;Telosphobia.

di Jericho XVIII
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01stantio. ***
Capitolo 2: *** 02typhon. ***
Capitolo 3: *** 03Zeus. ***
Capitolo 4: *** 04itself. ***
Capitolo 5: *** 05zomòs_melas. ***
Capitolo 6: *** 06unbelieve. ***
Capitolo 7: *** 07november_rain ***
Capitolo 8: *** 08the_Regret ***
Capitolo 9: *** 09prophecy. ***



Capitolo 1
*** 01stantio. ***




Una stanza chiusa e il pavimento di legno ingrigito, le assi morbide sotto i piedi bianchi e scalzi.
La bambina lascia che la luce entri e le illumini la mano. Neanche un rossore sulle gote: la sua pelle è candida, liscia e intoccata. La camicia nera le scende oltre la vita e le maniche arrivano fino alle dita delle mani; ed è freddo, ma lei non trema.
Il pettirosso è entrato dalla finestra aperta e dopo aver ticchettato timoroso sul davanzale si è deciso a superare le tende scure. La bambina tende il dito e l'uccellino le si posa sull'indice; la luce che fa rifulgere il piumaggio scarlatto del pettirosso si infiltra nel colorito della bambina e un rosa delicato le tinge appena la mano.
Il pettirosso cinguetta allegro, la bambina tace e ascolta.
E mentre quello canta tanti corvi guardano, nascosti nelle ombre delle pareti, là dove il colore non arriverà mai.


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Capitolo 2
*** 02typhon. ***




«Ho paura, mamma»
«Guarda l'alba. Il castello è vicino»
Le nuvole pallide ancora non ricoprono il cielo, ma la pioggia arriverà.
«Non è vero. Qui c'è solo... il vento»
Dorothy ascolta, ed è vero. Lo sente frusciare contro la bandiera del carro sul quale è seduta, scuotere le foglie sulla strada, accarezzare le fronde. Quel tocco gelido che le scompiglia i capelli la fa rabbrividire. Con la mano destra, quella che non porta il guanto bianco, si sistema una ciocca dietro l'orecchio e torna a guardare la madre. Ma lei non c'è: riordina le cose, cheta gli animali, si assicura che il cavallo continui a marciare. Dorothy ha paura, però. Saltella tra le casse e le gabbie - un sorriso le fa sfuggire quella del leone che dormirà fino a tardi, oggi - finché non si siede sopra il tetto dipinto. E' là che svetta la bandiera rossa, con lo stesso motivo a quadri delle sue calze da pagliaccio. Lassù il vento è persino più forte.
«Dorothy, scendi, Manuel ha fame»
Non è vero, pensa la ragazza. Sente il neonato piangere nella sua culla di fasce e bende dentro la roulotte, ma non lo fa perché ha fame. La mamma non lo sa, non se lo ricorda, ma è stata proprio Dorothy a dargli da mangiare non più di qualche ora fa. No, il bambino piange perché ascolta il vento; e il vento, oggi, è cattivo.


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Capitolo 3
*** 03Zeus. ***




«Elena»
«Cosa c'è?»
«Voglio parlare con te.»
«Non lo fai mai»
«Posso iniziare?»
«Non te l'ho chiesto»
«Io sì. Posso iniziare?»
«Cosa devi dirmi?»
«Tante cose. Dove devo iniziare?»
«Dal principio, ovviamente»
«Va bene. Ma mi ascolterai?»
«Cosa pensi che stia qui a fare?»
«Non so se posso fidarmi, Elena»
«Ma me l'hai chiesto tu»
«Vero.»
«...»
«Non so»
«Allora? Ti decidi?»
«Se mi fai fretta non inizierò mai»
«Se non te la facessi, non finiresti mai»
«Non è vero.»
«Sì, invece. Pensavo fossi più deciso, sai?»
«Ti sembro indeciso?»
«Più che altro giri attorno alla cosa»
«Quale cosa?»
«Quella che devi dirmi.»
«Ma io non devo dirti nulla»
«Roberto. Non giocare con me»
«L'ho fatto per troppo tempo. Ora sarò...»
«Sarai?»
«Sincero. Perché so che tu mi ascolterai.»
«Ti fidi di me?»
«Sì.»
«Allora dimmi.»
«Va bene. E' difficile»
«Lo so. Ma io voglio sapere cosa hai dentro.»
«Te l'ho chiesto io.»
«Non più. Adesso mi interessa»
«Perché?»
«Non ti va bene?»
«Sì, ma...»
«Penso sia una cosa molto bella.»
«Credo anch'io.»
«Posso farlo anch'io con te quando hai finito?»
«Se vuoi»
«Voglio»
«Allora va bene.»
«Quindi inizia. Non importa come»
«Sai una cosa? A volte basta una frase»
«Un titolo, vuoi dire?»
«Un titolo. Per parlare. Perché mi piace parlare con te.»
«Non che tu abbia molta esperienza»
«Si può rimediare.»
«Appunto. Butta tutto fuori. Sai perché?»
«Dimmelo tu»
«Ci sono io qui. Ad ascoltarti»
«Allora dammi il titolo.»
«Secondo te le nuvole si sentono sole?»


