The Truth Beneath The Rose di _Princess_ (/viewuser.php?uid=38472)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sex ***
Capitolo 2: *** Hot Stuff ***
Capitolo 3: *** Wilkommen Im Tokio Hotel ***
Capitolo 4: *** See Who I Am ***
Capitolo 5: *** Just A Mere Mirror ***
Capitolo 6: *** His Girls ***
Capitolo 7: *** Beyond The Door ***
Capitolo 8: *** One Step Closer ***
Capitolo 9: *** Deep, Silent, Complete ***
Capitolo 10: *** You And I, And Some Public Intimacy ***
Capitolo 11: *** A Couple Of Unconventional Exchanges ***
Capitolo 12: *** As We Lie Here ***
Capitolo 13: *** Unsecret Secret ***
Capitolo 14: *** Crashing & Burning ***
Capitolo 15: *** Feel For You ***
Capitolo 16: *** By Your Side ***
Capitolo 17: *** Shoot Me Again ***
Capitolo 18: *** This Moment Is Eternity ***
Capitolo 19: *** A Night Like This ***
Capitolo 20: *** Home Is Where The Heart Is ***
Capitolo 21: *** Trust ***
Capitolo 22: *** Such A Beautiful Lie ***
Capitolo 23: *** What Lies Beneath ***
Capitolo 24: *** Please, Let Me Get What I Want This Time ***
Capitolo 25: *** Epilogue ***
Capitolo 1 *** Sex ***
Nota dell'Autrice: questa storia è frutto della
mia
fervida immaginazione e non ha alcuna pretesa di rispecchiare la
realtà,
quanto piuttosto di rivisitare persone ed eventi reali senza alcuno
scopo di
lucro. La storia ha un rating arancione per via di un ricorrente uso di
parole non
esattamente eleganti e futura trattazione di temi di un certo tipo.
È il
seguito ufficiale dell’ormai conclusa Lullaby For Emily,
anche se all’inizio
può non sembrarlo, ma avrete modo con lo svilupparsi della
storia di capire
meglio. Può essere tranquillamente letta per conto proprio, anche se non avete seguito Lullaby, perché anche se riprende da dove avevamo lasciato, è una storia tutta nuova (non so se mi sono spiegata ^^). Per ora vi auguro buona lettura. ;)
A proposito, per tutti coloro che volessero avere un'idea di come la sottoscritta ha concepito l'immagine della protagonista, ve la presento: ecco a voi Vibeke. Per gli altri che vorranno immaginarla personalmente, meglio ancora. ;)
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I wish I could sit
here all alone
Thinking this is okay
Don't need anybody
tonight
Just complete silence and the candle light
And I'd drink my coffee, wouldn't worry at all
I would feel fine, like I always do
I would be smiling, laughing too
Don't need anybody, least of all you
And then I would convince myself it's true
(It’s True,
Lene Marlin)
***
“Vaffanculo!”
strepitò, tirando calci furiosi all’auto con
la punta dei pesanti anfibi. “Vaffanculo, vaffanculo,
vaffanculo!”
Le era successo altre volte che la
sua vecchia Golf la
piantasse in asso a decine di chilometri da casa, ma era la prima volta
che le
capitava sotto una pioggia così maledettamente insistente.
Non era ancora un
acquazzone, ma nemmeno pioggerellina, e per di più era
l’una del mattino inoltrata,
in una strada scarsamente frequentata, dove in ogni caso non
bazzicavano altro
che vip e ricconi snob.
Avrebbe maledetto a vita
quell’idiota di suo fratello Bjørn
– BJ, per lei – per averla invitata (costretta) a
quella disgustosa festa tutta
modelle e sbruffoni palestrati. Si sentiva ancora il rumore pulsante
della
musica provenire da diversi piani sopra la sua testa – e da
appartamenti
diversi – e, vista la mole di alcolici che aveva ingerito per
aiutarsi a
sopportare almeno un paio d’ore di quella noia indecente, la
sua testa
percepiva il tutto amplificato di diverse migliaia di volte.
Oltretutto stava congelando.
Il vestito di pizzo e cotone le
aderiva zuppo al corpo e
stava cominciando ad entrarle l’acqua nelle scarpe, pur
nonostante la suola e i tacchi fossero decisamente
alti. Era gennaio, e anche se la temperatura era non era
particolarmente bassa
e a lei il freddo comunque piaceva, mezza ubriaca com’era,
aveva solo voglia di
arrivare a casa, buttarsi sotto alla doccia e magari rimettere qualcuna
delle
schifezze che si era obbligata a mangiare per reggere tutti quei
Martini, a loro volta scolati per reggere i simpaticissimi presenti.
Forse, in fin dei conti, era un bene
che la Golf fosse in
panne, non era il caso che si mettesse al volante in quello stato.
Avrebbe
potuto chiedere un passaggio a BJ, ma ciò avrebbe
significato ritornare in
quella gabbia di matti ed aspettare fino all’alba prima che
lui si decidesse a
scollarsi dal party.
Era fuori discussione.
Non voleva certo sottoporsi ad un
incubo simile, anche al
costo di farsi venti chilometri a piedi.
Certo, l’indomani mattina
avrebbe avuto un importante
colloquio di lavoro (anche se prettamente simbolico, visto che era
praticamente
già stata assunta) e presentarsi in stato comatoso ai suoi
futuri principali
sarebbe stato azzardato, ma non aveva alternativa: o si metteva
d’impegno per
essere a casa a piedi in un paio d’ore (salvo imprevisti),
oppure aspettava che
Sua Graziosissima Maestà Bjørn Jesper Wolner si
degnasse di ricordarsi di avere
una sciagurata sorella allergica alle volgari festicciole da vip. Avere
per fratello
uno dei più famosi DJ di Amburgo poteva essere terribilmente
oneroso, certe
volte, e lo era particolarmente quando interferiva con la vita di
Vibeke, nello
specifico, quando le impediva di farsi una dormita decente in vista di
un
evento importante come quello che la attendeva.
Ok, non mi
sono
esattamente fatta un mazzo così per ottenere quel posto,
rifletté, interrompendo
per un attimo le percosse al paraurti, ed
ero in debito con BJ per avermi gentilmente raccomandata e
così tolta
dall’abisso nero della disoccupazione, ma trascinarmi in
quella sottospecie di
orgia della techno music è stato veramente crudele.
Era esausta.
Si controllò nel riflesso
del finestrino: il suo viso latteo
era rigato da rivoli di kajal sciolto e gli occhi erano rossi e gonfi,
per non
parlare dei capelli, che si appiccicavano alle guance e alla fronte,
fradici
d’acqua.
Uno starnuto la costrinse a
distogliere lo sguardo,
facendola piegare su se stessa, le tempie pulsanti e doloranti. Le
veniva anche
un po’ da vomitare.
Non mi posso
ammalare.
Assolutamente vietato. È solo la bevuta,
nient’altro. Deve per forza essere
solo la bevuta.
Una coppia starnazzante
uscì dal palazzo a passo decisamente
brillo, ondeggiando di qua e di là mentre scendevano i pochi
gradini tra un
bacio e l’altro, toccandosi ovunque.
Li guardò con disgusto, e
loro ricambiarono senza problemi,
facendo commenti a voce alta sul suo trucco sciolto e le sue calze
smagliate
(peraltro volutamente).
Lei li mandò a quel paese
e sferrò l’ennesimo calcio alla
macchina, incavolata nera.
Vibeke V. Wolner, nata nella ridente
cittadina di Stavanger,
Norvegia, ed attualmente residente ad Amburgo con il proprio fratello
gemello,
non era una ragazza comune, per tre semplici motivi fondamentali:
primo, la
genetica le aveva giocato uno strano scherzo, facendola nascere con un
paio di
peculiarità anatomiche, tra cui un cuore che le batteva a
destra anziché a
sinistra e gli occhi di due colori diversi, uno grigio e uno verde;
secondo, il
suo look era caratterizzato da uno stile gotico decisamente estremo, un
look
che prevedeva un nero quasi totale e quintali di borchie ed argento che
ai
benpensanti andavano facilmente di traverso. Il terzo ed ultimo motivo
era, incredibile
ma vero, il più fastidioso per la gente: mancava quasi
totalmente di fiducia
verso il prossimo, e di conseguenza il suo atteggiamento era quasi
sempre
freddo e scontroso, cosa che dava sui nervi a chiunque al di fuori di
BJ, che
la sopportava da sempre ed era quindi ormai assuefatto al suo cinismo,
e di Rogue,
un approssimativo modello di gatto, bianco, grasso e tozzo, che
possedeva le due
sole, elementari funzioni di dormire e richiedere cibo, ma che lei
amava al di
sopra di chiunque altro.
Aveva tantissimi conoscenti, molti
dei quali la trovavano
una ragazza sveglia e ironica, anche se decisamente originale, ma
pochissimi
amici: uno di questi, il suo migliore amico di sempre, era il gemello
BJ,
con cui condivideva praticamente tutto, compresi la bicromia degli
occhi e i
folti capelli biondi, che erano il vanto di lui e la vergogna di lei.
Erano
ormai quasi undici anni, infatti, che Vibeke aveva tinto la propria
chioma di
nero, aggiungendovi poco dopo qualche irriverente striatura bianca.
Tutto poteva dirsi di lei, tranne che
fosse ansiosa di
integrarsi alla massa.
Sospirò, rinunciando
definitivamente al massacro dell’auto.
A questo punto non aveva scelta: doveva tornare a casa a piedi.
Raccolse la propria borsa da terra e
se la buttò su una
spalla, in un tintinnio sommesso di cinghie di metallo, poi
cercò di fare mente
locale sulla direzione da cui era arrivata. Si guardò
intorno: una fila di
alberi e lampioni dalla luce giallastra da una parte, fila di alberi e
lampioni
dalla luce giallastra dall’altra, macchine di lusso
parcheggiate su entrambi i
lati.
Grandioso.
Si portò una mano alla
fronte, la testa che le stava per
scoppiare.
BJ,
questa me la
paghi!
Riuscì a muovere appena un
paio di passi, senza neppure
curarsi di dove stesse andando, ma dopo pochi metri si dovette fermare
ed
appoggiare ad una delle auto parcheggiate lungo il marciapiede, in
preda alle
vertigini. La sbornia stava facendosi seria.
Altroché
se me la
paghi, fratellino.
“Hey, tu, giù le
mani dalla mia macchina!” esclamò la voce
alterata di un ragazzo.
Vibeke si voltò e vide una
figura alta ed imponente
dirigersi verso di lei, stagliandosi scura contro la luce del lampione
che
aveva alle spalle.
Man mano che lui si avvicinava,
diventava sempre più chiaro
che anche lui doveva aver bevuto parecchio, perché la sua
andatura era lenta ed
instabile. Fu solo quando lui entrò nel cono di luce del
lampione successivo
che lei capì che non era l’energumeno che era
sembrato all’inizio: era
sicuramente alto, ma la stazza era un inganno dei vestiti e della
notevole
massa di capelli.
“Non te la rovino
mica,” blaterò Vibeke, la mente un po’
annebbiata. “Mi ci sono solo appoggiata un attimo.”
Lui le venne di fronte, permettendole
così di poter
approssimativamente mettere a fuoco il suo viso.
Era bello –
sorprendentemente bello, in effetti – con dei
lineamenti dolci e morbidi, quasi femminili, e due occhi nocciola che
toglievano
il respiro. A coronare il tutto, un atteggiamento spavaldo e sicuro di
sé che
denotava un autocompiacimento traboccante, anche se forse – forse – giustificato.
Vibeke decise subito che non le
piaceva. Per niente.
“Le macchine come questa si
rovinano solo a guardarle,”
berciò lui, piantandosi davanti a lei arcigno.
“Quindi levati dai piedi, devo
salire.”
Il suo alito sapeva di alcol, segno
definitivo che aveva
bevuto, e anche parecchio.
“La mamma non te
l’ha detto che non si guida in stato di
ebbrezza?” gli fece. “Fai male a te stesso e agli
altri.”
Lui tentò di scansarla e
spingerla da parte, ma lei si
artigliò alla maniglia della portiera.
“Senti carina, sono quasi
le due, domani ho una levataccia all’alba
e una giornata infernale, quindi, scusami,
ma ti devi proprio togliere dai coglioni.”
Era anche più arrogante di
quel che si fosse immaginata.
Cosa credeva, di avere una vita solo lui?
“Allora?”
insisté lo sbruffone, in tono impaziente, ma lei
non si spostò di una virgola, nemmeno quando lui la prese
praticamente in
braccio per spostarla.
