The sound of silence

di Illa_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Prologo.










L’alba è ancora pallida quando esco di casa, per quella che spero, non sia l’ultima volta.
L’orizzonte è di un candido rosa e sento le presenze dei miei genitori e di mia sorella alle spalle, così mi giro e li saluto ancora una volta.
Mia madre si stringe tra le braccia di mio padre e tiene la testa appoggiata sul suo petto, non riesco a vedere i suoi occhi, ma sono sicura siano pieni di lacrime.
Mia sorella è la più bella, mentre si sporge dal balcone accanto alla finestra dove i miei genitori mi osservano dal caldo di casa.
Lei è lì, con i piedi appoggiati alla ringhiera, mentre mi osserva con gli occhi lucidi, so che se avesse potuto non mi avrebbe lasciato andare via, o che se non fosse stata così piccola e innocente, avrebbe pensato di venire con me, ma non è così.
La guardo,  sento le lacrime fare pressione sui miei occhi, ma prendo un bel respiro e cerco di sembrare serena.
“Tornerò a casa presto” le mimo silenziosamente con le labbra, per paura che qualcun altro oltre me e lei, possa recepire il messaggio.
Vedo qualche sua ciocca di capelli castano chiaro, come i miei, scivolarle da dietro le orecchie,  per sfiorare le guance arrossate dal freddo.
I suoi occhi castani mi stanno implorando, così decido di girarmi, ma prima di poterlo fare vedo le sue piccole e rosse labbra muoversi.
Non riesco più a sopportare il peso della partenza, così mi dirigo in fretta verso il cancelletto in ferro battuto che divide la villetta dalla strada, ed esco.
La via che devo percorrere è breve, so dove devo andare e non mi piace affatto.
Percorro qualcosa come duecento metri e finalmente posso sentire il peso delle parole di mia sorella.
“Salvaci”.
L’eco della sua voce mi rimbomba nella testa, anche se non ha mai sfiorato le mie orecchie con quella parola.
Una terribile consapevolezza mi attanaglia lo stomaco.
Domani tutto quello che ho intorno a me  potrebbe non esserci più, è tutta una questione di fortuna, potrebbero attaccare prima un’altra area, oppure decidere che questo non è il momento adatto per sterminarci tutti, questo non lo posso sapere, come d’altronde il luogo in cui sto per andare, è tutto un segreto, ci devono addestrare, ecco tutto.
Questa è la guerra, quella che sperano vinceremo.
Mi sto accasciando a terra, sempre più cosciente della mia nuova realtà, dovrò patire la fame, il freddo, le peggiori sofferenze, per poi arrivare alla morte.
Non arriverò all’anno prossimo.
Sento le lacrime calde e salate rigarmi le guance bianche, mentre il cuore pompa sangue ad una velocità spaventosa.
Mi stringo sul ciglio della strada, anche se so che nessuno ha il permesso di uscire dalla propria casa prima delle sette.
Le regole stabiliscono condizioni difficili, ma obbligatorie.
Sono in pericolo anche io qui, seduta, mentre dovrei essere già a metà strada.
Mi rialzò, mentre la visuale di casa mia è scomparsa da un pezzo.
Questa è la prima mattina fredda di settembre, nonostante sia ancora estate, la temperatura è molto bassa.
Precisamente è il tre di settembre, il giorno del mio diciassettesimo compleanno.
I miei genitori non hanno più potuto pagare contemporaneamente la salvezza mia e di mia sorella, così come non hanno potuto fare la stessa cosa con me e mio fratello.
Così ho deciso di partire, lei è ancora piccola, non sopravvivrebbe mai, mentre io ho qualche possibilità.
In realtà non è così, ma io li ho convinti, dicendogli che potrei fare qualcosa di utile, che questa potrebbe essere l’ultima delle battaglie, non riesco a credere che siano state le stesse parole di mio fratello.
Tutta la città sa bene quant’è dura la morte di un ragazzo o di una ragazza, anche se ormai capita molto spesso.
Chi è più benestante può sperare di mandare la propria prole, all’addestramento, il più tardi possibile, o anche riuscire, attraverso cospicui pagamenti, a non mandarceli affatto.
Quando ti portano nei campi di addestramento, devi lavorare sodo, per avere un buon posto, più sei incompetente, più i compiti sono terribili, questo è quel poco che sappiamo sulle condizioni di chi parte,  non c’è dato sapere altro, come il resto d’altronde.
Il silenzio intorno a me è quasi fastidioso per le orecchie, solo il rumore delle mie scarpe ad ogni passo, mi evita di impazzire.
Alla fine della strada, nel parchetto, ci sarà una guardia ad aspettarmi.
Sento le mani formicolarmi e la testa pulsare, mi guardo intorno spasmodicamente nel tentativo di catturare più immagini e ricordi possibili.
Mancano pochi passi alla fine del muretto che contorna il parco, dove una guardia mi starà aspettando.
Poggio la mano sulla superficie ruvida e sassosa, e volgo lo sguardo verso i tavolini, dove un uomo con lo sguardo truce mi sta aspettando.



