Scarpette Rosse di LyraB (/viewuser.php?uid=60378)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno. ***
Capitolo 2: *** Due. ***
Capitolo 3: *** Tre. ***
Capitolo 4: *** quattro. ***
Capitolo 5: *** cinque. ***
Capitolo 6: *** Sei. ***
Capitolo 7: *** Sette. ***
Capitolo 1 *** Uno. ***
Scarpette Rosse
Il sole splendeva allegramente nel cielo azzurro e terso di quella
mattina californiana e quando Teresa scese dall'automobile
sentì il fresco tocco del vento accarezzarle le guance,
unico pallido segnale del dicembre avanzato. Il negoziante dalla parte
opposta della strada stava appendendo delle ghirlande sempreverdi allo
stipite dell'ingresso della sua bottega fischiettando stonatamente Deck
The Halls e Teresa si fermò a guardare le decorazioni e i
lustrini che splendevano nella vetrina, pensando per l'ennesima volta a
quanto trovasse fredde e vuote le decorazioni di cui tutta la
città si stava rivestendo a poco a poco.
- Ehi, capo. - La voce
di Grace la riscosse dai suoi pensieri.
- Ehi. -
Replicò asciutta Teresa. - Gli altri? -
- Sono già
tutti dentro. Ti faccio strada. -
Imponendosi di non
pensare alle feste che si avvicinavano, Teresa seguì la
ragazza su per i gradini che portavano all'interno del collegio di Miss
Vince, la più prestigiosa accademia femminile di danza
classica della California.
Se da fuori sembrava
una modesta scuola vecchio stile, con i muri grigi e le alte finestre
chiuse da sbarre e tende di lino candido, all'interno il lusso si
poteva quasi respirare: al di là del grande portone
d'ingresso, accostato per permettere alla polizia di muoversi avanti e
indietro liberamente, i parquet erano tirati a lucido e coperti da
eleganti tappeti dai colori neutri, che richiamavano le tende chiare e
le pareti coperte da pannelli di legno o carta da parati a righe color
crema.
- Dove l'hanno
trovata? - Domandò Teresa, guardandosi attorno quasi
sopraffatta dal lusso che la circondava: le sembrava quasi impossibile
che quella reggia fosse veramente una scuola.
- Nell'auditorium.
Ecco, di qua. - Disse Grace, precedendola lungo un corridoio splendente
di cornici lavorate e mobili dalle maniglie di ottone tirate a lucido.
I passi delle due donne quasi non si sentivano, sull'elegante parquet
scuro, e quando arrivarono all'auditorium la moquette nera non fece che
rendere ancora più silenzioso il loro passaggio.
Al di là di
molte file di poltroncine di velluto rosso stava un palcoscenico. Il
sipario, anch'esso di velluto rosso e decorato da nappe dorate alle
estremità, era aperto e il legno chiaro dello spazio scenico
rifletteva la luce impietosa dei faretti bianchi. I lampadari di vetro
e cristallo della sala erano spenti e quello che si vedeva sulla scena
era così macabro e triste da cozzare violentemente con la
sfarzosa eleganza del resto dell'ambiente: al centro del palco stava
una impalcatura montata a metà da cui pendeva una ragazza
col viso pallido e deformato dalla rigidità della morte.
Il capo reclinato
impediva di vederne il viso, ma i capelli dorati raccolti in uno
chignon e la costituzione esile sottolineata dal semplice body nero e
dai collant bianchi la fecero subito riconoscere come una delle
studentesse della scuola. Attorno al suo collo passavano dei nastri di
seta rosa che terminavano in stretti nodi attorno al legno delle travi
sopra di lei. Il palcoscenico era ingombrato di pezzi di scenografie,
fondali e oggetti di scena. Uno sgabello ribaltato giaceva a qualche
centimetro dal corpo della ragazza e tutto lo spazio libero era
occupato dalle valigette e dagli attrezzi della scientifica, che
scattava foto con una precisione e una celerità quasi
impressionante. Wayne era fermo al centro del palco e fissava la
ragazza impiccata con gli occhi pieni di pietà, mentre
Kimball, vicino al sipario, parlava con una donna sulla quarantina
bassa e tarchiata, con i capelli grigi trattenuti dietro le orecchie da
una cuffietta di tulle della stessa tonalità di azzurro del
gembiule che indossava. La donna stringeva tra le mani uno spazzolone
per i pavimenti e parlava con gli occhi sbarrati e il viso di chi non
aveva mai iniziato la giornata in modo peggiore. Patrick, dal canto
suo, si aggirava per il palco con le mani sui fianchi e con la sua
solita aria disinvolta, fingendo di non stare prendendo nota dei
più piccoli particolari che colpivano la sua attenzione.
Teresa salì sul palcoscenico e i suoi passi sulla scaletta
di metallo attirarono l'attenzione di Wayne.
- Buongiorno capo. -
Salutò Wayne.
- Cosa abbiamo? -
Domandò Teresa, imponendosi di pensare solo alla poveretta
che aveva davanti e non a canzoncine di Natale o addobbi luccicanti.
- Scarlett Fontaine,
17 anni. Studiava qui nella scuola. Ieri sera è stata vista
andare a dormire all'ora del coprifuoco ma stamane, quando
l'inserviente è passata a spazzare il palcoscenico prima
delle lezioni del mattino, l'ha trovata qui, impiccata - pare - coi
nastri delle sue stesse scarpette da danza. - Spiegò
l'agente, sbirciando gli appunti che aveva preso.
- Come mai hanno
chiamato noi? - Domandò Teresa, chiedendosi che cosa ci
facevano loro in una scuola così lontana da Sacramento e
davanti a quello che pareva proprio un suicidio.
- Il procuratore vuole
che ci occupiamo della cosa con discrezione. - Rispose Grace. - Qui
studiano molte figlie di famiglie influenti della California e una
notizia del genere potrebbe dare fastidio a diversi personaggi
importanti. Oltre al fatto che la direttrice ci tene al buon nome della
sua scuola. -
- E poi non
è stato un suicidio. - La voce di Patrick interruppe la
conversazione e Grace, Wayne e Teresa si voltarono verso di lui. - Oh,
buongiorno, Lisbon. - Aggiunse Patrick con un sorriso, accorgendosi
solo in quel momento dell'arrivo del suo capo.
- Perchè
sei così certo che non sia stato un suicidio? -
Domandò lei, ricambiando il sorriso più con gli
occhi che con le labbra.
Patrick
girò attorno al corpo di Scarlet, osservandolo dal basso
verso l'alto, poi si fermò tendendo un braccio per indicare
il nastro che passava attorno al collo della ragazza per poi finire
annodato all'impalcatura.
- Vedete? I nastri
sono strappati. Chi decide di togliersi la vita lo fa in modo metodico,
ragionato... non è mai un gesto di rabbia. Se Scarlet avesse
deciso di uccidersi avrebbe preso una forbice e tagliato i nastri. Io
credo sia stato un segnale. Una sorta di punizione. Chi l'ha uccisa
trovava assurdamente simbolico usare le sue scarpette da danza per
inscenare il suo suicidio. - Disse Patrick, passando lentamente al tono
assorto che riservava alle sue riflessioni ad alta voce.
- Un po' poco per
gridare all'omicidio. - Sentenziò Grace.
Patrick
tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e sollevò lo
sgabello, avvicinandolo ai piedi di Scarlet: tra le dita dei piedi
della ragazza e la superficie dello sgabello mancavano un paio di
centimetri.
- Sei convinto,
adesso? - Domandò Patrick con un sorrisetto, fissando
l'occhiata sgomenta di Wayne e gli occhi stupiti di tutto il resto
della squadra.
Seduta sulla poltroncina ricamata, Teresa si sentiva tremendamente a
disagio. Dondolava un piede per cercare di smaltire l'agitazione e
continuava a guardarsi intorno, soffermando lo sguardo su un oggetto
lussuoso dopo l'altro: un telefono vintage con la rotella dorata e la
cornetta d'avorio, una lampada col paralume decorato da intarsi di
vetro colorato, tende della stessa fantasia della poltrona su cui era
seduta e soprammobili d'oro e cristallo che luccicavano su ogni
superficie.
- Non c'è motivo di sentirsi a disagio. - Intervenne
Patrick, con un sorriso divertito negli occhi. - Non sono migliori di
te solo perchè hanno sei zeri sul loro conto in banca. -
- Non mi sento a disagio. - Negò Teresa, smettendo di far
dondolare il piede e fulminando il suo consulente con gli occhi.
- Se lo dici tu. -
Teresa aprì la bocca per replicare, ma l'arrivo della
direttrice dell'istituto le impedì di dire a Patrick quello
che pensava di lui e della sua irriverenza.
Antea Vince, la direttrice dell'istituto, era una donna sulla
quarantina, alta e diritta, con ancora il portamento elegante della
ballerina. I capelli neri striati d'argento erano stretti in una
complicata crocchia sulla nuca e gli occhi grigi, penetranti e
incorniciati delle prime rughe, osservavano tutto con attenzione da
dietro le lenti sottili degli occhiali dalla montatura quasi
invisibile.
- Scusate se vi ho fatto attendere. Le ragazze sono molto scosse,
è il terzo attacco di panico durante le lezioni, questa
mattina. - Disse la donna, affrettandosi a chiudere la porta alle sue
spalle e a sedersi al di là della vasta scrivania di mogano.
- Come posso esservi utile? -
- Dovete essere molto insensibili per obbligare le ragazze a fare
lezione anche in questa circostanza. - Iniziò Patrick.
La direttrice si irrigidì e i suoi occhi si fecero di
ghiaccio mentre fulminava il consulente.
- La nostra accademia è la più prestigiosa dello
Stato. Non permettiamo a nulla di intaccare il nostro buon nome. -
- Nemmeno la presenza di un cadavere e di un'assassina tra le vostre
studentesse? -
- Non le permetto di usare questi toni! - Sbottò
all'improvviso la direttrice, perdendo i toni leziosi e indurendo lo
sguardo - Agente Lisbon, o tiene a bada il suo collega o
sarò costretta a chiedervi di allontanarvi. -
- Mi scuso per il comportamento del signor Jane. - Disse Teresa con un
sospiro, ripetendo macchinalmente una battuta che pronunciava fin
troppo spesso. - Quello che voleva dire è che si chiede se
sia... bene, per le studentesse, lavorare in un momento come questo. -
- La danza classica richiede disciplina e rigore. - Spiegò
miss Vince con freddezza. - Chi non riesce a dominare le proprie
emozioni non è adatto a questa scuola. Ciò che
è accaduto non può e non deve andare a incrinare
l'equilibrio e l'armonia della vita qui. -
Patrick e Teresa si scambiarono uno sguardo sbigottito, poi Teresa
continuò:
- Ci parli di Scarlet. Che tipo era, chi frequentava... -
- Era la migliore delle nostre studentesse. - Disse la direttrice,
appoggiandosi allo schienale della sua poltrona e allungando le mani
sui braccioli. - Un vero modello, un esempio per tutti. Lavorava
duramente senza mai lamentarsi, aveva il massimo dei voti in tutte le
materie ed era amata e rispettata da ogni singola studentessa della
scuola. -
- Cosa ci faceva a quell'ora del mattino in auditorium? -
domandò Teresa.
Il volto della signorina Vince si distese in un'espressione di
soddisfazione così intensa che sembrò
improvvisamente ringiovanire di diversi anni.
- Prove. -
- Prove? -
- Scarlet aveva ottenuto il ruolo di Clara nella recita di Natale di
quest'anno, Lo Schiaccianoci. Ogni mattina si alzava due ore prima
delle sue compagne per provare da sola in auditorium. - Il suo viso
illuminato dall'orgoglio si rabbuiò improvvisamente -
Rimpiazzarla non sarà facile. Stiamo pensando di annullare
lo spettacolo. -
- Annullare lo spettacolo? Un istante fa non aveva detto che nulla
può intaccare le abitudini di una scuola così
prestigiosa? - Intervenne Patrick, polemico.
Teresa gli lanciò un'occhiataccia, ma l'uomo non la stava
nemmeno guardando: aveva gli occhi fissi sulla direttrice e la fissava
con il suo sguardo più inquisitore.
- Proprio perchè siamo una scuola impeccabile non metteremmo
mai in scena uno spettacolo che sia meno che perfetto. - Disse la
donna, gelida.
Poi si alzò e si avviò alla porta, aprendola con
uno scatto improvviso. Fulminò i due poliziotti e
sibilò:
- Ora, se non vi dispiace, ho molto da fare. Vi prego di andarvene
immediatamente, le nostre studentesse non potrebbero sopportare altri
disagi. -
- Sì, certo. - Disse Patrick, alzandosi.
- Si tenga a disposizione. - Replicò Teresa, sfilando
davanti alla donna e rendendosi conto di essere più bassa di
lei di almeno venti centimetri. Cercando di ignorare la differenza di
altezza le gettò uno sguardo perentorio e poi si
avviò lungo il corridoio.
- Si può sapere perchè non ti mordi la lingua,
ogni tanto? - Sbottò rivolta al suo consulente, che
camminava svelto davanti a lei. - Poteva dirci molte cose interessanti,
se non si fosse irritata in quel modo. -
- Se non ricordo male... sì, di qua. - Replicò
Patrick, ignorandola e avanzando lungo i corridoi della scuola con il
passo svelto di chi sapeva dove andare, obbligando il suo capo a
seguirlo senza poter fare un'altra domanda.
Patrick si fermò davanti a un corridoio molto simile a
quello che avevano appena lasciato, con grandi finestre che davano sul
cortile interno della scuola e una serie di porte tutte uguali dal lato
opposto.
- Si può sapere dove siamo? - Sbottò Teresa.
Il suono di un campanello argentino echeggiò nel corridoio e
la donna non fece in tempo a ripetere la domanda che dalle porte di
legno lucido uscirono frotte di ragazze di ogni età con
indosso la divisa grigia e rossa della scuola: le più
piccole chiacchieravano ad alta voce e si affrettavano da un'aula
all'altra ad allegri gruppetti, le più grandi si muovevano
più silenziose e compite, a testa alta e con l'andatura
leggera e aggraziata delle ballerine.
- Antea Vince non ci poteva dire niente più che tante belle
cose della sua migliore studentessa e della sua scuola perfetta.
Parlare con le ragazze darà sicuramente migliori frutti. -
Spiegò Patrick.
- Jane, non possiamo piombare in mezzo a una scolaresca e fare domande.
- Esclamò Teresa allarmata. Ci mancava solo gettare
scompiglio in mezzo a delle ragazze turbate, soprattutto con una
direttrice furibonda nei paraggi - Torniamo al CBI, vediamo cosa hanno
scoperto gli altri e poi decideremo come muoverci. -
Qualcuna delle ragazze alzava gli occhi verso di loro, gettandogli
un'occhiata sfuggente e poi distogliendo lo sguardo. Altre, soprattutto
le più piccole, li guardavano con gli occhi pieni di
curiosità di chi non è abituato a vedere
cambiamenti nella routine di ogni giorno. Teresa sorrideva loro nervosa
e irrequieta, notando gli occhi inquisitori di Patrick quando vedeva un
viso tirato o un paio di occhi rossi.
