IL PRINCIPIO DELLA FINE ( the greater good )

di LeMuseInquietanti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** GELLERT ***
Capitolo 2: *** ARIANA'S TALE ***
Capitolo 3: *** tre ***



Capitolo 1
*** GELLERT ***


Salve! La storia su Albus e Gellert avevo iniziato a pubblicarla da circa un mese, ma dopo ho deciso di fermarmi, essendomi accorta di aver sbagliato troppe cose, non avendo ben compreso il libro prima di poter mettere le mani sulla traduzione in italiano. Ad esempio, credevo che Balthilda fosse studentessa ai tempi di Al, invece era la vicina di casa nonché la zia di Gellert… quindi ripubblico questo primo capitolo, e man mano modificherò la storia, sperando che qualcuno abbia il cuore di seguirmi! Grazie mille! Devo scusarmi con chi mi ha commentato, in particolare sakijune, harryely e chi mi ha salvato tra i preferiti... se volete scriverò per voi i prossimi capitoli, impegnandomi a seguire la trama accennata dalla Rowling, o almeno non variare il carattere e le informazioni che lei ci ha donato...^^

                                                  THE GREATER GOOD- UNO

 

Lo vedeva passeggiare con in mano un libro sdrucito, incartapecorito e sul volto lo sfigurava l’espressione inquieta di chi sa troppo e vorrebbe rivelare agli altri un mistero grosso quanto un macigno. Camminava troppo velocemente, solo Fanny riusciva con le sue ali leggiadre e infuocate, a stargli dietro, e a volte lo beccava per indurlo a fermarsi. Ma il giovane uomo indugiava, si rifiutava di stare al pari con la gente normale, lui voleva essere sempre anche solo per un passo più vicino al suo futuro, lui nascondeva un piano geniale e malefico, in quel libro scuro che puzzava di muffa e pelle di drago mal conciata.

Lui veniva da una famiglia del Nord, aveva visto crollare imperi e morire i suoi cari nelle guerre di indipendenza, aveva scorto la neve nello stesso istante in cui aveva aperto gli occhi per la prima volta. Non aveva mai posseduto una donna, non gli interessavano certe cose, gli bastava sentirsi superiore in ogni campo, per sentirsi appagato e sicuro di fronte ai cambiamenti del mondo. Era stato costretto a fuggire, nei giorni in cui i Babbani avevano perso la testa, nell’epoca delle brigate con la svastica sul braccio e l’espressione beffarda, inferocita, da belva affamata che sfigurava i loro volti. Grindelwald aveva assistito all’inizio del Reich dalla sua scuola, Dumstrang, con il cuore che scoppiava, tra l’ammirazione per tanto ardore e l’orrore della morte, che veniva a strappare dal letto  suoi compagni e la gente dei dintorni, con l’insistente tocco freddo della sua falce aguzza, tagliente.

<< un giorno arriverà anche per te, amico >> gli disse un compagno, dandogli una pacca veloce sulla spalla. Erano rassegnati. Tutti avrebbero fatto la stessa fine. Ma lui no.

Aveva scansato quell’opportunità, MORIRE, AH!e aveva capito che lì, a Dumstrang, nessuno avrebbe potuto aiutarlo, a sconfiggere colei che conduce con sé la fine, quella signora in nero, l’unica sovrana a cui perfino i generali più valorosi si inchinavano. Lui non sarebbe morto.

Con un pugno di soldi e un incantesimo di smaterializzazione, aveva salutato la gente sdentata con il sangue grumoso ancora attaccato alle ferite sulla pelle giallastra e stanca, aveva detto addio alla neve e ai monti, percorso all’indietro l’Europa, per giungere nella terra circondata dalle acque, dove ancora la minaccia dell’inflazione, delle persecuzioni, della morte per una fucilata ben assestata erano ancora vagheggiamenti per superstizioni e donne insoddisfatte, perché i giornali dicevano che andava tutto bene, i tea delle cinque venivano dilapidati con sfarzo ogni giorno nei salotti delle belle signore opulente, e i lord ancora passeggiavano per Picadilly con passi baldanzosi, gesti plateali. Grindelwald aveva scorto tutto questo in una passeggiata ininterrotta che durò per due giorni, scrutando in ogni finestra, respirando il fasto e la gioia, sentendosi sporco nella sua tenuta da contadino povero, credendo che lo avrebbero sbattuto in carcere perché puzzava come un villano e faceva paura quella sua barba incolta e la testa su cui non troneggiavano cilindri o bombette, e quelle mani pesanti e scure, che potevano essere mani da assassino, e gli occhi foschi, disillusi, in cui aveva celato, con molte difficoltà, il pressante desiderio di sopravvivere, di trascendere l’umanità, cedevole, fragile come la neve al sole, di diventare quasi simile a Dio, anche se Grindelwald dubitava della sua esistenza.

Si trovò un appartamento poco distante dalla capitale, in un posto in cui nemmeno i topi avrebbero voluto vivere, una stanza dalle pareti fatiscenti, dove l’intonaco profumava di merluzzo e la carta da parati a fiori si staccava al minimo tocco, crollando e mostrando le macerie di un’epoca sull’orlo di una crisi di nervi. Ma poteva permettersi solo quel posto, senza acqua calda né riscaldamento, senza una cucina decente ed un bagno dove poter cagare in santa pace, un posto che non era tale, un posto degno solo di esser chiamato bunker. Ma lui poteva permettersi solo quello, e poi non aveva tempo per trovare altri problemi su cui crucciarsi. Di grattacapi per una sola esistenza ne aveva già abbastanza. Quando i proprietari della dimora videro chi sarebbe stato il loro affittuario, un ragazzo dagli occhi neri, pericolosi, spudorati come tutti i tedeschi e la loro razza, ebbero un tremito nell’intimo, ma non lo lasciarono a vedere: gli inglesi non si sarebbero mai fatti mettere i piedi in testa da nessuno.

<< se vuoi vivere qui devi sganciare la grana il cinque di ogni mese. Non puoi pagarci neanche un giorno dopo, o stai ai patti, o sloggi >> gli disse il padrone, un uomo macilento con un’eterna canottiera unta di olio che non nascondeva il petto villoso e ripugnante.

Grindelwald aveva annuito velocemente << stia tranquillo. Pagherò per la topaia come stabilito. Non dovrà preoccuparsi di questo. Ma starò ai patti se voi e il resto del condominio farete finta che io non esista. Sono un giornalista, e devo vivere in solitudine per scrivere dei pezzi convincenti >>

L’uomo macilento aveva alzato un sopracciglio, poco convinto, e la bocca, nascosta da un paio di baffoni scuri, aveva assunto una piega di disprezzo. Ecco, questo è un altro finocchio che si paga da vivere con il suo corpo. Dovrebbe almeno lavarsi, prima, ma forse a qualcuno piace l’odore di sporco, aveva pensato il padrone, ma temendo che dando voce alle sue idee quel tedesco strano lo avrebbe mandato al diavolo, o peggio ucciso, rimase in silenzio, perché quei soldi gli servivano, e per la gente del popolo non andava sul serio tutto bene: il pane iniziava a scarseggiare, non c’erano soldi per pagare le rate della propria casa, le giovani figlie dovevano smettere di stare in casa a filare la lana e dovevano sfasciarsi la schiena pure loro, a vendere mele al mercato o peggio, a falciare i campi e a farsi venire le rughe a quindici anni. Grindelwald lo capì molto dopo, quando Albus gli mostrò quel mondo, quando quel giovane dai capelli rossi e dagli occhi buoni e limpidi, lo portò in un campo, dove fecero l’amore senza che se lo avessero stabilito all’inizio, e scoprirono l’amarezza di quella terra. Ma allora, all’epoca del trasferimento dettato dalla asfissia provata nella sua terra natale, all’epoca in cui Albus passava la vita sui libri domandandosi come avrebbe potuto aiutare sua sorella Ariana e come si sarebbe fatto valere, nella vita, se nemmeno Aberforth suo fratello, sapeva amarlo, il futuro e i suoi problemi non erano mai parsi così distanti. Quasi un'illusione per le monache e i frati sdentati. Albus sapeva di essere diverso, e la cosa lo divertiva e lo intralciava diverse volte. Non avrebbe però mai creduto, quando anni dopo, avrebbe visto il cadavere di Grindelwald, il suo bel viso da straniero insanguinato e senza vita, non avrebbe mai creduto che avrebbe dato tutta la sua intelligenza, le sue stranezze, ogni sorta di ingegno in lui albergante, per essere suo fratello, per essere il più povero dei miserabili, per non essere l’acclamato difensore del bene e della magia, la maschera permanente che da allora avrebbe accompagnato quell’uomo per il resto della sua esistenza.

Fu un giorno di primavera quello in cui Albus e Grindelwald si incontrarono per la prima volta. Erano troppo giovani, e credevano di poter tener in pugno il mondo intero quando si guardarono, si cercarono, si trovarono, e parlarono per due ore sotto l’insegna sbilenca e scheggiata della Testa di Porco, mentre la natura si svegliava ed uno strano tepore avviluppava le loro guance giovani e rilassate. Fu quello, il principio della fine.

Continua, ma solo se lo volete voi!! Fatemi sapere, Maria

 

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Capitolo 2
*** ARIANA'S TALE ***


Capitolo identico a quello che avevo scritto prima di cancellare la ff, dal prossimo credo che la storia dovrebbe un po’ modificarsi… beh, Ariana non è impazzita a Godric’s Hollow, ma la Row non specifica dove sia accaduto, così ho lasciato quel paese^^

Grazie a Saki, spero di acchiapparti prima o poi su msn ( oggi sono entrata ma ho subito dovuto spegnere ), a Cathleen e Felicity89… spero vi piaccia questo capitolo, grazie anche a chi la salva tra i preferiti, spero di non deludervi!

 

ARIANA’S TALE

 

Era primavera quando Albus Silente decise di dare gli esami del sesto anno in anticipo per potersi recare a casa dalla sua famiglia e aiutare sua madre in quel difficile compito di crescere una figlia diversa. Perché Ariana Silente non si poteva definire una persona normale. Da bambina aveva incominciato a giocare con quel dono speciale che albergava nel suo stesso sangue, la magia, e aveva sperimentato la forza devastante che padroneggiare quell’arte arcana comportava. Era piccola, e forse particolarmente portata, e per questo non sapeva trattenersi dalla gioia di evocare oggetti, richiamare le mele dai rami degli alberi più alti, dal far volteggiare a mezz’aria il suo pupazzo preferito. Una volta, Albus la vide con i suoi stessi occhi, Ariana si era alzata a mezz’aria, nel centro della sala da pranzo, ed aveva galleggiato con l’aria per nulla stanca o spaventata attorno al grosso tavolo rotondo, su cui erano sparsi i suoi giocattoli intagliati nel legno, regali di Aberforth, e i libri dimenticati da Albus nella fretta di cercarne di nuovi. Ariana era una creatura meravigliosa, libera, innocente, ingenua. Sapeva far arrossire con la dolcezza del suo candore perfino le persone che credevano di esser simili alle rocce, indistruttibili, dalla flemma ruvida, inscalfibile. Perfino Percival, il loro vecchio padre, che non aveva mia riso per le battute dei suoi bambini, si era lasciato piegare dalla freschezza di quella piccola streghetta, dagli occhi luminosi, dal sorriso di perla, così fragile e minuta che a tutti appariva come un meraviglioso fantasmino ambulante. Albus la amava, e non avrebbe mai voluto distogliersi da lei. Suo fratello Ab poi, la adorava, la idolatrava. Lei era così dolce, e delicata, e non si poteva far a meno di amarla. O almeno questo avevano sempre pensato in famiglia.

