Without You, I'm Nothing

di Easily Forgotten Love
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


I personaggi qui usati, chiaramente, non ci appartengono.
Ovviamente non fanno nulla di quanto qui descritto.
Ovviamente niente di quanto qui descritto corrisponde alla realtà dei fatti.
Ovviamente non s’intende offendere nessuno (per quanto possa apparire strano, siamo davvero fan dei Placebo).
Ovviamente non ci danno una lira per perdere il nostro tempo a scrivere ‘ste cose, lo facciamo perché ci diverte e perché in modo contorto dimostra l’affetto che nutriamo verso Brian e compagni.
 
Ciò detto, due note pratiche per chi volesse leggere la storia che segue.
Le vicende qui raccontate si collocano spiritualmente nel periodo immediatamente antecedente “They have trapped me in a bottle…”, tuttavia non si tratta di un vero e proprio prequel nel senso pieno del termine. Chi si fosse posto domande oziose sul come e perché Brian e Stef si siano lasciati e sul come e perché Vincent sia entrato nella vita di Stefan, avrà qui una versione del fattaccio.
Ciò detto si fa notare che:
Vincent Cavendish non è un personaggio reale ed è di legittima proprietà dell’Easily Forgotten Love.
Allo stesso modo anche Abba “Pongo” Olsdal è proprietà privata dell’Easily.
 
Un bacio e buona lettura dall’Easily ^_^

**

 
A volte le cose finiscono.
 
-Si tratta di un favore personale, Vincent.
…in realtà, le cose finiscono quasi sempre.
-Di questo non dubitavo, Alex, generalmente non mi chiami se non è un favore personale.
Solo che a volte fa male.
 
-Starò benone, Steve. E poi, credimi, continuare a vivere assieme sarebbe stato solo un problema. Questa cosa renderà più facile a tutti e due ricominciare.
Ed alcune di queste volte, fa così male da non avere nemmeno la forza di chiudere e basta.
-Sarà, ma io vedo tutta questa storia piuttosto incasinata, Stef. Insomma…tu e Brian non vi siete davvero lasciati.
Così le cose, anche se finite, si trascinano.
 
E gli strascichi di una storia finita sono peggio, a volte, di tutto quello che di male.
Di cattivo.
Di doloroso ci si sia scambiati stando assieme.
 
Cammina lungo l’aiuola, passeggiando sul bordo sottilissimo che la delinea. Al di là dell’orlo, nel manto di erba è infisso un cartello che ammonisce dal calpestare il prato.
Gli sembra di sfidare l’autorità dei guardiani del parco, un paio sono già passati gettandogli da lontano un’occhiata perplessa ed infastidita. Va bene dover riprendere i ragazzini perché si comportano in modo stupido, ma una persona adulta…!
Sa che dovrebbe piantarla, voltarsi nel freddo grigio di Londra e rifare al contrario lo stesso percorso. Mollare il parco, il vialetto con l’aiuola ricoperta di verde umido e tornare a casa.
Ma il problema è che non riesce nemmeno più a chiamarla “casa”.
…vorrebbe che gli agenti immobiliari si sbrigassero a trovargli un altro appartamento. E vorrebbe che si sbrigassero a vendere quello.
Vorrebbe addormentarsi in un letto diverso. Svegliarsi e dimenticare di essere se stesso.
 

WITHOUT YOU, I’M NOTHING

 
Vorrebbe, in definitiva, sentirsi meno stupido.
E meno solo.
Il cellulare squilla nella tasca del cappotto, infila la mano a prenderlo e guarda il nome che appare sul display un momento prima di aprire la comunicazione.
-Alex…
-Brian, dove accidenti sei? L’intervista era mezz’ora fa.- ricorda pazientemente la manager dall’altro lato della comunicazione.
Immagina che dovrebbe provare qualcosa. Tipo un minimo di contrizione per aver – tanto per cambiare – mandato a puttane un impegno di lavoro.
-Ah.
Lo immagina, ma da qui a provare davvero qualcosa il passo è lungo.
Un po’ troppo di questi tempi.
Sospiro di Alex.
-O.k., quanto pensi di metterci ad arrivare adesso?- chiede.
-Non so…una decina di minuti.- risponde guardandosi attorno.
La quiete sonnacchiosa del parco gli dice che ci vorrà molto più tempo. Quanto meno per scrollarsi di dosso il desiderio di restare lì, a non fare assolutamente nulla…Nemmeno vivere.
-Bene, allora muoviti.- ordina lei prima di chiudere la comunicazione.

