verde, ed Emma rosso
Nient'altro da dire, alla prossima e recensite! :)

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


    
Mi infilai la camicia, passando le dita dall’alto verso il basso per abbottonarla. Andai poi alla ricerca delle scarpe, trovandole ad uno degli angoli della stanza, abbandonate. Mi chinai per acciuffarle e mi sedetti sul letto, intento a vestirmi. Sarei dovuto essere a casa entro mezz’ora, e ci sarei riuscito tutto sommato.
Sentii poi un dito pressare lievemente sulla mia spalla, disegnare qualcosa di indefinito e scendere lungo la spina dorsale, sino a fermarsi alla base della schiena. Sorrisi e mi voltai, incontrando gli occhi verdi di Sarah, illuminati come sempre dopo una buona dose di sesso.
«Già te ne vai?»
Finsi di ignorare il tono seducente e lo sguardo ammaliatore che aveva appositamente utilizzato nel solo scopo di farmi restare a donarle un altro orgasmo, così mi voltai nuovamente e mi accinsi ad abbottonare gli ultimi due bottoni della camicia. «Non posso restare – sviai – mi dispiace.»
In realtà non mi dispiaceva affatto. Non per fraintenderci, Sarah era una bellissima donna e un ottimo passatempo, solo era praticamente instancabile, e un’irritante sanguisuga. Risucchiava le energie come la tua voglia di starci insieme, e cosa peggiore di tutte non se ne accorgeva neppure. Quando mi aveva raccontato del divorzio con l’ ex marito ricordo di aver pensato se quell’uomo fosse per caso pazzo a lasciare una donna che non gli chiedeva altro che sesso, poi mi ero accorto di quanto in realtà fosse assillante e parassita. Ma al contrario del suo ex marito io non avevo né la fortuna né la possibilità di lasciarla, altrimenti i miei voti sarebbero calati a picco. E non potevo assolutamente permettermelo, non all’ultimo anno.
Sarah si portò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, inarcando le labbra in un broncio e cominciando a sbattere le ciglia in modo ripetitivo e continuo. «Non puoi proprio restare?» domandò, le dita a segnare un percorso immaginario sul mio petto. Scese lungo gli addominali con lo stesso tocco leggero, ma la bloccai prima che potesse arrivare al cavallo dei pantaloni e qualsiasi mio tentativo di andarmene finisse in fumo.
«Non posso.» ribadii, scostando la sua mano dai miei jeans per portarla sul lenzuolo. «Sarà per un’altra volta.» aggiunsi, e lei annuì seppure delusa, nonostante io sperassi con tutte le mie forze mi dicesse di no. Forse se mi avesse lasciato lei io non avrei corso alcun rischio, ma il problema era: come riuscire a farsi lasciare senza trattarla male e quindi suscitare il suo rancore, che sarebbe andato solo a discapito del mio rendimento a scuola? Era un’impresa praticamente impossibile. Mi ero ficcato in una spiacevolissima situazione prendendola come un gioco, ma adesso che volevo uscirne non sapevo come fare.
Mi alzai e posai un bacio sulle labbra di Sarah, che tuttavia cercò di approfondirlo con un intreccio di lingue. Quando staccandosi dichiarò di essere ‘sazia’ le rivolsi un piccolo sorriso, presi la giacca ed uscii dall’appartamento, lasciandomi quel letto alle spalle per la terza volta in una settimana.
L’aria fuori non era più pungente come un mese prima, decisamente i segni della primavera cominciavano a farsi sentire seppur in ritardo. Ero felice di non dover più imbottirmi per uscire e subire i rimproveri di mia madre se me ne dimenticavo appositamente, inoltre era piacevole stare fuori più a lungo. Non riuscivo affatto a concepire come Martin riuscisse a restare segregato in casa a studiare quando fuori il clima era diventato così mite, ma mi ritrovai a pensare che forse io avrei dovuto seguire il suo esempio, anziché fare avanti e indietro dall’appartamento di una professoressa per qualcosa che avrei potuto ottenere soltanto studiando.
Avevo parlato con Sarah degli imminenti esami, e lei era stata tranquilla e rassicurante: ‘rilassati, ci sono io’ mi aveva detto, ma la verità era che ancora non ero riuscito a capire come avrei fatto a superarli con una media decente senza mettermi a studiare. Era risaputo fosse una delle professoresse più influenti nel consiglio, ma dubitavo potesse procurarmi una buona media, a meno che non mi sostituissero con Martin.  Avevo persino pensato di cominciare a mettermi sotto con lo studio, ma non se ne parlava neanche di recuperare un intero programma di un anno in un mese e mezzo. Sarebbe stato terribilmente difficile e, nel mio caso, impensabile.
Scossi la testa, non volevo pensarci. Quel pensiero non faceva altro che tormentarmi e procurarmi un forte mal di testa tutte le volte, ed io odiavo avere mal di testa. Così assorto non mi accorsi nemmeno di essere arrivato a casa fin quando non mi ci ritrovai davanti, e sorrisi.
Quando entrai un forte odore di carne mi investì, la cena era quasi pronta. Scorsi mio padre in giardino con l’espressione corrucciata, chiaro segno della sua incompatibilità con il grill. Erano rare le volte in cui riusciva ad accenderlo al secondo tentativo, e per il più delle volte era mamma a farlo. Lui si occupava della cottura, ma anche durante quella il grill sembrava dargli problemi, tanto che papà lo definiva ‘aggeggio infernale’.
Mamma invece era in cucina, intenta a sciacquare l’insalata. Andai nella sua direzione e la abbracciai da dietro, baciandole la guancia. Lei si voltò, sorridendomi e ricambiando il bacio. Portò l’insalata ormai pulita in una coppa, e scoccò un’occhiata attraverso la finestra, a papà. Scosse la testa, alzando gli occhi al cielo. «Non capisco perché si ostini ad usare il grill, se deve solo picchiarlo.» commentò.
Seguii il suo sguardo e ridacchiai, notando papà portarsi repentino la mano alla bocca, probabilmente dopo essersi scottato.
«E’ papà, non si arrende tanto facilmente.»
«Ma il grill sì – replicò – Guarda, il suo tempo di vita diminuisce ogni volta che tuo padre ci mette addosso le sue manacce.»
Risi ancora ed annuii, vedendo mamma massaggiarsi la fronte come alle prese con un principiante. «Cosa vuoi fare?» chiesi, sicuro che se non fosse entrata in scena per interrompere quella scenata ci saremmo ritrovati a comprare il secondo grill in tre mesi il giorno successivo.
Sembrò rifletterci, poi mi sorrise. «Picchiare lui, così smetterà di picchiare il grill.» rispose, rivolgendomi un occhiolino. Si disfò del grembiule che aveva indosso e si diresse verso la porta che dava sul retro, ma prima di spingere la maniglia verso il basso si voltò a guardarmi.
«Potresti andare a chiamare tuo fratello per la cena? Io sarò un po’ impegnata.»
Annuii sorridente e lei uscì, mentre io salii le scale gradino per gradino. Mi fermai davanti alla porta della stanza di mio fratello ma non entrai, più interessato ad origliare le sue conversazioni attraverso il legno. Mi appostai con l’orecchio contro di esso e restai così per qualche secondo, prima che riprendesse a parlare.
«Non ci penso nemmeno ad accettare, è fuori discussione!»
Aggrottai la fronte, perplesso. Quella non era la voce di Martin, bensì di qualcun altro. Pensavo Martin fosse da solo nella sua stanza a studiare, ma evidentemente Stephanie era venuta a fargli visita come quasi tutti i giorni, rinchiudendosi in stanza con lui e passando lì il resto del pomeriggio sino a cena. Quello che facessero insieme per così tanto tempo mi era del tutto ignoto: possibile passassero davvero quelle quotidiane quattro circa a parlare e studiare insieme? Sapevo questa fosse l’unica verità plausibile dati i due soggetti, eppure non riuscivo a credere fosse l’unica: nella mia mente correva l’idea di loro due in una possibile relazione, una delle più durature e nascoste in assoluto, vista la loro discrezione. D’altra parte, con questa nuova versione dei fatti, avrei potuto giustificare i loro continui abbracci sin troppo amichevoli.
Un sospiro attirò nuovamente la mia attenzione, così tornai ad ascoltare le loro voci.
«Perché? Non è un’idea così cattiva, dopotutto. L’intera faccenda non è così male come pensi, sei così abituata a vedere il lato negativo delle cose che ti dimentichi dell’esistenza di uno positivo.»
«Potrei dire lo stesso di te, sai?»
Si udì uno sbuffo, probabilmente da parte di mio fratello. «Io sono realista, tu solo una codarda.» continuò infatti la sua voce.
«Potrei anche essere codarda, ma sai che ho ragione.»
Qual’era l’idea che Stephanie non voleva accettare? E perché Martin cercava di convincerla a fare il contrario? Avrei dato qualsiasi cosa per sapere riguardo a cosa stessero blaterando, ma tutto quello che mi limitavo a fare era continuare ad origliare appostato contro la porta, sperando di cogliere qualcosa di determinante nella loro conversazione.
«Non posso saperlo io, e neanche tu se non ci provi.»
Per qualche secondo non sentii nulla oltre un leggero scricchiolare del letto, ma quando avevo finalmente deciso di entrare in scena Stephanie sbuffò rumorosamente, poi riprese a parlare. «Ti odio quando hai ragione.» disse.
Martin dovette probabilmente sorridere vittorioso come suo solito e, appurato che la conversazione fosse terminata e non ne avrebbero più parlato, mi alzai dalla mia sistemazione e mi ricomposi. Inspirai profondamente e, stampandomi in faccia un’espressione indifferente palesemente finta, tirai giù la maniglia. Quando entrai entrambi si trovavano distesi sul letto, di libri neanche la minima traccia, e mentre Martin la abbracciava Stephanie si divertiva a dargli pizzicotti. Si voltarono verso di me e notai bene il sorriso della mora scomparire per far posto ad una smorfia, ma dopotutto ci ero abituato.
Sfoderai il mio solito sorriso strafottente in risposta, poi mi rivolsi unicamente a Martin. «La cena è quasi pronta, se papà non gli ha dato fuoco.» annunciai, ma il mio sguardo rimase fisso sulla ragazza tra le sue braccia.
Indossava i soliti jeans chiari a fasciarle le gambe lunghe, una semplice maglietta a maniche corte con al di sopra un cardigan dello stesso colore delle scarpe, che al momento giacevano ai piedi del letto assieme alle pantofole di Martin. I capelli lunghi erano sciolti lungo spalle e schiena, e me la sarei volentieri portato a letto se non avessi avuto il dubbio che mi sarei ritrovato senza testicoli se solo ci avessi provato. Ma la sua acidità nei miei confronti era qualcosa che la caratterizzava e la rendeva più interessante ai miei occhi, oltre che eccitante. Non avevo idea del perché si ponesse in attacco ogni qualvolta le nostre strade si incrociavano, ma la sua riluttanza rendeva il tutto così diverso dal solito che mi divertivo a provocarla e osservare le sue reazioni come un bambino.
Martin sorrise, annuì e poi si voltò verso Stephanie. «Rimani a cena?» le chiese, ma lei denegò l’offerta scuotendo il capo da destra a sinistra. «Devo tornare a casa.» spiegò.
«Allora io scendo, tu intanto prendi le tue cose. Ti aspetto giù.»
La mora annuì e mio fratello sciolse l’abbraccio per indossare le pantofole, poi le sorrise e oltrepassò la porta, senza evitare di lanciarmi un’occhiataccia prima di uscire. «Tu non scendi?» mi domandò, scettico.
«Devo prendere una cosa in camera, poi scendo.»
Martin mi osservò con le sopracciglia incurvate incerto se credermi oppure no, ma riuscii comunque a convincerlo con quella banale scusa e un sorriso innocente e andò via, lasciandomi da solo insieme a Stephanie. Questa intanto aveva recuperato le scarpe, intenta ad intrecciare i lacci. Solo quando ebbe finito alzò lo sguardo, accorgendosi di me. «La tua stanza è dal lato opposto.» mi ricordò, indicando la porta dietro di me.
Diedi una veloce occhiata alle mie spalle ingenuamente e poi mi voltai sorridendo, osservandola alzarsi e dirigersi verso la sedia girevole, al cui schienale era poggiata la sua giacca. Mi imposi di non fissare la lieve scollatura della maglietta, concentrando la mia attenzione sul suo viso per quanto mi fosse possibile.
«Sai – iniziai – mi sono sempre chiesto se tra te e Martin ci sia qualcosa oltre la forte amicizia che sembrate condividere. Magari tu puoi illuminarmi.»
Stephanie alzò il capo lentamente, la fronte aggrottata. Inclinò le labbra in un sorriso forzato e finto, poi sospirò.
«E’ davvero un peccato che tu utilizzi il cervello così raramente e solo per tirarne fuori delle idiozie, davvero triste Zack. Forse potresti usarlo in modo più intelligente, per esempio per illuminarti da solo, dandoti fuoco.»
Risi in risposta alla sua provocazione e il suo sorriso ingenuo, poi mi preparai a ribattere.
«Non è un’idiozia, al contrario è una cosa seria. Mi sento in dovere di sorvegliare le relazioni di mio fratello, è solo un gesto premuroso da fratello maggiore.»
Fece una smorfia. «Sei il suo fratello maggiore solo di due minuti, non sei mai stato premuroso nei suoi confronti e non lo sei neanche adesso, ti diverti soltanto a darmi fastidio perché sai di irritarmi profondamente.» mi rammentò, intenta a indossare la giacca. Prese la borsa e si diresse verso la porta, il cui passaggio era ostacolato dalla presenza del sottoscritto. Mi lanciò un’occhiata intimandomi di spostarmi, ma finsi di ignorarla.
«E’ esattamente questo quello che non capisco. – continuai, imperterrito – Insomma, io e Martin siamo gemelli, no? Siamo identici, eppure il tuo comportamento nei nostri confronti è del tutto differente. Ogni cosa che dico o faccio sembra farti andare in bestia, invece nutri un amore sproporzionato verso Martin. E’ una cosa che riesco a spiegarmi solo supponendo che sei innamorata di lui.»
Rimase in silenzio per alcuni istanti, poi scosse il capo. «L’unica enorme e determinante differenza tra voi due è che Martin è umano, Zack. Lui si comporta come una persona normale.»
Incurvai le sopracciglia, confuso da quell’affermazione. «Anch’io sono una persona normale.» replicai.
Scosse la testa, contrariandomi. «Non hai centrato il punto. – ‘come sempre’, aggiunse – Tu sei solo un corpo che vaga da una parte all’altra e che agisce senza pensare alle conseguenze, inoltre sono quasi certa che tu non possieda davvero dei sentimenti. Non puoi davvero definirti una persona, solo un animale che agisce per istinto, – si fermò, riflettendo – tipo una scimmia.»
Sorrise soddisfatta del suo discorso, poi divenne seria.
«Ora, se vuoi scusarmi, dovrei tornare a casa mia, e non posso farlo se non togli la tua carcassa da davanti ai miei piedi. Tu puoi anche procedere con l’evoluzione se ne sei capace, io ho solo bisogno di riempirmi la pancia e andarmene a letto.»
Ridacchiai e la lasciai passare ritirandomi ad un lato, distendendo il braccio destro e imitando un inchino che lei accolse con una alzata d’occhi e un sospiro annoiato. Seguii i suoi passi quando scese le scale, concentrando il mio sguardo sul suo fondoschiena.
Ad aspettarla c’era Martin, intento a porre l’ultimo piatto sulla tavola. Papà intanto era rientrato, lasciando il lavoro sporco a mamma, che proprio in quel momento stava rientrando in casa. Insistette per un po’ per convincere Stephanie a restare, ma lei fu irremovibile, così sorrise a tutti (tranne a me) e insieme a Martin si diresse verso l’ingresso, uscendo dopo aver abbracciato brevemente mio fratello, che tornò in cucina e si sedette di fronte a me. Mamma portò la carne e i vari contorni in tavola, ma prima di iniziare a mangiare, la interruppi per una domanda.
«Secondo te sono una scimmia?»
Tre paia di occhi si puntarono su di me, che sorrisi soltanto facendo spallucce. Martin in particolare mi guardò come fossi impazzito, poi roteò gli occhi e cominciò a mangiucchiare l’insalata. Mamma rimase perplessa, ma sorrise.
«No, tesoro.»
Sorrisi anch’io ringraziandola silenziosamente, poi cominciai a mangiare.


ed ecco il secondo capitolo! :) qui entra in scena Zack, che è molto differente dal suo fratello gemello ahah
come sempre, spero il capitolo vi piaccia, e mi farebbe piacere una piccolissima recensione, così che posso sapere il vostro parere :3
vi ricordo che sto scrivendo un'altra fan fiction in contemporaneo a questa (cliccare sull'immagine sotto) , potete farci un salto se vi va :)
a presto!




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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


               
Dio benedica i fine settimana. Tre giorni di assoluta libertà senza scuola, compiti o facce antipatiche. Senza dubbio i miei giorni preferiti. Da quando l’anno scolastico era iniziato i professori non avevano atteso per mostrare la loro estrema crudeltà, caricandoci di compiti a casa giorno dopo giorno e programmando almeno tre verifiche alla settimana. E poi si lamentano se gli studenti non vogliono andare a scuola e passano la giornata a sbadigliare... Fortunatamente almeno per quei tre giorni la tortura terminava, chi se ne importa se ricomincia il lunedì, e tutto ciò che mi veniva da fare era chiudere gli occhi, respirare a fondo e sorrid...
«La pagella, Desmore.»
No, sorridere proprio no. Come si fa a sorridere quando il tuo destino è affidato ad un semplice e futile pezzo di carta? Peggio ancora se quello contiene i tuoi voti, che non mancheranno di procurarti una bella sgridata da parte dei tuoi genitori. L’espressione arrabbiata con accenno omicida di mia madre fece capolino nella mia testa, ma mi sforzai di cacciarla via scuotendo la testa.
Presi a fissare il foglio bianco sul mio banco, poi deglutii a vuoto. Ogni volta era sempre la stessa storia: avevo una paura innata di controllare i miei voti, forse perché ero consapevole non fossero proprio ottimi. Ma se in passato l’avevo sempre passata liscia questa volta non avrei avuto la stessa fortuna, ero al liceo e non potevo certo permettermi di avere una pessima pagella.
Notai la smorfia soddisfatta di Catherine Pennett, dall’altro lato della classe, quindi automaticamente roteai gli occhi irritata. Non avevo idea del perché il solo pensiero che respirasse mi desse così fastidio, forse solo perché era un’inguaribile egocentrica e credeva che tutti quanti avremmo dovuto stendere il tappeto rosso al suo passaggio o leccarle le scarpe. Infondo era solo un ammasso non ben definito di riccioli castani, perfino più bassa della sottoscritta, e la sua voce era capace di molestare qualsiasi timpano in circolazione. La odiavo con tutta me stessa, però una cosa gliela invidiavo: aveva la media più alta della classe.
Ignorai Catherine e le sue occhiatine ripugnanti, quindi concentrai la mia attenzione sul foglio. Inspirai profondamente, poi lo presi tra le mani. Un’espressione delusa comparve quasi subito sul mio viso, quando notai la presenza di due insufficienze. Fortunatamente erano solo quelle, i miei voti si alternavano tra diverse C e D, una sola B in scienze motorie. Sospirai affranta, accasciandomi sul banco.
Lo sguardo cristallino di Veronica mi trovò repentino, ma quando incrociò il mio tutto quello che poté fare fu esibire un broncio e mimare un mi dispiace. Infondo conosceva anche lei il contenuto di quella pagella senza averci dato nemmeno un’occhiata, forse lo conoscevano tutti, io per prima, ma mi ero stupidamente imposta di ignorarlo.
Lo stridio della campanella fece eco nelle mie orecchie, e mentre tutti i miei compagni abbandonarono i loro posti alla ricerca di cibo come fossero molle io mi esibii nel passo più lento e strascicato della storia, a testa bassa. Non mi era mai molto importato dei voti, ma cominciavo sul serio ad essere delusa di me stessa. Avrei dato qualsiasi cosa per avere una pagella stracolma di B, ma sapevo di stare desiderando un’utopia, visto che per ottenere voti del genere mi sarebbe toccato studiare e il mio cervello non sembrava nemmeno conoscere il significato del termine.
«Desmore?»
Mi voltai lentamente verso la voce che mi aveva richiamata, incontrando il sorriso della professoressa Farrey. Intimai a Veronica di recarsi verso la mensa e le assicurai che l’avrei raggiunta a breve, così lei andò via salutando me e la professoressa.
«Venga, si sieda.»
Feci come mi disse, seppure un po’ titubante, così presi posto ad uno dei banchi in prima fila, esattamente di fronte alla cattedra. La Farrey mi fissava sorridente, quasi non fosse capace di fare altro. Quella mattina aveva arricciato i capelli in eleganti boccoli e i suoi occhi azzurri risplendevano maggiormente, nessuno avrebbe avuto difficoltà a sostenere che fosse una bella donna.
«Volevo parlarle della sua pagella.»
Pessima, crudele, orribile donna. Era in momenti come quelli che sentivo il mondo cadermi letteralmente addosso e la tachicardia sopraffarmi, ed era una sensazione che mai avrei augurato a qualcun altro.
Finsi un sorriso ed annuii, aspettandomi il peggio.
«Come avrà notato non è delle migliori – però, perspicace – e vorrei capire perché.»
Cos’è che si risponde in questi casi? La mia unica via di fuga sarebbe stata improvvisare la morte di qualcuno ma non l’avrei fatto, non se di mezzo ci fosse andato qualche familiare o Mickey. Così optai per la verità, per la prima volta in vita mia.
«Non sono mai stata molto portata nello studio» minimizzai, tralasciando il piccolo particolare secondo il quale non avevo passato mai più di mezz’ora indaffarata coi libri. Spalancai anche gli occhi e sporsi il labbro inferiore, sbattendo le ciglia ed esibendo una delle mie migliori espressioni innocenti, quelle che di solito riuscivano ad addolcire papà, sebbene nessuno ci riuscisse meglio di Mickey, il nostro gatto, nella speranza che quella donna non mi mangiasse.
Invece la Farrey sospirò e si sistemò gli occhialini sul naso, prima di prendere a fissarmi quasi fossi uno stravagante oggetto di osservazione. «Che c’è?» sbottai, infastidita.
La professoressa inclinò la testa e assottigliò lo sguardo rimproverandomi silenziosamente per la mia risposta brusca, quindi abbassai la testa colpevole, aspettando che riprendesse a parlare, magari fornendomi la spiegazione di quel fissare così insistente.
«Stavo pensando...» cominciò, «che forse potrebbe avere un compagno.»
«Mi scusi?» la incoraggiai a ritrattare, gli occhi sgranati.
«Sì, un compagno. Qualcuno con cui studiare, in modo che la aiuti a capire meglio le lezioni, e a concentrarsi.»
«Non credo di aver bisogno di un tutor, professoressa.» ribattei, irritata dal fatto che potesse considerarmi così stupida da avere bisogno di un insegnante coetaneo. Ero solo pigra, non un idiota.
«Non le stavo consigliando un tutor, signorina Desmore. Le stavo consigliando un compagno di studio, che le impedisca di distrarsi mentre è alle prese coi libri, o che la spinga a stringerci un qualche genere di rapporto.» rettificò, «qualcuno come... Catherine Pennett, ad esempio?»
Qualsiasi. Avrei sopportato qualsiasi nome le fosse fuggito dalla bocca, sebbene non pensassi fosse affatto necessario, ma non quello. No, era assolutamente fuori discussione! Non avrei mai e poi mai passato più delle quotidiane otto ore insieme a Catherine Pennett, non avrei sostenuto la sua faccia finta e la sua vocetta stridula per più di quel tempo, ed ero certa non mi sarei astenuta dall’ucciderla, se solo fossi stata costretta a frequentare quell’assurdo corso di recupero. Riuscivo a comprendere le ragioni della professoressa, era normale si curasse del mio apprendimento e mi avesse suggerito un metodo di studio alternativo, ed ero ben cosciente Catherine fosse la studentessa più in gamba della classe e apparisse come una specie di angelo agli occhi degli insegnanti, ma io non l’avrei mai sopportato.
«Non studierò con Catherine, Mrs. Farrey, è decisamente fuori il mio grado di sopportazione.»
«Allora le conviene cercarsi un altro compagno, perché non abbandonerò l’idea finché non avrò notato dei miglioramenti nel suo rendimento. Buona giornata.»
Mi rivolse un ultimo perfido sorriso da aggiungere a quel terribile ultimatum e oltrepassò la porta della stanza, come avrei dovuto fare io circa quindici minuti prima se solo quella donna non avesse deciso di rovinarmi la vita. La guardai andare via e mi presi la testa tra le mani sbuffando, in un gesto di pura disperazione. Però forse la Farrey aveva ragione, studiare con qualcun altro mi avrebbe aiutata a non cedere alle tentazioni di cellulare e computer durante il pomeriggio, e magari avrei finalmente potuto migliorare la mia media. Ma farmi aiutare da Miss. Perfettina era del tutto fuori questione, e allora da chi... Veronica poteva andare bene, se solo non raggiungesse la sufficienza miracolo dopo miracolo, quindi rimanevano Kirsten, che mi avrebbe certamente piantata per qualche appuntamento, e Nate, che avrebbe reso la bocciatura molto più piacevole della sua compagnia. Ero spacciata, qualsiasi fosse la mia decisione.
Con quell’aria di estrema rassegnazione raggiunsi la mensa, incurante degli sguardi infastiditi dei miei compagni di liceo quando li urtavo nell’intento di arrivare al mio tavolo, sotto lo sguardo curioso di Veronica, intenta a mordere il suo panino.
«Vuoi un po’?» mi chiese, dopo che ebbe deglutito il suo boccone. Scossi la testa in segno di diniego, la fame era praticamente scomparsa grazie al discorso della Farrey.
Brontolai qualcosa di incomprensibile e crollai con la testa premuta contro le braccia sul tavolo, per poi alzare nuovamente il capo e spostare con un soffio la frangetta sulla fronte. «Come fai ad essere così tranquilla?!» piagnucolai, squadrando la mora in un’espressione quasi schifata.
Lei corrugò la fronte, confusa. «Non dovrei?»
«No!»
Sospirò e abbandonò il panino morsicato sul vassoio, prima di intrecciare le mani sotto il mento, in perfetto stile psicologa. «Avanti sputa il rospo, che ti ha detto la Farrey?»
Sbuffai sconsolata. «Dice che ho bisogno di un tutor.»
«Un tutor?»
«Sì, una sorta di secchione che mi aiuti a concentrarmi» mimai l’ultima parola tra virgolette accompagnando il gesto da una smorfia per dimostrare il mio disappunto, «e non si darà pace finché non sarò migliorata.»
Ronnie assottigliò gli occhi azzurri, segno che mi stava dedicando la sua intera attenzione. Annuì, e aprì bocca solo quando ebbi finito di lamentarmi. «Hai due fratelli più grandi, potrebbero darti una mano loro...» suggerì.
«Certo, figurati se Kirsten preferirà stare a farmi da maestrina quando avrà un appuntamento con il suo fidanzatino part-time o con le sue amiche oche. E non ci penso neanche a farmi aiutare da Nate, preferirei il suicidio.»
Veronica prese a tossicchiare per nascondere le sue guance rosse come ogni volta che mio fratello sbucava nei nostri discorsi, ed io lo ignorai, perché a quel punto non capire che la mia migliore amica avesse una enorme e palese cotta per lui sarebbe stato da stupidi. «Magari Nate non è il massimo del divertimento...» concesse, «ma dovete comunque studiare, non giocare ai videogames, e potrebbe aiutarti...»
Sbuffai. «Ne terrò conto come ultima speranza.» sorrisi.
Vidi Veronica alzare gli occhi al cielo e prendere un sorso dalla sua bibita, prima che il mio sguardo venisse catturato da qualcos’altro, e le mie labbra si aprissero automaticamente in un sorriso. Sentii Ronnie richiamarmi per dirmi qualcosa, ma niente poteva essere più importante di ciò che avevo davanti agli occhi, quindi la zittii con un gesto della mano, e quando il suo sguardo raggiunse il mio sbuffò, ma mi lasciò comunque persa nella mia contemplazione.
Ero certa Zack Payne fosse ciò di più perfetto che avessi mai visto. Fisico alto e slanciato, lineamenti irresistibili, brillanti occhi azzurri e sorriso seducente, tutto ciò che una ragazza desiderasse. La sua risata era il suo bel suono che le mie orecchie percepissero, la sua figura la più bella vista ai miei occhi, e il suo sorriso il miglior mezzo per un attacco di cuore immediato. Era il genere di ragazzo capace di farti cadere ai suoi piedi se solo l’avesse voluto, e quello che volevo io era possedere uno speciale potere che mi rendesse possibile controllare i suoi pensieri, così che i suoi occhi avrebbero guardato soltanto me e non la marea di galline pronte ad aprirgli le gambe ad un semplice schiocco di dita. Era perfetto se camminava, stava fermo, giocava a basket o beveva, persino se si limitava a parlare e a sorridere, o concentrare lo sguardo. Era perfetto e dubitavo dell’esistenza di qualcosa che potesse renderlo meno bello, o meno interessante.
«Sta’ attenta, o ti colerà la bava.» mi rimbeccò Ronnie, riportandomi alla realtà con un pizzicotto sul braccio.
Corrugai la fronte in una smorfia, portando la mano a massaggiare la parte lesa. Mi voltai di nuovo, e di Zack neppure l’ombra. Dove diavolo è scomparso?, pensai.
«Ecco, l’ho perso per colpa tua!» mi lamentai, ma prima che la mora potesse replicare, la campanella trillò per tutta la scuola, annunciando il ritorno nelle classi.
 
Tornai a casa distrutta, la schiena ridotta ormai a uno straccio a causa del macigno che ero stata costretta a portarmi dietro per tutto il tragitto scuola-casa. Il cielo aveva inoltre deciso di giocarmi un brutto scherzo, e aveva smesso di piovere solo nell’esatto momento in cui avevo rimesso piede a casa, arrabbiata con il mondo intero. Con Catherine, che era sempre troppo irritante, con la Farrey, per la quale non avevo ancora trovato una soluzione, con Veronica che non avrebbe smesso di idolatrare mio fratello neppure sotto tortura, con l’autista che mi era passato davanti senza degnarsi di fermarsi, e con la pioggia, che mi aveva inzuppata da capo a piedi. Decisamente una giornata di merda.
A peggiorarla era stata la sfuriata di mamma in seguito alla consegna della mia pagella, e la seguente punizione, che mi avrebbe impedito di usare il computer ed uscire con Veronica per i prossimi sette giorni. Come se avrò il tempo di disperarmi... pensai, riferendomi al problema tutor ancora una volta. Dovevo assolutamente trovare qualcuno di accettabile disposto ad insegnare ad un caso perso cose dette e ridette, ma per quanto mi sforzassi la mia lista rimaneva orridamente vuota, ed avevo la paura che alla fine sarei stata costretta a chiedere aiuto alla Pennett.
Assolutamente no!,scossi la testa, Non mi abbasserò a cotanto squallore, ho ancora una dignità.
La chioma rossa e gli occhi chiari di Kirsten fecero capolino nella mia stanza, e non poté fare a meno di ridacchiare nel sorprendermi con la testa premuta contro la scrivania, per niente interessata alla rivoluzione calvinista.
«Problemi con lo studio?» trotterellò fino a raggiungermi, e si sedette senza troppe cerimonie sulla scrivania, accavallando le gambe nel suo elegante pigiama a fiori. Alzando lo sguardo mi trattenni dal ridere, notando i capelli sparati in tutte le direzioni. «Ho sentito mamma urlare, prima...» continuò.
«Più o meno.» concessi, «Assolutamente sì» piagnucolai poi, tornando nella posizione precedente.
Mi accarezzò i capelli in modo dolce, per la prima volta senza la solita nota derisoria. «Non può essere tanto grave, mamma urla praticamente per ogni cosa...» cercò di consolarmi, «devi preoccuparti se è papà ad urlare, lui di solito è quello più clemente.»
Annuii, d’accordo con lei. Sbuffai, poi decisi di potermi fidare di mia sorella. «La prof mi ha suggerito di studiare con qualcuno, per... concentrarmi, dice, ma non so proprio a chi rivolgermi. L’avrei chiesto a te, ma so quanto puoi essere lunatica, perciò...»
«Hai ragione, ti darei buca piuttosto facilmente...» asserì, «e immagino tu non voglia essere l’alunna di Nate lo studente modello.» aggiunse, con un sorriso.
«Infatti. Sono nei guai, Kirs»
Sembrò pensarci su, ma neanche lei riuscì a trovare un lato positivo in tutta quella faccenda. E’ per questo che annuì mesta, ma solo alcuni secondi dopo saltò giù dalla scrivania, sorridendomi e tendendomi la mano, «ci penseremo dopo alla tua scuola, adesso vieni a vedere Toy Story con me!» disse.
Ridacchiai, ricordando la passione di Kirsten per quel cartone. «Hai 21 anni, non credi sia un po’ troppo vecchia per i cartoni?» la canzonai.
«Non si è mai troppo vecchi per Toy Story dolcezza, e poi hai bisogno di una distrazione!» ribatté, senza perdersi d’animo.
Ci pensai su per qualche secondo ma alla fine accordai con lei, afferrai la sua mano e mi lasciai trasportare in salotto, pronta ad una serata di pop corn, caramelle, e lacrime con mia sorella. 

Third chapter! Yeeah. 
Boh, ho finito le parole... stessa routine: se vi piace, recensite. Sul serio, è frustrante ricevere così poche recensioni e un buon numero di visite :c 
ma quanto è tenera Desmore Senior? Kirstyy <3 
okay, a presto :)

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


  
Quando sentii suonare il campanello e mamma fece capolino nella stanza sorridente, ebbi la conferma che Kyle fosse arrivato. Tirai un sospiro di sollievo, stanca di aspettare seduta sul letto, gettando comunque un’occhiata all’orologio sul comodino: in ritardo di quindici minuti. Ma l’importante era che fosse giunto a destinazione, no?
«Scendo subito.» cercai di liquidare mamma ma, come c’era da aspettarsi, lei rimase sulla soglia ad analizzare bene la mia espressione non proprio entusiasta.
«Problemi?»
Ecco la parola magica. L’unica parola che, pronunciata dalla sua bocca e dai suoi occhi, aveva il potere di riempirmi di tensione e far sciogliere il blocco di ghiaccio che ero. E anche quella volta il suo colpo andò a segno, perché l’ansia abbandonò il mio corpo con un enorme sbuffo, difficile da far passare inosservato.
Piantai il mio sguardo duro nel suo, dolce. «E’ normale che non abbia il minimo di fiducia, nei ragazzi?» sparai, «Mark mi ha piantata per una bambola plastificata, Joe è scappato via terrorizzato, Toby era gay, e il ritardo di Kyle non promette nulla di buono, quindi è ovvio che sia agitata e un po’ scorbutica, vero?» brontolai, cercando negli occhi di mia madre un qualche genere di conforto, che andasse in contrasto col mio pessimismo.
Lei prese posto accanto a me, e non mancò di sorridermi. «Non sei stata molto fortunata, tesoro...» asserì, e non potei fare a meno di annuire vivamente, «ma non è detto che vada a finire sempre nello stesso modo. Mark è stato senza dubbio un idiota, Joe un codardo e Toby... ha avuto dei problemi personali. Ma se Kyle ha fatto ritardo non dev’essere per forza che è un superficiale o cos’altro, magari ha avuto da fare qualcosa di importante.»
Nonostante i suoi tentativi di consolarmi e giustificare l’orrendo fine delle mie relazioni sbuffai più forte, desiderosa di indossare il pigiama e addormentarmi tra tv e pizza.
«E’ che non riesco a fidarmi dopo tutte le delusioni che ho avuto...»
«E non ci riuscirai se non continui a provare. Magari il ragazzo giusto è proprio sotto al tuo naso, e tu non te ne accorgi.» mi accarezzò la guancia spostando una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi sorrise e posò un bacio sulla mia fronte.
«Quindi...» azzardai, cercando di riepilogare «pensi che questa sia la volta buona?»
«Penso che dovresti scendere e salvare quel povero ragazzo che è in ostaggio da tuo fratello da circa cinque minuti, uscirci insieme e solo dopo averci passato una serata decidere se è il caso di continuare o farla finita.»
Aveva ragione. Infondo non potevo essere sicura che anche questa volta sarebbe stato un disastro, senza neppure provarci. Dovevo almeno provare a fidarmi del genere maschile, per quanta poca fiducia vi riponessi, e magari solo dopo una serie di tentativi decidere se continuare ad averci a che fare o troncare definitivamente i rapporti, diventando suora o lesbica. Perlomeno, mi sarebbe rimasto Martin. Come dimenticarlo, era stato lui a convincermi ad accettare quello strambo appuntamento...
«Arrivo subito, comunica a Chris di togliersi dai piedi e non importunare gli ospiti da parte mia.»
Mamma sorrise ed uscì fuori, la voce dolce a scagliarsi contro i capricci di mio fratello, mentre io delineai gli ultimi dettagli per la serata: sistemai le pieghe della gonna, spazzolai i capelli sistemati in una coda alta e presi un lungo sospiro, cercando di tranquillizzarmi.
Solo quando ebbi l’impressione che il mio riflesso avesse perso il colorito pallido afferrai la borsa ed uscii anch’io, scendendo le scale con la speranza che Chris si fosse già rinchiuso in camera sua e non avesse fatto qualche battuta sul mio conto, ma quando mi ritrovai a ricambiare il sorriso di Kyle tutta la tensione sembrò scomparire.
«Scusa il ritardo» si affrettò a giustificarsi, baciandomi entrambe le guance.
Sospirai. «Non importa.» lo rassicurai.
«Ti ho preso dei fiori...ma tua madre li ha già sistemati in un vaso.» si grattò la nuca imbarazzato, seguendo con lo sguardo la figura di mia madre, che posò in quel momento sul tavolo un vaso con tre rose bianche e ci schioccò un sorriso sincero, che riuscì a colorare le sue guance ma non le mie.
«Sono bellissime» gli sorrisi. «Grazie.»
Posai un bacio sulla sua guancia come ringraziamento e lui sorrise felice, «vogliamo andare?» chiese.
Annuii e afferrai il suo braccio, pensando per la prima volta che forse quella volta non sarebbe andata così male...
 
...ma sarebbe stata un disastro totale.
Mi guardai attorno ancora una volta alla ricerca di Kyle, ma tutto quello che continuavo a vedere erano corpi che sbattevano l’uno contro l’altro come si trovassero ad un autoscontro, e delle pareti che presto sarebbero crollate in mille pezzi, se il padrone di casa non si fosse dato una mossa a cacciare tutti quanti.
Nemmeno lo conoscevo. Come non conoscevo nessuna di quelle persone quasi tutte palesemente ubriache, che si muovevano in salotto ad un ritmo molto più guidato dall’alcol nelle vene che dalla musica assordante proveniente dalle casse. Avrei potuto giurare che l’unica persona che conoscessi in quella casa fosse l’unica che avessi perso di vista, e quindi Kyle, e che stessi cercando disperatamente.
I fiori e il suo imbarazzo a casa e durante il tragitto in auto mi avevano fatto pensare che quella sarebbe stata una serata di tutt’altro stampino, che differisse dalle solite feste confusionarie in cui mi ritrovavo quasi secondo una maledizione, ma a quanto pare era stata soltanto una ottima sceneggiata. Kyle aveva scelto il posto meno appropriato per un primo appuntamento, come quasi tutti i ragazzi facevano, e la mia idea di una romantica serata sotto le stelle era andata in fumo come mi aspettavo.
Scacciai con una smorfia disgustata un ragazzo sulla ventina che mi venne addosso, la camicia impregnata dell’orribile odore della birra, e mi appostai contro il muro di un sottoscala, spalancando la finestra alla ricerca di un po’ d’aria: quell’aria era soffocante. Sorrisi quando le mie narici avvertirono dell’ossigeno pulito dopo quell’ora passata tra corpi sudati, e in quell’esatto momento sentii il cellulare vibrare nella borsetta, ma quando lo tirai fuori speranzosa che Kyle si fosse degnato di comunicarmi dove si fosse cacciato, trovai soltanto un messaggio di Martin.
Come va la serata?” recitava.
Sospirai ed esibii un sorriso omicida al display, ma sforzandomi di apparire calma e non dare alla rabbia la soddisfazione di sopraffarmi, risposi nella maniera più tranquilla possibile.
Alla grande :)”
Mentre godevo di un’altra manciata d’aria non putrefatta e osservavo due ragazzi ubriachi cantare e rotolarsi sull’erba con espressione schifata, una piccola vibrazione mi avvertì della risposta del mio migliore amico.
Bugiarda. Se stesse andando alla grande, non mi avresti neanche risposto, perciò... cos’è che non va?”
Sbuffai ed emisi un grugnito in risposta a quell’ennesima sconfitta, che mi vedeva come l’illusa perenne, destinata ad essere delusa di continuo e letta come un libro a caratteri cubitali dal suo migliore amico, seppure a chilometri e una faccina sorridente di distanza. A volte mi ritrovavo a pensare stupidamente che avesse una sfera di cristallo e una grande abilità di mago, oppure un microchip sotto la pelle che gli permettesse di captare ogni mio pensiero, ma poi mi rendevo conto di stare delirando. Era semplicemente Martin, mi conosceva più dei miei genitori, e sarebbe stato capace di confortarmi e irritarmi allo stesso momento molto più di qualsiasi altra persona al mondo, l’unico ragazzo ad avere la mia più totale fiducia.
Il mio accompagnatore è sparito nel nulla, i tacchi mi fanno male e rischio di soffocare e puzzare di alcol e sudore per il resto della mia vita.
Festa di seconda categoria, punto in meno per Thompson. Che intendi per è sparito? Sei da sola?
Da sola non direi, ci sono almeno mille persone qui. Ma di Kyle neppure l’ombra, a meno che non abbia addosso il mantello di Harry Potter o la mia miopia stia peggiorando...Al prossimo appuntamento, mi sotterro di gelato e caramelle.
Mi guardai attorno ancora una volta alla ricerca di capelli biondi e occhi verdi, ma non feci altro che confermare ciò che avevo riferito a Martin poco prima, dunque tornai con lo sguardo fisso al display, come se parlargli potesse distrarmi dalla putrida (in senso letterale) situazione in cui ero andata a finire. Avrei tanto voluto chiudere gli occhi, riaprirli e trovarmi altrove, ma la triste verità era che questo meraviglioso incantesimo funzionava solo nelle favole e, a meno che non rubassi un auto e avessi imparato per magia a guidare, avrei dovuto aspettare di ritrovare Kyle, sputargli addosso il mio odio e farmi riaccompagnare a casa. Intanto, picchiettavo nervosamente il tacco contro le mattonelle di marmo bianco, desiderosa di piantarglielo in faccia.
Mi dispiace...Vuoi che ti venga a prendere? Dammi solo l’indirizzo, sarò da te tra qualche minuto.
Prima che potessi saltellare dalla gioia per poi pentirmi a causa dei tacchi e comunicare al mio eroe il sito della mia prigionia, qualcuno attirò la mia attenzione, così fui costretta ad alzare lo sguardo, ma quando capii chi era stato ad infastidirmi lo stupore nei miei occhi si trasformò in un ghigno sulle mie labbra.
Ma il sorriso strafottente sulle sue non scomparve, e non lo fece neppure la scintilla nei suoi occhi chiari, così simili a quelli di Martin. I capelli erano sistemati impeccabilmente come al solito, e dal suo sguardo e la sua voce ferma avrei potuto dire che fosse forse l’unica persona non ubriaca in quella casa escludendo la sottoscritta, e sola, seppure la camicia sgualcita e il segno rosso sul suo collo fossero la prova inequivocabile di qualche puttanella sanguisuga nascosta chissà dove.
«Perché sei qui?» domandò, «E da sola.» aggiunse con tono ironico, notando nessun altro in mia compagnia.
Riposi nella borsetta il cellulare, mantenendo il solito tono autorevole che non mi sforzavo neppure di avere, in presenza di Zack. «Volevo dare un’occhiata, scoprire come vive l’altro mondo...Sai, quello opposto al mio, che sembra composto da persone insane di mente e capaci soltanto di scolare una bottiglia dopo l’altra e fare sesso non protetto con qualche sconosciuto di cui non ricorderanno nulla il giorno seguente.» spiegai, mantenendo vivo in me l’obbiettivo di prendermi gioco di lui.
Lui sorrise abbassando lo sguardo, quasi si aspettasse una risposta così acida da parte mia.«E cos’hai scoperto?» domandò, stando al mio gioco.
«Che fa schifo. E che non voglio farne parte, per nessuna ragione al mondo.» ribattei, ripulendo la gonna di seta nera dalla calce della parete.
Zack ridacchiò sommessamente e in modo irritante, poi riprese a parlare. «E chi è stato esattamente a spingerla a scoprire questo mondo plebeo, principessa?» replicò, usando un tono derisorio tale da farmi desiderare di picchiarlo con i tacchi a spillo.
«Questo non ti riguarda. Tu invece? Sei da solo, eppure l’antiestetico succhiotto sul tuo collo dimostra il contrario.»
Lui aggrottò la fronte e abbassò lo sguardo, passandosi le dita sul segno rosso ben visibile. Quando lo rialzò, sorrise quasi... fiero. «Ne ho altri, questo è solo uno di una lunga serie.»
«Non ci tengo a vederli.» sbottai, acida.
«Non te li stavo mostrando.» replicò.
«Bene, allora la conversazione è terminata, puoi tornare da dove sei venuto e smettila di infastidirmi.»
«Non posso infastidire qualcuno che è da solo, è troppo innaturale persino per me...»
Ero certa stesse ancora blaterando di cose inutili e senza senso, ma smisi di ascoltarlo quando una piccola luce nel mio cervello si illuminò, e mi portò a salire le scale e al piano superiore della casa, l’unico posto che non avevo controllato. Magari Kyle si trovava lì, ed io sarei potuta tornare finalmente a casa.
Zack mi seguì come un cagnolino confuso quando cominciai ad aprire tutte le porte, trovandomi di fronte a spettacoli raccapriccianti.
«Trovatevi una dannata stanza d’albergo!» gridai contro ad una coppia avvinghiata sul letto, coprendomi gli occhi con la mano e chiudendo repentina la porta.
Zack rise della mia goffaggine e delle mie guance rosse, quasi piegandosi in due dalle risate.
«Non c’è niente da ridere.» lo fulminai, ma lui continuò imperterrito.
«Sai, sei l’incubo delle coppiette.» mi derise.
Sbuffai irritata e superai un ragazzo accasciato a terra, recandomi più avanti, ma tutto quello che vedevo era sempre la stessa scena: corpi avvinghiati come fossero sul set di un film porno. O chini per vomitare anche l’anima e tutto il buon senso, se mai ne avessero.
Zack continuava a starmi dietro, a chiedermi quale fosse il mio obbiettivo, cosa stessi cercando. Io continuavo ad ignorarlo, per mantenere calma e concentrazione.
E finalmente lo trovai. Avvinghiato anche lui ad una ragazza sconosciuta, mezzo nudo su di un divano di sicuro già usato. Quando lui catturò il mio sguardo deluso scostò bruscamente la biondina e cercò di allacciarsi i pantaloni, ma non appena mi raggiunse e tentò di aprire bocca la mia mano partì da sola verso la sua guancia, regalandogli un’impronta di cinque dita che sarebbe andata via solo tra una settimana. Non lo lasciai spiegare e andai via, con le lacrime che cominciavano a pungere contro gli occhi.
Infondo me lo aspettavo. Era quasi destino che andasse a finire così, che nessuno volesse stare al mio fianco e mi sostituisse di continuo, quasi fosse un gioco. Avrei voluto divertirmi anch’io. Avrei voluto almeno non sentirmi così male, non per chi mi aveva inflitto il danno, ma per il danno stesso. Ero stanca di essere rimpiazzata e trattata come un giocattolo, da usare e gettare via quando se ne ha noia, ma nonostante la facciata da dura non avevo il minimo di coraggio, ero debole e crollavo con il minimo colpo, frantumando di volta in volta quella finta corazza che mi ero costruita con tanta fatica.
Scesi le scale rischiando di inciampare nei tacchi ed uscii dalla porta sul retro, scappando da quel male e dalla persona che più di tutte avrebbe riso nel vedermi così debole e insignificante, e solo quando fui fuori e l’aria pungente si infranse contro la mia pelle, diedi sfogo alle lacrime, sentendomi un idiota per l’ennesima volta.
Sentii qualcuno tirarmi per il polso e lo strattonai brusca, ma questo fu più forte e mi sbatté contro la parete della casa, tentando un inutile contatto coi miei occhi. Continuai a dimenarmi e a piangere, seppure le ginocchia molli non mi permettessero una grande dose di forza, non volevo assolutamente vedere o sentire Kyle, ero certa avrebbe alimentato solo la mia rabbia fino a livelli smisurati.
«Stephie, dannazione, smettila!»
Sentii improvvisamente qualcosa scattare dentro di me. Istintivamente il mio corpo smise di ribellarsi a quella stretta, e si immobilizzò.
Quel nome. Conoscevo soltanto una persona che si ostinava a chiamarmi in quel modo.
E quando alzai lo sguardo lui era lì, di fronte a me, a salvarmi ancora una volta. I suoi occhi azzurri erano puntati nei miei, e le sue mani sulle mie guance. Mi scostai dalle sue carezze e allacciai le braccia al suo collo, riprendendo a piangere, ma consapevole adesso di avere un’ancora di salvataggio.
«Non piangere, non piangere...» continuava a ripetere Martin, che mi teneva stretta a sé e mi accarezzava i capelli, nel suo personale metodo di calmarmi. «Ti prego non piangere, qualunque cosa sia successa...»
Continuò a cullarmi per qualche minuto, fin quando sentii le lacrime terminare di sgorgare lungo le guance. Solo allora aprii gli occhi e incontrai lo sguardo di Zack, inverosimilmente preoccupato, che mi fece sentire quasi colpevole di averlo trattato così male. Mi sorrise mesto, con una dolcezza tale che non avrei mai pensato lui possedesse.
Ma insieme a lui, vidi anche qualcos’altro. Qualcosa che mi mozzò il fiato e fece riprendere il percorso di lacrime, stavolta silenziose. Qualcosa che mi immobilizzò, e mi rese incapace persino di sbattere palpebra.
Alla vista del mio sguardo inquietante e la mia aria sicuramente pallida, Martin si voltò a seguire la mia traiettoria, e probabilmente Zack fece lo stesso. Ma quando il mio migliore amico tornò a guardarmi, mi resi tristemente conto che neppure lui possedeva parole capaci di consolarmi, stavolta.
«Portami a casa.» furono le mie uniche.
Volevo dimenticare quella serata, e  in più fretta possibile.

I'm back! E finalmente è arrivato il turno del mio personaggio preferito. #noallepreferenze
Il capitolo è abbastanza... di passaggio. E' un po' astratto e non si capisce bene cosa sia successo, ma verrà chiarito nei prossimi capitoli che, per la cronaca, sono già scritti.
I prossimi non saranno più stipulati per un solo punto di vista, ma per molteplici. Come sempre, il
colore vi aiuterà a distinguere il narratore :)
spero che anche questo capitolo piaccia, anche se sono ancora un po' scettica e curiosa su chi segue questa storia. ahah lettori, fatevi sentire, ne ho bisogno ç_ç
a prestissimo c:

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


   
Quando il suono fastidioso della sveglia perforò le mie orecchie per la quinta volta mi liberai delle coperte come una furia e premetti la mano pesante sull’aggeggio con l’intento di spegnerlo, o distruggerlo una volta per tutte. Da quando avevo impostato Walking On Sunshine come suoneria polifonica un anno prima svegliarsi era diventato un incubo, senza contare che adesso non sopportavo quella canzone, e non sapevo neppure come disattivarne l’impostazione. Il fatto che suonasse anche nei fine settimana poi, rendeva il tutto più detestabile possibile.
Quando il silenzio calò nella stanza mi calmai, immobilizzandomi sul materasso come un blocco di marmo. Era domenica e pertanto non c’era scuola, il che significava dormire sino all’ora di pranzo. Era una mia inevitabile abitudine svegliarmi oltre il limite della decenza nei fine settimana, ma quella mattina il mondo sembrava essersi accanito contro di me, perché non riuscivo a riprendere sonno. Qualunque cosa facessi, in qualsiasi posizione mi trovassi ero infastidito da qualcosa di diverso, che contribuiva a rendermi irritabile e isterico.
Solo quando ne ebbi abbastanza della luce del sole battere sul mio viso e degli improvvisi pruriti in qualsiasi parte del corpo mi portai seduto con uno slancio, sbadigliando e passando una mano tra i capelli, come gesto usuale. Mi stiracchiai e mi alzai ad aprire la finestra con il passo più strascicato di uno zombie, sentendomi come un vampiro a contatto col sole di maggio.
Quando lanciai un’occhiata alla radiosveglia, giusto per rendermi conto in quale fascia oraria mi trovassi e accertarmi di non averla disintegrata sbuffai, sorprendendomi di essere riuscito a svegliarmi alle 10 di domenica mattina senza alcuna minaccia da parte dei miei genitori.
Non avendo nulla da fare e avendo perso la speranza di tornare a dormire beatamente mi rifugiai in bagno, per cancellare l’aspetto stanco dal mio volto. Rimasi sotto la doccia per dei buoni venti minuti, godendo del getto d’acqua gelido sulla pelle. Quando la sentii raggrinzirsi e la vidi assumere un colorito viola mi decisi ad uscire, tornando in camera.
Indossai dei semplici jeans e una canotta, e calzai il primo paio di scarpe che mi capitò a tiro. Una volta asciugati i capelli scesi in salotto, lasciando che Lupin mi assalisse per la sua dose mattutina di coccole. Stranamente le luci erano spente e la stanza vuota, esattamente come lo era la cucina. Notai un piccolo biglietto sul bancone accanto al frigo, quindi mi avvicinai per scoprire di cosa si trattasse.
Io e papà abbiamo avuto un contrattempo e non crediamo di tornare per pranzo, speriamo riusciate a mangiare qualcosa senza distruggere la casa. Vi vogliamo bene, mamma”
Rimasi a fissare il biglietto per qualche secondo, le sopracciglia aggrottate. Da quando mamma lascia dei post-it?
Di solito, se aveva un contrattempo, preferiva tormentarci di telefonate e assicurarsi persino che non lasciassimo la tavoletta del water sollevata con mille raccomandazioni assolutamente inutili, mentre adesso si era limitata a lasciare un semplice e assai più pratico post-it, che però avrei ignorato come fosse stato una normale telefonata: niente pranzo in famiglia corrispondeva al mio dizionario come pizza e patatine, e nessuno mi avrebbe distolto da quell’esaltante idea.
Sarei già stato pronto a prendere la cornetta ed ordinare, ma improvvisamente mi ricordai di non essere da solo in casa, e non solo avere la compagnia di mio fratello, ma anche di Stephanie. La serata precedente l’aveva sconvolta e, anche dopo essersi rintanata in casa nostra e tra le braccia di mio fratello, non aveva spiccicato parola né aveva continuato a piangere, era rimasta muta e apatica, in uno stato pietoso. Avrei potuto giurare di non averla mai vista così debole, indifesa, e il solo vederla piangere a causa di quell’idiota di Thompson riusciva ancora a farmi innervosire come aveva fatto la sera prima, e intristirmi, per qualche strano motivo a me ignoto. Ero ancora abbastanza confuso dalla sua reazione esagerata, non avevo idea di cosa l’avesse spinta a comportarsi in quel modo, ma Martin non sembrava dello stesso avviso, anzi aveva continuato a stringerla a sé e non le aveva lasciato la mano neppure per un secondo, continuando a consolarla in silenzio, come se riuscisse a comprendere tutte le parole inespresse.
Sospirai posando il biglietto sul bancone, e decisi di risalire le scale e recarmi nella stanza di mio fratello, indispettito dal fatto che stesse ancora dormendo. Indugiai un po’ quando mi ritrovai di fronte alla porta di legno, sentendomi quasi per varcare uno spazio proibito, destinato soltanto a mio fratello e Stephanie e alla loro amicizia, in cui nessun altro avrebbe dovuto mettere piede. Quando mi resi poi conto di stare delirando e di non stare facendo assolutamente nulla di male aprii la porta e mi inoltrai nella stanza ancora buia, per niente sorpreso nel vedere Martin sveglio. Non era tipo da lunghe dormite, e non lo sarebbe stato certo quella volta.
Mi salutò con un cenno quando si accorse di me, e fu solo dopo aver ricambiato quella sottospecie di buongiorno che la vidi, rannicchiata come una bambina contro il corpo di mio fratello, le braccia a stringergli la vita e la testa sulla sua spalla. L’ultima volta che l’avevo vista aveva addosso una gonna e una camicia ed aveva i capelli raccolti in una coda alta, mentre adesso erano sciolti e assurdamente in ordine, la camicia era stata sostituita da una maglietta col logo di Batman che riconobbi appartenere a mio fratello, e le gambe lunghe erano scoperte, distese lungo tutto il materasso.
«Hai una faccia orribile.» decretai, analizzando le piccole occhiaie sul viso di mio fratello e l’aria stravolta.
«Lo so. Non ho chiuso occhio stanotte.» sospirò lui.
«Chissà perché me l’aspettavo... Come sta?»
Martin sospirò ancora, poi puntò lo sguardo su Stephanie, come se ne stesse accertando al momento. Le lasciò una carezza sui capelli e lo rialzò, «adesso sembra bene.»
Annuii e cominciai a passare in rassegna la stanza di mio fratello. Il mio sguardo si fermò su una piccola bacheca alla parete, tempestata di foto. Ciascuna di esse raffigurava sempre le stesse due persone, ovvero lui e Stephanie, in diverse pose e posti, sorridenti. A dire il vero ero rimasto stupito da come lui le fosse stato accanto durante tutta la notte, e anche solo lo sguardo di ansia e premura che le riservava in quel momento, mi metteva a disagio e allo stesso tempo mi faceva rendere conto di quanto tenesse a quella ragazza. Avrei potuto giurare fosse la cosa più importante per lui e avrebbe dato qualsiasi cosa per farla stare bene, e lei non certo era da meno. Il loro rapporto era qualcosa che non capivo, ma sapevo fosse davvero forte. Che poi fossero innamorati o semplicemente amici ne ero ancora ignaro, ma era quasi evidente che il suo legame con Stephanie fosse molto più fraterno di quello che aveva con me.
«Devo andare in bagno.» borbottò Martin, costringendomi a tornare a prestargli attenzione. Lo guardai con le sopracciglia aggrottate chiedendogli silenziosamente perché non si fosse già alzato, fin quando «non posso lasciarla da sola» spiegò.
«Non credo sentirà la tua mancanza per qualche secondo...» replicai, cercando di essere obiettivo.
Sbuffò ed infine si decise a rinunciare alla sua carica da crocerossina per qualche attimo, così si liberò della stretta di Stephanie con lentezza inaudita e scattò in piedi, andando a spalancare le finestre e le tende della stanza. «Tu resta qui con lei» mi ordinò prima di scomparire.
«Come se potesse scappare...»
Stetti ad osservare la porta lasciata socchiusa per qualche secondo, poi il mio sguardo cambiò traiettoria, spostandosi sulla figura distesa sul letto. Mi sedetti sulla sedia girevole e mi avvicinai di poco, prendendo ad analizzare ogni tratto del viso. Dormiva ancora. Gli occhi erano serrati e l’espressione rilassata, il respiro regolare a scandirsi tra il lento alzarsi e abbassarsi del petto. E non c’era altro aggettivo che potessi affibbiarle che bella, perché lo era davvero tanto. Forse la ragazza più bella che avessi mai visto, ma non gliel’avrei mai detto. Non era una bellezza provocante come quella delle modelle o le attrici, ma semplice, da tipica ragazza della porta accanto, e adorabile. A partire dall’espressione tranquilla quando dormiva al cipiglio sulla fronte quando era arrabbiata, tutto la rendeva bellissima ai miei occhi. E detestabile, perché era anche la ragazza più irritante e suscettibile dell’intero universo, con un finto lato altezzoso che si ostinava a mostrare solo con me, sebbene sapessi bene non esistesse affatto. E poi mi guardava sempre con quell’espressione di sufficienza, aveva sempre una risposta acida a portata di mano e faceva di tutto perché le stessi più lontano possibile, e tutto questo la rendeva anche terribilmente odiosa, e non avevo idea di come potessi pensare a quanto fosse bella tenendo conto di tutti quei difetti.
A interrompere la mia contemplazione fu un grugnito, che mi fece allontanare repentino. Stephanie sbuffò e si tirò i capelli addietro, stiracchiandosi. Allungò la mano verso il posto vuoto di Martin e lo tastò per qualche secondo, fin quando non aprì gli occhi lentamente. Si tirò a sedere e sbadigliò a lungo, e quando si accorse della mia presenza saltò indietro, spaventata.
«Buongiorno bella addormentata.» le sorrisi.
Assottigliò lo sguardo minacciosa per un attimo, ma poi lo rilassò, «Traumatizzi così ogni giorno le persone che dormono?»
«Solo quelle che non si svegliano.»
Annuì senza davvero prestare attenzione, poi si rese conto dello spazio vuoto accanto a lei. «Dov’è Martin?»
«E’ in bagno. Credo che non si sia mosso di un millimetro da quando ti sei addormentata...In effetti credo che tu lo limiti in tutti i sensi.»
Stephanie puntò lo sguardo nel mio, severa. «Non sono in vena di sostenere un battibecco con te Zack, quindi se non hai niente di carino da dirmi puoi anche uscire di qui.» tagliò corto.
Le sorrisi, senza un motivo realmente valido. Possibile la mia sola presenza la irritasse a tal punto da volermi uccidere con lo sguardo, se solo fosse stato possibile?
Ma se non aveva voglia o forza per tenermi testa doveva stare parecchio male, ed io avrei dovuto intuirlo o perlomeno tenerne conto.
«Belle gambe.» esordii, sorridendole e puntando i miei occhi dritti nei suoi.
Aggrottò la fronte confusa per qualche secondo, ma quando si ricordò di non avere nulla addosso che una maglietta roteò gli occhi e portò le lenzuola a coprirle le gambe fulminandomi con gli occhi, mentre le sue gote assumevano un delizioso colore porpora, uno spettacolo esilarante.
«Non sapevo sapessi anche arrossire...» notai con piacere, lasciando che la dose di imbarazzo sulle sue guance aumentasse.
Mi rivolse un sorriso acido, continuando a mantenere lo sguardo duro su di me. «Esci.» mi ordinò, a disagio.
Scossi la testa. «Niente da fare. Martin mi ha ordinato di rimanere qui finché non fosse tornato.» le sorrisi, quasi a farle un dispetto.
Esibì il solito sguardo omicida, poi sbuffò irritata. «Questo non ti autorizza a fissarmi.»
«Ti fisso perché è divertente.»
«Beh è irritante. E fastidioso.»
«E ti imbarazza.» aggiunsi, divertito.
Stephanie aprì bocca per controbattere e magari mi sarei beccato qualche insulto, se solo mio fratello non avesse fatto il suo ingresso proprio in quel momento, rivolgendo un sorriso radioso a lei ed uno non proprio entusiasta a me. Mi chiesi se avesse origliato la discussione nascosto dietro la porta.
«Zack, mamma e papà non ci sono.» mi informò, serafico.
«Lo so.» lo interruppi, prima che potesse aggiungere altre informazioni inutili.
«Con cosa pranziamo?»
«Pizza!» risposi, sorridente ed entusiasta come un bambino.
Vidi Stephanie sorridere discretamente, mentre Martin roteò gli occhi. «E con quali soldi? Mamma non ne ha lasciati, io sono al verde e a meno che tu non abbia dei soldi nascosti sotto al materasso direi che l’idea è da scartare.»
Mi aveva preso in contropiede. Ritirai lo sguardo riflettendo sulla soluzione più logica ed efficace per quella situazione, fin quando non arrivò da sola.
«Potremmo cucinarla noi.» propose Stephanie, che fino ad allora era stata ad osservarci discutere senza intromettersi. Aveva un enorme sorriso rivolto verso Martin, ma quando io incrociai il suo sguardo lo ritirò, come scottata.
Mio fratello non ne sembrò entusiasta, perché rimase fedele al suo scetticismo naturale per qualche secondo. «Non credo sia una buona idea, c’è il pericolo di mandare a fuoco la casa...» rifletté, con la fronte aggrottata.
«Non sarà tanto difficile» commentai io, e capii d’avere il sostegno di Stephanie quando mi sorrise.
«Ma sì, saremo cauti.» accordò lei, saltando in piedi e allacciando le braccia al collo di Martin, dimenticandosi temporaneamente del motivo che l’aveva spinta a diventare un tutt’uno con le lenzuola. Ma evidentemente con lui non aveva gli stessi problemi, o lo stesso imbarazzo. Comunque riuscì a convincere il mio dubbioso fratellino a tentare un probabile disastro, e anche la luce nei suoi occhi mutò, diventando scintillante quasi.
«Voi scendete e tirate fuori l’occorrente, io mi vesto e vi raggiungo.»
Era la prima volta che la sentivo parlare di me e mio fratello al plurale, di solito preferiva considerarci e dibattere uno alla volta senza mischiarci, quasi fossimo incompatibili. Ed io non avrei mai voluto interrompere quell’importante tradizione, perciò mentre Martin scese in cucina io aspettai che indossasse almeno dei pantaloncini e tornai dentro, sorprendendola ancora seduta, ma a fissare il display del cellulare, quasi mortificata. Probabilmente la fermai da un possibile pianto, perché quando mi rivide tirò su col naso, si sforzò di sorridere e ripose il cellulare sul comodino, prendendo a torturarsi i capelli.
«Chi era?» le chiesi, prendendo posto accanto a lei.
Sembrò rifletterci un attimo a sguardo basso, poi lo rialzò. «Mia madre,» rispose, «le ho detto che va tutto bene, era preoccupata.»
«Ci credo che era preoccupata!» commentai, strappandole un sorriso «Non dev’essere molto confortante lasciar uscire tua figlia e non averne notizie sino alla mattina dopo...Hai fatto preoccupare un po’ tutti.»
Accennò ad una triste risata ma tornò presto al suo personale silenzio, che non avrei mai creduto potesse ferirmi almeno un po’. Era evidente avesse bisogno di sfogarsi con qualcuno e tirare fuori i suoi sentimenti, ed avrei voluto potesse riuscirci con me, ma si ostinava a rimanere muta. E persino io mi sorpresi quando spostai la mia mano ad accarezzare la sua, che si immobilizzò.
«Mi dispiace per quello che è successo...» sussurrai piano e a sguardo basso, come se avessi paura che lei potesse sentirmi davvero o carpire l’esitazione nella mia voce. «Vederti così distrutta mi ha fatto...»
«Pena?» mi intercettò lei, sarcastica.
«Paura.» la corressi. «Sono così abituato a scontrarmi col tuo lato forte e coraggioso che non pensavo ne possedessi anche uno più debole e sensibile... scoprirlo è stato quasi sconcertante.»
Annuì lentamente ma rimase in silenzio, l’unico rumore udibile quello del suo sospiro.« Ed io non pensavo potessi preoccuparti per me.» commentò infine con un sorriso, le sue dita sottili a stringere la mia mano. «Ma a quanto pare tutti riserviamo delle sorprese.»
Ricambiai il suo sorriso ed abbassai lo sguardo, godendo del contatto con la sua mano. Decisi che valeva almeno la pena provare a capirla, a capire io stesso le ragioni della sua reazione, dunque fui il primo a riprendere a parlare.
«Se devo essere sincero non ho ancora capito cosa è successo...» lasciai in sospeso la frase, ma notando che lei non apriva bocca per chiarirmi le idee continuai, «insomma non puoi essere caduta in questo stato per Thompson.»
Scosse la testa, come ripresasi, e sospirò. «Kyle non c’entra, avevo già il presentimento che con lui non sarebbe andata a finire bene... In realtà è stata una serie di cose a ferirmi, ma lui è all’ultimo posto.»
Puntò lo sguardo nel mio, e lo trovai sincero. E realizzai solo allora che quello fosse il momento più confidenziale e intimo che avessimo mai avuto, senza discutere e remarci contro a colpi di insulti. E stranamente mi sentivo bene, rincuorato senza dubbio che Thompson non fosse la causa del suo malumore, ma in ansia per cosa avrei dovuto aspettarmi.
«Hai voglia di parlarne?» tentai.
«No.»
Fu una risposta veloce, secca. E la sua mano abbandonò la mia immediata, come si fosse appena resa conto di essersi esposta troppo e per questo stare andando incontro a un qualche pericolo, che vedeva me come il suo maggiore nemico.
«D’accordo» accettai, fingendo con un sorriso di non esserci rimasto male in qualche modo. «Ma se mai ne avessi voglia, sai che puoi rivolgerti a me.»
Annuì senza guardarmi negli occhi ed io decretai quella come la fine della nostra stramba conversazione, e una volta in piedi e sulla soglia della porta mi ritrovai a scuotere la testa e sorridere, incredulo in una maniera estremamente infantile.
«Comunque Thompson è un idiota,» aggiunsi, attirando nuovamente la sua attenzione e il suo sguardo smarrito e adesso curioso, «nessun ragazzo sano di mente ti avrebbe sostituita con una puttanella del genere.»
Le sorrisi, sorprendentemente lei ricambiò. Un timido “grazie” in risposta uscì dalle sue labbra, ed ebbi la sensazione che non fosse solo per il sottinteso complimento della mia frase precedente, ma per esserle stato accanto anche se nel minimo la sera prima e in quegli scarsi 10 minuti, di essermi interessato ai suoi sentimenti, per la prima volta.
«Dovere.» replicai, prima che uno strano rumore dalla cucina mi costringesse a scuotere la testa esasperato e correre giù per accertarmi che Martin non fosse stato rimasto sepolto sotto le pentole.  

Altro capitolo, altro narratore. 
Personalmente amo la conversazione finale tra Zack e Stephanie, è quasi... dolce. Lui è preoccupato, anche se sa che non dovrebbe esserlo... E Martin è un tesoro, tanto <3
alla prossima :3

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***



Il weekend era terminato troppo in fretta, e mai ero stata meno entusiasta di tornare a scuola il lunedì seguente. Non mi ritenevo parte della tipica schiera di studenti terrorizzati dalla routine scolastica, ma quello appena passato non era stato uno dei miei migliori fine settimana, anzi era stato forse il più tragico e deprimente che potessi passare, ed ero ancora abbastanza sconfortata da quello che la realtà mi aveva riservato buttandomi giù dal letto quella mattina, per gettarmi nella gabbia dorata di prepotenti e viziati.
Dopo l’insoddisfacente pranzo a casa Payne avevo deciso di rimanerci ancora un po’ per attardare il mio ritorno a casa e la probabile sfuriata di mamma, e almeno questo era servito per distrarmi e farmi dimenticare per delle buone ore cosa mi aspettava a casa. Avevo saputo sin dal primo momento e lo avrei per sempre ricordato che le braccia del mio migliore fossero il mio più sicuro rifugio e la mia più dolce culla, ma la vera sorpresa era stata trovare conforto persino nello sguardo e nei sorrisi del suo fratello gemello. Pur avendo lo stesso aspetto esteriore il loro atteggiamento e modo di porsi era del tutto differente, e se uno di loro era diventato il miglior confidente e amico che potessi avere e di cui potessi fidarmi ciecamente era ovvio che non sopportassi l’altro, ma mi aveva piacevolmente stupita: non avrei saputo dire se il suo interessamento nei miei confronti fosse sincero o solo un patetico tentativo di consolarmi mosso da compassione o pena, fatto sta che era stato particolarmente gentile e avrei osato dire comprensivo, e anche lui aveva contribuito a farmi sentire meglio, strappandomi parecchi sorrisi e risate inconsapevoli durante la giornata.
Tornata a casa però, la situazione e il mio umore erano degenerati. Con mamma avevo improvvisato un mal di stomaco che mi aveva permesso di sgattaiolare in camera ed evitare le sue prediche, ma vedere mio padre in giro per casa dopo l’ultima visione che avevo avuto di lui la sera della festa non aiutava affatto a placare le mie paranoie. Ogni suo sorriso mi riportava alla mente l’orribile immagine ancora nitida di lui fin troppo vicino ad una donna a me sconosciuta, e non avevo fatto altro che chiedermi chi fosse quella donna, perché mio padre fosse con lei e perché si comportava come se non fosse accaduto nulla e avessi preso soltanto uno stupido abbaglio, continuando a baciare mia madre con quelle stesse labbra che forse avevano toccato anche quelle di lei.
Quando la tensione era diventata palpabile e la cena un peso insostenibile da sopportare avevo deciso di rintanarmi in camera sotto strati e strati di coperte, continuando a rimuginare sulla questione irrisolta e lasciando che qualche lacrima mi solcasse ancora le guance, tra un cuscino zuppo e diversi sms consolatori di Martin. Lui mi aveva suggerito di non saltare a conclusioni affrettate, di riflettere bene sul da farsi e discuterne col diretto interessato, ovvero mio padre, per cercare di capire meglio la situazione, ma io non avevo voglia neppure di incrociare il suo sguardo. Avevo solo un gran istinto che mi incitava a scendere e confidare a mamma ciò che avevo visto, quello che mi tratteneva dal farlo era soltanto la consapevolezza che avrei rovinato qualcosa che avrebbe potuto aggiustarsi per il meglio o peggio ancora avrei potuto fraintendere, e che avrei distrutto la persona più importante della mia vita. E tutto questo mi faceva arrabbiare, piangere, e desiderare che Martin non mi avesse mai consigliato di uscire con Kyle quella sera.
A proposito di Kyle, l’avevo incrociato solo una volta quella mattina, e da perfetto codardo qual’era aveva chinato il capo ed evitato il mio sguardo, continuando a discutere animatamente coi suoi compagni di chissà quale partita o scopata nei bagni. Non potevo nascondere di essere rimasta delusa dal suo comportamento, ma sapevo non avrei mai potuto aspettarmi di meglio da un giocatore di basket: l’intera squadra della scuola era composta da insensibili e insaziabili stronzi di primissima categoria, e ne avevo ricevuto la conferma proprio la sera stessa in cui avevo cominciato a pensare che mi stessi sbagliando. Il fatto poi che il suo capitano fosse Zack Payne era la ciliegina sulla torta in concordanza con la mia tesi, e nonostante la mia opinione fosse in procinto di mutare non avrei lasciato che le apparenze soprafacessero la verità. Non di nuovo.
«Signorina Gilbert, aspetti!»
Alzai lo sguardo per individuare il proprietario della voce che mi aveva chiamata e la mia fronte si aggrottò naturalmente quando intravidi la chioma biondo cenere della preside Williams e la sua gonna perfettamente stirata. Attesi che mi raggiungesse stampandomi un sorriso sulle labbra, ma quando mi fu di fronte tutto quello che fece fu respirare pesantemente e chinarsi per poggiare le mani sulle ginocchia esausta, quasi avesse corso una maratona di dieci metri.
«Mi cercava...?» balbettai confusa, aspettando che riprendesse fiato.
Sospirò un’ultima volta, poi mostrò una fila di denti bianchissimi a fissarmi. «La cercavo, signorina Gilbert.» asserì.
«Di cosa vuole parlarmi?»
Sorrise vittoriosa, come se le avessi appena dato l’opportunità giusta per recitare un lungo discorso preparato la sera prima. «Questo è il suo ultimo anno qui in questa scuola come lo è per molti studenti, e come sa ogni anno l’organizzazione del ballo di fine anno per i diplomanti è buona tradizione e affidata ad uno dei partecipanti, dunque mi chiedevo se lei volesse essere l’organizzatrice ufficiale.» spiegò, senza abbandonare il sorriso per un solo attimo.
Stetti ad osservarla perplessa per qualche istante, cercando di mettere in chiaro l’idea nella mia testa. Io, Stephanie Gilbert, incaricata ufficiale dell’organizzazione del ballo dei diplomanti. Non suonava poi così male. E inoltre mi avrebbe permesso di staccare la spina dall’assurda situazione in cui mi ero andata a cacciare per qualche ora supplementare alla settimana.
«Ovviamente avrà a sua disposizione un gruppo di studenti che l’aiuteranno nei preparativi, e può permettersi una sorta di vice-direttore, se può esserle utile.» continuò la donna, indispettita forse dal mio silenzio.
Quando le mie orecchie udirono la parola “vice-direttore” la mia mente elaborò in automatico l’immagine di Martin, e provavo già una sorta di onnipotenza superiore ad avere una schiera di persone al mio servizio e ai miei ordini. Non poteva far altro che fruttarmi, e non potevo che fruttare.
Sorrisi. «Accetto molto volentieri.»
 
Scoprire d’aver preso il voto più alto della classe nell’ultimo compito di fisica mi aveva reso di buon umore quella mattina, e non potevo fare a meno di chiedermi se non sembrassi un idiota con un sorriso da ebete mentre camminavo per il corridoio gremito per recarmi nell’aula di francese. Avrei potuto giurare che il mio battito avesse accelerato quando la professoressa Wellington aveva fatto il suo ingresso in classe, e avevo temuto l’arrivo di una potente tachicardia fin quando non era arrivata a consegnare il mio compito. E non avevo abbandonato il mio scetticismo e la mia tensione nonostante il suo sorriso rassicurante, ma vedere quell’A sul foglio bianco mi aveva liberato di un fortissimo peso, come se tutte le preoccupazioni e pensieri negativi fossero volati via, puff, spariti.
Stranamente o forse non così stranamente il mio irritante fratello gemello non si era presentato a lezione quel giorno, così la professoressa aveva affidato a me il compito di comunicare il risultato ottenuto da Zack: una A. “I gemelli Payne hanno anche avuto lo stesso voto!” aveva commentato sarcasticamente la professoressa, e a distanza di ore non avevo ancora idea di quale forza fosse stata così forte e determinata da impedirmi di alzarmi in piedi e spifferare all’intera classe il mezzo con cui mio fratello aveva ottenuto quel voto. Mi ero limitato a piegare le labbra in un mezzo sorriso in attesa che lei smettesse di ridere, come se avesse appena fatto la battuta migliore del mondo, e subito dopo il mio sguardo era diventato rude e disgustato. Non mi importava dei voti che mio fratello otteneva, ma del suo personale metodo di ottenerli. Avevo tralasciato su quella storia per ben cinque giorni, era giunto il momento di ricominciare ad indagare.
Mi accorsi di essere arrivato a destinazione soltanto quando un forte dolore alla testa mi avvertì del romantico scontro con la porta di legno, a seguito le risatine di alcuni studenti. Corrucciai lo sguardo e mi inoltrai in classe massaggiando la parte lesa delicatamente, nella speranza che non mi procurasse un bernoccolo, e come al solito mi sedetti ad uno dei due posti accanto alla finestra. Erano i posti mio e di Stephanie dall’inizio dell’anno, e nessun altro li aveva occupati oltre noi. Ad ogni lezione lei arrivava prima di me, mi piaceva vederla assorta ad osservare oltre il vetro e poi notarmi e sorridermi, incitarmi di raggiungerla e farmi abbracciare, ma vedere il suo posto vuoto mi fece pensare che forse per quella volta la nostra piccola tradizione sarebbe saltata.
La professoressa entrò in classe annunciandosi con un caloroso Bonjour!, e mentre la classe rispondeva a gran voce abbozzando qualche frase priva di senso io guardai il posto accanto al mio, ancora vuoto. Probabilmente non sarebbe venuta, ed era triste pensare che quella sarebbe stata la mia prima lezione di francese senza di lei.
Il suo sorriso quella mattina non mi aveva convinto affatto e sapevo bene che stesse fingendo di star bene, per non dare nell’occhio e non farmi pesare la sua tristezza, né farla pesare a sé stessa, ma non sarei mai stato tranquillo finché non avrebbe ripreso a sorridere sinceramente. Sapevo che la sua mente fosse ancora tormentata dalle immagini di quella serata, e probabilmente avrebbero continuata a tormentarla, e lei non era abbastanza forte come lasciava credere. La sua era solo una facciata, la vera Stephanie era la cosa più preziosa e sensibile che avessi mai avuto l’onore di incontrare, e crollava troppo spesso e troppo facilmente, e amava rifugiarsi nelle mie braccia e piangere senza dire nulla, consapevole che le sarei sempre stato accanto. Era quella la Stephanie che conoscevo io e che lei teneva ben nascosta, non la snob egoista che voleva lasciar pensare che fosse. Ed io le ero affezionato, le volevo bene come se ne vuole ad un’anima gemella, ed era per questo che non sopportavo vederla stare così male, era per questo che non avevo chiuso occhio quella notte continuando ad accarezzarla come si fa con una bambina, solo per assicurarmi che stesse bene e che niente la ferisse, almeno non quando era con me. L’avrei protetta contro qualunque cosa, era una promessa che ci eravamo fatti all’età di 12 anni, ed intendevo mantenerla a qualunque costo.
La porta si spalancò proprio quando la professoressa Holt aveva tirato fuori il libro, e vedere la mia migliore amica che annaspava sulla soglia mi strappò un sorriso. Si scusò con la professoressa che la incoraggiò a sedersi, e quando prese posto accanto a me mi sorrise, sollevata.
«La preside mi ha trattenuta.» spiegò, tirando fuori libro e quaderno, «Non avete ancora iniziato vero?»
«No. Sei in punizione o hai ottenuto qualche premio di cui non sono stato informato?»
Si fermò a riflettere, e si voltò verso di me sorridente. «Una specie...» concesse, «anche se io non lo considererei un vero e proprio premio.»
Aggrottai la fronte scettico, in risposta al suo sorriso emblematico. «Di cosa si tratta?»
Mi sorrise entusiasta, e come al solito una sensazione che avevo catalogato come paura si fece spazio nella mia mente, spaventata da cosa sarebbe potuto uscito dalla sua bocca. «Ballo dei diplomanti!» esordì, invece.
«Ballo dei diplomanti?»
«Ballo dei diplomanti! La preside mi ha affidato l’organizzazione completa dell’evento, e a differenza di quello che stai pensando l’idea non mi fa così schifo, quindi ho accettato!»
Ballo dei diplomanti. A quanto ne sapevo Stephanie odiava quel genere di eventi e lo aveva detestato ogni anno da quando si era avuta l’idea di organizzarlo, quindi era comprensibile che fossi sorpreso da quella sua scelta. Il ballo dei diplomanti era ciò di più pomposo e romantico ci fosse in quella scuola, e Stephanie era stata categorica, non avrebbe mai partecipato a “quello schifo di feste”, e allora perché organizzarlo lei stessa?
«Ne sei sicura? Insomma, tu odi quel genere di eventi...»
«Odio parteciparvi, ma forse organizzarli sarà divertente. Senza contare che avrò al mio servizio un gruppetto di schiavetti pronti ad eseguire ogni mio ordine e un vice-direttore, che a proposito sei tu.»
«Io che cosa?!»sgranai la bocca, incredulo. Non poteva avermelo chiesto, non a me.
«Andiamo, che ti costa!» - e invece l’aveva fatto... - «Sarà divertente, no? Saremo i cupidi della magica serata tra coppie, non è eccitante?»
«Sai cosa è eccitante? Passare i pomeriggi tra libri e tv, ed è quello che farò fino alla fine di quest’anno.»
«Payne et Gilbert, je vous serais très reconnaissante si vous parliez de vos affaires hors de ma classe, s’il vous plait.» ci rimproverò la professoressa, riservandoci il solito sorriso che sembrava tanto urlare “parla ancora durante la mia lezione e ti taglio la lingua”.
Stephanie le sorrise, sfacciata. «Nous sommes très très desolés d’avoir derangé sa lesson mademoiselle, il n’arrivera plus.»
L’insegnante la guardò scettica, mormorò un “je l’éspère” a denti stretti e tornò a spiegare, lasciando che Stephanie continuasse con la sua insostenibile supplica.
«Sarà solo per qualche settimana! Ti prego, Smartiee...»
Conoscevo bene quel soprannome, e non fu una sorpresa osservarla inarcare il labbro inferiore e spalancare gli occhi scuri, sbattere le ciglia ripetutamente.
Vederla così entusiasta e raggiante per qualcosa dopo le lacrime versate giorni prima era appagante, mi rendeva felice. E se per continuare a vederla sorridere avrei dovuto aiutarla ad organizzare uno stupido evento di cui non importava nulla a nessuno dei due lo avrei fatto, senza pensarci due volte.
Sbuffai, infastidito che anche questa volta avesse scovato il mio punto debole. E lei sorrise, perché sapeva di averla avuta vinta anche questa volta.
 
Si preannunciava una pessima settimana. Non solo credevo d’aver fatto il peggior compito di chimica della storia, ma quei mostri senza cuore dei professori avevano stabilito altri tre compiti in quella settimana, e non avevo idea di come sarei sopravvissuta, o se ci sarei riuscita. Per non parlare delle due ore di matematica che mi attendevano dopo pranzo. Eravamo soltanto al primo giorno della settimana, ed io già sentivo di volermi buttare giù dal tetto.
Fortunatamente c’era l’ora di pranzo a tirarti un po’ su di morale. L’unico momento di libertà espressiva ed emotiva che permetteva agli studenti di respirare e tirare un sospiro di sollievo o, nel caso dei secchioni, ripetere per qualche interrogazione. Ed era esattamente verso la mensa che mi stavo dirigendo, felice di potermi distrarre seppure per meno di un’ora e di poter scambiare qualche parola con Veronica, o semplicemente ingozzarmi di cibo sino a dimenticare.
Quando però alzai lo sguardo e incrociai quello cristallino della professoressa Farrey, sgranai automaticamente bocca ed occhi, e mi immobilizzai, terrorizzata. Dal giorno di quella stramba proposta non avevo tirato fuori alcuna soluzione, non ci avevo neppure pensato così tanto in realtà, e sapevo bene che se mi fossi scontrata in quella donna dall’acconciatura quasi sempre impeccabile sarei stata costretta a scegliere lì su due piedi, e non era assolutamente mia intenzione farlo. Dovevo scappare via da lì, lei non doveva vedermi.
«Signorina Desmore!» mi chiamò invece, sorridendo alla mia vista. Abbozzai un sorriso nervoso e lei mi si avvicinò, posando minacciosa un braccio attorno alle mie spalle. «Ha pensato alla mia proposta?» mi chiese, bruciapelo.
Ecco. Adesso cosa diavolo mi invento? Non potevo certo dirle di non aver trovato ancora un tutor, ero certa che quella strega sarebbe stata più che felice di affidarmi a Catherine, se solo avessi fallito nella mia ricerca.
«In realtà...» cominciai, nervosa, «sì, ci ho pensato!»
«Davvero? Devo dire che mi ha stupito, ero sicura che se ne fosse anche dimenticata, se devo essere sincera.»
Sfoderai il miglior sorriso che possedessi, giusto perché non carpisse nulla che potesse tradire la mia recita. Continuai a sorridere ed annuire come ad assecondarla, ma non fiatai ulteriormente, imponendomi di rispondere solo se strettamente necessario. Non potevo rischiare di traboccare con le bugie, mi sarei trovata in guai persino più grossi, e non potevo permettermelo.
«Perché non viene a pranzo con me? Potremo parlare per bene della sua scelta, vorrei conoscerla.»
Perché quello mi sembrava il sorriso più minaccioso che avessi mai visto?
Sgranai gli occhi per la sorpresa e la paura, e sperai ardentemente che la mia testa vuota tirasse fuori una scusa adatta per cacciarmi fuori dalla quella scomoda situazione, e fortunatamente per quella volta il mio cervello decise di collaborare e tirar fuori un’idea decente.
«Veramente avrei un impegno...» declinai il suo invito, cercando di essere il più convincente possibile, «il professor Curry ha chiesto di vedermi, vorrà parlarmi riguardo l’ultimo compito, ed io devo andare, sa com’è il professore, se qualcuno non esegue i suoi ordini va fuori di testa!» ridacchiai, gesticolando stupidamente.
La Farrey assottigliò lo sguardo, ma infine sospirò, e lo feci anch’io. «Vorrà dire che ne riparleremo un’altra volta, Desmore.», mi sorrise e andò via sui suoi trampoli.
«E buon appetito!» le urlai dietro, e quando fui certa che fosse finalmente scomparsa dalla mia visuale mi lasciai andare ad un meritatissimo sospiro lungo gli armadietti, ringraziando Dio di averla scampata.
Subito dopo però mi resi conto che, con la Farrey a mensa, non avrei potuto metterci piede sino alla fine della pausa pranzo. Sbuffai infastidita, e tirai fuori il cellulare per avvertire Veronica della mia assenza. Poi, furtiva, cercai un posto dove poter consumare il mio panino senza alcun disturbo da parte di professori o studenti impiccioni, e sorrisi quando mi imbattei nell’insegna dorata della biblioteca. Non ricordavo di averci messo piede più di una volta da quando ero in quella scuola, e solo sotto costrizione di Veronica. Ma il luogo sembrava deserto, esattamente come quando ci ero stata quell’unica mattina.
Soddisfatta della tranquillità in biblioteca trovai posto nel reparto di storia antica, e mi accasciai lungo la libreria stracolma di libri, a gambe piegate. Legai i capelli in una coda laterale e tirai fuori il mio pranzo dallo zaino, liberandolo della pellicola e addentandolo, per il primo morso.
Ma quella tranquillità durò soltanto la gioia di qualche minuto, perché presto udii alcuni passi farsi sempre più vicini. Spaventata mi alzai veloce, riposi il panino nello zaino e lo recuperai da terra, desiderosa di scomparire al più presto da lì. Ma con la mia solita fortuna lo zaino andò a colpire alcuni libri, che caddero a terra rovinosamente.
«Merda!» imprecai. Erano davvero pesanti e numerosi, ed avevano distrutto la mia speranza di non farmi notare.
«C’è qualcuno?» sentii domandare.
Non risposi e decisi di lasciare stare tutto quanto per uscire da lì, ma dopo aver fatto lo slalom tra alcune librerie giunsi ad un vicolo cieco, trovandomi di fronte un ragazzo alto, che mi guardava stranito. Aveva lo zaino ad una spalla, la bocca leggermente socchiusa e lo sguardo un po’ imbambolato, come se fosse ipnotizzato. E fu la stessa espressione che assunsi io, rendendomi conto di chi avevo di fronte. Capelli castani, occhi azzurri, avevo davanti Zack Payne e non sapevo far altro che starmene zitta. Ma quando assottigliai lo sguardo mi resi conto di alcuni particolari diversi dal volto di Zack, e solo dopo mi ricordai che molto probabilmente quello davanti a me era soltanto il suo gemello, Martin. D’altronde lui non era affatto tipo da biblioteche, e mi sentii stupida per un attimo per averli confusi in quel modo. Però erano davvero simili, dannatamente uguali, quindi non potei fare a meno di arrossire.
«Scusa, io non... non pensavo ci fosse qualcuno.»
Erano scuse quelle che avevo appena sentito? Scuse per essere entrato in un luogo pubblico?
«Ero venuto soltanto per prendere un libro e ho sentito il tonfo... mi dispiace, non volevo infastidirti»
La sua inutile giustificazione colma di balbettii mi lasciò interdetta per qualche secondo, ma poi quando si girò per andarsene fu come riprendersi da uno stato di tranche. «Aspetta!» mi ritrovai a gridare, correndo poi per raggiungerlo.
Lui si fermò dandomi comunque le spalle, dunque mi avvicinai.
«Non mi hai infastidita, è solo che ho avuto paura...» gli spiegai, accennando ad una risata,  «in effetti non mi sarei aspettata un predatore o un serial killer, ma è un po’ imbarazzante rinchiudersi in biblioteca per mangiare e scappare da una professoressa»
Quando Martin si voltò mi mostrò un mezzo sorriso e uno sguardo confuso. Sembrava tanto lo sguardo spaesato di un bambino, ed era davvero tenero. «Non devi scusarti di niente, sono io quella fuori luogo qui. Piuttosto mi dispiace di averti spaventato, non volevo...» continuai.
Scosse la testa così velocemente da sembrare nervoso, poi prese a grattarsi la nuca. «Non mi hai spaventato! Insomma, non tanto... pensavo fosse caduto qualcuno.» mi chiarificò continuando a grattarsi con lo sguardo rivolto a terra, ma quando risi lui mostrò i denti in un sorriso adorabile.
«Sono ancora viva e vegeta, a quanto vedi.» sorrisi. «Io sono Emma.»
Guardò per qualche secondo la mia mano tesa come se indeciso se stringerla oppure no, infine scosse la testa e mi sorrise timidamente, raggiungendo la mia mano. «Martin.»
«Payne, giusto? Ho sentito parlare di te.»
Lo vidi un attimo spalancare gli occhi e una piccola scintilla brillare in essi, ma subito si spense, Martin abbassò lo sguardo e sulle sue labbra si creò un sorriso triste. «Ti sarai confusa con mio fratello...»
Aggrottai la fronte perplessa, poi scossi il capo. «Beh, a quanto ne so io Zack non è esattamente brillante nello studio, ma solo nello sport. A meno che tu non giochi a basket, credo di stare parlando col gemello giusto.»
Si voltò ancora, tornando a fissarmi coi suoi occhi azzurri, così simili a quelli del ragazzo che avevo sognato di avere di fronte tante di quelle volte che avevo perso il conto.
«Contraddicimi pure se sto sbagliando.»
Sorrise, imbarazzato. «Sono una frana nello sport...»
Sorrisi anch’io, felice di aver cancellato quell’espressione triste. «Allora Martin, che libro cercavi? Magari è tra quelli che ho fatto cadere...»
Boccheggiò per qualche secondo, poi riprese a parlare. «Letteratura moderna, è per un tema...» mi spiegò, addentrandosi piano tra gli scaffali. Annuii, seguendolo. «Tu perché eri nascosta qui dentro?» domandò poi, divertito.
Sentii le guance andare a fuoco come ogni volta che mi sentivo in imbarazzo, ma accennai comunque ad un piccolo sorriso.
«In realtà è complicato, e un po’ stupido...»
«Perché qualcosa di stupido avrebbe dovuto farti nascondere in biblioteca?»
«Non lo so, forse sono stupida anch’io, oppure non sono abbastanza coraggiosa da affrontare i miei problemi e preferisco scappare...» sospirai sconsolata, ripensando all’intera faccenda del tutor.
«Nessuno lo è mai.» mormorò lui, imbarazzato  come consueto.
Alzai il capo e sorrisi scontrandomi con l’azzurro mozzafiato dei suoi occhi, ed improvvisamente mi ricordai di stare parlando con uno dei migliori studenti di quel liceo. Istintivamente il mio sorriso si allargò ulteriormente.
«Che c’è?» domandò Martin, spaesato.
Avevo la situazione in mano, forse avevo finalmente trovato la soluzione adatta a me.
«Posso provare a chiederti un piccolissimo favore, da amici?»

