Altrove

di TangerGin
(/viewuser.php?uid=271824)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Labbra ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Radioattivo ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - 19:55 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Mayla ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Deserto ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Ottobre ***
Capitolo 7: *** Epilogo - Valigie ***



Capitolo 1
*** Prologo - Labbra ***




Prologo
Labbra

Ci sono parole che frullano nella testa di Vera, concetti da ricordare, sigle da memorizzare.
Poi ci sono i compagni di corso nervosi come gatti, tanto quanto lei, che si morde l’ennesima pellicina al lato del pollice, che inizia a sanguinare.
Suo padre quella mattina l’ha abbracciata, mentre aveva un piede dentro casa e l’altro sullo zerbino e “Non ti preoccupare, essere ansiosa è normale: il primo esame universitario non si scorda mai!” però tutta quell’ansia adesso sembra offuscarle ogni riga di ogni pagina di tutti quei cinque libri che ha studiato per questo dannatissimo esame di linguistica generale.
Il pollice continua a sanguinarle e lei vorrebbe non curarsene, per continuare ad angosciarsi ancora un po’, ma è costretta ad uscire dall’aula, per recarsi in bagno a sciacquarsi le mani. Quando finisce di riparare al danno, e si fissa il dito rosso, poi alza lo sguardo e incontra i suoi stessi occhi riflessi nello specchio: stamani sono nascosti dietro a quegli occhiali troppo spessi, perché il tempo per le lenti a contatto non l'ha trovato, e sotto la luce al neon del bagno sono di un marrone ancor più anonimo, e Vera sospira, forse perché non vuole rassegnarsi a quell’anonimia, o forse perché sotto sotto sa di poter fare di meglio.
“Ha chiamato Andrew, mi sa che la prossima sei te” sussurra Portia, mentre Vera riprende posto al suo fianco, e abbassa gli occhi sul quaderno degli appunti davanti a sé. No, non ce la può fare a rileggerli per l’ennesima volta. Non ce la fa nemmeno a seguire l’esame del suo compagno. Vorrebbe solo che questa giornata fosse già finita.
 
Vera si alza dalla sedia, vorrebbe piangere ma non lo fa, la bocca è serrata in una linea amara e storta, ma gli occhi restano decisi, nonostante inizino a pizzicarle. Le importano poco i cori di “dai, sarà per la prossima volta” e non ha il coraggio nemmeno di telefonare a suo padre, che le ha mandato un sms per chiederle com’è andato l’esame. Perché la delusione probabilmente è più nei confronti delle aspettative che la sua famiglia ha da sempre riposto in lei, piuttosto che per la sconfitta personale.
Raccoglie i libri ed i quaderni, li infila frettolosamente nella tracolla, forse saluta i compagni che la fissano con sguardi compassionevoli – lei non vuole la compassione di nessuno - ed il suo obbiettivo è uno solo: uscire da quell’aula. Il più velocemente possibile.
 
Ed è allora che le vede per la prima volta.
 
È da circa un anno che Vera non sente battere niente al centro del suo petto. Il sangue continua a pulsarle, quello lo sa, ma a volte resta immobile, a fissare il soffitto della sua camera, con una mano sul cuore, e quello che sente è un battito pressochè impercettibile. Perché Nick, oltre alla dignità, le ha portato via anche la capacità di provare un benchè minimo sentimento positivo. E Vera non crede più nel cuore, nelle farfalle, nei sorrisi, nelle labbra che tremano. Non crede più in quello che dovrebbe chiamarsi amore e che, per lei, è stato solo un inferno di illusioni e bugie.
 
Eppure vede quelle labbra, ed improvvisamente percepisce quel brulichio alla bocca dello stomaco, che aveva quasi dimenticato – e forse avrebbe voluto dimenticarlo per davvero.
È una bocca carnosa, quella che vede, ed il labbro superiore delinea un’onda perfetta, e sono due labbra di un rosa pallido, che però quasi contrasta con l’altrettanto pallido viso che le circonda.
Sopra le labbra c’è un naso, ed è bello anche quello. È dritto, e non troppo grande, ma non diresti nemmeno che è piccolo, e forse è un po’ arrossato. È pur sempre gennaio.
Ai lati del naso ci sono due occhi, e Vera – quasi disperata – constata che pure questi son belli. Sono grandi, e le sembrano verdi ma forse sono nocciola, perché sono mascherati da una montatura dorata. Le ciglia sono poche, o forse sono semplicemente molto chiare, come quello che sembra un accenno di barba sul mento piccolo e squadrato.
Vera osserva il tutto da qualche metro di distanza, lui è seduto all’ultimo banco e lei stava uscendo da quell’aula. Da quella dannatissima aula.
Ci sono tante parole che frullano nella testa di Vera, ma non ne dice nemmeno mezza, e si stringe nelle spalle perché vuole proteggersi, non dal freddo, ma da quel brulicare incessante che sta continuando a contorcerle lo stomaco.
Non pensiamoci, bisbisglia a se stessa, e poi ripensa all’esame bocciato, alla delusione, e quelle labbra iniziano a dissolversi pian piano, mentre sale sull’autobus per tornare a casa.
 
 
Il problema è che Vera quelle labbra le rivede, e sono passati due mesi.
È la prima settimana di lezioni, è il nuovo semestre, e basta, bisogna impegnarsi sodo, bisbiglia a se stessa.
Ogni giorno, a lezione, si siede tra Portia ed Andrew e si lascia stordire dalle loro chiacchiere di cui non è interessata nemmeno alla metà. Perché Portia ed Andrew sono simpatici, certo, sono dei bravi ragazzi. Ma quando lei ha provato a chiedergli se avevano visto l’ultimo film di Wes Anderson loro hanno storto il naso, e “Chi? Non lo conosco” hanno esclamato in coro. E quando lei ha provato a farli sentire l’ultima canzone dei Fleet Foxes, loro si sono tolti le cuffiette, quasi inorriditi.
E quindi sì, sono brave persone, e non riesce a condividerci niente se non le solite parole trite e ritrite sui corsi universitari ma forse è meglio così. Perché ciò non comporta nessun brulicare, nessuna ansia da prestazione, niente di niente.
Però Vera rivede quelle labbra, e sono sedute nei posti in cima all’aula magna in cui ha lezione di Antropologia. Per tutta la lezione non fa altro che fissarle e quando torna a casa, e apre il quaderno, si rende conto che non ha scritto mezzo appunto. Ma non si preoccupa, ancora c’è uno spiraglio di salvezza.
Quando telefona ad Amanda, e le racconta di quelle labbra e di quel naso e quegli occhi, la sente sospirare eccitata dall’altro lato della cornetta.
“Vee, non è una cosa brutta! Voglio dire, è da tanto che non ti sentivo parlare di qualcuno con questo tono…emozionato? Non so, mi ero quasi dimenticata che avessi dei sentimenti, sarò sincera.”
Vera borbotta. “Non sono emozionata, dico solo che è molto carino. E sembra un tipo interessante. E forse con lui avrei qualcosa in comune, credo. A giudicare dallo stile per lo meno… Oh, dio, Amy, ma mi senti? Sembro una stupida adolescente! Non voglio sentirmi così, preferivo l’apaticità totale!”
E Vera ci crede davvero quando lo dice. Perché è terrorizzata dai sentimenti, nonostante continui a pensare a quelle labbra.
“Ma almeno sai come si chiama?” chiede Amanda, che non ci pensa minimamente a lasciar cadere il discorso, perché è da un anno che sta assistendo al lento declino emotivo della sua migliore amica e non è ancora riuscita ad aiutarla, e ci crede davvero che quelle poche parole smangiucchiate di Vera su questo fantomatico e misterioso compagno di corso possano rivelarsi in qualcosa di positivo.
Vera sbuffa e “No, te l’ho detto, lo scorso semestre nemmeno c’era. Non ho idea di chi sia e poi se ne sta sempre da solo.”
“Promettimi che proverai a scambiarci due parole.”
Vera rotea gli occhi e ringrazia che Amanda non possa vederla. Non sa se mentirle, per mettere a tacere quella conversazione che si sta già maledicendo di aver iniziato, ma poi opta per la sincerità, perché tanto, lo sa, Amanda avrebbe colto la sua falsità “Ma figurati se mi metto a fare conversazione a caso con un tipo che non conosco. Mandy, mi conosci, cosa ti aspetti?”
E Amanda pure lei rotea gli occhi e pure lei ringrazia che Vera non possa vederla. Perché non capisce proprio cosa freni la sua amica, in ogni contesto. Perché quando le chiede se le va di uscire, Vera prima trova qualche scusa, subito smontata, e poi semplicemente scrolla le spalle e dice “Non mi va” e dietro quelle tre parole Amanda lo sa che Vera vuol dire “Ho paura”. E capisce che è inutile insistere e probabilmente continuerà ogni sera ad ascoltare Vera che le racconta di quelle labbra e di quegli occhi e di quanto sia bella la forma della mascella di quel ragazzo e prima o poi si stuferanno entrambe, e torneranno a parlare delle solite fantasie irrealistiche che ruotano attorno a film e telefilm.
 

 
Scusa sai dove sono le macchinette?
Vera sente prima un brivido che le  giunge fino in pancia e innesca quel solito, dannatissimo brulicare.

È arrivata tardi a lezione, Andrew e Portia sono già impegnati nello scrivere ogni parola di ciò che dice il professore e si sono piazzati in prima fila. Non le sembra il caso di attraversare tutta l’aula per raggiungerli, quando poi, lassù, in cima, ci sono tantissimi posti vuoti.
Forse non troppo inconsciamente ha sperato di rivedere quelle labbra, forse non troppo inconsciamente si è attardata di proposito, in modo da trovarsi costretta a restare in fondo all’aula. Ma, con suo grande disappunto, quelle labbra non si vedono spuntare, nonostante lei continui a girarsi ogni cinque minuti lanciando occhiate alla porta, e maledicendo prima Amanda, che l’ha subdolamente costretta a osare, e poi se stessa, che si è lasciata plasmare.