***

-Non lo so, Alex, non vedo a cosa dovrebbe servirmi andare da uno psicologo…
Lo guarda. Scettica solleva un sopracciglio, ma si astiene da ogni commento.
Per Stefan è più facile cogliere la sua perplessità in quei pochi gesti che in un milione di parole, benefici del passare tanto tempo a stretto contatto con una persona. Sospira, ma insiste lo stesso.
-Pensavo dovesse essere Brian a farsi vedere da qualcuno.- obietta pacatamente.
La donna nota comunque la sottile sfumatura di cui si colora l’espressione. Non è nel tono usato, quello è talmente inespressivo e piano da sembrare quasi disinteressato, ma è nella natura del rapporto che lega quei due. Da lì trae origine il fatto che Stefan parli di Brian e dei suoi problemi – del suo doversi “far vedere da qualcuno” – con una naturalezza disarmante. Brian è uno specchio di acqua per Stefan, ci vede attraverso, e sul fondo limaccioso di quella personalità contorta ha visto qualcosa che lo determina ad accettare Brian in ogni sfumatura. Per quanto assurda, anormale, fastidiosa e pericolosa per il prossimo possa essere.
-Ci sto lavorando.- ridacchia lei, e torna verso il tavolo con il the.
Stefan le sorride riconoscente quando gli posa davanti una delle due tazze, Alex si volta a recuperare anche il bollitore e lo sistema accanto a loro. Sa che sarà una cosa lunga. E difficile.
In qualche modo per entrambi.
-Ha fatto scappare anche l’ultimo, vero?- s’informa intanto Stefan, prendendo a bere a piccoli sorsi la bevanda troppo calda.
-Avevi dubbi?- chiede lei storcendo il naso- La risposta è sempre la stessa “mi spiace, signorina, non posso continuare a curare il Sig. Molko, per il semplice fatto che lui non intende affatto farsi curare”.- Sospira ancora, sollevando la tazza che sembra decisamente grande tra le sue dita sottili.- A volte mi chiedo se non sarebbe stato meglio aspettassi ancora un po’ per piantarlo…- ammette a voce bassa, fuggendo lo sguardo dell’altro ragazzo.
-Non sarebbe cambiato nulla.- ribatte paziente Stefan.
Alex si agita infastidita sulla sedia. Stefan sa che si sente in imbarazzo a parlarne, perché questa storia è davvero difficile per tutti loro e non è nemmeno giusto che ci vadano di mezzo. Ma era inevitabile che succedesse, e lui e Brian avrebbero dovuto metterlo di conto a suo tempo, ben prima di fare iniziare tutto. Il finale era quasi scontato già allora e, quindi, sarebbe stato corretto che ne prendessero atto e si comportassero con più diligenza per tutelare gli interessi di chi stava loro intorno. Alex per esempio, ma anche Steve. E non è solo un problema di lavoro, è proprio un problema di amicizia.
-Senti, Stef!- sbotta lei all’improvviso, appoggiando rumorosamente la tazza e fissandolo bellicosa.
Stefan la guarda più che ascoltarla, e pensa che è piccola quasi quanto le sue dita. Senza trucco ha il viso di una bambina, ed i capelli sono quasi sempre in disordine se può evitare di pettinarli. Se fosse più sottile di così si spezzerebbe a metà e, decisamente, meriterebbe un uomo che la amasse davvero, un matrimonio da favola ed una vita da principessa.
Ed invece è solo Alex…La piccola, bellicosa, bellissima Alex. Gli fa decisamente tenerezza.
Così sorride.
Lei se ne accorge e capisce che sprecherà fiato, s’imbroncia e fa un verso buffo per indicare che si sta spazientendo. Stefan, richiamato all’ordine, si scuote ed annuisce per dirle che ascolterà ubbidiente.
-Beh…- esordisce Alex. E non sa neppure dove andare, come dimostra il fatto che si perda subito dopo aver iniziato. Continua comunque, anche se a fatica, raccogliendo le idee dal fondo della testa.- Stef,- chiama piano, affettuosa nella propria preoccupazione.- ascolta il consiglio di una scema, parlarne con qualcuno ti farà solo bene.- sussurra.
A Stefan viene quasi voglia di abbracciarla. Le sorride ancora.
-Facciamo a modo tuo.- concede con facilità.

***

Lo Studio non è in centro, è in una periferia profumata, con un parco enorme a due passi dal palazzo e viali alberati in cui passeggiano persone che non hanno la fretta consueta della Londra di sempre. Stefan lo apprezza. Anche perché ha dovuto lasciare la macchina distante ed ha avuto un bel pezzo di strada da fare a piedi, durante il quale pensare lucidamente alla propria vita. È un lusso di questi periodi, lo è ancora di più riuscire a fare quelle riflessioni sotto il profumo carico delle foglie e dell’erba, senza il frastuono delle auto ed il grigio pesante della città.
Così gli è stato molto più facile sorridere alla signorina compita che gli ha aperto la porta, lei gli ha chiesto se voleva del the e poi lo ha rassicurato che il dottore sarebbe stato subito da lui ed è uscita dalla saletta d’attesa, linda ed ordinata, in cui lo ha rinchiuso con i propri pensieri.
Stefan si guarda attorno. Gli piace la scelta di colori, sembra un proseguimento dell’ambiente esterno: marrone ocra, tendente al rosso, sul legno chiaro dei mobili, il gusto profumato di un’antichità un po’ autentica un po’ riprodotta con stile, un verde chiarissimo, che si mescola di beige e di rossi soffusi sulla tappezzeria e nei tappeti orientali…e libri. Stefan pensa che non vedeva così tanti libri dal giorno che ha lasciato casa. Dal giorno che ha lasciato Brian.
Brian legge moltissimo.
…ma è molto più disordinato.
Sorride.
Lui i libri li affastella. Li mette uno sull’altro quando finisce lo spazio a disposizione sugli scaffali. Anche a terra. Non ha mai badato al fatto che potessero rovinarsi, perché Brian i libri li vive, gli piace leggerli, sottolinearli, farci segni e note a margine. E legge qualsiasi cosa. Dai trattati scientifici ai romanzetti rosa per signore. C’erano pile intere di libri in casa loro e la stanza di Brian era un campo minato di queste pile disordinate, sempre pronte a crollarti addosso al minimo movimento sbagliato. Lui non trovava mai nulla di quello che cercava. Si arrabbiava e cominciava a creare un disordine anche peggiore. Disfaceva le pile, le trasformava in un profluvio casuale di volumi sul pavimento, ci zampettava in mezzo alla ricerca inutile di qualcosa ed era capace di sedersi sui libri che non poteva spostare per avere spazio a sufficienza per cercare in mezzo agli altri.
-Stefan Olsdal?
Si volta per trovarsi davanti un ragazzo, poco più vecchio di lui, trenta o trentuno anni. Ha un viso magro, dai tratti decisi: zigomi alti, naso dritto e fronte ampia. Gli occhi sono chiarissimi, con ciglia folte e dorate, la bocca sottile e disegnata con precisione. È un viso piacevole, molto bello, con un’espressione serena e rilassata, rassicurante. È alto – anche se non quanto lui – con un fisico asciutto dai muscoli definiti e magri, che denota cura di sé costante e paziente, così come l’abbigliamento impeccabile – un casual di classe, portato con disinvoltura ed eleganza – o il taglio preciso dei capelli castani – né troppo lunghi né troppo corti. Riflessi dorati anche lì, nota Stefan, così come nota il mento e le guance perfettamente rasate e la mano curata, che gli viene testa in un gesto di saluto.
-Sì, sono io.- risponde a quel punto, ricambiando la stretta.
-Io sono Vincent Cavendish.- si presenta lui.- Vogliamo accomodarci di là?- chiede poi sciogliendo le dita ed accennando alla porta da cui è entrato.
Lascia che Stefan lo superi, tirando poi l’uscio dietro di sé e lo segue per accelerare il passo sul manto soffice di tappeti che copre il parquet dello studio. Stefan si concede più tempo, gira intorno lo sguardo per cogliere nell’insieme i quadri alle pareti, gli scaffali infiniti di libri che ricoprono anche questa stanza, le sculture di bronzo sistemate con cura sulla scrivania enorme e pesante e poi lo stereo a parete – così fuori luogo ed anacronistico – con i cd ordinatamente disposti sotto, su una mensola apposita.
-Bello studio, dottore.- si complimenta pianamente lo svedese, mentre accoglie l’invito dell’altro a prendere posto in una delle due poltrone davanti la scrivania.
-Chiamami pure Vincent.- sorride lui.- Siamo praticamente coetanei.
Stefan ricambia il sorriso con uno molto più falso ed imbarazzato. Si sistema sulla poltrona, che è troppo piccola, ed allunga le gambe davanti a sé, scivolando sulla seduta quel tanto che basta a posare le mani intrecciate sul ventre piatto sotto la maglietta attillata.
-Immagino che adesso dovrei dire perché sono qui…- esordisce a quel punto.
-Perché Alex ti ci ha mandato.- ridacchia Vincent rubandogli la risposta.- Sa essere incredibilmente inopportuna quando vuole, vero?- s’informa poi, sistemandosi a sua volta contro lo schienale della sedia e fissandolo accondiscendente da lì.
Stefan si rilassa, il sorriso si fa meno forzato ed una punta più sincero. Inclina il capo e posa la tempia sul pugno chiuso, contro il bracciolo della poltrona.
-Conosci Alex?- realizza.
-Eravamo compagni di scuola.- confessa Vincent.- Lei era la ragazza più carina della scuola.
-E tu le andavi dietro.- ipotizza Stefan, divertito.
Vincent ricambia quel divertimento.
-No.- risponde però.- Io ero già gay allora.- confessa quindi con semplicità.