Sono tornaaaaaata! 
bene, finalmente il dilemma è svelato. Povera piccola Stephanie :/ ma almeno avrà l'opportunità di distrarsi! ...E Martin di andare fuori di testa ahahah ha finalmente avuto la sua tanto agognata A, un applauso al nostro Smartie! :')
 



Okay, torno ad essere seria. ahahah
Povera Emma, costretta a mangiare in biblioteca :/ cos'avrà in mente? :O
okay, mi sembro una deficiente. 
Vi lascio con una gif delle due ragazze, a presto! :3 

   

un caloroso saluto dai gemelli 



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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


 
Se c’era qualcosa che mi piaceva da matti era giocare a basket. Non ricordavo bene come avevo cominciato a nutrire quella passione per la pallacanestro, ma da quando l’avevo riscontrata non l’avevo più abbandonata, facendone il mio hobby primario.
Dovevo forse avere 6 o 7 anni quando papà per la prima volta mi portò ad una partita di basket e, mentre Martin si guardava attorno con fare annoiato e si lamentava con mamma di tornare a casa, io ero affascinato dai movimenti dei giocatori e interessato a seguire la traiettoria della palla con lo sguardo, con papà che mi sussurrava all’orecchio i diversi ruoli di ogni giocatore. E man mano che comprendevo le regole del gioco mi appassionavo maggiormente, sorridendo ed esultando ad ogni punto vincente della nostra squadra di casa. Quando poi qualche mese dopo papà mi aveva portato al mio primo allenamento a mia insaputa gli ero saltato addosso per la felicità, perché non c’era cosa che più avevo desiderato in quei giorni, oltre a giocare. E dal primo momento in cui avevo preso per mano la palla avevo sentito che non l’avrei abbandonata tanto presto, come di solito fanno i bambini coi loro passatempi passeggeri.
Giocare a pallacanestro non era diventato solo un ottimo passatempo o hobby, ma il mio personale metodo di scaricarmi. Mi aiutava a dimenticare qualsiasi cosa andasse storta nella mia vita, centralizzando tutta la mia attenzione attorno alla palla e solo soltanto ad essa. Avevo preso l’abitudine di giocarci ogni qualvolta ero triste, o arrabbiato, o frustrato, e avevo scoperto che mandare una palla in un canestro mi aiutava molto di più di tutte le parole di conforto che ricevevo. Era diventata la mia distrazione principale dalla solita e noiosa ruotine quotidiana, e a distanza di anni non era cambiato nulla, apparte la maggiore dedizione e i miglioramenti agonistici, che mi avevano portato a diventare il capitano della squadra della scuola.
«Passa!» urlai a Simon, che se ne stava a palleggiare con la palla da circa un minuto.
Lui intercettò il mio sguardo e con qualche difficoltà riuscì a lanciare la palla verso la mia direzione, che la afferrai e cominciai a palleggiare, mentre Thomas, il mio marcatore, cercava di togliermela dalle mani. Mi mossi a destra e lui mi seguì a sinistra, ma velocemente cambiai verso e lanciai la palla da metà campo, che andò a canestro e segnò gli ultimi due punti della partita, determinando la vittoria del mio quartetto.
L’allenatore fischiò la fine del gioco e i miei compagni mi raggiunsero, dandomi il cinque e qualche pacca sulle spalle. Sorrisi a loro e ricambiai, poi tutti quanti ci ritirammo negli spogliatoi.
Feci velocemente una doccia ed uscii, indossando i vestiti puliti. Mi passai un asciugamano sui capelli per asciugarli, ma quando la voce fastidiosa di Kyle Thompson mi raggiunse abbandonai l’asciugamano sulla panca, avvicinandomi per scoprire di cosa stesse blaterando.
«Andiamo Kyle, non puoi dirci che con la Gilbert non è successo niente! Non ce la dai a bere così!»
Sentire il cognome di Stephanie mi fece capire che era lei e la sua catastrofica uscita con Kyle l’argomento trattato, quindi senza fiatare abbandonai la mia posizione d’origlio e mi aggiunsi agli altri, tutti impegnati a cercare di estorcere a Thompson qualche informazione piccante, com’eravamo soliti fare l’un l’altro dopo gli allenamenti.
Quel codardo di Thompson sorrise, e agitò le mani come a voler calmare l’entusiasmo dei suoi compagni. «E va bene, ma non vi racconterò ogni minimo dettaglio, sarebbe scortese da parte mia.»
Ero disgustato. Anche se lei l’aveva smentito, sapevo che era in parte colpa sua se Stephanie aveva passato una notte pessima tra lacrime e silenzi, e vederlo lì a pavoneggiarsi di chissà quale grande scopata con una ragazza che aveva solo reso in lacrime mi faceva schifo. Non gli interessava delle conseguenze che aveva provocato, o di inventare menzogne riguardo il conto di Stephanie, il suo unico scopo era mantenere la sua reputazione da bastardo, i mezzi non erano importanti.
«Ve lo dico io cosa è successo.» feci qualche passo in avanti, interrompendo Kyle e parandomi davanti a lui. «Aprite bene le orecchie, perché questa è l’unica verità.»
Il ghigno di Thompson si trasformò presto in uno sguardo preoccupato. Ovviamente aveva paura che rivelando il suo sporco trucchetto la sua reputazione sarebbe calata di valore, ma se lo meritava. Per questo gli sorrisi in un ghigno, rivolgendomi poi agli altri.
«Thompson non ha avuto nemmeno un bacio dalla Gilbert, quella sera.» esordii, suscitando lo stupore di tutti e l’ansia di Kyle. «In realtà la loro serata non è durata nemmeno tanto, perché appena arrivato alla festa Kyle si è precipitato al bancone dell’alcool, e ha finito con una scopata con una puttanella di quarta mano.» sorrisi, mentre vedevo crescere l’odio nei suoi occhi. «Ma in realtà qualche contatto fisico con lei c’è stato, ora che mi ricordo bene... sì, un bello schiaffo in piena regola.»
Sorrisi ricordando lo scatto della mano di Stephanie sulla sua guancia, e vedendo Kyle quasi esplodere dalla rabbia. Tutti erano attenti al nostro confronto, come si trovassero ad un match. Ma Kyle non aveva speranze contro di me, e lo sapeva fin troppo bene per tentare un azzardo come persino aprire bocca.
«Ti fa ancora male?» mormorai, accarezzandogli la guancia destra. Lui spostò la mia mano ed io sorrisi, vittorioso. «Dovresti pensarci prima di rovinare la reputazione di una ragazza, o potrebbe succederti qualcosa di peggio che un insulso schiaffo della Gilbert. Prendilo come un consiglio spassionato, amico.»
Diedi un leggero schiaffetto sulla sua guancia e tornai a prendere le mie cose, tornando a pensare a come Stephanie stesse. Non avevo avuto occasione di vederla in tre giorni oltre a quelle rare volte per i corridoi, ed ero inspiegabilmente in ansia.
Sbuffai e tirai fuori il cellulare dal borsone, trovandovi un messaggio.
E’ da un po’ che io e te non abbiamo qualche momento in privato, non trovi? Fatti sentire, potrei pensare che non ti vado più bene. –Sarah
Stetti a fissare il display per qualche secondo, sospirando. C’era una ragione per la quale non l’avevo contattata, ma a quanto pare lei non sembrava del mio stesso avviso. Come potevo dirle che non mi andava più di trattarla come un giocattolo e di esserlo io stesso, senza bruciarmi nel mio stesso fuoco?
Mentre i soliti pensieri pessimisti facevano capolino nella mia mente il telefono nelle mie mani prese a vibrare, segnalando l’arrivo di una chiamata. Veder lampeggiare il nome di Martin mi stupì alquanto: non mi chiamava mai a telefono se non per estreme emergenze quali mancanza di cibo, e di solito usava il telefono di casa e non aveva mai chiamato dopo i miei allenamenti. Aggrottai la fronte e fui indeciso di rispondere, ma feci spallucce e portai il cellulare all’orecchio.
«Che è successo fratellino, hai finito le patatine?»
Ma non sentii sbuffare dall’altro lato, come di solito accadeva. «Mi serve un favore Zack, e sei l’unico che può farmelo.»
 
Il cellulare sul comodino prese a squillare ed io sospirai, immaginando chi fosse il mittente della chiamata. Deglutii un po’ impaurito e mi portai l’apparecchio all’orecchio, giocherellando con la matita in modo nervoso.
«Steph...?»
«Dove diavolo sei.» fu la sua risposta. Poteva sembrare calma e pacata, ma la conoscevo abbastanza bene per sapere che era furiosa, e che si stava soltanto contenendo dall’urlarmi contro.
«A casa...»
Alzai lo sguardo verso l’orologio, che segnava ormai le 4.20 del pomeriggio. Sbuffai demoralizzato, quindi mi alzai per scendere in salotto.
«E perché non sei qui?!» tuonò infatti.
Sospirai. «Ho avuto un contrattempo, avrei voluto avvertirti ma me ne sono dimenticato. Comunque ti ho mandato un sostituto, prenderà lui il mio posto...»
«STAI SCHERZANDO, VERO?»
Cercai di controbattere ma non ne ebbi il tempo, perché riprese a parlare.
«Zack?! Il tuo sostituto sarebbe Zack?! No Martin, tu adesso vieni qui ad aiutarmi coi preparativi, perché mi hai assicurato che lo avresti fatto e perché io non posso lavorare con lui. Ci ho provato già una volta col progetto di chimica, e ci ho messo una settimana per togliermi quella roba appiccicosa dai capelli!»
Sorrisi ripensando a quanto si fosse irritata nel vedere i suoi amati capelli ricoperti di poltiglia verde e a come avesse evitato di salutare Zack per ben due settimane, sebbene anche adesso non fossero proprio buoni amici. Ma non avevo potuto che fare altrimenti quel pomeriggio, visto che avevo evitato di parlarle dell’accordo con Emma per tre giorni, aspettando di avvisarla della mia assenza giusto mezz’ora prima e sperando che Zack non avesse rifiutato. Non che non volessi dirglielo, in realtà fremevo dalla voglia di parlargliene, ma avevo avuto paura della sua reazione , quando le avrei detto che i pomeriggi che avrei dovuto dedicare ai preparativi del ballo con lei erano stati occupati dalle lezioni di “doposcuola” ad Emma Desmore. E avevo fatto più che bene a temerla.
«Andiamo, non sarà così terribile. Infondo deve solo spostare qualcosa e attaccare festoni e cose varie, può farcela!»
«Forse non hai ben capito la faccenda Martin, io non ce lo voglio qui! Fa battutine insulse e irritanti che mi fanno salire i nervi a mille, e non fa che sorridere alle aiutanti e conversarci allegramente in modo fastidioso, così loro si distraggono e non combinano niente! E vuole scegliere lui la musica, io non posso sopportarlo!»
Roteai gli occhi. «Mi dispiace, ma non posso farlo davvero.»
«Certo che puoi. Esci di casa e mi raggiungi, così io posso toglierti la scomunica di ex migliore amico e rimandare Zack da dove è venuto. Lavoreremo in modo tranquillo e non ucciderò nessuno.»
Ridacchiai, sentendola “minacciarmi”. Ma a farmi tornare incauto fu il campanello, che suonò solo una volta, facendo crescere l’ansia. Le mani mi sudavano già, quindi le passai sui jeans per asciugarle, e cominciai a respirare irregolarmente.
«Senti Steph, fai fare a Zack quello che avrei dovuto fare io e fai finta che non ci sia, se placa i tuoi istinti omicidi. Adesso però devo staccare, ti chiamo più tardi per sapere come sta andando. Ti spiegherò tutto stasera o domani, mi dispiace ancora. Divertitevi!»
«Non provare a riattacc-»
Non diedi il tempo a Stephanie di finire che riattaccai, mentre il campanello suonò per la seconda volta. Presi un lungo respiro sentendomi un perfetto idiota, ed andai ad aprire. Mi ritrovai davanti una chioma di capelli rossi, e solo quando Emma si rese conto che ero lì sulla soglia si voltò, sorridendomi. Ed io ebbi paura di sciogliermi, potendo ammirare finalmente il suo sorriso e i suoi occhi da vicino e rivolti a me, non a Zack o qualcun altro. Era una sensazione dal carattere paradisiaco, la migliore di tutte in assoluto.
«Pensavo non mi aprisse nessuno... sono un po’ in ritardo.» fece, passandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
La sua voce mi riportò alla realtà e mi sentii stupido ancora una volta pensando che probabilmente l’avevo fissata senza dire una parola come mi era già successo, ma scossi la testa e le sorrisi. «Non fa niente. Entra.»
Fece come le dissi e per qualche secondo il mio olfatto fu catturato da un profumo di pesche e albicocche, probabilmente riferibile al suo shampoo.
«Bella casa.» commentò, guardandosi attorno.
La ringraziai e lasciai che si aggirasse per il salotto ancora per un po’, scorgendo tra le varie foto di famiglia. Quando mi aveva parlato della sua situazione e proposto di aiutarla ero stato indeciso se accettare oppure no, consapevole di stare sottomettendomi a una dose di imbarazzo decisamente fuori dalla mia portata, ma dovevo ammettere che averla attorno e poterle parlare senza prima meditare uno scusante decente era decisamente meglio che guardarla da lontano.
Quando la vidi osservare una foto di Zack e sorridere ingenuamente un moto di gelosia scattò in me, quindi la raggiunsi e le chiesi su cosa avrei dovuto aiutarla.
Sembrò per un attimo spaesata, poi sorrise e cominciò a frugare nella sua tracolla. «Direi di cominciare da matematica, è quella con cui ho più problemi.» mi spiegò, mostrandomi un pesante tomo bianco e mantenendo comunque un mesto sorriso.
«D’accordo. Mamma sarà qui tra un po’, perciò sarebbe meglio se salissimo in camera...» cercai di incitarla a salire, sforzandomi per far sì che quella proposta non sembrasse quella di un maniaco.
Lei sorrise e mi fece spazio per farle strada, ma giunti davanti alla porta in legno mi bloccò, posando una mano sul mio avambraccio.
«Non dovrò mica chiamarti Mr.Payne o roba simile, vero?» mi domandò, scettica.
Scossi la testa, sorridente. «Solo Martin.»
 
«Va bene, potete andare. Grazie a tutte. Vi avviserò io del prossimo incontro.»
Sorrisi a Kelsey, Tina e Zoe e agitai la mano in segno di saluto. Il primo pomeriggio di preparativi era andato abbastanza bene, e avevo scoperto con mio grande piacere che le mie “assistenti” erano davvero delle ragazze carine e molto simpatiche, seppure un po’ troppo suggestionabili.
La scelta della location era ricaduta indubbiamente sulla vecchia palestra, abbandonata dalla costruzione della nuova, quindi ci eravamo impegnate per sgomberarla e pulirne i pavimenti, stabilendo la pittura delle pareti al nostro prossimo incontro. Ritenevo che fosse perfetta per l’evento, vista la sua uscita sul cortile scolastico, e nella mia mente già prendevano vita le prime immagini di coppiette che attraversavano l’alto arco adornato da fiori, calpestando il lungo tappeto bianco ricoperto di petali. Il tema che avevo scelto era quello floreale, e tutte le mie colleghe erano state d’accordo con me, discutendo con quale genere di fiori avremmo dovuto addobbare l’intera sala.
«Aspetta, ti aiuto.»
Mi voltai verso la voce alle mie spalle e tutto quello che vidi fu un sorrisetto e due forti braccia afferrare lo scatolone che avevo tra le mani, per poi portarlo nel ripostiglio.
«Ecco fatto.»
Per un attimo il mio sguardo rimase fisso sul suo, ma quando esibì il solito sorriso falso scossi la testa e non ricambiai, tornando ad occuparmi degli scatoloni più leggeri. Quando però mi ritrovai al centro della palestra, notai che non ne era rimasto neppure uno. Zack aveva rimediato a portarli via tutti quanti.
Sospirai, per l’ennesima volta in quel pomeriggio. Ancora una volta mi ritrovai a pensare a Martin, a come mi aveva scaricata senza la minima spiegazione, e a come avrebbe dovuto farsi perdonare per avermi costretta a lavorare con una delle persone più irritanti del pianeta. Mi voltai e me lo ritrovai di fronte ancora una volta, il che suscitò il mio sguardo omicida. «Mi sembra di aver detto che potevate andarvene, che ci fai ancora qui?» sputai, acida.
Lui roteò gli occhi e sbuffò, ma le sue labbra si piegarono inevitabilmente in uno dei suoi fastidiosi sorrisetti. «Senti.» cominciò, posando una mano sulla mia spalla. Seguii la traiettoria della sua mano, così si apprestò a rimuoverla dalla mia spalla, come il mio sguardo chiaramente suggeriva. «So che ti sto antipatico – e la cosa è assolutamente reciproca – ma mi ha chiesto Martin di fare questa... cosa, e l’ho fatta per alleggerirti il carico.» continuò.
Feci una smorfia, poi puntai gli occhi nei suoi. «Bel modo davvero, di aiutarmi. Sorridendo come un idiota e lanciando occhiatine ad ogni ragazza ogni due minuti. Davvero davvero utile, Zack.»
Ancora una volta sorrise abbassando il capo, fin quando non lo alzò e assunse un’espressione indagatrice piuttosto strana. «Non sarai mica gelosa?» insinuò, continuando a muovere le sopracciglio in un modo assurdo.
Spalancai gli occhi e inclinai leggermente la testa in avanti, aggrottando la fronte e socchiudendo la bocca scioccata da quell’insulsa domanda.
«Okay, scherzavo!» riprese, divertito dalla mia reazione, «Comunque se proprio vuoi prendertela con qualcuno prenditela col mio adorato fratello gemello, io ho fatto la mia parte.»
«Ho in programma di meditare una vendetta, a riguardo.» commentai, provocando la sua risatina di risposta.
«Non ti facevo così vendicativa, Gilbert. Antipatica sì, ma non vendicativa.»
Non risposi alla sua provocazione ma gli rivolsi una semplice smorfia, andando a curiosare tra le cianfrusaglie trovate in ripostiglio. «Comunque grazie di essere venuto, nonostante tu sia particolarmente irritante sei stato utile.» ammisi infine, lasciando che il suo viso assumesse un che di sconcertato. Detestavo mostrarmi carina con lui, ma dovevo ammettere che il suo contributo era stato determinante, aveva senza dubbio diminuito i tempi di lavoro.
Tossicchiò, poi riprese la sua normale espressione. «Questo vuol dire che posso continuare ad aiutarti?»
Mi immobilizzai, stupita da quella domanda. Ero più che sicura di averlo visto roteare gli occhi annoiato ad ogni mio rimprovero, eppure mi aveva chiesto di poterlo fare di nuovo. E non seppi spiegarmi perché la prima risposta che il mio cervello elaborò fu un sì. «Forse,» concessi, «ma non credo ti divertiresti.»
«Io mi sono divertito!» fece spallucce. «E poi credo di riuscire ad ottenere un appuntamento con Tina, mi mangiava con gli occhi.» aggiunse, facendo strane mosse con gli occhi come a voler imitare gli sguardi della ragazza. Avrei voluto dirgli che lo avevano fatto un po’ tutte e tre, ma non volevo che si montasse la testa ulteriormente. Inoltre ero certa lo sapesse già.
Sorrisi, aspettandomi quel riferimento. «Ed io che pensavo volessi aiutare una donzella indifesa!» ridacchiai, fingendomi offesa, «In realtà mi stai solo usando per i tuoi loschi scopi!» continuai, lanciandogli addosso qualche pallina da tennis.
Lui spalancò la bocca indignato al primo lancio, per poi cercare di ripararsi al secondo, mentre io lo colpivo crudelmente. Corse e mi fu velocemente addosso, stringendo i miei polsi in una mano e tenendomi per un fianco con l’altra. Cominciò a solleticarmi e iniziai a strattonarmi e zoppicare senza smettere di ridere, fino ad avere i crampi ai fianchi, mentre lui si prendeva la sua personale vendetta.
«A quanto pare sto vincendo io, Gilbert!» si pavoneggiò, senza che le sue mani abbandonassero i miei fianchi neanche per un momento.
Fu quando mi ritrovai il suo braccio a pochi centimetri dalla mia bocca che lo morsi, sorridendo quando lo sentii gemere come un bambino. «Non vale!» si lamentò.
Ma era bastato quel semplice attacco per costringerlo a mollare la presa e liberarmi, così ripresi a lanciargli le palline, senza alcuno scrupolo.
«Pietà!» urlò, e solo allora smisi di attaccarlo, notandolo accasciato a terra contro la parete, le ginocchia al petto e le braccia sopra la testa a formare uno scudo. Vederlo così vulnerabile mi strappò un sorriso, forse uno dei più sinceri degli ultimi giorni, così riposi la mia arma e cominciai a ridere, scatenando la sua occhiata omicida.
«Sei davvero un’infame avversaria, hai barato con quel morso.» brontolò, tendendomi l’indice in modo minaccioso.
Gli rivolsi una linguaccia e andai a sedermi accanto a lui, sospirai affaticata. «Mi fanno male i fianchi, Payne.» mi aggiunsi alla serie di lamentele, massaggiandomi il fianco destro.
«Te lo meriti.» fu la sua risposta, «Perlomeno tu non dovrai sfoggiare un orribile segno rosso sul braccio!»
«Te lo meriti!» lo imitai.
Arcuò le sopracciglia. «Attenta a ciò che dici, potrei reclamare una vendetta, e non andrebbe a tuo favore stavolta!»
«Nemmeno a tuo» risposi, beffeggiandomi della sua “minaccia”. «Diamine, mi fa male la pancia! E’ rischioso per me ridere così tanto!» lo rimproverai, continuando a lamentarmi.
«Almeno hai riso, è questa la cosa importante.»
Ebbi la sensazione che avesse appena sorriso e difatti lo aveva appena fatto. Ma non quei suoi soliti sorrisi derisori, no, questo era un sorriso sincero, che combinava perfettamente con i suoi occhi, che reputai splendidi. Era sincero, e l’ipotesi che fosse davvero contento di avermi fatta ridere e distrarre per un po’ si fece spazio per la mia testa, ma come al solito mi sentii estremamente stupida per averlo pensato.
Abbozzai un sorriso e abbassai il capo, sentendo comunque il suo sguardo sul mio viso. Non capivo perché fosse così premuroso nei miei confronti negli ultimi giorni, non mi aveva mai rivolto la parola se non per provocarmi, ed ora era addirittura preoccupato per me. E lo ero anch’io. Mi tenevo nascosta quella tristezza dentro da troppo tempo e con troppa dedizione ormai, e non so perché, ma sentivo di potermi fidare di Zack e liberarmi. Di potermi fidare dei suoi occhi, che mi osservavano ansiosi. Ero certa che sapesse bene che stavo per crollare, aspettava.
«Ho visto mio padre con un’altra.» mormorai allora, la voce tremante e un mesto sorriso di conforto a me stessa, «La sera della festa, io... l’ho visto con una donna. E non era mia madre. Erano a braccetto e sorridevano, come se non ci fosse nulla di sbagliato...E’ per questo che ho avuto quella reazione... Loro sono importanti per me, ed è stato...»
«Scioccante.» terminò lui la frase, lasciando che annuissi.
Alzai lo sguardo e incontrai ancora l’azzurro dei suoi occhi, così simili a quelli di Martin, ora illuminati da una nota di tristezza, dovuta al mio racconto. Mi costrinsi a volgere lo sguardo altrove per paura di scoppiare a piangere, ma ogni singhiozzò si ritirò quando sentii la sua mano raggiungere la mia, stringerla e accarezzarne lentamente il dorso, quasi potessi spezzarmi. «Mi dispiace.» sussurrò, giocherellando con le mie dita.
«Anche a me. Ma non posso farci niente, no?»
Stette in silenzio per alcuni secondi, fin quando «Invece sì!» esclamò. Corsi a raggiungere i suoi occhi con la fronte un po’ aggrottata, e lui sospirò, quasi stesse riflettendo su. «Tu non hai mai visto quella donna, vero?»
Feci mente locale e scavai nei ricordi, poi scossi la testa.
«Allora non puoi davvero sapere chi o cosa sia, magari hai frainteso tutto e stai male per nulla.»
Stetti ad osservarlo, confusa. Non avevo pensato a quell’ipotesi. «Tu credi?»
Fece spallucce. «Non sono un mago, ma può essere. Dovresti parlarci. Con tuo padre, intendo.»
Soppesai sulle sue parole, riflettendo. Sì, poteva avere ragione, ma chi mi assicurava che fosse così e che non fosse la mia l’ipotesi giusta? «E se scopro che è vero?» gli chiesi, «Se davvero frequenta un’altra?»
«Beh, allora...» fece per rispondermi, ma si rese conto di non avere alcuna risposta, «non lo so.» si rabbuiò, «Ma devi almeno fare un tentativo. Ne va della tua salute mentale.»
Volsi lo sguardo davanti a me, riflettendo su quel suo suggerimento. Sì, era senza dubbio una buona idea. Non potevo essere certa di ciò che avevo visto se prima non ne parlavo col diretto interessato, ovvero mio padre, e anche se alla fine i miei sospetti si fossero rivelati esatti, avrei avuto una valida motivazione basata sulla verità, e non solo su una stupida supposizione.
«Già, hai ragione.» asserii, sorridendogli.
«Come sempre.»
Feci per tirargli una gomitata ma la suoneria del suo cellulare catturò la sua attenzione, quindi lo tirò fuori dalla tasca e lasciò la mia mano per alzarsi e rispondere, allontanandosi. Rimasi seduta lì ad osservarlo, quando lui tornò indietro e mi sorrise. «Era mamma, dice che ha bisogno di me.» mi spiegò, tendendomi una mano che utilizzai come ancora per sollevarmi da terra.
«Certo, va’ pure.» lo congedai.
Lui sorrise ancora e si avvicinò di poco al mio viso, per lasciare un bacio sulla mia guancia. «Pensaci.» si raccomandò, una volta ristabilite le distanze.
Annuii e lui mi diede le spalle, per uscire dalla palestra, senza prima evitare l’ultima scomoda battuta: «Non dimenticarti di portare una tuta la prossima volta, potrei schizzarti di vernice!»
 
Sorrisi salutando Sophie, la madre dei gemelli, una signora minuta e molto graziosa. La prima cosa che mi aveva colpito di lei erano stati gli occhi, ancora più chiari e belli di quelli dei suoi figli, ma la gentilezza e il suo sorriso erano senza dubbio la parte migliore. Era stata tanto gentile con me ed era chiaro tenesse davvero molto ai suoi figli, vista la scintilla nei suoi occhi quando ne parlava.
Studiare con Martin mi era piaciuto. Ero solita farmi assalire dalla noia circa qualche secondo dopo aver aperto libro, ma con Martin non era successo, anzi mi ero quasi divertita. Quel pomeriggio avevo studiato e riso insieme, e non credevo potesse essere possibile, ma ero certa Martin fosse la mia scelta giusta.
«Scusala, è un po’ impertinente.» Martin rimproverò sua madre, che mi aveva appena allacciato le braccia al collo e stretta come fossimo amiche di vecchia data. Sicuramente doveva essere stato Zack, a ereditare la sua espansività, visto che suo fratello era davvero discreto e introverso. In realtà non avevo mai conosciuto dei gemelli così diversi, e seppure avessi pensato per un momento che Martin potesse essere Zack o viceversa, adesso rimangiavo ogni mia parola.
«Non importa, è carina.» la giustificai io.
Lui sorrise, e ancora una volta rimase a corto di parole, volgendo lo sguardo ovunque tranne che nella mia direzione. Era qualcosa che avevo notato spesso durante quelle ore, come se stare ad insegnarmi lo annoiasse da morire e cercasse una distrazione, e il fatto che mi avesse invitata a salire dopo nemmeno cinque minuti dal mio ingresso in casa era la prova che volesse fare presto. Ci ero rimasta un po’ male, ma non lo avevo dato a vedere.
«Io andrei...»
Finalmente il suo sguardo tornò a concentrarsi su di me. «Certo... Buonanotte, allora.»
Gli sorrisi e mi allungai per stampare un bacio sulla sua guancia, che riuscì a renderlo rosso dall’imbarazzo. «’Notte... Martin


va beeeene, è un po' lungo. lol 
ma comunque ho amato questo capitolo *u* il modo in cui Zack e Stephanie riescono ad andare d'accordo e divertirsi e comportarsi da amici quando non si ostinano a pensare di odiarsi è a dir poco dolcissimo :3 senza contare che lei comincia a fidarsi del "gemello cattivo" :o
Martin è tenerissimooooo *w* ahahah imbranato, ma davvero tenero. E Emma too


come sempre, hope you like it :)
alla prossima!


ps.



non è bellissima? *uuu* amo Nina Dobrev/Stephanie ahahah

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***



«Che vuol dire che sono stato rimpiazzato?» domandai, in cerca di spiegazioni.
Stephanie sospirò, quasi le mie domande la annoiassero terribilmente. Ma erano pur sempre più che lecite, non poteva aver bisogno di me sino al giorno prima e poi infischiarsene, era totalmente illogico. «Vuol dire che non ho più bisogno di te, sei libero da ogni incarico.»
«Ma se fino a ieri hai dato di matto perché non ti ho aiutata nei preparativi mandando Zack al mio posto, e adesso vuoi liberarti di me?»
Aggrottò la fronte, perplessa. «Come sei tragico, Martin.» sbuffò, «non mi sto liberando di te, dico semplicemente che ora che so perché non ti sei presentato l’altro giorno non te ne faccio una colpa, anche se avresti potuto avvertirmi prima, e so che questa cosa è importante per te e che richiede tempo.» mi spiegò, sorridendo in modo affettuoso.
Mi fermai un attimo a riflettere, traendone poi una domanda importante. «Chi prenderà il mio posto quindi?»
Non rispose subito, e nonostante fosse di spalle potevo benissimo immaginarla mentre storceva le labbra. «Zack.» disse infine.
Spalancai gli occhi sorpreso. «Ma tu odi lavorare con lui.» replicai, ovvio.
«Ma a lui non dispiace farlo!» ribatté, «Dice di essersi divertito, e infondo se si omettono le battutine e le occhiate languide fa’ quello che gli dico di fare e non si lamenta. Non è male, come compagno.»
Stetti ad ascoltarla parola per parola, alla ricerca di qualcosa che potesse tradirla e farle dire “ti prego Martin, liberami di questa tortura e salvami!”, ma contro ogni mia aspettativa, non trovai nulla di simile. Anzi sembrava convinta della sua assurda decisione di tagliarmi fuori, come se improvvisamente Zack avesse esercitato il controllo della mente anche su di lei.
«Sicura di stare bene?» indagai, alquanto indispettito. Posai una mano sulla sua fronte per accertarmi che non avesse la febbre, ma lei la scostò quasi subito, mantenendo il sorriso e portando il mio braccio attorno alle sue spalle.
«Sto benissimo.» sottolineò le due parole, con lo scopo di persuadermi. Un sorriso malizioso di dipinse poi sulle sue labbra, e capii che quell’argomento stava per essere rimpiazzato da qualcosa di cui non mi sarebbe piaciuto parlare. «Tu invece? Non mi hai ancora raccontato del tuo romantico pomeriggio con Emma.» esordì, infatti.
Sbuffai, abbassando il capo. «Questo perché non ho nulla da raccontarti Steph, e comunque non c’è stato nulla di romantico.» cercai di essere il più restrittivo possibile, sebbene parlarne mi imbarazzasse parecchio, nella speranza che quel discorso sarebbe caduto di lì a poco.
«Ma dai!» sbottò,  «Vorresti forse dirmi che avete davveropassato il pomeriggio a studiare? Soltanto studiare, Martin?»
«Non vedo altra alternativa, sono una specie di insegnante per lei, non qualcuno con cui passare il tempo a cazzeggiare.» ribattei, obbiettivo.
Incurvò il sopracciglio, gesto usuale se sospettosa o confusa. «Quindi non ci sono stati sguardi profondi, sorrisi nascosti, risatine inopportune? E non sei arrossito quando lei ti sorrideva?»
Quel breve elenco mi riportò con la mente allo scorso pomeriggio, e non potei fare a meno di arrossire e sorridere come un idiota, immaginandomi il suo sorriso nella mente.
«A-ha, lo sapevo! Sei arrossito anche adesso!» esultò vittoriosa, felice di potermi prendere in giro maggiormente ora che i miei pensieri erano reali e non basati soltanto sulle mie fantasie. Ora che con Emma ci parlavo per davvero, e non lo sognavo solamente.
 «Ma smettila!» la rimproverai, spingendola via da me.
Alzai lo sguardo di poco per incrociare quello di Emma e il suo sorriso, e paralizzarmi temporaneamente.
«Ciao...» mi salutò lei.
Anche Stephanie si accorse di lei e del mio stato di ebetismo, dunque prese la parola. «Ciao!» esclamò, allegra. «Io vado Martin, eh? Ci vediamo alla lezione di letteratura.» continuò, congedandoci poi entrambi con un sorriso.
Rimasti soli, l’imbarazzo crebbe. Non sapevo cosa fare, mi sentivo così stupido, così rimasi a fissarla, in attesa che riaprisse bocca. Come al solito lei sorrise, e poco dopo ritornò a parlare.
«Volevo chiederti se non era un problema venire tu da me stavolta...» disse, e forse fu solo una mia impressione, ma era parecchio a disagio. «Se non è un problema, ovviamente...» insistette.
«No, no, non lo è!» mi spicciai a risponderle, per paura che entrasse in un qualche stato di panico. «A che ora, quindi?»
Si rilassò, lo capii dallo splendido sorriso spontaneo che esibì. «Le 5?»
Annuii. «Vada per le 5, allora.»
«Allora ci vediamo alle 5.»
Sorrise ancora, mandando il mio cervello a farsi fottere un’altra volta. Si voltò e andò a raggiungere una sua amica, ma ero certo di essere rimasto a fissarla per un po’, anche se era di spalle. Anche quella volta.
 
«Quindi il congiuntivo si usa soltanto quando si hanno verbi di stato, di senso e... sentimentali.» ripetei, cercando di fare chiarezza nella mia mente riguardo l’uso del congiuntivo in francese. «In che senso sentimentali?» chiesi poi, un po’ spaesata.
Lui ci rifletté un paio di secondi, poi mi rifilò la risposta. «Tutti quei verbi che puoi soltanto sentire, o pensare... per esempio Mi piacerebbe che tu uscissi con me...»
Alzai lo sguardo e lo puntai sul suo, stranita. Perché mi stava chiedendo di uscire?
Lui boccheggiò, per qualche momento. «J’aimerais que tu...sortes avec moi.» disse, gesticolando come si fa coi bambini se non capiscono qualcosa.
Improvvisamente mi illuminai, e le guance automaticamente si colorarono di rosso, quindi abbassai la testa sul quaderno e trascinai la mano a grattarmi la nuca, imbarazzata. Che stupida a pensare che volesse chiedermi d’uscire...
«Hai capito?»
Alzai lo sguardo, incontrando i suoi occhi azzurri. «Eh?»
Sorrise, scuotendo la testa leggermente. «L’uso del congiuntivo!» esclamò, «Ti ho fatto un esempio di un verbo di sentimento, avevi detto di volere un chiarimento...»
«Oh sì, certo hai ragione. Adesso ho capito.» lo rassicurai, abbozzando un sorriso.
«Non ne sembri tanto convinta...» si indispettì, «se vuoi ti faccio altri esempi e ripetiamo tutto dall’inizio, ti va? Certo se non sei troppo stanca, studiamo da due ore...»
«Sul serio Martin, ho capito adesso.» interruppi il suo monologo. Tossicchiai come a prepararmi  per un grande discorso, poi presi ad esporre ciò che avevo imparato in quell’arco di tempo: «Il congiuntivo si usa con i verbi di stato, quelli di senso, i sentimentali, come li chiami tu, e in qualsiasi altro caso tranne che per i verbi di opinione affermativa o interrogativa negativa e con il periodo ipotetico. E con il verbo espérer si usa il futuro. Giusto?»
Puntai i miei occhi nei suoi, in cerca di approvazione. Luì annuì soddisfatto, senza però risparmiarsi di fare qualche esempio a caso, giusto per assicurarsi che non avessi soltanto letto gli appunti sul quaderno di nascosto e avessi davvero capito quella stupida regola che mi tormentava da mesi.
«Okay, per oggi può bastare.» dichiarò.
Sembrava davvero un professore: quando spiegava era di una serietà disarmante, non sorrideva quasi mai e mi chiedeva in continuazione se avessi capito o dovesse rispiegarlo, e sorrideva orgoglioso se rispondevo correttamente alle sue domande, che queste fossero espresse o non. Non era certo per simpatia che i professori lo adoravano e gli affidano quei voti da capogiro, era davvero tanto intelligente, seppure la sua reputazione a scuola fosse quella dell’imbranato. 
In effetti cominciavo a credere che quell’appellativo gli fosse stato affidato solo in corrispondenza del nome di suo fratello: non era mai “Martin l’imbranato”, ma “Martin il gemello imbranato di Zack”. La presenza e l’influenza di Zack erano più che rilevanti nella sua vita, probabilmente era costretto ad essere paragonato ogni singolo giorno a suo fratello e magari oscurato dalla sua ombra di popolare capitano della squadra di basket. Martin non era il tipo da ribellarsi alle insinuazioni della gente, ma più da incassare e andare avanti, fingendo che quel continuo paragone o il sentirsi inferiore non lo infastidisse. E quando la mia mente provò a immedesimarsi nel suo ruolo, mi accorsi tristemente che non ce l’avrei fatta a sopportare l’enorme peso della mia fantomatica sorella gemella, o perlomeno avrei reagito.
«Ti piace essere un gemello?»
Quella domanda abbastanza fuori luogo lo prese in contropiede, era ben deducibile dallo sguardo confuso e stranito che mi rivolse, fermandosi al centro della stanza con la giacca al braccio. Per un momento pensai di essere stata troppo curiosa e indiscreta, ma comunque non abbassai lo sguardo.
«Che intendi?» chiese lui, accennando ad un sorriso.
«Beh non vi conosco molto, in realtà poco o niente, ma tu e Zack sembrate molto diversi.» spiegai, «Voglio dire, si dice che due gemelli siano uguali in tutto e per tutto, ma voi sembrate incompatibili: avete un diverso modo di presentarvi, di ragionare, e... beh non sono sicura che lui sia proprio il tuo migliore amico.» feci una pausa, per assicurarmi che mi stesse ascoltando e che non ci fosse nessuna nota di fastidio nei suoi occhi. Non ripresi a parlare, ansiosa della sua risposta.
Martin boccheggiò per qualche istante, forse elaborando una buona risposta che colmasse le mie curiosità o che mi intimasse di tenere a bada la mia insolenza. Infondo era sempre una specie di insegnante, e agli insegnanti non si chiedono mica dati personali quali rapporti familiari. Ma non sembrava infastidito, – menomale– e aspettai che prendesse i suoi tempi e tornasse a sedersi accanto a me.
«Hai ragione, non lo è.» mi assecondò, «Ma speravo che il mio astio non fosse così palpabile, a dire il vero...»
Sorrisi. «E’ che sono brava a capire la gente, è una dote naturale.» mi vantai, facendo spallucce e qualche smorfia col viso che lo fece sorridere.
«Non è che lo odio o altro, è mio fratello...» rispose lui, «semplicemente siamo diversi, abbiamo idee diverse e pensieri diversi. Ed è come tra due normali fratelli, non è facile concordare e andare d’accordo, e io e Zack siamo come due poli opposti.»
Finì di parlare e fissò gli occhi nei miei, per cercare un qualche segno di consenso. Io annuii, sorridendogli. Poi pensai a cosa potrebbe mai succedere se io e Kirsten fossimo gemelle. Certo mi sarebbe piaciuto un mondo avere i suoi occhi e le sue gambe lunghe, ma se fossimo state entrambe delle nanette irritanti? Io e mia sorella litigavamo quotidianamente per ogni piccola cosa, essere identiche non avrebbe fatto altro che accrescere i danni e peggiorare la vista di papà, che alla veneranda età di 42 anni non era ancora deciso a mettere un paio di occhiali. Sarebbe stato divertente poterlo prendere in giro, però.
«Perché ridi?»
Senza smettere di ridacchiare mi voltai verso Martin, che mi osservava sospettoso. «Stavo immaginando la mia vita da gemella di Kirsten.» spiegai. «Kirsten è mia sorella.» chiarii, visto il suo sguardo vago.
«Oh.» fu la sua risposta, a cui seguì una risata.
«Sì, penso che sarebbe divertente scambiarci e prenderci gioco della miopia di papà.» commentai con un dito sotto al mento, divertita dalla probabile scena.
Martin rise, e mi puntò addosso uno sguardo da rimprovero, «E’ da vigliacche!»
«Lo so, ma sarebbe troppo esilarante vederlo impazzire per distinguerci...» replicai, imitando poi una scenetta rendendo la voce più roca in modo da immedesimarmi. Martin rideva, e sembrava piuttosto divertito.
«A dire il vero una volta è successo.» si lasciò poi sfuggire lui, attirando la mia attenzione. «Da piccolo amavo giocare coi bicchieri, mi divertivo a fare rumore semplicemente sbattendoli o colpendoli con le posate. Mamma era non so dove quel pomeriggio ma non in casa, quindi io stavo giocando tranquillo, fin quando non ho rotto i bicchieri.
Ero spaventato, sia dal vetro che dalla reazione di mamma, quindi il mio primo istinto fu quello di scappare. E lo feci, rifugiandomi in camera e facendo finta di dormire, così che mamma non avrebbe dubitato di me.»
«E poi?» lo incitai a continuare, curiosa.
Lui restò a guardarmi per qualche secondo, poi sorrise. «Poi ho sentito mamma arrivare, sgridare Zack che forse era in cucina per prendere da bere, e venire su in camera a sistemarmi le coperte.» terminò, sorridendo soddisfatto.
Spalancai la bocca, fissandolo incredula. «E poi sarei io la vigliacca, eh?» lo rimbeccai.
«Beh, ammetto che è stato piacevole dare la colpa a lui.» ridacchiò.
Lo seguii nelle risate, fin quando non sentii il mio stomaco brontolare. «Ti vanno delle patatine?» gli proposi, «Così puoi continuare a raccontarmi delle tue avventure da gemello pestifero!»
Forse mi aspettavo un rifiuto, un “devo andare, sarà per la prossima volta”, e che corresse via come ogni volta quando cominciava a crearsi un clima confidenziale. Invece mi sorprese, annuendo e seguendomi in cucina.
 
Il pallone che avevo appena lanciato balzò a canestro, e mi avvicinai al sostegno in ferro per afferrarlo. Dovevano essere 15 o 30 minuti che ero fuori a giocare in giardino, ma proprio non mi andava di restare in casa a poltrire, e non avevo sonno. Una volta ripresa palla mi allontanai e apprestai per lanciarla ancora, ma dei passi alle mie spalle mi bloccarono.
Mi voltai, notando la figura buia e un po’ stanca di Stephanie. Aveva i capelli in disordine – forse per la prima volta in vita sua – e l’aria di chi aveva corso parecchio, e magari era così, visto che aveva il fiato corto e tirava lunghi respiri.
«Ciao!» soffiò.
Lasciai perdere la palla e mi avvicinai a lei, con un’espressione perplessa dipinta sul viso. «Ti sei data alla corsa? Guarda che non è ideale di sera...» feci, beffandomi del suo aspetto esausto.
«Simpatico come sempre.» commentò, ma della nota di acidità e astio che era solita utilizzare non ve n’era traccia. «C’è Martin in casa?»
«Non credo.» risposi, mandando la palla nella rete, «Fin quando ero in casa io non c’era, e se fosse arrivato l’avrei visto.»
Stephanie sospirò, portando alcune ciocche di capelli sfuggite dalla coda dietro l’orecchio. «Posso aspettarlo qui, con te?»
La guardai stranito, ma feci spallucce. «Come preferisci.»
Vidi Stephanie allontanarsi per prendere posto sulla panchina, sbattendo mani e piedi in modo nervoso. Era agitata, lo avevo capito dal modo in cui mi si era presentata, e ne ebbi la conferma quando scattò nuovamente in piedi, come in preda a una crisi di nervi. E forse Martin sapeva sopportarle, ma non io.
Cominciò a fare avanti e indietro lungo le mattonelle in granito costruendo un percorso tutto suo, continuando a torturarsi le mani e tenere lo sguardo fisso in cielo, nervosa.
«Stai aspettando un segno divino?» la beffai, avvicinandomi a lei.
Stephanie si voltò fulminea, e aggrottò la fronte. «Cosa?»
Sorrisi. Ovviamente non mi aveva ascoltato. Ma non ce la facevo davvero più a sopportare lo stridio continuo dei suoi sandali, né gli sbuffi o i sospiri. «Si può sapere che diamine hai?» sbottai, «Continui a fare avanti e indietro facendomi venire il mal di testa, e perdo la pazienza facilmente, Stephanie.»
In risposta sbuffò, intrecciando le braccia al petto e alzando lo sguardo al cielo, mentre io attendevo una risposta, e la imitai, inclinando il capo di lato e fissandola.
Sospirò. «Okay, ho bisogno di dirlo a qualcuno e non posso aspettare che arrivi Martin.»
«Oh, grazie tante della prima scelta!» commentai, sarcastico.
Scosse la testa, senza dar peso alle mie parole. «Vieni.» sussurrò, indicando la panchina. La guardai perplesso per qualche secondo, poi la raggiunsi, aspettando che aprisse bocca.
E non lo fece per un bel po’, alternando sguardi vaghi a sospiri, fin quando «Avevi ragione.» parlò, «Su mio padre, intendo.»
Capii che la conversazione da quel momento avrebbe preso una piega molto più seria, quindi abbandonai sarcasmo e ironia. «Ci hai parlato?»
«Sì!» sorrise, somigliando tanto ad una bambina, «Esattamente un’ora fa, e non potevo aspettare domani per dirvelo.»
Il fatto che avesse implicitamente incluso me in quella conversazione mi fece sorridere ingenuamente, ma lei non lo notò. «Beh sorridi, quindi è una buona notizia.» supposi.
Annuì con foga, senza abbandonare il sorriso. «Mi sento così stupida ad aver pensato che papà avesse potuto tradire mia madre...» rise.
«Ma non lo ha fatto.»
«No. Quella sera sono stati ad un pub, dopo il lavoro, e lui stava solo dando un passaggio ad una sua collega.» spiegò, sollevata.
Sorrisi. «Quindi niente tradimento.»
«Niente tradimento.» accordò.
«E niente problemi.»
«Nessuno.»
«Tutto risolto!»
Sorrise, entusiasta. «Tutto risolto. E grazie a te.»
Aggrottai la fronte, confuso. «Per cosa?»
«Per avermi spinto a parlargli, e quindi a scoprire la verità. Non lo avrei mai fatto, sei stato tu a convincermi, e sono certa che se non fosse stato per te starei ancora ad immaginare situazioni inverosimili, quindi... grazie, Zack.»
Ridacchiai. Il fatto era che la vera situazione inverosimile era Stephanie Gilbert che si confidava con me e mi ringraziava anche per averle consigliato qualcosa che avrei suggerito a chiunque di fare. E sorrideva, come se le avessi salvato la vita, sentendosi quasi in debito con me. Ed era il sorriso più bello che avessi mai visto.
«Non vorrei dire te l’avevo detto, ma... Te l’avevo detto!» la punzecchiai, convincendo me stesso di non averlo fatto soltanto per sciogliere la situazione di tensione venutasi a creare.
Spalancò la bocca, indignata. «Ma guarda che presunzione! Non ti ringrazierò mai più di niente.» mi rimbeccò.
«Molto meglio. Così non sembrerà che siamo amici, o roba del genere.» ironizzai.
Tutto quello che mi rivolse fu un sorriso mesto e un “già” strascicato, per niente convinto. Pensai di averla offesa o ferita, ma comunque lei non mi diede opportunità di indagare che si alzò, recuperando la palla e tirandola, mancando il canestro. «Sono una schiappa in tutti i tipi di sport.» si lamentò, sconsolata.
Sorrisi, afferrando la palla e raggiungendola. «Il basket non è difficile sai,» la affiancai, e lasciai che le sue mani si avvolgessero attorno al pallone e le mie a sovrastarle, con il petto ben aderito alla sua schiena, «basta concentrare lo sguardo sul riquadro e prendere bene la mira» sollevai le sue braccia assieme alle mie, posando il mento sulla sua spalla,  «e...» lanciai la palla, riuscendo ora a toccare le sue dita sottili, «Canestro!» terminai con un sorriso, notando la palla andare in rete.
Mi allontanai senza lasciarle la mano, lei si voltò con un sorriso dipinto in volto. «Non vale, tu sei bravo a questo gioco.» brontolò.
Sospirai. «C’è chi nasce con grandi abilità nello sport, e chi nasce per infastidire le persone presentandosi a casa loro di sera, come qualcuno che conosco...» la provocai.
Assottigliò lo sguardo, mantenendo il sorriso. «Guarda che posso andarmene, ed è esattamente quello che farò.»
Tentò di allontanarsi ma glielo impedii, tirandola per la mano in modo scherzoso; «Ma non è quello che voglio io.»
Realizzai ciò che avevo appena detto solo quando sulle labbra di Stephanie prese vita un timido sorriso, e abbassò lo sguardo. Si passò poi la lingua sulle labbra in un gesto usuale, come le avevo visto fare parecchie volte, ed io rimasi a fissarle, esattamente dove la punta della sua lingua aveva accarezzato il labbro inferiore. Erano labbra piene e carnose le sue, ed io non potevo fare a meno di rimanere a guardarle, con l’insano desiderio di baciarle che cresceva a dismisura, minacciando di prendere il sopravvento. Avrei voluto che fosse la mia lingua ad accarezzare quelle labbra, e i miei morsi e i miei baci ad arrossarle, non solo stupidi attacchi di nervosismo. E non mi capacitavo neppure dei miei malsani pensieri, perché credevo che quella sera, con lei a pochi passi da me e la sua mano ancora stretta nella mia, volessi fare qualsiasi cosa con lei tranne permetterle di andarsene.
«Stephie?»
Una voce, quella di mio fratello.
Una mano che si allontanò veloce dalla mia, quella di Stephanie.
Desiderai che quello fosse solo un brutto scherzo dell’immaginazione ma mio fratello era davvero lì, alle nostre spalle, a fissarci confuso, mentre la mora mi abbandonava per rifugiarsi tra le braccia di Martin. «Devo assolutamente dirti una cosa!» saltellò lei, esaltata.
Martin le sorrise comunque, incapace di non condividere il suo entusiasmo. «Però me la dici dentro, fa freddo qui.» si lamentò. Stephanie annuì ed entrambi entrarono in casa abbracciati, lasciandomi da solo.
Sentii un nodo allo stomaco farsi sempre più vivo, ma mi rifiutai categoricamente di credere che fosse davvero gelosia. Non nei confronti di Martin e non per Stephanie, non per la loro amicizia da cui venivo continuamente escluso. Eppure vederla andare via con lui mi dava fastidio, un enorme fastidio.
Ripresi a giocare, facendo qualche canestro. Ma presto Stephanie comparve di nuovo e, senza darmi il tempo di chiederle cosa ci facesse ancora lì mandando a galla la mia acidità ancora una volta, corse verso di me, e stampò un bacio sulla mia guancia. Rimasi confuso da quel gesto, seppure il punto dove le sue labbra mi avevano toccato stesse cominciando a bruciare, quindi rimasi ad osservarla, a chiederle il motivo di quel bacio con gli occhi. Lei sorrideva.
«Non mi importa se potremo sembrare amici adesso, ma grazie.»
Non risposi a quell’ennesimo ringraziamento, beandomi del suo dolce sorriso. Avrei potuto fissarla sorridere per ore, non mi ero mai accorto di quanto fosse bella quando lo faceva.
«E...Ci vediamo domani in palestra al solito orario.» riprese, «Vedi di essere puntuale.»
Detto questo si voltò, tornando in casa e chiudendosi la porta alle spalle.
Io rimasi a fissare quella porta per qualche secondo, fin quando le mie dita non andarono a sfiorare il punto di pelle in cui le sue labbra si erano poggiate. Ancora una volta sorrisi, senza un motivo valido.
Scossi la testa, «Ti stai rammollendo, Payne», e feci un altro canestro. 

Sono tornataaa, genteee :D 
*coro di sottofondo: NOOOO* 
e invece sì u.u con un nuovo capitolo, yeee <3 
okay non so cosa commentare, quindi mi dileguo augurandomi che il capitolo vi sia piaciuto :3
e che il prossimo è già pronto, potrei postarlo tra qualche giorno :) 
vi do una piccola anticipazione: 


«E se è lui a chiedermi informazioni?»
«Non lo farà. A lui non interessa.»


byeee :D


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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***



Quello appena uscito dalla mia bocca doveva essere all’incirca il settimo sbadiglio dell’ora.
L’ora di letteratura francese costituiva senza dubbio i 60 minuti peggiori dell’intera settimana, forse la materia che più riusciva ad annoiarmi e farmi addormentare. Tenere gli occhi aperti, in quell’ora, era un’impresa davvero ardua, infatti non ero certo l’unica a stare accasciata sul banco con aria esasperata, in attesa che quella tortura terminasse. Non solo eravamo costretti a sorbirci l’ascolto di una deprimente poesia in una lingua dai tratti quasi alieni, ma la professoressa Holt si ostinava a voler leggere lei con la sua voce strascicata e stanca, così da rendere l’ascolto più noioso che mai.
Poi giungeva l’ora dell’interpretazione, e la balenottera bionda non si lasciava certo sfuggire un lungo monologo interiore su ciò che secondo il suo magro – si fa per dire – parere la poesia volesse significare, i pensieri e i sentimenti che il poeta ha voluto nascondere in ogni verso, e quali potessero essere i tratti dell’ipotetica donna alla quale sono dedicati. Perché le poesie sono sempre e in ogni caso dedicate ad una donna, e a scriverle è un uomo frustrato la cui speranza che il suo amore venga ricambiato è stata distrutta. Ecco perché i poeti o gli scrittori non erano mai sposati: se lo fossero stati, avrebbero certamente avuto ben altro da fare che stare con la testa chinata su un foglio a scrivere parole d’amore.
«Moi je t’offrirai
Des perles de pluie
Venues de pays
Où il ne pleut pas»
Sbuffai ancora, stanca di dover sorbire tale tortura.
Poi il mio cellulare vibrò solo una volta nella tasca e, stando attenta a non farmi beccare lo tirai fuori, notando l’sms appena ricevuto da parte di Veronica. Alzai lo sguardo ed incontrai i suoi occhi azzurri, che presto tornarono a concentrarsi sull’imponente figura della professoressa.
 “Cinema oggi? :)” recitava il messaggio.
Scossi la testa tra me e me fornendole di già la risposta;  “Non posso, devo studiare :/digitai.
Quando Veronica tirò fuori il cellulare dall’astuccio vidi le sue labbra incurvarsi in un mini broncio, e dopo qualche secondo aveva già risposto.
Oh, peccato :( Studi con Martin?”
No, da sola”
Aggrottò leggermente la fronte. “Come mai?”
Aveva da fare, mi sembra.”  fui sbrigativa, incapace di ricordare l’esatto motivo per il quale Martin aveva rifiutato di studiare con me quel pomeriggio.
Con una ragazza?”  fu la sua domanda.
Incurvai le sopracciglia. “E io che ne posso sapere?” inviai.
Fece spallucce. “Non lo so, ultimamente ci passi molto tempo insieme, pensavo foste diventati amici intimi...
Riflettei un attimo su quell’affermazione.
La sera precedente non ci eravamo limitati a studiare, ma avevamo parlato, scherzato, e infine piazzati sul divano a mangiare patatine e guardare la tv.
Sì, forse stavamo diventando amici. Ma non così amici da doverci raccontare ogni minimo dettaglio, anche se effettivamente conoscevo il motivo della sua assenza, solo non lo ricordavo. Sospirai.
Abbiamo passato la soglia estranei,ma non siamo ancora due amiche pettegole che si raccontano i segreti. Quando lo diventeremo, ti inviteremo ai pigiama party.”
Risi quando storse il muso alla mia provocazione, e cominciò a pigiare velocemente sullo schermo del telefono.
Secondo me ti piace, almeno un po’.”
Era incredibile quanto Veronica fosse romantica e ingenua. Per lei passare qualche ora con un ragazzo significava esserne dipendente, e la sua idea di cotta era parecchio limitata e semplice.
Martin era un ragazzo intelligente, simpatico, divertente a volte, e indubbiamente bello, ma c’era solo un motivo che mi impediva di infatuarmi di lui, così lo resi ben noto alla mia amica:
Dimentichi un importante particolare, mia cara dolce Ronnie: il suo nome non è ZACK.
«Signorina Desmore, le dispiacerebbe tradurre l’ultimo paragrafo, se non è troppo impegnata ad inviare sms? E metta via quel cellulare, prima che glielo sequestri.»
Quando alzai lo sguardo e vidi gli occhi grigi di Mrs.Holt fulminarmi attraverso gli occhialini spessi abbozzai un mezzo sorriso imbarazzato e riposi il cellulare in tasca, consapevole di avere gli occhi di tutti puntati addosso. Tranne quelli di Veronica, intenta a nascondere bene il suo smartphone sotto la coscia.
 «Avanti, traduca.» mi incitò la strega.
Tossii a disagio, e quando puntai lo sguardo sulla pagina mi resi conto di non avere la minima idea di quale paragrafo dovessi tradurre. Fortunatamente la mia memoria decise di collaborare, e riuscii a trovare alcune delle righe che Mrs.Holt aveva letto e che le mie orecchie avevano avuto la pietà di ascoltare, dunque le sorrisi.
«Io ti offrirò
Delle perle di pioggia
Venute da paesi...
Dove non piove» iniziai,
«Scaverò la terra...
Fin dopo la mia morte
Per coprire il tuo corpo
Di oro e di luce
Costruirò un... mondo
Dove l’amore sarà re
Dove l’amore sarà legge
Dove tu sarai regina.»
Una volta finito sorrisi entusiasta, ed alzai lo sguardo sulla professoressa, che mi guardò inferocita. «La prossima volta prenderò dei provvedimenti, Desmore.» mi ammonì.
Aspettai che tornasse a leggere per sorridere nuovamente, soddisfatta di aver tradotto un intero paragrafo da sola e correttamente. Non ero mai stata una gran cima nelle traduzioni, ma evidentemente i pomeriggi con Martin cominciavano a donare i loro frutti.
L’attenzione della classe tornò a scemare, ed io sentii di nuovo il cellulare vibrare nella tasca. Feci molta attenzione e controllai più di qualche volta che Mrs.Holt fosse immersa nell’interpretazione di un verso, poi lo tirai fuori. Quando vidi il nome di Veronica lampeggiare sul display mi voltai a rivolgerle un’occhiataccia che comunque non la scalfì, ma lessi comunque il contenuto dell’sms.
E’ riuscito a farti tradurre 12 righe in francese. Merita la mia venerazione e la tua, non importa quale sia il suo nome. ;)”
 
Appartamento 6B. Non potevo sbagliarmi di certo, ci ero stato così tante volte.
Presi un lungo sospiro, continuando a fissare il portoncino in legno bianco. Alzai la mano a pugno per bussare, ma la bloccai a mezz’aria.
Dov’è finito tutto il tuo coraggio, Zack?
Non sapevo se ce l’avrei fatta davvero. I buoni propositi c’erano, la volontà anche, ma c’era qualcosa che mi bloccava dal bussare a quella porta così familiare e compiere il mio obbiettivo.
Paura? Ricorda perché sei qui.
Lo ricordavo eccome. Era ciò che più mi tormentava e assillava da qualche mese a quella parte, e se ero giunto lì, davanti a quella porta, dovevo aver raggiunto il limite di sopportazione. Volevo mettere fine a tutto quel caos e l’avrei fatto, avessi dovuto restare in piedi davanti al portone bianco a rimuginare per chissà quanto tempo.
Presi un lungo respiro e una buona dose di coraggio e bussai tre volte, dondolandomi sui piedi in attesa che qualcuno venisse ad aprirmi. Ma quando Sarah si presentò alla porta in vestaglia e con’un espressione un po’ confusa in volto le parole mi morirono in bocca, e rimasi a boccheggiare per qualche secondo, prima di rendermi conto di stare facendo una colossale figura di merda. Chiusi la bocca e tossii, palesemente a disagio.
«Zack?» domandò interrogativa, «Come mai qui?»
Ancora una volta non mi degnai di rispondere a tempo debito, restando a riflettere sulle parole giuste da dire e sul perché non fossi ancora scappato dalla trappola che mi ero costruito. Semplicemente restai a fissare i suoi occhi verdi mentre la vedevo spazientirsi pian piano, pensando di sembrare un vero coglione.
Andiamo Payne! Fai l’uomo, cazzo!
«Sono venuto a dirti una cosa.» le risposi finalmente.
Sarah incurvò un sopracciglio ma sospirò sorridendomi, e tornò dentro. Io restai sulla soglia perplesso, fin quando non fu lei a riprendere parola. «Beh, che ci fai sulla soglia? Accomodati, no? Non mi sembra che tu abbia mai avuto il bisogno di chiedermi il permesso.» commentò, maliziosa.
Alzai gli occhi al cielo inspirando per infondere coraggio a me stesso; entrai e mi richiusi la porta alle spalle.
Lei si sedette sul bracciolo del divano, accavallando le gambe e portando le braccia al petto. «Beh?» mi incitò, «Non eri venuto a dirmi qualcosa?»
«Sì... certo.» balbettai, riprendendo mente locale. Ero molto teso, un po’ troppo a dire il vero, e l’ansia non mi permetteva di ragionare lucidamente, o essere schietto e diretto come avrei voluto. Ma infondo avevo paura, era lecito ne avessi, perciò aspettavo.
«Perché balbetti?» domandò leggermente divertita, «Non è da te.»
In risposta alzai lo sguardo sui suoi occhi, che mi osservavano con la solita punta di malizia, incapace di darle una risposta esauriente. In effetti avrei potuto sembrare Martin, avevo perso tutta la mia sfacciataggine in poco più di due minuti.
Si alzò e mi venne incontro, posando una mano sul mio avambraccio. Prese ad accarezzarlo, senza staccare gli occhi dai miei. Poi l’altra mano si posizionò sul mio fianco, e quando arrivò con le labbra al mio orecchio «Rilassati.» sussurrò.
Chiusi gli occhi e lasciai cadere la testa all’indietro, lasciandomi sfuggire un gemito quando i suoi denti morsero il mio lobo. Poi le sue labbra scesero e lasciarono un bacio sotto l’orecchio, e giù fino alla linea del collo, mentre sentivo la sua mano risalire dal mio fianco alla mia guancia, lentamente.
Restai inerme e immobile mentre Sarah continuava a baciare e leccare la pelle del mio collo e accarezzare la guancia disegnando dei cerchi col pollice, incastonando una gamba tra le mie. Continuavo a prendere lunghi e soffocati respiri, sottostando al suo gioco di sedurmi come una marionetta.
Le sue labbra baciarono il mio mento e solo allora si staccò, sorridendo soddisfatta e puntando i suoi occhi nei miei. «Pensavo ti fossi dimenticato di me...Mi fa piacere sapere che non è così.» mormorò, a qualche centimetro dalle mie labbra. Poi la sua mano dalla mia guancia prese a scendere lungo il collo e il torace, l’ombelico e si fermò solo sul bottone dei miei jeans. Come temevo continuò a scendere e si posò sulla mia eccitazione contro la stoffa, premurandosi di accrescerla e peggiorarla accarezzandola attraverso il tessuto.
Sospirai col fiato corto, quasi vergognandomi. Odiavo che lei mi tenesse in pugno in quel modo, ma soprattutto odiavo che fosse a conoscenza del mio disagio e lo rigirasse a suo vantaggio, facendomi fare per l’ennesima volta ciò che voleva. Ero soltanto io a stare sotto la sua volontà e i suoi ordini, era capace di sedurmi e raggirarmi, e lo sapeva bene.
Avvicinò di più il suo viso al mio e la sentii sorridere sulle mie labbra, soddisfatta e fiera d’aver vinto anche quella volta, poi la sua mano risalì, andando ad accarezzare anche l’altra guancia.
«Allora Zack, cosa volevi dirmi?»
Non le avrei risposto. E comunque lei non lasciò che lo facessi, perché infilò la sua lingua nella mia bocca prepotentemente e trovò presto la mia, che non si tirò indietro. Anzi prese ad intrecciarsi con la sua in un tormento di violenti baci, e dopo aver fatto aderire il suo petto al mio con una spinta tutt’altro che romantica le mie mani scesero a stringere i suoi glutei e a sollevarla, lasciando che intrecciasse le gambe attorno al mio busto.
Sarah non smise di baciarmi o stringermi i capelli neppure per un attimo ed io risposi ad ogni suo gesto, sbattendola poi sul divano e sovrastandola, per poi riprendere a baciarla, in un modo così rude e violento che solo lei riusciva a tirar fuori. Soffocò un gemito quando avvertì la mia eccitazione premere contro la sua gamba, ed alzò gli occhi soltanto per un momento, per poi liberarmi della maglietta in un singolo gesto, e riprendere a baciare e mordere le mie labbra.
Per quanto detestassi ciò che stavo facendo e la mia mente mi urlasse contro di allontanarmi da lei, dirle che è finita e scappare, il mio corpo reagiva al contrario, rispondendo ad ogni suo bacio o tocco, senza smettere.
Ero debole. Debole e sottomesso, e codardo, perché non avevo la forza di mandarla via o forse, cosa che più temevo, non lo volevo affatto. E allora mi sarei sentito falso, e bugiardo, anche verso me stesso.
Ma non mi ribellai. E con i vestiti sparsi per terra, il fiato corto e un dannato senso di colpa entrai comunque in lei, dimenticando qualsiasi cosa oltre il legame tra i nostri due corpi, per quanto sporco e ingiusto.
Sapevo che quei cinque minuti di liberazione mi sarebbero costati cari, avrebbero causato soltanto più dipendenza e una marea di sensi di colpa, semplicemente non mi importava. Non per quei cinque minuti.
 
Quando finalmente rimisi piede in camera mia quello che feci fu correre verso il letto e buttarmici a peso morto. Tirai un lungo sospiro stanco e sorrisi, perché finalmente non ero più in quel dannato atelier.
Non che fossi dispiaciuto di aver accompagnato mia madre a scegliere il suo secondo vestito da sposa, ma ritenevo che quello non fosse affatto un compito di mia portata, e soprattutto non capivo perché mia madre aveva deciso di aggiungere anche a me al suo già numeroso entourage, costituito da nonna e diverse amiche. Io che di vestiti da sposa non ne capivo assolutamente niente avevo avuto il compito di prendere la decisione finale, ritrovandomi con troppe paia di occhi ad aspettare che il verdetto uscisse dalla mia bocca. Ed io odiavo stare al centro dell’attenzione.
Avevo passato quindi il mio pomeriggio seduto su una comoda poltroncina in pelle bianca a vedere mia madre sfilare ogni volta con un vestito differente, e ad ascoltare i commenti critici delle sue amiche a proposito: quanto l’abito liscio la snellisse, quanto la scollatura esaltasse le sue forme, quanto il pizzo la rendesse volgare. Quando mamma si voltava invece a chiedere a me cosa ne pensassi sorridevo e le garantivo quanto fosse bella con questo o quell’abito, incapace di aggiungere altro: mi sembravano tutti bianchi e uguali.
Ma averla vista così felice quando avevo accettato sopravoglia di accompagnarla mi aveva convinto a restare, e così alla fine avevo puntato per l’abito più principesco che avessi mai visto, che la rendeva bellissima e soprattutto le avrebbe garantito l’attenzione di tutti quanti, vista la maestosità singolare della gonna. La faceva sembrare una vera principessa e molto più piccola e dolce rispetto alla donna adulta alla quale avrebbe voluto assomigliare, perciò non avevo esitato per far sì che fosse quell’abito la sua scelta. Ero certo che quando papà l’avrebbe vista recarsi all’altare con quel vestito addosso sarebbe scoppiato a piangere come la prima volta, esattamente 20 anni prima.
Ciò che mi era dispiaciuto era stato rinunciare al solito pomeriggio di studio con Emma. La sua vicinanza era ciò che più mi rendeva felice ed entusiasta, e nonostante l’imbarazzo non facesse che sopraffarmi per il 99% del tempo trascorso insieme mi piaceva starle accanto e godermi anche le piccole cose, come il suo sorriso o il suono della sua risata. Era la risata più dolce e coinvolgente che avessi mai ascoltato, e sarei potuto restare a sentirla ridere per ore senza mai smettere. Il suo solo sorridermi e il pensiero che stessimo diventando pian piano amici mi rendeva inspiegabilmente euforico, e non c’era secondo che passasse e che io non passassi a pensare quanto fosse bella, e quanto fossi fortunato ad essere lì con lei.
Ma per amore di mia madre quel pomeriggio avevo rifiutato di assisterla, e adesso mi ritrovavo a supporre cosa avesse studiato in quelle ore e a immaginarmela sbuffare verso l’alto, con la frangetta che si solleva di qualche centimetro e l’aria annoiata. E a sorridere, perché non c’era cosa più buffa e tenera allo stesso tempo.
Mi risvegliai dalla mia immaginazione grazie a Lupin, che con un salto balzò sul mio letto e prese a leccarmi la faccia, felice di rivedermi.
«Lupin!» sbottai infastidito, «Scendi subito!»
Il cane obbedì al mio ordine stizzito permettendomi di mettermi a sedere, e di asciugarmi la bava dalla faccia col lenzuolo. Quando la mia visuale tornò chiara lo vidi seduto e con la testa inclinata verso destra, che scodinzolava.
Sospirai, mantenendo il mio sguardo dritto sul suo. «Vuoi uscire fuori, eh?» domandai, retorico.
Lui abbaiò in risposta e si alzò continuando a scodinzolare, poi posò il capo sulle mie gambe. Prese a piangere e strofinare il capo contro la mia maglia, così non ebbi altra scelta.
«E va bene, facciamoci una passeggiata.» lo assecondai, sconfitto.
Mi alzai e Lupin fece lo stesso, cominciando a saltellare per la stanza felice. Gli legai il guinzaglio al collo ed uscii, godendo dell’aria tranquilla che si respirava al tramonto del sole. Era il mio momento della giornata preferito, e passeggiare a quell’ora era piuttosto piacevole.
Lupin eseguì la sua solita routine anche quella volta costringendomi a girare in tondo per qualche isolato, fin quando non si fermò in mezzo alla strada e alzò testa e orecchie, come fosse in ascolto.
«E adesso che c’è, hai sentito un gatto?» lo canzonai.
Ma lui fuggì dalla mia presa e cominciò a correre, costringendomi a seguirlo. Si bloccò solo quando incontrò un altro cane di taglia molto più piccola, un volpino forse, ed insieme cominciarono ad esaminarsi e girarsi attorno. Ripresi in mano il guinzaglio e lo fulminai con lo sguardo perché mi aveva fatto correre e preoccupare per quasi un chilometro solo per annusare il didietro di una probabile cagnetta. Ma aveva un collare blu al collo, perciò doveva appartenere a qualcuno.
 «Destiny! Destiny dannazione, torna subito qui!»
Alzai lo sguardo confuso all’udire di quella voce lontana, e quando vidi una ragazza correrci incontro capii d’aver trovato il padrone del cane. La ragazza continuò a correre finché non individuò il volpino dal pelo bruno, e quando lo raggiunse si inginocchiò ad accarezzarlo, quasi abbracciarlo. «Non farlo mai più Destiny, mai più, capito?!» la rimproverò severa e col fiato corto, quasi potesse darle ascolto.
Dopo essersi assicurata dell’incolumità del cane riprese possesso del guinzaglio e si alzò, notandomi. Restò con gli occhi spalancati per un po’, ma avevo la sensazione che mi stesse soltanto analizzando. Aveva gli occhi di un azzurro chiarissimo come il cielo, quasi trasparente.
«Stai bene?» chiesi, avendo notato il suo silenzio per qualche secondo.
Lei si risvegliò come da uno stato di trance e scosse la testa. Mi sorrise. «Sì, sto bene. Mi dispiace, ho perso il controllo e Destiny si è messa a correre, quindi...»
«Non ti preoccupare.» la interruppi, «Anche Lupin mi è sfuggito di mano.»
«Lupin? Che bel nome.» commentò, meravigliata. Si chinò ad accarezzare il pelo beige di Lupin, che scodinzolò alle sue carezze.
«Anche Destiny lo è.» ricambiai.
Lei ridacchiò, e mi sembrò molto più rilassata. «In realtà ho scelto questo nome a 10 anni, non mi piace molto. Ma lo mantengo, giusto per evitare crisi di identità.»
Risi per la battuta e lo fece anche lei, e non potei fare a meno di pensare che avesse un viso abbastanza familiare.
«Adesso devo andare, ciao.» si congedò con un sorriso, invitando la sua cagnetta a seguirla.
«Aspetta!» la bloccai.
Lei si voltò, sorpresa. «Dici a me?»
«Sì. Come ti chiami? Mi sembra di averti già vista...»
Sorrise. «Veronica. Ma chiamami pure Ronnie.»
 
Mi sfilai il grembiule e mi sciolsi i capelli, cercando di pettinarli con le dita. Avevo riposto i secchi vuoti di vernice e i pennelli e tutto l’occorrente nel ripostiglio ed ero pronta per andarmene e tornare a casa, mentre metà delle pareti della palestra erano impregnate di vernice bianca.
Diedi soltanto allora uno sguardo al cellulare, ma ne rimasi delusa. Avevo pensato per tutto il tempo al motivo per il quale Zack non si era presentato e mi ero convinta che una volta finito avrei trovato una sua chiamata o almeno un messaggio, in cui mi spiegava il motivo della sua assenza. Ma non avevo trovato nulla ad aspettarmi oltre l’avviso di batteria quasi scarica, quindi riposi il cellulare in tasca stizzita, afferrando la borsa.
Non si era presentato. Non la prendeva sul serio.
«Stephanie?»
Mi voltai verso Zoe, che mi aveva trattenuta. Ad affiancarla c’erano Kelsey e Tina.
«Ci vediamo quindi domani al solito orario per finire le pareti?»
Annuii distrattamente, personalmente un po’ scocciata e ansiosa di tornarmene a casa.
«Posso avvisare Zack. Abbiamo lo stesso corso di biologia, domani.» intervenne Kelsey.
«No.» le risposi serafica e fulminea, attirando la reazione sorpresa delle tre. «Possiamo farcela da sole, non abbiamo bisogno di un idiota che prende tutto sottogamba. Non avvisarlo, ok?»
Mi resi conto di essere stata un po’ rude quando Kelsey annuì un po’ intimorita, ma mi voltai comunque verso l’uscita.
«E se è lui a chiedermi informazioni?»
Mi bloccai nel bel mezzo della palestra, sentendo la presa sulla cinghia della borsa rafforzarsi e poi rilassarsi. Respirai.
«Non lo farà. A lui non interessa.»
Non attesi risposta, che comunque non arrivò, e ripresi ad incamminarmi, sbattendomi la porta della palestra alle spalle con un po’ troppa forza.


Sono di nuovo qui! A distanza di un giorno, wow :o 
E' che il capitolo era lì a dirmi "daai, pubblicaaami", perciò... detto fatto. 
Se a qualcuno interessasse, la poesia tradotta da Emma è "
Ne me quitte pas" di Jacques Brel, e a differenza sua io adoro il francese ahahah
Bene, il punto di vista di Zack è stato... complicato. Avrei voluto prenderlo a pugni, sul serio.
Avanti, prendete a pugni con me questa faccia! 




Magari lapido anche la dolce Sarah, chi lo sa... 
Comunque, è giunto il momento di dare un volto a
Veronica!
 

   
ALLA PROSSIMAAAA! 

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***



Quella mattina non ero sicura di poter essere capace di affrontare una mattinata di scuola senza uscire fuori di testa. Sarei volentieri rimasta a casa, se solo non conoscessi così bene mia madre da sapere che il mio silenzio l’avrebbe insospettita e mi avrebbe garantito un interrogatorio di ore. La sera precedente l’avevo scampata bella, ma sapevo che prima o poi sarebbe arrivato, e non volevo certo alterarmi maggiormente.
Quando ero tornata a casa la sera prima, ero furiosa. Mi ero rintanata in camera continuando a sbuffare e aggredire chiunque tentasse di stabilire un contatto, persino Chris, che era entrato solo per chiedermi una matita. Non ero isterica, semplicemente arrabbiata e delusa, parecchio delusa. Avevo pensato di potermi fidare di Zack, di aver finalmente trovato un punto di accordo che ci accomunasse o avvicinasse, un interesse comune, da condividere, invece lui mi aveva piantata in asso dopo avermi illusa che gli importasse. E mi sentivo dannatamente stupida, perché avrei dovuto sospettare che per lui non era importante. Non gli importava il ballo, né aiutarmi o semplicemente stare con me, non gli importavo neanch’io. Quel suo fingersi amico era non altro che compassione, o forse ero stata io a fraintendere ci fosse qualcosa sotto. Perché avevo pensato che dopo diversi anni di odio reciproco io e Zack ci stessimo avvicinando, conoscendo, diventando amici, e invece mi sbagliavo.
Così quella mattina camminavo per i corridoi scolastici a passo svelto e deciso, consapevole di avere un pessimo aspetto e di poter spaventare chiunque mi si presentasse davanti. Vivevo in un ambiente scolastico dove ognuno ha il diritto e il dovere di poter essere quello che vuole quando vuole, perciò anch’io potevo essere arrabbiata col mondo intero, quella mattina.
Mi recai all’armadietto per munirmi del libro di scienze, ma anche lui aveva deciso di remarmi contro. Avevo composto la combinazione circa tre volte ma continuava a non aprirsi, alternando i miei nervi già così sensibili. Ci riprovai un’altra volta ma ancora lo stesso risultato, e ancora il ghigno furioso sul mio volto.
«Apriti, dannazione!» sbottai irritata, sferrando un pugno alla parete in ferro grigia.
Ritirai presto le nocche, cercando di alleviare il dolore del pugno strofinandolo sulla maglia. «Al diavolo!» borbottai, premendo ancora con la mano sulla parete dell’armadietto.
«Serve aiuto...?»
Mi voltai pronta ad aggredire chiunque mi avesse rivolto la parola, ma quando incontrai gli occhi verdi e intimoriti di Kyle mi paralizzai. Non scambiavo parola con lui dalla sera della nostra tragica uscita, e per quanto si fosse comportato da stronzo e mi avesse trattata come un giocattolo non provavo odio verso di lui. Infondo il nostro era stato un tentativo di uscita, non eravamo fidanzati o tantomeno avevo una cotta per lui, e pazienza se la nostra serata era stata orrenda, significava solo che non ce ne sarebbero state altre.
«No, grazie.» tagliai corto comunque, sperando di non dover instaurare una conversazione.
«Non mi sembra...» ridacchiò, guadagnandosi la mia occhiataccia, «Comunque il tuo armadietto è sul lato opposto, questo è il mio.»
Tenni lo sguardo confuso dritto nel suo finché non realizzai di essere sulla fila opposta del mio armadietto, ed aver appena cercato di distruggere il suo. Allora alzai gli occhi al cielo esasperata, sentendomi una vera stupida, mentre Kyle sorrideva.
«Mi dispiace, io... sono un po’ stanca.» mormorai, dispiaciuta.
«Non preoccuparti, va bene.» mi sorrise.
Ricambiai con un magro sorriso ed annuii pronta a girare i tacchi, abbandonare quella stramba conversazione ed andare al mio armadietto, ma sentii Kyle richiamarmi prima che mi voltassi del tutto, quindi tornai a guardarlo. Teneva lo sguardo basso, si torturava le mani, e quando alzò gli occhi e colsi la nota di rimorso capii cosa volesse dirmi.
Ma mentre Kyle Thompson si preparava a confidarmi le sue scuse ufficiali per essere andato a letto con un’estranea la sera del nostro primo appuntamento, i miei occhi captarono qualcos’altro alla fine del corridoio. E restarono a fissare per un bel po’ la figura leggera e sinuosa di Zack Payne, appoggiato alla parete degli armadietti e con un sorriso a trentadue denti ad illuminarlo, e un paio di occhi a fissare le tette di quella che doveva essere l’ennesima sveltina della giornata. Era chiaro dal modo in cui la biondina lo fissava languida e gli accarezzava il petto che quello non fosse il loro primo incontro, e almeno ora sapevo perché non si era presentato.
«Mi dispiace per la scorsa sera.» fiatò Kyle, riportando la mia attenzione su di lui «So che potrai non crederci, ma è così...»
«Invece ci credo, e tu credi me se ti dico di non preoccuparti e che non mi interessa, ok?» cercai di confortarlo e velocizzare quel discorso imbarazzante, ma tutto quello che ottenni fu la sua espressione confusa.
«Quindi non sei arrabbiata, o...?»
«Sto benissimo, Thompson. Per quanto mi riguarda adesso siamo pari, tu hai scopato con un’altra quando siamo usciti insieme ed io ti ho quasi distrutto l’armadietto.»
Gli sorrisi, ma il mio sguardo tornò inevitabilmente a osservare la disgustosa scenetta davanti a me. Cos’avrei fatto per tirargli uno schiaffo...
Mi sentii accaldare e spalancai automaticamente gli occhi quando quelli azzurri di Zack si posarono su di me e alzò gli angoli della bocca per sorridermi, finché non notò il ragazzo di fronte a me. Divenne improvvisamente serio, e si mosse, spingendo la biondina lontana da lui.
«Senti Kyle ci si vede, eh? Buona giornata.»
Il modo in cui lo avevo interrotto ed ero scappata via lo lasciò con in viso l’espressione più sconcertata e perplessa che avessi mai visto. Probabilmente pensava fossi matta ma non mi importava, volevo solo fuggire via da Zack. Ero certa che se me lo fossi trovata davanti non avrei resistito all’impulso di prenderlo a pugni o piangere, e non volevo mostrarmi infastidita o debole a lui, non di nuovo. Così mi ero voltata e incamminata a passo svelto verso un’aula qualsiasi, consapevole di averlo alle calcagna.
«Stephanie, aspetta!»
Continuai a camminare, premurandomi di accelerare il passo. Ma lui riuscì comunque a raggiungermi, e quando me lo ritrovai davanti sfoderò un sorriso, accompagnato da un sospiro stanco.
«Che bisogno c’era di correre...Avresti consumato il pavimento, se non ti avessi fermata.» si lamentò.
«Che bisogno c’era di seguirmi.» replicai piatta, riprendendo a camminare.
Mi venne dietro. «Beh ti ho seguita perché volevo salutarti, è per caso un crimine?»
«Forse non ho voglia di parlarti, non ti ha sfiorato l’idea?»
Mi tappai la bocca e abbassai lo sguardo, sentendomi quasi colpevole per essere stata così acida. Infondo lui mi era stato accanto, mi aveva consolata, ed io gli sputavo addosso il mio odio.
Non vidi la sua espressione, ma immaginai non fosse molto felice. E non potevo biasimarlo, mi avrei presa a ceffoni da sola.
Poi sentii un dito sollevarmi il mento, e i miei occhi si intrecciarono coi suoi. Probabilmente restai a fissarlo per qualche secondo e lui fece sicuramente lo stesso, perché non proferì parola. Si morse un labbro e poi si passò la lingua sulle labbra, come fosse nervoso o a disagio. Era bellissimo.
Seguii il tocco della sua mano quando cominciò ad accarezzarmi piano la guancia col pollice, e chiusi gli occhi. Respirai a fondo, perché il suo tocco stranamente riusciva a rilassarmi, e non mi irritava più come un tempo.
«Non voglio che parli con Kyle. E’ stato uno stronzo.»
Aprii gli occhi, riscontrando di nuovo il suo sguardo. C’era qualcosa nella sua voce, che mi aveva infastidito: l’accenno di superbia, di possesso, come se fosse lui a decidere con chi dovessi o non dovessi parlare. Egoismo.
Sentii di nuovo la rabbia ribollirmi nelle vene, e mi liberai della sua mano sul mio viso, tirandola bruscamente in giù. «E’ lui lo stronzo, eh? Tu non lo sei, vero?» sbottai.
Restai con lo sguardo incollato al suo per captare una qualsiasi reazione, ma aggrottò la fronte.
Stupida. Stupida.
Scossi la testa, «Senti devo andare a lezione» sviai, cercando di scappare, per paura che cogliesse le mie emozioni. Ero  fin troppo fragile, e già sentivo le lacrime pungere contro gli occhi.
«No no no no, tu non vai da nessuna parte.» mi fermò, afferrandomi il polso. Boccheggiò per qualche istante, ma richiuse la bocca poco dopo. «Perché l’altra sera eri felice e contenta e adesso mi odi di nuovo? Che ho fatto?» domandò.
Tenni lo sguardo basso, e sorrisi amaramente. Non solo non si era presentato in palestra il giorno prima come mi ero premurata di raccomandargli, ma l’aveva persino dimenticato. Non gli importava, era ovvio.
Lui aspettava una risposta, in silenzio. Io lo guardai, impietrita.
«E’ chiaro che non ti importa, altrimenti non l’avresti dimenticato...»
Ancora una volta aggrottò le sopracciglia, confuso. Ma riuscì comunque a comprendere il mio riferimento, perché spalancò occhi e bocca poco dopo, strinse gli occhi, e inclinò la testa. Sembrava quasi dispiaciuto.
«Mi dispiace Stephanie, io...»
«Non devi dispiacerti.» lo interruppi, «Infondo non sei tu l’incaricato di questa... cosa, ed è lecito che non ti importi, solo mi sento stupida, perché avevo pensato che per una volta avremmo potuto lavorare insieme, e invece tu te ne dimentichi il secondo giorno.»
Non disse parola, non sapeva cosa dire. Lasciare Zack Payne senza parole era una sensazione che mai avevo provato prima, e tutto sommato non era così piacevole. Avrei voluto dicesse qualcos’altro oltre il consueto “mi dispiace”, che facesse qualcosa, ma non successe. Semplicemente rimase a fissarmi, come suo solito.
Mi accorsi solo allora di stare in mezzo ad un corridoio, con diverse paia di occhi a fissarci curiosi. Mi sentii in imbarazzo, perché non ero abituata a così tanta attenzione. Ma Zack lo era. E litigare dando vita a quella scenetta così ridicola mi aveva sicuramente garantito l’attenzione di abbastanza pettegole da doversi isolare per settimane.
«Senti lascia perdere, non importa neanche a me.»
Pronunciai quelle parole a bassa voce, in modo che solo lui potesse sentirmi. E mi voltai, lasciandomelo alle spalle. Solo quando mi trovavo davanti all’aula di scienze realizzai di non avere il libro. Pensai di andare a prenderlo, ma sapevo che ritornare in quel corridoio avrebbe significato incontrare di nuovo Zack.
Pazienza, avrei saltato la terza ora.
 
Un sorriso si dipinse spontaneo sul mio viso quando il suono della campanella si propagò nella stanza e nell’intero corridoio, e gli studenti cominciarono ad uscire uno alla volta dalle aule. Mai una lezione di chimica mi aveva annoiato così tanto, se non altro per l’assenza di Stephanie. Avevo notato da subito il posto vuoto accanto al mio, ed era proprio lei che stavo cercando, passando in rassegna tutti i ragazzi intenti a godersi il quarto d’ora di libertà adibito all’intervallo.
Tra tutti intravidi alcuni degli amici di mio fratello, circa metà della squadra di basket di cui era il capitano. Ridevano e si prendevano in giro, squadravano le ragazze da capo a piedi come solito, ma Zack non era con loro.
E Stephanie non sembrava trovarsi nei paraggi.
Ma non fu invece difficile trovare Veronica, che mi venne addosso facendo cadere entrambi. La riconobbi immediatamente quando puntò i suoi occhi intimoriti sui miei e sembrò andare in panico, per poi rilassarsi e sorridere sorpresa quando mi riconobbe anche lei. Allora ricordai dove l’avevo vista per la prima volta prima del pomeriggio precedente.
Il suo sorriso era un piacevole misto tra imbarazzo e sorpresa, ma dolce. Ridacchiò e le sorrisi anch’io, poi si alzò, porgendomi una mano per aiutarmi ad imitarla.
«Sembra che non faccia altro che venirti incontro» commentò nervosa e divertita una volta raccolti i libri da terra, passandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Potrei denunciarti per molestia corporale» scherzai. Quando poi avvertii il fastidioso seppur lieve dolore alla schiena mugolai e portai la mano ad accarezzarla. «Anzi, forse lo farò...»
Diventò improvvisamente seria, e spalancò gli occhi chiari. «Non l’ho fatto di proposito, io...»
«Ehy, scherzavo» la tranquillizzai, notando la sua improvvisa agitazione.
Tirò un sospiro di sollievo, e tornò a sorridermi. «Mi dispiace... ti sei fatto male?»
«Un po’. Ma passa, sta’ tranquilla.» la rassicurai, «E allora vieni a questa scuola... potevi dirmelo che mi conoscevi.» le rivolsi un semi-rimprovero, riferendomi al nostro incontro quel pomeriggio.
Abbassò lo sguardo un po’ colpevole, ma tornò a guardarmi dopo qualche secondo. «A dire il vero non pensavo mi conoscessi, o riconoscessi.» confessò.
«Tu non ci hai nemmeno provato, a farti riconoscere.»
«Non mi piace molto l’attenzione, tutto qua...»
«Ti capisco, non piace neanche a me. Ma in questa scuola è un po’ difficile rimanere inosservati...» le sussurrai all’orecchio, indicandole con lo sguardo le persone che ci circondavano.
Rise e annuì, concordando con me. Poi la vidi tirare fuori il cellulare e leggere quello che doveva essere un sms, quindi mi sorrise. «Ed è per questo motivo che torno nel mio caro e dolce anonimato.» si congedò, «Al prossimo scontro!»
Si allontanò veloce quasi avesse fretta, e sventolò la mano in saluto, rischiando di inciampare. Risi per la goffaggine che sembrava caratterizzarla, e ricambiai il saluto, fin quando non scomparve tra la folla.
E fu allora che vidi Stephanie, a testa bassa e passo lento mentre camminava nel mucchio di studenti. La chiamai a gran voce e lei si voltò, rivolgendomi qualcosa che doveva assomigliare ad un sorriso. Doveva esserci qualcosa a turbarla, non sembrava sincera e spensierata, e doveva senza dubbio avere un qualche collegamento con la sua assenza alla lezione di chimica.
«Stai bene?» fu la prima domanda che le rivolsi, quando finalmente il suo sguardo fu puntato su di me.
Sorrise. «Sono un po’ stanca, ma va tutto bene.» mi rispose, afferrando il mio braccio in modo da cingerla per le spalle.
«Perché non eri a chimica?»
Rimase in silenzio per qualche secondo, poi divagò con lo sguardo. «Ho avuto un contrattempo con la preside, voleva sapere dei preparativi, e sono arrivata tardi a lezione... E poi non mi andava di sentire Becket blaterare sull’importanza della tavola periodica, oggi.»
Risi, ed annuii, perché era esattamente ciò che oggi il professor Becket aveva fatto.
Sospirò e si strinse di più a me, «Ho bisogno di molte coccole oggi, Smartie.»
Aggrottai la fronte, divertito, e scossi la testa, posando un bacio sulla sua guancia. «Va meglio?»
Scosse la testa in segno di diniego e tirò fuori il labbro inferiore, esibendo una delle sue espressioni più tenere.
«E allora... che ne dici di una tavoletta di cioccolato?»
Le si illuminarono gli occhi, «Con le nocciole?»
Alzai gli occhi al cielo e sospirai, «Con le nocciole.»
E un sorriso entusiasta e sincero si formò sulle sue labbra, mentre allacciava le sue braccia al mio collo, in un dolce abbraccio. «Sei il migliore, Smartie!» mormorò, scoccando un altro bacio sulla mia guancia.
 
