IL PRINCIPIO DELLA FINE ( the greater good ) di LeMuseInquietanti (/viewuser.php?uid=29512)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** GELLERT ***
Capitolo 2: *** ARIANA'S TALE ***
Capitolo 3: *** tre ***
Capitolo 1 *** GELLERT ***
Salve! La storia su Albus e
Gellert avevo
iniziato a pubblicarla da circa un mese, ma dopo ho deciso di fermarmi,
essendomi accorta di aver sbagliato troppe cose, non avendo ben
compreso il
libro prima di poter mettere le mani sulla traduzione in italiano. Ad
esempio,
credevo che Balthilda fosse studentessa ai tempi di Al, invece era la
vicina di
casa nonché la zia di Gellert… quindi ripubblico
questo primo capitolo, e man
mano modificherò la storia, sperando che qualcuno abbia il
cuore di seguirmi! Grazie
mille! Devo scusarmi con chi mi ha commentato, in particolare sakijune,
harryely e chi mi ha salvato tra i preferiti... se volete
scriverò per voi i prossimi capitoli, impegnandomi a seguire
la trama accennata dalla Rowling, o almeno non variare il carattere e
le informazioni che lei ci ha donato...^^
THE GREATER GOOD- UNO
Lo
vedeva passeggiare con in mano un libro
sdrucito, incartapecorito e sul volto lo sfigurava
l’espressione inquieta di
chi sa troppo e vorrebbe rivelare agli altri un mistero grosso quanto
un
macigno. Camminava troppo velocemente, solo Fanny riusciva con le sue
ali
leggiadre e infuocate, a stargli dietro, e a volte lo beccava per
indurlo a
fermarsi. Ma il giovane uomo indugiava, si rifiutava di stare al pari
con la
gente normale, lui voleva essere sempre anche solo per un passo
più vicino al suo
futuro, lui nascondeva un piano geniale e malefico, in quel libro scuro
che
puzzava di muffa e pelle di drago mal conciata.
Lui
veniva da una famiglia del Nord, aveva
visto crollare imperi e morire i suoi cari nelle guerre di
indipendenza, aveva
scorto la neve nello stesso istante in cui aveva aperto gli occhi per
la prima
volta. Non aveva mai posseduto una donna, non gli interessavano certe
cose, gli
bastava sentirsi superiore in ogni campo, per sentirsi appagato e
sicuro di
fronte ai cambiamenti del mondo. Era stato costretto a fuggire, nei
giorni in
cui i Babbani avevano perso la testa, nell’epoca delle
brigate con la svastica
sul braccio e l’espressione beffarda, inferocita, da belva
affamata che sfigurava
i loro volti. Grindelwald aveva assistito all’inizio del
Reich dalla sua
scuola, Dumstrang, con il cuore che scoppiava, tra
l’ammirazione per tanto
ardore e l’orrore della morte, che veniva a strappare dal
letto suoi
compagni e la gente dei dintorni, con l’insistente tocco
freddo della sua falce
aguzza, tagliente.
<<
un giorno arriverà anche per te,
amico >> gli disse un compagno, dandogli una pacca veloce
sulla spalla.
Erano rassegnati. Tutti avrebbero fatto la stessa fine. Ma lui no.
Aveva
scansato quell’opportunità, MORIRE,
AH!e aveva capito che lì, a Dumstrang, nessuno avrebbe
potuto aiutarlo, a
sconfiggere colei che conduce con sé la fine, quella signora
in nero, l’unica
sovrana a cui perfino i generali più valorosi si
inchinavano. Lui non sarebbe
morto.
Con
un pugno di soldi e un incantesimo di
smaterializzazione, aveva salutato la gente sdentata con il sangue
grumoso
ancora attaccato alle ferite sulla pelle giallastra e stanca, aveva
detto addio
alla neve e ai monti, percorso all’indietro
l’Europa, per giungere nella terra
circondata dalle acque, dove ancora la minaccia
dell’inflazione, delle
persecuzioni, della morte per una fucilata ben assestata erano ancora
vagheggiamenti per superstizioni e donne insoddisfatte,
perché i giornali
dicevano che andava tutto bene, i tea delle cinque venivano dilapidati
con
sfarzo ogni giorno nei salotti delle belle signore opulente, e i lord
ancora
passeggiavano per Picadilly con passi baldanzosi, gesti plateali.
Grindelwald
aveva scorto tutto questo in una passeggiata ininterrotta che
durò per due
giorni, scrutando in ogni finestra, respirando il fasto e la gioia,
sentendosi
sporco nella sua tenuta da contadino povero, credendo che lo avrebbero
sbattuto
in carcere perché puzzava come un villano e faceva paura
quella sua barba
incolta e la testa su cui non troneggiavano cilindri o bombette, e
quelle mani
pesanti e scure, che potevano essere mani da assassino, e gli occhi
foschi,
disillusi, in cui aveva celato, con molte difficoltà, il
pressante desiderio di
sopravvivere, di trascendere l’umanità, cedevole,
fragile come la neve al sole,
di diventare quasi simile a Dio, anche se Grindelwald dubitava della
sua
esistenza.
Si
trovò un appartamento poco distante
dalla capitale, in un posto in cui nemmeno i topi avrebbero voluto
vivere, una
stanza dalle pareti fatiscenti, dove l’intonaco profumava di
merluzzo e la
carta da parati a fiori si staccava al minimo tocco, crollando e
mostrando le
macerie di un’epoca sull’orlo di una crisi di
nervi. Ma poteva permettersi solo
quel posto, senza acqua calda né riscaldamento, senza una
cucina decente ed un
bagno dove poter cagare in santa pace, un posto che non era tale, un
posto
degno solo di esser chiamato bunker. Ma lui poteva permettersi solo
quello, e
poi non aveva tempo per trovare altri problemi su cui crucciarsi. Di
grattacapi
per una sola esistenza ne aveva già abbastanza. Quando i
proprietari della
dimora videro chi sarebbe stato il loro affittuario, un ragazzo dagli
occhi
neri, pericolosi, spudorati come tutti i tedeschi e la loro razza,
ebbero un
tremito nell’intimo, ma non lo lasciarono a vedere: gli
inglesi non si
sarebbero mai fatti mettere i piedi in testa da nessuno.
<<
se vuoi vivere qui devi sganciare
la grana il cinque di ogni mese. Non puoi pagarci neanche un giorno
dopo, o
stai ai patti, o sloggi >> gli disse il padrone, un uomo
macilento con
un’eterna canottiera unta di olio che non nascondeva il petto
villoso e
ripugnante.
Grindelwald
aveva annuito velocemente
<< stia tranquillo. Pagherò per la topaia come
stabilito. Non dovrà
preoccuparsi di questo. Ma starò ai patti se voi e il resto
del condominio
farete finta che io non esista. Sono un giornalista, e devo vivere in
solitudine per scrivere dei pezzi convincenti >>
L’uomo
macilento aveva alzato un
sopracciglio, poco convinto, e la bocca, nascosta da un paio di baffoni
scuri,
aveva assunto una piega di disprezzo. Ecco, questo è un
altro finocchio che si
paga da vivere con il suo corpo. Dovrebbe almeno lavarsi, prima, ma
forse a
qualcuno piace l’odore di sporco, aveva pensato il padrone,
ma temendo che
dando voce alle sue idee quel tedesco strano lo avrebbe mandato al
diavolo, o
peggio ucciso, rimase in silenzio, perché quei soldi gli
servivano, e per la
gente del popolo non andava sul serio tutto bene: il pane iniziava a
scarseggiare, non c’erano soldi per pagare le rate della
propria casa, le
giovani figlie dovevano smettere di stare in casa a filare la lana e
dovevano
sfasciarsi la schiena pure loro, a vendere mele al mercato o peggio, a
falciare
i campi e a farsi venire le rughe a quindici anni. Grindelwald lo
capì molto
dopo, quando Albus gli mostrò quel mondo, quando quel
giovane dai capelli rossi
e dagli occhi buoni e limpidi, lo portò in un campo, dove
fecero l’amore senza
che se lo avessero stabilito all’inizio, e scoprirono
l’amarezza di quella
terra. Ma allora, all’epoca del trasferimento dettato dalla
asfissia provata
nella sua terra natale, all’epoca in cui Albus passava la
vita sui libri
domandandosi come avrebbe potuto aiutare sua sorella Ariana e come si
sarebbe
fatto valere, nella vita, se nemmeno Aberforth suo fratello, sapeva
amarlo, il
futuro e i suoi problemi non erano mai parsi così distanti.
Quasi un'illusione
per le monache e i frati sdentati. Albus sapeva di essere diverso, e la
cosa lo
divertiva e lo intralciava diverse volte. Non avrebbe però
mai creduto, quando
anni dopo, avrebbe visto il cadavere di Grindelwald, il suo bel viso da
straniero insanguinato e senza vita, non avrebbe mai creduto che
avrebbe dato
tutta la sua intelligenza, le sue stranezze, ogni sorta di ingegno in
lui
albergante, per essere suo fratello, per essere il più
povero dei miserabili,
per non essere l’acclamato difensore del bene e della magia,
la maschera
permanente che da allora avrebbe accompagnato quell’uomo per
il resto della sua
esistenza.
Fu
un giorno di primavera quello in cui
Albus e Grindelwald si incontrarono per la prima volta. Erano troppo
giovani, e
credevano di poter tener in pugno il mondo intero quando si guardarono,
si
cercarono, si trovarono, e parlarono per due ore sotto
l’insegna sbilenca e
scheggiata della Testa di Porco, mentre la natura si svegliava ed uno
strano
tepore avviluppava le loro guance giovani e rilassate. Fu quello, il
principio
della fine.
Continua,
ma solo se lo volete voi!!
Fatemi sapere, Maria
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Capitolo 2 *** ARIANA'S TALE ***
Capitolo
identico a quello che avevo scritto prima di
cancellare la ff, dal prossimo credo che la storia dovrebbe un
po’ modificarsi…
beh, Ariana non è impazzita a Godric’s Hollow, ma
la Row non specifica dove sia
accaduto, così ho lasciato quel paese^^
Grazie a Saki, spero di
acchiapparti prima o poi su msn (
oggi sono entrata ma ho subito dovuto spegnere ), a Cathleen e
Felicity89…
spero vi piaccia questo capitolo, grazie anche a chi la salva tra i
preferiti,
spero di non deludervi!
ARIANA’S
TALE
Era
primavera quando Albus Silente decise di dare gli
esami del sesto anno in anticipo per potersi recare a casa dalla sua
famiglia e
aiutare sua madre in quel difficile compito di crescere una figlia
diversa.
Perché Ariana Silente non si poteva definire una persona
normale. Da bambina
aveva incominciato a giocare con quel dono speciale che albergava nel
suo
stesso sangue, la magia, e aveva sperimentato la forza devastante che
padroneggiare quell’arte arcana comportava. Era piccola, e
forse particolarmente
portata, e per questo non sapeva trattenersi dalla gioia di evocare
oggetti,
richiamare le mele dai rami degli alberi più alti, dal far
volteggiare a
mezz’aria il suo pupazzo preferito. Una volta, Albus la vide
con i suoi stessi
occhi, Ariana si era alzata a mezz’aria, nel centro della
sala da pranzo, ed
aveva galleggiato con l’aria per nulla stanca o spaventata
attorno al grosso
tavolo rotondo, su cui erano sparsi i suoi giocattoli intagliati nel
legno,
regali di Aberforth, e i libri dimenticati da Albus nella fretta di
cercarne di
nuovi. Ariana era una creatura meravigliosa, libera, innocente,
ingenua. Sapeva
far arrossire con la dolcezza del suo candore perfino le persone che
credevano
di esser simili alle rocce, indistruttibili, dalla flemma ruvida,
inscalfibile.