 











Fatemi sapere che ne pensate :)

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***







 
Capitolo 1



 

Avanzo cercando di tenere uniti i miei pezzi, anche se ad ogni passo mi sembra di sgretolarmi.
I capelli bianchi brizzolati, gli occhi azzurri perforanti e il fisico asciutto e muscoloso, formano il quadretto inquietante di quello che sarà il mio futuro. 
Non so come salutarlo, o ancora meglio se salutarlo.
Alla fine opto per un mesto "salve" che esce dalla mia bocca più fioco del previsto.
Lo sguardo truce è fisso su di me, mentre sicuramente pensa a quanti metodi esistono per uccidermi e quanto non ne valga la pena.
Evidentemente decide che sono troppo penosa e mi risponde con un freddo cenno. 
Il suo corpo realmente massiccio si mostra solo quando muove il primo passo, lasciando che la tenuta verde scura, ad occhio impermeabile, si tenda sulla parte superiore della coscia sinistra e poi su quella destra.
Si avvia verso la fine della strada, in contrapposizione alla via da cui sono arrivata.
Un furgoncino del pane davanti a noi lampeggia due volte con un'impercettibile scatto e solo un secondo dopo mi rendo conto che l'impulso dell'apertura è scattato dalla mano  dell'uomo al mio fianco. 
La situazione è ridicola, ma faccio quattro passi e mi avvicino allo sportello anteriore.
L’uomo finalmente si degna di parlarmi, ma solo per indicarmi di sedermi nel vano posteriore. La voce roca mi richiama un’altra volta, mi giro a guardarlo negli occhi e mi ritrovo una pistola tra le mani.
< Per la tua sicurezza – aggiunge monotono, come se fosse una cosa da tutti i giorni - spara a chiunque ti dovessi ritrovare davanti diverso da me >.
Deglutisco nel tentativo di mandare giù un groppone e annuisco, non ho mai tenuto in mano un oggetto del genere e tanto meno ho mai provato a sparare.
La pistola è più pesante del previsto, ed è talmente tanto gelida che sembra mi atrofizzi la mano, ma non fiato ed apro il portellone.
Due sedili lunghi e grigi sono collocati su i due lati, ed un vetro mi divide dai due sedili anteriori.
Con un piccolo balzo salgo e mi siedo sul sedile di destra, riesco a vedere perfettamente l’uomo dai capelli brizzolati, anche se i suoni mi giungono leggermente ovattati, molto probabilmente il vetro è molto spesso.
 
