Non andare dove ti porta il cuore

di Amens Ophelia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Diluvi universali ***
Capitolo 2: *** L'anima non è carta ***
Capitolo 3: *** Tutto, fuorché amore ***
Capitolo 4: *** Disprezzo ***
Capitolo 5: *** In cauda venenum ***
Capitolo 6: *** Un motivo per lottare ***
Capitolo 7: *** Tachicardia ***
Capitolo 8: *** Spirito di sacrificio ***
Capitolo 9: *** Essenze inconciliabili ***
Capitolo 10: *** Nessuna solitudine è mai davvero tale ***
Capitolo 11: *** Dritto al punto ***
Capitolo 12: *** Contatto ***
Capitolo 13: *** Ombre in cerca di luce ***
Capitolo 14: *** Un cadavere che respira ***
Capitolo 15: *** La consapevolezza di saper amare ***
Capitolo 16: *** Tessere di un mosaico ***
Capitolo 17: *** Vivere non è sopravvivere ***
Capitolo 18: *** Con il capo cinto d'alloro ***
Capitolo 19: *** Omnia vincit Amor... ***
Capitolo 20: *** ... et nos cedamus Amori ***
Capitolo 21: *** Un lieto fine è un inizio ancor più ameno ***



Capitolo 1
*** Diluvi universali ***




1. Diluvi universali

 


Si era rimesso a piovere a dirotto e lei non aveva con sé l’ombrello. Sospirò sommessamente, capendo che avrebbe dovuto prestare ascolto alle previsioni meteo delle sette, invece che affidarsi alla cieca convinzione che il sereno avrebbe dominato, quel mercoledì. D’altronde doveva saperlo: era ottobre, perché sperare in un clima migliore? A dir la verità, poi, quella stagione le piaceva, ma immaginare la doccia d’acqua fredda che avrebbe dovuto sopportare tra mezz’ora, se il cielo non avesse smesso di fare i capricci, la fece rabbrividire.
            Forse era meglio smettere di preoccuparsi del tempo e riprendere ad ascoltare la lezione di Storia, perché il professor Hatake, per quanto paziente, non avrebbe sempre chiuso un occhio. Non poté trattenere un sorriso, di fronte a quel gioco di parole che le era balzato in mente: Kakashi Hatake aveva sempre mostrato pubblicamente un solo occhio, tenendo l’altro nascosto sotto un folto ciuffo di capelli, aiutato anche dal colletto perennemente alzato della camicia, che rivelava a malapena il suo volto.  
            «Hyuga?», chiamò l’uomo, con il solito tono pacato.
            Nessuna risposta. Gli occhi chiarissimi erano ancora persi a fissare le gocce di pioggia oltre la finestra, senza accorgersi che l’intera classe si era fermata per guardarla.
            «Sì, professore?», rispose un ragazzo molto simile a lei, dai lunghi capelli neri e le iridi della stessa tonalità.
            «Non tu, Neji. Mi riferisco a tua cugina».
            «Ehi, Hinata!», bisbigliò la sua compagna di banco, Tenten, assestandole una leggera gomitata nel fianco. La ragazza dai capelli blu trasalì, decidendosi finalmente a tornare alla realtà.
            Osservò l’aula e arrossì, ritrovandosi gli occhi di tutti puntati addosso. C’era chi sorrideva, come Tenten e Kiba, i suoi migliori amici, chi la fissava indifferente, come nel caso di Neji, Shikamaru e Shino, e chi invece le aveva rivolto un’occhiata distratta, come Sasuke, Rock Lee e Sakura. Non era certamente l’elemento di spicco della 5^F, eppure sperava che fra quegli occhi ci fossero anche quelli azzurri di Naruto, per una volta. Speranza disattesa, dal momento che l’Uzumaki era intento a leggere attentamente qualcosa che non poteva per forza essere il manuale di storia.
            «Hyuga, trovi divertente l’attentato di Edward Oxford alla regina Vittoria?», domandò il professore, alzando il sopracciglio.
            «N-no, per n-niente», balbettò la ragazza, scuotendo la testa. Il rossore si accentuò ancora di più sulle guance, mentre si augurava che una voragine la inghiottisse: Naruto si era girato e la stava guardando, dopo quel rimprovero. Chinò il viso verso il banco, incapace di mostrare il volto agli altri. La stava fissando, ne era certa; era come se le cellule della sua pelle potessero avvertire lo sguardo del ragazzo saldo su di lei.
            «Alla lavagna, Hyuga!», ordinò l’Hatake, sospirando. Odiava interpretare il ruolo dell’insegnante intransigente, ma era necessario farlo, di tanto in tanto, per evitare che quei ragazzi gli mettessero i piedi in testa.
            Hinata si alzò tremante, quasi spaventata dal rumore della sedia mossa da quello scatto. A capo chino, si avvicinò svelta alla lastra nera che occupava gran parte della parete dietro la cattedra, sperando che nessuno la stesse ancora guardando, soprattutto lui. Come era riuscita a desiderare, poco prima, che il biondo la osservasse? E perché mai quello sciocco desiderio era stato esaudito?
            «Scrivi ciò che ti detto, d’accordo?». La ragazza annuì, con un debole sorriso. Forse se la sarebbe cavata con poco. «Età vittoriana, tra floridità e disagio sociale: sviluppo, riforme, compromessi e malessere. Traccia un profilo dei sessantaquattr’anni di regno della regina Vittoria, avvalendoti delle letture compiute e delle tue conoscenze storiche», scandì bene l’uomo.
            Hinata osservava la scritta che aveva steso sulla lavagna, nella sua grafia un po’ meno ordinata della consueta e molto più storta. Deglutì, immaginando ciò che l’insegnante avrebbe aggiunto di lì a poco.
            «Avete una settimana esatta di tempo. Voglio una ricerca di almeno quattro facciate, mi raccomando!», spiegò lui, sorridendo.
            Un brusio indistinto cominciò a sollevarsi nell’aula, mentre Hinata si faceva piccola piccola, stringendosi nelle spalle e appoggiandosi all’ardesia fredda.
           «Professore, siccome si tratta di una ricerca e non di un tema, non è che potremmo lavorare in gruppo?», propose Tenten, osservando lo sconforto che aveva preso l’amica.
           «Mmm sì, perché no? Dunque, essendo in ventisette, lavorerete in gruppetti da tre… e per questo il tempo per la consegna si riduce a tre giorni: entro sabato, voglio vedere i vostri lavori qui!», e indicò con l’indice l’angolo destro della cattedra. Un nuovo malumore raggiunse le sue orecchie, ma l’uomo continuò a parlare: «Ah, sarò io a decidere i componenti dei gruppi, in modo da bilanciarvi». Sì, fare il cattivo della situazione cominciava quasi a piacergli; ora capiva come si sentiva il collega Maito, quando obbligava i ragazzi a svolgere i più disparati esercizi fisici.
          Hinata strinse i pugni, sgranando gli occhi: era nel panico più totale. Se prima gioiva all’idea di lavorare con Kiba e Tenten, ora intuiva che le probabilità perché ciò avvenisse erano molto basse. Era talmente sgomenta da non ascoltare l’elenco di nomi che Kakashi stava pronunciando. Alle orecchie le era solo giunto il proprio cognome, affiancato a qualcuno che non si sarebbe mai aspettata.
         «Hyuga, Uchiha, Uzumaki», dichiarò il professore, alzandosi pochi istanti prima che la campanella suonasse. «Buon lavoro, ragazzi!», sorrise, prima di infilare nella sua ventiquattrore il manuale e il registro personale, per poi uscire.
 
Hinata rimase ferma come una statua, eccetto per il gessetto che rigirava nervosamente tra le dita e le palpebre che sbattevano lentamente, quando ormai gli occhi erano tanto secchi da bruciarle. Il respiro era irregolare, mentre un grosso nodo in gola premeva per farla piangere.
            «Non sei contenta?», rise sottovoce Kiba, avvicinandosi; lui e Tenten erano gli unici a sapere di ciò che l’amica provava verso Naruto.
            «Ehi, il tuo grande desiderio si è realizzato!», esclamò la castana, scrollandole allegramente le spalle.
            «Ragazzi… vi ho appena procurato una punizione. Come potete ancora parlarmi?», sussurrò lei, incredula.
            «Chissene importa, Hina! È solo una ricerca, non certo la fine del mondo», la tranquillizzò l’Inuzuka, prendendo sottobraccio Tenten con un sorrisone. «Senza contare che sono capitato nel gruppo di Ten e Neji, quindi posso permettermi di non lavorare troppo».
            «Non ci contare! Dovrai fare anche tu la tua parte, chiaro?», puntualizzò lei, staccandosi.
            «Ci vediamo a casa mia alle tre e mezzo, se per voi va bene», s’intromise Neji, sbucando dal nulla. I due amici annuirono, per poi salutarlo.
            «Allora ci vediamo oggi! In fondo Neji è tuo cugino, abitate nella stessa villa», sorrise Tenten, nel tentativo di rincuorarla.
            «Avete ragione. A più tardi, ragazzi. Andate pure, io sistemo la borsa e torno a casa con l’autobus». Finalmente la luce era ricomparsa sul suo volto pallido.
 
Mentre riponeva il libro di Storia, il quaderno e l’astuccio nella tracolla, aveva ancora gettato qualche occhiata al diluvio che si stava scatenando fuori dalla finestra. Rabbrividì nuovamente, mentre cercava di trovare una soluzione per raggiungere la fermata dell’autobus senza bagnarsi troppo. Una volta aveva letto che, tra chi corre e chi cammina, sotto la pioggia, quello a prendere meno acqua è colui che percorre a piena velocità il percorso. Perciò cominciò a inspirare profondamente, sperando di incanalare abbastanza ossigeno da permetterle di correre rapidamente sotto la pensilina, sul marciapiede. Quando si sentì abbastanza pronta, infilò la borsa e uscì dall’aula, spegnendo la luce e chiudendo la porta alle sue spalle.
            «Finalmente!», esclamò qualcuno alla sua sinistra. Per poco tutto quell’ossigeno non le scappò nuovamente dai polmoni, per lo spavento.
            «S-Sasuke», balbettò impaurita. Quel ragazzo riusciva sempre a metterla in soggezione, da quando aveva cambiato sezione.
            «Ci troviamo oggi a casa mia, alle due e mezzo», affermò deciso.
            «Le due e mezzo?», ripeté. «Ma manca già un quarto alle due, non credo di farcela in tempo… devo tornare a casa, mangiare qualcosa e prendere ancora il bus…». La voce le tremava, ma almeno era riuscita a non tartagliare.
            Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, spazientito da quella titubanza. «Allora pranzeremo tutti e tre insieme. Naruto ci aspetta già in auto, andiamo», dichiarò l’Uchiha, voltandosi e cominciando ad avviarsi verso l’uscita.
            Hinata rimase ferma a fissarlo perplessa e ammutolita. Le ginocchia iniziarono a tremarle, come se nella borsa ci fossero quintali di rocce a gravarle addosso. Naruto… Naruto… riusciva solo a pensare a quel nome, a quegli occhi, a quel sorriso. Se per un secondo era sul punto di esplodere per la felicità, subito dopo avrebbe tanto desiderato scomparire, tornare ad essere invisibile.
            «Ti dai una mossa?», urlò il moro, girandosi di scatto, vedendola ancora là imbambolata.
            La Hyuga cominciò a camminare verso di lui, senza trovare la forza per guardarlo negli occhi. Uscirono insieme dalla porta e il bruno aprì l’ombrello, offrendosi di condividerlo con lei. La ragazza lo ringraziò flebilmente, ma lui nemmeno ci fece caso. Raggiunsero velocemente l’auto, ma quando lei vide Tenten, Kiba e suo cugino parlare insieme, qualche metro più in là, le venne in mente un dettaglio non irrilevante.
            «Devo avvertire casa, prima… devo chiedere il permesso», mormorò imbarazzata. Temeva di apparire ancora infantile, con quell’affermazione, rispetto al comportamento medio degli altri diciottenni, che entravano e uscivano dalle proprie dimore in piena libertà. Lei non era così, non lo era mai voluto essere, né comunque avrebbe mai potuto diventarlo. Le balenarono in mente i gelidi occhi di suo padre, sempre pronto a giudicarla e a trattarla freddamente, con il solo obiettivo di forgiarla della sua stessa tempra. Sapeva che ogni piccolo compromesso era una delusione in più per il suo cuore, per questo biasimava continuamente se stessa per la propria indole timida e accondiscendente. Non era mai voluta essere così remissiva e debole, ci si era trovata a esserlo e non scorgeva la forza per ribellarsi.
            Sasuke la guardò con aria spazientita, picchiettando con l’indice sul tetto della sua sportiva nera.
            «Ehi, Neji! Tua cugina oggi è a casa mia per lavorare alla ricerca… avverti tu la sua famiglia!», quasi gli ordinò l’Uchiha. Pur non conoscendo bene quale fosse l’aria che tirava in casa Hyuga, aveva avuto modo di osservare i due ragazzi e aveva compreso quanto le loro indoli fossero diverse: l’una arrendevole ed emotiva, l’altra determinata e riservata. Aveva quindi intuito che se fosse stato Neji a parlare dell’assenza della cugina per quel pomeriggio, difficilmente qualcuno avrebbe protestato, fidandosi dell’autorevolezza del ragazzo.
            «Coraggio, andiamo», tuonò imperioso il moro, indicandole la portiera posteriore, per poi accomodarsi al posto di guida, lasciandole l’ombrello.
            Hinata lanciò un’ultima occhiata ai suoi amici, che le sorridevano e la incitavano con dei pollici alzati. Se solo l’avessero osservata bene, avrebbero letto il terrore che serpeggiava nei suoi occhi.
           Sospirò tristemente, chiuse l’ombrello e tirò la maniglia, salendo così in auto. Si sentiva piccola, insignificante, di peso e fuori luogo.

Sasuke mise in moto il motore e, alla prima accelerata, la gomma slittò lievemente sul bagnato, raggelando il sangue della giovane.
           «Stai tranquilla, non ho ancora fatto un incidente», la rassicurò il corvino, osservando la sua reazione dallo specchietto retrovisore.
           «Ci credo, hai preso la patente da appena due settimane», rise di gusto Naruto, allacciandosi la cintura.
           «Stai zitto, testa quadra! Tu devi ancora compiere diciotto anni, perciò non puoi ancora avere voce in capitolo. A proposito… non ricordo mai quando sei nato. Il dieci o l’undici ottobre?», domandò Sasuke, dubbioso.
           «Il dieci!», esclamò prontamente Hinata, bruciando il diretto interessato al photofinish.
           Non appena si accorse di ciò che aveva appena fatto, arrossì e si coprì la bocca con una mano, come se quel gesto fosse bastato a resettare tutto. Naruto si voltò a guardarla, sorpreso.
          «Come lo sai?», domandò sorridente, spiazzandola.
          Non riusciva a rispondere, occupata com’era a guardarlo e a respirare, contemporaneamente. I suoi occhi azzurri erano sprazzi di cielo, in quella giornata uggiosa, proprio come il suo sorriso era luce in quell’abitacolo. Davvero stava rivolgendo quella luminosità a lei, a lei solamente?
         «Ri-ricordo… ricordo che l’anno scorso Sakura ti aveva preparato una t-torta», rispose debolmente, cercando di guardarlo in faccia, ma il tentativo aveva avuto successo solo per due secondi e mezzo.
         «Accidenti, che memoria! E dire che eri in un’altra sezione… la 4^G, giusto?», chiese l’Uzumaki, posando comodamente la guancia sul poggiatesta.
         «Era nella B, stupido», gli rispose Sasuke, intuendo che Hinata avrebbe impiegato altri venti secondi prima di aprire di nuovo bocca.
         «Oh, già, giusto!», ridacchiò il biondo, grattandosi la testa. «Perché hai cambiato sezione?», domandò curioso.
         Hinata girò il capo verso il finestrino, sperando che i capelli riuscissero a nascondere il rossore che stava facendo avvampare le sue guance. Non poteva dirglielo, non sarebbe mai riuscita a confessargli che la ragione per cui aveva cambiato classe, oltre a Tenten e Kiba, era lui, Naruto Uzumaki.
        «Magari ha deciso di seguire qualcuno che le stava a cuore», commentò Sasuke, senza smettere di osservare le reazioni della ragazza, grazie a quel gioco di specchi. Notare quanto lei arrossisse, imbarazzata, confermando le sue supposizioni, lo divertiva sottilmente.
        «Oh, certo! Inuzuka e la castana, Tenten!», capì il biondo, voltandosi ancora verso la strada, lasciando in pace la povera Hyuga, che finalmente poté tornare a respirare.
 
L’auto procedeva per delle strade ampie e ben asfaltate, ai cui lati spiccavano delle ville sfarzose, contorniate da alberi e piscine. Sapeva che la famiglia Uchiha godeva di prestigio, ma non immaginava che vivesse in quell’angolo di paradiso! Anche gli Hyuga non se la passavano male, e lei era in qualche modo avvezza al lusso, ma non riusciva a considerare casa sua un Eden, proprio per niente. C’erano alberi, fiori rigogliosi, fontane, sì, ma non mancava il serpente, il male, il dolore.
           Ancora una volta il pensiero del padre, con il suo volto severo, le attraversò la mente e lei si strinse una mano sul cuore, chiudendo gli occhi. Cercava di ripetersi che sarebbe andato tutto bene, che Neji avrebbe sistemato tutto, ma sapeva benissimo che così non sarebbe stato. Suo padre non gliel’avrebbe fatta passare liscia, lo immaginava. Delle calde lacrime cominciarono a scorrere giù per le guance, macchiandole la giacca di innocenti speranze infrante. Qual era il diluvio universale, ora? Quello dentro o quello fuori l’abitacolo?
            Sasuke svoltò in un vialetto alberato, parcheggiando l’auto in un largo spiazzo dove erano già ferme altre vetture, altrettanto maestose.
            «Siamo arrivati», confermò, aprendo la portiera.
 
Hinata scese, stringendo a sé l’ombrello aperto, nonostante quasi non piovesse più. Osservò la grande villa degli Uchiha con ammirazione, mentre Naruto e Sasuke camminavano qualche passo davanti a lei, senza poter evitare, di tanto in tanto, di fissare il biondo. Ancora non sapeva se ringraziare o meno il destino, anzi, Kakashi Hatake. Probabilmente avrebbe continuato a rimuginare su quel dubbio, se il moro non le avesse strappato l’ombrello di mano e fatta accomodare dentro.






Ciao a tutti! :D
Sono ricascata nel tunnel del SasuHina! Questa coppia mi piace sempre di più, li vedo così bene insieme!! *-*
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto; fatemi sapere, se vi va, il vostro parere! Mi farebbe molto piacere :D 
Intanto vi ringrazio tanto per aver letto!! :D 
(Ringrazio Holkay Efp per lo splendido banner *-* E' stata veramente brava, non trovate?)
A presto, 

Ophelia 

PS: non escludo di cambiare il rating della storia... insomma, quando c'è di mezzo un Uchiha, non si sa mai come andrà a finire XD

 

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Capitolo 2
*** L'anima non è carta ***


2. L’anima non è carta

 
 
 
Avete presente quella sensazione denominata “Sindrome di Stendhal”, quel forte malore che impedisce di respirare e reggersi in piedi davanti a un capolavoro? Ecco, questa poteva essere l’affezione che stava martoriando Hinata, non appena aveva messo piede nella villa. La dimora era indubbiamente sfarzosa, con quella scalinata marmorea che spiccava appena varcato l’ingresso, i grandi dipinti a olio appesi alle pareti e l’imponente lampadario di cristallo sospeso parecchi metri sopra le loro teste… tutto quel lusso era quasi superiore a quello degli Hyuga, ma l’opera d’arte che provocava le vertigini e la tachicardia era l’unica di cui lei conosceva il titolo: Naruto Uzumaki.
 
Il biondo le era seduto di fronte e stava gozzovigliando come mai aveva visto fare prima d’ora a nessun altro, nemmeno Choji al rinfresco di inizio scuola; il ragazzo dagli occhi cerulei aveva riempito per la terza volta la sua ciotola di ramen, strafogandosi come se non mangiasse da secoli. Hinata non poteva che sorridere, davanti a quella scena: Naruto era davvero buffo mentre cercava di soddisfare un bisogno naturale come la fame e, inoltre, aveva appena scoperto che quella pietanza era la sua preferita; un punto in suo favore, dal momento che piaceva anche a lei e che se la cavava non troppo male nella realizzazione di quel piatto.
            «Sasuke, tuo fratello è il miglior cuoco di Konoha!», esclamò in estasi, dopo aver spazzolato il brodo fino all’ultima goccia.
            «Grazie, Naruto. Tu sì che sai dare soddisfazioni!», rise felice un ragazzo alle spalle dell’Uzumaki, comparso dal nulla.
            «Itachi!», urlò entusiasta il biondo, saltandogli al collo. «Sono passati due mesi dall’ultima volta che ti ho visto! Come procede l’università?».
            «Finalmente sarò ufficialmente ingegnere, il mese prossimo». La gioia sul suo volto era sottolineata da un sorriso incantevole.
            Hinata non riusciva a staccargli gli occhi di dosso: era così simile a Sasuke, anche se non del tutto. Il primo motivo per cui erano diversi? Quell’espressione radiosa.
            Era nella 5^F da quasi un mese, ma non aveva mai visto quella naturale felicità sul volto del minore degli Uchiha nemmeno una volta; ora che ci pensava, anche negli anni precedenti, quando le era capitato di osservarlo nei vari “pedinamenti” alle spalle di Naruto, non l’aveva mai visto così. Certo, rideva, si divertiva, ma mai in quella maniera sana. Ecco, quella era la parola giusta: in Sasuke non traspariva nulla di sano; era temuto e rispettato, per quel suo fare strafottente. Si atteggiava come se non gliene importasse nulla delle altre persone, men che meno dei loro sentimenti, e circolava voce che possedesse una sorta di record di ragazze sedotte e abbandonate in un solo fine settimana, di scappatelle che non vedevano quasi mai la luce del giorno o, se lo facevano, erano destinate a non scorgere il pallore della luna. La sua fama lo precedeva, era giunta anche alle orecchie di Hinata, per questo le metteva sempre i brividi.
           «E questa bella ragazza? Ha tutta l’aria di essere una Hyuga», affermò il giovane, dedicandole un luminoso sorriso. La mora arrossì, abbassando lo sguardo sulla tovaglia e annuendo leggermente, in segno di conferma.
           «Esatto, lei è Hinata!», la presentò Naruto, avvicinandosi e scrollandole delicatamente le spalle.
           Quel contatto ebbe su di lei la stessa potenza di una scarica elettrica; la costrinse ad affrontare la luce di Itachi, le tenebre del fratello e l’allegria dell’Uzumaki. Non capiva ancora cosa diavolo ci facesse lì e perché fosse la protagonista di quel mercoledì.
           «Sì, ci avrei scommesso. Il delicato e tagliente incanto di un cristallo», riprese Itachi, mentre si apprestava a sparecchiare. «Mi ricordo di te, Hinata. Ho frequentato un corso di karate con tuo cugino Neji e tu venivi spesso a vederlo alle gare. Ti sei fatta ancora più carina, crescendo. Sasuke aveva ragione riguardo il tuo… ». Diavolo, lo stava per dire davvero!
            «Itachi, torna di là. Mi occupo io della tavola», lo interruppe il fratello, irrigidendosi.
            «Otouto, lascia fare a me», si ostinò gentilmente lui, posando le pentole nella lavastoviglie. La coscienza sporca gli diceva che doveva rimediare, e subito.
            «Insisto. Vattene in salotto», ordinò freddamente.
            Hinata li fissava con preoccupazione, spostando lo sguardo continuamente da un viso all’altro, proprio come Naruto.
Il biondo non ebbe esitazioni: non appena Itachi girò l’angolo, lo seguì sorridente. Conosceva Sasuke e sapeva che non era il momento migliore per stare in sua compagnia.
 
La ragazza si alzò di scatto, non appena il giovane riprese il lavoro interrotto dall’aniki. Avvertiva l’elettricità nell’aria, il gelo, il disagio, e la sua pelle si era accapponata, sotto la giacca nera della divisa. Si sentì in dovere di rimediare e l’unico modo che le veniva in mente per farlo era quello di rendersi utile. Prese il suo bicchiere e si avvicinò alla lavastoviglie, cercando di darsi un certo contegno e apparire tranquilla. Il moro glielo strappò di mano, con un gesto fulmineo.
            «Non ce n’è bisogno. Ho detto che me ne occupo io», dichiarò cupo.
            «Scusami». Le mani le tremavano, così come le gambe, mentre cercava di reggersi in piedi con l’aiuto di una sedia.
            «Non voglio le tue scuse». Non aveva nulla da farsi perdonare, perché sapeva solo accentuare la sua innocenza, di fronte a lui? Lui che era tutto il contrario! «Non scusarti con me, Hinata», ribadì. Quel sussurro aveva tutta l’aria di essere un ruggito, per la foga con cui se l’era lasciato sfuggire.
            La fanciulla non capiva il senso delle sue parole, ma l’avevano spiazzata. Avrebbe voluto chiedergli delle spiegazioni, ma non trovava il coraggio. Lo fissava con i suoi occhi chiari, troppo innocenti perché Sasuke potesse reggerli addosso a sé tanto a lungo; iridi così incontaminate da infastidirlo, costringerlo a darle le spalle e riporre le tovagliette di canapa nel mobiletto, con una rapidità irritata.
            «Mi dispiace, forse è meglio se torno a casa», mormorò lei, cercando di non far tremare troppo la voce.
            L’Uchiha si voltò di scatto, al suono di quelle parole. L’aveva colta di sorpresa, in tutta la sua fragilità: si lisciava nervosamente una ciocca di capelli e lo guardava senza davvero vederlo, preda di pensieri commiserevoli.
            «No, è fuori discussione: dobbiamo lavorare alla ricerca», dichiarò il corvino, sforzandosi di riapparire imperturbabile.
            «D-dici sul serio?». Finalmente tornò a vederlo.
            «Sono pronto», affermò deciso, preparando sul tavolo il suo quaderno.
 
Erano seduti da mezz’ora, avevano riempito fogli di idee più o meno convincenti da inserire nella ricerca, scambiandosi a malapena una cinquantina di parole, a fronte di quei fiumi di vocaboli stesi con l’inchiostro. Sasuke si era concentrato sull’aspetto storico, con l’ascesa di Vittoria, i governi Gladstone e Disraeli e le innovazioni tecnologiche, mentre Hinata aveva focalizzato la sua attenzione sui problemi sociali, la povertà, lo sfruttamento minorile, con un occhio di riguardo alla letteratura del tempo che denunciava tali disagi, come nel caso di Charles Dickens, e di quella che li accennava sottilmente, convogliando la propria attenzione sulla delicata questione dell’emancipazione femminile, proveniente dalle penne delle sorelle Brontë.
            Di Naruto non v’era traccia: da quando aveva seguito Itachi in salotto, non aveva più messo piede in cucina. Ogni tanto giungevano alle orecchie dei due compagni di classe le sue urla divertite, mentre era alle prese con i videogiochi.
            «Anche se lo chiamassi, non ci sarebbe d’aiuto», sospirò Sasuke, realista. Naruto non era per niente uno studente modello, a malapena raschiava la sufficienza nei compiti in classe; se stava ancora a galla, era merito del suo migliore amico che, anche stavolta, gli avrebbe assicurato un voto decente. Era una testa quadra, ma gli voleva bene. Era l’unico che non lo giudicava per ciò che faceva, ma per ciò che era. 
            «Allora, cominciamo a scrivere?», propose Hinata, sollevata dal fatto che non avrebbe dovuto sostenere lo sguardo limpido dell’Uzumaki. Certo, le dispiaceva non trovarselo accanto, ma, ai fini della ricerca, era molto meglio così.
            L’Uchiha annuì, parandole davanti la sua scaletta. La Hyuga cominciò a scrivere con calma, ascoltando attentamente gli spunti di Sasuke e rielaborandoli in un discorso fluido, ben articolato, che riusciva ad abbracciare perfettamente anche i suoi. Era felice di poter scrivere, era una delle cose che le piacevano di più della scuola: stendere i pensieri su carta le usciva con una certa facilità, come se non fosse nata che per quello. Amava i temi, la pacata concentrazione che la coglieva nell’attimo della creazione, la sospensione di frasi a mezz’aria, sopra la sua testa… lei allungava la mano e carpiva aggettivi, nomi, verbi, come se si trattasse di margherite, per donare loro una vita armoniosa in quel vaso chiamato racconto. Non le importava del voto, ma solo della sensazione di completezza che provava mentre tracciava il punto conclusivo.
            Il moro la osservava attentamente, mentre lei, finalmente, era impossibilitata a difendersi dai suoi occhi: quando scriveva, lui poteva vedere la vera Hinata, quella senza schermi protettivi, senza imbarazzi, senza insicurezze. Erano quelle le sue mani, ferme, chiare, affusolate. Erano quelli i suoi occhi, puri, puntati sul foglio, ma persi altrove. Era quella la sua anima, gentile, delicata, curiosa, accorta, umana e celestiale insieme.
 
Un’ora dopo, il lavoro era concluso. Sasuke stava rileggendo le righe che lei aveva ordinatamente scritto, così chiare e precise che non sembravano affatto una bozza, se non le avesse tradite qualche depennamento. Era un ottimo lavoro, ne era soddisfatto quanto lei. Si propose di copiarlo al computer, per ripagarla dell’impegno che già aveva messo nello stendere la copia cartacea.
            «Adesso si spiegano quei voti altissimi nei temi», commentò poco dopo, appoggiando il foglio di protocollo sul tavolo.
            «N-non è nulla di che», minimizzò lei, scrollando le spalle. Seriamente, non capiva perché gli altri scorgessero qualcosa di straordinario in ciò che scriveva, dato che proveniva da una nullità come lei. «Shikamaru è un vero genio, lui sì che è da ammirare», ammise sincera, sorridendo.
            «Il Nara ha solo il cervello, il resto è pura pigrizia», commentò lui.
            Hinata avrebbe voluto replicare, ma un urlo di gioia più intenso di Naruto la bloccò: aveva probabilmente vinto ai videogiochi. Quanto avrebbe voluto vedere la sua espressione, in quel momento!
            «E, invece, quando sarebbe il tuo compleanno?», domandò all’improvviso l’Uchiha.
            La ragazza sgranò gli occhi, colta di sorpresa. Aveva capito bene?
            «Il mio compleanno?», chiese stupita, puntando l’indice verso se stessa. «Il ventisette dicembre».
            «E il mio?», domandò poco dopo, lasciandola ancora più sbigottita. Metterla in difficoltà lo divertiva.
            «Scusa, ma non lo so», ammise, scuotendo la testa.
            «Naturalmente», bisbigliò lui, con un sorriso quasi tirato.
            «Mi dispiace, non mi viene in mente», continuò lei, temendo di averlo offeso.
            «Non ti può venire in mente, se non lo sai», affermò sarcastico. «E poi non ha importanza», concluse.
            Se solo fosse stata più coraggiosa, per educazione, gli avrebbe chiesto in quale giorno fosse nato, ma temeva solo di annoiarlo ulteriormente. Era sul punto di alzarsi per tornare a casa, dato che avevano ormai finito il lavoro, ma Sasuke la inchiodò con una nuova domanda.
            «Perché hai cambiato sezione, proprio all’ultimo anno?». Quello sguardo glaciale e indagatore sembrava aver intuito già la risposta, ma Hinata cercò di non badarvi.
            «Non penso che potrebbe interessarti», sussurrò a capo chino, quasi come se avesse esternato un pensiero segreto. Perché mai doveva importargliene? A malapena si erano stretti la mano, il giorno in cui aveva messo piede in 5^F.
           «Se te lo sto chiedendo è perché voglio saperlo», ribatté lui, stringendo i pugni. Se c’era una cosa che odiava di quella ragazza, era la sua tendenza a svalutarsi continuamente; riusciva a mettergli i nervi.
            La Hyuga rialzò il volto, incrociando quello sguardo nero, penetrante e curioso. Era così scuro da provocarle malessere, inquietudine, annichilimento, ma quelle sensazioni non erano nemmeno lontanamente paragonabili a ciò che Naruto sapeva causarle con una sola occhiata. Gli occhi dell’Uchiha erano cupi, oscuri, ma sostenibili, quasi senza alcuna difficoltà. Pensò che quel coraggio era dovuto al fatto che riusciva a vedere se stessa, in fondo alle sue pupille tenebrose, e che odiava apparire così debole.
            «Ho convinto mio padre che sarebbe stata un’ottima idea entrare nella classe di Neji, in quanto l’avevo additato come modello di ragazzo determinato e studioso», confessò come sotto ipnosi.
             «Non dire cazzate, Neji si comporta da stronzo, soprattutto con te», sbottò Sasuke.
             Hinata sgranò gli occhi. «No, Neji è solo molto fermo nei suoi ideali! Si dimostra distaccato, anche sprezzante, delle volte, ma è davvero da ammirare. Vorrei essere come lui, con tutto il cuore», affermò con la voce tremante, sforzandosi di non farsi scappare nessuna lacrima. Lo pensava davvero, non si curava del disprezzo con cui lui la guardava, anzi, gli dava ragione: lei stessa si detestava, perché mai suo cugino avrebbe dovuto trattarla con riguardo?
            «Sembravi più intelligente, Hinata», la criticò il moro, trattenendo una risata. «Non offenderti, ma, personalmente, non vedo l’ora di sfondare la faccia di tuo cugino a suon di cazzotti».
            «Che cosa?!», quasi urlò, rabbrividendo. No, non c’era traccia di sanità in lui.
            «Non ho detto che lo farò, calmati», sorrise, incrociando le braccia al petto e chiudendo gli occhi. Quando li riaprì, quell’aria divertita sembrava essersene andata. «Basta stronzate, qual è la verità? Qual è il motivo per cui hai cambiato sezione?», insisté.
            «Beh, anche per Kiba e Tenten… siamo amici fin da bambini, mi sarebbe piaciuto passare quest’ultimo anno scolastico con loro».
            «E Naruto», concluse Sasuke, con pochi convenevoli.
            Hinata arrossì di colpo, scuotendo leggermente la testa; cercava di negare quella supposizione, anche se le parole non riuscivano a uscirle di bocca, ma più si sforzava di apparire contrariata, più il moro sorrideva soddisfatto. Aveva capito tutto, il suo segreto non era più al sicuro.
 
La vibrazione del cellulare, sul tavolo, distrasse entrambi. Sasuke lo ghermì, lesse il nome sullo schermo e sbuffò, accettando la chiamata.
            Hinata approfittò della pausa per inspirare profondamente. Si portò una mano sul petto, cercando di controllare il respiro e i battiti. Doveva darsi una calmata, o avrebbe compromesso ancora di più la sua situazione. Avrebbe negato tutto, anche quell’evidenza: a lei Naruto non piaceva… cioè, non in quel senso. Lo trovava simpatico, tutto qui. Sì, avrebbe convinto l’Uchiha che le cose stavano così.
            «Certo, anche io non vedo l’ora di fare una bella cavalcata, Karin», sorrise malizioso, guardando di sottecchi la Hyuga, che lo stava osservando con un’aria più pacata.
            Quando il moro riattaccò, lei sperò vivamente che si fosse dimenticato dell’ultima frase della loro conversazione e, onde evitare che potesse riprendere da quel punto, decise di cambiare argomento.
            «Non sapevo che tu e Karin praticaste equitazione». Un sorriso carico di virtù le adornò le labbra.
            Sasuke scoppiò a ridere a crepapelle, appoggiando il cellulare sul tavolo. Hinata lo fissava curiosa, senza smettere di sorridere. Era di buon umore, grazie al cielo.
            Il ragazzo si avvicinò a lei, abbassando il capo in sua direzione e accostando le labbra al suo orecchio.
            «Sei così infantile, Hinata. Così ingenua».   
            Il sussurro le aveva sfiorato la pelle del collo, facendola rabbrividire. Nonostante l’Uchiha le fosse passato oltre, sentiva ancora il suo respiro all’orecchio; il fiato caldo aveva appannato la campana di vetro che la proteggeva, ma i suoi occhi si scheggiarono in tremanti lacrime. Si sentiva malissimo e non capiva il perché. Quelle affermazioni beffarde del ragazzo l’avevano ferita come lame, dandole la conferma di quanto apparisse stupida, fuori luogo e imbranata a tutti. Anche all’Uzumaki, sicuramente.
            «Proprio come Naruto», aggiunse Sasuke, avvistando l’amico alzarsi dal divano.
            «Ehi, scusate… per la ricerca facciamo domani? Mi sono perso a giocare con Itachi e non ho avvertito lo scorrere del tempo», ridacchiò, comparendo alla soglia della cucina e grattandosi la testa, con un grande sorriso stampato in faccia.
            Non era un ragazzo tra i più perspicaci, ma intuiva che qualcosa non andasse. L’aria era tesa, gli sguardi forzatamente lontani… era successo qualcosa.
            «Hinata, tutto bene?», domandò il biondo, avvicinandosi.
            «Oh, certo, certo», sorrise lei, come appena ridestatasi da un sogno, asciugandosi gli occhi con un gesto veloce. «Scusate, devo rientrare», mormorò.
            «Naruto, accompagnala a casa con Itachi». Era un ordine, lo sapevano entrambi.
            «Andiamo», la sospinse il maggiore degli Uchiha, mentre l’Uzumaki si era già fiondato fuori.
            Hinata, prima di seguire i due ragazzi all’auto, si girò lentamente verso Sasuke. Voleva guardarlo, accertarsi che era stato tutto un frutto della sua immaginazione. Non poteva davvero aver scoperto un segreto che stava proteggendo così accuratamente da diversi anni!
            Come se fossero stati fulminati dallo stesso pensiero, anche lui si voltò, in quel preciso istante.
            Occhi neri, più scuri della mezzanotte, illuminati da un ghigno sarcastico, la fissavano, maliziosamente allietati.
            «Ti prego…», cominciò a piagnucolare lei.
            «Non lo dirò a nessuno», la interruppe Sasuke, lasciandola di stucco. E sigillò quella promessa con il sorriso più naturale che lei gli avesse mai scorto sul viso.  
             La ragazza sussurrò un timido, ma profondo ringraziamento, e si affrettò a raggiungere Itachi e Naruto. Una parte di pace era stata restaurata, nel suo cuore, nonostante il suo segreto si stesse rilevando fragile. Era grata a Sasuke per quella rassicurazione inaspettata, arrivata nel momento del bisogno. Avrebbe voluto esprimere meglio la sua gratitudine, salutarlo con amichevolezza, ma non era riuscita ad aggiungere alcunché. Solamente sguardi, specchi di spiriti inquieti, in una totale assenza di parole e razionalità; perché l’anima non è carta, non conosce storie logiche e grafie ordinate, solo evidenti cancellature e sbavature che sanno di vita intensa, lacrime e sorrisi.
 
Il viaggio verso casa era stato più veloce di quanto lei avesse immaginato, e anche più piacevole, grazie alle chiacchiere di Itachi e Naruto. Il biondo continuava a vantarsi della propria maestria nei videogiochi, mentre l’altro fingeva di prendersela e lo minacciava di non cucinare più ramen in suo onore.
            Lei osservava l’Uzumaki in silenzio, ancora toccata da quello scambio di parole con Sasuke, ma anche confortata dalla sua garanzia. Non capiva il perché, ma era come se si fosse alleggerita del peso del segreto, condividendolo con qualcun altro. Certo, non avrebbe mai voluto che lo conoscesse una persona tanto vicina a Naruto, ma ormai i giochi erano fatti.
 
Itachi accostò davanti alla villa degli Hyuga, invitando Naruto ad accompagnare Hinata all’ingresso, “da bravo compagno di classe”. Il biondo obbedì, e non lasciò alla giovane il tempo di salutare l’Uchiha, aprendole lo sportello posteriore.
            La mora sentiva la solita morsa allo stomaco che l’assaliva puntualmente quando rientrava a casa, soprattutto a un orario inconsueto. Erano solo le cinque e mezzo, ma per suo padre era comunque un’ora indecente.
            Naruto suonò il campanello, quasi sovrappensiero. Non si era nemmeno accorto che la sua compagna di classe stava tremando nervosamente.
            Hiashi Hyuga comparve alla porta, accigliandosi nel trovarsi di fronte la figlia e quel ragazzo. Hinata poteva leggere tutto il disappunto in quegli occhi così simili ai suoi.
            «Papà, scusa il ritardo. Spero che Neji ti abbia avvertito», disse con un filo di voce.
            «Ho saputo tutto, ma mi aspettavo di vedere al massimo un Uchiha, non lui». Aveva rincarato la dose di disprezzo osservando l’Uzumaki con occhi affilati. «Sta' lontano da mia figlia», quasi ringhiò.
            Quel ragazzo non gli era mai piaciuto fin da quando era solo un bambino poiché, crescendo senza i suoi genitori, era stato spesso protagonista di ragazzate e piccoli atti di vandalismo impuniti, come murales, innocui, ma biasimevoli furti al mercato, e altre bravate del genere. Inoltre, stando agli affidabili racconti del nipote, era venuto a conoscenza della sua pessima attitudine allo studio, della svogliatezza e leggerezza che lo contraddistinguevano. Non voleva che Hinata avesse nulla a che fare con lui; sarebbe stato un ulteriore danno per quella ragazza che gli procurava poche soddisfazioni.
            «Papà, abbiamo lavorato alla ricerca e Naruto…».
            «Fila in casa», tuonò gelidamente, indicandogli imperioso la porta alle sue spalle.
            Hinata, a malincuore, ubbidì, mentre una lacrima di frustrazione e imbarazzo cominciò a scorrere sul suo volto arrossato. Quanto avrebbe voluto scomparire o, tutt’al più, non essere se stessa, non vivere in quella casa, non appartenere a quella famiglia.
            «Non voglio che vi frequentiate», ribadì Hiashi, arcigno.
            «Siamo compagni di classe, credo che sia inevitabile incontrarci a scuola», rispose il biondo, per niente turbato da quel malumore. Era abituato a subire i pregiudizi della gente, si era fatto le ossa con le critiche, le botte e il disprezzo delle persone, e ora nulla lo sfiorava. Aveva imparato a vivere così, con il sorriso sulle labbra e una forza d’animo incredibile, pronta per essere messa a disposizione di chi davvero la meritasse. E per quanto poco la conoscesse, Hinata era degna della sua energia.
            «Vi parlerete il minimo indispensabile. Non voglio che tu la renda più deludente di quanto già non sia».
            «Hinata è una ragazza eccezionale! Sono lieto di stare in classe con lei e sarei orgoglioso di potermi dire suo amico», urlò l’Uzumaki, prima di voltare le spalle e raggiungere l’auto di Itachi, stringendo i pugni per la rabbia.
           
Quando la vettura ripartì, Hiashi Hyuga rientrò in casa, sbattendo violentemente la porta alle sue spalle. Si trovò di fronte la figlia, con il capo chino e una mano sul cuore. Aveva sentito perfettamente le parole di Naruto e ancora non credeva possibile che davvero fosse riuscito a dire qualcosa del genere; doveva accertarsi che non si trattasse di un sogno, così si era premuta un palmo sul petto, controllando anche i battiti cardiaci.
            Non appena sollevò la testa, pronta a scusarsi con il padre, uno schiaffo colpì la sua guancia destra, facendole sbattere lo zigomo contro lo spigolo di un mobiletto, che tremò come la ragazza, sotto quella violenta percossa.
            «Ti sei appena giocata la patente, sappilo», dichiarò freddo l’uomo, passandole oltre.
            Hinata si accasciò sulle ginocchia, stringendo le mani sulle braccia, in preda a una crisi di pianto. Il sangue colava lungo la guancia, caldo e fluido, ma lei non lo sentiva, non riusciva ad avvertire più niente, sopraffatta dal dolore.
            Aveva a malapena intravisto Neji, di fronte a lei, e gli aveva teso speranzosa la mano, auspicando che almeno in quell’occasione lui avesse provato un minimo di pena nei suoi confronti. Il cugino abbassò le palpebre e si girò lentamente, dirigendosi verso il salotto della villa, dove Hanabi stava recitando la poesia che aveva appena finito di studiare a memoria per la scuola.
            Gli applausi dei familiari furono pugnali dritti al suo cuore, mentre si dirigeva faticosamente in camera sua.







E così la ricerca è stata portata a termine, grazie a quei due cervelloni (scusa Naruto, ma qui non si parla di te!) XD
Vi voglio ringraziare nel modo più sincero possibile per le belle parole che avete speso nei confronti della storia, per averla inserita nelle seguite/preferite/ricordate. Grazie davvero! Non mi aspettavo potesse trovare lettori così generosi... non potrei chiedere di più! :')
Spero che questo secondo capitolo vi sia piaciuto e vi abbia fatto capire quanto sia dura la vita della nostra Hinata :(
Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va, con una piccola recensione qui sotto ;) Sarei lieta di leggere le vostre opinioni e rispondervi!
Grazie di cuore! 
A presto, 

Ophelia


 ​PS: mooolto probabilmente, con il prossimo capitolo, cambierò il rating della storia, come avevo accennato ;) Vedrò di fare il possibile per aggiornare presto!

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Capitolo 3
*** Tutto, fuorché amore ***


3. Tutto, fuorché amore

 
 
 
 
Karin possedeva lo stesso cognome del suo migliore amico, ma non glielo ricordava minimamente: capelli rossi, occhi dello stesso colore caldo, pelle delicata e occhiali. Inoltre, anche il suo carattere era diverso da quello dell’altro Uzumaki: se il biondo era bonario, distratto, costantemente allegro, la ragazza era invece lunatica, scontrosa, ma determinata ad avere tutto ciò che bramava. Un esempio pratico? Sasuke Uchiha.
            La giovane non aveva esitato ad accogliere il moro, non appena gli si era presentato davanti alla porta dell’appartamento in cui viveva con una vecchia zia, perennemente rintanata in salotto a guardare qualche telenovela strappalacrime, con le cuffie alle orecchie e il viso grinzoso a un palmo dallo schermo. Sasuke l’aveva salutata anche questa volta e lei aveva ricambiato distrattamente con un gesto della mano, tornando a fissare la tv.
            Karin si avvinghiò emozionata al braccio del corvino, stringendolo così forte da fargli percepire quasi i battiti del suo cuore.
            «Andiamo in camera mia», gli aveva suggerito con un tono suadente, all’orecchio. Sasuke non fiatò nemmeno e si lasciò condurre verso l’alcova.
           
La stanza era identica a una settimana prima, sommersa dal disordine di vestiti e scarpe, ma il letto era perfettamente intatto, adornato anche da quel copriletto di raso rosso che avevano già sgualcito insieme.
            «La prossima volta sistemerò meglio», sorrise Karin, spingendo il paio di sneakers che si era appena scalzata dietro la scrivania. «Adesso, però, goditi lo spettacolo», ammiccò sibillina, chiudendo la porta a chiave, nonostante fosse sicura che sua zia sarebbe rimasta incollata alla tv fino alle ventidue. Perfetto, avevano ancora poco meno di due ore per spassarsela.
            Sasuke si accomodò sul letto, sfilandosi la giacca e osservando la rossa che lo aveva imitato, gettando la parte superiore dell’uniforme sulla sedia.
            Le sue dita affusolate cominciarono a sfilare lentamente i bottoni dalle asole, mentre i fianchi ondeggiavano sensualmente, al ritmo della canzone che aveva fatto partire con un pulsante dello stereo. Fece scivolare giù dalle spalle, con una grazia felina, la camicia bianca, rivelando la sorpresa: un corpetto nero con fiocchetti rossi, stretto fino all’inverisimile, che lasciava quasi traboccare fuori il seno. Sasuke non poté che sorridere, a quella vista, e quell’espressione fu la molla che le fece perdere la testa, aumentando la velocità del suo spogliarello. Sbottonò la gonna con un gesto veloce, abbandonandola ai piedi, e saltò fuori da quella circonferenza di stoffa nera con un balzo, avvicinandosi al letto.
            Sasuke si distese morbidamente, appoggiando il peso sui gomiti e invitando così la rossa ad approfittare di quell’occasione che le stava servendo su un piatto d’argento. Non servirono altri segnali, perché Karin si gettò d’impeto su di lui, circondandogli il collo con le braccia e assaporando le sue labbra sottili e ambite.
            Quel bacio non le bastava. Sentiva le mani del moro accarezzarle la schiena nuda e sotto il tocco di quei polpastrelli si stava scatenando una tempesta di brividi. Quel bacio non le bastava. Spinse la lingua dove le labbra non potevano arrivare. Sasuke sorrise, staccandosi da lei solo per sfilarle gli occhiali e appoggiarglieli sul comodino. Quel bacio non bastava più nemmeno a lui.
            «Allora vuoi fare sul serio…», osservò il ragazzo, con una voce improvvisamente roca e un ghigno malizioso.
           
Karin gli aprì la camicia con veemenza, facendo saltare gli ultimi due bottoni. Le mani accarezzarono il suo petto caldo e statuario, mentre le sue labbra cominciavano a baciargli il collo, il pomo d’Adamo, le clavicole. Sasuke invece si cimentò nell’impresa di slacciare quel corpetto invitante, ma si arrese quasi subito, imprecando sottovoce. La ragazza rise e, in men che non si dica, armeggiò con quel diabolico strumento di seduzione, liberando il suo petto da quella morsa lussureggiante.
            Lui l’abbracciò e capovolse le posizioni, coprendola di baci dal mento all’ombelico. L’aria era pervasa dal respiro affannato della giovane e dagli schiocchi di labbra dell’Uchiha, che stava velocemente risalendo verso i seni. Sapeva esattamente come farla impazzire.
            Dal canto suo, nemmeno lei l’avrebbe deluso: con mani sicure gli solleticò la schiena, fino a scendere sui fianchi e raggiungere il bordo dei pantaloni. Si affrettò a sbottonarli e a calare la zip, per poi farglieli scendere fino alle ginocchia, lasciando che lui se ne liberasse velocemente. Solo due pezzi di stoffa dividevano due eccitazioni simili, per quanto diverse.
            Sasuke fu il primo a sbarazzarsi di uno dei due, sfilando con una logorante lentezza gli slip neri alla rossa.
            La guardava negli occhi, mentre si contorceva e soffriva piacevolmente, sussurrando il suo nome. Queste erano le soddisfazioni che si prendeva: veder cadere continuamente ragazze ai suoi piedi, ascoltare le loro voci chiedere sempre di più, accontentarle e appagare un istinto naturale, per poi lasciarle sui quei letti morbidi e disfatti a riprendere fiato, mentre lui si rivestiva e si lasciava alle spalle l’ennesima vittima, e una nuova cicatrice nell’anima. Per quanto provasse piacere nell’appagare i sensi, sapeva benissimo che c’era qualcosa di malato, in quelle situazioni; era a conoscenza che dentro di lui c’era del marcio. Era consapevole che quello era tutto, fuorché amore.
            Le mani di Karin, introdottesi ormai nei boxer, lo distrassero dai suoi pensieri. Quel calore improvviso, quella voglia di rompere ogni indugio, presero il sopravvento sulla razionalità. 
             Si abbandonarono rapidamente alla passione - a ciò che ritenevano tale, almeno -, per poi stendersi supini sul letto, sfiancati, appagati e sudati. 
 
Quando gli parve di aver incamerato abbastanza aria, Sasuke si sollevò e cominciò a rivestirsi, senza degnare la ragazza di uno sguardo.
             Mentre si abbottonava la camicia, sentì le mani di Karin sfiorare le sue, abbracciandolo da dietro. I seni, ancora nudi, premevano contro la sua schiena e il cotone bianco faceva filtrare il caldo respiro della rossa.
             «Sei meraviglioso, Sasuke Uchiha», sospirò tremando. Il moro chiuse gli occhi, intuendo cosa sarebbe giunto dopo quel complimento. «Perché non facciamo coppia fissa?», propose lei, stringendogli le dita.
             Il ragazzo scosse la testa, sorridendo amaramente e divincolando le sue mani, il suo corpo, da quella morsa. Si girò lentamente verso la Uzumaki, puntando il suo sguardo nel suo, per quanto i suoi occhi neri avrebbero volentieri vagato altrove.
             «Non sono portato per queste cose». Conciso, sincero e spietato.
             «Posso essere ancora più convincente», sussurrò lei, avvicinandosi e inginocchiandoglisi davanti, pronta ad abbassare nuovamente la zip dei suoi pantaloni. Il ragazzo si affrettò a fermarla, allontanandola con una leggera spinta.
             «No, Karin. Non voglio, punto», dichiarò stentoreo.
             La rossa si alzò a fatica, tremando. Si sarebbe aspettata di tutto, ma non un rifiuto.
             «Ma perché?», quasi urlò, non riuscendo a comprenderlo.
            Sasuke abbassò il capo, nascondendo un ghigno divertito. Come poteva chiedergli il motivo? Non era forse evidente? Rialzò il volto e la scorse improvvisamente fragile, mentre si stringeva le mani al petto, tradendo il desiderio di nascondersi. Dov’era finita, quella tigre di poco fa?
            «Perché non sono innamorato di te», affermò freddamente, raccogliendo la giacca e gettandosela su una spalla.
            Fece scattare la chiave nella serratura e riaprì con decisione la porta, ignorando le lacrime e gli insulti della ragazza. Non aveva potuto evitare di ferirla, ma non riusciva a dispiacersi per lei. D’altro canto, non l’aveva mai illusa, non le aveva mai fatto sperare che fra loro potesse nascere qualcosa; era stato tutto un vano pensiero della giovane.
            Attraversò con passo sicuro il salotto e aprì il palmo della mano in segno di saluto verso l’anziana signora incollata allo schermo.
            Scese velocemente le scale e uscì da quello stabile, riprendendo i contatti con il mondo esterno e l’aria fredda. Non temeva le conseguenze di quella spietatezza, avrebbe comunque continuato a sostenere lo sguardo carico di rancore della sua compagna di classe. Non era la prima e, molto probabilmente, non sarebbe stata nemmeno l’ultima.
           Infilò una mano nella tasca dei pantaloni e afferrò il pacchetto di sigarette; ne sfilò una e la portò alle labbra. Con l’altra prese l’accendino e l’accese, proteggendo la fiamma dai possibili colpi di vento.
          Arrivò con calma verso l’auto e si appoggiò alla portiera, inspirando profondamente la nicotina e osservando poi la nuvola di fumo alzarsi verso il cielo, illuminata dalla luce tremolante di un lampione. Quando arrivò alla cicca, spense il mozzicone sotto la suola della scarpa e salì in macchina, riaccendendo il motore. Erano le ventuno e trenta, quando un imperativo morale lo assalì: doveva tornare a casa e cominciare a copiare la ricerca.
 
 
***
 
La radiosveglia segnava le sei e trentasette, con i suoi caratteri cubitali. Avrebbe potuto godersi il piacere di un sonno ristoratore per ancora un quarto d’ora almeno, ma non era riuscita a chiudere occhio tutta notte, perciò si arrese e staccò l’allarme dell’orologio: non avrebbe sopportato quel molesto annuncio dell’arrivo di un nuovo giorno, di una nuova delusione.
            Si attorcigliò nelle coperte, osservando il sorriso beato di Hanabi, ancora profondamente addormentata, e sorrise dolcemente, scorgendo quella serenità sul volto della sorella. Le voleva bene, era l’unica della famiglia a mostrare qualche segno d’interessamento nei suoi confronti. Una volta era loro madre a preoccuparsi per lei, ma, da quando era deceduta in un incidente d’auto, l’unica che ancora si fermava a chiederle come stesse, a sostenerla, incoraggiarla o semplicemente parlarle, era quella tredicenne ora assopita.
 
Hinata ripercorse nella memoria quel maledetto giorno in cui la sua vita cominciò irreparabilmente a incrinarsi. Erano passati cinque anni, ma ricordava perfettamente la scena. Lei aveva appena terminato la lezione di danza classica e sua madre, come sempre, era giunta a prenderla per riportarla a casa. Era fiera di Hinata, a dispetto dei dubbi del padre, riguardo quella disciplina: lui osservava sempre Neji, così forte, determinato, promettente karateka, e stilava un inevitabile confronto con la maggiore delle sue figlie, finendo sempre per rimpiangere di non aver avuto un maschio. Le cose erano decisamente diverse, con Hanabi: lei sembrava possedere la stessa stoffa di Hiashi, imperturbabile e reattiva.
            La signora Hyuga stava guidando con calma verso casa, mentre la piccola Hinata si stava criticando per non essere riuscita ad eseguire un perfetto arabesque, quando un’auto giunta contromano si scontrò violentemente contro la loro.
            Lo stridio dei freni premuti inutilmente, il raccapricciante rumore delle lamiere accartocciatesi, il prolungato suono di clacson provocato dal peso morto della madre sul volante; e poi le sirene dell’ambulanza, i lampeggianti della polizia, gli sguardi impressionati dei passanti…e le urla, le urla disperate di una ragazzina coperta di un sangue carissimo, miracolosamente illesa.
            La sua fine aveva avuto quell’inizio. Il suo Inferno in quella dimora era cominciato quel giorno, e sapeva che non avrebbe mai avuto fine.
            Ogni volta che guardava le fotografie della madre, un desiderio di morte s’impossessava del suo cuore, costringendo la mente a farla sentire sempre più responsabile dell’incidente. Non era colpa sua, era stata l’altra auto a scontrarsi con la loro, in quel senso unico, ma Hiashi la condannava sempre quale responsabile della loro infelicità. “Se tu non avessi cominciato quell’inutile corso, tua madre sarebbe ancora qui!”, aveva urlato in sua direzione, la sera del funerale. Quell’astio dettato dalla circostanza le bruciava ancora nel cervello e nel petto. Sì, suo padre aveva delle ottime ragioni per detestarla, ma sperava che sarebbe riuscito a perdonarla.
Perdonarla? Ma faceva sul serio? Suo padre non l’avrebbe mai potuta assolvere. Lei stessa non l’avrebbe mai fatto.
 
Si alzò lentamente dal letto, infilò le ciabatte, ordinatamente sistemate vicino al tappeto, la sera prima, e dischiuse cautamente la porta del piccolo bagno della camera.
            Aprì il rubinetto del lavabo e osservò il getto d’acqua per alcuni secondi, come ipnotizzata, prima di sollevare il viso e affrontare lo specchio. Di fronte a lei era riflessa impietosamente l’immagine di un fantasma: capelli arruffati, come se fosse appena uscita da una lotta, occhiaie marcate e iridi arrossate. Oh, e un livido sulla guancia, corredato da un taglio lungo un paio di centimetri, ricordo del pomeriggio precedente. Sì, sembrava decisamente una derelitta appena scampata a un pestaggio, ma non se ne curò. Avrebbe cercato di nascondere i danni con un cerotto, sperando che nessuno la notasse. Riuscì persino a sorridere, rincuorata: lei era Hinata Hyuga, chi mai l’avrebbe degnata di qualche sguardo?
            Non appena finì di lavarsi e vestirsi, scosse delicatamente la sorella, per ridestarla; quando vide un suo occhio aprirsi, accompagnato da un mugolio di dissenso, scese al piano terra, sicura che presto Hanabi l’avrebbe raggiunta.
            Prima di fare colazione, arrivò furtivamente allo sgabuzzino e prese un cerotto abbastanza grande da coprire l’ematoma; lo applicò accuratamente, specchiandosi nel vetro di una finestra, e si diresse poi verso il salotto.
 
Suo padre era seduto al tavolo, intento a sorseggiare un caffè nero e a chiacchierare con Hizashi, suo fratello gemello, e la moglie di questi. La ragazza non osò guardarli, sedendosi al suo posto, il più lontano da loro, in quella tavolata da venti convitati.
            Non erano affari suoi, né davvero le interessava sapere di cosa stessero discutendo.
            «Thè verde e biscotti: ecco qui, signorina», le sorrise una donna sulla cinquantina, dall’uniforme nera e il grembiule candido.
            «Grazie, Shimoko». Abbozzò un sorriso di cortesia alla governante, che si allontanò prontamente verso la cucina.
            Hinata mescolava con calma la bevanda calda nella tazza, lasciando che il vapore salisse fino al suo volto, procurandole una sensazione di calore simile a una carezza. Non ricordava più quanto potesse essere gentile il tocco di una mano sulla guancia, né quanto i polpastrelli fossero morbidi e delicati, come petali di rose vellutate. Strinse il cucchiaio con forza, reprimendo una lacrima amara, mentre le tornava in mente lo schiaffo rabbioso del padre. Quello, invece, era un contatto fin troppo noto.
            «Non prenderà la patente?! Ma Hiashi, è tua figlia!», sbottò a un certo punto Hizashi, sconcertato.
            La ragazza incrociò gli sguardi dei suoi familiari, improvvisamente puntati su di lei. Nemmeno il copioso fumo che si alzava dalla tazza era abbastanza fitto da nasconderla, ora.
            «Non c’è bisogno di ricordarmelo», commentò monocorde il padre, alzandosi, uscendo dalla stanza e sbattendo la porta. Le era passato oltre, ancora una volta, e Hinata si domandò se lei sarebbe mai riuscita a passargli attraverso. Attraverso il cuore, ad esempio.
           
Sorseggiò a fatica qualche goccio di thè, rinunciando a toccare i biscotti. Le si era chiuso lo stomaco, e nemmeno ne capiva il motivo: doveva ormai essere avvezza a quel genere di comportamento. Quelle scene erano un classico che si ripeteva quasi ogni settimana, a volte anche concedendo bis. Parole cariche di nervosismo, sguardi truci e inutili tentativi di placare una tempesta, cui seguivano il rombo di tuono – porte chiuse violentemente alle spalle o sedie trascinate con poco garbo contro il tavolo.
            «Neji, buongiorno!», rise Hanabi, affianco della sorella. Hinata non si era nemmeno accorta che si trovasse lì, così vicina e solare. «E buongiorno anche a te, Nee-chan!».
            L’aniki sorrise in direzione della ragazzina, ma durò solo un secondo. Quando incrociò gli occhi freddi del cugino, sedutosi vicino alla sua imouto, non poté evitare di ripensare alla freddezza del pomeriggio prima. Osservava la propria mano tremante, che aveva allungato in cerca di aiuto, e si sentì avvampare dall’imbarazzo. Che stupida! Era riuscita a rendersi ancora più patetica e debole, ai suoi occhi.
            «Cos’è quel cerotto?», chiese curiosa Hanabi, sfiorando la guancia della sorella.
            «N-nulla… mi sono graffiata nel sonno», mentì, con un sorriso forzato.
            Neji sollevò scetticamente un sopracciglio, mentre beveva il suo thè. Dopo pochi secondi si alzò di scatto e si avvicinò ai genitori. Osservarli da quella prospettiva, intravedere la serenità sui loro volti, faceva sembrare la loro una famiglia normale, quando così non era.
            «Neji, accompagna anche Hinata, oggi». Sua madre lanciò un’occhiata fugace alla nipote maggiore, per poi tornare a fissare il figlio.
            «Come? Lo zio non vuole… e io non intendo disobbedirgli», dichiarò con tono deciso e riguardevole.
            «Non vorrai però disobbedire ai tuoi genitori!», esclamò sorpreso il padre.
            Il ragazzo sospirò, chiudendo gli occhi. «Non oserei mai», sussurrò.
           
***
           
 
Hinata non capiva come potesse essere davvero successo: per la prima volta da quando Neji aveva conseguito la patente, si trovava nella sua auto, seduta al suo fianco, dopo che Hanabi era scesa alla scuola media.
            Di solito raggiungeva il liceo in bus o in bicicletta, mentre lui vi si recava in solitaria, a bordo della macchina, dopo aver accompagnato la cuginetta al suo istituto, proprio come aveva fatto quella mattina. Erano ordini dello zio, non poteva che obbedire.
            La ragazza osservava la strada che correva fuori dal suo finestrino: le faceva uno strano effetto vederla scorrere così velocemente, rispetto al solito.
           
«Toglilo», le ordinò il giovane, spezzando improvvisamente il silenzio.
            La mora sgranò gli occhi, girandosi lentamente. Stava davvero parlando con lei? Quando era stata l’ultima volta? Forse due settimane fa, a cena, quando lei gli aveva chiesto se, gentilmente, le avesse passato la caraffa dell’acqua.
            «C-cosa?», balbettò confusa.
            «Il cerotto. Levalo. Fa sembrare il danno più grave di quanto non sia, senza contare che merita di essere visto», dichiarò con un tono sprezzante.
            Hinata si strinse una mano al petto, cercando di reprimere il senso di delusione nato da quelle parole. Neji era il degno erede di Hiashi Hyuga, niente a che vedere con la lieve umanità dei suoi genitori.
            «Non me la sento». Lei stessa si stupì per aver trovato la forza di confessarlo.
            Lui si voltò un secondo per guardarla, con aria sorpresa. Poi scoppiò a ridere, mentre parcheggiava, con una manovra netta, davanti alla scuola. Spense il motore e si girò di nuovo verso la mora, con un’espressione più seria e maligna del solito.
           «Non ti è ancora chiaro che a nessuno importa cosa provi, come ti senti, ciò che desideri? Non hai ancora capito che sei viva solo per poter scontare l’Inferno cui sei scampata quel giorno? Come puoi essere così impudente da deludere costantemente quel pover’uomo di tuo padre? Gli hai già spezzato il cuore, e ora cammini sui cocci di quel che rimane di lui, senza nemmeno accorgertene. Come puoi odiarlo tanto? Sei spregevole, Hinata. Non sei degna del nostro nome! Ti nascondi dietro una maschera di timidezza, ma sei una stronza».
            Gli sputò addosso tutta quella cattiveria senza smettere di fissarla dritto negli occhi, cogliendo le reazioni che si erano susseguite sul volto della ragazza: sgomento, stupore, tristezza, autocommiserazione e… era rabbia, quella? Quei pugni chiusi avrebbero attraversato l’atmosfera e trovato un bersaglio? Impossibile, lei era Hinata.
 
Strinse gli occhi e digrignò i denti, impedendo all’urlo di sconforto di schiantarsi contro le pareti dell’abitacolo, da cui Neji era appena sceso.
             Si detestava; era debole, inutile, trasparente agli occhi di tutti e visibile solo a pochi sguardi, solo per essere presa di mira e disprezzata. Non li biasimava, nemmeno questa volta. Quanto avrebbe preferito un altro schiaffo, un calcio in pancia, rispetto a quelle parole dure, taglienti, improvvisamente vere, alle sue orecchie!
            Il cugino aprì di scatto la portiera del lato passeggero e lei trasalì.
           «Scendi», ordinò freddamente. Lei obbedì e indietreggiò di un passo, dando così spazio al ragazzo per richiudere lo sportello.
           Neji si girò e tornò a fissarla con disappunto, soffermandosi sul cerotto. Senza dire una parola, con un gesto fulmineo, glielo strappò di colpo, facendola tremare per il dolore.
          «Gli ordini sono ordini. Quella ferita va sfoggiata come una medaglia, perché te la sei meritata», dichiarò arcigno, lasciandosela poi alle spalle, pronto a entrare nell’atrio.
 
Hinata si massaggiava lentamente la guancia arrossata, cercando di mantenere i piedi saldi sul terreno. L’altra mano era stretta in un pugno, abbandonata lungo il fianco. Avrebbe voluto accasciarsi, piangere e urlare, ma si trattenne. Basta lacrime, delusioni e pensieri: era a scuola, i problemi dovevano rimanere lì fuori, o a casa, dove degli altri l’avrebbero certamente aspettata. Là dentro c’era tutto, fuorché amore.
            Riaprì il palmo della mano, inspirò profondamente e si decise a entrare, tenendo la testa il più alta possibile e sfoggiando la sua consueta aria tranquilla.
 
Nel parcheggio, due occhi carichi di rabbia avevano osservato tutta la scena e un pugno, decisamente meno delicato del suo, si era stretto, desideroso di andare a segno.

 

 
 
Non so ancora bene come questo capitolo sia uscito (soprattutto la prima parte ahah *impaccio alle stelle*). Sul serio, è la prima scena “hot” (or not?) - pseudo-lime - in cui mi cimento e non nascondo di essere:
1. imbarazzata
2. timorosa di aver scritto una vera schifezza
3. imbarazzata, l’ho già detto?
Questa scena non è fine a se stessa, serve in qualche modo a darci un'idea su che tipo sia Karin... beh, non anticipo nulla ;)
Tutto è uscito di getto sulle note di Björk e della sua “Pagan Poetry” messa in loop semi-eterno XD (la mia droga, in questo periodo)
Ma, oltre a lei, ringrazio di tutto cuore le mie carissime “Ophelia’s Angels”: DoubleSkin e Valkiria <3 L’una per avermi trasmesso il coraggio di sperimentare, sperimentare continuamente, l’altra per avermi fatta innamorare delle sensazioni di un cuore puro come quello di Hinata; entrambe per il palpabile affetto e sostegno!
Un grandissimo ringraziamento va a tutti voi che avete letto, recensito, inserito la storia nella preferite, ricordate e seguite. Grazie, grazie, grazie! Per me significa tantissimo, sul serio! :’)
Allora mi aspetto i vostri fiumi di parole (?)… io preparo la barchetta, onde non naufragare ;D
Grazie di nuovo! Un abbraccio,
 
Ophelia  

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Capitolo 4
*** Disprezzo ***


4. Disprezzo

 
 
 

La lezione di matematica era noiosa, non c’erano santi che tenessero. Inutile che il professor Asuma – che preferiva essere chiamato con il nome proprio, tralasciando il pesante cognome, che lo accostava all’ex preside, suo padre - accompagnasse con battute simpatiche le dimostrazioni sullo studio delle funzioni, cercando di far notare ai ragazzi quanto le curve degli asintoti ricordassero le ali di una farfalla o le forme burrose della signora della mensa. Gli unici che lo stavano veramente seguendo erano Shikamaru e Naruto; il primo perché nutriva una sorta di venerazione per l’insegnante, il secondo perché adorava quelle uscite strampalate di Sarutobi.
            Due occhi neri fissavano di tanto in tanto la lavagna, ma lo facevano solo per distrarsi da pensieri rabbiosi, irritati e irritanti, che avevano creato una cappa nella sua mente. Appariva imperturbabile come sempre, avvezzo com’era a nascondere tutto quello che gli frullava in testa dietro una maschera di indifferenza che gli altri giudicavano pretenziosamente come arroganza. Sì, forse possedeva anche quel difetto, ma quegli idioti non capivano che, molte volte, faceva loro un piacere nel non mostrare la sua vera indole, o si sarebbero trovati stesi a terra con il setto nasale rotto, senza nemmeno accorgersene.
            Appariva neutrale, ma lo tradiva il veloce tamburellare delle dita sul foglio del quaderno, che produceva un leggero ticchettio ovattato; quasi scandiva il tempo meglio dell’orologio sopra la porta. Doveva resistere ancora venti minuti, poi avrebbe potuto scatenare il suo demone.
            Nel frattempo non poteva evitare di fissare il suo bersaglio dai lunghi capelli neri, semi-raccolti in una coda approssimativa; non aveva mai sopportato troppo quel ragazzo e, dopo la scena che aveva visto quella mattina, accompagnata dal resoconto di Naruto del rientro di Hinata, Sasuke aveva accresciuto la rabbia nei confronti di Neji.
            Era strano, non si sarebbe mai immischiato in vicende che non lo riguardassero direttamente, né gli stavano a cuore i problemi degli altri, eppure, osservare la freddezza dello Hyuga nei confronti della cugina, dopo che questa aveva dichiarato totale stima nei suoi confronti, aveva fatto scattare una molla, in lui, che non poteva non essere sfogata che con uno scontro.
            L’Uchiha spostò istintivamente lo sguardo verso Hinata. La ragazza, in penultima fila, stava fissando il suo quaderno, con la testa inclinata di lato e una mano a sostenerla. Le dita pallide tentavano di coprire quel livido che ancora le pulsava sulla guancia; un contrasto cromatico che generava un certo malessere persino in lui, soprattutto quando aveva notato quelle due gocce cadere sul foglio. Stava piangendo, di nuovo, ed era una vista che non riusciva più a tollerare.
            Strinse i pugni, lanciò un’occhiata nervosa all’orologio e poi tornò a guardare rabbiosamente Neji. Aveva i minuti contati, altroché.
 
Tenten strinse la mano di Hinata, al suono della campanella della ricreazione. Era arrivata in ritardo, così non era riuscita a domandarle il perché di quella ferita al volto; aveva passato la mattinata a chiedersi cosa fosse successo, guardando di tanto in tanto l’amica, ma non era venuta a capo di niente.
            «Stai bene, Hina?», le aveva semplicemente chiesto, osservando i suoi occhi arrossati.
            «Certo», sorrise. Era capace di negare anche l’evidenza, ma sperava che l’amica non si accorgesse della bugia.
            «Cos’è successo ieri? È stato Sasuke, vero? Ti ha importunata, hai cercato di difenderti e lui ti ha picchiata, non è così?», quasi urlò Tenten, preoccupata.
            «No… cosa ti salta in mente?», contestò lei, inarcando le sopracciglia. Era assurdo! Come poteva pensare una storia del genere?
            «Chi ha importunato Hinata?», domandò nervosamente Kiba, girandosi verso di loro.
            «Sasuke Uchiha», urlò la castana, senza curarsi se altri l’avessero sentita.
            «Quel bastardo! Ci ha provato anche con te?», ringhiò il ragazzo, girandosi verso il diretto interessato. «Adesso vado lì e… e…». La rabbia era tale da impedirgli di concludere la frase.
            «Ragazzi, non è stato lui, ve lo giuro», li rassicurò la Hyuga.
            «E allora chi?», chiese la sua amica, con espressione rammaricata.  
            Hinata li guardò attentamente per alcuni secondi. Erano i suoi migliori amici, anzi, quasi una famiglia, al confronto della reale; non voleva che fra loro ci fossero segreti, perché erano le uniche persone al mondo di cui si fidava ciecamente, che la capivano e cui stava a cuore… eppure, quella realtà era troppo sconvolgente perché potesse essere ammessa. Parlare o tacere? Raccontare qualcosa di doloroso, di cui si vergognava da morire, o mentire, e spegnersi lentamente?
            «Mi sono iscritta a un corso di kick-boxing!», esclamò raggiante. Mentire, come sempre.
            «Mi sembrava di avertelo già detto ieri. Basta cazzate, Hinata».
            La Hyuga si girò spaventata verso quella sorgente sonora, scorgendo due occhi neri che cominciava ad incrociare spesso. Sasuke era ora di fronte a lei, con un’espressione piuttosto nervosa.
            «Oh proprio te, cercavo! Come ti sei permesso di fare questo a Hinata? Vuoi che ti prenda a botte, eh? Non ho paura di te!», sbottò Tenten, avvicinandosi.
            «Non ci ho provato, con lei. Dopo aver tentato un approccio amichevole con te, qualche anno fa, ho capito che è meglio evitare te e chiunque graviti intorno alla tua orbita, razza di psicopatica», rispose freddamente l’Uchiha.
            La castana arrossì visibilmente, ammansendosi. Come poteva essere tanto meschino da rivangare quel ricordo lontano?
            «Cosa?!». La domanda uscì con stupore, contemporaneamente, dalle labbra di Hinata e Kiba.
            «Le volevo semplicemente offrire un cappuccino al bar della scuola, dato che mi aveva prestato un foglio di protocollo per una verifica, ma lei si era messa a strillare che non sarebbe caduta ai miei piedi “come tutte le altre cagnette” che mi “sbavano dietro” … e che non avrei mai aggiunto il suo nome sulla mia “personalissima lista da puttaniere”», aveva ammesso tutto con naturalezza, come se la cosa non lo avesse mai riguardato.
            «Avevo esagerato, lo so», ridacchiò Tenten, grattandosi la nuca.
            Hinata e Kiba sorrisero rincuorati, tirando un sospiro di sollievo.
           «Comunque, se non vi dispiace, vorrei fare quattro chiacchiere con la vostra amica», affermò deciso il moro.
           «Ci dispiace, eccome! Pensi forse che te lo permetteremo?», domandò retoricamente Kiba, accigliandosi.
           Hinata osservò Sasuke, turbata da tutte quelle attenzioni provenienti dal corvino. Non si erano che parlati ieri, in tutta la loro vita, sostanzialmente, e quello che ne era venuto fuori non era nemmeno paragonabile a un dialogo. Improvvisamente si ricordò di quel loro discorso su Naruto, la promessa con cui l’aveva rassicurata; in quel ragazzo che tutti temevano e giudicavano come un poco di buono, in fondo, forse, c’era ancora qualcosa di sano. Qualcosa per cui valesse la pena fidarsi di lui, almeno per poco.
             «Va bene, andiamo», mormorò lei, incrociando il suo sguardo.
             «Sei pazza? Tu non vai da nessuna parte, con questo porco!», insisté Kiba, sfiorandole una mano.
             «Ripongono proprio grande fiducia in te!», commentò ironicamente Sasuke.
             «Se non l’hai capito, è di te che non ci fidiamo», spiegò Tenten, con aria torva.
             Il ragazzo ignorò quella delucidazione, afferrando Hinata per un braccio e trascinandola fuori dall’aula. Inutile che lei cercasse di divincolarsi o che i suoi amici urlassero insulti all’Uchiha, perché il moro si lasciava cadere tutto alle spalle con indifferenza. Non aveva cattive intenzioni. Non verso la ragazza dai capelli blu, almeno.  Anche Tenten l’aveva capito e aveva trattenuto Kiba per una spalla, quando questi aveva cominciato a camminare in loro direzione, convincendolo che non sarebbe successo nulla.
 
Sasuke le stava davanti, con il suo sguardo indagatore e l’aria cupa. Hinata, con le spalle al muro, nell’angolo in fondo al corridoio, lo fissava intimorita, tremando come una foglia. Voleva scappare, nascondersi, ma non riusciva a muovere le gambe, né tantomeno a distogliere le sue iridi perlacee da quelle del ragazzo. Erano loro a bloccarla lì, scure e affilate.
            «Chi è stato?», domandò con una calma che era solo apparente.
            «N-nessuno», biascicò lei, riuscendo a vincere un nodo in gola.
            «Non sai mentire, questo l’ho già assodato ieri», dichiarò freddamente lui, avvicinandosi. Hinata sgranò gli occhi, colpita da quelle parole. Com'era riuscito a capire tante cose di lei, in un solo pomeriggio?
            «Non è nulla, solo una piccola botta. Passerà», asserì lei, rassegnandosi alla sua irruenza.
            «Neji o tuo padre?», domandò spazientito, senza giri di parole.
            «Cosa stai dicendo?!», chiese sorpresa, appoggiando le mani aperte al muro, come per trattenersi dal cadere sulle ginocchia, in preda allo shock.
            «Naruto mi ha raccontato della rabbia di tuo padre, e io ho visto la scena di stamattina con tuo cugino, ergo, il colpevole non può essere che uno dei due», spiegò lui.
            Hinata rabbrividì e spalancò la bocca, incapace però di articolare un solo suono. Voleva fuggire da quell’angolo, da quella scuola, dalla sua vita, eppure era bloccata lì, in quelle precise coordinate spazio-temporali, proprio da quegli occhi scuri che la fissavano nervosi.
            «Non è una questione che ti riguarda», mormorò affranta, piegando la testa.
            Sasuke trattenne un ghigno sinistro, osservando il suo capo abbassato. Eccola di nuovo arrendevole e disarmante, il perfetto agnello da immolare. Non poteva sopportarlo.
            «Cazzo, Hinata! Come puoi avere tanto in disprezzo te stessa?», tuonò il ragazzo, picchiando violentemente il pugno sul muro, a pochi centimetri dalla guancia sinistra della Hyuga, che si scosse dallo spavento.
            Tornò a guardarlo con occhi pieni di paura, senza curarsi delle lacrime che le scendevano incontrollabilmente giù per le guance. Era reale? Si portò una mano al cuore, come sempre faceva per cancellare i dubbi che si potesse trattare di un sogno. Battiti accelerati, respiro irregolare e una lacrima le si era infranta sul polso. Sì, stava succedendo davvero.
            «Sasuke, per favore, voglio tornare in classe», lo implorò flebilmente.
            «Vedi? Tu preghi, scongiuri le persone perché ti trattino da essere umano, senza accorgerti che queste cose ti spettano di diritto. Sei una persona, Hinata. Vali quanto gli altri. Anzi, potrebbe sorprenderti il fatto che per alcuni tu conti ancora di più del resto del mondo». Il suo tono era deciso, ma non glaciale quanto lei si sarebbe aspettata, eppure le si gelarono le vene.
            Sasuke si spostò e le lasciò campo libero, così lei fece timidamente qualche incerto passo avanti, ritornando alla luce. Non riuscì a trovare il coraggio per guardarlo, né di dire qualcosa, così corse velocemente in classe. Quando raggiunse la porta, inspirò profondamente, asciugò con forza le lacrime e si dipinse un sorriso sulle labbra. Osservò la nuca bionda di Naruto e l’espressione le uscì più radiosa del previsto.
 
Il giovedì non era decisamente uno dei giorni più pesanti per i ragazzi della 5^F. Dopo una bella dose di matematica, la lezione d’inglese rasentava un livello di assurdità che non aveva paragoni; quel professore che tutti chiamavano Killer Bee era una macchietta, con i suoi discorsi astrusi in un inglese alquanto approssimativo e quella martellante tendenza di mettere in rima le parole, improvvisandosi rapper – di quart’ordine, anche qui. Eppure riusciva a catturare l’attenzione degli studenti, che lo seguivano divertiti.
            L’uomo stava spiegando i periodi ipotetici, quando la porta dell’aula si aprì. Sasuke Uchiha, senza chiedere il permesso e proferire parola, raggiunse il suo banco, fra gli sguardi attoniti di tutti. O meglio, quasi tutti; Hinata non trovava il coraggio di guardarlo, dopo quel faccia a faccia nel corridoio.
            Non era del tutto stupida, aveva notato che mancava ancora Neji e sapeva benissimo quello che probabilmente era appena successo. Strinse i pugni e strizzò gli occhi. Non poteva averlo fatto davvero!
            Spinta da una forza che non le aveva mai attraversato le fibre muscolari, si alzò di scatto, premendo i palmi chiusi sul tavolo. Improvvisamente tutti la fissarono, ma lei non si lasciò intimidire. La schiena era ritta, seppur tremante, e la mente una voragine colma di pensieri.
            «Non ti senti bene, Hina?», bisbigliò Tenten, preoccupata.
            «P-professore, mi scusi, devo...». La voce le si era smorzata in gola, quando Killer Bee si era girato in sua direzione.
            «Tutto bene, Hyuga?», chiese confuso, posando il gesso.
            La ragazza abbassò nuovamente lo sguardo e, senza nemmeno accorgersene, si precipitò alla porta. Corse imperterrita per il corridoio, come se qualcuno la stesse inseguendo con una mannaia in mano, sforzandosi di fare il più veloce possibile.
 
I passi rimbombavano per l’atrio desolato, proprio come il suo cuore. Non sapeva dove andare, e il suo cervello era annebbiato da un senso di smarrimento, preoccupazione e… rabbia, di nuovo rabbia. Non ricordava di aver mai provato quella sensazione, era un lato di lei che non conosceva; si faceva quasi paura da sola, tanto che dovette fermarsi.
            Il respiro si stava regolarizzando, ma i battiti cardiaci erano ancora pericolosamente irrequieti. Inutile cercare di chiudere gli occhi e inspirare profondamente, perché quel tamburo nel petto non voleva saperne di cessare di martellare.
            Doveva trovare Neji e accertarsi delle sue condizioni. Doveva farlo! Era suo cugino, al diavolo la scena di quella mattina! Il dovere morale e il rispetto nei suoi confronti avevano la precedenza su ogni altra sensazione, anche la rabbia. Quella collera, poi, non sapeva bene ancora verso chi rivolgerla; c’erano almeno tre parti in causa con cui prendersela: Neji, Sasuke e se stessa. Come sempre, l’unica vittima da sacrificare sull’altare del disprezzo, era lei.
            Si portò le mani al volto e cominciò a sfregare con forza le palpebre, scongiurando così il pericolo di piangere nuovamente. Quando riaprì gli occhi, era pronta a ripartire.
            «Hinata!», urlò qualcuno alle sue spalle, raggiungendola.
            La ragazza si voltò verso di lui, per poi osservarlo stupita.
           «N-non ce n’era bisogno», mormorò sorpresa.
           «Mi ha mandato il professore», spiegò il ragazzo.
           «Torna pure in classe, vado solo in infermeria. C-credo di avere un po’ di mal di testa, tutto qui», mentì lei, con un candido sorriso.
           «Allora ti accompagno», si propose, avvicinandosi.
           «No, Sasuke», affermò decisa. Il tono era serio, forse il più imperioso che la sua gola avesse mai conosciuto.
            Il ragazzo rimase sconcertato nell’udire quella fermezza da parte della giovane, solitamente timida e remissiva; inarcò le sopracciglia, piegò la testa di lato e la fissò, confuso. C’era qualcosa di strano in lei, ma, forse, era solo dovuto alla situazione.
            «Probabilmente è ancora nel bagno dei ragazzi», dichiarò il moro, con un ghigno quasi di scherno. Poteva osservare lo stupore dipingersi sul volto della Hyuga, macchiandole quelle guance pallide di un colore più acceso.
            Lei avrebbe voluto urlargli in faccia tante cose, presa dall’irritazione e dallo sconforto, ma la priorità era Neji, in quel momento. Voltò le spalle all’Uchiha e percorse a grandi falcate l’atrio, per giungere al corridoio dei servizi igienici. Appese la mano alla maniglia della porta giusta, ma quella voce la avvertì che era un’azione sbagliata.
            «Allora non sei tanto innocente come sembri, Hyuga. Entrare nel bagno degli uomini, senza pensarci due volte… audace, da parte tua», commentò sarcastico.
            Pur non vedendolo, Hinata poté perfettamente immaginare l’espressione ironica sul suo volto e quell’immagine le provocò una nuova fitta di dolore al petto. Perché non riusciva ad apparire normale? In tutta la sua vita, con ogni sforzo, aveva cercato di sembrare una ragazza naturale, il più simile possibile alla media delle altre, ma non c’era verso, perché ogni gesto che compiva era un passo falso evidentissimo. Era chiaramente diversa, una nullità che cercava di adornarsi di coraggio e serenità, quando la sua vita era un inferno di disprezzo e bugie. Menzogne che restavano fragilmente intatte agli occhi degli altri, ma concretamente sfatate da quelli di Sasuke.
Sentì i passi del ragazzo farsi sempre più vicini e strinse d’istinto la maniglia fredda, in preda alla frustrazione. Era a pochi centimetri da lei, alle sue spalle; percepiva la sua costosa acqua di colonia aleggiare nell’aria e il respiro calmo inondarle i capelli.
            «Non ho avuto la benché minima pietà per quel bastardo», sussurrò pacatamente al suo orecchio.
            La ragazza si voltò, rabbrividendo, per scorgere due iridi più nere dell’oscurità. La stava fissando con aria seria, ma anche divertita e lei si sentiva sempre più debole e, per questo, pronta ad afferrare il coraggio a piene mani.
           Senza staccare lo sguardo dal suo, abbassò la maniglia della porta; se la mano di Sasuke non si fosse appoggiata sulla sua, trattenendola, sarebbe entrata di corsa in quel luogo.
           «Sei sicura? Non sarà un bello spettacolo, per una come te», l’avvertì lui.
           «È mio cugino!», riuscì solo a dire, con il fiato spezzato.
           Strappò la sua piccola mano dalla presa di quella del giovane, si voltò verso la porta e la spalancò, infischiandosene del fatto che quella zona fosse off-limits per una ragazza. Quando richiuse con decisione l’ingresso, tutta quella scarica di adrenalina sembrava essersi già dileguata.
 
Per sua fortuna, il bagno era vuoto, eccezion fatta per quel corpo rannicchiato vicino al termosifone. Neji era seduto per terra, con la schiena appoggiata al muro, mentre teneva la testa rivolta verso l’alto e una mano premuta sul naso. Il volto era cosparso di sangue, dalle narici al mento; le dita cercavano invano di contenere quel fiume vermiglio, come tentacoli di una piovra trafitta a morte; la camicia bianca era imbrattata di rosso come se il ragazzo fosse appena uscito da un campo di battaglia, ma non c’era traccia di proiettili.
            Hinata si precipitò ai suoi piedi, portandosi le mani alla bocca, sgomenta. Suo cugino, il ritratto della forza e della pericolosa fierezza degli Hyuga, era ridotto a pezzi, a un comune mortale costituito da carne e sangue. Troppo sangue.
            «Neji…», cominciò a piagnucolare, con un groppo in gola. Vederlo così vulnerabile le faceva male, per quanto non avrebbe dovuto.
            «Stai zitta», mormorò lui, seccato, mentre cercava di alzarsi. Non poteva sopportare quella silenziosa commiserazione, soprattutto la sua.
            La cugina si portò prontamente al suo fianco, prendendogli il braccio e accomodandolo lungo le proprie spalle. Delicatamente, lo aiutò a sollevarsi e a reggersi in piedi, sostenendo buona parte del suo peso su di sé. Era felice di potersi sentire finalmente utile, anche se ben consapevole che quell’umanità non avrebbe cambiato nulla fra loro. Non sarebbe bastato un tratto di strada insieme per accorciare la distanza, anzi, colmare l’oscuro baratro che li separava.
            «Mi dispiace, Neji». Non sapeva che altro dire, in preda alla paura di ferirlo ulteriormente.
            «Vattene in classe, Hinata. Non mi serve il tuo aiuto», dichiarò contrariato, cominciando a camminare. Ma a chi voleva darla a bere? A stento riusciva a stare dritto! Senza volervi davvero credere, quella ragazza era un prezioso sostegno, in quel momento.
            «Ti accompagno in infermeria. Andrà tutto bene, non preoccuparti». Cercò di sorridergli, guardandolo, ma lui ignorò il suo volto, concentrato a fissare il pavimento.
            «Certo che non mi preoccupo, sciocca. A doversi impensierire è quel figlio di puttana che ha osato mettersi contro di me», insinuò con un ghigno sinistro.
            «N-non è il momento di pensarci», balbettò insicura, afferrando nuovamente la maniglia della porta.
           
Pregava spesso, la sera, perché i Kami la proteggessero, insieme con lo spirito di sua madre e dei suoi avi, ma quasi sempre quelle invocazioni non avevano prodotto grandi risultati. Si era convinta davvero che fosse rimasta in vita per scontare il suo personale Inferno, eppure non si arrese e, mentalmente, cominciò ad alzare i suoi preghi al Cielo. Sperava di tutto cuore che Sasuke se ne fosse andato, o non sapeva come sarebbe finita quella giornata. Ciò di cui era davvero certa, invece, era che quella storia non si sarebbe davvero conclusa. Non così facilmente, non per lei.
 
Non senza titubanza, Hinata aprì la porta e chiuse gli occhi, preparandosi al peggio. Il cuore le batteva all’impazzata, nella mente le scorrevano le congetture delle pieghe che la vicenda avrebbe potuto assumere, il corpo tremava – e non per il peso di quello del cugino. Era sul punto di fermarsi e fare marcia indietro, tornando codardamente al termosifone, se Neji non avesse staccato il braccio dalle sue spalle.
            «Posso continuare da solo, l’infermeria è proprio dietro l’angolo».
            La ragazza aprì gli occhi e si guardò intorno: nessun segno di vita, se non loro due, in quel corridoio. Tirò un sospiro di sollievo, ma durò poco. Tornò a scrutare con preoccupazione il moro, infondendosi la giusta dose di coraggio per affondare le sue iridi perlacee in quelle identiche che aveva di fronte.
            «N-non sei nelle condizioni adatte». Quella porzione di cuor di leone sapeva anche ruggire.
             Il cugino la guardò con aria stanca, irrigidendosi. Non poteva più sopportare quella confidenza intollerabile, mascherata da un’innocenza che lui non reputava sincera.
            «Taci, sei patetica!», tagliò corto, tenendo la mano sul naso. «Mi credi così stupido, Hinata?», domandò con uno sguardo tagliente.
            «C-cosa… cosa stai dicendo?», chiese sorpresa la ragazza, cominciando a torturarsi le pellicine accanto alle unghie.
            «Frequentare Sasuke, spiattellargli sotto al naso le nostre vicende familiari, mandarlo a prendermi a pugni… non credere che mi beva la storia della brava crocerossina, è sicuramente tutto un tuo piano per punirmi. Sei ridicola, Hinata! Aspetta solo che tuo padre sappia con chi stai facendo la sgualdrina!», dichiarò gelido come il vento di gennaio, guardandola dritto negli occhi, con un sorriso caustico, per poi raggiungere l’ambulatorio.
             «Non è vero, Neji! Non è così!», urlò lei, cercando di trattenerlo. Il suo palmo si protese nuovamente verso il cugino, ma nemmeno stavolta lui l’avrebbe afferrato.
 
La ragazza dai capelli blu si accasciò a terra con la delicatezza di una foglia autunnale, nel silenzio più assoluto. Scuoteva lievemente il capo, mentre una cascata corvina le copriva il volto, sicuramente percorso da qualche dolorosa afflizione a forma di lacrima. Stringeva con forza il lembo inferiore della gonna, mentre le unghie affondavano nella stoffa nera e ferivano anche l’incavo della mano.
            Non era riuscita a fare nulla nemmeno questa volta. Non era stata in grado di proteggersi dall’ennesima violenza morale, da una nuova accusa infondata, quando il suo cuore era solo carico di preoccupazione e buone intenzioni. Non aveva affermato la propria innocenza, non aveva proferito una sola sillaba in grado di arrestare il cugino, totalmente sordo alle sue urla.
            «Ti prego, Neji. Non è vero, non è vero…», sussurrò fra le lacrime, rimanendo inginocchiata in mezzo al corridoio.
           
Per quanto fosse convinta di essere sola, qualcuno aveva assistito a tutta la scena. Non erano i Kami, né tantomeno dei benevoli antenati dall’alto dei Cieli. Qualcuno aveva osservato ogni sua azione, dalla balaustra del primo piano, con una pericolosa ombra sul viso.