- Non potete stare qui! - Esclamò improvvisamente la voce
della direttrice, comparendo a un estremità del corridoio.
All'apparizione di Antea Vince le ultime ragazze rimaste a bighellonare
nel corridoio si affrettarono a sgusciare nelle aule e, mentre Teresa
lanciava uno sguardo minaccioso al suo consulente, la direttrice si
avvicinò ai due con l'aria di chi stava per esplodere in una
scenata di rabbia epocale.
- Non vi avevo detto molto chiaramente di andarvene? -
Esclamò con ferocia, gli occhi grigi che lanciavano lampi in
direzione dell'agente scelto e del suo collega. - Non tollero la
mancanza di disciplina, nè tra i miei studenti nè
fuori. Un'altra infrazione da parte vostra e contatterò i
vostri superiori. -
- Non sarà necessario, signora, ce ne stiamo andando. - Si
affrettò a rispondere Teresa.
- Sì, è come dice lei. - Disse Patrick, annuendo
vigorosamente ma con il sorrisetto tipico dei bambini che sono appena
riusciti a combinare una marachella.
- Me lo auguro. - Sentenziò la direttrice. - Virginia! -
Una donnina in grembiule azzurro e cuffietta che stava attraversando
l'atrio poco lontano con un carrello carico di divise stropicciate si
fermò, richiamata dal tono perentorio della signorina Vince,
e si avvicinò a loro. La direttrice la guardò con
severità prima di ordinare:
- Scorta questi signori all'uscita. E accertati che escano dalla
scuola. -
- Subito, miss. - Disse la donna, lanciando immediatamente ai due
poliziotti uno sguardo supplichevole, come a volerli pregare di non
metterla in difficoltà.
Ebbene
sì, sono tornata a scrivere un giallo.
E
dire che quando ho iniziato il primo pensavo che non sarei mai arrivata
alla fine.
Però
devo dire che mi sono troppo emozionata a scrivere
la mia fanfiction precedente
(che vi consiglio di andare a leggere prima di mettervi davanti a
questa) e
non riuscivo a pensare ad altro.
Così alla fine ho ceduto alla tentazione ed ecco qui il
frutto del mio lavoro.
La
fanfiction non è finita, ma lo sarà ben presto.
Detesto chi inizia e non finisce le storie (;
Spero
che possa piacervi e, come al solito, qualunque critica è
bene accetta.
Grazie
di aver letto, alla prossima!
Flora
|
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Capitolo 2 *** Due. ***
Con la
prima tazza di caffè in mano, Teresa si sentiva un'altra.
La giornata era
trascorsa per metà e già le indagini sembravano
aver portato alcuni frutti: era certa che il caso si sarebbe risolto in
men che non si dica e lei sarebbe riuscita a sbrigare tutta la
burocrazia accumulatasi sulla sua scrivania prima delle feste. Sentiva
il bisogno impellente di liberarsi delle faccende arretrate e ogni sera
rimaneva più a lungo in ufficio per smaltire i fascicoli dei
casi chiusi, ma ogni volta che si fermava a pensare cos'avrebbe fatto
una volta libera dai doveri non riusciva a trovare una risposta.
Alla fine smetteva di
pensarci e si rimetteva a lavorare: ciò che doveva fare
andava fatto in ogni caso, no?
- Facciamo il punto
della situazione. - Disse sedendosi al tavolo dell'open space assieme
al resto della squadra.
Erano tutti seduti
attorno a lei meno Patrick, il quale sorseggiava un tè
seduto sul divano con gli occhi fissi nel vuoto, perso nei suoi
pensieri.
- Scarlet Fontaine era
una brava ragazza. - Iniziò Grace. - Ottimi voti a scuola,
la migliore del suo anno in danza... pare che la Royal Ballet School di
Londra avesse chiesto di vederne un'esibizione per candidarla ai corsi
di perfezionamento dopo il diploma. Era il fiore all'occhiello della
Vince Academy. -
- Amici, nemici,
fidanzati? - Domandò Teresa.
- A scuola pare fosse
amata da tutti. - Disse Wayne, scartabellando tra i fogli in disordine
sul tavolo alla ricerca di alcuni appunti. - Le bambine più
piccole l'ammiravano, quelle più grandi la apprezzavano e si
facevano aiutare da lei. Pare che avesse legato particolarmente con due
sue coetanee... oh, ecco. - Disse trionfante, trovando ciò
che stava cercando. - Hailey Snow e Trisha Jackson. -
- Quanto ai ragazzi,
niente da fare. - Intervenne Kimball - Studia al collegio da dieci anni
e quando la scuola chiude per l'estate passa le giornate nella villa
dei Fontaine ad Orange County, non c'è traccia di nessun
ragazzo nella sua vita. -
- Mi sembra
impossibile che una ragazza così perfetta non avesse nemmeno
un nemico. Tutte le prime della classe ne hanno: compagne invidiose,
ragazze a cui hanno soffiato il ruolo da protagonista tanto
desiderato... - Iniziò Teresa.
- Non Scarlet. - Disse
Wayne. - Non c'è traccia della benchè minima
acredine tra lei e le sue compagne. Abbiamo interrogato tutti i
professori della scuola: sono tutti concordi nel descriverla adorabile
e gentile con tutti, una vera leader e un esempio per le altre ragazze.
-
- Anche Scarlet aveva
i suoi nemici. - Disse Patrick, continuando a sorseggiare il suo
tè senza nemmeno voltare lo sguardo verso i poliziotti
seduti al tavolo.
- Le prove dicono il
contrario. - Rispose Grace.
- Le prove che avete
raccolto non bastano. -
- Non possiamo
interrogare le studentesse. - Sospirò Teresa. - O vuoi
finire denunciato per abuso di potere dalla direttrice? -
- Hai paura di lei? -
Sentenziò Patrick, voltandosi verso di lei e facendosi
spuntare sul viso il sorriso sornione che riservava ai momenti in cui
si rendeva conto di averla messa nel sacco.
- Io paura? Jane,
chiudi il becco. -
- Allora torniamo
là e intervistiamo le amiche di Scarlet, le sue compagne di
classe, le ragazze che avrebbero ballato con lei. Troveremo sicuramente
qualcuno che la prendeva in giro. -
Teresa si impose di
ignorarlo categoricamente e si voltò di nuovo verso la
squadra, dominando l'irritazione che il suo consulente riusciva a
tirarle fuori anche quando era perfettamente calma.
- È
arrivato il referto del medico legale? - Domandò Teresa.
- Non ancora. - Disse
Grace. - Ho telefonato per affrettare i tempi, ma con l'avvicinarsi
delle feste tutti chiedono di accelerare le cose e non sanno quanto ci
metteranno. -
Patrick si
alzò dal divano, posò la tazza sulla scrivania di
Grace e fece per filarsela in sordina dall'open space. Teresa
alzò gli occhi al cielo prima di alzarsi e raggiungerlo.
- Dove pensi di
andare? -
- A fare una
passeggiata. A comprare i regali di Natale. Ho visto una pianta
bellissima che piacerebbe un sacco a Rigsby. A te cosa piacerebbe? -
Non bisognava essere
un mentalista per capire che Patrick stava dicendo una bugia:
- Tu stai tornando
all'istituto. - Fu la risposta di Teresa.
- No. Ok,
sì. Puoi far finta di non avermi visto e venirmi a prendere
per un orecchio riempiendomi di rimproveri tra una mezz'ora, se vuoi.
Oppure puoi prendere la macchina, venire con me, affrontare la
terribile miss Vince e scoprire qualcosa di veramente interessante su
questo caso. -
- Non possiamo sempre
fare di testa tua!. - Sbottò Teresa, girando sui tacchi e
tornando nel suo ufficio con aria polemica.
- Ti aspetto nel
parcheggio! - Rispose Patrick sorridendo trionfante.
Quando Teresa si
ritrovò davanti alla Vince Academy, decise che tutto quello
che poteva fare era limitare - almeno nel tempo - i danni che Patrick
avrebbe certamente combinato in quel pomeriggio. Per cominciare, decise
di prendere lei in mano la situazione. Salì le scale e si
affacciò alla finestrella della guardiola, dove una robusta
donna dai capelli color paglia li aspettava guardandoli con aria
annoiata.
- CBI, dovremmo fare
alcune domande. - Disse, mostrando il tesserino.
- Miss Vince ha
lasciato detto che non può essere distrubata. - Disse la
donna. - Da nessuno e per nessun motivo. -
- Sarà
questione di un minuto e non sarà necessario disturbarla.
Vorremmo parlare con le ragazze. -
- Non posso farvi
entrare senza il suo permesso. -
Patrick fece un passo
avanti e si allungò verso la donna con un sorriso. Teresa si
voltò dall'altra parte: non voleva sapere come avrebbe fatto
a manipolare quella povera donna per farsi aprire la porta. Certe cose
è meglio non saperle.
- Sono certo... Jill -
disse Patrick, leggendo rapidamente il nome della donna sulla targhetta
appuntata alla divisa. - Che lei comprende la disgrazia capitata alla
giovane Scarlet... sono certa che lei comprende la sofferenza della sua
famiglia. Il dolore che li dilania, l'angoscia nel non sapere chi sia
stato... lei vuole davvero prolungare l'agonia della famiglia solo per
non aver ricevuto una semplice, piccola risposta d'assenso della
direttrice? In nome della pietà questa sciocchezza le
verrà giustificata certamente... -
Sedotta dal suono
della voce dell'uomo, Jill non si rese nemmeno conto di essersi alzata
e aver aperto il cancello della scuola. Li fece entrare con
un'espressione corrucciata sul viso tondo e disse loro che le ragazze
stavano facendo ricreazione: le avrebbero potute trovare in cortile o
nella sala relax a pianterreno.
- Io vado in cortile e
tu nella sala relax? - domandò Patrick mentre si avviavano
verso i locali della scuola.
- Io vado dove vai tu,
devo tenerti d'occhio. -
- D'accordo. -
L'ampio cortile della
scuola rispecchiava la cura degli interni: prati con l'erba tagliata
corta, grandi alberi dall'aria secolare e vialetti di ghiaia chiara
perfettamente ordinati. Panchine smaltate e tavolini di pietra erano
sparsi qua e là per il cortile fino all'alta inferriata
munita di punte aguzze che delimitava il grande giardino rettangolare.
Le studentesse
passeggiavano o chiacchieravano sedute sulle panchine e sui muretti, il
tutto in una strana atmosfera di quiete e silenzio. Era innaturale
vedere un gruppo di ragazze così giovani che non si
rincorrevano nè schiamazzavano, in una giornata bella come
quella: anche le più piccole, sedute in cerchio su delle
panchine di pietra, giocavano compite e tranquille con le loro bambole.
Le loro divise -
scamiciati grigi profilati di rosso, giacche rosse e camicette bianche
dal taglio essenziale - non rendevano più gioviale la calma
che si respirava nel giardino, e Teresa pensò con nostalgia
alla confusione che regnava durante l'intervallo nel cortile della
scuola pubblica dov'era cresciuta: i suoi compagni di scuola erano
così chiassosi che era quasi impossibile parlare, in quel
riquadro di erba e cemento dove tutti uscivano a prendere una boccata
d'aria. Tutto il contrario di quel cortile silenzioso,
pensò, indecisa se il suo era un pensiero d'invidia o di
dispiacere.
Persa nelle sue
riflessioni e nei suoi ricordi dolceamari, Teresa seguì
docilmente Patrick lungo un sentiero lastricato fino a una panchina
dove una ragazzina sui dieci anni stava leggendo un libro.
- Ciao. -
Esordì Patrick
- Ciao. - La bambina
lo guardò con gli occhi timidi di chi non era abituato ad
avere a che fare con gli sconosciuti
- Cercavamo Trisha e
Hailey, le amiche di Scarlet. Ci sapete dire dove sono? -
La bambina
puntò il dito verso un trio di ragazze più grandi
appoggiate a una fontana e poi rimase immobile, spostando gli occhi da
Teresa a Patrick senza dire altro.
- Grazie. - Fu la
risposta di Patrick, sorridendole appena e avviandosi verso il
gruppetto indicatogli dalla bambina.
Le adolescenti attorno
alla fontana erano ballerine di nome e di fatto: alte ed eleganti,
snelle ed aggraziate, con lunghi capelli lucenti sciolti sulle spalle o
stretti in crocchie e chignon sulla nuca. Al centro del trio stava una
ragazza bionda che singhiozzava e tirava su col naso in modo molto poco
elegante, mentre le due amiche al suo fianco cercavano di consolarla
accarezzandole i capelli e sfiorandole le braccia con carezze gentili.
Nessuno parlava e l'unico rumore che rompeva il silenzio erano i
disperati singhiozzi della biondina al centro del cerchio.
- Scusate. -
Iniziò Patrick, avvicinandosi timidamente.
Tutte si voltarono
verso di lui e la ragazza in lacrime alzò gli occhi, facendo
sussultare entrambi gli agenti. A Teresa ci volle un attimo per capire
perchè aveva sussultato istintivamente: la ragazza che li
stava fissando con gli occhi rossi colmi di lacrime e il viso stravolto
dal dolore era Scarlet Fontaine. O per lo meno la sua copia esatta: gli
stessi lineamenti delicati, gli stessi sottili capelli biondi e i
medesimi occhi azzurro chiaro dal taglio leggermente a mandorla.
- Cosa volete? -
Domandò con la voce rotta.
- Siamo del CBI,
stiamo indagando sulla morte di Scarlet Fontaine. - Disse Teresa,
mostrando il suo tesserino. - Era tua... -
- Era mia sorella,
sì. - Rispose la ragazza, mentre i suoi occhi si riempivano
di lacrime di nuovo e nascondeva il viso tra le mani per nasconderle.
- Gemella? -
Domandò ancora Teresa.
- No, Susan
è di un anno più giovane. - Rispose un'altra
ragazza, alta e scura di carnagione, con i capelli corvini sciolti
sulle spalle e grandi occhi neri da medio-orientale. - Io sono Trisha
Jackson, la migliore amica di Scarlet. -
- Piacere di
conoscerti, Trisha. - Disse Patrick, stringendole la mano e tenendola
stretta tra le sue per un momento mentre la guardava negli occhi.
Trisha sottrasse la
mano dalla stretta del consulente e lo guardò storto prima
di tornare a passare un braccio attorno alle spalle della ragazza
bionda accanto a lei.
- Tu devi essere
Hailey, quindi. - Disse Teresa, rivolgendosi alla ragazza dai capelli
castani che affiancava Susan dal lato opposto.
- Hailey Snow,
sì. Anche io conoscevo bene Scarlet. - Disse la ragazza
sottovoce, sbattendo le ciglia per scacciare le lacrime che le
riempivano gli occhi lucidi.
- So che è
un momento molto difficile per voi, ma se possiamo vorremmo farvi
qualche domanda. - Disse Teresa con dolcezza.
- Qual è il
primo aggettivo che vi viene in mente pensando a Scarlet? - Intervenne
Patrick. - Il primo, così, sui due piedi, senza pensare. -
- Ambiziosa? - Propose
Trisha.