 
Siamo in viaggio da venti minuti buoni e la macchina sembra andare ad una velocità spaventosa, credo faccia parte delle misure di sicurezza.
La pistola è tra le mie mani, un po’ meno gelida di prima.
Il silenzio sembra farmi impazzire come prima di arrivare al parchetto, così decido di parlare.
< Posso sapere il suo nome? > chiedo ad alta voce, nella speranza che il suono oltrepassi il vetro.
L’uomo sembra non sentirmi, ma dopo qualche secondo risponde, osservandomi di sfuggita dallo specchietto retrovisore.
< James Dromer, sono il tuo nuovo tutore > un sorriso inquietante spunta sul suo volto ed una scarica di brividi mi percorre tutto il corpo.
< Olivia Mills, vero? > alzo il viso verso lo specchietto, dove gli occhi azzurri mi scrutano a scatti, prima me e poi la strada, non so per quale motivo, ma il fatto che qualcuno che non conosco, sappia il mio nome, mi mette a disagio.
Biascico un si, ma prima di aggiungere altro, un enorme scossone mi fa scivolare sul pavimento sudicio del camioncino.
Un imprecazione giunge molto chiara dall’altro lato del vetro e sento che sto impallidendo.
Mi alzo e corro al vetro.
< Che diamine succede!? > urlo, battendo i palmi sul doppio strato che mi divide da James.
Non giunge nessuna risposta, se non altri scossoni e altre imprecazioni.
Un colpo più forte, che non riesco ad identificare, mi butta di nuovo a terra, e sta volta rialzarmi richiede qualche secondo di più ed un fianco dolorante.
Uno sparo oltrepassa il parabrezza e rimbalza sul vetro difronte a me, mi butto a terra, rannicchiandomi nello spazio sotto il vetro, tra i sedili.
Ho davvero paura.
La fazione nemica ci sta attaccando? Perché?
Prima che i miei pensieri possano collegarsi in un filo logico il camioncino sbanda, colpendo un muretto parecchio lontano dalla strada isolata alla nostra sinistra.
James scende ed io provo ad aprire il portello, ma è completamente chiuso.
Urla di avvertimento giungono da fuori, seguite da numerosi spari, poi un silenzio inquietante.
Dei passi si muovono veloci su quello che deve essere brecciolino e adesso sono vicini al vano.
Mi tasto la cintura dove qualche minuto prima avevo incastrato la pistola e mi accorgo che non c’è.
E’ sotto il sedile grigio di sinistra, molto probabilmente è caduta durante uno degli urti.
Non esito e la raccolgo, cerco di impugnarla come ho visto in qualche film, ma il risultato è parecchio scarso, e mi sento solo tanto ridicola.
Due colpi fanno tremare il furgoncino, sto pensando velocemente a quanti modi ci possono essere per fuggire, ma nessuno mi sembra esauriente, l’unico accettabile è quello di sparare alla cieca e fuggire il più lontano possibile.
Un altro colpo fa tremare il pavimento e la serratura sembra cedere.
Punto la pistola verso gli sportelli e mi stringo sulla parete con il vetro.
Se questo è il modo in cui devo morire, voglio farlo con un minimo di dignità.
Il portellone si apre con un cigolio e per un attimo socchiudo gli occhi per la troppa luce, non riesco a vedere chi ho di fronte, intravedo solo il corpo di James sanguinante a terra, così giro la testa e stringo il grilletto.
< Hey hey, abbassa quella cosa, è pericolosa > una voce allegra mi porta a volgere lo sguardo fuori e noto che ci sono tre persone, due uomini ed una donna.
Il più piccolo dei maschi sembra avere un paio di anni in più di me, mentre gli altri ad occhio e croce superano la trentina.
< Allontanatevi! > urlo, ricordandomi le parole di James, sto per premere il grilletto, ma un coltello mi colpisce la mano destra di striscio e la pistola cade fragorosamente al suolo.
Un mugugno esce dalla mia bocca quando vedo il sangue uscire copiosamente dal dorso della mia mano.
Sono crollata a terra, forse per il dolore o per il forte tremore che ha portato le mie gambe a cedere.
Guardo in cagnesco la donna che tiene in mano il fodero, mentre gli altri due si guardano preoccupati.
< Queste stupide favorite, sono le prime a morire, sono deboli come dei bambini di sei anni > la donna continua ad avere un’espressione severa ed io ho una terribile voglia di urlarle in faccia.
< Se dovete uccidermi fatelo subito! > grido di nuovo sentendo la testa pulsare e le braccia formicolare.
L’uomo più grande ride e io prego in silenzio che facciano il più presto possibile, infondo non so nulla, non posso neanche difendermi.
< Noah, controlla il sedile anteriore > ordina la donna e l’uomo sparisce dalla mia visuale.
Stringo il polso della mano sanguinante e il mio sguardo cade sulla pistola.
L’afferro con la mano sinistra e premo il grilletto.
La donna fa qualche passo indietro, ma nessuna macchia di sangue compare sulla sua pancia, dove invece il foro dello sparo è evidente, giubbotto anti-proiettile.
< Lurid- >
Ma non riesce a finire la frase, riesco solo a vedere lo sguardo sconvolto del ragazzo dagli occhi azzurri e la faccia cupa della donna, perché poi le stelle bianche mi confondono la vista e non realizzo più nulla, oltre il clamoroso impatto con il pavimento in plastica sporca.
 
 
 
