In un'Estate del '44

di FlyingBird_3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXIX ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Emilia Romagna, Agosto del 1944
Il generale Badoglio ha firmato l’armistizio con gli Alleati, lasciando però i soldati italiani senza un ordine preciso su come comportarsi con l’esercito tedesco.
Fu così che nacquero i primi ribelli, chiamati partigiani; lottavano al fianco degli Alleati, o per conto proprio, contro i comuni nemici nazisti.
Fu a metà di quell’agosto, verso tardo pomeriggio, che vidi entrare in città un esercito; capii che erano tedeschi solo quando sentii le parole che stavano cantando, fieri ed impettiti, tra le vie del paese…
 
Erano circa le sei e mezza del pomeriggio, ed io stavo tornando alla fattoria con la mia solita bicicletta.
Faceva caldo, ma quel giorno c’era una brezza fresca che rinfrescava le vie del paese, così decisi di percorrere la strada fino alla campagna a piedi, portando la bici a mano.
Ero davanti alla drogheria di donna Lucia quando sentii dei commenti strani, sussurrati a mezza voce: “Mio marito mi ha appena detto che sono arrivati alle porte del paese… meglio tornare a casa prima che ammazzino tutti…”
Mi girai a guardare quella signora, e la riconobbi come la catastrofica del paese: era sempre quella che diceva che era contenta, ma poi di fare attenzione perché non si sa mai…
Il marito faceva parte della Resistenza, e lo si vedeva di tanto in tanto tornare in paese per far scorte di provviste per i suoi compagni.
Percorsi altre tre, quattro vie imbattendomi nel calzolaio Giovanni, che mi offrì come al solito una piccola margherita.
Quando arrivai verso la strada che portava alla campagna però, mi fermai; il sole stava tramontando, e i suoi raggi rossi mi colpivano in pieno viso.
Quello che vidi però non fu un semplice tramonto: come ombre scure, vidi arrivare a passo di marcia un esercito. Un esercito vero, non i nostri partigiani.
Il suono ritmato dei loro stivali sulla ghiaia mi immobilizzò, ed ero come ipnotizzata; capii che erano tedeschi solo quando sentii le parole che stavano cantando, fieri ed impettiti, tra le vie del paese.
Tre uomini facevano da capigruppo: i due ai lati saranno stati alti un metro e novanta, quello in mezzo un po’ più basso. Ma fu proprio lui che mi fermai a guardare: nonostante avesse il sole alle spalle, a mano a mano che si avvicinava lo vedevo sempre più nitido.
Indossava una divisa verde chiaro e alti stivali neri, come gli altri, ma sulla sua giacca brillavano molte più medaglie che, ad ogni passo cadenzato, gli oscillavano sul petto.
I capelli erano castano scuro, gli occhi di un azzurro così chiaro che non avevo mai visto prima. I tratti del suo viso erano marcati, ma non gli davano un’aria dura, anzi.
Li vedevo avanzare sempre di più verso di me, che ero rimasta imbambolata a guardarli, con la bicicletta in mano, in mezzo alla strada.
Rimasi a fissare quel soldato tedesco avvicinarsi, quando il parroco del paese mi chiamò da sotto i portici.
Mi risvegliai come da un sogno e mi allontanai di fretta con la mia bicicletta, raggiungendolo.
Vedemmo passare l’esercito davanti a noi, perfettamente allineati e sincronizzati.
“Sono arrivati davvero, allora” mi disse Don Armando, “i ragazzi avevano ragione.”
“Cosa stanno facendo secondo lei?” gli chiesi.
“Mi è stato riferito che non vogliono far del male alla popolazione. Stanno solo facendo una marcia sulla nostra città per dimostrarcelo.”
“Allora siamo finiti sotto il controllo tedesco, ora?” chiesi ancora.
“Sembrerebbe così, figliola… vai a casa ora, prima che tornino indietro, fa presto. E, Maria mi raccomando. Fa attenzione…” mi disse, stringendomi un braccio.
“Certo, non si preoccupi. Faccia attenzione anche lei…” e detto questo, risalii sulla mia bicicletta e imboccai la strada battuta verso la fattoria.
Passando tra i campi che precedevano casa, le alte, gialle e ormai secche pannocchie, nascondevano tutta la vista nei dintorni. Già da lontano però li vidi: enormi carri armati, alti quasi due metri, con una lunga bocca, puntavano proprio verso di me.
Dentro però non c’era nessuno; scorsi delle persone con dei vestiti scuri nei campi lì vicino, ma non mi fermai a vedere chi fossero, anzi accelerai.
Una volta arrivata non appoggiai neanche la bicicletta, che cadde rovinosamente a terra alzando dei sassolini di ghiaia, ed entrai sbattendo la porta e urlando.
“Siete tutti qui?” dissi col fiatone.
Mia madre scese dal primo piano con Andrea in braccio, e vidi mia sorella con i suoi due figli e nostra zia nella stanza affianco all’entrata.
“Dov’è lo zio?” chiesi affannata.
“Maria che succede? Aldo è dov’è sempre a quest’ora. E per favore non sbattere più la porta in quella maniera…” disse mia zia.
“Si, Maria che ti prende? Hai svegliato Andrea…” disse mia madre, cullando l’ultimo figlio di mia sorella.
“Sono arrivati i nazisti in città” dissi, e mi sedei su una poltroncina per riprendere fiato dalla corsa in bicicletta.
“Come fai a saperlo? Li hai visti?” mi chiese mia sorella Elena.
“Si, stavo tornando a casa… e loro sono entrati in città. Stanno facendo il giro del paese ma hanno detto che non vogliono far del male ai cittadini” dissi, sventolandomi con un pezzo di carta.
“Quegli sporchi nazisti sono venuti a portare morte anche qua, nella nostra città. Non gli bastava restare nel loro paese…”
“Mamma ti prego non urlare…” disse mia sorella.
“Elena ma ti rendi conto? Tuo fratello e tuo marito sono là, tra le colline, che combattono questi assassini. Tuo padre è morto per una guerra inutile! Se dovessero venire a cercarli, cosa gli diremo? Uccideranno anche noi, anche i tuoi figli!” disse mia madre, camminando nervosamente avanti ed indietro per la stanza.
Ad un certo punto qualcuno aprì la porta, e il gelo calò nella stanza.
“Dove siete? C’è qualcuno...”
E mio zio fece la sua comparsa, ancora vestito da contadino.
“Oh finalmente sei arrivato Aldo! Hai sentito che sono arrivati…” disse mia zia.
“Si, li ho visti,” la interruppe zio Aldo,”hanno lasciato i loro carri armati nei nostri campi.”
“E adesso? Che facciamo zio?” disse mia sorella.
“Facciamo quello che abbiamo sempre fatto. Gli uomini di questa città stanno combattendo per noi qui, tra le colline del nostro paese. Dobbiamo fare la nostra parte anche noi, e difenderli, aiutarli.”
“Questo vuol dire che se vediamo un tedesco alla nostra porta possiamo sparargli in fronte?” chiesi io.
Mio zio si girò con uno sguardo che gli avevo visto solo poche volte.
“Maria, nessuna donna di questa casa toccherà mai una pistola. Ci sono io qua a difendervi, e non pensare di fare l’eroe, sei solo una femmina. Devi solo stare attenta, e continuare a fare quello che hai sempre fatto, senza destare sospetti.”
E detto questo lo zio uscì di nuovo, per andarsi a lavare prima di cena.
Nessuna di noi parlò, un po’ per la paura un po’ per il disagio. Sapevo perfettamente che solo zio Aldo non avrebbe potuto proteggerci da un esercito disciplinato e preparato, come quello che aveva appena sfilato in città.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Il giorno dopo ci alzammo come se niente fosse accaduto; dopo colazione io presi la mia bicicletta, come ogni mattina, per andare in paese.
“Aspetta Maria, vengo anch’io!” sentii mia sorella Elena gridarmi dal piano di sopra.
Mentre ci stavamo avviando però, nostro zio ci fermò e disse ci avrebbe accompagnate fino in città, per vedere se fosse tutto apposto.
Noi due eravamo sopra le nostre biciclette, mentre lui camminava di fianco a noi con una grande pala in mano e, ci scommetterei, qualche pistola tra i vestiti.
Ripassammo davanti ai carri armati: stavolta i soldati erano in bella vista seduti sopra, o nei campi a sgranchirsi le gambe.
Nessuno disse niente ma un brivido corse lungo la mia schiena, ed impugnai così forte il manubrio che le nocche divennero completamente bianche.
Una volta arrivati in paese, la situazione sembrava normale; ognuno faceva quello che aveva sempre fatto.
Mio zio accompagnò mia sorella a comprare le cose che servivano per la famiglia, invece io mi diressi, come ogni giorno, al convento.
Avevo deciso di prendere i voti: non fu una scelta personale comunque, ma più dettata dai fatti che erano successi.
Mia sorella aveva avuto la fortuna di incontrare un ragazzo, 10 anni prima, e lui chiese la sua mano a nostro padre, quattro mesi dopo che si furono conosciuti. Era un ragazzo per bene, ma spesso non mi piaceva come trattava Elena.
Mio padre poi, morì un anno dopo essere stato inviato al fronte; era ancora giovane e la leva era obbligatoria. Così non ha avuto tempo di scegliere per me un marito; mia madre ha provato a propormi buoni partiti ma io li feci sempre scappare, perché non fui mai interessata a nessuno.
Il mio sogno era quello di seguire mio padre nei suoi viaggi attraverso l’Europa, vedere i luoghi che mi mostrava solo nelle fotografie, o parlare quelle lingue così diverse dall’italiano. Fu così che iniziai a studiarle, ed in un certo modo il mio sogno si è poi avverato, anche se non nella maniera che speravo io.
Comunque, l’unico modo che avevo per non gravare sulla famiglia era quello di prendere i voti: ho pianto tanto, non avrei mai voluto farlo. Sognavo una vita libera, ed invece stavo andando incontro ad una vita totalmente opposta.
Da quel giorno in poi fui una novizia: avrei dovuto perciò indossare un velo nero sulla testa che mi copriva interamente il capo e arrivava fino a metà schiena; avevo appena finito il periodo di prova, e sarebbe dovuto passare un anno perché io prendessi i voti veri e propri.
La giornata al monastero si svolse come sempre: preghiere, servire i pasti alle altre sorelle, studiare i doveri delle spose di Gesù, preghiere ed infine di nuovo a casa.
Passò in questo modo circa una settimana, senza stravolgimenti dall’arrivo dei tedeschi.
Le uniche voci che giravano in paese erano che l’ufficiale più alto in grado aveva chiamato il parroco ed il sindaco per parlarci, ma nessuno sa di cosa.
Era uno dei primi pomeriggi di settembre quando, mentre stavo ritornando a casa, ebbi un tuffo al cuore: vidi due macchine nere al di fuori della fattoria, e senza neanche pensarci entrai in casa col cuore a mille.
La scena che mi si presentò fu agghiacciante: tutta la mia famiglia era al piano di sotto, con i bambini che piangevano silenziosamente e un gruppo di quattro SS, tre soldati e un ufficiale, davanti a loro.
Per un attimo rimasero sorpresi nel vedermi, quanto io nel vedere loro, e sentii delle voci in tedesco che arrivavano dal primo piano.
“Non c’è niente qui!”
Appena si affacciarono dalle scale mi fecero segno di andare nella stanza accanto, insieme agli altri.
Mi sbagliai: un'altra SS era nella stanza, di spalle, intenta a leggere dei fogli sul tavolo.
I soldati si misero a parlare in tedesco fra di loro e mia madre si girò verso di me, sussurrandomi.
“Maria, cosa vogliono? Cosa stanno dicendo?”
Io li capivo. Li capivo perché avevo studiato il tedesco. E con questo il francese e un po’ d’inglese.
Erano le lingue dei luoghi che mio padre frequentava di più durante i suoi viaggi, ed io mi ero ripromessa di impararle bene per aiutarlo nel suo lavoro.
“Non parlano l’italiano?” sussurrai a mia volta.
“No…poco ma non si capisce niente” rispose mia madre.
Vidi l’ufficiale che stava leggendo i fogli, girarsi e parlare con l’altro ufficiale, e li capii: stavano cercando mio padre e mio fratello. Stavano cercando i ribelli.
Mio fratello era uno dei capi partigiani: aveva la testa dura e, data la vicinanza al paese, usavano casa nostra come ritrovo un paio di volte alla settimana, prima di ritornare sulle colline.
“Stanno cercando papà e Francesco” dissi, e notai che l’ufficiale si girò a guardarmi.
Io abbassai lo sguardo, sperando che non mi avesse sentito.
La SS fortunatamente non mi sentì, ma si avvicinò chiedendomi il nome, in un italiano stentato.
“Maria De Felice” dissi.
Mi chiese poi se abitavo in quella casa. Dopo un altro paio di domande, si girò e fece segno ad un suo compagno che stava scrivendo.
“Cerchiamo Augusto e Francesco De Felice, dove sono?” disse, in tono freddo e neutro.
Nessuno rispose.
Sentii la SS schioccare la lingua in tono di disappunto, e con un gesto della mano fece segno verso mio zio, che venne preso di peso e portato fuori.
Nessuna di noi mosse un muscolo, due soldati erano davanti a noi con dei fucili lunghi più di un metro.
“Torneremo” disse poi l’ufficiale.
Quando sentimmo le macchine nell’aia andare via, riuscimmo ad alzare gli occhi da terra; io mi tolsi il velo, e mia zia iniziò a piangere.
“Lo uccideranno! Non parlerà mai, lo uccideranno…”
Mia mamma tremava e si avvicinò a sua sorella per consolarla, per quanto poteva.
Io presi tra le braccia Federico, il bambino più grande di mia sorella; lei teneva gli altri due.
Eravamo rimaste solo noi donne; in un modo o nell’altro avremo dovuto farcela.


 
*
 
 
Dopo circa cinque giorni lo zio non era ancora tornato; fu durante un pomeriggio, in cui portai uno dei bambini di Elena con me in paese, che feci un passo falso.
Stavo comprando della frutta, quella che non erano riusciti a vendere durante il giorno; erano circa le sei e mezza, la solita ora in cui torno a casa.
Dissi a Federico di aspettarmi fuori dato che non riuscivo a calmarlo; vidi dei bambini della sua età e lo spinsi a giocare con loro.
Quando uscii però non li vidi più; gettai le provviste nel cestino della bicicletta e corsi a perdifiato nei dintorni. Li scorsi in una vietta vicino, intenti a giocare con un uomo.
L’uomo era sopra la bicicletta di uno dei bambini e li stava facendo divertire; chiamai Federico, ma in quell’istante si girò anche l’uomo.
Il cuore iniziò a battermi forte, di nuovo, come ogni giorno da dopo che la prima bomba era caduta sul nostro paese; teneva una sigaretta in bocca, e il fumo gli usciva come da un camino. Aveva occhi chiari e capelli di un biondo che sembravano quasi paglia.
“Federico, bambini! Via! Presto!” dissi prendendo i bambini per le mani, e trascinandoli via da quell’uomo.
Lui si alzò dalla bicicletta, e come ogni suo compagno che avevo visto fino a quel momento, mi sovrastava di ben venti centimetri.
“No zia! È divertente!” disse Federico tirandomi nella direzione opposta.
Sentii distintamente il soldato darmi della puttana, e in modo incondizionato ripetei la stessa parola come se fosse una domanda.
Hure?
“Capisci il tedesco?” disse lui, sempre in tedesco, ridendo.
Io non risposi ma riuscii a portare Federico via da lì. Mentre lo montavo sulla bici colsi le ultime parole di quel soldato, prima di vederlo sparire in una stradina.
“Pensavo che gli italiani fossero tutti pecore traditrici e ignoranti.”

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Passò un po’ di tempo da quel pomeriggio; me lo ricordo come fosse ieri quel giorno.
Era un martedì, ed erano circa le sette di sera; da quando lo zio non c’era più, Elena e mamma dovettero lavorare il doppio alla fattoria.
Loro stavano sistemando il raccolto nel fienile accanto alla casa, e nell’aia giocavano i due figli di mia sorella, guardati dalla zia.
Io ero di sopra, stavo cullando Andrea per riuscire a farlo addormentare: aveva avuto la febbre tutto il giorno e aveva bisogno di riposare.
Un silenzio pacifico regnava in casa e io mi dondolavo su una vecchia sedia al primo piano, nella stanza di Andrea, con lui in braccio.
Fu un attimo: sentii il rumore di automobili che frenarono sulla ghiaia, dopodiché la porta d’entrata al piano di sotto sbatté violentemente; sentii il pianto di mia sorella e mia madre urlare.
Il cuore iniziò a battermi di nuovo all’impazzata, e la mente si svuotò all’improvviso: sentii chiaramente un uomo con forte accento tedesco chiedere di mio fratello, e in seguito un colpo sordo.
Non potevo scappare; decisi di lasciare Andrea nella culla e di scendere. Mentre stavo uscendo dalla porta però, ci ripensai: e se fossimo riuscite a scappare? Quando avremo potuto prendere di nuovo Andrea?
Tornai così nella stanza, mi misi il velo nero e lo presi in braccio; uscii dalla stanza e con un profondo respiro mi affacciai dalle scale.
Vidi subito due soldati con l’elmetto davanti alla porta chiusa; dopo una frazione di secondo poi, incrociai lo sguardo di quello che doveva essere un ufficiale. Lui aveva alzato la testa e ricambiava il mio sguardo, dai piedi delle scale.
Lo riconobbi subito: era quello che guidava l’esercito in città, quello pieno di medaglie.
Non disse niente ed io silenziosamente scesi le scale, arrivando al pian terreno.
Vidi due soldati con tanto di fucile sovrastare mia madre e mia sorella nella stanza dove ci avevano radunato anche la volta prima; un altro poi, probabilmente un ufficiale, mi dava le spalle.
Sentii le lacrime salire agli occhi: Elena e mamma erano per terra, le stavano picchiando. Ad Elena sanguinava copiosamente un labbro.
Loro mi videro, ma non mi dissero niente: non c’era bisogno di parlare.
Quando l’altro ufficiale si girò, lo riconobbi come quello che mi aveva chiesto il nome la volta prima; si avvicinò e mi chiese di nuovo dov’era Francesco De Felice.
“Non lo so” risposi stringendo Andrea più forte e abbassando stupidamente lo sguardo.
La SS rispose in maniera stizzita e con un gesto fece capire qualcosa ad un suo sottoposto, quello vicino ad Elena.
Quello, con il calcio del fucile, colpì violentemente mia sorella sulla testa che si accasciò al suolo e non si mosse più.
Mia madre si mise ad urlare e questo infastidì ancora di più l’ufficiale; lo sentivo che stava chiedendo ai suoi compagni come dire delle cose in italiano, ma non se le ricordava.
Io ero impietrita e, nonostante credessi fossi coraggiosa, non lo fui affatto in quel momento.
Non trovai la forza per aiutarle, forse perché sapevo che non sarebbe servito a niente.
All’improvviso qualcuno da dietro mi tirò via il velo dal capo, lasciando ricadere sulla schiena i miei lunghi capelli marroni.
Girandomi per vedere chi fosse stato, incrociai gli occhi di uno dei due soldati che stavano alla porta; lui alzò un po’ la testa in modo che i nostri occhi si potessero incrociare, e dopo alcuni secondi lo riconobbi, come fece poi anche lui. Era l’uomo che si era fermato a giocare con Federico e gli altri bambini.
“Lei capisce il tedesco” disse ad alta voce.
Vidi l’ufficiale nella stanza accanto puntarmi i suoi occhietti da topo addosso, all’improvviso molto più rilassato.
“Dove sono i partigiani? Dove si nascondono? Lo sappiamo che si radunano qui.” Disse in tedesco, avvicinandosi.
Stavolta sostenni il suo sguardo.
“Non lo sappiamo. Non vediamo Francesco da mesi”
Bugia. Puntualmente ogni settimana si ritrovavano, lui e i suoi compagni, nel fienile di casa nostra.  Non ci dissero mai, però, dov’erano realmente nascosti, per non farci andare di mezzo.
Sentii l’ufficiale sbuffare dopodiché si girò ed un colpo partì dalla sua pistola, dritto in fronte alla mamma.
Non riuscii a dirle neanche addio; non riuscii a dirle niente. Fu tutto così veloce che non me ne resi neanche conto.
“Tornata la memoria?” mi disse girandosi di nuovo verso di me.
Io abbassai lo sguardo e stavolta le mie parole furono più sicure, quasi rabbiose.
“NON LO SO”
Sentii Andrea scivolare dalle mie braccia e l’ufficiale mi buttò per terra, tra mia sorella e mia madre.
Non ebbi neanche il tempo per pensare che un rumore di pistola riempì le mie orecchie; però non successe niente.
Lo sentii dopo un attimo, il perché.
“Nein, Hoffmann! Ci può servire per tradurre finché saremo in Italia”
La voce era profonda, anche questa neutra, ma molto virile. Non ebbi il coraggio di girarmi. Restai inginocchiata per terra con gli occhi chiusi, tremando, cercando di non guardare il sangue che usciva da Elena e dalla mamma.
Qualcuno mi prese per un braccio e mi tirò su, e riaprii gli occhi solamente quando fummo fuori casa.
I soldati con l’elmetto appiccarono il fuoco nel fienile e, in men che non si dica, le fiamme stavano già bruciando la mia casa. La mia famiglia.
Mi sbatterono dentro una delle loro macchine nere, tra i due soldati con l’elmetto che non mi girai a guardare.
Mi sembrava di vivere un incubo, lo sapevo che non avrei più rivisto la luce; e la cosa che più mi spaventava era quello che mi aspettava dopo.
Avrei dovuto collaborare con i nazisti. Con i nemici.
Se avessi accettato sarei stata ripudiata da tutto il paese, da mio fratello, da tutte le persone che avevo conosciuto.
Se mi fossi rifiutata invece, sarei finita come mia madre e mia sorella; non mi dimenticherò mai quella scena, in quella stanza. Il loro sangue che si spandeva sul suolo. Mia madre aveva urlato, aveva provato a lottare per le sue figlie, invece io ero rimasta immobile, pietrificata dalla paura.
Non me lo perdonerò mai, anche se non avrebbe cambiato niente un mio intervento. Anzi sarei morta anch’io…ma per lo meno non avrei vissuto con questo rimpianto.
Mossi appena la testa per vedere dove stavamo andando, ma era ormai scuro e non si vedeva nulla fra i campi.
Non ero abituata a stare in una macchina seduta dietro; le buche della strada di campagna mi facevano rimbalzare addosso ai soldati, costringendomi a cercare di restare dura, ferma al mio posto.
Dopo un quarto d’ora circa arrivammo nel centro del paese; uno dei due soldati scese e mi prese per un braccio tirandomi con sé, in modo che lo seguissi in fretta.
Si fermarono davanti ai palazzi più signorili del centro: una volta abitavamo anche noi là.
Io e la mia famiglia, prima che il lavoro di papà iniziasse ad andare male, verso il 1940. Fu così che ci trasferimmo alla fattoria: era dei nonni di mamma e ci vivevano con mia zia e suo marito Aldo, con cui purtroppo non riuscì mai ad avere dei figli.
“Dove la mettiamo?” disse l’ufficiale dagli occhi da topo.
Quello che uccise mia madre e mia sorella, e che stava per uccidere anche me. Herr Hoffmann.
Si rivolse all’altro ufficiale presente, quello pieno di medaglie.
Lui rimase in silenzio poi, togliendosi i guanti, lanciò un’occhiata al palazzo.
“La porteremo su” disse.
Venni trascinata come una bambola su per le scale del palazzo; aprirono la porta di un appartamento e vi entrarono, seguiti dal soldato con l’elmetto e me.
I due ufficiali rimasero in un grande salone a parlare, mentre il soldato mi portò verso una piccola stanza.
Non c’erano luci dentro, così non riuscii a vedere quasi nulla quella sera; sentii il soldato armeggiare con qualcosa che sembravano catene.
Quando mi prese i polsi capii che erano delle manette e, dopo averle chiuse ed aver chiuso la porta, mi girai attorno disperatamente, in cerca di una via di fuga.
Provai ad alzarmi in piedi ma a metà sentii un forte strattone provenire dai polsi, e li capii: le manette erano legate a delle catene attaccate al muro.
Scivolai a terra appoggiandomi contro la parete, ed un peso mi premette sul petto; ero così sconvolta che non realizzai ancora cosa era successo.
Sentivo solo quel peso che mi mozzava il respiro, mi annebbiava i pensieri; non riuscivo neanche a piangere.
Mi stesi per terra, con i palmi delle mani appoggiati sul pavimento ghiacciato; ci misi la testa sopra e avvicinai le gambe al corpo. Chiusi gli occhi e iniziai a contare, cercando di regolarizzare il respiro.
Dopo non so quanto tempo mi addormentai, ma stranamente non sognai niente quella notte.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Il giorno dopo mi svegliai tardi, solo grazie alle campane della chiesa che battevano mezzogiorno. La luce del sole non riusciva ad entrare nella stanza a causa della vicinanza dei palazzi, nella strada.
Mi tirai su da terra e mi appoggiai con la schiena alla parete; vidi vicino alla porta un bicchiere pieno d’acqua e un piatto con del pane nero.
Non avrei mai voluto né mangiare né bere, ma non avevo cenato e con tutte le emozioni che provai la notte prima, avevo bisogno di mangiare qualcosa.
Mi allungai e presi quello che mi avevano portato, dopodiché mi appoggiai di nuovo al muro e guardai fuori dall’unica lunga e stretta finestra che c’era nella stanza.
Cosa provai quella mattina appena sveglia? Niente. Me lo ricordo benissimo, proprio per questo motivo. Avrei dovuto ingegnarmi e pensare a mille modi su come fare per uscire da quel posto; ma semplicemente non ci pensai proprio. L’unica cosa che mi urlava nella testa era che da quel momento in poi ero rimasta sola; mi avevano portato via tutto: la guerra mio padre, i nazisti il resto della mia famiglia con la nostra casa. Anche se fossi riuscita a scappare non avrei avuto un posto in cui tornare, un posto da chiamare casa; Elena, mamma, zia, i bambini e probabilmente anche mio zio erano morti. Restare in quel luogo voleva dire continuare a ripetersi perché era successo a loro e non a me. Sarebbe stato giusto cercare di salvarsi mentre loro si erano sacrificati anche per me?
C’era ancora Francesco, mio fratello, ma non sapevo dove si trovasse e non mi sarei mai cacciata da sola, in mezzo alle colline, tra partigiani e tedeschi pieni di armi.
Dopo due ore circa (contai il tempo grazie alle campane della chiesa), sentii la porta aprirsi; non mi mossi, e vidi un soldato chinarsi su di me e prendermi le mani per togliermi le manette. Mi prese per un braccio e mi costrinse ad alzarmi, ma appena fuori dalla stanza gli chiesi se potevo andare in bagno.
Lui mi squadrò, poi mi fece cenno con la testa e mi disse di fare in fretta.
Il bagno era in fondo al lungo corridoio di quell’appartamento; il soldato venne con me, ma per fortuna mi aspettò fuori.
Mi diedi una sciacquata con dell’acqua fredda, e in quel momento ricordo il tremolio continuo delle mie mani; le appoggiai sul lavandino e mi guardai al piccolo specchio appeso alla parete: avevo gli occhi spenti, e strane fosse viola si stavano presentando sotto di essi.
Quando uscii dal bagno il soldato mi prese ancora per il braccio, ed io inciampavo ogni due passi per la differenza di falcata e per quel tremolio che aveva raggiunto anche le gambe.
Uscimmo di casa e girammo a destra, da dove eravamo arrivati la sera prima; camminammo per un paio di minuti, arrivando al comune dove c’era la sede delle camicie nere.
Non vi ero mai entrata, ma ricordavo perfettamente le persone che vi entravano ed uscivano. Una volta dentro vidi tanti soldati, la maggior parte con una divisa non italiana. Tutti tedeschi probabilmente.
Non ricordo molto di quel posto, mi sembrava di stare in una bolla quel giorno: ordini impartiti ad alta voce, i miei piedi che si piegavano in un modo innaturale per stare al passo col soldato, quel tremolio in tutto il corpo.
Arrivammo davanti ad una porta e il soldato che mi accompagnava bussò forte due volte, e poi, senza aspettare, la aprì.
Lo sentii dire qualcosa in tedesco, ma non lo stavo ascoltando. Rimasi con lo sguardo fisso a terra, e solo dopo che se ne fu andato, sbattendo la porta, mi risvegliai come da un sogno.
La stanza era quadrata, molto grande, con delle finestre enormi da cui entrava molta luce. C’era una scrivania vicino ad una parete, e vidi l’ufficiale con molte medaglie che mi stava guardando seduto dietro di essa, con dei fogli in mano.
“Vieni qua.” Mi disse in tedesco, ed io mi avvicinai con passo malfermo. Mi accostai alla scrivania, ma non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi.
“Devi chiedere a queste persone se tengono delle provviste per i gruppi partigiani di questa città.” Disse semplicemente.
Io annui col capo, sempre a sguardo basso, e mi girai verso le persone che stavano sedute davanti alla scrivania: erano donna Anna e suo marito, il signor Antonio. Erano i proprietari del panificio del paese.
Il mio cuore riprese a battere più forte rivedendoli, e le lacrime si presentarono ai miei occhi; le ricacciai a forza dentro, e gli posi la domanda che il tedesco mi aveva chiesto.
Ovviamente sia loro sia io sapevamo che tenevano del cibo per i ragazzi che cercavano di difendere la nostra città.
“Facciamo il nostro lavoro, come lo abbiamo sempre fatto” disse Antonio. Vidi poi che donna Anna mi guardava insistentemente.
Tradussi in tedesco, e con la coda dell’occhio vidi l’ufficiale girare la testa verso di lui, e porgli ancora quella domanda, stavolta con tono un po’ più aggressivo. Io gliela tradussi, e così fu per una quindicina di minuti.
Verso la fine l’ufficiale mi porse una foto, chiedendomi di chiedergli se sapesse chi fosse quel ragazzo.
Era ovvio che sapessero chi fosse, era il figlio di uno dei fratelli di Antonio; oltre alla parentela, tutti si conoscevano, più o meno, in quel paese. Quel ragazzo si chiamava Franco ed era un po’ più giovane di mio fratello; ora erano insieme, su quelle colline.
Presi la foto che mi stava porgendo l’ufficiale, ma avevo le mani sudate e mi scivolò sulla scrivania. In quel momento mi agitai ancora di più, e dovetti passarmi le mani sui vestiti per asciugarmele. Ripresi la foto, e vidi come si agitava nella mia mano; istintivamente alzai lo sguardo verso l’ufficiale, ma lui stava perfettamente dritto sulla sua sedia, guardando i due interrogati.
Mi avvicinai ai miei compaesani e gli mostrai la foto, e loro dissero che era loro nipote. L’ufficiale poi continuò “Dove si trova ora?” io tradussi. Loro dissero che non lo sapevano, non avevano avuto il tempo di far visita ai loro parenti da quando era scoppiata la guerra.
L’ufficiale dopo un paio di minuti di silenzio disse loro che potevano andare, ma in italiano stavolta.
Io non mi mossi dal mio posto, continuavo a guardare per terra. Lui si alzò un paio di volte, andando a prendere dei documenti dagli armadi sul fondo della parete.
Ritornò infine a sedersi sulla scrivania.
“Siediti” mi disse, ed io, piano, mi avvicinai alla sedia dove si era seduta donna Anna qualche tempo prima.
“Ho bisogno che mi traduci questi documenti.” Mi disse, porgendomi una serie di fogli.
Io li presi, e non potendoli tenere in mano per via del tremolio, li appoggiai sulle gambe.
Lessi in fretta: erano dei fogli che descrivevano la vita di alcune persone del paese; probabilmente le camicie nere li avevano spiati nel corso degli anni.
Mentre leggevo parecchi soldati entrarono ed uscirono dalla stanza, ma non alzai gli occhi dai fogli per guardarli; colsi però alcune parole.
“…ne abbiamo catturati due…”, “…una squadra dei nostri è stata attaccata fuori dal paese, ci sono dei feriti…”
Mi sentivo come una formica in mezzo a degli elefanti: ero piccola rispetto a loro, dimagrita per la fame dovuta alla guerra; loro, invece, erano quasi tutti uomini molto alti, con un corpo robusto, e se solo avessero voluto, mi avrebbero spezzato le ossa con una mano.
Quando se ne furono andati il silenzio calò nella stanza, ed io alzai gli occhi per guardare l’ufficiale: lo scoprii a fissarmi, con sguardo vuoto. Incrociando i suoi occhi feci un balzo, facendo aumentare ancora di più il tremolio.
“Non ho tutto il giorno.” Mi disse.
Io abbassai lo sguardo, “Sono…delle ricerche su alcune persone del paese” dissi.
Lui si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulla scrivania e unendo le mani: “Questo lo sapevo già. Voglio sapere cosa c’è scritto.” Mi disse con un tono alquanto freddo, innaturale.
Io glielo dissi, ricontrollando qualche volta nel foglio per non perdere il filo. Quando finii lui porse una mano verso di me, e io gli riconsegnai i fogli; li rimise nelle cartelle, scrivendoci qualcosa sopra. Dopo un paio di minuti la sua voce ruppe di nuovo il silenzio.
“Non devi avere paura se farai bene quello che ti viene chiesto.” Mi disse. Io alzai lo sguardo e lo guardai mentre sistemava i documenti.
“Nessuno è interessato a una ragazzina italiana. Svolgi bene il tuo compito e non ti sarà fatto del male.” Disse ancora.
Io non risposi, anzi mi agitai ancora di più, e le mie mani si contorsero sul grembo in preda a tremolii incontrollabili.
Quel primo giorno, i nazisti interrogarono circa cinque - sei persone; non fecero del male a nessuno, per fortuna.
Tutti i miei compaesani che mi vedevano nell’ufficio a tradurre per i nazisti mi guardavano con aria sorpresa: la voce che ero diventata una collaboratrice dei nazisti non avrebbe dovuto metterci tanto a spandersi, in città.
Quando, verso le sette di sera, gli interrogatori furono finiti, rimasi nella stanza con l’ufficiale. Non volava una mosca, e io non mi azzardavo a dire nulla.
All’improvviso dei colpi alla porta mi fecero sussultare, e girandomi vidi entrare l’ufficiale Hoffmann, l’assassino. Lui non mi degnò neanche di uno sguardo, e si mise a informare l’altro ufficiale di qualcosa successo nel pomeriggio.
Obersturmbannführer Schuster…” lo sentii pronunciare appena entrato. La mia mente fece una rapida traduzione: l’uomo che sedeva davanti a me era un comandante maggiore di unità d’assalto. Si chiamava Schuster.
Allora non me ne intendevo molto di gradi militari, ma tutte le mostrine sul suo petto e il titolo di ‘comandante maggiore’ mi fecero pensare che fosse un pezzo grosso.
Vidi l’ufficiale Schuster fare un cenno ai soldati con l’elmetto che presidiavano la porta per fuori, e uno di loro mi venne a prendere e mi riportò a casa.
Fu così che passarono esattamente dieci giorni: li contavo disperatamente, nella speranza che mi lasciassero andare al più presto.
Non parlavo con nessuno, a parte quando dovevo tradurre per l’ufficiale, e mi sembrava di impazzire, legata a quel muro, in quella stanza.
L’unica cosa che avevo per distrarmi era l’anello rosario donatami dalle suore del convento, all’inizio del periodo di prova.
Lo portavo sull’anulare sinistro nove mesi prima; in quel periodo invece lo portavo sul dito medio della mano destra, perché, a causa del dimagrimento, le dita si erano fatte più sottili.
L’anello era in piombo con una piccola croce sul davanti, e tutt’attorno c’erano quattro tacche sempre di ferro, per fare un piccolo rosario di cinque preghiere.
Non avevo dimenticato la promessa fatta; avrei dovuto prendere i voti, ma ho sempre pensato che Dio avesse capito che non fosse la mia strada. Così pregai ogni sera, nella speranza che mi liberassero, che Francesco venisse protetto, nella speranza che la mia famiglia fosse in un posto migliore, ma soprattutto nella speranza che mi perdonassero per non averli aiutati.
La mattina dell’undicesimo giorno, molto presto, fui svegliata dal rumore della serratura, ed il solito soldato con l’elmetto mi venne a prendere.
“Vai a lavarti, e mettiti questo. Tra mezz’ora dobbiamo partire” mi disse porgendomi un vestito da donna.
Io lo presi e lui mi accompagnò fino davanti al bagno “Fa presto,” disse, “Sennò uscirai in qualunque modo sei”.
Entrai in bagno, e aprii l’acqua calda; dopo dieci minuti usciva ancora fredda, così dovetti lavarmi con l’acqua ghiacciata.
Mi lavai poi anche i capelli ed i denti con quello che trovai nel bagno. Indossai il vestito che mi aveva portato: era blu notte, con dei fiorellini piccoli bianchi e del merletto rosso sui bordi: il tipico vestito che usavano le ragazzine giovani in paese, e per questo non mi stava largo. Aveva maniche lunghe e uno scollo rotondo, e mi arrivava fino a sotto le ginocchia.
Mi stavo frizionando i capelli cercando di asciugarli, quando la porta si aprì di botto: “Dobbiamo andare” disse il soldato.
Uscii dal bagno e lui mi prese di nuovo per il braccio; passando davanti alla stanza dove avevo dormito tutte quelle notti però, cercai di fermarmi.
Lui si girò un po’ sorpreso ed io istintivamente mi ritrassi un poco, sfuggendo il suo sguardo.
“Dove volete portarmi?” gli chiesi.
Aspettai che mi tirasse per i capelli, o che mi urlasse contro, invece non fece nulla di tutto ciò.
“Ci spostiamo nella città successiva.” Mi disse.
Io avevo paura a fare altre domande, tuttavia il precipitare della situazione mi prese totalmente alla sprovvista.
“Perché volete anche me? Mi avevano detto che se avessi…”
“Mi dispiace signorina,” mi interruppe, “ma eseguo solo gli ordini.”
Si fermò nel salone a prendere una valigetta, e girandosi mi guardò per alcuni attimi.
“In Germania ho una sorella che ti assomiglia” mi disse mentre scendevamo le scale, “è magra magra, la più piccola della famiglia. Ha sempre paura di tutto, ma finché c’ero io a casa diceva che non aveva paura di nessuno.”
Io non dissi niente, anzi, mi sentivo a disagio per quelle confidenze che mi stava facendo. Arrivammo in strada e mi fece entrare in una delle due solite macchine nere. Un altro soldato era già seduto dentro, di fianco a me, e uno era al posto di guida. Dopo una decina di minuti riconobbi il comandante Schuster, che salì nell’ultimo posto disponibile nella macchina.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Viaggiammo per quelle che dovevano essere ore, almeno per me; non avevo mangiato niente quella mattina, e ricordo il senso di vomito che provavo quando la macchina incontrava le buche della terra battuta, o i san pietrini.
Il comandante Schuster parlava con il soldato che stava guidando in quel momento; colsi solo alcune parole, che mi fecero capire che stavano seguendo una strada precisa per arrivare nella prossima città.
Io mi sentivo completamente abbandonata: ero in mano a dei soldati, per giunta tedeschi, e mi stavano portando in una città in cui non conoscevo nessuno. Le mie speranze erano quelle che mi lasciassero una volta che li avessi aiutati, ma solo in quel momento scoprii quanto fossi ancora ingenua.
Avevano ammazzato con facilità e senza nessuna esitazione la mia famiglia, e bruciato la mia casa, perché avrebbero dovuto lasciarmi andare? Gli servivo ancora.
Dopo un altro paio di ore credo, arrivammo alle porte della nuova città: assomigliava al mio paese, ma si notava che era molto più grande.
La gente si fermava per strada a guardare quegli enormi carri armati sfilare in città, e vedevo le loro espressioni cambiare, di volto in volto. Chissà qual è stata la mia espressione quella volta che mi fermai in mezzo alla strada, a guardare gli assassini della mia famiglia.
La macchina si fermò davanti ad un palazzo in quello che doveva essere il centro cittadino; ne scese il comandante e i due soldati a fianco a me. Io rimasi immobile al mio posto, insieme all’autista.
Dopo un quarto d’ora ritornarono in macchina, e percorremmo un altro paio di viuzze, fermandosi poi davanti ad un altro palazzo.
Mi ci portarono dentro, e l’unica cosa che mi ricordo di quel posto erano gli interni: meravigliose pareti affrescate, sembrava di essere dentro un sogno.
Il soldato mi portò su per delle scale e anche qui incontrammo il caos che c’era alla sede delle camicie nere, al mio paese.
Prima che il soldato mi lasciasse in qualche stanza però, trovai il coraggio per chiedergli qualcosa da bere.
“Non c’è tempo, il comandante ti sta aspettando” disse, continuando a camminare.
Si fermò davanti ad una porta e bussò; come al solito entrò e mi lasciò dentro, andandosene.
Quella stanza era più piccola di quella precedente, usata per gli interrogatori; era stretta e un po’ più lunga.
Il sole entrava a metà tra gli alberi che si vedevano dalle finestre; vidi il comandante con l’ufficiale Hoffmann e un altro soldato, in piedi attorno ad una cartina appoggiata sul tavolo.
“Risaliremo la costa ovest, per arrivare in Francia.” Disse il comandante Schuster.
“Allora è deciso” disse Hoffmann. Fece il saluto nazista e uscì, assieme all’altro soldato.
Vidi il comandante fare il giro della scrivania che c’era nella stanza e sedervisi.
“Cosa fai la in piedi? Sbrigati vieni qua” mi disse.
Io mi avvicinai, e per fortuna stavolta mi fece sedere, calmando un po’ il tremolio che mi percorreva tutto il corpo.
Non entrò nessun cittadino quel giorno, ma solo parecchi soldati; il comandante mi fece tradurre dei documenti su persone registrate di origine ebrea, altri invece erano documenti privati riguardanti il Duce.
Per la paura, l’emozione e il fatto che non avevo mangiato e bevuto niente, la voce mi si inceppò spesso, costringendomi a fermare la traduzione per schiarirmela.
Dopo l’ennesima volta che mi fermai, vidi il comandante strofinarsi gli occhi con la mano destra e lo sentii sbuffare sonoramente.
La sua voce riempì tutta la stanza, e mi fece sobbalzare e tremare dalla paura.
“Datele un po’ d’acqua!” urlò.
Un soldato presente in stanza uscì, e dopo pochi secondi ritornò con un bicchiere d’acqua; io lo presi, ma, a causa del tremolio, me ne cadde metà sul vestito. Bevvi il resto con avidità, e mi sentii un po’ meglio.
Passarono così un'altra decina di giorni; mi legarono sempre in una stanza, nell’appartamento dove soggiornava il comandante.
Stavolta però non c’erano catene al muro, così fecero passare le manette attorno alle sponde di ferro del letto. La stanza era senza finestre, e non potevo neanche stendermi bene per dormire.
Dopo tre – quattro giorni, notai dei lividi viola attorno ai polsi, dovuti alla brutta posizione in cui dovevo stare.
Una sera, mentre un soldato mi stava riportando nell’appartamento, trovai il coraggio di chiedergli di non legarmi al letto.
“Non legarle al letto, per favore…”
Mi facevo schifo, stavo pregando gli assassini della mia famiglia.
Il soldato alzò un po’ la testa, in modo che i nostri occhi si potessero incrociare, e mi disse: “Non posso signorina. Ordini.” Mi ricordai della sua voce, era lo stesso che mi aveva paragonato a sua sorella.
Quella sera credo di essere impazzita: tirai con forza le manette contro il ferro, spostando il letto, ma l’unica cosa che ottenei furono delle ferite nelle zone già martoriate. Sentivo il sangue caldo scendere sulle braccia, e un dolore pulsante ai polsi.
Piansi, piansi come non avevo pianto mai, pensai all’ultimo giorno a casa, pensai a mamma, Elena, papà, Francesco… ai bambini, agli zii, alle mie amiche, agli abitanti del mio paese… pensai a tutti.
La stanza era buia, e non si sentiva nulla provenire dall’appartamento, solo la mia voce che singhiozzava si spandeva con l’eco per la stanza.
Mi addormentai piangendo quella sera.
Il giorno dopo, puntualmente, il solito soldato mi venne a prendere; lo vidi guardarmi le braccia, un po’ sorpreso nel vedere tutto quel sangue.
Appena mi prese cercai di opporre resistenza, ma fu inutile, ero troppo debole.
Erano due giorni che rifiutavo il pane che mi davano, bevevo solo l’acqua.
Mi portò come al solito alla stanza del comandante, ma stavolta, quando mi disse di avvicinarmi gli dissi di no.
Lui si girò, probabilmente sorpreso di sentire una risposta.
“Cos’è successo?” mi disse, sempre in tedesco, accennando al sangue.
Io non gli risposi, ma mi girai e aprii la porta; in quel momento però entrò un soldato, e scontrandoci mi buttò quasi per terra. Quasi non mi guardò e lo sentii rivolgersi a Schuster.
Io mi girai e guardai il comandante; i nostri occhi si incrociarono. Ebbi il coraggio di farlo?
Per la prima volta, si.
Uscii dalla porta, e prima camminando, poi correndo sempre più veloce, cercai di uscire da quell’inferno.
Il cuore mi batteva all’impazzata, per la stanchezza, per la paura, per l’emozione. Facevo fatica a mettere i piedi ben dritti a terra perché tremavano, ma in qualche modo ce la feci, finché non arrivai all’ultima rampa di scale.
Sentii un braccio forte cingermi completamente la vita, un altro cingermi le braccia. Le lacrime scesero prepotenti sul mio viso e iniziai ad urlare; quell’uomo che non vedevo mi tirò su facilmente e mi riportò indietro, lasciandomi di nuovo nell’ufficio di Schuster.
Mi liberò ed io scivolai al suolo, piangendo silenziosamente, i singhiozzi che non si fermavano.
Non alzai il viso per guardare se c’era qualcuno, rimasi li per terra, finché non sentii la voce fredda del comandante dirmi: “Ci sono quei documenti da tradurre”. Sentii poi la porta aprirsi e richiudersi, stavolta però con il rumore della chiave nella toppa.
Non mi ricordo quanto tempo passò prima che mi alzassi da terra; mi ricordo solo che mi alzai e raggiunsi le finestre, dove vidi che stava facendo buio.
Rimasi a fissare le foglie degli alberi che stavano cambiando colore; dopo un po’ guardai i miei polsi alla luce, scoprendo più sangue rappreso di quello che mi aspettavo.
Come un flash mi tornò in mente il sangue di mia sorella e mia madre che si allargava sempre di più sul pavimento della stanza al pian terreno.
Il tremolio ricominciò, e la paura della morte riprese possesso di me, cancellando il coraggio che ebbi quel giorno.
Andai verso la scrivania e mi sedetti sulle sedie degli interrogati, appoggiando sulle mie gambe un grande raccoglitore con i documenti dentro; aprendolo però scivolò fuori un foglio, che si adagiò piano sul pavimento.
Lo raccolsi e lessi il titolo: Sereno.
Era scritto con una calligrafia corsiva, piena di fronzoli, veramente bella ed elegante. Era una poesia, talmente semplice che non me la scordai più. Diceva:
Dopo tanta
Nebbia
A una
A una
Si svelano
Le stelle
 
Respiro
Il fresco
Che mi lascia
Il colore del cielo
 
Mi riconosco
Immagine
Passeggera
 
Presa in un giro
Immortale
Non c’era la firma, non c’era l’autore né niente altro.  Solo anni dopo scoprii di chi fosse quella poesia.
Le stelle. Erano più o meno da venti giorni che ero chiusa dentro delle stanze, e dopo tutto quello che era successo non pensai più a nient’altro. Chi si ricordava più delle stelle?
Le guardavo sempre, prima dalla piccola torretta che c’era nel nostro appartamento al centro del paese, poi dalla finestra della camera, alla fattoria. Sapevo che i lupi ululavano alla Luna e alle stelle, che la notte aveva sempre affascinato gli amanti, i poeti, gli artisti… io mi fermavo solo in silenzio, a guardare per ore il cielo della notte.
Respirare il fresco. L’aria fresca della notte che mi pizzicava il viso. Avrei potuto ancora sentirlo, perché io ero ancora viva. Mi avevano risparmiato, non sapevo ancora per quanto, ma potevo ancora vivere.
Rimisi il foglio dentro il raccoglitore e mi misi a tradurre i documenti, trascrivendone un riassunto sui fogli bianchi che erano sopra la scrivania.
Quella sera, dopo che mi ebbero portata nella stanza, fui più serena; continuavo a pensare a tutto quello che era successo, ma un lieve senso di pace mi pervase il cuore.
Mentre cercavo di dormire però sentii per la prima volta delle voci provenire dall’appartamento; stavano parlando in tedesco. Mi avvicinai più che potei col corpo, per quanto le manette e il dolore ai polsi mi permettesse e riuscii a captare alcune frasi.
“…ha avuto solo due settimane di riposo dopo la campagna in Russia. Si deve capire se è stanco”
Sentii la voce di un uomo, che parlava in maniera grave. Dopo un attimo un'altra voce si introdusse.
“Non sarebbero compiti suoi questi”
“Mi è stato riferito solo questo. Karl mi ha detto di non farne parola con molti; la sicurezza nel comandante potrebbe venir meno.”
Il comandante. Che stessero parlando di Schuster?
“Ma hai capito bene? Veramente…”
“Veramente, non sono scemo. È vicino ad un esaurimento nervoso, ha detto.”
“C’è da capirlo. Non deve aver passato bei momenti in Russia.”
Non fecero mai il nome della persona di cui stavano parlando quella sera; tuttavia una serie di altre informazioni mi fecero pensare che si trattasse proprio del comandante Schuster.
Non avevo mai sentito parlare di esaurimento nervoso; mio padre mi raccontava spesso di quello che il nonno gli aveva detto sulla Grande guerra. Qualcosa sui nervi, su quello che provavano quando erano al fronte. Che fosse stata la stessa cosa?
Ritornai sopra al letto, attenta a non strusciare troppo le manette sui polsi e chiusi gli occhi, pensando che nonostante le apparenze, non ero l’unica a soffrire in quel momento.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Il giorno dopo dormii a lungo, non sentendo nessun movimento nell’appartamento; quando mi svegliai non seppi esattamente che ore fossero, perché non c’erano finestre nella stanza.
Dovetti aspettare le campane della chiesa di quella città, che suonavano solo ogni ora.
Scoprii che non avevo più le manette ai polsi, e qualcuno aveva acceso una lampadina che pendeva dal soffitto; mi avvicinai cauta alla porta, ma purtroppo la scoprii chiusa a chiave.
Vidi il solito piatto con il pane nero, e il bicchiere d’acqua. Mangiai piano, in modo che sembrasse ne stessi mangiando di più di quello che era.
Rimasi nella stanza tutto il giorno, e non sapevo più che fare; all’improvviso mi venne un’idea, l’unica che poi, in seguito, mi impedì di impazzire veramente. Feci finta che ci fosse mamma, Elena, papà, gli zii e i miei nipotini, tutti intorno a me, come quando eravamo a casa.
Iniziai a parlare con loro ad alta voce, come eravamo soliti fare. Iniziai a spiegare tutto, a chiedere il loro perdono, dirgli che mi mancavano.
“Mamma, non avrei mai voluto vedere quella scena, tu ti sei sacrificata per le tue figlie, ed io invece non ho saputo fare niente… come una codarda la paura mi ha immobilizzata, e non ho saputo far altro che piangere. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace… perdonami, perdonami non avrei mai immaginato che un giorno tutto quello che mi dicevate potesse succedere davvero…
Elena, tesoro mio, sorella mia, tu ti sei sacrificata prima di tutti:non sai quanto mi manchi, tu e la mamma e i tuoi bellissimi bambini, non passa giorno in cui non vi pensi, in cui mi pento della codarda che sono stata. Ora sto aiutando le persone che vi hanno ucciso, non ho altra scelta. Ho provato a scappare, ma è stata una mossa stupida e inutile; pensi sia giusto che cerchi di salvarmi? Tu avresti fatto lo stesso al mio posto?
No, ovvio che no, è per questo che tu sei in cielo, ed io qua. Hai avuto il coraggio di ribellarti, di lottare, a differenza mia, e ne hai pagato le conseguenze, ma almeno la tua anima avrà pace in eterno perché non avrai nessun rimpianto.
Avevo pensato anche a lasciarmi morire di fame, ma non ce la faccio, ho troppa paura. Sono rimasta due giorni senza mangiare, e al terzo quando ho visto il pane che mi avevano portato non ci ho più visto.
La verità è che ho paura di morire, non sono coraggiosa come te e mamma, papà, Francesco e tutti gli altri.
Ho una paura tremenda, e il presente mi spaventa meno della morte.
Scioccamente, quando mi addormento la sera penso che la mattina potrei davvero risvegliarmi nella nostra stanza alla fattoria, con i cinguettii degli uccellini ed il canto del gallo nel pollaio. Invece sono sempre qui, che penso a voi.
Mi mancate tanto, vi siete portati via una parte di me ed io non riesco a reagire. Cosa dovrei fare, mamma? Tu avevi sempre una soluzione a tutto. Avrei dovuto ascoltarti quando mi dicevi di sposarmi, prima che scoppiasse la guerra: ora probabilmente sarei al sicuro da qualche parte al nostro paese, e voi sareste ancora vivi.”
Chiusi gli occhi, e rimasi un paio di minuti in silenzio; quando stavo per ricominciare però, sentii distintamente un fruscio dietro alla porta.
La guardai con gli occhi sbarrati, ma non successe nulla; dopo una decina di minuti iniziai a pensare che me lo fossi immaginato.
Mamma, eri tu? O eri tu, papà? Mi manca quando ci radunavamo tutti intorno alla radio, quando abitavamo ancora in centro, insieme a Elena e Francesco. Me le ricordo ancora tutte quelle canzoni. Vi ricordate quando avevo più o meno sette anni, vi dissi che un giorno anche la mia voce sarebbe uscita da quella scatola. Una bella voce intonata, che avrebbe incantato tutti, e tutti si sarebbero fermati per ascoltarmi.”
Andai avanti ancora per un po’, poi mi addormentai e mi risvegliai un paio di volte.
 