“Sei una ragazzina
dannatamente cocciuta!” ringhiò il
ragazzo, mentre lei non ne voleva sapere di mollare la maniglia. La
stava
stringendo così forte che quasi non la faceva respirare.
L’aveva chiamata
‘ragazzina’. Lui, che doveva avere ad
occhio e croce non più di diciotto anni, dava a lei,
ventitre anni da compiere
a breve, della ‘ragazzina’.
Normalmente Vibeke non si sarebbe
nemmeno data la pena di rivolgergli
la parola, ma i vari Martini avevano inibito la sua solita insofferenza
verso
le persone, sguinzagliando così la sua meno esibita indole
provocativa.
“Non ti lascio andare a
seminare dolore e morte per le
strade,” farfugliò lei, con una parte del suo
cervello, rimasta miracolosamente
sobria, che le dava dell’emerita cretina. “Io sono
brava e responsabile e non
guido, quindi te ne resti a piedi pure tu!”
Il ragazzo, che ancora la teneva
stretta tra le proprie
braccia, esili ma incredibilmente forti, strattonandola, assunse
un’espressione
feroce e contrariata.
“Va bene, non
guido,” sibilò a denti stretti. “Ma tu
molla
la mia portiera.”
Bastò mezzo secondo di
esitazione da parte di Vibeke perché
lui ne approfittasse per scardinarla dalla sua posizione e spingerla di
lato,
affrettandosi ad aprire l’auto e tentare di fiondarcisi
dentro. Ma lei, con un
rapido scatto, riuscì a recuperarlo prima che lui potesse
chiudersi dentro,
finendogli distesa addosso dentro l’abitacolo.
Il ragazzo lottò, e lei
anche, accapigliandosi come due
gatti arrabbiati.
“Ma che cazzo vuoi da me,
strega?” grugnì lui, quando riuscì
a rialzarsi un po’, bloccandole i polsi a pochi centimetri
dal proprio viso.
Vibeke rise isterica, ritrovatasi a
cavalcioni su di lui in
una posa più che compromettente.
“Prima volevo impedirti di
uccidere qualcuno. Adesso voglio
solo darti fastidio, perché mi stai antipatico.”
Erano entrambi fradici di pioggia e
completamente sbronzi,
semi sdraiati l’uno sull’altra dentro una macchina.
Lui doveva addirittura
sentirsi particolarmente scomodo, dato che la sua schiena poggiava su
due
diversi sedili, ma la sua espressione mutò rapidamente
mentre lei si sentiva
trascinare giù, verso di lui.
Provava un’avversione
istintiva verso questo presunto figlio
di papà con una macchina da milionari e
l’atteggiamento da padrone del mondo,
ma i suoi occhi erano così magnetici da impedirle di dar
retta all’impulso di
opporsi, e infatti, con un ultimo strattone decisivo, lui se la
accostò al viso
e la baciò.
“Che cazzo stai
facendo?” mormorò lei, assecondandolo senza
una volontà precisa.
Lo sentì sorridere, le
labbra ancora impegnate con le sue.
“Se non vuoi che me ne vada
a casa, almeno degnati di
offrimi un intrattenimento alternativo.”
La sua voce si era fatta roca,
sensuale. Non sembrava più
quella di un ragazzino, ma di un uomo, un uomo molto sicuro di
sé.
E che bacia
da dio…
La parte sobria del cervello di
Vibeke, intanto, si stava
rimpicciolendo sempre di più, obliata dagli effetti che la
lingua del ragazzo
stava avendo su di lei.
“Cos’è
quest’odore acre?” le domandò lui ad un
tratto,
vagamente più lucido.
Lei non capì subito di
cosa stesse parlando, ma poi avvertì
anche lei quell’odore pungente e lo connesse subito
all’inchiostro.
Aveva rimosso di avere la sua
preziosa stilografica nel
taschino della giacca che aveva addosso.
“Cazzo!”
imprecò, notando che l’inchiostro era fuoriuscito
ed aveva macchiato sia lei che lui su tutto il petto.
Merda, ho
rovinato la
sua felpa da migliaia di euro!
Chissà quando e se sarebbe
andato via. E, soprattutto,
chissà se gliel’avrebbe fatta pagare.
“Perché cazzo te
ne vai in giro con una stilografica in
tasca?” le chiese il ragazzo, ma senza troppo interesse,
sfilandosi rapidamente
felpa e maglietta in un colpo solo. Nel buio, Vibeke vide che la sua
pelle
chiara era chiazzata di inchiostro blu, così come il proprio
decolleté, ma a
lui non sembrava importare. Doveva essere talmente bevuto da essersene
a stento
accorto.
“È una lunga
storia,” rispose, le labbra gonfie e bollenti.
“Vedi, è che questa penna per me rappresenta una
parte fondamentale della mia
vita, anche se –”
“Chiudi il
becco.” Le intimò lui, catturando nuovamente le
sue labbra.
Riprese a baciarla, con
più foga, levandole la giacca quasi
bruscamente.
Per Vibeke fu impossibile non
avvertire una certa e ben nota
pressione tra le proprie gambe, e non poteva negare che la cosa la
stimolasse
non poco.
Non era una che soffriva di
solitudine – anzi, cercava
spesso e volentieri l’isolamento totale – e di
ragazzi fissi non ne aveva mai
avuti, quindi l’idea di un’avventura di una notte
non le dava particolari
pensieri, purché adeguatamente gestita. Era squallido
votarsi al sesso
occasionale, ma non era quello il suo caso. Era più corretto
dire che le
piaceva approfittare delle buone occasioni, quando si presentavano, e
quella sembrava
un’ottima occasione. Non
sapeva chi
fosse, né come si chiamasse, ma era meglio così.
Ma
sì, perché no?,
si disse, abbandonata quasi totalmente dalla ragione, sfiorando con la
lingua
il metallo del piercing del ragazzo, le cui mani avevano cominciato a
trafficare con i lacci del suo corsetto, disfacendoli con
un’abilità che
nemmeno lei stessa possedeva, dopo anni che aveva a che fare con quella
roba. E
mentre il suo corsetto finiva gettato chissà dove per
lasciare via libera ad un
paio di grandi mani esperte, Vibeke non poté fare a meno di
pensare che forse
la serata non era stata un disastro proprio completo.
Tanto chi lo
rivedrà
mai più?
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Note:
Eccoci qui, in seguito a svariate minacce, ricatti e coercizioni vari, mi trovo costretta a postare prima del tempo questa nuova storia, con la speranza che sarà accolta con lo stesso entusiasmo della precedente. ^^ Come
avrete visto, questo capitolo è relativamente breve.
Trattandosi di un’introduzione
alla storia, ho preferito che fosse così, ma i prossimi
saranno più lunghi. Come
avevo già annunciato alla fine di Lullaby, il titolo di
questa nuova storia è
tratto da una canzone dei Within Temptation (ascoltateli, non
smetterò mai di
consigliarveli, ne vale assolutamente la pena) e ha un significato ben
preciso,
che la storia svelerà, più avanti. Ultima noticina: il nome della ragazza, Vibeke, è stato preso in prestito dalla cara Lady Vibeke, che mi ha gentilmente concesso di usarlo per questo personaggio (ma che, sia chiaro, nulla ha a che spartire con la Lady, né come aspetto, né come carattere, nè il altri sensi), visto che è un nome che sembra fatto apposta per lei. ^^
Ringrazio anticipatamente chiunque
abbia letto fin qui e, in
particolare, chi recensirà (lo ripeto sempre, ma mai abbastanza: i commenti, soprattutto quelli costruttivi - positivi o negativi che siano - sono sempre molto ben accetti ed importanti). Siete stati un pubblico
fantastico per Lullaby,
spero lo sarete altrettanto per questa mia nuova creatura. ^^
Al prossimo capitolo!
P.S. grazie alle mie pusher personali di citazioni musicali da inserire nelle storie, questa in particolare, ossia Lady Vibeke e CowgirlSara, che hanno sempre l'orecchio pronto a cogliere i parallelismi tra quello che ascoltano e quello che io scrivo. Preciso che la maggior parte delle citazioni sono state scovate dal mio umile cervellino, quindi qualcosa da sola la so fare, ma grazie comunque!
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Capitolo 2 *** Hot Stuff ***
Aprire gli occhi al risveglio era
stato una croce
insopportabile per Vibeke sin dai tempi dell’asilo, quando
sua madre era
costretta a strapparle le lenzuola di dosso per riuscire a farla
alzare, ma
stavolta era certa di aver raggiunto il livello di sforzo massimo
sopportabile.
L’antica concezione di
‘emicrania letale’ che aveva
conosciuto finora impallidì drasticamente in presenza di
quel dolore lancinante
che le stava perforando il cranio con la crudele intensità
di mille trapani martellanti.
Non aveva idea di dove si trovasse né di cosa fosse
successo, ma una cosa era
certa: non era in camera sua.
Si trovava sul sedile posteriore di
un’auto – la più grande
e spaziosa che avesse mai visto – completamente nuda ed
altrettanto confusa. Cercò
di tirarsi su a sedere, ma qualcosa la bloccava. Guardò
allora in basso,
strizzando gli occhi per cercare di mettere a fuoco
l’immagine nel buio, e le
ci volle una discreta dose di autocontrollo per riuscire a trattenersi
dall’urlare inorridita: sdraiato assieme a lei, un braccio
che le circondava la
vita, c’era un ignoto ragazzo, nudo quanto lei, profondamente
addormentato, il
viso nascosto nell’ombra.
Porca
puttana!,
imprecò mentalmente, fissandolo senza riuscire a
ricordare chi fosse e
cosa diavolo ci avesse fatto.
Sul cosa, a dire la
verità, non era poi così complicato
farsi un’idea: vestiti sparsi ovunque, l’involucro
aperto di un preservativo,
un ragazzo ed una ragazza nudi in un’auto…
Già uno solo di quei particolari
inneggiava alla parola ‘sesso’, figurarsi tutti e
tre insieme.
Il problema era: chi era lo
sconosciuto?
Sicuramente uno che sapeva il fatto
suo, perché, anche se di
fisico non sembrava affatto prestante, era comunque riuscito a
sfinirla, e
non era un evento da tutti i giorni.
Vibeke notò che
l’anonimo aveva una vistosa macchia blu sul
petto, e ben presto si accorse di averne una anche lei. Le venne in
mente
qualcosa che aveva a che fare con la sua stilografica, ma il tutto si
esauriva
lì.
Senza fermarsi a riflettere troppo,
prese a raccattare i propri
vestiti ancora bagnati qua e là, infilandoseli alla meno
peggio, la testa
ridotta ad un mucchietto dolorante di neuroni acciaccati. Non
riuscì a trovare le
mutandine, ma preferì non perderci troppo tempo, voleva
uscire di lì al più
presto.
L’orologio del display sul
cruscotto segnava le sei e un
quarto, il che significava che aveva meno di tre ore per filare dritta
a casa, farsi
una doccia, ingurgitare una dose massiccia di caffè e
analgesici, ed infine
precipitarsi al colloquio all’orario prestabilito.
Rinunciò a mettersi il
corsetto per via delle complicate
manovre di contorsione che richiedevano i lacci: non aveva
né tempo né spazio
per allacciarlo, quindi optò per la cosa più
semplice, ossia infilarselo sotto
un braccio assieme alla borsa e, allacciata per bene la giacca, facendo
attenzione a non svegliare il suo misterioso partner di
quell’avventura di una
notte, si avvicinò alla portiera. Stava già per
tirare la maniglia, quando ebbe
un piccolo ripensamento: odiava quando gli uomini sgattaiolavano via
come dei
ladri, la mattina dopo, e non voleva fare lo stesso. Prese allora un
pezzo di
carta dalla propria borsa, un vecchio scontrino di un bar, e
recuperò la
propria stilografica dal taschino della giacca. Scriveva ancora, ne era
certa,
non era la prima volta che perdeva fiumi di inchiostro, e non riportava
mai
danni.
Rimase un attimo a pensare che cosa
lasciare scritto, ma
proprio in quel momento sentì distintamente la risata
fragorosa di BJ,
proveniente da un punto molto vicino.
Oh, al
diavolo!
‘Grazie
della botta di
vita,’ scribacchiò frettolosamente. ‘Se
trovi le mie mutandine, puoi appendertele alla bacheca della cucina
come
ricordo o trofeo, ma non le buttare, sarebbe un peccato, visto quello
che mi
sono costate. V.’
Mollò il messaggio sul
cruscotto ed uscì alla svelta dalla
macchina, richiudendo silenziosamente la portiera. Fuori faceva
più freddo del
previsto.