Però, si sa, la fortuna aiuta gli audaci, e quando meno se lo aspetta, quando stanno per mancare cinque minuti alla fine della lezione, sente quella manciata di parole – pronunciate con un accento strano e condite da una blesità molto forte  – rivolgersi proprio a lei, e quando alza lo sguardo e capisce che quelle parole sono uscite da quelle labbra, Vera non sa bene se si sente morire oppure rinascere.
Prima sorride, ma non a lui, perché tiene lo sguardo fisso sul legno del banco. Sorride pensando ad Amanda, sorride perché sta sentendo un battito forte e deciso in mezzo al petto, ed era tanto che non lo sentiva. Poi, quando trova il coraggio di alzare gli occhi nuovamente, nasconde quel mezzo sorriso e “Devi scendere le scale e uscire dalla porta sul cortile. Là trovi le macchinette” risponde sussurrando, in modo quasi automatico. Una perfetta segretaria.
Lui sbuffa, appoggia la tracolla di pelle nel posto accanto al suo e “Faccio un salto veloce, puoi guardarmi la borsa?” dice, senza aspettare risposta, e Vera vorrebbe dirgli che mancano cinque minuti alla fine della lezione e poi lei deve andarsene, ma non ha il tempo e probabilmente, se anche lo avesse avuto, avrebbe aspettato quelle labbra – e le aspetterà per tanti minuti, e ore, e giorni, ma lei ancora non lo sa.
Quando torna, la lezione è ormai finita, e nell’aula magna è rimasta solo Vera, stretta nel suo posticino, con i piedi sulla sedia e le ginocchia piegate, che si guarda le mani e non capisce. Nemmeno lui capisce, infatti si guarda attorno spaesato. “Ma, la lezione di Antropologia?” chiede, e adesso Vera si convince sempre di più che forse l’ha davvero scambiata per la segretaria dell’università.
Lei scrolla le spalle, fa scivolare le gambe sotto il banco e lo fissa. “Era dalle nove alle undici, è finita cinque minuti fa” risponde, mentre mette via il quaderno e la penna con cui non ha preso alcun appunto, durante quelle due ore.
Quelle labbra, e tutto il suo contorno, si crucciano, e poi si lasciano cadere a sedere accanto a lei.
“Insomma, con questo vuoi dire che ho appena saltato l’ennesima lezione?” ridacchia, mentre si stira le braccia, per poi iniziare a grattarsi la nuca con la mano sinistra. È molto magro, e Vera lo intuisce anche se indossa una grande felpa grigia. Sembra fatto di spigoli, eppure le sembra così armonioso. Vera annuisce, continuando a constatare quanto sia esile quel ragazzo, ed è quasi pronta ad andarsene, se non fosse che lui le blocca il polso con la mano.
“Io sono Silas, comunque. Piacere di conoscerti” e quando dice Silas, a Vera viene un po’ da ridere, perché non riesce a pronunciare le esse e “Sì, lo so, non è il nome migliore per qualcuno con la lisca, sono condannato” aggiunge lui, quasi avesse intuito cosa stava pensando lei – o forse è semplicemente abituato a quel tipo di reazione. Vera scuote il capo e “No, figurati. Io sono Vera, piacere” e ricambia quella stretta di mano, e anche le mani di Silas sono spigolose, però a lei piacciono le geometrie e gli angoli su cui farsi del male.
“Insomma, segui anche tu Antropologia? Di che anno sei?” chiede lui, mentre si rigira tra le mani la confezione di crackers che ha comprato, fissandola dubbioso.
“Sì, seguo antropologia e sono al primo anno di Archeologia” e vorrebbe aggiungere un e te?, ma non ha il coraggio. Per fortuna a Silas non servono domande e, mentre inizia ad addentare il primo crackers, si intromette “Ah! Pensavo fossi una studentessa di Beni Culturali! Allora siamo compagni di corso… io però sono al secondo. Un po’ indietro con gli esami, come puoi ben notare” e sogghigna, strizzando gli occhi, e Vera si ritrova a ridacchiare anche lei e poi si rende conto che aveva fatto male i conti, e gli occhi di Silas non sono nocciola, e non sono nemmeno verdi. Perché ora li vede, mentre riflettono la luce della tarda mattinata e indugiano su quel cracker smangiucchiato, e sono di un blu scuro, sono del colore dell'asfalto mentre piove. E chissà quante volte cadranno le sue ginocchia su quell'asfalto.
Però sono già le undici e dieci, e Vera ha lezione di archivistica e deve scappare.
Silas sorride, e Vera purtroppo constata che quelle labbra, quando sorridono, sono ancor più belle.
“A domani” gli dice poi lui, e lei la prende quasi come una promessa, mentre lo lascia a sedere in quell’aula.
Si volta a guardarlo, prima di uscire dalla stanza, e osserva la sua nuca e, sotto sotto, sa già che dovrà iniziare a temerla, quella nuca.
 
 

~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 
 
Okay, non so bene come presentarvi questa storia. Sono ovviamente super nervosa dato che è la mia prima original vera e propria che pubblico qua :D
Non ci saranno grandi colpi di scena, non aspettatevi drammi, tradimenti, morti o quant'altro. Sarà una semplice storia di una relazione, una storia che potremmo vivere tutti i giorni, qualcosa di quotidiano e reale. Dopotutto, lo sapete: non sono tipa da creare trame troppo complesse, mi piace soffermarmi sull'introspezione che in questa storia sarà la protagonista principale. Forse per questo non sarà il massimo del divertimento, ma spero che possa comunque piacervi, e spero che questo prologo vi abbia incuriosito un po' :)
xx Gin~
PS: dimenticavo! Ecco i prestavolto per Vera e Silas. Lei è una fashion blogger che seguivo su lookbook, e ora su tumblr - anche se ha smesso di fare la fashion blogger, ahimè, mi piaceva un sacco. Lui invece è Elvis Jankus, un modello tedesco che mi uccide, letteralmente.
PPS: un grazie infinito a xxl che mi ha fatto una sorpresa, regalandomi il bellissimo banner quassù. Davvero, mi sono emozionata tantissimo, grazie di cuore ♥


 
 




 
 
   

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Radioattivo ***




Capitolo 1
Radioattivo


 
Sai, sono passati anche quei tre anni ma io lo ricordo ancora il giorno dopo.
Mi ero messa a sedere in fondo all’aula, nonostante fossi arrivata in orario, nonostante ci fossero Portia ed Andrew che mi facevano cenno di scendere da loro, in prima fila. E “Devo andare via prima”, mi scusavo, ma mentivo, e nel frattempo avevo un occhio per loro e l’altro fisso sulla porta.

 
A domattina, avevi scritto, a mezzanotte e diciassette.

C’è che quel giorno non mangiai per ventiquattr’ore, e la fame nemmeno la sentivo.
Se fossi stata diversa, me ne sarei quasi preoccupata, ma continuavo a ripensare a quello schermo del pc, e a quel messaggio nella chat e mi meravigliavo – ed in fondo ancora lo faccio – ed un po’ arrossivo, nel ripensare a quelle due ore.
“Non ci sono tante Vera che frequentano Archelogia” mi avevi risposto quando, come sempre sulla difensiva, ti avevo chiesto come avessi fatto a trovare il mio contatto.
Pensavo di averci visto male, quando vidi quella notifica. Che poi Facebook mi ha sempre messo paura, con quel bianco e blu, asettico: sembra un ospedale, e te l’ho detto quando mi hai scritto quel primo “Hey” seguito da uno smile.
Forse non avrei mai dovuto accettare quella richiesta, non per paura, ma per semplice voglia di osare. Avrei dovuto farti penare almeno un po’, almeno fin quando forse ne sarei stata in grado. Ma non sono mai stata forte né coraggiosa, e ora lo sappiamo entrambi, ed osare è un verbo che non mi è mai appartenuto.
Non so affrontare le emozioni, anche quando sono positive, anche quando hanno le tue curve e le tue intonazioni, lo sai. Lo sai che nella mia testa tutto si mescola in una rete confusa di ansia e tutti i colori diventano toni neutri e grigi, e per questo mi sentivo male e lo stomaco si chiudeva, quando leggevo quelle letterine nere che vibravano sullo schermo del pc.
Ti ho risposto subito, perché a farti attendere sentivo solo più sudore e tachicardia, e poi nemmeno me ne accorsi ma passarono due ore e tu mi dicevi sai vengo dal Galles e io allora capivo il perché del tuo accento assurdo; e mi raccontavi del trasloco a San Diego, di Mila che ti lascia e resti da solo; mi raccontavi della dubstep e io ti raccontavo dell’indie rock, mi raccontavi del tuo cinema demenziale, ma poi alla fine amavi anche i Fratelli Coen. Poi c’erano le tue frasi sconnesse che mi facevano aggrottare le sopracciglia e mi trovavo in difficoltà, perché ancora non riuscivo a decifrarle, e “Scusa, spesso non penso quando scrivo” mi dicevi, e poi ci aggiungevi come al solito uno smile, e tutti quei due punti seguiti da parentesi erano come proiettili. Boom, dritti nel mio cervello.
E poi lo ricordo che quando spensi il pc era già mezzanotte inoltrata e la mattina dopo c’era lezione, ma comunque sorridevo e preferivo non farlo. E ricordo che infilai come sempre le cuffie, prima di dormire, e il random fece parire Winter Winds, e scoppiai a ridere, ad alta voce. Perché "My head told my heart ‘let love grow’", cantava Marcus ed io mi concentravo solo su quella frase, ignorando volutamente il "but my heart told my head ‘this time no, this time no’" che segue. Forse perché il mio cuore, al tempo, non aveva più voce in capitolo, e io mi concentravo solo su ciò che diceva la testa. Perché io ci avevo provato, a dare ascolto al cuore, ed era finita male, con denti scheggiati, matite rotte e graffi sulla pelle. Se solo avessi ascoltato meglio le parole delle canzoni con le quali mi cullavo nel sonno, magari mi sarei resa conto che la testa non è affatto affidabile, tanto quanto non lo è il cuore.
 

Poi dopo due ore la lezione era finita, il mio quaderno era pieno di scarabocchi lasciati dalla penna nervosa, ed i miei sospiri erano pesanti. E continuavo a non avere fame, ma non mi piaceva mica come sensazione.
E poi la ricordo la serie infinita di offese che iniziai a ripetermi in testa, un po’ a me stessa, un po’ a te, un po’ al mondo intero e non me ne rendevo conto di star camminando fin troppo veloce per quei corridoi, con gli occhi bassi piantati sulle Oxford nere, e quando uscii era marzo ed è la California e non doveva far freddo, eppure c’era un vento che non mi aspettavo, e allora mi strinsi nel maglione scuro, e poi alzai gli occhi e c’era l’asfalto.
Asfalto strizzato in palpebre che sembravano dorate, è quello che ho visto, e la fame in quel momento nemmeno mi ricordavo come funzionasse, mi bastava solo il tuo asfalto.
“Indovina un po’? Ho ignorato la sveglia” e avevi le mani sotterrate nella stoffa dei jeans che sarebbero dovuti starti stretti, ma sei sempre stato troppo magro. Troppo effimero.
Scrollai le spalle, e “Non ti sei perso molto” e sapevo di mentire perché in realtà nemmeno io avevo idea di cosa mi fossi persa, in quelle due ore passate a cercarti dietro alla porta dell’aula.
Sì, me lo ricordo che ti accompagnai a pranzare, nonostante io non avessi fame e non ero riuscita nemmeno a finire quel sandwich che tu mi avevi costretta a comprare, perché lo stomaco era sempre serrato e perché forse ero troppo persa nell’osservare la tua bocca quando parlavi, le tue mani che si muovevano strane quando gesticolavi, ed il tuo naso che si arricciava e ancora dovevo capire se era disgusto o approvazione, quel ricciolo.
Tuttavia mi bastò quel pomeriggio assieme a te per imparare che i tuoi sorrisi seguono una precisa routine: prima negli occhi ti inizia uno sfarfallio (ed io sospiro), poi si socchiudono (ed il mio polmone destro smette di pompare aria), quindi le tue labbra si schiudono (ed il mio polmone sinistro smette di pompare aria) e poi, ad operazione conclusa, due fossette restano là, labili, fugaci, volubili cicatrici di quel sorriso che mi intasa gli alveoli e mi ottura l’anima, ogni volta.
Ogni santa volta.
Mi bastò quel pomeriggio assieme a te, seduti su quella panchina, mentre inspiravamo fumo e catrame, per capire che stavo rischiando davvero grosso, con te. Perché non ti conoscevo ancora, eppure lo sapevo già che quando mangi alterni bocconi piccoli a morsi da gigante, e bevi sempre un sacco d’acqua. Sapevo già che quando cammini sembra sempre che tu stia per perderti da un momento all’altro, e sapevo già che le tue ossa sono fini e le tue orecchie sono strane e che hai un viso che sembri un bambino capriccioso.
 