<< sarai per sempre una principessa, Ariana. Nessuno potrà mai fermare la tua luce >> aveva detto una volta Aberforth, mentre cullava la piccola dai capelli rossicci e dal viso lattigginoso, affidandola ad Orfeo come ogni notte. Albus era sceso dal suo lettino saltando via dal materasso dalle molle mezze sfasciate, aveva mosso qualche passo nell’oscurità, brandendo solo un moccio di cera acceso quasi del tutto consumato, e a tentoni si era recato nella camera attigua, dove la Sovrana della famiglia ormai sonnecchiava apertamente. Aberforth aveva appena alzato lo sguardo,e Albus per la prima volta aveva notato quegli occhi. Erano azzurri e duri, simili ad un mare di ghiaccio, occhi in cui la spensieratezza doveva esser passata solo per un velocissimo tea, poi se n’era dovuta andare, senza scusarsi troppo, perché lui era solo il figlio mediano dei Silente, non era né il responsabile, favoloso, colto, intelligentissimo primogenito della famiglia, né l’adorabile principessina che cavalcava sulle nuvole e tingeva la casa d’allegria, era semplicemente un incidente che aveva imparato presto a considerarsi tale, a portare rancore verso l’incarnazione della perfezione e ad amare in segreto, a ricoprir di baci solo quando la luna era alta nel cielo e i suoi genitori si erano addormentati profondamente, quel batuffolo di dolcezza, l’unica creatura che aveva saputo sciogliere la scorza dura e rude di quel ragazzo sottovalutato. Si, solo Ariana sapeva farlo sentire un essere umano amato. Perché tra i due fratelli era nato un amore incredibile, che ardeva come il fuoco nell’inferno, alimentato costantemente dall’ossigeno della quotidianità, centuplicato nei giorni di attesa, irrazionale ed inestinguibile, un gioco in cui Ariana era la acclamatissima regina, e Aberforth il suo servo più fedele, e nessuno, nemmeno quel fratello maggiore la cui ombra avrebbe oscurato il passato e colorato la storia futura della comunità magica, avrebbe potuto interrompere, o modificare quell’equilibrio di affetto intenso, spossante, qualcosa che forse superava perfino l’amore, o forse era la forma perfetta e immutabile di quel sentimento, una sua mutazione, una sua evoluzione…

Ma Aberforth sotto sotto, non capiva che l’odio e l’amore fossero sentimenti relativi, fragili e delicati, che si scioglievano per colpa del Fato nell’istante infinitesimale di un battito di ciglia, potevano cambiare stato, e rivolgersi a persone differenti, e l’uomo non poteva né impedirlo né opporsi, poteva solo sedersi tranquillo con se stesso e accettare quel valzer irrefrenabile.

<< dorme? >> chiese Albus, sedendosi accanto al fratello, la sera che precedette l’incidente fatale. Aberforth si alzò, arrossendo allarmato. Non era abituato a farsi vedere nell’atto di sussurrare parole dolci alla sorellina, anche perché questa immagine cozzava con il suo aspetto esteriore: era un poeta, un rivoluzionario, un ribelle intrappolato nelle sembianze di un orso, non avrebbe saputo definirsi meglio. Perciò a quella domanda neutra ma così densa di significati, Ab scattò in piedi, con il capo basso, annuì con un cenno appena percettibile e poi si dileguò nella sua camera, ed Albus per un attimo credette di aver sognato suo fratello, che avesse avuto a che fare con uno spirito, ma poi a convincerlo del contrario furono quegli strani rumori dati contro le pareti azzurre della camera attigua a quella in cui dormiva Ariana, la stanza del figlio mezzano, ed erano pugni di protesta quelli con cui Aberforth si massacrava le nocche, pugni che diede con gli occhi di ghiaccio ridotti a due fessure, e i denti digrignati, l’espressione famelica da belva arrabbiata. Erano pugni per Albus quelli che sarebbero riecheggiati per sempre nella memoria del vecchio preside.

Albus li udì, e lasciò che suo fratello si sfogasse. Pensò per tirarsi su, che un giorno Ab sarebbe cresciuto. Lo avrebbe capito. Ma inizialmente, anche solo per un secondo, il giovane mago si disse tristemente che non solo suo padre, ma adesso anche suo fratello lo odiava, e lui non poteva che chiudersi in camera, accendere una nuova candela, e sedersi sul materasso dalle molle distorte, che gli si ficcavano nella pelle e lo facevano sanguinare nel sonno, prendere un libro e cominciare un nuovo viaggio, mano nella mano con i demoni della sua vita, per nulla semplice e felice come tutti credevano.

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Ariana quel giorno indossava un abitino verde, che non faceva a pugni, una volta tanto, con quei capelli tipicamente color sangue, che tutti i Silente sfoggiavano per almeno una quarantina d’anni sul capo. Erano capelli di artisti e di maghi, capelli di Shakespeare e probabilmente anche di Merlino, ma a sei anni cosa poteva saperne una principessina di queste futilità da romanticoni? Ariana non sapeva nemmeno che la sua nazione di lì a poco sarebbe entrata in guerra, o che ormai non ci fosse denaro nemmeno per comprare una bambola di porcellana da donarle a natale, non sapeva che suo fratello Aberforth aveva pianto lacrime amare quando se n’era reso conto, né poteva capire perché Albus la osservasse con quegli occhi furbi ed ironici, e le sorridesse in maniera enigmatica ogni qualvolta i loro sguardi si incontrassero. Sapeva però da qualche tempo che se solo lei lo avesse voluto, intensamente desiderato si intende, allora le mele del vecchio fattore Jones si sarebbero ribellate alla pianta madre, seppure imponente e arcigna, che avrebbero sconfitto la gravità e sarebbero planate dritte dritte nella sua manina grassoccia, così come, sempre se lei lo avesse bramato, sarebbe potuto accadere l’effetto contrario, e lei si sarebbe distaccata dal terreno, ritrovata a mezz’aria come una piccola nuvola, e avrebbe potuto raggiungere anche i rami più alti, dove le mele migliori crescevano illuminate dal sole, lentamente. Non poteva spiegarsi sul serio quel fenomeno, ma qualunque cosa fosse, le causava esplosioni di incontenibile gioia, voglia di ridere e di elargire bacetti alla madre e agli uomini della famiglia, che li ricevevano ora sorridendo e ricambiando, ora facendosi rossi e irrigidendosi, come nel caso di suo padre e di Abby, il cui nome troppo difficile per lei era stato devastato e storpiato in quella maniera per nulla virile e gratificante. Ariana però, per quanto amasse Kendra e Aberforth e si fidasse di Percival e del fratello maggiore, creatura assente per studi e impegni, ma decisamente oggetto di molte attenzioni per una principessa come lei, si decise a mantener chiusa la bocca circa quelle sue capacità perché le sembrava che se avesse dato un nome alla magia l’avrebbe immancabilmente persa, e Ariana non avrebbe certamente retto a tale mancanza.

Poiché la minaccia della guerra aveva fatto chiudere le scuole e i negozi, seppure quello fosse un lunedì di maggio come tanti, Ariana si rese conto che l’intero paese di Godric’s Hollow fosse gettato per strada, apparentemente senza fare niente: gli uomini si lanciavano fra loro occhiate furtive e turbate, le donne parevano avessero da sfamare un esercito per quanto pane arraffavano, uscendo cariche come muli dal fornaio di fiducia, le giovanette si avvicinavano furtivamente ai loro fidanzati segreti, con i visi appannati dal pianto e rossi per l’emozione, e infilavano nelle loro tasche delle lettere d’amore melense e fitte di terrore, terrore perché per una volta tanto avevano ascoltato alla radio e poi letto sui giornali di quello strano folletto vestito di verde, che si preparava a distruggere l’Europa e a plasmarla in una forma del tutto poco piacevole. I giovani blandivano le ragazzine, si battevano il petto con la mano pesante, come fosse un invito a tastare la loro forza interiore e fisica. Si sentivano esaltati e pronti alla battaglia, era tempo di sbattere in galera una volta e per tutti quei diavoli dei tedeschi, così finalmente gli inglesi avrebbero dimostrato il proprio coraggio, la loro superiorità. Ariana vide dei bambini che stavano in cerchio attorno ad una bancarella del mercato squallido e sbilenco che per la troppa gente assomigliava ad una malinconica fiera, li osservò e le parvero ammassati e sognanti, e ridendo felice decise di avvicinarsi anche lei, perché non le pareva vero di incontrare degli esemplari di cuccioli di uomini, visto che gli unici bambini che lei potesse ricordare erano i suoi fratelli, che comunque stavano già assumendo una forma diversa e sconosciuta, e sembravano sempre di meno quei due bambini rossi e allegri che lei si ricordava vagamente d’aver conosciuto anni addietro, e di aver spartito con loro i bagni nello stagno e le merende pomeridiane.

Quando Ariana si mise a correre verso quei bambini che si quasi picchiavano per contendersi la trincea di una strana bancarella Albus e Aberforth la scorsero saltellare poco distante dal bar in cui stavano placidamente bevendo un po’ di burrobirra. Albus aveva notato le mani graffiate del fratello, ma aveva preferito fingerle di non essersene accorto. Se fosse stato possibile, quella reazione così finta aveva reso ancora più livido Aberforth, il quale beveva per non sputar veleno, e quasi si era dimenticato il perché si trovassero lì: Kendra aveva chiesto loro di dare un’occhiata alla piccola Ariana, perché la piccola non aveva ancora ben chiaro il confine tra il lecito e l’illecito, e probabilmente avrebbe potuto ingenuamente usare la magia mentre i babbani sbrigavano le loro faccende giornaliere. Kendra non voleva scandali, non dopo l’ultima figuraccia di Perce alla festa del paese, quando aveva bevuto troppo e ne aveva dette di tutti i colori sulla moglie e sui figli, l’aveva chiamata puttana, aveva gridato che Albus non era suo figlio, che Aberforth era un idiota senza cervello e che la loro bambina stava male un giorno si e uno no perché la madre preferiva battere le strade con il sedere all’aria piuttosto che badare all’incolumità della loro creatura. Kendra, ferita e oltraggiata, non aveva proferito parola. Davanti alla folla di mogli e di bambini incuriositi che avevano assistito a quella scena, ella prese per il polso il marito, con la delicatezza che solo le madri conoscono, e aveva sussurrato ad Albus di tornare a casa non appena finiva la festa << vado a mettere a nanna papà, Ariana cara >> aveva detto alla figlioletta, ed era sfuggita, simile al profumo delle rose spazzato via dal vento, con la dignità intatta e il cuore grave come un macigno.