***

-Non posso crederci!
Stefan ride di Alex ed ottiene come punizione un colpo in testa da un vecchio e rovinatissimo pupazzo di peluche, che vorrebbe essere ancora un leoncino ma è ormai ridotto a poco più di un gattaccio spelacchiato e sbiadito di un biondo inconsistente. Lo svedese lo recupera al volo quando gli rimbalza addosso e con cura lo posa accanto a sé sul divano che lo ospita in casa della manager.
Lei sparisce dietro la porta della cucina e continua a protestare imperterrita mentre mette su l’acqua per il the.
-Io ti mando da Vincent perché tu parli dei tuoi problemi con Brian e voi parlate di me?!
-Non posso crederci io, Alex. Prendersi una cotta per il migliore amico gay è un tale clichè!- la deride Stefan impietoso.
Alex torna in salotto, mani sui fianchi e capelli più arruffati del solito. Lui la osserva pacificamente dallo stesso divano, semisdraiato tra i cuscini affastellati su un lato e con il capo all’indietro sullo schienale imbottito.
-Punto numero uno,-  inizia ad elencare lei con precisione, sfoderando anche le dita per poter tenere il conto sulla punta delle unghie smaltate di rosso – che fosse gay l’ho saputo solo al ballo di fine anno, quindi un bel po’ dopo essermi presa una cotta ed ancora dopo averlo invitato ed aver fatto la figura della scema. Punto numero due,- prosegue con la stessa flemma metodica- prendersi una cotta per l’amico gay non è un clichè, ma un classico intramontabile. Prova ne è il fatto che nel gruppo sei tu il mio preferito.
Il bollitore fischia educatamente richiamando l’attenzione della donna ed Alex torna indietro, mentre è il turno di Stefan di uscirsene con una blanda protesta a mezza voce.
-Qui stai mentendo.- afferma- Il tuo preferito è Brian e, nonostante tutto, lui è molto meno gay di me.
Alex armeggia tra tazze e cucchiaini, il rumore delle stoviglie copre il suo sospiro paziente, quando torna nuovamente nella stanza lo fa accompagnandosi all’odore carico del the aromatizzato. Porge la tazza all’altro e gli si lascia cadere accanto appena lui la accetta, ripiegando le gambe al petto e poi sotto di sé e puntando gli occhi verdi dritti sul muro di fronte. Il televisore cupo e nero la occhieggia dalla parete, rimandandole l’immagine sua – in tuta e calzerotti di lana – e di Stefan – in jeans e maglietta a mezze maniche come non sentisse mai il freddo.
-Che ne pensi, allora?- s’informa sbirciando la risposta di Stef nel riflesso nero.
Lui la guarda un momento e poi segue il suo sguardo ed incrocia anche lui quelle due figure più scure su un fondo già tetro. Ci rimane impigliato dentro proprio come lei e si osserva mentre scuote la testa in un gesto che mima perplessità.
-Mi…piace…- ammette a fatica.- Ma non vuol dire che mi fidi di lui.
Alex ride, allontanando la tazza per non farne uscire il contenuto bollente.
-Quindi devo riferirgli che il tentativo di aggirare le tue difese con la storia del “siamo tutti amici” è fallito?- s’informa lei.
Stefan gli ricambia la risata con una piccola e soddisfatta.
-Beh, dai, è stato smaccato!
Alex sta in silenzio, posa la tazza sulle ginocchia e prende a tirare i riccioli, guardandoli allungarsi sulla televisione fino a raggiungere una lunghezza invidiabile. Se li stirasse sarebbero quasi indecenti da portare.
-Vincent non imbroglia, Stefan.- dice alla fine, stringendosi nelle spalle.- Puoi fidarti di lui.
Stefan si volta ancora e stavolta i loro occhi s’incrociano in silenzio, quando torna a guardare i due riflessi alla televisione respira a fondo ed annuisce.
-…magari però sono io a non voler essere sincero.- ammette a mezza voce.- L’ultima volta mi sono fatto un po’ male.