 
Poi, finalmente, la sera mangiai, ma non ne avevo voglia. Ero da Amanda, e c’era anche Parker e mi fissavano entrambe con smorfie soddisfatte, mentre addentavano quel pollo fritto che invece io mi limitavo a smangiucchiare e basta.
“Dovevamo vederci alle cinque e mezza, e sei arrivata alle otto” ribadì Parker, mentre sorseggiava della birra dalla bottiglia perché a versarla nel bicchiere perde tutto il suo aroma. Io le rubai la bottiglia di mano, mentre con l’altra mi dedicavo al pc che come sempre era adagiato accanto al mio piatto.
E “Cosa vuoi che ti risponda?” biascicai, con la bocca impastata dalla frittura e dalle bollicine frizzanti e quelle due sbuffavano come sempre, ma a me piaceva vederle sbuffare e stare sull’attenti.
“Che ne dici di dirci dove sei stata tutto il pomeriggio? E soprattutto con chi?” ribattè Amanda, anche se la risposta la conosceva già, la conoscevamo già tutte e tre.
“Con Silas” e bastò il tuo nome per far squittire le mie amiche che avranno avuto anche vent’anni, ed eravamo appena uscite dal liceo, ma sembravano essere tornate quattordicenni, come quando c’era George che passava per il corridoio la mattina e noi lo aspettavamo appollaiate sul bordo della finestra, per poi sfinirci di sospiri quando voltava l’angolo.
C’è che poi io non ce la fecevo più, ed iniziai a raccontare e mi rendevo conto di quanto concitate fossero le mie parole, e mi rendevo anche conto di quante volte arrotolavo la ciocca di capelli tra le mie dita, ma ero emozionata, ed ero nervosa, ed avevo ansia ma forse è un’ansia bella, mi disse Parker. Ma io mica ci credevo molto, all’ansia bella, ma mi lasciai convincere, ché poi era da quando ti avevo salutato sul tuo portone – ricordi? – che non facevo altro che ripensare alle tue smorfie, alla cadenza strana delle tue parole e alle tue esse che sibilavano e si infiltravano ovunque e sotto sotto non vedevo l’ora di parlarne con quelle due.
E poi la ricordo Amanda e “Quand’è che ce lo presenti?” esclamò, mentre intingeva quell’ultimo dito di pollo nella salsa barbecue ed io non sapevo rispondere. Perché avevo anche passato tutto il pomeriggio con te, ma le nostre erano parole vaghe, erano frasi lasciate a marinare tra l’ossigeno e l’idrogeno.
Non ci sono mai state promesse, tra di noi. Ed io, dopo nemmeno un giorno, l’avevo capito che da te non potevo aspettarmi promesse. Perché brillavi troppo, e alla fine ti scottavi anche da solo, e se mi avessi mai promesso qualcosa alla fine avresti deluso prima te stesso. Solo che tu questo non l’hai mai imparato e poi hai preferito le illusioni.
Quindi io non sapevo rispondere ad Amanda, perché non avevo mica il coraggio di chiederti di uscire, non avevo nemmeno il coraggio di presentarti ai miei amici, e forse me ne vergognavo pure. Quindi mi strinsi nelle spalle e alzai gli occhi al cielo e “Non appena mi chiederà di uscire, forse” risposi ad Amy, innescando così il coro di dai ma fatti avanti è ovvio che gli piaci cosa hai da perdere e blablablabla.
Se ci ripenso, avevo davvero tanto da perdere, e probabilmente è ciò che è successo.
Ma lì per lì non avevo il coraggio e un po’ mi andava bene così: era più facile nascondersi dietro alla paura e alle giustificazioni.
 
 
Le tue mani si confondevano quando ti rollavi le sigarette, ed il tabacco finiva sempre sul tavolino tondo del caffè dietro alla biblioteca. Mi raccontavi di Cardiff, del mare di Cardiff, di tua sorella Rose, degli Animal Collective.
Erano le tue frasi spezzate e mai finite che iniziarono a dettare le mie giornate senza che io me ne rendessi conto. Erano i tuoi “a domani” mai mantenuti ed i miei squilli senza risposta. Il problema è che avrei dovuto dirtelo, avrei dovuto offendermi, ma poi vedevo le tue labbra e le tue sigarette e mi sentivo quasi in dovere di tacere.
 
Quando poi mi hai chiesto di uscire, quella sera, stava piovendo, ricordi?, ed io stavo già per indossare il pigiama.
Avevamo incontrato Parker, al solito pub, ed era assieme a Spike e chissà perché avevamo deciso di bere quella caraffa di Long Island in quattro e forse non era stata mica una grande idea, ma erano le tue dita che mi sfioravano la schiena a scandire le regole del gioco. Ad ogni tocco corrispondeva un sorriso, ad ogni sorriso un battito, e più la vodka, il gin, il rum e la tequila scendevano giù, più i battiti, i sorrisi ed i tocchi diventvano frequenti.
Poi c'è Parker che scompare, e probabilmente lo ha fatto anche apposta, ma io nemmeno me n'ero resa conto, ormai non mi interessava molto. Esistevano solo i tuoi occhiali perché la sera ci vedo peggio e “Andiamo a casa” e poi mi hai preso la mano, te lo ricordi? Ero a sedere sul marciapiede, con le ginocchia unite contro il freddo ma il mento alzato perché non potevo, proprio non ci riuscivo a non guardarti mentre parlavi, o mentre bevevi, o mentre stavi zitto.
Quando poi ero salita sul portapacchi della tua bicicletta, ed ogni buca della strada si schiantava contro la mia spina dorsale, io vedevo solo le tue spalle che si contraevano ad ogni frenata, ed i tuoi capelli immobili, perché non c’era vento ma non faceva nemmeno caldo. E mi piacevano davvero tanto le tue spalle.
 
Succede che poi alla fine ci siamo incontrati, su quella linea che divide la mattina dalla notte che tu chiami altrove, e stavi sogghignando ed eri vicino un palmo di naso, e quella è stata la prima volta in cui ho scoperto il tuo neo sul sopracciglio destro ed è mai possibile che mi piacesse da morire anche quello? Che poi era davvero buio, ed il buio fa paura, ed in effetti ne avevo e bracollavo e traballavo ma tu nemmeno te ne rendevi conto. Dei miei brividi, e delle mie storte non ti sei mai curato, ma so che non l’hai fatto con cattiveria. Non ce n’è mai stata nelle tue azioni, adesso lo so.
Non te ne rendevi conto, e quando mi biascicavi quella serie di lettere nell’orecchio, che suonavano tanto come un “non ti credevo possibile, ma sei qua” io pensavo che fosse il mio cuore a parlare e non la tua bocca, e forse ho sentito male, pensavo, e forse me la sto sognando quella curva di labbra contro l’angolo della mia bocca rossa e viola per l’alcool.
Ma i tuoi baci non sono mai stati dei sogni, erano fumo e radioattività.

 
 
 

~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 
 
Ho capito che questi angoli autrice mi mettono in soggezione. Soprattutto in questo caso, con questa original.
Quindi insomma, a voi la parola. 
Però grazie per seguire 'sta storia, non vi immaginate neanche quanto sia importante. O forse sì, ormai ve lo siete immaginato anche da sole, non siete mica stupide.
Un po' vi adoro♥
Gin~
banner © xxl

 
 




 
 
   

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 - 19:55 ***




Capitolo  2
19:55


 
 
Stai scendendo dall’autobus.
Potrei venirti incontro, come potrei invece restare qua, ad osservarti dal parcheggio, e sto fumando questa paglia, ma hanno tutto un altro sapore se le fumo senza di te.
Stai scendendo dall’autobus e non riesco a vederti gli occhi, perché come al solito ci sono i tuoi capelli neri, e ora sono neri come quando ci incontravamo nell’altrove.
Sono così neri e mi ricordano di quando facevamo il bagno assieme, nella tua piccola vasca, e confrontavamo i nostri colori: e là era tutto bianchissimo, come me, e poi c’eri tu che cozzavi contro le mattonelle e contro il riflesso della mia pelle, ed un po’ ti vergognavi. Per fortuna ho i capelli, dicevi sorridendo, e poi ti nascondevi, mentre il rubinetto rotto gocciolava ed il suo ticchettio era l’unico rumore che si frapponeva tra le tue carezze e le mie. Tra i tuoi sospiri ed i miei.
Mi piaceva collezionare i tuoi respiri, i più preziosi erano quelli che mi lasciavi contro le labbra, sussurrando piano il mio nome. Speravo di avere una collezione più consistente, ma la costanza non è mai stata il mio forte, e lo hai imparato con le lacrime, lo so.
Ti vedo scendere dall’autobus, e sai tremo un po’ quando sento i tuoi passi vicini, dentro ai piedi c’è la tua decisione che è sempre bastata per entrambi. O almeno, tu credevi che potesse bastare, ad entrambi, e l’ho creduto anche io.
“Fa freddo” mi dici, non alzi gli occhi ma, quando lo fai, lo so che non mi guardi, è la magnolia alle mie spalle che riceve la tua attenzione, ed il buio nel quale sta piano scomparendo, ed assieme a lei anche tu.
“Andiamo” rispondo, e mi infilo veloce in macchina, e così fai tu.
Questa Peugeot è blu scura, e tu sostenevi che avesse lo stesso colore dei miei occhi quando ti salutavo nelle mattine di nebbia.
Questa Peugeot ha conosciuto la tua pelle, ha conosciuto le tue paure ed i tuoi brividi, e mi rendo conto solamente adesso che forse avrei dovuto raccogliere le piccole molliche di te che lasciavi ogni volta, invece le ho spazzate via, senza pensarci. Perché non mi sono mai fermato?
Non riesco a girare la chiave, perché vedo le tue ginocchia, e lo sai quanto mi piacciono le tue ginocchia, e allora te lo dico anche.
“Silas, no. Andiamo.”, e la sento la tua voce che si incrina, ma non so cosa fare.
Non ho mai saputo cosa fare, con te.
 