<< sembra che Ariana stia socializzando >> disse all’improvviso Albus, indicando la bancarella dei trucchi di magia, dove la carta rossa vinceva e quelle blu perdevano,e bisognava scoprire dove si nascondeva la noce dai bordi ammuffiti. Aberforth non vedeva di buon occhio le amicizie tra nanerottoli, così come amava definire i lattanti, perché quelle erano le peggiori alleanze possibili, inossidabili, indelebili. Non cambiare, restare in stallo con le proprie idee conduceva alla rovina, o per lo meno lui la vedeva così. Per questo cercava ogni giorno di vedere suo fratello come un esempio, e non come qualcosa con cui paragonarsi e vedersi sempre inferiore. Ma poi, chi non si sentiva così, di fronte ad Albus- sono fatto d’oro- Silente?

<< sembra che sia così >> commentò freddo, e si pulì le labbra dalla schiuma amarognola della sua bevanda, con fare risoluto. << com’è la scuola, fratello? >>

Albus si illuminò a quella domanda << oh, è un luogo stupendo. Mi stimano tutti e non vedono in mio padre l’essere violento, freddo e detestabile che si dimostra a Godric’s Hollow. Credono che sia un comune uomo, e che un giorno anche noi diventeremo come lui >>. Abbassò il capo, sentendo che le lacrime che aveva sempre represso in onore di sua madre stavano per sgorgare. Bisognava piangere, per non avere più lacrime da gettare.

<< non fare la femminuccia con me! >> disse il fratello, fingendosi schifato. Ma in fondo ammirava anche un lato così dannatamente poco virile del fratello, perchè lui sarebbe morto piuttosto che mostrarsi nudo di fronte al mondo. Era un orso, e solo Ariana poteva sapere che anche lui era in grado perfino di amare.

<< io non voglio diventare come Percival! Non voglio ubriacarmi, non voglio far la fine dei miserabili, Ab! Io non posso ridurmi così! >>.

Suo fratello si strozzò con la burrobirra, battè una mano violentemente sul tavolo. I suoi occhi gravi si riempirono di dissenso.

<< cosa c’è che non va in nostro padre? Non ci ha mai picchiato, sbraita solamente, e quelle sberle che ci da ogni tanto servono a raddrizzarci! Se ti sembra miserabile uno che si spacca la schiena per portare il pane a casa e tener su una famiglia, allora non riesco proprio a decifrare il tuo modo di pensare! Ma fai pure, sono sicuro che sai cosa è meglio per te! Sai sempre tutto tu! >>

Albus fissò intensamente suo fratello, il boccale adagiato sul bancone lurido ed un libro aperto sulle gambe. L’impressione che diede fu di voler supplicare << voglio solo portarvi via di qui >>

<< non si può Albus! Presto verrà la guerra, e io combatterò mentre tu prenderai onoreficenze su onoreficenze, una catasta di premi e titoli con cui io potrei benissimo pulirmi le chiappe. La vita vera è quella in cui si suda, si marcisce, si sanguina. È vedere Ariana crescere e sperare per lei un mondo migliore. No si sfugge da qui, e lo sappiamo bene. Per questo io lavorerò fino a sentirmi vecchio, e mi comprerò una locanda, e farò I soldi con cui manterrò la mia famiglia, se Dio me ne darà una. Non si sfugge da qui, Albus >>

Albus avrebbe replicato, magari con qualche virtuosismo imparato a memoria dai suoi amati trattati di scuola, ma un urlo riempì l’aria surriscaldata di un maggio anacronistico.

<< come hai fatto? Dicci come hai fatto! >>

Bastò poco ai fratelli per scorgere una folla di bambini inferociti che stavano sommergendo e circondando la piccola Ariana. E lei, minuscola, bianchissima, con in mano la noce marcia che il ragazzo bugiardo che si spacciava per mago aveva infilato nel suo cappello, stava tremando per il terrore.

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Ariana sgomitò fino a trovarsi all’altezza della bancarella. Vide tre bicchieri scuri capovolti ed un ragazzino con in testa un cappello troppo grande che li mescolava, usando un ritmo ipnotico, veloce, impossibile da seguire. Anche lei ne rimase colpita. Come molti altri bambini, cacciò fuori la lingua, in segno di ammirazione. Il ragazzino vide quella nanerottola lattiginosa e seppe di aver trovato un nuovo pollo da spennare. Sorrise smagliante << e chi abbiamo qui! Una topolina! Allora bella bimba, perchè non provi questo gioco? Se trovi la noce che sta sotto a uno dei tre bicchieri vinci. Vuoi giocare? Ehi, vedo che ti ho convinto! Allora guarda bene: la noce è qui. Adesso mescolo >> prese a trafficare con I bicchieri, a dare di matto in un valzer di cristalli che cozzavano l’uno contro l’altro senza ritegno. Dopo un po’ le chiese dove fosse quella nocella.

Ariana si portò un dito sulle labbra pensosa. Poi indicò senza parlare il cappello bluastro dell’accattone.

Fu come una folata di vento, quella che partì dal dito della piccola. Peccato che Ariana avesse appena fatto una magia, davanti a dei babbani, e dei bagliori rossastri si fossero dispersi nell’aria. Il ragazzo vide la noce galleggiare a mezz’aria, finire direttamente nelle mani della bambina che la osservò soddisfatta raggiante. << cosa ho vinto? >>

 

Da allora, per tutta l’estate, Ariana, Albus e Aberforth vissero come dei vampiri. Uscivano solo a notte fonda, e non potevano far rumore, in parte per quella gente impicciona, che aveva assistito alla scena della levitazione di una fottuta noce, in parte perchè Percival aveva dato di matto, prendendo a sberle I suoi figli maschi, che non sapevano nemmeno difendere la loro sorellina senza darla in pasto ai babbani alla prima occasione. Ariana fortunatamente non aveva capito cos’era accaduto. O meglio, aveva creduto che la stessero prendendo in giro, perchè non aveva valutato che ci fosse gente incapace di far volare gli oggetti a piacimento, anzi, non credeva di essere lei la persona anormale. Aberforth e Albus non avevano avuto il cuore di rivelarglielo, nemmeno quando l’avevano strappata da quella babele di folletti curiosi che le si erano accalcati addosso, che l’avevano pizzicata, toccata, chiamata strega, si erano rubati quel premio di superiorità, la noce della discordia, e avevano voluto sapere come ci fosse riuscita, il truffatore compreso. Ariana non aveva capito e sinceramente era stato un sollievo sentire le mani delicate di Albus che la trascinavano via, mentre Aberforth intimava al ragazzino furfante di stare alla larga da sua sorella, di non parlarle mai più, di andare a farsi fottere, se non voleva assaggiare la forza delle mani di quel lavoratore serio, indurito come una quercia.

<< tu non devi mostrare la tua bravura alla gente, Arya >> le aveva detto la stessa sera Aberforth, mentre Kendra piangeva e Percival si sfogava a lanciar calci contro il muro. Albus era uscito a fare quattro passi, scappato via come sempre. Ariana aveva guardato suo fratello con occhi docili, dolcissimi, occhi da donna. Per la prima volta Aberforth capì che proprio gli occhi la rendevano così speciale, nella sua anima. << perchè non posso, Abby? >> chiese la bimba, fra le lacrime.

Il fratello la strinse forte a se << perchè la gente è gelosa, e non capirebbe quello che siamo >>

Ariana cercò di far tesoro delle parole del fratello, ci provò sul serio a reprimere quella sua forza inspiegabilmente forte, tentò anche di affogarla, di rispedirla al mittente, ma la magia restava semre lì, chiusa in gabbia, relegata nel suo corpicino. Le dava fastidio, la cattività. La tediava, vedere l’estate morire, poter uscire solo di notte. Lei aveva paura del buio perchè non poteva più accendere mille lucine rosse con cui farsi forza. Suo padre, sua madre, I suoi fratelli glielo avevano ripetuto troppe volte. La bambina diede un’occhiata a Kendra, che sonnecchiava nel suo letto dopo giorni di continuata insonnia. Suo padre e I suoi fratelli erano andati a Diagon Alley, a far compere per il primo anno di Aberforth. La finestra era socchiusa.

Le parve un reato non godersi un sole talmente luminoso, che la richiamava come un amante insoddisfatto, con quei raggi splendenti, dorati.

Fu allora che Ariana fece l’incontro che le avrebbe distrutto la vita. Una banda di quindicenni la riconobbe come la strega bambina che muoveva le cose e adorava il demonio, colei che avrebbe gettato il malocchio sull’isola e avrebbe fatto entrare i tedeschi con questo e quell’altro metodo maligno. Una bambina pericolosa, o una semplice impostora, in entrambi I casi un essere da punire. Da zittire. Questo pensava la banda di Godric’s Hollow.