Venni svegliata finalmente dalla chiave nella toppa; entrò il solito soldato con l’elmetto, ma stavolta mi parlò.
“Signorina, stiamo per partire. Mangi questo, si lavi e indossi i vestiti che le sono stati lasciati nel bagno. Faccia presto, non c’è molto tempo.”
Presi il piatto che mi porse, e vidi che non se ne andava. Era da un giorno intero che ero chiusa in quella stanza, e avevo bisogno di parlare qualcuno.
“Come ti chiami?” gli chiesi, un po’ titubante.
Lui alzò il capo, guardandomi negli occhi; dopo qualche istante disse: “Albrecht”
Lo guardai un po’ meglio, e scoprii quanto giovane fosse in realtà: con l’elmetto sul capo sembravano tutti molto più adulti di quello che erano veramente.
Titubante gli chiesi: “Quanti anni hai?”
Vidi un sorriso apparire sul suo viso: “Ventidue” mi disse.
Ritornai al mio pane nero, ma stavolta fu lui a parlarmi.
“Mia sorella si chiama Heike. Le assomiglia davvero tanto.”
Per la prima volta dopo un mese, potevo fare conversazione con qualcuno. Mi tirai un po’ più su e gli chiesi: “Ti manca?”
Lui sorrise e fece segno di si con la testa. “Però sono felice di quello che sto facendo. Sto servendo il Reich come un valoroso soldato, anche se finora non ho fatto molto.”
Guardai la sua divisa, e la vidi molto spoglia, paragonata a quella del comandante Schuster.
Non aveva medaglie e nessuna striscia di tessuto colorato. Solo sul colletto aveva due strisce di tessuto nero, rettangolari, ma non avevano niente di particolare.
“Dove siete diretti questa volta?” gli chiesi, un po’ più sicura, vedendolo disponibile a parlare con me.
“In una grande città, a Genua” rispose. Io lo guardai perplessa, non conoscevo nessuna grande città con quel nome.
“Genua?” ripetei. Lui si mise a ridere, e mi disse che avevo un accento buffo in tedesco.
E in quel momento capii: era Genova. Avevo sentito Schuster dire che dovevano arrivare in Francia, e Genova era sulla loro strada.
Mi alzai per andare al bagno, e quando ne uscii, Albrecht mi prese per il braccio e mi portò giù. Prima di uscire però mi disse: “Signorina, forse questa è l’ultima volta che la vedo. Rimarrò a Genua, non andrò avanti con il comandante. È stato piacevole fare la sua conoscenza, qualche volta fa piacere parlare con giovani signorine come lei”
Io non risposi, non ne ebbi neanche il tempo; mi fece entrare in macchina, e si sedette alla mia destra come sempre. E come sempre altri due soldati erano presenti, e arrivò anche il comandante, che aveva cambiato divisa, sul sedile anteriore.
Stavolta viaggiammo molto di più, entrammo a Genova che era tardo pomeriggio. La scena quando arrivammo fu uguale a quella negli altri paesi: gente incuriosita che guardava il disciplinato esercito tedesco marciare sulla loro città.
La cosa che mi sconcertò di più quel pomeriggio, fu vedere i palazzi distrutti: anche nel mio paese caddero delle bombe, ma nessuna fece grandi danni. In più dallo scoppio della guerra, vivevamo già in aperta campagna e le poche bombe che sentivamo cadere erano sui centri dei paesi limitrofi.
Cumuli di macerie erano accatastate ai lati delle strade, e l’unica cosa che era rimasta in piedi erano solo delle pareti vuote delle case.
Era come vedere uno scheletro che cammina: niente pelle od organi, solo ossa. Sperai che non ci fosse stato nessuno dentro, che si fossero salvati, e che i palazzi che erano caduti fossero caduti solo perché non erano solidi.
Sentii il comandante riferire all’autista che molti servizi erano “saltati” dopo il bombardamento di due giorni prima; probabilmente intendeva l’elettricità o il telefono, per chi aveva la fortuna di averlo.
Il soldato al volante continuò a guidare, e dopo essere arrivati in quello che doveva essere il centro, accostò in una via stretta, dove non c’erano segni di danneggiamenti.
Scesero, e Albrecht mi tirò con sé; entrarono in un palazzo vecchio, proprio dall’altro capo della stretta via.Era piccolo e si sviluppava su due piani.
Seguimmo il comandante su per le scale; altri soldati erano già al primo piano, tuttavia il comandante andò su fino al secondo.
Albrecht mi lasciò all’entrata e chiuse la porta, facendomi rimanere sola con il comandante Schuster.
In quegli spostamenti avevo sempre tanta paura, perché non si poteva mai immaginare se decidevano di uccidermi da un momento all’altro, perché scoprivano che non gli servivo più.
L’ambiente dentro era bello, si notava che doveva essere appartenuto ad una famiglia molto ricca.
Vidi il comandante togliersi la giacca e accendersi una sigaretta, mettendosi comodo nel salotto che c’era a destra; io non sapevo che fare, così mi fermai sulla porta del salotto, appoggiando una mano sullo stipite, in silenzio.
Mi sentivo una stupida a stare lì in piedi a guardarlo; lo vidi rilassarsi su di una poltrona verde scuro, chiudere gli occhi ed espirare il fumo dalla bocca.
In quel momento notai ancora i suoi colori, come quel pomeriggio in mezzo alla strada: i capelli erano castano scuro, rasati dal collo fino a sopra le orecchie; li portava divisi, con la riga molto in basso, a sinistra.
Aveva una mascella pronunciata e quando espirava la stringeva, sottolineandola ancora di più.
Gli zigomi erano alti, e creavano una piccola ombra sulle sue guancie; un velo di rosa gliele colorava.
La pelle era tanto chiara, in netto contrasto con la divisa nera che portava quel giorno.
Vidi il suo petto alzarsi e abbassarsi un po’ troppo ritmicamente; di certo non era rilassato.
La sua voce profonda risuonò all’improvviso nella stanza, facendomi sobbalzare.
“Sai cucinare?” mi disse, riaprendo gli occhi e continuando a fumare, con il braccio che teneva la sigaretta sopra un braccio del divano.
Io risposi di si. Lui continuò a squadrarmi fumandosi la sigaretta, poi mi fece cenno con l’indice verso un punto alle mie spalle.
“Prepara qualcosa. La cucina è di là.”
Io mi diressi piano, verso quella che doveva essere la cucina: era lunga e stretta, con un sacco di pentole in rame appese alle pareti.
Aprii la dispensa per vedere cosa offriva: l’avevano dovuta riempire da poco perché il cibo che vi trovai era abbastanza fresco.
Trovai del pane, pasta, alcune uova, carne, formaggio, cioccolato e latte. Ad occhio e croce sembrava che qualcuno avesse appena preso le provviste da una fattoria in campagna.
Preparai quello che mi venne in mente: cucinai la pasta e una volta pronta ci misi il formaggio grattato col coltello, sopra; cucinai poi anche la carne e la accompagnai con il pane un po’ abbrustolito. Erano anni che non vedevo tutto quel cibo, e sentirne l’odore mentre si cucinava mi faceva venire le morse allo stomaco; tuttavia non era per me, e, dopo averne assaggiato un po’ per sentire se fosse buono, lo dovetti lasciare al comandante.
Portai i piatti in salotto e li posai sul tavolo dietro alle poltrone; lo vidi alzarsi e sedersi davanti a me, che gli stavo sistemando le posate e una tovaglietta come tovagliolo.
Iniziò a mangiare, e dalla sua espressione credo gli sia piaciuto; mentre stava finendo la pasta mi guardò ed io spostai lo sguardo imbarazzata.
“Perché stai li in piedi? Siediti.”
Io mi sedei, e, forse per il fatto che guardavo insistentemente i piatti, mi chiese se avessi mangiato qualcosa.
“No.” Risposi, sempre senza guardarlo.
Lui rimase un attimo in silenzio finendo la pasta e passando alla carne.
“Vai a prendere qualcosa per te, in cucina.”
Alzai gli occhi sorpresa, ma lui era a capo chino, intento a finire la carne.
Mi alzai e mi avviai verso la cucina: sapevo già quello che avrei preso. Feci una frittata con le uova, mangiai il pane e un po’ di formaggio e, infine, presi la cioccolata dalla dispensa.
Ne staccai un pezzo, e il suo sapore dolce mi solleticò il palato, sciogliendosi nella mia gola. Chiusi gli occhi e gustai quella delizia a cui avevo dovuto rinunciare per molto tempo.
“Ti piace il cioccolato?”
La voce del comandante alle mie spalle mi fece sobbalzare di nuovo; aveva portato i piatti in cucina e mi stava guardando mentre mangiavo il pezzo che mi ero presa.
“Era tanto che non lo mangiavo” dissi, piano.
Misi il resto della cioccolata nella dispensa e sistemai i piatti e le pentole come ero solita fare anche a casa;  presi anche i piatti che il comandante aveva riportato e iniziai a pulirli e a rimetterli a posto.
Sentivo la sua presenza dietro di me e la cosa mi faceva innervosire abbastanza; tuttavia non avevo paura, dato che mi aveva permesso di mangiare.
Lo sentii accendersi un'altra sigaretta, dopodiché ritornò in salotto.
Mentre sistemavo i piatti sentii degli uomini entrare, e Albrecht fece la sua comparsa in cucina, portandomi in quella che doveva essere “la mia nuova stanza”.
Alla fine del corridoio nell’appartamento, c’erano una ventina di scalini molto stretti e ripidi, che portavano a quello che doveva essere un sottotetto.
Albrecht mi lasciò dentro e mi disse: “Abbia cura di lei signorina.” Dopodiché chiuse la porta e mi lasciò al buio. Non lo rividi mai più.
I miei occhi si abituarono allo scuro presente nel sottotetto, e vidi una piccola scrivania a destra, con una sedia; sul lato opposto c’erano due armadi di legno scuro molto grandi e sulla parete vicino alla porta un paio di bauli.
La parete opposta a quella dei bauli invece, aveva una specie di finestra-balcone, e tutto quello che vedevo era grazie alla luce che entrava da lì; vicino ad essa poi, c’era un materasso spoglio, buttato a terra.
Stranamente non mi mise le manette, così avevo la possibilità di curiosare per la stanza.
Aprii gli armadi e ci trovai delle pesanti coperte di lana con cui mi sarei coperta alla notte; trovai poi molte lenzuola e qualche vecchio vestito da uomo.
Il vestito che trovai nel bagno quella mattina, prima di partire, era molto leggero; era ottobre, e le temperature quell’anno si erano abbassate velocemente. Era un vestito senza maniche, anche questo con uno scollo rotondo e lungo fino a sotto il ginocchio. Era in lino, completamente bianco, con dei ricami gialli sulle maniche e sullo scollo.
Era bello, ma era troppo leggero per quel periodo.
Elena, ti sarebbe piaciuto questo vestito. A te sarebbe stato meglio perché avevi la pelle più abbronzata della mia. Sei rimasta ancora così? Bella e prorompente come eri ogni giorno? Chi prenderai in giro ora che non sono più vicino a te?”
Sospirai, e mi sedei sul materasso. Ero fortunata ad essere viva, dovevo ricordarmi solo quello.
E invece voi non più. Siete davvero in un posto migliore? Mi seguite sempre, siete sempre con me? Avete visto, oggi siamo arrivati a Genova. Ho cucinato anche per il comandante, e lui mi ha lasciato mangiare quello che volevo, in cucina. Era da un sacco di tempo che non mangiavo così, la cioccolata poi!
E avete sentito quel soldato, Albrecht? Non mi pare cattivo come gli altri. E se ci fossero anche dei tedeschi buoni? Insomma… sono esseri umani anche loro, no? Anche al paese c’era gente più buona, altra meno…”
A quel punto mi fermai, e mi venne in mente una cosa: anche al paese c’era gente buona e meno buona, ma comunque non avevano mai ammazzato nessuno.
Scusatemi, non avrei dovuto dirlo. È che stare sempre da sola, non riuscire a parlare con nessuno… non capisco più niente. Vorrei solo che tutto finisse, che fossimo ancora a casa, tutti insieme…”
Rimasi ancora un po’ seduta sul materasso, poi mi alzai e sistemai le coperte che avevo trovato; era difficile anche camminare, visto l’inclinazione delle pareti.

Mi avvicinai alla finestra e guardai fuori; i vetri erano ancora stranamente intatti, ma molto sporchi e rovinati da schegge di legno e pietra. La notte era già calata da un pezzo, ed era tutto buio.
Nonostante il freddo decisi di aprire il piccolo balcone; aveva giusto una striscia di pavimento con una piccola ringhiera su cui appoggiarsi. Affacciandomi, vidi a destra e a sinistra le tegole del tetto, scendere verso la strada.
Mi sedei per non perdere l’equilibrio e mi misi in ascolto della notte: un silenzio surreale regnava nel centro di quella città.
Vidi alcuni soldati con l’elmetto passare proprio sotto la stradina ed entrare nel palazzo.
Alzando gli occhi, poi, vidi il cielo completamente sereno; la luce in città era saltata a causa dell’ultimo bombardamento, perciò si vedeva tutto nitidamente.
Le stelle punteggiavano a migliaia la notte, e la Luna era così splendente che sembrava brillasse.
Mi appoggiai con la schiena sullo stipite della finestra per guardare meglio; quella notte poteva essere benissimo una di quelle che ispira i grandi artisti oppure i comuni innamorati.
Un’improvvisa folata di vento gelida, mi costrinse ad alzarmi e prendermi qualcosa con cui coprirmi; presi una vecchia coperta marrone che avevo visto in uno dei bauli.
Me la misi sulle spalle, e, appoggiando i gomiti sulla ringhiera fredda, sporsi il viso fuori chiudendo gli occhi, sentendo quella brezza fredda pizzicarmi le guancie.
Dopo un po’ li riaprii, scoprendo che la Luna era ancora lì, bella splendente, a farmi compagnia quella notte.
In quel momento mi ricordai di quando Elena, mia sorella, mi portò a vedere al cinema ‘Gli uomini, che mascalzoni’: tutte le ragazze a cui lo raccontammo in seguito, si innamorarono della storia di Mariù.
E chi non avrebbe voluto un affascinante ammiratore che ti portasse a ballare e ti dedicasse una canzone, solo per te?
Sospiravamo tutte, parlando di quando avremo trovato anche noi il “nostro” Bruno.
A quel ricordo un piccolo sorriso uscì allo scoperto; da quant’è che non sorridevo più?
Me la ricordavo ancora la canzone che Bruno dedicò a Mariuccia, era così dolce che rimase una delle mie canzoni preferite per molto tempo.
Guardai giù per vedere se passasse qualcuno, ma non vidi anima viva.
Guardai il cielo, e cominciai a cantarla, quella canzone.
Come sei bella, più bella, stasera Mariù…splende un sorriso di stella negli occhi tuoi blu…anche se avverso il destino domani sarà…oggi ti sono vicino perché sospirar? Non pensar…parlami d’amore, Mariù…tutta la mia vita sei tu…gli occhi tuoi belli brillano…fiamme di sogno scintillano…dimmi che illusione non è…dimmi che sei tutta per me…qui sul tuo cuor non soffro più…parlami d’amore, Mariù…
A quel punto però mi fermai, sentendo un rumore ai piani di sotto. Mi immobilizzai all’istante, tirandomi un po’ più in dentro rispetto alla ringhiera. Dopo alcuni minuti, mi sporsi per vedere se c’era qualcuno, ma non vidi nessuno neanche questa volta.
Mi calmai e continuai con la canzone.
So che una bella e maliarda sirena sei tu…so che si perde chi guarda quegli occhi tuoi blu…ma che m’importa se il mondo si burla di me…meglio nel gorgo profondo ma sempre con te, si con te…parlami d’amore Mariù…tutta la mia vita sei tu…gli occhi tuoi belli brillano…fiamme di sogno scintillano…dimmi che illusione non è…dimmi che sei tutta per me…qui sul tuo cuor non soffro più…parlami d’amore…Mariù!
L’avrei cantata ancora mille volte: mi riportava a casa, alle speranze e ai desideri più comuni e semplici che avevo avuto. Alla mia vita, a come sarebbe andata se…
Chiusi gli occhi per scacciare quel pensiero; non dovevo pensare a come sarebbe andata se fosse stato diverso: era andata così, punto. Vivevo giorno per giorno, nella speranza che qualcosa sarebbe cambiato.
Canticchiai ancora quella canzone a bocca chiusa, immaginando un bellissimo e coraggioso ragazzo che arrivava sotto il palazzo e si arrampicasse fin su per salvarmi.
Riaprii gli occhi e involontariamente guardai di sotto, come se sperassi di vederlo; ovviamente non c’era nessuno, ma percepii una presenza a destra, sul lungo balcone, proprio sotto la mia stanza.
Girai la testa per vedere cosa fosse, e in un attimo il mio cuore prese a battere a mille: vidi il comandante Schuster, con ancora addosso i pantaloni della divisa, ma solo una canottiera bianca sopra, appoggiato con una spalla al muro del balcone, e con le braccia e le gambe incrociate.
Aveva il volto rivolto verso di me, e mi fissava, come quella volta che ero sulle scale, alla fattoria.
Io rimasi immobile, imbarazzata sul da farsi: mi aveva appena sentito cantare e probabilmente anche ridere da sola.
Mi strinsi la coperta addosso e con uno scatto entrai in stanza, chiudendo con forza le finestre.
Sentivo le guance rosse per l’imbarazzo, ed ero tutta calda in viso, nonostante il freddo.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Il giorno seguente mi svegliai alle prime luci dell’alba; avevo una gran sete e la bocca mi si era tutta seccata.
Mi avvicinai alla porta, e la trovai aperta: solo più tardi capii perché.
Scesi le scale nella maniera più silenziosa possibile, e mi avvicinai alla cucina, attenta a non fare rumore.
Presi un bicchiere vuoto da una delle dispense e ci versai dell’acqua; lo bevvi con avidità e me ne versai un altro. Mentre stavo tornando al sottotetto però mi fermai, sentendo un fruscio di carte provenire dal salotto.
Non avrei dovuto avvicinarmi, ma la curiosità fu troppa: chi era sveglio a quell’ora del mattino? Saranno state le quattro, massimo le cinque.
Mi accucciai per terra e sbirciai da dietro la porta: vidi il comandante seduto al tavolo dove aveva mangiato la sera prima, con delle cartine geografiche in mano e altri fogli nell’altra.
Era vestito come l’avevo visto qualche ora prima dal balcone; la cosa che attirò più la mia attenzione però, furono i suoi occhi. Erano occhi stanchi, come quelli di chi non è riuscito a dormire per lungo tempo.
Tornai piano piano di sopra, un po’ turbata da quella scena.
 
Rimasi in camera tutta la mattina, e solo verso il primo pomeriggio un soldato, che non fu Albrecht, mi venne a prendere e mi portò nel salotto dell’appartamento.
Quando arrivai vidi l’ufficiale Hoffmann, il comandante Schuster e un’altra SS nella stanza: due soldati semplici erano seduti al tavolo e stavano lavorando con una strana macchina che batteva ritmicamente.
L’ufficiale Hoffmann, o l’assassino, mi si avvicinò dandomi un foglio bianco: “Scrivi quello che il soldato ti riferisce”
Il soldato iniziò a dire un sacco di lettere in maniera molto veloce, e non riuscii a star dietro a tutte, soprattutto perché me le disse con la pronuncia tedesca.
DHE SUM VADES AT NIME
Riguardai il foglio su cui avevo scritto quella frase e pensai: è inglese. Non ne sapevo molto d’inglese, ma non così poco da non capire frasi così semplici.
The sun fades at nine. Il sole tramonta alle nove.
Cosa voleva dire?
Hoffmann si avvicinò a me e con fare imperioso mi disse se ci voleva ancora tanto; io gli tradussi la frase in tedesco.
“Come?” mi disse, avvicinandosi con la testa.
“Il sole tramonta alle nove.” Ripetei a voce più alta, e notai la mano con cui tenevo il foglio che ricominciò a tremare febbrilmente.
Lo vidi girarsi verso Schuster e iniziarono a parlare di “eine Bombardierung”, un bombardamento.
Mi fecero tradurre altre frasi che il soldato mi dettava malamente, dopodiché fui rimandata su.
Verso sera sentii un flebile toc toc dietro alla porta, e dopo un paio di minuti, aprendo, vidi del pane bianco con un bicchiere di latte.
Il mio cuore iniziò a battere forte per la felicità, e mangiai e bevvi tutto così in fretta che non me ne resi neanche conto.
Mi buttai sul letto e, guardando fuori, vidi un’altra nottata limpida; stavolta però non mi azzardai a cantare ancora sul balcone. Sentivo le voci degli ufficiali provenire da sotto, ma non riuscivo a distinguere le loro parole. Cosa avevano voluto intendere con “un bombardamento”? Ce ne sarebbe stato uno da un momento all’altro? Speravo di no, anche perché io mi trovavo in uno dei posti meno sicuri se una bomba avesse dovuto colpire il palazzo.
Mi addormentai quando non sentii più le voci, e il silenzio regnò sovrano nell’appartamento.
 
Mi svegliai quella notte, da uno strano rumore che non riconobbi subito. Quando presi coscienza di me capii cosa fosse: era la sirena antiaerea. Era diversa da quella del mio paese, aveva un tono più basso, cupo, ed era così forte che sembrava fosse dentro la mia testa.
Il mio cuore iniziò a battere a mille dalla paura, e senza pensare spalancai la porta scendendo le scale; lì mi bloccai.
Non c’era nessuno nell’appartamento e le luci erano tutte spente; non vedevo nulla e il tremolio aveva ricominciato, facendomi muovere a scatti.
Iniziai a piangere, impendendo così ai miei occhi di vedere quel poco che avevano visto prima; i miei singhiozzi non si sentivano neanche, coperti dal suono della sirena.
Riuscii a trovare la porta, e per fortuna era aperta; scesi le scale scivolando un paio di volte, quando andai a sbattere contro qualcuno.
Un senso di sollievo nell’aver trovato un altro essere umano mi pervase, ma dalla luce della Luna che entrava dalle finestre, non riuscii a vedere il suo viso.
Nello scontro toccai il suo petto, ed era grande, molto più grande di me; toccai anche delle cose fredde, dure e capii che forse erano medaglie.
Un rumore di aeroplani lontani iniziò a farsi sentire, e l’uomo mi prese forte per la nuca avvicinandosi al mio orecchio per sovrastare il suono della sirena.
“Scendi nelle cantine, troverai un bunker.”
La riconobbi all’istante la voce di Schuster, quella voce bassa e virile, fredda e innaturale.
Lo sentii lasciarmi la nuca e lo vidi sorpassarmi entrando nell’appartamento.
Scesi più in fretta che potei, arrivando alle cantine; qualcuno aveva lasciato una candela davanti alla porta, appoggiata ad un tavolino di legno vecchio.
Entrai e ne percorsi un tratto quando poi mi fermai.
Mi fermai per due motivi: il bunker era claustrofobico, non ero mai entrata in un posto del genere.
Strettissimi scalini bianchi, molto smussati, scendevano sottoterra e lì non c’era luce. Le pareti saranno state alte un metro e ottanta, non di più; la roccia era ancora viva, bianca, con strani vermi che sembravano sanguisughe attaccate alle pareti. Due persone vicine non avrebbero potuto camminare: quel passaggio era stato fatto per camminare solo uno dietro l’altro.
L’aria era fresca, anzi fredda, ma irrespirabile.
L’altro motivo per cui mi ero fermata, fu che avevo sentito rumori che non avevo mai sentito così, prima: i suoni dei bombardamenti.
Le bombe sembravano stessero cadendo proprio su quel palazzo, ma la cosa più scioccante fu il suono prima che toccassero il suolo: lunghi fischi, come se non dovessero arrivare mai.
Avanti
La voce di Schuster alle mie spalle mi risvegliò, e girandomi, lo vidi con in mano la candela e nell’altra una valigetta nera.
Ho paura!
Lo dissi così, senza neanche pensarci, presa dalle emozioni di quel momento: se fossi stata assieme a delle persone che mi volevano bene, come la mia famiglia, non avrei avuto così tanta paura, probabilmente.
Tuttavia ero sola, in un’ennesima situazione estrema.
“Preferisci morire sventrata dalle bombe?”
La sua voce risuonava all’interno del bunker; io non dissi nulla, ero immobile, scioccata.
Tremavo da capo a piedi, e il rumore della sirena e delle bombe sembravano essermi entrate nella testa.
“Tieni la candela” mi disse, porgendomela.
Io la presi; era calda, ma non scottava. Nella mia mano la fiammella si muoveva ancora di più di come farebbe normalmente.
Il comandante mi mise una mano sulla schiena e mi fece cenno di proseguire; io ero come in trance, e feci quello che mi disse.
Scendemmo gli scalini, e ci trovammo sotto, dove i rumori si sentivano meno.
L’aria era fredda, ghiacciata oserei dire, e a piedi nudi sulla pietra sentii il freddo entrarmi nelle ossa.
“Avanti, dai” mi disse ancora Schuster, e camminammo per un paio di minuti quando sentii la sua mano serrarsi  sulla mia scheletrica spalla e fermarmi.
Io mi girai e lo guardai, e vidi le sue labbra pronunciare delle parole, senza suono: stava contando.
Eins, zwei, drei
In contemporanea un fischio di bomba si fece sempre più vicino.
Vier, fünf
Ancor prima che potessi capire cosa stesse succedendo, uno scoppio assordante, che fece tremare tutte le pareti intorno a noi, riempì il bunker. Un sacco di polvere mi entrò nei polmoni, e iniziai a tossire subito.
Caddi a terra, e ricordo solo un forte strattone serrarmi lo stomaco; sono morta, pensai, è arrivato il mio momento.
Dopo alcuni minuti però realizzai che era un braccio, un forte e muscoloso braccio che mi tirò su e mi portò via da lì.
Era il comandante che stava tornando indietro; avevo lasciato la candela quando mi strattonò, ed ora il buio regnava sovrano.
Si fermò dopo poco, probabilmente doveva essere arrivato alla base delle scale.
Se mi avesse lasciato probabilmente sarei svenuta, avrei perso i sensi.
Mi aveva fatto appoggiare solo i piedi a terra, ma un forte fremito mi pervadeva tutto il corpo, e il mio cuore batteva così forte che se ne poteva sentire il rumore.
L’unica cosa che mi reggeva era il suo braccio che mi stringeva forte addosso al suo petto.
I rumori continuavano, ma ormai sembravano spariti per me; cos’era successo due minuti prima?
“Sei ferita?”
Sentii la voce di Schuster come se uscisse da una scatola lontana, e il suo braccio perse un po’ di forza, lasciandomi andare.
Le mie gambe cedettero, e mi attaccai alla sua giacca; lui capì che non riuscivo a stare in piedi da sola, così mi tirò su facilmente e mi prese in braccio. Si sedette per terra, e mi appoggiò sulle sue gambe.
“Sei ferita?”
Mi ripeté, ma io non riuscivo a parlare; mi sentivo tanto, tanto stanca e credei che il mio cuore non avrebbe retto a lungo quel ritmo.
“Rispondimi”
Continuò lui, e sentii la sua mano appoggiarsi vicino alla mia gola; sentii le dita premermi in un punto dove i battiti del mio cuore sembravano parlare, dopodiché la tolse.
La mise sotto il mio mento e mi disse: “Fai un cenno di assenso se sei ferita”
Io feci segno di no, e lui, sentendo il movimento, capì la mia risposta.
Tolse la mano e prese qualcosa dalla giacca, spostandomi un pochino; sentii un fruscio di tessuto, dopodiché un crac.
Mi prese ancora la nuca e mi alzò il viso, dicendomi: “Mangia, ti fa bene.”
Sentii l’altra sua mano cercare la mia bocca, così l’aprii piano, e le mie labbra incontrarono prima il dolce sapore del cioccolato, poi le caldi dita del comandante, che le sfiorò un attimo.
Mi lasciò la testa e l‘appoggiai sul suo petto; non ebbi paura di lui, quella notte. Normalmente non mi sarei mai avvicinata, né fatta avvicinare da nessuno in quella maniera, ma dopo tutto quello che era successo avevo bisogno di calore umano.
Dopo dieci minuti il mio battito si era calmato, e il respiro regolarizzato.
Non muovevo un muscolo, appoggiata al petto di Schuster, e lui a sua volta era appoggiato alla parete.
Avevo gli occhi sbarrati al buio, ed ora che ci sentivo bene di nuovo, sentivo il rumore di vetri in frantumi, mitragliatrici e altro, ma non provai nessuna emozione. Ero semplicemente vuota.
“Non posso arrischiarmi di tornare indietro, il bunker può non aver retto. E non c’è più neanche una luce, quindi dovremo restare qua.”
Sentivo la sua voce rimbombare dentro il suo corpo, ancora più profonda.
“Come ti chiami?”
Mi chiese dopo un po’.
Quello che uscì dalla mia bocca non fu un suono, ma più un rantolo; tuttavia lui comprese lo stesso.
“Certo, Maria De Felice, ora ricordo.” Disse, cambiando tono di voce: non era più fredda, ma con sfumature un po’ più calde, come se stesse parlando con un amico.
Io non dissi niente, non un pensiero passava per la mia testa in quel momento.
“Sei brava nelle traduzioni, si vede che hai studiato; se non sbaglio provieni da una famiglia facoltosa. Ho letto la tua scheda, conosci il tedesco, il francese e l’inglese, oltre all’italiano ovviamente.
Io ho imparato il francese quando ho partecipato all’occupazione di Parigi. L’italiano ci assomiglia un poco, tuttavia non ho avuto il tempo di impararlo per bene dato che sono solo due mesi che sono qui.”
Io rimasi sempre in silenzio, e chiusi gli occhi: mi concentrai solo sulla sua voce, eliminando il resto.
Lui però non disse più niente, e dopo una decina di minuti tutti i rumori cessarono.
Mi tirò su come fossi una bambola, e poi mi rimise a terra.
“Vado a vedere se ci sono stati danni all’edificio. Aspettami qua.”
Lo sentii salire piano le scale, dopodiché il nulla.
Mi accasciai sul pavimento ghiacciato, stanca e stranamente assonnata, e chiusi gli occhi.
Dopo non so quanto tempo sentii due braccia forti tirarmi su per le gambe e la schiena, e appoggiarmi contro il petto.
Dovevo sembrare una piuma per lui, che mi teneva su con facilità; arrivò all’appartamento e salì le scalette, entrando nel sottotetto.
Feci finta di dormire quando mi riappoggiò sul letto, e lo sentii coprire il mio corpo freddo con una coperta.
Sentii le sue dita premere ancora contro il mio collo, dopodiché uscì, chiudendo la porta.
Io riaprii gli occhi e vidi che c’era qualcosa sul pavimento, vicino al materasso: mi puntellai sui gomiti e la riconobbi. Era una stecca di cioccolato.

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Stranamente presi sonno subito quella notte; il giorno dopo dormii tutto il giorno, non sentendo nessuno che mi venisse a svegliare, ma soprattutto non sentendo rumori provenire dall’appartamento.
Non mi portarono da mangiare e non toccai la cioccolata che mi lasciò il comandante; non che avessi fame d’altronde.
Mi sentivo stanca, debole, e per la prima volta desiderai davvero di morire: non sarebbe stato meglio che continuare a vivere nell’insicurezza e nella paura?
Il suono di quella sirena antiaerea mi rimase impressa nella testa, e tutt’ora la ricordo.
Ero sdraiata sotto la coperta con gli occhi sbarrati, nell’ansia di doverla sentire ancora. Però quel giorno, fortunatamente, non ci furono bombardamenti.
Verso sera mi tirai su dal letto e mi inginocchiai a pregare come ogni volta: solo quando, con gesto abituale, mi stavo sfilando l’anello donatami dalle suore, scoprii che non era più al mio dito.
Buttai all’aria tutte le coperte, spostai il materasso, cercai in ogni angolo, ma dell’anello nessuna traccia.
C’era solo una spiegazione: l’avevo perso la notte prima nel caos del bombardamento.
È un segno questo? Volete punirmi perché mi sono salvata un’altra volta?
Poi, come un flash, pensai: non mi sono mai salvata. È sempre stato il comandante a farlo.
Alla fattoria mi aveva risparmiato da un’esecuzione, e poi mi aveva salvata da una bomba. Perché poi?
Nel primo caso gli sarebbe servito un aiuto effettivo. Nel secondo… beh poteva pensare solo a sé stesso.
Ci definiscono traditori e occupano il nostro paese, però poi uno di loro mi salva. E mi da anche da mangiare. E se non fossero fatti tutti alla stessa maniera? Se anche lui fosse… buono?
Non era la prima volta che pensavo una cosa del genere, ma poi, il ricordo di Hoffmann che spara alla mamma ritornò ai miei occhi, e l’idea che mi stavo facendo svanì lentamente.
Mi ributtai sul materasso, pregando e chiedendo scusa come facevo ogni giorno; mi addormentai nel bel mezzo di un Padre Nostro.
 
Qualcosa di caldo poggiava sulla mia fronte, e mi alzai di botto, scostandola.
Era ancora notte e dovevo abituare i miei occhi all’oscurità; dal balcone non entrava alcuna luce, quella sera non c’era la Luna e quindi era tutto buio.
Mi alzai a sedere e vidi la sagoma di una persona accucciata davanti a me; rimasi immobile con gli occhi sbarrati e vidi la sua testa girarsi per incontrare i miei occhi. E poi li vidi. Due grandi occhi azzurri, così chiari che sembravano quasi limpidi. Erano un po’ all’ingiù, e rimasi ipnotizzata dalle sue iridi.
“Non hai mangiato niente di quello che ti hanno portato”
La sua voce bassa e virile riempiva la stanza, ma io non mi sentivo a mio agio. Cosa ci faceva il comandante nel bel mezzo della notte nella mia stanza? Toccandomi mentre stavo dormendo?
Presi la coperta e me la misi addosso, come per coprirmi, per pudore.
Lui era sempre là, accucciato, ed aveva appoggiato i gomiti sulle cosce, continuando ad osservarmi.
“Non ti voglio fare niente. Hai mangiato la cioccolata che ti ho lasciato?”
Io non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi, ero come ipnotizzata: un uomo grande e grosso come lui vicino a me, mentre dormivo; se mio padre o mia madre lo avessero saputo non mi avrebbero fatta più uscire di casa.
Quando disse “cioccolata” però, lo sguardo mi cadde istintivamente sulla stecca che era ancora vicino al materasso.
Con la coda dell’occhio lo vidi abbassare la testa e guardare anche lui nel punto dove si era fermato prima il mio sguardo; dopo un paio di secondi ritornò a guardarmi.
“Devi mangiare se vuoi sopravvivere, non c’è posto per i deboli in questo momento”
Io continuavo con il mio silenzio, e lo vidi avvicinarmi un piatto con del pane e del formaggio e un bicchiere di latte.
“Mangia”
Non avevo fame; lui però era lì che mi fissava, aspettando che lo facessi, quindi mangiai, anche se controvoglia.
Guardò ogni mia mossa, e quando presi il bicchiere per bere il latte, lo vidi fissare la mia mano che tremava; quando lo portai alla bocca spostò lo sguardo sui miei occhi, e incrociammo i nostri sguardi, prima che io lo distogliessi, imbarazzata.
“Ti senti meglio ora?” mi chiese, spostando il piatto.
Si” risposi. Non era vero: mi sentivo peggio, mi veniva da vomitare.
Lo vidi alzarsi per poi sedersi sulla sedia della piccola scrivania, accavallando le gambe e incrociando le braccia, sempre guardandomi fisso.
Cosa voleva? Era arrivato il momento di uccidermi?
“Non hanno mai bombardato sulla tua città?” mi chiese.
Io feci no con la testa, anche se la risposta non era proprio esatta. Erano cadute alcune bombe, ma lontano dalla fattoria, e soprattutto non grosse come quelle che avevo sentito la sera prima.
Parla” mi disse.
Io distolsi lo sguardo da lui, imbarazzata di nuovo, e mi schiarii la voce prima di rispondergli.
“No… sono cadute solo alcune bombe in centro” dissi.
Lo vidi annuire, e guardare la parete a sinistra come se stesse pensando a qualcosa.
Dopo un po’ disse: “è per questo che ieri avevi così paura”
Una Luna splendente fece capolino fra le nuvole, e illuminò il comandante Schuster per metà: vidi la sua nuca rasata, lo scintillio della sua iride, il fine disegno della sua bocca e infine la sua divisa verde chiaro, quella che indossava la prima volta che lo vidi. Non portava la giacca, ma aveva solo una camicia, dello stesso colore.
Si” dissi.
“L’unica cosa da non fare durante un bombardamento è quello di restare fermi, ricordatelo”
Io non risposi; perché mi stava dicendo quelle cose?
Rimase in silenzio anche lui, forse non sapeva che dire.
“La prossima volta scendi subito nel bunker e percorrilo fino alla fine” disse, dopo un po’.
La prossima volta? Ci sarebbe stata un’altra volta, ancora quell’inferno da sopportare?
“Quand’è la prossima volta?” chiesi, con voce un po’ più sicura, ma sempre tremolante.
“Non lo sappiamo con esattezza. È per questo che ci devi aiutare a tradurre. Stiamo lavorando a delle intercettazioni inglesi e americane, ma è sempre più difficile captarle”
Io non risposi, e piantai lo sguardo fisso al pavimento. Mi aspettavano momenti come quelli della notte prima, ma il peggio era che nessuno sapeva con certezza quando sarebbero capitati.
“Devi essere forte, perché se gli altri della mia squadra ti vedessero come ieri notte, non si faranno problemi ad ucciderti. Io sono il comandante, ma davanti a certe cose anche un cieco vedrebbe quale sarebbe la decisione ideale. E tu comunque ci servi. Viva.”
Detto questo si alza e fa per andarsene, quando, quasi involontariamente, lo chiamo.
Kommandant…” la mia voce, fragile ma sempre argentina, si spande per l’appartamento ora che la porta del sottotetto è stata aperta.
Lo vidi girarsi e guardarmi, un po’ sorpreso.
Abbasso di nuovo lo sguardo, imbarazzata da quello che stavo per chiedergli.
“Io… ho perso il mio anello ieri sera” dissi, toccandomi il dito dove ero solita portarlo, “se per caso lo trova… potrei riaverlo?”
Lui non mi rispose, e chiuse la porta.
Mi stesi sul letto guardando il cielo: la Luna era stata ancora coperta dalle nuvole. Mi sentivo un po’ meglio, non so se per il cibo oppure per la compagnia che mi aveva fatto Schuster.

Passò più o meno una settimana; mi facevano scendere per le traduzioni d’inglese, che stavano diventando sempre più difficili.
Un soldato, un giorno, arrivò con un libro con molte parole, tradotte però dall’inglese al tedesco per aiutarci con la traduzione.
Stavo anche iniziando a capire il codice morse. Quei ticchettii continui erano snervanti, e per concentrarmi meglio li contavo, e piano piano li riconoscevo.
Fu in un pomeriggio di metà novembre, quasi sette giorni dopo, che la risentii: il lungo e cupo ululare della sirena antiaerea si ripresentò, facendomi rabbrividire di terrore.
Ero nel sottotetto come sempre, e aprendo la porta sentii un trambusto provenire dall’appartamento; circa cinque - sei soldati con l’elmetto si diressero ai piani di sotto, correndo.
Scesi le scale e mi guardai intorno: il comandante non c’era. Non era rimasto più nessuno.
L’unica cosa da non fare durante un bombardamento è quello di restare fermi
Le sue parole mi tornarono alla mente in quel momento, spingendomi a correre.
Scesi le scale e mi ritrovai nelle cantine; il bunker si apriva freddo davanti a me.
Ed eccoli arrivare: lunghi fischi e scoppi lontani che si facevano sempre più vicini; spari che sembravano alle mie spalle mi bloccarono ancora una volta. Avevo paura, una paura atroce.
La prossima volta scendi subito nel bunker e percorrilo fino alla fine
Presi una delle candele dal vecchio tavolino vicino all’entrata e tentai per svariate volte di accenderla; ogni scoppio di bomba mi faceva sussultare e la fiamma si spegneva miseramente.
Alla fine ce la feci, ed entrai con cautela all’interno del bunker.
Ero sola in quel momento; dovevo essere coraggiosa, per una volta. Percorsi per dieci minuti la lunghezza del bunker, guardando a terra e davanti a me; perché in quel momento desiderai ancora la presenza del comandante dietro di me?
Non seppi darmi una risposta, o per lo meno, non allora; ora con il senno di poi, so benissimo perché lo desiderai vicino.
Dopo venti minuti iniziai a sentire delle voci, e sbucai fuori in una specie di capanna; i suoni dei bombardamenti si sentivano molto lontani in quel posto, e una strana pace regnava intorno. Che fosse stato fuori città, nella campagna?
Incontrai un soldato con l’elmetto e subito mi disse: “Nein! Devi tornare indietro”
Io non capii subito quello che mi aveva detto, così rimasi immobile, ancora con la candela accesa; lui si avvicinò e mi disse, segnando con un dito il bunker: “A destra! Devi scendere e andare a destra!”
Ritornai di sotto, e puntando la candela sulla parete a destra vidi una brusca curvatura della pietra che portava da un’altra parte.
Percorsi quel pezzo di cunicolo e mi ritrovai in una stanza scavata nella roccia; lì c’era luce elettrica, e da delle strane scatole usciva dell’aria e uno strano ronzio. Al centro vi era un tavolo di legno traballante e vidi il comandante, Hoffmann e due soldati attorno ad esso.
Sulle pareti ricurve vi erano un paio di soldati, senza l’elmetto sulla testa.
Tutti si girarono a guardarmi, e io abbassai lo sguardo imbarazzata. Era giusto che fossi li con quegl’uomini?
“Abbiamo proprio bisogno di te, vieni qua”
Hoffmann mi fece cenno di avvicinarmi, e io prima di farlo spensi la fiamma della candela.
Avevano intercettato parecchie conversazioni degli americani durante quel bombardamento, però parlavano in codici sempre più complicati.
Io tradussi letteralmente, e Hoffmann continuava a chiedermi cosa significava.
“Io non lo so… mi limito a tradurre le parole” risposi, all’ennesima domanda.
“È chiaro che gli americani sanno che possono essere intercettati, comandante,” disse uno dei soldati attorno al tavolo “sto tenendo una corrispondenza, per quanto la guerra me lo permette…”
Non ricordo bene il discorso che fece quel soldato; mi ricordo solo che un suo compagno che era rimasto indietro, aveva scoperto dei codici degli alleati.
Non ascoltai più i loro discorsi una volta finito il mio compito, e mi andai a sedere per terra, vicino ai soldati senza elmetto.
“Guarda cosa ho trovato prima, qui vicino” disse uno di loro, e tirò fuori qualcosa di piccolo da una delle tasche della giacca; quando lo fece vedere al suo compagno rimasi di stucco. Era il mio anello!
“Fai vedere”
L’altro glielo lanciò, e se lo rigirò tra le mani.
“Mah, è di piombo”
“Aspetta ho un’idea”
Uno di loro prese un accendino e iniziarono a passarci la fiamma sopra, facendo ammorbidire e squagliare piano piano.
Sentii come se qualcuno mi stesse picchiando, anche se nessuno mi toccò: è possibile che tutto quello che avevo finisse così? Anche un anello?
Lo lanciarono dall’altra parte della stanza, e poi si alzarono, seguiti dagli altri attorno al tavolo.
Io mi girai per riuscire a vedere se lo trovavo ancora, ma sentii qualcosa spingermi sulla schiena, verso l’uscita.
Non potei fare niente, se non seguire quegli energumeni che nel bunker dovettero camminare sempre inchinati per non sbattere la testa.
 
La notte stessa non chiusi occhio; ero seduta sul materasso, con la coperta sulle spalle e abbracciavo le gambe, strette al petto. Guardavo fuori, e canticchiavo a bocca chiusa.
All’improvviso la porta si aprì, e incontrai ancora la figura alta e massiccia del comandante.
“Hai fatto come ti ho detto oggi… brava” mi disse, e mi lasciò il pane con il formaggio e un bicchiere di latte come qualche notte prima.
Io li presi e iniziai a mangiare, sapendo che non se ne sarebbe andato se non avessi finito tutto.
Si sedette sulla sedia, ma stavolta non guardò me, bensì il paesaggio dalla finestra.
Dopo un po’ lo sentii sospirare e lo vidi strofinarsi gli occhi; appoggiò i gomiti sulle ginocchia e mi guardò. Mi guardò per un tempo infinito, e io non distolsi lo sguardo; quello che leggevo nei suoi occhi non era cattiveria, freddezza o rabbia…era stanchezza.
“Ti ho sentita cantare qualche tempo fa. Fallo ancora.”
Io rimasi spiazzata dalla sua richiesta, ma lo accontentai; gli cantai la canzone di Mariù ancora, ancora e ancora. Lui mi ascoltava ad occhi chiusi, appoggiato allo schienale della sedia, e ogni volta che finivo mi chiedeva di ricominciare.
Alla fine mi chiese: “Di cosa parla questa canzone?”
“È una canzone d’amore… l’ha dedicata un ragazzo alla ragazza che gli piace. Le fa tanti complimenti, dicendole che è bellissima, poi le dice che nonostante il dolore e le sofferenze, quando sono insieme lui si dimentica di tutto”
Lo vidi guardarmi con sguardo perso, vuoto, come se stesse pensando ad altro. Riabbassò lo sguardo, stavolta sulle sue mani. Dopo un paio di minuti nel silenzio più totale, lo vidi mettersi una mano nella tasca dei pantaloni e tirare fuori qualcosa.
“Era questo l’anello che hai perso?”
Si allungò verso il materasso, e io glielo presi dalle mani, sfiorando le sue dita calde; osservai l’anello in quella poca luce che entrava dalla finestra, e vidi che era tutto squagliato, e aveva un buco. Tuttavia la croce era ancora intatta, e a me bastò quello.
“Si… si è lui. Grazie Kommandant”
Lo vidi aprire la bocca come se volesse dire qualcosa, poi però la richiuse e si alzò dalla sedia, andandosene.
Guardai l’anello al mio dito: ora che era tutto squagliato non mi stava neanche più sul medio.
Ma in quel momento la mia testa fu altrove.
Perché sentivo un calore dentro di me? Perché mi sentivo stranamente serena quella notte?

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Passarono così un’altra quindicina di giorni, e stavolta le truppe tedesche non si mossero da Genova.
I bombardamenti arrivavano dopo più o meno una settimana, qualche volta prima, qualche volta dopo. Non mi spaventava più passare nel bunker, ma la cosa a cui non riuscii mai ad abituarmi fu la sirena.
È incredibile, solo ora, dopo 10 anni, mi accorgo di quanto mi fui abituata alla morte, alle violenze.
D’altronde non avevo molte altre possibilità che accettare quel mio presente, il presente che fu anche di molte altre persone.
Il comandante venne quasi ogni notte a trovarmi nel sottotetto in quel periodo, ma non mi parlò mai più di nient’altro; voleva solo che gli cantassi, qualsiasi cosa sapessi.
Mi ascoltava in silenzio, con gli occhi chiusi; io cercavo negli archivi più profondi della mia mente per tirare fuori tutte le canzoni che sapevo. Gli piaceva particolarmente Tulipan del Trio Lescano.
Iniziavo ad apprezzare la sua compagnia; era strano, un alto comandante di truppe tedesche che si fermasse ad ascoltar cantare una ragazzina in un sottotetto.
Però non m’importava. Ero da sola, senza alcuna prospettiva nel mio futuro; anche se mi avessero liberato, o più probabilmente, fossi riuscita a scappare, cosa avrei fatto?
Mi trovavo in una città che non era la mia, e non avrei saputo cosa raccontare se avessi chiesto aiuto a qualcuno; il mio accento romagnolo si sentiva parecchio, e non avevo nessun parente in quelle zone.
Il comandante mi portava da mangiare, e la sua presenza mi faceva sentire al sicuro.
Lui era un nazista, lui era il nemico, ma io in quei momenti non vidi nessuna divisa, nessun simbolo, nessuna ideologia; vidi solo un uomo che si prendeva cura di me.
La domanda che mi feci più spesso fu: perché me? I suoi compagni avevano ucciso senza batter ciglio la mia famiglia. Ed ero là anch’io, per loro facevo parte dei ribelli, della parte traditrice e malata del paese, anche se in verità ero solo una ragazzina, non ancora cresciuta, che avrebbe voluto fare una vita normale come tante altre, ma che la guerra ne ha cambiato il corso.
Tuttavia la risposta alla mia domanda la capii qualche tempo più tardi.
Una notte durante uno dei bombardamenti, ero nella stanza sottoterra assieme ad altri cinque – sei soldati e due ufficiali, tra cui Hoffmann; il comandante non c’era.
Sentii un discorso tra due di loro.
“Sembra vogliano rimandarlo a Berlino. Sta peggiorando di giorno in giorno.”
“Veramente? A me non sembra così male. Certo la situazione non è facile qua, ma non mi pare che se la stia cavando male.”
“Ma hai visto come è nervoso? Robert un giorno mi ha fatto notare che quando lo è particolarmente, inizia a torturarsi le mani”
“Non l’ho mai notato. So che è sempre sveglio alla notte, ho sentito lui stesso dire che fa fatica a dormire”
“Deve averne viste per essere così”
“So che è stato in Polonia, in Francia e in Russia… ed ora è stato mandato qui in Italia. È un veterano del fronte orientale… un uomo da ammirare”
Quei due continuarono per un po’, ma io non li ascoltai più. Sapevo benissimo che stavano parlando di Schuster; non era la prima volta che sentivo dire quelle cose sul suo conto.
Cosa provava veramente quell’uomo dentro di sé? Cosa nascondeva dietro quella divisa pluripremiata che utilizzava come uno scudo?
 
Quella notte tornando nel sottotetto scoprii il vetro della finestra del balcone completamente in frantumi; era scoppiata una bomba sull’edificio davanti, e il brusco spostamento d’aria ne aveva rotto la maggior parte nei dintorni, compreso quello.
Un’aria gelida entrava, ed era impossibile coprirla decentemente; provai a mettere alcune coperte, ma scivolavano nonostante cercassi di chiudere più forte possibile la finestra. Le ripresi in mano, fermandomi un attimo per la stanchezza e per il forte vento che minacciava di farle volare via.
Aspetta
La voce di Schuster alle mie spalle mi fece trasalire, e lo vidi fermo dietro di me che mi guardava.
“L’unico modo per coprire bene quei vetri è metterci delle assi di legno” disse, guardando il danno.
Mi scostai facendolo passare, ma lui non si mosse.
Lo vidi guardarsi intorno, poi mi disse di aspettarlo lì, e se ne andò.
Io intanto mi coprii con una coperta perché il freddo nella stanza stava diventando insopportabile; folate di vento entravano e sembravano ghiacciare qualsiasi cosa incontrassero.
Dopo un paio di minuti, vidi una calda luce tremolante illuminare piano le scale, fino ad arrivare alla porta; il comandante l’aveva in mano, e la luce illuminava completamente il suo viso, rendendo i suoi occhi azzurri quasi bianchi.
Appoggiò la candela sulla scrivania, e mi fece segno di spostarmi; lo vidi trascinare uno degli armadi fin davanti al balcone, bloccando buona parte del vento e del freddo, ma anche della luce.
La stanzetta calò nell’oscurità, e solo la piccola fiammella della candela, che ora si era fermata, ne illuminava uno spazio esiguo.
Avrei voluto fargli tante domande, chiedergli perché lo faceva, perché all’improvviso avesse iniziato a curarsi di me…parlargli di tante cose. Tuttavia non me la sentivo, mi faceva ancora soggezione nonostante quello che stava facendo.
“Non credo ci sia soluzione migliore di questa” disse, guardando ancora l’armadio che aveva appena spostato.
Io mi misi a sedere sul materasso, stringendomi nella coperta; lui si sedette sulla sedia, senza dire nulla.
Dopo un paio di minuti di silenzio, che per me stava diventando imbarazzante, alzai gli occhi e vidi che mi guardava; ancora una volta lessi nei suoi occhi qualcosa di più, qualcosa che non mostrava.
Per interrompere quel silenzio, che ormai era diventato opprimente, gli feci una domanda.
“Comandante… lei… è di Berlino?” chiesi.
Ja” disse, semplicemente.
Tornai con lo sguardo a guardare il pavimento, un po’ delusa dalla sua risposta. Avrei voluto fare una conversazione con una persona, come non facevo da mesi, ma avevo paura. Avevo paura che si potesse arrabbiare se gli chiedevo qualcosa in più, che non mi avrebbe più aiutata se mi fossi mostrata impicciona nei suoi riguardi.
Maria
Lo sentii chiamarmi, interrompendo il flusso dei miei pensieri. Era da un sacco di tempo che nessuno mi chiamava più con il mio nome, e sentirlo pronunciare da lui così all’improvviso, mi provocò una stretta allo stomaco.
Alzai gli occhi incrociando i suoi, e lui continuò: “Stanotte hai sentito qualcuno parlare di me?”
Lo sapevo a cosa si stava riferendo: alla conversazione che avevo sentito nel bunker. E non era neanche la prima volta; me ne ricordai un’altra, origliata nel paese in cui eravamo prima di Genova.
Cosa avrei dovuto rispondere? Se avessi detto di si, si sarebbe potuto arrabbiare. Tuttavia mi pareva un argomento abbastanza importante e delicato, dato che non fu la prima volta che ne sentii parlare, e se avessi detto di no magari non mi avrebbe creduto.
Alla fine optai per la verità.
“Si” dissi, impercettibilmente. Subito dopo averlo detto alzai lo sguardo per vedere la sua reazione: lo vidi intento a rigirarsi un anello tra le dita.
“Cosa dicevano?” mi disse, in un tono distaccato, quasi annoiato.
Io deglutii, mi sentii in difficoltà nel rispondere anche questa volta.
“In verità non stavo ascoltando la loro conversazione, comandante…”
Lo vidi abbassarsi un poco con la schiena, e appoggiare i gomiti sulle cosce, come per guardarmi meglio.
“Maria, se sai che stavano parlando di me hai sentito gran parte della conversazione. Nessuno si azzarderebbe a fare il mio nome esplicitamente.”
Il mio cuore iniziò a battere forte, aveva appena scoperto che gli avevo mentito; si era arrabbiato? E poi perché voleva sapere quelle cose da me?
Doveva aver notato il mio nervosismo, poiché aggiunse che non mi avrebbe fatto nulla se glielo avessi detto.
Così iniziai a raccontare, piano, quello che avevo sentito quella notte e la conversazione di qualche mese prima.
Lui mi guardava intensamente, e sono sicura che non perse nulla di quello che gli dissi.
Quando finii lui ritornò a sfilarsi l’anello, un anello che avevo visto addosso anche ad Hoffmann; era in argento, con un teschio sul davanti. Chi mai accetterebbe di indossare una cosa del genere? E perché poi?
Un rumore al piano di sotto fece alzare di scatto il comandante; con un soffio spense la candela e chiuse la porta, e sentii i suoi passi ormai familiari scendere le scale.
Lo aspettai, ma non fece ritorno quella notte.
 
Dal giorno dopo la situazione si fece più stressante; un comunicato arrivato con codice morse, diceva che i bombardieri americani avrebbero sganciato bombe più frequentemente su tutto il nord Italia, dato che era ancora occupato dai nazisti, e gli Alleati stavano pian piano risalendo lo stivale.
Soldati uscivano ed entravano nell’appartamento, e tutti erano visibilmente nervosi.
Schuster non venne più a trovarmi nel sottotetto come prima, lo sentivo lavorare nel salotto da solo o con qualche suo compagno, fino a mattina.
Mi sentivo di nuovo sola, e reiniziai a parlare ad alta voce per coprire quel silenzio che mi opprimeva quando ero nel sottotetto.
Dopo quasi una settimana dalla sua ultima visita, il comandante si ripresentò a notte fonda.
Io ero di spalle alla porta, stesa sul materasso, ma non stavo dormendo.
Da quando Schuster aveva messo l’armadio a coprire i vetri rotti, nella stanza faceva molto più freddo e la luce era calata, costringendomi a passare tutto il tempo al buio.
Chiusi gli occhi, e sentii i suoi passi farsi sempre più vicini; sentii poi un tintinnio, come di bicchiere, e i passi del comandante che si allontanavano.
Kommandant!
Mi girai di scatto, e mi alzai a sedere chiamandolo, però in un sussurro, così solo lui avrebbe potuto sentirmi.
Lo vidi fermarsi; aveva lasciato una candela sulla scrivania, e la luce lo illuminava solo dalla vita al petto.
“Pensavo stessi dormendo” mi disse piano, con la sua solita voce bassa.
Mi piaceva quando mi parlava, il suono della sua voce, il modo in cui parlava il tedesco… mi rilassava e mi faceva sentire bene.
Io non gli risposi, e presi il cibo che mi aveva portato. Lo vidi tornare indietro e sedersi sulla sedia della scrivania a guardarmi, come ogni volta.
“Puoi tenere questa candela per illuminare la stanza” disse.
Gli sussurrai un danke, mentre finivo di bere il latte.
Quando posai il tutto a terra, lui mi parlò di nuovo.
“La situazione non si sta mettendo bene. Bombarderanno più frequentemente, quindi non spaventarti se sentirai più volte al giorno la sirena. Tra qualche settimana ce ne andremo da qua.”
Ce ne andremo o se ne andranno?
“Cosa farete con me?” gli chiesi, all’improvviso in ansia per la sua risposta.
Lui mi guardò, poi si stese sulla sedia, allungando le gambe, e incrociando le braccia.
“Verrai con noi finché saremo in Italia.”
E poi?
“E poi?... Mi… ucciderete?”
“Poi si vedrà.” Disse, semplicemente. Aveva gli occhi puntati sul pavimento, e sembrava stesse pensando a tutt’altra cosa.
Non dissi più niente, all’improvviso più triste. Dopotutto mi ero solo illusa che mi stesse trattando bene perché gli facevo pena, o che altro. In verità lui rimaneva dalla sua parte, ed io dalla mia.
Notai i pugni stretti, vicino ai suoi gomiti.
Erano informazioni quelle che cercava? Voleva che indagassi per lui tra i suoi sottoposti, dato che non avrebbe potuto domandarlo a nessun’altro?
“Ti manca la tua famiglia?” mi chiese, interrompendo ancora una volta i miei pensieri.
Lo guardai, un po’ sorpresa da quella domanda. Notai ancora i suoi occhi stanchi, e un’espressione strana sul suo viso.
“Sempre” risposi.
Lui rimase in silenzio per un po’, dopo ritornò a guardarmi.
“Ti ho sentita parlare da sola la scorsa notte”
Un calore iniziò a pizzicarmi le guancie, e abbassai il viso per non farmi vedere. Mi stavo vergognando tantissimo… avrà pensato fossi una pazza.
Non dissi niente, anzi, iniziai a giocherellare con l’orlo a frange della coperta che strusciava sul pavimento.
“Con chi stavi parlando?” mi chiese ancora, insistendo.
Non alzai lo sguardo, e a malincuore dovetti dire la verità.
“Da sola”
“L’avevo capito questo.” Fece una pausa, poi continuò, “Sei sempre da sola, è normale che tu abbia voglia di parlare. Dimmi cosa stavi dicendo”
Rimasi un attimo a bocca aperta, sempre con un fuoco in viso; poi lo guardai, e lo vidi più serio che mai. Mi aveva sentito parlare da sola, e voleva che ripetessi quelle cose davanti a lui.
“Stavo parlando… con mia madre e mia sorella. Stavo raccontando loro quanto fossi più serena questa settimana… perché lei… rimane un po’ di tempo con me.”
Mi vergognai tantissimo nel dirlo, tenni la testa bassa e gli occhi puntati sui miei piedi scalzi. Il cuore batteva velocissimo, e la testa elaborava i mille risultati che sarebbero potuti accadere dopo quella mia frase.
Il silenzio calò di nuovo nella stanza, ed un fruscio improvviso mi fece girare di scatto verso di lui: stava prendendo una pistola? Una corda, una frusta o che altro? Mi avrebbe ucciso come i suoi compagni avevano fatto con la mia famiglia?
Non successe niente di tutto ciò, perché lo vidi tirare fuori una semplice sigaretta.
Rilassai le gambe e le braccia che erano state in tensione per tutto il tempo, e il mio respiro si regolarizzò piano.
Lo sentivo espirare il fumo, che intanto, aveva inondato la stanza.
“Parlami della tua famiglia” mi disse.
Mi girai di nuovo verso di lui, e lo vidi fissarmi ancora. Un braccio poggiava orizzontale sul suo stomaco, tenendo con la mano il gomito del braccio in cui aveva la sigaretta.
E se fosse stato una specie di interrogatorio come quelli a cui avevo assistito?
C’era una remota possibilità, ma ormai eravamo lontani dal mio paese. Ed era rimasto solo Francesco… così iniziai a raccontargli la storia di mia sorella. La nostra infanzia, adolescenza, e poi il suo matrimonio. Evitai di dirgli che suo marito era un partigiano, dissi solamente che era un commerciante.
Lui mi ascoltò in silenzio, apparentemente interessato al mio racconto.
Quando ebbi finito, Schuster mi disse che era arrivato il momento di andare a dormire.
Spense la candela e scese piano le scale, chiudendo la porta.
Io mi stesi sul letto, coprendomi fin sopra al naso.
Un piccolo sorriso apparve sul mio viso, e uno strano calore avvolse il mio petto, facendomi addormentare con serenità, quella notte.

