Superstiti

di Clarice Hai
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L’assassina. ***
Capitolo 2: *** Follia. ***
Capitolo 3: *** La vendetta. ***
Capitolo 4: *** La grazia della regina. ***
Capitolo 5: *** La caduta di Crono ***
Capitolo 6: *** Rinforzi ***
Capitolo 7: *** La fuga ***
Capitolo 8: *** Entrare in Accademia ***
Capitolo 9: *** Ordini della regina ***
Capitolo 10: *** Evacuare Zelo ***
Capitolo 11: *** Sotto assedio. ***



Capitolo 1
*** L’assassina. ***


Crono -  Settimo giorno lunare, secondo mese
Il freddo e l’austerità della cella erano cominciate a esserle familiari. Era li dentro da un mese e oramai le erano suoi compagni.
Si stese sul fianco della branda dura, rannicchiata con le ginocchia al petto tenendo la mano destra sotto la guancia per evitare il contatto con le lenzuola sporche. L’odore del vomito di una settimana prima si sentiva ancora. Era imperniato nel tessuto che naturalmente nessuno si era ancora degnato di lavare.

 Il suo corpicino secco e nervoso di muscoli era scosso da brividi di freddo. I suoi pensieri vagavano lenti nella sua mente, rimbalzando da un muro di pietra all’altro. Si girò a pancia in su. La schiena cominciava a dolerle. Quel materasso d’occasione era più duro di un masso.

Aveva rischiato molte volte di finire nelle prigioni di Crono, ma era sempre riuscita a cavarsela in qualche modo. Lei e Archi ogni tanto, nelle vecchie locande, coperti dai loro pesanti cappucci neri ascoltavano le storie di chi era riuscito a fuggire di li, prima di ubriacarsi.
Sentì al tocco della mano che i suoi lunghi capelli neri legati in mille treccine sottili erano sporchi e l’odore di sudore cominciava a farsi ancora più penetrante. L’unico bagno che le avevano permesso di farsi era stato una secchiata d’acqua gelida qualche giorno prima.
I suoi vestiti leggeri color blu notte non la proteggevano dall’umido che premeva in quella stanza. Sentiva la pelle d’oca sulle braccia nude e i piedi come due blocchi di ghiaccio.
 Lo stomaco le brontolò e il suo sguardo cadde sul vassoio poggiato vicino alla porta. Una ciotola di zuppa verde con un tozzo di pane nero, una mela ammaccata e una borraccia con dell’acqua. Sopra la zuppa volavano alcune mosche. Trattenne un conato di vomito e non mangiò: Presto sarebbero venuta a prenderla. L’avrebbero trascinata fuori, spintonandola di malo modo, facendo battutine dispregiative o insultandola. Lei incassava, cercando di reprimere la voglia frequente di sbatterli ognuno al muro con le proprie mani alla gola e stringere fino a quando le loro labbra non fossero diventate viola per la mancanza d’aria. Ma ogni volta si tratteneva. Non voleva aggravare la situazione anche se sapeva che oramai c’era poco da fare. Per quello si ostinava a un silenzio forzato, non voleva che le sue parole venissero storpiate e usate poi contro di lei.
Quando la trascinavano fuori dal freddo della sua cella si chiudeva ancora di più in se stessa, alzando un muro che nessuno riusciva ad abbattere, nemmeno volendo. Sentì un fastidioso formicolio solleticarle le gambe ma non si alzò lo stesso dalla sua posizione. Aveva i muscoli intorpiditi e le membra stanche. Era da tanto che non faceva più esercizio e meditazione. Sentiva che più stava li dentro, più le sue capacità scemavano. Ogni tanto aveva voglia che la decapitassero subito, per porre fine a quel supplizio. Quella cella le torturava le membra, non la faceva ragionare. A volte sentiva di soffrire di claustrofobia. Una morsa la prendeva alla gola, non facendola respirare. Vedeva le pareti comprimersi come una lattina schiacciata verso di lei, inarrestabili. Sapeva che nel cibo i soldati mettevano della droga. Non c’era voluto tanto a capirlo, abituata com’era a lavorare con veleni e sostanze tossiche. Perdeva conoscenza e si svegliava stordita, con la gola infiammata e un nodo allo stomaco che la faceva vomitare per tutto il pomeriggio. Era  quello il motivo per cui aveva smesso di mangiare, bevendo solo acqua.
Il silenzio opprimente della cella venne interrotto dal rumore della porta che si apriva. Sulla soglia, un uomo basso e grassottello. La prigioniera si tirò su a sedere sul bordo della branda, poggiando i piedi a terra. Delle scariche elettriche le percorsero il corpo: Era arrivato il momento dell’interrogatorio, come ogni giorno.
“Ti vedo deperita Noomi. Hai intenzione di andare a trovare all’altro mondo tutte quelle persone che hai ucciso, morendo di fame? Una scelta lunga e dolorosa. Ma dopo tutto potrebbe essere anche quello che ti meriti”
La stanza era piccola quasi quanto come la cella. Con le pareti in pietra spoglie. L’arredamento spartano consisteva solo nel tavolo mangiato dalle termiti, due sedie e due candele per far luce. Le fiamme danzavano sui muri e Noomi si perse in quei colori caldi che producevano figure snelle e fluenti tra i massi. Non aveva intenzione di rispondere, come sempre,  richiudendosi nel suo guscio.
“Tu e io sappiamo perché sei qui; sei un’ assassina. Ti abbiamo cercato per tutta Oteph per anni, mentre tu lavoravi nell’ombra. Sei stata un osso duro e pensare che sei solo una sporca ragazzina”
Noomi incassò l’ennesimo colpo, puntando gli occhi stanchi con sguardo neutro sul commissario, inclinando leggermente la testa.
“Sei ricercata per omicidio, furto, incendio doloso, possedimento di veleni e remissione all’arresto” Il commissario cominciava a essere stanco di tutto quel silenzio. In tutti i suoi anni di servizio non gli era mai capitato di dover dare la caccia a un sicario così ostinato. E quando finalmente l’aveva trovato, era rimasto ancor più sorpreso di trovarsi davanti una ragazza, più precisamente un’elfa, secca come un chiodo e pallida come la morte.
Ora lei stava di fronte a lui, impassibile, quasi come se fosse sotto l’effetto di alcool. Il viso era scavato, segno che non mangiava e la sua carnagione tendeva verso il bianco porcellana, con qualche sfumatura più scura vicino agli zigomi. Caratteristica tipica degli elfi nati nei villaggi boschivi vicino alla città di Poeta. Ma la cosa che lo inquietava di più di quella ragazza erano i suoi occhi. Di un nero penetrante, quasi liquido dal taglio a mandorla, pupilla e iride erano fusi assieme. Ogni volta che lei lo guardava si sentiva a disagio, con il sangue ghiacciato nelle vene. Gli pareva impossibile che in quel corpo minuto da bambina si nascondesse una delle più agguerrite assassine di tutta Oteph. La lista dei suoi omicidi era lunga e non poche persone cadute sotto la sua lama erano famose in tutto il regno. Non l’aveva ancora sentita parlare, non aveva idea di come potesse essere la sua voce, eppure l’aveva vista per un mese consecutivo in quella stanza, alla stessa ora.
“Abbiamo trovato il tuo amico, il tuo assistente. Quello che ti portava il lavoro” disse cambiando posizione sulla sedia. Notò che finalmente era riuscito a catturare la sua attenzione. I muscoli di Noomi si erano tesi tutto d’un tratto e lei aveva rizzato, cercando di non darlo a vedere le orecchie a punta. Il commissario sorrise, sentendosi molto soddisfatto.
“E’ in queste prigioni anche lui, sai? Ha sofferto molto all’inizio, non voleva confessare di essere stato il tuo assistente, ma poi ce l’abbiamo fatta. Lo sai anche tu no? Con le maniere forti si riesce sempre a ottenere tutto”
Noomi strinse i pugni, le nocche le diventarono bianche e si infilò le unghie nella carne. Se il suo intento era provocarla, ci stava riuscendo. Aveva il corpo scosso da veloci scariche di rabbia e stringeva convulsamente i pugni, cercando di controllarsi.
“Sei anche una puttana quindi? Te la facevi perfino con lui eh? Ammettilo dai, siamo solo qui io e te” L’uomo aveva avvicinato il viso paurosamente al suo. Noomi riusciva a sentire il suo alito pesante nelle narici. Veloce come un lampo la ragazza balzò in piedi tremante dallo sfogo di rabbia che cercava di trattenere. Il commissario era compiaciuto. Aveva fatto leva sul tasto giusto.
“Rispondi, se non vuoi che il tuo ragazzo venga ancora torturato”
La ragazza chiuse gli occhi e balzò oltre il tavolo, prendendo l’uomo alla gola e sbattendolo al muro. Non aveva bisogno del suo pugnale o dei suoi coltelli da lancio per uccidere una persona. Era capace di farlo anche a mani nude.
“Attento a provocarmi vecchio. Solo perché sono stata buona e zitta tutto questo tempo non vuol dire che io non possa ammazzarti quando voglio.”
Il commissario cercò invano di staccare la mano della ragazza dalla sua gola, ma la sua presa sembrava d’acciaio. Il viso gli si fece sempre più rosso, mentre aveva la sensazione che gli occhi gli scoppiassero fuori dalle orbite. Dopo quello che gli parve un’eternità Noomi mollò la presa, facendolo crollare a terra, con la schiena al muro. Lei tornò a sedersi, richiudendosi nel suo silenzio, come se nulla fosse successo, mentre lui, con la schiena alla parete cercava di ricomporsi e riprendere il fiato che fino a pochi secondi fa gli era mancato. Una voce da bambina, fresca e chiara. Pura.
 

- Noomi?
Silenzio.
- Noomi sei qui?
-Sono dietro di te.
-Dietro di me dov..
Non fece in tempo a finire la frase che un lungo pugnale affilato venne posato sulla sua gola. Riusciva a sentire il freddo penetrargli dentro; cercava di reprimere i brividi che gli scendevano giù per la colonna vertebrale, invano. Sapeva che la giovane Noomi non avrebbe esitato un istante a tagliargli la gola. Un passo falso e sarebbe andato a far visita a suo padre nell’altro mondo.
-Ti avevo detto che non saresti dovuto venire a cercarmi Archi, ti trapasserei senza esitazione se non ti conoscessi cosi bene.
Il ragazzo sentì la lama staccarsi dalla sua trachea e tornò a respirare normalmente.
- Ho un nuovo lavoro per te, Noomi, ma a quanto pare non ti interessa.
Detto questo girò sui tacchi e si allontanò, lentamente, massaggiandosi ancora la gola.
Fece dieci passi prima di sentire qualcosa che gli sfiorò la guancia. Guardò a terra e vide un coltello da lancio conficcato tra i ciottoli della strada.
- Ora, Archi, ti giri e riporti il tuo bel didietro da me, se non vuoi che la prossima volta miri al tuo collo.
Era sempre così oramai da cinque anni. Ma Archi non poteva dire di essersi ancora abituato. Ogni volta era come la prima. Sentiva sempre i brividi di paura, l’adrenalina, il terrore, la voglia di fuggire quando andava da Noomi a portarle il lavoro.
 
-Un signorotto del nord, vuole sbarazzarsi del padre. Dovrebbe essere un gioco da ragazzi per te. E ha detto che se porti a termine ciò che ti chiederà ti ricompenserà a dovere. Se sei d’accordo, domani, dopo il crepuscolo, alla vecchia locanda-
Non vide il viso della ragazza, come sempre coperto dal lungo cappuccio nero, però intravide i suoi affilati denti bianchi brillare, sotto il riflesso della luna.
 
-Quattrocento Falchi per un lavoretto fatto bene- disse un uomo sdentato, basso di statura. La bocca contorta in quello che doveva essere un sorriso lasciava intravedere denti gialli storti.
Puzzava di alcool.
-Quattrocentocinquanta- mormorò la voce femminile di Noomi, fredda e distante. La testa calva dell’uomo era luccicante dal sudore.
-Quattro centoventi- contrattò lui
-Quattrocentoquaranta, prendere o lasciare-
-Questa è una truffa!- esclamò l’uomo
-Probabile…Accetti?- domandò sempre discosta
L’uomo annui mostrando tracce d’insicurezza sul volto.
 Noomi si alzò lentamente, prestando metodica attenzione ai suoi movimenti.
Silenziosa come un gatto si allontanò dalla locanda. Era in disuso da qualche anno, e l’aspetto non era dei migliori. Trasudava decomposizione e decadenza. Quando uscì il vento la colpì come un pugno nello stomaco. Il vento soffiava forte. Noomi si abbassò il cappuccio del suo mantello. Era raro che lo facesse, e quando questo avveniva era perché c’era il vento. Adorava il vento, la faceva sentire viva. Espirò a pieni polmoni e si guardò attorno, guardinga. A quell’ora della notte, gli unici abitanti di Crono ancora svegli erano gli ubriaconi che arrancavano per le strade alla ricerca della propria casa e i senzatetto che cercavano posti riparati per dormire. Il resto della città era sbarrato dietro le porte serrate, aspettando che il sole sorga e illumini le strade per uscire e preparare le bancherelle del mercato. Quel vociare vivace che popolava le strade di giorno si trasformava in un assordante silenzio la notte.
A Noomi sarebbe piaciuto raccogliere informazione sull’uomo che avrebbe dovuto uccidere, normalmente impiegava meno di due settimane per imparare le abitudini delle proprie vittime; a che ora le governanti lasciavano la casa e i turni della guardie, ma il suo cliente le aveva chiesto di finire il lavoro per la sera successiva e quindi, se voleva agire con l’ausilio dell’ombra, il tempo stringeva.  
 
“Con quattrocentoquaranta Falchi faccio in tempo a fuggire sulle Montagne Grigie e lasciarmi dietro questo posto” pensò.
La notte calò lentamente.
La luna brillava alta e silenziosa nel cielo.
Una pioggerellina cadde, lenta e fresca bagnando il selciato e alzando un odore di umido.
La ragazza s’incamminò per i vicoli stretti e bui ed entrò in un negozio nascosto tra le ombre in una piccola traversa maleodorante.
Un fulmine, seguito da un lampo, illuminò la sua figura mentre entrava in quel luogo stantio.
Era alta, con un fisico perfettamente longilineo.
Il commerciante seduto al di là del bancone si svegliò di soprassalto dal suo stato di dormi-veglia abituale.
Era evidente che non era abituato a ricevere clienti.
L’insegna del suo negozio era chiara: Veleni.
La ragazza girò sicura tra le mille boccette di veleno sparse sugli scaffali.
Prese un’ampolla, larga quanto il palmo di una mano.
Dentro, un liquido vischioso di colore porpora si muoveva producendo delle bollicine.
La porse al commerciante frugando nel tascapane in cerca dei soldi con cui pagare.
-Ah bene, giovane donzella… vedo che avete scelto il meglio….Il Becco D’ Inferno…ottima scelta…deve vendicarsi perché il suo fidanzato l’ha lasciata?- chiese ridacchiando.
Imbecille.
Lei, in risposta mostrò i denti e emise un ringhio sordo, facendo tacere il commerciante e la sua boccaccia.
-S...Si…Fanno cinquanta Falchi, prego- disse lui cercando di mascherare lo sgomento.
Mise i soldi sul bancone di legno mangiato dalle termiti, poi prese la boccetta e uscì dalla bottega, taciturna.
Si fermò davanti ad una villa dalle dimensioni immense.
S’inumidì il labbro inferiore, poi fece il giro del perimetro del recinto.
Un cancello, una sola via di fuga.
Dentro, alcune guardie con delle alabarde in mano facevano la ronda.
Noomi guardò in alto.
Si arrampicò agilmente sul muretto e acquattandosi per non farsi vedere lo percorse tutto.
C’erano in tutto quattro guardie, divise in due gruppi. Facevano entrambi il giro del giardino tallonando il perimetro della recinzione.
Con un balzo scese dalla recinzione e si appiattì contro il muro e con l’ausilio del mantello nero, diventò parte dell’ombra.
Le guardie le passarono affianco, senza notarla.
Guardò verso la villa.
C’era una finestra aperta, al terzo piano.
Come abitudine, agì d’ istinto.
C’era un albero, alto quasi quanto un piano a dieci metri di distanza da lei.
Spostò lo sguardo a destra e sinistra.
Le due guardie di prima stavano tornando indietro. Non pensò e con uno scatto felino corse avanti. Velocissima percorse i dieci metri che la separavano dall’albero, e infine si arrampicò su di esso.
-Hai visto?- domandò una guardia al suo collega di turno
L’altro scosse la testa.
-E’ passato qualcuno…ne sono sicurissimo-
L’altro uomo si guardò in giro e non notando nulla disse:
-Quanti bicchieri di vino hai bevuto oggi? Sarà stato frutto della tua immaginazione-
L’uomo tese i muscoli del collo visibilmente irritato.
Il sicario si voltò e cominciò ad arrampicarsi sul muro della casa.
Gli appigli erano pochi e faticò a raggiungere la finestra aperta.
La pioggia non le era d’aiuto: Rendeva la parete della villa scivolosa e le servì una grande determinazione per non lasciarsi andare e cadere nel vuoto. Le gocce le entravano negli occhi, appannandole la vista, mentre le raffiche di vento le sbattevano il mantello a destra e sinistra.
Quando finalmente raggiunse la sua meta sorrise, guardando l’interno della casa con sguardo ferino e visibilmente compiaciuto.
Si aggirò per i corridoi guardinga, la mano accarezzava l’elsa di un pugnale legato con una cinghia di cuoio al braccio sinistro.
Non c’era anima viva.
Dalla bisaccia prese un cinturino di pelle conciata lungo circa venti centimetri.
Con un movimento svelto e veloce se lo arrotolò intorno al palmo della mano.
Percorse un lungo corridoio poco illuminato e tappezzato di rosso. Alle pareti erano appesi quadri raffiguranti giovani donne strette in abiti pomposi e rigidi e uomini dall’aria altera guardare il vuoto dritti davanti a loro. Poi lo vide. Un uomo che camminava lento e stanco per il corridoio. Il suo uomo, la sua vittima.
Indossava una camicia da notte larga e bianca mentre nella mano destra reggeva un candeliere.
Noomi sfoderò l’ennesimo sorriso compiaciuto.
Rapida, si nascose in una nicchia, fece passare davanti a lei il vecchio in tal modo che avrebbe potuto prenderlo dal dietro.
Il cinturino di cuoio vibrò mentre se lo slacciava dalla mano.
Di soppiatto gli arrivò alle spalle.
Mise veloce la cinghia intorno al collo della vittima e strinse.
L’uomo urlò ma dalla sua bocca non emise che un rantolo strozzato.
La ragazza prese la boccetta di Becco d’ Inferno e gliela scolò in bocca.
La vittima si portò le mani alla gola.
Cercò di urlare, alla fine si accasciò al suolo cercando di strozzarsi.
La ragazza sapeva gli effetti di quel veleno, sapeva che chi lo beveva non avrebbe desiderato altro che morire.
-Chi è la?
“Non ora…”
-Chi è la?
Una voce preoccupata, dall’altro corridoio parallelo.
Noomi titubò, il suo lavoro non era ancora finito.
Guardò davanti a se, la stanza del vecchio non era lontana e nemmeno vicina, non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungerla con il morto sulle spalle, non prima di essere vista, catturata e giustiziata.
-C’è qualcuno?
-Non mi sembra, proviamo a controllare.
L’assassina prese il morto, se lo caricò sulle spalle e cercando di andare il più veloce possibile provò a raggiungere la sua stanza.
-Coraggio bello mio, vedi di collaborare- sibilò parlando alla sua vittima che gli scivolava sul mantello bagnato dalla pioggia.
-Fermo!
Troppo tardi, l’avevano vista. Ma forse c’era ancora una speranza. Si fiondò nella stanza del vecchio e si diresse verso la finestra. C’era un balcone a portata di salto, sotto di lei. Non pensò, sì lanciò e atterrò senza troppi intoppi.
-Chiama rinforzi e un dottore!
Le solite voci.
Le solite guardie.
Saltò sulla balaustra del balcone e si lanciò di sotto. Questa volta non le andò come prima. Sbatté le ginocchia e rotolò per terra tra le foglie e il fango.
Il giardino ora era vuoto, ma non lo sarebbe stato a lungo. Zoppicò verso il muro.
“Non mollare Noomi. Ce la puoi fare, come sempre”
Solo quando si ritrovò nel buio della strada riuscì a respirare come sempre. Si fuse con le ombre della notte e dopo aver percorso un buon tratto di strada si sedette a terra, sfinita.
Quella notte, la sfortuna era stata dalla sua parte. Non le era mai successo nulla del genere sul lavoro.
Quando il battito si fece nuovamente regolare, il dolore al ginocchio si calmò e la mente tornò lucida, Noomi si alzò e si allontanò tra l’oscurità.
 