Perfino Percival, il loro vecchio padre, che non aveva mia riso per le
battute
dei suoi bambini, si era lasciato piegare dalla freschezza di quella
piccola
streghetta, dagli occhi luminosi, dal sorriso di perla, così
fragile e minuta
che a tutti appariva come un meraviglioso fantasmino ambulante. Albus
la amava,
e non avrebbe mai voluto distogliersi da lei. Suo fratello Ab poi, la
adorava,
la idolatrava. Lei era così dolce, e delicata, e non si
poteva far a meno di
amarla. O almeno questo avevano sempre pensato in famiglia.
<<
sarai per sempre una principessa, Ariana.
Nessuno potrà mai fermare la tua luce >> aveva
detto una volta Aberforth,
mentre cullava la piccola dai capelli rossicci e dal viso lattigginoso,
affidandola ad Orfeo come ogni notte. Albus era sceso dal suo lettino
saltando
via dal materasso dalle molle mezze sfasciate, aveva mosso qualche
passo
nell’oscurità, brandendo solo un moccio di cera
acceso quasi del tutto consumato,
e a tentoni si era recato nella camera attigua, dove la Sovrana della
famiglia
ormai sonnecchiava apertamente. Aberforth aveva appena alzato lo
sguardo,e
Albus per la prima volta aveva notato quegli occhi. Erano azzurri e
duri,
simili ad un mare di ghiaccio, occhi in cui la spensieratezza doveva
esser
passata solo per un velocissimo tea, poi se n’era dovuta
andare, senza scusarsi
troppo, perché lui era solo il figlio mediano dei Silente,
non era né il
responsabile, favoloso, colto, intelligentissimo primogenito della
famiglia, né
l’adorabile principessina che cavalcava sulle nuvole e
tingeva la casa
d’allegria, era semplicemente un incidente che aveva imparato
presto a
considerarsi tale, a portare rancore verso l’incarnazione
della perfezione e ad
amare in segreto, a ricoprir di baci solo quando la luna era alta nel
cielo e i
suoi genitori si erano addormentati profondamente, quel batuffolo di
dolcezza,
l’unica creatura che aveva saputo sciogliere la scorza dura e
rude di quel
ragazzo sottovalutato. Si, solo Ariana sapeva farlo sentire un essere
umano
amato. Perché tra i due fratelli era nato un amore
incredibile, che ardeva come
il fuoco nell’inferno, alimentato costantemente
dall’ossigeno della
quotidianità, centuplicato nei giorni di attesa, irrazionale
ed inestinguibile,
un gioco in cui Ariana era la acclamatissima regina, e Aberforth il suo
servo
più fedele, e nessuno, nemmeno quel fratello maggiore la cui
ombra avrebbe
oscurato il passato e colorato la storia futura della
comunità magica, avrebbe
potuto interrompere, o modificare quell’equilibrio di affetto
intenso,
spossante, qualcosa che forse superava perfino l’amore, o
forse era la forma
perfetta e immutabile di quel sentimento, una sua mutazione, una sua
evoluzione…
Ma Aberforth
sotto sotto, non capiva che l’odio e l’amore
fossero sentimenti relativi, fragili e delicati, che si scioglievano
per colpa
del Fato nell’istante infinitesimale di un battito di ciglia,
potevano cambiare
stato, e rivolgersi a persone differenti, e l’uomo non poteva
né impedirlo né
opporsi, poteva solo sedersi tranquillo con se stesso e accettare quel
valzer
irrefrenabile.
<<
dorme? >> chiese Albus, sedendosi accanto
al fratello, la sera che precedette l’incidente fatale.
Aberforth si alzò,
arrossendo allarmato. Non era abituato a farsi vedere
nell’atto di sussurrare
parole dolci alla sorellina, anche perché questa immagine
cozzava con il suo
aspetto esteriore: era un poeta, un rivoluzionario, un ribelle
intrappolato
nelle sembianze di un orso, non avrebbe saputo definirsi meglio.
Perciò a
quella domanda neutra ma così densa di significati, Ab
scattò in piedi, con il
capo basso, annuì con un cenno appena percettibile e poi si
dileguò nella sua
camera, ed Albus per un attimo credette di aver sognato suo fratello,
che
avesse avuto a che fare con uno spirito, ma poi a convincerlo del
contrario
furono quegli strani rumori dati contro le pareti azzurre della camera
attigua
a quella in cui dormiva Ariana, la stanza del figlio mezzano, ed erano
pugni di
protesta quelli con cui Aberforth si massacrava le nocche, pugni che
diede con
gli occhi di ghiaccio ridotti a due fessure, e i denti digrignati,
l’espressione famelica da belva arrabbiata. Erano pugni per
Albus quelli che
sarebbero riecheggiati per sempre nella memoria del vecchio preside.
Albus li
udì, e lasciò che suo fratello si sfogasse.
Pensò per tirarsi su, che un giorno Ab sarebbe cresciuto. Lo
avrebbe capito. Ma
inizialmente, anche solo per un secondo, il giovane mago si disse
tristemente
che non solo suo padre, ma adesso anche suo fratello lo odiava, e lui
non
poteva che chiudersi in camera, accendere una nuova candela, e sedersi
sul
materasso dalle molle distorte, che gli si ficcavano nella pelle e lo
facevano
sanguinare nel sonno, prendere un libro e cominciare un nuovo viaggio,
mano
nella mano con i demoni della sua vita, per nulla semplice e felice
come tutti
credevano.
**********************************
Ariana quel
giorno indossava un abitino verde, che non
faceva a pugni, una volta tanto, con quei capelli tipicamente color
sangue, che
tutti i Silente sfoggiavano per almeno una quarantina d’anni
sul capo. Erano
capelli di artisti e di maghi, capelli di Shakespeare e probabilmente
anche di
Merlino, ma a sei anni cosa poteva saperne una principessina di queste
futilità
da romanticoni? Ariana non sapeva nemmeno che la sua nazione di
lì a poco
sarebbe entrata in guerra, o che ormai non ci fosse denaro nemmeno per
comprare
una bambola di porcellana da donarle a natale, non sapeva che suo
fratello
Aberforth aveva pianto lacrime amare quando se n’era reso
conto, né poteva
capire perché Albus la osservasse con quegli occhi furbi ed
ironici, e le
sorridesse in maniera enigmatica ogni qualvolta i loro sguardi si
incontrassero. Sapeva però da qualche tempo che se solo lei
lo avesse voluto,
intensamente desiderato si intende, allora le mele del vecchio fattore
Jones si
sarebbero ribellate alla pianta madre, seppure imponente e arcigna, che
avrebbero sconfitto la gravità e sarebbero planate dritte
dritte nella sua
manina grassoccia, così come, sempre se lei lo avesse
bramato, sarebbe potuto
accadere l’effetto contrario, e lei si sarebbe distaccata dal
terreno,
ritrovata a mezz’aria come una piccola nuvola, e avrebbe
potuto raggiungere
anche i rami più alti, dove le mele migliori crescevano
illuminate dal sole,
lentamente. Non poteva spiegarsi sul serio quel fenomeno, ma qualunque
cosa
fosse, le causava esplosioni di incontenibile gioia, voglia di ridere e
di
elargire bacetti alla madre e agli uomini della famiglia, che li
ricevevano ora
sorridendo e ricambiando, ora facendosi rossi e irrigidendosi, come nel
caso di
suo padre e di Abby, il cui nome troppo difficile per lei era stato
devastato e
storpiato in quella maniera per nulla virile e gratificante. Ariana
però, per
quanto amasse Kendra e Aberforth e si fidasse di Percival e del
fratello
maggiore, creatura assente per studi e impegni, ma decisamente oggetto
di molte
attenzioni per una principessa come lei, si decise a mantener chiusa la
bocca
circa quelle sue capacità perché le sembrava che
se avesse dato un nome alla
magia l’avrebbe immancabilmente persa, e Ariana non avrebbe
certamente retto a
tale mancanza.
Poiché
la minaccia della guerra aveva fatto chiudere le
scuole e i negozi, seppure quello fosse un lunedì di maggio
come tanti, Ariana
si rese conto che l’intero paese di Godric’s Hollow
fosse gettato per strada,
apparentemente senza fare niente: gli uomini si lanciavano fra loro
occhiate
furtive e turbate, le donne parevano avessero da sfamare un esercito
per quanto
pane arraffavano, uscendo cariche come muli dal fornaio di fiducia, le
giovanette si avvicinavano furtivamente ai loro fidanzati segreti, con
i visi
appannati dal pianto e rossi per l’emozione, e infilavano
nelle loro tasche
delle lettere d’amore melense e fitte di terrore, terrore
perché per una volta
tanto avevano ascoltato alla radio e poi letto sui giornali di quello
strano
folletto vestito di verde, che si preparava a distruggere
l’Europa e a
plasmarla in una forma del tutto poco piacevole. I giovani blandivano
le
ragazzine, si battevano il petto con la mano pesante, come fosse un
invito a
tastare la loro forza interiore e fisica. Si sentivano esaltati e
pronti alla
battaglia, era tempo di sbattere in galera una volta e per tutti quei
diavoli
dei tedeschi, così finalmente gli inglesi avrebbero
dimostrato il proprio
coraggio, la loro superiorità. Ariana vide dei bambini che
stavano in cerchio
attorno ad una bancarella del mercato squallido e sbilenco che per la
troppa
gente assomigliava ad una malinconica fiera, li osservò e le
parvero ammassati
e sognanti, e ridendo felice decise di avvicinarsi anche lei,
perché non le
pareva vero di incontrare degli esemplari di cuccioli di uomini, visto
che gli
unici bambini che lei potesse ricordare erano i suoi fratelli, che
comunque
stavano già assumendo una forma diversa e sconosciuta, e
sembravano sempre di
meno quei due bambini rossi e allegri che lei si ricordava vagamente
d’aver
conosciuto anni addietro, e di aver spartito con loro i bagni nello
stagno e le
merende pomeridiane.
Quando
Ariana si mise a correre verso quei bambini che si
quasi picchiavano per contendersi la trincea di una strana bancarella
Albus e
Aberforth la scorsero saltellare poco distante dal bar in cui stavano
placidamente bevendo un po’ di burrobirra. Albus aveva notato
le mani graffiate
del fratello, ma aveva preferito fingerle di non essersene accorto. Se
fosse
stato possibile, quella reazione così finta aveva reso
ancora più livido
Aberforth, il quale beveva per non sputar veleno, e quasi si era
dimenticato il
perché si trovassero lì: Kendra aveva chiesto
loro di dare un’occhiata alla
piccola Ariana, perché la piccola non aveva ancora ben
chiaro il confine tra il
lecito e l’illecito, e probabilmente avrebbe potuto
ingenuamente usare la magia
mentre i babbani sbrigavano le loro faccende giornaliere. Kendra non
voleva
scandali, non dopo l’ultima figuraccia di Perce alla festa
del paese, quando
aveva bevuto troppo e ne aveva dette di tutti i colori sulla moglie e
sui
figli, l’aveva chiamata puttana, aveva gridato che Albus non
era suo figlio,
che Aberforth era un idiota senza cervello e che la loro bambina stava
male un
giorno si e uno no perché la madre preferiva battere le
strade con il sedere
all’aria piuttosto che badare
all’incolumità della loro creatura. Kendra,
ferita e oltraggiata, non aveva proferito parola. Davanti alla folla di
mogli e
di bambini incuriositi che avevano assistito a quella scena, ella prese
per il
polso il marito, con la delicatezza che solo le madri conoscono, e
aveva
sussurrato ad Albus di tornare a casa non appena finiva la festa
<< vado
a mettere a nanna papà, Ariana cara >> aveva
detto alla figlioletta, ed
era sfuggita, simile al profumo delle rose spazzato via dal vento, con
la
dignità intatta e il cuore grave come un macigno.