***

Si sveglia perché dalla stanza accanto arriva un rumore ovattato e confuso, coperto ogni tanto da due voci che, pur mantenendosi basse, sono irate e si accapigliano per un predominio rabbioso. Si rigira nel letto, ha mal di testa perché la notte prima ha dormito male e poco e, per prendere sonno, ha finito per concedersi una dose generosa di alcolici. Posa una mano sulla fronte, provando un benessere fugace nel premere contro il dolore sordo che gli pulsa al di là delle dita, ma poi le lascia scivolare via, lungo i capelli cortissimi, e le allarga sul materasso a fare da sostegno mentre solleva il busto e ruota le gambe per portarle a terra sulla moquette. Cammina scalzo, recuperando da una poltrona una maglietta bianca, ed esce nel salottino adiacente la camera da letto.
Una delle due figure la riconosce subito. Lo fa il suo sangue, che sembra svegliarsi di colpo dal torpore innaturale dell’alcol, e la sua pelle, che prende a fremere appena in un solleticare fastidioso. Porta una mano al braccio nudo e gratta via quella sensazione, avvicinandosi mentre anche l’altra figura diventa più chiara e lui riconosce uno dei camerieri dell’Hotel dove alloggia.
-Che sta succedendo?- chiede con voce impastata.
A voltarsi è quello più basso. Piccolo e magro. Il viso di sempre, truccato perché pare che ormai non riesca a farne a meno neppure quando non sono in scena su un palco. La vita di Brian Molko sembra essersi trasformata in un unico palco, fatto delle recite in cui nasconde le occhiaie dietro il correttore ed il pallore innaturale dietro il fondotinta. Eppure è perfetto come sempre, dal rimmel sulle ciglia già lunghe, al lucidalabbra chiarissimo che gli rende la bocca più turgida e bella che mai, sono perfetti perfino i capelli corti e sparati dal gel, che gli si aprono attorno come un ventaglio impossibile di frecce nere.
È perfetto lui. Bello come sempre. Bello peggio del solito.
Ed è la solita tortura trovarselo davanti.
-Stefan!- sbotta appena lo vede.
Ma a coprire le voci di entrambi - i pensieri di entrambi - ci pensa quella concitata dell’altro uomo, che s’infila tra le loro con prepotenza incalzante.
-Non sono riuscito ad impedirgli di entrare, Sig. Olsdal!- si giustifica affrettatamente. Stefan annuisce distratto ed intontito, cercando di ricordare il nome del ragazzo che gli si agita davanti preoccupato.- Mi ha anche rubato il passepartout!
-Non l’ho rubato!- ribatte Brian petulante, facendo apparire tra le mani una chiave magnetica attaccata ad una cordicella, la lascia oscillare offrendola all’uomo, che gliela strappa di mano senza troppa delicatezza mentre lui arriccia il naso in una smorfia ridicola e prosegue- Era un prestito!
-Sì, sì, va bene.- s’intromette Stefan prima che il cameriere possa riprendere ad inveire.- È tutto a posto, Oscar.- lo rassicura, ricordando il nome ed utilizzando per spingere l’uomo con educata fermezza verso la porta della stanza.- Ti ha restituito la chiave, è entrato nella stanza…Non c’è nessun problema.
-È sicuro, Sig. Olsdal? Aveva detto che non voleva essere disturbato e…
-Sono sicuro, Oscar, grazie.- risponde lui pianamente, aprendo il battente ed aspettando che esca in corridoio.
L’uomo getta un’occhiata affatto convinta a Brian, che gli ritorce contro una linguaccia che Stefan intercetta voltandosi a fissarlo con aria di disapprovazione paterna, poi il bassista richiude la porta e si volta a fronteggiare il proprio cantante.
-Tu la frase “voglio stare un po’ da solo” non la capisci quando è qualcun altro a dirlo a te, vero?- domanda colloquiale.
Brian sbuffa. Gli da le spalle e prende a muoversi nella stanza, ignorando volutamente la domanda mentre si libera a fatica dell’ingombro offerto dal cappotto che ha addosso. Lo abbandona in un mucchio disordinato su un divano e poi si lascia cadere proprio lì accanto, incrociando le braccia sul petto con aria agguerrita e tornando a puntargli addosso uno sguardo ostinato e silenzioso.
Stefan sospira, passandosi ancora la mano tra i capelli, la lascia ricadere sul fianco e si dirige verso il telefono posato sul tavolino dietro il divano di Brian.
-Io intendo ordinarmi la colazione,- gli annuncia- ti unisci a me o digiuni per protesta?- s’informa premendo i tasti per contattare la hall.
-Vuol dire che posso restare?- arguisce Brian a mezza voce.
-L’unico modo che ho per metterti alla porta allo stato dei fatti è farlo fisicamente.- afferma Stefan pacato, buttando giù prima che dall’altro lato gli rispondano.- E questo magari non sarebbe un problema, ma penso che lederebbe definitivamente quel po’ di dignità che ancora hai.- conclude ricomponendo il numero e portando la cornetta all’orecchio.
Quando riattacca dopo aver parlato con la signorina alla hall, Brian è ancora lì, che lo scruta con quegli occhi troppo verdi, in un silenzio che spaventa Stefan con la propria intensità. Storce il naso, muovendosi per allontanarsi il più possibile da quella presenza tanto “ingombrante” ed intanto si informa.
-Non saresti dovuto essere con Alex agli Studi per una riunione?- chiede colloquiale.
Brian si stringe nelle spalle, socchiudendo lo sguardo e lasciando per un istante Stefan libero di respirare senza costrizioni. Il bassista si avvicina al tavolo che occupa il centro della sala e sposta una sedia per potersi accomodare lì. Tra lui e Brian ci saranno forse tre o quattro metri, troppo pochi si dice mentre osserva l’altro riaprire gli occhi e tornare a puntarglieli addosso.
-Non avevo voglia e non sono andato.- ammette Brian come se fosse una cosa perfettamente normale.- E poi Alex non ha davvero bisogno di me per tenere a bada quella gente…
Stefan si concede di ridacchiare un po’, dovrebbe rimproverarlo ma non si sente di farlo. Tanto per cominciare sarebbe una cosa troppo “intima”, troppo simile ai ruoli che ricoprivano quando erano una coppia, per potersela permettere senza conseguenze. Così registra la decisione di Brian e non la commenta che con quel sorriso divertito.
-E poi oggi non è mica un giorno qualunque!- afferma intanto Brian, ritrovando d’un colpo la stessa euforia infantile con cui ha inscenato il “litigio” di poco prima con l’inserviente. Sorride come un bambino ed a Stefan fa male davvero e lo spinge a sollevarsi in piedi d’impulso un’altra volta. Gli gira le spalle con la scusa di raggiungere il mobile bar ed aspetta che lui vada avanti e si spieghi.- Sai che ricorrenza è?- insiste invece il cantante.
Stefan trova sul fondo del frigo una bottiglietta d’acqua, la preleva voltandosi a guardarlo mentre svita il tappo.
-…no- ammette pianamente.
Il sorriso di Brian si vena di una tristezza un po’ troppo accentuata per poter continuare a mascherarsi dietro la finzione di plastica di cui si è ricoperto prima di uscire di casa. Ma la voce non vacilla lo stesso, il tono rimane fermo quando riprende a parlare in modo leggero.
-Un mese esatto che ti ho promesso che non avrei più toccato quella merda.- gli ricorda, puntando felice un dito verso di lui.- Sono stato bravo, no?
“…sei uno stronzo.”, pensa Stefan distintamente, fissando ora il dito piccolissimo e smaltato di nero che gli si pianta dritto all’altezza del cuore, ora quel viso di ragazzino trentenne, in cui le occhiaie ed il pallore sotto il trucco diventano d’improvviso fin troppo evidenti. Solleva di scatto la bottiglia e se la porta alle labbra, rifuggendo quella vista e cercando inutilmente di sfuggire anche al suono che fa la gola di Brian quando lui inizia a ridere sommessamente.
Abbassa lo sguardo per ritrovarselo comunque davanti. Serafico e soddisfatto, la mano di nuovo accanto, posata sulle gambe accavallate, il viso inclinato, appoggiato sul pugno chiuso al bracciolo della poltrona.
-Speravo di festeggiare.- ammette Brian.
-Non penso.- soffia fuori Stefan, tornando a piegarsi per infilare la bottiglia al proprio posto. Ringrazia la porta quando qualcuno fa suonare il campanello. Brian si solleva dal divano e va ad aprire, permettendo allo stesso cameriere di prima – che gli getta un’occhiata gelida avanzando nella stanza e che viene ripagato da una risatina soffocata in risposta – di entrare accompagnato da un carrello pieno.
-Grazie.- lo congeda Brian accompagnandolo nuovamente oltre la soglia e sbattendogli la porta in faccia, per potersi poi allungare subito a sbirciare sotto gli scaldavivande ordinati sul carrello.- Mmh!- mugola felice.- Croissant.- annuncia a Stefan, servendosi da uno dei vassoi.
Il bassista non dice nulla e non si muove. Osserva da lontano Brian mentre sbrindella la brioche, reggendola con grazia tra le dita impiastricciate di zucchero, e ne ingoia i pezzettini piccolissimi in cui la riduce, talmente assorto e felice compiendo un’operazione tanto semplice da sembrare assolutamente innocuo. Solo che lui continua lo stesso ad averne paura. Paura di avvicinarsi, circumnavigare il baluardo offerto dal tavolo del mobile bar e doversi trovare a distanza troppo ravvicinata, da soli e senza scuse per continuare quel ridicolo balletto di bugie a mezza voce…
-Allora mi dicesti che ci saresti stato.- riprende a parlare Brian all’improvviso. Non lo guarda mentre affonda quel rimprovero tra la paura ed il rimorso che Stefan si sente addosso e sotto pelle, continua imperterrito la propria opera metodica di distruzione del croissant, ignorando volutamente la marmellata densa che si riversa fuori macchiandogli le dita nemmeno fosse un moccioso.- Io ti ho creduto.- gli ricorda ancora. Finisce la brioche e cerca sul carrello, accanto al vassoio, un tovagliolo con cui pulirsi le mani.- E per quel che mi riguarda ho mantenuto la mia promessa.- gli dice continuando a non guardarlo. Si muove per raggiungere il divano e raccoglie il cappotto infilandolo rapidamente.- Ci vediamo, Stef.- saluta pacatamente uscendo nel silenzio pesante dell’altro.