-I soldi?
Cercò di usare il solito tono di voce, freddo, carico di rabbia. Ma questa volta vacillò. Sapeva di non aver dato il meglio di sé.
 
Il cliente prese da sotto la giacca una borsa mezza vuota. Ad Noomi non le servì aprirla per capire.
-Gli altri? – mormorò gelida.
L’uomo rise di gusto:
-Non avevamo parlato di discrezione, ragazzina?
Noomi ridacchiò:
-Probabilmente abbiamo due concetti diversi per una singola parola
-Vedi di fare meno la spiritosa. I soldi sono quelli e quelli ti devono bastare. Ti rifarai un’altra volta.
-Sono io quella braccata, voglio tutti i miei quattrocentoquaranta Falchi.
Il cliente scosse la testa, imperturbabile.
Noomi si morse le labbra e tacque.
-Sei ricercata in tutte le più grandi città ragazzina, ma in realtà pensavo meglio, si dice tanto su di te.
L’assassina restò in piedi. Il sacchetto tra le mani.
Ucciderebbe anche lui, se non fosse così controllata.
Tutto vano.
Ripose ugualmente i soldi nel mantello.
-Brava ragazza, almeno è vero che sei intelligente
- Non giocare con me, vecchio
- No, tu non giocare con me. Sei un’elfa morta, signorina.
- .. Com..
 
Le parole le morirono in gola, dalla porta della cucina in disuso della locanda uscirono quattro guardie di Crono, le spade sguainate e si avventarono contro di lei. Noomi, dopo un attimo di esitazione si avventò sulla prima uccidendola con il suo pugnale.
“Un’imboscata, maledetto bastardo”

 
Era la prima volta che abbassava la guardia e questa le era bastata. Si spostò fulminea di lato mentre la spada di un guerriero si abbassava sul suo ginocchio, prese un coltello da lancio e puntò al suo cliente. La piccola arma sfregiò l’orecchio dell’uomo, tagliando anche alcuni suoi capelli corti e sudici.
“Catturate quella puttana” sbraitò mentre si portava la mano all’orecchio sanguinante.
Noomi colpì con un calcio un’altra guardia e si lanciò contro la porta della locanda cercando una via di fuga. Ma non fu abbastanza veloce e quei pochi attimi di indecisione le furono fatali. La guardia che aveva colpito con un calcio aveva raccolto il suo coltello puntando al suo ginocchio destro. Il dolore era arrivato secco e improvviso. Era crollata a terra, con la vista annebbiata. Si pulì gli occhi offuscati con il dorso della mano e notò che molta gente, attirata dal rumore proveniente dalla strada aveva aperto le finestre e ora osservava spaventata e incredula la scena davanti ai loro occhi.

“Volete lo spettacolo? E che spettacolo sia allora”
Noomi strinse i denti, e con un gesto che aveva qualcosa di disperato si tolse il coltello da lancio dal ginocchio e mirò alla guardia davanti a lei. Il tiro andò a segno nella gola con una precisione impeccabile. Molta gente urlò sbarrando le finestre e fermando i bambini che curiosi volevano scendere in strada.
Noomi cercò di alzarsi malferma sulle ginocchia chiedendo uno sforzo supplementare alle gambe, senza risultato. Fu stordita da un colpo che arrivò inaspettato alla nuca. Sentì il sangue che cominciò a uscire copiosamente. Delle scosse elettriche le percorsero il corpo, arrivando perfino ai polpastrelli delle dita. Vide il buio totale prima di accasciarsi come un sacco di patate sul ciottolato della strada, non cosciente.

 
Archi intanto osservava la scena, nascosto dietro la casa della sarta, con le lacrime agli occhi. Mai e poi mai aveva creduto di poter finire in una situazione così. Le guardie di Crono lo avevano intercettato e gli avevano promesso un’esorbitante somma di denaro se fosse riuscito a consegnarli Noomi sana e salva. Si sentiva un traditore e un impostore, con la ragazza che gli aveva salvato la vita. Ma non aveva avuto altra scelta. Noomi glielo diceva sempre, di pensare solo a se stesso. Probabilmente ora l’assassina sarebbe stata portata nelle prigioni di Poeta o ancor peggio di Crono e li decapitata. Archi scivolò sulla parete della casa, raggomitolandosi su se stesso, con la testa tra le ginocchia. Era tutto finito. Un senso di sconforto si impossessò del suo corpo. Rimase nella stessa posizione fino quando non senti un pesante tonfo affianco a lui e il tintinnio dei soldi che cadevano a terra. Alzò la testa e notò il commissario di Crono, in piedi di fronte a lui, con la spada ancora sguainata e sporca di rosso.
“Ottimo lavoro ragazzino, sei di parola” gli disse abbassandosi e scompigliandogli i capelli sulla nuca. Prima che le lacrime riiniziarono a riaffiorare, l’ultima cosa che Archi vide fu il corpo di Noomi, legato e imbrattato di sangue poggiato come un peso morto sul primo cavallo della guardia reale“
 
 
Il commissario tornò a sedersi davanti a Noomi.
“Non farlo più, se non vuoi essere giustiziata subito. Sono io che controllo la tua vita o la tua morte”
Vide gli occhi dell’assassina posarsi su di lui, calmi e senza un’ombra di paura. Fino a quando stavano in quella stanza da soli anche lei aveva il potere di decidere sulla morte di lui, l’aveva sperimentato poco fa.
 
Era agguerrita e feroce, gli ricordava una pantera. Invisibile nell’ombra, usciva allo scoperto per attaccare la preda senza preavviso.

Ogni tanto lui le scrutava quando la lasciava andare. Nonostante fosse asciutta e cerea aveva un fascino particolare, misterioso. Ia sua casacca blu notte le lasciava nude le braccia.
Aveva un tatuaggio, grande, impressionate. Fu la prima cosa che lo colpì quando la vide. Un serpente a sonagli. La sua testa, dalle sfumature violacee era disegnata sulla parte sinistra del collo. L’aveva intravista il giorno il cui Noomi si era legata i capelli, per non sentire l’odore di sporco che emanavano. Il corpo si attorcigliava per tutto il suo braccio sinistro e terminava con la coda a sonagli disegnata sopra l’indice. Non dava l’idea di essere finito. Le sfumature terminavano nette all’altezza della spalla. Il tatuatore aveva dovuto impiegarci molto a disegnarlo e sicuramente non era costato poco. Il braccio destro invece era sfregiato da una lunga cicatrice. Partiva dal gomito e arrivava poco sopra il polso. Lucida e bianca. Fredda.
Era sicuro che la ragazza avesse altre cicatrici sparse per il corpo e magari anche qualche altro tatuaggio.
 
 I pantaloni le aderivano completamente alle gambe, come una seconda pelle. Aveva un fisico nervoso, snello e agile. I suoi uomini gli avevano riferito che durante il suo primo giorno nelle prigioni aveva tentato di fuggire, usando una tecnica di teletrasporto. Lui era rimasto piuttosto sconcertato: aveva chiesto spiegazioni, ma le facce smarrite dei suoi uomini erano state le uniche risposte. Avevano descritto una nuvola di fumo nero e la prigioniera che qualche secondo prima era nella cella, e subito dopo dall’altra parte della porta, alle loro spalle. Gli aveva chiusi dentro la loro stessa gabbia ma era stata braccata poco dopo da altre guardie.
Il commissario la squadrò con i suoi piccoli occhietti scuri. Noomi stava poggiata allo schienale della sedia, con le gambe tese in avanti. Aveva le mani giunte davanti alla bocca e delle treccine gli ricadevano sugli occhi.
“Dove hai imparato quei giochetti? Eh? Sai diventare invisibile, ti sai teletrasportare per pochi metri. Sei una strega? Hai fatto un patto con il diavolo?”
La ragazza rise, una risata alquanto discreta, gutturale. Gli fece ghiacciare il sangue nelle vene. Era pazza.
 
 

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Capitolo 2
*** Follia. ***


Crono – Nono giorno lunare, quarto mese
Noomi si sentiva incredibilmente sola. Perfino il mondo della prigione le appariva ora vuoto e freddo. All’inizio trovava quasi piacevole stare li nella sua stanza, immaginando ciò che poteva accadere al di la delle mura o pensando a quale vita potessero avere le guardie fuori di li. Erano sposati? Avevano figli?.
Aveva etichettato il cuoco del refettorio come un bonario padre di cinque figli, di cui uno malato di peste rossa. L’aveva sospettato perché vedeva sempre che l’uomo nascondeva qualche pezzo di pane sotto il grembiule e una volta l’aveva intravisto uscire dall’infermeria con un rametto di bacche blu, ingrediente per tenere a bada la febbre alta sintomo di peste. I pezzi di pane erano sempre cinque, probabilmente era anche vedovo. Aveva una lettera tatuata dietro il collo. Noomi non era riuscita a vedere bene di che lettera si trattasse, ma era disegnata affianco a due ali d’angelo. E i suoi turni finivano sempre prima degli altri.
 Invece la donna che sedeva sempre davanti all’ufficio  del  commissario, alta e grave, con i corti capelli neri a coprirle sempre l’occhio destro non aveva sicuramente un marito. Stava in prigione fin’oltre la sua fine del turno, alcune volte non tornava nemmeno a casa. Non chiacchierava mai con nessuno, spesso non rispondeva neppure alle domande. Mugugnava qualcosa e girava le spalle, creando una barriera tra lei e l’interlocutore.
Noomi non provava più nemmeno piacere in quello stupido passatempo. Sentiva che stava tenendo sulle spalle un macigno troppo grosso per lei, che presto le sarebbe gravato addosso, distruggendola. Non poteva resistere ancora a lungo, quel luogo la stava mangiando. Passava le giornate arrancando, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo. Aveva iniziato ad avere delle crisi. Iniziava a piangere e una rabbia cieca si prendeva possesso di lei. Distruggeva le lenzuola e i cuscini, picchiava pugni contro le pareti, distruggendosi le nocche. Poi si abbandonava sul pavimento in pietra e li si assopiva.
Sapeva di non essere l’unica così, ogni tanto durante i pasti, nel suo posto isolato al refettorio ascoltava i discorsi degli altri prigionieri. La colpa era di quel posto, quell’edificio buio e sporco in cui dei bastardi li aveva cacciati tutti quanti. Ti lacerava dentro, non lasciandoti più niente se non la tua folle sete di libertà.
Noomi si guardò le mani, le lunghe dita affusolate e quello sfregio sul palmo sinistro che s’era procurata anni prima, durante un combattimento. Le nocche erano ricoperte di crosticine insanguinate, segno dei pugni della notte precedente e le unghie, lunghe e forti erano scheggiate. Detestava le sue mani, tutta la sua essenza era lì. Racchiudevano la morte. Se non tenevano un pugnale allora servivano per strangolare, strappare, uccidere.
Le giornate si susseguivano l’uno all’altro, sovrapponendosi, contorcendosi, sempre uguali. Noomi sentiva il suo cervello palpitare e bruciare ogni volta che apriva gli occhi. Non si alzava più nemmeno dal letto. Riuscire a scappare da li non era  impossibile, ma aveva le membra talmente stanche e pesanti che non aveva nemmeno la forza di fare ciò che una volta le risultava così facile: togliersi dai guai.
Era dimagrita ancora di più. Riusciva a toccarsi le costole e affondare il dito nello spazio tra una e l’altra. Le caviglie erano diventate così sottili che ogni tanto aveva paura che non riuscissero nemmeno a raggere l’esile peso del suo corpo. Aveva la pelle del viso tirata e le guance infossate. Pallida e cerea pareva un fantasma.
 
“Pagherai per tutto quello che hai fatto. Le persone che hai ucciso avranno finalmente la loro vendetta e tu quello che ti meriti. Io avrei optato per la tortura, ma il re è stato magnanimo. Dai uno sguardo a queste case e alla gente, perché questi saranno i tuoi ultimi ricordi, Noomi”
“Tornerò bastardo, e quando lo farò per te sarà la fine”
 
Noomi si svegliò di soprassalto. Per una frazione di secondo non riuscì a capire dove si trovasse, poi si rese conto di essere nelle celle di Crono. Ancora. La notte prima aveva avuto una crisi: Le croste sulle nocche delle mani erano saltate vie e c’era del sangue rappreso sul dorso e palmo delle mani. Bruciavano. Sentiva tutti i muscoli del corpo rigidi e la testa leggera. Stava per alzarsi quando per un momento la memoria tornò. La sua ultima mattina. Il pomeriggio l’avrebbero giustiziata, lasciando cadere nell’oblio quell’assassina tanto ricercata. Le anonime pareti grigie della sua stanza erano bruciate dalla luce rossa del sole che stava sorgendo dietro i pinnacoli della città. Se avesse teso le orecchie probabilmente avrebbe sentito le voci dei mercanti mattinieri pronti a scendere in piazza. Quella mattina i loro affari sarebbero andati a gonfie vele. Molta gente sarebbe stata a Crono, in vista dell’esecuzione dell’assassina.

Sentiva l’occhio destro pulsarle terribilmente e non riusciva bene ad aprire la palpebra. Si portò la mano lì dove sentiva il dolore ma dovette ritirarla subito, emettendo un profondo ringhio. Aveva l’occhio iniettato di sangue, un lungo taglio fino al sopracciglio contornato di viola stava iniziando a prendere infezione. Aveva fatto a botte dopo cena, questo se lo ricordava. La cosa che le sfuggiva era con chi e perché. Nonostante il senso di fame che le attanagliava la pancia facendogliela brontolare, la sola vista del latto e del pane dolce ai mirtilli poggiato sul vassoio vicino alla porta le fece vomitare bile. Si stese sulla branda sfondata del letto, assopendosi in un leggero e inquieto sonno fino a quando la sua porta non venne spalancata.
 
Il commissario sentì un vuoto allo stomaco. Nonostante la sua assassina fosse legata a terra e completamente disarmata riusciva lo stesso a spaventarlo. Non voleva darlo a vedere e farglielo capire ma era sicuro che avrebbe avuto gli incubi tormentati dal suo volto per molto tempo. L’avevano trascinata in piazza quella mattina alle prime luci dell’alba; per un attimo, quando avevano fatto irruzione nella sua stanza, avevano creduto che fosse morta. Uno scheletro pallido incorniciato da capelli corvini abbandonato su una sudicia branda da prigione. Lei aveva reagito agli scossoni delle guardie aprendo piano gli occhi neri. Aveva l’iride offuscata da una leggera patina trasparente e appiccicaticcia, l’occhio destro gonfio. Avevano chiamato un medico. Il commissario non voleva che morisse da sola in quella stanza. Doveva essere una cosa pubblica. Il dottore della prigione era rimasto chiuso nella cella della ragazza per una mezz’ora, prima di uscire. Aveva riferito ai presenti che l’assassina stava male e non ce l’avrebbe fatta, non sarebbe stato nemmeno necessario rimandare il processo. Sarebbe morta lo stesso da li a qualche giorno.
La guancia di Noomi era premuta su della paglia umida. Quando riuscì ad aprire gli occhi davanti sé vedeva sbarre di legno. La cassa in cui era rinchiusa scivolava a destra e sinistra, veniva sbattuta e rimbalzava. Era su un carro. Ancora confusa e tramortita ci impiegò un po’ a capire cosa stesse succedendo. Al di la delle sbarre notò i completi lucidi delle guardie di Crono e i manici delle loro alabarde. Lottando con la nausea che le stringeva lo stomaco si mise a sedere, poggiando la schiena contro le sbarre. Aveva piedi e mani legati ed era imbavagliata. Sentiva la gola riarsa. Aveva bisogno di bere.
Si guardò intorno cercando di riconoscere in che zona della città fossero. Notando i viali alberati e le strade costruite con grossi sassi bianchi capì di essere nel quartiere della cattedrale di Crono. Com’era consuetudine il commissario e la guardia avrebbero chiesto al prete se concederle la grazia o no. Nel caso gliel’avessero concessa lei sarebbe stata libera, in caso contrario, il suo destino era segnato. Noomi sapeva benissimo che tutta quella falsa della grazia per lei era solo un gesto di buon costume. Tutti non aspettavano altro che vederla morta. Il prete non avrebbe mai concesso niente. Non a lei.
La porta del carro si aprì. Un soldato, anziano e muscoloso la prese per una gamba e la trascinò fuori. Troppo debole e malferma sulle gambe Noomi cadde tra le braccia dell’uomo. Sentiva che i conati di vomito le torturavano lo stomaco. Salivano verso l'esofago ma li si fermavano, irritando le corde vocali. La ragazza si passò la lingua sulle labbra secche. Un sole caldo bruciava alto nel cielo. Per lei, elfa boschiva, quella luce così forte era un dolore in più che si aggiungeva.
Due soldati la condussero per un buio vicolo accidentato. Noomi si guardò attorno. Conosceva a memoria tutte quelle stradine, erano vicini alla piazza della cattedrale Nell’aria si sentiva la fragranza dolce del pane appena sformato e l’odore stantio delle prigioni aveva lasciato il posto al profumo di fiori secchi del mercato floreale di Crono, famoso in quel periodo dell’anno. In lontananza sentiva il vociare della gente.
 
Le funi che le legavano le mani dietro la schiena le irritavano la pelle, più cercava di divincolarsi più quelle entravano nella carne, feroci e assassine.
“Sta buona” esordì una guardia prendendola per il braccio e scuotendola, notando i suoi tentativi di ribellione.
Noomi si girò verso di lui, con l’aria più innocente che le riuscì. Sorrise, timida e insicura, abbassando appena lo sguardo. Le bastò notare un veloce lampo di compassione nello sguardo del suo custode per sputargli in un occhio. Lo schiaffo arrivò sonoro e a palmo aperto. La rovesciò in terra, facendola rotolare tra i sassi sconnessi della strada. I calci e le botte arrivarono dopo, prendendola all’altezza dello stomaco. Vomitò tutto quello che aveva nello stomaco e la testa iniziò a vorticarle terribilmente. Sentiva di stare sul punto di svenire, ma non voleva dare loro la soddisfazione di vederla inerme. Si alzò da sola e sfidandoli entrambi si girò e iniziò a camminare verso la piazza della cattedrale. A testa alta e malferma sulle gambe.
 