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Capitolo 4
*** 04itself. ***




Icaro rideva, sopra le nuvole del regno di Minosse, sopra la sua vecchia vita, sopra tutte le altre laggiù. «Volo, padre! Volo!»
I capelli biondi gli fluttuavano davanti al viso luminoso di gioia, coprendo a volte gli occhi azzurri da ragazzo. Dei suoi vestiti, solo un panno attorno alla vita il padre gli aveva lasciato: il resto era troppo pesante.
Così lui volava a petto nudo, un sandalo ancora al piede, i polpacci scoperti illuminati dalla luce accecante del sole, su, sempre più in su.


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Capitolo 5
*** 05zomòs_melas. ***




Vibra il cellulare. Lui non lo sente, forse lo ignora. Siede sull'erba e guarda lontano. Alle sue spalle la città proietta le sue luci invidiose verso l'alto, e le stelle quasi non si vedono più. C'è persino un filo di vento a scompigliargli dolcemente i capelli, la carezza di una primavera che promette di tornare, chissà quando, chissà come.
Getta uno sguardo al motorino ai piedi della collina, poggiato contro una vecchia staccionata sbilenca, la vernice bianca e scrostata che sicuramente sta rigando il manubrio e il sellino. Il casco lo ha accanto a sé. Prima lo teneva in mano. Anche quello meriterebbe un'occhiata, così pieno di firme, disegni, dediche. Il cinturino è consumato, di seconda mano, tutto sfilacciato là dove si attacca alla plastica. Anche sopra quello ci sono delle parole. Il ritornello di una canzone. Una volta lui la ascoltava tutti i giorni, in continuazione. Ora l'unica cosa che riesce a fare quel “you could be the one I'll always love” è strappargli un sorriso, puntuale e un poco nostalgico, tutte le volte che si allaccia il casco.
Fa male, lo sa, starsene così estraniati dal mondo, un mondo che lo vuole, lo ama, lo cerca. Ma ne ha bisogno. Tutti corrono per cose che per lui non hanno la minima importanza, tutti si affannano per somigliare ad esempi che lui aborrisce per principio, ognuno nel suo piccolo si smarrisce in una vita che perde costantemente il suo senso. Ha rinunciato ad andare contro corrente, ormai tempo fa. Se ne sta a guardare. La gente che muore, le tragedie in pasto alle folle, gli amori finti. Lui guarda tutto dal suo angolino di mondo, lascia che le cose si risolvano da sé. Non ha problemi. E' intelligente, va bene a scuola, i suoi amici lo considerano un leader, ha una ragazza che lo ama - e lui ama lei -, una famiglia con la quale passare le festività, persino un gatto tutto suo.
Da piccolo sognava di costruirsi una vita. Ora che guarda il tramonto, lentamente vive quei suoi vecchi sogni mai dimenticati. Lontano. Si è lasciato tutto dietro di sé. Veronica forse lo cerca, adesso, tra le teste nella piazza, il cellulare in mano, pronto a chiamarlo. Lui lo spegne senza neanche guardare i tasti - quante volta l'ha fatto? -, non per cattiveria, solo per necessità.
Pensa ai suoi migliori amici, Gabriele che copia i compiti da internet, forse, Pietro al cinema con gli altri, Andrea con una sigaretta in mano che stasera cenerà da solo con una pizza, davanti alla tv. Ma non vede i loro volti nel sole che scompare dietro le colline, chissà quanto lontano. Solo luce che culla i tratti dei boschi e dei campi. E' malinconia la sua. Malinconia per una vita perfetta e insipida. Perché sa che per lui sarà sempre facile tirare avanti, che non avrà mai problemi e sarà tutto come vorrà, in ogni momento. Per quello fissa il tramonto. Perché tutto quello che ha è superfluo. Vive con la certezza che non c'è niente di migliore. Cosa può cercare, lui che ha tutto? Gli sembra di aver vissuto veramente solo pochi istanti dei suoi anni. Il primo bacio, la prima volta con la vespa, il cd che gli ha regalato suo fratello per il compleanno, la promozione agli esami. Felicità.
Il ragazzo guarda il tramonto e dietro di sé ha una vita che non sa di nulla. Prenderebbe la sua vita in mano per andare via, rincorrere quel sole che se ne va, seguirlo ovunque sia la sua destinazione. Però non lo fa. E il crepuscolo, là sulla collina, piano piano spegne i colori dell'erba, della sua giacca blu, di ogni cosa che lo circonda, e quando lui ingrana la marcia e si volta per tornare, il buio già abbraccia la strada e il suo cuore soffocato.
Un chilometro e mezzo più in là, gialle e fumose, le luci della centrale elettrica.