- Io direi
più... determinata. - Disse Hailey.
Patrick si
fermò guardando Susan, la quale si asciugò gli
occhi e lo guardò con aria triste.
- F-forte.
È sempre stata un punto fermo per me. - Balbettò.
- E che tipo era?
Sappiamo che era una che lavorava sodo, che aveva ottenuto il ruolo da
protagonista nello spettacolo di Natale... -
- Se lo meritava. -
Disse Hailey. - Se lo meritava, come l'ha meritato l'anno scorso e
l'anno prima ancora. Scarlet era la migliore, nessuno avrebbe voluto
prendere il suo posto. -
- Anche
perchè nessuno poteva sognarselo. Con una così
brava in giro non potevi sperare di brillare più di lei. Non
fraintendetemi - si affrettò a precisare Trisha - Scarlet mi
piaceva, le volevo bene. Sapevo di non essere brava quanto lei. La mia
non è invidia, è una semplice constatazione. -
- Chiedete a chiunque,
qui. Nessuno ammetterà di essere migliore di Scarlet. -
Continuò Hailey.
- C'è
qualcuno a cui non stava simpatica? Qualche nemico, qualcuno
invidioso... - Propose Teresa.
Hailey e Trisha si
scambiarono uno sguardo, poi Trisha scosse la testa.
- No, nessuno. Scarlet
era adorabile, non si poteva non volerle bene. - Disse.
- Stai mentendo. -
Intervenne Patrick.
- No! -
Esclamò Trisha.
- Stai mentendo. Tu e
Hailey sapete qualcosa che noi non dobbiamo sapere, non è
vero? -
- Non so come le venga
in mente una cosa del genere, ma sto dicendo la verità. -
- È
sincera, Hailey? Davvero tutti amavano Scarlet? -
Gli occhi di Hailey
erano sfuggenti, e quando annuì stava fissando intensamente
il selciato sotto i suoi piedi.
- C'era qualcuno che
non la sopportava, vero? Lasciatemi indovinare. Una vostra ex amica.
Anzi, no. Una ragazza ambiziosa e determinata quanto lei. - Un
impercettibile movimento nei lineamenti di Hailey lo fece sorridere. -
Sì, una rivale. Qualcuno che probabilmente era sicuro di
avere più stoffa di Scarlet e che quindi non sopportava di
vederla primeggiare in tutto. Qualcuno che moriva d'invidia, che non si
è mai sentita apprezzata... e che quindi ha deciso di
eliminare la sua rivale una volta per tutte. Ho ragione? Ho ragione,
Hailey? -
- Adesso basta! -
Esclamò Susan, con la voce rotta e gli occhi di nuovo gonfi
di lacrime. - Mia sorella Scarlet è stata uccisa e lei
è qui a chiederci di dirle cose che non sappiamo senza
rispettare il nostro dolore. Dovrebbe vergognarsi! -
Susan
scoppiò di nuovo in singhiozzi e Trisha si chinò
ad abbracciarla fulminando il consulente del CBI con uno sguardo
gelido. Teresa afferrò Patrick per un braccio e lo
obbligò a fare un paio di passi indietro, intimandogli con
lo sguardo di non dire una sola parola in più.
- Scusateci,
è il nostro lavoro. - Mormorò rivolta alle
ragazze.
- Scusateci voi. -
Disse Hailey con un filo di voce. - Amavamo Scarlet. È molto
dura essere qui e sapere che lei non tornerà più.
-
- Se vorrete
contattarci, dirci qualcosa... questo è il numero che potete
chiamare. - Disse Teresa porgendole un bigliettino da visita. - Ora
andiamo. - Disse, più a beneficio del consulente alle sue
spalle che delle studentesse davanti a lei.
Gli passò
accanto con un'espressione che non ammetteva repliche e Patrick la
seguì alzando le braccia, arrendendosi alle decisioni del
suo capo.
Erano rientrati
nell'edificio e stavano percorrendo un corridoio luminoso diretti
all'uscita, quando il cellulare di Teresa vibrò nella sua
tasca.
- VanPelt, dimmi. -
Disse la donna, fermandosi per rispondere al telefono.
Ma non
riuscì ad ascoltare le parole della ragazza dall'altra parte
dell'apparecchio, perchè la sua attenzione fu attratta da
quello che si vedeva da uno spiraglio di una porta aperta: al di
là dell'uscio, su una grande parete a specchio, si vedevano
riflesse una mezza dozzina di bimbette in body rosa e collant bianche
che si dedicavano ad esercizi di danza. La scena le sarebbe risultata
del tutto indifferente se non fosse stato per la bambina più
vicina alla porta. Aveva i capelli neri legati in due codini e, sebbene
il suo viso riflesso nello specchio fosse il più assorto e
concentrato di tutti, i suoi movimenti erano incerti e in ritardo.
Aveva due grandi occhi neri e quando l'insegnante si
avvicinò per rimproverarla la sua espressione smarrita
colpì Teresa con una forza tale da farla barcollare. Un
attimo dopo la bambina era uscita dal suo campo visivo e l'agente si
ricordò di essere al telefono.
- Capo? Ci sei? - La
voce di Grace sembrava lontanissima.
- S-sì, ci
sono. Ora... ora torniamo al CBI e ne parliamo. - Disse Teresa,
cercando di non far capire alla ragazza di non aver ascoltato una sola
parola del suo discorso.
Riattaccò e
non fece in tempo a far sparire il cellulare in tasca che Patrick le si
avvicinò.
- Ti manca, vero? -
Domandò solamente.
- Non so di chi tu
stia parlando. - Mentì Teresa, avviandosi lungo il corridoio.
- Quanto tempo
è passato? Otto mesi? - Il silenzio della donna fu
più eloquente di qualunque parola e Patrick
continuò. - L'hai più vista? O sentita? -
- Ho chiamato il mese
scorso l'assistente sociale. - Ammise Teresa - Mi ha detto che non
è ancora stata data in affido. Nessuna famiglia la vuole con
sè, dopo quello che ha passato. Hanno tutti... paura. -
L'espressione che si
era dipinta sul suo viso era così diversa da quella
determinata e sicura che era solita sfoggiare che Patrick non ebbe il
coraggio di dire nient'altro.
Si avviarono lungo il
corridoio in silenzio ed erano quasi arrivati all'uscita quando i passi
di qualcuno che li stava raggiungendo di corsa li fecero voltare:
davanti a loro stava una dodicenne dal viso tondo con i capelli biondi
ondulati in disordine e gli occhi luccicanti.
- Volete sapere chi ce
l'aveva con Scarlet? - Domandò.
Teresa
guardò prima la ragazzina e poi Patrick, stupita.
- S-sì. -
Disse.
- Elizabeth Nardi -
Disse la ragazzina con un sorrisetto.
- E dove possiamo
trovarla? -
La ragazzina si
strinse nelle spalle, poi si voltò con una piroetta e
scomparve correndo lungo il corridoio, lasciando i due agenti alle sue
spalle.
- Credi che dovremmo
cercare questa Elizabeth? - Domandò Teresa.
- Credo che dovremmo
andare a mangiare qualcosa. - Rispose Patrick. - Mi offri un toast? -
Teresa lo
guardò con aria di disapprovazione prima di seguirlo verso
l'uscita.
Sì, lo so,
gli aggiornamenti sono un po' lenti.
Ma sapete che non lascio
mai a metà un racconto,
quindi non mi resta che
chiedervi di portare pazienza.
(e nel frattempo spero
che tutti vi stiate godendo la quinta stagione)
Al prossimo capitolo!
Flora
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Capitolo 3 *** Tre. ***
Era primo
pomeriggio e Teresa si godeva la quiete dell'ora che seguiva il pranzo
nel suo ufficio. Grace l'aveva chiamata per avvertirla dell'arrivo del
referto del medico legale e l'agente l'aveva letto con comodo, seduta
alla sua scrivania.
- Che dice? -
Domandò Patrick entrando nell'ufficio e lasciandosi cadere
sul divano, spezzando con la sua presenza la tranquillità
del momento.
- Dice che Scarlet
è morta per soffocamento. - Disse Teresa, chiudendo il
fascicolo e passandolo al suo consulente. - E allontana del tutto
l'ipotesi del suicidio. -
- Oh, davvero? - Fu
l'ironica risposta.
- Non è
necessario essere sarcastici. - Sentenziò Teresa. - Non
c'erano segni di colluttazione sulla scena del crimine, nè
segni di lotta sul corpo di Scarlet. Mi chiedevo semplicemente come
potesse una persona lasciarsi uccidere senza lottare. Dagli esami pare
che nel sangue di Scarlet ci fossero dosi molto alte di un farmaco,
probabilmente un sonnifero: ed ecco la risposta al mio dubbio.
È un omicidio, bravo, hai vinto. Niente zuccherino
però. -
Patrick sorrise
divertito, ma non potè rispondere perchè Kimball
aprì la porta.
- Ti cerca il capo. -
Disse a Teresa.
- Cosa vuole? -
- Non so. Ma sembra
piuttosto urgente. -
Finendo il
caffè rimasto a raffreddarsi nella tazza in un unico sorso,
Teresa si alzò per raggiungere l'ufficio del capo del CBI
intimando al suo consulente di non combinare guai in sua assenza.
- Ho intenzione di
schiacciare un pisolino. - Fu la risposta di Patrick, che si distese
più comodo sul divano spostando il fascicolo per
addormentarsi meglio.
Teresa raggiunse
l'ufficio del capo chiedendosi perchè ci fosse bisogno di
lei in modo così impellente, ma appena mise piede nella
stanza capì però il motivo della convocazione:
seduti sulle poltrone davanti alla scrivania del capo c'erano Antea
Vince e un uomo stempiato sulla quarantina con la faccia da mastino.
- Lisbon, vieni. -
Disse con aria accigliata il suo superiore, facendole cenno di
avvicinarsi. - La signorina Vince mi stava dicendo che siete entrati di
nascosto nella sua scuola. Io le ho detto che non sarebbe mai potuta
capitare una cosa del genere - disse con un'occhiata di ammonimento - e
che sicuramente avresti avuto una spiegazione plausibile per questo
malinteso. -
Teresa aprì
la bocca per rispondere, ma l'occhiata feroce della direttrice la
interruppe proprio mentre iniziava a giustificarsi. Era un agente di
polizia, non doveva giustificare le sue indagini a proposito di un
omicidio. E soprattutto non doveva giustificarle a una donna gelida e
rigida come l'acida signorina Vince.
- Stavamo indagando.
Tutto qui. -
- Vede? Gliel'ho
detto, sono entrati di nascosto e hanno interrogato le mie studentesse!
- Sbottò la direttrice con la voce più acuta che
Teresa avesse mai udito. - Chiedo... anzi, pretendo di essere presente
alle prossime visite che farete alla mia scuola e a ogni colloquio che
avrete con le ragazze. Per la tutela delle studentesse e del buon nome
della Vince Academy. Il mio avvocato saprà rispondere a
qualunque vostra obiezione. -
- La sua presenza
potrebbe compromettere le indagini! - Protestò Teresa.
Il comandante
però non le diede ascolto, replicando:
- Verrete informata di
ogni sviluppo, miss Vince. E l'agente Lisbon si premurerà
personalmente di convocarla in caso ci siano degli interrogatori. -
- Lo spero bene. -
Disse Antea Vince, mettendosi più comoda sulla sedia e
sorridendo con aria vittoriosa al tizio con la faccia da mastino. - E
preferirei che quel fastidioso consulente non sia presente agli
interrogatori. -
- Il signor Jane
è un consulente del CBI e per lo svolgimento delle indagini
abbiamo bisogno del suo aiuto. Con tutto il rispetto, miss, penso che
dovremmo essere noi a decidere come questa cosa va portata avanti, non
lei. - Esclamò Teresa.
- Ho detto solo
preferirei. - Sibilò la donna.
Poi si
alzò, alta ed elegante nel suo completo grigio, e si
congedò dal comandante con un gesto del capo, senza
aspettare un minimo cenno di assenso da parte del poliziotto. Fece un
cenno al suo avvocato e i due uscirono dall'ufficio salutando con un
gelido "arrivederci".
- Non posso credere
che l'abbia lasciata vincere! - Esclamò Teresa non appena la
donna si fu chiusa la porta alle spalle.
- Avevo le mani
legate! Il suo avvocato è il più temuto della
California e la Vince ha dalla sua parte mezza dozzina di famiglie
influenti, alcune addirittura amiche del procuratore. Vuo davvero
metterti contro tutta la gente che conta della bay area solo per non
fare qualche concessione? -
- Quella donna
è... è prepotente, e tirannica, e... è
impossibile! - Esclamò Teresa.
- Saprai fare il tuo
mestiere anche con lei tra i piedi. Non per niente riesci a lavorare
con Jane. - Rispose sardonico il capo, lasciandosi andare ad un
sorrisetto.
Teresa
sospirò, rendendosi conto che non c'era proprio modo di
riportare le cose a funzionare nel senso giusto.
- Hai
novità? - Disse il comandante, desideroso di cambiare
argomento.
- Un nome. Ma a questo
punto interrogare un sospettato significa richiamare la direttrice e
chiederle di presenziare. -
- Va', allora. Forse
non è ancora andata via e ti puoi risparmiare una
telefonata. - Rispose il capo, abbassando lo sguardo sui rapporti che
doveva firmare.
Siccome il suo
superiore non sembrava avere intenzione di alzare gli occhi dai suoi
fogli, Teresa si concesse un'occhiataccia liberatrice prima di uscire
dall'ufficio per inseguire la signorina Vince; la incontrò
nell'atrio che aspettava l'ascensore.
- Miss Vince. -
Chiamò. - Dobbiamo interrogare una sua studentessa in merito
ai rapporti che aveva con Scarlet. -
- E chi sarebbe? -
- Elizabeth Nardi. -
Disse Teresa.
La direttrice si
irrigidì impercettibilmente, ma cercò di
rispondere senza dimostrare la sua irritazione. Gli occhi acuti
dell'agente, però, non si fecero sfuggire quell'involontario
moto di fastidio e lo memorizzarono.
- La
accompagnerò qui domani mattina. - Fu la fredda risposta. -
Buon pomeriggio. -
La donna e il suo
avvocato sparirono nell'ascensore e Patrick comparve alle spalle di
Teresa con una tazza di tè in mano e l'aria di chi si era
appena svegliato.
- Tipino fastidioso,
eh? -
- Peggio. Pretende di
essere presente a ogni interrogatorio che faremo. -
- Basta non farle
sapere che lo faremo. -
Teresa gli
lanciò un'occhiata di rimprovero a cui Patrick rispose con
un sorriso:
- Quello che non sa,
non la ferisce, no? -
- Domattina
interroghiamo Elizabeth. Voglio che tu sia presente. -
- Oh. E come mai? -
Disse Patrick, un po' sorpreso: di solito Teresa si adoperava per
tenerlo ben lontano dagli interrogatori, soprattutto quando si trattava
di ragazzini.
- Perchè la
direttrice non ti sopporta. - Rispose semplicemente Teresa,
allontanandosi.
Elizabeth Nardi era
una sedicenne minuta, con lunghi capelli bruni raccolti in due trecce e
occhi azzurri luccicanti dall'espressione fiera e spaventata insieme.