Tutte quelle persone stavano in piedi attorno alla piazza della cattedrale. C’erano nobili a cavallo, bambini, vecchi e contadini. Sembrava che l’intera Crono e anche i paesi vicini si fossero tutti riuniti lì. Per Noomi erano solo un ammasso di volti anonimi. L’unico degno del suo sguardo era il prete, vestito in rosso e in piedi davanti a quattro sacerdotesse in nero. I loro volti erano coperti da uno spesso velo grigio e i loro capelli nascosti da uno strascico color carbone. I due soldati la fecero fermare davanti alle scalinate della cattedrale e con uno spintone la lasciarono crollare a terra, in ginocchio.
Noomi sentì dei passi avvicinarsi dietro di lei. Alzò per un attimo lo sguardo e notò il commissario in piedi affianco a lui, lo sguardo fisso sul sacerdote.
“Sono qui, in veste di commissario delle prigioni di Crono per chiederle se è disposto a concedere la grazia a questa nostra prigioniera”
Noomi alzò lentamente la testa, incrociando gli occhi scuri stanchi contornati di rughe dell’ officiante. Sentiva bruciare lo sguardo dei presenti sulla sua schiena e per un attimo si chiese cosa avrebbe mai fatto se le fosse stata concessa la grazia. Probabilmente sarebbe tornata a fare la sua solita vita, perché solo di quello era capace di vivere. Imparare l’arte della morte era stata una cosa che le era venuta naturale, come se fosse nata per quello. Eterea, ombra, invisibile. Lei era quello, era cresciuta per esserlo.
Il prete la squadrò. I pesanti vestiti cerimoniali sembravano dovergli crollare addosso da un momento all’altro, magro e scarno com’era, lì in piedi sulle scale era come fuori posto. Solamente polvere dentro un involucro di uomo consumato dal tempo. Poi ad un tratto la faccia del vecchio cambiò impercettibilmente, una nota di insicurezza e inquietudine. Solo un occhio allenato se ne sarebbe accorto. E quello di Noomi lo era. Sorrise beffarda. L’aveva riconosciuta.
“Sei tu..” mormorò, facendo un passo indietro inciampando nella veste.
“Che tu sia maledetta, che tu sia maledetta! Maledetta!” Continuò a urlare mentre le sacerdotesse in nero si avvicinavano a lui prendendolo per le braccia.
Noomi si alzò a fatica e subito due guardie le incatenarono le mani, puntandole una spada alla schiena.
“Sei maledetta!” La voce dell’officiante ancora rimbalzava al di sopra del vociare che si era sparso nella piazza. Noomi lo vide mentre saliva le scale, con le sacerdotesse al seguito. Goccioline di sudore gli si increspavano tra le rughe, le lacrime rotolavano giù dal mento e la bocca serrata in una smorfia di orrore lo facevano sembrare ancora più debole.
“Come mio padre prima di me!” Urlò Noomi prima di venire imbavagliata e strattonata per andare al luogo dove avrebbe detto addio a tutto ciò che aveva visto fino ad ora.

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Capitolo 3
*** La vendetta. ***


Poeta – Settimo Giorno lunare, quinto mese
 
L’aria era calda quel giorno. Afosa e soffocante. Non soffiava vento e un sole rosso bruciava alto nel cielo. Gli abitanti di Poeta avevano fatto l’abitudine alla brezza fresca che spirava tra gli alberi delle foreste e a quelle nuvole grigie che ricoprivano quasi sempre come una cappa il cielo. Soffrivano il caldo; la loro carnagione pallida e cerea, dovuta alla perenne penombra era facile alle scottature. Il sole che ogni tanto faceva capolino tra i loro alberi era sbiadito e tiepido.
Thoaj camminava lungo il selciato di ghiaia che portava al fiume dietro Poeta. Era scalzo e i sassolini roventi gli sfregiavano i piedi. I corti capelli biondo cenere erano spettinati e splendevano come fili d’oro alla luce solare. I suoi occhi color verde avevano delle striature azzurre attorno alla pupilla e la luce del sole li faceva risaltare ancor di più, creando sfumature gialle vicino all’esterno dell’iride.
Il ragazzo aveva dipinto sul volto un’espressione risoluta e combattiva: Non avrebbe mai saltato il suo allenamento mattutino per colpa del caldo. Presto avrebbe fatto domanda in Accademia e voleva essere pronto. Il suo fisico asciutto, tipica conformazione della sua razza, forte come il granito era il risultato del sudore e della fatica che ci stava mettendo per diventare una guerriero. Aveva ancora i lividi della caduta di una settimana prima, mentre si allenava con Amlach tra la forte corrente del fiume. Aveva sbagliato un movimento ed era scivolato sul letto sudicio del corso d’acqua, rotolando e annaspando per qualche metro, prima di riuscire a rialzarsi. Indossava una leggera casacca bianca, aperta con uno squarcio fino al petto, la usava sempre per gli allenamenti, non la lavava quasi mai. Prima di infilarsi i lunghi pantaloni neri attillati e stretti alle caviglie si era bendato con delle garze curative le ferite e non aveva portato gli stivali. Non gli servivano al fiume. L’avrebbero solo intralciato.

Iniziò a sentire il boato dell’acqua già a molta distanza. Gli imponenti alberi iniziavano a diradarsi e la ghiaia si trasformò ben presto i grossi ciottoli piatti e lisci. Il fiume apparì in tutta la sua imponenza, la corrente sollevava spruzzi di acqua fresca, rinfrescando il viso del ragazzo che intanto aveva già iniziato a entrare, sotterrando i piedi nella sabbia umida del letto. Amlach non era ancora arrivato. Avrebbe fatto tardi come al solito.
Thoaj toccò l’elsa della spada che portava legata al fianco. Era di suo padre. Quando lui era morto si era ripromesso di tenerla sempre con sé. Per ricordarsi. Per ricordarsi di lui. Era stato ucciso qualche mese prima, in un’imboscata dell’ordine dei Vacui. La sua morte aveva fatto morire anche una parte di lui. Nella famiglia di Thoaj, era lui che aveva sofferto di più. Il legame con il padre era sempre stato forte, come un campo magnetico che attira una calamita a una graffetta. Era stato lui ad istruirlo alle arti del combattimento. Il suo cuore palpitava dalla voglia di scendere in campo per proteggere il suo popolo in prima fila, rischiare la propria vita, per salvare quella di altra gente. Aveva imparato in fretta a maneggiare la spada. Aveva un’innata agilità ed era fulmineo, freddo, calcolatore. Allenarsi era diventato un bisogno psicologico oltre che fisico. Una volta si era perfino rotto un braccio. Nemmeno quello era stato un valido motivo per fermarsi: In convalescenza aveva iniziato a leggere i racconti e le leggende degli eroi venuti prima di lui. Divorava i libri, affamato com’era di curiosità.
Molto presto la Guardia avrebbe emanato i bandi per le prove di ammissione, e Thoaj avrebbe partecipato. Sapeva di potercela fare; non aveva paura del fallimento.
Fece scorrere le dita lungo la guaina della spada, estraendola lentamente. Sentì l’acciaio sfregare contro il cuoio del fodero. La lama era talmente lucida che riuscì a vedere il suo riflesso.  Espirò a pieni polmoni, puntando l’arma davanti a lui, fendendo l’aria. Sentì le gambe tremare sotto lo sforzo della corrente e l’aria calda premergli sulla gola, all’altezza della trachea.
“Non devi abbassare lo sguardo quando combatti”
La voce arrivò improvvisa e placata dietro Thoaj. Il ragazzo voltò lentamente la testa, abbassando la spada.
“Non riesco, non vedo dove metto i piedi”
Amlach rise, passandosi una  mano tra i capelli bruni. Si avvicinò a lui, sguainando una lama un po’ più corta di quella di Thoaj.
La puntò alla gola della ragazzo, fissandolo negli occhi.
“Non devi staccare gli occhi dal nemico”
Thoaj espirò lentamente mettendosi in posizione d’attacco. Scattò in avanti con un balzo felino, colpendo il fianco di Amlach con il pomo della sua elsa. Il giovane si sbilanciò a destra sorridendo. Riprese l’equilibrio e preparò un fendente frontale che il ragazzo riuscì a schivare solo appiattendosi nell’acqua gelida del fiume. Sentiva i calzoni pensanti e zuppi. Gli intralciavano i movimenti, era lento. Indietreggiò verso la riva, cercando di allontanarsi dalle forti correnti al centro del fiume. I capelli biondi gli  si appiccicavano sulle guance rosse per lo sforzo. Nonostante il caldo soffocante iniziava a sentire brividi di freddo lungo la schiena. Amlach gli si scagliò contro, urlando. Goccioline di sudore e acqua gli imperlavano la fronte, creando una coroncina traslucida. Thoaj schivò il colpo ma non vide il fendente che arrivava da sinistra, colpendolo in pieno. Rotolò tra i sassi. Sentiva l’odore di sangue sopra la lingua: probabilmente si era spezzato un dente. Si alzò a fatica, facendo peso sui palmi delle mani.
 “Ti ho battuto” gli disse Amlach avvicinandosi a lui, tendendogli la mano. Thoaj lo guardò storto, scostandosi i capelli dal viso. Era seduto in mezzo alla corrente, l’acqua del fiume gli premeva contro i fianchi. Si conoscevano da anni, da quando erano bambini. Tutti gli scambiavano per gemelli ma i due non avevano un legame di sangue a unirli. La madre di Amlach era morta nella stessa imboscata del padre di Thoaj, ma i due ragazzi avevano reagito in maniera diversa. Mentre il primo aveva subito accettato la perdita, dedicandosi alle arti della Guardia e passando a pieno gli esami d’ammissione, Thoaj aveva passato un periodo perso nel limbo dei suoi incubi: Era stata una fase difficile per lui. Aveva passato un mese chiuso in se stesso, mangiando poco e attorcigliandosi su se stesso, evitando qualsiasi contatto umano. Non voleva più vedere nemmeno Amlach, che per lui era sempre stato la sua ombra. Aveva reagito piano piano, un percorso lungo e difficile. Quando era riuscito finalmente a superare il trauma non aveva trovato il suo amico ad aspettarlo. Amlach aveva fatto progressi e non aveva impiegato tanto a entrare nelle prime linee dell’esercito di Poeta. Thoaj però, aveva altri progetti. Aspirava a puntare più in alto, tra i Cavalieri del Giglio, l’ordine di Poeta dei cavalieri di draghi. Approfittando dei ritiri dalla Guardia di Amlach aveva iniziato ad allenarsi duramente. I bandi dell’Accademia avrebbero avuto luogo da li a pochi giorni e Thoaj sentiva che la sua vendetta poteva finalmente avere inizio, suo padre stava per essere rivendicato.


Note: sto inziando finalmente a capire come funziona l'editor di questo sito, quindi sto modificando i capitoli precedenti, aumentando il carattere del testo e staccandoli in paragrafi, cercando di renderli più leggibili. Spero che questo vi possa essere d'aiuto :)
 Ci vorrà ancora qualche capitolo prima che le vite di ogni personaggio si intreccino. Le storie saranno separate ancora per un po'. Spero che stia iniziando a diventare interessante. Recensite se avete critiche, commenti positivi o negativi, consigli ecc ecc. 
L'autrice, Clarice Hai. 

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Capitolo 4
*** La grazia della regina. ***


Crono – quattordicesimo giorno lunare, quinto mese
 
Appoggiò la testa al ceppo di legno dell’esecuzione quasi come un gesto di sollievo. Sentì i muscoli del collo e le scapole distendersi, i polmoni che si espandevano quando loro consentito per prendere aria. Davanti a lei, la bellezza del porto di Crono si stagliava a confine con il mare, tinto da colori aranciati del tramonto. Navi mercantili e  militari erano ammassate vicino alla banchina. Numerose persone, piccole come formiche, agli occhi di Noomi andavano avanti e indietro, sembravano non fermarsi mai.
Il boia le legò mani e piedi con pesanti catene.
“Non c’è bisogno di legarmi, non ho nemmeno le forze per reggermi in piedi, figuriamoci per scappare” sussurrò con una nota di sarcasmo, ridendo.  Notò gli occhi del suo esecutore, l’unica parte non coperta dal pesante cappuccio che portava in testa come un sacchetto, guardarla rudemente, con violenza, come se fosse solo un semplice animale da sgozzare.
Il vociare della gente arrivò prima dei loro passi. Si muovevano velocemente, passi piccoli e frenetici, come lo scalpiccio dei cavalli. Noomi notò come tutti i bambini e la maggior parte delle donne non fossero più presenti. Stomaci deboli.
L’assassina sentì improvvisamente un vuoto allo stomaco. Prima non aveva fatto caso a quella moltitudine di occhi che la guardavano con disprezzo, mentre ora aveva l’occasione di osservarli tutti, uno a uno. Nessuno aveva per lei uno sguardo di misericordia, pietà. Le loro occhiate spietate si lasciavano intendere da sole: morte.
Noomi sapeva di essere una dei più spietati sicari di tutta Oteph, ma non aveva mai pensato alle conseguenze che i suoi omicidi avrebbero portato ad altre persone, oltre le sue vittime. Se avesse voluto, avrebbe potuto contarle una a una. Tantissime, troppe.
La sua maschera di forza e spietatezza che aveva avuto fino a un momento prima andava piano piano a sgretolarsi. Era una bestia, un mostro. Cosa avevano fatto quelle persone per meritarsi un così tanto dolore? Cosa pensavano ora di lei?
L’unica cosa che smuoveva Noomi al suo lavoro erano i soldi, la sopravvivenza. Ma che senso aveva vivere sul male degli altri?

Per un attimo guardò l’ascia del boia con un misto di sollievo e compiacimento. Stava tutto per finire. L’inferno che le era girato attorno fino a quel momento poteva alla fine dissolversi. Sorrise tra sé e sé.
Finalmente la meritata pace.
Chissà come l’avrebbero accolta gli dei nell’altro mondo. Forse avrebbe condotto una vita di solitudine e riservatezza come da viva. Un’esiliata. Oppure le avrebbero concesso il perdono, dandole una meritata tregua. Un’esistenza alla sua anima diversa da quella sempre avuta. Normalità. Aspirava a quello.
Ogni tanto, prima di addormentarsi, con la mente ancora piena di pensieri sul suo lavoro, ci pensava, pensava a come fosse una vita normale. Con una famiglia, un marito, forse dei bambini. Una piccola casa in un borgo, come quello dove era andata a compiere uno dei suoi ultimi omicidi. Era piccolo, poche case, una locanda e alcune fattorie. Un piccolo ruscello che gli scorreva vicino e chilometri e chilometri di erba alta e fiori. Il solo profumo l’aveva stordita appena arrivata, come con il suo mantello, un presagio di morte. Avrebbe potuto farci l’abitudine a quel profumo. 
L’unica relazione che ricordava di avere dopo la morte dei genitori era Archi. Non avevano mai avuto niente assieme, se non un rapporto di lavoro, un piccolo fondamento di amicizia. Non aveva mai conosciuto l’amore, forse nemmeno l’amicizia. Era una mina vagante, un’ombra. Tutti sapevano di lei, che c’era, che esisteva, ma nessuno la conosceva realmente. Il suo nome, la sua storia, i suoi pensieri. Uno spillo di rimorso le puntigliò il petto, vicino al cuore. Non sentì le lacrime salirgli verso gli occhi, la cosa le dispiacque. Da quanto non piangeva? Forse anni. Perfino la sua anima era arida, secca come un deserto. Avrebbe solo voluto che qualcuno andasse li da lei e la riempisse d’acqua, fino all’orlo, al cervello. Voleva purificarsi, lavarsi, cambiare, diventare qualcuno di nuovo. Non sapeva che tutti quei pensieri presto sarebbero stati risucchiati via, come se non fossero mai esistiti.
Noomi sentì la l’ascia del boia avvicinarsi a lei, strofinando verso le pietre del ciottolato.
Finisce, finisce tutto. Tutto finisce prima o poi 
Non era agitata, non era nervosa. Il cuore batteva lento, il respiro calmo. Davanti a lei, il commissario stava eretto nel suo metro e settanta. Aveva le mani dietro la schiena e la guardava senza sbattere le palpebre. Non voleva perdersi nemmeno un attimo. La sua nemica, quella stupida ragazza stava per cadere. Una rogna in meno.
Il boia alzò la lama, il sole ci rifletté contro, illuminando il viso dei popolani. Noomi chiuse gli occhi. Conosceva il dolore, non ne aveva paura. Questa sarebbe stata l’ennesima prova imposta prima della tregua per la sua anima. Il silenzio cadde nella piazza. Sembrò che perfino il mare avesse smesso di rivoltarsi contro la scogliera con forza.
Fu poco prima che l’ascia si abbatté sul collo di Noomi che una voce proruppe spezzando il silenzio. L’ordine di fermarsi arrivò secco, da una voce femminile in fondo alla folla, decisa e determinata. Noomi sentì lo spostamento d’aria sopra la sua testa, ancora attaccata al collo. Aprì di scatto gli occhi, respirando affannosamente. Era morta?
Vide davanti a lei la folla che si apriva a sipario e il commissario che si torceva nervosamente le mani. Gocciole di sudore brillavano sul suo collo e sugli zigomi.
Erano in cinque, quattro erano soldati di Poeta, Noomi li riconobbe dai gigli disegnati sopra le casacche argento. La figura nel centro, una donna in bianco, abbandonò la scorta e si avvicinò a lei. Tutto il popolo si inginocchiò a suo cospetto, perfino il boia e il commissario, che lo fece non poco controvoglia.
Noomi la riconobbe, fin troppo bene: Kayleen, la regnante di Poeta. Ne aveva sentito parlare, ma l’aveva vista solo una volta, durante un suo fugace e fulmineo ritorno nella capitale elfica. Ora stava davanti a lei, statuaria, bellissima. Le sorrideva, guardandola con simpatia e interesse.
“Commissario?” disse voltandosi.
Lui si alzò titubante, lo sguardo puntato sulla punta delle sue scarpe. Alzò per un attimo gli occhi, giusto l’attimo ti vedere la fronte corrugata e spazientita dell’elfa davanti a lui.
“Liberatela.”

La calma dell’uomo sembrò svanire tutta d’un tratto.
“NO! QUELLA ASSASSINA E’ MIA, LEI NON HA DIRITTO!”  Un brusio si sparse veloce tra la folla. Noomi intanto osservava tutto distante, come se non stessero parlando di lei, come se non fosse la diretta interessata.
“IDIOTA NON LIBERARLA!” sbraitò verso il boia che intanto, aveva preso a liberarle i piedi dalle catene. Il commissario si fiondò su di lui, stringendogli le mani al collo. Era furioso, e non aveva intenzione di nasconderlo.
“Quell’elfa è sotto la mia protezione, commissario. E’ nativa dei boschi dell’Eledhwen, sono io che posso scegliere della sua vita e della sua morte. Liberatela” la regina parlava senza esitazione nella voce, per niente scossa da quel teatrino che si presentava davanti ai suoi occhi.
Noomi, si sentì ancora più stordita. Non capiva, o forse non voleva capire. Per un attimo aveva sperato che la uccidessero per porre fine alle sue sofferenze e invece no, tutto si era ribaltato, rivoltato.
Intanto, le catene cadevano una ad una, lasciandole cicatrici e segni rossi sulla pelle bianca; sfregi che non le sarebbero mai più andati via.
La regina si avvicinò a lei, sorridente, come se fosse la cosa più normale del mondo. Le porse la mano. Noomi sentì la pelle fresca e liscia della regnante. Le sue mani invece, dalla dita affusolate, erano magre, secche.
A Kayleen non ci volle molto per aiutare ad alzare la ragazza, era leggera come una piuma. Ma non appena fu in piedi, con le gambe ben stese, la vide chiudere gli occhi, traballare verso di lei e svenirle tra le braccia, priva di sensi.
 

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Capitolo 5
*** La caduta di Crono ***


Crono – Ventesimo giorno lunare, decimo mese
 
 
“Dalana svegliati”
La voce riecheggiò lontana alle orecchie della bambina dai riccioli bronzo avvolta nelle coperte. Corrugò per un attimo la fronte, come se stesse sognando, strinse di più il cuscino al petto e si girò a pancia in giù.
“Dalana!”