Ed eccoci qui! Sognavo da tempo un faccia a faccia senza mezzi termini fra Hinata e Sasuke, tra la delicatezza e la ferocia, la farfalla e la tigre... lo sognavo da tempo e non sono sicura di averlo espresso appieno XD Ad ogni modo, ci saranno altre occasioni per rivederli insieme... la storia è ancora alle origini, insomma XD
So che è da malati, ma amo pure questa stronzaggine di Neji! Mi fa male al cuore vederlo così duro con la cugina, ma non mi dispiace mantenerlo così cattivo XD Beh, almeno finora ;)
Desidero ringraziare ognuno di voi per la vostra vicinanza, l'affetto e la curiosità con cui state seguendo la storia! Grazie a chi legge, recensisce e la inserisce tra le seguite, ricordate e, addirittura, preferite! :') Non so come ringraziarvi! Spero di non deludervi, davvero!
Mi metto già all'opera per il prossimo capitolo! ;) Come sempre, se vi va di spendere un po' di tempo, fatemi sapere cosa ne pensate! Ne sarei lusingata ^__^
Un abbraccio, 


Ophelia

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Capitolo 5
*** In cauda venenum ***


5. In cauda venenum

 
 
 

Il sabato era giunto troppo lentamente, quella settimana. In casa Hyuga il tempo sembrava essersi fermato a quel giovedì pomeriggio, quando Neji era tornato con due tamponi nel naso e un divieto bello grosso che gli impediva di sfilarseli senza previo controllo medico. Il ragazzo si sentiva morire dalla vergogna nell’attraversare la villa con quei bastoncini di cotone infilati nelle narici, ma, più di ogni altra cosa, avvampava per il desiderio di vendetta.
            Di fronte alle domande preoccupate dei genitori riguardo quelle condizioni, si era inventato la scusa di essere stato colpito in pieno volto da un pallone da basket, durante l’intervallo, presso i campi sportivi dietro l’istituto. Ma quando a esigere spiegazioni era stato Hiashi Hyuga, il ragazzo aveva sorriso maliziosamente, varcando la soglia dello studio personale dello zio.
            Aveva vagato con lo sguardo sulla nutrita libreria dell’uomo, comprendente ogni sorta di scritto economico, politico e giuridico - da ottimo avvocato qual era, mentre raccontava come erano andate le cose: Sasuke l’aveva preso a pugni in bagno, sul finire dell’intervallo, senza concedergli un diritto di replica. Gli aveva intimato di “pensare ai cazzi propri” – riferì espressamente queste parole, onde sottolineare quanto il ragazzo fosse incivile – e di rispettare le persone che ancora avevano una certa stima di lui, quando l’Uchiha lo reputava un “pezzo di merda di prima categoria”.
            Davanti al pulsare nervoso della tempia di Hiashi, Neji non aveva esitato a concludere il suo discorso, passando alle maligne risoluzioni cui era giunto da solo: Sasuke Uchiha era lo sporco don Giovanni con cui Hinata aveva intenzione di intrecciare una relazione.
            Per quanto l’uomo avesse cercato di ricordare al nipote il prestigio di cui godevano gli Uchiha a Konoha, il giovane aveva prontamente replicato che Sasuke era la pecora nera della sua famiglia, un individuo che del rispettato clan possedeva solo il cognome e le caratteristiche fisiche. In lui non c’era niente di buono, proprio come in Hinata.
           Hiashi aveva battuto con violenza il pugno sulla scrivania, chinando il capo. «Un tale disonore non me lo sarei mai aspettato. Mia figlia… tua cugina va assolutamente fermata! Sono stato troppo indulgente con lei, adesso è il momento di fare sul serio: assicurati che quei due non si vedano, non si parlino e che non abbiano modo di stare insieme, fuori dall’aula. Quella disgraziata non fa che frequentare individui deplorevoli, dall’Uzumaki all’Uchiha! Neji, hai il pieno diritto di ricorrere a qualsiasi misura, pur di impedire che venga gettato altro fango sul nostro nome. Posso contare su di te?», aveva chiesto infine, con un tono tanto autorevole, quanto disperato. Un servitore della giustizia che, in casa, gestiva l’imparzialità a modo suo.
           Il ragazzo annuì con una luce feroce negli occhi, inchinandosi e prendendo congedo dallo zio.
 
Il sabato era giunto troppo lentamente, quella settimana, e Hinata aveva rinunciato a contare le ore che mancavano al weekend proprio da quel giovedì pomeriggio, quando aveva ricevuto una telefonata inaspettata sul cellulare.
            Il numero che compariva sul display non era memorizzato nella sua modesta rubrica e, a causa di ciò, un’ansia irragionevole si era impadronita di lei. Aveva afferrato il telefono e, ad ogni vibrazione, la scarica elettrica al cuore e ai nervi era insostenibile. Solo dopo dieci secondi di totale immobilità si era decisa ad accettare la chiamata.
            «Ciao, Hinata!». L’esclamazione solare le aveva trafitto il petto.
            «N-Naruto?», balbettò arrossendo, sottovoce. Si era chiusa a chiave in camera, onde evitare un’entrata improvvisa di Hanabi.
            «Sì, sono io!».
            Una pausa di silenzio e Hinata si sedette sul letto, sentendo le gambe cederle.  Non riusciva a fidarsi nemmeno più dei suoi sensi: aveva sentito bene? Era davvero la voce del biondo, quella che le era giunta alle orecchie? Si portò la mano libera alla guancia, come a voler accertarsi che non si trattasse dell’ennesimo sogno; il calore dovuto all’imbarazzo fu una prova più che convincente.
            «Ho chiesto il tuo numero a Tenten, perché volevo invitarti alla mia festa di compleanno di sabato! Ho invitato tutta la classe…». La mora fremette, interrompendo le parole dell’interlocutore, poi spalancò gli occhi, facendo scendere la mano sul petto, e cercò di contenere il respiro.
             «N-non credo di potere… t-ti ringrazio tantissimo, N-Naruto… m-ma», cominciò a farfugliare, trattenendo il fiato e scuotendo la testa, desolata.
             «Andiamo, ci saranno tutti! Non sarà nulla di caotico, lo prometto! Il vecchio Jiraiya mi ha permesso di avere casa libera, ma ho giurato che non sarebbe successo nulla. Ti do la mia parola, Hinata, non te ne pentirai».
             Il nodo in gola e le lacrime represse erano una zavorra che la spingevano sempre più in basso, verso il disprezzo per se stessa e quello che la circondava. Al contrario del mitico re Mida, tutto quello che toccava non era oro, ma puro veleno che lei si attirava addosso senza evidenti sforzi. Il colpo di grazia era gravato su di lei soltanto una ventina di minuti prima: suo padre le aveva duramente vietato di avere a che fare con Sasuke Uchiha, soprattutto dopo quello che aveva fatto a Neji. Inutile che lei avesse cercato di spiegargli che non aveva mai cercato quel ragazzo e che, di sicuro, non avrebbe cominciato a inseguirlo proprio da quel momento, perché suo padre la guardava con scettico disappunto. L’aveva deluso nuovamente, pur non avendo compiuto nulla. Suo cugino aveva riempito la testa di Hiashi di miserevoli menzogne, passate alla mente dell’uomo come meri dogmi, e lei doveva di nuovo sopportare una punizione insensata. Nell’ultimo tentativo di strappare un minimo di benevolenza paterna, con un’umile, prostrata e accorata richiesta di perdono per qualcosa che nemmeno sussisteva, l’uomo l’aveva trafitta con una nuova lama di disprezzo: “Tu arrechi disonore al nostro clan anche solo respirando, ormai”.
           «Ma se non ti va, posso capirti», mormorò il ragazzo, deluso, dall’altro capo del telefono, abbassando la voce di un tono.
           Ciò che rimaneva di Hinata Hyuga si accartocciò irrimediabilmente su se stesso, come un rifiuto. Era un fiore, ma nessuno riusciva a coglierne la delicatezza e il profumo, calpestandola con noncuranza. In quell’istante, seppur amasse Naruto secondo la forma d’amore più pura e segreta, si sentì pestata anche dai piedi di quel raggio di sole, che non riusciva a rendersi conto dell’Inferno in cui lei viveva. Forse Sasuke aveva ragione, quando diceva che l’Uzumaki era infantile: dietro quel sorriso luminoso, c’era una spensieratezza che non dava spazio a nessuna forma di preoccupazione e affetto stabile… non c’era spazio per lei, per quanto la ragazza avesse sempre cercato di ritagliarsi silenziosamente un angolo nel suo cuore. Questa sarebbe stata un’ottima occasione per raddrizzare il destino secondo i desideri del suo cuore, ma una volontà più autoritaria dei suoi sentimenti aveva irreparabilmente cambiato le carte in tavola.
            «Vorrei venire, Naruto. Vorrei davvero», dichiarò con la voce rotta dalle emozioni, ma più chiara della consueta. Era così annientata dalle circostanze da non provare nemmeno imbarazzo e balbettare.
             «Allora vieni! Qual è il problema, Hinata?», sbottò evidentemente confuso.
             Se solo avesse saputo che il problema era la sua famiglia! Se solo avesse visto con i suoi occhi ciò che viveva!
             «Ti ringrazio. Scusami, ora devo andare», concluse lei, amareggiata, attaccando.
            Si lasciò cadere di schiena sul letto, come un peso morto, trascinata da cento cavalli neri imbizzarriti, chiamati pensieri; inutile che l’auriga li spronasse a risalire, o che i cavalli bianchi si contrapponessero alla furia degli altri, puntando in alto, al sole. Inutile che cercasse un filo di luce in tutto quel buio che l’avvolgeva. Era sola, preda di una sensazione simile a quella che provava nell’osservare le foto di sua madre. Era sola e nemmeno la morte sarebbe stata un conforto.
 
 
Il sabato era giunto troppo lentamente, quella settimana, ma era arrivato. Kakashi Hatake, con una calma disumana, stava impilando il registro e i libri sulla scrivania, quando si ricordò di qualcosa, osservando l’angolo della cattedra. Tracciò una linea immaginaria su quel piano freddo, per fermare l’indice in quel punto esatto in cui si era posato tre giorni prima.
            «Perché non sono qui? Forza, portate le vostre ricerche», sorrise pacatamente. Fare il cattivo cominciava a piacergli, seriamente.
            Quando, a turno, ogni capogruppo aveva depositato il proprio lavoro sul banco del professore, questi prese in mano la pila di fogli e cominciò a osservarli con aria soddisfatta, in un silenzio di tomba. Alzò l’occhio verso la classe e contemplò con distensione i volti dei ragazzi, uno a uno: agitazione, rispetto, calma… Oh sì, la malvagità aveva i suoi lati positivi.
            «Naruto!», esclamò con sorpresa. Perché diamine quel ragazzo era l’unico a infischiarsene di quello che succedeva a scuola? Sembrava vivere in un altro mondo.
            Il ragazzo alzò lentamente la testa dal fumetto che stava leggendo, nascosto dietro un grosso astuccio e il diario. Si guardò attorno con aria stordita, per ritrovarsi osservato da decine di sguardi e dall’occhio nero del professore. Spiazzò tutti con un sorriso a trentadue denti, incapace di provare vero imbarazzo, e si affrettò a chiudere la rivista.
            «Sì, signor Hatake?», ridacchiò grattandosi la nuca.
            Era il momento di fare sul serio e mostrare tutta la propria autorità: Kakashi affilò lo sguardo e il sorriso, facendo cenno al biondo di alzarsi e raggiungerlo. Lui, controvoglia, obbedì, fermandosi a lato della cattedra.
           «Perché non ci parli della vostra ricerca?», domandò l’uomo, recuperando l’elaborato del gruppo. Sasuke, al suono di quelle parole, si stampò la mano in faccia, temendo come sarebbe andata a finire, mentre Hinata rimase impietrita.
           Naruto non spense il suo sorriso, seppure ormai apparisse fin troppo forzato. Convogliò lo sguardo sull’Uchiha, che alzò gli occhi al cielo, esasperato, e sulla Hyuga, che si affrettò a nascondersi dietro un libro.
          «Beh, ecco… prima di tutto è stato bellissimo lavorare con i miei compagni! Sarebbe fantastico ripetere un’esperienza del genere!», esclamò allegro, nel tentativo di proseguire con quel discorso e cavarsela con poco. Beh, se non altro, era sincero: passare un pomeriggio ai videogiochi con Itachi, mentre Sasuke e Hinata sputavano sangue sui libri, era decisamente un piacevole modo per attendere ai propri doveri da studente!
           «Ammirevole, Naruto», sorrise Kakashi. «Ma ora passiamo alla ricerca. Di cosa ti sei occupato?». Affondò il coltello nella piaga, pronto a rigirarlo con maestria; conosceva bene i suoi polli.
           I suoni che provenivano dalla bocca spalancata di Naruto erano lunghe vocali senza senso, atte a colmare un silenzio che sarebbe stato fastidioso. Non aveva nemmeno letto una riga di quel lavoro che i due si erano prodigati a svolgere anche a suo nome; a dirla tutta, non sapeva nemmeno su cosa vertesse l’argomento. Una parte di lui avrebbe voluto scomparire immantinente, l’altra tornare indietro nel tempo e, se non collaborare, almeno degnare di uno sguardo quei fogli stampati che ora il professore aveva appoggiato sulla cattedra, sospirando.
           «Come sospettavo», mormorò l’uomo, intrecciando le lunghe dita e facendo vorticare i pollici fra loro. «Non ti smentisci mai, ragazzo mio. Dovrei punirti seduta stante, ma temo che nulla cambierebbe, proprio come niente è riuscito a farti diventare un po’ più studioso, in questi cinque anni. Sei esuberante, la mascotte della classe, benvoluto da tutti… ecco, ho trovato esattamente il modo per non fartela passare liscia! Torna al banco, Uzumaki», ordinò sorridendo, indicandogli il posto vuoto vicino a Sasuke.
            Puntò il suo occhio proprio sul moro, chiamandolo a occupare lo spazio prima colmato dal biondo, al suo fianco, insieme con Hinata. I due raggiunsero il professore, increduli e ammutoliti.
           «Bene, ragazzi… voi siete dei bravi studenti, non ho nulla da ridire sul vostro rendimento e sono sicuro che le vostre menti, unite, abbiano prodotto un ottimo risultato. Ora, siccome Naruto è carente in storia e letteratura, ho deciso di non annullare questa relazione che avete steso a quattro mani, nonostante io volessi che fosse stata composta a sei», spiegò calmo, osservando il sorriso affiorare sul volto dei suoi allievi.
           Troppo presto per tirare un sospiro di sollievo.
           «Quanto bene volete al vostro compagno di classe?», chiese, fissandoli attentamente, pronto a registrare le loro reazioni. Sasuke si accigliò, non comprendendo pienamente quella domanda, mentre Hinata chinò il capo, eclissandosi così dietro una tenda di velluto blu scuro. «Sicuramente molto, dato che avete persino apposto il suo nome su una ricerca per cui non ha speso nemmeno mezzo neurone. Meraviglioso, se non fosse che vada contro la morale di ogni insegnante. Ma cos’è un professore, se non prima un umano? Ho deciso di non punirvi», aggiunse sorridente.
            La Hyuga rialzò il volto, sgranando gli occhi e dipingendo le gote di un roseo colorito, mentre il moro spianò le rughe sulla fronte, più tranquillo.
            «Almeno, non nel vero senso della parola. Sono costretto a trattenervi per protocollare le verifiche di tutte le mie sezioni, questo pomeriggio», stabilì con decisione, battendo la mano sul tavolo, proprio come un giudice nel momento del verdetto finale. In cauda venenum.
            «Che cosa?!», urlò incredulo Sasuke. «Lei non può farlo! Non ci può costringere a svolgere una mansione che spetta a un professore!».
            «Posso, eccome, invece. Perché, di fronte a un bel due sotto al nome “Uzumaki”, la vostra diventa spontanea collaborazione extra-scolastica, non è vero?», li ricattò con sottigliezza, lasciandoli ammutoliti. Oh, se solo Maito fosse stato lì in quel momento, avrebbe visto chi era il più autorevole fra loro!
            «Professore, mi offro io, al posto di Hinata!», saltò su Neji, furioso.
            «Questo spirito di sacrificio fra cugini è quasi commovente, ma no, Hyuga. Tu sei innocente, è giusto che si fermi lei».
            «Non può, oggi. Affari di famiglia», tagliò corto.
            «Beh, detto con sincerità: dovranno aspettare. Conosco suo padre e si troverà d’accordo con me nella mia soluzione. A meno che non voglia renderti utile anche tu, Neji. Il bidello cerca proprio un apprendista, sai?».
             Fra le risate della classe, lo Hyuga si risedette, colpito e affondato. Non avrebbe mai imbracciato uno straccio o una scopa, degradandosi – a suo parere – davanti agli occhi di tutti. Cosa avrebbe detto a zio Hiashi, quel pomeriggio? Che ci aveva provato, ma l’Hatake era irremovibile nelle sue decisioni, era un dato di fatto; sperava che ciò sarebbe bastato a placare il malumore del capofamiglia, ma sapeva bene che niente l’avrebbe calmato. Sottilmente soddisfatto dal pensiero di una nuova guerra contro la debole, miserevole Hinata, il cugino sorrise sinistramente.
 
L’aula degli archivi era il luogo che meno ispirava fiducia di tutta la scuola, con quella ventina di scaffali imponenti che arrivavano a sfiorare il soffitto, carichi di faldoni impolverati e fogli ingialliti. Hinata si aggirava come un fantasma, pallida e silenziosa in quel labirinto cartaceo, reggendo una nuova pila di verifiche appena prese dall’armadietto del professore. Sasuke, invece, seduto al tavolo centrale della stanza la osservava annoiato, con la testa appoggiata sul palmo della mano. Gli era passata davanti per la ventesima volta nel giro di cinque minuti, depositando sul banco centinaia di verifiche corrette, e lui aveva sonoramente sospirato, ormai giunto al limite.
            «Senti, Hyuga! Hai davvero intenzione di protocollare questa roba?», chiese esasperato, dopo l’ennesimo giro della ragazza.
            «B-beh sì», balbettò indaffarata, evitando il suo sguardo. Non aveva più trovato il coraggio per guardarlo in faccia, dopo quel vortice di emozioni devastanti di giovedì.
            «Conosci il professore, non se la prenderebbe nemmeno».
            «Ma ci siamo comportati male, nei suoi confronti… abbiamo mentito!», ammise chiudendo gli occhi.
            La risata fragorosa di Sasuke la obbligò a trovare la forza per guardarlo in faccia. La fissava con un sorriso ironico, con le braccia conserte e i piedi comodamente appoggiati sul tavolo.
            «Come se mentire fosse un problema, per te. È il tuo pane quotidiano, no?», le chiese retoricamente, pronto ad analizzare le sue reazioni.
            «P-per favore, Sasuke…». Non voleva tornare su quell’argomento, l’avrebbe ferita più di quanto già non avesse fatto. Il pensiero volò subito a casa, dove suo padre l’avrebbe di nuovo rimproverata per essere rientrata tardi; se avesse saputo che era in compagnia dell’Uchiha, la furia avrebbe toccato livelli inenarrabili. Silenziosamente rivolse una nuova preghiera al Cielo affinché Neji se ne stesse zitto, pur sapendo che anche questa speranza sarebbe stata inutile.
            Il moro tornò a fissarla mentre lei si prodigava a legare con delle fascette di carta i compiti in classe appena sistemati in ordine alfabetico. L’Hatake seguiva quasi tutte le sezioni della scuola e in ognuna di esse aveva già provveduto a correggere almeno un tema e una verifica di storia, quindi, con un veloce calcolo, l’Uchiha capì che sarebbe stato meglio dare una mano a quella ragazza, o non sarebbero usciti prima delle sei.
            La affiancò e cominciò a riordinare una catasta di fogli, con calma. Era la prima volta che gli capitava di doversi fermare per una punizione scolastica e, per quanto fosse una situazione tranquilla, sperava sarebbe anche stata l’ultima. Ciò che più gli dava fastidio era il fatto che Naruto se la fosse cavata spudoratamente, mente loro due dovevano accollarsi quella seccatura di sabato pomeriggio. Aveva programmato di trascorrere diversamente, quelle ore: doveva ancora cercare un regalo per la festa dell’Uzumaki.
            «Hai già comprato un dono?», domandò alla ragazza, posando il nastro adesivo.
            «Un dono?», ripeté confusa, incrociando il suo sguardo.
            «Per Naruto! Oggi è il suo compleanno», spiegò lui, controllando la data sul cellulare: il dieci ottobre. Era impossibile che lei se ne fosse dimenticata.
            «N-no. Non vado alla sua festa», affermò con tristezza, pronta a riprendere il lavoro interrotto. Si sentiva un verme perché non era nemmeno riuscita ad augurargli un felice compleanno, la mattina. Se l’era ripromessa diverse volte, aveva anche provato la scena davanti allo specchio, come un’idiota, cercando di farfugliare il meno possibile, ma non aveva avuto né il tempo, né il coraggio per parlare con Naruto. Aveva appena buttato al vento un’occasione d’oro per rendersi visibile ai suoi occhi, ne era perfettamente a conoscenza.
            «Peccato. Ci teneva perché tu venissi».
            Hinata sgranò gli occhi, risollevando il capo. Aveva sentito bene?
            «Ti ha chiamata al cellulare, no? Io ero lì con lui, ha anche insistito tanto…», ricordò Sasuke, sorridendo lievemente.
            La corvina arrossì di colpo, al pensiero di quella telefonata. Quanto gli doveva essere sembrata stupida! E l’imbarazzo saliva alle stelle, ora che sapeva che c’era pure un testimone. Sperava solo che il biondo non avesse messo il vivavoce.
            «Che impegni può avere, una come te, il sabato sera? Uscire con un ragazzo o degli amici? No, non credo sia il tuo caso, senza offesa. Probabilmente dovrai restare in camera tua a piagnucolare su quanto sarebbe stato bello andare alla festa, aspettando con ansia che tuo cugino torni a casa sano e salvo alle quattro di notte, per aprirgli la porta mentre il resto della famiglia dorme. Ci sono andato vicino?». Il suo sguardo affilato e l’espressione beffarda erano fendenti mortali per l’autostima della ragazza. Se ci era andato vicino? Quella era la perfetta raffigurazione della sua serata.
            «Non posso farci niente, è la mia vita», ammise sopraffatta.
            Era sconvolgente la facilità con cui riusciva a svuotare il sacco, davanti a lui. Mentire era diventata una difficile arte che pian piano aveva messo a punto anche con Kiba e Tenten, i suoi migliori amici, ma questo ragazzo dalle iridi più scure della notte sapeva scavare dentro la sua anima con una maestria degna dei migliori psicologi, senza che lei riuscisse a nascondergli nulla. Le faceva paura, ma quel buio la aiutava anche a sentirsi meglio, occultata agli altri.
            «Devi reagire, Hinata!», aveva quasi urlato, battendo la sfilza di verifiche sul tavolo e facendola sobbalzare. «Non possono essere loro i padroni della tua vita! Non ti conosco, è vero, ma non mi sembri la tipa che merita un trattamento del genere».
            «Hai detto bene, non mi conosci», sussurrò, guardandolo negli occhi.
            «Ma non è così difficile leggerti. Sei un libro aperto, per me. Scontata, ingenua e invisibile», dichiarò con una schiettezza che la trafisse quanto una lama di ghiaccio.
            Non voleva offenderla, ma solo essere sincero e farle capire come appariva agli occhi degli altri. Se era un modo per farla reagire, avrebbe continuato su quella linea dura.
            «Non importa», mormorò lei, ravviandosi una ciocca di capelli.
            Quella reazione lo lasciò sbalordito. Come poteva uscirsene con un “non importa”, quando le aveva appena detto che la maggior parte della classe, a malapena, era a conoscenza della sua esistenza? Le possibilità erano due: o Hinata era incredibilmente stupida, o straordinariamente forte. Era talmente assuefatta all’essere ignorata, da non percepire la propria dissolvenza come un vero problema, ma accettarla come parte di sé. Faceva dell’essere invisibile una prova della propria esistenza.
            La ragazza aveva ripreso a ordinare le ultime pile di fogli, con calma. Il tempo stava scadendo e Sasuke doveva riportarla indietro, alla vita, a quella vera. Chissà se mai l’aveva conosciuta! Non sapendo perché, si sentì in dovere di trascinarla nel mondo, in quei diciotto anni che, per quanto la riguardavano, erano una mera cifra, non certo la sua vera età mentale. Non gli erano mai stati a cuore i casi umani, in tutti i sensi, ma stavolta era diverso. Odiava Neji, non sopportava i soprusi gratuiti… e Hinata era una complessità da scoprire, risolvere con cura. Era il problema matematico per la lode, un arrovellamento di ragionamenti sconnessi senza dimostrazioni pratiche, che si basava su dimostrazioni per assurdo. Lei era così, assurda.
           La Hyuga sistemò l’ultimo fascicolo sul palchetto dello scaffale e si sfregò le mani, infastidita dalla polvere. Gettò uno sguardo veloce su Sasuke, che era seduto al tavolo e la fissava pensieroso; un brivido le percorse la schiena, ritrovandosi quegli occhi scuri ancora puntati addosso. Sembrava che stesse facendole una radiografia e ormai cominciava a credere che fosse davvero così, perché lui sapeva andare oltre la sua timida facciata e scorgere ciò che nascondeva dentro.
          «A-abbiamo finito», annunciò con un sorriso, avvicinandosi al banco.
 
Uscirono insieme dalla scuola, ormai desolata. Erano le cinque passate, il sole si era già velocemente abbassato sull’orizzonte e non c’era anima viva, nel cortile.
            «Vuoi un passaggio?», domandò l’Uchiha, fermandosi davanti all’auto.
            «No, ma ti ringrazio». Sforzò un sorriso, mentre la mente le ricordava crudelmente a cosa sarebbe andata incontro, nel caso che Hiashi l’avesse vista mettere giù un piede dalla vettura del ragazzo.
            «Come preferisci. Allora ci vediamo lunedì, buona tortura», fece spallucce lui, facendo scattare la chiusura centralizzata.
            Hinata abbozzò un saluto con un cenno della mano, per poi girarsi e incamminarsi con rapido passo verso la fermata dell’autobus. Sperava solo che sarebbe giunto presto e che avrebbe percorso velocemente il tragitto, in modo da arrivare a casa il prima possibile. Che contraddizione sconcertante: augurarsi di essere riabbracciata dall’Inferno da cui voleva tanto fuggire!
            Si sedette sulla panchina deserta sotto la pensilina e osservò il lato di strada da cui sperava di scorgere presto la sagoma del pullman. Sembrava tranquilla, ma il continuo battito del piede sull’asfalto era chiaro indice di quanto dentro stesse esplodendo. Era infastidita da Sasuke e le sue domande, dalla situazione che era velocemente peggiorata a casa… non trovava soluzioni, ma non si sarebbe arresa. O meglio, se per continuare a vivere avrebbe dovuto arrendersi all’idea di sopravvivere, l’avrebbe fatto.
 
Un’auto nera si fermò all’improvviso davanti a lei. Il finestrino scuro si abbassò e le permise di scorgere il volto dell’Uchiha, che la guardava preoccupato.
            «Ne sei sicura?», domandò.
            «S-sì, il bus arriverà tra cinque minuti».
            Silenzio e sguardi. A cosa servono le parole, se non a rovinare discorsi che filano perfettamente da soli, fra pupille e respiri?
            «Passo a prenderti alle nove. Vedi di riciclare un regalo a Naruto, è più infantile di te e se la prenderebbe se ti presentassi a mani vuote», dichiarò con decisione, prima di rialzare il vetro.
            Hinata boccheggiò stupefatta, osservando l’auto allontanarsi. Che diavolo gli era saltato in mente? Si era forse messo d’accordo con suo padre per ucciderla o stava fornendo a Hiashi un valido motivo per spellarla viva? Non trovava altre spiegazioni.
            Salì sull’autobus e si sedette su un seggiolino vicino al finestrino. Il paesaggio scorreva, come sempre, fluido e monocromatico, a differenza dei suoi ragionamenti. La commiserazione era il pensiero dominante, da spartirsi tra se stessa e Sasuke. In quanto a ingenuità, sotto quest’ottica, l’Uchiha non era tanto lontano da lei: pensava davvero che Neji non avrebbe impedito quell’uscita? O che suo padre non gli avrebbe quasi sparato a vista?
            Arrivata davanti a casa, inspirò profondamente e strinse i pugni, pronta a subire l’ennesima vessazione. In tutto quel dolore, era confortata solo dalla certezza che non sarebbe uscita di casa, che non avrebbe dovuto subire una nuova analisi da parte di Sasuke, che non avrebbe dovuto sentirsi nuovamente stupida e insignificante, in mezzo alle persone.
 
Rintanata in camera sua, dopo una veloce, ma intensa, strigliata da parte di suo padre, la Hyuga osservava sua zia piantare delle ortensie in un’aiuola del giardino; la scatola prometteva che sarebbero sbocciate in un prorompente splendore azzurro, in primavera. Quel colore le ricordò irrimediabilmente gli occhi di Naruto, e tutta quella sicurezza che aveva provato qualche minuto prima svanì in un soffio.
            






Eccomi qui, sono tornata :D Mi ero subito messa all'opera con questo capitolo e non ho resistito dal pubblicarlo immediatamente, una volta rivisto :)
Beh, questo Sasuke sembra davvero intenzionato a cambiare le sorti di casa Hyuga XD Il vendicatore non-mascherato! E Neji... vorrei prenderlo a pugni, ma, in fondo, mi piace XD Sembra che io stia soffrendo di qualche malattia mentale, lo so ahahah
Nel prossimo capitolo ci sarà un po' più di "azione", lo prometto! ;) Non so bene quando riuscirò a postarlo, perché non l'ho ancora iniziato e lunedì ricomincia l'università (sigh), però prometto di fare il possibile per aggiornare presto!
Ancora una volta, vi ringrazio tantissimo per le vostre parole graditissime, il sostegno e l'affetto. Leggere le vostre recensioni mi dona una felicità incredibile!! Grazie anche a chi passa silenziosamente, a chi aggiunge la storia tra le seguite/preferite/ricordate :D
Permettetemi anche un ringraziamento a questa ragazza: Rhain_1992, che ha creato delle illustrazione meravigliose di questa storia! *-* Grazie di cuore!
Un abbraccio a tutti, a presto!! <3

Ophelia

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Capitolo 6
*** Un motivo per lottare ***


6. Un motivo per lottare

 



 
 

Il ramen era il suo piatto preferito e sapere che Shimoko l’avrebbe proposto a cena chiuse lo stomaco alla ragazza, anziché aprirglielo. Ne era venuta a conoscenza quando, scesa di soppiatto nella cucina, un delizioso profumo di brodo e carne aveva invaso le sue narici. Sarebbe stato un regalo gradito per un tipo come Naruto, ma decisamente fuori luogo per un compleanno. Che pensiero stupido, lei non ci sarebbe mai andata!
            La cuoca, nonché governante di casa Hyuga, l’aveva colta appoggiata allo stipite della porta, con lo sguardo perso nel vuoto, e quasi si spaventò alla vista di ciò che restava di Hinata. Perché quella non era decisamente la ragazzina che aveva visto crescere. Da quando la signora Hyuga era venuta a mancare in seguito all’incidente, la piccola si era rabbuiata, presa di mira dal padre, additata come responsabile di tutto, e afflitta anche dal disprezzo di Neji, che pendeva dalle labbra dello zio. Non aveva potuto fare niente per ristabilire la pace, in quella casa, nonostante la premura con cui, da anni, si occupava di tutti. Non aveva potuto alleviare nemmeno il dolore di quella bambina che trascorreva ore rinchiusa in camera sua, a differenza dei coetanei; si chiedeva come sarebbe riuscita a risollevare il suo morale ora, quando la situazione era incredibilmente riuscita persino a peggiorare.
            «Signorina, si sente bene?», domandò preoccupata, avvicinandosi.
            Lei, ricomponendosi, sorrise e annuì, complimentandosi per quell’aroma appetitoso. Inevitabile pensare alla voracità dell’Uzumaki a casa Uchiha, quando si era sbafato ben tre porzioni di ramen. Sembrava essere passata una vita, ma era stato solo mercoledì.
            «Le serve qualcosa? Ha fame?», chiese la donna.
            «Biscotti. Vorrei preparare dei biscotti, da sola», rispose automaticamente, senza rendersene conto.
            «Sicura di non volere una mano?». Erano passati anni da quando Hinata aveva preparato un dolce, non ricordava chiaramente nemmeno quale fosse stata l’occasione, forse il compleanno di Neji o Hanabi.
            «Ce la posso fare, grazie Shimoko», confermò lei, con un sorriso.
            La donna tornò a occuparsi del ramen, mentre la ragazza si accinse a spargere la farina sul piano di marmo, mischiandola poi alle uova e al latte. Lavorò l’impasto con cura, meticolosamente, cercando di non cacciare in quell’amore un solo atomo di preoccupazione. Non le importava del destino che avrebbero avuto i biscotti, se sarebbero miracolosamente giunti nelle mani di Naruto – ipotesi che non era nemmeno da prendere in considerazione, o se sarebbero finiti nella pattumiera. Non se ne curava, sapeva solo che doveva impastarli, che desiderava creare qualcosa, scaricare un peso di affetto che sarebbe altrimenti finito cestinato, non compreso da nessuno. Ben consapevole che quei dolcetti appena infornati non sarebbero mai giunti sotto al naso di Naruto, finse che fossero destinati a lui, che li avrebbe presi e gustati, sorridendole come solo lui sapeva fare.
            Una volta pronti, li lasciò raffreddare sul piano della cucina, tornando in camera sua. Ecco, ciò che poteva realizzare per aiutare il proprio destino l’aveva fatto. Ma tutto finiva lì, con quel misero tentativo di fornire una piccola prova d’amore a Naruto. Peccato che non l’avrebbe mai assaporata.
 
Lo scenario di quella cena era il consueto: Hiashi, il fratello e la moglie di questi cenavano alla testa del tavolo, discutendo fra loro di qualche questione lavorativa o di attualità; poche sedie più in là, Neji e Hanabi mangiavano il loro ramen con calma, parlando, di tanto in tanto, della propria mattinata, mentre Hinata aveva a malapena toccato uno spaghetto di soia, presa dalla tensione. Quando il cugino si alzò da tavola, in procinto di salire per prepararsi, la ragazza lo seguì. Doveva parlargli, anche a costo di beccarsi una porta in faccia.
            «Che vuoi?», tagliò corto lui, girandosi all’improvviso sulle scale, non appena aveva sentito la ragazza salire il primo gradino.
            «N-Neji, mi dispiace per giovedì. Voglio che tu sappia che fra me e Sasuke non c’è nulla, non siamo che compagni di classe, lo sai», giurò lei.
            «Hai finto?», chiese spazientito, contraendo la mascella.
            «Non gli ho detto nulla di quello che succede a casa, di come tu e mio padre mi…». Si bloccò, impaurita dallo scatto che il cugino aveva fatto verso di lei, raggiungendola.
            «Trovi forse che sia sbagliato il nostro atteggiamento nei tuoi confronti?», domandò rabbioso. Notando come la ragazza fosse rimasta a bocca aperta, tremante, lui le prese le spalle e la scosse violentemente. «Tuo padre non è già abbastanza clemente, mantenendoti sotto il suo stesso tetto?», quasi urlò.
            «Hai… hai ragione, scusami», sussurrò con un nodo in gola.
            Il ragazzo si fermò, staccò la presa da Hinata e la fissò nuovamente in silenzio, per alcuni secondi, prima di girarsi e proseguire verso la sua camera.
            La ragazza si sedette sui gradini, stremata da quell’inutile confronto; si portò le mani alla fronte, lisciando nervosamente la frangia, fino a calarsela sugli occhi. Non sapeva nemmeno cosa l’avesse spinta a voler chiarire, sapendo bene come sarebbe andata a finire. Era inutile combattere contro i mulini a vento.
             Il suono del campanello la fece sussultare. Guardò rapidamente l’orologio a pendolo, pronto a scandire le ventuno: poteva essere solo una persona, a quell’ora. Qualcuno che era lì proprio per lei. Il cuore cominciò a pulsarle violentemente e, prima che suo zio giungesse alla porta, filò a nascondersi in cucina. Non voleva assistere alla scena, non avrebbe retto un’ulteriore umiliazione sotto agli occhi dell’Uchiha.
 
Hizashi aprì la porta, leggermente sorpreso per una visita a quell’ora di sera, ma non ebbe il tempo di chiedere chi fosse, perché quel ragazzo dallo sguardo deciso non gliene diede l’occasione.
            «Buonasera, sono Sasuke Uchiha… ma immagino che lei sappia già chi io sia, signor Hyuga. Ho promesso a sua figlia che l’avrei portata alla festa di compleanno di Naruto e non me ne andrò da qui senza Hinata», dichiarò senza timore, guardando l’uomo in quegli occhi chiari.
            «Veramente io sono lo zio di Hinata, ragazzo. Suo padre è sommerso dal lavoro nel suo ufficio, in questo momento. Prego, accomodati pure», sorrise Hizashi, facendogli strada.
            Sasuke sgranò gli occhi: il padre di Neji, il genitore di quel ragazzo che aveva preso a pugni, lo aveva accolto in casa sua. Qualcosa non gli tornava, ma decise di non darci peso.
            I due entrarono in cucina, cogliendo la corvina di sorpresa, mentre stava sistemando i biscotti in una busta colorata, ormai decisa a donarli a sua sorella.
            «Ah, eccoti, Hinata. Sapevo che eri qui», rise lo zio.
            Lei si girò e trasalì nel notare la presenza di quel ragazzo, in casa sua. Non avrebbe mai immaginato che qualcuno diverso da Kiba e Tenten potesse mettere piede nella villa, a maggior ragione quel giovane. Eppure era lì, elegantemente abbigliato con dei jeans scuri, giacca, camicia, e la sua espressione tranquilla.
            «S-Sasuke?», mormorò incredula.
            «Quello è il regalo per Naruto, vero?», chiese lui, indicando il pacchettino che lei stringeva nervosamente fra le dita.
            «Oh beh, se hai già confezionato anche il dono, non vedo perché tu debba restare a casa. Ci penserò io a tuo padre, non preoccuparti. Inoltre ci sarà anche Neji: Hiashi non avrà nulla da ridire», sorrise lo zio.
            «M-ma… Non mi p-permetterà mai…».
            «Andiamo, faremo tardi», la spronò Sasuke, prendendola per un gomito: meglio approfittare della benevolenza di quell’uomo, prima che cambiasse idea. Il ragazzo si girò verso Hizashi, lo ringraziò e promise che avrebbe badato che tutto filasse liscio, e che Hinata sarebbe rientrata ad un orario decente.
 
Prima che i due entrassero in auto, Neji giunse alla porta, pronto a partire in direzione della festa. Strinse i pugni, notando che Sasuke era addirittura giunto a sfidarlo in casa sua, e che la cugina se n’era infischiata dei divieti.
            Hizashi, osservò la mascella contratta del figlio e si affrettò a mettergli una mano sulla spalla.
           «Parlerò io con suo padre. Non mettere il naso in faccende che non ti riguardano, Neji».
           Il ragazzo si voltò contrariato, incontrando l’espressione serena del padre.
           «Sta disonorando il nostro nome. Hinata è debole, stupida, non ne combina una giusta! Zio Hiashi è profondamente deluso», dichiarò amaramente.
           «Tratta tua cugina come si deve e vedi di non deludere me, piuttosto. Io non capisco questa venerazione per tuo zio e la sua freddezza! Non ci stiamo rendendo conto che la stiamo perdendo, mentre lei vorrebbe solo ritrovarci». La sua voce era calma, ma la tristezza velava il suo sguardo, mentre osservava la nipote salire in auto.
            Non aveva mai capito come il fratello potesse trattare così duramente sua figlia, addossandole la colpa di una tragedia che certamente non dipendeva da lei. Non si rendeva conto di quanto lei ne soffrisse ancora oggi? Ma, soprattutto, non capiva che di quel passo, anziché riunificare la famiglia come sperava, l’avrebbe solo divisa? Era riuscito a proiettare i suoi ideali in Neji, indicandolo già come futuro capofamiglia degli Hyuga, e questa era una cosa che, per quanto onorevole, non riusciva a perdonargli. Neji era suo figlio, ma sembrava dare più ascolto allo zio, totalmente assorto nei suoi dettami di forza, autorità e disciplina.
           Mentre il ragazzo saliva in auto, Hizashi si strinse la mano sul cuore e giurò che avrebbe fatto di tutto per ristabilire l’armonia fra quelle mura.
 
 
***
 
 
La musica passava lentamente, nell’abitacolo, e non riusciva, con le sue note, a colmare quel silenzio palpabile che li divideva, ma anche avvicinava. Hinata osservava le mani di Sasuke stese sul volante, pallide e dalle dita lunghe e affusolate. Mani bellissime, pensò, che però sapevano spezzare respiri in modo atroce, proprio come i suoi occhi.
            «Avevo previsto che non saresti stata vestita in modo adatto», disse lui, ad un tratto, guardando di sfuggita i suoi jeans e la felpa lilla.
            Lei si strinse nelle spalle, ammettendo che, in effetti, quello non era l’abbigliamento con cui si sarebbe voluta far vedere da Naruto.
            «Per questo ho chiesto a Itachi di fare intrusione nel guardaroba della sua ragazza e prendere qualcosa di appropriato», concluse, indicando con il pollice i sedili posteriori.
            Raggiunse uno spiazzo isolato e fermò l’auto, pronto a scendere.
            «A-aspetta, cosa dovrei fare?», chiese lei, imbarazzata, stringendo il bracciolo della portiera.
            «Cambiarti, no? Vedi di fare in fretta». Scese rapidamente dall’auto, sbuffando.
            La Hyuga si fiondò sui sedili posteriori, dove i vetri oscurati potevano garantirle una maggior privacy. Era imbarazzatissima, non le era mai successo di doversi svestire nell’auto di qualcuno, specialmente di un compagno di classe. Tirò fuori dal cellophane quel meraviglioso abitino nero, e cominciò a liberarsi dei suoi indumenti.
            Sasuke bussò impaziente al finestrino, spronandola a darsi una mossa, e lei, dopo avere infilato delle decolté di vernice nera – scomodi trampoli che avrebbe volentieri evitato, scese timidamente dalla macchina, impacciata. Si sistemò il vestito sulle cosce, ma, per quanto cercasse di spingerlo verso il basso, appena lei si raddrizzava, la gonna saliva di quattro dita abbondanti sopra le ginocchia; niente da fare, quella era l’effettiva lunghezza.
            Si sentiva assurdamente a disagio, fasciata in quell’abito attillato, a maniche lunghe e lavorato con inserti di pizzo. Non era il suo stile, avrebbe optato per ben altri tessuti, lunghezza e comodità. Come se non fosse già abbastanza imbarazzata, un lembo del vestito le era scivolato giù dalla spalla, mettendo in mostra anche la sua incapacità di chiuderlo. Lei lo tirò su prontamente, rossa come un peperone, mentre Sasuke se la rideva sotto i baffi.
            «Vieni, ti aiuto con la chiusura», si era offerto lui, facendole cenno di avvicinarsi.
            «M-ma ecco, n-no…».
            «Beh, fai come vuoi. Vai pure così alla festa, se preferisci». Aveva notato lo sbigottimento nel volto della Hyuga e sorriso lievemente, di fronte a quel rossore.
            La ragazza gli si appropinquò timidamente, a piccoli passi. Si girò di scatto, dandogli le spalle, desiderano che un fulmine la centrasse in quel preciso momento. Sasuke le scostò i capelli, facendoglieli ricadere sul petto. Osservò la sua schiena bianchissima, quasi abbagliante; una mandorla di luce, in tutta quella oscurità dovuta alla notte e all’abito. Era una visione celestiale, ai suoi occhi, tutta quell’innocenza offerta su un piatto d’argento.
            L’occhio gli cadde sul reggiseno blu scuro e una tentazione peccaminosa lo obbligò a sfiorarlo con i polpastrelli. La ragazza tremò, a quel contatto, incapace di dire una sola parola. Pregò mentalmente perché il ragazzo avesse toccato per sbaglio quel punto, ma non ne era pienamente certa; sentiva le sue dita accarezzarle la pelle della schiena, e lei chiuse gli occhi, sospirando. Nessuno aveva mai lambito in quel modo la sua epidermide, né poteva immaginare che quella sensazione misteriosa, quel contatto inimmaginabile, sarebbe potuto essere tanto piacevole quanto pericoloso.
            Sasuke voleva irrazionalmente baciare quella pelle candida, ma sapeva che era un tempio inviolabile. Accostò il pollice al gancetto, mentre respirava il suo profumo delicato, puro, senza fragranze chimiche aggiuntive, a pochi centimetri dalla sua colonna vertebrale. Sapeva che stava accarezzando l’orlo di un peccato mortale, ma avrebbe pagato tutto l’oro del mondo per sfiorarla con le labbra. Il suo alito caldo era la prova che quella sera era reale, sia per lei, sia per lui.
            Il moro, scosso da un brivido che aveva percepito correre sotto la carne della Hyuga, cacciò indietro quei pensieri oscuri, afferrando un bottoncino e infilandolo nell’asola. Uno dopo l’altro, arrivò al collo, sigillando così quel desiderio represso. Era Hinata, dannazione! Cosa gli era passato per la mente?
            «G-grazie», sussurrò lei, rigirandosi.
            Sasuke la fissò ammutolito per alcuni secondi; era davvero bella, strano come non se ne fosse mai accorto. O meglio, mai se n’era reso conto come quella sera; aveva ancora vagato con gli occhi sulla sua figura, sulle sue curve sinuose – e poco ci mancava che Itachi l’avesse rivelato chiaramente in faccia alla diretta interessata, quel pomeriggio! Ma questa creatura non assomigliava per niente a quella ragazza imbranata che in classe passava inosservata, nei suoi silenzi e sorrisi nascosti. Era come se avesse visto un’altra Hinata, incredibilmente meravigliosa, delicata e preziosa. Ecco, “preziosa” era l’aggettivo giusto. Talmente preziosa che gli dispiaceva condividere quella nuova ragazza con gli altri.
            «Andiamo?», chiese lei, cercando di calcare la voce con un tono di entusiasmo.
            «Certo, andiamo», rispose sospirando, riaprendo la portiera.
 
«Ti ringrazio, davvero», aveva dichiarato in un solo fiato, senza balbettare, ma, non appena Sasuke si girò verso di lei, tutta quella fermezza scomparve. Si sentiva in dovere di specificare che la sua riconoscenza andava oltre quei bottoncini e l’attimo di disagio. «E-ecco, s-stai f-facendo così tanto e…».
            «Non devi ringraziarmi, non sto facendo nulla. Ho persino picchiato tuo cugino, non è forse sbagliato?».
            Ma dove voleva andare a parare? Prima le aveva detto che avrebbe volentieri spaccato la faccia a Neji, poi, una volta fatto, le aveva confessato quanto quel gesto fosse stato scorretto. Non ci capiva più nulla, ma aveva deciso di rinunciare ad arrovellarsi. L’Uchiha rimaneva un mistero e, per quanto gli fosse riconoscente, non intendeva fare luce.
            «Assolutamente sbagliato. Non avresti dovuto», precisò la ragazza, scuotendo il capo.
            «Ma lo meritava», sorrise sinistramente.
            Lei si voltò in sua direzione, fissandolo con un’espressione confusa. Quel volto sereno, imperturbabile, su cui spiccavano degli occhi ferini e scuri, suscitava paura, ma anche un sentimento che non sapeva spiegarsi ancora. Sicurezza, fiducia, speranza? Non riusciva a decidersi.
            «Se davvero devo essere sincero, non amo fare a pugni gratuitamente, senza motivo… per quello esistono le palestre o le sbronze fuori dai pub. Io preferisco combattere, lottare, anziché buttarmi a capofitto nelle risse; c’è una sottile differenza. Solo quando lotti, anche se cadi, hai un ottimo motivo per cui rialzarti e non darti per vinto».
            Questa era la sua morale, poco gli importava se Hinata non l’avrebbe mai capita. Non aveva proferito tali parole per essere compreso o giustificarsi, voleva solo mettere in chiaro ciò in cui credeva. Era quello che lo faceva sentire vivo e sperava che anche lei potesse trovare un ideale cui aggrapparsi, che non fosse quello dell’ostrica.
            Dal canto suo, la ragazza dai lunghi capelli blu lo fissava con gli occhi lucidi, percependo lievemente che quel giovane che tutti temevano le aveva appena rivolto il complimento più affettuoso della sua giovinezza. Lei era un motivo per cui combattere. Lei, la ragione per cui non arrendersi. Lei, il pensiero di qualcuno.
            «Ma non voglio che tu ci vada di mezzo. È una questione fra me e Neji». Finalmente era riuscita a dirglielo, senza esitazioni. Gli era riconoscente per quella strana forma di velata amicizia – lei desiderava davvero credere che fosse tale, quel sottile filo che cominciava a legarli – ma non voleva che la rabbia di suo cugino colpisse un’altra persona, un amico. Ancora quella parola, “amico”. Poteva definirlo così? Naturalmente no, stava parlando di Sasuke Uchiha.
            «Non lo faccio solo per te, ma anche per me. Ho sempre voluto dare una lezione a quella testa di cazzo… senza offesa», sorrise debolmente, guardandola. Non conosceva mezzi termini, né mezze misure, e mai li avrebbe appresi, finché sul volto di un’innocente come Hinata sarebbe spiccato un livido come quello che ancora le sfigurava la guancia.
             «È un ragazzo pericoloso», sussurrò lei, abbassando la testa.
             «Perché, io no?», proruppe in una risata sincera.
             Impercettibilmente, anche la corvina sorrise. No che non lo era, non in quell’auto, non quella sera. Non verso di lei.
             «Spiegami perché tuo padre ti odia».
             «M-mio padre n-non mi odia», negò lei, troppo debolmente. Ancora una volta era riuscito a leggerla dentro.
             «Non sai mentire, stupida. Evita di farmi ripetere sempre le stesse cose», si lamentò, sbuffando.
             «Non me la sento», ammise tristemente.
             Temeva che Sasuke le avrebbe detto ciò che Neji le aveva malignamente confessato in auto, giovedì mattina. “Non ti è ancora chiaro che a nessuno importa cosa provi, come ti senti, ciò che desideri?”. Quelle parole ancora la ferivano, niente avrebbe potuto cancellarle, nemmeno il loro opposto… nemmeno se fosse stato Naruto in persona a confortarla. Possibilità che le appariva ridicola, proprio come il pensiero di recarsi alla festa, soprattutto agghindata in quel modo. Osservò le sue gambe, le mani tremanti che cercavano di coprirle… cosa diavolo stava facendo? Perché era lì?
             «Non importa, vorrà dire che continuerò a immaginare da solo il motivo che lo spinge a detestarti. Ciò che non riesco a comprendere, nonostante gli sforzi, è l’odio di tuo cugino», ammise il ragazzo, con espressione confusa.
Hinata si voltò di scatto verso di lui. Non importa. A lui non importava se non si era spiegata, ma si curava di lei, di ciò che provava, di ciò che stava vivendo.
              «Neji segue mio padre come modello. I suoi genitori sono persone di buon cuore, generose, amorevoli, ma lui li vede come deboli, fragili rami sul punto di spezzarsi, o essere recisi. Pensa che sia per questo che Hizashi, mio zio, non sia il capofamiglia e, onde non cadere nel suo stesso errore, è cresciuto nella più totale riverenza verso mio padre. Non ha mai commesso un passo falso, obbedendo ad ogni suo volere, recandogli il massimo rispetto. Non c’è nemmeno bisogno di dire che la stima è reciproca: mio padre preferirebbe mille volte avere Neji, come figlio, piuttosto che me… e non sono così meschina da biasimarlo, ha perfettamente ragione». Non sapeva perché l’aveva ammesso, non avrebbe mai voluto confidare una verità tanto pesante a nessuno, eppure era come se quegli abissi neri di Sasuke sapessero risucchiare anche il suo, portandolo alla luce.
                Il ragazzo aveva indossato una smorfia contrariata, al suono di quelle parole, e poi sospirato lentamente; odiava ripetersi, ma, più di ogni altra cosa, in quel momento detestava la bassa autostima di Hinata.
               «E tua madre? Non dice nulla?», chiese incredulo.
                La corvina reclinò il capo verso il basso, fissando i piedi. Si sarebbe dovuta aspettare una domanda del genere, prima o poi, ma non aveva mai fatto in tempo ad inventarsi una bugia bianca; non le andava di rivelare tanti dettagli della propria vita, la reputava di scarso interesse e troppo delicata da farne parola con qualcuno. Sua madre, poi, rimaneva un fantasma puro, troppo sacro per poter essere imbrattato da sillabe e frasi. La mamma era morta, ma continuava a vivere nel suo cuore, l’unico luogo dove poteva ancora sentire la sua voce.
                «Mia madre… lei tace, al riguardo, ma mi vuole bene». La confessione le era costata una lacrima pesantissima, ma questo era tutto ciò che Sasuke – e nessun altro - poteva sapere.
                «Perché non si ribella? È timida come te?», chiese rabbioso, stringendo il pugno attorno al volante.
                 Hinata poteva osservare le falangi appuntite comparire dalle nocche, coperte da un sottile strato di pelle bianchissimo. Quella era l’arma più fatale di Sasuke, nonché l’immagine che descriveva al meglio il suo istinto. Per un secondo si domandò cosa avesse dovuto provare Neji, al contatto di quel pugno sul naso; un dolore lancinante, molto probabilmente. Eppure era curioso come quella mano violentemente contratta riuscisse a provocare in lei un sentimento di segno opposto, qualcosa che assomigliava all’affetto e alla protezione. L’Uchiha non era suo amico, lo sapeva bene, ma quella sera sembrava essere una persona che l’aveva a cuore.
                 «Ascolta, mio padre lavora nella polizia, lo sai… Se lei volesse esporre denuncia… o se desiderassi farlo tu, al suo posto…». Non era nemmeno riuscito a terminare la frase; non era una cosa facile da dire, soprattutto da parte di una sorta di teppista quale lui era, ma forse quella era una soluzione ai problemi della Hyuga.
                  «Sasuke, mia madre è morta».
                  Nemmeno il rombo di un tuono sarebbe stato in grado di replicare l’angoscia suscitata da quella rivelazione.
 
Nessuno dei due aveva il coraggio di spezzare il silenzio, forse perché entrambi non erano bravi con le parole. Eppure, c’erano tante cose da dire, prima di scendere dall’abitacolo. Hinata voleva solo trovare un modo efficace per ringraziare quel ragazzo sinceramente preoccupato per lei, contro ogni più inimmaginabile prospettiva. Sasuke desiderava invece scusarsi e comunicarle che gli dispiaceva. Già, per la prima volta riusciva a provare compassione per qualcuno. Non sapeva con quale altro modo chiamare quella sensazione simile a un nodo in gola che lo stava travolgendo da qualche minuto, mentre guidava con calma verso la festa. Tutt’a un tratto, non aveva più voglia di mischiarsi alla gente, fingere di divertirsi, incontrare decine di sguardi, osservare le ragazze scapigliarsi per lui, i giovani offrirgli bicchieri e risate… non che desiderasse rimanere in quel silenzio di ghiaccio con la Hyuga, ma, al confronto, era un modo più consono per spendere quella serata.
            L’abitazione di Jiraiya, dove Naruto viveva da quando Sasuke poteva ricordarsi, comparve nella loro visuale. Le luci delle lanterne producevano un chiarore soffuso, ma anche invadente, nella notte di quel dieci ottobre. Mentre il moro parcheggiava, Hinata strinse istintivamente le mani intorno alle braccia, sfregando i palmi sul tessuto dell’abito; non aveva freddo, ma percepire quel poco di calore era un modo per farsi forza.
            «Coraggio, sei pronta?», chiese Sasuke, sfilando le chiavi da sotto il quadrante.
            Al sorriso appena accennato della ragazza, l’Uchiha scese e andò ad aprirle lo sportello. Lei afferrò il sacchettino con i biscotti e smontò lentamente, quasi incapace di reggersi in piedi, sia per i tacchi cui non era abituata, sia per la tensione.
            «Andrà tutto bene, Naruto sarà felicissimo». Aveva sorriso? Hinata sbatté le palpebre più volte, onde accertarsene, ma Sasuke aveva quasi subito mutato espressione.
            «N-non credo di farcela», mormorò lei, appoggiandosi all’auto.
            «Per questo ci sono io», sospirò spazientito il moro, prendendola per un braccio e trascinandola verso la luce, i colori, la musica, la vita.
            La Hyuga sobbalzò, ma non oppose resistenza quando le dita di Sasuke afferrarono le sue, stringendole convulsamente. Che anche lui cercasse un contatto umano che gli desse la forza per affrontare il mondo? Impossibile, soprattutto perché quella pietra angolare non poteva davvero essere lei.
            Non sapeva nemmeno quanto fosse vicina alla verità, mentre la ignorava.
 
Fecero così il loro ingresso, in quella giostra che per Hinata somigliava sempre più a un ottovolante. Chi era a testa in giù, ora, lei o il suo cuore?











Scusate la lunga assenza :( Sono così dispiaciuta di essermi fatta tanto attendere, ma l'università, con i suoi orribili orari, mi ha risucchiata in una realtà parallela che avrei volentieri evitato XD
Ho fatto il possibile per aggiornare entro oggi, 10 ottobre: AUGURI NARUTO (e Gintoki, ma questa è un'altra storia XD) 
Sono stata costretta a spezzare la sequenza della festa in due capitoli, perché prevedo ci sarà un bel movimento nel prossimo! :D
Spero di aggiornare presto, mi metto subito all'opera per voi! ;) 
Grazie a tutti voi che avete letto, recensito, preferito/seguito/ricordato questa FF! Grazie, grazie di cuore, splendidi lettori!! <3
Un abbraccio grandissimo!! 

Ophelia

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Capitolo 7
*** Tachicardia ***


7. Tachicardia
 

 
 
 

Un ritmo incessante colpiva le orecchie di Hinata, ma non era quello della musica che usciva dalle casse e che si spandeva per l’aria incredibilmente tiepida di quella notte autunnale; era il suo cuore a invaderle i sensi, quel martellare irrequieto che non riusciva a bloccare, per quanto ci provasse con ogni forza. Aveva premuto una mano al petto, chinando il viso e pregando silenziosamente che ogni cosa andasse per il verso giusto, almeno quella sera. Se non per lei, perlomeno per Naruto e la sua festa; non avrebbe mai desiderato che il suo diciottesimo compleanno potesse rivelarsi un disastro, soprattutto per causa sua. Lei a quella festa, poi, non sapeva ancora precisamente come vi si era ritrovata. Sentiva la mano di Sasuke stringerle ancora le dita, mentre superavano il cancello. Era calda, mentre la sua gelida e quasi esangue, a causa di quella morsa spasmodica, ma non avrebbe mai trovato il coraggio per dirgli che le stava facendo male. Sasuke era l’unica persona al mondo, in quel momento, che non riusciva davvero a ferirla, per quanto fosse rude, delle volte.
            Alzò la testa e incrociò il suo sguardo color carbone, fisso sul suo volto. Arrossì di colpo, non riuscendo a capire cosa stesse pensando; quel ragazzo rimaneva un mistero, ma lei non sembrava essere tale, ai suoi occhi. La giovane ripensò immediatamente a quelli cerulei dell’unico motivo che la spingeva a rischiare tanto, pur di rivederlo, e, contro ogni aspettativa, riuscì a placare i sussulti cardiaci. Lo stava facendo per Naruto e quella era la miglior occasione mai capitatale per poterglisi rendere visibile; temeva sarebbe stato l’ennesimo fallimento, ma promise a se stessa che non avrebbe sprecato quell’opportunità.
 
Appena varcarono l’ingresso nel giardino, un’esplosione di luce e risate li investì, spiazzandoli totalmente. Ogni invitato sembrava li stesse aspettando da ore, puntando lo sguardo su di loro… e le loro mani. Erano ancora strette l’una nell’altra, bianche e innocenti, ma a quegli occhi increduli non apparivano tali. Accortosi di quell’attenzione morbosa, Sasuke si affrettò ad allentare la presa e lasciare le dita della Hyuga, non senza sfiorarle un’ultima volta, impercettibilmente, nel tentativo di trasmetterle un briciolo di energia in più.
            «Sasuke, finalmente!», urlò Naruto, entusiasta, saltandogli al collo. «Ce n’hai messo, di tempo! Avevi dimenticato la strada?».
            «Dovevo recuperare il tuo regalo», sogghignò, osservando di sottecchi Hinata, al suo fianco.
            «Oh, ma ci sei anche tu! Non mi sembra possibile! Ti ha convinta lui?», domandò sorpreso il biondo, sorridendo alla corvina.
 Lei accennò un timido sorriso, mentre il suo cuore perdeva un battito; si era accorto della sua presenza e le aveva rivolto una risata gioiosa, in grado di scaldarla immediatamente e trascinarla in Paradiso.
             «N-Naruto, g-grazie per l’invito. Tanti a-auguri!». Era riuscita a dirlo, anche se con impaccio; si sentiva realizzata, nonostante la voce non fosse uscita sicura quanto avesse desiderato.
             L’Uzumaki l’abbracciò, ringraziandola. Era felice che ci fosse anche lei, insieme con il resto della classe; era il suo sogno, avere tutti i suoi compagni lì, e si era realizzato.
            Anche quello di Hinata era diventato realtà, per quei cinque secondi: poteva avvertire il calore umano del biondo, le sue braccia sulla schiena, la risata fra i capelli… era reale, ed era con lei. Abbassò lievemente le palpebre, sorridendo dolcemente e fissando le luci delle lanterne. Nulla avrebbe interrotto quell’attimo di felicità, nessuna sveglia, nessuna intrusione di luce diurna; era tutto vero, proprio come quelle mani che si erano strette dietro le sue scapole.
            Prima che Naruto si staccasse da lei, il suo sguardo vagò verso quello fermo di Sasuke, che ancora la osservava con aria tranquilla. “Grazie”, avevano urlato le sue iridi chiarissime, mentre le labbra rimanevano sigillate. Un guizzo luminoso negli occhi neri dell’Uchiha le confermò che quella silenziosa gratitudine non era caduta nel vuoto.
            «Goditi la festa», le fece l’occhiolino il biondo, prima di raggiungere il tavolo del buffet.
             Hinata rimase a fissarlo alcuni secondi, accarezzandosi un braccio con la mano; se fosse stata da sola, si sarebbe assestata un pizzicotto, ma non poteva dare nell’occhio in mezzo a tutta quella gente.
             Non le aveva detto nulla di particolare, né si era soffermato a osservarla bene e scorgere quanto fosse diversa dal solito, con quell’abito scuro e l’aura lunare ad illuminarla, ma non le importava. Per la prima volta, era riuscita a percepire il calore di Naruto, ad accostare realmente il proprio cuore al suo, a respirare la sua stessa aria, catturare il suo respiro… Per quei cinque secondi, lui era stato suo, e di nessun altro.
            «Beh, hai intenzione di rimanere con quell’espressione tutta sera?», le chiese Sasuke, avvicinandosi lentamente.
            «Ti ringrazio profondamente», sussurrò lei, sorridendo senza più timore.
             Il moro non sapeva perché, ma quella riconoscenza sincera cominciava a fargli male, lo costringeva a pensare che avvicinarsi a Hinata corrispondeva anche a perderla. Ogni filo ordito nella tela per far incontrare la Hyuga e l’Uzumaki, era uno spago che si spezzava nella sua. La osservò silenziosamente qualche secondo, mentre lei ancora non aveva spento il sorriso: era così diversa, così pura e ammirevole, in quella serata di chiasso e fascini poco innocenti. L’incanto che sapeva sprigionare con un timido rossore sulle guance, le lunghe ciglia abbassate e le labbra armoniose non era qualcosa di prettamente umano. Quella non era Hinata, non poteva davvero essere lei. Probabilmente la vera Hyuga era ancora chiusa in auto, con i suoi jeans e la felpa lilla, presa a struggersi e tormentarsi.
               Sasuke cacciò quelle riflessioni sconclusionate con un sospiro. Cosa diavolo stava succedendo, nella sua testa? Perché si stava fissando con quella ragazza che mai avrebbe catturato la sua attenzione, fino a poco tempo prima? Quella era Hinata! Hinata, la ragazza-fantasma, quella che dichiarava la propria esistenza con un colpo di tosse e qualche balbettio, niente di più!
                L’Uchiha si allontanò verso l’angolo dei drink, non appena vide Kiba e Tenten puntare verso la corvina. Meglio annebbiare quei vaneggiamenti con un buon cocktail, pensò, augurandosi che rimanessero morti e sepolti lì.
 
Eppure, due occhi eccitati avevano colto tutto, in ogni piccolo particolare. Due iridi rosse, occasionalmente libere dal vetro e rivestite da lenti a contatto, avevano osservato la scena con una perizia maniacale: l’arrivo alla festa, mano nella mano, quegli sguardi sfuggenti, l’imbarazzo della Hyuga… La rabbia era salita fino a esploderle nelle orecchie, come un’insidiosa sirena di odisseica memoria, ingannando la sua mente con false congetture. Sasuke aveva rinunciato a lei, per Hinata!
                Karin, stizzita, girò le spalle e puntò a un ragazzo dai lunghi capelli neri, che stava parlando con Rock Lee, comodamente seduto sul divanetto. Era a conoscenza dei rapporti tesi che correvano tra i cugini Hyuga e sapeva che, per ferire Sasuke, avrebbe dovuto inevitabilmente colpire anche la piccola, indifesa Hinata.
                «Neji, posso parlarti?», chiese con una risatina forzata. Moriva dalla voglia di dare in escandescenza, ma doveva trattenersi, per il momento, o quel ragazzo l’avrebbe presa per pazza.
                «Ora, come vedi, sono occupato», l’aveva liquidata lui.
                Il solito tono arrogante e menefreghista; Karin fece una smorfia d’insofferenza, ma sapeva bene come catturare la sua attenzione.
               «Credo che le vostre chiacchiere possano attendere. Vedi, si tratta di Hinata… e Sasuke».
                Il moro si girò di scatto verso la rossa. I suoi occhi, ora, erano vigili, la mascella contratta e l’aria accigliata. La ragazza sorrise, soddisfatta, invitando il giovane a seguirla, con un gesto della mano.
               Si recarono sul retro della casa, dove non c’era nessuno e la musica arrivava ovattata; a illuminare i loro volti pallidi c’era solo qualche faretto che spuntava dai piedi della siepe. Karin si buttò con le spalle al muro, sobbalzando per l’aderenza con il cemento freddo. Non appena incrociò lo sguardo cupo del moro, sorrise nuovamente, poggiandogli una mano sulla spalla e massaggiandogliela.
              «Cosa dovrei sapere?», domandò lui, sottraendosi a quel tocco provocante.
              «Rilassati», sussurrò la rossa, per niente intimorita dalla sua reazione; anzi, gli gettò le braccia al collo, avvicinando il proprio volto al suo. Poteva vedere il disagio negli occhi dello Hyuga, e questo la divertì sottilmente: una macchina da guerra, incapace di mostrare sensazioni, presa in contropiede e infastidita da lei!
               Era così vicina alle sue labbra da percepire il respiro regolare del moro sul naso. Gli si appropinquò ancora di qualche centimetro, quel tanto che bastasse per baciarlo.
               Aveva avvertito i muscoli del giovane contrarsi lungo schiena, sotto i suoi agili polpastrelli, e non aveva esitato a insinuare la lingua nella sua bocca, onde cancellare ogni traccia d’innocenza da quel contatto. Doveva agire subito, andare a fondo nel bacio nel giro di pochi secondi; dopo anni di pratica e decine di ragazzi, aveva imparato che per non farsi respingere bisognava andare al sodo, entrare nei sensi e farsi spazio nel minor tempo possibile. Andare alla testa, come il vino rosso, dello stesso colore dei suoi capelli.
               Aveva sorriso maliziosamente, mentre spingeva la lingua contro quella del ragazzo, che cominciava a ricambiare la sua irruenza. Era pur sempre un umano, in fondo. E lei sapeva esattamente come fare impazzire, gli uomini.
              «Cosa dovrei sapere?», ripeté lui, non appena la Uzumaki allontanò le labbra dalle sue.
              «Qualche ora fa, a scuola, ero appoggiata alla balaustra che dà sul pianoterra… e quasi non mi è venuto un colpo, quando ho visto questo!», esclamò lei, fingendosi ancora scossa. Estrasse il cellulare dalla borsetta e vagò con il pollice nella galleria; un lampo di gioia maligna le illuminò il volto, quando trovò gli elementi che voleva tanto mostrargli.
              Gli porse il telefonino e si riempì il cuore di perfido giubilo, mentre osservava lo stupore e la rabbia dipingersi sul volto di Neji.
             «Ecco, Hinata sta aprendo la porta del bagno e Sasuke appoggia la mano sulla sua… qui, invece, si guardano negli occhi e parlano…». Si sentiva in dovere di proporgli delle didascalie, per impreziosire quelle menzogne.
              Neji guardava le immagini con i nervi a fior di pelle. Quella era senza dubbio sua cugina, si vedeva perfettamente, e il moro, di spalle, non poteva essere che Sasuke, con quei capelli spettinati e la carnagione chiarissima. Non gli passò minimamente per il cervello la domanda di quando fossero state scattate quelle fotografie; forse, se avesse letto la data e l’ora, avrebbe compreso che Hinata si trovava lì per soccorrerlo, e avrebbe ricordato quel gesto caritatevole della corvina. Ma la rabbia è peggio della luce diretta del sole, in quanto ad accecamento.
             «Cos’è successo, dopo?», chiese con evidente sforzo, stringendo i denti e restituendo il cellulare alla rossa.
              Lei, tingendo le guance di un pudore tutt’altro che autentico, si finse improvvisamente imbarazzata, abbassando lo sguardo. Lei, una vera tigre, senza scrupoli e timidezza, che si vestiva di un comportamento degno di Hinata, onde risultare più credibile!
            «Beh, ecco… sono entrati nel bagno degli uomini, insieme. Non voglio saltare a conclusioni affrettate, ma ci sono rimasti almeno una decina di minuti. È successo proprio oggi pomeriggio… io mi sono fermata a scuola con degli amici del club sportivo, per l’allenamento, e non ho potuto non rimanere sbalordita. Questo dev’essere stato il loro modo di adempiere all’incarico dell’Hatake. E non oso immaginare cosa sia potuto succedere nell’archivio». Il tono si era arricchito di una sfumatura sibillina. Aveva messo una pulce nell’orecchio dello Hyuga e ora poteva osservare i suoi pensieri contorcersi tra le fiamme dell’odio, dietro quegli occhi di perla.
            «Un bastardo e un’indegna, che coppia meravigliosa! Sarà un piacere, distruggerli», sussurrò Neji, stringendo i pugni e sorridendo sinistramente, lasciandosi Karin alle spalle.
            La rossa schiuse le labbra e mostrò un sorriso feroce alla luna. Un brivido le aveva accarezzato la schiena, alle parole del giovane; quel disprezzo suscitato tanto facilmente andava oltre le sue aspettative più rosee.
            Si affrettò a seguire il ragazzo, con un ghigno malaugurante dipinto in volto. Sasuke l’avrebbe pagata cara, oh sì.
 
Hinata era seduta fra Tenten e Kiba, su un divanetto del porticato. Dietro le domande degli amici, aveva raccontato di come il pomeriggio a scuola fosse volato, tutto sommato, e aveva mentito dicendo che Sasuke era stato molto gentile a prodigarsi per finire prima; non avrebbe sopportato l’ennesima critica verso quel ragazzo che, ora come ora, aveva fatto tanto per lei. Si sentiva in dovere di difenderlo o, quantomeno, regalare un’immagine migliore di lui, agli altri.
              «Bellissimo vestito, hai fatto bene a sperimentare un nuovo look!», sorrise la castana, osservando l’amica. Lei arrossì e la ringraziò con impaccio, accarezzando il pizzo scuro della gonna e, per almeno la cinquantesima volta, tentando inutilmente di allungarla.
               «Ma com’è che sei arrivata con l’Uchiha? Che sta succedendo, tra voi due?», chiese a un tratto l’Inuzuka, confuso.
               «N-nulla, si è solo offerto di accompagnarmi, tutto qui». In fondo era vero, no?
               «Beh, ma avresti potuto chiedere a noi, sciocchina!», scherzò Tenten, picchiandole amichevolmente l’indice sulla tempia.
               «Oppure a tuo cugino», aggiunse Kiba, osservando Neji che si avvicinava a grandi falcate in loro direzione.
               Hinata alzò la testa e tremò, alla vista del suo consanguineo. Conosceva quell’espressione – o meglio, conosceva quasi solo quella, dal repertorio di Neji – e sapeva che non prometteva nulla di buono. Di lì a poco sarebbe scoppiata una tempesta, e lei non aveva ripari per sfuggirle. Non c’erano Sasuke, né zio Hizashi… Kiba e Tenten erano i suoi migliori amici, ma non le parevano abbastanza di conforto, in quel frangente, senza contare che non avrebbe mai voluto trascinare anche loro a capofitto nei suoi guai.
                Strinse i pugni e si alzò a fatica dal divano, incamminandosi verso il cugino. Capiva che doveva cominciare a contare solo su se stessa; forse aveva ragione l’Uchiha, quando diceva che anche lei era un essere umano come gli altri e, in quanto tale, sulla carta non valeva meno di nessuno. Difficile crederci davvero, per una come lei, ma non impossibile. Aveva voglia di cambiare e sentiva che quella sera, con l’abito e la partecipazione alla festa, aveva già compiuto un grande passo avanti.
                 Drizzò lo sguardo verso il parente e aprì nuovamente le mani, lungo i fianchi. Basta tensione inutile e basta autocommiserazione, almeno prima del tempo. L’avrebbe affrontato, a debita distanza da sguardi indiscreti.
 
Neji stava per raggiungere la cugina, quando l’allegria di Naruto si frappose letteralmente fra i due, dividendoli. Se la ragazza aveva pensato a un intervento provvidenziale del fato, l’altro Hyuga, con uno sbuffo infastidito, aveva lanciato un’occhiataccia all’Uzumaki e al suo pessimo tempismo.
            «Beh, è il momento dei regali, no?», ridacchiò il biondo, grattandosi la nuca.
             Erano le ventitré e trenta e lui moriva dalla voglia di scartare i pacchi, per poi darsi allo stappo dello champagne e al taglio della torta, previsti per la mezzanotte.
             Hinata fremette quando il ragazzo le sfiorò la spalla con la sua, mentre, passando, aveva separato lei e Neji. Ecco una valida ragione per apparire più forte, concreta, reale, viva. Quella sera non avrebbe dovuto esitare e offrire coraggiosamente il suo regalo a Naruto, nonostante il suo animo le ricordasse quanto quei biscotti sarebbero parsi inappropriati per un compleanno – soprattutto, un diciottesimo. Strinse nuovamente la busta, osservandola: l’aveva stropicciata, con tutta quella tensione incanalata fra le dita, e tentò di stendere la carta colorata con il pollice. Sospirò, maledicendo l’ennesima prova della propria inadeguatezza; cosa ci faceva lì, seriamente? Come poteva ritrovarsi occhi negli occhi con Naruto e non spiccicare parola?
            «Tutto bene, Hinata?», chiese l’Uzumaki, scrutandola con attenzione.
            Batticuore o tachicardia? Quando l’amore diventa malattia? O lo è da sempre?
            La ragazza ingoiò un boccone d’aria fredda, amaro quanto la certezza che avrebbe fallito miseramente, anche in quell’occasione. Fissava gli occhi più azzurri che avesse mai ammirato, meravigliandosi di come riuscissero a mantenere quella tonalità solare anche nel buio della notte, quando i suoi erano sul punto di sciogliersi in lacrime cristalline.
            «E-ecco, que-questo è il m-mio pensiero…».
            «Naruto! Non apri il mio pacco, per primo?», gridò una ragazza dalla voce acuta e rabbiosa.
            Hinata allontanò il sacchettino che aveva teso verso il festeggiato, avvilita. Le guance erano in fiamme, mentre le gambe le tremavano, sotto il peso di una nuova umiliazione. Alzò coraggiosamente lo sguardo verso Sakura, non appena Naruto si era avvicinato a lei, la quale gli aveva porto una grande scatola incartata di arancione. Ecco, il suo colore preferito; non aveva azzeccato nemmeno quello, pur conoscendolo bene. Semplicemente non le era venuto in mente, convinta che Naruto non avrebbe mai preso quei biscotti, e aveva optato per una banale carta a strisce azzurre, bianche e blu.
           «Sakura, il regalo migliore sei tu, lo sai! Se non fossi venuta, stasera, non avrebbe avuto senso organizzare questa festa!», esclamò il biondo, abbracciandola.
           La ragazza sorrise, battendogli amichevolmente la mano sulla schiena e invitandolo a smettere di sparare certe idiozie. Erano ottimi amici da anni, ma Naruto era sempre stato invaghito di lei, e Hinata lo sapeva bene. Non poté evitare di sussultare nell’osservare la scena e, un secondo dopo, di lasciar cadere per terra quella busta colorata, correndo verso l’angolo più nascosto e fitto di alberi del giardino della casa.
          Con quei tacchi, aveva rischiato di cadere un paio di volte, ma, miracolosamente, era rimasta in piedi per tutta la corsa. Si accasciò per terra, cominciando a tremare. Non voleva piangere, ma fu più forte di lei; le lacrime fluirono incontrollabili da sotto le lunghe ciglia, mentre le mani si accanivano sull’erba. Perché quella rabbia, quella frustrazione, quell’inadeguatezza erano riuscite a sorprenderla? Non doveva forse esserci abituata? Il suo cuore non voleva arrendersi, ma avrebbe fatto bene a darsi per vinto. Quella sera, seppure a caro prezzo, forse l’aveva compreso.
          Avrebbe fatto meglio a rimanere a casa, proprio come aveva immaginato, ma Sasuke aveva insistito tanto, quasi costringendola ad andare incontro al suo destino. Tuttavia, per quanto si fosse rivelata per essere una scelta disastrosa, non riusciva ad avercela con quel ragazzo.
 
Neji aveva osservato confuso la reazione di sua cugina, davanti a quel fatto. Cercò di fare luce sul significato della sua fuga, apparentemente insensata; se lei era davvero innamorata di Sasuke, perché scappare, di fronte a quell’entusiasmo di Naruto verso Sakura? Perché allontanarsi, se aveva trascorso una decina di minuti in bagno con l’Uchiha e il moro l’aveva persino accompagnata alla festa? Perché abbandonare tutti e andarsene di punto in bianco? Non riusciva a capire, per quanto il dubbio di essersi sbagliato a fidarsi di Karin cominciasse ad insediarsi nella mente.
            Scrutò Sasuke, che si era messo a parlare con Kiba e Tenten: aveva lo sguardo rivolto verso il giardino, ma l’espressione calma non gli diede un valido motivo per aumentare l’odio nei suoi confronti.
            Sospirò e tornò a fissare Naruto, relegando Hinata al suo crogiolo di lacrime insensate. Solo perché lei si era rovinata la festa, non significava che sarebbe stato lo stesso per lui.
 
«Senti, Hinata è la nostra migliore amica, tu che ne vuoi sapere?», sbottò Kiba, con il consueto nervosismo.
             No, proprio non ci stava che Sasuke si mettesse sempre di mezzo, ultimamente, per cercare di aiutare la Hyuga, soprattutto perché quei suoi tentativi non sembravano mai dare buoni risultati. Dal punto di vista dell’Inuzuka, poi, quel ragazzo rimaneva qualcuno di cui non potersi pienamente fidare.
            «Ci penserò io, lasciatela stare. È nervosa, ed è comprensibile», ripeté lui, con distensione.
           «Ma chi ti credi di essere? Non la conosci che da tre giorni!», si spazientì Tenten.
           «La conosco abbastanza per dire che in questo momento non potete fare nulla per farla sentire meglio. La rabbia di un essere innocente e ingenuo è distruttiva, non vuole sentire parole di conforto, né vedere occhi commiseranti. È paradossale, ma non vuole pietà, piuttosto una dura condanna». Era certo che fosse così.
            «E tu saresti la persona giusta?», chiese la castana, visibilmente nervosa.
            «Beh, lo metti forse in dubbio?».
            L’ironia di quella domanda retorica era sottolineata dallo sguardo serio dell’Uchiha, in netto contrasto con un sorrisetto tirato che riuscì a convincere i due interlocutori. Sicuramente Sasuke era il bastardo più cinico che l’istituto avesse mai conosciuto, persino peggio di Neji, in fatto di cuori spezzati e impassibilità, non potevano negarlo.
           «Ve la riporto qui subito, lasciate fare a me», concluse con decisione, incamminandosi verso il giardino.
            Kiba trattenne Tenten per un braccio, quando lei fu sul punto di lanciarsi all’inseguimento del ragazzo. Qualcosa l’aveva convinto, in quelle parole; non sapeva ancora cosa, ma era quasi sollevato al pensiero che si sarebbe occupato lui, di Hinata, e non Neji. Forse, un spiraglio di redenzione per l’Uchiha si era appena aperto anche nel suo animo, per quanto non ne fosse pienamente sicuro. La reputazione del giovane rimaneva pur sempre costellata da incidenti di percorso su cui nemmeno un cieco o una divinità misericordiosa avrebbero potuto chiudere un occhio. Probabilmente, l’unica in grado di donargli una forma di condono era Hinata, con la sua ingenua bontà d’animo che riusciva a rischiarare sempre anche gli spiriti indomiti che lui e Tenten si ritrovavano. Strano a dirsi, ma la Hyuga e l’Uchiha, in quell’istante, parvero a Kiba come le anime più simmetriche fra loro, quelle in grado di completarsi, comprendersi e sostenersi. Non che auspicasse un legame fra i due, anzi, era ben lungi dall’augurare alla sua migliore amica una disgrazia simile, ma sperò che Sasuke potesse essere lo sperone in grado di pungerla e spronarla ad affermare se stessa. Desiderò davvero che quel ragazzo misterioso potesse riuscire laddove lui e Tenten avevano fallito.
 
La trovò ancora riversa su se stessa, con la testa bassa, una massa di capelli blu notte a coprirle il viso, il collo nudo come unico punto luce, nel buio dello scenario, percosso da singulti che scossero anche il suo animo. Le piccole mani si erano sporcate di terra e dei fili verdi d’erba si erano depositati sulle ginocchia e la gonna.
            Aveva immaginato che non sarebbe stata una bella visione, non più angelica come quella che gli era comparsa qualche ora prima, nell’abitino nero e i tacchi alti, ma non si sarebbe mai aspettato di trovarsi di fronte al fantasma di un fantasma. Osservare la Hyuga in tutta la sua sconvolgente debolezza, con le consuete barriere che la proteggevano dagli altri ormai rase al suolo, lo fece rabbrividire. Era ancora sicuro di poterla riscuotere? All’improvviso, quello che gli era sembrato coraggio, gli apparve come una deprecabile forma di presunzione.
            Deglutì un nodo soffocante che gli si era formato in gola e si avvicinò silenziosamente.
            Quando le scarpe tirate a lucido entrarono nel suo campo visivo, la Hyuga alzò la testa, spaventata. Sasuke si chinò di fronte a lei e i loro sguardi s’incontrarono. Non una parola, non un sussurro, solo il silenzio e lo stormire delle foglie al vento.
            Non sapeva se dirsi felice o meno di quella visita inaspettata, ma sicuramente era sorpresa; si sarebbe aspettata al massimo gli occhi furenti di Neji, davanti a lei, ma non quelli scuri, profondamente indagatori e placidi di Sasuke.
           «Certi dolori sono come i denti: fanno male, quando crescono, ma sono indispensabili per il futuro», sussurrò lei, come se stesse cercando di consolarsi da sola.
           «Beh, questa è la tua filosofia, Hyuga. Io, se i denti fanno male, li cavo, oppure li affondo nella carne, li uso per mordere, non certo per sopportarne il dolore», ridacchiò lui.
           La ragazza lo squadrò con tristezza, capendo quanto quel ragionamento fosse molto più logico e realistico del suo.
          «Sono una stupida miserabile, non c’è bisogno che tu me lo ricordi», mormorò dopo qualche secondo, abbassando il capo.
          «Mi fai ribollire il sangue dalla rabbia, lo sai?», sbottò il moro, afferrandole il mento con due dita e costringendola ad alzare il viso. «Quando la smetterai di fissare il suolo, Hinata? Gli uomini sono a metà strada tra gli animali e gli angeli, non sono tanto bestiali da dover guardare per terra, né tanto divini da poter ambire a scrutare il cielo. Il bersaglio dei loro occhi sono altri occhi, perciò guardami quando ti parlo!», affermò con tono deciso.
          Hinata si sforzò di mantenere le proprie pupille aggrappate a quelle del ragazzo, mentre sentiva le guance in fiamme e il cuore al galoppo. Mille scariche elettriche le percorsero la membrana che proteggeva il muscolo involontario che sobbalzava ad un ritmo sempre più incessante, pur di scapparle dal petto.
         «Scusami», sussurrò lei, quando riuscì a prendere un respiro abbastanza profondo da permetterle di impiegare aria per parlare.
         «I tuoi amici si stanno preoccupando per la tua assenza. Coraggio, andiamo», la spronò lui, rialzandosi velocemente.
          Lei rimase a fissarlo con timore, senza muoversi di un centimetro. Non riusciva a trovare la forza per sollevarsi, né il coraggio per guardare ancora l’Uzumaki negli occhi.
          «N-non posso tornare là».
          Sasuke sospirò sonoramente, chinandosi di nuovo. Riprese a sondare quegli occhi chiarissimi con i suoi, scorgendovi dentro tutta la disperazione e l’imbarazzo del mondo.
            «Vuoi che le cose vadano così? Allora Naruto non significa proprio nulla, per te? Sei disposta a rinunciarvi senza nemmeno provare a combattere? Eppure credevo che contasse parecchio…», la istigò, con un sorriso che di maligno aveva solo la fisionomia.
            «La verità è che io non sono Sakura, non sarò mai lei», ammise in tutta sincerità, riconoscendo i propri limiti.
            «Non è ciò che ti ho chiesto». Le prese le spalle fra le mani e la scosse delicatamente. «Quanto sei disposta a rischiare, per ottenere ciò che vuoi?».
            «Farei di tutto, pur di poter entrare nel cuore di Naruto, se solo servisse a qualcosa». Non era arrossita, né la sua voce aveva esitato a proferire quelle parole. Era la verità, quasi non ci trovava nulla d’imbarazzante ad ammetterlo.
            «Ti aiuterò io», dichiarò il moro, con un sorriso fermo e deciso.
            «Da-davvero?», chiese lei, con gli occhi sgranati. Il martello pneumatico, il motore nel petto, riprese a battere di gran lena.
            «Fin quando sarò in grado di farlo, ti darò una mano con Naruto», promise lui. Il sorriso pian piano si spense, mentre quello sul volto di Hinata si accendeva.
            Spinta da una forza che superava in larga misura il ritegno e la razionalità, Hinata lo abbracciò. Era il modo più istintivo e sincero per ringraziarlo, ma non si rese conto di quanto potesse essere distruttivo per Sasuke.
            Il moro rimase stupefatto, mentre accarezzava con titubanza e delicatezza la sua schiena e delle ciocche corvine. Quel contatto riuscì a lasciarlo senza fiato. Sentiva il caldo corpo profumato d’innocenza a contatto con il suo, molto meno puro e morbido, e temette di poterla contaminare. Si sentiva come il peggior essere al mondo, mentre per la Hyuga, in quel momento, era tutto il contrario. Perché certi pensieri cominciavano a sfiorare la sua mente… e il suo cuore? Hinata! Quella era Hinata! Perché non riusciva mai a ricordarselo?
 
Dei passi furiosi li raggiunsero, ma se ne accorsero entrambi quando ormai era troppo tardi. Sasuke si staccò lentamente da Hinata, rialzandosi. Neji era davanti a loro, cupo e nero più delle tenebre, più di quanto l’Uchiha stesso fosse mai stato.
            «Bastardo! Allontanati da lei, prima che ti metta le mani addosso», tuonò, con i pugni chiusi.
            La cugina si rimise in piedi, tremando. Le gambe le dolevano terribilmente, aveva le ginocchia sporche di terra ed erba, ma non se ne curò. Tutt’a un tratto le faceva molto più male qualcosa di assai prezioso, la dignità.
            «Neji, ti prego. Sasuke mi sta solo aiutando», spiegò con il tono più stentoreo che potesse ostentare.
             «Stai zitta! Tu farai i conti a casa, con tuo padre».
            L’Uchiha, punto sul vivo, scattò in avanti, digrignando i denti. Si trovò a faccia con l’altro Hyuga, e non ebbe paura di scrutare da vicino l’astio che traboccava nelle sue pupille.
            «Chi cazzo credi di essere, per poter parlare così a tua cugina?», urlò rabbioso.
            Neji, in men che non si dica, non esitò a vendicarsi di quell’offesa con un destro dritto in faccia. Sasuke indietreggiò di qualche passo, dopo quel contatto violento. Si portò la mano sul labbro e sorrise, osservando il sangue. Era da tempo che nessuno riusciva a fendergli la pelle, e quasi si era dimenticato il gusto ferreo di quel liquido vitale. Mentre la lingua assaporava il frutto di quel cazzotto e Hinata urlava di smetterla, si scagliò contro lo Hyuga, piombandogli addosso con un violento pugno, che però venne schivato.
            In quel frangente, giunse anche Karin. La rossa sorrise sotto i baffi, mentre osservava il liquido vermiglio scorrere lungo il mento del moro, avvicinandosi a Neji. Finse di preoccuparsi della sua salute, stringendogli la mano e baciandolo a fior di labbra, senza distogliere lo sguardo da quello di Sasuke. Non era ancora pienamente soddisfatta, non poteva dirsi vendicata da un semplice colpo sul labbro, il suo cuore bramava molto di più. Desiderava vedere l’Uchiha a pezzi, rannicchiato su se stesso, in un angolo, agonizzante e solo come un cane. Solo di fronte alla sua distruzione, lei si sarebbe sentita integra.
           «Perché non sono sorpreso?». Sasuke esplose in una risata quasi raccapricciante, che imbrattava di sangue anche i denti. «Sei profonda la metà della tua fessura, troietta da quattro soldi», commentò, guardandola con occhi affilati come lame.
           Hinata arrossì, alle spalle dell’Uchiha. Per quanto ingenua, questa l’aveva capita.
           Karin, da parte sua, gli diede del perdente, lo coprì di insulti, per poi andarsene, trascinando con sé un Neji ancora non totalmente appagato. I suoi occhi mal celavano il cieco desiderio di prendere a cazzotti Sasuke, fino a non lasciare intatto un centimetro di pelle della sua faccia.
           Naturalmente, il sentimento era reciproco; nemmeno per il moro dal labbro spaccato, tutto sarebbe rimasto fermo così.
 
Nel silenzio di quell’angolo di giardino, fuori dal mondo, ma catapultato nel girone infernale dei violenti, Hinata si avvicinò con la solenne delicatezza di una vestale all’altare, alla reliquia, a quel ragazzo che aveva rischiato letteralmente la pelle, per lei. Lo osservava con occhi liquidi e tristi, maledicendo se stessa e la propria esecrabile famiglia.
            «Mi dispiace. Mi dispiace terribilmente, Sasuke», confessò con una mano sul petto, mentre l’altra, con l’ausilio di un fazzolettino, cercava di ripulire il mento del ragazzo.
            Non era un danno eccessivo, giusto un taglio che divideva il labbro superiore in due; sarebbe guarito nel giro di qualche settimana, anche se si sarebbe certamente gonfiato e tinto di un colore livido.
            «Anche stavolta, è stata colpa mia. Non devi aiutarmi, non merito il tuo tempo. Vorrei tanto cambiare, ma… sono una codarda», confessò a malincuore, mentre una lacrima le illuminò il viso.
            Sasuke sorrise misteriosamente, osservandola, totalmente immobile. Era dispiaciuta, ma non era abbastanza.
            «Sì, è vero. Sei codarda, sei miserevole, Hinata. Sei deplorevole, vergognosa e inutile. Finalmente te ne sei resa conto. Sei peggio di una perdente, perché nemmeno provi a metterti in piedi e lottare».
            La ragazza allontanò la mano dal viso del giovane, fissandolo con stupore. Gli occhi neri erano attraversati da un bagliore di arguzia, un lampo che illuminò anche i suoi, totalmente sciolti in lacrime. Perché era stato tanto crudele da ferirla? Non poteva crederci. Non v’era traccia di rimorso, sul viso dell’Uchiha. L’aveva colpita con freddezza, e l’aveva trafitta deliberatamente, proprio perché intendeva farlo.
             Peggio di una perdente; per quanto quel comparativo bruciasse, lui aveva ragione, gliel’aveva già accennato qualche minuto prima dell’arrivo di Neji, mentre discutevano sull’Uzumaki. Lei non aveva speranze, era solo una stupida sognatrice.
            «Pensi davvero che Naruto si accorgerà mai di te, Hyuga? Non saprà nemmeno di che colore hai gli occhi, di questo passo!». Affondò il coltello nella piaga, ma doveva andare ancora più a fondo, per farla reagire. «Morirci dietro per anni, senza trovare mai il coraggio di salutarlo…».
             «Adesso basta!». Non l’aveva mormorato, ma neppure urlato. Sasuke poteva osservare la sua bocca chiudersi rigidamente in una smorfia di disappunto, gli occhi smettere di piangere, le sopracciglia tremare per poi fermarsi. Ma la mano no, non riuscì ad arrestarsi; andò dritta al bersaglio, a colpire la guancia di Sasuke, con un sonoro schiaffo.
             Hinata rimase allibita e continuò a fissare le dita per un minuto buono. Se il palmo non le fosse bruciato tanto, avrebbe certamente pensato che stesse solo sognando. Constatò poi, anche grazie al rossore sulla gota dell’Uchiha, che era successo davvero.
             «Però, che privilegio… due tocchi violenti da due Hyuga diversi, in una sola serata», rise divertito Sasuke, massaggiandosi il punto esatto in cui sentiva le cinque dita stampategli dalla corvina.
             «Scu-scusami, scusami, davvero», si affrettò a dire lei, mortificata. Voleva sprofondare, ancora non riusciva a capacitarsi di quel gesto improvviso; allora era quella, la rabbia. Anche lei poteva caderne preda, quindi.
             «Me lo meritavo, hai fatto bene», sorrise lievemente lui, sospirando. «Senza contare che, finalmente, ho visto ciò che nessuno mai ha scorto in te».
              «Non volevo ferirti», si scusò nuovamente.
              «Stupida, come se bastasse uno schiaffo a farmi del male».
              Il sorriso agli angoli della bocca riuscì a rincuorarla, tanto che, appena l’Uchiha si mosse in direzione della festa, senza bisogno di parole, anche lei lo seguì.
 
La scena non era poi molto cambiata: Naruto stava ancora scartando dei regali, benché fosse già passata la mezzanotte e il suo progetto di stappare lo spumante per quell’ora se ne fosse andato a far benedire. Fortunatamente, però, qualcosa di diverso c’era. Neji e Karin erano scomparsi dalla loro vista; per quanto Hinata si sforzasse di guardarsi intorno, non c’era traccia della rossa, né del cugino. Poté tirare un sospiro di sollievo e sorridere a Kiba e Tenten, che le si erano avvicinati.
            «Ma cosa gli è successo?», domandò sottovoce la castana, indicandole Sasuke con un cenno del capo.
            «Credo che sia inciampato in qualche sterpaglia, non so», mentì la giovane, sul punto di scoppiare a ridere; persino una come lei era riuscita a sfregiare la sua pelle, quella sera!
            «Ti senti meglio, ora?», chiese l’Inuzuka. Il sorriso armonioso restauratosi sul volto della ragazza riuscì a spazzare via ogni ombra di dubbio.
 
