Raggiungere la città alta

di okioki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #0 (Prologo) e #1 ***
Capitolo 2: *** #2 e #3 e #4 ***
Capitolo 3: *** #6 e #18 e Epilogo ***



Capitolo 1
*** #0 (Prologo) e #1 ***


(p.5,8;p.6,3;p.7,5)

 

 

Diciamo che è una storia in cui ho evitato di inserire molti spezzettoni (un prologo decente tanto per dire, e alcune cose nel mezzo prima della “fine”) sia per motivi di tempo sia perché temevo di superare il limite di parole per la long. All’inizio avevo idea di scrivere la storie alludendo in maniera vaga alle cose che erano successe in passato, ma mi sono lasciata trascinare talmente tanto da Rael ( e inoltre ritengo questo uno dei background più belli da me creati) ho deciso di narrare le cose in modo chiaro… anche se diciamo che la forma ne risente, e sembrano più che altro pezzi di storia ( ed è ciò che sono in effetti!) tenuti attaccati da un collante scadente. Spero, in un futuro non molto di remoto, di riprenderla e completarla e magari anche migliorarla!



«Sei stato via per molto tempo, è vero. Ma mi sorprende che tu sia riuscito a dimenticarti il tanfo che emana questa città» gli disse lo Smaltitore, atono.
Rael non aveva fatto altro che rivolgersi a lui in quel modo, dall'inizio del suo arrivo. Tutti in realtà gli erano parsi mutati, non solo nel volto ma anche nell'anima. Più nell'anima che altro, i roicani della baia sembravano aver sviluppato un abilità nel farlo sentire inquieto.
Rael nell'aspetto non era cambiato molto, si era solo evoluto. Aveva sempre pensato, sin da quando erano ancora bambini, che l'amico avesse quel genere di bellezza guasta che s'adattava oltre modo a Guevsse, ed era stato piacevole riscontrarlo anche dopo tanto tempo che non si vedevano. All'inizio lo era stato senza dubbio, ma poi gli occhi scuri dello Smaltitore non avevano fatto altro che restare fissi sulle sue iridi, mentre con fare meticoloso sorseggiava uno strano intruglio nel suo bicchiere.

«Sei cambiato.» Erano state le sue prime parole, appena l'aveva intravisto; da quelle Lyandro aveva compreso che il torto subito non gli era ancora stato perdonato, che le sue giustificazioni, agli occhi di Rael, non avevano importanza. «Cos'hai fatto agli occhi?» l'aveva infatti interrotto al suo primo tentativo di prender parola, bruscamente. «Hai gli occhi di un Signore...» aveva continuato a scrutarlo intensamente – e da allora non aveva smesso – invitandolo alla sua tavola.
«Un Signore dei Mari» aveva replicato Lyandro, sedendosi. Il mantello che indossava era sbiadito, logorato nella parte bassa, e aveva iscritti sul cappuccio idiomi in una lingua sconosciuta.
Rael aveva dischiuso la bocca. «Sei stato a Zernes? Una volta ho sentito dire che lì i grandi sapienti o Signori bevono assenzio. Non credo d'averne.»
«Mi confondi coi Signori della Guerra» era stata la risposta blanda di Lyandro. “Quella è una massima che appartiene a loro”. Aveva accettato il tozzo di pane azzimo che Rael gli aveva allungato, pensando che la nuova posizione non aveva cambiato il suo amico. Sì, portava la cappa di satin e le brache di un tessuto pregiato, ma era rimasto come fedele alle sue origini, aveva ancora quella stessa aria di superiorità che lo distingueva tra mille. Avrebbe voluto dirglielo davvero, ma sapeva che non avrebbe gradito.
«Cosa sei allora? Cosa fanno i Signori del Mare? Controllano i mari?» gli aveva allora chiesto l'altro, piattamente. Mentre parlava non guardava lui, guardava i suoi occhi, le sue pupille azzurre.
«No, tutti coloro che ho incontrato qui a Guevsse mi hanno fatto la stessa domanda.» Lyandro aveva accennato un sorriso, mentre sbriciolava le molliche di pane. «Semplicemente so come domare i venti che disperdono altri in mare.»
«Ho sempre pensato che fosse l'occupazione adatta a te. Alla fine, non puoi evitare di fare l'eroe» aveva costato Rael. La sua voce aveva subito una sfumatura graduale, da atona si era inasprita al pronunciare “eroe”.
Lyandro era rimasto interdetto. “Io invece non mi sarei mai aspettato che avresti accettato queste vesti... per quanto ancora io ti ammiri, non ho ammirato questa tua scelta”, ma questo non l'aveva detto. «Io invece... pensavo che avessi a cuore la Baia, la Madre, gli altri orfani. Pensavo avessi dei sogni.»
Rael l'aveva guardato a lungo, nei suoi occhi neri Lyandro aveva visto passare una luce beffarda. Lo stava deridendo, con il suo sguardo sembrava chiedergli in che modo gli fosse mai venuta in mente una cosa del genere.
«Eri tu quello coi sogni di terre straniere. Io non ho mai avuto altro che un'ambizione. Una sola: quella d'arrivare lì su.» E da quell'anfratto scavato nel monte, gli aveva indicato con la testa il punto più alto. Il punto più inarrivabile per loro, oltre la piazza, oltre quei gradini mastodontici e quelle guardie sempiterne che sembravano sorvegliarla dal principio dei tempi, oltre il portale: la città alta.
I suoi occhi, se possibile, s'erano fatto ancora più intensi, attraendolo in un incanto che aveva il suono dei sibili velenosi. Lyandro si era accorto che nonostante gli anni di lontananza le parole di Rael avevano in lui ancora lo stesso ascendente. Si stava lasciando affascinare: era quello il potere dell'amico, un potere che nemmeno gli occhi chiari che aveva ottenuto poteva eguagliare. Quel potere si chiamava carisma. Quelle parole, nel passato, pronunciate da qualsiasi altro roicano della baia sarebbero apparse i deleteri di un sognatore folle; dette dal Rael bambino assumevano un'inclinazione pericolosa e forse veniva quasi da credere che lui, un Orfano della città bassa, ce l'avrebbe fatta; ora sentirle dallo Smaltitore adulto le rendevano quasi una cosa certa.
Aveva chiuso gli occhi Lyandro, stremato dalla scontro con quelle pupille nere ed ermetiche, cercando di fermare l'incanto. Ma non poteva lasciarsi affascinare, perché sapeva quale era la via che il suo amico stava conseguendo per poter giungere lì su: una rampa creata dai corpi dei suoi fratelli, per raggiungere la parte alta della città. E all'apice sarebbe stata loro madre. Non più, forse Rael l'aveva rinnegata...
Quando fuori dalla dimora della madre aveva visto accasciati sulla soglia tutti quei bambini senza gaudio, già da lì aveva capito che c'era qualcosa che non andava. La genitrice era intenta ad allattare un neonato quando era entrato nella Baia, aveva gettato un occhio pigro su di lui senza ricoprire le sue nudità, «Chi non muore si rivede» gli aveva detto; se quello non era il saluto propenso che si aspettava dopo tanti anni Lyandro non l’aveva dato a vedere. Non c’era stato mai nulla di molto allegro negli atteggiamenti della Madre, né nella sua persona, tuttavia se c’era un atmosfera di gioia che nemmeno una giornata di sole alla Baia poteva replicare era proprio dovuto ai bambini di cui si circondava. Ma era tutto cambiato. Lui le aveva domandato di Rael, su come l’avrebbe trovato quando sarebbe giunto in città. «Rael, avrei dovuto picchiarlo di più da bambino» gli aveva risposto la Madre, improvvisamente addolorata. « “Di tutto ciò che c’è dato al mondo c’è un dato tempo per piegarlo” si diceva, dopodiché…» Aveva alzato le spalle, mandandogli a chiamare un Orfano, perché l’accompagnasse in città. «Figlio Lyandro, anche senza un perché sento che non ti tratterrai per molto: sei sempre stato uno che parte e basta, tanto per partire. Vai da quel tuo fratello snaturato, forse gli ricorderai che il giorno in cui ha deciso di separare i suoi affari da me l'errore che ha commesso è stato grave...» Ma se gli avesse riferito una cosa del genere non sarebbe cambiato niente. Sebbene sia le minacce che le suppliche non avrebbero di certo fatto facilmente desistere Rael dalle sue ambizioni, Lyandro lo conosceva bene e riteneva più saggio procedere con la seconda di opzione. «Dovresti aiutarla» si era costretto a dire, sapendo già che l’amico l’avrebbe odiato. Rael odiava salvare le persone, odiava ogni atteggiamento magnanimo, eroico e signorile.
Non c'era stato nessun cambio d'espressione, mentre quello gli dava la risposta.
«Sei stato via per molto tempo, è vero. Ma mi sorprende che tu sia riuscito a dimenticarti il tanfo che emana questa città...»

Pioveva forte. L'antro in cui abitava Rael dava davanti alla piazza della città bassa. Era nel quartiere degli antri, quei buchi angusti scavati nella roccia granitica del monte, dei quali alcuni fungevano da passaggio e s'inoltravano in profondità fino a formare veri e intrinsechi labirinti di roccia. Ma per la maggiore erano il tipo d’abitazione più comune che si poteva trovare nella città bassa. Quando ancora abitava in quella città quegli insediamenti erano nuovi, pericolosi e abusi, la guardia cittadina si era mossa con durezza cercando di stroncarle sul nascere, ma col tempo era stato il popolo a primeggiare. Ingrossata dai sedimenti, l'acqua piovana scorreva giù dalle sporgenze del monte e faceva traboccare i catini, i fusti, sistemati per raccoglierla e le condutture riversandosi sulla strada e formando un vero e proprio canale. La pioggia aveva spazzato via la cappa d'afa opprimente che solitamente era distesa su Guevsse; ma il fetore delle feci e del piscio, delle condutture intasate e dei corpi non lavati restava asfissiante.
Lyandro sapeva che una simile richiesta non avrebbe mai fatto presa sullo Smaltitore, ma non capiva a cosa alludeva riguardo il tanfo di Guevsse. Se mai l'aveva dimenticato, appena entrato in città - già d'allora pioveva - gli era tornato familiare: la strada per il quartiere degli antri si diramava in vari vicoli che s’incrociavano un centinaio di volte, formando intricati manti stradali difficili da seguire, tra lo spesso fango e l’acqua piovana che si riversavano ai lati del fondo stradale e una nebbia densa e mezza gelata teneva oppresse le viuzze più strette e remote. Non sentire il tanfo da allora era stato impossibile.
“Snaturato”, forse era un termine giusto per definire Rael. Nemmeno per la donna che l'aveva cresciuto avrebbe rinunciato ai suoi propositi. L'abnegazione era un'eresia per lui, che sin da bambino aveva imparato a badare solo a se stesso. E non sarebbe stato di certo Lyandro, che si poteva definire una sorta di suo allievo, a fargli cambiare idea. L'unica persona ad avere mai avuto una lieve influenza sulle sue azioni era Esmera, da quel che il Signore dei Mari ricordava.
«Dov'è Esmera?» Si era accorto solo in quel momento che non c'era. Lei, che negli anni passati era sempre stata accanto a Rael. Forse era dovuto a quello il peggioramento dell'amico, Esmera stessa glielo diceva sempre che era il freno per il ragazzo dagli occhi d'ossidiana.
«Non qui» rispose Rael.
«Come sarebbe a dire?» continuò, la risposta vaga di Rael non era per nulla soddisfacente. «Nostra sorella, che ti stava sempre appresso...»
«Non più. Non è più qui da molto tempo, ma 'sti cazzi di Esmera... Hai trovato la città cambiata, al tuo ritorno?» gli domandò.
Quel cambio di tono così drastico, disorientò per un momento Lyandro. Rael gli si era rivolto con un'inclinazione vocale che quasi sembrava richiamare un qualche sentimento, forse gentilezza. Avrebbe voluto continuare a domandargli di Esmera, ma si disse che non poteva perdere quell'opportunità: quei magnetici occhi neri, che non aveva mai distolto lo sguardo dalle sue pupille modificate, sembravano avergli lasciato finalmente un po' di spazio.
«Bitume» mormorò Lyandro ricordandosi, quando l'aveva visto era stato davvero sorpreso. «Sentivo nostalgia di casa, perfino dell’anfrattuosità del terreno, e sono rimasto allibito. È attendibile la notizia secondo cui hanno bitumato tutte le strade de Guevsse. Speravo c’è ne fosse ancora qualcuna scavata nella roccia.»
Lo Smaltitore inclinò il capo, portandosi alle labbra marroni lo strano intruglio.
«Cosa sono tutte queste parole difficili? Cosa credi di dimostrare?» Il sorriso che gli rivolse Rael era sfuggente, ferino. « La Roica è sempre stata avanti con le cose nuove, rispetto alle terre occidentali. Ma sembra che tu ti sia lasciato infinocchiare: nonostante tutte le novità questa città continua a puzzare di marcio.»
Quel volto beige, incorniciato dai lunghi capelli, continuava a guardarlo dritto nelle iride.
Rael era sicuramente più bello della maggior parte dei roicani che abitavano nella città bassa, ma la sua bellezza era difettosa, e lo metteva a disagio. Ma forse l'amico non smetteva di scrutargli le iridi perché trovava il suo aspetto bislacco. Il Signore dei Mari non poteva dargli tutti i torti, anche a lui sarebbe apparso strano vedere un roicano della baia con gli occhi chiari.
Lyandro ammiccò, finalmente qualcosa di simile ad un'espressione era comparsa sul volto dell'amico. Non si era nemmeno offeso quando l'aveva canzonato sul suo modo di parlare. «E sarebbe questo il tuo compito, quindi? Rimuovere il marcio dalla città?» gli domandò acido.
«Il mio compito è semplicemente quello di eliminare i rifiuti.» Rael si fermò, quel sorriso disumano dipinto sulle labbra. Ma non disse di più, non ciò che realmente pensava.
Lyandro cominciava ad irritarsi, non sopportava tutto quell'alone di mistero. Gliele avrebbe tirate fuori a forza quelle parole, e anche se era la persona che più aveva ammirato nella sua vita, non avrebbe esitato a scontrarcisi. «E chi sarebbero?»
«Si vede che sei stato tanto tempo fuori... Ma anche da mocciosi si sa che i rifiuti qui non sono altro che quella troia consumata che si fa chiamare Madre e suoi Orfani. Non c'è altro che si può considerare un “rifiuto” qui a Guevsse, se non contiamo i malavitosi dei vicoli» gli spiegò con calma Rael.
Lyandro aveva gli occhi spalancati, si era ripromesso di non meravigliarsi, perché sapeva bene che genere di uomo era. Un uomo senza rimorso. Eppure guardandolo non riusciva a odiarlo. L'avrebbe combattuto se si fosse arrivato a tanto, per la Madre, per gli Orfani, perché era giusto, ma non l'avrebbe mai odiato. Non l'avrebbe mai ripudiato, per lui sarebbe stato sempre suo fratello.
«Molte cose sei stato Rael...» gli disse. «Ma mai un'ipocrita. È questo il marcio della città, te ne do atto... ma tu vorresti tirartene fuori, vorresti dirmi che anche tu non fai, o non hai fatto in passato, parte di questi “rifiuti” che adesso elimini come se non fossero mai stati niente? Tu odiavi, questi lavoro.»
«Quando avrei detto marcio?» Lo Smaltitore si alzò di scatto, scrollando le spalle. «Lyandro... Che cosa ti hanno fatto in mare, ti hanno rubato il ricordo? Sembra che un Signore dei Mari tu lo sia da una decina di anni tanto da non ricordarti nemmeno più il tanfo che emana questa città!» Ridendo lo prese per un braccio, indicandogli la piazza che gli si dipanava davanti: dalle sporgenze della roccia granitica scendevano rivoli d’acqua di fogna, che come un flusso d'acqua seguivano l'inclinazione della strada e si riversavano nei quartieri ancora più sottostanti. Lyandro spalancò gli occhi, Rael stava reagendo alle sue provocazioni! O almeno così gli parve, perché l'attimo dopo tornò calmo con una rapidità che aveva dell'inquietante. «Quando piove, l’acqua straborda dalle condutture e si riversa in strada: una fogna a cielo aperto la chiamiamo… Pensavo che salendo sempre più in alto, superando i drappelli di guardia che impediscono l’accesso agli abitanti dalle zone più basse, le cose sarebbero cambiate, che non avrei mai più dovuto vedere questo misero spettacolo...»
Le ultime parole costrinsero Lyandro a spostare lo sguardo dalla strada al volto dell'amico, niente in apparenza sembrava esser mutato, ma al Signore dei Mari sembrò di vedere un qualche sentimento negli occhi dell'amico. E non capiva quale. “Cosa diamine è accaduto?” glielo avrebbe voluto chiedere; ma con la stessa velocità con cui era iniziato, il diluvio scemò, riducendosi a una debole pioggerellina. Una zaffata d'aria arrivò proprio in quel momento al loro antro, risvegliando i sensi sopiti di Lyandro.
Il tanfo di quella città, forse riusciva a ricordarlo...