Seduta sulla sediolina di plastica della sala interrogatori sembrava
ancora più piccola, soprattutto se confrontata con la
direttrice seduta al suo fianco, rigida e impettita nel suo completo
rosa salmone.
Teresa
entrò e si sedette di fronte alla ragazza, sorridendole
timidamente per cercare di metterla a suo agio. Gli occhi azzurri di
Elizabeth però erano sfuggenti, si posavano sul piano del
tavolo, sulla donna seduta al suo fianco e poi sul fascicolo che Teresa
teneva tra le mani senza mai fermarsi per più di un battito
di ciglia. Patrick entrò un minuto dopo la donna, fermandosi
alle sue spalle e ignorando senza sforzo l'occhiata feroce che miss
Vince gli stava dedicando.
- Sono l'agente
Lisbon, Elizabeth. Vorrei farti qualche domanda su Scarlet Fontaine. -
Elizabeth
annuì, stringendo le labbra in una smorfia di timore e
lanciando uno sguardo alla direttrice seduta accanto a lei.
- Dì quello
che sai, cara. - Intervenne la direttrice con un gelido sorriso.
- Non... Non eravamo
molto amiche. - Disse Elizabeth, fissando le proprie mani intrecciate
in grembo. - Io ero... invidiosa. Molto invidiosa. Lei era sempre la
protagonista dello spettacolo, io mai. -
- Vi conoscete da
molti anni? -
- Da quando ho
iniziato l'Accademia, dieci anni fa. Lei studiava già
lì. -
- Hai in mente
qualcuno che poteva fare del male a Scarlet? -
- No. La amavano
tutti. Nessuno poteva farle del male. -
- E cosa mi dici di
Trisha ed Hailey? Loro ti stanno simpatiche? - Continuò
Teresa.
- No. Io sto per conto
mio. -
- Non hai amiche? -
- Voglio diventare una
ballerina, non un'ape regina. Non mi interessa avere... - Ebbe un
attimo di esitazione e poi continuò. - Non mi interessa
avere degli amici. Mi basta essere brava nella danza. -
- Non ti viene in
mente nessuno che potesse avercela con Scarlet? -
- Nessuno. Le volevano
tutti bene. -
Con un sospiro Teresa
chiuse il suo taccuino, rendendosi conto che non avrebbe avuto molto da
scrivere. Si voltò verso Patrick, sperando che almeno lui
avesse colto qualcosa di interessante da quell'inutile interrogatorio,
ma l'uomo fissava la ragazzina bruna davanti a sè con gli
occhi socchiusi e l'espressione indecifrabile, appoggiato al vetro a
specchio della sala degli interrogatori, le ombre che si allungavano
sul suo viso e rendevano ancora più incomprensibile la
natura dei suoi pensieri.
Incoraggiata dal
silenzio che regnava nella stanza, Antea Vince si alzò in
piedi, invitando la ragazza a fare lo stesso.
- Se non avete altre
domande, Elizabeth ha perso già diverse ore di lezione,
stamattina. -
- Non abbiamo ancora
finito. - Tentò Teresa.
- Non mi sembra che
abbiate altro da chiederle. - Sentenziò la direttrice.
- Certo, potete
andare. - Intervenne Patrick, uscendo dall'ombra e avvicinandosi al
tavolo - Ti spiace se vado anche io, Lisbon? Ho delle cose da fare. -
Il consulente
lanciò uno sguardo intenso all'agente e poi, senza aspettare
la risposta del suo capo, uscì dalla sala interrogatori
sparendo lungo il corridoio.
- Andiamo anche noi. -
Ribadì la direttrice, posando una mano sulla spalla della
sua studentessa.
Elizabeth
aprì la porta della stanza e uscì nel corridoio,
seguita a poca distanza dalla direttrice e dalla poliziotta.
Nell'istante in cui Teresa si chiuse la porta alle spalle,
però, il suo istinto prese il sopravvento e l'agente
parlò prima ancora di rendersene conto.
- Miss Vince, permette
una parola? - Domandò all'improvviso.
La direttrice si
girò guardandola con ferocia e afferrò la spalla
di Elizabeth per impedirle di allontanarsi.
- Va' pure, Elizabeth.
Puoi aspettare la signorina Vince agli ascensori. - Disse Teresa.
- Preferirei di no. -
Disse la direttrice.
- Credo che sia meglio
parlare in privato. - Disse Teresa, sostenendo lo sguardo della donna e
cercando di rispondervi con altrettanta determinazione.
La battaglia tra le
due donne ebbe la durata di qualche istante, quando all'improvviso la
signorina Vince decise di cedere.
- Vai. Ma non prendere
l'ascensore senza di me. -
Obbediente, Elizabeth
salutò con un cenno del capo e poi si allontanò
verso l'atrio.
Nel momento in cui
Teresa rimase sola con Antea Vince, si rese conto di aver dato retta al
suo istinto senza però curarsi troppo della giustificazione
che avrebbe dovuto rendere alla direttrice. Aprì la bocca
per parlare, cercando qualcosa di diplomatico per intrattenere la
donna, ma la sua mente riuscì a dare forma ad un solo
pensiero:
- Credo che lei stia
tentando di ostacolare le indagini. - Disse
"E tanti saluti alla
diplomazia", pensò mentre vedeva il viso della donna farsi
di pietra.
- Io invece credo che
lei stia tentando di disturbare la quiete della nostra Accademia senza
nessun motivo. Scarlet è morta, il che è
terribile, ma tra le mie studentesse non ci sono colpevoli. -
- Vuole dirmi che la
sicurezza della vostra tanto stimata scuola è
così debole da permettere a un esterno di entrare e uccidere
una ragazza? -
- Non intendevo
questo. Intendevo che dovete guardare altrove, cercare altrove. Non tra
le mie ragazze. Sono figlie di famiglie rispettate e stimate. -
- L'essere ricche e
influenti non le rende innocenti. -
- E l'essere povera
non rende lei obiettiva: mi rendo conto dell'invidia che prova per
queste ragazze, che possono dedicarsi a cose belle e femminili, invece
di doversi vestire come un uomo e avere a che fare con sangue, omicidi
e stupratori. - Disse Antea Vince. Abbozzò un sorriso colmo
di pietà artefatta e poi continuò. - Mi creda,
comprendo il suo malanimo. Sto solo cercando di proteggere le mie
studentesse dagli effetti della frustrazione di una donna che non
è riuscita a rendere la sua vita un'opera d'arte. -
Le parole della
direttrice, gettate ai suoi piedi con rabbia, disprezzo ed evidente
senso di superiorità, avevano colpito Teresa in quell'angolo
della sua mente che non amava frequentare. Le mezze verità
del suo discorso alimentarono la rabbia dell'agente come benzina sul
fuoco e Teresa strinse i pugni, cercando di dominare l'ira nascosta
nella voce.
- Non le permetto di
parlarmi in questo modo, miss Vince. - Disse, scandendo ogni parola.
- Tutto ok, capo? -
domandò Grace, avvicinandosi con l'aria di chi non era del
tutto sicura di voler entrare nel merito della discussione che si stava
svolgendo davanti a lei.
- Certamente. Io e
l'agente Lisbon stavamo solo scambiando qualche parola. - Disse la
direttrice, sorridendole amabilmente - Se ha bisogno di altro sapete
dove trovarmi. -
E senza nemmeno
salutare si allontanò lungo il corridoio con la testa alta e
il consueto passo svelto.
Teresa la
guardò allontanarsi sperando intensamente di trovare
qualcosa - anche sciocca e insignificante - per poter dimostrare che
quella donna era tutto fuorchè innocente.
Con un lungo sospiro
per calmare i nervi, si voltò verso Grace.
- Mi cercavi? - Le
domandò, facendole cenno di seguirla nel suo ufficio.
- Sì, capo.
Abbiamo avuto la risposta delle analisi nel sangue di Scarlet: aveva
dosi elevate di benzodiazepine, livelli quasi letali che devono averla
ridotta raticamente in coma. - Dalla voce della ragazza traspariva la
sua pietà per la infelice sorte della giovane ballerina.
Teresa si
appoggiò alla sua scrivania e scorse il foglio che Grace le
tendeva dicendo:
- Manda Cho e Rigsby a
fare un sopralluogo all'Accademia per controllare se esite un
armadietto dei medicinali, un'infermeria o una cosa del genere. Le
ragazze al collegio non possono gestire soldi, quindi chi ha preso i
sonniferi deve esserseli procurati tra quelle mura. -
- D'accordo. - Disse
Grace, allontanandosi.
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Capitolo 4 *** quattro. ***
La quiete
della mattina regnava ancora sovrana, al CBI, e Teresa si concesse
mezz'ora di pausa. Si sedette sulla sua poltrona, controllò
le mail e diede una mezza riordinata alle scartoffie che la aspettavano
sulla scrivania. L'alberello che le avevano regalato scintillava
fastidiosamente, accarezzato dalla luce del mattino che filtrava dalle
persiane socchiuse, e gli occhi dell'agente scelto non riuscivano a
distogliere lo sguardo dalla stella sulla cima, che brillava quasi di
luce propria.
Non c'erano mai state
grandi decorazioni natalizie, nella sua casa paterna, e da quando
viveva da sola a Sacramento nemmeno una lucina di Natale aveva varcato
la soglia del suo appartamento. Da una parte era convinta
dell'inutilità le decorazioni, se non si viveva l'intensa
spiritualità del Natale, ma dall'altra sapeva bene che
trovava assurdo addobbare a festa la casa solo per sè
stessa. Era vero, Natale era l'occasione per sentire i suoi fratelli:
una risata con Tommy, una chiacchiera con gli altri, convenevoli e
battute... ma rimaneva il fatto che vedere palline e lucine - per non
parlare di calze e regali - le ricordava solo che per lei non c'era
molta differenza, quanto ad affetti, tra il venticinque dicembre e il
resto dei giorni dell'anno.
Un sospiro silenzioso
testimoniò la quieta rassegnazione di quel pensiero.
Erano tanti anni,
ormai, che viveva le feste da sola, ma ancora non ci aveva fatto
l'abitudine.
"Forse a certe cose
non ci si può abituare." Pensò mentre spostava
l'alberello di Natale in modo che la luce non lo colpisse
più così vividamente: in quel momento
notò di averlo appoggiato su un foglio piegato in quattro.
Lo aprì
sperando che non fosse qualcosa di importante, finito in un angolo e
dimenticato a causa del disordine che regnava sulla sua scrivania. Ma
quando lo aprì, si ritrovò a pensare che sarebbe
stato meglio se fosse stato qualcosa di importante, qualcosa di grosso,
qualcosa che era meglio non aver dimenticato... qualunque cosa, ma non
quell'innocente disegno.
Posando il foglio
davanti a lei e accarezzando con lo sguardo i tratti infantili con cui
erano stati fatti sorridere i volti dei personaggi, sorridendo ai
colori vivaci dei vestiti, talmente vividi da non riuscire a stare nei
contorni Teresa sorrise, mentre gli occhi le bruciavano.
Di lì a una
settimana Dorothy avrebbe passato Natale da sola: il suo primo Natale
da sola.
Assecondando qualcosa
che non era affatto la ragione, Teresa recuperò l'agenda e
il biglietto da visita color pesca infilato tra le pagine. In un
carattere corsivo e svolazzante, il nome di Claire Andrews era seguito
da un numero di telefono e altri contatti.
Infilando la cornetta
telefonica tra l'orecchio e la spalla e iniziando a scrivere il numero
dell'assistente sociale, si rese conto che il suo cuore batteva sempre
più forte via via che ne componeva le cifre. Il primo
squillo echeggiò nella cornetta e Teresa sentì
una stretta alla bocca dello stomaco. Posò una mano sul
disegno piegato sulla scrivania e chiuse gli occhi, , cercando in quel
contatto la calma necessaria per replicare alla voce della ragazza che
di lì a poco avrebbe risposto. Il rumore della porta che si
apriva si sovrappose al secondo squillo.
- Sei impegnata? -
Domandò Patrick, facendo capolino.
L'incantesimo si
spezzò all'improvviso e Teresa riagganciò la
cornetta all'apparecchio con una tale foga da farlo sbattere.
Alzò gli occhi verso Patrick fulminandolo.
- Non si usa
più bussare? - Domandò accigliata.
- Chi stavi chiamando?
- Chiese Patrick, entrando e guardandola con aria sorniona mentre si
avvicinava.
- Mio fratello. E
comunque non sono affari tuoi. Cosa vuoi? - Sbottò l'agente,
nascondendo in fretta il foglio che aveva tra le mani sotto la pila di
vecchi fascicoli: non aveva intenzione di far capire a quel ficcanaso
del suo consulente cosa le passava per la mente.
- Ho parlato con
Elizabeth. -
Il caso riemerse tra i
pensieri di Teresa facendosi spazio a fatica e cercando di riassorbire
la maggior parte della sua coscienza.
- Finalmente una buona
notizia. Cosa hai scoperto? -
- Non è
stata lei. -
- Oh, bene. Ci
rimangono giusto altre cinquanta ragazze da interrogare, allora. -
- Non ho detto che non
ho scoperto niente. -
- Quindi? -
- Se te lo dico, che
gusto c'è? - Disse Patrick con un sorrisetto.
- Se non hai
intenzione di essere utile all'indagine, mi spieghi perchè
sei venuto? -
- Per dirti che Cho e
Rigbsy stanno tornando. -
- Così
presto? -
- Pare non li abbiano
fatti entrare. A quanto pare non hanno saputo toccare... i tasti
giusti. - Disse con un sorrisetto.
Teresa si
alzò e lo superò senza degnarlo di uno sguardo.
- Ehi, non mi hai
ancora detto cosa vuoi per Natale! - Esclamò Patrick quando
la sua collega si allontanò lasciandolo solo nell'ufficio.
Una tazza di
caffè più tardi Wayne e Kimball erano di ritorno
e Teresa si fermò a parlare con loro nell'open space: Wayne
era piuttosto demoralizzato, quanto a Kimball era difficile capire cosa
stesse provando. Dal tono della sua voce quando rispose non trapelavano
emozioni, anche se dalle parole che aveva scelto pareva piuttosto
irritato.
- La donna
all'ingresso non ha voluto sentire ragioni. La direttrice non c'era e
in sua assenza non si fa entrare nessuno. - Spiegò.
- Dovevate insistere,
io e Jane siamo riusciti a entrare, ieri. -
Kimball e Wayne si
scambiarono uno sguardo eloquente, il contenuto del quale fu condiviso
da Teresa.
- Lo so, Jane fa delle
persone quello che vuole, ma siete agenti del CBI, che diamine! Non
sarà una porta chiusa e una inserviente ostinata a tenervi
fuori dalle indagini! - Esclamò.
Il suono del telefono
interruppe il suo rimprovero e Wayne allungò una mano per
afferrare la cornetta.
- Agente Rigsby, CBI.