Volutamente scialbo, come la realtà di chi si accontenta. Ciao :)

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Capitolo 6
*** 06unbelieve. ***




L'uomo esce da casa chiudendo la porta a chiave.
Il ragazzo dalla cucina torna a fissare il gatto sul divano.
Il gatto ricambia lo sguardo.
«Puoi parlare, ora» dice il ragazzo.
Il gatto rimane impassibile. Sembra incupirsi. O forse è solo una sua impressione.
Nella testa del ragazzo il gatto risponde con queste parole: "Non sfottermi così. Solo perché sai che non posso".
O forse è solo una sua impressione.
Il ragazzo insiste. «Allora?»
Il gatto sul divano continua a tacere.
«Ohi...» mormora a voce bassa il ragazzo.
Il gatto volta la testa. Si mette a guardare fuori dalla finestra, immobile.
Il ragazzo socchiude gli occhi e si morde un labbro, poi si concentra.
"Se mi senti girati, se mi senti girati, se mi senti girati", pensa, perforando con lo sguardo la schiena colorata del gatto.
"Se mi senti girati". Ma il gatto non si muove.
Il ragazzo sospira piano. "Se mi senti girati..."
Finisce di mangiare il panino e rimane in silenzio.
Fissa sovrappensiero il gatto sul divano.
E quello si gira lentalmente.
«Non sto a questi stupidi giochetti», dice, poi tace.
O forse è solo una sua impressione.


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Capitolo 7
*** 07november_rain ***


Nate rimase in silenzio. Una goccia che gli colava da una ciocca gli oltrepassò il sopracciglio, e poi giù, oltre l'occhio, come una lacrima.

Ross si passò una mano sul viso. Silenziosamente si sfilò la chitarra dal collo e la posò la sulla neve della panchina. Smontò dallo schienale.

Mentre gli si avvicinava, Nate gettò uno sguardo confuso all'elettrica che si bagnava. Ross piantò gli occhi sui suoi, forzando i loro sguardi ad incontrarsi.

«Senti» disse poi. Gli prese una mano e si tirò giù la zip del giaccone. Nate toccò la sua pelle. Era a torso nudo. «Sei matto» disse.

Ross sbatté le palpebre. «Lo senti?» chiese. «Batte ancora?» Nate fece un respiro spezzato. «Sì»

«Ecco perché penso di capire» fece l'altro. Poi, nel suo modo, gli lasciò la mano, gli portò la sua alla nuca e lo baciò lentamente, con una dolcezza perduta.

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Capitolo 8
*** 08the_Regret ***


« E inorridito si ritrasse il Male quando scoprì quanto osceno fosse il bene »


Deubris.
Non è un caso che abbia tanti nomi. È un demone. Un assassino. Il male. No, peggio: il male che ha rinnegato se stesso pur di controllarsi. Non è più male. È dunque bene? Lui non lo sa. Lui ora ha volontà. E sceglie volta per volta.

Aum.
La normale propensione di un demone verso la malvagità pare difficile da sradicare; lui è la prova che ciò è impossibile. Per capire cosa ha in mente bisogna capire chi era. Era un demone. Una creatura fatta di caos e male insieme, un misto, un'impurità, il risultato di un connubio perfettamente riuscito, maledetto e sbagliato, matrice di mondi imperfetti. Perciò senza controllo. Non ha potere, un demone, è onnipotente ed al contempo schiavo delle proprie voglie: cioè prigioniero dei suoi bisogni. Incapace di scegliere. Non si creda che chi agisce per distruggere sia più libero di vincoli di un eroe incatenato dal rispetto: no, essi esistono allo stesso modo, l'uno perché vittima di restrizioni scelte, l'altro perché privo, nolente, delle stesse. E questo lui l'aveva capito.

