Scarpette Rosse

di LyraB
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno. ***
Capitolo 2: *** Due. ***
Capitolo 3: *** Tre. ***
Capitolo 4: *** quattro. ***
Capitolo 5: *** cinque. ***
Capitolo 6: *** Sei. ***
Capitolo 7: *** Sette. ***



Capitolo 1
*** Uno. ***


Scarpette Rosse




Il sole splendeva allegramente nel cielo azzurro e terso di quella mattina californiana e quando Teresa scese dall'automobile sentì il fresco tocco del vento accarezzarle le guance, unico pallido segnale del dicembre avanzato. Il negoziante dalla parte opposta della strada stava appendendo delle ghirlande sempreverdi allo stipite dell'ingresso della sua bottega fischiettando stonatamente Deck The Halls e Teresa si fermò a guardare le decorazioni e i lustrini che splendevano nella vetrina, pensando per l'ennesima volta a quanto trovasse fredde e vuote le decorazioni di cui tutta la città si stava rivestendo a poco a poco.

- Ehi, capo. - La voce di Grace la riscosse dai suoi pensieri.
- Ehi. - Replicò asciutta Teresa. - Gli altri? -
- Sono già tutti dentro. Ti faccio strada. -
Imponendosi di non pensare alle feste che si avvicinavano, Teresa seguì la ragazza su per i gradini che portavano all'interno del collegio di Miss Vince, la più prestigiosa accademia femminile di danza classica della California.
Se da fuori sembrava una modesta scuola vecchio stile, con i muri grigi e le alte finestre chiuse da sbarre e tende di lino candido, all'interno il lusso si poteva quasi respirare: al di là del grande portone d'ingresso, accostato per permettere alla polizia di muoversi avanti e indietro liberamente, i parquet erano tirati a lucido e coperti da eleganti tappeti dai colori neutri, che richiamavano le tende chiare e le pareti coperte da pannelli di legno o carta da parati a righe color crema.
- Dove l'hanno trovata? - Domandò Teresa, guardandosi attorno quasi sopraffatta dal lusso che la circondava: le sembrava quasi impossibile che quella reggia fosse veramente una scuola.
- Nell'auditorium. Ecco, di qua. - Disse Grace, precedendola lungo un corridoio splendente di cornici lavorate e mobili dalle maniglie di ottone tirate a lucido. I passi delle due donne quasi non si sentivano, sull'elegante parquet scuro, e quando arrivarono all'auditorium la moquette nera non fece che rendere ancora più silenzioso il loro passaggio.
Al di là di molte file di poltroncine di velluto rosso stava un palcoscenico. Il sipario, anch'esso di velluto rosso e decorato da nappe dorate alle estremità, era aperto e il legno chiaro dello spazio scenico rifletteva la luce impietosa dei faretti bianchi. I lampadari di vetro e cristallo della sala erano spenti e quello che si vedeva sulla scena era così macabro e triste da cozzare violentemente con la sfarzosa eleganza del resto dell'ambiente: al centro del palco stava una impalcatura montata a metà da cui pendeva una ragazza col viso pallido e deformato dalla rigidità della morte.
Il capo reclinato impediva di vederne il viso, ma i capelli dorati raccolti in uno chignon e la costituzione esile sottolineata dal semplice body nero e dai collant bianchi la fecero subito riconoscere come una delle studentesse della scuola. Attorno al suo collo passavano dei nastri di seta rosa che terminavano in stretti nodi attorno al legno delle travi sopra di lei. Il palcoscenico era ingombrato di pezzi di scenografie, fondali e oggetti di scena. Uno sgabello ribaltato giaceva a qualche centimetro dal corpo della ragazza e tutto lo spazio libero era occupato dalle valigette e dagli attrezzi della scientifica, che scattava foto con una precisione e una celerità quasi impressionante. Wayne era fermo al centro del palco e fissava la ragazza impiccata con gli occhi pieni di pietà, mentre Kimball, vicino al sipario, parlava con una donna sulla quarantina bassa e tarchiata, con i capelli grigi trattenuti dietro le orecchie da una cuffietta di tulle della stessa tonalità di azzurro del gembiule che indossava. La donna stringeva tra le mani uno spazzolone per i pavimenti e parlava con gli occhi sbarrati e il viso di chi non aveva mai iniziato la giornata in modo peggiore. Patrick, dal canto suo, si aggirava per il palco con le mani sui fianchi e con la sua solita aria disinvolta, fingendo di non stare prendendo nota dei più piccoli particolari che colpivano la sua attenzione. Teresa salì sul palcoscenico e i suoi passi sulla scaletta di metallo attirarono l'attenzione di Wayne.
- Buongiorno capo. - Salutò Wayne.
- Cosa abbiamo? - Domandò Teresa, imponendosi di pensare solo alla poveretta che aveva davanti e non a canzoncine di Natale o addobbi luccicanti.
- Scarlett Fontaine, 17 anni. Studiava qui nella scuola. Ieri sera è stata vista andare a dormire all'ora del coprifuoco ma stamane, quando l'inserviente è passata a spazzare il palcoscenico prima delle lezioni del mattino, l'ha trovata qui, impiccata - pare - coi nastri delle sue stesse scarpette da danza. - Spiegò l'agente, sbirciando gli appunti che aveva preso.
- Come mai hanno chiamato noi? - Domandò Teresa, chiedendosi che cosa ci facevano loro in una scuola così lontana da Sacramento e davanti a quello che pareva proprio un suicidio.
- Il procuratore vuole che ci occupiamo della cosa con discrezione. - Rispose Grace. - Qui studiano molte figlie di famiglie influenti della California e una notizia del genere potrebbe dare fastidio a diversi personaggi importanti. Oltre al fatto che la direttrice ci tene al buon nome della sua scuola. -
- E poi non è stato un suicidio. - La voce di Patrick interruppe la conversazione e Grace, Wayne e Teresa si voltarono verso di lui. - Oh, buongiorno, Lisbon. - Aggiunse Patrick con un sorriso, accorgendosi solo in quel momento dell'arrivo del suo capo.
- Perchè sei così certo che non sia stato un suicidio? - Domandò lei, ricambiando il sorriso più con gli occhi che con le labbra.
Patrick girò attorno al corpo di Scarlet, osservandolo dal basso verso l'alto, poi si fermò tendendo un braccio per indicare il nastro che passava attorno al collo della ragazza per poi finire annodato all'impalcatura.
- Vedete? I nastri sono strappati. Chi decide di togliersi la vita lo fa in modo metodico, ragionato... non è mai un gesto di rabbia. Se Scarlet avesse deciso di uccidersi avrebbe preso una forbice e tagliato i nastri. Io credo sia stato un segnale. Una sorta di punizione. Chi l'ha uccisa trovava assurdamente simbolico usare le sue scarpette da danza per inscenare il suo suicidio. - Disse Patrick, passando lentamente al tono assorto che riservava alle sue riflessioni ad alta voce.
- Un po' poco per gridare all'omicidio. - Sentenziò Grace.
Patrick tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e sollevò lo sgabello, avvicinandolo ai piedi di Scarlet: tra le dita dei piedi della ragazza e la superficie dello sgabello mancavano un paio di centimetri.
- Sei convinto, adesso? - Domandò Patrick con un sorrisetto, fissando l'occhiata sgomenta di Wayne e gli occhi stupiti di tutto il resto della squadra.


Seduta sulla poltroncina ricamata, Teresa si sentiva tremendamente a disagio. Dondolava un piede per cercare di smaltire l'agitazione e continuava a guardarsi intorno, soffermando lo sguardo su un oggetto lussuoso dopo l'altro: un telefono vintage con la rotella dorata e la cornetta d'avorio, una lampada col paralume decorato da intarsi di vetro colorato, tende della stessa fantasia della poltrona su cui era seduta e soprammobili d'oro e cristallo che luccicavano su ogni superficie.
- Non c'è motivo di sentirsi a disagio. - Intervenne Patrick, con un sorriso divertito negli occhi. - Non sono migliori di te solo perchè hanno sei zeri sul loro conto in banca. -
- Non mi sento a disagio. - Negò Teresa, smettendo di far dondolare il piede e fulminando il suo consulente con gli occhi.
- Se lo dici tu. -
Teresa aprì la bocca per replicare, ma l'arrivo della direttrice dell'istituto le impedì di dire a Patrick quello che pensava di lui e della sua irriverenza.
Antea Vince, la direttrice dell'istituto, era una donna sulla quarantina, alta e diritta, con ancora il portamento elegante della ballerina. I capelli neri striati d'argento erano stretti in una complicata crocchia sulla nuca e gli occhi grigi, penetranti e incorniciati delle prime rughe, osservavano tutto con attenzione da dietro le lenti sottili degli occhiali dalla montatura quasi invisibile.
- Scusate se vi ho fatto attendere. Le ragazze sono molto scosse, è il terzo attacco di panico durante le lezioni, questa mattina. - Disse la donna, affrettandosi a chiudere la porta alle sue spalle e a sedersi al di là della vasta scrivania di mogano. - Come posso esservi utile? -
- Dovete essere molto insensibili per obbligare le ragazze a fare lezione anche in questa circostanza. - Iniziò Patrick.
La direttrice si irrigidì e i suoi occhi si fecero di ghiaccio mentre fulminava il consulente.
- La nostra accademia è la più prestigiosa dello Stato. Non permettiamo a nulla di intaccare il nostro buon nome. -
- Nemmeno la presenza di un cadavere e di un'assassina tra le vostre studentesse? -
- Non le permetto di usare questi toni! - Sbottò all'improvviso la direttrice, perdendo i toni leziosi e indurendo lo sguardo - Agente Lisbon, o tiene a bada il suo collega o sarò costretta a chiedervi di allontanarvi. -
- Mi scuso per il comportamento del signor Jane. - Disse Teresa con un sospiro, ripetendo macchinalmente una battuta che pronunciava fin troppo spesso. - Quello che voleva dire è che si chiede se sia... bene, per le studentesse, lavorare in un momento come questo. -
- La danza classica richiede disciplina e rigore. - Spiegò miss Vince con freddezza. - Chi non riesce a dominare le proprie emozioni non è adatto a questa scuola. Ciò che è accaduto non può e non deve andare a incrinare l'equilibrio e l'armonia della vita qui. -
Patrick e Teresa si scambiarono uno sguardo sbigottito, poi Teresa continuò:
- Ci parli di Scarlet. Che tipo era, chi frequentava... -
- Era la migliore delle nostre studentesse. - Disse la direttrice, appoggiandosi allo schienale della sua poltrona e allungando le mani sui braccioli. - Un vero modello, un esempio per tutti. Lavorava duramente senza mai lamentarsi, aveva il massimo dei voti in tutte le materie ed era amata e rispettata da ogni singola studentessa della scuola. -
- Cosa ci faceva a quell'ora del mattino in auditorium? - domandò Teresa.
Il volto della signorina Vince si distese in un'espressione di soddisfazione così intensa che sembrò improvvisamente ringiovanire di diversi anni.
- Prove. -
- Prove? -
- Scarlet aveva ottenuto il ruolo di Clara nella recita di Natale di quest'anno, Lo Schiaccianoci. Ogni mattina si alzava due ore prima delle sue compagne per provare da sola in auditorium. - Il suo viso illuminato dall'orgoglio si rabbuiò improvvisamente - Rimpiazzarla non sarà facile. Stiamo pensando di annullare lo spettacolo. -
- Annullare lo spettacolo? Un istante fa non aveva detto che nulla può intaccare le abitudini di una scuola così prestigiosa? - Intervenne Patrick, polemico.
Teresa gli lanciò un'occhiataccia, ma l'uomo non la stava nemmeno guardando: aveva gli occhi fissi sulla direttrice e la fissava con il suo sguardo più inquisitore.
- Proprio perchè siamo una scuola impeccabile non metteremmo mai in scena uno spettacolo che sia meno che perfetto. - Disse la donna, gelida.
Poi si alzò e si avviò alla porta, aprendola con uno scatto improvviso. Fulminò i due poliziotti e sibilò:
- Ora, se non vi dispiace, ho molto da fare. Vi prego di andarvene immediatamente, le nostre studentesse non potrebbero sopportare altri disagi. -
- Sì, certo. - Disse Patrick, alzandosi.
- Si tenga a disposizione. - Replicò Teresa, sfilando davanti alla donna e rendendosi conto di essere più bassa di lei di almeno venti centimetri. Cercando di ignorare la differenza di altezza le gettò uno sguardo perentorio e poi si avviò lungo il corridoio.
- Si può sapere perchè non ti mordi la lingua, ogni tanto? - Sbottò rivolta al suo consulente, che camminava svelto davanti a lei. - Poteva dirci molte cose interessanti, se non si fosse irritata in quel modo. -
- Se non ricordo male... sì, di qua. - Replicò Patrick, ignorandola e avanzando lungo i corridoi della scuola con il passo svelto di chi sapeva dove andare, obbligando il suo capo a seguirlo senza poter fare un'altra domanda.
Patrick si fermò davanti a un corridoio molto simile a quello che avevano appena lasciato, con grandi finestre che davano sul cortile interno della scuola e una serie di porte tutte uguali dal lato opposto.
- Si può sapere dove siamo? - Sbottò Teresa.
Il suono di un campanello argentino echeggiò nel corridoio e la donna non fece in tempo a ripetere la domanda che dalle porte di legno lucido uscirono frotte di ragazze di ogni età con indosso la divisa grigia e rossa della scuola: le più piccole chiacchieravano ad alta voce e si affrettavano da un'aula all'altra ad allegri gruppetti, le più grandi si muovevano più silenziose e compite, a testa alta e con l'andatura leggera e aggraziata delle ballerine.
- Antea Vince non ci poteva dire niente più che tante belle cose della sua migliore studentessa e della sua scuola perfetta. Parlare con le ragazze darà sicuramente migliori frutti. - Spiegò Patrick.
- Jane, non possiamo piombare in mezzo a una scolaresca e fare domande. - Esclamò Teresa allarmata. Ci mancava solo gettare scompiglio in mezzo a delle ragazze turbate, soprattutto con una direttrice furibonda nei paraggi - Torniamo al CBI, vediamo cosa hanno scoperto gli altri e poi decideremo come muoverci. -
Qualcuna delle ragazze alzava gli occhi verso di loro, gettandogli un'occhiata sfuggente e poi distogliendo lo sguardo. Altre, soprattutto le più piccole, li guardavano con gli occhi pieni di curiosità di chi non è abituato a vedere cambiamenti nella routine di ogni giorno. Teresa sorrideva loro nervosa e irrequieta, notando gli occhi inquisitori di Patrick quando vedeva un viso tirato o un paio di occhi rossi.
- Non potete stare qui! - Esclamò improvvisamente la voce della direttrice, comparendo a un estremità del corridoio.
All'apparizione di Antea Vince le ultime ragazze rimaste a bighellonare nel corridoio si affrettarono a sgusciare nelle aule e, mentre Teresa lanciava uno sguardo minaccioso al suo consulente, la direttrice si avvicinò ai due con l'aria di chi stava per esplodere in una scenata di rabbia epocale.
- Non vi avevo detto molto chiaramente di andarvene? - Esclamò con ferocia, gli occhi grigi che lanciavano lampi in direzione dell'agente scelto e del suo collega. - Non tollero la mancanza di disciplina, nè tra i miei studenti nè fuori. Un'altra infrazione da parte vostra e contatterò i vostri superiori. -
- Non sarà necessario, signora, ce ne stiamo andando. - Si affrettò a rispondere Teresa.
- Sì, è come dice lei. - Disse Patrick, annuendo vigorosamente ma con il sorrisetto tipico dei bambini che sono appena riusciti a combinare una marachella.
- Me lo auguro. - Sentenziò la direttrice. - Virginia! -
Una donnina in grembiule azzurro e cuffietta che stava attraversando l'atrio poco lontano con un carrello carico di divise stropicciate si fermò, richiamata dal tono perentorio della signorina Vince, e si avvicinò a loro. La direttrice la guardò con severità prima di ordinare:
- Scorta questi signori all'uscita. E accertati che escano dalla scuola. -
- Subito, miss. - Disse la donna, lanciando immediatamente ai due poliziotti uno sguardo supplichevole, come a volerli pregare di non metterla in difficoltà.