Presi un ultimo e lungo respiro, prima di decidermi ad entrare. Ero sicuro che presentarmi lì, dopo la sfuriata di quella mattina, non avrebbe fatto altro che innervosire Stephanie ancora di più, e magari mi avrebbe anche cacciato via a calci, ma avevo sopportato la sua idea di “stronzo egoista” troppo a lungo, per permetterle di rafforzarla.
Anche se non potevo negare che avesse un po’ ragione. Il fatto era che non riuscivo a capire perché se la fosse presa così tanto, non ero mai stato più importante per lei se non come “fratello stupido e irritante del mio migliore amico”, e adesso mi portava il muso se mi dimenticavo di uno stupido pomeriggio. Mi sembrava di averle dimostrato di tenere a lei e che si sbagliava sul mio conto, standole accanto nei suoi fastidiosi silenzi, e adesso che qualcosa sembrava essersi smossa non volevo che tornassimo al punto di partenza, continuando a gettarci odio addosso come due ragazzini. Era strano, ma avevo sentito in quei giorni e in quella mattinata, nelle ore che avevano seguito il nostro litigio, che non potevo star bene se lei era triste o sconfortata, molto peggio se per colpa mia. Non mi era mai importato, ma adesso credevo di non poter essere tranquillo, se non era lei a sorridermi e rassicurarmi.
Quindi, carico delle migliori intenzioni, entrai nella palestra che sarebbe stata adibita alla sala del ballo, e subito il mio olfatto fu perforato dal forte odore di vernice di cui erano impregnate le pareti. Difatti c’erano Zoe, Tina e Kelsey che, armate di pennello e tuta anti-schizzi, dipingevano un’intera parete, e due delle quattro sembravano perfettamente asciutte e riverniciate. Mi guardai intorno, ma non c’era traccia di Stephanie. Quindi mi avvicinai ad una delle tre ragazze, Zoe mi pareva, e le chiesi dove lei fosse.
«Non lo so, in realtà.» rispose quella, «E’ uscita cinque minuti fa forse, non so dove sia andata...»
Chiusi gli occhi per un istante, chiedendomi se non avesse uno speciale potere che le permettesse di sparire ogni qualvolta la cercassi, ma sorrisi comunque, ringraziando Zoe di avermi per metà aiutato nella ricerca.
Uscii dalla palestra, alla rinnovata ricerca di Stephanie. Le aule e i corridoi erano giustamente e incredibilmente vuoti a quell’ora del pomeriggio, quindi trovarla non doveva essere poi così difficile. E dopo aver visitato qualche laboratorio e un paio di corridoi la trovai seduta per terra, a mandare giù un pezzo della cioccolata che teneva in mano, addossata alla parete del distributore automatico. Sembrava concentrata esclusivamente sulla barretta, assorta in chissà quali pensieri, perciò non mi notò.
«Gilbert, non dovrebbe essere in palestra con le altre ragazze?» la ripresi, fingendo la voce un po’ roca per spaventarla.
Lei si voltò subito, un po’ spaventata, ma quando si accorse che ero solo io mi rivolse un’occhiataccia e tornò a fissarsi le scarpe, evitando appositamente il mio sguardo.
«Che diamine ci fai, qui?» domandò, piatta. Era ancora arrabbiata, lo si poteva intuire dal tono severo.
«Non mi pare che tu mi abbia proibito di venirci...»
«Ma ti ho chiaramente reso noto che non voglio parlarti. E invece tu fai sempre di testa tua e sei venuto qui ad infastidirmi, come sempre.» replicò, sorridendo in modo ironico.
«Infastidirti è la cosa che mi riesce meglio, Stephanie, dovresti saperlo.» ribattei.
«Lo so, infatti. Ed evitarti è ciò che riesce meglio a me, quindi se vuoi scusarmi...»
Si alzò da terra e tentò di superarmi per tornare in palestra dalle altre,  ma la trattenni per un polso, costringendola a voltarsi e prestarmi attenzione. Non sapevo nemmeno perché lo stavo facendo, quella ragazza riusciva a farmi arrabbiare più di qualsiasi altra cosa, eppure non volevo che se ne andasse.
«Scusa, ok?» sbottai, «Probabilmente ti ho solo convinta che sono un idiota, non presentandomi qui l’altro giorno, anche se lo pensavi già, ma il fatto è che mi dispiace, e non voglio che tu ce l’abbia con me...»
Rallentai la presa sul suo polso, scendendo giù per la sua mano fino ad accarezzarne le dita. Mantenni lo sguardo fisso sul suo in attesa che si incrociassero, e quando lo fecero, la sua espressione era indecifrabile, con le sopracciglia leggermente aggrottate e la bocca socchiusa.
«Ce l’ho avuta con te per molto tempo Zack, e non ti è mai importato. Perché ora dovrebbe essere diverso?»
Già, bella domanda. Avrei saputo rispondere, era la stessa che rivolgevo a me stesso sempre più spesso, ultimamente.
Feci spallucce, riconoscendo che aveva in parte ragione. «Forse...» riflettei, «perché non c’è mai stato un vero motivo perché tu mi odiassi, oltre l’estrema e negativa reputazione che ti sei fatta su di me, mentre adesso.. beh, adesso c’è. Ti ho detto che ti avrei aiutata, che potevi fidarti di me, e invece non sono stato capace di mantenere la tua fiducia, se c’è mai stata... Mi sento un po’ in colpa.» ammisi, grattandomi la nuca, abbastanza imbarazzato. Non avevo mai avuto una conversazione più sincera con lei in più di dieci anni, e ora mi ritrovavo a confessarle i miei sensi di colpa, per qualcosa che ritenevo abbastanza stupido. Ma non lo era per lei, e volevo non lo fosse nemmeno per me.
Restai in silenzio per un po’, aspettando una qualsiasi reazione. Ma tutto quello che fece fu increspare le labbra e poi inspirare, inclinando la testa di lato, con gli occhi ancora incatenati ai miei.  «Ti senti in colpa per aver lasciato che dipingessi una parete da sola?» chiese, seppure nascondesse dietro quel velo di sarcasmo uno di delusione.
«Mi sento in colpa perché sei tornata ad odiarmi,» chiarii, «e so che questa volta non è perché sei terribilmente isterica e altezzosa... è per colpa mia. E mi dispiace, perché sentivo che stessi cominciando a fidarti di me.»
Lasciai la presa lieve sulla sua mano, permettendole di scegliere da sola a questo punto se abbassare l’ascia di guerra o puntarmela contro. Non distolsi gli occhi dai suoi, perché mi piaceva il contatto tra i nostri sguardi, ma fu lei a farlo. Non proferì parola comunque, continuando a tenere lo sguardo basso sulle sue scarpe, forse desiderando di pestarmi i piedi o darmi una ginocchiata. Infondo ne sarebbe stata più che capace.
Aspettai che mi desse una risposta per qualche secondo, fin quando non sentii di stare perdendo la pazienza, e così con uno sbuffo le presi il viso tra le mani, costringendola a guardarmi negli occhi. Almeno così, non avrebbe dubitato della mia sincerità.
«Mi dispiace, Stephanie.» ribadii, «E sono sincero, questa volta.»
Da un contatto così ravvicinato riuscivo perfettamente a cogliere le striature nocciola dei suoi occhi, che mi osservavano immobili, ma erano le sue labbra ad attirare la mia attenzione. Per la seconda volta un desiderio maniacale e affatto salutare di baciarla tornò a farmi visita, e mi spinse a mordermi un labbro, nella speranza di reprimere quella strana voglia che avevo di lei. Forse il fatto che la stessi provando di nuovo significava che l’avrei provata una terza volta, e almeno quella volta non potevo trattenermi. Volevo baciarla, per scoprire il genere di sensazioni che mi avrebbe provocato.
E lo feci. Mi avvicinai piano al suo viso tenendo fissi gli occhi sui suoi, e poi quando mi fui accertato che il pericolo di un pugno nello stomaco era stato scampato chiusi gli occhi e posai le labbra sulle sue. La baciai una prima volta, delicatamente, mentre la mia mano era risalita alla sua guancia in un gesto quasi automatico. Mi allontanai da lei per lanciarle un’occhiata, sorridendo quando la trovai ad occhi chiusi,con le labbra immobili, che sembravano tremare. Allora la baciai di nuovo, questa volta con più decisione, fin quando non fu lei a staccarsi da me.
Spalancò gli occhi, come avesse trattenuto il respiro per l’intero tempo in cui l’avevo baciata, e boccheggiò, senza dire niente. Risalì con una mano alla mia, ancora sulla sua guancia, la afferrò e la allontanò dal suo viso, lasciandola ricadere lungo il suo fianco. La guardai confuso, piuttosto deluso e inspiegabilmente affranto, da quel suo rifiuto.
«Non farlo mai più, Zack.»
Se il suo gesto mi rese perplesso quelle parole aggravarono la situazione. Ma non dissi parola, limitandomi ad abbassare lo sguardo mentre lei si allontanava, e la mia bocca bramava ancora un contatto che non avrebbe mai ottenuto.
 
«Tu e Martin siete amici?»
Non lasciai che il mio sguardo incontrasse quello di Veronica, seduta accanto a me sul divano, mantenendolo fisso sullo schermo della tv.
«Perché?» la sentii domandare, stranamente tranquilla.
Trovai che fosse una pessima idea dirle che ero presente quando gli era finita addosso ed ero rimasta in un certo modo a spiarli, quindi la mia risposta fu molto più semplice. «Quando all’intervallo mi hai raggiunta mi sembrava stessi parlando con lui.»
«Gli sono solo finita addosso coi libri, questo
non vuol dire che siamo amici.» commentò.
Storsi le labbra, annuendo. «Lo dico solo perché in genere non è così aperto, e visto che tu sembri elogiarlo così tanto...»
Mi interruppe, prendendo un’altra cucchiaiata di gelato. «Invece è simpatico. Se non avessi gli occhi accecati da Zack, te ne accorgeresti.»
Mi voltai verso di lei, che teneva gli occhi fissi sul televisore, e le labbra strette attorno al cucchiaio stracolmo di gelato alla fragola.
«Sì, forse è così.», e presi un altro po’ di gelato. 


Eccomi tornata :) 
Ma ora parliamo del capitolo. 
Il ritorno di Kyle! ahahah poi c'è la scenata tra i corridoi, dove Stephanie ribadisce che non le importa, ma forse non starà dando un po' troppo peso all'errore di Zack?
Adoro Veronica. La adoro, in tutto e per tutto. E' la mia preferita <3 ahah
Aiuto, Zack comincia a mostrare i suoi sentimenti? :o quali saranno gli esiti di quel bacio improvviso? :o 
E... Emma non starà diventando gelosa? 
Ok, finisco di sentirmi un'idiota. 
A presto!

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***



Quando quella mattina mi svegliai, sentivo di essere felice. Ultimamente mi succedeva spesso, svegliarmi in preda all’entusiasmo più assoluto. Non conoscevo il vero motivo di quell’euforia sconosciuta e quasi mai provata prima, ma ero quasi certo la presenza di Emma c’entrasse parecchio.
Mi capitava, in quei giorni, di svegliarmi e ostentare un sorriso, perché sapevo che anche quella mattina l’avrei rivista. E lei non mi avrebbe ignorato e passato oltre come era solita fare, ma mi avrebbe notato tra la folla, e mi avrebbe sorriso. Nei migliori dei casi, si sarebbe fatta spazio tra l’accalcarsi degli studenti e mi avrebbe raggiunto, solo per baciarmi le guance. E per chiedermi come stessi, forse per l’ennesima mattina di seguito, e quando sarebbe stato il nostro prossimo pomeriggio di studio. E io le avrei sorriso e neanche un piccolissimo velo di tristezza avrebbe coperto il mio volto, perché non sembravo capace di fare altro con lei, oltre sorridere.
Sorridere perché finalmente si era accorta di me, e forse cominciava ad affezionarsi. O forse ero solo io, a stare affezionandomi anche troppo. Sapevo quanto Emma fosse amichevole e estroversa di natura, illudermi che tenesse quell’atteggiamento soltanto con me era dannatamente sbagliato, ma non potevo far altro che pensarlo. Forse perché ero troppo felice per rendermi conto di stare costruendo degli inutili castelli di sabbia, che avrebbe potuto facilmente distruggere con un solo soffio, e non volevo credere che quella gioia e quel senso di leggerezza che aspettavo da così tanto tempo avrebbero potuto svanire, un giorno o l’altro.
Ero felice e mi stavo semplicemente godendo le sue attenzioni, evitando di pensare a quando sarebbero cessate.
«Datti una fottuta mossa, Martin» sbottò mio fratello, fuori dalla mia stanza. Non si fece scrupoli ad entrare, senza curarsi di quali condizioni avrei potuto trovarmi, al suo ingresso.
«Potevo essere nudo, deficiente» lo rimproverai.
«Siamo gemelli, Martin. Stessa faccia, stesso corpo, stesso sesso... hai presente?»
Roteai gli occhi, sospirando annoiato. «Fortunatamente, non abbiamo lo stesso cervello.» ribattei.
«Ma gli stessi vestiti, a quanto pare. Quella non è la mia camicia?» indagò circospetto, afferrando il tessuto in questione. Strizzò gli occhi, imitando uno sguardo furioso. «Quante volte ti ho detto di non prendere i miei vestiti?»
Abbassai lo sguardo colpevole, senza riuscire a replicare alla sua imprecazione. «Scusa, pensavo non la mettessi più...» fu la mia giustificazione.
Cominciai a sbottonare la camicia per restituirgliela, ma lui mi bloccò.
«Non fa niente, tienila. E poi siamo in ritardo, non c’è tempo per cambiarti.»
Incurvai un sopracciglio, scettico. «Da quando ti interessa essere puntuale a scuola?»
«Sbrigati e basta, Martin.» mi liquidò, dandomi le spalle e scomparendo dalla mia visuale.
Restai a fissare la porta appena chiusa per qualche secondo, chiedendomi silenziosamente il motivo di quell’atteggiamento ansioso. Infine feci spallucce, non troverò mai una ragione alle stranezze di Zack.
Presi lo zaino e mi apprestai a scendere le scale, notando dalla finestra Zack già in auto, che picchiettava nervoso le dita sul volante, e suonava il clacson di tanto in tanto.
«Martin, tesoro» mi richiamò mia madre, proprio mentre stavo per mettere piede fuori casa.
Le sorrisi. «Scusa mamma ma non ho tempo stamattina; Zack è parecchio irascibile, se non l’hai notato, e rischio di rimanere a piedi, se non mi sbrigo» mi scusai pronto per uscire di casa, ma lei mi trattenne comunque.
«Vi voglio entrambi a cena qui, stasera.» disse veloce, per paura forse che perdessi una sola parola. «E’ invitata anche Stephanie, quindi comunicaglielo tu.» chiarificò, «Buona giornata amore». Mi schioccò un leggero e veloce bacio sulla guancia, per poi spingermi lei stessa fuori dalla porta, mentre il suono del clacson si propagava per il vicinato per la quinta volta.
Aggrottai la fronte. Cosa c’entrava Stephanie nella nostra cena di famiglia?
«Giuro che se non sali in auto adesso ti lascio a piedi, Martin!»
Mi voltai omicida verso l’espressione scocciata di mio fratello e mi costrinsi a lasciar perdere, salendo in auto.
 
La scuola sembrava essere invasa da un improvviso moto di allegria, perché dovunque mi voltassi tutti sorridevano, e parlavano tra loro animatamente. Capii la ragione di quell’euforia solo quando Stephanie mi si presentò davanti, portando uno dei volantini del ballo proprio sotto al mio naso. Sorrideva, e quando spesi qualche momento per guardarmi attorno, notai che anche le sue tre collaboratrici ne avevano un bel mucchio tra le braccia, e li consegnavano a tutti gli studenti.
«Ta- daan! Ti piace? Li ha fatti Tim, il tizio di giornalismo.»
Allontanai di poco il viso per afferrare il volantino, e darci un’occhiata. «Ballo a tema?» domandai scettico, osservando la scritta a caratteri ben visibili a lato del foglio.
«Sì!» trillò contenta, «Il tema è L’ultima notte, perché sarà la nostra ultima notte insieme, prima degli esami. E anche se il tema del ballo è segreto, a te posso dirlo.»
Alzai lo sguardo, rivolgendole un sorriso. «E’ carino, come tema.»
«Grazie!»
Zack ci passò davanti, sfiorando minimamente il braccio di Stephanie. Non si voltò, né accennò ad un saluto. Continuò per la sua strada, fin quando non lo vidi sorridere alla vista di una biondina che si sbracciava per attirare la sua attenzione. La raggiunse e questa lo abbracciò, e quando mi voltai verso Stephanie, la scoprii a fissarlo con sguardo vuoto e labbra serrate, impassibile.
«Non prendertela, è strano da stamattina.» la confortai.
Mi sembrava ci fosse rimasta abbastanza male, quando le era passato vicino senza salutarla, invece scosse la testa e abbozzò un sorriso. «E’ fatto così, sono abituata ai suoi sbalzi d’umore ormai» cercò di rassicurarmi, con un’alzata di spalle.
Eppure il suo tono non era affatto sincero, ed ero riuscito a cogliere bene la nota di fastidio nei suoi occhi quando le aveva dato le spalle, andando ad abbracciare poi quella ragazza bionda. Negli ultimi giorni si erano avvicinati parecchio, lo avevo capito quella sera in giardino, quand’erano abbracciati, ed era lecito lei si sentisse turbata dagli strani atteggiamenti immotivati di Zack.
«Scusa ma non lavorate insieme?» domandai poi, ricordando la partecipazione di mio fratello al progetto del ballo scolastico. Strano non fosse con le altre a distribuire volantini, e avesse ignorato l’organizzatrice dell’evento.
«Dev’essersi annoiato presto, non si è presentato già il secondo giorno» fu la sua risposta.
«Che?! Non può fare quello che gli pare, ha un compito!» sbottai. Stephanie rimase in silenzio limitandosi a sospirare rassegnata, così mi calmai. «Vuoi che gli parli?» suggerii.
«No» scosse la testa, «non ce n’è bisogno, possiamo fare a meno di lui»
«Sicura?»
«Certo, sta’ tranquillo.» sorrise, «Adesso continuo col mio volantinaggio, ci vediamo più tardi»
Schioccò un bacio sulla mia guancia e si allontanò, bloccando una coppietta dell’ultimo anno. Io mi addentrai nell’edificio scolastico, sentendo il suono della prima campanella propagarsi per il cortile.
Mi recai all’armadietto per munirmi dei  libri della prima lezione, storia, ma quando aprii lo sportello un biglietto ne cadde fuori. Lo osservai confuso e presi a guardarmi intorno, per capire chi fosse stato ad inserirlo nel mio armadietto. Ma tutti sembravano tranquilli e soprattutto non mi davano alcun conto, quindi cauto lo raccolsi.
Ci vediamo domani pomeriggio per un gelato? – Emma”
E non potei fare a meno di sorridere.
 
«Quindi tu suggerisci un rosso, al posto del nero?» continuò a blaterare Kelly, per nulla intenzionata a porre la parola fine attorno a quello stupido argomento “ballo scolastico”.
«Certo, è più sexy.» ammiccò l’altra, schioccando un’occhiata nella mia direzione, facendo inevitabilmente ridacchiare l’amica.
Roteai gli occhi e sbuffai, annoiato da quelle chiacchiere. Da quando quei dannati volantini stavano facendo il giro della scuola non si parlava d’altro, e se  Kelly non avesse chiuso la sua boccaccia, mi sarei volentieri alzato a tappargliela con l’insalata che aveva nel piatto.
«Credo la Smith sia aspettando il tuo invito, Payne» ridacchiò Cody, infilandosi in bocca una forchettata di pasta.
«Oh ti prego non ti ci mettere anche tu, voglio solo godermi la mia pausa pranzo.» mi lamentai, imitandolo.
Ero davvero stanco di tutti quei mormorii. Era come se le sole voci dei miei compagni di istituto mi infastidissero a tal punto da volermi tappare le orecchie, ed era forse quello il motivo per il quale avevo ascoltato sì e no il decimo di quello che le persone mi avevano detto in mattinata. Avrei voluto le idiozie di Kelly & co. rientrassero nei nove decimi restanti, ma la sua vocina stridula riusciva a superare qualsiasi barriera i miei timpani avessero costruito.
«Quindi non ci andrai? Al ballo, dico» continuò  imperterrito Cody, che non sembrava affatto intimorito dalle mie occhiatacce.
Sospirai, socchiudendo gli occhi per rilassarmi. «Anche se non ti ho esplicitamente ordinato di non rompere i coglioni, Cody, non vuol dire che voglia che tu lo faccia.» commentai, irato.
«Lascialo stare Cody, Zack deve avere il ciclo stamattina» intervenne Matt, che scatenò le risate dell’intero gruppo.
«Beh non è un buon motivo per ignorare Kelly Smith, è una scopata assicurata quella»
«Scopatela, se ci tieni così tanto e sei così sicuro della sua affabilità, allora» fu il mio borbottio acido.
«Lo faremmo, se non fosse così ossessionata da te» ripiegò Louis.
«In ogni caso a me non interessa, né di lei né di questo ballo del cazzo»
Dovevo essere sembrato furioso, perché i miei compagni tacquero, per una buona e prima volta. Ma la pace non durò così a lungo, perché «Sarà diventato gay» commentò Tyler, scatenando ancora le risate del resto della squadra.
Sbuffai stanco e infastidito, decidendo finalmente di abbandonare quel tavolo. «Io vado a prendermi delle patatine; dite tutto quello che volete adesso, perché se quando tornerò sentirò ancora soltanto una battutina irritante sul mio conto vi darò un pugno ciascuno.»
E così mi alzai da quel tavolo con lo sguardo dei miei amici ancora puntato addosso, diretto verso il banco delle vivande. Mentre aspettavo arrivasse il mio turno ne approfittai per guardarmi attorno, e fu lo sguardo di Emma Desmore ad attirarmi, che a contatto col mio, fu sviato. Sorrisi, riconoscendo quel gesto. Conoscevo la sua cotta per me da circa un anno, e non le avevo mai prestato attenzione più di qualche occhiata distratta, capaci comunque di farle credere che volessi chiederle di sposarmi. Avevo scoperto negli ultimi giorni, e non di certo per bocca di mio fratello, che la piccola Desmore gli aveva chiesto aiuto in alcune ripetizioni, e finalmente il dilemma per il quale Emma Desmore si trovasse a casa mia alle 20 di sera era stato svelato.
Non che mi importasse, comunque, era semplice curiosità. Ma ero certo che fosse quello il motivo dell’insufficienza di Martin in quel periodo, come fosse costantemente tra le nuvole: anche in quel momento, la stava fissando morbosamente.
Avanzai con lo sguardo perso ancora sulla sala fin quando qualcosa non mi venne addosso. E quando alzai lo sguardo pronto a sbraitare contro chiunque avesse avuto l’indecenza di camminare distrattamente e rovesciarmi addosso il suo pranzo, incontrai gli occhi di Stephanie. E fu strano, perché tra tutte le parole con cui avrei potuto aggredirla, volevo solo dirle un ciao.
Non avevo dimenticato cos’era successo due giorni prima. Non avevo idea di cosa mi avesse spinto a baciarla quella sera, ma avrei tanto voluto non averlo fatto, perché adesso tutto quello che sentivo era una gran confusione. Mi ero sentito debole, quando avevo avuto il bisogno di far scontrare le mie labbra con le sue; entusiasta, quando queste si erano mosse contro la sua bocca; turbato, quando era stata lei ad allontanarmi; a disagio, quando avevo incontrato il suo sguardo indecifrabile; ed infine in imbarazzo, quando mi aveva lasciato lì da solo come un idiota. Avevo provato rabbia, quando quella mattina l’avevo vista sorridere a Martin come nulla fosse, e quello che provavo adesso era un sottile e inspiegabile senso di nudità, davanti ai suoi occhi profondi.
Avrei potuto prenderle il viso tra le mani e baciarla anche allora, e la sola consapevolezza di averlo pensato aumentò il grado di rabbia nelle mie vene.
«Attenta a dove metti i piedi, Gilbert!» sbottai acido. «Guarda che hai fatto!» continuai, togliendo una foglia di insalata dalla mia maglietta.
«M-mi dispiace Zack, io non ti ho visto e...» balbettò, senza davvero sapere cosa dire. «Ti aiuto» si offrì poi.
Allungò una mano verso il mio petto ma la scacciai bruscamente, sentendo la pelle scaldarsi sotto un suo probabile tocco. «Hai già fatto abbastanza.» la ripresi, sprezzante.
Così ritirò il suo braccio, e la solita nota di disgusto e disprezzo nei miei confronti venne a crearsi nei suoi occhi. «Cercavo solo di aiutarti.» si giustificò, con lo stesso sguardo severo che le avevo visto rivolgermi spesso.
«Potresti aiutarmi, se evitassi di mettere i piedi a casaccio e controllassi chi ti sta davanti» sputai a quel punto, accennando ad un sorriso sarcastico.
Mi pentivo di ogni mia parola. Ma non potevo mostrarmi insicuro e spoglio davanti a lei, non dopo avermi rifiutato. Mi avrebbe deriso, ne ero sicuro, e non potevo permetterle di umiliarmi maggiormente. Dovevo mostrarmi forte, indifferente. Dovevo farle capire che il suo rifiuto non mi aveva toccato affatto, e che le cose sarebbero tornate esattamente come stavano all’inizio, avrei riportato il nostro rapporto su delle fondamenta basate sull’odio reciproco.
Puntò lo sguardo nel mio, carico d’odio. «Sai che ti dico? Prenditi anche il dessert!»
E senza che potessi fermarla del gelato alla nocciola mi finì sulla faccia, mentre sentivo le sue dita spalmarlo per bene su tutto il viso. Spalancai occhi e bocca incredulo, con le risate dei commensali che si amplificavano a sottofondo.
«Fottiti, Zack.»
Non uscì altro dalla sua bocca, se non un grugnito irritato.
Tra la folla intravidi l’espressione sconcertata di Martin, che si alzò e si mise a correre, per raggiungere probabilmente Stephanie.
Io mi passai la mano pesante sulla faccia, lasciando cadere del gelato per terra.
«Stronza.»
 
Continuai a picchiettare con lo stivaletto sulla moquette di casa Payne, alternando sospiri e sbuffi.
«Almeno ti hanno detto perché vogliono che ci sia anch’io?» domandai a Martin, curiosa e un po’ infastidita.
Non mi dispiaceva cenare con i Payne, e mi lusingava che Sophie avesse insistito per far sì che io partecipassi alla loro cena, ma ero piuttosto agitata e tesa. Avevo un’assurda paura che Zack varcasse la porta della sua casa e, trovandomi seduta sul suo divano, nel suo salotto, facesse una scenata per cacciarmi via. D’altronde ne aveva tutto il diritto e nemmeno io ero su di giri di passare un’intera serata con lui, ancora eccessivamente arrabbiata per l’arroganza con cui mi aveva aggredita quella mattina a mensa.
«Te lo ripeto per l’ultima volta Stephie, non ne so niente.» sbuffò lui esasperato, con lo sguardo ancora fisso sul televisore, «Ma tranquilla, solo perché hai spalmato del gelato in faccia ad uno dei Payne, non è detto che tutti ti odino.» ridacchiò.
Mi ritrovai a riflettere. Zack mi odiava? Eravamo davvero tornati ad odiarci, distruggendo quell’ accenno di sincerità e fiducia che si stava creando tra noi? Probabilmente sì, non avevo mai sentito più disprezzo nella sua voce che quella mattina.
Ed io? Io lo odiavo?
Lo avevo odiato, quando dopo l’incidente a mensa non aveva fatto altro che lanciarmi sguardi carichi di odio.
Lo avevo odiato, quando dopo essergli finita accidentalmente contro aveva preso a trattarmi male, quasi fossi un giocattolo su cui sfogarsi a seconda dell’umore.
Lo avevo odiato, quando quella mattina mi ero passato accanto premurandosi di evitarmi, e lasciando poi che quell’ochetta bionda gli mettesse le mani addosso.
Lo avevo odiato, quando non si era presentato in palestra il secondo giorno, dopo avermi dato la sua parola che ci sarebbe stato.
Ma lo odiavo per avermi baciata?
No, non lo odiavo per quello. Ero soltanto confusa. E non confusa non solo perché non avevo la minima idea di quale forza oscura avesse preso il controllo della sua mente in quel momento e l’avesse spinto a baciarmi, ma confusa perché avevo lottato contro ogni cellula del mio corpo, per non ricambiare quel bacio.
«Sei stata un mito comunque, oggi. Non vedevo Zack così scandalizzato da quando mamma rimpicciolì la sua maglietta preferita in lavatrice.»
Mi voltai seria verso Martin, che rideva senza alcuno scrupolo. «Ho attirato l’attenzione dell’intero corpo studentesco in una scenata all’ora di pranzo. Cosa c’è di mitico in questo?» ribattei. Non potevo negare di essermi sentita un po’ soddisfatta nel vedere la faccia di Zack ricoperta di gelato e la sua maglia sporca del mio pranzo, ma era anche vero che me n’ero pentita subito dopo.
«La sua faccia, Stephanie. La sua faccia era mitica, avresti dovuto vederla.»
Alzai gli occhi al cielo esasperata, quando il solo scattare della serratura mi caricò d’ansia. E l’impatto con i suoi occhi, quando entrò, fu agghiacciante. Non c’era traccia di simpatia, né di premura, affetto, o perdono nei miei confronti. Tutto quello che riuscivo a vedere era odio, e rancore. Così tanto odio, che avrei voluto piangere.
«Oh bene Zack, sei tornato. Possiamo andare a tavola, adesso»
Sophie sbucò fuori dalla cucina, accogliendo suo figlio con un gran sorriso. Lui non la salutò nemmeno, sforzandosi di annuire e recarsi in sala da pranzo, come facemmo anche io e Martin.
La tensione lì era palpabile. Il mio posto di fronte a Zack mi garantiva occhiatacce ripugnanti e sorrisetti acidi a non finire, e la cena si svolse nel più totale silenzio, fin quando non fu il signor Payne a rompere il ghiaccio.
«Ragazzi, io e vostra madre avremmo un favore da chiedervi» annunciò con la mano stretta a quella di sua moglie, attirando l’attenzione mia e di Martin. E persino quella di Zack, che per l’occasione ricacciò il suo iPhone in tasca.
Robert le lasciò la parola e Sophie sorrise, grata di avere i riflettori puntati addosso. «Come sapete tra meno di mese io e vostro padre ci risposiamo, per il nostro 20esimo anniversario» ci ricordò commossa, scambiando una veloce occhiata d’intesa col marito, «e c’è qualcosa che mi renderebbe più felice di tutte le altre. Ma dovete essere voi a decidere, ragazzi»
Mentre Martin aggrottò la fronte perplesso Zack rimase inerme, ad aspettare che sua madre riprendesse a parlare. Gli rivolsi un’occhiataccia, giusto per evidenziare la sua insensibilità.
Sophie sospirò, quasi avesse sprecato di già il fiato in corpo. E sorrise esageratamente, mentre pronunciava le seguenti parole: «Vorreste accompagnarmi all’altare? Insieme?»
Martin spalancò gli occhi, sorpreso. «Certo che sì, mamma!» esclamò, per poi alzarsi ed abbracciarla. Sophie sembrava molto più piccola tra le sue braccia, e trovai molto dolce che avesse gli occhi velati da lacrime.
Ma anche Zack ebbe una reazione. Difatti assunse un’espressione sorpresa anche lui, e finalmente sorrise, andando a raggiungere sua madre e suo fratello in un abbraccio a tre. «Certo che lo faremo.» le assicurò.
Le lacrime che adesso Sophie versava mi parvero senza dubbio aumentate, e anche Robert sorrise, orgoglioso.
Sorrisi anch’io, lasciandomi coinvolgere dalla dolcezza della scena.
«Comunque non ho finito» riprese Sophie, liberandosi temporaneamente dell’abbraccio dei suoi figli. «Stephanie» si rivolse a me, «c’è un motivo per il quale ho voluto che ci fossi anche tu a questa cena. Beh puoi cenare qui quando vuoi ovviamente, ormai è come se facessi parte della famiglia...» mi sorrise e lo feci anch’io, incrociando il suo sguardo e quello complice di Martin, «ma se sei qui è perché ho qualcosa da chiederti, e tengo moltissimo al tuo consenso...» fece una pausa. Inspirò, senza abbandonare il sorriso. «Stephanie, vuoi essere la mia damigella d’onore?»
A quella proposta spalancai gli occhi, incredula. Davvero me l’aveva chiesto? Sul serio mi riteneva così parte integrante della famiglia da chiedermi di essere la damigella d’onore alle sue nozze?
Non ebbi dubbi sull’accettare così mi alzai, correndo per abbracciarla, sentendo le lacrime pungere agli occhi.
«Oh beh suppongo sia un sì» scherzò lei.
Risi accompagnando Robert e Martin, poi fu l’uomo a parlare.
«Siete speciali, ragazzi. Ognuno di voi lo è. Ed è per questo che vogliamo che tutti e tre vi sentiate parte di questo matrimonio, per sentirvi uniti come sentiamo di esserlo noi.» fece, posando un abbraccio attorno alle spalle della moglie.
Nell’udire la parola uniti alzai lo sguardo verso Zack, sorprendendolo a guardarmi. Noi non eravamo uniti, e probabilmente non lo saremmo mai stati, viste le differenze inconciliabili che sembravano allontanarci.
Abbassai lo sguardo, incapace di sostenere il suo. Mi sentivo in colpa, terribilmente dispiaciuta.
«Congratulazioni mamma, papà» lo sentii dire, abbracciando uno alla volta i suoi genitori. «Sono davvero felice di questo matrimonio, e spero riusciate a trasmettere il vostro senso di unità anche a noi.»
Di nuovo il suo sguardo ricadde su di me. E allora sentii che era giunto il momento di abbassare le armi e sventolare bandiera bianca: dovevo parlargli.
«Zack?» lo ripresi allora, una volta sistemati in salotto a consumare il dolce, afferrando il suo polso. Lui si voltò, impassibile. «Possiamo parlare?» gli proposi, decisa a mettere fine a quella lite da ragazzini.
Lui mi osservò per un momento e poi «Ok» acconsentì, liberandosi della mia presa.
Andò verso le scale e mi fece cenno di seguirlo, probabilmente per condurmi nella sua stanza. Io fui incerta se salire con lui o no, un po’ intimorita. Scambiai un’occhiata preoccupata con Martin che mi suggerì con lo sguardo di andare, e così inspirai. E salii.
 
La stanza di Zack non aveva nulla a che vedere con quella del suo gemello. Mentre nella seconda regnava pace e ordine, la stanza di Zack era ciò di più confuso e disordinato che avessi mai visto. E dopo essermi guardata attorno, determinai che quello spazio capace di mettermi così a disagio, rispecchiava appieno la sua personalità.
Lui si chiuse la porta alle spalle e si sedette sul letto, fissandomi in attesa. «Allora?» sbottò ad un certo punto, notando il mio silenzio catatonico, «Se volevi solo perlustrare la mia stanza...»
«No, Zack.» lo bloccai, esasperata, «Voglio parlarti.»
«Ti ascolto.»
Presi un lungo respiro, cercando di donarmi un contegno. Per prima cosa sviai lo sguardo, impendendo così ai suoi occhi azzurri di intimorirmi o turbarmi. «Mi dispiace» bisbigliai poi, andando a sedermi accanto a lui «credo di aver esagerato, oggi, a mensa... è stato istintivo, ed ero arrabbiata, non volevo buttarti addosso il gelato.»
Sospirai, incredula di stare davvero porgendo delle scuse al ragazzo più arrogante e irritante del pianeta. Poi alzai gli occhi per notare una qualche reazione, e lo trovai a fissare la parete di fronte a sé, assorto. «Accetto le tue scuse.» soffiò,  «Ora possiamo scendere?»
Si alzò per uscire via da lì, ma quando lo feci io lo afferrai per un polso, impedendogli di andar via. «No che non possiamo scendere! Non ti sei ancora scusato!» sbottai. Assolutamente no, non l’avrei lasciato andare prima di aver sentito delle scuse sentite dalla sua bocca.
«Non ho niente per cui scusarmi, Stephanie.» replicò, tranquillo.
«Ah no? Quindi l’avermi trattata malissimo a mensa non conta, per te?»
Sorrise, in un ghigno. «Come pensavi ti avrei trattata, dopo che mi hai gettato addosso il pranzo? Oh, forse credevi ti avrei anche ringraziata? Non mi scuserò per averti urlato addosso per una buona ragione, Stephanie. E poi mi sembra che tu ti sia vendicata, facendomi fare una figura di merda davanti a tutti. Siamo pari.»
«Non ti ho gettato addosso il pranzo di proposito, Zack! Te l’ho spiegato, non ti ho visto e ti sono finita addosso. Ma tu ne hai fatto una scenata, agitandoti come una stupida ragazzina!»
«La scenata l’hai fatta tu non io, decorandomi con l’intero buffet.»
Sbuffai, irritata. «E cosa mi dici del fatto che mi hai completamente ignorata? E non provare a dire di non averlo fatto apposta, perché sai anche tu che non è così.»
«Ti ho sempre trattata in questo modo, Stephanie. E tu mi hai sempre catalogato come lo stronzo opportunista che pensa solo a se stesso. E’ così che funzionano le cose tra noi.»
«E’ proprio questo che non va, Zack! Sono stanca di doverti odiare e di essere odiata da te, non mi sta più bene.»
Mi bloccai, sentendo la gola secca. Capii di essermi spinta troppo oltre e aver dato troppa voce ai miei sentimenti, quando gli occhi di Zack si fermarono su di me, e una piccola nota di dispiacere li attraversò.
«Beh la tua non è stata proprio una bella mossa, per instaurare un’amicizia.» ribatté.
«Scusami tanto allora, d’ora in poi farò uso solo della tua tecnica. Ignorerò qualsiasi essere vivente che tenta di avvicinarsi a me, e la mia arma migliore sarà l’indifferenza!»
«Noi non ci siamo mai avvicinati, Stephanie.»
«Non è vero!» esplosi, alzando la voce di un’ottava. I suoi occhi guizzarono sul mio viso, senza fare una piega. Feci una pausa, per calmarmi. «Noi ci siamo avvicinati molto, nell’ultimo periodo...» ripresi con voce più bassa, «Tu mi sei stato vicino, e mi hai aiutata a risolvere quel dramma con mio padre. Abbiamo parlato, riso, scherzato e persino giocato insieme Zack, non puoi venirmi a dire che non è cambiato niente.»
Sembrai averlo colpito o perlomeno spinto a riflettere, perché non proferì parola. «Stavamo diventando amici, Zack. Poi tu hai ricominciato a ignorarmi e trattarmi da sfigata come al solito... dopo quel bacio.» Il solo averlo menzionato catturò la sua attenzione, e i suoi occhi tornarono a guardarmi, come dispersi. «E’ per quello, vero? Tu non hai ricominciato a trattarmi male perché ti era semplicemente naturale, tu l’hai fatto perché eri arrabbiato con me. Eri arrabbiato e lo sei ancora, perché io ti ho rifiutato.»
«Perché avrebbe dovuto importarmi?» sbottò, infastidito dalle mie insinuazioni.
«Oh andiamo Zack sii sincero, per una buona volta!» replicai io, «E’ da quando ti ho spinto via quella sera, che continui a portarmi rancore! Tutto questo perché non sopporti che qualcuno possa contraddirti!»
«Piantala, cazzo!» esclamò lui, adesso più arrabbiato del solito.
Mi venne vicino e puntò gli occhi nei miei, ma non fui intimorita. Sentivo di essere in vantaggio in qualche modo, di stare vincendo quella stramba battaglia di opinioni. Per cui non ritirai lo sguardo, neppure quando sentii il suo fiato sul viso.
«Sì, sono arrabbiato. Ma non sono arrabbiato con te per avermi respinto, sono arrabbiato con me stesso perché mi sono lasciato prendere dall’istinto, e non avrei dovuto farlo!»
Restai a fissarlo, mentre la rabbia nei suoi occhi svaniva e abbassava lo sguardo, voltandosi poi del tutto.
Presi un lungo respiro. «Quindi quel bacio...» azzardai, ma fui bruscamente interrotta.
«Quel bacio non ha significato niente, Stephanie.» fu la sua ripresa.
Non alzai gli occhi su di lui, incapace di sostenere il suo sguardo. Tutto quello che feci fu deglutire a vuoto, trattenendo la voglia di piangere o prenderlo a pugni.
Perché lo aveva fatto? Perché doveva sempre essere così allusivo e meschino? Stronzo, solo un inutile e fottuto stronzo.
Non risposi alle sue parole né gli rivolsi lo sguardo, limitandomi a dargli le spalle.
«Adesso possiamo scendere.»
E non aspettai che lui mi rispondesse o mi seguisse, scesi le scale e me andai, maledicendomi quando la prima lacrima mi solcò la guancia.



Capitolo un po' lunghetto, c'è da ammetterlo. Ma mi sono divertita un mondo a scriverlo, sopratutto la scena a mensa ahahah
Ricapitolando: Zack sembra davvero turbato da quello che è successo in palestra, e non credo ne riuscirà a parlare o lo supererà così facilmente. D'altronde da perfetto bambino qual'è ha deciso di ignorare Stephanie e riprendere a trattarla male, nonostante sia sempre più confuso.
Stephanie vuole avvicinarsi a lui, vuole essergli amica, ma Zack non glielo permette, e lei non sopporta questo rapporto di odio. 
Martin... beh lui è al settimo cielo. ahah
Emma è stata esclusa in questo capitolo, ma era già abbastanza lungo... La ritroverete nel prossimo, con una piccola sorpresa! :)
Ora mi dileguo, ma prima vi lascio un piccolo anticipo del prossimo capitolo:

«Ma è impossibile!» sbottò lei, quasi arrabbiata. «E’ impossibile che tu non abbia paura di niente, non sei mica Superman!»
«Superman temeva la criptonite, in realtà... Lo indeboliva»

Il prossimo capitolo non dovrebbe arrivare così tardi, è già pronto :)
per chiunque volesse contattarmi comunque, per delle informazioni sulla storia, o anche solo per conoscermi, su twitter sono @mixingbrat
A
 presto! :)

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***



«La situazione è questa: non so chi invitare al ballo. Prima pensavo di andarci con Hannah, visto che è molto simpatica e pure carina, ma Cassie è superiore, amico. Voglio dire, ha delle tette che mi ci perderei...»
Aggrottai la fronte e alzai lo sguardo verso Matt, cogliendolo imbambolato a fissare chissà cosa. O immaginarselo, visto l’ultimo commento sulla cara e dolce Cassie Gibson, conosciuta per ben altre doti oltre quelle da cheerleader.
«E quale sarebbe il mio ruolo in questo discorso?» gli chiesi allora indifferente, riprendendo ad allacciarmi le scarpe.
«Devi darmi un consiglio!» fu il suo responso indignato, «Devi aiutarmi a capire con chi voglio andare davvero al ballo.»
«Ma non ci sto mica io nella tua testa, come diamine faccio a capirlo?!»
«Ma mi conosci più di qualsiasi altro! Ti prego Zack, fai un tentativo...»
Incurvai le sopracciglia, alla vista del suo falso sorriso innocente. E sbuffai, alquanto stranito da quella situazione. Perché dovevo essere io, a decidere la sua compagna per il ballo? Non ero uno psicologo, né sua madre, ero solo il suo compagno di squadra, e allora perché mi ritrovavo a fargli da analista ogni volta? Come fossi la persona adatta, poi. Ero riuscito a mandare a monte tutto quello che in quei pochi giorni si era venuto a costruire tra me e Stephanie solo per orgoglio, e nonostante pensassi che non mi sarebbe importato della sua indifferenza, ora rimpiangevo di essere stato così rude con lei la scorsa sera. Avrei potuto dirle che mi piaceva, che stessimo diventando amici, e mi dispiaceva, di averla delusa, ma soprattutto che volevo starle vicino, per quanto il solo pensarlo mi apparisse sconcertante, e non volevo che mi odiasse. Quello che avevo ottenuto, era stato l’esatto contrario: Stephanie non aveva incrociato il suo sguardo col mio neppure una volta dopo il nostro litigio o quella mattina, e dubitavo lo avrebbe fatto, se non per ricordarmi quanto fossi dannatamente idiota.
«Allora, ci stai pensando?»
Sbuffai esasperato, alzandomi finalmente dalla panca sulla quale Matt mi aveva trattenuto solo per raccontarmi di quelli che per lui erano dubbi esistenziali. Era strano come quella scena si ripetesse in continuazione, ogni volta che all’ora di educazione fisica mi rinchiudevo nello spogliatoio a cambiarmi. E per quanto ogni volta sperassi che Matt mi risparmiasse le sue inutili lagne, ogni tentativo di fuggire dalla sua parlantina era soltanto inutile.
«Non lo so, Matt! Non posso essere io a deciderlo, magari poi la serata va una merda ed è colpa mia.»
«Sarà comunque una merda, se non mi sbrigo ad invitare una delle due. Se provassi a descrivertele?»
Aggrottai la fronte. «Come vuoi.» sospirai infine, portandomi le braccia al petto e appoggiandomi allo stipite della parete.
«Allora» iniziò lui, «Hannah Scrubs, hai presente?»
«No, altrimenti non ti avrei chiesto di descrivermela.» replicai, ovvio e un po’ scocciato.
«Giusto... Beh comunque è dell’ultimo anno come noi, e frequenta i miei stessi corsi di storia, arte e musica, e...»
«Tu fai un corso di musica?!» lo interruppi, abbastanza stupito e divertito.
«Sì, ma adesso non è importante!» sviò lui, zittendomi con un gesto secco della mano, «Comunque è un po’ bassina, ha i capelli neri, non troppo lunghi, e gli occhi di una sfumatura strana... non riesco mai a capire se sono azzurri o verdi, in realtà. Però ha una voce dolcissima, canta, ed ha anche un sorriso bellissimo.
Ci ho parlato due o tre volte, giusto per farmi dire a quale pagina stesse leggendo il professore... Non credo di aver fatto una gran bella figura, ma credo mi conosca, infondo nessuno qui non conosce la squadra di basket, e poi mi sorride quasi sempre.
Oh e ha anche delle mani fantastiche, sono veramente curate, e...»
«Invita lei.»
Matt non sembrò aver percepito le mie parole all’inizio, ma quando si accorse che avevo detto qualcosa bloccò il suo monologo, voltandosi dalla mia parte con aria confusa. «Tu dici?» chiese, incerto.
«Sì. Da come me ne hai parlato sembri sbavarle addosso, ed è la prima volta che fai un commento sulle mani di una ragazza, quindi direi che questa Hannah, può andare bene. Poi il mio parere ce l’hai voluto tu, eh...»
«E Cassie?»
«Cassie potrebbe lasciarti a metà serata per farsi una scopata con qualcuno che non sei tu.»
Il fischio ultrasonoro del professor Kingley, che ci invitava non troppo gentilmente ad uscire dallo spogliatoio, fu accolto dai miei compagni con una serie di sbuffi e imprecazioni. Io invece fui felice di uscire da lì, per dedicarmi finalmente al mio sport preferito e liberarmi della cantilena di Matt.
«Sì, forse hai ragione...» mi assecondò lui, seguendomi fuori dallo spogliatoio. «Grazie.» mi sorrise poi, riconoscente.
Ricambiai con un sorriso accennato lasciandogli intendere un non c’è di che, e finalmente mi ritrovai al centro della palestra, con il professor Kingley che ci annunciava che avremmo dedicato quell’ora al gioco della pallavolo. Un coro di insulti e lamentele si innalzò dai miei compagni e anch’io borbottai qualcosa, fin quando Matt non tornò a rivolgermi la parola, costringendomi con le spalle a voltarmi.
«Guarda guarda, eccola! E’ lei Hannah» mi indicò qualcuno in lontananza, appartenente alla squadra avversaria con cui avremmo dovuto giocare quella mattina.
Ma quando mi voltai, fu una cascata di capelli mori ad attirare la mia attenzione.
Non avevo mai visto Stephanie nella divisa sportiva della scuola, ma ora non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Non ero mai stato così felice se non di quella divisa femminile, costituita da una canotta e un paio di pantaloncini piuttosto corti, ma addosso a lei era la fine del mondo. I pantaloncini lasciavano scoperte le gambe lunghe, e la leggera canotta le modellava i fianchi e il seno, rendendo la mia capacità di ragionare lucidamente pari a 0.
«Allora? E’ bella?»
«Bellissima.» fu il mio commento quasi incantato, mentre continuavo a squadrarla con gli occhi. Avrei voluto attraversare il campo per baciarla, proprio in quel momento. Ma forse non era una buona idea.
«Già...» asserì Matt, e solo allora mi resi conto che era Hannah, quella che avrei dovuto guardare.
Invece i miei occhi continuavano a stare fissi su Stephanie, sul suo corpo e sulle sue mani, mentre sistemava i lunghi capelli in una coda alta. Speravo invano e quasi stupidamente che i nostri sguardi si incrociassero, ma sapevo non sarebbe successo. Se non altro perché lei sorrideva ad un altro, Harry Crowner, con cui sembrava avere una fitta conversazione.
La rabbia prese il sopravvento quasi subito, portandomi a stringere i pugni. Così «Dammela» dissi a Matt, appena impossessatosi della palla, e senza aspettare una risposta o una reazione gliela sfilai dalle mani, voltandomi a lanciarla verso la metà campo avversaria. Precisamente, sulla testa bionda di Crowner.
Sorrisi quando la palla andò a colpirlo sul fianco destro, costringendolo a piegarsi per attutire la botta. Lui imprecò qualcosa, mentre gli occhi di Stephanie slittarono su di me, il fastidio crescente in quelle iridi scure.
«Colpa mia» urlai quasi, quando Crowner si voltò a fulminare il suo aggressore. Ma non era il suo sguardo, ad uccidermi al momento.
Tuttavia il biondo trattenne un’imprecazione e salutò Stephanie con un sorriso, che si affrettò a rispondere con una dolcezza che quasi non le apparteneva. Poi Stephanie prese posto in seconda fila, alla schiacciata, incitata dal fischietto della Kennedy, che diede inizio alla partita. Io mi trovavo dietro, al centro.
I suoi occhi ancora mi fissavano, lasciando trasparire tutto l’odio che sembrava provare in quel momento. Un po’ mi dispiacque: ero stato insopportabile alla cena, due sere prima, l’avevo trattata male come mio solito e adesso continuavo a darle fastidio. In effetti dovevo essere un po’ esasperante per lei, ma la sola idea che quel Crowner o qualsiasi altro ragazzo le parlasse così tranquillamente mi faceva dare di matto.
Fu forse per quel motivo che abbassai lo sguardo, incapace di sostenere il suo. E non lo alzai quando sentii l’assordante rumore di una schiacciata appena eseguita fare da eco nella palestra, fin quando quella stessa palla che Stephanie aveva lanciato con così tanta forza non mi finì addosso, colpendomi in pieno stomaco.
Gemetti dal dolore e strizzai gli occhi, mi portai le mani alla pancia piegandomi in avanti e mi lasciai cadere per terra, imprecando un cazzo che non passò inosservato alle orecchie di Kingley.
Quando alzai lo sguardo per incontrare il suo, la vidi osservarmi in piedi, mentre ammiccava leggermente.
«Colpa mia.» mormorò ad alta voce, prima che la Kennedy assegnasse il primo punto alla sua squadra.
 
Mi resi conto di essere giunta a destinazione solo quando notai l’imponente fontana ergersi davanti ai miei occhi, nel centro della piazza dove alcuni vecchietti si godevano l’aria tranquilla di un pomeriggio di maggio.
Ed io inspirai, forte.
Non seppi il motivo preciso per cui lo feci. Come non sapevo perché Martin mi avesse invitata a prendere un gelato con uno strano e inquietante bigliettino nell’armadietto.
Quando mi era caduto tra i libri l’avevo guardato in modo sospetto, credendo fosse una specie di presa in giro, ma vedere il nome di Martin a firmarlo mi aveva rassicurata, e fatta sorridere.
Pensavo i nostri incontri si limitassero a dei semplici pomeriggi di studio, m forse anche lui cominciava ad avvertire quel senso di amicizia che io ormai sentivo da un po’, e aveva deciso di provare ad incontrarci come due semplici amici che prendono un gelato, accantonando per il momento il pensiero di libri e quaderni.
Forse era stato solo troppo timido per chiedermelo di persona, e così era ricorso al metodo piuttosto vecchio stile – dovevo ammetterlo – del bigliettino nell’armadietto. Ma non ne ero delusa, anzi ero contenta di poter passare finalmente del tempo con lui ed essere me stessa, senza la terribile sensazione di essere giudicata per una o l’altra cosa che mi assaliva quando mi ritrovavo ad essere per lui una studentessa un po’ insolente.
E adesso respiravo come fossi a corto di ossigeno, passando la mano sulla treccia laterale che quel pomeriggio mi ero cimentata a fare, premurandomi che nessun capelli fosse fuori posto, in maniera assurdamente maniacale.
Sorrisi inconsapevolmente quando vidi Martin, seduto ad una delle panchine che fissava il suo orologio. Indossava un’ariosa camicia a quadri e picchiettava il piede destro sull’asfalto, forse lamentandosi in silenzio del mio ennesimo ritardo.
L’espressione che fece quando mi fui avvicinata a lui, non seppi decifrarla. Mi aveva notata, e continuava a osservarmi come incredulo, incantato, quasi fossi uno spettro.
«Martin?» lo richiamai quindi; «Stai bene?» feci, sventandogli la mia mano davanti agli occhi, come a risvegliarlo da ipnosi.
Lui scosse la testa veloce, come l’avessi davvero svegliato da chissà quale stato di trance. Quando mi inquadrò per la prima volta boccheggiò, poi arrossì. «Ciao.» mi salutò infine, con un sorriso.
«Ciao!» ricambiai. «Allora, cosa guardavi?» lo interpellai, sedendomi al suo fianco, stando attenta a sistemare la gonna a balze che avevo stranamente deciso di indossare.
La cosa sembrò metterlo a disagio, perché si drizzò come un burattino. «Niente, sta’ tranquilla» mormorò poi, con lo sguardo fisso davanti a sé.
Era strano. Da quando mi ero avvicinata a lui non aveva fatto che lunghi sospiri, e spostato lo sguardo da una parte all’altra, quasi stesse cercando qualcosa. Non mi aveva davvero guardata neppure per un momento, se si escludeva la comica scenetta dell’ipnosi. Era imbarazzato, infastidito, non avrei saputo dirlo, e proprio non riuscivo a spiegarmi perché avesse quell’atteggiamento così distaccato, come se il solo fatto che respirassi gli recasse problemi.
Con Veronica non era così. Per quello che avevo visto – o spiato – l’altra mattina a scuola, mentre parlottavano nel corridoio, lui mi era sembrato piuttosto amichevole nei suoi confronti. Avevano riso, scherzato, e Martin sembrava trovarsi a suo agio con lei, con una complicità e naturalezza che mai aveva avuto in mia compagnia.
Allora non riuscivo a spiegarmi perché quella uscita. Avrebbe potuto esserci Veronica al mio posto, almeno non sarebbe sembrato così nervoso. Anzi, probabilmente in quel momento sarebbero stati a scherzare, magari sul mio conto.
Ancora seduta su quella panchina ma con la mente totalmente altrove non mi accorsi del grosso cane che ci veniva incontro, e che una volta arrivato di fronte a noi poggiò le zampe sulle mie cosce, scatenando le mie grida spaventate quando me lo ritrovai addosso.
Odiavo i cani. Sin da piccola non mi avevano mai attratta, e la rottura definitiva tra le nostre due specie avvenne all’età di 5 anni, quando un labrador alto forse un metro assalì la piccola bambina che ero, procurandomi un trauma infantile e una paura spropositatamente esagerata per quei bestioni, che sarebbe destinata a durare in eterno. Era anche per questo motivo che adoravo Mickey, il mio gatto, e che mi ero opposta alla decisione di prendere un cane, quando all’età di 7 anni mia sorella e mio fratello avevano pregato mamma e papà di adottarlo, minacciando di andare via di casa.
Quindi tirai le ginocchia al petto e tra i vari urletti e qualche calcio in avanti mi ritrovai seduta sulle ginocchia di Martin, a stringermi a lui quasi strozzandolo, con le braccia attorno al suo collo e la testa nascosta nell’incavo della sua spalla, mentre continuavo ad urlargli di mandarlo via.
Sentii un braccio di Martin andare a stringermi velocemente per il fianco, mentre agitava l’altro verso il cane, per spingerlo via da noi.
«Emma...» sussurrò piano, quando sentii la sua voce calmarsi. «Se n’è andato, puoi stare tranquilla adesso»
Scossi la testa contro il suo collo, ancora tremolante e con gli occhi leggermente velati. Vedere dei cani, da quando avevo avuto quello strano incidente, mi spaventava a morte e mi faceva tremare, piangere per giunta. Mi trasformavo inevitabilmente in una bambina, come quando da piccola correvo nelle braccia di papà convinta che nel mio armadio ci fossero dei mostri pronti a mangiarmi. Così correvo da lui e mi rifugiavo tra le sue braccia, mentre piangevo, fin quando non mi riaddormentavo, e la mattina seguente ero di nuovo magicamente nel mio letto.
A quel ricordo strinsi la presa sul collo di Martin di più, mentre la sua mano risalì alla mia schiena, che prese ad accarezzare.
«Non c’è più, Emma» mi rassicurò, mentre l’altra mano correva a stringermi forte.
Avrei potuto giurare, anche nel mio stato da spaventata cronica, che avesse sorriso, e che il suo tono avesse una nota dolce, rassicurante, mentre continuava le sue carezze sulla mia schiena. Proprio come faceva papà.
Mi rilassai, stretta nel suo abbraccio.
«Oh, non tremi più»
Improvvisamente mi ripresi, ora cosciente di aver appena fatto una gran figura di merda. Scossi la testa e spalancai gli occhi, allontanandomi dal suo petto. Fu un gigantesco errore, perché mi ritrovai faccia a faccia con lui.
E stavolta lo vidi arrossire, mentre le sue iridi azzurre mi fissavano. Aveva degli occhi meravigliosi.
«Hai dei bei occhi» mormorai.
Lui sembrò per qualche secondo incerto se sorridere oppure no, ma infine lo fece, abbassando lo sguardo.
Allora mi ricordai di stare ancora seduta sulle sue ginocchia, quindi mi alzai, portandomi in piedi.
«Scusa, io...» cominciai a balbettare, imbarazzata, «E’ che ho paura dei cani, è quasi una fobia...»
Lui sorrise divertito, «Si era notato, sai?»
Gli diedi un leggero colpo con la mano destra indignata, portandomi poi le braccia al petto con espressione offesa.
«Andiamo miss Coraggio, ti offro un gelato» ridacchiò, alzandosi da quella panchina.
 
«Tu hai delle fobie?» fu la domanda improvvisa di Emma.
Allora mi voltai verso di lei, seduta contro l’albero dove avevamo trovato riparo, le gambe distese e congiunte davanti, che ruotava la lingua attorno al suo gelato alla fragola e fiordilatte, mentre le si scioglieva tra le dita. Sembrava una bambina, soprattutto ora che aveva sciolto i capelli, stanca di quella “treccia formale”, come l’aveva ripudiata lei.
Mi voltai di scatto, quando lei fissò lo sguardo su di me.
«No, non credo.» le risposi, tornando al mio gelato al cioccolato.
«Ma è impossibile!» sbottò lei, quasi arrabbiata. «E’ impossibile che tu non abbia paura di niente, non sei mica Superman!»
«Superman temeva la criptonite, in realtà... Lo indeboliva» la corressi, dandole un accenno di quella che era la mia minuziosa conoscenza dei fumetti, e di cui lei ne sarebbe dovuta rimanere per sempre rimasta all’oscuro.
Sbuffò, storcendo il muso. «Tu sei Martin e non Superman, non sei un supereroe e devi pure avere qualcosa che ti fa paura.» annunciò convinta, con un tono che non ammetteva repliche.
La guardai: adesso si era seduta sul prato a gambe incrociate e voltata verso di me, che aspettava una grande confessione da parte mia.
Sospirai, costringendomi a rifletterci su. «Non credo di avere vere e proprio fobie...» ripetei, giunto ad una conclusione nulla, «Non mi piacciono i rettili, ma quella è più una specie di repulsione, non una fobia. Se vedessi un serpente scapperei, ma non mi metterei a piangere.»
Emma annuì, interessata. Poi la vidi abbassare il capo, e tirarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Si sistemò meglio, aggiustando le pieghe della gonna. «Allora l’hai notato...» mormorò a testa bassa, più tra sé e sé.
Aprii bocca per ribattere e chiarire che non mi riferivo certo a lei, ma lei mi precedette, alzando gli occhi sui miei.
«Credi sia stupido? Il fatto che io abbia pianto...»
«No, non è stupido, è solo che mi hai fatto spaventare...» le confessai, ricordando la vera paura che avevo avuto, quando mi era saltata addosso e mi aveva abbracciato, senza smettere di tremare e tra qualche lacrima. Sì, avevo notato stesse piangendo. L’avevo sentita singhiozzare piano contro le mie spalle e vicino al mio orecchio, in uno stato quasi simile allo shock, ed era per questo che l’avevo abbracciata, nel tentativo di cullarla e farla rilassare.
Mi sorrise timida, ed io nascosi il porpore sulle guance dando un’altra leccata al gelato.
«Tutti mi hanno sempre derisa, per questa cosa... E non li biasimo. Avere paura degli insetti o dei rettili è normale, quelli sono viscidi e fanno schifo, mentre è impensabile che si possa avere così paura di un cane. Il cane dovrebbe essere il migliore amico dell’uomo, ed io rasento l’isteria quando ne vedo uno...»
Le sorrisi, addolcito da quel suo tono infantile. Era come avesse 10 anni, e stesse raccontando ai suoi genitori una brutta esperienza fatta a scuola. Aveva quello sguardo corrucciato e offeso, che le veniva fuori puntualmente quando ricordava qualcosa di spiacevole, e si poteva trarre dalle sue espressioni il fastidio che le avevano arrecato le provocazioni di quei bambini, etichettandola come una “anti-animali”.
«E’ successo quando avevo 5 o 6 anni, più o meno.» riprese lei, attirando la mia attenzione, «Ero al parco con mia madre e mio fratello, quando lui ha chiamato un cane in lontananza che aveva visto e quello si è avventato su di me, sovrastandomi. Beh ero piccola, e non avevo mai visto un cane così grosso e alto, quindi ho avuto molta paura, anche se lui voleva solo leccarmi la faccia... Dopo sono corsa a piangere dalla mamma, ho continuato per 2 ore di fila, fin quando non siamo tornati a casa. E da quel giorno ho i brividi solo a vederlo, un cane.»
Era bellissima. Era bellissima mentre mi raccontava il suo trauma da bambina, e giocherellava con i lembi della gonna, e mentre accompagnava il racconto da varie smorfie o sorrisi, che riuscivano a coinvolgermi. O quando si voltava verso di me, per assicurarsi che la stessi ascoltando.
Quasi non riuscivo a credere che stessimo avendo una normale conversazioni tra amici, e lei mi stesse persino raccontando di una delle sue più grandi paure. Ero abituato a vederla da lontano, arrossire ad un sorriso che non era rivolto a me, e invidiare chiunque le stesse accanto, ma ora le cose erano cambiate. Emma Desmore non era più la mia improbabile cotta, o almeno non solo, ma stava diventando mia amica, e anch’io il suo.
Ero rimasto immobile, quasi pietrificato quando mi era saltata addosso senza un apparente buon motivo. Mi ero lasciato sopraffare del tutto dall’imbarazzo, credendomi sul punto di sciogliermi o urlare, ma quando l’avevo sentita gridare, stringersi a me e in seguito cominciare a tremare avevo capito, e avevo fatto di tutto per allontanare quel cane da noi. Ero rimasto a fissarla un paio di minuti, incredulo che fosse davvero tra le mie braccia e stesse respirando contro il mio collo, spaventata a morte. Avevo sorriso da perfetto ebete, beandomi della dolcezza e tenerezza da bambina con cui si era aggrappata a me, senza preoccuparsi di essere inopportuna in alcun modo. Ma non lo era stata. Era forse la cosa più dolce e piccola che avessi mai visto e avuto il piacere di avere tra le mie braccia, e avrei fatto qualsiasi cosa per tornare a cullarla piano, mentre lei si rilassava al mio tocco. In quel momento, mi ero sentito più innamorato che mai.
«So che è strano, ma è così. Non mi avvicino nemmeno a Destiny, il cane di Ronnie, anche se è piccolo...»
Sentire il nome di Veronica pronunciato da lei, mi sorprese. «Ronnie?» ripetei scosso, «Cioè, Veronica?»
Emma sembrò trovarsi a disagio, tanto che abbassò la testa e tornò a mangiare il cono del suo gelato. «E’ la mia migliore amica» sibilò, a voce a malapena udibile.
Improvvisamente realizzai. Certo, come potevo essere stato così stupido da non ricordarmi perché Veronica mi sembrasse così familiare? L’avevo già vista, ed era stato in compagnia di Emma. Erano amiche, stavano sempre insieme e lei mi aveva sorriso qualche volta, quando mi ritrovavo a fissare Emma a mensa.
Sorrisi. «La conosco.» annunciai, fiero.
«Davvero?» domandò lei, impegnata a mangiucchiare il cono.
«Sì. L’ho conosciuta qualche giorno fa, il suo cane le è praticamente sfuggito di mano e si è fermato solo quando ha visto il mio. Io ho un cane, lo sai?»
Stavolta aggrottò la fronte. «Non l’ho mai visto» rifletté, confusa.
«Beh è quasi sempre in giardino, ed è raro che salga nelle stanze da letto...»
Annuì, mentre mandava giù la punta del cono. Alzò le braccia trionfale, felice di aver finito il suo gelato prima del mio, poi puntò lo sguardo davanti a sé, tornando a sedersi contro il tronco dell’albero. «Sta tramontando» disse.
Solo allora mi voltai verso il cielo, trovandomi ad annuire. Il tempo era passato così in fretta, e adesso il cielo era un mix di colori tra il rosa e l’arancione. E Emma non sarebbe potuta sembrare più bella, con i capelli che si mischiavano perfettamente al panorama.
Poggiò la testa sulla mia spalla, con lo sguardo fisso sopra di sé. «Mi piace il tramonto» mormorò.
«Anche a me.» le risposi, sebbene i miei occhi fossero incatenati alla sua figura distesa, e non al cielo sovrastante. «Comunque, riguardo al tuo cane... Ricordati di non lasciarlo entrare per nessun motivo al mondo, quando ci sono io.» ridacchiò, seppur ancora un po’ spaventata, ma incantata dallo spettacolo del cielo.
Io sorrisi, gustando quel quando ci sono io uscito dalle sue labbra. Significava che quella non sarebbe stata l’ultima volta.
 
«Stephie amore, puoi andare a vedere chi è alla porta?»
«Non può andarci Chris?»
«No!» cantilenò il mio fratellino, dalla stanza adiacente.
Sbuffai pesantemente, chiudendo con forza il libro di letteratura che avevo tra le mani. Avevo deciso di dedicare quella serata allo studio, in vista degli esami finali, ed ero riuscita a memorizzare già due capitoli avanti al programma, giusto per avvantaggiarmi, ed ero piuttosto fiera, seppure un po’ stanca.
Scesi le scale di furia, senza preoccuparmi di indossare qualcosa di diverso dal mio pigiama, sistemare i capelli o togliermi gli occhiali da vista, convinta che fosse solo papà, vittima ancora una volta della sua mania di dimenticare le chiavi a casa.
Quando mi ritrovai invece di fronte a un paio di occhi di azzurri, desiderai ardentemente che l’avessi fatto.
Zack era di fronte a me, immobile e in silenzio a fissarmi, quasi fossi io quella fuori luogo. Anche se mi ci sentivo, con le gambe scoperte e quell’aria da secchiona che gli occhiali mi conferivano. Fu per questo che cercai di abbassare i pantaloncini più in giù, tirandone con forza i lembi, e mi portai le braccia al petto, per nascondere il fatto che non indossassi un reggiseno.
«Che ci fai qui.» fu la mia rude accoglienza.
Avrei potuto essere più gentile, accomodante, ma il solo averlo davanti agli occhi mi faceva venire voglia di prenderlo a pugni, soprattutto dopo la scenata di quella mattina. Non capivo perché continuasse ancora a provocarmi, dopo avermi fatto esplicitamente capire quanto sbagliato fosse il bacio che mi aveva dato, e quanto poco considerasse quell’accenno di amicizia che stava nascendo tra di noi. Ero furiosa, e per quanto desiderassi non incrociarlo lui mi si presentava davanti ogni volta, ricordandomi quanto fosse coglione e quanto lo odiassi. Avrei voluto scagliarmi contro lui anche in quel momento, mentre mi fissava senza aprire bocca, ma il suo fiatare mi bloccò.
«Mia madre dice che vorrebbe portare tutte le damigelle in giro per negozi domani, per accordarvi col vestito... Non ho il tuo numero, e visto che passavo da queste parti ho pensato di venire a dirtelo di persona.»
Lo osservai, mentre si ciondolava davanti a me con le mani in tasca. Avrebbe potuto – o voluto – sembrare duro, ma ero chiaro anche a me che si sentisse a disagio. E fui quasi contenta di scoprirlo, perlomeno non ero l’unica.
«Dì a Sophie che ci sarò.»
Mi ritirai dentro pronta a sbattergli la porta in faccia, infuriata e imbarazzata nell’averlo sulla soglia di casa mia, ma la sua voce mi aveva richiamata.
«Aspetta!» mi aveva fermata, ora più vicino all’ingresso. «Non ti interessa sapere a che ora?»
Roteai gli occhi, sospirando per calmarmi. «A che ora?» chiesi, accontentandolo.
«Alle 9.»
Annuì. «C’è qualcos’altro che devi dirmi?»
Boccheggiava. Sembrava in procinto di voler dire qualcosa, e lo speravo davvero, che si scusasse per il suo assurdo comportamento, per come mi aveva trattata e che mi dicesse che gli mancavo, magari.
Ma non disse niente. Semplicemente scosse la testa, sillabando un «no».
Orgoglioso. Era sempre il solito idiota orgoglioso.
Ma questa volta non sarei stata io a chiedergli scusa. Fu per questo che «Buonanotte, Zack» gli dissi, sbattendogli poco dopo la porta in pieno viso.
E quando mi poggiai alla porta, schiena contro il legno, sentii di essere finalmente libera di respirare, libera dai suoi occhi. 



Ciao a tutti, di nuovo :)
E' quasi passata una settimana, e io avevo promesso di aggiornare presto... ahahah il fatto è che non pubblico mai un capitolo prima che il prossimo sia già stato scritto, e avendo un'altra fan fiction da scrivere, non ho avuto molto tempo per scrivere il capitolo 13. Ma l'ho appena finito, perciò ho pensato di pubblicare :)
Riassunto:
- Zack continua a fare l'idiota ma comincia ad essere un pochino geloso, inconsapevole di come questi suoi giochetti spingano Stephanie ad odiarlo di più. 
- Il piccolo "appuntamento" tra Martin e Emma è la cosa più dolce che abbia scritto, e sono davvero contenta di quella parte del capitolo.
- Stephanie tiene ancora su le sue barriere, determinata a trattare Zack nel peggiore dei modi. 
Ci sarà mai un "e vissero felici e contenti"? ahah
Vi lascio con un'anticipazione del prossimo capitolo:

«Cosa dovevi dirmi?» Stephanie tornò a parlare.
Mi bloccai con le spalle rivolte verso di lei, e sospirai. Mi voltai, esibendo un sorriso sincero. «Niente di importante.» scossi la testa.


A presto! :)



 

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***



Mi rassegnai all’idea di dover passare quei minuti nel più completo silenzio dopo l’ennesima canzone scadente passata in radio, e finalmente mi decisi a spegnerla. Voltai lo sguardo verso il finestrino nella speranza che qualcosa mi distraesse, come facevo da piccolo, ma tutto taceva fermo e immobile per le strade. Ed io non avevo nulla a cui ancorarmi per evitare di addormentarmi lì, sul sedile anteriore dell’auto di mia madre.
Lei sospirò irritata al mio ennesimo sbuffo annoiato, «Ti dispiacerebbe smetterla di sbuffare? Te ne sarei grata.»
Puntai allora i miei occhi sulla sua figura alla guida, il suo sguardo fisso davanti a sé.
Mi stiracchiai lungo il sedile, portando le braccia dietro la testa. «Lo farò. Solo quando mi avrai dato una spiegazione valida del perché sono in auto con te alle 9 di un sabato mattina. Che per la cronaca, avrei preferito passare nel mio letto. A dormire.»
Quella mattina era stata lei a scaraventarmi giù dal letto, e forse avrei dovuto aspettarmi che con un comportamento così gentile e premuroso pretendesse qualcosa. D’altronde erano due le occasioni in cui mi portava la colazione in camera, e non era certo il mio compleanno. Più tardi, quando avevo scoperto cosa avesse in mente, avevo cercato di ribellarmi con ogni mia forza al suo tentativo di trascinarmi con lei per negozi, ma non ero riuscito ad averla vinta, perché se c’era qualcosa che avevo ereditato da lei era la tecnica subdola e manipolatrice della persuasione. Non ero riuscito a resistere al suo sguardo supplicante, le palpebre ammiccanti e la voce da chi ti avrebbe portato rancore a vita se solo gli avessi negato qualcosa. E mia madre ne era più che capace, di portarmi il muso e non parlarmi per giorni, e anche questo l’avevo ereditato da lei.
Questa volta fu lei a sbuffare, mentre distendeva il braccio sinistro a cambiare la marcia. «Sei davvero petulante, Zack.» fu la sua accusa, che non era una risposta esauriente al mio interrogativo.
«Non sono petulante, sono irritato. Prima di tutto perché ho sonno, poi perché mi hai trascinato con te con l’inganno e la macchinazione, in seguito perché odio fare shopping, e come ultima cosa, non avevi alcun bisogno di portarmi con te.» le spicciolai i motivi del mio fastidio, ma lei non ne parve turbata. E la cosa mi fece arrabbiare di più. «Perché non è venuto Martin, con te?» domandai allora, per la prima volta invidioso di mio fratello, che dormiva beato tra le coperte.
«Perché volevo che venissi tu. Martin mi accompagna sempre ovunque.»
«Non poteva farlo anche questa volta? Sul serio mamma, io non ci capisco niente di vestiti, e nemmeno mi importa capirci qualcosa, è inutile che venga con te!» protestai.
Chiuse gli occhi, per calmarsi. Quando ebbe inspirato abbastanza, «Considerala un’occasione per passare del tempo insieme e farmi compagnia.» disse.
«Sarebbe sensato, se solo non avessi altre 5 ragazze a farti compagnia.»
«E allora approfittane per stringere amicizia con una di loro. D’altronde dovrai pure conoscerle prima o poi, e puoi farlo adesso.» fu la sua ripicca.
Qualsiasi ragazzo avrebbe colto in parole come queste pronunciate dalla propria madre un invito a fare amicizia, conoscere nuova gente, e passare del tempo insieme. Ma io conoscevo mia madre abbastanza bene per sapere che il suo unico obiettivo era addossarmi una delle damigelle. Il suo scopo era farmele conoscere una ad una e scegliere la mia compagna perfetta per il matrimonio, o forse per tutta la vita. Non credeva avessi una ragazza e aveva ragione a crederlo, ma oltre questo piccolo particolare la mia vita sentimentale le era del tutto ignota. E se solo avesse saputo quanto fosse idiota suo figlio ad avere una mezza relazione con la sua insegnante, forse quella mattina non mi avrebbe trascinato fuori dal letto, a rendermi impeccabile agli occhi di 5 possibili candidate.
«Non ho bisogno di trovarmi una fidanzata, mamma. Né tantomeno devi essere tu a cercarmela.» le chiarii quindi, e mi sembrò di averlo ripetuto per l’ennesima volta. Era la stessa cosa che mi ritrovavo a spiegare a papà, i miei amici e a me stesso soprattutto, quando cominciavo a dubitare dei miei sentimenti e del castello di ghiaccio che mi ero costruito attorno.
Capii di aver centrato il punto quando mia madre sospirò pesantemente: stava cercando un alibi che reggesse e la proteggesse dalla verità, e anche quella volta non mancò di affidarsi ai sensi di colpa, i miei.
«Per quanto ne so potresti essere sposato e avere figli, e io e tuo padre non ne saremmo a conoscenza. Un tempo mi raccontavi ogni cosa... Adesso mi sembra di non conoscerti, a volte.»
Il suo tono fu duro, lapidario. Era come se stesse cercando di mandarmi al patibolo con quelle accuse, solo per non essere il ragazzino aperto e docile che ero qualche anno fa. Ma ciò che le sfuggiva era la mia crescita. Ero cresciuto da quando mi lasciavo influenzare da qualsiasi piccola cosa andasse storta nella mia vita e correvo a farmi consolare tra le sue braccia; quando ero convinto che tutto dovesse essere perfetto e regolare per rendermi felice, e mi costringevo a pensare che le cose vanno sempre per il verso giusto in un modo o nell’altro, e che ci fosse sempre un arcobaleno, dopo la pioggia. Ma non ero più quell’ingenuo e illuso ragazzo. Avevo capito, col passare degli anni, che se la ruota non gira dalla tua parte allora non puoi fare niente per rimediare, solo aspettare. E sperare, ma ormai avevo smesso di farlo. Perché non c’era nessun valido motivo che mi spingesse a sperare che le cose andassero per il verso giusto, che mi desse la spinta per farmi avanti e agire anziché limitarmi ad assistere, che mi facesse pensare che forse c’era un modo per sentirmi felice. Avevo smesso di cercarla tempo prima quella felicità, e gli ultimi avvenimenti non mi erano stati d’incoraggiamento, ma mi avevano mandato nello sconforto più totale.
Fu per quello che «Non sono più un bambino.» le risposi, rude.
Sospirò. «Lo so. Altrimenti non mi starei lamentando.»
Avrei voluto raccontarle tutto. Avrei voluto parlarle della scuola, di quanto fossi preoccupato per gli esami, del basket, di quanto fosse la mia unica vera distrazione, dei miei amici, di come tendessi sempre più spesso ad usarli per sfogarmi. Avrei voluto parlarle di Sarah, dell’insana relazione in cui mi ero cacciato e di cui desideravo evadere al più presto, stanco di sentirmi usato e così sporco.
E le avrei parlato di Stephanie. Di come quella ragazza fosse capace di mandarmi i nervi alle stelle solo con una smorfia, di come desideravo mi vedesse in una luce diversa, forse quella che illuminava mio fratello, e come mi ero sentito bene quando l’avevo aiutata a superare la tristezza, e male, quando l’avevo delusa. Avrei voluto chiederle un consiglio sul mio comportamento, sull’atteggiamento che avrei dovuto assumere, perché in quei giorni ogni cosa facessi sembrava portarla ad odiarmi più di prima. Avrei voluto confessarle che avevo il dannato vizio di agire di impulso e per egoismo, ed odiavo essere così precipitoso e stronzo, sebbene volessi essere qualcun altro con lei. Avrei dovuto dirle che negli ultimi giorni ogni cosa ruotava attorno a lei, al suo viso e ai suoi occhi, capaci di donarmi soltanto odio. Ma che non avrei mai avuto il coraggio per dirglielo. Come non avevo il coraggio di lasciare Sarah, concentrarmi sugli studi e stare accanto a Stephanie, dimostrarle che quella da stronzo egoista era solo una facciata, io non ero realmente così.
Ma non le avrei detto niente. Il turbine di emozioni che aveva cominciato a travolgermi da qualche settimana era fin troppo forte per me da sopportare e gestire, e non sarei riuscito a condividerlo con qualcun altro, neppure con mia madre. Mi limitai quindi ad un secco ma sincero «mi dispiace».
Ma mia madre sorrise, mentre spegneva il motore dell’auto. «Lo so» mormorò rassicurante, accarezzando una spalla con la mano. «Ma adesso siamo arrivati, le ragazze ci attendono, e tu mi prometterai che sarai carino con loro. D’accordo?»
Alzai gli occhi al cielo con fare esasperante ma annuii, giusto per farla contenta.
«Perfetto.» gongolò lei, «Trasformiamo queste ragazze nelle damigelle perfette!»
Senza aspettare una mia smorfia al suo entusiasmo si precipitò fuori dall’auto, andando incontro alle ragazze che ci aspettavano, chi in piedi chi seduta su una delle panchine nei paraggi. Le salutò ringraziandole di essere venute e dando un breve riassunto della sfiancante giornata che avrebbero passato, tanto da sembrare una loro coetanea.
Io mi trattenni un po’ più lontano, continuando a guardarmi intorno sia per imbarazzo che per noia, fin quando non fu mia madre ad attirare la mia attenzione.
Mi voltai scattante verso la persona che le avevo sentito annunciare, alla quale non risparmiò uno dei suoi soffocanti abbracci. Io mi limitai ad osservarla da lontano, evitando accuratamente lo sguardo, nascosto dagli occhiali da sole scuri.
«Zack, che ci fai lì impalato? Vieni, ti presento le ragazze.»
Maledissi mentalmente mia madre ad ogni passo, mentre mi avvicinavo al gruppo e mi sforzavo di sorridere.
Le conobbi e strinsi le mani ad ognuna di loro sotto lo sguardo fiero di mia madre, senza davvero essere interessato ai loro nomi. Solo uno mi attanagliava la mente, e avrei giurato che i suoi occhi scuri mi stessero perforando e uccidendo, anche se non potevo vederlo.
 
Passai in rassegna i diversi abiti esposti, per nulla interessata a quale potesse essere l’abito giusto per accontentarci tutte e 5. Prima di quell’incontro non avevo idea che Sophie avesse persino 5 damigelle, ed ora mi sembrava improbabile trovare un abito che rispondesse ai desideri di tutte e della sposa, sebbene non fossimo poi così diverse l’una dall’altra. Per fortuna nessuna di loro si era rivelata antipatica o snob, o mi aveva presa di mira solo perché occupavo il posto “d’onore”, al contrario di ciò che mi ero aspettata. Erano tutte e quattro delle ragazze adorabili, alla mano, e sentivo di poter andare d’accordo con loro.
Peccato che non sentissi lo stesso verso il ragazzo che quella mattina non si era fatto a scrupoli ad evitarmi, correndo invece a stringere le mani delle sue probabili inutili vittime. Quando Zack si era presentato a casa mia ad avvisarmi dell’improvviso incontro di Sophie per noi damigelle, non avevo immaginato che lui sarebbe venuto con noi. E quasi avevo stentato a crederci, quando me l’ero ritrovato davanti, fulminandolo attraverso la lente scura degli occhiali.
Non riuscivo a credere che avesse avuto il coraggio di essere così testardo da presentarsi quella mattina, premurandosi che ognuna di noi “si sentisse a suo agio”, come aveva spiegato la sua presenza lì. La collera nei suoi confronti non era diminuita, anzi era aumentata, quando me l’ero ritrovato davanti, senza avere la possibilità di urlargli contro o prenderlo a pugni. Mi sentivo ancora terribilmente arrabbiata con lui, e la sola consapevolezza di averlo a qualche metro di distanza in giro per quel negozio mi metteva a disagio e occupava la mente, impedendomi di concentrarmi sul vero obiettivo per cui ero lì: il vestito. Abbandonai quindi quello stand afflitta dall’ennesima vuota ricerca, e mi recai ad uno più avanti, su cui spiccava un delizioso abito azzurro.
Lo afferrai, cominciando a valutarlo. Era davvero carino. Era lungo fino a metà coscia e lasciava una delle due spalle scoperta, andando ad effettuare una chiusura sul fianco destro. Era privo di corpetto e un tutt’uno con la gonna, decorato in modo semplice e aggraziato da alcuni strass qua e là. Ma ad avermi conquistata era stato lo spacco dietro, che faceva tanto “donna adulta”.
Sorrisi mentre me lo portavo addosso, abbozzando una prima prova davanti ad uno degli specchi posti un po’ dappertutto nel negozio. Restai a fissarmi per qualche secondo, immaginando di attraversare la navata con quel vestito addosso. Ed annuii fiera, quando la mia immaginazione soddisfò le mie aspettative.
Mi soffermai sulla tonalità d’azzurro del vestito. Era una delle più belle che avessi mai visto, e una delle più rare. Era chiara, brillante, ammaliante. Era la stessa tonalità degli occhi di Zack. E non seppi spiegarmi perché un sorriso attraversò il mio volto, quando mi ritrovai a pensarlo.
«Io ti consiglierei di evitare il porpora, mia madre lo odia.»
Incurvai le sopracciglia, quando la voce di Zack mi attraversò le orecchie. Pensai in un primo momento che mi fosse piombato affianco, pronto ad inscenare una delle sue solite irritanti provocazioni, ma mi resi conto di essergli lontana quando sentii una risata, susseguire la sua voce. E non apparteneva a lui.
«Allora seguirò il tuo consiglio, non vorrei mi congiurasse!»
Delle risate si unirono ed io mi affacciai nel corridoio alla mia destra, solo per correre a nascondermi dietro uno stand di altri abiti quando scoprii che era proprio da lì che provenivano le voci.
Zack e una ragazza bionda che doveva chiamarsi Amanda passeggiavano tranquilli lungo il parquet immacolato, analizzando qualunque vestito gli capitasse a tiro. Lei curiosava tra le diverse grucce e lui la seguiva, come una stupida guarda del corpo. Ridevano ogni tanto, e apparivano più ridicoli che mai.
La rabbia si ri-impossessò di me repentina, furiosa che lui stesse accanto a quella oca, e strinsi le nocche delle dita attorno alla gruccia del mio vestito fino a rischiare di farle arrossare, quando lei portò le sue dita smaltate di rosso ad accarezzare l’avambraccio di Zack.
Mi nascosi però meglio dietro la serie di abiti, decisa ad origliare qualunque parola si sarebbero rivolti.
«Ecco, questo è carino, non trovi?» ammiccò lei, mostrando al ragazzo molto più alto di lei un vestito verde, che non avrei saputo descrivere vista la mia sconveniente posizione.
Zack fece una smorfia con le labbra, e scosse la testa. «Non credo che starebbe bene a tutte.» rifiutò il suo tentativo, sorridendole comunque.
Si illuminò poi quando qualcosa attirò la sua attenzione, ma quando avevo appena realizzato che quel qualcosa sarei potuta essere io mi rilassai, perché quello che lui aveva adocchiato era un abito bianco. «Questo? Che ne dici?» lo mostrò alla bionda, che si mise a ridere.
«Solo la sposa può vestirsi di bianco, Zack!»
«Ma quello di mia madre è il secondo matrimonio, questa regola non dovrebbe valere...»
«E invece vale. Continuiamo a cercare.»
Ripresero le ricerche sotto il mio sguardo attento, fin quando non fu di nuovo lei a parlare. «Allora, hai già deciso chi invitare al ballo?» se ne uscì, concentrata ad osservare le rifiniture di un vestito blu elettrico.
A quella domanda mi sistemai, drizzando le orecchie per poter sentire bene. Avevo sentito in quei giorni quando Kelly Smith tenesse al suo invito, come l’intera popolazione femminile di quell’istituto, ed ero certo Zack avrebbe finito con l’invitarla, lei o qualche altra ochetta irritante, e sapere che lui ci sarebbe andato con una di quelle bambole di silicone mi aveva spinta a considerare l’invito di Harry. Non mi ispirava molto, ma sarebbe stato meglio che starmene a casa.
«Veramente no.» rispose lui, «A dire il vero non sono nemmeno tanto sicuro che ci andrò...»
Spalancai la bocca a quelle parole, esattamente come fece Amanda. «Ma non puoi non andarci!» squillò lei, «E’ l’evento più importante degli anni, non puoi mancare!»
Sorrise amaramente. «Il fatto è che odio questo genere di feste, e non avere un’accompagnatrice non le rende più divertenti.»
«Non c’è nessuna ragazza, che ti piacerebbe invitare?»
Restai a fissare la reazione di Zack quasi senza sbattere ciglia, troppo presa dal discorso.
Lui si grattò la nuca, imbarazzato. «Veramente sì, c’è...»
Spalancai occhi e bocca, improvvisamente la gola troppo secca.
Fai il mio nome. Fai il mio nome. Ti prego, fai il mio nome.
«Stephanie?»
L’esclamazione sorpresa e improvvisa di Sophie alle mie spalle mi fece cacciare un urlo, e lo spavento non mi risparmiò di scivolare lungo la pila di vestiti, trascinandomi addosso il carrello dietro il quale mi ero nascosta.
«Oh santo cielo!» Sophie si precipitò ad aiutarmi, «Stai bene?»
Mi portai seduta non appena lei mi ebbe liberata del peso, e gemetti. «La testa...» brontolai, andando ad accarezzare con la mano la parte lesa.
Presto altre due persone si aggiunsero alla mia lista di soccorritori, e mai come in quel momento avrei voluto scomparire, evitare il rossore che aveva colorato le mie guance e soprattutto far sì che tutti dimenticassero quella figuraccia.
Amanda si abbassò, cominciando a palparmi il viso quasi fossi stata sul punto di morire.
«Sto bene.» ribadii anche a lei, scansandola per potermi alzare. Ma quando puntai gli occhi davanti a me quello che vidi fu l’azzurro delle iridi di Zack, e allora sì che avrei voluto scomparire.
«Ma mi spieghi che diavolo ci facevi lì dietro?!»
Mi guardai attorno, sentendomi davvero a disagio quando scoprii gli occhi di tutti fissarmi, in cerca di una spiegazione.
Avevo bisogno di un motivo. Un motivo che mi evitasse di apparire ridicola e mi facesse scoprire: non potevo certo dire di essere scivolata trascinandomi mezza collezione solo perché spiavo Zack. Lui stesso mi osservava, pronto a condannarmi se solo non mi fossi sbrigata a fornire a Sophie una spiegazione.
Poi vidi il vestito, che giaceva a terra. Sorrisi, e mi chinai per raccoglierlo.
«Ho trovato il vestito.»
 
Gironzolai per il negozio per un po’, fin quando non trovai mia madre intenta ad osservare alcune collane.
«Allora, quand’è che potremo andarcene?» le chiesi senza alcun giro di parole, stanco e soprattutto sopraffatto dalle due ore che avevamo già passato lì dentro. Mi sembrava quasi di soffocare, di trovarmi in una sottospecie di prigione con abiti, scarpe e gioielli. E volevo evadere.
Mia madre si voltò sorpresa verso di me, e mi sorrise. «Fin quando non avremo trovato quello che stiamo cercando, suppongo. Che te ne pare di questa?» sviò l’argomento, sventolandomi davanti al viso una collana di perle blu.
Feci un cenno d’assenso distratto, che bastò per farla voltare e continuare la sua ricerca. «E quando supponi lo troveremo?» riprovai.
«Quando le damigelle saranno soddisfatte del loro abito.»
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. Era impossibile che tutte e cinque si potessero mettere d’accordo su un unico vestito, visti i loro diversi gusti. E il fatto che in due ore nessuno degli abiti esposti nel negozio le avesse attirate, ne era una prova palese. Avevo sempre creduto, sin da piccolo, che fare shopping fosse una dote naturale di ogni donna, nessuna esclusa. Non sembravano annoiarsi affatto a fare lo slalom tra i diversi scaffali e le diverse collezioni, e anche quando trovavano qualcosa capace di soddisfare in parte i loro desideri, preferivano aspettare e continuare la loro ricerca. Era una cosa che non sopportavo. Io nemmeno ci facevo caso al tessuto o le ricamature, le rare volte che mi ritrovavo a comprare vestiti con Martin.
«Allora, hai conosciuto qualcuna di loro?»
Chiusi gli occhi, aspettandomi quella domanda. «Sì. Amanda.» risposi comunque con tono annoiato.
«E com’è?»
Inclinai la testa verso destra, alla ricerca di un aggettivo che potesse descriverla. «Troppo bionda.» me ne uscii, attirando l’occhiata scettica di mia madre.
«Ed è un male?»
«No, se non fosse anche troppo sicura di sé e assuefacente.»
Abbozzò un sorriso, spostandosi a guardare stavolta degli orecchini. «Non ti piace, quindi.» decretò, un po’ delusa.
«Direi di no.»
Amanda era una ragazza carina, e simpatica. Era stata l’unica con cui avessi scambiato qualche parola in quelle due ore, ma restava comunque troppo invadente. Non avrebbe dovuto inoltrarsi in un meandro così privato come la mia vita sentimentale, e il fatto che se ne fosse interessata mi aveva messo un po’ a disagio. Era qualcosa di cui non mi piaceva parlare, ma nonostante le mie occhiate furtive per farglielo capire Amanda aveva continuato col suo personale interrogatorio, forse credendoci già grandi amici.
«Ma è carina, vero?» ritentò lei.
Sospirai. «Sì, è carina» concessi, « ma non ho bisogno di trovarmi una fidanzata, e mi pare di avertelo già detto questo.»
«Sì, certo, tu non vuoi una fidanzata...» ripeté, gesticolando con le mani, «Non vuoi l’università e non vuoi una madre che si interessi a te. C’è qualcosa che vuoi, almeno?»
Riflettei per un po’ su quella domanda, tenendo gli occhi fissi sui suoi. Sì, c’era qualcosa.
Le sorrisi. «Voglio andare a casa. O almeno uscire di qui.» le risposi, costringendola di nuovo ad alzare gli occhi al cielo, esasperata dalla mia insistenza.
«Va’ a vedere a che stanno le ragazze, sono nei camerini.» mi ordinò.
Le rivolsi un’ultima alzata d’occhi e mi diressi verso i camerini qualche corridoio più avanti, facendo attenzione prima di entrare nella zona adibita. Mi guardai attorno e sembrava non esserci nessuno, fin quando una delle tendine non si spalancò di colpo, facendomi sobbalzare indietro a causa dello spavento.
«Sophie, io credo che...» La voce di Stephanie le si bloccò quando si rese conto di chi aveva di fronte, e mantenne la bocca semiaperta. «Credevo fosse tua madre.» giustificò la sua uscita, e usò lo stesso tono rude e piatto che ormai riservava soltanto a me.
«Invece sono io.» scherzai, sebbene adesso mi trovassi un po’ in imbarazzo, con lei a pochi passi da me.
Stephanie annuì disinteressata, e presto tornò nel suo camerino. Non le spostai gli occhi di dosso ma a lei non interessava che la stessi fissando, e si parò davanti allo specchio, a litigare con la cerniera del vestito, che non riusciva ad alzare in nessun modo.
«Faccio io.» trovai il coraggio di mormorare, con lo sguardo basso per non incontrare il suo.
Contrariamente alle mie aspettative non mi mandò via a calci, ma restò esattamente dov’era, abbassò le braccia lungo i fianchi e fece un lungo respiro, fin quando non voltò lo sguardo su di me, notandomi ancora sulla soglia. «Non mi volevi aiutare?»
Mi riscossi dal mio stato di trance a quelle parole, e mi avvicinai a lei. Sentii alla perfezione il fiato corto e il battito accelerato, quando posai le dita sulla sua pelle. Forse anche lei rabbrividì, mentre facevo scorrere la zip in alto lungo la sua linea, cercando ogni contatto possibile con la sua pelle nuda.
Mi premurai che il vestito fosse ben fissato e le mie dita scorsero poi lungo il suo fianco, e si soffermarono un po’ più del dovuto sulla sua mano. Abbandonai il contatto con le sue dita quasi subito, timoroso della reazione che avrebbe potuto avere.
«Grazie.» fece lei dopo un insostenibile periodo di tempo, senza comunque intercettare i miei occhi.
Mi limitai a sorriderle, felice di quel piccolo scambio di battute, e provai ad uscire di lì, se non altro per riprendermi. Ma   
«Zack» mi richiamò lei, portandomi a guardarla negli occhi.
Quando il mio sguardo fu in suo possesso, sorrise  ingenuamente. «Come ti sembro, con questo?» mi domandò, accarezzando frenetica le pieghe del vestito, come non fossero già in ordine maniacale.
Boccheggiai per un po’, lasciando che il mio sguardo scorresse lungo la sua figura. Inconsapevolmente mi passai la lingua sulle labbra, fin quando lo alzai di nuovo, incontrando i suoi occhi scuri. «Stai benissimo.» ammisi, sincero.
Non rispose ma il suo voltò si illuminò in un sorriso, che fece sorridere anche me. Era bellissima con o senza quel vestito addosso, non potevo negarlo. Era bellissima nei suoi jeans scuri, in pantaloncini sportivi o in un elegante vestito, e lo sarebbe stata sempre. Era bellissima spalmata per terra, con i capelli in disordine dopo essere scivolata in mezzo a diversi abiti, con lo sguardo sconvolto, e più la guardavo, più volevo che quei sorrisi fossero più frequenti, più connessi ai miei. Volevo poter rimanere a fissarla senza il timore di essere inopportuno, abbracciarla come mi capitava spesso di immaginare, e baciarla, come avrei voluto fare in quell’occasione.
Avevo capito già da un pezzo che ormai non riuscivo più a vedere Stephanie nella stessa luce di prima. Non riuscivo a non sentirmi in colpa se il suo sguardo evitava il mio, e sollevato se la scorgevo sorridere. Odiavo che mi odiasse. Non lo avrei mai pensato, ma adesso il suo astio e il suo rancore erano pesanti da sopportare, da gestire. E io non volevo affatto gestirli.
«Stephanie... » sussurrai cauto, facendo qualche passo in avanti.
«Cosa c’è?» anche lei era nervosa, perché l’accenno di rabbia nella sua voce era scomparso.
Sospirai.
Puoi farcela, Zack. Sii soltanto sincero.
«Ecco, io...»
Ma arrivò mia madre.
«Stephanie tesoro, ma sei bellissima!» trotterellò alle mie spalle, spostandomi per andare ad abbracciare la ragazza.
Stephanie si lasciò abbracciare un po’ incerta, ed io presi le distanze, tornando finalmente a respirare dopo essere stato a corto di ossigeno per quei pochi minuti.
Avevo perso la mia occasione. Ma forse era stato un bene.
«Lasciati guardare, sei una meraviglia.» mia madre continuò ad elogiarla, lasciandole eseguire una timida piroetta.
Dietro di me le altre quattro ragazze erano accorse, e osservavano Stephanie e il vestito, accennando a piccoli sorrisi.
«Grazie...» sussurrò lei, appena udibile. E abbassai lo sguardo, quando il suo lo cercò.
«Ragazze» mia madre richiamò le altre, «che ne pensate?»
Dei segni d’assenso e dei sorrisi si aggiunsero a quelli di mia madre e di Stephanie, e finalmente l’abito giusto era stato trovato.
«Perfetto, allora adesso cerchiamo le taglie esatte di tutti voi, d’accordo?» propose, e le quattro la seguirono. «Tu resta qua e non togliere il vestito, così potremo vedervi con l’abito abbinato.» intimò a Stephanie prima di uscire, sparendo poi oltre lo stretto corridoio.
Anch’io sentii il bisogno di uscire, vista l’aria tornata improvvisamente troppo pesante da respirare.
«Cosa dovevi dirmi?» Stephanie tornò a parlare.
Mi bloccai con le spalle rivolte verso di lei, e sospirai. Mi voltai, esibendo un sorriso sincero. «Niente di importante.» scossi la testa, e finalmente uscii da quel negozio, felice di poter tornare a respirare a pieni polmoni. 