Questa volta fu più insistente, incalzante. La voglia di aprire gli occhi era meno forte di quel piacevole dormiveglia così rilassante. La bambina sentì qualcuno che la scuoteva da un braccio e ancora lo stesso ordine, ripetuto più volte. Le parve quasi una litania, come quelle che sentiva dalle porte chiuse della sala sacerdotale al piano di sotto. Ogni tanto stava li fuori e origliava. La cosa non la entusiasmava molto, ma quei canti così melodici riuscivano a tranquillizzarla.
Sentì una fitta leggera agli addominali. Le capitava spesso, quando dormiva molto a pancia in giù. La sera prima si era chiusa in camera e infilata sotto le coperte molto prima del previsto: aveva litigato con sua madre. Le lenzuola che si era tirata su fino al volto le parevano una barriera verso il mondo esterno. Si sentiva protetta e invisibile lì sotto. Quando Brie, la balia, entra entrata per vedere come stesse, Dalana non aveva risposto alle domande, chiusa in un ostinato silenzio. Brie aveva pensato che dormisse. Se n’era andata mormorando qualcosa che la bambina non aveva ben capito, ma dal suo modo di accompagnare dolcemente la porta per richiuderla senza sbatterla, capì che non era arrabbiata.
Quando finalmente aprì gli occhi, infastidita da quella voce che la chiamava, la sua vista appannata dovette abituarsi alla penombra aranciata dell’alba. La luce rifletteva sui mobili, creando lunghe ombre sul pavimento, simili a macchie d’inchiostro. Era Adrian, suo fratello ad averla chiamata con così tanta insistenza prima.  Ora stava li, chinato davanti alla cassettiera, con le mani tra i vestiti che Brie aveva piegato con tanta cura, li prendeva e alcuni li lanciava via, contro il muro, altri li riponeva con noncuranza uno sopra all’altro vicino a lui. I suoi movimenti erano veloci e sconnessi, parlava da solo e la sua fronte era corrucciata, un profondo solco gli scavava la fronte. Dalana si sentì a disagio quando si ricordò che il suo diario segreto era nascosto proprio li, tra i vestiti in cui suo fratello stava frugando; ma i movimenti furiosi e rapidi di Adrian le fecero capire che non era affatto il suo diario a interessargli tanto.
Tutto quella mattina le sembrava così strano. In lontananza riusciva a sentire delle grida confuse, non capiva nemmeno quello che stavano dicendo. A quell’ora del giorno, solitamente, quando era già sveglia le piaceva affacciarsi alla finestra e riconoscere le voci dei mercanti che si preparavano al mercato mattutino. I rumori dei carri che percorrevano il lungo viale di ciottoli sotto il castello per andare alla piazza e i nitriti dei cavalli erano la sua sveglia. Un risveglio così spontaneo e non forzato era il suo preferito. Ad Adrian invece, non bastavano quei leggeri rumori dei lavoratori per svegliarsi, aveva bisogno dei rimproveri di Brie.
Si alzò dal letto, avvicinandosi alla finestra. La camicia da notte che aveva indosso era troppo grande. Sua mamma aveva già rimproverato la sarta, fu costretta a sollevarla per non inciampare.
Alzandosi in punta di piedi si affacciò. Ebbe un tuffo al cuore e la testa iniziò a vorticarle di nuovo. Sotto attacco. La loro città era stata attaccata. Quella mattina le graziose bancherelle dai colori vivaci sarebbero state sostituite. Riuscì a riconoscere l’esercito di Crono con lo stendardo blu con disegnato sopra il leone d’oro. Tra di loro c’era anche suo padre a combattere, in groppa al suo cavallo baio. Dalana una volta gli aveva intrecciato la criniera, creando tante sottili treccine con i suoi fiocchetti rosa. Suo padre aveva guardato la sua creazione con occhio un po’ scettico, ma non le aveva disfate. Era il suo modo per averla sempre vicina. Il cozzare delle spade le perforò le orecchie e ogni tanto, dei fragorosi schianti facevano tremare il tetto e il pavimento. Notò che oltre ai soldati dai mantelli blu c’erano anche quelli vestiti da pesanti armature color onice. Le gambe le tremarono. I Vacui.  Quell’ammasso di figure vestite di nero con lunghi mantelli rossi volevano dire una sola cosa: Morte.

“Sono arrivati Adrian” lo disse con una voce incrinata, di un pianto che sta per esplodere. Suo fratello non le rispose, rivolgendole solo una fugace occhiata. Dalana riuscì a riconoscere nelle sue iridi chiare così simili a quelle del padre la preoccupazione. Un boato rimbombò sordo sopra le loro teste, facendo sussultare le assi del soffitto. La bambina cadde a terra, incapace di rimanere in equilibrio.
“Chiudi a chiave la porta, sorellina, da brava” mormorò il ragazzo porgendo alla sorella una chiave arrugginita che tirò fuori dalla tasca dei pantaloni mentre si caricò in spalla il sacco in cui aveva messo dentro i vestiti. Dalana non fece in tempo a raggiungere l’uscio che questo si aprì. La figura giunonica di Brie, vestita di marrone si catapultò nella stanza. Aveva la cuffia per capelli spostata a destra e alcuni ciuffi di capelli biondi le spuntavano ribelli fuori. Dalana non gli aveva mai visti e per un attimo si accorse di quanto quel colore fosse simile a quello di sua mamma, la regina.
“Principessa!” lo disse con una nota affettuosa nella voce, prendendo la bambina in braccio e richiudendosi la porta alle spalle con un calcio. Dalana si aggrappò al collo della balia, mentre sentì le lacrime bagnarle il volto.
“Brie, sono così felice di vederti” esclamò Adrian dirigendosi verso una libreria addossata al muro. La donna gli rivolse un veloce sorriso, poggiò la principessa a terra e aiutò il principe a spostare la libreria. Era l’unica che sapeva dei passaggi segreti nel castello scoperti dai due fratelli. Tutto era iniziato da un gioco: nascondino. Adrian aveva sceso le scale fino alle lavanderie e mentre spostava una cassettiera per nascondersi dietro aveva trovato un vecchio cunicolo polveroso. Preso com’era dalla curiosità vi si era infilato dentro e con suo stupore era finito nelle cucine. Era andato subito a raccontarlo a Brie, che intanto, mano nella mano con Dalana era in giardino a cercare ancora dove si fosse nascosto. Nonostante i rimproveri della balia sul fatto che fosse pericoloso, i due giovani principi avevano iniziato a cercare tutti i passaggi segreti possibili. Erano arrivati a quattordici, incluso quello nella loro stanza.

In lontananza intanto, un rumore di tamburi riempì l’aria. Le assi del soffitto iniziarono a tremare e l’odore di legno bruciato iniziò a imperniare l’aria.
“Adrian, le nostre forze non reggeranno a lungo. Questo passaggio porta dritto alle fogne. Una volta fuori correte verso la foresta. Seguite le tre lune e vi ritroverete a Poeta. La  regina degli elfi vi accoglierà. Ma dovete sbrigarvi” Aveva la voce affaticata e lacrime che continua a mandar via con una mano le rotolavano giù dagli zigomi.
“Fogne?” mormorò Dalana arricciando il naso. Aveva paura dei topi.
“Preferisci morire?” le parole di Adrian arrivarono dure e pesanti, come uno schiaffo a palmo aperto. Prima che la bambina si facesse prendere dalla tristezza, Brie era già affianco a lei e cingendola con le sue braccia grassottelle riuscì a farle dimenticare la sgarbataggine del fratello. La principessa sentì che il profumo di bucato che di solito le impremiava la pelle è sostituito dall’odore pungente di sudore e fumo.
“Mia piccola Dalana, devi essere forte. Tuo fratello sarà capace di portarti al sicuro, lontano da qui. Ma ora per voi, a Crono non c’è più niente. Dovete fuggire finché siete in tempo. Non piangere, giovane principessa. Un giorno capirai che tutto questo è stato per il tuo bene” 
La spinse delicatamente nel cunicolo dietro la libreria. C’era puzza di rifiuti andati a male e pipì. Sentì la mano di suo fratello sulla sua spalla. Fu costretta a inginocchiarsi per non sbattere la testa contro il soffitto di pietra.
 “E tu Brie? Cosa farai? E papà e mamma?” Dalana sentì suo fratello parlare dietro di lei. Teneva un tono di voce basso, bisbigliante.
“Rimarrò qui a proteggere i vostri genitori. Ma ora voi andate, presto” la balia spinse in malo modo Adrien nel cunicolo, con le lacrime agli occhi.
“No Brie aspetta un attimo ..” le parole gli morirono in gola. La porta segreta venne richiusa e dall’altra parte del muro, il rumore della libreria che veniva spostata si sentì subito. I due giovani furono inghiottiti nel buio totale. Proseguirono carponi per una mezz’oretta. La roccia squassata graffiava le ginocchia dei due e l’odore di fogna intanto si faceva sempre più penetrante.. Ogni tanto della luce filtrava attraverso delle fessure tra le pietre. Adrian superò sua sorella quando iniziò a sentire che dell’acqua gli bagnava i piedi. Fece passare la mano sopra la sua testa e notò come il soffitto si fosse alzato sopra le loro teste. L’aria, nonostante il puzzo maleodorante era più respirabile, segno che mancava poco allo sgorgo d’uscita. Continuarono in piedi questa volta e fu poco dopo che si trovarono in una grande stanza dalle rocce grigie corrose dall’acqua. C’era poca luce, dalle sfumature giallastre. L’acqua stagnante arrivava fino a metà coscia e Adrian fu costretto a prendere sua sorella in braccio. Il terreno viscido e coperto di sassi appuntiti era scivoloso e ogni tanto qualcosa di umido e appiccicoso sfiorava le caviglie del ragazzo. Aveva solo voglia di abbandonarsi al suolo e lasciarsi morire li.  Ma doveva andare avanti a camminare senza rimuginare sulla città che sopra di lui stava cadendo a pezzi. Doveva farlo per sua sorella. Non lontano si sentiva il boato feroce dell’acqua. In fondo a quella stanza giallognola si trovava una piccola cascata che portava al cunicolo di scarico. Gliel’aveva detto suo padre, durante uno dei suoi racconti. Stava raccontando al figlio una delle sue bravate da ragazzo, quando per sfuggire a sua mamma si era rintanato nelle fogne e per poco, con la poca luce presente non si rompeva una gamba, per non aver visto quella piccola cascata.
Adrian si sporse verso il cunicolo sotto la cascata che li avrebbe condotti alla libertà. Stava a cinque metri sotto di loro e scorreva in un fiume di liquami male odoranti. Sentì la presa di Dalana ancora più forte attorno a lui, mentre nascose il viso tra il suo incavo del collo. Il giovane ragazzo chiese uno sforzo supplementare alle gambe, prese fiato e si lanciò. La forza del fiume lo lasciò sorpreso. Mentre veniva sbattuto in tutte le direzioni cercava di tenere salda la presa su sua sorella, che le sembrava scivolare lontano da lui a ogni secondo. Quando riuscirono a tornare a galla boccheggiando erano fuori, vicino alla distesa d’erba precedente alla foresta. Il rompo dell’acqua riempiva l’aria, occultando le urla provenienti da Crono.
Dalana non riusciva a muovere un solo muscolo. Puzzava di marcio e i suoi bellissimi capelli erano afflosciati come senza vita attorno a lei. Sentiva il petto alzarsi e abbassarsi freneticamente, alla ricerca di aria. Sua fratello le strisciò affianco, sorridendole. Un sorriso falso che non le diede forza. Sopra di loro riuscivano a vedere i pinnacoli di fumo alzarsi dal loro palazzo e i draghi neri volare in circolo nel cielo. Lacrime di rabbia e paura solcarono il viso della principessa, inondando le guance rosee. Solo in quel momento capì veramente che da quel giorno in poi la sua vita sarebbe cambiata. Non avrebbe più fatto lezione di musica la mattina e Brie non le avrebbe più raccontato le favole prima di andare a letto. Tutto quello per cui era venuta al mondo non sarebbe più servito. Avrebbe iniziato una nuova vita, del tutto diversa da quella precedente.
Adrian vide come i draghi iniziassero ad abbassarsi di quota. Capì che stesi sull’erba, erano una preda facile. Dovevano trovare riparo nella foresta. Si alzò a fatica e prendendo per le spalle la sorella la tirò su a sedere. Lei, con lo sguardo fisso davanti a se, spento. Una bambola a cui hanno tagliato i fili, silenziosa, sotto shock.
 “Ascoltami Dalana, ora dobbiamo correre, hai capito? Come quando facevamo le gare e chi arrivava ultimo doveva rubare le mele al vecchio Gil. La vedi quella distesa di alberi li? Dobbiamo raggiungerli, poi saremo al sicuro” affaticato e stanco si inginocchiò davanti a lei, fissandola
“Dalana ascoltami!” la prese per le spalle, scuotendola furiosamente. 
“Devi smetterla di fare la bambina” 
Fu a quelle parole che la giovane principessa gli rispose con uno sguardo di sfida. Come a fagli capire che l’aveva ferita nell’orgoglio, che non è una bambina, che si sbagliava. Ignorando il dolore alle gambe e i conati di vomito che le serravano lo stomaco corse verso la distesa di querce. Suo fratello la seguì, malfermo sulle gambe. Riuscì a calmarsi e riprendere fiato solo quando la luce del sole venne oscurata dalle grandi foglie degli alberi della foresta.
                                                                                                  
 
 


 

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Capitolo 6
*** Rinforzi ***


Poeta – Trentesimo giorno lunare, decimo mese


Le tre navate della sala principale di Poeta si stagliarono davanti a lui con tutta la loro maestosa bellezza. Archenan deglutì, accarezzandosi l’ombra dell’ispida barba che piano iniziava a ricrescere sulle guance. Portò una mano alla spada che teneva stretta al cintola. Stringere la mano attorno all’elsa lo fece sentire subito meglio. Era nato per la battaglia. Il suo maestro glielo aveva sempre ripetuto, fin da quando era un bambino e il ferro pesante delle armi lo sovrastava ogni volta che provava a brandire un’ascia o una lancia. Aveva dedicato la sua intera vita alla guerra, alla difesa del suo popolo, al mantenimento del buon nome che portava la capitale Crono, la sua Crono, la madre patria degli uomini.
Aveva fallito, miseramente. L’attacco era arrivato improvviso e violento. Li aveva piegati tutti quanti. Aveva mandato diversi corrieri a cercare aiuto dagli elfi, ma nessuno era riuscito a portare a compimento la missione. Fu così che decise lui stesso di mettersi all’opera. Abbandonare l’armatura e andare a chiedere ausilio. Il viaggio a quel galoppo sostenuto, portando il cavallo al limite della proprio forza fisica, era riuscito a scalfire quella corazza di orgoglio che aveva come una seconda pelle. Il suo popolo aveva bisogno di lui.
Aveva percorso i boschi a ovest, per passare inosservato. I terreni che aveva calpestato erano ancora vergini, nessuno aveva ancora visto l’ombra della guerra. La macchia a ovest era ancora protetta. Solo avvicinandosi ancor di più alla capitale elfica notò come i rigogliosi boschi in cui vivevano gli abitanti avevano ceduto il posto a chilometri di erba secca e alberi caduti. Il sole picchiava forte sulla testa calva di Archenan, che nonostante fosse abituato a le alte temperature fu costretto a proseguire a torso nudo e a razionare le dosi di acqua. Gli abitanti di quelle foreste erano migrati verso la capitale e i villaggi vicini ancora riparati, per cercare di sfuggire a una morte imminente. Ora Poeta pullulava di vagabondi e senza tetto, tutti sotto le cure dei sacerdoti del tempio. Il nemico attaccava Poeta dal versante est. La regnante in carica, Kayleen, rispondeva con le sue armate di Guardie Invisibili e Cavalieri del Giglio opponendo una strenua resistenza che oramai andava avanti già da diversi mesi.
 
Il generale di Crono si sistemò il colletto della sua camicia di lino che portava sotto la giacca blu con ricami dorati. L’attendente che l’aveva accompagnato fin li era scomparsa, leggera e silenziosa come vento, avvolta nel suo abito rosa pallido.
Il portone davanti a lui era alto diverse braccia, in legno con dei bassorilievi. Davanti a lui due guardie in armature verdi stavano immobili, con le loro alabarde in mano. Sembravano due statue di sale.
 
L’attendente dal vestito rosa entrò nella sala del trono da un passaggio secondario. Solo lei ne era a conoscenza e solo lei ne poteva usufruire. Uno dei privilegi che le era concesso, essendo l’attendente personale della regnante.
“Regina Kayleen, il generale Archenan è qui fuori”

Quando le enormi porte si aprirono, Archenan trattenne per un attimo il respiro. Una luce bianca gli abbagliò per un attimo la vista, poi lentamente la forma del trono incominciò a prendere forma nitidamente davanti a lui. Sopra di esso, una figura esile stava seduta composta. Il braccio destro poggiato sul bracciolo e il meno appoggiato sulla mano. Gli occhi color ambra leggermente a mandorla e incorniciati da folte ciglia nere lo squadravano con sincera curiosità.
L’uomo si inginocchiò davanti a lei. Portando le labbra quasi a sfiorare il pavimento in marmo bianco che ricopriva la sala. Archenan imbarazzato dalla sua persona, continuò a tenere gli occhi fissi a terra. Riuscì a scorgere il suo riflesso nella pietra: Il viso spigoloso, gli occhi neri pieni di emozione. Aveva visto di tutto, stando sempre a combattere su frontiere diverse, ma un viso di così tale bellezza no. Lo metteva terribilmente in imbarazzo.
Trovò la forza di alzare il capo solo quando sentì i passi di Kayleen avvicinarsi e fermarsi a pochi centimetri dalle sue mani protese davanti al capo.
“Alzati Archenan, sono io che dovrei inginocchiarmi dinanzi a te”
La voce bassa della regina risuonò a eco in tutta la stanza. Archenan provò a immaginarsi la musica che si disperdeva in quella sala durante le feste. Le note che si alzavano fino alla cupola sotto al tetto per poi ricadere sulle teste dei festeggiatori.

