03.
Butterfly
-
Facci vedere, facci vedere!!
- Ta-daaaaaan!!! -
urlò la ragazza, intorno a
lei accalcati i suoi amici.
Con un
gesto fluido rovesciò tutto il pesante contenuto del suo
sacco sul pavimento e
gli altri ragazzi si strinsero ancora di più intorno a lei.
La
ragazza emise un leggero risolino prima di sedersi su un blocco di
cemento lì
abbandonato.
Il suo
nome era Chou, Chou Nizi, e quella era la sua banda.
Tomo,
Rika e Glen.
Tutti
e quattro ormai vivevano a Balamb City da diversi anni, fin da quando
erano
stati adottati.
Sì,
perché, erano tutti orfani e, nonostante fossero stati presi
da famiglie
diverse, nulla era ancora riuscito a separarli.
Chou
li adorava, erano i suoi piccoli guerrieri, anche se dopotutto non era
molto
più grande di loro.
Tomo
era il più piccolo e aveva dieci anni. I suoi nuovi genitori
si chiamavano
Hatarizakari e, come poi tutti gli altri, avevano molto apprezzato il
fatto che
il loro bambino potesse in qualche modo mantenere quel vecchio legame.
Tomo
sembrava ancora più piccolo di quello che era, i capelli
castano chiaro
spiaccicati sulla testa e gli occhi dello stesso colore della corteccia
degli
alberi fissavano Chou con tutti la meravigliata sorpresa che
è propria di un
bambino di dieci anni.
Rika
aveva dodici anni ed era figlia dei proprietari dell’albergo
della città; era
grazie a lei se tutti e quattro potevano riunirsi sul tetto
dell’edificio,
adibito a magazzino. Come Tomo, era minuta, i capelli biondi le si
arruffavano
intorno alla faccia sporca ma lei sorrideva perché, se
c’era una cosa che Chou
aveva imparato da lei era il sorriso.
Glen
aveva i capelli e gli occhi neri e la pelle color cioccolata. Aveva
quindici
anni ed era quasi impossibile farlo stare fermo, impedirgli di correre
da tutte
le parti come un criceto sulla ruota. Come gli altri tre si stringeva
curiosissimo intorno al contenuto del sacco.
E poi
c’era Chou. La ragazza era più grande di Glen di
soli due anni, ma le sembrava
molto di più. Lei era stata la prima di loro quattro a
venire adottata ed era
successo ben cinque anni prima. Il padre di chiamava Kato e la madre,
che era
morta solo due anni dopo la sua adozione, si chiamava Ayumu.
Kato
era uno dei più famosi armaioli di Galbadia e il suo lavoro,
apprezzassimo, era
stato espressamente richiesto per i guerrieri SeeD. Era stato
così che si erano
trasferiti a Balamb, cinque anni prima, dove uno dopo l’altro
aveva incontrato
o ritrovato, come nel caso di Glen, bambini che avevano vissuto nel suo
stesso
orfanotrofio.
Quel
soleggiato giorno di inizio maggio Chou aveva mantenuto una promessa
fatta ai
ragazzi qualche tempo prima. Di nascosto, mentre suo padre si trovava
nel
negozio a lavorare, aveva preso alcune delle sue armi preferite e,
ficcate
velocemente in un sacco, le aveva portate ai suoi bambini, per farli
divertire.
Ora
Chou restava lì ferma, su quel freddo blocco di cemento, a
osservarli. Era così
bello vedere le loro facce felici e curiose mentre guardavano delle
armi da
guerra.
Per
loro è diverso, si
trovò a pensare. Io ero già troppo
grande
per venire adottata, ma Kato mi ha voluto comunque con sé.
Al
pensiero del patrigno, le labbra le si incurvarono in un sorriso appena
accennato. Chissà come l’avrebbe sgridata quando
avrebbe scoperto che aveva
preso delle armi dall’officina! Ma poi l’avrebbe
perdonata come sempre… dopo
averle fatto fare due ore di esercizio con la naginata e almeno
altrettante
alternando i sai al nunchaku, il surushin ai kunai e agli shuriken.