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Da quel giorno in poi ogni volta che poteva, il comandante saliva nel sottotetto a farmi compagnia; mi chiedeva di parlargli della mia vita, di qualsiasi cosa avessi fatto prima dello scoppio della guerra.
Io gli parlai di come, da aristocratica bambina del centro città, ero diventata una signorina contadinella dei campi; di quanto avrei voluto viaggiare con mio padre e vedere posti nuovi; della decisione di ritirarmi in convento, fino all’arrivo delle sue truppe in città.
Gli raccontai delle prove che con Elena facevamo per testare i suoi futuri mariti: mille Lire fatte cadere per terra, falsi ritrovamenti di capelli chiari sulle loro giacche (che poi in realtà erano crini di cavallo), o le lunghe attese per farli aspettare.
Lui era sempre distaccato, rimaneva sulle sue; tuttavia quando raccontavo qualcosa di divertente, vedevo un piccolo sorriso aprirsi sulle sue labbra, e illuminargli gli occhi stanchi ma sempre attenti a tutto.
Passavo tutto il giorno nella speranza che arrivasse la notte; mi piaceva rimanere là con lui, mi faceva sentire come a casa. Finalmente avevo qualcuno con cui parlare, con cui condividere i miei pensieri.
Mi chiese anche se avevo ancora paura quando sentivo la sirena annunciare l’arrivo delle bombe; io gli dissi di si, ma un po’ meno. Non gli dissi che sentivo sempre un terrore indescrivibile e le uniche volte in cui si attenuava, erano quelle in cui lui era nella stessa stanza con me.
Più volte mi aveva rassicurata che non mi avrebbe fatto niente, e a differenza dei suoi compagni, non avevo paura di lui.
Il suo viso e la sua voce ormai mi erano diventati familiari; ogni volta che mi venivano a prendere per aiutarli con le traduzioni, e lui non era di sotto, sentivo la solita angoscia torcermi lo stomaco.
Quando poi riconoscevo la sua alta e imponente figura, un senso di sollievo mi scaldava il cuore, e mi sentivo subito più al sicuro.
Passarono circa un paio di settimane, ed alla fine dell’ultima lui mi annunciò che saremo partiti per Cuneo di lì a poco.
“Stavolta però non ci saranno tutti i soldati che ci hanno accompagnati fino a qui, rimarrà solo la mia squadra. Dobbiamo muoverci in fretta, è possibile che ci fermeremo lungo il tragitto. Gli americani non si lascerebbero scappare un’occasione del genere.”
Era seduto come al solito sulla sedia, fumando una sigaretta; il suo sguardo indecifrabile era fisso sui suoi stivali neri lucidi.
Io lo osservavo, e lo trovai affascinante quella sera. Non avrei dovuto pensare a cose del genere sui responsabili della morte della mia famiglia, ma capisco solo ora il ragionamento che era scattato in me: lui non ne era stato il responsabile.
Vidi l’ufficiale Hoffmann dare l’ordine di ammazzare mia sorella e poi lo vidi sparare a mia mamma; vidi i soldati con l’elmetto dare fuoco alla fattoria, e fare chissà cosa ai bambini e alla zia. Ma lui non fece niente, anzi, mi salvò da una pallottola diretta in testa.
Non lo vidi mai fare nulla di brutto; mi aveva salvata e mi aveva curata, portandomi da mangiare e chiedendomi di parlargli di me. Ero solo una ragazzina che aveva bisogno di affetto, di calore, e lo stavo cercando nell’unica persona che avevo vicino in quel momento.
“Sarà meglio ti porti via qualche coperta, potremo fermarci a dormire anche in mezzo al bosco se necessario.” Continuò lui, spostando il suo sguardo su di me.
Io non parlavo, la mia mente era in subbuglio: sarebbe cambiato qualcosa quando saremmo arrivati a Cuneo? E poi cosa sarebbe successo?
“Tutto bene?” mi chiese, probabilmente notando la mia silenziosità.
“Si… sono solo nervosa per il viaggio”
Lui fece un leggero segno di assenso con la testa, incrociando le braccia.
Un rumore leggero ruppe il silenzio; qualcosa di scuro stava rotolando verso di me, e lo fermai con la mano.
Lo guardai e vidi che era un bottone; Schuster avvicinò la sua mano verso di me per riprenderlo.
Io esitai un attimo, poi dissi: “Posso ricucirglielo se vuole”
“Ci riesci anche con questa luce?” mi chiese lui, accennando alla candela.
Io feci di si con la testa, e lui mi disse di aspettare che sarebbe andato a prendere l’ago e del filo.
Io lo aspettavo in piedi vicino alla scrivania dove poggiava la candela.
Tornò quasi subito, risiedendosi e guardando mettermi a lavoro.
Presi l’occorrente, e una volta fatto passare il filo nella cruna dell’ago e averlo legato, mi concentrai sul polso che il comandante mi stava porgendo.
Allungò la mano e gliela presi piano, cercando di toccargliela il meno possibile. La posai sulla scrivania vicino alla candela e mi chinai iniziando a ricucirgli il bottone.
In meno di un minuto avevo già finito, e richiusi il polsino in maniera perfetta.
Posai l’ago col filo sulla scrivania e mi stavo allontanando quando lui mi chiamò ancora: “Aspetta. Si stanno togliendo anche questi due davanti” disse, mostrandomene uno vicino al collo, e un altro al centro del petto.
Lo guardai un po’ titubante, ma lui era già intento a togliersi la camicia.
“Così vai meglio” disse.
NO!” quasi urlai, girando pudicamente il viso dalla parte opposta. Non sentivo più il fruscio dei suoi vestiti, ma non avevo il coraggio di girarmi di nuovo. Ancora quel pizzicore fastidioso mi infuocava il viso, e il battito del mio cuore era accelerato.
“Va bene. Dai vieni a finire” disse dopo un po’.
Mi girai e lo vidi seduto a guardarmi con la sua solita aria fiera; lo sapeva che mi stavo vergognando, eppure la cosa sembrava divertirlo.
Mi avvicinai piano al suo collo e presi il tessuto, iniziando a saldare bene il bottone quasi penzolante.
Dovevo avvicinarmi per vedere nitidamente i buchi del bottone, e soprattutto, per non fargli male quando bucavo il tessuto per far passare il filo di sotto.
Un vago profumo di dopobarba arrivò alle mie narici, e la vicinanza con il suo corpo fece ritornare quel tremolio alle mani che si era attenuato da un paio di settimane.
Strappai il filo con i denti, e guardai il lavoro finito: perfetto. Ora dovevo sistemare l’ultimo.
“Dovrebbe aprire… un po’ la camicia per poter cucire l’altro bottone” dissi, con sguardo basso.
Vidi le sue mani sbottonarsela fino ad arrivare al bottone da sistemare, in mezzo al suo petto.
Al di sotto della camicia portava una maglia bianca, pesante, probabilmente per proteggersi dal freddo di quel novembre.
Mi abbassai un po’ e iniziai a lavorare su quel bottone, sempre più a disagio. Speravo vivamente che non mi guardasse in viso, sennò avrebbe notato il mio forte rossore.
Quando finii, lui a sorpresa mi prese la mano, prendendo l’ago e il filo. Notai un altro anello nelle sue dita, un anello simile a una fede.
Mi girai a guardarlo, ma lui era intento a sistemare le cose dentro un astuccio.
“Comandante… è… è sposato?”
Non mi rispose finché non ebbe finito di sistemare le sue cose. Io intanto andai a sedermi di nuovo sul materasso.
“Si sono sposato”
Non aggiunse altro, e lo vidi accendersi un’altra sigaretta.
“Ha… dei figli?” dissi, un po’ titubante nel chiedergli quelle cose così personali.
Lui espirò forte il fumo e poi, senza guardarmi, disse: “Due”
Sentii come un colpo allo stomaco; il comandante era sposato con due figli. All’improvviso mi sentii triste; non gli chiesi più niente, e lui finì la sua sigaretta in silenzio.
“Il più piccolo credo abbia… un anno. Non mi ricordo nemmeno il nome. Non l’ho mai visto. Franziska mi ha mandato una foto, ma l’ho persa.”
Alzai lo sguardo, e lo vidi che fissava di nuovo gli stivali, coi pugni chiusi dietro alle braccia.
“E…l’altro?”
“Il più grande si chiama Hans, come mio padre. L’avrò visto tre volte se non ricordo male”
Rimasi scioccata da quella rivelazione. Il suo bambino aveva un anno e non l’aveva mai visto? E l’altro? Solo tre volte?
“Gli mancano?” chiesi, cercando il tono più riservato possibile.
Lui sospirò, sfregandosi gli occhi con la mano destra.
“Sono così impegnato col mio lavoro che non ho tempo per pensare a nient’altro”
Il suo tono era distaccato, neutro. Non era freddo, ma neanche amichevole. La cosa mi fece rabbrividire: anche papà fu spesso lontano per lavoro, ma quando eravamo nate, e soprattutto quando avevamo bisogno, lui ci fu sempre.
Come non potevano mancargli i suoi figli? Sangue del suo sangue?
Sono solo dei bambini, esseri così innocenti…
Avrei voluto chiedergli di sua moglie, ma mi sembrava troppo. Gli chiesi così se avesse un bel ricordo del giorno del suo matrimonio.
Lui si mise a ridere, ma non di una risata allegra, ma più secca, acida.
“È passato più di un mese perché si potesse firmare i documenti per attestare che lei fosse ariana. Io ero impegnato in Polonia, e dopo qualche mese sono andato via”
Ero sempre più scioccata: dov’era l’amore che tanto veniva professato? L’uomo che ama la moglie e la famiglia?
Solo in quel momento realizzai che avevo sempre parlato io nei nostri incontri, e lui sapeva ormai quasi tutto di me.
Cosa sapevo io di lui, invece? Oltre che era un comandante ammirato e plurimedagliato, e delle sue numerose esperienze, non sapevo nient’altro. Ora stava parlando di sé, e la cosa iniziava un po’ a spaventarmi; non era l’uomo che credevo fosse. Nascondeva qualcosa dentro.
Avrei voluto chiedergli se mi parlava un po’ di lui, ma i ruoli non si sarebbero potuti scambiare: lui era nettamente chiuso e riservato, io avevo paura a fare un passo in più.
Nonostante i miei ripensamenti, e il lungo silenzio che calò fra noi due, lui parlò per primo.
“Franziska è una brava donna. Non la conoscevo neanche fino ai vent’anni. Una volta arruolatomi nelle SS, trasferitomi stabilmente a Berlino e averla incontrata, lei espresse più volte il desiderio di conoscermi meglio. È bella e paziente, ma nonostante questo non mi è mai importato niente di lei, né di metter su famiglia. Mi concentravo sul lavoro e basta.”
Fece una pausa, poi ricominciò.
“Poi arrivò il momento di andare in Polonia. Avevo passato un periodo a Dachau, e mi fecero passare di grado. Qualche mese prima di partire, i miei superiori mi dissero esplicitamente che sarebbe stato meglio se mi fossi sposato prima di lasciare la Germania.
Dissero che avrei avuto un grande futuro davanti a me, e sarei dovuto essere un simbolo per i giovani tedeschi che guardavano l’esercito del Reich: un giovane soldato ariano, con una moglie e una grande famiglia, che serviva il suo paese con onore.”
Dei brividi mi corsero lungo la schiena mentre mi raccontava la sua storia, ma non avrei mai voluto che smettesse.
“Così la sposai. Credo l’abbia vista una decina di volte dopo il matrimonio, non di più. Sono sempre stato impegnato altrove. Mi spedì un sacco di lettere, ma non ebbi mai il tempo di leggerle. Così un giorno mi arrivò la notizia che aveva partorito. Quel giorno raggiunsi il titolo di Hauptsturmführer, così mi dimenticai completamente del bambino.”
Impedii alla mia bocca di aprirsi sempre di più, e rimasi a fissarlo con gli occhi spalancati: era veramente dedito al suo lavoro. Aveva accettato di sposare una donna solo perché l’innamorarsi di qualcun’altra avrebbe potuto distoglierlo dalla sua carriera?
Lui non disse più niente, così decisi di fargli una domanda.
“E lei… a lei piace quello che fa? È contento?”
Lo sentii sospirare ancora, come se il parlare di quelle cose lo trovasse faticoso.
“Sono fiero del mio lavoro.” Disse, semplicemente.
Non osai chiedergli più niente, e pensavo se ne andasse, dato che erano parecchie ore che era là con me.
Invece inaspettatamente rimase lì, dicendomi: “Cantami ancora quella canzone”
Io sapevo che si riferiva alla prima canzone che mi sentì cantare, quella di Mariù; seduta sul materasso, con le gambe vicino al petto, gliela cantai ancora.
Lui mise un braccio sulla scrivania e appoggiò la fronte sulla mano, come per riflettere. Dopo cinque minuti, sentii il suo respiro più leggero, regolare. Il petto sotto la camicia si alzava e si abbassava più dolcemente.
Mi alzai e gli andai vicino, scoprendo che aveva gli occhi chiusi: si era addormentato.
Lo guardai in viso per un tempo infinito; mentre dormiva sembrava davvero un uomo qualunque. Gli sfiorai piano la guancia, scoprendo una pelle ruvida con un poco di barba.
Mi avvicinai alla candela e con un soffio la spensi; ritornai sul materasso e chiusi gli occhi anch’io.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


Due giorni dopo partimmo a volta di Cuneo. Fui svegliata molto presto da Schuster in persona, e come al solito scesi per andare a lavarmi; prima di entrare nel bagno però la sua voce mi fermò.
“Vieni nella camera a destra del bagno. Puoi scegliere i vestiti che vuoi dall’armadio.”
Mi girai per vedere dove fosse, ma sentii solo la sua voce, come se fosse incorporea.
Entrando nella stanza, la notai davvero scura e buia; i mobili sembravano antichi e costosi, tutti fatti di uno spesso legno scuro. Sussultai quando vidi il comandante seduto sul letto, ma lui non mi degnò di uno sguardo.
Mi avvicinai all’armadio e aprii un’anta: numerosi abiti da uomo erano sistemati in perfetto ordine. La richiusi e passai a quella dopo.
In un ordine pari al precedente, mi si presentarono bellissimi vestiti da donna, tutti molto colorati e all’apparenza molto costosi. Nei cassetti adiacenti, trovai la biancheria intima; i reggi seni erano troppo grandi per me, ma le mutandine sarebbero potute andare bene.
Presi anche un paio di calze di lana nere, e mi concentrai di nuovo sui vestiti.
Ne presi uno azzurro, svolazzante, e me lo appoggiai addosso discretamente, in modo che Schuster non mi notasse: bellissimo. Purtroppo però era troppo leggero, e avrei sentito un freddo allucinante.
Ne provai altri, giusto per sfizio; mi stavo provando l’ultimo, di un bellissimo colore arancione, quando la voce del comandante ruppe il silenzio.
“Prenditi qualcosa di pesante, farà freddo”
Lo guardai, e vidi che mi stava osservando, forse anche da un bel po’ di tempo. Rimisi tutto nell’armadio, e alla fine ne presi uno nero di lana, che, nonostante il tessuto, era molto elegante.
Chissà di chi furono quei vestiti… all’improvviso mi sentii un po’ in colpa, mi sentii una ladra. Ciò nonostante avrei dovuto cambiarmi, quindi non ebbi altra scelta.
Socchiusi la porta della camera di Schuster, e mi diressi verso il bagno.
L’acqua era ghiacciata, e boccheggiai più volte mentre mi lavavo.
Mentre mi guardavo al grande specchio sopra al lavandino, osservai il mio viso: era nettamente dimagrito, e due ombre sinistre mi facevano risaltare gli zigomi, che ormai erano solo ossa.
Avevo delle borse accennate sotto gli occhi, ma per fortuna questi ultimi erano ancora vispi. L’unica cosa che vidi cambiato in me, oltre alla magrezza, fu il colorito; non avevo più il caratteristico colore abbronzato delle donne di campagna, ma molto più bianco, quasi spento.
Alla fine uscii e andai verso il salotto, dove, incoscientemente, sapevo si trovasse il comandante. Lui infatti era lì, intento a sistemare delle carte dentro delle borse che poi prese con sé. Nell’appartamento vi era il silenzio più totale, e gli unici rumori che si sentivano erano i fogli che muoveva Schuster.
Mi superò e aprì la porta; io lo seguii, e così mi trovai nella stradina davanti alla casa.
Ci aspettavano due macchine nere, come al solito.
Sapevo che l’esercito era nettamente calato, ma purtroppo nella macchina c’era ancora l’ufficiale Hoffmann.
Presi posto sul solito sedile posteriore, e lo vidi già seduto dietro al comandante.
Stare così vicino a lui mi creava un forte disagio, un nervosismo crescente: da quelle sudice mani, aveva ordinato di far uccidere Elena, e poi lui stesso sparò un colpo fatale alla mamma.
Avrei voluto infilargli una lama dritta alla gola, guardarlo mentre provava quello che aveva provato la mia famiglia.
Uscirono fuori dalla città e dei carri armati seguirono la macchina, chi davanti chi dietro.
Viaggiarono tutto il giorno, e verso sera si fermarono in mezzo a quello che doveva essere un bosco.
Scesero tutti dalle due macchine e dai carri armati, che loro chiamavano Panzer.
Un soldato, che non era più Albrecht, mi portò verso un gruppo di suoi compagni che si era formato, e sotto una fittissima boscaglia mi ammanettò le mani dietro alla schiena.
Ci incamminammo poi verso quelle che sembravano essere delle piccole grotte, mentre il freddo penetrava nelle mie ossa. Entrarono dentro una, dal soffitto molto basso, ma abbastanza larga; accesero un fuoco all’interno, e si sistemarono intorno ad esso. Io rimasi in disparte, quasi vicino all’entrata; mi sentii a disagio stare con tutti quegli uomini, ma comunque un soldato mi teneva sempre sottocchio, forse per paura di una mia fuga.
Si misero a mangiare e a scherzare prima che calasse il buio completo; io passai tutto il tempo a guardare il comandante che, seppur prendendo parte al gruppo, rimase sempre un po’ distaccato.
 
Durante la notte quasi la metà dei soldati era in piedi, di ronda; tra quelli c’era anche il comandante.
Non riuscii a dormire, continuavo a rigirarmi da seduta per trovare una posizione comoda.
Ad un certo punto sentii la voce di un ragazzo chiamarmi.
Fräulein!
Mi girai verso il gruppo e lui mi fece segno di avvicinarmi; mi alzai a fatica e lo raggiunsi di controvoglia.
“Donna! Intrattieni questi soldati!” mi disse, visibilmente ubriaco.
“Cazzo Mayer, ma sei già ubriaco?” un suo compagno che stava fumando vicino a lui, lo guardò di sbieco.
“Shhh. Avanti, stiamo aspettando.” Disse, rivolgendosi di nuovo a me.
“Cosa… dovrei fare?” dissi io; mi sentivo così a disagio che un forte batticuore prese il sopravvento.
“Basta Mayer. Se il comandante si accorge che stai importunando la ragazza invece di dormire te la farà pagare…”
“Oh ma sta un po’ zitto! Avanti balla, canta, fa qualcosa” continuò rivolto a me.
Fece un cenno di stizza, come per dire di muovermi. Mi inginocchiai piano a terra, sedendomi poi sulla pietra fredda; la mia voce intonò un po’ tremolante una delle mie canzoni preferite delle Lescano.
Tenni gli occhi bassi, evitando di guardare quei soldati.
Quando finii qualcuno applaudì piano, e il ragazzo ubriaco annuì, poi disse: “Peccato sia in italiano.”
All’improvviso una voce risuonò all’interno della grotta.
“Che cazzo state facendo invece di dormire?”
Hoffmann si stava avvicinando con fare minaccioso, rivolgendosi ai soldati.
“Basta! Tra un po’ dovremo rimetterci in viaggio, e dovrete guidare voi!” continuò.
Il suo sguardo vagò tra di loro, poi si posò su di me.
“Ah,” fece. “si vede che non vedete una donna da un po’”
Si avvicinò e mi tirò su per un braccio, trascinandomi lontana da loro. Uscì dalla grotta, e mi buttò contro un albero, lasciandomi lì.
Mi accasciai piano sul terreno duro e umido, sconcertata da quell’improvvisa violenza.
Il freddo era pungente, ma per fortuna ero coperta bene; piano piano chiusi gli occhi, chiedendomi dove fosse finito Schuster.
 
Un suono di voci concitate mi svegliò, costringendomi a mettermi subito in piedi; il rumore continuo degli aeroplani che si stavano avvicinando, arrivò alle mie orecchie e mi riempì di terrore.
Nel buio riuscivo a vedere i soldati uscire di corsa dalla grotta, ma io non sapevo che fare.
Ancora stordita dal sonno cercai di seguirli, ma all’improvviso mi bloccai appoggiandomi ad un albero, sentendo un rumore che mi pietrificò: lunghi fischi che preannunciavano le bombe che avrebbero portato morte.
Le prime caddero lontane, poi si avvicinarono sempre di più.
Avevo gli occhi chiusi, e stavo piangendo in silenzio; lì non c’erano bunker in cui ripararsi, lì non c’era nulla.
Sentii qualcuno afferrarmi forte per un braccio e strattonarmi, come per svegliarmi; aprii gli occhi e incrociai i suoi, azzurri, nel buio.
“Vai verso di là, troverai un riparo, sbrigati!
Tutti stavano andando nel verso opposto, verso la strada; Schuster invece mi aveva segnato di andare verso il ruscello, a sinistra.
Lo guardai spaventata, ma lui stava già impartendo ordini e correndo verso i Panzer.
Respiravo a fatica per il terrore, ed ero bloccata, non riuscivo a muovermi.
All’improvviso una bomba scoppiò alla mia destra, quasi vicino, e sentii una folata di vento bollente colpirmi forte, così forte che caddi sulle ginocchia.
In quel momento mi girai, e vidi un gruppetto di quattro soldati volare per aria come birilli.
Sentii un bruciore improvviso prendermi la parte destra del viso, e mi coprii alla meglio, nonostante avessi le braccia dietro la schiena.
Le lacrime iniziarono a scendere più copiose sul mio viso, e dopo aver aspettato che il bruciore si placasse un poco, istintivamente alzai gli occhi per cercare Schuster; vidi tanti soldati intenti a salire sui carri armati, e poi sopra, che teneva il boccaporto, c’era lui.
Lo vidi incoraggiare i suoi ad entrare velocemente, poi una volta finiti, si girò per vedere se tutti fossero entrati.
I nostri sguardi si incrociarono, ma non feci in tempo a dirgli nulla perché il Panzer si stava già muovendo.
I rumori degli aeroplani non smettevano, ma i fischi delle bombe si fecero più lontani.
Mi alzai a fatica, con ancora le mani ammanettate dietro la schiena, e mi diressi alla cieca verso il punto che Schuster mi aveva indicato.
E adesso cosa avrei fatto?
Trovai una piccola rientranza nelle rocce vicino al ruscello, e mi distesi là, esausta.
Scoprii che le mani erano così dimagrite che, se cercavo di rimpicciolirle, le manette si toglievano.
Le lanciai lontano, gridando, e mi accovacciai piangendo, da sola nel freddo della notte.
Riaprii gli occhi quando i primi raggi di sole fecero la loro comparsa; mi misi a sedere, sentendo il mio stomaco brontolare per la fame.
Mi alzai piano e andai verso il ruscello; bevvi un po’ di quell’acqua limpida, e prendendola nelle mani, involontariamente mi ci specchiai.
Il lato destro del mio viso aveva del sangue rappreso, ed era tutto sporco di polvere.
Mi spogliai completamente senza il mio solito pudore, e mi immersi nel piccolo ruscello; l’acqua ghiacciata mi fece tremare violentemente, ma mi piaceva quel dolore. Era il prezzo che stavo pagando per essere sopravvissuta alla strage della mia famiglia, per essere sopravvissuta ancora.
Iniziai a sfregarmi il viso e il corpo sempre più forte, vedendo l’acqua trasparente diventare man mano rossa. Piansi ancora e ancora, poi alla fine, esausta, mi appoggiai sul fondo del ruscello.
Erano dieci minuti che ero immersa fino al mento nell’acqua, e ormai non sentivo più le gambe e le braccia.
Davvero volevo morire in quel modo? Non avrei retto ancora ad altro, non ero forte e non ero coraggiosa.
Uno strano sonno prese possesso di me e chiusi gli occhi, appoggiando la testa sul terreno duro.
 
Mi risvegliai quando qualcosa di pungente pizzicò forte il mio naso; aprii a fatica gli occhi, ma vidi tutto nero.
“Stavi morendo assiderata”
Una voce familiare ruppe il silenzio, ma cercando di girarmi, scoprii che quei pochi muscoli che mi erano rimasti erano duri e non rispondevano adeguatamente.
“Sta giù”
Sentii due forti braccia girarmi, e vidi un fuocherello allegro illuminare una piccola grotta.
Lui era seduto per terra vicino a me, e stava tirando fuori qualcosa dalla giacca.
Mi porse un pezzo di cioccolata, e cercai di puntellarmi su di un gomito per prenderla, ma annunciato da un forte tremito, il braccio non mi sostenne.
Ero ancora nuda, ma una ruvida coperta mi avvolgeva dalle spalle fin quasi ai piedi.
Sentii la sua mano prendermi il viso e alzarmelo, e mi diede lui la cioccolata, avvicinandola alla mia bocca.
Io iniziai piano a piangere, poi una forte rabbia si aprì in me, e con uno sforzo disumano urlai.
PERCHE’ MI HAI PORTATA VIA DA LI’? Sono stanca di dover sopportare tutto questo!”
Dei grandi singhiozzi presero a sconquassarmi il piccolo torace, e sembrava che l’aria non riuscisse a entrare nei polmoni.
Schuster non disse niente, e io mi girai dalla parte opposta, non riuscendo a vedere se lui era rimasto ancora lì con me.
Mi calmai dopo una mezz’oretta, sentendo il calore del fuoco risvegliare gli arti.
Cercai di alzarmi a sedere, e piano piano ci riuscii; mi girai e lo vidi appoggiato con la schiena ad una parete di pietra, seduto.
Incrociai il suo sguardo, ma subito lo distolsi, vergognandomene.
Rimasi un po’ seduta, per abituare il mio corpo a quella posizione, e dopo una decina di minuti la voce del comandante inondò ancora le mie orecchie.
“Sul fronte russo ho perso un mio compagno. Una pallottola vagante, dell’esercito nemico. Non era la prima volta che succedeva, ma quello è stato diverso. Mi stava raccontando che, appena finito il periodo al fronte, sarebbe tornato in Germania a sposare la donna che aveva sempre amato, ma con cui non era riuscito mai a dichiararsi. Faceva leggere a tutti le poesie che le avrebbe dedicato, e noi lo prendevamo in giro perché era troppo melenso. Ne scriveva sempre una dopo ogni attacco che facevamo o che ricevevamo.
Quella sera era particolarmente contento perché mancavano solo un paio di giorni al suo rientro. Stava ridendo quando successe. È morto con un sorriso sulle labbra, non me lo scorderò mai…”
Fece una pausa, passandosi una mano sul viso.
“Eravamo a Stalingrado all’inizio dell’anno scorso, eravamo quasi circondati. Ricevevamo solo una parte dei viveri, e i soldati ne risentivano. I russi ci inviarono un ultimatum, ma il comandante rifiutò la resa, sotto ordini di Hitler. I rifornimenti continuavano a scarseggiare, così violando gli ordini del Fuhrer il comandante si arrese. Io riuscii a tornare in Germania quattro mesi prima la sua resa, perché Himmler in persona mi aveva convocato. Dopo la resa ai russi, tutti i miei compagni, compresa la mia squadra, hanno dovuto marciare a piedi verso la Siberia, nel mezzo dell’inverno russo… nemmeno la metà di loro è sopravvissuta. E io avrei dovuto essere là, a sostenere la mia squadra, in qualunque caso.”
Rimasi in silenzio ascoltando quello che mi raccontava.
“Perché non la finite con la guerra allora?” dissi, con tono neutro.
“È diventata una cosa più grande di me, te, e tutte le persone che la stanno facendo. È sfuggita di mano, e ora nessuno la fermerà finché non arriverà la sua fine”
Mi girai verso di lui, costringendolo in un modo indiretto a guardarmi.
“Cosa vuoi da me? Perché continui a tenermi in vita?”
Lui finalmente puntò i suoi occhi nei miei, e ancora una volta sospirò, iniziando a torturarsi le mani.
“Io non avrei dovuto essere qua. Sono un’ufficiale di campo, ora sarei dovuto essere al fronte a comandare le mie squadre, non soprintendere l’occupazione dell’Italia.
Sono abituato a combattere contro altri uomini, è una sfida alla pari. Non mi importa niente degli ebrei e delle famiglie partigiane. Mi hanno costretto a occuparmi di queste cose qui, in Italia, ma il mio lavoro è quello sul campo di battaglia. Non ho fatto altro da tre anni a questa parte. Ho visto famiglie uccise, donne, bambini… ma non li avevo mai conosciuti.
Da quel momento in cui ti sentii parlare da sola, qualche settimana dopo che eri chiusa nell’appartamento nel tuo paese, non so cosa mi è preso, ma fu come sentire quello che provo uscire dalla tua bocca.
Sono stanco di questo, sono stanco della guerra... dopo la morte dei miei compagni non sono più riuscito a dormire la notte. E poi penso sempre all’espressione di Kurt e a come non abbia fatto in tempo a realizzare nulla di quello che voleva fare. Non se n’è neanche accorto che stava per morire...”
Si fermò un attimo, poi continuò.
“Dicono che stia per avere un esaurimento nervoso. Devo essere sempre attento a tutto, e il mio grado di soldato non mi permette errori. Sentirti parlare della vita normale, condividere con me un momento durante la giornata in cui non si parli della guerra è stato come essere di nuovo con Kurt.
Non permetterei mai che tu ti spenga come lui finché sarò in grado di fare qualcosa. Tu sei ancora pura… non sai cosa sia la vera guerra. Hai perso la tua famiglia, ma non ti sei mai macchiata di sangue altrui. Non saresti mai in grado di farlo e ogni volta che c’è un bombardamento leggo la paura nei tuoi occhi. Io non so più cosa sia la paura… mi sento vuoto… ho il nulla dentro. Avere vicino qualcuno come te, ancora innocente, è come respirare di nuovo.”
Quando finì di parlare abbassai gli occhi, a disagio per quello che mi aveva appena rivelato. Quindi alla fine non erano tutti senza emozioni; chi l’avrebbe mai detto che il fiero ufficiale che guidava le sue truppe per le strade della mia città tre mesi prima, in realtà era un uomo stanco e provato dalla guerra.
Ritornai a guardarlo, e lo vidi attizzare un po’ il fuoco.
Così era questo quello che nascondeva dietro a quella divisa luccicante di medaglie; era questo quello che c’era dietro la sua freddezza e impassibilità.
“Non potrebbe semplicemente lasciare i suoi compiti a qualcun altro se ne è stanco?”
Lui continuò a ravvivare il piccolo fuoco, e sul suo viso apparve un sorriso di scherno.
“Non posso. Portiamo fedeltà fino alla morte.”
“Ma lei ha…” stavo per controbattere, ma lui mi interruppe, con voce un po’ grossa.
“Non posso e basta! Ma lo vedi chi sono? Ti pare che posso svegliarmi un giorno e dire che non mi va più di essere un comandante e lasciare la mia nazione, la mia gente allo sbaraglio?”
Abbassai lo sguardo a disagio, improvvisamente in colpa per quello che gli avevo detto.
Non ne sapevo niente della guerra io, vissuta in un paesino tra sete e merletti, e poi tra campi e conventi.
Lo sentii sospirare ancora, ma stavolta non dissi niente, per paura di dire qualcosa di sbagliato.
“Mi ucciderebbero. Nessun Uomo farebbe mai una cosa del genere. Devo portare avanti il mio compito finché sarò in grado di farlo, nel bene e nel male”
Alzai gli occhi e lo vidi ricambiare il mio sguardo, il suo volto dall’altra parte delle fiamme; sembrava quasi un angelo con quegli occhi azzurri, un angelo che veniva divorato dal fuoco.
“È il mio modo per redimermi. È stato tutto un caso… ma dopo un po’ ho capito che dovevo fare qualcosa se voglio che quello che sento si plachi, almeno in parte. Non posso ritirarmi dai miei doveri, ma posso aiutare te a non dover subire gli orrori della guerra.”
Sentivo la sua voce calda, non più fredda come prima. Si stava svelando davanti a me un uomo, un uomo qualunque, senza divisa e nazionalità. Un uomo che sapeva fare il suo lavoro, ma che segretamente, dentro, nascondeva un dolore che non poteva mostrare.
Mi chiesi più volte in quei mesi se i soldati tedeschi che uccidevano i partigiani italiani si sentissero mai in colpa di quello che facevano; li avevo sempre visti come fredde macchine da guerra, che vanno avanti e non lasciano nulla sul loro cammino.
In quel momento avevo la risposta alla mia domanda: no, non erano così. Lo facevano perché era il loro lavoro, ma nessuno in verità, se non loro, saprà mai cosa provarono quando uccisero un uomo come loro.
Guardai il comandante, e all’improvviso mi sentii una stupida per aver pensato di lasciarmi morire assiderata nel ruscello. Eravamo entrambi soli in quel momento, ed entrambi avevamo bisogno di affetto, calore.
Lui aveva aiutato me, ed io avrei dovuto aiutare lui, perché era giusto così.
“Kommandant, mi dispiace…” dissi, le uniche parole sincere che mi venne in mente di dirgli.
“Basta chiamarmi così.” Disse lui, ritornando al suo tono neutro.
Rimasi un po’ perplessa, e dato che lui non aggiungeva altro, la domanda mi sorse spontanea.
“E… come vuole che la chiami?”
Lui si alzò e iniziò a spegnere piano il fuoco con dell’acqua, probabilmente presa dal ruscello.
“Tu non sei un mio sottoposto. Quando siamo da soli chiamami Friedrich.”
Friedrich. Così era quello il suo nome.
“Ho dato un massimo di un’ora e mezza per recuperare i compagni che sono stati feriti dalle bombe. Ora è il momento di andare.” Mi disse, e lo vidi uscire dalla grotta.
“Aspetti…” il lei ormai mi veniva normale darglielo, “aspetti, devo rivestirmi prima”
Lui si girò mentre si accendeva una sigaretta, e con questa in bocca, mi disse di sbrigarmi.
Aveva preso i miei vestiti dal terreno vicino al ruscello, ed erano sistemati vicino a me; solo in quel momento realizzai che mi aveva vista nuda, completamente.
Il cuore iniziò a battermi forte per la vergogna, e mi rivestii in fretta; un uomo mi aveva appena vista nuda, e non era neanche mio marito!
Scacciai quei pensieri, perché sapevo che più ci avrei pensato, più non mi sarebbe piaciuto, e non avrei mai avuto il coraggio di chiedergli niente.
Uscii dalla grotta e lo vidi buttare la sigaretta; si avviò verso la strada e lo seguii un po’ tremolante.
Non mi ero del tutto ripresa, e il passo del comandante era molto più lungo del mio; dopo un paio di minuti si girò, probabilmente per vedere dove fossi finita, e si fermò per aspettarmi.
Quando lo affiancai, con sorpresa mi prese il viso tra le mani e me lo alzò; lo vidi osservarmelo, come se ci fosse qualcosa di strano.
“Hai schegge su questa parte del viso. Sei stata colpita da una bomba?”
In quel momento ricordai lo scoppio e la folata improvvisa di aria calda.
“Si. Ma non era così vicina…”
Mi lasciò il viso, e mi mise una mano dietro alla schiena, come per guidarmi.
“Quando arriviamo sistemo un paio di cose e poi ti tolgo quelle schegge.”
Arrivammo davanti a una moto, e si sedette, facendomi segno di sedermi nel seggiolino a fianco a lui.

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Era tardo pomeriggio quando arrivammo a Cuneo; il comandante mi lasciò dentro un piccolo appartamento, poi se ne andò.
Mi disse di riposarmi e di mangiare qualcosa, lui poi sarebbe tornato solo a tarda sera; nel piccolo appartamento non entrò nessuno tutto il giorno, e passai così il tempo da sola.
Passeggiavo dal salottino alla cucina, esplorando ogni mobile; ad un certo punto mi avvicinai alla finestra e vidi un bellissimo paesaggio, con le montagne innevate, fare da sfondo. Sembravano davvero alte, non ne avevo mai viste di così; rimasi ipnotizzata dalla loro forma e, alzando gli occhi, ancora di più dal colore del cielo di quel giorno.
Era una di quelle belle giornate d’inverno, in cui non ci sono tracce delle nuvole, e lo sguardo si perde nell’azzurro infinito del cielo; e proprio mentre guardavo quell’azzurro, sentii una stretta allo stomaco, ricordando gli occhi di Friedrich. Era così che voleva lo chiamassi ora, come se fossimo conoscenti.
Con la mente tornai a qualche ora prima, dentro a quella grotta: il freddo comandante si era svelato, rivelando la sua parte di uomo. Non aveva nessuno con cui sfogarsi, e le continue insinuazioni alla sua inadeguatezza per problemi di salute, conoscendo il suo carattere, lo dovevano irritare e non poco.
Da quanto aveva deciso di proteggermi, di prendersi cura di me? Tornai un po’ indietro nel tempo e ricordai che, appena arrivati a Genova, lui mi aveva permesso di mangiare quello che volevo dalla cucina… poi la situazione era totalmente cambiata da quando ci fu il primo bombardamento.
Realizzai solo in quel momento quanto bambina ero ancora: probabilmente se ci fosse stato un qualsiasi altro soldato al suo posto, mi avrebbe infilato una pallottola in testa senza neanche che me ne accorgessi.
Le vicissitudini della notte prima sembravano scomparse, dopo che il comandante mi raccontò un po’ del suo segreto dolore: non ero più solo io al centro della mia mente, ora avevo qualcun altro a cui rivolgere i miei pensieri.
Mi ridestai come da un sogno quando sentii la porta aprirsi e lo vidi entrare nell’appartamento; si tolse la pesante giacca verde scuro e la appoggiò sopra ad una sedia.
Incrociò il mio sguardo, ma non disse niente; lo vidi poi andare verso la cucina e lo seguii.
Guten Abend” gli dissi, cercando di mostrarmi il più sicura possibile. Lui però era sempre lo stesso: freddo e distaccato, come se non esistessi neanche.
Mi disse che sarebbe andato a lavarsi, e di preparare qualcosa da mangiare.
Gli feci trovare della carne scottata, ma non era riuscita molto bene perché il gas di quei fornelli non funzionava a dovere; poi pane e latte.
Lui comunque non disse niente, e mangiò tutto senza lamentarsi. Mi chiese se avessi mangiato qualcosa e gli dissi di si; avevo preso del pane con un po’ di zuppa, e mi sentivo già sazia.
Quando finì il cibo, mi disse di sistemare in fretta e di aspettarlo nella cucina, accendendo alcune candele.
Io ne accesi un paio e le sistemai sul tavolo, sedendomi poi su una sedia accanto; lui arrivò dopo dieci minuti e si sedette davanti a me, divaricando un po’ le gambe.
“Ti danno fastidio?” mi disse, accennando alle ferite sul viso.
“Un po’” risposi.
Lo vidi maneggiare un liquido bianco; ne mise un po’ su di un fazzoletto e mi prese il viso, avvicinandolo.
I suoi occhi erano concentrati sulle mie ferite, e così da vicino notai una sacco di particolari che prima non ebbi mai visto: vidi sfumature grigie nelle sue iridi, notai il suo morbido naso, le sue folte sopracciglia, e infine un velo di barba sulle sue guance.
Quando mi toccò con il fazzoletto però, sentii un bruciore fortissimo e mi scostai bruscamente da lui, sussultando.
“Devi stare ferma” mi disse, calmo.
Si riavvicinò, ma anche stavolta sentii un dolore che mi fece velare gli occhi di lacrime. Lui appoggiò le mani sulle cosce e sospirò, guardando di lato.
“Ti faranno infezione se non le togli. Sbrigati che sono stanco”
Di controvoglia mi riavvicinai, e quando mi stava per toccare con il fazzoletto, sentii la sua mano destra prendermi forte la nuca, in modo che non mi potessi muovere.
Digrignai così forte i denti per il dolore, che credevo mi si sarebbero rotti; chiusi gli occhi ma non piansi. Le mani, posate sulle ginocchia, stringevano convulsamente il vestito.
Sentivo le schegge, alcune più piccole, altre poco più lunghe, farsi strada nella mia pelle per venire fuori.
Quando ebbe finito, mi spalmò uno strano unguento, molto fresco, ma che punse da morire sopra le ferite.
“Era vicina se ti sono entrate schegge d’albero” disse, mostrandomi quello che aveva tolto.
Mentre stava per finire, allungai una mano su una brutta cicatrice sopra le sue labbra: era piccola ma larga.
Gliela sfiorai piano con le dita, come attirata, e alzando gli occhi notai che mi stava guardando con espressione interrogativa.
“Come se l’è fatta?” gli chiesi, abbassando il braccio.
Lui rimase in silenzio alcuni minuti, finendo il lavoro, poi mi disse “Un attacco a sorpresa dei russi”
Sistemò i medicinali, dopodiché si alzò, ma mentre stava andandosene lo chiamai piano.
Friedrich...
La mia voce risuonò innaturale, ed io stessa mi sentii a disagio a chiamarlo per nome. Lui si fermò sulla porta della cucina, e con sguardo austero mi guardò.
Danke” dissi.
Lui si girò senza batter ciglio, e uscì dalla stanza.
Rimasi così da sola in cucina per una mezz’ora, sperando che ritornasse, ma così non fu.
Spensi una delle due candele e, con l’altra in mano, mi diressi verso l’unica stanza del piccolo appartamento.
Mi feci coraggio e bussai piano; non ottenni nessuna risposta e, anche se avevo il cuore in gola, aprii piano la porta.
Lo vidi di spalle, chino su di un tavolo traballante pieno di carte; una fioca luce illuminava i documenti su cui stava lavorando.
Rimasi a guardarlo per un’infinità di tempo appoggiata alla porta; notai tutta la possenza della sua schiena, e mi immaginai tutto lo sforzo che doveva aver fatto per arrivare ad avere un fisico così statuario.
Mentre ero immersa nei miei pensieri la sua voce, ancora una volta, li interruppe.
“Pensi di stare lì ancora per molto?”
Alzai lo sguardo e vidi i suoi occhi guardarmi dal riflesso della finestra davanti a lui.
“Scusi, non volevo disturbarla…” dissi, e feci per andarmene quando lui mi chiamò.
“Vieni qua” disse.
Mi avvicinai, e lui mi prese la candela dalle mani, mettendola dalla parte opposta della sua gemella, sul tavolo.
A quel punto non seppi che fare: non volevo tornare nel salottino da sola, volevo stare là con lui. Ma a Friedrich avrebbe fatto piacere?
Rimasi titubante di fianco a lui, poi finalmente glielo chiesi.
“Potrei rimanere un po’ qua con lei?” la mia voce risuonò chiaramente insicura, ma lui sembrò ignorarlo.
“Basta che non mi disturbi”
Presi una sedia imbottita da vicino al letto e la spinsi, cercando di fare il meno rumore possibile, vicino al tavolo dove sedeva il comandante.
Mi misi alla sua destra, in modo che potessi vedere il paesaggio buio dalla finestra.
Mi accovacciai sopra la sedia, portando le gambe al petto; lo schienale era alto, così potei appoggiarci anche la testa.
Cercai di non guardare Friedrich mentre lavorava, magari avrei potuto infastidirlo; mi concentrai così sul paesaggio.
Tutte le emozioni della notte prima erano sparite dal mio cuore, dopo che il comandante mi aveva raccontato la sua storia nella grotta; in quel momento ci stavo ripensando e sembrava quasi che fosse capitato ad un'altra persona e non a me.
Mi girai a guardarlo, e immaginai cosa i suoi occhi avessero potuto vedere che lo avessero segnato così tanto.
“Ha avuto paura le prime volte?” gli chiesi all’improvviso.
Was?” disse lui, girando la testa verso di me.
“Le prime volte che era sul campo di battaglia… ha avuto paura?”
Guardò un attimo fuori dalla finestra, come se stesse rivivendo quel momento.
“Non sono mai stato in prima linea. Comunque no. Se hai paura sei un uomo morto… forse è per questo che sono arrivato al grado di comandante.”
Lui ritornò alle sue carte, e io rimasi in silenzio per non disturbarlo. Mi piaceva guardarlo lavorare, ma i suoi occhi sembravano davvero stanchi.
“Mi può raccontare… la storia dietro la sua cicatrice?”
Lui sbuffò sonoramente, e mi guardò con uno sguardo gelido.
“Ti avevo chiesto di non disturbarmi.”
Io abbassai lo sguardo in colpa, e non dissi più nulla.
Dopo circa mezz’ora avevo chiuso gli occhi e stavo quasi per addormentarmi, quando la sua voce mi svegliò.
“Una cannonata, vicino al Panzer. Stavamo avanzando, ed io ero al binocolo. L’urto dentro è stato forte, e ci ho sbattuto contro.”
Lo guardai, e lo vidi strofinarsi gli occhi e allungarsi sulla sedia.
“Davvero non riesce a dormire?” gli chiesi, sistemandomi meglio sulla sedia.
“Non più come prima”
“Perché… non prova a stendersi sul letto… magari dato che è stanco…”
“No, devo finire qua”
Ritornò ai suoi documenti, e mi chiesi come faceva a stare in piedi durante il giorno se non riusciva a chiudere occhio la notte.
Io alla fine mi addormentai rilassata come non succedeva da tempo, sentendo Friedrich scrivere.
Mi risvegliai dopo un’ora circa, perché le candele erano ancora lunghe; guardai il comandante, e vidi che si era addormentato sul tavolo, con ancora la penna in mano.
Mi avvicinai e lo guardai, e il mio corpo ebbe un fremito; desiderai stringerlo a me in quel momento, essere tra le sue grandi braccia.
Mi alzai e decisi di portarlo sul letto per farlo dormire meglio; presi il suo braccio sinistro e me lo misi intorno al collo, e il mio destro cinse la sua schiena, cercando di tirarlo su.
Era impossibile per me alzare un corpo come il suo, e infatti lui si svegliò.
“Cosa stai facendo?” disse, con voce un po’ impastata.
“Io… volevo metterla a letto…” dissi, e mi scostai imbarazzata.
Lui rimase in silenzio, e lo vidi spegnere le candele.
Si alzò e si sedette sul letto, togliendosi gli scarponi. Si stese, ma sembrava che il sonno gli fosse passato.
“Mi spiace averla svegliata… volevo solo che fosse più comodo…” dissi, ancora in piedi vicino al tavolo.
“Basta.” La sua voce risuonò dura, forse si era arrabbiato.
Decisi di uscire dalla stanza, ma appena aprii la porta mi fermò.
“Stai qua”
Nell’ombra non vedevo niente, e non seppi che fare. Tornai così verso la sedia, ma lui mi fermò ancora.
“No, vieni qua.”
Il mio cuore iniziò a battere forte, e mi diressi verso la parte del letto lasciata libera dal comandante.
Mi sedetti dandogli le spalle, e lui iniziò a parlare.
“Quanti anni hai?”
“Ventitré…” risposi.
Lui non disse più niente, così decisi di parlare io.
“Friedrich… mi racconta di quando è stato in Russia?”
Al buio non vidi il suo viso, quindi non seppi che espressione fece.
“Non ora, è il momento di dormire.”
“Ma lei ha detto che non riesce…” non volevo insistere, ma era ormai palese che nessuno dei due avesse più sonno.
“Cosa vuoi sapere?” mi chiese.
“Mi racconti quello che vuole”
Stette un attimo in silenzio, poi incominciò.
“Il fronte russo è stato terribile. Il freddo ti faceva venire i ghiaccioli agl’occhi se non ti coprivi bene. I primi mesi i russi erano deboli, perdevano territori molto velocemente. Poi iniziò l’inverno, e i fiumi si ghiacciarono, rendendo difficile il passaggio del nostro esercito.
Un giorno, era tarda mattinata, passammo su di un ponte che avevamo appena conquistato; io uscii dal boccaporto del Panzer e mi guardai attorno; il fiume su cui stavamo passando era rosso. Rosso di sangue. Centinaia di corpi erano accatastati attorno alle rive, e non erano solo nemici, non erano solo uomini.
Ogni volta che arrivavamo in una città, l’allora comandante del nostro esercito fece dare l’ordine di impiccare i ribelli, come esempio al popolo russo. Se non obbedivi agli ordini venivi impiccato tu stesso, per tradimento al Reich.
Dopo qualche giorno ce ne andavamo, e dal Panzer riuscivamo ancora a vedere i corpi delle persone penzolare dalla corda, mosse dal vento gelido, in solitudine…”
Rimasi scioccata dal suo racconto, e non dissi una parola.
“Ma la cosa più pesante fu il continuo assedio. I russi ci attaccavano continuamente, e bisognava sempre essere attenti e in guardia, sennò ti saresti ritrovato con una pallottola in testa.
Alcuni, tra i più giovani, sono letteralmente impazziti; il comandante gli faceva avere sigarette e alcool finché le provviste c’erano, poi si lasciarono andare completamente.
Era noto che il comandante stesso aveva problemi di salute, dovuto allo stress degli attacchi”
Io lo seguivo seduta sul letto, ignorando una domanda che mi tornava sempre alla mente; quante persone erano morte?
“E poi da quella sera è finito tutto. Stavamo studiando la cartina attorno ad un piccolo fuoco nel bosco, pensando di essere al sicuro; Kurt era accanto a me con altri due, e ci stava raccontando di Vivienne, di come gli mancava. Non parlava d’altro, dalla mattina alla sera; forse fu per questo che fu uno dei pochi a non impazzire: se ti rendevi davvero conto di cosa stava succedendo ti saresti sparato”
Lo sentii sospirare nel buio, e un guizzo di luce dei suoi occhi mi fece capire che mi stava guardando.
“Diceva che l’avrebbe portata a Parigi, sopra la Torre Eiffel, come aveva fatto il Fuhrer qualche anno prima. Non avrebbe potuto dirgli di no in quel modo; Tomas lo prese in giro dicendo che lei avrebbe avuto sempre la possibilità di spingerlo giù, e ci siamo messi a ridere. Ed è morto così, mentre rideva, è caduto a terra e non si è mosso più. Un colpo esatto dietro alla testa, e non abbiamo potuto fare niente per lui.
Siamo corsi dentro ai Panzer, lasciandolo in mezzo al bosco.”
Si fermò così quella sera, con la storia del suo compagno. Io non seppi che dire, quindi rimasi in silenzio.

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Il giorno dopo mi svegliai sul grande letto della stanza; ero senza coperte e avevo i brividi di freddo.
Rimasi un po’ seduta, provando a captare dei rumori provenienti dall’appartamento; dopo una decina di minuti però, continuai a non sentire nulla.
Mi alzai piano e, grazie alla forte luce che entrava dalle finestre, notai le candele della notte prima, spente sul tavolo.
Il resto era tutto in ordine, come se non ci fosse stato nessuno.
Andai verso il bagno e decisi di darmi una lavata, nonostante avessi freddo; l’acqua era ghiacciata anche in quel posto, ma strinsi i denti.
Non c’erano specchi sopra il piccolo lavandino, così una volta asciugatami bene e rimessa i vestiti, provai nella camera: aprendo il piccolo armadio davanti al letto ne scoprii uno.
Mi ci specchiai: il lato del viso colpito dalla bomba era più scuro rispetto all’altro e si vedevano piccoli segni di ferite che dovevano essere state lasciate dalle schegge.
All’improvviso sentii la porta dell’appartamento aprirsi e uscii dalla stanza, credendo di incontrare Friedrich.
Quando arrivai al salottino però, rimasi impietrita: un soldato alto e magro, con l’elmetto e una sigaretta in bocca, stava frugando tra le carte del comandante.
Lui si girò, guardandomi da capo a piedi.
“Hai capito il comandante. È così che si cura, con le puttane.”
Lo guardai sconcertata, e la sua presenza in quella stanza mi mise improvvisamente a disagio.
“Non sono una…prostituta.” Dissi, con voce incerta.
Maledissi all'istante la mia timidezza; lui si avvicinò con fare strano, espirandomi addosso una notevole quantità di fumo. Indietreggiai man mano che lui si avvicinava, finché non andai a sbattere contro il muro.
Mi passò con durezza una mano sulla guancia, e io mi scostai bruscamente, impaurita dal suo modo di fare.
Lui si mise a ridere ma poi, con un sospiro di sollievo, sentii la voce di Friedrich farsi sempre più vicina.
Alla fine entrò, seguito da altri due soldati; mi guardò per un istante poi il suo sguardo si posò sul soldato che era presente in stanza, davanti a me.
Appena lui comparì, il soldato si girò e continuò la sua ricerca come se niente fosse.
Friedrich si avvicinò a me e con un gesto mi fece capire che sarei dovuta andare con loro.
 
La sera eravamo in cucina io e lui, ma nessuno dei due aprì bocca. Io stavo ripensando a quello che mi aveva detto quel soldato, al modo in cui mi sentivo offesa. Era questo quello che pensavano di me? Che facessi la prostituta per il comandante per riservarmi i suoi favori?
Un brivido mi corse per la schiena e mi strinsi nelle spalle.
“Hai freddo?” mi chiese Friedrich, notando il mio tremolio.
Io feci no con la testa.
“Cos’è successo? Hai perso la lingua?” mi chiese ancora.
“No…no non ho freddo” dissi io, lasciando trasparire come al solito il nervosismo.
Lui si alzò e andò verso la camera; io sistemai la tavola e, dopo un’ora di preghiere, mi diressi nella stanza per stare con lui.
Bussai, ma anche stavolta non ottenni risposta. Aprii piano la porta e gli chiesi se potevo rimanere là; stavolta disse solo di si.
Presi la sedia e mi sedetti vicino a lui, come la notte prima; puntai il mio sguardo sulle cime innevate che risplendevano al buio.
“Non devi andare in giro per casa quando non ci sono. Alcuni dei soldati non tornano in Germania da mesi, e appena vedono una donna non capiscono più niente. Non riesco a gestirli neanche io che sono il loro comandante.”
Mi girai sorpresa; lo vidi togliersi qualcosa da dentro alla giacca e porgermela in mano: una pistola!
“Non posso essere con te sempre. Hai quattro pallottole non sprecarle. Sai come si usa?”
“Si.” risposi prendendola in mano, “Ma non voglio usarla.” risposi sinceramente. Come faceva a sapere che non l'avrei usata contro di lui?
“Non dovrai. Solo se sarà necessario.”
La guardai, indecisa ma allo stesso tempo attirata: era piccola e nera, l’avrei potuta nascondere benissimo sotto la gonna.
“Se ferisco un tedesco mi ucciderete. Lei o l’altro ufficiale.”
Ero ingenua, ma non ero stupida: lo sapevo benissimo che la vita di un tedesco valeva mille volte di più di quella di un italiano, per loro.
“Sono io quello che comanda. Se dovessi trovarti in pericolo usala.”
Con la coda dell’occhio vidi che mi stava guardando, ma non gli risposi; questo significava che mi aspettavano nuovi momenti di terrore?
“Maria, la guerra è dura. La guerra è anche questo. Devi essere forte, non c’è tempo per la paura. A me non importa più di niente… non vedo l’ora che tutto questo finisca presto.”
Decisi all'improvviso di cambiare argomento.
“Cosa farà con me una volta usciti dall’Italia?” gli chiesi, per la seconda volta.
“Non lo so. Ci penseremo.”
Lo vidi riconcentrarsi sui documenti, ma si notava che la sua mente era altrove.
Forse non avrei dovuto dirgli quello che gli dissi in seguito, ma le parole mi uscirono spontaneamente. “Mi piace stare con lei. Mi fa sentire al sicuro.”
Mi trovai in imbarazzo a dirgli quelle cose, ma le sentivo nel mio cuore ed era da lungo tempo ormai che mi tenevo troppe cose dentro; inoltre lui continuava a seguirmi, quindi era il momento gli rivelassi quanto incoscientemente gli ero grata.
Lo sentii ridere piano, cosa che non mi piacque.
“Non sai quanto ti sbagli.”
Rimasi spiazzata dalla sua risposta: mi sbagliavo in cosa?
Non gli risposi, vedendo che si era rimesso a lavorare; dopo un po’ presi sonno, ancora seduta sulla sedia accanto a lui.
 
Mi svegliai sentendolo russare; dovevano essere passate tre o quattro ore, dato che le candele si erano quasi consumate.
Stavolta non volli cercare di tirarlo su e lo osservai alla fioca luce; mi dispiaceva vederlo dormire in quel modo scomodo, conoscendo la sua fatica.
Feci così cadere la sua penna con un gesto veloce; il rumore argentino sul legno del pavimento lo fece sobbalzare.
Io feci finta di dormire, e lo sentii alzarsi e spegnere le candele; dopodiché sentii la sua presenza vicino, ma nient’altro. La curiosità mi spingeva ad aprire gli occhi, ma se l’avessi fatto mi sarei tradita; dopo un po’ sentii le sue mani prendermi in braccio e, appoggiata al suo petto, mi sentii bene come mai mi ero sentita prima d’allora.
Si avvicinò al letto e mi ci appoggiò piano; lo sentii fare il giro e stendersi vicino a me.
Mi mise una coperta sopra e il leggero movimento dell’aria mi fece andare dei capelli sul viso.
Il mio cuore sembrava fare i tuffi, provavo delle emozioni che avrei voluto sentire per tutta la vita; lui era steso a fianco a me, ma mi sembrava lontano chilometri.
Dopo dieci minuti sentii il suo respiro tornare regolare, annunciandomi che era riuscito ad addormentarsi.
 