 “Come procedono le cose, sul versante est di Poeta?” domandò lui cercando di suggellare il suo imbarazzo.
“Le guardie invisibili sono riuscite a colpire una base nemica, ma non poche sono state le perdite” Si fermò un istante, in segno di commemorazione “I Vacui arrivano più a sud, dalle porte dell’inferno, come sospettavano i nani; ho mandato in ricognizione una mia civetta, ma anche questa, purtroppo, non è tornata”
“Parlami di Crono, Archenan. Ho saputo che è caduta, com’è stato possibile?” La regina riprese a parlare, abbassando lo sguardo. Il generale avrebbe potuto giurare di aver visto le tracce di alcune lacrime intrappolarsi tra le sue ciglia.
“E’ successo all’improvviso. Un attacco a sorpresa, alle prime luci dell’alba. Io e i miei guerrieri non eravamo preparati. Ci hanno piegato. Il re e la regina sono caduti. I loro figli, scomparsi” Mentre parlava stringeva convulsamente i pugni, conficcandosi le corte unghie nella carne.
“L’Al’ thazia quindi è caduta. Una nuova pedina per Aldor” nonostante cercasse di mantenere un atteggiamento freddo e calcolatore, la voce di Kayleen era incrinata da una nota di agitazione, quasi paura.
“La prossima città che probabilmente il nemico andrà ad attaccare sarà Zelo” continuò Archenan tirando fuori dalla tasca una mappa di Othep. Era raggrinzita e sciupata. Consumata dai numerosi tratti di matita disegnati sopra, calcoli, note. Il nome della città di Zelo, a confine con la terra degli umani e quella degli elfi, era sottolineato più volte, la matita aveva quasi bucato il foglio.
“Evacuiamola, salviamo più persone possibili” propose la regina che intanto aveva preso un cipiglio da comandante, abbandonando la frustrazione di poco prima.
Prese la mappa dalle mani del generale, esaminandola da diversi lati, mentre camminava avanti e indietro per la sala.
Lo strascico bianco che portava cucito attorno alla casacca viola si muoveva sinuoso dietro di lei, scivolando sul pavimento e producendo un leggero suono.
“Una spedizione Archenan, una spedizione! Raggrupperò alcuni dei miei più fidati Cavalieri del Giglio e alcune Guardie Invisibili” si voltò verso l’uomo e lo guardò come se non l’avesse notato prima d’ora. I suoi occhi ambrati erano pieni di stupore.
“Conduci i superstiti di Crono e i tuoi soldati qui, manderò una civetta ad avvertirli. Il tempo di raggruppare le mie scorte, un gruppo piccolo e partiremo”
“Avrei piacere di far unire ai vostri guerrieri anche i miei, i meno provati, i più forti”

Kayleen annuì vigorosamente: “Passeremo nel canale al di sotto dell’Eledhwen, l’aria è angusta la sotto, ma saremo protetti dagli attacchi nemici.”

Archenan aveva sentito parlare del canale dell’Eledhwen, alcune leggende ci giravano attorno. Si diceva che fosse un antico passaggio costruito dagli elfi per spostarsi da Poeta durante le invasioni. Non ne avevano fatto più uso dopo la morte del precedente regnante. Kayleen preferiva combattere, far vedere e riconoscere la potenza del suo popolo, anche se tutto ciò stava mandando la sua popolazione verso un genocidio cercato. Il generale si riconobbe in questa maschera di convinzione e freddo orgoglio della regina. Sorrise al pensiero di questa cosa che pareva così piccola che li accumunava.
“Mia signora, sta parlando al plurale”
“Troppo tempo sono stata qui a progettare e basta. Verrò con voi. Voglio assicurarmi che tutto vada al meglio. E’ congedato Archenan, Taira la accompagnerà nelle tue stanze”

L’aria tra loro due si era rifatta improvvisamente di nuovo fredda e imbarazzata. Kayleen si girò per tornare al suo posto, la mappa stretta ancora in pungo, la testa traboccante di pensieri.
Taira, l’attendente dal vestito rosa, ricomparve come una nuvola alle spalle del generale. Il capo chino e le mani giunte in grembo. Gli fece cenno di seguirla e solo quando lasciarono la stanza del trono, Archenan sentì il suo respiro tornare normale.


NOTA: scusate se non ho più aggiunto capitoli, ma sono appena tornata dalle vancaze e tra poco ripartirò ancora :) In questi giorni cercherò di scrivere e pubblicare più cose possibili. Un bacio. Clarice Hai.

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Capitolo 7
*** La fuga ***


Sthyria -  Cinquantesimo giorno lunare, decimo mese
 
Buio. Davanti, sopra, sotto di loro. La torcia che aveva in mano Amlach si era spenta poco prima, mentre si calava giù da una botola percorsa da fredde correnti d’aria.
Sentiva i passi di Aura spediti davanti a lui e il suo respiro veloce, a causa della corsa. Stavano avanzando alla cieca, orientandosi con il loro sesto senso. Erano riusciti a incendiare gli accampamenti dei Vacui ai primi due piani della torre di Sthyria, vicino alla capitale Crono. Ora, c’era bisogno di raggiungere l’ultimo piano, la terrazza, per poter scappare con i loro draghi.

L’avevano scoperto qualche giorno prima, che l’ordine dei cavalieri di Aldor aveva una baso dentro Sthyria. Se gli avessero identificati prima, la strage di Crono non sarebbe accaduta. Da quella torre i Vacui avevano una perfetta visuale su tutto quello che succedeva nella capitale oramai distrutta.
In antichità era una base dei soldati per controllare e segnalare eventuali attacchi, poi era andata in rovina. Situata nel centro della steppa, si ergeva come un dito nero emergente dalla terra, desideroso di arrivare al cielo limpido.
I soffitti erano bassi e le pietre del pavimento sconnesse. Il puzzo di carne e stoffa bruciata oramai era diventato ancora più penetrante e nonostante lo stomaco forte dei due elfi, entrambi dovettero coprirsi il naso con le loro bandane per non vomitare.
Aura era troppo provata per poter evocare anche solo un piccolo fuoco magico, Amlach lo sapeva. Nonostante fosse un incantesimo elementare, il solo pronunciare la litania l’avrebbe stremata.
Cominciarono a sentire le voci dei loro aggressori dietro, sopra di loro. Amlach chiese uno sforzo supplementare alle gambe, prese Aura per mano e aumentò l’andatura. Il contatto  delle mani intrecciate tra lui e la guerriera lo fece rabbrividire. Aura non lo lasciava indifferente. L’aveva notata subito quando era entrata nella Guardia: I suoi lunghi capelli color verde petrolio, legati in una alta coda di cavallo che le ricadeva morbida sulla spalla sinistra e quelle sopracciglia sottili che le incorniciavano due occhi a mandorla color miele. Era vestita con l’abbigliamento dei cadetti, ma sopra di lei, quei consumati pantaloni di pelle e la casacca in cuoio sembravano essere stati cuciti appositamente per il suo corpo, le esaltavano il fisico tonico e asciutto di chi è abituato a essere sempre in movimento.
L’aveva osservata mentre combatteva contro altri cadetti: il suo modo di muoversi aveva un qualcosa di ipnotizzante per gli occhi. Si muoveva sul campo si sabbia rossa con grazia e compostezza. I suoi colpi, erano potenti, studiati, mai a caso. Aveva vinto tutte le sfide e successivamente, aveva fatto carriera molto velocemente.
Amlach inizialmente se ne stava a distanza di sicurezza. La studiava, vedeva come si relazionava con le persone. Era una ragazza così aperta e spontanea, aveva fatto presto conoscenza con una buona parte della Guardia. Quando parlava tutti pendevano dalle sue labbra. Non si sapeva se per la sua parlantina e quel tono di voce così fresco e chiaro o per le sue naturali doti di catturare chiunque. Gesticolava molto quando parlava e gli occhi degli interlocutori, si spostavano velocemente senza perdere mai l’attenzione, dalle labbra carnose pallide, alle mani che si muovevano lentamente, accompagnando ogni parola.
L’occasione per Amlach arrivò un giorno, durante le assegnazioni per una missione. Lui e Aura vennero nominati e fu li che il guerriero poté conoscerla, oltre che fisicamente, anche caratterialmente. Legarono presto, scoprendo un’ironia così simile che li accumunava. Non ci volle tanto perché diventassero inseparabili. Insieme erano capaci di imporsi sugli altri durante le missioni ed in combattimento riuscivano a diventare quasi come una cosa sola. Nonostante questo affiatamento tra i due, Amlach non si era mai deciso a rivelare a Aura i suoi veri sentimenti.
 
Nella foga della corsa, il piede di Aura andrò a colpire un masso. Fu un secondo e i due guerrieri caddero giù per una botola, probabilmente una cisterna oramai in disuso e atterrarono al piano precedente della torre.
“Siamo tornati al piano delle fucine, maledizione!” imprecò Amlach girandosi di pancia e guardandosi attorno.
La guerriera non rispose, diede un colpo di reni e si mise a sedere. Riusciva a percepire la presenza di Amlach affianco a lei, anche se non lo vedeva. Poteva immaginare la sua fronte corrucciata, come gli veniva spontaneo fare quando era arrabbiato. Sorrise timidamente a quell’idea e si mise in piedi.
Si scrollò la cenere di dosso e incamminandosi tra le macerie cercò nuovamente l’accesso al piano successivo. Non sentendo i passi di Amlach dietro di lei lo apostrofò: “Sbrigati o ci raggiungeranno”
Aura non riusciva a vedere a un palmo di naso, nonostante i suoi occhi fossero abituati al buio. Intrecciò le dita e respirando profondamente disse due parole veloci. Subito sentì le gambe cederle e la testa farsi pesante, ma dalle sue mani si levò un globo rosso luminoso, che riuscì, anche se con una luce debole, a illuminare, almeno in parte, lo spazio attorno alla guerriera. Malferma sulle gambe continuò a camminare dritta davanti a se, questa volta Amlach le si avvicinò, posandole un braccio attorno alla vita, per aiutarla a reggersi in piedi.
 
“Eccoli!”
I due giovani si girarono di scatto, alcuni Vacui stavano dietro di loro, le spade sguainate e gli occhi pieni di odio. Avevano il viso sporco di fuliggine e le loro vesti nere erano imprimiate dell’odore di bruciato.
“Corrì” urlò Amlach, con una nota di sconforto nella voce.
Sapeva che Aura era troppo spossata sia per correre che per combattere, ma sentì lo stesso la forza di volontà che ci metteva per non essere un peso.
“Deve esserci una scala qui” esordì lei ansimando dalla fatica.
I soldati gli erano quasi addosso.
“Abbiamo una sola alternativa, Aura”
La guardò, i suoi occhi color miele erano velati da una patina di stanchezza e affaticamento, eppure brillavano di una luce risolutiva che colpì nel profondo Amlach. Quella ragazza era una vera guerriera.
Estrassero entrambi le spade e si misero in posizione d’attacco. Si scagliarono contro i nemici con un urlo che aveva un qualcosa di disperato. Ben presto nell’ambiente angusto si diffuse l’odore metallico del sangue. In lontananza sotto di loro, lo scricchiolio del legno corroso dalle fiamme. I due combattenti furono però costretti ad indietreggiare tra le macerie. Aura aveva una lunga ferita alla gamba sinistra, mentre un lungo sfregio rosso aveva segnato il volto di Amlach.
La  guerriera roteò su se stessa, percepì lo spostamento d’aria sopra la sua testa, si abbassò velocemente e pronta piantò la lama nel ginocchio dell’aggressore, facendolo cadere a terra. Venne però accerchiata da tre Vacui. Le caricarono contro, ma riuscì a ripararsi evocando una barriera magica.
Sentì le sue poche forze scemare dal suo corpo e si ritrovò in ginocchio per terra. I colpi del nemici crepitavano sulla cupola azzurra, producendo scintille di luce. Ogni fendente era un colpo anche per lei. Era esausta, non ce l’avrebbe fatta.
Amlach urlò il nome di lei disperatamente. Si avventò contro di Vacui con una forza che nemmeno lui sapeva di possedere. Fece da scudo a Aura, riuscendo finalmente a uccidere quei nemici che le erano addosso.
“Amlach la scala” disse la ragazza indicando un punto dall’altra parte del corridoio.
Il guerriero non seppe se gioire o disperarsi. Si chinò su di lei e se la caricò in braccio. Benché fosse provato dal combattimento, Aura aveva un corpo mingherlino e non gli costò fatica portarla.
“Sono un peso, il fuoco si avvicina. Non ce la farai con me, lasciami!” urlò la guerriera con la poca voce che gli rimaneva.
“Non ti lascio” ripeté lui deciso, con il tono di chi non ammette discussioni.
“Abbiamo una missione, abbiamo giurato che saremmo riusciti a portarla a termine. Se io non ce la faccio devi continuare tu! Lasciami idiota”
“Sta’ zitta!” Sentiva le lacrime bruciargli sugli zigomi, trascinandosi con loro: sangue, cenere e la consapevolezza che quello che stava facendo andava contro ogni principio della Guardia. Ma non avrebbe mai lasciato Aura marcire in quella Sthyria maleodorante e in preda dei nemici. Non lo avrebbe mai permesso.
Fu una corsa disperata ma sapeva che alla fine di quel corridoio c’era un grande balcone. Avrebbe chiamato da li i draghi, non aveva altra scelta. Sperò soltanto che riuscissero a sentirlo.
La luce gli ferì le palpebre e per un attimo fu costretto a chiudere gli occhi. L’aria calda lo investì, scompigliandogli i capelli e lasciandolo senza fiato. Fischiò, guardando verso il cielo coperto dalla spessa cortina di fumo nero. Fece cadere lo sguardo sul viso di Aura, che intanto aveva perso i sensi. I capelli verdi erano appiccicati alla fronte e al collo. Era coperta di fuliggine e sangue. Aveva numerosi tagli e uno profondo alla gamba. Amlach distolse lo sguardo, concentrandosi sullo strato di fumo. Fu dopo pochi secondi che vide le ombre di due draghi farsi spazio tra la foschia.
Gioì dentro di se, mentre il senso di conforto lentamente superava quello di sconforto. Rune, il grosso animale di Aura si poggiò a un passo da lui. Era nero. Le pesanti zampe con lunghi artigli avevano delle sfumature verde muschio e la lunga coda di pungiglioni che stava sia sul lungo collo e sia sulla coda aveva un colore giallo slavato. Guardò con i suoi grandi occhi verde cangiante la padrona. Appena capì le sue condizioni, ruggì ferocemente contro il cielo. Una fiammata gli uscì dalla bocca, fendendo il miasma grigio e riscaldando ancor di più l’aria. Amlach montò su di lui, con Aura ancora stretta tra le braccia, mentre Angiovia, la sua dragonessa lo fissava con uno sguardo calmo, di chi comprende.
Solo quando furono abbastanza lontani da Sthyria, Amlach riuscì a tornare a respirare normalmente.
 

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Capitolo 8
*** Entrare in Accademia ***


Poeta -  Cinquantesimo giorno lunare, decimo mese
 
L’odore di sudore e di tensione galleggiavano pesanti negli spogliatoi dell’accademia. Thoaj guardava di sottecchi gli altri ragazzi, mentre si allacciava la cintura. I pantaloni di cuoio per gli iniziati, che gli aveva dato un Cavaliere del Giglio, prima di indicargli la via per lo spogliatoio, erano troppo grandi.
Sorrise. Ognuno di quei ragazzi che aveva davanti poteva essere un suo possibile avversario. Alcuni erano gracili e magri, sembravano non essere nemmeno in grado di sollevare una spada; mentre ad altri, al di sotto delle loro magliette di cuoio e il tabarro rosso, spiccavano i muscoli definiti di chi è abituato a usare le armi, o semplicemente a zappare nei campi. Gli ordini erano stati di aspettare in quegli spogliatoi angusti fino all’arrivo del Cavaliere che gli avrebbe scortati nell’arena. Tutti erano già pronti, sui loro volti, sguardi di tensione e risolutezza. Si guardavano con la coda dell’occhio, di sfuggita. Sospiravano. Si torcevano le mani. Contraevano i muscoli.
Thoaj aveva saputo da Amlach che avrebbe dovuto superare sei combattimenti. Potevano capitargli avversari maschi come femmine e in nessun caso avrebbe dovuto perdere la calma e la lucidità. Amlach aveva anche accennato qualcosa al sesto avversario, una sorpresa l’aveva chiamata lui, senza più aver anticipato niente a Thoaj.
Il giovane cavaliere che li accompagnò all’arena avanzava davanti a loro con piglio deciso, aveva il passo veloce e il portamento fiero. I corridoi dell’Accademia parvero a Thoaj tutti uguali. Le solite scale di marmo, le porte di legno tutte uguali, i ritratti incorniciati. Sarebbe stato difficile imparare ad orientarsi lì dentro.
Gli iniziati entrarono nell’arena adibita alla gara. Un enorme spiazzo ovale in terra battuta rossa. Al lato destro e sinistro c’erano delle rastrelliere su cui erano disposte le diverse armi, sugli spalti invece, ad eccezione delle prime due file, occupate da Accademici, una folla di abitanti di Poeta e dintorni che aveva avuto la fortuna di riuscire ad entrare, era ammassata sotto la penombra degli alberi.
Quando il comandante dell’ Accademia, Roth, si affacciò dal piccolo palco riservato per lui, sul fondo dell’arena, calò un pesante silenzio. La popolazione di Poeta ammirava e rispettava Roth, comandava l’Ordine delle Guardie Invisibile da più di cento anni, e le sue vittorie in guerra, non si riuscivano a contare sulle dita di una mano.
Si rivolse agli iniziati, con un sorriso accondiscende.
“Come ogni anno, l’Accademia proclama i bandi per l’arruolamento di nuovi guerrieri. Ognuno di voi ha la possibilità di dimostrare quanto vale. Saranno in tutto sei combattimenti, i nomi degli avversari verranno pescati da qui” disse accarezzando con la mano una grande ciotola d’acciaio con dentro dei cartoncini ripiegati. “Nell’ultima sfida, ognuno di voi, non importa che abbia perso o vinto durante le sfide antecedenti, misurerà la propria forza con un membro dell’ Accademia che ho scelto apposta, e che metterà a dura prova le vostre capacità”
Non fece in tempo a finire il discorso che la porta dietro i venti guerrieri si aprì lentamente, con uno scricchiolio. Noomi entrò nell’ Arena posata e tranquilla. Thoaj non l’aveva mai vista con i suoi occhi: aveva sentito parlare di lei, ma pochi avevano avuto la fortuna o sfortuna di mettersi sulla sua via. La ragazza aveva davvero l’aspetto di una galeotta. Quei calzoni blu come le tenebre, la fascia nera a cingerle il petto, rivelavano il fisico asciutto e nervoso frutto di tanto allenamento: Gli addominali scolpiti e le braccia  toniche. Era scalza e l’unica arma che aveva con se era il suo pugnale, legato al braccio da una cintola. Non degnò di uno sguardo i suoi prossimi avversari, anzi avanzò verso Roth, le braccia a penzoloni sui fianchi, un sorriso all’angolo delle labbra appena accennato. Si sedette su una panca di pegno, sotto al palco del comandante, a gambe incrociate. Lasciò scorrere lentamente lo sguardo sui cittadini ammassati sugli spalti, senza sembrare particolarmente interessata a loro.
Thoaj sentì dietro di lui, gli altri iniziati bisbigliare animatamente tra loro. Tenevano il tono della voce pacato, ma le sue orecchie sviluppate riuscirono a captare lo stesso i discorsi. Sì, anche lui sapeva chi era quel fantasma dai capelli corvini che era entrato leggero e silenzioso nell’arena. La sua storia oramai era famosa in tutta Oteph: la più spietata assassina salvata dalla regina in punto di morte e ora pilastro principale dell’Ordine delle Guardie Invisibili.
Noomi squadrò lentamente ognuno di loro, con i suoi penetranti occhi neri. Quando questi si posarono su Thoaj, lui sentì una scarica elettrica percorrergli lungo la spina dorsale. Quell’assassina aveva qualcosa che lo attirava e spaventava contemporaneamente: Incarnava alla perfezione i canoni di bellezza degli elfi boschivi: Quel viso scarso, dagli zigomi alti e le guance di un colore più abbronzato rispetto al resto della carnagione. Le mani sottili e affusolate, assassine, macchine da guerra. Non era bellissima, ma aveva un’aura  particolare che le girava attorno e che bastava ad attirare su di se tutta l’attenzione dei presenti.
Anche durante i primi combattimenti, Noomi non staccò lo sguardo dai combattenti. Le iridi nere si muovevano veloci assieme alle spade, si soffermavano sul movimento dei piedi, delle braccia, del collo. Quasi come se stesse combattendo anche lei. Teneva d’occhio le mosse più utilizzate, le catalogava in una sezione del cervello e cercava un movimento per renderle nulle.
Thoaj la vide in azione poco dopo. Attaccava all’improvviso, dava l’idea di essere in difficoltà, poi scattante e veloce impiegava poco tempo per disarmare e mettere spalle al muro l’avversario. Durante il sesto combattimento, utilizzò una tecnica di teletrasporto, mentre due duelli dopo, una di invisibilità.
Lasciò tutti a bocca aperta: non combatteva, semplicemente danzava. I suoi movimenti erano fluidi, precisi e letali. Non ci volle molto a comprendere il perché fosse stata uno dei più grandi ossi duri per i soldati di Oteph. A vederla dal fuori sembrava piccola e indifesa, una donna nel corpo di una bambina, ma poi bastava osservale lo sguardo per capire che quella ragazza, era tutto meno che fragile. Nei suoi occhi brillavano solo due cose: Forza e risoluzione.