Di lì a poco, fra le mani di Hinata giunse un piattino con una fetta di torta, e lei osservò da lontano, con una tacita e profonda affettuosità, il festeggiato, rammaricandosi lievemente di non essere riuscita a recapitargli i biscotti. Chissà che fine avesse fatto quel pacchettino! Poco male, ora aveva un motivo in più per impegnarsi e trovare un regalo migliore per Naruto.
            Quando Sasuke le si appropinquò, verso l’una, per ricordarle che non avrebbe dovuto far tardi, un velo di tristezza le era calato sugli occhi e nel cuore, ricordandole crudelmente a cosa sarebbe andata incontro nelle ore seguenti. A casa l’aspettava un nuovo contrasto con il padre e, naturalmente, con Neji.
            Tornò a guardare l’Uzumaki, così sorridente, luminoso, splendido persino in piena notte. Riuscì comunque a sorridere, nonostante i cattivi pensieri, comprendendo che quella era la prima volta che aveva trascorso una notte con Naruto. Certo, non era esattamente andata come sperava e, a dirla tutta, con il biondo aveva a malapena passato un minuto effettivo – compresi i cinque secondi di abbraccio e la mancata consegna del dono, ma era comunque riuscita a cogliere qualcosa di nuovo, a fare suo un attimo di vita che avrebbe certamente rinunciato a vivere, senza l’insistenza di Sasuke. Ancora una volta, lo guardò con gratitudine, mentre una vocina nella sua testa le ricordava che quello era il momento di cominciare a rischiare, per vivere. “Adesso o mai più”, e lei aveva scelto l’adesso, l’ora, il subito, onde renderlo eterno, mentre, con il cuore in gola e i battiti a mille, si era avvicinata in solitaria a Naruto, affascinata come sempre dalla sua gioia esuberante.
            «Grazie di tutto». Il tono era fermo, delicato, ma più sicuro di sé, e le guance erano leggermente imporporate, niente a che vedere con il solito rosso imbarazzante che la contraddistingueva.
            «Sono stato davvero felice di vederti, stasera, Hinata!», esclamò lui, abbracciandola nuovamente.
            Durò solo altri tre secondi, ma per lei furono lunghi e intensi almeno il triplo. Mentre si allontanava affianco a Sasuke, pronta a rimettere piede in auto, il suo spirito era ancora lì, abbracciato all’Uzumaki, desideroso di carpirne tutto il profumo e il calore.
 
Mentre l’elegante sportiva nera si allontanava dall’abitazione di Jiraiya e le sue luci, inghiottita dal buio che veniva spezzato, di tanto in tanto, solo dal fascio di luce arancione di qualche lampione, Hinata cominciò a torturarsi le pellicine delle unghie, fissando il vuoto davanti a sé.
              «Ti prego», cominciò a implorarlo, quando non riuscì più a placare l’ansia.
              «Non posso, l’ho promesso a tuo zio, e lui mi sembra una brava persona, che si preoccupa di te e della tua vita», spiegò con calma Sasuke.
              La ragazza dai capelli blu annuì lievemente, nel tentativo di convincersi che lui avesse ragione. Di sicuro non si sbagliava, ma, quando l’auto si fermò davanti a villa Hyuga, lei non era per niente pronta a scendere.
             «Non voglio rientrare», lo pregò, giungendo le mani.
             Sasuke sospirò profondamente, allungando un braccio verso i sedili posteriori e recuperando gli indumenti originari della corvina.
            «Ascoltami, Hinata. Ti prometto che verrò a prenderti, nel momento in cui il tuo mondo cadrà a pezzi, ma non stanotte. Le cose saranno difficili, d’ora in poi, ma non sarai sola. Hai tuo zio, Kiba, Tenten… e hai me, se la cosa può consolarti», ammise un po’ a disagio, mentre gli occhi perlacei di lei lo fissavano spaesati.
             «Ti ringrazio, Sasuke».
             Era inutile anche solo sperare di riuscire a trattenere le lacrime. Si sentiva una stupida a piangere sempre, al suo cospetto, ma era più forte di lei. Tuttavia, quando scese dalla macchina e la vide allontanarsi, strinse gli abiti al petto e promise a se stessa che da lunedì non avrebbe più disturbato quel ragazzo, né che l’avrebbe ancora costretto a cacciarsi nei guai per lei. Aveva già fatto più del dovuto, senza che lei fosse minimamente riuscita a ricambiare quella generosità provvidenziale, di cui tutti ignoravano l’esistenza.
            Sorrise, mentre ispirava profondamente e asciugava le lacrime con il dorso della mano. Si fidava di quel ragazzo, di quegli occhi bui in cui scorgeva una luce sottile, ma abbagliante. Non sapeva cosa avesse mai fatto di tanto meritevole per poter contare su di lui.
 
E quel ragazzo, dal canto suo, giunto a casa a un orario indecente, dopo una nottata spesa al bar con amici, alcolici, e malumori, assaporò un biscotto pescato da quella busta azzurra, blu e bianca, raccolta a casa di Naruto. Il sapore dolce, genuino, senza artifici, a differenza di ciò che il suo palato aveva gustato fino a una ventina di minuti prima, gli provocò una fitta al cuore. Non riusciva a capire come potesse aver imboccato quella strada di carità e altruismo, ma sapeva benissimo dove l’avrebbe condotto.
            La Hyuga era effettivamente entrata nella sua vita da mercoledì pomeriggio, per quanto, di certo, non le era mai sfuggita per la sua delicata e celata bellezza. Non sapeva nemmeno perché, ultimamente, si ritrovasse spesso a stretto contatto con lei, con le assurdità con cui era costretta a fare i conti… gli stava a cuore la sua debolezza o, più semplicemente, cominciava a stargli a cuore lei? E poi, perché proprio lei? Era una ragazza timida, discreta, sempre riguardosa nei confronti di tutti, evanescente, tanto gentile e umile da apparire invisibile ai più; possibile che invece, proprio quella fragilità la rendesse tanto visibile ai suoi occhi? Così visibile da diventare quasi importante, e tanto importante da poter essere… indispensabile? E talmente indispensabile da fargli rimpiangere quella promessa di aiutarla a stringere un legame con Naruto, spezzando irrimediabilmente quei fili che cominciavano a intrecciarsi fra loro?
            Hinata era pura, eterea e da proteggere… ma se angelo custode e angelo ribelle convivevano nella stessa anima, chi dei due avrebbe prevalso? Ma, soprattutto, dove finiva uno e cominciava l’altro?










Mi scuso profondamente per aver lasciato passare tanti giorni dall'ultimo aggiornamento! :( Credo di non poter rendere i tempi meno brevi di un capitolo a settimana, a questo punto! Mi spiace, l'estate era meravigliosa non solo per il clima, ma pure per il tempo che mi potevo permettere di passare al pc XD
E mi scuso anche per la lunghezza di questo capitolo! Non pensavo potesse uscire così lungo, caspita! Spero non vi abbia annoiati XD 
Vi ringrazio tantissimo per l'affetto delle vostre recensioni, per i "clic" nelle preferite/seguite/ricordate, per le letture silenziose che sfiorano cifre mai immaginate da una come me :') sono commossa, ancora non credo di poter meritare tanta stima! Devo gran parte di questa storia a voi, meravigliosi lettori, che mi spronate sempre a proseguire! Oddio, quanto mi sento onorata! 
Vi ringrazio ancora! 
Mi metto subito all'opera, sperando di aggiornare presto!
Un grande abbraccio! <3

Ophelia

 

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Capitolo 8
*** Spirito di sacrificio ***


8. Spirito di sacrificio

 
 
 
 
 
La domenica mattina era sempre stata una dimensione temporale a sé stante, rispetto al resto della settimana, per Sasuke. Mentre Itachi si svegliava relativamente presto – le dieci e mezzo erano dannatamente un’ora immorale, per un nottambulo convinto quale lui era - e cominciava a darsi da fare per aiutare la madre nella preparazione di qualche pietanza dalla ricetta complicata, con la speranza di allietare il capofamiglia, il minore dei fratelli, invece, sonnecchiava fino a mezzogiorno, comodamente avviluppato nel piumone, senza nemmeno essersi preoccupato d’indossare un pigiama, prima di coricarsi. Una volta era successo che una compagna di corso d’Itachi, nonché, all’epoca, sua uscente, l’aveva visto sgattaiolare in boxer in bagno, alle undici e mezzo di mattina; se lei era rimasta scandalizzata e aveva finto di dover scappare immediatamente a casa, lui aveva scrollato le spalle, come se niente fosse. Quella era casa sua ed era il quindici luglio, aveva tutto il diritto di girare come più gli paresse.
            Mentre fissava il soffitto blu della camera, massaggiandosi le tempie per il mal di testa che non gli dava tregua, ripensava a quello che era successo la sera prima. Hinata, la sua schiena bianca; Naruto, la sua infantile allegria; Neji, la rabbia e quel pugno sul labbro; Hinata, lo schiaffo; Hinata, il suo animo gentile, che cominciava a voler, però, affermare se stesso; Hinata… Hinata. Costantemente, la mente tornava a lei, al suo abbraccio, al calore del suo corpo, in netto contrasto con la purezza del suo spirito. Come poteva occupare le riflessioni di quell’angolo di tempo chiamato “domenica mattina”, quando per lui nemmeno esisteva, quell’estensione cronologica?
            Mugugnò infastidito dalla cefalea, rigirandosi nelle coperte e strofinando gli occhi. Non sapeva nemmeno perché avesse deciso di aiutarla, ma ormai era troppo tardi per tirarsi indietro, senza contare che non era certo il tipo da rimangiarsi la parola data. Però Hinata era così bella, serafica, gentile, limpida, preziosa… non riusciva a credere che fosse riuscita a colpirlo tanto, con quell’innocente essere al mondo quasi come per puro caso. Aveva artigli, la Hyuga, che nemmeno sapeva di riuscire a sfoderare nell’anima di uno come Sasuke Uchiha.
            Il moro inspirò profondamente e si alzò dal letto, scostando in un colpo solo il piumone e il lenzuolo. Un brivido di freddo investì il suo torace nudo e lo costrinse a darsi una mossa e lavarsi. Sbadigliò e irrigidì la schiena, dirigendosi lentamente verso il bagno. Non degnò di uno sguardo la sua immagine riflessa allo specchio, immaginando perfettamente le occhiaie che cerchiavano gli occhi, il labbro gonfio e spaccato, il colorito spento; non serviva che qualcosa gli ricordasse quanto fosse a pezzi, anche esteriormente.
            Si sciacquò il viso con l’acqua fredda, rabbrividendo, nel tentativo di cacciare i fantasmi della notte appena trascorsa.
 Hinata era fuori discussione, doveva solo aiutarla. Prima, però, avrebbe dovuto tendere una mano verso se stesso e salvarsi da quel tremendo cerchio alla testa.
 
***
 
 
A casa Hyuga, la colazione si svolgeva come un rituale, fra tintinnii di cucchiaini, brevi sorsi di thè e sguardi bassi.
           Hinata, come suo solito, aveva fatto raffreddare la bevanda, annegandovi dentro i suoi pensieri, cercando di non alzare mai lo sguardo verso l’altro capo del tavolo. Poteva sentire lo sguardo di suo padre incollato addosso, pesante quanto un macigno, quello stesso masso che la divorava da ore.
          Dopo essere stata accolta dal sorriso di Shimoko, si era sentita stranamente sollevata, ma non abbastanza tranquilla; era conscia di aver sbagliato ad uscire senza accennare minimamente la cosa a suo padre e sapeva che il destino era impeccabilmente puntuale; poteva benissimo scampare alla punizione, a quell’ora, ma la mattina era tristemente imminente.
         Non aveva chiuso occhio nemmeno quella notte e sapeva benissimo di avere un aspetto orribile, ma non si era impegnata a nasconderlo. Non ci trovava niente di male, in quelle occhiaie profonde, nelle ginocchia ancora arrossate e nell’incarnato smorto, anzi, si era convinta che quello fosse un modo per dimostrare al capofamiglia quanto avesse sofferto per averlo nuovamente deluso. Fosse bastato solo quello, a farlo sentire meglio!
        La notte – in bianco – a differenza di ciò che comunemente si dice, non aveva portato consiglio, tutt’altro. Il suo cuore aveva sobbalzato come un martello pneumatico ad ogni rintocco di orologio, mentre la mente riordinava gli eventi della serata. Con le lacrime agli occhi, si era stretta le mani intorno alle braccia, violentemente, desiderando tanto ricoprire le impronte che Naruto aveva lasciato su di lei. Era un modo per sentirsi ancora felice, in fondo, anche se troppo ingenuo. Sicuramente un fragile surrogato d’affetto, destinato a creparsi con la successiva immagine che le aveva fatto visita: Sakura, sorridente, a sua volta abbracciata al biondo, totalmente adorante nei suoi confronti. Sorrideva a malincuore, assaporando una goccia salata scesale fra le labbra: quella macchia rosa sapeva lasciare un segno di sé più di lei, che era invece contraddistinta da un colore scuro, blu come la notte; paradossale, ma indiscutibilmente vero. Lei non sarebbe mai stata spigliata, carina e importante quanto Sakura, agli occhi dell’Uzumaki, non avrebbe mai strappato dalle sue labbra una dichiarazione d’affetto come quelle che la Haruno si aggiudicava senza minimamente sforzarsi. 
             E poi Neji, il suo pugno sferrato a Sasuke… aveva tremato anche fra le lenzuola, ripensando a quel contrasto, sentendosi ancora più impotente di prima. Non era riuscita a bloccarli, né a farli ragionare o a esprimersi; qual era la differenza fra lei e uno degli alberi che avevano fatto da sfondo alla scena? Nessuna, se non che le piante non avrebbero certo pianto, in quelle ore.
             L’Uchiha, inoltre, era rimasto aggrappato più del dovuto ai lembi dei pensieri che lei cercava di scostare dalla mente.              Aveva osservato una decina di volte l’abito che le aveva fatto indossare, ordinatamente riposto su una gruccia e appeso a una maniglia dell’armadio; più fissava lo sguardo nel nero, più quel colore le sembrava simile agli occhi di Sasuke, così scuri e, proprio per questo, stranamente abbaglianti.
             Non sapeva nemmeno perché stesse tremando, mentre ripensava al moro. Era stato gentile, straordinariamente cortese, verso di lei, fin dalle premesse della serata, quando era arrivato a prelevarla a casa, pronto a sfidare persino suo padre, se mai ce ne fosse stato bisogno. E poi il vestito, l’imbarazzo dei bottoncini che lui aveva chiuso con titubanza, il fiato caldo sulla pelle fredda - che era quasi certa fosse riuscito ad appannare la sua carne di cristallo, nascondendo le ossa e gli organi, i sentimenti repressi e quelli che spingevano per venire a galla. Perché lei si sentiva così, ai suoi occhi: trasparente, dannatamente semplice da leggere e prevedere, più chiara di un tratto di penna su un foglio che rivelava in controluce, troppo facilmente, la filigrana delle sue emozioni.
           Gli occhi neri, fermi e profondi di Sasuke le avevano fatto visita per buona parte della notte, mentre lei s’imponeva di non rabbrividire. La sua mano stretta nella sua, nel tentativo di farla sentire meno sola e meno invisibile; le parole aggressive, ma segretamente cordiali, che le aveva rivolto per farla reagire, per spingerla a rompere quella barriera sottile come un vetro, ma resistente quanto un diamante, che la separava dal resto del mondo. Barriera che aveva infranto con uno schiaffo improvviso, istintivo, che non riusciva ancora a spiegarsi, né totalmente a perdonarsi, per quanto il ragazzo l’avesse rassicurata che aveva avuto tutte le ragioni del mondo per tirarglielo. Si era guardata di nuovo il palmo, scorgendolo sfuocato e candido come uno strato leggero di neve, nel buio della stanza, e aveva sorriso, tirando su con il naso.
           Prima di lasciarlo in pace, facendosi da parte e tornando nell’anonimato, onde non procurargli più alcun tipo di guaio, si sarebbe scusata ancora con lui, e, certamente, lo avrebbe ringraziato con tutto il cuore; inoltre, si sentiva in dovere di esprimere il proprio riconoscimento anche a Itachi e alla sua ragazza, per quel meraviglioso abito che le aveva in qualche modo trasmesso lo spirito giusto per affrontare la serata.
           Sperava che le fibre del vestito, a contatto con la sua pelle, avessero depositato in lei abbastanza coraggio per permetterle di non estinguere miseramente l’Hinata di quel dieci ottobre, la ragazza che potenzialmente era, ma che non si era mai assicurata di essere.
 
Il bersaglio dei loro occhi, sono altri occhi, perciò guardami quando ti parlo! Quel rimprovero ancora fiammeggiava nella mente e lei si era imposta di ascoltarlo alla lettera. Posando la tazza, aveva lentamente sollevato il capo, pronta ad affrontare lo sguardo di suo padre.
            Hiashi la scrutava con fermezza, mentre sorseggiava ancora il caffè, ma era come se non la vedesse seriamente, poiché la mente era ferma a ripercorrere la discussione della sera prima.
 
«Devo parlare con te, fratello».
            Le volte in cui Hizashi si era preso la briga di interrompere le attività di Hiashi, nel suo ufficio, si potevano contare sulle dita di una mano, ma erano sempre importanti. Il diretto interessato lo sapeva benissimo e, proprio per la tensione, la tempia aveva cominciato a pulsargli nervosamente.
          «Non ho tempo, ora, Hizashi. Come puoi vedere, sono sommerso dal lavoro», l’aveva liquidato, sperando di non far trapelare troppo quanto si sentisse teso.
          Il gemello minore, spazientito, afferrò una pila di fogli che si trovava sul tavolo e la lanciò per aria; i documenti vorticarono nel vuoto per alcuni secondi, dividendo gli occhi dei fratelli dal forte desiderio di incenerirsi a vicenda. Quando anche l’ultimo pezzo di carta si depositò sul pavimento, le loro iridi, così simili, sottolineavano espressioni molto diverse.
         «Va bene, sentiamo! Di cosa dovremmo discutere?», domandò il maggiore, leggermente sorpreso, ma, soprattutto, infastidito.
         «Dei nostri figli, Hiashi. Questi non sono normali diciottenni, spero che tu te ne sia reso conto». Nel notare l’espressione ironica sul volto del fratello, quel tacito “ah, tutto qui?”, che proprio non riusciva a sostenere, Hizashi tornò all’attacco. «Il responsabile della loro pessima maturazione sei tu!».
        «Dovresti essere fiero del tuo Neji», sorrise l’altro, con un briciolo di rammarico nemmeno troppo celato, per non essere stato tanto fortunato.
        «Non lo sono quanto vorrei! L’hai plasmato a tuo piacimento, è freddo e imperturbabile quanto te. Delle volte credo sia persino sul punto di superarti, in fatto di crudeltà. Non è mio figlio, non è come lo ricordavo. Hiashi, non riesco a perdonarti! Non hai nessun diritto per renderlo un tuo piccolo clone». Aveva battuto il pugno sul tavolo, fissando il gemello negli occhi. Per una volta, quelli più glaciali, minacciosi, divorati dal risentimento, erano i suoi.
            «Io non ho fatto nulla, è lui che ha scelto un modello di riferimento… che evidentemente non sei tu», ghignò sinistramente, abbassando il capo per tornare ad occuparsi del foglio che stava compilando.
            Hizashi glielo strappò velocemente di mano, furente. Non poteva credere che la persona a lui più simile al mondo potesse essere davvero tanto spietata e insensibile.
            «Neji è mio figlio, ricordatelo bene. Mio», puntualizzò con voce stentorea, nel momento in cui le loro pupille si erano ritrovate nuovamente le une nelle altre.
            Hiashi masticò un po’ d’aria, senza distogliere l’attenzione dal fratello. Aveva ragione, lo riconosceva, ma non era nemmeno colpa sua se il nipote aveva intravisto nello zio una fonte d’ispirazione, un ideale. A dirla tutta, nonostante non fosse qualcosa di normale, ciò lo riempiva d’orgoglio, a differenza del comportamento sfuggente di Hinata. Neji non l’aveva mai deluso e lo sentiva molto più vicino a lui di quanto non fosse la sua primogenita.
            «Cosa devo dirti, fratello? Sei stato più fortunato di me, lo ammetto», aveva sospirato, abbassando il volto e appoggiando il mento su una mano. Era evidente, la sua vita era stata baciata da qualche raccapricciante maledizione e lui poteva solo contrapporvisi con tutte le sue forze, anche a costo di ricevere odio, e donarlo.
            Quella confessione spezzò la lastra di ghiaccio nelle iridi e nell’animo di Hizashi, che si stupì. Non aveva mai creduto possibile che un’ammissione quasi disperata potesse uscire dalle labbra rigide del gemello, sempre così fiero e sicuro di sé. Aveva molti lati oscuri, ma non credeva che, fra questi, potesse rientrarvi a far parte anche qualche sintomo di debolezza.
            «Più fortunato?! Ma ti senti, quando parli? Ti rendi conto del male che stai facendo a tua figlia?».
            «Hanabi mi sembra la persona più serena di questa casa», commentò l’altro, tergiversando.
            «Hinata! Sto parlando di Hinata, dannazione!», gridò Hizashi, battendo con violenza, di nuovo, la mano sul tavolo.
            «Oh, Hinata…». Fu tutto ciò che il maggiore degli Hyuga riuscì a dire, al riguardo. Non aveva nulla d’aggiungere, né da ritrarre, rispetto ai pensieri che aveva precedentemente espresso, in mille altre occasioni, sulla figlia.
            Sapeva benissimo che tutta la diatriba era iniziata per arrivare a quel punto e, nonostante lui avesse cercato di eludere le parole del gemello, era ben a conoscenza che non sarebbe riuscito ad evitare di affrontare la questione “Hinata”.
            «La stai perdendo! Riesci a vedere dove la stanno conducendo la tua freddezza e quest’astio che covi nei suoi confronti?».
            «Hizashi, stai parlando di cose che nemmeno conosci. Ti prego di tacere», affermò con un tono più basso. Non poteva capire il demone che lo divorava, lui che non aveva sperimentato l’Inferno.
            «Dovrei rimanere impassibile, mentre mia nipote si chiude in silenzi atroci, costretta a subire l’odio di suo padre e il conseguente e irrazionale distacco di suo cugino?». Quella vena pulsante, quasi un marchio inconfondibile degli Hyuga, era comparsa anche sulla sua tempia.
            «Io non la odio, non odio nessuno!», protestò l’uomo, serrando la mascella.
            «Ah no? E allora, perché ti comporti così nei suoi confronti? Cosa pensi che otterrai, trattandola in questo modo? Tenta continuamente, con ogni mezzo, di renderti felice, ma sei così cieco e sprezzante da non riuscire a vedere niente».
            «Io non la odio – ripeté lui, contraendo la mascella – odio solo me stesso, perché non so più amare», ammise infine, crollando sotto le insidie del fratello.
            Quella confessione squarciò il velo che li avvolgeva e separava da anni. Hiashi non era mai stato tanto sincero e si rammaricava di aver mostrato quella debolezza, quel rimorso interiore che era tutto diretto verso se stesso, ma che scaricava sempre sugli altri, soprattutto Hinata.
            Aveva stretto il pugno e la penna, che ancora era fra le sue dita, aveva scricchiolato miseramente, in quella morsa d’acciaio. Le nocche tremavano, mentre digrignava i denti e inspirava profondamente.
            «Sono passati tanti anni, eppure la fai sentire responsabile per qualcosa che non ha nemmeno causato! È stato un incidente, Hiashi! Aveva tredici anni, come pensi che si sia sentita? Non credi che sua madre le manchi terribilmente? Penso che senta la mancanza più di tutti noi. Era il suo punto di riferimento e, con tutta questa cappa di malumore che ti avvolge, la sofferenza è lievitata a dismisura, nel suo animo. La stai punendo per una condanna che non la riguarda, senza capire che lei stessa si detesta con il massimo delle sue forze». Bisognava battere il ferro finché era caldo, non lasciarsi intimidire ed affondare, affondare la lama fino al cuore. Forse, in tal modo, un po’ di luce si sarebbe vista.
            Il gemello maggiore aveva tristemente sorriso, al suono di quelle parole. Se non ci aveva mai pensato? Era il pensiero che lo torturava ogni volta che osservava la primogenita, mentre nascondeva la commiserazione dietro due iridi chiare e inespressive, nel tentativo di proteggerla. Il dolore era una palestra per la vita, lo aveva imparato a sue spese ed era ora che anche lei lo comprendesse. Aveva diciotto anni, le sofferenze non sarebbero mancate, e avrebbe dovuto affrontarle con spirito di sacrificio, immolando una parte di sé, per sopravvivere.
            «Hizashi, tu non hai perso tua moglie da un giorno all’altro, senza aver la possibilità di dirle quanto l’amassi, di stringerla un’ultima volta, ancora viva e calda, pulsante di emozioni e sangue, né di concedersi un ultimo giro di valzer, un sabato sera, nel salone di casa, o di baciarla, sfiorare le sue labbra con più passione e meno razionalità… Tu non conosci questo dolore, né ti potrei mai augurare un tormento simile. Non puoi capire, e sei fortunato a vivere nell’ignoranza di una sofferenza come questa».
            I suoi occhi perlacei si erano scheggiati in un milione di lacrime che da tempo sbattevano contro le pareti delle iridi, come onde sugli scogli, ma l’uomo non permise loro di sciogliersi e fluire. Già era stata una leggerezza riprovevole essersi aperto, aver mostrato ciò che più odiava di sé, e ci mancava solo che il gemello potesse scorgere quanto in realtà fosse debole e abietto.
            «Mi dispiace per Haiko, fratello. Comprendo il tuo dolore, lo condivido», aveva sussurrato Hizashi, finalmente sedendosi di fronte al consanguineo, osservandolo con un barlume di tristezza.
Non voleva costringerlo ad accartocciarsi su se stesso, non era quello il suo intento; desiderava solo che riaprisse gli occhi e si accorgesse dello stato d’emergenza di sua figlia.
            «Almeno sii più umano nei suoi confronti. Perché non le permetti di vivere normalmente, come una qualsiasi diciottenne? Cosa ti spaventa? Che lei si diverta, esca con gli amici, s’innamori…? È la sua vita! Tu le stai negando la vita che le avete donato con tutto l’amore del mondo!», aveva ripreso, stavolta con un tono meno sostenuto.
            «Io la sto solo proteggendo».
            «La stai imprigionando, Hiashi! Sai bene quanto tutto questo sia sbagliato e crudele!».
            «Voglio che diventi forte, imperturbabile, assolutamente imperitura, sotto i colpi del destino. Non voglio che si riduca come me, una persona clinicamente viva, ma moralmente morta. Desidero che si faccia le ossa con il dolore, che impari a sopprimere le emozioni deleterie e…».
            «… che diventi un automa? Oppure, che si getti sotto un treno?».
            Quelle parole mozzarono il fiato a Hiashi. Era davvero fonte di tanto male, lo sforzo che stava compiendo per rendere Hinata una fanciulla più coraggiosa? Senza dubbio si rendeva conto che non era l’atteggiamento più naturale con cui trattare una figlia, e non erano rari i momenti in cui si trovava a maledire il modo in cui era fatto, la freddezza che lo contraddistingueva. C’erano istanti di crisi in cui aveva desiderato chiarirsi con lei, quasi implorare il suo perdono, abbracciarla e rivedere il suo sorriso, ma aveva sempre relegato quegli attimi di debolezza in un angolo sepolto del cuore. Non era il caso di farla soffrire e umiliarsi davanti a lei, pensava, e così riprendeva a indossare la consueta maschera autoritaria e gelida.
            Il fine giustificava i mezzi, ma fino a che punto? Era un sacrificio inestimabile, perdere l’affetto di un figlio, pur di vederlo crescere vigoroso.
           «È una brava ragazza, sensibile, in gamba. Il ritratto di Haiko, non solo fisicamente, ma anche spiritualmente, non credi?». Al sorriso appena abbozzato del gemello, Hizashi si era rasserenato. «Non vedi la tua di fortuna, fratello. Hinata non è mai riuscita a biasimarti, in tutti questi anni, nonostante il riserbo che hai mantenuto nei suoi confronti».
           «Non voglio che soffra, che si riduca come me».
           «Stai ottenendo l’effetto opposto».
           «Cosa dovrei fare, allora?», chiese l’uomo, sgranando gli occhi; non vedeva altre soluzioni.
            «Parlarle, per esempio», sorrise Hizashi, rimettendosi in piedi.
           «E di cosa?».
           «Della festa di stasera, tanto per cominciare. Le ho permesso di recarsi al compleanno di un suo amico, accompagnata da un certo Uchiha. Sembra un ragazzo autorevole e rispettoso».
           «Sasuke Uchiha?», domandò sorpreso Hiashi, aggrottando le sopracciglia.
           «Sì, se non ricordo male, si chiama proprio così».
           «Non mi piace, non mi piace per niente», sbottò l’uomo, stringendo nuovamente i pugni.
           «Credo che tu te lo debba far piacere, invece», sorrise sibillino.
           «Cosa stai cercando di dirmi?», urlò Hiashi, tra l’incredulo e il disgustato. Odiava i misteri.
           «Nulla. Sembrano andare d’accordo, tutto qui. Credo che quel ragazzo sia la scarica elettrica che, in questo momento, le serve per riprendersi», concluse l’altro, accomiatandosi con aria soddisfatta.
          Il capofamiglia, invece, si alzò e osservò il buio oltre la finestra, cercando di concentrarsi sulla luce del lampioncino del giardino. Alla fine, fu costretto a distogliere lo sguardo da quella sorgente luminosa, strizzando gli occhi e fissando il proprio riflesso sul vetro. Era invecchiato tanto, dall’ultima volta che si era osservato dettagliatamente allo specchio, cinque anni prima, mentre si vestiva per la cerimonia funebre. Le rughe sulla sua fronte si stagliavano marcatamente, così come quelle agli angoli della bocca, conferendogli un’aria insofferente.
        Sospirò e appoggiò la tempia alla finestra, ripercorrendo velocemente le riflessioni avute con il fratello. Aveva ragione, si trovava stranamente d’accordo con lui. Si rese conto di voler bene ad Hinata, ma di non avergliene mai dato grande prova, nemmeno prima della morte di Haiko, preso com’era dal lavoro e a prediligere il carattere da maschiaccio di Hanabi, che lo faceva ben sperare per il suo avvenire. Eppure, Hinata era il ritratto di sua madre, così delicata, gentile e pura… non doveva avere un occhio di riguardo per lei, a maggior ragione, proprio per questo? Non era forse un incanto da preservare, piuttosto che da combattere?
        Inspirò e dissipò parte del malumore. Non era la persona più loquace del mondo – tipico difetto degli Hyuga, in fin dei conti – e sapeva che non sarebbe mai riuscito a instaurare un dialogo naturale con Hinata, ma decise che avrebbe cercato di cambiare il suo atteggiamento. Avrebbe tentato di lasciarla andare, onde non lasciarla davvero andare.
 
Hiashi osservò il volto della figlia, così sciupato e rarefatto, in fondo al tavolo. Si sorprese nello scoprirla guardarlo, a sua volta, con gli stessi occhi tristi e stupiti. Aveva voglia di sorriderle, così, senza un vero motivo, anzi, forse per il desiderio di vedere affiorare la stessa espressione anche sulle sue labbra, ma si trattenne. Non era uno specchio, grazie al cielo; lei era il ritratto di sua madre. Per questo, andava trattata con delicatezza. Per questo, si alzò dal tavolo e le passò oltre, ancora una volta, senza dire una parola.
            Hinata tornò a fissare la tazzina, sconsolata, senza capire che, finalmente, era riuscita a passargli attraverso.
 
***
 
 
Dopo quel pranzo in famiglia, in cui Itachi aveva dato il meglio di sé nell’inorgoglire Fugaku, parlando quasi esclusivamente della tesi che non vedeva l’ora di discutere, Sasuke si era rintanato in camera sua, ancora leggermente spossato.
           Malediceva il suo caratteraccio che gl’impediva di provare tutta la giusta stima nei confronti dell’aniki, e lo costringeva a pensare a quanto fosse meno solare e brillante di lui; non che i suoi genitori si potessero dire scontenti del suo rendimento scolastico, tutt’altro, eppure non erano certo fieri della sua sfuggevolezza, del rientrare tardi a casa, fregandosene del coprifuoco più che generoso – le due e mezzo – che suo padre aveva stabilito. Se poi si aggiungevano le botte e il labbro spaccato, che aveva fatto preoccupare Mikoto, il quadro era completo: si sentiva sempre meno apprezzabile e degno di quel cognome facoltoso. Ma quello era lui, nel bene e nel male, e non sarebbe mai riuscito a cambiare, né davvero intendeva farlo. Al diavolo i litigi con suo padre, il quale lo accusava di infischiarsene della reputazione di cui godevano gli Uchiha, per il loro ruolo nel distretto di polizia, o i tentativi di Itachi di farlo ragionare.
           Non era un figlio-modello, dovevano accontentarsi di averne già uno perfetto. Mikoto l’aveva capito e sorrideva, chiudendo più di un occhio, quando lo sentiva rientrare sul fare dell’alba, sussurrando dolcemente all’orecchio del marito che non sarebbe stato così per sempre, che era un comportamento dovuto alla giovane età. Fugaku s’irrigidiva e mugugnava parole amare, girandosi dall’altra parte del letto e sbuffando.
            Era colpa sua se era la pecora nera della famiglia? Certo che lo era, ma non poteva farci niente, quella era la sua vita.
            Sospirò stancamente, ricordando quelle esatte parole pronunciate dalla Hyuga. Anche lei si riteneva incapace di poter cambiare la propria esistenza, ma il ragazzo, a sua differenza, era tale perché aveva deciso di non volerla mutare. Non era impotenza di fronte al destino, ma volontà.
            Proprio il pensiero di Hinata, l’aveva spinto a mandare un messaggio a Sakura, poco prima di pranzo. Doveva vederla e parlarle, seppur a malincuore. Non aveva mai tollerato molto quella ragazza dai capelli rosa, un tempo tanto insistente nel voler occupare troppo spazio nella sua vita. Era determinata, pronta a tutto, pur di renderlo suo, senza rendersi conto che la donna capace di tener testa a Sasuke Uchiha non era ancora nata, né avrebbe mai toccato il suolo terrestre. Per fortuna, l’aveva capito, alla fine, anche se solo grazie alla durezza con cui l’aveva trattata.
            Aveva riletto la risposta della Haruno almeno tre volte, massaggiandosi ancora le tempie. Non aveva voglia di rivederla, ma era tutto partito da lui, perché lei nemmeno si sarebbe sognata di rintracciarlo. Eppure, lo sorprese quella disponibilità a rivedersi, di domenica pomeriggio, al bar del centro, perché non era da lei. Si sentì quasi onorato; forse le era ancora simpatico? Schernì quel dubbio con un ghigno svogliato, cominciando a cambiarsi.
 
Scese dall’auto con ancora quella sensazione di stanchezza, che cercò di cacciare via con un gesto rapido della mano sulla fronte. Aveva già intravisto la chioma rosa di Sakura, a un tavolino attaccato alla vetrina del locale, e inspirato profondamente. Paradossale, ma aveva bisogno di lei, di una sua ex ossessa, per liberarsi da un’ossessione che cominciava a dilagare in lui.
            Gli occhi verdi della giovane l’avevano seguito fino a quando lui si era sistemato sulla poltroncina di fronte a lei, per poi abbassarsi. Stringeva i pugni sulle ginocchia, sotto al tavolo, incapace di darsi un contegno. La infastidiva, aveva sempre fatto il possibile per evitarlo, dopo quella cocente delusione, ma non si spiegava ancora come avesse potuto accettare quella proposta di rivedersi. “Sei una stupida, se ancora ci ripensi!”, aveva urlato il suo cervello, mentre aveva letto il messaggio dell’Uchiha; “Può darsi, ma ho chiuso comunque”, gli aveva fatto eco il cuore.
            «Vuoi spiegarmi perché mi hai costretta a vederci qui?», aveva domandato con tutto l’autocontrollo che poteva permettersi, in quella circostanza – ed era davvero ai minimi storici.
            Sasuke sorrise beffardo, alzando un sopracciglio.
           «Non mi pare di averti puntato una pistola alla tempia».
           «Evita di fare lo stronzo, come sempre», commentò acida.
           «D’accordo, Sakura, andrò al sodo. Per il bene di Hinata, allontanati da Naruto. Esci con me, se vuoi, ma lasciale Naruto». Aveva parlato tutto d’un fiato, guardandola negli occhi e registrando la sua reazione.
           Era arrossita, sgranando gli occhi, per poi accigliarsi contrariata, scuotendo la testa. Come poteva essere così insolente? Pensava che non si sarebbe mai stupita di nulla, soprattutto di quel degenerato, ma si sbagliava.
           «Come puoi chiedermi una cosa del genere? Vaffanculo, Sasuke!», tuonò lei, pronta ad alzarsi, ignorando la cameriera che era arrivata a prendere le ordinazioni.
           Il giovane trattenne la Haruno per un braccio, obbligandola a risedersi, e chiese che fossero portati al tavolo due analcolici. Quando l’addetta si era allontanata, Sakura si era divincolata dalla morsa, su tutte le furie.
           «Mi stai implorando come un cane, come sei caduto in basso! Credi forse che ti ascolterò? E poi, come ti permetti di chiedermi di non frequentare Naruto? Che cazzo te ne frega, bastardo?», aveva sibilato, accorgendosi di star attirando troppe attenzioni dagli altri tavoli. Aveva una voglia matta di prenderlo a schiaffi, ma doveva trattenersi, o l’avrebbero chiusa in una camicia di forza.
           «Come sei fine, Sakura». Quel sorrisetto ironico era comparso da solo, era più forte di lui.
           «Vaffanculo!», aveva ripetuto lei.
           Il moro incassò il colpo con nonchalance, facendosi scivolare gli insulti addosso. Sai che problema, mica era la prima volta! Rimase a fissarla in silenzio, per tutto il tempo necessario perché lei si calmasse. Quando il suo viso tornò finalmente al colorito naturale, si decise a spiegarsi.
           «Non è stato facile, per me, mandarti quel messaggio. Non è da me disturbare gli altri, soprattutto quelli che, a buona ragione, non vogliono più avere a che fare con me». Il tono era calmo e profondo, come i suoi occhi. Sakura cominciava ad avere difficoltà a fissarlo.  «Non lo sto facendo per me, ma per Hinata. E poi, non ero forse il tuo più grande sogno?», aveva sorriso lievemente.
 
La ragazza dai capelli rosa era tornata indietro nel tempo, a quando avrebbe fatto di tutto, per lui. I pensieri si addensavano pericolosamente, con tutto quel grumolo di sensazioni che erano crudeli quanto un pugno in pieno stomaco.
            Era il suo sedicesimo compleanno, per lei era stata la prima volta, ed era al settimo cielo, perché fu lui ad iniziarla alla vita.
            Si trovò ad arrossire, in quel momento, messa di fronte a quella rimembranza. Non era più così, gli anni erano passati e Sasuke si era dimostrato immediatamente, fin da allora, per quello che era: uno stronzo, un fantastico amante, ma davvero disonesto. All’epoca, era così facile illuderla; credeva nei “per sempre”, ma ora era piuttosto scettica riguardo all’eternità. Nulla rimaneva immutato nel tempo, né le cose, né le persone, tantomeno i sentimenti, che erano incredibilmente soggetti a trasformarsi.
            Sasuke era il suo sogno d’amore, quando ancora aveva occhi per sognare. Ora che lo conosceva – o, a tal punto, presumeva di conoscere – non riusciva a provare nulla, se non vergogna nei propri confronti. Com’era potuta essere così stupida? Fidarsi di quegli occhi tanto scuri da rendere la notte più chiara, abbandonarsi alle carezze di quegli artigli da belva, cedere ai sorrisi che mostravano denti bianchissimi, carichi di cupidigia ed edonismo, più che affetto. Sasuke non l’aveva mai amata, le aveva solo offerto il regalo di compleanno che lei più voleva al mondo, non disdegnando affatto una notte spesa a far tutto, fuorché dormire.
 
Fissava il liquido arancione nel bicchiere e le balenò in mente Naruto; lui era così diverso! Non aveva mai fatto misteri riguardo ai sentimenti che nutriva verso di lei, l’amava di un affetto ingenuo, entusiasta, per niente deleterio o rivolto a secondi fini. A lui piaceva per com’era, determinata, senza peli sulla lingua, anche pesante, delle volte, e lei non riusciva a non sorridere, di fronte a quelle dimostrazioni d’amore infantili, ma autentiche. Spesso non riusciva a capire se anche i suoi impulsi fluissero in quella direzione, se per lei valesse lo stesso. Voleva un bene dell’anima, a quella testa quadra, e non sarebbe mai riuscita ad allontanarsi da lui, soprattutto se a chiederlo era quell’ombra scura che si trovava di fronte, il passato lussureggiante di una notte e la disperata passione di troppi anni.
            Alzò il volto verso di lui e l’osservò mentre era intento a scrutare la strada, al di là del vetro, con il mento appoggiato sulla mano. Era bellissimo, doveva ammetterlo, e riusciva a perfettamente a capire perché era stata così sciocca da perderci la testa, ma quel ragazzo era vuoto. O, se proprio non era sterile di sensazioni, era indifferente, egoista, violento… una magnificente statua degna del Michelangelo, essenza contemplativa, capace però di muoversi, sciogliersi dal marmoreo stampo, solo per ferire carni e animi.
            I suoi occhi verdi si soffermarono sulle lunghe dita del moro, sulle sue labbra, sul candore della pelle; riusciva a ricordare ancora troppo efficacemente le sensazioni che ognuno di quei tre dettagli avevano provocato in lei. Le mani eleganti che stringevano senza grazia i suoi seni, la bocca premuta sulla sua, senza alcuna passione, solo frenesia, e la pelle tanto delicata quanto coriacea, che lei non era riuscita a scalfire minimamente nemmeno con le unghie, durante l’amplesso, per paura di ferirlo. Lui che, invece, irriguardosamente, l’aveva spezzata senza compiere nessun ulteriore sforzo fisico, solo con il suo sguardo scuro e silenzioso.
            Strinse le gambe, meccanicamente, e serrò le labbra, piena di rimorsi. Bevve in pochi sorsi l’analcolico, afferrò il portafoglio nella borsa e posò una banconota sul tavolo. Per lei, la faccenda era chiusa lì.
            «No», rispose secca, affilando le iridi smeraldine.
            Sasuke si girò verso di lei, quasi impassibile, e Sakura represse l’ennesimo desiderio di affondare il pugno in quel volto già segnato da qualche altra percossa.
            «Non ho nulla contro Hinata, la reputo una ragazza gentile e sensibile, ma Naruto è mio amico, non intendo smettere di frequentarlo. Non ci vedo niente di male…».
           «Posso capirlo, ma evita di farla soffrire inutilmente. Ci sta male da tempo, non te ne sei accorta?», la interruppe lui.
           Aveva passato il limite della sopportazione, sentiva il volto avvamparsi e le mani tremare dalla rabbia. Si alzò di scatto, stringendo convulsamente il manico della borsa.
           «Com’è che ti sta tanto a cuore ciò che prova la gente, ora?», urlò, prima di incamminarsi verso la porta.
 
Sasuke sorseggiò l’ultimo goccio di drink con calma, saldò il conto e uscì in tutta tranquillità dal bar. Raggiunse la propria vettura e non si stupì di trovare Sakura di fronte a lui, con gli occhi arrossati e un fazzoletto stretto in pugno.
            «Ci tenevo a dirti che sei il più grande figlio di puttana che abbia mai incontrato!», gridò in sua direzione.
            L’Uchiha sorrise sottilmente, per niente toccato nemmeno da quell’improperio. Si avvicinò verso di lei e incrociò le braccia, piegando la testa di lato e guardandola divertito.
            «Questo è tutto?», le chiese.
            «Sei un verme, mi fai venire il voltastomaco, ho voglia di prenderti a calci in bocca e affossarti con le mie mani! Sei un pezzo di merda, uno stronzo, un bastardo…».
            «Grazie, Sakura», sussurrò sorridendo.
            Lei rimase a bocca aperta, incredula, di fronte a quella reazione. Sapeva che era sarcasmo, ma era velato da una tristezza leggera, che l’aveva colpita al cuore come il più violento dei pugni che avrebbe voluto sganciare al ragazzo.
            «Sto dicendo che ti disprezzo, coglione!», precisò lei, tirando su con il naso.
            «Eppure hai pianto».
            «È il mio modo di sfogare l’ira, se preferisci posso cominciare a gonfiarti di botte». L’avrebbe volentieri colpito, se solo non si fosse sentita così stupidamente debole.
            Estrasse le chiavi dalla borsa e si avvicinò alla propria vettura, parcheggiata pochi metri distante da quella del giovane. Il moro sospirò e la raggiunse; aveva bisogno di una risposta e avrebbe fatto di tutto perché fosse affermativa.
            «Vuoi spezzarle il cuore?», le domandò con un’intonazione improvvisamente rattristata.
            Sakura si voltò di scatto. I suoi splendidi occhi verdi lanciavano minacciose fiamme, la debolezza sembrava proprio essersi dileguata.
            «Eppure il mio l’hai spezzato senza indugi», rispose acida, mentre la tempia cominciava a pulsarle.
            Sasuke la osservò attentamente. Era cambiata, in quei due anni, ma non se n’era mai accorto quanto quel pomeriggio. Ora era tenace, combattiva, per niente la succube e irritante ragazza dai capelli rosa che aveva fatto di tutto per farsi notare dai suoi occhi e che l’aveva implorato di cogliere il suo fiore.
            Qualcosa di buono l’aveva fatto, dopotutto, pazienza se lei covasse ancora troppo rancore per accorgersene.
            «Te lo ripeto: prendi me, ma lascia che Hinata e Naruto si avvicinino». Spirito di sacrificio; non è forse una grande forza, l’amore?
            «E io ti ripeto di andare affanculo, Sasuke!», gridò lei, pronta a sferrargli quel pugno che da troppo tratteneva nel polso.
            Il moro intercettò la mano della Haruno e la bloccò, lasciandola stupefatta. Aveva ottimi riflessi, a sua differenza, perché non riuscì a fare in tempo a divincolarsi che lui l’aveva già baciata.
 
Sakura chiuse gli occhi, tremando ancora di rabbia, mentre l’Uchiha indagava con la lingua la sua cavità orale. Era una sensazione che credeva aver rimosso per sempre dai suoi ricordi, ma era stata una sciocca a pensare di esserci riuscita davvero. Quelle labbra, se considerate in sé, staccate dalla persona cui appartenevano, le erano mancate terribilmente. Quel bacio irruento era una violazione che non riusciva pienamente a condannare, nemmeno in quel momento.
           Gli permise di accarezzarle la nuca, scompigliandole i capelli che le sfioravano a malapena le spalle, mentre l’unica mano libera, stretta a pugno sul torace del ragazzo, cominciava ad aprirsi e ad aggrapparsi alla sua maglia
           Maledetto Sasuke Uchiha, maledetto dio del peccato e della lussuria, esecrabile esperto dell’arte di obnubilare i sensi.






Errata corrige

Sono una pasticciona nata! Chiedo perdono: nel modificare i capitoli, ho invertito l'ordine di due di questi... e le recensioni si sono invertite! :S che frana!
Ora, almeno, i testi sono nell'ordine giusto, solo che se voleste leggere i commenti a questo capitolo, dovreste leggere quelli del prossimo (il 9, "Essenze inconciliabili"), e viceversa, il nono ha le corrispettive recensioni in questo.
Chiedo perdono! Io e la tecnologia siamo due cose incompatibili XD
Grazie a tutti, ancora! 

Ophelia

 

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Capitolo 9
*** Essenze inconciliabili ***


9. Essenze inconciliabili

 
 
 
 
 

Il vento soffiava feroce, là fuori, e non ispirava abbastanza coraggio per affrontarlo, eppure lui doveva uscire di casa, anche quel lunedì mattina.
            Aveva passato una decina di minuti incollato al vetro della finestra del bagno, a osservare le raffiche d’aria fredda contendersi le prime foglie ingiallite, cadute dai rami; l’autunno era ufficialmente subentrato all’estate, niente a che vedere con il clima mite che aveva ancora potuto godersi sabato sera.
            Sasuke sorrideva, davanti allo sconvolgente spettacolo della natura. Non gli dispiaceva, quella stagione, perché la reputava quella degli affetti autentici. In estate era troppo facile farsi prendere dall’entusiasmo e dichiararsi amici del primo sorriso capitato sotto tiro – comportamento che, naturalmente, non lo riguardava – mentre in primavera ci s’innamorava con la stessa facilità con cui ci si buscava un raffreddore – e, anche le passioni primaverili, non erano cose che lo toccavano. L’autunno e l’inverno, che la maggior parte delle persone disprezzavano, erano invece i periodi dell’anno in cui lui si sentiva meglio, perché attorniato dall’essenzialità: persone su cui poteva contare, nel bene e nel male, ridotte a un numero esiguo, ma prezioso, e la sensazione di sentirsi il solito bastardo indifferente, ma con confortevolezza.
            Rivolgendosi allo specchio, però, quel sorriso si era smorzato, rivelandosi amaro quanto il veleno. La ferita al labbro non aveva fatto in tempo a rimarginarsi che Sakura gli aveva già marcato il collo con un segno violaceo. Lo sfiorò con le dita, abbassando il capo e fissando il lavandino.
            Si faceva schifo, si sentiva il peggior verme al mondo, dopo averla baciata con impeto per farla tacere ed essersi appartato in auto con lei. L’aveva ancora illusa… o forse no, lei sembrava così decisa, in quel momento. Avevano consumato un sesso puramente carnale, estinto un appetito che cresceva solo in Sakura, non certo in lui. Sasuke era un mero edonista, innamorato solo del piacere, da ricercare con ogni mezzo e corpo di donna, mentre lei era solo desiderosa di lui, del suo fisico premuto sulle morbidi carni, seppur poco generose. Sakura non era più innamorata di lui, ma non aveva rinunciato a trascorrere una mezz’ora di fuoco in sua compagnia.
           
«Se pensi che mi concederò ancora a te, ti sbagli di grosso», aveva subito messo in chiaro lei, non appena l’Uchiha l’aveva invitata a salire in auto per discutere privatamente.
            «Certo, Sakura… proprio come l’altra volta», l’aveva schernita lui, con un ghigno beffardo, prendendole il viso fra le mani e baciandola con lo stesso slancio di poco prima.
            La Haruno aveva mugugnato, ma non si era opposta, tanto che, a un certo punto, aveva appoggiato le braccia sulle sue spalle, avvicinandosi a lui. Lo voleva, desiderava bruciarsi, senza considerare il pericolo di carbonizzarsi. Non avrebbe mai imparato abbastanza, dai propri errori. 
            Quel segnale fu ciò che spazzò via gli indugi nel moro, il quale accese il motore, percorse un centinaio di metri e accostò poi l’auto in un vicolo cieco. 
            Nel buio dell’abitacolo e delle sette di sera, i loro corpi si unirono perfettamente, ma le menti rimasero due essenze inconciliabili. 
Si malediceva, mentre sentiva la ragazza ansimare sotto i suoi colpi di bacino; si detestava, avrebbe voluto fermarsi, ma ormai andava avanti per inerzia. Stava facendole del male, le stava causando dolore, senza che lei se ne accorgesse, presa dal desiderio. 
            «Non fermarti», aveva mormorato la giovane, mordendogli un labbro, intuendo che qualche dubbio lo stesse tormentando. 
            Sasuke aggredì la bocca della ragazza con la propria, pur di cacciare indietro il rimorso. Doveva farlo, se l’era imposto, al diavolo il buonsenso. Era tutto a fin di bene, no? 
            Chiuse gli occhi e aumentò la velocità delle spinte, unendo il proprio respiro al suo.
            Le stava procurando ulteriore dolore, a distanza di anni. Era un orribile approfittatore, senza scrupoli; desiderava solo arrivare al suo intento che, per quanto nobile, gli sembrava comunque turpe. 
            Mentre osservava e sentiva Sakura raggiungere l’apice del piacere, un peso nel cuore gl’impedì di poter attendere al suo compito di edonista. La stava solo usando, e il disprezzo aumentava fino alla nausea.
             E stava pure ferendo Naruto. Che razza di amico era, a spassarsela con quella che era il chiodo fisso dell’Uzumaki? 
            E poi, Hinata gli tornò in mente. I suoi occhi di perla ripresero a balenargli fra i pensieri, come due cristalline lune piene, mozzandogli il fiato. Era assurdo pensarlo, ma sentiva di stare quasi tradendola, mentre si stava solo sforzando di esaudire un suo sogno, a modo suo. 
            Poco prima di raggiungere l’orgasmo, si staccò dalla ragazza dai capelli rosa, rimettendosi al posto di guida e rivestendosi in fretta e furia. Il respiro era irregolare, ma stavolta non c’entrava la sovreccitazione, tutt’altro; era sul baratro di un burrone nero, chiamato “crisi interiore”. 
            Aveva chiesto a Sakura, con il poco garbo che era riuscito a racimolare dopo alcuni minuti di raccoglimento, di tornare a casa e di tenersi pronta a un’uscita. Aveva avvertito una morsa alla bocca dello stomaco, mentre aveva avanzato quella proposta, ma aveva stretto i denti e osservato gli sgranati occhi smeraldini con tutta la calma del mondo. 
 
Si fissava disgustato, allo specchio, e, se sua madre non avesse bussato alla porta del bagno, avrebbe certamente ridotto in schegge affilate il proprio riflesso.
 
 
***
 
 
A villa Hyuga, una colazione rapida e silenziosa, l’ennesima di una lunga serie, era in scena. Come sempre, gli adulti sedevano a capo tavola, mentre i più giovani se ne stavano dall’altro capo della stanza, persi in chiacchiere sommesse e pensieri latranti.
             Eppure, qualcosa di diverso c’era; se n’era accorta anche Hinata, e non sapeva dire se fosse a causa del clima improvvisamente irrigiditosi o dello sguardo di suo padre, ancora fisso su di lei, ma meno spento. Riusciva a vedere un tono di luce, in quell’abisso chiarissimo, ma oscuro, che erano sempre stati gli occhi di Hiashi, e non poteva ancora credere che fosse vero: aveva alzato diverse volte il capo in sua direzione, onde accertarsene, per poi abbassarlo sempre repentinamente, incapace di sostenere la fiera e dignitosa austerità del capofamiglia.
              «Hinata».
              Quasi le venne un colpo, quando alle orecchie le era giunto il suo nome. L’aveva immaginato? Non ricordava da quanto tempo il padre non l’avesse più chiamata direttamente. Aveva esitato, prima di tornare a fissarlo, ma, deglutendo, si era decisa a farlo.
              «Hinata», aveva ripetuto l’uomo, dandole la certezza che fosse tutto vero.
              La ragazza chiamata in causa, senza riuscire a controllarsi, fece affiorare sulle labbra un sorriso leggero, che, interiormente parlando, era più luminoso di una stella. Avrebbe tanto voluto piangere, lasciarsi andare, scaricare la tensione accumulata da troppo tempo, di fronte a quelle tre semplici sillabe pronunciate dall’uomo che più temeva e amava al mondo, ma si trattenne, in suo onore.
              «Hinata… da oggi, finché non avrà la patente e un’auto sua, sarà accompagnata a scuola da Neji», dichiarò Hiashi, alzandosi lentamente da tavola. Non era ancora riuscito a parlarle direttamente, era dovuto ricorrere a un riferimento al nipote, pur di comunicare con lei.
              La figlia, per poco, non svenne. Sentiva il cuore batterle all’impazzata, fra le costole, così forte da balzarle in gola e non permetterle di respirare adeguatamente. Si portò, per l’ennesima volta, la mano all’altezza del muscolo cardiaco, stropicciando lievemente la camicetta bianca. Era tutto vero, proprio come quella leggera lacrima che le stava scendendo lungo la guancia.
               Neji si sollevò dalla sedia con uno scatto tempestivo, non appena vide lo zio superarlo. Non capiva cosa fosse successo, non riteneva che fosse una decisione maturata congenialmente dallo stesso uomo che aveva deciso che la primogenita non sarebbe mai stata automunita. Cosa gli aveva fatto cambiare idea?
               «Zio Hiashi… Pensi che sia una disposizione adeguata?». Nella mente, la domanda era suonata molto meno educata.
               Il capofamiglia si girò con una maestosa lentezza verso il nipote, cercando di mantenere ferma sul viso la consueta maschera di sicurezza e irremovibilità.
               «Non voglio che le succeda qualcosa di spiacevole. Mi fido di te, Neji».
               Sperò che dietro la sua serietà, la figlia riuscisse a captare quell’anelito di umanità che aveva impresso.
 
Dopo aver lasciato Hanabi davanti al cancello dell’istituto che frequentava, i due cugini ripresero il viaggio verso il liceo. L’abitacolo era attraversato dal freddo e dal silenzio, due impressioni tanto diverse fra loro, perché percepite attraverso diversi sensi, ma assolutamente complementari, quasi per antonomasia. 
               Hinata osservava il suo consanguineo con il solito sguardo spaurito, nascondendo gli occhi dietro le lunghe ciocche blu che le cadevano ai lati del viso. Poteva notare benissimo quanto si stesse trattenendo dall’esplodere, e si sentì in dovere di spezzare la tensione, cercando di placare il suo malumore.
                «Ti ringrazio per questo passaggio e per i prossimi, ma per me non è un problema andare a scuola in bicicletta o in bus, se tu preferisci così». Non era facile trovare le parole giuste, così come non era facile non mandare Neji su tutte le furie.
                «Tuo padre ha deciso così, è un ordine che non voglio mettere in discussione». Mascella contratta e sguardo assente, perso oltre il parabrezza; il freddo sembrava essere raddoppiato, nel giro di pochi secondi.
                 «M-ma non è obbligatorio… puoi fare ciò che vuoi, io non glielo direi mai», lo rassicurò lei, stringendosi le mani.
                 Il moro trasse un respiro profondo, svoltando verso il parcheggio della scuola. Sistemò l’auto con una manovra secca, ma aspettò alcuni secondi prima di spegnere il motore.
                 «G-grazie, Neji. Apprezzo davvero il tuo gesto, ma tornerò in pullman, oggi. Hai i tuoi impegni, non voglio esserti d’intralcio», sorrise Hinata, per ridestarlo dai suoi pensieri.
                 «Quali contrattempi potrò mai avere? Arrivare a casa, affrontare gli sguardi preoccupati dei miei genitori, sforzarmi di sembrare degno almeno agli occhi di zio Hiashi… e ferirti, farti sentire sempre peggio. Questi sono i miei impegni, solitamente», confessò con un sorriso amaro. Non sapeva come quelle parole fossero uscite dalla sua bocca, ma voleva solo poter tornare indietro nel tempo e mordersi la lingua.
                 Si girò verso la cugina, osservando le reazioni che aveva suscitato in lei con tali riflessioni: lo fissava con le labbra schiuse e le sopracciglia aggrottate, come in preda al panico. Sì, era paura, quella che poteva leggerle negli occhi; paura di aver scoperto un lato debole e consapevolezza che la vulnerabilità rende incredibilmente pericolosi e imprevedibili anche gli animi più razionali.
                 Hinata strizzò le palpebre, sentendole pizzicare. Raggiunse velocemente la mano di Neji con la propria, proprio mentre lui stava sfilando le chiavi da sotto il volante. Gli accarezzò lentamente il dorso, stringendo poi con più forza le sue dita; era un gesto istintivo, che mai la ragione le avrebbe dettato di compiere, timida e riguardosa com’era. Eppure, era un atto che aveva imparato grazie ad altre mani, a un’altra temperatura corporea e a un’altra occasione. Non poté evitare di ripensare a quella stretta fra la sua palma e quella di Sasuke, la sera della festa, a quella morsa improvvisa e rassicurante, scoccata fulminea quanto una freccia scagliata da un arciere esperto. Le dita dell’Uchiha, intorno alle sue, l’avevano trafitta quanto un dardo in pieno petto.
                 «Non ho mai pensato a come ti sentissi, Neji… sono una stupida egoista, perdonami!», mormorò, sforzandosi di guardarlo negli occhi.
                 «Cosa stai dicendo?», gracchiò lui, incapace di muoversi.
                 «Ti sono sempre stata vicina, silenziosamente, ma non sono mai stata in grado di capirti veramente. Mi ha sempre bloccata la paura di deluderti e apparirti ancora più indegna del nostro nome. Ti ho sempre visto come un modello, Neji! Avrei tanto voluto essere come te». Non riuscì più a sostenere il suo sguardo, né il peso delle lacrime sotto le palpebre.
                 Il cugino scoppiò in una risata fragorosa, strappando la mano da quella della ragazza. Lei rialzò il viso in sua direzione, asciugandosi gli occhi; lui stava ridendo, era un buon segno, ma non riusciva a sentirsi davvero bene, intuendo che quella reazione non fosse indice di buonumore.
                 «Riesco a far pena a una persona che, di solito, impietosisce gli altri!», sbottò con una certa punta di sdegno.
                 La giovane si strinse nelle spalle, rattristata, ma anche consapevole della verità dietro a quel rammarico. Era pietosa, come dargli torto? Senza contare che, con le sue parole, aveva provveduto a rabbuiarlo ancora di più.
                «Mi sono sempre comportato da stronzo, nei tuoi confronti, lo ammetto. Un po’ lo faccio per spiccare agli occhi di tuo padre, che sembra essere l’unico a stimarmi, là dentro, e un po’ perché… perché sono davvero stronzo, provo piacere nel far sprofondare gli altri nel disagio. Perciò non sarei sincero a dire che mi dispiace, Hinata. Non provo rimorsi per il mio comportamento, perché sono fatto così». Non aveva fatto trapelare nessuna espressione sul volto, ma non era forse un’emozione demolente, quell’indifferenza forzatamente ostentata?
                La cugina strinse i pugni e si aggiustò i lembi della gonna, preparandosi a scendere. Non era ferita, non quanto il ragazzo si sarebbe aspettato, ma doveva subito mettere in chiaro qualcosa.
                «Se vuoi il mio perdono, Neji, sappi che l’hai sempre avuto. Non sono in grado di odiarti, spero che tu te ne sia accorto. Ti voglio bene, te ne vorrò sempre, e non smetterò mai di tenderti una mano, qualsiasi strada intenderai percorrere, sia essa opposta alla mia direzione, sia al mio fianco. Sei l’unico legame che mi rimane con il passato, dopo mia sorella e mio padre, e spero che potrai essere anche un’àncora nel mio futuro. L’ho capito effettivamente solo da pochi giorni, quando ti ho trovato in bagno, grondante di sangue: noi siamo così vicini da poterci sfiorare, ma tanto prossimi da poterci soltanto far male, ferirci a vicenda, in modi diversi; io con i silenzi, tu con le parole, io con gesti che passano inosservati, tu con atti che a un osservatore esterno possono apparire come violenti, ma che io reputo come vivi. Non ti biasimo per nulla, così come mio padre». Per una volta nella vita, era fiera di sé per non aver balbettato, ammettendo la verità.
                 «Sei noiosa. Finiscila», asserì il ragazzo, aprendo la portiera e scendendo dall’auto.
                 Hinata rimase ammutolita a fissare il posto vuoto del guidatore, ridestandosi solo al rumore della portiera chiusa con violenza. Non poteva lasciare che le cose finissero così, nel vuoto; non poteva e non voleva. Afferrò la borsa e si affrettò a imitare il cugino, raggiungendolo fuori dall’abitacolo. Lo osservò con aria decisa, riuscendo quasi a stupirlo. Forse il vestito di sabato sera aveva davvero compiuto qualcosa di miracoloso.
                 «Perché non mi credi?», protestò con un tono che risultò, però, ancora troppo sommesso, avvicinandosi a lui.
                 Neji sorrise tristemente, varcando l’ingresso del liceo. Non era mai successo che entrasse affiancato da sua cugina e la cosa, stranamente, non gli dava fastidio come aveva temuto, forse perché non trovò troppi sguardi incollati addosso, eccezion fatta per un paio di occhi neri, in cima alla scalinata.
                «Oh, Hinata, non è che non ti credo. Trovo solo che tu sia noiosa, nel tuo buonismo… irritante, ecco. Proprio come da bambina, quando imploravi mio padre perché non mi punisse. Forse è anche merito tuo, se sono diventato tanto pessimo!», spiegò con una punta di disprezzo. Il paradosso cominciava ad essere logico.
                Era davvero colpa sua, se lui era cresciuto in quel modo? Un dolore fortissimo le troncò il fiato e la vista le si appannò. Se era stata lei la causa, era stata davvero efficace, almeno una volta nella sua vita.
                La corvina inspirò profondamente, passando sopra all’amarezza, e si accinse a salire le scale, seguendolo. Non si capacitava dell’ottusità del cugino, non capiva perché faticasse tanto ad accettare il suo affetto, pur non pretendendo nulla in cambio. Si sarebbe accontentata di un semplice sorriso, purché sincero, senza bisogno di alcun ringraziamento verbale. Non voleva una vera riconoscenza, non l’avrebbe mai pretesa, bastava solo un cenno di comprensione.
                «Odio la violenza!», sbottò lei, tutt’a un tratto, ricordando le punizioni – modestissime, rispetto a quelle di Hiashi – che lo zio predisponeva a Neji, ma sottintendendo anche quei comportamenti violenti cui il ragazzo ricorreva spesso, non per ultimo quello di sabato.
                 Il giovane si fermò di colpo, a pochi scalini dal pianerottolo, alzando la testa verso il moro che li stava distrattamente osservando, appoggiato alla balaustra. Lo Hyuga sorrise sinistramente, quasi lanciandogli uno sguardo di sfida, per poi girarsi verso la cugina.
                «Eppure sei innamorata di Sasuke Uchiha. Bel controsenso!». Non poté far a meno di scandire bene il nome e cognome dell’osservatore, che indietreggiò lentamente.
                «I-io… non… non ne sono i-innamorata», arrossì Hinata, scuotendo la testa. Non riusciva a comprendere il motivo di quel leggero tentennamento, ma si accorse troppo tardi del ragazzo dalla chioma perennemente scompigliata, che si stava allontanando verso la 5^F.
 
 
***
 
 
Sasuke strinse i pugni e puntò al banco, sospirando spazientito nel notare che Naruto non era ancora giunto. Sperava di contare sulla sua parlantina snervante, pur di rimuovere il malumore che l’avvolgeva da quella mattina; se pensava, poi, a Neji Hyuga, la rabbia gli saliva fino alla punta dei capelli. Aveva perfettamente sentito ciò che il moro aveva detto alla cugina, ma non aveva trovato abbastanza coraggio per ascoltare la replica di Hinata.
            Di colpo capì che quella sensazione che avvertiva nell’osservare la ragazza era qualcosa di nuovo, mai provato prima d’allora. Qualcosa di distruttivo, da rimuovere al più presto, prima che s’insediasse come un morbo nella carne del suo cuore. Era una paura grande e antica quanto il mondo; il terrore di non essere più in grado di rinunciare a quegli occhi di luna e a quel piacevole tormento nell’anima.
            Prese a scrutare l’aula e trovò i capelli rosa di Sakura, un punto colorato che avrebbe dovuto rendere un vero e proprio chiodo fisso, e quella sensazione inspiegabile andò pian piano calando, per lasciare posto a un'altra, sempre spiacevole, ma cui era più avvezzo; l’odio per se stesso era quasi un conforto, al confronto.
            «Passato bene il weekend?», sbadigliò Naruto, sedendosi al suo fianco.
            Sasuke si girò lentamente in sua direzione, cercando di mantenere un’espressione neutra. Era felice di rivederlo, si sentiva sollevato grazie al sorriso che spuntava sul volto del biondo. Non si erano mai definiti espressamente “migliori amici”, ma sapeva che in fondo lo erano, perché lui c’era sempre stato, non l’aveva mai giudicato per i suoi errori, né per il suo caratteraccio. Osservò quella gioia infantile e incontenibile perennemente stampata sul volto dell’Uzumaki e all’improvviso lo assalì una nuova, riprovevole tristezza. Gli tornarono in mente Sakura, il pomeriggio passato insieme, l’abbandono totale agli istinti primordiali… aveva accoltellato alle spalle Naruto, se ne rendeva conto. Il disgusto per se stesso non conosceva ormai confini.
            «Dalla faccia sembra che la tua domenica sia stata peggiore della mia, anche se ne dubito. Di sicuro non hai dovuto passare una giornata intera a pulire i rimasugli della festa! Bicchieri e bottiglie frantumati, divanetti macchiati… per non parlare delle pozze di vomito dietro i cespugli!», si lagnò il ragazzo, tappandosi ancora il naso, al ricordo della scena.
            «Sveglio come sei, ci sarai finito dentro», insinuò l’altro, sorridendo.
            Naruto sogghignò divertito, negando quell’allusione. Intrecciò le mani sulla nuca e riprese lo sproloquio dal punto esatto in cui l’aveva interrotto, finché un passo leggero, quasi da fantasma, non lo distrasse.
            «Ciao, Hinata!», esclamò il biondo, sbracciandosi.
            La ragazza alzò lentamente lo sguardo verso di lui, incredula; l’aveva vista e le aveva rivolto un saluto! Sollevò la mano destra, aperta, all’altezza del cuore, incapace di ricambiare in altro modo quella gentilezza, ma qualcosa la bloccò. Si ritrovò puntati addosso gli occhi neri e profondi del compagno di banco di Naruto, e la mano le cadde nuovamente lungo il fianco. Incontrare quello sguardo stava diventando un’abitudine, ma lei si era promessa che non avrebbe più interferito con la vita di Sasuke.
            Con la stessa rigidità di un tronco di legno, s’incamminò verso il proprio tavolino, vicino al quale Tenten e Kiba stavano discutendo amichevolmente.
            Sasuke rimase a fissarla ancora qualche istante, inabile a battere ciglio. Quella visione mattutina era stata un’epifania di ricordi recenti che aveva frettolosamente etichettato come irrilevanti. Perché riusciva a colpirlo, con quel suo fare evanescente?
            L’interrogativo rimase sospeso a mezz’aria, non appena nel suo campo visivo entrò Neji. Il ragazzo ostentava la solita calma irritante e altezzosa, mentre raggiungeva il suo posto, vicino a Rock Lee, e sulle labbra compariva un sorriso che l’Uchiha avrebbe volentieri spento.
 
 
***
 
La campanella della ricreazione era suonata da cinque minuti buoni, ma del professor Hatake non v’era traccia; come al solito, avrebbe trovato un’improbabile scusa per giustificare un nuovo ritardo. Adduceva sempre motivi incredibili per scrollarsi di dosso la colpa, come pensieri filosofici scaturitigli nella mente “proprio all’ultimo secondo”, da necessariamente segnare nel taccuino, o donne bloccate in mezzo al traffico, con l’auto in panne, da dover soccorrere; questa era la discolpa più impiegata, ma, chissà come mai, non era mai entrato in classe con le mani e le maniche sporche d’olio, o la camicia minimamente sgualcita. 
            Conoscendo bene le dilazioni dell’insegnante, i ragazzi erano più o meno tutti fuori dall’aula, presi a prolungare l’intervallo nei modi più disparati: Rock Lee stava sfidando un annoiato Neji a risalire la rampa di scale tre gradini per volta, nel minor tempo possibile; Ino e Karin discutevano animatamente, poco più lontano, di qualche pettegolezzo riguardo sabato sera; Choji era vicino al distributore automatico, con Shikamaru e Shino; Hinata era fuori dalla classe, nascosta dietro lo stipite della porta, mentre alle sue spalle, Kiba e Tenten stavano ridacchiando, impegnati a parlare dell’ultimo, ridicolissimo film d’azione che avevano visto al cinema, la sera prima.
            Dall’angolo in cui si era accoccolata, tesissima, la Hyuga osservava Naruto e Sakura, che stavano ricordando allegramente la festa dell’Uzumaki. Una parte di lei soffriva, nell’assistere a quella scena, perché avrebbe tanto desiderato essere al posto della Haruno, appropriarsi, in parte, della sua esuberanza e stupire il biondo, ma dall’altra mano capiva quanto fosse ipocrita, da parte sua, invidiare la felicità degli altri, e perciò sorrideva leggermente.
            Era diversa da lei, non sarebbe mai riuscita a possedere la stessa sicurezza della ragazza dai capelli rosa, né la sua vivace bellezza, tantomeno l’attenzione di Naruto su di sé. Eppure provava una gioia indescrivibile, mentre osservava le labbra del suo amore segreto incurvarsi sempre più verso l’altro, di rimando ai sorrisi di Sakura. Era bellissimo, solare, costantemente con la testa fra le nuvole, capace di regalare il buonumore con la stessa contagiosità di uno sbadiglio.
            Lei e Naruto erano quanto di più diverso potesse esserci al mondo, ma, proprio per questo, perché non sarebbero potuti appartenere allo stesso destino?
 
Sasuke si scostò dal fondo dell’aula, dove, appoggiato con noncuranza alla parete, stava leggendo qualche pagina della Genealogia della morale di Friedrich Nietzsche. Le parole del filosofo gli riecheggiavano nella mente: i valori che la gente considerava convenzionalmente buoni, non erano da ribaltare? Il concetto di buono, poi, era veramente tale? Cosa è davvero buono e cosa cattivo, quando normalmente si considerano spietati quelli che amano loro stessi e cercano di affermarsi con ogni mezzo, mentre i giusti sarebbero quelli che non trovano la forza di dar prova di sé e arrancano, s’affannano disperati, additando i più forti come crudeli?
            Chiuse il libro e lo trattenne fra le mani, alzando lo sguardo verso Naruto e Sakura. Gli venne il dubbio che forse aveva sbagliato tutto. Lui era buono o cattivo, morale o corrotto, nelle proprie azioni?
            Osservò il suo miglior amico, così preso dalla ragazza che gli stava di fronte da dimenticare tutto il resto, e si sentì per l’ennesima volta un verme. Il sorriso della giovane, poi, tanto limpido e sincero, fu una pugnalata allo stomaco. Aveva bisogno d’aria.
            Prese la direzione della porta e quasi non gli venne un colpo, trovandosi davanti Hinata, che stava ancora esaminando i due ragazzi, in completo isolamento, dal momento che Kiba e Tenten erano appena rientrati.
            Era pallida, forse persino più del solito, e si tormentava le pellicine ai lati delle unghie, con le dita; era il ritratto della tensione, quella squisitamente fine a se stessa, che non avrebbe mai creato un’occasione per agire. Era un quadro vivente, ed era incredibilmente attraente, agli occhi di Sasuke.
            Il moro non poté evitare di ripensare a sabato sera, alla sua bellezza incontaminata e ai propri pensieri sconnessi che, con quella prepotente innocenza, gli erano balenati in mente. Hinata era la causa prima di quel disagio, ma non sarebbe mai riuscito a detestarla.
            «Ho promesso che tenterò di aiutarti», le ricordò, con un tono di voce basso.
            La Hyuga trasalì, spaventata, e indietreggiò istintivamente di qualche passo. Si ricordò del patto stretto con se stessa, riguardo l'Uchiha, e dello sguardo di qualche ora prima, quando lui l’aveva osservata con tanta pacatezza e attenzione da scrollarle di dosso la gioia del saluto di Naruto. Non l’aveva fatto intenzionalmente, ne era consapevole; probabilmente era colpa delle sue paranoie e del senso di rispetto che provava verso il moro. Non desiderava farlo preoccupare e invischiarlo nelle sue vicende, facendogli correre il rischio di scontrarsi ancora con Neji.
            «Non importa, non devi disturbarti tanto», aveva mormorato, sforzandosi di non chinare il capo, seguendo l’insegnamento che lui le aveva impartito nel giardino della casa di Jiraiya. Aveva tenuto lo sguardo fisso sulle labbra del giovane, era il massimo dell’altezza consentita dalle sue iridi timide.
            «Troppo tardi».
            Il sorrisetto accennato da quella bocca la sconvolse tanto da non farle capire il senso dell’affermazione. Scrutò con dolore il labbro superiore spaccato e leggermente gonfio, accusando se stessa e la propria codardia come causa. No, doveva smetterla di fare affidamento su di lui, per il suo bene.
            «Non voglio rubarti tempo inutilmente», ribadì lei, con più sicurezza, stavolta incontrando le sue pupille.
            «Troppo tardi», sussurrò ancora lui, avvicinandosi di un passo.
            Rimasero a guardarsi per qualche secondo, in un silenzio surreale. Sasuke moriva dalla voglia di accertarsi che fosse davvero lei, così incantevole anche nell’uniforme scolastica, ma non si azzardò a sfiorarla minimamente, per quanto i polpastrelli gli prudessero dal desiderio di toccare ancora la sua pelle liscia; aveva paura di poter ferire anche lei o contaminarla con il degrado che calzava come un guanto. Il cristallo è troppo fragile e si sporca facilmente, senza le dovute precauzioni.
            «Ti aspetto a casa mia, alle cinque», le sussurrò, prima di rientrare in classe, accorgendosi della figura del professore, in fondo al corridoio.
            Hinata si appoggiò al muro, accarezzandosi le guance e impegnandosi ad incanalare più aria nei polmoni. La pelle bruciava, ma qualcosa, sotto la camicia, nello spazio tra gli organi respiratori – ormai avvizziti – ardeva ancor di più, senza che lei riuscisse a darsene una spiegazione valida.
            Dopo qualche secondo, seguì l’Hatake in classe e raggiunse il proprio posto, confusa e intorpidita. Sentiva un peso sulle spalle, un macigno nel petto e un nodo in gola, ma non capiva che quei tre sintomi erano tutti maturati da una medesima matrice. 








Salve a tutti! :) Rieccomi con l'aggiornamento settimanale!
Avevo proprio voglia di far sciogliere un po' Neji... mmm sì, non che si sia sforzato più di tanto, quel cattivone, ma è già un piccolo segnale incoraggiante, in fondo :D 
Ahahah ultimamente mi passa in mente l'immagine di un Sasuke tetro e filosofico, tormentato dal disgusto per se stesso e per il mondo circostante... chissà se saprà apprezzarsi di più, assumersi il peso di una rinascita e diventare l'Oltreuomo che Nietzsche andava cantando! XD Sasuke è molto Nietzschiano, con il suo inasprimento verso la società, e dalla crisi interiore può solo far affiorare una carica di inorgoglimento XD (oook, Ophelia, fatti meno canne... anche se non fumi!).
Che dire, se non ringraziarvi ancora calorosamente per la vostra vicinanza, le parole di conforto, le bellissime recensioni che mi lasciate, i numeri di letture silenziose che salgono insieme ai click nelle preferite/seguite/ricordate? Mi annullo volentieri, di fronte all'esplosione di gioia che fate crescere in me! :')
Ho avuto un po' di contrasti interiori, nella stesura del capitolo (aaah Neji, la tua mente è così dannatamente impenetrabile!), perciò fatemi sapere senza alcun problema cosa ne pensate, se c'è qualcosa che non quadra... accetto tutto e ne faccio tesoro! :D
Vi ringrazio ancora nuovamente! A presto :D
Un abbraccio 


Ophelia

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Capitolo 10
*** Nessuna solitudine è mai davvero tale ***


10. Nessuna solitudine è mai davvero tale
 

 
 
 

Non aveva esitato, davanti al finestrino abbassato di Neji, e aveva tirato dritto fino alla fermata dell’autobus, aspettando il mezzo pubblico per tornare a casa, proprio come decine di altri ragazzi. Aveva ringraziato il cugino, ma declinato con un sorriso quel passaggio offerto un po’ controvoglia, abbracciando ben volentieri l’idea di un viaggio di mezz’ora, stipata in un angolino, in mezzo a una massa di adolescenti. Essere parte di un tutto, a pieno contatto con la normalità, la faceva sentire meglio, un po’ meno fuori dal comune.
            Poteva fingersi spensierata, mentre ascoltava le sue canzoni preferite nelle cuffiette e osservava il consueto paesaggio oltre i finestrini appannati dall’anidride carbonica e dal calore concentrati sul bus, distraendosi, di tanto in tanto, con il profilo di qualche ragazzo che aveva già avuto modo d’intravedere al liceo. Tirava a indovinare che classe frequentasse quel trio di amiche sedute in terza e quarta fila, o se l’Hatake avesse mai punito quel giovane dall’aria afflitta che si fissava le scarpe, di fronte a lei, sperando che la sua tristezza non fosse dovuta a delusioni maggiori.
            Ascoltava la musica a basso volume, per paura di disturbare gli altri con i suoi gusti, e anche per poter ascoltare i dialoghi delle persone, che l’affascinavano tanto. Una bionda stava lamentandosi dei compiti di matematica che avrebbe dovuto svolgere nel pomeriggio, mentre un ragazzo alto raccontava a due più bassi il resoconto del weekend appena trascorso. Adorava le chiacchiere delle persone, le permettevano di sognare di poter anche lei, un giorno, aprirsi davvero con qualcuno e ridere a crepapelle a qualche battuta. Tenten e Kiba erano i suoi due migliori amici, quelli che avevano condiviso con lei momenti lieti e altri meno, che avevano conosciuto la forma armonica del suo sorriso più sincero, ma anche constatato la tristezza delle sue lacrime. Le dispiaceva che non abitassero più vicini e che, paradossalmente, pur frequentandosi da anni, la scuola rimanesse il principale scenario dei loro incontri.
            Le risate di un ragazzo alle sue spalle la distrassero: stava prendendo in giro un amico che aveva puntato tutto sulla vittoria della sua squadra del cuore, che aveva miseramente perso. Il pensiero del gioco d’azzardo la divertiva leggermente perché, seppur non avesse mai frequentato nessun genere di bische, aveva ancora scommesso. Adorava azzardare con se stessa, ad esempio, che, se qualcuno fosse sceso alla fermata successiva, probabilmente sarebbe andato tutto bene, o che se i due quindicenni che abitavano nel suo quartiere avessero suonato il campanello prima di lei, a casa non l’avrebbe attesa alcuna delusione.
           Scrutava con un’ansia ingiustificata la massa di studenti, ma di quei ragazzi, nemmeno l’ombra; sospirò a malincuore e si preparò a prenotare la fermata.
 
Arrivata a casa, pranzò a fatica, al tavolo della cucina. Il salotto era già stato rassettato, dopo che Neji si era concesso un pasto veloce, e Shimoko aveva provveduto ad apparecchiare per la ragazza nella stanza dove lei stava caricando la lavastoviglie.
           Era sua abitudine consumare il pranzo lì, appena tornata da scuola, e amava quel luogo, le trasmetteva pace e calore umano. Là era dove era sempre circolato più amore, fin da quando era bambina e osservava la madre preparare qualche pietanza, insistendo perché la governante non si preoccupasse e la lasciasse divertire un po’, con le mani in pasta. Sua mamma era una donna dolcissima, gentile e sempre pronta a prodigarsi per gli altri, incapace di prendersela con le figlie o arrabbiarsi se Hiashi passasse troppo tempo in ufficio. Hinata avrebbe tanto voluto somigliarle di più, ereditare da lei anche la forza d’animo che si celava dietro i teneri sorrisi. Quel pensiero dolceamaro, accompagnato dai ricordi della sua infanzia, le crearono un nodo in gola che le impedì di finire il piatto di riso.
          «Non ha appetito, signorina?», chiese Shimoko, preoccupata.
          «Ho esagerato a ricreazione; mi hanno offerto una fetta di torta al cioccolato e non ho saputo dire di no», mentì con un sorriso. Non voleva farla preoccupare inutilmente, stava benissimo, se escludeva le riflessioni.
          Eppure l’uomo è un animale razionale, e nemmeno lei poteva evitare di arrovellarsi il cervello. Se prima erano stati gli occhi e i sorrisi della madre a traboccare nel suo cuore, ora era il pensiero del pomeriggio ad angustiarla. Erano le tre e un quarto, il tempo era volato, in cucina, e lei non aveva ancora minimamente considerato che tra poco meno di due ore sarebbe stata in tutt’altro posto.
           Sasuke Uchiha si affacciò sul bordo del suo cervello, guardandola dall’alto in basso. Le incuteva un certo timore, un senso di rispetto, ma anche… protezione. Era quella, la parola giusta? Quando si trovava al suo fianco, niente sembrava potesse tangerla.
            Non sapeva esattamente cosa aspettarsi, da quella specie di appuntamento. Le faceva impressione definire in tal modo il loro incontro, ma, escludendo qualsiasi connotazione riferentesi alla sfera affettiva, quello era un appuntamento, niente di più e niente di meno. Eppure, più se lo ripeteva, meno ci credeva. Perché quegli occhi neri si erano fermati a lungo su di lei, nella mattinata? Perché Sasuke si stava preoccupando tanto per lei, senza che lei facesse nulla per attirare l’attenzione? Si fece un veloce esame di coscienza e, al termine di esso, si sentì colpevole; lo aveva invischiato in faccende di poco conto, che però l’avevano segnato fisicamente. Era tutt’altro che innocente, a dispetto di ciò che la gente pensava. Avrebbe dovuto iniziare a badare a se stessa da sola, a cominciare da subito.
            Inspirò profondamente, strinse il pugno sul tavolo e si decise ad alzarsi.
 
Bussò titubante alla porta dell’ufficio di suo padre e, pur non vedendolo, poté benissimo immaginare la sua espressione scocciata. Non voleva disturbarlo, soltanto chiarire. Aveva interpretato quel piccolo segnale della mattina - il suo nome, pronunciato dopo tanto tempo – come un incoraggiamento a parlare, riprendere i contatti con lui. Forse si sbagliava, ne era quasi certa, ma desiderava provarci; una porta in faccia in più o una in meno, ormai, non avrebbe fatto differenza.
            «Avanti!», sospirò l’uomo, accendendo un piccolo sorriso agli angoli della bocca della ragazza.
            Hinata spinse la porta con delicatezza e si ritrovò addosso gli occhi sorpresi del genitore, gli stessi di quella mattina, più luminosi del solito.
            «N-non volevo infastidirti… papà», mormorò. Le era costata una certa fatica, quell’ultima parola, nonostante l’avesse sempre chiamato con tale appellativo; era come se stavolta fosse diverso, come se concepisse soltanto ora il vero significato di quel titolo.
            «Non c’è problema», tentò di rassicurarla, per quanto la voce risultasse meccanica come al solito. Era paradossale, ma provava meno disagio nel comunicare con Neji, che con la figlia.
            Le indicò la poltroncina rivestita di velluto verde, di fronte a sé, e la giovane vi si accomodò lentamente, cercando di occupare poco spazio, come se bastasse quel gesto a renderla invisibile. Era sempre stata tale, ai suoi occhi, e voleva tornare ad esserlo, ora che si sentiva improvvisamente sotto i riflettori.
            «Volevo ringraziarti per stamattina… ma non lo ritengo necessario. Voglio dire, posso continuare a prendere l’autobus, o andare in bicicletta...», spiegò, osservando le decorazioni ad intaglio dorate del tavolo.
            «Non mi sembra che Neji sia contrariato», tagliò corto l’uomo, tornando ad impugnare la penna.
            «Lo è», precisò Hinata, improvvisamente fissandolo.
            «Beh, gli passerà. È la mia volontà, l’accetterà come ha già fatto in passato».
            Occhi negli occhi, bianco nel bianco; strano come il non colore per eccellenza potesse assumere la somma di tutte le sfumature e cadere nel suo contrario, il nero, la tinta del nulla. Perché quello era ciò che ora lei leggeva nelle iridi del padre e temette che anche le sue potessero riflettere un vuoto assoluto… e che Sasuke l’avesse intravisto, prima o poi. L’oscurità dei suoi occhi, al confronto, era il bagliore di una scintilla di fuoco iridescente.
            «Vorrei chiederti di non… non sovraccaricare Neji. Gli voglio bene, ma non deve disturbarsi tanto per me, ha la sua vita».
            «E io vorrei chiederti di non cacciarti nei guai, Hinata», tuonò l’uomo, facendola trasalire. Non voleva turbarla, ma era più forte di lui, quello era il suo modo di comunicare.
            «Mi dispiace per la festa, avrei dovuto dirtelo. Chiedo scusa, non succederà più», si affrettò a dire lei, stringendo le mani sulle ginocchia.
            «Mi riferivo a Sasuke Uchiha».
            La ragazza sbarrò gli occhi e alzò prontamente il viso, arrossendo. Come era venuto a conoscenza di ciò che il giovane aveva fatto? C’era solo una risposta, era evidente: Neji. Il cugino aveva un filo diretto con suo padre, perciò era quasi scontato che gli avesse riferito ogni cosa, ogni bugia.
            «Mi ha accompagnata lui, sabato. È una brava persona, è mio… amico».
             Sì, per quanto sapesse bene che a malapena erano conoscenti, quella parola le era sfuggita deliberatamente di bocca con la stessa facilità con cui respirava. Sasuke era suo amico, dato che si comportava da tale, nei suoi confronti. Pazienza se era solo una sua riflessione e non la realtà.
             «Se è ciò che vuoi, fa’ pure. Ti ricordo solo che è pericoloso». Sul volto di Hiashi, la calma era forzata, evidentemente falsa. 
             Il labbro inferiore di Hinata tremava visibilmente, mentre lei non riusciva ad articolare una sola parola.
             «Ha ferito Neji», le ricordò il padre, abbassando il capo per tornare a occuparsi della pratica che aveva sottomano.
             La figlia strinse i pugni. «Anche lui l’ha colpito».
             «Aveva degli ottimi motivi, visto che tiene alla tua integrità», commentò atono il capofamiglia, senza degnarla di uno sguardo.
              Le vene della giovane erano percorse da un calore che ribolliva di rabbia e frustrazione. Non poteva permettere che Sasuke passasse come il cattivo della situazione, non era qualcosa di logico, né accettabile. Era l’unico che sembrava davvero attento a lei, in quel preciso istante della sua vita.
             «Ad ogni modo, non posso impedirti di uscire con lui, se è ciò che vuoi».
              Gli era costato uno sforzo non indifferente, ammetterlo, tanto che non aveva alzato il volto in sua direzione. Nelle orecchie gli giravano ancora le parole del gemello, che l’avevano invitato a trattare con maggior riguardo la primogenita, accordandole il permesso di vivere pienamente i suoi diciotto anni. Fra le condizioni sottintese, naturalmente, non poteva mancare l’amore verso un ragazzo.
              «Papà, io non sono innamorata di Sasuke», mormorò lei, riaprendo la mano sul ginocchio.
              Hiashi rialzò il capo, rianimandosi, dopo quella rivelazione. «Davvero?».
              La giovane annuì, anche se arrossendo. Era vero, in fondo, no? Sasuke era a malapena un conoscente. Eppure non capiva come mai si sentisse una bugiarda di prima categoria, improvvisamente.
              «Lo considero un amico», ribadì, incrociando le iridi chiarissime del genitore. Ora veniva, però, la parte difficile. «E sono stata invitata a casa sua, oggi, alle cinque».
               Delle sottili rughe si aggiunsero a quelle dovute all’età, sulla fronte di Hiashi. Non poteva credere a ciò che Hinata aveva appena detto: quel ragazzo le aveva dato appuntamento? Proprio lui, con le migliaia di persone che circolavano a Konoha?
               «Scòrdatelo».
               «M-ma hai appena detto…».
               «E tu hai appena detto di non esserne innamorata!».
               Hinata non riusciva a capire il comportamento del padre: fino a un minuto prima, sembrava averle concesso la libertà di frequentare i suoi amici, ora, invece, le impediva una semplice visita a casa Uchiha. Aveva sospettato di aver fantasticato troppo, o aver dato una lettura troppo ottimistica alle parole di Hiashi, ma, ad ogni modo, proprio non comprendeva quella reazione discordante.
               «M-mi dispiace…», mormorò tristemente, alzandosi in piedi.
                L’uomo la osservava in silenzio, cercando di respirare con regolarità. Per qualche minuto, prima che la loro discussione andasse ad arenarsi su Sasuke, si era illuso di poter costruire un dialogo con la figlia e cominciare un nuovo capitolo della storia, ma ora stava puntualmente strappando la pagina.
               La ragazza si allontanò verso la porta, lentamente, osservando l’orologio a cucù che occupava il lato destro della parete: stava per rintoccare le quattro. Ora cruciale, l’ora della decisione.
              Si voltò di scatto verso il padre, mentre una mano era pronta a tirare la maniglia. Lui la stava ancora fissando e la pacatezza era un sottile velo dipinto sul suo volto.
            «Mi dispiace, papà, ma non ti chiederò il permesso nemmeno stavolta», affermò, prima di uscire.
            Non appena la porta si richiuse, Hiashi si prese la testa fra le mani e serrò gli occhi, massaggiandosi le tempie. Non soffriva di emicrania, ma i pensieri vorticavano tanto violentemente da procurargli una spossatezza dolorosa simile alla cefalea.
            “La perderai, di questo passo”, era il pensiero dominante. Quella voce aveva dannatamente ragione.
            Inspirò profondamente e si alzò, per poi dirigersi alla finestra. Doveva lasciarla andare, era una creatura libera, proprio come tutte le altre, e non era sicuramente stupida; avrebbe capito certamente da sola quali fossero il bene e il male, anche a costo di ferirsi. Dopotutto, era impensabile crescerla sotto una campana di vetro che si rivelava essere una gabbia capace di renderla ancora più fragile e soggetta alle sofferenze. Avrebbe imparato a sue spese, ma sarebbe maturata, facendosi in quel modo le ossa, proprio come il resto del mondo. Nessuna scorciatoia, né ansiosa sorveglianza paterna; Hinata sarebbe diventata autonoma e forte con le proprie gambe. In fondo, questa era la cosa giusta.
            Non ti chiederò il permesso nemmeno stavolta, aveva detto. Se quelle parole potevano essergli parse impudenti, appena pronunciate, ora ne aveva colto il vero senso: era una dichiarazione d’indipendenza, una sfida non verso il padre in sé, ma il destino, il proprio fato, la propria vita. Forse Hinata non era tanto diversa da Haiko, in quanto a forza d’animo e delicatezza, dopotutto.
            Per la prima volta, dopo molti anni, Hiashi sorrise al proprio riflesso.
 