<<
sembra che Ariana stia socializzando >>
disse all’improvviso Albus, indicando la bancarella dei
trucchi di magia, dove
la carta rossa vinceva e quelle blu perdevano,e bisognava scoprire dove
si
nascondeva la noce dai bordi ammuffiti. Aberforth non vedeva di buon
occhio le
amicizie tra nanerottoli, così come amava definire i
lattanti, perché quelle
erano le peggiori alleanze possibili, inossidabili, indelebili. Non
cambiare,
restare in stallo con le proprie idee conduceva alla rovina, o per lo
meno lui
la vedeva così. Per questo cercava ogni giorno di vedere suo
fratello come un
esempio, e non come qualcosa con cui paragonarsi e vedersi sempre
inferiore. Ma
poi, chi non si sentiva così, di fronte ad Albus- sono fatto
d’oro- Silente?
<<
sembra che sia così >> commentò
freddo, e
si pulì le labbra dalla schiuma amarognola della sua
bevanda, con fare
risoluto. << com’è la scuola,
fratello? >>
Albus si
illuminò a quella domanda << oh, è
un
luogo stupendo. Mi stimano tutti e non vedono in mio padre
l’essere violento,
freddo e detestabile che si dimostra a Godric’s Hollow.
Credono che sia un
comune uomo, e che un giorno anche noi diventeremo come lui
>>. Abbassò
il capo, sentendo che le lacrime che aveva sempre represso in onore di
sua
madre stavano per sgorgare. Bisognava piangere, per non avere
più lacrime da
gettare.
<<
non fare la femminuccia con me! >> disse
il fratello, fingendosi schifato. Ma in fondo ammirava anche un lato
così
dannatamente poco virile del fratello, perchè lui sarebbe
morto piuttosto che
mostrarsi nudo di fronte al mondo. Era un orso, e solo Ariana poteva
sapere che
anche lui era in grado perfino di amare.
<<
io non voglio diventare come Percival! Non
voglio ubriacarmi, non voglio far la fine dei miserabili, Ab! Io non
posso ridurmi
così! >>.
Suo fratello
si strozzò con la burrobirra, battè una mano
violentemente sul tavolo. I suoi occhi gravi si riempirono di dissenso.
<<
cosa c’è che non va in nostro padre? Non ci ha
mai picchiato, sbraita solamente, e quelle sberle che ci da ogni tanto
servono
a raddrizzarci! Se ti sembra miserabile uno che si spacca la schiena
per
portare il pane a casa e tener su una famiglia, allora non riesco
proprio a
decifrare il tuo modo di pensare! Ma fai pure, sono sicuro che sai cosa
è
meglio per te! Sai sempre tutto tu! >>
Albus
fissò intensamente suo fratello, il boccale
adagiato sul bancone lurido ed un libro aperto sulle gambe.
L’impressione che
diede fu di voler supplicare << voglio solo portarvi via
di qui >>
<<
non si può Albus! Presto verrà la guerra, e io
combatterò
mentre tu prenderai onoreficenze su onoreficenze, una catasta di premi
e titoli
con cui io potrei benissimo pulirmi le chiappe. La vita vera
è quella in cui si
suda, si marcisce, si sanguina. È vedere Ariana crescere e
sperare per lei un
mondo migliore. No si sfugge da qui, e lo sappiamo bene. Per questo io
lavorerò
fino a sentirmi vecchio, e mi comprerò una locanda, e
farò I soldi con cui
manterrò la mia famiglia, se Dio me ne darà una.
Non si sfugge da qui, Albus
>>
Albus
avrebbe replicato, magari con qualche virtuosismo
imparato a memoria dai suoi amati trattati di scuola, ma un urlo
riempì l’aria
surriscaldata di un maggio anacronistico.
<<
come hai fatto? Dicci come hai fatto! >>
Bastò
poco ai fratelli per scorgere una folla di bambini
inferociti che stavano sommergendo e circondando la piccola Ariana. E
lei,
minuscola, bianchissima, con in mano la noce marcia che il ragazzo
bugiardo che
si spacciava per mago aveva infilato nel suo cappello, stava tremando
per il
terrore.
********************************************************************************
Ariana
sgomitò fino a trovarsi all’altezza della
bancarella. Vide tre bicchieri scuri capovolti ed un ragazzino con in
testa un
cappello troppo grande che li mescolava, usando un ritmo ipnotico,
veloce,
impossibile da seguire. Anche lei ne rimase colpita. Come molti altri
bambini,
cacciò fuori la lingua, in segno di ammirazione. Il
ragazzino vide quella
nanerottola lattiginosa e seppe di aver trovato un nuovo pollo da
spennare.
Sorrise smagliante << e chi abbiamo qui! Una topolina!
Allora bella
bimba, perchè non provi questo gioco? Se trovi la noce che
sta sotto a uno dei
tre bicchieri vinci. Vuoi giocare? Ehi, vedo che ti ho convinto! Allora
guarda
bene: la noce è qui. Adesso mescolo >> prese a
trafficare con I
bicchieri, a dare di matto in un valzer di cristalli che cozzavano
l’uno contro
l’altro senza ritegno. Dopo un po’ le chiese dove
fosse quella nocella.
Ariana si
portò un dito sulle labbra pensosa. Poi indicò
senza parlare il cappello bluastro dell’accattone.
Fu come una
folata di vento, quella che partì dal dito
della piccola. Peccato che Ariana avesse appena fatto una magia,
davanti a dei
babbani, e dei bagliori rossastri si fossero dispersi
nell’aria. Il ragazzo
vide la noce galleggiare a mezz’aria, finire direttamente
nelle mani della
bambina che la osservò soddisfatta raggiante.
<< cosa ho vinto? >>
Da allora,
per tutta l’estate, Ariana, Albus e Aberforth
vissero come dei vampiri. Uscivano solo a notte fonda, e non potevano
far
rumore, in parte per quella gente impicciona, che aveva assistito alla
scena
della levitazione di una fottuta noce, in parte perchè
Percival aveva dato di
matto, prendendo a sberle I suoi figli maschi, che non sapevano nemmeno
difendere la loro sorellina senza darla in pasto ai babbani alla prima
occasione. Ariana fortunatamente non aveva capito cos’era
accaduto. O meglio,
aveva creduto che la stessero prendendo in giro, perchè non
aveva valutato che
ci fosse gente incapace di far volare gli oggetti a piacimento, anzi,
non
credeva di essere lei la persona anormale. Aberforth e Albus non
avevano avuto
il cuore di rivelarglielo, nemmeno quando l’avevano strappata
da quella babele
di folletti curiosi che le si erano accalcati addosso, che
l’avevano pizzicata,
toccata, chiamata strega, si erano rubati quel premio di
superiorità, la noce
della discordia, e avevano voluto sapere come ci fosse riuscita, il
truffatore
compreso. Ariana non aveva capito e sinceramente era stato un sollievo
sentire
le mani delicate di Albus che la trascinavano via, mentre Aberforth
intimava al
ragazzino furfante di stare alla larga da sua sorella, di non parlarle
mai più,
di andare a farsi fottere, se non voleva assaggiare la forza delle mani
di quel
lavoratore serio, indurito come una quercia.
<<
tu non devi mostrare la tua bravura alla gente,
Arya >> le aveva detto la stessa sera Aberforth, mentre
Kendra piangeva e
Percival si sfogava a lanciar calci contro il muro. Albus era uscito a
fare
quattro passi, scappato via come sempre. Ariana aveva guardato suo
fratello con
occhi docili, dolcissimi, occhi da donna. Per la prima volta Aberforth
capì che
proprio gli occhi la rendevano così speciale, nella sua
anima. << perchè
non posso, Abby? >> chiese la bimba, fra le lacrime.
Il fratello
la strinse forte a se << perchè la
gente è gelosa, e non capirebbe quello che siamo
>>
Ariana
cercò di far tesoro delle parole del fratello, ci
provò sul serio a reprimere quella sua forza
inspiegabilmente forte, tentò
anche di affogarla, di rispedirla al mittente, ma la magia restava
semre lì,
chiusa in gabbia, relegata nel suo corpicino. Le dava fastidio, la
cattività.
La tediava, vedere l’estate morire, poter uscire solo di
notte. Lei aveva paura
del buio perchè non poteva più accendere mille
lucine rosse con cui farsi
forza. Suo padre, sua madre, I suoi fratelli glielo avevano ripetuto
troppe
volte. La bambina diede un’occhiata a Kendra, che
sonnecchiava nel suo letto
dopo giorni di continuata insonnia. Suo padre e I suoi fratelli erano
andati a
Diagon Alley, a far compere per il primo anno di Aberforth. La finestra
era
socchiusa.
Le parve un
reato non godersi un sole talmente luminoso,
che la richiamava come un amante insoddisfatto, con quei raggi
splendenti,
dorati.
Fu allora
che Ariana fece l’incontro che le avrebbe
distrutto la vita. Una banda di quindicenni la riconobbe come la strega
bambina
che muoveva le cose e adorava il demonio, colei che avrebbe gettato il
malocchio sull’isola e avrebbe fatto entrare i tedeschi con
questo e
quell’altro metodo maligno. Una bambina pericolosa, o una
semplice impostora,
in entrambi I casi un essere da punire. Da zittire. Questo pensava la
banda di
Godric’s Hollow.
La banda di
Godric’s Hollow consisteva un gruppo
eterogeneo di banditi quindicenni che avevano dimenticato la cartella
il primo
giorno di scuola e l’avevano lasciata ad ammuffire in quella
catapecchia vuota
appena dietro la chiesa preferendo svaligiare le tasche dei passanti e
passare
la vita imparando il gergo e le abitudini dei ladruncoli di strada fino
a
perferzionarsi nella lotta agli angoli di strada, nelle occhiate torve,
nello
schernire e nel trovare difetti su tutti, nel non temere nemmeno la
regina in
persona, nel non lasciarsi scappare una giornata di mercato dove rubare
un po’
di cibo da portare a casa, coperti dai genitori ridotti a scheletri per
l’inflazione, nel non lasciarsi sfuggire le stranezze di quei
tre fratelli dai
capelli rossi, uno più svitato dell’altro. La
banda di Godric’s Hollow
riconosceva universalmente nel primogenito la figura del secchione
disperato
che parlava con le farfalle, in assenza di amici in carne ed ossa.