- alzò gli occhi verso il suo capo mentre la persona
dall'altro capo del filo parlava. La sua espressione da preoccupata
divenne sorpresa e poi sollevata. - Ma certo - Rispose - Certamente,
certamente. Sarebbe perfetto. Grazie. Grazie, miss Vince. -
L'occhiata
interrogativa di Teresa lo raggiunse mentre riattaccava, e Wayne si
affrettò a spiegarsi con un sorriso disteso dipinto sul
volto.
- Era la direttrice
dell'Accademia. - disse - Ha detto che si scusa per il comportamento
poco gentile della sua collaboratrice e che ci sta facendo arrivare i
registri dell'infermeria, saranno qui tra poco assieme all'infermiera
dell'Accademia -
- Finalmente qualcosa
di buono. - Sentenziò Teresa, con un sospiro di sollievo. -
Aspettiamo i registri e poi decidiamo il da farsi. -
Mentre il sole
scendeva su Sacramento, Teresa e Patrick erano fermi dietro al vetro a
specchio della sala interrogatori: dall'altra parte Kimball stava
sfogliando i registri mentre davanti a lui una signora sulla sessantina
si torceva le mani con aria nervosa.
- Allora, signora
Hanbel, è lei che gestisce la farmacia della scuola? -
domandò chiudendo bruscamente il quaderno che stava
consultando e facendo sussultare la donna.
- S-sì. Per
avere un farmaco le ragazze devono venire da me, io aggiorno il
registro e consegno loro quello di cui hanno bisogno. -
- È
possibile che qualcuno abbia rubato dall'armadietto? -
- Assolutamente no. -
Disse la signora Hanbel con convinzione. - Lo apro e lo chiudo
personalmente, le chiavi le ho solo io e non ci sono mai state
sparizioni. Mai. Miss Vince ci tiene moltissimo alla salute delle sue
alunne e non vuole che abusino di medicinali. -
- Qui vedo che alcune
studentesse ricorrono spesso alla farmacia. - Rispose Kimball, aprendo
uno dei registri e voltandolo verso l'infermiera.
- S-sì.
Alcune hanno bisogno di medicine quasi costantemente. Analgesici,
soprattutto, per i dolori muscolari dovuti agli allenamenti... -
La sua voce si spense
in un sussurro mentre Kimball scorreva la lista.
- Analgesici, certo. E
dei sonniferi cosa mi dice? -
- Oh, beh. Una sola...
una sola studentessa ne fa uso. - Disse la donna. - Ha problemi di
insonnia e ogni settimana riceve una dose di benzodiazepine. -
- L'ha ricevuta anche
settimana scorsa? -
- Sì,
credo... credo di sì. Ma controlli, se l'ha ricevuta
è proprio sul registro. Ci sarà anche il nome, in
questo momento non lo ricordo. -
Kimball
sfogliò il registro e seguì con lo sguardo le
ordinate colonne di nomi e numeri fino ad arrivare alla data del
lunedì precedente. Alzò lo sguardo verso il vetro
a specchio intercettando quello del suo capo con una espressione ancora
più grave dipinta negli occhi.
Teresa
sospirò, capendo perfettamente cosa aveva appena scoperto il
suo agente.
Un
aggiornamento veloce (e breve, lo so) prima di partire per le vacanze
di Pasqua.
Non volevo farvi attendere un altra settimana prima di un aggiornamento,
così vi lascio con questo e spero che possa saziare un
pochino la vostra curiosità
in attesa del prossimo capitolo!
Flora
|
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Capitolo 5 *** cinque. ***
- La
studentessa che riceve la scorta di sonniferi è Elizabeth
Nardi. - Disse Teresa, aggiornando Grace e Wayne. - A questo punto
dobbiamo incriminarla, sono troppi gli indizi a suo carico. -
- Ma capo,
è una ragazzina, non può davvero essere lei. -
Intervenne Grace.
- Abbiamo le mani
legate. Aveva i farmaci che hanno trovato nel corpo di Scarlet, ha il
movente... -
- Pare che abbia il
movente. Non ne abbiamo la certezza. - Intervenne Patrick.
- È stata
lei a dirci che non nutriva grande simpatia per Scarlet. -
Replicò Teresa.
- Mentiva. Quale
assassino dice di essere in cattivi rapporti con la vittima durante un
interrogatorio? - Replicò Patrick.
Il silenzio fu la
risposta alla sua domanda retorica, un silenzio tale da farlo sorridere
con aria trionfante.
- Anche se hai
ragione, non possiamo farci niente. Rigsby, telefona all'Accademia e
dì alla direttrice che abbiamo abbastanza prove per
incriminare la sua studentessa. Il capo si è raccomandato di
tenerla aggiornata sul caso. - Replicò Teresa.
Wayne si
guardò intorno per un momento, aprendo la bocca per
replicare e tentare di levarsi il problema di affrontare la tremenda
direttrice, ma al suo capo bastò uno sguardo per azzittirlo
e farlo sedere dietro la sua scrivania con la cornetta in mano.
La mattina successiva
il cielo turchese brillava su Sacramento e Teresa aveva appena fatto in
tempo ad appendere la giacca all'appendiabiti quando la porta del suo
ufficio si aprì.
- VanPelt, che ci fai
qui a quest'ora? -
- Sono arrivata
presto. - Disse Grace con aria distratta, avvicinandosi a lei mentre
leggeva il foglio che aveva tra le mani. - Guarda cos'ho trovato nel
fax. -
Il foglio che Grace le
stava tendendo era formato da molti bigliettini stropicciati, aperti e
posizionati in modo ordinato su un foglio più grande. Su
ogni pezzetto di carta diverse grafie femminili scrivevano frasi poco
carine rivolti a qualcuno.
- "Dovresti tornare
dalla fogna da cui sei uscita", "non meriti un posto in questa scuola",
"dovresti lustrare il pavimento su cui danziamo, non ballarci anche
tu"... Che diavolo è? - Domandò Teresa, irritata
dalla volgarità e dalla cattiveria di cui quei messaggi
erano pieni.
- Non ne ho idea, ma
dalla scrittura e dal tono dei messaggi direi che c'entra il caso alla
Vince Academy. - Disse Grace.
- Sì, mi
sembra chiaro. Ma mi chiedo chi sia a volerci dire queste cose... sono
sicuramente state scritte da persone diverse, ma per la stessa persona.
Quello che mi incuriosisce di più è il modo in
cui sono arrivate, quasi di nascosto. -
- Se guardi, capo, in
fondo al foglio c'è l'ora di ricezione e un numero di
telefono. Posso utilizzarlo per risalire al luogo da cui è
partito. -
- È
un'ottima idea, VanPelt. Vedi cosa riesci a fare. -
Grace riprese il
foglio e uscì chiudendosi la porta alle spalle, lasciando
Teresa da sola nel suo ufficio.
La notte prima aveva
dormito poco e aveva già i primi sentori del mal di testa
che l'avrebbe tormentata per l'intera giornata. Per di più
le poche ore di sonno di cui era riuscita a godere erano state
interrotte da continui ricordi dei suoi Natali sereni in famiglia, o
almeno di quei pochi che riusciva a ricordare. Si era svegliata di
umore pessimo e con una gran voglia di accelerare i giorni che
mancavano a Natale per poter evitare quella festa e continuare con il
tran tran della vita quotidiana senza dover affrontare lucine,
candeline e falsi buoni sentimenti.
Con un sospiro
rassegnato si avviò all'area relax per seguire le indagini
di Grace con una tazza di caffè rovente e molto amaro tra le
mani.
Quando il resto della
squadra fu comparso in ufficio, l'agente era riuscita ad ottenere
l'indirizzo del fax da cui era partito lo strano documento. Patrick si
era appena seduto col suo tè sul divano quando Teresa gli
comparve davanti.
- Forza, andiamo. -
Gli disse con un cenno del capo. - Dobbiamo andare a scoprire chi ha
mandato quel fax. -
- Quale fax? -
- Quello con i
bigliettini minacciosi, lo leggerai in macchina. -
- Ma non ho ancora
iniziato a bere il tè. -
- Lo potrai bere
più tardi. - Fu la risposta. - Forza. -
- Non puoi portarti
Cho? -
- Tu riesci a tirare
fuori alla gente cose che non ha intenzione di dire e credo che avremo
bisogno delle tue doti. Ora ti alzi o vuoi continuare a fare i
capricci? - Aggiunse Teresa, esasperata.
Patrick si
alzò, appoggiò il tè sulla scrivania e
seguì Teresa fuori con aria sconfortata.
- Mi devi un
tè. - Furono le sue uniche parole.
Il quartiere da cui
era partito il fax era una delle tante periferie mediocri che
circondano ogni grande città. Le vie erano ordinate e pulite
ma tutte stranamente uguali, i palazzi si differenziavano solo per i
diversi colori di cui erano tinteggiati. La gente si affaccendava per
le vie senza fermarsi troppo a chiacchierare e non c'era neanche
l'ombra di un negozio.
- Dove stiamo andando?
-
- Copisteria Printable
di Hugh Vault, 827 Washington Road. È da lì che
è partito il fax. -
Il consulente aveva
ancora tra le mani una copia del foglio ricevuto via fax: lo aveva
fissato per lunghi minuti con una ruga profonda tra le sopracciglia,
cercando di leggere in quel pezzo di carta tutto quello che si poteva
capire dei suoi autori.
- Eccoci arrivati. -
Disse Teresa, fermando l'auto.
Al di là
del marciapiede stavano due grandi vetrine anonime su cui era stata
applicata una scritta adesiva che riportava il nome della copisteria e
la gamma di servizi che il negozio offriva. Teresa e Patrick entrarono
e il tintinnio del campanello sopra la porta annunciò il
loro arrivo al proprietario, uno uomo alto e allampanato con pochi
capelli e la schiena curva di chi ha trascorso tutta la vita chino su
una scrivania. Si avvicinò a loro dall'altra parte del lungo
bancone che impediva ai clienti di girare tra le molte macchine da
stampa che occupavano la sala, appoggiò i gomiti al tavolo e
si allungò verso i due con un sorriso finto e incolore.
- Posso esservi utili?
- La sua voce, sottile e viscida, era più untuosa dei suoi
occhietti vitrei, che non avevano lasciato per un attimo la figura
femminile che aveva varcato la soglia del suo negozio.
- Cerchiamo il signor
Vault. -
- L'avete appena
trovato. E con chi, di grazia, ho l'onore di parlare? - Disse il
proprietario, lanciando uno sguardo poco amichevole all'uomo comparso
alle spalle della ragazza.
- Agente Lisbon, CBI,
lui è Patrick Jane. Vorremmo farle qualche domanda a
proposito di questo fax. - Disse Teresa senza battere ciglio,
porgendogli la copia del documento.
L'uomo la prese tra
due dita e scosse la testa.
- Non mi dice niente,
miss. - Disse restituendolo a Teresa. - Ma se posso compiacervi in
altro modo... -
- Lo guardi meglio. -
Disse di nuovo l'agente, spingendolo di nuovo sotto il suo naso
affilato. - È stato mandato ieri sera alle 21 da questo
posto. -
- Può
darsi. Non tengo d'occhio tutti i clienti e di sicuro non mi curo di
cosa mi danno da copiare. Basta che mi paghino. -
- Ci pensi bene. Sono
certa che non sono molte le persone che passano all'ora della chiusura.
- Lo rimbeccò Teresa.
L'uomo la
guardò con un sorrisetto lascivo e si umettò le
labbra prima di parlare.
- Può
darsi. Forse qualcosa mi sta venendo in mente... ma è un
ricordo molto sfocato. -
- Non si faccia
pregare, signor Vault, o la incrimino per intralcio alle indagini. -
- Non me lo dica con
tanto fervore, signorina... o potrei continuare a tacere solo per
lasciarmi ammanettare da lei. -
La risatina di Patrick
alle sue spalle fu la goccia che fece traboccare il vaso: tra gestori
pervertiti, odore di polvere e cerchio alla testa che iniziava a farsi
feroce, l'ultima cosa di cui Teresa sentiva di aver bisogno erano le
allusioni del suo consulente: lo fulminò con uno sguardo
colmo di tanta ferocia che Patrick tornò immediatamente
serio.
- Se non ha niente da
dirci, signor Vault, togliamo il disturbo. - Disse Teresa, allungando
una mano per afferrare di nuovo la copia del fax.
La mano fredda
dell'uomo si posò sulla sua con incredibile
rapidità.
- Che modi. Se me lo
chiede con un po' più di gentilezza potrei anche ricordare
qualcosa. -
Stringendo la mano sul
foglio e allontanandosi dal tocco dell'uomo come se fosse stata colpita
da una scarica elettrica, Teresa si voltò e uscì
dal negozio in una frazione di secondo, sbattendosi la porta alle
spalle con ferocia.
Raggiunse a grandi
passi l'automobile e si fermò contro la portiera, respirando
a fondo.
Era arrabbiata,
irritata e frustrata all'idea di non essere riuscita a combinare
niente... ma soprattutto era furibonda per non essere riuscita ad
affrontare la cosa con la sua solita freddezza.
- Tutto bene? -
La voce di Patrick
alle sue spalle la fece trasalire e l'agente si voltò verso
di lui pronta a una sfuriata davanti al suo sguardo malizioso o al
sorriso divertito sempre dipinto sul suo volto. Ma il viso del suo
consulente tradiva solo sincero interesse e velata preoccupazione.
- Che tipo orribile. -
Fu la risposta di Teresa.
- Non essere
così drastica. Ti trovava carina, avresti dovuto sentirti
lusingata. -
Lo sguardo di fuoco di
Teresa fu una risposta che non aveva bisogno di altre parole.
- Oho, non ti
scaldare! E comunque qualcosa di buono l'abbiamo tirato fuori: dopo la
tua plateale uscita di cena aveva tanta voglia di vedermi sparire da
dirmi quello che volevamo sapere. -
- E quindi? -
- E quindi la nostra
mittente misteriosa è una donna sulla quarantina, che
probabilmente abita nei dintorni perchè la vede passare
molto spesso presto alla mattina e verso l'ora di chiusura. Sai cosa
significa questo? -
- Che basta trovare
tra i dipendenti dell'Accademia chi abita qui? -
- Oltre che carina sei
anche intelligente. Pensi che dovremmo rientrare a dirglielo? - Disse
Patrick allegramente.
- Va' al diavolo,
Jane. - Sbottò Teresa salendo in macchina e prendendo il
telefonino per avvertire Grace dello sviluppo delle indagini.
Quando arrivarono al
CBI, la ragazza aveva già controllato due volte l'intero
archivio di dipendenti della Vince Academy senza risultati.
- Non c'è
nessuno che abita da quelle parti. - Aveva spiegato - Ho controllato
gli indirizzi fino a due fermate di autobus di distanza dal quartiere,
ma non ho trovato niente. Cameriere, inservienti, insegnanti... ho
controllato perfino le donne delle pulizie e le giardiniere, che pure
sono dipendenti di altre agenzie: abitano tutti in altri quartieri
della città. -
- Praticamente siamo a
un punto morto. - Disse Teresa con un sospiro.
Fissava il pannello su
cui erano appuntate la foto di Scarlet, il referto del medico legale e
gli appunti sulle altre prove che avevano trovato cercando di capire
quale potesse essere il passo successivo, il dettaglio che le era
sfuggito e da cui si poteva ripartire per avere qualche nuovo indizio.