***
 
I marciapiedi erano già ricoperti da un sottile strato di foglie gialle e rosse, le uniche macchie cromatiche nel grigio dell’atmosfera. Non era una cattiva stagione, l’autunno, se poi pensava che vi era nato anche Naruto.
            Hinata camminava verso la fermata del bus, in fondo alla strada, stringendo in pugno una busta in cui aveva accuratamente piegato l’abito nero di sabato; avrebbe voluto lavarlo, ma temeva che Hiashi, girando per casa, l’avrebbe visto steso in lavanderia e chiesto spiegazioni. Forse esagerava, dal momento che il padre non si era mai preoccupato più di tanto del suo guardaroba o di ciò che acquistasse, quelle poche volte che usciva di casa, ma aveva sempre paura di discutere con lui. Anche se, quel pomeriggio, era stata lei stessa a voler chiarirsi con il genitore. Più ripensava al loro dialogo, meno capiva se fosse stata la decisione giusta o sbagliata; l’aveva deluso di nuovo, ne era certa, però non riusciva nemmeno a dispiacersi troppo dell’epilogo, perché, per la prima volta, aveva provato il brivido della risoluzione, della sicurezza. Sì, per la prima volta, era stata in grado di affermare la propria volontà.
            Raggiunta la pensilina, si accomodò sulla panchina e incrociò le braccia, rabbrividendo. Faceva freddo, ma non era solo il clima a farle accapponare la pelle: il pensiero di Sasuke, il dover entrare di nuovo nella sua dimora, stavolta senza l’esuberanza di Naruto a spezzare l’atmosfera, la gettava nel panico. Forse avrebbe dovuto ascoltare suo padre e rimanere a casa, non perché l’Uchiha fosse una pessima persona, tutt’altro, ma perché aveva paura di risultare noiosa, infastidirlo, deluderlo… C’erano centinaia di motivi per cui sarebbe stato meglio starsene chiusa in camera sua, quel lunedì pomeriggio, ma non le erano sembrati abbastanza convincenti. Una parte di lei, per quanto la ragione le ricordasse della promessa fatta a se stessa, voleva rivederlo, sentire di nuovo il suo alone protettivo e scuro attorno alla propria persona, sprofondare in quegli occhi neri che sapevano calmarla meglio di qualunque altra cosa.
            Sospirò e si fissò le scarpe, facendo convergere fra loro le punte dei piedi. Era sbagliato fare affidamento su quel ragazzo, non era corretto nei suoi confronti, né verso i propri, dal momento che avrebbe dovuto cominciare a nutrire più fiducia in se stessa.
 
I fari di un’auto scura, che giungeva nella direzione opposta a quella dov’era lei, la distrassero. La ragazza s’irrigidì, stringendosi nelle spalle e trattenendo il respiro, capendo al volo di chi si trattasse. Alzarsi o restare lì? Fare un cenno con la mano o rimanere composta e sperare che passasse di lì per caso? Sì, per caso! Solo uno stupido avrebbe bazzicato nel quartiere situato dall’altra parte di Konoha, quando, fra venti minuti, aspettava ospiti a casa.
            Sasuke diede un veloce colpo di controsterzo e fece girare rumorosamente le gomme, fermandosi proprio davanti a Hinata. Abbassò il finestrino del lato passeggero e la osservò alcuni secondi, senza parlare.
            Anche lei lo fissava in silenzio, incapace di muoversi o articolare un suono. Non si aspettava che il loro incontro sarebbe addirittura stato anticipato in quel modo.
            «Mi sono ricordato che non guidi, e che Neji è uno stronzo», dichiarò lui con tono tagliente.
            La ragazza sbatté le palpebre e bisbigliò qualche sillaba senza senso, mentre cercava di difendere il cugino.
            «Sali!», la interruppe lui, con quel comando.
            Quella richiesta era stata tanto imperiosa, ma, allo stesso tempo gentile, da non ammettere repliche o opposizioni. Hinata strinse la busta al petto e si accomodò lentamente sul sedile.
            Sì, era “protezione” la parola giusta.
 
L’abitacolo, come sempre, era avvolto da un silenzio interrotto solo dal ruggito del motore e dalla musica di sottofondo, ma quelli non erano suoni, non come li intendeva la Hyuga. Quello di cui aveva bisogno erano parole, frasi, discorsi in grado di farle dimenticare ciò che si stava lasciando alle spalle – una discussione importante con il padre – e ciò cui stava andando incontro – villa Uchiha, l’ignoto. Perciò si sentì in dovere di cominciare per prima.
             «Ti ringrazio, ma non posso accettare il tuo aiuto». Era ripetitiva, sapeva di aver pronunciato quell’affermazione già troppe volte, in sua presenza, e che la pazienza di Sasuke non era infinita. Si chiedeva cosa ancora lo trattenesse dall’urlarle in faccia quanto fosse noiosa, senza spina dorsale e fallita.
             «Mi sembra di averti già detto che ormai è troppo tardi», ribatté lui, alzando il volume dello stereo. Non voleva sentire lo stesso disco deprimente, né doversi ripetere o, peggio ancora, scavare a fondo nel suo animo e portare in superficie sconvolgenti frammenti di sé che non aveva mai intravisto e che, sicuramente, non avrebbe mai voluto mostrare alla ragazza dai capelli blu.
              Hinata rimase sconvolta da quel gesto. Era il suo modo per tapparle la bocca? Non ci stava, non le andava giù. Era sbagliato farsi travolgere dallo sconforto per un nonnulla, ma ancora più errato far ribollire la rabbia nel sangue, soprattutto verso Sasuke.
              Però era stato un gesto poco carino, per quanto giustificabile. Strinse le palpebre e, spinta da chissà quale forza, la mano girò rapidamente la manopola del volume verso sinistra, riportando la musica alle sonorità lievi di prima.
              Il moro si girò a guardarla, stupito; non gli aveva dato fastidio, solo non se l’aspettava. Gli occhi chiarissimi di Hinata erano fermi sul suo viso, stranamente imperscrutabili, mentre le labbra, serrate e rigide, esprimevano in quel modo il suo disappunto. Sembrava, anzi, era sicuramente imbronciata, e lui non poté trattenere un sorriso.
             Cos’era successo alla Hyuga? E cosa stava capitando, pure a lui?
             «Sono stufa di far pena alla gente», sbottò lei, senza abbassare lo sguardo. Era solo una sua impressione, o era riuscita a cogliere di sorpresa quel ragazzo?
             «Tu… non fai pena», mormorò lui, tornando poi a fissare la strada. Forse era una menzogna, perché, almeno inizialmente, era stato intenerito dalla pietà, ma non poteva incolparla per aver ridestato un pizzico di umanità nel suo animo.
             «Nemmeno tu sei molto bravo a mentire».
              L’auto si era fermata nel parcheggio della villa proprio in quel momento e Sasuke si era rapidamente voltato verso la giovane, spegnendo il motore.               La trovò con la testa rivolta verso il finestrino, gli incisivi piantati nel labbro inferiore e il pugno stretto sulla maniglia. Voleva scendere, rimangiarsi tutto, scappare, ma non riusciva a compiere nessuna delle azioni che le pizzicavano il corpo.
              Per la prima volta, Sasuke era intimorito dalla Hyuga, quasi non la riconosceva. Aveva appena colto degli aspetti mai notati prima, in lei. Era umana quanto lui, forse troppo.
             Provocare dolore era sempre stata una sua specialità, ma non vi aveva mai prestato troppa attenzione: calpestava cuori e infrangeva ossa come se niente fosse, di solito; eppure, questa volta voleva rimediare, perché vedere Hinata in quello stato lo sconvolgeva più di qualsiasi altra cosa.
             Proprio mentre stava per schiudere le labbra, lei spalancò la portiera e uscì, lasciandolo a bocca aperta. Rimase a fissarla qualche istante, prima di imitarla e raggiungerla. Le si parò di fronte, trattenendola per le spalle, quando lei cercava di girarsi, chinando il capo. Odiavano entrambi apparire insignificanti ai loro occhi.
              «M-mi dispiace», mugolò, cercando di calmarsi.
              «Entriamo», sussurrò Sasuke, sorridendo.
 
Appena varcò la soglia dell’abitazione, Hinata fu investita da un intenso profumo di mandarini e cannella, e subito si tranquillizzò. “Casa” era la prima parola che le era venuta in mente, dopo quella sensazione olfattiva, pur non essendo un collegamento logico. Il calore che aleggiava nell’aria, le buone vibrazioni scaturite da sorrisi e dialoghi, la rinfrancarono. Probabilmente, parte di quella positività, era dovuta a Itachi.
            Osservò con cura le pareti, i quadri, i mobili… era tutto identico a qualche giorno prima, se non che mancava Naruto. All’improvviso, il benessere si volatilizzò dal suo corpo, costringendola a pensare a quanto fosse sola e insicura, là dentro, senza il biondo. Lui avrebbe senza dubbio spezzato la tensione che li avvolgeva con il fragore di una risata, o una battuta simpatica.
            «Mio fratello è fuori e i miei lavorano fino a tardi», quasi la lesse nel pensiero.
            La Hyuga sentì le gambe cedere, ma abbozzò un sorriso tirato, per rassicurarlo; voleva apparirgli forte e sicura di sé, nonché realmente fiduciosa nei suoi confronti, e riconoscente. Già aveva commesso un’imperdonabile gaffe, in auto, perciò ora desiderava solo migliorare. Se non avesse stretto spasmodicamente la busta con il vestito, fra le mani, sarebbe quasi riuscita ad ingannare l’Uchiha sulla propria imperturbabilità; peccato che il moro fosse un acuto osservatore e, una volta toltole di mano il fardello, la invitò ad accomodarsi in cucina.
            Si guardarono in silenzio per alcuni minuti, ancora ripensando alla scena della macchina. La ragazza si sentiva tremendamente in imbarazzo e avrebbe voluto andarsene, ringraziarlo nuovamente per l’aiuto offertole, ma troncare lì quella specie di sodalizio. Non voleva essere un peso e rivelarsi ancora più stupida di come già non gli apparisse.
            «Da quando ti piace Naruto?», domandò Sasuke, all’improvviso. L’aveva colta di sorpresa e sorrise, perché quello era proprio il suo intento: difficilmente sarebbe riuscita a divagare.
            Hinata tossì leggermente, avvampando, ma cercò di non distogliere lo sguardo dal volto del moro.
            «D-da tempo… dalla prima volta che l’ho visto, quando avevo otto anni», sussurrò finalmente, ripercorrendo con la mente quel giorno.
           
Andava ancora alle elementari, era gennaio, ed era stata presa di mira da Neji e i suoi amici con delle palle di neve. Il cugino aveva ingaggiato una sorta di tiro al bersaglio, stabilendo che avrebbe vinto colui che l’avrebbe centrata in viso; naturalmente, la crudele vittoria sarebbe stata sua, se non fosse intervenuto quell’irritante bambino biondo, a pararsi davanti alla piccola Hinata, beccandosi in faccia quel proiettile di acqua ghiacciata. 
             Neji se n’era andato sbuffando, mentre la Hyuga era rimasta ad osservare sbalordita per alcuni minuti il suo salvatore, che si ripuliva le guance.
            «Stai bene, vero?», le aveva chiesto, girandosi con un sorriso largo e luminoso.
             Lei aveva annuito timidamente e l’aveva ringraziato di cuore, avvicinandosi titubante. 
            Il ragazzino le strinse le mani e si presentò: «Sono Naruto Uzumaki e un giorno ti sposerò, cosicché Neji non ti disturberà mai più». 
            La bambina, ammutolita, l’osservò allontanarsi a tutta velocità verso l’entrata della scuola, dove la maestra stava richiamandolo. Aveva scolpito quella promessa nel suo cuore, ingenuamente, insieme al ritratto sorridente di Naruto. 
           Da quel giorno, lui era diventato il suo punto di riferimento, l’àncora di salvezza, il traguardo da tagliare, la felicità a portata di mano, per quanto irraggiungibile.
 
 
«Non credi che sia una passione deleteria? Anzi, credi davvero che sia passione? Tu sai cos’è, la passione?», chiese Sasuke, riportandola alla realtà.
            Hinata scosse leggermente il capo e sbatté le palpebre, ridestata dal ricordo, e il moro le ripeté la domanda.
            «No… sì, credo», mormorò confusa.
            «La prima risposta è quella che conta, dicono».
            «Io… non lo so», ammise affranta.
            Sasuke si alzò di scatto e provocò una fitta di disagio nel petto della Hyuga. Aveva detto qualcosa di sbagliato? Lo osservò avvicinarsi alla cucina e accendere il fornello, dove era già stato posizionato un bollitore. Era strano vederlo muoversi in un ambiente tanto domestico: non si sarebbe mai aspettata di poter ammirare l’Uchiha preparare il thè, un giorno.
             «La passione è qualcosa che ti consuma, che occupa totalmente i pensieri. Qualcosa che vorresti soddisfare, ma che, allo stesso tempo, hai paura di affrontare. Ti brucia dentro, nel sangue, ma non lo consuma, anzi, ne pompa sempre di più e lo rinnova. È peggio di qualsiasi tortura. Questa è la passione», spiegò deciso, spegnendo la fiamma prima ancora che il bollitore potesse fischiare. Non aveva pazienza, eccone un’altra prova. Eppure, con lei stava conoscendo una calma inconsueta.
             Versò l’acqua calda in due tazze e gliene appoggiò una di fronte, senza chiederle che gusto avesse gradito. Nell’aria si stava vaporizzando quell’aroma di mandarino e cannella che le aveva colpito l’olfatto appena era entrata in casa, e lei sorrise, mescolando la bevanda. Senza nemmeno accorgersene, probabilmente, il ragazzo l’aveva messa a proprio agio. Anche se durò poco.
             «È questo che provi per lui?», le chiese, sorseggiando lentamente l’infuso.
              La Hyuga non era così sicura della sua risposta. Si mordicchiò il labbro, prendendo la tazza fra le mani. Sì, no, forse? Qual era l’esatta sentenza a quell’interrogativo? Se non ci avesse pensato, avrebbe sicuramente affermato di essere attraversata da una passione sconvolgente, verso Naruto, ma qualcosa le aveva fatto cambiare idea. O meglio, qualcuno, a questo punto. Qualcuno che la conosceva meglio dell’Uzumaki, ad esempio, e che stava facendo il possibile per aiutarla, senza porsi problemi se lei fosse tanto timida ed irritante.
            «E poi, credi che la passione si possa misurare in anni? Ritieni che un amore possa essere più vero di un altro soltanto perché è da più tempo che si conserva nel cuore?», tornò all’attacco lui, fissando il contenuto della propria tazza. «Io credo proprio di no».
            Voleva chiedergli perché lo stesse pensando, come potesse esserne tanto sicuro, ma una parte di lei aveva paura di apprendere la risposta, forse perché già la conosceva. Amava Naruto? Sì, l’amava, ma solo se non ci rifletteva poteva esserne del tutto certa.
 
Hinata si alzò e posò la tazza nel lavandino, irrigidendosi quando si trovò affianco Sasuke. Si girò lentamente verso di lui e scoprì il suo sguardo profondo puntato negli occhi. Perché, all’improvviso, faceva così male, guardarlo? Quand’era diventato così bello e vicino? A differenza dell’Uzumaki, l’amore della sua adolescenza, l’Uchiha era incredibilmente attiguo, raggiungibile. Sasuke c’era, era lì, con lei. La vedeva, l’ascoltava, si prendeva cura di lei, a modo suo.
            Il cuore le batteva all’impazzata e lei dovette abbassare lo sguardo di qualche centimetro, per non stramazzare a terra. Osservò la sua bocca deturpata dal pugno di Neji, e rabbrividì.
            «M-mi dispiace per il tuo labbro», balbettò.
            «Fa il paio con il tuo livido… anche se sembra andare meglio, a quanto pare», sorrise sottilmente lui, sfiorandole la guancia.
            Era fresca; la ferita, ormai, non pulsava più e la pelle si stava uniformando, cicatrizzando la lesione. Quella chiazza scura, per quanto deprecabile, era un bellissimo contrasto, sul suo volto diafano, che metteva in risalto gli occhi chiarissimi e il bisogno di essere protetta.
            “Ci penserò io, a lei”, promise la sua voce interiore, con una sicurezza tanto forte da voler esplodere dalle labbra; ma non sarebbe riuscito a dirglielo apertamente, non ora.
            «Quali idee ti sei fatta, su di me?», le chiese, sistemandole una ciocca di capelli dietro le orecchie.
            «Che sei una brava persona… troppo buona con me», rispose lei, non senza imbarazzo. Ma era la verità, non voleva di certo adularlo. «E tu?». Non sapeva nemmeno perché glielo avesse domandato, dato che poteva benissimo immaginare che il suo pensiero non fosse molto diverso da quello degli altri. Inoltre, già in auto, lei stessa aveva affermato che era riuscita ad impietosire anche lui. Perché rivangare quel ricordo? Si maledisse, stringendo i pugni.
            Il moro sorrise, guardandola. Se non era ardita, era comunque furba, perché l’aveva appena spinto in un pantano.
            «Penso troppe cose, e tutte sbagliate», mormorò.
            Se erano erronee, forse voleva dire che, in parte, erano giuste.
            Hinata tremò, sentendosi accarezzare la guancia. Chiuse gli occhi, incapace di guardare Sasuke e il futuro che si stava appianando insistente dentro le pupille. Per quanto si sentisse a disagio, improvvisamente al centro dell’attenzione, gli era grata, perché mai aveva provato tanta sicurezza al fianco di qualcuno. Era stupido pensarlo, se ne rendeva conto, perché non erano nemmeno amici, eppure era così, non trovava altri modi per spiegarsi quella sensazione contrastante di imbarazzo e benessere.
            Sasuke colse quelle palpebre abbassate come un segnale per compiere un passo avanti. Era assurdo pensare che la Hyuga stesse volontariamente calando le proprie difese davanti a lui, ma non poteva interpretare diversamente la sua reazione.
            Hinata sentiva le sue mani calde sfiorarle il collo, e il respiro solitamente controllato del moro farsi più rapido e incredibilmente vicino alla sua pelle. Era incapace di aprire gli occhi, figuriamoci di opporsi a parole o gesti. Perché una parte di lei, in fondo, non voleva scostarsi.
            «Vuoi sapere che cosa penso di te? Che vorrei dimenticarti, delle volte. Che sei debole, ma onnipresente… e che ora vorrei terribilmente fare equitazione, con te».
             Lei non aveva capito perfettamente cosa c’entrassero cavalli e maneggi, ma aveva tremato quando una mano del ragazzo era scesa verso i bottoni della camicetta, rigirandone uno fra le dita, e le sue labbra avevano finalmente lambito la candida pelle del suo collo. L’attesa di poter saggiare il profumo della sua carne con la bocca lo aveva lentamente logorato, da sabato sera e, per quanto la ragione gli continuasse a ricordare che quella era Hinata, la dolce e indifesa Hinata, la sua anima nera gli impediva di fermarsi.
            Aveva risalito a suon di lievi baci il collo della giovane, per arrivare al mento, e finalmente lei aveva aperto gli occhi, sussultando. Un campanello d’allarme era suonato nel cervello, ma non era abbastanza saggia per ascoltarlo, in quel momento. La mente se n’era deliberatamente andata in vacanza, portando con sé il buonsenso. Riuscì solo ad afferrare saldamente la mano dell’Uchiha, proprio prima che s’insediasse sotto la camicetta ormai mezza sbottonata.
            «È un esperimento», sussurrò lui, verso il suo orecchio, con tono suadente.
            «Non… non mi piace», mormorò lei. Non era nemmeno sicura che le cose stessero così, ma non sarebbe mai riuscita a lasciarsi andare, non avrebbe mai voluto pentirsi di qualcosa che non aveva mai attraversato l’anticamera dei suoi pensieri, prima di quel pomeriggio. Per lei era esistito sempre e solo Naruto, e non aveva mai immaginato situazioni del genere.
            «Oh, lo vedremo», sorrise sinistramente, guardandola negli occhi, prima di tornare a sfiorarle il collo con le labbra e farla vacillare.
            «Sa-Sasuke…», mormorò impietrita.
            Quei baci l'avevano gettata al confine del piacere illecito. Si sentiva tremendamente in colpa, nel tradire l'aspirazione della propria anima, che tendeva costantemente a Naruto, ma non riusciva nemmeno a bloccare quella sensazione appagante che correva sotto le labbra del moro. 
            Nessuna si era mai opposta al suo appetito molesto, nemmeno Hinata si stava sforzando più di tanto per fermarlo. Era timida, una preda fin troppo facile. Sospirò, staccandosi da lei e dandole le spalle, improvvisamente incapace di proseguire. Non voleva approfittarsi di lei, né contaminare la sua purezza in modo tanto deplorevole; la Hyuga era un premio da conquistare e meritarsi, non poteva essere paragonata a qualcuno come Karin, che si era lasciata ghermire senza troppi preamboli. Aveva sbagliato, ma non riusciva a dispiacersene troppo.
            «Rivestiti!», le ordinò, osservando il riflesso immobile della giovane, nel vetro della finestra. Aveva ancora la camicetta semi-sbottonata, da cui s’intravedeva la pelle candida e il reggiseno lilla, e lui si sentiva un dannato porco di prima categoria, un depravato senza un minimo di morale.
            Come se non bastasse, notò l’auto di suo fratello giungere nel parcheggio. Sospirò sonoramente e si sedette su una sedia, senza degnare Hinata di uno sguardo. La poveretta, imbarazzata e incapace di muoversi, osservava le reazioni del moro e si domandava se l’avesse offeso. Era quasi pronta a chiedergli scusa, ma per fortuna un briciolo di cervello le era rimasto, giusto per ricordarle che la parte offesa era lei e che ci mancava solo l’ennesima richiesta di perdono, da parte sua, per mandare Sasuke su tutte le furie.
             Si abbottonò rapidamente la camicia, indossò la giacca e rimase ferma al suo posto.
 
«Sono a casa!», esclamò Itachi, comparendo sulla soglia della cucina. «Ciao, Hinata!». Era sorpreso nel vederla lì, ma anche sottilmente compiaciuto, nonostante non riuscisse a capire se avesse appena interrotto qualcosa di importante o salvato la situazione.
            La Hyuga trasse da quell’arrivo provvidenziale un frammento di coraggio, quel tanto che le bastasse per non rimanere inerme e travolta dagli eventi. Non appena il maggiore degli Uchiha si allontanò per posare il cappotto, prese un respiro profondo e si voltò verso Sasuke, che si era intanto alzato.
            «Devo rientrare», era riuscita a mormorare.
            «Sì, devi. È meglio», confermò lui, appoggiandosi al lavandino, dandole le spalle.
            Sapeva che non avrebbe resistito ancora a lungo, quella bestia famelica dentro di lui. Anche se, per quanto non gliene fosse mai importato nulla dei sentimenti altrui, adesso qualcosa era cambiato.
            Non voleva ferirla, non meritava il trattamento riservato alle altre che gli cascavano ai piedi. Hinata era attraente, troppo bella perché non riuscisse a provare un istinto naturale nei suoi confronti. Era la sua natura di uomo e di bastardo, ma avrebbe fatto il possibile per starle alla larga, per non abusare della sua purezza. In fondo, aveva schiere di fanciulle pronte a soddisfare ogni suo desiderio più recondito, perché intestardirsi su quel capriccio fugace? Su quella Hyuga che aveva solo un viso angelico e un bel corpo, nulla di più. Su quella ragazza che aveva meno personalità di una farfalla – e molta meno libertà.  Su quella splendida diciottenne che possedeva un’aura serafica, affascinante, per quanto sofferente, e che aveva espressamente bisogno di lui.
             E poi, diamine, era Hinata! Era timida, candida, perdutamente innamorata del suo migliore amico. Certi pensieri non dovevano nemmeno attraversargli l’anticamera del cervello! La Hyuga era l’ultima fanciulla al mondo con cui un ragazzo popolare, rispettato e sfrontato come lui sarebbe mai dovuto stare.
            Decisamente, doveva starle alla larga, per il bene di tutti. Anche perché non provava niente per lei, no? Aveva promesso che l’avrebbe aiutata, fintanto che ne sarebbe stato in grado, e non si sarebbe mai rimangiato la parola data, però la situazione gli stava sfuggendo di mano. Si era cacciato in un guaio, incrociando quelle meravigliose iridi di perla, senza nemmeno rendersene conto. Stare a contatto con Hinata era un grande rischio, perché possedeva l’incantevole bellezza e il periglioso destino di una sirena.
            «Itachi, accompagnala a casa!», ordinò al fratello, che capì al volo il messaggio cifrato dietro quel comando. Tirava una cattiva aria, meglio non invischiarsi nel tentativo di riappacificare l’animo dell’otouto.
            Prima di seguire il ragazzo dai lunghi capelli corvini, lei si girò verso Sasuke. Occhi neri, più scuri della notte, la fissavano con la bramosia di un naufrago approdato a casa, dopo anni di rovinose traversie su zattere. “Vattene, scappa finché sei in tempo”, sembravano dirle, “perché non avresti scampo”.
            Nessun saluto, nessuna parola; solo sguardi, silenzio e frasi inespresse che venivano assorbite da un certo caos dentro l’anima.
            Hinata uscì dalla porta della villa con un turbamento che le spezzava il fiato. Perché quell’odio improvviso, nei suoi confronti, anche da parte di Sasuke? Cosa gli aveva fatto?
 
Entrambi avevano appena sfiorato il bordo di una tentazione sublime, piacevole, ma mortale, come qualsiasi maledizione. Avevano raggiunto un punto simile a quello di non-ritorno, e non sapevano se proseguire nella nebbia, fianco a fianco, o tornare indietro, da soli. Nemmeno si rendevano conto che le loro solitudini avevano appena trovato un modo per non essere più definite tali.
           
Appena l’auto di Itachi ripartì, Sasuke affondò violentemente il pugno destro nel muro. Difficilmente le cose sarebbero tornate come prima, con Hinata.
            Osservava il sangue colare lungo le nocche e toccare terra; capì che, dopotutto, era stato inevitabile giungere a quel punto, rischiare di perderla per tenerla stretta a sé, perché, prima o poi, i nodi sarebbero comunque venuti al pettine.
            Nonostante si ritenesse un pessimo amico, un infame, uno sporco approfittatore, aveva appena deciso che avrebbe fatto il possibile per renderla felice. Per farlo, però, aveva bisogno di nuove certezze.
            Estrasse il cellulare di tasca e chiamò l’unica persona che poteva estinguere i suoi dubbi.

 





Mi prostro ai vostri piedi, cospargendomi il capo di cenere. Chiedo perdono per aver lasciato passare tanto tempo dall’ultimo aggiornamento, e non voglio tediarvi ulteriormente adducendo i motivi del ritardo nell’aggiornamento, perché sarebbero i soliti, ahimè.
Questo capitolo ha avuto una gestazione lunga, c’è ancora qualcosa che non mi convince troppo, ma ci rinuncio XD Lo posto così com’è, ormai ho la nausea ahah Spero comunque che sia stato abbastanza decente, benché spropositatamente lungo!
(D’accordo, alzo la mano: quella che ascolta i vostri discorsi in autobus, con l’iPod rigorosamente basso, sono io! Sono io la vostra stalker di pensieri XD)
Vi ringrazio tutti, dal primo all’ultimo, per aver letto e recensito i precedenti: siete sempre di una gentilezza abnorme! *-* Grazie anche per le letture silenziose, le preferenze e i click nelle ricordate e seguite! Davvero, grazie!
Un ringraziamento doveroso va a Rhain_1992_ARM perché, oltre al sostegno e le bellissime art che crea per la storia (le trovate qui), mi ha fatto conoscere una splendida canzone (Running Away, Midnight Hour), senza la quale i pensieri non sarebbero fluiti nel capitolo :D
Farò il possibile per aggiornare presto, sperando di avere più tempo libero, in settimana ;)
Grazie ancora!
Baci ❤
 
Ophelia

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Capitolo 11
*** Dritto al punto ***


11. Dritto al punto

 
 
 
Era curioso come il silenzio fosse un tratto che legasse due fratelli apparentemente simili, ma profondamente diversi, se conosciuti a fondo. Hinata non poteva certo vantare il suddetto privilegio – se ancora era possibile definirlo così, a tal punto – ma non riusciva a sostenere quel vuoto di parole per più di tre minuti.
            L’auto viaggiava a una velocità non troppo sostenuta verso villa Hyuga, ma, a differenza dell’andata, qui non vi era nemmeno la musica di sottofondo a creare un’onda sonora. L’assenza di note e voci la catapultava dritta al ricordo di quanto fosse avvenuto poco prima: lo sguardo tagliente di Sasuke, che sembrava volerla allontanare improvvisamente da sé, proprio ora che lei… No, impossibile, le sue certezze non potevano esser vacillate sulla scia dei baci che il moro aveva impresso sul suo collo! Istintivamente ripercorse il lussurioso tragitto delle labbra di Sasuke con la punta delle dita, rabbrividendo. La pelle era ancora rovente, proprio come le sue mani e il sangue che era corso alla testa, annebbiandole i pensieri. Sentiva incredibilmente caldo, nonostante il riscaldamento fosse ridotto al minimo indispensabile perché il parabrezza non si appannasse.
            «Ti senti bene?», le chiese Itachi, accorgendosi delle sue palpebre socchiuse e la mano sul collo.
            Sorrise maliziosamente, intuendo cosa potesse essere accaduto in sua assenza: conosceva bene il fratello, i suoi pensieri e il posto che Hinata occupava in essi. Eppure, notando l’imbarazzo che aveva tinto di rosso le guance della ragazza, provò un briciolo di pena, per lei. Non voleva che Sasuke l’avesse spaventata, sperava che avesse adottato un comportamento diverso, nei suoi confronti. Gliene aveva raramente parlato apertamente, ma dalle fugaci battute che aveva accennato sulla Hyuga, lui aveva colto quei dettagli atti a prefigurargli un preciso ritratto nella mente: Hinata rappresentava un’aspirazione inviolabile, una bellezza che sapeva catturare grazie alla sua innocenza, una delicatezza difficile da conquistarsi, ma assolutamente da proteggere. Quasi aveva avuto paura nel farlo notare all’otouto, ma era evidente.
 
«Ne sei innamorato», aveva tratto velocemente le conclusioni, dall’alto del proprio acume.
            «Non dire cazzate», aveva mormorato con un ghigno infastidito, il fratello. 
            Ammirava quel talento che Itachi aveva nel leggergli la mente, ma si stava sbagliando di grosso; il minimo interesse che provava verso Hinata era dovuto solo al fatto che voleva… renderla felice. Sì, era evidente che fosse così, anche se non ne comprendeva il motivo, dal momento che mai si era interessato alle vicende di chi gli gravitava attorno. Forse stavolta era diverso proprio perché la Hyuga non gli stava costantemente appiccicata, non cercava di attirare la sua attenzione in alcun modo, pur riuscendovi perfettamente. Lei non portava vanesi fronzoli fra i capelli o ai lobi delle orecchie, né nascondeva la propria fragranza naturale con profumi, e neppure ostentava il prestigio della propria famiglia onde spiccare sugli altri. Hinata era così come appariva; nessun secondo fine dietro le sue parole, né alcun intento ammaliatore al di là dei suoi timidi sorrisi. 
             «Hai mai pensato che potrebbe essere quella capace di sanarti?», gli chiese l’aniki, poco prima di uscire dalla sua stanza. 
            Sasuke strinse gli occhi e tornò a massaggiarsi le tempie: quel mal di testa non gli era ancora passato, anzi, se possibile, era addirittura aumentato, a seguito del rapporto consumato con Sakura, una mezz’ora prima. Altro che sesso terapeutico! Niente sarebbe riuscito a farlo sentire meglio, men che meno Hinata, per quanto Itachi continuasse a insistere che lei potesse essere il rimedio. 
            Era pronto a giurare che non esistesse una cura contro ciò che era diventato, a furia di perseverare nel peccato, ma quando il cellulare s’illuminò e vide la fotografia che Naruto gli aveva appena inviato, l’acuto dolore alle tempie sparì istantaneamente. 
            Sei sempre imbronciato, mi rovini anche le foto del diciottesimo!
            L’Uzumaki non aveva tutti i torti, in effetti: Sasuke osservava l’obbiettivo con aria scocciata, puntando uno strafottente dito medio in direzione dell’amico – nonché fotografo improvvisato. Nemmeno ricordava quel momento, ma ora sapeva che non l’avrebbe più scordato: dietro di lui, di tre quarti, incorniciato da una folta chioma blu notte, splendeva il dolce sorriso di Hinata, probabilmente intenta a parlare con Tenten. 
           Sorrise impercettibilmente, zoomando sulla ragazza, sul suo viso. Seppur ora l’immagine apparisse sgranata, poteva osservare anche il colore chiarissimo dei suoi meravigliosi occhi e il leggero rossore sulle gote, per niente dovuto ad alcun belletto o bicchierino di troppo. Benedì Naruto, che era riuscito a cogliere anche lei, da quella angolatura, lasciando nell’ombra del profilo il livido sull’altra guancia. 
           Quella, in qualche modo, era la loro prima foto insieme, ed era sinceramente felice che non ci fosse nessun altro ad occupare l’inquadratura, né tantomeno la ferita sul volto di Hinata, il segno di una presenza ingombrante. 
 
«Perdonalo, se puoi», le chiese Itachi, tornando a fissare la strada. “Perdonalo, perché solo tu puoi salvarlo, e solo lui può salvare te”, aveva completato mentalmente, sospirando.
            «C-credo di averlo deluso», ammise lei, tormentandosi le mani.
            Aveva avuto paura di quello che sarebbe potuto succedere, ma, più di ogni altra cosa, aveva temuto la propria impotenza, il non essersi sottratta a quella sensazione che, per quanto piacevole, non desiderava sperimentare con Sasuke. Eppure, adesso, non riusciva a pensare ad altro che alle sue labbra, i suoi occhi, i suoi polpastrelli caldi… le aveva anche sbottonato la camicia, era evidente ciò che desiderava da lei. Non riusciva a crederci e non sapeva nemmeno cosa pensare, al riguardo. Comprendeva amaramente, però, di averlo disilluso: i suoi occhi cupi, poco prima di averla lasciata uscire di casa, glielo avevano fatto presente in un modo sconcertante. Ancora una volta, pur dovendo ragionevolmente sentirsi vittima della situazione, marchiò se stessa come colpevole.
           «Credo che tu sia l’ultima persona al mondo ad averlo lasciato amareggiato, invece», la rassicurò il moro, in tutta sincerità.
           Non voleva nemmeno sapere il perché ne fosse tanto sicuro, aveva paura di conoscere già la risposta, ed era ormai stufa di lasciarsi abbracciare dal timore della realtà. Meglio aleggiare nel dubbio, per una buona volta.
 
Il suo piede s’imbatté in un piccolo fagotto raggomitolato sul tappetino. Riconobbe di cosa si trattava dal suono che la plastica emise a quel contatto e si rammaricò di aver trattato tanto malamente l’abito preso in prestito e, fuor di metafora, la speranza di una notte.
            Raccolse la busta e sorrise lievemente, appianando le piccole increspature dell’involucro.
            «Ecco… grazie per il tuo pensiero. Anche tu stai facendo tanto, per me, pur non dovendo».
            Itachi nemmeno la sentì; accostò davanti al cancello aperto di villa Hyuga e spense il motore.
            «Perché è sempre spalancato?», chiese curioso, osservando le inferriate finemente lavorate con intrecci fitoformi.
            Hinata sorrise, anche se gli occhi erano sul punto di scheggiarsi. Perché i due fratelli Uchiha riuscivano a ricordarle sempre la persona che più le mancava al mondo?
            «È stata una scelta di mia madre: lasciare aperte le porte a chi fugge, regalare parte della propria quotidianità a chi non è abbastanza fortunato, offrire ospitalità a chi ne ha bisogno, essere di conforto agli altri…».
            «Paradossale, dal momento che voi Hyuga serrate il cuore a tutti», commentò sarcastico.
            La giovane rimase sorpresa da quella constatazione. Non aveva torto, in effetti, e si trovò a sorridere. Sua madre era diversa dal resto della famiglia, non aveva mai nascosto a nessuno i propri sentimenti, né aveva mai rinunciato ad aprirsi agli altri, pur di farli sentire meglio. Ancora una volta, avrebbe voluto essere più simile a lei.
            «Tieni» e offrì a Itachi la busta.
            Il ragazzo afferrò il sacchetto con espressione curiosa e non esitò a scoprirne il contenuto.
            «Carino», sussurrò stendendo le braccia in avanti, rimirando l’abito nero. «Ma cosa dovrei farmene?». Si girò verso la ragazza, aggrottando le sopracciglia, e scoprì la sua aria stupita. «Ti ho dato per caso l’impressione di essere… Santi numi, devo tagliarmi i capelli, vero?», si preoccupò lui, accarezzando istintivamente la coda di cavallo lungo la spalla.
            Hinata non capiva quello sbigottimento. «Desideravo che tu lo riportassi alla tua ragazza, con i miei ringraziamenti. Siete stati entrambi davvero gentili a preoccuparvi tanto per me».
            «Oh, non c’è di che!», esclamò rincuorato il ragazzo, ripiegando il vestito e sistemandolo nella borsa di plastica, per poi riconsegnarlo a lei. «Se solo fossi fidanzato!», sorrise.
            «M-ma Sasuke… a-allora l’abito», cominciò a balbettare confusamente.
            «Tienilo pure, consideralo un regalo», la rassicurò lui.
            Hinata non sapeva che dire, né dove guardare. Una parte di lei era lusingata per quel dono inaspettato da parte del suo compagno di classe, ma l’altra pensava a quanto fosse imbarazzante; non sapeva spiegarsi il motivo di tanta premura… o meglio, riusciva a comprenderla solo alla luce di ciò che sarebbe di sicuro successo, senza l’arrivo di Itachi.
            Rabbrividì e scosse il capo, chiudendo gli occhi: Sasuke non era certo il tipo che l’avrebbe comprata con dei regali pur di portarla a letto. Diamine, come poteva solo passarle per la testa, un’idea del genere? L’Uchiha non l’avrebbe mai fatto! Anche perché lei non voleva credere alla fama che l’aveva preceduto, alle decine di ragazze sedotte e abbandonate… insomma, una come lei non poteva certamente interessargli. Eppure, i fatti appena accaduti dimostravano chiaramente che sarebbe bastato poco perché ciò fosse successo davvero. Non era in grado di capire cosa volesse da lei, né cosa il suo cuore si aspettasse da lui.
           «Mi ha detto che eri fidanzato», spiegò la Hyuga, cercando di cacciare quelle riflessioni.
           «Non ho una ragazza… anche se nutro un debole, per quelle con i capelli blu».
 
Nella mente gli tornò di sfuggita Konan, quella giovane per cui aveva perso il senno qualche mese prima. Frequentavano la stessa facoltà, la incrociava spesso a lezione e nella pausa pranzo, e rimaneva ore intere a fissarla, fingendo, di tanto in tanto, di prendere appunti. Si era sorpreso di sé per aver persino provato a ritrarla, qualche volta, con scarsi risultati: per quanto fosse oggettivamente bravo in campo artistico, nessun disegno era abbastanza fedele alla bellezza della modella. Konan era come di un altro pianeta, con quegli occhi color ambra calda e il sorriso sfuggente. Solo una volta era riuscito a vedere i suoi splendidi denti bianchi, perfettamente allineati, come perle in una collana, e ne era rimasto folgorato.
            Un giorno aveva preso coraggio – incredibile come un tipo così diretto avesse avuto bisogno di raccogliere le proprie forze – e le aveva proposto di bere un caffè insieme, al bar dell’università. Lei aveva inarcato un sopracciglio e con tono freddo aveva declinato l’invito, spiazzandolo totalmente e lasciandolo con un palmo di naso. Non era rimasto male per essere stato rifiutato, ma per il semplice “no” con cui l’aveva liquidato; sarebbe stata una delusione meno cocente, se lei avesse almeno posseduto la premura di addurre un motivo della sua scelta. “No, non mi piaci”, oppure “Non ci tengo a conoscerti”, “Mi stai sulle palle”, o, il colpo di grazia, “Esco già con Yahiko”. Gli sarebbe bastato poco, per sentirsi meglio.
 
Sbatté le palpebre e osservò divertito Hinata, che si attorcigliava una ciocca di capelli, con aria imbarazzata e la schiena rigida. Come mettevano in soggezione gli Uchiha, nessuno ci riusciva!
            «Sta’ tranquilla, tu sei troppo piccola, per me… senza contare che hai altri occhi, puntati addosso», sorrise serenamente.
            Lei si rianimò, incrementando il rossore sul viso. Che Naruto gli avesse confessato qualcosa? Si sentiva patetica a pensarlo, ma aveva davvero bisogno di credere che quello che era successo con Sasuke fosse irrilevante, pur intuendo, però, quanto fosse più facile che una tale confessione fosse provenuta dall’otouto che da un semplice amico, alle orecchie di Itachi.
            «Da-davvero?», balbettò con gli occhi lucidi. Aveva la necessità di sentire quel nome, per far ricomparire nella mente le immagini della chioma bionda e del sorriso rassicurante dell’Uzumaki.
            Itachi scoppiò in una risata fragorosa. «L’incanto di un diamante non è direttamente proporzionale al suo acume. Ti facevo più sveglia, Hinata».
            Troncò lì la discussione, scendendo dall’auto. Si stiracchiò e fece scrocchiare la schiena, osservando villa Hyuga. Intravide Neji, nel buio del giardino illuminato dai faretti, intento ad allenarsi con dei sacchi appesi agli alberi e dei fantocci conficcati nelle zolle di terra. Quel ragazzo non sarebbe mai cambiato; sembrava metterci tutta la grinta di chi punta alla cintura nera, se non che lui l’aveva già ottenuta da anni, insieme con il maggiore degli Uchiha.
 
Lo Hyuga non si fermò nemmeno quando Itachi gli si fece vicino, continuando imperterrito a sferrare calci e pugni ai sacconi. Era incredibilmente veloce e più centrava il bersaglio, più il suo sorriso si ampliava, tremendamente sinistro. Le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte e avevano fatto incollare delle ciocche di capelli alle guance indicavano che si stava allenando da ore, ma non sembrava per niente fiaccato; probabilmente sarebbe andato avanti anche durante la cena, saltando deliberatamente il pasto.
            «Dovresti rientrare, o finirai per ammalarti», si preoccupò la cugina.
            Neji trasformò quel sorriso in un ghigno ancora più aspro. «Adesso te la fai anche con il fratello maggiore?», urlò in sua direzione.
            Hinata si allontanò verso la porta, imbarazzata, ma riuscì comunque a cogliere la risposta di Itachi:
            «Lasciala in pace, l’ho solo riaccompagnata».
            Le era comparso un sorriso sul volto, quando aveva sentito quelle parole, e non aveva potuto evitare di pensare a quanto i due Uchiha fossero simili nell’affrontare senza alcun remore suo cugino, per quanto, dietro le labbra sottili, fossero racchiusi e stretti fra i denti due spiriti diversi.
            «Nee-chan, mi aiuti con i compiti?», domandò con tono implorante Hanabi, dalla finestra della cucina.
            Hinata si riscosse e annuì alla sorella, salutando e ringraziando l’Uchiha. Rientrò e lo lasciò da solo in giardino.
 
Neji continuava a tirare pugni ai fantocci, ignorando la presenza del moro. Aveva mormorato uno spregevole “patetica” in direzione della ragazza, non appena chiuse la porta di casa.
            «Perché sei così stronzo con lei?», domandò l’altro, infastidito.
            «Non posso farci niente, è la mia natura». Onde sottolineare il concetto, tirò uno spietato calcio al collo del manichino, staccandogli la testa. La osservò rotolare sull’erba, finché non sparì nella zona d’ombra, ansimando soddisfatto e asciugandosi con il dorso della mano la fronte madida.
            «Tua cugina è carina, non merita un tale trattamento».
            «Cos’è, hai preso una cotta pure tu, per lei?», sbottò incredulo e disgustato.
            Itachi scoppiò a ridere. «No, è tutta di Sasuke».
            Neji strinse i denti e sferrò un ferreo pugno al sacco che penzolava a lato di Itachi, facendo piovere addosso all’ex compagno di allenamenti una cascata di foglie gialle. Non poteva sopportare che Sasuke fosse interessato alla cugina perché non riusciva proprio reggere la sua arroganza e il modo in cui lo sfidava apertamente, anche solo con uno sguardo.
            Sfogato in tal modo il malessere, si accovacciò, appoggiando la schiena contro il tronco dell’albero. Adesso la stanchezza cominciava a farsi pressante, le mani gli tremavano leggermente, arrossate, ma non avrebbe comunque smesso di tirare calci prima delle nove. L’aveva promesso a se stesso, senza contare che lottare lo faceva sentire decisamente vivo.
            Alzò il capo e concesse un sorriso tirato a Itachi.
           «Preferirei mille volte che fosse uno come te, ad esserne innamorato. Le ci vuole qualcuno che non la faccia crollare alla prima crisi, ma che la protegga e sostenga. Suo padre ha contribuito a rafforzarla, ma anche a spezzarla… e io non sono stato da meno, anzi. Sono un vero bastardo, con lei».
           Non capiva nemmeno perché si stesse confidando con un amico che non vedeva da tempo; forse ci riusciva perché Itachi era davvero tale, era suo amico. In passato, perlomeno, erano davvero stati affiatati, nonostante i cinque anni che li dividevano: Neji, già profondamente maturo, a dispetto della verde età, aveva preso l’Uchiha come modello e l’altro aveva facilmente stretto amicizia con quel ragazzino intelligente e coriaceo.
           «E perché lo fai, pur avendola a cuore?», domandò il ventitreenne, accovacciandoglisi affianco.
           Ecco, aveva letto nel suo pensiero. Perché non se n’era stato zitto?
           Neji abbassò il capo e cercò una risposta, più per se stesso, che per il proprio interlocutore, ma il responso non giunse. Dubitò che ci fosse davvero un motivo, dietro il proprio freddo atteggiamento; come aveva già detto, era la sua natura. Poteva essere cattiveria gratuita, proprio come non poteva esserlo.
           «Perché è sincera», ammise infine.
           «E con questo?». Quella ragione l’aveva sorpreso.
           «Voglio che lei mi detesti, che non si nasconda dietro sorrisi finti come gli altri, che hanno paura di guardarmi negli occhi».
           Itachi scosse la testa, ridendo sottovoce. «Non fai paura, Neji, ma vivi nella convinzione che tu intimorisca le persone».
           Il diciottenne decise di non dare ascolto a quelle parole, per quanto sagge. Non erano veritiere, a suo parere; o meglio, erano attendibili solo se abbinate al nome Uchiha: lui e Sasuke sembravano essere i soli a non temerlo. Un discorso diverso meritava Hinata che, seppur vessata dal suo caratteraccio, non si era mai arresa nel tentativo di restargli accanto. Non aveva mai capito come lei non fosse spaventata dai suoi modi bruschi e cercasse sempre e comunque di alleviare – inutilmente – i suoi tormenti interiori. Lo infastidiva, gli metteva i nervi quel buonismo gratuito… era come se davvero lui le facesse pietà, quando era lei a suscitare tale sentimento negli altri. Era una situazione intollerabile.
          «Voglio che diventi forte, una vera Hyuga. Desidero che arrivi a detestarmi: solo allora sarà invulnerabile», aggiunse, con sguardo ardito.
          «Allora aspetta e spera. Non hai proprio capito com’è fatta!», rise Itachi, rialzandosi.
          Il giovane non aveva tutti i torti: Neji non conosceva sua cugina che per il nome e quelle piccole consuetudini tutte sue, come il capo costantemente abbassato, le guance arrossate, gli occhi nascosti o bagnati da lacrime, il tono sommesso e remissivo, caratterizzato da parole balbettate… oltre queste peculiarità, non sapeva altro. Viveva da diciotto anni con una sconosciuta, era imparentato con un fantasma di cui ignorava tutto, dal numero di scarpe alla band preferita. Era paradossale, ma era la verità. Itachi gli aveva incredibilmente aperto gli occhi su un dato di fatto, e lui, inconsapevolmente, in cuor suo, se ne dolse.
            «Non glielo dirò mai, ma le sono grato. Sono grato a lei per il fatto di considerarmi ancora un essere umano. Mi guarda in faccia e dice ciò che pensa, esprime una forma… di affetto. È debole, ma…».
            «Allora non hai capito! Ha più forza di tutti voi», lo interruppe l’Uchiha, risistemando la testa decapitata al fantoccio di foglie secche. Quando finì, si voltò verso Neji, che si era intanto rialzato, e gli sorrise, accingendosi ad andarsene. «Continua a perseverare nei tuoi contorti metodi da Hyuga; non ti chiedo di diventare il suo migliore amico, ma di proteggerla e accettare le sue decisioni. Questo è ciò che vuole anche Sasuke… perché non dovresti auspicarlo pure tu?».
            «Non mi piace per niente, tuo fratello», ribatté l’altro, digrignando i denti.
            Itachi non fece una piega. «Lo so. A volte è duro, ha lo stesso carattere di merda di mio padre, ma resta pur sempre un Uchiha: quando ama, lo fa con tutta l’anima. Fatto sta che lui non è mai stato innamorato di nessuna ragazza in maniera così segreta, rapida e intensa. Non ha mai perso la testa come ora per Hinata. Farebbe di tutto, per lei, anche rinunciare ad averla solo per sé e consegnarla a colui che le piace… a Naruto».
            «Naruto?!», esclamò Neji, stupefatto.
            «Kami del cielo, non dirmi che non te ne sei accorto!», sbottò incredulo l’altro, agitando le mani. «Oh, Hyuga, allora avevo proprio sopravvalutato il vostro intelletto!». Perché cavolo non si era iscritto a Psicologia?
 
Neji osservò Itachi allontanarsi, con gli occhi sbarrati, in totale silenzio. Non avrebbe ripreso l’allenamento, al diavolo la promessa fatta a se stesso! Hinata era innamorata di quella testa quadra di Naruto, come diamine non se n’era mai accorto, prima di allora?
            Non sapeva ancora se gioirne o meno, considerando che quella notizia allontanava improvvisamente lo spettro di Sasuke dall’orizzonte. A dir la verità, non era nemmeno sicuro che comunicare tutto a Hiashi fosse una buona mossa; aveva mostrato segnali di umanità verso la figlia, e, per quanto fedele ai propri principî, non desiderava che quello sforzo dello zio nel riagganciare i fili interrotti con Hinata finisse al vento.
            A malincuore, decise che avrebbe tenuto quella confessione per sé.
 
***
 
Aveva preso la linea da cinque minuti, ma già allo scoccare del trentesimo secondo, si era rammaricato di quella decisione. Il fiume di parole che gli aveva travolto l’orecchio non sembrava dar segno di cedimento, travolgendo i suoi pensieri – e la sua pazienza. Aveva fatto vagare lo sguardo dagli articoli di cancelleria, ordinatamente riposti sul tavolo, alla finestra, soffermandosi a osservare la macchina del padre, appena rincasato. In fondo al viottolo aveva intravisto anche i fari dell’utilitaria della madre e intuì che di lì a venti minuti avrebbero cenato tutti insieme. Sospirò e decise di interrompere lo sproloquio dell’interlocutore, sedendosi alla scrivania.
            «Sono contento per te». Cercò un modo cordiale per troncare il discorso, ma era inutile, già lo sapeva.
            «Non puoi capire! È arancione! Ha azzeccato il colore già con il pacco, ma non mi sarei mai aspettato che…».
            «Senti, Naruto: non me ne frega un cazzo della tuta che ti ha regalato Sakura!», sbottò furioso, dopo l’ennesimo tono d’entusiasmo dell’amico.
            «Oh, sei solo geloso perché nessuna ragazza ti ha mai donato qualcosa del genere», lo schernì il biondo, con inflessione infantile.
            «Se vuoi proprio saperlo, tante mi hanno elargito qualcosa di più prezioso di uno stupido completo sportivo», sorrise maliziosamente, scarabocchiando il foglio che si trovava sottomano.
            «Oh, certo! Il signorino ricco avrà ricevuto orologi d’oro e vestiti firmati», ribeccò, acuendo l’intonazione scherzosamente puerile.
            Sasuke si batté la mano sulla fronte, scuotendo la testa. «Sei il solito deficiente», borbottò sottovoce. Ma, in fondo, gli voleva bene anche per questo. Naruto era ancora un bambino, spontaneo e ingenuo, proprio come lei.
            «E sentiamo, se non della mia tuta, di cosa vorresti parlare?».
            Sasuke si lasciò sfuggire la penna dalle dita e inspirò profondamente. Con Naruto non reggevano i giri di parole, bisognava andare al sodo.
            «Cosa pensi di Hinata?».
            «Che c’entra Hinata?».
            «Sta’ zitto e rispondi!».
            «Ok, ma prima spiegami come posso rispondere e stare zitto, allo stesso tempo», lo prese in giro l’altro.
            «Testa quadra!», sbraitò Sasuke. «Cosa pensi di lei?», ripeté. Voleva conoscere la risposta a quella domanda che non trovava esiti in lui. O, forse, troppi.
            «Perché me lo chiedi? È gentile, carina… insomma, lo sai! Sarà lo stesso che pensate tu e tutti gli altri. Come dovrei mai considerarla? È Hinata, lei è così evanescente…».
            «… Ma rimarchevole», completò automaticamente il moro, seguendo il filo dei propri pensieri.
 
Lei era diversa, non assomigliava a nessuna delle altre ragazze, era un campo nuovo e lui era inaspettatamente inesperto. Per certi versi, la situazione poteva apparire a suo vantaggio: era timida, ingenua, indifesa… una preda facile. Ma aveva capito che era proprio questo, il suo pregio: il candore, la purezza celestiale che si sopraelevava al fango del mondo, a quella stessa melma di cui lui era costituito. L’aveva sfiorata con le dita e con le labbra e quella sensazione era ancora fresca sui polpastrelli e nelle riflessioni; non avrebbe mai dovuto farlo, se ne pentiva amaramente, perché il pensiero della paura, negli occhi di Hinata, lo traghettava nel dispiacere. Aveva rovinato tutto, nel giro di qualche minuto. Aveva tagliato un ponte fragile edificatosi in una manciata di giorni, con sguardi sfuggenti, ma carichi di sentimento, sorrisi appena accennati, ma autentici… aveva demolito ogni cosa. Se non era certo di ciò che provava, a questo punto, era però sicuro che il tempo non si sarebbe mai riavvolto, che non sarebbe mai potuto tornare a quell’istante in cui Hinata aveva chiuso gli occhi e abbassato le proprie difese per lasciarsi sfiorare. Era sicuro di aver travisato tutto, ma non riusciva comunque a pentirsene. Bramava ancora i suoi occhi di perla e sentiva l’impellente desiderio di assaporare le sue labbra, ora.
 
Si riscosse improvvisamente, sentendo un rumore dall’altro capo del telefono: Naruto stava ancora aprendo il pacco di Sakura, probabilmente con trentadue denti sfavillanti sfoderati sul volto.
            «Secondo me è cotta!», urlò il biondo.
            «Cosa diavolo stai dicendo?», domandò Sasuke, imbarazzato. Che l’Uzumaki, a dispetto dell’ormai proverbiale ottusità che lo contraddistingueva, fosse riuscito a leggere qualcosa che lui non era riuscito a cogliere? Per lui, Hinata era…
            «Ma Sakura, no? È cotta di me, è chiaro!», trillò entusiasta.
            L’Uchiha si passò per l’ennesima volta la mano sulla fronte, sospirando. Quel tonto stava ancora pensando all’Haruno, per fortuna. Perché era fortuna, vero? La fissazione di Naruto era un segnale che gli indicava quale fosse la strada da percorre, di lì in avanti, giusto? Il batticuore non gli parve ancora un riscontro soddisfacente.
            «Insomma, a te piace Hinata, sì o no?». Dritto al punto.
            Sentì Naruto tossire imbarazzato, o, forse, stupefatto. Certo, come altro doveva apparirgli quella domanda, se non fuori luogo? Perché si stava fissando tanto sulla Hyuga? Era sul punto di fare retro-front, rimangiarsi il quesito e chiudere la chiamata, dando la colpa di quel divagare insensato alla stanchezza, ma la voce dell’amico impedì al moro di mormorare una sola sillaba.
            «No. Non nel senso che intendi tu, Sasuke». Dov’erano finiti il consueto tono solare, l’allegria, la voglia di scherzare? Naruto si era fatto improvvisamente serio e l’Uchiha tremò.
            «Pe-perché?», balbettò. Non gli bastava: doveva esserci un motivo.
            «Non c’è altro che pura simpatia, da parte mia, verso di lei. È una ragazza dolce, gentile, piacevole… ma non ne sono innamorato». “A tua differenza”, avrebbe voluto aggiungere, con un sorriso benevolo sulle labbra.
            Sasuke strinse i denti, picchiando il pugno sul tavolo. Era ciò che desiderava sentirsi dire, era la speranza che aveva nutrito inconsapevolmente – o, forse, fin troppo apertamente – fino a quel momento, eppure non era giusto! Non doveva andare così. Non era tanto egoista da voler stracciare il sogno della Hyuga, soprattutto dopo la paura che aveva provocato in lei, poco prima. L’aveva sconvolta, sapeva di aver perso in qualche modo la sua fiducia, e Naruto era l’unico che avrebbe potuto renderla serena.
            «Cazzo, Hinata è innamorata di te, Naruto! Possibile che tu non te ne sia ancora accorto?», sbottò con un velo di rabbia negli occhi. “È innamorata di te, e non potrà mai esserlo di me!”, urlava la sua voce interiore, con rancore. Non avrebbe mai immaginato di poter invidiare quella testa quadra, un giorno.
            «Non posso farci niente, Sasuke. Mi dispiace per lei, davvero, ma non credo di… insomma, lei… non è Sakura. Ha senza dubbio mille qualità ed è bellissima, ma non provo niente di tanto profondo, per Hinata. Non voglio spezzarle il cuore… non è che puoi aiutarmi a farle cambiare idea?».
           Sasuke chiuse la chiamata, senza degnare l’amico di un saluto. Non sarebbe mai riuscito ad aiutarlo, per quanto il loro legame fosse fraterno: non sarebbe mai stato in grado di deludere Hinata, né, a questo punto, di tradire se stesso.
 
Spalancò la porta della camera e si diresse al bagno. Doveva sciacquarsi la faccia e scendere a cenare, seppur controvoglia; non era il caso di creare anche problemi in famiglia.
          «E tu, Sasuke?», domandò placidamente Itachi, appoggiato con la schiena alla parete contigua alla stanza da letto del fratello. Lo fissava con la solita espressione profonda e affettuosa, le braccia incrociate al petto e quei ciuffi ribelli sfuggiti dalla coda a incorniciargli il viso.
          «Da quanto sei lì ad origliare?». Non ne era nemmeno troppo sorpreso o infastidito.
         «Abbastanza da aver sentito ciò che hai urlato a Naruto», ammise sorridendo, ricomponendosi. «E tu – riprese – ne sei innamorato?».
         «Non sono affari tuoi», lo liquidò, imboccando ancora la direzione della toilette.
         «Così come non sono affari tuoi se io abbia una ragazza o no», urlò l’aniki, trattenendo a stento una risata.
         «Cos’hai detto?», sgranò gli occhi l’altro, girandosi di scatto.
         Itachi gli diede le spalle, dirigendosi verso la scalinata che lo avrebbe portato al piano inferiore. «Niente – asserì – solo che dovresti inventarti scuse migliori, la prossima volta che intendi regalare un abito alla ragazza che ti piace», e scese con calma i primi gradini.
        Colpito ed affondato. Sì, si sarebbe dovuto iscrivere a Psicologia. Magari l’avrebbe fatto, dopo l’imminente laurea in Ingegneria, sempre più vicina.
 
Due famiglie, due storie, due colori di occhi contraddistintivi. Due tavole imbandite, due capifamiglia rispettevoli, due adolescenti solo apparentemente presenti, fra i commensali. Due scenari diversi, ma due silenzi simili, sulle labbra di Sasuke e Hinata. Infiniti dubbi, a scuotere i loro cuori, scalpitanti alla stessa velocità.
            Una sola parola: “domani”. Sì, domani ne avrebbero discusso, con o senza parole.








Come potevo lasciare a Itachi un ruolo marginale, da semplice comparsa? Impossibile! Ecco che ha fatto il suo ingresso da bravo psicologo-intelligenza superiore, cercando di chiarire le idee ai tre protagonisti... c'è riuscito? Mah, vedremo! :D 
Quanto vorrei un fratello così... anzi no, non sono per gli incesti! Oook, basta parlare del bell'Itachi, o facciamo notte! XD

Questo è stato un capitolo statico, ma nel prossimo ci sarà un po' più azione, promesso... ci sarà Sasuke e ci sarà anche Hinata... sì, insomma, saranno vicini e... *si tappa la bocca*
Vi ringrazio di cuore, come sempre, per il preziosissimo sostegno! Grazie per le vostre parole, i click nelle seguite/ricordate/preferite... davvero, siete gentilissimi! 
Non vorrei apparire impertinente, ma... potrei chiedere a qualche lettore "nell'ombra" di farsi avanti? Oh sono dannatamente curiosa di conoscervi, lo ammetto!
Mi metto già all'opera con il prossimo capitolo e farò il possibile per aggiornare presto :) Perdonate la lunga attesa, spero ne sia valsa la pena (anche un briciolo, anche un atomo). Non avrei immaginato di arrivare al capitolo 11 di questa storia, e, addirittura, superarlo indenne XD (beh, più o meno). Lo devo a voi! 
Grazie di nuovo! ;D
Baci ❤

Ophelia

 

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Capitolo 12
*** Contatto ***


12. Contatto

 
 
Non era abituata a camminare per il viale in sua compagnia e, mentre si addentrava nella parte del marciapiede esposta al timido sole mattutino, onde riscaldarsi e assorbirne la consueta dose di luce e positività, capì che non lo sarebbe mai stata. Non si sarebbe mai assuefatta a percorrere un tratto di strada con suo cugino, né in auto, né tantomeno a piedi. Eppure sorrise, non appena un raggio di sole le colpì gli occhi. Era tutto così splendidamente normale! Tutto come sarebbe sempre dovuto essere.
            Neji osservava la strada con la solita espressione altera ed indifferente, in cuor suo scocciato di non essere comodamente seduto nella sua vettura. Non capiva ancora perché avesse proposto a Hinata di recarsi a scuola insieme, quel mattino; che Shimoko l’avesse drogato, su richiesta dei suoi genitori?
            «È proprio una bella giornata, nonostante il gelo». L’impacciato tentativo di intavolare uno straccio di conversazione si era violentemente schiantato contro l’adamantina impassibilità di Neji. Non era il tipo da chiacchiere, figuriamoci a prima mattina e sul meteo, poi! Molto meglio un pugno nello stomaco, piuttosto.
            «Mmph», sbuffò seccato, guardando da un’altra parte.
            Hinata si era fatta piccola piccola, stringendosi nelle spalle e cominciando a far scontrare fra loro le punte degli indici.
            «Coraggio, spara!», sbottò il cugino, con tono spazientito.
            «Ma… cosa?».
            «Quando cominci a torturarti le mani, sei sul punto di esplodere per chiedere qualcosa, perciò parla!».
            L’aveva notato? Aveva colto quella sua caratteristica maniera di sopprimere curiosità e imbarazzo? Era rimasta quasi sconvolta da quella rivelazione, eppure non riusciva a non sorridere.
            «E-ecco, mi domandavo perché tu oggi non sia andato in auto. Non che volessi un passaggio…», si affrettò a precisare lei.
            Guardò Neji di sottecchi e il rimorso per aver chiesto qualcosa di troppo personale e a lei estraneo la soffocò. Voleva tornare indietro, proprio come aveva desiderato troppe volte riavvolgere il nastro del tempo, quella notte, per ritornare al pomeriggio precedente.
 
Il ricordo di Sasuke era ancora una volta prevalso sul presente. Era stato tutto sbagliato, non avrebbe mai dovuto cedere a quella… lusinga? Poteva chiamarla così, senza peccare di presunzione, da parte sua?
            Ripensò ai leggeri baci sul collo, le mani calde ed esperte del moro sulla giugulare, quei benedetti bottoncini sfilati con una velocità disumana, il fiato caldo e sensuale all’orecchio…
            È un esperimento.
           Ed era riuscita, quella prova di laboratorio, quel test? Aveva dimostrato qualcosa, illustrato qualche legge chimica o legame molecolare? No, ma aveva ostentato fin troppo riguardo certe leggi umane e legami interpersonali.
           Ora sapeva che l’unico imperativo da seguire era quello che, nel petto, le urlava di non andare dove la portava il cuore, sia che fosse stato nella luce, sia nelle tenebre. Né Naruto, né tantomeno Sasuke erano la normalità cui aspirava aderire con tutta se stessa. Doveva tornare in sé, a ciò che era stata fino a pochi giorni prima. Anzi, no; doveva essere ciò che non era mai stata: la perfezione, il modello cui ispirarsi, proprio come Neji.
           Osservò il cugino, al suo fianco: la fronte baciata dal sole, gli occhi dallo sguardo fiero e affilato, i lisci capelli scuri che si libravano nell’aria… Il prototipo della casata Hyuga, la persona cui più al mondo sarebbe voluta somigliare, dopo sua madre. Due ideali totalmente opposti, a ben vedere, ma ugualmente fonte d'ispirazione, per lei.
            Troppo tardi.
           Sasuke aveva ragione, era davvero troppo tardi e lei era caduta con tutte le scarpe in qualcosa di più grande di lei. 
 
«Karin mi ha invitato da lei, mi ha anche offerto un passaggio, così non ho preso l’auto».
            Le parole del ragazzo la riportarono alla realtà, ma, allo stesso tempo, la fecero trasalire: non si aspettava davvero che potesse risponderle. Gliene fu grata, perché lo stupore riuscì a ottenebrare i pensieri ambientati a villa Uchiha.
            «È una bella ragazza, molto decisa…», sorrise lei, sinceramente felice.
            C’era qualcosa che non la convinceva, in quella giovane che non le aveva mai rivolto la parola nemmeno in classe, ma aveva avuto modo di osservare la sua vicinanza al cugino, durante la festa di Naruto, e i due sembravano essere molto intimi. Se Neji era contento, lei era altrettanto.
            Hinata aveva voglia di distrarsi, di parlare di cose normali, scontate per una diciottenne. Si rese conto che lei non era mai stata come le altre, che certe chiacchiere non l’avevano mi toccata… forse era ora di cominciare. Forse, ma non in quel momento, e non con Neji, soprattutto.
            «Non sto cercando la tua approvazione», tuonò lui, infastidito.
            «Naturalmente… scusami. Non era mia intenzione».
            Il ragazzo la osservò e alzò poi gli occhi al cielo. Fin quando avrebbe mantenuto quell’insostenibile aria candida? Ci teneva ad essere rispettato, ma non avrebbe continuato a sopportare di doversi relazionare a un fantasma. Nelle vene dei due scorreva pressappoco lo stesso sangue, erano figli addirittura di due gemelli, eppure lei non aveva ereditato per niente il gene autoritario della loro casata.
            Sospirò sonoramente, tornando a fissare la strada; era Hinata, prima che una Hyuga, in fin dei conti. La sua innocenza, forse, non era nemmeno poi troppo una condanna, nonostante tutto: mai sarebbe andato d’accordo con un cugino dispotico quanto lui. Inoltre, non sarebbe mai riuscito ad immaginare un carattere diverso, in quel corpo. 
            «Non farne parola con nessuno», si era limitato a mormorare.
            «Co-come?», balbettò.
            «Sono affari miei, non voglio che lo venga a sapere il mondo intero. Non devono esserne a conoscenza né la mia famiglia, lo zio e Hanabi, né gli amici e il tuo Sasuke», dichiarò severamente.
            Era un segreto? Neji le aveva appena confidato un segreto? La ragazza non riusciva a credere alle proprie orecchie, presa com’era a sorridere. Cos’avevano mai condiviso, quei due, oltre alla vaga somiglianza fisica? Ora c’era una piccola banalità, una confessione del cugino che solo lei conosceva, a legarli, e la felicità trottava felice accanto all’orgoglio, nel suo cuore.
            Con le guance rosse e una indescrivibile leggerezza nell’animo, annuì. «Te lo prometto, Neji».
            L’aveva scorto, finalmente. Ne era sicura: per quanto fugace e sottile, sul volto del consanguineo era guizzato un sorriso. Cos’era successo, quella notte? Perché, tutt’a un tratto, aveva potuto godere di un privilegio tanto sperato? Non lo sapeva, né possedeva la facoltà di spiegarselo. Poteva solo sorridere, sorridere sinceramente, nella maniera più autentica e spontanea del mondo.
            «… Anche se ho saputo che a te piace Naruto», aggiunse il cugino, improvvisamente.
            Forse era stata troppo avventata, a pensarlo. Non era mutato granché, Neji riusciva comunque a stenderla in tutta tranquillità, con una semplice parola.
            Hinata chinò il viso, smorzando il sorriso. Quel nome era l’ultimo che avrebbe voluto sentire, perché la trascinava per i capelli nel baratro del disprezzo verso se stessa. Aveva imbrattato il proprio affetto verso l’Uzumaki, nel tardo pomeriggio precedente, scalzandolo velocemente dai pensieri, grazie alle sapienti mani del suo migliore amico. Aveva dimenticato il suo personalissimo chiodo fisso, quello sempre sorridente e con gli occhi più azzurri di un cielo primaverile, sostituendo momentaneamente un’ossessione con due iridi più nere del carbone.
           “Passione”… ancora quella parola, a vagarle nella mente! Perché il moro era riuscito a insinuarsi irrimediabilmente nelle sinapsi nervose, annebbiandole ogni altra riflessione possibile? Aveva offuscato tutto, ponendo se stesso al centro, senza ritegno, e lei non ce la faceva nemmeno a prendersela con lui!
            Perché non le era dispiaciuto affatto, ecco la verità.
            «Da un estremo all’altro, eh?», inferì Neji. Socchiuse gli occhi e si mise le mani in tasca, assumendo la consueta espressione impassibile. «Sai, ancora non mi spiego cosa tu abbia fatto in bagno con Sasuke, a questo punto. Non ti ritenevo una ragazza tanto alla leggera… con l’Uchiha, poi!».
            La giovane si bloccò di colpo, sgranando gli occhi. «Cosa?!». L’incredulità era un leggero sussurro.
           Il parente si voltò verso di lei, con sufficienza. «Hai capito perfettamente: sei entrata nella toilette dei ragazzi, a scuola, insieme con Sasuke, sabato scorso. Il professore vi aveva chiesto di fermarvi per la punizione e voi avete visto bene d'intrattenervi in bagno. Complimenti, bella caduta di stile!». Il ghigno che gli era comparso sul viso era più crudele delle menzogne scappategli di bocca. Ancora aveva in mente le fotografie che Karin gli aveva mostrato e la vena alla tempia pulsava freneticamente. Come poteva essere stata tanto stupida da concedersi a quel poco di buono? La credeva ingenua, ma non fino a quel punto!
          «E invece no, non capisco. Neji, io non sono mai entrata in bagno con Sasuke, come pensi che possa…».
          Si era bloccata, ricordando l’unica volta in cui aveva messo piede nei gabinetti dei maschi, e aveva tremato al ricordo di suo cugino macchiato di sangue. Sasuke era violento, inflessibile, quando voleva. Che fosse uno spunto in più per evitarlo, quella discussione?
          «Solo una volta sono entrata nel bagno degli uomini, ed è stato quel giorno», continuò lei, stavolta guardandolo negli occhi. Il tono di voce era chiaro, deciso come non mai: non aveva paura di Neji, né del suo giudizio, dal momento che era pienamente innocente.
           Lo fissò e lesse sul suo volto la luminosa consapevolezza di chi ha scorto la verità: lui ricordava perfettamente il sostegno della cugina, le sue lacrime, lo spavento che l’aveva colta e la preoccupazione che si era dipinta sul suo volto, nel vederlo pestato a sangue.
          Hinata non mentiva, non era mai stata in grado di farlo, e non avrebbe raccontato una bugia nemmeno per togliersi dai guai. Se sceglieva di enunciare frottole, era sempre a fin di bene, per proteggere qualcuno, non certo per se stessa, dal momento che si detestava con tutte le proprie forze. Neji lo sapeva bene, ma non riusciva a comprendere, allora, perché mai Karin avesse insistito tanto per mostrargli quelle presunte prove di colpevolezza.
          Poco male, avrebbe fatto luce nel pomeriggio.
          «Quindi ti piace Naruto», concluse lui, più sereno, ritornando a camminare e lasciandosela alle spalle.
          Non era in grado di pronunciare una sola sillaba di protesta, né di affermazione. Era straordinariamente inspiegabile come la sua porzione di coraggio si sapesse eclissare in un batter d’occhio, appena dopo aver fatto fuoco e fiamme. Stavolta la colpa del silenzio, però, non era solo dell’imbarazzo, ma, soprattutto, dei suoi sentimenti. Non si gioca col cuore, non lo si può ingannare, né truccarne i battiti; la verità viene sempre a galla.
         Mosse qualche passo incerto verso il cugino, nel tentativo di raggiungerlo. Non poteva lasciarlo andare e allungare le distanze, ora che sembravano potersi colmare.
         Doveva spiegare, fare chiarezza, anche solo per se stessa. «Veramente non…».
        «Beh, sempre meglio di quel figlio di puttana dell’Uchiha!», la interruppe, quando la sentì al suo fianco.
        Come poteva estinguere con una negazione quel bellissimo sorriso sul volto di Neji, ora che si era finalmente mostrato al sole?
 
***
 
 
Per quanto il suo corpo atletico, perfettamente in forma senza troppi allenamenti e rinunce, dimostrasse il contrario, Sasuke odiava Educazione Fisica. Detestava l’odore pungente di gomma che pervadeva l’aria, in palestra, la puzza di sudore che invadeva le sue narici quando rientrava nello spogliatoio, o gli stupidi scherzi che i compagni di classe – Suigetsu e Naruto, su tutti – giocavano alle spalle del secchione Shikamaru, nascondendogli l’uniforme impeccabilmente stirata, e disapprovava pure l’ardore che il professore metteva in ogni comando.
            Se c’era un aggettivo che lo descriveva, era “esagerato”. Gai Maito era esagerato in tutto ciò che faceva, dalle duecento flessioni di riscaldamento che ordinava di compiere agli allievi, alle dimostrazioni degli esercizi che ben volentieri offriva, onde spiegarne la modalità di realizzazione. Esagerato era il suo tono sovraeccitato quando, ormai sfiancato, urlava di compiere dieci giri della palestra per consolidare la corsa; sproporzionata era la volontà di allenarsi con gli studenti in ogni prova e punire chi non dava il meglio di sé; eccedente era la sua attenzione all’abbigliamento sportivo – rigorosamente verde e giallo-arancione, di tutto punto, dagli scaldamuscoli ai polsini in spugna – e la cura maniacale per quei cespugli ordinati e folti che aveva il coraggio di chiamare “sopracciglia”.
            Una vera macchietta, il Maito, senza dubbio. Così atipico e stravagante da poter plasmare a propria immagine e somiglianza un altro soggetto piuttosto bizzarro, quale Rock Lee.
            Eppure, alle undici e quaranta, in palestra, c’era qualcuno che Sasuke detestava più dello spirito di gioventù del professore: Naruto Uzumaki, il suo miglior amico, nella sgargiante tuta arancione e nera.
            Al diavolo se la scuola riforniva gli studenti anche della tenuta sportiva: lui non se l’era proprio sentita di deludere le aspettative di Sakura. Infischiandosene del protocollo e additando l’esempio di Lee - che indossava abiti simili a quelli del professore, per l’attività fisica - si era presentato in sala con indosso il regalo dell’Haruno.
            «Ti dona molto!», aveva gridato lei, in sua direzione.
            «L’avrei indossata anche se fosse stata un sacco dell’immondizia!», rispose, abbracciandola.
            Sakura gli aveva amichevolmente battuto la mano sulla schiena e sussurrato qualche affettuoso rimprovero all’orecchio, imbarazzata.
            A quella scena, Sasuke non poté evitare di girare il capo verso Hinata: la ragazza stava entrando in palestra, dopo essersi cambiata, accompagnata da Tenten. L’Uchiha scrutò il suo volto, preoccupato: era leggermente arrossato, teneva le palpebre basse e le labbra strette. Probabilmente, se non ci fosse stata l’amica, al suo fianco, sarebbe tornata negli spogliatoi.
            Invece no, riuscì a stupirlo. Hinata strinse i pugni e sorrise, avanzando lentamente. Raggiunse Kiba e si mise a discutere con lui e la castana di chissà quale cosa. Sembrava serena, nonostante tutto. Che non avesse visto bene la scena? O che ciò che era successo a casa sua non l’avesse sconvolta più di tanto? O, al contrario, che l’avesse colpita in maniera così devastante da farle cambiare idea sull’Uzumaki?
            Impossibile anche solo pensarlo, ma ci sperava, perché lui non aveva fatto altro che rigirarsi nelle coperte, quella notte, e ripensare ai suoi occhi, ai suoi sospiri, alla sua pelle diafana. Naruto gli aveva estinto un dubbio, ma non bastava per essere certo di… di aver perso il sonno per lei. Era esagerato? Sì, forse, ma letteralmente non aveva chiuso occhio, pur di rivederla nella mente. Per essere sicuro di potersi permettere anche solo di guardarla, doveva prima avere la certezza che lei avesse le idee chiare. Doveva sapere e voleva esserne al corrente subito.
 
«D’accordo, ragazzi! Allora, oggi ci alleneremo con le prese; in particolare, con quella dell’angelo. Avete presente?», domandò il Maito.
            Nessuna risposta, se non uno sbadiglio collettivo. O quasi.
            «Io sì!», gridò entusiasta Rock Lee, agitando la mano.
            «Per fortuna questo ragazzo solleva la mia considerazione per la 5^F. Forza, figliolo, diamogliene una dimostrazione!».
            Il pupillo non se lo fece ripetere due volte: non appena il professore si stese a terra e alzò le gambe unite, perpendicolari al busto, prese la rincorsa e si slanciò, atterrando perfettamente sulle piante dei piedi di Gai.
            «Eccellente, davvero meritevole! Addirittura senza mani!», esclamò su di giri l’uomo, quando si rimise in piedi.
            «Che cosa?! Noi dovremmo fare questo? Lei è pazzo, se lo può scordare!», urlò incredula Tenten. Non era certo una con i peli sulla lingua, ma nutriva sempre rispetto per i docenti degni di tale nome. Beh, il Maito non rientrava sicuramente nella categoria, a suo parere.
            «Coraggio, voi pappamolle potrete appoggiarvi alle mani tese del compagno ed evitare la rincorsa, se non ve la sentite», concesse l’insegnante, sospirando.
            La classe elevò un lamento indistinto, adeguandosi al proprio destino. Dovevano portare pazienza ancora qualche mese e subire le ultime sadiche disposizioni di quell’uomo vestito di verde, poi sarebbero stati liberi.
            «Sakura, vuoi essere il mio angelo?», gridò Naruto, dal lato opposto della fila in cui si trovava l’Haruno.
            «Niente da fare – s’intromise il professore – Le coppie le decido io, o rischiereste di farvi male. Io e Rock Lee, nel frattempo, sorveglieremo la situazione e ci alleneremo per settimana prossima, con qualche serie di addominali». Aveva adottato un’intonazione quasi suadente, come a sottolineare che quello che toccava il suo studente prediletto era un privilegio, ma non aveva sortito l’effetto sperato: sguardi indifferenti e ancora tanta rassegnazione. 
 
***
 
Si chiedeva se fosse ironia del destino o solo l’irritante volontà del professore, quella che li aveva disposti in coppie tanto male assortite. Non riusciva a credere di trovarsi steso a terra, con le mani di Sakura strette nelle sue e gli occhi verdi, accigliati, puntati sul viso. A ben vedere, era beffardo anche quello scambio di prospettive: lei sopra di lui, quando, l’ultima volta che era entrato in contatto con il suo corpo, era stato il ragazzo a dominare il campo, a condurre il gioco, sovrastandola. Se ci pensava, ancora si sentiva male. Era stato un errore, un sacrificio necessario in vista di una felicità altrui che gli stava a cuore. Peccato che non fosse servito a molto.
            «Direi che ci siamo», mormorò Sasuke, a disagio.
            Lei annuì con aria disgustata, rialzandosi. Ogni volta che lo fissava, non poteva evitare di pensare a quanto fosse stata stupida a cedere nuovamente alle sue lusinghe, domenica; quel maledetto possedeva troppo ascendente su di lei, come su qualsiasi altra ragazza, e non riusciva a capire perché. In fondo era uno stronzo, uno che si trovava un’amichetta diversa con uno schiocco di dita, e che abbandonava irreparabilmente le sue prede dopo aver ottenuto quello che bramava, senza alcuno scrupolo. Uno sporco approfittatore, e lei una sciocca ingenua, incapace di sottrarsi.
            L’osservò con sguardo truce, mentre si era seduto a gambe incrociate e i suoi occhi neri si erano fermati sulla coppia che si trovava alla loro sinistra. Naruto stava cercando di convincere un’imbarazzatissima Hinata a dargli le mani e appoggiare il bacino sulla pianta dei suoi piedi. La Hyuga scuoteva la testa, con le guance rosse, mentre si mordicchiava l’unghia dell’indice, sotto pressione.
            Sasuke sorrise e Sakura provò un misto di meraviglia e disprezzo, nel notare quell’espressione naturale sul suo volto. Non era mai stata capace di farlo sorridere e, per quanto ora non fosse minimamente interessata a lui, non riusciva a rimanere indifferente. Era stato il suo miraggio per tanti anni, proprio come Naruto era quello della ragazza dai capelli blu. Che scherzo del destino: una innamorata del sogno dell’altra, mentre camminavano scambievolmente nella visione onirica dei destinatari del loro amore! Un chiasmo coi fiocchi.
            «Così è lei quella che ha fatto breccia nel tuo cuore di pietra», mormorò l’Haruno, sospirando. Si sedette affianco al corvino e guardò verso l’Uzumaki, riuscendo a stento a trattenere una risata, quando lui aveva colto di sorpresa Hinata e l’aveva stretta per i polsi, obbligandola a chinarsi.
            «Che stai dicendo?».
            «Guarda che a me non la dai a bere!». Si sentiva incredibilmente forte, nonostante il passo falso di due pomeriggi prima: era riuscita a mettere Sasuke all’angolo.
            «Non lo so, ma spero di sì», ammise in tutta sincerità. Era stufo di nascondere l’evidenza e pensò che forse, confessando tutto, sarebbe stato più facile farsene una ragione o abbandonare definitivamente le speranze. Non sapeva ancora cosa provasse per la Hyuga, ma era certo di non essersi mai sentito così, prima d’allora.
            «Dovevo immaginare che non stessi agendo per favorire lei, ma solo te stesso. Per un momento c’ero cascata, sai? Credevo davvero che mi avessi cercata per allontanarmi da Naruto e far avvicinare quei due… Ma sei Sasuke Uchiha, ti prendi ciò che vuoi senza alcuna pietà». Il sorriso tirato sul suo volto era una smorfia disgustata che non risparmiava nemmeno se stessa. L’aveva abbindolata.
            «Ti sbagli. Io desidero solo che lei sia felice».
            «Perché t’interessa tanto?», chiese Sakura, continuando a gustarsi la scena davanti ai suoi occhi: il biondo aveva letteralmente trascinato Hinata verso di lui, affondandole le piante dei piedi nello stomaco, e la poverina aveva lanciato un sommesso grido di dolore, al contatto. Naruto era così: un bambino che, pur di primeggiare sugli altri, si spazientiva e, anche con un sorriso, era in grado di calpestare le tue emozioni. Non lo faceva con cattiveria, era solo la sua natura esuberante.
            L’aveva visto lanciare occhi di sfida verso Kiba e Neji, ancora indaffarati a cercare l’equilibrio, e aveva ridacchiato, vantandosi di aver battuto sul tempo l’Inuzuka.
            «Perché a te interessa Naruto?», le chiese improvvisamente Sasuke, senza nemmeno girarsi a guardarla.
Poteva benissimo immaginare lo stupore che accompagnava il silenzio della ragazza dai capelli rosa, mentre cercava di trovare una spiegazione logica e fornirgli una soluzione valida. I secondi passavano lentamente, senza che giungessero parole dalle labbra schiuse e tremanti dell’Haruno.
            «Ecco, è esattamente lo stesso motivo per cui sono attratto da Hinata», concluse con un sorriso lieve.
 
***
 
«Stai bene?», le domandò Naruto, fissandola con aria preoccupata.
            La ragazza si massaggiava lentamente il punto esatto in cui lui le aveva piantato i piedi per sollevarla a mezz’aria, cercando di sorridere. Non era un dolore insopportabile, sarebbe sicuramente passato nel giro di qualche minuto, eppure era sconvolta: lui era andato oltre il suo rifiuto di svolgere l’allenamento.
            Che cosa stupida, soffermarsi a ragionare su un banale esercizio fisico! Eppure non riusciva a ignorare il fatto che l’Uzumaki l’avesse ferita. Dio, che esagerata! Per una cosa tanto stupida? Sì, se l’era un tantino presa per una sciocchezza del genere, perché da lui proprio non se l’aspettava. Soprattutto quando lei si era fatta sempre mille riguardi per arrecargli il meno disturbo possibile. Una vocina nella sua testa, poi, continuava a ripeterle che, se avesse posseduto i capelli rosa, sicuramente, in quel momento, non si sarebbe stretta lo stomaco dolorante, né lui sarebbe corso da Neji e Kiba per vantarsi della propria bravura.
           Si alzò trattenendo il respiro e sorrise, nonostante tutto. Non importava, davvero; lei al dolore era abituata, in fondo, no? Quello era davvero nulla, in confronto a ciò cui era avvezza. E poi era Naruto: come poteva serbargli rancore per così poco?
           «Non volevo, scusami davvero!», corse nuovamente verso di lei, con espressione rammaricata.
           Incredibilmente, riuscì a sostenere il suo sguardo. Fosse successo una settimana prima, non sarebbe stata in grado nemmeno di reggersi in piedi, sotto quegli occhi limpidi fermi sul suo volto, ma stavolta era diverso; gli eventi che l’avevano travolta nel giro di sei giorni, dalla vicinanza di Sasuke all’apertura al dialogo con Neji e suo padre, erano stati quella molla in grado di renderle tutta la sofferenza patita - e che avrebbe sicuramente continuato a provare - un po’ più sopportabile. Aveva imparato che il dolore era parte integrante della vita, una condizione necessaria, che poteva essere vinta e superata.
            «Non preoccuparti. Sono contenta di essere capitata in coppia con te, sei stato bravo», affermò in tutta sincerità, sorridendo. Un leggero velo color porpora si era steso sulle guance, ma non aveva balbettato, né aveva evitato le iridi cerulee del compagno di classe. Era felice di esser riuscita a esprimere perfettamente la frase che le si era dipanata in mente, ma anche stranamente stupita: cosa le stava accadendo?
            «Siamo stati bravi, Hinata», precisò lui, strizzandole l’occhio.
            Lo guardò allontanarsi verso lo spogliatoio, tenendosi una mano sul petto. Stavolta era una reazione diversa, ne era consapevole: non voleva accertarsi che fosse tutto vero, né era un modo inconscio per stringersi Naruto al cuore; desiderava solo racchiudere il calore di quel sorriso nel palmo della mano e infonderlo alle ossa, con la certezza che l’Uzumaki sarebbe appartenuto in eterno al mondo dei sogni. Ecco, lui era suo amico; a differenza di Sasuke, non aveva alcuna paura a definirlo tale, né se ne dispiaceva.
 
Un tonfo improvviso fece voltare l’intera scolaresca: Rock Lee era steso a terra, sfinito, con le braccia doloranti.
            «Ragazzo, hai esagerato! Duecento flessioni dopo la serie di addominali e trenta minuti di corsa…», mormorò addolorato il professore, nemmeno fosse stato al suo capezzale.
            Il pupillo sorrise e alzò il pollice, cercando di mettersi in piedi, ma il Maito glielo impedì con un gesto della mano. Si voltò verso gli altri alunni, con espressione rammaricata, e puntò i suoi occhi neri in ogni sguardo che incrociava.
            «La lezione finisce prima: porto il vostro compagno in infermeria. Voi, intanto, andate a cambiarvi e aspettate il suono della campanella per andarvene».
            Appena l’uomo sollevò il ragazzo da terra e uscì dalla palestra, ci fu un fuggi-fuggi generale.
           Hinata seguì passivamente Tenten nello spogliatoio. Era sempre imbarazzata a doversi cambiare davanti alle altre; provava un certo impaccio nel mostrare il suo corpo, e già la gonna dell’uniforme, per lei, era di una lunghezza vertiginosa. Se poi ripensava alla scena del pomeriggio precedente, la camicetta sbottonata, il collo preda dei baci di Sasuke, a stento riusciva a respirare.
            Non si sarebbe cambiata subito. «Mi fermo a sistemare i tappetini», sorrise.
            «Hina, ti prego! Lascia perdere, cosa te ne importa?», rise la castana, infilandosi la giacca. Le altre ragazze erano già uscite, così come i maschi; non provenivano rumori, dallo stabile.
            «Di solito se ne occupa Rock Lee, ma oggi non si è sentito bene…».
            «Kiba ci aspetta, coraggio!», la spronò l’altra, lanciandole in faccia la sua uniforme. Era troppo ligia al dovere!
            «Non voglio uscire prima della campanella, non è giusto. Occuperò il tempo facendo qualcosa di utile… mancano solo venti minuti, in fondo», insisté lei, piegando gli indumenti.
            «D’accordo, come vuoi tu. Ci sentiamo più tardi, va bene?», propose Tenten, abbracciandola.
            Hinata annuì e l’accompagnò alla porta. Salutò l’Inuzuka e spiegò anche a lui i motivi della sua scelta; una volta rimasta sola, si diresse verso la sala degli allenamenti.
 
Era strano vederla vuota, inanimata, disseminata solo da quei tappetini blu; là dentro il baccano era sempre infernale, tra le risate dei compagni di classe e le urla del Maito.
            I suoi passi rimbombavano, per quanto il pavimento fosse gommato, e il senso d’abbandono si moltiplicò esponenzialmente. Nonostante tutto, quella calma le piaceva, le trasmetteva un'armonia indescrivibile.
            Si piegò e cominciò a raccogliere e piegare i primi materassini di sottile poliuretano, quando una voce la fece trasalire.
            «Sapevo che ti saresti fermata. Tipico tuo». C’era una nota di derisione, nel suo tono, ma non era affatto maligna.
            La mora si voltò di colpo e si trovò davanti Sasuke. Si era cambiato; indossava i pantaloni della divisa scolastica e la camicia, mentre sulla spalla era appoggiata la giacca, il cui colletto lui tratteneva fra le dita.
            «Io…». Che doveva dire? Perché aveva aperto bocca? Non ce n’era motivo, non doveva spiegazioni a nessuno. Inoltre, più pensava a cosa fare, più in mente le tornavano i suoi occhi neri, improvvisamente carichi di disprezzo, del giorno prima. Non doveva essere lì! Si trovò a rimpiangere di non aver seguito Tenten.
            Di fronte al non sapere come comportarsi, girò le spalle e si diresse nell’angolo dell’armadio, per riporvi gli attrezzi.
            Per quanto avesse tutte le ragioni del mondo per farlo, non tollerava che lo ignorasse.
            «Adesso non puoi più evitarmi!», dichiarò lui deciso, seguendola, chiudendo poi di colpo lo sportello metallico e intrappolandola nello spazio fra le sue braccia. «Sei costretta a guardarmi».
            La vista le tremava e non trovava il coraggio di alzare il capo.
            «Ti senti bene?», le chiese, avvicinandosi con il volto al suo. Voleva osservarla, sondare tutto ciò che lei, a parole, non avrebbe mai espresso.
            «Co-come?». Certo che no, stava malissimo. Possibile che non se ne accorgesse?
            «Naruto ti ha ferita?», si preoccupò.
            C’era una risposta? Il dolore all’addome si era quasi placato e quello interiore era persino più trascurabile, ora che Sasuke era lì. Era riuscito a mettere in fuga addirittura quei pensieri ottimisti che avevano attraversato la sua mente, poco dopo che l’Uzumaki si era allontanato. Con un semplice, ma deciso gesto, era stato capace di spazzare via tutto quanto, facendosi il vuoto attorno; ora era certa che non era passione, quella per il biondo, dal momento che si rivelava essere un’ombra fuggevole.
            «Hinata?», la chiamò Sasuke, spazientito, ma con tono leggero.
            La ragazza scosse la testa e strinse i denti, decidendo di alzare il capo e guardarlo. Quand’era diventato così affascinante, l’Uchiha? Lo era sempre stato? Non riusciva a ricordarlo, persa com’era a concentrarsi sui dettagli del suo viso. I capelli gli cadevano disordinati sulla fronte; le punte, bagnate da un leggero sudore, sembravano indicarle dove guardare: “Gli occhi, Hinata. Punta ai suoi occhi e vedi di non smarrirtici dentro”.
            Erano puri magneti, quelle iridi scure; erano una maledizione, per chiunque le avesse mai incrociate, perché si fissavano nella mente a lungo, conducendo per mano il malcapitato – o il fortunato – sul ciglio del burrone della follia. Per la Hyuga era stato lo stesso, non aveva potuto evitare di cancellare quel color carbone dalla propria testa. Si era sempre trovata inspiegabilmente bene, nell’osservarlo, ma da qualche ora lo temeva come la morte. Il modo in cui l’aveva solo guardata, prima che lei fosse uscita con Itachi, verso l’auto, l’aveva spezzata.
            «Non devi avere paura di me», sussurrò il ragazzo, accorciando ancora di più la distanza fra loro.
            «N-non ne ho», mormorò con voce tremante. «Temo solo di averti deluso».
             E, forse, pure di perderlo.
            «Perché mai?». Lo stupore si era dipinto sul suo volto con una leggera ruga fra le sopracciglia.
            «Perché non sono come le altre… le altre ragazze. Insomma, quelle che frequenti. Non ho nemmeno l’esuberanza di Sakura». Si bloccò di colpo. Perché se n’era uscita con quel ragionamento? Cosa si aspettava da Sasuke? Che le dicesse che non era vero, che non aveva nulla da temere e che sarebbe certamente risultata carina quanto l’Haruno? Lei non era – giustamente – nulla ai suoi occhi.
            Abbassò le palpebre, pronta ad ascoltare una risata di scherno dalle labbra di Sasuke, ma quella non arrivò mai.
            Nella mente del ragazzo tornarono a rimbombare le ultime battute della telefonata fatta a Naruto. Lei non è Sakura… che idiota! Certo che non lo era! E che stupida, pure lei: come poteva farsene una colpa?
            «E lo ritieni un difetto?».
            La ragazza sgranò gli occhi, guardandolo. «Non dovrei?».
            Sasuke sorrise, stringendola improvvisamente e sfiorandole il capo con il naso.
            «Sciocca», disse, baciandole la fronte e inebriando le narici del profumo dei suoi capelli.
            Anche il suo cuore perse un battito; com’era diverso, quell’abbraccio, dalle strette con cui cingeva le altre ragazze! Era come se, solo allora, le sue dita avessero veramente sfiorato un corpo per la prima volta. Il calore che percepiva sotto il leggero cotone della camicia e la pelle degli avambracci era appagante, confortevole, prezioso, tremendamente fragile. Non trovava la forza di parlare e, incredibilmente a disagio, non era nemmeno in grado di staccarsi da lei.
            Hinata, senza capire come, né perché, sfiorò le braccia del moro e tremò. Aveva bisogno di quel contatto, era un nuovo modo per accertarsi della realtà… di quella che valeva la pena subire. Si scostò leggermente dall’abbraccio e aprì gli occhi, cercando di cacciare indietro le lacrime. Fissò le pupille nelle sue, con trepidazione, e si alzò delicatamente sulle punte dei piedi, trovando l’insperato coraggio di accarezzare il volto del giovane. Le loro labbra erano vicine, i nasi si sfioravano, i respiri erano così caldi da poter far condensare l’aria.
            Avrebbe dovuto serrare gli occhi, ma riusciva solo a socchiuderli, perché voleva vedere la scena, desiderava osservare la sua immagine riflessa nelle iridi dell’Uchiha. Le serviva la prova che fosse tutto vero, che lei non era più la timida e impacciata di sempre. Quello non era Naruto, era Sasuke, con tutta la sua fama di bello, dannato e insensibile che si portava dietro… e non ambiva che fosse nessun altro, in quel momento. Ardeva per un suo bacio, inconsapevolmente. E il bacio arrivò.
            Sasuke le accarezzò la schiena. Stavolta era diverso, provava rispetto per la ragazza. Non voleva spaventarla, anzi; era quasi lei che faceva paura a lui, con quella sua intraprendenza, i polpastrelli che sfioravano timidamente le sue guance e le labbra che si fondevano con le sue, muovendosi simmetricamente, come se non fossero state create che per quel momento.
            “È tutto vero”, avrebbe voluto dirle, se solo fosse riuscito a crederci pure lui. “È tutto vero, chiudi pure gli occhi”.
 