Quando non era attraversata dalla piogge Guevsse si lasciava ad un caldo torrido.
Ragazzini nudi che scivolavano e planavano sul fango della piazza, inseguiti dalla guardia cittadina e qualsivoglia venditore a cui avevano rubato qualcosa. Dai pochi antri sorti, la gente guardava con pigrizia quello spettacolo usuale, lasciandosi travolgere dal caldo. In giornate di sole simili a quella, le gradinate di marmo traslucido che portavano alla città alta riflettevano la luce in maniere mistica, facendo apparire l'ascesa come un collegamento tra cielo e terra.
Lyandro, cupo, riversava in un vicolo della strada come tanti altri bambini, tra le pareti viscide di melma di una costruzione e l'ombrosità di quei luoghi a nascondere le attività malavitose. La strada principale davanti al vicolo era allagata e il lerciume smosso aveva formato una schiuma di fango brunastro che pareva quasi glassa. Qualcuno aveva sistemato delle assi di legno a formare una passerella improvvisata sull'acqua sudicia. Lyandro e suo padre avevano abitato all'estremo lembo sinistro di quella città su di una montagna paludosa che era Guevsse, in una viuzza collegata alla Piazza della Scala e che s'addentrava nei meandri e negli antri della città sospesa. Alla fine lì era stato bene, gli veniva da pensare ogni tanto, se si sporgeva dalla finestra poteva vedere il fumo denso che usciva dalla città alta e le due guardie sempiterne che sorvegliavano il portale. Com'era arrivato a quel punto? Si chiese. Solo due anni prima viveva in un quartiere a modo con suo padre, ed era stato a un passo dal lasciare quella città maledetta. E adesso andava portandosi avanti in un vicolo malavitoso all'ombra perfino della città bassa, dove accadevano le cose peggiori. Appena l'altro giorno ne aveva vissuta una terribile: stava appunto aspettando l'arrivo di Quan, dai più detto Spaquosa, per rendergli un'offesa gravissima. Già un paio di bambini si erano radunati, silenziosi, per assistere allo scontro.
Nell'attesa Lyandro fissava le pozzanghere fangose, cercando d'immaginare un modo per venir fuori da quella città merdosa, sempre che ce ne fossero, anche strisciando. Il suo volto riflesso nell'acqua pareva quello di un estraneo, era da due anni che non poteva più considerarsi un bambino. Portava i capelli lunghissimi e stepposi e sporchi, gli occhi scuri parevano stanchi, con i bulbi iniettati di sangue, il viso ovale sciupato e pallido gli dava l'aria di un lupo reietto. Dischiuse le labbra piene in un sorriso stentato quando udì i passi e la voce del ragazzino che aspettava farsi più vicino, ma il ragazzino in questione gli rispose con un ringhio. Lyandro alzò gli occhi verso di lui, doveva apparire sicuro davanti a tutti gli spettatori, doveva far capire che non dovevano aver paura di quel Spaquosa, che era solo un prepotente e che l'avrebbe pagata. Spaquosa si era portato tre o quattro scagnozzi, ragazzini di mole molto più piccola della sua, ma con facce per nulla rassicuranti. L'altezza non era mai stata una cosa che l'aveva portato a ritrarsi, Quan lo superava di una spanna ed era molto più grosso, ma Lyandro era sicuro che con una giusta dose di abilità e agilità sarebbe riuscito a batterlo. Si scrocchiò le dita, facendogli un cenno.
«Spaquosa, sei venuto» disse.
Non ci fu nessuna replica da Spaquosa, che si fece avanti con i pugni alzati.
“È così stupido che deve subito menare le mani” pensò Lyandro divertito. Non che lui fosse molto istruito, ma aveva passato abbastanza tempo con suo padre per imparare a scrivere, leggere, e parlare in maniera abbastanza forbita per i bassifondi di Guevsse.
Cominciarono a scannarsi un momento dopo.
Spaquosa fece affidamento sulla stazza, buttandoglisi contro e cercando di metterlo a terra, ma Lyandro evitò l'affondo lanciando un'occhiata preoccupata ai suoi scagnozzi. Sarebbero intervenuti anche loro? Se era così si metteva male. Intanto approfittò del momentaneo vantaggio per sferrargli un paio di calci, ma sembrava che stesse facendo a calci con la gomma per quando le sue esili gambe rimbalzavano. Spaquosa si alzò grugnendo un ruggito, cercando di coglierlo di sorpresa con un mal rovescio veloce. Lyandro si abbassò, sorpreso da tale rapidità, e caricò sul ventre prorompente tirandogli tutti cazzotti. Con una menata Spaquosa l'allontanò, facendolo finire a gambe all'aria, esposto alle risate di tutti. Lyandro digrignò i denti rimettendosi subito in piedi con un balzo, non avrebbe lasciato che lo deridessero. Spaquosa aveva il viso rosso, e sulle labbra un ghigno per nulla promettente. Improvviso, sentì un liquido caldo scorrergli sulla guancia, si toccò la guancia e scoprì le dita rosse e appiccicaticce: era sangue. Lyandro sgranò gli occhi, accorgendosi all'improvviso del coltellino che Spaquosa aveva stretta a pugno nella mano sinistra.
«Infame!» sbraitò, in modo che tutti lo potessero sentire. «Era uno scontro a mani nude!»
Intorno a loro si alzarono mormorii carichi di tensione e paura. Gli scagnozzi di Quan, alle sue spalle, si fecero improvvisamente più vicini e Lyandro capì di trovarsi circondato. Poco importava, non sarebbe scappato, l'unica cosa da cui aveva da guardarsi era il coltelletto che impugnava Spaquosa. Forse avrebbe dovuto far in modo che lo scontro si spostasse nella piazza, lì non avrebbero di certo potuto ucciderlo davanti al portale e alla guardie.
«Lo Smaltitore mi ha dato questo coltello! Quindi ho il potere di usarl...»
“Ora!”. Lyandro colse l'occasione in cui tutti era concentrati sulle parole di Spaquosa per correre alla fine del vicolo, inutili furono le braccia che cercavano di riacchiapparlo, agile le evitò tutte, fino a ritrovarsi sulla via principale, sulle passerelle di legno.
Per fargli capire che non stava scappando, con la mano fece cenno a Quan di seguirlo. «Sono stanco della puzza che si respira agli angoli della città, se è lo Smaltitore a mandarti non avrà niente in contrario se continuiamo il nostro scontro nella piazza aperta!»
Detta questo continuò a correre, seguito da Spaquosa, i suoi scagnozzi e il resto della folla che si era radunata a guardarli. “Bene, ora che non corro il rischio di morire, posso batterlo e rendergli il torto!” si disse Lyandro, andando a varare con la mente alle possibili tattiche da usare per stendere l'avversario. Seguendo la passerella arrivò alla piazza circolare, senza doversi introdurre in qualche antro, e sottostando agli sguardi degli abitanti curiosi degli antri abusivi. “Un po' di rumore deve essere uno spettacolo atipico per loro,” pensò Lyandro con il fiato corto, “ e prima io vivevo come gente del genere!”.
Si mise in posizione di combattimento, quando vide che Spaquosa era arrivato. Ora che non lo poteva ammazzare il problema restava solo uno: evitare i fendenti del coltello, e, magari, non farsi tagliare qualche tendine.
Non aspettò nemmeno che la folla li raggiungesse, e gli si buttò contro, menando pugni a destra e a manca sul suo viso, per poi ritrarsi al minimo movimento di Quan. Qualche affondo gli era riuscito e decise che quella sarebbe stata la sua tattica. Oramai non c'era proprio più niente di cui preoccuparsi visto che a quanto pare i ragazzini che l'avversario si era portato dietro non avevano alcuna intenzione di attaccarlo.
Spaquosa aveva il volto contratto in una smorfia di stanchezza, correre portandosi tutta la sua stazza appresso lo doveva aver lasciato senza fiato, e questo era un ulteriore vantaggio. Lyandro continuò per un po' con questa tattica, facendosi avanti e poi ritraendosi con velocità, ma con il tempo le braghe finirono inzuppate dal fango, appesantendosi e rendendogli i movimenti più lenti. Per poco mancò che Spaquosa riuscisse ad acchiapparlo, ma fortunatamente era molto più lento di lui. Lyandro indietreggiò con il busto al nuovo fendente lanciatogli, incespicò con le gambe e cadde a terra, tra il fango e l'acqua. La folla si era di nuovo raggruppata, e adesso anche gli abitanti guardavano curiosi quello spettacolo dagli antri.
In men che non si dica Spaquosa fu sopra lui e Lyandro si sentì sollevare. Scalciò e si dimenò, ma la presa che lo teneva sembrava fatta d'acciaio. “Fanculo!” pensò fra sé e sé davanti al sorriso soddisfatto di Quan; era davvero brutto: aveva la pelle chiara che s'avvicinava in modo incredibile a quello di alcuni roicani del tempio, il viso rubicondo e le guance paffute ricoperte da sgarri e brufoli, gli occhi piccoli e ambrati pieni di cattiveria. Il desiderio di sferrargli un pugno in faccia era opprimente quanto insostenibile, in quel momento. Lyandro gli sputò in faccia, tanto non aveva niente da perdere, l'avrebbero ammazzato di botte e forse anche fatto di lui la loro puttana. Rabbrividì al solo pensiero. Lo sputo era andato a centrare il mento prorompente di Quan, il quale se lo pulì svogliatamente con la mano; continuava a tenere quel sorriso, era calmo, da lì a poco gli avrebbe fatto rimpiangere di averlo sfidato. Lyandro prese aria nei polmoni per potergli urlare quanto era infame e pusillanime, ma non fece in tempo.
Quan cominciò a tempestargli il ventre di coltellate.
All'inizio non faceva male, ma poi il dolore arrivò pungente e lancinante quando gli colpì un punto in cui dovevano trovarsi le costole. Allora Lyandro lanciò un urlo lancinante cominciando a dimenarsi come un pazzo, tratteneva a stento le lacrime. Tutti i rumori degli spettatori, gli urli che si mischiavano ai suoi gli sembravano lontani, riusciva solo a udire la risata di Quan, che lasciato il coltello continuava imperterrito a tempestarlo di pugni, facendolo sputare sangue. Che ingenuo era stato, non l'avrebbe ucciso, ma di sicuro gli avrebbe fatto molto male...
Poi il dolore svanì e si sentì di nuovo lucido, aveva tutta la tunica inzuppata e appiccicaticcia. Lyandro si vergognò di se stesso, aveva lasciato che il malore gli adombrasse i sensi, ma in realtà non era ancora finita, poteva ancora combattere, scappare. Dimenando un poco le gambe si accorse che il ragazzino che lo stava tenendo aveva le gambe divaricate, cercando di non far caso ai colpi allo stomaco e al suo continuo tossire sangue, concentrò tutte le sue energie in un calcio all'indietro, ben assestato ai testicoli dello scagnozzo di Spaquosa. Funzionò, con un'imprecazione il ragazzo lasciò la presa e Lyandro scivolò a terra e veloce cominciò ad indietreggiare. Un'ovazione si levò tra gli spettatori, mentre Lyandro tra sé e sé li malediva. “Cazzo, nemmeno la guardia cittadina che interviene! Sarà tutta opera dello Smaltitore...”
Cercava di correre, ma si accorse che in realtà incespicava molto lentamente. Sentiva lo sguardo divertito di Quan posato sulle sue spalle: quello che stava offrendo doveva essere uno spettacolo molto divertente. Il fiato era pesante, non sentiva dolore ma gli riusciva difficile muoversi, forse era più grave di quanto pensasse. Evitò le direzioni in cui erano ammassati i ragazzi che avevano assistito allo scontro, optando di dirigersi verso le mastodontiche scale che portavano ai drappelli delle guardie, ma perfino la vista gli si era annebbiata. Improvvisamente sentì le gambe cedere, e cadde a terra. Doveva apparire veramente insulso. Si voltò in direzione di Quan, e s'accorse che la distanza che aveva percorso non era poi molta visto che con quattro passi Spaquosa lo raggiunse.
«Ora sei mio» gli sussurrò questi prendendolo per i fianchi. Lyandro cercò di scalciare, ma ogni tentativo fu vano, allora non sapendo cosa fare gli sputò addosso il sangue che aveva in bocca. Sangue, continuava a uscirgli sangue dalla bocca. Non capiva cosa gli era successo, non sentiva dolore ma non riusciva a muoversi nemmeno come voleva.
Poi d'un tratto, vide Quan farsi indietro tenendosi il volto sanguinante tra le mani. Di seguito, la voce squillante di una ragazzina gli arrivò prepotente alle orecchie. «Ecco il nostro bel Spaquosa !» disse ridendo. Lyandro girò il viso dove gli pareva di sentire la voce, ai piedi delle gigantesche scale, appoggiativisi, c'erano due figure. Quella in piedi era sicuramente quella che aveva parlato, infatti si stava facendo avanti con qualcosa chiuso tra le mani.
Lyandro ritornò a guardare Quan e si accorse che aveva il viso coperto di sangue.
Poi la ragazza che aveva parlato gli verso dell'acqua sul viso, e Lyandro si sentì meglio e la vista più nitida. «Perché mi aiuti?» domandò, rivolto alla sua salvatrice.
Quella gli rivolse un sorriso di sufficienza. « Perché hai bisogno d'aiuto, no?» disse mentre lo aiutava ad alzarsi.
Poi parlò a Quan, che si teneva ancora il viso in mano, bestemmiando per il dolore. «Facile prendersela con i ragazzini morti di fame, Spaquosa! Perché non te la prendi con quelli della tua taglia?» lo sfidò.
«Con piacere, puttana storpia!» ringhiò Spaquosa facendosi avanti. Con uno scatto la ragazza scansò Lyandro, che ricadde a terra, indietreggiando.
Lyandro ricominciò a sentire delle fitte terribili di dolore al ventre, ma deciso ad ignorarle osservò invece la sua soccorritrice, che stava per passarle di brutte a quanto sembrava. Era alta quanto Spaquosa, e sicuramente doveva avere la sua stessa età, ma era molto più sottile ed una femmina alla fin dei conti, quindi non poteva essere così forte.
Infatti Quan le si avventò contro prendendola per le spalle e scuotendola fortemente, ma sembrava come intimorito dal picchiarla.
Un sasso, rapido, andò a colpire il capo di Quan, facendogli lasciare la presa dalla ragazza, che scura in volto corse verso Lyandro.
«Esmera» disse la voce di un ragazzo, facendosi vicino a Quan che si teneva ancora la testa. Era l'altro tipo che poggiava sulla Scala e che era rimasto dov'era quando la ragazza era intervenuta.
«Oh,» sputò con disprezzo Quan. «Ecco l'altro storpio del cazzo! Cos'è oggi avete lasciato quella merda della Baia, per venire qui a fare gli ero... » Non finì di parlare che il ragazzo gli lanciò un altro sasso in testa, facendosi avanti.
«Cos'è tutta questa folla del cazzo, c'è uno spettacolo in corso forse?» domandò il ragazzo in modo flemmatico, al che molti della folla fecero contemporaneamente qualche passo indietro, per poi disperdersi. Rimasero solo i tipi che si era portato dietro Quan, ma questi erano come impietriti.
Lyandro sentì la sua soccorritrice ridere di gusto. «Ah... Spaquosa sei diventato temerario, vai in giro beandoti di quel soprannome di merda, come se non te l'avesse assegnato Rael!» disse. Poi Esmera si fece più vicina a lui, cingendogli le spalle con un braccio, mentre con l'altro gli diede delle foglie. Lyandro guardò con fare interrogativo quelle foglie, ma la ragazza gli disse di mangiarle. «Assenzio. È per il dolore» aggiunse, mettendogliele in mano.
«Pezzo di merda!» stava intanto urlando intanto Spaquosa. «Sei un cacasotto di merda, storpio del cazzo! Che è, hai paura che se lasci quei sassi ti li fi...» Nemmeno questa volta il ragazzo gli lasciò finire la frase, tirandogli un'altro sasso.
L'ombra fugace di un sorriso apparve sul suo volto. «Senti chi parla, quello che usava il coltellino. Mi stufa un po' usare questi metodi d'accattone... ma neanche matto mi salterebbe per l'anticamera del cervello di toccare uno schifo come te. Qualunque cosa uscirà da quella fogna che ti ritrovi come bocca non importa, ho deciso che ti voglio ammazzare...» veloce gli tirò un'altro sasso, dritto nell'occhio. «Anzi, prima voglio spappolarti i bulbi a sassate...» decise, tirandogli ancora un'altra sassata.
Quan stava ormai in ginocchio, urlava, inveiva e bestemmiava dal dolore tenendosi prima la testa poi gli occhi. I versi strazianti di qualche animale i suoi, pensò Lyandro. Il dolore di Spaquosa sembrava così forte da non permettergli di potersi alzare, ma ad un tratto Lyandro noto che stava tendendo la mano. Stava per urlare attento al ragazzo, ma questi già gli aveva lanciato una sassata facendogli cadere il coltello dalle mani.
«Orfano, tu lo sai cosa cazzo stai facendo?» sbottò Quan tra un'imprecazione e l'altra. «Stai attaccando uno degli uomini dello Smaltitore... e quando lui lo verrà a sapere – perché lo verrà a sapere te lo garantisco – si farà rodere talmente tanto le palle da venire a cercarti e completare il lavoro iniziato con voi! Sì, fino alla baia, e sgozzerà anche quella troia consumata del cazzo che voi tutte teste di cazzo chiamate madre!»
Il ragazzo alzò la mano con il sasso, e la tenne sospesa, mentre inclinava il capo. «Non offendere nostra madre... E poi uomini? Tu vali meno della sua merda, del suo vomito, per quel coglione dello Smaltitore... se ti uccido non gliene potrebbe fregare di meno, schifoso e inutile come sei. Guardati, sei patetico. Ma ti risparmio...» fece un cenno ai suoi scagnozzi, che si avvicinarono a Quan. «Vai, vai pure dal tuo Smaltitore... e se si abbassa a tal punto da riceverti digli che lo attendo come una verginella bagnata, che non vedo l'ora di ritrovarmela tra le mani per fargli peggio, molto peggio di quello che lui crede d'aver fatto.»
Quan non se lo fece ripetere due volte, e sorretto dai suoi compagni se ne andò lanciando qualche imprecazioni rivolta a loro tre.
Lyandro vide il ragazzo avvicinarsi a loro e rivolgersi alla ragazza, che aveva appreso che si chiamasse Esmira. «Andiamocene da qui» disse.
La ragazza annuì, sorreggendo Lyandro e aiutandolo ad alzarsi. Quando si accorse che aveva ancora le foglie in mano gli ringhiò addosso. «Sbaglio o ti avevo detto di mangiarle?» Gliele prese di mano ficcandogliele in bocca e costringendolo a masticarle. Lyandro sentì il sapore dolciastro, quasi vomitevole, farsi strada tra le pupille gustative e il sangue, ma nonostante quel sapore terribile cercò di ringraziare i suoi soccorritori. «Grazie...» disse, ma non ricevette risposta.
Il ragazzo, che doveva invece chiamarsi Rael, s'era già incamminato avanti, la ragazza invece gli rise in faccia. Offeso, fece per andarsene, ma la ragazza lo prese per la tunica. «Ehi, tu vieni con noi! Dove credi di andare? I servizi che ti abbiamo offerto io e Rael sono già stati ripagati appieno con la faccia rognosa di Spaquosa... ma le erbe che ti ho dato, credi che siano comprese?»
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Questa storia partecipa al contest  
A strange Fantasy indetto da scrapheap_sama.