Sarebbe
diventato un depresso, o lo avrebbero castrato presto o tardi uno degli
uomini
che avrebbe cercato di violentare. Il secondogenito sembrava affetto da
autismo. Non parlava con nessuno, non faceva che guardare il mondo con
occhi
torvi colmi di rancore, la banda riteneva che nelle notti di luna piena
subisse
la trasformazione in mannaro e che passasse il tempo sbattendo
convulsamente la
testa contro la scroza delle robuste querce. E la piccola Silente? Beh,
quella
era l’apoteosi della follia: a parte che assomigliava ad un
folletto, poi aveva
quei capelli rossi per cui l’avrebbero cotta
nell’olio bollente solo due secoli
prima, e per di più il capo di quella comitiva di strada,
Joe mano svelta,
aveva visto all’opera le stranezze di quella creatura. Tutto
il paese l’aveva
vista: aveva svelato il trucco con cui Joe campava da cinque anni, da
quando
era un bambino cencioso pieno di pidocchi, e aveva fatto volteggiare la
noce
stagionata e coperta da una sorta di peluria verdastra, nel cielo del
paesino,
fino a portasela nella mano. La banda non capiva come avesse fatto, ma
sapeva,
nonostante nessuno dei quindicenni avesse mai aperto libro, che quegli
atteggiamenti potevano esser definiti solo con il termine stregoneria.
Che poi
Ariana fosse davvero una strega, ai giovani di strada poco importava.
Quando la
videro correre allegramente per le stradine sbilenche che portavano ai
campi di
mele, Joe mano svelta, che quel giorno non era andato a guadagnarsi da
vivere
perchè ormai tutti conoscevano il suo trucco, sorrise
malignamente, e con un
gesto della mano richiamò a se gli altri ragazzi, che
stavano placidamente
masticando un po’ d’erba e fumando sigarette
artigianali. << ehi,
guardate un po’ chi sta passando! >>
<<
ma è quella stramba di Ariana Silente! >>
disse
una giovinetta che aveva imparato troppo presto a tener le gambe aperte
per
qualche spicciolo in più << ehi! Ariana! Vieni
qui! >>
La bambina
non se lo fece ripetere due volte. Corse
dolcemente, fata della primavera, verso quel gruppo sorridente, che
pareva
volessero farle delle coccole, o magari insegnarle altri trucchi,
perchè aveva
riconosciuto Joe anche senza il suo cappello ridicolo.
<<
cosa volete? >> chiese la piccola, quando
fu faccia a faccia con la ragazzina dal viso disilluso e
dall’aria troppo
sveglia.
<<
niente di che! Io e I miei amici ci domandavamo …
tu come hai fatto a scoprire il giochetto di Joe? Insomma, insegnacelo,
saremmo
felici di imparare da te! >>
Ariana
rimase sorpresa, aprì la bocca, scosse il capo
dolcemente << basta puntare il dito e gli oggetti volano
>>
<<
faccelo vedere! >>
La bambina
scosse il capo << non posso! >>
<<
e perchè, di grazia? >>
Ariana
rimase in silenzio: Aberforth le aveva fatto
promettere che non avrebbe usato la magia in pubblico. Non poteva, ecco
tutto.
Un
giovanotto scoppiò a ridere << ah, Joe ti sei
fatto fregare! Questa nanetta non ha niente di speciale, sei tu che
perdi
colpi! >>. Le guance di Ariana si colorarono di rosso
intenso.
Una seconda
ragazzina si avvicinò dolcemente e le chiese
una dimostrazione. << certi credono che tu dica bugie,
Ariana. Tua mamma
ti ha spiegato che le bugie sono un peccato? Bene, allora fai vedere a
questi
miscredenti che tu sei davvero capace di muovere gli oggetti
>>
Ariana si
guardò attorno rassegnata. Lottò con la sua
coscienza, ma gli sguardi della banda di Godric’s Hollow
erano scettici e le
facevano male. Allora cercò qualcosa che potesse smuovere,
lo individuò: aprì
il palmo verso una mela matura posta ad almeno quattro metri di
altezza, e in
un attimo essa le venne in mano, mentre tutti I giovani la osservarono
incuriositi e sconvolti. Solo Joe si fece avanti, con un sigaro stretto
fra I
denti. Le accarezzò la testa, e Ariana lo lasciò
fare << bambina, come è
possibile che tu sappia fare queste cose? >>
<<
non lo so >> replicò lei, sinceramente.
Joe le
strattonò il capo, stringendole I capelli in un
pugno << sai come si chiama questa tua
capacità? >>
<<
MI FAI MALE! >> gridò la piccola,
piangendo e sospirando affannata. Le ragazzine scoppiarono a ridere,
Joe le
stava strappando I capelli. L’avrebbe rapata, sarebbe
diventata una palla
lucida la sua testa.
<<
sei una STREGA! >>
<<
si, strega! >>
<<
STREGA, STREGA STREGA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
>>
La banda la
indicava, rideva, strillava, le sputava
addosso, qualcuno la spingeva, le davano calci, la prendevano in
braccio e la
poggiavano sui rami di un albero. Le tirarono sassi, le strapparono gli
abiti
ridendo come porci, continuando a chiamarla strega. Ariana non sapeva
che fosse
un difetto essere una strega. Perchè nessuno glielo aveva
detto? Perchè
continuava a piangere, e nessuno la veniva a salvare? Chiuse gli occhi,
aspettando che Albus o Aberforth la scorgessero, ma I suoi fratelli
dovevano
essere lontani, e lei era fuggita di casa, nessuno sapeva dove si
trovava. Era
nei guai. Tremava, piangeva.
<<
scendi giù se ci riesci, sporca stregaccia!
>>
<<
perchè mi fate questo? >> chiese Ariana,
piangendo disperata.
Joe le
lanciò la mela raccolta per magia addosso. La
colpì in piena faccia, la rabbia le annebbiò la
vista. Lui la fissò rabbiosa
<< perchè ti facciamo questo?
Perchè voi ci fate questo! Andatevene da
questo paese! Siete come una maledizione! Streghe e adoratori del
demonio non
ci servono! Ci fate schifo! >>
E dopo
averla maltrattata un altro po’, I babbani della
banda scapparono ridendo e saltellando, mentre Ariana piangeva,
raggomitolata
sul ramo su cui l’avevano adagiata, sporca di sputi e pien di
bernoccoli e
graffi, tremante come una foglia al vento, sconvolta e diversa per
sempre: lei
era strana, lei era diversa. Nessuno l’avrebbe mai accettata.
Albus,
Percival e Aberforth stavano ritornando a casa, su
un vecchio calesse trainato da un vecchio cavallo. La notte era da
parecchio
calata sulle colline del paese, la gente si era rintanata a casa per
godersi il
meritato sonno dei giusti, tranne qualche luce alla finestra, le
tenebre
regnavano sovrane. << dovrebbe essere sempre
così >> sorrise
Percival, grattandosi la barba appena colorata di grigio. Albus si
stupì dello
sguardo di suo padre, non l’aveva mai visto così
luminoso.
Fu Aberforth
il primo a capire che qualcosa non andasse,
quando vide quelle strane fiaccole accese nella notte <<
ma che diavolo
succede? >>. Indicò agli uomini un puntolino
nell’orizzonte, un circolo
di piccole luci che a quell’ora non sarebbero dovute restar
accese. A cosa
serviva, quella specie di faro nel nulla? Che fosse una processione di
spiriti
in rivolta?
Percival
aumentò il passo del calesse, pressando sul
cavallo stanco e in men che non si dica essi videro Kendra in un mare
di
lacrime, rossa in viso e con I capelli scomposti che le erano franati
addosso,
che assomigliava davvero ad uno spettro in pena, afflitto dal peggiore
dei mali
che una madre possa sopportare. La folla di donne del paese e dei loro
mariti
si muovevano preoccupati in ogni dove, spostando oggetti, guardando in
ogni
angolo, scuotendo il capo, quasi in lacrime.
<<
è sparita Ariana! >> strillò, non
appena
riconobbe gli uomini della sua famiglia. Aberforth sbiancò:
il tempo che Albus
resse Kendra, ormai in procinto di svenire, e Percival cominciasse a
chiedere
spiegazioni strattonando la moglie preso dalla furia, il giovanotto
orso partì
in una corsa marziale, sfrenata, irrefrenabile, mentre il viso gli si
colorava
di rosso, e il cuore gli esplodeva in petto.
<<
ARIANA! ARIANA! >> strillava, mentre
scalciava di strada in strada, mandava al diavolo le coppiette di
amanti che si
erano incontrate per qualche bacio rubato, gettando scompiglio nei
vicoli
ciechi, svegliando I bambini, incrociandosi con Joe e la sua banda, che
riconosciutolo non potè che scoppiare a ridere.
Quando fu
sicuro che sua sorella non fosse nel paese,
tentò di percorrere I campi di mele che la piccola era
solita prediligere nelle
sue peregrinazioni pomeridiane, prima dell’orrendo incidente.
Per questo
riprese a gridare, ruggendo come un leone, senza darsi pace.
<< ARIANA
ARIANA!!! >>
Un sussurro
lo riportò alla vita << Abby >>
Aberforth
quasi svenne quando la vide: raggomitolata,
raffreddata, tremante, sporca. Mezza nuda. Senza pensarci
usò la magia e se la
caricò in braccio, coprendola di abbracci, togliendosi la
camicia per
scaldarla, baciandola dolcemente, mormorandole parole di conforto.
Nonostante
gli prudessero le mani da morire. << chi ti ha fatto
questo? Ariana, chi
ti ha fatto questo? >>
La bambina
non rispose, scoppiò a piangere, continuò a
tremare, senza che lui potesse capire. Aberforth si godette la
passeggiata con
in braccio l’unica persona che amasse davvero. Quando
passarono davanti a Joe e
alla sua banda, il fratello mediano notò in Ariana un
cambiamento: la piccola
iniziò a battere I denti, e il corpo fu scosso da
convulsioni irrefrenabili.
<<
merda >> disse Aberforth. Erano stati
loro.
Joe lo
fissava, come a volerlo sfidare << cosa
vuoi, Silente? Per caso sei venuto a dirmi che tuo fratello si
è innamorato di
me? O per caso vogliamo parlare di quella strega di tua sorella?
Sappiamo
tutto, sappiamo delle vostre deviazioni! Tornatevene da dove siete
venuti,
adoratori del demonio! >> e lo prese a sbeffeggiare e
rise come un
idiota, spalleggiato dai suoi copagni idioti. Aberforth non ci vide
più. Poggiò
a terra Ariana, che riprese a gridare e a strapparsi I capelli, scossa
da
tremori che non erano di quella terra, a strillare << no,
basta, per
favore, perchè questo? >> mentre il giovane
assestò un calcio nei
gioielli di famiglia di quel bastardo << NON TOCCARE MIA
SORELLA! NON
NOMINARE MIO FRATELLO! NON PRONUNCIARE IL NOME DEI SILENTE IN VANO! HAI
CAPITO
SPORCO D’UN BABBANO???? >>. E nel frattempo
affondava, picchiava, gli
faceva sputare sangue, perchè non c’era miglior
punizione per uno stronzo che se
la prendeva con una bambina, un angelo come sua sorella, dovev
ucciderlo,
doveva renderlo zoppo, doveva perdere tutti I denti, mentre Albus e
Percival
erano giunti in quella stradina, il primo aveva raccolto la piccola e
l’aveva
portata via, messa a letto e fermato le convulsioni, che erano
diventati
attacchi isterici simili ad una possessione demoniaca, a badare a
Kendra che
stava quasi peggio di Ariana, mentre Percival, sconvolto, incapace di
credere
che se la fossero presa con una bambina, aveva cacciato la bacchetta,
che non
usava da una vita, da quando si erano stabiliti a Godric’s
Hollow per la salute
di Ariana, e li aveva puniti nell’unico modo che sapeva
utilizzare. Con quella
magia che I babbani odiavano e temevano.