Hinata provava un leggero formicolio sulla punta delle labbra, un senso di vertigine e piacevole perdizione. Il suo primo bacio! Non era come lo aveva immaginato e, soprattutto, non con colui di cui era sempre stata innamorata, ma non importava.
            Aveva sempre sognato che a stringerla fra le braccia sarebbe stato Naruto, con il suo sorriso a sfiorarle la bocca; aveva sempre sperato che il biondo avesse trovato il coraggio di versare la sua risata spensierata anche fra le sue labbra, con un romantico contatto. Ma quello non era l’Uzumaki ed era consapevole che non lo sarebbe mai stato, che il film che la sua mente aveva girato da troppi anni a quella parte non sarebbe mai stato proiettato nella quotidianità. E sorrise, sorrise di tutto cuore, mentre avvertiva il respiro caldo di Sasuke pervaderle le narici e la cavità orale.
            Improvvisamente si sentì la persona più vicina alla perfezione del mondo, perché quell’istante era perfetto, nella sua assurdità.
             Il moro assaporava le sue morbide labbra inviolabili e sapeva che, anche quello, era un punto di non-ritorno. Una parte di lui gli ricordava che era tutto un colossale errore, che aggrapparsi con forza a lei significava ferirla, ma sentirla tremare, mentre timidamente cercava di appoggiare le piccole mani bianche al suo torace, lo spingeva ad andare avanti.
            Le accarezzò il bordo della maglietta, sfiorandole le punte dei capelli, e osò alzare il tessuto. La sua schiena era inaspettatamente calda, quasi quanto i propri polpastrelli, ma lei ebbe comunque un sussulto e si staccò brevemente dal bacio.
            Lo guardò negli occhi con esitazione, ma pure con desiderio. Sì, quello era puro trasporto, volontà di non fermarsi, non ora. Bramava quel contatto.
            «N-non voglio più deluderti», aveva mormorato lei, sentendo le dita del corvino lungo la colonna vertebrale; risalivano lentamente ogni lieve sporgenza ossea, come una deliziosa tortura, pronte ormai a sganciare il gancetto del reggiseno. Si erano fermate proprio lì, su quel lucchetto solitamente tanto facile da aprire, ma tremendamente arduo da sciogliere, in quel frangente. Voleva solo una cosa, lo sapeva anche lei… e aveva paura, perché tutto stava succedendo troppo velocemente, e lei non era per niente sicura di desiderare lo stesso. Le bastava affondare negli occhi scuri del ragazzo per giurare che anche lei agognava quell’unione fra menti e corpi, ma se distoglieva lo sguardo dal moro, non era certa di nulla. Non c’entrava Naruto, ora, ma solo lei, con le sue terribili paranoie e paturnie.
            «Nemmeno io», le fece eco Sasuke, in un sussurro, chinandosi ancora sul suo volto, mordicchiandole il labbro inferiore.
            La Hyuga gemette lievemente e quel suono mandò in estasi l’Uchiha. Eccola, stava di nuovo abbassando le sue difese, e stavolta non esitò più. Con impeto, insinuò la sua lingua nella bocca della giovane, cogliendola di sorpresa.
            Era tutto nuovo, per lei, ed era sconvolgente. Sentiva la propria lingua fremere dal desiderio di sfiorare quella di Sasuke, amalgamarsi alla sua, in una danza incantevolmente pericolosa, e, per una volta, decise di abbandonarsi ai sensi, all’istinto, assecondandone la volontà.
            Si avvinghiò alla schiena di Sasuke, trattenendo a stento le lacrime quando lui le accarezzò di nuovo la pelle della schiena, riabbassandole la maglia e stringendola forte a sé.
            I loro cuori erano perfettamente sovrapposti, ora, e sembravano eseguire la stessa sinfonia; una martellante cavalcata delle Valchirie, verso il precipizio della passione. Potevano definirla così? Sì, perché gli elementi c’erano tutti: la disperazione, la ricerca di contatto e l’assoluta irrazionalità.
            Hinata si lasciò accarezzare le guance, senza alcuna forma di timida ritrosia. Sentire le dita dell’Uchiha sul suo volto le dava i brividi e lei si ritrovava a stringere convulsamente le pieghe che si formavano sul retro della camicia del moro.
            In quel piccolo peccato, c’era qualcosa di estremamente giusto: la voglia di sentirsi viva e di non lasciarsi più morire per nessun sorriso che non sarebbe mai potuto appartenerle. Quello di Sasuke era costantemente misterioso e fugace, ma non aveva dubbi: quelle poche volte in cui gli aveva sfiorato le labbra, era sempre stato sincero, e dedicato a lei, a lei soltanto.
            «Grazie», mormorò la ragazza, con il viso nascosto dai capelli blu che l’Uchiha le stava carezzando.
            Sasuke le prese la nuca nel palmo e, con l’altra mano, le sollevò il mento: si ostinava a tenere gli occhi chiusi, come a voler scomparire completamente, ma lui non glielo avrebbe mai permesso. Le lunghe ciglia le sfioravano gli zigomi ed erano tempestate da piccoli cristalli di lacrime, come stelle su un prato tenebroso. Era bellissima e gli si stringeva il cuore, nel constatarlo. Come era potuto essere cieco per tanto tempo?
            Appoggiò delicatamente le labbra sui suoi occhi chiusi, baciandole quella folta schiera di fili neri, dove spesso si erano infranti i suoi sogni, sotto forma di gocce. Non l’avrebbe mai più permesso: se lui fosse entrato nei desideri della Hyuga, non si sarebbe mai sciolto sotto le sue palpebre. Avrebbe asciugato le sue lacrime fino allo sfinimento, fino a consumarsi la bocca e ad appassire lentamente.
            «Grazie a te». Finalmente aveva la risposta che nessuno era stato in grado di dargli.
 
Rimasero abbracciati per una manciata di minuti, aspettando insieme il suono della campanella. Le mani affusolate del ragazzo attorcigliavano in mille morbidi riccioli le ciocche lisce della fanciulla, mentre il respiro forzatamente controllato della Hyuga si disperdeva nelle fibre tessili della camicia, arrivando dritto al cuore di Sasuke.
            “Protezione” era davvero la parola giusta, ma non sembrava più bastare, nemmeno a lei. Qui si andava oltre, si sfiorava il seducente profilo di un’altra sensazione, molto più grande, appagante e avulsa dal mondo umano. Fino a qualche giorno prima, lei desiderava denominarla “amicizia”, ma ora sapeva che non era il termine giusto. Quel vocabolo descriveva solo parte di ciò che Sasuke poteva essere… o forse per niente. Mentre appoggiava saldamente le mani e l’orecchio al petto del suo compagno di classe, aveva sentito il suo cuore battere placidamente, ma anche a un ritmo che di calmo, in sé, non possedeva nulla. Non sapeva come definire quel suono, se non come “musica”. Quella era la sinfonia più armoniosa che avesse mai udito, se possibile, ancora più avvolgente e struggente del Liebesträume di Liszt. Che fosse quella, l’espressione corretta?
            Il respiro caldo di Sasuke le vezzeggiava con dolcezza il viso, spingendola a sorridere. Era mai stata viva, prima di allora?
            “Affetto”, sì. Era affetto, ciò che occupava spazio nel cuore e le causava quei brividi leggeri che l’Uchiha cercava di reprimere con delle carezze delicate lungo la schiena. Oppure aveva ragione Liszt, il compositore che accompagnava in sottofondo, nelle sue orecchie, quell’incantevole momento? Era un sogno d’amore? Se pensava all’andamento di quella famosa melodia per pianoforte, allora sì, non aveva dubbi: lo spartito che spiccava sul piano del salotto, ora che ci pensava, recava proprio l’indicazione “Poco allegro, con affetto”. Seppur quelle parole si riferissero al campo musicale, non valeva forse lo stesso, per le sue emozioni?
            Cercò di auscultare ogni battito del cuore del ragazzo, ma non avrebbe mai potuto decifrare i misteri cardiaci. Non se ne curò; capì solo che quel momento era perfetto e che lei non sarebbe dovuta essere in nessun altro luogo, se non fra le sue braccia. Il suo posto era lì, in quella palestra vuota, con quei pantaloncini e maglietta anonimi, e l’abbraccio di Sasuke come seconda pelle.
 
***
 
Non riusciva a perdonare, Karin Uzumaki: era un suo grande limite. Per quanto avesse speso ore a ragionare e a macchinare vendette su vendette su chi non era in grado di apprezzarla, questa volta non le sembrava di aver architettato nulla di efficace. Poteva contare sull’avversione di Neji, ma non le sembrava abbastanza, di fronte a quell’abbraccio che aveva intravisto di sfuggita da una finestra, mentre si apprestava a raggiungere lo Hyuga, verso il cancello.
            Sorrideva verso il ragazzo che sperava sarebbe stato in grado di cancellare una cocente delusione, ben consapevole che non era sufficiente. Le dita di Sasuke, nei capelli di Hinata, erano pugnalate al petto. Lei non era stata mai sfiorata da nessuno, in quel modo, men che meno da lui. Solo modi bruschi e animalesche soddisfazioni di istinti primordiali, nessuna forma di affetto.
            Si fermò a una decina di metri da Neji, strinse i pugni ed estrasse da una tasca della borsa il cellulare. Scorse velocemente il dito sui contatti della rubrica, finché non trovò quello desiderato.
            Una parte di lei sapeva che stava compiendo qualcosa di tremendamente ingiusto, ma l’altra, di gran lunga predominante, le ricordava che era stata vittima di un rifiuto inaccettabile. Sì, era la cosa corretta da fare.
            «Ho bisogno del tuo aiuto», affermò con un ghigno sinistro, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
            «Aspetto i tuoi comandi, mia signora!», ridacchiò una voce profonda e tenebrosa, dall’altro capo della cornetta.
            La giovane impiegò pochi minuti al telefono, per poi avvicinarsi con aria serena allo Hyuga, che la stava aspettando con un'espressione seccata. Gli sorrise affabilmente, accarezzandogli una spalla.
            «Perdona il ritardo, i soliti scocciatori. Ora sono tutta tua», sussurrò suadente al suo orecchio, prendendolo per mano.
            Karin Uzumaki, il diavolo in persona.







Salve a tutti! 
Eccomi tornata, dopo una decina di giorni (o forse di più?). Questo capitolo ha avuto un parto più veloce del solito, ma mi sono fermata parecchio a rivederlo e correggerlo perché ci tenevo tanto che esprimesse bene ciò che sta succedendo fra Hinata e Sasuke. Vi ho fatto aspettare tanto, lo ammetto, ma trovavo che il momento più adatto per farli finalmente baciare fosse questo! :D Alleluia!! Mi è piaciuto scriverlo, in tutta sincerità... e spero che vi aggradi almeno un pochino ;)
Capitolo lunghiiiissimo, tra l'altro, ma non sarei stata in grado di troncarlo... senza una gamba, sarebbe inciampato (più di quanto sia già barcollante la storia in sé, forse XD)
Ahah riguardo la cosiddetta presa dell'angelo, ho ancora gli incubi: il professore di Educazione Fisica del liceo ci aveva imposto di fare quell'esercizio ed è stato traumatico! Come non poter proiettare questa "cattiveria" sul buon Gai? XD E' mai capitato anche a voi di dover affrontare esercizi da circensi, a scuola? XD
Karin, Karin... che donna diabolica! A chi ha telefonato? Mmm sapete che non lo so ancora nemmeno io? Voi chi vorreste che fosse, quella voce misteriosa dall'altra parte del telefono? Inizialmente avevo pensato di infilare Kimimaro (ultimamente ne sono ossessionata *-*), ma poi ho pensato che non sarebbe mai stato abbastanza crudele... perciò mi piacerebbe sentire il vostro parere! Chissà, magari potreste trovare una vostra scelta nel prossimo capitolo ;)
Ah ecco, ve lo scrivo qui in calce: sarà qualcosa di forte, abbastanza violento... spero di riuscire a stenderlo decentemente e non turbare nessuno. Come sempre, voi rendetemi noto tutto ciò che non va: è solo un piacere, per me! ;)
E vi ringrazio per le bellissime parole, lasciate da nuovi e vecchi recensori: conoscervi è stato gratificante! Sarei lietissima di ascoltarvi ancora! Perciò, senza indugio, se vi va, sfogatevi nel rettangolino qui sotto (quanto mi sento youtuber!).
Scusate ancora l'attesa. Ho in mente tanti progetti per nuove FF (ed è un male, con gli esami alle costole)... tra cui, forse, pure una long (è proprio un male!), perciò le idee si attorcigliavano fra loro, in questo periodo! 
Un ringraziamento speciale a The death of Valkiria, che ha avuto il fegato di segnalare la storia nelle scelte! Ci vuole coraggio, sai? XD 

Grazie a tutti voi!
A presto, 
baci 


Ophelia

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Capitolo 13
*** Ombre in cerca di luce ***


13. Ombre in cerca di luce

 




L’alcova di Karin Uzumaki era un’accozzaglia di oggetti e vestiti mischiati fra loro; era come se qualcuno avesse gettato tutta quella roba in un frullatore gigante, senza tappo, e acceso l’apparecchio a piena velocità: scarpe spaiate, pigiama e pantaloni sul pavimento, fazzoletti e cavi del caricabatteria del cellulare sul comodino, libri e fogli – in verità, sempre troppo trascurati – su una sedia e ai piedi di uno scaffale. Non conosceva ordine, quel luogo, proprio come la sua proprietaria, sempre soggetta a sbalzi d’umore.
            Due ragazzi giacevano sul letto, senza vestiti. Se non avessero respirato, sarebbero passati agli occhi di osservatori esterni come due manichini.
 
Dopo aver pranzato con un pasto frugale – una misera cotoletta e delle verdure miste che avevano l’aria di essere state tagliate e lasciate in frigorifero per almeno cinque giorni – la giovane aveva appoggiato i piatti nel lavello e sorriso maliziosamente al suo ospite. A niente erano serviti i tentativi di Neji di offrirsi per dare una mano a ripulire, perché lei aveva liquidato tutto dicendo che se ne sarebbe occupata sua zia, non appena fosse rientrata dalla spesa. Peccato che non sarebbe tornata prima delle nove, impegnata com’era a intrattenersi con delle amiche da mezzogiorno; le loro conversazioni da salottino si protraevano sempre per tempi inimmaginabili e non di rado Karin si era trovata a trascorrere interi pomeriggi e serate da sola, con un orecchio puntato alla porta, in attesa della sua tutrice. Poco male, perché la diciottenne trovava sempre un modo per occupare il tempo.
            Il ragazzo tirò fuori dalla borsa i libri scolastici e li posò sul tavolo; osservò la giovane sbuffare ed adeguarsi alla sua volontà, imitando il suo gesto. Il giorno dopo avevano lezione con il professor Hatake che, molto probabilmente, avrebbe interrogato qualcuno in Storia, perciò era il caso di leggere almeno gli ultimi argomenti trattati. Lo studio fu tanto lungo, quanto proficuo: per le sette e un quarto, avevano schematizzato dettagliatamente la bellezza di settanta pagine. Per Neji era la norma, mentre per la Uzumaki quella era stata una lenta tortura.
            Chiusi i libri, lei si alzò in piedi stiracchiandosi, e si offrì di cucinare qualcosa per cena. Il moro, ancora abbastanza disgustato dal pranzo, espresse la sua volontà di rientrare, afferrando la borsa e il cappotto, per poi dirigersi alla porta, quando lei lo trattenne per un braccio.
            La rossa sciolse sensualmente i capelli, ancora raccolti in una coda, e si avvicinò allo Hyuga, guardandolo dritto negli occhi. Era un bel ragazzo, ma, prima di tutto, una splendida vendetta.
            Gli accarezzò con un gesto rapido e fluido una guancia, facendo perdere le dita fra i suoi capelli d’ebano. Erano incredibilmente lisci, rispetto ai suoi, e ancora più morbidi di quelli di Sasuke. L’altra mano, intanto, lesta e furtiva, s’insinuò nello scollo della camicia, cominciando a sfiorargli i pettorali.
            Prima che potesse farsi sfuggire il controllo e lasciarsi andare all’istinto, cedendo alle lusinghe di quella tentatrice, il ragazzo le bloccò il polso.
            «Cosa stai facendo?», le chiese con durezza.
            Karin sbatté le ciglia, sorridendo nervosamente. «Come sei granitico! Dovresti scioglierti…», sussurrò, gettandogli le braccia al collo. Neji si sottrasse a quella morsa, fissandola con freddezza.
            «Me ne torno a casa», insisté.
            «Non è educato lasciare un discorso in sospeso», sorrise lei, per niente scoraggiata, riprendendo ad accarezzargli il torace. I muscoli del ragazzo cominciavano a farsi meno rigidi e lei capì che stava avendo la meglio. Si avvicinò alle sue labbra e le morse leggermente, guardandolo negli occhi.
            «D’accordo, ti ascolto», mormorò lui, appoggiando a terra la tracolla e il cappotto.
            «Io parlo meglio di là», e gli indicò il lungo corridoio che attraversava l’appartamento.
 
Neji non sapeva ancora come si fossero ritrovati sul letto, in mezzo a tutto quel disordine. Non era andata come si era prefissato, aveva smarrito il senno non appena lei lo aveva baciato con ardore, premendo le labbra sulle sue e invadendogli la bocca con la lingua. Aveva perso il controllo, quando velocemente l’aveva privato della camicia e l’aveva spinto sul materasso.
            Si era lentamente sfilata le mutandine, come solo lei sapeva fare, da sotto la gonna e si era stesa comodamente su di lui, facendo aderire le loro intimità.
            Per quanto fosse glaciale, Neji era pur sempre un uomo. Un ultimo barlume di razionalità era stato represso quando lei si era rapidamente liberata della camicetta, rivelando i suoi seni agli occhi del ragazzo.
            Lo baciò di nuovo con voracità, sbottonandogli i pantaloni e disfacendosi pure dei boxer; ormai l’aveva in suo potere.
 
Così, dopo una ventina di minuti di puro appagamento corporeo, Neji se ne stava con lo sguardo fisso nel vuoto, nudo come un verme e con il morale più basso e sudicio del fango.
            Era la sua prima volta, mentre aveva potuto constatare che per Karin quella era una sorta di abitudine. Lo squallore in cui era caduto gli metteva i brividi.
            Si sentiva sporco. Già, un ragazzo impassibile e tenace come lui, messo al tappeto da quella lurida sottospecie di ninfomane. Non pensava che sarebbe mai successo, ma aveva voglia di scappare e fare a pezzi qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non pensare; persino se stesso, se possibile.
            Possedeva una scala di valori, da buon Hyuga, e il sesso non occupava i gradini più alti, a differenza di ciò che esso rappresentava per i suoi coetanei. Lui non ne faceva una questione vitale e lo avrebbe volentieri sperimentato più in là nel tempo, in un ambiente slegato da quello scolastico, magari con una donna cui avrebbe volentieri donato il suo cognome e affetto. Non che le ragazze non facessero parte dei suoi pensieri… ma quella era Karin, e lui era rimasto succube di una sirena peccaminosa.
            Era cresciuto e maturato in fretta e si era imposto di non commettere stupidi errori, ma di sopraelevarsi sulla media degli altri, affermando se stesso come ammirazione e invidia del secolo. Voleva una vita esemplare, dignitosa, e la desiderava da quando era nato, ma ora era tutto andato in fumo, su quel letto. Aveva deluso se stesso e sentiva anche di aver causato un moto di dolore e fastidio nei suoi genitori e nello zio Hiashi. Aveva tradito pure le loro speranze. Il gemello di suo padre, poi, era sempre stato fonte d’ispirazione, per lui, e ora si sentiva ancora più colpevole di prima. Non pensava che fosse possibile, ma Hinata era cento volte più rispettabile di lui.
            Karin lo guardò con occhi sognanti, leccandosi le labbra. «Sei stato…».
            «Taci!», le ordinò, con la voce spezzata da un nodo in gola.
            Cominciava a capire troppe cose, sul suo conto. La Uzumaki era un’abbindolatrice, una marionettista, una “femmina balba”.  Si era presa gioco di lui, mostrandogli quegli scatti della cugina e Sasuke, e lui ci era cascato. Come aveva potuto mettere in dubbio l’innocenza della sua consanguinea?
            «Che cazzo vuoi, da Hinata?», mormorò affranto, continuando a fissare la parete di fronte al letto. Non si era preoccupato di rivestirsi, né di coprirsi con un lembo del lenzuolo. Si sentiva uno schifo e non riusciva nemmeno a provar vergogna. Come esigeva la rigida disciplina della sua casata, doveva scontare le proprie colpe mostrandole al mondo.
            Ancora ricordava quando aveva strappato il cerotto dal volto della cugina, facendola tremare: applicare i dettami degli Hyuga, profondamente severi e orgogliosi, gli era uscito facile anche in quell’occasione. Sorrise amaramente, maledicendosi. E come un autotreno, quell’immagine se ne trascinava dietro altre: il dialogo in auto, quando lei gli aveva preso le mani e, a modo suo, gli aveva detto di volergli bene; la chiacchierata con Itachi e la discussione con Hinata, quella stessa mattina. Che stupido!
            Lei si era sempre preoccupata per lui, anche quando avrebbe dovuto odiarlo con tutte le proprie forze. Solo allora capì che la cugina era molto più Hyuga del resto della famiglia, perché era pronta a rischiare tutto per le persone che amava. Hinata, senza accorgersene, era l’esatta reincarnazione dello spirito amorevole di sua madre, morta per salvarla.
            La giovane non aveva avuto un’infanzia felice, né una crescita lieta. L’adolescenza, poi, doveva esserle sembrata un vero e proprio buco nero, pronto a risucchiarla nel disprezzo verso se stessa. Neji capì che fu un miracolo a salvarla da qualche tentativo di suicidio o dal renderla un mostro. La belva era sicuramente lui, non v’era ombra di dubbio. Hinata era ciò di più confortevole che la vita gli avesse offerto, una sorella che aveva sempre ripudiato, accecato dalla smania di prevalere sugli altri e mettersi in bella mostra. Se solo quell’evidenza gli fosse balenata in mente prima, non si sarebbe, ora, trovato nudo su quel letto, con i brividi a percorrergli la pelle e un forte senso di disgusto piantato in gola, capace di strozzarlo. Se avesse capito tutto in tempo, non avrebbe assistito alla caduta dei suoi ideali, del sogno di una felicità futura che, per quanto piccola, coltivava anche lui nel cuore, in segreto.
            Era assurdo trovarsi su quel letto, a diciotto anni, dopo del sesso, a rimuginare sui propri principî, sulle aspirazioni seminate. Era un controsenso, dacché aveva ancora tutta la vita davanti per cancellare quel piccolo errore di percorso che era un nonnulla, in fondo, soprattutto se considerava il suo carattere duro e avvezzo a sostenere qualsiasi carico di rimorsi. Eppure, non riusciva ad andare oltre, c’era sempre una piccola macchia blu, sulla tela dell’anima, che lo costringeva a fare mente locale.
             Aveva sognato di donare tutto se stesso alla donna della sua vita, un giorno; sapeva bene che la sola gloria non sarebbe valsa molto, senza nessuno al suo fianco. Anche lui desiderava una famiglia, con una moglie capace di amarlo senza condizioni, accettando il suo caratteraccio… proprio come sua cugina, in fondo. Esistevano donne di quel genere, ne era certo, ma Karin non rientrava in tale categoria.
             Ecco, l’ideale di serenità da cui prendere spunto era sempre camminato al suo fianco, senza che lui se ne fosse mai accorto; proprio come lui era da sempre il modello di vita della ragazza dai capelli blu. Senza saperlo, erano il sostegno indispensabile che andavano cercando. Ora l’aveva inteso e si sarebbe messo in gioco per salvare il salvabile e ricominciare tutto da capo. Sarebbe stato difficile, soprattutto a causa della sua indole, ma decise che ci avrebbe provato: avrebbe tentato di comportarsi da cugino, perché glielo doveva.
             Lanciò un’occhiata di sottecchi alla Uzumaki, che si era bloccata a fissarlo, quasi impaurita. Com’era diverso quello sguardo, da quello di Hinata! Vi leggeva ogni sorta di sensazione, ma non quella fondamentale: l’affetto. Avevano appena fatto sesso, dannazione, e nei suoi occhi aleggiava il vuoto dell’angoscia. In quelli di Hinata, sempre costretta a subire ogni sorta di angheria, non erano invece mai mancati il rispetto e l’affezione, l’amore fraterno di chi si preoccupa.
             «Neji, lei e Sasuke…», tentò di tornare su quell’argomento, ora che vedeva albergare la verità e la consapevolezza, nelle iridi dello Hyuga.
             «Non azzardarti più a dire una parola su di lei». La voce solitamente calma e inespressiva si era macchiata di un ruggito furibondo.
             La rossa sgranò gli occhi, tentando di fermarlo, quando lui si rialzò e cominciò a raccogliere i propri indumenti.
             «Che coglione!», sussurrava a se stesso, infilandosi i pantaloni. Ed era un improperio riduttivo, rispetto all’improvvisa avversione che sentiva nei propri confronti.
             «Aspetta! Dove stai andando?», saltò su lei, coprendosi con il lenzuolo.
             «Da chi mi ama», rispose in automatico, sbattendo la porta della camera.
 
Karin rimase interdetta alcuni minuti, con l’eco delle parole di Neji nelle orecchie. Era stata di nuovo rifiutata, su quel letto, e stavolta l’amarezza sembrava essere ancora più intollerabile. Non era innamorata dello Hyuga, lui era solo un mezzo per raggiungere il suo scopo: abbattere Sasuke, ferirlo negli affetti e costringerlo a perdere tutto ciò cui teneva, proprio come era stata obbligata lei a rinunciarvi, dopo quella proposta che il moro aveva cestinato senza troppi pensieri.
            Perché non sono innamorato di te. Una motivazione semplice, legittima, forse, ma inaccettabile. Non le era andata giù, non dopo settimane di sesso sfrenato e notti spese a fantasticare sull’Uchiha. Ora tutta quell’ossessione si era rovesciata nel desiderio di vederlo annientato, disperato al suo pari, anzi, peggio.
            Non poteva più contare nemmeno sullo Hyuga, le rimaneva solo una carta da giocare – che già aveva preparato sul tavolo.
            Si alzò rapidamente dal letto, incurante della propria nudità; non si faceva mai troppi problemi a girare per casa in vesti succinte, nemmeno davanti a sua zia, perennemente presa dalla televisione.
            Prima di raggiungere la scrivania e afferrare il cellulare, un oggetto abbandonato sul pavimento catturò la sua attenzione: vicino alle scarpe che si era sfilata rapidamente, giaceva il telefonino di Neji.
            La mano le tremava per la rabbia, mentre un sorriso sinistro faceva lentamente capolino sul suo volto.
            Non ci pensò due volte e prese a curiosare nella messaggistica del ragazzo, alla ricerca disperata di un numero di telefono. Lo trovò quasi subito e si compiacque non poco nel leggere gli sms freddi del giovane, verso la cugina. Si appuntò il recapito sul primo pezzo di carta capitatole sott’occhio e proseguì nell’indagine. Come aveva sempre pensato, lo Hyuga non era uno di molte parole, nemmeno con i suoi amici: aveva risposto a tutti i messaggi di Rock Lee a monosillabi, oppure ignorato spavaldamente quelli di altri compagni di classe. Uno, però, la colpì come un fulmine; il suo ghigno malizioso si trasformò in una risatina sommessa, mentre leggeva quel nome: Itachi.
            Ti va una birra, alle 22? Pensavo di trovarci all’Akatsuki, se per te va bene.
            Il destinatario aveva risposto affermativamente.
            Karin si alzò in fretta, controllando la radiosveglia: erano le nove meno un quarto, non aveva ancora molto tempo a disposizione. Chiamò dal proprio telefonino la sua àncora di salvezza.
            «Cosa succede, Karin?», esordì ancora quella voce.
            «C’è stato un cambio di programma. Il piano deve essere attuato subito», tagliò corto lei, stringendo il pugno.
            «Esattamente, cosa vuoi che faccia?».
            La rossa prese un respiro profondo, alzando gli occhi al soffitto. «Dimentica Sasuke: l’obiettivo è Hinata Hyuga».
            «Una Hyuga?! Cosa cazzo ti salta in testa, Uzumaki? Hai idea di quanto prestigio goda quella famiglia? Già gli Uchiha sono una casata importante, ma gli Hyuga…».
            «Non vorrai dirmi che te la stai facendo sotto, Hidan? E io che ti credevo un osso duro! Forse dovrei chiamare Kakuzu…», lo prese in giro lei, con sottile cattiveria.
            Dall’altro capo del telefono si sentì un leggero rantolo soffocato. «Ma hai chiamato me! Me ne occuperò io, dimmi solo cosa vuoi che faccia». Odiava quando veniva nominato il suo compagno di scorribande e lui passava in secondo piano.
            La ragazza si accomodò sul letto, prendendo in mano il lenzuolo e cominciando a tirarlo con frenesia. Doveva sbrigarsi, o non avrebbe fatto in tempo ad attuare il piano.
            «Hinata è ingenua, una ragazzina… basta che tu le faccia prendere uno spavento. Che ne so, raccontale le tue storie da satanista».
            «Si chiama Jashin, Karin!», protestò il ragazzo.
            «Beh, sì. Vedi di impaurirla, tutto qui. Ci riuscirai senza nemmeno sforzarti troppo», sogghignò, gettando la testa sul cuscino. Gli spiegò per bene i dettagli del piano, dettandogli il numero di cellulare e istruendolo su come agire.
            «Lascia fare a me», la rassicurò il giovane, prima di riattaccare.
             Karin cominciò a ridere senza ritegno, stringendo in pugno il cellulare. Ora la cosa più insopportabile era dover aspettare.
 
***
 
Non aveva più preso l’autobus da anni, soprattutto la corsa serale dopo le otto e trenta, ma non gli era dispiaciuto, a dispetto delle aspettative. Il pullman era semideserto: solo una coppia di signore anziane accomodate ai primi seggiolini, prese a parlare con l’autista di qualche vicissitudine lontana, e il consueto gruppetto di ragazzini in coda al mezzo, intenti a giocare con i loro videogames.
            Neji abbandonò il capo contro il poggiatesta e sospirò. Aveva ceduto; la sua natura puramente umana, carnale, era venuta a galla, trascinandolo verso un paragone insostenibile. Ai suoi occhi, per la prima volta, Hinata gli parve come la più pura e degna erede Hyuga, l’incarnazione perfetta della dinastia, moralmente integra e in pace con se stessa. Sapeva che era solo una farsa, che la cugina soffriva da anni – soprattutto a causa sua – ma, messo a confronto con il disagio che ora lui provava, il dolore della ragazza sembrava più naturale e innocente. Ecco, lei era così, pura, per niente contaminata dai mali del mondo. Se ripensava a quante volte l’aveva deliberatamente accusata di comportarsi da sprovveduta, non per ultima, quella stessa mattina, lo stomaco gli si chiudeva in una morsa tremenda; l’aveva giudicata senza conoscerla davvero. A voler ben vedere, avrebbe potuto perdonarle qualsiasi cosa, in tutta quell’innocenza, anche una possibile relazione con qualcuno come Sasuke. Per fortuna lei non era tanto stupida da barcamenarsi in un tale guaio, pensò, sforzandosi di sorridere. Naruto era già un gradino superiore all’Uchiha, in fatto di umanità e sentimenti.
             Avrebbe tanto voluto tornare indietro nel tempo, a qualche ora prima; non si sarebbe fermato da Karin, non avrebbe ceduto alle sue lusinghe, non si sarebbe commiserato.
             Scese dal bus, espirando lentamente e osservando l’anidride carbonica dileguarsi dalle proprie labbra, alzandosi verso il cielo. Lo sguardo incontrò le finestre illuminate della villa, in lontananza, e sorrise, incamminandosi in quella direzione. Aveva capito, finalmente, quali fossero le persone cui lui stava a cuore e riuscì anche a comprendere che quel sentimento era reciproco, nonostante le apparenze da duro.
              Passo dopo passo, metro dopo metro, la consapevolezza di appartenere a una grande famiglia, tormentata, sanguigna, ma fortemente legata ai propri valori, si consolidava nel suo petto. Osservava le altre maestose dimore del viale, le luci accese, le ombre di persone sedute a tavola, e continuò a sorridere, sapendo che presto sarebbe potuto succedere lo stesso anche da loro. Doveva solo impegnarsi di più, aprire una parte di cuore agli altri e rilassarsi; non era difficile, forse, dal momento che persino suo zio aveva cominciato a farlo.
               Sì, ci avrebbe provato.
 
Varcò la soglia di casa con un sorriso appena accennato, incontrando il viso radioso di Hinata. Era stata lei ad aprirgli la porta, ad accoglierlo, e pensò che il fato operasse davvero in modi misteriosi, ma, nonostante le infinite vie, non sbagliasse mai bersaglio.
            La cugina era stato il suo pensiero ricorrente per mezza serata e trovarsela davanti, con un’aria più serena del solito, lo trafisse; da una parte, aveva voglia di imitarla, lasciarsi andare a una sensazione simile al buonumore, ma, dall’altra, avrebbe voluto non incrociare il suo sorriso limpido, che lo costringeva a pensare a quanto fosse stato stronzo e sporco.
            «Sono così sollevata! I tuoi genitori ti hanno cercato al cellulare, ma non hai risposto», lo abbracciò lei, senza curarsi se lui se la sarebbe scrollata di dosso in maniera brusca.
            Era in pena per lui, non aveva passato delle ore liete quanto avrebbe dovuto, dopo il primo bacio di quel pomeriggio.
            «Ho detto loro che ti sei fermato a studiare con dei compagni di classe», sussurrò allegra al suo orecchio, ricordandogli la promessa di quella mattina.
            Neji sgranò gli occhi e boccheggiò qualche istante, mentre sentiva le palpebre pizzicargli. Perché quel nodo in gola, quella voglia incontrollata di abbracciarla e percepire, per la prima volta dopo anni, un contatto umano? Perché quel desiderio di lasciarsi andare? Lui era Neji, Neji Hyuga!
            «L’importante è che tu sia tornato», sorrise Hinata, staccandosi.
            «Ho perso il telefono. Credo di averlo lasciato a scuola o…». O da Karin. Il disgusto si affollò nei suoi sensi, mentre abbassava la testa.
            Il moro andò in salotto e salutò i genitori, spiegando loro i motivi del suo ritardo: aveva scelto di non metterli al corrente della verità, anche se a malincuore, appoggiando la versione data dalla cugina; si sentiva incredibilmente meschino nel mentire, perché non aveva mai provato il bisogno di dare spiegazioni a nessuno, né di coprire la realtà. Ancora una volta, il divario tra lui e i nobili ideali della casata gli si palesò davanti.
            Scrollò la testa, nel tentativo di non pensarci. «Ho un impegno», affermò deciso, dando le spalle al padre e alla madre.
            «Neji!», lo chiamò invano Hizashi, alzandosi dalla poltrona. Ma il figlio aveva già agguantato le chiavi e si era diretto all’auto.
            Hinata lo raggiunse e gli afferrò la mano, poco prima che lui salisse nella vettura. Era fredda e rigida, chiaro indice della tensione che lo pervadeva.
            «Sei appena tornato…».
            «Non sono affari tuoi», mormorò lui, atono, nascondendole lo sguardo. Il solito meccanismo di difesa: ferirla e lasciarla da sola. Odiava farlo, ma non era facile, per lui, sostenere il peso delle preoccupazioni e dell’affetto altrui.
            «Hai ragione…», sorrise lei, mollandolo.
            «Scusami».
            La ragazza quasi cadde tramortita, quando sentì quella parola. Era sicura di non essersi immaginata tutto?
            Neji alzò la testa e la guardò, cercando di respirare con calma. «Vado a farmi una birra con Itachi», spiegò.
            A Hinata brillavano gli occhi, mentre osservava l’auto del cugino allontanarsi in strada. Era profondamente felice di aver ascoltato quelle parole; non solo le scuse, ma, soprattutto, il nome del fratello maggiore di Sasuke. Era davvero contenta che i due avessero in qualche modo ripreso i contatti, perché riteneva Itachi una persona profondamente buona, intelligente, ed era fiduciosa che la loro amicizia si fosse solo assopita, in quegli anni. Pensava che l’Uchiha potesse rendere Neji una persona più equilibrata, riuscendo dove lei, per tutto quel tempo, aveva fallito.
             Si sbagliava di grosso, perché il miracolo stava già lavorando, e solo per merito suo.
 
***
 
Itachi fece roteare l’anello del mazzo di chiavi lungo l’indice, osservando l’otouto che giaceva a letto da mezzo pomeriggio, con lo sguardo fisso al soffitto.
            «Non ti senti bene?», gli chiese per l’ennesima volta, dopo essere entrato e uscito dalla sua stanza almeno una decina di volte.
            «No», ripeté nuovamente Sasuke.
            L’aniki sospirò, cercando di mantenere saldi i nervi. Ancora non aveva capito se con quella negazione intendesse “No, sto bene”, oppure l’esatto contrario. Suo fratello era un enigma senza soluzioni, persino per lui.
Dall’alto del proprio acume, riusciva sempre a comprendere le persone con un’occhiata, a risolvere problemi matematici e quesiti universitari con la stessa rapidità con cui Naruto Uzumaki si spazzolava una portata di ramen dopo ore di digiuno prolungato, eppure, con Sasuke era diverso. Il legame che li teneva stretti era la più riuscita rappresentazione del termine “fratellanza”: fin da piccoli avevano condiviso tanto, dai pomeriggi di studio alle corse nel parco, ma, con il tempo, una leggera ombra era calata fra loro, a dividerli. Ora quell’alone nero si era addensato e solo poche volte lui riusciva ad abbatterlo, perché il diciottenne abbassava raramente le proprie difese.
            Ma Itachi aveva imparato ad osservarlo, a comprendere i suoi silenzi, i suoi sbalzi d’umore, i suoi atteggiamenti altalenanti, i suoi costumi che per alcuni risultavano depravati, ma che lui, pur biasimandoli, non condannava, proprio perché non sarebbe mai riuscito a dichiarare il fratello colpevole di qualcosa. Se agiva in maniera misteriosa e deplorevole, era anche colpa sua: questo era il suo pensiero ricorrente. Se gli fosse stato più vicino in quegli anni del liceo, quando lui era alle prese con l’università, forse le cose sarebbero andate diversamente, o meglio, nulla sarebbe mutato, e sarebbero rimasti gli stessi fratelli di prima, quelli che si capivano al volo e non nascondevano nulla.
            «Esco a bere una birra con Neji, vuoi unirti a noi?», gli propose, temendo già un rifiuto.
            «Nemmeno se mi offriste la degustazione di tutti gli alcolici del bar!», sbottò quello, trattenendo a stento una risata disgustata.
            Proprio come aveva sempre pensato, lo Hyuga non godeva della benché minima forma di amicizia da parte del suo compagno di classe. Non poteva incolpare del tutto il caratteraccio del fratello, dal momento che Neji non si sforzava di apparire simpatico agli occhi altrui. Chissà, forse Itachi era davvero l’unico ad andare oltre la freddezza di quel ragazzo e a considerarlo un amico, dopo tutti quegli anni passati ad allenarsi insieme.
            Prima di uscire dalla stanza, rassegnandosi alla luna storta del fratello, il ventitreenne l’osservò di nuovo con attenzione. Gli occhi neri, nella penombra della stanza rischiarata solo dalla luce del lampione stradale, erano ancora fissi verso il lampadario. Non aveva dubbi, stava sicuramente riflettendo, ed era quasi fin troppo facile intuire quale fosse il suo chiodo fisso.
            «Scommetto che se ci fosse stata un’altra Hyuga, al bar, saresti venuto», lo prese in giro.
            «Vaffanculo!», gridò debolmente l’altro, girando la testa in sua direzione.
            Itachi sorrise: aveva reagito, finalmente. Forse il loro legame non era poi tanto preda delle tenebre.
            Sì, forse Hinata era davvero la cura.
 
L’auto dell’aniki era appena sfrecciata via e lui si era rigirato nel letto ancora una decina di volte, prima di alzarsi. Niente da fare, non sarebbe riuscito a dormire nemmeno quella notte, lo sapeva. Non avrebbe recuperato il sonno perso neppure nelle ore seguenti, tormentandosi piacevolmente al ricordo del bacio in palestra.
            Ancora non riusciva a credere che fosse davvero successo! Non era certo il primo contatto di labbra che aveva sperimentato, ma quella leggera pressione di Hinata sulla bocca, quel calore che aveva provato mentre lei ricambiava timidamente, erano del tutto una novità. Aveva anche appoggiato la testa sul suo petto, ed era strano, perché nessuna l’aveva mai fatto. Non in verticale, almeno. Le ragazze con cui era andato a letto avevano ancora sovrapposto l’orecchio al suo cuore, ma nessuna si era mai davvero interessata all’auscultazione del ritmo cardiaco. Volevano solo il suo corpo, non erano interessate alla sua anima o, anche se mai lo fossero state, lui non era per niente intenzionato a rivelarla ai loro occhi.
            Hinata era diversa. Quando, in quegli anni, l’aveva vista osservarli da lontano, alla ricerca di un minimo cenno di saluto da parte di Naruto, aveva sempre pensato che fosse strana e irritante, paranoica e inconsistente, ma ora aveva imparato rapidamente a conoscerla. I suoi silenzi erano esplosioni di pensieri, i suoi sguardi puro scintillio di emozioni, la sua pelle il tessuto di cui si adornavano le divinità celesti… Non era strana, era solamente unica.
            Solo guardarla gli metteva i brividi, perché temeva che i suoi occhi neri potessero macchiarla e renderla spregevole quanto lui. Delle volte non trovava nemmeno il coraggio di pronunciare il suo nome, pensando che l’avrebbe condannata all’oscurità, al peccato e alla perdizione, consegnandola alla bestia che lo divorava dentro.
            Ma era stata lei a scegliere di affidarsi a lui, con quel bacio. Aveva accorciato lei la distanza fra i loro respiri. Lei aveva dato prova di volere che il contatto avvenisse, e lui non aveva potuto deluderla, dal momento che desiderava lo stesso.
             Non era per niente debole, era riuscita persino ad affrontare Naruto e, in qualche modo, a dargli l’addio, con un sorriso sulle labbra, dopo che lui l’aveva violentemente sollevata da terra con le piante dei piedi. Sasuke era certo che in quell’istante la ragazza dai capelli blu avesse fatto chiarezza nel proprio cuore, riuscendo finalmente a capire quell’incolmabile differenza che corre tra l’affetto e l’abitudine. O, almeno, lo sperava. Auspicava che lei avesse intuito che dietro al nome dell’Uzumaki si nascondeva solo una consuetudine, non il cuore. Certo, peccava di presunzione nel desiderare di riuscire a riempire il vuoto lasciato dal biondo, ma scrollò le spalle. Essere tracotante era un suo difetto, non poteva nasconderselo, ma sapeva che quell’arroganza non era del tutto ingiustificata, perché aveva colto un barlume di verità nelle iridi chiarissime della Hyuga. Sapeva che lui non era del tutto indifferente, per quegli occhi.
             Mentre osservava la pallida luna, al di là della finestra, non poté evitare di ripensare al lattiginoso incarnato dell’epidermide della ragazza. L’aveva sfiorata con le labbra, con i polpastrelli, ma non era andato oltre. Per la prima volta nella sua giovinezza, era fiero di sé, del rispetto che nutriva verso Hinata. Voleva mantenerla pura, anche a costo di dannare se stesso e i propri istinti animali. Non meritava un trattamento brusco, andava protetta, e lasciare inviolata dagli occhi del desiderio la sua pelle diafana era solo il primo passo. Con tutte le proprie ombre alle spalle, si sarebbe comunque proteso a raggiungere e tutelare la sua luce.
              Ancora non si spiegava come potesse essersi ridotto a pensare costantemente a lei, a metterla al primo posto, quasi obbligandosi a dimenticare se stesso. Non gli era mai successo e sapeva esattamente cosa ciò significasse, pur non trovando la forza di ammetterlo.
              Itachi gli aveva chiesto se stesse bene, e lui aveva risposto con un “no”. “No, non lo so”, ecco l’esito corretto di quella negazione. Si sentiva perfettamente, fisicamente parlando, ma la testa era altrove, a qualche chilometro di distanza da casa. Tutto ciò cui riusciva a pensare era lei, e non trovava pace. Eppure sorrise, scoprendo i suoi incisivi e canini bianchi, trasformando quell’espressione in una risata tanto armoniosa, quanto sconvolgente. L’eco della sua voce si schiantò contro le pareti della stanza, che a malapena ricordavano il suo timbro.
              Finalmente, dopo mille lotte contro se stesso e i propri sentimenti, aveva capito. Era così semplice: era innamorato.
 
***
           
A villa Hyuga, alle ventidue e dieci, regnava già il silenzio.
              Hiashi si era ritirato in camera sua, portandosi dietro un pesante tomo del Codice Civile di un paio di decenni prima: scovare le differenze tra la legislatura attuale e la passata era uno dei suoi pallini fin da quando, anni e anni prima, era un diligente studente di Giurisprudenza.
              Odiava ammetterlo, ma l’unico motivo per cui ancora sfiorava quei libri era che essi gli ricordavano la propria giovinezza. Quando le dita si appoggiavano su quelle pagine ingiallite e consunte, il suo cuore riprendeva a battere, o meglio, lui riusciva finalmente a sentirlo martellare. Era probabilmente stato uno dei momenti più felici della sua vita, quello universitario, e non perché all’epoca era uno studente modello o l’orgoglio della famiglia, ma perché c’era lei. Era là che l’aveva conosciuta e se n’era lentamente innamorato, passando da un’antipatia reciproca alla più cieca passione. Si erano laureati a distanza di pochi giorni e nel giro di un anno si erano sposati, diventando ben presto genitori.
              Haiko gli mancava terribilmente, per quanto cercasse di non pensarci mai. Di giorno era facile divagare con la mente, non cadere nei suoi sporchi giochi al massacro, ma con il calar del sole la malinconia lo assaliva, vuoi un po’ perché si chiudeva nell’ufficio, vuoi perché non aveva di fronte il sorriso di Hanabi o la rassicurante serenità di Hinata. Quei tomi, poi, per quanto lui vi si attaccasse ogni notte, non erano per niente un bene. Vagare fra quelle righe sottolineate a matita, ai lati delle quali leggeva, qualche volta, i messaggi della moglie, lo rabbuiava.
              Al prossimo esame, ti straccerò!
             Con te non si può proprio ragionare (ma è per questo che mi piaci).
             Ti amo, testone!
             Domani è il gran giorno… e poi toccherà a me, indossare il tocco! Smettila di leggere il Codice e vedi di comprarmi qualcosa di carino!
             Grazie.
            Sarò al tuo fianco, fino alla fine.
            Tu sei la ragione per cui io esisto.
            Una lacrima pesante, stillata nel corso di anni di pensieri dolorosi, baciò la carta, sciogliendo leggermente l’inchiostro secco.
             «Tu eri la mia, Haiko», mormorò asciugandosi la guancia e tamponando la pagina con un fazzoletto. «Ma ora lo saranno le nostre bambine, te lo prometto», sorrise, riponendo il libro sul comodino e spegnendo l’abat-jour.
 
Se c’era una cosa che Hinata aveva ereditato da suo padre, oltre al colore degli occhi, era la costanza nello studio, soprattutto negli orari meno consoni.
            Era comodamente seduta in poltrona, nel salotto, con la luce della lampada verticale puntata sul libro di Storia. Aveva rassicurato gli zii che avrebbe pensato lei ad aspettare Neji, che lo faceva volentieri, dal momento che loro si sarebbero dovuti recare al lavoro e necessitavano più riposo di una semplice studentessa. Inoltre, li aveva tranquillizzati sul fatto che loro figlio non avrebbe fatto tardi, essendo un liceale diligente e pronto a svegliarsi all’alba.
            Nella calma della villa, aveva cominciato a studiare qualche pagina del manuale, in vista di una possibile interrogazione dell’Hatake.
            Leggere anche gli argomenti più pesanti, a quell’ora, nel silenzio più totale, diventava quasi un piacere; riusciva a immergersi nella lettura dei testi scolastici con la stessa facilità con cui s’immedesimava nei protagonisti dei suoi romanzi preferiti, immaginando ora di essere Napoleone, ora un membro della dinastia Meiji.
            Quell’armonia fu spezzata solo dalla vibrazione del cellulare, sul bracciolo della poltrona. Hinata chiuse lentamente il libro, osservando il display: la chiamata in entrata proveniva da un numero privato.
            Il fatto di non poter sapere chi la stesse cercando la turbò alquanto, ma si ricordò che Neji le aveva detto che aveva dimenticato il cellulare a scuola; forse era lui e stava chiamando dal telefono di qualche suo amico, oscurando appositamente il numero, o da una cabina telefonica. Magari voleva avvertirla che avrebbe fatto tardi e di non preoccuparsi.
            Il pensiero che potesse trattarsi di suo cugino, la spinse ad accettare la chiamata.
            «P-pronto?», balbettò sottovoce.
            «Hinata Hyuga?», chiese un uomo, dall’altro capo dell’apparecchio.
            Le sembrò che il sangue cominciasse a fluire meno velocemente, in quel momento, mentre alle orecchie giungeva il battere impetuoso del suo cuore; quello non era Neji, né una voce familiare. Come se fosse guidata dal sesto senso, capì che qualcosa non andava.
            «S-sono io», mormorò impaurita, trattenendo il respiro.
            «Se vuoi rivedere tuo cugino, esci di casa e lasciati il quartiere alle spalle, imboccando la strada principale. Se ci tieni a rivederlo vivo, presentati senza nessuno, men che meno la polizia», le ordinò con freddezza, prima di attaccare.
            Le vene le si erano ghiacciate, mentre, incapace di muoversi, ascoltava il suono di fine chiamata. I suoi occhi elargivano copiose lacrime, e lei non riusciva a trovare la forza nemmeno per respirare.
            Per i primi dieci secondi, pensò che si potesse trattare di un incubo. Chissà, magari si era addormentata con il libro in grembo e, una volta svegliata, avrebbe trovato Neji a fissarla con aria seccata. Non importava, glielo avrebbe perdonato e lo avrebbe abbracciato ancora, senza curarsi del suo diniego.
            Si accorse solo allora che stava già stringendo il manuale chiuso, nella mano, e che l’altra era ancora ferma all’altezza del padiglione auricolare, con il telefonino fra le dita. Sentiva il peso di entrambi gli oggetti gravarle sui carpali, così come le lacrime solleticarle malvagiamente il bordo del viso.
            Agghiacciata, scoprì che quella era la realtà e che, probabilmente, tutto ciò che era avvenuto prima della telefonata, era stato solo un sogno.





Saaaalve a tutti! 
Prima di tutto, come sempre, mi sento in dovere di chiedere perdono per la lunga attesa: non è stato un periodo facile, fra impegni, corse, regali, università e chi più ne ha, più ne metta XD Tra l'altro, l'ispirazione è stata un po' ballerina, in questi giorni (ma ora sta facendo la brava) ;)
Mi è piaciuto cercare di descrivere la metamorfosi di Neji, così come quell'attimo di debolezza - ma forse sarebbe meglio chiamarla semplicemente "umanità" - di Hiashi (NB: ho appena cercato la frase "tu sei la ragione per cui io esisto" su Google e ho scoperto che è stata pronunciata anche in "A Beautiful Mind"... aww citazione felice, seppur inconsapevole! Adoro quel film).
Spero non vi sia dispiaciuto :) E' stato un capitolo più riflessivo, ma, nel prossimo - come preannunciato - ci sarà qualcosa di più dinamico e "forte". 
Oh, e Sasuke ha le idee terribilmente chiare, ora.
Abbiamo anche scoperto chi è il personaggio misterioso; magari Hidan non sarà originale, ma è il più sadico che mi è venuto in mente XD Ad ogni modo, vi ringrazio di cuore per i vostri consigli! E' stata una dura scelta!
Così come vi ringrazio per le recensioni, i click nelle seguite/preferite/ricordate e fra gli autori preferiti! *-* Grazie davvero!!
Novità: ho aperto una pagina personale su fb (
https://www.facebook.com/ophelia.uchiha) e chiunque avvertisse il malsano desiderio di scambiare due chiacchiere con la sottoscritta, è ben accetto ;D seriamente, per me sarebbe un piacere!
Natale è alle porte, siamo tutti più buoni... e siccome il simpatico barbuto di rosso vestito non passerà da queste parti, temo, vorreste trasformarvi in piccoli grandi benefattori e lasciarmi una minuscola recensioncina? *occhi dolci, nonostante le occhiaie* Graaazie :3
Dal mio pigiamone rosso e verde che mi fa sembrare un agrifoglio pompato da chissà quale prodotto chimico (naaa non è vero, è colpa della cioccolata... e del cenone di stasera che sto già pregustando con l'immaginazione), vi invio i miei più cari auguri di un sereno Natale! Auguri a voi, alle famiglie, a chi vi sta a cuore! :D
Spero di aggiornare prima del nuovo anno (anche se temo che prima farò un salto nelle altre due long... poverine, bisogna pensare anche a loro XD), buon 2014! :D
A presto, oh oh oh!
Baci 


Babbo Nat Ophelia

 

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Capitolo 14
*** Un cadavere che respira ***


14. Un cadavere che respira
 

 
Per quanto sconvolta, Hinata doveva reagire; capì immediatamente che bisognava sbrigarsi e rischiare, raggiungendo il luogo prestabilito per l’incontro. Niente giubbino, a stento si era ricordata d’indossare le scarpe da ginnastica, per poter muoversi più agilmente.
            Non comprendeva come Neji potesse essere stato tanto sprovveduto da essere rapito, dal momento che era imbattibile nelle arti marziali e che, quella sera, era in compagnia di Itachi, un ragazzo intelligente e altrettanto abile in quella disciplina.
            Non importava, sarebbe stato compito suo recuperarlo.
            Mentre usciva silenziosamente di casa, abbandonando il cellulare sulla poltrona – onde non provare la tentazione di chiamare qualcuno – lungo il tragitto verso la strada indicatale, si sentì il cuore pervaso da due sentimenti potenti e micidiali.
            Tremava di paura, sì. Le gambe a malapena la sostenevano, mentre correva a perdifiato per il quartiere lussuoso dove era cresciuta. Più di una volta aveva rischiato d'inciampare, mentre la vista le si era appannata, dietro le lacrime salate. Osservando le case dalle luci spente, capì che forse quella sarebbe stata l’ultima volta in cui le avrebbe viste, così come la sua famiglia. Hiashi, Hanabi, gli zii, Neji… avrebbe raggiunto sua madre, forse, ma si sarebbe lasciata loro alle spalle, per sempre. Essere pessimista, per quanto la vita fosse stata dura con lei, non era nella sua natura, ma con un ricattatore sapeva benissimo quali fossero i rischi. Non era stupida; leggeva i giornali, seguiva i notiziari e non poche volte le si era raggelato il sangue nelle vene, quando aveva appreso di ragazze finite male, squartate da sconosciuti.
            Eppure, l’altro impulso la spingeva ad andare oltre i timori, a proseguire, a lottare, a fare per la prima volta un passo di sua volontà, un’azione eroica. Quello era il suo momento di agire, l’istante vero, pieno, vissuto, a cui tutta la sua esistenza si sarebbe ridotta. Una volta aveva letto che il valore di una vita si misura nel modo in cui si muore. Inevitabilmente ripensò a sua madre, deceduta nel tentativo di salvarla, opponendo il proprio corpo all’accartocciarsi delle lamiere; nel suo piccolo, Hinata avrebbe cercato di emularla, se possibile. Neji le era caro più del liquido scarlatto che le scorreva nei vasi sanguigni. Era come un fratello, lo metteva sullo stesso piano di Hanabi, avrebbe fatto di tutto, per lui, a maggior ragione dopo la bella piega che il loro rapporto sembrava aver cominciato a prendere.
            Ancora non credeva che il destino potesse essere stato tanto crudele nei suoi confronti: una volta che le cose stavano volgendo al meglio, anche per lei, ecco che tutto le si rivoltava contro, nella maniera più terribile e dolorosa. Nel suo fato era scritto che avrebbe dovuto subire altre sofferenze, ma le avrebbe abbracciate volentieri, se ciò avesse risparmiato Neji.
            E poi, quando quasi stava raggiungendo l’angolo che portava alla strada principale, la folle idea che tutto potesse volgere al meglio le balenò in mente. Nei momenti più disperati si è pronti a credere a qualsiasi cosa, anche ai miracoli. Lei pregava spesso, anche silenziosamente, ma in quel momento, presa a correre e, contemporaneamente, a incanalare aria a sufficienza, i Kami non erano in cima ai suoi pensieri; eppure, nonostante non stesse invocando una minima forma di benedizione divina, riuscì a immaginare che magari sarebbe uscita viva da tutta quella situazione, indenne e invitta, portando con sé Neji. Non voleva riconoscimenti, né gloria. Avrebbe di buon grado ricevuto un sonoro schiaffo da suo padre, una volta che si fosse accorto della sua assenza, in quelle ore, o accettato di non poter più vedere i suoi amici, o Sasuke, ma avrebbe fatto il possibile per il consanguineo.  
            Una morsa allo stomaco quasi la fece piegare e stramazzare al suolo, in preda a qualche conato di vomito, quando intravide la strada. Ingoiò la poca saliva che le restava in bocca, cercando di reprimere la nausea e la fatica, entrando in quello che poteva ormai considerare territorio nemico, con gli occhi chiusi.
            Aveva volontariamente oscurato la vista, rallentando la corsa, ma poteva percepirlo. Lui era lì, sentiva le sue pupille puntate addosso, a penetrarle la carne; ne avvertiva l’odore, trasportato dal vento freddo, e il senso di rigurgito acuì; alle orecchie arrivò quasi anche il suono impercettibile del suo respiro, mentre lei si augurava di non dover più ascoltare il ritmo rimbombante e impaurito del proprio cuore.
            Nel momento esatto in cui si fece coraggio e decise di risollevare le palpebre, capì di essere in trappola.
 
Il giovane uomo sorrise sotto i baffi, quando vide sbucare fuori dal viale la ragazza. Da acuto osservatore quale lui era, aveva intuito subito quanto fosse impaurita. Forse aveva ragione Karin, sarebbe stato un gioco da ragazzi impartirle una lezione, ma quella sera aveva voglia di fare sul serio; una volta tirato in ballo, avrebbe dimostrato quanto migliore di Kakuzu potesse essere.
            Le fece cenno di avvicinarsi, e intravide un piccolo segno di cedimento nel suo sguardo terrorizzato.
            La ragazza dai capelli blu come la notte tremava al pari di una foglia, ma avanzava con passo fin troppo sicuro, in sua direzione, e il sorriso di Hidan si allargava lentamente sul volto. La Uzumaki non gli aveva minimamente accennato quanto quella preda fosse carina.
            Hinata si fermò a cinque metri dal manigoldo, stringendo i pugni. Ora che la guardava bene, non sembrava spaventata quanto prima aveva creduto; più che altro, appariva determinata ad andare a fondo nella vicenda. Perfetto, perché per lui valeva lo stesso.
            «Ti ha seguita qualcuno?», le chiese con tono severo.
            La Hyuga scosse la testa, cercando di respirare con calma.
            «Sali in auto!», le ordinò lui, aprendo la portiera del lato passeggero.
            «Dov’è Neji?». La voce era più ferma delle sue gambe incerte, ma lei non riuscì comunque a stupirsene, data la preoccupazione.
             L’uomo dalla chioma grigia ghignò sinistramente, osservandola. Certo che ne aveva di fegato, a dispetto di come l’aveva descritta Karin! La rossa gli aveva tracciato un profilo che la faceva somigliare a un mollusco, una senza spina dorsale, ma la forza con cui lei aveva posto quella domanda e il modo aggressivo con cui aveva piantato gli occhi nei suoi lo fecero ricredere. Forse non era la persona più coraggiosa del mondo, ma non era nemmeno una codarda.
             «Tutto a suo tempo», rispose con calma Hidan, montando in auto.
             Hinata capì di non aver scelta che seguirlo. Se voleva ritrovare Neji, l’unica via era quella da percorrere affianco a quell’uomo.
             Chiuse la portiera, allacciò la cintura e si preparò ad essere inghiottita dal buio.
 
L’auto si fermò nei pressi del nuovo parco in via di costruzione, un cantiere a cielo aperto che da mesi non era in attività.
             Un tempo, quel luogo era stato un meraviglioso angolo di vegetazione rigogliosa, un piccolo Eden dove lei, sua sorella e Neji avevano passato parecchie domeniche insieme con la loro famiglia, ma da qualche anno le piante erano state sradicate, la terra smossa con gru che ancora giacevano ferme, e il laghetto con le ninfee era stato cementato, allo scopo di ricavarne una vasca con fontana. Quella scelta dell’amministrazione comunale era stata paradossale: distruggere una sorta di paradiso per costruirne un altro, artificiale, spendendo una cifra esorbitante, per poi accantonare il progetto quando i soldi si erano rivelati essere insufficienti. Come gran parte delle assurdità, quel progetto era stato accolto con fervore dalla gente, immaginando quanto potesse essere meraviglioso il risultato finale, ma ora ben pochi ricordavano la promessa del sindaco e si occupavano di protestare contro quello spreco.
           Hinata sorrise, provando un senso di poderoso orgoglio; a combattere rimaneva suo padre, che fin dall’inizio aveva condotto una lotta contro il disegno del comune; ora che il danno era stato fatto, premeva perché almeno venisse portato a termine. Era una delle ragioni per cui il genitore, per quanto severo, le era sempre parso come una persona dal cuore d’oro, disposta ad invertire rotta rispetto ai propri ideali, pur di far trionfare la giustizia.
             Era così strano, ritrovarsi lì. Davvero cominciava a credere nel destino, nella sua ironia di dubbio gusto, che l’aveva ricondotta in quel parco, proprio per far da scenario al suo incontro con Neji.
 «Lui dov’è?», chiese subito, liberandosi dalla cintura di sicurezza.
             Hidan sogghignò ancora in quel modo raggelante e uscì dall’abitacolo. La ragazza, morsa da un impeto cieco di rabbia, lo raggiunse subito presso il muretto mezzo franato, su cui giacevano ancora degli strumenti di lavoro.
             Stringeva i pugni, con i nervi a fior di pelle. Aveva seguito la sua volontà, accettando di salire in auto e di non contraddirlo, ma ora aveva bisogno di suo cugino.
             «Dov’è Neji?», urlò, prendendolo per la giacca e strattonandolo. La furia era così acuta da non permetterle nemmeno di ragionare su ciò che stava facendo, né di stupirsi di tutto quell’ardore che proprio non era una sua caratteristica.
              «Non c’è che dire, l’Uchiha se le sceglie molto carine», commentò quello, bloccandole le mani e osservandola con divertimento.
              Cosa c’entrava Sasuke, ora? Hinata non capiva, ma non aveva nemmeno tempo e la giusta concentrazione per potersi fermare e chiedere spiegazioni. La chiarezza non era la sua priorità, al momento. Voleva solo riabbracciare suo cugino e andarsene da lì; sarebbe stata persino disposta a chiudere un occhio sul rapimento, se tutto si fosse concluso alla svelta.
              «Ridammi indietro…».
              «Sta’ zitta!», tuonò l’uomo, stringendole le guance con una mano e avvicinandosi al suo volto con aria minacciosa. Voleva osservare quei meravigliosi occhi da vicino, vedervi riflesso il suo ghigno sinistro e bearsi del terrore che riusciva a provocare.
              Per quanto cercasse di divincolarsi dal braccio che la spingeva con la schiena contro la parte più alta del muretto, incrociare le iridi vermiglie del ragazzo le provocò dei brividi capaci di annullare tutto il coraggio che le aveva attraversato il sangue. Non voleva cedere, si era promessa che avrebbe fatto di tutto per Neji, ma aveva paura. Quella sensazione orribile, che conosceva fin troppo bene, era tornata a farle visita, impedendole persino di muoversi.
              «Tu non hai ancora capito con chi hai a che fare, Hyuga», sibilò quello, spintonandola violentemente contro la parete di tufo. «Saresti un gradito sacrificio per Jashin, così bella e innocente», continuò, leccandosi le labbra e portandole una mano al collo, stringendolo con forza. «Peccato solo che io non abbia con me il necessario per il rituale. Ma non temere, ho in mente un altro programma per la serata».
              Hinata voleva urlare, ma riusciva a malapena a respirare, con quelle cinque pesanti dita a premerle sulla giugulare. Non poteva credere che stesse succedendo sul serio. Cosa aveva fatto di male, per finire in quel modo?
               Sentiva il soffio del ragazzo farsi sempre più pesante e vicino, mentre il suo corpo la teneva bloccata al muro e, con l’altra mano libera, le abbassava la zip e la liberava della felpa.
              Aveva freddo e voleva morire, anche in modo inglorioso.
             «Una quarta?», mormorò fra sé e sé l’energumeno, posando lo sguardo sulla sua semplice maglietta bianca.
              Aveva un fisico ben sviluppato e ciò lo mandò su di giri in men che non si dica. Non poté resistere a lungo e le strappò senza grazia, né minima traccia di pietà, la t-shirt, partendo dallo scollo a V per arrivare all’ombelico, e poi le abbandonò i lembi squarciati lungo le braccia, giù per le spalle.
              I suoi occhi cupidi la scrutavano con la stessa smania con cui una belva sanguinolenta si ciba di carne fresca. Era bellissima; proprio un peccato che non avesse l’occorrente per quel rituale! Ma Jashin l’avrebbe perdonato, se avesse comunque disposto di lei in altro modo.
              «Una quarta abbondante», confermò con un ghigno soddisfatto, accostando una mano allo scollo della ragazza.
             I brividi si erano moltiplicati, lungo la sua schiena, ma fu in quel momento che si ricordò della promessa fatta a se stessa e a Neji: l’avrebbe salvato, non avrebbe più permesso alla paura di renderla sua preda. Avrebbe lottato con ogni mezzo, anche con i denti, se necessario.
            «Lasciami!», ringhiò con gli occhi chiusi, scrollandogli con sicurezza una mano dalla bretella del reggiseno.
            Hidan scoppiò a ridere, senza prenderla sul serio. Pensava di intimorirlo? Al contrario, quel piccolo barlume di coraggio lo stuzzicò ancor di più, tanto che cominciò ad accarezzarle lentamente le anche.
            Hinata riaprì gli occhi e nelle sue pupille non c’era traccia di misericordia umana, né di paura. Nemmeno una lacrima solcava il suo volto, così come neppure un fremito deturpava la sua voce.
            «Ho detto di lasciarmi!», urlò finalmente, quando lui aveva già iniziato a sbottonarle i jeans.
            Lo allontanò con una spinta poderosa, smisurata rispetto alla sua figura piuttosto minuta. La forza che aveva attraversato il suo corpo le faceva ancora tremare le mani lungo i fianchi, ma lei era incapace di ricomporsi, presa ad osservare con disprezzo quell’uomo dalla stazza imponente, improvvisamente ai suoi piedi, che la guardava con stupore.
            Si ridestò non appena sentì l’aria fredda colpirle la pelle scoperta e cominciò a correre verso l’auto. Non sapeva ancora guidare, ma sperò comunque che lui avesse lasciato le chiavi inserite nel quadro. In qualche modo, l’avrebbe messa in moto e avvertito la polizia.
           Mentre raggiungeva la vettura, maledisse la propria scelta di non portare con sé il cellulare. Che stupida! Perché si era lasciata vincere dalla paura di poter commettere l’errore di telefonare a qualcuno?
           Afferrò con forza la maniglia e cominciò freneticamente a tirare per aprire lo sportello, ma non successe nulla; quel bastardo aveva bloccato la serratura.
          «Cercavi queste?», le chiese, facendo tintinnare il mazzo di chiavi.
           Hinata si girò di scatto, terrorizzata, e lo vide avvicinarsi con tutta calma in sua direzione. Il sorriso maligno sul volto del giovane non prometteva nulla di buono; era perduta, lo sapeva benissimo. Con quell’azione avventata si era giocata la possibilità di uscirne indenne.
           «Avevi detto che avrei rivisto Neji!», gli ricordò, cercando di coprirsi con i resti della maglietta.
           «Oh, ma infatti lo rivedrai. Non ho detto quando, però», ridacchiò quello, ormai a pochi passi dalla sua preda.
           Non riusciva a parlare, ormai le gambe le tremavano e poteva reggersi in piedi solo perché appoggiata alla carrozzeria dell’auto. Le spalle rabbrividivano e lei aveva solo voglia di fuggire, ma non ne sarebbe mai stata in grado.
           «Non ti hanno insegnato a non fidarti degli sconosciuti che telefonano alle dieci di sera?», la prese in giro lui, bloccandola nello spazio fra le sue braccia.
           Ancora una volta, in quella giornata, era in gabbia; eppure, era una trappola diversa da quella della palestra. Gli occhi violacei che la fissavano erano pieni di turpe desiderio, di una bramosia malsana, dolorosa, smaniosa solo di ottenere ciò che il corpo desiderava, senza curarsi delle ferite che lui avrebbe potuto lasciare, anzi, godendo ancor di più, se fossero state cicatrici indelebili che avrebbero sottolineato la totale mancanza di umanità di Hidan.
           Più fissava le iridi purpuree del suo aguzzino, più anelava rivedere quelle nere di Sasuke. Con lui si sentiva sempre al sicuro, qualsiasi fosse la situazione, dalla più banale alla peggiore. Era sicura che, anche in quel frangente, lui sarebbe stato in grado di toglierla dai guai, ma mentre saltava a tale conclusione, si sentì tremendamente egoista e debole. Non aveva nessun diritto a pensare all’Uchiha, in un momento del genere, perché la sua immagine rassicurante non poteva essere accostata a quella terribile situazione; oltretutto, non avrebbe mai desiderato che il moro si cacciasse in un guaio come quello a causa sua, che arrivasse a rischiare tanto per lei. Già Neji, pochi giorni prima, gli aveva dato parecchio filo da torcere.
             Sarebbe stata una settimana esatta, l’indomani, mercoledì; sarebbero stati sette giorni dal preciso momento in cui era entrato nella sua vita. Si sentiva così stupida a fantasticare tanto su di lui! Sperava solo di raggiungere quel traguardo: ammirare l’alba e guadagnarsi l’onore di poter pensare a lui, senza timore, senza remore, senza alcuna traccia di dubbio, dacché quel bacio aveva compiuto un piccolo miracolo, in una come lei. In pochi secondi, Sasuke Uchiha era riuscito a spazzare via ogni traccia di Naruto.
              Ora toccava a lei. Per poter esser degna di camminare ancora al suo fianco, avrebbe dovuto dar prova di sé, mostrare tutto ciò di cui era capace e, proprio come aveva intuito nella frenetica corsa fuori di casa, una mezz’ora prima, capì che quella era la sua ora, il suo momento.
               «Non avvicinarti!», cercò di intimidirlo, senza incrinare la voce.
               Hidan, al contrario, portò le mani ruvide sul suo ventre; lentamente risalivano lungo le costole, arrivando sotto ai seni. Il depravato si leccò le labbra, pronto ad attuare il suo personalissimo piano di rovina. Al diavolo Karin e i suoi discorsi ottimistici: la ragazza che si trovava di fronte sembrava possedere più carattere del previsto. Pensò che fosse arrivato il momento di spiazzarla totalmente, per riuscire nell’intento.
             Ma qualcosa non andò secondo i suoi progetti, perché Hinata gli colpì il naso con un pugno piuttosto violento, costringendolo ad indietreggiare di qualche passo. La giovane ansimava, con aria ferita, e cominciò ad urlare, nel vano tentativo di attirare l’attenzione di qualcuno.
            Corse subito in direzione dell’uscita del cantiere, per immettersi sulla strada, senza curarsi di recuperare la felpa. Aveva freddo, ma non voleva più morire.
 
Ogni falcata le spezzava lentamente il fiato, facendole pensare che allontanarsi da lì, forse, avrebbe anche significato prendere momentaneamente le distanze da Neji, ma non poteva rimanere ferma, non si sarebbe mai sottomessa alle chiare e sporche volontà dell’uomo dai capelli argentei. 
            Mentre correva, iniziò a pregare mentalmente i Kami perché provvedessero almeno alla protezione del cugino, se non alla sua, siccome avrebbe fatto del suo meglio per salvarsi da sola.
            Si girò di sfuggita e intravide la sagoma di Hidan avvicinarsi sempre di più, finché il suono dei suoi passi arrivò persino a coprire quello dei propri. Strinse i denti e ignorò il fiato corto, la fitta alla milza, l’aria gelida dritta allo stomaco, cercando di lanciarsi il più avanti possibile e fissando gli occhi sulla strada. Non era così lontana, sarebbero bastati altri venti metri. Una macchina sfrecciò velocemente e lei ne udì il rumore; la salvezza era quasi a portata di mano e sorrise, trattenendo a stento le lacrime. Se avesse raggiunto la via principale, qualcuno di sicuro l’avrebbe vista!
            Nel giro di un secondo, però, si trovò con le mani e il mento nella melma di una pozzanghera, e un corpo pesante sulla schiena, che le bloccava le spalle con poca delicatezza.
            Hinata sollevò a malapena la testa, tornando a guardare l’uscita del parco. Era finita, ora non c’era più nulla da fare. Annaspava faticosamente e non trovava il fiato necessario neppure per sussurrare un’ultima richiesta d’aiuto.
            «I giochi sono finiti», bisbigliò malignamente Hidan, al suo orecchio, rannicchiandosi su di lei e costringendola a ruotare supina.
            Ora poteva guardarla in faccia e riempirsi di malsana felicità, d'orgoglio, scorgendo la morte della speranza nei suoi occhi. Aveva vinto quel duello senza regole, aveva prevalso anche sull’ultimo accenno di temerarietà della fanciulla.
            «Mi hai fatto girare i coglioni, troietta!», esclamò rabbioso, tirando su con il naso e controllandosi le mani. Qualche goccia di sangue gli aveva macchiato il viso, arrivando alla bocca, e lui si leccò il labbro superiore. Il sapore ferreo acuì il desiderio di darle una lezione.
            Non provava pietà per nessuno, Hidan, men che meno per chi metteva a dura prova i suoi nervi. Inoltre, credeva fermamente nella parità dei sessi e per questo trattava indifferentemente uomini e donne, senza esitare a passare alle maniere dure nemmeno con il gentil sesso.
            L’ignobile uomo premette un ginocchio sullo sterno della Hyuga, gravandole addosso con tutto il suo peso e costringendola ad urlare di dolore. Quel suono era musica, per le sue orecchie, e non indugiò oltre, colpendole la guancia con un sonoro schiaffo; l’anello che portava sull’indice le graffiò il volto e lui sorrise, osservando quell’escoriazione tingersi di rosso.
            «Avevo in piano una serata più tranquilla, per noi due, ma non mi hai dato altra scelta!», affermò con un ghigno sadico, alzandosi.
            La Hyuga tentò subito, seppur faticosamente, di risollevarsi, e quel degenerato aspettò che la giovane si rimettesse almeno in ginocchio, prima di assestarle un vigoroso calcio in pieno torace. Il tonfo fu così forte da superare il lamento di Hinata, che si accasciò di nuovo a terra, piegata in due e con il viso nella terra fangosa.
            Non aveva mai provato un dolore simile, né aveva mai augurato a nessuno di poterlo sperimentare. Si sentiva spezzata, così dilaniata da temere che non sarebbe più stata in grado di respirare come prima.
            «Ma guardati, sei tutta sporca! Non potrai mai mettere piede a Villa Hyuga, in quello stato!», rise l’energumeno, tirandole senza pietà i capelli infangati e costringendola ad alzarsi.
            Hinata non trovava più la forza per reagire, profondamente ferita e umiliata. Il dolore fisico passava in secondo piano, di fronte al senso di totale impotenza. Cosa ci faceva una come lei, al mondo? Era incapace di badare a se stessa e, fino a qualche minuto prima, era stata così spavalda da credere che sarebbe stata in grado di salvare suo cugino. Che bel buco nell’acqua, come il resto della sua vita!
            L’uomo la trascinava senza pietà verso l’angolo opposto del parco, strattonandola con veemenza per la lunga chioma. Lei si lasciava maltrattare come una bambola di pezza, ben consapevole che nemmeno la sua anima si trovasse più in quel corpo, tanto era disgustata.
            Ogni cinque passi inciampava e costringeva il ragazzo a fermarsi; lui, allora, spazientito, la sollevava, stringendole il collo con la mano libera e insultandola, per poi riprendere a camminare.
            Dopo qualche minuto, raggiunsero la grande vasca colma d’acqua piovana stagnante. La superficie era verdognola, scura e puzzava di palude, e Hidan non esitò a immergervi il viso della ragazza.
            «Da brava, lo faccio per il tuo bene. Cosa direbbe Neji, se ti vedesse tornare tutta sporca?», la schernì lui, tirandola di nuovo su.
            A Hinata bruciavano gli occhi per il freddo, ma il gelo non le impedì di ascoltare quelle parole.
            «C-che cosa?», mormorò con un filo di voce, fissando inespressiva le gambe del suo oppressore.  
            Lui rise fragorosamente, sentendola tremare per la bassa temperatura di quella notte e per la paura. «Hai capito bene, Neji potrebbe già essere a casa, a quest’ora».
             La squadrò accuratamente, soffermandosi sulle sue labbra tremanti e lo sguardo inespressivo. Era chiaramente sotto shock, ormai, ma non era ancora abbastanza.
             Si avvicinò a lei, ma Hinata non tentò più nemmeno di difendersi, quando lui la sollevò e la fece sedere sul bordo della fontana. Le sfilò i jeans – che già erano stati slacciati – con poca grazia, letteralmente tirandoli per le gambe, lasciandola così in intimo. Nella foga che aveva impresso per denudarla, le aveva anche tolto le scarpe e un calzino; la fanciulla concentrò lo sguardo proprio sul piede nudo, come in trance. Non capiva cosa stesse succedendo, né intendeva indagare. Aveva solo prestato attenzione a quella frase su suo cugino e ciò che restava di lei era caduto a pezzi.
              «Sei proprio bella», sussurrò il depravato, cominciando ad accarezzarle le ginocchia, per poi risalire velocemente e giungere al bordo delle mutandine. Le sue dita palpavano senza pietà l’interno delle cosce, avide di poter raggiungere l’epicentro del piacere carnale, ma finalmente Hinata si riscosse, guardandolo negli occhi.
              Era uno sguardo che di umano aveva ben poco, Hidan lo trovò persino inquietante; le sue pupille erano vuote, opache, spente, e l’espressione assente, corredata dal volto pallido e freddo e dai capelli ancora bagnati, le conferiva un’aria da spiritata.
             Non disse nulla, non tentò neppure di aprire bocca. Semplicemente, puntò le sue iridi smorte in quelle improvvisamente sorprese dell’uomo, che cercava ancora di bearsi del suo corpo, massaggiandole debolmente la schiena.
              Arrivò al gancetto del reggiseno, sotto la t-shirt sbrindellata, e non incespicò nemmeno un secondo, slacciandolo. Hinata si sentì morire.
               Non poté evitare di ripensare al gesto contenuto di Sasuke quando, ore prima, aveva riabbassato la sua maglietta e l’aveva stretta più forte a sé, reprimendo l’istinto animale. Era stato in quel momento che aveva avuto la certezza che qualcuno la rispettasse, che si preoccupasse per lei, e aveva anche compreso quanto l’Uchiha che lei conosceva fosse diverso dalle voci di corridoio che lo volevano immorale e senza cuore.
               Hidan le levò il reggipetto con un gesto secco, graffiandole le braccia con le spalline rigide, e sorridendo visibilmente, di fronte al seno svestito della giovane. La maglietta a malapena riusciva a nasconderle le areole, ma lei non trovava la forza di coprirsi nemmeno con un gesto istintivo delle mani.
              Aveva tentato tutto ciò che era in suo potere per salvarsi e proteggere Neji, ma non era valso a niente; in più, era venuta a conoscenza che era stata tutta una montatura, una spedizione punitiva nei suoi confronti, atta a rovinarla. Non capiva quale fosse il motivo, ma importava, a questo punto?
             Non smise di osservarlo, mentre lui la guardava con aria famelica, soffermandosi su ogni piccolo particolare del suo corpo. Infreddolita fino all’osso, a malapena sentiva le sue mani sui seni e le unghie conficcate crudelmente nella morbida pelle di quella zona, che le laceravano l’epidermide; quello era il suo marchio, il segno di un’altra – ignobile – vittoria. I bulbi oculari, brucianti per le troppe amarezze soppresse, non le permettevano di mettere a fuoco la rapidità con cui lui stava già armeggiando, un istante dopo, con la cerniera dei suoi pantaloni.
              Hinata chiuse gli occhi e finalmente lasciò che le lacrime le irrorassero le guance. Quello era il contatto che le era mancato per riprendere coscienza di sé, la calda carezza cui era avvezza da anni, che l’aveva fatta sentire viva anche nei momenti peggiori, quando avrebbe voluto trovarsi sottoterra. Quell’istante non era certo da meno, ma ora poteva accontentarsi solo dell’acqua.
               Prima che Hidan potesse avere la meglio sulla zip, la Hyuga si lasciò cadere come un peso morto nella liquida distesa scura alle sue spalle, gettandosi di schiena.
              L’uomo se ne accorse solo dal suono del tuffo e dallo strabordare del fluido dalla vasca; fissò la testa della ragazza riemergere lentamente e quella scena gli mise i brividi. Per un momento gli sembrò di essere finito in un film dell’orrore, con quello sguardo puntato addosso.
               «Cazzo, sei una psicopatica!», urlò stupefatto, avvicinandosi alla fontana.
               L’unico segnale che provava che lei fosse ancora in vita era il battito regolare delle ciglia. Hinata se ne stava immobile, con l’acqua fino al mento, e non proferiva parola. Sì, forse qualcosa si era davvero spezzato nella sua psiche, quella notte, ma non le era ancora chiaro cosa. La fiducia negli esseri umani? No, un semplice caso sfortunato non era in grado di annullare tutta la stima accumulata nei confronti delle persone; inoltre, lei sapeva benissimo che Hidan non poteva vantarsi del privilegio di appartenere a tale categoria, essendo una bestia sprovvista del lume della ragione.
                Capì, piuttosto, di provare ribrezzo verso se stessa e la propria costante impotenza. Aveva cercato di lottare, ma si era lasciata sopraffare in modo ignobile, rinunciando a proteggersi. Si era messa all’ultimo posto, ancora una volta, pronta a sacrificarsi, e stavolta non riusciva ad accettare la propria debolezza. Questo moto di profonda delusione non era dovuto a un’improvvisa crescita d’autostima, anzi, quel briciolo di amor proprio stava sempre più spegnendosi, con il passare dei secondi, ma alla consapevolezza di aver in qualche modo disatteso le speranze e i desideri di quelle persone cui lei stava a cuore. Lasciandosi prendere a calci, spogliare come un manichino e toccare senza sottrarsi alla violenza, aveva inflitto un duro colpo all’onore di suo padre, sua madre, di Hanabi, di Neji… e di Sasuke. Se c’era qualcuno da cui avesse voluto essere anche solo sfiorata, era dall’Uchiha, da quel ragazzo che sembrava tenere a lei.
                Un brivido la scosse, mentre ripensava al giovane: non sarebbe più stata degna di quell’affetto, né del privilegio di poterlo guardare negli occhi, di camminare con lui verso scuola, o anche solo di poter immaginarlo. Sasuke era ciò di più bello che il mondo le avesse offerto, dopo mesi e mesi di stallo e apatia, e ora l’aveva irrimediabilmente perso perché Hinata aveva deciso che era giusto così. Qualcosa di tanto prezioso non sarebbe più potuto minimamente essere accostato a lei, lei che era così immonda e ancora più insulsa, ora.
                «Perdonami, Sasuke», sussurrò a denti stretti, impercettibilmente, mentre le forti braccia di Hidan la tiravano fuori dalla fontana.
 
Il ragazzo la distese per terra senza troppa cura; la osservò tremare, mentre cercava di rannicchiarsi in posizione fetale. Era pietosa, la peggior larva umana con cui fosse mai entrato in contatto, e sorrise con aria compiaciuta, nel constatarlo. “Missione compiuta”, pensò, risistemandosi la giacca e avvicinandosi di qualche passo alla sua testa.
            Si piegò sulle ginocchia e lei sollevò leggermente il capo, onde guardarlo negli occhi. Quelli chiarissimi della ragazza dimostravano che lei non aveva più paura, ora che aveva perso la dignità.
            «N-non… Non mi t-toccare», biascicò, tornando ad appoggiare la guancia sul terreno e a fissare la punta delle scarpe dell’uomo. “Che deplorevole tentativo di autodifesa”, pensò fra sé e sé, mentre un velo leggero le si depositò sulle iridi.
            Hidan scoppiò a ridere sguaiatamente. «Non ti sfiorerei più nemmeno con un bastone, ora che ho scoperto quanto tu sia squilibrata! Dovresti guardarti, fai pena».
            Hinata sorrise debolmente, nonostante il dolore e la cattiveria di cui era stata ancora una volta oggetto.
            «Allora… f-forse hai ancora un briciolo di cuore», sussurrò chiudendo gli occhi.
            Quella frase lasciò l’energumeno perplesso: come poteva uscirsene con un pensiero del genere, dopo tutto quello che le aveva fatto? Non era abbastanza? O era ancora più stupida e sconsiderata dell’evidenza?
            Decise di ignorare quelle parole, sfoderando, un’ultima volta, la sua ferocia. Prese Hinata per le spalle e la costrinse ad alzare di nuovo il capo, scuotendola violentemente.
            «Non farne parola con nessuno, chiaro? Sei morta! So dove abiti, chi fa parte della tua famiglia… Hyuga, non credere che ora tu sia libera! Potrebbe essere l’inizio dell’Inferno, tutto sta a te!», tuonò con aria minacciosa.
            Si aspettava forse che avrebbe pianto o implorato misericordia? Un pensiero simile non le era passato nemmeno per l’anticamera del cervello. Hidan ignorava il fatto che Hinata aveva già attraversato gli Inferi e che ne era uscita rediviva e vittoriosa.
            Osservando il suo volto, intuì che la mente della ragazza fosse ormai partita per un viaggio sconosciuto, lontana da quel luogo, dalle sue grandi mani ruvide che ancora le stringevano le scapole, dai suoi occhi affilati.
            Capì che era incredibilmente forte, nonostante le apparenze, e la pietà fece davvero capolino nel suo cuore.
            Si alzò di scatto, lasciando che il suo busto baciasse ancora brutalmente il fango. Al diavolo Karin e il suo piano, aveva agito di testa sua e aveva combinato un mezzo disastro! La Uzumaki gli aveva detto solo di impaurirla, di fare in modo che lei capisse che, per il bene della sua famiglia, non avrebbe più dovuto frequentare Sasuke, ma ora si rendeva conto che aveva esagerato.
             Hinata tremava come una foglia, ma non cercava nemmeno più di coprirsi o di stringersi le ginocchia al petto. Era un corpo abbandonato al vento, alla notte, agli incubi che le giravano in testa. Era un cadavere che respirava.
 
Hidan si morse il labbro, invocando il perdono di Jashin per essersi lasciato momentaneamente impietosire. Si lasciò cadere di mano la felpa della ragazza, risalendo in auto. Lui era un sanguinario, un ragazzo di strada, uno senza regole, e quella giovane era solo l’ennesima preda.
              Ma ucciderla no, non era cosa da lui. Persino il suo personalissimo rituale religioso escludeva carneficine, “accontentandosi” di un leggero spargimento di sangue, una ferita curabile, inflitta a una vergine, in onore della sua divinità. Certo, poi ci pensava spesso lui a godere del corpo delle vittime sacrificali, ma quello era un altro discorso. Di fatto, non accettava la morte, né poteva sopportare che lui ne fosse la causa per qualcuno. Perché, per quanto si ostinasse spesso ad affermare il contrario, lui sapeva di non essere spietato e deplorevole quanto Kakuzu. Non dal suo punto di vista, almeno.
              Sospirò, estraendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Il danno era fatto, ma la missione era andata comunque in porto: era certo che la Hyuga non si sarebbe più avvicinata a nessuno, di quel passo. Digitò l’altro numero che Karin gli aveva fornito e portò il telefonino all’orecchio, riaccendendo il motore.
               La rossa aveva insistito perché Hidan lo chiamasse una volta che Hinata fosse stata impaurita a sufficienza, di modo che lui, giunto sul posto e preoccupato oltre ogni dire, avrebbe ricevuto un deciso rifiuto dalla Hyuga. Una strategia sottile per spezzargli il cuore, degna di quell’impulsiva ragazza capricciosa.
              Era un piano che non gli era sembrato per niente convincente, fin dal primo momento in cui la Uzumaki gliel’aveva comunicato, e lui aveva deciso di metterci del suo, soprattutto quando si era accorto della bellezza eterea della sua preda.
              La osservava ancora dallo specchietto retrovisore, mentre sfrecciava fuori dal cantiere. Per un secondo sperò che il progetto di Karin sfumasse e che il suo interlocutore fosse accorso immediatamente sul posto, salvando dalle fauci del gelo la Hyuga e potendo ancora godere del suo affetto. Una speranza vana, ormai, stupida e insensata, soprattutto se partorita dal carnefice di tutto, ma spontanea.
              «Sasuke Uchiha, c’è un regalino per te al cantiere del parco. Io non tarderei, se fossi nei tuoi panni», dichiarò atono, cercando di lasciarsi tutto alle spalle.
              Per sua fortuna, Hidan possedeva la perfetta immoralità di un vero criminale: una volta svoltato l’angolo, immettendosi sulla strada principale, il lieve senso di colpa, la speranza che Hinata si riprendesse e che Sasuke potesse salvarla, svanirono in un batter d’occhio, per far posto all’orgoglio.
             Non aveva nulla da invidiare a Kakuzu, sotto quell’ottica.






La befana Ophelia vien di notte, con le scarpe pantofole tutte rotte... sì, oggettivamente sono da cambiare XD
Ragazzi miei carissimi, chiedo scusa per il ritardo! Davvero, questo capitolo era uno di quelli cui tenevo di più perché uscisse ben descritto. Non sono ancora sicura che lo sia, senza conoscere il vostro parere, a dirla tutta :( Ad ogni modo, ha avuto un luuungo travaglio, mi ha fatta soffrire quasi quanto Hinata.
Oh quanto sono stata crudele, lo so :( Ma le ho risparmiato un disonore orribile, soprattutto grazie ad arcx (meriti un ringraziamento pubblico! :D), che mi ha fatta ragionare molto su quale piega far prendere alla vicenda... e ne sono soddisfatta, perché nulla è sfociato nel troppo tragico. Oddio, è pur sempre triste, ma non traumatizzante quanto l'avevo inizialmente immaginato :) come avevo preannunciato, ci sarebbe stato qualcosa di forte, ma non me la sono sentita di dare spazio alla violazione... Hinata non la meritava, povera! E non temete, lei è una Hyuga, saprà sorprendere :) Insomma, in poche parole: l'aggressione è deprecabile, Hidan è terribile, ma tutto è necessario ai fini della trama.
Spero di conoscere presto le vostre opinioni! :D
Grazie a tutti per l'affetto e la vicinanza! Essendo la sessione d'esami alle porte, non so bene quando riuscirò ad aggiornare, ma contateci che lo farò appena possibile! :D
[Oh, dimenticavo! Vi ricordate quando dicevo che Sakura Haruno non era esattamente fra i miei personaggi preferiti? Bene, sono lieta di comunicarvi che sto vincendo questo mio piccolo limite XD E per chi fosse interessato a scoprire come, troverà una FF rossa nella mia pagina ;)] 
Grazie di nuovo a tutti, giovani! A prestissimo, fate i bravi! ;)
Un bacione 


Ophelia


 

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Capitolo 15
*** La consapevolezza di saper amare ***


15. La consapevolezza di saper amare

 
 
I nervi gli si accavallavano con la stessa forza con cui le budella gli si attorcigliavano nel ventre, mentre sfrecciava per le vie di Konoha, a tutta velocità. Quella conversazione inaspettata l’aveva sconvolto e a nulla erano valsi i tentativi di chiarimenti, perché l’interlocutore aveva subito riattaccato, una volta comunicato il suo messaggio. Per quanto avesse desiderato richiamarlo, era impossibile riuscirci, poiché la telefonata era stata effettuata da un numero privato. L’unica soluzione era seguire il consiglio offerto dalla voce misteriosa e ignorare quella terribile sensazione che aveva cominciato a tormentarlo dal momento in cui aveva acceso il motore.
            Sasuke Uchiha, c’è un regalino per te, al cantiere del parco. Io non tarderei, se fossi nei tuoi panni.
            Quelle parole gli bruciavano nella testa, costringendolo a pensare più e più volte a cosa significassero davvero. Aveva dimenticato qualcosa, là? Impossibile, dato che non vi si recava da anni. Il nodo in gola aveva cancellato, però, ogni sorta di dubbio, richiamandogli alla memoria le tipiche frasi dei malviventi; erano dannatamente simili a quella riferitagli via telefono, e sapeva benissimo che genere di sorpresa aspettarsi.
            Strinse con foga il volante, avvertendo quasi un crampo, a causa del freddo e della tensione. Quel bastardo gli aveva certamente giocato un pessimo scherzo, magari mettendo in pericolo Itachi, Naruto o… no, non ci voleva pensare. Non lei, tutto ma non lei, perché era troppo innocente per poter essere sfiorata da mani ancora più sporche delle sue.
            Quello che non capiva, ad ogni modo, era il motivo per cui qualcuno avesse deciso di punirlo. Cosa aveva mai fatto di male? D’accordo, era uno stronzo, un menefreghista, uno strafottente senza riguardi, ma se si comportava male, lo faceva solo perché costretto, come riflesso condizionato da qualche pessima azione nei propri confronti. Se attaccava, sfoderando gli artigli, era solo per difendersi o proteggere chi gli stava a cuore.
            Ultimamente, poi, non aveva avuto modo di ferire nessuno in particolare, o almeno non gli pareva. Sì, forse Neji e Naruto, ecco, ma di sicuro la voce profonda e tagliente al cellulare non era quella dei suoi compagni di classe; inoltre, nessuno dei due poteva essere in grado di avanzare minacce del genere, nemmeno lo Hyuga.
            Si asciugò un leggero rivolo di sudore freddo con il dorso della mano, mentre la sportiva nera si avvicinava a tutta velocità all’ingresso del cantiere.
            Era un luogo che gli metteva i brividi. Non erano mai circolate voci confortanti, riguardo quel posto ormai abbandonato da tutti. Si parlava di droga, scontri tra gang di periferia, incontri a luci rosse e lotte clandestine, ma lui non ci aveva mai creduto seriamente; forse erano solo i soliti pettegolezzi di città. E poi, di martedì notte, chi mai poteva mettere piede, lì?
            Il dubbio che suo fratello potesse trovarsi nei guai era quello che più lo tormentava; non si sarebbe mai perdonato il fatto di non averlo accompagnato, quella sera, se adesso l’avesse trovato disteso a terra, al cantiere. Aveva anche provato a chiamarlo, ma il cellulare dell’aniki risultava sempre irraggiungibile e Sasuke, dopo diversi tentativi andati a vuoto, si era arreso e aveva optato per una velocità più sostenuta, onde accertarsi prima e di persona di quale fosse la sorpresa che lo attendeva.
            Varcò l’ingresso, alle ventidue e cinquanta, e inchiodò non appena si accorse di quella figura familiare stesa a terra.
 