Si strinse addosso i pochi indumenti
che portava e in un
lampo individuò BJ, intento a pomiciare con una rossa contro
il proprio SUV, un
Pathfinder nuovo di zecca che gli era costato una fortuna, ma lui era
ricco e
poteva permetterselo.
“BJ, scarica
l’arpia e portami a casa.” Bofonchiò
stancamente, facendoli trasalire.
La rossa le rivolse uno sguardo
astioso, sollevando schifata
quel suo odioso nasino a punta.
“Tesoro, trovati un ragazzo
tutto tuo.”
Per Vibeke, che già di suo
aveva scarse nozioni riguardo ciò
che i comuni mortali usavano definire ‘pazienza’,
fu veramente troppo.
“‘Tesoro’
lo dici a tua sorella,” sbottò, afferrandola per
una spalla e scucendola di dosso a BJ come un cerotto. “Io me
ne voglio andare
a casa, e questo bel biondo adesso mi ci porta, che tu lo voglia o no,
sciacquetta che non sei altro!”
La ragazza guardò BJ, come
aspettandosi che lui facesse
qualcosa, ma questi si limitò ad alzare le spalle e
sorridere, causandole una
crisi di nervi immediata.
Il lato più incredibile di
BJ era quello: se una era
abbastanza stupida da cadergli ai piedi in trenta secondi come
un’allocca,
allora non meritava di essere trattata con alcun rispetto,
perché comunque le
ragazze così superficiali valevano solo qualche ora di
divertimento, e
nient’altro.
Secondo Vibeke, faceva in fretta a
parlare, lui, con i suoi
plotoni di fan arrapate che sembravano vivere con il solo scopo di
compiacerlo,
ammaliate della sua lunga coda bionda e da quegli occhi particolari,
identici a
quelli di Vibeke stessa, che però su di lui sembravano
brillare di una luce più
intensa, o forse era solo perché il suo ego era tale da
traboccare addirittura
dai suoi bulbi oculari.
“Ciao,
sorellina,” le disse gioviale appena la rossa
sparì
dalla vista, fresco come una rosa, come appena reduce da un rilassante
riposino. “Hai un aspetto atroce.”
“Sì,
sì, grazie,” sbottò lei, cominciando a
perquisirlo alla
ricerca delle chiavi del SUV. “Adesso andiamo a
casa.”
“La vecchia Golf fa di
nuovo i capricci?” indagò lui,
facendo comparire le chiavi dal nulla, o così parve a lei.
“Non collabora nemmeno coi
calci,” blaterò Vibeke, mentre lo
spingeva verso la portiera del guidatore e lo obbligava ad aprire.
“Quindi adesso
basta domande, devo essere in città per le nove ed avere
l’aspetto di una che
valga la pena di assumere.”
BJ la assecondò: la fece
salire e poi si mise al volante,
estraendo qualcosa dal portaoggetti.
“Test
dell’alcol.” Annunciò eccitato,
portandosi il
misuratore alla bocca, quasi fosse stato il guidatore più
coscienzioso e
scrupoloso del mondo. Per lui era un divertimento testare i propri
livelli
d’alcol, perché lo smaltiva così in
fretta da non riuscire quasi ad ubriacarsi,
e questo per lei era frustrante, soprattutto adesso che aveva tanta
fretta di
rientrare.
“Bene, tutto a
posto,” annunciò lui. Fece riporre a Vibeke
l’oggetto e mise in moto soddisfatto. “Una
curiosità,” le domandò, uscendo dal
parcheggio. “Ti ho vista sgattaiolare via verso
l’una e mezza, dove cazzo sei
stata fino ad ora?”
Vibeke si portò le mani
sul viso e si costrinse a non
ucciderlo, almeno non finché non fossero stati nel garage.
“Taci e guida!”
gli intimò, poi allungò una mano verso il
lettore cd e lo accese. Non le importava del mal di testa dilagante, un
po’ di
Depeche Mode le avrebbero fatto bene.
‘And do you feel it?
I said: do you feel it when
you touch me?’
Le avrebbe fatto bene anche ascoltare
una canzone a sfondo
sessuale come ‘Dirt’?
‘Do you feel it when you
touch me?
I'm
a fire…’
No, decisamente no.
***
Se il destino era solito mandare
segni alle persone
ogniqualvolta aveva in serbo per loro una giornata storta, allora
Vibeke
riteneva che con lei stesse facendo un gioco piuttosto esplicito.
Aveva capito che qualcosa non andava
quando, appena messo
piede in casa, la luce non aveva voluto saperne di accendersi, e le
conferme si
erano susseguite una dopo l’altra, prima con
l’acqua calda esaurita, poi con
Rogue placidamente addormentato sul vestito che avrebbe dovuto
indossare al
colloquio, ormai imbrattato di lunghi peli bianchi che non aveva il
tempo di
stare a togliere, ed infine con quel maledetto egoista di BJ che si era
rifiutato di prestarle l’auto per andare in città.
Conclusione: dopo una doccia
gelata, si era dovuta infilare il primo paio di pantaloni che aveva
trovato
nell’armadio e la camicia più sobria che avesse,
alla quale mancavano però
diversi bottoni nella parte superiore, poi aveva trangugiato mezza mela
e un
litro di caffè corredato da pasticche varie, e infine si era
precipitata giù in
strada per le sette e mezza (ergo, con un’ora di anticipo
rispetto al previsto),
pregando che ci fosse qualche autobus in orario.
Speranza vana.
L’unica nota positiva era
che i postumi della bevuta erano scemati
piuttosto rapidamente rispetto al solito: restava solo un leggerissimo
mal di
testa, e nient’altro.
Dopo aver aspettato quasi
un’ora sotto alla pensilina, con
una pioggia torrenziale che cadeva tutt’intorno, alla fine
era riuscita a prendere
quello delle otto e venti ed arrivare a destinazione con ben tre
miracolosi
minuti di anticipo.
Vibeke era nella hall
dell’elegante edificio che ospitava la
sede locale degli uffici della Universal e si guardava intorno senza
troppa
curiosità: quattro pareti di un bianco spento, enormi
vetrate che davano
sull’esterno, porte e serramenti in metallo, arredamento
vagamente hi-tech e un
paio di piante dalle larghe foglie smeraldine poste ai lati del bancone
della
reception, da dietro al quale la segretaria la stava controllando
sospettosa.
Detestava starsene lì a
ciondolare senza scopo, ma aveva
appuntamento con un certo Ebel, amico di vecchia data di
suo fratello, l’uomo
che avrebbe dovuto assumerla a tutti gli effetti.
Per ingannare il tempo, Vibeke
passeggiò avanti e indietro,
intenta ad esaminare una lunga serie di quadri contenenti dischi
firmati da
artisti, molti dei quali le erano del tutto ignoti. Chissà
quale tra di essi le
sarebbe capitato.
“Un
mio amico sta
cercando qualcuno che ci capisca qualcosa di luci e roba
simile,” le aveva
detto BJ, circa un mese prima.
“Segue un
gruppo, qualcosa così… Se ti interessa, gli mando
il tuo curriculum.”
E così il curriculum
– con allegata la fondamentale
raccomandazione di BJ – aveva fatto il suo dovere, e Vibeke
aveva ottenuto un
appuntamento con Ebel, per conoscere i suoi probabili datori di lavoro.
Si
sarebbero dovuti incontrare a momenti.
Si strinse la sciarpa nera attorno al
collo, assicurandosi
che non lasciasse scoperti lembi di pelle. Non era riuscita a togliere
l’inchiostro, se non in minima parte, e se qualcuno
l’avesse vista, ci
sarebbero state domande troppo imbarazzanti a cui rispondere.
Si sentì il rumore delle
porte dell’ascensore che si
aprivano e una giovane voce maschile distrasse Vibeke dalle proprie
riflessioni:
“Scusa se ti ho fatta
aspettare.”
Si voltò: verso di lei
camminava un ragazzo che non
dimostrava nemmeno trent’anni, la camicia bianca che ricadeva
con distratta
eleganza sui jeans firmati, il passo lento e sicuro, quasi felino, ed
era
dannatamente affascinante. Le ricordò molto BJ, per certi
versi: alto, magro,
biondo, con due penetranti occhi azzurri che, ne era certa, mietevano
vittime
su vittime ogni santo giorno.
Non aveva affatto l’aspetto
stressato e cupo del tipico
manager stereotipato; sembrava piuttosto appena uscito da qualche set
fotografico, o emerso dalle pagine patinate di una rivista di moda.
Praticamente un succulento banchetto
per la sua libido
ottica.
Da quando in
qua i
manager sono belli, giovani e sexy?, si chiese, divorandoselo
con gli occhi
mentre le veniva incontro sorridente. Se
oggi li fanno così, ne voglio assolutamente uno!
“Tu devi essere la sorella
di BJ,” le disse il ragazzo
con voce suadente. “Vibeke, giusto?”
“Sì,”
farfugliò lei, stringendogli la mano, supplicando la
propria salivazione di contenersi. “Sono io.”
“Benjamin Ebel, abbiamo
parlato al telefono qualche giorno
fa.”
La
conversazione non
ti ha reso giustizia, Benjamin, rifletté lei,
ammirando il celeste intenso
dei suoi occhi. Era tutt’altro che bassa, ma doveva piegare
la testa verso
l’alto per guardarlo in faccia.
“Oh,
sì,” annuì. “Ti avevo
immaginato più vecchio.”
E meno
gnocco.
Lui la osservò
attentamente per un momento.
“Però, si
direbbe che tu sia una tosta,” commentò,
ammiccando. “Forse è proprio quello che ci vuole
per noi.”
Vibeke scelse di interpretarlo come
un complimento, anche
se, a sentirlo parlare così, sembrava che cercasse un cane
da guardia, più che
un tecnico delle luci.
Benjamin estrasse una specie di
tesserino munito di laccio dal
taschino della camicia e glielo porse.
“Tieni, questo ti
servirà per circolare qui dentro
indisturbata.” Le spiegò.
Il piccolo badge conteneva i dati di
Vibeke ed aveva un
rettangolino bianco ancora vuoto, destinato alla fotografia. Se lo mise
al collo.
“Allora,”
Benjamin le appoggiò una mano sulla schiena,
guidandola verso l’ascensore. “Sarai ansiosa di
conoscere il resto della
‘famiglia’…”
“Naturalmente.”
Rispose lei, anche se dubitava di essere
riuscita a metterci un minimo di credibilità. Il bel
Benjamin, però, non parve
farci caso e sfoderò l’ennesimo sorriso
casualmente sensuale, guidandola verso
l’ascensore.
“I ragazzi sono di sopra
che ci aspettano,” le spiegò,
mentre l’ascensore prendeva a salire. “Ciascun
membro dello staff deve avere la
loro approvazione per essere assunto, ma non ti preoccupare, so
già che ti
troveranno strepitosa.”
La sua assunzione dipendeva dai
capricci di una manciata di
ragazzini viziati a cui con ogni probabilità sarebbe apparsa
come la figlia
illegittima di Robert Smith – sempre ammesso che avessero la
più pallida idea
di chi cavolo fosse Robert Smith. Che bella notizia.
Vibeke dissimulò una
risatina sarcastica con un paio di
colpetti di tosse.
Se lo dici
tu…
Arrivati al quinto piano, Benjamin le
fece strada attraverso
un corridoio illuminato al neon, in fondo al quale si trovava una porta
socchiusa, da cui provenivano delle voci. La stanza doveva essere
occupata da
dei ragazzi.
“Eccoci qui,”
disse Benjamin, avvicinandosi alla porta.
“Immagino che BJ ti abbia rivelato il nome del
gruppo di cui mi occupo…”
‘No’, stava per
rispondere lei, ma era già tardi: la porta
era aperta e di fronte a lei si trovavano quattro tipi noti: uno, che
portava
una voluminosa massa di rasta, se ne stava davanti alla finestra sul
lato opposto
della piccola stanza, con delle grosse cuffie alle orecchie, muovendo
la testa
su e giù, le spalle rivolte – molto educatamente
– a tutti gli altri; davanti
al tavolo, una lattina di coca cola in mano, c’era una
sottospecie di pertica
chilometrica monodimensionale con un’acconciatura degna di
Siouxsie e una
discreta attitudine da diva, mentre il piccolo divano bianco era
occupato dalla
restante metà della band.
Non era certa che li avrebbe saputi
riconoscere, se li
avesse visti uno per uno, separatamente, ma sapeva perfettamente chi
fossero
quei quattro ragazzi – quel gruppo.