Quella notte
Percival era stato condotto ad Azkaban e
giudicato colpevole di aver attaccato dei babbani senza una motivazione
lecita.
I Silente erano troppo orgogliosi per parlare di Ariana, di quella
bambina che
aveva perso la dolcezza e l’intelligenza per aver fatto
volteggiare una mela, per
essersi opposta ad una sporca banda di paese. Perchè,
pensava Percival, meglio
farsi crocifiggere lui, che aveva ottenuto già tutto dalla
vita, che rendere
pubblico un male eterno della piccola, che coprire di vergogna
Aberforth.
Meglio morire piuttosto che far male alla sua famiglia, a Kendra, ad
Albus. A
quelli che non avrebbero capito il suo gesto, non lo avrebbero
apprezzato,
divenire brutale come quei babbani, divenire peggiore. Ma lui era un
padre, e
quella notte gli era morta la sua unica figlia.
Albus
non lo capì inizialmente. Riuscì a comprendere
cosa
significasse tornare a casa, vedere Ariana nel suo lettino e non
poterle dire
niente, perchè era divenuta come una bambola di porcellana,
candida, bella per
sempre, ma vuota, distante, su un altro pianeta solo quando fu
costretto a
vivere con lei, a non poterla ignorare. Il suo spettro avrebbe per
sempre
tormentato Albus, anche cinquant’anni dopo, anche quando il
mondo magico stava
crollando sotto I colpi di Tom Riddle e la morte lo stava prendendo, e
nessuno
dei suoi vecchi amori sarebbe stato accanto a lui, solo quel figlio,
quel
nipote che non aveva mai avuto, Harry Potter, lo avrebbe guardato
preoccupato e
sconvolto cadere giù dalla torre di Astronomia.
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Capitolo 3 *** tre ***
ecco un nuovo
capitolo. qui ho scritto che gellert e albus si incontrano
appena diciassettenni, so che si incontrerannop solo nell'estate dopo i
MAGO, ma non avrebbe avuto senso parlare di un viaggio di istruzione
nel caso di Grindelwald e poi lasciarlo marcire senza avere almeno un
incontro con Al... dal prossimo capitolo credo che Kendra
farà una brutta fine, mi dispiace proprio per lei, non se lo
merita quella donna!!! Rita Skeeter la vede come una sciocca superba e
invidiosa, ma per me è una madre e una donna forte, da
ammirare.
e grazie a Sakijune
e a Cathleen che mi seguono sempre, siete molto dolci!
Capitolo terzo
La carta da parati
si stava distaccando inesorabilmente, lasciando visibili
due scarafaggi bavosi che probabilmente stavano corteggiandosi. Questo
Grindelwald, preso dallo schifo della scoperta, non poteva proprio
negarlo. Disteso
in un lettino che assomigliava ad una branda militare di terza
categoria ad
osservare le macchie di umidità sul soffitto, e le pareti
fatiscenti di
cartongesso, che non lasciavano nulla all’immaginazione,
sospirò della sua
miseria irrefutabile trovando davvero
impossibile equivocare quei gemiti proibiti che provenivano
dall’appartamento
di Armida Middle, la sua vicina di pianerottolo in quella babele di
gente
ammassata senza futuro nè speranze, che di sicuro non stava
pelando patate, e
probabilmente stava semplicemente cercando di guadagnarsi qualche
spicciolo nel
peggiore e nel più naturale dei modi. La prostituzione
minorile era una di
quelle cose che muovevano il mondo e producevano un profitto certo
anche in
quei tempi promiscui, ambiguamente tetri. Grindelwald non voleva
lasciarsi
conquistare da quella macchina alimentata da menzogne e da corpi
scheletrici,
probabilmente ammalati e percossi, come facevano I suoi coetanei quando
il
desiderio li sorprendeva, senza che potessero frenarlo. Lui non voleva
essere
uno dei tanti. Se proprio avrebbe dovuto darsi in pasto ad una donna,
sarebbe
stato il primo, lo avrebbe fatto per dimostrare al mondo che lui era il
migliore. Non uno qualunque. Quando non potè proprio
ignorare lo sbatacchiare
dei corpi avvinghiati, all’altro capo della parete di
cartongesso, decise di
alzarsi, andare al cesso per orinare una volta per tutte ed abbandonare
per qualche
ora quel postribolo abitato da spiriti, fuorilegge e lucciole, in cui
vigeva la
legge dello sceriffo dai baffoni neri e dal etto villoso, bordello
frequentato
come Picadilly il sabato sera da filibustieri nascosti sotto spoglie di
galantuomini con una banconota fra le mani avide e un gioiello
impacchettato
nelle tasche dei calzoni, per zittire I dubbi e I pianti delle grandi
dame
dalla bellezza appassita, quelle mogli sulla difensiva, troppo
morigerate e
chiuse, donne che l’amore lo conoscevano solo teoricamente,
che avevano passato
le notti sveglie a sbirciare quei libri del sesso vietati nei loro
conventi per
brave mogli e a pregare, a supplicare il perdono con un rosario in mano
di
giorno, perdono, mio Dio, abbi pietà della tua serva
peccatrice, donne che
pensavano in nero ed agivano in bianco. Grindelwald detestava chi non
sapeva
seguire I propri pensieri, I deboli, che si abbassavano, si
soffocavano, per
scegliere tracciati altrui, certamente più sicuri
perchè sarebbero stati
percorsi da più gambe, ma vili, senza alcuna gloria,
perchè nell’uccidere le
proprie idee c’era solo da prendersi a schiaffi e sgozzarsi.
Ammirava
quell’uomo vestito di verde, con la svastica e I baffetti
come segni
distintivi, che aizzava il popolo puro contro quegli spocchiosi usurai,
sodomiti e traditori fino ad allora liberi di deviare la gente che era
loro
vicina. Detestava perfino quegli orridi mongoloidi, con le facce beone
ed il
cervello staccato dal corpo, esseri mastodontici che si muovevano per
le strade
della capitale come in una bolla di sapone, avvolti dalla nebbia,
così lontani
da sembrare eterei eppure reali, da far disgusto alla gente normale.
Ammirava
quel babbano folle che ammaestrava le masse, così piccolo ma
così certo del suo
sogno, delle sue dottrine, da esser entrato nella gabbia dei leoni,
solo e
senza armi e di essere uscito in groppa al loro capo, signore della
vecchia
dama piena d’acciacchi, l’Europa, generale di
schiere sempre più grosse, che
nemmeno si potevano più ignorare per il rumore che sapevano
emettere. Lo
ammirava, e sapeva che uno come lui sarebbe stato di certo un buon
consigliere,
quando avrebbe anche lui messo in pratica I suoi sogni.
<<
già, sarà l’ultimo dei babbani che
verranno schiavizzati >>
sorrise, in quel giorno di primavera in cui l’aria puzzava di
sudori proibiti e
mercato, mentre si incamminava verso il parco cittadino dove, immerso
nel
silenzio, tra le fronde erbose e fruscianti della natura, avrebbe
potuto
smaterializzarsi, per una sana camminata nel mondo dei suoi pari, I
maghi
inglesi che disdegnavano la civiltà babbana. Sì,
gli ci voleva proprio un giro
a Hogsmeade!
Albus aveva appena
compiuto I suoi diciassette anni, festeggiando nel
Dormitorio di Grifondoro con Elphias Doge,il sui migliore amico sin dai
tempi
dello scandalo di Percival Silente. Aberforth, che era al suo quinto
anno, si
era rifiutato di prendere parte al compleanno, sdegnato e arrabbiato
con il
fratello maggiore e aveva passato quella serata, acclamata dai
professori e
dalle tre case sorelle di Grifondoro, Tassorosso e Corvonero, chiuso
nel suo
dormitorio, mentre I compagni di stanza stavano ballando allegramente
nella
sala comune, gettando scompiglio fra I morbidi sofa poco distanti dal
camino
spento. Per quell’occasione Bathilda Bagshoot una strega
promettente che aveva
la fissa per la storia, ed era l’unica in grado di non
impazzire su quei tomi
voluminosi sui troll, I goblin continue rivolte tra maghi. Viveva nella
casetta
limitrofa alla sua a Godric’s Hollow anche se da qualche
tempo trascorreva i
suoi inverni in giro per il mondo. Aveva molti anni più dei
giovani Grifondoro,
ma si era recata al castello, portando in dono al ragazzo un sacco di
manufatti
intrisi di magia romana risalenti come minimo ai tempi di Augusto.
<< Tuo
fratello, dov’è Al? >> gli aveva
chiesto Bathilda, la
quale aveva permesso ad Albus di incontrare la piccola Minerva, una
bambinetta
del primo anno con I capelli corvini e gli occhi verdi la cui forma
rammentava
vagamente quella dei gatti. Minerva aveva un portamento da signora di
gran
classe sin dall’infanzia, mostrava un sangue freddo e
capacità organizzative da
generalessa, e Albus sorrideva vedendola arrossire quando lei gli
domandava in
prestito un libro qualsiasi, immaginandosela una grande politica,
magari la
prima donna ministro della magia. Anche quella sera, nella Sala Comune,
Minerva
e Elphias gli stavano accanto, aiutandolo nel difficile compito di
servire una
torta gigantesca all’intero dormitorio meno che ad Aberforth.
Albus udendo
quella domanda quasi inciampò, barcollò
debolmente sulle sue gambe molli, e fu
Minerva, rossa in viso, ma con gli occhi verdi severi e decisi, a
sorreggerlo e
a salvare il tavolo delle vettovaglie.
<<
grazie, Minny. Beh, Bathilda cara, Aberforth ha deciso di non
esserci. È ancora arrabbiato con me dall’ultima
lettera di nostra madre
>> sussurrò in un bisbiglio.
Sospirò, poi si scrollò di dosso la sua
malinconia << gli ho detto che non mi importa. Gli
porterò un po’ di
torta su in camera, magari a festa terminata >>. La
giovane strega annuì,
arrossendo violentemente, e sparì, diretta verso Elphias che
stava gareggiando
con altri studenti a chi ingoiava più burrobirra. In effetti
la ragazza si era
dileguata perchè conosceva cosa era accaduto tra I due
fratelli solo qualche
giorno prima.
Aberforth aveva
ricevuto una lettera da Kendra, in cui annunciava che
Ariana finalmente era rinvenuta da quello strano stato di perenne
nenia, aveva
smesso di ripetere sempre le stesse parole, e adesso si era rimessa in
forze,
passeggiava nel giardinetto della loro abitazione e salutava la vicina
con
allegria, la madre di Bathilda, e raccoglieva le primule e I gigli, si
divertiva e si stupiva osservando il volo degli uccelli, aiutava sua
madre
nelle faccende domestiche, ma solo quelle in cui non dovesse stancarsi
troppo,
e da qualche tempo aveva ripreso a mangiare e perfino a sorridere e a
chiedere
dei suoi fratelli. Kendra sperava che I suoi figli potessero
raggiungerla da
Hogwarts, magari nel giorno del compleanno di Albus, perchè
loro lo sapevano,
Ariana non poteva viaggiare e poi I medici avevano consigliato alla
madre di
non bombardare la mente fragile e delicata della figlia conducendola in
luoghi
troppo affollati come una scuola brulicante di adolescenti, cosa che
avrebbe
potuto far tornare in mente la figura di Joe e della sua banda, e di
lasciarla
in un luogo ad Ariana famigliare, perchè solo
così quella creatura avrebbe
potuto conservare una parvenza di volontà e di giudizio.