 

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Capitolo 2
*** #2 e #3 e #4 ***


_RAGGIUNGERE LA CITTÀ ALTA_



Lo portarono da un dottore. O almeno, un tipo che amava definirsi tale. Operava in un antro nelle parti più basse della città bassa, fu tutto ciò che gli fu dato sapere. Esmera, che non si chiamava Esmira, aveva insistito sul fatto che doveva essere bendato per arrivare lì, e Lyandro era talmente frastornato che non aveva replicato.
Stava davanti a una grata aperta. Pioveva. Il dottore spalancò le imposte di legno e le blocco con un pezzo di lamiera, contro il vento. Lyandro provava un senso di claustrofobia, le dita contratte sulla stoffa sudicia della sua tunica inzuppata di sangue.
«Ho finito» annunciò il dottore a voce alta.
«Di già?» domandò con sospetto Esmera, che si avvicinò alla branda dove era stato deposto. «Fammi vedere.»
Lyandro sollevò lo sguardo su di lei. Sul tavolo che aveva accanto c'era un vassoio con sopra diversi vasi, barattoli e bottiglie piene di erbe e intrugli; il dottore aveva preso uno di questi e glielo aveva spalmato sulle ferite. Lui non aveva sentito dolore, merito forse delle erbe che stava masticando ma che al contempo lo rendevano poco lucido. Lasciò che Esmera vedesse gli impasti che gli erano stati applicati. «Ha la pelle dura» disse la ragazza ridendo. «Sopravviverà?»
Il dottore alzò le spalle. Stava pestando dei frutti simili a peperoncini, aggiungendo acqua per ottenere la consistenza simile a quella di una minestra.
«Mi sorprende che sia ancora vivo» ribatté. «Tu, piuttosto, stai attento a giocare con quell'arnese, che è arrugginito e potresti prenderti il tetano» si rivolse a Rael, che in un angolo più oscuro degli altri continuava a rigirarsi fra le mani il coltellino di Spaquosa.
«Ho già avuto il tetano, ne sono immune» gracchiò Lyandro. L'aveva preso quando ancora viveva con suo padre, ferendosi contro una lamiera arrugginita.
«I pazienti non devono parlare» obiettò Esmera e con un verso gli impose di stare zitto. «Sopratutto nel caso in cui potrebbero sputare sangue.»
Il dottore gli si avvicinò dicendogli di bere l'impasto dentro la ciotola a cui prima stavo lavorando.
Lyandro che aveva ancora le foglie in bocca, stette ben attento a mandare giù l'intruglio senza rischiare di ingoiare anche le foglie.
«Ti fa male? Scuoti la testa se è no» gli disse allora il dottore.
Lyandro fece no con il capo.
«Molto bene. Credevo che avessi un'emorragia interna, ma non penso che il coltello ti abbia colpito gli organi vitali. A quanto pare devo solo estirpare tutto quel sangue ormai morto senza farti morire di dissanguamento...»
«La fai lunga te, quanto dobbiamo sborsare?» lo interruppe Esmera, lanciandogli qualche moneta di metallo basso.
Lyandro brontolò in segno di protesta, lui voleva sapere cosa aveva. Ma poi, facendo più attenzione, capì che la ragazza voleva pagare per lui e si sentì diviso tra il sospetto e l'incertezza. Perché l'aiutava?
«Credo che basterà che mi procurate altre di quelle erbe, per compensare.» Il dottore indicò un barattolo sul tavolo.
«E quando pensi che potrà reggersi sulle proprie gambe?»
«Tre o quattro lune. Ci sarebbe voluto molto di meno se non fosse così denutrito.»
Esmera con fare sornione baciò la fronte di Lyandro, e poi accostò le labbra alle sue orecchie. «Tieni un po' di questo, per ristorarti...» gli disse, mentre gli metteva in mano un pacchetto delle foglie essiccate che gli aveva dato da masticare.
Lyandro sentì il rossore che gli saliva alle guance, e il suo corpo farsi all'improvviso più inquieto. Era una bella ragazza Esmera: aveva la carnagione tipica dei meticci, come quasi tutti a Guevsse, il naso aquilino e forse un po' troppo pronunciato, gli occhi dal taglio sottile che contenevano due pupille scure dal colore indefinito, le labbra gonfie e marroni a disegnarle il sorriso, ricci soffici e corti che gli ricoprivano il cranio. Il petto era piatto come quello di un uomo, era alta, sottile ed esile come un giunco.
«Tornerete?» domandò il dottore mentre Esmera e Rael s'allontanavano.
«Certo che torneremo, abbiamo interesse...»
Lyandro sentì i loro passi farsi sempre più lontani, fino a che non furono più udibili e capì che se ne furono andati.
Ancor prima di decifrare le frasi enigmatiche di Esmera, si disse che la sua priorità era scoprire dove era. Per condurlo lì avevano fatto molti giri, e quando i suoi due soccorritori se ne erano andati non aveva intravisto alcun fascio di luce, né aveva udito il rumore della pioggia. Quindi doveva trovarsi in un antro interno. Eppure, c'era una grata che dava sull'esterno, dove adesso pioveva. Dove diavolo era finito? Non si fidava di quel “dottore”, aveva una faccia tutt'altro che raccomandabile... cosa gli garantiva che durante la notte, o magari anche in pieno giorno visto che era infermo, non cercasse di approfittarsi di lui?
Ho evitato un guaio per finire nella stessa merda?”.
Con un sospiro Lyandro tornò a masticare le erbe, borbottando fra sé e sé.
«Che c'è ragazzino?» domandò il dottore.
«Niente.»
«A sentirlo non sembra niente. Sputa l'osso.»
Lyandro gli domandò, anche se sapeva già la risposta che sarebbe pervenuta: «Dove siamo?»
«Non puoi saperlo» gli rispose seccamente il dottore. « Visto che per almeno un paio di giorni ti avrò qui, è il momento che impari un paio di cosette sulla convivenza. Già mi tocca sopportare quell'odore di fogna che emani...Smettila di ruminare, cosa sei, una mucca valtahiriana?»
«Sto masticando» replicò Lyandro offeso. Lui era vissuto per molto tempo sulla parte più alta della città bassa, quindi sapeva già da sé come ci si comportava, e inoltre per la puzza non poteva farci niente: in quell'ultimo periodo aveva avuto un' altro paio di cosette a cui pensare oltre che al lavarsi.
A quelle parole il dottore lo fulminò. «Cosa? Stai masticando delle erbe? E quando cazzo pensavi di dirmelo, dopo che ti davo del sano come un pesce? Apri quella bocca!» Con fare burbero gli si avvicinò, aprendogli la mascella con le grandi mani.
«Ci credo che non sentivi niente! Queste erbe annientano la percezione del dolore... cosa credi di star masticando?» sbraitò l'uomo, richiudendogli la mascella con un tonfo.
«Assenzio» replicò Lyandro. Tutta quell'impotenza cominciava ad irritarlo; era questo che aveva permesso ad Esmera d'affidarlo nelle mani di quell'individuo poco raccomandabile, era questo che permetteva ora al dottore di muovere parti del suo corpo come voleva. Se fosse stato abbastanza in forze se ne sarebbe andato il momento dopo che Rael aveva allontanato Spaquosa, ma Esmera l'aveva fermato adducendo come scusa un qualche rimborso.
L'uomo si allontanò scocciato. «Assenzio? L'assenzio si beve, non si mastica, e lo bevono i grandi sapienti e i Signori. Quello che stai masticando è assenzio dei poveri, erbe allucinogene che fanno parte dello stesso ramo ma che sono doppiamente dannose.» Con la mano guardava e esaminava i liquidi dei suoi vari contenitori. «Bene, adesso che so che tutti gli esami che ti ho fatto sono vani, devo rifare quell'impasto. Visto che anche se tu stessi morendo non te ne accorgeresti. Adesso cerca di dormire...»
Lyandro non rispose. L'ultima cosa che aveva intenzione di fare era dormire, con quel tipo nei paraggi. Sarebbe rimasto sveglio il più possibile per assicurarsi che non venisse toccato. Avrebbe resistito, lui non si sarebbe addormentato.
Invece dormì, e quando si risvegliò non sapeva quanto tempo era passato. Vide che fuori splendeva il sole, e quindi non poteva essere che mattina. Richiuse gli occhi cercando di concentrarsi sulle sue sensazioni corporali, ma non sentiva niente di anomalo a parte delle fitte lancinanti allo stomaco. Bene, era rimasto intoccato. Con le mani ancora intorpidite andò a cercare il sacchetto di erbe che Esmera gli aveva dato, portandosi due foglie alla bocca. Questo gli avrebbe impedito di percepire il dolore per un poco, sembrava che gli stessero sciogliendo dell'olio bollente nell'intestino. Masticò piano e già gli sembrò meno vomitevole il sapore dolciastro delle foglie, finché il dolore alla pancia non si attutì diventando come un leggero prurito.
«Quelle erbe che ti mastichi come se bevessi un bicchiere d'acqua finisce che t'ammazzano» si lamentò il dottore.
Lyandro sussultò impercettibilmente sul letto, non s'era accorto della sua presenza e questo non gli piaceva. In realtà gli piaceva ben poco di tutto quello che era successo in quei due giorni.
Il dottore si avvicinò a lui, con una ciotola di riso bianco.
«Me le ha date Esmera, per il dolore.» Lyandro provò ad alzare il busto, e riuscendoci prese la ciotola dalle mani del dottore. Sentiva la salivazione alle stelle, era passato tanto tempo dell'ultimo pasto decente che aveva fatto, che quasi non si ricordava il sapore del cibo.
«Quella tua amica Esmera a me sembra niente più che un poco di buono» l'avvertì il dottore, alzandogli la tunica.
Lyandro s'irrigidì di scatto. Esmera non era sua amica, la conosceva a malapena, ma l'unica cosa che riuscì a ribattere stizzito fu: «Non più di te.» Voleva essere una frecciata, ma l'unico risultato fu che il dottore gettò indietro la testa e scoppiò a ridere.
«Allora tu devi essere il capo di tutti i malavitosi, visto che ti fidi a farti aiutare da gente come noi.» Il dottore esaminò con i polpastrelli delle dita gli impasti applicati il giorno prima ai tagli, e annuì compiaciuto.
Malgrado la crescente irritazione perfino Lyandro si ritrovò a sorridere.
«Credevo che Esmera fosse tua amica, dal modo in cui parlavate sembrava» costatò, mentre con un cucchiaio di legno s'imboccava.
Il dottore andò al tavolo, prendendo delle foglie fresche e un impasto verdognolo. «Con gente del genere è sempre meglio intrattenere un rapporto non personale. Esmera, e più che altri Rael, sembrano quelle persone che ti fottono quando meno te lo aspetti e senza rimorso. Non ti è già capitato?»
Lyandro annuì impercettibilmente. In effetti Esmera l'aveva letteralmente costretto a mangiare le foglie d'assenzio, approfittando della sua debolezza, per poi rinfacciargli che doveva trovare un modo per pagargliele.
Osservò il dottore che rimuoveva l'impasto ormai essiccato dalle sue ferite, per poi spalmare nuovamente l'unguento. Dava una sensazione di fresco.
«Da quant'è che fai il dottore?» domandò Lyandro all'uomo. Era curioso, ora che ci pensava, al contrario dei molti dottori che giravano tra i vicoli di Guevsse quell'uomo sembrava sapere il fatto suo. Lui fino a quel momento di veri dottori ne aveva visto soltanto pochi, e questi stavano negli antri che più si avvicinavano alla città alta.
«Da un po'» brontolò l'uomo.
Lyandro sbuffo, quella risposta non lo soddisfaceva per niente.
«E come fai a sopravvivere con i pochi spicci che di sicuro ricevi? E perché hai chiesto così poco ad Esmera?» Nonostante si fosse accertato ormai delle intenzioni dell'uomo, il sospetto continuava a lacerarlo. Poteva anche darsi che volesse vendere uno dei suoi organi nei mercati o a qualche pirata che attraccavano al porto della Baia.
Il dottore aggrottò la fronte, continuando a trattare i suoi tagli. «Perché... » la domanda sembrava averlo deconcentrato. « Stammi a sentire: tu fai troppe domande per essere uno di qui. Semplicemente sono stanco di vedere ragazzini che s'ammazzano a vicenda. Perché? Ci devo per forza guadagnare qualcosa? Io dico di no. E adesso tappati quella bocca e dammi una delle tue foglie.»
«Credevo non le masticassi.»
Il dottore si fece su una risata. «E perché? Perché ti ho detto che fa male? Anche gli spiccioli che mi ha dato Esmera penso che siano cattivi, però me li tengo lo stesso? Caro il mio...»
«Lyandro.»
«... Lyandro, il mondo è strano. Dammi queste foglie.»
Lyandro gliene offrì qualcuna, decidendo che quell'uomo non gli piaceva ma che alla fine sarebbe potuto stare tranquillo. Passò il resto del tempo della convalescenza in pace, mangiando abbondantemente del riso bianco, facendosi cambiare gli impasti dal dottore, masticando l'assenzio dei poveri, dormendo, e seppe che era ormai fuori pericolo quando Esmera e Rael tornarono a trovarlo.
«Sembra proprio che ti sei rimesso, ragazzino. Sei pure più in carne. Ora vieni con noi» gli disse Esmera la mattina del quarto giorno.
Lyandro annuì, non ce la faceva più a stare rinchiuso in quell'antro e costretto a letto. S'alzo, ma aveva un po' le vertigini, e fu costretto a farsi aiutare dalla ragazza. Tutto questo ostacolava il suo piano, aveva deciso che appena sarebbero stati fuori di lì se la sarebbe svignata con qualche scusa, andando a cercare Spaquosa per regolare i conti: non gli piaceva essere in debito con quei due.
Stranamente si dimenticarono di bendarlo.
«Sta attento» lo avvertì il dottore. Nel viso aveva scritto a chiare lettere il messaggio di guardarsi bene dai suoi accompagnatori. Lyandro rise e ringraziò il dottore con fare grazioso prima di andare, tanto per dimostragli che lui le maniere educate le aveva.