Il loro nome era ormai diventato un sinonimo ufficiale di
‘successo’ e di
svariati altri termini su quella lunghezza d’onda.
Se volevi dire ‘gruppo
famoso, fenomenale e pluripremiato
campione di vendite mondiali’, nel duemilanove non
c’era più bisogno di
espressioni complicate, bastava dire ‘Tokio Hotel’.
“Vibeke,” le
annunciò Benjamin, con la medesima espressione
di un padre orgoglioso che presenta i propri figli. “Ti
presento i Tokio Hotel.
Ragazzi, lei è il tecnico delle luci di cui vi ho
parlato.”
Lei cercò di dimostrarsi
cortese, entro i limiti delle sue
possibilità.
Li conosceva di vista – e
chi non li conosceva? Ormai le
loro facce erano più note di quelle del papa e del
presidente degli Stati Uniti messe
insieme – ma non aveva idea di quali fossero i loro nomi.
Sapeva solo che il
tizio con i rasta e la diva (che aveva le mani affondate dentro una
borsa
alquanto improbabile, almeno per un ragazzo) erano gemelli, che il
biondo
immusonito stava alla batteria (e, a guardargli i bicipiti, si vedeva),
e che
il marcantonio con gli occhi verdi e la coda avrebbe potuto sbattersela
contro
un muro in qualunque momento.
“Ehm…
Salve.” Li salutò con un cenno esitante della mano.
La diva le sorrise – aveva
un bel sorriso, che le era
stranamente familiare – e le strinse la mano.
“Bill, piacere.”
Vibeke ricambiò la stretta
perplessa. Quello sguardo,
quell’espressione, quel tono di voce… Le sembrava
di averlo già visto, ma dove?
Insomma, ovvio che l’avesse
già visto, le foto sue e dei
suoi comari erano su ogni dannatissimo giornale in cui si potesse
incappare, per
non parlare della tv, ma aveva la netta sensazione di averlo
già incontrato
prima.
No,
impossibile, si
disse decisa. La sua mente le stava giocando un brutto scherzo a causa
della
stanchezza e dei postumi. E poi aveva un modo di fare fin troppo
raffinato, che
non collimava con nessun ragazzo che ricordasse di aver mai conosciuto.
Bill la osservò
incuriosito per diversi istanti,
soffermandosi in particolare sulla testa.
“Non ti azzardare a pensare
che ti ho copiato, ragazzino,” abbaiò
Vibeke, notandolo. “I miei capelli sono così da
quando avevo dodici anni e tu
all’epoca ancora poppavi dal biberon.”
Lui sobbalzò e si ritrasse
intimidito, gli occhi spalancati
dallo stupore.
“Mamma mia, che
caratterino.” Esclamò poi, apparentemente
divertito.
A quel punto anche i due sul divano
si alzarono e si fecero
avanti.
“Gustav.” Si
presentò il primo, quello che aveva subito
riconosciuto come il batterista.
Vibeke pensò
‘Sposami!’ prima ancora di aver registrato il
suo nome. Era semplice – forse il più semplice dei
quattro – ma aveva degli
occhi scuri letali per l’equilibrio neurologico e un sorriso
timido e un po’
impacciato che non faceva che peggiorare esponenzialmente la situazione.
Era il tipo di ragazzo di cui avrebbe
voluto innamorarsi
perdutamente, ma che, ne era certa, non avrebbe mai potuto innamorarsi
di una
come lei, né vice versa.
Dopo che si furono stretti la mano,
Gustav si fece da parte
e lasciò posto all’amico.
“Georg.” Disse
questi, con una voce profonda che ben si
accompagnava al suo aspetto. Era il tipico tedesco: lineamenti
mascolini e
decisi, lunghi capelli, lisci e chiari, occhi di un verde
incredibilmente verde. E bello.
Molto bello.
Dannatamente
bello.
Anzi, per la verità Vibeke
cominciava a capire perché molti
maligni gridassero all’operazione commerciale, quando si
parlava dei Tokio
Hotel: erano ragazzi fin troppo piacenti perché si potesse
credere con facilità
che fossero finiti insieme per caso o per un colpo di fortuna.
“Hey, Tom,”
gridò Benjamin al quarto ragazzo mentre gli si
avvicinava per strappargli via le cuffie. “Levati quella
roba, cerca di essere
un minimo educato.”
“Scusalo,” le
disse Gustav. “Stamattina è un po’ fuori
fase.”
Quando finalmente il gemello etero si
voltò, a Vibeke bastò
mezzo secondo per farsi venire un embolo polmonare.
Cazzo!
Era un bel ragazzo –
ovviamente – alto, con dei bei
lineamenti dolci in netto contrasto con l’espressione
presuntuosa, che le
rimase subito sullo stomaco. I begli occhi nocciola la studiavano
curiosi, un
piercing che luccicava sulle labbra ricurve in una specie di ghigno
quasi
invisibile, ma non fu quello a turbarla.
Non lo avrebbe mai riconosciuto se
non fosso stato per la
vistosa macchia blu che aveva sul collo e che gli scompariva oltre il
bordo
della maglietta, ma non c’era dubbio che fosse lui,
il ragazzo della macchina, quello da cui si era dileguata in
fretta e furia solo una manciata di ore prima.
Ecco
perché la diva mi
sembrava familiare…
Si rifiutava di crederci: era andata
a letto con uno dei
suoi datori di lavoro e se n’era andata via quatta quatta
come nulla fosse,
lasciandogli per giunta quello stupido biglietto, e perfino un paio dei
suoi
bellissimi slip acquistati a Londra.
Speriamo che
almeno
sia maggiorenne, si augurò, cercando di ricordare
quanti anni avessero quei
quattro. Sapeva che erano giovani, ma quanto
giovani?
La sua carriera era finita ancora
prima di cominciare.
Cazzocazzocazzo!
Nel medesimo istante in cui la sua
mente attraversava la
fase ‘imprecazioni rozze e volgari’, gli occhi del
ragazzo scesero a posarsi
sulla sua scollatura. Vibeke fece in tempo a farsi cogliere da un
infarto,
prima di ricordarsi che la sciarpa tattica copriva strategicamente la
chiazza
bluastra che non era riuscita a lavare via.
Vide la fronte del ragazzo corrugarsi
mentre lui le si
avvicinava senza esitazioni, e pregò che non ce
l’avesse con lei per quello che
era successo.
“Hai un aspetto
familiare,” La sua voce le fece venire come
un dejà vu, risvegliando qualche ricordo che era convinta di
aver rimosso. “Ci
siamo già visti da qualche parte?” le
domandò circospetto.
A parte ieri
sera,
quando ci siamo messi a ripassare il Kamasutra nella tua macchina,
intendi?,
pensò lei sarcastica, stringendogli la mano con disinvoltura.
Lo studiò attentamente,
cercando di capire se la stesse
prendendo in giro oppure no, ma la perplessità sul suo volto
sembrava sincera.
Se recitava, lo faceva molto bene.
A quanto pareva, il piccolo lord
aveva davvero rimosso la
loro rovente nottata brava, e questo significava due cose: primo:
avevano fatto
sesso, ma – grazie a Odino, Thor, Freya e tutti i sacri Vani
– non lo sapeva;
secondo: avrebbe potuto ricordarsene in qualunque momento.
“No, non che mi
risulti.” Gli rispose, con la massima
nonchalance. Lui sollevò un sopracciglio con aria scettica.
“Come hai detto che ti
chiami?”
“In genere si dice il
proprio nome, prima di chiedere quello
altrui.”
“È davvero
necessario che io mi presenti?” domandò lui,
vagamente sorpreso. Vibeke lo trovava disgustosamente arrogante: uno
che aveva
la presunzione che chiunque al mondo conoscesse il proprio nome, non
poteva che
essere una di quelle atroci creature così traboccanti di
autostima da far
venire un’ulcera istantanea.
Déi
del cielo, perché
a me?
“Tom Kaulitz,” si
presentò lui alla fine, stringendole la
mano. Fu allora che l’attenzione gli cadde sul cartellino che
lei aveva al
collo. “Vibeke V. Wolner?” lesse.
“Si legge
‘Wulner’,” lo corresse lei rigidamente.
“Sono norvegese.”
“Ah,” fece lui,
dimostrando scarso interesse. “Posso
chiamarti Vi, per comodità?”
“No.”
Ribatté lei secca.
“La v puntata per cosa
sta?” le chiese allora Tom.
“Non sono fatti
tuoi.”
Si occhieggiarono con un accenno di
ostilità. Vibeke seppe
immediatamente che tra loro due sarebbe stato impossibile instaurare un
rapporto civile.
Lei e i ragazzi chiacchierarono per
qualche minuto: le fecero
domande su dove avesse studiato e come mai avesse deciso di
specializzarsi in
quel genere di lavoro, e lei dovette rivelare loro la triste
verità: suo
fratello aveva avuto bisogno di qualcuno che si occupasse degli effetti
luminosi per accompagnare le proprie performance, ma non poteva
permettersi di
pagare un professionista, così lei aveva frequentato un
corso e lo aveva aiutato
a sfondare, ma ora che lui lavorava nei grandi locali,
c’erano i tecnici fissi
che pensavano a tutto, e così lei era rimasta senza impiego.
Durante la conversazione, Vibeke ebbe
modo di farsi un’idea
dei caratteri dei ragazzi, e se Georg e Gustav le andarono a genio fin
da
subito, altrettanto in fretta capì di trovare irritante il
modo in cui Bill
sembrava essere perennemente al centro dell’attenzione e
godere di una sorta di
favore universale, ma, soprattutto, che lei e Tom non avevano proprio
la più scarna
speranza di riuscire a convivere pacificamente a meno di dieci
chilometri di
distanza di sicurezza.
Non era un caso che fossero proprio i
due gemelli ad
infastidirla di più: pur essendo molto diversi tra loro,
erano entrambi
portatori non troppo sani di quello che lei definiva il
‘morbo della superiorità’.
Tutti e due si comportavano come se chi stava loro attorno fosse
appartenente
ad un rango inferiore e perciò tenuto a dimostrare riverenza
nei loro
confronti, con la sola differenza che Bill lo faceva in maniera quasi
innocente, mentre Tom ci metteva una buona dose di snervante
consapevolezza.
“Bene,”
esclamò Benjamin, diversi minuti di chiacchiere
dopo. “Direi che Vibeke è assunta, giusto,
ragazzi?”
Tre di loro annuirono con veemenza,
Tom scrollò le spalle
svogliatamente, come se la cosa non lo riguardasse.
Benjamin sorrise e le strinse la mano.
“Ci risentiamo verso marzo,
allora.”
Vibeke si fermò, perplessa.
“Marzo?”
scandì, pregando di aver compreso male, ma tutti
rimasero impassibili.
Come sarebbe
a dire marzo?
E io fino ad allora cosa faccio, la bella statuina?
“Be’, il tour
comincia in quel periodo,” le spiegò Benjamin.
“Al momento non ci serve un tecnico delle luci.”
Questa non ci voleva. Era andata
lì piena di speranze ed
aspettative, e loro cosa le dicevano? Che il lavoro sarebbe cominciato
tra tre
mesi.
BJ ci avrebbe rimesso il suo organo
più vitale per non
averla avvertita di quel trascurabile
dettaglio.
“Ma io ho bisogno di
lavorare adesso!”
protestò, pur sapendo che a loro non poteva importare di
meno se lei avesse necessità o meno di guadagnare qualcosa.
Tom le gettò
un’occhiata di sufficienza.
“Vuoi lavorare per noi e
non sai nemmeno come stanno messi i
nostri impegni?”
Con quel tono che aveva usato, Vibeke
lo avrebbe volentieri
strozzato, ma se uccideva uno dei Tokio Hotel, era probabile che non
avrebbe
lavorato affatto, e non poteva permetterselo, a meno che il fato,
finora così
avverso, avesse deciso di farle vincere alla lotteria senza che lei
nemmeno
avesse giocato.
“Non è tenuta a
saperlo, Tom.” lo mise a tacere Gustav,
conquistandosi definitivamente le simpatie di Vibeke.
“Avrà tempo di
capire come vanno le cose, in questi mesi.”
Concordò Benjamin.
“Ma io
–”
Piantala con
questo
‘Ho bisogno di lavorare adesso’,
sbottò contro se stessa,
l’hanno capito! Sei tu quella che non ha
capito un cazzo!
“Potrebbe farci da
assistente personale.” Suggerì Bill
casualmente.