Lo sai, dopo Mila, è stato tutto così difficile.
Avevo il petto aperto a metà, perché Mila con chirurgica precisione aveva inciso su ogni mio nervo, e su ogni mia emozione, e non credevo ci fosse una cura. Esistevano i palliativi, e così c’era stata Karen, e poi Becca, e poi eri arrivata te e ti avevo messo nel conto generale. Peccato che tu non sei mai stata un palliativo, te eri troppo per il conto generale, la calcolatrice è impazzita, ed io non me ne sono reso conto.

Non ho mai voluto farti del male, questo lo sai.
Dietro ai miei sonni pesanti, alle mattine passate con la testa sotto al cuscino, dietro ai miei ritardi e alle mie dimenticanze non c’è mai stata la malizia di darti per scontata. Eppure adesso, mentre siamo in macchina e le mie mani sono sul volante quando vorrei che, invece, fossero intrecciate alle tue, mi rendo conto che ogni mio gesto ha sempre celato un graffio, e mi chiedo: quanti graffi hai accumulato? Quanto sono sbucciati i tuoi gomiti e le tue ginocchia – le tue spendide ginocchia?
 
Poi mi fermo, ormai è notte anche se sono le sei del pomeriggio, non riesco più a vederti ma ti sento mentre scivoli via veloce e ti infili in casa. Ormai hai smesso di chiedere permesso, scusate, e grazie.
Ci sei te, nella mia cucina, e inizi a parlare “Che senso ha tutto questo?” ed i tuoi occhi saettano veloci, iniziano ad annebbiarsi, e la sento la tua incomprensione. Vorrei essere capace di spiegarti quali meccanismi si sono azionati, dentro di me, ma ho gettato via il libretto delle istruzioni domenica sera, mentre ti addormentavi nel palmo della mia mano e cercavi le carezze nel dormiveglia, come i gatti.
Quando ti siedi sul tavolo della cucina mi viene da sorridere, anche se stai piangendo silenziosa, perché mi ricordi le mattine in cui ti trovavo accucciata su quel marmo e non ti fa freddo, ti chiedevo, e tu ti stringevi nelle spalle e stringevi il caffè tra le mani e dammi un bacio e stai zitto e quelle erano le volte in cui obbedivo. Avrei voluto obbedirti di più, adesso lo so. Avrei dovuto obbedirti più spesso.
E “Dai, non fare così” ti dico, perché non so dire altro e “’Fanculo” mi rispondi, so di meritarmelo.
“Non lo vedi? – mi dici – Non lo vedi perché ci troviamo qua, adesso, non lo vedi perché sto piangendo?” ed io lo vedo, ma non lo capisco bene, vorrei dirtelo ma non ne ho il coraggio.
Vorrei dirti che non l’ho fatto apposta. Vorrei dirti che non è colpa tua, è colpa mia. Vorrei dirti tutte quelle frasi banali e patinate di cui ci riempiamo le orecchie alla tv, ma non te le meriti. Ti meriti di più, il problema è che non so come fartelo capire.
Il problema è che sono un codardo, e mi fai paura: mi fai paura con i tuoi occhi grandi che quando mi guardano non stanno fermi un attimo, con le tue mani che quando mi toccano riscaldano ogni centimetro. Mi fai paura quando mi scagli addosso le tue parole dirette, concise, che sembrano frecce, e poi mi fanno paura i tuoi abbracci, i tuoi baci. Mi terrorizzi.
Non posso rischiare. Non ora.
“Non posso rischiare, non ora” te lo dico, mentre tu ti asciughi una lacrima e hai la bocca storta in un sorriso amaro e “Se fossi stata diversa invece sì, eh? Ammettilo.” e non devi dirlo, non puoi chiedermelo.
Cosa vuoi che ti risponda? Vuoi che ti menta, vuoi che mi illuda, vuoi che ti illuda ancora una volta?
“Sarebbe stato diverso, se tu fossi stata diversa” e scendi dal tavolo, sei esasperata.
Vorrei fermarti, ma i miei gesti – così come le mie promesse – hanno bisogno di tempo per ingranare. E allora ti vedo fermarti sulla porta e “Chi sei?” mi chiedi, voltandoti.
 
Mi hai già fatto questa domanda. Te lo ricordi?
Eravamo sotto casa tua di notte, ed era la prima settimana che avevamo iniziato ad uscire, in quella posizione scomoda, ed io credevo ancora di avere il coltello dalla parte del manico. Perché te sorridevi, con un sorriso stanco ed inebriato dal gin tonic e “Chi sei?” mi hai chiesto, mentre ti stringevo contro il muro freddo e umido, e la mia risposta erano stati dei baci sulle tue palpebre chiuse. Ma tu ridevi e no davvero, come è possibile che esisti? insistevi. “Perché non puoi essere vero, e non puoi essere qui, con me” ed io scuotevo la testa e non capivo, come al solito. Anche se quella era la stessa domanda che  poi ho iniziato a pormi da solo quando ti vedevo sonnecchiare sotto le mie coperte il sabato mattina, ma ancora non lo sapevo e te sei insicura e hai sempre cercato le risposte. La realtà è che la tua insicurezza è stata la prima carta che mi hai svelato e che mi ha fatto credere che, con te, potessi giocare senza paura di perdere perché, lo sai, io voglio vincere sempre. E forse è per questo che adesso siamo qua, ma non ce la faccio a dirtelo, perché sarebbe l’ennesima sbucciatura sul tuo cuore, e non voglio farti più del male.
Chi sono, mi hai chiesto quella sera, e ti ho risposto Silas, dal Galles, e tu hai riso per la mia esse e ti ho soffocato la risata in un bacio.
Chi sono, mi chiedi adesso, e la realtà è che sono un vile con uno strano istinto di sopravvivenza, e sono più insicuro di te, ma non lo hai mai capito – e io me ne rendo conto solo adesso.
 
Però più ti guardo, mentre cerchi di non piegarti alle lacrime, e più quelle lacrime le sento dentro di me.
Sono quelle lacrime che mi paralizzano e nonostante voglia davvero lavarle via - perché mi manca la tua pelle pallida e non arrossata dal pianto, e mi manca anche l’odore di quella tua pelle, soprattutto quella delle tue gote quando ti bacio - nonostante tutto questo le parole non mi escono. Che poi le mie parole sono sempre state precarie, ghiaccio fine sul quale tu hai preteso di ballare una danza incessante e alla fine il ghiaccio si spezza. E adesso sono qua, spezzato davanti a te, che sei spezzata più di me. Magari abbiamo solo bisogno del sole d’agosto che ci faccia sciogliere, così che le crepe si mescolino, così che sul mio naso possano ricomparire le lentiggini che ti piacciono tanto e così che la tua pelle possa assumere il colore ambrato che le spetta.
 
Se tu fossi diversa, sarebbe stato diverso, e ci credo veramente, ma non credere che sia una cattiveria.
Mi sono innamorato di te alle diciannove e cinquantacinque di domenica sera e se adesso siamo qua è perché io, l’amore, non lo posso proprio toccare.

 

 

~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 
 
Ya hey, lettrici,
Voglio un attimo parlare di come sto pensando di strutturare questa storia: come avrete notato questo è un capitolo dal pov di Silas, mentre quello prima era dal pov di Vera ed il prologo in terza persona. Non so se manterrò un'alternanza tra questi tre punti di vista, però ho voluto iniziare così per farvi entrare nella mentalità dei due protagonisti, per presentarvi le loro personalità da subito. Per il resto ci sarà un andare avanti ed indietro negli avvenimenti a seconda del capitolo. Spero sia chiaro, in caso fatemi sapere (:
Grazie mille per seguire questa storia, davvero ♥
xx Gin~
banner © xxl

 
 Seriously woke up feeling like the happiest girl alive. 




 
 
   

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Mayla ***




Capitolo  3
Mayla

 
 
Prima di quella domenica, e delle diciannove e cinquantacinque di quella domenica, c’è stato il giorno in cui Silas e Vera sono scappati via.

Era iniziato con Silas, disteso sul letto, ed era sera. Il suo telefono continuava a squillare, e lui lo sapeva che dietro quella suoneria c’era Vera, seduta sui gradini di quella villa, che lo aspettava. E nonostante lo sapesse, e riuscisse anche ad intravedere la espressione angosciata sul volto della ragazza, era bloccato su quel letto e Vera dev’essere solo una distrazione gli ripete il cervello. Glielo ripete ogni giorno, ormai da quasi un mese: Vera dev’essere solo una distrazione, gli rimbomba in testa mentre la bacia contro il muro del pub; Vera dev’essere solo una distrazione insiste, mentre le prende la mano per sgattaiolare via dalla lezione di antropologia.
Ma il fatto che lei debba essere solo una distrazione non significa che lui debba comportarsi da maleducato e cafone, non significa che debba ignorarla e prendersi gioco di lei, giusto? E mentre quel telefono continua a squillare, Silas si rende conto che nella compostezza a volte troppo rigida di Vera lui incomincia a trovarcisi fin troppo bene, ed è per questo che la sua testa gli dice che non è un buon segno.
Eppure, nonostante la testa, c’è Silas che sale di fretta sulla sua Peugeot blu scuro, e ancora non ha imparato bene a guidare questa macchina (tra il cambio automatico e il volante a sinistra), eppure eccolo là, che corre nella notte, verso quel telefono che squilla, verso quegli occhi che, lo sa, saranno rigati dal trucco e dall’amara delusione. E mentre sfreccia, si rende conto che ormai si sta lasciando comandare a bacchetta dal cuore, e quella sua testa (Vera dev’essere solo una distrazione) sta cedendo sempre di più – e non va affatto bene.
Quando arriva all’indirizzo che Vera gli aveva scritto per messaggio, nel pomeriggio, si trova davanti ad una di quelle classiche ville californiane, vede le luci forti che spuntano da dietro il cortile, sente un vociare divertito e una musica altrettanto divertita, e un po’ si pente di essere là (Vera dev’essere solo una distrazione).
 