Erano seduti su di una panchina dietro la baracca abusiva di Carlos il Jaqioh, a meno di mezzo metro dal ripido balzo di una quindicina di metri che precipitava nella palude sottostante. Alla loro sinistra un sole gettava riflessi pigri sull'acqua fangosa che scendeva a piccoli rivoli giù per la strada. Esmera e Rael l'avevano portato nella parte più bassa della città montagna, da lì, oltre gli etti di natura si poteva vedere il porto, e ancora più lontano il mare blu intenso. Lyandro guardava il mare mentre Esmera berciava una canzone, seduta sulla panca a gambe incrociate. Rael invece si teneva appoggiato alla parete precaria ricoperta di calce della baracca di Jaqioh, facendo intravedere ogni tanto il suo coltellino. Lyandro, prima d'allora, non si era mai soffermato a guardarlo per molto tempo in quanto era certo del fatto che Rael non avrebbe gradito. Era un peccato che la bellezza di quel ragazzo venisse guastata da un così effimero particolare, perché era senz'altro uno dei pochi ragazzi belli che si potevano vedere nei bassifondi di Guevsse. Aveva il viso affilato, che trasmetteva una sensazione vertiginosa, non c'era niente di rotondo nei lineamenti del suo volto, e questo perché sia lui che Esmera dovevano avere qualche anno in più di lui. Gli occhi, anch'essi affilati, dal taglio femmineo seguivano la stessa pendenza del viso donandogli risolutezza anche quando l'espressione era vacua, le pupille nere e guizzanti, quasi liquide. Il naso era adunco, e non schiacciato come nella maggior parte dei roicani della baia, le labbra erano sottili e piene, solo leggermente più scure del colore dell'incarnato. La pelle era lucida, di un colore simile al fango ma leggermente più scuro. Nel complesso era relativamente bello, ma la mancanza delle orecchie lasciava quando lo si osservava la sensazione di guardare qualcosa di difettoso. Era alto come Esmera, e sebbene anche lui nel corpo fosse abbastanza esile, gli s'intravedevano nelle braccia coperte dalle maniche il profilo dei muscoli sottili. Aveva notato come sia lui che la ragazza portassero vestiti che gli ricoprivano tutto il corpo, nonostante il caldo afoso della città.
«Io sono Esmera» disse la ragazza, poi indicò il compagno. «Lui è mio fratello Rael.»
«Lo so» disse Lyandro. “È davvero suo fratello?”.
Esmera sorrise, come se gli avesse letto nel pensiero. « Il tuo nome ragazzino?»
«Lyandro.»
«Lyandro, sai che ti abbiamo salvato il culo vero? Sai di dovermi pagare anche l'assenzio che ti ho fornito durante la convalescenza. Sai che dovremmo pagare anche la tua convalescenza, al dottore. Come credi di riuscire a procurateli tutti questi soldi?» gli domandò Esmera, assottigliando gli occhi. «Perché quelle erbe che ti ho dato sono molte preziose.»
Lyandro si trattenne dal lanciarle un'occhiataccia. Stavano cercando di fregarlo, quelle erbe erano robaccia. “Assenzio dei poveri” l'aveva definito il dottore; scarso comune e doppiamente dannoso del vero assenzio, anche se purtroppo lui durante quei quattro giorni ne era diventato praticamente dipendente.
«Troverò un modo per ridarveli» disse, teso come una fune tirata. «È giusto.»
Esmera sembrò trovare molto divertente quell'ultima costatazione, e rivolse un'occhiata sardonica a suo fratello. «È giusto? Saresti davvero un portento se riuscissi in contemporanea a sfuggire a Spaquosa e ai suoi scagnozzi, cercare di mangiare e racimolare i soldi che mi devi» fece notare.
«Non credo che dovresti preoccuparti, anche se sei molto gentile a domandare. Basta che tu abbia indietro i soldi.» Lyandro, al contrario, non era per nulla divertito. Capiva dove voleva arrivare Esmera, l'avevano aiutato – anche se era più giusto dire che Rael l'aveva aiutato – e volevano indietro i loro soldi, ma pretendevano anche qualcosa in più da lui.
« È vero. Però ti chiedo una cosa ora – visto che tu mi sembri un ragazzino giusto che sa di sicuro che mentire ai salvatori è una grave offesa – che conti stavi regolando con Spaquosa?»
Lyandro rimase in silenzio. Era interdetto, forse avrebbe dovuto dirglielo per il debito che aveva nei loro confronti, ma non gli pareva che fossero poi tanto affari loro. Si leccò le labbra, cercando di non lasciar trapelare l'imbarazzo, odiava il fatto che quella ragazza, Esmera, si approfittasse della situazione in cui l'aveva messo; ma pensandoci alla fine non era colpa sua, era lui che lasciandosi battere da Quan aveva commesso il primo errore, a cui ne erano seguiti molti altri.
« Un 'offesa, di questo si trattava» borbottò cupo, il solo ripensarci gli faceva ribollire il sangue. « Un'offesa che dovevo rendergli assolutamente... »
Esmera lo guardava con aspettativa, voleva sapere di più.
«Il giorno prima stavo nei pressi della Fontana Vecchia, vicino alla discarica, e c'erano dei ragazzini che si stavano facendo il bagno insieme. Sapete com'è, se non si va in gruppo non si sa mai cosa può succedere. Rimasi a guardarli, perché quella notte mi sentivo parecchio di buon umore, e nell'acqua quei ragazzini si stavano spruzzando l'acqua l'uno contro l'altro. Ma quando si stavano rivestendo, a qualcuno erano stati rubati i vestiti... è una burla che quegli stronzi fanno spesso, per questo di solito io mi lavo mai. Due ragazzi rimasero senza vestiti, lì nudi come pesci, con gli sguardi dei pervertiti che li guardavano. Poi sentii vicino a me un gruppo di ragazzi, grandi quanto voi più o meno, ridere di gusto, e capii che erano stati loro. Mi arrabbiai molto, perché una cosa simile mi era successa la prima volta che ero nuovo a questi quartieri malavitosi, e quindi andai dai due ragazzini e gli dissi di guardarsi bene da quel gruppo che di sicuro erano mal intenzionati...»
«Continua. D'ora in avanti potrei rinominarti Lyandro il Giusto.» Il sorriso della ragazza era ferino.
Lyandro fu tentato di interrompersi, non gli piaceva ci si facesse gioco di lui. «Ma mentre ero lì, il gruppo si avvicinò a noi. Erano Spaquosa e i suoi scagnozzi. “Guarda che bel spettacolo” disse quando ci fu vicino uno di loro. Altri due coglioni, senza nemmeno proferire parola agguantarono i due ragazzi per i fianchi. I loro compagni, con cui un attimo prima stavano facendo il bagno, non fecero niente. Io per un mio compagno non l'avrei mai fatto... Non potevo rimanere lì a guardare, era una cosa infame, una di quelle cose che mi rialzano al naso il tanfo che ha questa città. Quindi cercai di avventarmi su quegli stronzi, perché se l'avessero fatto a me avrei preferito morire, ma mentre mi facevo avanti per colpirli uno dei ragazzini alzò il viso rigato di lacrime su di me. Da come mi guardavano sembravano dire “È già abbastanza umiliante senza che ti ci metti tu”, e io non me ne capacitavo. Non volevano il mio aiuto... è vero che li trovavo patetici, ma li avrei aiutati lo stesso» s'interruppe, sicuro di star quasi dicendo qualcosa che avrebbe fatto ridere Esmera di nuovo. «Ma Quan m'indicò – già lo conoscevo per fama – e disse una cosa sconcia, alludendo a me. Io non sono come quei ragazzini che lasciano correre, io non potrei mai permettere a qualcuno di usare simili parole con il mio nome! Non avevo nessun motivo di temerlo, quindi mi avvicinai a lui. Forse credeva che mi stessi offrendo di mia volontà, invece lo sfidai pubblicamente. Gli dissi che se non accettava la sfida pubblica sua madre era una troia e l'aveva generato con un aborto naturale, e gli diedi uno schiaffo tanto per rimarcare la sfida.»
Ci fu un lungo silenzio dopo. Forse Esmera pensava che avrebbe continuato con il racconto, ma Lyandro non aveva più niente da dirgli.
Quando la ragazza capì che non avrebbe aggiunto altro si alzò, stiracchiandosi le braccia. «Tutto questo cazzo di casino per una battuta sconcia, di sicuro avrà detto che t'avrebbe fatto volentieri la sua puttana. Dovresti aspettartele certe attenzioni, sei carino anche se hai quell'aria truce. Avresti fatto meglio a farti i fatti tuoi fin dall'inizio, infondo cos'erano questi tizi per te?»
«Niente» disse Lyandro preso in contropiede, non si aspettava una replica del genere.
Esmera annuì, gli si fece vicina e gli poggiò la mano sulla spalla con fare apprensivo. «Appunto, non erano assolutamente niente. So che di sicuro pensi di aver fatto una cosa giusta, ma la tua è stata soltanto una cazzata. Hai umiliato ancora di più quei ragazzini e hai attirato su di te l'attenzione di Spaquosa. Quattro giorni fa quasi t'ammazzava, non c'è da scherzare con tipi del genere, sopratutto per un piccoletto come te che fa il solitario.»
«Non mi avrebbe ucciso, stavamo in Piazza della Scala, gli occhi di mezza città puntati contro e le sentinelle del portale appena più in alto. Mi avrebbe fatto molto male, e forse sarei morto alla fine, ma non mi avrebbe ucciso.»
« Ti sbagli. Anche se è solo una testa di cazzo Spaquosa lavora per lo Smaltitore e certi sdegni li ripagano solo con la morte. Per fortuna c'ero io.»
«Sono sfuggito da un guaio solo per finire in uno più grosso» costatò Lyandro.
Esmera parve offesa ma poi ci meditò sopra. «Meglio io dello Smaltitore.» Rise di cuore della sua stessa battuta.
Lyandro si scrollò la mano della ragazza dalle spalle. «Allora anche tu saresti come loro no?»
Esmera continuò a ridere, alzando le mani in segno di resa e facendosi indietro. «Ma lo vedi? Qualcuno contesta le tue azioni “giustissime” e già t'incazzi. Datti una calmata idiota, le cose giuste non sempre sono da fare, facendo così rischi solo di finire ammazzato. Non sono come loro, per niente... tu non sai com'è fatto lo Smaltitore.»
Lyandro la guardò cupo. «Allora spiegamelo tu, come è fatto lo Smaltitore.»
Esmera lo fulminò, lanciando un'occhiata fugace alla baracca.
Si avvicinò a Lyandro e gli spiegò che lo Smaltitore aveva il compito di “smaltire” i rifiuti che pullulavano la città, e che tutte le forze d'ordine della città bassa erano sotto suo controllo e lavoravano per i suoi interessi, legali o meno; era in pratica il capo della città bassa, non di molto diverso dagli altri malavitosi che avevano una qualche “società”, faceva ammazzare chiunque gli si opponeva, e aveva anche qualche affare nel campo della prostituzione dei ragazzini, non solo nella città bassa ma anche nella città alta. C'era lui dietro la maggior parte delle scomparse improvvise che avvenivano in città.
Lyandro quando finì non era per niente soddisfatto, Esmera gli aveva detto cose che già sapeva benissimo, ma gli sembravano sole voci alquanto ingigantite. Lei e Rael non potevano essere obbiettivi, già quando l'avevano aiutato aveva notato che portavano a quell'uomo un gran rancore.
«E Spaquosa sta con lui, capisci? Dicono che lo Smaltitore assiste a tutte le torture di coloro che gli capitano tra le mani.»
«Chi lo dice?» chiese Lyandro.
«Gente senza nome. Mi sembri uno di quei cavalieri bianchi in quelle ballate occidentali: invece di farsi i cazzi loro e passare avanti, stanno lì a domandare e a fare gli eroi.» Era stato Rael a parlare, mentre limava il suo nuovo pugnale sul calce. «E poi magari crepano pure.»
Lyandro lo guardò attentamente. Lui era intervenuto solo quando si era messa in mezzo Esmera, ora ricordava, se la sorella non si fosse mossa avrebbe lasciato che Quan lo ammazzasse. Ridacchiò sfacciatamente: se sperava d'intimorirlo con quelle frasi vagamente minacciose aveva capito male. Era infastidito da tutta quella superiorità che i due fratelli sembravano dimostrargli, anche lui sapeva come andavano le cose a Guevsse e non aveva bisogno che loro si prodigassero in consigli e in avvertimenti. Avrebbe voluto fare altre domande a Esmera, ma vide che la ragazza guardava titubante il fratello, come a chiedergli se poteva parlare e dire altro.
Si rivolse a Rael direttamente, allora. «Alla fine chi sarà mai questo Smaltitore? Credi davvero che Spaquosa mi avrebbe ucciso solo perché aveva la sua protezione, con le guardie dei battenti appena lì sopra?»
Rael non gli rispose, accennando a Esmera. «Ma dove l'hai trovato questo? Meglio che lo riporti lì alla svelta.»
La ragazza rise. «Credo d'essermene innamorata» disse scandendo lentamente le parole, come se stesse alludendo al fratello qualcosa. Lyandro aggrottò la fronte.
« È molto agile e abbastanza forte: denutrito com'era è riuscito a reggere uno scontro con Spoquosa che è dieci volte lui. Se lo riportassi dove l'ho trovato finirebbe morto nel giro di qualche giorno, e se non fosse Spoquosa sarebbe per qualcun altro, visto che ha questo vizio di fare il “giusto” della situazione...»
«Non c'è alcun bisogno che ti preoccupi per me, come ti ho detto» la interruppe Lyandro, stavano parlando come se lui non esistesse e inoltre aveva il sospetto che tutto ciò che avevano fatto era una messinscena per incastrarlo. «Ti ridarò i soldi a breve» fece un cenno di saluto ad Esmera, cercando di andarsene ma la ragazza lo agguantò al braccio.
«Non così in fretta, chi ti ha detto che voglio che mi ripaghi in monete? Sei in debito con me, ricorda, e sono io a scegliere il pagamento. E quello che scelgo è in servizio.»
Lyandro sentì il rossore salirgli alle guance, si era aspettato di tutto, ma non certamente che volesse una cosa del genere. «Servizio in natura?» sussurrò.
Esmera gli rifilò un'occhiata sconcertata quanto la sua, prima di scoppiare nuovamente a ridere.
«Oh... sei stato avventato: una novità tanto per cambiare. Sai, né a me né a mio fratello fa impazzire la gente che s'atteggia a giustiziere del mondo. Ma hai dimostrato un certo orgoglio, e questo mi piace molto. Rael,» si rivolse al fratello dopo aver sorriso dolcemente a Lyandro, «allora lo portiamo con noi?»
Rael annuì, esaminando la magra figura di Lyandro. «Va bene, portiamolo da nostra madre» disse infine, staccandosi dalla parete a cui era appoggiato. Dal tono che aveva usato sembrava star concedendo un nuovo giocattolo alla sorella.