Sono in frettissima, perciò mi dileguerò in fretta!
Innanzitutto mi dispiace che in questo capitolo vengano esclusi Martin ed Emma, ma mi serviva concentrare un capitolo intero solo sugli altri due, in quanto leggermente più complessi (almeno per me).
Credo che con questo capitolo si cominci a capire più o meno le sensazioni dei personaggi, e mi sono divertita un mondo a scrivere la scenetta con Stephanie ahah
ma non vi rivelerò cosa Zack doveva dire alla mora, lo scoprirete più avanti :)
bene adesso vado, e vi prometto che nel prossimo Martin e Emma torneranno! :)
Ringrazio tutte le persone che hanno inserito questa storia tra le seguite, ricordate e preferite, e coloro che spendono anche un po' di tempo per recensire, sono importanti per me le vostre opinioni (:
Vi lascio con un anticipazione, come sempre:

 

«... non riuscirei ad eseguire correttamente una disequazione neanche in tre ore, e ci ho messo solo quindici minuti.»
«Quindici minuti sono tanti, non pochi. Io di solito ce ne metto due, o tre...»
«Io invece sono stupida e ce ne metto quindici, ora vuoi controllare quella stramaledetta disequazione?!»

A presto! :)

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***



Fissai le scritture indecifrabili sul mio foglio per un po’, incerta se esserne soddisfatta oppure no. Non ero mai stata un asso nella matematica – o in molte altre materie – ed ero un po’ timorosa che avessi fallito di nuovo, e che la calligrafia disordinata sui quadretti non costituisse una vera disequazione, ma solo numeri e segni messi a caso.
Deglutii e mi morsi il labbro, e quando alzai lo sguardo Martin mi osservava, in attesa. «Allora, l’hai finita?» domandò, visto che ero chinata su quel foglio ormai da quindici minuti.
Annuii, timorosa. Presi il foglio con uno scatto rischiando di strapparlo, e lo consegnai a Martin. «Tieni e controlla questa schifezza, non voglio più saperne nulla.» quasi glielo infilai tra le mani, andando poi a coprirmi gli occhi con le mie, per niente intenzionata a vedere Martin storcere lo sguardo e formare quella piccola ruga sulla fronte che significava solo una cosa: fallimento.
Qualche secondo di silenzio, e poi «Sei sicura? Non vuoi ricontrollarla?»
«Se i miei occhi vedono ancora tutti quei segni sconnessi potrei stracciarla, ti avviso.»
«Come fai a dire che sono sconnessi?»
«Perché non riuscirei ad eseguire correttamente una disequazione neanche in tre ore, e ci ho messo solo quindici minuti.»
«Quindici minuti sono tanti, non pochi. Io di solito ce ne metto due, o tre...»
«Io invece sono stupida e ce ne metto quindici, ora vuoi controllare quella stramaledetta disequazione?!»
Sospirò. «E tu vuoi toglierti le mani dagli occhi? Mi sembra di parlare con una bambina!»
«Non lo farò, finché non avrai controllato quella cosa. Perciò sbrigati.»
«Non la controllerò, se non togli le mani.»
Spalancai la bocca, indignata. «Questo è uno sporco ricatto, Payne!» protestai.
«Il ricatto è l’unico modo per ottenere qualcosa, da te.» replicò, tranquillo. «Ora vuoi perfavore scoprire gli occhi e guardarmi?» mormorò, più dolcemente.
Sbuffai pesantemente e inspirai, lasciando che le mani toccassero di nuovo il legno della sua scrivania. Ma mantenni gli occhi chiusi, decisa a non dargliela vinta.
«Ora apri gli occhi, Emma.» continuò lui, esasperato.
«Tu controlla.»
«Emma!» sbottò lui stavolta, irritato.
«E va bene, li apro, non fare il professore arrabbiato adesso!» gliela diedi vinta, aprendo finalmente gli occhi. Le sue iridi azzurre e il suo sorriso soddisfatto furono la prima cosa che il mio sguardo intercettò, e sospirai. «Fai in fretta però.» gli intimai.
Martin scosse la testa divertito, ed io cominciai a guardarmi attorno e dondolarmi sulla sua sedia girevole, sembrando un idiota, ma avrei fatto qualsiasi cosa per distrarmi e non pensare al foglio che lui aveva tra le mani.
E quasi mi venne voglia di piangere quando lui arricciò le labbra, e incurvò un sopracciglio, mentre continuava a passare la matita sul foglio bianco, riga per riga.
«Hm...» mormorò, un po’ perplesso.
«Ecco lo sapevo, ho fatto un casino!» cominciai a lamentarmi io.
«No no non hai fatto un casino» cercò di rassicurarmi lui, «ma vieni qui, ti faccio vedere una cosa.»
Mi avvicinai a lui spingendo col piede, e quando gli fui vicina lo guardai, curiosa.
Lui chinò la testa sul foglio, portandomi a fare lo stesso. «Il delta di questa equazione è 36, non 41. Quindi non c’è alcun bisogno di mettere niente sotto radice, perché la radice quadrata è esatta, ed è 6.» mi spiegò, indicando con la matita il punto in cui avevo sbagliato «Se si aggiusta questo piccolo errore, l’operazione è giusta.»
Spalancai occhi e bocca dalla sorpresa, e non potei trattenere un piccolo urletto di gioia. «Ho fatto una disequazione! E l’ho fatta da sola!» cominciai a battermi le mani, euforica.
«Visto? Non c’era bisogno di essere così spaventata.» mi rimbeccò lui, assumendo la solita espressione da “te l’avevo detto”.
«Forse per te, ma io non sono mai riuscita ad andare oltre le espressioni con le parentesi graffe in matematica, e questo è un traguardo importantissimo!» esultai. «Oh Martin, comincio a pensare che tu sia un mago!» mi gettai tra le sue braccia, al settimo cielo.
Lui sorrise in un primo momento ma tossicchiò, intimandomi di allontanarmi. «E’ solo merito tuo, io non c’entro niente...» il suo tono era imbarazzato.
«Invece sì!» lo contraddissi, «E’ grazie a te che sono riuscita a capire come funzionano quelle cose, sei un insegnante magnifico!» lo elogiai, regalandogli un altro abbraccio, che stavolta ricambiò, seppur debolmente.
«Ma adesso basta matematica, ti rende troppo felice» decise, divertito dalla mia reazione esagerata, e si allontanò, portandosi in piedi.
«Hai ragione. Dobbiamo festeggiare.»
«E come, diamo una mega festa?» propose lui allusivo, ed ironico.
«No, non qualcosa di così eclatante, ma dobbiamo comunque festeggiare.»
Inclinò la testa, come a rifletterci. «Potremo andare a prendere un altro gelato, che ne dici?» fu infine la sua idea.
Annuii, sorridente. «Magari stavolta eviti il bigliettino nell’armadietto, però.» lo assecondai io, divertita.
«Sei tu ad avermi lasciato quel biglietto! Pensavo fosse una qualche minaccia, sai?»
Divenni improvvisamente seria, e aggrottai la fronte. «Aspetta... Io ti ho lasciato quel biglietto?» chiesi, confusa.
Com’era possibile? Io non avevo lasciato nessun biglietto nel suo armadietto, era stato lui a farlo.
«Sì...L’hai lasciato nel mio armadietto il giorno prima che andassimo a prendere un gelato» rispose lui, leggermente sospettoso.
«Sei sicuro?»
«Certo che lo sono. Possibile che tu non lo ricorda?» era perplesso, e si voltò per andare a scovare qualcosa su una piccola mensola «Tieni, eccolo.» mi tese il bigliettino.
Lo presi tra le dita, le sopracciglia incurvate.
Ci vediamo domani pomeriggio per un gelato? –Emma”
Dischiusi la bocca di poco, in procinto di dire qualcosa. Ma mi bloccai, incerta di come davvero giustificare quel biglietto.
Com’era possibile che ci fosse la mia firma? Pensavo di essere stata io a ricevere il suo invito e non il contrario, e adesso venivo a scoprire che Martin aveva trovato il mio invito su un bigliettino nel suo armadietto, ed io non avevo scritto assolutamente nulla. Per giunta, il messaggio era identico a quello scritto nel mio biglietto.
«Allora? Te lo ricordi adesso?»
Alzai lo sguardo su di Martin, e abbozzai un mezzo sorriso. «Veramente io...» cominciai, ma mi interruppi. Un cipiglio arrabbiato si formò sulla mia fronte e scossi la testa incredula, quando riconobbi la calligrafia di Veronica.
Brutta stronza.
«Sì, me lo ricordo.» sorrisi a Martin, che tornò tranquillo. Nella mia mente, già programmavo la piccola vendetta che avrei attuato contro la mia migliore amica.
«Bene. Ti va della torta al cioccolato? Mamma dovrebbe averla fatta.»
Annuii sorridente e lo raggiunsi, intrecciando il mio braccio al suo. «Direi che è meritata.»
 
«... Credo che sia meglio sistemare il bancone degli alcolici da quella parte, e lasciare molto più spazio qui al centro, per ballare, o parlare, o qualsiasi cosa, e...»
Stephanie si interruppe, e volse lo sguardo verso l’ingresso della palestra, esattamente verso il sottoscritto. Alzò gli occhi al cielo e continuò a dare indicazioni alle altre tre ragazze, che presto si volatilizzarono in direzioni diverse, come api operose agli ordini dell’ape regina.
Sorrisi alla sua occhiataccia e agitai la mano in segno di saluto, avvicinandomi a lei.
«Perché sei qui.» fu il suo caloroso e accogliente benvenuto.
«Sempre dolce come il miele, eh Gilbert?» commentai io, ironico.
E dire che la sera precedente stavo per confessarle le mie scuse ufficiali e mettere fine alla continua guerra tra noi due. Mi chiedevo se si sarebbe sforzata di fingere di essere felice di vedermi, se lo avessi fatto e non fossi stato interrotto. Ma probabilmente era stato meglio così, non valeva la pena immortalarsi per qualcuno che ti avrebbe trattato sempre nello stesso e identico modo. D’altronde era un fatto risaputo che il solo mio respirare la infastidisse, e non sarebbe stato diverso in quel momento, convenevoli o non.
«Ti ho fatto una domanda. Esigo una risposta.» ripeté dura, intrecciando le braccia al petto.
Inclinai la testa, fissandola con sguardo sottile. «Non ce l’ho una risposta. Forse avevo voglia di farmi trattare da zerbino, quindi sono venuto qui da te.» alzai le braccia, riservandole il mio sorriso più leccaculo. 
Lei assunse un’espressione arrabbiata, e scosse la testa. «Se non ti piace il modo in cui ti tratto, forse faresti meglio a non farti vedere.»
«Scusa ma non ho visto il tuo nome sulla porta, quando sono entrato. Per quanto ne so è ancora un luogo pubblico, questo. E ho il diritto di metterci piede quando mi pare.» scandii le ultime parole, utilizzando appositamente un tono misto tra la sfida e la provocazione, che ero certo la irritasse. Non ero comunque ancora sicuro ci fosse almeno una cosa di me, che non la irritasse.
Non ribatté, limitando il suo desiderio di prendermi a pugni solo agli occhi, che mi fissavano truci.
Io le sorrisi, sornione. Poi presi a guardarmi attorno, meravigliato. «Devo ammetterlo» feci dopo un po’, «questa palestra comincia davvero ad assomigliare ad una sala da ballo.»
Era incredibile come aver sgomberato l’intera stanza e qualche pennellata di vernice avessero trasformato una palestra inutilizzata ormai da un bel po’ in un aspirante sala da ballo studentesco. In lontananza era stato persino allestito un palchetto carico di attrezzature apposite, anche se non proprio funzionante, e la moquette che era stata stesa per l’intero perimetro della sala, cominciava a dar vita all’insieme.
«Anche le luci stroboscopiche!» esclamai con gli occhi spalancati, e un piccolo sorriso accennato, notando l’enorme palla scintillante da discoteca che era stata affissa al soffitto. «Avete fatto grandi progressi qui dentro, eh?»
Stephanie sorrise, in una smorfia. «Cosa ti aspettavi? Che attendessimo il tuo ritorno da grande eroe?» borbottò, la solita nota di crudele sarcasmo.
Sospirai, esasperato. Era passata quasi una settimana, e ancora ce l’aveva con me per essermi dimenticato di aiutarla quel pomeriggio, e non perdeva occasione per rinfacciarmelo. Le avevo chiesto scusa – con risultati comunque abbastanza catastrofici – ma lei non sembrava intenzionata a dimenticare o almeno accantonare la faccenda, come se la mia colpa fosse così grave quanto un omicidio colposo, e non fossi stata la vittima di una semplice e comune dimenticanza. Sapevo benissimo quanto poteva essere permalosa e rancorosa , erano i due motivi principali – oltre che insopportabile – per cui preferivo tenermi alla larga da lei e dalle sue occhiatacce, ma cominciavo ad essere stanco di sentirmi rinfacciare ogni volta le stesse colpe e doverle ripetere le stesse cose, come non mi fossi già reso abbastanza ridicolo per averla baciata così, senza un motivo, anche se lei non poteva sapere quanto la cosa mi mettesse a disagio.
«Hai intenzione di portarmi rancore a vita, per questa cosa?» le domandai, un po’ irato.
«Non lo so, tu hai intenzione di ronzarmi attorno ancora per molto?» replicò lei.
Presi un lungo respiro, e feci appello a tutte le mie forze per scacciare quel crescente senso di nervosismo, e calmarmi, in modo da risponderle senza per forza farmi odiare di più.
«Sono venuto per continuare quello che ho iniziato, d’accordo?» ammisi quindi, preso in contropiede «Ho preso un impegno con te, con le ragazze e con questa palestra; mi dispiace di non averlo rispettato sin dall’inizio ma voglio rispettarlo sino alla fine.»
«Come vedi ce la stiamo cavando alla grande anche senza di te, per cui non c’è alcun bisogno che tu venga qui a fare l’uomo d’onore, perché è un ruolo che non ti riesce, Zack.»
«Non sto facendo l’uomo d’onore, voglio semplicemente rendermi utile.»
«Te l’ho già detto, non abbiamo bisogno di te.» ripeté severa «Puoi tornartene a lanciare palle in un canestro, qui arrechi solo fastidio.»
All’interminabile lista di difetti di Stephanie ci avrei aggiunto lunatica. Non avevo mai conosciuto una persona con sbalzi d’umore così repentini ed evidenti, forse apparte me, e questo suo comportamento cominciava davvero ad infastidirmi.
Com’era possibile che una sera fossi il suo miglior confidente e compagno di scherzi, il giorno seguente mi ignorasse come una malattia, l’altro cercasse di scusarsi con me, per poi odiarmi il giorno successivo? Era totalmente illogico, se poi mettevo in conto il piccolo momento di pace e intimità nei camerini e la sua incontrollabile ira di quel pomeriggio. Doveva avere molteplici personalità, perché io ancora non avevo capito qual’era la sua vera e quale invece mi riservasse.
Se la vera Stephanie era quella permalosa e insopportabile, allora era con Martin che fingeva giorno per giorno, ma se invece mantenesse le barriere alte e infrangibili soltanto con me? E allora perché si era esposta così tanto, confidandosi? Perché mi era sembrato di cogliere un accenno di affetto e di dolcezza nei suoi occhi, mentre mi ascoltava rapita insieme in quei camerini, se tutto quello che sapeva fare era odiarmi?
«No, aspetta» la fermai per il polso, quando tentò di darmi le spalle ed allontanarsi.
Lei si voltò, stufa. «Cosa vuoi ancora?»
Ma non riuscii a cogliere il suo sguardo, perché tutto quello che riuscii a percepire fu buio. Solo buio a circondarci, nessun spiraglio di luce. E la voce vellutata e candida di Stephanie, pronunciare un «porca puttana» così fuori dalla sua portata.
 
Restai comodo sul mio letto ed annuii, quando Emma mi avvertì gentile di stare uscendo per rispondere alla telefonata sul suo cellulare. E scossi la testa, quando mi accorsi di stare fissando ancora la porta, nonostante lei l’avesse attraversata ormai da qualche secondo.
Ero soddisfatto di quel pomeriggio. Quando avevo presentato a Emma il libro di matematica sotto il naso, stabilendo la materia di quel giorno, il suo sguardo era stato uno dei più terrorizzati che avessi mai visto. Aveva ripetutamente affermato senza alcuna vergogna di non essere assolutamente portata per la matematica, né volesse averci qualcosa a fare, e mi aveva pregato di cambiare materia almeno dieci volte, cercando di convincermi che sarebbe stato solo tempo perso. Ma io ero stato irremovibile e non le avevo permesso di decidere, ricordandole che ero io l’insegnante lì dentro e, nonostante avessi speso ben due ore a spiegarle i principi fondamentali di un’equazione e una disequazione, ero fiero di essere riuscito a farle comprendere l’esatto svolgimento dell’operazione.
E doveva essere anche lei parecchio entusiasta, perché mi aveva allacciato le braccia al collo e ringraziato più di una volta, euforica. Ma ero felice che non si sentisse così abbattuta e vinta come si definiva all’inizio, e per quello che ricavavo da lei, potevo considerarmi un insegnante decente.
Avevamo stabilito di continuare con storia per quella sera, ma l’attenzione era scemata quando Emma aveva cominciato a girare in tondo per la stanza, analizzando ogni singolo dettaglio. Aveva cominciato dalla bacheca di foto sulla parete, alla collezione di libri e dvd, per finire all’x-box ad un angolo della stanza, che aveva deciso di adoperare. Inutile sperare che si interessasse alla rivoluzione spagnola, a quel punto.
Ero rimasto sorpreso dalla sua abilità al gioco. Non pensavo fosse così brava a pilotare auto, e così mi ero cullato, sicuro di poterla stracciare. Ero rimasto a dir poco sbalordito, quando era stata lei a mandare la mia auto fuoristrada. “Talento naturale” si era vantata, ed io ero scoppiato a riderle in faccia, per poi vendicarmi con una buona dose di solletico.
Non era passato molto tempo quando dopo averle concesso una piccola tregua il suo cellulare aveva preso a squillare, e ora lei era da qualche parte nel corridoio, a parlare con qualcuno che ero sicuro non conoscere.
Sospirai e decisi di approfittare di quella piccola pausa per scendere a prendere un bicchiere d’acqua e dissetarmi, vista l’ardua guerra di joystick. Ma quando feci per scendere le scale la voce di Emma non mancò di giungermi alle orecchie, squillante. Si era chiusa in bagno.
«Dico ma sei idiota? Dannazione, Ronnie!» borbottava al telefono, oltre il legno scuro.
Sorrisi divertito, nell’intendere che stesse litigando con Veronica, ma tornai immediatamente serio, quando le mie orecchie captarono qualcos’altro.
«Hai falsificato la mia firma e la mia calligrafia, te ne rendi conto? Esistono condanne, per questo genere di cose!»
Istintivamente aggrottai la fronte, perplesso. Per qualche strano motivo sentivo che quella discussione non portava a nulla di buono, e rimasi lì sulle scale inerme, incerto se scendere o restare ad origliare.
«No che non mi calmo!» si costrinse ad abbassare il tono della voce «Mi hai presa in giro, anzi hai preso in giro entrambi! ... Non avevi il diritto di farlo! ... Martin crede che io abbia scritto un bigliettino per invitarlo ad uscire, invece sei stata tu!»
Fu quella la goccia a far traboccare il vaso.
Mi resi conto improvvisamente di essere stato così stupido, a pensare che fosse stata davvero lei, la mia Emma, ad invitarmi ad uscire. Avevo inizialmente pensato stesse cominciando ad interessarsi a me, anche minimamente, ma ora che avevo scoperto che non era stata lei, ad imbucare quel biglietto, la verità mi era stata sbattuta contro: Emma non si sarebbe mai interessata a me.
E forse non ci sarei rimasto così male, se solo lei non fosse sembrata così infastidita da ciò che la sua amica aveva fatto. Dal tono di voce nervoso e irato che aveva sembrava vergognarsi. Forse si era persino vergognata di starmi accanto quel pomeriggio, mentre io pensavo che ci stessimo avvicinando, come più di semplici conoscenti.
E compresi perché lei credesse che fossi stato io, ad invitarla. Non si era dimenticata del suo biglietto, lei non l’aveva mai mandato. Come io non avevo mai scritto il suo, come lei affermava avessi fatto. Eravamo stati entrambi coinvolti in un imbroglio, e lei sembrava più irritata che mai.
Forse nemmeno le interessava essermi amica, ed io continuavo ad illudermi inutilmente, fantasticando sul giorno in cui le avrei confessato ciò che provo. Ma non l’avrei mai fatto.
«Veronica non provare a riattaccare, oppure-» la sua voce si interruppe, come forse la chiamata in cui era impegnata «vaffanculo!» borbottò contro il cellulare.
Uscì di fretta dal bagno ed io non ebbi tempo di muovermi, evitare che i suoi occhi si fermassero a guardarmi. Quando capì che avevo sentito ogni cosa, assunse un’espressione rammaricata.
Ma io nemmeno la guardavo, lo sguardo fisso davanti a me.
«Martin...» provò ad avvicinarsi.
Mi voltai, pronto ad affrontarla. Non mi importava che vedesse i miei occhi lucidi, volevo capire cosa realmente significassi per lei e cosa provasse. E non c’era modo migliore per farlo, se non tenendo gli occhi puntati verso di lei.
Ma lo sguardo di Emma appariva introvabile. Solo buio, a circondarci.
 
Mi trascinai a terra e mi rannicchiai schiena contro la parete, lasciandomi andare ad un pesante sospiro. Zack mi imitò e alzò lo sguardo, andando a fissare la sfera scintillante sulle nostre teste, unica fronte di luce, oltre i cellulari.
«Quella mi piace tanto.» mormorò, le labbra sottili a piegarsi in un sorriso ingenuo.
Roteai gli occhi al cielo e rivolsi uno sguardo supplichevole alle luci al neon spente, quasi potessi convincerle ad accendersi con il mio musetto triste. Ma come sospettavo quelle rimasero spente, ed io sbuffai innervosita, stanca di essere circondata da tutto quel buio.
Non si conosceva la ragione esatta di quel blackout. Non c’era nessun temporale da provocare un aumento di elettricità, e anche le luci nei corridoi e le altre stanze della scuola erano spente, ragione per cui non si poteva dubitare di un malfunzionamento delle lampadine. Avevo dato un’occhiata fuori dalla palestra e notato la mancanza di luci nel negozio di fronte, per cui avevo supposto un blackout generale della città.
«Sul serio, la sfera è un’idea geniale.»
Ma niente avrebbe potuto irritarmi come la compagnia di Zack, in quella stanza buia. Non potevo nemmeno usufruire della presenza delle mie collaboratrici perché, vista la scarsa sicurezza a spostarsi da una stanza all’altra senza luce a fare da guida, avevano deciso di restare esattamente dov’erano, senza arrischiarsi di andare a sbattere contro qualcosa o inciampare. Così rimanevamo soltanto io e Zack, seduti per terra in quella palestra buia.
Non avevo ancora idea del perché fosse lì. Mi aveva esplicitamente detto di volermi aiutare, ma non ero così sicura di potermi fidare di lui: mi aveva delusa una volta, chi mi assicurava che non l’avrebbe rifatto? Non volevo farmi ancora del male e pentirmi per aver riposto della fiducia nel suo tono rassicurante, né tantomeno volevo apparire debole e barcollante ai suoi occhi, così avevo fatto dell’attacco la mia miglior difesa. E funzionava, finché non mi ritrovavo faccia a faccia con i suoi occhi.
A quel contatto sviai lo sguardo imbarazzata, felice che non potesse vedere il colorito sulle mie gote. Sapevo che mi stava fissando, nonostante fosse buio pesto. Riuscivo a sentire il suo sguardo perforare ogni centimetro della mia pelle.
«Ci siamo già stati in questa posizione.» lo sentii ridacchiare.
Arcuai le sopracciglia.
«Sì, la prima volta che ci siamo incontrati per decidere di sistemare questa palestra, quando mi hai urlato contro.» riprese.
Allora ricordai. Aveva ragione, nel primo pomeriggio che avevamo passato insieme in quella palestra eravamo finiti proprio così alla fine, spalle contro il muro. Arrossii, al ricordo di quella sera.
«Ti ho consolata, te lo ricordi?»
Annuii debolmente, ma solo quando ricordai che lui non avrebbe potuto vedermi, sillabai un «Sì»
Lo sentii sorridere. «Saremmo potuti sembrare amici.»
«Sei stato tu a non volere che lo sembrassimo.» ribattei, riportando a galla la sconveniente battuta fatta nel giardino di casa sua.
Inspirò. «Già. Allora, andrai al ballo con Crowner?»
Mi voltai verso di lui con la bocca leggermente spalancata. Come faceva a sapere che me l’aveva chiesto?
«Non lo so ancora.» risposi comunque, ricordando come le notizie viaggiassero veloci in quella scuola «E tu, ci porterai una delle tue troiette?» O Amanda?
Non seppi perché il suo nome si fece spazio nella mia mente. Eppure avevo sentito bene la loro conversazione, e sapevo che lui non avesse nemmeno tutta questa intenzione di andarci, al ballo. Ma il solo pensiero che decidesse alla fine di portarci lei mi faceva infuriare.
«Non lo so ancora.» mi imitò comunque, ridacchiando.
Mi stavo semplicemente rendendo ridicola. Avrebbe potuto pensare che ero gelosa, ed io non lo ero affatto.
Decisi quindi di optare per il silenzio, fin quando non fu lui a riprendere la parola.
«Sono stanco, Stephanie.» sospirò «Io non ti odio.»
«Neanch’io ti odio.»
«E allora perché non facciamo che punzecchiarci?»
Rimasi in silenzio, non avevo una risposta a quella domanda. Forse era semplicemente abitudine, destino, oppure ci ostinavamo a mantenere le distanze di proposito, come avevo pensato molte volte lui facesse con me.
«Non lo so.» ammisi infine.
Quella situazione era assurda, ma stranamente reale. Sembrava quasi avessimo bisogno di star zitti per qualche secondo ed evitare di guardarci negli occhi, per poter essere sinceri l’uno con l’altro. E quando succedeva diventava naturale parlare con lui, normale. Non ci urlavamo contro né ci mandavamo occhiatacce, semplicemente ci facevamo cullare dal silenzio dei nostri respiri. Era rilassante, così confortevole che avrei voluto poggiare la mia testa sulla sua spalla e farmi abbracciare, ma mi riguardai bene dal fare un passo così azzardato.
«Stephanie?» mi richiamò ancora lui.
«Sì?»
«Devo dirti una cosa.»
«Dimmi.»
Inspirò profondamente, prima di aprire bocca. Mi sembrò quasi tremasse, per quanto era nervoso.
«Ecco, io...»
Ma la luce tornò ad illuminare il suo viso, ora contratto in una smorfia di fastidio. Tornai a vedere le sue labbra dischiuse e gli occhi spalancati, il capo che si abbassava. Si allontanò repentino da me, quasi scottassi alla luce del sole.
Ed io sospirai, perché sapevo che non mi avrebbe mai detto ciò che stava per confessarmi, ora che potevo vederlo in viso.


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Sono tornata! 
Ho deciso di aumentare lo zoom dei caratteri ahah 
Dopo un intero capitolo dedicato interamente a Stephanie e Zack, sono tornati anche Martin e Emma.
Forse qualcuno già si aspettava che fosse stato qualcuno ad organizzare la loro piccola uscita, ma comunque... blame on Ronnie! (anche se le sue erano buone intenzioni :c)
La reazione di Martin non è delle migliori. 
E nemmeno tra gli altri due sembra esserci parecchio equilibrio.
Un casino, praticamente. ahah
Ci sentiamo al prossimo capitolo, che per giunta è lunghissimo!
Ringrazio chi spende tempo a leggere e lasciare una piccola recensione, e chi ha inserito questa storia tra le seguite, ricordate o preferite. Mi rendete davvero felice, ed è il vostro supporto a spingermi a continuarla! :)
Alla prossima!


«Mi era venuta voglia di spiaggia.» fu la mia banale giustificazione.
Lei mi osservò, il solito sopracciglio incurvato. «E dovevi proprio fartela venire in piena notte, questa voglia?»
«Non sarebbe stata una voglia, se l’avessi programmata.»

 





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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


                                                                                                                                                                                                                                                                                                         but tonight I could fall too soon
into this beautiful moonlight


«Quindi il vostro appuntamento è stato … programmato?»
La voce sottile di Stephanie, resa leggermente più squillante a causa della ricezione, si amplificò nelle mie orecchie.
Programmato.
Quella parola si ripeteva ormai nella mia testa un milione di volte, come un fastidiosissimo eco.
Programmato.
Emma non aveva mai voluto uscire con me. Lo aveva fatto forse per compassione, una volta visto il mio falso invito.
Programmato.
Come avevo potuto essere così stupido da pensare che lei volesse passare del tempo con me di sua spontanea volontà? Non ero mai stato più visibile per lei che come un’indegna copia della sua leggendaria cotta. Avrebbe voluto invitare Zack.
Programmato.
Tutto era stato programmato. I nostri incontri erano programmati. Quel pomeriggio era stato programmato. E non da lei.
Non ero arrabbiato con lei, ma con me stesso. Mi sentivo semplicemente illuso e deluso, di aver pensato che qualcosa stesse cominciando a smuoversi tra noi. Avrei dovuto saperlo, che c’era qualcosa sotto.
Avevo sentito Emma più vicina, durante quel pomeriggio passato al parco. Il nostro conversare tranquillamente, le risate sincere e i sorrisi accennati, mi avevano fatto credere che forse cominciavo ad ottenere ciò a cui più ambivo: la sua complicità. Il modo in cui mi parlava e mi sorrideva, come mi aveva abbracciato e si comportava nel modo più naturale possibile... avevo creduto stesse cominciando a sentirsi a suo agio, con me. Mi ero ritrovato a ripetere a me stesso almeno dieci volte “bravo Martin, la fai sorridere” durante quel pomeriggio, felice che lei fosse felice, e avevo sul serio creduto che le sue risate, il suo atteggiamento complice, fossero una specie di ricompensa per non essermi tirato indietro e per tutto quel tempo passato ad osservarla da lontano, senza osare dirle una parola.
Non le avevo mai sul serio parlato, prima di quello scontro in biblioteca. E quando me l’ero ritrovata davanti, l’espressione dal tratto sconvolto, avevo pensato che forse era giunto il momento di farmi avanti. Ma era stata lei a farlo, sorridendomi in un modo così dolce che riservava ad ognuna delle sue nuove conoscenze, sebbene mi conoscesse già e anch’io non avessi passato giorno di quell’anno a non squadrarla e fissarla incantato a mensa.
Il nostro approccio era stato assurdo, ma piuttosto semplice. Come due conoscenti che imparano a conoscersi e diventano amici, nelle migliori delle ipotesi. Avevo avuto modo di constatare quanto Emma fosse spigliata e travolgente come pensavo che fosse, e lei mi aveva confermato quanto le sue teorie su come introverso ma interessante fossi più di una volta, come due amici che si riscoprono piano. Avevo creduto stessimo cominciando a diventare amici, prima di quel pomeriggio, quando le mie teorie e speranze erano state distrutte, da una banale telefonata.
Ignoravo la ragione per cui Veronica avrebbe dovuto organizzare quell’imbroglio di cui avevo compreso fosse l’artefice, ma non potevo nascondere la delusione nell’aver scoperto che quella non fosse stata un’idea di Emma. La delusione nell’aver scoperto che non era stata lei, ad interessarsi a me.
Avevo passato le tre ore successive all’andata di Emma steso sul mio letto immobile, senza toccare la cena che mamma mi aveva portato su, e solo dopo aver passato un’altra ora a lasciarmi influenzare dal corso malsano del mio pessimismo, esattamente 30 minuti dopo la mezzanotte, avevo deciso di chiamare Stephanie.
Mi ricordai allora di stare al telefono con lei, dunque «Sì. Ma avrei dovuto aspettarmelo, in fondo...» risposi, con tono sommesso.
«Io invece penso sia una carognata. E nessuno si aspetterebbe mai un appuntamento programmato, quando ad invitarti è la ragazza o il ragazzo che ti piace. Nemmeno tu puoi sapere tutto, Martin.»
«Questo avrei dovuto saperlo. O perlomeno aspettarmelo.»
Un pesante e prolungato sbuffo si propagò oltre la cornetta, lasciandomi immaginare la mia amica alzare gli occhi con fare esasperato. «Devi smetterla di sottovalutarti, Martin!» squillò, «Sei bello, dolce, simpatico, ed uno dei rari ragazzi dotati di un cervello che io conosca. Non c’è una sola ragione per cui una ragazza non vorrebbe uscire con te o volerti come fidanzato, nessuna! Ed Emma non è fuori da questa lista, quindi smettila di comportarti come se non meritassi nemmeno di respirare la sua stessa aria e comincia a nutrire un po’ di autostima per te stesso!»
Restai ad ascoltare la sua “sfuriata a fin di bene”, come le definiva lei, in silenzio senza fiatare, mentre ogni parola si faceva chiara nelle mie orecchie.
Autostima. Forse era su quello che avrei dovuto lavorare. Cominciare a pensare che fossero gli altri a dover meritare me, non il contrario.
Sospirai. «Cosa pensi dovrei fare adesso, quindi?»
«Comincia col non dipendere più da nessuno. Il tuo mondo devi costruirtelo attorno, non attorno ad una persona. Devi imparare a mettere la tua felicità prima di quella di chiunque altro, è questa la regola base.»
«Suggerimenti per attuarla?»
Fece una pausa, come a rifletterci. «Ispirati a Zack.» esordì infine, «Lui è il maestro dell’egocentrismo, e non c’è nessun altro che sappia fregarsene degli altri come lui, di sicuro ti sarà utile.»
Anche a distanza di una cornetta, avrei saputo percepire il suo tono fintamente sarcastico. Mi lasciai quindi scappare un sorriso e «Ancora problemi di incomprensione, tra voi due?»
Sospirò. «Più che altro è lui, ad essere del tutto incomprensibile. Peggio di una donna col ciclo, ma 24 ore al giorno e tutti i giorni.»
Ridacchiai, divertito dal modo in cui quella definizione gli calzasse a pennello. «Zack è lunatico, ma devi solo saperlo prendere nel modo giusto. Potrebbe donarti cuore e anima, se ci riesci.»
La voce dall’altro capo del telefono si placò per qualche istante, fin quando «Cercherò di prenderlo faccia al muro, allora» tornò a rimbombare, insieme alla mia risata.
«Cerca di non trattarlo troppo male, è pur sempre mio fratello.»
«Vedrò cosa posso fare. Tu ricorda quello che ti ho detto e vedi di metterlo in atto.»
Annuii come un obbediente burattino al suo tono esigente, ma quando mi ricordai che lei non poteva vedermi «Vedrò cosa posso fare.» la imitai.
Stephanie rise e le nostre risate andarono ad unirsi per qualche secondo, poi fui io a richiamare la sua attenzione: «Vorrei poterti amare.» mormorai, lasciandomi scappare un sorriso.
«Ma tu mi ami già.» obiettò lei.
«Già.»
Un rumore assordante che doveva essere uno sbadiglio mi fece intendere quanto dannosa fosse stata per Stephanie la mia telefonata di quasi notte fonda, quindi  «E’ meglio che vada a dormire, ci vediamo domani» la salutai, e lei fece lo stesso, senza evitare di scambiarci il consueto “ti voglio bene”.
Terminai la chiamata e posai il cellulare sul comodino. Mi ricacciai con la testa sul cuscino e mi addormentai poco dopo, con la testa decisamente più leggera.
 
Zack è lunatico, ma devi solo saperlo prendere nel modo giusto. Potrebbe donarti anima e cuore, se ci riesci.
Le parole di Martin continuavano a rimbombare nella mia testa, insidiose. Per quanto mi fossi sforzata di distrarmi l’unico argomento su cui il mio cervello avesse voglia di concentrarsi era Zack Payne. Non riuscivo a pensare a qualcos’altro oltre i suoi occhi, il suo sorriso strafottente e le sue parole, mancate per la seconda volta.
Cominciavo a pensare che fossi destinata a non sapere mai cosa realmente gli passasse per la testa. Due volte avevo avvertito la sensazione che volesse dirmi qualcosa, non una delle sue irritanti e inutili battutine, ma qualcosa di davvero importante. Qualcosa che lo rendeva nervoso e parecchio instabile, vista l’abitudine che aveva di scappare quando inevitabilmente finiva per cucirsi la bocca e mascherare la tensione con un sorriso.
Tutto questo mi rendeva intrattabile. In genere odiavo quando le cose mi venivano nascoste, e il fatto che fosse proprio lui a tenermi all’oscuro aggravava la situazione. Fremevo dalla voglia di conoscere il contenuto di quelle parole che non aveva pronunciato, ma che mi riguardavano quasi sicuramente, e più la scena di lui che scappa e mi lascia a bocca asciutta si ripeteva nella mia testa, più mi facevo prendere dal nervoso e piagnucolavo contro il cuscino, maledicendolo per essere così dannatamente complicato.
Per quanto ricordavo non si era mai fatto scrupoli a rendermi noti i suoi pensieri ed esibire quella sua faccia da schiaffi, ma allora perché adesso si bloccava ogni volta che mi azzardavo a pensare di stare facendo chiarezza dentro di lui? Più provavo a raggiungerlo, più lui innalzava il suo muro, impedendomi di capirlo davvero affondo.
Forse come avevo fatto io da quando l’avevo conosciuto, più o meno.
Che fosse una specie di ripicca?
Zack non era così riservato e indiscreto nelle sue “vendette”, non poteva certamente trattarsi di quello. C’era qualcosa che occupava la sua mente, negli ultimi giorni. Sembrava distratto, scostante, quasi fragile.
Che c’entrassi io?
Non poteva ridursi in quello stato solo perché io avevo deciso di portargli il muso. Non gli era mai importato che non provassi nemmeno il minimo di simpatia nei suoi confronti, anche lui stentava a sopportarmi, possibile adesso tenesse alla reputazione che avevo di lui? Alla nostra amicizia
Se fosse stato così, allora la colpa era soltanto mia. Lui non era stato il migliore degli amici certo, ma ero stata io a portare il mio rancore un po’ troppo a lungo. Ripensandoci, avrei potuto passare oltre quella sua unica distrazione, ma forse le cose avevano cominciato a mutare dopo. Dopo il bacio.
Sentivo le labbra bruciare leggermente, ripensando al modo in cui le sue le avevano sfiorate. Calde, avevano accarezzato le mie con una dolcezza che riuscivo a realizzare solo in quel momento. Non era stato un bacio forzato il suo, mi aveva lasciato libertà di scelta. Ed io avevo deciso di non ricambiare quell’equivoco gesto, destinato a rimanere un segreto tra noi due. Gli avevo intimato di starmi lontano nel momento in cui la mia testa era sul rischio di scoppiare per l’eccessiva confusione, e adesso cominciavo a dubitare fosse stata la scelta giusta. Gli avvenimenti che ne erano venuti dopo, d’altronde, non erano certo stati risvolti positivi, ed io e Zack eravamo tornati a comportarci da due perfetti bambini dispettosi, ferendoci a vicenda come sempre avevamo fatto. Ed io ancora non riuscivo a capire se volessi davvero odiarlo o lo facessi solo perché era lui a farlo.
Ma sentire la lieve sensazione dei suoi denti sulle mie labbra e ripensare alla consistenza morbida delle sue mentre mi baciava, ad occhi chiusi distesa sul mio letto, stava decisamente avendo risvolti troppo negativi per permettermi di poter dedicarvi ancora un pensiero.
Mi alzai di scatto e mi portai seduta come a comando, lanciando una piccola occhiata alla sveglia sul mio comodino: 01.23. Avrei dovuto dormire, e invece i miei occhi non accennavano a chiudersi, quasi quella fosse una punizione per non aver dato il giusto peso alle cose prima, e quindi dovessi farlo allora.
«Ti odio Payne.» grugnii stizzita, cadendo con la schiena sul materasso e portandomi il cuscino sulla faccia, quasi servisse a soffocare il corso della mia mente.
Ma non servì. E fui costretta a liberarmene e tornare a respirare, quando il cellulare vibrò due volte, segnalando l’arrivo di un nuovo sms.
Il solo leggere del mittente di quel messaggio, mi smorzò il fiato.
Ti va di accompagnarmi in un posto? – Zack”
 
Quando filò fuori dall’auto, Stephanie cominciò a guardarsi attorno. Si strinse nelle spalle e infine tornò a guardarmi, parecchio perplessa. «Mi spieghi perché siamo in spiaggia con questo freddo e a quest’ora?» furono infine le sue parole, che non mi sorpresero affatto.
Mi limitai a sorridere e scuotere la testa, senza fornirle una vera risposta.
Feci qualche passo in avanti e per l’occasione mi chinai a sfilarmi le scarpe da ginnastica, estasiato dalla sensazione della sabbia tra le dita. Ogni piccolo dettaglio di quel posto, a partire dalla sopraffacente aria di calma e quiete al limpido rumore delle onde infrangersi contro la battigia, era rilassante. Tanto che persino le lamentele di Stephanie mi arrivavano ovattate, ma non si alleviavano, purtroppo.
Mi permisi di respirare a pieni polmoni l’aria intrisa di salsedine per un secondo, prima di voltarmi verso la mia fastidiosa interlocutrice.
Vederci lì insieme, come due anime sperdute nel nulla, su una spiaggia deserta quasi alle 2 di notte, sarebbe potuto sembrare da pazzi, o esilarante. Mi ero pentito di quel messaggio nell’esatto momento in cui la piccola √ era comparsa accanto al mio sms: pensavo dormisse, invece aveva appena letto il mio sms. Avevo meditato qualsiasi scusa possibile, semmai avrebbe risposto: “ho sbagliato destinatario”, “era Martin col mio telefono, non io”, “il messaggio è partito da solo, io non c’entro nulla”. Ma quando avevo realizzato quanto quelle finte giustificazioni fossero al limite del ridicolo, avevo sospirato e mi ero rassegnato ad aspettare il suo “vaffanculo”, maledicendomi ancora una volta per essere così impulsivo.
Poi lei aveva risposto.
Passi a prendermi tu?”
Avevo sbattuto le palpebre un paio di volte, incredulo riguardo ciò che avevo appena letto. Nessuna imprecazione, nessuna domanda indiscreta, solo un implicito consenso.
Dieci minuti dopo, ero a casa sua. Non ci eravamo rivolti la parola per l’intero viaggio in auto, e solo quando 15 minuti dopo eravamo giunti in spiaggia, lei aveva cominciato a pormi domande sul perché fossimo lì.
«Mi era venuta voglia di spiaggia.» fu la mia banale giustificazione.
Lei mi osservò, il solito sopracciglio incurvato. «E dovevi proprio fartela venire in piena notte, questa voglia?»
«Non sarebbe stata una voglia, se l’avessi programmata.»
Annuì, nonostante pensassi mi stesse maledicendo in quante più lingue possibili. «Cosa facciamo adesso?»
«Non lo so. Ti va un bagno?»
«Sei per caso impazzito? Ci saranno forse solo due o tre gradi sopra lo zero.»
«In genere fare il bagno di notte è una delle “cose da fare prima di morire”.» commentai teatrale, «Ma tu sei troppo bacchettona e perfezionista per avere una lista del genere.»
Si lasciò scappare una smorfia e un commento a bassa voce, poi si voltò verso destra, lasciando che il leggero vento presente le scompigliasse i capelli.
Io cominciai a guardarmi attorno. Sorrisi quando individuai un masso non troppo alto ma stabile e feci cenno a Stephanie di seguirmi, che tuttavia mi guardò contrariata quando fui in cima in poco tempo.
«Io non salirò là sopra.» decretò, con disappunto e forse un po’ di paura.
Roteai gli occhi. «Non è così alto, non essere noiosa» la schernii.
Ancora una volta assottigliò lo sguardo, minacciosa. Sorrisi perché sapevo di aver colto il suo punto debole, e mi offrii di aiutarla a salire quando si avvicinò al masso, guardandomi dal basso.
Quando anche lei fu sopra in cima, mollai la presa sulle sue mani.
Non ci dicemmo molto. Eravamo entrambi seduti, ben distanziati, schiene contro la pietra ruvida, a fissare il cielo in silenzio e goderci la semplicità e la tranquillità del momento.
Personalmente amavo il mare. Mi piaceva la sabbia tra le dita, le acque insidiose ma accoglienti, l’accenno di vento, la sensazione di umidità tutt’attorno e il rumore del mare, che rendeva il tutto più magico.
Non avevo idea del perché avessi voluto che Stephanie venisse con me. Ricordavo solo il continuo rigirarmi tra le lenzuola, i numerosi lanci a canestro in giardino dettati dal nervosismo e poi la voce di Martin che sembrava essere a telefono con qualcuno. Non avevo prestato attenzione a quello di cui blaterava, sapevo solo che era con Stephanie che parlava. Dunque lei era sveglia, ed io avevo meditato ancora una buona mezz’ora in giardino, prima di convincermi a mandarle quel messaggio.
E lei l’aveva letto. Aveva risposto. E poco dopo me l’ero ritrovata davanti, ad abbassare lo sguardo per paura di doverle spiegazioni che non avrei saputo dare nemmeno a me stesso.
Forse mi bastava sapere di averla accanto.
Un respiro lento e un lieve digrignare di denti mi fece voltare verso Stephanie, stretta nelle sue braccia. Tremava, e sicuramente stava morendo di freddo, sensibile com’era.
«Hai freddo?»
«Sto bene, non preoccuparti.»
Per niente convinto dalla sua risposta, incurvai le sopracciglia. Senza accennare a portare avanti la discussione mi alzai dal mio posto e mi portai vicino a lei, che alzò lo sguardo incuriosita da cosa stessi facendo. Sembrò immobilizzarsi, quando mi sedetti al suo fianco e allargai le braccia, portandone uno a stringerle le spalle e attirarla a me.
 
Chiusi gli occhi, lasciando che il suo odore mi investisse. Respirai forte, sentendo piano il calore della sua pelle infrangersi sulla mia. E le sue dita disegnare forme immaginarie sul mio braccio.
«Va meglio adesso?»
La sua voce mi riscosse.
Aprii di scatto gli occhi e mi affrettai ad annuire senza comunque proferire parola, semplicemente a godermi la meravigliosa sensazione dei nostri corpi a contatto. Non avrebbe dovuto piacermi così tanto, invece mi strinsi di più a lui, portando le mie braccia attorno alla sua vita. Inevitabilmente mi ritrovai con la testa sul suo torace, e così mi rilassai e chiusi ancora gli occhi, sentendo il suo odore diffondersi nelle mie narici.
Sì. Stavo bene. Davvero troppo bene.
«Guarda» la voce di Zack mi fece riaprire gli occhi. Alzai il viso e trovai il suo rivolto verso l’alto, a fissare qualcosa nel cielo. Si voltò un attimo verso di me, per indicarmi qualcosa sulle nostre teste. «Vedi quella costellazione?» fece.
Seguii il suo indice e annuii, quando individuai un numeroso gruppo di stelle piccole, piuttosto affiancate.
«Si dice sia la Chioma di Berenice» annunciò.
«Cosa significa?» domandai, affatto esperta dell’argomento.
Lui sorrise, quasi fosse contento che gli avessi posto quella domanda. Si voltò verso di me, lasciandomi avvicinare di più per far sì che il mio sguardo avesse la stessa sua traiettoria.
«C’è un mito, collegato a questa costellazione.» esordì. Puntò di nuovo gli occhi nei miei e io gli sorrisi, mostrandomi interessata. Quindi riprese. «Berenice era un’ottima condottiera, veniva dall’Amazzonia. Come da tradizione egiziana nel III secolo avanti Cristo sposò Tolomeo, suo fratello. Sembra che pochi giorni dopo le nozze Tolomeo mosse guerra contro l’Asia, e quindi partì, lasciando Berenice da sola.
Rimasta da sola e preoccupata per le sorti di suo marito, fece voto che se Tolomeo fosse tornato sano e salvo dalla guerra, si sarebbe tagliata i capelli in segno di gratitudine verso gli Dei.»
Istintivamente andai a toccarmi le ciocche scure, rapita dal racconto.
«E lui? Non morì?»
«No» scosse la testa «Tornò sano e salvo da Berenice e lei, rasserenata, mantenne la sua promessa e si tagliò i capelli, che depose nel tempio dedicato alla madre, Afrodite.
Ma il giorno dopo le sue trecce non c’erano più.»
Spalancai leggermente gli occhi, sorpresa. «E dov’erano andati a finire? Insomma lei li aveva messi lì, no?»
«Non si sa cosa sia capitato ai suoi capelli. Qualche astronomo, più tardi, affermò che i suoi capelli fossero andati ad unirsi alle stelle. Quella scia lunga e larga vicino al gruppo, la vedi?»
Annuii. Sorrisi. «Sembrano davvero dei capelli.»
«Cosa ti aspettavi, che non lo fossero? Io non dico bugie.» fece una smorfia.
Gli rivolsi una linguaccia, che portò entrambi a ridere. «E tu come fai a conoscere questa bella storia?» gli domandai.
Un dolce sorriso andò ad incorniciargli il volto. «Da piccolo mi piaceva restare in giardino a guardare le stelle, prima di andare a dormire. E mamma restava con me, e mi raccontava qualche storia legata a qualche costellazione. Questa è l’unica che ricordi con chiarezza, ad essere sincero.»
Assunsi un’espressione addolcita, nell’immaginare Sophie e un piccolo Zack distesi sul prato, a indicare le stelle sopra di loro. Forse lui aveva avuto la stessa espressione concentrata e rapita, proprio come io l’avevo notata sul suo viso mentre mi raccontava la storia.
Le sue labbra erano ancora accennate ad un sorriso, mentre fissava il mare davanti a sé.
«E’ una cosa dolce.» mormorai. Io non ricordavo di averlo mai fatto, di solito piombavo a letto già verso le 7, quand’ero ancora piccola.
«In effetti è uno dei miei ricordi preferiti.»
«La penserei ugualmente, se solo la mia infanzia non fosse stata terribilmente monotona. Non mi ricordo quasi niente, a dir la verità.»
«Sul serio? Nemmeno quando hai tolto le rotelle dalla bici, il primo giorno d’asilo, nulla?»
«Sembrerei un’imbranata, se ti dicessi che ho tolto le rotelle dalla bici solo a 13 anni, e che ho pianto come una disperata e finto di avere l’influenza, il primo giorno d’asilo?»
Zack sgranò occhi e bocca, e presto scoppiò in una fragorosa risata, causata da quella mia piccola confessione. «Dio Stephanie, sei davvero un’imbranata!» mi prese in giro, meritandosi la mia gomitata offesa.
«Avevo solo paura di cadere dalla bici, e tutti quei bambini mi guardavano malissimo!»
«Avevo solo paura di cadere dalla bici» mi fece il verso, «e tutti quei bambini erano così cattivi, volevano tirarmi le treccine!»
«E piantala, idiota!»
Lo spinsi via tra le risate, ma lui tornò a stringermi, mentre la sua risata si confondeva con la mia.
Alzai lo sguardo sul suo viso, e l’incontro con le sue iridi azzurre mi fece sussultare.
«Io vado a fare un bagno.» si allontanò, «Tu vieni con me?»
Sgranai gli occhi. Di nuovo con la storia del bagno. «Non ho il costume.» cercai di scamparla.
«Invece sì» mi contrariò lui, «Sai, potrei aver frugato nei cassetti del tuo comodino, mentre tu eri in bagno... A proposito, hai della biancheria intima interessante.» sorrise malizioso.
Sgranai occhi e bocca incredula, e «Hai frugato tra la mia biancheria intima?!» lo rimproverai, la voce più alta di un’ottava. Mi alzai anch’io, furiosa, e lui sorrise innocente, prima di scendere dal masso con un salto, lasciandomi lì da sola, incapace di scendere.
«Torna subito qui Zack!» lo ripresi.
«Non ci penso nemmeno!» cantilenò lui, «Se vuoi vieni a prendermi, mi ritroverai in acqua. Il costume è sulla parte posteriore dell’auto, in una delle tasche dei sedili. Ti aspetto, sempre che tu riesca a scendere da lì!»
La sua risata echeggiò nello spazio deserto e poi sparì. Lo intravidi solo correre verso la spiaggia e spogliarsi dei vestiti, poi uno splash mi avvertì che si era appena immerso.
«Stronzo!» urlai per farmi sentire, ma non ricevetti alcuna risposta.
Decisi dunque di farmi coraggio e riuscii, anche se con difficoltà, a scendere dal masso. Corsi verso la riva, dove i suoi vestiti e le sue scarpe giacevano sulla sabbia. Ebbi l’impulso di gettarli in acqua per vendicarmi, ma scossi la testa e mi diressi verso l’auto, dove riposi i suoi vestiti puliti. Diedi un’occhiata alle tasche posteriore dei sedili e lo trovai, il mio costume nero.
Non poteva essere una coincidenza che fosse quello più sgambato che avessi, il piccolo bastardo aveva anche deciso quale avessi dovuto mettere.
Trattenni un’imprecazione mentre voltavo lo sguardo verso l’acqua, dove lui sembrava essere sparito.
Aveva frugato tra la mia biancheria, cose da pazzi!
«Che bastardo.»
Attenta che lui non fosse nei paraggi, mi spogliai lentamente per infilare il costume. Ci mancava solo che si godesse lo spettacolo di vedermi nuda.
Raccolsi i capelli in una crocchia alta e stabile, per niente intenzionata a bagnarli, e mi avvicinai alla riva, maledicendolo a ogni centimetro in più che il freddo si imprimeva sulla mia pelle.
«Giuro che questa me la paghi.»
Poi mi immersi.
Come immaginavo, l’acqua era gelida. E il mio odio verso il ragazzo che mi aveva spinta ad immergermi all’interno a notte fonda, aumentava man mano che mi allontanavo più dalla riva e l’acqua diventava più profonda.
Non vedevo Zack. Intorno a me era tutto buio, e le acque sembravano calme. Non può essere uscito! pensai tra me e me, sentendomi persa e infastidita nel non vederlo.
Poi due mani si posarono sui miei fianchi e delle goccioline andarono ad inumidire le mie spalle ancora asciutte, facendomi rabbrividire. Sentivo i suoi capelli bagnati a contatto con la mia pelle e le sue labbra appoggiate al mio orecchio, che sussurravano un divertito “mi cercavi?”.
Mi girai di scatto e non persi tempo per prendermi la mia vendetta. Posai le mie mani sul suo capo e lo spinsi con forza verso il basso, cogliendolo di sorpresa. Emerse soltanto dopo qualche secondo, tossendo e sputacchiando. Aveva bevuto.
«Te lo meriti.» sibilai soddisfatta, mentre lui riprendeva a respirare normalmente. «Non avresti dovuto frugare nella mia biancheria.»
«Ma perché, mi piace la tua biancheria...» cercò di punzecchiarmi, prima che le mie mani si posassero di nuovo sulla sua testa e lui scostandole mormorasse «okay okay, sto zitto, capito.»
«Non costringermi a ficcarti di nuovo la testa sott’acqua, ti avverto.»
Rise e mi afferrò per i fianchi, portandomi vicina a lui.
Il sorriso scomparve, quando i nostri occhi ebbero l’occasione di scontrarsi. Lo sentii deglutire ed io inspirai, sentendomi improvvisamente a corto di ossigeno.
I suoi occhi, quella notte, erano la cosa più bella. Lui, era bellissimo. Ed io, io mi sentivo sopraffatta dalla vicinanza dei nostri due visi.
Sapevo cosa volesse fare. Ma non riconoscevo la lieve sensazione di agitazione e di formicolio, mentre le sue mani mi accarezzavano i fianchi. Non sapevo cosa volevo, non sapevo cosa provare, né cosa dire o fare. In quel momento, coi suoi occhi puntati nei miei e il suo viso a pochi centimetri dal mio, non sapevo nulla.
«Chiudi gli occhi.»
Assottigliò lo sguardo. «Scordatelo, tu mi affoghi.»
«Ti prometto che non ti affogo. Dai, chiudi gli occhi.»
Mi guardò indispettito per qualche istante ma infine sorrise, sospirò e incrinò di poco le labbra, mentre chiudeva gli occhi. Sorrisi, fiera della mia piccola vittoria.
Ma quando lui finalmente non poté vedermi, solo allora, il rossore sulle mie guance si fece vivo e sentii una gran confusione nel mio stomaco. Emisi un respiro strozzato.
Lui non aprì gli occhi.
Mi avvicinai piano a lui, feci scivolare una mia mano lungo il suo collo. La sua espressione divenne irrequieta, mentre le mie dita correvano lungo il suo torace.
Non sapevo cosa stessi facendo. Non sapevo cosa realmente volevo fare. Ero solo come ipnotizzata dal suo viso ad una spanna dal mio, i suoi occhi chiusi e le labbra di poco dischiuse.
Le sue labbra. Rimasi a fissarle per un tempo indefinito. Sottili, un po’ screpolate. Non sembravano morbide come quelle che mi avevano baciato.
Il suo bacio. Forse era giunto tempo di ricambiarlo.
Annullai le distanze e posai le mie labbra sulle sue, debolmente. Non avevo idea di come avrebbe reagito, quindi preferivo essere delicata.
Lui sembrava immobile. Ed io presi ad accarezzare una sua guancia con la mano, mentre muovevo le labbra sulle sue, ora animata da un coraggio che non pensavo possedere.
E finalmente lui rispose.
Mi spinse contro di sé premendo con le mani sulla mia schiena ed io dischiusi le labbra, lasciando che la sua lingua si infilasse nella mia bocca, e si infrangesse con la mia.
Questa volta non lo spinsi via. Anzi continuai a baciarlo e mordere occasionalmente le sue labbra, con le dita imprigionate tra i suoi capelli. E lui muoveva la testa, ad assecondare ogni mio movimento, proprio come facevo io.
«Pensavo non sarebbe mai successo»
Quelle parole sussurrate contro le mie labbra mi fecero sorridere, ma presto lui tornò a baciarmi. Mi lasciai scappare un piccolo gemito, quando morse con forza il mio labbro inferiore.
«Dovevo farlo. Baciarti è sulla mia lista delle cose da fare prima di morire.»
Lo avvertii sorridere e lo feci anch’io, prima che la pioggia di baci ricominciasse.

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I'm here!
Okay MORIVO dalla voglia di pubblicare questo capitolo perché, dannazione, era pure ora! ahah
Vorrei porre un attimo un po' di attenzione sul pov iniziale di Martin. Sebbene il capitolo sia quasi interamente dedicato alla nostra coppietta, era giusto far capire come si sentisse lui, in seguito al casino con Emma. La cosa sembra averlo devastato, ma non vuole perdersi d'animo e vuole tentare di reagire, "uscire fuori dagli schemi". Ce la farà?
E poi ci sono i nostri scapestrati ahah
Ho amato scrivere questo capitolo, perché finalmente entrambi si sono lasciati andare e sono stati naturali, senza il continuo bisogno di sentirsi l'uno superiore all'altro. Sono stati insieme, si sono comportati da amici, non sono mancati i punzecchiamenti e infine sono finiti per baciarsi, come doveva succedere molto tempo prima. 
Spero di aver reso felici tutte coloro a cui piace questa coppia, perché io lo sono davvero tanto ahah 
Come potete immaginare, la storia prenderà d'ora in poi una piega differente, ed io non vedo l'ora di condividere i nuovi capitoli con voi :) mi dispiace che Emma non sia presente, ma questo era davvero un evento degno di nota, potete capirlo ahah
Mi dileguo, as always <3


Noi due insieme non eravamo una cosa normale.
Noi due che ci scambiamo baci, stretti l’uno nelle braccia dell’altro, non eravamo assolutamente qualcosa di semplice, quotidiano.
Noi due insieme eravamo strano. E sbagliato.

 

ps. vorrei cogliere l'occasione per pubblicizzare un'altra fan fiction che ho appena iniziato. 
Uno dei protagonisti è Niall Horan dei One Direction, ma la storia in sé per sé non ha molto a che fare con la band, quindi potete passare a leggerla, se vi va :)


 

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***



Odiavo le ore di letteratura più di qualsiasi altra cosa.
Forse il mio fastidio poteva spiegarsi col fatto che seguissi quella lezione senza Martin o qualche amica, e non avessi nessuno con cui distrarmi nei momenti di noia. Ero quasi sempre seduta da sola in classe, e tutto quello che potevo fare era seguire il discorso del professore o scarabocchiare sul foglio degli appunti, dove non era segnata neppure una parola di ciò che il professor White aveva detto.
Oppure era proprio lui a rendere quei sessanta minuti ancora più interminabili. Era un buon professore, ma ero del parere che non fosse più adatto ad insegnare, viste le sue sempre più frequenti decadenze. Parlava con la stessa velocità di un orologio a pendolo, e tendeva ogni tanto a dimenticare su cosa stesse discutendo, interpellando noi studenti.
Aveva sessantadue anni. Insegnava letteratura in quel liceo da circa quattro decenni ed era senza dubbio l’insegnante più vecchio di quella scuola. Aveva assistito durante gli anni alle trasformazioni di continue generazioni di studenti, che lui amava definire come “farfalle”: “lo scopo della scuola è proprio questo ragazzi, far sì che il bocciolo che eravate quando avete messo piede qui per la prima volta diventi una splendida e colorata farfalla” diceva sempre, con un tono così dedito e premuroso che lasciava intendere parecchio sulla sua personalità.
Quell’uomo amava il suo lavoro. Sin da quando aveva attraversato i corridoi di quel liceo il suo primo giorno, con le stesse sembianze di un damerino in giacca e cravatta, aveva amato sentirsi a contatto con i ragazzi, essere parte integrante di loro e permettere ad ognuno di esternare i suoi lati più nascosti, senza la paura di essere giudicati. Amava arrivare ogni mattina in quella scuola, prendere il solito caffè con due zollette e poi sistemarsi nella sua aula, con un sorriso stampato in viso per ogni studente che ne attraversava la porta. Forse erano proprio la sua dedizione e il suo amore per l’insegnamento che l’avevano convinto a non mollare la corda, continuare a fare ciò che adorava.
Peccato che una generazione sprecata come quella di cui facevo parte non capisse questo genere di sentimenti. E così le ore del professor White finivano per diventare ore di svago, dove ognuno può fare ciò che gli passa per la testa senza porsi alcuno scrupolo, e dove l’eco delle risate degli studenti superava di gran lunga la voce flebile del professore.
Ed ecco un altro motivo perché quei sessanta minuti mi pesassero così tanto, non sopportavo nessuno in quella aula. Erano tutti così superficiali, frivoli e superbi che il solo pensiero di averci qualcosa a che fare mi dava la nausea, quindi restavo accantonata nel mio angolo, col rischio di sembrare asociale, ma la garanzia che il mio cervello non venisse infettato dalle loro idiozie.
Il professor White non si era mai ribellato a questo genere di sfruttamento. Continuava a sorridere imperterrito, quasi non ci fosse nulla di male che la sua voce provocasse più caos e confusione che innata attenzione e pensieri profondi, e riprendeva la sua spiegazione imperturbato anche quando uno degli aeroplanini di carta lo colpiva.
Sbuffai, rassegnata all’idea che anche quell’ora sarebbe trascorsa nello stesso modo. Quindi mi accasciai con la testa sul banco, in attesa che la campanella segnasse la fine di quel tormento.
Non avevo dormito molto. Anzi, sarebbe stato più giusto dire che non avevo affatto chiuso occhio, quella notte.
Se mi azzardavo a chiudere gli occhi, anche in quel momento, le immagini della notte appena passata mi tormentavano, facendomi rivivere ogni istante in modo fin troppo nitido: il messaggio, la spiaggia, le stelle, il mare, il bacio...
Zack.
Non lo avevo ancora visto, quella mattina. Non ero neppure sicura si trovasse a scuola, visto che anche lui come me non avrebbe dovuto dormire per più di due o tre ore. E pigro com’era, dubitavo seriamente avesse rinunciato a restare a fantasticare nel suo letto per almeno altre cinque ore, come avevo fatto io.
Forse anche lui non aveva dormito affatto. Forse era rimasto a pensare a ciò che era successo in quelle ore passate insieme, a me. Forse anche lui si era lasciato prendere dal ricordo dei nostri timidi abbracci, dei baci infuocati e dei sorrisi, i sussurri.
Io l’avevo fatto. Avevo lasciato che la mia mente si concentrasse soltanto su di lui, sui ricordi di quella notte. Sui suoi baci. Gli stessi baci che avevano catturato le mie labbra senza lasciarle e annebbiato la mia capacità di pensiero, e di cui avevo sentito un impellente bisogno.
Non riuscivo a spiegarmelo, ma era come se il mio corpo sentisse la necessità di stargli vicino, si sentiva al sicuro tra le sue braccia. Le mie labbra e le mie mani l’avevano cercato con così tanto ardore che non credevo nemmeno possedere, e mi era sembrato tutto così naturale da farmi paura.
Noi due insieme non eravamo una cosa normale.
Noi due che ci scambiamo baci, stretti l’uno nelle braccia dell’altro, non eravamo assolutamente qualcosa di semplice, quotidiano.
Noi due insieme eravamo strano. E sbagliato.
Avevo passato tutta la notte a chiedermi perché mi fossi sentita così bene, se il nostro era il peggior assertimento che potesse esserci. Perché baciarlo era stata la cosa migliore e peggiore che potessi fare: non potevo negare quanto mi fossi sentita legata a lui mentre lo baciavo, ma nemmeno quanto l’intera situazione mi mettesse a disagio.  Baciarlo era stato come tirarsi la zappa sui piedi: non potevo continuare ad ignorarlo, le mie barriere erano crollate. Le avevo distrutte io stessa.
Mi presi la testa tra le mani.
Che diamine mi era passato per la testa? Baciarlo, lasciarmi baciare, era stata la cosa più sbagliata potessi fare.
Ma stranamente, avessi potuto tornare a qualche ora prima, non avrei cambiato nulla. E questa, questa era la cosa che più mi spaventava.
La campanella trillò nell’aula facendo tirare un sospiro di sollievo a studenti e professore, che con un sorriso salutò tutti, sebbene nessuno ricambiasse quella cortesia. Quella volta non lo feci nemmeno io, nervosa com’ero.
Mi riversai in corridoio, tra l’ammasso di studenti, probabilmente con l’aria di chi è appena stata abbattuta da un camion, ma non mi importava di cosa pensassero tutti. Camminavo verso il mio armadietto a lasciare i libri di letteratura e poi riprendevo il mio passo svelto, alla ricerca di un volto amico.
Avevo bisogno di vedere Martin. Lui sarebbe stata la mia unica ancora di salvezza, l’unica distrazione di cui avessi bisogno.
Mi bloccai.
Avrei dovuto dirglielo? Avrei dovuto raccontargli dei continui litigi con suo fratello? Sapevo fosse a conoscenza del nostro astio reciproco, ma non immaginava neppure cosa realmente ci fosse dietro. E non sapeva del suo bacio. E dei successivi. Avrei dovuto parlargliene? Avrei dovuto azzardarmi a condividere quei pensieri con lui? E quale sarebbe stata la sua reazione, poi?
No. Non potevo e non dovevo dirgli niente. Non potevo turbarlo e confonderlo ancora di più di quanto già non fosse, se non altro perché mi avrebbe chiesto spiegazioni, ed io non sapevo nulla. Non avevo ancora capito bene cosa fosse successo quella notte e dovevo fare chiarezza nella mia testa, prima di esternarmi a qualcun altro. Anche se forse, Martin sarebbe riuscito a capirlo prima di me, se solo gliene parlassi.
Scossi la testa.
No. Non può e non deve saperlo. Che figura ci avrei fatto? Non potevo confidargli di aver baciato suo fratello dopo essermi lamentata dell’ennesima volta su quanto lo odiassi. Sarebbe stato contraddittorio. E strano. E anche un po’ vergognoso. E Martin non doveva saperlo.
E se fosse Zack a dirglielo?
Spalancai gli occhi e annaspai. E se fosse lui a dirglielo?
Una mano si posò veloce sulla mia pancia e mi tirò indietro in quella che doveva essere una stanza, mentre l’altra andò a tapparmi la bocca. Non ebbi il tempo di scalciare per liberarmi o la possibilità di urlare, che già non vedevo più i miei compagni di istituto per i corridoi.
La serratura scattò.
Io aprii la bocca e morsi forte la mano che l’aveva tenuta chiusa.
«Aia, cazzo!»
La presa su di me venne annullata ed io potei finalmente voltarmi, per notare Zack dietro di me ad esaminare il mio morso. «Si può sapere che diamine ti passa per la testa?!» sbraitò.
Non mi mossi. Rimasi semplicemente ferma e immobile con gli occhi spalancati, a desiderare forse di scomparire o di prenderlo a pugni per lo spavento. «Scusa, io... ho avuto paura» riuscii a balbettare, il capo chino.
Non volevo vedere i suoi occhi. Non volevo scavassero in fondo nei miei, non volevo percepissero il mio nervosismo. E non volevo lui vedesse le mie gote parzialmente colorate di rosso.
«Non importa. Anzi scusa, se ti ho spaventata.» il suo tono sembrò addolcito, mi sembrò che avesse sorriso.
Continuai a guardarmi la punta delle scarpe. «Pensavo fossi a casa.»
Doveva essere a casa, dannazione. Non ero ancora pronta ad affrontarlo.
«Avevo pensato di rimanerci...» soppesò. Delle scarpe da ginnastica si pararono di fronte ai miei stivaletti ed io deglutii. Si era avvicinato. «Ma mi sono ricordato di dover fare una cosa. » riprese.
Per la prima volta alzai lo sguardo, incontrando i suoi occhi. Cercai di non arrossire e forse ci riuscii, ma avere quelle iridi chiare a poca distanza dal mio viso mi metteva in soggezione.
«Cioè?»
Sorrise. Si avvicinò a prendermi le mani e le rinchiuse nelle sue, pericolosamente vicino al mio viso.
«Darti il buongiorno.»
Poi le sue labbra furono sulle mie. E come una stupida, io lo baciai di nuovo.
 
«Emma non c’è.» decretai, guardandomi attorno all’ora di pranzo.
La mensa era strapiena come al solito, ma dei capelli rossi di Emma nemmeno la traccia. Non che morissi dalla voglia di trovarmi faccia a faccia con lei dopo quello che era successo a casa mia, ma sentivo che se non vedevo il suo viso almeno una volta le mie giornate restavano incomplete. Amavo osservare il suo abbigliamento del giorno e com’aveva acconciato i capelli, se si era truccata o meno, se era triste o felice. Era qualcosa di così quotidiano che ormai non ci facevo più nemmeno l’abitudine.
«Sarebbe qui, se ci fosse.» continuai, alla ricerca della chioma di capelli rossi, «O forse sono solo io a non vederla, tu la vedi?»
Mi voltai verso Stephanie alla ricerca di un qualche responso ma quello che trovai fu il suo sguardo fisso e assorto, la forchetta ancora china sul piatto e il pranzo ancora lì. Stava fissando qualcosa, ma distolse lo sguardo abbastanza velocemente da impedirmi di capire dove fosse diretto.
«Dicevi? » fece svogliata, prestandomi finalmente un po’ di attenzione. Avevo come la sensazione che non avesse ascoltato nemmeno una parola di quello che avevo detto.
«Ma mi stavi ascoltando? Non sembra...Sembri distratta, che hai?»
Lei dischiuse la bocca per qualche istante, boccheggiando. Poi sorrise, e si chinò a prendere una forchettata di patate. «Sono solo un po’ stanca, tranquillo. Non ho dormito molto, stanotte.»
Mi strinsi nelle spalle, sentendomi in qualche modo colpevole. «E’ per colpa della mia telefonata?» le chiesi. Sapevo che telefonarle a quell’ora così tarda non era una buona idea, ma non ne avevo fatto a meno: non riuscivo a dormire, continuavo a pensare a Emma e a quello che era successo, e parlarle sarebbe stato l’unico modo per calmarmi.
«Ma no, figurati...» mi rassicurò «Non avevo sonno neppure prima»
«Saresti dovuta rimanere a casa, allora.» mi portai alla bocca dell’insalata.
Sforzò un sorriso. «Sì, avrei dovuto.»
Riprese a mangiare, e «Comunque non mi pare che Emma ci sia» esordì, «Non l’ho vista oggi».
Sospirai. «Non so nemmeno se voglio vederla.»
«Perché non dovresti? Infondo mica è colpa sua se la sua migliore amica vi ha organizzato un appuntamento. Da quello che mi hai raccontato lei non sapeva nulla, giusto?»
Scossi la testa.
«E allora smettila di farle torto per questo, non ha alcuna colpa!»
«Tu non hai sentito quello che ho sentito io, Steph.» inspirai, «Parlava come se Veronica l’avesse mandata nella tana dei leoni senza dirle niente! Lei non voleva uscire con me, è stata costretta.»
Roteò gli occhi, esasperata. «Tu non vuoi nemmeno provare a credere che ci sia una versione dei fatti diversa dalla tua, vero?»
«Il fatto è che non esiste.»
«Il fatto è che tu non vuoi vederla, perché se ci provassi vedresti che Emma si è davvero divertita con te, e il suo unico disagio è quello di essere stata presa in giro.»
Non sapevo cosa pensare. Da quando io e Emma ci eravamo freddamente salutati avevo ripensato e ripensato a quella storia e non ne avevo tirato fuori una soluzione esauriente, se non totale abbattimento e depressione. Da come aveva urlato contro Veronica al telefono, era deducibile che la storia dei bigliettini non le fosse piaciuta, ma forse io non ero stato poi un totale fallimento. Infondo ci eravamo divertiti, ci eravamo comportati in modo naturale e avevamo continuato a farlo, prima di quella telefonata.
Avrei voluto sapere cosa ne pensasse lei, perché io ero fin troppo confuso. E nella speranza che fosse lei a contattarmi avevo tenuto il cellulare a portata di mano e mantenuto attivo il mio accesso su Facebook, ma anche quando il pallino verde era comparso affianco al suo nome, segnalandola online, non mi era arrivato alcun messaggio. Né io gliene avevo inviati. Mi ero limitato a controllare e ricontrollare il suo profilo, quasi potessi coglierne qualcosa, ma ogni mio tentativo era risultato vano. Così ero crollato sul letto, stanco e troppo agitato per dormire, e avevo pensato di chiamare Stephanie.
«Tu non puoi sapere queste cose.» affermai, teso.
Fece spallucce. «Mi attengo semplicemente a quello che tu mi hai detto, e mi pare di aver capito che avete passato un bel pomeriggio.»
«Un pomeriggio che è stato rovinato...» soppesai, mangiucchiando una carota.
E allora Stephanie sbuffò, prese la borsa accanto a lei e si portò in piedi. «Sono stanca di voi Payne, non prendete mai in considerazione la mia opinione!» brontolò «Quindi me ne vado, rimani pure con le tue convinzioni. Ci vediamo all’uscita.»
Mi baciò velocemente la guancia e scomparve, sospirando quando si girò a dare un’ultima occhiata verso la mensa.
Mi resi conto anch’io che la pausa pranzo stava ormai per finire e così presi le mie cose e mi diressi all’armadietto. Mi armai dei libri di storia dell’arte e, facendo attenzione ad ogni studente che attraversava il corridoio, arrivai alla classe della professoressa Berry.
La salutai con un formale buongiorno ed un sorriso e andai al mio posto, ad aspettare che il suono della campanella costringesse anche gli altri studenti a tornare nelle classi.
Ed io rimasi a sfogliare i miei appunti e controllare ogni tanto il cellulare, mentre i miei compagni di classe prendevano posto in aula.
Un ticchettio sulla mia spalla mi costrinse ad alzare lo sguardo, e quando lo feci, incontrai gli occhi verdi di una ragazza. Non mi sembrava di averla mai vista, a lezione.
«Posso sedermi?» mi rivolse la parola, indicando il posto accanto al mio.
Ci misi un po’ a realizzare cosa volesse e infine sorrisi ed annuii, liberando la sedia del mio zaino.
«Grazie.» mi sorrise quella. «Tu sei Martin, vero?» chiese poi, lo stesso sorriso di prima.
Tornai a guardarla ed annuii. «Scusa ma non mi pare di conoscerti» fui sincero, prima che si aspettasse una calorosa accoglienza da parte mia.
Rise. «E’ che fino a ieri avevo i capelli castani» ammise, prendendo poi tra le dita le sue ciocche bionde.
L’immagine di una ragazza dai capelli marroni, tendenti quasi al biondo, si fece spazio nella mia testa. Tutte le volte che l’avevo vista sedeva vicino alla finestra, e non le avevo mai visto gli occhi.
Annuii, lasciandomi scappare una risata. «Quella della finestra, vero?»
«Sì, sono io.» ridacchiò.
«Scusa ma non credo di sapere il tuo nome.»
«Sono Charlie» mi sorrise «Charlie Stevens».
 
Continuavo a guardarmi attorno con sguardo incantato, esaltandomi all’idea che presto gli unici abitanti di quella casa  saremmo stati io e Martin. Avrei fatto volentieri a meno di mio fratello, ma ogni vittoria comporta sempre un piccolo sacrificio, anche se la convivenza con Martin suonava come un vero e proprio incubo.
Mamma e papà stavano partendo. Avevano deciso, prima del loro secondo matrimonio, di concedersi un piccolo viaggio solo per loro stessi, come un’anticipata seconda luna di miele e, strategicamente, io e Martin eravamo riusciti a convincerli ad affidarci la casa per qualche settimana, fin troppo indaffarati con la scuola o altri impegni per mandarci da zio Logan, come avevano inizialmente programmato di fare.
E ci eravamo riusciti. Presto mamma e papà sarebbero andati via e la casa sarebbe stata nostra per due settimane o più.
Niente genitori. Niente regole. Niente urla o lamentele. Una casa a due piani completamente a nostra disposizione.
Il sogno di ogni adolescente si era appena avverato per noi, ed io mi sentivo entusiasta e esaltato come un bambino. Come quando scendevo dal letto di corsa per aprire i regali a Natale, come la mia prima partita di basket, come il giorno della vittoria della nostra squadra al campionato, come la notte appena passata con Stephanie...
«Nessuna ragazza metterà piede in questa casa.» Le parole e il tono severo di mio padre richiamarono me e Martin all’attenti, «Niente feste e niente ragazze, siamo intesi?»
Non ebbi il tempo di roteare gli occhi annoiato che «Andiamo Robert, lasciali divertire» ribatté mia madre, che trascinava la valigia sino alla soglia. Martin corse ad aiutarla e lei sospirò sollevata, portandosi le mani ai fianchi. «Potete invitare qualche amico e qualche ragazza, se solo promettete che non ci ritroveremo nonni al nostro ritorno» scherzò, «E non dimenticate che le pareti hanno le orecchie e anche i vicini, per cui non trasformate questa casa in una discoteca o peggio in un porcile, e cercate di essere persone civili anche se noi non ci siamo, o starete in punizione per così tanto tempo da non vedere più la luce del sole.»
Terminò la sua lista di divieti con un inquietante sorriso che fece scambiare a me e Martin un’occhiata preoccupata, e «Fatevi abbracciare, tesori miei!» ci tirò a sé, con un tono così dolce e premuroso da far intendere che non ci saremmo mai più visti «Siate maturi e responsabili, mi raccomando.»
«Non potremmo non esserlo, viste tutte le cose che ci hai negato di fare» mi azzardai ad assecondarla, per ricevere un’occhiataccia a cui risposi con un sorriso.
«Sta’ tranquilla mamma, ci penso io a tenerlo a bada» la rassicurò Martin.
«Dovete tenervi a bada a vicenda» papà tornò a parlare «e nel caso non ci riusciste siete liberi di rivolgervi a qualsiasi parente, oppure possiamo farlo noi. Nonostante tutte le vostre rassicurazioni non sono sicuro che passeremo questo viaggio tranquilli» rifletté, lasciandosi sfuggire una piccola smorfia.
«Siamo grandi, ormai! Sappiamo gestirci per qualche settimana» cercai di controbattere. Era assurdo come ancora entrambi ci trattassero quasi fossimo bambini. Quasi fossi un bambino.
«Veramente io parlavo di vostra madre» rise lui.
«Non dimenticate di chiamare ogni sera, d’accordo?» piombò infatti lei, che tornò ad abbracciarci.
«E voi non dimenticate che il vostro aereo parte tra poco, lo perderete se restate qui a raccomandarvi inutilmente»
Annuii, d’accordo con Martin. «Andrà tutto a gonfie vele, fidatevi» sorrisi ad entrambi, abbracciando anche mio padre. 
Martin fece lo stesso e la mamma rimase un attimo a sospirare, il braccio di papà attorno alle sue spalle. Reclamò un ultimo abbraccio di gruppo e solo dopo qualche minuto la porta d’ingresso fu chiusa, dichiarando ufficialmente iniziato il nostro periodo di libertà.
«Io vado a letto» Martin sbadigliò e salì su per le scale, tenendo la mano destra in alto a mo’ di saluto.
«Che spirito libero» commentai ironico, al che lui mise in bella mostra il suo dito medio.
Quando anche lui fu sparito in cima alle scale, mi lasciai andare ad un meritatissimo sospiro di sollievo. Mi guardavo intorno, e non c’era verso che il sorriso abbandonasse la mia faccia.
Tutto andava finalmente per il verso giusto.
E dovevo darmi da fare, se volevo organizzare la miglior festa dell’anno.

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D'accordo, ammetto di essere un po' in ritardo rispetto al solito, ma vi prego di perdonarmi ahah
Il fatto è che non è facile gestire due fan fiction, e se ci si mette anche la mancanza di ispirazione diventa un delirio completo. Sono stata a corto di idee per un bel po', ma infine sono riuscita a scrivere il capitolo, anche se non so se ne sia uscita una cosa decente o meno. Ho centinaia di idee per delle one shot in mente, e sto cercando di portarle un po' al termine tutte, anche se per adesso ho deciso di dedicarmi esclusivamente alle fan fiction. Oltretutto tra un po' ricomincia la scuola (AIUTOOOOO) e sarò costretta a riallacciare i rapporti con Dante e i suoi simpaticissimi amichetti, quindi non saranno settimane semplici (qualcuno mi aiuti). 
Voi quale scuola frequentate e quale anno? :)
Passando al capitolo. 
Stephanie non sembra poi così riluttante a Zack adesso, anche se è pervasa di dubbi, crede che qualcosa debba per forza andar male. 
Martin non ha dubbi, ne è proprio convinto che va tutto malissimo. ahah Ma forse qualche nuova conoscenza potrebbe distrarlo?
Zack è al settimo cielo, nulla da dire.
Emma è assente, ma tornerà nel prossimo, promesso!
Prima di lasciarvi con l'anticipazione e i saluti vorrei farvi vedere
questo video (cliccare su "questo" :D) 
Loro sono appunto i prestavolto di Zack e Martin, Finn e Jack Harries, due youtubers con un canale di oltre due milioni di iscritti, e quando ho visto questo video ho pensato che somigliassero davvero ai loro alter ego ahah
Niente, era per sdrammatizzare, perché mi sento molto depressa a pensare che presto tornerò a studiare.
A presto (si spera), chicos!

 
Mi ritrovai a sorridere ingenuamente quando Martin voltò lo sguardo nella mia direzione, assorto. Abbassai subito lo sguardo, sentendomi come inadeguata. Perché non riuscivo nemmeno a sostenere i suoi occhi?

 

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


 
Sbuffai, dando un’occhiata all’orologio al polso. Mancavano dieci minuti all’inizio delle lezioni e, mentre tutti erano riversati in cortile ad approfittare di quegli ultimi minuti di libertà prima di rinchiudersi nelle aule, io mi trovavo nell’ “area macchinette”, a consumare il peggior cappuccino della storia addossata contro una delle pareti principali dell’atrio.
Emisi una smorfia di disgusto quando un altro sorso di quella terribile bevanda mi finì in gola, e mi decisi finalmente a gettare il bicchiere nell’immondizia, ancora colmo fino a metà. Nonostante facessero schifo mi ostinavo ancora a prendere delle bevande dai distributori scolastici, senza conoscerne la ragione. D’altronde ero quasi certa che prima o poi avrebbero finito col farmi vomitare o procurarmi qualche altro disturbo intestinale, ed era per questo che di solito gettavo la bevanda verso la metà del bicchiere, incapace di ingurgitarne ancora.
Una volta eliminato lo pseudo cappuccino, mi dedicai alla barretta di cioccolato bianco: almeno quella non rischiava di darmi problemi. Certo c’era da considerare quanto i dolci influissero con l’aumento di peso, ma non avrei mai rinunciato al mio amato cioccolato bianco per qualche antipatico chilo di troppo.
Quella considerazione, comunque, mi tenne in bilico per un po’. Scelsi infine di infischiarmene delle probabili conseguenze e addentai con forza la barretta. Il cioccolato era da sempre il mio miglior rimedio contro il nervosismo, e già quel primo morso riuscì a calmarmi in parte, estasiata dalla sensazione del cioccolato che si scioglieva contro la mia lingua.
Intorno a me solo alcuni professori indaffarati a fare avanti e indietro per i corridoi, qualche bidello e alcuni ragazzi, armati di grandi occhiali da vista e libroni, su cui dovevano aver studiato per tutta la sera precedente.
Per quanto mi riguardava non avevo aperto libro nonostante sapessi dell’interrogazione di quel giorno, e non mi sentivo neppure preoccupata. Continuavo a masticare il mio cioccolato, sentendomi del tutto indifferente.
Fu quando incrociai lo sguardo cristallino di Veronica che le cose tornarono ad avere un peso.
Martin.
Avevo sempre creduto non provasse poi così tanta simpatia nei miei confronti, ma ero certa di aver ottenuto il suo odio grazie alla trovata della mia migliore amica.
Non lo vedevo né sentivo da ben due giorni, e il modo in cui ci eravamo congedati senza scambiarci una parola mi aveva dato molto da pensare nel tempo che avrei dovuto passare a studiare. Non avevo colto bene la sua reazione alla cosa, ma il fatto che avesse fatto di tutto per parlarmi il meno possibile mi aveva lasciato intendere che non l’avesse presa bene.
Avevo paura di incrociarlo per i corridoi. Non avrei saputo come comportarmi, cosa dire, e forse questo era uno dei motivi per cui mi ero “nascosta” nell’atrio: la sua abitudine di accanirsi sui libri di prima mattina seduto sul muretto del cortile era una di quelle tante sue cose che mi ero concessa di osservare.
Scappavo, ma non l’avrei mai ammesso. Tanto meno a colei che era stata l’artefice di quel casino.
Veronica mi guardava in silenzio, anche lei a disagio. Dopo la mia sfuriata al cellulare non le avevo più parlato, lasciando che la lista dei messaggi non letti superasse la soglia dei 50. Non mi consideravo permalosa, semplicemente non avevo voglia di parlarle. Ero arrabbiata, e credevo che lei meglio di tutti potesse capirlo, e forse l’aveva davvero capito all’ennesima chiamata rifiutata, e adesso mi guardava come se da me dipendesse il suo destino.
Tra tutte le parole di scuse e i lunghi monologhi in cui me l’ero immaginata, se ne uscì con un semplice “Come stai?”.
Alzai gli occhi su di lei, giusto per notare la sua espressione terrorizzata. Davvero la intimorivo così tanto?
«Così.» feci spallucce, dando un altro morso alla mia barretta ormai quasi finita.
Annuì in silenzio, sicuramente stava meditando su quale fosse il modo migliore per chiedere una riappacificazione.
«Emma...» riprese; chiuse gli occhi e sospirò, poi «Senti mi dispiace per essermi intromessa, ma...»
La bloccai, con un cenno della mano. «Ma vuoi che torniamo ad essere inseparabili come lo siamo sempre.» continuai per lei «Tu fai sempre così. Prima fai le stupidaggini sfidando la mia pazienza e poi te ne penti quando ti urlo contro, e mi mandi tremila messaggi dove ci sono scritte le stesse cose.»
Abbassò lo sguardo. «Allora li hai letti, i messaggi. Avresti potuto rispondermi.»
«Avrei potuto, ma non volevo farlo. Non volevo parlarti né accettare le tue chiamate per sentirmi ripetere scusa all’infinito, perché è questo che avresti fatto, no?»
Non rispose alla mia provocazione, limitandosi un’altra volta a tenere lo sguardo basso e giocherellare con le scarpe. «Mi dispiace veramente Emma, ho agito stupidamente e mi rendo conto di averti messa in una brutta posizione, di avervi presi in giro entrambi, ma se ci pensi bene non ho mica commesso un omicidio!» sbottò. Restai a guardarla per vedere cos’aveva da dire, e il mio sguardo severo bastò a farle abbassare la cresta e il volume della voce. «Ho solo organizzato questo...appuntamento perché penso sul serio che sareste carini insieme, e nessuno dei due avrebbe mai avuto il coraggio di farlo, quindi...»
«Per l’ultima volta» la interruppi di nuovo, ammutolendola «A me non piace Martin. A Martin non piaccio io, e non abbiamo bisogno di sentirci come una coppia, perché non ci pensiamo nemmeno a esserlo! Hai preso una sbandata come al solito e come al solito ti ostini a considerare solo il tuo punto di vista, altrimenti non ci avresti organizzato quell’uscita. Per dimostrare cosa, poi? Che sappiamo comportarci come amici anche se non davanti a dei libri o nei corridoi della scuola? Beh quello era più che scontato Ronnie, non c’era bisogno che tu ti improvvisassi Cupido.»
Diedi un ultimo morso alla barretta e gettai la carta nel cestino. Presi la mia borsa e sentii Veronica seguirmi.
«Ho sbagliato, d’accordo? Ho capito di aver sbagliato e mi pare che avermi portato il muso sia stato abbastanza come punizione, sto solo...» fece una pausa, convincendomi finalmente a restare ad ascoltarla «Ti sto solo chiedendo di perdonarmi.»
Inspirai, mentre tenevo i miei occhi puntati nei suoi.
Non era la prima volta che Veronica si ostinava a voler gestire la mia vita sentimentale. Per lei qualsiasi relazione che comprendesse un maschio e una femmina significava un prossimo fidanzamento, ed era così dannatamente romantica da farmi venire il diabete. Credeva nell’amore a prima vista e nell’amore eterno, e lo vedeva persino dove non ce n’era il minimo accenno, prendendo abbaglio dopo abbaglio. Doveva imparare a distinguere le due cose.
La sua mossa azzardata non mi aveva certo garantito un’amicizia duratura con Martin, ma nonostante fossi ancora molto arrabbiata e infastidita da ciò che aveva fatto non potevo resistere al suo sguardo desolato. Infondo Ronnie era la mia migliore amica, le volevo un bene dell’anima e se mi aveva perfino organizzato un “appuntamento al buio” sapevo che teneva anche lei a me, e tanto. Oppure era solo una spaventosa romantica aspirante Cupido, ma poco importava: era da troppo tempo che non la abbracciavo.
Mi fiondai quindi tra le sue braccia, lasciando cadere la borsa per terra. La sorpresa fu presto sostituita da una salda presa e restammo a farci cullare dal nostro abbraccio per molto, molto tempo, finché la campanella non ne segnò la fine.
«Che bello, mi hai perdonata!» esultò.
«Stai ben attenta a ciò che fai d’ora in poi, non sarò sempre così clemente.»
La mia sottospecie di minaccia fu accolta dalle sue risate divertite, e dopo avermi permesso di riprendere la borsa mi prese sottobraccio, e mi rivolse un luminoso sorriso.
I corridoi stavano via via diventando più scomodi a causa della fitta massa di studenti che vi si era immersa, alla conquista delle proprie aule.
Veronica mi parlava nell’orecchio per non farsi sentire, di qualcosa – un pettegolezzo quasi per certo – di cui aveva sentito parlare il giorno prima, ma io non le prestai attenzione. Perché qualcosa di più importante attirò il mio sguardo, fisso nonostante l’ammasso di persone.
Mi ritrovai a sorridere ingenuamente quando Martin voltò lo sguardo nella mia direzione, assorto. Abbassai subito lo sguardo, sentendomi come inadeguata. Perché non riuscivo nemmeno a sostenere i suoi occhi?
Cominciai ad agitarmi, quando lui aprì le labbra in un sorriso.
Mi stava sorridendo? Quindi era tutto apposto, non era arrabbiato?
Senza accorgermene mi ritrovai a sorridergli anch’io, finché qualcuno non urtò il mio braccio, per farsi strada. Mi girai pronta ad insultare chiunque fosse stato così maldestro da urtarmi, ma ogni parola mi morì in bocca quando quella stessa ragazza bionda raggiunse Martin, e gli schioccò un bacio sulla guancia.
I due sembrarono aver intavolato una conversazione e sparirono presto dalla mia visuale, facendomi sentire un’idiota.
Era a lei che sorrideva.
«Emma, va tutto bene?» la voce di Ronnie mi riscosse.
Mi girai ad incontrare i suoi occhi chiari, e scossi la testa. Mi sforzai di sorriderle, apparire il più naturale possibile. «Andiamo su, la Kendall non vede l’ora di interrogarmi.»
 