Estrasse automaticamente le chiavi dal quadro, ma non si mosse di un centimetro. Il cuore taceva, mentre le pupille si dilatavano sempre di più, fino a ingoiare il nero carbone delle iridi. La mano che era rimasta appoggiata al volante si era stretta alla sintetica pelle scura che rivestiva lo sterzo, fredda e tremante.
            Era lei? Non trovava il coraggio per verificarlo, la paura lo stava divorando come il peggiore dei tarli.
            La vide sobbalzare quasi impercettibilmente, non appena le giunse il rombo dell’auto alle orecchie. Era spaventata e ne aveva tutto il diritto, a sua differenza. Tremava, totalmente esposta ai colpi del rigido vento di quella buia notte di pieno ottobre, brutalmente svestita e ferita, martoriata fino alle porte dell’anima. Sasuke si augurò che almeno quella fosse integra, mentre scendeva lentamente dalla vettura.
            Avanzò cautamente, e ogni metro acquistato era un centimetro di cuore trafitto. Quando la distanza si era ormai ridotta a dieci passi, non ebbe più dubbi: quella era Hinata, la sua fragile e delicata Hinata. 
            Il petto gli sembrò essere stato schiacciato da un macigno, per quanto gli doleva, mentre gli occhi scrutavano, inorriditi e attenti, ogni dettaglio della ragazza. Le sue gambe pallide e nude erano qua e là macchiate di fango, proprio come le braccia; le piccole mani bianche erano scorticate sulle nocche e le dita affondavano ancora nella melma, mentre la testa era abbandonata sul terreno. Le sue spalle discinte e il viso erano percorsi da filamenti scuri quanto la notte: i capelli bagnati si erano rappresi in innumerevoli, sottili ramificazioni, come alghe blu, e cercavano a loro modo di proteggerla dal gelo.
            Sasuke si avvicinò di qualche altro passo, ormai incapace di bilanciare il raccapriccio e la rabbia: il tutto si era annullato in una sensazione di nausea globale, che gli faceva svolgere solo le funzioni primarie, quali il respirare e il tenersi in piedi.
            Nello scorgere il profilo della Hyuga, un brivido gli percorse tutta la lunghezza della schiena; i suoi occhi erano spalancati, chiarissimi come sempre, ma vuoti, persi nell’orizzonte ristretto di quel parco in via di costruzione.
            «Hin… Hinata», sospirò sottovoce, lasciandosi cadere sulle ginocchia, quando ormai li separavano solo venti centimetri.
            La ragazza si strinse meccanicamente nelle spalle, cercando di abbracciarsi e nascondergli lo squallido spettacolo che era divenuta. Abbassò lentamente le palpebre, tremando, e lasciò che una lacrima le solcasse il volto; il nodo in gola la costringeva a singhiozzare, ma non possedeva nemmeno più la forza per emettere un suono.
            L’Uchiha allungò un braccio verso la giovane, all’altezza della sua spalla, ma non trovò il coraggio per toccarla, quando lei provò a ritrarsi. Poteva solo osservarla e rabbrividire insieme a lei, quando tutto ciò che voleva era stringerla e tentare di farle patire meno freddo.
            Capì immediatamente che qualcosa era cambiato, quella notte, che il filo sottile che aveva cominciato a legarli si era spezzato, anzi, era stato reciso nel modo più brutale possibile.
            All’orrore era subentrata l’ira, ora. Non poteva sopportare quella vista, non riusciva a tollerare che un’innocente fosse stata il capro espiatorio di qualche sua colpa. Non Hinata, non lei!
           «Chi è stato?», le chiese con un tono tanto roco e adirato da costringerla ad aprire gli occhi.
 
Lo fissava, ma le pupille non mettevano a fuoco nulla, se non la sagoma e i colori del giovane. Poteva scorgere il nero dei suoi capelli, ancora più scuro del cielo e del cappotto. Adorava quella tonalità, ma non l’aveva mai amata tanto come in quel frangente. Eccolo là, pronto a soccorrerla, a buscarsi un raffreddore, con quel vento maledetto che ancora le sferzava il corpo umido.
            Non farne parola con nessuno, chiaro? Sei morta!
            Sai che problema, la morte! Lei non la temeva, anzi, c’erano stati momenti in cui aveva auspicato che il Mietitore andasse a farle visita, ma da una settimana a quella parte, ogni cosa era improvvisamente cambiata. Il nero che tutti collegavano al lutto era divenuto, per lei, sinonimo di luce, di speranza, di vita. Non aveva posseduto grandi motivi per cui tenersi stretta all’esistenza, in quei cinque anni senza sua madre, ma da sette giorni, da quando l’aveva conosciuto, godeva di un’ottima ragione. Proprio per questo, sentiva di dover proteggere tale causa più di se stessa.
            «Chi è stato?», ripeté il ragazzo, sempre più furioso, guardandola negli occhi.
            «…’Suke», mormorò con un filo di voce, abbassando le palpebre.
            Quanto era bello riuscire a pronunciare il suo nome, nel momento del bisogno, come una preghiera!
            Quanto era amaro costringersi a non doverlo ripetere mai più, onde allontanarlo da sé e salvaguardarlo!
            «Sono qui, Hinata!», la rassicurò lui, avvicinandosi e apprestandosi a raccoglierla dal terreno.
            Non appena sentì il suo profumo tranquillizzante invaderle le narici, lei represse le lacrime, ingoiò il fastidioso nodo in gola e riaprì gli occhi, puntandoli nei suoi. Quanto era bello, quanto era prezioso, quanto le sarebbe mancato! Ma avrebbe ancora accarezzato il suo nome, prima dell’oblio.
            Inspirò profondamente, si concentrò sul suo volto e schiuse le labbra. Le palpebre le pizzicavano, ma era un tormento trascurabile, rispetto a tutta la sofferenza che le accartocciava l’anima.
            «Sasuke, vattene!». La voce era atona, ma chiara, inequivocabile.
 
Il ragazzo tremò, a quel comando.
            La fissò con il terrore nelle pupille, mentre stringeva i pugni e cercava di convincersi che si fosse trattato solo di un’allucinazione. Sì, sicuramente era soltanto un incubo; Hinata era a casa, immersa nel sonno, fra le sue calde coperte, con il capo morbidamente adagiato sul cuscino e la luce della luna riflessa sul candido volto, mentre lui si doveva per forza essere addormentato alla scrivania, pensando a lei. Un sogno angoscioso dovuto alla stanchezza della notte passata insonne, nient’altro.
            Eppure, più se lo ripeteva, meno ci credeva. Perché, ad esempio, la ragazza si stava raggomitolando su se stessa, insozzandosi di fango e lacrime, e come mai avvertiva quella rabbia pulsargli nelle vene? Perché non riusciva a svegliarsi? Perché Itachi non era ancora arrivato a ridestarlo? Il suo subconscio era talmente guastato da costringerlo a immaginare scene tanto raccapriccianti?
            «Vattene!», mormorò ancora, con un tono di voce troppo spezzato, per essere un semplice abbaglio. Dentro quella parola c’era un carico di sofferenza che era pari alla sua; tutto il dolore di un’anima che aveva sfiorato la porta del Paradiso, qualche ora prima, in palestra, e che adesso si era ritrovata traghettata nel girone più lercio dell’Inferno.
            Hinata e le sue labbra secche e insanguinate, a furia dei morsi che si era inflitta; Hinata e le sue mani sporche, le unghie conficcate nel marcio del mondo; Hinata e la sua maglietta bagnata che cercava di farle da seconda pelle… com’era diversa, quella ragazza, dalla dea che lui aveva osato lambire prima di pranzo, nel silenzio della sala da ginnastica!
            Lei, che si era stretta nelle sue braccia, accostando l’orecchio al suo cuore, lasciandosi respirare dolcemente, donando il proprio candore alla sua oscurità, aveva appena smesso di amare?
            Il moro non poteva sopportare che un verme, una bestia, le avesse appena insegnato a non provare più affetto per alcun uomo. Non gli importava se non avesse più avvertito sentimenti per lui perché, per quanto potesse essere egoista, Sasuke Uchiha, in quel momento, era all’ultimo posto dei propri pensieri. Già, lui, il superbo ragazzo che era pronto ad affermarsi contro tutti, ai fini di un’esistenza dignitosa, relegava se stesso a fanalino di coda; avrebbe volentieri accettato un rifiuto da parte di Hinata, anche un ritorno di fiamma per Naruto, purché lei, ora, si fosse alzata e avesse sorriso, tornando ad adornarsi dell’incanto di un diamante, da buona Hyuga qual era.
            Ma capì che non sarebbe mai successo, che non avrebbe amato né lui, né nessun altro, finché fosse rimasta immersa nel buio di quella notte maledetta.
            Sasuke guardò il suo ideale immerso nel dolore e nello sporco, raggomitolato su se stesso, tremante e nudo. Osservò Hinata… la sua Hinata! Si soffermò dolorosamente sullo splendido corpo che aveva sempre desiderato sfiorare, che era riuscito ad avvertire tenuemente sotto i propri polpastrelli, qualche ora prima. Quella carne pallida era ora segnata, qua e là, da dei principî di lividi che si sarebbero addensati sicuramente il giorno dopo, a marchiare la caduta di un sogno di felicità. Quelle braccia, quella schiena, quelle gambe che aveva sempre avuto paura anche solo d'immaginare senza indumenti, ora erano state deturpate, violentemente esposte all’occhio umano e della luna, martoriate, derise, abusate. Pregò perché l’innocenza – almeno quella 
–  non fosse stata strappata dal cuore della Hyuga.
             Un cieco istinto primordiale gli mordeva il petto, mentre la frustrazione scendeva sotto forma di lacrime, sulle sue guance.
             Aveva promesso che si sarebbe occupato lui, di lei, che l’avrebbe protetta. Aveva stretto quel patto con se stesso almeno una decina di volte, in quel paio di giorni, mentre le lanciava occhiate furtive, in classe, soffermandosi sul suo profilo delicato. Aveva da poco giurato che le sue ciglia non si sarebbero mai più inumidite, men che meno per causa sua, ma aveva fallito. Con che pretesa si era potuto permettere di ergersi a suo custode? Lui, un misero mortale, probabilmente fra i più rivoltanti con cui una fanciulla pura come Hinata fosse mai entrata in contatto, prima di quella sera!
              Che senso aveva, ora, piangere? Non era mai stato degno di lei, perché non l’aveva capito fin dall’inizio? Perché si era ostinato a volerla conoscere, a… ad innamorarsene? Perché aveva messo a repentaglio la vita della cosa più preziosa in cui si fosse mai imbattuto? Ancora una volta, perché era stato tanto individualista?
              Desiderava con tutte le proprie forze cancellare quella scena, ma sapeva bene che sarebbe stato inutile. Voleva trovare l’artefice del misfatto e toglierlo dalla faccia della terra, nella maniera più disumana possibile e, allo stesso tempo, aspirava a stringere Hinata fra le sue braccia.
             «Torna a casa, Sasuke», mormorò di nuovo, venendo meno alla promessa di non pronunciare più quel nome.
             L’Uchiha digrignò i denti, puntando le mani a terra, a pochi centimetri dalle dita della fanciulla, e scuotendo il capo.
             Non lo voleva più vedere. Lei, la dolce, candida ragazza che non era in grado di esprimere la minima forma di rifiuto verso qualcuno, non desiderava più trovarselo davanti agli occhi, ormai macchiata di sangue e dolore.
            Era arrivato troppo tardi, nel suo egoismo.
 
Gli dispiacque prenderla in braccio, contravvenendo alla sua richiesta, ma non poteva fare altro. L’avrebbe portata all’ospedale e chiamato Itachi per avvertire Neji.
            Aveva sempre avuto paura di poterla deturpare, ma, ormai, lei era già stata infangata da qualcun altro, perciò la sfiorò senza timore. La rabbia gli faceva tremare le labbra, mentre la guardava. Esisteva un modo per poter tornare indietro e ristabilire l’armonia, in lei? C’era la possibilità di salvarla?
            Il suo corpo delicato si lasciò sollevare senza opporre resistenza, come un manichino, ma più morbido e fragile. Non riusciva a dibattersi, avrebbe voluto urlargli di lasciarla perdere, che si sarebbe ricomposta e avrebbe fatto ritorno a casa da sola, senza doverlo disturbare, ma non aveva più voce. Le grida che aveva emesso nel tentativo di attirare l’attenzione di qualche passante, decine di minuti prima, le avevano squarciato la gola.
            Hinata voleva solo proteggerlo, ma perché lui si ostinava a soccorrerla? Come poteva provare pena per qualcuno immerso nell’abominio del mondo? Sasuke era sempre stato pieno di sé e distaccato, ma ora era lì, solo per lei.
            Doveva aver capito il motivo di quel comportamento; le sarebbe dovuto apparire lampante dal bacio di quel primo pomeriggio, o dalla premura che il ragazzo mostrava nei suoi confronti. Non poteva credere che lui ricambiasse minimamente quel sentimento inconsueto e devastante che anche lei aveva cominciato a coltivare, da poco tempo.
            Istintivamente, per quanto la ragione le raccomandasse di non farlo, avvicinò il capo al suo petto, inspirando con devozione. Quel profumo quasi sovrumano le provocò ulteriori brividi e una smisurata voglia di scomparire dall'universo.
            Improvvisamente, poi, si ricordò di essere seminuda, sporca, insanguinata e irriconoscibile. Provava vergogna e cercò, con movimenti disarticolati e lenti, di coprire almeno il seno, portandosi un braccio sulla scollatura. In verità, a tal punto, non le importava poi molto di ciò che l’Uchiha potesse pensare di lei, o di apparirgli sgradevole alla vista; solamente, non desiderava che quella storia lo toccasse, che lui potesse entrare a capofitto in una vicenda tanto squallida e pericolosa. Nessuno doveva andarvi di mezzo.
            So dove abiti, chi fa parte della tua famiglia... Hyuga, non credere che ora tu sia libera! Potrebbe essere l’inizio dell’Inferno, tutto sta a te!
            E lei propendeva per l’impulsiva scelta di portarsi quel terribile segreto nella tomba.
            «Cosa… cosa ci fai, qui?», chiese in un soffio, più a se stessa che al proprio salvatore.
            Il ragazzo sorrise tristemente, guardando le sue dita livide che giocavano con un bottone del cappotto. «Te l’avevo detto, ricordi? Quando il tuo mondo sarebbe caduto a pezzi, sarei venuto a riprenderti».
            Quasi poteva contare i brividi sulla pelle della Hyuga, ma non riusciva comunque a perdonarsi quel grave ritardo. Non l’aveva recuperata da alcun pericolo, non era un angelo custode. La notte della festa si era audacemente nominato quale suo protettore, ma la verità era che Hinata, proprio a causa sua, era scheggiata come vetro, quando avrebbe sempre dovuto brillare al pari del cristallo.
 
Sasuke aprì la portiera del lato passeggero, ma indugiò ancora qualche minuto, prima di accomodarla sul sedile.
            La teneva fra le braccia e osservava quel volto pallido incollato al suo petto; seppur il cappotto fosse pesante, riusciva quasi ad avvertire il suo respiro filtrare nelle fibre di misto lana, arrivandogli ancora, inesorabilmente, al cuore.
            Era terribile scorgere i segni di una lotta sul corpo di uno spirito celeste. Lei, creatura più divina che umana, più pura della neve, incapace di recare il minimo dolore a qualcuno, costretta a dibattersi contro una furia bestiale, un degenerato che aveva provato a carpirle l’innocenza e, forse, anche la vita.
            La rabbia avvampò di nuovo, ma si consumò all’istante, quando lei scostò il naso dal suo torace, accorgendosi di essere contemplata. La tristezza attraversò l’anima di Sasuke, quando i suoi occhi non riuscirono più a incrociare quelli di Hinata, ormai chiusi per la stanchezza.
            Le diede quella terribile forma d’addio - quella che s’insidia sottopelle, contro la propria volontà, ed esplode solo perché costretta dalle circostanze - tenendola in braccio, avvertendo il suo corpo ghiacciato attraverso i polpastrelli. Non era quello il modo in cui avrebbe voluto verificare nuovamente la consistenza di seta della sua epidermide.
            Con l’amara consapevolezza che non sarebbe mai più potuto entrare nel cuore della Hyuga, nemmeno in punta di piedi, e la devastante comprensione che lei, per forza di cose, non avrebbe più comunque accolto nel suo spirito nessun uomo, la strinse forte al petto.
             Sasuke capì cosa avrebbe dovuto fare, ma aveva bisogno di qualcuno che lo spronasse e, allo stesso tempo, lo confortasse. Per quanto potesse apparire forte, era perfettamente a conoscenza di non esserlo davvero, non quanto aveva costantemente creduto, prima di allora. Comprese che non sempre si può combattere da soli, se s’intende vincere, e che la guerra fa nascere alleanze improbabili, ma solidissime e ottimali.
 
L’adagiò nella vettura, sfilandosi velocemente il cappotto e coprendola come meglio poté. Tentò di ignorare quelle tracce rossastre sul collo - inequivocabili dita premute con atroce violenza - o quei lividi e graffi sul torace, a deturparle i seni, ma non ci riuscì. Le sfiorò la pelle, strizzando gli occhi, e giurò che chiunque fosse stato il responsabile, avrebbe pagato, anche a costo di finire nei guai.
            Sistemò con cura quella coperta improvvisata sulle sue spalle, sforzandosi di farla aderire alla sua cute fredda, e accese immediatamente il riscaldamento.
             La osservò per qualche minuto dal vetro del finestrino e colse di sfuggita il suo sguardo. Per un momento, gli sembrò quasi che avesse sorriso, da dietro il bavero della pesante giacca che l’avvolgeva. La mente e i suoi soliti, sporchi trucchi: Hinata stava riposando, forse aveva solo aperto un occhio nel dormiveglia.
             Più la guardava, più tremava; non era il vento a ferirlo, ma la consapevolezza che la ragazza, inevitabilmente, non avrebbe più provato nulla per lui.
            Non sapeva che, proprio in quel momento, lei aveva imparato ad amare. Ad amarlo.
           
***
 
«Mi vuoi spiegare perché siamo usciti in fretta e furia dall’Akatsuki?», domandò nuovamente Neji, seguendo Itachi nel parcheggio.
            Il ventitreenne gli lanciò un’occhiata cupa, incapace di comunicargli quella sconvolgente notizia che il fratello gli aveva annunciato al cellulare. Era sicuro che lo Hyuga non avrebbe retto, ma doveva saperlo, ne aveva tutto il diritto.
            «Ho sentito Sasuke e… Neji, mi dispiace». Reclinò il capo verso il basso, cercando di trovare il sangue freddo che sempre gli era appartenuto, ora improvvisamente dileguatosi. «Credimi, non mi capita spesso di rimanere senza parole, ma…».
            «“Ma” cosa?».
            L’Uchiha espirò lentamente, rialzando il viso. L’amico lo osservava con preoccupazione, con una grinza profonda a corrugargli la pelle chiara tra le sopracciglia.
            Pigiò il tasto dell’antifurto e sbloccò le portiere. «Si tratta di Hinata. Non c’è tempo da perdere, seguimi!».
 
Raggiunsero in pochi minuti il cantiere abbandonato e, appena la vettura si fermò, Neji saltò giù con rabbia, scagliandosi subito verso Sasuke.
            «Tu, bastardo! Dov’è Hinata?», urlò a pochi centimetri dal suo volto, prendendolo per il colletto della camicia.
            Il coetaneo non provò nemmeno a difendersi, continuando a fissare il muretto che chiudeva l’orizzonte, di fronte a sé. Il ragazzo aveva tutte le ragioni del mondo per essere adirato, preoccupato e con una folle voglia di prendere a cazzotti qualcuno; d’altronde, lo stesso valeva per lui. Eppure, non trovava la forza per rispondergli, perché ripercorrere quella vicenda lo spezzava in due.
            «Sasuke, lei come sta?», gli si avvicinò Itachi, sciogliendo cautamente la stretta di Neji sul fratello.
            Negli occhi dell’otouto c’erano ancora le tenebre, quel maledetto buio che non riusciva a illuminare nemmeno con l’affetto più devoto e fraterno. La Hyuga era la cura, ma, ora, era improvvisamente benzina sul fuoco che lo divorava.
            «I-in auto», mormorò con voce roca, chiudendo gli occhi.
            Il maggiore degli Uchiha si precipitò allo sportello del lato passeggero e sgranò gli occhi dallo stupore, quando lo aprì e la vide. Stava dormendo, ma l’incontaminata bellezza che ricordava era stata deturpata in modo spaventoso: il viso sporco, arrossato e segnato da occhiaie scure; i capelli infangati e umidi; le gambe nude e percorse da segni di colluttazione, proprio come l’avambraccio che penzolava nell’intercapedine tra il sedile e il bracciolo. Dov’era finito l’incanto di quella gemma? Dov’era l’antidoto contro i mali che affliggevano suo fratello?
 
Neji intravide la cugina e irrigidì la schiena, trattenendo un ringhio brutale che gli grattava la gola. Si voltò nuovamente verso Sasuke e non esitò a tirargli un pugno in pieno viso, e poi un altro, e un altro ancora, finché il compagno di classe non crollò a terra.
            Si chinò su di lui, lo strattonò per la camicia e lo costrinse a rialzarsi, guardandolo con un astio senza precedenti.
            «Che cazzo le hai fatto? Cosa hai fatto a Hinata, bastardo?», urlò, strappandogli il bavero bianco.
            «Neji, non è stato lui!», gridò Itachi, correndo a separarlo dal fratello.
            «No, lascialo fare. Merito questo odio. Vorrei riuscire a ferirmi, una buona volta», sorrise sinistramente Sasuke, ormai fuori di senno.
            Sperava che quella fastidiosa distrazione fisica, quel dolore al naso e agli zigomi, accompagnato ancora da quel sapore ferreo che gli colava in gola dalla lesione al labbro, riapertasi, potesse bastare a fargli allontanare la mente dalla realtà. Non era a sufficienza, niente sarebbe stato abbastanza anestetizzante, contro la morsa al cuore. 
            «Colpiscimi ancora, Neji!», mormorò con quel ghigno raccapricciante sul volto. «Coraggio, non è ciò che vuoi? Spaccami la faccia! Non hai visto Hinata?», lo provocò, avvicinandosi.
            Forse, in tal modo, si sarebbe ridestato da quell’incubo.     
            Lo Hyuga lo guardò confuso, allontanando lentamente il destro che voleva mettere a segno. Quello non era il ragazzo che ricordava. Dov’era la sua strafottenza? E poi, sarebbe davvero stato capace di fare una cosa del genere a Hinata? Non ne aveva motivo, dal momento che lei era innamorata di Naruto e che il biondo era il miglior amico di Sasuke, a quanto ne sapeva. Non sarebbe mai stato in grado di agire contro l’Uzumaki, arrivando a ferire una povera innocente. Se poi ripensava a ciò che Itachi gli aveva confidato, durante l’allenamento, tutto gli appariva ancora meno chiaro: Sasuke era affascinato dalla ragazza, tanto invaghito di lei da esser pronto a farsi da parte.  
            Osservò il suo volto pallido, le occhiaie che gli sottolineavano i bulbi oculari, e quella smorfia tirata, quel sorriso costruito a tavolino, solo per nascondere un sentimento inspiegabile, ma devastante. La stessa rabbia che provava lui, in fondo.
            «Vi sembra il momento di prendervi a cazzotti?», li rimproverò Itachi, perdendo le staffe.
            L’esplosione del ventitreenne fu l’unico stimolo che riuscì a pungerli sul vivo, costringendoli ad incrociare i loro sguardi. Due colori diversi, ma uniti dalla stessa glacialità inespressiva, perché sopraffatta da troppe emozioni.
            A Sasuke faceva male incontrare quella tonalità chiara, troppo simile a quella che le palpebre di Hinata custodivano timidamente.
           «Te la senti di guidare?», domandò Itachi, appoggiando una mano sulla spalla dell’otouto. Dovette ripetergli la domanda un’altra volta, perché finalmente lui si girasse.
           «S-sì», mormorò a disagio, sbattendo le ciglia e guardandolo brevemente. Odiava essere preda delle sensazioni, soprattutto quelle tanto intense quanto oscure, ma lì era diverso, perché il motivo di quell’ira era evidente.  
            «Io prendo la tua auto e porto Hinata in ospedale, voi seguitemi», riprese con decisione, consegnando le chiavi al fratello.
            L’aniki entrò rapidamente nell’abitacolo e si diresse sulla strada, alzando una fitta nube di polvere dietro di sé. Sasuke rimase a fissarla fino a quando anche l’ultimo granello non si schiantò al suolo, in tutta leggerezza, rigirandosi la punta delle chiavi nel palmo.
            Aveva bisogno di sperare che tutto potesse terminare nel migliore dei modi, ma non sapeva da dove cominciare, per farlo. Non aveva mai seriamente pregato, né affidato alcuna forma di desiderio alle stelle, lui; si era sempre fatto in quattro per realizzare da solo le proprie aspirazioni – buone o deprecabili che fossero – cercando di non cadere mai vittima di quella esclamazione, “Speriamo!”. Gli sembrava una sciocchezza augurarsi il meglio, senza impegnarsi più di tanto per ottenerlo. Ma ora, cosa poteva fare? Non era stato in grado di proteggere nemmeno l’unica persona che si era avvicinata a lui senza apparenti pregiudizi, donandogli luce e normalità. Al suo fianco, non si era mai sentito un abominio, in quella settimana. Non che avesse fatto chissà che di speciale, la Hyuga, o che lui si fosse indaffarato a mostrare umanità, ma la sua esistenza, in meno di sette giorni, gli era parsa molto più limpida, molto più… vita, semplicemente.
            Strinse il pugno, quasi conficcandosi l’estremità metallica nel carpo. Non avrebbe rinunciato a lei e, se non era stato in grado di salvarla prima, lo avrebbe fatto adesso.
 
***
 
Il silenzio era solo pura apparenza, in quell’abitacolo, perché l’assenza di suoni era talmente assordante da poter logorare i loro timpani. Ogni tanto, i ruggiti potenti del motore erano in grado di riportarli alla realtà, ma era un effetto che durava solo pochi secondi, perché poi, entrambi, ricadevano in quell’atmosfera cupa e opprimente di prima. I pensieri si dipanavano rapidamente, per poi raggomitolarsi fra loro, in mille nodi che conducevano sempre e solo a Hinata.
            «Non sei tanto stronzo da fare del male a mia cugina. Se avessi un conto in sospeso con me, lo regoleresti con il diretto interessato», dichiarò a un certo punto Neji, con voce roca.
            Il ragazzo al volante sorrise debolmente, a quelle parole. Il fatto che lo Hyuga fosse approdato alla verità lo sollevava, ma solo leggermente; cosa se ne faceva della veridicità, se essa non avesse riportato le cose come in origine, come a quel pomeriggio, per esempio?
            «Se non sei stato tu, chi le ha fatto del male?», continuò.
            Sasuke fissò in trance la strada di fronte a sé, espirando lentamente. «Mi piacerebbe saperlo», ammise con tristezza.
            «E, allora, perché eri lì? Come facevi a sapere che lei…». Non riusciva a dirlo, gli faceva male immaginare lo stato in cui l’aveva probabilmente trovata.
            «Ho ricevuto una chiamata da un numero privato. L’uomo dall’altro capo del telefono mi ha invitato a recarmi velocemente al cantiere», rispose atono, ripercorrendo con la memoria quegli attimi carichi d’ansia. «Pensavo potesse trattarsi di Itachi, non certo di Hinata», concluse con un calo di voce che fece venire i brividi allo Hyuga.
            Osservare il ragazzo più misterioso e temuto del liceo così fiacco, indebolito, incredibilmente distrutto, in qualche modo, lo sconvolgeva. Non aveva mai creduto che Sasuke potesse interessarsi tanto a qualcuno all’infuori di sé, preso com’era a soddisfare le proprie aspirazioni personali, senza guardare in faccia nessuno. Ragazze sedotte con la stessa facilità con cui il ghiaccio si scioglie al sole, setti nasali rotti – tra i quali, pure il suo – e ottimi risultati scolastici, sfoggiati con noncuranza… come poteva, tutto ciò, convivere in quel ragazzo? Come poteva, tutto questo, svanire improvvisamente, lasciando posto alla preoccupazione per qualcuno come Hinata? C’era solo una spiegazione, ma non poteva credere che fosse attendibile, dal momento che lei era innamorata dell’Uzumaki.
            «Spero solo che possa riprendersi», sospirò Neji, appoggiando la testa al freddo vetro del finestrino. La rabbia aveva quasi ceduto il posto alla rassegnazione.
            «Lo farà», dichiarò deciso Sasuke. “Sperare” non era ancora un verbo rientrante nel suo vocabolario, per quanto si sforzasse di accettarlo. «E poi, è una Hyuga, no?», domandò retoricamente, stringendo le labbra in un sorriso che, comunque, aveva il sapore dell’attesa fiduciosa.
            «Sì, ma, prima di tutto, è una ragazza innamorata. Lo era, almeno».
            L’Uchiha si girò di scatto, degnando di un breve sguardo il compagno di classe. Perché era rimasto tanto sconvolto da quella constatazione? Non era forse vero, non se n’era accertato lui stesso, poche ore prima?
            Lo era, almeno.
           Il dubbio che le cose non stessero più così, ora, e che difficilmente sarebbero tornate come prima, lo assalì nuovamente.
            «Impossibile che tu non lo sappia! È stato Itachi a dirmelo, ieri sera».
            «Cosa ti ha riferito, di preciso?», domandò l’altro, col fiato corto. Che Neji sapesse già tutto e se ne fosse fatto una ragione?
            «Nulla di più di ciò che già conosci, probabilmente. A quanto pare, ero l’unico a non sapere del debole di Hinata per Naruto… e del tuo per mia cugina».
            Il ragazzo al volante sorrise amaramente, ripensando a come le cose fossero improvvisamente precipitate. Nel giro di poche ore, aveva avuto la certezza che per la Hyuga valesse lo stesso; lei lo aveva baciato di sua iniziativa, accantonando spontaneamente il fantasma dell’Uzumaki, che da sempre aleggiava come un’ombra fissa, ma irraggiungibile, nel suo cuore. In quel contatto non c’era stata troppa esitazione, tutto si era svolto con naturalezza e i loro corpi si erano sfiorati in totale armonia, senza sforzi, senza desideri impuri o voglia di solcare limiti che lui conosceva fin troppo bene. Si era persino riuscito a trattenere, riabbassando la sua maglietta e stringendola a sé, onde trattenerla il più possibile nella sua anima… ed ora, tutto era andato perso. Un affetto fugace quanto un respiro, ma, proprio come un anelito, di vitale importanza. Non l’avrebbe persa, non l’avrebbe lasciata andare, ora che finalmente era riuscito a rapirla dai suoi pensieri e che lei era stata in grado di fargli ritrovare se stesso.
 
***
 
L’auto si fermò nel piazzale dell’ospedale, quasi deserto, alle ventitré e venti. La vettura che Itachi aveva guidato era già parcheggiata vicino all’ingresso; l’abitacolo, illuminato dal sottile cono di luce del lampione, rivelava l’assenza di persone al suo interno e quel dettaglio spinse i due ragazzi a scendere velocemente, per dirigersi all’entrata.
 
Il ventitreenne teneva fra le braccia la ragazza, ancora addormentata, e stava parlando con degli infermieri che avevano spinto una barella fino all'area dedicata all'accettazione.
            Sotto le fredde luci dell’ospedale, Hinata appariva ancora più pallida e provata, con quel capo lievemente reclinato che l’Uchiha, di tanto in tanto, risollevava con riverente delicatezza, accoccolandolo su una spalla.
            Agli occhi dei due diciottenni, quel piccolo fardello dai capelli blu sembrava una reliquia profanata. Né Sasuke, né Neji possedevano l’autorità per poterla maneggiare con cura, dal momento che il sacro e la purezza erano due grandezze fuori portata per loro che, anche alla luce del sole, avevano sempre coltivato le tenebre. Eppure, quando videro i paramedici stenderla sul lettino e avviarsi verso il lungo corridoio, entrambi capirono che avrebbero fatto il possibile, per rimanere al suo fianco.
            Per quanto il buio potesse essere opprimente, non sarebbe mai riuscito a risucchiare nel suo nero abbraccio mortale certe radiazioni luminose, una volta infiammate. 







Dire che questo capitolo è stato sofferto, è poco. Ci tenevo perché i pensieri di Sasuke apparissero abbastanza chiari e che le sue reazioni si fronteggiassero con quelle di Neji. Dai contrasti nasce sempre qualcosa di positivo, in fondo :)
Ho lasciato Hinata riversa a terra, in quel cantiere, per troppo a lungo, così pubblico ora. Senza di voi e le vostre gentili parole, sarebbe ancora là, probabilmente. Perciò, permettetemi di dedicarvi un applauso, cari lettori, e di inviarvi un abbraccio!
In particolare, desidero ringraziare profondamente tre persone: The death of Valkiria, Rhain_1992_ARM e arcx. In questo periodo un po' difficile, mi sono state molto vicine 

Con la speranza di aver scritto qualcosa di degna lettura, vi lascio. Temo che il prossimo aggiornamento non sarà meno tardivo di questo, a causa dell'università, ma confido nella vostra infinita pazienza :D
Grazie a tutti!
Un bacio 


Ophelia
 

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Capitolo 16
*** Tessere di un mosaico ***


16. Tessere di un mosaico

 

 
Non appena lui varcò l’ingresso della struttura, una donna, da dietro al bancone, riagganciò la cornetta del telefono e, preoccupata, chiamò un infermiere per fargli medicare quella bocca ferita e deturpata; così, ora, Sasuke si ritrovava con due graffette sul labbro superiore. Nonostante esse pizzicassero, non riusciva a provare abbastanza dolore, non quanto ne desiderava.

 L’ambiente asettico, le luci prepotentemente puntate addosso, così bianche da abbagliarlo, lo facevano sentire persino peggio che al cantiere. Immaginava che quella potesse quasi essere la stessa sensazione opprimente che colpiva gli indiziati interrogati a tappeto dal padre, nella fredda stanza della stazione di polizia, ma lui, forse, era ancora più colpevole di un criminale. Non era stato in grado di salvarla, quando lei, invece, era riuscita a soccorrerlo inconsapevolmente più volte, in quel breve arco di tempo.
            «Giovanotto, voi tre potete rimanere qui ad attendere i vostri familiari, a patto che non facciate baccano, d’accordo?», gli strizzò l’occhio il giovane primario, rientrando nel corridoio da cui era appena sbucato fuori.
             Sasuke, per tutta risposta, sospirò profondamente, facendo aderire la colonna vertebrale al gelido schienale della poltroncina, in quella sala d’attesa spettrale, deserta e incredibilmente nauseante. Fissò gli occhi nella lampadina bianca che lo puntava a mo’ di occhio di bue, cercando consolazione nella cecità; se non fossero giunti i rapidi passi di Neji e Itachi, a distrarlo, probabilmente sarebbe riuscito a compromettere le sue pupille e a bearsi del buio. Per una volta, avrebbe trovato salvezza nel nero, annullando quegli sprazzi di colori che aveva cominciato a conoscere da poco tempo, ma che erano stati devastanti, nella loro vivacità. Doveva tale brillantezza solo a una persona, la stessa che ora riposava – sorvegliata dai medici - nella stanza che, da quella posizione, riusciva a intravedere, di fronte a lui.

«Sapete esattamente cosa dovete fare, adesso, vero?», domandò il ventitreenne, sedendosi stancamente accanto al fratello.
            Lo Hyuga annuì meccanicamente, fissando le due piante che ornavano il tavolino della sala. Non trovava il coraggio per farlo, ma si rendeva conto che doveva chiamare casa e comunicare quella notizia a Hiashi.
            «Come posso dirglielo, senza ferirlo?», chiese quasi a se stesso, ignorando gli altri due.
            «Per quanto tu possa zuccherarla, la pillola resterà amara. Non servono giri di parole, devi solo avvertirlo. Hinata è ancora minorenne e, inoltre, ha bisogno di suo padre, in questo momento», lo spronò Itachi, rialzandosi e poggiandogli una mano sulla spalla.
             Gli faceva male osservare quell’insicurezza nel ragazzo; era maturato al suo fianco, durante i duri allenamenti e gli scontri sul tatami, e Neji non aveva mai concesso spazio ad alcun tipo di emozione, sul volto. Certo, in cuor suo gioiva per una vittoria o s’adirava per una sconfitta, ma i suoi lineamenti – nell’uno o nell’altro caso – non erano mai mutati. Covava dentro le sue sensazioni, per lasciarle esplodere placidamente, come una colata lavica che dal cuore si spargeva lentamente negli arti, per poi solidificarsi senza strepitii. Era la rappresentazione vivente della disciplina e dell’autocontrollo, ma, in quel frangente, la sua impassibilità era scomparsa. Itachi poteva contare le rughe formatesi sulla sua fronte, o ammirare con apprensione l’incedere delle lacrime, dietro le sue iridi; non avrebbero trovato sfogo, ne era sicuro, e questo, anziché rassicurarlo, lo fece preoccupare ancor di più. Lo Hyuga era preda del disarmo, della paura, dell’impasse di quel tremendo martedì notte, e non sembrava trovare abbastanza ragionevolezza, nei propri pensieri, per smuoversi.
            «Non posso dirgli una cosa del genere», mugugnò sottovoce, trascurando la vicinanza del ragazzo dal lungo codino.
            «Devi, Neji! È un obbligo morale, oltreché la miglior cosa da fare», insisté quello, scuotendolo per le spalle.
            Il giovane si ridestò, seppur ancora visibilmente turbato, e assecondò quelle parole con un cenno del capo. Si allontanò velocemente da lì, prima che il timore potesse rapirlo ancora, e fece tintinnare nella tasca dei jeans le monete ricevute come resto al bar. Si ricordò di non avere con sé il cellulare, perciò si diresse verso il pianerottolo dove, infissi ai muri, c’erano ancora dei vecchi telefoni a gettoni.
            Quella sarebbe stata la telefonata più faticosa della sua vita, pensò, mentre cambiava qualche ryo in fiches.
            Sollevò la cornetta, fece cadere tre gettoni nella fessura, e digitò velocemente il numero di casa. Una parte di lui sperava che nessuno rispondesse, soprattutto Hiashi, ma l’altra, fortemente ligia al dovere, lo incitava a tener duro e affrontare la situazione di petto, per il bene di Hinata. Era necessario che lo zio fosse messo al corrente di tutto, nonché naturale, dal momento che era il genitore della vittima.
            Aveva sempre giurato a se stesso che non avrebbe mai deluso, né tantomeno addolorato, quell’uomo già provato da dure sofferenze, ma, ora, a causa di forze maggiori, avrebbe dovuto spezzare quella promessa. Ciò faceva di lui un fraudolento? Forse, semplicemente, questo venir meno al patto con la propria mente induceva il cuore a salire a galla, costringendolo a ricredersi sulla propria natura: Neji Hyuga non era un automa, ma un essere umano.
 
***
 
Il tempo passava lentamente e in silenzio, come sempre, fra loro. Due fratelli che, oltre ai tratti somatici e il cognome, condividevano ben poco, apparentemente: uno intelligente, prossimo alla laurea, e sensibile come pochi, l’altro non meno brillante negli studi, ma poco incline alle relazioni umane. Eppure, erano proprio quelle parole mancate a legarli in maniera così profonda, permettendo loro di comprendersi in un batter d’occhio. E quel legame sincero, viscerale, imperituro nonostante i litigi e le palizzate che l’uno aveva eretto contro l’altro, in quegli anni, era stato ciò che aveva spinto Sasuke a chiamare Itachi, anziché quel numero che chiunque avrebbe composto, di fronte alla scena in cui si era imbattuto al cantiere. La persona in cui riponeva più fiducia al mondo era l’aniki; la polizia, per quanto suo padre ne fosse un illustre membro, rimaneva per lui una pura istituzione, fredda e meccanica quanto le altre, con la sua burocrazia, i metodi brutali e le mille, lente procedure che la contraddistinguevano. Nel momento del bisogno, le dita erano corse nella rubrica del cellulare, alla ricerca disperata di quell’àncora di salvezza che, ora, lo guardava con preoccupazione.
            «Grazie per essere arrivato tanto tempestivamente», asserì Sasuke, una volta ripresosi dal subbuglio interiore.
            Il maggiore nemmeno fece caso a quelle parole. Si limitò a risedersi di nuovo accanto al ragazzo, intrecciando le lunghe dita e osservando la stanza illuminata, di fronte a loro. Non v’erano rumori, né meccanici, né umani. Le apparecchiature non erano in funzione, apparentemente, e i medici stavano monitorando con tacita perizia la situazione della degente.
            «Va meglio, ora?», chiese all’otouto, notando quanto fosse più calmo e presente.
            «Sì... Almeno adesso so che è al sicuro».
            L’aniki annuì, per poi prendere un respiro profondo. «Devi chiamarlo. Prima che se ne occupino loro, devi telefonargli», affermò, puntando i gomiti sulle ginocchia e portandosi le mani giunte alla fronte.
            «Fallo tu!», protestò l’altro, a bassa voce.
            «Come, prego?», quasi scoppiò a ridere per l’inattesa replica. Si sarebbe aspettato un insulto o un rifiuto sonoro, non di certo quell’infantile lamentela. Solo quando erano bambini lui se ne usciva con quelle lagnanze a denti stretti, con tono stanco; Itachi, allora, gli pizzicava amorevolmente una guancia o gli assestava un buffetto affettuoso sulla fronte, e l’altro sorrideva, dimenticandosi del broncio.
            «Non intendo parlare con lui».
            «Ti è dato di volta il cervello? È il capo della polizia…», sgranò gli occhi Itachi.
            «È nostro padre e tu sei il suo prediletto! Non ho voglia di sentirlo. L’ultima volta che ci siamo rivolti la parola, mi ha detto che non combinerò mai nulla di buono», sbottò Sasuke, alzandosi in piedi. Stringeva i pugni e poteva sentire il sangue ribollire nelle vene, sopraffatto dalla frustrazione. Inspirò profondamente, per poi girarsi verso il ventitreenne e regalargli un sorriso tirato. «Non che si sia sbagliato più di tanto, in effetti», concluse amaramente, alludendo alla vicenda di Hinata.
            «Non è stata colpa tua», lo rassicurò l’altro, incrociando le braccia.
            «Ah no? E perché quel bastardo ha chiamato proprio me? Cosa c’entrava lei, poi? Poteva vedersela direttamente con me!». Era furente, ma straordinariamente lucido.
            «È la mentalità dei criminali. Non spetta a noi entrare nella loro psiche; ecco perché dovresti fare quella chiamata».
            «Puoi benissimo farlo tu… o l’ospedale. Magari l’hanno già contattato, no?», mormorò incerto, quasi ignorando il fratello.
            «Sicuro, il commissariato sarà stato avvertito…».
            «Benissimo, allora qual è il problema?», lo interruppe il ragazzo, spazientito.
            L’aniki sbuffò, scuotendo la testa. «Sasuke! – lo richiamò, alzandosi in piedi – Come pensi che reagirebbe, nostro padre, trovandoci qui e non avendo ricevuto uno straccio di chiamata? Lo deluderemmo, soprattutto tu. E poi, Hinata ha passato tutto quest’inferno e tu non trovi il coraggio di alzare una cornetta? Ti sembra una cosa giusta, nei suoi confronti? Ha messo a repentaglio la propria vita per motivi che noi ignoriamo e tu ti stai rifiutando di riordinare i pezzi del puzzle! D’accordo, se davvero non te la senti, lo chiamerò io…», annunciò, estraendo di tasca il proprio telefonino. Raramente aveva adottato un tono tanto sostenuto e autoritario, specialmente di fronte all’otouto, ma ora era necessario per indurlo a ragionare correttamente. «…Anche se questa era la tua occasione per soccorrerla», concluse, accingendosi a comporre il numero.
            «Lascia perdere, me ne occupo io». Aveva compreso che, in fondo, quello era davvero il minimo sacrificio che poteva compiere per il bene della Hyuga.
 
Il diciottenne si allontanò verso l’uscita del reparto, stringendo spasmodicamente fra le dita le pieghe del pantalone. Itachi aveva dannatamente ragione, come sempre, e più il tempo passava, più pensava che, in fin dei conti, la sua famiglia non sbagliava a ritenerlo il genio di casa. Sempre posato, calmo, razionale e scrupoloso osservatore di persone e situazioni, non si lasciava mai prendere dalla rabbia, né annebbiava il cervello con altre sensazioni devastanti, a sua differenza. Non l’aveva mai visto furioso o irritato, nervoso o malinconico, e delle volte si chiedeva se fosse umano, se davvero condividessero lo stesso patrimonio genetico.
             Anni addietro, estingueva ogni dubbio relegandolo a semplice damerino perfezionista e covando una sottospecie d’invidia, nei suoi confronti, ma negli ultimi tempi aveva trasformato quella sottile concorrenza in leggera ammirazione, consapevole di quanto l’aniki fosse inevitabilmente irraggiungibile. Non poteva che stimarlo, soprattutto in quel momento perché, se non fosse stato per lui, Sasuke sarebbe probabilmente rimasto impietrito al cantiere per altri minuti di vitale importanza, per Hinata.
             Nello spiazzo che conduceva all’ascensore, inspirò profondamente e scosse le spalle, cercando di risvegliarsi dal torpore. Impugnò il cellulare e, combattendo quel maledetto orgoglio che era sempre stato fonte di guai, selezionò dalla rubrica il contatto di Fugaku. Niente centrali, niente poliziotti, niente commissari: aveva bisogno di suo padre.
            «Temo tu abbia sbagliato numero, Sasuke», esordì l’uomo, con voce piatta.
            Il ragazzo ingoiò la saliva che gli impastava la bocca, nonché il desiderio di voler subito riattaccare. «No, papà, cercavo te».
            «Ah», fu tutto ciò che riuscì a dire, non troppo sorpreso. «Ti servono soldi? Hai combinato qualche cazzata?».
            Il figlio strinse i pugni, respirando a fatica. Quasi rimpianse di aver seguito il consiglio del fratello, dopo quella frecciatina del genitore, ma capì che non era il momento d’innervosirsi. D’altronde, il padre non aveva tutti i torti: solitamente, quando lo contattava, era perché si ritrovava a corto di denaro o nei guai con qualche rissa fuori dai pub. Nemmeno quella volta era stata una circostanza fausta a spingerlo a cercarlo, ma, sicuramente, non era andato a procurarsi rogne con le sue stesse mani.
             «No. Non so se ti hanno già informato, in commissariato, ma sono all’ospedale con Itachi e…».
            «Cos’è successo? Si è fatto male? C’è stato un incidente?». La preoccupazione fece raggiungere alla sua voce un tono quasi stridulo, fastidioso, inaspettatamente umano.
            «No, stiamo entrambi bene», si affrettò a rassicurarlo, appoggiando la schiena al muro. «Si tratta di una mia compagna di classe… lei…». Non riusciva più a proseguire, ora che la sua mente gli riproponeva l’ennesima rievocazione dell’incubo. Si portò l’avambraccio sinistro sugli occhi, scoprendoli improvvisamente umidi, e si scostò una ciocca nera dalla fronte, massaggiandosi una tempia, in un gesto di stizza. Aveva una voglia matta di vendicare quel crimine, era assetato di giustizia, ma nella sua forma più errata. «Prima che possa fare una stronzata delle mie e prendere a pugni un passante qualsiasi, vieni!», crollò, alla fine.
            «Che stai dicendo, Sasuke? Ti senti bene?», domandò il padre, per niente tranquillo.
            «Ti prego, ho bisogno di te», riuscì a mormorare, scivolando con la schiena lungo la parete, prima di lasciarsi andare a un silenzioso pianto.
            «Va bene, arrivo subito, ma tu resta lì, chiaro?». Non ricordava tanto smarrimento e afflizione nel figlio, pensava che non avrebbe mai più udito tali richieste d’aiuto, nei suoi confronti, da quando era entrato nella piena adolescenza, ma si sbagliava. Da una parte, la cosa lo spaventava, costringendolo a intuire quanto la situazione fosse delicata, ma, dall’altra, il suo spirito paterno aveva appena ricevuto una formidabile scarica elettrica, tanto poderosa da fargli afferrare le chiavi e costringerlo a salire nella volante.
 
***
 
Il medico era appena uscito dalla stanza, accompagnato da due infermieri, quando fu letteralmente bloccato da Hiashi, che gli tratteneva con vigore una manica del camice. Il dottore si era subito accorto dell’incredibile somiglianza tra lui, la ragazza di cui si era appena occupato e quel giovane dai capelli lunghi che se ne stava qualche metro dietro il nuovo arrivato, con gli occhi bassi. Gli stessi colori di chioma, carnagione e iridi spazzarono via in un secondo qualsiasi dubbio di parentela, smorzandogli in gola la fatidica domanda di rito: “Lei è un familiare?”. Appoggiò una mano sulla spalla dell’uomo, sorridendogli con tranquillità.
            «Sta bene, sta riposando ed è cosciente, nonostante il dormiveglia in cui versava quando è stata portata qui», lo rinfrancò.
            Lentamente, lo Hyuga allentò la presa sul braccio dell’interlocutore, sbattendo le palpebre. Non trovava la forza per porre interrogativi, ma, nella mente, gliene vorticavano un’infinità.
            «Ha riportato qualche escoriazione di poco conto e degli ematomi, ma nessun trauma o frattura. L’unica condizione che ha destato qualche preoccupazione è stata la lieve ipotermia. Quando l’abbiamo condotta in camera, la sua temperatura corporea era di poco inferiore ai trentacinque gradi; come di regola in questi casi, abbiamo provveduto con il riscaldamento passivo, attraverso delle coperte e l’aumento del calore ambientale. Siamo fiduciosi che, nel giro di qualche ora, la termoregolazione sarà completa», affermò il medico, facendo cenno ai suoi collaboratori di potersi allontanare. Secondo la prassi, poi, fece firmare al padre delle carte sul consenso alle cure ospedaliere.
 
Hiashi accolse quelle notizie con stupore, sgranando gli occhi e tremando. Subito pensò che si trattasse di un miracolo e non poté evitare di ricordare Haiko, l’inutile corsa dell’ambulanza in ospedale, quando lei era già morta sulla lettiga. Quel giorno aveva perso fiducia nella medicina, nella polizia, nel destino, in qualsiasi cosa che non fosse la giustizia personale.
             Non aveva idea di cosa fosse accaduto un’ora prima, né aveva chiesto chiarimenti a Neji. Non appena aveva sentito dal nipote che Hinata si trovava in ospedale, si era rapidamente vestito, aveva chiesto a Shimoko di badare ad Hanabi, in sua assenza, se ce ne fosse stata la necessità, e si era fiondato in auto. Hizashi, turbato e stretto nella vestaglia scura, l’aveva bloccato poco prima che lui potesse immettersi in strada, ed egli gli aveva riferito ogni cosa, con il fiato corto. Il gemello l’aveva rassicurato che tutto si sarebbe risolto, ma Hiashi, carico di preoccupazione, aveva messo in moto la vettura, non riuscendo ad ascoltare una sola parola.
            Ora che era là, violentemente messo davanti alla realtà – ben più rosea delle tragiche aspettative, per fortuna – non riusciva comunque a credere che tutto fosse davvero accaduto, né era capace di chiedere delucidazioni, temendo che potessero distruggere la calma che il dottore aveva restaurato nel suo cuore. Eppure, doveva, voleva sapere.
            «Cosa le è successo?», domandò con il tono più calmo che poté recuperare.
            Il suo interlocutore spaziò con lo sguardo alle spalle dell’uomo, in lontananza, guardando i ragazzi seduti sulle poltroncine della sala d’attesa, le pareti color verde acqua, le piante sul tavolino, per poi tornare a osservare Hiashi.
            «Ha subìto un’aggressione, probabilmente un tentativo di stupro, ma non è stata violata. Quei giovanotti laggiù l’hanno portata qui, mezz’ora fa, scongiurando possibili peggioramenti. Questo è tutto ciò che posso dirle, signore. Attenderemo il resoconto della polizia, in questi giorni, per conoscere la dinamica dei fatti direttamente da sua figlia», spiegò.
            Il padre della vittima si sentì mozzare il fiato, da quella rivelazione. Hinata aveva rischiato una violenza sessuale, ma se l’era cavata miracolosamente con leggere ferite. Il pensiero di ciò che avrebbe potuto esserle accaduto lo turbava oltre ogni dire; gli si era creato un nodo in gola, mentre sentiva un macigno gravargli sullo stomaco e, nel petto, addensarsi il desiderio di scovare al più presto il maniaco.
             «Posso… posso entrare da lei?». L’incertezza di non saper bene cosa dirle e come reagire, nel trovarsela davanti, lo fece tentennare un secondo.
            «Purché la mantenga tranquilla, mi raccomando», gli sorrise il dottore, facendosi da parte e lasciandogli libero accesso alla porta.
            Hiashi lo ringraziò, stringendogli la mano, e l’osservò allontanarsi verso la guardiola. Prima di entrare nella stanza, si soffermò sui ragazzi della sala d’attesa. Quello dai capelli più lunghi stava parlando con Neji, l’altro, invece, aveva la testa appoggiata al muro, e lo fissava con gli occhi socchiusi, inespressivamente. Il quarantacinquenne non sapeva cosa fare, se ringraziarlo o condannarlo, capendo al volo chi fosse. I tratti somatici, d’altronde, corrispondevano perfettamente a quelli del commissario di Konoha e degli Uchiha in generale.
            Decise che ci avrebbe pensato più tardi perché, ora, il suo cuore gl’imponeva di occuparsi solo della figlia. Si girò di scatto e oltrepassò la soglia con un magone soffocante, obbligandosi a non lasciarsi prendere dal panico.
 
***
 
L’aria della camera era calda, quasi soffocante, per lui. Hiashi si sfilò il cappotto con lentezza, cercando di provocare meno rumore possibile, e si sorprese nel notare quanto quel gesto banale, quotidiano, risultasse tanto difficile, in quel momento.
              Fece qualche passo in avanti, in direzione del letto, e intravide la chioma scura di Hinata, sparpagliata sul cuscino. “Sta solo dormendo, in fondo”, ricordò a se stesso, cacciando via quel doloroso paragone che gli ronzava in testa da quando aveva messo piede in ospedale. Haiko aveva i suoi stessi capelli blu notte effusi in tal modo, sul guanciale, quando si trovava sul lettino dell’ambulanza.
             “Hinata è viva”, ripeté fra sé diverse volte, come un mantra, mentre si avvicinava al capezzale. Si sedette con incertezza sulla sedia alla sua destra e tirò su le maniche del pullover nero, scoprendo i chiari peli delle braccia irti a causa dei brividi, nonostante il microclima più che tiepido.
              Il respiro leggero della ragazza, visibile grazie al regolare alzarsi e abbassarsi del torace, riuscì a calmare la rabbia del padre, che invece era esplosa quando aveva notato il pallore inquietante del suo volto. Voleva sfiorarle quella mano che s’intravedeva da sotto le coperte, ma non trovava la forza per farlo, temendo di svegliarla.
             «Non mi sono mai comportato come avrei dovuto, con te. Tua madre ti amava, diceva che eri un angelo, il regalo più bello mai capitatole, insieme con Hanabi, ed aveva ragione», sussurrò, soffermandosi con lo sguardo sul suo viso pacifico. «Mi rendo conto sempre troppo tardi della mia fortuna, sono così… così insensibile e stupido! Non dovrei confessarti ora queste cose, quando ero a un passo dal perderti, Hinata».
             Le sue dita dissentirono dal blocco della ragione, arrivando a toccare con delicatezza quelle morbide della diciassettenne. Erano più tiepide del previsto e Hiashi non riuscì a trattenere un sorriso, dopo quella lieta constatazione.
            «Ma grazie al cielo stai bene, ed è questo ciò che conta, ora. Farò di tutto per proteggerti, per restarti accanto, per vendicare questo misfatto», sussurrò, lasciando che una lacrima precipitasse in caduta libera dal suo volto.
 
Quasi gli venne un colpo, quando avvertì le falangi della ragazza muoversi sotto i suoi polpastrelli. Riaprì gli occhi e la vide sorridere, mentre dischiudeva le palpebre.
            «Papà», mormorò, cercando di non piangere.
            Quella parola non le era mai parsa tanto meravigliosa e pregna di vitale importanza come in quel momento. L’avrebbe ripetuta ancora un centinaio di volte, se solo avesse retto l’emozione. Suo padre era lì, nonostante i muri di silenzio che li avevano sempre divisi e la glaciale indifferenza che, a casa, solcava il suo volto. Lui era al suo fianco, le stringeva le dita, cercando di fare del proprio meglio per farla sentire al sicuro, protetta. Meritava tanta comprensione?
            «Mi dispiace». Non riusciva a perdonarsi il fatto di averlo costretto a rimettere piede là dentro.
            Hiashi scrollò il capo, contrito, ma sollevato, alzandosi. Le sfiorò la fronte con una mano, per poi baciargliela dolcemente, come faceva quando lei era bambina e si svegliava urlando nel cuore della notte, in preda a un incubo. Troppi anni erano trascorsi da quando l’amore fluiva liberamente, in maniera naturale, fra loro.
            «È tutto finito», la tranquillizzò, come era solito fare in quelle circostanze.
            «Mi dispiace», ripeté lei, guardandolo risedersi accanto. Stavolta non era riuscita a trattenere le lacrime.
            Non poteva credere che fosse davvero lì, che le avesse dimostrato quella tenera forma d’affetto che apparteneva solo ai ricordi. Essenzialmente, non riteneva possibile che il male appena vissuto potesse essere spazzato via in un secondo dal bene che più aveva agognato.
 
Le scene dell’aggressione le attraversarono la mente, ausiliate, nella loro rimembranza, anche dai dolori che cominciavano ad acuirsi al torace. Quel calcio del malvivente le aveva mozzato il fiato e aveva cambiato le sorti della serata, mettendo fine alle sue speranze di poter tornare a casa e tentare di salvare Neji in un altro modo.
            Ricordava vagamente anche l’arrivo di Sasuke, il suo tentativo di farle provare calore, nonché la propria insistenza a volerlo allontanare; sforzi sciocchi e inutili, dal momento che era grazie all’Uchiha se ora, salva, si trovava in quel letto d’ospedale.
            Improvvisamente, provò vergogna e ripugnanza per se stessa. Lei, che voleva strappare qualcuno dal pericolo, era stata sopraffatta ancora una volta dagli eventi, uscendo sconfitta. Lei, che desiderava essere utile e riscattare la propria dignità, era stata quasi totalmente denudata, si era gettata in una vasca d’acqua gelida e aveva miseramente vaneggiato davanti al suo salvatore. Lei, che aspirava a ottenere un minimo segno di stima da parte della sua famiglia, si trovava ad essere ancora più meschina di prima, davanti agli occhi del padre.
             «Ti ho fatto preoccupare, ancora una volta. Mi dispiace, papà. Non sono la figlia… anzi, il figlio che volevi», sussurrò, nascondendo il viso fra le mani. Non era vittimismo, davvero se ne doleva. Si era ripromessa tante volte che avrebbe riempito il cuore del padre di orgoglio, dimostrandogli di essere cresciuta; aveva sognato di poter eguagliare anche solo minimamente Neji, di regalare al genitore le stesse emozioni positive che il nipote gli procurava, ma aveva fallito.
            Sentì Hiashi sospirare profondamente e aprì una fessura fra l’indice e il medio, da dove poteva osservarlo; sembrava sereno, nonostante tutto.
            «Dicono che i figli non si scelgono, proprio come i genitori», affermò lui, afferrando con dolcezza il suo polso sottile e costringendola ad abbassare una mano dal volto.
            Voleva guardarla negli occhi, dirle in faccia ciò che da sempre pensava, ma che non era mai stato in grado di comunicarle, un po’ per paura di perdere la propria autorevolezza, un po’ per timore di non essere pienamente creduto. Stavolta non avrebbe esitato; quella notte aveva deciso che avrebbe sempre fatto il possibile per essere sincero con lei, che si sarebbe comportato da padre, finalmente.
            Scoprire il suo viso intimidito e ancora scosso gli fece quasi estinguere le parole in gola, ma l’uomo inspirò profondamente e le accarezzò una guancia.
            «Non avrei potuto ricevere un dono più grande di te e Hanabi».
            Hinata sfiorò incredula la mano del padre, ancora appoggiata sulla sua gota. Era reale? Hiashi non si era mai sbilanciato in quel modo, dando dimostrazione dei propri sentimenti, e sentirsi dire tali parole amorevoli e inattese, su quel letto, dopo aver provato un assaggio di quanto il mondo potesse essere oscuro, pericoloso e profondamente malsano, le sembrava ancora più paradossale. Si aspettava uno schiaffo per averlo fatto preoccupare, un rimprovero, un segno di diniego nei suoi confronti, non certo tutto il contrario.
            «Siete la cosa più preziosa che mi resta, al mondo. Se ti fosse successo qualcosa, io… non so cosa avrei fatto, sono sincero. Ho già perso anche tua madre, senza poter nemmeno muovere un dito per soccorrerla…». La voce gli si abbassò di diversi toni, fino a mozzarsi completamente, lasciando posto a fastidiose lacrime nelle sue iridi chiare.
            «Mi dispiace, papà. Anche per quel giorno!». Era esplosa in un pianto irrefrenabile, che si portava dietro da cinque anni.
            Ricordava tutto alla perfezione, non si sarebbe mai scordata neppure un dettaglio riguardante l’accaduto. Il suono del clacson premuto dal corpo di Haiko le rimbombava ancora nelle orecchie, il tutù di seta, macchiato di sangue, era costantemente davanti ai suoi occhi, insieme con il volto sfregiato ed irriconoscibile di sua madre, che respirava con fiacchezza e le prometteva silenziosamente - con uno sguardo quasi inespressivo - che sarebbe andato tutto per il meglio.
             Quando mai, nella sua vita, quel pronostico si era avverato? Le cose difficilmente avevano preso la piega giusta, per Hinata, ma, da una settimana a quella parte, la sua intera esistenza si era lentamente mossa verso un livello superiore, sospingendola in direzione della serenità. Persino suo padre era lì, ora, a darle prova che ogni cosa si sarebbe aggiustata.
             «Non è stata colpa tua. Non lo è mai stata, Hinata», la rassicurò il quarantacinquenne, abbracciandola. «Sono stato terribile a fartelo in qualche modo credere, ma non era mia intenzione. Volevo solo che tu diventassi forte… una Hyuga. Non mi sono accorto che lo sei sempre stata, molto più di tutti noi», le sussurrò all’orecchio.
              Lo abbracciò con tutte le proprie forze, ignorando le fitte al torace, stringendo i denti e congiungendo le mani dietro al suo collo. Il profumo dell'uomo, finalmente, le penetrò le narici, ed era totalmente diverso da come lo ricordava, incredibilmente più soave della scia che si lasciava dietro quando la sorpassava con indifferenza.
              «Grazie», riuscì solo a mormorare, sopraffatta dalle emozioni.
 
Un leggero bussare sul vetro della porta scosse entrambi, obbligandoli a sciogliere quella stretta. Il padre sorrise lievemente, asciugando una lacrima alla figlia.
              «Scusate, è appena arrivato il commissario Uchiha», annunciò una giovane infermiera, sbucando fuori dal piccolo varco che si era aperta.
              Hiashi annuì, regalò alla figlia uno sguardo dolce e deciso allo stesso tempo, nel tentativo di infonderle coraggio. Sapeva che la verità che lui non aveva avuto il coraggio di chiedere direttamente ad Hinata, nel giro di pochi giorni, sarebbe venuta a galla sotto le incalzanti domande dell’ufficiale, ma non riusciva ancora a sperare.
 
***
 
Fugaku stava parlando con i propri figli, spronandoli a tornare a casa e ad accompagnare anche Neji all’auto, ancora posteggiata fuori dal bar.
            Era un uomo alto, dall’aria severa, ma capace di ispirare fiducia anche semplicemente con uno sguardo. Solo Hiashi, però, non era dello stesso avviso.        
            Si avvicinò a grandi falcate all'ispettore, senza prendere in considerazione i ragazzi, che lo fissavano con aria mesta.
            «Tipico vostro, farsi vivi quando ormai il crimine ha compiuto il suo corso», accusò il padre della vittima, rabbioso oltre ogni dire.
            «Signor Hyuga, a nome dell’ufficio le pongo le mie…».
            «Può benissimo immaginare cosa me ne faccia, io, delle vostre scuse!», tuonò l’altro, allontanandosi dalla porta. «Dov’erano i vostri uomini, un’ora e passa fa? Perché un luogo come quel maledetto cantiere è ancora aperto? Perché nessuno sorveglia i posti malfamati di Konoha?». Le furibonde domande che voleva porre a Fugaku erano ancora numerose, ma i nervi tesi e il fiato corto gli impedivano di proseguire oltre. Poteva solo guardare negli occhi il commissario e accrescere il proprio odio verso un’istituzione che non aveva mai tutelato la sua famiglia.
            «Ha ragione», cercò di rabbonirlo l’ufficiale, con tono dispiaciuto. Non poteva farsene una colpa personale, ma il sentimento di delusione verso la giustizia che lui stesso incarnava, indossando quell’uniforme, era forte. Vedere un padre amareggiato, adirato per un reato mosso verso la giovane figlia, lo sconvolgeva, ma, allo stesso tempo, gli trasmetteva la forza per voler far luce.
            «La ragione è dei fessi!», constatò Hiashi con rassegnazione, pronto ad uscire dal reparto.
            «Lasci fare a noi, abbia fiducia», cercò di rassicurarlo l’Uchiha, appoggiandogli una mano sulla spalla.
            «Non ho fiducia nella polizia! Mia figlia poteva essere uccisa, stanotte… la mia Hinata!». Sussurrò il suo nome, come se pronunciarlo potesse ferirla nuovamente. «Proprio come Haiko! Il bastardo che si è schiantato contro la sua auto ha scontato in carcere solo un anno! Inutile vincere le cause in tribunale e affidarsi alle forze dell’ordine, se questa è la giustizia!».
            Hiashi si allontanò con rapidi passi verso la grande finestra della sala d’attesa, ignorando le ulteriori scuse e rassicurazioni del commissario. Inutile tentare di ispirare speranza in un uomo che aveva perso la fede nel modo più atroce possibile.
             Il suo cuore portava ferite ancora aperte, che niente e nessuno sarebbero stati in grado di lenire; Hinata ed Hanabi erano tutto ciò che gli restava al mondo, ma, quella notte, aveva rischiato di perdere un’importante parte di vita, senza che lei sapesse quanto l’amasse. Avrebbe fatto il possibile per tutelare entrambe le figlie.
 
***
 
Il dolore di quell’uomo trafisse come un punteruolo il petto di Sasuke, che si fermò a guardarlo per qualche istante, prima di seguire Fugaku. Osservò con afflizione le eburnee dita di Hiashi aggrapparsi alle tende di cotone color bianco sporco: le stringeva convulsamente tra le falangi di una mano, mentre digrignava i denti in un’espressione di rabbia e impotenza.
            Un padre colpito da una sofferenza ingiustificabile, insensata, proprio come Hinata. Cosa c’entrava, lei, con quella storia? Perché farle del male, quando non aveva mai recato alcun disturbo alle altre persone, facendosi mille riguardi anche solo per un semplice colpo di tosse?
 
Nonostante il genitore si fosse offerto di riaccompagnarlo a casa, il diciottenne declinò l’invito, montando nella propria vettura. Lo rassicurò che avrebbe guidato con moderazione, che si sarebbe messo a letto e sarebbe andato a scuola sereno, il mattino seguente, pur sapendo benissimo che nemmeno quella notte avrebbe riposato. Le occhiaie erano un alone scuro, sotto le orbite, che si abbinava perfettamente alla nube di pensieri che già aleggiava sopra la sua testa.
            Per quanto quella fosse la propria auto e si trovasse al posto di guida, la sensazione che gli rivoltava le budella era simile a quella che si poteva provare sul sedile posteriore della volante della polizia. Ancora una volta, si sentiva un criminale, un rifiuto umano, un impotente assoluto, un inetto, un miracolato senza ragione di tanta fortuna. Aveva goduto della luce della redenzione, in quella settimana, e a farne le spese era stata la fonte di tanta grazia. Era tutto assurdamente ingiusto.
 
Giunse a casa, rispose controvoglia alle domande della madre, chiedendole di scusarlo per la stanchezza e il cattivo umore. Ignorò le sue preoccupazioni per quei punti sul labbro, le sue insistenti premure, sentendo di non meritarle, così come tentò di trascurare i passi di Itachi lungo il corridoio.
            Sette, otto. Si era fermato davanti alla sua stanza, come sempre faceva prima di andare a coricarsi, e Sasuke si era silenziosamente spogliato, gettando gli indumenti sul pavimento, con rabbia e senza alcuna cura.
            Fissò con disgusto e livore la propria figura nel fioco riflesso della finestra e aspettò di risentire la camminata felpata dell’aniki allontanarsi in direzione della propria alcova, prima di mettersi sotto le coperte.
            Avvolto tra le lenzuola, confortato da un calore inumano e, per questo, quasi glaciale, ripensò alla sconvolgente serata appena vissuta, dominata da un’illogicità senza paragoni.
 
La notte non era più giovane, proprio come le sue speranze, ormai maturate e rinsecchite nel giro di poche ore. Sapeva che sarebbero rifiorite soltanto se avesse rivisto l’armonioso sorriso di Hinata. Quanto desiderava potersi beare ancora di quel limpido guizzo di gioia! Mai come allora ne avvertiva il bisogno.
             Lui era sempre stato un’insignificante tessera di un collage spezzato, improvvisamente risanato dalle cure giunte dalla Hyuga. Ora era di nuovo una scheggia incolore, ma capì che è solo quando si cade in frantumi che si può ricomporre il mosaico astratto, donandogli la concretezza che gli manca.
            Non avrebbe permesso a nessun altro di poter deturpare quel capolavoro.







Non odiatemi, torno da voi con un ramoscello d'ulivo in mano :D 
Prima di tutto, mi scuso infinitamente per l'attesa! Non è da me lasciare intercorrere tanto tempo fra la pubblicazione di un capitolo e l'altro, ma a separarmi dalla storia c'è stata la sessione d'esami; finalmente è finita, anche se ora riprenderanno le lezioni. Beh, se non altro, ora potrò aggiornare con più regolarità *incrocia le dita* :D
Oh, sì, è anche vero che parte del ritardo è dovuto pure alla lentezza nella stesura e nella revisione. Mea culpa!
Tengo particolarmente a questo capitolo perché mostra il legame tra padri e figli, finalmente :) Sarà che io ho un meraviglioso rapporto con mio papà, grazie al cielo, ma desideravo davvero dar luogo a un po' di sana dolcezza tra Hiashi e Hinata :) 
Oh, Itachi è un ottimo motivatore, quando ci si mette. Mi servirebbe, lo ribadisco XD
Vi ringrazio tutti, dal primo all'ultimo, per il numero di letture silenziose, le recensioni, le preferenze nelle varie categorie, le mail... siete meravigliosi. Permettetemi, poi, ancora una volta, di ringraziare arcx, la cui consulenza è stata di vitale importanza per la realizzazione di questo capitolo: spero di aver reso giustizia alle tue delucidazioni ;)
Che dire? La storia sta volgendo al termine e deve la propria esistenza fondamentalmente a voi! :) Grazie! 
Spero di risentirvi presto! 
Buon proseguimento, ragazzi! ;)
Baci 


Ophelia
 

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Capitolo 17
*** Vivere non è sopravvivere ***


17. Vivere non è sopravvivere
 

 
 
Il tempo era trascorso piuttosto rapidamente, fra quelle quattro mura sterili e chiarissime, quasi abbaglianti, quando colpite dai raggi del sole. Il passare delle ore era stato scandito dalle visite che aveva ricevuto, più che dal ticchettio dell’orologio posto sopra la porta.
            Un riposo tranquillo, il suo, nonostante i dolori e i capitomboli del cuore. La proverbiale quiete dopo la tempesta era calata nel suo petto, permettendole di riaprire gli occhi con quello che sembrava avvicinarsi a un sorriso. Era ancora viva, possedeva la forza per dare prova al mondo che poteva essere vigorosa e invitta.
            Doveva quelle sensazioni positive e inebrianti a poche persone che, in quei tre giorni di degenza, le avevano regalato una serenità inaspettata: Neji, gli zii, Hanabi, Shimoko e, soprattutto, Hiashi. Il padre non l’aveva persa di vista un solo istante, facendo del suo meglio per restarle accanto, superando senza timore la soglia di sopportazione della stanchezza. In quelle ore, non si era praticamente mai mosso dall’ospedale, se non per tornare a casa e riposarsi quel minimo che gli consentisse di reggersi in piedi. Ogni mattina, però, appena scattava l’orario di visita, lui si fiondava nella sua stanza, trascurando la pila di scartoffie che lo aspettava in ufficio. Lei sola aveva la precedenza sul resto.
            Se ne stava nella camera, spesso in silenzio, seduto al suo fianco, osservando il cielo incredibilmente soleggiato per essere pieno ottobre, e non poteva evitare di interpretare il bel tempo come un incoraggiante segno di buon auspicio.
            Non si scambiavano parole, né si riuscivano a guardare negli occhi troppo a lungo, non essendo abituati a tale comportamento, ma a Hinata bastava sentirlo respirare accanto a lei, o annusare il suo leggero profumo che invadeva l’aria, con la sua presenza, per sentirsi meglio. Suo padre era ancora lì, non l’aveva abbandonata, nonostante la criticità del momento.
 
***
 
Così il gran giorno era arrivato.
            Mentre sognava qualcosa che ormai stava svanendo dalla sua mente, alle prime ore del mattino, era già pienamente consapevole che fosse venerdì. Dopo le mille promesse degli infermieri e dei medici, le loro rassicurazioni che entro sabato sarebbe stata dimessa, il fine settimana era divenuto il suo chiodo fisso, un traguardo raggiungibile, a portata di mano, ma, allo stesso tempo, sempre troppo lontano, costretta com’era a rimanere in quella stanza o a spingersi non oltre il corridoio del reparto.
 
Quando riaprì gli occhi, le mani delicate del primario le stavano sfiorando la fronte. Sbatté le palpebre diverse volte, finché non riuscì a mettere bene a fuoco il sorriso radioso dell’uomo, che fece cenno a un’infermiera di sollevare la tapparella.
            «Come ti senti?», le chiese, sedendosi sul bordo del letto.
            Non sapeva cosa rispondere, ancora reduce da un lungo sonno, e faticava a collegare i fili della realtà. I ricordi erano chiari e freschi, nella sua memoria, ma non intendeva minimamente sfiorarli, in quel frangente. Decise di concentrarsi sulla domanda del medico, e si guardò le mani, le braccia, le gambe avvolte dalla coperta ospedaliera, nel tentativo di trovare una risposta. Non sentiva troppo dolore, nemmeno alla schiena, nonostante si fosse addormentata semi-seduta, né avvertiva freddo.
            «B-bene, credo», mormorò timidamente, abbozzando un sorriso. Alzò lo sguardo verso il volto dell’uomo e confermò con decisione il suo responso: «Davvero bene, la ringrazio».
            «Ottima notizia, Hinata!», esclamò lui, perlustrando il taschino della casacca, alla ricerca di qualcosa. Estrasse una piccola torcia, l’accese e la puntò negli occhi della ragazza, muovendola da destra a sinistra. «La tua temperatura corporea si è ristabilita quasi immediatamente e, come abbiamo potuto già verificare nei giorni scorsi, non hai riportato traumi di rilevante entità. Nessuna frattura, né gravi lesioni. Sei davvero forte, nonostante le apparenze», rise, rialzandosi e scompigliandole scherzosamente la frangetta. «Ti abbiamo trattenuta abbastanza, direi. Nella tarda mattinata potrai fare ritorno a casa con tuo padre».
            «Da-davvero?», esclamò quasi incredula, sobbalzando di colpo.
            «Naturalmente, anche se tra qualche minuto arriverà il commissario Uchiha per porti delle domande. Te la senti, vero?».
            Annuì sicura, nonostante il suo bel sorriso si stesse lentamente spegnendo; nell’udire quel cognome, la sua mente corse immediatamente a richiamare l’immagine di Sasuke.
            Perché era stata tanto egoista da non pensare a lui, in quei giorni? Almeno non quanto avrebbe dovuto; non aveva domandato a nessuno come lui si sentisse, nemmeno chiedendo a Neji. Ora che ci pensava, non si era minimamente preoccupata neppure della scuola, di Kiba e Tenten… nulla, un totale occultamento di coscienza. Si sentiva orribile, una pessima amica e un’egocentrica senza riguardo per nessuno. Tutta la sua concentrazione si era divisa tra la preoccupazione per la famiglia e il ricordo di quegli occhi ametista, che l’avevano voracemente scrutata e ferita, martedì notte.
            Rabbrividì, rievocando la voce di Hidan, la sua minaccia proferita poco prima di abbandonarla al proprio destino, al parco, ma si ridestò subito, stringendo il lenzuolo fra le nocche. Aveva terribilmente paura delle possibili ripercussioni di una denuncia, ma sapeva cosa doveva fare e voleva rendersi utile; non poteva, né desiderava nascondersi.
            Ripensò agli occhi liquidi del padre, alle sue parole di conforto, all’affetto di casa; una volta uscita di lì, tutto, finalmente, sarebbe stato diverso, e la figurazione del calore con cui villa Hyuga l’avrebbe accolta riuscì a far affiorare nel suo cuore tutta la determinazione tipica del clan natio.
            Aveva fede nella polizia, nella magistratura, nella famiglia… e in Sasuke. Sperò con tutta l’anima che lui stesse bene e che, nel frattempo, non avesse combinato qualche guaio a causa sua.
 
***
 
Mentre la giovane si riprendeva in ospedale, quella straordinaria e complessa macchina che era la polizia aveva già cominciato a muoversi, raccogliendo le testimonianze di Itachi, Neji e Sasuke ed effettuando sopralluoghi al cantiere. Dagli indumenti ancora abbandonati in quel posto, erano venute alla luce alcune tracce, che sarebbero state incrociate, di lì a poco, con quelle raccolte nella banca dati del dipartimento, nella speranza d’individuare il criminale responsabile di tutto.
 
Fugaku, con un senso di amarezza frammisto a delusione, abbassò la maniglia della porta ed entrò lentamente nella camera d’ospedale, accompagnato dal suo collega. Nelle orecchie gli echeggiavano ancora le parole velenose, ma legittime, di Hiashi riguardo l’incidente della moglie.
            Aveva quasi dimenticato quella luttuosa vicenda che aveva toccato gli Hyuga, cinque anni prima, ma, ora che si ritrovava davanti Hinata, con quell’incarnato pallido che contrastava meravigliosamente con i suoi capelli scuri, tutto gli sovvenne rapidamente.
            Era stato lui stesso ad estrarre sua madre dalle lamiere, dato il ritardo dell’ambulanza. Ne aveva colto probabilmente le ultime parole, giunte frammentarie e insanguinate, da quelle labbra tremendamente vermiglie e deturpate che, in passato, avevano sicuramente conosciuto sorrisi dolcissimi. Gli aveva chiesto, con la tacita forza di uno sguardo, di pensare a sua figlia, a Hinata, ancora stretta nella cintura di sicurezza e con gli occhi sbarrati dal panico.
            Proprio lui, Fugaku Uchiha, l’aveva slegata e sollevata dal sedile, prendendola fra le braccia e allontanandola da quell’inferno, dal corpo ferito della madre, dal suo viso sfigurato dal dolore e dall’impatto. L’aveva data in momentanea custodia a un suo sottoposto, mentre aiutava gli infermieri appena giunti sul luogo a caricare la donna sulla lettiga, rassicurandola sulla salute di Hinata. Lei, probabilmente con le ultime energie rimastegli, gli aveva sorriso, esprimendo così tutta la propria riconoscenza e lasciandolo tramortito da tanta gentilezza. Nonostante svolgesse quel lavoro da diversi anni e si fosse trovato davanti qualsiasi scenario immaginabile, raccapricciante o banale, mai aveva intravisto un bagliore di umanità simile a quello di Haiko, in quel momento. Alle porte del regno eterno, aveva trovato la forza per ribadire quanto fosse straordinariamente umana e angelica, allo stesso tempo, in un solo secondo.
            Quell’identico sorriso triste, ma sinceramente rincuorante, per quanto degli ematomi sul corpo cercassero di relegarlo inutilmente in secondo piano, svettava sulle labbra di Hinata.
Erano passati diversi anni, lei era cresciuta, ma a Fugaku sembrò di essere tornato a quel giorno.
 
La diciassettenne sobbalzò, ritrovandosi davanti l'ufficiale. I tratti del suo viso le erano familiari, e non solo perché molto simili a quelli dei suoi figli: quell’uomo l’aveva già salvata una volta ed era certa che il miracolo si sarebbe ripetuto.
            Nascose il volto tra le mani, sopprimendo l’ennesimo treno di ricordi – recenti e passati – frammisto a lacrime e brividi. Doveva essere forte perché tutto giungesse a termine nel miglior modo possibile.
            «Se preferisci, tuo padre può entrare e assistere…», mormorò il capo commissario, avvicinandosi alla sedia adiacente al letto.
            «No… sto bene», sorrise, tirando su con il naso e mostrando di nuovo la sua faccia. «Davvero, non è necessario. Vorrei parlarne solo con lei».
            L’uomo annuì, facendo cenno al collega di poter uscire. Ammirava la forza d’animo di quella ragazza, così provata da dolori – recenti e passati – che avrebbero sfiancato chiunque. Capiva la sua decisione di lasciare tranquillo il genitore, evitandogli di assistere alla descrizione del reato subìto, e cominciava pure a comprendere perché Sasuke fosse scoppiato in lacrime, sopraffatto dalla rabbia e dai sensi di colpa, mentre gli aveva chiesto di giungere in ospedale, quella notte. Hinata, forse, era riuscita a farlo sentire umano, grazie alla sua inaspettata energia vitale, mostrandogli che, per quanto il mondo fosse duro, iniquo e le cose non andassero sempre per il verso giusto, lasciarsi andare alla deriva non era la soluzione ai problemi.
            Questa era solo una sua ipotesi, certo, ma non per niente era a capo della polizia; le sue capacità deduttive e i racconti che giravano sul suo infallibile metodo d’indagine non erano leggende, in fondo.
            «Prima di cominciare, volevo che lei sapesse che... che devo la mia vita ai suoi figli, soprattutto a Sasuke, signor Uchiha. Non da martedì notte, ma da più di una settimana», ammise lei, lisciando le lenzuola ruvide del letto. Non aveva balbettato, né dato dimostrazione di alcun segno d’incertezza, essendo pienamente convinta del suo pensiero.
             Fugaku si sbalordì, a quelle parole, ma non si azzardò a sminuire la sua affermazione, come avrebbe fatto normalmente. Non credeva fino in fondo che il suo secondogenito potesse essere in grado di far sentire meglio qualcuno, dato il caratteraccio che da lui aveva ereditato, ma osservando la Hyuga, i suoi occhi bassi, le guance arrossate, il timido sorriso incorniciato da due lacrime cristalline, ebbe la conferma di ciò che aveva ipotizzato solo un minuto prima: lei era colei che era riuscita laddove lui e Mikoto avevano fallito.
            «Credo che sia lui a dovere la sua salvezza a te», confessò con una voce che non tradiva emozioni, abituato com’era a rimanere freddo e impassibile di fronte a qualsiasi situazione. Eppure, dentro il petto, il cuore aveva vibrato.
            Hinata si asciugò gli occhi e sorrise, scusandosi per quel momento di debolezza.
            Non pianse più, non ne sentì più l’esigenza neppure quando il commissario – secondo il protocollo – cominciò a porle domande sempre più precise e dolenti.
 
***
 
Hiashi ripose il borsone della figlia nel bagagliaio dell’auto e la aiutò ad accomodarsi al suo fianco, nonostante lei avesse insistito per fare da sola.
            Sembrava in forma, malgrado il tragico evento di qualche notte prima e il lungo interrogatorio del commissario; l’aveva vista sorridere come non la ricordava da tempo, quando era entrato nella sua stanza con il modulo delle dimissioni già siglato, e non aveva nemmeno avuto occasione di spronarla a cambiarsi, perché si era già rivestita con indumenti quotidiani da sé, mentre lo aspettava.
            La guardò di sottecchi, prima di mettere in moto, e si lasciò andare a quel genere di sorriso che, nella mente, accompagnava le parole “Sono orgoglioso di te”. Lo era davvero, perché non l’aveva vista cedere neppure per un minuto, là in ospedale, se escludeva ragionevolmente la notte tra martedì e mercoledì, quando lei era scoppiata a piangere diverse volte.
            Non aveva voluto conoscere da lei la verità sul misfatto, non intendeva costringerla a rivivere di nuovo qualcosa di tanto terribile: avrebbe chiesto al commissario un resoconto delle indagini – accantonando l’istinto di non rivolgergli parola, dopo quella discussione nel reparto – e, appena possibile, si sarebbe messo all’opera per avviare una causa in tribunale.
            «Non vedo l’ora di essere a casa, di fare una sorpresa ad Hanabi, di sentire i miei amici… e tornare a scuola», sussurrò sovrappensiero, osservando il paesaggio farsi sempre più familiare, di chilometro in chilometro. «Domani tornerò in classe, sì», affermò risoluta, mentre un raggio di sole le illuminava un occhio.
            «Non sarebbe meglio lunedì, a questo punto?», domandò il padre, scalando le marce, in prossimità di un semaforo.
            «Ho bisogno di tornare alla quotidianità. Ho voglia di prendere appunti, ascoltare le lezioni, rivedere Kiba, Tenten…». C’era un altro nome a pungerle la lingua, ma lo ricacciò istantaneamente indietro, incapace di pronunciarlo. Per proteggerlo, non avrebbe nemmeno più dovuto pensare a lui. «Mi sento bene, davvero», lo rassicurò, sfoderando un sorriso sereno.
            Hiashi annuì leggermente, seppur avesse intuito che le premeva rivedere anche qualcun altro. Sospirò profondamente, davanti alla luce rossa del semaforo. Cosa doveva fare? Cosa avrebbe fatto Hizashi, se fosse stato nei suoi panni? Delle volte detestava il facile buonismo del gemello, la sua accondiscendenza verso Neji e Hinata stessa; non aveva dimenticato il permesso che le aveva accordato per recarsi alla festa di Naruto, e non gliel’aveva ancora perdonato, in fondo, convinto che quello fosse stato l’inizio dei guai. Eppure si rendeva anche conto di quanto fosse stupido e ingiusto precludere alla figlia qualsiasi possibilità di svolgere una vita normale.
            Con Hanabi non si faceva tutti quei problemi, ma, in fin dei conti, la secondogenita aveva solo tredici anni: cosa mai poteva pretendere, una bambina? Il permesso di fare un giro al parco con l’amica del cuore o un aumento di paghetta.
Hinata era diversa, aveva un’altra età… e in fondo non gli stava chiedendo chissà che, doveva ammetterlo. Nessun coprifuoco posticipato per poter passare una notte in discoteca, né un’auto nuova o un extra per potersi comprare un vestito costoso; gli aveva solo domandato silenziosamente, con uno sguardo, di lasciarla vivere, sbagliare, cadere e rimettersi in piedi da sola, proprio come stava facendo in quei giorni. Aveva rischiato tanto, la vita stessa, eppure era lì, sorridente e tenace come non mai, pronta a ritornare alla sua tranquilla routine fatta di casa, famiglia, amici e scuola. E Sasuke, ormai era chiaro.
            «Papà, è verde», lo avvertì lei, prima che qualche automobilista impaziente cominciasse a suonare il clacson.
            Rimise in moto la vettura, deglutendo. Chi l’avrebbe mai detto che un uomo così integro e impassibile potesse sudare freddo, al cospetto di una figlia tanto innocente quanto forte?
            «D’accordo, potrai tornare domani», le accordò, svoltando l’angolo del quartiere in cui vivevano.
            Poteva davvero essere tanto crudele da spegnere quell’espressione di gioia dipintasi sulla faccia della ragazza, ora che rivedeva casa, in fondo al viale? Sì, ma non era per cattiveria; se lo faceva, era solo per custodire il più a lungo possibile la sua serenità.
            «Ti chiedo solo una cosa, Hinata», mormorò con lo sguardo fisso verso il cancello aperto della villa. «E spero che tu riuscirai a comprendere ciò che mi spinge a esigere questo, da te».
            «Tutto quello che vuoi, papà», lo rassicurò lei, sfilandosi la cintura e affrontando i suoi occhi lontani con tutta la limpidezza che poteva convogliare in un sorriso.
            Hiashi si sentì male, quasi morire, ma spense comunque il motore e si girò in sua direzione. Era l’angelo che Haiko aveva protetto con la sua vita, e lui stava per spezzarle le ali, onde non farla volare via.
            «Promettimi che non lo frequenterai».
            «Chi?». Domanda inutile; gli si leggeva in volto a chi si riferisse.
            «Promettimi che non uscirai con quell’Uchiha, che sarà un normale compagno di classe, per questi ultimi mesi di scuola. Tu stessa hai detto di non esserne innamorata, qualche giorno fa».
             Ricordava quel pomeriggio, il confronto diretto con suo padre, la visita a casa di Sasuke, il thè alla cannella e mandarini, le sue mani… e il bacio in palestra del giorno successivo. Sì, allora non era ancora sicura di ciò che provasse per quel ragazzo, ma ora tutto sembrava più chiaro; l’amore si era insediato nel suo petto ed estirparlo non sarebbe stato affatto facile.
             Si rattristò rapidamente, abbassando il capo. Comprendeva la preoccupazione del genitore: ad occhi esterni, ciò che era successo al cantiere poteva apparire in qualche modo causato da una frequentazione con quel ragazzo dalla fama nefasta, come se stare al suo fianco potesse procurare alla gente eventi spiacevoli. Erano i soliti pettegolezzi facili di città, quelli che lei stessa aveva sentito per tutti gli anni del liceo: Sasuke Uchiha, genio e sregolatezza, eccessi e ragazze, strafottenza e ottimi risultati scolastici. Forse non erano fandonie, ma a lei apparivano tali, per come l’aveva conosciuto. Il ragazzo che si era da subito preoccupato per lei, impegnandosi ad avvicinarla a Naruto – salvo poi farglielo dimenticare completamente – era una persona sensibile, altruista, pronta a tutto, per gli altri. L’aveva salvata ancora prima di quella notte. Tutto era cominciato con quella ricerca sull’età vittoriana; ecco, lì aveva conosciuto il vero Sasuke.
             «Non credo di poterlo promettere», asserì sottovoce, fissando l’ancoraggio della cintura di sicurezza. «Solo una parte di me, forse».
             «Cioè?».
             «La mente, credo. Ma il cuore non può giurare la propria tassidermia. Lo conserverei perfettamente intatto, fuori, ma dentro sarebbe morto, vuoto. Un cuore impagliato… che mi spingerebbe ovunque voglia, in ogni caso», ammise, rialzando lentamente il capo.
             «E tu non seguirlo! Non andare dove ti porta il cuore, Hinata!», esclamò l’uomo, come se fosse la cosa più facile del mondo.
             La ragazza sorrise debolmente. Lei stessa si era imposta di rispettare quel precetto, ma era stata una stupida a non capire che era impossibile disfarsi dei sentimenti. Era tanto insensato quanto voler cancellare dalla memoria, ora, il nome di Sasuke, per proteggerlo.
             «Ci ho già provato una volta, ed è stato inutile opporvisi. Ed è una fortuna, perché avrei perso tutto, probabilmente».
             «Dimmi che ci riproverai. Fallo per me, Hinata», concluse quasi automaticamente, rendendosi subito conto che la risposta che lei aveva dato era quella che avrebbe voluto udire; dimostrava la sua temerarietà, quanto fosse pronta a combattere per ciò che le stava a cuore, arrivando a sfidare i divieti paterni e qualsiasi logica.
              La ragazza tentò di sorridere nuovamente, per tranquillizzarlo, ma quella che accompagnò le sue parole era una smorfia desolata. «Va bene», affermò, scendendo dall’auto.
              Non andava per niente bene, ma capì che era la cosa migliore da fare, per salvaguardare tutti.
 
Ed eseguì gli ordini, il bravo soldato H. Almeno finché poté.
 