***

Lo Studio ha un colore più tetro quando fuori piove. La luce non arriva ed il marrone rossastro diventa meno luminoso e più pesante, come l’odore di carta e di antico. È quasi opprimente ed è scoraggiante.
Stefan ricaccia la sensazione in fondo alla pancia. Dietro di lui Vincent Cavendish dice qualcosa in tono basso alla segretaria, lei esce chiudendo la porta e lui non fa nessun rumore nel tornare a sedersi alla scrivania che si frappone tra loro. Gli solleva addosso quello sguardo troppo chiaro, Stefan ci affonda dentro e prova a dimenticare il resto.
-Allora.- esordisce colloquiale Vincent.
Stefan prende fiato e continua a ricambiare il suo sguardo in attesa.
-Volevi sapere perché mi trovo qui.- gli ricorda.
Vincent sorride e si mette comodo sulla poltrona.
Stefan contraccambia il sorriso.
-Il motivo si chiama Brian.- comincia a raccontare.
 

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Capitolo 2
*** 2 ***


-A cosa devo questa telefonata, Vin?

-…che tipo è questo Brian, Alex?

-…il tipo che non s’incontra tanto spesso…

***

-Steve!- chiama la donna a voce alta.- È Brian!

-Non vi ho disturbati, vero Rita?- chiede il bruno mentre sfila il cappotto di dosso.

-Ma no, figurati!- gli sorride lei, aiutandolo ed appendendo l’indumento accanto alla porta.- Vai pure di là, io recupero Emily e la accompagno a danza.

-Grazie.- mormora lui, avviandosi da solo nel corridoio in penombra.

Dal fondo della casa gli arriva il rumore dello stereo acceso a tutto volume, una porta tra le ultime si apre di botto ed il suono si riversa fuori con prepotenza, un rock distorto e potente che fa vibrare la casa ed annuncia l’apparire dell’espressione incuriosita di Steve.

-Ah.- realizza puntando gli occhi sulla figuretta bassa che avanza.- Sei tu.- aggiunge poi ributtandosi dentro la stanza.

Mentre Brian entra ridendo nello studio dell’altro, lui abbassa il volume da un telecomando che getta sul ripiano dello scrittoio.

-Buonasera.- saluta Brian appropriandosi con arrogante disinvoltura di una delle poltrone.

-Ciao.- ricambia il batterista con un sorriso storto, fissandolo da sotto le ciocche ribelli che si sono sciolte dalla coda in cui ha raccolto i capelli.- A cosa devo l’onore?- ironizza.

Brian storce il naso in una smorfia risentita.

-Tu e Stefan mi odiate in questo periodo!- nota stizzoso, scalciando via un cuscino che si ritrova accanto al piede, posato sulla moquette che ricopre il pavimento.

Il cuscino rimbalza su un tavolino basso sistemato tra i divani e Steve lo afferra al volo e lo lascia cadere sulla seduta di quello che ha dietro di sè.

-Ahah, Brian.- annuisce senza farsi trarre in inganno da quei capricci- E immagino che tu sia stupito del fatto che Stefan “ti odi” in questo periodo.- aggiunge in tono piano.

Brian si lascia scivolare più a fondo nella poltrona, stendendo le gambe davanti a sé e risultando comunque così piccolo, perfino sbracato nel sedile, da essere perfettamente a proprio agio nello spazio angusto tra i divani. Si mordicchia nervosamente un dito, sfuggendo lo sguardo e la domanda di Steve, che sospira e si muove, avvicinandosi ad una vetrina che ospita un paio di bottiglie di liquore e qualche bicchiere abbandonato tra file di dischi in vinile.

-…ad essere onesti, sì.- risponde alla fine Brian in un borbottio che Steve coglie di sfuggita. Si volta a gettargli uno sguardo da sopra la spalla, mentre versa da bere ad entrambi.- E’ stato lui a lasciarmi, non ha senso che continui a rimproverarmi di questo!- esplicita il concetto il bruno.