Alla
fine trovava comunque liberatoria la sensazione di spossatezza che le
appesantiva le membra e le apriva la mente.
-
Questo cos’è, Oyabun? Cos’è
questo? - domandò Rika tirando teneramente Chou per
una manica.
La
ragazza sorrise all’appellativo che le aveva dato la bambina,
“boss”, e si
chinò in avanti a prestarle attenzione mentre i liscissimi
capelli neri,
decorati con mashes azzurre e magenta le cadevano sul viso.
-
Quello si chiama Suruchin, Rika.
I tre
ragazzi si voltarono a guardarla, pendendo dalle sue labbra e
pregandola con
gli occhi di continuare.
Chou
sospirò e si alzò in piedi. Passeggiò
per qualche istante su e giù per il tetto
prima di prendere parola.
- Il
Suruchin è un’arma di difficile utilizzo destinata
all’arsenale dei migliori
guerrieri, nello stesso tempo è però di semplice
concezione, come potete
vedere, e mostra la capacità degli antichi maestri
d’armi di trasformare
semplici strumenti in letali armi da combattimento.
Fece
una pausa, per osservare l’espressione dei bambini, che la
guardavano rapita.
Soppresse a stento una risata e continuò, accucciandosi
accanto a loro e
indicando l’arma con le dita.
- Come vedete
la sua forma
ricorda quella di una frusta di corda alle cui estremità
sono fissati, da una
parte, un manico (generalmente in pietra) e, dall'altra, un sasso cavo
con il
quale colpire. Esistono numerosi tipi di Suruchin che si differenziano
tra loro
per la lunghezza della corda, per i materiali con i quali sono stati
costruiti
e per il tipo di utilizzo ma di certo, il tipo di Suruchin
più conosciuto è il
Kusari concepito completamente in metallo e lungo anche quattro metri,
praticamente una via di mezzo tra una frusta e una mazza ferrata.
Entrambe le
estremità di quest'arma possono essere utilizzate per
colpire; la catena,
opportunamente avvolta attorno al braccio può parare
agevolmente i fendenti di
qualsiasi tipo di lama, oppure, può essere utilizzata per
disarmare, soffocare
imprigionare e atterrare l'avversario.
- Chou
sa usare tutte queste armi, vero? - domandò Tomo, guardando
la ragazza con
crescente ammirazione.
Chou
annuì serena, avvicinandosi per rimirare meglio tutte quelle
armi. - Ora sarà
meglio che riporti tutti a casa, che ne dite?
I
bambini annuirono docilmente e si mossero per raccogliere tutte le loro
cose.
-
Oyabun…? - chiamò Rika mentre tutti e quattro
scendevano le scale di servizio
dell’albergo.
- Cosa
c’è?
-
Anche noi possiamo imparare a usare tutte quelle armi?
Chou
storse la bocca in una smorfia, pensando a quelle piccole adorabili
pesti con
un’arma letale tra le mani.
-
Tutti possono imparare… - rispose con cautela - ma prima
dovreste chiedere il
permesso ai vostri genitori.
- Potresti
insegnarci tu! - ribatté Rika con una luce furbetta nello
sguardo.
- No!
- esclamò Chou. - Non sarei certo io a insegnarvi,
soprattutto se i vostri
genitori non vogliono. Non è certo un gioco, sapete?
Il
faccino di Rika si fece triste triste, tanto che per un istante Chou si
sentì
profondamente in colpa.
Impiegò
un secondo per riprendersi, conosceva i suoi polli.
- E’
pericoloso, Rika. - le spiegò. - E io non sono ancora
abbastanza brava da poter
insegnare a qualcun altro.
La
bambina si arrese e annuì, nonostante non capisse quel
discorso, sapeva che se
Chou diceva una cosa, quella doveva essere necessariamente vera.