Dopo essersi lasciato convincere da Esmera a seguirli, insieme al fratello erano usciti dalla città, molto presto il sentiero contorto che aveva preso si era addentrato nel fitto della palude e avevano incrociato vari fiumiciattoli inquinati e territori di sabbie mobili, ma Rael sembrava saper come muoversi bene e velocemente, e senza tentennamenti li aveva condotti più in là e avevano ritrovato un sentiero più ampio di quello in precedenza; in lontananza la vegetazione si era fatta meno fitta e lasciava intravedere il mare, e alcune delle vele delle galee attraccate al porto. “Lasciare Guevsse sembra quasi impossibile,” aveva pensato Lyandro, “senza Rael a farci da guida sarei sicuramente finito inghiottito una o più volte dalle sabbie mobile”. Il terreno era stato ostile, incerto, e gli animali sconosciuti si nascondevano trai i meandri della palude. Lyandro si era domandato molte volte quanto fosse possibile andarsene da Guevsse: di tutta la gente che aveva conosciuto, dagli abitanti per bene di Piazza della Scala ai più infidi malavitosi dei vicoli, nessuno, tranne suo padre, era mai stato interessato a lasciarla.
Esmera gli aveva poi indicato sul fondo, sulla sommità di quella che sembrava una scogliera, una vasta costruzione bassa e irregolare, e gli aveva detto: «Quella è la Baia». Quando l'avevano intravista, Lyandro si era rallegrato. Gli impacchi applicati alle ferite all'addome erano venuti a contatto con il sudore e cominciavano a pizzicargli. Pian piano che arrancavano per la salita aveva visto alcuni bambini correre incontro a Rael e a Esmera, ma appena questi avevano intravisto lui si erano irrigiditi ed erano corsi dentro alla staccionata della Baia e questo l'aveva turbato non poco.
«Ragazzini idioti» aveva sentito dire, piattamente, da Rael.
Poco dopo, ad accoglierli era stata una donna alta e imponente, li aveva fatti entrare dentro la Baia, che si estendeva su un terreno piuttosto ampio divisa in diversi cortili da vari recinti e staccionate, non aveva nulla in comune con le costruzioni o le altre abitazioni di Guevsse o de La Roica orientale, sembrava piuttosto avere uno stile architettonico simile a quello dei paesi oltre il mare.
Perfino la donna era strana, appena l'aveva vista Lyandro era inorridito cercando poi di darsi un contegno sotto lo sguardo malizioso di Esmera, portava i pantaloni ma aveva il busto scoperto, dal petto gli cadevano mosci i seni con i grossi capezzoli marroni. Aveva un viso che non avrebbe saputo definire, né giovane né vecchio, la pelle beige e gli occhi color nocciola, e portava i capelli corti alla nuca come Esmera.
«Bene, figli... chi mi avete portato?» La donna si fermò di fronte alla porta dell'edificio, massaggiandosi il seno.
«Lui è Lyandro e vuole entrare a far parte della nostra famiglia» rispose Esmera, ne lei ne suo fratello sembravano turbati da l'immagine che dava di sé quella donna.
«Davvero? Bene, Liiandro non hai voce in capitolo tu? Perché questa non mi sembra altra che una bricconata di Rael ben mascherata da questa sciocca figlia.» La donna guardò torvo il ragazzo senza orecchie.
Lyandro si inumidì le labbra cercando di non far cadere gli occhi su i seni scoperti della donna; aveva vissuto per due anni nei vicoli malavitosi di Guevsse ma nonostante questo la situazione in cui si trovava gli sembrava abbastanza inquietante. Sembrava che l'avessero portato in un bordello: ragazzini e ragazzine di tutti le età tenuti a bada da una donna scostumata che si faceva chiamare in modo ridicolo.
«E tu vorresti farmi credere di essere loro madre?» domandò bruscamente.
«Non solo madre di loro due, ma di tutti coloro che vedi qui: io sono la “Madre”» ribatté la donna. «E se vuoi vivere qui dovrai abituarti all'idea di essere figlio mio ed obbedirmi.»
«E cosa cazzo dovrei fare? Soddisfare le perversioni di qualche marinaio o pirata pederasta? O le tue? E prima di tutto non ho nemmeno detto di voler vivere qui.» La Madre si era tenuta su un tono di voce piatto e anche Lyandro avrebbe voluto fare lo stesso, ma l'irritazione mischia al sospetto gli faceva vedere rosso. Sentiva di essere stato imbrogliato, come gli aveva predetto il dottore; e lo stupido era stato lui, nessuno a Guevsse faceva niente per niente. Esmera scoppiò a ridere.
«Non alzare la voce con me ragazzino» disse la donna, cercando di schiaffeggiarlo. Lyandro scattò all'indietro per evitare il colpo e andò a sbattere contro Rael, accorgendosene si tirò subito in piedi.
«Sta calmo, non ti uccido mica» disse Rael, rivolgendogli un'occhiata pigra. Aveva lo stesso tono calmo con cui si era rivolto a Spaquosa mentre lo lapidava «E l'idea che ti sei fatto di questo posto è completamente sbagliata. Più avanti dovrai fare alcune cose, ma non di certo soddisfare le perversioni di qualcuno. Hai una mentalità davvero interessante e sospettosa, l'ho notato da prima.»
«E si dia il caso che quando riterrò giusto punirti, non dovrai sottrarti ragazzino» terminò la Madre.
Lyandro guardò l'uno e poi l'altra sorpreso, non si fidava, non era convinto: era tutto troppo vago e ambiguo.
«Perché mi aiuti?» chiese alla Madre, toccandosi il ventre con la mano sinistra.
«Perché nessuno aiuta me» rispose la donna sospirando. «E in ogni caso Liiandro non è un aiuto che puoi rifiutare. Il solo fatto che tu sia arrivato fino a qua solo per mancarmi di rispetto ti rende colpevole...»
«Ma sono stati i tuoi figli a condurmi fino a qui! E con l'inganno!» gli fece notare Lyandro, ricevendo un'occhiata ammonitrice in cambio.
«Ne ho abbastanza: sono stufa di avere a che fare con ragazzini di città ingrati e maleducati. Sarai liquidato... si dice così a Guevsse? Quando un ragazzo dei miei viene preso lo ammazzano, non vede il perché non dovrei lo stesso quando prendo un ragazzino dei loro. Quindi decidi, sei mio o no? Sei mio figlio?»
Provate ad ammazzarmi...” Lyandro avrebbe voluto rispondergli a quel modo, ma purtroppo era ancora provato dallo scontro con Spaquosa. Anche se si era ripromesso che non avrebbe chinato il capo di fronte a nessuno e che avrebbe preferito morire di fronte a una simile evenienza sentiva una voragine nelle stomaco, in quel momento venir ammazzato in quel modo e solo per una questione di principio gli sembrava molto sciocco, ma non disse niente.
«Oh, ma Lyandro ricordati che tu hai un debito con me..» Di fronte al suo mutismo Esmera cercò di farlo ragionare. “Sempre lei, dannata” pensò Lyandro infastidito, ne aveva abbastanza di farsi salvare da una femmina così irritante, ma fece ugualmente un cenno d'assenso.
La Madre se lo fece bastare. «Beh, quando hai un debito devi per forza ripagarlo. Adesso che ne dici di seguirmi nel mio studio per imprimerti il marchio?»
«Quale marchio?» domandò arcigno Lyandro, subito preso in contropiede.
«Si vede proprio che vieni dalla città. Non ti sto imprimendo il marchio degli schiavi come fanno i roicani del tempio. Ti è più familiare se dico il marchio degli Orfani?»
Annuì.
Esmera lo agguantò per il braccio prima che seguisse la loro genitrice. «Gli altri cercheranno di farti prepotenza, ma hai già dimostrato di essere abbastanza forte. Mi raccomando: se t'infastidiscono fagli il culo. E se hai bisogno di qualche favore – che si sommerà agli altri naturalmente – vieni da me e Rael» gli disse Esmera.
Lyandro la guardò di sbieco senza rispondere,staccandosi dalla sua presa.
«Oh, ma devi molto più a Rael che a me. Dimentichi che lui ti ha salvato?»
Lyandro ritenne più saggio non rispondere alla domanda e s'inoltro insieme alla madre all'interno dell'orfanotrofio. L'atmosfera interna era simile a quello delle baracche di Guevsse, pareti chiazzate dal nero della muffa, con crepe, e decadenti. La Madre lo guidò oltre vari corridori stretti con decine di porte, da dove ogni tanto usciva qualche bambino urlante e giocoso. Si sentivano risa, rumori, grida provenienti dalle stanze interne o dai vari cortili mentre camminavano. Quando arrivarono allo studio della Madre, la donna si coprì il busto con una cappa usurata.
L'ambiente era spoglio ma a Lyandro piacque molto, c'erano tutti quei mobili occidentali con cui aveva convissuto quando stava ancora con suo padre, una dozzina di libri sparsi sul pavimento. La finestra dava sul mare aperto e sorridendo Lyandro ci si avvicinò.
«Allora sei in grado di sorridere» costatò la Madre, mettendosi a sedere sul letto.
Veloce il sorriso morì dalle labbra del giovane. «Potrei dire la stessa cosa di te» ribatté, per tutto il tempo che avevano parlato quella donna aveva avuto l'espressività di una pietra. Poi visto che il silenzio si protendeva e la Madre non accennava a smettere di scrutarlo domandò leggermente a disagio: «Cosa dovrei fare, mentre starò qui?»
La madre glielo spiegò con molta calma. Gli disse che per tutto il tempo in cui sarebbe stato in quella casa avrebbe dovuto compiere piccoli furti in città per i suoi interessi, in cambio avrebbe avuto un tetto su cui dormire, del cibo, e la sua protezione e si avrebbe potuto ottenere anche qualche spicciolo.
Lyandro era scettico. «La tua protezione? E chi saresti tu per proteggere tutti quelli che stanno qui?»
« Sì, la mia e di coloro che stanno sopra di me» rispose la Madre. «Sei troppo curioso per essere un ragazzino senza genitori, ma non chiedere altro perché non risponderò. Quello che devi fare è obbedire, e se mi servirai bene potrei perfino fare qualcosa per te. Qual è il tuo più grande sogno? Raggiungere la città alta? È quello che vogliono tutti i miei figli, sebbene non capisco cosa ci troviate: non è poi tanto dissimile da quella bassa. »
«È impossibile... come fai a saperlo? Ci sei stata?» domandò Lyandro dimenticandosi per un momento i toni burberi e altezzosi, non aveva mai conosciuto qualcuno che fosse stato lì sopra.
«Certo, ma farai bene a scordarti di questo è noto a tutti che è impossibile. In compenso potrei piazzarti in una parte abbastanza elevata della città bassa, se mi servirai bene durante la tua giovinezza, o a lavorare al porto. Cosa preferisci?»
«Ma io non ho detto che voglio andare nella città alta. E se volessi altro?» sfidò Lyandro.
La Madre corrugò la fronte, probabilmente indispettita. «Non tutti otteniamo ciò che vogliamo, e non tutti otteniamo qualcosa dopo aver faticato. Comunque vada, tu lavorerai per me con o senza ricompensa. Ma sentiamo figliolo, sono paziente, cosa vorresti?»
«Salpare per mari» le rivelò Lyandro, guardando con intensità il panorama oceanico dalla finestra.
«Solo questo? E sia. In effetti, ora che noto, hai gli occhi di un ragazzo in cerca di mutamento... uno sguardo fatto di oceani. Quando riterrò giusto, e se mi servirai in tutto quello che ti chiedo, sarò io stessa a raccomandarti in una delle galee che attraccano al porto se è solo questo che vuoi...» gli disse la Madre. «Ma dimmi, ho notato da prima che continui a toccarti lo stomaco di frequenza con quella mano. Hai qualche strana devianza per caso o ti sei solo fatto male, figlio?»
Lyandro rabbrividì al sentir pronunciare quel “figlio”, lo rendeva nervoso, era passati due anni da quando qualcuno si era rivolto a lui a quel modo. ,
«Mi sono soltanto fatto male» le disse mentendo in parte, ma poi capì dal modo in cui lo guardava la donna che anche lui avrebbe dovuto aggiungere altro. «... M- madre.» Forse alla fine i bassifondi di quella città erano riuscito a corromperlo.