 

La banda di Godric’s Hollow consisteva un gruppo eterogeneo di banditi quindicenni che avevano dimenticato la cartella il primo giorno di scuola e l’avevano lasciata ad ammuffire in quella catapecchia vuota appena dietro la chiesa preferendo svaligiare le tasche dei passanti e passare la vita imparando il gergo e le abitudini dei ladruncoli di strada fino a perferzionarsi nella lotta agli angoli di strada, nelle occhiate torve, nello schernire e nel trovare difetti su tutti, nel non temere nemmeno la regina in persona, nel non lasciarsi scappare una giornata di mercato dove rubare un po’ di cibo da portare a casa, coperti dai genitori ridotti a scheletri per l’inflazione, nel non lasciarsi sfuggire le stranezze di quei tre fratelli dai capelli rossi, uno più svitato dell’altro. La banda di Godric’s Hollow riconosceva universalmente nel primogenito la figura del secchione disperato che parlava con le farfalle, in assenza di amici in carne ed ossa. Sarebbe diventato un depresso, o lo avrebbero castrato presto o tardi uno degli uomini che avrebbe cercato di violentare. Il secondogenito sembrava affetto da autismo. Non parlava con nessuno, non faceva che guardare il mondo con occhi torvi colmi di rancore, la banda riteneva che nelle notti di luna piena subisse la trasformazione in mannaro e che passasse il tempo sbattendo convulsamente la testa contro la scroza delle robuste querce. E la piccola Silente? Beh, quella era l’apoteosi della follia: a parte che assomigliava ad un folletto, poi aveva quei capelli rossi per cui l’avrebbero cotta nell’olio bollente solo due secoli prima, e per di più il capo di quella comitiva di strada, Joe mano svelta, aveva visto all’opera le stranezze di quella creatura. Tutto il paese l’aveva vista: aveva svelato il trucco con cui Joe campava da cinque anni, da quando era un bambino cencioso pieno di pidocchi, e aveva fatto volteggiare la noce stagionata e coperta da una sorta di peluria verdastra, nel cielo del paesino, fino a portasela nella mano. La banda non capiva come avesse fatto, ma sapeva, nonostante nessuno dei quindicenni avesse mai aperto libro, che quegli atteggiamenti potevano esser definiti solo con il termine stregoneria. Che poi Ariana fosse davvero una strega, ai giovani di strada poco importava. Quando la videro correre allegramente per le stradine sbilenche che portavano ai campi di mele, Joe mano svelta, che quel giorno non era andato a guadagnarsi da vivere perchè ormai tutti conoscevano il suo trucco, sorrise malignamente, e con un gesto della mano richiamò a se gli altri ragazzi, che stavano placidamente masticando un po’ d’erba e fumando sigarette artigianali. << ehi, guardate un po’ chi sta passando! >>

<< ma è quella stramba di Ariana Silente! >> disse una giovinetta che aveva imparato troppo presto a tener le gambe aperte per qualche spicciolo in più << ehi! Ariana! Vieni qui! >>

La bambina non se lo fece ripetere due volte. Corse dolcemente, fata della primavera, verso quel gruppo sorridente, che pareva volessero farle delle coccole, o magari insegnarle altri trucchi, perchè aveva riconosciuto Joe anche senza il suo cappello ridicolo.

<< cosa volete? >> chiese la piccola, quando fu faccia a faccia con la ragazzina dal viso disilluso e dall’aria troppo sveglia.

<< niente di che! Io e I miei amici ci domandavamo … tu come hai fatto a scoprire il giochetto di Joe? Insomma, insegnacelo, saremmo felici di imparare da te! >>

Ariana rimase sorpresa, aprì la bocca, scosse il capo dolcemente << basta puntare il dito e gli oggetti volano >>

<< faccelo vedere! >>

La bambina scosse il capo << non posso! >>

<< e perchè, di grazia? >>

Ariana rimase in silenzio: Aberforth le aveva fatto promettere che non avrebbe usato la magia in pubblico. Non poteva, ecco tutto.

Un giovanotto scoppiò a ridere << ah, Joe ti sei fatto fregare! Questa nanetta non ha niente di speciale, sei tu che perdi colpi! >>. Le guance di Ariana si colorarono di rosso intenso.

Una seconda ragazzina si avvicinò dolcemente e le chiese una dimostrazione. << certi credono che tu dica bugie, Ariana. Tua mamma ti ha spiegato che le bugie sono un peccato? Bene, allora fai vedere a questi miscredenti che tu sei davvero capace di muovere gli oggetti >>

Ariana si guardò attorno rassegnata. Lottò con la sua coscienza, ma gli sguardi della banda di Godric’s Hollow erano scettici e le facevano male. Allora cercò qualcosa che potesse smuovere, lo individuò: aprì il palmo verso una mela matura posta ad almeno quattro metri di altezza, e in un attimo essa le venne in mano, mentre tutti I giovani la osservarono incuriositi e sconvolti. Solo Joe si fece avanti, con un sigaro stretto fra I denti. Le accarezzò la testa, e Ariana lo lasciò fare << bambina, come è possibile che tu sappia fare queste cose? >>

<< non lo so >> replicò lei, sinceramente.

Joe le strattonò il capo, stringendole I capelli in un pugno << sai come si chiama questa tua capacità? >>

<< MI FAI MALE! >> gridò la piccola, piangendo e sospirando affannata. Le ragazzine scoppiarono a ridere, Joe le stava strappando I capelli. L’avrebbe rapata, sarebbe diventata una palla lucida la sua testa.

<< sei una STREGA! >>

<< si, strega! >>

<< STREGA, STREGA STREGA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! >>

La banda la indicava, rideva, strillava, le sputava addosso, qualcuno la spingeva, le davano calci, la prendevano in braccio e la poggiavano sui rami di un albero. Le tirarono sassi, le strapparono gli abiti ridendo come porci, continuando a chiamarla strega. Ariana non sapeva che fosse un difetto essere una strega. Perchè nessuno glielo aveva detto? Perchè continuava a piangere, e nessuno la veniva a salvare? Chiuse gli occhi, aspettando che Albus o Aberforth la scorgessero, ma I suoi fratelli dovevano essere lontani, e lei era fuggita di casa, nessuno sapeva dove si trovava. Era nei guai. Tremava, piangeva.

<< scendi giù se ci riesci, sporca stregaccia! >>

<< perchè mi fate questo? >> chiese Ariana, piangendo disperata.

Joe le lanciò la mela raccolta per magia addosso. La colpì in piena faccia, la rabbia le annebbiò la vista. Lui la fissò rabbiosa << perchè ti facciamo questo? Perchè voi ci fate questo! Andatevene da questo paese! Siete come una maledizione! Streghe e adoratori del demonio non ci servono! Ci fate schifo! >>

E dopo averla maltrattata un altro po’, I babbani della banda scapparono ridendo e saltellando, mentre Ariana piangeva, raggomitolata sul ramo su cui l’avevano adagiata, sporca di sputi e pien di bernoccoli e graffi, tremante come una foglia al vento, sconvolta e diversa per sempre: lei era strana, lei era diversa. Nessuno l’avrebbe mai accettata.

Albus, Percival e Aberforth stavano ritornando a casa, su un vecchio calesse trainato da un vecchio cavallo. La notte era da parecchio calata sulle colline del paese, la gente si era rintanata a casa per godersi il meritato sonno dei giusti, tranne qualche luce alla finestra, le tenebre regnavano sovrane. << dovrebbe essere sempre così >> sorrise Percival, grattandosi la barba appena colorata di grigio. Albus si stupì dello sguardo di suo padre, non l’aveva mai visto così luminoso.

Fu Aberforth il primo a capire che qualcosa non andasse, quando vide quelle strane fiaccole accese nella notte << ma che diavolo succede? >>. Indicò agli uomini un puntolino nell’orizzonte, un circolo di piccole luci che a quell’ora non sarebbero dovute restar accese. A cosa serviva, quella specie di faro nel nulla? Che fosse una processione di spiriti in rivolta?

Percival aumentò il passo del calesse, pressando sul cavallo stanco e in men che non si dica essi videro Kendra in un mare di lacrime, rossa in viso e con I capelli scomposti che le erano franati addosso, che assomigliava davvero ad uno spettro in pena, afflitto dal peggiore dei mali che una madre possa sopportare. La folla di donne del paese e dei loro mariti si muovevano preoccupati in ogni dove, spostando oggetti, guardando in ogni angolo, scuotendo il capo, quasi in lacrime.

<< è sparita Ariana! >> strillò, non appena riconobbe gli uomini della sua famiglia. Aberforth sbiancò: il tempo che Albus resse Kendra, ormai in procinto di svenire, e Percival cominciasse a chiedere spiegazioni strattonando la moglie preso dalla furia, il giovanotto orso partì in una corsa marziale, sfrenata, irrefrenabile, mentre il viso gli si colorava di rosso, e il cuore gli esplodeva in petto.

<< ARIANA! ARIANA! >> strillava, mentre scalciava di strada in strada, mandava al diavolo le coppiette di amanti che si erano incontrate per qualche bacio rubato, gettando scompiglio nei vicoli ciechi, svegliando I bambini, incrociandosi con Joe e la sua banda, che riconosciutolo non potè che scoppiare a ridere.

Quando fu sicuro che sua sorella non fosse nel paese, tentò di percorrere I campi di mele che la piccola era solita prediligere nelle sue peregrinazioni pomeridiane, prima dell’orrendo incidente. Per questo riprese a gridare, ruggendo come un leone, senza darsi pace. << ARIANA ARIANA!!! >>

Un sussurro lo riportò alla vita << Abby >>

Aberforth quasi svenne quando la vide: raggomitolata, raffreddata, tremante, sporca. Mezza nuda. Senza pensarci usò la magia e se la caricò in braccio, coprendola di abbracci, togliendosi la camicia per scaldarla, baciandola dolcemente, mormorandole parole di conforto. Nonostante gli prudessero le mani da morire. << chi ti ha fatto questo? Ariana, chi ti ha fatto questo? >>

La bambina non rispose, scoppiò a piangere, continuò a tremare, senza che lui potesse capire. Aberforth si godette la passeggiata con in braccio l’unica persona che amasse davvero. Quando passarono davanti a Joe e alla sua banda, il fratello mediano notò in Ariana un cambiamento: la piccola iniziò a battere I denti, e il corpo fu scosso da convulsioni irrefrenabili.

<< merda >> disse Aberforth. Erano stati loro.

Joe lo fissava, come a volerlo sfidare << cosa vuoi, Silente? Per caso sei venuto a dirmi che tuo fratello si è innamorato di me? O per caso vogliamo parlare di quella strega di tua sorella? Sappiamo tutto, sappiamo delle vostre deviazioni! Tornatevene da dove siete venuti, adoratori del demonio! >> e lo prese a sbeffeggiare e rise come un idiota, spalleggiato dai suoi copagni idioti. Aberforth non ci vide più. Poggiò a terra Ariana, che riprese a gridare e a strapparsi I capelli, scossa da tremori che non erano di quella terra, a strillare << no, basta, per favore, perchè questo? >> mentre il giovane assestò un calcio nei gioielli di famiglia di quel bastardo << NON TOCCARE MIA SORELLA! NON NOMINARE MIO FRATELLO! NON PRONUNCIARE IL NOME DEI SILENTE IN VANO! HAI CAPITO SPORCO D’UN BABBANO???? >>. E nel frattempo affondava, picchiava, gli faceva sputare sangue, perchè non c’era miglior punizione per uno stronzo che se la prendeva con una bambina, un angelo come sua sorella, dovev ucciderlo, doveva renderlo zoppo, doveva perdere tutti I denti, mentre Albus e Percival erano giunti in quella stradina, il primo aveva raccolto la piccola e l’aveva portata via, messa a letto e fermato le convulsioni, che erano diventati attacchi isterici simili ad una possessione demoniaca, a badare a Kendra che stava quasi peggio di Ariana, mentre Percival, sconvolto, incapace di credere che se la fossero presa con una bambina, aveva cacciato la bacchetta, che non usava da una vita, da quando si erano stabiliti a Godric’s Hollow per la salute di Ariana, e li aveva puniti nell’unico modo che sapeva utilizzare. Con quella magia che I babbani odiavano e temevano.