Steve sospira ancora. Di serate come quella nell’ultimo periodo ne ha vissute parecchie e, se deve essere sincero, uno dei pochi motivi per cui ancora non ha buttato fuori Brian con il calcio nel sedere che si meriterebbe è sua moglie ed il suo continuo ripetergli che “Brian ha bisogno di lui in un momento in cui ha perso l’unica persona che riuscisse a farlo ragionare davvero”.

In realtà Steve sa bene che non esiste nessuno in grado di fare ragionare davvero Brian, ma questo a Rita non lo ha detto. Non se l’è proprio sentita di dirle, davanti al suo sguardo sereno di “mamma”, che il motivo vero per cui Stefan ha mollato è stato proprio la tragica comprensione che non sarebbe mai riuscito a recuperare Brian dal fondo in cui si dibatteva da anni. O magari, se pure ci fosse riuscito, il prezzo sarebbe stato davvero troppo alto. A Rita, come a tutte le mamme, piace credere che non esistano problemi che un po’ di buona volontà e tanto affetto non possano aiutare a sistemare.

Per questo lei gli ha chiesto di essere paziente. E per lei – oltre che per Alex, Stefan…ed in fondo anche per Brian stesso – lui sopporta ancora l’inutile ripetersi di questa pagliacciata patetica che il brunetto inscena per tutti loro ogni volta che può.

Gli allunga il bicchiere pieno, aspettando che Brian lo prenda con un ringraziamento a fior di labbra che sta tanto bene a quel suo nuovo atteggiamento da “ragazzina” affranta. Reprime uno sbuffo infastidito e si cerca un posto tra i cuscini del divano di fronte all’altro.

-Credo che il problema non sia che vi siete lasciati, Brian, quanto più che lui ti abbia pregato in tutti i modi di accettarlo e tu continui ad insistere per torturarlo.- spiega Steve pazientemente.

Brian beve un sorso ed alza il viso ad incrociare i suoi occhi.

-Non ha senso, Steve.- protesta ancora.- Io lo amo. Lui mi ama. Ma non vuole stare con me.

-Non è sempre il fatto di non amarsi più a far naufragare una storia.- afferma ragionevole il batterista.

***

-E per quale motivo è finita tra voi, Stefan?

Si obbliga a ripensarci. Si prende il tempo che gli serve, ruota lo sguardo per non incrociare gli occhi chiari ed attenti che lo studiano. Di Vincent Cavendish ha scoperto che gli piace la discrezione. Non avrebbe mai pensato esistessero degli psicologi in grado di essere “discreti”, è un controsenso in termini: scavare nella vita e nei pensieri di un paziente implica l’essere indiscreti, curiosi, anche un po’ morbosi…In Vincent non c’è niente di tutto questo. Le loro sedute sono chiacchierate piacevoli, dalle quali Stefan esce con l’impressione di aver solo bevuto un thè con un conoscente; parlano di un po’ di tutto, parlano di cose che con la psicoanalisi non c’entrano nulla – il lavoro, Alex, i ricordi di scuola di entrambi… - e poi alla fine parlano anche di Brian.

E Stefan pian piano raccoglie intorno al nome l’impressione che i ricordi lasciano, i sentimenti che rimangono attaccati alle ossa nonostante tutto e gli odori che s’imprimono con la presenza, quando non si può farne a meno.

La prima cosa a cui pensa quando deve pensare a Brian sono i litigi. Quelli che avevano di rado, perché lui – Stefan – li evitava ad ogni costo. I litigi con Brian non danno nessuna soddisfazione, fanno un male fottuto perché Brian è bravo a fare male, e non portano da nessuna parte, perché lui si ostina nelle proprie convinzioni anche quando sbaglia. Soprattutto quando sbaglia. Il punto è che non puoi davvero ragionare con qualcuno che è disposto a distruggere se stesso pur di dimostrarti la propria teoria, tutto ciò che ottieni è che sia tu che lui sarete entrambi doloranti, dopo, e tu dovrai trovare il modo per rimettere insieme dei pezzi sempre più piccoli ogni volta.

I litigi tra lui e Brian, comunque, sono la prima cosa a cui pensa. Poi vengono i motivi per cui litigare.

All’inizio erano i modi di Brian, le difficoltà enormi che avevano a trovare un equilibrio nella band, un equilibrio con la produzione, un equilibrio con i fan.

Superato questo, diventarono i tradimenti. Avere una storia con qualcuno e non avercela davvero, perché quel qualcuno si impegna strenuamente per farti capire a fondo – bene a fondo – che la vostra relazione ha delle regole che non sei tu a dettare ed alle quali ti conviene adeguarti in fretta.

Ma questo è superabile. Lo è di meno vederlo darsi via per non si sa bene quale presunto guadagno.

Poi, però, subentrò altro. L’altro al quale Stefan non era stato disposto ad adeguarsi. L’altro che glielo portava via, Brian, in un modo molto più pericoloso e doloroso di quanto non fosse vederlo strusciarsi addosso a qualcuno che non era lui e sentirsi sulla pelle quelle moine da puttana che lo ferivano a morte.

Quell’altro era un gioco a cui Stefan aveva anche provato, stupidamente, a partecipare. Non era un santo, non lo era mai stato, e Brian aveva la capacità orribile di risucchiare via le energie in poco tempo, prosciugarti in fretta e lasciarti senza fiato. Farsi trascinare da lui, adeguarsi ai suoi ritmi ed alle sue regole rendeva tutto molto più semplice. E quindi, per un po’, Stefan aveva anche provato a stare dietro a Brian, all’alcool, alla droga ed al gioco idiota di bruciarsi la vita in fretta. Sembrava un cliché comodo da adottare, in fondo, era anche quello che un po’ tutti si aspettavano da loro e nessuno sembrava intenzionato a giudicarli per questo.

-Il motivo è stato proprio Brian…credo.- risponde incerto Stefan, e lo sguardo azzurro non muta nell’attesa paziente con cui accoglie le sue parole- Non è così semplice mandare avanti una storia con una persona tesa solo a dimostrare per forza che ogni cosa al mondo finisce per giustificare così la propria mancanza di volontà nell’impegnarsi a farla funzionare. - prosegue spiegando i propri pensieri e riassumendoli in quel concetto- Io mi ci sono impegnato finché ci sono riuscito.