Thoaj affrontò i primi cinque combattimenti con compostezza e risoluzione. Mentre abbassava la spada contro il nemico sentiva la voce di Amlach, rimbalzargli nel cervello, mentre gli dava i consigli su come rendere inoffensivo un avversario.
“Non devi staccare gli occhi dal nemico”
Perse il secondo duello, contro un avversario della stazza di un armadio. Ma il sapore della sconfitta non lo sopraffò, anzi, gli diede la carica per dare ancora di più il meglio.

L’ora del sesto combattimento arrivò velocemente, forze anche troppo.
Quando Roth pescò il suo nome, Thoaj sentì un tuffo al cuore. Rimase fermo dov’era, con tutti gli occhi puntati addosso, compresi quelli di Noomi. Deglutì la poca saliva che gli era rimasta in bocca, poi a passi insicuri si diresse nuovamente verso il centro dell’ arena, posizionandosi davanti a Noomi.
Roth abbassò il braccio, segno che il duello poteva avere inizio, ma Thoaj non riuscì a muovere un muscolo. Teneva le braccia penzoloni lungo i fianchi e gli occhi puntati in quelli della ragazza.

“Forse dovresti iniziare a sguainare la spada, Thoaj”
La voce cristallina di lei rimbombò nelle orecchie del ragazzo. Come faceva a conoscere il suo nome?
Il cuore iniziò a battergli all’impazzata, la testa a vorticargli.
Cercò di riordinare i pensieri.
Attorno a lui, gli altri iniziati lo guardavano come se fosse pazzo. Aveva dato il meglio fino ad allora, e proprio ora crollava. Iniziò ad alzarsi anche un borbottio tra la gente sugli spalti: Prima sommesso, poi sempre più alto. Anche Roth iniziava a perdere la pazienza.


Noomi si sedette per terra, con le gambe cinse dalle braccia. Lo guardava con la testa inclinata da un lato, era calma, per niente scossa da quell’attacco di panico del ragazzo.

“Non dare peso a tutti quegli occhi che ti guardano; fai finta che non esistano. Immaginati di essere dentro una bolla. Ci sei solo tu adesso, tu e nessun altro. Sei il protagonista, la pedina sul campo. Gli altri sono secondari, non centrano niente”
Thoaj abbassò lo sguardo su di lei. Noomi sorrideva, tranquilla e lui finalmente sguainò la spada.
Nemmeno un secondo dopo, la guerriera si smaterializzò davanti a lui, diventando invisibile.
Il ragazzo iniziò a tendere le orecchie ed aguzzare la vista, mettendosi in posizione di difesa.
“Sei in una bolla, ricordatelo”
La voce arrivò pacata alle sue spalle, soffiandogli nell’orecchio.
Thoaj si girò di scatto, la spada in pugno, ma fu colpito a sorpresa con un calcio sul fianco destro. Noomi apparve davanti a lui, gli camminava attorno, come un avvoltoio vola sopra a una preda.
Il ragazzo si stupì di quanta forza ci potesse essere in quelle gambe così gracili.
Puntò la spada contro di lei, preparando un fendente ma Noomi fu più furba, usando la tecnica di teletrasporto andò a ritrovarsi alle spalle dell’iniziato. Questa volta Thoaj non si fece prendere alla sprovvista: Sentì il cambiamento d’aria dietro di lui, si girò veloce con una giravolta e iniziò a menare fendenti. La ragazza, pronta, tirò fuori il pugnale parandogli i colpi. I due, a ogni colpo si avvicinavano sempre di più, finendo quasi in un corpo a corpo. Nessuno aveva intenzione di mollare.

Noomi alzò la gamba sinistra, colpendolo alla mascella con un calcio. Lo schianto arrivò forte sui denti. Thoaj cadde a terra, la ragazza gli fu sopra in un attimo, immobilizzandolo. Lui non si fece intimorire, la prese per i fianchi, ringraziandola mentalmente per avere una conformazione fisica così gracile e la spinse via, liberandosi dalla sua morsa.

Corsero nuovamente uno contro l’altro, i loro colpi erano precisi, sapevano dove andare a colpire. Improvvisamente Thoaj sentì una fitta al braccio. Un lungo taglio era segnato, il sangue scendeva copioso. Il dolore iniziò a torturagli le membra, facendo scemare le sue capacità di concentrazione.

“Non pensarci, il dolore non è nella bolla”
I consigli di Noomi iniziarono a dargli fastidio, sentì che presto avrebbe perso contro quella guerriera e la cosa iniziò ad irritarlo.
Una rabbia cieca gli annaspò la mente, si scagliò contro di lei con una forza inaudita, urlando tutta la furia che aveva in corpo.
Vide negli occhi di lei una nota di sorpresa e forse anche di paura.
La cinse con le braccia, stringendola a se.
Noomi iniziò a sentire le ossa del bacino protestare: Puntò le mani contro le spalle di Thoaj, fece leva con i piedi contro le sue ginocchia e riuscì a sciogliere la presa. Cadde a terra, ma mentre cercava di rialzarsi, sentì la mano del suo avversario prenderle la caviglia. Ricadde al suolo.
L’iniziato le fu sopra in un attimo: Teneva la mano premuta al centro del suo petto, come tentativo di renderla innocua, mentre la spada era puntata alla sua gola.
Thoaj sentì la gabbia toracica di Noomi alzarsi e abbassarsi velocemente per lo sforzo.  
Aveva vinto. Ma la consapevolezza arrivò dopo il boato di applausi che proruppe tra il pubblico. Gli Accademici e i paesani si alzarono addirittura in piedi, battendo le mani. Era stato il primo tra tutti gli iniziati ad aver battuto l’assassina.

“Hai vinto. Ora puoi anche alzarti e farmi andare”
Thoaj reagì come un automa. Lo scrosciare delle mani gli riempiva ancora le orecchie. Tese le mani verso la ragazza, per aiutarla ad alzarsi.
Fu pochi secondi dopo il cenno di assenso di benvenuto in Accademia da parte di Roth per Thoaj, che il ragazzo, probabilmente per il troppo sangue perso dal braccio, perse i sensi e cadde a terra.


Note: Ho finalmente finito di completare questo capitolo! E' stata veramente un'impresa. Ogni volta avevo un blocco e non riuscivo ad andare avanti! Ma mi sono messa d'impegno e alla fine ce l'ho fatta, fortunatamente :) 
Ringrazio calorosamente chi sta continuando a leggere, seguire e recensire i miei capitoli, mi date davvero la forza di continuare a scrivere! 
Oggi aggiungerò altri capitoli, che avevo già scritto, ma che non potevo pubblicare, avendo lasciando questo indietro. Finalmente le storie di tutti i personaggi si stanno intrecciando le une con le altre :) 
L'autrice, Clarice Hai.

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Capitolo 9
*** Ordini della regina ***


Accademia – settantesimo giorno, dodicesimo mese
 
Due figure stavano una davanti all’altra, nell’arena dell’Accademia. Due donne.
La prima era coperta da una armatura verde brillante e in mano reggeva uno spadone finemente lavorato dal colore nero.  I lunghi capelli verdi erano intrecciati sulla nuca e le orecchie a punta tipiche della sua razza piene di orecchini spuntavano sotto di essi.  il viso era coperto da una bandana nera, che la proteggeva dalla polvere. Si riuscivano a intravedere gli occhi miele contornati da folte ciglia inchiodare l’avversaria.
L’altra, vestita con un completo nero che le fasciava l’intero corpo come una seconda pelle e che non lasciava trapelare nemmeno un centimetro dal collo in giù, aveva la testa coperta da un cappuccio. In ogni mano reggeva due stiletti e attaccati alla cintura c’erano dei coltelli da lancio.
Tra loro due, stava un ragazzo, un garzone con in mano un bastone di legno. Un cenno di esso e le due guerriere si scagliarono l’una contro l’altra alzando una nuvola di polvere. I due corpi si mossero come spinti da una molla. La guerriera con il viso scoperto si buttò a capofitto sulla seconda che aspettò solamente l’ultimo instante per balzare agilmente all’indietro e inforcare un coltello da lancio.
Lo scagliò contro l’avversaria, ma andò solamente a graffiare l’armatura verde. Quest’ultima si guardò il piccolo segno alla altezza della spalla e rise: “Hai tanto da imparare”. La voce chiara tremava per lo sforzo. Gli occhi della donna vestita di nero che si intravedevano ogni tanto sotto il pesante cappuccio non tradivano alcuna emozione.
La spadaccina corse facendo incontrare la sua spada con il pugnale nemico.
L’aria si riempì del cozzare tra lama contro lama. Le due sfidanti, a pochi centimetri di distanza sembravano danzare mentre si scambiavano fendenti mortali.
La figura in nero venne spinta al muro, sotto la morsa avversaria. Mentre la lama si abbassava paurosamente, la giovane in trappola si tuffò a terra, sbattendo violentemente il ginocchio e scivolò tra le gambe dell’avversaria. Pronta, girò su se stessa, con la gamba destra tesa all’infuori e colpì lo stinco della guerriera dai capelli verdi facendole perdere l’equilibrio e cadere a terra in una nuvola di polvere rossa.
Riprese il pugnale e glielo puntò alla gola. Non ebbe il tempo di esultare che venne presa alla gola e colpita con un sonoro calcio qualche metro più in là.
Durante l’impatto, il cappuccio nero le scivolò via dalla testa, liberando mille treccine sottili color nero lunghe fino alle scapole e due orecchie a punta uguali a quelle della sua sfidante.
La giovane rotolò nella polvere fino a fermarsi qualche metro più in là. Rimase qualche secondo stesa a terra, massaggiandosi il collo e respirando velocemente per riprendere fiato. Quando finalmente riuscì ad alzarsi andò incontro alla spadaccina e si fermò a pochi metri da lei.
“Voglia la rivincita, Aura”
“Dai Noomi, non ti ho già umiliata abbastanza, oggi?” Non c’era sfida nella sua voce, solo un’ironia amichevole.
Entrambe risero, abbracciandosi velocemente, in segno di resa amichevole. 
Il caldo premeva al di sotto delle pesanti armature, rendendo l’aria ancora più soffocante nonostante i due soli stessero cominciando la loro discesa verso l’orizzonte dando spazio nel cielo alla prima luna che stava per sorgere . Ogni anno la stagione torrida diventava più insopportabile di quella precedente. Sebbene i possenti alberi dessero un po’ di ombra, l’afa riusciva a insidiarsi ugualmente tra le loro fronde, riscaldando l’atmosfera più del necessario.
Aura chiuse per un attimo gli occhi, ricordandosi degli anni precedenti, quando in quel periodo si allenava nella stessa arena, ma al posto del caldo soffocante, c’erano ombra e pioggia a tenerle compagnia. Era abile a combattere sotto qualsiasi fenomeno atmosferico, ma aveva imparato a trarre vantaggi dai temporali. Riusciva a sincronizzare i suoi movimenti con i lenti brontolii dei lampi e attaccava nel momento stesso in cui il fulmine cadeva, con il suo frastuono, lontano, tra le fronde della foresta.
Dal fondo della arena entrò Theram, la pantera di guerra del comandante dell’Accademia. Le pantere assistevano l’esercito di Poeta in battaglia, animali intelligentissimi, dotati di parola, dopo un antico patto con il dio Celenarius, erano leggermente più alti e muscolosi rispetto a una pantera normale; gli occhi, di un penetrante celeste, risaltavano sul manto nero. Molto spesso venivano mandate in ricognizione la notte: avevano grandi capacità di mimetizzazione e la loro velocità era superiore al normale. Sia Noomi sia Aura sapevano che quando era proprio Theram a spostarsi nell’Accademia, non portava quasi mai buoni annunci.
“Tenente, il comandante desidera vederla al più presto” La voce dell’animale, profonda e gutturale riempì le orecchie di Aura, che ebbe un tuffo al cuore. Le visite tra i due erano parecchio rare e quando c’erano era perché qualcosa di grande si stava muovendo. La guerriera assentì con un cenno del capo. Non fece in tempo a chiedere alla pantera di cosa il comandante volesse parlarle, che Theram si era già dileguato.
Si congedò da Noomi e si diresse negli spogliatoi. Finalmente si poté togliere la pesante armatura. Sentiva le goccioline di sudore rotolare verso il basso dai fianchi. L’acqua fresca nella piccola vasca da bagno in legno le sembrò per un attimo un’apparizione. Si tolse le bende in tessuto che le fasciavano l’intero torace, rivelando un enorme tatuaggio raffigurante un giglio. I petali erano disegnati sulle scapole, mentre il lungo gambo arrivava fino sotto la natica sinistra. Si immerse nell’acqua, trattenendo il respiro e strofinandosi capelli e sudore. Quando riemerse si sentì come rinata. Erano questi i momenti che preferiva in una giornata. La ricomposizione dopo il lavoro. Si asciugò e si vestì con un semplice paio di calzari color terra, una camicia bianca e degli attillati stivali color sabbia.
Prima di uscire dagli spogliatoi chiese alla serva di lucidare l’armatura e la spada e di riportarli nelle sue stanze. L’avrebbe fatto lei, se non fosse stata così in ritardo per l’appuntamento con il comandante.


Bussò all’ultima porta in fondo al corridoio nell’ala nord. Sentì un debole “avanti” provenire dall’altra parte e allora entrò.

“Comandante” disse lei con una riverenza
“Tenente” replicò lui non alzandosi dalla sedia ma accennando solo il capo. Le mostrò con un gesto della mano la sedia davanti a lui e lei si accomodò.
“Mi ha mandato a chiamare per cosa?” Aura sapeva che se non avesse cominciato lei la conversazione, il comandante non avrebbe iniziato, continuando a scartabellare tra i fogli che aveva sul tavolo.
Roth, un elfo dall’aria severa, con un accenno di barba nera e dei corti capelli a spazzola castano scuro lavorava nell’Accademia da più di cento anni, dopo una carriera di soldato tra le prime linee, infiltrato nei campi nemici e sabotatore. Tutti avevano il più che assoluto rispetto per lui e la sua figura.  Le pantere da guerra, durante i combattimenti rispondevano solo ai suoi ordini.

“Ordine della regina Kayleen. Vuole radunare un gruppo di cavalieri del Giglio per andare a soccorrere la città di Zelo e tu guiderai la spedizione”
Aura annui, sicura di se. Non era un problema, aveva già provato a guidare un plotone di guerrieri.
“Per quale motivo la regina vuole evacuare Zelo mi chiederai ora,  Aura” continuò Roth, facendo un gesto teatrale con le mani e alzando gli occhi al cielo con fare annoiato.
La guerriera scosse la testa impercettibilmente, la domanda che stava per porgli, in realtà, era un’altra.
“Te lo spiego subito il perché: La nostra amata Kayleen crede che evacuare Zelo e precedere i Vacui sia un colpo basso per loro. Non ha capito che ai nemici non interessa niente se la città cade o no. Per loro è un passatempo, un modo per spaventarci e basta”
“Ci stanno riuscendo, a quanto vedo”
Roth per un attimo rimase interdetto, chiuse la bocca e ripensò a quello che stava per dire.
“Potranno spaventare la regina, gli abitanti di Poeta, e i villaggi, ma non l’Accademia. Mi spaventa di più questo caldo improvviso che quei bastardi” Avvicinò il suo viso a quello della ragazza, per rimarcare ancora di più le sue parole. Nei suoi occhi brillava la risoluzione di chi non avrebbe mai fatto cadere le sue idee.
Aura non fu sorpresa delle parole del comandante. Era risaputo che i metodi della regina non rientravano nelle sue grazie. Diffidente con le altre razze, nonostante ci lavorasse insieme da anni, pensava prima a se stesso e ai suoi simili che agli altri.
“Perché stiamo andando a evacuare Zelo sei non sei d’accorto, Roth?”
“Non sono il regnante, e lo sai che la regina non ascolta i pareri degli altri quando si imputa su una cosa. Nonostante sappia benissimo che ho ragione e che ho più esperienza di lei in questo campo. Ci sta mandando tutti verso uno sterminio”
La guerriera si guardò la punta degli stivali. Nonostante le parole di Roth fossero parole dure, aveva ragione.
“Per che via hai pensato di far passare gli abitanti una volta evacuata la città?”
“Gli abitanti di Zelo, il generale Archenan, la sua scorta e la regina passeranno sotto il  canale di Eledhwen, voi Cavalieri al di sopra, costeggiandolo e proteggendolo”
“Ci servirà un diversivo”
“Le Guardie Invisibili pattuglieranno la zona a nord dell’ Eledhwen e partiranno molto prima rispetto a voi, mentre le pantere quella a sud, inoltre le civette della regina saranno perennemente in ricognizione.”
Aura assentì ancora una volta.
“E’ un grande rischio”
“Lo so, ma la regina ha voluto così”
“Se i nemici arrivassero prima di noi a Zelo?”
“Ne dubito, secondo Theram per ora sono fermi al fiume orientale. E non danno cenno di volersi muovere”
“Suona strano”
“Sì, ma meglio approfittarsene senza investigare troppo”
“Sul fronte est di Poeta come siamo messi?”
“Stiamo tenendo una strenua resistenza, ma i Vacui non sono ancora riusciti a varcare i cancelli esterni, e le nostre forze sono molto più determinate di quanto loro credano. Certo, se la regina ci desse altri soldati e pensasse di più alla nostra città che ad altre non sotto al suo comando, forse le cose andrebbero meglio, ma siamo fortunati, la Guardia è forte e decisa, i Vacui cadranno presto sotto la nostra morsa, e non vedo l’ora di festeggiare quel giorno”
“Radunerò quattro Cavalieri, penso che possano bastare. Aspetto ulteriori ordini”
 

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Capitolo 10
*** Evacuare Zelo ***


Eledhwen – Settantacinquesimo giorno, dodicesimo mese
 
Aura si tirò su la bandana sul naso socchiudendo gli occhi mentre cinque draghi si posavano davanti ai cancelli esterni nord.

Quella mattina il caldo aveva deciso di concedere un tregua a Poeta. Il cielo era coperto da una cappa di pesanti nuvole che minacciavano pioggia.

La ragazza si diresse verso Rune. Il drago in cenno di saluto chinò l’enorme capo, socchiudendo gli occhi e si accovacciò a terra, per facilitare la salita a Aura.
Lei gli diede una pacca affettuosa sul ventre, mentre afferrava le redini e sistemava i piedi nelle staffe.
“Coraggio Rune, ci aspetta un lungo viaggio” gli sussurrò all’orecchio. Il drago scosse la  testa spostando l’aria che alzò il pelo delle tre pantere da guerra che stavano ai suoi piedi.
Aura si guardò attorno, per focalizzare la situazione: C’erano altri quattro draghi di colori differenti, tutti montati da Cavalieri del Giglio, le tre pantere da guerra, la regina Kayleen con le sue civette e Archenan seguito da venti dei suoi uomini, alcuni a cavallo, altri a piedi con a carico grandi carriole che sarebbero servite più tardi, dopo l’ingresso a Zelo.
Le Guardie Invisibili, invece, erano già partite da quasi due ore, liberando e pattugliando la strada.
Kayleen, con i capelli legati in una morbida treccia e vestita di una veste bianca, non aveva proprio l’aspetto di una guerriera, eppure era li, statuaria e seria mentre comunicava con le sue civette.