Ebbene sì, sono tornata a scrivere un giallo.
E dire che quando ho iniziato il primo pensavo che non sarei mai arrivata alla fine.
Però devo dire che mi sono troppo emozionata a scrivere la mia fanfiction precedente
(che vi consiglio di andare a leggere prima di mettervi davanti a questa)
e non riuscivo a pensare ad altro.
Così alla fine ho ceduto alla tentazione ed ecco qui il frutto del mio lavoro.

La fanfiction non è finita, ma lo sarà ben presto. Detesto chi inizia e non finisce le storie (;
Spero che possa piacervi e, come al solito, qualunque critica è bene accetta.
Grazie di aver letto, alla prossima!

Flora

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Capitolo 2
*** Due. ***


Con la prima tazza di caffè in mano, Teresa si sentiva un'altra.
La giornata era trascorsa per metà e già le indagini sembravano aver portato alcuni frutti: era certa che il caso si sarebbe risolto in men che non si dica e lei sarebbe riuscita a sbrigare tutta la burocrazia accumulatasi sulla sua scrivania prima delle feste. Sentiva il bisogno impellente di liberarsi delle faccende arretrate e ogni sera rimaneva più a lungo in ufficio per smaltire i fascicoli dei casi chiusi, ma ogni volta che si fermava a pensare cos'avrebbe fatto una volta libera dai doveri non riusciva a trovare una risposta.
Alla fine smetteva di pensarci e si rimetteva a lavorare: ciò che doveva fare andava fatto in ogni caso, no?
- Facciamo il punto della situazione. - Disse sedendosi al tavolo dell'open space assieme al resto della squadra.
Erano tutti seduti attorno a lei meno Patrick, il quale sorseggiava un tè seduto sul divano con gli occhi fissi nel vuoto, perso nei suoi pensieri.
- Scarlet Fontaine era una brava ragazza. - Iniziò Grace. - Ottimi voti a scuola, la migliore del suo anno in danza... pare che la Royal Ballet School di Londra avesse chiesto di vederne un'esibizione per candidarla ai corsi di perfezionamento dopo il diploma. Era il fiore all'occhiello della Vince Academy. -
- Amici, nemici, fidanzati? - Domandò Teresa.
- A scuola pare fosse amata da tutti. - Disse Wayne, scartabellando tra i fogli in disordine sul tavolo alla ricerca di alcuni appunti. - Le bambine più piccole l'ammiravano, quelle più grandi la apprezzavano e si facevano aiutare da lei. Pare che avesse legato particolarmente con due sue coetanee... oh, ecco. - Disse trionfante, trovando ciò che stava cercando. - Hailey Snow e Trisha Jackson. -
- Quanto ai ragazzi, niente da fare. - Intervenne Kimball - Studia al collegio da dieci anni e quando la scuola chiude per l'estate passa le giornate nella villa dei Fontaine ad Orange County, non c'è traccia di nessun ragazzo nella sua vita. -
- Mi sembra impossibile che una ragazza così perfetta non avesse nemmeno un nemico. Tutte le prime della classe ne hanno: compagne invidiose, ragazze a cui hanno soffiato il ruolo da protagonista tanto desiderato... - Iniziò Teresa.
- Non Scarlet. - Disse Wayne. - Non c'è traccia della benchè minima acredine tra lei e le sue compagne. Abbiamo interrogato tutti i professori della scuola: sono tutti concordi nel descriverla adorabile e gentile con tutti, una vera leader e un esempio per le altre ragazze. -
- Anche Scarlet aveva i suoi nemici. - Disse Patrick, continuando a sorseggiare il suo tè senza nemmeno voltare lo sguardo verso i poliziotti seduti al tavolo.
- Le prove dicono il contrario. - Rispose Grace.
- Le prove che avete raccolto non bastano. -
- Non possiamo interrogare le studentesse. - Sospirò Teresa. - O vuoi finire denunciato per abuso di potere dalla direttrice? -
- Hai paura di lei? - Sentenziò Patrick, voltandosi verso di lei e facendosi spuntare sul viso il sorriso sornione che riservava ai momenti in cui si rendeva conto di averla messa nel sacco.
- Io paura? Jane, chiudi il becco. -
- Allora torniamo là e intervistiamo le amiche di Scarlet, le sue compagne di classe, le ragazze che avrebbero ballato con lei. Troveremo sicuramente qualcuno che la prendeva in giro. -
Teresa si impose di ignorarlo categoricamente e si voltò di nuovo verso la squadra, dominando l'irritazione che il suo consulente riusciva a tirarle fuori anche quando era perfettamente calma.
- È arrivato il referto del medico legale? - Domandò Teresa.
- Non ancora. - Disse Grace. - Ho telefonato per affrettare i tempi, ma con l'avvicinarsi delle feste tutti chiedono di accelerare le cose e non sanno quanto ci metteranno. -
Patrick si alzò dal divano, posò la tazza sulla scrivania di Grace e fece per filarsela in sordina dall'open space. Teresa alzò gli occhi al cielo prima di alzarsi e raggiungerlo.
- Dove pensi di andare? -
- A fare una passeggiata. A comprare i regali di Natale. Ho visto una pianta bellissima che piacerebbe un sacco a Rigsby. A te cosa piacerebbe? -
Non bisognava essere un mentalista per capire che Patrick stava dicendo una bugia:
- Tu stai tornando all'istituto. - Fu la risposta di Teresa.
- No. Ok, sì. Puoi far finta di non avermi visto e venirmi a prendere per un orecchio riempiendomi di rimproveri tra una mezz'ora, se vuoi. Oppure puoi prendere la macchina, venire con me, affrontare la terribile miss Vince e scoprire qualcosa di veramente interessante su questo caso. -
- Non possiamo sempre fare di testa tua!. - Sbottò Teresa, girando sui tacchi e tornando nel suo ufficio con aria polemica.
- Ti aspetto nel parcheggio! - Rispose Patrick sorridendo trionfante.

Quando Teresa si ritrovò davanti alla Vince Academy, decise che tutto quello che poteva fare era limitare - almeno nel tempo - i danni che Patrick avrebbe certamente combinato in quel pomeriggio. Per cominciare, decise di prendere lei in mano la situazione. Salì le scale e si affacciò alla finestrella della guardiola, dove una robusta donna dai capelli color paglia li aspettava guardandoli con aria annoiata.
- CBI, dovremmo fare alcune domande. - Disse, mostrando il tesserino.
- Miss Vince ha lasciato detto che non può essere distrubata. - Disse la donna. - Da nessuno e per nessun motivo. -
- Sarà questione di un minuto e non sarà necessario disturbarla. Vorremmo parlare con le ragazze. -
- Non posso farvi entrare senza il suo permesso. -
Patrick fece un passo avanti e si allungò verso la donna con un sorriso. Teresa si voltò dall'altra parte: non voleva sapere come avrebbe fatto a manipolare quella povera donna per farsi aprire la porta. Certe cose è meglio non saperle.
- Sono certo... Jill - disse Patrick, leggendo rapidamente il nome della donna sulla targhetta appuntata alla divisa. - Che lei comprende la disgrazia capitata alla giovane Scarlet... sono certa che lei comprende la sofferenza della sua famiglia. Il dolore che li dilania, l'angoscia nel non sapere chi sia stato... lei vuole davvero prolungare l'agonia della famiglia solo per non aver ricevuto una semplice, piccola risposta d'assenso della direttrice? In nome della pietà questa sciocchezza le verrà giustificata certamente... -
Sedotta dal suono della voce dell'uomo, Jill non si rese nemmeno conto di essersi alzata e aver aperto il cancello della scuola. Li fece entrare con un'espressione corrucciata sul viso tondo e disse loro che le ragazze stavano facendo ricreazione: le avrebbero potute trovare in cortile o nella sala relax a pianterreno.
- Io vado in cortile e tu nella sala relax? - domandò Patrick mentre si avviavano verso i locali della scuola.
- Io vado dove vai tu, devo tenerti d'occhio. -
- D'accordo. -
L'ampio cortile della scuola rispecchiava la cura degli interni: prati con l'erba tagliata corta, grandi alberi dall'aria secolare e vialetti di ghiaia chiara perfettamente ordinati. Panchine smaltate e tavolini di pietra erano sparsi qua e là per il cortile fino all'alta inferriata munita di punte aguzze che delimitava il grande giardino rettangolare.
Le studentesse passeggiavano o chiacchieravano sedute sulle panchine e sui muretti, il tutto in una strana atmosfera di quiete e silenzio. Era innaturale vedere un gruppo di ragazze così giovani che non si rincorrevano nè schiamazzavano, in una giornata bella come quella: anche le più piccole, sedute in cerchio su delle panchine di pietra, giocavano compite e tranquille con le loro bambole.
Le loro divise - scamiciati grigi profilati di rosso, giacche rosse e camicette bianche dal taglio essenziale - non rendevano più gioviale la calma che si respirava nel giardino, e Teresa pensò con nostalgia alla confusione che regnava durante l'intervallo nel cortile della scuola pubblica dov'era cresciuta: i suoi compagni di scuola erano così chiassosi che era quasi impossibile parlare, in quel riquadro di erba e cemento dove tutti uscivano a prendere una boccata d'aria. Tutto il contrario di quel cortile silenzioso, pensò, indecisa se il suo era un pensiero d'invidia o di dispiacere.
Persa nelle sue riflessioni e nei suoi ricordi dolceamari, Teresa seguì docilmente Patrick lungo un sentiero lastricato fino a una panchina dove una ragazzina sui dieci anni stava leggendo un libro.
- Ciao. - Esordì Patrick
- Ciao. - La bambina lo guardò con gli occhi timidi di chi non era abituato ad avere a che fare con gli sconosciuti
- Cercavamo Trisha e Hailey, le amiche di Scarlet. Ci sapete dire dove sono? -
La bambina puntò il dito verso un trio di ragazze più grandi appoggiate a una fontana e poi rimase immobile, spostando gli occhi da Teresa a Patrick senza dire altro.
- Grazie. - Fu la risposta di Patrick, sorridendole appena e avviandosi verso il gruppetto indicatogli dalla bambina.
Le adolescenti attorno alla fontana erano ballerine di nome e di fatto: alte ed eleganti, snelle ed aggraziate, con lunghi capelli lucenti sciolti sulle spalle o stretti in crocchie e chignon sulla nuca. Al centro del trio stava una ragazza bionda che singhiozzava e tirava su col naso in modo molto poco elegante, mentre le due amiche al suo fianco cercavano di consolarla accarezzandole i capelli e sfiorandole le braccia con carezze gentili. Nessuno parlava e l'unico rumore che rompeva il silenzio erano i disperati singhiozzi della biondina al centro del cerchio.
- Scusate. - Iniziò Patrick, avvicinandosi timidamente.
Tutte si voltarono verso di lui e la ragazza in lacrime alzò gli occhi, facendo sussultare entrambi gli agenti. A Teresa ci volle un attimo per capire perchè aveva sussultato istintivamente: la ragazza che li stava fissando con gli occhi rossi colmi di lacrime e il viso stravolto dal dolore era Scarlet Fontaine. O per lo meno la sua copia esatta: gli stessi lineamenti delicati, gli stessi sottili capelli biondi e i medesimi occhi azzurro chiaro dal taglio leggermente a mandorla.
- Cosa volete? - Domandò con la voce rotta.
- Siamo del CBI, stiamo indagando sulla morte di Scarlet Fontaine. - Disse Teresa, mostrando il suo tesserino. - Era tua... -
- Era mia sorella, sì. - Rispose la ragazza, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime di nuovo e nascondeva il viso tra le mani per nasconderle.
- Gemella? - Domandò ancora Teresa.
- No, Susan è di un anno più giovane. - Rispose un'altra ragazza, alta e scura di carnagione, con i capelli corvini sciolti sulle spalle e grandi occhi neri da medio-orientale. - Io sono Trisha Jackson, la migliore amica di Scarlet. -
- Piacere di conoscerti, Trisha. - Disse Patrick, stringendole la mano e tenendola stretta tra le sue per un momento mentre la guardava negli occhi.
Trisha sottrasse la mano dalla stretta del consulente e lo guardò storto prima di tornare a passare un braccio attorno alle spalle della ragazza bionda accanto a lei.
- Tu devi essere Hailey, quindi. - Disse Teresa, rivolgendosi alla ragazza dai capelli castani che affiancava Susan dal lato opposto.
- Hailey Snow, sì. Anche io conoscevo bene Scarlet. - Disse la ragazza sottovoce, sbattendo le ciglia per scacciare le lacrime che le riempivano gli occhi lucidi.
- So che è un momento molto difficile per voi, ma se possiamo vorremmo farvi qualche domanda. - Disse Teresa con dolcezza.
- Qual è il primo aggettivo che vi viene in mente pensando a Scarlet? - Intervenne Patrick. - Il primo, così, sui due piedi, senza pensare. -
- Ambiziosa? - Propose Trisha.
- Io direi più... determinata. - Disse Hailey.
Patrick si fermò guardando Susan, la quale si asciugò gli occhi e lo guardò con aria triste.
- F-forte. È sempre stata un punto fermo per me. - Balbettò.
- E che tipo era? Sappiamo che era una che lavorava sodo, che aveva ottenuto il ruolo da protagonista nello spettacolo di Natale... -
- Se lo meritava. - Disse Hailey. - Se lo meritava, come l'ha meritato l'anno scorso e l'anno prima ancora. Scarlet era la migliore, nessuno avrebbe voluto prendere il suo posto. -
- Anche perchè nessuno poteva sognarselo. Con una così brava in giro non potevi sperare di brillare più di lei. Non fraintendetemi - si affrettò a precisare Trisha - Scarlet mi piaceva, le volevo bene. Sapevo di non essere brava quanto lei. La mia non è invidia, è una semplice constatazione. -
- Chiedete a chiunque, qui. Nessuno ammetterà di essere migliore di Scarlet. - Continuò Hailey.
- C'è qualcuno a cui non stava simpatica? Qualche nemico, qualcuno invidioso... - Propose Teresa.
Hailey e Trisha si scambiarono uno sguardo, poi Trisha scosse la testa.
- No, nessuno. Scarlet era adorabile, non si poteva non volerle bene. - Disse.
- Stai mentendo. - Intervenne Patrick.
- No! - Esclamò Trisha.
- Stai mentendo. Tu e Hailey sapete qualcosa che noi non dobbiamo sapere, non è vero? -
- Non so come le venga in mente una cosa del genere, ma sto dicendo la verità. -
- È sincera, Hailey? Davvero tutti amavano Scarlet? -
Gli occhi di Hailey erano sfuggenti, e quando annuì stava fissando intensamente il selciato sotto i suoi piedi.
- C'era qualcuno che non la sopportava, vero? Lasciatemi indovinare. Una vostra ex amica. Anzi, no. Una ragazza ambiziosa e determinata quanto lei. - Un impercettibile movimento nei lineamenti di Hailey lo fece sorridere. - Sì, una rivale. Qualcuno che probabilmente era sicuro di avere più stoffa di Scarlet e che quindi non sopportava di vederla primeggiare in tutto. Qualcuno che moriva d'invidia, che non si è mai sentita apprezzata... e che quindi ha deciso di eliminare la sua rivale una volta per tutte. Ho ragione? Ho ragione, Hailey? -
- Adesso basta! - Esclamò Susan, con la voce rotta e gli occhi di nuovo gonfi di lacrime. - Mia sorella Scarlet è stata uccisa e lei è qui a chiederci di dirle cose che non sappiamo senza rispettare il nostro dolore. Dovrebbe vergognarsi! -
Susan scoppiò di nuovo in singhiozzi e Trisha si chinò ad abbracciarla fulminando il consulente del CBI con uno sguardo gelido. Teresa afferrò Patrick per un braccio e lo obbligò a fare un paio di passi indietro, intimandogli con lo sguardo di non dire una sola parola in più.
- Scusateci, è il nostro lavoro. - Mormorò rivolta alle ragazze.
- Scusateci voi. - Disse Hailey con un filo di voce. - Amavamo Scarlet. È molto dura essere qui e sapere che lei non tornerà più. -
- Se vorrete contattarci, dirci qualcosa... questo è il numero che potete chiamare. - Disse Teresa porgendole un bigliettino da visita. - Ora andiamo. - Disse, più a beneficio del consulente alle sue spalle che delle studentesse davanti a lei.
Gli passò accanto con un'espressione che non ammetteva repliche e Patrick la seguì alzando le braccia, arrendendosi alle decisioni del suo capo.
Erano rientrati nell'edificio e stavano percorrendo un corridoio luminoso diretti all'uscita, quando il cellulare di Teresa vibrò nella sua tasca.
- VanPelt, dimmi. - Disse la donna, fermandosi per rispondere al telefono.
Ma non riuscì ad ascoltare le parole della ragazza dall'altra parte dell'apparecchio, perchè la sua attenzione fu attratta da quello che si vedeva da uno spiraglio di una porta aperta: al di là dell'uscio, su una grande parete a specchio, si vedevano riflesse una mezza dozzina di bimbette in body rosa e collant bianche che si dedicavano ad esercizi di danza. La scena le sarebbe risultata del tutto indifferente se non fosse stato per la bambina più vicina alla porta. Aveva i capelli neri legati in due codini e, sebbene il suo viso riflesso nello specchio fosse il più assorto e concentrato di tutti, i suoi movimenti erano incerti e in ritardo. Aveva due grandi occhi neri e quando l'insegnante si avvicinò per rimproverarla la sua espressione smarrita colpì Teresa con una forza tale da farla barcollare. Un attimo dopo la bambina era uscita dal suo campo visivo e l'agente si ricordò di essere al telefono.
- Capo? Ci sei? - La voce di Grace sembrava lontanissima.
- S-sì, ci sono. Ora... ora torniamo al CBI e ne parliamo. - Disse Teresa, cercando di non far capire alla ragazza di non aver ascoltato una sola parola del suo discorso.
Riattaccò e non fece in tempo a far sparire il cellulare in tasca che Patrick le si avvicinò.
- Ti manca, vero? - Domandò solamente.
- Non so di chi tu stia parlando. - Mentì Teresa, avviandosi lungo il corridoio.
- Quanto tempo è passato? Otto mesi? - Il silenzio della donna fu più eloquente di qualunque parola e Patrick continuò. - L'hai più vista? O sentita? -
- Ho chiamato il mese scorso l'assistente sociale. - Ammise Teresa - Mi ha detto che non è ancora stata data in affido. Nessuna famiglia la vuole con sè, dopo quello che ha passato. Hanno tutti... paura. -
L'espressione che si era dipinta sul suo viso era così diversa da quella determinata e sicura che era solita sfoggiare che Patrick non ebbe il coraggio di dire nient'altro.
Si avviarono lungo il corridoio in silenzio ed erano quasi arrivati all'uscita quando i passi di qualcuno che li stava raggiungendo di corsa li fecero voltare: davanti a loro stava una dodicenne dal viso tondo con i capelli biondi ondulati in disordine e gli occhi luccicanti.
- Volete sapere chi ce l'aveva con Scarlet? - Domandò.
Teresa guardò prima la ragazzina e poi Patrick, stupita.
- S-sì. - Disse.
- Elizabeth Nardi - Disse la ragazzina con un sorrisetto.
- E dove possiamo trovarla? -
La ragazzina si strinse nelle spalle, poi si voltò con una piroetta e scomparve correndo lungo il corridoio, lasciando i due agenti alle sue spalle.
- Credi che dovremmo cercare questa Elizabeth? - Domandò Teresa.
- Credo che dovremmo andare a mangiare qualcosa. - Rispose Patrick. - Mi offri un toast? -
Teresa lo guardò con aria di disapprovazione prima di seguirlo verso l'uscita.