 

Quella notte Percival era stato condotto ad Azkaban e giudicato colpevole di aver attaccato dei babbani senza una motivazione lecita. I Silente erano troppo orgogliosi per parlare di Ariana, di quella bambina che aveva perso la dolcezza e l’intelligenza per aver fatto volteggiare una mela, per essersi opposta ad una sporca banda di paese. Perchè, pensava Percival, meglio farsi crocifiggere lui, che aveva ottenuto già tutto dalla vita, che rendere pubblico un male eterno della piccola, che coprire di vergogna Aberforth. Meglio morire piuttosto che far male alla sua famiglia, a Kendra, ad Albus. A quelli che non avrebbero capito il suo gesto, non lo avrebbero apprezzato, divenire brutale come quei babbani, divenire peggiore. Ma lui era un padre, e quella notte gli era morta la sua unica figlia.

 

Albus non lo capì inizialmente. Riuscì a comprendere cosa significasse tornare a casa, vedere Ariana nel suo lettino e non poterle dire niente, perchè era divenuta come una bambola di porcellana, candida, bella per sempre, ma vuota, distante, su un altro pianeta solo quando fu costretto a vivere con lei, a non poterla ignorare. Il suo spettro avrebbe per sempre tormentato Albus, anche cinquant’anni dopo, anche quando il mondo magico stava crollando sotto I colpi di Tom Riddle e la morte lo stava prendendo, e nessuno dei suoi vecchi amori sarebbe stato accanto a lui, solo quel figlio, quel nipote che non aveva mai avuto, Harry Potter, lo avrebbe guardato preoccupato e sconvolto cadere giù dalla torre di Astronomia.

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Capitolo 3
*** tre ***


ecco un nuovo capitolo. qui ho scritto che  gellert e albus si incontrano appena diciassettenni, so che si incontrerannop solo nell'estate dopo i MAGO, ma non avrebbe avuto senso parlare di un viaggio di istruzione nel caso di Grindelwald e poi lasciarlo marcire senza avere almeno un incontro con Al... dal prossimo capitolo credo che Kendra farà una brutta fine, mi dispiace proprio per lei, non se lo merita quella donna!!! Rita Skeeter la vede come una sciocca superba e invidiosa, ma per me è una madre e una donna forte, da ammirare.

e grazie a Sakijune e a Cathleen che mi seguono sempre, siete molto dolci!

 

                                       Capitolo terzo

 

 

La carta da parati si stava distaccando inesorabilmente, lasciando visibili due scarafaggi bavosi che probabilmente stavano corteggiandosi. Questo Grindelwald, preso dallo schifo della scoperta, non poteva proprio negarlo. Disteso in un lettino che assomigliava ad una branda militare di terza categoria ad osservare le macchie di umidità sul soffitto, e le pareti fatiscenti di cartongesso, che non lasciavano nulla all’immaginazione, sospirò della sua miseria irrefutabile trovando  davvero impossibile equivocare quei gemiti proibiti che provenivano dall’appartamento di Armida Middle, la sua vicina di pianerottolo in quella babele di gente ammassata senza futuro nè speranze, che di sicuro non stava pelando patate, e probabilmente stava semplicemente cercando di guadagnarsi qualche spicciolo nel peggiore e nel più naturale dei modi. La prostituzione minorile era una di quelle cose che muovevano il mondo e producevano un profitto certo anche in quei tempi promiscui, ambiguamente tetri. Grindelwald non voleva lasciarsi conquistare da quella macchina alimentata da menzogne e da corpi scheletrici, probabilmente ammalati e percossi, come facevano I suoi coetanei quando il desiderio li sorprendeva, senza che potessero frenarlo. Lui non voleva essere uno dei tanti. Se proprio avrebbe dovuto darsi in pasto ad una donna, sarebbe stato il primo, lo avrebbe fatto per dimostrare al mondo che lui era il migliore. Non uno qualunque. Quando non potè proprio ignorare lo sbatacchiare dei corpi avvinghiati, all’altro capo della parete di cartongesso, decise di alzarsi, andare al cesso per orinare una volta per tutte ed abbandonare per qualche ora quel postribolo abitato da spiriti, fuorilegge e lucciole, in cui vigeva la legge dello sceriffo dai baffoni neri e dal etto villoso, bordello frequentato come Picadilly il sabato sera da filibustieri nascosti sotto spoglie di galantuomini con una banconota fra le mani avide e un gioiello impacchettato nelle tasche dei calzoni, per zittire I dubbi e I pianti delle grandi dame dalla bellezza appassita, quelle mogli sulla difensiva, troppo morigerate e chiuse, donne che l’amore lo conoscevano solo teoricamente, che avevano passato le notti sveglie a sbirciare quei libri del sesso vietati nei loro conventi per brave mogli e a pregare, a supplicare il perdono con un rosario in mano di giorno, perdono, mio Dio, abbi pietà della tua serva peccatrice, donne che pensavano in nero ed agivano in bianco. Grindelwald detestava chi non sapeva seguire I propri pensieri, I deboli, che si abbassavano, si soffocavano, per scegliere tracciati altrui, certamente più sicuri perchè sarebbero stati percorsi da più gambe, ma vili, senza alcuna gloria, perchè nell’uccidere le proprie idee c’era solo da prendersi a schiaffi e sgozzarsi. Ammirava quell’uomo vestito di verde, con la svastica e I baffetti come segni distintivi, che aizzava il popolo puro contro quegli spocchiosi usurai, sodomiti e traditori fino ad allora liberi di deviare la gente che era loro vicina. Detestava perfino quegli orridi mongoloidi, con le facce beone ed il cervello staccato dal corpo, esseri mastodontici che si muovevano per le strade della capitale come in una bolla di sapone, avvolti dalla nebbia, così lontani da sembrare eterei eppure reali, da far disgusto alla gente normale. Ammirava quel babbano folle che ammaestrava le masse, così piccolo ma così certo del suo sogno, delle sue dottrine, da esser entrato nella gabbia dei leoni, solo e senza armi e di essere uscito in groppa al loro capo, signore della vecchia dama piena d’acciacchi, l’Europa, generale di schiere sempre più grosse, che nemmeno si potevano più ignorare per il rumore che sapevano emettere. Lo ammirava, e sapeva che uno come lui sarebbe stato di certo un buon consigliere, quando avrebbe anche lui messo in pratica I suoi sogni.

<< già, sarà l’ultimo dei babbani che verranno schiavizzati >> sorrise, in quel giorno di primavera in cui l’aria puzzava di sudori proibiti e mercato, mentre si incamminava verso il parco cittadino dove, immerso nel silenzio, tra le fronde erbose e fruscianti della natura, avrebbe potuto smaterializzarsi, per una sana camminata nel mondo dei suoi pari, I maghi inglesi che disdegnavano la civiltà babbana. Sì, gli ci voleva proprio un giro a Hogsmeade!

 

Albus aveva appena compiuto I suoi diciassette anni, festeggiando nel Dormitorio di Grifondoro con Elphias Doge,il sui migliore amico sin dai tempi dello scandalo di Percival Silente. Aberforth, che era al suo quinto anno, si era rifiutato di prendere parte al compleanno, sdegnato e arrabbiato con il fratello maggiore e aveva passato quella serata, acclamata dai professori e dalle tre case sorelle di Grifondoro, Tassorosso e Corvonero, chiuso nel suo dormitorio, mentre I compagni di stanza stavano ballando allegramente nella sala comune, gettando scompiglio fra I morbidi sofa poco distanti dal camino spento. Per quell’occasione Bathilda Bagshoot una strega promettente che aveva la fissa per la storia, ed era l’unica in grado di non impazzire su quei tomi voluminosi sui troll, I goblin continue rivolte tra maghi. Viveva nella casetta limitrofa alla sua a Godric’s Hollow anche se da qualche tempo trascorreva i suoi inverni in giro per il mondo. Aveva molti anni più dei giovani Grifondoro, ma si era recata al castello, portando in dono al ragazzo un sacco di manufatti intrisi di magia romana risalenti come minimo ai tempi di Augusto.

<< Tuo fratello, dov’è Al? >> gli aveva chiesto Bathilda, la quale aveva permesso ad Albus di incontrare la piccola Minerva, una bambinetta del primo anno con I capelli corvini e gli occhi verdi la cui forma rammentava vagamente quella dei gatti. Minerva aveva un portamento da signora di gran classe sin dall’infanzia, mostrava un sangue freddo e capacità organizzative da generalessa, e Albus sorrideva vedendola arrossire quando lei gli domandava in prestito un libro qualsiasi, immaginandosela una grande politica, magari la prima donna ministro della magia. Anche quella sera, nella Sala Comune, Minerva e Elphias gli stavano accanto, aiutandolo nel difficile compito di servire una torta gigantesca all’intero dormitorio meno che ad Aberforth. Albus udendo quella domanda quasi inciampò, barcollò debolmente sulle sue gambe molli, e fu Minerva, rossa in viso, ma con gli occhi verdi severi e decisi, a sorreggerlo e a salvare il tavolo delle vettovaglie.

<< grazie, Minny. Beh, Bathilda cara, Aberforth ha deciso di non esserci. È ancora arrabbiato con me dall’ultima lettera di nostra madre >> sussurrò in un bisbiglio. Sospirò, poi si scrollò di dosso la sua malinconia << gli ho detto che non mi importa. Gli porterò un po’ di torta su in camera, magari a festa terminata >>. La giovane strega annuì, arrossendo violentemente, e sparì, diretta verso Elphias che stava gareggiando con altri studenti a chi ingoiava più burrobirra. In effetti la ragazza si era dileguata perchè conosceva cosa era accaduto tra I due fratelli solo qualche giorno prima.