***     
 
Le erano mancati quell’atrio affollato, quei corridoi larghi e lunghi, i volti di ragazzi sconosciuti che si confondevano con quelli dei compagni di classe – della nuova e vecchia sezione. Erano passati solo pochi giorni, ma tutto sembrava diverso, elettrizzante, pieno di vita, profumi e colori. Un nuovo ritorno a scuola, dopo quello di settembre, accolto però con ancor più entusiasmo e voglia di gettarsi a capofitto nello studio e nella normalità.
            Il suo tavolo era impeccabilmente pulito, proprio come l’aveva lasciato, se non per quel bigliettino verde che aveva subito intravisto, da lontano: “Bentornata”, recitava. Riconobbe immediatamente la calligrafia di Tenten e abbracciò la sua compagna di banco, lasciandola quasi stupita da tanto impeto.
            «Sicura che ora tu stia bene?», domandò la castana.
            «Sì, l’influenza è passata! Mi sento come rinata», mentì, ricordando la scusa che Neji aveva trovato per giustificare la sua assenza. Lei stessa gli aveva chiesto d’inventare una frottola abbastanza credibile, desiderosa che nessuno si preoccupasse troppo per lei. Voleva insabbiare quella storia e, se suo padre non fosse stato un avvocato tanto autorevole quanto insistente, avrebbe certamente rinunciato a documentarsi per un processo. Non le interessava punire chi le aveva fatto del male, anche se, naturalmente, capiva che una condanna sarebbe stata un ottimo deterrente dal fargli commettere ancora malefatte del genere.
            «Probabilmente avrai preso freddo alla festa di Naruto», osservò Kiba, comparendo dal nulla, alle loro spalle.
            «Oh, sì, è proprio per quello, temo. Che stupida! Avrei dovuto indossare qualcosa di più pesante».
            «La temperatura non era poi così rigida, però. Proprio come in queste giornate: se escludiamo il normale gelo dell’alba, non sembra affatto ottobre», affermò Tenten, guardando fuori dalla finestra. Il sole svettava già sull’orizzonte anche quel sabato mattina, donando al clima un influsso mite.
            «Scusatemi se non vi ho scritto. Avrei voluto, ma mi è passato di mente e…».
            «Hina, ti pare? Avevi altro cui pensare, no? Sciroppo, pastiglie effervescenti, fazzoletti di carta… è comprensibile!», la rassicurò l’amica, risedendosi al suo fianco.
            L’improvviso fuggi-fuggi di studenti verso i propri banchi avvisò Hinata dell’entrata in aula del professor Hatake, ma, prima di accomodarsi sulla sedia, i suoi occhi non poterono evitare di incrociare quelli neri di Sasuke.
            La stava guardando, dalla sua postazione a fianco di Naruto, in piedi come lei. Sembrava stupito nel rivederla già a scuola, e le labbra schiuse parevano voler riversare un fiume di domande.
            Le era mancato, non poteva nasconderlo. Quei giorni in sua assenza erano stati colmati dall’affetto della famiglia, sì, ma rinunciare a lui, soprattutto ora che se l’era ritrovato improvvisamente davanti, era più difficile del previsto.
            Hinata girò prontamente il viso verso la cattedra, stringendo le labbra. Forse aveva letto male il volto dell’Uchiha. Magari era schifato da lei, altro che preoccupato! Dopotutto, l’ultima volta in cui l’aveva vista, lei a malapena sembrava un essere umano; aveva i suoi buoni motivi per considerarla uno spettacolo raccapricciante. Perché era così che la vedeva, no? Meglio rigirarsi e controllare, per accertarsene? E rivedere i suoi meravigliosi occhi scuri, il suo volto caro e doloroso? No, se lo impedì fermamente, sedendosi al banco.
            Sasuke non esisteva, doveva metterselo in testa. Se non l’avesse cercato, lui avrebbe vissuto un’esistenza regolare, di lì in avanti, e ciò le bastava per farle accettare l’idea che la sua sarebbe automaticamente divenuta sopravvivenza, a quel punto.
 
***
 
Karin passò l’intera ora di Letteratura con gli occhi fissi sulla Hyuga, dal fondo della classe. Sembrava serena, nonostante la rossa sapesse bene cosa le fosse accaduto: Hidan l’aveva avvertita, mercoledì mattina, e lei non si era trattenuta dall’urlargli al telefono quanto fosse stato sconsideratamente crudele e imprudente nel compiere ciò che aveva fatto. Gli aveva solo domandato di spaventarla, non certo di minacciarla, di terrorizzarla a morte e cercare di abusare di lei!
            Si sentiva un mostro, ancora più spregevole di quanto già non fosse. Pensò che i ragazzi non avessero torto ad evitarla, a reputarla una ninfomane senza scrupoli, e che si meritasse le cattive compagnie in cui si ritrovava.
            Aveva sempre desiderato una vita normale, come quelle di Sakura, Ino e le altre compagne della 5^F, ma sapeva benissimo che lei non sarebbe mai stata come loro. Non aveva una famiglia solida e affettuosa, alle spalle, né possedeva l’indole più adatta a stringere amicizie durevoli e confortanti. Nel suo cuore non c’era spazio per l’amore, forse solo per l’ossessione; d’altronde, che colpa ne aveva se desiderava solo Sasuke, da tanti anni a quella parte?
            Non si aspettava che Hinata sarebbe tornata a scuola in tempi tanto brevi, dopo il resoconto del sadico giovane dagli occhi color ametista, e rivederla al suo banco, sorridente e attenta alle parole dell’Hatake, da una parte la tranquillizzò, ma, dall’altra, le accese un forte senso d’ingiustizia. Ciò che le era accaduto era profondamente immorale e spietato. D’accordo, era una sua rivale, ma che male le aveva fatto, in fondo? Sasuke era interessato a lei e non poteva dargli torto, ora che finalmente aveva cominciato a far ragionare il cervello: Hinata era una ragazza splendida, positiva e vigorosa, molto più forte di quanto si potesse immaginare. Anche Hidan gliel’aveva raccontato, al telefono, non senza stupore.
            La fanciulla dai capelli blu era riuscita a farle vorticare nel cervello tutte quelle riflessioni con la sola presenza nell’aula, senza nemmeno girarsi in sua direzione e sottoporla a uno sguardo limpido dei suoi. L’aveva folgorata con le spalle, con il capo ritto verso la lavagna, con i gesti armoniosi delle mani, con i sorrisi che rivolgeva a Tenten, di tre quarti.
            Possibile che Karin stesse maturando una conversione d’anima, quel sabato mattina, mentre il professore stava spiegando chissà quale poesia?
            Mortificata, indirizzò uno sguardo fugace verso Sasuke e non si sorprese nel trovarlo intento a fissare la Hyuga, proprio come lei, qualche istante prima. A dispetto di come avrebbe reagito giorni addietro, sorrise debolmente, abbassando gli occhi. Aveva capito, finalmente. Ostacolare il loro avvicinamento e pretendere di far innamorare di sé qualcuno che non avrebbe mai potuto ricambiarla era stata un’azione profondamente meschina.
             Le aveva provate tutte, dalle avances spudorate al sesso, e lui era divenuto la sua ossessione; si era illusa di averlo in pugno, di poterlo tenere tutto per sé, senza capire che non sarebbe mai riuscita ad afferrare la sua anima, perché lui era ben determinato a tenergliela nascosta, onde mostrarla solo a chi meritasse maneggiarla con le dovute cure. E Hinata era la persona più consona a sanare le crepe dell’Uchiha, non poteva negarlo. Non provava invidia, solo tristezza e avvilimento: era stata la mandante di un crimine! Aveva spinto la povera diciassettenne nelle grinfie di un individuo ben più pericoloso di quanto non avesse immaginato.
            Capì che doveva fare qualcosa, almeno per estinguere minimamente quel senso di colpa opprimente. Così, non appena suonò la campanella, cacciò l’astuccio e il quaderno nella borsa e si diresse in segreteria, simulando un malessere stagionale.
 
***
 
Hinata osservava la propria immagine riflessa nel vetro della porta dell’ufficio scolastico, attendendo che Neji ne uscisse. Poco prima che la campanella della fine delle lezioni suonasse, il bidello era infatti entrato in classe e aveva chiesto al giovane di recarsi in quel locale del piano terra.
             Così lei l’aveva accompagnato, per poi tornare a casa insieme.
             Ciò che intravide nel riverbero le piacque, inaspettatamente: non era dismessa come temeva, in fondo, né riportava esteriormente i piccoli dispiaceri che invece dentro la deturpavano, soprattutto da quella mattina. Gli occhi non erano segnati da violacee occhiaie o arrossamenti, il viso non si era smunto o aveva assunto un colorito smorto, né il collo mostrava ancora i segni della colluttazione; tutto era come sempre, la recita che aveva messo in piedi davanti ai suoi compagni di classe non era stata tradita da dettagli fisici preoccupanti.
             Era talmente assorta nella propria contemplazione da non avvertire dei passi avvicinarsi, alle sue spalle.
             «Hinata».
             Conosceva quella voce e solo il Cielo sapeva quanto le fosse mancata. Aveva desiderato risentirla, durante le notti passate in reparto, o anche solo poter rivedere di sfuggita il suo proprietario. Adesso poteva scorgerlo al suo fianco, rispecchiato nel vetro, ma non osava incrociare nemmeno indirettamente il suo sguardo, consapevole che, se l’avesse fatto, tutti i suoi buoni propositi di dimenticarlo sarebbero andati a monte.
             «Stai bene?», le chiese semplicemente, sollevando con titubanza una mano in sua direzione, ma senza trovare il coraggio di sfiorarle la spalla. Aveva paura di ferirla, di poterle ricordare quella terribile notte.
             Lei annuì debolmente, chiudendo gli occhi. Avrebbe voluto girarsi, sorridergli, abbracciarlo, ringraziarlo di cuore per tutto ciò che aveva fatto per lei, e scusarsi per le mille preoccupazioni causategli, ma si mantenne ferma nella sua posizione.
             «Mi dispiace non essere venuto a trovarti… non me la sono sentita. Sono uno stronzo, ti ho lasciato da sola, non ho scusanti», crollò, sospirando.
              La ragazza sgranò gli occhi, a quelle parole. Come poteva essere tanto duro con se stesso?
              Si girò lentamente verso il moro, contravvenendo al patto con se stessa; non sopportava l’idea che Sasuke si biasimasse per così poco, quando lei era ancora sana e salva solo per merito suo, probabilmente.
             Tenne lo sguardo basso, sulle scarpe del corvino, per qualche istante, per poi risalire lentamente verso l’alto: i suoi pantaloni scuri, la giacca e la camicia, il colletto e, infine, il volto. Un timido sorriso le solleticò le labbra, ma strinse i denti e si costrinse a non cedere. Doveva salvaguardarlo e far sì che lui la perdesse di vista.
             «Sei incredibilmente forte, Hinata, e davvero… davvero bella». Dio, perché la sua voce tremava? Sasuke Uchiha stava arrossendo, davanti a una ragazza?
             La Hyuga rimase di sasso, incapace di replicare o sminuire quel complimento. Non poteva smettere di guardarlo negli occhi, di annegare nel nero profondo e caldo delle sue iridi, proprio come lui non riusciva a distogliere le sue da quelle perlacee di lei. Si erano ritrovati, a un passo dal perdersi per sempre.
 
Neji richiuse la porta della segreteria e ridestò la cugina, sfiorandole un braccio.
            «Mi hanno riconsegnato il cellulare. Dicono che sia stato trovato in palestra da una ragazza e che lei abbia compreso fosse il mio dal nome che ricorreva in diversi messaggi ricevuti», dichiarò sollevato, osservando il telefonino.
            «Una ragazza, eh? Se l’hai dimenticato in palestra, è probabile sia stato rinvenuto nello spogliatoio maschile… come può averlo trovato una studentessa?», ragionò Sasuke, alzando lo sguardo verso lo Hyuga. Senza contare che quel martedì era stato lui l’ultimo a uscire dallo stanzino maschile e che non aveva intravisto alcunché di dimenticato dai propri compagni di classe.
            «Già, in effetti qualcosa non torna. Mi pare impossibile averlo scordato là… e poi, in questi quattro giorni, qualcuno avrebbe benissimo potuto scorgerlo e rubarlo, mentre si cambiava per la lezione di Ginnastica».
            «Per fortuna esistono ancora persone oneste», s’intromise timidamente Hinata, nella speranza che la discussione finisse lì. Desiderava tornare a casa e scrollarsi di dosso il disagio che la presenza di Sasuke le provocava. Evitarlo era difficile, quasi impossibile, dal momento che ogni parte di lei – cervello escluso – aspirava a bearsi della sua vicinanza.
            «Tutto è bene quel che finisce bene», concluse Neji, riponendo l’apparecchio nella tasca dei pantaloni ed estraendovi le chiavi dell’auto. «Ci si vede lunedì», salutò l’Uchiha, dirigendosi verso l’uscita dell’edificio.
            Hinata non aggiunse altro, accingendosi a seguire il cugino, ma Sasuke, mal tollerando quel silenzio che gli appariva fin troppo forzato anche per una come lei, le si parò davanti, inibendo ogni remore.
            «Vorrei parlarti. Hai impegni, oggi pomeriggio, alle cinque? Ti vengo a prendere e poi potremmo bere qualcosa in una caffetteria…».
            «No», negò con uno sforzo immane, fissando le labbra schiuse del ragazzo. Avvertiva un dolore fortissimo, all’altezza del cuore, dopo aver pronunciato quel monosillabo che raramente aveva articolato, nella sua vita. «Non posso», aggiunse, nel tentativo di addolcire quel secco rifiuto, senza però dare spazio a spiegazioni o scuse.
            Non poteva, era la verità. Non poteva permettersi di fargli correre altri rischi o innamorarsi seriamente di lui.
 
Si affrettò a raggiungere Neji, allungando il passo, quasi correndo, mentre attraversava l’androne deserto della scuola. I passi vellutati sembravano rimbombare come cannonate, e il dolore che provava al cuore non era poi tanto dissimile da quello che poteva provocare un colpo d’artiglieria, in fondo.
            L’aveva deluso, ne era certa. Lui si era preoccupato per lei, in quei giorni, e Hinata non si era azzardata a chiedere sue notizie, a contattarlo, in qualche modo. Più si ripeteva che era la cosa migliore da fare, meno ci credeva. Più si allontanava da lui, meno capiva se stessa.
            Sentiva i suoi occhi neri addosso, puntati sulla schiena, mentre spingeva la porta vetrata dell’ingresso e raggiungeva il cugino; avrebbe desiderato tornare indietro e scusarsi, spiegargli almeno il perché del suo essere improvvisamente discostante, ma si rese conto che ormai il danno era fatto, che il meccanismo era entrato in azione. Ed era per la salute di tutti, si ripeté per la centesima volta, allacciando la cintura di sicurezza.
            Appena la macchina imboccò la strada principale, lanciò un’occhiata allo specchietto retrovisore esterno: Sasuke diventava sempre più piccolo e lontano, nel riflesso, mentre acquistava sempre più spazio e rilevanza nel suo cuore.
            Aveva appena commesso un grave errore: innamorarsi e condannare simultaneamente il proprio amore all’infelicità. Comprese con alcuni funesti minuti di ritardo che vivere non poteva ridursi a sopravvivere.




Miei cari lettori, perdonate l'attesa. Stavolta non è passato un mese, ma poco ci mancava! 
Non voglio tediarvi con l'ennesimo sproloquio di scusanti, perciò vi risparmio le giustificazioni di rito, e vi ringrazio per essere arrivati fin qui, con me, a fine pagina e, fuor di metafora, alle fasi finali della storia. Manca davvero poco e ancora non mi sembra vero, perché la mente ha 
già partorito tutto! (La mente, però, e non la penna, sigh!) Sono già più sollevata e spero che ciò che leggerete tra qualche settimana, prima della parola "fine", possa piacervi!
Così come spero questo capitolo sia stato di vostro gradimento. Un ritorno alla normalità, finalmente, e un angolino per descrivere le sensazioni di personaggi diversi. Già, anche Karin, perché mi dispiaceva lasciarla come pura antagonista della vicenda: sono dell'idea che nessuno è veramente cattivo fino in fondo, che ci sia sempre una ragione a muovere i fili delle storie personali. 
Detto questo, spero davvero di potervi risentire presto e vi abbraccio, annunciandovi che il diciottesimo capitolo sarà un SasuHina a tutto spiano. Così tanto SasuHina da averne abbastanza e implorare pietà, temo ahahah No, scherzo, mi tratterrò nei limiti della decenza!
Un bacio e buon proseguimento 


Ophelia

 

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Capitolo 18
*** Con il capo cinto d'alloro ***


18. Con il capo cinto d’alloro

 
 
 
Se le avessero chiesto perché fosse lì, con quel vestito nero dagli inserti di pizzo che, fino ad almeno quella mattina, si era ripromessa di non indossare mai più, ad ascoltare – o, almeno, tentare di farlo – le parole di Itachi, senza soffermarsi a fissare la nuca di Sasuke, Hinata non avrebbe trovato una risposta adeguata. Non lo sapeva nemmeno lei, si era ritrovata nell’auditorium di Ingegneria quasi inconsapevolmente, quel venerdì pomeriggio del venti novembre.
            Osservava Neji, al suo fianco, che scrutava con sguardo attento la gestualità dell’ex compagno di allenamenti, mentre spiegava il contenuto della sua tesi di laurea, davanti a una commissione bardata di toghe che le trasmetteva un forte senso di rispetto e timore. Sembrava trovarsi a proprio agio, nonostante nemmeno lui conoscesse la maggior parte degli invitati.
            La Hyuga effettuò una scansione panoramica degli astanti, dedicando a ciascuno di loro un minuto della propria attenzione: oltre al nutrito numero di sconosciuti alle sue spalle, tre file davanti alla loro sedevano Fugaku e Mikoto Uchiha; la donna, dall’inizio della seduta, si era soffiata il naso e asciugata gli occhi già un paio di volte, visibilmente e comprensibilmente emozionata, mentre il marito non aveva dato segni di particolare commozione, seppur non avesse perso di vista per un solo istante il primogenito, sorridendo impercettibilmente quando il presidente della commissione aveva pronunciato il suo nome. La sua freddezza era pura apparenza, in fondo: lui era orgoglioso, lo aveva capito fin dal primo giorno in cui l’aveva visto, e se n’era convinta ancor di più in ospedale, quando lei aveva accennato all’altruismo dei suoi figli e il “Commissario di ghiaccio” – come era conosciuto in città – aveva stretto le labbra e alzato lo sguardo verso il vetro della finestra, guardando un punto impreciso e lontano. Hinata intese che era fiero dei suoi ragazzi, anche di Sasuke, nonostante gli alti e bassi che qualsiasi famiglia attraversava.
            Il secondogenito, poi, sedeva accanto alla madre, impeccabilmente vestito di tutto punto, con un completo nero e – ça va sans dire – costosissimo. La sua attenzione oscillava tra l’aniki e quella testa bionda al suo fianco che, di tanto in tanto, prorompeva in applausi fuori luogo o esclamazioni di giubilo che catturavano le eloquenti occhiatacce dei professori.
            Hinata sorrise all’ennesima dimostrazione d’entusiasmo dell’Uzumaki. Era in grado di farla sentire un po’ meno spaesata anche in quella circostanza; doveva essere una sorta di superpotere che lui metteva in atto senza nemmeno accorgersene. Tuttavia, la tiepida espressione rasserenata si raffreddò velocemente, non appena scorse il profilo di Sasuke: con la coda dell’occhio, preoccupato, ogni circa cinque minuti si girava brevemente a cercarla, quasi per accertarsi che lei fosse ancora lì, che non se ne fosse andata.
            Come poter fuggire? Era esattamente dove desiderava essere, sia per Itachi – per il quale provava un riverente e ammirato affetto – sia per lui, per quanto l’avesse accuratamente evitato per un mese intero, a scuola e fuori dal liceo.
 
Quel sabato pomeriggio di ottobre era davvero venuto a cercarla, attendendola per almeno due ore intere, sotto casa. Non aveva citofonato, non si era fatto annunciare da Shimoko, né l’aveva chiamata al cellulare: se n’era stato con la schiena appoggiata alla portiera della propria auto sportiva, con lo sguardo fisso alla finestra di quella che aveva intuito essere la sua camera, avendola intravista passare dietro al vetro in un paio di occasioni.
            Lei si era affacciata intimidita solo una volta, allo scoccare delle diciassette e trenta, nella speranza di non vederlo ancora lì, ma invano: i suoi occhi neri la colpirono come un dardo mortale, regalandole la certezza che non si sarebbe mosso dal suo appostamento fino al calare del buio.
            Non una parola, non una richiesta di scendere e parlare, da parte sua; solo quello sguardo ardente, desideroso di rivederla, e la voglia matta di far chiarezza su ciò che era avvenuto fra loro.
           Le opportunità per dialogare non erano mancate nemmeno a scuola, nelle settimane successive, ma ogni volta che Sasuke si spingeva in sua direzione, ostentando un passo sempre più deciso e impaziente, lei scampava il rischio di perdersi nelle sue iridi e venir meno al patto con se stessa prendendo sottobraccio Tenten e uscendo dall’aula, all’intervallo, o chiedendo a Neji di accompagnarla a casa il prima possibile, al rintoccare della campanella di fine lezioni, onde poter aver più tempo per studiare.
           Si sentiva un verme, una stupida, un’ingrata, ma era allo stesso tempo convinta di fare la cosa giusta. Non l’aveva più visto sereno o sorridente – non che Sasuke fosse mai stato il tipo da lasciarsi andare a risate di felicità – da quella volta in cui si erano baciati in palestra, ma era certa che quello fosse un prezzo ben abbordabile, pur di non cacciarlo più nei guai.
 
Il suono del campanello, fra le dita del presidente, avvertì il pubblico che la commissione si sarebbe presa qualche istante per discutere il voto. Itachi raggiunse la propria famiglia, cercando di dribblare – inutilmente – un Naruto sovreccitato, che gli si gettò al collo, complimentandosi con lui per quel discorso prolisso e complicato che aveva ascoltato per sì e no tre minuti.
            Sasuke si alzò e si stiracchiò lievemente, per poi dare un’affettuosa pacca sulla spalla dell’aniki, e Neji s’incamminò con calma verso il ventitreenne, dietro la schiera di compagni di corso che già l’aveva accerchiato, sottraendolo ai genitori.
            Hinata carpì uno sguardo fugace e sereno del giovane laureando, e gli sorrise da lontano, troppo timida e frastornata da tutta quella pompa magna per riuscire a raggiungerlo e anche solo stringergli la mano, prima della proclamazione ufficiale.
            Notò un’ombra appropinquarsi alla fila in cui sedeva e, ancor prima di poter cercare la sua figura nella folla che attorniava il protagonista della cerimonia, comprese di chi potesse trattarsi.
            Cosa fare? Scappare? E dove? Come poteva evitarlo, in un ambiente chiuso e tanto rigoroso da non ammettere rocambolesche uscite?
            Trattenne il respiro, stringendo l’orlo del vestito fra le dita e continuando a fissare il palco, nell’attesa che quel maledetto campanello venisse scosso. Niente da fare, però: i docenti erano ancora nel pieno del confronto, probabilmente indecisi se concedere o meno la lode al candidato.
            Poteva avvertire il suo sguardo fissarla con una perizia che avrebbe sicuramente lusingato altre ragazze, ma non lei, specialmente in quel frangente in cui era diventato difficile persino riuscire a rimanere seduta.
            Un passo avanti, verso il suo seggiolino. Hinata cominciò ad affondare un’unghia nella coscia.
            Un altro, sempre in sua direzione, e gli incisivi sprofondarono nel labbro inferiore.
            Un terzo, e i suoi occhi si chiusero di scatto, come se ciò fosse stato sufficiente per farla scomparire.
            Sasuke rimase immobile, di fronte a quella reazione. Era evidente cosa significasse, ma non riusciva a capire perché. Arrestò i suoi passi e, finalmente, la vide sciogliersi da quella morsa di tensione che le aveva quasi tagliato le labbra.
            La ragazza si girò lentamente, riaprendo gli occhi, e ritrovò il suo viso. Era vicino, ma non abbastanza da poter capire se fosse felice di rivederla, o piuttosto disgustato da trovarsela fra i piedi pure lì. Avrebbe voluto quasi chiederglielo, tentare di salutarlo, o anche solo accennare un sorriso, ma il suo cervello si era appena ammutinato. Poté solo ammirarlo in silenzio, senza quasi sbattere le palpebre, mentre lui appoggiava una mano sullo schienale di una poltroncina per non perdere l’equilibrio, di fronte a quelle iridi che, finalmente, l’avevano degnato di uno sguardo.
            Le apparve bellissima, ancora più angelica che alla festa di Naruto, in quell’abito nero che lui stesso le aveva comprato per l’occasione. Era profondamente felice del fatto che avesse deciso di non buttarlo, di indossarlo ancora, soprattutto in sua presenza; interpretò quella semplice scelta di abbigliamento come un segnale positivo, che però cozzava violentemente con l’atteggiamento che la Hyuga aveva mantenuto nei suoi confronti, in quelle settimane.
            Moriva dalla voglia di parlarle, anzi, no: rivolgerle la parola sarebbe stato un nuovo buco nell’acqua, come il sabato del suo rientro a scuola – l’ultima volta in cui era riuscito a comunicare verbalmente con lei. Molto meglio quel silenzio assordante, nella loro bolla di sapone, in mezzo alla moltitudine che si era riunita per festeggiare Itachi. Aveva sempre pensato che i suoi meravigliosi occhi di perla potessero esprimersi più efficacemente delle parole e non aveva torto ad esserne convinto.
            Eppure, nemmeno quello sguardo gli bastava più, ora che lei aveva smesso di torturarsi le mani, rimanendo candida e immobile come una statua del Canova. Voleva sfiorare la sua pelle, riscaldarla, proteggerla, fare del suo derma un nuovo tegumento, per lei, come quella notte maledetta. E baciarla. Avrebbe consegnato la sua anima al diavolo, per un suo bacio.
            Ma ciò non avvenne; il sogno evaporò ancor prima che potesse iniziare ad addensarsi, spazzato via dal suono del campanello.
            Sasuke sospirò, abbassando il capo e sorridendo con una punta d’amaro in bocca. La giornata era ancora lunga, l’avrebbe di sicuro rivista.
 
***
           
A un primo impatto, Itachi poteva apparire un ragazzo piuttosto sulle sue, poco incline al dialogo o a mantenere i contatti con tante persone, ma la cerchia di amici che lo circondava, nel locale del rinfresco, fece ricredere persino suo fratello. L’aniki usciva assai meno spesso di lui, si concedeva esigue serate al pub e un ancor minor numero di scorribande, avendo sempre prediletto il dovere al piacere, eppure poteva contare sulla stima e l’affetto di tanti compagni di corso e, persino, di qualcuno del liceo.
            Osservò Naruto, letteralmente in visibilio per il centodieci e lode con cui il ventitreenne era stato proclamato dottore, e sorrise ampiamente, fiero di quell’alloro che cingeva le tempie del giovane. Era suo fratello, era l’orgoglio della famiglia, il modello cui anche lui si sarebbe dovuto ispirare e finalmente l’invidia e la freddezza che li aveva separati sembrava essersi definitivamente dileguata. Doveva quel risanamento solo a una persona, ne era consapevole, perché senza di lei nulla sarebbe cambiato, fra loro.
            Hinata aveva fatto sì che Sasuke e Itachi tornassero a parlarsi per cose importanti, non solo per scambiarsi battute al vetriolo, e che stringessero un sodalizio profondo, imperituro, vitale quanto il loro stesso sangue. Era sicuro che nemmeno se ne rendesse conto, lei, abituata com’era a fare della modestia il suo miglior pregio, eppure avrebbe tanto voluto ringraziarla, nonché sfiorare ancora una sua mano, naturalmente.
            Non capiva nemmeno perché non riuscisse a prenderla in disparte e parlarle: da quando uno come lui si faceva problemi ad aggiudicarsi ciò che voleva, senza troppi complimenti? Qualcosa lo bloccava ed era una forza tanto sconosciuta, quanto potente; alcuni la chiamavano “amore”, lui, per il momento, “follia”. Cos’altro poteva essere, d’altronde? Non si era mai innamorato di nessuna ragazza, nel vero senso della parola. Aveva provato i piaceri della carne, appagando qualsiasi desiderio potesse saltargli in mente, fino a svuotarsi completamente, arrivando a sentirsi un verme, come nei confronti di Sakura, ma mai era stato rapito da un sentimento che sembrava prediligere solo gli altri. Trovava oltremodo assurdo, impossibile, che adesso toccasse a lui fare i conti con quel genere di situazione.
            Sospirò, lasciandosi cadere su un divanetto ai bordi della sala, non appena i suoi genitori lasciarono campo libero alla gioventù, dirigendosi a casa. Non aveva voglia di ballare, né di bere o scambiare chiacchiere con gli altri ragazzi. Voleva solo una cosa e quella gli si negava costantemente.
            La osservò con uno sguardo arrendevole che faceva a pugni con il suo spirito ostinato a non volerla perdere così, senza un vero motivo, senza un litigio, senza un contatto.
 
***
 
Per l’intera serata era riuscita nel suo intento: sguardi bassi, risate forzate, qualche breve parola con Itachi e Neji e, tutt’al più, una conversazione con Naruto. Era grata al laureato per averlo invitato, perché era l’unico in grado di toglierla dall’imbarazzo e di scacciare l’opprimente senso di dover spezzare il ghiaccio per forza, onde non risultare troppo taciturna; per quello ci pensava l’Uzumaki, prorompendo in risate fragorose e contagiose, o incappando in magre figure, di tanto in tanto, quando si azzardava a fare qualche osservazione su quella ragazza dai capelli blu e gli occhi ambrati che passava tutta la serata a piegare tovaglioli per creare origami, affianco a un giovane dalla chioma arancione e con diversi piercing sul volto. Con lei non attaccava, sembrava molto seria.
            Hinata l’aveva osservata per buona parte della festa: era davvero bella, elegante, raffinata, seppur molto semplice; non le erano sfuggiti nemmeno gli sguardi di Itachi a lei rivolti e, spinta da chissà quale forza, si era avvicinata proprio al ventitreenne, quando le luci del locale erano calate e il deejay stava cominciando a selezionare dischi più lenti.
            Konan danzava stretta a Yahiko – così le pareva si chiamassero, i due – con lo sguardo perso altrove e la Hyuga provò un certo senso di tristezza nell’osservare Itachi seduto su un divanetto a guardarla, mentre tutti erano in pista.
            Non senza una certa dose d’imbarazzo, decise comunque di appressarsi al festeggiato; sentiva di doversi complimentare con lui e, nel suo piccolo, cercare di risollevargli il morale.
            «Ti stai divertendo?», le chiese prontamente lui, vedendola comparire davanti a sé.
            «S-sì», sorrise timidamente, ignorando lo sguardo di Sasuke, seduto a pochi posti di distanza dal fratello. Adesso che sapeva di essere osservata da un altro paio di occhi profondissimi e scuri, oltre a quelli del laureato, le parole le si impastavano irrimediabilmente in bocca, così come i pensieri s’ingarbugliavano fra loro, costringendola a ragionare su quanto fosse stato stupido e forse anche poco modesto, da parte sua, credere di poter strappare a Itachi un sorriso.
            «Nessuno ti ha ancora invitata a ballare?», si stupì il ventitreenne. Era incredibile come riuscisse sempre a pensare agli altri, anche in una giornata dove il protagonista sarebbe dovuto essere lui.
            «No… io non amo ballare, non ne sono capace», si affrettò a precisare.
            Bugia. Non era stata forse lei la piccola étoile della sua scuola di danza? La verità era che non aveva più volteggiato, da quel tragico giorno. Aveva dimenticato i passi, qualsiasi nozione minima, persino come si allacciassero le scarpette da punta, senza contare che quella canzone che ora risuonava per l’ampia sala era totalmente diversa dalle note classiche su cui lei aveva imparato a piroettare.
            «Allora, dal momento che questo musone non ti ha ancora prenotata, permettimi di essere il tuo cavaliere, almeno per un giro», le sorrise, porgendole la mano e lanciando un’occhiata ironica all’otouto.
 
Senza nemmeno accorgersene – proprio come non si era resa conto di aver davvero assistito alla laurea del maggiore degli Uchiha – Hinata si trovò in pista, con le mani appoggiate timidamente sulle spalle di Itachi. Era imbarazzata al pensiero di essere tanto vicina al fratello di Sasuke, soprattutto perché poteva benissimo immaginare di essere tenuta sott’occhio dal suo compagno di classe. Chissà come aveva interpretato quel gesto… Avrebbe pensato che si era intenzionalmente avvicinata all’aniki per attirare la sua attenzione? O, peggio ancora, per istigarlo? Che stupida! Perché era stata tanto avventata? Come aveva potuto stimarsi capace di eclissare il lieve malumore del ragazzo che ora aveva cinto con delicatezza le mani dietro la sua schiena?
            «Vedrai che ti chiederà di ballare. Non sopporta che io lo batta in qualcosa», ridacchiò sottovoce, guardando di sfuggita il fratello, che lo stava osservando con aria infastidita.
            «Oh, no, non è il mio obiettivo», arrossì lei. Ne era davvero certa? Non sapeva dirlo, se incrociava il suo sguardo. «Mi sono comportata male, con lui. Avrei voluto ringraziarlo, anzi, ringraziarvi. Avete fatto così tanto, per me», s’incupì la ragazza, premendo il viso sul proprio braccio, nel tentativo di nascondersi.
             Era crollata. Sperava di non scoppiare a piangere, ma sapeva bene fin dall’inizio che non avrebbe retto in eterno il peso d’ignorare Sasuke. Per un mese era riuscita a sostenere la pressione dei suoi sguardi, a scuola, e a eludere i suoi tentativi di riavvicinamento, ma tutto ciò le era costato parecchio, a livello psicologico. Certo, era forte, era maturata a vista d’occhio, nelle ultime settimane, riuscendo persino ad addormentarsi senza troppi pensieri funesti o rammarichi, ma condividere la felicità d’Itachi con quel fardello sulla coscienza e il senso d’ingratitudine a gravarle sul cuore era qualcosa che andava oltre le capacità stoiche di qualsiasi Hyuga. Semplicemente, era ingiusto comportarsi così, se ne rendeva conto. Era scorretto verso il giovane laureato, che l’aveva da subito presa in simpatia, e, soprattutto, era atrocemente crudele nei confronti di Sasuke, nonché dei propri sentimenti, che proprio non ne volevano sapere di relegarlo in secondo piano.
              «Non c’è bisogno di ringraziarci, Hinata. Chiunque l’avrebbe fatto», la rassicurò il giovane, rallentando il ritmo della danza, fino a fermarsi per accarezzarle una spalla. «Senza contare che tu stessa hai fatto tanto, per lui».
               La fanciulla si asciugò le lacrime con un gesto repentino del braccio e osservò con uno sguardo fugace la sagoma del diciottenne, da sopra la scapola di suo fratello. Itachi stava sicuramente raccontandole una bugia bianca per farla sentire meglio; com’era possibile, infatti, che lei potesse essere stata d’aiuto a quel ragazzo che, ancora sul divano, teneva gli occhi fissi su di loro?
                «Ad ogni modo, conto che queste cose te le dirà lui di persona, quando se la sentirà, com’è giusto che sia», concluse il ragazzo, ritornando a seguire la melodia e a guidarla nel ballo.
                Gli era profondamente grata, così riconoscente da non trovare le parole giuste per esprimere tutto ciò che voleva dirgli senza apparire noiosa o scontata. Gli doveva molto e sperò che lui potesse minimamente comprendere quanto gli fosse affezionata anche solo dal timido abbraccio donatogli nel breve arco di una piroetta.
 
All’improvviso lo sentì irrigidirsi, quasi bloccarsi di colpo, e fu una sorpresa, per lei, trovarsi a dover condurre il lento.
            Seguì lo sguardo del suo cavaliere e comprese il motivo di quell’arresto repentino: nella visuale entrarono dei capelli blu semi-raccolti. D’un tratto, Hinata si ricordò la ragione per cui era stata spinta ad avvicinarsi ad Itachi, qualche minuto prima, e provò nuovamente un senso di profonda tristezza.
            «È lei, non è vero?», domandò in un sussurro, tornando a fissare le sue labbra dischiuse e tremanti. Servivano conferme? «La ragazza dalla chioma blu per cui hai un debole, come avevi accennato quel giorno in auto».
            «Te ne sei accorta, eh?», cercò di schernirsi, sorridendo lievemente.
            «È davvero bellissima. Non capisco perché tu non stia ballando con lei, ora», tentò di spronarlo, guardandolo serenamente.
            Itachi sospirò, chiudendo gli occhi. «Non sarebbe la cosa giusta».
            «Ma come? Come puoi dirlo?». Anche una giovane placida come la Hyuga poteva sbottare per la sorpresa, di fronte ad affermazioni irrazionali. «Non vuoi nemmeno provare ad avvicinarti a lei e cambiare le cose?».
            «Ho capito che, nel mio caso, è bene lasciare che tutto avvenga per come deve essere, soprattutto la felicità. Porsi domande, ostinarsi a voler sondare ogni evento esclusivamente sotto la lente della ragione o quella del cuore è dannoso, oltreché sbagliato. Questa non è matematica, non serve la logica, e non è nemmeno un romanzo: è la vita, deve fare il suo corso», sorrise, osservando gli occhi chiari della ragazza sgranarsi sempre di più, di secondo in secondo.
            «Ti sei arreso?».
            «Non è una capitolazione… è consapevolezza. Guardala: è felice, non trovi?», le chiese con aria tranquilla.
            La Hyuga si girò titubante verso la coppia che ballava lentamente in fondo alla sala, lontana dal resto della folla. Quei due non seguivano un ritmo consono alla melodia, né si preoccupavano di confarsi agli altri; sembravano trovarsi perfettamente a proprio agio, nella loro incongruenza al resto del mondo.
            Konan sorrise a Yahiko, chiudendo gli occhi e appoggiando una guancia sulla sua spalla, mentre si lasciava cullare dalle braccia del ragazzo. Sì, era senz’altro felice, ma Hinata non voleva crederci, non lo riteneva giusto: Itachi avrebbe meritato mille volte di più quel sorriso.
            «Io non sarei in grado di essere la sua felicità. Non sono quello giusto per lei», ammise in tutta sincerità il neolaureato.
            Come poteva dirlo? La diciassettenne si affrettò a smentire la sua dichiarazione: «Non è vero! Insomma, tu sei gentile, premuroso, intelligente, brillante, altruista…».
            «Ma non ne sono innamorato, non come credevo. L’ho capito guardandoli, soprattutto stasera. Io non la conosco bene quanto lui… senza contare che il suo cuore è già occupato. Sarebbe oltremodo stupido e crudele ostacolare il loro sentimento con la mia intrusione, per assecondare un capriccio personale, qualcosa che non potrà mai essere ricambiato».
            Hinata gli strinse un braccio, con leggerezza, come a voler dire “Ti capisco, ma è ingiusto, perché tu meriti la serenità quanto loro”. Trovava che Itachi fosse la persona più saggia e di buon cuore mai incontrata: era riuscito a far andare di pari passo ragione e sensibilità, arrivando persino ad accettare l’idea di vedere insieme quei due giovani, nel giorno della sua laurea. Chi altri li avrebbe mai invitati?
            Le pallide dita sciolsero la stretta dalla sua giacca. «Hai voluto comunque condividere la tua gioia con loro, oggi», comprese lei, con ammirazione.
            «È pur sempre un modo per averla al mio fianco, no?», le strizzò l’occhio, allentando con delicatezza la gentile presa sulle sue braccia e lasciandola andare, alla fine della canzone.
 
***
 
Il suo sguardo vellutato, che dava sempre l’impressione di essere a metà tra la più pia tristezza e la beatitudine suprema, faceva la spola tra il calice di punch analcolico – fra le mani – e la pista, ma mai trovava il coraggio per raggiungere e fermarsi sull’unica figura cui, in quella semi-oscurità rischiarata da sprazzi di luce colorata, stava dando volontariamente le spalle. Ancora una volta, si sentiva profondamente crudele, ingrata nei confronti di Sasuke, e prometteva a se stessa che, dopo una breve conta di cinque secondi, si sarebbe girata e gli avrebbe perlomeno sorriso, ma finiva sempre con l’arrivare a dieci, mordendosi le labbra e reprimendo delle lacrime che sapevano di rabbia e pentimento.
            Ne era innamorata? Sì, senza dubbio, e in maniera più profonda di quanto avesse creduto con Naruto. I continui ripensamenti, il dolore, il bruciore agli occhi e la voglia di fuggire – fra le sue braccia o con le proprie gambe – erano la prova tangibile che quello che avvertiva era affetto sincero. Non trovava il coraggio di definire il vortice di sensazioni con quella parola che il suo cuore urlava, “amore”, perché lei, tale sentimento, non l’aveva mai destinato ad alcuno all’infuori della sua famiglia. Eppure, capì che il muscolo cardiaco non mentiva e che faceva esattamente ciò che voleva, mandando al diavolo la ragione.
            Lei non era Itachi, purtroppo; non era in grado di trovare un compromesso tra istinto e intelletto, ma finiva irrimediabilmente schiacciata dalla volontà della sua anima.
            I battiti non ingannavano, né potevano essere falsificati. Non appena sentì quei passi avvicinarsi, il suono della musica cessò di attraversare i suoi timpani, obbligandola a trattenere il respiro. C’erano solo il leggero scalpiccio dei suoi piedi e l’incessante pulsare del sangue nelle orecchie.
            «Hinata», sussurrò con un tono quasi impaziente.
            La giovane chiuse gli occhi, sorridendo lievemente. Gli era grata per averle evitato l’ennesima guerra verso la propria irrisolutezza, per averle risparmiato una nuova sconfitta e una notte di tormenti. Quando risollevò le palpebre, se lo ritrovò finalmente davanti.
            La guardava con apprensione, ma il senso di sollievo traboccava pure dai suoi occhi, poteva giurarlo; ebbe la certezza che gli era mancata quanto lui a lei.
            Era splendido, seppur avvolto da una tensione che gli faceva nascere una ruga fra le sopracciglia. Lo ammirava estasiata, senza troppa difficoltà, ma incapace di articolare un solo suono o muovere un muscolo facciale. Le gambe non volevano saperne di rimetterla in piedi, né le braccia di sollevarsi verso di lui e permettere alle mani di toccarlo, dopo tanto tempo.
 
«Hinata!», la chiamò una voce squillante, da dietro le spalle di Sasuke.
            La capigliatura bionda di Naruto si distingueva nettamente, nella fosca luce del locale, così come la cravatta arancione che si era malamente annodato al collo, diverse ore prima. Era l’immagine della spensieratezza, della gioia di vivere, di tutto ciò che lei aveva sempre desiderato, ma che ora aveva scovato inaspettatamente in qualcun altro. Non aveva più bisogno del sole, adesso che aveva imparato ad amare un’oscurità confortante e sicura.
            Vederli così vicini le faceva male, ma, in qualche modo, la aiutava anche a far maggior chiarezza e ad estinguere gli ultimi, fugaci dubbi sui propri sentimenti. Erano diversissimi, sia fisicamente, sia caratterialmente: uno sobrio e spesso taciturno, l’altro esuberante e fin troppo prolisso; il primo dalla carnagione chiara quanto la sua e i capelli corvini, il secondo dal colorito più abbronzato e la chioma color del grano. Il passato e il futuro, di fronte ai suoi occhi.
             «Che vuoi, Naruto?», bofonchiò l’Uchiha, regalandogli una gelida occhiata di sottecchi.
            «Beh, mi chiedevo se a Hinata andasse un giro in pista con me. Ho provato a domandare a diverse ragazze, ma non tutte sono state…».
            «Certo», lo interruppe lei, senza alcun tentennamento. «Certo che mi va», gli sorrise, scattando in piedi. “Non sai mentire”, l’ammonì una voce nella sua testa, che decise d’ignorare.
            Non aveva più dilemmi, quindi perché non concedere un ballo all’Uzumaki?
            «Hinata…», mormorò incredulo Sasuke, osservandola allontanarsi, trascinata dall’amico.
            A malincuore, la Hyuga evitò scrupolosamente d’incrociare il suo sguardo, ormai sicura che sarebbe stata, però, l’ultima volta.
 
***
 
A differenza di Itachi, Naruto non sembrava aver minimamente cognizione dei più elementari requisiti del ballo: non conosceva cosa fosse il ritmo, probabilmente e, di certo, nemmeno la grazia. Si muoveva come meglio credeva, su e giù per il largo spazio destinato ai danzatori, lasciando che i suoi piedi andassero dove volessero, alla velocità che più loro piacesse, e travolgendo qualche povera coppia che incappava sul suo cammino.
            Se, fino a qualche tempo prima, quell’atteggiamento spontaneo e vivace l’aveva fatta sorridere, ora, invece, Hinata era incapace di partecipare all’entusiasmo del biondo. Le sue labbra erano curvate verso l’alto, certo, ma i suoi occhi erano puntati sulla lontana sagoma di Sasuke.
            Ancora una volta, la stava osservando con aria cupa e occhi infuocati. Le si strinse il cuore quando lui bevve un bicchiere di Long Island e uscì dal locale.
            Aveva sbagliato tutto, desiderava rimediare, ma riusciva solo a chiedersi cosa ci facesse lì, quella sera. Perché Itachi l’aveva invitata? Perché suo padre aveva accordato a Neji il permesso di accompagnarla? Perché, poi, le sue mani erano appoggiate alle spalle di Naruto?
            Danzare con lui non le provocava emozioni: si lasciava guidare come un tronco, un peso morto, senza tentare di condurre il ballo. Era inerte, rigida e totalmente incapace di muoversi, proprio come durante l’esercizio della presa dell’angelo, quel giorno, in palestra. Nonostante la vicinanza, erano lontanissimi e, di nuovo, ebbe la conferma di non essere innamorata dell’Uzumaki.
            «Grazie per avermi scelto», le sorrise, spingendosi al centro della sala.
            «Come?!», sgranò gli occhi lei, incredula. Che avesse travisato quella cortesia?
            «Sì, insomma… hai declinato l’invito di Sasuke, no? Beh, d’altronde non sa ballare bene quanto me! Sai, mi sto allenando tanto in vista della festa di fine anno: non voglio che Sakura si penta di avermi accettato come suo cavaliere», ridacchiò lui, obbligandola a roteare su se stessa, onde sottolineare – piuttosto malamente, in verità – il concetto.
            La giovane sorrise, anzi, quasi scoppiò a ridere, rincuorata. Che sciocca ad agitarsi tanto, senza motivo: per Naruto, grazie al cielo, non esisteva altro che l’Haruno. Ne era innamorato da tempo, in fondo, e lei era stata preda di una mera illusione che – comprese – l’aveva salvata, preservando il suo amore per qualcuno che lo meritasse.
            «Non ti ho scelto», sospirò, osservando la sua cravatta arancione. «Sei solo stato l’alternativa migliore», ammise senza imbarazzo, per la prima volta, davanti a lui.
            Era così, era evidente. Una volta avrebbe fatto i salti mortali pur di stare al suo fianco, mentre ora, nonostante la scena che aveva sempre sognato si fosse davvero realizzata, avrebbe voluto essere altrove. Fuori, ad esempio, accanto a Sasuke. Anche senza musica, senza un ballo, senza un contatto, in pieno silenzio, avrebbe voluto essere con lui. L’Uchiha era la sua scelta, senza alternative.
            Diede un rapido sguardo alle altre persone che occupavano il salone, cogliendo i loro sorrisi, le manifestazioni di serenità e gioia; anche il festeggiato era riuscito quasi a lasciarsi andare, danzando con una splendida ragazza dalla chioma corvina quanto la sua, abbandonando la consueta e impeccabile compostezza. Vederlo così sollevato, naturale, profondamente lieto – come sempre sarebbe dovuto essere – la spinse a partecipare al comune sentimento di allegria e, inaspettatamente, a liberare il proprio cuore da un peso che da troppo lo comprimeva.
            «Sai, Naruto…», cominciò, riportando gli occhi sul volto del suo cavaliere. «C’è una cosa che non ti ho mai detto». Quella semplice frase le era costata una certa fatica, ma era ancora niente rispetto a quello che sentiva di dover esporre. «Sono stata a lungo… innamorata di te». La voce non aveva tremato, né avvertiva quel forte calore sul viso che, invece, avrebbe provato se a guardarla fossero state due brillanti ossidiane scure, anziché degli occhi cerulei.
            «Hi-Hina…», mormorò lui, arrestando di colpo la danza.
            Non poteva permettersi di lasciare tutto così, in sospeso; aveva bisogno di confessare ogni cosa, liberare la mente e il cuore, chiudere quella porta lasciata spalancata troppo a lungo, in attesa di vedere l’Uzumaki farvi capolino, e tentare di riaprirla a Sasuke – sempre se lui, a questo punto, avesse desiderato 
ancora avere a che fare con lei.
            «Almeno, questo credevo. Proiettavo su di te tutta la felicità che pensavo io meritassi; ritenevo che tu saresti stata la persona in grado di assicurarmela, perché sei totalmente diverso da me. Sei un’esplosione di gioia, una ventata di serenità senza fine, l’àncora su cui fare sempre affidamento… poi, però, ho compreso che non potevi essere questo, per me. Ho capito che quello non era amore, che non lo sarebbe mai stato. Era solo il mio punto di vista, cieco e condizionato dalla tua allegria, mai diretta a me. Non provo rancore per il sentimento che Sakura t’ispira, anzi, vi auguro il meglio e… e ti ringrazio profondamente, Naruto».
            Non una lacrima, né un balbettio. Il discorso era perfettamente fluito dall’anima alle labbra, articolandosi in suoni sicuri, in maniera più o meno logica. Era consapevole di non essere riuscita ad esprimere abbastanza efficacemente tutto ciò che desiderava portare alla luce, ma si rese conto che cercare di descrivere ciò che aveva provato per Naruto da quando era solo una bambina ad allora sarebbe stato impossibile anche per il più acuto scrittore o magniloquente oratore, senza contare che lei non era propriamente una ragazza di tante parole o a proprio agio nella comunicazione verbale. Aveva fatto del suo meglio e non era caduta nelle trappole dell’emotività, riuscendo ad andare alla meta.
 
Naruto la fissava con un volto improvvisamente stralunato, immobile, in mezzo alla pista, mentre tutti danzavano. Il mondo andava avanti, le persone ridevano, la musica rimbombava, ma il tempo si era cristallizzato. Apparentemente, sembrava non capire, con quella sua espressione assente ma allegra, e, invece, tutto gli era chiaro, da molto prima di Sasuke, probabilmente.
            Non era sconvolto dalla verità appena rivelatagli perché, per quanto ottuso, era giunto a tale conclusione da diverso tempo, soprattutto nelle ultime settimane, ma non era mai stato in grado di prendere la Hyuga da parte e cercare di ascoltarla, cavarle di bocca una timida confessione, scusarsi sinceramente con lei per non ricambiare il medesimo sentimento, abbracciarla e provare a instaurare con lei una sana, tranquilla amicizia. Aveva sempre provato simpatia, per lei, e intuendo ciò che ella avvertiva nei suoi confronti, non era mai stato capace di affrontarla, necessariamente ferirla e risanare immediatamente le piaghe con un sorriso luminoso dei suoi.
            Stavolta era ammutolito perché lei, l’impacciatissima Hinata Hyuga, aveva dimostrato di possedere un coraggio senza precedenti ed era riuscita ad affrontare i propri impulsi. Improvvisamente, si sentì svuotato di tutta la spensieratezza che di solito dispensava agli altri e capì che a catalizzarla era stata la ragazza di fronte a lui, senza alcuna richiesta particolare.
            «Mi spiace, Hinata. Non volevo…». Le parole gli morirono in gola, anzi, non erano neppure riuscite a nascergli nella mente, con chiarezza. Che patetico tentativo di dialogo! Consolarla? Ma l’aveva vista?! Era il ritratto della pace.
            «No, Naruto. Non devi dispiacerti di nulla, davvero, perché senza di te non l’avrei mai capito. Senza il tuo legittimo amore verso Sakura e la mia marcata inconsistenza, non mi sarei resa conto di cosa significhi amare, fare affidamento su qualcuno e sentirsi a casa in qualsiasi luogo nel mondo, anche al centro dell’Inferno», lo rassicurò, abbracciandolo d’istinto, senza ormai alcuna paura. «Non rimpiango gli anni passati inutilmente a rincorrerti, seriamente, ma solo le settimane perse nei silenzi, quando avrei potuto costruire la mia felicità assieme a qualcun altro. È solo colpa mia, ma ho deciso di rimediare», asserì emozionata, staccandosi da lui.
            L’Uzumaki sorrise con una smorfia ancora dispiaciuta, ma serena. Comprendeva tutto ed era felice di vederla così risoluta, finalmente. Ricordava ancora la bambina delle elementari colpita a palle di neve dal cugino, la sua improbabile promessa di matrimonio – che all’epoca rifilava a tutte, su esempio di Jiraiya – e le guance rosse della ottenne. Era nato tutto da lì, forse, da un equivoco, dalla sua infantile spregiudicatezza, ma si sentì decisamente sollevato nel constatare quanto lei, negli ultimi tempi, fosse riuscita ad andare avanti e troncare un’illusione.
            Le accarezzò affettuosamente una spalla, per poi pizzicarle una guancia. «Dovresti andare da lui», le sussurrò, strizzandole l’occhio e allontanandosi.
            Certo che doveva andare da lui.
 
La ragazza dai capelli blu come la notte sorrise, premendosi una mano sul cuore e spalancando il portone del locale. Lo stesso colore della sua chioma la inghiottì, là fuori, ma, una volta di più, non provò alcuna paura dell’oscurità.
 
***
           
La vide arrivare, meravigliosamente eterea, seppur vestita di nero. I suoi passi erano lenti, ma decisi, e lo sguardo non era rivolto al terreno, stranamente, bensì su di lui. Forse stava sognando, perché la ragazza che ricordava non ardiva a guardarlo in faccia da tempo, ma sperò che quella fosse la realtà, finalmente.
            Faceva freddo, ottobre era passato da un pezzo con il suo clima più che benevolo, rispetto alla rigidezza novembrina, eppure lei non aveva indossato il cappotto. Stringeva le mani sulle braccia, ma sembrava farlo più per infondersi coraggio che per tentare di scaldarsi.
            Sasuke sorrise, era più forte di lui: intravedere i suoi sforzi di reprimere l’impaccio con dei gesti tanto semplici gli stringeva il cuore e gli faceva ricordare, ancor di più, perché tanto gli piacesse. Se avesse posseduto lui stesso un giubbotto, in quel momento, non avrebbe esitato ad adagiarglielo sulle spalle, probabilmente, riuscendo a dimenticare il malumore di poco prima.
            Tirò avidamente l’ultima boccata di fumo, prima di gettare la sigaretta a terra e calpestarla con la suola della scarpa. Quando rialzò il volto, quello di Hinata era di fronte al suo, candido e luminescente quanto la superficie lunare.
            Dire che era splendida era quasi un insulto alla sua bellezza, e che gli era mancata ancor più riduttivo. Non si spiegava ancora cosa l’avesse trattenuto dal prenderla con la forza, a scuola, e stringerla fra le sue braccia, nel sottoscala, anche senza dire una parola, o baciarla. Aveva solo desiderato poter affondare il naso fra i suoi capelli di seta, percepire la morbidezza del suo corpo contro il proprio petto e permettere ai loro battiti cardiaci di amalgamarsi.
            Non sopportava che tale privilegio fosse toccato a Itachi, quella sera e, soprattutto, a Naruto, colui che era stato un inaspettato rivale. L’Uzumaki aveva potuto stringerla, sfiorare quel vestito che lui le aveva appositamente comprato per la sua festa, osservarla così da vicino, mentre danzava e si abbandonava fra le sue braccia… Sì, l’aveva invidiato, e una rabbia accecante gli era montata dentro, costringendolo a uscire.
            Non capiva perché lei l’avesse evitato tanto a lungo, durante le ultime settimane; anzi, aveva compreso quale potesse essere il motivo della sua ritrosia, ma non si spiegava la ragione per la quale, invece, non avesse rinunciato a danzare con il fratello e Naruto. La giustificazione del trauma subìto quella notte al cantiere non reggeva di fronte al comportamento che lei aveva adottato poco prima.
            Eppure, la ragazza era lì, adesso. Aveva lasciato l’Uzumaki in mezzo alla pista, senza portare a termine il ballo che avevano cominciato assieme, dal momento che la canzone stava finendo di suonare solo in quel preciso momento.
            Hinata era di fronte a lui, con gli occhi lucidi e le labbra serrate, immobile, e l’Uchiha era diviso tra la maledetta voglia di urlarle qualcosa, qualsiasi cosa, e quella di stringerla e rimanere in silenzio ancora a lungo, sperimentando nuovi metodi per colmare l’assenza di parole.
            «Sa-Sasuke». Il suo nome. Sì, aveva sentito bene, l’aveva sussurrato, seppur a fatica.
            Quella debolezza, dopo il barlume d’impeto che l’aveva spinta di fronte a lui, lo costringeva a propendere per la seconda soluzione, facendo dileguare l’ira dal suo petto. Tuttavia, non si mosse, né mutò d’espressione, anzi, calcò ancor di più la maschera imperturbabile che indossava.
             «Mi dispiace», mormorò la ragazza, chinando il volto.
             Cosa si aspettava? Che l’avrebbe accolta a braccia aperte, dopo l’indifferenza che gli aveva riservato a scuola? Non aveva nessun diritto per attendere un trattamento gentile, da parte sua, e la presunzione di poter essere perdonata e, addirittura, consolata era veramente sciocca. Gli aveva scombussolato la vita, ne era consapevole… proprio come lui aveva fatto con la sua, seppur nel modo più positivo possibile, a sua differenza.
              «Scusami, davvero», disse impercettibilmente, indietreggiando di qualche passo e ridandogli le spalle, pronta a tornare nel locale.
              «Smettila di evitarmi, non lo sopporto!», sbottò lui, spazientito.
              I piedi della giovane si bloccarono di colpo. Stava dicendo a lei? Non trovava la forza per accertarsene, seppur desiderasse davvero affondare di nuovo nei suoi occhi.
              «Ho detto di smetterla di evitarmi, Hinata!», ripeté lui, bloccandole un braccio e obbligandola a roteare su se stessa con ancor minor grazia di quella che Naruto aveva impresso nel ballo, poco prima.
              Non le importavano il dolore e il senso di vergogna, perché lei l’avrebbe sempre perdonato. Fintanto che i loro sguardi fossero stati in grado di avvinghiarsi senza bisogno di spiegare verbalmente il caos che dentro di loro tempestava, la Hyuga avrebbe sempre trovato un motivo per amare Sasuke, nonostante il suo caratteraccio e le forme poco ortodosse per richiamare la sua attenzione. Era stato proprio ciò a salvarla, ancor prima dell’ospedale: il modo in cui l’aveva costretta a salire in auto e recarsi a casa sua, per la ricerca sull’età vittoriana; la maniera schietta in cui le aveva parlato, arrivando subito al sodo, al punto cruciale, alla sua infatuazione per Naruto… e sì, l’espressività dei suoi gesti, del suo viso. Lui l’aveva sempre guardata per ciò che era: una creatura umana, esattamente uguale a tutte le altre, nonostante i punti deboli, ma estremamente diversa da ognuna di loro. Sasuke era stato capace di dare una scossa alla sua esistenza, permettendole di riprendere i contatti con suo padre, dopo una convivenza che, negli ultimi cinque anni, si era fatta forzata e silenziosa, e con Neji. L’Uchiha l’aveva salvata, l’aveva riportata alla vita; con un solo bacio, le aveva insegnato quanto incantevole potesse essere perdere il controllo e lasciarsi andare alle emozioni, senza paura delle conseguenze, e aveva ottenuto prova di quanto fosse rassicurante contare sulle persone.
             C’erano mille motivi per cui gli era grata e si sentiva una stupida a non riuscire ad esprimerne nessuno.
            «Ho sbagliato. Non volevo ferirti, Sasuke…».
            «Ferirmi? Tu pensi di avermi ferito?», la interruppe lui, sorpreso da quell’uscita e sul punto di scoppiare a ridere istericamente.
            «Non mi sono comportata correttamente, con te. Sei sempre stato molto gentile, mi hai aiutata…».
            «Se stai per chiedermi di rimanere amici, ti fermo subito, Hinata, perché non siamo mai stati tali, noi», dichiarò stentoreo, lasciandole il braccio. Gli occhi sgranati e lucidi della ragazza lo fissavano con stupore, sul punto di scheggiarsi in un pianto che lui non avrebbe sostenuto, perché ingiusto. «Odio quella cazzata! Ciò che c’è stato e che c’è ancora, fra noi, ha da subito superato i confini dell’amicizia, lo sai!», spiegò, facendo ricorso a tutto il proprio autocontrollo.
             Non poteva smontare quel ragionamento, anche perché lui non aveva mai cercato di guadagnarsi la sua fiducia in quel modo innocente e divertente che, ad esempio, era proprio di Kiba o degli altri compagni di classe. Semplicemente, era stata lei a concedergliela, sentendosi incredibilmente invulnerabile, al suo fianco, nonostante la timidezza.
             «Hai ragione», ammise la diciassettenne, annuendo.
             «Perché lo fai? Non mi degni di uno sguardo, non pronunci il mio nome, non mi parli, mi rifuggi come la peste… ti faccio schifo?», quasi urlò, allargando le braccia in un gesto esasperato.
             «No, non è questo il punto», si affrettò a controbattere, turbata al pensiero di avergli dato quell’impressione.
             «Allora qual è? Dimmelo, per favore, perché sto impazzendo», quasi la implorò.
             Era vero, poteva leggergli in viso la stanca frustrazione cui la sua forzata indifferenza l’aveva condotto. Se solo si fosse accorta prima di quanto lo stesse ferendo – perché era evidente che fosse così, sebbene lui l’avesse spavaldamente negato – Hinata non avrebbe aspettato un solo minuto di più per riprendere i contatti con lui, infischiandosene della richiesta di suo padre e della volontà della ragione.
              «Era solo il mio modo di proteggerti», confessò, finalmente, fra le lacrime.
              «Proteggermi? Pensi che io abbia bisogno della tua protezione, Hyuga?», domandò retoricamente, con un’espressione divertita e sorpresa, sul volto. «Pensi che non sappia badare a me stesso, che tema qualche ritorsione da quel bastardo che ti ha ridotta in quello stato? O che possa lasciarmi fermare da tuo padre, casomai? Non m’importa di nulla, se non di te».
              La ragazza tremò, al suono di quelle parole. Non era ciò che aveva sempre desiderato udire, dalle sue labbra? Allora perché il suo pianto si era ancora più intensificato, da quando lui le aveva preso la testa fra le mani? Le sue lunghe dita chiare, fra le ciocche scure, all’altezza delle tempie, erano per lei più preziose di qualsiasi corona d’alloro.
             «Sono una perdita di tempo», sottolineò umilmente, eclissando le iridi perlacee dietro le folte ciglia nere.
             «Lascia che sia io, a giudicare», commentò lui, spazzandole via le ultime lacrime con un gesto delicato dei pollici.
             «Dovresti allontanarmi, non sono la persona giusta».
             «Lascia che sia io, a giudicare», ripeté lui, sorridendo e accorciando, invece, la distanza fra i loro volti. «Inoltre, non posso, né voglio perderti», aggiunse, costringendola a strizzare gli occhi per l’incredulità. «Perché questo è il mio modo di amarti», concluse, ormai sulle sue labbra.
 
La baciò lentamente, nonostante entrambi avessero desiderato a lungo quel momento.
            Non v’era fretta. Le loro bocche avevano tutto il tempo necessario per riprendere il discorso interrotto in palestra, imparando a riconoscere tattilmente le lievi increspature che le solcavano.
            Nessuno li avrebbe visti. Testimone era soltanto la luna, ma – Sasuke ne era certo – le sue labbra d’argento avrebbero indubbiamente taciuto il segreto che ora lui condivideva con la sua terrestre sorella. 






Il capitolo più lungo che abbia mai scritto per una fiction e in cui ho riversato tutto  ciò che volevo accadesse fra i personaggi principali. C'è un po' di chiarezza sui sentimenti, finalmente :)
Beh, ora sapete perché ci ho messo tanto a stenderlo, ma spero intensamente che vi sia piaciuto, perché tengo tanto a quest'episodio. Sarei davvero lieta di conoscere le vostre impressioni, ragazzi! :)

Siamo alle fasi finali, manca poco. Il prossimo capitolo sarà più stringato, dai XD Ho il cuore in gola per la tensione (e anche per la tristezza, perché scrivere questa storia è stato piacevole, nonostante i tempi quasi biblici ahahah). 
Che dire, amici? Vi auguro una serena Pasqua (uova di cioccolato, gite fuori porta, Pasquetta...), intanto, e assicuro che aggionerò presto anche l'altra long, per chi la stesse seguendo :)
Grazie a tutti per il sostegno! A prestissimo, spero! 
Buon tutto! ;)
Baci 


Ophelia
 

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Capitolo 19
*** Omnia vincit Amor... ***


19. Omnia vincit Amor...

 
 

 
Era un nuvoloso mercoledì, il quattro dicembre, quando la sua vita acquistò certezze, finalmente. Niente più irritanti punti interrogativi, dilemmi pesanti come macigni o altre guerre contro se stessa, dietro i suoi occhi chiarissimi, ma solo evidenze. Consapevolezze forti, che non tutti avrebbero retto – soprattutto una come lei – ma Hinata, ormai, era della stessa tempra di un metallo inossidabile, anzi, come le aveva già detto in precedenza Itachi, un diamante, una vera Hyuga.
           Se i compagni di classe avevano accolto soltanto con qualche mormorio interrogativo le assenze di Karin, nelle ultime settimane, lei si era spinta dai professori per chiederne notizie. Non era sua amica, a malapena si erano presentate, il dì del suo arrivo nella 5^F, ma le dispiaceva notare quanto tutti sorvolassero il fatto che da tanti giorni non avesse più messo piede a scuola.
            Anche Neji l’aveva stupita, con quell’indifferenza. Si aspettava che almeno lui la cercasse, che si preoccupasse per lei, dal momento che sembrava esser nato qualcosa, fra loro. Hinata aveva anche cercato di spronarlo a ricontattarla, a telefonarle, ma il cugino, per tutta risposta, grugniva dei secchi rifiuti o le diceva di non pensarci.
             Aveva provato a seguire quel suggerimento, adeguandosi al comportamento tenuto dagli altri ragazzi, ma scorgere quel banco vuoto, ogni mattina, la disturbava. Con lei, al suo ritorno dall’ospedale, erano stati tutti piuttosto accoglienti; alcuni avevano pure telefonato a casa per sincerarsi della sua salute e Neji, improvvisamente sopraffatto da tanto calore, aveva risposto loro dicendo che la cugina era a letto, preda dell’influenza, ma che sarebbe presto rientrata in aula.
            Quella bugia bianca la faceva ancora sorridere, ma non abbastanza da evitare di pensare a quanto Karin potesse sentirsi sola.
 
Il professor Asuma – ormai, anche per lei era diventato spontaneo chiamarlo così – entrò in classe con passo deciso, obbligandola a tralasciare quella preoccupazione; al momento, gli unici pensieri dovevano essere i limiti matematici e lo studio di funzione.
            Sarutobi sorrise agli studenti, estraendo il registro personale dalla borsa. Fece loro cenno di sedersi e chiese a Shikamaru – campione dell’ultima edizione delle olimpiadi matematiche – il punto della situazione: «Chi manca, oggi?».
            Il Nara scrutò con sguardo rilassato i volti dei compagni. «Ancora Karin Uzumaki».
            «Ovviamente», sospirò rassegnato l’uomo, tracciando un segno in corrispondenza del nome della ragazza. Il resto della classe non si espresse nemmeno con un fremito di stupore, come sempre.
            Hinata si girò lentamente verso il banco vuoto, quasi a voler controllare se, nel frattempo, la rossa non si fosse materializzata lì dal nulla, ma il suo sguardo venne intercettato da due occhi neri cui, da diversi giorni, non poteva né voleva più sottrarsi.
            Sasuke la stava osservando con intensità, come se potesse immaginare cosa le passasse per la mente, e lei gli sorrise, nel tentativo di rincuorarlo: non c’era più niente che non andasse, da quando i loro sentimenti erano venuti a galla.
 
Incrociare il suo sguardo era qualcosa cui ancora non riusciva ad abituarsi; osservare la propria immagine pallida e intimidita, nelle sue pupille corvine, sapeva metterla a disagio, ma, allo stesso tempo, le dava la certezza che non avrebbe mai potuto desiderare di essere altrove, o aspirare a chieder di meglio.
            Nei giorni successivi al contatto, alla riappacificazione – seppure non fosse certa di poterla definire in tal modo, dal momento che non avevano mai davvero litigato, loro -, si erano visti non più del solito; a fare da sfondo ai loro incontri erano la scuola, i corridoi affollati, il chiasso degli studenti, le agitazioni comuni per i compiti in classe. Apparentemente, nulla era cambiato: erano due normali liceali che, però, nel bel mezzo di una spiegazione, si ritrovavano a fissarsi senza motivo – o forse troppi? – con un’ardente voglia di esprimere ciò che dentro sentivano, pur sapendo che, una volta fuori dall’aula, all’intervallo, le parole non sarebbero giunte facilmente.
            Il suono della campanella era diventato per entrambi ancora più liberatorio che per gli altri. Non era l’annuncio del permesso di potersi alzare, scambiare battute in libertà con gli amici e sgranocchiare qualche snack ipercalorico – che Ino già malediceva, nonostante potesse tranquillamente vantare un fisico invidiabile persino nella stagione fredda -, ma per loro rappresentava il momento in cui si sarebbero osservati da vicino, calando la maschera quotidianamente indossata e svelandosi senza paura. Appena il trillo raggiungeva i loro timpani, si allontanavano con discrezione tra la folla di ragazzi che si riversava verso l’atrio centrale, per poi ritrovarsi, quasi inconsapevolmente, nella desueta stanza dove il bidello poneva i banchi in eccedenza. Lì, nella semi-oscurità, le loro dita erano sempre intrecciate, diversamente da ciò che avveniva alla luce del sole, per i corridoi e i giardini della scuola, per le strade di Konoha.
              La debole luce della penombra li accoglieva e Hinata non sapeva dire se, durante quel quarto d’ora di pausa, fosse più bello osservare il pulviscolo danzante intorno alla figura di Sasuke – con le labbra appoggiate alle sue – o trovarsi a parlare – senza nemmeno accorgersene – di argomenti banali, dei propri progetti per il pomeriggio, del thè che Hanabi aveva rovesciato sul tavolo, nel dopocena. L’Uchiha l’ascoltava come rapito, sorridendo di fronte alla sua straordinaria logorrea.
              Amava la sua voce, così vellutata e cristallina, della quale stava velocemente imparando a conoscere ogni sfumatura, ogni lieve variazione, così da comprendere ciò che lei provasse o quale espressione il suo volto assumesse, senza necessariamente vederlo. Lo affascinavano le pause o le vocali pronunciate con un tono tremante, prima del silenzio forzato cui la costringeva – dovuto alla smania delle proprie labbra, costantemente alla ricerca delle sue. Più di ogni altra cosa, però, lo estasiava il fatto che non si sottraesse più al suo contatto, nemmeno con un balbettio di timida protesta. Del resto, Hinata non farfugliava più nemmeno in classe.
             Qualcosa stava cambiando, finalmente, in lei. Lo poteva notare nel modo in cui sorrideva ai compagni, o nella facilità con cui rispondeva alle domande di Naruto; persino il suo passo si era modificato, mutando da quello di fantasma a uno di creatura umana.
             Delle volte, riflettendo su questi segnali incoraggianti, si sentiva profondamente egoista, proprio come in occasione della laurea di Itachi. Non trovava giusto che anche gli altri potessero assistere all’incredibile miracolo cui lui aveva dato inizio, più di un mese e mezzo prima, che pure loro fossero ammessi a godere della radiosa bellezza della sua risata. Si detestava mentre lo pensava, capendo che finalmente lei stava raggiungendo una normalità sempre sfuggitale di mano, ma bastava un suo semplice sguardo per mettere a tacere qualsiasi dispiacere: gli occhi con cui lo guardava non li concedeva a nessun altro. Solo a lui si era mostrata in tutta la sua forza e debolezza; solo a lui aveva accordato il privilegio di cingerla in un abbraccio e di baciarla; solo a lui si era svelata.
 
Si erano trovati ancora lì, dopo due ore di matematica.
            La stanza sembrava più buia del solito, a causa delle nubi fuori dalla finestra, ma non si azzardarono ad accendere la luce, per timore che qualcuno potesse accorgersi di loro e aprire la porta. Non avevano ancora pensato a come vivere quella relazione, anzi, tale termine sapeva già sconvolgerli, seppur non lo avessero mai osato pronunciare.
            Uscire allo scoperto? Prima o poi sarebbe venuto tutto a galla, d’altronde, o forse era ancora presto?
            Sasuke era un ragazzo piuttosto riservato, preferiva non dar adito a pettegolezzi e nuove voci di corridoio sul proprio conto e Hinata, dal canto suo, era ancora più favorevole al “volare basso”, al mantenere la loro storia – quella parola la faceva fremere al pari di una foglia al vento – segreta, nei limiti del possibile.
            Era anche per questo che si erano limitati a vedersi durante l’orario scolastico, seppure tale decisione, con il passare dei giorni, cominciasse ad andare stretta ad entrambi.
           
Il moro le sorrise, intuendo che la medesima preoccupazione stesse attraversando la sua mente. Le accarezzò una guancia e le donò un lento bacio all’angolo delle labbra, ma non si sorprese nel trovarla meno recettiva dei giorni passati. Per quanto lei si ostinasse a ricambiare i piccoli gesti d’affetto che lui le dimostrava, il ragazzo comprendeva benissimo che qualcosa la turbasse da diverso tempo.
            «Continua a balenarti in mente quella notte, non è vero?», sussurrò, abbracciandola.
            La Hyuga intrecciò le dita dietro la sua schiena e affondò il naso nel suo torace, scuotendo la testa. Il profumo costoso e inebriante che emanava le sciolse il nodo in gola, inducendola a inspirare profondamente, nel tentativo di inglobare nei polmoni la maggior quantità d’aria e, di conseguenza, di rassicurazione possibile.
             No, per quanto gli avvenimenti del cantiere l’avessero segnata, essi non sarebbero mai riusciti a soffocare la gioia che provava nel poter stringere l’Uchiha e fare affidamento su di lui. Ancora non si rendeva conto se davvero tutto fosse reale: respirare quell’aroma confortante e intenso, attraverso la sua camicia, accarezzargli i capelli neri e lisci, baciare le sue labbra sottili… quanto tempo avrebbe impiegato per approdare alla verità, al fatto che entrambi provassero lo stesso sentimento?
             Quella maledetta notte, le cose sarebbero pure potute finire peggio, con una violenza molto più grave, ma niente avrebbe cambiato ciò che lei avvertiva per il ragazzo. Nulla le avrebbe mai impedito d’amarlo.
             «Tu riesci a farmi dimenticare anche me stessa, Sasuke», sospirò in un sorriso, benedicendo il nascondiglio che la giacca offriva al suo volto.
            Lui riuscì comunque a immaginare il rossore sulle sue guance e le baciò dolcemente la sommità del capo. Socchiuse gli occhi e appoggiò con delicatezza il mento sulla sua testa. «Eppure c’è qualcosa che ti turba», mormorò.
 
Forse non era il tentato stupro a preoccuparla, ma dell’altro. Benché non ne avessero mai parlato con chiarezza, sapeva esattamente di cosa si trattasse, così come ormai ne erano a conoscenza i docenti, la polizia, Neji e gli Hyuga. Tutti erano al corrente della realtà, da qualche giorno, eccetto lei, e il suo cuore, quella mattina più delle altre, era diviso tra il desiderio di svelargliela e quello di tenere tutto ancora taciuto, per il suo bene. Non era un compito facile spiegarle a quali risultati fossero approdate le indagini del commissariato, in quelle settimane e, soprattutto, lui non aveva le competenze necessarie per confessarle ogni cosa senza ridurla in pezzi.
            Aveva spesso parlato con Itachi e il padre, interrogandoli sul da farsi, e loro avevano liquidato ogni dilemma dicendo che se ne sarebbero occupati la polizia e uno psicologo, con il dovuto tatto e, naturalmente, Hiashi.
            Sasuke si era convinto che fosse la scelta giusta, la più logica e legittima, ma quella deliberazione crollava miseramente, una volta che si trovava di fronte a Hinata.
            Era lì, abbracciata a lui, nel loro piccolo angolo d’innocente paradiso, eppure non era serena come avrebbe dovuto, come avrebbe meritato essere, dopo tanto inferno.
            «Farei… farei di tutto, per farti sentire meglio», biasciò il moro.
            Stavolta fu lui ad arrossire, incredulo di ciò che aveva appena pronunciato. Solo lei riusciva a cavargli fuori di bocca espressioni tanto sdolcinate, senza il minimo sforzo o intenzione, ed era straordinario come lui desiderasse sempre aggiungerne di altre, pur di tranquillizzarla, dimenticandosi del disagio e della propria indole perlopiù taciturna. Non era un uomo – anzi, un ragazzo – di molte parole e Hinata lo sapeva benissimo, dal momento che le aveva sempre dato prova con i fatti di quanto tenesse a lei, eppure Sasuke non rimpiangeva una singola frase melliflua che si era lasciato sfuggire in sua presenza, perché riteneva ognuna di esse veritiera e addirittura riduttiva rispetto a ciò che gli gravitava dentro.
             Capì che, proprio come aveva fatto con Neji e Hiashi, lei era ciò che lo stava cambiando. Allo stesso modo in cui lui l’aveva rafforzata, donandole affetto e fiducia, la Hyuga gli aveva impresso quella spinta necessaria ad affrontare i propri sentimenti, ad accettarli e cominciare a farli emergere in superficie.
             Ecco, se lui le aveva insegnato a “cadere nella tentazione”, ad ardire – nel modo più innocente possibile, naturalmente – con piccoli atti che per la ragazza erano inauditi, come intensi baci, telefonate nel cuore della notte cui rispondeva nel buio del salotto, con un orecchio vigile rivolto alla scalinata che portava alle camere da letto, e il desiderio di essere finalmente se stessa, lei, invece, lo stava erudendo nell’arte misteriosa e celestiale della redenzione, del trattenersi e concedersi solo a chi valesse la pena mostrarsi. Sasuke aveva riallacciato i fili con la sua famiglia – Itachi in primis – e con gli amici, imparando a trattarli con il giusto rispetto, grazie alla gentilezza che Hinata riusciva ad ispirargli.
             «Lo stai già facendo, non c’è bisogno d’altro», lo rassicurò. «Non potresti fare di più».
             «Dimmi solo cosa ti dà pensiero», quasi la implorò, sciogliendo l’abbraccio per poterla guardare negli occhi. In questo modo, lei non gli sarebbe sfuggita; qualsiasi cosa stesse cercando di nascondergli, sarebbe venuta a galla.
              La ragazza esitò qualche istante, abbassando lo sguardo sul suo colletto inamidato. Sapeva metterla a disagio e, allo stesso tempo, farla sentire come l’unica cosa degna di nota dell’intero universo, il tutto in un solo istante. Meritava davvero un privilegio del genere?
               Sollevò il viso verso di lui, arrossendo. Certo che lo meritava! In fondo, perché non poteva essere serena come gli altri? Lui era chi più di chiunque altro glielo ricordava ogni giorno, dandole prova che fosse preziosa e insostituibile.
              «Nulla in particolare, davvero. Se proprio devo essere sincera, però, mi infastidisce notare che nessuno si preoccupi per Karin. Mi stavo solo chiedendo come stesse. Non sono una sua amica, non le ho quasi mai rivolto la parola, ma manca da scuola da diverse settimane».
               Sasuke sospirò, abbracciandola di nuovo – e più forte di prima. «Non ci pensare, presto tornerà, vedrai».
              «Sai, pensavo di passare da lei, magari. Potrei portarle gli appunti di Letteratura, perché il professor Hatake ha trattato autori importanti per gli esami…».
              «Ci penserà lui, no?», la interruppe, chiudendo gli occhi e massaggiandole una spalla, come per calmarla. In verità, quello agitato era lui, ora. Perché Hinata riusciva ad essere così premurosa anche verso Karin? Perché nessuno le aveva ancora detto che lei…
            «Certo», mormorò, seppur non ancora soddisfatta. «Oppure Neji. Lui è rappresentante di classe, in fondo, e la conosce meglio di me: potrei convincerlo a farle visita e, in caso, lo accompagnerei…».
            «No, lascia che se ne occupi solo tuo cugino, se lo riterrà opportuno. Stanne fuori, per favore». La sua voce era cupa, così monocorde e profonda da non far apparire le parole appena pronunciate come una richiesta.
            Fu Hinata, stavolta, a liberarsi dall’abbraccio. Lo guardò dritto in volto, senza alcuna traccia di timidezza. Non capiva il senso della sua ultima frase, il perché avesse adottato quell’intonazione sgradevole, all’improvviso, e il motivo per cui sembrasse volerla distogliere da qualcosa che per lei era naturale, come la filantropia, la voglia di rendersi utile al prossimo. Era cresciuta così, per quale ragione lui non se ne rendeva conto? Dov’era finita, in quel momento, la sua sensibilità?
            «Tu stesso la conosci. Perché ti comporti come gli altri? Perché volti il capo dall’altra parte e fingi che tutto sia a posto? Una nostra compagna di classe è sparita nel nulla, non si presenta in classe da tempo e nessuno si chiede dove sia, né i professori rispondono a delle domande di chiarimento. Ti sembra una cosa normale?».
            L’Uchiha la guardò con aria affranta, sostenendo a fatica la luce della rettitudine aleggiante nei suoi occhi di perla. Ovvio che non fosse un comportamento apparentemente usuale, quello tenuto dai docenti e dagli studenti, ma, visto sotto l’ottica della verità – che lei ancora ignorava, purtroppo -, esso diveniva logico e condivisibile.
            «Uscivate insieme, no?», gli domandò con un tono di voce più basso e calmo, notando che da lui non provenivano risposte. Non poté evitare di ripensare alla festa di Naruto, al modo in cui l’Uchiha aveva pesantemente schernito la rossa; era così evidente che si fossero frequentati! Non provava gelosia o alcun sentimento ad essa riconducibile, soltanto un forte senso di smarrimento nell’accorgersi che lui, il ragazzo che si era preso cura di lei e aveva mostrato di possedere più cuore di quanto non si pensasse, si stesse atteggiando da insensibile, alla stregua di tutti gli altri.
            «No», negò deciso, serrando la mascella. Capì che il momento era giunto, che Hinata andava ravvisata su come davvero stessero le cose: Karin non meritava la sua compassione.
 
La campanella sembrò risuonare lontana e cupa, alle loro orecchie. Un lungo trillo ovattato, un sottofondo quasi surreale, che passava in secondo piano rispetto al pulsare del sangue arterioso.
            Hinata indietreggiò di qualche passo, mordendosi il labbro inferiore e chinando il capo. Avrebbe desiderato non dirgli nulla, né rattristarlo o infastidirlo con il peso delle proprie preoccupazioni, ma sapeva bene che non sarebbe mai stata in grado di nascondergliele, perché lui sapeva leggerle dentro. Bastava uno sguardo, anche un fugace contatto visivo, e i suoi occhi scuri riuscivano a registrare un rapporto preciso e dettagliato delle sensazioni della Hyuga. Era in trappola, di fronte alle sue pupille, ma, paradossalmente, non avrebbe mai cercato di evadere da quella gabbia dorata e confortante in cui lui la custodiva.
            «Stasera noi usciamo. Passo da te alle venti», affermò convinto, superandola. Aprì la porta e si avviò verso la classe, lasciandola attonita nella semi-oscurità della stanza.
            Le avrebbe fatto vedere cosa significasse davvero frequentare qualcuno, condividere una serata insieme, di come fosse stato ridicolo pensare che lui e la Uzumaki – e qualsiasi altra ragazza, prima di allora – fossero usciti insieme e, finalmente, si sarebbe reso conto anche lui di quanto ciò fosse diverso da quello che aveva sempre vissuto.
           
***
 
Lui gli aveva sempre dato le spalle e lei non se l’era mai presa, anzi, aveva continuamente cercato di raggiungerlo e proteggerlo, senza per questo intromettersi nella sua sfera più privata. Quasi ignorava i suoi interessi, le sue frequentazioni, tutto ciò che lui non avesse deliberatamente svelato in classe e a casa. Viveva nella sua ombra e riusciva comunque ad amarlo come un fratello, nonostante la freddezza che le aveva spesso riservato.
            Da qualche settimana a quella parte, le cose, fra loro, avevano cominciato a cambiare. Certo, non poteva ancora dire di conoscerlo, ma lui le aveva donato segnali di apertura che, se ad occhi esterni potevano apparire quasi insignificanti, per Hinata erano enormi passi in avanti: pomeriggi trascorsi a studiare insieme, il tragitto verso il liceo occupato con qualche scambio di chiacchiere – sia in auto, sia a piedi, nonostante il clima più rigido – e cene in cui, oltre alla richiesta di passarsi l’acqua o il sale, si parlava anche di progetti per il futuro. Avevano aspirazioni diverse, anzi, lei non sapeva ancora quale fosse la strada più congeniale per le proprie capacità, ma vederlo così deciso a intraprendere un determinato cammino la rasserenava.
            Sì, molte cose stavano cambiando, fra loro, anche se, certamente, tante altre non sarebbero mai mutate. Ad esempio, ciò che stava vivendo in quel momento, su quel marciapiede, era un déjà-vu piuttosto familiare: lui, con almeno quattro metri di vantaggio, e lei che, timidamente, tentava di raggiungerlo.
            «Ti ho detto che andrò da lei e le porterò i tuoi appunti, dal momento che ci tieni tanto, ma torna in auto, Hinata», quasi urlò, voltandosi, con un’espressione di esasperazione dipinta sul volto.
            «Perché non posso vederla? Ha la varicella? L’abbiamo fatta entrambi, da bambini, ricordi? Non c’è rischio di contagio…».
            Neji si fermò, permettendo alla cugina di raggiungerlo. Da dove usciva quella sua ostinazione? Non era sempre stata remissiva e obbediente? Doveva essere uno degli effetti della vicinanza di Sasuke e, nonostante in quel frangente la determinazione di Hinata si stesse rivelando piuttosto fastidiosa, non poté evitare di sorridere sotto i baffi, compiaciuto. Il suo carattere, finalmente, stava venendo a galla: un’equilibrata combinazione di altruismo, risoluzione e grazia, anche nel pieno dei tumulti dello spirito, proprio come l’indole che era stata di sua madre.
Ancora una volta, benché non simpatizzasse in modo aperto nei suoi confronti, ringraziò mentalmente l’Uchiha per le salvifiche attenzioni che rivolgeva alla ragazza.
            Eppure, per quanto fosse diventata ancora più forte, sapeva che non avrebbe retto al peso di ciò che le si sarebbe presentato di fronte agli occhi.
Sospirò e le diede di nuovo le spalle, cercando di adottare un tono calmo e ragionevole: «Fa freddo, torna in auto. Sei stata gentile ad accompagnarmi, Hinata, e premurosa ad insistere perché lei sia alla pari con il programma del professore, ma non puoi rischiare di ammalarti. Chi crederebbe che ti sei buscata un’altra influenza, dopo quella pesante di un mese fa?».
            Le sue parole affettuose la colpirono, quasi come se potesse intuire che a pervaderle fosse un senso di protezione ben maggiore di quello enunciato. Rifletté brevemente e comprese che, in effetti, il cugino non aveva tutti i torti. Se poi pensava che la settimana successiva avrebbero dovuto sostenere un alto numero di test e interrogazioni, prima della pausa natalizia, la scelta di tornare alla vettura e scongiurare un malanno la convinceva ancor di più.
            «Hai ragione, Neji. Grazie, ti aspetterò lì», sorrise, tornando all’auto.
 
Lo guardò allontanarsi in tutta calma, con la busta trasparente di appunti fotocopiati arrotolata nella mano. Una nuvola di anidride carbonica evaporava con regolarità dalla sua bocca, ogni tre passi, e la luce ambrata dei lampioni cominciava già a riscaldare i riflessi della lunga chioma del ragazzo.
             Che ore erano? Avrebbe fatto in tempo a concedersi una doccia, prima delle venti? Oh, e suo padre avrebbe tollerato quell’uscita improvvisata? Ultimamente i rapporti con Hiashi erano migliorati, ma non poteva dirsi del tutto certa di una sua risposta favorevole, anche perché quello cui avrebbe accordato il permesso era Sasuke Uchiha, il ragazzo che lui le aveva chiesto – inutilmente – di lasciar perdere.
            Con un certo senso di disarmo, sospirò; perché arrovellarsi? Le cose sarebbero comunque avvenute e lei, in cuor suo, desiderava davvero poter uscire con il moro. Il modo in cui aveva espresso la sua volontà di vederla, poi, le provocava ancora una scarica di adrenalina frammista a brividi, sotto la pelle; aveva adottato un tono deciso, ma allo stesso tempo non autoritario o freddo. Stasera noi usciamo. Quel pronome personale era ciò cui si appendeva, con il cuore pieno di speranza: non desiderava altro che poter essere un tutt’uno con lui.
            Vagò con lo sguardo sul cruscotto dell’auto, accoccolata nel sedile, e il monitor della radio – seppur non retroilluminato, a causa dell’inutilizzo – le rivelò l’ora: le diciannove in punto. Avrebbe dovuto accontentarsi di una veloce rinfrescata, probabilmente.
            Quasi avrebbe ceduto a una serie di confortevoli prefigurazioni del loro incontro, se il fascio di luce arancione del lampione non avesse cominciato a illuminare quei fogli bianchi, di fronte a lei. Abbandonato nel portaoggetti, infatti, c’era ancora un fascicolo di appunti destinato alla Uzumaki. Nella fretta di sbrigare la faccenda, il cugino lo aveva presumibilmente dimenticato lì, oppure si era sfilato dalla pila impacchettata.
            Hinata non esitò un istante, afferrandolo e precipitandosi fuori dall’auto. Forse Neji era ancora da Karin e non l’avrebbe bloccata a metà strada, rinunciando alla gentilezza di poco prima e obbligandola a tornare a casa senza essersi tolta il peso di consegnare tutto alla rossa.
 
Percorrendo il vialetto in precedenza calcato dal cugino, notò quanto fosse diverso dal quartiere residenziale in cui vivevano gli Hyuga: l’ambiente, già di per sé periferico rispetto al centro di Konoha, non brillava per la presenza di edifici moderni o di dimore in buono stato, seppur antiche. Molte palazzine sembravano essere sfitte, altre talmente diroccate da mettere i brividi. Con molta probabilità, la sua adolescenza, per quanto dura, non era lontanamente paragonabile a quella meno agiata di Karin. Crescere in quella zona della città, così spoglia e dall’aria malsana, da delinquenti, aveva senza dubbio contribuito a forgiare il carattere rude della rossa e Hinata, lungo il tragitto, si trovò a considerare che forse, se la Uzumaki avesse abitato altrove, sarebbe stato tutto diverso. Avrebbe potuto contare su persone più affettuose, su amici premurosi, e persino vantare un rendimento scolastico più proficuo. Sarebbero anche potute diventare amiche, magari.
             Pensandolo, sospirò speranzosa. Quanto poco la conosceva! Le dispiaceva non essersi mai sforzata di comprenderla, soprattutto ora che il resto della classe la ignorava. In fondo, poteva essere un buon punto di partenza, quella consegna di appunti: Karin avrebbe sicuramente apprezzato il favore.
            Con quel desiderio a pervaderle i sensi, Hinata svoltò l’angolo e si fermò davanti alla porta della palazzina su cui campeggiava il numero trentasei – che aveva scoperto essere il civico della studentessa, grazie al registro di classe.
            Avrebbe citofonato immediatamente, se qualcuno non avesse catturato la sua attenzione.
            «Ha bisogno di aiuto, signorina?», domandò un uomo in divisa, garbatamente.
            Hinata si soffermò, con un nodo in gola, sulla sua impeccabile uniforme invernale. Se un senso di disagio e preoccupazione non l’avesse attanagliata, si sarebbe quasi complimentata con lui per come riuscisse a sostenere i quattro gradi di temperatura senza l’ausilio di un cappotto.
            «Si è persa?», chiese preoccupato, sporgendosi in sua direzione.
            «N-no», gracchiò, stringendo forte gli appunti in pugno. «Sono venuta per consegnare una cosa ad una… ad un’amica». Era sicura che, se la rossa l’avesse sentita, si sarebbe affacciata da una delle numerose finestre e avrebbe urlato che lei non conosceva quella balbettante nullità che ora era sotto casa sua.
            «Qui abitano solo due famiglie. Mi spiace apparire scortese, ma potrebbe dirmi il nome della ragazza in questione?».
            Non si chiese perché glielo stesse domandando, quasi comprendendo in tremendo ritardo l’assurda verità che le sue orecchie avrebbero di lì a poco conosciuto. L'animo sarebbe stato abbastanza forte da reggere?
            «Uzumaki. Karin Uzumaki», precisò, ingoiando un amaro boccone di saliva.
            L’uomo espirò lentamente, scuotendo la testa, senza smettere di guardarla. «Purtroppo non posso farla entrare. Non prima che esca quell’altro ragazzo, con il mio collega. Funziona così, qui, con gli arresti domiciliari».
            Arresti domiciliari. Aveva capito bene? Doveva esserci un errore, senza dubbio. Che si fosse sbagliata a pronunciare il nome dell’Uzumaki? O che fosse un caso di omonimia? Magari avrebbe dovuto guardare meglio sul registro e accertarsi del corretto numero civico… o forse no, forse era tutto vero, come il suo cuore le aveva malignamente fatto intuire in un ritardo aberrante.
            «Oh, eccoli qui!», esclamò il poliziotto, sentendo l’uscio riaprirsi, alle sue spalle. «Coraggio, l’accompagnerò io, signorina».
            «Hinata!», proruppe Neji, stupito, trovandosela davanti. Osservò le sue mani tremanti e i fogli sparpagliati ai piedi, improvvisamente più bianchi del suo incarnato. Era arrivato troppo tardi e non era riuscito a riportarla a casa, mantenendo ancora quel pericoloso segreto che non avrebbe compromesso la sua serenità.
            «Digli che si sbaglia… Neji, ti prego», sussurrò con gli occhi lucidi, accennando un sorriso tirato.
            «Hinata». Il suo nome fu l’unica cosa che riuscì a pronunciare, abbracciandola forte.
            Da quando non succedeva? Da quando lui non le cingeva le braccia dietro la schiena, nel tentativo di confortarla? Non ricordava o, forse, aveva semplicemente rimosso.
            Il suo corpo era freddo, molto più gelido dell’aria tagliente alzatasi all’improvviso, eppure sapeva che i brividi che entrambi provavano non erano dovuti al clima.
            «Torniamo a casa», sussurrò al suo orecchio, accarezzandole la testa.
            Abbandonarono silenziosamente quelle pagine sotto il civico trentasei, alla premura dei poliziotti.
 
Nessuno dei due riusciva a parlare, nemmeno in auto, incapaci di esprimere ciò che non aveva più bisogno di spiegazioni.
            Ora tutto aveva senso, improvvisamente. Quei tentativi di allontanare dalla sua mente il pensiero di Karin, il silenzio dei compagni di classe e dei professori, il disagio di Sasuke, il malincuore di Neji nell’acconsentire che lei l’avesse accompagnato, quella sera… era tutto chiaro, lampante, accecante, adesso.
            Nello svoltare verso il quartiere familiare, Hinata non sapeva dire se provasse più rabbia o tristezza.
 