Aura pensò alle parole di Roth di qualche giorno prima, a come l’aveva giudicata duramente. Non si poteva dire completamente in disaccordo con il comandante. Come regnante stava mandando lentamente a catafascio il proprio popolo senza rendersene conto, ma si impegnava anche a mantenere stretti i legami con le altre razze di Oteph, offrendo ausilio. 

Kayleen fece un cenno del capo e i Cavalieri del Giglio si alzarono in volo, sollevando una nuvola di polvere e facendo smuovere le foglie degli alberi. Aura stava a capo del gruppo, spartendo ordini. Gli altri Cavalieri stavano due alla sua destra e due alla sua sinistra.
Sotto di loro, Kayleen partì con il suo cavallo a un galoppo forzato, mentre apriva la fila di terra. Seguivano i cavalli, gli uomini a piedi, e per ultimo Archenan, che chiudeva il gruppo a un trotto non sostenuto. Il loro gruppo fu distaccato molto presto dalle pantere che sparirono dopo poco all’interno del verde della vegetazione.


La sensazione del vento sul viso fece come rinascere le membra stanche di Aura. Era da tanto che non provava quella sensazione. Ogni volta che montava Rune le pareva la prima. L’emozione del momento era sempre epica. Quando era piccola guardava gli stormi di uccelli che volavano sopra la finestra di camera sua e sperava di riuscire a diventare come loro, di svegliarsi una mattina e trovarsi con un paio di ali piumate al posto delle braccia. Poi, quando si era fatta più grande e aveva iniziato a vedere i draghi librarsi in volo e la consapevolezza del fatto che gli elfi non avessero le ali, aveva scelto che il suo destino sarebbe stato quello: Il Cavaliere del Giglio.
Inizialmente non fu facile rendere partecipi i propri genitori di questa decisione, in particolare il padre, ambasciatore di Poeta, scrittore, cantastorie di alto livello, musicista e abituato alla comoda vita del suo maniero poco distante dal palazzo reale. Lui avrebbe voluto vedere Aura proseguire gli studi come sacerdotessa e non certo come guerriera. Ma conosceva sua figlia, il suo carattere così testardo e impuntato, così simile al suo. Non aveva nemmeno provato a dissuaderla. Vedeva come iniziavano a brillarle gli occhi quando parlava dell’Accademia, dei Cavalieri e della Guardia. Le voleva bene e la conosceva meglio di chiunque altro. In cuor suo sapeva che ce l’avrebbe fatta, che sarebbe diventata qualcuno.
Il gruppo della regina intanto spariva nella folta vegetazione. Aura e i suoi li controllavano da sopra, tenendo sott’occhio qualsiasi movimento sospetto tra la boscaglia. Quella tregua dal caldo fu un sollievo per i Cavalieri. Ad altezza così alte quella umida foschia non era un pericolo per la loro salute. Con l’avvento di quella stagione così torrida, l’uso dei draghi era stato diminuito drasticamente, se non per casi estremi. Portare i Cavalieri ad alta quota con alte temperature gli faceva stare male. Avevano capogiri e molto spesso svenivano. Per questo i meno resistenti avevano affiancato la Guardia montando cavalli e non draghi.
Proseguirono in volo per una buona mezz’ora, fino a quando Aura non alzò il braccio destro facendo segno di planare nella vicina radura davanti a loro.
Era uno spiazzo circolare tra la fitta foresta. L’unico albero presente, una quercia imponente, sovrastava le loro teste. I Cavalieri smontarono, aspettando il gruppo della regina. Nonostante il rumore degli zoccoli e dei passi fosse attutito dal manto d’erba, le orecchie allenate dei guerrieri sentirono arrivare da lontano il plotone.

Kayleen che li aveva distaccati, smontò da cavallo e pronta, come se avesse aspettato quel momento da tanto e avesse preparato nelle sue stanze quella scena, si sedette con fare teatrale davanti alla quercia. Prostrò le mani verso il cielo e cantò a bassa voce una timida litania. Non si mosse per quella che sembrò un’eternità.

“Che cosa sta facendo?” Domandò Archenan avvicinandosi titubante a Aura.
“Aspetta e capirai” rispose la ragazza.
Il generale sbuffò. Provava ammirazione come tutti gli umani verso gli elfi, ma quel loro perenne stato di mistero e intrigo cominciava a dargli alla testa. Era abituato a risposte alle sue domande coincise e precise, non ad enigmi e frasi terminate a metà. Guardò di sottecchi Aura, valutando l’idea se insistere oppure fare come aveva  detto. Quella ragazza doveva avere minimo il triplo della sua età, nonostante avesse un viso bambinesco. Era più alta di lui, lo distaccava di quasi cinque centimetri.
Quando finalmente si decise ad aprire bocca, la terra sotto di lui si mosse, prima leggermente poi con un movimento sempre più incalzante.
Un’intera zolla di terreno cadde a pochi metri dai guerrieri e Kayleen finalmente si alzò.

“Gliel’avevo detto che gli sarebbe bastato aspettare, generale” disse Aura con una punta di sottile ironia nella voce e un sorrisetto all’angolo della bocca.
Archenan non le rispose, come tutti i suoi guerrieri, osservava stupido e boccheggiante, il lungo cunicolo che si snodava sotto la terra.

Kayleen intanto rimontò a cavallo: “Chiudete le vostre bocche stupite, tra poco vedrete con i vostri occhi ciò che i miei antenati sono riusciti a costruire” fece un cenno del capo ad Aura e si diresse all’interno del canale sotto terra.

La guerriera fece una veloce riverenza, poi ordinò a due suoi uomini di rimanere di guardia all’entrata del cunicolo.
Rimontò su Rune e ancora una volta si ritrovò a volare nel cielo ricoperto da nuvole in direzione di Zelo.


                                                                            -
 
L’improvviso odore di bruciato pizzicò le narici di Noomi. Lei e altri guerrieri dell’ombra stavano pattugliando la zona a nord est di Eledhwen, avvicinandosi al fiume. Non avevano incrociato nessuno lungo i sentieri sotto i possenti alberi, eppure avevano tutti le orecchie tese, pronti a scattare a ogni movimento sospetto.
“Non sentite questo fetore?” disse uno dei dieci Guerrieri Invisibili. Sembrava quasi impossibile riconoscerli gli uni dagli altri. I loro capi neri erano uguali, sui loro volti era calato un pesante cappuccio e tenevano una bandana che lasciava liberi solo gli occhi.
Avevano un pugnale legato alla cintura, uno nello stivale e un ultimo all’interno di un fodero nel braccio. Inoltre erano armati anche con una lunga fila di coltelli da lancio che tenevano legati alla cintura o alla coscia.
“Sono vicini”
“Silenzio” mormorò Noomi e fece cenno agli altri di abbassarsi.
Si accucciarono a terra, fiorando il mantello di muschio della foresta. Si resero invisibili e nessuno di loro fiato per qualche minuto.
L’odore di bruciato e il puzzo di marcio si fece mano a mano sempre più penetrante e fu difficile per un attimo anche respirare. Noomi poggiò ancor di più la bandana sul suo volto cercando di non tossire. Le lacrimavano gli occhi.
Una frotta di Vacui in avvicinamento. Noomi fece un cenno a un guerriero dietro di lei che a comando inforcò una freccia nel suo arco e mirò al centro del sentiero. Si mosse con un sibilo nell’aria e il lembo di terra in cui andò a conficcarsi sfrigolò a contatto con la punta della freccia.
Il plotone dei nemici arrivò da lontano, preceduto dal loro odore sgradevole. Marciavano senza seguire un particolare ordine, bestemmiando e producendo ululati talmente acuti da far scappare gli uccelli che riposavano sugli alberi.
I loro passi erano pesanti e i Guerrieri Invisibili, accovacciati a terra riuscivano a sentire la terra tremare sotto il loro peso.
Quando furono vicini alla freccia conficcata nel terreno le orecchie di Noomi si tesero e sia lei che i guerrieri cominciarono a sguainare coltelli e pugnali pronti all’attacco.
Il Vacuo in capo alla fila si avvicinò alla freccia con aria non particolarmente disturbata, ma ci volle solo il fulmineo contatto con lo stivale per farla esplodere in una polvere di fumo e fiamme con un grande boato. Molti Vacui vennero sbattuti tra le fiamme molti metri più in la, mentre gli altri urlavano e sbraitavano comandi di guerra. Noomi e i suoi uomini uscirono allo scoperto assalendoli da dietro.
Noomi si infilò invisibile tra di loro e con l’ausilio dei suoi pugnali riuscì a ucciderne un paio prima di essere colpita alla schiena da un sonoro calcio che la fece crollare a terra. I pugnali le sfuggirono di mano e mentre la spada nemica si abbassava sopra di lei girò di lato e con un colpo di reni si tirò in piedi. Afferrò sue coltelli e li conficcò tra le fessure dell’elmo. Il Vacuo cadde a terra in una pozza di sangue.
I suoi guerrieri se la stavano cavando bene,  i nemici erano in difficoltà.
 
                                                                       -
L’aria colpiva il viso di Aura come una frusta mentre scendeva in picchiata verso la pianura che dava sui cancelli di Zelo. Il viaggio era stato tranquillo, nessun nemico si aggirava nei pressi di Eledhwen, o per lo meno,  non ancora. Kayleen e la sua scorta non erano ancora arrivati, quindi Aura ne approfittò per andare a vedere come fosse la situazione prima dei cancelli esterni. Smontò da Rune e ordinò agli altri di fare lo stesso e di seguirla all’interno, mentre i draghi sarebbero stati fuori di guardia.


Zelo dava l’idea di una città abbandonata. Il vento strisciava caldo tra la polvere delle strade e delle case. Tutte le case erano barricate e gli unici rumori che si sentivano erano il vento che sibilava tra le foglie degli alberi e lo scricchiolio degli stivali dei cavalieri sui sassolini della strada principale.
C’erano alcuni cani spelacchiati abbandonati a loro stessi, scavare agli angoli delle case alla ricerca di cibo, ma non una traccia di umani.
“Ci stanno osservando, ma sono talmente spaventati che non vogliono uscire” osservò Aura avvicinandosi alla porta della prima casa sulla destra. Bussò dolcemente cercando di guardare nella serratura. Dall’altra parte non rispose nessuno, il buio totale.
Sospirò ma non volle darsi per vinta: Con un potente calcio fece crollare la fragile porta. Sguainò la spada per precauzione e venne inghiottita dal buio della casa. L’unico spiraglio di luce filtrava dalla finestra in cucina, per il resto l’abitazione era immersa nell’oscurità più totale.
“C’è nessuno?”
Silenzio.
Aura si fermò un attimo e lasciò che i suoi occhi si abituassero all’ombra. Notò che tutti i mobili erano al proprio posto, nulla lasciava pensare a un attacco. Eppure la credenza, gli armadi e le cassapanche erano vuote. Tutto le faceva credere a una fuga degli abitanti. I letti erano sfatti, il camino sporco e la polvere dominava i mobili. Se erano partirti, la cosa non era recente.
La stessa situazione si ripresentò in altre tre case e nella locanda. L’unico segno di vita che trovarono fu un barbone disperato che rovistava tra il vuoto della credenza in una casa nella piazza principale, che non appena li vide se la diete a gambe levate.
“Tutto questo non ha senso. Aspettiamo Archenan, forse lui potrà darci delle risposte”
Si diressero nuovamente verso i draghi, con l’amaro in bocca. Kayleen e gli altri arrivarono dopo poco, dal folto della foresta.
“Generale, l’intera città sembra abbandonata”
“Impossibile” la voce piena di convinzione di Archenan fece rizzare i capelli a Aura, che cercò di mantenere ugualmente un temperamento calmo.
“Abbiamo controllato quattro o cinque case, e tutte presentano sempre la stessa situazione: Polvere, nessun coinquilino, letti sfatti, dispense vuote”
“Che i barbari abbiamo saccheggiato la città?” domandò la regina con una nota di apprensione
“No, avete controllato nella chiesa?”
Aura scosse la testa, confusa.
“Seguitemi” Il generale smontò da cavallo, dirigendosi con passo sicuro verso il centro città.
Ci vollero una decina di minuti prima che le vecchie catapecchie e locande della periferia lasciarono spazio a delle costruzioni più eleganti e meno decadenti. Nonostante la maggior parte dei fiori che popolava le aiuole fossero appassiti, si vedeva che erano entrati nella zona ricca di Zelo, nel centro città. Lì non si respirava l’odore di decadenza.

La chiesa svettava sopra di loro, costruita interamente di mattoncini rossi. L’ingresso stava in cima a una lunga fila di scalini. Li salirono lentamente, guardandosi attorno alla ricerca di qualche abitante, senza però risultati. Le porte, alte una decina di metri erano chiuse a chiave. Archenan si appoggiò con tutta la sua forza ad esse, senza riuscire a smuoverle di un centimetro.
“Propongo una via più semplice” disse Aura guardando il cielo e fischiando leggermente.
Il sole venne quasi subito oscurato dalla figura possente di Rune, che andò a posarsi dolcemente sul piazzale davanti alle porte, affianco al suo cavaliere. Un solo cenno del capo di Aura e con un colpo di artigli della zampa anteriore, il portone cadde in mille pezzi.
La chiesa era immersa nel silenzio assoluto. Il marmo bianco con cui era stata costruita all’interno era colorato con le sfumature dell’arcobaleno riflesse dal rosone sopra l’altare in pietra.  Archenan si diresse con cipiglio convinto, come se già sapesse dove andare, a destra della navata, in una zona in ombra sovrastata da alte librerie.
Il gruppo lo seguì titubante e notò  solamente quando Archenan l’aprì, una botola che conduceva alle cripte. Il generale non si fece aspettare, prese una fiaccola e dopo aver fatto cenno agli altri di rimanere li ad aspettarli si inoltrò nelle tenebre sotto le fondamenta.
Uscì dopo una decina di minuti, seguito da una moltitudine di persone di tutte le età.
Un chiacchiericcio confuso e stupito presto animò l’intera sala.
Kayleen e i suoi guerrieri osservavano la scena con gli occhi sgranati dall’ incredulità.
“Si sono riparati nelle cripte per sfuggire ai Vacui..” mormorò la regina portandosi la mano davanti alla bocca aperta dallo stupore.
Molti bambini osservavano gli elfi dimostrando molto più interesse del necessario, avvicinandosi ai guerrieri e toccandogli le armature e le armi. I più adulti cercavano di tenere a bada la curiosità, riservando solo lunghe occhiate piene di sorpresa. Solo pochi anziani avevano avuto la possibilità di vedere elfi prima di allora ma ciò nonostante la bellezza di questi li lasciava spiazzati come la prima. Statuari nel loro metro e ottantacinque, con i corpi asciutti e nervosi coperti dalle armature scintillanti con il simbolo del giglio, incarnavano la forza e la potenza, mantenendo ugualmente una figura elegante e delicata.


“I Cavalieri del Giglio sono venuti per aiutarvi. Per la vostra sicurezza è meglio che vi trasferiate a Poeta e abbandoniate Zelo, che molto presto sarà presa di mira dai nemici. Portate solo il necessario per il viaggio, dobbiamo muoverci leggeri. Passeremo per una strada sicura, vi prego di fidarvi di loro, sono brava gente” spiegò Archenan al gruppo di compaesani che usciti dalle cripte avevano riempito l’intera chiesa.


Un cenno della regina e tutti i Cavalieri uscirono, richiamando i loro draghi che planarono in una nuvola di foglie e aria gelida. Il gruppo di Archenan, con le grandi carriole si posizionò vicino a loro, aspettando che la gente uscisse dal nascondiglio. Le persone fluirono lentamente, fermandosi spaventate alla vista dei possenti draghi. Molti bambini si misero a piangere e la maggior parte degli anziani fece dietro front verso la scalinata per tornare nella chiesa.
Aura fischiò e assieme al suo gruppo di guerrieri si alzò in volo, oscurando il cielo e concedendo una fresca ombra alle persone al di sotto.
Gli attendenti di Archenan fecero issare vecchi, donne e bambini sui carri, assieme alle coperte e provviste che si erano portati dietro.
Il gruppo si era decisamente ampliato e quando finalmente tutti furono pronti, con Kayleen e Archenan a capo della spedizione cominciò ad avviarsi verso Eledhwen.
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“Raduna le reclute rimaste e continuiamo verso nord, dobbiamo ancora finire di pattugliare la zona, non voglio che la regina sia attaccata da dietro” disse Noomi a uno dei suoi uomini, mentre puliva il suo pugnale sporco di sangue sul gambale.
Due combattenti erano rimasti feriti e uno era morto. Noomi imprecò sotto voce, non ci sarebbero dovute essere vittime.
“Tenete gli occhi aperti, non voglio altre perdite” ordinò con voce risoluta prima di calarsi il cappuccio sul volto e incamminarsi.
Davanti a lei, un sole arancione bruciava mentre iniziava a nascondersi dietro la linea dell’orizzonte coperta di piccole nuvole grigie. 
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I Cavalieri del Giglio poggiarono piede a terra alle prime luci delle stelle. Aura era affaticata, le gambe le dolevano da impazzire e le bruciava l’inguine, lì dove l’armatura era più sottile per facilitare i movimenti.
Rune abbassò il muso per farsi togliere le redini dalla padrona, poi obbediente, la seguì verso le stalle.
Aura adorava le stalle: Erano tre edifici alti tre piani, costruiti in pietra nera all’interno della montagna dietro l’Accademia e ospitavano una quindicina di draghi.
Diventare Cavaliere del Giglio era una percorso lungo e complicato, per quello erano così pochi. A Aura era capitato di vedere reclute fermarsi sfinite a metà addestramento e finire poi tra le linee della Guardia.
 Due soldati custodivano il portone di ingresso, Rune ripiegò le ali sul suo dorso e, superata la padrona, cominciò ad andare verso il suo box a metà della scuderia.
I piedi di Aura sprofondavano nel soffice strato di paglia che ricopriva il pavimento roccioso. Dal soffitto scendevano gocce di acqua fresca e nell’aria alleggiava un pesante odore di zolfo e carne fresca. La ragazza si coprì il naso con la bandana. L’odore del fumo le faceva bruciare le narici. Prima di fermarsi nel box di Rune si fermò a sollevare una grande carriola piena di pezzi di carne che poi rovesciò sulla paglia nella stalla del suo drago.
Si sedette a terra con la schiena appoggiata alla roccia, mentre guardava il suo fiero animale che si avventava sul cibo con ferocia, lanciando la carne in aria per poi afferrarla tra le fauci all’improvviso.
Aura chiuse un attimo gli occhi, le bruciano le palpebre. Un senso opprimente di stanchezza, le pesava sulle spalle come un macigno. Raccolse le ginocchia al petto e quando riaprì gli occhi si ritrovò il muso di Rune a due centimetri dal viso. La osservò con quei due smeraldi prima di darle un buffetto con il suo grosso muso sulla sua guancia destra. Emise un ringhio sordo e raccolse un pezzo di carne che porse alla padrona.
Aura rise, alzandosi da terra e pulendosi dalla paglia. Diede un bacio sul capo del suo drago e uscì dalla stalla.
Si diresse direttamente nella sua stanza: Ciò di cui aveva bisogno erano un bagno caldo e una bella dormita. L’acqua bollente della sua vasca sembrò chiamarla quasi ipnoticamente. Quasi rinata dopo il quel bagno, indossò un paio di calzari color muschio e una morbida maglietta nera con scollo a V. I capelli verdi, ancora gocciolanti, lunghi fino a metà schiena e si appiccicarono sulla maglietta. Prima di tirarsi le lenzuola profumate di lavanda fino al naso, diede uno sguardo fuori dalla sua finestra. Il cielo, nero, era illuminato da una miriade di puntini luminescenti. Tirava un venticello da ovest, con l’odore del mare.
 