Aberforth aveva ricevuto una lettera da Kendra, in cui annunciava che Ariana finalmente era rinvenuta da quello strano stato di perenne nenia, aveva smesso di ripetere sempre le stesse parole, e adesso si era rimessa in forze, passeggiava nel giardinetto della loro abitazione e salutava la vicina con allegria, la madre di Bathilda, e raccoglieva le primule e I gigli, si divertiva e si stupiva osservando il volo degli uccelli, aiutava sua madre nelle faccende domestiche, ma solo quelle in cui non dovesse stancarsi troppo, e da qualche tempo aveva ripreso a mangiare e perfino a sorridere e a chiedere dei suoi fratelli. Kendra sperava che I suoi figli potessero raggiungerla da Hogwarts, magari nel giorno del compleanno di Albus, perchè loro lo sapevano, Ariana non poteva viaggiare e poi I medici avevano consigliato alla madre di non bombardare la mente fragile e delicata della figlia conducendola in luoghi troppo affollati come una scuola brulicante di adolescenti, cosa che avrebbe potuto far tornare in mente la figura di Joe e della sua banda, e di lasciarla in un luogo ad Ariana famigliare, perchè solo così quella creatura avrebbe potuto conservare una parvenza di volontà e di giudizio. Così Kendra, dall’incidente di quella sera tremenda, si era eclissata per la società per vivere solo per la piccola, ne divenne l’infermiera, perse l’appetito e gli interessi esterni, smise quasi di piangere per Percival, che continuava a rodersi in quella prigione inespugnabile, Azkaban, colpevole solo di essersi fatto giustizia da solo, prima che il popolo non li scacciasse tutti e potessero dirsi danneggiati e beffati, anche se con quella mossa la famiglia non avrebbe di certo riavuto il sorriso di Ariana, aveva anzi perso il pilastro,l’albero maestro, e adesso che la piccola imbarcazione era circondata dai pirati, ingoiava acqua da un lato, poteva solo arrendersi, consegnarsi, supplicare. Vi prego, vi diamo tutto, ma non cacciateci di qua, per favore, per favore, sembrava dicessero gli occhi di Kendra, ogni volta in cui era costretta a recarsi in paese, in quella gabbia di iene e avvoltoi che la schernivano con lo sguardo, le chiedevano spiegazioni sui suoi figli, come se lei dovesse metter delle scuse per giustificarsi, le chiedevano principalmente di Albus, l’unico di cui non avessero di che vergognarsi, mentre di Ariana e Aberforth avevano preferito dimenticarli, affidarli all’oblio, fingere di non ricordarli come a voler mettere loro una croce addosso, cancellarli per sempre. Ma la bambina che soffriva di convulsioni e gridava come un’ossessa a volte per una settimana intera, e si strappava I capelli, si svestiva e si graffiava il corpo, strillava istericamente, a volte sembrava davvero posseduta da qualche spirito malefico, e I suoi occhi vuoti potevano incutere terrore anche agli esseri inanimati. Alcuni dicevano che quando Ariana gridava le pietre si spaccavano e le piante si afflosciavano, I bambini dovevano nascondersi, le ragazze bisognava che si vestissero di bianco e recitassero tutto il rosario con la finestra e la porta della camera chiusa e I ragazzi spesso li si celava, alcuni li mascheravano perfino da femmine, perchè la furia della bambina che nessuno voleva confessare di udire si sarebbe gettata addosso a loro, per punirli di quello che le avevano fatto quando aveva solo otto anni, e adesso che ne aveva quasi quindici non poteva più frenare quel dolore, non poteva soffocare la vendetta sotto il cuscino. Voleva, doveva ucciderli tutti.

Ma chiunque avesse guardato quell’uccellino morente disteso sul letto, con gli occhi fissi al soffitto a seguire la filigrana di fiori che si profilava fino alla finestra appannata dal freddo, avrebbe sentito le lacrime sgorgare, e si sarebbe seduto al capezzale di Ariana, chiedendosi chi fosse in realtà la bestia, se lei che gridava inconsciamente o quelli che le avevano fatto così tanto male.

Kendra aveva sperato che, visti I miglioramenti della sorella, Albus avrebbe potuto passare un po’ di tempo con loro, magari per infrangere quel silenzio innaturale, doloroso, che riempiva le ore lente e inesorabili in cui Ariana non voleva parlare, o in cui non gridava ossessivamente. Quelle erano di certo le eternità peggiori per il cuore della madre, perchè non poteva negare che le ceneri di quella famiglia le stavano sfuggendo, rimanevano solo I suoi ricordi, le ore trascorse a passeggio con Percival, accarezzando il pancione in cui Albus si stava formando lentamente, amore, sarà il bambino più bello del mondo, oppure le passeggiate con Aberforth verso I campi di grano, guardate madre, quei folletti ci stanno derubando! Oppure quelle giornate trascorse a pettinare I capelli della piccola della famiglia, a creare mille acconciature, a farle I ricci o le trecce, bambina mia, quale preferisci oggi?sorridere sapendo che sarebbe restato così per sempre.

Ma Kendra si era dovuta smentire: nulla poteva rimanere immutato. Purtroppo.

Aveva aspettato per giorni la risposta dei suoi figli, che si erano fatti grandi, e Albus era davvero un ragazzo meraviglioso, intelligente e pieno di amici, mentre Aberforth si stava facendo un uomo dalle spalle larghe e dagli occhi foschi, che non sapeva amare alla maniera dei rampolli delle famiglie nobili, un po’ come il suo povero Perce, che si rattrappiva in prigione ma lei gli voleva lo stesso bene, quel genere di uomini che sembra possano strangolare una donna in un abbraccio ma che sono I più sensibili e fedeli e possessivi che esistano. Aveva atteso, mostrando le foto consumate a furia di sfogliarle e far scivolare il dito di Ariana sui visi dei suoi fratelli, quando lei non li ricordava o chiedeva di vederli e loro non c’erano e la ragazza poteva rammentare un passato sfuggito solo in quel modo scarno, decisamente triste. Aveva atteso Kendra, e per ore aveva pianto, perchè il giorno del compleanno lo aveva passato da sola, a convincere Ariana che quell’ombra non fosse un brigante, che no, non volevano farle del male, tutt’altro, era solo un gioco di luci, quel profilo grigiastro disegnato sui fiorellini della carta da parati era solo una proiezione, non doveva piangere, non doveva gridare, perchè si stava strappando i capelli, perchè non voleva ascoltare sua madre? Ariana era di nuovo caduta in un sonno inquieto, una passeggiata tra gli spettri della sua infanzia, a tratti rallegrato dalle carezze di Aberforth, a tratti denso degli sguardi di Albus, perchè diavolo la stava osservando?, lei non lo sapeva, ma la cosa le dava da pensare. Ma non aveva da pensare, perchè lei era una.. come l’avevano chiamata quei ragazzi, tanto tempo prima?

Una strega. Si, lo era stata forse. Ma adesso era solo un corpo vuoto, fragile e pallido. Adesso che si stava spegnendo e perdeva le forze, mentre sua madre piangeva e quelle lacrime le causavano crisi isteriche. Perchè sua madre stava piangendo? Lei non lo sapeva, così come non aveva capito che avere poteri magici fosse un crimine, non aveva mai capito nulla della vita, per questo aveva deciso di affrontarla distruggendo la realtà, uccidendosi di strida e di calci, implodendo poco a poco, mettendo a soqquadro la casa dalle stanze vuote piena di dolore.

 

Aberforth si era raggomitolato nel suo letto. Come in ogni grande occasione non aveva saputo frenare le lacrime. Pensava a suo fratello e si sentiva esplodere: perchè diamine si comportava così? Albus, perchè sei senza cuore?

A Natale Aberforth era stato a casa, dalla sua adorata sorella. Chissà perchè, ma si aspettava che la sua sola presenza l’avrebbe risvegliata. Si era presentato con delle roselline fresche, appena colte dalla serra della scuola, sotto la concessione della professoressa di Erbologia che per qualche motivo gli sorrideva sempre, con fare materno e lo faceva arrossire. Aveva chiesto a suo fratello se volesse accompagnarlo a casa, ma Albus aveva l’aria di stare su di un altro pianeta, aveva detto di essere impegnato, così il ragazzo si era rassegnato a partire da solo, chiedendosi come fosse possibile dimenticarsi della famiglia nelle occasioni speciali. Aberforth però non lo avrebbe mai detto a voce alta: diamine, lui non poteva mostrarsi debole, romantico! Ma sua sorella aveva bisogno di dolcezza, e un caprone rude come lui non poteva non piegarsi di fronte a quella creatura delicata, Ariana.

La neve quell’anno non era ancora caduta, ma il cielo terso dava l’impressione che avrebbe messo in scena un putiferio. La carrozza aveva piegato velocemente verso Godric’s Hollow, fermandosi poco distante dalla casetta dei Silente. Aberforth era sceso, assaporando l’aria incantata del borgo a Natale: per quanto lo detestasse era pur sempre bello, tornare a casa e avere un bagaglio di ricordi che cascando all’improvviso, si apriva riversando addosso le giornate dell’infanzia. Per il tragico incidente, Aberforth aveva portato un bagaglio a parte, in modo che I bei tempi non si macchiassero di marcio, delle sue mani sanguinanti, della furia pazza che gli era montata in corpo e delle urla di sua sorella, del suo corpicino bagnato di sputi e pieno di lividi, delle lacrime di Kendra e della bacchetta infranta di Percival, del fratello con il libro aperto e senza parole da rivolgere alla famiglia, già, quel fratello che non aveva mai amato I suoi parenti, troppo normali, troppo insulsi, troppo compromettenti, perchè tra un padre fuorilegge, una madre depressa, un fratello violento e una sorella trasparente non avrebbe avuto nulla di cui vantarsi, poteva fingersi umile, inumidirsi le ciglia, in modo che le ragazze volessero consolarlo e I professori elargirgli favori e trofei. Aberforth si decise a dimenticare quelle sue opinioni, per il bene della madre. Per Ariana. Quando sfiorò il battente, un brivido lo percorse raggiungendogli le ossa: sua sorella stava strillando.

Entrò, battendo come un pazzo contro la porta, giusto in tempo per vedere la sua dea sbattere a terra Kendra, saltarle addosso, graffiandola, mordendola, furiosamente. Aberforth si era sentito morire, ma aveva deciso di mantenere il sangue freddo, così aveva afferrato Ariana per la schiena, incurante dei calci e dei pugni che gli avrebbe assestato e fece in modo di liberare sua madre dalla morsa assassina in cui stava soffocando. La donna recuperò lucidità in un baleno, cosa che fece presagire al ragazzo che quella scena si fosse ripetuta diverse volte, con la stessa tragica foga, e poi anche lei, con le rughe appesantite sul viso, aveva aiutato il figlio nel mettere a letto Ariana, darle un calmante ed osservare le convulsioni scemare, fino a ritrovarla febbricitante e stupita, un uccellino appena nato in balia del vento.

Si erano seduti a tavola, Kendra aveva cercato di rendere la casa confortevole, ma assomigliava al mausoleo del tempo andato, e Aberforth avrebbe preferito morire piuttosto che osservare quella donnona rattrappirsi, a furia di ingoiare dolore e frenare le lacrime. Ma lui non poteva ancora tener fede a quella promessa che si era fatto,

Quel ricordo gli faceva intendere perchè Albus non volesse ritornare lì dove gli orrori si susseguivano senza mai lasciar a riposo I Silente. Lo poteva capire, forse, ma di certo non lo apprezzava. Anzi, lo odiava sul serio perchè Kendra e Ariana non si meritavano la sua noncuranza. Sapeva solo passeggiare con la sua ristretta cerchia di eletti, perchè di amici ne aveva fin troppi, ma il circolo scipionico era una sorta di setta riservata a pochi scelti, e spadroneggiare per la scuola, beccarsi con qualche Serpeverde una volta ogni tanto, ma poi a finire nei pasticci era sempre il fratello rude, non il perfetto primogenito dal naso aquilino e dall’intuito quasi infallibile.