E si era impegnato anche dopo. Quando all’improvviso si era reso conto che il modo “comodo” di vivere, il bruciarsi tutto nello spazio di un attimo, non era davvero ciò che voleva. E non lo voleva per Brian tanto quanto non lo voleva per sé, e non riusciva proprio ad accettare di doverlo recuperare nei backstage dei concerti che abbandonava in fretta – troppo ubriaco o troppo fatto per poter portare avanti lo spettacolo – a vomitare in un angolo, chiuso nel suo mutismo rabbioso, che traspariva intatto dagli occhi chiari anche quando si ricoprivano di quella strafottenza irritante che Stefan avrebbe voluto levargli di dosso a schiaffi tanto quanto i modi da gatta in calore.

Quando si era reso conto che tutto questo non gli andava più, aveva dato un ultimatum. Era servita una volta di troppo, una serata peggiore delle altre, i rimproveri feroci di Alex e Steve che si moltiplicavano e facevano eco ai suoi e la sensazione sempre più viva per Brian di qualcosa che rapidamente gli stesse sfuggendo di mano e che non era più così divertente come all’inizio. Quella depressione strisciante che si tirava addosso già da troppo e che le droghe e la vita sregolata avevano solo peggiorato era finita per sfociare in una presa di coscienza, Stefan aveva dato una spinta decisa in questo senso e Brian si era arreso. Alla fine.

-Sì, ma perché lasciarlo proprio ora.- chiede Vincent. E la sua domanda ricalca esattamente quella che Stefan si è posto anche troppo spesso negli ultimi giorni, ogni singola volta che ha avuto Brian davanti ed il suo profumo, la sua bellezza, il suo sorriso lo hanno trafitto come se non se ne fosse mai andato.- Hai detto tu che dalla droga stava uscendo, che le cose tra voi sembravano essersi sistemate e che Brian sta cambiando…Non trovi che sia illogico averlo lasciato proprio quando poteva cominciare ad andare tutto per il verso giusto?

Come spiegare che è proprio “la fine” a rendere il senso alle cose?

Che è solo quando ci si ferma stremati a riprendere fiato che si tirano davvero le somme.

Brian si è arreso, ma anche Stefan in qualche modo si è arreso all’idea che non può essere lui a salvarlo davvero. Ha letto troppe volte negli occhi di Brian l’immensità distorta di quello che prova, l’assurdità palese dei suoi pensieri, dei loro percorsi contorti lungo sentieri che nessuno di loro può percorrere insieme a lui.

Forse l’unico modo per dirlo è quello vero e sincero delle cose…

-Sì, ma io non ce la faccio più.- ammette quindi, in tono incolore come il cielo plumbeo che la finestra non rende meno grigio, né lo può la luce artificiale della stanza.- Penso anche…che la decisione di lasciarlo l’avessi maturata già da prima che Brian iniziasse a cambiare, ma non potevo farlo allora.- spiega allo stesso modo, senza giustificarsi anche se a lui per primo suona meschino quello che dice- Avrebbe voluto dire lasciarlo morire.- confessa- Alex e Steve vogliono a Brian lo stesso affetto che gli voglio io, ma nessuno dei due ha con lui un qualche dialogo…Nessuno a parte me…e forse suo fratello Barry, ha con Brian un vero dialogo. Spettava a me farmi carico di questa cosa finché non fossi stato sicuro che lui sarebbe stato bene comunque.

-Ed ora ne sei sicuro? Che lui starà bene, comunque.

Stefan ci riflette. Quel giorno, quando gli ha estorto la promessa di piantarla con la droga, ha promesso a Brian che lui ci sarebbe sempre stato. Brian gli ha creduto e Stefan è deciso a mantenere la promessa, anche se non può farlo nel modo in cui l’altro vorrebbe.

-Sì.- sospira infine, stendendo il petto nel farlo e prendendo un respiro profondo per dare aria allo stomaco, che tira e brucia in modo fastidioso.- Io credo di sì.

***

-Dio, Brian!

Lui alza impudente uno sguardo divertito e giocoso, solleva le gambe sulla sedia girevole, le incrocia sotto il sedere e si sistema soddisfatto in attesa del resto.

Alex ruota gli occhi esasperata, allontanandosi da lui con un mezzo grugnito di protesta.

-E’ il secondo solo questo mese!- ruggisce infine agitando le mani.- E dobbiamo iniziare la registrazione del nuovo album tra tre giorni!- gli ricorda puntando un dito contro di lui.

Brian ride, lei ci rinuncia e sbottona rapida la giacchetta di velluto che le costringe il seno ed aumenta il senso di soffocamento che si sente addosso in quel momento.

-Ti odio.- confessa esausta.

-Può essere.- concede lui annuendo.- Andiamo, Alex!- cambia tattica subito dopo- Ma non ti viene il dubbio che non mi serva un dannatissimo psichiatra?! Sto bene!

-Psicologo, Brian.- ritorce lei tornandogli incontro per girare attorno alla scrivania e lasciarsi cadere di schianto sulla poltrona- E non stai affatto bene.- continua impietosa.- Salti gli appuntamenti di lavoro, bevi ancora troppo, sei sempre depresso, isterico, di cattivo umore, assente e…

-E’ il quadro di uno psicopatico.- ammette Brian interrompendola per sporgersi a rubare una caramella dal porta bon bon sulla scrivania.- Aggiungici che mangio anche un sacco di schifezze.- piagnucola scartando il dolce.

-Ci aggiungerò “morto” se non la smetti di angosciare tutti noi, Brian.- gli promette lei in tono minaccioso. Ma poi sospira e si tira dritta avvicinando il viso a quello dell’altro attraverso la superficie chiara del legno di ciliegio.- Ascoltami. Facciamo un patto. Tu ti comporti bene con il prossimo psicologo che ti trovo…

-Se ne troverai un altro.- obietta lui ridacchiando in modo affatto rassicurante.

Alex gli allunga uno schiaffo leggero sulla guancia e, quando Brian torna a guardarla un po’ stupito, lei riprende con calma.

-Ed io in cambio vedo di vendere quel dannato appartamento, trovartene uno nuovo tutto tuo e farti avere una vacanza da passare a Parigi da solo per almeno un mese ed a spese della produzione appena finiamo di incidere.

-…Parigi.- ripete lui interessato.

-Parigi, Brian.- conferma Alex annuendo.

Brian ci pensa su. Poi torna a fissare la ragazza bionda che lo scruta speranzosa e vagamente terrorizzata. Dovrebbe dirle che di Parigi gliene frega meno di niente allo stato dei fatti, ma si oppongono due cose: la prima riguarda il fatto che un mese intero di vacanza da solo è allettante, visto che si sente scoppiare all’idea di tutto il tempo che lui e Stefan dovranno passare insieme per registrare il nuovo album. La seconda è che, anche se sa che sta per mentirle, vuole bene davvero ad Alex e non desidera farle venire un esaurimento nervoso in anticipo quando può posticiparlo quel tanto che basta a salvaguardarla un altro po’.