Sì, lo so, gli aggiornamenti sono un po' lenti.
Ma sapete che non lascio mai a metà un racconto,
quindi non mi resta che chiedervi di portare pazienza.
(e nel frattempo spero che tutti vi stiate godendo la quinta stagione)
Al prossimo capitolo!

Flora

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Capitolo 3
*** Tre. ***


Era primo pomeriggio e Teresa si godeva la quiete dell'ora che seguiva il pranzo nel suo ufficio. Grace l'aveva chiamata per avvertirla dell'arrivo del referto del medico legale e l'agente l'aveva letto con comodo, seduta alla sua scrivania.
- Che dice? - Domandò Patrick entrando nell'ufficio e lasciandosi cadere sul divano, spezzando con la sua presenza la tranquillità del momento.
- Dice che Scarlet è morta per soffocamento. - Disse Teresa, chiudendo il fascicolo e passandolo al suo consulente. - E allontana del tutto l'ipotesi del suicidio. -
- Oh, davvero? - Fu l'ironica risposta.
- Non è necessario essere sarcastici. - Sentenziò Teresa. - Non c'erano segni di colluttazione sulla scena del crimine, nè segni di lotta sul corpo di Scarlet. Mi chiedevo semplicemente come potesse una persona lasciarsi uccidere senza lottare. Dagli esami pare che nel sangue di Scarlet ci fossero dosi molto alte di un farmaco, probabilmente un sonnifero: ed ecco la risposta al mio dubbio. È un omicidio, bravo, hai vinto. Niente zuccherino però. -
Patrick sorrise divertito, ma non potè rispondere perchè Kimball aprì la porta.
- Ti cerca il capo. - Disse a Teresa.
- Cosa vuole? -
- Non so. Ma sembra piuttosto urgente. -
Finendo il caffè rimasto a raffreddarsi nella tazza in un unico sorso, Teresa si alzò per raggiungere l'ufficio del capo del CBI intimando al suo consulente di non combinare guai in sua assenza.
- Ho intenzione di schiacciare un pisolino. - Fu la risposta di Patrick, che si distese più comodo sul divano spostando il fascicolo per addormentarsi meglio.
Teresa raggiunse l'ufficio del capo chiedendosi perchè ci fosse bisogno di lei in modo così impellente, ma appena mise piede nella stanza capì però il motivo della convocazione: seduti sulle poltrone davanti alla scrivania del capo c'erano Antea Vince e un uomo stempiato sulla quarantina con la faccia da mastino.
- Lisbon, vieni. - Disse con aria accigliata il suo superiore, facendole cenno di avvicinarsi. - La signorina Vince mi stava dicendo che siete entrati di nascosto nella sua scuola. Io le ho detto che non sarebbe mai potuta capitare una cosa del genere - disse con un'occhiata di ammonimento - e che sicuramente avresti avuto una spiegazione plausibile per questo malinteso. -
Teresa aprì la bocca per rispondere, ma l'occhiata feroce della direttrice la interruppe proprio mentre iniziava a giustificarsi. Era un agente di polizia, non doveva giustificare le sue indagini a proposito di un omicidio. E soprattutto non doveva giustificarle a una donna gelida e rigida come l'acida signorina Vince.
- Stavamo indagando. Tutto qui. -
- Vede? Gliel'ho detto, sono entrati di nascosto e hanno interrogato le mie studentesse! - Sbottò la direttrice con la voce più acuta che Teresa avesse mai udito. - Chiedo... anzi, pretendo di essere presente alle prossime visite che farete alla mia scuola e a ogni colloquio che avrete con le ragazze. Per la tutela delle studentesse e del buon nome della Vince Academy. Il mio avvocato saprà rispondere a qualunque vostra obiezione. -
- La sua presenza potrebbe compromettere le indagini! - Protestò Teresa.
Il comandante però non le diede ascolto, replicando:
- Verrete informata di ogni sviluppo, miss Vince. E l'agente Lisbon si premurerà personalmente di convocarla in caso ci siano degli interrogatori. -
- Lo spero bene. - Disse Antea Vince, mettendosi più comoda sulla sedia e sorridendo con aria vittoriosa al tizio con la faccia da mastino. - E preferirei che quel fastidioso consulente non sia presente agli interrogatori. -
- Il signor Jane è un consulente del CBI e per lo svolgimento delle indagini abbiamo bisogno del suo aiuto. Con tutto il rispetto, miss, penso che dovremmo essere noi a decidere come questa cosa va portata avanti, non lei. - Esclamò Teresa.
- Ho detto solo preferirei. - Sibilò la donna.
Poi si alzò, alta ed elegante nel suo completo grigio, e si congedò dal comandante con un gesto del capo, senza aspettare un minimo cenno di assenso da parte del poliziotto. Fece un cenno al suo avvocato e i due uscirono dall'ufficio salutando con un gelido "arrivederci".
- Non posso credere che l'abbia lasciata vincere! - Esclamò Teresa non appena la donna si fu chiusa la porta alle spalle.
- Avevo le mani legate! Il suo avvocato è il più temuto della California e la Vince ha dalla sua parte mezza dozzina di famiglie influenti, alcune addirittura amiche del procuratore. Vuo davvero metterti contro tutta la gente che conta della bay area solo per non fare qualche concessione? -
- Quella donna è... è prepotente, e tirannica, e... è impossibile! - Esclamò Teresa.
- Saprai fare il tuo mestiere anche con lei tra i piedi. Non per niente riesci a lavorare con Jane. - Rispose sardonico il capo, lasciandosi andare ad un sorrisetto.
Teresa sospirò, rendendosi conto che non c'era proprio modo di riportare le cose a funzionare nel senso giusto.
- Hai novità? - Disse il comandante, desideroso di cambiare argomento.
- Un nome. Ma a questo punto interrogare un sospettato significa richiamare la direttrice e chiederle di presenziare. -
- Va', allora. Forse non è ancora andata via e ti puoi risparmiare una telefonata. - Rispose il capo, abbassando lo sguardo sui rapporti che doveva firmare.
Siccome il suo superiore non sembrava avere intenzione di alzare gli occhi dai suoi fogli, Teresa si concesse un'occhiataccia liberatrice prima di uscire dall'ufficio per inseguire la signorina Vince; la incontrò nell'atrio che aspettava l'ascensore.
- Miss Vince. - Chiamò. - Dobbiamo interrogare una sua studentessa in merito ai rapporti che aveva con Scarlet. -
- E chi sarebbe? -
- Elizabeth Nardi. - Disse Teresa.
La direttrice si irrigidì impercettibilmente, ma cercò di rispondere senza dimostrare la sua irritazione. Gli occhi acuti dell'agente, però, non si fecero sfuggire quell'involontario moto di fastidio e lo memorizzarono.
- La accompagnerò qui domani mattina. - Fu la fredda risposta. - Buon pomeriggio. -
La donna e il suo avvocato sparirono nell'ascensore e Patrick comparve alle spalle di Teresa con una tazza di tè in mano e l'aria di chi si era appena svegliato.
- Tipino fastidioso, eh? -
- Peggio. Pretende di essere presente a ogni interrogatorio che faremo. -
- Basta non farle sapere che lo faremo. -
Teresa gli lanciò un'occhiata di rimprovero a cui Patrick rispose con un sorriso:
- Quello che non sa, non la ferisce, no? -
- Domattina interroghiamo Elizabeth. Voglio che tu sia presente. -
- Oh. E come mai? - Disse Patrick, un po' sorpreso: di solito Teresa si adoperava per tenerlo ben lontano dagli interrogatori, soprattutto quando si trattava di ragazzini.
- Perchè la direttrice non ti sopporta. - Rispose semplicemente Teresa, allontanandosi.