La
ragazza sorrise affettuosa, dandole un buffetto sulle guance rosa prima
di
salutarla e allontanarsi con gli altri due.
- Io sarei in
grado di imparare - disse Glen
mentre attraversavano la Piazza Grande.
- Non ho
intenzione di trattare, Glen - ribatté
Chou guardandolo duramente. - Credo tu sia abbastanza grande per capire
da solo
le cose.
-
Sì, Chou… - rispose il ragazzino abbassando la
testa.
La ragazza
scosse la testa sorridendo, quanto
voleva bene a quei bambini. Accompagnò entrambi a casa e poi
si diresse verso
la propria, cominciando a sentire sulla schiena il peso delle armi che
si era
portata dietro.
Aprì
la porta dell’officina spingendola con un
piede, entrando senza far rumore. Sembrava deserta e osò
rilassarsi per un
secondo, forse Kato non si era accorto di nulla.
Chou
posò il sacco a terra, vicino all’armadio
delle loro armi. Con cautela, facendo più silenzio
possibile, cominciò a
riporle tutte una dopo l’altra.
Aveva un
nunchaku tra le mani quando sentì un
urlo di battaglia provenire da dietro le sue spalle. Si
voltò di scatto, appena
in tempo per parare un affondo con una naginata.
- Kato! -
esclamò la ragazza boccheggiando, sibilando
tra i denti un’imprecazione.
- Colta in
fragrante, furbetta! - ribatté l’uomo
facendo un passo indietro, scoppiando a ridere.
-
Kato… - ripeté la ragazza lasciando cadere a
terra il nunchaku e afferrando il suruchin in tutta fretta. Fece a sua
volta un
balzo indietro e cominciò a far roteare la catena. -
Ma…ogni volta?
-
Finché non impari, tesoro - rispose l’uomo
rotenando la naginata sopra la testa e preparandosi ad attaccare di
nuovo. In
quel momento però Chou lanciò
l’estremità della catena, che andò ad
avvolgersi
intorno all’asta della lancia, e tirò prima che
Kato potesse accorgersi di quel
che era successo.
- Disarmato! -
esclamarono poi insieme,
scoppiando a ridere.
- Basta! Non
ne posso più di questi benvenuti
violenti! - si lamentò Chou, un po’ seria e un
po’ scherzando. - Noi le armi le
costruiamo, non le dobbiamo mica usare!
- Come puoi
pensare di costruire una buona arma,
se non sai come si adopera? - le domandò Kato pacatamente. -
Lo sai? Ogni volta
che costruisco un’arma, o ne modifico una, penso sempre che
sia per me. Che una
volta finita sarò io ad usarla. E’ così
che quello che faccio diventa passione,
e non solo lavoro. Sapendo che non sarei comunque in grado di usarla,
credi che
ci metterei la stessa cura?
Chou lo
guardò in silenzio. Non sapendo bene come
rispondere, era la prima volta che Kato le parlava in questo modo del
suo
lavoro.
- Te lo dico
io - fece allora, vedendo che la
ragazza non rispondeva. - No. Anche con la più buona
volontà, inconsciamente,
ci metterai meno impegno.
- Ho
capito… - annuì allora Chou, abbassando il
capo.
- Brava la mia
bambina! - sorpassandola, l’uomo
le scompigliò i capelli con la sua mano enorme.
Il campanello
del negoziò suono, e l’armaiolo si
diresse velocemente verso la bottega.
- Kato! - lo
chiamò Chou e un secondo più tardi
gli lanciò contro tre piccoli e taglienti shuriken.
L’uomo
li schivo tutti e tre con un fluente
movimento del busto.
- Pensi basti
questo per cogliermi di sorpresa?
Ahah - fece l’uomo, entrando nella bottega. Chou lo
sentì parlare dall’altra
stanza. - Buon giorni signori, come posso esservi utile?
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