“Davvero?” fece
lei, speranzosa. Fare da assistente a
quattro mocciosi che inspiravano ossigeno ed espiravano soldi poteva
avere i
suoi allettanti vantaggi.
“Sì, tipo
portarci i vestiti in tintoria, tenere in ordine
la casa, fare la spesa quando serve…”
A Vibeke la situazione parve
tutt’un tratto più chiara.
Molto più chiara.
“Intendevi ‘farvi
da cameriera’ forse.” Puntualizzò
serafica.
La diva fece un gesto incurante.
“Quello che
è.”
“Non ci farebbe
scomodo.” Intervenne Georg, scambiando uno
sguardo di assenso con gli altri. Tom emise una risatina di scherno.
“Nah, scommetto che non
durerebbe mezza giornata, con i
nostri ritmi.”
Per Vibeke fu una sfida a cielo
aperto, e lei non rifiutava
mai una sfida, soprattutto se si trattava di far ricredere un tipo come
quello.
“Non hai idea di quello che
stai dicendo, ragazzino,” replicò.
“Sono tre anni che seguo mio fratello qua e là per
la
Germania e per Amburgo,
facendogli da colf personale, so esattamente come cavarmela in certe
situazioni.”
“Tuo fratello chi
sarebbe?” la provocò Tom, gli occhi che
scintillavano.
“Mai sentito parlare di DJ
Djevel?”
“Sì, lo abbiamo
anche conosciuto ad un festino, un paio di
settimane fa.” Disse Georg. “Davvero in
gamba.”
“Già,”
convenne Gustav. “Aveva più ragazze intorno di Tom
e
Georg messi insieme.”
I due citati lo guardarono torvi, ma
non controbatterono.
“L’ho visto
giusto ieri sera ad un party fuori città. Non ti
somiglia affatto.” Commentò Tom.
Hai visto
anche me,
pezzo di deficiente, borbottò lei fra
sé. E non ti sei limitato a
guardare.
“Ah no?” Vibeke
incrociò le braccia. “E per caso non ricordi
di aver notato qualche cosa di particolare nel suo viso? O magari eri
troppo
sbronzo…”
Taci,
cretina, tu non
lo dovresti sapere che era sbronzo!
Fortunatamente Tom parve non fa caso
a quella gaffe e si
limitò ad inarcare le sopracciglia.
“Cos’ha, una
cicatrice stile Harry Potter?” chiese,
probabilmente credendosi chissà quanto simpatico.
“Un neo come me e Bill?”
“Gli occhi di due colori
diversi.” Dissero Bill, Gustav e
Georg all’unisono.
Vibeke sorrise leziosa e si
avvicinò un poco a Tom.
“Vedi niente di particolare
nelle mie iridi?”
“Sì,”
fece lui, in tono annoiato. “Sono molto fastidiose,
puntate addosso così.”
“Il punto non era questo,
comunque,” intervenne Benjamin.
“Ragazzi, voi ritenete davvero di aver bisogno di qualcuno
che vi faccia da…”
“Babysitter?”
completò Vibeke per lui. Benjamin le lanciò un
rapido sorriso e subito dopo tornò a guardare i ragazzi.
Gustav fu il primo a parlare:
“Be’, diciamo
solo che l’appartamento non è quel che si dice
un’oasi di ordine e pulizia,” scoccò
un’occhiata obliqua agli altri tre. “Georg
e Tom fanno a gara a chi lascia più disordine, e mai una
volta che Bill alzi un
dito,” Assunse un’espressione eloquente.
“Io ho rinunciato secoli a fare lo
schiavo per loro.”
Benjamin sospirò, e Vibeke
scoprì che i manager sexy non
solo vestivano, parlavano, camminavano e respiravano in modo sexy, ma
riuscivano perfino a sospirare in
modo sexy.
“Va bene, allora vi
cercherò qualcuno di affidabile che
venga a sistemare tutto di tanto in tanto.”
“In fretta,”
disse Georg. “L’ultima volta che i nostri
genitori sono venuti a trovarci, alla madre di Gustav per poco non
veniva un
attacco di cuore e la mia quasi si rompeva una gamba inciampando in una
certa
maglietta Carhartt abbandonata a terra.” Vibeke
notò che lo aveva detto
guardando verso la diva. “E quando ci sono venute Nicole ed
Emily, avevo paura
che si perdessero nel caos.”
Bravi,
ragazzi,
portate le mammine nella stessa casa in cui portate le vostre groupies
con
tanta disinvoltura?, pensò Vibeke, disgustata, ma
non abbastanza da
lasciarsi sfuggire un’occasione come quella. Aveva fatto i
salti mortali per
arrivare in orario a quel maledetto colloquio di lavoro e, fosse
cascato il
mondo, se ne sarebbe andata di lì con un cazzo di lavoro.
“Se l’offerta era
seria, lo posso fare io.” Asserì, carica
di determinazione e buona volontà. Erano quattro, ma nemmeno
tutti assieme
potevano essere peggio di BJ.
Benjamin però non sembrava
favorevole all’idea. Anzi,
sembrava addirittura preoccupato.
“Tu? Sei sicura?”
Vibeke gli rivolse un sorriso
professionale, bugia spudorata.
No, ma non
importa. Mi
servono soldi, e al più presto.
“Ho bisogno di guadagnare
qualcosa, non posso continuare a
farmi mantenere da mio fratello.”
“Ti permetterò
di farlo solo se firmerai un contratto che ti
vincoli a farci comunque da tecnico delle luci per il tour, qualunque
cosa accada
nel frattempo.” Disse Benjamin. Lei corrugò la
fronte accigliata. Non era
sicura che fosse una battuta.
“A che scopo?”
Lui passò in rassegna i
quattro ragazzi con lo sguardo le
sorrise in modo strano.
“Lo capirai quando li avrai
conosciuti meglio.”
Doveva sentirsi intimorita da un paio
di maschi allo stato
brado? Doveva sentirsi minacciata dalla delicatezza delle unghie
laccate di
Bill la Diva, o dagli occhi innamoranti di Gustav e Georg, o dalla
propria
incompatibilità caratteriale con il Kaulitz a lei
biblicamente conosciuto?
Mai e poi mai.
“Mi ritengo abbastanza
allenata.” Decretò, sicura di sé come
non mai.
Si lasciò valutare dai
presenti senza battere ciglio. Tom se
ne stancò quasi subito e si allontanò con uno
schiocco di disappunto della
lingua, ma Bill, Georg e Gustav sembravano molto interessati a lei, in
particolar modo alla sua camicia senza bottoni.
Si aggiustò la sciarpa,
supplicando gli déi che non avessero
notato quel minuscolo dettaglio che lei non voleva assolutamente che
venisse
notato. Fortunatamente non fecero domande strane, quindi sembrava di no.
“Va bene, sei
assunta.” Decretò Bill, e, da come lo disse,
Vibeke comprese che era abituato a prendere decisioni senza consultare
nessun
altro che se stesso.
Incredibile ma vero, era appena stata
assunta dal gruppo il
cui solo nome era in grado di scatenare un putiferio tra le ragazze di
qualunque angolo del mondo.
In quasi ventitre anni di vita si era
immaginata nelle vesti
si sarta, mantenuta, archeologa e anche serial killer, ma di finire a
lavorare
per quattro sbarbatelli che avevano spodestato praticamente chiunque
dalle
vette delle classifiche musicali di mezzo mondo…
Be’, quello non era mai stato
contemplato, nemmeno per scherzo.
“Non sai in quale trappola
ti sei andata a cacciare.” Le sussurrò
Benjamin, mentre le stringeva la mano (la centesima stretta di mano in
meno di
un’ora).
Vibeke non si lasciò
intimidire.
“Non ti
preoccupare,” lo rassicurò.
“Andrà tutto liscio come
l’olio.”
Le ultime parole famose.
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Note:
dopo
le gentili pressioni richieste di Muny_4Ever
(sempre lei! XD), mi trovo costretta esortata a
postare anche il secondo
capitolo. Un grazie a voi che avete commentato il primo, mi auguro che
questo
non vi abbia deluso. Non fatevi ingannare dalla relativa
banalità del ruolo di
Vibeke nei confronti della band, o perlomeno aspettate a giudicare. ;)
Vi invito a commentare, come sempre,
e vi rimando al
prossimo capitolo, dove spero di riuscire a fare i dovuti
ringraziamenti ad personam. ^^
|
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Capitolo 3 *** Wilkommen Im Tokio Hotel ***
Georg voleva dormire.
Dormire, solo dormire, e
nient’altro, ronfare beatamente
sepolto sotto a quintali di strati di soffici piumoni e coperte,
godendosi il
rumore della pioggia che scrosciava di fuori da ormai una settimana
ininterrotta mentre abbracciava il morbido cuscino e si godeva il
meritato
riposo dopo la nottata passata in viaggio.
Aveva trascorso qualche giorno da
Nicole, il che
significava, come sempre, che le passate settantadue ore erano state
per lui un
concentrato di attività e movimento.
Poteva non sembrare, ma portare Emily
al parco era un’impresa
non da poco, soprattutto se dovevi sia controllare lei che fare
attenzione a
non farti notare dalle ragazze che passavano, ma Nicole collaborava
volentieri
alla mimetizzazione, visto che l’operazione prevedeva quasi
sempre un bacio
prolungato o almeno un abbraccio immotivato, ma pur sempre piacevole.
Fortunatamente capitava di rado che
lui si fermasse da lei
per più di un giorno, ed era solo per qualche miracolo che
finora era riuscito
ad evitare di incappare nell’invadente vicina di Nicole, la
piccola,
irriducibile Liesel.
Quella sera aveva fatto i bagagli,
aveva dato un bacio ad
una Emily addormentata e si era fatto salutare debitamente da Nicole,
poi era
salito sul suo taxi e si era fatto portare alla stazione, dove aveva
preso
l’intercity per Amburgo.
Rientrato a casa alle tre del
mattino, si era buttato in
doccia senza nemmeno preoccuparsi di fare piano, ben conoscendo la
pesantezza
del sonno dei suoi tre coinquilini, poi si era trascinato a letto e
lì era
rimasto fino ad ora, ed avrebbe volentieri continuato a dormire a
oltranza, non
fosse stato per l’insistente suono del campanello.
Cazzo,
perché quei tre
non alzano il culo? Se tutto va bene ieri sera se la sono spassata fino
a poco
prima che arrivassi io…
Dischiuse svogliatamente un occhio e
cercò di mettere a
fuoco la radiosveglia: mezzogiorno. Decisamente troppo presto per uno
che aveva
potuto chiudere occhio solo poco prima delle quattro, ma cosa doveva
fare? Non
si era certo aspettato che Tom o Bill si degnassero di alzarsi, ma
almeno
Gustav…
Si alzò controvoglia e si
trascinò fuori dalla stanza,
scalzo e praticamente nudo, a parte i pantaloni da tuta che usava come
pigiama.
Non appena ebbe mosso un passo, alle sue spalle sbucarono uno ad uno
Gustav,
Bill e Tom, facendo capolino dalle rispettive stanze con espressioni
sonnolente.
“Ma chi cazzo è
a quest’ora?” mugugnò Tom, che non
portava
altro che un paio di boxer, segno che nessuna ragazza, almeno stavolta,
aveva
allietato la sua notte, ed aveva ancora qualche residuo della macchia
blu che
gli era comparsa sul petto qualche giorno prima, dopo chissà
quali giochetti
del suo genere. Anche Gustav era nelle medesime condizioni, mentre Bill
indossava il suo bel pigiama lilla
(era stato azzurro, un tempo, prima di essere tragicamente lavato con
una
vagonata di capi rossi) firmato Disney, con tanto di asinello depresso
(Eeyore,
stando alla scritta) stampato sul davanti.
“E io che cazzo ne
so?” berciò Georg, mentre il campanello
suonava di nuovo. Si incamminarono insieme verso l’ingresso,
domandandosi se
per caso non si trattasse di David che veniva a sequestrarli per un
impegno
improvviso, come già era successo altre volte.
“Ragazzi, ma oggi non
è lunedì?” fece Gustav, mentre
scendevano le scale che portavano al piano di sotto.
“E allora?” fece
Bill. Georg
si fermò davanti alla porta e girò
la chiave nella serratura.
Gustav sbuffò.
“E allora dietro quella
porta c’è Vibeke.” Disse, ma Georg
aveva già aperto, e, di fatti, al di là della
soglia c’era lei, la loro
factotum nuova fiammante, con una faccia arcigna che li fece sussultare
tutti e
quattro.
Avevano tutti e quattro dimenticato
che quel giorno la
ragazza avrebbe cominciato a lavorare per loro.