Elizabeth Nardi era una sedicenne minuta, con lunghi capelli bruni raccolti in due trecce e occhi azzurri luccicanti dall'espressione fiera e spaventata insieme. Seduta sulla sediolina di plastica della sala interrogatori sembrava ancora più piccola, soprattutto se confrontata con la direttrice seduta al suo fianco, rigida e impettita nel suo completo rosa salmone.
Teresa entrò e si sedette di fronte alla ragazza, sorridendole timidamente per cercare di metterla a suo agio. Gli occhi azzurri di Elizabeth però erano sfuggenti, si posavano sul piano del tavolo, sulla donna seduta al suo fianco e poi sul fascicolo che Teresa teneva tra le mani senza mai fermarsi per più di un battito di ciglia. Patrick entrò un minuto dopo la donna, fermandosi alle sue spalle e ignorando senza sforzo l'occhiata feroce che miss Vince gli stava dedicando.
- Sono l'agente Lisbon, Elizabeth. Vorrei farti qualche domanda su Scarlet Fontaine. -
Elizabeth annuì, stringendo le labbra in una smorfia di timore e lanciando uno sguardo alla direttrice seduta accanto a lei.
- Dì quello che sai, cara. - Intervenne la direttrice con un gelido sorriso.
- Non... Non eravamo molto amiche. - Disse Elizabeth, fissando le proprie mani intrecciate in grembo. - Io ero... invidiosa. Molto invidiosa. Lei era sempre la protagonista dello spettacolo, io mai. -
- Vi conoscete da molti anni? -
- Da quando ho iniziato l'Accademia, dieci anni fa. Lei studiava già lì. -
- Hai in mente qualcuno che poteva fare del male a Scarlet? -
- No. La amavano tutti. Nessuno poteva farle del male. -
- E cosa mi dici di Trisha ed Hailey? Loro ti stanno simpatiche? - Continuò Teresa.
- No. Io sto per conto mio. -
- Non hai amiche? -
- Voglio diventare una ballerina, non un'ape regina. Non mi interessa avere... - Ebbe un attimo di esitazione e poi continuò. - Non mi interessa avere degli amici. Mi basta essere brava nella danza. -
- Non ti viene in mente nessuno che potesse avercela con Scarlet? -
- Nessuno. Le volevano tutti bene. -
Con un sospiro Teresa chiuse il suo taccuino, rendendosi conto che non avrebbe avuto molto da scrivere. Si voltò verso Patrick, sperando che almeno lui avesse colto qualcosa di interessante da quell'inutile interrogatorio, ma l'uomo fissava la ragazzina bruna davanti a sè con gli occhi socchiusi e l'espressione indecifrabile, appoggiato al vetro a specchio della sala degli interrogatori, le ombre che si allungavano sul suo viso e rendevano ancora più incomprensibile la natura dei suoi pensieri.
Incoraggiata dal silenzio che regnava nella stanza, Antea Vince si alzò in piedi, invitando la ragazza a fare lo stesso.
- Se non avete altre domande, Elizabeth ha perso già diverse ore di lezione, stamattina. -
- Non abbiamo ancora finito. - Tentò Teresa.
- Non mi sembra che abbiate altro da chiederle. - Sentenziò la direttrice.
- Certo, potete andare. - Intervenne Patrick, uscendo dall'ombra e avvicinandosi al tavolo - Ti spiace se vado anche io, Lisbon? Ho delle cose da fare. -
Il consulente lanciò uno sguardo intenso all'agente e poi, senza aspettare la risposta del suo capo, uscì dalla sala interrogatori sparendo lungo il corridoio.
- Andiamo anche noi. - Ribadì la direttrice, posando una mano sulla spalla della sua studentessa.
Elizabeth aprì la porta della stanza e uscì nel corridoio, seguita a poca distanza dalla direttrice e dalla poliziotta. Nell'istante in cui Teresa si chiuse la porta alle spalle, però, il suo istinto prese il sopravvento e l'agente parlò prima ancora di rendersene conto.
- Miss Vince, permette una parola? - Domandò all'improvviso.
La direttrice si girò guardandola con ferocia e afferrò la spalla di Elizabeth per impedirle di allontanarsi.
- Va' pure, Elizabeth. Puoi aspettare la signorina Vince agli ascensori. - Disse Teresa.
- Preferirei di no. - Disse la direttrice.
- Credo che sia meglio parlare in privato. - Disse Teresa, sostenendo lo sguardo della donna e cercando di rispondervi con altrettanta determinazione.
La battaglia tra le due donne ebbe la durata di qualche istante, quando all'improvviso la signorina Vince decise di cedere.
- Vai. Ma non prendere l'ascensore senza di me. -
Obbediente, Elizabeth salutò con un cenno del capo e poi si allontanò verso l'atrio.
Nel momento in cui Teresa rimase sola con Antea Vince, si rese conto di aver dato retta al suo istinto senza però curarsi troppo della giustificazione che avrebbe dovuto rendere alla direttrice. Aprì la bocca per parlare, cercando qualcosa di diplomatico per intrattenere la donna, ma la sua mente riuscì a dare forma ad un solo pensiero:
- Credo che lei stia tentando di ostacolare le indagini. - Disse
"E tanti saluti alla diplomazia", pensò mentre vedeva il viso della donna farsi di pietra.
- Io invece credo che lei stia tentando di disturbare la quiete della nostra Accademia senza nessun motivo. Scarlet è morta, il che è terribile, ma tra le mie studentesse non ci sono colpevoli. -
- Vuole dirmi che la sicurezza della vostra tanto stimata scuola è così debole da permettere a un esterno di entrare e uccidere una ragazza? -
- Non intendevo questo. Intendevo che dovete guardare altrove, cercare altrove. Non tra le mie ragazze. Sono figlie di famiglie rispettate e stimate. -
- L'essere ricche e influenti non le rende innocenti. -
- E l'essere povera non rende lei obiettiva: mi rendo conto dell'invidia che prova per queste ragazze, che possono dedicarsi a cose belle e femminili, invece di doversi vestire come un uomo e avere a che fare con sangue, omicidi e stupratori. - Disse Antea Vince. Abbozzò un sorriso colmo di pietà artefatta e poi continuò. - Mi creda, comprendo il suo malanimo. Sto solo cercando di proteggere le mie studentesse dagli effetti della frustrazione di una donna che non è riuscita a rendere la sua vita un'opera d'arte. -
Le parole della direttrice, gettate ai suoi piedi con rabbia, disprezzo ed evidente senso di superiorità, avevano colpito Teresa in quell'angolo della sua mente che non amava frequentare. Le mezze verità del suo discorso alimentarono la rabbia dell'agente come benzina sul fuoco e Teresa strinse i pugni, cercando di dominare l'ira nascosta nella voce.
- Non le permetto di parlarmi in questo modo, miss Vince. - Disse, scandendo ogni parola.
- Tutto ok, capo? - domandò Grace, avvicinandosi con l'aria di chi non era del tutto sicura di voler entrare nel merito della discussione che si stava svolgendo davanti a lei.
- Certamente. Io e l'agente Lisbon stavamo solo scambiando qualche parola. - Disse la direttrice, sorridendole amabilmente - Se ha bisogno di altro sapete dove trovarmi. -
E senza nemmeno salutare si allontanò lungo il corridoio con la testa alta e il consueto passo svelto.
Teresa la guardò allontanarsi sperando intensamente di trovare qualcosa - anche sciocca e insignificante - per poter dimostrare che quella donna era tutto fuorchè innocente.
Con un lungo sospiro per calmare i nervi, si voltò verso Grace.
- Mi cercavi? - Le domandò, facendole cenno di seguirla nel suo ufficio.
- Sì, capo. Abbiamo avuto la risposta delle analisi nel sangue di Scarlet: aveva dosi elevate di benzodiazepine, livelli quasi letali che devono averla ridotta raticamente in coma. - Dalla voce della ragazza traspariva la sua pietà per la infelice sorte della giovane ballerina.
Teresa si appoggiò alla sua scrivania e scorse il foglio che Grace le tendeva dicendo:
- Manda Cho e Rigsby a fare un sopralluogo all'Accademia per controllare se esite un armadietto dei medicinali, un'infermeria o una cosa del genere. Le ragazze al collegio non possono gestire soldi, quindi chi ha preso i sonniferi deve esserseli procurati tra quelle mura. -
- D'accordo. - Disse Grace, allontanandosi.

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Capitolo 4
*** quattro. ***


La quiete della mattina regnava ancora sovrana, al CBI, e Teresa si concesse mezz'ora di pausa. Si sedette sulla sua poltrona, controllò le mail e diede una mezza riordinata alle scartoffie che la aspettavano sulla scrivania. L'alberello che le avevano regalato scintillava fastidiosamente, accarezzato dalla luce del mattino che filtrava dalle persiane socchiuse, e gli occhi dell'agente scelto non riuscivano a distogliere lo sguardo dalla stella sulla cima, che brillava quasi di luce propria.
Non c'erano mai state grandi decorazioni natalizie, nella sua casa paterna, e da quando viveva da sola a Sacramento nemmeno una lucina di Natale aveva varcato la soglia del suo appartamento. Da una parte era convinta dell'inutilità le decorazioni, se non si viveva l'intensa spiritualità del Natale, ma dall'altra sapeva bene che trovava assurdo addobbare a festa la casa solo per sè stessa. Era vero, Natale era l'occasione per sentire i suoi fratelli: una risata con Tommy, una chiacchiera con gli altri, convenevoli e battute... ma rimaneva il fatto che vedere palline e lucine - per non parlare di calze e regali - le ricordava solo che per lei non c'era molta differenza, quanto ad affetti, tra il venticinque dicembre e il resto dei giorni dell'anno.
Un sospiro silenzioso testimoniò la quieta rassegnazione di quel pensiero.
Erano tanti anni, ormai, che viveva le feste da sola, ma ancora non ci aveva fatto l'abitudine.
"Forse a certe cose non ci si può abituare." Pensò mentre spostava l'alberello di Natale in modo che la luce non lo colpisse più così vividamente: in quel momento notò di averlo appoggiato su un foglio piegato in quattro.
Lo aprì sperando che non fosse qualcosa di importante, finito in un angolo e dimenticato a causa del disordine che regnava sulla sua scrivania. Ma quando lo aprì, si ritrovò a pensare che sarebbe stato meglio se fosse stato qualcosa di importante, qualcosa di grosso, qualcosa che era meglio non aver dimenticato... qualunque cosa, ma non quell'innocente disegno.
Posando il foglio davanti a lei e accarezzando con lo sguardo i tratti infantili con cui erano stati fatti sorridere i volti dei personaggi, sorridendo ai colori vivaci dei vestiti, talmente vividi da non riuscire a stare nei contorni Teresa sorrise, mentre gli occhi le bruciavano.
Di lì a una settimana Dorothy avrebbe passato Natale da sola: il suo primo Natale da sola.
Assecondando qualcosa che non era affatto la ragione, Teresa recuperò l'agenda e il biglietto da visita color pesca infilato tra le pagine. In un carattere corsivo e svolazzante, il nome di Claire Andrews era seguito da un numero di telefono e altri contatti.
Infilando la cornetta telefonica tra l'orecchio e la spalla e iniziando a scrivere il numero dell'assistente sociale, si rese conto che il suo cuore batteva sempre più forte via via che ne componeva le cifre. Il primo squillo echeggiò nella cornetta e Teresa sentì una stretta alla bocca dello stomaco. Posò una mano sul disegno piegato sulla scrivania e chiuse gli occhi, , cercando in quel contatto la calma necessaria per replicare alla voce della ragazza che di lì a poco avrebbe risposto. Il rumore della porta che si apriva si sovrappose al secondo squillo.
- Sei impegnata? - Domandò Patrick, facendo capolino.
L'incantesimo si spezzò all'improvviso e Teresa riagganciò la cornetta all'apparecchio con una tale foga da farlo sbattere. Alzò gli occhi verso Patrick fulminandolo.
- Non si usa più bussare? - Domandò accigliata.
- Chi stavi chiamando? - Chiese Patrick, entrando e guardandola con aria sorniona mentre si avvicinava.
- Mio fratello. E comunque non sono affari tuoi. Cosa vuoi? - Sbottò l'agente, nascondendo in fretta il foglio che aveva tra le mani sotto la pila di vecchi fascicoli: non aveva intenzione di far capire a quel ficcanaso del suo consulente cosa le passava per la mente.
- Ho parlato con Elizabeth. -
Il caso riemerse tra i pensieri di Teresa facendosi spazio a fatica e cercando di riassorbire la maggior parte della sua coscienza.
- Finalmente una buona notizia. Cosa hai scoperto? -
- Non è stata lei. -
- Oh, bene. Ci rimangono giusto altre cinquanta ragazze da interrogare, allora. -
- Non ho detto che non ho scoperto niente. -
- Quindi? -
- Se te lo dico, che gusto c'è? - Disse Patrick con un sorrisetto.
- Se non hai intenzione di essere utile all'indagine, mi spieghi perchè sei venuto? -
- Per dirti che Cho e Rigbsy stanno tornando. -
- Così presto? -
- Pare non li abbiano fatti entrare. A quanto pare non hanno saputo toccare... i tasti giusti. - Disse con un sorrisetto.
Teresa si alzò e lo superò senza degnarlo di uno sguardo.
- Ehi, non mi hai ancora detto cosa vuoi per Natale! - Esclamò Patrick quando la sua collega si allontanò lasciandolo solo nell'ufficio.
Una tazza di caffè più tardi Wayne e Kimball erano di ritorno e Teresa si fermò a parlare con loro nell'open space: Wayne era piuttosto demoralizzato, quanto a Kimball era difficile capire cosa stesse provando. Dal tono della sua voce quando rispose non trapelavano emozioni, anche se dalle parole che aveva scelto pareva piuttosto irritato.
- La donna all'ingresso non ha voluto sentire ragioni. La direttrice non c'era e in sua assenza non si fa entrare nessuno. - Spiegò.
- Dovevate insistere, io e Jane siamo riusciti a entrare, ieri. -
Kimball e Wayne si scambiarono uno sguardo eloquente, il contenuto del quale fu condiviso da Teresa.
- Lo so, Jane fa delle persone quello che vuole, ma siete agenti del CBI, che diamine! Non sarà una porta chiusa e una inserviente ostinata a tenervi fuori dalle indagini! - Esclamò.
Il suono del telefono interruppe il suo rimprovero e Wayne allungò una mano per afferrare la cornetta.
- Agente Rigsby, CBI. - alzò gli occhi verso il suo capo mentre la persona dall'altro capo del filo parlava. La sua espressione da preoccupata divenne sorpresa e poi sollevata. - Ma certo - Rispose - Certamente, certamente. Sarebbe perfetto. Grazie. Grazie, miss Vince. -
L'occhiata interrogativa di Teresa lo raggiunse mentre riattaccava, e Wayne si affrettò a spiegarsi con un sorriso disteso dipinto sul volto.
- Era la direttrice dell'Accademia. - disse - Ha detto che si scusa per il comportamento poco gentile della sua collaboratrice e che ci sta facendo arrivare i registri dell'infermeria, saranno qui tra poco assieme all'infermiera dell'Accademia -
- Finalmente qualcosa di buono. - Sentenziò Teresa, con un sospiro di sollievo. - Aspettiamo i registri e poi decidiamo il da farsi. -
Mentre il sole scendeva su Sacramento, Teresa e Patrick erano fermi dietro al vetro a specchio della sala interrogatori: dall'altra parte Kimball stava sfogliando i registri mentre davanti a lui una signora sulla sessantina si torceva le mani con aria nervosa.
- Allora, signora Hanbel, è lei che gestisce la farmacia della scuola? - domandò chiudendo bruscamente il quaderno che stava consultando e facendo sussultare la donna.
- S-sì. Per avere un farmaco le ragazze devono venire da me, io aggiorno il registro e consegno loro quello di cui hanno bisogno. -
- È possibile che qualcuno abbia rubato dall'armadietto? -
- Assolutamente no. - Disse la signora Hanbel con convinzione. - Lo apro e lo chiudo personalmente, le chiavi le ho solo io e non ci sono mai state sparizioni. Mai. Miss Vince ci tiene moltissimo alla salute delle sue alunne e non vuole che abusino di medicinali. -
- Qui vedo che alcune studentesse ricorrono spesso alla farmacia. - Rispose Kimball, aprendo uno dei registri e voltandolo verso l'infermiera.
- S-sì. Alcune hanno bisogno di medicine quasi costantemente. Analgesici, soprattutto, per i dolori muscolari dovuti agli allenamenti... -
La sua voce si spense in un sussurro mentre Kimball scorreva la lista.
- Analgesici, certo. E dei sonniferi cosa mi dice? -
- Oh, beh. Una sola... una sola studentessa ne fa uso. - Disse la donna. - Ha problemi di insonnia e ogni settimana riceve una dose di benzodiazepine. -
- L'ha ricevuta anche settimana scorsa? -
- Sì, credo... credo di sì. Ma controlli, se l'ha ricevuta è proprio sul registro. Ci sarà anche il nome, in questo momento non lo ricordo. -
Kimball sfogliò il registro e seguì con lo sguardo le ordinate colonne di nomi e numeri fino ad arrivare alla data del lunedì precedente. Alzò lo sguardo verso il vetro a specchio intercettando quello del suo capo con una espressione ancora più grave dipinta negli occhi.
Teresa sospirò, capendo perfettamente cosa aveva appena scoperto il suo agente.