«Zack.» Stephanie si fermò, costringendo automaticamente anche me a farlo.
Alzai gli occhi al cielo esasperato, quella era la terza volta che mi richiamava. Mi voltai ad incrociare i suoi occhi scuri «Dannazione Steph smettila di essere così lamentosa, non stiamo facendo niente di male!»
Spalancò gli occhi, evidentemente contrariata. «Stiamo salendo sul tetto, e sai bene come me che è proibito agli studenti!» mi contraddisse. Abbandonò la presa della mia mano e se le portò ai fianchi e inclinò la testa di lato, guardandomi esigente.
«E allora? Tanto non ci vedrà nessuno. Dai, vieni» tentai ancora di prenderle la mano, ma lei la allontanò di scatto, impedendomi di afferrarla.
Sbuffai, mentre lei si portava le braccia al petto, con uno sguardo di rimprovero.
«Non andremo sul tetto col rischio di prenderci una sospensione.» decretò.
«Ma abbiamo anche saltato una lezione, per questo!»
«E ne salteremo molte altre ancora, se andiamo lì sopra e ci beccano.»
«Te l’ha mai detto nessuno che sei una insopportabile spina nel fianco?» brontolai.
«Qualcuno. E tu un bambino capriccioso e incosciente, ma immagino siano molte le persone che te l’hanno detto.»
Feci spallucce. «Probabilmente le stesse che pensano che tu sia un’acida e noiosa secchiona. E guastafeste, aggiungerei.»
Lei assottigliò lo sguardo, quasi volesse fulminarmi. «Non mi è mai importato di quello che pensa la gente. Tantomeno della tua opinione.»
«Allora non vedo perché a me dovrebbe importare della tua.» le sorrisi, scaturendo in lei la fitta di odio che ero certa stesse attraversando il suo sguardo.
«Quindi se a nessuno dei due interessa l’opinione dell’altro, non c’è motivo che io resti qui con te.» borbottò acida, voltandosi per darsela a gambe.
Riuscii a fermarla tirandola per un polso, e quando la attirai a me, col viso a pochi centimetri dal mio, non resistetti all’impulso di baciarla.
Baciarla era diventato senza dubbio il mio passatempo preferito, negli ultimi giorni. Adoravo il fatto che nonostante fosse stata lei ad esporsi con me quella notte in spiaggia continuasse a trattarmi esattamente come aveva sempre fatto e tenesse ancora alte le sue barriere, perché adesso infrangerle diventava più divertente. E ogni piccolo battibecco era perfetto per strapparle qualche bacio, di tanto in tanto. Sapevo che d’ora in poi non avrei ricevuto un rifiuto dalle sue labbra.
Quelle infatti si ancorarono alle mie, come le sue braccia che erano corse a stringermi all’altezza del collo e le mie che le avevano cinto i fianchi, e si attardarono sulla mia bocca per un po’, a ricambiare i miei baci rubati.
Mi staccai da lei, mantenendomi comunque a pochi millimetri dal suo viso. Come di consuetudine lei aprì gli occhi poco dopo aver avvertito l’accenno di distanza , ora  il suo respiro caldo si infrangeva sulla mia pelle. Nel vedere le sue labbra un po’ più arrossate e gonfie sorrisi e le donai un altro semplice bacio, ma le mie labbra restarono sulle sue.
«Allora, vieni con me adesso?» sussurrai, gli occhi fissi nei suoi e le mani ad accarezzarle i fianchi.
Lei si scostò, ma comunque la mia presa sui suoi fianchi non le permise di allontanarsi troppo. Sospirò e si lasciò andare ad un’annoiata alzata di occhi, fissando le mani sulle mie spalle.
Ed io sorrisi, voltando poi il capo per posare un bacio sul dorso della sua mano.
Avevo praticamente vinto, e avere quell’effetto ammaliatore su di lei mi piaceva da matti.
«Ti odio.» acconsentì.
Aprii le labbra in un largo sorriso e la baciai un’ultima volta «Adoro fare affari con te.»
Feci scivolare una mia mano lungo il suo fianco per incrociare le dita alle sue e, stando attento che non ci fossero professori o bidelli nei dintorni, ci dirigemmo verso una lunga scala, in uno dei lati più nascosti dell’edificio.
Avevo scoperto quella scala una mattina dello scorso anno, quando dopo aver saltato la lezione di chimica mi ero ritrovato senza nulla da fare. Avevo gironzolato un po’ per la scuola sino ad arrivare a quella scala, e la curiosità mi aveva spinto a salirla, per scoprire che portava dritta al tetto. Dopo quella mattina, avevo preso l’abitudine di andarci ogni tanto, giusto per sfuggire a qualche noiosa lezione.
Ignorai le lamentele di Stephanie su quanto alta e lunga fosse la scalinata e me la trascinai dietro, senza lasciare la sua mano. Non c’era un vero motivo per tenerla per mano, sapevo mi sarebbe comunque stata dietro, ma mi piaceva sentire le sue dita stringere le mie.
Quando finalmente fummo in cima, guardai incantato il panorama, come se lo vedessi per la prima volta.
Da lì si riusciva a vedere l’intera città. Sembrava quasi si potesse toccare il cielo con un dito, e adoravo la sensazione di onnipotenza che quella visuale riusciva a trasmettere, quasi come fossi in cima al mondo.
La leggera brezza di metà maggio faceva svolazzare i capelli di Stephanie, ancora stretta a me.
«Siamo arrivati» dichiarai, voltandomi per sorriderle «Visto che ne valeva la pena?»
Mi schioccò un’occhiata e ricambiò il mio sorriso, poi prese a guardarsi attorno meravigliata. «E’ stupendo quassù» mormorò, lo sguardo fisso davanti a sé.
«Te l’avevo detto.»
Inaspettatamente mi si strinse al petto, lasciando che anche io la cingessi dopo qualche secondo.
Ma mentre lei continuava a guardare il panorama, io guardavo lei. Aveva addosso un sorriso dolce e sincero, di quelli che le vedevo esibire poche volte, ed era bellissima.
Quando si voltò a sorridermi di nuovo, non potei fare a meno di abbassare lo sguardo, sentendomi in imbarazzo.
Lei invece avvicinò il suo viso al mio, prendendo breve possesso delle mie labbra.
Quel gesto mi sorprese, ma non ebbi nessuna reazione.
Lei restò con le labbra ancora vicinissime alle mie, e sibilò un “grazie”, prima di baciarmi ancora.
 
Quando anche l’ultima decorazione fu sistemata, mi lasciai andare ad un sospiro sollevato. E fiero. Perché grazie ai nostri sforzi quella vecchia palestra cominciava davvero a somigliare nel nido d’amore che mi ero posta di costruire, con tanto di luci stroboscopiche e festoni ad ogni angolo.
Avevamo deciso che fosse meglio mettere diversi tavoli ai lati della sala, che sarebbero stati adibiti al buffet, e lasciare un grande vuoto al centro, che avrebbe funto da area da ballo.
Ero soddisfatta del nostro lavoro. Ci stavamo dando un gran da fare ed ero certa che per l’avvento della serata tutto sarebbe stato perfetto e adeguato, esattamente come ce l’immaginavamo.
Così caddi esausta su una delle siede in plastica, e restai ad osservare la sala col sorriso stampato in faccia.
«Sembri tanto una mamma orgogliosa del proprio bambino.»
Il mio sguardo slittò in automatico su Zack, l’unica persona rimasta oltre me in quella stanza. Gli rivolsi una smorfia e lui sorrise, poi mi affiancò sull’altra sedia.
Non aveva smesso di partecipare all’organizzazione. Gli avevo più volte ripetuto che non doveva sentirsi in debito di aiutarmi, che davvero il suo aiuto sarebbe stato apprezzato ma non indispensabile, ma lui non aveva voluto sentire ragioni, continuando a spolverare la sua solita frase “ho preso un impegno e lo porterò a termine”.
Ma la sua presenza non mi infastidita. Non più almeno.
«E’ solo che sta venendo proprio come me lo sono immaginato.» mi lasciai sfuggire un altro sorriso.
Lui diede un’occhiata tutt’intorno. «Sì, in effetti non credevo che una palestra potesse diventare così bella.»
«Tu sei solo abituato a lanciare a canestro in una palestra, non avresti saputo cogliere il lato creativo prima che questa stanza cominciasse a somigliare a una vera sala da ballo.»
«Non mi sono mai posto il problema» fece spallucce «ma so usare anch’io l’immaginazione.»
«E immagino che nella tua immaginazione tu ti veda come un celebre Michael Jordan, non è così?» lo schernii.
«So essere molto più bravo di Jordan, è solo che non voglio darmi troppe arie...»
«Ma taci!» gli assestai una gomitata, lasciando che le sue risate si unissero alle mie.
Si riprese poco dopo, assumendo un’espressione pressoché seria.
«Allora, hai deciso di accettare l’invito di Crowner?»
Quella domanda mi lasciò col fiato sospeso. Non tanto perché non sapevo cosa rispondergli, ma perché mi ero del tutto dimenticata di quell’invito. Non avevo dato una risposta definitiva a Harry e lui non aveva insistito per mettermi fretta, e avevo spesso pensato all’ipotesi di non partecipare a quel ballo.
Quegli eventi non erano fatti per me, sapevo che avrei passato il tempo ad annoiarmi, e non avevo rimuginato molto sulla proposta di Harry, sentendo già dall’inizio che avrei finito col rifilargli un due di picche.
Ma la serata del ballo si avvicinava, ed io cominciavo a dubitare del fatto che volessi davvero non partecipare all’ultima festa dell’anno, oltretutto organizzata da me.
«No.» risposi comunque, un po’ a disagio «Cioè, non ci ho pensato...»
Zack annuì e puntò lo sguardo su un punto fisso davanti a sé. Sembrava arrabbiato. O forse geloso?
«Vuoi ballare?» se ne uscì di punto in bianco.
Spalancai gli occhi. «Qui? Adesso?»
«Perché no? Infondo siamo in una sala da ballo, perché non ballare?»
Considerai la sua proposta con un lungo sospiro. Ma sapevo che Zack non avrebbe accettato un rifiuto, e così annuii, lasciando che lui mi prendesse per mano e insieme ci alzassimo.
Mi sentivo in imbarazzo, a disagio. In genere era la sua vicinanza a farmi quell’effetto, e il fatto che non avesse distolto lo sguardo dai miei occhi mentre mi trascinava verso il centro della sala mi rendeva la gola secca, e la mente troppo pesante.
Quando fummo esattamente sotto l’enorme palla scintillante lui accennò ad un sorriso. Mi sforzai di ricambiare sebbene mi sentissi parecchio fuori luogo, e con lo stesso imbarazzo con cui io l’avevo seguito lì al centro lui posò piano le mani sulla mia schiena, le braccia a stringermi debolmente.
Mi riscossi e capii di dover fare lo stesso, quindi passai i miei polsi dietro la sua nuca, sentendomi quasi del tutto nuda davanti alle sue iridi chiare.
«Non so ballare proprio bene...» confessai, lo sguardo basso a controllare i miei stessi passi quando cominciammo a dondolare in modo lento.
Lui posò un dito sotto il mento e sollevò il mio viso, costringendomi a tornare a guardarlo. Sorrise, forse rendendosi conto di quanto nervosa fossi, stretta tra le sue braccia. «Non essere così rigida, o finiremo per cadere entrambi per terra» sussurrò, contro il mio orecchio.
«Sì, d’accordo.» annuii, impacciata.
Sospirai e mi imposi di seguire il suo consiglio e sciogliermi un po’, cercando almeno di sentirmi a mio agio, così vicina a lui. Cercai di non pensare troppo ai movimenti del mio corpo e dei miei piedi, e come lui tenni lo sguardo fisso sul suo viso.
Non stavamo ballando sul serio. Più che altro ci dondolavamo sui nostri stessi piedi, continuando a guardarci e stringere la presa, di tanto in tanto.
Mi piaceva stare con lui. Mi piaceva sentire il suo respiro, osservare i suoi occhi e percepire il tocco leggero delle sue mani. Aveva un che di rilassante, e avrei potuto rimanere a farmi cullare in quel modo per sempre, con la testa sul suo petto e l’orecchio a captare ogni battito del suo cuore.
In quello che consideravo un momento perfetto, mi concessi di chiudere gli occhi.
Poi Zack tornò a parlare.
«Stephanie?»
Aprii gli occhi. «Sì?»
Inspirò. «Ti dispiacerebbe ballare di nuovo con me, così?»
Non capii il senso di quella domanda.
«No, è piacevole.» risposi comunque, sincera.
Lui inspirò di nuovo.
«Allora non ti dispiacerebbe rifarlo, anche se quando te lo chiederò di nuovo saremo circondati da altre persone? Molte altre persone.»
Alzai lo sguardo sul suo, un sorriso accennato sulle labbra. Lui mi fissava nervoso, e deglutì.
«Mi stai invitando al ballo?» chiesi, fermandomi per un istante.
Lui riprese a dondolarci e annuì, lo sguardo basso.
«Sì» lo rialzò «Ti sto chiedendo se vuoi che ti accompagni al ballo che tu stessa  hai organizzato. Se vuoi essere tu, ad accompagnare me.»
Quella era una proposta strana. L’unica cosa che mai avrei immaginato oltre andare a quel ballo era andarci con Zack, e che sarebbe stato lui stesso a chiedermelo.
Era nervoso. Forse come lo era stato quando mi aveva rubato quel bacio la prima volta.
Aveva paura che lo rifiutassi di nuovo, e questo riusciva a farmi sentire tremendamente in colpa.
Ma rifiutarlo non era più nelle mie intenzioni, ormai.


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Ma ciao! 
Ho SUDATO per questo capitolo, ma ci sono riuscita a pubblicarlo ahah
Finalmente Emma e Veronica chiariscono il loro malinteso, ma quale saranno le reazioni di Emma alla nuova compagnia di Martin?
Per la nostra coppietta sembra invece andare tutto a gonfie vele, e finalmente Zack ha trovato il coraggio di invitarla al ballo <3 Stephanie accetterà? Mh.
Ci vediamo alla prossima, like always :)

 
Chiuse gli occhi, come se dirmi quelle parole gli fosse costato parecchio. E sicuramente era così, perché avevo capito dai suoi occhi che era sincero.
Lui voleva me. Solo me.
E dannazione, io volevo lui.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


         
Continuai a smanettare col cellulare, ignorando bellamente l’inutile parlantina di Veronica.
«Dovresti fare ginnastica ogni tanto, tipo due volte al mese, giusto per fingere che ti interessi.» ripeté per l’ennesima volta, al che ricevette la mia ennesima smorfia annoiata.
«Il fatto è che non mi interessa minimamente.»
Ronnie sbuffò, la ciocca di capelli castani le ricadde sul viso. Si affrettò a nasconderla dietro l’orecchio e si sedette al mio fianco, con lo stesso sguardo di una mamma comprensiva ma determinata.
Ed io la ignorai.
Non riuscivo a capire perché insistesse tanto perché io partecipassi alla lezione di educazione fisica. Lei diceva che fare ginnastica fa bene al corpo, che serve a scaricare la tensione, ma io riuscivo benissimo a sfogarmi anche con un cellulare o delle cuffiette. In genere passavo tutte le lezioni in quel modo, distesa sulla panca della palestra con le cuffiette alle orecchie o con in mano il mio telefono o quello di Veronica, e mi andava più che bene. La sola idea di sudare e affaticarmi per sessanta inutili scarsi minuti mi inorridiva, senza contare che il mio ruolo non sarebbe stato diverso da quello che già compivo: immobile presenza, quasi invisibile, raccatta-palle di tanto in tanto. Anche se ci avessi provato a partecipare alla lezione e al gioco nessuno si sarebbe mai degnato di passarmi la palla, ed io avrei finito col dondolarmi sui piedi per tutto il tempo, o peggio farmi male. Avevo già ricevuto un paio di pallonate pur restando fuori dal campo di gioco, e non volevo immaginare cosa sarebbe successo se mi fossi addentrata all’interno.
La professoressa Turner diede un soffio al suo irritante fischietto, invitando la mia classe a prendere posizione in campo. Anche Veronica prese posto quasi al centro della palestra, dove la professoressa Turner avrebbe torturato l’intera classe con dell’estenuante stretching.
Ormai non ci faceva più caso se non partecipavo alla lezione, era scontato che non l’avrei fatto, e se persino la Turner l’aveva capito e si era rassegnata all’idea, non capivo perché non potesse farlo anche Veronica.
Anche quella volta decisi di ammazzare il tempo con della sana musica, e i miei timpani accolsero estasiati le prime note di Bouvelard of Broken Dreams. In campo la Turner stava facendo fare delle flessioni ai miei compagni, ma io avevo ben altro a cui pensare e con cui distrarmi, quindi raggiunsi i materassi in spugna sovrapposti l’un l’altro ad un lato della palestra, e mi ci gettai sopra, rilassandomi mentre Billy Joe cantava nelle mie orecchie.
Non appena ebbi chiuso gli occhi, Martin Payne si impadronì dei miei pensieri.
Non gli avevo più parlato dopo quella disastrosa serata, e cominciavo a pensare che volesse evitarmi. Nessuna parola, nessun messaggio mi erano giunti negli ultimi giorni, e questo non aveva fatto altro che verificare la mia tesi: Martin Payne mi odiava a morte. Ero quasi certa che non sarebbe mai più tornato a parlarmi dopo quel nostro equivoco, e sorprendentemente l’idea mi spaventava: non volevo lui ce l’avesse con me. Non volevo non potergli più parlare liberamente, scherzare o solo cogliere le sue smorfie, o soltanto vedere i suoi occhi. Forse erano quelli a mancarmi più di tutto, i suoi occhi: il modo in cui li rendeva sottili se indispettito, come li spalancava se sorpreso, o com’era possibile cogliere le sue emozioni soltanto attraverso quelli.
Peccato che io tendessi quasi sempre ad equivocarle le sue emozioni o rimanerne confusa, e non riuscissi mai a sapere cosa davvero gli passasse per la testa.  Avrei voluto avere quel potere, di leggere nella mente delle persone e di Martin, così magari avrei saputo se e perché mi stava evitando. Davvero la storia dell’uscita combinata l’aveva infastidito così tanto da non parlarmi?
O forse, ripensandoci, anche lui poteva pensare che fossi io ad evitarlo: infondo nemmeno io mi ero fatta avanti mai per parlargli. Non ero arrabbiata, non più, ma mi sentivo sinceramente un po’ timorosa dell’atteggiamento che Martin avrebbe potuto assumere: indifferenza? Rancore? Sopravvalutazione? Non lo conoscevo abbastanza per dedurlo.
Un forte dolore alla pancia mi riscosse dai miei pensieri.
Un urlo soffocato partì automaticamente dalla mia gola, e le mani andarono a interagire con l’addome, mentre mi rimettevo seduta costretta dall’urto con la grossa palla da basket che campeggiava ora tra le mie gambe.
Per quanto mi sforzassi di respirare, non riuscivo ad emettere che gemiti. E la pancia mi faceva un male tremendo, mi sentivo quasi immobilizzata.
Qualcuno corse verso la mia direzione, e solo quando mi ritrovai i suoi occhi limpidi puntati addosso, riconobbi il viso di Veronica. «Santo cielo Emma, stai bene?» domandò allarmata, cominciando ad ispezionare ogni centimetro del mio corpo.
La Turner sbuffò, borbottando qualcosa del genere “così impara a stare nell’area di gioco”, e qualcun altro ci raggiunse.
Un altro paio di occhi si aggiunse a quello di Veronica, ma persi i sensi prima di capire davvero a chi appartenessero.
 
La sala d’infermeria della scuola non mi era mai piaciuta. Non che fossi un fan delle sale d’ospedale in genere, ma quella era proprio orrida, e mai avrei voluto più rimetterci piede. Ci ero stato solo una volta, durante il secondo anno, quando George Harvey mi aveva lanciato una pallonata sul naso, e quella stanza continuava a non piacermi: tristi pareti grigie e un nauseabondo odore di disinfettante erano più o meno i suoi elementi decorativi, più due lettini e varie cassettiere o scompartimenti. Solo stare lì dentro, era capace di trasmetterti tantissima tristezza.
Ma non mi importava, al momento. Tutto ciò su cui il mio cervello voleva concentrarsi era l’esile figura di Emma distesa sul lettino, dormiente da circa un’ora.
Mi ci era voluto un po’ per capire che aveva appena perso i sensi, quando dopo la mia comparsa aveva chiuso gli occhi. A farmelo capire era stata Veronica, che aveva cominciato a scuoterla senza ricevere alcuna reazione, quindi l’avevo presa di peso e portata in infermeria, dove Gwen, l’infermiera, mi aveva assicurato con una smorfia che non era nulla di grave.
Eppure io continuavo ad essere preoccupato. E soprattutto avevo insistito e lottato con Gwen per rimanere lì a far compagnia alla paziente, seppur incosciente, con l’ansia a mille. Anche Veronica aveva cercato di opporsi, ma io le avevo assicurato che sarei rimasto, quindi pensierosa era andata alla sua lezione di biologia.
Non volevo lasciare Emma da sola, l’ansia mi avrebbe divorato altrimenti, ma temevo la sua reazione quando si sarebbe svegliata. Cos’avrebbe pensato? Non scambiavamo parola da giorni e raramente ci era capitato di incrociare gli sguardi per i corridoi, e ritrovarmi lì al suo risveglio le sarebbe apparso strano.
Mi sentivo un codardo e uno stupido per averla evitata nei giorni precedenti. Ero arrabbiato, frustrato, eternamente triste, e la mia delusione mi aveva spinto ad allontanarla, sebbene lei c’entrasse ben poco con tutto quel casino. Se proprio si doveva dare la colpa a qualcuno allora sarebbe toccata a Veronica, ma neppure lei era responsabile di ciò che era successo: ero io stesso la causa dei miei mali. Sapevo che la sua vicinanza avrebbe finito col darmi false illusioni, ma mi ero comunque deciso a lasciarmi cullare da quelle speranze vane, sognando che forse si sarebbero tramutate in realtà, e che finalmente avrei smesso di osservarla da lontano, e lei avrebbe osservato me, da molto più vicino. Avevo sperato che Emma cominciasse a considerarmi più di un buon insegnante o del fratello della sua cotta, e scoprire che non era cambiato assolutamente nulla mi aveva ferito.
Non avevo immaginato che più di tutto sarebbe stata la sua lontananza, a ferirmi. I suoi sorrisi, la sua risata contagiosa e il suo sguardo malandrino mi mancavano molto più di quanto avessi mai voluto, e in quella situazione, anche se un po’ assurda, ero felice di essere accanto a lei.
Vederla dormire tranquilla era pura beatitudine. Mi sentivo sempre un po’ a disagio coi suoi occhi puntati addosso, ma quando questi erano chiusi e lei non poteva sentire né la mia voce né la mia presenza, allora potevo essere me stesso, senza il timore di venire giudicato dai suoi occhi. E avrei passato tutto il mio tempo ad osservarla in quel momento, che appariva bellissima, a sentirmi tremendamente idiota per avermi privato della visione del suo splendido volto senza un motivo pertinente.
Volevo toccarla. La sua pelle sembrava così morbida e candida in quel momento, ed io avevo questo strano istinto di accarezzarla, come per farle capire che ero lì, con lei, e che non avrei permesso più a niente di allontanarmene.
Ma se si fosse svegliata? Avrebbe urlato spaventata forse, poi mi avrebbe etichettato come “pazzo” e sarebbe stata lei allora a non parlarmi più sino alla fine dei miei giorni. E forse avrebbe anche avuto ragione, anch’io mi sentivo un po’ossessionato. Ma vederla lì, indifesa e ancora incosciente, mi spingeva a non dare peso alle eventuali catastrofi che la mia mente si divertiva tanto a creare, e di dare per la prima volta ascolto alla mia anima, a quello che avevo dentro. E volevo davvero che lei mi sentisse, seppure minimamente, volevo sapesse che ero lì per lei.
Alzai la mano e la tenni sospesa per un po’, incerto se posarla o meno sul suo viso. Alla fine lo feci: posai delicato il mio palmo sulla sua guancia e seguii con l’indice una linea tracciata dalla mia immaginazione. Ne approfittai per passare una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio, e sorrisi nel vedere il suo viso pulito.
Mi piaceva quel contatto. La sua pelle era morbida proprio come pensavo che fosse, e non potei fare a meno di immaginare se un giorno avrei potuto godere di quel contatto in modo naturale, spontaneo, magari quando lei sarebbe stata cosciente. Se avrei mai potuto sorriderle in quel modo anche da sveglia, e se mi sarei sentito di nuovo così bene.
Anche solo toccarla mi faceva stare bene. E mai come in quel momento mi sentivo più innamorato di lei.
E perso. Perché sapevo che non avrei mai più avuto l’occasione o il coraggio di avere un contatto così intimo.
La porta principale dell’infermeria scattò ed io mi catapultai lontano da Emma, cercando di nascondere meglio che potessi l’imbarazzo sulle mie gote.
Dalla porta della stanza, entrò invece Charlie.
«Ciao» mi salutò cordiale «Sei qui da molto?».
«No, sono appena arrivato» mentii.
Annuì e mi sorrise mesta, per poi avvicinarsi al lettino. «Non credevo che una pallonata l’avrebbe stesa così... Avrei dovuto stare più attenta.» mormorò, con tono colpevole.
Mi sforzai di sorriderle. «Non è colpa tua,non l’hai mica fatto di proposito.»
Lei si strinse nelle spalle, comunque intristita. «Vieni a pranzo?» chiese poi.
«Sì, ti raggiungo.»
Mi salutò con un bacio sulla guancia e uscì di nuovo, lasciandomi da solo con Emma.
Lei strinse gli occhi e borbottò qualcosa, allungando le gambe quasi si stesse stiracchiando.
Si stava svegliando.
Ed io andai via prima che potesse vedermi.
 
Tenni lo sguardo fisso sul desktop del portatile che avevo sulle gambe, incerto se le mie intenzioni fossero ben fondate oppure solo meschine.
Da quando Stephanie era uscita dalla mia stanza lasciandomi un bacio a fior di labbra e il computer sulla pancia, avevo meditato se fosse giusto dare un’occhiata alla sua pagina Facebook, che si era forse dimenticata di chiudere. Non ero un tipo impiccione o pettegolo, ma morivo alla voglia di scoprire se Harry o qualche altro ragazzo l’aveva contattata, o la contattasse frequentemente.
Sapevo quanto Stephanie fosse riservata e discreta, e sapevo che se volevo ottenere delle informazioni avrei dovuto cercarmele da solo, perché lei non avrebbe speso nemmeno una parola per accontentare le mie strambe richieste. Avrei potuto chiederglielo, quella era la seconda ipotesi, ma inoltrarmi così tanto nella sua vita le avrebbe fatto intendere un qualche accenno di gelosia, e non potevo permettermi di essere così asfissiante e opprimente, non adesso che le cose tra noi avevano cominciato a prendere una piega del tutto diversa, ma assurdamente piacevole.
La sua vicinanza mi piaceva. Mi piaceva poterla osservare senza il timore di un’occhiataccia, vederla arrossire, conoscere il motivo dei suoi balbettii, e mi piaceva che finalmente avesse abbassato il muro che la separava da me. Mi piaceva essere la causa dei suoi sorrisi, delle sue risate, delle sue smorfie, e avrei passato le mie intere giornate a guardare i suoi occhi. O a baciarla.
Non sapevo esattamente cosa noi due fossimo diventati o tentassimo di diventare, ma avevamo deciso di comune accordo di accantonare l’argomento: parlarne avrebbe portato solo disagio, confusione, e troppo imbarazzo, e per come le cose andavano ora non avevamo bisogno di complicarle. Ci godevamo quei momenti in pace, infondo non sapevamo quanto a lungo sarebbero durati.
Sospirai, affranto.
Decisi poi che un’occhiata veloce ai suoi messaggi non avrebbe causato alcun danno, e sarei stato così veloce che non se ne sarebbe neppure accorta.
Ma non ebbi il tempo di compiere la mia quotidiana cattiva azione che Stephanie comparve sulla soglia, un’espressione perplessa sul viso.
«D’accordo» esordì «Nella dispensa ci ho trovato delle patatine al curry e alcune normali, non sapevo quali preferissi per cui ho preso entrambi i gusti.» fece, sventolando i due pacchi di patatine nelle mani come segno di vittoria.
Risi e le feci cenno di lasciare le nostre provviste sul mio comodino. Lei eseguì.
«Potevi chiedermelo quali preferivo, no?»
Aprì bocca per ribattere, ma non lo fece. «Tanto sono sicura che li mangi entrambi» se ne uscì poi, con un’alzata di spalle.
Annuii, sorridente. «Sono prevedibile su queste cose...»
Si lasciò andare ad una smorfia di assenso, per poi «Spostati» intimarmi, mandandomi a spiaccicarmi contro la parete fredda, mentre lei occupava il posto vuoto sul mio letto.
«Non sei affatto delicata.» mi lamentai.
«Non era mia intenzione essere delicata.»
Sbuffai e mi distesi lungo il materasso, le braccia tenute incrociate sotto la testa.
«Ho lasciato il mio account connesso, prima di andarmene...» ricordò, e afferrò il portatile dai piedi del letto. Arcuò le sopracciglia e si voltò verso di me, che imitai la sua espressione. «Non è che hai sbirciato?» mi domandò sospettosa.
«E per quale motivo avrei dovuto?» risposi svogliato.
«Non lo so. Ma tu sei sicuro di non averci dato nemmeno un’occhiata?»
«Come sono sicuro che non mi interessa nemmeno, darci un’occhiata.»
Accettò il mio falso alibi con un mezzo sorrisetto dipinto in volto. Poi tornò con lo sguardo sul desktop, ed io tornai a fissare il soffitto della mia stanza.
Perché le importava così tanto che io non vedessi ciò che la riguardava? Forse voleva nascondermi qualcosa. O forse non mi riteneva abbastanza importante da far parte della sua vita? Quel pensiero mi fece storcere le labbra.
«Ho parlato con Harry.»
Quelle parole riuscirono a catturare la mia attenzione più di una lista messaggi, o del soffitto della mia stanza.
«E?» la invitai a continuare.
«E niente» chiuse il laptop, per accantonarlo «Gli ho detto che non sarei andata al ballo con lui.»
«A chiamarlo niente...»
Cercò di tenere lo sguardo lontano dal mio, in imbarazzo, e non colse il mio lieve sorriso soddisfatto.
«E lui? Che ti ha detto?»
«Ci è rimasto male, ma non mi ha chiesto il perché.»
Aggrottai la fronte. «Come mai?»
«Non ho saputo cosa rispondergli, all’inizio» spiegò «Così gli ho detto che dovevo già decidere se accettare o no l’invito di un’altra persona, prima di pensare al suo. Mi è bastato dirgli che ho deciso di accettare quell’invito.»
Sorrisi. Tipico di Stephanie, lasciarsi tempo per meditare sulle sue decisioni, anche se avrebbe impiegato una bugia.
Ma ero felice che il capitolo Harry Crowner fosse stato chiuso, e avrei fatto di tutto per non permettergli di riaprirlo.
«Posso farti una domanda, Zack?»
Alzare lo sguardo fu uno sbaglio: i suoi occhi mi stavano scrutando, e mai avrei potuto credere di sentirmi così vulnerabile davanti a lei.
«Certo.» acconsentii comunque.
Prese fiato e temporeggiò per qualche secondo, prima di «Come mai hai deciso di invitarmi al ballo?» chiedermi a bruciapelo.
«Perché volevo farlo.» fui sincero.
«Ma non ti è mai importato.»
Sospirai. «E adesso mi importa, va bene?» sbottai stizzito.
Perché tutto non poteva rimanere così com’era? Perché insisteva per avere delle risposte, quando non ce n’erano delle valide? Perché doveva avere sempre il suo dannato equilibrio, non poteva semplicemente lasciare che le cose seguissero il loro corso senza tenerle costantemente sotto controllo? Sarebbe stato tutto più facile, ed odiavo il suo scavarmi dentro.
Ma lei non demorse. E si distese piano accanto a me, un braccio corse a stringermi flebilmente la vita, e le sue labbra lasciarono un bacio sul mio collo.
«Mi dispiace» sussurrò, il suo fiato si scontrò sulla mia pelle. Un altro bacio venne depositato giusto qualche millimetro al di sotto del mio orecchio. «Avevamo deciso di non toccare l’argomento, ed io continuo a farti domande. Mi dispiace.»
«Non devi dispiacerti, è normale volere delle risposte» tentai di attenuare il suo senso di colpa. Mi voltai su un fianco, e la vicinanza con il suo viso mi fece venire voglia di baciarla, ma mi limitai a carezzarle i fianchi. «Il fatto è che io non so dartele delle risposte» ripresi, impuntando i miei occhi sui suoi «So che è poco su cui fare affidamento ma vorrei che tu ti concentrassi solo su di me, quando stiamo insieme.» corsi ad accarezzare la sua mano «Perché io, quando siamo insieme, beh l’unica cosa a cui voglio pensare è che ho una voglia matta di baciarti, non al perché io abbia questa voglia.»
Avrei voluto salvare ogni dettaglio del suo viso in quel momento. La guancia scavata nel cuscino, i capelli tirati ordinatamente in una coda e i suoi occhi, incatenati ai miei. Le sue labbra apparivano più che invitanti, ora incrinate in un piccolo sorriso, e ogni piccolo particolare del suo viso era perfetto da ammirare.
Ed io mi ritrovavo a pensare che non avevo bisogno di spiegazioni, se avevo lei. Non mi importava il repentino e improvviso cambio del nostro rapporto, se lei avrebbe continuato a sorridermi in quel modo. Avevo lei e mi bastava, mi bastavano le sue mani e i suoi occhi, e non avrei desiderato altro.
Cogliendomi di sorpresa, Stephanie si spostò sopra di me. Si abbassò ad accarezzare la mia guancia e rese minima la distanza tra i nostri due visi, mentre le mie mani andarono a posizionarsi sulla sua schiena.
Mi schioccò un sorriso e presto le sue labbra soffocarono ogni mia parola, appropriandosi della mia bocca, che non mancò di rispondere al richiamo della sua lingua.
E decisi che non esistevano perché, finché lei avrebbe continuato a baciarmi.
 
Aggrottai la fronte, perplessa. «Una festa?» ripetei, con un tono per niente convinto.
Zack invece annuì convintissimo. «Sì, una festa. Non capita spesso che i miei genitori siano fuori città, direi di approfittarne.»
«Ma i tuoi non lo sanno, vero? E scommetto che non lo sa neanche Martin.»
«Certo che no! Se i miei lo sapessero correrebbero qui ad impedirmelo, e Martin farebbe lo stesso.»
«E farebbero più che bene.»
Zack sbuffò ancora, e calciò un sasso. Gliel’avevo visto fare due o tre volte, da quando si era offerto di accompagnarmi a casa a piedi. All’inizio mi ero rifiutata, e prendere l’auto sarebbe stata senz’altro un’idea migliore visto il vento freddo che si andava imponendo, ma mi sentivo molto più sollevata quando stringeva occasionalmente la presa sulla mia mano. Non l’aveva lasciata per un secondo, da quando eravamo usciti.
«Io non ci trovo niente di sbagliato nel voler divertirsi un po’» riprese, come un bambino ostinato.
«Pensavo fossi stato ad abbastanza feste per sapere come vanno a finire.» lo ammonii.
«E tu ad abbastanza poche per sapere che non tutte finiscono nello stesso modo.»
Fu il mio turno di sbuffare. Discutere con Zack aveva sempre avuto l’innata capacità di innervosirmi, e anche quella volta non era da meno.
Non poteva semplicemente godersi quella tranquillità con una serata davanti al televisore? Se proprio voleva avere il brivido della trasgressione avrebbe mangiato sul divano tutte le porcherie che voleva.
Che bisogno c’era di dare una festa? Perché ogni adolescente era inspiegabilmente attratte da serate confuse fatte di alcool e sesso?
Non esisteva un finale diverso. Tutte le feste finivano con una casa semi-distrutta e qualche mente priva di sensi, qualcuno che è ancora sul cesso a vomitare e qualcun altro che si risveglia accanto ad uno sconosciuto.
Ecco perché io le evitavo. Ero stata a pochissime feste nella mia adolescenza, e tutte avevano avuto un impatto troppo negativo per passare inosservato.
D’altro canto Zack doveva adorarle. Lui doveva aver partecipato ad ogni festa negli ultimi tre anni, e aveva deciso di organizzarne una. Ma la mia mente pessimista non faceva che pensare che anche questa sarebbe finita nello stesso modo, ed io e quelli come me non ne avremmo avuto alcun beneficio.
Già nella mia mente ronzavano immagini disordinate, fiumi di alcool e diverse ragazze, tutti in abiti succinti, che avrebbero attirato l’attenzione di Zack molto più di quanto facevo io. E non volevo ammettere di sentirmi gelosa, ma sapevo che infondo l’idea di essere rimpiazzata mi frullava già in testa, e mi spaventava.
Cos’ero io per lui?
Un’amica? Un passatempo? Qualcos’altro? Non avrei saputo dirlo. Lui non mi aveva mai fornito informazioni sul suo repentino cambio di umore nei miei riguardi, anzi evitava l’argomento ogni volta. Avrei voluto scavargli dentro, conoscere il motivo di quella insistenza su di me e poi di quella indifferenza, come fossi già qualcosa di scontato, ma lui me lo impediva.
E allora io rimanevo come in bilico, su un filo sottilissimo i cui estremi erano il ritorno all’astio e la totale fiducia nei suoi confronti, e non avrei saputo su quale fare peso.
Zack era così dannatamente complicato. E indecifrabile.
Quasi non mi pareva vero che stessi tornando a casa dopo aver passato l’intero pomeriggio nella sua stanza, a baciarlo e farmi baciare.  Avrei voluto sapere perché a ripensarci mi sentivo così felice eppure così stupida, come se ad essermi esposta così tanto mi fossi scavata la fossa da sola, e Zack avrebbe potuto gettarmici da un momento all’altro.
Zack  non era il tipo da rapporti sinceri, ed io stavo compiendo l’errore di affezionarmi troppo a lui. E sapevo o temevo che una festa sarebbe stata l’occasione giusta, per gettarmi in quella fossa.
«So a cosa stai pensando.» esordì lui, sornione.
«Ah sì? E a cosa starei pensando, secondo te?»
«Al fatto che Martin non approverà mai questa cosa.»
Accennai un sorriso. «Chi ti dice che non sarà d’accordo?»
«Perché Martin va sempre controcorrente» sospirò «Sembra la faccia di proposito ad essere o fare il mio contrario, e poi è troppo noioso per permettersi di divertirsi. E’ qui che mi serve il tuo aiuto.»
«Il mio aiuto per cosa?» domandai confusa.
«Devi convincerlo a non spifferare tutto a mamma e papà, e a non mandare a monte il mio piano.»
«Tu non puoi farlo?»
«Mi riderebbe in faccia! A te da’ ascolto.»
Sospirai. «Ci provo, ma non ti garantisco niente.»
E lui si aprì in un meraviglioso sorriso.
«Siamo arrivati» decretai infine, notando la facciata color crema della mia casa.
Feci per tirare fuori le chiavi dalla tasca del cappotto ma Zack mi attirò per i fianchi, e presto finimmo addossati contro la parete. Sorrideva come un bambino, e credo che non mi sarei mai abituata a quel sorriso.
«Dovrei entrare» mormorai, seppur non riuscendo a nascondere un piccolo sorriso. E le mie mani corsero ad accarezzargli il collo, il bisogno impellente di toccarlo.
Lui avvicinò il suo viso al mio ma non mi baciò, restò a qualche centimetro di distanza, e fece combaciare le nostre fronti.
«Tu ci vieni alla festa?»
Lasciò sfregare il suo naso col mio e abbassò il capo per percorrere con la punta la linea del collo, arrivò alla clavicola e vi posò un bacio.
Ad occhi chiusi, pensai che avrei voluto maledirlo o venerarlo, perché un suo solo bacio era capace di mandarmi in tilt, farmi trattenere il respiro come una ragazzina. Ma quando li riaprii, i suoi occhi stavano lì di fronte a me, a fissarmi, e mai mi erano sembrati più belli.
Sorrisi, amaramente. «Ci saranno tante di quelle ragazze, perché io dovrei fare la differenza?»
Assottigliò lo sguardo, non si aspettava quella contro-domanda. «Perché» rispose infine «tra tutte quelle ragazze, non voglio guardare nessuna all’infuori di te.»
Chiuse gli occhi, come se dirmi quelle parole gli fosse costato parecchio. E sicuramente era così, perché avevo capito dai suoi occhi che era sincero.
Lui voleva me. Solo me.
E dannazione, io volevo lui.
Infilai una mano tra i suoi capelli e con una spinta le sue labbra toccarono le mie, dando inizio al loro speciale incontro. Incontro che comprendeva baci frenetici, intrecci di lingue e qualche morso, tocchi pesanti.
E continuai a stare appiccicata a lui e a baciarlo fin quando qualcosa non ci interruppe. O meglio, qualcuno.
Mia madre.


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Ciao ciao ciao ciao a tutti! :)
D'accordo, questo capitolo è un po' lungo, ma non me la sentivo di escludere nessuno :c ahah
Facendo un punto della situazione:
Emma è la più imbranata del mondo. Ma è anche molto pensierosa...
Martin sfodera il suo lato innamorato al trecentesimo grado, in questo capitolo. Peccato che lo faccia sempre in modo indiretto... (Immagine di Charlie
qui)
Zack potrebbe cominciare ad essere geloso, anche se l'idea di affrontare l'intera situazione di Stephanie ancora lo turba, e preferisce evitare di farlo. 
E corrompe Stephanie per i suoi scopi. Chissà cosa ne pensa la signora Gilbert... 
Il banner è stato cambiato, cosa ne pensate di questo? Lo preferite o vi piaceva più l'altro?

A presto! :)
 
«Martin è il mio migliore amico!» esclamai scioccata. Sul serio potevamo essere considerati una coppia? Chi lo sa, forse mia madre mi aveva appena svelato il motivo delle occhiate sospette che ci riservavano a scuola.
«E suo fratello il tuo peggior nemico, fino ad una settimana fa! Che fine ha fatto il ragazzo egocentrico e insopportabile di cui ti lamentavi ogni giorno?»

 

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


            
Una sola casella. Mancava una sola dannatissima casella blu e avrei completato una facciata del cubo. Ci perdevo ormai la testa da quella mattina, e mi ci ero dedicato durante i cambi dell’ora e anche adesso all’ora di pranzo, mentre tutti se ne stavano in mensa a mangiare e scambiarsi qualche parola, io me ne stavo seduto in cortile contro la quercia di un albero, a spostare e rispostare caselle che non sembravano voler formare un’unica facciata dello stesso colore.
Quella del cubo era stata un’idea di Charlie. Lei era un asso con quel coso, e quando aveva insinuato che io non sarei riuscito a completare nemmeno una facciata le avevo rubato l’aggeggio dalle mani, deciso a contraddirla ad ogni costo. E’ soltanto un cubo, cosa ci vorrà mai? mi ero detto, ma era ormai chiaro che quello che a me sembrava un gioco stupido era la cosa più complicata che avessi mai tentato di fare. Non avevo idea di come Charlie riuscisse a risolverlo così velocemente e senza alcuna difficoltà, ma cominciavo a temere che lei avesse ragione, e che non sarei riuscito a far combaciare nemmeno nove quadratini dello stesso colore. “Ci vuole maestria, non è roba per sempliciotti” mi aveva schernito lei, ed io avevo colto la palla al balzo, ignaro che mi sarebbe finita in faccia.
Charlie non era affatto male. Era simpatica, intelligente, arguta, e soprattutto sembrava condividere alcuni dei miei interessi, tra cui ovviamente non primeggiava risolvere cubi di Rubik. La sua compagnia era piacevole, non parlava troppo ma il necessario, e non era mai troppo logorroica né inopportuna. Era il genere di persona che sa farti sentire a tuo agio.
Fin’ora avevo conosciuto solo Stephanie con quella abilità, ed ero felice di aver trovato un’amica con cui parlare, ora che lei mi appariva come una visione solo poche volte durante la giornata, e scompariva nuovamente dopo pochi minuti.
Charlie costituiva un buon rimpiazzo. Non che la usassi, mi piaceva stare con lei, ma avrei preferito non mi sfidasse così spesso. Per il posto a mensa, le domande a lezione, e adesso quel cubo... Già sentivo le sue risate, quando gliel’avrei riportato disfatto.
«Dannato cubo.» grugnii, e mi decisi ad abbondare l’impresa. L’avrei dipinto tornato a casa.
«Smartie!» Stephanie si intromise nella mia visuale, con un enorme sorriso. Si chinò a baciarmi la guancia e i suoi capelli sciolti mi solleticarono, poi si sedette vicino a me. «Stephie!» ricambiai il suo entusiasmo.
«Come mai sei qui da solo? E perché hai un cubo di Rubik in mano?»
«E’ una sfida di Charlie.» mi limitai a spiegarle, tenendo l’oggetto malefico in pugno in modo sommesso.
«Charlie?» inclinò la testa «Intendi la ragazza del corso d’arte?»
«Proprio lei. E’ un genio con questo aggeggio, e mi ha detto che non sarei riuscito a completare nemmeno una facciata, quindi io gliel’ho strappato dalle mani garantendole che l’avrei risolto per intero, e adesso... beh, aveva ragione lei.»
Stephanie mi guardò seria per un momento, poi scoppiò in una risata. «Ti da del filo da torcere, eh?»
Feci spallucce. «Tu invece?» mi rivolsi a lei  «Ultimamente sembri un miraggio.»
Abbassò il capo per qualche istante e lo rialzò poco dopo, mostrandomi un largo sorriso. «Hai ragione, ti sto trascurando» accordò, in tono colpevole.
«Spero ci sia un motivo, altrimenti potrei anche offendermi.» mi finsi severo, ma lei sorrise.
«Si, c’è!» annunciò «Sono molto stanca. Sono preoccupata per gli esami, cerco di non perdere nessuna lezione e studio troppo a casa, e poi ci sono i preparativi del ballo...»
«Come sta andando la preparazione?» incalzai, sinceramente interessato.
«Bene, molto bene! La palestra sembra quasi una sala principesca, e ci stiamo dando da fare.» fece una pausa «Forse non ci crederai, ma io e Zack stiamo persino diventando amici.»
Quella affermazione mi fece spalancare gli occhi, incredulo. «Tu e Zack amici? Com’è minimamente possibile?!» sbraitai, sbalordito. Avrei giurato che mai avrei visto loro due parlarsi senza fulminarsi a vicenda, poi mi ero ricreduto sapendoli a collaborare per i preparativi del ballo – il che era stato per colpa mia –, ma diventare amici... Forse era uno scherzo, o qualcuno gli aveva lanciato un qualche incantesimo, non c’era altra spiegazione.
«Non parlarmene, stento a crederci anch’io.»
Risi, se non latro perché ero sicuro che anche a lei doveva sembrare assurdo. «E com’è essere amici di Zack Payne?» chiesi, divertito.
Arricciò le labbra, a pensarci. «Direi strano. Piuttosto strano anzi.» rispose «Ma forse mi ci devo solo abituare.»
«Io che lo sopporto dalla nascita non mi sono ancora abituato a lui, non so quanto tu riesca a fare in pochi mesi.»
Ridacchiò, divertita. «Cercherò di fare del mio meglio, allora.»
Ne seguì un periodo di silenzio, in cui lei si sistemò meglio sull’erba e io ripresi a maneggiare il cubo maledetto, irato dal pensiero di darla vinta a Charlie.
«Immagino sia emozionante vivere a casa da soli.» Stephanie riprese a parlare «Niente genitori, nessun coprifuoco, potete mangiare quello che volete...una pacchia insomma.»
Storsi le labbra. «E’ Zack ad esserne tanto entusiasta, per me non fa alcuna differenza.»
«No? Andiamo non vorrai dirmi che non ti piace fare quello che ti pare, è il sogno di ogni adolescente avere la casa libera!»
«Allora considerami pure un vecchietto decrepito, perché non ci trovo niente di esaltante.»
Stephanie sospirò, contrariata. Poi un sorrisetto si fece spazio sul suo viso, e quando riaprì bocca, dubitai che quelle parole appartenessero davvero a lei o al mio gemello.
«Sai cosa lo renderebbe esaltante? Una festa!»
Mi voltai verso di lei con la fronte aggrottata, gli occhi spalancati per ciò che avevo appena sentito. «Una festa?» ripetei, sperando che mi contraddisse. Invece annuì, entusiasta.
«Certo! Avete la casa libera e sarebbe un’idea grandiosa, e i tuoi non lo verrebbero a sapere!»
«Non se ne parla!» sbottai.
«Perché no?» insistette lei «Ogni ragazzo lo farebbe se fosse al vostro posto.»
«Tu no.»
«I miei non sono fuori città e ho un fratellino rompiscatole, l’hai dimenticato?» ribatté «Invece voi siete apposto, è un’idea formidabile!»
La analizzai da capo a fondo, con il volto accigliato. «Chi sei tu e cosa ne hai fatto della mia migliore amica?!»
Rise, scuotendo la testa. «Sono sempre io, che penso che sprecare questa occasione sarebbe sbagliato.»
«Io penso che distruggere la casa, sarebbe sbagliato.»
Già immaginavo i danni che avrebbe procurato attuare quella festa: mobili rotti, moquette imbrattata, corpi vaganti di ragazzi ubriachi e lenzuola da disinfettare. Il solo pensiero che qualcuno potesse usare la mia stanza per concedersi della privacy mi faceva vomitare.
Non mi piacevano le feste. Ero stato soltanto a una di loro e tutto quello che avevo trovato erano stati alcool, musica spacca-timpani, sudore e un orrendo senso di claustrofobia. Non avevo mai più insistito per seguire Zack.
Ed ero fermamente convinto che Stephanie fosse del mio stesso parere, invece andava elogiando quanto organizzare quella festa sarebbe stato entusiasmante e divertente, e che non potevo assolutamente rinunciare a quella possibilità, che non si sarebbe più presentata tanto facilmente. Poi era l’ultimo anno, c’erano gli esami, ed era un obbligo morale divertirsi e lasciarsi andare...
La interruppi, sentendo affiorare un brutto presentimento. «E’ stato Zack a chiederti di convincermi?»
Il suo silenzio lo confermò. «Ma io sono d’accordo con lui» aggiunse, quasi a giustificarsi.
«Non ci posso credere...» scossi la testa «Stephanie puoi dire a Zack di smettere di provarci, perché non avrà mai il mio consenso, nemmeno se sei tu a chiedermelo.». Sollevai gli angoli delle labbra e tornai al mio cubo, indifferente di quale sarebbe stata la reazione della mora. «Basta, ci rinuncio!» sbottai infine, infuriato contro quel marchingegno infernale.
Stephanie lo prese tra le mani e lo analizzò, poi alzò lo sguardo sul mio. «Facciamo un patto.» propose «Io cerco di risolvere il cubo e tu accetti di organizzare la festa.»
«Scordatelo.» fu la mia risposta iniziale.
Lei si strinse nelle spalle, a fingersi dispiaciuta. «Allora ti toccherà essere deriso da Charlie, immagino. Il grande campione di matematica che non sa risolvere un insignificante cubo...»
Conoscevo quella tattica. Stava cercando di farmi abboccare, puntando sul  mio orgoglio. E sapeva bene quanto più di tutto detestato essere deriso, quindi sorrideva, come se avesse già la vittoria in pugno.
«Affare fatto.» le strinsi la mano, quotando sul fatto che nemmeno lei era così brava come voleva far credere.
Prese il cubo tra le mani e le sue dita cominciarono a spostare caselle e colonne, fin quando, sotto il mio sguardo sbalordito, quello non fu costituito da sei facciate, di caselle monocolore.
«Come diavolo...»
«Bastava spostare le caselle bianche e quelle arancioni, per liberare l’ultima mancante blu e completare il cubo.» mi spiegò, imitando il meccanismo in modo che lo capissi «Peccato, ci eri quasi arrivato.»
Stephanie sorrise, alzandosi da lì e lanciandomi il cubo sulle gambe. Si chinò di nuovo a baciarmi la guancia, e quando si rialzò scosse la testa, come a che fare con un principiante.
«Vestiti bene Payne, mi raccomando.» mi schioccò un occhiolino.
 
«Ed è grazie alla grandiosità delle sue piramidi, dei relitti e delle sue strutture e monumenti, della sua storia e le sue affascinanti tradizioni, che considero l’Egitto una terra splendida, colma di misteri e bellezze. Ed è per questo che ho deciso di incentrare la mia esposizione proprio su questo meraviglioso spazio di paradiso; il mio obbiettivo è far sì che anche voi condividiate i miei pensieri a riguardo.
Grazie.»
L’esposizione di Grace Curry terminò con un suo cenno del capo e l’applauso scostante della classe di storia, in netto contrasto con quello decisamente più entusiasta della professoressa Williams. Io invece roteai solo gli occhi, approfittando del trambusto per accasciarmi sul banco freddo.
Grace tornò al suo posto e l’insegnante chiamò Sam Curdle, che barcollò fino alla cattedra quasi si trovasse sui carboni ardenti: non aveva studiato. Allora tirai un sospiro di sollievo, perché almeno io mi sarei tenuto fuori dal giro quel giorno.
Con la testa schiacciata contro il legno lucido diedi un’occhiata alla postazione di Matt, e non mi sorprese vederlo dormire; Tyler gli stava disegnando qualcosa sulla faccia. Kelly invece si limava le unghie indisturbata, e tutti gli altri smanettavano coi cellulari.
Era l’ultima lezione di quella giornata, ed io cominciavo davvero a sentire i segni dell’affaticamento. L’assenza di supervisori a farmi rigare dritto mi aveva convinto a fare ogni cosa mi passasse per la testa finché potevo, così mi ritrovavo ogni notte ad andare a letto tardi, poi crollare sul banco il giorno dopo. Per fortuna era venerdì, non avrei retto un’altra giornata come quella.
Sam cominciò il suo consueto balbettio. Tyler mi indicò con un sorriso soddisfatto la sua opera sul viso di Matt, il quale dormiva ancora pesantemente. La sua unica fortuna era che non russava. Dormiva così beato e in modo così tranquillo da non farsi accorgere da una mosca, figurarsi da quella talpa della Williams. Tyler scattò una foto all’altro e cominciò a premere insistentemente sul display del telefono, intento a caricare la sua opera su Facebook, consapevole che al suo risveglio Matt gli avrebbe urlato contro. Sospirai annoiato anche da quella scena, e girai il capo dal lato opposto. Ma non riuscii a chiudere gli occhi, perché il cellulare vibrò due volte nella mia tasca, segnalando l’arrivo di un nuovo messaggio.
Avrei potuto sbraitare contro chiunque avesse disturbato il mio tentativo di relax, ma un sorriso spontaneo venne a crearsi sul mio viso quando ne lessi il mittente: Stephanie.
Che lezione hai?”
Storia. Stavo per addormentarmi, è grazie a te che la Williams può ancora ammirare il mio bellissimo volto sveglio.
La tua bellissima faccia da imbecille, vorrai dire
Sorrisi, mordendomi un labbro. Almeno aveva detto “bellissima”.
Un altro messaggio si accavallò a quello: “In che stanza hai lezione?”
Incurvai un sopracciglio, indispettito. Perché voleva saperlo? “12” risposi comunque, “Perché ti interessa?” digitai ancora.
Non ricevetti alcuna risposta, ma il viso si Stephanie fece capolino dopo qualche secondo, interrompendo il monologo della Williams e tranquillizzando un po’ Sam, che poteva leggere qualcosa dal libro. Vidi i volti dei miei compagni farsi più attenti e alcune ragazze fare delle smorfie, e fulminai Tyler, solo che lui non poteva vedermi.
«Cosa c’è?» la apostrofò acida la Williams.
«Mi dispiace interromperla, Miss Williams.» lei sfoderò il suo miglior sorriso «Avrei bisogno di Payne per un po’, mi manda il professor Farrel.».
Gli occhi dei presenti si voltarono all’unisono verso il sottoscritto, Stephanie mi sorrise complice. La Williams roteò gli occhi e «Sì, può andare» acconsentì.
Quando mi ebbi chiuso la porta alle spalle sollevai Stephanie da terra e la strinsi tra le mie braccia, dedicandomi finalmente alle sue labbra. Dio, se mi erano mancate.
Lei rise e morse con forza il mio labbro, costringendomi ad allontanarmi per il dolore. Lasciai che rimettesse i piedi per terra e ridesse per la mia smorfia imbronciata, poi lei si avvicinò di nuovo e iniziò a lenire quel dolore con piccoli baci, e carezze. «Va meglio adesso?» sussurrò contro le mie labbra.
Annuii bloccandola nella mia presa, col suo viso ad una distanza minima dal mio. «Dovevi dirmelo subito che volevi rapirmi per potermi sbaciucchiare, sarei andato via prima.»
Sorrise, ma scosse la testa. «Non ho inventato quella scusa per poterti sbaciucchiare, devo dirti una cosa importante.» picchiettò con l’indice sul mio petto ad allontanarmi, ma io non glielo permisi.
«Puoi dirmela anche da questa distanza.» mormorai, rubandole un altro bacio.
Lei alzò gli occhi al cielo esasperata, ma allacciò le mani al mio collo. «Ho convinto Martin.» disse trionfante.
Inevitabilmente spalancai occhi e bocca. «Significa che la festa ci sarà? Come diamine hai fatto?!»
«Astuzia, Payne. Ho imparato a riconoscere il vostro punto debole e trarne vantaggio. E sì, faremo questa festa!»
Di nuovo Stephanie si ritrovò a qualche centimetro da terra,  che volteggiava tra le mie braccia. «Sei fantastica, Steph!» esultai.
«Shh!» mi zittì lei «Dovresti essere da quel menomato di Farrel in questo momento, se la Williams esce e ti vede qui con me, noi...» non finì la frase, perché le mie labbra andarono a tapparle la bocca.
Ma questa volta non mi morse per scostarmi,  anzi intrecciò le gambe attorno alla mia vita, segnando ogni centimetro del mio viso col tocco delle sue mani. E le mie labbra presero presto il sapore delle sue, il che stava a significare solo una cosa: lucidalabbra alla fragola.
Precipitai schiena alla parete e continuammo a scambiarci baci, poi lei si separò dalle mie labbra, il fiato corto come il mio.
«Grazie.» depositai un altro bacio sulla sua guancia, mentre la rimettevo giù.
«Wow» lei sorrise «Dovrei farti dei favori più spesso, se questa è la ricompensa.»
«Potremmo anche farlo ogni volta che ti va, non solo quando mi fai un favore.»
Passai lentamente il pollice sulle sue labbra gonfie e arrossate, e il desiderio di baciarle ancora mi assalì. A bloccarlo fu un fastidioso tossire.
Mi allontanai da Stephanie credendo che fosse la Williams ad averci beccati sul fatto, e desiderai ardentemente fosse proprio lei, nonostante ci avrebbe mandati entrambi dal preside, anziché della donna che avevamo di fronte, che ci guardava a braccia conserte.
«P-Professoressa Wellington...» Stephanie trovò il coraggio di balbettare, sebbene si trovasse in estremo imbarazzo.
Slanciata nel suo tailleur e i tacchi alti, il suo sguardo non era puntato su Stephanie. Era me che fissava. Ed io deglutii.
Non la sentivo da quanto, quasi due settimane? Non mi ero neppure accorto di come avesse smesso di inviarmi dei messaggi fin quando non me l’ero ritrovata lì, in piedi a desiderare forse che i suoi occhi potessero trafiggermi. E sapevo che non portava nulla di buono.
«Ragazzi» Sarah incrinò la testa, fingendosi severa «Fareste meglio a tornare nelle vostre classi.»
Stephanie arrossì per la vergogna, e per la prima volta avrei voluto tenerla lontana, anziché avere la mia mano stretta alla sua, perché ora Sarah mi inceneriva con quegli occhi gelidi, facendomi sentire in colpa. Non in colpa per averla in qualche modo tradita, ma perché Stephanie nemmeno immaginava cosa ci fosse dietro me e quella donna, e quella situazione era talmente assurda che mi sentivo a disagio e infuriato, troppo persino per ricambiare la sua stretta di mano.
«Ci dispiace, signorina» Stephanie cercò di sorriderle, innocente.
Sarah fece finta di niente, e finse di sorriderci, come se si trovasse davanti a una scena già vista migliaia di volte, e ne fosse intenerita. «Avete un weekend per questo, non a scuola.» ci ammonì, falsamente gentile.
La mora annuì. «Ha ragione. Andiamo?» si rivolse allora a me, che asserii con un cenno distratto del capo.
Ma anche quando lei scomparve dalla nostra visuale, sentivo i suoi occhi puntati a bruciarmi addosso.
 
Mi parai davanti allo specchio, e mi esibii in una giravolta nel mio vestito verde con la gonna a balze. Cercai di stamparmi un sorriso sulla faccia ma il risultato non fu diverso da quello che avevo previsto, e una smorfia presto sostituì quel sorriso. Troppo da bambina.
Provai a indossare l’abito in seta rosso, quello senza spalline e la scollatura a cuore che mi aveva comprato zia Helen, e mi ritrovai a spalancare gli occhi, incredula che quella riflessa nello specchio fossi davvero io. “Per le occasioni speciali” aveva detto la zia, e non avevo ben capito a cosa si riferisse sin quando non l’avevo provato, sentendomi molto più nuda con quello addosso che in normale biancheria. Me lo sfilai.
Spostai qualche gruccia nel mio armadio e trovai l’abito in raso nero, con il pizzo sulla scollatura. Sembrava più un completo da notte che un abito da sera. Non potevo presentarmi alla festa a casa Payne con quello addosso, avrebbero creduto che volessi andare dritta a letto e per giunta seguita da qualcuno. Anche coi capelli portati in su e acconciati, l’impressione rimaneva tale.
Sbuffai, facendo crollare le braccia lungo i fianchi. Cosa avrei dovuto indossare? Non mi andava di presentarmi lì in jeans e maglietta, visto che quasi tutte le ragazze presenti avrebbero avuto addosso minigonne o miniabiti, ma nemmeno i pochi abiti che avevo mi facevano sentire a mio agio. E non avevo neppure idea di come acconciare ai capelli, mi trovavo a un punto morto e solo a due ore dall’inizio.
Stanca di vedere quell’orribile cipiglio sulla fronte mi allontanai dallo specchio. Portai le braccia a sfilarmi il vestito/pigiama, ma qualcuno bussò alla porta, e lasciai perdere per il momento.
Mia madre non aspettò nemmeno che le dessi il permesso, che si intrufolò nella mia stanza.
Mi sentii trasalire. Sapevo qual’era il suo scopo: chiacchierata madre-figlia. “Come va a scuola?”, “Come vanno gli studi?”, “Sei preoccupata per gli esami?”, “Come va il ballo?”, “Tutto bene con Martin?”, “Perché non mi hai detto di avere un ragazzo?”...
Ecco. Lo sapevo. Mi era sembrato anche fin troppo strano  che non avesse speso nessun commento o nessuna domanda a proposito. Mia madre era abituata a dire la sua opinione sempre e comunque, nonostante a volte non ne avessi affatto bisogno, e un bacio col fratello del mio migliore amico, meglio ancora conosciuto come il ragazzo che affermavo fermamente di odiare, non sarebbe mai passato inosservato al suo occhio critico.  Soprattutto se poi io avevo passato una vita a dipingerlo come arrogante, presuntuoso, incosciente,  e un incurabile dongiovanni...
«Zack non è il mio ragazzo.» la interruppi brusca, ficcando la testa nell’armadio a fingere di cercare dei vestiti, quando invece volevo solo nascondere le mie guance rosse.
«Però lo baci.» ribatté lei «E sembra anche che ti piaccia parecchio.»
Sentii chiaramente la pelle andare a fuoco.
Se mi piaceva? Sì, mi piaceva. Ma pensavo di nascondere bene questa cosa, di essere sempre l’impassibile e indifferente Stephanie, invece mia madre l’aveva dedotto solo guardandomi in faccia. E allora poteva averlo dedotto anche Martin, e il resto della scuola.
«Stephanie?»
Forse era per via del sorriso che ostentavo quando gli ero vicina o lo baciavo?  Forse per la leggerezza e il buonumore degli ultimi giorni? Andiamo, non potevo essere diventata così trasparente! Magari mia madre aveva fatto le sue indagini a riguardo, ma anche questo sarebbe stato troppo strano, visto che non avevo parlato di Zack con nessuno oltre la mia coscienza. In realtà non avevo molte persone con cui farlo: non ero circondata da amiche, e l’unica persona di cui mi fidassi era Martin, ma dirlo a lui era fuori discussione, e così mi tenevo quel piccolo segreto solo per me, meditando su quando l’avrei condiviso, sempre se fosse giusto farlo.
«Stephanie? Ti sei addormentata nell’armadio?»
Afferrai il primo indumento a portata di mano e corsi di fretta a provarmelo davanti allo specchio, ma il suo sguardo mi fissava dalla superficie lucida.
«Era solo un bacio, mamma.» tentai di ricompormi «Potrebbe anche essere stato per sbaglio, improvviso, o non essermi piaciuto.»
Intanto la gonna che avevo pescato dall’armadio mi  andava larga in vita. Scartiamo anche questa.
«Oh io non mi riferisco di certo al bacio, tesoro.» assunse un’espressione divertita «Io parlo del tuo comportamento degli ultimi giorni. Sei sollevata, e il fatto che tu lo sia in un periodo in cui dovresti essere stressata alle stelle per lo studio e altri fardelli mi è sembrato piuttosto strano fin dall’inizio, e averti trovata con  Zack sulla soglia di casa nostra a sbaciucchiarvi mi ha decisamente illuminata. E tranquillizzata, perché pensavo che avessi deciso di abbandonare gli studi proprio agli ultimi mesi.»
Sollevai gli angoli delle labbra, intenerita dal suo indagare. Infondo ero stata ingenua a pensare che il mio comportamento non avrebbe insospettito mia madre, che più di ogni altra cosa amava osservare ogni mia espressione e carpire ogni mia emozione, qualunque essa fosse. Era chiaro che prima o poi avrebbe capito che c’era qualcosa a rendermi così lunatica e meno scontrosa contro il genere umano, ma non ero ancora pronta ad affrontare l’argomento Zack Payne con lei. O con nessuno, visto che nemmeno con Zack stesso ne parlavamo, decisi a lasciarci guidare dal corso degli eventi.
«Come mai proprio Zack?»
Ed ecco che come al solito mia madre andava controcorrente.
«Avresti preferito qualcun altro?»  replicai sarcastica, e mi inoltrai di nuovo nell’armadio delle delusioni.
«Beh questo non tocca deciderlo certo a me, ma sarei stata meno sorpresa se quello che baciavi fosse stato Martin e non il suo gemello.»
«Martin è il mio migliore amico!» esclamai scioccata. Sul serio potevamo essere considerati una coppia? Chi lo sa, forse mia madre mi aveva appena svelato il motivo delle occhiate sospette che ci riservavano a scuola.
«E suo fratello il tuo peggior nemico, fino ad una settimana fa! Che fine ha fatto il ragazzo egocentrico e insopportabile di cui ti lamentavi ogni giorno?»
Bella domanda. Che fine ha fatto, Stephanie?
«Sto imparando a conoscerlo, e a cambiare la mia opinione. E’ un reato?» obbiettai, rivolta più verso la mia coscienza che verso mia madre.
«No che non lo è. Spero solo che la vostra conoscenza non si limiti alle vostre bocche.»
«Mamma, ti prego...»
«Lo dico per il tuo bene.» si fece seria, guadagnandosi la mia attenzione «I ragazzi non sono mai stati un punto a tuo vantaggio, e non voglio che...»
«Che ricominci ad essere acida e semidepressa?»
«Che tu ti senta delusa.»
Abbassai il capo. «Non vedo come potrebbe succedere,  se tra noi non c’è altro che qualche bacio.»
 E allora ritornai per l’ennesima volta a pormi la stessa domanda: cosa eravamo noi due? Potevamo definirci una coppia, o amici, o qualsiasi altra cosa? Come e in base a cosa eravamo giunti a cogliere ogni occasione disponibile per baciarci e passare del tempo insieme? Perché improvvisamente mi sentivo legata a lui? E che fine aveva fatto il mio odio imprescindibile? Avrei voluto saperlo, ma non c’era una risposta valida per nessuna di quelle domande.
La mamma si alzò dal mio letto, e si avvicinò a mettere le mani sulle mie spalle, portandomi i capelli indietro come era solita fare quando ero bambina. «Se quei baci ci sono, è perché a sostenerli c’è qualcos’altro dietro. Ed è pensare che questa cosa possa farti soffrire a preoccuparmi.»
Vedevo i suoi occhi puntati nello specchio, identici ai miei. E come gesto automatico cercai le sue mani, trovandole poi a stringermi la vita, in un lieve abbraccio. Intrecciai le mie dita con le sue.
«Nel caso dovesse succedere... tu ci sarai?»
Lei si illuminò in un sorriso. «Certo che ci sarò, amore. Io ci sarò sempre, persino se il giorno del tuo matrimonio vorrai scappare dall’altare.» quello mi fece ridere «Ma conviene a lui che non succeda, perché non so quanto potrei essere paziente, a quel punto.»
Risi di nuovo, e schioccai un bacio sulla sua guancia. «Grazie, mamma. Mi dispiace non avertelo detto.»
«Non importa. Puoi almeno dirmi dove ti prepari ad andare?»
«Ad una festa. A casa dei Payne...»
«Oh. Immagino che Sophie e Robert non lo sappiano...»
«No, non lo sanno.» scossi la testa, sorridente. «Non so cosa mettermi.»
Mia madre strinse le labbra, a rifletterci. E quando tornò a sorridere, sapevo di aver risolto il problema.


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Taa-daan!
D'accordo, probabilmente il capitolo avrà qualche errore, ma dovete sapere che sono pigra per natura e ri-controllare non mi va mai, e poi sono in preda a un raffreddore e un mal di gola che prospettano una dolcissima e duratura influenza, e la cosa mi spaventa.
Ma abbandonando i miei mali.
Martin è stato convinto, a quanto pare. Non che il metodo di Stephanie sia stato proprio corretto, ma ogni fine giustifica i mezzi!
E la notizia rende Zack abbastanza felice. Ma la professoressa non si arrende, eheh credevate di esservi liberati di lei? 
Stephanie e la sua mammina hanno una fitta conversazione. A quanto pare anche lei sembra volere il gemello contrario per sua figlia! Peccato che la mora non la pensi allo stesso modo, anche se è abbastanza confusa a riguardo. 
E io mi dileguo, come al solito.

 
Dedicai qualche secondo per controllare che nelle vicinanze non ci fosse nessuno di sospetto, posai un bacio sulla sua spalla e le mie labbra raggiunsero il suo orecchio. «Vieni con me.»
«Comincio a credere che tu stia prendendo un brutto vizio.» rise lei.

 

Credo che finirò il secondo libro di Hunger Games e mi ritirerò dritta a letto, con la speranza che niente mi attacchi durante la notte. 
Alla prossima! :)


 

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Capitolo 20
*** Capitolo XX ***


        
'Cause just one night couldn't be so wrong
I'm gonna make you lose control

Avevo sempre voluto organizzare una festa. Le adoravo in genere, ma c’era qualcosa che differenziava il semplice parteciparvi dall’esserne l’organizzatore. E’ quasi come se tutti quanti ti stimassero di colpo, solo per aver avuto l’idea. Ti senti un po’ come il padrone della serata, quello in grado di mandare via chi non ti va a genio perché è casa tua, e tutti non fanno che sorriderti e darti pacche sulla spalla, congratularsi con te e trattarti come un vecchio amico, nonostante molti di loro nemmeno ti conoscano o forse ti odiano segretamente. Ma l’alcol fa miracoli.
Sebbene avessi avuto solo meno di due giorni per metterla a punto, la festa che avevo progettato andava a gonfie vele. Quasi tutto l’ultimo anno della Windson High School si era presentato, e avevo scorto persino vecchi alunni, o studenti di altre scuole, o semplicemente sconosciuti. Era sorprendente come la notizia di una festa venisse divulgata così velocemente.
Il salotto era invaso. Con l’aiuto di Matt e Tyler avevamo portato i divani e le poltrone in garage, per evitare che il tessuto venisse imbrattato, e Martin si era occupato di sistemare il tappeto persiano di mamma e altri diversi oggetti delicati che stavano in giro per casa nella stanza dei nostri genitori, che avevamo deciso di chiudere a chiave, come con le nostre. Le uniche aree accessibili erano quindi il salotto, la cucina, il bagno, la veranda e il giardino.
E Martin pensava ancora che fossero comunque troppe. Aveva anche ripulito il bagno di saponette e altri aggeggi, “non si sa mai che potrebbero derubarci”.
Martin e una festa erano a due opposti, e stentavo ancora a credere che avesse davvero accettato di tenere quella festa, visto che era chiaro che fosse contrario in ogni termine. Stephanie doveva averlo minacciato, ipnotizzato, oppure averci fatto un patto. O magari mio fratello si fidava così tanto di lei che si era fatto convincere che non fosse poi una cattiva idea, e per non darmi la soddisfazione di dirgli “te l’avevo detto” si fingeva contrariato. Per quanto mi riguardava il mio unico metodo per ottenere qualcosa da lui era il ricatto.
Stephanie. Ecco chi aspettavo tra quella mischia di gente. Nonostante le sue proteste iniziali pensavo alla fine sarebbe venuta, d’altronde era merito suo se quella festa stava avendo luogo. E poi era l’unica persona con cui volessi davvero passare quella serata.
Il pensiero di Sarah attraversò la mia mente.
Il fatto che non mi avesse inviato nessun messaggio per commentare ciò che aveva visto due mattine prima a scuola suonava parecchio strano, ma se c’era una cosa che avevo imparato da lei era la sua imprevedibilità. Anche se, ad essere sincero, mi aspettavo una chiamata, un messaggio, qualsiasi segno di interessamento. Forse aveva deciso di lasciarmi andare?
Scossi la testa, deciso a non rovinarmi la serata pensando a lei, ma concentrandomi su chi avrebbe potuto migliorarla, che ancora non vedevo da nessuna parte. Tirai fuori il cellulare. “Non dirmi che hai deciso di non venire...” digitai, anche se forse era proprio così e io stavo solo perdendo tempo. Magari era a leggere, studiare, davanti alla tv, dormire, ma nemmeno programmava di venire qui. Lei me l’aveva detto che le feste non le piacevano. Ma non poteva fare uno sforzo per me?
Il rumore stridulo di un microfono appena acceso infastidì tutti, e Matt sorrise e abbassò il volume della musica, attirando l’attenzione e suscitando i brontolii e gli insulti dei presenti. Ma lui picchiettò con l’indice sul microfono per due o tre volte, assordando chiunque.
«L’amplificatore, idiota!» urlò un ragazzo in fondo.
«Prova, prova» ripeteva Matt. Quando si fu convinto che il microfono funzionava si allargò in un sorriso. «BUONASERA CREATURE DELLA NOTTE!» tuonò «FATE UN APPLAUSO PER IL DJ!» continuò, ma nessuno applaudì.
«E’ lui il dj.» suggerii a dei ragazzi lì vicino. E quelli urlarono e fischiarono tra gli applausi, invogliando il resto.
Matt accolse le acclamazione con un umile inchino.
«SIETE PRONTI A DIVERTIRVI?» - altre urla - «E ALLORA SCATENATEVI!»
Le note di una canzone dance proruppero nell’abitacolo, e tutti i presenti presero a ballare incollati, tra risate e birra.
Io mi tenevo allo stipite della cucina in attesa, e Tyler arrivò con due birre tra le mani, e me ne porse una. La accettai, ringraziandolo con un cenno.
«Come mai qui tutto solo?» domandò «Ci sono un bel po’ di ragazze che aspettano solo di vederti in pista per attaccarsi come cozze» imitò il movimento, e entrambi finimmo a ridere.
«Potrei non essere interessato a fare da scoglio.» obbiettai, portandomi il vetro alle labbra.
«Impossibile, tu fai sempre da scoglio.» incurvò le sopracciglia «Sei ancora sobrio e te ne stai lontano da tutti... Dì la verità, aspetti qualcuno?» A quella domanda non risposi, e bevvi un altro sorso. «Qualcuno come la Gilbert?» continuò lui.
«Chi?» alzai la voce, fingendo di non aver sentito.
«Hai sentito benissimo Payne» rise «Allora è lei la tua nuova fiamma?»
«Perché non vai a divertirti, Tyler?»
«Io mi diverto a torturarti!» replicò quello «Dimmi che ho ragione e sparisco.»
«Non hai ragione, ma sparisci comunque.»
«Ho ragione, ho ragione!» gongolò, puntandomi il dito contro «Aspetti la tua Stephanie, eh? Dimmi, cosa avete fatto insieme nell’ora di storia? La vuoi tutta per te, vero? Ecco perché non ti avvicini alle altre!»
«Ma piantala!» gli assestai una gomitata, senza riuscire a nascondere un sorriso.
«Sorridi!» esclamò lui «Oh ma allora è qualcosa di serio se ti imbarazzi!»
Qualcosa di serio.
Non mi era mai capitato di averlo. Come non mi era capitato mai di sorridere per una ragazza, e lei non era nemmeno lì. La stavo aspettando, perché sentivo di voler stare solo con lei e con nessun’altra, e se anche Tyler se n’era accorto allora ero diventato molto più trasparente di come pensavo.
«Non lo so se è serio.» ammisi.
Lui sembrò perplesso. «Ma non stava con tuo fratello?»
«Chi, Stephanie? No!»
In effetti l’avevo pensato anch’io per tutta una vita, ed ero certo fosse quello che pensavano un po’ tutti, ma gli ultimi eventi mi avevano convinto di aver preso solo un grosso granchio.
«Oh, ok.» Tyler fece spallucce, portandosi la bottiglia alla bocca. «Allora buttati.» furono le sue ultime parole, prima che si dirigesse da una ragazza mora a destra, con cui aveva scambiato sguardi e sorrisi durante la nostra conversazione. Mi rivolse un occhiolino ed io alzai il pollice in alto, poi bevvi un po’ della birra che avevo tra le mani.
Il cellulare vibrò. Un nuovo messaggio, “Stephanie”.
Trovami.
Sorrisi divertito dal suo giochetto e perché alla fine era venuta, e partii alla ricerca.
Scansai un bel po’ di ragazzi, ma alla fine la trovai, stretta in uno degli abiti più semplici che avessi visto quella sera, di colore bianco. Era di spalle e si guardava attorno, vicino alla porta della veranda.
Mi avvicinai cauto e la cinsi da dietro, racchiudendola tra le mie braccia. «Trovata.» sussurrai al suo orecchio.
All’udire della mia voce Stephanie si rilassò decisamente e si fece più piccola nella mia presa, e anche se non potevo vederla sapevo che sorrideva. «Bravo.» si complimentò «Cosa vuoi farne adesso di me?»
Dedicai qualche secondo per controllare che nelle vicinanze non ci fosse nessuno di sospetto, posai un bacio sulla sua spalla e le mie labbra raggiunsero il suo orecchio. «Vieni con me.»
«Comincio a credere che tu stia prendendo un brutto vizio.» rise lei.
«Non ti sei mai lamentata, no?»
Stephanie si voltò, un sorriso e uno sguardo di sfida la illuminavano. Fece scivolare le sue mani, sino a unirle con le mie. «Guidami.»
 
Erano passate quasi due ore dall’inizio della festa, ed io ancora mi rigiravo sul letto come una cotoletta. In realtà non sapevo a che ora esattamente fosse iniziato quel putiferio, mi ero rinchiuso nella mia stanza dopo essermi assicurato che ogni oggetto delicato in casa fosse al sicuro, poi era iniziata la musica, ed io non ne ero più uscito. Più volte avevo avvertito qualcuno muovere la maniglia della mia stanza per provare ad entrarci, ma fortunatamente avevo avuto la brillante idea di chiudere le stanze a chiave. Ci mancavano solo delle lenzuola da lavare.
Nonostante un piano di distanza la musica arrivava assordante anche alle mie orecchie, ma mi costringevo a premermi il cuscino ad attenuare il rumore e a non sbraitare inutilmente: tanto nessuno mi avrebbe sentito.
Non osavo immaginare cosa stava accadendo al piano di sotto: ero quasi sicuro che fosse colmo di gente, e che le riserve di bevande fossero già state consumate per metà. Quando avevo visto Matt e Tyler trasportare in casa così tante confezioni di birra avevo spalancato gli occhi e chiesto stupidamente se non avessero sbagliato le quantità, ma loro mi avevano riso in faccia.
Come potevano ingurgitare così tanto alcool in una sola sera? Ne ero sicuro, a fine serata tutti quanti si sarebbero trovati ubriachi marci, e sarebbe toccato a me mandarli tutti via, perché Zack si sarebbe aggiunto alla lista degli sballati. Avrei voluto cercarlo, ma l’idea di scendere lì e farmi spazio tra altre mille persone mi spaventava.
Perché mi ero lasciato convincere da Stephanie? No, non mi ero lasciato convincere, ero ancora contrario a quella festa anche se ora non serviva più a niente, lei mi aveva solo raggirato. Aveva giocato bene le sue carte, puntando sul mio orgoglio, ed ero riuscita a spuntarla, senza che io potessi fare qualcosa per impedire il disastro che di lì a un giorno si sarebbe scatenato.
Per fortuna i divani erano al salvo. Solo immaginare la faccia e le urla di mia madre quando avrebbe visto il suo amato divano a tre posti azzurro cielo mi mandava fuori di testa, e avevo anche provveduto a lampade, porcellana, oggettistica di vetro. Persino le saponette. La mamma impiegava le sue migliori forze per trovare le saponette con la forma di rose, e non trovarle l’avrebbe insospettita e ci avrebbe procurato dei guai.
Ma la festa non era finita, ed io non avevo idea di come stesse andando né di come sarebbe andata a finire, e temevo il risultato finale. Mi preparavo già psicologicamente alle grande pulizie che avremmo dovuto fare per rimuovere ogni traccia, e soprattutto alla versione su cui io e Zack avremmo dovuto accordarci se i nostri genitori avessero avuto qualche sospetto. Magari loro l’avevano già saputo, i vicini avevano deciso di non farsi i fatti propri ancora una volta, e stavano già tornando con l’obbiettivo di darci una buona strigliata e metterci in punizione per il resto della nostra vita.
Non potevo restare in punizione per così tanto tempo! Io nemmeno c’entravo con tutta quella storia! Quelli da punire erano Zack e anche Stephanie, perché lo aveva aiutato. Io ero innocente, almeno per il 50% della faccenda.
Pescai il cellulare da qualche parte remota del letto, ma quando provai a chiamare Stephanie per sapere dove si trovasse a rispondere fu la sua segreteria telefonica, che mi invitava ad aspettare di essere richiamato. Dubitavo lo avrebbe fatto, forse era già a letto o immersa in qualche lettura. Optai quindi per un sms: “Se non hai niente di importante da fare, vieni a salvarmi!”.
Ma la risposta non arrivava. Anche Stephanie aveva deciso di abbandonarmi e forse il mio destino sarebbe stato restare chiuso in quella stanza coi timpani distrutti finché non si sarebbero stancati di festeggiare chissà cosa, ma il leggero languorino allo stomaco mi informava che avrei dovuto andare a mangiare qualcosa, o sarei morto di fame. L’ipotesi di usare Zack come addetto al servizio in camera era da escludere, non avrebbe sentito il cellulare o comunque avrebbe fatto finta di non farlo. Dovevo scendere, inoltrarmi nell’inferno e cercare di tornarne vivo.
Cercai di trattenere quell’istinto il più possibile ma alla fine la fame ebbe la meglio, perché mi ritrovai a girare la chiave nella toppa.
La situazione in corridoio sembrava stabile. Era quasi deserto, ma io mi chiusi comunque la porta alle spalle, e la resi inaccessibile con un colpo di chiave. Magari mi sbagliavo, e la situazione non era poi così disastrosa come pensavo.
Era molto peggio.
Giù per le scale la musica diventò quasi insopportabile, e mi stupì vedere così tante persone nel mio salotto. Alcune di loro le avevo viste a scuola ma non ci avevo mai parlato, altre le avevo sempre evitate e altre ancora mi apparivano sconosciute, era la prima volta che le vedevo. Doveva essere presente quasi tutta la scuola. Naturalmente i pochi amici che avevo non erano presenti, e nemmeno di Stephanie c’era traccia. L’avevo cercata con lo sguardo ma non l’avevo intravista, e quando avevo cercato mio fratello il risultato era stato lo stesso. Dove diamine poteva essere? In salotto non c’era, il bagno era libero, la veranda non era il suo posto preferito, e adesso che mi trovavo in cucina non stava neanche lì. A meno che... Spalancai gli occhi, al pensiero di Zack rinchiuso nella sua stanza con qualche ragazza.
No Martin cancella subito l’immagine, concentrati sul cibo!
«Cibo.» ripetei, come un robot.
Mi sentivo al sicuro in cucina. Stranamente era vuota, se non per una ragazza stesa per il pavimento, che probabilmente dormiva. Mi metteva a disagio vederla distesa lì, ma la invidiavo: come faceva a dormire con quel trambusto? Avrebbe dovuto svelarmi il suo segreto.
Decisi di lasciar perdere la ragazza e di concentrarmi sul cibo, ma quando aprii il frigorifero questo era quasi sgombro. Quello che rimaneva era del  latte, acqua, alcune birre superstiti, e un pasticcio confezionato che di sicuro nessuno aveva avuto il coraggio di prendere. Nemmeno io ce l’avevo.
Aprii qualche sportello della dispensa e mi rallegrai alla vista di un pacco di biscotti, di cui mi impossessai prima che qualcun altro venisse a scoprirli.
Col mio bottino e per niente intenzionato a rimanere lì a farmi venire un’otite mi rivolsi verso la porta per sgattaiolare in camera, ma qualcuno esercitò la stessa pressione sulla maniglia e la porta mi finì in faccia. Feci qualche passo involontario indietro e i biscotti mi caddero di mano, la mia mano corse a massaggiarmi la fronte.
«Mi dispiace tantissimo!» una voce mi soccorse «Martin?»
Il mio cervello registrò quella voce, e d’istinto incurvai lo sguardo. Ma quando la mia visuale fu libera Charlie era proprio davanti a me, con indosso un vestitino verde lime e i capelli biondi acconciati in piccoli boccoli.
«Che ci facevi dietro la porta?» ridacchiò.
«Cercavo di uscire, ovviamente!» sbottai stizzito. Mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi e mi rimisi in piedi, afferrando il pacco di biscotti. Menomale che ne erano caduti solo pochi. «E facevo provviste.» aggiunsi, mostrandole i biscotti «Ma tu che ci fai a casa mia?»
Mi guardò stranita. «C’è una festa, Martin. E mi ritengo alquanto offesa che tu non mi abbia invitata personalmente, l’ho saputo da una ragazza a chimica, pensa tu!»
Non pensavo Charlie fosse tipo da feste. Eppure era lì, con un abito corto addosso e un paio di tacchi, i capelli erano apposto ed era truccata.
«Non ti ho invitata perché questa festa l’ha organizzata mio fratello, non io, e perché io odio le feste, e adesso tornerò esattamente da dove sono venuto: la mia stanza! Quindi divertiti e buonanotte.»
Cercai di svignarmela ma Charlie mi prese per un braccio, trattenendomi. «Hai davvero passato tutto questo tempo chiuso in camera tua?» chiese meravigliata. Annuii. E non ti annoi?».
«E’ meglio che essere sballottato da una parte all’altra lì dentro.» feci, indicando il salotto.
«Oh ma noi ci stiamo divertendo!» obiettò lei «Perché non ti diverti anche tu?»
«Preferisco la mia solitudine, grazie.»
«Andiaamo!» insistette lei. «Rimani per qualche minuto. Poi se non ti diverti te ne torni nel tuo antro oscuro.»
Sospirai. Perché non poteva semplicemente lasciarmi andare? Io le odiavo le feste e avrei odiato trovarmi lì in mezzo, e lei mi ci voleva trascinare!
«Tieni. Bevi questo.» mi porse un bicchiere, con dentro un liquido trasparente tendente al rosa.
«Che roba è?» chiesi, indispettito.
«Bevi e basta!»
 Non mi fidavo. Non conoscevo la provenienza di quel liquido e poteva essere dannoso. Ma se Charlie non era ubriaca significava che non aveva bevuto alcol, quindi avrebbe potuto trattarsi di un analcolico. Ma non mi fidavo.
«Non ti spaventerà una bevanda rosa?» mi schernì, con un sorrisetto meschino sul volto.
Puntai il mio sguardo duro sul suo, che sembrava determinato. E quando buttai giù l’intero contenuto del bicchiere, sorrise vittoriosa.
 