Gli interrogatori a cui dovevo assistere mentre ero a Cuneo erano totalmente diversi da quelli a cui ero stata abituata; Friedrich una sera mi spiegò che in quella città c’erano molte rappresaglie degli italiani contro i tedeschi, e per farli parlare dovevano utilizzare le maniere forti.
Un pomeriggio, dopo un paio di giorni dall’arrivo in città, ero dentro una stanza che fungeva da ufficio a Friedrich, in un palazzo vecchio, appena fuori dal centro.
C’erano sempre due soldati “semplici” che presenziavano gli interrogati; era il primo giorno a cui assistevo ad interrogatori di quel tipo.
Friedrich sedeva come al solito dietro ad una grande scrivania, mentre io ero accanto a lui in piedi; i due soldati erano in piedi anche loro, accanto agli interrogati, mentre questi ultimi erano seduti su due sedie davanti a Friedrich.
Quel giorno c’erano due giovani ragazzi, avranno avuto più o meno venticinque – trent’anni; avevano le mani legate dietro alla schiena, ed erano stranamente loquaci.
“Dove si nascondo gli altri?”
La voce di Friedrich risuonava chiara e forte nella stanza: stava usando quel tono freddo con cui impartiva ordini ai suoi soldati.
Io tradussi in italiano ai due ragazzi, ma loro non aprirono bocca. Li vedevo scambiarsi sguardi carichi di mille parole, ma di parlare non ne avevano l’intenzione.
Dopo svariate domande a cui non risposero, Friedrich fece un segno ai soldati e questi li fecero alzare in piedi.
I due ragazzi provarono ad opporre resistenza, ma le mani legate non li aiutarono; i soldati iniziarono a tirargli pugni all’addome, fin quasi a fargli sputargli sangue.
Io tenni lo sguardo basso mentre, ad ogni pugno che sentivo, stringevo il vestito sempre più forte.
Dopo cinque minuti di percosse, i soldati li rimisero a forza sulle sedie e Friedrich ripeté le stesse domande di qualche momento prima.
Io tradussi pazientemente sempre a sguardo basso, ma loro continuavano a non parlare; il comandante fece un altro gesto verso i soldati e questi li ripresero, stavolta picchiandoli più forte.
Cercavo di non guardare, ma la scena era talmente crudele che più me lo promettevo, più non riuscivo a staccare gli occhi; i soldati iniziarono a picchiarli con i fucili sul viso, facendo schizzare sangue sui muri e sul pavimento.
All’improvviso sentii un rumore, come di qualcosa che si rompe, e uno dei due ragazzi lanciò un urlo disumano; il mio cuore perse un battito quando lo vidi.
Il naso era completamente spostato da un lato del viso e gli usciva così tanto sangue che si notava palesemente la sua fatica nel respirare.
Istintivamente mi avvicinai alla scrivania stringendo il bordo; mi girai a guardare Friedrich ma lui era, come sempre, immobile e dritto sulla sedia.
Dove sono gli altri?
Stavolta il suo tono di voce era aggressivo, e per sottolinearlo, sbatté le mani sulla scrivania.
“Dove sono i vostri compagni?” tradussi ancora. Poi, vedendo che non reagivano, aggiunsi: “Per favore parlate, sennò vi uccideranno!
Il ragazzo che aveva ancora il naso apposto alzò lo sguardo, e mi guardò.
“Meglio morire che collaborare con i nazisti. Hai venduto l’anima al diavolo cagna.”
Rimasi di ghiaccio sentendo le sue parole. Lo sapevo benissimo che i partigiani non avrebbero mai aperto la bocca con i tedeschi, mio fratello me lo spiegò molte volte; ma pensavo che davanti alla morte non valesse più la pena di lottare per quegli ideali. Quel giorno però, scoprii a mie spese che non ragionavano come me.
“Cos’ha detto?”
La voce di Friedrich mi riportò alla realtà e mi girai verso di lui, ancora scossa.
Gli dissi sottovoce quello che mi aveva appena detto; lui sospirò profondamente poi fece un ultimo segno ai soldati, che li portarono via.
Ogni volta che eravamo fuori da casa lui non mi parlava e, se lo faceva, usava sempre il tono che era riservato ai suoi soldati.
“Non parleranno mai” disse, a sorpresa, quel giorno.
Continuava a sospirare e a giocare con l’anello d’argento che portava sulla mano sinistra.
Si prese il viso tra le mani e rimase così per alcuni minuti.
“Si sente bene?” chiesi io dopo un po’, vedendo che non si muoveva.
Lui si tolse le mani dal viso e mi guardò; non disse niente, ma guardarlo negli occhi in quel momento fu come fare un viaggio. Un viaggio in cui mi portò lontano, in un posto dove non c’era più paura e violenza.
Dei forti colpi alla porta, anticiparono l’entrata di un giovane soldato che fece il saluto nazista a Friedrich. Io mi scostai in modo che si potessero guardare e sentii cosa aveva da dire.
“Forse abbiamo scoperto un nido di partigiani. Dovremo agire domani comandante, ora è troppo buio, se ci sbagliassimo… potrebbe essere una trappola.”
Friedrich si alzò e seguì quel giovane, lasciandomi da sola.
Dopo un quarto d’ora ritornò nella stanza, venendo a prendersi la giacca; parlò a bassa voce, dato che nel corridoio c’erano molti dei suoi compagni.
“Devo andare ora. Ti riporterà a casa uno dei miei soldati. Se dovesse succedere qualcosa ti ricordi la strada?”
Non mi parlava con gentilezza, ma come se i suoi fossero degli ordini; mi fece capire che non avrei potuto fare diversamente.
“Si” dissi io, piano.
Si mise la giacca e si rivolse ancora a me.
“Hai la pistola?”
Io dissi di si ancora; l’avevo messa in una tasca interna del vestito nero.
Assunse la sua solita espressione indecifrabile e uscì dalla stanza.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Un alto e anonimo soldato, venne a prendermi subito dopo che il comandante uscì dalla stanza. Mi prese per un braccio senza dire una parola e uscimmo dal palazzo, percorrendo le strade buie e dall’aspetto sinistro.
C’era un’atmosfera strana nell’aria: sembrava che qualcuno ci stesse seguendo, e ad ogni tre passi mi giravo per guardarmi alle spalle. Non c’era anima viva per la città ed a ogni minimo rumore sussultavo, impaurita; solo lo scalpiccio degli stivali del soldato mi rassicuravano.
Ad un certo punto del percorso ci trovammo in una strada chiusa: il soldato si guardò intorno, sicuro probabilmente di aver preso la via giusta; il panico stava salendo in me, perché si stava facendo sempre più scuro e i lampioni non funzionavano neanche in quella città.
Non so per quanto tempo girammo per quel posto, ma doveva essere ormai calata la sera; quando finalmente mi parve di aver riconosciuto le costruzioni intorno, una voce di ragazzino uscì dal nulla.
“Chi siete?” disse.
Io mi fermai impietrita guardandomi attorno e cercando di vedere dove fosse, ma il soldato mi trascinò malamente dietro di sé.
Chi siete?” ripeté più forte, seguendoci.
Il soldato impugnò il fucile, facendomi arrivare il cuore in gola; nello stesso momento, vidi venire fuori dalla finestra di una casa un bambino. Indossava pantaloni a vita alta e una camicia bianca, tutta rotta; con il braccio sinistro impugnava un lungo fucile, puntato dritto davanti a noi. Doveva avere dodici – tredici anni, non di più.
Ci teneva sotto tiro, e un pensiero si fece strada in me: avrebbe premuto il grilletto?
“Da dove vieni soldato?” chiese, con una malcelata insicurezza.
Il tedesco non parlò in italiano, perché probabilmente non lo sapeva. Chiese a me di dire al bambino di abbassare l’arma.
Nazisti
Ci sputò in faccia quella parola in maniera rabbiosa, come avevo visto fare solo agli adulti; lui invece era ancora un bambino e, probabilmente, aveva paura tanto quanto me.
Lo vidi puntarci meglio, e presa dal panico parlai con voce strozzata.
NO! Aspetta!”
Davvero un bambino stava impugnando un fucile più alto di lui, contro di noi? Cos’era successo alle persone? Dove saremo andati a finire di questo passo?
Il soldato non perse tempo; prese la mira e puntò al bambino, che tremava vistosamente.
Quando il ragazzino trovò il coraggio per avvicinarsi al grilletto un colpo partì dal fucile del tedesco; mi coprii gli occhi, sentendo la bile salirmi in gola.
Un bambino innocente era appena stato ucciso da un assassino a sangue freddo.
In quel momento apparvero degli uomini in fondo alla via, e il loro sguardo mi fece intuire che non avrebbero avuto la paura che aveva avuto il ragazzino.
Mi misi a correre a perdifiato seguita dal soldato, sentendo i loro passi dietro di noi; girandomi vidi un uomo impugnare il fucile del bambino, con molta più esperienza.
Mi nascosi dentro a delle alte macerie, pregando che non mi trovasse.
Cercai di calmarmi e, ricordandola solo in quel momento, tirai fuori la pistola.
Come aveva fatto a sapere Friedrich che mi sarebbe davvero servita? Quell’uomo mi stupiva sempre di più, dimostrandosi ancora una volta in grado di salvarmi la vita.
Sentii un colpo di fucile partire e colpì un punto lontano da me, fra le macerie. Non avrei mai voluto farlo, tuttavia non avevo scelta; non sarei morta in quel modo, non in quel momento, lontana da casa, sola. Devi essere forte non c’è tempo per la paura, mi disse Friedrich la notte prima.
Mi appiattii sul pavimento, respirando la polvere soffocante delle macerie; sembrava come quando giocavo con mio fratello Francesco, a guardia e ladri. Lui mi insegnò a sparare, lo insegnò a tutte le donne della famiglia; voleva che fossimo in grado di difenderci se ce ne fosse stato il bisogno, soprattutto dopo la morte di nostro padre.
Pregai il signore e la madonna di perdonarmi e guardandolo avvicinarsi presi la mira al braccio sinistro, quello in cui teneva il fucile. Misi l’indice tremante sul grilletto, ma non trovai la forza per premerlo; io non ero così, non ero un’assassina. Quell’uomo aveva sicuramente una famiglia, e doveva tornare da loro.
Chiusi gli occhi, abbassando l’arma; avrei aspettato che se ne fosse andato.
Mi ero nascosta in un buco davvero piccolo fra pezzi del palazzo che erano caduti, chissà quando; rimasi ferma, immobile. L’uomo se ne andò dopo cinque minuti, ma io non mi mossi, ancora spaventata dal fatto che potesse aspettare e spararmi.
Dopo un’ora o più, nel buio della notte, mi alzai e me ne andai, silenziosa come un gatto.

Dopo cinque minuti circa, arrivai finalmente davanti alla piccola casa in legno; c’era una fioca luce che proveniva dalla camera, probabilmente il comandante stava lavorando.
Rimasi fuori a guardare, ancora con il fiatone, e all’improvviso pensai: posso scappare.
Se non in quel momento, quando?
Poi guardai la casa e vidi la luce all’interno: Friedrich.
Al suo pensiero sentii un nodo allo stomaco: non l’avrei più rivisto. Perché mi dispiaceva?
Non avrei più sentito la sua voce, non avrei più sentito il suo tocco su di me.
Me ne stavo innamorando? No, impossibile.
Una grande mano si serrò sul mio braccio, facendomi sussultare dallo spavento.
“Dove sei stata? Gli ordini del comandante sono stati chiari”
Il soldato, che era con me qualche ora prima, era davanti a me con un’espressione strana sul viso; una macchia scura gli colorava in maniera sinistra la giacca, sul braccio destro.
Mi trascinò per le scale e salimmo in casa; fece il saluto al suo comandante, e gli disse che mi aveva finalmente riportato da lui. Friedrich non fece una piega, seduto di spalle su una delle poltroncine, non girandosi nemmeno per guardarlo negli occhi.
In quel momento decisi: me ne sarei andata.
Dopo che il soldato ebbe richiuso la porta dietro di sé, presi un profondo respiro, cercando di calmarmi.
Friedrich
Lui non si mosse, continuando a fare qualcosa di spalle.
“Friedrich… io… me ne voglio andare.”
Lui si fermò un attimo, poi ritornò a quello che stava facendo.
“Vattene allora.” disse, con disprezzo.
Fui per un attimo spiazzata dalla sua risposta: rimasi immobile a osservare la sua figura, non riuscendo a prendere una decisione.
All'improvviso si alzò di scatto e buttò all’aria quello che aveva tra le mani; si girò verso di me e lo osservai in tutta la sua altezza. Indossava una canottiera bianca e i pantaloni verdi della divisa. Rimasi a bocca aperta però quando guardai il suo petto: il tessuto della canottiera era tutto rotto e, sulla spalla destra, si mischiava alla pelle e al sangue. Doveva essere stato ferito. Il suo petto si alzava e si abbassava velocemente, facendolo sembrare ancora più grosso.
Si avvicinò e mi prese forte per un polso; mi trascinò al centro del salottino, e iniziò ad urlare.
Pensi di essermi indispensabile?
Si avvicinò e mi prese il viso, costringendomi a guardarlo.
“Quelli come te li ucciderei tutti. Tutti, prima ancora che abbiano il tempo di respirare”
Io intanto tremavo dalla paura; non l’avevo mai visto così, e la sua dura voce mi immobilizzava completamente.
Mi spinse con violenza verso la camera; una volta entrati mi buttò a terra e si accucciò di fianco a me.
“Tutti. Tutti, li ucciderei tutti…
Mi prese i capelli e se li annodò in una mano, tirandomeli violentemente; continuava a ripetere quella frase, come se fosse un disco rotto.
Quando chiudevo gli occhi, lui mi tirava i capelli finché non li riaprivo per guardarlo; vedevo la sua mascella serrarsi convulsamente.
Ad un certo punto però, i suoi occhi iniziarono a farsi lucidi; la presa sulla mia testa si fece più debole, e a mano a mano mi lasciò andare.
Una lacrima gli rigò il volto e per la rabbia tirò un pugno all’armadio, facendomi sussultare forte; io mi feci piccola piccola, e mi ritirai in un angolo della stanza.
Era in piedi di spalle a me, e si stava trattenendo dal piangere; le sue mani tremavano violentemente, appoggiate all’armadio.
Nonostante la paura provai pena per lui: doveva essere divorato dal dolore.
Si sedette per terra e appoggiò la testa in su, sul bordo del letto; sembrava un pazzo mentre fissava il soffitto con sguardo vuoto, il petto che si alzava e abbassava ancora velocemente.
Dopo un po’ si voltò verso di me, ma io non volli incontrare il suo sguardo.
“Maria... non avere paura di me”
La sua voce mi sembrava lontana, come se appartenesse ad un’altra persona; non riuscii a capire cosa gli era successo, come mai si era comportato in quella maniera.
Si avvicinò a carponi e mi si mise davanti.
Quando allungò una mano, probabilmente per prendermi il viso, io tirai fuori la pistola; la tenni sul mio grembo, in modo che potesse vederla, ma i miei gesti non erano molto decisi.
Lui la guardò un attimo, sorpreso; poi ritornò alla sua espressione vuota.
“Sparami”
Me lo disse come se fosse un ordine; io non mi mossi, la mia mente era vuota, in cerca della prossima azione da fare.
Erschieß mich. Jetzt.”
Me lo chiese ancora, e ancora.
Si avvicinava sempre di più, come a volermi sfidare; io respiravo velocemente, impaurita dal suo comportamento.
Ad un certo punto una delle sue mani si alzò su di me, ed io chiusi gli occhi, proteggendomi; quando mi toccò però non fu violento. Mi stava accarezzando i capelli, gli stessi capelli che mi aveva tirato due minuti prima.
Avevo ancora un po’ di timore, ma i suoi occhi mi guardavano in quella maniera che mi faceva sentire al sicuro: era tornato in sé.
Con l’altra mano prese la pistola, poggiandola a terra; piano piano si stese e appoggiò la testa sul mio petto, sorprendendomi.
Il mio cuore batteva talmente forte che se ne poteva sentire il rumore; avevo un misto di eccitazione e paura allo stesso tempo. Non sapevo quale sarebbe stata la sua prossima mossa; ero stupidamente incantata dai suoi gesti, ma lo tenevo sotto controllo.
“Non te ne andare. La tua voce è l’unica cosa ancora che mi impedisce di impazzire completamente.”
Sussurrava, con tono ancora più basso del solito e stranamente roco.
“Sei così innocente Maria. Cosa vedi in me invece?” continuò.
Lo guardavo, ma non sapevo che dire. Cosa c’era in lui? Mille cose, mille emozioni celate. Talmente tante cose che dirne una sarebbe stato poco.
“Niente. È questo che c’è, niente.”
La sua voce era come una richiesta d’aiuto; vedere un uomo grande e grosso, soffrire in silenzio in quella maniera, mi spezzò in due il cuore. Il mostro che avevo visto pochi istanti prima non era lui, non era mai stato così. Non mi voleva fare del male, lo sapevo, in fondo al mio cuore l’avevo sempre saputo. Dovevo aiutarlo, volevo aiutarlo.
“Non è vero che non c’è niente.” dissi, sfiorandogli piano la fronte con le dita.
“Tu non sai chi sono veramente. Ne hai avuto la prova pochi istanti fa”
Non risposi, rimanendo in silenzio a guardarlo.
“Resta con me finché puoi.”
Me lo stava chiedendo veramente? Il cuore sembrava gonfio di un’emozione nuova, ma nonostante alcuni dubbi, gli risposi sinceramente.
“Ti starò vicino.”
Mentre lui stava per controbattere però, io posai le mie labbra sulle sua fronte, come una madre fa con il proprio bambino triste; chiusi gli occhi, sentendo il suo sapore sulla mia bocca.
Lui era bollente e un po’ sudato, e l’odore del sangue della ferita era pungente.
Friedrich si alzò subito dopo e mi guardò dritto negli occhi, come se volesse leggermi dentro, con espressione dubbiosa.
“Cosa fai?”
La sua voce tornò più squillante, ma sempre bassa.
Abbassai lo sguardo imbarazzata, e iniziai balbettare senza riuscire a fare un discorso comprensibile; non avrei dovuto farlo, ma per la prima volta dopo molto tempo mi ero appena lasciata andare.
“Io pensavo… volevo farti stare meglio…”
Gli diedi del tu per la prima volta, senza neanche accorgermene.
Vidi un sorriso aprirsi sulle sue labbra, come non l’ebbi mai visto prima; una fila di denti bianchi e perfetti incorniciava il suo viso, facendolo improvvisamente sembrare l’uomo più bello che avessi mai visto.
“Andiamo di là. Devo finire di curarmi la ferita.”

Lo raggiunsi nel salottino e lo vidi raccogliere le bende e il disinfettante; mi avvicinai e glieli presi dalle mani.
“Lasci, faccio io” gli dissi, ritornando al lei.
Lui mi diede le cose, e si sedette sulla piccola poltrona.
La ferita non era profonda, ma era parecchio estesa; gli abbassai piano la canottiera, un po’ in imbarazzo, per evitare che entrasse in contatto con il sangue.
Mi avvicinai e feci come avevo visto fare a lui quando mi curò le ferite sul viso; non fece una piega quando gli toccai la parte lesa. Chiuse solo gli occhi.
“Dove sei stata invece di tornare subito qua?” mi chiese mentre lo curavo.
“Mi ero persa…” dissi io, concentrata sul lavoro.
All’improvviso pensai: e se quell’uomo mi avesse uccisa, cosa ne sarebbe stato di me? Qualcuno sarebbe venuto a cercarmi, a dichiarare la mia scomparsa?
Continuai, cercando di fare finta di niente, ma il solito tremolio alle mani tornò e un senso di angoscia, ancora più grande della morte della mia famiglia, prese a premermi sul petto.
Ancora una volta realizzai che ero completamente sola, e se fossi morta da qualche parte, nessuno mi sarebbe venuto a cercare, nessuno mi avrebbe riconosciuta. Non sapevo nemmeno se Francesco era ancora vivo: ogni volta che ripensavo a lui, la rabbia prendeva possesso di me.
Se fosse stato a casa ad aiutarci avremo potuto salvarci; se non fosse stato così ostinato nel seguire quegli ideali avrebbe potuto salvare la propria famiglia. O morire insieme ad essa. In qualsiasi modo stare vicino alle persone più importanti della sua vita; i nostri parenti erano morti per una sua scelta. Lui aveva scelto casa nostra come ritrovo dei partigiani, lui ci aveva fatto andare di mezzo.
Comunque, se era ancora vivo, mi rimaneva solo lui; alla fine di tutto avrei voluto solo starci accanto, lo avrei perdonato solo perché è mio fratello.
“Cosa le è successo?” gli chiesi per cercare di non pensare a quelle cose.
“Ci servivano rifornimenti di benzina per i panzer. Qualche giorno fa avevamo scoperto una fornitura abbandonata dall'esercito italiano, invece quando siamo arrivati oggi ci abbiamo trovato solo una fottuta bomba.”
Quando ebbi finito con il disinfettante, presi le bende che si era portato e con il suo aiuto gliele strinsi intorno alla spalla destra; sembrava di fasciare una quercia per me, che ero meno della metà rispetto a lui.
“È morto qualcuno?” chiesi, ancora.
“No, per fortuna. Solo feriti.”
Quando finii, Friedrich mi mise una mano sulla schiena e mi spinse verso la camera.
Entrammo e mi diressi verso il tavolo, come eravamo abituati.
“No, stasera niente lavoro.” Disse.
Lo vidi togliersi gli scarponi e la canottiera, ed indossare la maglia a mezze maniche bianca, di lana.
Alla luce fioca della candela la sua pelle sembrava perfetta; nonostante l’imbarazzo, anche qua non potei fare a meno di non guardarlo.
Mi andai a sedere sulla solita sedia, mentre lui si stese sul letto, non prima di prendere la candela dal tavolo e metterla sul piccolo comodino.
Il silenzio calò nella stanza; io non sapevo che dire, lui sembrava immerso nei suoi pensieri.
Avrei voluto chiedergli migliaia di cose, ma avevo paura di toccare qualche corda fragile della sua anima, col rischio di farlo stare male ancora.
Alla fine optai per l’unica cosa che sapevo gli piacesse.
“Vuole che le canti qualcosa?”
Lui aprì gli occhi e mi fece un cenno con la testa. Mi sistemai meglio sulla sedia, e iniziai a cantargli quelle canzoni che gli piacevano tanto. Lasciai per ultima la canzone di Mariù, perché quella era la mia preferita.
Friedrich rimase a occhi chiusi per tutto il tempo, immobile, come se fosse morto; quando finii li riaprì piano, sorprendendomi: pensavo si fosse addormentato.
“Mi ricordo la prima volta che ti sentii cantare questa canzone. Stavo lavorando e nel bel mezzo del silenzio della notte, invece di sentire la sirena antiaerea, ho sentito la tua voce.”
Si fermò un attimo e sembrò squadrarmi ogni millimetro del corpo.
“Avrei voluto sentirla ancora. Ho trovato l’unica cosa che riesce a combattere contro la mia testa.”
Gli sorrisi piano, leggermente rossa in viso per i suoi complimenti.
“Lei non è cattivo. Non mi avrebbe aiutata se fosse stato così” gli dissi.
Lui si passò una mano sul viso e spostò lo sguardo altrove.
“Tu sei l’unica possibilità per dimostrare a me stesso che sono ancora umano. È ignobile pensare di mandare un uomo in guerra per così tanto tempo.”
Riflettei su quello che mi aveva appena detto, e il mio sguardo cadde accidentalmente sulla mano con l’anello. Non ne portava neanche uno quella sera.
“Le mancano sua moglie, i suoi figli?”
Dopo un momento che mi parve un’eternità, lui mi rispose: avevo ormai capito che, quando non gli andava di parlare di qualcosa, rispondeva dopo un po’.
“No.” Disse, secco.
Riparlò dopo un po’.
“Te l’ho già raccontato. Franziska è una brava donna, ma non ti possono mancare persone che non ha mai visto o che non conosci nemmeno. Io non l’ho mai amata, ma comunque la rispetto perché è mia moglie.”
“Quando la guerra finirà tornerà da lei?” gli chiesi.
“Alla fine tutti i soldati fanno ritorno a casa. Tutti, tranne quelli morti.”
Mi sentii di colpo triste, ma cercai di nasconderlo girandomi da un’altra parte. Lui non sarebbe mai potuto essere qualcosa di più per me: era tedesco, nazista, e in più aveva presenziato al massacro della mia famiglia. Non sarebbe stato giusto per mamma, Elena e tutti gli altri.
In più aveva una moglie e dei figli ad aspettarlo in Germania e questo mi sarebbe dovuto bastare per togliermelo dalla testa. Ma poi perché pensai a quelle cose? Fu più forte di me, non riuscii a non rifletterci.
Comunque il suo comportamento non voleva significare che avesse un interesse in me, aveva detto lui stesso che lo faceva solo per redimersi.
“A cosa pensi?”
La sua calda voce ritornò ad inondare la stanza.
“Nulla…” dissi io, cercando ancora una volta di nascondere i miei sentimenti.
“E tu, hai un marito nel tuo paese, un fidanzato?” mi chiese.
A quella domanda arrossii di nuovo, e abbassai la testa per non farmi vedere.
“No.” Dissi, semplicemente.
“Hai dei figli?” mi chiese ancora.
“No!” risposi, con tono un po’ scandalizzato. Sembravo già una madre con dei figli?
“No… non ho ancora avuto la fortuna di incontrare la persona giusta.” Aggiunsi.
Lui continuava a guardarmi, mentre io tenevo la testa bassa e facevo finta di giocare con l’orlo della manica del vestito; alzavo gli occhi solo per guardarlo quando mi faceva una domanda.
“Mi avevi detto qualcosa sulla chiesa…”
“Dovevo prendere i voti.” Dissi.
“E continueresti se potessi?”
“No. Era orribile, la scelta più brutta che abbia mai dovuto prendere.”
"Ti ci hanno costretta?”
“Si… Dopo la morte di mio padre e la nascita dei tre figli di mia sorella ero ormai un peso per la famiglia, avrei dovuto trovare un modo per non gravare su di loro.”
Lui rimase in silenzio, poi cambiò discorso.
“Tra un paio di settimane o forse meno arriveremo al nido dei partigiani più consistente in questo posto; stasera ne abbiamo catturato un paio che sembrano i capi. Ci vorranno giorni prima che qualcuno dica qualcosa, ma anche se non parlano ci siamo vicini…”
Si fermò, pensando forse che gli dicessi qualcosa, invece stetti in silenzio.
“Tra un po’ re inizieranno anche i bombardamenti sulla città. La sirena si sente poco, perché è quella che suona in città e non è molto potente; mi raccomando, devi essere sempre attenta, soprattutto di notte. Quando la senti scappa subito nel bosco, e trovati un buon riparo, ce ne sono abbastanza. I bombardieri colpiscono di più la città che la boscaglia. E poi torna qua, subito.”
Gli feci un cenno col capo per fargli intendere che avevo capito; al pensiero di altri bombardamenti un senso di nausea mi pervase lo stomaco. Ormai mi ci ero quasi abituata, ma sarei stata molto più tranquilla se ci fosse stato un bunker anche in quel posto. Il ricordo della bomba che mi scoppiò vicino era ancora vivo nella mia mente, ma soprattutto nel mio corpo.
Alzai lo sguardo, e lo vidi lì a guardarmi; lui era l’unica cosa che mi faceva sentire ancora viva, l’unica cosa che in un modo o nell’altro impediva anche me di impazzire.
Si stava creando un legame forte che mai si sarebbe potuto creare con qualsiasi altra persona: le situazioni, il periodo, il nostro passato. Sono cose che ti segnano, e a noi stavano segnando quasi nello stesso momento, cambiando per sempre le nostre vite.
Nel momento più buio della mia è entrato lui; nel momento più buio della sua, sono arrivata io. Qualcosa ci legava, qualcosa che non mi avrebbe mai legata a nessun’altro, e che nessun’altro avrebbe mai potuto capire.
“Stai ancora pensando a prima? Non succederà più, almeno non con te. Avanti è ora di dormire.”
“No, non stavo pensando a quello… Buonanotte Friedrich.”
Spense con un soffio la candela, e il buio calò nella stanza.

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Dopo un po’ che Friedrich aveva spento la candela, lo sentii alzarsi e andare al bagno; forse pensava stessi dormendo, ma non chiusi occhio quella notte.
Una decina di minuti dopo ritornò a letto; io passai tutto il tempo ad ascoltare il suo respiro al buio.
La cosa che mi stupì di più era che non avevo paura né disagio nello stare così vicino a lui; anzi lo volevo.
Mi ero abituata alla sua presenza in camera già a Genova, ed ora che dormivamo assieme mi sentivo più protetta che mai; la sua imponente figura si stagliava nella penombra della camera, e mi piaceva sentirlo accanto.
Ora che ero “libera” non c’era nessuno che mi poteva rimproverare per il mio comportamento poco signorile; stava entrando piano piano nella mia vita un uomo che, nonostante i rifiuti della mia testa, mi faceva battere forte il cuore.
Mi addormentai alle prime luci del mattino, prima che lui si alzasse.
Quel giorno rimasi a casa da sola: non venne nessuno a prendermi.
Verso il tardo pomeriggio mi sedetti su una delle piccole poltroncine nel salotto, e iniziai di nuovo a parlare da sola.
“Avete visto, ora siamo arrivati a Cuneo. Prima di arrivare in città, un bombardamento ci ha sorpresi per strada, e per un soffio non sono stata presa da una bomba.
Grazie alle indicazioni di Friedrich, mi sono riparata in una grotta… ma la mattina dopo l’ho fatto. Per la prima volta ho provato ad uccidermi. È stata una cosa inconsapevole all’inizio, poi piano piano mi faceva passare la paura ed il dolore. Sono stata una vigliacca a farlo, ma voi non sapete cosa ho provato, cosa sto ancora passando.
Come riesco a realizzare che voi non ci siete davvero più, che questo non è altro che un brutto sogno?
Chi ha sofferto o sta soffrendo di più, voi che siete morti o io che sono ancora viva?
Ora devo badare a me stessa, completamente.
E poi è arrivato lui; Friedrich non è come gli altri, mi dovete credere. Mi ha salvata e protetta un sacco di volte, soprattutto quella mattina nel ruscello; sarei morta se non fosse arrivato.
Non sapete come mi sento bene quando è assieme a me, mi pare di essere di nuovo a casa con voi.
Sarò pazza, ma a me basta questo: avere finalmente qualcuno a cui possa voler bene di nuovo, dopo tutto questo tempo.
Una bomba può cadermi addosso da un giorno all’altro, qualcuno può spararmi a sorpresa senza neanche che me ne accorga; cosa mi rimarrà dopo? Cosa avrò fatto per dire che sono morta senza rimpianti?
Lo sapete che il più grande rimpianto della mia vita è non essere morta con voi, e non aver fatto nulla per proteggervi. Ma sono ancora viva, sono ancora qui; le vie del Signore sono infinite, e sono sicura che un motivo c’è se non sono ancora morta.
Vi prego non giudicatemi se mi sto affezionando a lui, provate solo a mettervi nei miei panni: è l’unica cosa che mi fa sentire bene in questo inferno giornaliero.
Sta soffrendo anche lui, ed io sento il bisogno di stargli vicino, di farlo sentire meglio.
Quando ho visto il suo sorriso per la prima volta ieri sera, ho sentito come migliaia di farfalle svolazzare nella mia pancia. Era bellissimo… non ho mai visto un ragazzo così.
Ha bisogno di sentirsi a casa anche lui, di avere qualcuno con cui parlare,con cui sfogarsi: non ha altra scelta che tenersi tutto dentro.
Ed io non voglio più vederlo violento come ieri sera; farò di tutto perché stia bene, questa è l’unica cosa che placa la vostra perdita.
Perché se dovessi morire domani saprò che oggi ho fatto di tutto per salvare una persona.”

Friedrich rientrò a casa a sera tarda, e io gli scaldai subito la zuppa; non era rimasto molto nella dispensa, le scorte di cibo iniziavano a scarseggiare.
Venne in cucina sempre silenzioso come al solito, e mentre stava mangiando decisi di fargli qualche domanda.
“Non avevate bisogno di me oggi?” chiesi.
Lui rimase in silenzio per un po’, poi disse di no.
“È successo qualcosa di importante?” chiesi ancora.
Lui sospirò, poi iniziò finalmente a parlare.
“Sono più organizzati di quanto pensassimo. Si nascondono tra le montagne, e una soffiata è arrivata negli uffici stamattina: dicono che a Demont siano rimasti reparti regolari dell’esercito, disponibili alla ribellione.”
Si fermò finendo la zuppa, poi si pulì la bocca con un tovagliolo di lino vecchio che avevo trovato in un cassetto della cucina.
“Quindi? Vi sposterete a Demont?”
“No. Manderò alcuni dei soldati per far consegnare i ribelli.”
Detto questo si alzò, ma prima di andare verso la camera si fermò sulla porta, girandosi verso di me.
“Noi domani andremo da un’altra parte. I soldati hanno trovato una casa nella strada da qui a Demont in cui i ribelli si riuniscono. Verrai con noi.”

Il giorno dopo una macchina nera si fermò davanti alla casa; era primo pomeriggio, e uno stuolo di soldati nei Panzer la seguivano.
Io mi sedetti di dietro, come al solito, mentre accanto a me c’erano due soldati con due fucili lunghi più di un metro.
Friedrich era seduto davanti, assieme al solito che guidava.
Dopo mezz’ora si fermarono in mezzo al bosco, facendoci scendere; i Panzer si fermarono molto più avanti, e noi dovemmo raggiungerli a piedi.
Il guidatore era in testa, mentre Friedrich era nel mezzo; io ero poco più dietro di lui, e alla fine i due soldati coi fucili chiudevano il gruppo, attenti ad osservare ogni mossa.
Tra le fronde degli alberi iniziò a disegnarsi il profilo di una casa in legno; era su di un piano, e quattro soldati la presidiavano da fuori.
Quando entrai seguendo Friedrich, ci trovammo in una grande stanza: era vuota, all’infuori di un tavolo rettangolare nel mezzo; un piccolo camino spento, una volta, doveva aver scaldato quella casetta in mezzo al bosco.
Appoggiati ad una parete, due soldati tenevano due uomini sulla cinquantina, sporchi, con i vestiti rotti; anche loro avevano le mani legate dietro alla schiena.
Friedrich iniziò subito a fare le solite domande, e io mi accostai a lui, traducendole in italiano; anche loro come gli altri non risposero.
La cosa che mi colpì di più fu il ghigno dei partigiani sui loro volti; qualcosa non stava andando per il verso giusto, lo captai nell’aria.
I soldati iniziarono a picchiare come era ormai abitudine i due uomini ed io, come sempre, girai la testa dall’altra parte per non guardare, respirando piano in modo da non agitarmi.
Mi stavo orrendamente abituando ai pestaggi, come ai bombardamenti e agli attacchi aerei.
L’interrogatorio continuò per una mezz’ora fino a quando, improvvisamente, si sentirono dei colpi di arma da fuoco provenire dal bosco; i due partigiani presenti in stanza iniziarono a divincolarsi sempre più ferocemente, e uno riuscì a scappare. Non so che fine abbia fatto, non ho voluto accertarmi se fosse morto o no.
Qualcuno urlava “A morte i tedeschi!”, altre urla erano proprio in tedesco.
L’altro uomo presente davanti a me ricevette un colpo di pistola in petto, davanti ai miei occhi, e si accasciò all’istante; intanto al di fuori si continuavano a sentire colpi: la situazione stava peggiorando.
Io ero immobile, la bile in gola che premeva per uscire, e il cuore pronto a balzarmi fuori dal petto.
Avevo capito cosa stava succedendo: era un’imboscata.
Il comandante e l’altro soldato uscirono piano dalla stanza, ma proprio mentre li stavo seguendo per non rimanere sola con il cadavere, Friedrich mi fermò, sussurrandomi di restare nella stanza.
Col cuore in gola ritornai indietro, e decisi di nascondermi dietro alla porta di legno; rimasi così più o meno per venti minuti, poi gli spari cessarono. Per tutto il tempo rimasi con gli occhi chiusi, recitando tutte le preghiere che conoscevo. Le gambe mi tremavano, ma non potevo permettermi di sedermi, avrebbero scoperto il mio nascondiglio; le mani erano appoggiate sul petto, cercando di calmare l’angoscia che mi stava prendendo.
Dopo quei minuti non si sentì più niente, e subito il mio pensiero corse al comandante: era stato ferito, ucciso? Sarebbe tornato a riprendermi?
Non avevo il coraggio di uscire, lo sapevo che i partigiani non mi avrebbero risparmiata se mi avessero vista.
Dopo dieci minuti, sentii dei passi entrare nella casa e avvicinarsi alla stanza; trattenni il fiato, sperando che fosse Friedrich.
Qualcuno effettivamente entrò, ma non ebbi il coraggio di guardare subito; mi affacciai dopo un paio di minuti, e lo vidi di spalle dall’altro lato della stanza, come se stesse cercando qualcosa.
Proprio quando stavo per uscire andandogli incontro, il rumore di altri passi mi bloccò e la voce mi morì in gola: lui non li aveva sentiti, perché non lo vidi girarsi.
Un uomo alto e grosso quasi quanto Friedrich entrò piano nella stanza, e quando vide il comandante alzò una pistola, prendendo la mira sulla sua schiena.
Fu tutto così veloce che non ricordo bene quegli istanti: mentre stava per premere il grilletto, tirai fuori la pistola e gli sparai un colpo alla sua di schiena, di bruciapelo.
Friedrich si girò subito, con un’espressione di sorpresa sul suo volto; io ero immobile, scioccata da quello che avevo appena fatto.
L’uomo si era accasciato a terra senza neanche fare un verso, e il sangue continuava ad allargarsi sulla sua maglia.
Le mani mi iniziarono a tremare così forte che la pistola cadde per terra; sentii un cerchio alla testa e un fischio sordo nelle orecchie. Mi si annebbiò la vista, e scivolai a terra.
Sentii solo Friedrich prendermi di peso e portarmi via, poi non ricordo più niente.

Ripresi coscienza di me quando mi riportò alla casa dove stavamo; mi stese sul letto e mi chiese come mi sentissi.
Io ero di nuovo vuota, come le prime volte che assistei ai bombardamenti; si sbagliano le persone nel dire che la paura o l’odio sia la cosa più brutta che una persona possa sentire.
L’essere vuoti, senza emozioni, è la cosa più orrenda che possa capitare ad una persona.
Gli occhi erano spalancati a guardare il soffitto, e rivedevo quella macchia di sangue dappertutto.
All’improvviso mi alzai e corsi verso il bagno, presa da sforzi: non riuscii a vomitare solo perché avevo mangiato del pane secco quel giorno.
Mi accasciai a terra e iniziai a piangere sommessamente; dopo poco sentii di nuovo la sua presenza vicino a me, ma non mi girai a guardarlo.
Solo quando mi fui un po’ calmata, sussurrai: “Ho ucciso un uomo
Lo sentii prendere un grosso respiro.
“Avrebbe ucciso prima me e poi te se avessi esitato.” Disse lui.
Ho ucciso un uomo Friedrich. Qualcuno da qualche parte sta piangendo un uomo che io ho ucciso
Lui mi accarezzava la schiena dolcemente, probabilmente per farmi sentire meno sola.
“Perché l’hai fatto se non te la sentivi?”
“Perché voleva uccidere te.” Dissi io.
“Non è il primo che ci prova.”
Alzai il viso e lo guardai dritto negli occhi.
“Non voglio più perdere le persone a cui tengo! Chi l’ha detto che i partigiani sono i buoni? Anche loro uccidono! Uccidono delle persone! Non avrei sopportato di rimanere da sola ancora… ma quello che ho fatto… è stato troppo…”
“Ti sei difesa.”
“Cosa ne sai che mi avrebbe ucciso? Magari avrebbe visto una giovane ragazza italiana e mi avrebbe lasciata andare!”
DIO QUANTO SEI INGENUA! Davvero pensi che avrebbero fatto uscire vivo qualcuno dove due minuti prima c’eravamo noi?” la sua voce si alzò di tono, azzittendomi un attimo.
Riabbassai di nuovo la testa, riprendendo a singhiozzare.
La sua voce si fece ancora più dura:
“Cosa ne sai se era innocente? Cosa ne sai se non ha torturato o ucciso qualcuno dei miei compagni?”
Riflettei un attimo: avrebbe ucciso lui sicuramente, qualche ora prima.
“Non lo so… so solo che mi dispiace per quell’uomo, per la sua famiglia… sono un’assassina…”
Basta.” Disse lui, in tono risoluto.
“Ma hai capito che io non sono così? Io…”
All’improvviso mi fermai con un pensiero che spinse più degli altri: avrebbe potuto andarsene anche lui, per sempre.
Mi girai a guardarlo, e i nostri occhi si incrociarono per un lungo istante; poi, spinta da chissà quale forza, gli misi le braccia al collo e lo baciai. Avrebbe potuto essere l’ultimo giorno per uno di noi due o entrambi, e non avrei aspettato ancora altro tempo: non mi interessava più di niente, del giusto o dello sbagliato. Chi erano gli altri per dire cos’era giusto da fare e cosa no in quell’occasione? Avrei potuto essere io al posto di quell’uomo.
Lui intanto ricambiava il mio bacio stringendomi forte; lo sentivo che lo voleva anche lui, finalmente ci stavamo lasciando andare. Piano piano Friedrich iniziò a stendersi sopra di me, facendomi poggiare sul pavimento freddo; a quel tocco mi ritornò in mente la macchia di sangue sulla maglia.
“No aspetta…” gli dicevo spostandomi dalla sua bocca per riuscire a parlare. Avevo una tale confusione nella mente e nel cuore, che non riuscivo a capire cosa dovevo fare. Avrei dovuto punirmi per quello che avevo fatto? O amare l’uomo che avevo salvato?
“No… abbiamo aspettato troppo…”
La sua voce era roca, strozzata, e mi percorse il corpo di brividi.
Mi ero fermata, bloccata dalle troppe emozioni dentro di me.
Lui mi parlò ancora, stavolta guardandomi negli occhi.
“Questo è l’unico modo che ho per non fartici pensare. Non avere paura di me… tu hai salvato la mia vita”
Mi prese di peso e mi riportò in stanza. Io gli chiedevo di fermarsi un attimo, ma lui mi continuava a ripetere di non avere paura; si mise sopra di me e mi sbottonò piano il vestito.
“No, per favore… non è il momento…” gli dissi.
“Non ci devi pensare Maria. Non gli hai sparato per odio o violenza, gli hai sparato per salvarmi.”
Continuava a toccarmi, e a mano a mano quel vuoto in me iniziava a essere colmato dai suoi baci, dalle sue carezze; il precipitare degli eventi mi aveva resa più consapevole, in modo che non avessi tempo di provare vergogna quando lui mi spogliò.
L’avevo salvato, e ora lui era là grazie a me: penso che quello che facemmo quella sera fosse il suo modo per ringraziarmi. Fino a quel momento non si era mai sbagliato nelle cose che mi aveva detto, quindi stavolta decisi di seguirlo, spinta da quel dolore che mi mordeva il cuore.
Gli misi le mani attorno alle spalle e lui entrò piano in me, mentre con le mani mi teneva fermo il bacino.
Iniziò poi a muoversi piano, all’inizio facendomi male, ma poi regalandomi un piacere che non ebbi mai provato prima d’allora.
Ogni volta che gli chiesi di andare più lentamente perché provavo dolore, lui si fermava un paio di secondi, baciandomi con passione il collo ed il petto; lo faceva solo perché glielo chiedevo, era troppo preso per fermarsi a fare qualsiasi altra cosa.
Alla fine sentii il suo respiro farsi sempre più veloce, come i suoi movimenti; chiusi gli occhi e iniziai a provare una sensazione bellissima, una cosa indescrivibile.
Mi sentivo bollente in tutto il corpo, e il mio respiro si fece veloce come il suo; quando lui diede le ultime spinte io gemetti aprendo gli occhi, e incontrando i suoi che mi guardavano, che mi guidavano come due fari nel buio.
Si stese piano su di me, ma senza pesarmi addosso; mi abbracciò ancora, e ci scambiammo un tenero bacio.
Uscì da me e andò in bagno senza dire niente; dopo un paio di minuti nei quali mi calmai, mi alzai sentendo qualcosa di caldo uscire dalle mie gambe.
“È normale quando si fa l’amore, non preoccuparti”
Era sulla porta che mi guardava; si avvicinò quando vide che mi risiedevo sul letto, e si distese vicino a me.
Cosa mi hai fatto?” sussurrai nella penombra della stanza.
Lui non rispose, ma mi prese tra le sue braccia stringendomi al suo petto.
Aveva ragione: in quei momenti non avevo pensato a tutto quello che era successo qualche ora prima. Ma poi i pensieri ritornarono.
“Ci sto ripensando ancora Friedrich” dissi, appoggiata al suo petto.
Lui intanto mi accarezzava i capelli.
“Hai fatto quello che ti sentivi di fare. Se al posto mio ci fosse stato qualcuno della tua famiglia avresti fatto lo stesso. Non puoi colpevolizzarti per sempre; è la guerra, se non era lui eri tu.”
Doveva essersi detto quelle cose molte volte, perché usava quelle parole come se fossero ovvie.
Avrei potuto punirmi, o avrei potuto amare la persona che mi era accanto. Da quando avevamo finito, il mio corpo non aveva fatto altro che urlare il suo nome.
Lo volevo ancora, volevo sentirlo in me, essere legata con lui all’infinito.
“Vorrei farlo ancora, per sempre, se servisse a non pensarci più.”
Lui si girò a guardarmi, e ancora prima che riuscissi a metterlo a fuoco, la sua bocca scendeva già sul mio collo.

Facemmo l’amore tutta la notte; la mattina dopo lo sentii alzarsi un po’ più tardi del solito. Mentre si vestiva lo guardai in viso: aveva due ombre scure sotto gli occhi, che gli davano un’aria ancora più stanca del solito.
Forse si accorse che lo osservavo, perché alzò lo sguardo anche lui.
“Sei sveglia” disse, e non era una domanda.
Io non risposi, non dissi niente; non sorrisi, non feci nulla. Ero semplicemente persa negli occhi di quell’uomo che per la prima volta mi aveva fatto provare cosa volesse dire amare.
Tutte quelle volte che in chiesa il parroco aveva detto che l’Amore è la cosa più importante, ma soprattutto più forte di tutte… a quel tempo lo attribuivo all’amore per la mia famiglia. Non immaginavo nemmeno che un uomo, un perfetto sconosciuto venuto da chissà dove, potesse farmi provare queste emozioni.
“Devo andare…”
Era fermo sul ciglio della porta, come se fosse insicuro di cosa fare; si stava lisciando la camicia verde che portava sotto la giacca e continuava a guardarmi.
Prima che lui uscisse mi alzai e senza riflettere, lo abbracciai. Lo strinsi così forte, le mie braccia attorno la sua grande schiena.
Poi alzai il viso e contemporaneamente ci avvicinammo per baciarci. Non servivano parole… era come se tutto fosse sottointeso.
Si staccò lui per primo, ripetendomi che doveva andare. Mi girai a prendergli la giacca luccicante di medaglie che appoggiava sempre sulla sedia, e lo aiutai ad indossarla; infine lo accarezzai sul viso, dicendogli che l'avrei aspettato. A quelle parole apparve di nuovo quel sorriso che mi ipnotizzava, sul suo viso: era più sereno, eravamo più sereni, e si notava nel comportamento di tutti e due.
Era come se qualcosa se ne fosse finalmente andato, lasciandoci liberi di essere noi stessi.

Di quel periodo con lui, non ricordo altro che il suo respiro caldo sulla mia pelle; tutto il resto non è altro che un vago grigiore.
Non mi fece più uscire di casa da quel giorno in cui uccisi il partigiano. Io non gli chiesi nulla, e lui altrettanto non mi disse niente.
Non facevo altro che aspettarlo, in attesa che arrivasse la sera per fare l’amore con lui; era come un’ossessione, qualcosa a cui non riuscivamo a fare a meno.
Una settimana dopo la nostra prima volta, a notte inoltrata, eravamo abbracciati sul grande letto della stanza; lui aveva appoggiato la testa sul mio petto, ed io gli accarezzavo i capelli.
Mi sentivo così in pace con me stessa come mai mi era capitato nella vita.
“Maria… come faceva quella canzone…?” disse lui ad un certo punto.
Dopo aver scoperto a che canzone si riferiva, gliela cantai, ma lui mi fermò a metà.
“Ecco” disse, “era questo il punto. Ora so cosa vuol dire. Appoggiato al tuo cuore davvero non soffro più.”
Continuai a percorrere la sua calda pelle, su e giù, quando all’improvviso si puntellò sui gomiti, guardandomi.
“Questa è l’ultima sera Maria. Domattina all’alba ti porterò alla stazione del treno qua vicino. L’hanno bombardata ed è inagibile, ma tu ti nasconderai lì dentro finché non avrò portato via la mia squadra.”
Sentii come un pugno allo stomaco: mi stava dicendo avremo dovuto separarci.
“Non posso venire con te ancora?” chiesi.
“No, non saresti mai dovuta arrivare fino a qua, in ogni caso. Lasceremo le macchine a Cuneo, ci muoveremo solo nei carri armati.”
“Non te ne andare Friedrich… ora che ci siamo trovati… non mi lasciare da sola anche tu…”
La voce mi morì in gola, così fui costretta a fermarmi.
“Lo sapevamo entrambi che non potevi seguirci all’infinito”
Mi alzai a sedere, e incrociai i suoi occhi nella penombra.
“Ma come fai a essere così? Tutto questo… cosa è significato per te? Niente?”
“È solo la verità. È così bello fare l’amore con te, lo sai, te l’ho detto un sacco di volte. Ma non puoi venire; quando gli altri si ricorderanno di te saremo già lontani da Cuneo. Dirò che sei scappata.
Tu sai troppe cose che non dovresti, ti dovrei uccidere invece di lasciarti andare.”
Fece una pausa, nella quale cercò di prendermi il viso ma io mi scostai.
“Come fai a essere così freddo?” gli dissi in tono disgustato.
Lui mi guardò con aria dura.
“Tu non sai cosa ho fatto prima di arrivare qua. Ho sparato in mezzo agli occhi a madri di famiglia e a bambini innocenti, perché il mio comandante me l’aveva ordinato. Pensi che sia stato semplice per me? Tu non hai subito niente di tutto quello, e non rimproverarmi di essere freddo se cerco di non farmi coinvolgere nelle situazioni. “
“Questo significa che quello che mi fai provare è tutto un’illusione? Che è solo per alleviare il tuo senso di colpa?”
“Quello che provi è vero. Non l’ho fatto per alleviare il mio senso di colpa… l’ho fatto perché lo sentivo, e l’hai sentito anche tu. Se penso che forse potrei non rivederti mai più davvero potrei toccare il fondo. Infatti non lo farò mai. Domani potremo morire… ma stasera sei qua con me… non piangere, Maria. Amami ancora.”
L’unico ricordo che ho dopo quella conversazione sono i nostri corpi intrecciati, e le mie lacrime che si asciugavano sulla sua pelle.

Nessuno dei due dormì quella notte, e alle prime luci dell’alba ci vestimmo, pronti a uscire. Il silenzio era calato fra noi, non c’era bisogno di parlare. Uscimmo all’aria pungente del mattino; camminavamo vicino, una sua mano sulla mia spalla a guidarmi.
Iniziò lui a parlare, verso metà strada.
“Ti ho portato una cartina della città. Mi raccomando stai a Cuneo, non uscire nella campagna per nessun motivo. Ti ho messo anche qualche tozzo di pane… mi dispiace ma non è rimasto molto nella cucina.”
Dopo un quarto d’ora arrivammo alla stazione; i binari erano saltati probabilmente a causa di qualche bombardamento, e la costruzione intorno aveva un orrendo buco nel mezzo.
Friedrich mi accompagnò dalla parte opposta dove, in un tempo non molto lontano, lavorava il bigliettaio.
Aprì la porta e mi spinse piano dentro.
Io avevo un groppo in gola, e prima che lui si girasse per andarsene gli saltai al collo. Lo strinsi più forte che potei, affondai il viso tra i suoi capelli, avendo paura di dimenticarlo per sempre.
Lui mi strinse a sua volta e mi tirò su, facendomi staccare i piedi da terra. Ci baciammo ancora, ma alla fine mi lasciò. Io mi sedetti a terra, e lui si accucciò davanti a me.
Gli accarezzavo le guancie, guardando ogni millimetro della sua pelle.
“Sii forte Maria. Promettimi che farai di tutto per sopravvivere.”
I suoi occhi si fecero velati, e io non riuscii più a trattenermi, scoppiando in lacrime. Annuii, sorridendo di una strana felicità: non voleva lasciarmi neanche lui, stava provando quello che provavo io.
“Dimmi che i miei sforzi sono riusciti a farti stare meglio in questi mesi.”
I nostri occhi non si lasciavano un attimo.
“Si si… non puoi neanche capire quanto. Non ti dimenticherò mai Friedrich te lo giuro, non lo farò mai”
Lui si alzò piano e girò le spalle, andandosene.
Uscii a gattoni dalla porta, e lo vidi asciugarsi gli occhi mentre se ne andava.
L’unica persona speciale nella mia vita ha dovuto lasciarmi prima ancora che potessi capire come riuscire ad amarlo.

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Rimasi in quella stanza tutta la mattina, con in mente la grande figura di Friedrich che mi dava le spalle, andandosene.
Eccomi, di nuovo da sola, di nuovo spaesata. Ma in quel momento mi sentii diversa.
Lui mi aveva incoraggiata ad essere diversa; in più, finalmente, un peso mi si era tolto dalla coscienza: ero di nuovo libera.
Mangiai i due pezzi di pane che mi aveva avvolto in un fazzoletto, e poi lo annusai: aveva il suo odore.
Misi il fazzoletto nella tasca interna del vestito, dove una settimana prima tenevo la pistola.
Aprii la cartina e diedi uno sguardo alla città; sapevo già dove sarei andata.
Mi alzai e mi incamminai verso il centro, col cuore pesante di solitudine; attorno a me, macerie e cadaveri accatastati su carri ai lati delle strade, mi mostrarono cosa erano diventati gli uomini.
La gente cercava di riprendere il normale corso della vita, ma si notava che c’era qualcosa che non andava; l’odore dei corpi nelle strade era nauseante, e dovetti mettermi una mano sulla bocca per non vomitare.
Circa mezz’ora più tardi, arrivai davanti alla chiesa di San Giovanni; era così che si chiamava.
Nonostante la morte che camminava in mezzo ai cuneesi, era una giornata di sole splendente; alzai lo sguardo per guardare le alte cupole gotiche di quella chiesa, e ricordo gli occhi velarsi di lacrime. Non saprei se fosse stato per la luce accecante del sole o per quello che avrei dovuto affrontare da quel momento in poi.
Salii gli scalini e appena entrai fui investita dal solito odore delle chiese; dentro non c’era nessuno. Era molto grande, ci sarebbero potuti stare tutti gli abitanti del mio paese.
Mi inginocchiai, facendomi il segno della croce, e mi andai a sedere su una delle ultime panche di legno della navata centrale.
Meritavo davvero di rientrare in chiesa dopo quello che avevo fatto? Meritavo il perdono dopo aver ucciso un uomo?
Rimasi a pregare per non so quante ore. Alcune persone entravano ed uscivano, ma io sembravo dentro una bolla: niente attaccava il mio interesse, se non il pensiero continuo del partigiano e di Friedrich.
Mi addormentai su quella panca, finché qualcuno non mi venne a svegliare.
“Signorina, sta bene?”
Una voce di uomo, pacata e gentile, mi costrinse ad aprire gli occhi; dopo un attimo di smarrimento, ricordai cos’era successo.
“Si… mi scusi mi sono addormentata...” Dissi io.
Mi rimisi seduta di colpo, e aspettai che i giramenti di testa finissero.
“Ha bisogno di aiuto?” chiese lui ancora, guardandomi in modo preoccupato il viso; doveva essere il prete.
Feci segno di si, e lui gentilmente si sedette di fianco a me.
“Cosa le è successo?”
Una morsa gelida allo stomaco mi immobilizzò: non mi ero preparata nessuna scusa, niente che potesse essere credibile.
“Ne parli con me, si sfoghi. Non le fa bene tenere tutto dentro.”
Il prete continuava ad insistere.
“No… non ci riesco ora, mi scusi.”
Non ero stupida: se avessi raccontato dei tedeschi mi avrebbe sbattuta fuori, nonostante fossimo nella casa del Signore.
“Mi dispiace signorina. Qual è il suo nome?”
Io glielo dissi.
“Ah Maria, come la madre di Gesù. Io sono Don Luigi. Venga, c’è sempre posto per i bisognosi nella nostra chiesa.”
Mi portò nella sua casa, che in quel momento era stata adibita ai feriti, agli orfani e alle vedove.
C’era una tale confusione da farmi sentire subito a disagio: erano mesi in cui non facevo altro che passare le giornate da sola, o al massimo con Friedrich.
Al suo pensiero sentii di nuovo una fitta allo stomaco, e strinsi il fazzoletto che avevo messo nella tasca.
Si presentarono un paio di donne sulla quarantina, di cui non mi sono mai ricordata il nome; ostinavano a dirmi di dargli del tu ma, per vergogna di non chiamarle col loro giusto nome, continuavo a chiamarle signore.
In quel periodo riempii il tempo prendendomi cura dei bambini rimasti orfani; mi spezzava il cuore vederli crescere senza famiglia.
Erano di tutte le età: dai neonati lasciati sulle scale della chiesa, fino ai bambini di dieci anni.
Dagl'undici anni si ritenevano già grandi, e uscivano nonostante gli ordini di rimanere in casa dopo una certa ora; alcuni venivano uccisi da bombe inesplose, altri in svariate altre maniere, ma succedeva così spesso che ormai sembrava all’ordine del giorno.
 