Un aggiornamento veloce (e breve, lo so) prima di partire per le vacanze di  Pasqua.
Non volevo farvi attendere un altra settimana prima di un aggiornamento,
così vi lascio con questo e spero che possa saziare un pochino la vostra curiosità
in attesa del prossimo capitolo!

Flora

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Capitolo 5
*** cinque. ***


- La studentessa che riceve la scorta di sonniferi è Elizabeth Nardi. - Disse Teresa, aggiornando Grace e Wayne. - A questo punto dobbiamo incriminarla, sono troppi gli indizi a suo carico. -
- Ma capo, è una ragazzina, non può davvero essere lei. - Intervenne Grace.
- Abbiamo le mani legate. Aveva i farmaci che hanno trovato nel corpo di Scarlet, ha il movente... -
- Pare che abbia il movente. Non ne abbiamo la certezza. - Intervenne Patrick.
- È stata lei a dirci che non nutriva grande simpatia per Scarlet. - Replicò Teresa.
- Mentiva. Quale assassino dice di essere in cattivi rapporti con la vittima durante un interrogatorio? - Replicò Patrick.
Il silenzio fu la risposta alla sua domanda retorica, un silenzio tale da farlo sorridere con aria trionfante.
- Anche se hai ragione, non possiamo farci niente. Rigsby, telefona all'Accademia e dì alla direttrice che abbiamo abbastanza prove per incriminare la sua studentessa. Il capo si è raccomandato di tenerla aggiornata sul caso. - Replicò Teresa.
Wayne si guardò intorno per un momento, aprendo la bocca per replicare e tentare di levarsi il problema di affrontare la tremenda direttrice, ma al suo capo bastò uno sguardo per azzittirlo e farlo sedere dietro la sua scrivania con la cornetta in mano.

La mattina successiva il cielo turchese brillava su Sacramento e Teresa aveva appena fatto in tempo ad appendere la giacca all'appendiabiti quando la porta del suo ufficio si aprì.
- VanPelt, che ci fai qui a quest'ora? -
- Sono arrivata presto. - Disse Grace con aria distratta, avvicinandosi a lei mentre leggeva il foglio che aveva tra le mani. - Guarda cos'ho trovato nel fax. -
Il foglio che Grace le stava tendendo era formato da molti bigliettini stropicciati, aperti e posizionati in modo ordinato su un foglio più grande. Su ogni pezzetto di carta diverse grafie femminili scrivevano frasi poco carine rivolti a qualcuno.
- "Dovresti tornare dalla fogna da cui sei uscita", "non meriti un posto in questa scuola", "dovresti lustrare il pavimento su cui danziamo, non ballarci anche tu"... Che diavolo è? - Domandò Teresa, irritata dalla volgarità e dalla cattiveria di cui quei messaggi erano pieni.
- Non ne ho idea, ma dalla scrittura e dal tono dei messaggi direi che c'entra il caso alla Vince Academy. - Disse Grace.
- Sì, mi sembra chiaro. Ma mi chiedo chi sia a volerci dire queste cose... sono sicuramente state scritte da persone diverse, ma per la stessa persona. Quello che mi incuriosisce di più è il modo in cui sono arrivate, quasi di nascosto. -
- Se guardi, capo, in fondo al foglio c'è l'ora di ricezione e un numero di telefono. Posso utilizzarlo per risalire al luogo da cui è partito. -
- È un'ottima idea, VanPelt. Vedi cosa riesci a fare. -
Grace riprese il foglio e uscì chiudendosi la porta alle spalle, lasciando Teresa da sola nel suo ufficio.
La notte prima aveva dormito poco e aveva già i primi sentori del mal di testa che l'avrebbe tormentata per l'intera giornata. Per di più le poche ore di sonno di cui era riuscita a godere erano state interrotte da continui ricordi dei suoi Natali sereni in famiglia, o almeno di quei pochi che riusciva a ricordare. Si era svegliata di umore pessimo e con una gran voglia di accelerare i giorni che mancavano a Natale per poter evitare quella festa e continuare con il tran tran della vita quotidiana senza dover affrontare lucine, candeline e falsi buoni sentimenti.
Con un sospiro rassegnato si avviò all'area relax per seguire le indagini di Grace con una tazza di caffè rovente e molto amaro tra le mani.
Quando il resto della squadra fu comparso in ufficio, l'agente era riuscita ad ottenere l'indirizzo del fax da cui era partito lo strano documento. Patrick si era appena seduto col suo tè sul divano quando Teresa gli comparve davanti.
- Forza, andiamo. - Gli disse con un cenno del capo. - Dobbiamo andare a scoprire chi ha mandato quel fax. -
- Quale fax? -
- Quello con i bigliettini minacciosi, lo leggerai in macchina. -
- Ma non ho ancora iniziato a bere il tè. -
- Lo potrai bere più tardi. - Fu la risposta. - Forza. -
- Non puoi portarti Cho? -
- Tu riesci a tirare fuori alla gente cose che non ha intenzione di dire e credo che avremo bisogno delle tue doti. Ora ti alzi o vuoi continuare a fare i capricci? - Aggiunse Teresa, esasperata.
Patrick si alzò, appoggiò il tè sulla scrivania e seguì Teresa fuori con aria sconfortata.
- Mi devi un tè. - Furono le sue uniche parole.

Il quartiere da cui era partito il fax era una delle tante periferie mediocri che circondano ogni grande città. Le vie erano ordinate e pulite ma tutte stranamente uguali, i palazzi si differenziavano solo per i diversi colori di cui erano tinteggiati. La gente si affaccendava per le vie senza fermarsi troppo a chiacchierare e non c'era neanche l'ombra di un negozio.
- Dove stiamo andando? -
- Copisteria Printable di Hugh Vault, 827 Washington Road. È da lì che è partito il fax. -
Il consulente aveva ancora tra le mani una copia del foglio ricevuto via fax: lo aveva fissato per lunghi minuti con una ruga profonda tra le sopracciglia, cercando di leggere in quel pezzo di carta tutto quello che si poteva capire dei suoi autori.
- Eccoci arrivati. - Disse Teresa, fermando l'auto.
Al di là del marciapiede stavano due grandi vetrine anonime su cui era stata applicata una scritta adesiva che riportava il nome della copisteria e la gamma di servizi che il negozio offriva. Teresa e Patrick entrarono e il tintinnio del campanello sopra la porta annunciò il loro arrivo al proprietario, uno uomo alto e allampanato con pochi capelli e la schiena curva di chi ha trascorso tutta la vita chino su una scrivania. Si avvicinò a loro dall'altra parte del lungo bancone che impediva ai clienti di girare tra le molte macchine da stampa che occupavano la sala, appoggiò i gomiti al tavolo e si allungò verso i due con un sorriso finto e incolore.
- Posso esservi utili? - La sua voce, sottile e viscida, era più untuosa dei suoi occhietti vitrei, che non avevano lasciato per un attimo la figura femminile che aveva varcato la soglia del suo negozio.
- Cerchiamo il signor Vault. -
- L'avete appena trovato. E con chi, di grazia, ho l'onore di parlare? - Disse il proprietario, lanciando uno sguardo poco amichevole all'uomo comparso alle spalle della ragazza.
- Agente Lisbon, CBI, lui è Patrick Jane. Vorremmo farle qualche domanda a proposito di questo fax. - Disse Teresa senza battere ciglio, porgendogli la copia del documento.
L'uomo la prese tra due dita e scosse la testa.
- Non mi dice niente, miss. - Disse restituendolo a Teresa. - Ma se posso compiacervi in altro modo... -
- Lo guardi meglio. - Disse di nuovo l'agente, spingendolo di nuovo sotto il suo naso affilato. - È stato mandato ieri sera alle 21 da questo posto. -
- Può darsi. Non tengo d'occhio tutti i clienti e di sicuro non mi curo di cosa mi danno da copiare. Basta che mi paghino. -
- Ci pensi bene. Sono certa che non sono molte le persone che passano all'ora della chiusura. - Lo rimbeccò Teresa.
L'uomo la guardò con un sorrisetto lascivo e si umettò le labbra prima di parlare.
- Può darsi. Forse qualcosa mi sta venendo in mente... ma è un ricordo molto sfocato. -
- Non si faccia pregare, signor Vault, o la incrimino per intralcio alle indagini. -
- Non me lo dica con tanto fervore, signorina... o potrei continuare a tacere solo per lasciarmi ammanettare da lei. -
La risatina di Patrick alle sue spalle fu la goccia che fece traboccare il vaso: tra gestori pervertiti, odore di polvere e cerchio alla testa che iniziava a farsi feroce, l'ultima cosa di cui Teresa sentiva di aver bisogno erano le allusioni del suo consulente: lo fulminò con uno sguardo colmo di tanta ferocia che Patrick tornò immediatamente serio.
- Se non ha niente da dirci, signor Vault, togliamo il disturbo. - Disse Teresa, allungando una mano per afferrare di nuovo la copia del fax.
La mano fredda dell'uomo si posò sulla sua con incredibile rapidità.
- Che modi. Se me lo chiede con un po' più di gentilezza potrei anche ricordare qualcosa. -
Stringendo la mano sul foglio e allontanandosi dal tocco dell'uomo come se fosse stata colpita da una scarica elettrica, Teresa si voltò e uscì dal negozio in una frazione di secondo, sbattendosi la porta alle spalle con ferocia.
Raggiunse a grandi passi l'automobile e si fermò contro la portiera, respirando a fondo.
Era arrabbiata, irritata e frustrata all'idea di non essere riuscita a combinare niente... ma soprattutto era furibonda per non essere riuscita ad affrontare la cosa con la sua solita freddezza.
- Tutto bene? -
La voce di Patrick alle sue spalle la fece trasalire e l'agente si voltò verso di lui pronta a una sfuriata davanti al suo sguardo malizioso o al sorriso divertito sempre dipinto sul suo volto. Ma il viso del suo consulente tradiva solo sincero interesse e velata preoccupazione.
- Che tipo orribile. - Fu la risposta di Teresa.
- Non essere così drastica. Ti trovava carina, avresti dovuto sentirti lusingata. -
Lo sguardo di fuoco di Teresa fu una risposta che non aveva bisogno di altre parole.
- Oho, non ti scaldare! E comunque qualcosa di buono l'abbiamo tirato fuori: dopo la tua plateale uscita di cena aveva tanta voglia di vedermi sparire da dirmi quello che volevamo sapere. -
- E quindi? -
- E quindi la nostra mittente misteriosa è una donna sulla quarantina, che probabilmente abita nei dintorni perchè la vede passare molto spesso presto alla mattina e verso l'ora di chiusura. Sai cosa significa questo? -
- Che basta trovare tra i dipendenti dell'Accademia chi abita qui? -
- Oltre che carina sei anche intelligente. Pensi che dovremmo rientrare a dirglielo? - Disse Patrick allegramente.
- Va' al diavolo, Jane. - Sbottò Teresa salendo in macchina e prendendo il telefonino per avvertire Grace dello sviluppo delle indagini.