Apro gli occhi faticosamente e un senso di nausea mi risale dalla bocca dello stomaco.
Sono ancora in macchina, sento il rumore delle ruote sull’asfalto e un tranquillo chiacchiericcio di voci semisconosciute.
Non comprendo bene la situazione, ma riesco a bisbigliare sommessamente.
< Fermate un secondo la macchina >.
Mi accorgo che in qualche secondo, la mia richiesta è stata esaudita.
Apro con difficolta lo sportello, con la mano sinistra, mentre la destra è fasciata malamente e il sangue coagulato è visibile oltre i sottili strati.
Ho di fronte a me, un rado strato di immondizia e erba mal cresciuta, un guardrail divide quella che realizzo essere l’autostrada da una valle, mi reggo al metallo della barriera e mi sporgo.
La nausea si fa più forte, ma l’unica cosa che riesco a espellere dal mio corpo è bile, perché non mangio nulla da più di un giorno, la partenza mi ha chiuso lo stomaco.
Silenziosamente, mentre mi tengo lo stomaco con la mano destra, risalgo in macchina, sto talmente male che non mi rendo neanche conto di essere nella stessa macchina con le tre persone di prima.
Il ragazzo, al posto di fianco al mio, mi guarda con tristezza, l’uomo davanti, alla guida, mi osserva dallo specchietto retrovisore con un sorriso che dovrebbe essere rincuorante, mentre la donna con la treccia è di spalle, al posto del passeggero, e non mi degna di un’occhiata.
< Da quanto tempo non mangi? > chiede l’uomo con voce roca, ripartendo lentamente.
< Da tre giorni > rispondo senza problemi, cercando di intuire dove siamo dal paesaggio fuori dal finestrino oscurato.
< Ecco perché sei così magra – constata con un sospiro – se vuoi sopravvivere devi imparare a mangiare di più > aggiunge.
Un moto di rabbia mi porta a sputare le parole come veleno.
< Non ho idea di chi siate, avete ucciso il mio mentore, sono quasi morta dissanguata a causa vostra e tu adesso mi vieni a dire che dovrei mangiare di più? > le ultime sillabe assomigliano più ad un ringhio che ad altro.
< Abbiamo un bel caratterino eh ? > risponde disinvoltamente l’uomo.
Digrigno i denti nervosamente e il ragazzo accanto a me sembra notarlo.
< Siamo la squadra di servizio del campo di addestramento di Eria - risponde con voce calma e controllata il ragazzo – non so cosa l’uomo con cui eri in macchina ti abbia detto, ma era della fazione nemica, è una tattica che usano molto spesso ultimamente, ci rubano i dati dei nuovi arruolati e li prelevano scambiandosi per noi, poi li addestrano facendogli credere che i veri cattivi siamo noi, io sono Luke, lui è Noah e lei è Emma >.
Luke mi scruta con i suoi occhi azzurri, mentre un silenzio di tomba cala nell’abitacolo.
Stiamo ancora sfrecciando sull’autostrada e mi prendo qualche secondo per analizzare le figure delle persone che ho intorno, Luke sembra molto gentile, ha la pelle chiara, gli occhi di un azzurro intenso, i capelli che gli ricadono disordinati sulla fronte e gli sfiorano la nuca, ha  una corporatura normale, Noah, l’uomo che guida ha gli occhi castani, lo stesso fisico di James, i capelli piuttosto corti castani, e poi c’è la donna di nome Emma, quella che mi ha tirato il coltello, la stessa alla quale ho sparato, in questo momento è girata verso di me, mentre si aspetta molto probabilmente delle scuse, e mi inchioda con i suoi occhi che sembrano grigi, ha i capelli neri raccolti in una treccia molto stretta e non indossa neanche uno strato di trucco.
Solo in quel momento realizzo che indossano tutti e tre una tenuta blu scuro.
Una sensazione di disagio mi investe e mi rendo conto di essere inadeguata nel mio vestiario, indosso una sorta di tuta nera, con una t-shirt verde scuro e le braccia scoperte.
Mi copro istintivamente le braccia, mentre mi rendo conto che sto tremando per il freddo.
Noah stacca la mano dal volante e accende il riscaldamento, solo in quel momento mi accorgo che stanno studiano ogni mia piccola mossa.
< Hai degli occhi molto belli, sono di un verde brillante che non ho mai visto - esclama Emma – peccato che dovrò cavarteli per avermi sparato > .
< Scusa – dico ironicamente massaggiandomi la ferita – ma una che mi mutila la mano con un coltello non mi ispira fiducia, e poi quell’uomo, James, mi ha detto di sparare a tutti quelli che non fossero lui >.
Luke sospira, mentre Noah si concentra sulla guida.
< Al campo ti farò passare le pene dell’inferno, ricordatelo ragazzina > la sua minaccia non mi preoccupa, ma il lampo di soddisfazione che le attraversa lo sguardo mi insospettisce, poi mi accorgo del perché.
Tremo visibilmente e sono protesa verso le mie gambe, come a proteggere il busto, la mascella è testa e sto di nuovo, involontariamente, digrignando i denti, allento la presa del morso e li sento tutti indolenziti.
Il ragazzo accanto a me, mi fa cenno di stendermi e appoggiare la testa sulle sue gambe, mi rendo conto che prima di scendere dalla macchina ero nella stessa posizione.
< Olivia Mills  – pronuncia il mio nome a bassa voce, come se avesse paura – con noi sei al sicuro, riposati > il suo sguardo implorante mi convince e mi stendo sul sedile, con la testa sulla sua coscia.
La sua mano si avvicina timorosamente alla mia testa, accarezzando i capelli, mi hanno sempre detto di avere dei capelli molto belli, sottili e morbidi come quelli dei bambini, credo che se ne sia accorto, perché la sua mano continua a sfiorarli con decisione.
Il gesto mi tranquillizza, anche se non riesco a dormire e continuo a fissare il sedile nero  a pochi centimetri da me.
Sono piena di dubbi, ma non riesco a formulare neanche una domanda.
La mano ferita pulsa dolorosamente, come la testa.
Mi ci vogliono dieci minuti buoni, ma finalmente riesco a rilassare i muscoli e in qualche istante sono scivolata tra le braccia di Morfeo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***






 

Capitolo 2








Mi formicola il braccio, involontariamente la mia mano corre ad accarezzare il punto, ma c’è qualcosa che non va.