Una settimana giusta dopo che Friedrich mi aveva liberata, alcune voci arrivarono fino ai banchi della chiesa: i nazisti avevano messo a ferro e fuoco il paesino di Demont.
Il mio cuore prese a battere più forte ricordando quel nome pronunciato da Friedrich, e istintivamente mi avvicinai per sentire la conversazione.
“Mio fratello era presente, vi posso dire esattamente come sono andate le cose… quei bastardi”
A parlare era un uomo sulla cinquantina, e da quello che avevo capito era proprio di Demont; doveva essere successo qualcosa la settimana in cui Friedrich non mi aveva fatta uscire, perché quest’uomo si era trasferito a Cuneo, assieme alla famiglia.
“I tedeschi hanno deciso di impartire una lezione ai ribelli. O almeno questo è quello che il loro capo ha detto. I giovani di ritorno dalla guerra si sono uniti e sono andati tutti insieme sulle montagne vicino, per contrastare l’occupazione… i tedeschi devono averli in qualche modo scoperti.
Una settimana fa arrivarono due carri armati pieni di soldati, e spararono sulle frazioni prima del nostro paese. Sono arrivati poi nella piazza e hanno intimato di consegnargli i ribelli. I nostri capi hanno saggiamente detto ‘meglio morire qui che darci prigionieri’. Coraggiosi i nostri ragazzi.”
Fece una pausa ad effetto, e intanto riprese fiato.
“A metà della settimana scorsa, due soldati tedeschi sono arrivati a Demont con una macchina, e i ragazzi li hanno catturati e portati sulle montagne.
Poi alcuni giorni fa sono passati sopra Demont degli aerei tedeschi che hanno lanciato manifesti invitanti alla resa. Siamo scappati tutti, in città erano rimasti solo cinquecento uomini, forse di meno.
Quel bastardo del loro comandante è poi arrivato in paese, e aveva promesso di risparmiarlo se avessimo restituito i soldati; il parroco e Antonio andarono a prenderli.
Dopo che i tedeschi scesero dalle macchine, si videro le prime nuvole di fumo; alcuni hanno sentito raffiche di mitra. Sparavano su tutti. Alla fine il loro comandante fece salire il parroco sulla loro macchina, e gli fece ammirare il paese distrutto, in fiamme. Dovrebbero morire tutti, quei bastardi.”
Rimasi senza fiato. L’avevo capito subito che il colpevole di tutto quello che era successo era Friedrich, me l’aveva detto.
Aveva deciso di dare una lezione ai partigiani dopo quello che era successo nella casa in mezzo al bosco; avevano cercato di fargli un’imboscata, e per poco non è rimasto ucciso.
Forse mi lasciò per questo: io non avrei dovuto sapere quello che voleva fare. Non l’avrei più guardato con gli stessi occhi, perché io stessa avrei dovuto assistere a quell’inferno; fino a quel momento i suoi erano stati solo racconti. Cose che la mia mente non aveva mai calcolato come se fossero potuti accadere veramente.
Ma quello fu diverso. Aveva ragione, nonostante tutto lui continuava a fare il suo lavoro nel bene e nel male.
Forse ci era riuscito: forse con me era stato davvero diverso da quello che doveva dimostrare nella realtà.
Sembrava maledetto: voleva smetterla, ma non poteva. Ma davvero non poteva?
Con questo dubbio mi allontanai dal gruppo, il cuore all’improvviso più pesante.
Avevo amato un assassino. Un uomo senza scrupoli nell’uccidere persone innocenti.
Perché non era successo anche a me? Perché con me era stato diverso?
Domande a cui, ancora oggi, non trovo una risposta.
Arrivai al piccolo bagno della casa di Don Luigi e mi lavai le mani; alzai lo sguardo e guardandomi vidi una ragazza diversa. Vidi quasi una donna. O un’altra assassina.
Non mi sono mai perdonata il colpo mortale inferto a quell’uomo; ma qualcosa placa la mia angoscia, qualcosa che si chiama amore. L’ho fatto per amore, per salvare l’unica persona che ha avuto la parte più profonda di me, che mi ha avuta completamente.
Una persona totalmente sbagliata, fredda, calcolatrice. Perché lui in realtà è così. Solo quando facevamo l’amore si scioglieva, mostrandomi quel lato che cercava di reprimere con la freddezza e la distanza.
Ma ormai lui era già lontano; sarà stato in Francia, a guida delle sue disciplinate truppe. E poi alla fine della guerra sarebbe tornato da sua moglie e dai suoi figli, imparando a conoscerli e ad amarli.
E a me cosa sarebbe rimasto? L’illusione di un qualcosa che forse avevo solo immaginato.
O forse no… i suoi occhi velati prima di andarsene non potevano mentire; a lui dispiaceva lasciarmi.
Era giusto che amassi un uomo come lui? Era giusto che un assassino a sangue freddo avesse qualcuno che lo amasse?
Forse… ma non sono certo io quella che può permettersi di giudicare queste cose. Perché alla fine anch’io sono stata un’assassina a sangue freddo. Nonostante le parecchie differenze tra di noi, eravamo più simili di quanto io non voglia immaginare.
 
Passarono circa due mesi, nei quali rimasi nella chiesa di Don Luigi a dare una mano alle persone bisognose, un numero spropositato in quel periodo.
Si vociferava che gli americani erano sempre più vicini nel liberare l’Italia dall’occupazione tedesca, e qualcuno diceva che il Duce stava cercando di scappare.
Si perdevano ore nel raccontare episodi che forse non erano neanche mai successi; però, pur di non pensare alla miseria e alla morte, la gente si interessava a tutto.
Fu proprio in quei due mesi che la mia vita ebbe un’altra svolta: continuavo a sentirmi stanca, qualche volta febbricitante senza avere la febbre, e scoppiavo a piangere all’improvviso.
Molte delle donne mi dissero che forse avevo preso qualche malattia nuova derivante da quel periodo di carestia, ma arrivata al terzo mese capii: ero incinta.
La forma inconfondibile della pancia l’avevo vista solo un’altra volta in vita mia, da mia sorella Elena.
Mi ci volle un po’ di tempo per accettarlo; avrei dovuto crescere un bambino da sola, senza un padre. Senza una famiglia ad aiutarmi. Come avrei fatto a non fargli mancare nulla?
Ero divorata dai dubbi, ma una cosa la sapevo: non avrei mai avuto il coraggio di lasciarlo, mi sembrava quasi un dono. Non sapevo come avrei fatto ad andare avanti, ma sapevo che avrei potuto dargli lo stesso amore che io avevo ricevuto dalla mia famiglia.
Mi sentivo amata, e stranamente felice: dentro di me stava crescendo una parte di Friedrich, e stavolta non avrebbe potuto abbandonarmi.
Fu tutto così strano: i miei zii provarono per molto tempo ad avere dei figli, ma non ci riuscirono. In una sola settimana di amore, io e Friedrich eravamo riusciti dove i miei zii avevano tentano per una vita intera.
Fino al quinto mese riuscii a coprire bene la gravidanza, con i larghi vestiti che ero costretta a portare.
I problemi iniziarono a sorgere dal sesto mese in poi: la pancia si era fatta davvero grossa e pesante, e non riuscivo più a nasconderla facilmente.
Così raccontai la verità. Dissi solo che i tedeschi mi avevano imprigionata dopo aver ammazzato la mia famiglia perché collaboravamo con i partigiani, e per un moto di compassione, mi lasciarono libera quella mattina, lontano da casa, sola.
Non dissi mai che amai il comandante che aveva bruciato il paese limitrofo a Cuneo; codardamente dissi che mi avevano stuprata.
Questo non riuscì a calmare quelle vipere che lavoravano in chiesa; e più di tutti la perpetua, una donna bassa e di brutto aspetto, con una buffa camminata ciondolante.
Un giorno, mentre stavo lavando i panni nel piccolo fiume che passa per la città, vennero a prendermi e mi portarono dentro una casa, di peso.
Io cercai di divincolarmi, ma erano in quattro, e in più ero incinta.
Mi fecero sedere a forza e iniziarono a tagliarmi tutti i capelli, rasandomeli a zero.
Mi lasciarono là dentro, guardandomi con disprezzo: dicevano che ero “la puttana dei tedeschi”, una donna senza morale, una donna che non valeva la pena essere chiamata donna.
Era così che facevano: tutte le donne che erano state con un tedesco, o anche solo stuprate e quindi contro la loro volontà, gli venivano tagliati tutti i capelli. Era il segno di distinzione cosicchè, quando camminavano per strada, tutti le avrebbero riconosciute per essere state delle “traditrici”.
Verso sera uscii da quella casa ancora scioccata e tremante, e riandai a prendere i panni al fiume; non volevo tornare alla chiesa, tuttavia non avevo altro posto in cui andare.
Quando arrivai, vidi Don Luigi parlare con alcuni uomini sulle scale, e appena mi vide li fece andare via.
Io mi bloccai in mezzo alla strada, pensando che anche lui ora poteva ripudiarmi; invece aprì le braccia, e fece segno di avvicinarmi.
Un uomo così buono Don Luigi… un prete perfetto.
Non mi giudicò, e allo stesso tempo non mi chiese niente; disse solo che se era stato amore, ero stata fortunata nel trovarlo in quel periodo dove sembrava esserci solo morte.
Dopo un paio di giorni, in cui mi tenne costantemente con sé, mi mandò in un convento di suore appena fuori Cuneo.
Nel convento trovai altre donne, ma erano solo vedove, in età molto avanzata.
Lì partorii il mio bambino: appena nacque ebbi un tuffo al cuore guardandolo.
Nonostante abbia sempre pensato che i bambini appena nati fossero tutti uguali, quel giorno quando lo vidi rimasi di stucco: era uguale a Friedrich.
“È un maschietto” disse Madre Nicoletta, quando lo prese in braccio e lo ripulì dal sangue.
Aveva folti capelli biondo scuro, e due occhietti azzurri, che guardavano il mondo per la prima volta. Le guancie erano già colorate di rosa come quelle di Friedrich. Sembrava una sua copia esatta, e iniziai a piangere, vedendo cosa quell’uomo mi aveva inconsapevolmente regalato.
“Come lo vuoi chiamare?” disse ancora Madre Nicoletta.
Ci pensai molto prima di partorire; nonostante questo non fui mai sicura di nessun nome, non sapendo se fosse stato maschio o femmina.
Ma in quel momento seppi come chiamarlo: Federico.
Federico come il primo bambino di mia sorella, in sua memoria. Ma soprattutto come Friedrich, l’uomo che mi aveva resa madre. L’uomo che nel profondo del mio cuore non dimenticherò mai.

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


Ebbi delle complicanze dopo il parto, persi molto sangue e non feci altro che dormire tutto il giorno per riuscire a riprendermi, con il mio piccolo Federico accanto.
Madre Nicoletta comparve una mattina, dicendomi che bisognava si facesse l’attestato di nascita per il piccolo.
“Il cognome di suo marito?” mi chiese.
Rimasi spiazzata da quella domanda: non ero sposata, e non potevo tantomeno dire il cognome di Friedrich.
“De Felice” dissi, alla fine.
“Questo è il suo cognome, cara”
“Voglio che abbia il mio cognome.” Dissi, sicura.
La suora lasciò la stanza un po’ perplessa, lasciandomi riposare con il mio bambino.
 
Vissi in quel convento per un paio di anni; le suore mi aiutarono con Federico, ed io le aiutavo nei loro compiti quotidiani, lavorando duramente per meritare il cibo e il letto che ci offrivano.
Non ebbi tempo per pensare a nient’altro che a lavorare e passare il tempo con Federico; solo alla domenica, quando era tempo di messa, tutti i vecchi incubi e ricordi si presentavano alla mia mente, facendomi provare vergogna per me stessa.
In quel periodo la guerra finì, e l’Italia divenne una Repubblica; per la prima volta anch’io, come tutte le altre donne, potemmo votare.
Fu allora che iniziai a spedire lettere a Francesco; gli dissi dov’ero, che mi sarebbe piaciuto rincontrarlo. Non gli raccontai ancora nulla di Federico e di Friedrich, gli dissi solo che l’avrei aspettato.
Dopo un anno in cui spedii più di cento lettere, non ottenni ancora risposta.
Iniziai così a scrivere alle suore del convento che frequentavo, e al caro Don Armando, il parroco della nostra chiesa.
Verso la metà del secondo anno, finalmente ottenni una risposta: era una lettera dalle suore del convento in cui mi informavano che, dopo lunghe ricerche, avevano finalmente trovato Francesco.
Era stato ferito durante la guerra, ed ora si stava riprendendo in un ospedale “da campo” che avevano costruito in paese.
Mi dissero che gli avevano riferito tutto quello che avevo raccontato loro, e che il prima possibile mi avrebbe scritto lui.
Fui così contenta quel giorno, che presi il mio ometto e iniziammo a ballare per la stanza, ridendo fino allo sfinimento.
Federico stava crescendo, e a mano a mano che passavano gli anni, assomigliava a Friedrich sempre di più.
Era magrolino, ma piuttosto alto per i bambini della sua età; la pelle era chiara come quella del padre, e i capelli e gli occhi non erano cambiati. L’unica cosa che continua a differenziarlo da Friedrich è la bocca: non è sottile ma un po’ più carnosa, come la mia.
Mi arrivò una lettera di Francesco quello stesso anno, verso primavera: mi disse di scrivergli dove mi trovavo, che sarebbe venuto a prendermi.
Come un lampo tre mesi dopo si presentò alla porta del convento di Cuneo, ed io uscii perché gli uomini non potevano entrare. Tranne il mio bambino ovviamente.
“Mio dio Maria… come sei arrivata fino a qua? È passato così tanto tempo…”
Sembrava davvero colpito nel rivedermi; io ero raggiante, dopo la nascita di Federico mi sentivo cambiata.
“È una storia lunga… come sei cambiato Francè, sei davvero… un uomo ora”
Ci abbracciammo, stringendoci forte e a lungo. Stranamente non piansi, ma lasciai solo che la felicità del nostro incontro prendesse la meglio su di me.
“Avanti, prendi le tue cose che torniamo in paese.” Disse lui, sfregandosi le mani.
“Veramente… devo presentarti qualcuno prima.”
Chiamai Federico, e lui uscì di corsa ridendo, e sbattendo i piedi sulla ghiaia.
“Francesco… lui è Federico.” Mi abbassai, mettendomi al livello del mio bambino, “Fede, amore… lui è tuo zio Francesco”
Vidi dipingersi sul viso di Francesco un’espressione stranita.
“Cosa vuol dire?”
Io mi rialzai, lisciandomi la gonna.
“È mio figlio. Non lo vuoi conoscere? Lui era così impaziente di farlo…” dissi, stringendogli piano il braccetto, mentre lui nascondeva il viso nella mia gonna, un po’ vergognandosi.
“Chi sarebbe il padre?”
Rimasi di stucco, guardandolo dall’alto in basso.
“Davvero dopo tutto questo tempo l’unica cosa che sai fare è trovare dei motivi per giudicarmi?”
Lui si avvicinò con fare duro, e io spinsi Federico dietro di me.
“Scappi con i tedeschi mentre la tua famiglia bruciava nella nostra casa. Ti fai sentire dopo tutto questo tempo senza dirmi che hai un figlio… e oltretutto si vede che non è italiano. Dio… spero solo che non sia quello che penso.”
Mandai Federico dentro, dicendogli che la mamma lo avrebbe raggiunto.
“Non sono scappata con i tedeschi. Mi hanno fatto prigioniera, e se mi fossi ribellata avrebbero ucciso anche me”
Lo guardavo dritto negli occhi, con una nuova forza, sentendomi sicura di me.
“Tu ci hai fatto andare di mezzo, non cercare di dare la colpa a me. Federico è… è figlio di un tedesco, è vero. Ma lui mi ha amata, io l’ho amato, e dal nostro amore è uscito una cosa bellissima come tuo nipote”
La sua espressione diventò talmente cattiva che mi spaventò solo guardarlo.
“TI SEI FATTA SCOPARE DA UN NAZISTA, LO STESSO CHE HA UCCISO LA NOSTRA FAMIGLIA! Ma ti rendi conto? E ti ha lasciata proprio come fossi una puttana!”
La sua voce creava echi nella campagna intorno, e gli feci segno di abbassare la voce.
“Non urlare, porta rispetto sei vicino ad un convento!” dissi.
“Hai portato rispetto tu mentre ti facevi sbattere da quell’assassino? Hai avuto rispetto per la tua famiglia, per me e gli altri compaesani che combattevano per liberare l’Italia da parassiti come quello?”
“Non giudicarmi, non puoi. Tu non c’eri, non sai cosa ho passato.”
“Sei ancora la bambina che ho lasciato. Cosa ne vuoi sapere te? Hai fatto la guerra? Eri a faccia a faccia con il nemico, e non potevi avere un momento di umanità sennò finivi morto? Hai mai ucciso qualcuno?”
Dopo quell’ultima frase non dissi niente, non volendo rispondere.
“Sei proprio una delusione Maria. Ma nonostante questo non posso abbandonarti come ha fatto quel bastardo. Alla fine sei mia sorella… l’unica persona che mi è rimasta. Prendi il bambino e le tue cose, torniamo a casa.”
Si girò di spalle, prendendo una sigaretta dalla tasca e accendendola.
“Non voglio tornare a casa.” Dissi.
“E dove vorresti andare? In Germania dal tuo amore perduto? A proposito, lui dov’è adesso che dovrebbe aiutarti?
“Basta. Non ci tornerò mai più al paese. Tu non hai visto mamma ed Elena morte. Non hai visto il loro sangue allargarsi sul pavimento. Non ci voglio tornare in quel posto bigotto, dove la gente non fa altro che parlare e basta.”
“Hai paura che ti dicano la verità? Che ti ripudiano perché sei andata a letto e hai collaborato con uno sporco nazista?”
“Non mi interessa cosa dicono. Quell’uomo mi ha regalato la felicità più grande della mia vita.”
Senza neanche che me ne accorgessi, Francesco mi tirò uno schiaffo così forte che mi fece quasi cadere.
“Questo argomento è chiuso. Non parlare mai più di quello là, o potrei non rispondere delle mie azioni.”
Mi trattenei dal piangere, stringendo con forza le mani a pugno.
“Sbrigati a prendere le tue cose. Il marito di Elena è tornato nella sua città, andremo a stare da lui per un po’”
“No! Con lui mai!” dissi, consapevole di quello che sarebbe successo.
“Mi pare che non sei nella posizione di dettar legge. Sbrigati”
Mi alzai e scappai dentro, scoppiando a piangere come non mi succedeva da anni. Sentii una manina appoggiarsi alle mie sul viso, e le tolsi sorpresa.
“Mamma… no piangere” disse il mio bambino.
Io lo strinsi forte a me, rassicurandolo.
“No amore… la mamma non sta piangendo. Vai a prendere i tuoi vestiti e fatti aiutare da Madre Nicoletta a metterli in una busta. Zio Francesco ci porta in un bel posto, dove potrai conoscere tanti bambini come te, e potrai divertirti tanto… vai su!”
Gli diedi una piccola spinta, e lui corse allegramente per il corridoio.
Mi alzai e andai verso il bagno, chiudendomi dentro.
Dovevo essere forte per Federico, lui non avrebbe mai dovuto passare quello che avevamo passato noi.
Ma incoscientemente ripensai di nuovo a lui.
Friedrich, dove sei? Sei ancora vivo? Si che lo sei, ne sono sicura. Sei uno dei migliori.
Non sai quanto mi manchi… vorrei averti di nuovo accanto a me, per dirti tante cose, per farti conoscere il nostro bambino.
Mi pensi qualche volta? Ti ricordi ancora di me?
Io non ti ho mai dimenticato, anche se ormai sono passati due anni. Due anni in cui i tuoi occhi e la tua voce non mi hanno mai lasciata… perché lo so che anche se per poco tu mi hai amata. E continuerò a difenderti perché sei stato e rimarrai l’unica persona speciale che il Signore mi abbia fatto incontrare, cambiando la mia vita e facendomi capire cosa vuol dire essere una donna.
 
Il marito di Elena viene da Biella, una città vicino a Torino, nell’ovest del nord Italia. Prima della guerra faceva il commerciante assieme al padre, e fu in uno dei suoi viaggi che conobbe mia sorella.
Dopo quella conversazione fuori dal convento, io e Federico impacchettammo le nostre poche cose e salutammo tutte le misericordiose suore che ci dettero una mano, promettendo che gli avrei scritto al più presto.
Prendemmo il primo treno per Torino, e arrivammo a Biella verso sera; Francesco intanto si fece spiegare la strada per raggiungere la zona dove sapeva abitasse nostro cognato Andrea.
Un disagio crescente stava salendo in me: Andrea è sempre stato un uomo duro, con un rozzo carattere; non ammette sentire repliche, e quando pensa di avere ragione nessuno lo può contraddire.
Sapevo già che non mi avrebbe neanche guardata in faccia, dopo quello che era successo alla sua famiglia.
Per fortuna Francesco aveva fatto amicizia con Federico, e con mio grande sollievo lo trattava bene, senza denigrarlo.
Arrivammo alla casa della famiglia di Andrea che era quasi notte; ci venne ad aprire suo padre.
“Chi è?” disse, con tono aggressivo e non proprio cordiale.
“Sono Francesco De Felice. C’è Andrea?”
L’uomo aprì la porta, e un improvviso sorriso si dipinse sul suo viso.
“Francesco! Scusa, ma di solito non abbiamo ospiti che arrivano a quest’ora… vieni dentro, Andrea è in cucina”
Entrammo, e l’uomo strinse cordialmente la mano a me e al mio bambino.
Andammo tutti nella cucina, e vidi Francesco e Andrea che si salutarono calorosamente: quando combatterono fianco a fianco diventarono come fratelli. Quando salutò me invece, era molto distaccato e freddo.
Non passò molto prima che la miccia si accendesse.
“Come sono morti mia moglie e i miei figli?”
La domanda secca di Andrea mi spiazzò.
“Forse non è il momento per parlare di queste cose…” dissi, all’improvviso in un profondo imbarazzo, accennando a mio figlio.
Lui mi guardò con aria dura, versandosi un bicchiere di vino.
“Non passa giorno in cui non ripenso alla mia famiglia. Dimmi cosa è successo.”
Il padre di Andrea e Francesco mi stavano guardando; mandai Federico nella stanza accanto e finalmente glielo dissi.
“Ad Elena hanno dato un colpo in testa… ai bambini non so cosa sia successo. Probabilmente sono bruciati insieme alla casa.”
Dopo aver detto quelle parole, un senso di vomito mi prese la bocca dello stomaco.
Andrea all’inizio non fece una piega, poi sbatté con forza il pugno sul tavolo, facendolo traballare pericolosamente.
“Bastardi assassini! Li ucciderei a mani nude se potessi!”
La sua voce forte rimbombava per la piccola stanza; sentii qualcosa toccare le mie gambe, e girandomi vidi Federico stringermi.
Lo rassicurai dicendogli che andava tutto bene, ma non stava andando per niente tutto bene; infatti Andrea iniziò a chiedermi cosa avessi fatto per i tedeschi.
“Volevano che traducessi in italiano o in tedesco delle frasi.” Dissi semplicemente.
“Deduco che se sei ancora viva li hai aiutati.” Disse lui.
Cercai di mantenere la calma, stringendo la manina di Federico.
“Avrebbero ucciso anche me se non l’avessi fatto.” Dissi, in tono neutro.
“Meglio morti che aiutare quella gente. Cazzo gli assassini della tua famiglia!”
Lanciò il bicchiere di vino sulla parete opposta, mandandolo in frantumi. Federico iniziò a piangere silenziosamente, stringendosi a me.
Tremavo dalla rabbia: perché non capivano semplicemente che ebbi paura?
“So benissimo cosa hanno fatto, l’ho visto con i miei occhi. Non sono coraggiosa come voialtri, ho avuto paura della morte.” Dissi, onestamente.
Codarda.” Il sibilo di Andrea mi fece vergognare di me stessa.
Francesco si intromise nella conversazione.
“Andrea, devo chiederti se possiamo rimanere un po’ da te. Almeno finché non trovo un’altra soluzione.”
Andrea bevve direttamente dalla bottiglia, poi guardò me e infine Federico, come se l’avesse visto solo in quel momento.
“Spostati.” Disse rivolto a me.
“Perché?”
“Ho detto spostati. Voglio vedere il bambino.”
Federico continuava a nascondersi dietro di me, e io lo proteggevo.
Andrea si alzò e si avvicinò, spostandomi con forza e facendomi sbattere contro il fornello.
Prese Federico per un braccio, costringendolo a guardarlo; stava tremando di paura, e non gliene importava minimamente.
Un’espressione disgustata increspò il suo volto, e io mi avvicinai per portarlo via, ma un suo braccio mi fermò.
“Francesco… tua sorella ha partorito un diavolo…”
Lo scostai con violenza, e presi Federico in braccio, correndo fuori da casa.
Iniziai a piangere, ma non mi fermai quando sentii la voce di Francesco chiamarmi.
Correvo stringendo il mio unico raggio di sole in quel continuo buio; non riuscivano a capire che lui non c’entrava niente. Se la potevano prendere con me, ma con lui proprio no.
“Maria, cazzo fermati!”
Francesco continuava a inseguirmi, ma io volevo solo andarmene da lì.
Alla fine mi fermai, ormai senza fiato, e mi sedetti su delle macerie a bordo della strada.
Lui arrivò subito dopo.
“Dove cazzo pensi di andare?” disse mettendosi davanti a me, le braccia sui fianchi per riprendere fiato.
“Non verremo mai a stare da Andrea. Come si permette di trattare in quel modo un bambino? Lui non ne ha alcuna colpa!”
“Ha detto solo la verità.”
Io mi misi a ridere, di una risata isterica.
“La verità è che lui è un mostro? Perché? Solo perché è il figlio di un tedesco? È figlio di un uomo come te!”
Francesco si avvicinò mettendomi una mano sulla bocca.
“Non urlare, o non avrai vita facile se continui a sbandierarlo ai quattro venti.”
Mi calmai un po’, riuscendo finalmente a tornare con un respiro regolare.
Francesco si sedette vicino a me, sospirando.
“Tu non sai nulla di quello che ho provato in quei mesi. Ho sentito così tante emozioni contrastanti che non riuscivo più a capire cosa fosse giusto e cosa no.
Prima li ho odiati profondamente, poi ho dovuto trovare pace per me stessa perché quel continuo odio mi stava facendo impazzire. Non potevo parlare con nessuno, sempre chiusa in una stanza da sola.
Non facevo altro che pensare alla morte, a perché non ero morta anch’io. Ho provato a uccidermi un giorno. Ma non ci sono riuscita. Non ci sono riuscita perché…”
Stavo per dire Friedrich quando mi bloccai.
“Perché lui mi ha salvata. Mi ha salvata da un bombardamento, da un suicidio… mi ha tenuto compagnia mentre ero sola e triste. Ti sembrerà stupido ma in quei momenti non desiderai altro che essere amata da qualcuno. Volevo sentirmi a casa, circondata da persone che mi avrebbero protetta in caso di bisogno. Provare amore, e non più odio. Lui mi ha dato tutto questo.
Mi ha protetta e fatta sentire al sicuro mentre tutt’intorno non c’era altro che morte e violenza.”
Francesco rimase in silenzio, giocando con dei sassolini. Poi finalmente parlò.
“Non sai che rabbia mi fa, sapere che uno di quelli ti ha toccata.”
Misi un braccio attorno al suo, appoggiando la testa sulla sua spalla.
“Non mi ha fatto del male, mai. Francè… ti prego, non pensare che io non provi rimorso per quello che ho fatto. Tutti i giorni mi chiedevo se fosse giusto che io mi affezionassi a lui, tutti i giorni mi chiedevo perché continuassi a collaborare con gli assassini della mia famiglia.
Avevo semplicemente paura. Paura della morte. Di morire da sola, senza delle persone che si prendessero cura di pregare per me dopo. Avevo paura di essere una dei tanti che si vedevano accatastati sui carri per le strade. E poi… non so, ero talmente scioccata dalla morte di mamma e di Elena che non riuscivo più a capire cosa dovessi fare.
So solo che vedevo persone che morivano da tutte le parti, sia da quelli che erano i giusti, sia dagli sbagliati… e gente che uccideva, sia dai giusti sia dagli sbagliati. Persone come me e te. Soffro ogni giorno per le scelte che ho preso, ma non posso colpevolizzarmi all’infinito. Ho un bambino da crescere, un fiore che voglio aiutare a sbocciare.”
Francesco si slegò dal mio braccio, e mi strinse le spalle, avvicinandomi ancora di più a sé, accarezzando con l’altra mano i capelli di Federico.
“Le donne non sono fatte per la guerra. Te l’ho detto, non ci penso più perché sei mia sorella. Ma non voglio che si parli né del padre di Federico né di quello che ti è successo.”
Ritornammo a casa di nostro cognato, ma da quel giorno in poi io e Andrea non ci parlammo più.

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


 
Dodici anni dopo
 
 
 
Aprile, 1956
Siamo andati a vivere fuori da Biella, in aperta montagna, in una vecchia casa in legno che veniva usata dai genitori di Andrea come magazzino per le merci.
Si trova verso la fine di una via polverosa in terra battuta, ai cui lati sorgono tante casette, tutte uguali.
Gli abitanti di questa stradina sono una ventina, non di più, e col tempo abbiamo imparato a conoscerci.
È gente di montagna e per mia fortuna, appena arrivata, incontrai subito persone bionde e con la pelle molto chiara, cosicché seppi che il mio bambino non poteva essere discriminato.
Francesco trovò lavoro come operaio in città a Biella, ed ogni mattina molto presto, si alza per prendere l’autobus che dal paese lo porta fino in città.
Io ho trovato impiego nella panetteria del posto ma, non essendoci tante persone, qualche volta il pomeriggio teniamo chiuso. Scendo al paese in bicicletta, o a piedi, e quando devo tornare su, aspetto qualche carretto che mi dia un passaggio.
Ora il mio ometto ha dodici anni, ed è diventato bellissimo: tutti dicono che il cuore di mamma vede i suoi figli sempre perfetti, ma io non mi sbaglio.
È alto quasi quanto me, e si è fatto parecchi muscoli aiutando suo zio Francesco a sistemare la casa in questi anni. Lavoriamo tutti e due per permettergli di studiare, anche se vorrebbe prendere decisioni totalmente diverse da quelle che gli imponiamo.
Io nel frattempo mi sono sposata con Riccardo.
La mia vicina di casa Anna, una bella donna di quarantatre anni, è sposata con un imprenditore di Torino che la lascia spesso a casa da sola coi figli; torna solo il fine settimana, ed un giorno è tornato proprio con Riccardo, un uomo affascinante e colto.
All’inizio è stato affabile, molto gentile e comprensivo; con la benedizione di Francesco ci uscii qualche sera, e ci divertimmo tanto.
Appena poteva, veniva in paese a trovarmi, portandomi grossi mazzi di fiori.
Lui è stato uno dei pochi a cui il fatto che avessi già un figlio non importasse; infatti, tutti gli uomini che lo scoprivano, scappavano subito a gambe levate.
Così, dopo solo tre mesi mi chiese di sposarlo, e finalmente a ventotto anni convolai a nozze con Riccardo. All’inizio credevo che fosse l’uomo della mia vita ma, convivendoci assieme, sembra quasi che sia cambiato. O meglio, tutti e due siamo cambiati.
La nascita di Federico mi ha provocato una lacerazione all’utero, che le suore hanno curato male, facendomi nascere parecchie infezioni durante gli anni; perciò non posso avere più figli, a detta del medico. Riccardo è molto più grande di me, quando ci sposammo aveva già 46 anni, anche se non li ha mai dimostrati.
A causa anche della sua età, mi disse che aveva sempre voluto fortemente un figlio, che io non ho potuto mai dargli; così i rapporti si sono raffreddati, e lui ha ripreso la vita che faceva prima.
Anna mi raccontava che è sempre stato un donnaiolo, ed il nostro matrimonio non ha cambiato le cose: qualche volta trovo ancora macchie di rossetto sui suoi vestiti, oppure qualche lettera d’amore infilata di nascosto nelle tasche della sua elegante giacca.
I primi tempi ci sono rimasta malissimo, ho sempre creduto alla fedeltà reciproca durante un matrimonio; non ho voluto dirlo a nessuno, per vergogna di essere giudicata una cattiva moglie.
Ora invece ci ho fatto l’abitudine, e non mi colpisce più come qualche anno fa.
Mi sono allontanata da lui, perché nonostante sia sua moglie non l’ho mai amato; gli voglio davvero molto bene, ma con lui è stata solo una forte infatuazione, un qualcosa che è scemato col tempo.
È fuori casa tutta la settimana e, come il marito di Anna, torna solo il fine settimana; io cerco di non esserci quando lui torna, perché dice che è sempre stanco e vuole riposare. Così più o meno passiamo insieme solo il sabato e la domenica.
Federico non l’ha mai chiamato papà, ed io stessa non l’ho mai incoraggiato a chiamarlo in quel modo. Credo che nel profondo del suo cuore non l’abbia mai accettato, perché il suo arrivo significò l’allontanarsi da me.
Molte volte mi è stato chiesto chi fosse il padre di Federico, anche da mio figlio stesso; io e Francesco abbiamo inventato una scusa credibile, nonostante io non provi ancora rimorso nel pensare che mio figlio abbia un padre tedesco. Comunque sia, raccontiamo che mi sposai con un uomo del nostro paese, e dato lo scoppio della guerra, lui morì per difendere il nostro paese.
Federico mi chiede spesso altre informazioni su suo padre, ma io non voglio dire altre bugie; ogni volta lo mando da suo zio Francesco, così so che gli racconterà quelle storie eroiche di cui va tanto fiero.
Io, a trentacinque anni, ho avuto molto tempo per pensare a quello che ho fatto; solo ora che sono cresciuta mi accorgo della codarda che sono stata. Andrea ebbe ragione nel dirmelo, è la pura e semplice verità: con il senno di poi, ora che sono mamma, avrei sputato in faccia a quello stronzo che ammazzò mia madre e mia sorella. Se penso che qualcuno possa fare una cosa del genere al mio Federico, diventerei pazza; non mi interesserebbe di morire, ma solo di essere sicura che lui si possa salvare. Chissà se anche mia madre e mia sorella pensarono questo per me.
Ma tutto ciò dodici anni fa non potevo capirlo; ero ancora una bambina, credevo che tutti fossero buoni, in fondo. Credevo che collaborare con i nazisti non fosse poi così grave se non mi uccidevano; che amare uno di loro non fosse sbagliato perché l’amore è la cosa più importante di tutte.
Invece lui mi ha lasciata da sola; mi ha usata e buttata come fossi un fazzoletto usato. Si è preso la cosa più importante di me e se n’è andato dopo solo una settimana.
La cosa che mi fa più rabbia è il fatto che lui abbia approfittato della mia ingenuità; per colpa sua mi hanno degradata tagliandomi i capelli, chiamandomi puttana, facendomi sentire sbagliata, quando cercavo solo affetto e amore. Invece, nonostante la mia ingenua speranza in un suo ritorno, si è solamente fatto i suoi interessi per giustificare la morte e il dolore che stava causando.
Influenzata anche dalla presenza di Francesco, questo è quello che pensai di lui fino al giorno in cui, inconsapevolmente, non ebbi sue notizie.
Sono qui ora, mentre sto pulendo il pavimento di casa all’ombra di una soleggiata giornata di aprile, che ripenso al padre di mio figlio.
Il suo ricordo di quei giorni ormai non è altro che un’immagine sfocata; molte volte sperai che ritornasse, che si presentasse anche solo per parlare.
L’unica notizia che ho avuto di lui dopo la guerra, la lessi per sbaglio sul giornale: il titolo era stampato a lettere cubitali, e non potei non notarlo.
 

42 CRIMINALI NAZISTI CONDANNATI ALL’IMPICCAGIONE: TRA QUESTI ANCHE IL COMANDANTE MAGGIORE DELLE WAFFEN SS FRIEDRICH SCHUSTER, RESPONSABILE DELL’ECCIDIO DI DEMONT
 
 
Il giornale era tra le braccia di un cliente della panetteria, e appena lo vidi corsi fuori a comprarne uno.
L’articolo diceva che Friedrich era stato processato per i suoi crimini di guerra. Non c’era nessuna sua foto, solo una comprendente tutti i probabili criminali.
Buttai il giornale per paura che Francesco lo scoprisse. Dentro di me qualcosa si ruppe quel giorno, come se fosse rimasto lì da tempo e se ne stava andando solo in quel momento, lasciandomi sola.
In quell’istante ebbi la certezza che non sarebbe più tornato, che non ci saremmo più potuti rivedere nonostante quello che era successo. Tutto l’odio e il rancore che ho provato e che continuo a provare, è solo una facciata per nascondere il dolore della sua mancanza, e lo capii quel giorno.
Tutte le storie e le illusioni che impegnano la mia mente prima di dormire da dodici anni a questa parte, non fanno altro che rendermi sempre più confusa; Friedrich in ogni caso non sarebbe mai tornato indietro.
È difficile per me accettarlo: è molto più facile odiarlo, invece, farlo scendere al livello dei suoi concittadini tedeschi, brutali assassini senza un minimo di pietà o compassione.
Sapere che non avrò mai più l’occasione di rivederlo, di parlargli, di raccontargli di Federico crea un vuoto doloroso nel mio cuore; tutte le mie più segrete speranze sono volate via nove anni fa, leggendo solo due righe di un giornale.
Odiandolo non avrò la possibilità di starci male, avrò solo il tempo per provare rabbia per il passato ed il presente. Qualche volta, quando non riesco a fare a meno di non pensarci, capisco che i miei pensieri sono puramente egoistici: e allora mi scopro ad essere triste per il destino di quell’uomo che si, mi ha regalato un sacco di emozioni in poco tempo, ma che ha anche ucciso. E che oltretutto aveva una famiglia ad aspettarlo.
Chissà se è davvero morto impiccato. Pensare ad uno fiero come lui fare una fine del genere, è davvero brutto.
Pregai tanto per Friedrich, chiesi perdono per i suoi peccati.
Ogni domenica, come un rito, accendo un cero e faccio un rosario completo in memoria dell’uomo che ho ucciso; non l’ho mai raccontato a nessuno, è un segreto che mi porterò fino nella tomba.
Ma questi ormai sono solo lontani ricordi, pezzi di vita che non mi sembrano appartenere più oramai.
Mi siedo sulla grande sedia a dondolo nel portico di casa mia, godendo della brezza fresca e del silenzio dell’una del pomeriggio: i pochi abitanti della nostra via hanno appena finito di mangiare, e tutti si coricano un’oretta, prima di ricominciare a lavorare.

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


Mercoledì, 25 Aprile 1956
Quest’oggi c’è una grande festa in paese; è il giorno della liberazione dall’occupazione nazista e i negozi sono chiusi, per permettere alla gente di festeggiare tutti insieme la libertà conquistata.
Riccardo come al solito non è potuto venire, dicendo che il giorno dopo avrebbe dovuto lavorare e il viaggio lo stanca sempre troppo.
C’è una lunga tavolata che attraversa la piazza principale del paese e siamo riuniti tutti attorno, gustando le delizie che le donne hanno cucinato per tutti i paesani.
A me è toccato preparare i dolci; tutti sanno che sono la mia specialità, ed insieme ad altre quattro 'colleghe' abbiamo deciso di prepararne una decina a testa.
Finito l’abbondante secondo, mi alzo sorridente dalla tavolata e annuncio che sarei andata a prendere le torte; Francesco mi chiede se voglio una mano, ma gli assicuro che ce la posso fare da sola.
Mi dirigo allegra verso casa, avvolta da quell’atmosfera di festa; proprio quando sono quasi arrivata, scorgo un uomo in mezzo alla via. Non mi sembra di conoscerlo, cosa strana dato che la gente è sempre la stessa.
Porta un paio di pantaloni marroni a vita alta e una maglia a mezze maniche bianca; in testa ha un cappello, quindi non riesco a vedergli il viso.
Lui non mi ha vista, e prendo l’occasione per avvicinarmi; è girato di spalle, e la mia voce improvvisa lo fa sobbalzare.
“Si è perso? Guardi che la festa è giù in paese…”
La voce mi muore in gola quando si gira; il cuore inizia a battermi talmente forte che sembra farsi strada per uscire.
Rimango impalata con la bocca aperta per parecchi secondi; poi avvicinandomi gli tolgo piano il cappello, incredula, riuscendo a guardare di nuovo quegli occhi azzurri come il cielo.
Mio dio... è Friedrich!
Lo osservo: è cambiato. È più magro, e parecchie rughe gli solcano il viso.
Friedrich è in piedi davanti a me, in tutta la sua altezza, ma stavolta non indossa nessuna divisa. Stavolta non ha medaglie o mostrine a renderlo valoroso e ad abbellirlo: è un uomo come tutti gli altri.
Dopo tutto questo tempo si presenta davanti a casa mia il vero Friedrich Schuster, e non il comandante maggiore delle unità d’assalto tedesche.
Nessuno dei due sa che dire, e rimaniamo a guardarci come il predatore fa con la sua preda.
Tutta la rabbia che ho provato per questi anni sembra essere andata via lasciando il posto solo all’incredulità; sono talmente scioccata nel rivederlo che la mia mente non riesce a capire cosa deve fare.
Alla fine comunque, decido di parlare io.
“Sei… tu?... avevo letto…”
Lo stomaco sembra contorcersi quando mi interrompe e inizia a parlare. Ancora quella sua voce bassa e calma, che mi rilassa all’istante.
“Ti ho trovata alla fine.”
Fa una pausa, passandomi gli occhi su tutto il corpo, come se non mi riconoscesse.
"Cosa hai fatto ai capelli…”
Una sua mano si avvicina a toccarli, e brividi mi percorrono il corpo.
Dopo che le donne a Cuneo me li ebbero rasati, non volli più farli ricrescere tanto; così li tengo ricci, lunghi solo fino alla nuca.
“Li ho tagliati…”
Inizio a sentirmi stranamente confusa.
“Cosa ci fai qua? Sul giornale c’era scritto che ti volevano impiccare…”
Lui non risponde e si mette le mani in tasca, guardandosi intorno.
“È qui che vivi ora?”
Il rumore improvviso di una finestra che sbatte mi riporta alla realtà: se qualcuno l’avesse visto, avrebbe iniziato a fare domande.
Mi guardo intorno, assicurandomi che non ci sia nessuno, poi gli faccio segno di entrare in casa.
“Entra. Se ti vedono inizieranno a chiedermi chi sei.”
Lui mi guarda con espressione sorpresa poi fa un sorriso triste, annuendo.
“Ah, si. È strano, prima ti osannano come un eroe e poi ti giudicano un criminale”
Mi giro a guardarlo mentre entra assieme a me, e lo vedo perso nei suoi pensieri; vorrei chiedergli mille cose, ma mi stanno aspettando in paese. Se tardo si preoccuperanno sicuramente.
Mi avvicino così alla dispensa e inizio a tirare fuori i piatti con le torte che ho fatto qualche giorno fa.
Sono talmente incredula del fatto che Friedrich sia qui con me che una strana emozione, tra l’aggressività e la contentezza si impossessa di me; le mani tremano facendomi scivolare un piatto, che si rompe in mille pezzi.
Lui alza lo sguardo su di me, ed io faccio lo stesso; l’aria sembra elettrica, e non capisco come mai quel disagio che oramai avevo dimenticato, ritorna a premermi nel petto. Nella penombra della stanza sembra di rivederlo dodici anni prima, mentre ci baciavamo per la prima volta.
Mi avvicino alla tavola prendendo la scopa e inizio a raccogliere i cocci; un silenzio opprimente pulsa nelle mie orecchie, ma dopo poco lui lo interrompe.
“Sei sposata”
Lo guardo e vedo che osserva la mia mano sinistra, quella con la fede.
Assume di nuovo la sua aria indecifrabile, impedendomi di capire quello che prova; io tento di dirgli qualcosa, ma lui mi interrompe di nuovo.
“Immaginavo che non potevi essere rimasta sola dopo tutto questo tempo”
Appoggio la scopa e lo guardo con aria triste: lui non sa che l'ho aspettato fino all'ultimo.
“Io... non ho più avuto notizie su di te... poi ho letto sul giornale della tua condanna a morte...”
Friedrich sposta lo sguardo altrove, come se fosse improvvisamente interessato alla mobilia della cucina.
“Ah, già.” Risponde, semplicemente.
Non aggiunge altro, ed io inizio ad innervosirmi; cosa posso dire dopo tutto questo tempo?
Ritorno alle mie torte e le impacchetto nei fazzoletti, per proteggerle.
Proprio quando sto per aprir bocca, la voce di Anna da fuori mi fa raggelare.
“Maria, hai bisogno di una mano? Stai bene? È da mezz’ora che te ne sei andata!”
Il panico mi prende all’istante: non avrebbe dovuto sapere di Friedrich!
Devi andartene! Nasconditi di sopra finché non me ne vado. Fa presto!” gli sussurro.
Lui si alza piano dalla sedia, e con tutta la calma del mondo lo vedo salire le scale; quando scompare di sopra, finalmente apro la porta.
“Finalmente! Pensavamo ti fossi sentita male!”
La voce di Anna ora riempie la stanza.
“No, mi sono scivolati dei piatti… stavo pulendo” rispondo, la prima scusa che mi viene in mente.
“Dai Maria, pulisci dopo! Gli uomini stanno aspettando le tue delizie per dessert…”
Inizia a prendere le torte e sistemarle sul carrellino, ma poi si ferma.
“Di chi è questo cappello?” chiede, prendendo il cappello di Friedrich che aveva appoggiato sul tavolo.
“Oh, non ti preoccupare! Il solito disordinato di Francesco… pensa che sia la sua serva!”
Il cuore inizia a battermi forte per l’imbarazzo, e le prendo il cappello dalle mani con dita tremanti, appoggiandolo sul tavolino vicino alle scale.
“Dai andiamo!” le dico, mettendole una mano sulla schiena per invogliarla ad uscire.
Vedo la sua espressione dubbiosa, ma faccio finta di niente; prendo il carrellino con le torte e tiro la porta dietro di me.
Anna continua a parlarmi mentre scendiamo di nuovo in piazza, ma io non la sto più ascoltando; la mia mente è occupata completamente dal ritorno di Friedrich. Mi sento così confusa da non riuscire a capire che devo fare; un sentimento strano mi riempie il cuore, un qualcosa che non sentivo da tanto tempo.
Decido di non pensarci, e una volta arrivate in paese, mi concentro sugli sguardi famelici dei paesani appena vedono le torte; sfodero uno dei migliori finti sorrisi che ormai mi riescono alla perfezione e continuo a prendere parte a quel giorno di festa.

Torniamo a tarda sera a casa, io, Francesco e Federico, stanchi ma contenti; ognuno svolge le solite mansioni prima di andare a dormire. Ovviamente quella di Francesco è solo di andare a letto, mentre ho imposto a Federico di lavarsi ogni sera prima di coricarsi.
Mi fermo in cucina a sistemare i piatti, ma dopo poco salgo al primo piano, scoprendo già un silenzio tombale.
Federico dorme con suo zio in una stanza, mentre io dormo con Riccardo (quando c’è) nell’altra, ma di solito sono quasi sempre da sola.
Mi avvicino allo specchio della mia camera, mettendomi i bigodini per la notte; dopodiché vado alla finestra per chiudere i balconi e guardo distrattamente il cielo.
Una Luna splendente sembra guardarmi da lassù, e come se fosse un film, mi ritorna alla mente la prima notte che ho passato a Genova, anni prima.
La stessa Luna, lo stesso balcone e sempre io sotto a quel cielo; cos’è cambiato in me da allora? Tante cose… o forse no.
Abbasso la testa, guardando fra gli alberi e il vialetto di pietra che ha costruito Francesco; non c’è nessuno ad aspettarmi neanche stavolta.
Chissà dov’è lui ora. Magari è tornato a casa, offeso dal mio comportamento. Oppure è rimasto…
Una strana sensazione mi chiude lo stomaco, facendomi sentire agitata per la prima volta, dopo la fine della guerra.
Chiudo il balcone coricandomi a letto, rigirandomi tutta la notte nella speranza di trovare un po’ di pace per me stessa.

Alle quattro della mattina mi alzo, dopo aver passato la notte in bianco, e scendo in cucina a preparare la colazione per Francesco. Fuori è ancora abbastanza buio, ma mi avvicino lo stesso a guardare l’alba che inizia a sorgere ad Est; chissà perché, ma la bellezza della natura mi stupisce ogni volta, anche se la vedo tutti i giorni.
Dopo aver mangiato qualcosa inizio a lavare i piatti, cercando di fare il meno rumore possibile; Francesco intanto si alza, e arriva al piano di sotto visibilmente assonnato.
“Come mai già in piedi?” mi chiede, addentando un pezzo di pane con la marmellata.
“Non sono riuscita a dormire” rispondo, sintetica.
Cerco di dargli le spalle, perché ogni volta che mento lui se ne accorge.
“Perché?” continua lui.
“Niente d’importante, avevo mal di pancia. Cose da donne.”
Lui per fortuna non chiede più niente, e dopo cinque minuti sento che si alza dalla sedia e torna di sopra, a vestirsi.
Io intanto gli preparo il cestino del pranzo e glielo faccio trovare vicino alla porta, come al solito.
Poi prendo la scopa e spazzo un po’ per terra prima di lavare con l’acqua.
“Maria… vado.”
Francesco mi è passato davanti, ma sono talmente sovrappensiero che non l’ho neanche visto.
“Certo… buon lavoro Francè. Ci vediamo stasera.”
Lo saluto con una mano, mentre lui richiude la porta dietro di sé.
Alle sei in punto sono già vestita e pronta per andare in panetteria; Federico ormai è abbastanza grande da svegliarsi da solo, quindi non mi preoccupo. Anna poi lo verrà a prendere per portarlo a scuola assieme ai suoi figli.
Chiudo la porta dietro di me e scendo in bicicletta fino in paese, affrontando un nuovo giorno.

“Maria, sei sicura di sentirti bene oggi?”
Sono le tre e mezza del pomeriggio, ma a me sembrano le undici di sera. Ho sbagliato tre o quattro ordinazioni, e devo rifare i conti tre volte per capire quanto devo dare di resto.
La mia collega Lucia se n’é accorta, ma purtroppo non posso rivelarle la verità.
“Ho dormito poco stanotte… ma è tutto ok, non ti preoccupare.” dico, rassicurandola.
“Dai vai a casa. A quest’ora la maggior parte dei clienti è già passata. Vatti a riposare”
Rifiuto la sua gentile offerta, ma mezz’ora più tardi non posso far altro che accettare, dopo aver consegnato cinquecento lire in più alla vecchietta del paese.
Mi tolgo il camice e lo appendo nel retro bottega, poi saluto tutti ed esco, prendendo la mia bicicletta; mi fermo un attimo dall’alimentari e prendo qualcosa per la cena.
Dopo venti minuti sono già a casa; Federico al pomeriggio si trova con i suoi amichetti di scuola, così sono da sola.
La cosa mi dovrebbe sollevare, dato che ho la possibilità di riposarmi; nonostante questo non voglio rimanere in casa.
Non c’è niente da fare, saperlo ancora vivo, vicino a me è come un tormento; voglio vederlo, ma al tempo stesso mi impongo di non pensarci.
Così decido di fare quello che faccio ogni volta che mi sento smarrita: indosso il mio abito preferito a fiori arancioni su sfondo blu (regalo di Riccardo), mi tolgo le scarpe ed esco, avviandomi dalla parte opposta della via.
La giornata è bella come ieri, ed il vento fresco mi scompiglia un po’ i ricci, costringendomi a sistemarli ogni due minuti.
Scendo il ripido sentiero, sentendo l’erba fresca scricchiolare sotto i piedi, e dopo un quarto d’ora, finalmente arrivo al laghetto; non c’è mai nessuno in questo posto.
Mi siedo sul bordo, e sento le parole di Francesco rimbombarmi nelle orecchie.
Non ti immergere più in quell’acqua, i paesani mi hanno detto che ci hanno scaricato scarti dell’industria che produceva armi qui vicino.”
Come gli avevo promesso non mi ero più immersa in acqua, ma continuo ad andarci perché è un luogo pacifico e silenzioso.
Mi stendo e chiudo gli occhi, facendomi riscaldare dai raggi del sole, fin quando non mi pare di sentire una presenza vicino a me.
Apro gli occhi e mi alzo a sedere, ma non vedo nessuno; mentre sto per tornare giù una voce mi blocca.
“Sei proprio diventata una donna”
L’avrei riconosciuta ovunque; mi giro e lo vedo accucciato dietro di me, che mi osserva.
Ed eccolo riapparire sul suo volto, quel sorriso che mi aveva incantato anni orsono; era sempre lo stesso, ma stavolta profonde rughe lo circondavano, rendendolo ancora più affascinante.
“Mi stai seguendo?” gli dico, mettendomi una mano sugli occhi per proteggermi dal sole.
“Ho bisogno di parlarti.” Risponde, ignorando la mia domanda.
Non c’è niente da fare, guardando i suoi occhi non riesco ad odiarlo; mi sento confusa, sicura solamente del fatto di essere contenta che sia vivo.
“Puoi parlarmi ora”
Mi rigiro verso il lago, cercando di mantenere le distanze, e dopo un paio di minuti lo sento sedersi vicino.
Com’è strano, sono una donna, una madre, ma nonostante questo la sua figura accanto alla mia mi fa sentire ancora una bambina, una bambina che vuole sentirsi protetta fra le sue braccia.
Cerco di scacciare quel pensiero, pensando a Riccardo e al giorno del nostro matrimonio, ma l’unico risultato è quello di innervosirmi sempre di più.
“Da dove inizio…” comincia, esitando.
“Due mesi dopo che sono andato via da Cuneo con la mia squadra, siamo stati catturati dagli americani nel confine tra Francia e Germania. Non ci misero molto a scoprire chi fossi...”
Si ferma, ma io non mi giro a guardarlo.
“E non ci misero molto a processarmi. Io… non ho mai negato le decisioni che ho preso. Non ho mai negato quello che effettivamente è successo. Da comandante mi sono preso ogni minima responsabilità… così mi condannarono all’impiccagione.
In quello stesso periodo in Germania nacque una legge che trasformava la pena di morte in ergastolo, così ho passato circa undici anni in prigione.
L’anno scorso grazie alla buona condotta mi hanno liberato e permesso di lavorare in fabbrica, vicino a Stoccarda.”
Io intanto osservo il lago: la luce sta calando, e decido di porgli la domanda che mi preme di più in questo momento.
“Perché sei tornato a cercarmi?”
Lo guardo, come se dal suo viso potessi vedere se la risposta che mi darà è vera o falsa.
Tiene lo sguardo dritto davanti a lui, i suoi occhi probabilmente si stanno perdendo nel tramonto fra le montagne.
“Mi sono ripromesso che se fossi uscito ti avrei cercato per vedere se stavi bene. Solo per vedere, lo immaginavo che ormai avresti avuto la tua vita. Ma tu non dovevi accorgertene… stavolta le cose non sono andate come avevo pianificato”
Un nodo allo stomaco mi costringere a stringere i pugni per non piangere; le sue parole sono così dolci e umane che mi fanno sentire una persona orribile ad aver pensato male di lui in questi anni.
“Devo andare ora…” dice, sospirando. “Mi fa piacere averti rivista Maria.”
Si alza e mi porge una mano, aiutandomi ad alzarmi; quando la stringo scariche elettriche mi attraversano il braccio, arrivandomi direttamente al cuore.
I suoi occhi sono dentro i miei, e non riesco a distogliere lo sguardo; lo fa lui invece, lasciandomi dolcemente e superandomi per andarsene via.
Se ne sta andando ancora, per la seconda volta. Ma questa volta però, sono decisa a non lasciarlo andare.
Mi giro e lo chiamo a gran voce.
“Friedrich! Aspetta!
Col cuore in gola lo raggiungo saltellando sull’erba che si sta raffreddando sempre di più e mi rende i piedi freddi.
Vedo la sua grande figura girarsi per guardarmi.
“Te ne vai ancora? O rimarrai qua?”
Lui mi guarda con il suo solito sguardo indecifrabile.
“Io non ho più niente a che fare con te. Ora hai la tua vita.”
Si ferma un attimo, e dentro di me spero vivamente che queste non siano le sue ultime parole.
Continuo a guardarlo, aspettando un qualcosa da parte sua; lui deve averlo capito perché dopo poco ricomincia a parlare.
“Non pensare che io ti abbia usata… quello che c’è stato è stato tutto reale. Ma ormai è una cosa lontana, ormai è troppo tardi per cambiare quello che è successo.”
Fa per andarsene di nuovo, ma stavolta lo prendo decisa per un braccio, fermandolo.
“Ti ho aspettato per dodici anni! Ogni notte ripenso a te, anche quando faccio l’amore con mio marito… il mio unico segreto pensiero sei tu, mio dio sei come un’ossessione! Mi chiedo perché mi è successo quello che è successo, perché con te… ma ora che sei tornato non puoi andare via di nuovo! Ci sono voluti dodici anni per odiarti per essertene andato… ed ora ti ripresenti e pensi di lasciarmi ancora!”
“Non pensare sia stato facile per me” risponde lui.
Le mani iniziano a tremarmi mentre ne appoggio una sugli occhi, per cercare di calmarmi.
Sento una sua mano accarezzarmi la schiena, e un leggero calore si sparge nelle zone in cui mi tocca.
Non è giusto. Non è giusto che lui sia così sbagliato. Non è giusto che siano passati tutti questi anni e che sia successo quello che è successo.
Guardo il suo viso, e riesco a scorgere nei suoi occhi il sole che tramonta, il più bello spettacolo che abbia mai visto.
Lo sento che lui è a disagio, non sa bene che fare; per me è ora di tornare a casa, ma non posso andare via così. Sposto la sua mano dalla mia schiena, e percorro con le mie le sue braccia, ricordandomi quando mi teneva stretta a lui, estraniandomi dal resto del mondo.
Lui mi guarda, le pupille dei suoi occhi così dilatate da non farmi più scorgere l’azzurro che le circonda.
Si avvicina piano; mi prende dolcemente per i fianchi e mi tira su, portandomi all’altezza del suo viso.
Ci fissiamo da così vicino, ed in quel momento lo riconosco: lui che mi rassicura durante il bombardamento, lui che mi porta da mangiare, che mi cura, che mi ascolta, che mi stringe…
Un silenzio irreale ci avvolge, e sembra che il mondo si sia fermato in questo momento; non riesco a pensare a niente, quasi fossi un’animale selvaggio.
Mi avvicino piano alla sua bocca, sentendo il suo respiro caldo infuocarmi le guancie; lui si avvicina a sua volta, e le nostre labbra si sfiorano leggermente. Il bacio inizia a farsi piano piano più intenso, unendoci per assaporarci dopo tutto questo tempo.
Riconosco il suo profumo virile, la sua leggera barba pizzicarmi le guancie; le sue labbra morbidi e sottili si muovono a tratti con enfasi, a tratti con più dolcezza, come se non volesse sciuparmi.
Nessun suono arriva alle mie orecchie, se non quello della sua bocca che brama la mia come fosse ossigeno per i suoi polmoni.
Appoggio le mani sul suo grande petto e butto leggermente la testa indietro per riprendere fiato; lui sembra ritornare in sé e mi appoggia a terra, non sciogliendo però il nostro abbraccio.
Mi sembra di vagare in un sogno, così allungo le mani alzandomi sulle punte ed inizio a toccargli il viso, i capelli.
“Sei vero? Non sei un sogno?”
Il sorriso dal suo viso non si toglie più, e riesco a leggere nei suoi occhi la pura contentezza nell’avermi ritrovata.
È passato così tanto tempo… ma è come se fosse ieri.
Con gli occhi lucidi lo stringo forte a me, affondando la testa nella sua spalla. Sento il suo petto alzarsi e abbassarsi ritmicamente, segno che anche lui è emozionato.
Non c’è nulla in questo momento. Non c’è stata la guerra, non c’è stata la morte, nessuna perdita nella mia memoria finché il battito del suo cuore arriva alle mie orecchie. Dodici anni in cui le nostre vite hanno preso strade diverse, ma che ora si rincontrano.
Come una sveglia che suona alla mattina per ricordarti di alzarti però, le parole di odio e pregiudizio ritornano sorprendentemente a bussare nella mia mente costringendomi ad allontanarmi; ma prima di lasciarlo ho bisogno di dirgli un’ultima cosa.
“Vorrei parlare ancora con te… però ora devo tornare a casa. Spero che potrai tornare a trovarmi.”
Friedrich infila una mano in tasca, spostando il suo sguardo verso il terreno umido della sera.
“Se lo desideri tornerò Maria. Durante la settimana lavoro in fabbrica a Stoccarda, ho solo il fine settimana libero.”
Mi stringo nelle braccia perché inizio a sentire il freddo della sera che cala. Devo andarmene, tuttavia continuo a tergiversare per stare ancora un po’ con lui.
“Allora spero di riuscire a rivederti al più presto… sai dove trovarmi… ma stai attento. Se mio fratello o mio marito dovessero vederti inizierebbero a chiedermi…”
Lui si avvicina e mi prende la mano, baciandomela come un principe fa con la sua principessa.
“Non ti preoccupare. Abbi cura di te Maria. A presto…”
Lo stringo forte prima che mi lasci. Un groppo in gola mi impedisce di rispondergli, e non posso far altro che guardarlo andare via, la figura alta e imponente sempre dritta e fiera, che disegna il suo profilo immaginato per tanto tempo, alla luce del tramonto.