Quando arrivarono al CBI, la ragazza aveva già controllato due volte l'intero archivio di dipendenti della Vince Academy senza risultati.
- Non c'è nessuno che abita da quelle parti. - Aveva spiegato - Ho controllato gli indirizzi fino a due fermate di autobus di distanza dal quartiere, ma non ho trovato niente. Cameriere, inservienti, insegnanti... ho controllato perfino le donne delle pulizie e le giardiniere, che pure sono dipendenti di altre agenzie: abitano tutti in altri quartieri della città. -
- Praticamente siamo a un punto morto. - Disse Teresa con un sospiro.
Fissava il pannello su cui erano appuntate la foto di Scarlet, il referto del medico legale e gli appunti sulle altre prove che avevano trovato cercando di capire quale potesse essere il passo successivo, il dettaglio che le era sfuggito e da cui si poteva ripartire per avere qualche nuovo indizio.
Era completamente immersa nei suoi pensieri, riflettendo su come si potesse arrivare a uccidere una coetanea solo per invidia, quando Kimball le si avvicinò.
- Capo, la signorina Vince ti aspetta nel tuo ufficio. - Disse.
- Chi? -
- La direttrice. L'hai chiamata tu? -
- No. Jane? - Disse Teresa, domandandosi se fosse l'ennesimo scherzo di cattivo gusto del suo consulente.
- Perchè quando succede qualcosa di inaspettato ti rivolgi sempre a me? -
- Mah, non so. Secondo te? - Rispose Teresa, avviandosi verso il suo ufficio per scoprire cosa volesse l'austera direttrice.
Quando entrò, vide che miss Vince era in piedi davanti alla sua scrivania accanto ad Elizabeth, seduta su una sedia con gli occhi bassi. Quando l'agente comparve sulla porta la guardò con una evidente aria di sollievo dipinta sul viso.
- Ho saputo cosa è emerso dalle indagini, agente Lisbon, e voglio che Elizabeth sia immediatamente allontanata dalla mia scuola. -
- Elizabeth è solo una sospettata, non è ancora la colpevole... -
- Non mi importa! Lei non sa cosa significa per il buon nome della scuola avere una presunta omicida tra le studentesse! Metterei in pericolo tutte le altre, non avrei più iscritte, tutto quello che la Vince Academy rappresenta sarebbe irrimediabilmente compromesso! -
- Non abbiamo ancora le prove per dire che è stata lei. E poi credo che in gioco ci sia molto più del buon nome della sua scuola: non possiamo trattenere senza motivo una ragazza di sedici anni. -
- Il motivo c'è ed è più che valido. Meglio un innocente in manette che un colpevole a piede libero! -
- Le ho già detto che non siamo certi che sia lei la colpevole! -
- Nessun altra delle mie studentesse avrebbe potuto fare una cosa del genere! -
- E perchè lei dovrebbe essere diversa dalle altre? -
La direttrice fulminò la ragazza al suo fianco con gli occhi, poi si sistemò gli occhiali sul naso e sentenziò:
- Non importa. Quello che è veramente importante ora è tenerla lontana dalle altre studentesse. Mi auguro che non vi siano altri contrattempi che impediscano la chiusura dell'indagine. La questione va archiviata il prima possibile. -
- L'indagine verrà chiusa nel momento in cui avremo tutto il necessario. - Rispose Teresa, fredda.
- Avete l'arma, avete il movente, avete il colpevole... cosa vi manca? - Esclamò spazientita la direttrice.
- Scoprire cosa ci manca è un nostro compito, miss Vince. - Sbottò Teresa. - Ora, se non le dispiace, vorrei tornare a lavorare. Se toglie il disturbo... -
Irrigidendosi, la direttrice strinse a sè borsetta e soprabito.
- Me ne vado immediatamente. Ma lei non la riporto a scuola. Da ora in poi è sotto la vostra responsabilità. - Disse, scoccando alla ragazzina uno sguardo glaciale.
Senza dare il tempo di replicare all'agente, miss Vince uscì dall'ufficio chiudendosi con violenza la porta alle spalle.
Imbarazzata, Teresa si rivolse ad Elizabeth: proprio non sapeva come comportarsi.
- Non preoccuparti, Elizabeth. Scopriremo il colpevole. - Le disse con un sorriso rassicurante. - Vuoi un tè? O magari qualcosa da mangiare? -
La ragazzina scosse la testa.
- Possiamo accompagnarti dalla tua famiglia? -
Elizabeth scosse ancora la testa.
- No? Perchè no? -
- Non possono prendersi cura di me. -
- Sono occupati? -
- Sì. -
- C'è qualcuno da cui possiamo portarti? -
- No. -
- Non puoi rimanere qui. -
- Voglio tornare all'Accademia. -
Con un sospiro di sollievo, Teresa accennò a un sorriso.
- La tua direttrice non potrà impedirti di tornare, non finchè sei innocente. -
- Non adesso. - Disse Elizabeth, alzando gli occhi verso Teresa e guardandola con una determinazione e una vivacità che non aveva mai tirato fuori prima. - Voglio tornarci quando non avrò più la colpa: non sono stata io. - Disse.
A quelle parole, così piene di convinzione, Teresa non ebbe dubbi: Elizabeth era sicuramente innocente. La voglia di proteggere quella ragazzina incastrata in un caso con cui non aveva niente a che fare si moltiplicò al pensiero di avere finalmente occasione di dare alla direttrice Vince quello che si meritava: una buona dose di sana umiltà.
- E secondo te chi è stato? - Domandò Teresa, sedendosi accanto a lei e sorridendole.
Elizabeth abbassò di nuovo gli occhi, posandoli sulle sue ballerine azzurre.
- Elizabeth. - Tentò di nuovo l'agente. - Possiamo aiutarti. Ma se sai qualcosa devi dirmelo. Puoi fidarti di me. -
La ragazzina però non rispose, nè alzò gli occhi. Rimase immobile, con lo sguardo fisso a terra e le mani intrecciate in grembo. Dopo qualche istante Teresa si alzò e raggiunse gli altri nell'open space: non appena ebbe annunciato loro che Elizabeth Nardi era nel suo ufficio, chiusa in un mutismo ostinato dopo essersi dichiarata innocente, Patrick si alzò in un balzo dal divano.
- Dove stai andando? -
- Preparo un tè per la nostra ospite. -
- Non lo vuole. -
- Scherzi? Nessuno rifiuta un tè! - Gridò lui, avviandosi verso la sala relax.
- Jane! - Lo richiamò Teresa, più per abitudine che per farsi ascoltare: sapeva alla perfezione cos'aveva in mente il suo consulente, e sapeva altrettanto bene che non c'era modo di fargli cambiare idea.
- Facciamo il punto. - Disse, appoggiandosi al tavolo e incrociando le braccia sul petto. - Scarlet si alza alle sei e va in auditorium. Mentre prova beve dalla sua bottiglietta, che qualcuno ha riempito di sonnifero. L'assassino la raggiunge quando è priva di sensi, la uccide e simula il suo suicidio. -
- Accanto a tutto questo abbiamo il registro della farmacia che dice che i sonniferi sono di Elizabeth e un fax di bigliettini minatori mandato da una copisteria periferica alle ventuno, da una donna apparentemente estranea alla vita dell'Accademia. - Aggiunse Grace.
- Giusto. Come facciamo a collegare la prima parte dei fatti alla seconda? -
- Se riteniamo che sia stata Elizabeth a ricevere quei bigliettini, possiamo dire che aveva un movente per uccidere Scarlet. - Propose Wayne.
Teresa gli lanciò un'occhiataccia spontanea.
- Questa versione dei fatti l'abbiamo già valutata. Se la escludessimo e provassimo a pensare ad altro? Le indagini a senso unico non portano mai a niente. -
- C'è una cosa che non mi convince. - Disse Kimball, allontanandosi dalla scrivania e rileggendo per l'ennesima volta il rapporto sulla scena del crimine. - Come ha fatto l'assassino a mettere il sonnifero nella bottiglietta di Scarlet? -
- Buona domanda, Cho. - Disse Teresa, sollevata all'idea di avere un appiglio per continuare le indagini. - Tu e VanPelt andate a fare un sopralluogo all'Accademia, controllate se ci sono telecamere di sicurezza, sorveglianti o cose del genere. VanPelt, tu cerca di procurarti la lista delle camere, magari salta fuori qualcosa di interessante. -
- Certo, capo. -
- Io vado a vedere cosa sta combinando Jane. - Disse Teresa.
Prima di entrare nel suo ufficio, però, si fermò a sbirciare dalla veneziana. Patrick ed Elizabeth erano seduti sul divanetto con due tè in mano ed Elizabeth parlava a ruota libera, animatamente, con gli occhi accesi dalla stessa vivacità che lei aveva visto brillare per un istante quando si era dichiarata innocente.
Trattenendo un sorriso, Teresa decise che era il momento di prendersi un lungo attimo di relax, di godersi un buon caffè e di lasciar lavorare il suo consulente, per una volta.









Vi annuncio - magno cum gaudio - che il caso è chiuso!
Sono riuscita a finire questa storia in cui mi sono impelagata mio malgrado,
ma mi sento più euforica che mai...
Perdonate il ritardo nell'aggiornare, ma ho avuto due esami in due settimane
e i libri di sociologia e diritto avevano la capacità di polverizzare il mio estro creativo.
Mi auguro che l'indagine vi stia coinvolgendo e che abbiate già qualche sospetto...

Al prossimo capitolo (stavolta presto, davvero)
Tanti baci a tutti, grazie per esservi fermati a leggere!

Flora


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Capitolo 6
*** Sei. ***


Era tarda sera, quando Wayne e Kimball tornarono dall'Accademia.
Patrick era seduto, molto pensieroso, sul divano; Grace aveva appena ottenuto la lista delle studentesse divisa per camera e piano e Teresa era riuscita a convincere Elizabeth che non c'era niente di male nell'addormentarsi al CBI, anche se significava dormire nella camera di sicurezza vuota.

- Abbiamo una notizia buona e una cattiva. - Disse Wayne. - Quale vuoi sentire prima? -
- Cominciamo con quella buona. -
"Che in una giornata come questa ne ho proprio bisogno." Pensò cupamente.
- Ci sono due dipendenti che controllano ogni piano, facendo una ronda diurna e piantonando i corridoi tra le ventuno e le sei. E il distributore automatico delle bottigliette d'acqua è a pianterreno, accanto alle palestre: bisogna per forza passare dalle scale, su cui sono installate delle telecamere. -
- E quella cattiva? -
- È che i due dipendenti in servizio quella sera sono più che certi di aver visto solo Scarlet, andare e venire dalla sua stanza. Ricordano che dopocena ha portato la bottiglietta nella sua stanza, come sempre, e poi è tornata nella sala relax fino all'ora del coprifuoco. -
- E le registrazioni confermano la loro versione: l'unica ad aver preso dell'acqua e ad essere salita al piano dei dormitori è stata Scarlet. - Aggiunse Kimball.
- È venuto fuori qualcosa di interessante dalla lista? - Domandò Teresa a Grace.
- No, capo. Scarlet era in camera da sola... era l'unica in tutta l'Accademia. Una specie di riconoscimento per la studentessa migliore. - Rispose la ragazza, scorrendo un'altra volta con gli occhi la lista di nomi che aveva in mano.
- Posso dare un'occhiata a quei fogli? - Domandò improvvisamente Patrick, prendendo il blocco dalle mani di Grace e tornando a sprofondare nel divano e nei suoi pensieri senza dire altro.
- Idee? - Domandò Teresa, rivolta a lui.
Per tutta risposta, Patrick continuò a leggere.
- Jane. - Quando l'uomo alzò gli occhi, continuò. - Idee? -
- No. Nessuna. -
- Hai passato mezzo pomeriggio a parlare con Elizabeh e non hai idee? -
- Non è nelle conversazioni questo modo che mi vengono le idee. Le idee vengono quando si sta in silenzio e si riflette. -
Spazientita, Teresa alzò gli occhi al cielo.