“Alla buonora,”
berciò Vibeke, incrociando le braccia. “Cominciavo
a temere di dover buttar giù la porta.”
Georg non aveva dubbi sul fatto che
ci sarebbe riuscita, se
solo avesse tentato. Non era granché robusta, fisicamente,
ma gli anfibi che
portava avevano tutta l’aria di poter sbriciolare un muro con
un calcio nemmeno
particolarmente violento.
“Ciao.” La
salutò, imitato dagli altri.
Cercò di sorriderle mentre
la invitava ad entrare.
Decisamente non era una ragazza ordinaria, e non solo per via di quei due inquietanti piercing che aveva al labbro inferiore, o per il fatto che abbinasse abiti vezzosi - gotici, certo, ma senz'altro vezzosi - ad anifibi militari.
Vibeke entrò in casa in un
fruscio di velluto, la gonna del
vestito che spuntava dalla giacca in pvc, appena sopra le ginocchia,
del tutto
incurante del fatto che c’erano quattro ragazzi
più o meno nudi che la
fissavano vagamente sbigottiti.
“Non mi
tratterrò a lungo,” annunciò loro,
sfilandosi la
giacca gocciolante ed appendendola all’attaccapanni come
fosse stata a casa
propria, tenendo però la sciarpa. Sul braccio destro, sotto alla manica tappezzata di squarci, si intravedeva una piccola rosa nera tatuata vicino alla spalla.“Ho parlato con
Benjamin, mi ha consigliato
di venire armata di anfetamine e tanta pazienza,” Li
squadrò uno per uno con un
sorriso affabile che risultava vagamente inquietante, visto su quelle
labbra
rosso sangue. “Per quanto riguarda le prime, non
c’è problema, ma per la
seconda credo mi sarà molto difficile reperirla.”
Georg sorrise fra sé: gli
sembrava di trovarsi davanti ad
uno strano ibrido caratteriale tra Bill e Tom, con la sola differenza
che,
contrariamente ai gemelli, lei aveva dei modi spicci e un tono molto
pratico.
Nulla a che vedere con gli infantili
capricci di Bill o gli
atteggiamenti snobisti di Tom.
“Allora, qualcuno si degna
di spiegarmi cosa dovrei fare qui
dentro, esattamente?” domandò Vibeke, tirandosi su
le maniche dello stranissimo
abito che portava, con tutti quei lacci bordeaux e gli inserti in
pizzo.
Sembrava una specie di bambola dark, con i capelli come quelli di Bill.
“Mi
sento Biancaneve in mezzo ai sette nani, se ve ne state a fissarmi
così.”
Per essere bianca, lo era
sicuramente. Le mancava giusto
quella massiccia dose di dolcezza stereotipata per la quale la storica
Biancaneve era nota.
“Scusa,” disse
Gustav, accennandole un sorriso. “È che ci
siamo appena svegliati, è un po’ traumatico per
noi – loro soprattutto
– svegliarsi così presto.”
“Diciamo più che
altro per Tom.” Ghignò Georg, ricevendo in
cambio un pugno sulla spalla.
“Chiudi il becco,
Hagen!”
Vibeke assunse un’aria
perplessa.
“Non si chiamava Georg,
qualche giorno fa?”
“Georg Moritz Hagen
Listing,” puntualizzò Tom con evidente
soddisfazione. “Ma ogni tanto ci piace chiamarlo Moritz o
Hagen.”
Georg avrebbe volentieri preso Tom e
gli avrebbe rotto il
naso contro la parete, ma obbligò se stesso a trattenersi,
onde evitare che
Vibeke avesse subito un chiaro quadro delle persone con cui aveva a che
fare.
Non che desse l’impressione di essere una che si spaventava
per così poco, ma
comunque non era il caso di dare spettacolo.
Non ancora, almeno.
“Bene, allora,”
fece Vibeke, puntando un dito verso Georg.
“Hagen,” Poi indicò Tom.
“Kaulitz Uno,” Poi Bill. “Kaulitz
Due,” E infine
Gustav, a cui sorrise. “E Gud.”
Georg e gli altri si guardarono
confusi.
“Gud?”
Vibeke fece un gesto incurante.
“È
norvegese,” spiegò, anche se come spiegazione era
pressoché inutile. “Comunque,”
proseguì poi, soffermando uno sguardo strano su
ciascuno di loro. “Apprezzo molto la vostra
volontà di esibire le vostre
grazie, vi assicuro che è davvero un bel
benvenuto,” Un’espressione maliziosa
le balenò sul viso. “Ma posso permettermi, anche se a malincuore, di
consigliarvi di mettervi qualcosa
addosso? È pur sempre gennaio, dopotutto.”
“Hey, questa è
casa mia, ok? Se voglio, vado in giro anche
nudo, va bene?” bofonchiò Tom.
“Grazie, Tom, ci mancava
solo questa.” Sbuffò Bill, roteando
gli occhi.
Georg e Gustav ridacchiarono nel
vedere come Vibeke reagì ai
loro bisticci: aveva l’aspetto di una che era appena capitata
in un asilo di
bambini schiamazzanti.
Non vedeva l’ora che Nicole
ed Emily la conoscessero. Era certo
che, pur essendo così radicalmente diverse, si sarebbero
trovate molto
simpatiche.
“Bene, se nessuno ha da
obiettare, io me ne vado a farmi una
doccia,” annunciò Tom, avviandosi verso le scale.
“Chiamatemi quando il pranzo
è in tavola.”
“Io mi faccio un
bagno.” gli fece eco Bill.
“Grandioso, entrambi i
bagni occupati,” grugnì Gustav,
mentre anche Bill scompariva verso il piano superiore.
“Georg, sarà il caso che
tu ed io ci andiamo a vestire.”
Gerog annuì.
Con un Kaulitz per bagno, in media
l’attesa oscillava tra la
mezz’ora e l’ora (colpa imputabile quasi
esclusivamente a Bill, visto che Tom,
a prendersela comoda, ci metteva al massimo un quarto d’ora),
perciò potevano
mettersi l’animo in pace. L’unica era vestirsi e
cominciare a spiegare a Vibeke
come funzionavano le cose là dentro, partendo, per
l’appunto, dall’equa
prenotazione dei bagni.
“Voi due potete anche
restare così, non c’è
problema,”
commentò Vibeke in tono ammiccante. Georg si
sentì improvvisamente molto più
nudo di quel che in realtà non fosse. “Era Kaulitz
a disturbarmi.”
“Uno o Due?”
Vibeke fece spallucce.
“Non ricordo quale fosse
uno e quale l’altro.”
Georg notò che Gustav,
così come lui stesso, stava
praticamente per scoppiare dalla voglia di ridere.
“La principessa,
comunque,” precisò poi lei. Fece una
smorfia, accompagnata da un piccolo fremito di disgusto. “Chi
è che ha avuto il
coraggio di regalargli quel pigiama da checca in carriera?”
Domande come quelle erano ordinaria
amministrazione da parte
di chiunque avesse il privilegio (sventura) di varcare la soglia di
quell’appartamento. Col tempo, avevano anche stabilito la Top
Three ufficiale
delle perplessità più simpatiche: alla numero tre
si era piazzata ‘Non vi da
fastidio che il vostro cane metta tanto disordine?’, ispirata
per la maggior
parte dalle condizioni in cui versavano la stanza di Tom e quella di
Georg
stesso; alla due stazionava ‘Quale delle vostre ragazze porta
quella roba?’,
riferita al novanta percento dei capi che Bill era solito disseminare
per casa
durante i suoi impellenti attacchi di panico da mise da spettacolo; la
numero
uno, la preferita di tutti quanti, era quella a cui nessuno aveva
ancora avuto
il coraggio di rispondere: ‘Oddio, ma avete avuto dei
ladri?’
Insomma, a modesto parere di Georg,
la confusione che regnava
tra quelle quattro mura era sì un po’ eccessiva,
ma non così tanto da pensare a
dei ladri o, come tutte e tre le loro madri avevano supposto la prima
volta,
un’effrazione intimidatoria.
“Se
l’è regalato da solo,” le rispose
Gustav. “Siamo andati
a Disney World, lo scorso Natale. Lo ha visto e ha deciso che lo
voleva.”
Disney World. Georg lo ricordava
bene. Emily era
letteralmente impazzita per il galeone dei pirati e ci avevano messo
mezz’ora a
convincerla ad andare a vedere anche il resto del parco. Georg le aveva
regalato un pigiama identico a quello di Bill, guadagnandosi peraltro
una bella
strigliata da parte di Nicole, che lo aveva accusato di starle
rovinando il
lavoro di una vita, viziandola così.
“Fammi indovinare, quello
di ricambio l’ha preso della
Carica dei 101?” suppose Vibeke.
Sia Gustav che Georg risero. Era un
bel tipo, anche se la
sua arguzia già manifestava i primi attriti con Tom, ma
Georg se l’era
aspettato: Tom aveva pochissima esperienza con le ragazze investite del
dono
dell’intelligenza, e, perfino dopo quasi un anno di pratica
con Nicole, aveva
ancora serie difficoltà a rapportarsi con un cervello
femminile.
“Veramente ancora gli
manca, quello,” la informò Georg. “Ne
ha un paio di Armani e uno che si è disegnato lui in
persona, ma quello della
Carica dei 101 ancora non ce l’ha.”
“Provvederemo per il suo
compleanno, però.” soggiunse
Gustav, esibendo una serietà che era però tradita
dallo scintillio divertito
nei suoi occhi.
Si piacciono,
pensò Georg sornione, guadando lui e Vibeke che si
sorridevano. Sembrava un
miracolo che Gustav riuscisse a farsi andare a genio una ragazza, ma
forse una
come Vibeke era esattamente quel che gli ci voleva: una donna che
sapesse fare
qualcosa di più utile e proficuo che starnazzare e svenire
in sua presenza,
onde evitargli imbarazzi inopportuni, vista la sua timidezza.
Strano,
però,
rifletté pensieroso, avrei detto
che una
senza peli sulla lingua come lei lo avrebbe messo in soggezione, e
invece
guardali…
Gustav e Vibeke stavano andando verso
la cucina,
chiacchierando come amici di vecchia data, lasciandolo basito
nell’atrio
dell’ingresso.
“Hagen, Gud chiede cosa
vuoi per pranzo.” urlò Vibeke,
dall’altra stanza.
Georg si obbligò a non
perdere le staffe.
Promemoria:
scorticare
Tom appena esce da quel maledetto bagno.
“Un piatto di
pasta?” urlò in risposta.
“Andata!”
soggiunse la voce di Gustav.
Georg preferì continuare
la conversazione faccia a faccia,
onde evitare che l’intero quartiere potesse sentirsi
partecipe della
disquisizione del menù del lunedì mezzogiorno.
Arrivato alla cucina, trovò
Gustav che le mostrava cosa c’era nei vari armadietti e le
illustrava per le
somme che genere di cibo si consumasse solitamente.
“Non sarà
difficile farvi la spesa,” fu il commento di
Vibeke. “Basterà riempire il carrello di tutte le
schifezze più disgustose che
si trovino in commercio.”
“Hai decisamente centrato
il punto,” Si complimentò Georg,
rendendo così nota la propria presenza. “Tu invece
mangi seguendo una sana e
bilanciata dieta mediterranea ogni giorno?” la
provocò. Lei si limitò a
raccogliersi distrattamente i capelli su una spalla.
“Sono norvegese, bello,
cosa vuoi che ne sappia di piatti
mediterranei?”
Georg inarcò le
sopracciglia. Si appoggiò allo stipite della
porta, le braccia conserte.
“Cosa cucina un norvegese,
esattamente?”
“Un bel niente,”
replicò lei con candore. “Per quanto
riguarda la sottoscritta, almeno. A meno che non si tratti di qualcosa
di
precotto che basti schiaffare in un microonde per qualche
secondo.”
Uno schiocco della
lingua da parte di Gustav li fece voltare entrambi:
“Ho capito
l’antifona, sono l’unico qui dentro in grado di
preparare un pasto decente,” Sospirò.
“Resti a farci compagnia?” domandò poi a
Vibeke, la quale ci dovette pensare un po’ su.
“Se resto, è
probabile che a Kaulitz resti tutto sullo
stomaco…” Finse di soppesare
l’eventualità per qualche secondo. “Il
che sarebbe
delizioso, per me, ma proprio non posso. Alle due rientra il mio amato
fratellone, e se non ci sono io a casa, non sa nemmeno come aprire il
rubinetto.”