«Allora, siamo arrivati?» chiesi curiosa, per l’ennesima volta.
«Manca ancora un po’.»
«Posso togliermi la benda? Non vedo niente!»
«Serve a quello.»
«Zaaaack...» presi a piagnucolare.
«Un altro po’ e potrai toglierla, lo prometto.»
Tirai un sospiro e mi costrinsi quindi a mettermi comoda, perché era da tanto che Zack ripeteva “un po’”, e ancora avevo quella benda sugli occhi. Non sapevo perché aveva voluto bendarmi ma l’avevo lasciato fare, incapace di rovinargli l’entusiasmo. E poi mi ero lasciata condurre nella sua auto come una bambola, e l’unica informazione che mi aveva concesso era stata “andremo in un bel posto”, il che non era poi tanto su cui fare affidamento. Non mi aveva detto altro, e morivo dalla voglia di sapere dove fossimo diretti.
Pensai a Martin. Poveretto, era rimasto da solo. Anche se dubitavo che avesse messo piede fuori dalla sua stanza.
Mi rilassai e sprofondai contro il sedile dell’auto, aggiustandomi alla cieca le pieghe del vestito. Era stato difficile ma alla fine quel vestito era stato la scelta giusta: non troppo corto, non troppo scollato, certamente uno degli abiti più sobri che avessi visto a casa Payne. Tutte indossavano miniabiti che gli lasciavano scoperte le cosce e mettevano in bella mostra il seno, per non parlare del trucco quasi volgare di alcune. Io mi ero convinta che lasciare i capelli sciolti fosse una buona idea, e il mio unico trucco era costituito da un po’ di phard, un ombretto scuro e una linea di matita sulla palpebre, mascara e lipgloss. Non ero niente di speciale, eppure Zack era con me.
Sorrisi. Quella situazione mi ricordava tanto la notte al mare, quella in cui lui era venuto a rapirmi da casa e mi aveva portata in spiaggia, e alla fine ero stata io a non volermi separare da lui e le sue labbra. Quella sarebbe rimasta sempre una delle mie notti preferite.
«Mi stai portando di nuovo al mare?» gli chiesi.
«Non sono così monotono!» rispose «Rilassati, tra un po’ ci arriviamo.»
«Va bene, mi rilasso.»
Di nuovo feci aderire bene il corpo allo schienale, ma presto una mano prese ad accarezzare la mia, posta sulla mia coscia. Zack ne accarezzò il palmo ed io la strinsi,ostentando un sorriso. Era un gesto che aveva preso l’abitudine di fare ogni volta, e ogni volta scaturiva il mio sorriso.
Rimanemmo così per circa cinque minuti, poi la mano di Zack si staccò dalla mia. «Siamo arrivati.» annunciò.
Mi raddrizzai elettrizzata dal poter vedere di nuovo e sentii l’apertura di una portiera, poi un’altra e poi delle mani che cercavano le mie, mi aiutavano ad uscire dall’auto.
Quando mi ritrovai in piedi, resi noto a Zack che a quel punto era necessario liberarmi della benda, o sarei inciampata nei miei stessi piedi a causa dei tacchi. Lui rise, e mi liberò gli occhi.
Buio. Fu la prima cosa che vidi. Poi la mia vista cominciò ad adattarsi, e distinse degli alberi, cespugli e una casa, un po’ più lontana. «Dove siamo?» chiesi confusa.
«Alla residenza autunnale dei Payne, signorina.» rispose lui, sforzandosi di imporsi un tono decoroso e elegante.
«Non parlare così, sembri un maggiordomo.» risi «Quella casa lì infondo?» la indicai.
«Esattamente. C’è un lago, da quella parte.» puntò l’indice verso sinistra.
«Una casa sul lago? Ed è vostra?»
«Non proprio. E’ dei nonni, ma mio nonno l’ha lasciata a mamma, e la nonna non ci mette più piede. Andiamo dentro?» propose, e mi tese la mano. Intrecciai le dita alle sue, lasciandomi guidare di nuovo.
Dall’interno la casa non sembrava così vecchia e confortevole come suggeriva il suo aspetto. Era in legno ma era in condizioni piuttosto buone per avere quasi mezzo secolo. Il nostro unico problema fu avvitare una nuova lampadina, e con la luce riuscii a distinguere dei mobili impolverati, un camino e alcuni letti posti alla rinfusa. Un armadio semivuoto e una sedia a dondolo, che provai subito.
«E’ comoda!» esclamai, contenta.
«Io non mi avvicinerei, l’ultima volta ci abbiamo trovato dei ragni lì sopra.»
Spalancai gli occhi e scattai in piedi spaventata, allontanandomi dalla sedia e guardandomi il vestito. Zack rise. «Era una bugia.»
Assottigliai lo sguardo minacciosa ma lui non si lasciò intimorire, e continuò il giro turistico. Mi mostrò la camera da letto più grande, che era del tutto vuota, la cucina  dotata solo di alcuni stipetti e un vecchio frigorifero, e il bagno che sembrava la stanza più completa, c’era anche una doccia funzionante.
Non era una casa molto grande ma era carina, e tanto tranquilla: non si sentiva nemmeno un auto.
«Io e Martin adoravamo questa casa, da piccoli.» mormorò Zack, andando ad accarezzare le pareti in legno con una nota malinconica nella voce. «Ogni mattina ci alzavamo e fuggivamo al lago, prima ancora che i nostri genitori o i nonni si svegliassero.»
«Devi avere dei ricordi stupendi qui.» sussurrai, presa dal racconto. In effetti dovevano aver passato le loro migliori vacanze, e da come ne parlava Zack era proprio così.  «Ci venite ogni autunno?»
«No.» scosse la testa «I miei sono troppo impegnati e Martin forse nemmeno se la ricorda. Non ci veniamo da undici anni.»
«Tu ci vieni ancora.»
«Sì.» lui mi sorrise «Mi piacciono i ricordi che ci sono.»
Sorrisi intenerita. Zack li adorava, e forse era perché li ricordavano la sua infanzia, l’unico momento della sua vita passato stretto a Martin. Con la scuola e le amicizie erano cresciuti, avevano avuti altri interessi e avevano finito col non prestare tanta attenzione alla compagnia dell’altro. “Forse per lui è stato anche abbastanza avermi tenuto attaccato per nove mesi” Martin commentava la distanza dal fratello in quel modo, ma non avevo mai avuto l’occasione di chiedere l’opinione di Zack a riguardo. Avevo sempre creduto avesse una forte corazza, ma ora che cominciavo a conoscerlo davvero potevo avere la vera risposta.
«Perché un giorno tu e Martin non venite qui?» proposi, avvicinandomi a lui.
«Perché sarebbe strano.» fu il suo unico responso «Io e Martin non siamo più amici da parecchio ormai, e non credo gli farebbe piacere.»
«Questo non puoi saperlo!» lo contraddissi.
«Ma so che mi odia.» obiettò lui.
«Lui non ti odia...»
Alzò lo sguardo sui miei occhi, sorrise amaramente. «Non riesco a capirlo, sai? Mi detesta, critica ogni cosa che faccio o dico e non ne so neppure il motivo. Penso che non me ne importi niente invece ci sto male, e tutto quello che vorrei è essere solo un fratello maggiore degno di quel titolo.» fece una pausa, sospirando. Poi un sorriso gli comparve sul volto, forse al ricordo di qualcosa. «Forse ce l'ha ancora con me per via di Teddy.»
Assottigliai lo sguardo, confusa. «Teddy?»
«Sì, il suo orsacchiotto di peluche.» ricordò. «E' accidentalmente finito nel tritarifiuti.» si giustificò poi, gli occhi fissi su di me  e un sorriso innocente con cui sperava forse di convincermi che non fosse stato lui, a buttarlo lì dentro. Martin mi aveva raccontato della fine tragica del suo orsacchiotto a dodici anni.
Mantenni lo sguardo indagatore fisso sul suo per qualche istante, poi mi sciolsi in un sorriso e scossi la testa. «Siete i gemelli più strani che conosca.»
«Siamo gli unici gemelli che conosci.» ribatté lui, ad una distanza pericolosa dal mio viso. «E sono l’unico gemello che può fare questo.» aggiunse, e le sue labbra andarono a posarsi alla base del mio collo, mentre le mani si fermarono ai fianchi.
Risalì piano con le labbra per riempire il mio collo di baci languidi, e ogni contatto con la pelle morbida della sua bocca mi rendeva le ginocchia molli, la pelle d’oca e i muscoli rigidi, la schiena percorsa da mille brividi, come pizzicotti. Chiusi gli occhi lasciandomi andare ai suoi baci e mi aggrappai debolmente con le braccia alle sue spalle. Mi sforzai di tenere gli occhi aperti sebbene la tentazione di chiuderli di nuovo fosse forte.
Alla cieca raggiunsi le sue labbra e lui sembrò gradire la mia intraprendenza, che sorrise e mosse le labbra in sincrono con le mie, lente. Sapevano di birra e menta.
Non fu un bacio elaborato e frenetico, come quelli che eravamo soliti scambiarci. Questo era lento. Terribilmente lento. Ma mi piaceva. E mi piaceva sentire le sue mani ad accarezzarmi i fianchi e la schiena, e sentire la pelle del suo collo bollente sotto il mio tocco.
Persi i tacchi mentre ci avvicinammo alla parete, e presto mi sentii schiacciata contro di essa e Zack, che continuava a baciarmi. Ci bloccammo, quando sentii chiaramente le sue dita all’attaccatura del mio vestito, immobili sulla minuscola zip. Le sue labbra si staccarono dalle mie, ed io tornai a vedere i suoi occhi, il cui colore racchiudeva diversi sentimenti: desiderio, passione e paura erano i sovrastanti. 
Capii la sua esitazione. Probabilmente ancora il pensiero di me che lo rifiutavo lo tormentava, e così aveva deciso ancora una volta di lasciare a me le redini della situazione, timoroso che potessi di nuovo non volerlo o pentirmi di quello che sarebbe successo di lì a poco, il che risultava abbastanza chiaro.
E avevo paura anch’io, una paura tremenda. Ma potevo camuffarla per lui e per me, perché sentivo di volerlo davvero.
Così tornai con il viso a millimetri dal suo e le sue labbra sfiorarono le mie. «Toglilo.» sussurrai.
 
C’erano più persone di quante me ne aspettassi. Ma a ripensarci non avrei dovuto aspettarmi altro da una festa organizzata da Zack Payne, che conosceva più o meno tutta la scuola e anche più. Se poi si considera il flusso in cui viaggiano notizie del genere, allora la presenza di tutta quella gente diventava scontata.
Non sapevo cosa ci facessi lì. Quando Ronnie mi aveva informato della festa a casa Payne avevo storto il naso, non così esaltata dall’idea, ma lei aveva insistito perché la accompagnassi ed io non riuscivo  a resistere al suo musetto dolce, e quindi adesso ero sul viale dell’abitazione dei Payne, da  cui rimbombava musica troppo alta. I genitori non dovevano esserci, perché per quanto poco la conoscessi dubitavo che Sophie avrebbe lasciato organizzare una festa così chiassosa ai suoi figli. O a suo figlio, perché di certo Martin non era coinvolto.
«Ronnie mi sento una marionetta vestita così!» mi lamentai.
Il mio abbigliamento era forse il più ufficioso che avessi mai tenuto addosso salvo matrimoni e feste di livello, in cui rientrava un ristorante. Ero solita andare in giro con jeans e magliette, alcune gonne di tanto in tanto, ma la gonna che adesso indossavo, unita alla camicia, mi faceva sentire una segretaria un po’ cretina.
«Ma stai benissimo!» replicò Ronnie, che indossava dei semplici jeans.
«Si può sapere perché io ho una gonna e tu no?»
«Perché a te stanno meglio.»
Falso. La vera risposta, quella esatta, doveva essere “Perché io non devo impressionare Martin Paynee tu sì”, ma non aveva il coraggio per dirlo. Non dopo il disastro di cui era stata responsabile. Ma le sue convinzioni/ossessioni non erano cambiate di una virgola.
Ci inoltrammo nella casa dopo aver visto due o tre coppie scambiarsi le lingue in giardino, ma anche all’interno la situazione era più o meno la stessa, con la differenza che l’aria pesante di sudore e fumo rendeva l’area irrespirabile.
«Ronnie ti prego andiamo via» riuscii a scandire, tra un colpo di tosse e l’altro.
«Cosa??» disse ad alta voce, per cercare di sovrastare il volume della musica.
Scossi la testa e lasciai perdere, decidendo di prenderla per mano ed uscire, se non altro per tornare a respirare. Ma qualcosa attirò la mia attenzione, al centro della sala.
Non avevo sentito Martin. Ronnie mi aveva detto che era stato lui a portarmi in infermeria dopo la botta in palestra, ed era rimasto, ma al mio risveglio lui non c’era. Però mi ero sentita sollevata, perché almeno avevo avuto una piccola conferma che lui teneva a me, altrimenti non si sarebbe preoccupato di portarmi in infermeria.
Ed ora tutto cominciava a vorticare.
Riconobbi la ragazza bionda del corridoio. Quella che mi era passata davanti ed era corsa a baciare sulla guancia Martin. Indossava un vestito verde non troppo attillato e i capelli erano acconciati in boccoli. Era molto carina. Ma la parte più importante e scioccante di lei erano le sue labbra, incollate a quelle di Martin. E lui ricambiava ogni bacio, e dal sorriso che entrambi ostentavano sembravano felici. Non pensavo fossero una coppia, eppure si stringevano come fossero tali. Perlomeno adesso conoscevo il perché del suo silenzio.
Il mio sguardo si puntò automaticamente verso terra, incapace di restare a guardare oltre. Tirai sul col naso e cercai la mano di Veronica, e quando la trovai la strinsi e scappai.

 
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Chiedo scusa per l'enorme ritardo ç_ç il danno è che la scuola è iniziata, ed è iniziato anche il periodo dell'influenza. Dall'inizio della scuola ho già avuto due volte la febbre, ho ancora nausee e cose varie, e se continuo così temo di non arrivare fino a Giugno. 
Ma spero che possiate perdonarmi con questo capitolo, che è abbastanza carico. E che personalmente adoro :3
Bene, Zack e Stephanie fanno qualche altro passetto avanti! E Martin... beh non so se il suo possa essere definito "passo avanti". Si lascia andare certo, ma la cosa non andrà molto a suo favore. E la reazione di Emma è un pochino difficile da decifrare, eh? 
Spero di pubblicare il prossimo molto presto!
Voi continuate a seguire la storia, mi raccomando, e magari lasciate una recensione, che non mi dispiace affatto.

 
Era assurdo pensare che tempo prima avrei riservato un’occhiataccia e una risata di fastidio a chiunque mi avrebbe raccontato che avrei finito col fare di Zack Payne la mia priorità. 

 

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI ***


   
Mai avevo visto gli occhi di Stephanie così da vicino. Mai vi avevo prestato così attenzione, visto che preferivo di gran lunga concentrarmi su altre parti del suo viso. Ma fissare i suoi occhi in quel momento e in quella situazione era inevitabile, perché sentivo che più dei nostri corpi accaldati e i respiri corti, erano i nostri sguardi a legarci. Forma diversa, grandezza diversa, colore diverso, ma stesse emozioni. Eccitazione. Confusione. Passione. Insicurezza. Paura.
Paura.
Lei aveva paura di pentirsene. Come se lì, stretta a me e con gli occhi fissi sui miei, stesse combattendo un doloroso conflitto con sé stessa: fidarsi, o non fidarsi? Non si era mai fidata di me. Era Martin la sua ancora, io non ci avevo mai parlato se non per punzecchiarla in modo idiota. Lei mi aveva odiato, ero certo di questo perché l’avevo odiata anche io in un certo senso, ma adesso? Cos’era cambiato? Eravamo amici? Eravamo qualcos’altro? Come eravamo arrivati ai baci clandestini? Com’era arrivata a farmi un favore? A me! Perché mi sorrideva, e perché anch’io le sorridevo? Che cosa eravamo?
Eppure mi sentivo bene. Era come se infondo non fossi sorpreso di trovarmi lì con lei, a sovrastarla col mio peso e riempirla di carezze, baci più brevi e dolci di quelli che ci eravamo morbosamente scambiati. Quasi come se sapessi dall’inizio che prima o poi sarebbe successo, ma non avrei saputo dire quando. Se era così, allora perché avevo ignorato questa sensazione? Lo avevo fatto di proposito, o ero solo inconsapevole dei miei pensieri?
Tutto quello mi sembrava giusto. Strano a dirsi, ma la ragazza che avrei giurato di detestare sino a forse qualche settimana prima adesso era l’unica con cui volessi essere.
Di cosa avevo paura io? Non lo sapevo. Forse avevo paura di sbagliare, semplicemente. Non ero la persona più coscienziosa del mondo, e mi capitava spesso di errare su parecchie cose, ma non potevo permettermi di sbagliare con Stephanie. Lei non l’avrebbe sopportato e neppure io. Non volevo essere la causa del suo pentimento, anche se avrei potuto essere anche l’unica causa in un modo o nell’altro.
Ero bloccato. Come se non riuscissi a muovermi oltre, senza che fosse lei a darmi nuovamente il suo consenso. Era assurdo e non sentivo neppure di farlo di proposito, ma era come se il mio corpo si tenesse bene alla larga dall’essere troppo precipitoso. Come la sera di quel bacio. Sapevo o almeno ormai mi pareva ovvio che Stephanie non mi avrebbe rifilato un rifiuto, ma il mio corpo non voleva saperne di proseguire. Aveva bisogno di certezze, una specie di garanzia che non avrebbe subito un altro brutto colpo com’era successo quella sera.
Ma Stephanie era immobile quanto me. Nemmeno lei si muoveva. Si limitava a fissarmi e ricambiare le mie carezze, quasi mi stesse cullando o trasmettendo un tacito segnale. Ma non ero un granché nell’interpretazione, e così anch’io la fissavo. Avevo anche smesso di accarezzarla.
Perché sentivo di stare sbagliando? Come se violassi un qualche accordo, stessi superando un qualche limite, o stessi per gettarmi in un dirupo. Mai mi ero sentito così a disagio, insicuro, ma Stephanie aveva lo speciale potere di far crollare tutti i miei castelli. Avevo costruito quelle fortezze nel corso degli anni e con molta fatica, ed erano bastati i suoi occhi per distruggerli.
Come potevo resisterle? Sentivo già che stavo per cedere. Ma non l’avrei fatto. Non prima che fosse lei a permettermelo.
Mi costrinsi ad abbassare lo sguardo, e decisi che non volevo mostrarle quant’ero in bilico. L’avrebbe convinta che anch’io mi tormentavo di domande, e bastava già lei per quella parte della faccenda. Ero sicuro non si stesse concedendo nemmeno un momento di pausa, nemmeno uno per rendersi conto che avevo smesso di guardarla.
Quando cominciai a riversare la mia inspiegabile frustrazione sui miei movimenti, il suo collo fu il mio primo bersaglio.
Aveva la pelle così liscia e morbida. E profumata. Vaniglia, forse. Era un piacere passarvi le dita o le labbra, ed era così piacevole che non mi accorgevo nemmeno della sua stretta più forte attorno al mio avambraccio, le sue gambe alzarsi e distendersi sul materasso e infine la sua bocca, socchiudersi per liberare un solo piccolo gemito.
Sentirla gemere fu il segnale che mi convinse a spingermi oltre. Potevo darle molto di meglio che quel gemito soffocato.
Spostai frenetico i palmi alla base della sua schiena e la mia bocca seguì la linea della sua gola per fermarsi sui seni. Lì i baci si trasformarono in succhi. Più succhiavo la sua pelle e più le macchiette rosse cominciavano a farsi vive. Più lei gemeva e più mi incitava a continuare. Più io mi eccitavo, più sentivo di odiare il tessuto di biancheria che ci separava.
Ma non potevo passare quel limite, senza che fosse lei a suggerirmelo. Anche se lo volevo, non ci riuscivo. Quindi continuavo a sfogarmi sulla pelle del suo petto, che adesso era diventata abbastanza arrossata.
Accarezzai i capezzoli turgidi, scesi e cominciai a tempestare di baci riparatori il suo addome. Come se volessi chiederle scusa. Ero stato impulsivo, frenetico, e temevo che quel mio sfogo l’avesse spaventata.
Non volevo spaventarla. Non volevo non ponesse fiducia in me, e forse era proprio quello che mi bloccava dal lasciarmi andare, il pensiero che lei non si fidava di me. Avrei dovuto mostrargliela la mia fiducia, e per ora non avevo fatto un buon lavoro, comportandomi molto più come un bambino eccitato.
Lei forse pensò la stessa cosa.
Conficcò le unghie nella carne della mia schiena ed io strinsi i denti, trattenendo una smorfia per il dolore. Quando riaprii gli occhi il mio sguardo era di nuovo a contatto col suo, e la sua espressione sembrava così seria che per un attimo credei di aver esagerato. Invece sollevò gli angoli delle labbra senza sorridere e cominciò ad accarezzarmi le guance e i capelli. «Cerca di rilassarti.» sussurrò solo.
E allora capii. Non era lei quella nervosa ma io, io ero un fastidiosissimo fascio di nervi. Ma perché ero io quello nervoso? Io ero sempre stato quello sicuro di sé, quello arrogante e presuntuoso, e adesso mi lasciavo sopraffare da cosa, esattamente? Non era la prima volta che mi trovavo a letto con una donna. Nelle altre  volte ero sempre stato così tranquillo, spedito, e adesso barcollavo e mi crogiolavo nel dubbio. Come un soldato che rimane in piedi a fissare il suo nemico, incerto se piantargli la lama nel petto e ucciderlo o temere un suo contrattacco e scappare.
Era ridicolo. Dovevo solo rilassarmi. Sì, rilassarmi. Non era difficile farlo. Forse ci sarei riuscito meglio, se i suoi occhi non fossero inchiodati nei miei.
«Scusa.»
Non seppi bene perché lo dissi, ma forse lei lo capì prima e meglio di me.
Non seppi neppure perché sorrise. «Va tutto bene.» mi rassicurò. Scoppiò ancora in un sorriso, mentre accarezzava la mia guancia. «Sembri terrorizzato...» mormorò.
Quello mi fece abbassare lo sguardo imbarazzato, ma lei mi costrinse a tenerlo alto. «Lo sono, forse.» ammisi quindi.
«Perché?»
Sentivo come di stare parlando con mia madre. Ma forse non era Stephanie e comportarsi come una madre, ma io come un bambino. D’altronde solo da bambino mi capitava di avere delle paure e non saperle spiegare.
«Non lo so» scossi la testa, rilassandomi contro il suo petto «Forse è per te.»
«Per me?» domandò lei, confusa.
«Sì.» risposi «Forse potresti pentirtene più in là. Magari domani, o tra qualche ora.»
«Zack» mi ammonì lei «Se avessi paura di pentirmene non sarei qui con te. Probabilmente starei già scappando a gambe levate o ti avrei rifilato uno schiaffo, ma sono qui.» portò le sue mani sul mio viso, come a confermare la sua presenza «Sono qui. E mi fido di te.»
Mi fido di te.
Forse erano queste le parole che cercavo. Le uniche capaci di farmi rilassare davvero, abbandonare il senso del panico che mi aveva attanagliato stomaco e mente.
Mi fido di te.
«Sul serio ti fidi di me?»
Annuì. «Molto più di quanto tu immagini.» confessò. Distolse lo sguardo, come se ammetterlo le fosse costato tanto, e adesso l’imbarazzo avesse preso il posto della dura corazza che aveva indossato in tutto questo tempo.
Sospirò. «Zack, io...»
Ma le mie labbra furono molto più veloci delle sue parole. E lei decise che poteva accantonarle e dedicarsi a me, per il momento.
Io volevo dedicarmi solo a lei. Dimostrarle che poteva porre della fiducia in me costantemente, perché avrei fatto di tutto per non deluderla. Dimostrarle che per la prima volta, in 18 anni di vita, quello non era solo sesso.
 
Quando aprii gli occhi, una parete di colore lilla fu la prima cosa che vidi. Le pareti di camera mia erano verdi, non lilla, e proprio non riuscivo a capire come avessero fatto a mutare di colore nel corso di una notte. O forse avevo le allucinazioni...
Strizzai meglio gli occhi. Adesso due o tre poster di Bruno Mars mi fissavano dall’altro lato della stessa parete. Una scia di stelle azzurre sopra il poster più grande di quelli e una sedie girevole azzurra sommersa da vestiti.
Incurvai le sopracciglia, mentre realizzavo di non trovarmi a casa mia. Mi portai le mani alle tempie, come se qualcuno ci stesse martellando sopra. Ma non c’era niente. La stanza sembrava in completo silenzio.
Qualcuno al mio fianco emise un respiro strozzato che mi fece sobbalzare spaventata, e quando scoprii il viso di Veronica premuto contro il cuscino mi concessi un sospiro di sollievo.
Era distesa sulla pancia, e avevo la netta sensazione non riuscisse nemmeno a respirare, col naso contro il tessuto. Sensazione che doveva avere un qualcosa di veritiero, visto che teneva anche la bocca spalancata e un po’ di bava le colava di lato, mentre lei emetteva respiri simili a quelli di una persona costipata. I capelli erano un vero campo di battaglia, la coda fatta la sera prima era scomparsa e solo le sue braccia, spalancate anche quelle, occupavano quasi tutto il letto.
Nonostante la visione quasi raccapricciante, i baby maialini sul suo pigiama mi strapparono un sorriso.
Avevo dormito da lei quella notte. Dopo esserci catapultate fuori dalla festa a casa Payne, alla quale eravamo rimaste dieci o quindici minuti, Veronica mi aveva allegramente proposto di andare a dormire a casa sua. Non sapevo perché l’avesse fatto, di solito non lo faceva quasi mai se non quando ci ritrovavamo a studiare insieme fino a tardi o vedere un film, ma avevo comunque accettato, felice di passare una notte con la mia migliore amica. Quindi mi ero liberata di quella scomodissima gonna a tubino e dei tacchi discreti, avevamo trascorso il nostro tempo sino alle 2 a trangugiare cioccolata e pop-corn, e poi eravamo crollate entrambe in un sonno profondo.
Ricordavo vagamente di aver lasciato il televisore acceso, ma uno dei suoi genitori doveva essere passato a spegnerlo quella stessa mattina.
Voltai di scatto lo sguardo verso la finestra. Non doveva essere troppo presto, visto che il sole splendeva così alto da accecarti. La radiosveglia a cuore segnava le 10.30.
Mi stiracchiai, presa alla sprovvista da uno sbadiglio. Poi guardai Veronica al mio fianco, e meditai se svegliarla o meno. Meglio di no, Veronica diventa irascibile se non dorme esattamente quanto vuole lei.
Quindi rubai le sue pantofole e in punta di piedi scesi fino in cucina, dove trovai suo padre a sgranocchiare una fetta biscottata. Anche lui sembrava un po’ addormentato. «Buongiorno Louis.» tossicchiai quindi, per attirare la sua attenzione.
Lui sussultò facendo cadere la fetta tostata sul bancone, e quando si girò a guardarmi inclinò la testa e assottigliò lo sguardo, indispettito. O forse stava solo mettendo a fuoco. Boccheggiò per qualche secondo ma poi richiuse la bocca, e quando sorrisi divertita cominciò a parlare. «Sono confuso. » decretò «O mia moglie mi ha tenuto all’oscuro di avere una seconda figlia, oppure...» soppesò, a rifletterci «oppure ti sei fatta la tinta, amore di papà!» gongolò, esibendo un enorme sorriso che ero sicura Veronica avesse ereditato, sebbene lei si ritenesse più simile a sua madre.
Adoravo il padre di Veronica. Era schietto, divertente, spigliato e assurdamente premuroso, ma anche sorprendentemente infantile. Aveva un sorriso da ragazzino e piccoli occhietti schivi, di un azzurro così esaltato che mi sembrava luccicassero. Dal primo momento, avevo riconosciuto in lui un amico, oltre ad un secondo padre.
«Nessuna delle due.» ridacchiai «Sono solo una ladruncola che è venuta a rubare qualcosa per la colazione.»
«Beh, allora... C’è una barretta di cioccolato bianco, nel secondo ripiano del frigo.» mi indicò lui, portandosi la tazza di thé alle labbra.
Sorrisi, e trotterellai verso il frigorifero. Con la mia barretta tra le mani, presi posto di fronte a lui.
«Latte?» alzò la caraffa.
Scossi la testa, «Mi basta il cioccolato» e ne addentai un morso.
Accennò un sorriso come se lo aspettasse, e posò la caraffa sul bancone. Tirò un altro sorso dalla tazza, e poi incrociò le dita sotto al mento, gli occhi chiari a esaminarmi. «Allora carotina, che ci fai in casa mia oltre a rubarmi il cioccolato?»
Alzai gli occhi al cielo per quel soprannome ridicolo, ma gli concessi comunque un sorriso. «Ho passato la notte qui.» replicai ovvia.
«Sul serio?» sembrava sorpreso. Annuii, e lui aggrottò la fronte. La rilassò, prendendo a scuotere il capo come infastidito «In questa casa sono l’ultimo a sapere le cose.» si lamentò.
«Questo perché quando siamo tornate a casa questa notte il tuo russare si sentiva fin qui.» ribattei.
«Oh.» si accigliò lui «Ma era mia moglie, non io. Sai ultimamente non dorme tanto bene...»
«Hannah era qui in cucina con noi.» lo interruppi.
«In questo caso mi ritengo profondamente offeso per avermi escluso dalla vostra riunione notturna.» prese un biscotto dal pacco lì vicino «E ti conviene finire il tuo cioccolato, prima che me lo riprenda.» Scese dallo sgabello alto e puntò lo sguardo sul mio, sottile. «...Carotina.» puntualizzò.
Risi e lui andò via sogghignando, voltandosi solo per rivolgermi una linguaccia. Sparì su per le scale, e l’urlo che presto mi perforò le orecchie mi avvertì che adesso anche Veronica era sveglia.
Ridacchiai immaginando lo spavento di Veronica e corsi di sopra, a darmi una sciacquata. Quando i capelli furono presentabili e le tracce di trucco rimosse, tornai nella camera da letto.
Lì Ronnie era ancora sepolta sotto le coperte a brontolare, mentre Louis tentava di trascinarla via per le caviglie. Ci volle un po’ di tempo ma Ronnie scattò seduta, lo sguardo furioso, e per vendicarsi del sorriso innocente e soddisfatto di suo padre gli lanciò un cuscino. Quando Louis uscì, ripiombò sul materasso. «Da quanto sei sveglia?» biascicò, la bocca premuta ancora contro il guanciale.
«Un quarto d’ora forse.»
Allora mi ricordai di mia madre. Un lieve “Chiamami domani  appena sveglia” rimbombava nelle mie orecchie, quindi andai alla ricerca del cellulare. Ma non lo trovavo. Avevo messo sottosopra ormai la mia borsa e l’intera stanza, e del mio telefono nemmeno un indizio.
«Hai visto il mio telefono?» chiesi ad una Ronnie addormentata, che si limitò a scuotere la testa impercettibilmente.
«Forse sta al piano di sotto.»
Nemmeno. Chiesi anche a Louis e Hannah ma il loro responso fu nuovamente negativo, e cominciai a prendere in considerazione l’idea che avessi potuto perderlo. Ma dove...
Un orribile flashback mi rivelò la risposta.
«Io vado dai Payne.» informai la mia amica, mentre procedevo a infilare un paio dei suoi jeans.
Lei scattò, improvvisamente risvegliata, con lo stesso aspetto di un leoncino spettinato. «E perché?!»
«Devo aver lasciato lì il cellulare. Magari mi è caduto, o... beh è lì l’ultimo posto in cui l’ho usato.»
«Vengo anch’io.» dichiarò assonnata.
«Con quella faccia?» ridacchiai io «Hai ancora il segno del cuscino stampato sul viso!»
Si rabbuiò, andando ad accarezzarsi la guancia destra.
«Resta qui, va bene? Io torno subito.»
Riuscii ad uscire con qualche lamentela e raccomandazione, e percorsi l’intera strada che separava la casa da quella dei Payne a piedi, il che significava percorrere solo alcuni isolati. Davanti al campanello esitai, sentendomi la gola troppo secca.
Volevo rivedere Martin? Sì. Cioè, forse no. Non era stato il massimo vederlo appiccicato a quella bionda la sera prima, e ancora il solo pensarci mi riportava alla mente una terribile sensazione. Ma sì, forse una parte di me voleva vederlo. Era da troppo tempo che non mi concedevo di guardarlo negli occhi. Ma il suo sguardo sarebbe stato lo stesso? E se ne fossi rimasta delusa? Magari dal suo comportamento. Anche se niente avrebbe potuto scioccarmi più di quello che avevo visto la sera prima. In ogni caso, avevo bisogno del telefono, ed ero certa fosse proprio lì.
Suonai al campanello.
Negli istanti che ne seguirono nessuno venne ad aprirmi, ed io valutai di scapparmene a gambe levate. Poi la porta si aprì, e quello stesso pensiero tamburellò alla mia testa. Più forte.
 
Ero convinta di stare sorridendo. Dovevo essere in uno stato di dormiveglia, ma sorridevo. E il materasso era così caldo e comodo, che non avrei voluto svegliarmi mai.
In quello stato di edilliaca calma, a infastidirmi fu un leggero spiffero che aveva colpito le mie spalle. Quindi le scrollai con disappunto e mi feci più stretta al cuscino, poi sprofondai sotto le coperte.
E qualcuno rise.
Non aprii gli occhi, credendo si trattasse di un’allucinazione provocata dal sonno, ma quando tesi le orecchie la risatina non era terminata. Qualcuno stava parlando. E la mia schiena veniva ora percorsa da piacevoli piccoli brividi, che mi solleticavano la pelle e la irrigidivano. Come se qualcosa mi stesse passando lungo la spina dorsale, su e giù. E poi alle costole, il collo, e persino la cute? Qualunque cosa fosse, sentivo i miei capelli frizionarsi sotto lo stesso tocco leggero. Qualcuno mi stava accarezzando.
Pensai a mia madre. Lei aveva l’abitudine di intrufolarsi nel mio letto al mattino, qualche ora prima che mi alzassi per prepararmi per la scuola, e le piaceva coccolarmi: “almeno quando dormi posso farlo, sei sempre così impegnata”.
Chris. Il mio fratellino più che accarezzarmi mi avrebbe tirato i capelli, o gettato addosso dell’acqua o infilato qualcosa sotto le coperte. Una volta a 15 anni mi ero ritrovata il suo orrendo topo a squittire sul mio cuscino, e da allora mi ero imposta di chiudere sempre la porta a chiave prima di andare a dormire.
Giusto. La porta era chiusa a chiave. Chris non poteva essere entrato, e poi la voce che sentivo sembrava più roca rispetto a quella di mia madre.
Quando aprii gli occhi, un altro paio stavano lì a fissarmi, divertiti. Pensai in un primo momento di essermi addormentata aggrappata a Martin ancora una volta, ma quando la mia mente divenne abbastanza lucida da ricordare, allora l’imbarazzo prese il sopravvento.
Non sapevo spiegare perché mi sentivo così a disagio. Era strano, se considerato che avevamo passato la notte insieme. Ma forse avevo solo attardato le cose: non mi ero sentita in imbarazzo, a disagio o timorosa quando la sera prima mi ero ritrovata nuda tra le sue braccia. Mi ero sentita bene, come se sapessi che era giusto esserlo, e che lo volevo più di qualsiasi altra cosa. Ero e volevo essere sua, credo non ci fosse altra cosa che desiderassi in quel momento. Le sue attenzioni e i suoi baci erano stati solo per me quella notte, ed io volevo che anche lui avesse questa sensazione, che sapesse che ero lì solo per lui.
Lui non era stato così sicuro. Era irrequieto, e mai mi sarei aspettata qualcosa del genere. Zack Payne che ha paura di essere a letto con una ragazza? Pareva impossibile. Non conoscevo molto riguardo la sua vita privata se non quello che raccontava la sua “fama”, ma era da escludere che non si fosse trovato in situazioni del genere più di una volta. Avrei voluto ridere, pensare scherzasse o volesse solo tenermi sulle spine, invece lui era stato davvero sull’orlo di una crisi di nervi. Ne erano stati la prova gli sguardi intensi ed enigmatici, i silenzi snervanti e tutti quei baci violenti, come se stesse sfogando la sua frustrazione.
Frustrato. Zack era frustrato? E perché lo era? Ero io la causa oppure ero solo uno strumento che contribuiva? Non lo avevo capito. In effetti Zack era la persona più complicata e indecifrabile che conoscessi, e avrei dato qualsiasi cosa per sapere cosa passava per la sua testa. Ma mi ero limitata a trasmettergli sicurezza. A fargli capire che non c’era motivo di essere così nervoso, perché lo avrei aspettato. Che niente di quello che poteva fare era sbagliato, perché sarebbe stata sempre la cosa giusta per me. Che ero lì, con lui e per lui, a pendere dalle sue labbra, e non volevo essere altrove.
Era assurdo pensare che tempo prima avrei riservato un’occhiataccia e una risata di fastidio a chiunque mi avrebbe raccontato che avrei finito col fare di Zack Payne la mia priorità. Eppure adesso lo era. E non sapevo perché. Forse lo avevo capito, ma la notte aveva cancellato il ricordo.
Ma Zack era ancora lì. Io ero ancora lì. Eravamo ancora nudi e vicinissimi, e avevo scoperto che quello che avevo considerato il mio cuscino era il suo petto. Avevo dormito stretta a lui per tutta la notte, e ancora adesso mi sembrava la situazione più comoda in cui avessi mai dormito. E il suo viso di primo mattino era la cosa più bella e sexy che avessi mai visto. Anche i suoi occhi mi sorridevano.
«Ciao» biascicai, accennando un sorriso. Mi tirai su e mi spostai su un lato, stringendomi alla sua vita così tanto da avere il naso appiccicato al suo collo. Vi posai un bacio leggero.
«Ciao» ricambiò lui. Sorrise e alzò il mio mento con l’indice, ma il suo bacio non arrivò sulle mie labbra bensì sul mio naso. «Dormito bene?» continuò, riprendendo la serie di carezze tra i capelli e per la schiena. In qualche modo adesso mi sentivo più rilassata.
Annuii. «Sei un ottimo cuscino» gongolai.
Lui ridacchiò. «E’ una delle cose più strane che mi abbiano mai detto, ma grazie.»
«Non c’è di che.»
«Tu invece sei davvero sexy coi capelli scompigliati e il trucco colato.» usò un tono basso e seducente, che lo portò a ridere.
Strinsi gli occhi, e mi nascosi contro il suo collo. «Sarò un mostro.»
«In questo caso sono proprio strano, a sentirmi attratto da un mostro.»
Risi e tornai a guardarlo, e a differenza mia lui era bellissimo. Bellissimo e mio. Solo mio.
Mi avvicinai a lui piano, e assunsi lo sguardo più provocante alla mia portata. Di nuovo sopra di lui e col suo viso a pochi centimetri di distanza, «Ti attraggo?» sussurrai, col tono più sensuale e improponibile che potessi rifilargli.
Lui trattenne una risata. «Da morire», poi raggiunse il mio dito che correva lungo il suo collo e mi invitò a mettere entrambe le mie mani sul suo viso.
«Potrei succhiarti il cervello.» mormorai, fintamente minacciosa.
«Quello lo fanno gli alieni.» mi informò lui.
«Cosa fanno i mostri, allora?»
«Baciano le loro vittime!»
Aggrottai la fronte. «Io sinceramente non me la ricordavo così la faccenda...»
Le sue mani mi afferrarono salde per la schiena e rotolai pancia in su, a dividere Zack dal materasso. Stare così mi portò alla mente i ricordi della sera prima, e un sorriso spuntò naturale sulle mie labbra. Le mie mani andarono a circondargli il collo. «Tu baciami lo stesso.» sussurrò lui.
Attirai quindi le sue labbra mordendo il labbro inferiore, e quando furono a contatto con le mie la mia lingua corse alla ricerca della sua, la sua bocca già pronta ad accogliermi. E restammo a baciarci per uno, forse due minuti, mentre pensavo che non poteva esistere “buongiorno” migliore di quello.
«Per essere un mostro hai delle labbra morbidissime.» fu il suo commento finale.
Risi. «E’ una delle cose più strane che mi abbiano mai detto, ma grazie» lo imitai.
Lui posò un ultimo bacio sulle mie labbra e sulla mia fronte, e si alzò. Alzai lo sguardo per seguire le sue mosse, ma lo ritirai subito quando notai che era completamente nudo. Le mie gote diventarono quasi viola, ed io nascosi la testa contro il cuscino. «Dove stai andando?» domandai.
Sentivo le sue risate. Probabilmente quello era uno degli spettacoli più esilaranti cui avessi mai assistito. «A fare una doccia» rispose comunque «Puoi venire con me, se ti va.»
Ignorai volutamente il tono allusivo della sua voce e strizzai gli occhi in un’occhiataccia diretta al cuscino. Non sarebbe stata la prima volta in cui mi sarei trovata nuda vicino a lui, anche spoglio di vestiti, ma per qualche ragione al mattino le cose mi sembravano più imbarazzanti. Rifiutai.
«Va bene» cantilenò lui, divertito «Torno subito».
E allora liberai il mio viso, sentendomi già meglio al contatto con l’aria. Attorcigliai il lenzuolo intorno al corpo e mi alzai dal letto, scoprendo grazie ad uno specchio che somigliavo davvero a un mostro. Cercai dei fazzoletti e pulii meglio che potevo i resti di matita e mascara, ma le ombre scure intorno agli occhi persistevano orrende.
Avevo bisogno di acqua. L’acqua stava in bagno. In bagno c’era Zack.
«Dannazione.»
Sospirai e mi decisi a raggiungere la porta in legno bianco, soppesando parecchio sull’aprirla o meno. Quando entrai, il vapore mi investì. Strinsi gli occhi e mi sforzai di evitare di guardare oltre la tenda scura della doccia e farmi prendere dall’imbarazzo, quindi mi appostai davanti al lavandino.
Ma prima che riuscissi ad aprire l’acqua due grandi mani mi trascinarono indietro, e quando mi voltai mi ritrovai faccia a faccia con Zack, che sorrideva vittorioso e teneva le mani sui miei fianchi a stringermi.
Abbassò lo sguardo mentre io rimanevo a fissarlo, quasi imbambolata, e le sue dita andarono a finire sul nodo un po’ più su del seno che avevo fatto per evitare che il copricapo mi scivolasse di dosso. Ma adesso il lenzuolo bianco era zuppo, e aderiva al mio corpo come una seconda pelle, rivelando le mie forme. Zack si accarezzò le labbra con la lingua, e sciolse il nodo. «A questo punto questo non serve, non credi?»
Lasciai che quello mi scivolasse ai piedi e allora lui mi fece riversare sotto il getto caldo, le braccia a tenermi stretta in vita. Abbandonai anch’io ogni tentativo di sfuggirgli e allacciai invece le mie braccia attorno al suo collo, le dita ad accarezzargli la cute e le labbra a sibilare un dolcissimo «ti odio».
Sorrise. «Lo so». Abbandonò un leggero bacio sulle mie labbra e mi sollevò da terra, portando le mie gambe ad incrociarsi attorno al suo addome.
Non l’avevo mai visto sorridere in quel modo. Era come se trasudasse felicità, e forse quella felicità poteva persino essere collegata a me. Di sicuro la mia era collegata a lui.
«Quindi adesso sei la mia ragazza?» chiese.
Sorrisi. «Tu mi stai chiedendo di diventarlo?»
«Dipende.» fece spallucce «Solo se hai intenzione di accettare.»
E il mio bacio fu un responso migliore di qualsiasi e banale “sì”.
 
Vomitavo. Non avevo mai saputo cosa spingesse quell’ammasso di ragazzi a bere in quantità spropositate, e ora che scoprivo il terribile effetto che aveva tutto quell’alcool la mattina dopo, non avrei mai più toccato qualcosa di lontanamente alcolico in vita mia.
Quella poteva essere considerata la mia prima sbornia. Non ricordavo niente oltre i primi bicchieri di birra che avevo buttato giù, pertanto non sapevo per quanto a lungo avessi continuato e con quale intensità. Anche solo ipotizzarlo mi terrorizzava.
Possibile avessi concesso a un fattore così temibile come l’alcool di sopraffare la mia mente e annebbiarla? Perché era quello che doveva essere evidentemente successo. E allora se a stendermi erano bastati qualche bicchiere di troppo, dei timpani distrutti e una luce accecante avevo proprio bisogno di rivalutarmi.
La festa si era senza dubbio placata. Non che fossi in grado di ricordare una qualche degenerazione comunque, ma adesso la casa era nel più religioso silenzio e completamente vuota, e per quello che avevo avuto l’occasione di verificare il piano di sopra sembrava intatto.
Un altro conato mi costrinse a chiudere gli occhi e spalancare la bocca, il sapore acido che ripartiva dallo stomaco alla gola per poi rigettarsi nel water, assieme a tutta la mia integrità morale.
Dovevo andare avanti da forse cinque minuti. Il tempo di riprendere fiato che un altro getto di chissà che schifo di roba mi costringeva a chinarmi di nuovo con la testa nel cesso, le ginocchia ormai intorpidite da quella scomodissima posizione. E il sudore che rendeva il tutto ancora più drammatico.
Quando mi parve di aver finito, la tosse attaccò. Tossii a lungo e alzai il braccio per tirare lo scarico, mentre trovavo le forze per rialzarmi. Mi sentivo debolissimo, quasi le ossa e i muscoli fossero fatti di gelatina.
Infilai la testa sotto il getto d’acqua freddo e lavai i denti con almeno un tubetto di dentifricio, sebbene l’orribile sapore in bocca non volesse andarsene. Quando alzai lo sguardo per osservare la mia figura riflessa, la mia faccia nemmeno sembrava la stessa. Ero molto più pallido, smunto, e mi resi conto di assomigliare molto più a Zack. Forse perché avevo riconosciuto lo stesso aspetto di quando lui tornava ubriaco dalle sue prime feste. Probabilmente dopo le prime esperienze doveva aver imparato o a evitare o a sopportare e gestire la dose di alcool, mentre per me era la prima volta. E anche l’ultima.
Scossi la testa e respirai affondo, poi decisi di compiere il passo decisivo: andare al piano di sotto. Non immaginavo cosa ci fosse lì, se i mobili fossero ancora integri o meno, e se ci fossero dei cadaveri sparsi per la casa.
Solo cinque ragazzi. Il salotto sembrava in buone condizioni (se non altro perché era per metà vuoto) e anche lì il silenzio era disarmante, se non si tiene conto del russare di due ragazzi, spaparanzati per terra e con l’aria esausta. C’era anche Matt.
La cucina. Quella era in condizioni peggiori. Mobili imbrattati, frigorifero interamente sgombro, e una quantità industriale di bottiglie di birra vuote sparse per la stanza. Niente che non si potesse aggiustare.
Il campanello. Qualcuno aveva suonato, ero sicuro.
Cercai di oltrepassare il salotto per raggiungere la porta d’ingresso, ma poi sentii questa aprirsi, e un insieme concitato di voci scambiarsi qualche battuta. Anche sforzandomi il mal di testa lancinante non mi permetteva di capire a chi appartenessero. Quindi mi premetti una mano sulla fronte e con l’altra mi accasciai alla tavola, con la sensazione che presto sarei tornato con la testa nel water.
E poi la porta della cucina si aprì, e una nuova ombra si fece spazio nella mia visuale.
«Santo cielo, Martin!»
Quella che sembrava una ragazza mi si avvicinò, e solo quando mi fu abbastanza vicina – probabilmente temeva cadessi – riuscii a distinguere il colore dei suoi capelli e qualche altra particolarità del suo viso. «C-Charlie?» balbettai.
«Perché diamine non sei in camera tua?!» piombò lei.
«Chi era alla porta?» domandai io.
Mi sembrò passata un’eternità prima che lei rispondesse «Nessuno, non era nessuno.», e poi stringesse le braccia attorno alla mia vita. «Non dovevi alzarti.» mi rimproverò «Anzi, io non dovevo lasciarti da solo. Sei uno straccio. Ti ri-accompagno in camera, aggrappati.»
Feci come mi aveva detto e misi un braccio attorno alle sue spalle, lasciandomi accompagnare con difficoltà fino in camera mia. Lì Charlie mi fece distendere sul letto, e provvide a rimboccarmi le coperte.
Io strinsi gli occhi, guardandola. «Perché hai addosso la mia maglia?» le chiesi.
Lei abbassò lo sguardo a notare la maglia blu a righe bianche e sorrise impacciata. «Dormi. E’ meglio.»

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SCUSATE L'IMMENSO RITARDO. 
Colpa della scuola, che mi tiene occupata e mi prosciuga di tutte le forze ç__ç
ma passiamo al capitolo! 

Non è dolcissimo il nostro Zack? E' insicuro e maldestro, chi se lo sarebbe mai aspettato? 
Penso sia chiaro che la persona che Emma vede a casa Payne è Charlie, e che Martin non vorrebbe MAI vederla. Dopotutto è stata la sua prima sbornia, e non ricorda nulla... 
MA I ZEPH(?) SONO TENERISSIMI! E questo conta. 
alla prooossima guys! x

 
Scuola, amicizie, ambizioni future ed eventuali “fidanzatine” erano i suoi argomenti abituali.
“Tutto bene”, “Ho Stephanie”, “Non lo so ancora” e “Sono single” le mie risposte, invece. 


 
 
 

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII ***


   
L’ansia mi torturava. Ero stata a parecchi matrimoni prima di quello, ma per qualche strana ragione mi sentivo tesissima. Dovunque guardassi c’era gente in movimento, molto più nervosa di me, che andava avanti e indietro per la casa e urlava continui ordini o domande, quasi ci trovassimo ad un matrimonio reale.
Tra tutte quelle persone, gli sposi erano i più tranquilli. Robert era perfettamente elegante nel suo smoking scuro e chiacchierava con quelle che dovevano essere le zie dei gemelli, e mai gli avevo visto ostentare un sorriso più radioso. Era felice, questo lo si intuiva anche a chilometri di distanza, ma era quella felicità che non è comune. Non è come osservare semplicemente una persona sorridere, è come captare attraverso quel sorriso tutta la sua essenza. Io riuscivo a percepire, attraverso il sorriso smagliante e lo sguardo scintillante, che Robert doveva sentirsi l’uomo più felice del mondo.
E mi permisi anch’io di sorridere, quando si voltò a rivolgermi una linguaccia da ragazzino. Lui abbandonò le sue sorelle con una spintarella e mi venne incontro, regalandomi un abbraccio. «Cip e Ciop non sono ancora tornati?»
Risi, scuotendo la testa. I gemelli erano dovuti uscire forse un quarto d’ora fa per un problema riguardo il regalo per i genitori. Non mi avevano ben spiegato di cosa si trattasse ma erano fuggiti da casa, congedandomi con un “torniamo in un baleno”. Zack aveva sviato la traiettoria delle sue labbra dalla mia guancia all’angolo della mia bocca, ma nessuno ci aveva fatto caso.
«Non ancora.»
Robert inclinò la testa, a fingersi severo. «Dovrei insegnare ai miei figli un po’ di galanteria, non si lascia una fanciulla indifesa da sola.» gongolò.
Ero d’accordo. Avrebbero potuto portarmi con sé. Qui mi annoiavo a morte, perché non conoscevo nessuno. Avevo soltanto scambiato qualche parola con Karen, la nonna dei gemelli, e poi stretto un paio di mani, ma perlopiù me ne stavo a contemplare il salotto della casa dalla veranda, chiedendomi quando sarebbero tornati. O perché Zack non rispondeva ai messaggi. Avrei potuto attaccare conversazione con Kim, l’unica damigella presente oltre me, ma avevo la sensazione che la sua timidezza mi avrebbe garantito una conversazione a senso unico. Per cui aspettavo.
«Sopravvivo.» minimizzai, con una scrollata di spalle.
Lui sorrise. «Sei bellissima.» mormorò poi, facendo comparire sulle mie labbra il più commosso e imbarazzato dei sorrisi. «Sembri una donna oggi, non una liceale.»
«Mi dispiace deluderti, ma oggi le star siete tu e Sophie.» lo contraddissi scherzosamente.
Lui finse di offendersi, ma finì per ridere. «Perché non vai da Sophie? Così magari qualcuno scopre se ha finito di prepararsi.» mi propose.
Annuii, trovandola un’ottima idea. Il signor Payne tornò a parlare con qualche familiare ed io salii cauta le scale, esitando quando mi trovai davanti alla porta della loro camera da letto. Bussai. «Ho quasi finito!» rispose una voce dall’altro lato.
Scossi la testa divertita, e poi feci per inoltrarmi nella stanza. «Sei in ritardo.» rimproverai la donna.
Quando Sophie si voltò, non potei fare a meno di riconoscere lo stesso sorriso appartenente a Robert. La loro felicità era complementare in quel giorno, e nonostante l’età nessuno dei due riusciva a mantenere un contegno decoroso e adulto, tanto che Sophie corse ad abbracciarmi, così euforica da sembrare un’adolescente. «Stephanie, tesoro!» mi stampò due baci sulle guance. «Wow, sei bellissima!» si complimentò.
«Non quanto te!» commentai io, sbigottita.
Era splendida. Il lungo vestito bianco le cadeva perfettamente e delineava le sue forme, e la gonna era così vaporosa da farla assomigliare a una principessa. Le gemme e i brillantini applicati al corpetto luccicavano come non mai, ma più di tutto era il suo sorriso ad illuminarla. Ed era così rasserenata che ebbi l’impressione che stesse in una bolla, la sua personale bolla di felicità, e che nessuno l’avrebbe infranta in quel giorno speciale.
«Sei una meraviglia.» le dissi, sincera.
Lei sorrise, annuendo. «Mi ci sento, una meraviglia.» replicò. Mi abbracciò brevemente e tornò a sedersi, ad indossare le perle davanti allo specchio. Quando queste furono applicate ai suoi lobi, sospirò. «Quasi non ci credo che sono passati vent’anni.» confessò. «Per me Robert è ancora il fidanzato che avevo paura di abbandonare all’altare.» ridacchiò.
«Abbandonarlo? E perché?» sorrisi, andando a sedermi sul letto dietro di lei.
«Perché ero ingenua.» disse soltanto «Non eravamo che due ingenui ragazzi quando lui mi ha chiesto di sposarlo, e nonostante fossi sicura di amarlo io avevo paura di non essere pronta.» Mi sembrò che la voce le si fosse incrinata, ma si voltò in modo da guardarmi negli occhi «Invece guardami adesso» rise quasi «Siamo sposati, viviamo nella stessa casa con i nostri figli e sono passati vent’anni. Vent’anni. Ed io sono qui a commuovermi come una stupida in quest’abito da bomboniera.»
Allora sorrisi e scattai per abbracciarla, perché quella mi sembrava la dimostrazione di amore più vera che potesse esserci. L’amore di una donna verso il suo uomo, che ancora sente di amare esattamente come il primo giorno. Che ancora sente le farfalle nello stomaco, il battito accelerato, e si commuove ed esulta come una ragazzina. La dedizione di una donna che non solo ha dato il suo cuore a quell’uomo, ma sé stessa. La sua anima, tutto quanto. La perseveranza di una donna, una moglie, e una madre, che non svanisce o sbiadisce col tempo.
Ricambiò il mio abbraccio, singhiozzando come una bambina. «Non dovrei piangere...» si lamentò.
«Perché no? E’ una cosa bella per cui piangere.» la incoraggiai io.
Si limitò a rivolgermi un sorriso, con gli occhi lucidi a brillare di luce propria. Portò una delle ciocche di capelli dietro l’orecchio, e mi afferrò le mani. «Non smettere mai di pensare che anche tu avrai un momento simile. Un momento in cui ti troverai a pensare a quanto tempo è passato senza che te ne accorgessi, e a quanto nonostante gli errori tu non voglia cambiare nulla. Assolutamente niente. Perché ogni esperienza in un modo o nell’altro ti rende quello che sei, e Stephanie,» sorrise «piccola mia, io penso che tu sia una donna fantastica.»
Stavolta sentii una piccola lacrima solcarmi la guancia, ma Sophie si affrettò a raccoglierla, proclamando il suo divieto di piangere in un giorno così bello. «Sai cos’altro penso?» chiese.
Scossi la testa, ancora troppo commossa dalle sue parole per fornirle una risposta. Era incredibile e incredibilmente commovente la stima che aveva di me. Io nemmeno mi ci sentivo una donna, ma tutti continuavano a ripetermi che vi assomigliavo, e adesso addirittura Sophie si espandeva in termini di elogio sul mio conto. E per me contava molto il suo parere, perché la sentivo come una seconda madre. Ed ero certa lei mi sentisse come una figlia.
Mi strinse le mani, e rise. Poi alzò gli occhi azzurri sui miei, e inaspettatamente si avvicinò al mio orecchio, per sussurrare «Penso che tu e Zack siate la mia coppia preferita.»
Spalancai gli occhi e arrossii, in contemporaneo. Sophie ridacchiò, divertita.
Una donna in un lungo abito viola fece il suo ingresso e mi salutò con un sorriso, e capii di dover andarmene. Mi voltai quindi verso la porta, ma la voce di Sophie mi richiamò. «Ricorda che è importante chiudere le porte a chiave, in certe occasioni!»
Strinsi gli occhi rimproverandomi mentalmente, ma poi mi sciolsi in un sorriso. Non importava la nostra sbadataggine, Sophie l’avrebbe capito comunque. Era di suo figlio che si parlava, infondo.
Proprio lui comparve dalle scale e mi sorrise, prima che venissi trascinata malamente nella sua camera. Ultimamente era diventata una routine: coglieva ogni occasione per prendermi di sorpresa e rinchiuderci da qualche parte. E strapparmi baci, carezze, che comunque non riuscivo a negargli. Questo perché i suoi rapimenti piacevano molto più a me che a lui.
Andavamo avanti in quella maniera da settimane. Forse  poteva risultare un po’ scomodo, ma niente batteva la soddisfazione di averlo tra le mie braccia dopo che l’avevo desiderato ardentemente per tutta la giornata senza ottenere più che qualche sguardo allusivo.
Perché continuavamo a nasconderci? Non lo sapevamo. Forse perché nessuno ci avrebbe davvero capiti. Martin non avrebbe capito. Nemmeno noi avevamo capito bene questo nostro assuefacente legame, o ci limitavamo a fingerci ignoranti a riguardo, ma andava benissimo così.
«Proprio te cercavo» sussurrò lui, prima di stringermi a sé e addossarci contro la parete.
Io gli allacciai le braccia al collo e mi spinsi in avanti per baciarlo, desiderosa anch’io di quel contatto. Era quasi come se fossi entrata in un circolo vizioso, non potevo più fare a meno né di lui né delle sue labbra.
«Mi sei mancato» sillabai contro le sue labbra, mentre lui provvedeva a morderle e si tratteneva dal sfilarmi il vestito. Sapevo che lo stava facendo, la pressione delle sue mani sui miei fianchi era un po’ troppo forte, e avevo imparato a riconoscere quel gesto. Precedeva sempre il spogliarmi e poi fare l’amore.
Lo sentii sorridere. «Anche tu.». Depositò un ultimo bacio sulle mie labbra e poi mi attirò a sé per stringermi, e quando tornò a parlare stavo già respirando il suo profumo, incantata. «Chiudi gli occhi» fece, prendendomi le mani.
Lo guardai scettica. «Perché?»
«Tu fallo!» insistette «Ho una piccola sorpresa.»
Sospirai e mi rassegnai all’ennesimo suo giochetto, chiudendo gli occhi e inspirando. Non capii bene cosa fece e tenni la fronte aggrottata, poi le sue labbra baciarono il dorso della mia mano e mi permise di riaprire gli occhi.
Al mio polso c’era il solito braccialetto di charms. Mamma me l’aveva regalato due anni prima, e in quei due anni avevo collezionato diversi ciondoli, tra cui la maggior parte mi legavano a lei e a Martin. Ce n’erano un mucchio collegati a Martin. Tra questi adesso spiccava un nuovo ciondolo, con la forma di una palla da basket. Mi bastò osservarlo per qualche secondo per capirne il significato.
«Questo sono io.» spiegò comunque Zack, che accarezzava la palla tra indice e pollice.
Gli avevo mostrato quel braccialetto una sera, che avevamo terminato il lavoro in palestra e stavamo seduti per terra come nostro solito, con la differenza che lui mi abbracciava da dietro, baciando talvolta il mio collo. Lui aveva notato il braccialetto e mi aveva chiesto il perché di così tanti ciondoli, e così io gli avevo spiegato il significato di ognuno.
«E’ per ricordarmi di te?» chiesi, contenta, mentre gli accarezzavo la guancia.
«E’ per portarmi con te.» chiarì lui, serio. «Volevo avessi anche qualcosa di mio.»
«Mi basta la tua felpa col logo di Superman.»
«Quella dovrai ridarmela.»
Sorrisi, e posai un bacio sulla sua guancia. «E’ bellissimo. Grazie.»
«Di niente.»
Mi lasciai andare ancora a qualche bacio da parte sua e che ricambiai, poi una voce sembrò richiamare l’attenzione della sposa, e comprendemmo che era arrivata l’ora di andare.
«Non potrò più baciarti per le prossime ore.» brontolò lui, esibendo un broncio.
Io risi, e morsi il suo labbro giocosamente. «Possiamo sempre appartarci da qualche parte...» commentai maliziosa, afferrando tra le dita il lembo della sua cravatta.
«Sono sicuro che vorrò farlo.» annuì lui, e per tutta risposta mi sollevò da terra, facendomi aggrappare a lui come una bambina. Ne approfittai per baciarlo ancora.
 
Venti. Venti anni erano passati dal matrimonio dei miei, e avrei giurato che niente fosse cambiato tra loro.
Avevo osservato le loro espressioni per tutta la cerimonia, e avevo dedotto che mai li avevo visti entrambi così felici. Erano come sollevati, leggeri, e i loro sorrisi erano ciò che meglio esprimeva il concetto di “amore”.
Com’era stare insieme ad una persona ogni giorno per venti anni? Avrei creduto fosse stancante. Noioso, monotono, addirittura impossibile, e invece al momento delle promesse dei miei genitori mi ero ritrovato a sorridere, sinceramente commosso, e per qualche strana ragione il mio sguardo era slittato verso Stephanie, che tratteneva le lacrime.
Era splendida. Nonostante almeno altre quattro ragazze fossero vestite nel suo stesso modo, lei era la più bella. Papà aveva scherzosamente sottolineato quanto sembrasse una donna in quel giorno, ed io non avevo fatto altro che pensare e ripensare a quella considerazione.
Una donna. Stephanie Gilbert una donna. Se mi sforzavo di concentrare ogni mio pensiero su di lei, tutto quello che riuscivo a ricavarne era un’immagine di una Stephanie un po’ più giovane, coi capelli lunghissimi e il solito broncio sul viso, le braccia intrecciate a mostrare il suo disappunto.
La Stephanie acida, testarda, antipatica, che mi odiava a morte. La stessa Stephanie che anch’io sentivo di odiare, perché non riuscendo a capire da dove il suo odio provenisse, mi limitavo a ricambiarlo. In effetti credevo di esserle risultato antipatico dal primo giorno. Io ero sempre stato il gemello egoista, strafottente e insopportabile per lei, e nemmeno io avevo speso molti buoni aggettivi riguardo il suo conto.
Quel giorno, lei mi sembrava la donna più bella di tutte. E anche solo guardarla, o vederla sorridere, riusciva a rendermi teso. Quando poi lei aveva incrociato i miei occhi e mi aveva scoperto a fissarla mi aveva sorriso, ed io avevo pensato che non avrei saputo fare a meno di quel sorriso, d’ora in avanti.
Una donna. Stephanie una donna. La mia donna, per giunta. Tutto quello era assurdo. Assurdamente piacevole.
Il ricevimento si svolgeva a casa nostra, nel giardino, perché mamma aveva insistito che sarebbe stato come trovarsi più a casa, e infatti tutti quanti si muovevano da una parte all’altra a proprio agio, conoscitori di ogni angolo di quelle quattro mura.
Difficile credere che in quella stessa casa era stata data un’altra festa, circa due settimane prima. Una festa che non era finita dopotutto nel peggiore dei modi, e di cui tutti si erano congratulati. Una festa a cui non avevo minimamente partecipato e a cui non avrei  voluto comunque essere, perché tutto quello che volevo si era svolto al di fuori di quella casa, nella più completa tranquillità della nostra vecchia casa al lago.
Non sapevo ancora se quello che c’era stato e continuava ad esserci tra noi due fosse solo sesso, ma avevo l’impressione di no. Perché prima di tutto non mi era mai capitato di dormire, per davvero, con una ragazza, e poi perché svegliarmi e trovarla a dormire aggrappata a me mi aveva regalato la miglior sensazione del mondo.
Lei così piccola, fragile, rilassata, che mi stringeva come se fossi l’unica cosa importante. Ed io che mi ci sentivo anche. Come se l’unica cosa a contare davvero fossimo noi due, stretti l’uno alla altra.
Non mi ero sentito mai più felice.
Un lento partì dalla postazione del dj, e i miei genitori si avvicinarono per dare inizio alle danze. Si scambiarono un bacio, e poi cominciarono a dondolare insieme. Altri seguirono il loro esempio, e presto il giardino fu inondato da coppie di tutte le età che si sorridevano complici e danzavano, volteggiando di tanto in tanto.
Martin era dall’altra parte del giardino con la nonna. Come al solito annuiva, e di sicuro non vedeva l’ora di scappare via, da lei e dalle sue famose strizzate di guance. Ci ero passato anch’io, ed era giusto lo facesse anche lui adesso. Però mi faceva pena, tanta pena.
«Cos’è, ti annoi?»
Sobbalzai in avanti spaventato da quel sussurro, ma sorrisi non appena riconobbi la voce. Quando mi voltai, gli occhi scuri di Stephanie mi osservavano indagatori. Avrei voluto portarmela sulle ginocchia, ma non era sicuro con tutta quella gente. Quindi «Sì» risposi.
«Sai, forse ho un’idea per combattere la noia.»
Sorrisi, passandomi la lingua sulle labbra. «Sarebbe?» mi finsi ingenuo, nonostante sapessi benissimo a cosa si riferisse.
Lei inclinò la testa di lato, mordendosi un labbro. «Seguimi.» disse soltanto.
La vidi incamminarsi verso l’interno della casa, e il mio sguardo si fissò sul suo fondoschiena. Poi lei si voltò e alzò le sopracciglia, ed io colsi l’invito di seguirla. Mi guardai attorno, premurandomi che nessuno e soprattutto non Martin stesse facendo caso a noi due, e fui felice di scoprire che erano tutti quanti impegnati a danzare o a chiacchierare. Anche Martin si fingeva interessato ad uno dei racconti di nonna.
Quando Stephanie era già a metà scale, e dopo esserci scambiati un’occhiata e aver compreso il mio intento prese a correre e ridere, mentre si dirigeva verso la mia stanza. Anch’io la rincorsi e riuscii ad afferrarla per i fianchi, chiudendomi la porta alle spalle.
Stephanie rise, mentre addossata con la schiena contro la porta e le braccia attorno al mio collo, si apprestava a baciarmi. Si bloccò un secondo prima di toccare le mie labbra, allarmata. «Non pensi dovremmo chiudere a chiave?»
La guardai confuso. «Perché? Sono tutti giù.»
Strinse le labbra come a pensarci, poi fece spallucce. «Per sicurezza.» mi sorrise, e fece scattare la serratura. «Allora, dov’eravamo?» riprese poi.
Adoravo la nota di malizia nel suo sguardo e nella sua voce. E adoravo il fatto che fossero dirette a me. Lei era mia, di nessun altro.
Mi passai la lingua sulle labbra, fissando le mani sui suoi fianchi. «Stavi per baciarmi.»
Lei sorrise, e con un colpo alla nuca mi rese più vicino, per permettere alle nostre labbra di unirsi. Le lingue lo fecero subito dopo, euforiche di aver ritrovato quel contatto che tanto avevano bramato. E le mie mani corsero immediatamente lungo la  sua schiena, ad accarezzarla mentre desideravano che a dividerle dalla pelle di lei non ci fosse stoffa.
Passai a baciare il suo collo e  scesi fino alla scollatura del vestito, costringendo Stephanie a gettare indietro la testa per trattenere un gemito di piacere. Poi i suoi denti morsero il mio mento, e tutto quello che riuscii a sentire fu il tocco delle sue dita scendere dalle mie guance e i miei capelli al mio collo, slegare con forza il nodo della cravatta. La gettò da qualche parte e tornò a baciarmi, mentre i polpastrelli lavoravano per liberarmi il più in fretta possibile della camicia.
Eccitato dalla sua intraprendenza alzai con le mani il lembo del vestito e presi ad accarezzare le sue cosce e i suoi glutei, portandomela in braccio, con le sue gambe che mi stringevano in vita.
I suoi tacchi caddero per terra con un tonfo.
Lei sbottonò per volta i vari punti della camicia e passò le mani sui pettorali, e quando arrivò a sbottonare anche l’ultimo la spalancò, facendomela scivolare lungo le spalle.
Adoravo il tocco delle sue dita. Era così delicato, dolce, eppure così frenetico, passionale. Era un mix che non avevo mai provato, ma che mi mandava in estasi tutte le volte.
«Zack...» sussurrò lei, mentre la sua lingua correva su e giù per la mia pelle.
«Mh?» riuscii ad articolare io, con le dita che scendevano per il fianco ad aprire la zip e liberarla di quel vestito che comunque le stava così bene.
Sorrise, contro la pelle del mio collo. «Fai l’amore con me, adesso.»
Mi bloccai.
Fai l’amore con me.
Non aveva detto “sesso”, aveva detto “amore”. Per lei non era sesso, era fare l’amore.
Io ero l’amore, per lei? Potevo davvero cullarmi di avere quel titolo? Il pensiero mi faceva sorridere. Amore. Non aveva mai accennato a rendermi noto cosa ne pensasse di quell’argomento. Era attratta da me, mi voleva bene, questo senza dubbio, ma amore? Non sapevo nemmeno cos’era, io, l’amore.
Forse era amare i suoi occhi. Forse avere la voglia di stringerla in ogni momento. O desiderarla in un modo incredibilmente vivo in ogni secondo.
«Zack...?» mi stava guardando negli occhi, preoccupata.
Le sorrisi, perdendomi in una carezza alla sua guancia. «Sei bellissima.» commentai, incantato.
Era davvero mia? Era davvero amore? Forse volevo lo fosse. Ero stanco di tutta quella mancanza di emozioni, sentimenti. Lei riusciva a togliermi il fiato, farmi battere il cuore. Io la volevo. Lei voleva me. Amore.
Lei ricambiò quel sorriso, regalandomi il primo bacio a stampo della giornata. «Sono tua, Zack.»
Era arrossita. Non sapevo e forse nemmeno lei sapeva da dove fossero uscite quelle parole. Forse sentiva il bisogno di dirle. Forse aveva sentito il bisogno che avevo io di ascoltarle. Ed era giusto sapesse che anch’io condividevo quella sua confessione.
«Anch’io sono tuo, piccola.»
Strofinai piano il mio naso contro il suo e lei sospirò, rilassandosi. Lasciò che l’abito le scivolasse giù per le gambe e si lasciò tenere in braccio così facilmente, tempestando le mie spalle di baci mentre ci avvicinavamo al letto. Lì mi distesi e lei mi sovrastò, sorridendomi e chinandosi poi per passare le sue labbra sul mio petto.
Rimase a baciarmi il petto e poi scese lungo l’addome, e ad ogni bacio sentivo crescere la mia voglia di lei. Ormai sembrava insostenibile.
Morse il mio fianco destro giocosamente e lasciò piccoli baci un po’più giù del bacino, appena sopra i pantaloni.
Spogliarmi la imbarazzava. Quindi anche questa volta sorrisi intenerito e mi trascinai sopra di lei, baciandola.
Mi liberai dei pantaloni veloce, perché ormai non riuscivo più a sopportare anche quella minima distanza da lei.
Vederla con solo l’intimo addosso e il rossore sulle guance riusciva a mozzarmi le parole ogni volta. Poteva essere così bella? Era perfetta, in ogni minimo dettaglio. Ed era mia, soltanto mia.
Le sfilai il reggiseno e sorrisi alla vista del suo seno sinistro, dove ancora campeggiava la macchia scura del mio succhiotto. Lei accigliò lo sguardo – “Zack non farmi dei succhiotti, odio quelle macchiette rosse” – invece io mi chinai a posarvi un bacio.
Poi successe velocemente, un momento prima ero a contemplarla e poi quello dopo ero dentro di lei, ad amarla fino in fondo. E non esistevano parole soffocate, gemiti, solo io e lei.
Forse la amavo davvero. Forse non potevo più fare a meno di amarla. Forse...
Mi lasciai andare ad un gemito, quando lei intrecciò meglio le gambe attorno alla mia vita. Mi abbassai e tornai a baciarla, ma mi accorsi che lei non aveva neppure la volontà di muovere le labbra, perché teneva gli occhi chiusi, a godersi fino in fondo quel momento e mordere e graffiare la mia pelle per trattenersi dall’urlare.
Avrei voluto urlare anch’io, ma mi sfogavo con tante spinte l’una dietro l’altra. Muovendomi al suo interno come fosse territorio mio, e mi accorsi solo allora che volevo che lo rimanesse ad ogni costo.
Ero geloso. Non volevo nemmeno pensare che qualcun altro potesse baciarla, stringerla o amarla come stavo facendo io.
Stephanie venne in un mezzo-urlo, ormai le mancava il fiato. E anch’io crollai poco dopo su di lei, a tentare di riacquistare un respiro regolare.
Mentre respiravo affannosamente contro il suo addome e vi lasciavo dei baci, Stephanie aveva preso ad accarezzarmi i capelli. E rideva.
«Sapevo che sarebbe andata a finire così.» balbettò, il fiato corto.
Io accennai un sorriso, e poi la baciai di nuovo.
 
Quindici minuti. La vecchietta davanti a me, le ciocche bianche tinte di biondo acconciate in perfetti ed eleganti boccoli, conosciuta anche come mia nonna, parlava ininterrottamente da quindici minuti. Adoravo i miei familiari, mi faceva piacere scambiarci qualche chiacchiera nelle feste o comunque in occasioni rare, ma quando mia nonna superava la soglia dei cinque minuti la mia soglia d’attenzione calava rovinosamente. Forse era solo una mia impressione, ma mi sembrava che mia nonna avesse un discorso fisso, comprendente anche opportune domande, da rifilarmi ad ogni nostro incontro.
Scuola, amicizie, ambizioni future ed eventuali “fidanzatine” erano i suoi argomenti abituali.
“Tutto bene”, “Ho Stephanie”, “Non lo so ancora” e “Sono single” le mie risposte, invece.
Lo studio mi stava lentamente riducendo al puro e semplice esaurimento nervoso. Essendo sempre stato uno studente abbastanza dedito, trovarmi in prossimità degli esami di fine anno mi faceva andare fuori di testa, rendendomi più nervoso e paranoico di quanto già non fossi. Zack si limitava a definirmi con “perfezionista” ed io gli davo ragione, perché niente mi avrebbe mandato più in bestia che la consapevolezza di non aver dato e ottenuto il massimo.
Infondo me lo meritavo. Avevo dato i miei peggiori sforzi a quella scuola e, come me, tutti si aspettavano che la abbandonassi portandomi dietro un manto di ammirazione, destinato a scomparire nell’arco di alcuni giorni. Però per me non sarebbe svanito. Ed era proprio per un’ambizione strettamente personale che intendevo fare di tutto per raggiungere il mio obbiettivo.
Non sapevo esattamente cosa avrebbe susseguito il raggiungimento di quello scopo. Forse semplicemente non volevo pensarci. A differenza di quanto tutti credevano, non ero mai stata una persona molto sicura di sé. Conoscevo le mie potenzialità e facevo di tutto per usufruirne al massimo ed arrivare al mio obbiettivo, ma non sapevo bene a cosa tutto questo portasse. Ero determinato a portare a termine cosa, in realtà? Un capriccio? Un’ambizione?
Cosa volevo diventare? Forse era un po’ troppo presto per scoprirlo. Forse non volevo farlo.
In ogni caso, lo studio non era l’unico pensiero capace di affliggermi.
Ripensandoci, la mia vita somigliava tanto ad una ragnatela, in cui ero bloccato ma della quale non tessevo i fili. Erano gli altri a farlo per me. Mia madre decideva il mio vestito di cerimonia, papà la disposizione del mio nuovo armadio, e Stephanie l’intercorrere delle mie giornate.
Non avevo ancora compreso il ruolo di Charlie in tutto questo. Ero quasi certo c’entrasse qualcosa, eppure non riuscivo a capire quale fosse il collegamento esatto tra la mia vita e la sua. Tra me e lei.
Mi aveva baciato. L’avevo baciata, anche se da ubriaco. Mi ero risvegliato nel mio letto la mattina dopo senza ricordare nulla, e lei era sbucata con addosso la mia maglietta, dicendomi che non poteva indossare il suo vestitino serale. Mi ero segretamente chiesto a lungo se quella notte ci fosse stato qualcos’altro, oltre ai baci e il fatto che aveva dormito nel mio stesso letto, ma il mio intelletto e la mia memoria non mi avevano fornito delle risposte, né tantomeno avevo osato chiederne a Charlie. Era già stato abbastanza imbarazzante trovarsela in casa con addosso i miei vestiti che mi aiutava a vomitare tutto il mio buon senso nel water.
Lei si comportava come se nulla fosse. “Sono stati solo dei baci” aveva minimizzato, ma avevo un brutto presentimento a riguardo. Comunque mi trattava ancora come un amico, ed io mi sforzavo di ricambiare quella confidenza, sebbene mi sentissi terribilmente a disagio al suo fianco.
Forse “single” non era il termine adatto. “Confuso”, magari. “Strano”. “Paranoico”, indubbiamente.
Quando nonna Karen aprì bocca per rispolverare un’altra delle sue domande a doppio taglio le sorrisi cordiale, annunciandole che sarei andato a prendere qualcosa per il mal di testa. “Torno subito, nonna” l’avevo salutata. Lei aveva annuito, e sapeva che non sarei tornato.
Non mi andava di rovinare la festa di matrimonio dei miei né con i miei inondanti pensieri né con le chiacchiere inutili e monotone di mia nonna. D’altronde vederli così felici riusciva a cancellare qualsiasi pensiero malevolo o triste, e non avrei voluto rovinare la loro festa.
Innamorati. L’unico termine che mi venisse per definirli. Terribilmente innamorati l’uno dell’altra, destinati ad appartenersi forse per sempre. Una scena dolcissima, che mai avrei pensato di adorare così tanto.
Troppo amore. Troppi ripensamenti. Troppe persone a cui devo delle scuse. Solo una che le merita.
Emma.
Sospirai, lasciando che i sensi di colpa mi divorassero.
Non potevo lasciarglielo fare. Non adesso, che rischiavo di rovinare quell’aria di serenità.
Lanciai un’ultima occhiata ai miei genitori, stretti l’uno nell’abbraccio dell’altro, e poi salii le scale per dirigermi nella mia stanza, intenzionato a passarvi un po’ di tempo per poter sfoderare il solito sorriso al piano di sotto e magari tornare a fingere di essere interessato ai racconti di mia nonna.
Mi avvicinai alla porta della mia stanza per entrarvi, ma dei suoni suscitarono la mia attenzione.
Risate. Gemiti soffocati, e poi... Stephanie? Quella era la stanza di Zack, perché lei si trovava all’interno?
Assottigliai lo sguardo confuso, ma quando feci per abbassare la maniglia la porta non si aprì. Era chiusa a chiave, probabilmente. Ma perché Stephanie si era rinchiusa nella stanza di Zack?
Aprii la bocca per chiamarla, ma udii un’altra voce.
Zack.
Mio fratello era lì. Stavano insieme, e la porta della stanza in cui stavano era chiusa a chiave. Non aveva il minimo senso, se non...
Fu come risvegliarsi da un sogno. Tutti gli sguardi, i sorrisi, le sparizioni improvvise...
Ero stato un ingenuo a non accorgermene. C’era qualcosa tra loro. Non sapevo esattamente cosa, ma c’era.
E non potevo aggiungere un altro punto alla mia lista degli affanni. Avevo bisogno di una persona precisa, e finalmente dopo settimane sapevo cosa dovevo fare.


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wellà gente!
okay, sto andando decisamente a rilento. Ma la scuola mi affanna, spero possiate capirlo. 
Passiamo al capitolo:
Ecco il tanto atteso matrimonio :) e chi aspettava che la mamma dei gemelli sapesse già tutto? ahah 
D'altronde la coppietta sembra di buonissimo umore, così buono che si permette di appartarsi, mh. 
E Martin, il nostro povero Martin, avrà capito qualcosa? 
Ci vediamo alla prossima, gente!

 

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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII ***


 

Vi prego di leggere lo spazio autore sotto al capitolo, è importante. Buona lettura; 
«Guarda questi capelli.» sbuffai, mentre li accarezzavo e vi passavo le dita nel tentativo di donargli una forma. Una qualsiasi, purché non fosse quella massa informe che si rifletteva nello specchio e che tanto mi innervosiva.
«Cos’hanno?» la voce di Zack mi giunse annoiata da dietro, il suo corpo ancora ben nascosto sotto le coperte.
«Sono osceni!» lasciai ricadere le mani lungo i fianchi «Questa mattina ho impiegato due ore per sistemarli, e adesso guardali, non hanno più una forma.» presi a brontolare, mentre gli occhi osservavano malinconici quelle ciocche che prima erano perfetti boccoli. Mi ci sarebbe voluta un’eternità per tornare ad avere un aspetto decente, e non avevo tutto quel tempo a disposizione.
«Stanno bene.» fu l’unico commento di Zack, che ignorò il mio tono lamentoso e la mia lamentela in sé per sé. E sarebbe stato anche credibile,  magari consolatorio, se solo si fosse degnato di darmi un’occhiata e il suo tono non fosse così irritato, come avesse a che fare coi capricci di una ragazzina viziata.
«Ma se non mi hai nemmeno guardata.» mi opposi io infatti, voltandomi verso la sua direzione con le braccia strette al petto, in un’espressione che non stava certo a significare un “grazie”.
Lui allora fece capolino col viso da sotto le coperte, e dopo avermi lanciato un’occhiata confusa e per metà divertita, «stanno bene» ribadì. Tornò con la faccia premuta contro il cuscino dopo qualche secondo.
Sbuffai, mentre maledivo la sua indifferenza.
«Dovresti alzarti.»
Da quando avevo deciso di voler passare del tempo da sola con lui, eravamo chiusi nella sua  stanza da circa venti, o venticinque minuti. Quando anche lui si era finalmente abbandonato, esausto, sul mio petto, avevo lasciato che mi coccolasse per un po’ con baci e carezze. Ero stata quindi vittima delle sue braccia per un po’ di tempo, catalogando l’odore della sua pelle come la migliore delle fragranze. I suoi baci i migliori distruttori della mia sicurezza, e il suo tocco e il suo respiro complementare al mio, i fattori della mia serenità.
Mi sentivo particolarmente bene stretta a lui, e non avevo idea se fosse un bene o un male. Forse stavo rischiando abbastanza, decidendo di mettermi completamente nelle sue mani. Ma anche  lui lo aveva fatto, e l’intera situazione era stata così assurda e talmente reale allo stesso tempo da sembrare ridicola. Due persone che da nemici passano a diventare degli amanti – segreti – e si pronunciano parole importanti, mentre tutti sono a bere vino al piano di sotto. Non c’era niente nel nostro rapporto che avesse un qualcosa di normale. A cominciare dal modo in cui ci eravamo conosciuti e di seguito rapportati, niente aveva rasentato l’ovvio, né l’aspettato. Stare con Zack era come giocare una partita di poker: anche quando pensi di essere in possesso delle carte giuste, non puoi sapere cos’ha in serbo per te il tuo avversario. E per quanto lo avevo conosciuto, Zack era la persona più imprevedibile e temibile: poteva donarti il suo cuore, ma non avresti mai saputo dire se il suo dono fosse reale, o duraturo. Come aveva deciso di affidartelo, così poteva togliertelo.
Imprevedibile certo, ma solo per alcune cose. Per il resto, pensavo di conoscerlo. Sapevo che stare in mezzo a troppe persone lo annoiava, se non era al centro dell’attenzione, e che non avrebbe esitato a seguirmi nemmeno per un secondo, quando avevo deciso di trascinarmelo in un posto più appartato. Che non mi avrebbe lasciato stare sopra nemmeno quella volta perché ne andava del suo orgoglio e la sua sicurezza, e che anche dopo l’orgasmo non avrebbe abbandonato quel letto neppure sotto tortura. E che non gli importava affatto la mia opinione a riguardo.
«E tornare dai miei familiari a lasciarmi torturare di domande su dove sia stato o cosa abbia fatto in questa mezz’ora?» controbatté infatti, ironico «Non ci penso nemmeno.»
Sospirai, aspettandomi quella risposta. «E’ l’anniversario dei tuoi genitori, c’è una festa, e tu non puoi restartene a letto solo perché ti annoia.»
«Oh-oh, è tornata la Stephanie saggia e ragionevole?» scherzò lui, fissando i suoi occhi azzurri su di me «Ti ricordo che sei stata tu a portarmi qui dentro, e questo letto non ti dispiaceva così tanto prima.» ammiccò, col solito tono allusivo che lo caratterizzava e lo rendeva insopportabile e fin troppo sexy. Sarei volentieri ritornata sotto quelle coperte con lui, se solo la mia integrità morale non me lo impedisse categoricamente.
Mi avvicinai comunque a lui, gattonando sul letto fino a portarmi a un palmo dal suo viso. «Quindi è questo, il tuo piano.» sibilai, come avessi appena scoperto il più grande dei misteri «Vuoi incolparmi della tua misteriosa scomparsa, non è così?»
Si sciolse in un sorriso, e le sue mani andarono ad accarezzare i miei fianchi nudi. «Il mio piano è riportarti sotto queste coperte, con me.» sussurrò, terribilmente vicino alle mie labbra per permettermi di pensare lucidamente.
Ridacchiai, cadendo con un tonfo al suo fianco. «Non c’è tempo per un secondo tempo, Zack.» mormorai, mentre le mie dita delineavano il profilo del suo viso e i miei occhi lo osservavano, incantata.
Lui sorrise, la sua lingua a incastrarsi tra i denti. «Nemmeno una piccola sveltina?» domandò triste, meritandosi il mio schiaffo sul braccio. «Okay okay, scherzavo!» riprese.
«Sei un coglione.»
«E tu sei bellissima.» fu la sua risposta, fin troppo seria per pensare che volesse prendermi in giro. Perché non c’era traccia di sorriso sulle sue labbra, e i suoi occhi seguivano il tratto del suo indice sulla mia guancia e lungo il mio collo, lo sguardo assorto. Tornò con gli occhi nei miei, e la sua mano spinse sulla mia schiena per farmi più vicina. «E sei mia, cosa più importante di tutte.» sorrise, richiamando il mio di sorriso.
Accarezzò la mia guancia e lasciò un bacio a fior di labbra, e quando finalmente mi calai sotto le coperte, lui mi attirò tra le sue braccia. «Mi dispiace di aver fatto lo stronzo.» confessò,quando a scandire il tempo c’era solo il rumore dei nostri respiri.
Alzai lo sguardo su di lui, un po’ sorridente. «Ti dispiace di cosa, esattamente?»
«Di averti trattata così male, ed essere stato così lunatico e insopportabile. La verità è che non so nemmeno io perché l’ho fatto, ma voglio chiederti scusa.»
Annuii comprensiva, interrompendo il suo giocherellare con la bretella del mio reggiseno con un bacio. «Non fa niente.»  mi strinsi nelle spalle, mentre tenevo il suo viso tra le mani «E poi anch’io ho fatto la stronza.»
«Beh, questo è vero» ridacchiò lui «Infondo mi hai fatto diventare un tavolo da buffet.»
Risi, ricordando la scenata a mensa. «E’ stata una vendetta più che meritata, tu mi avevi trattata come uno zerbino.» replicai, indignata.
«Già.» concordò lui «Poi in palestra ho interrotto la tua conversazione con Crowner e tu mi hai lanciato una pallonata in pieno stomaco.»
«Anche quella era meritata.»
«No, a meritarla era quell’idiota di Crowner, che ti guardava come se volesse toglierti i vestiti di dosso.»
«Perché, tu non mi guardavi nello stesso modo?» inclinai la testa, divertita.
«Sì.» annuì lui «Ma io ci sono riuscito, a toglierti i vestiti di dosso.» continuò poi, con gli occhi pieni di malizia.
Risi, e andai a far congiungere le mie labbra alle sue. Allacciai le braccia al suo collo e lui mi attirò e mi strinse più forte, mentre le lingue lottavano per incontrarsi di nuovo.
Un forte bussare ci destò dal nostro paradiso personale, e mi fece sobbalzare.
«Zack, sei qui dentro?»
Sembrava la voce di Robert. Probabilmente sia lui che Sophie erano a cercare loro figlio da un bel po’, ed ero terrorizzata dall’idea che potessero scoprirmi lì con lui.
Zack non rispose e fece segno a me di non fiatare, e quando la maniglia cominciò a muoversi nel tentativo di aprire la porta, fui felice d’aver seguito il consiglio di Sophie. Sorrisi involontariamente, fiera della mia azione giudiziosa, e Zack ridacchiò silenziosamente per non farsi sentire.
Il signor Payne restò lì a bussare per un altro minuto forse, poi se ne andò rassegnato, pensando che suo figlio non fosse lì o non volesse rispondergli.
«Se n’è andato?» sussurrai io, piano.
Zack si alzò dal letto e prudente si avvicinò alla porta, per udire eventuali rumori dall’esterno. Piano la aprì, e dopo aver dato un’occhiata a destra e sinistra la richiuse. Tornò da me e si intrufolò di nuovo sotto le coperte, sorridente. «Non c’è nessuno.» mi informò. Allora sorrisi, e mi avvicinai per baciarlo. Lui però si ritirò prima che le mie labbra lo sfiorassero, inspiegabilmente divertito. «E’ l’anniversario dei tuoi genitori, non puoi restartene a letto perché ti annoia» imitò la mia voce «E invece tu sei qui con me, ad essere contenta che mio padre non mi abbia scoperto a nascondermi. A quanto pare non sei così matura come vuoi far sembrare.»
Colsi il sarcasmo nella sua voce e assottigliai lo sguardo, nonostante avesse ragione. Mi avvicinai ancora al suo viso, e questa volta non per baciarlo, ma per osservarlo soltanto. Per godere dei piccoli dettagli come i suoi occhi luminosi, o il suo sorriso infantile e tremendamente dolce. Per meditare su quanto fossi stata ipocrita in tutto quel tempo per aver spudoratamente negato la verità: era perfetto. Ogni particolare di lui lo era, e sarei rimasta a fissarlo in eterno.  
Invece rotolai su di lui in una mossa, tenendo le ginocchia ai lati dei suoi fianchi, mentre lui sorrideva e accarezzava le cosce piano, con carezze prive di malizia.
Il mio sguardo era tutt’altro.
Il mio viso e le mie labbra vicinissimi ai suoi, poi un sussurro: «Forse ho cambiato idea» .
Strinsi tra le mani i lembi della maglietta taglia extra-large che indossavo e li sollevai, fino a sfilarla completamente e farla dondolare tra le dita quasi fosse un trofeo. Il vero trionfo però fu vedere l’espressione tranquilla di Zack trasformarsi in più irrequieta, gli occhi che sembravano divorarmi e il suo corpo che reagiva perfettamente al mio, in una sincronia di sensazioni che non avrei nemmeno creduto possibile tra noi due. Se qualche tempo prima sarei stata sul punto di prenderlo a calci per avermi rivolto un’occhiata così famelica, adesso me ne sentivo lusingata.
Mi chinai su di lui e le mie dite corsero ad accarezzargli la guancia, delicate, mentre un tono di voce inaspettatamente seducente pronunciava semplici parole al suo orecchio.
«Sempre che tu voglia restare qui, con me»
La risposta di Zack fu contenuta in un sorriso, e ancor prima di accorgermene ero nuovamente schiacciata sotto di lui, a subire le sue dolci torture alla mia pelle, con la rinnovata consapevolezza che lui mi desiderava molto più di qualsiasi cosa.
 