La mattina successiva, Patrick aprì la porta dell'ufficio di Teresa prima ancora che lei avesse potuto sedersi al computer per dare un'occhiata alla posta elettronica.
- Vieni. - Disse.
- Dove? -
- A comprare i regali di Natale. - Rispose Patrick, mentre sulle labbra nascondeva un sorriso che gli faceva luccicare gli occhi azzurri.
L'occhiata che Teresa gli rivolse in risposta fu più eloquente di molte parole.
- Avanti, non essere così fredda. È bello fare i regali! - Replicò Patrick allegramente.
- È una stupida convenzione senza significato. Il Natale non è in queste sciocchezze. -
- Se tu riuscissi a vedere oltre al semplice pacchetto incartato comprato per formalità, ti renderesti conto che è un modo per dire alle persone che vuoi loro bene. -
- Non è comprandogli un frullatore nuovo o un'orrenda camicia che glielo dici. E poi, non c'è nessun bisogno di dirglielo: se vuoi bene una persona lei se ne rende conto anche senza regali. -
- Certamente, ma che male c'è a volerla vedere sorridere per la contentezza e la sorpresa davanti a un pacchetto? -
- Devo lavorare, Jane. Se hai qualcosa di interessante da dire, bene. Altrimenti i discorsi in stile Canto di Natale li possiamo rimandare a un altro momento. -
- D'accordo, niente discorsi natalizi. - Si fermò un istante, poi riprese con un sorriso - Ho risolto il caso. -
- Hai risolto... ma che diavolo stai dicendo? -
- Non ti fidi? -
- Lo sai che non mi fido di te. - Rispose Teresa, guardandolo con le sopracciglia sollevate.
- So che lo dici solo perchè lo devi fare. - Rispose Patrick con un sorrisetto, spalancando la porta e facendole cenno di uscire.
Quando arrivò nell'open space, Teresa si ritrovò davanti a un terzetto di persone assolutamente inaspettato: Susan Fontaine, assieme a una donna con tanti preziosi addosso da sembrare lo sponsor di una gioielleria e un uomo alto e brizzolato in un completo elegante. Quando Teresa si avvicinò a loro la assalirono di domande e commenti, tutti fatti con la stessa voce acuta e con l'aria di chi non è abituato ad aspettare.
- Adesso basta! - Esclamò Teresa con decisione, facendo calare il silenzio. - Chi siete? -
- Come chi siamo? Ci ha convocati lei e non sa chi siamo? - Esclamò la donna.
- Lisbon - intervenne Patrick precipitosamente, mettendosi in mezzo prima che la situazione degenerasse - permettimi di presentarti Glory e Mitchell Fontaine, i genitori di Scarlet e Susan. -
- Agente Lisbon. - Si presentò Teresa freddamente, stringendo loro le mani.
- Siamo stati convocati qui ma non ci è stato detto il motivo. Può illuminarci? Siamo entrambi molto impegnati, mio marito ha un aereo fra un'ora e io sono attesa al consiglio di amministrazione dello Yacht Club. - Disse Glory Fontaine, aggiustando un ciuffo ribelle del suo caschetto dorato come se fosse stata una cosa assolutamente imprescindibile.
- Volevamo darvi qualche aggiornamento sulle indagini: sono certo che l'agente Cho e l'agente Rigsby potranno rispondere a tutte le vostre domande. - Disse Patrick.
Teresa colse lo sguardo complice che il suo consulente le aveva lanciato e si voltò, attirando l'attenzione di un Wayne molto assonnato che compariva in quel momento in ufficio.
- Rigsby, porta con te i signori Fontaine e aggiornali sul caso. - Disse Teresa, con un tono che non ammetteva repliche. - Con discrezione. - Aggiunse.
Susan Fontaine fece per seguire i genitori, ma Patrick la fermò.
- Non è necessario che vada anche tu, Susan. È una questione piuttosto delicata, se posso permettermi... E tu e tua sorella eravate così legate, sarebbe una sofferenza inutile. Mentre aspettiamo posso offrirti un tè? -
- Odio il tè. - Fu la risposta della ragazzina.
- Un caffè, magari? -
Susan si strinse nelle spalle e Patrick le fece strada mentre, con un impercettibile cenno del capo, faceva segno a Teresa di seguirli. La donna non si fece molte domande - quando la situazione era in mano a quel pazzo di un consulente non si poteva sperare di comprenderla - e si accodò a loro verso l'area relax.
Lì, seduta ad uno dei tavolini, con l'aria di chi aveva dormito poco e male e una tazza di tè fumante tra le dita, stava Elizabeth. Nel momento in cui gli sguardi di Susan ed Elizabeth si incrociarono, si potè quasi percepire il gelo calare nella sala e l'aria crepitare di tensione: lo sguardo feroce che le due ragazze si scambiarono sembrò fermare il tempo.
- Non vi salutate? - Domandò Patrick - Eppure vi conoscete bene, no? Sai, Lisbon, Elizabeth e Susan sono compagne di stanza. - Aggiunse a beneficio di Teresa, parlando con leggerezza come se stesse dicendo una cosa assolutamente senza importanza.
- Non per questo ci piacciamo. - Sibilò Elizabeth.
- Vero. - Disse Susan.
- Però dovresti ringraziarla. - Disse Patrick, riempiendo un bicchiere dalla caraffa del caffè e spingendolo davanti a Susan. - Perchè è grazie a lei se tua sorella è morta no? -
Susan prese un sorso dal bicchiere e fulminò Elizabeth.
- Sì. E per questo la odio ancora di più. -
- Aha. Risposta sbagliata. - Disse Patrick, mentre sul suo viso si dipingeva un'aria di trionfo. - Perchè sei tu la colpevole. -
Teresa spostava il suo sguardo da Patrick a Susan a Elizabeth, con l'impressione di ritrovarsi davanti a un film a cui non poteva prendere parte, ma solo assistere impotente. E per di più - anche se non l'avrebbe mai ammesso nemmeno a sè stessa - non ci stava capendo niente.
- Come le viene in mente? - Esclamò Susan, alterandosi. - Secondo lei io potrei aver ucciso mia sorella? La mia Scarlet? -
- Esattamente. Ripensaci: quando ho detto "è grazie a lei se tua sorella è morta", la tua mente ha registrato esattamente queste parole. E ti è venuto spontaneo dire la verità: cioè che sì, è stato grazie a lei. - Disse Patrick.
Presa in contropiede, Susan aprì la bocca per parlare, poi la richiuse e poi la riaprì. Infine fulminò Patrick con un tale sguardo di ghiaccio che l'aria trionfante sul viso dell'uomo traballò per un istante.
- Non ha prove. -
- Ed è qui che ti sbagli. Il tuo piano era perfetto, assolutamente impeccabile. Rubare i sonniferi alla tua compagna di stanza un po' alla volta, fino ad avere una dose sufficiente per intontire Scarlet e riuscire a ucciderla. Fare la brava sorellina premurosa, offrendoti per portare la bottiglietta di tua sorella in camera dopocena, prima delle sue prove del mattino in cui sapevi che avrebbe bevuto molto e non ci sarebbe stato nessuno in giro ad aiutarla. E ingannare quei sorveglianti annoiati che non guardano troppo in faccia le studentesse e le telecamere dev'essere stato uno scherzo, visto quanto vi somigliate. E quella mattina sei scesa a colazione per prima, l'hai raggiunta, strangolata e hai inscenato il suicidio. E poi sei andata a servirtì di bacon è tè... anzi, scusami, caffè - disse accennando al bicchiere che la ragazza stringeva ancora tra le dita - senza batter ciglio. -
- Non so di cosa lei stia parlando. - Disse Susan, ma a Teresa non sfuggirono le nocche bianche della mano che stringeva la tazza. Il suo sguardo sfuggì verso Patrick e i loro sguardi si incrociarono, capendosi all'istante.
- Una sola cosa non hai calcolato. Le scarpette da danza di Scarlet. Le abbiamo ritrovate e sono certo che sono piene di tue impronte. - Aggiunse Patrick.
Il viso di Susan impallidì per un istante, ma un momento dopo la ragazza era tornata padrona di sè stessa.
- Lei mente. -
- Ne sei certa? Perchè se vuoi possiamo mostrarti le scarpette. Sono nel magazzino delle prove. -
Teresa guardò il suo consulente aggrottando le sopracciglia: non avevano mai ritrovato le ballerine di Scarlet e non c'era proprio niente di simile, nel magazzino delle prove. A guardare l'uomo, però, sembrava stesse proprio dicendo la verità.
- E... e chi ve le avrebbe date, sentiamo? - Disse Susan, la cui voce vacillò per un istante.
- Sua madre. - Disse Patrick, indicando Elizabeth.
A quelle parole, gli occhi di Teresa si spalancarono per lo stupore: era una risposta che non si aspettava affatto. Elizabeth, seria e compita, non diceva nulla e continuava a seguire la vicenda girando distrattamente il tè ormai freddo.
- Sua... sua madre? -
- Esattamente. Virginia Gui, la tuttofare della scuola. -
L'immagine di una esile donna bruna riemerse nella mente di Teresa, assieme a un carrello colmo di divise sporche. In effetti, nella lista dei dipendenti controllata da Grace, non c'era nessuno che si chiamasse Virginia. E lei e Patrick, la donnina di nome Virginia l'avevano vista bene: Teresa ricordava ancora il suo sguardo spaventato quando aveva dovuto scortarli fuori dalla scuola. L'occhio acuto del suo consulente non si era fatto sfuggire quella piccola discrepanza.
- Ora ti starai chiedendo come mai Elizabeth è riuscita ad accedere a quella scuola così eccezionale, se sua madre lavora lì come cameriera ed è evidente che non abbia abbastanza soldi per pagare la retta. Ma la risposta è... - Patrick si voltò e con un gesto molto plateale invitò Elizabeth a parlare.
- Mio padre è tuo padre. - Rispose la ragazza con semplicità.
Susan si alzò, e stavolta senza grazia: fece rovesciare il caffè sul tavolino, arretrando lentamente e guardando Elizabeth con occhi sbarrati.
- Scarlet l'aveva capito. Mi aveva riconosciuto nella foto di una bambina in fasce che nostro padre teneva nel palmare. Per questo ha iniziato a prendermi in giro. Non sopportava l'idea che il suo perfetto e impeccabile papà pieno di soldi avesse una figlia segreta che manteneva e di cui si occupava di nascosto da sedici anni. - Continuò Elizabeth. - Come se fosse colpa mia. -
Susan però non ascoltò l'intero discorso della sorellastra, perchè iniziò a gridare:
- Sei una bugiarda! Siete tutti dei bugiardi! Mio padre non può essere andato a letto con quello sgorbio della serva! E tu... tu non puoi essere mia sorella! -
- Susan, calmati adesso. - Tentò Patrick.
- Avrei dovuto uccidere te! Ho tolto di mezzo Scarlet, che mi rubava la scena, gli onori e l'amore dei miei genitori... e ho lasciato in vita una bastarda che mi soffia le parti migliori nei saggi del secondo anno e non mi passa nemmeno un dannato compito in classe! Ho ucciso la primadonna sbagliata! -
A quella confessione gridata tra le lacrime seguì un imbarazzante silenzio.
Teresa non sorrideva e il suo sguardo serio era posato sulle guance rosse di Susan Fontaine e sui suoi occhi pieni di lacrime, che lampeggiavano in direzione di una Elizabeth molto seria, che ricambiava il suo sguardo con una determinazione e una fierezza invidiabili. Dopo qualche istante l'agente si rese conto che spettava a lei rompere il silenzio.
- Susan... - Iniziò, senza riuscire a capire cosa le volesse dire.
Susan si voltò verso di lei e scoppiò a piangere in sonori singhiozzi, in un modo così infantile che era praticamente impossibile immaginarla mentre soffocava a morte sua sorella. Teresa le si avvicinò lentamente, posandole una mano sulla schiena e invitandola a sedersi. In quel momento Grace apparve nell'area relax.
- VanPelt, raccogli la confessione di Susan e prepara le carte per scagionare Elizabeth. -
Grace, del tutto impreparata a quella richiesta, fissò con aria confusa le due ragazze sedute davanti alle loro tazze e annuì meccanicamente.
- Subito, capo. -
Mentre uscivano dall'area relax, Teresa si voltò verso di Patrick.
- Come diavolo hai fatto a capirlo? -
- Gli artisti non svelano mai i trucchi del mestiere. - 
Teresa si fermò, guardandolo sollevando le sopracciglia, e l'uomo cedette.
- Le trecce. Nessuna ragazza nata e cresciuta nella California d'oro di chi si può permettere quell'Accademia porterebbe delle trecce. Lì ho capito che c'era qualcosa che non tornava... e poi il suo modo di fare, era una ribelle che cercava di non dare a vedere il fuoco che le ardeva dentro. Per il resto, ho fatto due più due. -
- Certo, la fai facile tu. E ringrazia il Cielo che il tuo piano abbia funzionato. Non era per niente scontato che Susan confessasse davanti ad un caffè, solo per la presenza della sua compagna di stanza che detestava e alla luce di qualche segreto di famiglia. -
- Io non avevo dubbi. I miei piani funzionano sempre. -
- Sì, certo. -
- Non vuoi darmi soddisfazione, per questo mi rispondi così. Ma se ci pensi un momento, ti renderai conto che ho ragione. -
Per tutta risposta Teresa gli lanciò uno sguardo di fuoco. Il consulente le sorrise amabilmente prima di dire:
- Penso che dovremmo riaccompagnare Elizabeth a scuola. -
Teresa sollevò le sopracciglia, senza capire.
- Lei non vede l'ora di tornarci e credo che tu voglia dire di persona alla direttrice che è accusata di complicità in omicidio. -
Teresa sbattè le ciglia, con un'aria così graziosamente confusa che Patrick non potè trattenersi dal sorridere di nuovo.
- Come, scusa? -
- Pensaci un minuto. Che cosa faresti tu se la figlia del più ricco dei tuoi finanziatori venisse da te piangente confessandoti di aver ucciso la tua miglior studentessa... e avessi tra le alunne una ragazza che nessuno sopporta e che tu trovi infanghi, con la sua sola presenza, il buon nome della tua Accademia? -
- Getterei su di lei la colpa. - Disse Teresa, meccanicamente, rendendosi conto solo un minuto dopo di quello che aveva detto. - Ma certo. -
Patrick le lanciò un'occhiata di approvazione.
- Allora possiamo riaccompagnarla a scuola? -
- Vado a prendere la giacca. - Fu la risposta, pronunciata con malcelato tono euforico.