Era completamente
immersa nei suoi pensieri, riflettendo su come si potesse arrivare a
uccidere una coetanea solo per invidia, quando Kimball le si
avvicinò.
- Capo, la signorina
Vince ti aspetta nel tuo ufficio. - Disse.
- Chi? -
- La direttrice. L'hai
chiamata tu? -
- No. Jane? - Disse
Teresa, domandandosi se fosse l'ennesimo scherzo di cattivo gusto del
suo consulente.
- Perchè
quando succede qualcosa di inaspettato ti rivolgi sempre a me? -
- Mah, non so. Secondo
te? - Rispose Teresa, avviandosi verso il suo ufficio per scoprire cosa
volesse l'austera direttrice.
Quando
entrò, vide che miss Vince era in piedi davanti alla sua
scrivania accanto ad Elizabeth, seduta su una sedia con gli occhi
bassi. Quando l'agente comparve sulla porta la guardò con
una evidente aria di sollievo dipinta sul viso.
- Ho saputo cosa
è emerso dalle indagini, agente Lisbon, e voglio che
Elizabeth sia immediatamente allontanata dalla mia scuola. -
- Elizabeth
è solo una sospettata, non è ancora la
colpevole... -
- Non mi importa! Lei
non sa cosa significa per il buon nome della scuola avere una presunta
omicida tra le studentesse! Metterei in pericolo tutte le altre, non
avrei più iscritte, tutto quello che la Vince Academy
rappresenta sarebbe irrimediabilmente compromesso! -
- Non abbiamo ancora
le prove per dire che è stata lei. E poi credo che in gioco
ci sia molto più del buon nome della sua scuola: non
possiamo trattenere senza motivo una ragazza di sedici anni. -
- Il motivo
c'è ed è più che valido. Meglio un
innocente in manette che un colpevole a piede libero! -
- Le ho già
detto che non siamo certi che sia lei la colpevole! -
- Nessun altra delle
mie studentesse avrebbe potuto fare una cosa del genere! -
- E perchè
lei dovrebbe essere diversa dalle altre? -
La direttrice
fulminò la ragazza al suo fianco con gli occhi, poi si
sistemò gli occhiali sul naso e sentenziò:
- Non importa. Quello
che è veramente importante ora è tenerla lontana
dalle altre studentesse. Mi auguro che non vi siano altri contrattempi
che impediscano la chiusura dell'indagine. La questione va archiviata
il prima possibile. -
- L'indagine
verrà chiusa nel momento in cui avremo tutto il necessario.
- Rispose Teresa, fredda.
- Avete l'arma, avete
il movente, avete il colpevole... cosa vi manca? - Esclamò
spazientita la direttrice.
- Scoprire cosa ci
manca è un nostro compito, miss Vince. - Sbottò
Teresa. - Ora, se non le dispiace, vorrei tornare a lavorare. Se toglie
il disturbo... -
Irrigidendosi, la
direttrice strinse a sè borsetta e soprabito.
- Me ne vado
immediatamente. Ma lei non la riporto a scuola. Da ora in poi
è sotto la vostra responsabilità. - Disse,
scoccando alla ragazzina uno sguardo glaciale.
Senza dare il tempo di
replicare all'agente, miss Vince uscì dall'ufficio
chiudendosi con violenza la porta alle spalle.
Imbarazzata, Teresa si
rivolse ad Elizabeth: proprio non sapeva come comportarsi.
- Non preoccuparti,
Elizabeth. Scopriremo il colpevole. - Le disse con un sorriso
rassicurante. - Vuoi un tè? O magari qualcosa da mangiare? -
La ragazzina scosse la
testa.
- Possiamo
accompagnarti dalla tua famiglia? -
Elizabeth scosse
ancora la testa.
- No?
Perchè no? -
- Non possono
prendersi cura di me. -
- Sono occupati? -
- Sì. -
- C'è
qualcuno da cui possiamo portarti? -
- No. -
- Non puoi rimanere
qui. -
- Voglio tornare
all'Accademia. -
Con un sospiro di
sollievo, Teresa accennò a un sorriso.
- La tua direttrice
non potrà impedirti di tornare, non finchè sei
innocente. -
- Non adesso. - Disse
Elizabeth, alzando gli occhi verso Teresa e guardandola con una
determinazione e una vivacità che non aveva mai tirato fuori
prima. - Voglio tornarci quando non avrò più la
colpa: non sono stata io. - Disse.
A quelle parole,
così piene di convinzione, Teresa non ebbe dubbi: Elizabeth
era sicuramente innocente. La voglia di proteggere quella ragazzina
incastrata in un caso con cui non aveva niente a che fare si
moltiplicò al pensiero di avere finalmente occasione di dare
alla direttrice Vince quello che si meritava: una buona dose di sana
umiltà.
- E secondo te chi
è stato? - Domandò Teresa, sedendosi accanto a
lei e sorridendole.
Elizabeth
abbassò di nuovo gli occhi, posandoli sulle sue ballerine
azzurre.
- Elizabeth. -
Tentò di nuovo l'agente. - Possiamo aiutarti. Ma se sai
qualcosa devi dirmelo. Puoi fidarti di me. -
La ragazzina
però non rispose, nè alzò gli occhi.
Rimase immobile, con lo sguardo fisso a terra e le mani intrecciate in
grembo. Dopo qualche istante Teresa si alzò e raggiunse gli
altri nell'open space: non appena ebbe annunciato loro che Elizabeth
Nardi era nel suo ufficio, chiusa in un mutismo ostinato dopo essersi
dichiarata innocente, Patrick si alzò in un balzo dal divano.
- Dove stai andando? -
- Preparo un
tè per la nostra ospite. -
- Non lo vuole. -
- Scherzi? Nessuno
rifiuta un tè! - Gridò lui, avviandosi verso la
sala relax.
- Jane! - Lo
richiamò Teresa, più per abitudine che per farsi
ascoltare: sapeva alla perfezione cos'aveva in mente il suo consulente,
e sapeva altrettanto bene che non c'era modo di fargli cambiare idea.
- Facciamo il punto. -
Disse, appoggiandosi al tavolo e incrociando le braccia sul petto. -
Scarlet si alza alle sei e va in auditorium. Mentre prova beve dalla
sua bottiglietta, che qualcuno ha riempito di sonnifero. L'assassino la
raggiunge quando è priva di sensi, la uccide e simula il suo
suicidio. -
- Accanto a tutto
questo abbiamo il registro della farmacia che dice che i sonniferi sono
di Elizabeth e un fax di bigliettini minatori mandato da una copisteria
periferica alle ventuno, da una donna apparentemente estranea alla vita
dell'Accademia. - Aggiunse Grace.
- Giusto. Come
facciamo a collegare la prima parte dei fatti alla seconda? -
- Se riteniamo che sia
stata Elizabeth a ricevere quei bigliettini, possiamo dire che aveva un
movente per uccidere Scarlet. - Propose Wayne.
Teresa gli
lanciò un'occhiataccia spontanea.
- Questa versione dei
fatti l'abbiamo già valutata. Se la escludessimo e
provassimo a pensare ad altro? Le indagini a senso unico non portano
mai a niente. -
- C'è una
cosa che non mi convince. - Disse Kimball, allontanandosi dalla
scrivania e rileggendo per l'ennesima volta il rapporto sulla scena del
crimine. - Come ha fatto l'assassino a mettere il sonnifero nella
bottiglietta di Scarlet? -
- Buona domanda, Cho.
- Disse Teresa, sollevata all'idea di avere un appiglio per continuare
le indagini. - Tu e VanPelt andate a fare un sopralluogo all'Accademia,
controllate se ci sono telecamere di sicurezza, sorveglianti o cose del
genere. VanPelt, tu cerca di procurarti la lista delle camere, magari
salta fuori qualcosa di interessante. -
- Certo, capo. -
- Io vado a vedere
cosa sta combinando Jane. - Disse Teresa.
Prima di entrare nel
suo ufficio, però, si fermò a sbirciare dalla
veneziana. Patrick ed Elizabeth erano seduti sul divanetto con due
tè in mano ed Elizabeth parlava a ruota libera,
animatamente, con gli occhi accesi dalla stessa vivacità che
lei aveva visto brillare per un istante quando si era dichiarata
innocente.
Trattenendo un
sorriso, Teresa decise che era il momento di prendersi un lungo attimo
di relax, di godersi un buon caffè e di lasciar lavorare il
suo consulente, per una volta.
Vi
annuncio - magno cum gaudio - che il caso è chiuso!
Sono
riuscita a finire questa storia in cui mi sono impelagata mio malgrado,
ma
mi sento più euforica che mai...
Perdonate
il ritardo nell'aggiornare, ma ho avuto due esami in due settimane
e
i libri di sociologia e diritto avevano la capacità di
polverizzare il
mio estro creativo.
Mi
auguro che l'indagine vi stia coinvolgendo e che abbiate già
qualche sospetto...
Al
prossimo capitolo (stavolta presto, davvero)
Tanti
baci a tutti, grazie per esservi fermati a leggere!
Flora
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Capitolo 6 *** Sei. ***
Era tarda
sera, quando Wayne e Kimball tornarono dall'Accademia.
Patrick era seduto, molto pensieroso, sul divano; Grace aveva appena
ottenuto la lista delle studentesse divisa per camera e piano e Teresa
era riuscita a convincere Elizabeth che non c'era niente di male
nell'addormentarsi al CBI, anche se significava dormire nella camera di
sicurezza vuota.
- Abbiamo una notizia
buona e una cattiva. - Disse Wayne. - Quale vuoi sentire prima? -
- Cominciamo con
quella buona. -
"Che in una giornata
come questa ne ho proprio bisogno." Pensò cupamente.
- Ci sono due
dipendenti che controllano ogni piano, facendo una ronda diurna e
piantonando i corridoi tra le ventuno e le sei. E il distributore
automatico delle bottigliette d'acqua è a pianterreno,
accanto alle palestre: bisogna per forza passare dalle scale, su cui
sono installate delle telecamere. -
- E quella cattiva? -
- È che i
due dipendenti in servizio quella sera sono più che certi di
aver visto solo Scarlet, andare e venire dalla sua stanza. Ricordano
che dopocena ha portato la bottiglietta nella sua stanza, come sempre,
e poi è tornata nella sala relax fino all'ora del
coprifuoco. -
- E le registrazioni
confermano la loro versione: l'unica ad aver preso dell'acqua e ad
essere salita al piano dei dormitori è stata Scarlet. -
Aggiunse Kimball.
- È venuto
fuori qualcosa di interessante dalla lista? - Domandò Teresa
a Grace.
- No, capo. Scarlet
era in camera da sola... era l'unica in tutta l'Accademia. Una specie
di riconoscimento per la studentessa migliore. - Rispose la ragazza,
scorrendo un'altra volta con gli occhi la lista di nomi che aveva in
mano.
- Posso dare
un'occhiata a quei fogli? - Domandò improvvisamente Patrick,
prendendo il blocco dalle mani di Grace e tornando a sprofondare nel
divano e nei suoi pensieri senza dire altro.
- Idee? -
Domandò Teresa, rivolta a lui.
Per tutta risposta,
Patrick continuò a leggere.
- Jane. - Quando
l'uomo alzò gli occhi, continuò. - Idee? -
- No. Nessuna. -
- Hai passato mezzo
pomeriggio a parlare con Elizabeh e non hai idee? -
- Non è
nelle conversazioni questo modo che mi vengono le idee. Le idee vengono
quando si sta in silenzio e si riflette. -
Spazientita, Teresa
alzò gli occhi al cielo.
La mattina successiva,
Patrick aprì la porta dell'ufficio di Teresa prima ancora
che lei avesse potuto sedersi al computer per dare un'occhiata alla
posta elettronica.
- Vieni. - Disse.
- Dove? -
- A comprare i regali
di Natale. - Rispose Patrick, mentre sulle labbra nascondeva un sorriso
che gli faceva luccicare gli occhi azzurri.
L'occhiata che Teresa
gli rivolse in risposta fu più eloquente di molte parole.
- Avanti, non essere
così fredda. È bello fare i regali! -
Replicò Patrick allegramente.
- È una
stupida convenzione senza significato. Il Natale non è in
queste sciocchezze. -
- Se tu riuscissi a
vedere oltre al semplice pacchetto incartato comprato per
formalità, ti renderesti conto che è un modo per
dire alle persone che vuoi loro bene. -
- Non è
comprandogli un frullatore nuovo o un'orrenda camicia che glielo dici.
E poi, non c'è nessun bisogno di dirglielo: se vuoi bene una
persona lei se ne rende conto anche senza regali. -
- Certamente, ma che
male c'è a volerla vedere sorridere per la contentezza e la
sorpresa davanti a un pacchetto? -
- Devo lavorare, Jane.
Se hai qualcosa di interessante da dire, bene. Altrimenti i discorsi in
stile Canto di Natale li possiamo rimandare a un altro momento. -
- D'accordo, niente
discorsi natalizi. - Si fermò un istante, poi riprese con un
sorriso - Ho risolto il caso. -
- Hai risolto... ma
che diavolo stai dicendo? -
- Non ti fidi? -
- Lo sai che non mi
fido di te. - Rispose Teresa, guardandolo con le sopracciglia sollevate.
- So che lo dici solo
perchè lo devi fare. - Rispose Patrick con un sorrisetto,
spalancando la porta e facendole cenno di uscire.
Quando
arrivò nell'open space, Teresa si ritrovò davanti
a un terzetto di persone assolutamente inaspettato: Susan Fontaine,
assieme a una donna con tanti preziosi addosso da sembrare lo sponsor
di una gioielleria e un uomo alto e brizzolato in un completo elegante.
Quando Teresa si avvicinò a loro la assalirono di domande e
commenti, tutti fatti con la stessa voce acuta e con l'aria di chi non
è abituato ad aspettare.
- Adesso basta! -
Esclamò Teresa con decisione, facendo calare il silenzio. -
Chi siete? -
- Come chi siamo? Ci
ha convocati lei e non sa chi siamo? - Esclamò la donna.
- Lisbon - intervenne
Patrick precipitosamente, mettendosi in mezzo prima che la situazione
degenerasse - permettimi di presentarti Glory e Mitchell Fontaine, i
genitori di Scarlet e Susan. -
- Agente Lisbon. - Si
presentò Teresa freddamente, stringendo loro le mani.
- Siamo stati
convocati qui ma non ci è stato detto il motivo.
Può illuminarci? Siamo entrambi molto impegnati, mio marito
ha un aereo fra un'ora e io sono attesa al consiglio di amministrazione
dello Yacht Club. - Disse Glory Fontaine, aggiustando un ciuffo ribelle
del suo caschetto dorato come se fosse stata una cosa assolutamente
imprescindibile.
- Volevamo darvi
qualche aggiornamento sulle indagini: sono certo che l'agente Cho e
l'agente Rigsby potranno rispondere a tutte le vostre domande. - Disse
Patrick.
Teresa colse lo
sguardo complice che il suo consulente le aveva lanciato e si
voltò, attirando l'attenzione di un Wayne molto assonnato
che compariva in quel momento in ufficio.