Apro gli occhi di scatto, fissando la flebo attaccata al mio braccio destro, immediatamente comincio a guardarmi intorno, qualcuno mi deve togliere questa cosa dal braccio.

Intorno a me è pieno di lettini bianchi, vuoti, non c’è una fonte di luce naturale, solo neon.

Mi metto seduta e mi accorgo di non avere più un dolore, nessuno sembra essere in quest’enorme infermeria che puzza di disinfettante da far venire la nausea.

< Hey! > urlò nell’immenso locale, ma l’unica voce a farmi compagnia è il mio eco.

Qualcosa scricchiola familiarmente sulla mia destra e mi accorgo esserci una porta, da dove, un secondo dopo, esce una donna alta, dai capelli corti, con un lungo camice bianco.

< Mary, chiama Luke, la ragazza si è svegliata > la donna non sembra mostrare alcuna espressione, il suo viso è impassibile.

< Scusi mi può togliere questa cosa dal braccio? > chiedo guardando il tubo che finisce da una sacca, al mio braccio.

< Si chiama flebo > aggiunge la donna scrutandomi una seconda volta per poi voltarsi e sparire oltre la soglia della porta da cui è uscita.

< Mi può togliere la flebo allora? > urlo per farmi sentire, gli aghi mi terrorizzano più di ogni altra cosa e averne uno nel braccio ora, non mi mette molto a mio agio.

< No! > grida di rimando con un tono calmo mentre sento che armeggia con qualcosa.

Un’altra porta si apre poco lontano da me, infondo alla sala, da dove il ragazzo di nome Luke entra con passo deciso.

Il capelli gli ricadono sulla fronte più disordinati di quanto non fossero la volta precedente, gli occhi azzurri brillano e il sorriso, a contatto con la luce del neon, è così smagliante da far impallidire chiunque gli si ritrovi di fronte.

Avanza risoluto verso il mio lettino, con la tenuta blu scura sporca di terra e un elmetto, altrettanto sudicio, sotto il braccio sinistro.

Rimango incantata ad osservare la figura avvicinarsi, se non avessi avuto un ago nel braccio a distogliermi da tutti i miei pensieri, l’avrei trovato affascinante.

Mi tasto l’ennesima volta il braccio con la flebo, vorrei strapparla, ma so che mi farei molto male, purtroppo le esperienze passate mi hanno insegnato molto.

< Ciao! > dice sorridente Luke, mentre io sono del tutto presa dal muovere impercettibilmente la farfallina attaccata alla mia pelle.

Mugugno qualcosa che dovrebbe essere un saluto.

< Sai come togliere questa cosa!? > esclamo con un tono esasperato e gli occhi imploranti, lui ride e si avvia verso la stessa porta dove qualche istante prima è sparita l’infermiera.

Non riesco a comprendere il veloce scambio di battute, ma un secondo dopo sento l’infermiera borbottare qualcosa su una possibile aggiunta di una macchina del caffè  e lo schioccare di una serratura che si apre e poi si chiude.

Luke spalanca la porta e riesco a vedere la stanza, illuminata da una larga porta a vetri e da una finestra, non è molto arredata, ci sono solo alcune sedie, un tavolino, diversi armadietti e un lavandino, dove  lui si sta lavando le mani.

Si asciuga con un panno lì accanto e torna verso di me.

Accuratamente toglie il nastro adesivo che tiene la farfallina sulla pelle e poi sfila l’ago, se non l’avessi visto con i miei occhi non avrei mai potuto credere che un ragazzo con le sue mani, potesse fare un lavoro così preciso e delicato.

< Ora ho la tua attenzione? > chiede passandomi un batuffolo di ovatta candida.

Annuisco sorridendo, non so lui, ma io sto decisamente meglio.

< Scusami, è che ho un po’ il terrore degli aghi > spiego, stringendo l’avambraccio sul bicipite.

< Beh, benvenuta al campo di addestramento di Eria! > esclama, alzando le braccia al cielo e poi lasciandosele cadere sui fianchi.

< Deduco non sia solo questo il campo > rispondo spostando il lenzuolo.

Abbassando le gambe mi accorgo che non indosso i vestiti, e anche che non ho idea di come io sia arrivata lì, Luke sembra accorgersene e si affretta a spiegarmi.

< Appena siamo arrivati dormivi così bene che non me la sono sentita di svegliarti, poi eri ridotta così male che ti ho portato in braccio fin qui, tranquilla, credo sia stata Chantal a cambiarti > conclude indicando il camice verde chiaro che sbuca fuori dalle coperte candide.