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Capitolo 7
*** Sette. ***


Davanti al portone della Vince Academy stavano una direttrice molto irritata e una donnina bruna vestita di azzurro che si torceva le mani.
Teresa parcheggiò e Elizabeth compì il tragitto tra l'automobile e le braccia della donna in una frazione di secondo, neanche avesse avuto le ali. Teresa e Patrick si scambiarono uno sguardo eloquente: a volte fare quel lavoro era decisamente bello.
Teresa si avvicinò alla direttrice e alzò gli occhi verso di lei, fissandola con fervore nonostante dovesse guardarla dal basso verso l'alto.
- Abbiamo chiuso il caso, miss Vince. -
- Ho saputo. - Rispose freddamente la donna. - Non avrei mai immaginato un esito simile. -
- No, certo. Lei sperava che tutti cascassimo nel suo meschino tentativo di far cadere la colpa del delitto su una studentessa innocente. - Intervenne Patrick.
- Io non le permetto... - Disse la donna, alzando un indice in tono ammonitore.
- No, signorina Vince. Sono io che non le permetto di usare questo tono con il mio consulente. Sarà indagata per complicità in omicidio e intralcio alle indagini. - Disse Teresa.
- Speriamo che questo non vada a discapito del buon nome della scuola, naturalmente. - Completò Patrick, dando voce ai pensieri di Teresa con un sorriso sornione.
La signorina Vince, pallida e rigida, aveva le labbra strette in una espressione di disappunto e gli occhi che lanciavano lampi da dietro le lenti. Teresa sostenne il suo sguardo fino all'ultimo, quando la direttrice abbassò gli occhi, fulminò madre e figlia con il pensiero e rientrò nell'Accademia sbattendosi violentemente la porta alle spalle senza nemmeno salutare. Teresa sorrise tra sè, fiera di aver potuto ottenere giustizia, e fece per allontanarsi. In quel momento Virginia Nardi sciolse dall'abbraccio Elizabeth e si avvicinò all'agente, stringendole una mano tra le sue, minute e ruvide.
- Non ha idea di quanto le sia grata, agente. - Disse - La mia bambina è tutto quello che conta, per me. Non so cosa farei, senza di lei. -
Allungò un braccio e si strinse la figlia al cuore.
- Noi siamo una famiglia. Io e te, mamma. - Disse Elizabeth, ricambiando l'abbraccio. - E non mi importa cosa i Fontaine potranno offrirmi adesso che sono rimasti senza pupattole da viziare: io voglio rimanere con te. -
Madre e figlia si guardarono con gli occhi colmi di un tale affetto che a Teresa si strinse il cuore: c'era più amore in quell'unica occhiata che in tutti i pacchetti di Natale che avevano occupato la sua calza negli ultimi venti Natali.
- Grazie, grazie davvero. - Disse Virginia con trasposto.
- Abbiamo fatto solo il nostro mestiere. - Disse Teresa, a disagio. - Stia bene. -
- Anche lei, agente. -
Teresa e Patrick erano già arrivati alla macchina quando la voce di Elizabeth attirò la loro attenzione:
- Buon Natale! -
Con un groppo in gola, Teresa non ebbe il coraggio nemmeno di tentare un sorriso. Si voltò ed entrò in macchina il più velocemente possibile, chiudendosi bruscamente la portiera alle spalle. Patrick alzò un braccio in segno di saluto e poi si sedette in macchina.
- Potevi anche ricambiare gli auguri. -
- Quali auguri? -
- Non sei capace di mentire, te l'ho già detto. -
- Non me ne sono accorta, davvero. Ci hanno fatto gli auguri? -
- Certo. Potresti farmi scendere al prossimo semaforo? -
- Perchè? -
- Ho voglia di fare due passi. -
- Jane. -
- Davvero, è una così bella serata che è un peccato andare subito a casa. E ti devo ancora comprare un regalo per Natale. -
- Non voglio ricevere nessun regalo. Ne abbiamo già parlato. -
- Tu non lo vuoi ricevere, ma io te lo voglio fare. -
E, approfittando del semaforo rosso che aveva costretto Teresa a fermarsi, Patrick aprì la portiera e scese, sparendo tra la folla che si affrettava sul marciapiede prima che Teresa potesse dire o fare qualunque cosa.
Mentre viaggiava da sola nell'automobile silenziosa, Teresa si ritrovò a combattere contro i suoi stessi pensieri. La mente la riportava di continuo alla famiglia di Scarlet e Susan, che aveva tutto ma aveva perso entrambe le figlie nel giro di una settimana, per di più l'una per colpa dell'altra. E poi pensava a Elizabeth e sua madre, alle difficoltà che le avevano legate e a quella frase di Elizabeth.
"Noi siamo una famiglia. Io e te, mamma."
Riportare quella ragazza a sua madre era stato uno dei regali più belli che avesse mai fatto, pensò Teresa con un vago sorriso. Chissà quante bambine vivevano in quella scuola e non avevano occasione di vedere mai i loro genitori.
Dieci minuti più tardi stava parcheggiando al CBI, dove l'attendevano i fascicoli degli ultimi dieci casi del mese, ancora da vistare e archiviare. Mentre spegneva l'auto, la sua attenzione fu attirata da un angolino bianco che spuntava dal cassetto del cruscotto.
- Ma che... - Mormorò tra sè, senza capire cosa potesse essere.
Si allungò e aprì la ribaltina, afferrando il foglio piegato in quattro prima di vederlo atterrare sul tappetino.
Lo aprì e la luce dorata dei lampioni appena accesi inondò il disegno, facendo scintillare d'oro la strada gialla, l'abito rosa della fata e i ricci biondi del mago vestito di verde. Gli occhi le si riempirono di lacrime e dovette posare una mano sulla bocca per impedire alle labbra di tremare: cosa ci faceva il disegno di Dorothy nel cruscotto? L'aveva lasciato sulla sua scrivania al CBI, ne era certa: era ben nascosto sotto altre carte, per impedire agli occhi di chiunque - e ai propri - di vederlo.
Forse la giornata faticosa appena trascorsa, forse il commovente incontro tra Elizabeth e sua madre, forse il sentimentale mix tra la luce d'oro dei lampioni e la filodiffusione di carole di Natale che si spandeva nell'aria tiepida... ma in quel momento Teresa decise di non combattere contro i suoi sentimenti.
Posò il disegno sul sedile del passeggero e rimise in moto l'automobile, diretta alla casa famiglia.
Mezz'ora più tardi Teresa aspettava davanti alla porta, impedendosi di dare retta alla insistente voce che nella sua mente le gridava di tornare indietro e non cedere alla voglia irrefrenabile di riabbracciare quella bambina.
Quando la porta si aprì la luce chiara del corridoio disegnò un rettangolo d'oro sull'asfalto e Claire Andrews, in scamiciato scozzese e golfino rosso, le sorrise luminosa.
- Miss Lisbon, buonasera! - Esclamò allegramente.
- Buonasera. Senta, so di non aver telefonato per avvertire ma... -
- Non si preoccupi, non si preoccupi. Venga, venga pure. - Le disse allegramente l'assistente sociale, facendole cenno di entrare. - Quando il suo collega mi ha telefonato non mi aveva specificato quando sarebbe passata, ma immaginavo che l'avrebbe fatto a breve, così mi sono affrettata a preparare tutto! A Dorothy non ho ancora detto nulla, volevo essere certa, sa... -
Teresa seguiva il fiume di parole della ragazza capendone solo metà, più confusa che mai.
- Il mio collega? - Domandò.
- Ma sì, il suo affascinante collega biondo, quell'uomo sempre elegante. È passato più o meno due settimane fa per chiedermi di prepararle tutti i documenti per l'affido, dato che lei non aveva tempo nemmeno per respirare. -
Teresa si fermò in mezzo al corridoio: la sensazione che provava era molto simile a quella che aveva provato quando le avevano sparato, ma stavolta a bruciarle non era la spalla, ma un posto molto più vicino a dove doveva esserci il cuore.
- I documenti... -
- Sì, esatto... Si sente bene, Teresa? - Disse Claire, vagamente preoccupata, avvicinandosi all'agente con gli occhi di chi temeva di vederla svenire da un momento all'altro.
Teresa scosse il capo, cercando di snebbiare i pensieri e asciugare gli occhi, dominando meglio che poteva il battito furioso del suo cuore, che le impediva di sentire la voce dell'assistente sociale ma anche di ragionare lucidamente.
- Sto... sto bene. - Disse, fingendo un sorriso.
- La accompagno da Dorothy, alla burocrazia possiamo pensarci più tardi. -
Teresa fu guidata per un lungo corridoio su cui si aprivano molte porte che davano su locali colorati e in disordine, pieni di ragazzini che coloravano, correvano e giocavano sorvegliati da ragazzi e ragazze spesso poco più grandi di loro.
- Eccoci. - Disse Claire, avvicinandosi a una porta. - Laggiù. -
Teresa fece un passo nella stanza, dove un paio di bambine giocavano con una vecchia casa di bambole e un gruppetto di maschi giocava su un lenzuolo colorato.
In fondo alla stanza, seduta a un tavolino bianco coperto di fogli e pastelli a cera colorati, stava una bambina bruna. Le dava le spalle, ma Teresa l'avrebbe riconosciuta anche se fosse stata bendata. Anche se fosse stata cieca.
Fece un passo verso di lei, senza farsi sentire, e si rese conto che non era necessario stare attenta a non fare rumore: Dorothy era talmente intenta a togliere un nastro verde da una scatola decorata da vivaci decorazioni natalizie che non l'avrebbe sentita in nessun caso.
Si fermò alle sue spalle, decidendo di aspettare il momento migliore per attirare la sua attenzione, e la vide aprire con impazienza il coperchio. Un istante di ricerca tra la carta velina e poi tra le mani di Dorothy apparve un bellissimo paio di ballerine di vernice rossa. La bambina scostò bruscamente la sedia, facendola cadere all'indietro, e posò le ballerine per terra, togliendosi le scarpe da ginnastica con un calcio e infilando in fretta le scarpine nuove. Teresa la vide alzarsi in punta di piedi, stringere forte le mani a pugno e battere tre volte i tacchi delle scarpette.
- Dorothy... - La voce di Claire ruppe la magia del momento e Dorothy si voltò.
La prima cosa che i suoi occhi neri videro fu Teresa, ancora un po' confusa dalla scenetta a cui aveva appena assistito. Appena riconobbe il volto della donna, l'espressione della bambina cambiò improvvisamente e Dorothy si precipitò verso di lei abbracciandola con una tale foga da farle quasi perdere l'equilibrio.
- Lo sapevo! Lo sapevo che avrebbe funzionato! Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo! - Gridò. Poi si allontanò quel tanto che bastava per guardarla in faccia. - L'ho capito quando ho visto le scarpe! Sapevo che saresti arrivata tu per portarmi a casa! - Esclamò, con il viso acceso da una tale gioia da impedire a Teresa di fare qualunque commento.
Claire posò una mano sulla spalla di Teresa e l'altra sui capelli di Dorothy:
- Vai a raccogliere le tue cose. - Disse - Io e Teresa dobbiamo firmare qualche noiosa scartoffia, poi potrete finalmente andare a casa. -




L'albero di Natale brillava di lucine e palline rosse e oro nel salotto, splendendo nella stanza buia come una piccola stella. L'odore dell'arrosto che sfrigolava nel forno permeava la casa e, nonostante Teresa si fosse opposta alla musica natalizia nello stereo, il clima era il più festoso che quell'appartamento avesse mai visto.
Era la vigilia di Natale e per l'occasione Teresa aveva deciso di lasciar perdere take-away e cibi surgelati per tentare qualcosa di più audace: con l'aiuto di quella esuberante bambina che le riempiva le giornate aveva fatto la spesa e seguito i consigli di uno chef televisivo per cucinare il suo primo arrosto di Natale.
Mentre lei finiva di riporre le stoviglie Dorothy si era seduta per terra - incurante di rischiare di sporcare il bellissimo vestito di velluto rosso che le aveva regalato Grace - e osservava l'arrosto cuocere con il naso vicinissimo al vetro.
- Cuoce anche se non lo guardi, Dorothy. - Disse Teresa con un sorriso.
- Lo so. - dopo un istante di silenzio, la bambina alzò gli occhi verso di lei - Sono contenta che tu abbia deciso di venirmi a prendere. Claire dice sempre che nessuno dovrebbe essere da solo, a Natale. -
Teresa rimase per un istante immobile, colpita dalla intensa verità di quelle parole. All'improvviso si voltò verso Dorothy:
- Va' a prendere una busta. La più grande che trovi. -

Lo svogliato agente alla guardiola del CBI era troppo scocciato dal pensiero di dover trascorrere la notte di Natale di guardia per notare la strana coppia che aveva appena messo piede nel quartier generale. Se avesse guardato il portone d'ingresso e non lo schermo del suo cellulare avrebbe visto una donna dagli occhi verdi con indosso una camicetta rosa e un cappotto nero e con una grossa busta tra le braccia, e accanto a lei una bambina vestita di velluto con ai piedi un paio di ballerine di vernice.
Teresa prese Dorothy per mano quando arrivarono al grande atrio, sentendo i propri passi echeggiare nei corridoi vuoti e silenziosi, innaturalmente quieti, e guidandola verso i grandi ascensori.
- Siamo arrivate? - Domandò Dorothy quando arrivarono al sottotetto.
Invee di rispondere, Teresa posò la busta per terra ed alzò la mano per bussare. Prima di farlo, però, ebbe un istante di esitazione. Forse non era una buona idea.
Anzi, pensandoci meglio non era affatto una buona idea.
Ritrasse la mano, facendo un passo indietro e voltandosi verso Dorothy per darle una vaga spiegazione del suo repentino cambiamento di idea, quando la porta di alluminio si aprì sferragliando e un Patrick dall'espressione molto stanca comparve sull'uscio.
- Lisbon? - domandò incredulo.
Teresa aprì la bocca, con gli occhi pieni di sgomento per quella situazione sfuggita al suo controllo, ma Dorothy fu più rapida.
- Patrick! - Esclamò Dorothy allegramente, abbracciandogli le ginocchia di slancio.
- Cosa ci fate qui? -
- Ti abbiamo portato un regalo! - Trillò Dorothy, indicando la busta. - Arrosto e budino di Natale! -
Patrick guardò Dorothy, poi alzò lo sguardo su Teresa, guardandola negli occhi senza dire niente. L'aria sul pianerottolo sembrava densa, piena di parole non pronunciate e pensieri inespressi: nessuno dei due sembrava voler spezzare quel momento di silenzio, finchè Dorothy non incrociò le braccia sul petto ed esclamò:
- La cena si raffredda! -
Teresa sbattè le ciglia, distogliendo lo sguardo e chinandosi per prendere la busta da terra. Superando un Patrick ancora troppo stupito per reagire, entrò nella soffitta e posò la borsa sulla scrivania, liberandola dai fogli per poter appoggiare l'arrosto e i piatti e i bicchieri portati da casa. Dorothy si era arrampicata sul davanzale e guardava fuori con le mani e il naso premuti contro i vetri impolverati.
- Mettiamo anche noi sul balcone le lucine come quelle che ha messo Patrick sul suo? - Domandò all'improvviso.
Teresa alzò gli occhi per rispondere, ma fu Patrick a intervenire.
- Quelle non sono lucine di Natale. Sono le luci dei tetti della città. -
- Sono ancora più belle delle lucine di Natale! E le puoi vedere tutto l'anno! - Esclamò allegramente la bambina, con gli occhi neri che luccicavano di entusiasmo.
Patrick non rispose, limitandosi ad avvicinarsi al tavolo e scostare una sedia, invitando Dorothy a sedersi. Poi prese uno sgabello per Teresa e uno per sè, avvicinandosi al tavolo senza dire nient'altro. I suoi occhi incontrarono quelli di Teresa per un solo istante, e l'espressione commossa e malinconica dipinta nelle sue iridi azzurre era così intensa che Teresa gli sorrise prima ancora di rendersene conto.
Dorothy sembrò accorgersi di quello che stava provando Patrick, perchè si inginocchiò sulla sedia e posò la mano su quella dell'uomo.
- Non sei triste che siamo venuti, vero? Claire dice che nessuno dovrebbe essere da solo, a Natale. -
Patrick scosse la testa.
- No, Dorothy, non sono triste. - Disse, accennando un sorriso alla bambina e poi alzando gli occhi sulla sua collega.
Teresa sapeva di avere gli occhi azzurri di Patrick posati su di sè e sapeva anche che il suo era uno di quegli sguardi con cui amava dirle tante cose... ma aveva la netta sensazione che non sarebbe riuscita a sostenere una delle loro conversazioni silenziose, in quel momento. Si alzò e affondò il coltello nella carne per iniziare a metterlo nei piatti senza ricambiare lo sguardo.
E mentre mangiava arrosto tiepido in una soffitta disadorna e piena di polvere e cartacce, alla sola la luce di una lampadina e delle luminarie perenni dei balconi di Sacramento, con come unico sottofondo musicale quello delle chiacchiere di due adulti e una bambina, Teresa pensava che non aveva mai ricevuto in dono un Natale migliore.














E la nostra storia giunge al termine.
Anche se il caso era stato risolto nel capitolo precedente
ci tenevo a pubblicare anche questo finale:
molto spesso nel telefilm l'ultima scena è particolarmente dolce (o triste)
e ho pensato che, dopo un caso fatto di famiglia e discorsi su regali e Natale,
ci stava bene un finale speranzoso. Dopotutto è Natale, no?
Spero di non essere uscita troppo dai personaggi, in questo finale
e che l'amarezza dovuta alla fine della storia scorsa
sia stata ripagata da questo finale decisamente positivo.

Grazie per aver seguito la storia, pur nella sua difficoltà e lentezza,
e spero vi sia piaciuto leggerla quanto a me scriverla.
Attenderò la sesta stagione di The Mentalist e i suoi sviluppi,
ma magari, nell'attesa, tornerò a scrivere ancora in questo fandom...

Grazie ancora a tutti, davvero, di cuore
Flora

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