Così quando Albus entrò nel suo dormitorio, con la faccia ammorbidita da un sorriso smagliante, gli parve che stesse gettando fango sul nome della famiglia. Gli prudevano le mani, come tutte le volte che doveva difendersi e dar pugni. << voglio solo parlarti >> sussurrò Albus, imperterrito.

<< va’ al diavolo >> disse lui, di rimando.

Albus si era sistemato in un cantuccio della stanza chiusa, cercando nella penombra delle parole per spiegarsi. Lui che ne aveva sempre fin troppe adesso le aveva smarrite tutte.

<< ho intenzione di partire dopodomani, per restare fino al settimo anno a casa. Da Ariana e nostra madre. Ho intenzione di lavorare a Godric’s Hollow, di scrivere per I giornali e proporre le mie idee. Magari mi brevettano qualcosa e possiamo comprare con quei soldi un regalo a nostra madre, un soggiorno in qualche clinica specializzata per Ariana… ho sentito dire che in Francia ce n’è una in cui solo I Purosangue possono entrare, o per lo meno, solo loro teoricamente possono permetterselo… >>

Aberforth scattò in piedi << quindi tu vorresti porre fine ai nostri problemi con un gioiello per la mamma e un viaggio di sola andata per Ariana? Vuoi mandarla da uno.. >> abbassò il tono << strizzacervelli, questo vuoi Albus? >>

Il giovane scosse il capo << non mi vuoi capire! È come parlare con un muro, Ab. Voglio solo fare qualcosa per lei >>

<< lei voleva che noi fossimo a Godric’s Hollow, oggi, con una torta e un fiore appassito in mano, con un sorriso, che non costa nulla, e qualche favoletta per cullarla quando mamma l’avrebbe portata a dormire! >>

Albus scoppiò a ridere << e una volta che ce ne fossimo andati, cosa sarebbe cambiato? Lei soffre nel vedere partenze ed arrivi in continuazione… non abita in un porto, si sentirebbe usata! >>

<< tu non sai nulla di nostra sorella! Sei così dentro quei tuoi libracci che non ti accorgi di quello che la gente dice di lei, di me, di te, nè ti interessa che nostra madre sia sfiorita in pochi anni, ed ora assomiglia ad una vecchia quando non ha neanche quarant’anni, non ti importa di allontanare Ariana da casa, perchè è per il suo bene, giusto? E magari, quando quei babbani saranno stanchi di aizzarsi l’un l’altro e cominceranno la guerra vera e propria la lascerai come ostaggio ai vincitori, così potrà capire come va il mondo, eh?? >>

<< stai divagando, fratello >> disse Albus, con il viso annoiato << non vuoi capire proprio. Ho parlato con il preside e mi ha accordato il permesso di poter dare gli esami questo giovedì. Sono già preparato, e partirò per Godric’s Hollow sabato sera. Baderò io alla famiglia, mentre tu ti affannerai sui G.U.F.O >> e detto ciò uscì, lasciando Aberforth a tirar pugni contro il materasso e a maledire il mondo, a bestemmiare contro chi aveva fatto franare il loro piccolo paradiso personale.

<< avrebbero dovuto farlo a me, non a lei >> sussurrò Albus, quando fu sicuro che nessuno lo udisse, lo cantò al firmamento, a quelle stelle amare che lo avevano beffato da sempre. Lui era diverso, e ne era ben conscio.

 

Se qualcuno avesse chiesto a Gridelwald dove si trovasse il paradiso, lui avrebbe gridato ai quattro venti Hogsmeade senza alcuna esitazione. Perchè in quel borgo per soli maghi, lontano dal tempo e dalle sue angherie, sembrava che una festa eterna, una fiera sfarzosa e allegra, regnasse sovrana. Dopo tutti I contadini morti per la fame, gli attacchi di panico chiuso in celle fredde, ad aspettare che gli eserciti smettessero di far razzia o violentare le donne della propria famiglia, o a star nella stalla, mentre fuori infuriava la tempesta, e dover rimanere immobile, nel buio, tra lo sterco e l’odore ammorbante della morte, spirito che mai lo abbandonava, sembrava quello l’ombelico del mondo, dove non c’era da temere per la fame, dove il sole splendeva sul serio e non per pura convenzione, e I soldi non mancavano così come il cibo, e di eserciti vi erano solo le schiere di giullari e allegre danzatrici, che lanciavano nell’aria volantini inseguite dai bambini e dai ragazzi dal viso in fiamme. Sembrava una grande giostra circense, e Grindelwald si chiedeva quando sarebbero apparsi I cavalieri e le dame, costeggiando la stradina, agguantando una copia della Gazzetta del Profeta, il giornale più in voga della nazione magica inglese. Gli veniva da ridere, se ripensava alla sua camera puzzolente, dove gli amanti del pettegolezzo avrebbero potuto farsi quattro risate, giocando a indovinare con chi si accompagnassero le ragazzine, dall’altro capo del cartongesso. In quel mentre, una carrozza dall’aria ufficiale stava scendendo dal pendio più remoto che si poteva intravedere dalla larga strada maestra, ininterrotta, sebbene ci fossero così tante buche da far invidia ad una talpa. Dietro le cortine rosse e dorate un ragazzo dagli occhi d’un azzurro intenso, come l’oceano in un giorno di sole si godeva gli ultimi momenti di libertà, prima di riportare a casa le sue conoscenze, la sua pagella piena di eccezionali. Riportava I saluti di Bathilda a Ariana e alla cara Kendra e la promessa di rivedere presto Elphias Doge per una scampagnata, le lacrime di Minerva, che aveva deciso di comportarsi con dignità, senza addii teatrali, ma che poi aveva dato il via ad un melodramma vero e proprio nell’intimità delle sue stanze. Aberforth non aveva voluto salutarlo, la torta di compleanno l’aveva fatta marcire, e se le era date di santa ragione con quella testa calda di Hoggins, un Serpeverde dell’ultimo anno delle fattezze di una balena tanto per smaltire la rabbia. Era così simile a Percival… Albus lo invidiava, perchè anche lui avrebbe dovuto essere brutale almeno un pochino, magari non avrebbe mostrato in pubblico quel suo lato, ma ad averlo qualche volta si sarebbe risparmiato le lacrime e le nottate insonni. Lui non odiava gli uomini, nonostante gli orrori trascorsi e non amava le donne, le rispettava troppo per poterle usare, o corteggiare. Quelle cose erano tutte finzioni, l’amore cos’era se non la più grande burla del mondo? Era un sentimento che non conosceva e forse non voleva conoscere, perchè nessuno avrebbe amato un animo come il suo, troppo saggio per un adolescente, nessuno poteva capire cosa significasse sentirsi fuori posto, non sapere cosa farsene con quella strana bellezza che ammorbidiva le sue fattezze, di quel coso che occupava le sue mutande, che a volte non voleva nemmeno dargli retta, si comportava come se avesse vita propria, facendogli scordare perfino delle sue disgrazie. Albus aveva sospirato tristemente: che essere imperfetto l’uomo! Ma poi non aveva smarrito il sorriso, quella capacità di non perdere il coraggio nemmeno di fronte alla morte certa gli sarebbe servito ad accettare con ironia tutti quegli avvenimenti che avrebbero segnato per sempre la sua esistenza. Quel sorriso un po’ ironico un po’ triste, enigmatico alla stregua del famoso cenno della Gioconda, non lo avrebbe mai abbandonato.

Improvvisamente la carrozza si fermò. Albus fece quasi un capitombolo, non era abituato a viaggiare con I mezzi babbani, non a sedici anni quasi diciassette, nella meravigliosa speranza di potersi smaterializzare entro pochi mesi, per questo scese tutto ammaccato e con il voltastomaco e maledicendo a mezza voce il cocchiere d’occasione.

<< cosa succede, messere? >> chiese Albus, sorridendo amabilmente. Il cocchiere, un uomo dal capo spelacchiato e con due folti mustacchi sulle labbra indicò la strada senza replicare se non con gesti. Un cartello annunciava che le strade sarebbero state inagibili fino alla sera. << beh, allora non mi resta che adattarmi >> sospirò il ragazzo, alzando le spalle. Si congedò dal cocchiere, che sarebbe tornato a prenderlo solo nel tardo pomeriggio e decise di non perdere tempo rimuginando su quanto potesse esser sfortunato uno come lui, anzi, si sarebbe goduto al pieno quelle ore di libertà. In fondo se non poteva esser felice alla sua età che vita miserabile sarebbe stata? Così si diede alla pazza gioia, dimenticando di dover risparmiare un po’ di denaro per quella clinica particolare di cui aveva sentito parlare, ricacciandosi nello zaino I dolci di Mielandia, un locale luminoso in cui le bancarelle trasudavano di zuccheri, leccornie di ogni genere, per poi fare un salto nella biblioteca dei Burbage poco distante al gioco degli scherzi di Zonko, il locale più matto della città. Quando ebbe mangiato dolci a sazietà, dopo aver duettato con il vecchio proprietario della biblioteca sui versi di un babbano famosissimo, William Shakespeare, ed aver lasciato una serie di articoli nella redazione della Gazzetta del Profeta, che aveva aperto una filiale in una casetta sbilenca nel vicolo più squallido della cittadella, Albus sentì che non avrebbe potuto più frenare la fame, così decise di cercare in quel borgo in cui le donne potevano passeggiare senza essere importunate e I maghi si levavano il cappello con la galanteria d’altri tempi, e I bambini e gli anziani camminavano dolcemente, l’uno svelando all’altro I misteri del mondo, l’altro sorreggendo il primo con dolcezza e ammirazione, una tavola calda che non gli spillasse più soldi del dovuto. Gli fu chiaro che ai Tre Manici di Scopa, un locale che da poco aveva aperto per la gioia degli adolescenti sfaccendati, non c’era posto per lui: in effetti quel ristorante era troppo affollato, e lui troppo solo per potervisi divertire. Era tutta un’altra storia, a braccetto con la vecchia Bathilda, seguito da Minerva e dal caro Elphias, che sapeva sempre sgraffignare dalla scuola un pacco di gelatine tutti I gusti più uno da sgranocchiare mentre aspettavano i boccali di burrobirra. Così decise di correre a ritroso verso il confine di Hogsmeade, sorridendo come un pazzo del sole nel cielo, della strada bloccata che gli aveva regalato quelle ore di allegria. Giunse fino ad un locale che era stato aperto nella seconda metà del 1500, la Testa di Porco, in cui si diceva che trovassero l’estro artisti melensi e gli spiriti di storie da dover narrare che nessuno fino ad allora aveva accettato di ospitare nella mente e nel cuore, trovavano ascolto, diventavano personaggi reali, con vita e sentimenti visibili. Era anche locanda di sberle e di pugni, di sbronze da capogiro e di amori acerbi, un luogo in cui Albus incontrava il sapore della storia del mondo, e per un attimo capiva Bathilda e I suoi occhi lucenti quando si parlava del passato. Il ragazzo però non poteva che ammirarlo da lontano, ma non invidiarlo: ricordarsi di ciò che era stato per lui non era lecito, faceva male, preferiva non pensarci, era meglio continuare così, seguire il tracciato rettilineo che si era imposto di percorrere. Mentre rifletteva su questo, si ritrovò di fronte all’insegna arrugginita, marcia e ricoperta di una strana muffa verde della Testa di Porco. Con un sorriso che gli illuminava perfino lo sguardo aprì il portone, salutando garbatamente e socchiudendo gli occhi, sorpreso dalla penobra che avviluppava l’ambiente interno: quattro tavoli rosi dai topi con sgabelli abbinati, mezzi zoppi decisamente fatiscenti, muri che sembravano fossero macchiati di olio, tappezzati di incisioni, quadri, forse a nascondere i buchi nelle pareti dai quali penetrava il freddo e rendeva l’ambiente un frigorifero pure d’estate. Le finestre erano ottenebrate da tendaggi violacei, solo un filo di luce poteva penetrane all’interno, interrompendo il dominio continuo della notte. Albus notò che il locale era apparentemente vuoto, ma quando si accasciò su una seggiola del bancone, premendo con l’indice sul piano levigato e guadagnandosi una scheggia, sorridendo della polvere che si era depositata sulla sua pelle rosea e poi aprendo il libro appena acquistato e una bustina di caramelle, si rese conto che un ragazzo dalla pelle olivastra, scuro e pensieroso lo stava osservano dall’altro capo del bancone. Albus finse indifferenza, prendendo a sfogliare con decisione quel libro, sempre percependo gli occhi scuri dello sconosciuto sul corpo.