***
 
La vide scendere dalla vettura con una calma spettrale. Era come se il suo corpo avesse improvvisamente perso l’anima e si trascinasse per pura inerzia, lungo l’elegante sentiero di ciottoli bianchi che, dal giardino, conduceva alla porta della villa. Non ricordava di averla mai vista tanto affranta, se escludeva, naturalmente, lo stato in cui l’aveva trovata più di un mese e mezzo prima.
            Eppure, stavolta era un dolore diverso a renderla muta e abbattuta. Gli bastò solo un’occhiata per rendersene conto, come sempre. Se al cantiere era stata una sofferenza atroce e senza spiegazioni a farle piegare il capo, qui era l’esatto contrario a tormentarla: Hinata era approdata a una verità sconvolgente. In un batter di ciglia, Sasuke comprese che il leggero velo d’innocenza - che non si era spezzato nemmeno sotto i colpi della violenza -, ora era stato tremendamente stracciato: nello sguardo della Hyuga era nata la certezza che il mondo fosse un luogo orribile.
            Quella terribile convinzione non le aveva mai attraversato la mente, nemmeno in momenti luttuosi, come quando aveva perso la madre, ma ora era una persuasione assoluta. La purezza che la distingueva dal resto del mondo, all’improvviso, si era rivelata essere un inutile involucro atto a racchiudere un vuoto pesante come un macigno. Paradossalmente, pur continuando ad incarnarlo, la ragazza dava dimostrazione di quanto il suo miglior pregio fosse effettivamente un difetto, una barriera che l’aveva solamente alienata dalla vita reale.
            Troppo di buon cuore, innocente e pronta al perdono… avrebbe dovuto immaginare che l’incanto si sarebbe spezzato, una volta che lei fosse entrata a contatto con le sue ombre.
 
«Hinata!», si affrettò a chiamarla, scendendo dall’auto del commissario.
            La giovane si bloccò, costringendo Neji – al suo fianco – ad imitarla. Lo sguardo che rivolse al moro era vacuo, offuscato da lacrime che, per il freddo, sembravano potessero ghiacciare da un momento all’altro.
            Ingoiò un nodo in gola e non si azzardò ad avvicinarsi, temendo di poterla sconvolgere ancor di più. «Dovevamo vederci, ma, ripensandoci, forse questa non è la serata adatta per uscire».
            «Non me la sarei sentita, in effetti», sorrise debolmente, rivolgendo il viso verso l’uscio. «Grazie per aver comunque mantenuto la parola, Sasuke». E anche il silenzio riguardo la realtà.
            Durante il viaggio, aveva provato una forte rabbia, era vero, ma come poteva riversarla su di lui e la sua famiglia? Come poteva davvero prendersela con qualcuno che aveva solo cercato di proteggerla, amandola con tutte le proprie energie? Non avrebbe forse fatto lo stesso pure lei?
            Il peso che avvertiva nel petto, ora, non era dovuto ad alcun vuoto – seppur fosse certa che tale potesse apparire, ad occhi esterni -, tutt’altro; ogni smagliatura che le parole del poliziotto avevano provocato, poco prima, era stata sanata dalla certezza che l’amore fosse più forte di qualsiasi cosa. Solo esso poteva riempire gli spazi vuoti nel suo cuore e vincere il nulla.
            Avrebbe voluto dirlo, anzi, urlarlo a Sasuke e  Neji, sentendo il loro sguardo preoccupato e colpevole addosso, ma, come sempre, la sua debole voce non sarebbe mai riuscita a raggiungere con efficacia le loro orecchie, proprio come la sua favella non avrebbe mai articolato frasi in grado di rendere giustizia al groviglio di pensieri.
            Era affranta, sì, e sconvolta da quanto aveva scoperto, ma anche profondamente sollevata nel constatare, una volta di più, che non era sola, che non lo sarebbe mai stata. Tutto ciò di cui aveva bisogno per trovare le ultime risposte che le mancavano erano tempo e silenzio; doveva fare più luce sul mistero, recuperare i pezzi rimanenti del puzzle per indietreggiare di un passo, ammirare l’insieme e, finalmente, comprendere. Perché doveva esserci una ragione umana, dietro qualcosa di tanto disumano.
 
Proprio prima che potesse appoggiare la mano sulla maniglia del portone, quello si aprì, rivelando il volto serio e poco sorpreso di Fugaku.
            «Tuo padre e la dottoressa Yuhi ti stavano aspettando», affermò in direzione della diciassettenne, facendosi da parte per permettere a Neji di entrare e lasciare posto alla figura rassicurante di una donna dai capelli bruni e piuttosto scompigliati.
            «Chiamami pure Kurenai, Hinata», le sorrise. «Sono una psicologa che collabora con il distretto…».
            «È qui per parlare di ciò che è successo quella notte di ottobre o dei domiciliari di Karin Uzumaki?», la interruppe lei, tentando di non apparire troppo brusca.
            Non le servì girarsi per accertarsi degli sguardi sbalorditi degli Uchiha, né di sporgersi verso il corridoio d’entrata e intravedere quelli non meno sbigottiti dei propri familiari, perché poteva benissimo immaginarli; non dovevano essere molto dissimili da quelli della trentenne che le stava davanti.
            «Non mi avevano detto che tu fossi già al corrente della sua situazione», si grattò una tempia, cercando un cenno rinfrancante da parte del commissario e di Hiashi, giunto al suo fianco.
            «Hinata, stai bene?», le domandò il padre, posandole una mano sulla spalla.
             Lo guardò apertamente in volto, annuendo con convinzione. «Sì, papà». Altre parole non sarebbero mai giunte, né avrebbero descritto adeguatamente il senso di gratitudine che provava verso gran parte delle persone che le erano accanto, quella sera.
             La signorina Yuhi sorrise rincuorata, osservando quella reazione inaspettata. A prima vista, avrebbe giurato che sarebbe crollata, lasciandosi andare ad un pianto silenzioso e difficilmente frenabile, ma la giovane che si trovava davanti sembrava essere più forte del previsto. Forse Fugaku non aveva esagerato, quando le aveva accennato del modo stoico in cui aveva riportato un resoconto del misfatto, in ospedale, o della sicurezza ostentata in commissariato, mentre sottoscriveva la denuncia verso ignoti, per renderla ufficiale.
             «Immagino come ti senti e sappi che puoi parlarne tranquillamente con me. In questi giorni passerò a trovarti e, se lo vorrai, scambieremo qualche chiacchiera, occupandoci anche delle faccende più burocratiche della questione con il commissario Uchiha e tuo padre. Nel frattempo, ti lascio il mio numero di cellulare», asserì pacata, porgendole un biglietto da visita. «Andrà tutto per il meglio», le assicurò, prima di dirigersi verso la propria auto.
             «Certamente», assentì lei, sottovoce, voltandosi verso la donna. Non ne avrebbe mai dubitato.
 
Suo padre si era fermato a discutere con Fugaku per qualche minuto, così lei non si era sottratta alle occhiate interrogative di Sasuke, anzi, gli aveva concesso di potersi avvicinare con uno sguardo limpido e ben lontano da quello rabbuiato con cui l’aveva accolto, alcuni minuti prima.
            «Mi spiace non essere uscita con te», confessò, trovando persino la forza per non arrossire, mentre lo guardava in volto.
            Le scostò una ciocca dal viso, cogliendo l’occasione per sfiorarle una guancia. «Ci rifaremo, non preoccuparti. Sembra che i nostri vecchi stiano diventando amici», e le regalò un sorriso sghembo.
            Non si preoccuparono di poter essere visti dai genitori, così vicini, comprendendo ormai che, piuttosto che correre il rischio di allontanarsi e perdersi – o anche solo quello di sprecare una fase lunare senza un gesto d’amore –, una lamentela da parte dei padri era quasi una benedizione.
            «Sei straordinariamente forte. Ti ammiro, Hinata».
            Il suo cuore, davanti a quella confessione, ebbe un sussulto, quasi come se ad “ammiro” Sasuke avesse sottratto le tre lettere che lo contraddistinguevano da un altro verbo.
            Nessuno dei due l’aveva detto ancora, ma entrambi sapevano che il tempo per un “Ti amo” era davvero vicino. Chi non conosceva ciò che avevano passato, le emozioni intense che li avevano investiti, i pericoli che la loro relazione aveva attraversato, li avrebbe certamente tacciati di esagerazione e superficialità, ma solo loro sapevano quanto sinceramente si amassero.
            Riuscì a ringraziarlo con un mormorio a fior di labbra, ricambiando la carezza lungo il suo viso e donandogli un casto bacio sulla guancia.
            «Ci vediamo domani. Dormi bene», lo salutò con serenità, accorgendosi dell’appropinquarsi di Hiashi.
 
***
           
L’ultima volta che suo padre le aveva rimboccato le coperte era stata la notte dopo il rientro a casa, in seguito alla degenza. Il genitore l’aveva accompagnata a letto – premurandosi di non svegliare Hanabi, già dormiente -, le aveva baciato la fronte e sistemato la trapunta lilla con affetto.
            Non diversamente da allora, Hiashi aveva ripetuto quelle semplici azioni che il tempo quasi gli aveva fatto dimenticare, costringendolo a rimpiangere gli anni trascorsi fisicamente vicino, ma affettivamente lontano dalla primogenita.
            Prima di spegnere l’abat-jour sul comodino, l’uomo accarezzò la fronte della figlia, scompigliandole la frangetta.
            «Neji mi ha detto come sono andate le cose. Mi dispiace, avrei voluto parlartene, ma non sapevo come fare; l’avrei fatto stasera, con l’aiuto della dottoressa Yuhi, ma mi hai anticipato», le sorrise, visibilmente sollevato.
            «Non importa, sto bene».
            «Presto sarà tutto finito. C’è già una data per il processo, anche se non so se…».
            «Non vedo l’ora che sia quel giorno!», esclamò con fin troppa enfasi, a giudicare dal mugugno infastidito della sorella.
            Hiashi sorrise e smorzò il lume.  
            «Hinata… sono fiero di te», sussurrò, per poi baciarle la fronte ed uscire dalla stanza.
 
Nessun incubo le attraversò la mente, quella notte, né ulteriori domande si affastellarono nei sensi, all’alba. Non possedeva i responsi per tutti i quesiti che, negli ultimi tempi, l’avevano punta sul vivo, così aveva deciso semplicemente di non porsene di nuovi, ora che godeva delle risposte che più le erano necessarie.
             Ora che la sua vita, finalmente, disponeva di certezze.
 
 

Ormai non vale nemmeno più la pena scusarsi per il ritardo, dal momento che mi conoscete! XD Mi spiace non essere sempre presente, ma ho fatto il possibile per aggiornare oggi perché siamo ancora in maggio e, quindi, il capitolo mensile (il minimo sindacale ahah) è stato pubblicato.
Il titolo, ovviamente, è una ripresa della bucolica X di Virgilio (per il quale nutro una profonda venerazione, ma questa è un'altra storia!). Ecco, scegliere un nome per il capitolo è stata dura. Ero indecisa tra "Certezze" et similia , ma lo trovavo troppo banale, o un semplice "Noi", che però era davvero TROPPO semplice! Così, cosa c'è di meglio delle parole di Virgilio?
Spero che vi sia piaciuto, ragazzi! Avevo promesso qualcosa di breve e, seppur di sole due pagine, giuro che è più corto del precedente! :D
Prima di concludere, ci tenevo a ringraziare apertamente la cara arcx per essere stata così gentile (davvero troppo!) da segnalare questa storia per le scelte. Oh, e pure augurarle un felice compleanno, sì! ^^ ❤
E poi, ringrazio ancora tutti per la lettura, con la speranza di potervi sentire al più presto – anche voi lettori silenziosi, dai! Fate un’opera di bene per questa disperata che si accinge ad entrare nella sessione estiva… non fatela morire senza prima avervi sentiti! *-*
Appunto perché ci saranno gli esami, non garantisco un aggiornamento rapido. Però ho una notizia: il prossimo sarà il penultimo capitolo! Esultate e gioite! XD
Mi dileguo con una riverenza,
 
Ophelia
 

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Capitolo 20
*** ... et nos cedamus Amori ***


 



20. … et nos cedamus Amori

 

 
Un bouquet fiorito e profumato, fatto recapitare a casa; una festa degna di restare negli annali della città; un regalo da mozzare il fiato… C’erano tanti modi per immaginarlo, ma Hinata non aveva mai pensato seriamente a come avesse potuto festeggiare i suoi diciotto anni, un po’ perché abituata a reputare il raggiungimento della maggiore età come una pura formalità e un po’ perché negli ultimi anni non c’erano stati grandi spiragli positivi, fra le mura domestiche. Il proprio compleanno, in fondo, era sempre stato l’ultimo dei suoi pensieri.
          Improvvisamente, però, era tutto cambiato e lei si trovava lì, quel ventisette dicembre, proprio in virtù degli esiti – negativi, ma non per questo in grado di abbatterla – di tale mutamento.
          Esistevano diverse maniere per celebrare il fatidico traguardo agognato da qualsiasi adolescente, ma un’aula di tribunale era sicuramente quello che nessuno si sarebbe mai aspettato. Eppure, lei non aspirava a chieder di meglio.
 
Si girò con calma per scrutare il pubblico alle proprie spalle – che rumoreggiava, poco prima dell’udienza – e scorse diversi volti familiari, mescolati a quelli di alcuni ufficiali, giornalisti e cittadini comuni. C’era Fugaku, ancora in piedi, ai margini della sala, che scambiava qualche parola con dei colleghi e rivolgeva a lei e a Hiashi degli sguardi carichi di quell’autorità rasserenante che solo lui era in grado di esprimere. Qualche fila dietro di lei, invece, riusciva quasi a distinguere la voce chiara, pacata e profonda di Itachi, preso a chiacchierare con Neji e Sasuke; non erano voluti mancare a quell’appuntamento con la resa dei conti, non solo perché testimoni del suo ritrovamento al cantiere, ma, soprattutto, perché artefici del miracolo. Se avesse posseduto l’ardore giusto, non avrebbe esitato un solo secondo a definirli come gli uomini della sua vita – di quella frazione d’esistenza che possedeva tutte le qualità per poter essere considerata tale, almeno.
         Colui che avrebbe invece gridato al mondo essere sempre stato, nel bene e nel male, il suo punto di riferimento sedeva accanto a lei, rigido ma composto, con lo sguardo fisso al banco degli imputati. Per degli osservatori esterni sarebbe potuto apparire come una persona fredda, imperturbabile, persino vuota, incapace di amare, ma Hinata aveva ricevuto la prova che tutto ciò era solo pura apparenza. Il modo in cui le sfiorava le dita della mano – abbandonata sul seggiolino di legno -, di tanto in tanto, o i sorrisi appena abbozzati agli angoli delle labbra, in sua direzione, erano solo la punta dell’iceberg di un sentimento paterno di affetto e preoccupazione ben radicato e profondo.
          «Mi dispiace… non ho potuto far niente per cambiare data», le ripeté per la quinta volta, quella mattina, guardandola negli occhi.
          Quelli dell’uomo erano così fermi, fieri e chiari da poterle ispirare solo fiducia e gratitudine. Sì, riconoscenza per averla aiutata a crescere forte e con un cuore puro, incapace di spezzarsi anche sotto i colpi più duri, per esserle stato accanto e averla sostenuta mentre affrontava una fase delicata e dolorosa, e per non averla abbandonata – come invece aveva temuto potesse fare.
          Nonostante il suo essere arcigno, dispotico e severo, aveva sempre e solo cercato di proteggerla, di evitarle situazioni del genere; Hinata l’aveva capito e, del resto, i guai non se li era mai andati a cercare da sola. Aveva solo seguito il suo cuore: poteva farsene una colpa?
           La risata rilassata di Neji, in fondo all’aula – cui avevano risposto un sonoro grugnito di Sasuke e una nuova esplosione di spensieratezza di Itachi –, le confermò che essere suddita di Amore e delle sue disposizioni sarebbe sempre restato il suo imperativo. Avrebbe affrontato momenti anche peggiori di quello, forse, ma poter contare sull’affetto e la salvezza dei suoi cari l’avrebbe ripagata di ogni pericolo corso.
           «Insomma, il proprio compleanno non dovrebbe essere trascorso in un luogo come questo», mormorò Hiashi, senza abbassare lo sguardo.
            Hinata sorrise, nel tentativo di rasserenarlo. «Non importa, anzi, sono lieta che oggi tutto finisca». “E che inizi la nostra primavera”, avrebbe aggiunto, se l’entrata in scena del suo avvocato non l’avesse distratta. Avrebbe gradito che a occuparsi del caso fosse stato il padre, ma capì che ciò non sarebbe potuto avvenire, essendo lei – la figlia – la parte lesa, e l’àmbito della contesa diverso da quelli su cui lui giornalmente lavorava.
            «Bene, allora ti lascio con il signor Yumita. Andrà tutto per il meglio», affermò il genitore, accarezzandole il capo. Strinse la mano al suo collega, capo della procura di “Crimini violenti”, e si accomodò una fila dietro la ragazza.
            Hinata salutò educatamente l’uomo che si era messo all’opera per lei fin dalla fase istruttoria e ascoltò con calma le sue ultime spiegazioni riguardo il processo. 
            Ecco, tutto si sarebbe chiuso lì, in quell’aula. Non si curava delle pene che il magistrato avrebbe inflitto agli imputati, del clamore che l’evento avrebbe sicuramente destato nella comunità – se ancora fosse esistito qualcuno che non ne aveva ricevuta notizia –, o di qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere di lì in avanti.
            Non era sola, non lo sarebbe mai stata.
 
L’acceso colore rosso della chioma della prima accusata ad essere chiamata in causa catturò lo sguardo della ragazza, impedendole di ascoltare ciò che il suo avvocato e il giudice le stessero chiedendo. Improvvisamente, tutto il mondo sparì, di fronte agli occhi stanchi, abbassati e privi di barriere – come occhiali o lenti a contatto – della Uzumaki.
            Non riusciva ad odiarla. Non ce l’aveva fatta nemmeno nei giorni che l’avevano separata dal processo, quando si era trovata a pensare ai motivi che l’avessero spinta a procurarle tanto dolore. Aveva formulato e scartato diverse ipotesi – semplice antipatia, gelosia scolastica o di matrice amorosa? -, giungendo alla verità grazie a una ricostruzione degli eventi ragionata con il cugino, dopo tante riflessioni, ma nemmeno così era stata in grado di avvertire risentimento e sete di vendetta.
            Certo, a essere sinceri non provava troppa pietà per Karin, né poteva ancora dire di essere disposta a perdonarla su due piedi, soprattutto perché aveva ingannato Neji e finto di essere innamorata di lui per servirsene. Il consanguineo non era un mezzo per raggiungerla e abbatterla, non era un freddo automa incapace di provare emozioni! Ecco, se si fosse limitata ad affrontarla apertamente, anche a schiaffeggiarla o a insultarla, senza dover ricorrere a ricatti e alla manforte di Hidan, nessuna delle due si sarebbe trovata là e, forse, lei sarebbe riuscita a comprenderla, scusarla e conoscerla.
            Quelle mani davanti al viso, mentre le veniva posta la fatidica domanda “L’imputata si dichiara innocente o colpevole?”, però, la colpirono profondamente. Era una ragazza sola, ora più che mai. Una diciottenne cui non erano state offerte alternative di miglioramento, fra l’affidamento a una zia poco interessata alla sua crescita e le cattive compagnie, fra la scuola e i pub più malfamati. Comprese che la vita di Karin si era sempre svolta tra un estremo e l’altro, tra la normalità – magari non del tutto integra, ma da ricostruire con qualche margine di successo – e la distruzione – propria e altrui.
            «Dunque, signorina Uzumaki, come si dichiara?». Ancora quella domanda, a pungolarla.
            «Innocente», scattò prontamente il suo difensore, incurante delle obiezioni.
            La rossa alzò lentamente il volto, mentre le sue mani raggiungevano il grembo, strette in una morsa che era fragile e debole quanto lei, in quel momento. «Colpevole», gracchiò con un filo di voce, lanciando uno sguardo vuoto in direzione di Hidan.
 
***
 
Il ragazzo dai capelli argentei aveva mantenuto la propria aria strafottente e imperturbabile per tutta la durata dell’interrogatorio, senza farsi scrupoli di rispondere in modo maleducato alle domande postegli, né temendo le minacce di aggravanti per tale condotta irrispettosa verso chi incarnava la legge.
            Aveva osservato apertamente Hinata, senza però lasciar trasparire alcuna emozione sul volto; in quei frangenti, tutta la sua sbruffonaggine spariva e le parole con cui avrebbe desiderato replicare a Toshiro Yumita gli morivano in gola. Non riusciva a credere che fosse riuscita davvero a sfuggirgli, anzi, a fermarlo, quella notte. E l’aveva fatto quando era visibilmente a pezzi, una preda facile e inerme, paradossalmente. Ricordava il suo sguardo vuoto, mentre le aveva violentemente sfilato il reggiseno, così come quasi percepiva ancora l’acqua fredda che l’aveva bagnato mentre lui stesso l’aveva estratta dalla vasca. Cos’era, quella fanciulla? Perché il suo sguardo chiaro e privo di lacrime riusciva a mettergli i brividi?
             Gli bastava scrutare Karin per ritornare in sé. Era diviso tra la voglia di insultarla – la migliore delle alternative, se scartava l’ucciderla e il ferirla gravemente – e di esserle stranamente grato. Sì, perché quel processo avrebbe segnato in qualche modo il suo riconoscimento ufficiale come ragazzo difficile, anzi, come malvivente, al pari del rinomato Kakuzu. Oh, Jashin avrebbe chiuso un occhio se per una volta lui avesse stimato quel suo compagno di scorribande come un idolo!
             «Ha dichiarato di essere innocente, quindi la prego di prendere parte al dibattimento e rispondere alle mie domande in modo appropriato», lo esortò Yumita, spazientito dall’ennesima dimostrazione di sfrontatezza del giovane. «Il suo modus operandi è stato diverso, stavolta: nessuno spargimento di sangue, lacerazione fisica o tracce che possano far pensare a un rituale. A prima vista, è parso come un caso a sé stante, ma abbiamo controllato le testimonianze di altre ragazze aggredite, di giovani coinvolti in risse fuori dai locali, e sottoposto loro una sua foto: tutti l’hanno riconosciuta, signor…».
             «Hidan», tagliò corto lui, poco incline ai convenevoli.
             «Il suo capo d’accusa si aggrava».
             «Tanto meglio», mormorò a denti stretti.
             Una parte di lui non desiderava altro che il carcere, ma ancora non sapeva dire se fosse quella che l’avrebbe voluto salvare o meno. La galera lo avrebbe messo sulla retta via, forse, oppure avrebbe contribuito a renderlo ancora peggiore, più infuriato e pericoloso di quanto non fosse già così; per quanto si sforzasse di capire quale sarebbe stato l’esito della reclusione – un salvataggio o una condanna, per la sua anima? –, nessuna delle alternative gli dispiaceva. Cosa aveva da perdere, in fondo, una volta sbattuto dietro le sbarre? Un impiego saltuario come operaio edile e la libertà – della quale non aveva mai goduto come si dovrebbe, dati 
i bassifondi che frequentava e l’asprezza della sua esistenza.
            «Senza contare che la signorina Uzumaki ha espressamente fatto il suo nome, durante la deposizione in commissariato», proseguì il pubblico ministero, nella figura del signor Yumita.
            Sapeva anche questo ed era il motivo principale per cui desiderava ucciderla.
            Si era rivolta a lui per intraprendere una spedizione punitiva nei confronti di Hinata, la sua rivale in amore, con il duplice scopo di ferirla e spezzare il cuore di Sasuke; tentativi andati a vuoto, da quanto aveva potuto osservare alcuni minuti prima dell’inizio dell’udienza, dacché l’Uchiha si era avvicinato alla vittima e l’aveva confortata.
             Karin aveva domandato il suo aiuto per poi fallire nei propri intenti, consegnarsi alla polizia – spinta ai ferri corti da un potente senso di colpa – e citare il suo nome! Doveva essere pazza.
             Hidan strinse i denti e ignorò le domande al vetriolo con cui l’avvocato della Hyuga lo incalzava, così come non si degnò di rispondere alle successive sollecitazioni dell’Accusa.
             Gli chiedevano il motivo di quell’attacco verso Hinata, perché si fosse inspiegabilmente trattenuto dal violarla e l’avesse poi lasciata al cantiere… come se lui non ci avesse mai pensato, in quelle settimane! Come se fosse giunto a delle conclusioni! La ragazza dai capelli blu, semplicemente, lo aveva mosso a pietà, quando si era lasciata cadere nella vasca. Aveva temuto il peggio, non vedendola muoversi nell’acqua fredda, e l’idea di aver causato la morte di qualcuno, in quei minuti di panico, l’aveva turbato oltre ogni dire. Era un controsenso: voleva davvero essere un violento, un criminale, un ceffo al pari di Kakuzu, ma tale prospettiva, quella notte, gli aveva raggelato il sangue nelle vene. Chi voleva prendere in giro? Non era capace di uccidere; per quanto fosse consumato dalla delinquenza, non era marcio quanto credeva. Di conseguenza, poteva aspirare a salvarsi?
             Tornò a osservare la Hyuga e sospirò, ritrovandosi il suo sguardo chiaro e vigile addosso. Vedendola tanto determinata, in quell’aula, quasi non credeva di averle potuto fare del male; insomma, quale ragazza, dopo un tentativo di stupro, riusciva ancora a guardare il nemico negli occhi? Era da ammirare, non poteva negarlo. Il modo in cui il suo viso lo condannava ma, allo stesso tempo, lo spingeva verso la propria redenzione, poi, lo aiutò a fare chiarezza fra i tormenti.
             C’erano possibilità di recupero anche per lui, dunque? Non lo sapeva, ma poteva comunque provarci.
             «Finiamola qui; sono colpevole», ammise, stremato, lasciando di stucco il proprio difensore.
             La follia era davvero contagiosa.
 
***
 
Steso sul letto ancora disfatto – Mikoto non era riuscita a estirpargli quella cattiva abitudine che Itachi, invece, non aveva mai messo in atto –, Sasuke osservava il soffitto blu della sua stanza, con un avambraccio appoggiato sulla fronte e la luce arancione del lampione stradale dritta negli occhi. Il sole era calato troppo in fretta, ancora più velocemente di quanto solesse fare di norma in dicembre, secondo il suo parere, e la mattinata in tribunale si era esaurita altrettanto celermente.
            Si era tutto risolto per il meglio, sì, ma non riusciva a sorridere come avrebbe dovuto. La giustizia aveva trionfato, il torto subìto da Hinata era stato condannato, eppure non si sentiva sereno; non dopo aver appreso della condanna di una compagna di classe, di una ragazza con cui aveva, tra l’altro, fatto sesso. Nonostante il giudice avesse proferito le sue decisioni, il moro non poteva esimersi dal biasimarsi.
             Era tutta colpa sua. Già prima del processo aveva capito quale fosse stato il motivo che aveva spinto Karin a commissionare a Hidan un tale crimine e durante l’udienza, qualche ora prima, ne aveva avuta la conferma.
            Perché non facciamo coppia fissa?, gli aveva chiesto, una sera d'ottobre, dopo che lui si era alzato dal suo letto e si era rivestito.
            Perché non sono innamorato di te. Poteva rimproverarsi per aver riferito la verità?
            E poi gli sovvenne la scazzottata con Neji, alla festa di compleanno di Naruto; la Uzumaki aveva assistito e, senza dubbio, lo aveva aizzato lei contro Sasuke.
            Da lì in avanti, per quanto le acque sembrassero essersi calmate, le cose erano segretamente precipitate: Karin aveva escogitato un raccapricciante piano atto a umiliarlo, farlo sentire indesiderato e non ricambiato da Hinata, proprio ferendo quest’ultima. Una bassezza morale che non si sarebbe mai aspettato da una compagna di classe e che, anche dopo la sentenza del magistrato, non riusciva comunque a non collegare alla propria condotta libertina dei mesi passati.
            Se solo avesse provato a spiegare alla rossa che non desiderava intrecciare alcuna relazione con una ragazza, limitandosi invece al puro appagamento fisico, forse lei avrebbe compreso; o forse no, dacché la causa della sua gelosia era l’osservazione diretta della nascita dello strano, impredicibile e meraviglioso legame che si stava formando tra lui e la Hyuga.
            Capì che ciò che era successo si sarebbe compiuto comunque, sia che lui avesse trattato la Uzumaki con sensibilità, sia che si fosse mantenuto un bastardo di prima categoria. Era un dato di fatto, un’amara constatazione che non riuscì a sollevarlo.
 
«Possibile che tu sia sempre lì a poltrire?», lo ridestò Itachi, irrompendo nella stanza, senza nemmeno bussare; dopotutto, la porta era socchiusa
, per una volta, e il ventitreenne aveva interpretato quel particolare come un invito a introdursi nel territorio di Sasuke.
            «E possibile che tu, invece, non abbia nient’altro di meglio da fare che pensare a me?», bofonchiò l’altro, tirandosi su.
            Il maggiore avanzò di qualche passo, uscendo dall’ombra, e si sedette affianco al fratello. «È un modo carino per consigliarmi di farmi una vita?».
            «No, è un modo carino per dirti di farti i caz-».
            «Stai pensando alla sentenza, non è vero?», lo interruppe, guardandolo negli occhi.
            Sasuke abbassò lo sguardo, nel tentativo di nascondergli le riflessioni da poco interrotte, ma ancora ben leggibili sul volto.
             Le capacità deduttive dell’aniki erano incredibilmente ammirevoli, sebbene irritanti; perché non aveva intrapreso la carriera di poliziotto, come loro padre? O di psicologo, magari. Ancora non comprendeva cosa lo avesse spinto a laurearsi in Ingegneria, dal momento che avrebbe eccelso in qualsiasi facoltà. Non era certamente stato un percorso di studi facile, il suo, anzi, pensare a certi tomi su cui il laureato aveva sputato sangue lo faceva rabbrividire, ma perché limitarsi a un futuro lavoro così gettonato, sicuramente alla portata di più persone rispetto a un ruolo di spicco nel commissariato o a un comodo impiego da strizzacervelli?  Ovviamente, Sasuke ammirava il fratello, la sua capacità di andare a fondo in ogni cosa che intraprendeva, riportando encomiabili risultati, ma non veniva a capo della sua scarsa inclinazione a brillare, a spiccare sugli altri, per rimanere invece nell’ombra, in tutta la sua umiltà.
             Ecco, Itachi era modesto, non possedeva aspirazioni all’altezza del proprio acume, e tale caratteristica era comune anche alla sfera affettiva.
             Sasuke ancora ricordava un dialogo tenuto con Hinata, qualche giorno prima: la ragazza gli aveva fatto notare come il ventitreenne, anche in occasione della propria festa di laurea, non avesse ardito ad accostarsi a Konan, la giovane per cui il suo cuore aveva a lungo palpitato, e il moro era rimasto colpito da quell’osservazione. Non si era mai preoccupato troppo delle faccende amorose del fratello, ma saperlo così sensibile e poco incline al prendersi a tutti i costi ciò – o meglio, chi – gli piaceva, da una parte lo sconvolgeva – mettendo in evidenza quanto le loro indoli, sotto quel punto di vista, fossero diverse – e, dall’altra, gli accendeva nel petto maggiore ammirazione verso l’aniki. Itachi non era puro istinto, ma ponderatezza, razionalità… la voce della coscienza che a lui mancava, forse. Sasuke, invece, nonostante gli ottimi risultati scolastici, era l’incarnazione dell’impulsività, del temperamento meno logico, della risolutezza ad assecondare le proprie smanie, e Hinata era l’esempio più calzante di tutto ciò: aveva cercato di rinunciarvi, di farla avvicinare a Naruto, eppure si era scoperto innamorato di lei, tanto invaghito da non permettersi di perderla di vista nemmeno per un secondo. Beh, fatta eccezione per quella sera.
            «Una condanna giusta, non trovi? Cinque anni e nove mesi per quel farabutto e sei mesi di domiciliari e lavori socialmente utili per Karin; le è anche stato accordato il permesso di proseguire privatamente gli studi, in modo da potersi diplomare perfettamente in tempo con voi…».
             «Itachi, non sarebbe dovuto succedere», lo bloccò il fratello, rialzando il viso e stringendo i pugni.
             L’aniki sbatté le palpebre, sorpreso da quella reazione. «Certo, senza dubbio. Nessuno meriterebbe un’aggressione».
             «Non è questo il punto. Il fatto è che l’unico ad esserne uscito senza conseguenze sono io. Hinata è stata ferita, Karin e Hidan hanno affrontato un processo… ma la causa di tutto è il sottoscritto. Perché Hinata, nonostante ciò, non ha capito quanto sia stato rischioso starmi vicino? Perché ancora non rinuncia a me?».
             «Preferivi quando ti evitava?», ribatté il maggiore, aggrottando le sopracciglia. Vide Sasuke sospirare e scuotere la testa in segno di dissenso, ma non gli diede occasione di spiegarsi. «Ti senti responsabile, lo so, ma non devi addossarti le colpe dell’accaduto. Dopotutto, amavi Karin? Intendevi legarti a lei?».
             «No, ma se l’avessi fatto…».
             «E sei stato tu a chiamare Hidan? Gli hai chiesto tu di aggredire Hinata?».
             Una ruga di rabbia si formò tra le sopracciglia del diciottenne. «Certo che no!», ringhiò, non capendo dove volesse andare a parare.
            «Bene, allora perché dovresti sentirti colpevole?», concluse retoricamente Itachi.
            Era incredibile quanto quelle poche battute del ragazzo fossero state in grado di spazzare via i dubbi e le dolorose accuse che Sasuke aveva rivolto verso se stesso; aveva ragione, non era responsabile degli eventi accaduti, ma accettare tale rivelazione e, soprattutto, capire quanto Hinata fosse profondamente innamorata di lui – tanto incantata da non rinunciare all’Uchiha nemmeno dietro la volontà del padre – era difficile. Ci sarebbero volute settimane, forse mesi, per rendersene conto, ma quel dialogo con Itachi era già un ottimo punto di partenza, dopotutto.
            Osservò il fratello rialzarsi con calma dal letto e camminare verso la porta della stanza. Appoggiò una mano sull’infisso, finse di grattare via qualcosa di invisibile dal legno e lanciò un’occhiata fugace a Sasuke.
            «Ho sentito che ci saranno i manicaretti di Ichiraku», mormorò con vaghezza, continuando nella sua occupazione insensata.
            «Ah?», domandò l’altro, come appena risvegliatosi da un sogno.
            «La festa dagli Hyuga, per il compleanno di Hinata. Le ho rinnovato gli auguri via telefono, poco fa, e mi ha raccontato dei preparativi», spiegò con nonchalance. «Hanno chiamato il catering di Ichiraku».
            «Mi hai forse scambiato per quel pozzo senza fondo di Naruto?». La cosa lo infastidiva sottilmente.
            «A proposito, c’è pure lui».
            «E con questo? Mica sono la sua ombra!», protestò il ragazzo.
            Itachi trattenne una risata. «Certo che no. Sembra che lo sia diventata quella ragazza dai capelli rosa».
            «L’avrà sfinita, ecco com’è andata».
            Il ventitreenne si voltò verso il fratello, incrociando le braccia al petto; se non ci fossero state quelle lunghe ciocche nere a coprirle, avrebbe intravisto le sue orecchie rosse dalla frustrazione, dal desiderio che l’aniki si togliesse cortesemente dal suo campo visivo e lo lasciasse in pace.
            «Perché parti col presupposto che non si sia semplicemente innamorata di lui?», lo rimbeccò, invece.
            Stavolta fu Sasuke a trattenersi dal ridergli in faccia. «Ma per favore! Innamorarsi di uno come Naruto… ti pare possibile?».
            «Beh, Hinata lo era, no?», gli ricordò.
            Il diciottenne annuì appena, impercettibilmente, chiudendo gli occhi. “Acqua passata!”, si trovò a pensare, sorridendo sotto i baffi.
            «Ad ogni modo, mi spieghi perché sei qui? Oggi è un giorno estremamente significativo e importante per la tua rag-».
            «Non è la mia ragazza!», arrossì Sasuke, bloccandolo. O forse lo era?
            «Oh, fintanto che resterai qui e non trascorrerai il compleanno con lei, è poco ma sicuro!».
            «Cosa dovrei fare? Non le ho nemmeno comprato uno straccio di regalo!», osservò, allargando le braccia.
            «Secondo te, lo pretenderebbe da Sasuke Uchiha?». Il neolaureato adorava ricorrere alle domande retoriche per mettere in crisi il fratello, non c’erano dubbi.
            «Mi sembrava giusto…».
            Itachi sospirò esasperato; non perdeva facilmente le staffe, con tutto l’aplomb di cui poteva fregiarsi, eppure Sasuke, quella sera, stava dando il massimo per innervosirlo.
            «Senti, vuoi che ti metta un fiocco in testa e ti chiuda in un pacco o ci arrivi da solo, otouto?», quasi gridò, prima di uscire definitivamente dalla stanza.
            Sasuke si alzò di scatto e prese a camminare nervosamente per la camera, facendo la spola tra la scrivania e la porta, soffermandosi di tanto in tanto vicino alla finestra; il cielo era scuro, ormai, e coperto da un denso strato di nubi. Forse sarebbe piovuto, oppure, data la bassa temperatura, addirittura nevicato, eppure non poté evitare di afferrare le chiavi poste sul comodino e fiondarsi fuori dalla stanza.
             «Se Hiashi Hyuga mi dà fuoco, ti uccido, Itachi!», lo minacciò, prima di uscire di casa e salire in auto.
            «Sarebbe divertente, ma alquanto impossibile», mormorò il diretto interessato, per poi spiegare ai genitori dove fosse diretto il secondogenito.
            Strano a dirsi ma, almeno per una volta, Fugaku non ebbe niente da ridire.
 
***
 
Il pensiero che lei potesse ballare con qualcun altro e non con lui lo stava già divorando al primo dei cinque semafori che lo dividevano da villa Hyuga. Aveva imparato a contarli, dopo tutte quelle volte che – prima della laurea di Itachi – aveva percorso il tragitto che li separava, nel vano tentativo di andare a casa sua e parlarle; tutto si era sempre concluso con un mesto ritorno a casa, talvolta senza nemmeno che lui fosse sceso dall’auto.
            Stavolta sarebbe stato diverso, sicuramente. Non avrebbe permesso a nessuno di guastare l’idillio che si stava creando fra lui e Hinata e, onde ribadire a se stesso la propria risolutezza, parcheggiò in fretta e furia l’auto lungo il marciapiede che fiancheggiava la proprietà degli Hyuga.
             Il cancello, come sempre, era aperto e attraversarlo gli riuscì più facile dell’ultima volta, quando vi era giunto a bordo della vettura del padre.
 
Si sarebbe aspettato di trovarsi dei buttafuori possenti, sull’uscio – di quelli con una lista di invitati da controllare e le braccia grosse e muscolose quanto quelle di Rocky Balboa –, ma ad accoglierlo, invece, c’era una certa Testa-quadra di sua conoscenza che, al solito, stava prorompendo in schiamazzi e risate. Il moro storse la bocca, temendo di doversi sorbire tutta serata un Naruto ubriaco e preda di conati di vomito; pronto a tornare a malincuore all’auto, vedendo così sfumare l’occasione di rivolgere gli auguri alla festeggiata, venne però trattenuto da una presa salda sul polso.
            «Ehi, Sasuke! Ti aspettavamo da un po’. Cos’è, non trovavi più il vestito da damerino?», lo canzonò l’Uzumaki, tirandogli un lembo della felpa. Inutile dire che scatenò le risate di Sakura e del gruppetto che gli si era riunito attorno.
            L’Uchiha si affrettò a divincolarsi dall’amico con una manata e non poté che rivolgersi una carrellata di rimproveri mentali per non essersi ricordato di cambiarsi – o, almeno, rendersi più presentabile –, prima di uscire di casa.
            «Che ci fate qua fuori?», chiese – in realtà poco interessato alla risposta –, osservando i volti di Rock Lee, Shikamaru ed Ino.
            «Te l’ho detto: ti aspettavamo! Siamo una squadra, no?», gli strizzò l’occhio l’Uzumaki, depositando nelle mani del ragazzo un pacchetto rivestito di carta lilla.
            Sasuke lo osservò per qualche istante con aria interrogativa, come se non avesse mai visto qualcosa del genere prima di allora; rivolse quello stesso sguardo dubbioso ai compagni di classe e capì ben presto – non appena Naruto, con la sua consueta finezza, lo spinse verso l’interno – quale fosse il suo compito.
            Avrebbe voluto protestare, aggrapparsi all’intelaiatura della porta e rimanere sull’uscio, oppure prendere a cazzotti l’amico e intimargli di pensare ai propri affari, ma non riuscì a fare nulla di tutto ciò, anzi, si trovò addirittura a sorridere, una volta entrato nell’abitazione. Era grato ai ragazzi, alla loro premura – irruenta, certo, ma genuina, spontanea, assolutamente sincera –, al pensiero che avevano rivolto a Hinata; averlo coinvolto in quel progetto, nonostante non ne sapesse nulla, poi, era stato davvero un gesto meraviglioso.
            «D’accordo», mormorò, avanzando di propria volontà verso l’androne da dove proveniva la musica, in tutta tranquillità, «glielo consegnerò io. Grazie».
 
Trovare la festeggiata non sarebbe stata un’impresa facile, in mezzo a tutta quella confusione. Sasuke non si aspettava che la ragazza potesse invitare tanta gente, ma intuì che dietro ci fosse l’organizzazione di Hiashi; probabilmente, la diretta interessata avrebbe volentieri fatto a meno di quella pompa magna, del ricevimento e dei regali, ma il padre non avrebbe mai permesso alla figlia di non celebrare il raggiungimento della maggiore età senza una festa ufficiale.
            Così, tra volti noti e altri mai incontrati – ma presumibilmente parenti degli Hyuga, accomunati tutti da meravigliosi capelli scuri e occhi color perla –, il ragazzo cominciò ad aguzzare la vista, alla ricerca della fanciulla. Maledizione, perché quell’impiastro di Naruto non gli dava una mano a scovarla? Lanciò un rapido sguardo verso la tavolata del rinfresco e capì come mai l’Uzumaki non avesse tempo per aiutarlo.
            «Uchiha Sasuke. Perché non sono sorpreso della tua visita?».
            Quella voce lo fece rabbrividire; impiegò dieci secondi abbondanti prima di decidersi a voltarsi.
            «Signor Hyuga», mormorò, affrontando con fatica il suo sguardo deciso, «… mi dispiace».
            «Di essere qui stasera o, in generale, di calpestare il suolo terrestre?».
            Il sopracciglio alzato del quarantacinquenne catturò l’attenzione del ragazzo, fornendogli forse il coraggio necessario per ribattere.
            «La seconda che ha detto, non di certo la prima», gli rispose senza esitazioni, lasciandolo di stucco. Hiashi dovette ammettere a se stesso che il ragazzo possedeva fegato, in effetti.
            «Senti, Sasuke, Hinata…».
            «Le ho fatto correre un mare di guai, lo so, e mi dispiace profondamente, mi creda, ma ho sempre cercato di fare del mio meglio per soccorrerla. Non sono la persona più in gamba del mondo, né la più affidabile o la più espansiva e… dolce». Una smorfia di disgusto gli fece piegare gli angoli della bocca; Dio, quanto si sentiva stupido! Perché l’aveva interrotto e stava affrontando quel discorso? Era troppo tardi, però, per ritrarre la mano: il sasso era già stato lanciato, tanto valeva andare a fondo. «Eppure, Hinata mi ha permesso di cambiare, anzi, di conoscere un lato di me mai venuto a galla; solo lei c’è riuscita. Davvero, farei di tutto per proteggere sua figlia, per renderla felice, per…».
             «Lo so. Tuo padre me ne ha parlato», sospirò lo Hyuga, abbassando le palpebre. Era felice che il ragazzo avesse confessato qualcosa di tanto importante e personale proprio davanti a lui; lo riteneva un comportamento maturo, sincero e ammirabile, seppur – da buon padre protettivo – ciò lo infastidisse un tantino.
             Sasuke non sapeva che dire. Non si aspettava che Fugaku avesse potuto intercedere in suo favore presso il glaciale Hiashi, onde spianargli un po’ la strada per l’approvazione della sua frequentazione con la fanciulla.
             «D-davvero?», riuscì solo a farfugliare, stupito.
             «Non mi piaci, ma a Hinata sì e credo che questo basti», dichiarò l’uomo, risollevando le palpebre. L’Uchiha quasi non credette ai propri occhi quando vide stamparsi sul volto del suo interlocutore l’ombra di un sorriso. «Ora va’ di là», proseguì l’avvocato, indicandogli una porta in fondo al salone, «e vedi di non farla piangere, altrimenti non sarò altrettanto misericordioso, la prossima volta che mi vedrai».
              Se il pacchetto che ancora stringeva in mano non fosse pesato come un promemoria, Sasuke sarebbe rimasto a osservare Hiashi per un quarto d’ora buono, a bocca spalancata, nel tentativo di farsi pure venire in mente parole efficaci con cui ringraziarlo.
              Si voltò con un sorriso interiore che superava di gran lunga i trentadue denti bianchi sfoderati in quel frangente.
 
***
 
Ancora una volta si trovava a una festa senza capire bene come ci fosse finita. Succedeva sempre così, di recente, nella sua vita: prima il compleanno di Naruto, poi la laurea di Itachi, infine il proprio diciottesimo. Stavolta, inoltre, non indossava nemmeno l’abito nero che era riuscito a infonderle tanto coraggio nelle precedenti situazioni e, quasi a voler sottolineare il fatto – o accertarsi che non stesse sognando –, prese a lisciare nervosamente fra le dita il morbido bordo di raso del vestito color malva.
            Subito dopo pranzo, si era ritirata in camera, pronta a chiudere gli occhi, schiacciare un pisolino e dimenticare tutto ciò che era successo la mattina – e nelle ultime settimane –, ma dovette immediatamente rivedere i suoi piani perché ad attenderla in piedi sul suo letto, con una scatola tondeggiante in mano, c’era Hanabi.
            Buon compleanno, nee-chan!, aveva urlato in sua direzione, la tredicenne, porgendole il presente.
            Ed eccolo lì, il suo regalo, ad abbracciarla e sostenerla come una dolce carezza attorno al corpo. Era stato un pensiero inaspettato, che l’aveva colpita direttamente al cuore e che riusciva ancora a farla sorridere.
            «Mi spieghi cosa ci fai, qui? Gli invitati sono di là», le ripeté per la terza volta Neji, parandosi di fronte alla diciottenne.
            «Ecco, avevo sete e…».
            «C’è ogni sorta di bevanda, nell’altra stanza, e tu ti rintani nella penombra della sala da pranzo! Certo che sei pazzesca: hai affrontato un energumeno, un processo e Sasuke Uchiha in persona, eppure tremi di fronte all’idea di essere al centro di una stupidissima festa».
             La ragazza arrossì lievemente, riconoscendo che il cugino non aveva tutti i torti. «Due minuti e arrivo, davvero. Tu torna pure di là: Hanabi è sul punto di prendere ancora a schiaffi Kiba, temo».
             «Cosa?! Non dirmi che sta di nuovo cercando di farla ridere con le sue barzellette indecenti!», si allarmò Neji, sempre iperprotettivo nei confronti della ragazzina. Bastò un cenno di assenso della fanciulla per spingerlo a intervenire.
 
Hinata inspirò profondamente, cercando di inglobare abbastanza aria nei polmoni da sollevarsi dalla sedia senza provare la necessità di restare ferma lì per tutta la notte. Erano le ventuno e cinquantatré ed era il suo compleanno: aveva ancora più di due ore a disposizione per rendere quella giornata addirittura più significativa.
            Certo, sarebbe bastato molto meno di una festa del genere per far sì che il suo diciottesimo fosse perfetto. Una persona, i suoi occhi, la sua voce, ad esempio.
            «Comunque, Neji si sbaglia: Sasuke Uchiha, oggi, non l’hai ancora davvero affrontato».
            Hinata non aveva mai prestato troppa fede a quella credenza dell’esprimere un desiderio mentre si soffiano le candeline sulla torta e, di certo, non avrebbe cominciato a farlo quella notte, dacché il catering teneva ancora blindatissimo in frigorifero il dolce preparato per la festeggiata; eppure, mai si sarebbe aspettata che il suo più grande sogno si potesse materializzare davanti agli occhi, mentre era in procinto di uscire dalla cucina. In quel momento, poi, possedeva un’ulteriore ottima ragione per rimanervi.
             «Sasuke…», sussurrò incredula, sorridendo.
             Il moro si richiuse velocemente la porta alle spalle, creando così una barriera tra loro e i convitati, il mondo esterno. La raggiunse con una falcata, appoggiò il dono sul tavolo e l’abbracciò. Non c’era logica, nessun ragionamento, dietro quell’azione: desiderava solo percepire il suo calore, baciarla e comunicarle quanto fosse felice di vederla, di saperla al sicuro, finalmente.
             «Sei straordinaria. Voglio dire, oggi hai veramente mostrato quanto tu sia irriducibile…».
             «Non pensiamoci più, d’accordo?», propose lei, sussurrando al suo orecchio. Quella richiesta era tanto sincera e modesta da non poter incontrare obiezioni.
              Il ragazzo sciolse l’abbraccio e le accarezzò lentamente il volto, guardandola negli occhi. Era meravigliosa in quell’abito delicato e con i capelli raccolti in una treccia che le cadeva sulla spalla destra. Ma, più della bellezza, a colpirlo era la sua forza d’animo, la sua capacità di non lasciarsi travolgere nemmeno dagli eventi più turpi; quell’energia positiva si rifletteva nel suo sorriso radioso.
             «Il fatto che l’udienza sia caduta proprio nel giorno del tuo complean-».
             «Davvero, Sasuke, non parliamone», abbassò lo sguardo, sul punto di ripensare a Karin, alla sua solitudine persino più accentuata, ora, e anche di lasciarsi prendere da una certa dose di rabbia che ancora le pizzicava il cuore.
             «Scusami, hai ragione. Sono ripetitivo, lo so, è solo che non riesco a pensare ad altro che te, a quanto sei diversa da ciò che chiunque si aspetterebbe», sussurrò a un centimetro dalla sua bocca, socchiudendo gli occhi.
              Non poté trattenersi dal baciarla e, nello scoprirla piacevolmente sorpresa e coinvolta, la baciò di nuovo, di nuovo ancora, fino a non sentire più le proprie labbra, a perderne il controllo e la cognizione di confine; era come se si fossero ormai fuse con quelle della Hyuga. La sua lingua si fece prontamente spazio nella cavità orale della ragazza, riprendendo una danza interrotta prima delle vacanze invernali, nello stanzino del bidello.
              «Buon compleanno», sospirò sul suo collo, spingendole la treccia dietro la spalla.
              Lambì ogni centimetro di pelle scoperta, ma i semplici baci non bastavano più; ciò che era sempre stato – un animale, un agglomerato di puro istinto carnale – sgomitava dentro di lui perché andasse oltre; la bestia che soggiaceva nel ragazzo desiderava fortemente premerla contro il tavolo, farla materialmente sua, solamente sua, contro ogni inibizione morale, e le leggere carezze che Hinata dedicava alla sua chioma – accompagnate da respiri lunghi e profondi –, erano quell’incentivo in più che avrebbe permesso al Sasuke-peccatore di appagare i propri istinti.
              “Fermati”, si ripeteva, stringendo le dita attorno alla vita della ragazza, quasi tremando. “Rovineresti tutto, razza di deficiente!”. Il processo aveva condannato Hidan, era vero, ma la memoria di Hinata non avrebbe archiviato con facilità ciò che era avvenuto quella notte d’ottobre, ne era certo.
               Le pallide falangi della Hyuga, più calde del previsto, scesero velocemente ad incontrare quelle contratte dell’Uchiha – che trattenevano convulsamente delle pieghe dell’abito. Sciolsero la morsa, con lenta dolcezza, e s’intersecarono perfettamente alle sue.
            «Sto bene», lo rassicurò, immaginando cosa gli stesse passando per la mente.
            Il ragazzo si bloccò, al suono di quelle parole, ed alzò il volto, incrociando così lo sguardo sereno della fanciulla. Strinse forte le sue mani e le portò al petto, scuotendo la testa.
            «Hinata…».
            «Sto davvero bene, quando sono con te. Il resto sparisce, che sia passato o futuro: vedo solo il presente», gli sorrise. Se ne sarebbe mai convinto? Forse c’era bisogno di una prova più persuasiva.
             Liberò velocemente i palmi dalla presa di Sasuke e li posò sulle sue guance, prendendolo in contropiede. Lo stupore aumentò a dismisura quando il moro trovò le labbra della corvina sulle proprie. Lo stava baciando lei, di sua iniziativa, proprio come la prima volta, in palestra; ancora stentava a credere che quell’episodio fosse stato reale, ma passarle le dita fra le ciocche che sfuggivano alla pettinatura, avvertire il suo fiato caldo sul viso e la morbidezza del suo corpo contro il proprio lo aiutarono a convincersene.
              “Cedere, cedere sempre, all’amore, quando è autentico. I suoi colpi potranno anche essere mortali, ma cosa non lo è, a questo mondo?”, comprese, in un barlume di razionalità.
            «Anche per me è lo stesso», le giurò.
 
Un improvviso tonfo contro la porta li fece sussultare e li costrinse a staccarsi. Che fosse Neji o, peggio ancora, Hiashi?
            La risata di Naruto – accompagnata da qualche grido in direzione di Kiba – fece loro tirare un sospiro di sollievo.
            «Forse dovremmo andare di là», osservò Hinata, ricordandosi della promessa fatta al cugino.
            L'Uchiha annuì appena, ma il pacchetto lilla abbandonato sul tavolo attirò la sua attenzione.
            «Aspetta», la bloccò, porgendoglielo, «questo è per te. L’hanno incartato i ragazzi e…». “E io non ho partecipato”, avrebbe voluto aggiungere.
            «Veramente mi hanno già regalato un abbonamento settimanale per il cinema», mormorò confusa, intenta a scartare il dono.
            Quella rivelazione sconvolse Sasuke; cosa significava? Chi si era preso la briga di organizzare tutto quel sotterfugio per salvarlo da una magra figura? Naruto, Sakura o Shikamaru?
            La risata spontanea della festeggiata lo colpì come uno strale al cuore. Cosa diavolo c’era di tanto divertente, in quella scatolina?
            «È meraviglioso», esclamò, quando riuscì a prendere fiato.
            Sconcertato, il moro le strappò di mano il biglietto, appena ripiegato.
            «Ma come?! Non ti basto io, come regalo? Sei proprio esigente, Hina-chan!». Una breve pausa, prima di completare la lettura. «Tanti auguri dal tuo Sasuke».
             Naruto, senza ombra di dubbio: la grafia disordinata e il pessimo gusto ne erano prove schiaccianti.
             «Lo uccido», mormorò a denti stretti, accartocciando il foglietto in un pugno. «Che figura di merda!».
             Hinata posò l'involucro vuoto sul tavolo e non esitò ad abbracciare il ragazzo – di spalle –, cogliendolo di sorpresa. «Non potrei chiedere un regalo migliore», arrossì, al riparo dietro le sue scapole. «Grazie, Sasuke».
             Per tutta risposta, lui le strinse una nocca ferma sul suo petto e sorrise, scuotendo la testa: «Quando capirai che il vero dono sei tu?».
 
Aprì la porta con una calma quasi solenne e la musica elettronica – un genere che di sicuro non aveva scelto la Hyuga – li accolse come un bombardamento dritto ai timpani. Durò un millesimo di secondo, perché quando Hinata gli strinse la mano – di nuovo
, Sasuke non percepì che il proprio cuore.
            «Ventitré luglio», affermò lei, decisa, osservando gli astanti che se la spassavano allegramente nel salone della villa.
            L’Uchiha si girò di scatto a fissarla, non capendo cosa stesse improvvisamente dicendo. «Cosa?».
            «Una volta mi chiedesti quando fosse il tuo compleanno. È il ventitré luglio, Sasuke. Mi dispiace non averlo saputo prima», confessò, dedicandogli uno sguardo sereno.
            Sicuramente Itachi aveva esaudito una richiesta della corvina, svelandole il giorno in cui fosse nato l’otouto. Il pensiero che quella domanda di scarsa rilevanza – che le aveva posto la volta in cui si erano trovati a collaborare gomito a gomito per la ricerca sull’età vittoriana – fosse rimasta impressa nella mente della compagna lo fece sentire come se mai prima di allora avesse compreso di essere davvero al mondo.
            Se ancora poteva sentirsi un essere umano – e non un animale, un ammasso di istinti ciechi e carnali, di rabbia, desiderio e distruzione –, lo doveva a quella ragazza, che anche allora non intendeva lasciar andare le sue falangi, conducendolo al centro della sala.
            Sasuke incrociò lo sguardo di Hiashi Hyuga e lo vide sorridere sotto i baffi mentre lui, inaspettatamente, si trovò costretto a strofinarsi un occhio con la mano libera, per scongiurare un’improvvisa presa di coscienza della propria fortuna, sotto forma di lacrima.
            Forse, nonostante la felpa sportiva e le sue maniere spesso brusche, l’uomo non l’avrebbe ancora ucciso. 



 ----------------- Note dell'autrice ----------------
Non sono un’esperta di Diritto, ahimè, perciò ho scritto la prima parte di questo capitolo basandomi su ciò che ho letto in rete, su alcuni testi scolastici e sul prezioso contributo di arcx (di nuovo, grazie infinite!). Spero di non aver fatto confusione e che risulti tutto abbastanza chiaro; per scongiurare qualche incomprensione, fornisco delle delucidazioni. In linea di massima, ho cercato di seguire il procedimento penale statunitense (perché un po’ più noto, grazie a film e telefilm), tuttavia ho fatto ricorso anche a qualche nozione più familiare al nostro ordinamento; essendo la Konoha della mia storia un luogo non geograficamente collocabile nella Terra che abitiamo – e in un’epoca imprecisa –, avevo un po’ carta bianca, diciamo.
Il pubblico ministero – che si è occupato della fase istruttoria, della difesa di Hinata e, di conseguenza, dell’accusa di Hidan – è Toshiro Yumita (pura inventiva!), collega di Hiashi, ma capo della procura di “Crimini Violenti” (nome che devo alla cara arcx!).
Il giudice – facendo riferimento all’ordinamento americano – ha posto ad entrambi gli imputati (Karin e Hidan), la domanda “L’imputato si dichiara innocente o colpevole?”; la ragazza, ovviamente – essendosi autodenunciata alla polizia – ha dichiarato la propria colpevolezza (e quindi non ha dovuto sostenere alcun dibattimento con il pubblico ministero), mentre Hidan, giurando la propria innocenza, se l’è vista con Yumita, salvo poi fare retrofront e condannarsi al carcere.
La scelta delle pene non è stata facile; ho cercato e ricercato casi analoghi realmente accaduti, ma non ho trovato molto, quindi ho deciso di condannare Karin a sei mesi di domiciliari e lavori socialmente utili, poiché si era pentita, denunciata e aveva collaborato con le forze dell’ordine, mentre Hidan, anche in virtù dei suoi precedenti, è stato punito per tentata violenza sessuale (ha come intervallo da un anno e mezzo a cinque anni, ma con il patteggiamento si può puntare sui due terzi del massimo della pena, quindi tre anni e tre mesi), violenza privata (due anni e sei mesi, così da creare un precedente per il prossimo processo sulle risse e sulle aggressioni a scopo rituale), per un totale di... cinque anni e nove mesi! (Ancora una volta, devo un grosso favore ad arcx ;)).
Scusate la lunghissima nota, ma ci tenevo a precisarlo – o provarci, almeno ahah. Spero sia tutto un pochino più chiaro e, nel caso così non fosse, sono qui per ulteriori spiegazioni – con tutti i miei limiti!


GOMENASAI!!! Scusate, scusate davvero il ritardo! Dicevo che ci avrei messo un po', a causa degli esami, ma pensavo di riuscire ad aggiornare a giugno... e invece! 
Vi sono mancata almeno un pochino? Voi sì, quanto Sasuke e Hinata. 
Vi ringrazio per seguire ancora la storia e vi comunico che il prossimo (ultimo) capitolo sarà online in tempi più brevi (magari addirittura settimana prossima) :)
Permettetemi di ringraziare di cuore la cara Ayumu_7 per aver segnalato la storia per le scelte (con una recensione esageratamente meravigliosa, anche lei!) :') 
Spero di potervi risentire presto, davvero. Il capitolo è stato di lunga e ardua stesura, quindi mi farebbe molto piacere poter conoscere il vostro parere. Arigatou!
Alla prossima, 

Ophelia

 

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Capitolo 21
*** Un lieto fine è un inizio ancor più ameno ***


21. Un lieto fine è un inizio ancor più ameno

 
 
Era strano trovarsi a quel tavolo del ristornate più rinomato di Konoha, quella sera. Non era certamente la prima volta che vi aveva cenato, dal momento che il Getsumei era per gli Hyuga una tappa fissa, soprattutto durante le festività – allora ancora lontane –, eppure era comunque bizzarro, emozionante ma inconsueto, essere seduta fra suo padre e Sasuke. Se un tempo sosteneva correttamente di sentirsi come tra due fuochi, anche in quel momento, a distanza di due anni dalla fine del liceo, poteva avvertire il calore emanato da personalità forti e diverse fra loro come quelle di Hiashi e il giovane Uchiha.
            Hinata, di conseguenza, per allontanare la tensione, scambiava qualche chiacchiera con Mikoto.
            La donna, da quando Sasuke gliel’aveva presentata, aveva subito preso in simpatia la ragazza, ricoprendola di attenzioni, ogniqualvolta lei si trovasse a casa loro. Era profondamente lieta che il suo secondogenito avesse una fidanzata tanto bella quanto gentile e non poteva far altro che coccolarla, dedicarle tempo e gentilezze, quasi come se fosse stata la figlia mai avuta. Non che si potesse lamentare dei suoi eredi, naturalmente, ma la signora Uchiha – come quasi ogni madre – aveva spesso fantasticato di dare alla luce una bambina; una volta aveva confessato a Hinata che avrebbe volentieri messo in atto un tentativo per concepire una femmina, ma il solo pensiero che potesse arrivare un altro maschio – e per giunta più dispotico di Sasuke – l’aveva fermata. Mi andrà benissimo fare da nonna a una splendida nipotina dagli occhi color perla come i tuoi, le aveva detto, chiudendo così il discorso; inutile spiegare quanto quella rivelazione l’avesse subito messa in imbarazzo – e costretta a tossire per evitare di strozzarsi con la propria saliva.
 
Osservando la tavolata, se escludeva l’imperturbabilità di Fugaku e Hiashi, il più calmo pareva essere Itachi. Era incredibile come quel ragazzo riuscisse sempre a tenere a freno le proprie emozioni, anche mentre una bellissima giovane dai capelli fulvi gli stringeva saldamente la mano.
            «Vi starete chiedendo perché vi abbia invitati qui, stasera», esordì finalmente, regalando una rapida occhiata a ogni convitato.
            Solo suo padre sembrava essersi fatto un’idea sul motivo che l’avesse spinto a convocare tutti al ristorante, dall’alto del suo acume, ma il “Commissario di ghiaccio” sorrise al primogenito, annuendo: voleva sentirlo riferire dalla sua voce e magari, con un po’ di fortuna, vederlo pure arrossire come un qualsiasi ragazzo.
           «Basta solo che non ci propini il discorso che hai steso per domani sera!», esclamò Sasuke, incurante dell’occhiataccia del padre.
           La giovane seduta affianco a Itachi scosse la testa e rise. «Sarebbe più pesante di questo tiramisù, credetemi», bofonchiò, deglutendo a fatica l’ultimo boccone del dolce. Pessima scelta quella di sperimentare il dessert, dopo un pasto luculliano, così come fu una cattiva idea quella di lasciarsi scappare tale constatazione con un cameriere alle spalle.
           Non appena l’uomo si allontanò dal loro tavolo, il ragazzo dal lungo codino riprese il discorso interrotto: «Non sono qui per parlare di lavoro, ma solo per annunciarvi che...». Si bloccò, sentendo la propria mano essere riafferrata da quella della fanciulla. La guardò con intensità per qualche secondo, come se avesse dovuto trovare in fondo alle sue pupille la forza necessaria a parlare.
          «Coraggio», gli sussurrò, invitandolo a ripristinare il contatto visivo interrotto con gli altri commensali.
          Aveva sostenuto esami complicati, discusso una tesi unica nel suo genere, presentato progetti impegnativi e ben studiati, agguantato soddisfazioni enormi, eppure nulla di tutto ciò che aveva fino ad allora vissuto era lontanamente paragonabile alla gioia e al leggero imbarazzo che provava in quel momento. Si sarebbe voluto nascondere sotto il tavolo, come un bambino; al diavolo il suo sangue freddo e la pacatezza, la sicurezza nei propri mezzi e la ragione: in quell’istante percepiva a malapena il pavimento, sotto i piedi. Tuttavia non fece un solo passo, non deglutì un millilitro di saliva, non batté ciglio né ripensò alle parole da pronunciare; non si sarebbe tirato indietro, nonostante il disagio e l’emozione, perché era felice, assurdamente in estasi. La massima gratificazione non consisteva in un centodieci e lode, una stretta di mano e una pacca sulla spalla da parte del capo, ma in ciò che teneva stretto fra le dita: il cuore della persona che più amava al mondo. Si rese conto che quello era l’amore.
           «… Io e Yuki intendiamo sposarci, questo settembre», sorrise, guardando i suoi genitori. La deflagrazione nel petto era solo pura letizia. «E saremmo felici se Hinata e Sasuke volessero farci da testimoni».
          Gli sguardi passarono rapidamente dall’analisi di una coppia all’altra, più giovane e, improvvisamente, paralizzata. Ricevere notizie – e proposte – del genere non capitava certamente tutti i giorni, nonostante quell’annuncio fosse già nell’aria da mesi; Yuki e Itachi, in fondo, si erano mobilitati da qualche settimana per la ricerca di un appartamento dove poter convivere. Tuttavia, l’otouto non credeva ancora che il fratello avesse appena annunciato così, su due piedi, le proprie nozze e, soprattutto, che loro lo desiderassero, insieme con Hinata, quale garante dell’unione.
          Era pronto a separarsi dall’aniki? Non che fossero sempre stati in simbiosi, certo, ma negli ultimi anni Itachi era diventato un sostegno quasi quotidiano, una presenza confortante, un ottimo consigliere, un amico… un fratello. Strano come non se ne fosse mai accorto, prima dei diciotto anni – quando, di norma, si comincia invece a prendere le distanze dalla famiglia. Per lui era stato tutto diverso, un procedimento inverso rispetto a quello dei coetanei, probabilmente. Il merito della ripresa dei contatti e della riscoperta fratellanza andava solo a una persona – la stessa che, in quel momento, gli sfiorava un gomito.
          Sasuke si voltò lentamente verso Hinata, che lo guardava con aria serena, compiaciuta. Sembrava non esistessero più gli altri commensali, una volta che incontrò le pupille di quell’angelo dai capelli blu.
          Le sorrise di rimando, sollevando un angolo della bocca, e alzò il flûte ancora colmo di champagne in direzione dei promessi sposi. «Con vero piacere. Vi auguro il meglio», brindò. 
          La voce era uscita ferma e limpida, seppur emozionata, dalla sua gola, e anche stavolta sapeva benissimo perché gli occhi fossero sul punto di andargli in fiamme, sciogliendosi in lacrime.
           
***
 
La luce della luna, in tutta quell’oscurità, era la sola cosa capace di colpire le sue iridi nere e farle brillare. Hinata non si sarebbe mai abituata a guardarle senza perdervisi dentro; ora, dopo due anni e mezzo di relazione, lo sapeva per certo. Le aveva scrutate con calma, ma anche con desiderio, da mille prospettive diverse, eppure, ogni volta che le incrociava, le sensazioni che esse le provocavano erano le stesse della prima volta, se non ancora più forti.         
            La cosa per lei più inspiegabile e meravigliosa era che lo stesso provava lui, mentre si smarriva nei suoi chiari specchi di perla.
            «Non prosegui di qui?», domandò con un tono leggermente allarmato, vedendolo svoltare in un’altra strada.
            «Non ho detto che ti portavo subito a casa, Hyuga», dichiarò sibillino, continuando a fissare l’asfalto e l’orizzonte, davanti a sé.
            Lei lo scrutò per qualche secondo, a bocca aperta: perché diavolo era sempre così testardo? Più buio della mezzanotte ma, nelle sue intenzioni, brillante come nemmeno le stelle: ecco un altro motivo per cui lo amava.
            «E va bene», sospirò, intrecciando le dita.
            Avevano sempre tenuto un particolare tipo di conversazione, loro, caratterizzato da silenzi e sguardi, da parole ammutolite o, al massimo, sussurrate a fior di labbra, per poi essere messe a tacere da baci, da esplosioni di sentimenti che, per quanto intensi, i loro giovani cuori sapevano contenere e sacralizzare con una perizia degna di chi trascina con sé secoli di vita, e non vent’anni.
            Anche quella sera, Hinata lo osservava con aria rapita, incapace di capire se, al suo fianco, stesse davvero vivendo o camminando in una visione onirica. Quando lui le strinse la mano, arrestando l’auto, e le sorrise, si convinse che tutto corrispondesse a un semplice, perfetto, sogno ad occhi aperti.
            «Cosa ci facciamo qui?», gli domandò confusa, guardandosi attorno.
            Conosceva quel posto, ma non vi metteva piede da tempo; ogni volta che le capitava di passare da quelle parti, poi, evitava accuratamente di lanciare occhiate in sua direzione, oppure deviava volontariamente il proprio cammino, talvolta allungandolo, onde non rievocare una strana combinazione di ricordi lieti e di dolorosi.
            A dir la verità, nell’ultimo anno avrebbe potuto tranquillamente rivolgere il proprio sguardo a quel luogo o, addirittura, avvicinarvisi senza indugio, dal momento che era praticamente impossibile scorgere cosa ci fosse dietro tanti pannelli di legno, impalcature e altissime recinzioni, ma lei non ce l’aveva fatta. Il passato è una cicatrice, in fondo: rimarginata e ormai indolore, certo, ma pur sempre visibile, bianca e leggermente in rilievo, pronta a fare da monito per il futuro.
            Adesso, però, grazie alla presenza di Sasuke, tutto le appariva sicuro.
            «Domani hai un esame», gli ricordò, indicandogli anche l’orario segnalato dall’autoradio.
            Il moro le lanciò un’occhiata saccente. «Ho studiato, cosa credi?».
            «Ma sono le ventitré passate! Tuo padre ha detto che…».
            «Il tuo coprifuoco scade all’una, no?». Ancora ricordava le dure discussioni avute con Hiashi – non per ultima quella affrontata mezz’ora prima, fuori dal ristorante –, per permettere a Hinata di poter trascorrere almeno la mezzanotte insieme al suo ragazzo; con il tempo, l’uomo si era ammorbidito nei confronti di Sasuke, ma l’Uchiha era giunto alla conclusione che prima di poter vedere l’alba insieme alla fidanzata, di quel passo, i due sarebbero stati alla soglia dei quarant’anni.
            «Perché siamo qui, però? È tutto chiuso, assolutamente inaccessibile».
            Il ragazzo decise di trascurare quell'osservazione, avvicinandosi al recinto che l’indomani sarebbe definitivamente stato smantellato per permettere anche agli altri di poter vedere ciò che ancora celava meticolosamente. Sfilò una chiave dalla tasca e armeggiò per qualche secondo con il grosso lucchetto arrugginito, incurante delle proteste della ragazza.
            «Mi stai ascoltando? Non puoi entrare! È vietato… senza contare che è tutto un progetto di tuo fratello! Perché vuoi rovinarti la sorpresa? L’inaugurazione è domani», tentò di farlo desistere, raggiungendolo presso la rete metallica coperta da un telo frangisole verde scuro.
            «Tuo padre è avvocato, il mio commissario: di cosa ti preoccupi? E poi, ormai abbiamo già provato il brivido di un processo, no?», la prese in giro, aprendo il cancello.
            «Questa dev’essere la cattiva influenza di Naruto», commentò lei, sottovoce.
            «Ha smesso di essere un combina guai da un pezzo, lo sai. Inoltre, per tua informazione, è stato Itachi a passarmi la chiave», la rassicurò, prima di trascinarla dentro.
            Ogni ulteriore tentativo di protesta, ogni piccolo strattone per divincolarsi e indurre Sasuke a tornare indietro fu vano, quando i suoi occhi carpirono finalmente la meraviglia che il recinto aveva fino ad allora nascosto. Spalancò la bocca, trattenendo il fiato, ma non riuscì ad emettere alcun suono.
 
Di fronte a lei si stagliavano frondose querce, verdi ciliegi, aceri rossi, faggi sottili e rigogliosi, mentre i quattro sentieri coperti da ghiaia bianca che tagliavano il giardino urbano in altrettante porzioni erano costeggiati da bassi viburni dalle foglie lucide, piante di ibisco e cespugli di rose bianche e rosse – ancora in fiore, nonostante fosse un luglio particolarmente torrido.
            Guardandosi attorno, la ragazza non poté non notare con piacere che il progetto di ristrutturazione aveva incluso nei suoi piani delle attrazioni dedicate ai bambini, come una coppia di altalene, un grande scivolo in legno e plastica rossa, delle giostre a molla e svariate panchine con intarsi floreali; tutto sapeva di passato, spensieratezza e protezione.
            Mettere piede lì dentro, dopo più di due anni, però, le dava i brividi. Gli ultimi ricordi che collegava al luogo, poi, facevano a pugni con quelli della sua infanzia. Il cantiere dove aveva subìto l’aggressione e si era disperatamente lasciata sopraffare dall’abietta bestialità di Hidan aveva presto sostituito la carrellata di piacevoli rimembranze fanciullesche; era lì, proprio in quel punto – o forse qualche metro più a destra? – che aveva trovato conforto fra le braccia di sua madre, il giorno in cui Hiashi l’aveva sgridata per aver fatto cadere Hanabi dall’altalena, con una spinta fin troppo vigorosa per i suoi otto anni, ed era nei pressi di quella panchina, invece, che ricordava benissimo svettare il muro in via di costruzione contro cui Hidan l’aveva premuta, ferendola e umiliandola.
            La mano di Sasuke, nella sua, era quella straordinaria vernice, bianca e inodore, capace di coprire il nero, il bitume, il tanfo della peggior notte della sua vita. Avvertendo le cinque dita del ragazzo intrecciarsi alle sue, Hinata fu in grado di sbattere le palpebre e sorridere, permettendo al proprio sguardo di perdersi nell’orizzonte del presente. D’altronde, non gliel’aveva forse già detto, il ventisette dicembre di due anni prima? Sto davvero bene, quando sono con te. Il resto sparisce, che sia passato o futuro: vedo solo il presente. Ed era vero, perché da quel momento era stata in grado di costruire il suo avvenire quotidianamente, lastricando il cammino da percorrere di mano propria, gettando solide certezze ai propri piedi. Sasuke aveva destato in lei quella fiducia in sé che prima dei diciotto anni aveva a malapena percepito. Era stato lui, dopo la maturità, ad accompagnarla all’ateneo e a mostrarle fra quante alternative potesse scegliere; lui ad abbracciarla con entusiasmo quando la decisione era caduta su Lettere; lui a sostenerla di fronte allo scetticismo del padre, che avrebbe preferito vederla percorrere un cammino più concreto, per il proprio domani, magari seguendo ancora una volta le tracce di Neji, a quei tempi pronto ad iniziare Giurisprudenza.
            Doveva tanto a quel ragazzo, ma comprese che, più di ogni altra cosa, doveva la propria felicità soprattutto a se stessa, alla sua propensione a viverla, finalmente, e non solamente sognarla.
            Ed il parco, già illuminato da qualche lampione, quella sera, era una conferma in più di quanto fosse ormai cresciuta; nessun tormento, nel suo cuore, nemmeno quando lo sguardo si posò sull’enorme fontana che faceva da crocevia ai diversi selciati. Era totalmente diversa dalla vasca in cui si era gettata: la struttura circolare era di candido marmo e dalle acque limpide e illuminate sorgevano le pregevoli statue di quelle che avevano tutta l’aria di essere Creniadi, ninfe delle fonti.
           Gli zampilli creavano spettacolari giochi d'acqua, sotto la luce tenue dei pochi lumi accesi per quell’occasione tanto esclusiva e privata, e la luna illuminava quasi singolarmente ogni goccia che spezzava il velo scuro della notte.
            «È meraviglioso! Itachi ha progettato qualcosa di assolutamente inimmaginabile. Qui, fino a poco tempo fa, era tutto…».
            «Ha tentato di restituire all’area un aspetto il più simile possibile a quello originario. Senza la causa portata avanti da tuo padre, niente di tutto ciò sarebbe stato possibile», le sorrise, abbracciandola.
            La ragazza rise lievemente, al contatto con la sua camicia, per poi esplodere in un silenzioso pianto. Si sentiva stupidamente felice, incapace di trattenere le emozioni o di incanalarle verso un’unica, coerente via di manifestazione; c’erano letizia, riconoscenza, ma anche tristezza, malinconia, sulle sue labbra. Se solo quella bellezza paesaggistica appena restaurata fosse potuta essere una macchina del tempo! Avrebbe volentieri riabbracciato anche sua madre e, con gli anni, evitato certi sviluppi spiacevoli della propria adolescenza. Eppure, non era forse lieta di quel finale? Di quel finale che era solo un inizio ancor più ameno?
            «È solo nostra. Questa notte è solo nostra», sussurrò Sasuke, cadendo sulle ginocchia insieme con lei, abbandonandosi alla piacevolezza della gioia.
            Si stesero supini sul prato fresco, falciato da pochi giorni, a giudicare dai fili d’erba che si attaccavano con estrema facilità alla pelle delle braccia e s’infilavano fra i capelli; Sasuke ne districò qualcuno dalla chioma della ragazza, puntando un gomito al suolo e guardandola con il mento appoggiato al palmo. Avrebbe volentieri speso così tutta la vita.
 
«Metterei radici, qui», sussurrò, rubandole un bacio.
            «Ti ricordo che domani ti aspetta un meraviglioso esame di Filosofia Antica», sorrise, accarezzandogli il volto.
            La Hyuga era diventata un po’ la voce della sua coscienza, in quegli anni, quasi quanto Itachi: gli suggeriva quale fosse la miglior cosa da fare, l’atteggiamento da tenere di fronte alle sfide della vita, ai contrasti con qualche collega universitario indisponente o critico nei suoi confronti – Sasuke non le mandava certo a dire se qualcuno gli pestava i piedi, soprattutto in facoltà –, gli consigliava le parole da scegliere per riappacificarsi con suo padre, nel momento in cui qualche banalissimo contrasto con Fugaku guastava l’armonia familiare. Senza contare che lei, così discreta e apparentemente silenziosa, in sua presenza diventava quasi logorroica, lasciandosi alle spalle ogni traccia di timidezza e balbettio.
            «Se vuoi posso interrogarti, che ne dici? Ricordo ancora qualche nozione…».
            L’Uchiha le pose un indice sulle labbra, con delicatezza. «Voglio solo sapere cosa ne pensi del “Simposio” di Platone», bisbigliò, guardandola negli occhi.
            Hinata inspirò, chiuse gli occhi e cercò di rammentare una spiegazione scolastica vagamente decente riguardo l’opera; non capiva come mai Sasuke gliel’avesse chiesto, anche perché colui che doveva fornire delucidazioni filosofiche era lui, ma decise di non badarci.
            «Ricordo qualche mito, come quello di Amore nato da Povertà ed Espediente, narrato da Socrate, o la teoria di Aristofane sugli androgini». E diversi altri nomi e argomenti della cui esattezza non era del tutto certa.
            Il ragazzo parve incuriosito dalla sua risposta, tanto che poggiò le mani ai lati del suo capo, si spostò in sua direzione e la sovrastò. Avvicinò il volto al suo, fino a che i loro nasi non si sfiorarono, e quasi non la ipnotizzò quando riprese a guardarla con intensità. «Credi nella storia delle due metà separate, che si cercano in eterno per potersi completare?», le chiese con tono serio.
            La ragazza incespicò per un minuto, scrutando a fondo le reazioni che lo scorrere del tempo dipingeva sul volto del moro: interesse, autorevolezza, impazienza… e affetto, profondo affetto, dietro ogni sfumatura di emozione.
            «Non del tutto, in verità; diciamo che ho sviluppato una visione in parte diversa. Prima di amare, siamo già un blocco compatto, un’individualità integra; sembrerebbe perfetto, se non fosse che ci accontentiamo di vivacchiare in solitudine, consapevoli dei nostri limiti e senza alcuno stimolo che ci spinga a superarli. Voler bene, invece, insegna a scindersi in due, anzi, in centinaia di frammenti, per poter aderire completamente a un’altra persona, per fondersi con l’oggetto delle nostre attenzioni e creare una nuova entità che vada oltre il concetto di “unico”, di “completezza”, di “inseparabilità”. Sono dell’idea che quando due persone si amano non rinunciano alla propria personalità, annullandosi totalmente l’un per l’altro, bensì cercano di dar prova di sé, di battersi, di affermarsi contro le avversità, di far rifulgere la propria natura, di creare un contrasto portatore di vita, di nuove declinazioni capaci di vivere perfettamente in armonia con quelle dell’innamorato. Insomma, diversamente dal mito degli androgini, io credo che partiamo dall’essere una realtà completa, sterile e a malapena autosufficiente, che aspira solo a frammentarsi, a mettersi alla prova, a oltrepassare gli ostacoli che ci dividono dalla meta, per poter conoscere l’amore». Decisamente, era un concetto troppo arduo da spiegare e lei non possedeva quella capacità espressiva che invece Sasuke sfoggiava magistralmente, quando si trattava di filosofia. Non era razionale, Hinata, ma passionale, istintiva, violentemente succube dei moti d’animo, delle parole, dei pensieri. Ragionare le usciva anche bene, ma spiegarsi si rivelava sempre essere più difficile del previsto.
            «Ciò che intendo dire è che… una volta mi sarei volentieri annullata per la persona che ritenevo di amare. Sarei diventata ciò che desiderava, se solo avessi posseduto il coraggio necessario anche solo per salutarla. Avrei davvero fatto di tutto, per…».
            «Naruto?», sorrise lui, chiudendo gli occhi.
            Hinata annuì. «Ero consapevole dei miei limiti, eppure non sarei mai stata in grado di superarli perché dall’altra parte non proveniva alcun rinforzo positivo, nessuna reazione o interesse. Ero ferma a me stessa, nella mia triste interezza, e non riuscivo a schiodarmi da quella condizione. Non era amore, né il mio né, sicuramente, il suo», comprese.
            «Così hai capito che quello che Aristofane andava cianciando era solo lo sproloquio di un ubriacone che dava fiato alla bocca, durante un banchetto, giusto per non sfigurare al fianco di Socrate-sensei», sogghignò Sasuke.
             La Hyuga proruppe in una risata. «Qualcosa del genere», affermò, una volta che rincontrò gli occhi del suo innamorato. «Ho scoperto che le metà perfette non esistono, che l’anima gemella è solo una favoletta romantica, che nessuno, per quanto in sintonia con una persona, potrà mai dirsi completa, perché il segno evidente della saldatura rimane anche nei migliori mosaici. Ed è quella la cosa meravigliosa, Sasuke: quel sottile confine che ci distingue e che ci unisce, quella specie di colla che ci permette di essere un tutto, un nulla, un combaciamento di universi paralleli o distanti, ognuno con le proprie idee, forze e debolezze. Quella che gli altri chiamano "cicatrice", "crepa", "difetto" e che cercano sempre di livellare, di eliminare, è ciò che ci rende allo stesso tempo incondizionatamente liberi e stabilmente incatenati. Amare non è annullarsi, ma rispettarsi a vicenda, imparando ad apprezzare ogni lato di sé e dell’altro». Una lunga pausa, come per rimuginare su quel mare di sciocchezze che aveva appena pronunciato, ma di cui era profondamente convinta. «Tu mi hai permesso di crescere, di superare limiti che nemmeno conoscevo, di diventare forte, di accettarmi, di credere in me stessa… mi hai sostenuta, senza mai chiedermi di cambiare, insegnandomi che sono un essere umano perfettamente uguale agli altri. C’è voluto del tempo, lo so, ma sono giunta ad una conclusione».
             Il ragazzo sbatté le palpebre. «E sarebbe?».
             «Ti amo, Sasuke. Ed ogni volta che lo dico, ne comprendo più a fondo il significato».
             La vide arrossire, nonostante le luci soffuse, e non poté evitare di baciarle una guancia. «Solo su una cosa, ti sbagli. Non sei perfettamente uguale agli altri, non per me», ammise, stendendosi di nuovo al suo fianco.
             Hinata sorrise, accettando con umiltà quell’enorme complimento. «Adesso sai perché non studio Filosofia», si schernì, riconoscendo l’astrusità del proprio ragionamento.
             «Sì, molto meglio che tu rimanga fra i tuoi poeti e scrittori, lasciatelo dire. Ti caccerebbero subito fuori, in effetti. Soprattutto se osassi contraddire il vero e proprio pensiero delle massime autorità nel campo», confermò lui. «Ma sono d’accordo con te su tutta la linea».
            Finse di prendersela per quanto le aveva appena riferito, ma finì per osservarlo con aria ammirata, come sempre. «A cosa pensi?», gli chiese quando il silenzio si era fatto troppo opprimente persino per loro.
            «A nulla».
            Lui che non rifletteva su alcunché, con quello sguardo perso nelle stelle? «Impossibile».
            Sospirò, girandosi su un fianco per ammirarla di nuovo. «A quanto tu sia diventata chiacchierona… Fai quasi paura!».
            La ragazza si morse una guancia, imbarazzata e un po' infastidita. Eppure, bastò solamente un sorriso del suo innamorato per farla sentire meglio.
            «Non è vero», si smentì, «ho un chiodo fisso, in realtà».
            Hinata scosse la testa, contrariata, immaginando quale potesse essere. Forse non riusciva ancora a dire di conoscerlo come le proprie tasche, perché parte del fascino di Sasuke stava proprio nell’inafferrabilità dei suoi pensieri e nella capacità di sorprendere con azioni inconsuete, tuttavia era estremamente facile intendere a cosa stesse alludendo, con quel braccio ben avvinghiato alla sua vita.
             «Possibile che l’equitazione sia sempre in cima ai tuoi p-».
             «Ti amo, Hinata. È questa l’unica cosa cui ora io riesca a pensare. Credo che domani sarà lo stesso, e anche dopodomani, e il giorno dopo ancora… Ti amo e voglio davvero mettere radici, qui».
             Il suo cuore perse un battito quando l’Uchiha fece lentamente correre il proprio indice dal suo fianco al torace, picchiettandolo con delicatezza nel punto corrispondente al suo muscolo cardiaco.
            «Qui», ribadì, appoggiandole la mano sul petto.
            «Lo hai già fatto», lo rassicurò.
            Lui, invece, dichiarò nuovamente che l’amava e suggellò quell’affermazione con una lunga serie di baci, per poi concedere – dopo il trionfo dell’amore platonico – una piccola vittoria anche al più materiale Aristofane: seppur non credessero alla storia delle due metà della mela, delle anime gemelle, aspiravano comunque ad essere un variegato, caleidoscopico tutt’uno, in fondo.
           Sasuke si pose sopra di lei con più sicurezza, stringendo le ginocchia contro i suoi fianchi. Hinata sospirò ed annuì con serenità, intrecciando le mani dietro il suo collo e obbligandolo a baciarla.
          Le abbassò le spalline del vestito di leggero cotone blu e la delicatezza con cui compì quell’atto provocò un brivido di solletico alla giovane.
          La svestì con calma, quasi chiedendole il permesso, nonostante ormai entrambi avessero già conosciuto i rispettivi corpi; la verità era che provava rispetto per lei e temeva di poterla in qualche modo ferire. La loro prima volta era stata dolorosa per la ragazza e per quanto Sasuke fosse stato al corrente della normale sofferenza che le donne patiscono, per qualche minuto, durante il rapporto, quel fatto l’aveva sconvolto. Aveva carpito anche il fiore di Sakura, quando la fanciulla aveva compiuto sedici anni, ma ciò che provava per Hinata era amore. Vedere il suo volto assumere espressioni sofferenti e sentirla trattenere degli spasimi – quando lui, invece, avvertiva tutt’altre sensazioni – lo aveva turbato. Per questo, benché avesse già rapito la sua innocenza un anno prima, nella sua stanza dalle pareti blu, e avesse fatto l’amore con lei altre volte, non risparmiò delicatezza, attenzioni e preoccupazioni nemmeno su quel prato.
          Quando la Hyuga, però, gli sorrise di rimando e cominciò a sbottonargli la camicia, il ragazzo inspirò profondamente e nascose il proprio volto nell’incavo del suo collo. Aveva il suo permesso – e tutto il suo cuore.
          Più le dita scoprivano porzioni di pelle sensibile, più le sue labbra si premuravano di nasconderle all’occhio indiscreto degli astri, con languidi baci.
          Mani che cercavano altre mani, dita desiderose di tessuti non tessili, epidermidi esposte al chiaro di luna, in un crescendo di gemiti e battiti.
          Si ritrovarono nudi, senza alcun imbarazzo, avvinghiati in una morsa passionale e antica quanto il mondo.
          «Ti amo, Sasuke», sussurrò al suo orecchio, stringendo più forte le sue spalle, quando il ragazzo entrò in lei.
          I loro corpi si unirono, quella notte, sotto il cielo stellato, in totale armonia. Non era la prima volta e di certo non sarebbe stata nemmeno l’ultima.
          Le mani accarezzarono muscoli e capelli; le bocche assaporarono l’essenza di parole cariche d’amore, di vita, più che di filosofia; i petti impararono ancora una volta ad accordarsi allo stesso ritmo, sempre più sostenuto.

Vestiti solo di sudore, passione e qualche filo d’erba, ripresero fiato per diversi minuti, osservando i corpi celesti.
          «Questa notte è solo nostra», mormorò ancora Sasuke, accogliendo il capo della ragazza sul proprio torace. Le accarezzò la chioma, liberandole la fronte dai ciuffi incollati alla pelle, e le baciò la sommità del capo. «Nella stessa misura in cui ti appartengo, tu sei mia».
           Quelle parole, ascoltate con un orecchio perfettamente sovrapposto al suo cuore, riecheggiarono diverse volte nella mente di Hinata. Averle udite con una guancia appoggiata alla cassa toracica del suo ragazzo, poi, gliele impresse quasi sotto la pelle; le sentiva vibrare nel sangue, pungerle la lingua e inondarle gli occhi.
           «Voglio essere solo tua», giurò a se stessa e alla persona che più amava al mondo, mentre lui la strinse con tutte le proprie forze a sé.
            L’Uchiha avrebbe volentieri smarrito il senno piuttosto che rischiare ancora di perderla.
 
La luna si era già rintanata dietro la folta chioma di una quercia ma, di nuovo, dopo la laurea di Itachi, era stata testimone del loro amore.
           Stavolta, però, anche se lei avesse parlato, loro non avrebbero cercato di negare il suo racconto o di nascondersi dagli sguardi altrui, nei giorni seguenti. Non c’era nulla da occultare, nessuna vergogna o grave crimine da cui difendersi, se avevano deciso di assecondare il cuore. Non v’era alcunché di sbagliato nell’amare e loro avrebbero continuato a consacrare i propri corpi, labbra e pensieri alla forza che li univa – e separava.
 
Quando si rialzarono, rivestiti, e chiusero il lucchetto del cancello, Sasuke era ben consapevole che aveva i minuti contati: Hiashi lo avrebbe davvero infilzato con una di quelle katana che ornavano il camino di casa Hyuga.
            Avevano sicuramente sforato il coprifuoco, ma scrollò le spalle, stringendo la mano di Hinata; in fondo, era morto infinite volte, prima di incontrarla, e solo con quel numero di decessi alle spalle poteva affermare con assoluta certezza che mai, prima di allora, lui era stato vivo.

 
 
 
Ragazzi, non credevo che questo momento sarebbe giunto! Voglio dire, ogni volta che aprivo il pc, correvo immediatamente al documento di “Non andare dove ti porta il cuore” per aggiornarlo – a volte per cancellare qualche scempiaggine, altre per aggiungere un mare di parole. Davvero, mi sento… strana! Di solito non mi mancano aggettivi per descrivere sensazioni – credo che ormai lo abbiate notato pure voi, quanto sono prolissa! –, eppure oggi è incredibilmente difficile parlare di ciò che mi esplode dentro; gioia, tristezza, malinconia, appagamento…
Se c’è un sentimento che prevale, però, quello è la gratitudine! Vi voglio dedicare centinaia di ringraziamenti per essere arrivati fino a qui, per avermi sostenuta in questi mesi, per aver pazientato tanto a lungo, attendendo fiduciosi i miei aggiornamenti (spesso lenti!). Grazie perché siete stati un carburante senza precedenti, per me! Grazie a chi è stato al mio fianco dall’inizio, a chi si è fatto vivo a cammino inoltrato, a chi arriverà più tardi: siamo giunti alla meta! :D 

I numeri delle recensioni, dei preferiti/ricordati/seguiti sono stati davvero inimmaginabili, per me, dal momento che questa coppia è un crack pairing e che tutto è nato un po’ per caso, una sera di settembre dell’anno scorso. Se penso anche alle segnalazioni per le scelte... svengo. *-* Non credevo davvero di poter essere tanto fortunata – e ancora non me ne capacito, oggi! Siete stati esageratamente adorabili! ❤
Spero che questa storia sia riuscita ad emozionarvi almeno la metà di quanto l’abbia fatto con me – e voi con le vostre parole! –, che vi abbia fatto compagnia. Per questo, mi piacerebbe che ora che è tutto finito siano ancora una volta – l’ultima, e poi non vi tedierò oltre – le vostre riflessioni a fare compagnia a me, per qualche minuto, se vi va. Non so pregare, ma mi farebbe infinito piacere potervi sentire; dopotutto, questa è l’ultima occasione ç_ç
Se scriverò altre SasuHina? Mi piacerebbe e non escludo di tornare su una ship che personalmente adoro, ma non accadrà subito: prima intendo concludere altre storie che ho già intrapreso. Se vi va, possiamo incontrarci ancora lì – o altrove!
Un caloroso abbraccio! E che questo lieto fine sia un inizio ancor più ameno per tutti noi! 

 
La vostra Ophelia

PS. Eh sì, Itachi ha cambiato genere: non più ragazze dai capelli blu XD Inoltre, in questo capitolo, ho fatto riferimento al "Simposio" di Platone: per chi fosse interessato a rileggerne la trama – in modo molto veloce – lascio qui il link (preso spudoratamente dalla cara/diffidata Wikipedia). Sì, ammetto di ritrovarmi molto in ciò che dice Hinata: non credo nell’anima gemella (sai che noia!). 
Oh, la Hyuga e l'Uchiha sono diventati una coppia ufficiale, ormai! *-* 
Ah, vi aspettavate che i nostri protagonisti avrebbero scelto queste strade? Neji ha calcato le orme dello zio, Hinata ha intrapreso lo studio di ciò che più le piaceva (ricordate la sua passione per i temi e la letteratura, al capitolo 2?) e Sasuke ha optato per Filosofia (quel Nietzsche del capitolo 9 l’ha proprio stregato!). 


 

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