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Capitolo 20
*** Capitolo XX ***


Friedrich è tornato: non è un sogno stavolta, è tutto reale.
Nonostante questo, io mi sento inquieta. Non provo felicità, ma neanche rabbia.
Sono confusa, perché dopotutto io sono davvero andata avanti con la mia vita; l’avevo riposto in un angolo segreto del mio cuore, e si ripresentava solo in rare occasioni, quando non ne ero cosciente.
Ma ora è diverso… lui è vivo, e si ricorda ancora di me.
È stato chiuso dieci anni in carcere, e dopo tutto questo tempo, ha avuto il coraggio e la pazienza di venirmi a cercare.
Chissà poi come ha fatto a trovarmi.
Di una cosa sono sicura: voglio sentire per bene cosa gli è successo in questi anni. Vivrà con la sua famiglia ora? E sua moglie è consapevole che è venuto a cercarmi?
Per tutta la settimana non faccio altro che pensare a quello che è successo: con questi pensieri passano i giorni, in ansia dell’arrivo del sabato.
 
Il sabato seguente mi alzo presto la mattina, facendo attenzione a non svegliare Riccardo; scendo in cucina e preparo la colazione per tutti.
Mi sento contenta stamattina, e vado in bagno a prepararmi per andare fino in panetteria.
Decido di mettermi uno dei più bei vestiti che ho, uno svolazzante abito color cipria, e mi sistemo capelli e viso, truccandomi un po’.
Alle sei in punto esco da casa e scendo al paese, che sembra addormentato, all’alba del nuovo giorno.
È strano come, quando vuoi qualcosa, non arrivi mai mentre, quando non la cerchi, arrivi subito: così è stato per esempio con la notizia dell’arrivo di Federico. Oppure con la notizia dell’arrivo di suo padre.
L’ho aspettato tutto il giorno, cercando i suoi occhi negli sguardi della gente; i primi tempi lo facevo spesso, sperando ogni giorno in un incontro fortuito, ed oggi è la stessa cosa. Ho passato il tempo guardandomi intorno, eppure di lui nessuna traccia.
Ormai è mezzanotte, e dopo essere stati a casa di Anna, io, Riccardo e Federico torniamo a casa.
Francesco è andato in paese, al bar con i suoi amici, e non torna prima dell’una, le due.
Mando Federico a letto, mentre Riccardo mi dice che mi aspetta in camera.
Lo raggiungo dopo aver sistemato la cucina, ed inizio a cambiarmi per indossare la camicia da notte.
Appena sposati, a Riccardo piaceva che mi spogliassi davanti a lui; ora, invece, è di spalle che dorme già e russa sonoramente.
Mi stendo vicino a lui, e come tutta la settimana passata, mi giro e mi rigiro nel letto; dopo mezz’ora mi alzo e vado in cucina, cercando di occupare la mia mente in altro modo.
All’una e un quarto torna a casa Francesco, e lo vedo entrare con un’espressione sbalordita sulla faccia.
“Cosa fai in piedi?”
Sto lavando i piatti, con la camicia di seta rossa e la vestaglia uguale sopra, regalo di nozze di Anna.
“Mi sono ricordata di non aver lavato i piatti” dico, seria.
“E li devi lavare all’una di notte?! Ma stai bene?”
Continuo a lavare, ignorando quello che mi dice.
“Va bene, come vuoi donna… Io vado a letto. A dormire.”
Lo sento salire le scale e, dopo dieci minuti, chiudere la porta della camera.
Io intanto finisco di lavare i piatti e mi riavvicino alle scale, ma il sonoro russare di Riccardo arriva fino a sotto.
Con la nausea allo stomaco ritorno indietro, spegnendo la luce e raggiungo la finestra. Scosto la tenda e guardo fuori: buio completo. Non dormirò neanche stanotte, ne sono consapevole; così prendo una decisione: apro la porta ed esco. Sono ancora a piedi nudi, con solo la leggera vestaglia che mi copre fino alle cosce.
Mi dirigo piano verso il laghetto, stringendomi nelle braccia, e una volta arrivata mi fermo guardandomi intorno; riconosco gli alberi verso cui Friedrich si era avviato una settimana prima, così ripercorro quella strada, facendo un po’ di testa mia.
In mezzo ai campi fa molto freddo, ma non intendo fermarmi: voglio vedere dove mi portano i suoi passi.
Arrivo davanti ad un bosco, con abeti alti e fitti; mi appoggio ad uno di loro, scrutando nell’oscurità.
Non si vede nulla, e un lontano abbaiare mi spinge a non entrare; giro le spalle e ammiro i campi alla luce delle stelle. Tutto è così silenzioso e tranquillo che potrebbe assomigliare ad un limbo.
Dopo alcuni minuti sento uno scatto dietro di me, come il rumore di un grilletto.
Fermo
Sono immobile, sentendo un gelo improvviso.
Dei passi si avvicinano, e stavolta inizio davvero ad avere paura.
Cosa cerchi?
La R, pronunciata nella sua inconfondibile maniera teutonica, non mi lascia altri dubbi: è lui.
Friedrich…?
Ho le mani alzate, e per lo spavento ed il freddo sto tremando.
Lo sento avvicinarsi e girarmi con forza: incontro i suoi occhi chiari, e leggo sul suo viso un’espressione di sorpresa.
“Cosa ci fai qua?” la sua voce è dura, come fosse un rimprovero.
“Non riuscivo a dormire… E tu invece? Cosa ci fai in mezzo al bosco con un fucile in mano a quest’ora?”
Lui mi mette una mano sulla schiena e mi spinge verso l’interno del bosco; non risponde finché non entriamo dentro una casetta di legno.
“Ho comprato un fucile per proteggermi.” Dice, sintetico come sempre.
“Per proteggerti da cosa?”
“Dai comunisti e dai partigiani. Hai freddo? Stai tremando”
“I partigiani? La guerra è finita da un pezzo. Perché dovresti difenderti da loro? Non esistono più!”
Lui appoggia il fucile sopra ad una mensola, e spegne con un soffio la candela che era accesa sul tavolo.
“Esistono ancora. Nonostante tutto io ero un nazional socialista, e lo rimarrò fino alla morte.”
Cerco di guardarlo, ma al buio mi risulta difficile.
“Cosa stai dicendo?”
So benissimo cosa sta dicendo, ma preferisco pensare che mi stia sbagliando.
Lo sento sospirare.
“Non importa, non parliamo di questo ora. Eri venuta a cercarmi?”
“Ecco…” mi guardo intorno, ma non riesco a vedere molto perché gli occhi non si sono ancora abituati all’oscurità, “Posso sedermi? Perdonami, ma non vedo niente…”
Sento una sua mano prendermi il braccio, e un vuoto improvviso allo stomaco fa accelerare il battito del mio cuore. Mi porta vicino ad una sedia e me la spinge leggermente vicino.
“Scusa, ma non posso accendere luci di notte. Aspetta un attimo”
Lo sento muoversi nella stanza e ritorna vicino a me, mettendomi una coperta sulle spalle.
Le sue mani sfiorano il mio collo, facendomi arrossire violentemente, come un adolescente alla sua prima cotta; almeno ringrazio il fatto di essere al buio.
“Come stai Maria? Raccontami qualcosa di te. Sei felice? Tuo marito ti tratta bene?”
Si siede davanti a me, dopodiché il silenzio cala nella stanza e mi sento in imbarazzo a dover rispondere.
“Bene… si tutto bene…” dico, balbettando.
Lui rimane zitto per alcuni secondi, poi continua con le domande.
“I tuoi figli?”
“Ehm… bene si…”
Inizio a sentirmi a disagio: lui è molto dolce a chiedere di me, ma non voglio parlargli della mia vita, non ora.
“Raccontami di te invece… io non so nulla di quello che ti è successo dopo che te ne sei andato da Cuneo.”
Resta in silenzio un attimo prima di rispondermi.
“Davvero vuoi che ti racconti ancora quelle storie?”
Lo so che non gli va, come non gli andava dodici anni fa di aprirsi per condividere il suo dolore.
“Mi farebbe piacere sapere della tua vita… non sei costretto.”
Deve aver cambiato posizione sulla sedia dai movimenti che sento, poi finalmente inizia a raccontarmi.
“Come ti ho già detto gli americani hanno fatto prigionieri me e la mia squadra due mesi dopo che ti lasciai. Ci processarono quando la guerra finì; quei bastardi picchiavano i testimoni, per fargli dire quello che volevano loro, e colpevolizzare soldati che colpa non ne avevano.”
“L’hanno fatto anche con te?” gli chiedo, interrompendolo.
Si
“Hai testimoniato il falso? Ti sei preso colpe che non avevi?”
Lui sospira, cambiando ancora posizione.
“No, mai. L’ho sempre detto che non ho mai avuto paura di nessuna conseguenza. Mi sono preso la responsabilità di tutte le decisioni. Ma ormai è passato così tanto tempo… che neanche io so più qual è la verità.”
Osservo il contorno della sua figura nel buio della stanza, e riesco a riconoscere alcuni suoi particolari che mi fanno battere di nuovo forte il cuore.
“Il resto lo conosci già…”
Ha finito col suo racconto, ed ora tocca a me: decido finalmente di aprirmi, è arrivato il momento.
“Mi dispiace Friedrich… Quando ho letto che ti volevano impiccare non ci volevo credere; preferivo pensare che avessi voluto continuare con la tua vita, dimenticare quello che era successo... non che fossi morto senza averti potuto rivedere un’ultima volta.”
La mia voce che rimbomba nella stanza è innaturale, come se non mi appartenesse.
“Cos’hai fatto dopo che ti ho lasciata?”
Mi stringo nella coperta per darmi la forza di rivivere quei brutti momenti.
“Ho trovato rifugio nella chiesa vicino a dov’era la casa. Sono rimasta lì alcuni mesi, poi sono andata in un convento di suore fuori città. Passarono un paio d’anni, quando finalmente riuscii a contattare mio fratello. Venne a prendermi e venimmo a stare qui. Dopo che ebbi saputo della tua presunta morte, smisi di aspettarti, e mi rassegnai a questo fatto. Conobbi Riccardo e ci sposammo sette anni fa, più o meno. Ecco, è tutto…”
Sono consapevole di aver tagliato parti fondamentali, ma non mi va di fargliele sapere in questo momento.
“È così che si chiama tuo marito allora.” Sospira, sfregandosi il viso con le mani, “Sei felice con lui?”
Se sono felice con lui? No. Con lui non sento felicità, ma solo affetto abitudinario.
“È un uomo tranquillo… ha deciso di starmi vicino fino alla vecchiaia…”
“Non hai risposto alla mia domanda.”
E non lo farò. Non gli dirò mai che sono felice con Riccardo, perché non è vero. Ma soprattutto perché lui non è una persona qualunque a cui mentire su queste cose.
Rimango in silenzio, mentre lo vedo alzarsi e avvicinarsi ad una finestra.
“Sta fuori casa tutta la settimana e qualche volta non torna neanche il sabato e la domenica. Come fa a renderti contenta un uomo così?”
Alzo lo sguardo verso di lui, sorpresa.
“Come fai a saperlo? Mi hai seguita per caso?”
“Ho semplicemente chiesto di te, dovevo trovarti in qualche maniera.”
“E perché eri così stupito quando hai visto la fede al mio dito, se lo sapevi già?”
“Ho sperato fino all’ultimo che quella donna di cui mi parlavano non fossi tu”
“Chi è che ti ha parlato di me?” mi raddrizzo, all’improvviso nervosa.
“Come pensi che ti abbia ritrovata? A caso? Sono ritornato a Cuneo, e ho chiesto di te in tutte le chiese della città: immaginavo che avresti trovato rifugio là. Il prete mi ha mandato in un convento di suore fuori Cuneo. E lì delle suore scontrose mi hanno mandato via. Solo dopo numerose insistenze quella che doveva essere la più importante mi ha finalmente parlato di te.”
Madre Nicoletta. Tengo tutt’ora contatti con le suore di quel convento, ed in particolare con lei, perché è stata come una madre in quel periodo. Ha fatto tanto per me e per il mio bambino… ma spero solo non gli abbia detto di Federico.
“Da quant’è che sei qui? È la tua casa questa?” chiedo.
Lui si gira verso di me, appoggiandosi con la schiena al muro e incrociando le braccia.
“Sono qui da un mese.”
“E perché ti sei presentato solo la settimana scorsa?”
Friedrich tiene lo sguardo dritto nel mio, sicuro e inflessibile come la sua natura di soldato.
“Perché non era giusto che tu mi vedessi. Sei andata avanti ed hai la tua famiglia. Lo sapevo che se mi avresti incontrato sarebbe finita così”
“Così come? Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Avresti passato vent’anni in questa catapecchia a guardarmi da lontano? Perché? Che senso ha tutto questo?”
Mi sto arrabbiando, ma non con lui, con il destino. Avrei preferito che stesse con la sua famiglia, che si fosse dimenticato di me piuttosto di saperlo vivere in solitudine in mezzo ad un bosco a venti metri da me.
 “Ho passato più della metà della mia vita a fuggire, a spostarmi da un posto all’altro. Ora che ho trovato un motivo per restare non farò più gli sbagli che ho fatto prima.”
È così allora: lui mi avrebbe seguita da lontano, perché sapeva che ormai ho la mia vita. Ma non avrebbe smesso di proteggermi, come mi promise dodici anni fa.
Mi alzo dalla sedia, lasciando cadere la coperta dalle spalle; mi avvicino a lui e gli prendo il viso con una mano, vedendo la luce delle stelle brillare nei suoi occhi azzurri.
“Perché Friedrich? Perché tutto questo solo per me?”
Non risponde, ricambiando però il mio sguardo.
“Anche tu hai una famiglia… a loro non ci pensi?”
Mi interrompe, usando quel tono freddo che avevo dimenticato sapesse usare.
“Loro sono al sicuro in Germania, gli mando soldi tutti i mesi. È una storia chiusa.”
Rimango in silenzio, non sapendo che dire. Ho sempre saputo che Friedrich ha un carattere forte, che prende decisioni importanti senza fare una piega. Ma qui non si tratta del suo lavoro: qui si tratta dei suoi sentimenti e della sua vita.
Un uomo fiero e valoroso come lui, che ha portato avanti battaglie ed è stato in carcere, ha preso la decisione di vivere una vita da eremita per potermi proteggere e guardare da lontano. Il freddo soldato senza paura con me non è mai esistito; piano piano si è svelato per quello che in realtà è.
“Maria?”
La sua voce che mi chiama mi fa sussultare, e ritorno alla realtà.
“La suora mi ha detto che hai avuto dei problemi a Cuneo, per questo ti hanno spostata là. Cos’è successo?”
No. Non è ancora arrivato il momento di parlargli di Federico.
“Nulla di grave…”
Temporeggio un po’; ho paura che si accorga che gli stia mentendo così, a malincuore, decido di andarmene.
“È tardi ora, è meglio che ritorno a casa…”
Mi dirigo verso la porta e finalmente trovo la maniglia; mentre sto per uscire però una sua mano prende la mia.
Mi giro sorpresa e lo vedo richiudersi la porta alle spalle.
“Ti accompagno” dice, stringendomi forte nella sua grande mano.
“Friedrich… la guerra è finita, non c’è nessuno che può fare del male qua…”
Gli trotto a fianco come dodici anni fa, non riuscendo a stare al suo passo.
“Non si sa mai.”
Saliamo il ripido sentierino che dal laghetto porta alla mia via, e lui mi fa passare avanti, controllando che non cada.
Arrivati all’inizio della polverosa strada mi fermo, non sentendolo più vicino a me: mi giro a guardarlo e vedo che si è fermato quasi alla fine del sentiero.
“Te ne vai senza salutare?” gli chiedo.
“Avrei aspettato che fossi entrata in casa prima di andarmene.”
I suoi capelli biondi sembrano raggi di un astro nascente nel buio della notte; e ancora una volta, doverlo lasciarlo andare, mi rende triste.
Continuo a guardarlo, consapevole di sembrare un po’ stupida, ma non me ne importa: nessuno mi sta vedendo, se non lui.
Ripenso ancora a quello che mi ha detto poco fa, e non mi sembra vero: com’è possibile che un uomo possa essere così fedele, così d’onore?
Dopo il suo discorso, qualsiasi cosa dica non avrebbe lo stesso peso, la stessa passione; nonostante ciò voglio fargli sapere quello che provo.
Mi avvicino a lui, un po’ nervosa e titubante: non so se è esattamente la cosa giusta da fare, ma lo voglio davvero.
“Io… sinceramente non so che dire. Quello che hai detto prima mi ha lasciata senza parole, ma voglio dirti che come tu non mi hai scordata, io non ho mai scordato te. Ti ho sempre tenuto qui dentro, perché sei stato e rimarrai qualcosa di speciale ed unico per me.”
Mi fermo un attimo per prendere un bel respiro, ed evitare di commuovermi.
“Grazie Friedrich... Grazie per le tue parole, grazie per essere qui, grazie… di tutto…” mi metto una mano sul cuore, per fargli capire che le parole mi vengono da dentro.
“Buonanotte…” gli sussurro, sorridendogli leggermente.
Lui non dice niente, così mi giro e mi avvio verso casa. Sto aprendo la porta, quando una mano mi copre la bocca, ed un’altra mi stringe lo stomaco, alzandomi.
Cerco di divincolarmi ma non riesco a muovermi bene in questa posizione; mi porta verso il lato della casa e mi gira, appoggiandomi al muro.
Rimango sbalordita quando lo vedo, ma appena apro la bocca mi rimette la sua mano sopra, come segno di fare silenzio.
“Volevo salutarti qui… sapere che ti lascio ancora mi fa impazzire”
Mi prende la nuca come era solito fare e si avvicina alla mia bocca, prendendo le mie labbra tra le sue; di nuovo un calore avvolge il mio cuore, eliminando dalla mia testa ogni pensiero.
Gute Nacht Maria
Prima che se ne vada, gli appoggio una mano sulla guancia, guardandolo con tenerezza; lui la prende nella sua e la toglie, baciandola e lasciandomi.
Lo vedo allontanarsi, e penso che lo voglia fare apposta: è sempre lui a dovermi far vedere che se ne va, e mai io.
 
 
Ho dormito bene tutta la notte, svegliandomi anche piuttosto tardi il giorno dopo. Riccardo e Francesco sono scesi in paese per andare al bar ed io, la domenica, vado a casa di Anna assieme a Federico a preparare delle torte e chiacchierare un po’.
Quest’oggi però so benissimo che il mio programma sarà diverso; lascio Federico da Anna e vado da Friedrich, portandogli qualche dolcetto che avevo preparato durante la settimana.
“Cos’è che devi fare oggi?” dice Anna, quando sto per uscire da casa sua.
“Te l’ho detto, devo andare in città a sbrigare delle commissioni. Lo sai che la domenica è il mio unico giorno libero, se non vado oggi dovrò aspettare un’altra settimana.”
Lei mi guarda con aria di assenso mentre, tra biberon e culla, si destreggia tra i suoi quattro figli.
Capita di rado che non ci si veda la domenica, ma è talmente presa dai suoi figli che probabilmente non ci pensa nemmeno che potrebbe essere una bugia.
La saluto, poi lancio un bacio a Federico dicendogli di fare il bravo.
Esco da casa di Anna con un misto di ansia ed eccitazione addosso; rientro a casa mia e prendo il cestino con le torte per Friedrich.
Mi avvio a passo spedito verso il bosco, e quando scorgo la casetta in legno un sorriso appare sul mio volto.
Busso, annunciandomi.
Friedrich mi apre: indossa una polo bianca e dei pantaloni neri.
“Entra pure…” mi dice, facendomi segno con una mano.
Raggiungo un piccolo tavolo rotondo e ci appoggio il cestino.
“Ho qualcosa per te… ho visto che sei dimagrito ed ho pensato ti avrebbe fatto piacere”
Lui mi guarda con aria piena d’aspettative, così apro il cestino e tiro fuori la crostata alle fragole e l’altra torta, pan di spagna con panna e frutti di bosco.
“Avrei voluto dartele ieri, sarebbero state più fresche…”
Lui sembra ignorare il mio commento.
“È da un po’ che non mangio qualcosa di buono”
Friedrich mi sorride, ed intanto prende dei piatti con delle posate.
“No, aspetta! Faccio io… tu siediti” gli dico, prendendogli le stoviglie dalle mani.
Accetta suo malgrado, così gli preparo il piccolo tavolino con le poche cose che ci sono in casa.
“Non avresti dovuto fare tutto questo…” dice, guardandomi andare avanti e indietro.
“Non preoccupartene…” rispondo.
Gli taglio due grosse fette di torta e gliele metto su due piatti diversi.
“La crostata è quella che mi viene meglio, di solito”
“Sono sicuro che sono ottime tutte e due. Tu non mangi?” mi chiede, pronto con la forchetta in mano a tuffarsi sulla torta.
“No, sono per te. Io mangio già abbastanza…”
Scuote la testa sorridendo, e lo vedo mangiare con gusto i dolci che gli ho preparato. Vederlo mangiare contento è quasi paragonabile a vedere mangiare contento Federico: provo esattamente la stessa sensazione di soddisfazione e orgoglio. Ma lui questo non lo sa… perché io di Federico non gli ho ancora parlato.
Mentre sta finendo la fetta di crostata, decido di aprire l’argomento perché, se non lo faccio ora che è tranquillo, credo non lo farò mai più, e non voglio passare altro tempo con lui nascondendogli di nostro figlio.
“Friedrich… devo dirti una cosa.” Dico seria.
Lui alza un attimo lo sguardo, per farmi capire che mi sta ascoltando, poi ritorna alla sua torta.
“Ti ricordi quando mi hai chiesto cos’era successo a Cuneo?”
“Mmh”
“Ecco… non ti ho detto tutta la verità”
Si ferma alzando finalmente gli occhi e lasciando perdere la torta.
Non dice niente, così continuo col mio racconto.
“Ho scoperto di essere incinta. Ho dovuto raccontare la verità di quello che era successo… le donne che vivevano insieme a me mi hanno trascinato in una casa e mi hanno rasata, denigrandomi. Era il segno distintivo delle donne che erano state con dei tedeschi. Non sai quanto mi sono vergognata… mi sentivo uno schifo. Ma in quel dolore ho trovato la forza per non far passare tutto quello che stavo passando al bambino che avevo in grembo.
Il prete, sant’uomo, mi mandò al convento di suore, dove partorii. E lui è ancora con me…”
Un nodo alla gola mi impedisce di andare avanti, così decido di non dire più niente. Prendo un bel respiro cercando di calmarmi.
Friedrich mi guarda, e sembra sconvolto.
“Lo sapevo che c’era qualcos’altro… perché non me l’hai detto subito? E… come si chiama?”
Abbasso lo sguardo imbarazzata, e sorrido un po’: proprio in questo momento scoprirà quanto ci ho tenuto e quanto ci tengo ancora a lui.
“L’ho chiamato Federico. È un bellissimo bambino… ti assomiglia così tanto.”
Friedrich appoggia la forchetta sul piatto e si alza, camminando nervosamente avanti e indietro.
“Lui… sa di me?”
“No. Dopo che ho incontrato Francesco, lui mi ha impedito di rivelargli chi fosse il suo vero padre. Io gli ho parlato di te, ma era ancora molto piccolo, aveva meno di due anni… però ora potresti incontrarlo. Vorrei che lo vedessi, se te la senti… che gli raccontassi tu stesso la verità, se vuoi.”
Lo vedo sedersi sul letto, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia.
Rimane in silenzio per un tempo così lungo che inizio a sentirmi a disagio; decido così di alzarmi e sedermi vicino a lui, per rassicurarlo.
“Friedrich… se non vuoi non importa… non sei costretto.”
Certo, è libero di fare le sue scelte… però segretamente spero che lo voglia vedere.
Gli passo una mano tra i capelli, e solo ora mi accorgo che non sono più rasati sotto la nuca; li ha fatti crescere e riesco a prendere bene le sue ciocche biondo scuro tra le mie dita.
Al mio tocco lui si gira, e mi guarda con uno sguardo nuovo, che non gli ho mai visto prima.
“Io non avrei mai immaginato… non avrei mai pensato...”
I miei occhi sono persi dentro i suoi, così profondi da non vederci mai una fine.
“È passato Friedrich. Non voglio più pensarci… ho così tanti motivi per vergognarmi del mio comportamento che ne morirei. Federico mi ha spinto ad essere migliore, a dargli un buon esempio… e poi, come disse qualcuno qualche anno fa ‘domani potremo morire, ma ora sei qua con me’… di nuovo…”
Gli passa uno scintillio negli occhi quando si accorge che ho ricordato le sue parole.
Vuole dire qualcosa, ma si è fermato per qualche motivo; io sembro immobilizzata da qualche strana presenza e lo guardo ipnotizzata.
Il cuore batte così forte che nel silenzio del posto sembra un tamburo che scandisce un tempo velocissimo.
Le sue mani si avvicinano al viso accarezzandomi la pelle, e facendomi rabbrividire di eccitazione.
“Ti ho immaginata ogni notte in tutti questi anni…”
Mi prende il viso tra i suoi palmi, spalancando le iridi.
Io gli metto le mani suoi polsi cercando di avvolgerlo, ma è impossibile.
“Ho cercato i tuoi lineamenti in tutto quello che vedevo…”
La pelle delle sue dita è diventata più dura e ruvida, come se fosse coperta di calli; il suo calore però non è diminuito, ed il respiro è bollente vicino alla mia fronte.
Tutte le mie autodifese sono totalmente a zero, e quando si avvicina al collo mi sembra di sentirmi male.
Le sue mani mi percorrono il corpo, con gentilezza ma desiderio allo stesso tempo. Arriva ai fianchi, e si ferma un attimo; giro la testa verso di lui, facendogli capire che voglio guardarlo. Lui incontra il mio viso, avvicinandosi alla mia bocca, sfiorando le sue labbra con le mie.
Le mani mi prendono con violenza i glutei, portandomi sulle sue gambe; mi guarda un istante negli occhi, poi affonda la sua bocca nella mia con passione, tenendomi la testa con una mano.
Sembra di essere dentro un forno, tanto che non riesco neanche a respirare.
All’improvviso mi alza di nuovo e mi appoggia sul letto, mettendomi una mano dietro la testa per farmi stendere.
Il mio corpo chiama il suo, ma sta succedendo tutto così velocemente che non capisco nulla: l’uomo che ho desiderato per tanto tempo è ora qua con me, che mi brama, mi vuole forse tanto quanto io voglio lui. Ma qualcosa mi blocca, qualcosa che si è radicato col tempo e che mi impedisce di lasciarmi andare. Quando si distende sopra di me, io mi puntello sui gomiti, mettendogli poi una mano sul petto.
“Aspetta… aspetta per favore”
Lui si ferma paziente, ed un guizzo dei suoi occhi mi fa capire che si sta trattenendo.
“Se succede… io non saprò più tornare indietro…” gli dico, sinceramente.
Mi dispiace per Riccardo, ma l’uomo che amo è davanti a me, che mi chiede di essere sua dopo tanti anni costretti a passarli lontani.
L’uomo da cui ho avuto un figlio, l’uomo che mi è venuto a cercare dopo dieci e più anni di carcere… non ho mai provato questi sentimenti per nessuno, e sono sicura che mai più li riproverò.
“Non avere paura di stare con me…”
Si avvicina al mio collo, sospirando vicino al mio orecchio.
“Non sai quanto vorrei essere io a dormire a fianco a te la notte… vorrei essere io a prendermi cura di te.”
A quella frase un brivido mi percorre la schiena, immaginandoci come una famiglia.
“Quando ero in piedi davanti ai giudici che mi dicevano sarei stato impiccato, l’unico mio pensiero eri tu… l’unica cosa che mi ha impedito di impazzire in carcere sei stata tu… tu sempre… lo so che lo vuoi anche tu Maria. Lasciati andare”
Alza il viso, mettendolo un po’ sopra al mio, e dopo quelle parole ogni mio dubbio è svanito; non ci penso due volte, e unisco le mie labbra alle sue, sentendo il suo sapore zuccheroso sulla mia lingua.
Mi ha pensata tanto quanto l’ho pensato io, ogni giorno di ogni mese, di ogni anno.
Una lacrima mi scende dagli occhi, ma lui non la vede; mi ha appena aperto il vestito, e scende sul mio petto con dolcezza e passione allo stesso tempo.
Dopo la prima ne scendono tante altre, facendomi finalmente sciogliere dopo tanto tempo; Friedrich se ne accorge e si ferma, stranito.
“Cosa c’è?”
La sua voce è ancora più bassa del solito e rauca. Ed è il più bell’uomo che abbia mai incontrato.
“Nulla, Friedrich… sono solo contenta di averti finalmente ritrovato”
E sono sicura che lui ha capito di cosa sto parlando.
Si allunga sopra al mio corpo e prende dal cassetto del piccolo comodino un fazzoletto: me lo passa con delicatezza sul viso, asciugandomi le lacrime.
Non stacca un momento gli occhi da me, e mi fa sentire come se fosse già dentro, come se il mio corpo ed il suo fossero una cosa sola.
Ci amiamo, facendomi toccare punti di felicità che mai avrei pensato di provare. Le sue mani mi tengono e sorreggono ogni momento, come se avesse paura che andare via.
Ma io non me ne sarei mai andata.
 
Siamo abbracciati, la mia schiena sul suo petto, stanchi dopo tutte le emozioni che abbiamo appena provato.
Nessuno dei due dice niente, ma ci stringiamo, per farci capire che siamo vicini.
Il mio corpo è pieno di una nuova energia, come se tutte le cose belle del mondo in un attimo fossero entrate in me, appartenendomi.
Chiudo gli occhi, sentendo il respiro regolare di Friedrich alle mie spalle.
“Mercoledì vorrei incontrare Federico”
Riapro gli occhi, stringendogli ancora di più le mani.
“Non sei a Stoccarda durante la settimana?” gli chiedo.
“Non ti preoccupare. Aspettatemi vicino al lago... vi porterò in un posto.”
“Va bene…” dico, sorridendo.
“Mettiti le scarpe però”
“Va bene…” rispondo ancora, sorridendo di più.

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI ***


Il mercoledì seguente torno a casa prima da lavoro, facendomi dare il pomeriggio libero; quasi corro per strada, per paura di arrivare in ritardo.
Apro la porta e trovo la casa silenziosa e in ordine come sempre; vado di sopra e decido di cambiarmi.
Indosso un paio di pantaloni di cotone blu a vita alta, ed una camicia rossa a cui faccio un bel fiocco sul davanti.
Mi sistemo un po’ i capelli e ripasso il trucco, continuando a guardarmi nervosamente allo specchio; alla fine decido di scendere a mangiare qualcosa e preparare il cestino per questo pomeriggio.
Federico sta per tornare a casa da scuola; stamattina gli ho ricordato di venire direttamente qua invece che fermarsi come al solito a casa di Anna.
Apprezzo molto il fatto che Friedrich abbia voluto incontrarlo, ma non voglio sbattere subito in faccia la verità al mio bambino. Ci ho pensato molto in questi giorni… e sono arrivata alla conclusione che, prima di dirgli qualsiasi cosa riguardante Friedrich, debba conoscerlo per quello che realmente è, e non per quello che è stato. L’unica pecca nel mio ragionamento è che tutto questo Friedrich non lo sa. Conoscendo il suo carattere non si butterebbe mai nel dirgli che è suo padre, e lo so benissimo che comunque non sarebbe facile per lui; spero che non azzardi niente oggi cosicché io li possa “guidare” piano piano nel sentirsi bene assieme.
All'improvviso la porta si apre e mi distoglie dai miei pensieri, e vedo Federico togliersi la borsa coi libri e venirmi ad abbracciare.
“Ciao mamma! Cosa c’è di buono da mangiare oggi? Ho una fame…”
Lo osservo, così giovane e così ignaro del passato; sembra la sua fotocopia, come si muove, l’aspetto fisico e il modo in cui riempie la stanza con la sua presenza.
“Mamma?”
“Scusa Fede. Vai a lavarti le mani, ti ho fatto un bel pranzetto oggi”
Esce da casa e lo sento aprire la fontana dietro l’entrata; dopodiché rientra e mi guarda con aria interrogativa.
“Perché stai preparando il cestino?” mi chiede, mentre si mette a tavola.
“Oggi pomeriggio andiamo a fare una gita speciale.” Gli dico, senza svelare nient’altro.
“Cioè? Viene anche lo zio?” dice, in evidente eccitazione.
“No tesoro, lo sai che lo zio lavora fino a sera. Andiamo io e te…”
“Ah,” ritorna con lo sguardo sul piatto, “che noia. Pensavo ci dovessimo divertire”
Mi fermo, guardandolo con aria stupita.
“Perché non ti diverti con la tua mamma?!”
Mi avvicino, iniziando a fargli il solletico sulla pancia, e la sua risata argentina sembra come uno scroscio d’acqua dopo mesi di siccità.
“Va bene, va bene! Lasciami finire di mangiare!”
Lo lascio in pace, guardandolo di sottecchi: sono così orgogliosa di lui… è la cosa più bella che abbia mai fatto nella mia vita.
Torno di sopra così, mentre Federico finisce di mangiare, posso sistemare la stanza che condivide con Francesco.
Per quanto gli insegni a rifarsi il letto alla mattina, non mi ascolta mai: sta prendendo le brutte abitudini di suo zio, che pensa io sia come nostra madre.
Dopo anni e anni di urla non abbiamo ancora trovato un accordo, e a malincuore devo sempre aiutarlo nelle sue faccende.
Apro i balconi per far passare un po’ d’aria e, guardando gli alberi fitti della boscaglia che sono davanti casa, mi si contorce lo stomaco pensando che tra un po’ lo rivedrò, presentandogli il dono che mi ha fatto dodici anni fa.
“Ma sei sempre a pulire… la stanza sta bene così com’è! Anche lo zio dice che non dovresti sistemare sempre!”
Mi giro, vedendo Federico osservarmi dalla porta.
“Vedi di non dare troppo ascolto a quello che ti dice tuo zio. È uno scansafatiche, non vuole pulire. È per questo che dice quelle cose.”
Mi avvicino, guardandolo in viso: inizio a sistemargli i capelli, e lisciargli la magliettina bianca che porta.
“Mamma! Non dobbiamo mica andare in chiesa! Basta!”
So benissimo che odia quando voglio sistemarlo ma sta per conoscere suo padre, e voglio che sia perfetto.
“Va bene ribelle. Sistema la tua cartella che dopo ce ne andiamo”
 
Mezz’ora dopo, stiamo per raggiungere il laghetto; il mio cuore batte forte, e una strana sensazione mi chiude lo stomaco. E se Friedrich lo ripudiasse, gli dicesse qualcosa di brutto? Oppure dicesse che non è suo figlio? Inizio ad analizzare tutte le sue possibili reazioni durante il tragitto, anche quelle più improbabili.
“Dove stiamo andando? Non c’è nulla per di qua. Ma perché sei così silenziosa oggi? Avevi detto che sarebbe stato divertente!”
Sospiro, cingendogli le spalle.
“Scusa, sto pensando a delle cose ma non sono importanti. Vieni fermiamoci qua… devi conoscere una persona prima”
Ci sediamo sul tronco di un albero caduto, e nell’udire le mie ultime parole lo stomaco si contorce sempre più.
“Chi è?” insiste Federico.
“Adesso lo vedrai, porta un po’ di pazienza. Dovrebbe arrivare”
“Va bene…”
Lo vedo sedersi per terra, ed iniziare a giocare con le formiche che camminano per il tronco.
È un’altra bella giornata di sole, con solo qualche nuvola in cielo; l’aria è frizzante, e si inizia a sentire il profumo dei fiori. Le montagne all’orizzonte sono nitidissime, e si riesce a scorgere chiaramente la punta ancora innevata.
Chiudo gli occhi, godendo di quel momento di incredibile pace: un venticello mi scompiglia i capelli, facendomi prudere il naso.
Riapro gli occhi come se, incoscientemente, sapessi che lui stesse arrivando: ed eccola lì, la sua figura, ormai inconfondibile. Cammina ancora con le braccia dritte e composte come quando era un soldato, e la sua falcata è sicura e fiera in mezzo all’erba alta.
È così strano vederlo senza divisa, vederlo come un uomo normale: sembra che tutto quello che è successo sia così lontano, che forse non è neanche mai accaduto.
Gli rivolgo un sorriso mentre si avvicina e faccio alzare Federico, dicendogli che la persona che deve conoscere è arrivata; lui si alza da bravo e mi guarda, poi si gira, fissando quell’uomo alto e forte che ci sta raggiungendo.
Friedrich rallenta il passo quando lo vede, e i loro sguardi non si staccano l’uno dall’altro: in quello di Federico si legge la curiosità e l’innocenza, in quello di Friedrich la consapevolezza e il timore.
“Ciao Friedrich” gli dico, e lui finalmente posa i suoi occhi su di me; gli metto una mano attorno al braccio, mentre con l’altra accarezzo la testa di Federico.
Non serve che mi abbasso per parlargli, ormai è alto quasi quanto me.
“Federico lui è… Friedrich”
Ripeto la stessa cosa a Friedrich, mentre sento un timido ciao provenire dalle labbra di Federico.
Sulle labbra di suo padre invece, appare un quasi altrettanto timido sorriso, mentre non smette di osservare ogni suo piccolo particolare.
Solo in questo momento mi accorgo che con lui c’è qualcun altro: un cagnolino di taglia media lo segue, nero a macchie bianche.
Il cane abbaia verso di noi, probabilmente perché non ci conosce; Federico ne è subito attirato, e lo guarda con curiosità.
“Ti piacciono i cani?” gli chiede Friedrich, mentre lo fa avvicinare.
Vederlo parlare con il mio bambino mi fa venire un nodo alla gola, ma cerco di mantenere un contegno.
“Si… è tuo?” dice Federico.
Il cane si avvicina piano, annusandoci.
“Si. Non è cattivo, puoi giocarci se ti va.” Continua Friedrich.
Federico sembra titubante, e prima di lasciarsi andare mi guarda speranzoso; fa sempre così con le persone che non conosce.
“Ma certo che puoi tesoro” gli dico.
Lo vedo accarezzarlo con delicatezza, mentre Friedrich gli dice che gli piace quando gli si tirano i bastoni.
Federico ne va in cerca, con il cagnolino scodinzolante alle calcagna; io intanto osservo l’uomo che mi è vicino, e lo vedo completamente perso nei suoi pensieri.
Non vorrei essere indelicata, ma non resisto più nel sapere cosa pensa.
“Friedrich? Dì qualcosa per favore…”
Lui continua a guardare suo figlio, mentre corre e gioca con il cane.
“Mi assomiglia davvero tanto.”
Sintetico, come sempre.
Rispetto il suo silenzio, mentre decido di risedermi sul tronco.
“No,” dice, fermandomi “dobbiamo andare”
Mi rialzo ubbidiente, prendendo il cestino con me; intanto chiamo Federico, dicendogli di seguirci con il cane.
“Hai una vaga idea che quando torneremo a casa insisterà nel voler prendere un cane?” dico, cercando di sciogliere un po’ la tensione.
“Puoi dirgli che può giocare con lui quando vuole”
Ci giriamo entrambi a guardarlo, vedendo il cagnolino fare dei salti di due metri mentre giocano.
E proprio mentre passeggiamo insieme realizzo una cosa: è la prima volta che camminiamo vicino, come un uomo e una donna normali, alla luce del sole.
Non c’è nessuno che ci vede, ma a me non importa; i nostri passi sembrano guidati contemporaneamente, come se qualcuno ci facesse fare le stesse cose allo stesso tempo.
“Non so se ci siete mai stati… c’è un sentiero un po’ ripido che porta fino a su, ma ne vale la pena una volta raggiunta la cima.”
Mi giro a guardarlo, un po’ in pensiero.
“La cima di cosa?” chiedo.
“La cima del monte” Risponde lui.
Se l’avessi saputo di certo non mi sarei vestita così elegante e scomoda per una ‘scalata’!
“C’è qualcosa che non va?” mi chiede, girandosi a guardarmi mentre continua a camminare.
Proprio in quel momento una ripida via piena di sassi e buche si presenta ai miei occhi.
“No…” dico, mentendo palesemente. Per fortuna sono abituata a salire ogni giorno la strada che porta a casa mia, anche se non è così ardua.
“Dobbiamo salire per di là?” chiede Federico, avvicinandosi. Sembra stranamente contento, e questo mi rallegra.
“Si… ma stai attento…”
Non faccio in tempo a finire di fargli le solite raccomandazioni che sta già salendo insieme a Friedrich ed al cane.
Mi accodo al gruppetto, arrancando con fatica su per il monte.
Federico non correre per favore!” gli urlo col fiatone, mentre lo vedo saltellare per la stretta via; Friedrich lo tiene sott’occhio, e questo mi rassicura.
Dopo poco sento il piccolo che mi chiama, allegro.
“Guarda mamma! Guarda che bello, si vede casa nostra…”
Mi giro a destra, e mi accorgo solo in quel momento della bellezza che mi sto perdendo: siamo così in alto che si vede anche la città.
“Bello… guarda si vede anche il campanile, lo vedi?” chiedo, avvicinandomi a Federico.
“Si… vedo anche la scuola, tutto…”
Girandomi a sinistra vedo Friedrich che passa lo sguardo da me a Federico, ed infine all’orizzonte.
“Dobbiamo scendere… siamo diretti là” dice, facendomi segno con un dito ad un’enorme radura.
“La discesa è più difficoltosa… si scivola facilmente. Dovete stare attenti” continua.
Federico parte in quarta ma riesco a fermarlo per un braccio.
“Non correre… non farmi ripetere le cose mille volte!”
Lo sento sbuffare, e strattonare il braccio che gli tengo.
“Dai ci penso io. Stai tranquilla”
Friedrich si avvicina, facendo segno a Federico di seguirlo, e lui accetta di buon grado.
Li vedo scendere facilmente; nonostante abbia più di quarant’anni, Friedrich ha mantenuto un’agilità da far invidia.
Li seguo a fatica, maledicendo quel momento in cui decisi di mettermi le scarpe col tacco.
Scruto di sotto, e vedo che sono già arrivati: Federico si è perso a giocare di nuovo col cane, mentre Friedrich mi sta guardando.
Un dejà-vu si presenta nella mia mente: vengo catapultata a dodici anni prima, quando scendevo con il piccolo Andrea le scale della mia casa in Emilia e lui era lì sotto a guardarmi, proprio come in questo momento. La stessa espressione, gli stessi occhi, la stessa posizione.
Per la disattenzione prendo un sasso con il tacco della scarpa sinistra, e scivolo rovinosamente per terra.
Sbuffo, perché sapevo che prima o poi sarebbe capitato; poi la sua ombra mi copre.
“Tutto bene?” mi chiede.
“Si… ho solo scelto le scarpe sbagliate…”
Mentre cerco di rialzarmi, sento le sue mani prendermi le braccia e tirarmi su senza alcuna fatica; mi squadra, come per vedere se sia tutto apposto, poi mi accompagna piano, tenendomi stretta nella sua mano.
Non gliela lascerei mai, perché mi fa sentire così al sicuro da non sentire il bisogno di altro; nonostante questo, appena arriviamo giù sciogliamo la presa entrambi.
“Siamo quasi arrivati. Sicura sia tutto apposto?” chiede ancora Friedrich.
“Si, non ti preoccupare” rispondo, sorridendogli per fargli capire che sto bene.
Gli alberi sono fitti in questo punto, ma dopo un paio di minuti una luce rischiara il bosco: si apre davanti a noi una grande radura, con un ruscello che la attraversa nel mezzo.
Si sente solo il cinguettio degli uccellini, e di tanto in tanto si vede passare qualche scoiattolo.
“Che bel posto…” dico, guardandomi intorno, “Vieni mettiamoci qua. Ho portato la merenda.”
Ci sediamo sotto un alto pino posto vicino al ruscello, e stendo la tovaglia sul terreno un po’ umido.
Federico vieni a mangiare?” gli urlo, ma come al solito mi risponde che verrà più tardi.
Friedrich si è seduto davanti a me, e non stacca i suoi occhi un momento.
“Hai mangiato le torte che ti ho portato domenica?” gli chiedo.
Sul suo viso appare un piccolo sorriso.
“Si… erano davvero buone. Sei brava a cucinare Maria.”
Lo guardo di sbieco, stranita dai suoi complimenti che però mi inorgogliscono.
“Grazie… sei premuroso oggi. È successo qualcosa?” gli chiedo.
“No” risponde lui.
Torna a guardare il bosco, e io ne approfitto per togliermi le scarpe.
I piedi sono gonfi e doloranti, e l’acqua fresca del ruscello sarebbe un toccasana perfetto; così mi alzo e mi avvicino all’acqua, tirandomi su l’orlo dei pantaloni.
Tiro un sospiro di sollievo mentre il dolore si allevia, e guardo sorridendo Friedrich che sta scuotendo la testa; si alza e si avvicina, mettendomi una mano sulla schiena.
“Stai attenta a non cadere in acqua…”
“Friedrich ho trentacinque anni, non sono più una bambina.”
Mi avvicina a sé, facendo aderire il mio petto al suo.
“Mi ricordo ancora quando ti ho trovata priva di sensi in quel ruscello. Eri gelida e sembravi morta. Non voglio mai più rivederti in quello stato.”
Sospiro e appoggio la testa sul suo petto, per trovare la forza di rivivere quei momenti; è stato proprio in quel giorno che ho toccato il punto più triste della mia vita. Se non fosse stato per Friedrich non avrei mai saputo cosa fosse amare qualcuno, oppure la gioia di essere madre, o semplicemente la gioia di ritornare a vivere.
Federico è ancora in mezzo al bosco che gioca, quindi ne approfitto per baciare l’uomo che mi ha donato tutto questo.
Lui segue i miei movimenti, tranquillo.
“Hai le labbra che sanno di frutti di bosco” mi dice, staccandosi un poco dal mio viso.
“Allora hai già assaggiato cosa c’è per merenda…” rispondo, un po’ maliziosa.
Finalmente vedo un vero sorriso apparire sul suo viso, e mi accorgo solo ora che i denti bianchissimi gli risaltano ancora di più sulla pelle abbronzata.
Lo prendo per mano, e raggiungiamo di nuovo la tovaglia con il nostro pic-nic.
“Ti trovo abbronzato. Hai fatto qualche lavoro sotto al sole in particolare?” chiedo.
“In carcere ci facevano fare i lavori forzati. Dev’essere per quello.”
All’improvviso mi sento in colpa per avergli fatto ricordare quel periodo, chiaramente non facile per lui.
“Scusami, non volevo farti ricordare quell’esperienza” dico un po’ in imbarazzo, mentre sistemo i piatti con la frutta, i panini ed il dolce.
“Non importa." Lo vedo esitare, come se volesse dire qualcosa in più.
"Quel periodo mi ha fatto capire tutte le cose che mi sono perso nella vita.”
Alzo lo sguardo, e lo colgo a fissarmi.
“Non è mai troppo tardi, Friedrich.”
Lui sospira e continua a muoversi nervosamente sul posto. Sarà nervoso per qualcosa?
“Tutto questo è un surrogato di quello che avrei potuto realmente avere se avessi fatto scelte diverse.”
Mi fermo, sorpresa, guardandolo dritto negli occhi.
“Cosa stai dicendo?” gli chiedo, cambiando all’improvviso tono di voce.
Lui mi guarda con quello sguardo da soldato senza paura, come se dovesse dimostrarmi che non teme la mia opinione.
“Non potrò mai essere un padre per Federico. Come non potrò mai essere tuo marito. Tutto questo è solo un assaggio della vita che avrei potuto avere se fossi stato con te. Ma in verità sarò sempre fuori. Non sarò io a decidere il futuro del bambino, non sarò io a starti vicino quando starai male o a farti contenta. Se vuoi sapere quello che penso… non trovo sia giusto neanche fargli sapere che io sia suo padre. Non l’ho mai fatto e non sarò in grado di farlo ora.”
Mi sistemo meglio sul terreno, iniziando un po’ ad agitarmi.
“Davvero pensi che quando Federico è nato io sapessi fare la madre? Ero immatura e sola, ma nonostante questo non mi sono data per vinta. E per rispondere a quello che hai detto all’inizio… mio marito non prende nessuna decisione per me, lo sai che non c’è mai. Svolge la sua vita come faceva prima che ci sposassimo, tutto è cambiato dopo che ha scoperto che non potevo più avere figli…”
“Perché non puoi più averne?” dice, interrompendomi.
“Ho avuto delle complicanze dopo la nascita di Federico, ma non stiamo parlando di questo ora. L’unico che pensa di prendere decisioni per me e Fede è mio fratello, ma alla fine faccio quello che voglio. Ho vissuto due anni da sola lontano da casa, crescendo un neonato… sono cresciuta anch’io, Friedrich. Non mi interessa più quello che pensano gli altri perché ho capito quello che voglio. E se per te “stare fuori” significa stare fuori dalla casa dove viviamo beh… lo sai che sarebbe impossibile, almeno per ora, pensare di includerti nella nostra vita. Ma non sarai mai fuori da me! E voglio che anche per Federico sia così. Voglio che ti conosca per quello che sei ora, e non dieci anni fa. Voglio che ti guardi e veda che uomo speciale sei in realtà, e non il nazista assassino senza scrupoli che sei stato. Perché è questa la tua maledizione… per quanto io abbia cercato di odiarti per quello che hai fatto, con me sei stato sempre diverso. Non hai fatto nulla che possa rimproverarti.”
Il suo sguardo è come un milione di frecce che trafiggono la mia testa, ma non per questo abbasso gli occhi.
Lui rimane in silenzio per un po’, poi mi risponde lentamente, come se stesse dosando le parole.
“Ho pagato per quello che ho fatto. Te l’ho sempre detto, tu sei stata l’unica eccezione. E poi…”
Si ferma, e a giudicare dalla sua espressione sembra che faccia fatica a svelare quello che vuole dire.
“Vorrei farti felice, davvero. Il fatto che siamo limitati, che non posso vederti quando voglio… è frustrante.”
Mi sporgo nel mezzo della tovaglia, porgendogli i piatti con la merenda.
“La mia più grande felicità è che tu sia vivo. Saperti vicino, al sicuro, che pensi a me è la cosa più bella che tu mi possa dire”
Inizio a mangiare la torta ignorando appositamente gli occhi di Friedrich; intanto mi guardo attorno per vedere dov’è finito Federico. Lo vedo arrivare tutto sudato, con qualcosa tra le mani.
Prima che ci raggiunga mi giro verso Friedrich, sorridendogli e facendogli l’occhiolino.
“Non avere paura ad aprirti con lui. È sangue del nostro sangue, in fondo al tuo cuore sai già come comportarti”
Ci scambiamo uno sguardo profondo, poi la voce di Federico risuona come una sirena in mezzo alla radura.
“Mamma guarda cosa ho trovato! Li fai col riso stasera?”
Lascia cadere sulla tovaglia una cinquantina di funghi, tutti di aspetto diverso.
“Spero che non ne hai mangiati…” gli dico, guardandolo male.
“No, lo so che alcuni sono velenosi. Ma non mi ricordavo quali, così li ho presi tutti…”
Rimango un attimo in silenzio, e poi un’idea mi passa per la mente.
“Friedrich, tu li sai distinguere?”
Li so distinguere benissimo anch’io, ma voglio dargli una possibilità di rimanere solo con lui.
“Si…” si ferma un secondo, intuendo quello che voglio dirgli. “Federico… hai voglia se ti insegno come distinguere quelli buoni da quelli velenosi?”
Lui fa si con la testa, mentre divora il panino con la marmellata.
“Hai un bastone con te?” gli chiede ancora.
“No…”
“Devi sempre portarti un bastone. Intanto vediamo questi che hai preso.”
Friedrich si alza e raccoglie i funghi, portandoli al ruscello; vedo Federico seguirlo con lo sguardo, dopodiché si alza e lo raggiunge. Li vedo parlare, e non posso non sorridere guardando i due uomini della mia vita insieme.
Rimangono per una decina di minuti vicino, ed io li osservo per tutto il tempo.
Verso le cinque e mezza inizio a raccogliere le cose e riporle nel cestino; mi rimetto a malincuore le scarpe, preparandomi per andare via.
“Ragazzi…” dico, richiamando i miei uomini, “È ora di andare”
Li vedo avvicinarsi assieme, e mettere i funghi dentro alla tovaglia che poi ripongo nel cestino.
La strada di ritorno la facciamo chiacchierando insieme, ed è tutto così naturale che sembra quasi irreale.
Questa sarebbe la mia vera famiglia. Quello che cammina al mio fianco è l’uomo che sognavo di incontrare e sposare. E quello davanti a me è il bellissimo figlio che sognavo di avere. È tutto così perfetto ora che non potrei chiedere altro dalla vita.
Mentre Federico cammina davanti, io mi avvicino a Friedrich prendendolo per mano; gliela stringo forte, sentendo la stretta ricambiata.
Ci fermiamo davanti al laghetto, perché è qui che le nostre strade purtroppo si devono dividere.
“Friedrich… grazie per questo pomeriggio. È stato molto bello. A te è piaciuto Fede?”
Lui fa di si con la testa, ma prima che ricominci a parlare mi interrompe, sorprendendomi.
“La prossima volta mi fai vedere il fucile allora?”
Guardo sorpresa Friedrich: che cosa si saranno detti quando erano al ruscello?
“Se tua madre ti lascia, te lo mostrerò.” Dice Friedrich, guardandomi col suo solito sguardo.
“Beh.. vedremo, va bene? Grazie ancora… a presto” dico.
Vorrei baciarlo e stringerlo a me prima di andarmene, ma sono consapevole che non posso farlo davanti a Federico.
Li sento salutarsi e ci voltiamo per andarcene; prima che la vista del laghetto scompaia del tutto mi giro per guardare un’ultima volta Friedrich.
È in piedi con le braccia conserte a fissarci; gli sorrido e lo vedo ricambiare il sorriso.
“Allora, ti è simpatico Friedrich?” chiedo a Federico, una volta arrivati a casa.
“Parla in maniera strana. Però mi ha raccontato un sacco di storie su questi boschi”
Federico è un appassionato della guerra, influenzato anche dai racconti di suo zio; qualche fine settimana al mese, i due vanno insieme per i monti, scoprendo tutti i passaggi ed i reperti rimasti nelle vicinanze.
Friedrich gli deve aver raccontato qualcosa, con tutte le esperienze che ha fatto durante la guerra.
“Già, lui in effetti non è di Biella, per questo parla con un accento diverso. Ti va se usciamo con lui qualche altra volta?” gli chiedo.
“Va bene… ma come fai a conoscerlo? Chi è?”
A quella domanda mi immobilizzo, colta di sorpresa.
“È… un vecchio amico. Mi ha aiutata durante la guerra, e abbiamo tenuto i contatti.”
Federico sembra averla bevuta, mentre mi porge i funghi da cucinare.
“Non vedo l’ora di raccontare a Francesco…” dice, ma lo interrompo brusca.
No!” dico, forse alzando un po’ troppo la voce, “No… tuo zio non deve sapere niente.”
Lascio perdere i funghi e guardo Federico dritto negli occhi.
“Fede… non devi raccontare a nessuno quello che è successo oggi, hai capito? Se lo facessi potrebbero succedere delle cose molto gravi. Questo è un segreto che dobbiamo mantenere tra di noi… promettimelo per favore.”
Lui mi guarda un po’ stranito, poi fa segno di si.
“Va bene… ma perché?”
“Tu me lo devi promettere. Lo capirai più avanti perché. Fidati di me tesoro, sarà il nostro segreto.”
Sembra aver capito, e mi sento un po’ più tranquilla.
“Comunque Friedrich ha detto che puoi andare a giocare con il cagnolino quando vuoi”
“Davvero? Mamma perché non ne prendiamo uno anche noi?” dice, speranzoso.
Alzo gli occhi al cielo sorridendo, ricordando quella frase che immaginavo mi avrebbe detto.