Questa storia partecipa al contest A strange Fantasy indetto da scrapheap_sama.

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Capitolo 3
*** #6 e #18 e Epilogo ***


_RAGGIUNGERE LA CITTA' ALTA_

C'era un ragazzo appoggiato al muretto che fungeva da recinzione per i laghetti d'acqua calda in cui Esmera gli aveva detto d' incontrarsi. Brandiva una lunga stecca e aveva la pelle lattea che risplendeva alla luce del sole e i tratti somatici dei roicani del tempio, quando l'intravide Lyandro rimase un po' interdetto: era raro vedere qualcuno con una pelle del genere.
Lyandro avanzò vicino al muro ma quando fece per poggiarvi una mano,quello gli frappose la stecca davanti.
Esmera l'aveva avvertito del fatto che probabilmente gli altri Orfani avrebbero cercato d'importunarlo nei primi giorni, e anche se prima di allora nessuno l'aveva fatto, Lyandro aveva già avuto a che fare con i prepotenti di Guevsse, quindi riteneva che sarebbe stato abbastanza facile mettere in riga quel queceto.
«Cosa vuoi?» domandò brusco Lyandro, guardando il roicano dalla pelle lattea in modo minaccioso.
Il queceto scosse la testa dai boccoli riccioluti e bronzei, aprendosi in un sorriso a tutti denti. «Mi spiace, non puoi passare.»
Senza perdere tempo Lyandro agguanto la stecca, stringendoci attorno la mano a pugno. «No?» domandò inclinando la testa. « E perché?» In realtà non aveva alcun interesse a scavalcare il muretto, ma il comportamento da gradasso che aveva adottato quel ragazzo lo stava facendo irritare, gli ricordava Spaquosa. Fece pressione col braccio nel tentativo di piegare la stecca di metallo. Il roicano del tempio lo guardava con un aria un poco annoiata, una novità tanto per cambiare: tutti gli Orfani della Baia si mostravano in atteggiamenti altezzosi e di superiorità. Esmera l'aveva sbeffeggiato mentre Rael aveva addirittura evitato di parlargli direttamente ai loro primo incontri, ma il sorriso del roicano che aveva davanti era differente, leggermente cattivo;se avesse fatto qualche commento offensivo sulla sua pelle l'avrebbe ammazzato, decise Lyandro guardandolo torvo.
«Mi spiace, Rael si sta facendo il bagno...»
Lyandro rimase in silenzio, aspettandosi che avrebbe aggiunto altro, ma quando non lo fece scoppiò a ridere. «E allora?» domandò, non gli sembrava altro che una scusa per infastidirlo. Era Rael che aveva chiesto ad Esmera di dirgli che voleva parlargli.
«“E allora?” Cos'è il tuo primo giorno alla Baia? Non puoi passare» gli disse il ragazzo, il sorriso cattivo era scomparso dal suo volto. Poi lo scrutò attentamente. «Ah, ma tu sei quello nuovo, mi sembrava di non averti visto spesso... Mmm, pensavo che fossi abbastanza intimo con Rael, ma sarà che mi sbagliavo. Comunque io sono Alèhan e ...»
«E perché?» lo interruppe Lyandro, stizzito. Forse se lo era soltanto immaginato la nota allusiva di quel “abbastanza intimo”.
Alèhan strattonò la lunga stecca con forza in modo da strapparla dalla presa di Lyandro, . «Cos'è? Sei sordo o vieni da una terra valtahiriana con un cavallo bianco? Non puoi passare, e sarebbe meglio che ti facessi i cazzi tuoi» replicò spazientito quello, staccandosi dal muretto. « Rael non vuole che ci sia gente in giro quando fa il bagno e ringrazia che ci sono io a dirtelo gentilmente.»
«Quindi è vero che il vostro piccolo capo?» gli chiese Lyandro sorridendo. Ci aveva visto giusto giorni prima, quando aveva capito che tra Esmera e Rael quello con più influenza sull'altra era lui.
«Capo? Vedi di stare attento a come parli» Alèhan non gradì la domanda. «L'unica a cui da ordini qui dentro è Esmera. Rael è mio amico e tanto mi basta per non farti passare da qui se lui mi chiede come favore quello di non far passare nessuno...» Gli fece un cenno di sfida, facendo dondolare la stecca da una mano all'altra. «Ma se proprio vuoi, posso insegnarti io a farti i cazzi tuoi.»
Rimasero immobili per lungo tempo, ognuno dei due aspettando la mossa dell'altro, poi Lyandro fece un passo avanti lentamente. Le sue ferite non si erano ancora rimarginate e ogni tante era colpito da fitte terribili, tanto da essere stato costretto a chiedere altre foglie d'assenzio a Esmera, e dopo qualche giorno nella Baia aveva ripreso a dimagrire a velocità impressionante; ultimamente stando a contatto di Esmera e Rael aveva sviluppato una certa tolleranza di fronte ad alcune situazioni ma era sicuro che se avesse permesso a quel Alèhan di fargli prepotenza sarebbe stato presto preso di mira anche dagli altri. Alèhan si portò la stecca alla mano destra, stringendola con forza e sorridendo come a dire “te la sei voluta tu”; Lyandro decise che gli avrebbe spaccato il naso fino e piccolo, glielo avrebbe spappolato in modo da renderlo simile al suo. Sorrise, facendo un altro passo avanti: per prima cosa gli avrebbe sventolato velocemente una mano all'altezza degli occhi per distrarlo, mentre con l'altra glieli avrebbe infilzati. Accecato dal dolore agli occhi Alèhan non avrebbe potuto fare niente, era un ottima idea solo che faticava a ricordare da chi l'avesse presa.
«Ma che succede?» Una voce distrasse Lyandro dalle sue intenzioni, proveniva dall'alto. Era Rael che lentamente stava scavalcando il muro per poi ritrovarsi a terra con loro. Le vesti lo ricoprivano del tutto fino al collo, lasciando solo le mani scoperte, e aveva i capelli mossi ancora umidi. Lyandro trovò più facile distogliere lo sguardo anche se la sensazione di disagio che aveva ogni volta che lo guardava non si attutiva, guardando Rael l'impressione era quella di guardare qualcosa d'incompleto.
«Ah, hai finito» disse Alèhan rivolgendosi a il senza orecchie. «Per fortuna. Non avevo alcuna voglia di menar le mani, quindi pensaci tu a questo. Gli ho detto che non gradisci avere nessuno attorno mentre fai il bagno, ma insisteva per fare il guardone. È proprio il tipo di persona che detesti: sembra essere uscito da quelle fiabe occidentale, uno di quei tizi spaesati che invece di scappare fanno domande su domande.»
Rael gli fece un cenno. «Grazie, ma gli ho chiesto io di venire qui» spiegò lapidario.
«Esmera mi ha detto che volevi parlarmi, si tratta del debito che ho con voi? Appena mi rimetto ti prometto che vi darò tutti i soldi e andrò da solo a prendere le erbe per quel dottore.»
Rael scosse la testa. «Non è questo» sventolò la mano con flemmatico, sembrava infastidito. «Nessun debito, non l'ho fatto per te. Anzi, voglio chiederti un favore.»
Lyandro rimase sorpreso, non si aspettava che dicesse una cosa del genere.
Alèhan scoppio a ridere, dalla sua reazione doveva essere incredulo quanto Lyandro.
«Un favore? A questo qui Rael, sei sicuro? Un tempo avevi una cazzo di classe. Dal puzzo che emana e dalla sporcizia dei suoi vestiti deve venire dall'angolo più pulcioso della città bassa!» commentò tra le risa.
Lyandro indurì lo sguardo, era vero: aveva ancora addosso il puzzo di Guevsse e della palude e portava la stessa tunica macchiata di sangue da quando l'aveva accoltellato Spaquosa, ma quel queceto non avrebbe dovuto permettersi di prenderlo in giro. Alèhan, nonostante fosse abbastanza pulito, non era migliore di tanti altri ragazzi del basso volgo: lui invece aveva qualcosa che né gli Orfani né i malavitosi di Guevsse avrebbero mai avuto.
Stava per dirglielo, ma Rael parlò prima di lui lanciando al roicano del tempio un'occhiata gelida.
«Alèhan tutte queste cose non t'importano minimamente» gli disse.
Lyandro sorrise, certo che a quel punto Alèhan si sarebbe offeso. Ma il ragazzo scrollò le spalle con fare noncurante. «Certo che non m'interessa, volevo solo che t'incazzasti per una volta ma sono rimasto deluso» sorrise sornione. «Beh, visto che non ti servo più, io me ne vado» fece una riverenza beffarda a Lyandro, prima di andarsene.
Lyandro lo osservò mentre si dirigeva all'interno della Baia, certo del fatto che se fosse rimasto solo un altro poco lo avrebbe preso a calci per il deretano.
«Un favore?» domandò poi a Rael. L'altro Orfano, al contrario di Lyandro, non la smetteva di fissarlo, cosa che gli rendeva abbastanza difficile il non guardarlo a sua volta.
«Non so come altro chiamarlo, anche se non è così. Non farai niente per niente, avrai anche la tua parte» gli spiegò Rael. «Ho visto una cosa mentre facevi a pugni con Spaquosa, hai la mano dei deviati vero?»
Lyandrò aggrottò la fronte, guardandosi i palmi della mano, non gli era mai piaciuto quel termine ma non vedeva il perché dovesse mentire. «Sì, le so usare tutte e due» ammise, non capiva dove volesse arrivare.
« Ma in realtà sei più pratico ad usare la mano sinistra» disse Rael. Non era una domanda, era un affermazione.
Lyandro annuì, chiedendosi come avesse fatto a capire tutte quelle cose guardandolo battersi con Spaquosa.
« L'ho capito da come davi i pugni, con la destra eri sempre un po' incerto e ti tremava mentre con la sinistra eri sciolto, ma usavi più la destra» gli spiegò, come se gli avesse letto nel pensiero. Poi socchiuse gli occhi, toccandosi i riccioli ancora bagnati. « Tu stai con noi ma non sei come noi» disse in un primo momento. E, Lyandro non seppe come, forse il modo in cui Rael lo disse o la suggestione che egli stesso provava verso quel ragazzo dalla bellezza difettosa lo portarono a rabbrividire. Sembrava un'accusa. Lyandro lo guardò.
«Tu hai dei genitori» continuò Rael piegando la testa, negli occhi una strana luce. «E loro ti hanno insegnato o costretto ad usare la mano destra, perché la mano sinistra è sintomo di devianza. E di sicuro sarà anche da loro che avrai preso quei principi di merda da occidentale . Ma questo a me non interessa, anche se è vero.»
Lyandro rimase in silenzio, teso come un arco, sentiva la mano sinistra tremargli impercettibilmente ed era sicuro che Rael, con la vista da falco che aveva dimostrato avere, se ne era accorto. Ma se era questo il suo modo di chiedere favori – supponendo e alludendo – avrebbe dovuto imparare a vederseli rifiutati. «E allora? Cosa c'entra con quello che mi vuoi dire?» domandò acido, sperando che la voce non gli tremasse come ogni volta che si ritrovava a parlare dei suoi genitori. Aveva fatto un gran lavoro in quei due anni per rimuovere dalla mente i ricordi spiacevoli che si portava dietro, capendo che vivere alla giornata era il modo migliore per non pensare a certi avvenimenti sgradevoli, ma avvolte bastava un suono, un odore, una parola per ricordagli cose che aveva messo in un angolo buio della memoria.
« Niente... ma è vero» ribadì Rael, la sua voce sembrava la cantilena di un serpente di palude. « Ho bisogno del tuo aiuto, in cambio tu potrai ripagare il torto subito da Spaquosa.»
«Io posso ripagarlo del torto anche da me stesso» gracchiò Lyandro in risposta.
«Ma finiresti ammazzato. Mentre io riesco a battere Quan facilmente da anni, tanto che ogni volta che mi vede si caca talmente tanto addosso che ormai ho la vittoria assicurata. Tu sei agile... ma hai quel problema con le mani. Posso aiutarti.»
«Che fine ha fatto quel “Non si fa niente per niente?”» domandò Lyandro, aveva ripreso il controllo di se stesso, riassumendo il suo tipico scetticismo.
« A me servi» gli disse Rael, nel suo sguardo a Lyandro sembrò di leggere del sarcasmo. «E questo lo faccio per me. Accetti?»
Era uno strano modo per cercare di convincere qualcuno ad aiutarlo,” meditò Lyandro infastidito, “quello di fargli notare le sue debolezze”. Poteva anche essere vero quello che gli diceva Rael, ma non vedeva in che modo avrebbe potuto aiutarlo a risolvere il problema.
« In che modo potresti aiutarmi?» gli domandò . «E inoltre ti servo a fare cosa?»
« Domande: anche se ti sei mischiato bene con noi, non hai ancora imparato come e quante farle. Anch'io so usare tutte e due le mani, posso insegnarti a usare bene la destra e a riabituarti con la sinistra, è una cazzata. A me serve un mancino» gli spiegò Rael. «Devo arrivare a qualcuno, lì a Guevsse. E intorno a lui ci sono solo persone che combattano con lo stile degli occidentali.»
« E allora?» chiese ancora Lyandro, credendo che Rael avrebbe perso la pazienza e si sarebbe infastidito.
Invece il ragazzo chinò soltanto il capo in avanti, facendosi più scuro e cupo. «Lì, oltre il mare, non sono abituati a combattere con la sinistra, e questo mi faciliterebbe molte le cose. Non avrei altro modo di batterli, gli occidentali ci vanno giù pesante con cose del tipo subito via la testa degli avversari, con le loro spade lunghe. Non tagliano i tendini o rendono innocuo un avversario, lo ammazzano subito. Sia io che Esmera sappiamo combattere con la sinistra, ma ci serve qualcun altro.»
«Fammi indovinare.» Lyandro aprì e chiuse il palmo della mano sinistra, pregustandosi l'espressione sorpresa che sarebbe riuscito a strappare a Rael. Anche lui sapeva osservare e intendere. «Lo Smaltitore.»
Rael rimase in silenzio, per niente turbato, come se Lyandro avesse detto una cosa che sapevano perfino i bimbi piccoli.
«Che offesa devi rendergli?» continuò Lyandro, arreso ormai davanti al fatto che l'avrebbe aiutato. Forse erano simili, forse anche Rael doveva ripagare un torto simile a quello che aveva subito lui.
Rael da immobile che era, fece qualche passo avanti, circondandogli le spalle con un braccio. Socchiuse le labbra, assumendo un'espressione vacua sul viso, adesso pericolosamente vicino al suo. Lyandro distolse lo sguardo.
«Tu, provi qualcosa di simile al ribrezzo guardandomi. O forse è pietà. Potrebbe essere qualunque delle due, ma se ti devo insegnare devi guardarmi» lo lasciò andare ancora prima che Lyandro potesse alzare lo sguardo su di lui per dimostrargli che se voleva poteva guardarlo.
«Che offesa dovevi rendergli?» ripeté Lyandro, guardandolo dritto negli occhi. Lì sembravano tutti fraintendere le sue intenzioni: non era compassione o ribrezzo, aveva solo pensato che guardandolo forse gli avrebbe dato qualche fastidio.
«Un' offesa? No, è solo un conto che devo regolare per la mia personale ambizione: raggiungere la città alta» disse Rael, scrollando le spalle. Eppure nelle sue parole Lyandro sembrò leggere una specie di giustificazione.
«È impossibile» disse Lyandro. Non avrebbe voluto dirlo ma era ormai diventata un'abitudine ogni volta che sentiva qualche folle dichiarare qualcosa del genere, e di solito poi le cose terminavano in una rissa.
Ma Rael non parve offeso. «Puoi pensare quello che vuoi, non m'importa. Io lo farò.» La sua voce aveva assunto una sfumatura quasi minacciosa.
Lyandro sorrise di tutta quella composta determinazione. «Ho sentito solo i pazzi dire cose del genere ad alta voce, anche se è quello che tutti in realtà vogliono. Sai che la Madre ci è stata? Ha detto che non è poi così dissimile dalla città bassa di Guevsse.»
«Anch'io ci sono stato» rispose Rael. «Non è dissimile, come dicono i saggi, in effetti.»
«Allora perché vuoi andarci?» Prima di allora non aveva mai incontrato qualcuno che ci fosse stato, e se poteva credere alle parole della Madre perché era infischiata con gente degli alti borghi, dubitava abbastanza dell'affermazione di Rael.
«Non fraintendere, a me piace vivere ad alte elevazioni dove non si sentono strani odori, non c'è altro, sono solo stufo di sentire quel tanfo ogni volta che entro a Guevsse o attraverso le paludi. Non sono come quello schifoso Smaltitore e quelli della sua specie, che vogliono quello che non possono avere e pretendono di essere migliori di quello che sono in modo da sembrare patetici. Rimanendo me stesso posso ottenere ugualmente tutto quello che voglio.»
«Nemmeno io sono come loro. Non m'interessa vivere nella città alta: voglio solo lasciare questo dannato posto e andare per mari» gli rivelò Lyandro. «Qualcuno sentendoci penserebbe che siamo due pazzi.» Ridacchiò, i suoi toni si erano fatti meno arcigni, addolcendosi perché aveva scoperto in Rael un compagno, un'anima quasi affine alla sua.
Rael rimase impassibile.
«Parli ancora con orgoglio, anche se ti lasci comandare dalle passioni. Quello che ti ha detto Esmera è vero, non puoi pretendere che tutto segua la tua “morale”. Che poi è una morale occidentale che non si adatta per niente a La Roica.»
«Io credo a quello che voglio credere» ribatté duramente Lyandro. «Ma dimmi, tu non ridi mai?» Non che gli dispiacesse in fondo: Esmera rideva anche fin troppo e per questo Lyandro non riusciva quasi mai a parlare con lei senza innervosirsi.
«Solo le puttane e gli stupidi ridono» gli rispose Rael.
Lyandro aggrottò la fronte, c'era qualcosa che gli sfuggiva: non ricordava bene, eppure gli era parso di vederlo almeno sorridere...