Annuisco decisa e cerco con lo sguardo qualche vestito.

< I vestiti dovrebbero essere questi > dice indicando una divisa su una sedia accanto al letto.

Il mio sguardo si picca di nuovo quando cerco un posto dove cambiarmi.

Luke ride sonoramente e mi indica una porta a qualche metro.

< Torno subito e mi porti a fare un giro, avete troppe cose da spiegarmi > urlò mentre corro verso il bagno.

Una stanza color turchese mi si presenta davanti, con tanto di doccia, di lavandino e water, poggio i vestiti sul bancone del lavabo, mentre mi guardo di sfuggita allo specchio.

Cerco di allisciare con le mani i capelli biondi, che sono molto più disordinati del solito.
Degli asciugamani ben ripiegati mi aspettano su uno sgabello accanto alla doccia e non esito ad usarli, non impiego più di due minuti per lavarmi la stanchezza di dosso.

Davanti a me adesso ho la divisa, con tanto di biancheria.
Indosso una maglietta a maniche corte aderente blu scuro e pantaloni leggermente larghi del medesimo colore.

Esco in fretta e mi ritrovo davanti Luke, con un paio di scarponi, quando li indosso l’interno è morbido, molto probabilmente in pelliccia.

Poi mi porge una giacca che decisamente non è della mia taglia.

< Andiamo? > chiede retoricamente, prima di aprire una delle enormi porte da cui è entrato.

Quello che trovo davanti a me è un paesaggio sconosciuto, una foresta alta e tanto fitta da far filtrare pochissima luce, il terreno è popolato da moltissime case e campi per gli allenamenti, per la corsa, per l’arrampicata e anche un’area di poligono, il resto non riesco ad inquadrarlo perché Luke mi afferra il braccio e mi trascina lungo una strada di terra.

< Cosa vuoi sapere? > mi chiede, mentre sono distratta a guardarmi intorno.

Mi riprendo e lo guardo in faccia.

< Quando sono rimasta svenuta? > la mia voce è seria e lui sembra sorpreso.

< Un paio di orette, è ora di pranzo. > mi fa un cenno con la testa, con cui molto probabilmente mi chiede altro.

< Dove siamo? > questa domanda sembra essere ben accolta, evidentemente non sono la prima a chiederglielo.

< In una foresta, un luogo nascosto e sicuro, dove possiamo addestrarvi tranquillamente. >

Un gruppo di persone passa in quell’istante accanto a noi e mi fissa, per poi salutare il ragazzo al mio fianco.

< La guerra? Perché? Dove starò adesso? Che dovrò fare? > tutte le domande rimaste irrisolte, escono dalla mia bocca articolandosi con parole compiute, il ragazzo dagli occhi azzurri mi fa cenno di sederci su un’amaca, su cui un timido raggio di sole si riposa.

< Beh la guerra, la guerra, è una bella domanda, tu sai bene che Eria e Corantya sono in lotta da otto anni no? – annuisco mestamente mentre il mio sguardo cade sugli scarponi, che mi vanno stranamente bene  – noi siamo qui perché non è rimasto quasi più nessuno a combattere per i due paesi, e così dai dodici anni vanno di casa in casa nel giorno del compleanno dei ragazzi per portarli qui, tu sei stata fortunata Olivia, sei arrivata qui a diciassette anni, hai avuto la possibilità di crescere al sicuro, io sono qui da quando ho dodici anni > aggiunge con una nota di tristezza nella voce, mentre lo vedo giocare con le sue mani.

< Non ho molti ricordi dei miei genitori, a parte dei debiti di cui si stavano riempiendo per cercare di salvarmi, non potevo permettergli di morire di fame, così gliel’ho detto, ero davvero molto coraggioso per la mia età, ne vado molto fiero… Ma non era di questo che stavamo parlando, noi qui ci alleniamo, impariamo a combattere, viviamo come una grande famiglia, siamo divisi in capanne, poi vedremo di trovare un alloggio anche per te > un caldo sorriso compare sul suo volto, molto probabilmente per rassicurarmi.

< Mio fratello, Matthew Mills, dov’è ? > chiedo guardandolo negli occhi.

Lui boccheggia un paio di volte e poi abbassa lo sguardo.

< Io non mi aspettavo che me lo chiedessi, lui, lui è stato catturato in una battaglia, non è morto se è questo che vuoi sapere, è da qualche parte, nel quartier generale di Corantya >

Il mio sguardo è vacuo e me ne accorgo dal modo in cui, adesso, Luke mi sta guardando.

< Scusa, io, forse.. > incomincia a gesticolare, ma non ho la forza di assecondarlo, ne tanto meno di rispondergli, mi limito ad annuire.

Un istante dopo sento due braccia avvolgermi le spalle.

< Dovrai abituarti a queste cose, che tu lo voglia o no >.