Quella giornata era cominciata in modo strano. Mio padre non era venuto a svegliarmi prima di tutto, come faceva tutte le mattine, né la mamma aveva preparato la colazione, tanto che mi ero accontentata di un toast con la marmellata. Nate, di natura terribilmente mattutino, dormiva ancora alle 10, e Kirsten era segregata in camera sua a studiare, come non succedeva mai la domenica mattina. Persino Mickey era mancato al nostro appuntamento giornaliero sul mio letto, e stava a poltrire sul divano, incurante che per quella violazione del contratto tra lui e mia madre, sarebbe rimasto fuori per due giorni.
Veronica non si era fatta sentire sino a mezzogiorno, affermando d’avere avuto impegni importanti, di cui comunque non poteva (o non voleva) rendermi partecipe. Non ci avevo dato troppo peso, sapevo che comunque sarebbe scoppiata tra qualche ora o il giorno dopo, quando le sarebbe risultato impossibile mentirmi faccia a faccia.
Non avevo avuto molta fame e così mi ero limitata a sgranocchiare delle patatine, e dopo pranzo ero entrata nel mio angolo di solitudine, ad annoiarmi distesa sul letto e ignorare i libri sulla scrivania.
Poi il campanello aveva preso a suonare ripetutamente, avevo sbuffato parecchie volte nella speranza vana che smettesse, ma alla fine avevo saltato i gradini due a due ed ero corsa alla porta, furiosa.
Adesso, mi sentivo come paralizzata. E in imbarazzo, estremo imbarazzo, perché quella che i suoi occhi stavano vedendo era la mia faccia da fine settimana, da considerarsi indecente persino ad Halloween.
Lui era bello come il sole. Lo smoking nero elegante, i capelli perfettamente in ordine, gli occhi luminosi e belli da togliere il fiato. In effetti mi sentivo parecchio a disagio, ora che realizzavo di fissarlo un po’ troppo.
Cosa ci faceva Martin a casa mia, di domenica pomeriggio? In smoking, poi?
«Posso entrare?»
Da quanto non sentivo la sua voce? Da troppo tempo non mi rivolgeva la parola, né lo sguardo così intensamente. E adesso si presentava alla mia porta, col viso stravolto, a chiedermi se poteva entrare. Avrei dovuto negarglielo, invece annuii impercettibilmente e abbassai lo sguardo, mentre lui titubante entrava.
Mickey drizzò le orecchie e aguzzò lo sguardo non appena Martin mise piede sul tappeto del salotto, e solo dopo essermi fissata le pantofole per fin troppo tempo, mi decisi anch’io a guardarlo. Scoprii che i suoi occhi mi erano mancati molto più di quanto pensassi.
«Emma, chi è?»
Mi voltai preoccupata verso la cucina, dove mia madre stava cucinando. Boccheggiai per qualche secondo e infine «E’ solo Ronnie, mamma!» le risposi, cercando di sembrare il più convincente possibile. Ricevere la visita di un ragazzo a casa significa sorbirsi il solito e insopportabile interrogatorio, e non avevo la minima voglia di rispondere a niente che riguardasse Martin o la mia vita privata in generale.
«Vieni, seguimi» sillabai poi a Martin, che annuì e mi seguì a testa bassa sino alla mia camera, dove mi accertai di non fare alcun rumore e chiudere bene a chiave. Quella piccola fuga da mia madre mi diede la forza per guardarlo in faccia, ed esibire il solito tono sfrontato.
«Che ci fai qui?» chiesi allora, intrecciando le braccia al petto.
Martin sembrò boccheggiare, poi prese a grattarsi la nuca imbarazzato. «S-scusa, ho fatto male a venire...»
«No, no» mi avvicinai ad afferrargli le mani, e dovetti inspirare a fondo prima di riprendere a parlare, perché avere i suoi occhi a una così minima distanza non risultava produttivo alla mia freddezza morale. «Non era un rimprovero il mio, sono solo...sorpresa, ecco.»
Gli occhi di Martin guizzarono velocemente dal mio viso alle mie mani e, come mi aspettavo, le allontanò piano dalle mie, così come abbassò lo sguardo. «Non so perché sono qui, sinceramente, è solo che...»
«Perché sei in smoking?» lo interruppi.
Lui allora diede un’occhiata al suo abbigliamento e spalancò gli occhi, quasi se ne stesse appena accorgendo. «Sono scappato dal matrimonio dei miei.» ammise, quasi imbarazzato.
«Perché?» domandai io, senza trattenere un piccolo sorriso divertito.
«E’ successa una cosa, ed io...» fece una pausa, come a valutare le parole «Avevo bisogno di andare via.»
Aggrottai la fronte, confusa. Quali potevano essere le ragioni per scappare da un matrimonio?
Lui però sembrava sconvolto, e non mi sembrava carino fare dell’umorismo in quel momento. Allora annuii, sforzandomi di essere comprensiva. «E sei venuto qui?»
Quella era stata una domanda stupida. Era ovvio che la risposta sarebbe stata un sì, se era lì con me. Ma ero sorpresa, curiosa, adesso un po’ preoccupata, ma comunque felice di tornare a sentire la sua voce.
Martin alzò lo sguardo e annuì, tenendo la bocca dischiusa di poco.
«Vuoi parlarmene?»
Lo dissi con un filo di voce, quasi inudibile, e me ne accorsi solo dopo, quando i suoi occhi studiavano la mia espressione.
Non rispose. Dovetti cogliere dal suo sguardo la sua risposta, e mi sembrò fosse un sì. Per cui titubante presi la sua mano, la racchiusi tra le mie e lo trascinai fino al mio letto, dove entrambi prendemmo posto. Non lasciai la sua mano e lui sembrò apprezzarlo, perché tenne la testa bassa e continuò a giocherellare con le mie dita. Mi parve di scorgere un piccolo sorriso sulle sue labbra, ma si affrettò a nasconderlo.
«Allora, che succede?»
La stretta sulla mia mano si irrigidì, e subito dopo venne a mancare. Inspirò ed espirò, stette in silenzio per un po’, poi si voltò a guardarmi. «Come reagiresti se due persone a te care ti avessero tenuto all’oscuro di una cosa importante, tanto importante?»
Ci riflettei. Come reagirei se mi venisse nascosto qualcosa di importante? Con la rabbia, ovviamente. Poi, dopo un iniziale attacco di ira e un addossare di colpe, ci avrei pensato sul serio e allora mi sarei chiesta perché le persone che lo avevano fatto avevano deciso di non dirmelo.
Mamma mi aveva mentito sugli ingredienti della pasta, a 10 anni, perché sapeva che non l’avrei mangiata se avessi saputo che dentro c’era anche del formaggio.
Papà mi aveva mentito su Babbo Natale, perché sapeva che ci sarei rimasta fin troppo male a scoprire che, in realtà, l’uomo paffuto che tanto amavo era lui, in una tuta di almeno due taglie più grandi che riempiva con cuscini.
Kirsten e Nate, ai miei 12 anni, non mi avevano parlato della festa a sorpresa per i nostri genitori, perché ero un disastro a mantenere i segreti.
Veronica infine, forse tre anni prima, mi aveva tenuto nascosto che sarebbe uscita con Gwen, perché io non la sopportavo e lei pensava fosse simpatica.
«Ci penserei prima di trarre conclusioni affrettate.»
I suoi occhi azzurri rimasero a fissarmi, curiosi. «In che senso?»
«Beh penserei sul motivo per il quale queste persone hanno deciso di nascondermi questa cosa importante.»
«Appunto perché è importante, non credi avrebbero dovuto dirmelo subito?»
«Forse.» concessi, «O forse no, dipende dalle conseguenze che avrebbe avuto dirtelo.»
«Quindi pensi che la loro decisione sia dipesa dalla mia probabile reazione, intendi questo?»
«Sì. In poche parole, il concetto è questo.»
Si girò a fissare il pavimento, mentre annuiva fra sé e sé. «E’ che mi sembra incredibile, e assurdo.» mormorò.
Incredibile e assurdo. Erano quelli i termini che avevo tirato fuori quando mi ero ritrovata a pensare ai baci a cui avevo assistito la sera della festa. Le immagini di loro due addossati l’una all’altra e poi quella della mattina dopo mi erano rimaste nella mente e ancora la tormentavano, e il lato peggiore era che non sapevo che importanza donarvi. Non sarebbe dovuto importarmi, eppure mi sentivo improvvisamente e irrimediabilmente triste se provavo ancora a pensarci. Anche in quel momento, sopportare d’averlo a pochi centimetri di distanza mentre la mia mente elaborava odiosi flashback, mi sembrava insostenibile.
«Molte cose lo sono.» mi trovai ad asserire allora, monocorde.
Non sapevo ancora come catalogare quella situazione. Martin aveva quindi una ragazza? Se l’aveva, perché era corso da me e non da lei? Lei gli sarebbe stata più d’aiuto senz’altro, perché era con me? Era da giorni che non mi parlava. Nemmeno una parola, uno sguardo, nulla di nulla, e adesso era qui, a chiedermi consigli su qualcosa di cui non avevo capito un granché, e ad evitare ogni contatto con me, forse credendo che non me ne accorgessi.
Mi era mancato, ma lo odiavo. La mia mente non poteva fare a meno di pensare che mi stesse solo usando, sfruttando, niente di più. Non teneva a me, altrimenti quei rullini che tanto si proiettavano nella mia testa non sarebbero mai esistiti, né mi sarei mai domandata o addossata la colpa dei suoi silenzi.
«E’ assurdo anche che io sia qui, non è vero?»
Alzai lo sguardo sul suo viso ma lo abbassai poco dopo, troppo a disagio per sostenere i suoi occhi.
«Sì, in effetti lo è.»
La mia risposta apparve acida, e avrei voluto mordermi la lingua. Ma Martin non si perse d’animo, anzi chinò la testa, a darmi ragione. «Sì, in effetti hai ragione.» disse infatti, «Ed io ho torto, perché ho lasciato che una stupidaggine rovinasse la nostra amicizia, e non è quello che fanno gli amici. Non ti ho cercata né tu lo hai fatto, e non ti biasimo per questo, ma...» sospirò, a prendere tempo. Alzò gli occhi sui miei e sentii le sue dita accarezzare le mie, in una carezza lenta e timorosa. «Mi dispiace, solo questo.» soffiò, «Mi dispiace di essere stato lontano e di essere piombato qui all’improvviso, di essere sempre così enigmatico e mai coinciso, di...»
Racchiusi le sue labbra tra le mie dita, ridendo della sua espressione perplessa, e mi diedi uno slancio per abbracciarlo, e stringere le braccia attorno alla sua nuca, mentre lui piombava con la schiena sul materasso.
«Mi sei mancato.» furono le uniche parole che riuscii a pronunciare e anche le più essenziali, perché il mio abbraccio e il sorriso che ostentavo stupidamente erano la prova di quanto veritiera fosse la mia frase.
Mi era mancato così tanto. I suoi discorsi insensati, le sue espressioni confuse, il suo sproloquiare inutile, e la sua completa immobilità e insicurezza quando mi permettevo di dimostrargli un po’ d’affetto. Anche in quel momento, era del tutto immobile.
«Dovresti abbracciarmi» gli suggerii, divertita.
Allora lo sentii sorridere, e le sue braccia si racchiusero attorno al mio busto, le sue mani alla base della mia schiena. Il mio sorriso che persisteva, e la sua testa sulla mia spalla, la mia frangetta contro la sua guancia. Il suo profumo che riempiva le mie narici, e il suo battito a scandirsi contro il mio petto.
«Anche tu, mi sei mancata.»
Allora nessun ritardo sarebbe stato mai rivelante, se alla fine eravamo giunti a ritrovarci. Ci era voluto del tempo, ma ce l’avevamo fatta. E forse lui non lo percepì, ma in quel momento mi sentii molto più felice di quanto non lo fossi state nelle ultime settimane.

 
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Bene, se siete giunti qui significa che il capitolo non faceva poi così schifo, o che mi avete dato ascolto e quindi state leggendo.
Prima di tutto, parliamo del capitolo. E' costituito dai due punti di vista delle nostre ragazze, e può definirsi un capitolo allegro, no? Zack e Stephanie più affiatati che mai, e Martin e Emma che, FINALMENTE, si riconciliano. Non mi sono posta problemi ad escludere i due ragazzi, perché sono presenti comunque negli altri due punti di vista, quindi mi sembrava inutile. 
Ora, passiamo a qualcosa di più serio che, ahimé, riguarda non solo la storia ma anche me. 
Come avete notato, non aggiorno più con la stessa costanza e velocità di prima, e ci sono duplici ragioni per questo mio ritardo: 
ragione n.1: la scuola. La scuola prosciuga il mio tempo e la mia voglia di scrivere, perché arrivata a un certo orario in cui sono stata a studiare per due, o tre ore, mi sembra chiaro che non abbia voglia di fare granché, quindi per scrivere mi rimane il sabato (di cui solo qualche ora al pomeriggio, visto che esco).
ragione n.2: voi. La seconda ragione credo proprio siate voi. Io ci metto davvero cuore e anima per scrivere, mi piace e mi fa sentire bene, ma quando il tuo sforzo non viene "riconosciuto", beh non è la migliore delle sensazioni. E' come passare un largo arco di tempo a fare qualcosa di cui sei fiero, e poi scoprire che è indifferente agli occhi degli altri. Perché sul serio, la mancanza di commenti, mi fa sentire tale. Quindi è questo il vero problema, che non ricevendo delle recensioni, non so cosa ne pensiate della storia, se vi piaccia o meno, e mi fate passare la voglia di continuarla. 
Il succo della faccenda è che potrei anche decidere di cancellare la storia, a questo punto. Io non voglio farlo, sono affezionata a questi personaggi, ma non ho molta scelta. Non ricevere considerazione non fa piacere a nessuno, credo, per cui nemmeno a me. 
Ora, se volete che continui la storia, datemi una ragione per farlo. 
A presto (si spera). 

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIV ***


   
AVVISO: prestare attenzione allo spazio autore! 
 
«Gli esami sono vicini ragazzi, e pertanto vi conviene studiare, oppure...»
La lieve vibrazione di un cellulare, che scoprii essere il mio, mi distolse dall’importantissimo discorso di mrs. Ground, che tra l’altro nessuno sembrava seguire. Certo cosa poteva aspettarsi, se ogni occasione era motivo per lei di ricordarci dell’imminenza degli esami? Non faceva che aumentare la dose – già enorme – di ansia, e così nessuno voleva ascoltarla, al costo di rischiare una nota disciplinare.
Giusto in quel momento una pallina di carta partì dal banco di Tyler Mason fino alla faccia della professoressa, e quando le risate della classe e le urla della donna cominciarono a riempire l’abitacolo garantendomi l’assoluta discrezione, tirai fuori il cellulare. Il display segnalava l’arrivo di un nuovo sms, il quale mittente si rivelò colui che sospettavo più di tutti.
Sei preoccupata per gli esami?
Lessi il messaggio di Zack e alzai per un secondo il viso a guardarlo, ma la faccia annoiata di Bailey faceva da muro, per cui lo abbassai di nuovo. Mrs. Ground pose fine alle sue minacce di sospensione contro Tyler e riprese il discorso, e anche le risate cessarono qualche secondo dopo, per tornare a sonori sbuffi e sbadigli.
Sì, lo sono. E tu?
Se ero preoccupata? Lo ero parecchio. Odiavo le verifiche sin dall’infanzia, e l’idea di mettermi davanti ad una commissione di professori che stanno a fissarmi e ad esaminare qualsiasi espressione del mio viso o parola che esca dalla mia bocca, oppure sottopormi a prove scritte con la consapevolezza che avrebbero dettato il mio futuro, non era delle migliori, tanto che il solo pensiero riusciva a mettermi ansia addosso. D’altronde si sa, agli esami di maturità tutto quello che c’è stato prima viene annullato: non importava il buon rendimento costante che avevo tenuto sin dalle elementari, erano quei maledetti fogli a contare, ed io avrei dovuto dare del mio meglio, perché da lì ne sarebbe valsa la mia reputazione, a livello disciplinare che personale. E se mi fossi lasciata sopraffare dall’ansia, allora tutto l’impegno e il duro lavoro impiegati in quegli anni sarebbero risultati vani, assolutamente inutili, ed io non potevo permettere che tutto ciò accadesse.
Avrei dovuto essere più rilassata. Pensare che se c’era qualcuno che non doveva temere quegli esami ero proprio io, che avevo sempre avuto una buona media e sopportato problemi ben peggiori, ma non ci riuscivo. Forse nemmeno ci provavo, ma poco importava.
Avrei voluto essere come i miei compagni, che ridevano e scherzavano e sottovalutavano la faccenda, mentre a me appariva come la peggiore delle sorti. Essere come Zack magari, il cui messaggio esprimeva chiaramente l’indifferenza a riguardo: “Mi sta più a cuore uscire da qui. La Ground è una piaga.”.
Ridacchiai silenziosamente, non potendo far altro che concordare. D’altronde in quella classe lei era l’unica a prestarsi attenzione da sola. Poi il cellulare vibrò una seconda volta, e tornai con lo sguardo al display.
Poi non mi piace stare così lontano, quel coglione di Tyler mi ha fottuto il posto
Allora alzai lo sguardo verso la mia destra, e non mi sorpresi a trovare Tyler Mason sorridermi, come faceva praticamente in qualsiasi occasione e con qualsiasi ragazza. Ricambiai con un lieve sorriso e risi quando notai l’espressione accigliata di Zack verso l’amico, quasi volesse fulminarlo.
Meglio così, o non avrei seguito la lezione” risposi.
Ti distraggo? Interessante
Sorrisi, andando a cogliere la sua occhiata allusiva tra tutti gli sguardi nella stanza. Era chiara inoltre la nota divertita nei suoi occhi, come quando prima di fare l’amore decideva di tenermi sulle spine, godendosi la mia impazienza. O come tutte le volte che mi metteva in imbarazzo, quelle in cui mi prendeva in giro perché non sapevo mai quale atteggiamento assumere, o le volte in cui semplicemente il mio fare severo non funzionava, e lui sorrideva per aver ottenuto la sua piccola vittoria. Forse erano i suoi occhi il mio maggiore punto debole, ma non gliel’avrei mai confessato.
Non cogliere doppi sensi dove non ci sono, Payne
Concentrò gli occhi sul display del telefono, e un piccolo sorriso gli incorniciò il volto.
Io non colgo doppi sensi, Gilbert. Comunque mi piace la tua camicetta
Abbassai il capo a dare un’0cchiata alla mia camicetta rosa pallido, e mi accorsi di quanto il tessuto non così fitto lasciasse intravedere le forme del mio reggiseno. Quella mattina mi ero svegliata tardi, dunque avevo indossato i primi vestiti che mi erano capitati, e questo era il risultato. D’altronde a Zack non interessava mica la camicetta, ma ciò che “nascondeva”. Decisi comunque di giocare al suo stesso gioco, quindi sfoderai il mio miglior sorriso.
Ma preferiresti togliermela, non è così?” digitai, come era solito dire lui ogni volta che i suoi complimenti ricadevano sui miei vestiti. Non che mi dispiacessero, i doppi fini delle sue lusinghe.
Allora sollevò l’angolo destro delle labbra in un sorriso, e quando si voltò a guardarmi mi parve che ridesse.
Adesso chi è che coglie doppi sensi?” era la risposta.
La campanella risuonò nell’aula e alcune urla di esultanza si innalzarono tra i miei compagni, oltre ai loro sederi che abbandonavano le sedie di legno. Io raccattai le mie cose e mi avvicinai alla porta, dove Zack decise fosse lecito prendermi come ostaggio.
Allacciò le braccia attorno al mio busto e mi strinse a sé da dietro, il suo respiro così prossimo alla mia pelle che ne veniva solleticata. «Ripensandoci...» sussurrò al mio orecchio «Non mi dispiacerebbe liberarti di quella camicetta, per quanto sia bella». Mi schioccò poi un bacio sul collo, che mi fece sorridere.
«Nemmeno a me» ammisi allusiva al suo orecchio, prima di baciargli la guancia. Avrei voluto slittare il bacio verso le sue labbra, ma non era prudente farlo in un corridoio colmo di studenti.
Tra quegli studenti comparve infatti Martin, che armeggiava con l’armadietto. Salutai Zack e trotterellai verso di lui, mettendomi sulle punte per arrivare a coprirgli gli occhi con le mani. «Chi sono?» camuffai la mia voce.
Lui sospirò ed emise un mezzo sbuffo, lasciandosi andare le mani lungo i fianchi. «Stephanie.» rispose annoiato.
Gli liberai dalla visuale dall’impedimento delle mie mani e mi sporsi più in alto per dargli un enorme bacio sulla guancia, e poi strinsi le braccia attorno a lui.
«Sei troppo alto.» sbuffai.
Martin mi riservò un sorriso tirato, e tornò con la testa nell’armadietto.
«Tutto bene?» gli chiesi, sospettosa. Era raro che non ricambiasse i miei abbracci, e quando succedeva c’era sempre un motivo dietro. Quella volta non si era nemmeno sforzato di salutarmi con un bacio o un abbraccio.
«Sì, certo.» rispose, senza guardarmi in viso.
«Sei sicuro?» insistetti.
«Ti ho detto di sì.»
Sospirai, desolata. Era chiaro ci fosse qualcosa dietro, ma se non voleva parlarmene allora non aveva senso continuare ad insistere. Lo avrebbe fatto comunque, prima o poi, quindi «D’accordo» acconsentii. Allora tirò fuori dei libri dall’armadietto e se li infilò nello zaino, poi lo richiuse con un colpo secco, preparandosi ad andarsene.
«Ho lezione, scusa» scappò via così, senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. Nemmeno un incontro improvviso degli occhi, un sorriso, nulla di nulla. Solo la sua figura che mi dava le spalle, mentre scompariva tra la folla.
E puntualmente, il mio sbuffo amaro venne nascosto dal suono assordante della campanella.
 

Le due ore consecutive di scienze al mercoledì erano difficili da sopportare. Era come se quei soli 120 minuti fossero sufficienti per prosciugarti di tutte le energie possibili e ridurti ad uno straccio, tanto che in sala mensa ci ero arrivata sotto forma di relitto, o di uno zombie. Se provavo a chiudere gli occhi, come avrei volentieri fatto nonostante l’ammontare crescente di gente nella stanza, riuscivo a sentire la vocina stridula della professoressa Walt risuonare nei timpani, come un terribile nastro rotto.
Mi accasciai sul tavolo della mensa con assoluta mancanza di femminilità, e cominciai a dare un’occhiata tutt’intorno, consolandomi nel notare che almeno i tre quarti della popolazione presente lì dentro era ridotta alle mie stesse condizioni.
«Il fatto è che non riesco a credere che lei abbia preso un voto migliore del mio, è impensabile!»
Veronica. La cara e dolce Ronnie, che non perdeva mai la sua parlantina. Parlava in continuazione, non riusciva proprio a tenere la bocca chiusa nemmeno per un istante, e avrei tanto voluto avere la sua stessa vitalità, che sembrava non buttarla mai giù di morale. Era vivace, pimpante tutti i giorni e tutto il giorno, e anche parecchio irritante, se si era dell’umore contrario, come nel mio caso. Ma un secco “stai zitta, dannazione!” l’avrebbe offesa, per cui mi limitavo a non ascoltarla e sperare in silenzio che la piantasse con il suo inutile sproloquiare, una volta per tutte.
Intorno a me era tutto un chiacchiericcio. In particolare, ragazze dell’ultimo anno discutevano sui loro abiti e tutti i dettagli del ballo dei diplomanti, cavalieri inclusi.
Doveva essere qualcosa di stupendo: ritrovarsi tutti lì, l’ultima notte, a festeggiare insieme gli anni trascorsi e la gioia di aver finalmente terminato un’importante tappa della propria vita, condividere le stesse emozioni.
Mi resi conto in quel momento che, a meno che Martin non decidesse di farsi bocciare – il che era praticamente impossibile visti i voti impeccabili e la sua straordinaria dedizione scolastica –, allora anche lui avrebbe partecipato a quel ballo.
Lo avevo già visto in smoking, ma non era su quello che mi domandavo: chi sarebbe stata la sua accompagnatrice? Probabilmente aveva già provveduto a cercarla, ed ero sicura che chiunque fosse stata la sua scelta non mi sarebbe piaciuta. Perché Martin era fin troppo per tutte: troppo gentile, troppo intelligente, troppo dolce, troppo bello, e nessuna lo meritava.
Ma certo, questo era solo il mio magro e irrilevante parere.
Forse sarebbe stata Charlie ad accompagnarlo. Quel pensiero mi fece storcere il muso per il disgusto, e preferii abbandonasse la mia mente.
Martin non era a mensa. Il solito posto accanto alla storica amica del cuore Stephanie Gilbert era tristemente vuoto, e per qualche ragione lo sguardo desolato di lei mi suggeriva che vi fosse una ragione ben precisa dietro a quell’assenza.
Tutto quello che Martin mi aveva riferito comprendeva due persone a lui care e un segreto di cui non era stato messo a conoscenza. Non era un tipo popolare a scuola, aveva pochi amici, e Stephanie poteva essere considerata la sua migliore amica, dunque non c’erano dubbi fosse lei la prima persona coinvolta. Chi poteva essere la seconda? E cosa potevano aver nascosto? Era davvero qualcosa di così grave oppure era solo Martin ad esagerare?
«Quanto mi piacerebbe saperlo...» mormorai, sovrappensiero.
«Sapere che cosa?»
Mi ricordai solo in quel momento della presenza di Ronnie. Ora le sue iridi cristalline mi fissavano interdetta, curiosa. Doveva aver smesso di parlare da un po’, perché non aveva un’espressione corrucciata in viso come tutte le volte che si accorgeva di stare parlando al vento, ma sembrava realmente interessata.
Sorrisi.
Trova una scusa Emma, trova una scusa.
«Secondo te le tette della Pennett sono davvero sue oppure è solo push-up?» me ne uscii.
Allora la mia migliore amica inclinò leggermente la testa di lato confusa, e aggrottò le sopracciglia, poi ci rifletté. «Push-up, assolutamente.» fu la sua risposta dispregiativa, che avrei volentieri condiviso, se solo non mi interessasse affatto al momento. Ma conoscevo abbastanza Ronnie per sapere che raccontarle dell’improvvisa e sconcertante visita di Martin del giorno prima avrebbe dato il via a una serie di improbabili film nella sua testa, peggio poi se le avessi accennato il motivo di quella visita, perciò preferivo tacere. Infondo lei lo faceva molte volte anche per motivi banali, per cui una piccola bugia da parte mia non avrebbe pesato.
Zack Payne, al lato destro della sala da pranzo, seduto assieme ai suoi inseparabili compagni di squadra/scagnozzi, sembrava avere la testa tra le nuvole. Non era presente né coinvolto nelle risate e le chiacchiere dei suoi amici, semplicemente si limitava a pizzicare il cibo nel piatto, senza alcun interesse.
Chissà se lui l’aveva già scelta la sua accompagnatrice. Forse aveva dovuto decidere tra una lunghissima sfilza di nomi, oppure non ci aveva nemmeno pensato: di certo non gli sarebbe risultato difficile abbordare una ragazza la sera stessa del ballo. O forse non ci sarebbe andato.
Sospirai, portando le mani a sostenere il mento. Io per quel ballo avrei dovuto attendere altri due anni, e la cosa era infinitamente triste.
«Io vado» esordii, alzandomi dalla sedia di plastica blu e raccattando la mia borsa.
«Tu vai dove?» Ronnie si voltò nella mia direzione interrogativa, una patatina le cadde dalle labbra.
Una scusa Emma, una scusa, una sola e dannatissima altra scusa.
«Ricordi il progetto di inglese su Romeo e Giulietta?» le rammentai, grattandomi la nuca a disagio, nonostante il mio obbiettivo fosse quello di sembrare del tutto naturale.
«Sì, certo.» annuì.
«Non l’ho fatto.» sorrisi, «Per cui adesso andrò a supplicare l’insegnante di darmi qualche altro giorno, sperando che il mio tenero faccino funzioni ancora.»
La reazione di Ronnie fu la solita: scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, esasperata. «Ricordati il tono da povera martire, mi raccomando.»
Sorrisi e mi avvicinai per baciarle velocemente la guancia, poi scappai via dalla sala mensa. Sebbene ci trovassimo all’ora di pranzo i corridoi erano piuttosto affollati, e mi ci voleva un bel po’ per raggiungere il luogo della mia destinazione, ma ci riuscii infine. E quando entrai in biblioteca nel modo più silenzioso da me possibile, Martin era esattamente come me lo immaginavo: seduto sulla moquette con la schiena contro una delle librerie, le ginocchia al petto e gli occhi concentrati sulle pagine del libro che teneva tra le mani.
Vederlo così rannicchiato mi fece sorridere. Mi avvicinai e chinai per lasciargli un bacio sulla guancia, poi presi posto accanto a lui, ostentando il mio più sincero sorriso.
«Emma» commentò lui sorpreso, chiudendo il libro «Come mai qui in biblioteca?»
Aggrottai la fronte, falsamente stupita. «Biblioteca? Pensavo fosse l’aula di musica.»
Allora Martin accennò quella che sembrò una risata rivolta verso il basso, e che automaticamente scatenò il mio sorriso. «Non ti ho visto a mensa, ho pensato fossi qui.» risposi poi, tornando seria.
«Hai pensato bene, eccomi» si limitò a dire, lo stesso tono desolato del giorno prima. «Ma non eri obbligata a cercarmi.» aggiunse poi, e mi ritrovai faccia a faccia coi suoi occhi. Non sapevo spiegarlo, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che puntualmente mi poneva in una condizione di disagio, come se i suoi occhi potessero ferirmi in qualche modo, o mandarmi in confusione.
Abbassai il capo e mi presi qualche momento per cancellare quella sensazione, poi tornai a guardarlo. «Ero solo preoccupata.»
Ammetterlo fu strano. Come quando confessi controvoglia che ciò di cui sei sempre stato fermamente convinto è sbagliato, oppure innescare la bomba per una nuova battaglia. Battaglia di cui non conoscevo assolutamente nulla, che sembrava esistere solo nella mia testa, a cui non avevo mai partecipato.
Scendere in campo mi diede un’unica sensazione: confusione. Sebbene avessi appena realizzato la battaglia nella mia testa, non avrei proprio saputo quale fosse il mio nemico, e quindi a chi sparare. Ma ero certa che Martin, con i suoi occhi schivi e profondi, e il suo sorriso genuino, sapeva essere un soldato migliore di me.
Tenne lo sguardo basso sulle sue dita, e piano queste si mossero verso le mie, fin quando la sua mano arrivò ad accarezzare dolcemente la mia. Era la prima volta che lo faceva spontaneamente.
«Grazie.» sorrise.
Avrei voluto incorniciare quel volto, per ricordarlo: lo sguardo allegro, l’espressione serena, e un sorriso che avrebbe illuminato un’intera città. Era così che mi andava di riportarlo alla mente, non come il ragazzo trasandato e colmo di dubbi che era piombato a casa mia il giorno prima. E tornare a sorridergli sinceramente mi era mancato così tanto.
«Ascolta...» ruppi il silenzio, guadagnandomi la sua attenzione «Cosa sai di Romeo e Giulietta?»
 

Sospirai e spensi finalmente il televisore, stanco di continuare a fare dell’inutile zapping. Non c’era mai niente di interessante in tv il pomeriggio. Tutto ciò che proponeva erano vecchi film, stupidi programmi e reality show, e noiosi documentari.
Gettai il telecomando ad un lato del divano e mi distesi lungo di esso, andando ad incrociare le braccia dietro la nuca, il soffitto come il migliore dei miei oggetti di osservazione.
Sebbene lo detestassi, lo stesso pensiero continuava a tormentare la mia mente da giorni e non aveva smesso neppure per un momento, tanto che quel pomeriggio avevo rinunciato a studiare, e non mancò di farlo nemmeno quella volta.
Mai avrei pensato a Stephanie e Zack come una coppia, e il fatto che lo fossero, adesso, mi poneva in serio disagio. Come potevano stare insieme? Era praticamente impensabile. O almeno lo era sempre stato, sino al giorno del matrimonio.
Più mi sforzavo ad immaginarli come una normale coppietta felice e più mi rendevo conto che loro due insieme era semplicemente assurdo, e avrei tanto voluto convincere me stesso che quello che adesso era diventato l’orribile oggetto dei miei pensieri fosse solo una menzogna, ma avevo fin troppe prove contrarie per sostenere una tale tesi.
Come avevo fatto a non accorgermene? Eppure avevo notato dei cambiamenti in entrambi, ma non ci avevo mai prestato attenzione. Forse il reale accorgimento andava fatto alla presenza di entrambi: tutti gli sguardi allusivi, reciproci, e i sorrisi nascosti, le risatine equivoche.
«Stupido!» mi battei una mano sulla fronte, e Lupin alzò le orecchie in segno di attenzione.
Entrambi, nell’ultimo periodo, sembravano essere cambiati: Zack, da inguaribile acido rompipalle, si era tramutato in un simpatico fratellino docile, e Stephanie, l’ansiosa e sempre tesa Stephanie, viveva sulla sua nuvola personale, leggera, a non curarsi di tutto ciò che le stava intorno.
Non avevo mai pensato che quei cambiamenti potessero avere una comune e reciproca causa, né mi ero interessato a scoprirlo. Forse era stata colpa mia: ero stato distratto, troppo occupato a lamentarmi dei miei problemi per interessarmi di quelli degli altri, e quindi la situazione mi era sfuggita di mano.
Ma come poteva la mia migliore amica stare insieme a mio fratello? Si erano sempre detestati, odiati dal primo all’ultimo dettaglio, ma ora? Cos’era cambiato? Come avevano fatto a trasformare un rapporto di odio così profondo?
Cos’erano, adesso?
Erano sempre stati le due persone più opposte al mondo. Lui sicuro di sé, lei sempre così iperansiosa; lui di un’impulsività dannosa, lei coscienziosa; lui vanitoso ed egocentrico, lei sempre all’oscuro dai riflettori; lui superficiale, lei dedita in ogni cosa. Lui Zack, lei Stephanie: due nomi e due persone che mai avrei voluto o immaginato essere un sottoinsieme della parola “coppia”.
Avrei dovuto tenere conto che, come sostiene la chimica, due poli opposti si attraggono sempre e in ogni caso.
Oppure avrei dovuto farci più caso. Chiedermi il perché di tali atteggiamenti, approfondirli ed analizzarli. Se solo avessi saputo come sarebbe andata a finire, lo avrei fatto: avrei impedito ad ogni costo che venissero a contatto.
Un rapporto come il loro non poteva che portare scottature. Terribili e durature scottature che sarebbero rimaste nel tempo, a bruciare come una volta.
«Incompatibili.»
Ecco come avrei potuto definirli.
Sospirai, e presi a grattarmi la testa. «Forse sono io a sbagliare...»
Forse la situazione non era così tragica come mi sembrava. Forse Zack e Stephanie potevano davvero costituire una coppia con l’impegno di entrambi, ma cosa potevo saperne?
Non mi avevano detto nulla. Non una parola, non un gesto, niente che potesse darmi un indizio.
«Perché non me l’ha detto...»
La mia migliore amica non aveva più fiducia in me? Quali erano le ragioni che stavano dietro al suo silenzio?
Rabbia. Solo rabbia ad annebbiare la mia mente e oscurare la mia capacità di ragionare.
Come avevano potuto tenermi nascosto qualcosa di così importante? Non ritenevano fosse importante dirmelo, o forse non ritenevano importante l’intera faccenda?
«Stephanie non è tipo da prese in giro.»
Ma Zack sì. Lo aveva fatto così tante volte, aveva preso in giro così tante ragazze che sembrava fosse diventato un hobby, e l’idea che anche Stephanie facesse parte della sua schiera di giocattoli mi faceva venire il ribrezzo.
Ma lei non era stupida, conosceva con chi aveva a che fare, e aveva ugualmente permesso che Zack entrasse a far parte della sua vita?
Era stata solo accecata, o davvero aveva colto in lui qualcosa che nessuno riusciva a vedere?
La mia freddezza non andava a favore del caso. Se non adesso, presto Stephanie avrebbe cominciato a scovare più affondo nei miei monosillabi, e ci avrebbe trovato un grande quesito.
Ma io non avevo bisogno che mi facesse da psicologa. Io avevo bisogno di farlo a lei, e starle lontano non era affatto produttivo.
«Stupido, stupido!» mi ripetei ancora.
Questa volta Lupin mi saltò addosso con un balzo, e senza alcun avviso si distese per bene facendomi da coperta, col muso appoggiato sul mio petto e gli occhi a fissarmi curioso – e forse anche un po’ preoccupato.
«Tu lo sapevi?» gli chiesi. Non rispose. «Come non detto.»
 
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D'accordo, non so davvero da cosa iniziare. Forse, e prima di tutto, sono tornata!
Vorrei scusarmi per due cose, e partirò dalla prima: lo sfogo nello scorso capitolo. Non vorrei essere fraintesa, io apprezzo ogni singola visita, davvero, ma non sono una persona con una forte autostima, per cui la mancanza di apprezzamento/riconoscimento ha avuto la meglio, ed io mi sono sfogata ingiustamente. Ingiustamente perché, come autrice esordiente e non avendo alcunissima esperienza, il mio sfogo è stato esagerato. Avevo solo bisogno di conforto, sapere che ciò in cui mi impegno viene apprezzato, e siete riusciti a trasmettermi questa sensazione, perciò ecco il 24esimo capitolo. 
Che non è un granché e porta un grandissimo ritardo, e qui vengono le mie seconde scuse: mi scuso per il ritardo e la mancanza di significato di questo capitolo, ma è solo di passaggio, inoltre non avevo molte idee. Ultimamente alla scuola si sono aggiunti altri piccoli problemi, e il tempo e la voglia di scrivere sono evaporati. Avevo questo capitolo "in creazione" da parecchio, e sono riuscita a finirlo solo questa sera. 
Comunque, spero vi piaccia. 
Ho voluto dedicare un primo momento ai momenti di tranquillità tra la nuova coppia, Zack e Stephanie, e ricordare dell'imminenza degli esami, che sarà un passaggio parecchio importante per la storia. 
Poi c'è Emma, e il suo riflettere. Spero che, attraverso il suo punto di vista, sia emerso il cambiamento del rapporto tra lei e Martin, che muterà ancora. 
Infine, Martin. Mi sembrava giusto dedicare un passaggio a lui, per capire il suo pensiero. 
Non sono orgogliosissima di questo capitolo ma credo possa andare, prometto di impegnarmi nel prossimo. 
Spero continuerete a seguire la storia e mi scuso ancora per il malinteso precedente, sono davvero dispiaciuta. 
Alla prossima (il che non so quando sarà, che tristezza!) 

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Capitolo 25
*** Capitolo XXV ***



Sospirai, ammirando la mia immagine riflessa per l’ultima volta.
Quella nello specchio era la faccia di un disperato. L’espressione muta, gli occhi stanchi e le profonde occhiaie scavate erano la prova di una notte insonne. Non che avessi passato una notte brava a far baldoria – l’ancora recente vomitata mi bastava per l’eternità –, semplicemente non riuscivo a dormire più di qualche ora, e avrei voluto non si vedesse così tanto. Invece tutto nel mio aspetto lo lasciava intendere.
Schiacciai il ciuffo in un cappellino di lana rosso, e decisi che per quel giorno potevo anche rinunciare a sembrare sveglio, perché ero così stanco da trovarlo psicologicamente e fisicamente impossibile. Indossai la giacca e mi misi lo zaino in spalla, ed uscii veloce dalla mia stanza.
Il salotto, come la cucina, erano vuoti, quindi uscii di casa senza alcun intoppo, buttandomi in strada.
Era presto. Ero di anticipo di forse un’ora sul mio abituale orario mattutino, e non mi sorprendeva che il resto della mia famiglia stesse dormendo. Avrei potuto restare a letto un altro po’, ma sapevo che sarebbe stato inutile e che non sarei riuscito a riaddormentarmi, per cui avevo deciso di uscire prima, per attivare la mente.
Gli esami erano vicini. Solo un paio di settimane e l’anno scolastico sarebbe terminato, e con esso, quegli esami che tanto avevo temuto sarebbero giunti. E allora farsi prendere dal panico avrebbe avuto un senso logico, ed era esattamente ciò che stavo facendo.
Avevo sempre odiato sottopormi ad esami, e pensare che presto avrei dovuto affrontarli mi rendeva teso, e ansioso.
Cosa dovevo affrontare? Ne ero all’altezza? Come ne sarei uscito?
Continuavo a pormi queste domande da giorni, e la notte era il loro momento preferito per tormentarmi.
E cosa ci sarebbe stato dopo?
La parola “futuro” mi metteva i brividi. Cosa ci sarebbe stato nel mio futuro? Sarei stato in grado di costruirlo, o mi sarei lasciato trascinare dagli eventi?
Da piccolo volevo fare l’astronauta. Non sapevo bene da dove fosse venuta fuori quell’idea, ma ne ero affascinato. Mi piaceva l’idea dello spazio, forse, di un’area vastissima e bellissima, essere l’unico a poterne usufruire. Oppure l’idea di diventare qualcuno di importante: scoprire un nuovo pianeta, una nuova specie magari, essere ammirato da tutti.
Mio nonno mi ripeteva sempre che se mai fossi diventato un astronauta, avrei dovuto portargli una stella. Una di quelle grandi, brillanti, che illuminavano le nostre serate d’estate. Quando morì, divenne lui la mia stella. E a me l’idea dell’astronauta non piacque più poi così tanto.
Da quel momento, non avevo mai pensato seriamente al mio futuro. Ma adesso diventava impossibile non farlo. Cosa sarei diventato? Un avvocato, come voleva papà? Un medico forse, come voleva mamma? O un astronauta, secondo i desideri del nonno?
La mia mente non riusciva ad elaborare un unico ed efficiente pensiero, nonostante il tempo impiegato a formularlo. Ed io continuavo a navigare nell’incertezza e a tormentarmi inutilmente, provando quasi sollievo nel crogiolarmi nel dubbio e nell’ansia. Ormai, sembravo fare soltanto quello.
Tirai fuori dalla tasca il cellulare, triste nel constatare che l’unico messaggio presente era quello del mio operatore telefonico che, a proposito, mi ricordava di ricaricare prima della fine della settimana.
Mi mancava Stephanie. Ero stato io ad allontanarla, e sicuramente lei ne aveva preso atto, ma adesso cominciavo a sentire la sua mancanza.
Ancora l’idea di lei e Zack insieme non mi piaceva.  Negli ultimi giorni, avevo elaborato alcune ipotesi che potessero giustificare quella stramba situazione:
Ipotesi numero uno – Avevo frainteso tutto. Probabilmente Stephanie non era nemmeno lì nella stanza con mio fratello il giorno del matrimonio, me l’ero solo immaginato.
Ipotesi numero due – Che fosse uno scherzo? O magari una sorte di collaborazione pacifica, a fine di portare al termine il progetto del ballo, a cui io stesso avevo rinunciato, nulla di più nulla di meno.
Ipotesi numero tre – Stavano insieme. Erano davvero una coppia, una di quelle che si scambiano baci e stanno sempre appiccicati. Ahimé, sembrava l’opzione più plausibile.
Ma come poteva essere successo? Possibile fossi stato così distratto? E possibile che l’odio tra loro fosse scomparso così, dal nulla?
Ad essere sincero, non ci capivo molto di questa storia. Ciò di cui ero a conoscenza erano solo sospetti, e pertanto non avevo alcuna certezza che mi garantisse di formulare tesi valide. Sapevo che la soluzione migliore sarebbe stata parlargli, ad entrambi, ma avevo paura. Paura che ciò che sospettavo potesse essere vero.
Perché avrei accettato qualsiasi cosa, tranne che loro due insieme. Perché Stephanie era sempre stato un mio affare, non di Zack, e sì, ero geloso. Ma soprattutto conoscevo mio fratello e le sue brutte abitudini, e avevo paura che i suoi errori si ripercuotessero sulla mia migliore amica, che era già tanto sensibile.
Non un solo messaggio. Stephanie non aveva nemmeno accennato a farsi sentire, e non sapevo se esserne grato oppure infastidito. Forse avevo bisogno di riflettere, farmi cullare dal mio e solo il mio pensiero per un po’ di tempo, senza alcuna interferenza alcuna. Stephanie sapeva bene che, a meno che non decidessi io di aprirmi, allora non era conveniente insistere, ed ero quasi certo fosse questa la causa del suo silenzio, ma non potevo fare a meno di sentirmi escluso, messo da parte. Era passata una settimana, possibile avesse avuto così tanta pazienza? Oppure non le interessava.
Scossi la testa.
Avevo bisogno di parlarle, e al più presto. Non solo per colmare il vuoto, ma per comprendere finalmente il vero succo della questione, analizzarlo.
Perché non adesso? suggerì la mia coscienza.
Già, avrei potuto anche in quel momento. Infondo avevo atteso anche troppo, no?
Scartai l’idea di mandarle un messaggio e decisi di recarmi direttamente da lei, magari compiere insieme il tragitto verso scuola.
Casa Gilbert non era così distante. Mi bastò attraversare una o due lunghe strade ed eccomi qui, a fissare il portoncino bianco. Una strana immagine di mio fratello e la mia migliore amica intenti a scambiarsi il bacio della buonanotte addossati al muretto di granito mi invase la mente, ma la scacciai bruscamente.
Tornai a fissare il mogano intagliato, trasmettendomi coraggio mentalmente e facendo un piccolo resoconto di ciò che avrei dovuto dirle una volta aperta quella porta. “Ehy ciao Steph, scusa il ritardo, ma tu e Zack state insieme?” ? No, troppo diretto anche se essenziale. Poi non avrei mai avuto il coraggio di essere così sfacciato, come non avevo idea di cosa le avrei detto. Il mio cervello non tirava fuori niente di buono, se non un unico e stupido pensiero: ultimamente le visite a sorpresa erano diventate un inconsapevole hobby.
Mi diedi mentalmente dell’idiota almeno cinque volte quando, spinto da chissà quale impulso, pigiai sul campanello. E pensai forse altre cinque di darmela a gambe finché ero in tempo, ma il sorriso comprensivo e lo sguardo confuso della signora Gilbert mi accolsero alla porta, di sorpresa. Mi ci volle un po’ per comprendere che era solo sua madre e non Stephanie, erano così simili.
«Buongiorno» mi sorrise, sincera. «Come mai qui?»
D’istinto mi sfilai il berretto dalla testa e presi a grattarmi la nuca, guadagnando tempo per trovare cosa dire. «Buongiorno Cheryl.» diedi infine la risposta più ovvia, «Cercavo Stephanie...» ed anche questo era abbastanza ovvio.
La donna mi sorrise, ma qualcosa nella sua espressione non mi convinse, difatti «Stephanie non è in casa» disse.
Aggrottai la fronte. «E dov’è?» chiesi, con un tono più acido e severo di quello che volessi usare.
«Ha passato la notte a casa di un’amica.»
 
«Obbligo o verità?»
Sospirai e alzai gli occhi al cielo per l’ennesima volta, premendo poi la testa contro il cuscino. «Zack stiamo giocando a questo gioco idiota da mezz’ora!» mi lamentai.
«Non è un gioco idiota!» contestò lui.
«E’ da quando abbiamo iniziato che cerchi di farmi dire ‘obbligo’ per costringermi a fare non so cosa, e non hai ancora ottenuto nulla, non ti sembra sia giunta l’ora di piantarla?»
Sbuffò, ed immaginai sul suo viso la stessa espressione di un bambino a cui viene negato un capriccio. Istintivamente sorrisi, addolcita.
Qualche secondo di silenzio, poi il rumore di un lento fruscio. Rabbrividii ed un piccolo spiffero andò a colpire la mia schiena, e mi resi presto conto che non avevo più le coperte a coprirmi. Ero completamente esposta, se non per la piccola copertura che funzionavano i miei capelli. Ed anche quella svanì, quando Zack mi passò i capelli ad un lato, liberandomi di ogni impiccio.
Lo sentii sovrastarmi, il suo respiro caldo a battere contro la mia pelle infreddolita. E quella, da perfetta codarda, a incresparsi e tremare sotto il suo abile tocco, così piacevole eppure così odiato da ogni fibra del mio corpo.
Non avevo mai sperimentato una sensazione simile, ma sentivo che, quand’ero con lui, il mio corpo diventava di sua assoluta proprietà. Lui ne guidava i movimenti, ogni mia azione, sia consapevole che inconsapevole, era dettata dal suo esclusivo volere. Io stessa, diventavo sua. Avrebbe potuto farmi ciò che più voleva e non l’avrei fermato, fin troppo ammaliata dalla piacevole sensazione delle sue dita che mi toccavano, mi accarezzavano, e mi rassicuravano. Rilassata dai suoi polpastrelli che segnavano la mia spina dorsale, e le sue labbra che baciavano con esasperante lentezza e inaudita dolcezza ogni centimetro della mia figura, gelosamente. Per quanto odiasse ammetterlo, sapevo che era estremamente geloso, e avrebbe volentieri preso a pugni chiunque avrebbe osato anche solo parlarmi. Come fece con Crowner.
Partì dal basso, alla base della mia schiena. Posò le labbra al centro, e la sua lingua inumidì parzialmente quel lembo di pelle, dove vi soffiò, garantendomi una scarica di brividi che mi percosse sino alle unghie, ben nascoste sotto al cuscino.
Sorrise, soddisfatto e orgoglioso di riuscire a farmi agitare. E come ovvio, non finì lì.
Continuò a risalire per la spina dorsale lentamente, segnando il suo cammino con baci languidi e morsi, e più saliva più temevo il momento in cui si sarebbe accanito sul mio collo, la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso e gli avrebbe concesso di avermi di nuovo. Mi aveva già avuta quella notte, ben due volte, e quella mattina. Conosceva bene i miei punti deboli e nulla negava che, se avesse intrapreso quella dolce tortura al mio collo, allora ci sarebbe stata una quarta volta.
Delineò il profilo delle mie costole e baciò dolcemente le mie spalle, fino ad arrivare alla cute. Ridacchiai, quando il movimento lento delle sue labbra cominciò a solleticarmi, e così lui passò repentino al mio collo, dove schioccò un unico bacio. Si avvicinò all’orecchio cauto e, col suo corpo a sovrastarmi e le mani a tenermi ben salda per i fianchi, «Obbligo o verità?» sussurrò, con lo stesso tono di voce di un bambino.
Risi contro il cuscino, esasperata ma divertita dai suoi capricci e i suoi tentativi d’averla sempre vinta, e sospirai, arrendendomi. «Verità.» gli concessi di nuovo, mentre lui piombava al mio fianco.
Roteò gli occhi annoiato, ma ancora una volta tirò fuori la sua speciale domanda. Mi aveva già chiesto parecchie cose imbarazzanti, ma niente poteva battere quello che mi aveva domandato stavolta.
«Non posso raccontarti la mia prima volta!» sbottai.
«Hai scelto verità, certo che puoi. Anzi devi.» gongolò lui.
Sbuffai, infastidita. Ero del parere che ciò che mi aveva chiesto fosse di assoluta privatezza e, pertanto, lui non avrebbe dovuto saperlo. Ma conoscevo Zack e sapevo che, se mi fossi rifiutata di rispondere, allora avrebbe trovato qualcos’altro, magari peggiore. Quindi mi feci coraggio, sospirai, e decisi di accontentarlo.
«Cosa vuoi sapere di preciso?»
Lui sorrise, vittorioso. «Quando, dove, e con chi.» rispose, dopo averci pensato per un po’.
Assunsi un’aria pensierosa, e «E’ stato l’anno scorso, a casa di lui.» cominciai, mentre facevo del mio meglio per nascondere l’imbarazzo.
Zack annuì. «Chi è lui?» domandò, serafico.
«Sei geloso?» quasi risi, prendendomi gioco della sua espressione accigliata.
«Faceva parte della domanda, ora rispondi.» mi incitò.
«Jamie Donovan.» dissi d’un fiato.
Aggrottò la fronte. «E chi è?»
«Non lo conosci, lascia perdere...»
«E’ stato uno dei tuoi ragazzi?» insistette.
«Forse.» restai vaga e accennai un sorriso, godendo del suo tono perentorio e severo. Mi avvicinai a lui goffamente e lo strinsi per la vita, andando a posare le mie labbra sulle sue brevemente. «Te l’ho mai detto che amo quando fai il geloso?» sussurrai contro le sue labbra. Lui sorrise, e ricambiò il mio bacio.
Trovavo immensamente dolce che fosse così geloso del mio passato, come se gli dispiacesse non averne fatto parte. E a me dispiaceva non aver fatto parte del suo.
Lo strinsi forte, e lui mi lasciò un bacio sulla fronte. «Tocca a te.» disse solo, mentre mi districava i capelli con le dita.
Alzai il viso a guardarlo. «Obbligo o verità?»
«Obbligo.» sorrise lui, malizioso.
E sorrisi anch’io. Ci pensai per un po’, infine «Fammi un complimento.» gli chiesi.
Lui mi guardò stranito. «Non è un obbligo.» protestò.
«Fammi un complimento, avanti!» ritentai io «E che sia sincero.»
Ci pensò su. Mi sembrò passata un’eternità quando «Sei forte.» pronunciò.
Questa volta fui io ad incurvare le sopracciglia. «Forte?» ripetei, «Forte in che senso?»
Mi sorrise, e mi afferrò per i fianchi, trascinandomi sopra di lui. «Forte nel senso di forte.» si strinse nelle spalle, come se la sua fosse una risposta esauriente. «Sei forte perché nonostante tutto non ti arrendi. Forte perché nessuno riesce mai a capire davvero cosa pensi, e infine...» fece una pausa, nella quale mi passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio «Sei forte perché ti sei fidata a tal punto di me da permettermi di conoscerti. Conoscerti davvero.»
Non lo avevo mai vista sotto quell’ottica. Ero forte? Avevo sempre pensato di no, che non ci fosse persona più debole di me, ma Zack non la pensava così. Per lui ero forte, per lui rappresentavo una specie di tartaruga protetta dal suo guscio, dal quale mi permettevo di uscire raramente. E se mi mettevo ad analizzare la sua tesi, beh forse aveva ragione. Ma non ero certo forte per aver lasciato che fosse lui a togliere quel guscio. Semplicemente, non avrei saputo riuscirci da sola.
Avrei voluto spiegarglielo, ma non mi andava di contraddirlo, soprattutto perché in quel momento, il suo sorriso era la cosa più bella che i miei occhi potessero ammirare. Quindi feci un debole sorriso e mi chinai a baciarlo di nuovo. «Grazie.» sibilai, sorpresa.
Lui mantenne il sorriso, e continuò col gioco. Anche questa volta, scelsi verità.
Lui sembrava in difficoltà. Come se volesse dire qualcosa ma al contempo non volesse farlo, in contraddizione, come impaurito. Anzi agitato, o teso. Continuava a guardarmi fisso e muovere le labbra in continuazione, ma nessuna parola usciva dalla sua bocca. Gli accarezzai una guancia dolcemente, e la sua mano corse dal mio fianco a posarsi sopra alla mia, le sue dita ad intrecciarsi con le mie. Riuscì a parlare solo qualche secondo dopo.
«Hai mai pensato che...» iniziò piano, ma si fermò. Strinse la mia mano e se la portò al viso, lasciando un bacio sul dorso. «Noi, noi due...» continuò. Deglutì. Ancora un’altra pausa.
«Cosa?» lo sollecitai «Noi due cosa?».
Sorrise, come sempre quando tentava di scacciare l’ansia. Si passò la lingua sul labbro, e puntò i suoi occhi sui miei. «Hai mai pensato che siamo sbagliati, insieme?» trovò infine il coraggio di domandare.
E avrei voluto non lo facesse. Perché adesso, coi suoi occhi intenti a fissarmi e la sua attenzione unicamente rivolta a me, ad ogni parola che sarebbe uscita dalla mia bocca, sentivo che stavo per dargli una delusione.
«Sì.» ammisi, quasi inudibile, ed abbassai lo sguardo, sentendomi in colpa.
Ma lui non sembrava particolarmente ferito, come se infondo non si aspettasse risposta differente, e mi costrinse a guardarlo di nuovo. «Lo hai pensato ultimamente, lo pensi ancora?»
Stavolta era preoccupato. Preoccupato che potessi rispondergli di sì, che potessi distruggere ogni sua sicurezza, che potessi ferirlo. Ma quella era solo una preoccupazione vana, perché «No.» risposi, scuotendo la testa e sorridendo, soddisfatta.
Lui accennò un sorriso, felice. «A cosa pensi adesso?»
«A quanto mi piaccia stare con te, qui.»
Le parole uscirono dalla mia bocca senza che io potessi dare il mio consenso. Perché era vero, adoravo la sua compagnia e sentivo di adorare ogni cosa di lui, dai suoi romantici rapimenti ai suoi giochetti infantili. Forse perché quella casa sul lago, ormai, era diventato il nostro rifugio personale, o forse perché qualunque posto mi sarebbe andato bene, accanto a lui.
Zack non rispose, ma mi attirò a sé in un abbraccio stretto, necessario, ed estremamente dolce. Mi tenne stretta a sé ed io allacciai le braccia dietro la sua schiena, mentre lui mi cullava come una bambina, “la sua piccola”.
«Anch’io adoro stare con te.»
Sorrisi contro la pelle del suo petto e vi lasciai un bacio, tornando poi a bearmi di quegli istanti di beatitudine. «Obbligo o verità?» gli chiesi.
Anche questa volta, «Obbligo.».
Pensai a lungo a cosa potessi chiedergli. Non volevo essere banale, o cadere troppo nel personale con lui, magari costringendolo a raccontarmi qualcosa con cui mi sarei tormentata, e che avrebbe finito col farmi star male, né qualcosa di stupido. Preferivo invece chiedergli qualcos’altro, di più impegnativo, e fondamentale.
E «Non lasciarmi mai.» pronunciai, senza accennare a guardarlo in viso; la voce tenue e il tono fin troppo basso, le labbra tremanti a causa dell’ansia.
Potevo sembrare smielata, ma era l’unica cosa che volevo facesse. Volevo che non mi lasciasse mai, che fosse sempre l’ a stringermi e starmi accanto, a migliorarmi la vita. Perché, nonostante persino a me suonasse strano anche solo pensarlo, Zack Payne mi aveva migliorato la vita. L’aveva colorata, illuminata, e l’aveva riempita di qualcosa che mi mancava: l’amore per e di qualcuno.
Stentavo a crederlo, ma credevo di amarlo. Amavo lui e ogni singola cosa che mi aveva portato ad essergli così legata. Ed ero certa che, se mi avesse abbandonata, quello che avevo catalogato come periodo migliore sarebbe diventato peggiore, e di molto. Era così incredibile, ma non volevo né potevo più far a meno di lui.
«Non voglio lasciarti.»
Strizzai gli occhi e li spalancai, come avessi appena visto un fantasma. Cautamente alzai il viso verso di lui, con la stessa espressione inebetita, e mi accorsi che non c’era traccia di menzogna nei suoi occhi. Sembrava estremamente sincero, e sorrideva, addolcito, mentre mi passava i pollici sulle guance, teneramente.
«Non vuoi?» sussurrai.
«No.» scosse la testa. «Non lascio mai quello che mi rende felice. E tu... beh tu mi rendi felice ogni giorno.»
Mi allargai in un sorriso, certa che il mio cuore stesse facendo in quel momento almeno due o tre capriole al minuto. Era quello l’effetto che mi faceva, avere il suo viso a pochissima distanza dal mio e i suoi occhi che mi osservavano discreti. Le sue dita che mi accarezzavano dolcemente, come fossi la cosa più fragile del mondo, e il suo cuore che batteva contro al mio, in un silenzioso e melodico concerto.
«Perciò tu non mi lascerai?»
Scosse il capo. «No, se non sarai tu a volerlo.»
C’era qualcosa di estremamente nascosto e intimo in quella conversazione. Era quasi come se, attraverso un gioco, ci stessimo scambiando delle promesse. Doveva essere una sensazione comune, perché riuscivo a cogliere nei suoi occhi e nei suoi gesti la stessa tensione presente nei miei, quasi l’uno temesse la risposta dell’altro.
Mi sollevai di poco e gli lasciai un piccolo bacio sulle labbra, rimanendo vicinissima al suo viso, tanto da avere le punte dei nostri nasi a contatto. Zack strofinò dolcemente il suo contro il mio, ed io sorrisi.
« Promesso? »
Andò a cercare la mia mano e la strinse nella sua, intrecciandone le dita. Se la portò alle labbra, e ne baciò il dorso. «Promesso, amore mio.»
 
«E quando avevi intenzione di dirmelo?!»
La vocina stridula e indignata di Veronica si propagò per tutta la stanza, e gli occhi del professore e almeno altri venti persone si posarono su di noi, agli ultimi banchi. Io mi guardai intorno e accennai un sorriso. «Mi scusi, non le avevo detto che avevamo iniziato il secondo atto...» cercai di giustificarmi rivolgendomi al professor Bayle – uno dei più noiosi e esigenti di quell’istituto –, con sorprendente voce colpevole. Così sorprendente che mi sorprese che non ci mandò fuori entrambe seduta stante, limitandosi ad un cenno ed un’occhiata non così amichevole.
Erano le 10.25 del mattino, e mancava ancora parecchio alla fine delle lezioni. Quella era solo la terza ora, ma io credevo fermamente che, se non avessi tappato la bocca al più presto alla mia migliore amica, avrei seguito Romeo e Giulietta nella loro tragica morte. Magari avrei potuto incolpare Veronica.
Quando il professore tornò a leggere con voce fluente la tragedia shakespeariana, mi girai verso la mia compagna di banco con lo sguardo omicida, il desiderio ardente di tagliarle la lingua o tornare indietro nel tempo, in modo da non aver mai intrapreso quel discorso.
L’argomento trattato, come al solito quando Veronica dava così di matto, era Martin Payne, e dovevo ammettere che non mi era affatto mancato sopportare le sue reazioni sovreccitate e immotivate.
Erano passati esattamente otto giorni da quando lui si era presentato, trasandato e agitato come raro, a casa mia quella domenica mattina e, strano a credersi, Ronnie non ne aveva saputo nulla. Non aveva indagato o non me lo aveva fatto intendere, meditando forse che non fosse adeguato impicciarsi nei fatti altrui visto l’ultimo disastro, ma dalla reazione che aveva avuto potevo dedurre che davvero non sapeva nulla.
Il mio errore era stato anche solo accennare il suo nome nella frase. Perché lei era immediatamente partita all’attacco, tempestandomi di domande, ed io, sentendomi in colpa per non averle raccontato degli ultimi avvenimenti, mi ero sentita  in dovere di farlo. Peccato che Veronica non sapesse proprio il significato della parola discrezione.
«Possibile tu debba sempre urlare?!» la rimproverai, a denti stretti.
Lei esibì una piccola espressione di scuse, ma tornò presto all’attacco. «Perché non me l’hai detto prima?» sbottò, offesa.
Feci spallucce. Perché non gliel’avevo detto prima? Forse perché ero così affezionata a quel piccolo segreto che non volevo condividerlo con nessuno. Lo vedevo come qualcosa di mio, e pertanto l’avevo protetto con le unghie e con i denti, fino a quando mi era stato impossibile nascondere a Ronnie l’ovvio. I suoi sospetti erano infatti nati quando, il giorno prima, mi aveva vista salutare e parlare liberamente con lui, come se tra noi ogni tipo di astio fosse scomparso.
«Non lo so...» sussurrai.
«Non ti fidi più di me?»
Puntai i miei occhi sui suoi, dolci e dispiaciuti. Sorrisi, andando a cercare la sua mano per stringerla. «Ronnie io mi fido di te.»
«No, non è vero» scosse la testa «Tu non ti fidi più, ecco perché non me l’hai detto subito».
Sospirai. Ecco, adesso mi sentivo doppiamente in colpa. Come potevo spiegare a Ronnie che non era stata affatto una questione di mancanza di fiducia? Nemmeno io avevo idea del perché non le avessi parlato subito, come potevo spiegarlo a lei? Ma vederla così riusciva sempre a farmi tanta tenerezza, non importava cosa avesse fatto.
«Ronnie» la chiamai, dopo aver controllato che Bayle stesse ancora leggendo «Io mi fido di te. Solo che... non c’è stata occasione, tutto qui.»
Sapevo che la mia non poteva essere considerata una vera giustificazione, ma speravo che lei potesse capire. Quando annuì, capii che quell’aspetto era stato archiviato, nonostante non ne sembrasse poi così convinta.
Sorrise. «E allora? Adesso siete di nuovo amici come prima?»
«Diciamo di sì, e diciamo di no...»
«Perché no?» scattò lei.
«Beh senza dubbio adesso ci parliamo, ma non siamo mai stati amici... intimi, per così dire. E non so, non voglio programmare niente, anche se ci tengo alla sua amicizia.»
Mi accorsi solo dopo  di ciò che avevo detto. Qualche tempo prima non avrei mai pensato a Martin se non come il fratello di Zack, e adesso ammettevo addirittura a me stessa e a Ronnie di tenere alla sua amicizia. Cos’era cambiato?
La mia migliore amica sorrideva, sorniona. «Capisco.» annuì. «Quello che invece non capisco, è perché sia scappato dal matrimonio dei suoi genitori.» disse con tono vago, lei stessa ci stava riflettendo.
«Questo non lo so nemmeno io.» mi strinsi nelle spalle. «Cioè, in parte...»
«In parte?» spalancò gli occhi «Che significa “in parte”?».
Sospirai ancora. Maledetta me e la mia boccaccia. Tanto valeva raccontarle tutto, adesso.
«Mi ha parlato di un segreto, qualcosa che gli è stato tenuto nascosto, da due persone a cui tiene... ma non so cosa sia.»
«Nient’altro?»
«Lo vedo molto distaccato dalla sua migliore amica...»
«E poi?»
«E poi non lo so, Ronnie!» sbottai.
«Non gliel’hai chiesto?»
«No. E non voglio farlo. Se vuole parlarmene bene, altrimenti non mi interessa.»
Annuì, continuando a riflettere sul probabile caso.
A me non interessava più di tanto. Quello su cui mi concentravo era farlo stare bene, e farmi rivalutare da lui. Non mi importava cos’era successo tra lui e la sua migliore amica, il mio unico obbiettivo era non ricordarglielo, far in modo che, almeno quand’era con me, non pensasse a nulla di negativo. Me l’ero ripromessa, e avrei mantenuto alto quello scopo.
«E se avesse litigato con lei? Magari perché gli ha nascosto qualcosa?»
Sbuffai. «Sì Ron, probabile.»
«Non riesco a capire chi sia la seconda persona però.»
«Ma che importa? Non puoi metterti ad analizzare le relazioni umane di tutte le persone!»
Mi riservò un’occhiataccia. «Sto solo cercando di capire qualcosa in più, visto che tu non lo fai.»
«Non lo faccio perché non mi interessa farlo!»
Dovetti dirlo un po’ troppo forte, perché di nuovo mi sentivo osservata, terribilmente osservata. E quando mi guardai intorno, di nuovo ero al centro dell’attenzione. Ma questa volta il professor Bayle non si risparmiò, e «Signorina Desmore, vada fuori.» mi intimò, severo.
Sospirai, cercando di calmarmi. Ebbi solo il tempo di voltarmi un attimo verso Veronica, che mi guardava dispiaciuta, poi mi alzai e attraversai il corridoio tra i banchi fino alla porta, come un condannato a morte. Quando fui fuori mi appoggiai contro il legno, stizzita.
Perlomeno adesso non dovevo più rispondere alle domande inopportune di Veronica.
Tirai un sospiro di sollievo.
Mancava ancora una buona mezz’ora alla fine dell’ora, quindi cominciai a fare un giro per i corridoi. Questi erano vuoti, se non per la presenza di qualche bidello e di alcuni professori che facevano avanti e indietro, qualche studente sbattuto fuori come me.
Tenni lo sguardo basso e strisciai la suola delle scarpe contro il pavimento, annoiata. Una forte botta alla testa mi fermò, e quando alzai lo sguardo fu come perdermi in un mare azzurro.
«Attenta a dove cammini.» mi sorrise Martin.
Ricambiai il sorriso, nonostante mi fosse difficile riuscire a connettere in modo sensato coi suoi occhi lì a fissarmi. Solo due domande nella mia testa, e decisi che “perché non mi ero mai accorta di quanto fosse bello?” fosse decisamente da scartare. Passai alla seconda.
«Perché sei qui fuori durante l’orario di lezione?»
Si grattò la nuca, e prese a boccheggiare. «Non sono andato a lezione, veramente.»
«No?» mormorai sorpresa.
Scosse la testa. «Non ero proprio in vena. Tu? Perché sei qui?».
«Sono stata mandata fuori...» ammisi, a testa bassa.
«E perché?» domandò, seriamente interessato.
«Perché Ronnie non tiene la bocca chiusa.»
Mi parve che rise. E quando alzai lo sguardo lui rideva, bello come sempre.
«Mi fa piacere che ti diverto.» commentai, ironica.
Continuò a ridere, e tornò a guardarmi. «Non sei tu a divertirmi, è il fatto che sembra che per ogni cosa che faccia la tua amica ci vai di mezzo tu.»
Non ci avevo mai pensato, ma era vero. Ero sempre io quella ad essere sbattuta fuori, ad avere note disciplinari, e a ricevere la chiamata a casa, nonostante il più delle volte non facessi nulla. E spalancai la bocca indignata, quando me ne fece accorgere. «E’ vero!».
Rise, scuotendo la testa. Sospirò, e divenne un po’ più serio. «Ti va di fare un giro?» mi propose.
Stetti ad osservarlo qualche secondo, poi finalmente mi percossi e risposi. «Certo.»
Mi posi al suo fianco e cominciammo a camminare vicini, per i corridoi. Lui era molto più alto di me. Non che ci volesse molto a superarmi in altezza, ma mi sentivo una bambina vicino a lui.
«Come stai?» gli chiesi.
Lui guardò fisso verso il basso, poi si voltò per stringersi nelle spalle. «Ho ancora bisogno di chiarire qualcosa, ma meglio.»
Sorrisi. Avrei tanto voluto aiutarlo, ma lui non me lo permetteva, se i suoi unici indizi erano ambigui e non specifici. Come potevo dargli un consiglio, o sistemare la situazione, se non avevo alcuna certezza di ciò che gli succedeva? Avrei voluto saperlo, ma non volevo chiederglielo. Mi sentivo quasi come se, domandando il perché di quello stato d’animo, penetrassi nella sua vita privata, e non fosse giusto. Perciò evitavo, concentrandomi sull’obbiettivo che mi ero posta anteriormente: non fargli pensare a nulla.
Ci pensai a lungo, a un modo per fargli smettere di torturarsi così, e quando lo trovai, mi voltai sorridente verso di lui. «Hai da fare per le prossime ore?»

 
 

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Capitolo 26
*** Capitolo XXVI ***


   
«Guarda quella nuvola! Non sembra un’auto?»
Alzai lo sguardo impercettibilmente, e il sole mi colpì in pieno viso, accecandomi. Con l’aiuto di una mano ad impedire la mia più assoluta cecità, cercai di individuare il punto che Emma stava indicando. «Quale?» chiesi infine, rassegnato e con gli occhi ridotti a due piccolissime fessure.
«Quella lì, verso destra!» continuò ad indicare lei.
«Non vedo niente!» sbuffai.
Sentii la sua risata rimbombarmi nelle orecchie. Dolce, delicata, e infantile risuonava nella mia mente come un delizioso eco di cui non mi sarei mai stancato. Né mi sarei mai stancato del suo sorriso, o le sue speciali smorfie, o anche solo il suo fissarmi intensamente negli occhi senza dire nulla.
Per quanto potesse sembrare scontata, sentivo che quella situazione sarebbe potuta bastarmi, e sarebbe stata sufficiente per conservare sul mio viso quel sorriso da ebete che ostentavo sempre quand’ero in sua compagnia. Solo io, lei, ed un mucchio di stupidaggini che avrei ricordato come il più interessante e diplomatico dei discorsi. Meno produttivo di ciò che avrei imparato a scuola, ma decisamente più piacevole da ascoltare.
Quella mattina avevo frequentato solo due ore di lezione, per niente in vena di resistere oltre in quelle quattro mura, prima che Emma arrivasse a rapirmi e portarmi via. Potevo sembrare pessimista, o impulsivo, o una di quelle persone che saltano fin troppo presto alle conclusioni, ma nessuno avrebbe mai potuto distogliermi dalla convinzione che Cheryl mi aveva mentito. Che lo avesse fatto consapevolmente o no, non lo sapevo. Comunque, non avevo avuto alcuna traccia di Stephanie per tutta la giornata, e tutto ciò faceva presupporre uno dei miei peggiori presentimenti, ovvero che fosse con Zack. Avevo deciso che non le avrei parlato, finché non fosse stata lontana da lui.
Fortuna che c’era Emma. Emma che si fa sbattere fuori dalla classe, che decide di scappare e di portarmi con sé, poi di rifugiarci in un vecchio giardino pubblico e stenderci sull’erba, usare gli zaini come cuscini. Emma con le sue idee strambe, la sua spontaneità e naturalezza, i suoi occhi e il suo sorriso, i capelli rossi che mi divertivo ad arrotolare tra le dita ed intrecciare quasi fosse una bambola.
«Fa niente, è andata via.» fece spallucce.
«Mi sono perso la nuvola-auto?» piagnucolai per finta, facendola ridere.
Annuì. «Così impari a perdere tempo a fare il parrucchiere.» ridacchiò.
«Mi piacciono i tuoi capelli.» fu la mia unica giustificazione.
E non solo i suoi capelli. Non c’era davvero qualcosa che non mi piacesse di lei, dalla testa ai piedi ai miei occhi Emma Desmore rappresentava la perfezione, una specie di angelo intoccabile che io avevo l’onore di accarezzare. E preferivo godermi ogni singolo attimo di quei momenti passati con lei, anziché osservare il cielo. Quello avrei potuto farlo a mio piacimento, ma quando mi sarebbe ricapitato di stare disteso sull’erba con la sua testa a riposare sul mio petto? Non riuscivo nemmeno a capacitarmi di come avessi fatto a resistere per così tanto tempo senza il suono della sua voce.
«Almeno sappiamo quale sarà la tua vocazione se dovessi fare un flop del mondo dei cervelloni.»
«In tal caso la colpa sarà tutta tua, che mi hai sottratto una giornata di istruzione.»
Fece una smorfia, divertita. «Non muori mica se per un giorno ti diverti, anziché stare lì a pregare di girare le lancette dell’orologio. E poi l’hai detto anche tu che oggi non eri in vena di scuola, no?»
«Io non prego le lancette dell’orologio di girare.» controbattei, «Per quanto possa sembrarti strano o alieno, alcune lezioni le trovo interessanti.».
Alzò la testa di poco, ed esibì un’espressione sconcertata, il sopracciglio alzato e gli occhi a scrutarmi, come a cercare una qualche traccia di derisione nella mia frase. «Hai ragione, lo trovo alieno.» concordò infine. Si alzò facendomi ombra, e mi tese la mano. «Non possiamo restare tutto il giorno qui a poltrire, avanti.» mi incitò a tirarmi su.
«E cosa vorresti fare adesso?» le domandai, una volta tiratomi in piedi anch’io.
Si strinse nelle spalle. Si guardò intorno per qualche secondo, e quando la vidi sorridere verso un punto alla sua sinistra, un piccolo campanello prese a trillare nella mia testa, la scritta “pericolo” lampeggiava minacciosamente.
Quando si girò a guardarmi, aveva lo stesso identico sorriso malandrino. «Ti sei mai arrampicato su un albero?».
Aggrottai la fronte, confuso. «Sì, certo che l’ho fatto.» risposi, ricordando tutte le volte che alla casa al lago Zack e io ci divertivamo a fingerci scalatori, per poi tornare a casa ricoperti di terra e ferite.
«Ti sfido allora!» una piccola scintilla cominciò a luccicare negli occhi di Emma. «Vediamo chi arriva più in alto su quell’albero.» indicò una quercia abbastanza alta alla sua sinistra, eccitata.
Spalancai gli occhi, intimidito da quell’altezza sovrastante, ma non ebbi il tempo di ribattere o proporre qualcos’altro, che Emma era già partita verso la meta, e già si adoperava per scalare quell’albero quasi fosse una scimmia.
«Aspettami!» corsi da lei, più preoccupato dal vederla penzolante che dal vantaggio che si era presa slealmente.
«Sbrigati Payne, non fare la femminuccia!» mi derise lei, che già dondolava sul primo ramo raggiungibile.
Assottigliai lo sguardo, e «Te la faccio vedere io la femminuccia!» ringhiai, cominciando ad aggrapparmi al tronco.
La sentii ridere, ma non alzai lo sguardo a vedere dove fosse arrivata. Continuavo a salire, con l’intento di raggiungerla o addirittura farle rimangiare le parole, cercando di riportare alla mente i vecchi momenti passati con Zack. Lui non riusciva mai a superarmi.
Riuscii a superarla. Emma si fermò forse al terzo ramo, mentre io proseguii fino al quinto, prima che mi chiamasse. «D’accordo, hai vinto, ma scendi!» concesse, ed io la raggiunsi sorridente e trionfante, e rinfacciarle la sua diffidenza fu la prima cosa che feci quando le fui di nuovo accanto.
«Non mi aspettavo che fossi una scimmia.» ridacchiò, mentre si sistemava con le gambe penzoloni, la schiena al sicuro contro un tronco stabile. La imitai.
«Visto che non sono solo un secchione?» le rivolsi una linguaccia, «E poi non sono un alieno solo perché mi piace la scuola.»
Rise, e si portò le ginocchia al petto, in modo da occupare meno spazio possibile. «Le statistiche dimostrano che la maggior parte degli studenti odiano la scuola, quindi quello strano tra i due sei tu, non credi?» ribatté.
«Chi ti dice che io non la odi?»
«Ma se è la prima volta che salti le lezioni!» sbottò «Possibile a te non capiti mai di non volerti proprio addentrare in quella prigione?».
«Certo che mi capita. Semplicemente non mi lascio sopraffare dall’istinto di andarmene.»
Rimase in silenzio, forse per la prima volta senza niente da dire. Ma non durò per molto perché «Gran bel coraggio.» commentò, con un tono fintamente meravigliato che mi fece sorridere.
«Si tratta di trovare sempre il lato positivo delle cose.» affermai, convinto.
«E qual è il tuo lato positivo?» puntò lo sguardo sul mio.
Ed io avrei voluto sprofondare. O baciarla. O dirle o urlare che lei era il motivo principale della mia positività. Confessarle magari che, anche se alcuni giorni non mi andava nemmeno di respirare, lei era l’unica ragione che riusciva a strapparmi un sorriso, che mi trasmetteva la voglia e la forza di passare anche quella giornata. Perché il solo pensiero che di lì a poco l’avrei vista, con l’aria annoiata da un’altra mattinata tra i banchi di scuola e il sorriso liberatorio a cui si lasciava andare nei momenti di pausa, bastava per convincermi che sì, c’era un lato positivo in tutto quello. Ed era lei, l’unico mio lato positivo, l’unico per cui valesse la pena lottare.
«Ogni cosa ha un lato positivo.» le sorrisi, a disagio «Pensaci bene, forse lo trovi anche tu.».
Si voltò a guardare davanti a sé, pensierosa, ed io rimasi ad osservarla. Avrei voluto non notarlo, ma un piccolo sorriso ingenuo si dipinse sul suo viso, ed automaticamente abbassò il capo e si morse leggermente il labbro, come le avevo visto fare qualche volta. Certo ce l’aveva, pensai, e non era altro che una copia di quella che avrei desiderato fosse la sua risposta.
«Hai ragione.» annuì, sorridente.
Accennai un piccolo e falsissimo sorriso, e tornai ad osservare giù. Cosa pensavi, che fossi tu? Ingenuo, ingenuo Martin.
«Dovremmo scendere.» la sua voce mi riscosse.
Alzai il capo a guardarla, ed annuii concorde. «Chi va per primo?»
Sorrise. «Ci vediamo di sotto.», e si calò a terra.
 

«A me, Payne!»
Alzai lo sguardo per cercare Tyler, e quando i miei occhi lo individuarono nella zona sinistra del campo, che sventolava le braccia concitato, seminai Darren e alzai la palla, lanciandola verso il mio compagno. Sfortunatamente, Darren la intercettò.
Mi ero pentito delle mie parole esattamente qualche minuto dopo averle pronunciate.
Non lasciarmi mai.
Cosa avevo fatto? In che guaio mi ero cacciato? Come avevo potuto prometterle che le sarei stato sempre accanto così, come se mi avesse appena chiesto qualcosa di semplice come se mi piacesse il basket?
Io non ero fatto per le relazioni serie, e questa lo stava diventando pian piano, giorno dopo giorno. Non si trattava più del semplice rincorrersi, del gioco o del brivido della segretezza, la nostra stava diventando una vera relazione,  una di quelle in cui avevo sempre fatto schifo.
Avevo sempre pensato semplicemente di non essere adatto ai legami duraturi. Non avevo mai avuto un migliore amico, mai stato coerente con me stesso, né avuto una ragazza stabile. Vivevo di “carpe diem”, il cosiddetto “cogli l’attimo”, e non mi era mai importato delle conseguenze. Non mi importava se tutti pensavano fossi lunatico, o stronzo, né mi preoccupavo di richiamare una ragazza il giorno dopo l’ennesima scopata senza valore. Io ero indipendente, lo ero sempre stato, e pertanto non ero in condizione di fare promesse che avrei potuto facilmente rompere.
Ma ultimamente qualcosa stava cambiando, e in modo radicale. C’era qualcosa, qualcosa nella mia vita che diventava stabile, permanente, e non potevo fare a meno di pensare ne stessi diventando dipendente. Ero dipendente da lei, da qualsiasi cosa facesse o dicesse. Persino in quel momento, a poche ore di distanza dall’ultimo bacio, mi mancava così tanto.
La palla mi passò oltre la testa, e le mani di Peter la colsero, andando poi a depositarla a canestro. Tyler fece qualche segno confuso, ma non capii a chi fossero rivolti.
Che diamine mi aveva fatto? Come potevo anche solo pensare ed essere addirittura convinto di essere dipendente da una ragazza? E la cosa peggiore era che non mi dispiaceva esserlo. Adoravo il fatto che la mia mente passasse giornate intere a bearsi della sua immagine, e che le mie orecchie non udissero altro che l’eco della sua voce, che le mie mani cercassero ininterrottamente il contatto con la sua pelle, e che i miei occhi non smettessero mai di osservarla, anche quando non c’era.
Sentivo di volevla, in ogni momento della giornata. Ogni piccolo attimo era sufficiente per strapparle una carezza, o un bacio, e non ne avevo mai abbastanza di lei. Mai il sesso era stato così piacevole, estenuante e dolce allo stesso tempo, e per la prima volta in vita mia non aveva primaria importanza. Sarei rimasto anche tutta la vita a stringerla tra le mie braccia, accarezzarla e vederla sorridere, perché il suo sorriso era il migliore del mondo. Mi sarei beato del suono basso e regolare del suo respiro, il battito nel suo petto infrangersi contro al mio, e avrei continuato  a cullarla piano, come una bambina, mentre lei dormiva ignara di quanto fosse bella.
Ed io amavo fissarla, durante il sonno. Mi piaceva osservare in particolare la sua espressione, rilassata e calma, e cogliere quel piccolissimo sorriso che le si stampava in volto alle mie carezze, e che provocava di rimando il mio. Non avrei dormito, al costo di non perdermi questi piccoli dettagli. Non lo avevo forse fatto per tutta quella notte?
Lasciarla. Io non avevo la minima intenzione di lasciarla. Per una volta mi sentivo bene, bene davvero, e sapevo che il merito era solo suo, lei era la ragione del mio benessere.
Gliel’avevo promesso. Ma cosa mi garantiva che non avrei rotto quella promessa? Io non ero una persona affidabile, Martin me lo ripeteva di continuo, e cosa sarebbe successo se avessi sbagliato? Se ne avessi combinata un’altra delle mie, se l’avessi delusa, e lei non volesse più vedermi...
No. Non potevo neanche pensarlo. Era fin troppo importante per perderla. Ma io ero anche fin troppo prevedibile, superficiale...
«Zack!»
Matt non aspettò che rispondessi, ma mi passò la palla senz’indugio, incurante della mia posizione. La afferrai, e automaticamente mi voltai verso il canestro.
Metà campo. Mi trovavo a metà campo e il canestro sembrava così distante, irraggiungibile. Ma io ero Zack Payne, il capitano della squadra di basket, e cos’era per me un lancio da metà campo?
Presi un piccolo balzo e lanciai la palla dritta verso il canestro. Un secondo che durò un’eternità, e la palla rimbalzò contro il palo e poi si infranse contro la parete di bordo campo, segnando un tiro mancato.
Un fischio, e la partita era terminata.
Non aspettai oltre e mi diressi verso gli spogliatoi, con l’unico desiderio di andarmene. Non volevo più saperne di quell’allenamento, di quella palestra e di ogni altra cosa. Volevo solo lei, i suoi baci, le sue rassicurazioni, e volevo fare l’amore fin quando non avrei dimenticato tutto, tutto tranne lei, a partire dalle prediche irate dei miei compagni di squadra, che non tardarono ad arrivare.
«Si può sapere che cazzo ti prende?» Tyler piombò nello spogliatoio, incazzato come poche volte avevo avuto la sfortuna di vedere, e la sua rabbia era tutta contro di me, contro il mio pessimo gioco. «Hai praticamente fatto schifo, sul campo!»
Non potevo biasimarlo. Da quanto non mi capitava di sbagliare tiro, o di mancare un lancio? Non giocavo così male forse da anni, e non sapevo a cosa affidare la colpa.
Ero sovrappensiero, semplicemente avevo troppe cose per la testa, che mi impedivano di concentrarmi.
«Ma mi stai a sentire? Sto parlando con te!»
«Calmati, Tyler, dannazione! Adesso ci parliamo, ma smettila di agitarti così.»
Matt. Il solito e ragionevole Matt. L’unico che non perdeva mai le staffe, per nessuna ragione al mondo, nemmeno quando il mio rendimento sul campo avrebbe fatto rabbrividire chiunque, persino lui.
«Zack» mi chiamò, gli occhi limpidi e azzurri a fare da specchio ai miei. Mi inchiodò con le spalle all’armadietto senza alcuna pressione, ma il suo sguardo, quello sì che non mi lasciava scampo.
«Ascolta, vogliamo solo sapere cosa ti sta succedendo, tranquillo. Non ci arrabbieremo, non vogliamo criticarti, siamo i tuoi amici e vogliamo solo capire, solo questo.»
Ma sapere cosa? Cosa volevano da me, e perché non mi lasciavano andare? Io avevo bisogno di Stephanie, solo di lei, volevo solo lei, possibile non lo riuscissero a capire?
Rimasi in silenzio, col fiato corto a fare da unico sottofondo. Non dissi nulla, se non un lieve “scusa”, che tra l’altro era davvero l’unica cosa che volessi e fossi in grado di dire.
Matt non oppose resistenza quando volli andarmene, mentre la voce di Tyler mi perseguitò per tutta la palestra: «Abbiamo l’ultima partita tra cinque giorni, non te lo dimenticare!».
Cosa mi stava succedendo? Perché non riuscivo a fare un canestro? I miei compagni di squadra non avevano fiducia in me. Io stesso non avevo fiducia in me. Ma Stephanie? Lei si fidava di me?
Non lasciarmi mai.
Lei poteva fidarsi di me?
 
Percorsi l’uscita della palestra a grandi passi, e mi riversai nel corridoio vuoto. Avevo bisogno di staccare la spina, di non pensare a niente, e per questo avevo bisogno di Stephanie. Ed era lì che mi stavo dirigendo.
Presi il cellulare e cercai il suo nome nella rubrica, quando lo trovai scrissi velocemente l’sms. Semplice, ma chiaro.
Andiamo alla casa sul lago?”
Continuai a percorrere ciò che mi rimaneva fino all’uscita a grande falcate, fin quando una voce mi interruppe, bloccandomi.
«Chi non muore si rivede.»
Sarah. Da quanto tempo non sentivo la sua voce?
Rabbrividii al solo udire quella voce rauca, che portava alla mente solo cattivi ricordi. Ricordi che contrastavano assolutamente con quello che consideravo il nuovo me. E Sarah non ne faceva più parte.
Non mi voltai, per nulla interessato a sostenere una conversazione con quella donna, nonostante tenesse nelle mani ancora le redini del mio futuro scolastico. Lei invece arrivò fino a me, e quando le sue dita mi accarezzarono le braccia, l’unica cosa che potei pensare fu quanto mi disgustasse quel tocco, viscido e ripugnante.
«Che succede, Zack? Non dirmi che stai cominciando a provare dei sentimenti.»
Se fossimo stati in un cartone animato, Sarah sarebbe stata la parte cattiva della mia coscienza. Quella maligna, perfida, che non faceva che ricordarmi che razza di persona in realtà fossi. Zack l’insensibile, Zack lo stronzo, l’inaffidabile, l’indifferente. No, non ero più quella persona.
«Sarah, lasciami.»
Nonostante il mio obbiettivo fosse quello di fingermi imperturbato, il timbro della mia voce mi tradì, tanto che la sentii sorridere sarcastica, prendersi gioco di me.
Ma le sue mani si allontanarono.
«Sai...» cominciò, «non credevo che ti saresti mai ribellato. Sei sempre stato così ingenuo, adorabile... E adesso?».
Ingenuo. Ero stato ingenuo, per lei? Ma certo. Lei si divertiva, a prendermi in giro. Lo aveva sempre fatto.
«E adesso scopare non ti basta più, Zack?»
«Non voglio più saperne.»
Rise. «Non riuscirai a resistere a lungo.»
Ancora su di me, ancora a sussurrarmi nell’orecchio. Ma tutto quello che sentivo non era più la voce sensuale che riusciva ad ammaliarmi, ma un sibilo irritante e fastidioso, che non riuscivo a sopportare.
Mi liberai, e finalmente la guardai negli occhi. E allora feci che avrei dovuto fare tempo prima, ma non avevo mai avuto il coraggio di osare fare. Un po’ per paura, un po’ per prevenzione, ma adesso non mi importava più.
«Va all’inferno, Sarah.»
E andai via, allontanandomi sempre di più non solo da lei, ma da tutto ciò di sbagliato che c’era stato nella mia vita. E potevo ritenermi piuttosto soddisfatto, dopotutto. Ci ero riuscito alla fine, a liberarmene, ed ero certo che mai più avrei avuto bisogno di lei.
Il cellulare vibrò una sola volta in tasca, e lo tirai fuori di getto, impaziente. A lampeggiare sul display, l’avviso del messaggio che aspettavo: “Sono già fuori ad aspettarti, sbrigati.”


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Heilà, gente! :)
Eccomi di nuovo, col capitolo 26. Sembra ieri che ho iniziato questa storia e tra un po’ sarà conclusa. Credo infatti che manchino meno di dieci capitoli alla fine, ma coi miei tempi piuttosto attardati la finirò mooolto tardi. Le “vacanze” non sono state un grande supporto, visto che i professori sono sadici e non conoscono il significato della parola “pietà” e invece di aiutarci a rilassarci ci caricano di compiti. Compiti che ancora non ho finito, a proposito, e la scuola inizia solo tra due giorni. Chi prega per me?
Passando al capitolo. Non ho idea di cosa ne sia uscito, sinceramente, ma ho voluto includere solo i due gemelli, per alcune ragioni. La prima, perché per me è importante cogliere la differenza di pensiero, tra i due, e il processo di svolgimento degli eventi. E credo quest’ultimo si noti soprattutto nel pv di Zack (il più lungo mai scritto per il suo personaggio), di cui sono abbastanza fiera. Credo si riesca a capire l’importanza e l’impatto che Stephanie ha avuto su di lui, e il suo desiderio di staccare da qualsiasi cosa, non pensare a nulla. Forse un po’ malsano, ma comunque legittimo.
Potrei dirvi che i casini sono finiti ma non è così, per cui non tirare un sospiro di sollievo ahahah
Per quanto riguarda l’altro gemello, beh è innamorato cotto. Ma anche frustrato. Chissà, magari riuscirà ad uscire qualcosa di bello da quei due.
Lo scopriremo alla prossima, no? Che ahimé, non ho idea di quando sia ahahah dovete scusarmi, ma la scuola uccide, nel vero senso della parola.
Ci sentiamo :)
 

Ps. Mi scuso per gli errori di grammatica/ortografia presenti nel precedente capitolo, e per la mancanza di un mio pv (come se a qualcuno importasse cosa ne penso, pf) ma ero di fretta, e pertanto non ho avuto tempo a disposizione.
 

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVII ***


              
Emma sospirò e assottigliò gli occhi, intenta a concentrarsi sull’esercizio di trigonometria. Fissava il foglio attentamente, come se questo potesse animarsi e rilevarle la risposta, e continuava a picchiettare con la matita, nervosamente. Quando si fu arresa, sbuffò sonoramente e ogni traccia di serietà dal suo viso scomparve, lasciandosi  andare sulla scrivania con le braccia.
Osservai la sua reazione e non potei fare a meno di accennare una piccola risata, derisoria. Era da due ore che cercavo di insegnarle i concetti chiave della trigonometria, ma sembrava che il suo cervello rifiutasse categoricamente di assimilare certe informazioni, dato che non era riuscita a risolvere un solo problema di quelli che le avevo somministrato.
«Comincio a pensare che per me la matematica sia arabo.» commentò sconsolata, poggiandosi col mento alle braccia.
Scossi la testa esasperato, mi avvicinai al suo foglio per tentare di capire in cosa non stesse riuscendo. Quando individuai l’errore, la costrinsi a prestarmi attenzione.
«Se vuoi calcolare il cateto a, dovrai moltiplicare l’ipotenusa per il seno di b, e non per il coseno.» le spiegai, accompagnando la spiegazione con il movimento dell’indice, ad indicarle i vari passaggi.
Emma seguì attentamente i movimenti del mio dito sul foglio, e aggrottò la fronte. «Non è quello che ho fatto?» domandò, retorica.
«No, tu hai utilizzato il coseno di b anziché il seno, ecco perché il risultato non esce.» ribadii.
Lei mantenne un’espressione perplessa ed alzò lo sguardo su di me, indispettita. Sembrava pensasse che la stessi prendendo in giro, così la incitai a riprovare a svolgere l’esercizio sotto la mia guida e secondo il mio punto di vista.
Ci mise solo qualche minuto, dopodiché posò la matita, ancora incerta. Le suggerii di controllare il risultato sul libro, e quando scattò in piedi entusiasta, non ebbi dubbio di essere riuscito a risolvere il problema.
«Mi esce, mi esce, mi esce!» esclamava euforica, mentre saltellava per tutta la stanza quasi avesse appena scoperto qualcosa di rivoluzionario. Ma evidentemente non doveva essere abituata ad avere dei buoni risultati in matematica, perché non l’avevo mai vista così esuberante. Riflettendoci, quella era un po’ la reazione di Zack quando riuscì a prendere la sua prima B in inglese e senza nessun aiuto.
Non potei fare a meno di scoppiare a ridere osservando la sua reazione, e quando lei ebbe finito di saltellare allora mi venne incontro entusiasta, si sedette a cavalcioni sulle mie gambe e mi sorrise ampiamente, prima di stringermi in un forte abbraccio, allacciandomi le braccia al collo.
Come ogni mia reazione alle sue dimostrazioni d’affetto, non potei fare a meno di sgranare gli occhi sorpreso e arrossire, nonostante queste fossero diventate sempre più frequenti. Ma lei non avrebbe potuto vedermi, quindi socchiusi gli occhi e lasciai che le mie narici si inebriassero del suo profumo, che era diventato decisamente il mio preferito da quando aveva preso l’abitudine di abbracciarmi ogni volta che ne aveva voglia.
Non sapevo se quelle dimostrazioni d’affetto derivavano dalla sua gratitudine per averle  migliorato la media scolastica, oppure dall’amicizia che nutriva nei miei confronti, ma ero certo che, avessi potuto scegliere un solo istante di felicità vissuto da ripetere per il resto della mia vita, avrei scelto quello. Il suo corpo esile avvinghiato al mio e il mio viso nascosto tra i suoi capelli, le mie braccia a cingerle delicatamente la vita e la punta del suo naso a solleticare giocosamente la pelle del mio collo, facendomi rabbrividire. Infine il suo respiro a battere contro di essa, che sempre riusciva a far accelerare il battito del mio cuore, tanto che avevo paura potesse esplodermi in petto.
Sì, quello sarebbe stato senza dubbio il mio momento preferito.
«Grazie.» mormorò, contro la pelle del mio collo. Sentii le sue braccia aumentare di poco la stretta al mio collo e d’istinto anch’io la rafforzai, prendendo ad accarezzarle piano la schiena coi polpastrelli.
«Figurati.» sussurrai, e presto tornammo ad essere cullati dal silenzio di quel momento.
Come avrei voluto quel momento potesse durare in eterno. Sarei rimasto lì, a stringerla e ad assaporare il profumo della sua pelle per il resto della mia vita, con la voglia lacerante di baciarla e dirle che l’amavo. Che l’amavo come non avevo mai amato nessuno e con ogni fibra del mio corpo, che era sempre stata la più bella ai miei occhi e che era perfetta, qualsiasi cosa facesse. Avrei voluto dirle che avevo passato gli ultimi anni della mia vita ad osservarla ammaliato da lontano e desiderare ogni giorno un momento come quello, in cui finalmente avrei potuto rivelarle ciò che provavo davvero.
Ma sapevo benissimo che non avrei mai azzardato così tanto. Dopo così tanto tempo a ricercare il suo affetto, non avrei mai rischiato di rovinare il nostro rapporto con le mie confessioni da ragazzo innamorato. Avrei continuato a tenermi tutto dentro, ma ad usufruire della sua vicinanza ogni giorno. Chissà, forse avrei finito con lo scrivere una canzone e dedicargliela, o una lettera, perché ero certo che, se mai mi fossi deciso a dichiararmi, non avrei mai avuto il coraggio di farlo guardandola negli occhi. Era già difficile per me riuscire ad osservarla sorridere senza cedere alla voglia di baciarla.
Emma allontanò il suo viso e lo pose di fronte al mio, sorridendomi in un modo così dolce che avrei voluto incorniciare quel volto, così da conservare la sua bellezza.
Fu allora che capii che quella volta sarebbe stata diversa. Quella volta non sarei riuscito a resistere, a trattenere i miei impulsi e a dissimulare, perché sentivo di avere il bisogno impellente di baciare quelle labbra, di sentirla unita a me in qualche modo e per qualche istante, di far combaciare le nostre bocche esattamente come adesso combaciavano i nostri petti, premuti l’uno contro l’altro.
Deglutii nervoso e spostai automaticamente lo sguardo sulle sue labbra. Le avevo osservate così a lungo da conoscere perfettamente la loro forma e ogni piccolo dettaglio, ma non ne conoscevo la consistenza. Mi domandai se fossero morbide e soffici come me le immaginavo.
Quando alzai lo sguardo sui suoi occhi, Emma mi guardava disorientata. Non attesi oltre e tirai fuori tutto il coraggio che possedevo, decidendo che se volevo dare una svolta al nostro rapporto quello era il momento adatto.
Adesso o mai più.
Premetti velocemente le labbra sulle sue prima che lei potesse pronunciare parola e posai una mano sulla sua guancia, per tenerla ferma.
Sotto il palmo della mia mano, sentivo la sua guancia scottare. Doveva essere arrossita, ma non avevo idea di quale potesse essere stata la sua reazione iniziale, perché avevo socchiuso gli occhi. Ero estremamente agitato, e continuavo a chiedermi cosa diavolo mi fosse saltato in mente per baciarla. Le mani erano sudate e la testa pesante, affollata da mille e più pensieri, ma continuai a tenere premute le mie labbra sulle sue, visto che ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
Qualche secondo dopo, il peggiore dei miei presentimenti si avverò. Emma premette il palmo di una mano sulla parte superiore del mio petto per allontanarmi, costringendomi così a interrompere il contatto delle nostre bocche. Aprii gli occhi e notai i suoi fissarmi perplessa, confusa, come se aspettasse una spiegazione esauriente di quel mio gesto.
Tutto quello che potei fare fu esibire l’espressione più dispiaciuta riuscissi a fare, e maledirmi mentalmente almeno cento volte per essere stato così azzardato e stupido.
«Emma, io non…» tentai, ma lei scosse velocemente la testa e preferì allontanarsi repentinamente, con un’espressione sconvolta in viso.
«C-credo che dovresti andare, ora.» riuscì a balbettare, con lo sguardo basso a fissare la moquette o le sue scarpe, i suoi piedi ad incrociarsi e le sue dita muoversi frenetiche, in preda all’agitazione.
Sospirai deluso ma capii che niente avrebbe potuto aiutare in quella situazione, così semplicemente mi alzai dalla sedia e raccolsi le mie cose. Le rivolsi un’ultima occhiata prima di uscire dalla sua stanza e, quando la vidi ostentarsi a tenere lo sguardo fisso a terra, non opposi alcuna resistenza ed uscii, stringendo con forza la tracolla sulla spalla.
Salutai cordialmente sua madre nonostante dovessi avere l’aria di un condannato a morte, e lei mi accompagnò alla porta d’ingresso, salutandomi con un “a presto”.
Quando fui fuori e l’aria fresca poté pizzicarmi le guance e fare vento sul mio viso, mi accorsi realmente di quale cazzata avessi appena fatto.
 