Yumi.
L'oscurità che si separa da se stessa. Che si nega per rinascere, per avere di nuovo forma. Il demone torna alla vita, ma perché? Se non ricorda nulla non gli rimane che l'istinto, ed è per esso che ora egli agisce, guidato dalle stesse cose che lo asservivano prima, ma con l'enorme differenza di scegliere un suo padrone. Libertà? Non la cerca. Non sa a cosa serva, la libertà. Egli persegue i suoi ideali. Li ha? No. Li cerca? No. Vive. Padrone finalmente di sé, o meglio, padrone di rendersi schiavo, vive. E si diverte. E sta cercando qualcuno.
Non è l'inerzia dunque che lo fa andare avanti, ma qualcosa di più grande; moralmente affiliato al chaos, proprietario di un'oscurità, è perennemente diviso tra il sé rinchiuso nella spada che porta al fianco e ciò che vuole lui stesso, come se ormai fossero per sempre divisi, come se ormai fossero per sempre diversi.

Astaroth.
Non capisce. Non capisce cosa sia successo. Perché ciò che cerca e ciò che si trova nella spada si somigliano molto; lui li ama con la stessa forza. Amare? Amore? Cosa vuol dire? Una spinta di desiderio, bramosia, la stessa che si prova davanti alla purezza da distruggere, ma la più forte, l'unica fra tutte. Normalmente è lucido, pensa, agisce, obbedisce, ordina. Si circonda di demoni, si diverte a crearli e a distruggerli, li fa suoi, li libera, si allena, si potenzia, ma spesso non ne trova il senso, guarda quella spada e si chiede se sia veramente lui a soffrire lì dentro o se ci sia qualcos'altro che non conosce a vivere - a non-vivere - dentro quel fodero. Affronta con gelida calma ogni cosa, ma quando si tratta di aprire quel sigillo, di perdersi in quell'ambrosia infernale della sua vera essenza, lo colgono inesorabilmente due paure uguali ed opposte: quella di non riuscire più a guardare quegli occhi, i suoi altri occhi, i suoi veri occhi, del colore del baratro di incoscienza che ha rinnegato per avere il diritto di vederlo. È un magnifico ingannarsi, un magnifico ingannare, una vertigine assassina che sta nel chiedersi...
... “Chi sono?”

Chawore.
Può uccidere senza battere un ciglio, salvare allo stesso modo, ridere crudelmente o farlo davvero, può amare, può odiare, ma è tutto al suo interno, tutto soffocato in un corpo inadatto, in un corpo fragile scudo di un'essenza distruttrice indistruttibile, amante della perfezione, sposa della distruzione, sorella della tragedia e figlia della malignità, un'arte nascosta, ballerina, controversa, che emerge ogni volta che può, che si spegne altrettanto facilmente. Vittima di ogni peccato immaginabile, carnefice altrui tramite i medesimi; non segue il più forte ma chi non capisce, ed è per questo che non si perderà mai. Di certo non chiede a nessuno consigli, non cerca amici, non li troverebbe comunque: tuttavia insegue qualcosa, qualcuno, un'idea, forse, un sogno, un ricordo, non sarebbe giusto domandarlo ed è lui per primo ad evitare di farlo; ad ogni modo va avanti con questo scopo e si comporta in base ad esso a prescindere da ogni dovere morale o di fedeltà. Non ha alleati oltre i suoi demoni, né li chiede, ma certo non fa distinzioni tra nemici ed amici quando c'è qualcosa ad ostacolare il suo dovere, e questo fa di lui una pedina particolarmente intrattabile nel grande disegno di chi occasionalmente si trova a direzionarlo. Non è una marionetta; se avesse voluto restare tale, l'avrebbe fatto da demone. È una cosa che chiunque si trovi ad avere a che fare con lui dovrebbe tenere bene in mente, perché è in questo che consiste la vera perversione del demone: l'irrazionalità del contraddirsi lo farebbe molto più umano di quanto non vorrebbe, ma egli ne esce magistralmente, semplicemente perché questo caos che spodesta gli elementi lui, almeno per quanto lo concerne, lo sa controllare.

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Capitolo 9
*** 09prophecy. ***


Attese una manciata di secondi con gli occhi serrati, ritirando il labbro inferiore e stringendolo tra i denti per non lasciarsi sfuggire un sospiro dai polmoni compressi, dal suo cuore impazzito. Non lo guardò, ma mantenne la testa china sul suo petto, la fronte accanto alla mano con cui si appoggiava a lui.
La sua voce si levò, debole, appena un sussurro. « Un sogno, » fece « un surrogato, un incubo, un inconveniente... » Lui non si mosse. Si avvertiva soltanto il suo respiro, che sovrastava quello spezzato di lei. « Cosa sono io ora? » domandò alzando lo sguardo per finire nei suoi occhi. Ma li trovò chiusi. E le loro labbra si unirono ancora.

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