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII ***


Settembre, 1956
È notte fonda, e l’unica cosa che si sente nella stanza è il respiro regolare di Riccardo affianco a me. Come ogni sabato, aspetto che tutti si siano addormentati profondamente prima di uscire di casa per andare da Friedrich.
Sono passati sei mesi: sei mesi di bugie, segreti e scuse inventate per giustificare quello che i miei amici e famigliari giudicano uno “strano” comportamento. Inoltre ho dovuto accontentare molte volte Federico per impedirgli di raccontare ad altri di Friedrich; non è di certo il migliore dei comportamenti da insegnargli, ma lo sto facendo solo per lui, per dargli la possibilità di conoscere suo padre per quello che veramente è.
Se mia madre sapesse che donna sono diventata, probabilmente mi ripudierebbe come figlia: ho avuto un figlio fuori dal matrimonio, ed ora sto tradendo l’unico uomo che ha accettato questo fatto.
Sono consapevole di quello che sto facendo? Probabilmente no. Me ne pento? Assolutamente no.
Sono stata ad un passo dalla morte per così tanti mesi, pregando perché una bomba non cadesse sulla mia testa; la mia famiglia è stata uccisa, lasciandomi solo Francesco. L’unica cosa che cerco ora è l’amore che mi è stato negato in quegli anni; nel bene o nel male continuerò ad amarlo e a cercarlo anche se questo potrà provocare dolore agli altri. È passato il tempo in cui mi chiedevo se fosse giusto o sbagliato: Friedrich mi fa sentire viva, completa, ed è questo l’importante per me.
Nonostante questo pesante segreto da portare, è stata una delle migliori estati che abbia mai passato: le lunghi notti bollenti passate tra le sue braccia, i racconti al chiaro di Luna, le esperienze padre e figlio... Tutte cose che mi hanno riempito il cuore di una gioia nuova, pura.
Mi alzo, facendo attenzione nel fare il meno rumore possibile, dopodiché scendo piano piano le scale scricchiolanti che portano al pianterreno; attraverso la cucina, ancora in disordine dopo la lunga cena che c’è appena stata, e apro la porta d’entrata.
Non è più il periodo di uscire solo con la vestaglia, ed infatti inizio a sentire un freddo pungente percorrere tutta la mia pelle.
Mi dirigo a passo svelto verso il bosco: ormai la potrei fare anche ad occhi chiusi questa strada; supero il laghetto, ed entro tra i pini sempreverdi. Dopo un paio di minuti scorgo la cuccia di Bud, che appena mi vede inizia a scodinzolare, ma da seduto, perché so che a quest’ora è sempre stanco.
Busso piano tre volte, poi apro la porta; Friedrich dice che ormai riconosce il suono che fanno le mie nocche sul legno, quindi sono libera di entrare senza aspettare che mi apra lui.
La candela sul tavolo è accesa e lo vedo di spalle, ad armeggiare con delle scatole.
Hallo!” gli dico, mentre lui si gira guardandomi con aria un po’ sorpresa.
“Maria… non staremo qui stasera. Puoi aprirmi la porta, bitte?”
Rimango un po’ stranita dal suo comportamento; sembra che abbia fretta di fare qualcosa, tant’è che non mi ha neanche salutata.
“Va bene…”
Apro la porta mentre lui, con un soffio, spegne la candela e prende tra le braccia uno scatolone abbastanza grande, che ad occhio e croce sembra pesante.
Lo seguo nel buio della notte, mentre percorre una strada che solo lui sa dove porta.
“Dove stiamo andando?” provo a chiedergli, ma fa un cenno negativo con il capo, facendomi intendere che non vuole dirmelo.
Dopo dieci minuti di silenzio e di salite ripide, si ferma ed appoggia lo scatolone sopra a dei massi per riprendere fiato.
“Friedrich dove stiamo andando? Vuoi una mano con quella scatola?”
Nein” dice ancora, dopodiché lo riprende tra le braccia e ricomincia a camminare.
Ormai ho capito, quando vuole che una cosa sia fatta a modo suo, sarà fatta alla sua maniera; sospiro, continuando a seguirlo.
Dopo venti minuti si ferma di nuovo, ma stavolta lo vedo frugarsi dentro la tasca della giacca.
“Ci vuole ancora tanto? Scusa ma sono stanca stasera… e fa davvero freddo in mezzo al bosco” dico, stringendomi la vestaglia addosso.
Lui si avvicina, e si mette alle mie spalle.
“Chiudi gli occhi” mi dice.
Rimango perplessa dalla sua richiesta, comunque lo accontento perché mi fido di lui.
Mi appoggia qualcosa sugli occhi, legandomela bene, dopodiché mi chiede di aspettarlo là; sento i suoi passi che si allontanano, e dopo poco che ritornano.
La sua mano prende la mia, in un gesto silenzioso di guida; i piedi sono insicuri sui dislivelli del terreno e più di una volta inciampo su delle pietre. All’ennesima pietra presa male, Friedrich mi prende in braccio.
“Facciamo così, almeno arriviamo prima” dice.
Io lo colpisco affettuosamente sul petto, poi gli avvolgo le braccia intorno al collo per riuscire a tenermi dritta; avvicinandomi sento il suo solito profumo, ormai inconfondibile. Quel profumo di uomo che vorrei avere sempre con me.
Friedrich intanto sta salendo delle scale; un cigolio mi fa intuire l’aprirsi di una porta, dopodiché lo sento appoggiarmi a terra.
D’istinto porto le mani alla benda per togliermela, ma mi ferma con forza.
“No! Te la tolgo io. Stai ferma dove sei.”
Io ubbidisco, anche se tutto questo mi sembra strano.
“Cosa sta succedendo? Friedrich, mi vuoi dire che…”
Mi blocco. Lo sento alle mie spalle, mentre mi fa scivolare la vestaglia per terra; mi prende le cosce e le stringe, venendo sempre più su. Ad ogni suo tocco un mio sospiro, come se fosse sempre la prima volta.
Le sue mani continuano a salire, portando su anche la camicia da notte; me la fa passare delicatamente dalla testa, ed in seguito un fruscio mi fa capire che ha raggiunto la vestaglia sul pavimento.
Nella stanza non fa freddo, probabilmente ci dev’essere un fuoco acceso da qualche parte, perché lo scoppiettio del legno è inconfondibile.
Le sue mani calde ora mi avvolgono la vita, arrivando piano su fino ai seni; me li prende con delicatezza, e contemporaneamente mi bacia la spalla sinistra, facendomi buttare la testa all’indietro contro di lui per il piacere.
Lo sento percorrere il mio reggiseno, dopodiché lo slaccia, facendolo cadere a terra.
Ora però non sento più la sua presenza vicino a me, così mi copro pudicamente il seno, non sapendo dove io sia e cosa stia succedendo.
“Non coprirti. Voglio ricordarti così”
La sua voce ora proviene da davanti, ma non così vicino come sperassi; abbasso le mani, fidandomi come al solito delle sue intenzioni. Il rumore di un accendino mi fa capire che probabilmente si è acceso una sigaretta.
Lo sento frugare dentro allo scatolone, poi avvicinarsi di nuovo: mi prende le mani e le appoggia entrambe sulle sue spalle, poi mi chiede di alzare piano una gamba.
Sorrido tra me e me, e lo accontento: alzo la gamba destra, e qualcosa di morbido e liscio la sfiora per un attimo.
“Appoggiala e alza l’altra” mi dice ancora.
Faccio come mi dice, e stavolta sento un tessuto scivolare sulla mia pelle.
Friedrich si sposta, facendomi ricadere le braccia ai fianchi; torna dietro di me e mi tira su quello che dev’essere un vestito.
La chiusura probabilmente è a bottoni, perché piano piano sta risalendo, fin quasi a metà schiena. Quando ha finito si sposta, e lo sento espirare il fumo della sigaretta.
Io mi tocco, cercando di capire com’è fatto: mi lascia le spalle e metà schiena scoperte, e sul davanti ha una scollatura a cuore, che mi preme il seno. Dalla vita fin quasi sopra le ginocchia si apre in una gonna molto larga e morbida.
“Posso sapere cosa stai facendo?” gli chiedo.
“Non ancora” dice lui.
Prende qualcosa dalla scatola poi me lo mette in mano, dicendomi di tenerlo ben stretto.
Al tatto è qualcosa di duro e sottile, di forma quadrata.
Mi prende per un fianco, camminando piano vicino a me per guidarmi; usciamo di nuovo nel bosco, e stavolta mi dice dove mettere i piedi prima che mi faccia male.
Ad un certo punto inizio a calpestare qualcosa di duro, non più terreno, ma asfalto; i rumori che provochiamo ritornano indietro più facilmente, come se ci trovassimo dentro qualche luogo.
Mi lascia andare, prendendo l’oggetto che mi ha chiesto di tenergli dalle mie mani.
“Aspettami, arrivo subito.”
Inizio a sentirmi un po’ nervosa non riuscendo a vedere dove sono, ma rispetto ancora quello che mi chiede di fare.
Sento il rumore gracchiante di una manovella che gira; poi il fruscio della carta e qualcosa che viene appoggiato.
Intanto brividi di freddo percorrono il mio corpo, facendomi quasi battere i denti. Mi muovo un po’ sul posto, cercando di scaldarmi; poi, un rumore che non sentivo da tanto tempo, mi fa immobilizzare, stupita: il suono della puntina del grammofono su di un disco.
I passi di Friedrich si avvicinano, e stavolta mi scioglie il nodo della benda, togliendomela; sbatto due, tre volte gli occhi per riprendere bene la vista, poi mi guardo intorno.
Siamo in una specie di aia, attorniati da tre lati da una fattoria in rovina; sopra di noi ci sono ancora le assi curve che una volta avrebbero dovuto reggere il soffitto. Ora invece è rimasto solo il legno, facendone una stanza enorme a cielo aperto.
“Cosa…?”
Cerco di parlargli ma lui mi zittisce, avvicinandomi al suo petto e prendendo una mano nella sua.
Da una stanza vicino si sente il grammofono che è pronto per suonare qualcosa, così aspetto in silenzio, scostandomi un po’ dal suo corpo.
Non ci vuole molto: le note di quella canzone che non scorderò mai invadono l’aria, facendomi sentire una forte stretta al cuore.
Friedrich si avvicina al mio orecchio, guidandomi in un lento ballo.
Ascolta. Non ci sono parole migliori per farti capire quello che sei per me
E alla fine arrivano. L’emozione è così forte che una lacrima mi scende dal viso. Una e poi due. E poi tre, e così via.
In quelle note risento la voce di mamma, quella di Elena e degli zii. Le voci argentine dei miei nipotini, quelle di sottofondo dei compaesani. E poi risento il suono di marcia prodotto dagli stivali di quei soldati stranieri che erano appena arrivati in città. Rivedo la luce rossa del tramonto alle loro spalle, e gli occhi azzurri di quel soldato che allora non sapevo nemmeno chi fosse.
Risento il suono cupo e tombale della sirena antiaerea, il rumore dei vetri rotti, quello delle case che venivano giù.
E poi rivedo le stelle e risento la sua voce calda e tranquilla che mi parla; le sue medaglie scintillanti che avevo imparato a distinguere, le sue varie divise per le diverse occasioni.
E poi all’improvviso ordini urlati in tedesco, altri in italiano, e uno sparo che parte dalla pistola. Il sangue di quell’uomo che si sparge sul pavimento, assieme a quello della mamma e di Elena.
Metto le braccia attorno al collo di Friedrich, posando la mia testa sulla sua spalla; nessuno più di lui saprà mai cosa ho provato, cosa è veramente successo.
Guardo il cielo punteggiato di piccole e brillanti stelle; qualche nuvola ne nasconde un paio, ma lì in alto a sinistra c’è sempre lei, quella Luna che mi ha visto sospirare più volte, ha sentito i miei pianti e le mie risate, ma soprattutto ha sentito la mia voce.
Chiudo gli occhi, lasciandomi trasportare da quella musica immortale, che ci ha uniti dodici anni fa e ci riunisce anche ora.
 
Come sei bella, più bella stasera Mariù… splende un sorriso di stella negli occhi tuoi blu... anche se avverso il destino domani sarà... oggi ti sono vicino perché sospirar? Non pensar… Parlami d’amore Mariù… tutta la mia vita sei tu… gli occhi tuoi belli, brillano… fiamme di sogno, scintillano… dimmi che illusione non è… dimmi che sei tutta per me… qui sul tuo cuor non soffro più! Parlami d’amore Mariù…
So che una bella e maliarda sirena sei tu… so che si perde chi guarda quegli occhi tuoi blu… ma che m’importa se il mondo si burla di me… meglio nel gorgo profondo ma sempre con te, si con te… Parlami d’amore Mariù… tutta la mia vita sei tu… gli occhi tuoi belli, brillano… fiamme di sogno, scintillano… dimmi che illusione non è… dimmi che sei tutta per me… qui sul tuo cuor non soffro più! Parlami d’amore… Mariù!
 
“Puoi rimetterla ancora?” gli chiedo.
Lui fa un cenno, poi lo vedo avviarsi verso una stanza, dove probabilmente si trova il grammofono.
Intanto che lo sento ricaricarlo, guardo il vestito che mi ha fatto indossare: è completamente bianco, con una fantasia di minuscoli fiorellini rosa e azzurri su tutta la gonna.
Lo vedo ritornare e lo accolgo di nuovo tra le mie braccia.
“Ma quand’è che pensi a tutte queste cose?” gli chiedo guardandolo negli occhi, con un sorriso sulle labbra.
“Vediamo… il vestito l’ho visto in un negozio un pomeriggio che stavo uscendo dalla fabbrica. L’ho notato subito, ed ho pensato che addosso a te sarebbe stato ancora meglio che sul manichino.”
Mi avvicino alle sue fini labbra, stampandogli un bacio dolce e tenero.
“È davvero bello, grazie… e per il resto invece?”
Lui alza un attimo gli occhi verso il cielo, come se stesse ricordando tutti i passaggi che ha fatto.
“Sai che mi piace starmene in mezzo alla natura. Ho scoperto questo posto un paio di mesi fa… e appena ho visto il grammofono nella stanza, ho pensato che ti sarebbe piaciuto ascoltarlo. Mi ricordo che cantavi come un uccellino le canzoni che sentivi alla radio, su quella terrazza, al freddo…”
Ridiamo tutti e due, complici e tranquilli come non mai. Poi lui ricomincia a parlare.
“Non sai quanto ho faticato per trovare quel disco. Ma alla fine ce l’ho fatta.”
Mi alzo sulle punte per guardarlo meglio.
“Lo sai che non c’è bisogno che mi regali tutte queste cose. Mi basta che mi sei vicino” dico.
Lui sospira, stringendomi di più a sé.
“Lo so. Ma stavolta volevo fare le cose per bene.”
“In che senso? Non hai mai fatto niente di sbagliato.”
Lui non risponde, e nonostante le mie insistenze continua a non rispondermi.
Alla fine lo spingo piano lontano da me, in modo da riuscire a vederlo bene.
“Friedrich c’è qualcosa che mi devi dire? Perché rimani in silenzio e non vuoi rispondermi?”
Lui è qui da circa sei mesi, ma la mia paura che se ne possa andare continua ad essere viva.
Si strofina il viso con le mani, ed intanto il disco finisce nuovamente la canzone.
Ora non si sentono altro che i grilli della notte parlare al vento, ed un gelo improvviso è calato fra di noi; lo sento che c’è qualcosa di cui non mi ha parlato.
“Hanno deciso di riaprire il processo.” Dice, duro e fermo sul suo posto.
“Quale processo?” chiedo.
“Quello per la strage sul fronte nord. Ho passato dieci anni in carcere per quel motivo. L’hanno riaperto quattro mesi fa… ora siamo arrivati alle fasi finali e non potrò più uscire dalla Germania prima della sentenza.”
Mi avvicino e gli prendo la mano, stringendola fra le mie.
“Perché non me l’hai detto prima?”
Un pensiero improvviso mi passa per la mente: ha fatto tutto questo perché pensa di essere condannato. Questa può essere l’ultima volta che ci vediamo.
Lo guardo con tutto l’amore che uno sguardo possa trasmettere, dopodiché lo costringo a seguirmi, cercando di ricordare dov’è quel posto caldo in cui mi ha spogliata.
“Dove vai? La casa è da un’altra parte” lo sento dirmi da dietro, così lo faccio passare avanti per fare strada.
Arriviamo davanti ad una piccola baita, probabilmente l’abitazione di qualche guardiano o cose del genere; delle scale di legno portano ad un’unica stanza, rialzata rispetto il terreno.
Entriamo e noto immediatamente i miei vestiti a terra; nella parete di fronte c’è un camino con il fuoco scoppiettante all’interno. Sulla parete di destra si trova il fornello con un piccolo frigo, mentre su quella di sinistra un grande letto.
Mi giro a guardarlo e lo vedo osservarmi con la stessa espressione di quando ha dovuto lasciarmi, a Cuneo; mi avvicino, accarezzandogli le braccia, in silenzio.
Lui mette le mani sui miei fianchi, appoggiando la testa sulla mia spalla; lo sento che questa storia lo fa impensierire molto.
“Vieni, sediamoci sul letto”
Lo tiro per una mano, portandolo con me.
“Qualsiasi cosa succeda, io sarò sempre qui con te. Te lo prometto.”
Gli metto la mano sul cuore, ma continuo a vedere delle ombre nei suoi occhi.
“Friedrich, parla con me. Non tenerti tutto dentro”
Lo vedo abbassare gli occhi e spostare lo sguardo lontano; mi metto a cavalcioni su di lui, prendendogli il viso tra le mie mani.
“Friedrich! Guardami! Dimmi quello che senti… per favore. Mi sento morire a vederti così.”
Lui finalmente mi guarda; mi mette una mano sul viso, accarezzandomi, come se fossi qualcosa di distante da lui.
Dopo un tempo che sembra infinito, finalmente inizia a parlarmi.
“Ho paura” dice, senza aggiungere nient’altro.
“Di cosa?” gli chiedo con voce sottile, nel timore che cambi idea.
“Non è stata colpa mia, Maria. Ma mi condanneranno lo stesso.”
“Se non è stata colpa tua, non possono incolparti facilmente. È di questo che hai paura?”
Abbassa di nuovo lo sguardo, come se questo possa aiutarlo a non mostrare quello che prova.
“Sono stati uccisi dei soldati americani. Il processo è tenuto da americani. Vogliono un colpevole, e nel bene o nel male lo avranno. Io ero il comandante della squadra che ha ucciso quei soldati, ma non ho dato alcun ordine.”
Un brivido di terrore mi percorre la schiena, ma cerco di farmi vedere sicura: ha bisogno di qualcuno che gli mostri affetto, non paura.
Gli accarezzo il petto, cercando di rilassarlo il più possibile.
“Friedrich, tu sei innocente. Devi combattere fino alla fine. Io ti starò sempre accanto per quello che può servire. Sono sicura che se non ti hanno condannato al primo processo, non riusciranno a trovare altre prove in questo.”
Mi guarda, e le ombre nei suoi occhi sembrano sparite; la tristezza che li circonda però, quella non è riuscita ad andarsene.
“Tu devi starne fuori da questa storia.” dice, duro.
“Friedrich, qui non si tratta di sciocchezze. Sono abbastanza grande da prendermi la responsabilità di quello che faccio. Se dovrò fare trecento chilometri per farti felice un’ora, li farò senza battere ciglio.”
Mi prende forte la nuca, impedendomi di muovermi, e il respiro mi si mozza per un istante.
“Non andrai da nessuna parte, ritornerò io qui da te, te lo prometto. Ma non fare sciocchezze nel frattempo… hai capito?”
“Quand’è che devi ripartire?”
“Domani mattina. Il processo inizia martedì.”
“Domani?!”
Sono scioccata: questi sono gli ultimi momenti in cui possiamo stare insieme. Vorrei rimproverargli il fatto di non avermelo detto prima, il fatto di essere sempre così chiuso ed impedirmi di aiutarlo.
Però non è di questo che ha bisogno adesso. Sospiro profondamente, reprimendo la tristezza e la rabbia per doverci separare di nuovo.
“Va bene. Abbiamo tutta la notte ancora. Non sprechiamola così”
Avvicino le mie labbra alle sue chiudendo gli occhi; voglio ricordarmi tutto, i suoi movimenti, il suo gusto, il suo profumo.
Sembra voglia fare la stessa cosa con me, perché mi tocca con dolcezza e calma.
Prendo le ciocche dei suoi capelli tra le mie mani, guardando i riflessi biondi cambiare tra le mie dita; lui intanto scende sul mio collo, facendomi rabbrividire per le forti sensazioni.
Dopo esserci coccolati sul letto, mi prende in braccio e mi appoggia sul tappeto davanti al camino, sedendosi vicino a me.
“Non l’abbiamo mai fatto così” dice.
Io lo guardo sorridendo; il calore che emana il fuoco è qualcosa di piacevole, ma niente comparato al calore che emana il suo corpo.
Mi toglie il vestito, ed io lo aiuto a togliersi i suoi; finisce tutto sparso sul pavimento.
Mi fa stendere a terra, controllando che sia comoda; si mette sopra di me, ma prima di ricominciare mi guarda, sfiorando ogni centimetro della mia pelle con i suoi tristi occhi.
“Voglio ricordarti così…” ripete ancora, “Nuda e solo mia.”
Gli accarezzo la schiena, mentre si cala su di me, baciandomi il ventre.
“Ed io invece ti voglio ricordare così dolce da farmi impazzire”
Alza lo sguardo, avvicinandosi al mio viso; mi guarda un istante prima di baciarmi ancora, e allo stesso tempo sento la sua mano scendere sul mio ventre.
Inizio a sospirare sempre più forte, sentendo mille farfalle svolazzare nel mio stomaco.
Voglio sentirti dire il mio nome. Urlalo se vuoi, ma voglio sentire la tua voce che riempie le mie orecchie stanotte. Nient’altro.”
E lo accontento. Facciamo l’amore tre volte, fino alle prime luci dell'alba.
Quando mi appoggio sul suo corpo dopo l’ennesimo forte piacere, lui mi prende in braccio e mi appoggia sul letto, coprendoci con delle coperte.
Mi prende tra le sue braccia, stringendomi forte; io sto tremando, non dal freddo, ma per le emozioni provate per tutta la notte.
“Stai tremando” mi dice, accorgendosene, “Hai freddo?”
“No, non ho freddo.”
Non mi va tanto di parlare, mi sento stanchissima e vorrei solo godere della sua presenza; tuttavia lui non sembra dello stesso parere.
“E perché tremi allora? Stai male?”
“No, sto anche troppo bene… non sono abituata a tutte queste sensazioni in poco tempo. Tutto qua.”
Lo sento ridere piano, ed iniziare ad accarezzarmi i capelli.
Questi sono veramente gli ultimi istanti in cui stiamo assieme; gli ultimi momenti in cui ho la possibilità di dirgli tutto quello che posso.
Mi puntello sui gomiti, girando la testa in modo da riuscire a guardarlo.
“Vorrei dirti tante cose ora. Vorrei farti sapere quello che provo, quello che sento… vorrei riuscire a cancellare le tue paure, farti capire che anche quando sei lontano, io ti sono sempre vicina. Ma non riesco ad esprimerti tutto questo a parole..."
Esito un attimo scoprendo che non ci sono parole migliori per dirgli quello che penso, di quelle che mi sono appena venute in mente.
"Ti amo Friedrich. Sei l’uomo che aspettavo da una vita.”
Gli occhi si fanno un po’ lucidi, consapevole ora come non mai che dovrò lasciarlo ancora.
Lui mi guarda in viso, muovendo i suoi occhi a scatti su ogni mio particolare. Dentro le sue iridi riesco a scorgere l’azzurro del cielo, il giorno in cui mi stavo dirigendo per la prima volta verso la chiesa di Cuneo.
Mi sposta una ciocca di capelli dagli occhi, guardandomi con sguardo sicuro.
Du bist so schön. Ich liebe dich auch, Maria

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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII ***


Sono passate due settimane. Dopo quella notte passata insieme, lui mi ha accompagnata fino a casa. Lasciarlo nuovamente non è stata come la prima volta: c’è stata più consapevolezza, ora. Abbiamo vissuto ogni istante che potevamo, ogni ora della nostra giornata per vederci.
L’ho stretto forte a me prima di lasciarlo andare ancora; gli ho promesso che lo penserò ogni giorno, ogni minuto di tutto il tempo in cui sarà lontano da me.
Ed infatti non riesco a togliermelo dalla testa; saperlo in difficoltà da qualche parte nel mondo mi rende nervosa, e le persone attorno a me se ne stanno accorgendo.
Compro il giornale tutti i giorni per vedere se ci siano notizie su di lui; l’unica cosa che ho letto, è stato un trafiletto mercoledì scorso, sul fatto che avevano riaperto il processo in Germania.
Ora è sabato sera, e siamo tutti riuniti in cucina: io sto lavando i piatti mentre Federico, Francesco e Riccardo sono intorno alla tavola che ascoltano le notizie alla radio.
Una neutra voce d’uomo racconta le vicissitudini che stanno accadendo in Egitto: il presidente ha nazionalizzato il canale di Suez, mentre alcune nazioni europee ne vorrebbero l’internazionalizzazione. Dice che si respira un clima di guerra, e a questa parola mi faccio il segno della croce, ripensando a quella passata.
Il commentatore intanto passa alle notizie europee, facendo accelerare i battiti del mio cuore.

Germania: È stato riaperto il processo che vede come probabile colpevole l’ex comandante delle Waffen SS Friedrich Schuster, per la strage di soldati americani avvenuta sul fronte nord. Il governo americano è deciso a trovare un colpevole, ma non sono stati trovati nuovi testimoni che possano confermare l’effettiva colpevolezza di Schuster. Ieri mattina è stata data la sentenza di innocenza all’ex comandante, scagionandolo da ogni colpa per la giustizia, ma non per le famiglie di quei soldati.

Sbarro gli occhi, ringraziando il cielo per dare le spalle agli uomini; Friedrich ce l’ha fatta anche questa volta, lo sapevo!
Non riesco a trattenere un sorriso, e mi sento al settimo cielo per la notizia appena ricevuta; al settimo cielo finché Federico non decide di parlare.
“Mamma, questo soldato ha lo stesso nome del tuo amico”
Federico, no. Non voglio girarmi.
“Quale amico?”
La voce di Francesco è sottile e dubbiosa, come se avesse intuito qualcosa.
“Federico sta parlando del taglialegna che ci ha aiutati a tagliare il tronco l’altro giorno, vero tesoro?” dico, guardandolo.
Lui non risponde subito, ma lo fa Francesco al posto suo.
“Maria vieni fuori un attimo”
È arrivato il momento. Lo sapevo che non sarebbe durata a lungo questa storia.
Lo seguo fuori, cercando di non lasciar trapelare nessuna emozione.
“Che amico hai che si chiama in quella maniera? Guarda che non sono scemo. E tu sei sposata.”
Lo guardo senza nessun timore.
“Non ho nessun amico che si chiama così. Federico si è sbagliato, stava parlando di Ferdinando, il tagliale…”
Lui si mette a ridere, incrociando le braccia in maniera teatrale.
“Il taglialegna si chiama Fernando, e mio nipote non è stupido. Dimmi che non è quel bastardo.”
Non rispondo ma mi giro da un’altra parte, evitando il suo sguardo; lui mi prende per una spalla, avvicinandomi. Poi chiama Federico, e con lui esce anche Riccardo.
“Cosa succede?” chiede Riccardo, guardandoci perplessi.
Francesco lo ignora, rivolgendosi a Federico.
“Di chi stavi parlando prima? Non mentire Federico.”
Lui mi guarda con timore, poi abbassa timidamente lo sguardo.
“Cazzo ma perché non lo ammetti! Vuoi diventare un bugiardo come tua madre?
“Non ti permettere di parlargli così!” mi intrometto.
“Maria, mi spieghi cosa sta succedendo?”
Riccardo ci guarda con espressione dubbiosa, non capendo l’argomento del litigio.
Continuo a non rispondere, mentre a mio malincuore parla Federico.
“Friedrich è un amico della mamma. Me l’ha fatto conoscere alcuni mesi fa.”
“Tu hai un amico di nome Friedrich? Cosa significa Maria?” Riccardo guarda solo me ora, e il suo sguardo mi inizia a spaventare.
“Si, cosa significa Maria?” dice Francesco, in tono sarcastico.
“Francesco adesso basta! Perché vuoi controllarmi? Non sono affari tuoi questi!”
“Vuol dire che hai un altro uomo?”
Riccardo mi guarda in modo schifato.
Non rispondo, evitando anche i suoi di occhi.
Guardami! Significa questo?” continua lui.
Alzo gli occhi, incontrando i suoi; la mia espressione dev’essere facilmente intuibile, poiché Riccardo capisce subito.
“Oh mio dio… che vergogna…” dice, passandosi una mano tra i capelli grigi.
“E tu invece, pensi di essere migliore?” dico, fronteggiandolo.
“Tu sei mia moglie! E poi cosa pretendi? Sono fuori tutta la settimana e quando torno non vuoi neanche fare l’amore!”
Sento Francesco che mi spinge, e rientriamo tutti in casa.
“Come faccio ad accettarti dopo che sei stato con chissà quante donne durante la settimana? Ma ci pensi a  questo?”
Lui si mette a ridere, scuotendo la testa.
“Tutti i vestiti, i gioielli che ti ho regalato. Pensavo davvero fossi una brava donna. Chi è questo? Quante volte ci sei stata assieme?”
Passa il suo sguardo da me a Francesco, ma lui non risponde, come me d’altronde.
“DIMMELO!” urla, facendomi trasalire.
Federico è in piedi vicino a suo zio, impaurito dall’improvviso litigio.
Continuo a rimanere in silenzio, perché se parlassi lui saprebbe che Friedrich è suo padre; non m’importa nulla di Francesco e Riccardo ora, ma solo di lui.
Riccardo si avvicina e mi prende violentemente per un braccio, spingendomi verso le scale. Quasi inciampo, mentre sento la voce del mio bambino che mi chiama.
Mi giro a guardarlo, e vedo Francesco che lo tiene stretto a sé; a malincuore salgo le scale andando verso la camera da letto.
Riccardo mi sorpassa e lo vedo aprire con violenza il mio armadio e buttare tutti i vestiti fuori; poi va verso lo specchio, facendo cadere tutti i miei cosmetici.
“Dimmi chi cazzo è, o ti giuro che fai la fine delle tue cose!
Mi stringo nelle spalle, cominciando un po’ a tremare.
“È il padre di Federico. Dopo la guerra è ritornato”
“Tutte le cazzate sul ragazzo del tuo paese morto in guerra quindi non erano vere? Quante stronzate mi hai raccontato?”
Si avvicina, ed io inizio ad avere paura; abbasso gli occhi, guardando il pavimento.
“Chi è in verità questo qua?”
Il suo alito da vino mi fa venire senso di vomito, così cerco di spostarmi, ma lui mi immobilizza davanti a sé.
“Dove credi di andare? Stai qua e mi racconti tutto adesso
Il cuore mi batte forte, ma devo liberarmi di questo peso: alzo lo sguardo, puntandolo nel suo.
“Era un comandante dell’esercito tedesco. Dopo che hanno ucciso la mia famiglia lui mi ha risparmiata, facendomi lavorare per loro come traduttrice. Mi è stato vicino in un momento delicato della mia vita. Quando sono rimasta incinta, lui se n’era andato da mesi con il suo esercito. È tornato la primavera scorsa, dopo aver passato questi anni in carcere.”
Sbuffa, lasciandomi andare; inizia a camminare avanti e indietro per la stanza, creandomi ancora più nervosismo.
“Sai cosa significa quell’anello che hai al dito? Che anche se tornasse l’amore che hai perduto io rimango tuo marito. Ti ho accettato anche se avevi già un figlio e quindi non eri più vergine. Pensavo che mi avresti potuto fare felice, dando un figlio anche a me. Invece non sei neanche stata in grado di darmelo. Oltre a rivelarti una donna noiosa, sei anche una traditrice. Quanti altri ne hai avuti dopo? Cosa mi nasconderai ancora?”
“Non ti nascondo proprio niente! Non te l’ho detto per proteggere Federico. Per quello che ti sei rivelato te invece, non ti saresti meritato neanche di vivere vicino a noi!” gli urlo, stanca delle sue critiche.
“Non parlarmi con quel tono! È tornato e non hai perso tempo, vero? È per questo che eri così contenta? Perché ti facevi scopare da lui?”
Mi avvicino a lui, offesa e indignata dal suo comportamento.
“Puoi continuare a rinfacciarmelo quanto vuoi. Ma non sarai mai la metà dell’uomo che è lui” dico.
Senza che me ne accorga mi tira un ceffone che mi fa perdere l’equilibrio e, sbandando, sbatto contro l’anta aperta dell’armadio.
Mi accascio subito a terra, iniziando a vedere il mondo con strani puntini neri; sento qualcosa di caldo attraversarmi il viso ma non so se siano lacrime o sangue.
La sua voce ora mi arriva ovattata, ma capisco benissimo cosa mi dice.
“Tutti dovranno sapere che razza di puttana sei”
Rimango immobile a terra, coprendomi il viso con le mani, sperando che se ne vada presto. Sento un dolore fortissimo all’occhio sinistro; non ho nemmeno la forza per parlare.
Qualcuno spegne la luce e chiude la porta; io mi stendo completamente sul pavimento, sentendo un freddo improvviso avvolgermi la testa.
 

Non so quanto tempo abbia passato stesa a terra; qualcosa di fresco poggia sulla mia fronte, risvegliandomi da un fastidioso torpore.
Non riesco ad aprire l’occhio sinistro, e un gonfiore dolorosissimo mi blocca la bocca; riesco solo a percepire delle presenze vicino a me, e i suoni che provocano.
Qualcuno mi prende la testa e me la tira leggermente su, parlandomi: riconosco la voce di mio fratello.
“Maria? Maria mi senti?”
Non riesco a rispondergli quindi allungo le mani, che mi sembrano due macigni, verso il suo corpo.
“Mamma! Stai bene?”
La voce di Federico arriva dalla parte opposta, e appena la sento cerco di alzarmi in piedi per assicurarmi che lui stia bene; qualcuno ha aperto i balconi, e con l’occhio destro riesco a vedere le cose attorno a me.
“No, stai giù”
Una voce di donna, che non ricordo subito, mi costringe a stare a terra; la riconosco quando si avvicina: è Anna.
Un forte giramento di testa mi costringe a chiudere gli occhi, o meglio, l’unico che riesco ad aprire; intanto sento le parole di Francesco, alla mia destra.
“Dici che è stata solo una botta, Anna? Quando l’ho trovata a terra pensavo l’avesse ammazzata”
“Non lo so… quando si riprende lo chiederemo a lei. Appoggiale bene quel ghiaccio sull’occhio.”
Delle giovani dita calde mi prendono una mano, e le riconosco come quelle di Federico; le stringo nella mia, perdendo di nuovo coscienza.
 

È notte, credo. Nella stanza è tutto buio, a parte una fioca luce che arriva dalla mia destra. Sono stesa su di un letto, e calde coperte mi avvolgono.
Giro la testa per riuscire a vedere dove sono, ma un dolore improvviso alle tempie mi strappa un lamento.
“Stai ferma Maria… hai bisogno di riposare”
Riconosco ancora la voce di Francesco, e lo vedo avvicinarsi al letto, rimboccandomi le coperte.
“Francesco ma cosa…?”
La bocca è intorpidita, e le parole mi escono storpiate.
“Shh. Ce lo devi dire tu cosa è successo. Quel bastardo ti ha messo le mani addosso… È stato fortunato ad uscire di casa prima che ti trovassi, sennò l’avrei ammazzato.”
Mi sistemo meglio sul letto, cercando di guardarlo e al contempo d’ignorare il dolore.
Lui mi guarda, prendendo una mano e stringendomela.
“Giuro che se si riavvicina a casa potrei non rispondere delle mie azioni. Tu hai fatto quello che hai fatto, ma lui non si deve permettere di toccarti in quella maniera. Abbiamo già sofferto abbastanza.”
Sospiro, tenendogli la mano. È diventato un burbero dopo la guerra, ma il suo cuore non è cambiato: è sempre super protettivo nei miei confronti, come del resto lo era anche nei confronti degli altri membri della famiglia.
Intanto cerco di guardarmi intorno: qualcuno mi ha bendato l’occhio sinistro, ma con l’altro riconosco camera mia.
“Francesco grazie…” inizio, ma lui mi interrompe.
“Non ora. Riposati” dice.
“Federico dov’è?” chiedo ancora.
“L’ho mandato a letto, anche se voleva restare qua. Non preoccuparti per lui.”
Cerco di rilassarmi ma non ci riesco: vedere mio fratello così premuroso dopo quello che è successo mi fa venire mille dubbi.
“Francesco dobbiamo parlare di quello che è successo…”
“Non ora.”
“Senti mi dispiace, mi dispiace davvero aver creato tutto questo…”
Inizia a dondolare velocemente su e giù una gamba, segno che si sta innervosendo.
“E allora perché l’hai fatto? Le sapevi le conseguenze, non sei più una bambina che dobbiamo… che devo ancora proteggere.”
“Tu non capisci… io non ho mai avuto nessun dubbio, nessuna esitazione… È sempre stato lui l’uomo per me… io lo amo.”
Francesco si passa una mano sul viso, sbuffando sonoramente: si sta trattenendo dall’arrabbiarsi.
“Come fai ad amare un assassino? Come fai ad amare un criminale? Ha ucciso la nostra famiglia, quei soldati… lo stanno ancora processando!”
“Non è stato lui. Non è stato lui ad uccidere la nostra famiglia e non è stato lui ad uccidere quei soldati. Questo non vuol dire che sia una persona perfetta… non ha fatto niente di più o di meno di quello che hai fatto tu su quelle colline. E poi…”
Mi fermo un attimo, cercando di trovare la forza e il coraggio per liberarmi definitivamente: porto questo peso da troppo tempo.
“Ho ucciso anch’io un uomo.”
Cerco di scorgere la sua espressione: per alcuni minuti rimane in silenzio, poi si alza e inizia a camminare nervosamente per la stanza.
“Ti prego dimmi che l’hai fatto solo per difenderti…”
Lo vedo evitare appositamente il mio sguardo.
“L’ho fatto per difendere Friedrich. Voleva uccidere lui.”
Un forte botto improvviso mi fa trasalire: deve aver tirato un calcio a qualche mobile.
“Giuro su dio che tu non uscirai più da questa casa. Ci hai già portato abbastanza vergogna, e le tue colpe ricadranno su di me e soprattutto su tuo figlio. Ma forse a questo non ci avevi pensato quando ti facevi sbattere dal tedesco.”
Sento la porta sbattere forte, dopodiché la chiave girare nella toppa.
Sospiro, trovando una posizione migliore sul letto.
Immaginavo che Francesco non l’avrebbe presa bene, ma non riuscivo più a convivere con tutti questi segreti. Friedrich ha ribaltato tutta la tranquilla ma anche noiosa situazione che si era venuta a creare nel giro di dieci anni.
Ma so che lui ora sta bene. L’unica cosa che ancora mi preoccupa è Federico.
Non m’interessa se la gente non mi parlerà più perché ho tradito mio marito. La vita mi ha dato la fortuna di sopravvivere alla guerra, ma soprattutto ha fatto ritornare lui dopo la guerra.
Non è stato giusto nei confronti di Riccardo, ne sono ben consapevole. Ma Friedrich è sempre stato l’unico uomo della mia vita: l’unico di cui io possa fidarmi ciecamente, l’unico che mi fa sentire donna, che mi fa sentire così dannatamente bene da non chiedere nient’altro.
Perché avrei dovuto perdere l’occasione di amare un uomo del genere? Sono qua e sono viva; voglio sentire la sua vita battere sotto il mio corpo ancora, finché questo reggerà.
Ma il mio bambino non c’entra niente con tutto questo: lo so bene come le persone in un piccolo paese possano essere bigotte, ma soprattutto so bene come le voci si spargano in fretta.
Quando Friedrich tornerà, gli chiederò di trasferirci lontano, assieme, lui, io ed il nostro bambino. Come una famiglia vera, la famiglia che avremo dovuto essere molto tempo fa.

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIV ***


Una settimana chiusa in casa. Francesco non stava scherzando quando ha detto che non sarei più uscita; mi ha tolto le chiavi, cambiando addirittura la serratura.
Non è venuto nessuno a trovarmi, come di solito accadeva più di una volta al giorno; Francesco comunque deve aver dato la chiave ad Anna, per assicurarsi che non mi accada niente.
Ed ora non vuole parlarmi nemmeno lei… non avrei mai immaginato avessi potuto creare uno scandalo del genere, per una cosa che per me è più che giustificata. Ma questo la gente non lo sa, non può capirlo.
Credo che nessuno potrà mai capirlo se non chi l’ha passato.
Nonostante Francesco sappia quanto odio essere chiusa in casa dopo quello che è successo dieci anni fa, non vuole sentire ragioni; così ho passato tutta la settimana da sola, pulendo e facendo da mangiare.
Sono le tre e mezza del pomeriggio, ed io sono seduta davanti allo specchio in camera mia, che rammendo i calzini del mio bambino.
All’improvviso sento il rumore della chiave che gira nella toppa al piano di sotto e butto tutto per terra, correndo giù per le scale per vedere chi è; di solito sono da sola fino a sera, quando Francesco torna a casa fermandosi a prendere Federico da Anna.
Mi fermo sull’ultimo gradino: è proprio lei con il mio bambino, che stanno entrando.
“Anna! Cosa… ci fai qua? Non andartene…” provo a chiederle, ma lei è titubante.
“Devo andare dal medico con i bambini. Non riesco a star dietro a tutti. Scusami…”
La vedo uscire dalla porta, ma prima che la chiuda mi avvicino, fermandola con le braccia.
“Anna, per favore! Almeno tu parlami!”
Lei mi guarda ancora con quello sguardo, che a tratti sembra anche dispiaciuto.
“Maria… mi dispiace, io…”
Cerco di insistere: non posso continuare con questa situazione di solitudine ancora a lungo.
“Avanti Anna! Non giudicarmi senza sapere come sono andate le cose…”
Lei è ancora titubante, come se si sentisse in profondo imbarazzo a parlarmi.
“Tu… non mi hai mai detto niente. E Riccardo è un collega di mio marito, ci conosciamo da anni. È una persona fidata, e gli crediamo. Io non so se la storia sia vera…” dice, alludendo a Federico, “ma comunque tu sei sposata. Hai tradito la persona più importante della tua vita, facendo andare di mezzo anche noi che te lo abbiamo fatto conoscere e gli abbiamo parlato bene di te”
Finisce così, senza darmi il tempo di controbattere; chiude con forza la porta, mentre una rabbia che non sentivo da tempo mi fa scoppiare in lacrime.
La gente mi evita perché amo un uomo che non è mio marito: perché per un uomo che ha una relazione fuori dal matrimonio è diverso, mentre per una donna no?
Corro in camera, chiudendomi dentro per riprendermi: non voglio che Federico mi veda così.
Non so lui cosa ne pensa di questa situazione, cosa gli abbiano detto, se mi ripudia o no.
Dopo alcuni minuti sento grattare alla porta, e la sua voce chiamarmi.
“Mamma… posso entrare?”
Mi asciugo gli occhi, cercando di dirgli si, ma la gola mi si è seccata; me la schiarisco, dopodiché glielo ripeto meglio.
Sono seduta sul letto, e lo osservo entrare, un po’ impacciato.
È da quando Riccardo se n’è andato che io e Federico non parliamo più, perché Francesco ha voluto lasciarmi da sola giustificando questa azione con “tuo figlio potrebbe prendere i tuoi vizi”.
Lo guardo, un po’ intimorita da come potrà reagire; lui non dice niente, ma si siede vicino a me, abbracciandomi.
“Mi sei mancata” dice, stringendomi forte.
Io lo stringo forte a mia volta, cercando di non piangere ancora.
“Anche tu mi sei mancato amore… mi sei mancato come l’aria…”
Restiamo in silenzio un po’, godendo della presenza dell’altro. Poi lo allontano da me, guardandolo in viso: è bellissimo, proprio come suo padre.
Gli sistemo un po’ i capelli, e lui stranamente si lascia fare.
“Mamma… lo zio mi ha detto che Friedrich in realtà è mio papà”
A quella frase sento un vuoto allo stomaco; cerco di rispondergli, il più sinceramente e delicatamente possibile.
“Fede, guardami. Sto per farti un discorso lungo, quindi ascoltami bene. Non so cosa ti abbia raccontato tuo zio, ma in ogni caso la verità te la posso raccontare solo io, perché lui non c’era quando è accaduto.”
Lui fa di si con la testa, all’improvviso concentrato.
“Durante la guerra l’esercito tedesco invase parte dell’Italia, e questo comprese anche il paese in cui abitavo con Francesco, tua zia Elena e i nonni. Alcuni italiani si riunirono in gruppi per scacciare i tedeschi, e di questi faceva parte anche lo zio come ben sai. Si riunivano nella nostra casa, e i soldati tedeschi li scoprirono, facendo però andare di mezzo noi.
Uccisero tutta la nostra famiglia… tranne me. Friedrich era a capo di quei soldati e li controllava, ma l’ho visto con i miei occhi che non ha dato l’ordine di uccidere nessuno; invece ha dato l’ordine di salvare me.
Ho collaborato con loro per alcuni mesi, e lui mi è stato vicino; entrambi eravamo soli e stanchi. La guerra non è solo sparare e divertirsi come pensi tu ora. È morte, tristezza, solitudine.
Ci siamo amati e da quell’amore sei uscito tu. Quando ho scoperto di essere incinta, lui mi aveva dovuta lasciare già da un pezzo… anche quella volta mi ha salvata, risparmiandomi la morte.
Sono andata a lavorare da delle suore in un convento per farti crescere bene, non so se te lo ricordi. Sei la cosa più bella che abbia fatto e ti giuro che non ti lascerò mai, qualsiasi cosa accada. Non ti ho lasciato quando non avevo niente, e non ti lascerò ora.
Friedrich comunque non sapeva che io aspettavo te… si è presentato questa primavera, dopo aver passato tutti questi anni in carcere.”
Federico abbassa gli occhi, mettendosi a giocare con i fili del tappeto.
“Perché non me l’avete detto prima?”
Sospiro.
“Avrei voluto farlo. Io non mi sono mai vergognata di aver amato tuo padre. Ma come vedi, le stesse reazioni che hanno suscitato questa cosa adesso, sono successe anche dieci anni fa”
“Cioè?”
“I tedeschi erano visti male. Erano i nemici, i freddi assassini che ammazzavano senza pietà. Stare con uno di loro, significava essere ripudiati da tutti. Hanno ripudiato anche te all’inizio, perché sei suo figlio.
Questi capelli biondi, gli occhi azzurri, la pelle chiara… sei la sua fotocopia. E per molto tempo la gente ha avuto pregiudizi contro di te, ma ho fatto di tutto perché crescessi come ti saresti meritato.”
Rimane in silenzio per un po’ prima di parlare ancora, iniziando a preoccuparmi.
“È simpatico Friedrich, anche se un po’ silenzioso”
Sorrido, accarezzandogli le mani.
“Non sentirti in dovere di fare niente tesoro. Lo so che per te dev’essere strano, forse può anche farti sentire a disagio. Ma fai quello che senti, non voglio costringerti ad amare chi non hai mai conosciuto.”
Lui fa di si col capo, poi si avvicina, abbracciandomi.
“Ti voglio bene mamma. Se vuoi saperlo sono contento che Riccardo se ne sia andato, non mi è stato mai simpatico. E non voglio più che sei triste per colpa sua”
Lo stringo di nuovo a me, baciandogli i morbidi capelli biondi.
 
Dopo due ore circa, sentiamo la porta aprirsi di sotto; scendiamo, incontrando ancora Anna.
“Riporto Federico a casa mia” dice.
Mi giro a guardare l’orologio, e vedo che sono le cinque e quaranta: Francesco di solito torna più o meno tra mezz’ora.
Federico mi guarda, speranzoso di non andare, ed io non vorrei lasciarlo.
Poi all’improvviso collego le cose: il pediatra è disponibile solo di mattina ed il pomeriggio visita a domicilio, ma solo in casi urgenti.
Anna ha voluto farci passare un po’ di tempo insieme, venendo a riprendere Federico prima che Francesco se ne possa accorgere.
“Vai Fede. Ci vediamo tra poco, non ti preoccupare”
Gli do una piccola spintarella, facendogli l’occhiolino; poi guardo Anna che esce con lui.
Prima che chiuda la porta, si gira e mi guarda a sua volta.
“Grazie” le dico.
Lei mi fa un piccolo sorriso, poi chiude la serratura.
 
È notte fonda e sono stesa a letto, incapace di prendere sonno.
Il giorno dopo che Riccardo se ne andò, Francesco volle subito sapere come facevo ad incontrarmi con Friedrich, ed io ho dovuto dirgli la verità; almeno sono riuscita a dissuaderlo dal chiudermi in camera, la notte.
Forse sto iniziando a soffrire di insonnia, ma rimango sempre in uno stato di limbo, tra il sogno e la realtà, che dura fino alle quattro di mattina circa. Orario in cui poi riesco a prendere sonno.
Sento degli scricchiolii provenire da fuori, ma non ci faccio caso: è una casa vecchia, scricchiola tutto il giorno.
Sto pensando a Riccardo ora: chissà cos’ha raccontato in giro; di certo devo avergli ferito particolarmente l’orgoglio, perché dover ammettere che sono andata con un altro è una cosa avvilente, per lui. Ma per come poi si è rivelato, meritava anche di peggio.
Con gli occhi percorro tutta la stanza che ho sistemato con gli anni: le lunghe tende azzurre, il boudoir alla francese, i grandi specchi, ma soprattutto l’elegante armadio in mogano. Piano piano, risistemando mobili vecchi che la gente non voleva più, ho fatto una camera degna di una signora.
Mi concentro sulla poca luce che entra dalle fessure dei balconi, quando mi pare di scorgere un’ombra provenire da fuori. Sbarro gli occhi, all’improvviso più attenta.
Cosa può esserci fuori da camera mia a notte fonda?
Vedo distintamente qualcuno camminare sul balcone.
Un colpo forte mi fa salire il cuore in gola, mentre le porte si aprono; c’è qualcuno nel mezzo, ma non riesco a distinguere bene.
Mi tiro su le coperte, cercando di coprirmi, ed intanto prendo il libro che stavo leggendo, per difendermi; il cuore mi batte all’impazzata mentre la figura si avvicina, ricoprendosi di buio.
Maria
Riconosco subito la sua voce calda e mi rilasso all’istante. Scosto le coperte, alzandomi; mi avvicino e lo abbraccio, stringendolo forte a me.
“Mio dio, sei tu…”
“Maria cos’è successo? Stai bene?”
Non rispondo, concentrata troppo sulla sorpresa che mi ha appena fatto.
“Maria?”
“Shh. Parla piano che stanno dormendo…”
“Apri la luce e rispondimi per favore.”
Di malavoglia lo lascio e mi avvicino alla lampada del comodino, accendendola: vedo le espressioni cambiare sul suo viso.
“Chi ti ha fatto questo?”
Intuisco stia parlando del livido, anche se non so come abbia fatto ad accorgersene, dato che non si vede quasi più.
“È stato Riccardo. L’hanno scoperto, e lui ovviamente si è arrabbiato… ma l’importante è che se ne sia andato. Non sopportavo più di averlo accanto…”
Si avvicina, prendendomi il viso in una mano e passando delicatamente il pollice sopra la ferita: l’occhio sinistro è attorniato solo da un leggero viola dallo zigomo fino al sopracciglio.
Mi stringo nelle spalle per il freddo che sta entrando dal terrazzino; lui lo nota e torna indietro a chiudere i balconi.
“Come hai fatto a sapere che non potevo più uscire?” gli chiedo.
Lui si riavvicina, fiero e dritto come sempre.
“È venuto Federico a dirmelo. Tuo fratello deve avergli raccontato tutto. Mi ha chiesto se è vero che sono suo padre… e poi mi ha raccontato di te, mi ha chiesto di venirti ad aiutare”
Ecco come ha fatto a sapere del livido.
Cosa ti ha detto? Ma soprattutto quando?” gli chiedo, incredula.
“Oggi pomeriggio. Mi ha detto che tuo fratello ti ha chiusa in casa e che tu piangi per questo motivo. Ma è vero? Maria dimmi la verità”
Sospiro, spostando lo sguardo da lui.
“Si è vero. Così pensa di proteggermi… chissà Riccardo cosa ha detto. La gente penserà che sia una prostituta o cose del genere…”
Torno a guardarlo, e lo vedo ricambiare il mio sguardo con una leggera tristezza.
Mi avvicino a lui, prendendogli le braccia.
 “Friedrich, scappiamo insieme. Andiamo via io, te e Federico. Non ne posso più di questa situazione... Vorrei finalmente stare con te e il nostro bambino, e basta.”
Quello che vedo sul suo volto non è quello che vorrei vedere ora: abbassa lo sguardo, come ogni volta che nasconde qualcosa.
“Non credo sia possibile” dice.
Il respiro mi si mozza in gola, ma cerco di calmarmi.
“Cosa significa? Te ne stai andando anche tu?”
“No Maria, non vado più da nessuna parte. Ma non possiamo vivere assieme” continua, ermetico.
Mi allontano, guardandolo con espressione dubbiosa.
“Perché? Cosa c’è ora che non va? Non m’importa se dovremo stare in un monolocale, se dovrò fare due lavori… vorrei stare con te, e vorrei che Federico abbia finalmente un padre. Lui è ancora giovane, si farà nuovi amici da un’altra parte…”
“No Maria, non è possibile che voi viviate con me. Ho ricevuto delle minacce di morte.”
Spalanco gli occhi, sedendomi sul letto.
“Da chi?”
“Dopo che è stato riaperto il processo hanno indagato sulla mia vita personale. Hanno scoperto che abito qua, ed estremisti di sinistra mi hanno minacciato di morte se rimango in Italia.”
Rimango un attimo in silenzio, digerendo la notizia appena ricevuta; poi mi risveglio come da un sogno, iniziando a parlare troppo velocemente.
“E allora vai via, al più presto… ritorna in Germania, in un posto tranquillo dove nessuno…”
“Perché non capisci?” mi interrompe, “Io non voglio più scappare. Voglio solo essere lasciato in pace. E rimanere vicino a te.”
“Friedrich se mai qualcuno dovesse farti qualcosa io mi sentirei responsabile!”
“Sono io che ho fatto questa scelta, non devi prenderti la responsabilità di niente. Ci parlo io con tuo fratello, non puoi continuare a vivere così”
Lo fermo, mentre si sta avvicinando alla porta.
“Tu non sai quanto è testardo mio fratello! Se ti vede potrebbe anche cercare di ucciderti, ricordati che è stato un partigiano… l’ha segnato più di quanto pensassi”
Mi metto fra lui e la porta, sperando che non la scardinasse; per fortuna le mie speranze sono esaudite.
“Ne parliamo domani mattina. Stai qui con me stanotte… ci sono tante cose che mi devi raccontare” gli propongo, appoggiando le mie mani sul suo grande petto.
Lui abbassa gli occhi come se ci stesse pensando, poi fa un cenno d’assenso stringendo le labbra, e avvolgendo un braccio attorno alle mie spalle.
Lo vedo fare il giro del letto, e stendersi vicino a me che sono già seduta; un brivido mi percorre la schiena, immaginandoci come marito e moglie.
“Vieni qua” mi dice, facendomi segno di appoggiarmi al suo petto.
Mi avvicino, sistemandomi tra le sue braccia, in un posto che sembra fatto apposta per me; e poi penso: l’ultima volta che abbiamo dormito insieme era a Cuneo. Tutte le sere che lo andavo a trovare, dopo aver fatto l’amore, me ne tornavo a casa per non essere scoperta.
“Mi sei mancato così tanto. Ti ho pensato tutta la settimana…” dico, ma lui mi interrompe di nuovo.
“Anche tu mi sei mancata, ma ora dobbiamo parlare di altre cose. Riuscirete lo stesso ad avere abbastanza soldi ora che le entrate sono calate?”
Mi alzo, guardandolo dubbiosa.
“Perché dobbiamo parlare di queste cose adesso?”
Mi guarda con la sua solita espressione indecifrabile.
“Hai paura delle minacce?” chiedo, immaginandomi il peggio.
“No, non ho paura. Per ora posso prendermi cura di te, ma se mi dovesse succedere qualcosa voglio morire con la consapevolezza di non aver tralasciato nulla.”
Lo guardo, sbalordita.
“Non azzardarti più a dire che ti debba succedere qualcosa.” Dico, risoluta.
“Non puoi nascondere la testa sotto la sabbia! È successo quando ero a Stoccarda, ed è successo anche qui. Non sono intimorito, ma…”
“Ma cosa?” dico, alzando un po’ il tono della voce, “Tu devi andartene. Non fare continuamente l’eroe! Come pensi che starei io se sapessi che ti hanno ucciso? Che sei voluto rimanere nonostante le minacce?”
Lui rimane calmo, cosa che mi fa innervosire ancora di più.
“Io voglio rimanere perché sono felice qua. È un posto tranquillo, pacifico. Se dovrò morire, morirò contento”
Mi alzo dal letto, cercando di rimanere calma; lui però mi prende per la vita prima che sia troppo lontana.
“Maria… per favore non voglio vederti star male per questa cosa…”
Mi spinge piano la testa vicino alla sua spalla; io mi appoggio, odiandolo e amandolo allo stesso tempo.
“Perché dev’essere tutto così complicato? Io vorrei solo stare con te… e vorrei che tu fossi tranquillo e felice…”
Mi prende il viso, costringendomi a guardarlo. Mi accarezza, parlandomi sottovoce.
“Io sono tranquillo e felice. Non ti devi preoccupare per me. Godiamoci questi momenti in cui possiamo stare assieme”
Questa frase l’ho sentita troppe volte… Ma siamo così vicini ora che l’unica cosa che provo è amore, puro: ed ecco che senza pensare affondo le mie labbra nelle sue, stringendolo forte a me come se questa cosa possa impedirgli di andarsene. Lo spingo piano, facendolo stendere sul letto, mentre lui tira su la mia camicia da notte.
Io gli tolgo la maglia, scoprendo quel petto ancora scolpito come una statua greca.
Gli accarezzo le spalle, mentre lui mi bacia ansante il collo; le mie dita riconoscono la cicatrice della ferita che si era procurato i primi giorni a Cuneo, la ferita che io gli medicai.
“Non te lo dico abbastanza Friedrich…” dico, tra un sospiro e un gemito che devo tristemente soffocare.
Ti amo… ti amo…”
Lui non risponde, ma me ne dimentico presto sentendo l’estasi prendermi, mentre i nostri corpi si uniscono ancora una volta.