Georg aveva perfettamente presente il
fratello di Vibeke: un
ragazzo altissimo – una manciata di centimetri più
di Bill – e dal fisico
asciutto, con una lunga coda di capelli biondi e charme da vendere. Non
riusciva proprio ad immaginarlo in vesti casalinghe.
“È un orario un
po’ strano, per un DJ,” le disse. “Come
mai
rientra così tardi?”
Vibeke si fece da parte per
permettere a Gustav di
cominciare a tirare fuori pentole e pasta e restò ad
osservarlo per un istante
con occhi curiosi, poi si appoggiò a sedere sul bordo del
tavolo e fece
spallucce.
“In genere torna dalle
discoteche intorno alle sette,”
spiegò. “Ma tre mattine alla settimana, verso le dieci, va
in palestra, e la sottoscritta dev’essere pronta a scattare,
o la casa si trasforma…”
Si schiarì la voce, gettando uno sguardo verso il salotto,
invaso di abiti di
vario tipo, lattine di Red Bull e bottiglie di birra, cartoni di pizza
e altre
svariate cose. “In una replica perfetta di questa.”
“Tuo fratello
dev’essere uno in gamba nel creare disordine,”
intervenne Gustav, trafficando con il fornello. “Per riuscire
da solo a creare
un’imitazione di questo posto, ci vuole del talento
innato.”
Una risata scoppiò tra di
loro, proprio nel momento in cui
sia Tom che Bill facevano il loro ingresso nella stanza, completamente
vestito
il primo, in accappatoio il secondo, i capelli bagnati che gocciolavano
ovunque.
“Che si mangia?”
domandò Bill, prendendo posto a tavola.
“Pasta.” Rispose
Gustav, trafficando con un paio di coperchi.
Tom parve sorpreso.
“Non doveva cucinare
Vi?”
A Georg sembrò quasi di
cogliere la scintilla collerica che
si accese negli occhi di Vibeke.
“Primo,”
esclamò la ragazza, piantandosi ad un centimetro da
Tom, le mani sui fianchi. “Non mi chiamare mai
più in quel modo,” La sua voce era un
minaccioso sibilo tra i suoi denti.
“Secondo, sono qui per occuparmi delle vostre
cose, non di voi, e di te tanto meno!”
Georg aveva la netta sensazione che i
giorni a venire
sarebbero stati densi di novità per quanto riguardava il
loro equilibrio
esistenziale: non poteva certo prevedere come e in che misure quella
bizzarra
ragazza avrebbe influenzato la loro vita – perché
l’avrebbe fatto, se lo
sentiva – ma di una cosa era certo: viste le premesse, si
poteva presagire aria
di tempesta sotto a quel tetto.
Chi
vivrà, vedrà.
***
“KAULITZ!”
tuonò una voce ormai fin troppo conosciuta.
Tom si seppellì sotto al
cuscino del divano, invocando
l’aiuto della divina provvidenza affinché lo
facesse scampare dall’imminente
tragedia.
Sentì sbattere una porta,
poi un’altra, e poi dei passi
pesanti che si avvicinavano. Seduto sul divano accanto, Bill se la
rideva sotto
i baffi, sfogliandosi Vogue in tutta tranquillità.
“Ora la senti.”
L’insulto che Tom gli
rivolse si spense in un rantolo
frustrato.
“Kaulitz!”
sbraitò nuovamente Vibeke, comparendo sulla
soglia della stanza con una discreta quantità di biancheria
fresca di lavaggio
dentro un secchio. “Ho appena rinvenuto tre paia di boxer
nella tua stanza, e
mi devi proprio spiegare com’è possibile che uno
fosse finito sopra
l’armadio!”
Tom ancora non capiva
perché toccasse proprio a lui essere
il gemello chiamato per cognome, ma forse se l’era meritato,
visto che aveva
deciso di darle sui nervi fin da subito e in tutti i modi possibili. E,
in ogni
caso, forse era comunque meglio che essere chiamato Principessa, come
invece
sporadicamente toccava a Bill, per via dei suoi saltuari attacchi di
pignoleria
acuta.
Non si diede nemmeno la pena di
spostarsi il braccio dagli
occhi per risponderle.
“Che vuoi, non ho mica
tempo di badare a dove butto la roba
mentre sono intento ad intrattenere una ragazza.”
“Ho dovuto togliere uno
strato di ragnatele che erano
diventate tutt’uno con il cotone!”
esclamò lei, la voce che si faceva acuta,
come ogni volta che si infuriava con lui, cioè sempre.
Era la loro assistente
personale da neanche due settimane, ma ci aveva messo poco
(niente) a
sentirsi in diritto di dettar legge, dentro e fuori le mura domestiche.
Va bene, forse Tom non aveva
esattamente contribuito a farla
sentire la benvenuta e rispettata, dicendole che non la pagavano per
ciarlare,
ma per sgobbare, però trovava ingiusto che Gustav si fosse
beccato un nomignolo
come Gud – che, a detta di Vibeke, significava
‘Dio’ in norvegese – mentre lui
doveva sorbirsi una lunga serie di epiteti molto affettuosi o, se gli
andava
meglio, il proprio cognome. Non che il tutto non fosse ampiamente
ricambiato,
da parte sua, ma odiava i favoritismi ingiustificati.
C’era da riconoscere che,
però, anche Georg aveva una bella
gatta da pelare con lei: da quando Vibeke aveva scoperto il suo nome
completo,
aveva iniziato a chiamarlo Hagen, cosa che per lui era alquanto
snervante, ma
che compiaceva e consolava Tom almeno in minima parte.
“Ricordami di mandarti dei
fiori per dimostrarti la mia gratitudine.”
Le rispose, mentre poteva quasi percepire lo sforzo di Bill di non
ridere. Se
gli fosse scappato qualcosa, Vibeke non si sarebbe fatta molti problemi
a
prendersela anche con lui. Strano ma vero, Bill non sembrava piacerle
più di
quanto non le piacesse Tom.
“Perfetto,” disse
lei, facendo per andarsene. “Mi piacciono
le ortiche raccolte di fresco.” Gli comunicò.
“Avrei detto le
rose.” Disse Tom, indicando il tatuaggio che
le si intravedeva sotto la rete nera delle maniche della maglietta.
“Le rose sono belle, ma
pungono.”
Tom la guardò di traverso.
“Le ortiche no,
vero?”
“Ma tutti sanno che le
ortiche pungono. Le rose invece sono
così belle che ci si dimentica che hanno le spine.”
Tom inarcò le
sopracciglia. Non solo quella ragazza era
strana, ma faceva anche dei ragionamenti strani. Non vedeva
l’ora che Georg e
Gustav rientrassero dalla palestra per tenerla distratta e,
soprattutto,
lontana da lui. Sotto quell’aspetto, Bill era ben poco utile,
visto che la
rifuggiva come un gatto rifugge l’acqua.
“Come siamo finiti dalle
mie mutande a parlare di spine?”
“Viene piuttosto spontaneo,
se l’interlocutore sei tu.”
Replicò Vibeke.
“L’ho
già detto che ti amo come un cane ama le sue
zecche?”
sbottò lui, imbronciato.
“Sono stata io a dirlo a
te, poppante, giusto l’altro pomeriggio.”
A grandi linee, la struttura tipica
delle loro conversazioni
abituali era quella: uno di loro partiva col criticare qualcosa che
aveva fatto
l’altro (a scelta tra: sistemazione e collocazione degli
indumenti,
riordinamento generico dell’appartamento, tipologia dei
generi alimentari della
spesa), seguivano una serie di botta e risposta amichevoli quanto una
serie di
randellate sul naso, ed infine un’anima pia (Georg e Gustav
per la maggior
parte delle volte, spesso chiunque ci fosse nei paraggi, raramente
Bill,
fondamentalmente restio a rimetterci un capello o la sanità
mentale, anche a
discapito dei propri timpani) giungeva a dividerli.
Tom aveva sin da subito etichettato
Vibeke come soggetto
altamente psicolabile, nonché pericolosamente anomalo.
Non era mai stato un tipo refrattario
alle belle ragazze, ma
lei era una questione a sé, che francamente non riusciva a
comprendere, da
qualunque punto di vista la analizzasse. Abituato com’era a
Nicole – così
gentile e dolce – si era ritrovato di punto in bianco ad
avere a che fare
un’invasione territoriale di estrogeni di una tipologia a lui
sconosciuta, e
questo lo aveva reso diffidente e radicalmente indisponente.
Il fatto era che decriptare Vibeke
era un’impresa così
faticosa che si era visto costretto a gettare la spugna prima ancora di
averci
veramente provato. Da che aveva messo piede in quella casa, Tom non la
aveva
mai vista imbarazzarsi di fronte a qualche dettaglio non proprio
puritano – la
sua scorta secolare di preservativi, per dirne una, ma anche il
semplice fatto
di raccogliere il loro intimo in ogni angolo della casa e sbatterlo in
lavatrice come se fossero stati calzini – e più
passavano i giorni, più lui si
chiedeva perché, anziché una stramba goth dagli
occhi bicromi, non avessero
invece preso una dolce vecchiettina che preparasse loro lasagne tutti i
giorni.
“Che ore sono?”
chiese Bill, mentre Vibeke si metteva in un
angolo del grande salotto a riempire lo stendibiancheria.
“Ora di pranzo,”
disse Tom, il cui stomaco cominciava a dare
le prime avvisaglie di necessità di rifornimento.
“Hey, Vi, che c’è di buono da
mangiare?”
“Kaulitz,
cosa ti
ho detto in merito agli appellativi da rivolgermi?”
“Che non vuoi essere
chiamata Vi.” Cantilenò lui. Già la
conosceva, quella solfa.
“E quanto volte te
l’ho ripetuto?”
Tom sbuffò, girandosi su
un fianco per voltarle le spalle.
“Ho perso il conto al
cinquantadue.”
“Settantanove.”
Rispose Bill prontamente, senza staccare gli
occhi dalla sua rivista.
La cordiale replica di Tom fu una
cuscinata in faccia, che
strappò a Bill uno strillo stizzito.
“Ma sei scemo?”
Il contrattacco alla cuscinata fu un
esemplare lancio di
Vogue, che lo colpì in piena fronte, proprio mentre si
tirava su.
“Vaffanculo!”
grugnì, massaggiandosi la parte lesa. Bill
poteva anche essere un fallimento, in quanto a forza bruta, ma
sull’artiglieria
pesante andava forte.
“Allora, che si
mangia?” domandò Bill, ignorandolo.
Vibeke sistemò una
maglietta rossa, che Tom riconobbe come
propria, su uno dei fili, senza curarsi di eliminare le piccole pieghe
che si
erano formate.
“Gnocchi ai quattro
formaggi.” Rispose asciutta.
Le ci era voluto un cospicuo aumento
del compenso che
avevano concordato all’inizio, perché si
convincesse a fare anche da cuoca, di
tanto in tanto, ma alla fine aveva acconsentito. Si era così
rivelata tutt’altro
che microonde dipendente: nonostante le sue stesse premesse, Vibeke se
la
cavava abbastanza bene ai fornelli, una volta acquisite le nozioni
fondamentali
della cottura della pasta. A quanto pareva, in casa Wolner non se ne
mangiava,
per via dell’intolleranza al glutine che sia lei che
BJ avevano avuto fin da
piccoli, ma aveva imparato in fretta, e, anche se non lo avrebbe mai
ammesso,
si divertiva a cucinare.
“Ma io volevo la
pasta!” si oppose Bill.
“Lascia stare,”
gli disse Tom, sventolando una mano. “Non le
fai cambiare idea, tanto. I suoi prediletti hanno richiesto gli
gnocchi, e
gnocchi avranno.”
In quell’attimo si
sentì una chiave inserirsi nella
serratura e, qualche scricchiolamento dopo, la porta
d’ingresso si aprì.
“Casa dolce casa!”
Quando si levò la mano
dalla fronte dolente, Tom riuscì ad
individuare Georg che entrava, seguito da Gustav. Entrambi avevano in
mano i
soliti borsoni blu e rossi della palestra e l’aria stanca.
Il viso di Vibeke si
illuminò all’istante. Piantò bucato e
stendibiancheria e corse incontro a Gustav, prendendogli giacca e
borsone con
premura.
Fin dal primo giorno, non aveva mai
cercato di nascondere la
propria manifesta preferenza verso di lui, così come, sul
fronte opposto, non
aveva mai nascosto la propria manifesta insofferenza verso Tom, cosa
che lo
mandava alquanto in bestia, visto che non aveva fatto assolutamente
niente per
meritare un simile trattamento.