Non ero mai stata interessata alle partite di basket o allo sport in generale, ma quando Zack mi aveva detto che quella sarebbe stata l’ultima partita del campionato e che gli avrebbe fatto piacere che io vi assistessi, non avevo saputo rifiutare l’invito. Seppure lo sport non mi interessasse affatto e avrei potuto passare la serata a guardare un vecchio telefilm e mangiare patatine con mia madre, avevo deciso di partecipare a quel match, perché volevo essere di supporto per il mio ragazzo e la sua squadra.
Il mio ragazzo. Nonostante fosse passato un mese dal nostro primo bacio, definirlo in quel modo mi sembrava ancora piuttosto strano. Chi l’avrebbe mai detto che il ragazzo che più odiavo sulla faccia della Terra sarebbe diventato il mio ragazzo? Eppure lo era, e da quando lo era diventato io ero certa di stare passando i migliori giorni della mia vita. Stare con lui era ormai così abituale, così piacevole, che cominciavo a sentirmi vuota se non in sua compagnia. Sentivo di volermi far stringere dalle sue braccia in ogni momento della giornata, e la mia bocca e il mio corpo bramavano così ardentemente i suoi che mi riusciva impossibile riuscire a trattenere i miei impulsi e riempirlo di baci.
D’altra parte, a lui andava benissimo così. Era provocatore e malizioso, e se c’era una cosa che adorava più di rubarmi baci e persuadermi a fare l’amore nei momenti e nei posti più svariati, era che fossi io ad avere certe iniziative.
«Stephanie?»
Mi voltai verso Sophie che sedeva alla mia destra, guardandola con espressione interrogativa.
«Hai idea di dove si sia cacciato Martin? Mi aveva detto che sarebbe stato qui per le otto, ma sono le otto e dieci e lui ancora non c’è.» mi spiegò, alzando il tono della voce per superare quello del chiacchiericcio generale sviluppatosi in palestra prima dell’inizio della partita.
Scossi la testa, dandole segno di un no, e Sophie sospirò, esasperata.
Mi lasciai andare ad un sospiro triste, come sempre quando Martin veniva a far parte dei miei discorsi ultimamente. Non capivo perché si fosse allontanato così tanto da me, e nonostante avessi la voglia matta di correre ad abbracciarlo ogni volta che lo vedevo a scuola mi trattenevo dal farlo, perché lui continuava ad evitarmi ed  io non volevo invadere i suoi spazi o privarlo dei suoi tempi.
Però mi mancava. Mi mancava come l’aria, e mi ero ripromessa che, non appena saremmo tornati a parlarci come un tempo, gli avrei raccontato di Zack. Gli avrei detto tutto, dettaglio per dettaglio; gli avrei parlato dei miei sentimenti e gli avrei confessato che pensavo di amarlo, amarlo sul serio. Avremmo riso, dicendogli che non avevo idea di come fossi arrivata fino a quel punto, ma che sentivo che non lui non poteva più non far parte della mia vita. E Martin mi avrebbe scambiata per una matta, chiesto se quello fosse per caso uno scherzo, ma io gli avrei dato tutte le conferme di cui aveva bisogno, e finalmente sarei tornata a stringere il mio migliore amico tra le braccia, sollevata d’un enorme mattone d’ansia.
Quando l’arbitro fischiò e la partita ebbe inizio, non riuscii più a distinguere le parole di Sophie. Decisi perciò di concentrarmi sulla partita, e cercai Zack tra i giocatori nella folla, individuandolo poi al centro del campo, a contendersi la palla con uno dei giocatori della squadra avversaria. Sorrisi automaticamente e mi lasciai andare a qualche pensiero inadeguato su quanto quella divisa lo rendesse sexy e come fossi stata così cieca da non accorgermene prima, poi presi a seguire ogni suo movimento, riuscendo persino a capire quale squadra fosse in vantaggio e quando, e tifare nel modo giusto.
Fu quasi alla fine del primo tempo, quando Zack mi rivolse un sorriso ed io gli mandai un bacio con la mano, che sentii il cellulare vibrare nella tasca. Lo tirai fuori cautamente vista la folla crescente che rischiava di colpirlo involontariamente e farlo cadere, e quasi strepitai quando lessi il nome di Martin lampeggiare sul display. Chiuse la chiamata prima che io potessi valutare se rispondere o meno, e quando l’avviso di chiamata svanì dal display notai un nuovo messaggio, dallo stesso mittente.
Ho bisogno di te, Steph.”
In un’altra occasione avrei sorriso a quel messaggio, ma c’era qualcosa di strano che non mi lasciava convinta. Era strano che Martin mi avesse mandato un messaggio simile data la nostra situazione attuale, e il piccolo campanellino nella mia testa non poté fare a meno di tintinnare, dandomi il presentimento che fosse successo qualcosa.
Dove sei?” digitai velocemente.
La risposta arrivò rapida: “Nel corridoio di fronte ai distributori. Fa’ presto, per favore”.
Ecco un altro dettaglio strano: come mai Martin si trovava all’interno della scuola ma non in palestra ad assistere la partita, dove lo attendevano i suoi genitori? E poi quel “fa’ presto”, come se avesse urgenza di vedermi. Non poteva che essere sorto un problema.
Non indugiai oltre e scavalcai la massa di gente sulle tribune, dicendo ai Payne che stavo semplicemente recandomi al bagno, e riuscii a scendere, facendomi spazio per raggiungere l’uscita della palestra e non essere troppo d’impiccio per lo svolgimento del match.
Avevo un cattivo presentimento. Quel messaggio mi aveva instaurato una certa ansia e preoccupazione addosso, e ora che ero riuscita finalmente a spalancare il portone d’ingresso, lo richiusi alle mie spalle e presi a correre per il corridoio, tesa.
Mi guardai attorno e chiamai il suo nome alcune volte, finché non lo scorsi seduto in un angolino con la schiena contro la parete, le ginocchia al petto. Sgranai gli occhi preoccupata e «Martie!» esclamai, affrettando il passo per potermi avvicinare ulteriormente.
Mi fermai accanto ai suoi piedi, e mi inginocchiai al suo fianco. «Martie, alzati» mormorai dolcemente, passando una mano sul suo viso in modo delicato.
Quando lui alzò lo sguardo, la prima cosa che notai furono le lacrime solcare le sue guance. Successivamente risaltarono al mio sguardo i suoi occhi lucidi e arrossati, tipici di chi aveva pianto a lungo.
Da quanto stava lì a piangere, e per quale motivo?
Scossi appena il capo come per dirgli di non farlo, e gli strinsi istintivamente forte le braccia attorno alla schiena, lasciandogli un numero indeterminato di baci tra i capelli, mentre ero risalita con una mano ad accarezzarli.
Martin continuava a singhiozzare senza freni, e quando si ritrovò tra le mie braccia il suo pianto proruppe e si fece più intenso e rumoroso, mentre piano ricambiava la mia stretta.
Mi portai seduta e lasciai che si accoccolasse al mio petto come un bambino, e non smisi nemmeno per un attimo di riempirlo di carezze e baci e stringerlo forte tra le mie braccia, col tentativo di tranquillizzarlo.
«Shh, shh, va tutto bene…» sussurrai, vicina al suo orecchio.
Percepii la sua testa scuotersi come per indicare un no, e dopo aver singhiozzato per un po’ «Ho rovinato tutto, Steph» trovò la forza di balbettare, con un tono di voce a malapena udibile e percepibile soltanto a me. Non smetteva di piangere, e quando si sentiva scosso da altri singhiozzi mi stringeva più forte.
Non avevo idea di cosa fosse successo per ridurlo in quello stato, ma ero quasi certa che Emma fosse un fattore del tutto.
Vedere Martin piangere, comunque, era qualcosa a cui avevo assistito raramente, e che riusciva a spezzarmi il cuore ogni volta. Mi passò per la mente che forse era così che lui si sentiva, col cuore spezzato, e così lo strinsi più forte, facendo avvalere il mio istinto di protezione nei suoi confronti.
«Non hai rovinato nulla, va tutto bene…» mormorai dolcemente, nel vano tentativo di convincerlo e farlo rilassare. Ma lui emise un altro respiro strozzato, e presto tornò a piangermi addosso, a stringermi così forte da farmi comprendere quanto avesse bisogno di me in quel momento.
Continuai a cullarlo ed accarezzarlo, poi il rumore di un portone aprirsi catturò la mia attenzione. Ebbi l’impulso di nascondermi, di nascondere entrambi, ma non avrei potuto con Martin in quello stato, quindi mi limitai a restare in silenzio.
Il primo tempo era finito da qualche secondo, perciò presunsi che la persona appena uscita dalla palestra dovesse essere il coach, o qualcuno degli spettatori, oppure uno dei giocatori. Mi trovai a domandarmi cosa stesse facendo Zack in quel momento, come stesse procedendo la partita. Mi dispiaceva essermene andata, ma Martin aveva avuto la priorità.
Mi esposi leggermente e mi affacciai con la testa oltre la colonna che mi impediva di osservare l’entrata della palestra, e quello che riuscii a vedere furono solo due figure che non avrei saputo distinguere. Erano un ragazzo e una ragazza e, a giudicare dal suo abbigliamento, il ragazzo doveva essere uno dei giocatori.
Strizzai meglio gli occhi per mettere a fuoco i due ma la luce era abbastanza fioca in quel corridoio, perciò non avrei saputo dire chi fossero. Notai però che i due erano intenti a scambiarsi qualche bacio, ma quando vi fu un ulteriore fischio furono costretti a tornare dentro, forse per l’inizio dell’imminente secondo tempo.
Quando il ragazzo passò sotto la lieve lampadina al neon, però, riuscii a notare qualcosa. Era una fascetta gialla, che teneva stretta all’avambraccio destro. La fascetta di capitano.
 

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SONO TORNATAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!
Non aggiornavo questa storia dal 5 gennaio, wtf..... Mi dispiace, dovete scusarmi, ma è stato un anno di merda, e ora che si è finalmente concluso e ci sono le vacanze da scuola posso dedicarmi a scrivere, ed ecco che ho ripreso questa storia! 
Dovrebbero mancare 4 o 5 capitoli, non ne sono sicura, alla fine, e mi impegnerò affinché aggiorni assiduamente. 
Passando al capitolo.... 
Credo che con questo si siano instaurati un bel po' di problemi, eh? Martin che trova il coraggio di baciare Emma e lei che lo rifiuta, e la scena finale in cui Steph vede qualcosa che non dovrebbe vedere.... 
A voi i responsi :3
A presto

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Capitolo 28
*** Capitolo XXVIII ***


Tenni lo sguardo fisso sul libro di biologia per dei buoni minuti, concentrato. Lo studio non era stato mai il mio forte, tuttavia stavo cercando di dare il mio meglio negli ultimi giorni, in vista degli esami finali.
Il campionato di basket era terminato e avevamo riportato una grossa vittoria, in contrasto alle nostre premonizioni di squadra, e adesso che non avevo più nulla di importante da fare per occupare i miei pomeriggi e gli esami si facevano sempre più vicini, potevo finalmente dedicarmi allo studio e fare una full-immersion nell’intero programma dell’ultimo anno, di cui mi resi presto conto di non conoscere un accidente. Non ero mai stato un bravo studente, e ad una sola settimana dall’inizio delle prove mi ero accorto che non mi sarebbe rimasto che fare soltanto una cosa: studiare. Quindi avevo deciso di mettermi sotto coi libri ed assimilare il più possibile in quei sette giorni, così da poter fare una figura più o meno decente alle prove scritte e a quella orale. Speravo di raggiungere almeno la sufficienza, che mi avrebbe evitato di ripetere l’anno, ed ero disposto a tutto pur di ottenerla, persino studiare quei grossi tomi dal contenuto incomprensibile al mio cervello.
Distolsi un momento l’attenzione dal libro di biologia per farlo vagare sulla catasta di altri libri ad un lato della scrivania, e sospirai sconsolato.
Non ce la farò mai.
Avrei voluto essere per una volta il mio fratello gemello, così intelligente e dedito allo studio da riuscire a superare due sessioni d’esame anziché una col minimo sforzo. Ero certo che lui conoscesse a memoria il contenuto di quei libri, e quando scartai l’idea di convincerlo a clonarsi per affrontare anche i miei esami, decisi che potevo chiedergli un aiutino.
Quindi mi alzai dalla sedia girevole, nuovamente animato, ed uscii dalla mia stanza per raggiungere quella opposta alla mia, appartenente a mio fratello.
Speravo davvero potesse aiutarmi. Con il suo aiuto sarei senza dubbio riuscito a capire qualcosa di quelle pagine scritte in arabo, e anche se chiedergli aiuto significava ammettere le mie difficoltà e sorbirmi le sue prediche e i suoi “te l’avevo detto” per tutto il tempo, ero disposto a mordermi la lingua e fare questo piccolo sforzo, affinché la mia carriera scolastica ne uscisse – quasi – indenne. 
Avevo inoltre pensato a Stephanie come tutor per il mio studio, ma gli impegni con gli ultimi preparativi del ballo e il suo stesso studio la rendevano inaccessibile ai miei desideri e capricci, così mi ero rassegnato a svolgere quel grande passo da solo. Oltretutto, non ero affatto convinto che stare a stretto contatto con lei avrebbe portato grandi frutti, visto che tendevo a distrarmi facilmente in sua compagnia. Sapevo benissimo che le nostre sessioni di studio sarebbero terminate con baci o sesso, e preferivo accantonare certi privilegi per il momento, ritardandoli a quando avrei almeno imparato la struttura dell’apparato cardiovascolare.
Respirai profondamente quando fui davanti alla stanza e, stranamente dalle mie abitudini, bussai piano alla porta. Mi conveniva essere gentile e cordiale con mio fratello, oppure avrei potuto sognarmi che lui mi aiutasse.
Dall’interno della stanza non percepii nessuna voce. Del tono annoiato di Martin o dei suoi sbuffi nemmeno la traccia, ma solo un disarmante silenzio provenire da essa. Provai a bussare nuovamente e chiamare il suo nome, ma nessuno mi rispondeva. Il pensiero che Martin non potesse essere in camera sua mi balenò nella mente per un attimo ma lo accantonai, ripetendomi che era praticamente impossibile che mio fratello non fosse a studiare, visto che era quello che ormai faceva tutti i pomeriggi da quando lo conoscevo.
Preoccupato, spinsi poco indietro la porta in legno senza fare troppo rumore, mentre tenevo i libri stretti al fianco con l’altro braccio, e mi inoltrai piano e cautamente all’interno della sua stanza. Questa era completamente buia, e dovetti strizzare gli occhi per poter mettere a fuoco la figura di un ragazzo sul letto ad un piazza e mezza al centro della stanza, che successivamente riconobbi come mio fratello.
Tutto quel buio dava un’aria decisamente tetra alla situazione, ma quando mi avvicinai per scorgere meglio i tratti del suo viso, lo scoprii dormiente. Se ne stava steso su un fianco e aveva l’espressione del viso rilassata, e il suo respiro regolare e il suo leggero russare mi avvertì che doveva essersi addormentato da un bel po’, visto che non mi aveva nemmeno sentito bussare o chiamarlo.
Sembrava incredibile ma mio fratello, il mio paranoico fratellino, stava davvero dormendo beatamente, nonostante mancassero solo sette giorni all’inizio degli esami e lui fosse in sé per sé la persona più ansiosa e nervosa che avessi mai conosciuto. Ma comunque, anche l’unica persona che potesse concedersi un sonnellino durante quel periodo di tensione.
Mi rassegnai a lasciarlo dormire ed uscii dalla sua camera facendo attenzione allo scricchiolare delle scarpe non svegliarlo, e quando fui fuori mi lasciai andare ad un sospiro esasperato. A questo punto, visto che Martin poteva considerarsi del tutto inutile al mio caso, non mi restava che aggrapparmi a Stephanie.
Tornai nella mia stanza e posai i libri sulla scrivania pesantemente, per poi recuperare il cellulare e lasciarmi cadere sul letto, mentre digitavo il suo numero e portavo il ricevitore all’orecchio.
Restai col cellulare attaccato all’orecchio, in attesa, ma quando la chiamata attaccò con la segreteria telefonica lo allontanai, premendo la cornetta rossa per terminare la telefonata. Diedi un lieve scorcio alla mia memoria per trovare l’impegno che l’aveva probabilmente tenuta a spegnere il cellulare, e mi ricordai che proprio quel pomeriggio lei e le ragazze avevano l’ultimo incontro alla palestra, per studiare nel dettaglio la scaletta del ballo e porre rimedio a qualsivoglia contrattempo. Mi ero persino offerto di aiutarla, ma lei aveva ribadito che il mio studio aveva la priorità al momento, e pertanto le sarebbe piaciuto sapermi a casa a studiare, anziché ronzarle attorno. Le avevo promesso che avrei fatto il mio meglio per superare quelle prove, e lei aveva riposto la sua totale fiducia in me, ed ecco perché in gran parte sentivo di tenerci particolarmente: non volevo essere una delusione per lei.
Viste le mie difficoltà e la completa inutilità di mio fratello, però, mi vedevo costretto a chiederle aiuto. E al diavolo i miei capricci, avrei tenuto duro e dato il mio meglio per riuscire a studiare, perché lei potesse essere orgogliosa di me.
Infilai frettolosamente i libri nella tracolla e scesi le scale, apprestandomi a salutare mia madre per poi sgusciare fuori di casa, assicurandole che sarei tornato per l’ora di pranzo.
Mi inoltrai in strada e decisi che potevo fare una passeggiata sino a scuola quella volta, dato che non avevo fretta e Stephanie non mi avrebbe prestato attenzione prima delle sei, orario in cui le altre ragazze andavano via. Quindi camminavo a passo moderato, godendomi il sole di giugno battere sulla mia pelle.
Mi trovai a pensare che mancavano solo due giorni al ballo di fine anno. Stephanie l’aveva organizzato con così tanto impegno che alla fine era riuscita davvero a trasformare la palestra in una sala elegante e raffinata e, contrariamente a quello che avrei pensato in un passato remoto, ero esaltato all’idea di trascorrervi la serata tra due giorni. Vi avrei portato la mia ragazza, ed ero intenzionato ad essere il gentleman che l’occasione richiedeva: l’avrei trattata come una principessa per quella sera, non avrei avuto occhi che per lei, e l’avrei trascinata sulla pista da ballo ogni volta che se ne sarebbe stata in disparte, facendole trascorrere una delle serate più magiche e piacevoli della sua vita, come era da tradizione la sera del ballo scolastico.
Mentre camminavo verso la scuola mi appuntai nella mente di noleggiare uno smoking o qualcosa di simile, magari da abbinare al suo vestito. Non avevo idea di come avesse deciso di vestirsi, non ne avevamo parlato o forse avevamo entrambi dimenticato l’evento, ma gliel’avrei chiesto non appena avessimo avuto un attimo di tranquillità.
Arrivato a destinazione, spalancai il portone all’ingresso e presi a camminare per i corridoi con una meta precisa, che si trovava infondo al secondo corridoio a destra.
Mi fermai davanti all’ingresso notai e luci all’interno della sala ancora accese, segno che vi era qualcuno all’interno. Controllai l’orologio, e appurai che Tina, Zoe e Kelsey dovevano essersene appena andate, così spinsi il portone e mi addentrai nella palestra, sicuro che avrei trovato Stephanie lì, a crogiolarsi sull’ultimo dettaglio affinché tutto fosse perfetto e secondo le sue aspettative.
Mi guardai intorno e sorrisi automaticamente, notando l’intero abitacolo decorato e adornato a festa. Le ragazze avevano fatto davvero un ottimo lavoro, e l’idea che presto quella sala sarebbe stata invasa da studenti mi solleticò la mente, lasciando che il mio sorriso si ampliasse.
Stephanie uscì fuori da sotto una lunga tovaglia di colore blu elettrico, che aveva sistemato sul tavolo del buffet in modo da dare un’impressione iniziale. Sorrisi istintivamente alla sua vista e decisi di avvicinarmi cauto per farle una sorpresa, dato che non aveva ancora notato la mia presenza.
Posai delicatamente la tracolla sul pavimento e camminai quatto quatto verso la sua direzione, cercando di fare il meno rumore possibile, fin quando non le fui abbastanza vicino da afferrarla per la vita e stringerla al mio petto, libero di poter tornare a respirare il suo profumo.
La sentii sussultare e sobbalzare sul posto, colta di sorpresa, quindi la strinsi più forte e lasciai entrambi a dondolare, schioccandole poi un sonoro bacio sulla guancia. «Ciao piccola mia» sussurrai dolcemente al suo orecchio il mio abituale saluto.
Stephanie si irrigidì leggermente quando capii che ero stata io a stringerla, e si lasciò cullare per qualche secondo, sospirando impercettibilmente. Mi sembrò quasi avesse trattenuto il respiro, ma non vi diedi importanza.
Allentai la presa sul suo busto e mi allontanai di poco, per poter passare di fronte a lei. «So che studiare insieme non è una buona idea, ma ho un disperato bisogno di te.» le spiegai, usando il tono di voce più dolce che riuscissi a imitare; «Non riuscivo a studiare, e così ho pensato di chiedere a Martin di aiutarmi, ma quando sono andato in camera sua dormiva, perciò…» mi bloccai, osservando attentamente l’espressione del suo viso. Sembrava assente, irrequieta, e per alcuni tratti triste, e notai che non aveva puntato lo sguardo sul mio nemmeno per un secondo, preferendo tenerlo fisso su alcune cianfrusaglie all’angolo della stanza. Mi avvicinai ulteriormente a lei e «Steph, va tutto bene?» mormorai preoccupato, ponendo una della mie mani sul suo braccio.
Lei volse automaticamente lo sguardo sulla mano che l’aveva sfiorata, ed ebbi come l’impressione di vedere le sue labbra tremare. Scrollò la spalla così da allontanare la mia mano ed abbassò lo sguardo, prendendo a fare qualche passo agitata. Si portò una mano tra i capelli, paonazza in volto.
«No, non va per bene per niente.» mormorò nervosa, continuando a passarsi le dita tra i capelli e camminare sul posto, quasi fosse sull’orlo di una crisi di nervi. Alzò lo sguardo sul mio, e quando notai i suoi occhi essersi fatti lucidi, capii che c’era sicuramente qualcosa che non andava.
Tentai di avvicinarmi a lei, perplesso da quel comportamento, ma Stephanie fece un altro passo indietro, suggerendomi coi palmi della mani di non avvicinarmi oltre. Scosse la testa agitata e «Io non so con quale coraggio tu possa venire qui e comportarti come se non fosse successo nulla, ma io non ne ho intenzione» disse tra qualche balbettio, scuotendo la testa ritmicamente e deglutendo a vuoto.
Corrugai la fronte, confuso. «Di cosa parli?» le chiesi, osservando attentamente quegli atteggiamenti. Non l’avevo mai vista comportarsi in quel modo, e non potevo fare a meno di preoccuparmi e chiedermi cosa diavolo fosse successo tanto da sconcertarla in quella maniera.
Assottigliò le labbra in un mezzo sorriso derisorio, poi tornò a guardarmi. «So tutto, Zack» parlò, fissandomi coi suoi grandi occhi accusatori, «So tutto quanto quello che fai quando non siamo insieme.».
Stavolta esibii un’espressione ancora più confusa della precedente se possibile, e passai in rassegna ogni idea il mio cervello mi suggerisse, per poi vederne una lampeggiare minacciosamente nella mia testa.
Mi rabbuiai d’istinto, e preferii abbassare lo sguardo per non sostenere il suo, deglutendo.
Come aveva fatto a scoprire di Sarah? Chi gliel’aveva raccontato, e da quanto ne era a conoscenza? Doveva averci dato parecchio peso, visto che quella a cui stavo assistendo era una vera e propria scenata. Il solo pensiero che Sarah potesse averle spifferato tutto solo per farmi un danno mi riempì di rabbia e mi portò a premere le unghie contro la carne della mia pelle in un pugno, il desiderio crescente di sputarle in faccia il mio astio nei suoi confronti.
C’era qualcosa, però, che non quadrava in quella versione. Non vedevo Sarah da molto prima che noi due avessimo cominciato a frequentarci, e pertanto Stephanie non poteva farmi una colpa di qualcosa che avevo fatto in precedenza, a meno che lei non avesse alterato la versione dei fatti.
Alzai lo sguardo su di lei e feci qualche passo avanti nonostante le sue raccomandazioni, deciso a convincerla che niente di quello che aveva scoperto era vero, o almeno solo una piccola parte. «Ascolta» cominciai, portando le mie mani alle sue braccia, «qualsiasi cosa ti abbiano detto, non è assolutamente…».
«Non m’importa delle tue scuse, Zack!» mi interruppe, prorompendo in un pianto liberatorio che la portò a strattonarsi nuovamente dalla mia presa. «Non m’importa di quello che hai da dire, non m’importa delle tue fottute promesse e delle tue parole, che hai appena mandato a fanculo!» urlò tra i singhiozzi e le lacrime.
Rimasi a fissarla dare di matto, inerme davanti alla sua sfuriata. Avrei voluto parlarle, spiegarle com’era andata davvero, ma Stephanie continuava a sfogarsi e a gridare, forte, e non mi avrebbe mai permesso di parlarle, per cui cosa potevo fare io, oltre ad assistere in silenzio? Sapevo di avere torto, sapevo di aver sbagliato, e avevo appena capito che quello sbaglio mi sarebbe costato la sua fiducia e la sua amicizia. Qualsiasi cosa pensassi a quel punto per riuscire a calmarla mi sembrava del tutto inutile, ed ero quasi caduto in uno stato di semi-shock, mentre lei continuava ad urlarmi addosso il suo disprezzo.
Quelle parole, quelle lacrime, quei singhiozzi, erano tutto ciò che avevo sempre temuto. Mai avrei voluto sentire la sua bocca pronunciare certe frasi, e desideravo ardentemente che tutto quello fosse solo un incubo, uno stupidissimo incubo, e che al risveglio l’avrei trovata al mio fianco, addormentata tranquillamente al mio petto. Ma sapevo di stare solo sognando, perché quelle grida e quelle parole erano troppo reali per permettermi di rifugiarmi nei miei pensieri, dove stavo lentamente pentendomi di tutto ciò che avevo fatto e ripercorrendo ogni momento dell’ultimo mese passato insieme a lei, con la strana e amara consapevolezza che di quei attimi di felicità ne sarebbe rimasto solo un meraviglioso ricordo.
«E sai cosa?» mormorò, con gli occhi colmi di lacrime e la voce strozzata in gola «Non mi importa più nemmeno niente di te.».
Singhiozzò e tirò su col naso, e non opposi resistenza quando volle raccogliere le sue cose ed andarsene, fuggire da me, sentendomi svuotato di un importante pezzo della mia vita non appena lei aveva varcato la soglia.
 
Lo sbattere di alcune pentole mi aveva inevitabilmente destato dal sonno. Sbuffai annoiato e premetti il viso contro il cuscino, nella speranza che quei rumori si affievolissero ed io potessi tornare a dormire tranquillamente.
Ci avevo messo parecchio ad addormentarmi, ed era stato l’unico metodo che ero riuscito a trovare pur di smettere di pensare, e cercare di rilassarmi.
Gli esami erano imminenti, e nonostante sapessi che rimuginare sull’intera situazione non facesse che peggiorarla, non potevo farne a meno. Tutto quello a cui riuscivo a pensare era Emma, il suo viso, lo stupore sul suo viso quando l’avevo baciata, e il terribile silenzio con cui mi aveva lasciato andare via, senza darmi la possibilità di parlarle.
Avevo deciso, per una volta nella mia vita, di abbandonare il mio lato razionale e agire d’istinto, e quello che ne era venuto fuori era la prova di quanto poco si adattasse a me quel tipo di azioni. Avrei dovuto rifletterci almeno un altro po’, trattenermi, contare fino a cento prima di compiere quello che avevo fatto, ma la verità era che non ce la facevo. Dopo anni passati ad osservarla da lontano, sentivo di non essere più di grado di limitarmi a quello, di amarla nella mia esclusiva autonomia, e avevo il bisogno di mostrarmi a lei per quello ch’ero davvero, per quelli che erano i miei veri sentimenti. Il risultato, come volevasi dimostrare, era stato un completo disastro, e per quanto ci provassi non riuscivo a togliermelo dalla testa.
Quando diedi un’occhiata all’orologio e constatai che fosse quasi l’ora di cena, capii perché mia madre non avrebbe smesso di arrecare rumore con le pentole. Probabilmente ne aveva fatte cadere alcune, perché avvertii la sua voce irritata seguire il tonfo delle padelle.
Rassegnato all’idea che non sarei riuscito a riaddormentarmi, decisi che era giunto il momento di mettermi in piedi. Mi alzai dal letto e infilai le ciabatte, stiracchiando le ossa e sbadigliando. Mi recai verso l’interruttore della luce e lo pigiai, in modo da donare un po’ di luce al buio di quella stanza.
I libri di scuola giacevano dimenticati sul tappeto, ma non avevo né la voglia né la forza per studiare. Ci avevo provato in un primo momento, ma tutto quanto mi era sembrato completamente inutile e privo di senso, e così mi ero lasciato andare ad un sonnellino liberatorio. Persino la tv non riusciva a placare i miei pensieri, e ora che ero sveglio la mia mente non poteva fare a meno di rievocare cattivi ricordi, ed io non potevo restarmene stravaccato sul divano a lasciarmi sopraffare e ad assumere un atteggiamento apatico.
Come la sera della partita, esattamente dopo aver fatto un solo passo fuori da casa di Emma, sentivo il bisogno di avere Stephanie accanto. Quella sera ero del tutto sconvolto, sconcertato, e non mi ero fatto scrupoli a contattarla e chiedere la sua compagnia, perché sapevo che, anche se il nostro rapporto negli ultimi giorni non era stato dei migliori, non avrebbe rifiutato di soccorrermi e stare al mio fianco. Infondo era la mia migliore amica, la persona di cui maggiormente mi fidassi e quella a cui tenevo più di tutto, ed ero sicuro che sarebbe corsa per aiutarmi. Lo faceva da anni, e quella volta non sarebbe stato diverso.
Non le telefonai o le inviai un messaggio per avvertirla del mio arrivo, sicuro che l’avrei trovata in casa all’ora di cena, ed uscii da casa disposto soltanto del cellulare.
Se pensavo al modo in cui mi ero presentato a lei qualche sera prima, disperato e con gli occhi colmi di lacrime, mi rendevo conto di quanto il mio stato fosse stato pietoso. Ed era bastato un semplice rifiuto dalla ragazza che amavo a ridurmi in quel modo. Mi sentivo vuoto, ed avevo finito per diventare un sociopatico in casa, ed era per questo che più di qualsiasi altra cosa avevo bisogno di evadere e rifugiarmi da Stephanie.
Quando arrivai a casa sua, ad accogliermi fu sua madre. Mi salutò col suo abituale sorriso e mi invitò ad entrare, avvertendomi che Stephanie era in camera sua. Le sorrisi e la ringraziai dell’informazione, poi mi inoltrai piano verso l’ultima stanza del corridoio a destra,  bussando alla porta quando vi fui davanti.
Una voce sottile sibilò un flebile “avanti”, e così spinsi la porta di legno indietro, lasciandomi entrare. La richiusi alle spalle quasi immediatamente onde evitare che suo fratello Chris vi si intrufolasse, com’era successo qualche volta. Stephanie detestava che lo facesse.
La mia migliore amica se ne stava distesa sul letto a pancia in giù come un relitto, a stringere il cuscino con le braccia. Ebbi una lieve sensazione di déjà-vu quando vidi i suoi libri stare sulla scrivania, completamente intatti. Era chiaro che non avesse nemmeno provato a studiare.
«Hey» la salutai, fingendo un piccolo sorriso. Lei comunque teneva il volto premuto contro il cuscino, perciò non poteva vedermi. Mi avvicinai e mi sedetti ad un lato del suo letto accanto a lei, cercando di non darle troppo fastidio.
«Martin» mormorò lei, quasi si stesse accertando fossi davvero io «Non sono sicura di essere in grado di poterti vedere, in questo momento».
Aggrottai la fronte, confuso. Possibile che fosse ancora arrabbiata con me? Mi pareva impossibile, visto che la scorsa sera ci aveva riuniti nuovamente, e così «Perché?» domandai, perplesso.
La sentii inspirare fortemente, subito dopo muovere il materasso, segno che lei stessa si stava muovendo. Si mise su un fianco per potermi guardare, e la mia attenzione fu immediatamente catturata dalla sua mano, che passò sui suoi occhi, tirando sul col naso. Sembrava stesse piangendo.
«Cos’è successo?» chiesi preoccupato, portando una mia mano a passarle istintivamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Deglutì e passò ancora le dita sugli occhi, poi posò un braccio a premere contro il materasso, in modo da mantenersi sollevata. «Credo di non potertelo dire, se prima non ti racconto una storia.».
Restai a guardarla con l’aria disorientata, chiedendomi cosa fosse successo e di quale storia stesse parlando, finché per la mia mente passò un unico pensiero. Sospirai, socchiusi gli occhi per un momento e scossi la testa, interrompendo qualsiasi parola stesse uscendo dalla sua bocca. «Se vuoi parlarmi di te e Zack, sappi che non ce n’è bisogno.»
L’espressione di Stephanie si trasformò da mesta e amareggiata a sorpresa, stupita. Sgranò gli occhi e schiuse la bocca, senza smettere di guardarmi. «T-tu… tu come..?»
«Non chiedermi come l’abbia scoperto, ma lo so.» la precedetti.
«E perché non me ne hai mai parlato?»
«Perché, tu?» controbattei, con un tono di voce leggermente irritato, «Perché non me ne hai parlato? Sono il tuo migliore amico e lui è mio fratello, credo che ne avrei avuto il più che pieno diritto!»
Le mie parole dovettero colpirla, perché si rabbuiò quasi immediatamente, abbassando lo sguardo e prendendo  a giocare con le dita della mani, fingendo che il suo fosse solo un guardarsi intorno e non un evitare il mio sguardo. Dovevo aver fatto riaffiorare i suoi sensi di colpa, e mi sentii un vero schifo quando avvertii le sue labbra tremare. Riconoscevo quel gesto, lo faceva ogni volta che era tesa e stava per scoppiare in un pianto.
«Non ce l’ho con te, Steph.» le strinsi quindi un braccio attorno alle spalle, attirandola al mio petto, «Capisco che dirmelo possa essere stato difficile per te, e non te ne sto facendo una colpa. Infondo ho avuto la stessa identica reazione che tu t’eri immaginata, allontanandomi da te come uno stupido.»
Si accoccolò al mio petto ed alzò lo sguardo sul mio. «E’ per questo che non mi hai parlato per così tanto tempo?»
Annuii, prendendo ad accarezzarle delicatamente la schiena. «Ero confuso, quasi sotto shock, e non riuscivo ad accettare che voi due poteste avermi nascosto una cosa simile, quindi sono stato un po’ assente, agendo come un bambino. Mi dispiace.»
Fece di no con la testa, contraddicendomi. «Ho sbagliato io a tenermi questa cosa per me.»; fece una pausa, sospirando, «Avrei voluto dirti tutto, ma avevo paura che non avresti accettato…» disse con tono basso, come lo era il suo sguardo adesso.
«E avevi ragione, non l’avrei accettato.» annuii, concorde «Ma avrei provato a capire. Infondo siete due delle persone che mi sono più care, se siete felici a me va bene, non sono nessuno per impedirvi di stare insieme.»
Anche se immaginare Zack e Stephanie insieme era una delle cose che mai mi sarei sognato di vedere, non mi restava che accettarlo. Se loro stessi avevano deciso di stare insieme un motivo doveva esserci, ed io non avrei potuto mettermi in mezzo e creare così un problema, perché avrebbero finito con l’anteporre la mia felicità alla loro, e non potevo permettergli di accantonare il loro rapporto, amore, o qualsiasi cosa ci fosse tra loro solo perché a me non andava bene. Mi bastava solo che entrambi fossero felici, l’una con l’altra.
Stephanie esibì un mezzo sorriso triste. «Non dovrai preoccuparti di niente, perché non credo che staremo insieme ancora…» mormorò, stringendo appena la presa sulla mia vita. «L’ho lasciato poche ore fa.» spiegò infine, sebbene sospettassi che ammetterlo le avesse causato una piccola lacrima.
Sgranai occhi e bocca sorpreso, e «Perché?» chiesi spiegazioni. Proprio ora che stavo cercando di abituarmi a loro due insieme, le cose si erano capovolte e quel “loro” non esisteva più, almeno a come diceva Stephanie.
Ne seguì un piccolo periodo di assoluto silenzio, in cui pensai che ricordare per Stephie si stesse rivelando difficile, ma infine parlò. «La sera della partita, mentre ero con te in corridoio…» cominciò, mentre io riportavo alla mente quella sera e quell’esatto momento «Le porte della palestra si sono aperte, e quando mi sono affacciata per vedere chi vi fosse uscito lui era lì, a baciare un’altra.»
Dovetti assumere l’espressione di uno a cui avevano appena raccontato di aver visto gli alieni, perché non riuscivo proprio a credere a ciò che Stephanie mi aveva appena detto.
Zack l’aveva tradita. L’aveva tradita e l’aveva trattata come lui di solito trattava le sue ragazze, con superficialità e disinteresse. Eppure per quanto mi sforzassi di immaginarmi la scena, tutto mi sembrava sbagliato, impensabile. Io stesso avevo notato la differenza di umore di mio fratello da quando stava con lei, e non riuscivo a credere che l’avesse fatto davvero, che avesse davvero tradito la sua fiducia in quel modo e rovinato il loro rapporto, al quale mi sembrava tenesse moltissimo.
Tuttavia, una certa dose di rabbia e disprezzo non poté fare a meno di manifestarsi e fluire nelle mie vene, tanto che non mi ero neppure accorto di aver chiuso le mani in pugni. Ero arrabbiato, furioso, e giurai che appena l’avrei visto gliene avrei dette di tutti i colori, perché se c’era una cosa che non doveva assolutamente fare e di cui non avevo avuto la possibilità di avvertirlo, era che non avrebbe dovuto farla soffrire. Invece Stephanie piangeva,  stava male, e mi stringeva quasi fossi la sua unica ancora di salvezza.
Ma avevo anche notato i cambiamenti che Stephanie aveva avuto in quel periodo. Era quasi sempre di buon umore, sembrava aver sviluppato una certa nota di ottimismo e di positività che non mi sarei mai aspettato da lei, ed ero certo che Zack l’avesse fatta stare bene, bene davvero e per la prima volta. Lei stessa sembrava essersi addolcita, sollevata, come se mio fratello l’avesse aiutata a distruggere quel muro che aveva installato e che impediva ai suoi sentimenti di mostrarsi davvero, alleggerendo le sue giornate.
E’ per questo che «Ma tu lo ami.» affermai con convinzione.
Quella mia affermazione peggiorò la situazione, perché dovette socchiudere gli occhi per evitare di piangere, come se sentirlo pronunciare ad alta voce e da un’altra persona facesse molto più male che pensarlo solamente.
Annuii, esattamente secondo le mie aspettative. «Ma che senso ha amare una persona se quella non ti ricambia?»
Pensai a quelle parole. Già, che senso aveva amare se non si è amati di rimando?
Che senso aveva che Stephanie continuasse ad amare Zack se lui non vi aveva dato il minimo peso, tradendola e distruggendola sentimentalmente? Era completamente inutile, ci si avrebbe ricavato soltanto un’enorme dose di sofferenza. Sofferenza che avrebbe finito col demolirti, fisicamente e mentalmente, finché non saresti riuscito a dimenticare e cambiare pagina. Quello era esattamente ciò che ci voleva, dimenticare tutto quanto e cambiare pagina, libro, qualsiasi cosa avessi costruito nel periodo in cui quell’amore ti era sembrato ricambiato.
Ed era quello che anch’io avrei dovuto fare. Porre un enorme mattone sull’importante capitolo della mia vita che era Emma, dimenticarla. Ed avrei fatto di tutto, purché sia io che Stephanie ci riuscissimo, insieme.

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D'accordo, so che probabilmente vorrete uccidermi, ma devo avvisarvi di una cosa.... 
Mancano solo uno o due capitoli sul ballo, più epilogo, e questa fanfiction avrà una fine. Non mi sembrava vero, e invece... 
Purtroppo, ora che siamo alla fine, non mi tocca che distruggere le coppie. E questi sono senza dubbio i capitoli più difficili che abbia mai scritto, persino a me dispiace scriverli. Ma devo, perciò... 
Comunque, le cose non andranno male per sempre. Posso darvi la conferma che si risolveranno e troveranno la loro pace :)
Intanto, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e, come al solito, alla prossima!


 
 

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Capitolo 29
*** Capitolo XXIX ***


  
Il fatidico giorno era arrivato. Il giorno che quasi tutte le ragazze del mio stesso anno avevano atteso con così tanta ansia era finalmente giunto, e avrebbero potuto sfoggiare i loro abiti costosi, le acconciature più azzardate e il trucco più pesante, consapevoli che sarebbero comunque sembrate delle innocenti adolescenti al loro ballo scolastico.
Provai a concentrami, e ad immaginare Stephanie in quell’esatto momento. Chissà se stava indossando l’abito o l’aveva già indosso, se stava provando a camminare sui tacchi per esercitarsi oppure stesse sbuffando davanti allo specchio, stufa che i suoi capelli non mantenessero mai una piega un po’ più mossa del suo liscio naturale.
Mi sarebbe piaciuto restare ad osservarla in quel momento, bearmi delle smorfie sul suo viso e ammirare il suo vestito, dirle quanto fosse bella. Perché ero certo lo fosse, la più bella di tutte, e chiunque fosse stato il suo accompagnatore avrebbe dovuto considerarsi più che fortunato a tenerle la mano e ballare tendendola stretta a sé quella sera, osservare il suo splendido sorriso illuminare l’intera stanza.
Ero estremamente geloso. Geloso di chi l’avrebbe stretta, di chi avrebbe riso con lei dei suoi balletti goffi, di chi l’avrebbe vista sorridere sinceramente e di chi l’avrebbe solo toccata, perché quel qualcuno avrei dovuto essere io. E, probabilmente, non fossi stato così stupido da rovinare tutto o così codardo da non provare a rimediare al danno, in quel momento sarei stato segregato in camera mia a cercare di annodarmi una cravatta al collo, come sapevo stava facendo Martin.
Dopo quella strana discussione nella palestra non l’avevo mai cercata, ma avevo passato ogni secondo del mio tempo a pensarla. Pensavo intensamente a lei, ai momenti passati insieme, e un inevitabile senso di malinconia mi affliggeva puntualmente, lasciandomi a rimuginare su quanto lei mi mancasse.
Ogni piccolo dettaglio di lei mi mancava, come se in quel periodo di tempo fosse diventata un imprescindibile elemento delle mie giornate, di cui non avrei mai saputo o voluto fare a meno. Lei riempiva quelle giornate coi suoi sorrisi, i suoi abbracci e i suoi baci, e il suono della sua voce, ed io sentivo di avere il bisogno impellente di averla attorno, di poterla stringere senza un vero motivo  ma solo per la voglia di farlo, di farla sorridere e restare a contemplarla come fosse la cosa più bella che avessi mai visto, di respirare il suo profumo e sentirlo sulla mia stessa pelle, dopo aver trascorso la notte insieme. Avevo bisogno del suo tocco delicato, dei suoi sussurri, delle sue carezze e dei suoi occhi perdersi nei miei, così che sarebbe stato del tutto inutile parlare. Il mio stesso corpo e mente la reclamavano con una tale bramosia che era stato difficile dovermi trattenere dall’impulso di telefonarle o di piombare a casa sua, quando sentivo che non avrei potuto sopportare il senso di nostalgia.
La verità era che non mi ero mai accorto di quanto odiassi dormire da solo, finché non avevo scoperto com’era dormire accanto a lei. E pensare che non avrei mai più sentito il suo respiro unito al mio, le sue dita cercare le mie durante la notte e il suo corpo stringersi al mio, mi faceva star male. Così male che non avrei mai potuto immaginare che la lontananza da lei potesse arrecarmi così tanta tristezza.
D’altronde non era mai stato il mio prototipo di ragazza ideale, detestavo lei e il suo innato senso di superiorità, come se la gente attorno a lei non la meritasse, e non avrei mai pensato che un giorno potessi arrivare ad amare ogni piccolo dettaglio, esserne addirittura geloso.
Avrei voluto essere un ragazzo migliore per lei, avrei voluto poterla amare come meritava, e avrei voluto essere il suo accompagnatore per quella sera, com’avevamo prestabilito, ma quando mi era ormai parso chiaro che lei non avrebbe mai accettato di venire al ballo con me, avevo chiesto a Martin di invitarla al mio posto, così che lei potesse godersi la serata ed io potessi stare in parte tranquillo che nessuno oltre mio fratello le si sarebbe avvicinato.
Alzai gli occhi al cielo e sospirai desolato, osservando le prime stelle che si facevano spazio nel cielo, nel giardino di casa mia. Stavo seduto sui gradini della porta sul retro, quando sentii uno scricchiolio di scarpe avvicinarsi, e poi una figura fare ombra e ribaltarsi sull’erba, così che potessi percepirla.
Mio fratello se ne stava in piedi, dietro di me, con indosso lo smoking e la cravatta annodata un po’ troppo forte, un paio di scarpe eleganti in cui non sembrava affatto star comodo.
«Quindi hai deciso di non venire, alla fine?»
Per parecchio aveva insistito che io partecipassi a quel ballo. La stessa sera del litigio con Stephanie, più meno un paio d’ore dopo la mezzanotte, avevamo fatto una lunga chiacchierata, in cui gli avevo spiegato il trascorso degli ultimi mesi e l’improvvisa sfuriata di Stephanie in palestra, che mi aveva ridotto ad uno straccio. Lui se ne era accorto, e nonostante pensassi che avrebbe voluto picchiarmi per aver fatto soffrire la sua migliore amica non l’aveva fatto, non mi aveva rivolto un rimprovero o una ramanzina, era rimasto semplicemente ad ascoltarmi per tutta la notte, mentre gli raccontavo del mese più importante della mia vita e di come lo avessi distrutto in pezzi. Mi sembrava quasi provasse uno strano moto di pietà nei miei confronti, tanto che aveva persino perso l’abitudine di piombare in camera mia e tentare di distrarmi, mentre il mio solo unico diversivo era stato lo studio. Era un comportamento strano il suo, ma francamente non avrei retto anche una delle sue sfuriate, per cui mi andava bene così.
Sospirai silenziosamente e poi annuii, premendo le labbra le une contro le altre con forza, in un comune  segno di nervosismo. «E’ tardi, dovresti andare.» lo ammonii infine.
Mio fratello inspirò profondamente, quasi si stesse rassegnando alla mia decisione in quel momento, dopodiché lo sentii voltarsi e fare qualche passo.
«Martie» lo richiamai, prima che potesse tornare in casa.  
Lui si voltò nuovamente  ed aspettò, in attesa di cosa dovessi dirgli.
Ci riflettei qualche secondo, poi sollevai automaticamente le labbra in un sorriso mesto.  «Falle passare la serata più bella della sua vita.»
 
Quando misi piede nella palestra, mi resi conto di quale incredibile lavoro io e le mie compagne avessimo svolto nell’ultimo mese. Quella che prima era stata una palestra inutilizzata, ora non sarebbe più stata riconoscibile, con la moquette e la nuova pittura alle pareti, festoni e palloncini ad addobbare quello che era stato il mio obbiettivo nell’ultimo periodo.
Mi diedi uno sguardo tutt’intorno e notai la sala strapiena di miei coetanei, già intenti a fare qualche ballo in pista o prendere un cocktail, nonostante fosse solo passata una scarsa mezz’ora dall’inizio dell’evento. A quella visione non potei fare a meno di sorridere, perché sapevo finalmente che i miei sforzi erano stati ripagati, e quella fosse la sala da ballo studentesco più bella che avessi mai visto – anche se l’unica.
Martin, al mio fianco, alzò lo sguardo sulla sfera di cristallo che trasmetteva luci stroboscopiche sulla sala, e sorrise. Tornò a puntare lo sguardo sul mio, e «E’ fantastica!» commentò, dando anche lui un’occhiata intorno.
Ricambiai il suo sorriso, grata. «Grazie!»
Mi strinse la mano e si diede un’ulteriore occhiata intorno, poi si voltò nuovamente a guardarmi. Si avvicinò al mio orecchio e «Vuoi qualcosa da bere?» mormorò.
Scossi lievemente la testa, consapevole che le uniche bevande presenti fossero solo alcolici e non avevo intenzione di berne come avevano già cominciato a fare alcune mie compagne, e Martin mi sorrise comprensivo.
Faceva così male vederlo sorridere, perché la mia mente non poteva fare a meno di associare quello stesso sorriso ad un altro, appartenente alla persona che da sempre avevo desiderato fosse al mio fianco in quel momento. E Dio solo sapeva quanto quel sorriso mi mancasse, sebbene odiassi ammetterlo.
Avrei potuto negarlo all’infinito e a tutti quanti, ma non avrei mai saputo negare a me stessa quanto in realtà sentissi la mancanza di Zack. Mi ero decisa ad accantonarlo, a non sprecare nemmeno un secondo del mio tempo a pensare a lui, ma non riuscivo a tener fede a questa promessa per un’ora che il trascorso dell’ultimo mese cominciava a ripetersi freneticamente nella mia testa, i ricordi a tamburellare persistenti, quasi volessero rammentarmi quanto fossi ipocrita a costringermi a dimenticare. Non avrei saputo dire se dimenticare fosse la scelta giusta, ma certo era fosse l’unica cosa che potessi fare, visto che non avevo alcuna intenzione di ritornare con lui dopo che mi aveva mentito così spudoratamente.
Non riuscivo a credere mi avesse realmente tradito. Avevamo passato dei bellissimi momenti insieme – o almeno credevo – ed ero persino riuscita ad innamorarmi, per la prima volta in vita mia, ma tutta quella magia era scomparsa esattamente quando mi ero resa conto di quanto fosse importante, e adesso mi sentivo vuota. Come se, avendo cacciato lui dalla mia vita, avessi anche cacciato la felicità che si era instaurata ultimamente dentro di me. Avevo passati i giorni dopo quella sfuriata in palestra a studiare, parlare con Martin, fingere di star bene e poi piangere, quando nessuno avrebbe potuto vedermi e giudicarmi.
Avevo giurato che non avrei mai pianto per un ragazzo, ma evidentemente non sapevo ancora cosa fosse l’amore, quali sensazioni provocasse, e ora che finalmente ne avevo scoperto l’aspetto più piacevole, ecco che mi veniva sbattuto in faccia l’aspetto negativo, quello triste, che ti rendeva noiosamente apatica e depressa, anche se, a dirla tutta, lo ero sempre stata. Non mi aveva sorpreso che mia madre avesse immediatamente intuito che qualcosa non andava, quando ero tornata ad essere la Stephanie asociale e diplomatica, ma non le avevo parlato sul serio, perché ricordare faceva male. L’unica persona con la quale ero riuscita a confidarmi davvero riguardo la mia rottura con Zack era stato proprio suo fratello, e lui stesso mi aveva garantito che sarebbe riuscito a farmi dimenticare.
«Zack non è venuto.»
Fermai lo sguardo su un punto fisso della sala, dove una coppietta era intenta a ballare goffamente e ridere l’una dell’altra, e sentii una strana sensazione allo stomaco quando Martin pronunciò quel nome, deglutii di conseguenza, come a scacciare l’ansia. «Non mi interessava saperlo.» minimizzai, tentando di mantenere un atteggiamento distaccato.
Martin esibì un mezzo sorriso, quasi divertito. Sapevo che non mi aveva creduto.
 
Passammo metà serata a ridere insieme e a ballare – se il nostro avrebbe potuto considerarsi tale – , e dovetti ammettere a me stessa che avevo fatto più che bene a partecipare al ballo alla fine, nonostante non ne avessi alcuna voglia. Era stato Martin ad insistere, convincendomi che se avessi passato la serata a casa avrei finito col deprimermi, e poi lui non aveva un’accompagnatrice, anche se dubitavo fortemente volesse davvero far parte di eventi del genere.
«Ne è valsa la pena venire alla fine, visto?» commentò una volta riuscito a trovare un piccolo spazio libero dove poterci sedere, sorridente.
Annuii vigorosamente, d’accordo con lui.
«Ho la gola secca, vado a prendermi da bere, ti porto qualcosa?»
«Un po’ d’acqua, se c’è.»
Il mio migliore amico mi rivolse un tenero sorriso e mi intimò un “resta qui, eh”, prima di alzarsi e dirigersi tra la folla, alla ricerca del bancone dei cocktail. Io portai le mani sulle ginocchia e presi a picchiettare con i tacchi sulla moquette annoiata, mentre mi guardavo intorno curiosa di come la serata stesse procedendo. Potevo ritenermi abbastanza soddisfatta comunque, tutti sembravano divertirsi e mi stavo divertendo anch’io.
La musica si abbassò di volume d’un tratto, e quando rivolsi lo sguardo sul palchetto notai la preside salire i gradini e sorridere agli studenti, che si erano fermati a rivolgerle attenzione. Un applauso si alzò dalla folla di studenti, e la preside lo placò con un umile gesto della mano, prendendo poi in mano il microfono quando ebbe ottenuto abbastanza silenzio. Picchiettò con l’indice un paio di volte, poi prese parola.
«Buonasera ragazzi, spero vi stiate divertendo!» iniziò, provocando i fischi e alcune urla da parte del suo pubblico, «Mi dispiace interrompere la serata, ma è giunta l’ora di nominare i nomi del re e della reginetta del ballo.» annunciò, visibilmente eccitata. E anche gli studenti lo erano, perché esplosero in grida di approvazione. «Vorrei chiamare qui sul palco l’organizzatrice del ballo, Stephanie Gilbert.»
Assunsi d’un tratto un ‘espressione pressoché seria, e gli sguardi dei presenti vagarono per la stanza, per poi posarsi su di me e sorridermi incoraggianti. La stessa preside mi sorrideva, incitandomi ad avvicinarmi al palco con un gesto della mano. Io deglutii e dovetti assumere un colorito rossastro a causa dell’imbarazzo, mi alzai traballando sui tacchi e sperai vivamente di non inciampare e fare una figuraccia, poi quando ebbi stabilito un certo equilibrio camminai verso il palco, salendo i tre gradini per raggiungere la preside, salutarla con dei consueti baci sulle guance.
Lei scatenò un applauso per la sottoscritta da parte della folla, poi mi passò una busta di color argento, suggerendomi di leggere i nomi uno per volta.
«Tocca alla reginetta, adesso.»
Tutte le ragazze presenti trattenevano il fiato, incrociavano le dita, dicevano qualcosa sottovoce ed erano nervose o ansiose. Quel comportamento mi sembrò ridicolo, perché infondo diventare reginetta del ballo scolastico non avrebbe avuto nessun valore, ma comunque tenni per me i miei commenti personali e mi limitai ad aprire la busta.
«Amelia Williams.» lessi il nome sul cartoncino, voltando poi lo sguardo sulla sala finché non individuai una ragazza dai capelli rossi stretta in un vestitino rosa, che abbracciava colui che probabilmente doveva essere il suo accompagnatore. Sorrideva esageratamente, e la invitai a raggiungermi sul palco, così che la preside potesse metterle in testa la coroncina. Successivamente toccò al re.
Anche stavolta lessi il nome del cartoncino, annunciando il nome di Tyler Mitchell. Un ragazzo dai capelli corvini e con un grosso papillon sorrise e si avvicinò repentino al palco, salendone i gradini con dei saltelli. La ragazza gli allacciò le braccia al collo immediatamente, ed io sorrisi, riconoscendo il ragazzo che aveva abbracciato anteriormente. In effetti credevo d’averlo già visto, e mi ricordai di lui solo quando lo associai a Zack, come compagno della sua squadra.
«Viva il capitano!»
Un coro si innalzò dal centro della sala, proveniente da un gruppetto di ragazzi, e presto si estese fino a riempire la stanza, delle grida continue che facevano ridere il ragazzo sul palco.
Dovetti avere un momento di esitazione, perché stetti a sentire quei cori e poi aggrottai la fronte, confusa. Mi avvicinai a Tyler, e «Sei tu il capitano della squadra di basket?» gli domandai, afferrandolo per una spalla. Quello annuì sorridente, riservandomi anche un’occhiata lievemente perplessa.
Ed io capii d’aver fatto una cazzata.
 
Sbuffai, delusa dal constatare che non trasmettevano un solo programma decente alla tv, quella sera. Avevo fatto zapping tra circa un centinaio di canali, e non avevo trovato niente di meglio di qualche replica di film e alcuni cartoni.
Incredibile come la televisione diventasse terribilmente inutile la domenica. Ripensandoci,  forse avrei fatto meglio ad andare coi miei alla cena a casa dei Turner, almeno avrei avuto qualcosa da fare, anche se convincere mio padre ad andarci era stata un’impresa. Al contrario di mamma però, che aveva insistito un’intera settimana perché mio padre si comportasse decentemente e non combinasse guai a quella cena, mia sorella Kirsten non voleva assolutamente che lui vi avesse partecipato, ed io non la biasimavo affatto: chi mai avrebbe voluto che le facesse fare una figuraccia col suo nuovo ragazzo, Tom?
Scossi la testa divertita, ripensando alla cattiva condotta di mio padre con i fidanzati di Kirs, e non mi sorprendeva affatto che, ora che era quasi sicura fosse qualcosa di serio, mia sorella non lo volesse tra i piedi. Lui era geloso, irritante, ed estremamente imbarazzante in alcune occasioni, tanto che ero convinta che, fosse stato per lui, le sue “piccole” non avrebbero mai dovuto avere un fidanzato, né sposarsi. Ci avrebbe tenuto strette nelle sue braccia fino alla vecchiaia, ostinandosi a chiamarci con l’appellativo di “principessa”.
Dopotutto era dolce. Era dolce che mio padre fosse così protettivo e geloso nei nostri confronti, ma non credevo che io o Kirsten avremmo finito col rispettare il suo volere di tenerci zitelle a vita, e lui non ne sarebbe stato contento, come dimostrava la sua faccia quando avevano lasciato la casa per recarsi dai Turner.
Chissà come sarebbe stato con me. Se io avessi avuto un fidanzato e glielo avessi fatto conoscere, come si sarebbe comportato? Sarebbe stato gentile, tentando di non farmi fare delle figuracce? Oppure si sarebbe comportato al suo solito, sfoderando il suo lato più imbarazzante?
Trattenni una risata, pensando ad un eventuale incontro tra mio padre e Martin. Lui non avrebbe spiaccicato parola, troppo timido e rispettoso per parlare ed esprimere un’opinione personale, magari anche timoroso. E mio padre l’avrebbe classificato come il tipico ragazzo della porta accanto, incapace di lottare per i propri obbiettivi.
Invece non lo era affatto. L’avevo pensato anch’io all’inizio, ma avevo dovuto rimangiarmi ogni parola quando mi aveva baciata.
Sentii un forte nodo allo stomaco e d’istinto increspai le labbra, come a rivivere quel momento. Fino ad allora, non avevo mai pensato a Martin come a qualcuno che potesse avere tanto coraggio e una tale faccia tosta, come non avevo mai pensato che potesse essere interessato a me in quel modo.
Non avevo la più pallida idea del perché di quel bacio. Non lo comprendevo, non lo concepivo, e mi era sembrata la sensazione più strana che avessi mai vissuto, quando per quei pochi istanti aveva posato le sue labbra sulle mie, facendomi irrigidire quasi fossi un blocco di marmo.
Perché l’aveva fatto? Mi aveva baciata così, senza un motivo preciso, oppure il motivo c’era, solo che io non l’avevo capito? Perché era incredibile come fossi passata dal volerlo abbracciare al volerlo allontanare da me in pochissimo tempo, come se ad un tratto le cose tra noi fossero cambiate ed io non me ne fossi accorta.
Perché mi aveva baciata?
Ronnie aveva sostenuto sin dall’inizio che Martin provava un forte interesse per me, ma io l’avevo negato, e non solo perché ero convinta che le sue fossero solo fandonie, ma perché ero io stessa a non volerlo. Non volevo assolutamente che lui potesse provare qualcosa di più rispetto al forte senso di amicizia che provavo io, perché non avrei saputo ricambiarlo. Esattamente come quel bacio, io non sarei stata in grado di ricambiare i suoi sentimenti, di renderlo felice, perché io non ero innamorata di lui.
Ma lui era innamorato di me? Cos’aveva significato quel bacio, esattamente, per lui? Significava che voleva fossimo più di semplici amici, o forse era stato solo uno stupido impulso al quale non aveva saputo resistere? Per chissà quale motivo poi. Trovavo improbabile che potesse provare qualcosa per me.
Ma se fosse stato così? Se lui provasse qualcosa per me, un sentimento più forte della nostra amicizia? In quel caso, ero stata davvero un idiota a non accorgermene. Anche se lui non me ne aveva mai dato la prova… oppure sì?
«Dannazione!» sbraitai, prendendomi la testa tra le mani. La sentivo pesante, gonfia, troppo incasinata da permettermi di pensare lucidamente.
La reazione di Nate dovette essere simile a quella di una persona che assiste ad atti di pazzia, perché sgranò gli occhi e si bloccò sul posto, riservandomi un’occhiata più che stranita. «Cosa è successo?» mormorò, scandendo bene le parole, quasi fosse stato spaventato.
Sospirai ed alzai lo sguardo su di lui, assottigliando gli occhi. Mio fratello alzò le mani come a voler indicare di non volersi impicciare, e proseguì verso la cucina alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Ma lui era una ragazzo. Forse lui avrebbe potuto capire meglio di me il gesto di Martin, spiegarmelo.
«Nate, vieni qui, devo chiederti una cosa.»
Mio fratello bloccò la mano a mezz’aria che andava ad afferrare il pacchetto di patatine, e si voltò alzando gli occhi al cielo, venendo poi a raggiungermi sul divano. Si sedette, e prese a guardarmi in modo confuso. Io giocherellavo nervosamente con le dita.
«Come ragionate voi ragazzi?» sparai, puntando lo sguardo dritto sul suo.
Mio fratello corrugò la fronte e mi riservò un’occhiata chiaramente perplessa. «Scusa?»
«Intendo nel campo sentimentale, come ragionate? Come agite, secondo quali criteri, perché?»
Nate mantenne quell’espressione, quasi stesse avendo a che fare con una pazzoide – di nuovo – ed infine assunse un’espressione più normale, come se riflettesse. «D’impulso, credo.»
«Impulso?»
Annuì lievemente e voltò lo sguardo davanti a sé, a fissare nel vuoto la parete. «Di solito i ragazzi agiscono d’impulso, non pensano alle conseguenze delle loro azioni.»
Quindi quello di Martin avrebbe potuto essere un semplice impulso? Magari non era innamorato di me, non provava assolutamente nulla, aveva solo avuto un impulso.
«E di solito, dietro a questi impulsi, c’è una vera ragione? Nel senso, se tu fai qualcosa, c’è alla fine una ragione per la quale l’hai fatta?»
Nate aggrottò la fronte tornando a guardarmi, visibilmente perplesso. «Ma di che diavolo parli?!» sbottò.
Sospirai, esasperata. Ovviamente Nate non avrebbe potuto essermi d’aiuto, d’altronde non lo era mai stato in tutti gli anni della mia vita.
Lui socchiuse gli occhi e si lasciò andare ad un piccolo sospiro. «C’entra un ragazzo?» mi domandò.
Puntai gli occhi sui suoi ed annuii, inspirando profondamente.
«E cos’ha fatto?»
«Mi ha baciata.» dissi, lasciando che mio fratello assumesse la notizia – qualcosa nella sua espressione mi suggeriva che non se l’aspettava.  «Ma il problema è» ripresi, «che non so perché l’ha fatto! Siamo amici, non ho idea del perché mi abbia baciata. E’ strano come comportamento, no?»
Nate si lasciò a qualche secondo di silenzio, come se ci stesse pensando. «Gli hai parlato?» mi chiese.
Mi morsi il labbro, come afflitta da un leggero senso di colpa, e scossi la testa. La realtà era che lo evitavo, lo avevo ignorato perché non avevo il coraggio di affrontarlo dopo l’accaduto.
Mio fratello curvò le labbra in un sorriso, quasi intenerito. «Allora dovresti chiederglielo, è l’unico modo per scoprire qualcosa.»
«Tu dici?» domandai, incerta.
Annuì, sorridendomi incoraggiante.
«Ma io non ne sono tanto sicura, potrei rimanerne delusa in qualche modo…» mormorai, lasciandomi accoccolare al petto di mio fratello come una bambina insicura, mentre lui mi stringeva un braccio attorno alle spalle, protettivo.
«Prendere delle scelte fa parte dell’essere grandi, e adesso tocca a te.» mi rassicurò, sorridendo dolcemente «Se non altro avrai le idee chiare.»
Sospirai, ma mi convinsi che d’altronde quella era la scelta giusta. Avrei dovuto parlargli, chiedergli il perché di quel bacio, e se avevo avuto il coraggio di parlare con Nate e chiedergli un consiglio allora niente avrebbe dovuto farmi paura.
Gli sorrisi, grata che mi avesse aiutata. «Me lo dai uno strappo fino a scuola?» 


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D'accordo, sono al capitolo 29 e ne manca solo uno alla fine e l'ho già scritto e non sono pronta ad abbandonare questa storia............. ma preferisco tenere il discorso strappalacrime per domani, quando pubblicherò il capitolo 30. E' che avevo programmato un capitolo intero, ma sono uscite millemila pagine di word, e quindi ho deciso di dividerlo in due parti, e di mettere 30 capitoli così faccio cifra tonda (?). 
Finalmente il ballo tanto atteso è giunto! Riassunto della situazione:
- Zack è depresso;
- Stephanie è stupida;
- Emma è confusa.
Martin sarà presente nel prossimo capitolo, che sono sicura vi piacerà :)
Intanto, spero voi vi siate goduti questo capitoli e aspettiate con ansia il prossimo. 
A domani :)

 
 

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Capitolo 30
*** Capitolo XXX ***


«E’ qui?»
Mi affacciai dal finestrino e diedi un’occhiata veloce all’ambiente attorno all’auto, sebbene fosse buio, e sorrisi automaticamente quando notai una piccola luce illuminare la casa, renderla ben nota in mezzo agli alberi e agli arbusti.
Annuii sorridente verso Tyler, il quale ricambiò il mio sorriso e mi incitò a scendere dall’auto. Così aprii la portiera con le mani tremanti ed afferrai i lembi del vestito per non danneggiarlo, mentre posavo i piedi nudi sull’erba fresca. Rabbrividii, e strinsi tra le dita i tacchi che avevo deciso saggiamente di togliere, mentre mi mettevo in piedi sull’erba e sorridevo a Tyler, ringraziandolo d’avermi accompagnata fin lì.
«Non c’è problema.» mi sorrise lui.
Gli rivolsi un ultimo sorriso di gratitudine e presi a correre sull’erba, nervosa ed eccitata allo stesso tempo, fin quando la stessa voce di Tyler mi richiamò, augurandomi un “buona fortuna”, mentre rimetteva in moto l’auto.
«Crepi!»
Sentii il rombo del motore ripartire ed io mi voltai nuovamente, correndo per raggiungere la piccola casetta sul lago, convinta che l’avrei trovato lì. Tyler mi aveva dato precedentemente un passaggio fino a casa Payne, ma quando avevo notato la casa completamente buia e il giardino sul retro vuoto, e avevo constatato che il cellulare di Zack fosse irraggiungibile, non avevo avuto dubbi di poterlo trovare qui.
Feci attenzione al vestito mentre mi facevo spazio tra gli arbusti, ed ebbi un attimo di esitazione quando mi trovai davanti alla casa, sul punto di varcarne la soglia.
Quella casa aveva custodito i miei ricordi più belli. Era lì che io e Zack avevamo passato la maggior parte del nostro tempo, nella più assoluta tranquillità, a fare l’amore o semplicemente a scambiarci baci, carezze, attimi di vita. Perché infondo sarei stata meschina se avessi detto che quella casa non costituiva un posto importante, dove avevo passato i miei momenti più belli, perché li avevo passati con lui. Era il nostro nido d’amore, dove avevamo passato la nostra prima notte insieme, e non avrei mai potuto dimenticarne il valore, qualunque cosa fosse successa dopo.
Diedi un lungo respiro, eccitata all’idea che avrei potuto nuovamente abbracciare il mio ragazzo, e mi decisi a fare un altro passo, diretta verso la casa. Dovetti calcolare male lo spazio attorno a me però, perché il mio piede inciampò dritto sulla radice di un albero, ed io caddi rovinosamente a terra, come una perfetta idiota.
«Cazzo!» borbottai, quando colpii la terra con il ginocchio, riuscendo comunque a mantenermi sollevata grazie ai palmi delle mani.
«C’è qualcuno?»
Riconobbi la sua voce. Bastò quel semplice attimo per scatenare in me diverse emozioni, ma decisi che la scelta migliore a quel punto fosse rimettermi in piedi ed evitare di fare una figuraccia, visto che Zack mi avrebbe raggiunta a momenti.
«Merda merda merda merda merda» bisbigliai in preda al panico, quando tentai di mettermi seduta. Il ginocchio mi faceva male, ed in più il vestito era macchiato completamente di terra, tanto da renderlo irriconoscibile. Sbuffai, desolata, mettendomi in piedi ed osservando la gonna del vestito, piena di tagli e diversi buchi. «L’ho rovinato» mormorai sconsolata, pensando alla reazione di mia madre quando mi avrebbe vista tornare a casa.
«Stephanie?»
Alzai lo sguardo quando sentii chiamare il mio nome, e trovai Zack a fissarmi incredulo, come se stesse vedendo un fantasma. Sicuramente non si aspettava che venissi a trovarlo.
Gli sorrisi, sebbene fossi certa di assomigliare a Cenerentola prima della magia, in quell’esatto momento, e mi sollevai coi piedi per raggiungerlo e corrergli incontro, ma quando tentai di avvicinarmi a lui sentii uno stiramento alla gamba e un forte dolore al ginocchio, tanto che cedette e tornai a sedermi sulla terra, tenendo stretta con le mani la presa sulla gamba destra, mentre esibivo qualche smorfia di dolore.
Zack notò il mio cedimento e corse verso di me, per poi accovacciarsi in modo da potermi guardare negli occhi. «Cos’è successo?» chiese, scoprendo la gamba da sotto il vestito. Mi costrinse a rimuovere le mie mani dalla lesione e, notando il sangue scrosciare fuori dalla ferita, non esitò per posare le mani ai miei polpacci e sulla mia schiena, sollevandomi. «Ti porto dentro» sussurrò al mio orecchio, mentre mi aggrappavo a lui in modo da poter limitare il dolore.
Mi medicò e fasciò la ferita al ginocchio meglio che poteva, e quando fu convinto che la sua fasciatura potesse resistere prese a guardarmi, confuso. «Perché sei venuta?» mormorò.
Puntai gli occhi sui suoi e sospirai, decisa comunque a dirgli ogni cosa. A dirgli quanto mi mancasse, che avevo frainteso tutto quanto, e che doveva perdonarmi, perché non potevo star senza di lui, e che ero venuta per dirglielo. Avrei voluto dirgli che mi dispiaceva di non avergli creduto, di aver ignorato i suoi messaggi e le sue chiamate ed essere stata così ostinata e infantile, che probabilmente non meritavo di essere perdonata dopo la mia esagerata reazione.
Ma non feci nulla di tutto questo.
Semplicemente mi sollevai sui gomiti e riuscii a fissare una mano sulla sua guancia, che accarezzai dolcemente. Mi persi nei suoi occhi per un momento, e poi premetti le labbra sulle sue, socchiudendo gli occhi.
Sentivo il cuore battere all’impazzata, lo stomaco improvvisamente attanagliato, ma sapevo di aver bisogno di quel contatto, e non mi ci distolsi. Mossi le labbra sulle sue finché lui non fece lo stesso, e restammo a baciarci per qualche secondo, desiderosi entrambi di quel bacio, fin quando lui non si allontanò dalla mia bocca, e la magia finì.
Aprì gli occhi e il suo sguardo era ancora più confuso del precedente. Sicuramente stava pensando fossi completamente pazza, ad essere piombata lì all’improvviso ed averlo baciato, dopo tutto quello che era successo tra noi. E forse lo ero. Forse ero davvero matta, ma il mio allontanamento era stato unicamente causato da quel bacio in palestra, e quando avevo scoperto che in realtà il motivo del mio semishock era stato Tyler e non Zack mi ero sentita sollevata, e stupida, ma determinata a riconquistare ciò che contava di più, ovvero lui.
Perché lui lo era, la cosa che più importava. E forse per questo non avevo esitato ad abbandonare la festa e raggiungerlo appena scoperta la verità, perché se c’era qualcuno con cui avrei dovuto festeggiare la serata più romantica della mia vita quello sarebbe stato Zack.
Sentivo di provare sentimenti contrastanti per lui, ma forti, capaci di farmi perdere la testa, e fu per questo che «Ti amo» sussurrai contro le sue labbra, interrompendo quello che stava per uscire dalla sua bocca.
Sorrisi, fiera di essere riuscita a dirlo. Ero fiera di essere riuscita a distruggere quel muro che mi divideva dai sentimenti, dalle vere sensazioni e dall’osare, dal rischio, ed ero felice di aver dato finalmente voce ai miei pensieri.
«Ti amo, Zack» ripetei, osservando quella che mi sembrò una reazione del tutto anomala. Zack infatti sembrava impietrito, come se non riuscisse o non sapesse cosa dire, e cominciai sul serio a preoccuparmi quando lo vidi fare scena muta.
Ma non durò molto, perché distese le labbra in un sorriso, addolcito. «Sei la prima ragazza che me lo dice.»
Sorrisi imbarazzata, sicura che adesso le mie guance stessero andando a fuoco. «Adesso tu dovresti rispondere qualcosa come “anche io”, ma non ne sono tanto certa, non sono pratica in queste cose…» borbottai ancora in imbarazzo, passando una mano a grattarmi la nuca.
Ma non fu necessario far ricorso alle mie paranoie, perché lui allargò le labbra e insinuò una risatina, poi posò la fronte contro la mia, accarezzandomi il viso delicatamente com’era solito fare. Mi rilassai a quel tocco, permettendomi di socchiudere gli occhi, fin quando le sue parole non mi destarono da quella sensazione di tranquillità che tanto mi era mancata.
«Ti amo anche io.»
Aprii gli occhi e li puntai sui suoi, e la mia prima reazione fu quella di gettarmi a capofitto tra le sue braccia, sorridendo così ampiamente che temevo mi si bloccasse la mascella.
Lo aveva detto. Il ragazzo che pensavo fosse senza cuore e non provasse sentimenti aveva ammesso di amarmi, ed io avrei voluto registrare quel momento per ripeterlo all’infinito. Mi amava, sapevo che era sincero, e quello non poteva che essere il miglior momento che potessi mai vivere.
Strinsi forte le braccia al suo collo, e posai il viso nell’incavo di questo, socchiudendo gli occhi e respirando il suo profumo. Mi era mancato così tanto.
Lui stringeva le braccia dietro alla mia schiena, lasciava dei baci dovunque potesse, come se stesse rimediando a quelli mancati in quei giorni.
«Avevo ragione.» mormorò, mentre premeva le labbra dolcemente sulla mia guancia.
Corrugai la fronte chiedendomi di cosa stesse parlando, e così puntai lo sguardo sul suo in cerca di spiegazioni. «Ragione su cosa?»
«Non sei come le altre.» mormorò, sorridendo.
 
Stephanie se n’era andata.
L’avevo lasciata in un angolo della sala, seduta, mentre andavo a prenderci da bere, e poi l’avevo vista salire sul palco ed annunciare i titoli di re e reginetta del ballo, ma quando avevo preso i bicchieri tra le mani e mi ero fatto un giro per cercarla lei non c’era. L’avevo cercata in ogni angolo di quella stanza, ma di lei nessuna traccia, e dovetti ammettere che ci ero rimasto piuttosto male , visto che invitarla al ballo era stato un favore che le avevo concesso. In più adesso ero completamente solo, in balia di un ammasso di persone ubriache che non sopportavo minimamente e non vedevo l’ora di abbandonare, se non altro per instaurarmi in un nuovo ambiente e ricominciare a snobbare tutti quanti, visto che era parecchio improbabile riuscissi a farmi delle nuove amicizie. Per non contare che ne avrei persa una, perché se mai fossi uscito vivo da quel ballo scolastico, avrei senz’altro  ucciso Stephanie Gilbert.
Sbuffai sonoramente e buttai giù un cocktail dal colore verde che il barman mi aveva consigliato, lasciando scendere la bevanda lungo la gola. In generale non mi sarei mai fidato dei consigli di un barman, o tantomeno della mia abilità di reggere l’alcol, ma era la sera del mio ballo scolastico, la mia accompagnatrice nonché migliore amica sembrava scomparsa ed io mi sentivo nella più assoluta solitudine, e visto che quella avrebbe dovuto essere una serata da ricordare per il resto della mia vita tanto valeva darci sotto con l’alcol. Cosa mi sarebbe successo, d’altronde? Ero sicuro di provare ancora un certo rigurgito per il vomito della mattina dopo la festa di Zack. Alla quale, ripensandoci, lui non aveva partecipato affatto, e almeno adesso sapevo il perché nemmeno Stephanie fosse presente.
Decisi di farmi spazio tra la folla e uscire a prendere una boccata d’aria in giardino, se non altro per allontanarmi dalla musica scassa-timpani e la sensazione di festa che non mi sentivo di condividere. E poi tutte quelle coppiette intente a pomiciare e toccarsi sulla pista da ballo mi facevano rivoltare lo stomaco.
Mi sentii particolarmente sollevato quando potei finalmente respirare dell’aria sana e pulita, nonostante mi sembrava che la musica mi avesse seguito fin lì. Mi sedetti sull’erbetta e portai le ginocchia al petto, poggiando il mento sulle ginocchia. Sospirai, consapevole di essere la copia esatta del ritratto della disperazione.
Che bella l’adolescenza.
Per fortuna che tutto quello che mi rimaneva da fare erano gli esami, e poi avrei finalmente potuto liberarmi di quel branco di scimmie leggermente sovrasviluppate che erano in palestra a ballare, vivere in un ambiente nuovo. Non avevo idea di cosa avrei combinato fuori da scuola, una volta terminati gli esami, ma ero certo di volermi disfare della mia vecchia vita e di certe conoscenze, e ci sarei senza dubbio riuscito. Mi sarei liberato di quella scuola, di quegli anni, di tutto e di tutti quanti, libero finalmente di poter essere me stesso. D’altronde quella scuola cosa mi aveva regalato? Cinque anni passati nell’ombra di mio fratello.
«Martin.»
Sbuffai e alzai gli occhi al cielo, voltandomi appena. «Se sei venuta a chiedermi scusa per avermi abbandonato qui senza nemmeno avermi avvertito sappi che-» mi bloccai di colpo, osservando la persona con la quale stavo parlando.
Ed ecco l’altra cosa che quei cinque anni di scuola mi avevano regalato.
Non credevo che avrei più avuto una vera conversazione con Emma. In effetti, i suoi silenzi che avevano susseguito quel pazzo gesto di qualche giorno prima mi avevano persuaso che mi odiasse, o almeno non volesse più vedermi, e adesso vederla lì in piedi sull’erba a fissarmi mi sembrava quasi un miraggio. Il miraggio più bello al quale potessi assistere, ma comunque un miraggio.
Accennò un piccolo sorriso divertito, e si fece qualche passo sull’erba fino ad avvicinarsi e chinarsi a sedersi sull’erba, affiancandomi. Incrociò le gambe e voltò il viso verso il mio, sorridendo come sua abitudine. «Chi è che ti ha abbandonato?»
Non poteva essere vero. Stavo sognando o davvero Emma era qui affianco a me a parlarmi nella serata più triste della mia vita? Pensavo che non l’avrei più rivista o sentito il suono della sua voce.
Abbassai lo sguardo, prendendo a giocherellare con alcuni fili d’erba. «Stephanie, è sparita.»
«Oh. Quindi sei solo.»
Annuii, lasciandomi andare ad un sospiro sconsolato. «E tu che ci fai qui? Il tuo ballo scolastico non è stasera, sei in anticipo di due anni.» commentai con una leggera punta di ironia, mentre strappavo i fili d’erba con le dita.
La sentii sospirare, come se la mia frase l’avesse messa a disagio – forse anche lei si stava chiedendo cosa fosse venuta a fare lì. «In realtà sono qui perché sapevo che ti avrei trovato.» tornò a parlare, con la voce esitante, «Ho bisogno di parlarti.».
Alzai lo sguardo su di lei, sorpreso. Non pensavo che avesse qualcosa da dirmi dopo ciò che era successo, non qualcosa di positivo almeno. Per cui «Se sei qui per sbattermi in faccia quanto sia stato stupido e che non vuoi più vedermi puoi risparmiartelo» la avvertii, nonostante il mio tono di voce lasciasse trasparire così tanta tristezza. Perdere lei e il rapporto che avevamo costruito era l’ultima cosa che desideravo, anche se ero stato soltanto a creare una possibilità per quel distacco. Comunque avrei accettato qualsiasi decisione lei avesse preso, perché non avrei potuto controbattere e criticare le sue scelte, reclamare di aver bisogno di lei come un bambino egoista.
Emma corrugò la fronte e scosse velocemente la testa, lievemente perplessa in volto. «Perché pensi sempre le cose peggiori?» commentò, «Volevo solo parlare del bacio dell’altra sera, non voglio sbatterti in faccia niente.»
«Ancora peggio…» bisbigliai, senza farmi sentire da lei. «Cosa vuoi sapere?» le domandai infine, rassegnatomi al fatto che prima o poi avrei dovuto darle delle spiegazioni.
Emma sospirò e si prese qualche momento, come a voler riordinare le idee. Chissà quante e quali cose avesse da chiedermi, non ero nemmeno tanto sicuro di essere in grado di darle delle risposte esaurienti.
«Allora,» esordì, sistemandosi sull’erba, «innanzitutto mi dispiace per essere stata così esagerata ed averti trattato in quel modo, non te lo meritavi.» mormorò, esibendo un’espressione dispiaciuta. «E’ solo che…» fece una pausa, nella quale abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe pur di evitare il mio; «Era il mio primo bacio.» sussurrò, cauta.
Sgranai gli occhi a quell’affermazione, realmente stupito. Avevo pensato qualsiasi motivazione per giustificare la sua reazione, ma mai mi era passato nella mente che fosse stata semplicemente spaventata, perché quello era il suo primo bacio. Non pensavo che lo fosse stato, non lo avevo pensato nemmeno per un secondo, e adesso mi sentivo uno stupido ad essermi fatto tutte quelle paranoie, pensando a come dovevo averla agitata.
Osservai la reazione sul viso di Emma, e sorrisi intenerito quando notai le sue gote assumere un leggero colorito rossastro, come se averlo ammesso soprattutto a me l’avesse messa in imbarazzo. Comunque tentò di non restare in imbarazzo troppo a lungo, e sospirò per ridarsi un contegno, trovando il coraggio di continuare il suo discorso.
«Non capisco perché mi hai baciata.» arrivò al punto, alzando lo sguardo sul mio e puntando gli occhi dritti nei miei, confusi, che richiedevano una giustificazione al  gesto più azzardato che avessi mai compiuto, oltre ad ubriacarmi fino a vomitare l’anima.
Allora finalmente capii che era giunto il momento. Il momento che avevo tanto aspettato e temuto, quello in cui mi sarei finalmente dichiarato alla mia cotta epica, raccontandole di quanto fossi innamorato di lei e di come l’avessi seguita in quei tre anni quasi fossi stato uno stalker. Le avrei raccontato delle mie fantasie sul momento in cui mi avrebbe rivolto la parola, di come avrei reagito e di come mi sarebbe piaciuto constatare se davvero i suoi capelli fossero morbidi come avevo sempre pensato. Magari le avrei spiegato anche la sensazione che mi aveva spinto a provare a baciarla quella sera, il senso del rifiuto che mi aveva destato dal provarci altre volte, e infine la voglia di mandare tutto al diavolo e provare a mettere la mia felicità al primo posto per una volta, provare ad essere felice anche io.
«Sono innamorato di te.»
Tirai fuori quelle parole quasi avessi lanciato una bomba armata. E mi sentivo sollevato, così piacevolmente sollevato di essere finalmente riuscito a dirglielo, ad esprimermi, e non dover più nascondere i miei sentimenti nei suoi confronti. Ce l’avevo fatta, avevo detto alla ragazza che amavo di amarla, e non ero nemmeno ubriaco.
Tuttavia, non potevo nascondere di essere terribilmente agitato. Avevo paura di come avrebbe reagito, di quali sarebbero state le conseguenze, e mi morsi la lingua subito dopo aver detto quelle parole perché, diamine, lei non mi avrebbe mai ricambiato!
Assunsi un’espressione intristita al pensiero che lei non avrebbe mai potuto provare le mie stesse cose, ma quando mi permisi di osservare la reazione di Emma notai che lei se ne stava ferma, con la bocca leggermente socchiusa, a sbattere le ciglia e fissare la mia faccia – apparentemente, perché in realtà guardava soltanto in un punto fisso – e quando pensai di averla scioccata lei si riprese e puntò lo sguardo sul mio. Non avrei saputo dire quale fosse la sua espressione, ma senza dubbio adesso sembrava aver chiarito tutti i suoi dubbi.
«Io pensavo fossimo amici…»
Sollevai gli angoli delle labbra in un sorriso, sarcastico. «Io non sono mai stato davvero solo tuo amico, Emma.» sbottai, armato di chissà quale coraggio, «Io sono innamorato di te da tre anni ormai, da quando hai messo piede in questa fottuta scuola, che non ha fatto altro che rovinarmi la vita!».
Sospirai irato, arrabbiato con chissà chi, e mi alzai di scatto per sgranchirmi le gambe, mentre facevo avanti e indietro sull’erba quasi fossi un matto. «Ti ricordi quando mi hai chiesto quale fosse il mio lato positivo di questa scuola?» le chiesi, ed aspettai che lei annuisse titubante prima che «Eri tu!» ammettere, «Sei sempre stata tu, ed ho passato tre anni in questa scuola ad osservarti da lontano, a chiedermi se sarei mai riuscito a parlarti. Il fatto è che tu mi sembravi irraggiungibile, anzi io credevo di essere invisibile per te, perché hai sempre avuto una cotta per mio fratello, e tutti quanti preferiscono lui a me, e… porca puttana!» imprecai, sentendo la testa scoppiare dal troppo parlare.
Emma ascoltava semplicemente. Non aveva nessuna reazione oltre al suo abituale annuire che mi incitava a continuare, e pensai che fosse un bene, perché grazie a quella domanda che mi aveva posto quella sera stavo riuscendo a liberarmi di un peso enorme, che mi aveva attanagliato lo stomaco per così tanto tempo. Non sapevo come, ma adesso mi sembrava di essere più leggero, come se liberarmi di quel segreto mi avesse migliorato la vita da quel momento.
Cercai di calmarmi, dandole le spalle e continuando a camminare velocemente, e quando ci riuscii ripresi col mio discorso.  «Ti ho baciata perché ero stanco di immaginarmelo, non ce l’ho fatta a trattenermi, e mi dispiace, forse avrei dovuto pensarci prima di fare una cosa simile, è che non ho pensato che per te potesse essere così traumatico, ed io avevo così tanta voglia di baciarti che…»
Avevo camminato fino all’albero e quando mi ero accorto di non poter proseguire senza prendere una testata mi ero voltato nella direzione opposta, e dovetti bloccarmi quando notai il viso di Emma a una spanna dal mio, terribilmente vicina. Deglutii e serrai la bocca, non mi ero nemmeno accorto si fosse alzata e mi avesse raggiunto, preso com’ero dal mio blaterare continuo.
Emma osservò la mia reazione e aggrottò la fronte. «Tu sei paranoico.» commentò.
Sospirai e socchiusi gli occhi, asserendo con un cenno stanco della testa,  ma prima di riaprirli sentii qualcosa premere sulle mie labbra con forza, e una leggera pressione sulle mie spalle. Mi ci volle qualche secondo, ma quando capii che la pressione esercitata sulle mie spalle era quella delle mani di Emma e quella sulle mie labbra era la sua bocca, pensai davvero di stare per esplodere. Esplodere di gioia, di felicità, di amore. Avrei voluto gridare al mondo o mettermi a saltare, ma stetti semplicemente immobile a godermi quel contatto. Non ricambiai nemmeno il suo bacio, poiché fu solo un tenero bacio a stampo, tuttavia tornai a sentire il terreno sotto i piedi solo quando lei vi si allontanò.
Aprii gli occhi e notai i suoi fissarmi, insicura. Allargò le labbra in un sorriso, tornando a poggiare i piedi sull’erba.
«Dovrai insegnarmi a baciare, perché sono pessima.» ridacchiò, mentre le sue guance tornavano ad arrossarsi imbarazzata.
Ed io pensai semplicemente che fosse la cosa più bella che avessi mai visto. Che finalmente, dopo anni e anni di tentativi, tante delusioni e innumerevoli figure di merda, ero riuscito a raggiungere il mio obbiettivo: Emma Desmore.
 
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Come promesso, eccomi qui. 
Il capitolo è interamente dedicato alle due coppie, dai punti di vista di Martin e Stephanie, e mi sembrava giusto che, come è iniziata, la fanfiction dovesse finire con un Martin paranoico e ansioso. Comunque, le cose alla fine sono andate per il meglio, e spero di aver accontentato le aspettative di tutti. 
Mi duole dirlo, ma la storia finisce qui. Questa storia ha impiegato 1 anno, 2 mesi, e 18 giorni della mia vita, e adesso è finita. 
Non so se sono pronta per lasciare questa storia, ma tanto sono costretta, per cui ahahah 
Ho amato scriverla, perché ogni personaggio rappresenta un po' me, con i miei diversi tratti: l'orgoglio di Zack, la diffidenza di Stephanie, l'insicurezza di Martin e infine la testardaggine di Emma, sono tutte caratteristiche che mi appartengono, ed è come se avessi usato il mio carattere per creare quattro differenti persone, che infine mi personificano. 
E' per questo che tengo così tanto a questa storia, ed abbandonarla mi dispiace parecchio, ma infondo sono felice di averla conclusa in questo modo! 
Ringrazio tutte le persone che hanno inserito la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate, chi ha speso un po' del suo tempo per recensire, e chi si è fermato a leggere senza dare alcun segno, perché è stato molto importante per me. 
Non so se scriverò un'altra storia originale in futuro, perché per adesso ho in mente solo delle fanfiction a tema, ma spero comunque di poterci riuscire :) e che voi abbiate gradito questa storia e me, come spero. 
Vi ringrazio moltissimo, e a presto! 

 
 
  ✚ 14/04/13 - 03/06/14  ✚
 
 

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Capitolo 31
*** reminder ***


Ehi! 
Sono di nuovo io, che vi informo che Double Mess sarà ripubblicata su wattpad, corretta e migliorata.
Nel caso vi andasse di fare un salto, mi chiamo kikonk 
Grazie, e vi aspetto <3

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