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Capitolo 25
*** Capitolo XXV ***


Il silenzio della casa ci avvolge. Friedrich mi tiene tra le sue braccia, entrambi siamo stanchi; chiudo gli occhi, sentendo il battito del suo cuore normalizzarsi. Il torpore tipico della fase prima del sonno inizia a scaldarmi, ma davvero voglio dormire?
Ripenso a quello che Friedrich mi ha detto un’ora prima, e l’angoscia mi prende di nuovo. Mi stringo ancora di più a lui, come se quest’azione potesse impedire che qualcuno possa fargli del male.
Lui non si muove, probabilmente si è addormentato.
Non voglio alzarmi per accertarmene, ma ad ogni scricchiolio della casa sento che sospira muovendosi un po’.
Mi sistemo accanto a lui, trovando una posizione migliore, e sento che sospira ancora più forte.
Ti ho svegliato?” gli sussurro.
No. Dormi che è tardi” dice lui, accarezzandomi i capelli.
Qualche volta Federico mi racconta di Francesco che si alza all’improvviso urlando, nel mezzo della notte, dicendo frasi sconnesse su ferite, morti o armi.
Non pensavo che dopo tutto questo tempo Friedrich soffrisse ancora di insonnia: ma d’altronde lui ne ha viste peggio di me durante la guerra.
Probabilmente è anche per questo che ha deciso di vivere in mezzo ad un bosco, silenzioso e tranquillo: ora riesco a capire cosa mi voleva dire prima, dicendo che lui è contento così.
Gli sposto la mano, dai miei capelli la intreccio nella mia, addormentandomi accanto a lui.
 
Non so bene che ora sia, ma un rumore di vetri in frantumi mi ha appena svegliata.
Mi stiracchio un po’, e allungandomi sento il posto caldo vicino a me lasciato vuoto da qualcuno. Friedrich.
Abbiamo dormito insieme, ed ora… ora dov’è?
Sento la voce di mio fratello di sotto, ed un pensiero spaventoso mi arriva alla mente: è andato veramente a parlare con lui.
Scendo immediatamente, senza mettermi la vestaglia, e arrivata giù li vedo una davanti all’altro, ai due lati della tavola.
I loro occhi s’incrociano, e l’aria sembra così pesante che potrebbe essere tagliata con un coltello.
Tu” dice Francesco alzandosi dalla sedia e guardandomi, “ che cazzo ci fa in casa mia quel bastardo?”
Si rivolge a me, che mi sono avvicinata a lui per calmarlo.
“Francesco per favore… Non urlare, Friedrich vuole solo parlarti…”
Con un braccio mi sposta, ma non mi lascio sopraffare dalla sua forza.
“Per piacere, ascoltami! Almeno abbassa la voce, c’è Federico di sopra!”
“Stai zitta. A pensarci bene ho anch’io due parole da dirti, stronzo. Cosa pensi di volere ora? Vivere con mia sorella? L’hai messa incinta e te ne sei andato. L’hai lasciata da sola con un figlio, senza contare il fatto che eri e rimarrai un assassino, un bastardo nazista che merita solo di crepare per tutto il male che ha fatto.”
Guardo Friedrich, che nel frattempo non ha fatto una piega: in questo momento riconosco tutto il suo passato di soldato, e il perché sia riuscito ad arrivare così in alto.
Sembra mantenere una strana calma; la postura è dritta con sguardo sicuro e fiero come sempre. Le mani però sono strette a pugno, lungo i fianchi.
“Non sapevo che Maria fosse rimasta incinta. Comunque non ho avuto altra scelta. Ma non sono qui a parlare…”
Francesco lo interrompe, scaldandosi sempre di più.
“Avrebbero dovuto impiccarti o lasciarti a marcire in prigione, come avete fatto con noi”
“Ho pagato per quello che ho fatto.” Risponde Friedrich, senza mostrare un segno di nervosismo.
“Stai zitto! Non me ne frega un cazzo di quello che hai da dire! E se sei venuto a parlare di Maria io sono suo fratello e so come comportarmi con lei”
Mi spinge con un braccio contro il tavolo, mentre si avvicina a Friedrich con intento violento.
Lui non muove un passo; non si legge un’emozione nel suo viso.
“Non prendo lezioni da un bastardo nazista che ha ucciso la mia famiglia”
Li guardo fronteggiarsi: Friedrich ha una corporatura molto più grande di quella di Francesco, in più lo sovrasta di ben dieci o quindici centimetri. Ma non credo che a mio fratello questo faccia spavento.
Vedo intanto un’ombra spostarsi dalla cima delle scale, e mi sposto per guardare meglio.
“Federico!”
La mia voce rompe il silenzio pesante che si è creato, e tutti e tre ci giriamo verso di lui.
Federico guarda la scena con la bocca aperta, ancora in pigiama.
“Ecco! Guarda tua madre chi ti ha fatto conoscere! Scopri chi è il tuo vero padre, Federico!”
Francesco sta esagerando, complice anche la sua rabbia.
“Basta parlargli così! Tu non lo conosci…” dico.
Mi avvicino, spostando Francesco da Friedrich, in modo che non possano mettersi le mani addosso.
Francesco mi prende un polso, guardandomi con aria severa.
“Stanne fuori. Questa è una faccenda tra uomini”
Cerca di spostarmi, ma mi impongo davanti a lui.
“Smettila tu, stai esagerando! Che esempio vuoi dare a Federico?”
“E tu che esempio gli hai dato? Che ti sei fatta portare a letto dal primo bastardo nazista che hai incontrato?”
Una mano forte ci separa, e vedo Francesco arretrare per una spinta ricevuta.
Friedrich è alle mie spalle, che fa segno di farmi da parte.
Francesco intanto si riprende, e lo vedo avvicinarsi di nuovo alla tavola: quando si gira ho un tuffo al cuore.
“Non toccarmi mai più, bastardo…!”
Ha preso un coltello, uno di quelli per tagliare la carne; lo impugna, porgendo la lama verso di noi.
Prima che possa dire qualcosa Friedrich mi spinge verso le scale, fronteggiandolo.
Ma proprio mentre sta per succedere il peggio, una vocina il ferma.
“Basta, zio basta…”
Federico si è messo coraggiosamente in mezzo, dividendo i due litiganti.
A Francesco trema la mano, e Friedrich non lo perde d’occhio un attimo; io sono immobile. Vorrei intervenire, portando via Federico, ma ho paura che se mi avvicinassi la situazione possa degenerare.
Dopo un paio di minuti, tirando un sospiro di sollievo, vedo mio fratello appoggiare lentamente il coltello sul tavolo, mentre si strofina il viso con l’altra mano.
“Basta, basta…  voglio che tutto ritorni come prima…” dice Federico.
Mi alzo e lo raggiungo, stringendolo a me; lo sento tremare, come d’altro canto sto facendo anch’io.
Francesco cerca di avvicinarsi a suo nipote, ma io lo spingo via.
“Ma come ti comporti?! Pensi di essere sempre nel giusto? Qui non si tratta di te, ma di me e mio figlio. Ha diritto di conoscere il suo vero padre se vuole, senza più bugie. E dovresti essere contento che Federico abbia un padre così, nonostante quello che possa pensare sulla politica o che altro. Ha salvato la mia vita più volte, e se sono qui che ti sto parlando ora è solo grazie a lui. Se qualcuno della famiglia è sopravvissuto è grazie a lui
Francesco non proferisce parola, spostando lo sguardo da me a Friedrich.
Lascio Federico, girandomi verso suo padre: è in piedi dietro di me che non perde d'occhio un attimo mio fratello.
Poi inizia a parlare, catalizzando l’attenzione di tutti su di sé.
“Maria è una donna libera, ha diritto di andare dove vuole. Capisco la tua voglia di proteggerla, ma non si può rimediare a quello che ormai è successo.”
Vedo Francesco sbuffare, sedendosi sulla sedia.
“È solo colpa tua se è successo quello che è successo. Maria non è una donna libera, è sposata. Hai una vaga idea di cosa potrà dirle la gente per colpa tua? Lo sanno tutti, e non voglio che lei soffra. Ma voglio anche che capisca quello che ha fatto, dato che non sembra rendersene conto.”
Friedrich gli risponde in maniera tranquilla, ma percepisco la voce cambiare, assumendo quel tono freddo che usava con i suoi soldati.
“Non posso biasimarla se ha sposato qualcun altro. Le ho chiesto più volte se quell’uomo la facesse felice, e lei non ha mai voluto rispondere. Da quello che le ha fatto, è un uomo meno di niente” dice, alludendo alla botta in viso.
Francesco passa il suo sguardo su di me, osservandomi.
“Riccardo non ti rendeva felice? A me pareva che fosse tutto tranquillo, tutto andava alla perfezione.”
Lo guardo con un po’ di rimprovero: è proprio vero che se non gli dici qualcosa non se ne accorgerà mai.
Sospiro, cercando di tirare fuori quello che è rimasto dentro di me per tanto tempo.
“No Francesco. All’inizio ero affascinata, ma dopo che ha capito che non avrei potuto dargli un’erede, ho scoperto che mi tradiva. Ha avuto più di un’amante, trovavo lettere d’amore e altre cose nei vestiti che portava qui a lavare.
Non ho detto niente perché mi vergognavo, avreste pensato che non fossi una brava moglie.”
Francesco mi guarda con un’aria stupita, come se se ne fosse accorto solo in questo momento.
“Senti Maria… io non voglio entrare in questi discorsi personali. Non lo sapevo, Riccardo non parlava mai della vita che faceva in città, o per lo meno, non parlava di relazioni.
Fatto sta che è successo quello che è successo. Va bene… forse ho un po’ esagerato chiudendoti in casa. Ma santo cielo… lo sanno tutti ormai. E non ti vedono di buon occhio. Riccardo è conosciuto qui, mentre… lui…” dice, facendo segno verso Friedrich.
Quando sto per aprire la bocca per controbattere, sento Friedrich che mi spinge piano verso le scale.
“Lasciaci soli un attimo.”
Lo guardo, un po’ stupita; lui sembra convinto e sicuro, quindi poso il mio sguardo su Francesco.
Lo vedo chino sul tavolo, con un’espressione cupa sul viso. Vorrei dirgli qualcosa, ma lui mi fa segno di andare; decido di fidarmi. Prendo Federico e saliamo insieme, non prima di aver stretto la mano a Friedrich;
andiamo tutti e due in camera mia, sedendoci sopra il letto.
“Secondo te cosa si stanno dicendo?” mi chiede Federico.
“Non lo so… ma almeno stanno parlando da persone adulte” rispondo.
Velocemente ripenso a quello che suo padre mi ha detto durante la notte appena trascorsa.
“È vero che sei andato da Friedrich ieri pomeriggio?” chiedo a Federico mentre si stende sul letto.
“Si”
“Ma come hai fatto? Eri da Anna, lei non ti avrebbe mai lasciato andare nel bosco da solo… era troppo tardi quando è venuta a prenderti”
“Le ho raccontato tutta la storia. Ho chiesto di non dire niente allo zio, perché si sarebbe arrabbiato ancora di più… e poi mi ha dato il permesso per andare da Friedrich. Ha detto che le dispiace per la situazione, e che se lui è veramente mio papà avrei dovuto raccontargli quello che è accaduto. Quando Friedrich mi ha visto ha fatto una faccia un po’ strana e mi ha fatto subito entrare in casa, come se non ci dovesse vedere nessuno. Però mi ha ascoltato, e ha risposto a tutte le domande che gli ho fatto…”
Mi avvicino a lui, baciandolo sulla fronte.
“Sei intelligente e coraggioso. Sono così fiera di te…”
Lui non dice niente e abbassa un po’ la testa, credo per l’imbarazzo.
Il silenzio cala nella stanza,  così provo a captare delle parole provenire da sotto, ma si sente solo un silenzio di tomba.
Dopo mezz’ora sento la porta di casa aprirsi e chiudersi. Mi alzo di scatto, con tutti i sensi all’erta: i battiti del mio cuore sono accelerati, e non riesco a capire che succede.
Prendo la vestaglia, dicendo a Federico di non muoversi dalla stanza.
Scendo le scale, e mi affaccio in cucina: c’è solo Francesco, seduto a tavola che beve il caffè; non fa una piega, e sembra abbastanza assorto nei suoi pensieri.
“Friedrich dov’è? Va tutto bene?” chiedo, un po’ allarmata.
“Se n’è andato” dice lui, senza alzare gli occhi dal caffè.
“È andato via senza dirmi niente? Cosa vi siete detti?”
Lui non risponde.
“Francesco? Allora? Mi pare che abbia il diritto di sapere…”
Non mi lascia finire la frase; si alza e si avvicina, guardandomi come ogni volta quando vuole imporsi.
“Quello che ci siamo detti rimane tra noi. Non chiederlo mai più”
Rimango un attimo interdetta, guardandolo mentre appoggia la tazza nel lavandino; lo seguo con lo sguardo mentre si avvia su per le scale, e decido di insistere.
“Che spiegazione è questa? Non sono più una bambina a cui devi nascondere le cose… Francesco! Apri la porta!”
Si chiude in camera, impedendomi di sapere così la realtà dei fatti.

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Capitolo 26
*** Capitolo XXVI ***


Togliergli la parola non è servito a molto; sono passati quattro giorni da quella mattina, e non sono riuscita a cavare un ragno dal buco. In più si è preso una settimana di ferie, così mi tiene sotto controllo dalla mattina alla sera.
“Il dottore mi ha prescritto una settimana di riposo, tutto qua. Cosa c’è di male? Non posso stare a casa mia?”
“O magari andare al bar a prenderti un caffè? Vai a prendere Federico a scuola… basta che non mi stai attaccato” gli dico seccata, mentre pulisco il pavimento al primo piano.
“Non posso, sto aspettando una persona”
Mi fermo, guardandolo con aria sospettosa.
“Chi stai aspettando te?”
Lui fa finta di niente, superandomi.
“Mi raccomando pulisci bene, con tutto il fango che c’è fuori diventa una palude qui dentro…” dice, prendendomi anche in giro.
Lo vedo scendere le scale, e tra me e me lo mando a quel paese.
“Sono qui sotto eh…”
Alzo gli occhi al cielo, mentre sento la porta di casa aprirsi e chiudersi.
Non riesco ancora a capire perché Friedrich se ne sia andato senza dirmi niente; c’è da dire però che Francesco mi lascia uscire, ora. Non ci ho pensato due volte nell’andarlo a trovare, ma non ho potuto perché mio fratello me l’ha ovviamente impedito.
Di una cosa sono certa: mi stanno nascondendo qualcosa, e dev’essere qualcosa di grave se Francesco si è fatto passare il disgusto nei suoi confronti così in fretta.
Mi accorgo di aver lasciato il secchio dell’acqua nel bagno, così, stando attenta a dove metto i piedi, torno indietro andandolo a prendere.
Dalla finestra aperta sento delle voci provenire da sotto: una la riconosco come quella di mio fratello, l’altra… è quella di Friedrich!
Cerco di spiare, ma si trovano dietro l’angolo della casa; così scendo di corsa le scale, preoccupata da quell’improvvisa scena.
Perché mio fratello ha deciso di rivedere Friedrich? Cosa sta succedendo? E perché lui non è più venuto a trovarmi, dato che sa che non posso più uscire quando voglio?
Esco e li trovo dietro casa che parlano a bassa voce.
“Cosa succede? Qualcuno me lo vuole spiegare?” dico, quasi urlando.
Vedo Friedrich girarsi verso di me, mentre mio fratello rimane in silenzio con lo sguardo basso; vicino ai suoi piedi c’è uno scatolone.
Nessuno dei due risponde, cosa che mi allerta. Francesco rientra in casa portando lo scatolone con sé, così rimaniamo soli.
“Cosa succede Friedrich? Perché ti incontri con mio fratello?”
Lo leggo nei suoi occhi: c’è qualcosa che vuole dirmi, ma non può.
“Gli ho dato qualcosa per aiutarvi. Ora devo andare.”
Rimango sbalordita: è qua, vicino a me, e preferisce andarsene via.
Lo prendo per un braccio, costringendolo a fermarsi.
“Perché non potevi darle a me quelle cose? E possiamo stare un po’ insieme, è da quattro giorni che non ci vediamo!”
Lo vedo spostare lo sguardo, e capisco che non vuole rimanere.
“Capisco… te ne stai andando? Potevi dirmelo invece di fare tutta questa scena… non sono stupida, ma va bene così. L’importante è che vai in un posto sicuro”
Lui non dice niente, e percepisco il suo disagio.
Un groppo in gola mi impedisce di dire altro, così mi volto, ma non trovo il coraggio di andarmene.
Sto male al pensiero che lui parta, ma alla fine è meglio così, non sopporterei che gli succedesse qualcosa; la cosa più dolorosa ora è il fatto di vederlo così distante, come se non volesse avere a che fare con me.
“Aspetta…”
Una sua mano si appoggia sulla mia, girandomi di nuovo verso di lui.
“È meglio che non ci vedano insieme per un po’. Ti giuro che ti starò sempre vicino, se avrai bisogno ci sarò sempre… no, no non piangere ora, mi devi ascoltare!”
Non ce la faccio a trattenermi, mi sta dicendo addio.
Porto le mani al viso, cercando di calmarmi, ma un peso troppo grosso mi preme sul petto.
Lui me le sposta con forza, costringendomi a guardarlo.
“Maria ti ho detto che non me ne vado, e non me ne andrò. Ma non venirmi più a trovare per nessun motivo, hai capito?”
Non gli rispondo: l’unica cosa che vorrei fare ora è vomitare.
“Maria, rispondimi
Faccio segno di si con la testa, poi incrocio i suoi occhi azzurri, cercando di scorgerci un po’ di chiarezza. Lo so perché lo sta facendo: ha paura che venga coinvolta, dopo aver ricevuto quelle minacce.
“Ci vediamo presto, te lo prometto.” Dice, lasciandomi.
Vorrei baciarlo, sentire che lui non mi sta respingendo, ma mi fa segno di andare.
“Mi lasci senza dirmi nient’altro?” gli dico, con voce tremante.
Vedo la sua mascella serrarsi convulsamente, segno che è nervoso.
Non dice niente così mi avvicino io, prendendo il suo viso tra le mie mani.
“Non lo so se riuscirò a vivere ancora come prima, sapendomi separata da te un’altra volta…”
Lui toglie le mie mani mentre si guarda intorno, ma io non cedo.
“Friedrich, io non ho paura. Non me ne andrò finché non saprò che…”
Che…? Che cosa voglio sapere in realtà?
“Maria, ti prego. Rientra in casa”
La sua voce sembra quasi una supplica ora.
Mi rassegno, facendo quello che mi dice.
“Va bene. Non dimenticare mai quanto ti amo”
Prima che possa dire qualcosa lo avvicino, baciandogli le labbra calde e sottili; lui ricambia, ma mi scosta dopo poco, girandosi e andandosene via con passo sicuro.
 
 
-
 
 
Ho passato una brutta nottata: mi svegliavo di soprassalto ogni due minuti, e ho sognato cose terribili che non voglio neanche ricordare.
Sono le sei e mezza, e fuori è ancora buio; scendo di sotto e trovo la tazza di Francesco sul tavolo. Come al solito si dimentica di metterla a posto dopo averla usata.
Mi avvicino al lavandino, e sistemando sento strani spifferi di aria gelida farmi rabbrividire: guardandomi attorno scopro che la finestra è aperta.
Un forte odore di bruciato arriva da fuori, e scosto le tende per vedere cosa possa essere a quest’ora: un’enorme nuvola grigia si alza sulla stradina, ricordandomi con orrore il fumo degli incendi dovuti ai bombardamenti.
Allarmata, mi infilo un paio di scarpe e il cappotto ed esco, seguendo la scia di fumo; qualcuno potrebbe aver bisogno di aiuto. A mano a mano che mi avvicino alla zona del probabile incendio però, un presentimento orribile si fa strada in me.
Sono davanti all’entrata del bosco ora, e l’aria è irrespirabile: vedo alcune persone ma le ignoro, iniziando a correre. Il cuore mi batte così forte che sembra voglia uscirmi dal petto: stringo i denti, facendo quasi fatica a respirare.
“Ferma! È pericoloso!”
La voce di un uomo si leva tra il fumo, ma non lo ascolto.
Quando arrivo davanti alla sua casa, mi blocco spalancando gli occhi, e sento una fitta nel petto: è bruciata.
Qualcuno ha spento da poco il fuoco perché fa ancora caldo, e nuvole bianche e grigie sono addensate sopra di me. Mi tolgo il cappotto, lanciandolo a terra, e tremando mi avvicino alla porta scardinata.
Ti prego… dimmi che sei vivo…
Qualcuno mi prende per la vita, bloccandomi.
“Maria, non puoi entrare… potrebbe essere ancora pericoloso…”
Riconosco la voce di Francesco; non stacco un momento gli occhi dall’entrata, sperando che lui ne esca sorridente, dicendo che sta bene.
“Per favore dimmi che non è morto… DIMMELO!”
Inizio ad urlare, mentre vedo delle persone venirci vicino.
“Maria non urlare… ci sono degli uomini dentro per vedere se c’è qualcuno”
Quando vedo uscire tre uomini con una barella sento un battito mancare in petto: perdo la forza sulle gambe, e mi porto una mano alla bocca per impedirmi di vomitare.
Riconosco una sua mano, che esce penzolante, mentre il resto del corpo è ricoperto da un lenzuolo bianco.
“È morto soffocato per il fumo… non abbiamo potuto fare niente”
La voce di un altro uomo arriva alle mie orecchie, mentre rimango impietrita a guardare la sua mano priva di vita; la vista mi si appanna, e grosse lacrime iniziano a rigare il mio viso.
Mi avvicino e la prendo tra le mie, sentendola fredda e inerte; di nuovo qualcuno mi sposta, tenendomi ben ferma tra le sue braccia.
“Maria, no…”
Cerco di spostarmi e di alzare quel lenzuolo per vedere che in verità è ancora vivo, che ha solo perso i sensi.
“Signorina, per favore… dobbiamo portarlo via…”
Francesco mi prende le braccia e mi stringe così forte da impedirmi quasi di respirare; ansimo come se non ci fosse più ossigeno nell’aria, non riuscendo a togliere lo sguardo da quel lenzuolo.
Tremo forte da non riuscire a stare in piedi, ed infatti Francesco mi prende in braccio allontanandosi dal bosco; gli infilo le unghie nelle spalle guardando il cadavere di Friedrich, mentre il mio urlo di dolore rompe il silenzio pacifico della valle.

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVII ***


È successo ancora: chi mi amava mi ha lasciata. Non avrei mai pensato che dopo tutti questi anni potessi provare di nuovo il dolore che ho provato per la perdita della mia famiglia; invece mi sento male, così colpevole di essere viva, stavolta al suo di posto.
È come se avessero portato via un pezzo di me; quel pezzo che mi faceva sentire in pace con la vita, il pezzo che riusciva a farmi sentire felice.
Ora non ci sono più dolci illusioni o speranze: se n’è andato per davvero, ho visto il suo cadavere uscire dalla casa.
Col senno di poi avrei voluto dirgli tante cose… quanto mi abbia cambiata, quanto in realtà lui fosse importante per me.
È una settimana che sono stesa a letto; non ho voglia di vedere né parlare con nessuno. Mi sono chiusa a chiave, uscendo solo per andare in bagno.
Federico e Francesco mi hanno lasciato del cibo fuori dalla porta, ma non ho fame e non intendo mangiare niente.
Oggi pomeriggio invece, sembra che Francesco non voglia lasciarmi in pace.
“Maria apri questa cazzo di porta, è una settimana che sei chiusa lì dentro. Io voglio vedere mia sorella e Federico sua madre”
Con voce debole e neutra, gli rispondo.
“Lasciami ancora un po’ da sola. Non mi va di parlare”
“È da giorni che dici così. Avanti, ho una cosa per te.”
“Non importa. Me la darai domani”
Lo sento che si sta spazientendo, ma non m’interessa.
“Me l’ha data lui. Dai che magari stai meglio”
Sospiro, mentre di controvoglia mi alzo ad aprire; la luce che arriva all’improvviso dal corridoio mi fa male agli occhi.
“Dio mio, come ti sei ridotta… vatti a lavare prima.”
Mi spinge verso il bagno, e con la coda dell’occhio lo vedo ritornare indietro a sistemare camera mia.
Dopo mezz’ora esco, trovandolo sorprendentemente in corridoio assieme a Federico, che mi aspettano;
di nuovo sento le lacrime bagnarmi il viso, e loro si avvicinano per rassicurarmi.
“Basta piangere, Maria. Avanti, andiamo in camera. Lui… mi aveva dato qualcosa per voi prima di andarsene”
Rientro in camera, e per fortuna noto che ha avuto l’accortezza di non lasciare aperti i balconi: è tutto buio, a parte la luce della lampada sul comodino.
Riconosco ai piedi del letto lo scatolone che era ai piedi di Francesco, l’ultima volta che ho visto Friedrich.
Prima di guardare cosa ci ha lasciato però, ho una domanda che continua a tormentarmi.
“Cosa ti ha detto quella mattina?”
Francesco lo sa che sto parlando con lui; rimane tra la camera ed il corridoio, mentre io gli do le spalle.
“Mi ha semplicemente detto che dovevo tenerti lontana perché aveva ricevuto delle minacce di morte. Immaginava che avresti trovato un modo per uscire, e non era più sicuro che andassi da lui, specialmente di notte”
“Perché non mi avete detto niente? Perché nascondermi questa cosa… lui come faceva a sapere che avrebbero davvero tentato di…”
Non riesco ancora a dire quella parola, così mi blocco, lasciando la frase in sospeso.
“Penso si fosse fatto degli amici qui intorno. Quando è venuto a portarmi quelle cose mi ha detto che probabilmente sarebbe successo qualcosa quella notte. Gli avevano proposto di dormire da un’altra parte, ma non ha voluto. Alla fine devo ammettere che ha avuto coraggio”
Prendo una grande boccata d’aria, chiudendo gli occhi.
“Lasciami sola” rispondo, semplicemente. Sento i suoi passi che scendono le scale, così mi siedo per terra e con mani tremanti apro lo scatolone.
La prima cosa che noto è il disco della canzone che abbiamo ballato la notte prima che lui partisse per il processo.
Poi un grande raccoglitore attira la mia attenzione.
“Quello l’ha fatto per me”
Una vocina alle mie spalle distoglie la mia attenzione, costringendomi a girarmi: siamo solo noi due ora, nella stanza.
“Vieni qua vicino a me. Posso guardarlo?” chiedo a Federico, con voce assente.
Lui fa segno di si e lo prende in mano, aprendolo.
Nella prima pagina ci sono poche righe e riconosco la sua calligrafia.
 
Non hai avuto la possibilità di conoscermi veramente, e non escludo che sia stato un bene per te. Ma so quanto tua madre ci tenga, ed essendo nostro figlio, credo che tu debba sapere la verità su di me. Così ho deciso di farti questo piccolo riassunto. Spero tu non mi odierai per come mi sono comportato, ma capirai le scelte che ho dovuto compiere e le aspirazioni che mi hanno portato a farle.
 
Nella prima pagina c’è una foto di lui in bianco e nero in una piscina: si nota che è molto giovane. Vicino ha scritto della sua infanzia a Berlino; decido di saltare, lasciando Federico leggerlo per i fatti suoi.
Sfoglio le pagine, e lo vedo crescere: ora è un soldato delle SS, e guarda l’obbiettivo con sguardo fiero e orgoglioso, nella sua divisa nera.
Ha trovato tutte le foto delle sue imprese, compresa quella della marcia sul mio paese: un vuoto allo stomaco mi prende mentre lo vedo in formazione con il suo esercito per le strade della città, ma cerco di ignorarlo, andando avanti.
L’album si ferma al processo di settembre; dopo ci sono solo alcune foto sparse.
Le prendo in mano e le osservo: sono quelle che abbiamo fatto un pomeriggio di quest’estate, a casa sua.
Si era fatto prestare la macchina fotografica da chissà chi, e fece una foto a me e Federico mentre preparavamo la merenda sul suo tavolo; poi Federico ce ne fece una.
Io sto sorridendo verso la macchina fotografica, mentre sistemo i piatti sul tavolo; Friedrich è seduto di fianco a me che mi guarda, ridendo per una battuta che avevo appena fatto.
Sospiro, prendendo in mano l’ultima: siamo noi tre. Io stringo la mano di Friedrich mentre lui è in piedi dietro di me; Federico è davanti a noi, che simula una posa buffa dei personaggi dei fumetti che tanto gli piacciono.
“Tienilo con cura Fede. Tuo padre è stato più uomo di molti altri che incontrerai nella tua vita”
Torno a guardare dentro lo scatolone, e ci trovo la polo bianca che indossavo ogni volta dopo che avevamo fatto l’amore a casa sua; ed infine trovo delle stecche di cioccolata tedesca.
Sento le lacrime salire di nuovo, ma mi trattengo solo perché c’è Federico.
Do un’ultima occhiata allo scatolone, nella speranza di trovarci qualcos’altro: togliendo la cioccolata vedo qualcosa di scintillante sul fondo; lo prendo in mano, scoprendone un anello.
È completamente d’oro, con un’incisione all’interno: Die Ehre des Reiches, l’onore del Reich; lo metto sull’anulare sinistro, ma è davvero troppo grande per me.
Me lo giro e rigiro nel dito, e all’improvviso ho un flash back: è lo stesso che portava quando eravamo a Genova. Quello che io avevo scambiato per una fede. Ma allora non era mai stata una fede…
Mi alzo da terra e mi avvicino al portagioie: prendo una collana e ci sfilo il pendaglio, infilandoci l’anello di Friedrich. La metto al collo, decidendo di non toglierla mai più.
Con la coda dell’occhio vedo Federico andarsene: forse vorrà stare un po’ da solo.
Torno indietro e rimetto le cose dentro lo scatolone, quando sento una presenza dietro di me.
“Me l’ha data quando sono andato a parlargli di te. Mi ha chiesto di dartela se gli fosse successo qualcosa.”
Federico mi porge una busta, dalla carta un po’ ingiallita; passo lo sguardo da lui alla busta, poi decido di prenderla.
“Grazie tesoro. Puoi lasciarmi da sola un attimo? Vorrei leggerla in silenzio”
Fa un cenno col capo, e prima di andarsene mi abbraccia forte, dicendo che gli manco.
Col cuore in gola apro la busta, cosciente che sto per leggere le ultime parole del mio unico amore.
 

Liebe Maria,
se stai leggendo questa lettera probabilmente mi è accaduto qualcosa.
È notte fonda ora, mentre ti scrivo: dicono che di notte le emozioni escano meglio, così ci provo.
Mi conosci ormai, non sono di molte parole affettuose; il mio lavoro e in seguito tutto quello che è successo, non mi hanno aiutato a migliorare questo aspetto.
Molte volte avrei voluto dirti quanto io ti apprezzo in realtà: quando mi prepari da mangiare, quando ti ostini a voler lavare anche i miei vestiti, a sistemarmi la casa, ma soprattutto quando parliamo, e facciamo l’amore.
Sei cresciuta dall’ultima volta che ti ho lasciata: hai imparato a prenderti cura di te stessa e degli altri, diventando madre e moglie.
Non ti ho mai detto quante volte ho immaginato di alzarmi e vederti stesa affianco a me nel letto; quante volte ho immaginato di pranzare e cenare come marito e moglie. Invece i nostri incontri sono sempre stati clandestini, perché non c’era spazio per me nella tua vita. Ma nonostante questo l’hai voluta mettere a repentaglio per continuare a vedermi.
Quando sono uscito di prigione mi sono chiesto se fosse giusto venirti a cercare, abitare vicino a te… non ho mai trovato una risposta. Eppure c’è sempre stato qualcosa che mi lega a te, qualcosa che non ti so spiegare; qualcosa che mi da il dovere di proteggerti e farti sentire al sicuro.
Mi dispiace se non sono riuscito ad essere il padre che speravi per Federico. Non sono mai riuscito ad esserlo, né con lui, né con gli altri.
Sono scappato, ho ucciso, ho deciso per la vita di altre persone. Posso pentirmi di tante cose, ma di due non mi pentirò mai: di essere stato un soldato del Reich, e di te.
Ho davvero fatto di tutto per farti felice, e spero di esserci riuscito.
Tu hai salvato la mia vita, e non solo in senso fisico: mi hai amato nonostante quello che è successo. Mi hai fatto ricredere su molte cose, mi hai fatto capire che sono ancora in grado di amare, in un periodo in cui avevo perso me stesso e la fiducia negli altri.
Me l’hai ripetuto più volte perché io lo sapessi, ma in verità l’ho sempre saputo, l’ho sempre letto nei tuoi occhi, nei tuoi gesti.
Sono io che non l’ho detto abbastanza. Così voglio imprimerlo nella carta in modo che, quando ti verrà un dubbio in futuro, potrai leggerlo, per scacciarlo.
TI AMO MARIA.
Il tuo amore riempirà sempre il mio cuore, soprattutto ora che non sono più accanto a te.
Sii felice, perché questa è l’unica cosa che mi renderà felice a mia volta.
Dein,                                                                                                                                  Friedrich
 

Richiudo la lettera, appoggiandola vicino al mio cuore; sono talmente sconvolta che non riesco neanche a piangere.
Le mani mi tremano, mentre penso che uomo straordinario ho avuto la fortuna di amare, ma soprattutto di essere amata.
Stringo l’anello che porto al collo, pensando a quanto tempo è stato tra le sue dita.
“Come stai?”
La voce di mio fratello è così dolce da essere irriconoscibile; mi giro e lo vedo appoggiato allo stipite della porta.
Alzo le spalle come risposta, non sapendo bene cosa dire.
Lui si avvicina e si siede vicino a me, abbracciandomi.
“Chi è stato ad ucciderlo?” chiedo.
“Pensano dei comunisti. Hanno lanciato delle molotov nella casa, non ha avuto neanche il tempo di accorgersene”
Chiudo gli occhi immaginandomelo solo, divorato dal fumo. In questo momento vorrei essere morta anch’io con lui.
“Perché Francesco? Perché fare una cosa del genere ancora, dopo tutto quello che la gente ha subito durante la guerra…”
Mi scosta dei capelli dal viso, guardandomi con una tenerezza mai vista nei suoi occhi: probabilmente devo fargli pena o qualcosa del genere.
“Lui è stato un nazista, e da quello che ho capito, uno di quelli noti. Non ti nascondo che a me non tocca quello che è successo: dopo quello che hanno fatto, non mi fa né caldo né freddo sentire che uno di loro è morto. Però ti guardo ora, e vedo che c’era davvero qualcosa nei suoi confronti, e ti giuro non capisco come hai fatto ad amare uno del genere. E sentendo quello che mi ha detto la mattina che eravamo in cucina… beh mi da parecchio fastidio ammetterlo, ma si vedeva che anche lui ci teneva a te.
Comunque rispondendo alla tua domanda… penso abbiano solo voluto fargliela pagare, per quello che hanno fatto gli altri tedeschi o lui stesso durante la guerra”
Rifletto su quello che mio fratello ha appena detto, e scopro che è proprio questo che non riesco ad accettare. Ha voluto rischiare di morire perché lui non ha mai voluto cambiare idea, il suo orgoglio non è mai stato trafitto dopo quello che gli è successo. Me l’aveva detto: lui era un nazista, e lo sarebbe rimasto per sempre.
Ha voluto affrontare il suo ultimo nemico a testa alta, senza alcun timore e senza l’aiuto di nessuno. Anche se questa cosa non mi rasserena, alla fine è morto come probabilmente avrebbe voluto, e cioè portando con sé tutto il suo orgoglio e la sua fierezza: non si è fatto scalfire dalla paura nemmeno nell’ultima sfida della sua vita.
Sospiro di dolore ancora, stringendo l’anello che ho appeso al collo.
“Ora basta parlare di questo. Ho preso una decisione Maria. Ce ne torniamo a casa, tutti e tre. Torniamo in Emilia”

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Capitolo 28
*** Capitolo XXVIII ***


Per tutti quelli che come me, durante la storia, si sono chiesti: com’è morto veramente Friedrich? Cos’ha pensato negli ultimi istanti della sua vita?
Prima del finale, un capitolo tutto dedicato a lui, e alla mentalità che ha contraddistinto molti soldati dopo la guerra, rimasti ancora fedeli al nazismo.
 
Doverla lasciare ancora, mentre vedo spezzarsi le sue speranze sotto i miei occhi, mi fa sentire uno schifo; ma d’altronde non c’era soluzione migliore di questa.
Ho voluto lasciarle dei ricordi, perché sono più sicuri da lei che da me. Suo fratello è un tipo abbastanza testardo, ma alla fine ha compreso che non valeva più la pena di lottare.
Tra qualche ora dovrebbe arrivare Tomas, il ragazzo giornalista che abita in paese; si è presentato qualche mese fa, e all’inizio ero molto sospettoso nei suoi confronti. Voleva sapere del mio passato, voleva continuare a parlare del processo… ma alla fine mi ha fatto capire che è solo un ragazzo alla ricerca della verità.
Questa mattina è stranamente soleggiata, e l’aria fredda mi pizzica il naso; entrando nel bosco invece la luce scompare, e sembra quasi sia di nuovo notte.
Bud sta dormendo nella sua cuccia, e non lo biasimo con questo freddo; apro la porta di casa e la richiudo dietro di me.
Nel lavello ci sono ancora i piatti che mi aveva portato Maria, più di un mese fa, con le lasagne. Mi sono sempre dimenticato di ridarglieli.
Decido di prepararmi un pranzo veloce, poi mi siedo al tavolino, continuando con la traduzione del libro.
Dopo un’ora sento bussare alla porta, e andando ad aprire, scopro che è il ragazzo giornalista.
“Buonasera signor Schuster” mi dice, ostinandosi a volermi dare del lei.
“Ciao, vieni dentro” gli rispondo mentre mi avvicino alla brace, accendendola.
“Signore… io ho riflettuto su quello che mi ha detto l’ultima volta che ci siamo visti. Mio padre è disposto a lasciarla dormire nel nostro fienile se non si sente al sicuro.”
Gli faccio segno di sedersi al tavolo, mentre faccio posto sopra di esso, spostando le carte.
“No, grazie. Sto bene dove sono”
Il ragazzo rimane in silenzio per un po’, e guardandolo, noto un’espressione sorpresa sul suo viso.
“Ma lei… non ha paura a stare qui da solo dopo quello che ha saputo? Insomma… potrebbero essere in molti, non solo uno…”
Mi siedo al mio posto, incrociando le braccia: non ci sono più i ragazzi coraggiosi di una volta.
“Perché dovrei aver paura? Ho affrontato cose peggiori durante la guerra. Non me ne andrò perché a qualcuno non sta bene che vivo qua. Non ho chiesto niente a nessuno, e mi faccio gli affari miei, vivendo da solo.”
Il ragazzo abbassa lo sguardo, forse un po’ intimorito.
“Come vuole. Ma se cambia idea, il retro della mia casa è sempre a disposizione…”
Gli faccio un segno negativo con il capo, paziente. Poi all’improvviso ritorna con il suo tono abituale.
“Questa cosa non l’ha fatta ripensare a quello che ha creduto o ha creduto di credere? A quello che è successo in Germania durante la dittatura di Hitler?”
Prima di parlare rifletto un attimo su quello che mi ha chiesto. Poi rispondo come sempre, senza un minimo dubbio.
“La Germania di oggi non è minimamente vicina a quella che era una volta. L’ipocrisia della gente è talmente ampia che mi ha fortemente deluso. Rinnegano i soldati che hanno combattuto per difendere e rendere grande la loro patria, e non si ricordano che sono ancora i loro mariti, i loro figli o i loro parenti. Prima c’era onestà. Ora sembrano fare finta che non sia successo nulla.”
Lo guardo dritto negli occhi, e lui sembra quasi soddisfatto di questa risposta.
“Sa che non ho mai incontrato un uomo fedele a un’ideologia come lei?”
Non gli rispondo, ma mi alzo a prendere un bicchiere d’acqua. Chiedo a Tomas se ne vuole uno anche lui, ma dice di no.
Verso le tre del pomeriggio il ragazzo decide di andarsene: fa buio presto, ed è più sicuro se va a casa con ancora un po’ di luce.
“Spero di rivederla presto. Le lascio i ritagli di giornale che mi ha chiesto… non è stato poi così difficile trovarli. Arrivederci signor Schuster”
Gli faccio un cenno con la mano mentre lo vedo allontanarsi nel bosco.
Due zampette si appoggiano sulle mie ginocchia, e vedo Bud scodinzolare guardandomi contento.
Lo faccio entrare, e gli riempio la ciotola con acqua fresca: sembra gradire, mentre si sistema vicino alla brace, al caldo.
Mi risiedo al tavolino, e prendo i ritagli di giornale che mi ha lasciato Tomas: sono le notizie dei compagni che sono stati impiccati durante la mia permanenza in carcere.
Leggere i nomi di quei comandanti o anche più alti in grado che io stesso avevo guardato con rispetto e a cui mi ispiravo, essere stati impiccati o peggio ancora, essersi suicidati, mi fa accapponare la pelle.
Dopo dieci minuti decido di lasciare quella lettura ad un altro momento; Bud si è addormentato al caldo, così mi metto a lavare i pochi piatti che ho utilizzato a pranzo.
Avvicinandomi al lavello, ripenso a Maria: l’ho osservata così tante volte muoversi nella mia cucina, sistemare le mie cose. Le sue forme femminili si muovevano con eleganza mentre mi raccontava della sua giornata. Chissà se mi odia per quello che le sto facendo passare.
Sarebbe stato meglio se quella volta non mi fossi avvicinato così tanto a casa sua: ma dopotutto non avrei mai pensato che proprio lei, e proprio in quel momento, potesse tornare.
L’avevo vista altre volte prima, mentre tornava dal paese. Ma incrociare i suoi occhi quella mattina è stato completamente diverso; la sua faccia stupita, il suo portamento da donna cresciuta, mi hanno fatto mancare il battito per un attimo.
Quando ricevetti l’ordine di occupare con il mio esercito delle zone dell’Italia settentrionale, mai avrei pensato che la mia vita sarebbe cambiata così tanto.
Eppure, se il resto è tutto molto confuso, quel giorno, ma soprattutto quel momento, è ancora impresso nella mia mente.
Eravamo appena arrivati in quel paese, il più basso che dovevamo toccare, nella regione dell’Emilia Romagna; dicevano ci fossero gruppi di persone organizzate contro di noi, ma guardandolo bene sembrava solo un paese piccolo e povero.
Decidemmo così di marciare tra le loro strade, senza armi, cantando il nostro inno fuori dalla patria, per dimostrare che non avevamo intenti offensivi contro di loro.
Il sole stava tramontando, ma faceva ancora parecchio caldo con le divise addosso; partimmo dai campi, in fila per tre, ed io Hoffmann e Meyer facevamo da capifila.
Incredibile come, appena entrati in città, la prima cosa che vidi fu lei: una magra ragazza, con la pelle abbronzata ci guardava con la bocca aperta, come se di tutto quello che stava succedendo per l’Europa lei se ne fosse accorta solo in quel momento.
La vidi osservarci, mentre nei suoi occhi nocciola si specchiavano gli ultimi raggi di sole, rendendoli più chiari. Poi prese la sua bicicletta, richiamata da qualcuno, e lasciò la strada libera alla nostra marcia.
Maria. Un nome, che contiene un mondo intero per me.
Una ragazza che ha sofferto, ma che non ha mai smesso di amare per questo motivo.
Sistemo i piatti sopra al lavello, e poi decido di riposarmi un po’: fuori è già scuro, e un po’ di sonno non può che farmi bene, prima di riprendere il lavoro di traduzione.
 
Vengo svegliato dall’abbaiare di Bud: c’è qualcuno fuori da casa, perché gratta contro la porta. La stanza è completamente al buio, così non riesco a vedere niente; non so neanche che ora sia.
Mi alzo, cercando di togliermi di dosso questo fastidioso senso di sonnolenza: mi avvicino alla mensola dove tengo il fucile e lo prendo, caricandolo.
Scosto leggermente la tenda della finestra, ma non riesco a vedere nulla: una leggera nebbiolina bianca impedisce la vista.
Resto fermo ed in silenzio per alcuni minuti, provando a captare dei rumori, ma l’unica cosa che continuo a sentire è l’insistente abbaiare di Bud.
Mi avvicino alla porta, e la apro con un gesto secco: punto immediatamente il fucile davanti a me, ma non vedo nulla. Vedo invece Bud avviarsi fra la nebbia, ma prima che lo possa richiamare, il rumore forte di un’esplosione mi blocca.
Proviene da dietro casa, e quasi subito sento odore di bruciato.
Torno dentro, per vedere se non sia scoppiato qualcosa all’interno: dopo pochi secondi una pietra rompe il vetro della finestra e qualcosa scoppia, quasi accanto a me.
Una grande nuvola di fumo si propaga subito all’interno della casa, mentre cerco disperatamente di capire dove posso scappare; il colpo mi impedisce di sentirci bene, un fischio prolungato mi tappa l’udito.
Gli occhi iniziano a lacrimarmi, e la tosse mi sconquassa il torace; la temperatura si è fatta in fretta molto elevata, e l’unica cosa che riesco a vedere sono delle fiamme dal fondo della casa.
Torno indietro, cercando la porta, ma altre fiamme mi intrappolano anche qui: ansimo forte, e premermi la camicia sulla bocca non serve a niente.
Inizio a sudare, mentre tra la consapevolezza che la mia casa sta bruciando e che io sono dentro, uno strano panico si fa strada in me. È da tanto che non provo quest’emozione: essere ad un passo dalla morte.
Continuo a guardarmi intorno, stringendo il fucile, ma le fiamme sono ovunque; non riesco quasi più a respirare, e sento le forze abbandonarmi piano piano.
Cerco di rimanere sveglio, stendendomi a terra per respirare aria più pulita: niente, sembra di essere in una scatola bollente.
Gli occhi vogliono chiudersi, il corpo mi chiede di lasciarlo andare, ma non voglio; stringo i denti, cercando di tirarmi su.
Le gambe non hanno abbastanza forza, e ricado a terra come un bambino che non sa ancora camminare; lo sento, ormai è arrivata la mia ora.
Lascio che gli occhi si chiudano, mentre ripenso alla mia famiglia a Berlino; è questo che mio fratello ha provato morendo al fronte?
E poi mentre ho gli ultimi attimi di lucidità, una voce dolce e melodiosa rompe il fischio continuo nelle mie orecchie: non riesco a riconoscerla, ma è bellissimo sentirla.
Una risata, poi due grandi occhi marroni.
Una trave di legno cade vicino al mio viso, riportandomi per un attimo alla realtà: sto morendo soffocato dal fumo.
Cerco di alzarmi poggiando sui gomiti, ma mi mancano completamente le forze; cado a terra di nuovo, cercando di recuperare quello strano ricordo precedente, invano.
Ripenso ai miei amici, ai miei colleghi e compagni; alle birre in compagnia, al piacere del mio lavoro.
Ricordo per un attimo la soddisfazione di indossare la divisa delle Schutzstaffeln; l’orgoglio di ricevere le medaglie al merito per le mie scelte al fronte. Il fronte… Kurt. Chissà se mi sta guardando ora, come l’ho visto morire io.
E poi c’è stato… si, l’incontro con Himmler dopo la quasi conquista di Stalingrado…e il matrimonio non voluto con Franziska.
E poi eccola di nuovo, quella voce: all’improvviso sembra che l’incendio si sia spento. Riesco a respirare normalmente, ancora però con un po’ di affanno, sentendomi stranamente leggero; mi guardo intorno, ma non mi pare più di essere a casa.
Sono in una terrazza, e una voce femminile continua a cantare, riempiendo l’atmosfera silenziosa della notte. Mi guardo attorno ma non vedo nessuno, così mi appoggio al muro, confuso; alzando gli occhi la vedo, appoggiata ad una ringhiera, e lei mi guarda a sua volta.
Ma certo, Maria.
Riapro gli occhi, ormai secchi dal fumo, e come delle diapositive, la rivedo nei momenti che abbiamo passato insieme: la sua bocca vicino alla mia, i suoi occhi pieni di paura, il suo corpo che trema, la sua voce che mi chiama, lei che ansima sotto il mio corpo, la sua espressione contenta nel vedermi.
Non ce la faccio più a lottare.
Lascio, consapevole di non essermi in alcun modo piegato al volere di nessuno, nemmeno ai bastardi che mi stanno uccidendo.
E di aver salvato la vita alla donna che ha cambiato la mia.

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Capitolo 29
*** Capitolo XXIX ***


Emilia Romagna, Settembre 1963
Ritornammo davvero in Emilia, a casa nostra. Tre quarti dei paesani erano morti, e i pochi sopravvissuti quasi non ci riconobbero.
Riuscimmo ad avere un piccolo appartamento appena fuori dal centro, di proprietà della chiesa; Francesco trovò lavoro ancora come operaio, mentre io lavoravo nel mercato del paese, assieme a Federico.
Lavorando duramente gli abbiamo permesso di studiare, ma, finite le superiori, ha voluto trovare occupazione a giorno pieno.
Tre anni fa mi è stato diagnosticato il cancro; non avevamo abbastanza soldi per curarmi adeguatamente, così è peggiorato più in fretta di quanto si pensasse.
Sono sul letto d’ospedale oggi; tutto è tranquillo e silenzioso, mentre passo da uno stato di sogno alla realtà.
Sento che sto per lasciare i miei cari, ed è già venuto il prete per la confessione.
Federico è seduto affianco a me che mi tiene la mano sinistra, mentre Francesco cammina avanti e indietro nel corridoio.
Che strano: quasi vent’anni fa avevo una paura terribile di morire, mentre ora sono più tranquilla che mai.
Ma l’ho capito, il perché. Ho amato e sono stata amata: ho dato tutto quello che potevo dare, vivendo una vita anche abbastanza avventurosa… ed ora, forse, avrò la possibilità di rivedere mamma e papà, Elena e tutti gli altri, ancora. Ma la prima persona che spero di rivedere è lui.
Proprio come in un film mi ricordo di quando ero sulle gambe di papà, nel suo studio, che mi mostrava le foto dei suoi viaggi in Europa; “La prossima volta verrò anch’io papà” gli dicevo.
La radio nello studio gracchiava forte, e una voce risuonava per la stanza. Io indossavo il vestito elegante di mia sorella e i trucchi di mia madre e, come una diva, ballavo e cantavo davanti alla famiglia che si rilassava dopo pranzo. A mia sorella invece non andava molto: rivoleva il suo vestito, perché di li a poco sarebbe arrivato il suo spasimante, Andrea, e voleva essere perfetta.
E poi papà partì per la guerra. Quando arrivò il telegramma di morte, nessuno ci voleva credere: mamma andò spesso a chiedere delucidazioni, ma nessuno volle mai darle particolarmente ascolto.
Così iniziò il declino: io mi sarei dovuta sposare, ma non avrei mai accettato di dormire insieme a chi non amavo. Un profondo disgusto mi saliva in gola, quando quel paio di contendenti che mamma trovò, provarono a baciarmi; scappai in fretta, non volendo rivederli mai più.
Intanto la guerra impazzava per tutta Europa, e iniziarono a razionarci il cibo: non potevo più vivere sulle spalle della mia famiglia.
Il convento è stato duro ed estremamente doloroso per il mio modo di pensare: non avrei mai avuto figli con l’uomo che sognavo. Ma si stava tutto così incupendo in quel periodo, che persi i sogni di bambina e accettai il mio destino, per il bene della famiglia.
Finché qualcosa non cambiò.
Un pomeriggio d’estate, nel ’44, due sconosciuti occhi azzurri incontrarono i miei, lasciandomi per un attimo senza fiato. I tedeschi erano arrivati anche da noi, mostrando tutta la loro forza e fierezza per le povere e malandate vie del mio paese.
E poi, all’improvviso come erano arrivati, si portarono via anche la mia famiglia; ma il loro comandante risparmiò me, trovandomi utile nelle traduzioni dall’italiano al tedesco.
Sembra quasi che ci dovessimo incontrare proprio in quel momento; se le cose fossero andate in maniera diversa, non credo mi sarei mai potuta innamorare di lui, come del resto lui non si sarebbe mai potuto innamorare di me.
Quando alla fine se ne andò, arrivò invece Federico: è un bel ragazzo ora, pieno di graziose fanciulle che gli ronzano attorno. È diventato responsabile, più serio e sempre molto tranquillo.
Ecco cos’ha ereditato dal padre: la tranquillità.
È stato molto influenzato da Francesco nel modo di comportarsi, ma nei momenti di bisogno si chiude a riccio, riflettendo, proprio come faceva Friedrich.
E a proposito di suo padre, se dovessi descrivere cosa pensa di lui non saprei dire: qualche anno fa, dopo un paio di mesi che scoprii della malattia, Federico irruppe improvvisamente con l’argomento padre. Io non ne volli più parlare dopo la sua morte, chiudendolo come qualcosa di prezioso nella mia testa e nel cuore; ma non potevo certo bloccare lo sfogo di mio figlio.
Mi disse che lo rispettava e ne era in un certo senso orgoglioso, per il fatto di avermi sempre trattato bene ed essere stato così coraggioso, ma non lo avrebbe mai amato, né considerato un vero e proprio papà. Ed io non lo costrinsi mai a fare il contrario.
E poi… ho dimenticato qualcosa? Beh si. Non ho ricordato l’uomo che ho ucciso. Spero la sua anima resti in pace e riesca a perdonarmi, avendo tormentato la mia per molto ma molto tempo.
E Riccardo… non abbiamo avuto più sue notizie dopo che se n’è andato, quella sera. Qualche volta invece sento ancora Anna, per corrispondenza.
Chiudo gli occhi, sentendo una fortissima stanchezza prendere il sopravvento su di me; una grande e calda mano stringe la mia destra, e io la stringo a mia volta, facendo capire che sono ancora viva.
Quando riapro gli occhi però, non c’è nessuno che me la tiene; e allora capisco, sorridendo tra me e me. È lui, qui accanto a me, pronto per guidarmi ed essermi ancora vicino.
Mi giro verso Federico e Francesco, che intanto è rientrato. Gli sorrido: certe volte le parole non servono.
Chiudo di nuovo gli occhi, stavolta con la consapevolezza di non riaprirli per molto tempo.
 
 
 
Prima di lasciarvi definitivamente vorrei ringraziare tutte le persone che sono state con me, ma soprattutto con Maria e Friedrich fino all’ultimo. Grazie a tutti quelli che hanno recensito o che mi hanno seguito dall’inizio in silenzio: il racconto è rimasto vivo anche grazie a voi.
Questa storia è ispirata alla vita di Jochen Peiper, e non vuole essere un tributo alla sua ideologia, ma piuttosto al suo onore e alla sua fedeltà, cose che oggi giorno sembrano non esistere più.
Grazie di nuovo, a tutti voi che avete sognato con me fino alla fine.

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