- Rigsby, porta con te
i signori Fontaine e aggiornali sul caso. - Disse Teresa, con un tono
che non ammetteva repliche. - Con discrezione. - Aggiunse.
Susan Fontaine fece
per seguire i genitori, ma Patrick la fermò.
- Non è
necessario che vada anche tu, Susan. È una questione
piuttosto delicata, se posso permettermi... E tu e tua sorella eravate
così legate, sarebbe una sofferenza inutile. Mentre
aspettiamo posso offrirti un tè? -
- Odio il
tè. - Fu la risposta della ragazzina.
- Un caffè,
magari? -
Susan si strinse nelle
spalle e Patrick le fece strada mentre, con un impercettibile cenno del
capo, faceva segno a Teresa di seguirli. La donna non si fece molte
domande - quando la situazione era in mano a quel pazzo di un
consulente non si poteva sperare di comprenderla - e si
accodò a loro verso l'area relax.
Lì, seduta
ad uno dei tavolini, con l'aria di chi aveva dormito poco e male e una
tazza di tè fumante tra le dita, stava Elizabeth. Nel
momento in cui gli sguardi di Susan ed Elizabeth si incrociarono, si
potè quasi percepire il gelo calare nella sala e l'aria
crepitare di tensione: lo sguardo feroce che le due ragazze si
scambiarono sembrò fermare il tempo.
- Non vi salutate? -
Domandò Patrick - Eppure vi conoscete bene, no? Sai, Lisbon,
Elizabeth e Susan sono compagne di stanza. - Aggiunse a beneficio di
Teresa, parlando con leggerezza come se stesse dicendo una cosa
assolutamente senza importanza.
- Non per questo ci
piacciamo. - Sibilò Elizabeth.
- Vero. - Disse Susan.
- Però
dovresti ringraziarla. - Disse Patrick, riempiendo un bicchiere dalla
caraffa del caffè e spingendolo davanti a Susan. -
Perchè è grazie a lei se tua sorella è
morta no? -
Susan prese un sorso
dal bicchiere e fulminò Elizabeth.
- Sì. E per
questo la odio ancora di più. -
- Aha. Risposta
sbagliata. - Disse Patrick, mentre sul suo viso si dipingeva un'aria di
trionfo. -
Perchè sei tu la colpevole. -
Teresa spostava il suo
sguardo da Patrick a Susan a Elizabeth, con l'impressione di ritrovarsi
davanti a un film a cui non poteva prendere parte, ma solo assistere
impotente. E per di più - anche se non l'avrebbe mai ammesso
nemmeno a sè stessa - non ci stava capendo niente.
- Come le viene in
mente? - Esclamò Susan, alterandosi. - Secondo lei io potrei
aver ucciso mia sorella? La mia Scarlet? -
- Esattamente.
Ripensaci: quando ho detto "è grazie a lei se tua sorella
è morta", la tua mente ha registrato esattamente queste
parole. E ti è venuto spontaneo dire la verità:
cioè che sì, è stato grazie a lei. -
Disse Patrick.
Presa in contropiede,
Susan aprì la bocca per parlare, poi la richiuse e poi la
riaprì. Infine fulminò Patrick con un tale
sguardo di ghiaccio che l'aria trionfante sul viso dell'uomo
traballò per un istante.
- Non ha prove. -
- Ed è qui
che ti sbagli. Il tuo piano era perfetto, assolutamente impeccabile.
Rubare i sonniferi alla tua compagna di stanza un po' alla volta, fino
ad avere una dose sufficiente per intontire Scarlet e riuscire a
ucciderla. Fare la brava sorellina premurosa, offrendoti per portare la
bottiglietta di tua sorella in camera dopocena, prima delle sue prove
del mattino in cui sapevi che avrebbe bevuto molto e non ci sarebbe
stato nessuno in giro ad aiutarla. E ingannare quei sorveglianti
annoiati che non guardano troppo in faccia le studentesse e le
telecamere dev'essere stato uno scherzo, visto quanto vi somigliate. E
quella mattina sei scesa a colazione per prima, l'hai raggiunta,
strangolata e hai inscenato il suicidio. E poi sei andata a
servirtì di bacon è tè... anzi,
scusami, caffè - disse accennando al bicchiere che la
ragazza stringeva ancora tra le dita - senza batter ciglio. -
- Non so di cosa lei
stia parlando. - Disse Susan, ma a Teresa non sfuggirono le nocche
bianche della mano che stringeva la tazza. Il suo sguardo
sfuggì verso Patrick e i loro sguardi si incrociarono,
capendosi all'istante.
- Una sola cosa non
hai calcolato. Le scarpette da danza di Scarlet. Le abbiamo ritrovate e
sono certo che sono piene di tue impronte. - Aggiunse Patrick.
Il viso di Susan
impallidì per un istante, ma un momento dopo la ragazza era
tornata padrona di sè stessa.
- Lei mente. -
- Ne sei certa?
Perchè se vuoi possiamo mostrarti le scarpette. Sono nel
magazzino delle prove. -
Teresa
guardò il suo consulente aggrottando le sopracciglia: non
avevano mai ritrovato le ballerine di Scarlet e non c'era proprio
niente di simile, nel magazzino delle prove. A guardare l'uomo,
però, sembrava stesse proprio dicendo la verità.
- E... e chi ve le
avrebbe date, sentiamo? - Disse Susan, la cui voce vacillò
per un istante.
- Sua madre. - Disse
Patrick, indicando Elizabeth.
A quelle parole, gli
occhi di Teresa si spalancarono per lo stupore: era una risposta che
non si aspettava affatto. Elizabeth, seria e compita, non diceva nulla
e continuava a seguire la vicenda girando distrattamente il
tè ormai freddo.
- Sua... sua madre? -
- Esattamente.
Virginia Gui, la tuttofare della scuola. -
L'immagine di una
esile donna bruna riemerse nella mente di Teresa, assieme a un carrello
colmo di divise sporche. In effetti, nella lista dei dipendenti
controllata da Grace, non c'era nessuno che si chiamasse Virginia. E
lei e Patrick, la donnina di nome Virginia l'avevano vista bene: Teresa
ricordava ancora il suo sguardo spaventato quando aveva dovuto
scortarli fuori dalla scuola. L'occhio acuto del suo consulente non si
era fatto sfuggire quella piccola discrepanza.
- Ora ti starai
chiedendo come mai Elizabeth è riuscita ad accedere a quella
scuola così eccezionale, se sua madre lavora lì
come cameriera ed è evidente che non abbia abbastanza soldi
per pagare la retta. Ma la risposta è... - Patrick si
voltò e con un gesto molto plateale invitò
Elizabeth a parlare.
- Mio padre
è tuo padre. - Rispose la ragazza con semplicità.
Susan si
alzò, e stavolta senza grazia: fece rovesciare il
caffè sul tavolino, arretrando lentamente e guardando
Elizabeth con occhi sbarrati.
- Scarlet l'aveva
capito. Mi aveva riconosciuto nella foto di una bambina in fasce che
nostro padre teneva nel palmare. Per questo ha iniziato a prendermi in
giro. Non sopportava l'idea che il suo perfetto e impeccabile
papà pieno di soldi avesse una figlia segreta che manteneva
e di cui si occupava di nascosto da sedici anni. - Continuò
Elizabeth. - Come se fosse colpa mia. -
Susan però
non ascoltò l'intero discorso della sorellastra,
perchè iniziò a gridare:
- Sei una bugiarda!
Siete tutti dei bugiardi! Mio padre non può essere andato a
letto con quello sgorbio della serva! E tu... tu non puoi essere mia
sorella! -
- Susan, calmati
adesso. - Tentò Patrick.
- Avrei dovuto
uccidere te! Ho tolto di mezzo Scarlet, che mi rubava la scena, gli
onori e l'amore dei miei genitori... e ho lasciato in vita una bastarda
che mi soffia le parti migliori nei saggi del secondo anno e non mi
passa nemmeno un dannato compito in classe! Ho ucciso la primadonna
sbagliata! -
A quella confessione
gridata tra le lacrime seguì un imbarazzante silenzio.
Teresa non sorrideva e
il suo sguardo serio era posato sulle guance rosse di Susan Fontaine e
sui suoi occhi pieni di lacrime, che lampeggiavano in direzione di una
Elizabeth molto seria, che ricambiava il suo sguardo con una
determinazione e una fierezza invidiabili. Dopo qualche istante
l'agente si rese conto che spettava a lei rompere il silenzio.
- Susan... -
Iniziò, senza riuscire a capire cosa le volesse dire.
Susan si
voltò verso di lei e scoppiò a piangere in sonori
singhiozzi, in un modo così infantile che era praticamente
impossibile immaginarla mentre soffocava a morte sua sorella. Teresa le
si avvicinò lentamente, posandole una mano sulla schiena e
invitandola a sedersi. In quel momento Grace apparve nell'area relax.
- VanPelt, raccogli la
confessione di Susan e prepara le carte per scagionare Elizabeth. -
Grace, del tutto
impreparata a quella richiesta, fissò con aria confusa le
due ragazze sedute davanti alle loro tazze e annuì
meccanicamente.
- Subito, capo. -
Mentre uscivano dall'area
relax, Teresa si voltò verso di Patrick.
- Come diavolo hai
fatto a capirlo? -
- Gli artisti non
svelano mai i trucchi del mestiere. -
Teresa si
fermò, guardandolo sollevando le sopracciglia, e l'uomo
cedette.
- Le trecce. Nessuna
ragazza nata e cresciuta nella California d'oro di chi si
può permettere quell'Accademia porterebbe delle trecce.
Lì ho capito che c'era qualcosa che non tornava... e poi il
suo modo di fare, era una ribelle che cercava di non dare a vedere il
fuoco che le ardeva dentro. Per il resto, ho fatto due più
due. -
- Certo, la fai facile
tu. E ringrazia il Cielo che il tuo piano abbia funzionato. Non era per
niente scontato che Susan confessasse davanti ad un caffè,
solo per la presenza della sua compagna di stanza che detestava e alla
luce di qualche segreto di famiglia. -
- Io non avevo dubbi.
I miei piani funzionano sempre. -
- Sì,
certo. -
- Non vuoi darmi
soddisfazione, per questo mi rispondi così. Ma se ci pensi
un momento, ti renderai conto che ho ragione. -
Per tutta risposta
Teresa gli lanciò uno sguardo di fuoco. Il consulente le
sorrise amabilmente prima di dire:
- Penso che dovremmo
riaccompagnare Elizabeth a scuola. -
Teresa
sollevò le sopracciglia, senza capire.
- Lei non vede l'ora
di tornarci e credo che tu voglia dire di persona alla direttrice che
è accusata di complicità in omicidio. -
Teresa
sbattè le ciglia, con un'aria così graziosamente
confusa che Patrick non potè trattenersi dal sorridere di
nuovo.
- Come, scusa? -
- Pensaci
un minuto. Che cosa faresti tu se la figlia del più ricco
dei tuoi finanziatori venisse da te piangente confessandoti di aver
ucciso la tua miglior studentessa... e avessi tra le alunne una ragazza
che nessuno sopporta e che tu trovi infanghi, con la sua sola presenza,
il buon nome della tua Accademia? -
- Getterei su di lei
la colpa. - Disse Teresa, meccanicamente, rendendosi conto solo un
minuto dopo di quello che aveva detto. - Ma certo. -
Patrick le
lanciò un'occhiata di approvazione.
- Allora possiamo
riaccompagnarla a scuola? -
- Vado a prendere la
giacca. - Fu la risposta, pronunciata con malcelato tono euforico.
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Capitolo 7 *** Sette. ***
Davanti al
portone della Vince Academy stavano una direttrice molto irritata e una
donnina bruna vestita di azzurro che si torceva le mani.
Teresa
parcheggiò e Elizabeth compì il tragitto tra
l'automobile e le braccia della donna in una frazione di secondo,
neanche avesse avuto le ali. Teresa e Patrick si scambiarono uno
sguardo eloquente: a volte fare quel lavoro era decisamente bello.
Teresa si
avvicinò alla direttrice e alzò gli occhi verso
di lei, fissandola con fervore nonostante dovesse guardarla dal basso
verso l'alto.
- Abbiamo chiuso il
caso, miss Vince. -
- Ho saputo. - Rispose
freddamente la donna. - Non avrei mai immaginato un esito simile. -
- No, certo. Lei
sperava che tutti cascassimo nel suo meschino tentativo di far cadere
la colpa del delitto su una studentessa innocente. - Intervenne Patrick.
- Io non le
permetto... - Disse la donna, alzando un indice in tono ammonitore.
- No, signorina Vince.
Sono io
che non le permetto di usare questo tono con il mio consulente.
Sarà indagata per complicità in omicidio e
intralcio alle indagini. - Disse Teresa.
- Speriamo che questo
non vada a discapito del buon nome della scuola, naturalmente. -
Completò Patrick, dando voce ai pensieri di Teresa con un
sorriso sornione.
La signorina Vince,
pallida e rigida, aveva le labbra strette in una espressione di
disappunto e gli occhi che lanciavano lampi da dietro le lenti. Teresa sostenne il suo sguardo
fino all'ultimo, quando la direttrice abbassò gli occhi,
fulminò madre e figlia con il pensiero e rientrò
nell'Accademia sbattendosi violentemente la porta alle spalle senza
nemmeno salutare. Teresa
sorrise tra sè, fiera di aver potuto ottenere giustizia, e
fece per allontanarsi. In quel momento Virginia Nardi sciolse
dall'abbraccio Elizabeth e si avvicinò all'agente,
stringendole una mano tra le sue, minute e ruvide.
- Non ha idea di
quanto le sia grata, agente. - Disse - La mia bambina è
tutto quello che conta, per me. Non so cosa farei, senza di lei. -
Allungò un
braccio e si strinse la figlia al cuore.
- Noi siamo una
famiglia. Io e te, mamma. - Disse Elizabeth, ricambiando l'abbraccio. -
E non mi importa cosa i Fontaine potranno offrirmi adesso che sono
rimasti senza pupattole da viziare: io voglio rimanere con te. -
Madre e figlia si
guardarono con gli occhi colmi di un tale affetto che a Teresa si
strinse il cuore: c'era più amore in quell'unica occhiata
che in tutti i pacchetti di Natale che avevano occupato la sua calza
negli ultimi venti Natali.
- Grazie, grazie
davvero. - Disse Virginia con trasposto.
- Abbiamo fatto solo
il nostro mestiere. - Disse Teresa, a disagio. - Stia bene. -
- Anche lei, agente. -
Teresa e Patrick erano
già arrivati alla macchina quando la voce di Elizabeth
attirò la loro attenzione:
- Buon Natale! -
Con un groppo in gola,
Teresa non ebbe il coraggio nemmeno di tentare un sorriso. Si
voltò ed entrò in macchina il più
velocemente possibile, chiudendosi bruscamente la portiera alle spalle.
Patrick alzò un braccio in segno di saluto e poi si sedette
in macchina.