Nel frattempo Vera è a sedere a bordo piscina: si è lasciata convincere da Parker e dalle sue parole strascicate assieme al Cuba Libre che sorseggia da un grande bicchiere rosso, e alla fine è entratata perché non aveva proprio senso continuare ad aspettare Silas sull’uscio di casa di Doris.
Però lei a quella festa proprio non ci voleva andare, lei che delle feste ha sempre avuto paura. Dai, certo che vengo, per le dieci, massimo dieci e mezza, sono là, le aveva risposto Silas, ma era già mezzanotte passata e lei lo aveva già chiamato tre volte e dovrebbe aver imparato ad affrontare le false promesse di Silas, ma ancora non c’è abituata. Il problema è che Vera ha iniziato a credere a Silas sempre più spesso, e con un’intensità sempre maggiore. Perché per ogni promessa non mantenuta lui riesce sempre a farsi perdonare con sorprese inaspettate, e le sembra quasi che stiano giocando ad un nascondino incessante. Lui si nasconde e lei lo trova, lei si nasconde e lui, dopo molti tentativi, riesce a trovarla. Il problema è che Vera inizia a curarsi più delle sorprese e delle volte in cui Silas la trova, piuttosto che delle attese a vuoto. E così, quando quelle attese si trasformano in delusioni – come in questo momento – c’è Vera che si ritrova a cercare di cacciare indietro le lacrime che bussano agli angoli dei suoi occhi neri.
“Non è venuto” dice Spike, mentre si siede accanto a lei e le offre un bicchiere pieno di birra, e più che una domanda, è una constatazione. Vera annuisce, rifiuta la birra, e si fissa i piedi nudi sotto la superficie dell’acqua “Ormai dovrei aver imparato ma…” e lascia sospesa la frase, come a giustificarsi. Come se quel “ma” potesse spiegare perché adesso è là, in un angolo, a rimuginare e non sta ballando, chiacchierando, cantando come tutti gli altri.
“Sai, Vee, Silas mi pare una persona molto sola. E quando uno è solo, tende ad… - e Spike ci pensa bene prima di dirlo – approfittarsene” e Vera sussulta un poco. Sentirselo dire è diverso dal pensarlo, perché la cosa diventa reale e lei non vuole cadere un’altra volta in una trappola fatta di sgambetti e sorrisi falsi, come era stata la sua relazione con Nick.
Nick la aveva attirata a sé con la stessa facilità con cui, adesso, lei si stava abituando a Silas.
Nick, con i suoi riccioli indomabili e gli occhi grandi e scuri, e quel sorriso che le aveva mozzato il fiato dal primo giorno di liceo, era sempre stato più forte e più furbo di lei, e Vera era finita con le ossa rotte dal pianto, la testa sfibrata dai pensieri ed il cuore a brandelli, quando aveva scoperto che, dopo due anni e dopo che lei gli aveva dedicato tutto il suo amore e tutta la sua fiducia, Nick aveva preferito gli occhi verdi di Allison ai suoi.
Eppure Vera quella malizia che dettava ogni azione di Nick non riesce a rivederla nelle carezze di Silas, o nei suoi sorrisi strizzati, o nelle sue gambe lunghe che si incastrano e si intrecciano con le sue, sotto il tavolino del caffè della biblioteca. Per quanto paradossale possa sembrare, Silas le sembra più sincero, più umano, più vero. O forse mi sto solo illudendo, bisbiglia a se stessa, e Spike la guarda storta e decide che è meglio cingerle le spalle con un braccio, piuttosto che cercare di confortarla – anche perché, come è evidente, lui non è mai stato bravo nel confortare le persone.
 
C’è che poi il telefono di Vera inizia a trillare, nella sua piccola borsetta nera. Lei scioglie l’abbraccio di Spike, e le tremano le mani mentre cerca il cellulare e spera che sia lui ti prego fa che sia lui. E prima che riesca a trovarlo, sente balbettare Dai porca puttana dove sei sono un cretino rispondi  alle sue spalle, e quelle esse che sibilano le potrebbe riconoscere tra migliaia, e quindi c’è Silas che la cerca, in piedi tra la folla e nemmeno si è accorto di trovarsi a un metro da lei, e continua ad imprecare contro la cornetta e contro lei che non risponde. E allora Vera non ce la fa proprio a tenersele dentro, quelle lacrime, quando poi lui la vede e le sorride, con le sopracciglia corrucciate in un’espressione che pare davvero dispiaciuta.
“Beh, ti avevamo dato per disperso” dice Spike, alzandosi dal bordo della piscina, e stringendo la mano di Silas forse un po’ troppo forte. Beh, se lo merita, questo è sicuro.
“Sì, lo so, ma non riuscivo a trovare il posto, poi sono una frana a guidare e..” ed i suoi occhi frullano da quelli impassibili di Spike a quelli ormai lucidi di Vera.
Spike non dice altro, intravede Parker pochi metri più in là che lo chiama e “Vado da Parker, ci becchiamo dopo” borbotta, e Vera lo sa che è incazzato, e forse è incazzato più con lei che con Silas, ma adesso per lei ci sono solo le braccia di Silas che la stanno abbracciando e tutto inizia a riacquistare un senso.
Vera dev’essere solo una distrazione, continua a ribattere la sua testa, ma nel frattempo ce l’ha tra le braccia e le sta sussurrando mille scuse, mentre lei un po’ singhiozza e “Credevo non venissi più” dice piano contro la stoffa del suo maglione marrone.
“Lo sai, sono un cretino. Ho calcolato male i tempi, poi non avevo abbastanza soldi, mi sono dovuto fermare al bancomat e…” (Vera dev’essere solo una distrazione) Silas è sincero, è tutto vero. È che lui, a quella festa, non ci sarebbe dovuto andare (Vera dev’essere solo una distrazione) ma poi ha visto quel piccolo scarabocchio che lei gli aveva lasciato sul libro di linguistica, e si è ricordato della bocca rossa e sorridente di Vera e allora il cuore ha iniziato a ingranare, e si è trovato sulla sua Peugeot, e poi a stringerla tra le braccia prima che la sua testa potesse rendersene conto (Vera dev’essere solo una distrazione).
E mentre il cuore di Silas sta rimbombando forte e lei lo sente, perché ha l’orecchio compresso sulla sua cassa toracica, la testa di Vera decide di smettere di piangere, e decide che ormai non c’è più nulla da fare, e inizia a cedere alle parole di Silas.
“Voglio potermi fidare” borbotta Vera, e probabilmente nemmeno se ne rende conto di averlo detto ad alta voce, perché la fiducia è il regalo più grande che qualcuno può farti, e lei lo sa bene. Lei aveva concesso tutta la sua fiducia a Nick, che non solo ci ha sputato sopra, ma l'ha anche usata solo a suo vantaggio, e Vera non può 
proprio rischiare che qualcuno si riappropri in modo così totalizzante della sua fiducia. E allora sente di doverla pretendere da Silas, perché non può continuare ad attenderlo con il cuore fisso sul filo del rasoio, pronto a tagliarsi in due: quel cuore l’ha già dovuto ricucire a fatica, e non è pronta a farlo per una seconda volta.
“Fidati” risponde lui (Vera dev’essere solo una distrazione), e sta mentendo ma neppure lui ancora lo sa. Fidati, le dice, mentre le bacia la fronte, ed in quel momento ci crede, perché ormai tutto il suo autocontrollo è andato a farsi benedire e se ne infischia dei ricordi di Mila, se ne infischia della distrazione, adesso c’è solo il suo cuore ed il suo cuore vuole solo Vera ed i suoi sospiri che si stanno rallentando.
C’è solo il suo cuore che gli dice di andare via, di andare lontano.
Quando guarda Vera, ed i suoi occhi neri, e le sue labbra che sorridono, Silas avverte i nervi che iniziano a traballare e lui non può permettersi che tutti lo notino, e allora si convince che scappando, andando lontano da quella festa, da quelle persone, da quell’intera città forse quello che prova cambierà. Si convince che, se la faccenda resta confinata solo tra lui e Vera, forse la sua testa si cheterà, e allora non avrà più il terrore di incontrare le sue mani piccole che lo accarezzano, le sue risate la mattina, le sue parole che lo cullano la sera.
Si alza in piedi, le porge una mano e “Andiamo” dice, e Vera è confusa e lo dà a vedere. Tira fuori i piedi dalla piscina, e li asciuga frettolosamente contro un asciugamano, e continua a non capire, mentre guarda quegli occhi fumosi di Silas, che la fissano a metà tra il divertito e il delirante. Forse ha un po’ paura Vera, ma decide di tenersela per se, quella paura.
Silas non le dà nemmeno il tempo per infilarsi le scarpe decentemente, perché ormai il suo cuore sta correndo verso la macchina, verso l’autostrada, lontano da San Diego, lontano da tutto.
 
Vera non è riuscita ad avvertire nessuno, e adesso è raggomitolata nel sedile accanto a Silas, che tiene la mano sul cambio perché è abituato così e ogni tanto le sfiora le ginocchia. Dovrebbe avere sonno, ma ci sono le note di Mayla a tenerla sveglia, e forse in realtà si rende conto che, se è assieme a lui, il sonno è quasi sopravvalutato.
Silas guarda la strada, è dritta e gli basta tenere il volante con una mano, e con l’altra cerca Vera. Ha una fifa assurda adesso che si trova là, da solo, con lei e la sua voce che canticchia e si diffonde nel piccolo abitacolo della sua Peugeot, però quella è una paura che gli informicola la punta delle dita e quasi lo fa sorridere. Silas è confuso e, per ora, accetta la sua confusione.
È buio fuori, il paesaggio è sempre più arido e roccioso, l’aria è sempre più fredda, ma sia Vera che Silas sentono solo un forte calore, al centro del petto.

 
 

 

~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 
 
Non so che dire, quindi non dirò nulla ahah
Niente, insomma, Silas è un po' squilibrato, ma penso si fosse già capito.
Ah okay l'unica cosa da dire di vagamente intelligente è che tra 2, massimo 3 capitoli dovrebbe finire questa cosa. Anche perché sto veramente facendo fatica a scriverla, per tutta una serie di motivi legati più alla storia in sé che ai miei impegni. Però sto scrivendo anche un'altra originale quindi vi romperò i cojones in un modo o nell'altro ahahaha
Bye&Love
xx Gin~
banner © xxl

 
  

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Deserto ***




Capitolo  4
Deserto

 
 
Dovevo capirlo da quella sera, che forse non andavi. Non andavi bene per me.
 