Così Kendra,
dall’incidente di quella sera tremenda, si era eclissata per
la società per
vivere solo per la piccola, ne divenne l’infermiera, perse
l’appetito e gli
interessi esterni, smise quasi di piangere per Percival, che continuava
a
rodersi in quella prigione inespugnabile, Azkaban, colpevole solo di
essersi
fatto giustizia da solo, prima che il popolo non li scacciasse tutti e
potessero dirsi danneggiati e beffati, anche se con quella mossa la
famiglia
non avrebbe di certo riavuto il sorriso di Ariana, aveva anzi perso il
pilastro,l’albero maestro, e adesso che la piccola
imbarcazione era circondata
dai pirati, ingoiava acqua da un lato, poteva solo arrendersi,
consegnarsi,
supplicare. Vi prego, vi diamo tutto, ma non cacciateci di qua, per
favore, per
favore, sembrava dicessero gli occhi di Kendra, ogni volta in cui era
costretta
a recarsi in paese, in quella gabbia di iene e avvoltoi che la
schernivano con
lo sguardo, le chiedevano spiegazioni sui suoi figli, come se lei
dovesse
metter delle scuse per giustificarsi, le chiedevano principalmente di
Albus,
l’unico di cui non avessero di che vergognarsi, mentre di
Ariana e Aberforth
avevano preferito dimenticarli, affidarli all’oblio, fingere
di non ricordarli
come a voler mettere loro una croce addosso, cancellarli per sempre. Ma
la
bambina che soffriva di convulsioni e gridava come un’ossessa
a volte per una
settimana intera, e si strappava I capelli, si svestiva e si graffiava
il
corpo, strillava istericamente, a volte sembrava davvero posseduta da
qualche
spirito malefico, e I suoi occhi vuoti potevano incutere terrore anche
agli
esseri inanimati. Alcuni dicevano che quando Ariana gridava le pietre
si
spaccavano e le piante si afflosciavano, I bambini dovevano
nascondersi, le ragazze
bisognava che si vestissero di bianco e recitassero tutto il rosario
con la
finestra e la porta della camera chiusa e I ragazzi spesso li si
celava, alcuni
li mascheravano perfino da femmine, perchè la furia della
bambina che nessuno
voleva confessare di udire si sarebbe gettata addosso a loro, per
punirli di
quello che le avevano fatto quando aveva solo otto anni, e adesso che
ne aveva
quasi quindici non poteva più frenare quel dolore, non
poteva soffocare la
vendetta sotto il cuscino. Voleva, doveva ucciderli tutti.
Ma chiunque avesse
guardato quell’uccellino morente disteso sul letto, con
gli occhi fissi al soffitto a seguire la filigrana di fiori che si
profilava
fino alla finestra appannata dal freddo, avrebbe sentito le lacrime
sgorgare, e
si sarebbe seduto al capezzale di Ariana, chiedendosi chi fosse in
realtà la
bestia, se lei che gridava inconsciamente o quelli che le avevano fatto
così
tanto male.
Kendra aveva sperato
che, visti I miglioramenti della sorella, Albus
avrebbe potuto passare un po’ di tempo con loro, magari per
infrangere quel
silenzio innaturale, doloroso, che riempiva le ore lente e inesorabili
in cui
Ariana non voleva parlare, o in cui non gridava ossessivamente. Quelle
erano di
certo le eternità peggiori per il cuore della madre,
perchè non poteva negare
che le ceneri di quella famiglia le stavano sfuggendo, rimanevano solo
I suoi
ricordi, le ore trascorse a passeggio con Percival, accarezzando il
pancione in
cui Albus si stava formando lentamente, amore, sarà il
bambino più bello del
mondo, oppure le passeggiate con Aberforth verso I campi di grano,
guardate
madre, quei folletti ci stanno derubando! Oppure quelle giornate
trascorse a
pettinare I capelli della piccola della famiglia, a creare mille
acconciature,
a farle I ricci o le trecce, bambina mia, quale preferisci
oggi?sorridere
sapendo che sarebbe restato così per sempre.
Ma Kendra si era
dovuta smentire: nulla poteva rimanere immutato. Purtroppo.
Aveva aspettato per
giorni la risposta dei suoi figli, che si erano fatti
grandi, e Albus era davvero un ragazzo meraviglioso, intelligente e
pieno di
amici, mentre Aberforth si stava facendo un uomo dalle spalle larghe e
dagli
occhi foschi, che non sapeva amare alla maniera dei rampolli delle
famiglie
nobili, un po’ come il suo povero Perce, che si rattrappiva
in prigione ma lei
gli voleva lo stesso bene, quel genere di uomini che sembra possano
strangolare
una donna in un abbraccio ma che sono I più sensibili e
fedeli e possessivi che
esistano. Aveva atteso, mostrando le foto consumate a furia di
sfogliarle e far
scivolare il dito di Ariana sui visi dei suoi fratelli, quando lei non
li
ricordava o chiedeva di vederli e loro non c’erano e la
ragazza poteva
rammentare un passato sfuggito solo in quel modo scarno, decisamente
triste. Aveva
atteso Kendra, e per ore aveva pianto, perchè il giorno del
compleanno lo aveva
passato da sola, a convincere Ariana che quell’ombra non
fosse un brigante, che
no, non volevano farle del male, tutt’altro, era solo un
gioco di luci, quel
profilo grigiastro disegnato sui fiorellini della carta da parati era
solo una
proiezione, non doveva piangere, non doveva gridare, perchè
si stava strappando
i capelli, perchè non voleva ascoltare sua madre? Ariana era
di nuovo caduta in
un sonno inquieto, una passeggiata tra gli spettri della sua infanzia,
a tratti
rallegrato dalle carezze di Aberforth, a tratti denso degli sguardi di
Albus,
perchè diavolo la stava osservando?, lei non lo sapeva, ma
la cosa le dava da
pensare. Ma non aveva da pensare, perchè lei era una.. come
l’avevano chiamata
quei ragazzi, tanto tempo prima?
Una strega. Si, lo
era stata forse. Ma adesso era solo un corpo vuoto,
fragile e pallido. Adesso che si stava spegnendo e perdeva le forze,
mentre sua
madre piangeva e quelle lacrime le causavano crisi isteriche.
Perchè sua madre
stava piangendo? Lei non lo sapeva, così come non aveva
capito che avere poteri
magici fosse un crimine, non aveva mai capito nulla della vita, per
questo
aveva deciso di affrontarla distruggendo la realtà,
uccidendosi di strida e di
calci, implodendo poco a poco, mettendo a soqquadro la casa dalle
stanze vuote
piena di dolore.
Aberforth si era
raggomitolato nel suo letto. Come in ogni grande occasione
non aveva saputo frenare le lacrime. Pensava a suo fratello e si
sentiva
esplodere: perchè diamine si comportava così?
Albus, perchè sei senza cuore?
A Natale Aberforth
era stato a casa, dalla sua adorata sorella. Chissà
perchè, ma si aspettava che la sua sola presenza
l’avrebbe risvegliata. Si era
presentato con delle roselline fresche, appena colte dalla serra della
scuola,
sotto la concessione della professoressa di Erbologia che per qualche
motivo
gli sorrideva sempre, con fare materno e lo faceva arrossire. Aveva
chiesto a
suo fratello se volesse accompagnarlo a casa, ma Albus aveva
l’aria di stare su
di un altro pianeta, aveva detto di essere impegnato, così
il ragazzo si era
rassegnato a partire da solo, chiedendosi come fosse possibile
dimenticarsi
della famiglia nelle occasioni speciali. Aberforth però non
lo avrebbe mai
detto a voce alta: diamine, lui non poteva mostrarsi debole, romantico!
Ma sua
sorella aveva bisogno di dolcezza, e un caprone rude come lui non
poteva non
piegarsi di fronte a quella creatura delicata, Ariana.
La neve
quell’anno non era ancora caduta, ma il cielo terso dava
l’impressione che avrebbe messo in scena un putiferio. La
carrozza aveva
piegato velocemente verso Godric’s Hollow, fermandosi poco
distante dalla
casetta dei Silente. Aberforth era sceso, assaporando l’aria
incantata del
borgo a Natale: per quanto lo detestasse era pur sempre bello, tornare
a casa e
avere un bagaglio di ricordi che cascando all’improvviso, si
apriva riversando
addosso le giornate dell’infanzia. Per il tragico incidente,
Aberforth aveva
portato un bagaglio a parte, in modo che I bei tempi non si
macchiassero di
marcio, delle sue mani sanguinanti, della furia pazza che gli era
montata in
corpo e delle urla di sua sorella, del suo corpicino bagnato di sputi e
pieno
di lividi, delle lacrime di Kendra e della bacchetta infranta di
Percival, del
fratello con il libro aperto e senza parole da rivolgere alla famiglia,
già,
quel fratello che non aveva mai amato I suoi parenti, troppo normali,
troppo
insulsi, troppo compromettenti, perchè tra un padre
fuorilegge, una madre depressa,
un fratello violento e una sorella trasparente non avrebbe avuto nulla
di cui
vantarsi, poteva fingersi umile, inumidirsi le ciglia, in modo che le
ragazze
volessero consolarlo e I professori elargirgli favori e trofei.
Aberforth si
decise a dimenticare quelle sue opinioni, per il bene della madre. Per
Ariana.
Quando sfiorò il battente, un brivido lo percorse
raggiungendogli le ossa: sua
sorella stava strillando.
Entrò,
battendo come un pazzo contro la porta, giusto in tempo per vedere
la sua dea sbattere a terra Kendra, saltarle addosso, graffiandola,
mordendola,
furiosamente. Aberforth si era sentito morire, ma aveva deciso di
mantenere il
sangue freddo, così aveva afferrato Ariana per la schiena,
incurante dei calci
e dei pugni che gli avrebbe assestato e fece in modo di liberare sua
madre
dalla morsa assassina in cui stava soffocando. La donna
recuperò lucidità in un
baleno, cosa che fece presagire al ragazzo che quella scena si fosse
ripetuta
diverse volte, con la stessa tragica foga, e poi anche lei, con le
rughe
appesantite sul viso, aveva aiutato il figlio nel mettere a letto
Ariana, darle
un calmante ed osservare le convulsioni scemare, fino a ritrovarla
febbricitante e stupita, un uccellino appena nato in balia del vento.
Si erano seduti a
tavola, Kendra aveva cercato di rendere la casa
confortevole, ma assomigliava al mausoleo del tempo andato, e Aberforth
avrebbe
preferito morire piuttosto che osservare quella donnona rattrappirsi, a
furia
di ingoiare dolore e frenare le lacrime. Ma lui non poteva ancora tener
fede a
quella promessa che si era fatto,
Quel ricordo gli
faceva intendere perchè Albus non volesse ritornare
lì
dove gli orrori si susseguivano senza mai lasciar a riposo I Silente.