Dette queste parole si alza, mi lancia un’occhiata e procede per un’altra strada, mentre io rimango seduta, con troppi pensieri per la testa e un groppo in gola che non vuole andare giù.

Non ho idea di quanto tempo rimango ferma, so solo che dopo quella che mi sembra un’oretta mi riprendo e decido che non posso passare il resto della mia vita a rimuginare su cose che non posso impedire.

Incomincio a girovagare per il campo, fermandomi ad osservare qualcuno che tira a poligono, qualche pista di esercizio, dove scavalcano, saltano, strisciano e fanno altre cose con cui anche io, molto presto, mi ritroverò a combattere.

Luke non sembra essere da nessuna parte, ma appena giro un angolo mi ritrovo Emma davanti.

< Mills, benvenuta al campo di addestramento di Eria! > il suo sorriso mi mette a disagio, ha un aria troppo cattiva.

< Salve Emma > mormoro fissando gli occhi chiaramente grigi.

< Sergente Emma, prego > esclama fissandomi negli occhi e continuando a sorridere, mostrando due file di denti bianchi come perle.

< Sergente Emma > ripeto, con un po’ di timore nella voce.

< Così va meglio cadetto Mills, adesso ti farò fare un bellissimo esercizio > dichiara afferrandomi saldamente per un braccio e trascinandomi verso un campo racchiuso da uno spessissimo materiale che non riesco ad identificare.

Due ragazze all’ingresso guardano prima me e poi la donna al mio fianco.

< Signora Duran! > esclamano portandosi una mano alla fronte e armeggiando con un armadietto.

Un ragazzo al mio fianco ridacchia mentre vestono entrambe con pesanti tute anti proiettili e protezioni su braccia, gambe, piedi e testa.

Non riesco ad afferrare cosa mi sta per succedere, ma credo sia molto pericoloso e la cosa non mi ispira per niente fiducia.

Le due ragazze mi fanno cenno di entrare in una porta e mi indicano che una volta chiusa  quella da dove sono entrata, dovrò aprire la seconda.

Sento lo chiocco della serratura alle mie spalle ed eseguo le indicazioni, per poi percorrere una rampa in discesa e aprire un’altra porta.

Quello che mi ritrovo di fronte mi fa tremare le gambe, sono in un’enorme arena di terra rossa.

Alla mia destra ci sono delle pareti munite di armi, tante armi, pistole, fucili, scudi, manganelli, insomma, tante cose che non ho mai visto in vita mia e che non ho idea di come si usino.

< Ti farò sentire come ci si sente con un proiettile nella pancia cadetto Mills, devi imparare > il suo tono adesso è di scherno e il suo sorriso esprime chiaramente molta cattiveria.

< Questa è la nostra arena, vedi lì – dice indicando numerosi spalti protetti da vetri molto spessi – tra poco saranno pieni di ragazzi, solo per vedere me, mentre ti faccio tanto male > esclama ridendo sonoramente.

Il suono della sua risata mi fa accapponare la pelle sotto numerosi strati di protezioni, mi hanno detto che nonostante le precauzioni, un proiettile ha la stessa potenza di un cazzotto ben assestato, ed è questo che vuole, farmi chiedere scusa e farmi implorare pietà.

Prima che io me ne possa rendere conto uno sparo squarcia l’aria e un colpo fortissimo mi ferisce il fianco sinistro, un urlo straziante fa girare tutti i ragazzi sugli spalti, che cominciano a guardare curiosi nell’arena.

“ Signora Duran, deve aspettare l’avviso dell’inizio” una voce metallica rimbomba nell’arena, ma non la sento, perché il mio sguardo è concentrato sul labiale di Emma.

< Fa male eh? > dice a voce così bassa che dubito che qualcun altro oltre me e lei possa averlo sentito.

Guardo alla mia destra e il più veloce possibile afferro diversi coltelli, non bado esattamente a quello che faccio, so che è istinto di sopravvivenza.

“ E vietato colpire alla testa e nei punti scoperti “ la voce metallica continua ad elencare avvertimenti che non ascolto.

Diversi coltelli sono nelle mie mani, lo scontro è aperto, non ci sono muri dove posso ripararmi, solo uno scudo può parare i colpi, decido che le mani mi servono per tenere e lanciare i coltelli.

Appena mi giro un altro colpo mi prende in pieno lo stomaco, il dolore è tanto forte che mi piego cadendo a terra, i coltelli mi scivolano di mano.

Emma avanza decisa verso di me e mi solleva per i capelli che escono dal casco, lasciando che dalla mia bocca escano soltanto rantoli di dolore.