Mi stringo ancora un po’ contro la tappezzeria del sedile di questa Peugeot, ma c’è il tuo fumo che non vuole proprio lasciarmi scampo.
Oltre al tuo fumo, c’è il piede su quell’acceleratore: non voglio credere di avere paura, ma se mi soffermo sulle curve delle ombre del tuo profilo, vedo quelle sopracciglia che mi piacciono tanto aggrottate in un’espressione che non riesco a decifrare, allora sì, un po’ di paura inizio ad averne.
Per fortuna c’è la musica, mi dico, e continuo a canticchiare perché almeno riesco a tenermi stretta in una condizione di realtà che, in questo momento, sembra che mi sfugga tra le dita – così come il tuo fumo che si confonde con le mie note.
Vorrei chiederti se stai bene, ma temo sempre di chiedere troppo, di insistere troppo, di essere sempre troppo, per te. Temo che il mio troppo poi ti stufi, e allora mi lascerai sul ciglio della strada, come i cani abbandonati durante le ferie estive.
Poi ti volti, e quella mano che tieni insistentemente sul cambio decidi di poggiarla sul mio ginocchio piegato, e li sento i tuoi polpastrelli caldi e vedo gli angoli della tua bocca sorridermi allora capisco che posso provare a cedere un po’, adesso.
“Dove andiamo?” sussurro, e spero che il mio tono sia risultato allegro, e che quella vena di preoccupazione non sia scappata a sporcare la frase.
Tu continui a sorridermi, e rispondi solo “Via” e io riesco a vedere solo il deserto, quindi no, devo insistere.
“Silas, via dove? C’è solo deserto, qua. Non voglio fare la guastafeste, ma-“
“Non preoccuparti, fidati” mi interrompi, e vorrei dirti che no, ancora non posso fidarmi, anche se i tuoi baci e le tue parole stanno lentamente convincendomi del contrario. Non dico nulla, ma tu la percepisci la mia ansia – tu sei sempre stato in grado di leggerla, quella mia ansia costante – e dopo l’ennesima carezza sul ginocchio, quella mano la fai scivolare verso la base del collo, e poi mi sfiori piano, piano, col pollice.
Sento ancora quel pollice contro il tendine, che scende poi a tranquillizzare la clavicola, e per fortuna la strada è dritta e puoi concederti di guidare solo con una mano. Te la sei sempre cavata con i tuoi gesti educati nei momenti giusti.
 
Si iniziano a vedere poi delle luci, e allora il mio cuore inizia a riassestarsi su un battito più normale. E “Dove siamo?” ti chiedo, innocente, e tu non lo sai, fai spallucce e rispondi “Dormiamo qua stasera? Ti va?”.
Anche se non mi andasse non ti direi mai di no, con te mi andava sempre tutto e, probabilmente, mi andrebbe bene sempre tutto, ancora oggi.
Ti sorrido con gli occhi e tu capisci che quello è un sì, allora rallenti tra le strade vuote di quella piccola città altrettanto vuota. Sembra l’inizio di un film horror, penso, e te lo dico anche, mentre tu inizi a ridere con quella risata squillante che è solo esclusivamente tua – quella risata la sento ancora, ogni tanto: la ricordo assieme alle tue esse e assieme a tutto quell’altrove che dettava i nostri incontri.
Quando accosti, al lato di quel motel così tipicamente americano da sembrare una cartolina patinata, ti sporgi un po’ per osservarlo meglio e sorridi. Sono stati i tuoi sorrisi ad avermi portata da te, alla fine dei conti. Se non ci fossero stati loro, non ci sarebbero state le tue bugie, le mie illusioni, la tua follia, la nostra fuga, e non ci sarei stata io, sulla porta di casa tua, che vado via.
“Mi piace qua – dici, mentre io un po’ tremo e un po’ alzo gli occhi al cielo – non ci sono posti simili, in Galles” concludi, e “Grazie a dio” rispondo io, perché a me quei motel non piacciono, mi mettono a disagio. Ma dopotutto, pure le feste, pure i long island e pure le sigarette mi mettevano a disagio, prima di te, allora mi stringo ancora un po’ contro quel sedile, come a cercare sicurezza, e mi dico che con te, sì, con te va tutto bene.
 
Scendi e “Aspettami qua” borbotti, e io ti aspetto, mentre mi mangio le unghie. Avevo anche smesso, prima di te.
Poi torni, mi apri la portiera e “Prego, mia regina” dici, tra le risatine, e io alzo ancora una volta gli occhi al cielo. Ma, oramai l’hai capito, anche le tue risatine infantili mi piacevano. Mi piacciono ancora.
Camera 21, piano terra.
La moquette è di un grigio chiaro, e vorrei avere il tempo per chiedermi se quel grigio è il colore naturale oppure è dato dal tempo e dallo sporco, però ci sono le tue mani che corrono più veloci dei miei pensieri lungo le pieghe dei miei vestiti, e poi quei vestiti finiscono su quella moquette assieme ai tuoi, e alla fine ci siamo solo io e te.
Le lenzuola sono verde chiaro, e stonano completamente col colore dei tuoi occhi che si aprono e si chiudono ad un ritmo lento, mentre il tuo torace è ancora accaldato e vorrei che potesse essere il mio cuscino da qui al per sempre. Dio, il per sempre fa paura, lo so, ma so anche di averlo pensato, in quel momento, mentre i tuoi occhi stavano facendo quella danza lenta contro il sonno. Mi sono addormentata tra i brividi e le tue ossa sottili che mi stringevano e ho iniziato a credere davvero che potesse andare bene, così, sempre.
 
Sono già le due del pomeriggio quando mi svegli seguendo con l’indice il profilo del mio naso, puntellato contro la tua clavicola tiepida. “Cosa vuoi fare oggi?” mi chiedi, con la voce bassa che ancora dorme un po’, e vorrei risponderti che mi basta stare con te, ma ancora non ho proprio il coraggio di fartelo sapere.
Alla fine ci ritroviamo di nuovo in macchina, ma è giorno e non c’è quell’ansia pesante che mi provoca sempre il buio, e indossi gli occhiali da sole che tieni sempre nel cruscotto. Sei carino, con gli occhiali da sole.
Ad un certo punto allora inizi a parlarmi. Mi racconti di Mila, e non me ne avevi mai parlato così apertamente, prima. Mi racconti di quanto eri innamorato di lei, delle aspettative di una vita che avresti voluto davvero tanto vivere con lei, del suo tradimento, del suo non ti amo più; e mi dici anche che adesso lei, dopo nemmeno sei mesi, si è sposata, e aspetta un bambino ed ha solo venticinque anni; e mentre mi racconti tutto questo hai la mascella serrata, e non mi guardi mai negli occhi. Forse avrei dovuto capirlo che era tutto un preambolo, era il tuo modo per mettere le mani avanti ma io, stupida, mi sono cullata nell’illusione che quello fossi tu che iniziavi semplicemente a mostrarmi chi eri stato, non quello che avresti ancora voluto essere. Credevo fosse il tuo modo per dimostrarmi che io, invece, andavo bene. Invece quello eri tu che stavi iniziando a dirmi tutto il contrario.
Quando ci fermiamo di nuovo è ormai sera, c’è solo un minimarket e nessun segno di vita nei paraggi, e magari è il momento di iniziare a pensare a dove dormire, ma io sono ancora piena delle tue parole e delle mie sciocche convinzioni. Non ci penso nemmeno a preoccuparmi, perché ormai sto pensando a quel per sempre della sera prima, sto pensando a te che mi spalanchi in due il tuo cuore, sto pensando che tutto questo è perfetto, oh sì, talmente perfetto che quasi mi si spezza il fiato e piango un po’, mentre ti vedo fare benzina e io compro la cena (due pacchetti di patatine, uno di caramelle da dividere, e due birre).
 
Poi ci sono io che decido che è arrivato il mio turno, e ti racconto di Nick. Della mia amicizia con lui, che poi abbiamo fatto diventare amore, e quell’amore mi aveva totalmente saturata fino ad arrivare al punto di scoppiare, e così ho fatto, quando poi lui ha preferito Allison a me. Ti racconto di quando sono scoppiata, e di come mi sono rotta tutta e di quanta fatica ci ho messo a ricucire ogni pezzo, e te lo racconto con leggerezza perché ormai ho solo i paraocchi davanti, e quei tuoi sorrisi mi sembrano dolci, ma adesso che li ricordo bene so che erano solo nervosi. Te lo racconto mentre siamo distesi sulla carrozzeria blu e fredda della tua macchina, e c’è il sole che inizia a tingere tutto di arancione, rosa, giallo e ocra: abbiamo parcheggiato in mezzo a dei cespugli, e non si sente nulla se non qualche rombo di macchine lontane. E non ho paura, perché sono piena, ricolma di illusioni.
Poi smettiamo di parlare, entrambi. E non so a cosa stessi pensando tu, in quel momento (o forse posso solo immaginarmelo, adesso, col senno di poi) mentre stiamo incastrati dentro la tua auto, ma so a cosa stavo pensando io, mentre le mie mani cercavano appiglio tra le tue scapole: allora è proprio vero che i vetri si appannano quando ci si ama troppo, pensavo fosse solo una trovata cinematografica.
Ci sono alla fine io che sorrido contro la tua pelle, e poi inizio a fissarti: lo so che non ti piace, ma lo faccio lo stesso. Forse inconsciamente l’ho fatto perché sapevo che quel momento sarebbe durato poco, che era solo il classico inizio della fine, e non volevo crederci, ma sotto sotto i miei nervi lo sapevano già.
E “Che c’è, dai” mi bisbigli tra i capelli, e ti ci nascondi anche, ma io mi allontano, perché voglio davvero assorbirle, quelle geometrie perfettamente imperfette del tuo viso.
“Ora ti spaccherei la faccia – ti dico, e tu sgrani gli occhi, e poi giri la testa, come fanno i bambini quando non capiscono qualcosa – sì vorrei spaccarti la faccia, ma tipo vorrei proprio infrangerla in infiniti pezzettini e poi conservarla in un fazzoletto.”
E tu strizzi quell’asfalto tra le tue palpebre, adesso dorate dalla luce ormai bassa del sole, e poi quando le riapri mi sembra che luccichino un po’ di più. “E poi, poi cosa faresti di quei pezzettini di me?” sussurri, e tutta quella realtà alla quale tentavo di restare ancorata a forza l’ho lasciata sul sedile nero della tua macchina blu.
“Poi, se mi manchi, posso sempre aprire il fagotto e riassemblarti, piano piano, con l’attesa che cresce, ma la sicurezza che, prima o poi, almeno, rivedrò i tuoi denti, le tue labbra, i tuoi zigomi, il tuo naso, i tuoi occhi, le tue sopracciglia, i tuoi capelli, le tue orecchie. E poi mi sa che ti darei un bacino.” E mentre ti recito lenta i miei pensieri, tocco con le labbra ogni parte di te che avrei davvero voluto conservare sottovuoto.
Perché almeno adesso non mi mancheresti così tanto.
 
Era domenica sera, e alla fine mi sono addormentata con la testa leggera dentro il palmo delle tue mani, e ci ho creduto davvero, in quel dormiveglia, che quella potesse diventare la mia posizione preferita per dormire.