Strano, pensò il giovane, inizialmente quel viso olivastro, color della notte, non lo aveva notato, perchè gli era parso parte integrante delle tenebre. Apparve in quel dunque un vecchio inserviente, senza denti ma non per questo incapace di sorridere: si chiamava Matthew, ed era il proprietario del locale che amministrava con l’aiuto del figlio Anthon. In comune I due, avevano solo il cognome, perchè se il primo era solare e cozzava con le tenebre in cui era avvolta la stanza, il secondo era silenzioso, ed andava d’accordo più con le portate da preparare che con I clienti. Matthew stava invecchiando, e tante volte aveva proposto al figlio di prendere le redini dell’ azienda di famiglia, ma l’altro aveva scosso il capo, non era la sua strada, lui voleva solo specializzarsi nell’arte culinaria. Matthew allora aveva cominciato a cercare negli sguardi dei ragazzi che si fermavano a quella mensa il suo degno erede. Aveva conosciuto Aberforth e da quel momento, scorgendo I suoi modi un po’ rudi, decisi, forti, indomabili, aveva visto in lui un grande uomo d’affari, magari avrebbe potuto fare gavetta con quel locale. Perchè la Testa di Porco, per quanto vecchia e ammuffita, non poteva chiudere. Era un patrimonio nazionale, un pezzo di storia.

Quando Matthew vide Albus lo salutò allegramente, scorgendolo un po’ preocupato e con un sorrisetto falso sul viso, gli offri da bere, mentre lui sceglieva qualcosa per pranzo.

<< e dimmi, come sta tuo fratello? E la vecchia Hogwarts continua ancora a combattere? Ah, I bei tempi della mia giovinezza, quante ragazze ho baciato! >>

Albus scoppiò a ridere, e rimase colpito nel sentire una risata profonda giungere da poco distante, da quello sconosciuto dagli occhi foschi. Vedendolo partecipe, il ragazzo non si sentì più uno spione e potè osservare l’altro apertamente. Aveva capelli color pece, occhi truci e pesanti, che potevano raccogliere in uno sguardo il cielo della tempesta. La pelle era olivastra ma fresca, forse erano coetanei, e per di più un naso marcato segnava il suo profilo, un segno che bene si armonizzava alla mascella, dandogli un fascino che in Albus non si poteva rintracciare. Anche lui, a detta di Bathilda però non era propriamente orrendo: I suoi capelli ricci e lisci erano raccolti in una coda morbida che gli conferiva un’aria da saggio, e aveva occhi dolci e comprensivi, da buon confidente, occhi che sapevano a tempo debito far tremare la voce e le gambe.

<< ehi ragazzo, cosa fai lì in quell’angolo buio del locale? Vieniti a sedere qui, vicino a noi! È sempre bello fare nuove conoscenze, e tu mi sembri un viaggiatore che ha visto mille soli diversi >>

Grindelwald grugnì, strozzandosi con un po’ di birra << e voi dovete aver visto l’intera umanità da quel bancone, signore, se ritenete di saper leggermi solo con uno sguardo, signore >> replicò con un sorriso. Aveva denti candidi, che risplendevano nel buio del primo meriggio. Nonostante la nota polemica, che Albus notò in quella replica apparentemente cordiale, lo sconosciuto seguì l’invito dell’oste, e si sedette poco distante da Albus. Chissà perchè, ma Silente si sentì come in trappola, e smise di ingozzarsi di caramelle, facendo cadere lo sguardo sul suo libro nuovamente. Matthew sorrise e aprì le finestre << diamine, facciamo entrare un po’ di luce! Mio figlio e le sue fissazioni! È convinto che abbiano tassato perfino il sole! Beh, io devo andare a prepararvi da mangiare, sennò non saprò come cacciarvi da qui. Tra cinque minuti vi porto da mangiare. Voi non siate timidi, socializzate! È quello che ci resta, in questi tempi tremendi >>

Grindelwald mosse il suo boccale nell’aria, brindando alla salute del vecchietto. Albus sorseggiò a sua volta un po’ di burrobirra. L’aria era improvvisamente rovente, o forse stava capitando di nuovo? Si stava sentendo in… imbarazzo? E per chi? Per uno di cui non conosceva nemmeno il suo nome.

Grindelwald si volse e fece cozzare I boccali per una frazione di secondo. Albus rimase stupito, ma non seppe cosa dire. Doveva essere arrossito, cosa che gli capitava raramente, e non senza apparente motivo. << è bella la vostra nazione >> sussurrò rocamente quel giovane, strascicando la voce con il suo accento pesante, nordico, troppo duro. Era la voce di un generale quella abbinata agi occhi color petrolio. Albus bevve un altro po’ di birra. Non sapeva cosa dire. Sorrise semplicemente << in molti lo pensano. Io però farei di tutto per cambiarne la mentalità >>

Grindelwald si grattò il naso, osservando il soffitto << quanto pensi sia vecchia questa catapecchia? Mi fa rimpiangere quasi casa mia >>. Silente lo guardò con un sopracciglio alzato. Grindelwald scoppiò a ridere << voi inglese e le vostre sopracciglia mobili. Ho provato ore a copiarvi, ma non ci riesco proprio. Mi sentirò dei vostri solo quando sarò in grado di farlo muovere per la fronte a mio piacimento >> poi si ricordò di non essersi nemmeno presentato. Gli porse la mano, sorridendo con quei grandi occhi foschi << mi chiamo Gellert Grindelwald e ho ottenuto una borsa di studio dalla mia scuola di Dumstrang. Ho finito gli studi per quest’anno e credo che per un po’ resterò qui sulla vostra isola. Mi manca solo un anno prima dei MAGO >>

<< beh, benvenuto allora! >> prese la mano tra le sue. La prima era callosa, indurita dalla guerra. Mani di adulto. La sua sembrava pasta per il pane, così soffice e delicata. Solo un minuscolo callo, dovuto al modo sbagliato di reggere la piuma, si era insinuato nella cavità laterale del suo dito medio, ma comunque non era nulla di cui vantarsi, non c’erano storie legate che avrebbe potuto narrare ad un pubblico << io sono Albus Silente, piacere mio. Beh, anche io ho una borsa di studio e sto ritornando a casa da Hogwarts. Anche io sono al sesto anno >>

Gellert annuì << è una coincidenza alquanto strana che due studenti si ritrovino in una baracca del genere e che abbiano ordinato lo stesso cibo per pranzo >> osservò, quando Matthew tornò con due piatti identici per loro. << già >> commentò l’altro ridendo << chissà se la pensiamo ugualmente sul mondo? >>

Ma non pensavano nello stesso modo. O meglio, entrambi avevano grandi progetti per il futuro. Uno voleva costruire, l’altro distruggere. Uno voleva ricongiungere I cocci, l’altro voleva spazzarli via. L’uno si sarebbe innamorato, l’altro avrebbe finto per non perdere un sostegno contro le avversità. O forse, aveva amato solo a modo suo. In quella locanda che un giorno avrebbe visto Aberforth invecchiato e ingobbito pulire I bicchieri senza convinzione, perchè del resto non avrebbero mai brillato quei dannati boccali, dove I due giovani si sarebbero incontrati tante altre volte l’uno felice come in paradiso,l’altro con sul volto la febbrile follia delle sue idee, qualcosa era appena sbocciato. Un interesse timido da un lato e curioso dall’altro. Non sapevano cosa potesse essere quella forza che li aveva fatti incontrare. Era da approfondire, pensarono entrambi, quando vollero scambiarsi gli indirizzi, e Albus, salendo sulla carrozza molte ore dopo, pregò Gellert di potersi recare lui nel palazzetto degli amori proibiti, perchè in casa sua aveva la madre che soffriva di salute, mentì. Non voleva che quel giovane dovesse conoscere Ariana. O Aberforth.

<< certo, ci vedremo presto. Hai delle buone idee, Albus Silente >>

Si, idee fasulle, che lui non condivideva. Aveva detto una seconda bugia. Per parlare con quel misterioso cavaliere finito per studi nella sua terra aveva detto senza pensarci << per me I babbani dovrebbero essere usati come elfi domestici >>. Che grande cazzata.

Albus sbattè la testa contro la tappezzeria della carrozza, mentre la luna piena occupava il cielo illuminandolo dolcemente, ripensando alla giornata appena trascorsa. Chi era quel giovane inciampato nella sua vita? Non lo sapeva, solo Gellert Grindelwald, un ragazzo dalle idee strane e dagli occhi crudeli. Occhi misteriosi. Occhi affascinanti. Quegli occhi che non lo fecero dormire per molte notti, nell’attesa di poterli rivedere.

Continua… bene, che ve ne pare come terzo capitolo?????


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