Aprì e richiuse varie volte il palmo della mano sinistra, per non lasciarla intorpidire.
I suoi passi risuonavano nel silenzio della notte per i corridoi deserti della Baia, complici della sua irrequietezza. Erano notti che non riusciva a dormire, strani e ansiosi pensieri gli s'infiltravano nella mente e molto spesso si ritrovava a camminare come un sonnambulo.
Erano state le parole della Madre, qualche giorno prima, a sortirgli quell'effetto. L'aveva convocato nella sua stanza perché ultimamente l'aveva notato spesso in compagnia di Rael.
«Figlio Lyandro, c'è un sentimento d'amicizia fra voi» gli aveva detto la madre dolcemente, mentre dava da allattare a un infante. «Ma sta attento, non trasformare i tuoi sogni in polvere. Tu vuoi andare per mari, mi dissi una volta. Ma qualcuno ha piegato la tua volontà, tu ami i tuoi fratelli ma non puoi sprofondare con loro. Da tempo ho detto a tuo fratello Rael di lasciar perdere la sua vendetta, convinta che ci porterà alla rovina, ma ormai è cresciuto e l'influenza che avevo in lui è scemata. Ma tu devi partire, partirai da qui a poco.» E gli aveva detto altro, dato avvertimenti su la natura di Rael.
Le sue mani erano ricoperte di calli e dure come il cuoio battuto ormai.
La mano sinistra non gli tremava più quando con il coltello sferrava i fendenti rapidi, aveva detto a Rael quella mattina quando si erano incontrati per allenarsi.
L'amico, come al solito, era coperto di tutto punto nonostante ci fosse un'afa opprimente e una corrente d'aria calda che proveniva dal mare rendesse il solo muoversi insopportabile.
Rael lo aveva guardato con la sua espressività un poco criptica, ma Lyandro lo conosceva ormai da tempo e aveva imparato a decifrare le emozioni di Rael da piccoli dettagli. Era parso compiaciuto in quel momento. «Manca poco Lyandro e avrai la tua vendetta» gli aveva detto quello, piegando le labbra nel fugace moto di un sorriso senza gioia.
Lyandro aveva annuito, anche se sapeva che Rael pensava a tutt'altro, alle sue ambizioni.
Poi non aveva avuto più tempo per pensare ad altro, Rael gli aveva dato una spada lunga e pesante, dicendogli che da quel momento in poi si sarebbero allenati nello stile degli occidentali, fatto di affondi e fendenti. La mano gli doleva, la spada valeva tutto il suo peso, ora che camminava per i corridoi della Baia. In realtà era molto tempo che non pensava in modo così ossessivo alla sua vendetta, lì alla Baia aveva trovato dei compagni, un fratello. Aveva imparato ad amare Rael, lo aveva capito e aveva cominciato ad ammirarlo, per le sue ambizioni, per il suo sangue freddo. E la prospettiva di andarsene per mari non era più allettante come la era stata un anno prima.
Rimase immobile per un tempo indefinito, la luce soffusa della luna entrava dalle finestre tracciando lame oblique e argentate sul pavimento e sulle pareti. Leccandosi le labbra Lyandro si decise a tornare indietro. Doveva andarsene: andarsene da Guevsse era tutto ciò che aveva voluto prima di avere un amico.
Mentre tornava indietro gli parve di udire un singhiozzo, e un gemito strozzato. Veniva dalla stanza di Esmera, che era quasi attigua alla sua, dove avevano passato tante notti a parlare. Si avvicinò furtivamente e socchiuse piano la porta. Guardò dentro la stanza.
Esmera era distesa sul letto, e Rael grugniva incuneato fra le sue gambe spalancate. Lyandro si sentì mancare il respiro e guardò Esmera che teneva i denti affondati nel labbro inferiore. Aveva sempre sospettato che tra i due ci fosse qualcosa del genere, ma in quel momento la scena gli sembrava compromettente, sporca. Esmera tranne per le lacrime che le scorrevano sul viso e i lievi pigolii che venivano da qualche parte nella sua gola, aveva il viso del tutto passibile. Non l'aveva mai vista piangere, l'aveva solo vista prodigarsi in sorrisi e risate per tutto il tempo che l'aveva conosciuta, non immaginava nemmeno che Esmera sapesse cosa fossero le lacrime.
Gli sembrò di udire delle parole sommesse, dette a bassa voce, atone.
« Perché mi fai questo? Avevi detto che avresti smesso.»
Un verso per farla azzittire, una mano color fango sul viso rigato di lacrime. «Sei l'unica che sia disposta ad amarmi nonostante tutto...» Rael aveva il volto piegato in un sorriso di piacere mischio a dolore.
Un improvviso odio e disgusto riempirono la testa di Lyandro, lasciandogli un sapore amaro in bocca. Ma oltre la voglia di vomitare provò qualcos'altro, una sensazione gli serpeggiò per tutto il corpo, e benché da una parte avesse voglia di precipitarsi dentro e urlare contro Rael, di cacciarlo via e picchiarlo fino a ridurlo in poltiglia, dall'altra avrebbe preferito fingere di non vedere, dimenticare – era bravo in queste cose infondo – per continuare a conservare dell'amico l'opinione che aveva. Aveva cominciato a volergli bene, e non riusciva ad odiarlo, odiava ciò che vedeva ma non odiava lui. Rimase a guardare un altro poco, respirando a scatti, poi chiuse la porta e se ne andò.
Sentiva la testa pesante, non ce la fece ad arrivare nella sua stanza, si fermò vicino alla latrina. Gli odori sgradevoli gli arrivarono al naso, facendolo grugnire, non era più abituato alla puzza che si respirava in città. Andava a Guevsse di rado ormai, svolgendo più che altro lavori al porto, ma in quel caso quello gli sembrò l'odore giusto per quella situazione: la Baia non era meno marcia di Guevsse. Chiuse gli occhi, cercando di dimenticarsi velocemente quello che aveva appena visto. Nulla doveva cambiare, non era successo nulla, lui non aveva visto nulla. Non poteva lasciarsi governare dalle proprie passioni, non poteva odiare Rael.
Fu lì, inginocchiato vicino al muro che Alèhan lo trovo.
«Ma che succede?» domandò il roicano del tempio sorpreso. «Volevo andare a pisciare e guarda chi mi trovo qui. Hai una faccia che spaventerebbe pure i morti...»
Lyandro non aveva voglia di parlare, non aveva voglia di niente in particolare in quei giorni.
«Niente» mormorò, sfuggendo allo sguardo indagatore del queceto.
«A vederti non sembra niente.»
Esasperato Lyandro glielo disse, a bassa voce, la mano sinistra gli tremava un poco.
Quando ebbe finito Alèhan aveva perso il sorriso, facendosi scuro in volto. Ma non sembrava molto sorpreso. «Ah» disse, anche la sua voce si era ridotto ad un sussurro. «Quello.»
Lyandro aspettò che aggiungesse qualcos'altro, ma non lo fece. « Tu lo sapevi» disse con tono accusatorio. Avrebbe voluto aggredirlo sdegnosamente, ma non ne aveva la forza.
Alèhan scrollo le spalle. «Non possiamo fare niente, sono caz... sono cose che riguardano solo loro.»
«Dovremmo aiutarla.»
Alèhan gli scoccò un'occhiata in tralice. «Quelli come te mi stanno proprio sulle palle. Chi sei, il giustiziere del mondo, che devi salvare tutti quelli in affanno?»
Lyandro sentendosi attaccato assunse una faccia impassibile. «Lei mi ha aiutato» disse sulla difensiva. Quando li aveva conosciuti, Rael ed Esmera gli avevano detto qualcosa di molto simile, lo avevano attaccato allo stesso modo, solo perché cercava di aiutare qualcuno in difficoltà.
Ricevette un'occhiata frustrata in cambio. «Sbagli, Rael ti ha aiutato. Da quello che mi hai detto Esmera si è solo approfittata di te» lo corresse Alèhan, innervosito. « Ma dove li hai visti poi? Qui vicino? Allontaniamoci da qui, prima che qualcuno ci senta...» Visto che Lyandro non accennava a muoversi lo prese di peso, sorreggendolo. Arrancarono lentamente, allontanandosi un poco dalle latrine.
Alèhan lo inchiodò al muro con un braccio. «I tuoi occhi non sono fatti per vivere in una città come questa...» borbottò sbuffando. Lyandro non rispose, aveva lo sguardo vacuo, anche se aveva notato che anche Alèhan appariva un poco turbato, forse si sentiva in colpa.
Il giovane si passò una mano fra i capelli bronzei. «Non giudicare Rael male. Sono cose loro, noi non ne possiamo sapere niente. Sono sempre stati degli strani fratelli, tu non puoi nemmeno immaginare, mentre io non voglio proprio, quello che ha passato Rael.»
Lyandro chinò il capo, avvolte gli era parso che Rael gli nascondesse i suoi veri desideri, ma a questo non pensava quasi mai.
«Dimmelo tu, quello che ha passato.» Ammiccò.
Alèhan sembrava sempre più a disagio. «Non mi piacciono queste cose, ma te lo dico... ma tu non fare parola con nessuno di quello che hai visto va bene? Né Rael né Esmera gradirebbero.» Aspettò che Lyandro annuisse prima di continuare. «Avrai già notato che Rael non ha le orecchie no?»
Lyandro annuì di nuovo. Certo che l'aveva notato, si era ormai imposto di guardarlo sempre sul volto ma nonostante ciò incappava ancora nel disagio.
«Si, ma non gli ho mai chiesto il perché.» E come poteva d'altronde? Si domandò Lyandro. Rael da quando si erano conosciuti non aveva fatto altro che rimbrottarlo per il suo troppo domandare.
«Ma non so se hai notato che Esmera ha i seni recisi» continuò Alèhan.
Lyandro sbatté le palpebre un paio di volte. «I seni... recisi?» domandò, non riusciva a crederci. Aveva notato che Esmera era alquanto piatta, ma questo pensava fosse dovuto all'allenamento mascolino a cui si sottoponeva tutti i giorni e un po' alla costituzione magra.
Alèhan lo guardò dritto negli occhi, annuendo. «Non vorrei dirti niente di questo, non sono cazzi mie...»
«Perché,»lo interruppe Lyandro, meditabondo, non riusciva a venirne a capo, « perché hanno queste... storpiature?» Non sapeva in che altro modo dirlo, tutto ciò lo inquietava un poco.
Alèhan chiuse gli occhi, la voce gli si fece sommessa.
«Non so, da quando li conosco sono sempre stati così. Li trovammo depositati vicino alle fogne, Emera con i seni appena pronunciati recisi e ancora sanguinante... Rael nudo e ricoperto d'orribilità in tutto il corpo e in parte evirato» lo vide inghiottire saliva. «Chiunque abbia fatto quello che gli ha fatto doveva essere veramente sadico... Era uno spettacolo davvero impressionante, e te lo dice uno che per tutta l'infanzia a vissuto nei bassifondi di Guevsse, credo che mi abbia segnato per tutto il resto dell'infanzia. Perfino nostra madre rimase impressionata. Erano dei bambini, li avevano seviziati e li avevano lasciati lì a morire tra la merda e il piscio, era un lavoro fatto in maniera molto accurata: li avevano torturati nei modi peggiori, ma non desideravano ucciderli. Quando chiesi il perché non gli avessero fatto niente agli occhi, la Madre mi rispose che probabilmente li facevano guardare l'un l'altro mentre li torturavano a vicenda. Esmera era stata seviziata ma Rael... Rael si porterà per tutta la vita quelle cicatrici, è ovvio che dopo quello che gli è successo sia diventato così.»
Lyandro annuì, lentamente. Era una storia lasciata talmente tanto sul vago che quasi faticava a crederci. Perché qualcuno avrebbe dovuto torturare dei bambini? Ma poi si ricordò che a Guevsse ad una domanda del genere potevano esserci mille risposte. Capiva ciò che Alèhan cercava di dirgli: doveva lasciare in pace Rael senza giudicarlo, ne aveva passate troppe. Ma Esmera? Forse era vero che all'inizio aveva approfittato un poco di lui, ma era stata gentile nonostante tutti gli sbeffeggiamenti e le minacce, inoltre dopo che aveva cominciato ad allenarsi con Rael aveva smesso d'assillarlo con richieste di pagamento dei debiti. Ma dall'altra parte c'era Rael e lui non riusciva proprio a odiarlo. Forse, si disse, se Esmera gli avesse chiesto di difenderla sarebbe riuscito a fare ciò che riteneva giusto. La paura di rovinare tutto rimaneva, ma non voleva far credere ad Alèhan che avrebbe rinunciato. «Esmera è mia amica» gli disse teso.
Il roicano della Baia sospirò, scuotendo la testa.«Credo che tu sia la persona più egoista che abbia mai incontrato. Tu non vuoi aiutare Esmera, vuoi solo fare l'eroe.»
Infastidito dalle sue parole Lyandro gli fece un cenno, e s'allontanò. Non aveva la forza di ribattere, aveva capito cosa doveva fare.
Più tardi, quasi al sorgere dell'alba, quando Rael se ne fu andato , Lyandro scivolò nella stanza di Esmera. Era raggomitolata nel letto in posizione fetale, in una mano stringeva un lembo di stoffa, le lacrime gli rigavano ancora il viso e la gamba sinistra le tremava forte. Aveva il respiro sommesso, segno che stava dormendo. Lyandro, titubante la scosse leggermente. Quando Esmera stropicciandosi gli occhi alzò lo sguardo su di lui, Lyandro si sentì contorcere le viscere da un profondo senza di colpa. Quella che stava facendo, era una cosa da vigliacchi.
Esmera sbatté gli occhi un paio di volte, asciugandosi immediatamente le lacrime. Sorrise poi. «Lyandro, mi hai spaventato. Credo di aver fatto un brutto sogno» gli spiegò la ragazza, ridacchiando incerta.
Lyandro si sedette nel letto, accanto a lei, la faccia girata dall'altra parte, timoroso di guardarla.
«Cosa ci fai qui, comunque? Vuoi confessarmi che ti piaccio? Oh, ma questo lo sapevo già.» Continuò la ragazza, ma vedendo che non raccoglieva gli pose la mano sulla schiena seguendo la colonna vertebrale. Appoggiò il viso sulla sua spalla, scrutandolo con un sorriso sghembo.
«M- mi dispiace» disse allora Lyando, la voce che gli tremava un poco. Sentì gli occhi umidi mentre ricambiava il suo sguardo. «Ho visto.» Non aggiunse altro, ma Esmera sembrò capire.
In un primo momento s'irrigidì, ritraendosi di scatto, nel viso un'espressione cattiva. « Cosa cazzo vuoi Lyandro? Mostrarti compassionevole? Tu non impari proprio mai... io non so che farmene delle tue scuse. Perché sei venu...»
«Voglio portarti con me» l'interruppe Lyandro, conoscendola si era aspettato che reagisse in quel modo violento.
Esmera socchiuse la bocca per un momento. « Tu non capisci Lyandro, non puoi proprio evitarti di fare l'eroe...» gli disse, con un sorrisetto stanco.
Si era aspettato anche quello. «Non sto facendo l'eroe» ribatté prendendole le mani. Lei all'inizio cercò di svicolarsi dalla presa, ma Lyandro le tenne strette. «Se la mettiamo così, anche tu, quando mi hai incontrato l'hai fatto. Ti sto solo dando una possibiltà...»
«Rael, non posso... io ho paura» gli rivelò lei in un sussurro. Si muoveva cercando di farsi lasciare le mani, era a disagio.
« Se è questo, anch'io non avevo intenzione di dirgli nulla» ammise Lyandro. Non avrebbe voluto perdere l'amicizia di suo fratello, ma non poteva lasciare Esmera tra le sue mani. Non era giusto. «Non deve saperlo adesso.»
Esmera scosse la testa, liberandosi finalmente dalla sua stretta. «Tu non capisci» gli si rivolse in un sorriso indulgente, come se lo stesse sopportando. «Vorrei tanto venire con te, vorrei davvero averne le palle. Ma lui, se non ci sono io a guardarlo, cosa farebbe? … Non posso lasciarlo a sé stesso... non posso» ripeté, come per convincersi.
«Mi dispiace» ripeté Lyandro, una lacrima gli scivolò sul mento. Stava sorgendo l'alba.
Esmera sembrò sorpresa da quella reazione e sorridendo stancamente allungò una mano incerta su di lui, attirandolo in un abbraccio goffo. «Tu forse non devi lasciarti prendere da questo» gli disse. Poi aggiunse con voce quasi divertita, come se fosse un loro piccolo segreto: « So che ami molto mio fratello.»