 


 

~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 
 
Eeeeh boh, sì altro capitolo dal punto di vista di Vera. Poi ci sarà il prossimo dal pov di Silas e poi l'epilogo, così finalmente vi libererete di questa storia ahahahahah
Alla fine cercherò di spiegarvi bene anche il senso, dai. Un po' di spoiler li ho già disseminati in giro, però :)
Bon, torno a dormire SONO UNA VECCHIA, adiosss
xx Gin~
banner © xxl

 
  ………… Periods suck

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Ottobre ***




Capitolo  5
Ottobre

 
 
Sono passati tre anni e cinque mesi da quando Vera si è chiusa la porta di casa di Silas alle spalle e non è più tornata indietro.
Lui, a quel "Chi sei?", non ha saputo rispondere - o forse non ha proprio voluto - e la confusione nella testa di Vera, in quel momento, era talmente tanta che ha preferito andarsene, piuttosto che strattonarlo e cavargli le parole di bocca, con la forza. Forse perché, in fondo, lei ha sempre saputo che dietro a tutti quei gesti indecisi e enigmatici di Silas c'era la certezza che la loro, di storia, non sarebbe potuta andare troppo avanti. Perché lei di mistero non ne ha mai avuto bisogno, lei aveva bisogno della sicurezza che lui non ha saputo, o non ha voluto, darle.
E allora sono passati questi tre anni e cinque mesi, e ci sono state le volte in cui, quasi per sbaglio, si sono sentiti: un messaggio mal coordinato su facebook, uno squillo fatto al momento sbagliato, qualche conversazione portata avanti più per dovere e circostanza che per voglia (perché c'era Vera che ancora stava male, e Silas che ancora non si spiegava) ma poi Silas si è trasferito a Los Angeles, Vera ha iniziato a lavorare e quindi il tempo ha iniziato a stratificare i ricordi, le volte in cui si parlavano si sono diradate nel tempo, e alla fine sono diventati semplici fantasmi, l’uno per l’altra.
 
Ma Vera non ha dimenticato ancora Silas, non del tutto.
Dopo che lui si era stretto in quelle spalle ossute e le aveva detto che no, lei non andava bene (e quel "sarebbe stato diverso, se tu fossi stata diversa" Vera se l'è sognato di notte, per molte notti), allora il mondo ha iniziato a sgretolarsi sotto i suoi piedi. Ma non tutto d’un colpo, no. È stata una cosa graduale, e Vera nemmeno se n’è resa conto: all’inizio pensava quasi di esserne uscita indenna, da quei mesi passati a sfiorare di continuo quell’asfalto di Silas con le sue ginocchia bianche. La realtà era che non era mai stata indenna e le sue ginocchia erano davvero ben livide ed ammaccate, e continuavano ad ammaccarsi sempre di più, giorno dopo giorno, mese dopo mese, senza di lui. Ha continuato ad inciampare, gradino dopo gradino. 
Vera ha smesso di credere in se stessa, in questi tre anni. La certezza di non andare bene a qualcuno come Silas, qualcuno che lei credeva potesse davvero amarla, senza remore o convenienza, l’ha convinta che quella che non andava, tra i due, fosse proprio lei. E quando si smette di credere in se stessi, si inizia a precipitare verso un fondo che non arriva mai, e allora Vera questi tre lunghi anni li ha passati cercando di tirare avanti con quell’università che invece andava sempre peggio, cercando di appoggiarsi a Parker ed Amanda che, nel frattempo, andavano avanti con le loro vite, e alla fine si è ritrovata sola, senza nemmeno rendersene conto. Per questo la notte spesso non dormiva, con quella morsa che stringeva fissa all’altezza della gola, e quel mal di stomaco che non voleva andarsene, e quel senso di ansia perenne che nella sua testa suonava tanto come il ticchettio insistente di un orologio inesistente.
Alla fine, col tempo, con l'apatia che ha iniziato a consumarle il cuore e la testa, Vera si è resa conto che quella che lei stava vivendo non era una vita. Era una parvenza di esistenza, tirata avanti con denti stretti e routine meccanica, dettata da un terrore insensato verso il mondo. E sotto sotto lo sapeva che dietro a quella paura e a tutta quella sua insicurezza c’erano ancora le parole di Silas che bruciavano, perché lei c’è rimasta davvero scottata, ed ormai sta iniziando ad ammetterlo non solo a se stessa, ma anche agli altri. Ma per fortuna c’è Amanda che la incita ad uscire, e poi incontra di nuovo Frank, Lance, Helen e incontra di nuovo anche Donnie e alla fine trova in lui una nuova ragione per farsi forza.
E quindi adesso c’è Vera, che inizia a muoversi con piccoli passi traballanti in quella realtà che ancora la spaventa un po’, ma si affida ai sorrisi di Donnie e al suo braccio magro e forse prima o poi lo troverà il coraggio per confessargli che a lei piace davvero tanto vederlo la mattina arrivare in bicicletta, e andare via la sera stanco, avvolto attorno al suo cappotto e alla sua sciarpa grigia, ma per adesso si fa bastare quei suoi sorrisi e quelle amicizie sincere che non si ricordava più che sapore avessero.
 
È ottobre, e Vera sta bevendo una Tennent's dalla bottiglia (perché così non perde l’aroma!, insiste ancora Parker) e sono tutti fuori da quel grande capannone. È la prima volta che Vera ha accettato di andare a ballare, proprio come facevano tre, quattro anni prima, e le sente le gambe che tremano un poco, ma sta cercando la forza nella birra, in quella canna rollata male da Frank e soprattutto la sta cercando nelle mani di Donnie che si accarezzano la barba e nei suoi occhi neri già inebriati che si socchiudono di continuo, ma le sorridono anche, di continuo. C’è che la forza se la sente proprio salire, dal basso, dalla punta di quei piedi costretti in quei tacchi che non voleva indossare, ed i capelli ora sono veramente troppo lunghi, è ottobre e fa ancora caldo, quindi forse è meglio legarli in una coda?
È quando sposta lo sguardo dalla mascella divertita di Donnie, per sistemarsi quella chioma che è davvero fin troppo folta, che sente il cuore salirle in mezzo alla gola, o forse fin su nel cervello, e no, quelle labbra non possono essere le sue, inizia a bisbigliare, e si nasconde dietro al metro e novanta di Lance. «Vera, tutto okay?» le chiede Amy, non è preoccupata perché ha bevuto anche lei tre birre, e sta facendo un tiro da quella canna ormai quasi finita, e «È qua. Silas è qua.» balbetta Vera, ed in realtà spera tanto di averci visto male, perché ci sono tante, tantissime persone fuori da quel capannone, e sono lontani da San Diego, e com’è possibile che in tre anni e cinque mesi è riuscita ad evitarlo e invece adesso il karma l’ha punita così?
Vera inizia a trottolare da una schiena all’altra, e ci sono tutti i suoi amici che ridono e «Che succede?» perché non capiscono, e lei un po’ ride con loro, un po’ lo sente quel panico e fanculo fanculo fanculo si ripete, e «Dai, non può essere lui! Avrai visto male, con questo buio!» dice Amanda «E con queste birre che ti sei scolata!» aggiunge Helen e ok, allora anche Vera si convince che sì, quello non era Silas. È colpa della notte e dell’alcool, sì. Ma Vera quelle labbra le potrebbe riconoscere tra milioni, e poi la vede quella testolina che si alza tra la folla, e lo sa che sta cercando proprio lei e allora che senso ha nascondersi?

C’è Silas che, dal canto suo, Vera l’ha riconosciuta subito. Nonostante i capelli allungati di un bel po’ di centimetri, nonostante quei tacchi che, con lui, lei non ha mai indossato, Silas la sua risata l’ha riconosciuta, e probabilmente ha anche barcollato, nel risentirla così chiara e cristallina. E allora non sa se è il caso di andare a salutarla – è con gente che non conosce o forse non ricorda – e non vuole rientrare così prepotentemente nella sua vita, però poi la osserva da lontano, e la vede agitarsi e lo sa benissimo di essere la causa di tutta quell’agitazione, allora forse è meglio andare? «Scusate, c’è un’amica, torno subito» ha detto a quei ragazzi, quei suoi nuovi amici di Los Angeles, e loro sono già fin troppo fatti per capire una frase così lunga e di senso così compiuto, quindi annuiscono, mentre si mettono in coda per entrare nel capannone. Dopotutto Four Tet sta per iniziare a suonare, è anche il caso di muoversi.
«Non ti avevo riconosciuto!» esclama Vera quando Silas le si avvicina, a braccia aperte, e spera tanto di risultare sicura di sé, forte ed affascinante come non è mai stata, davanti a lui.
«Io ti ho riconosciuta subito, invece» le confessa Silas all’orecchio, mentre la stringe in quell’abbraccio, e l’odore dei suoi capelli non è cambiato di una virgola, pensa lui, e il rumore delle sue esse non è cambiato di una virgola, pensa lei.
Poi ci sono i loro occhi che si incontrano, ma non si vedono bene, un po’ per la notte, un po’ per l’alcool, un po’ per quelle droghe, e poi segue tutta una sfilza di come stai, bene grazie, stai davvero bene stasera, anche tu, i miei amici mi aspettano ci vediamo dentro, okay a dopo, ciao, ciao.
Si separano, e Vera torna da Amy, Parker e gli altri, mentre Silas inizia ad entrare, ed il suo braccio avvolge i fianchi di una ragazza piccola e magrissima. Vera lo vede, perché lo sta seguendo con lo sguardo anche se non vorrebbe, e sente quella scheggia che, nel cuore, alla fine dei conti c’è rimasta. Ha solo fatto un callo, in quei tre anni, ma è fissa là, e adesso ha iniziato a muoversi di nuovo in mezzo alla sua carne viva e fa male, dio se fa male.
Allora Vera non vuole pensarci mica, e ruba l’ennesima birra dalla mano di Donnie, che ormai è più ubriaco di lei e la guarda confuso e «Tutto bene?» le chiede, e lei annuisce mentre si scola quella lattina e non vuole pensarci alle labbra di Silas. No, ora sono quelle di Donnie che devono dominare i suoi pensieri, quelle labbra nascoste da quei baffi e da quella barba scura. E allora finisce la birra, ne apre un’altra e adesso è talmente ubriaca da potersi anche permettere di ballare, quindi entrano tutti, dentro a quel capannone.
 
Vera balla. Assieme ad Amanda, assieme a Parker, addirittura assieme a Lance, che è così alto che per vederlo negli occhi lei ha bisogno di alzare per bene il mento e mettersi sulle punte dei piedi, e tutti ridono di lei mentre cerca quasi di arrampicarsi sulla schiena del ragazzo.
Ballano e passa il tempo ma nemmeno se ne rendono conto, e poi c'è che Vera non vede più Donnie, e se lo immagina già avvinghiato ad un'altra e le fa un po' male il cuore, e allora i suoi pensieri da Donnie si spostano di nuovo su Silas, e Silas Silas Silas: lui, quella fuga nel deserto, quelle promesse, quelle sue gambe magre, quelle sue parole ancor più magre. Vera si ferma, le gira la testa, e non sa se è per il bere, il fumare, o per quei ricordi che, cristo santo, vorrebbe la lasciassero in pace, almeno stasera. Poi c'è Lance che è dolce, con i suoi gesti teneri, con la sua mano che afferra le dita di Vera, con le sue parole giuste – nonostante il troppo alcool – e «Hai bisogno di uscire?» le chiede, anche se la sta già portando fuori da là, e sembrano quasi padre e figlia, lei così piccola, e lui così alto.
Vera prova a sorridere tra le labbra, immaginando la scena da fuori, e le verebbe quasi da pensare che Lance ci stia provando, se non fosse così totalmente diverso da lei. Ma Vera e Lance si conoscono da tredici anni, e lei lo sa che dietro al suo abbracciarla nella frescura delle quattro di notte non c'è alcuna malizia, e allora si lascia confortare dalla fraternità di quel piccolo gesto.
«Stai bene?» le chiede poi, e Vera sta quasi per rispondere di sì. Se non fosse che c'è Silas che la sta guardando, dietro la spalla di Lance, e le sorride, con gli occhi mezzi chiusi, e «Sì, vado un attimo...» e non finisce la frase Vera, mentre scappa dall'abbraccio confuso di Lance e va ad incontrare, ancora una volta, quell'asfalto in quell'altrove.