Lo poteva
capire, forse, ma di certo non lo apprezzava. Anzi, lo odiava sul serio
perchè
Kendra e Ariana non si meritavano la sua noncuranza. Sapeva solo
passeggiare
con la sua ristretta cerchia di eletti, perchè di amici ne
aveva fin troppi, ma
il circolo scipionico era una sorta di setta riservata a pochi scelti,
e
spadroneggiare per la scuola, beccarsi con qualche Serpeverde una volta
ogni
tanto, ma poi a finire nei pasticci era sempre il fratello rude, non il
perfetto primogenito dal naso aquilino e dall’intuito quasi
infallibile.
Così
quando Albus entrò nel suo dormitorio, con la faccia
ammorbidita da un
sorriso smagliante, gli parve che stesse gettando fango sul nome della
famiglia. Gli prudevano le mani, come tutte le volte che doveva
difendersi e
dar pugni. << voglio solo parlarti >>
sussurrò Albus, imperterrito.
<<
va’ al diavolo >> disse lui, di rimando.
Albus si era
sistemato in un cantuccio della stanza chiusa, cercando nella
penombra delle parole per spiegarsi. Lui che ne aveva sempre fin troppe
adesso
le aveva smarrite tutte.
<< ho
intenzione di partire dopodomani, per restare fino al settimo
anno a casa. Da Ariana e nostra madre. Ho intenzione di lavorare a
Godric’s
Hollow, di scrivere per I giornali e proporre le mie idee. Magari mi
brevettano
qualcosa e possiamo comprare con quei soldi un regalo a nostra madre,
un
soggiorno in qualche clinica specializzata per Ariana… ho
sentito dire che in
Francia ce n’è una in cui solo I Purosangue
possono entrare, o per lo meno,
solo loro teoricamente possono permetterselo…
>>
Aberforth
scattò in piedi << quindi tu vorresti porre
fine ai nostri
problemi con un gioiello per la mamma e un viaggio di sola andata per
Ariana? Vuoi
mandarla da uno.. >> abbassò il tono
<< strizzacervelli, questo
vuoi Albus? >>
Il giovane scosse il
capo << non mi vuoi capire! È come parlare con
un muro, Ab. Voglio solo fare qualcosa per lei >>
<< lei
voleva che noi fossimo a Godric’s Hollow, oggi, con una torta
e un fiore appassito in mano, con un sorriso, che non costa nulla, e
qualche
favoletta per cullarla quando mamma l’avrebbe portata a
dormire! >>
Albus
scoppiò a ridere << e una volta che ce ne
fossimo andati, cosa
sarebbe cambiato? Lei soffre nel vedere partenze ed arrivi in
continuazione…
non abita in un porto, si sentirebbe usata! >>
<< tu
non sai nulla di nostra sorella! Sei così dentro quei tuoi
libracci che non ti accorgi di quello che la gente dice di lei, di me,
di te,
nè ti interessa che nostra madre sia sfiorita in pochi anni,
ed ora assomiglia
ad una vecchia quando non ha neanche quarant’anni, non ti
importa di
allontanare Ariana da casa, perchè è per il suo
bene, giusto? E magari, quando
quei babbani saranno stanchi di aizzarsi l’un
l’altro e cominceranno la guerra
vera e propria la lascerai come ostaggio ai vincitori, così
potrà capire come
va il mondo, eh?? >>
<<
stai divagando, fratello >> disse Albus, con il viso
annoiato << non vuoi capire proprio. Ho parlato con il
preside e mi ha
accordato il permesso di poter dare gli esami questo
giovedì. Sono già
preparato, e partirò per Godric’s Hollow sabato
sera. Baderò io alla famiglia,
mentre tu ti affannerai sui G.U.F.O >> e detto
ciò uscì, lasciando
Aberforth a tirar pugni contro il materasso e a maledire il mondo, a
bestemmiare contro chi aveva fatto franare il loro piccolo paradiso
personale.
<<
avrebbero dovuto farlo a me, non a lei >>
sussurrò Albus,
quando fu sicuro che nessuno lo udisse, lo cantò al
firmamento, a quelle stelle
amare che lo avevano beffato da sempre. Lui era diverso, e ne era ben
conscio.
Se qualcuno avesse
chiesto a Gridelwald dove si trovasse il paradiso, lui
avrebbe gridato ai quattro venti Hogsmeade senza alcuna esitazione.
Perchè in
quel borgo per soli maghi, lontano dal tempo e dalle sue angherie,
sembrava che
una festa eterna, una fiera sfarzosa e allegra, regnasse sovrana. Dopo
tutti I
contadini morti per la fame, gli attacchi di panico chiuso in celle
fredde, ad
aspettare che gli eserciti smettessero di far razzia o violentare le
donne
della propria famiglia, o a star nella stalla, mentre fuori infuriava
la
tempesta, e dover rimanere immobile, nel buio, tra lo sterco e
l’odore
ammorbante della morte, spirito che mai lo abbandonava, sembrava quello
l’ombelico del mondo, dove non c’era da temere per
la fame, dove il sole
splendeva sul serio e non per pura convenzione, e I soldi non mancavano
così
come il cibo, e di eserciti vi erano solo le schiere di giullari e
allegre
danzatrici, che lanciavano nell’aria volantini inseguite dai
bambini e dai
ragazzi dal viso in fiamme. Sembrava una grande giostra circense, e
Grindelwald
si chiedeva quando sarebbero apparsi I cavalieri e le dame,
costeggiando la
stradina, agguantando una copia della Gazzetta del Profeta, il giornale
più in
voga della nazione magica inglese. Gli veniva da ridere, se ripensava
alla sua
camera puzzolente, dove gli amanti del pettegolezzo avrebbero potuto
farsi
quattro risate, giocando a indovinare con chi si accompagnassero le
ragazzine,
dall’altro capo del cartongesso. In quel mentre, una carrozza
dall’aria
ufficiale stava scendendo dal pendio più remoto che si
poteva intravedere dalla
larga strada maestra, ininterrotta, sebbene ci fossero così
tante buche da far
invidia ad una talpa. Dietro le cortine rosse e dorate un ragazzo dagli
occhi
d’un azzurro intenso, come l’oceano in un giorno di
sole si godeva gli ultimi
momenti di libertà, prima di riportare a casa le sue
conoscenze, la sua pagella
piena di eccezionali. Riportava I saluti di Bathilda a Ariana e alla
cara
Kendra e la promessa di rivedere presto Elphias Doge per una
scampagnata, le
lacrime di Minerva, che aveva deciso di comportarsi con
dignità, senza addii
teatrali, ma che poi aveva dato il via ad un melodramma vero e proprio
nell’intimità delle sue stanze. Aberforth non
aveva voluto salutarlo, la torta
di compleanno l’aveva fatta marcire, e se le era date di
santa ragione con
quella testa calda di Hoggins, un Serpeverde dell’ultimo anno
delle fattezze di
una balena tanto per smaltire la rabbia. Era così simile a
Percival… Albus lo
invidiava, perchè anche lui avrebbe dovuto essere brutale
almeno un pochino,
magari non avrebbe mostrato in pubblico quel suo lato, ma ad averlo
qualche
volta si sarebbe risparmiato le lacrime e le nottate insonni. Lui non
odiava
gli uomini, nonostante gli orrori trascorsi e non amava le donne, le
rispettava
troppo per poterle usare, o corteggiare. Quelle cose erano tutte
finzioni,
l’amore cos’era se non la più grande
burla del mondo? Era un sentimento che non
conosceva e forse non voleva conoscere, perchè nessuno
avrebbe amato un animo
come il suo, troppo saggio per un adolescente, nessuno poteva capire
cosa
significasse sentirsi fuori posto, non sapere cosa farsene con quella
strana
bellezza che ammorbidiva le sue fattezze, di quel coso che occupava le
sue
mutande, che a volte non voleva nemmeno dargli retta, si comportava
come se
avesse vita propria, facendogli scordare perfino delle sue disgrazie.
Albus
aveva sospirato tristemente: che essere imperfetto l’uomo! Ma
poi non aveva
smarrito il sorriso, quella capacità di non perdere il
coraggio nemmeno di
fronte alla morte certa gli sarebbe servito ad accettare con ironia
tutti
quegli avvenimenti che avrebbero segnato per sempre la sua esistenza.
Quel
sorriso un po’ ironico un po’ triste, enigmatico
alla stregua del famoso cenno
della Gioconda, non lo avrebbe mai abbandonato.
Improvvisamente la
carrozza si fermò. Albus fece quasi un capitombolo, non
era abituato a viaggiare con I mezzi babbani, non a sedici anni quasi
diciassette, nella meravigliosa speranza di potersi smaterializzare
entro pochi
mesi, per questo scese tutto ammaccato e con il voltastomaco e
maledicendo a
mezza voce il cocchiere d’occasione.
<<
cosa succede, messere? >> chiese Albus, sorridendo
amabilmente. Il cocchiere, un uomo dal capo spelacchiato e con due
folti
mustacchi sulle labbra indicò la strada senza replicare se
non con gesti. Un
cartello annunciava che le strade sarebbero state inagibili fino alla
sera. <<
beh, allora non mi resta che adattarmi >>
sospirò il ragazzo, alzando le
spalle. Si congedò dal cocchiere, che sarebbe tornato a
prenderlo solo nel
tardo pomeriggio e decise di non perdere tempo rimuginando su quanto
potesse
esser sfortunato uno come lui, anzi, si sarebbe goduto al pieno quelle
ore di
libertà. In fondo se non poteva esser felice alla sua
età che vita miserabile
sarebbe stata? Così si diede alla pazza gioia, dimenticando
di dover
risparmiare un po’ di denaro per quella clinica particolare
di cui aveva
sentito parlare, ricacciandosi nello zaino I dolci di Mielandia, un
locale
luminoso in cui le bancarelle trasudavano di zuccheri, leccornie di
ogni genere,
per poi fare un salto nella biblioteca dei Burbage poco distante al
gioco degli
scherzi di Zonko, il locale più matto della
città. Quando ebbe mangiato dolci a
sazietà, dopo aver duettato con il vecchio proprietario
della biblioteca sui
versi di un babbano famosissimo, William Shakespeare, ed aver lasciato
una
serie di articoli nella redazione della Gazzetta del Profeta, che aveva
aperto
una filiale in una casetta sbilenca nel vicolo più squallido
della cittadella,
Albus sentì che non avrebbe potuto più frenare la
fame, così decise di cercare
in quel borgo in cui le donne potevano passeggiare senza essere
importunate e I
maghi si levavano il cappello con la galanteria d’altri
tempi, e I bambini e
gli anziani camminavano dolcemente, l’uno svelando
all’altro I misteri del
mondo, l’altro sorreggendo il primo con dolcezza e
ammirazione, una tavola
calda che non gli spillasse più soldi del dovuto. Gli fu
chiaro che ai Tre
Manici di Scopa, un locale che da poco aveva aperto per la gioia degli
adolescenti sfaccendati, non c’era posto per lui: in effetti
quel ristorante
era troppo affollato, e lui troppo solo per potervisi divertire. Era
tutta
un’altra storia, a braccetto con la vecchia Bathilda, seguito
da Minerva e dal
caro Elphias, che sapeva sempre sgraffignare dalla scuola un pacco di
gelatine
tutti I gusti più uno da sgranocchiare mentre aspettavano i
boccali di
burrobirra. Così decise di correre a ritroso verso il
confine di Hogsmeade,
sorridendo come un pazzo del sole nel cielo, della strada bloccata che
gli
aveva regalato quelle ore di allegria. Giunse fino ad un locale che era
stato
aperto nella seconda metà del 1500, la Testa di Porco, in
cui si diceva che
trovassero l’estro artisti melensi e gli spiriti di storie da
dover narrare che
nessuno fino ad allora aveva accettato di ospitare nella mente e nel
cuore,
trovavano ascolto, diventavano personaggi reali, con vita e sentimenti
visibili. Era anche locanda di sberle e di pugni, di sbronze da
capogiro e di
amori acerbi, un luogo in cui Albus incontrava il sapore della storia
del
mondo, e per un attimo capiva Bathilda e I suoi occhi lucenti quando si
parlava
del passato. Il ragazzo però non poteva che ammirarlo da
lontano, ma non
invidiarlo: ricordarsi di ciò che era stato per lui non era
lecito, faceva male,
preferiva non pensarci, era meglio continuare così, seguire
il tracciato
rettilineo che si era imposto di percorrere. Mentre rifletteva su
questo, si
ritrovò di fronte all’insegna arrugginita, marcia
e ricoperta di una strana
muffa verde della Testa di Porco. Con un sorriso che gli illuminava
perfino lo
sguardo aprì il portone, salutando garbatamente e
socchiudendo gli occhi,
sorpreso dalla penobra che avviluppava l’ambiente interno:
quattro tavoli rosi
dai topi con sgabelli abbinati, mezzi zoppi decisamente fatiscenti,
muri che
sembravano fossero macchiati di olio, tappezzati di incisioni, quadri,
forse a
nascondere i buchi nelle pareti dai quali penetrava il freddo e rendeva
l’ambiente un frigorifero pure d’estate. Le
finestre erano ottenebrate da
tendaggi violacei, solo un filo di luce poteva penetrane
all’interno,
interrompendo il dominio continuo della notte. Albus notò
che il locale era
apparentemente vuoto, ma quando si accasciò su una seggiola
del bancone,
premendo con l’indice sul piano levigato e guadagnandosi una
scheggia,
sorridendo della polvere che si era depositata sulla sua pelle rosea e
poi
aprendo il libro appena acquistato e una bustina di caramelle, si rese
conto
che un ragazzo dalla pelle olivastra, scuro e pensieroso lo stava
osservano dall’altro
capo del bancone. Albus finse indifferenza, prendendo a sfogliare con
decisione
quel libro, sempre percependo gli occhi scuri dello sconosciuto sul
corpo.