Il tanfo di fogna gli era salito fino alle narici, ora ricordava.
«Ora ricordo» sussurrò il Signore dei Mari. « Ma non capisco.»
Lo Smaltitore lo lasciò andare, ritornandosi a sedere. «Avrei voluto non rivederti mai più Lyandro. Perché sei tornato? Qualunque cosa tu dica sterminerò tutti i ragazzini della Baia.»
Lyandro lo guardò addolorato, prima di andarsene avrebbe voluto almeno riconciliarsi con il vecchio amico. Ma non era possibile. «Non andrà così: io lì salverò.»
Lo Smaltitore lo derise con lo sguardo, sbriciolando il suo pane azzimo.
«Ah sì. Vuoi sarvarli? Ma se ai nostri tempi non sei riuscito nemmeno a “salvare” tua sorella. E poi hai il coraggio di dire che non vuoi fare l'eroe.»
Lyandro lo ignorò.
«Mi spiace. Rincontrarci in queste circostanze Rael... nessuno di noi due se lo sarebbe aspettato» gli disse invece. “Ti prego, non odiarmi già più di quanto tu faccia” pensò Lyandro, mentre il suo sguardo azzurro si incupiva.
«In realtà io mi aspettavo che facessi proprio quello che hai fatto» gli rispose Rael. «Non importa qualunque cosa tu abbia fatto ai tuoi occhi: sei solo un ragazzino cieco. Ci sono un sacco di cose che non hai mai capito.»
«Ad esempio?» domandò il Signore dei Mari. Gli parve per un momento di essere tornato un ragazzino, che domandava sempre troppo e a sproposito.
«Me. La Madre. Guevsse. La vita» sospirò lo Smaltitore con aria esausta. «Torna un'altra volta con la tua morale Lyandro, oggi non ce la faccio a non infastidirmi.» Rael si disinteressò a lui.
Lyandro si allontanò, non sarebbe più tornato.


Note_Sono pessima ç.ç, come detto all'inizio non sono per niente soddisfatta... visto che poi mi sono anche ammazzata di lavoro per riuscire a finirla gli ultimi giorni. I personaggi sono pochi... dovevano essere un poco di più e avrei voluto avere più tempo per dare più attenzione agli altri en non un singolo paragrafo (dottore Andrys *di cui poi non ho nemmeno detto il nome nel racconto*, Esmera, Quan il Spaquosa, Madre, Alèhan e tutti gli altri orfani di cui avrei voluto mettere... sigh... perdonatemi!) e non ho messo un pezzo nell'ultima parte che avrebbe aiutato a comprendere maggiormente Rael. In realtà l'orfano che parla con Lyandro dopo che ha visto Rael ed Esmera in rapporti intimi dovrebbe essere un altro, visto che lui non sopporta Alèhan, ma per adattarlo alla trama e tanto per dire qualcos'altro su di lui ce l'ho messo.


I grandi sapienti o Signori bevono assenzio”_ è un detto antichissimo noto un po' per tutto il mondo conosciuto  e che appartiene ai Signori della Guerra di Zernes, conosciuti anche come grandi sapienti nell'Arte della Guerra. In pratica vuol dire che i grandi saggi non si dissociano tanto dai pazzi.

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SECONDA CLASSIFICATA e VINCITRICE DEL PEMIO “MIGLIOR AMBIENTAZIONE”: Raggiungere la città alta di rebeccuori
Grammatica e sintassi: 4/5
Stile: 4.5/5
Caratterizzazione personaggi: 9/10
Descrizione ambientazioni: 10/10
Trama: svolgimento e contenuto: (6.5/10, 9/10) 7.75/10
Originalità: 8/10

43.25/10

Sul fronte grammatica e sintassi, c’è qualche distrazione di battitura e un paio di virgole su cui sono dubbiosa, ma nulla di allarmante. Lo stile che scegli è sicuramente adatto alla storia, adatto a raccontare dell’abbietta Guevsse e dei suoi degni abitanti.
Nei discorsi diretti, però, ho trovato un certo squilibrio di forma, alcuni personaggi passano dalla scurrilità, perfettamente comprensibile nel contesto, a discorsi un po’ troppo ridondanti ed elaborati per un comune parlato e a questo è dovuto quel mezzo punto tolto allo stile.
La caratterizzazione dei personaggi è sicuramente molto buona, anche se -stranamente- alla fine del racconto mi pareva di conoscere meglio Rael del protagonista. Lyandro ragazzino è sviluppato davvero bene, ma il Lyandro adulto che ritroviamo all’inizio e alla fine della storia ha alcuni punti oscuri. Non mi è chiaro, ad esempio, l’esatto motivo per cui è tornato a Guevsse, né comprendo la sua ostinata pacatezza nei riguardi di Rael-Smaltitore. Quest’ultimo è l’innegabile cardine (assieme alla straordinaria e straziante Guevsse) di questa storia. Sicuramente affascinante per l’aura misteriosa e oscura di cui è ammantato, si rivelerà tanto grottesco quanto la città che abita (città di cui sembra incarnare l’essenza). Eppure, nonostante la sua grettezza sia palese, è impossibile vederlo come vero e proprio antagonista, perché la sua negatività viene filtrata dallo sguardo di Lyandro. E questa è una delle cose che più apprezzato.
Nel complesso sono davvero rimasta affascinata dai personaggi di questa storia, fossero essi protagonisti o personaggi terziari. La loro natura cruda e smaliziata, forgiata dalla mostruosità del luogo in cui vivono si armonizza perfettamente con il contesto. Un mondo-città che è il vero nucleo della storia. Sai? Mentre leggevo mi sembrava di essere a sguazzare nei suoi viottoli fangosi, di sentire il tanfo e vedere il mare della Baia. Ma sei andata oltre a questo, hai lasciato che Guevsse e l’atmosfera turpe di cui è impregnata si facesse reale, soffocante. Hai utilizzato i personaggi affinché la esaltassero sotto ogni punto di vista e ne hai fatto la tua vera protagonista.
Per quel che riguarda la trama, ho davvero apprezzato il lungo flash-back (che poi costituisce il filone principale della vicenda) di Lyandro. I temi che tratti non potrebbero avere più spessore e anche qui, la tua bravura sta nel fatto di averli riadattati alla realtà di Guevsse, un’invenzione assolutamente originale e conturbante.
L’unico problema è sorto nel finale: mi è parso che la storia si concludesse senza portare da alcuna parte. Anzi, non credo neanche che possa dirsi finita, perché si avverte chiaramente la mancanza di troppi elementi, di troppe cose non dette. Ti invito, quindi, a riconsiderare il finale, a non lasciare nulla in sospeso ed ampliare questa storia dal potenziale gigantesco.

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