 

~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 
 
Okkk, penultimo capitolo.
Pensavo di scriverlo dal punto di vista di Silas ma in realtà avevo fatto male i calcoli ahahah.
Facendo un recap temporale: questo capitolo si ricollega al capitolo 1, quello dal pov di Vera che ricorda, ed è ovviamente dopo sia la fuga del capitolo scorso, sia dopo il capitolo 2. Vabbè, insomma, non è così complicato, spero e credo ahahah
E niente, siamo agli sgoccioli, quindi spero che anche questo capitolo possa piacervi~ al prossimo, ultimo appuntamento (che credo sarà prima, mi sa sabato o domenica!) 
E grazie as usual ♥
xx Gin~
banner © xxl

 
  
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Epilogo - Valigie ***




Epilogo
Valigie

 
Sono seduti su un gradino troppo basso di quel marciapiede troppo umido, la musica elettronica continua a rimbombare senza sosta dal capannone alle loro spalle, ma alle loro orecchie suona più come un ronzio di sottofondo che altro.
«Mi sei mancata.»
«Con questo vuoi dire che adesso non ti manco più, perché sono qui, o che ti sono mancata in passato, ma adesso è tutto superato?»
Silas espira il fumo dalle narici, e tossicchia. Aveva quasi dimenticato la decisione di Vera, il suo essere pignola, il suo amare la chiarezza nelle frasi.
«Non so. Penso entrambe le cose. Nel senso, mi sei mancata, per tanto tempo. Poi hai smesso di mancarmi ma stasera, quando ti ho rivisto, ho sentito di nuovo la tua mancanza e ti ho cercata per ore tra la folla, e adesso, beh, ora non la sento più, perché sei qua, davanti a me.»
E Vera abbassa gli occhi e si fissa le punte delle scarpe, quando in realtà vorrebbe solo alzarli al cielo, in segno di resa. Perché Silas è ancora incredibilmente capace di saperla intortare, con le sue parole sempre azzeccate, giuste per lei. Riesce a cavarsela, sempre, nonostante tutto quel tempo.
«Ti trovo bene» dice lei, perché non vuole far morire la conversazione, e ora che sente di nuovo l'odore di Silas si ricorda delle sue lenzuola stropicciate, del marmo freddo del tavolo della sua cucina e di tutte quelle briciole di vita che hanno condiviso, in quei mesi di tre anni prima.
Lui si accarezza la mascella - forse un po' arrotondata - 
coperta da un filo di una barba che, un tempo, non portava «Scherzi? Sarò ingrassato di cinquecento chili!» risponde lui, e poi le chiede dell'università - che lui ha mollato per andare a consegnare pizze a Los Angeles - se si è laureata - e lei non si è laureata - come stanno Amy e Parker - e non si ricordava che facce avessero ma solo i nomi, altrimenti le avrebbe riconosciute.
Ci sono un po' di chiacchiere di circostanza sulla musica di quella sera, sui concerti che hanno visto, chiacchiere che servono loro per riacquistare quel ritmo tipico che c'era un tempo, fatto di parole, risate, frasi sconnesse e senza senso di Silas, occhiate confuse di Vera, spiegazioni di Silas, sbuffi di Vera.
E passa un'ora, sono le cinque e non se ne sono accorti, l'umidità gli è entrata dentro le ossa ma c'è Vera che si sta abbandonando totalmente nel dolce oblio ossimorico del ricordo, e c'è Silas che di parole non dette a Vera ne ha un intero bastimento. 
Silas si tira su il cappuccio della felpa rossa per farsi coraggio, e Vera la ricorda pure, quella felpa: Silas la indossava la prima volta che lei lo vide, all'esame di linguistica, e lei sorride tra sé e sé - anche se la spina resta fissa nel cuore. «Sei diventata forte?» le chiede, senza alcun preavviso. Vera aggrotta le sopracciglia scure, non sa se ha sentito male quella domanda decisamente strana, o se è l'effetto di tutto quello che ha consumato durante la notte, o se forse semplicemente non è più abituata all'apparente insensatezza delle frasi di Silas. Lui intuisce la sua confusione: «Sì, intendo dire, come stai? Stai bene? Sei forte?» e Vera si stringe nelle spalle e non sa se mentire o confessargli quanto sia stato difficile, dopo di lui.
Il punto è che Silas già lo sa, perché di Vera lui aveva capito ogni cosa, e lo sa benissimo quanto sia stata dura per lei, sa di averle spezzato le gambe nel momento in cui la chiamò, con quel classico "Senti, dobbiamo parlare".
Sa di aver sbagliato nel trascinarla in quella fuga nel deserto, sa anche di aver sbagliato ad illuderla (e non era nemmeno nei suoi piani), sa che quello non è stato giusto nei confronti di Vera.
Silas sa che quando l'ha lasciata andare via da casa sua, quel giorno, senza fermarla e senza darle una spiegazione, chiuso nel suo mutismo fatto di occhi bassi e labbra serrate, tutto quello è stato perché lui è di base un grande egoista, e doveva solo mettersi in salvo.
«Non lo so, se sono forte. Ma non lo sono stata, questo è sicuro» bisbiglia lei, che ha deciso che ormai il tempo per le bugie è passato, ed è arrivato il momento di metterci una pietra definitiva sopra a Silas. Perché è vero, lei adesso è là, che si inebria dei ricordi dolci passati assieme a lui, ma nella sua mente c'è anche Donnie, con i suoi occhi a mandorla e la sua risata sguaiata che a lei piacciono davvero, davvero tanto, e vuole iniziare a rischiare per loro, e per farlo ha bisogno prima di chiudere.
Silas la guarda negli occhi, come non aveva mai fatto prima, e Vera vede riflesse in quelle iridi tutto il male che lui le ha fatto. Le promesse mai mantenute, le parole lasciate correre al vento, le ore passate ad attenderlo. Tutte le ferite che lei ha curato a fatica: eccole là, che hanno lasciato il segno su quell'asfalto.
«Mi dispiace - sussurra lui - lo sai che mi dispiace.»
«Non mi basta Silas, non adesso.» replica lei, e si fa coraggio.
E lui non risponde, come non rispondeva tre anni e cinque mesi prima. Perché è un insicuro, ed è un codardo, e Vera se ne rende conto solo adesso.
Lui decide di riesumare la solita storia e «Tu eri troppo, Vera. Troppo per me, in quel momento, e probabilmente saresti troppo per me anche adesso. E lo so che è banale dirlo, ma la colpa è davvero solo mia, in questa storia e...-»
«Sì, è solo tua - lo interrope lei - e io me ne sto accorgendo solo ora. Avrei voluto farlo prima, perché Silas tu non puoi capire cosa ho passato, dopo di te. Non lo sai come sono stata dopo di te, non mi hai vista. Non ti sei mai preso le tue responsabilità, non chiaramente, e se adesso siamo qua è perché un caso fortuito l'ha voluto, non per altro. E quindi, adesso, questo scherzo del destino, se così vogliamo chiamarlo, ho deciso di sfruttarlo e voglio delle risposte, ne ho bisogno. Me le devi. In che modo ero troppo? Perché?» e si incrina la voce di Vera, ma le lacrime non le fa scappare, quello che le sfugge è solo un tono forse un po' troppo esasperato.
Silas non ce la fa più a sostenere gli occhi neri e lucidi di Vera, che sono così scuri da confondersi con la notte che è ancora bassa su di loro. E sa che tutto quello che dice lei è pura e semplice verità, e allora decide che sì, è arrivato il momento di avere coraggio, anche lui. 
«Hai ragione, te lo meriti e poi io mi sto tenendo dentro tutto questo da tre anni e, Vera, non sono stato bene nemmeno io, non credere questo. Perché ti pensavo ogni giorno e ti sognavo ogni notte, e lo so che sto suonando molto patetico, lo so. E so anche che adesso ti starai chiedendo "E allora? Se mi pensavi perché mi hai lasciato andare via?" ed il fatto, Vera, è che io - e prima di dirlo deve caricare i polmoni di tutto l'ossigeno che li circonda - io mi stavo innamorando di te. Io mi ero innamorato di te, e non potevo farlo, non potevo accettarlo, non dopo Mila, lo sai.»
Vera non capisce, e si mangia la pellicina attorno al pollice, con un po' troppa forza tant'è che inizia a sanguinare. 
Perché quello che Silas sta dicendo non ha minimamente senso. Quando ami qualcuno di solito vuoi stare con quella persona, non vuoi mandarla via e non vuoi scapparne, e allora questo Vera glielo dice, a Silas. Lui si stringe ancora nella felpa e «Avevo troppa paura.» le risponde, semplicemente.
Paura. Quella paura che si era insinuata nelle vene di Vera fin dal primo momento, e che lei aveva iniziato a scacciare grazie ai baci e alle illusioni, la aveva forse attaccata, come un morbo, a Silas. O forse era sempre stato un codardo, un pavido, anche lui, e si sono influenzati a vicenda, nutrendo l'uno la paura dell'altra. Ma di paura, di brividi e di insicurezze non si può campare, perché ti spezzano la fame, ti frantumano le ossa ed il cervello, di disintegrano il cuore di dubbi e con i dubbi i viaggi vanno poco lontani.
E così, il loro, di viaggio, non è nemmeno mai partito.
Avevano iniziato a fare le valigie, avevano pronto tutto l'occorrente, e sulla carta erano decisamente pronti ad affrontarlo, quel viaggio. Ma anche se progetti tutto a menadito, se poi ti blocchi sull'uscio di casa, con la valigia in mano ma le gambe bloccate dalle ansie, conta poco se il serbatoio dell'auto è pieno, o se il rullino nella macchina fotografica è perfettamente inserito.
 

 

~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 
 
The End ~
Grazie a chiunque abbia seguito questa roba, grazie grazie grazie di cuore forreal ♥
xx Gin~
banner © xxl
 
 
 
 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2389518