Strano,
pensò il giovane, inizialmente quel viso olivastro, color
della
notte, non lo aveva notato, perchè gli era parso parte
integrante delle
tenebre. Apparve in quel dunque un vecchio inserviente, senza denti ma
non per
questo incapace di sorridere: si chiamava Matthew, ed era il
proprietario del
locale che amministrava con l’aiuto del figlio Anthon. In
comune I due, avevano
solo il cognome, perchè se il primo era solare e cozzava con
le tenebre in cui
era avvolta la stanza, il secondo era silenzioso, ed andava
d’accordo più con
le portate da preparare che con I clienti. Matthew stava invecchiando,
e tante
volte aveva proposto al figlio di prendere le redini dell’
azienda di famiglia,
ma l’altro aveva scosso il capo, non era la sua strada, lui
voleva solo
specializzarsi nell’arte culinaria. Matthew allora aveva
cominciato a cercare
negli sguardi dei ragazzi che si fermavano a quella mensa il suo degno
erede. Aveva
conosciuto Aberforth e da quel momento, scorgendo I suoi modi un
po’ rudi,
decisi, forti, indomabili, aveva visto in lui un grande uomo
d’affari, magari
avrebbe potuto fare gavetta con quel locale. Perchè la Testa
di Porco, per
quanto vecchia e ammuffita, non poteva chiudere. Era un patrimonio
nazionale,
un pezzo di storia.
Quando Matthew vide
Albus lo salutò allegramente, scorgendolo un po’
preocupato e con un sorrisetto falso sul viso, gli offri da bere,
mentre lui
sceglieva qualcosa per pranzo.
<< e
dimmi, come sta tuo fratello? E la vecchia Hogwarts continua
ancora a combattere? Ah, I bei tempi della mia giovinezza, quante
ragazze ho
baciato! >>
Albus
scoppiò a ridere, e rimase colpito nel sentire una risata
profonda
giungere da poco distante, da quello sconosciuto dagli occhi foschi.
Vedendolo
partecipe, il ragazzo non si sentì più uno spione
e potè osservare l’altro
apertamente. Aveva capelli color pece, occhi truci e pesanti, che
potevano
raccogliere in uno sguardo il cielo della tempesta. La pelle era
olivastra ma
fresca, forse erano coetanei, e per di più un naso marcato
segnava il suo
profilo, un segno che bene si armonizzava alla mascella, dandogli un
fascino
che in Albus non si poteva rintracciare. Anche lui, a detta di Bathilda
però
non era propriamente orrendo: I suoi capelli ricci e lisci erano
raccolti in
una coda morbida che gli conferiva un’aria da saggio, e aveva
occhi dolci e
comprensivi, da buon confidente, occhi che sapevano a tempo debito far
tremare
la voce e le gambe.
<< ehi
ragazzo, cosa fai lì in quell’angolo buio del
locale? Vieniti
a sedere qui, vicino a noi! È sempre bello fare nuove
conoscenze, e tu mi
sembri un viaggiatore che ha visto mille soli diversi >>
Grindelwald
grugnì, strozzandosi con un po’ di birra
<< e voi dovete
aver visto l’intera umanità da quel bancone,
signore, se ritenete di saper
leggermi solo con uno sguardo, signore >>
replicò con un sorriso. Aveva
denti candidi, che risplendevano nel buio del primo meriggio.
Nonostante la
nota polemica, che Albus notò in quella replica
apparentemente cordiale, lo
sconosciuto seguì l’invito dell’oste, e
si sedette poco distante da Albus. Chissà
perchè, ma Silente si sentì come in trappola, e
smise di ingozzarsi di
caramelle, facendo cadere lo sguardo sul suo libro nuovamente. Matthew
sorrise
e aprì le finestre << diamine, facciamo
entrare un po’ di luce! Mio
figlio e le sue fissazioni! È convinto che abbiano tassato
perfino il sole! Beh,
io devo andare a prepararvi da mangiare, sennò non
saprò come cacciarvi da qui.
Tra cinque minuti vi porto da mangiare. Voi non siate timidi,
socializzate! È
quello che ci resta, in questi tempi tremendi >>
Grindelwald mosse il
suo boccale nell’aria, brindando alla salute del
vecchietto. Albus sorseggiò a sua volta un po’ di
burrobirra. L’aria era
improvvisamente rovente, o forse stava capitando di nuovo? Si stava
sentendo
in… imbarazzo? E per chi? Per uno di cui non conosceva
nemmeno il suo nome.
Grindelwald si volse
e fece cozzare I boccali per una frazione di secondo. Albus
rimase stupito, ma non seppe cosa dire. Doveva essere arrossito, cosa
che gli
capitava raramente, e non senza apparente motivo. <<
è bella la vostra
nazione >> sussurrò rocamente quel giovane,
strascicando la voce con il
suo accento pesante, nordico, troppo duro. Era la voce di un generale
quella
abbinata agi occhi color petrolio. Albus bevve un altro po’
di birra. Non
sapeva cosa dire. Sorrise semplicemente << in molti lo
pensano. Io però
farei di tutto per cambiarne la mentalità >>
Grindelwald si
grattò il naso, osservando il soffitto <<
quanto pensi
sia vecchia questa catapecchia? Mi fa rimpiangere quasi casa mia
>>.
Silente lo guardò con un sopracciglio alzato. Grindelwald
scoppiò a ridere
<< voi inglese e le vostre sopracciglia mobili. Ho
provato ore a
copiarvi, ma non ci riesco proprio. Mi sentirò dei vostri
solo quando sarò in
grado di farlo muovere per la fronte a mio piacimento >>
poi si ricordò
di non essersi nemmeno presentato. Gli porse la mano, sorridendo con
quei
grandi occhi foschi << mi chiamo Gellert Grindelwald e ho
ottenuto una
borsa di studio dalla mia scuola di Dumstrang. Ho finito gli studi per
quest’anno e credo che per un po’
resterò qui sulla vostra isola. Mi manca solo
un anno prima dei MAGO >>
<<
beh, benvenuto allora! >> prese la mano tra le sue. La
prima
era callosa, indurita dalla guerra. Mani di adulto. La sua sembrava
pasta per
il pane, così soffice e delicata. Solo un minuscolo callo,
dovuto al modo
sbagliato di reggere la piuma, si era insinuato nella cavità
laterale del suo
dito medio, ma comunque non era nulla di cui vantarsi, non
c’erano storie
legate che avrebbe potuto narrare ad un pubblico << io
sono Albus
Silente, piacere mio. Beh, anche io ho una borsa di studio e sto
ritornando a
casa da Hogwarts. Anche io sono al sesto anno >>
Gellert
annuì << è una coincidenza alquanto
strana che due studenti
si ritrovino in una baracca del genere e che abbiano ordinato lo stesso
cibo
per pranzo >> osservò, quando Matthew
tornò con due piatti identici per
loro. << già >>
commentò l’altro ridendo <<
chissà se la
pensiamo ugualmente sul mondo? >>
Ma non pensavano
nello stesso modo. O meglio, entrambi avevano grandi
progetti per il futuro. Uno voleva costruire, l’altro
distruggere. Uno voleva
ricongiungere I cocci, l’altro voleva spazzarli via.
L’uno si sarebbe
innamorato, l’altro avrebbe finto per non perdere un sostegno
contro le
avversità. O forse, aveva amato solo a modo suo. In quella
locanda che un
giorno avrebbe visto Aberforth invecchiato e ingobbito pulire I
bicchieri senza
convinzione, perchè del resto non avrebbero mai brillato
quei dannati boccali,
dove I due giovani si sarebbero incontrati tante altre volte
l’uno felice come
in paradiso,l’altro con sul volto la febbrile follia delle
sue idee, qualcosa
era appena sbocciato. Un interesse timido da un lato e curioso
dall’altro. Non
sapevano cosa potesse essere quella forza che li aveva fatti
incontrare. Era da
approfondire, pensarono entrambi, quando vollero scambiarsi gli
indirizzi, e
Albus, salendo sulla carrozza molte ore dopo, pregò Gellert
di potersi recare
lui nel palazzetto degli amori proibiti, perchè in casa sua
aveva la madre che
soffriva di salute, mentì. Non voleva che quel giovane
dovesse conoscere
Ariana. O Aberforth.
<<
certo, ci vedremo presto. Hai delle buone idee, Albus Silente
>>
Si, idee fasulle,
che lui non condivideva. Aveva detto una seconda bugia. Per
parlare con quel misterioso cavaliere finito per studi nella sua terra
aveva
detto senza pensarci << per me I babbani dovrebbero
essere usati come
elfi domestici >>. Che grande cazzata.
Albus
sbattè la testa contro la tappezzeria della carrozza, mentre
la luna
piena occupava il cielo illuminandolo dolcemente, ripensando alla
giornata
appena trascorsa. Chi era quel giovane inciampato nella sua vita? Non
lo
sapeva, solo Gellert Grindelwald, un ragazzo dalle idee strane e dagli
occhi
crudeli. Occhi misteriosi. Occhi affascinanti. Quegli occhi che non lo
fecero
dormire per molte notti, nell’attesa di poterli rivedere.
Continua…
bene, che ve ne pare come terzo capitolo?????
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