A parte la
disumana,
masochistica perseveranza nel rivolgerti a lei chiamandola
‘Vi’, gli ricordò
la parte di sé che provava del piacere perverso nel metterlo
di fronte ai fatti
concreti.
E allora?,
ribatté
lui, sulla difensiva, lei continua a
chiamare Georg ‘Hagen’, anche se sa che a lui non
piace!
Vibeke prese tutta la roba di Georg e
Gustav ed annunciò che
l’avrebbe messa subito in lavatrice.
“Fate in tempo a farvi una
doccia, prima del pranzo,” li
avvertì. “Vi metto tutto in tavola e scappo, ci
vediamo venerdì.”
“Ma anche no.”
Mormorò Tom fra sé, senza preoccuparsi di non
farsi sentire. Dapprima si stupì della mancanza di una
risposta immediata, ma
una frazione di secondo più tardi Vibeke gli
arrivò davanti con una mano
nascosta dietro la schiena e, prima che lui potesse rendersi conto
delle sue
intenzioni, gli vuotò in faccia quel che restava in una
delle bottigliette di
bevande vitaminizzate che Gustav e Georg si portavano in palestra.
“Ti amo anch’io,
Kaulitz.” Gli disse poi, soave, e se ne
andò via, portandosi dietro i due borsoni, mentre il resto
dei presenti si
sganasciava dalle risate.
Tom balzò in piedi,
fumante di rabbia. Si tolse la maglietta
bagnata, praticamente strappandosela di dosso, marciò oltre
Georg e Gustav con
tutta la dignità di cui poteva disporre qualcuno con la
faccia e i capelli
grondanti di liquido appiccicaticcio all’arancia, e irruppe
nel locale
lavanderia, dove Vibeke stava caricando la lavatrice.
“Lava anche
questa.” Le ordinò, sbattendole la maglietta
sotto il naso.
Anziché aggredirlo
verbalmente com’era suo solito fare, lei
raccolse la maglietta e la posò sullo sportello della
lavatrice senza battere
ciglio. Si portò i lunghi capelli neri dietro
all’orecchio sinistro, e solo
allora Tom notò, dopo due settimane, l’incredibile
sfilza di piercing che lo
ornavano. Al destro invece portava solamente un minuscolo cuore in
argento.
“Com’è
che hai un quintale di piercing a sinistra e uno solo
a destra?” le chiese.
Lei interruppe per un attimo il
trasferimento degli
indumenti dai borsoni al cestello e si voltò verso di lui.
“È simbolico,” gli
disse. “Ho messo un cuore di metallo in corrispondenza del
mio cuore vero, e
gli altri hanno una storia particolare che non credo tu abbia voglia di
stare a
sentire.”
“Non per rovinarti la
simbolica trovata, ma il cuore sta a
sinistra.”
“Ho gli organi disposti in
modo speculare rispetto al normale,”
dichiarò Vibeke con disinvoltura, tornando alla propria
occupazione. “Si chiama
destrocardia: il mio cuore è a destra.”
Tom non sapeva se dicesse sul serio o
meno. Gli venne da
domandarsi se questo potesse comportare qualche problema di salute, ma,
a
guardarla, non si sarebbe affatto detto.
“E il cervello ti
è finito nello stomaco?” la stuzzicò.
Lei sorrise ironicamente, senza
degnarlo della minima
attenzione.
“Può darsi.
Sempre meglio che in mezzo alle gambe come il
tuo.”
Tom si portò una mano sul
cavallo dei pantaloni, ghignando
in pieno compiacimento.
“Sta benissimo
lì dov’è, credimi.”
“Certo,” convenne
lei, convinta. “Probabilmente si
sentirebbe smarrito in una landa desolata come il tuo cranio.”
“Il mio cranio è molto sexy. Chiedi a qualunque donna, etero e non, ti diranno tutte quanto sia interessante la testa di Tom Kaulitz.”
“Non ci vedo niente di interessante in un pallone gonfiato pieno d'aria e di sé.”
Tom trattenne una sonora imprecazione.
Non la reggo!
Un brivido di irritazione lo scosse
lievemente.
Dio, quanto
non la
reggo!
Tom stava per andarsene, ma la voce
di Vibeke lo trattenne:
“Kaulitz.”
“Che vuoi?”
Un sorrisino impertinente si
formò sulle labbra di lei, che
reggeva in mano la sua maglietta.
“Impara a dire
grazie.”
“Vaffanculo, Vi!”
Ruggì, accompagnandosi con un dito medio
sollevato, e se ne andò, portandosi via un asciugamano con
cui asciugarsi il
viso.
Cazzo,
quant’è odiosa!
Andò dritto nella propria
stanza, afferrò una maglia pulita
a caso e la indossò, poi fece lo stesso con un paio di
scarpe e un giubbotto,
infine tornò come una furia nell’ingresso e
cercò le proprie chiavi sul
tavolino dell’ingresso.
“Hey,”
esclamò Bill, accoccolato sul divano, ancora immerso
nelle sue auliche letture. “Dove vai?”
“A farmi
fottere!” rispose Tom, appena prima di sbattersi la
porta alle spalle.
Intendeva in senso piuttosto
letterale.
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Note:
capitolo
scandalosamente pietoso, lo so, ma è un raccordo
introduttivo alla storia vera
e propria, quindi vi concedo di essere spietati, ne avete il diritto,
dopotutto. Ah, quasi dimenticavo: per il tempestivo aggiornamento si ringrazia Ladynotorius e la sua gentile pressione! XD
Passiamo ai ringraziamenti decenti,
che è meglio…
Ladynotorius:
mia
cara MS Ambassadress (termine inventato al momento, ma che tuttavia
potrebbe
anche esistere), meno male che hai ‘restaurato’ la
recensione, perché l’ho
semplicemente adorata! Io faccio scompisciare te, tu fai scompisciare
me, siamo
pari! Ti iscrivi anche tu al club “Adotta un
Benjamin”? XD
Isis88:
danke! Continua
a seguire Vi & Co, e vedrai che riderai sempre di
più!
piscula: ti dirò, nella
vita reale (ma anche nella
finzione), Vibeke è un personaggio che sta facilmente sulle
scatole, ma è fatta
così, poveraccia, che ci dobbiamo fare? A suo modo, sa
essere simpatica anche
lei.
Purple Bullet:
se
sei come Vibeke, ho una proposta da farti: sposami! XD spero non ti
spiaccia se
ho già una moglie e diversi concubini (tra cui i quattro
fanciulli di cui
sopra), so che a qualcuno può dare fastidio. XD
BabyzQueeny:
e
grazie anche a te!
btb:
ecco, mi fa
piacere sentire che la pensi così, per me è
davvero importante che i miei
lettori capiscano i sentimenti che mi impegno a mettere in quello che
scrivo. J
Sarakey:
spero di
non aver deluso il tuo entusiasmo iniziale con questo pseudosquallore
di
capitolo. ^^” Come vedi, i punti di vista saranno numerosi,
in modo che
ciascuno abbia il giusto spazio e la giusta voce.
CowgirlSara:
non
vi si può mai nascondere nulla, a voi MS, avete
l’occhio fino, ormai.
SusserCinderella:
grazie mille! Grazie degli auguri per gli esami, sono andati benissimo!
fucking_princess:
hai gli occhi bicolori?? [teen mode] Che figata assurda! [/teen mode]
Mi auguro
gradirai questo sequel come l’anello iniziale!
bluebutterfly:
intanto, grazie per la recensione e, soprattutto, per aver riportato la
tua
sincera opinione. Per quanto riguarda il fatto che Vibeke si metta a
fare da
assistente dei Tokio Hotel, nonostante tutto, forse sarebbe poco
credibile, in
altri contesti, ma lei è già stata comunque
scelta per essere il loro tecnico
delle luci, e la questione del fare da assistente è una
sorta di ‘tappabuchi’
temporaneo (fintanto che il tour non comincia e i ragazzi si dedicano a
qualche
breve settimana di relax), quindi io l’ho reputata
un’eventualità verosimile,
ma comprendo che magari per qualcun altro che legge la storia
dall’esterno e
non ha ancora modo di conoscere fatti e sviluppi potrebbe apparire
forzato,
effettivamente. In secondo luogo, purtroppo non so chi sia la Heidi che
hai
menzionato né a che fanfiction tu ti riferisca, ma ti posso
dire che il
personaggio di Vibeke è nato in un baleno nella mia testa,
come contrapposizione
diametrale di Nicole, e ha preso forma in relazione al rapporto che ho
immaginato potesse avere con Tom. In quanto a carattere ricorda
già altri due
personaggi, da me profondamente amati ed ammirati, sempre di questo
fandom,
ossia le grandiose Mackenzie ‘Mac’ Rosenbaum di RubyChubb e Alhena
‘Leni’ Regan di Lady
Vibeke (la prima, ci tengo a sottolinearlo, l’ho
conosciuta
solo a stesura già iniziata di questa storia). Sono del
parere che serva un
certo tipo di ragazza, con un certo tipo di carattere, da relazionare
ad un
tipo come Tom, e trovo quindi comprensibile che i caratteri di questi
original
characters finiscano per avere sempre qualcosa in comune. Lo considero
un segno
di comune interpretazione del personaggio reale a cui si intende
affiancarle. Per
quanto riguarda il fatto che Vibeke non abbia riconosciuto Tom, ti
risponde lei
stessa: “Non
era certa che li avrebbe saputi riconoscere, se li avesse visti uno per
uno,
separatamente, ma sapeva perfettamente chi fossero quei quattro ragazzi
– quel gruppo.” E poi era sera tardi, era buio,
ed era ubriaca, quindi vedeva decisamente appannato (credimi, so cosa
vuol dire
avere difficoltà a mettere a fuoco dettagli con una bella
sbronza che
imperversa, e soprattutto quando faticoso sia ricordarseli! ^^) Grazie mille, inoltre, di avermi
fatto presente l’errore di
battitura (RubyChubb, mia betareader
ufficiale, sarà frustata a sangue in seguito alla svista):
rileggo il capitoli
migliaia di volte (dannata pignoleria), ma qualcosa mi sfugge sempre.
^^ Ovviamente
grazie anche dei complimenti e di esserti presa il disturbo di
recensire,
apprezzo molto. Ti aspetto al prossimo capitolo. ;) (fra parentesi: mai
e poi
mai direi che una fanfiction è solo un lavoro di fantasia,
poiché io stessa ho
più volte sottilizzato su dettagli di certe storie che
trovavo inverosimili. Un
buon lavoro, a mio parere, dev’essere in tutto e per tutto
credibile, fantasia
o meno che sia.)
loryherm:
carissima!
Ormai non so più come dirti grazie per tutti i tuoi
complimenti. Ti si vedo
poco su msn, ultimamente, ma so che hai da fare, quindi ti auguro solo
di
trovare un po’ di tempo libero. ;)
picchia:
i
pensieri legati a Benjamin e roba affine sono giustificati
dall’effettiva
fighezza del biondo soggetto in questione. Non so se lo hai mai visto,
ma merita!
°ç°
Muny_4Ever:
adoro
vedere come certe parti ti piacciano quanto piacciono a me! Il signor
batterista e i suoi bicipiti possono venire a farmi visita privata ad
ogni ora
del giorno e della notte! XD
Lady Vibeke:
io
lo so che tu in realtà hai le tue fantasie in cui immagini
di essere la posto
di Vi (le ho anche io, figuriamoci), quindi capisco anche
l’empatia che provi
verso di lei. Mia cara collega MS, pendo dalle tue severe labbra per il
giudizio su questo capitolo un po’ privo di capo e coda. ^^
NeraLuna:
Vibeke
è il mito personale di molti, vedo, me compresa. ^^ Istituiamo un fanclub?
ruka88: Vibeke non va a vivere a casa
TH, come avrai notato,
ma solo a sistemare un po’ di caos ogni tanto.
Però grazie infinite dei
complimenti! ^^
carol22:
sei
sempre gentilissima! Apprezzo molto lo sforzo del recensire ad orari
impossibili, so cosa significa avere difficoltà a far
ingranare il cervello, in
certi momenti. ^^ Grazie di tutto!
RubyChubb:
mugliera, sei uno spasso, ma è anche per questo che ti amo.
Non ho altro da
dire, se non: MS power!
ElianaTitti:
continua
pure a ripeterti, il mio ego non è mai gonfio abbastanza! XD
Scherzi a parte,
puoi dire quello che vuoi, qualsiasi opinione per me è sacra.
Grazie anche ad _Ellie_,
susisango e GodFather,
che non hanno commentato, ma so che hanno letto. ;)
Alla prossima!
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