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Capitolo 11
*** Sotto assedio. ***


Accademia - Settantaseiesimo giorno, dodicesimo mese
 
Aura sognava, una delle prime volte dopo tanti anni. Gli ultimi incubi li aveva avuti poco dopo il suo ingresso in Accademia. Non l’avevano fatta dormire per mesi. Le persone che erano cadute sotto la sua lama venivano a farle visita la notte.
Aveva iniziato a non dormire, alternando stati di leggero dormiveglia a altri di veglia totale.
Poi ci aveva fatto l’abitudine: I sensi di colpa erano scoparsi, dando luogo invece a una freddezza calcolatrice, degna di un guerriero.
Aveva dovuto allenarsi anche a non guardare un nemico morto con gli occhi della pietà, bensì del menefreghismo. Era stato difficile, così come lo è sempre stato un po’ per tutti gli accademici. C’è differenza tra un duello in cui si combatte per farsi male e uno dove invece ci si sfida per rimanere in vita.
Ogni guerriero impara a reagire a modo suo: C’è chi la rabbia cieca la tira fuori per istinto di sopravvivenza, chi per vendetta, per difesa, per orgoglio, per protezione. Ognuno è guidato da qualcosa, una bussola morale.
Aura era guidata dall’ambizione, dalla voglia di mettersi in gioco e di aiutare il suo popolo. Una personalità forte, audace e coraggiosa. Leale. Per questo era tra i migliori Cavalieri del Giglio.

Sì rigirò nel letto, scalciando via le coperte: Aveva caldo. Gli incubi che le popolavano la mente non avevano forma, emettevano urla e boati lontani. Il confine sottile tra sogno e realtà le parve un muro invalicabile. In quel carosello fantomatico di visioni inquietanti la sua mente venne incendiata: Il fuoco appariva più rosso del sangue e le circondava la mente, stringendola tra le sue lingue infuocate.
Aura stropicciò gli occhi, sentiva il calore perfino sulle braccia, appiccicaticcio e fastidioso. Si tirò su di scatto, spalancando gli occhi.
Sveglia, finalmente.

Si accorse subito che qualcosa non andava: La sua stanza era completamente in fiamme. Chiuse gli occhi, pensando di star ancora sognando, ma quando gli riaprì la visione non cambiò. Il cervello ancora intorpidito dal sonno reagì poco a poco. Non aveva lasciato candele accese, il piccolo camino della sua stanza era spento. Un terribile sospetto la prese all’altezza dello stomaco: Si diresse verso la finestra.
Sotto di lei gli accademici, spaesati e intorpiditi dal sonno, guardavano verso il cielo scuro.  Aura si sporse un po’ di più, cercando di ottenere così una visuale migliore ma la pesante cortina di fumo sopra di lei non glielo permetteva.
Il suo istinto reagì prima degli impulsi nervosi: Prese la spada vicino al letto e aprì la porta della sua stanza.

Muri di fuoco si alzavano nei corridoi. Ogni tanto si sentiva qualche boato di lontananza. Trovò il primo ingresso sulla sua sinistra, ringraziando mentalmente la collocazione delle stanze dei Cavalieri del Giglio così vicine alle uscite principali. Scese le scale tre gradini alla volta e raggiunse gli altri guerrieri nello spiazzo davanti all’Accademia.
Sopra l’edificio volavano una decina di draghi neri.
“Bastardi”
Si guardò attorno, focalizzando la scena: I Cavalieri, gli Invisibili e le Guardie erano completamente spaesati.
Aura scosse la testa, così non avrebbero risolto niente: Risalì in cima alle scale, facendosi vedere da tutti e iniziò a spartire i primi ordini.
- Voglio che tutti i Cavalieri del Giglio vadano a recuperarli e si lancino alla presa di quei bastardi lassù! Voglio che facciate montare una Guardia Invisibile a testa, i rimanenti tutti dentro l’Accademia, scendete nei magazzini delle falde e recuperate più acqua possibile! Spegnete i fuochi all’interno e aiutate a far uscire chi è rimasto intrappolato. Coraggio, muovetevi!
Notò che tutti l’avevano presa seriamente e cominciavano a dividersi, chi verso le stalle chi nuovamente dentro l’edificio infuocato.
Aura cercò di guardarsi attorno, ma non trovò nessuna traccia di Roth in quella confusione.
Corse anche lei verso le stalle, con gli occhi inchiodati al cielo nero. Recupererò Rune e balzò agilmente sul suo dorso. Si rese conto in quel momento che aveva ancora su gli indumenti da notte e nessuno aveva tempo di sellare i propri draghi. Nemmeno uno dei suoi guerrieri sembrava preoccupato, erano pronti a tutto pur di difendere ciò che era loro.
- Aura.
La giovane guardò a terra: Sotto di lei stava Noomi. Anche lei non si era vestita con la solita armatura. Indossava una fascia di garza bianca che le copriva il busto minuto e dei calzari a mezza gamba neri. Aura riuscì finalmente a vedere i suoi numerosi tatuaggi che le coprivano le braccia, lato sinistro del collo e sopra il cuore. Aveva il viso sporco di fuliggine e le treccine ingrigite dalla polvere.
Noomi le porse la mano e Aura la issò dietro di lei. Appena uscite dalla stalla, Rune si alzò in cielo, fendendo l’aria a metà.
- Coraggio Rune, facciamo vedere a tutti cosa sai fare
mormorò la cavaliera afferrando saldamente la spada con la mano destra, mentre con la sinistra si aggrappava a uno dei corni sul collo del drago.
Rune volò in planata sopra un Drago Nero e si attaccò con le fauci alla sua coda. L’altro si dimenò, emettendo un forte grido pieno di dolore.  Il Vacuo che lo montava per poco non perse l’equilibrio.
Noomi chiese a Aura di avvicinarsi di più e non appena i due draghi furono uno parallelo all’altro, la giovane invisibile si lanciò su quello nemico, atterrando in piedi alle spalle del nemico. Con un movimento fulmineo gli rubò la spada dal cinturone e mentre quello si girava, stupito, lei lo colpì in faccia con un sonoro calcio prima di mozzargli la testa con la sua stessa spada. Rune intanto non mollava la presa dalla coda dell’altro drago, che, sotto la morsa del dolore aveva cominciato nuovamente a sputare fuoco, incendiando anche gli alberi della foresta.
Noomi si accucciò su di esso, scivolò leggermente sulla sua pancia e sganciò la sella oramai inutile. Quella cadde nel vuoto dopo pochi secondi. Dopo di che impugnò la spada e la infilzò nell’alto ventre, mentre Aura lo sfregiava da destra. Il drago, cadde oramai morto dopo una decina di minuti. Noomi perse l’equilibrio mentre il bestione si agitava tra lingue di fuoco e urli spacca timpani. Mentre l’animale cominciava la sua discesa verso il manto erboso, Aura allungò la mano raggiungendo quella di Noomi che l’afferrò fortemente prima di essere nuovamente issata su Rune.
 
“Lasciami a terra, puoi cavartela anche da sola qui” disse Noomi mentre la cavaliera planava dolcemente.
A pochi metri dal suolo la giovane invisibile si lanciò da Rune, mentre l’altra guerriera tornava in cielo contro gli altri draghi.
 
 
                                                                     -
 
“Regina, hanno colpito l’Accademia”
Kayleen alzò gli occhi dal libro che stava leggendo. Quella notte non era andata a letto, sentiva che c’era qualcosa nell’aria che le era diffidente.
Davanti a lei, Taira era in piedi dietro la porta aperta. Le tremavano le gambe e i suoi occhi azzurri erano due pozze lucide piene di lacrime.
La regina si alzò dalla scrivania e corse seguita dalla sua attendente nella voliera reale. Il palazzo era immerso in una penombra spezzata solamente dalla fievole luce di qualche candela. L’eco dei passi sul pavimento rimbombava pesante nei corridoi di marmo, svegliando le sentinelle del turno di notte che si erano addormentate durante il loro turno di guardia.


Maat era stato reclutato da poco nella schiera dei  guardiani del palazzo reale. Per lui era stata una grandissima soddisfazione. Aveva studiato in Accademia tra le file della Guardia e quando aveva fatto domanda per entrare tra i guardiani reali, la sua richiesta era stata accettata. Abituarsi ai ritmi del palazzo non era stato facile inizialmente. Gli avevano dato subito il turno di notte: più complicato sia dal punto fisico che mentale. Dover stare svegli tutta notte, nonostante in Accademia fosse  stato allenato anche a questo, per lui era un grande sacrificio. Per non parlare di tutti i carichi morali che il suo superiore gli faceva gravare addosso: Il continuo continuare a ripetergli che se i Vacui avessero voluto attaccarli, l’avrebbero fatto con l’ausilio della notte, che il guardiano della voliera reale era un compito di grandissimo onore e responsabilità, non si sarebbe potuto concedere sbagli, erano diventati per lui quasi come una ninnananna prima di appoggiarsi alla sua alabarda davanti all’enorme porta di legno.
Ma fino a quella sera non era successo ancora nulla di interessante. Maat sapeva che la regina si chiudeva nelle sue stanze al tramontare della quarta luna e che spegneva la luce all’alba della sesta. Dopodiché non usciva più da camera sua fino alla mattina seguente.
I servi, le ancelle, le attendenti e le guardie del turno di giorno si ritiravano al tramonto della sesta, lasciando il palazzo sotto gli occhi vigili del guardiani notturni.
La voliera si trovava nella zona sud ovest. Dalle grandi vetrate, Maat, prima di cadere in quel leggero stato di dormiveglia osservava la grande luna piena riflettersi nel lago del giardino. Ogni tanto veniva distratto dai lampi di luce e dai pinnacoli di fumo che si alzavano in lontananza, lì dove i Vacui stavano tenendo oramai da mesi uno strenuo attacco ai cancelli esterni di Poeta.

Quella sera, le figure in abito bianco che si dirigevano verso di lui non erano due guardiani, ma Kayleen in persona e la sua attendente personale. Maat si protrasse in una profonda riverenza, che la regina non degnò di uno sguardo, ordinandogli di aprire le porte della voliera.
Il guardiano da dentro non l’aveva mai vista, non gli era permesso. Ora però, ne poté osservare tutta la sua magnificenza: Alti alberi si innalzavano dal suolo erboso, intrecciandosi tra di essi quando le chiome raggiungevano la cupola bianca di vetro. Nonostante la stanza fosse immersa nell’ombra totale, le miriadi di stelle nel cielo e la luna piena riuscivano ad illuminare un poco, rendendo quell’oscurità meno pesante.
Erano una trentina i gufi e le civette che Maat riuscì a contare. Alcuni, si erano svegliati nel sentire la porta cigolare per poi aprirsi. Li osservavano con i loro occhi neri e gialli, inclinando la testa di lato.
Kayleen fece due fischi, uno lento e uno più lungo. Subito una civetta le si appoggiò dolcemente sul suo braccio. Maat la riconobbe all’istante: Era la preferita della regina. Aveva due enormi occhi neri, il manto bianco e arancione con qualche striatura grigia sulla testolina a forma di batuffolo.
La regina le sussurrò all’orecchio, mentre si avvicinava alla grande finestra davanti a loro, qualcosa in una lingue che né Taira né Maat capirono e l’animale volò fuori, nel cielo nero. Fatto questo la regnante si voltò verso la sua attendente ordinandole di radunare cinque sacerdotesse, di prendere i  cavalli più veloci e di dirigersi verso l’Accademia.
Taira assentì con un cenno del capo e corse fuori, sollevando la lunga gonna blu.
Erano rimasti solo Maat e Kayleen nella stanza. Il guardiano fu preso da un enorme senso di disagio. Tenne gli occhi puntati verso la punta dei suoi stivali.
Sentiva la regina camminare avanti e indietro, i passi pesanti attutiti dal manto d’erba. Si teneva il mento con la mano sinistra e aveva la fronte corrucciata: Non avrebbe permesso ai Vacui di portare ancora più scompiglio nella sua città, non ora che avevano messo al sicuro la gente di Zelo. Sarebbero dovuti passare sopra il suo cadavere.

Prima di ordinare a Maat di richiudere la voliera, fece un altro fischio, e questa volta, un gufo grigio andrò a posarsi sulla sua spalla, socchiudendo di poco gli occhi gialli.
Kayleen si ritirò velocemente nelle sue stanze. Quando la fiamma che bruciava la candela posata sulla scrivania, la regina stava ancora scrivendo.
Terminò la sua lettera con il buio pesto nella stanza. L’arrotolò e ci mise sopra due stampi in cera, con il simbolo di Poeta e l’altro con quello della casta reale.
“Tutto questo non ha senso” pensò. Ma era la regina, ed era disposta a tutto pur di difendere la propria gente.
Svegliò dolcemente il gufo che si era appisolato, mentre lei finiva di scrivere e gli infilò la lettera tra le zampe facendola volare oltre i cancelli esterni, nel campo nemico.
 
                                                                                 -
 
Noomi corse cercando di evitare gli alberi che cadevano sotto la morsa del fuoco assieme ai draghi. Erano riusciti ad abbatterne quattro, ma gli altri erano ancora in volo, provocando danni.
Saltò il tronco di un albero e scivolò dentro l’apertura di una botola posizionata davanti a lei, alla base dell’edificio.
Atterrò due metri sotto il primo piano dell’ Accademia, nelle fognature precedenti alle falde, dove i guerrieri stavano raccogliendo l’acqua. Camminò lentamente con l’acqua fetida che le arrivava alle gambe. L’odore di marcio alleggiava pesante nell’aria, assieme a quello della roccia umida.
Quando finalmente riuscì a trovare il corridoio delle falde illuminato da dei minerali che crescevano su quelle pareti così umide, vi si inoltrò dentro. I suoi piedi iniziarono a toccare un soffice manto di muschio e l’aria maleodorante si lasciò dietro di lei.
Trovò una ventina di accademici alle prese con i pozzi e secchielli straboccanti fino all’orlo di acqua. Cominciò a mettersi all’opera anche lei, ne riempì due e si diresse ai piani superiori. Gettò l’acqua sul fuoco che bloccava la porta della mensa e aiutò i guerrieri intrappolati dentro a uscire. Si caricò una ragazza svenuta per il fumo sulle spalle e uscì sulla prima balconata sulla sua destra.
Mentre correva per tornare alle falde sentì il tetto tremare sopra di lei. Qualcosa si stava muovendo sopra di loro. Alcune travi crollarono nelle fiamme, alimentando il fuoco. 
Noomi guardò verso l’alto, riusciva a intravedere alcuni sprazzi di cielo azzurro, stava nascendo l’alba. Un drago nero stava distruggendo l’Accademia dall’alto. La ragazza si lanciò verso la ricerca delle scale per raggiungere il tetto, con tutto quel muro di fuoco, l’edificio le sembrava completamente estraneo. Andò più a istinto che grazie alla vista. Riuscì a dirigersi verso la zona est, dove le fondamenta oltre che essere di legno, erano anche di marmo. Ringraziò mentalmente i costruttori dell’Accademia. In quella porzione di scuola, il fuoco era più debole e poco alimentato.
Raggiunse la cima dopo una decina di minuti. Si rese invisibile per precauzione, ma si rese conto troppo tardi di non aver con se un’arma. Poco male, le sue mani erano anche capaci di uccidere senza pugnale.
Si avvicinò lentamente al drago e si aggrappò al collo, agilmente scivolò verso la sella montata dal Vacuo e si piazzò ancora invisibile di fronte a lui, con il suo viso a pochi centimetri. Lentamente sciolse l’invisibilità e riuscì a godersi tutta la frustrazione negli occhi del nemico. Sorrise felina e gli graffiò il viso scoperto. Quello si protrasse all’indietro con le mani sull’occhio, tirando con se le redini. Il drago si alzò sulle zampe posteriori ruggendo. Noomi perse l’equilibrio e scivolò sotto quelle anteriori.
Si spostò fulminea di lato, sparì in una nuvola di fumo viola, si ritrovò alle spalle del Vacuo e in un secondo gli ruppe l’osso del collo.
Rise a gran voce: quel veloce teletrasporto di pochi metri, gliel’aveva insegnato un vecchio assassino molti anni prima: Aveva dovuto imparare alcune basi di magia, lavorare molto sulla sua resistenza fisica e fare ore e ore di meditazione, per imparare quel trucchetto. Ma ogni volta ne valeva la pena.
Il drago ricominciò a dimenarsi quando Noomi buttò giù dalla sella il corpo morto del  cavaliere. Si allungò per prendere le redini e constatò giusto una frazione di secondo dopo che non aveva idea di come si tenesse a bada un drago.
L’improvvisazione era sempre stata la sua migliore amica. Cercò di ricordarsi come faceva Aura, ma la bestia nera, non approvando questo cambiamento inatteso di cavaliere si alzò in volo con uno scatto improvviso, sputando fuoco dalla bocca e sbuffando fumo.
Noomi si accucciò sulla sella tirando le redini. Le bruciavano le mani, aveva lunghi tagli rossi sui palmi. L’animale non aveva intenzione di collaborare. Riuscì a scendere di quota cercando di raggiungere Rune che era alle prese con l’ultimo drago con sopra ancora il suo padrone. Aura girò per un attimo la testa, focalizzò la scena e si rese conto che il drago dietro di lei era montato da Noomi.
“Tira le redini verso le di te!” urlò con quanta voce aveva in corpo per sovrastare i rumori della battaglia.
Noomi obbedì, cercando di fare del suo meglio, ma l’animale puntò verso l’alto, sbattendo con forza le possenti ali nervose.
“Riprovaci!” ripeté
La giovane invisibile tirò ancora verso di se, cercando di ignorare il dolore ai palmi che si faceva mano a mano sempre più insopportabile.
Aura puntò la sua spada alla gola del drago nemico appena questo tirò indietro la testa, a comando di ciò che le redini gli dicevano di fare.
Il miro fu perfetto e l’animale cadde dal cielo.
Noomi scivolò dalla sella e precipitò anche lei nel vuoto. L’aria le schiaffeggiava il volto con una violenza inaudita.
Vento.
Ferocia.
Dolore.
Muoio.

Fu a pochi metri dal suolo che la sua corsa venne fermata di brusco da qualcosa che le attutì la caduta. L’erba bagnata della rugiada del mattino le baciò delicatamente la pelle e Noomi trasse un sospiro di sollievo. Le vennero le lacrime agli occhi, era ancora viva. Pensò a un dono degli dei. Un sole caldo fece capolino dalle fronde degli alberi, come a darle in buongiorno. Nell’aria, l’odore di bruciato e fumo pizzicava le narici.

Due guerrieri aiutarono la ragazza ad alzarsi, che ancora malferma sulle gambe tremanti notò di come tutti fossero a guardare qualcosa, o meglio qualcuno davanti a loro. Perfino i cavalieri del Giglio, ancora in volo sui loro draghi erano tutti girati verso la stessa direzione. Noomi tirò su il capo asciugandosi il sudore dagli occhi e notò cinque figure coperte da mantelli bianchi. Una di loro in particolare, una giovane elfa dai lunghi capelli blu e dai penetranti occhi azzurro ghiaccio aveva ancora la mano prostrata verso di lei. Sacerdotesse del tempio.
Sacerdotesse del tempio reale.
Sacerdotesse del tempio reale che le avevano salvato la vita.
Chiuse gli occhi e chinò la testa, in segno di ringraziamento, prima di crollare sulla spalla del guerriero alla sua destra, priva di sensi. 

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