< Sei proprio una novellina – esclama ad alta voce per poi bisbigliare qualche parola – è per questo che ti farò così male, così impari chi comanda >

La sua presa cede e io ricado a terra, neanche il tempo di realizzare che i coltelli sono vicini al mio fianco, che mi slancio e punto alle spalle coperte da uno strato molto fino di tessuto, il coltello nella mano destra giunge alla carne, mentre quello sinistro si pianta male e non tocca neanche la pelle.

La  testa della donna è coperta da un enorme casco, ma riesco comunque a leggere l’espressione arrabbiata.

Corro alla postazione vicino a me, afferro lo scudo e una pistola, infilandomi velocemente un piccolo pugnale nella cinta.

< Come ci si sente con un coltello nella spalla? > la schernisco, facendo riferimento al coltello che mi ha lanciato la prima volta che ci siamo viste.

E’ ancora a terra quando mi spara tre colpi di fila, di cui riesco a parare il primo e deviare il secondo, ma, sfortunatamente, il terzo mi prende in pieno il braccio con lo scudo.

Adesso il braccio sinistro, quello colpito, è quasi difficile da muovere, altri colpi mi feriscono la gamba destra in due punti molto vicini ed un ultimo, a sorpresa, mi sfiora il ginocchio scoperto, che incomincia a sanguinare copiosamente.

La voce metallica continua a sgridarci, dicendo che ci stiamo colpendo in punti vietati, ma la partita non è più un allenamento, è diventata una sfida e questo è chiaro a chiunque stia guardando.

Afferro la pistola accanto al mio piede destro e sparo finché non finiscono le munizioni.

Quando sposto l’arma dalla mia visuale Emma è ancora in pieni, zoppicando corro alla postazione che è sempre alla mia destra ed incontro con lo sguardo il viso sconvolto di Luke, insieme a quello rassegnato di Noah.

Questa piccola distrazione mi costa molto, la mia avversaria è avanzata e mi ha colpito con una serie di pallottole in piena schiena, sono molto dolorose e non posso fare a meno di cadere a terra agonizzante.

Lei è vicina, lo sento, ha la pistola puntata su di me, mi giro lentamente, per guardarla in faccia, preme il grilletto, ma le pallottole sono finite e nel brevissimo lasso di tempo in cui afferra l’altra arma dalla sua cintura, il piccolo pugnale sul mio fianco è affondato nella sua caviglia.

Striscio fino alla postazione poco distante da me e prendo l’arma più bassa, una rivoltella che a questa distanza è completamente inutile, la infilo nell’imbottitura della spalla e afferro un’altra pistola, non conosco la differenza tra tutte le armi che ho davanti, sto pensando solo alla mia sopravvivenza.

Il dolore che provo alla schiena è talmente forte che penso sverrò presto, mi alzo aiutata dal muro, mentre Emma fa lo stesso.

Mentre controllo quante munizioni ha la pistola che ho in mano, lei mi punta con un fucile che non ho idea da dove sia sbucato.

Nonostante l’impossibilità comincio a correre per l’arena, protetta dallo scudo di Emma che ho afferrato per la strada.

Continua a sparare colpi e alla fine mi accorgo che le è rimasto solo un fucile tra le mani, un flashback mi colpisce in pieno, mentre ricordo mio padre che mi spiega quanti colpi ha, ricordo la scena, le parole, ma non il numero.

Un ricordo può essere la mia salvezza, ho un piano.

Il ricordo non è nitido e non sono sicura, ma corro il più veloce che posso verso di lei, un fucile classico quanti colpi ha ? Nove? Sei? Dieci ? Sette? L’ultimo mi sembra il più probabile, così incomincio a contare.

I primi quattro colpi prendono in pieno lo scudo, ed è ridotto così male da sembrare una groviera, non può parare più niente, così lo butto e gli altri tre colpi mi prendono in pieno.

Ormai le munizioni sono finite e io le sto sparando apertamente, alcune pallottole riesce ad evitarle, altre le prendono parti poco importanti, ben protette, altre colpiscono punti non vitali, ma scoperti, da cui fiocca molto sangue.

Ho ancora qualche coltello nella cinta, così quando mi trovo di fronte a lei li affondo nell’imbottitura, finché non sento la carne.

Mi sento come un animale e la cosa mi fa salire la nausea, sto decretando la mia fine in questo campo, m1assacrando un sergente, sento che il coltello è arrivato al massimo, quando dei bisbigli mi giungono all’orecchie.

< Di addio > la voce di Emma arriva come un proiettile alla mia testa.

In un istante realizzo tutto, la guardo negli occhi grigi, la pressione della rivoltella è assente sulla mia spalla, la sua mano destra è occupata da un’arma che sono sicura prima non avesse.

Mi rendo conto che i proiettili sulla mia testa non sono le sue parole, sono i colpi della rivoltella, della mia rivoltella.



Characters:

Luke Di Donato
Olivia Mills
Noah Chase
Emma Duran

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