- Potevi anche
ricambiare gli auguri. -
- Quali auguri? -
- Non sei capace di
mentire, te l'ho già detto. -
- Non me ne sono
accorta, davvero. Ci hanno fatto gli auguri? -
- Certo. Potresti
farmi scendere al prossimo semaforo? -
- Perchè? -
- Ho voglia di fare
due passi. -
- Jane. -
- Davvero,
è una così bella serata che è un
peccato andare subito a casa. E ti devo ancora comprare un regalo per
Natale. -
- Non voglio ricevere
nessun regalo. Ne abbiamo già parlato. -
- Tu non lo vuoi
ricevere, ma io te lo voglio fare. -
E, approfittando del
semaforo rosso che aveva costretto Teresa a fermarsi, Patrick
aprì la portiera e scese, sparendo tra la folla che si
affrettava sul marciapiede prima che Teresa potesse dire o fare
qualunque cosa.
Mentre viaggiava da
sola nell'automobile silenziosa, Teresa si ritrovò a
combattere contro i suoi stessi pensieri. La mente la riportava di
continuo alla famiglia di Scarlet e Susan, che aveva tutto ma aveva
perso entrambe le figlie nel giro di una settimana, per di
più l'una per colpa dell'altra. E poi pensava a Elizabeth e
sua madre, alle difficoltà che le avevano legate e a quella
frase di Elizabeth.
"Noi siamo una
famiglia. Io e te, mamma."
Riportare quella
ragazza a sua madre era stato uno dei regali più belli che
avesse mai fatto, pensò Teresa con un vago sorriso.
Chissà quante bambine vivevano in quella scuola e non
avevano occasione di vedere mai i loro genitori.
Dieci minuti
più tardi stava parcheggiando al CBI, dove l'attendevano i
fascicoli degli ultimi dieci casi del mese, ancora da vistare e
archiviare. Mentre spegneva l'auto, la sua attenzione fu attirata da un
angolino bianco che spuntava dal cassetto del cruscotto.
- Ma che... -
Mormorò tra sè, senza capire cosa potesse essere.
Si allungò
e aprì la ribaltina, afferrando il foglio piegato in quattro
prima di vederlo atterrare sul tappetino.
Lo aprì e
la luce dorata dei lampioni appena accesi inondò il disegno,
facendo scintillare d'oro la strada gialla, l'abito rosa della fata e i
ricci biondi del mago vestito di verde. Gli occhi le si riempirono di
lacrime e dovette posare una mano sulla bocca per impedire alle labbra
di tremare: cosa ci faceva il disegno di Dorothy nel cruscotto? L'aveva
lasciato sulla sua scrivania al CBI, ne era certa: era ben nascosto
sotto altre carte, per impedire agli occhi di chiunque - e ai propri -
di vederlo.
Forse la giornata
faticosa appena trascorsa, forse il commovente incontro tra Elizabeth e
sua madre, forse il sentimentale mix tra la luce d'oro dei lampioni e
la filodiffusione di carole di Natale che si spandeva nell'aria
tiepida... ma in quel momento Teresa decise di non combattere contro i
suoi sentimenti.
Posò il
disegno sul sedile del passeggero e rimise in moto l'automobile,
diretta alla casa famiglia.
Mezz'ora
più tardi Teresa aspettava davanti alla porta, impedendosi
di dare retta alla insistente voce che nella sua mente le gridava di
tornare indietro e non cedere alla voglia irrefrenabile di
riabbracciare quella bambina.
Quando la porta si
aprì la luce chiara del corridoio disegnò un
rettangolo d'oro sull'asfalto e Claire Andrews, in scamiciato scozzese
e golfino rosso, le sorrise luminosa.
- Miss Lisbon,
buonasera! - Esclamò allegramente.
- Buonasera. Senta, so
di non aver telefonato per avvertire ma... -
- Non si preoccupi,
non si preoccupi. Venga, venga pure. - Le disse allegramente
l'assistente sociale, facendole cenno di entrare. - Quando il suo
collega mi ha telefonato non mi aveva specificato quando sarebbe
passata, ma immaginavo che l'avrebbe fatto a breve, così mi
sono affrettata a preparare tutto! A Dorothy non ho ancora detto nulla,
volevo essere certa, sa... -
Teresa seguiva il
fiume di parole della ragazza capendone solo metà,
più confusa che mai.
- Il mio collega? -
Domandò.
- Ma sì, il
suo affascinante collega biondo, quell'uomo sempre elegante.
È passato più o meno due settimane fa per
chiedermi di prepararle tutti i documenti per l'affido, dato che lei
non aveva tempo nemmeno per respirare. -
Teresa si
fermò in mezzo al corridoio: la sensazione che provava era
molto simile a quella che aveva provato quando le avevano sparato, ma
stavolta a bruciarle non era la spalla, ma un posto molto
più vicino a dove doveva esserci il cuore.
- I documenti... -
- Sì,
esatto... Si sente bene, Teresa? - Disse Claire, vagamente preoccupata,
avvicinandosi all'agente con gli occhi di chi temeva di vederla svenire
da un momento all'altro.
Teresa scosse il capo,
cercando di snebbiare i pensieri e asciugare gli occhi, dominando
meglio che poteva il battito furioso del suo cuore, che le impediva di
sentire la voce dell'assistente sociale ma anche di ragionare
lucidamente.
- Sto... sto bene. -
Disse, fingendo un sorriso.
- La accompagno da
Dorothy, alla burocrazia possiamo pensarci più tardi. -
Teresa fu guidata per
un lungo corridoio su cui si aprivano molte porte che davano su locali
colorati e in disordine, pieni di ragazzini che coloravano, correvano e
giocavano sorvegliati da ragazzi e ragazze spesso poco più
grandi di loro.
- Eccoci. - Disse
Claire, avvicinandosi a una porta. - Laggiù. -
Teresa fece un passo
nella stanza, dove un paio di bambine giocavano con una vecchia casa di
bambole e un gruppetto di maschi giocava su un lenzuolo colorato.
In fondo alla stanza,
seduta a un tavolino bianco coperto di fogli e pastelli a cera
colorati, stava una bambina bruna. Le dava le spalle, ma Teresa
l'avrebbe riconosciuta anche se fosse stata bendata. Anche se fosse
stata cieca.
Fece un passo verso di
lei, senza farsi sentire, e si rese conto che non era necessario stare
attenta a non fare rumore: Dorothy era talmente intenta a togliere un
nastro verde da una scatola decorata da vivaci decorazioni natalizie
che non l'avrebbe sentita in nessun caso.
Si fermò
alle sue spalle, decidendo di aspettare il momento migliore per
attirare la sua attenzione, e la vide aprire con impazienza il
coperchio. Un istante di ricerca tra la carta velina e poi tra le mani
di Dorothy apparve un bellissimo paio di ballerine di vernice rossa. La
bambina scostò bruscamente la sedia, facendola cadere
all'indietro, e posò le ballerine per terra, togliendosi le
scarpe da ginnastica con un calcio e infilando in fretta le scarpine
nuove. Teresa la vide alzarsi in punta di piedi, stringere forte le
mani a pugno e battere tre volte i tacchi delle scarpette.
- Dorothy... - La voce
di Claire ruppe la magia del momento e Dorothy si voltò.
La prima cosa che i
suoi occhi neri videro fu Teresa, ancora un po' confusa dalla scenetta
a cui aveva appena assistito. Appena riconobbe il volto
della donna, l'espressione della bambina cambiò
improvvisamente e Dorothy si precipitò verso di lei
abbracciandola con una tale foga da farle quasi perdere l'equilibrio.
- Lo sapevo! Lo sapevo
che avrebbe funzionato! Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo! -
Gridò. Poi si allontanò quel tanto che bastava
per guardarla in faccia. - L'ho capito quando ho visto le scarpe!
Sapevo che saresti arrivata tu per portarmi a casa! -
Esclamò, con il viso acceso da una tale gioia da impedire a
Teresa di fare qualunque commento.
Claire posò una mano sulla spalla di Teresa e l'altra sui
capelli di Dorothy:
- Vai a
raccogliere le tue cose. - Disse - Io e Teresa dobbiamo firmare qualche
noiosa scartoffia, poi potrete finalmente andare a casa. -
L'albero di Natale brillava di lucine e palline rosse e oro nel
salotto, splendendo nella stanza buia come una piccola stella. L'odore
dell'arrosto che sfrigolava nel forno permeava la casa e, nonostante
Teresa si fosse opposta alla musica natalizia nello stereo, il clima
era il più festoso che quell'appartamento avesse mai visto.
Era la vigilia di Natale e per l'occasione Teresa aveva deciso di
lasciar perdere take-away e cibi surgelati per tentare qualcosa di
più audace: con l'aiuto di quella esuberante bambina che le
riempiva le giornate aveva fatto la spesa e seguito i consigli di uno
chef televisivo per cucinare il suo primo arrosto di Natale.
Mentre lei finiva di riporre le stoviglie Dorothy si era seduta per
terra - incurante di rischiare di sporcare il bellissimo vestito di
velluto rosso che le aveva regalato Grace - e osservava l'arrosto
cuocere con il naso vicinissimo al vetro.
- Cuoce anche se non lo guardi, Dorothy. - Disse Teresa con un sorriso.
- Lo so. - dopo un istante di silenzio, la bambina alzò gli
occhi verso di lei - Sono contenta che tu abbia deciso di venirmi a
prendere. Claire dice sempre che nessuno dovrebbe essere da solo, a
Natale. -
Teresa rimase per un istante immobile, colpita dalla intensa
verità di quelle parole. All'improvviso si voltò
verso Dorothy:
- Va' a prendere una busta. La più grande che trovi. -
Lo svogliato agente alla guardiola del CBI era troppo scocciato dal
pensiero di dover trascorrere la notte di Natale di guardia per notare
la strana coppia che aveva appena messo piede nel quartier generale. Se
avesse guardato il portone d'ingresso e non lo schermo del suo
cellulare avrebbe visto una donna dagli occhi verdi con indosso una
camicetta rosa e un cappotto nero e con una grossa busta tra le
braccia, e accanto a lei una bambina vestita di velluto con ai piedi un
paio di ballerine di vernice.
Teresa prese Dorothy per mano quando arrivarono al grande atrio,
sentendo i propri passi echeggiare nei corridoi vuoti e silenziosi,
innaturalmente quieti, e guidandola verso i grandi ascensori.
- Siamo arrivate? - Domandò Dorothy quando arrivarono al
sottotetto.
Invee di rispondere, Teresa posò la busta per terra ed
alzò la mano per bussare. Prima di farlo, però,
ebbe un istante di esitazione. Forse non era una buona idea.
Anzi, pensandoci meglio non era affatto
una buona idea.
Ritrasse la mano, facendo un passo indietro e voltandosi verso Dorothy
per darle una vaga spiegazione del suo repentino cambiamento di idea,
quando la porta di alluminio si aprì sferragliando e un
Patrick dall'espressione molto stanca comparve sull'uscio.
- Lisbon? - domandò incredulo.
Teresa aprì la bocca, con gli occhi pieni di sgomento per
quella situazione sfuggita al suo controllo, ma Dorothy fu
più rapida.
- Patrick! - Esclamò Dorothy allegramente, abbracciandogli
le ginocchia di slancio.
- Cosa ci fate qui? -
- Ti abbiamo portato un regalo! - Trillò Dorothy, indicando
la busta. - Arrosto e budino di Natale! -
Patrick guardò Dorothy, poi alzò lo sguardo su
Teresa, guardandola negli occhi senza dire niente. L'aria sul
pianerottolo sembrava densa, piena di parole non pronunciate e pensieri
inespressi: nessuno dei due sembrava voler spezzare quel momento di
silenzio, finchè Dorothy non incrociò le braccia
sul petto ed esclamò:
- La cena si raffredda! -
Teresa sbattè le ciglia, distogliendo lo sguardo e
chinandosi per prendere la busta da terra. Superando un Patrick ancora
troppo stupito per reagire, entrò nella soffitta e
posò la borsa sulla scrivania, liberandola dai fogli per
poter appoggiare l'arrosto e i piatti e i bicchieri portati da casa.
Dorothy si era arrampicata sul davanzale e guardava fuori con le mani e
il naso premuti contro i vetri impolverati.
- Mettiamo anche noi sul balcone le lucine come quelle che ha messo
Patrick sul suo? - Domandò all'improvviso.
Teresa alzò gli occhi per rispondere, ma fu Patrick a
intervenire.
- Quelle non sono lucine di Natale. Sono le luci dei tetti della
città. -
- Sono ancora più belle delle lucine di Natale! E le puoi
vedere tutto l'anno! - Esclamò allegramente la bambina, con
gli occhi neri che luccicavano di entusiasmo.
Patrick non rispose, limitandosi ad avvicinarsi al tavolo e scostare
una sedia, invitando Dorothy a sedersi. Poi prese uno sgabello per
Teresa e uno per sè, avvicinandosi al tavolo senza dire
nient'altro. I suoi occhi incontrarono quelli di Teresa per un solo
istante, e l'espressione commossa e malinconica dipinta nelle sue iridi
azzurre era così intensa che Teresa gli sorrise prima ancora
di rendersene conto.
Dorothy sembrò accorgersi di quello che stava provando
Patrick, perchè si inginocchiò sulla sedia e
posò la mano su quella dell'uomo.
- Non sei triste che siamo venuti, vero? Claire dice che nessuno
dovrebbe essere da solo, a Natale. -
Patrick scosse la testa.
- No, Dorothy, non sono triste. - Disse, accennando un sorriso alla
bambina e poi alzando gli occhi sulla sua collega.
Teresa sapeva di avere gli occhi azzurri di Patrick posati su di
sè e sapeva anche che il suo era uno di quegli sguardi con
cui amava dirle tante cose... ma aveva la netta sensazione che non
sarebbe riuscita a sostenere una delle loro conversazioni silenziose,
in quel momento. Si alzò e affondò il coltello
nella carne per iniziare a metterlo nei piatti senza ricambiare lo
sguardo.
E mentre mangiava arrosto tiepido in una soffitta disadorna e piena di
polvere e cartacce, alla sola la luce di una lampadina e delle
luminarie perenni dei balconi di Sacramento, con come unico sottofondo
musicale quello delle chiacchiere di due adulti e una bambina, Teresa
pensava che non aveva mai ricevuto in dono un Natale migliore.
E la nostra storia giunge al termine.
Anche se il caso era stato risolto nel capitolo precedente
ci tenevo a pubblicare anche questo finale:
molto spesso nel telefilm l'ultima scena è particolarmente
dolce (o triste)
e ho pensato che, dopo un caso fatto di famiglia e discorsi su regali e
Natale,
ci stava bene un finale speranzoso. Dopotutto è Natale, no?
Spero di non essere uscita troppo dai personaggi, in questo finale
e che l'amarezza dovuta alla fine della storia scorsa
sia stata ripagata da questo finale decisamente positivo.
Grazie per aver seguito la storia, pur nella sua difficoltà
e lentezza,
e spero vi sia piaciuto leggerla quanto a me scriverla.
Attenderò la sesta stagione di The Mentalist e i suoi
sviluppi,
ma magari, nell'attesa, tornerò a scrivere ancora in questo
fandom...
Grazie ancora a tutti, davvero, di cuore
Flora
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