-Uhm.- mugugna quindi servendosi di un’altra caramella.

Alex sa che quello non è affatto un “sì” e sa di non avere alcun motivo per sentirsi sollevata, ma vuole fingere che lo sia e concede a Brian un sorriso sofferto, mentre lui si alza dalla sedia ed agita la mano uscendo dall’ufficio ed annunciandole che non sarà reperibile fino a sera.

Lei sospira pesantemente, osserva per un momento la porta e poi sposta lo sguardo sulla cornetta del telefono, allunga una mano di scatto – quasi avesse paura di ripensarci – e compone a memoria il numero, aspettando che dall’altro lato squilli libero.

La voce che le risponde è divertita.

-Non ti fai sentire per tre anni e poi ricompari e sembra che non riesca a stare un giorno senza di me.

-Vai al diavolo, Vin.- ribatte la donna in tono colloquiale. L’altro ride ma non dice nulla.- Ho ancora bisogno di te.- ammette Alex sospirando di nuovo.

-Anche questo sta diventando un vizio.- annuisce lui calmo.- E di cosa hai bisogno stavolta?- s’informa.

-Brian.- risponde lei borbottando. Vincent non aggiunge nulla ed Alex prende fiato e continua.- Immagino di non dirti niente che tu non sappia già: teoricamente è in terapia per disintossicarsi, ma nella pratica dei fatti continua a fare scappare i medici che lo hanno in cura.

-Ed a farsi?- domanda lui atono.

-No, quello no.- sussurra Alex e poi ride nervosamente.- Dio, mi taglierei le vene in caso contrario! Già così è assolutamente ingestibile!

-Immagino.- le concede Vincent piano.- Vorresti che me ne occupassi io?- chiede.

-Non so più a che santo votarmi.- confessa lei sfinita.- Direi che sei l’ultima risorsa che mi rimane e, credimi, non avrei mai voluto farti questo.

Vincent ride ancora, sereno come sempre.

-Mi lusinga molto la tua fiducia, Alex, ma temo di dover ammettere che non sarei la persona più indicata per gestire uno come il tuo Brian, se è davvero il tipo di persona che tu e Stefan descrivete.- risponde alla fine.

Alex scuote la testa anche se lui non può vederla.

-Bene, allora dovrò arrendermi all’idea che questo album non vedrà mai la luce!- sbotta irritata.- Brian continua a saltare con metodo ogni singolo appuntamento di lavoro ed io non dubito che per le sessioni di registrazione succederà esattamente lo stesso!- si lamenta a ruota libera.- Giuro che se non fosse per Steve e Stefan mi licenzierei oggi stesso! Non lo sopporto più e…

-Si vede che gli volete tutti un gran bene.- la interrompe pacato Vincent.

Lei quasi si soffoca con le parole che le rimangono in gola, strozzandola. E quella finzione di risentimento va a farsi benedire, come il pensiero di poter ribattere qualcosa di velenoso per liberarsi della sensazione di essere stata scoperta. Invece respira a fondo e Vincent dall’altro lato borbotta un “va bene” affaccendato ed armeggia con cassetti e fogli di carta – almeno dai rumori che Alex distingue in sottofondo. Ma poi torna a parlarle e lei aguzza istintivamente le orecchie, pendendo dalle sue labbra in cerca di una qualche soluzione magica che le permetta di aggiustare la vita di Brian con un colpo di bacchetta.

-Ti do il nome di una persona.- ricomincia a parlare Vincent.- Prendi un appuntamento e portale Brian. Se non ne viene a capo lei non ci riuscirà nessuno.

-…lei?- mormora Alex.

-Sì. Si chiama Dunja Bennet.- dice lui, aggiungendo poi un numero di telefono ed un indirizzo che Alex segna al volo sul risvolto dell’agenda aperta davanti a sé.

-È anche lei un’allieva del professor Chapman?- s’informa mentre tiene in bilico la cornetta tra la spalla e l’orecchio per poter scrivere.

-Lo è stata.- risponde Vincent.- È più vecchia di me.

Alex biascica un ringraziamento che la stanchezza rende stentato e butta la penna sul tavolo, abbandonandosi all’indietro contro lo schienale della sedia.

-Come va?-le chiede Vincent premuroso.

-A te come va?- ritorce lei sorridendo amaramente.

-Beh, se vuoi dire con Stefan…è una persona davvero speciale.- ammette il ragazzo.- Ed è forte.

-…uhm.- mugugna Alex.- Lo spero. O qui non ne usciremo più.

 

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Capitolo 3
*** 3 ***


-Ed è venuto a dormire a casa tua anche ieri sera?
-Sì, che ci è venuto, Stef! Io non lo sopporto più! Trova il modo per farlo ragionare o giuro che…
-Andiamo, Steve, non sei credibile. Lo sappiamo tutti che in realtà ti senti più tranquillo anche tu ad avercelo sempre sotto gli occhi.
***
Stefan osserva affascinato le gocce di inchiostro che rotolano nella clessidra ad acqua. La gira di nuovo, un momento prima che l’ultima scivoli giù dal ripido sentiero di vetro e finisca per impattare nel mare blu che si è raccolto sul fondo. Il gocciolare ordinato riprende coscienziosamente, ubbidiente alle leggi della fisica…
-Ti piace così tanto?- ridacchia Vincent.
Stefan alza il viso ed incrocia i suoi occhi. Ci sta facendo l’abitudine a quel ghiaccio gentile, comincia quasi a piacergli. Gli sorride di rimando e mette via la clessidra per seguirlo fino alla scrivania e sedersi con lui, ognuno al proprio posto.
-The?- s’informa Vincent. Stefan ringrazia e lui riporta l’ordine alla segretaria dall’altro lato dell’interfono.- Allora, che mi dici di nuovo?- chiede educatamente.
-Ho deciso di comprare casa.- annuncia Stefan.- Ne ho trovata una molto carina da queste parti.
-Davvero?- ritorce Vincent sollevando le sopracciglia con interesse.- Io amo questa zona.- confessa poi.- Mi sembra di essere tornato nel villaggio dove vivevo da bambino.
-Pensavo fossi nato a Londra.
-Sì, ci sono nato.- ammette lui.- Ma mia madre la trovava insalubre e ci siamo trasferiti quasi subito fuori città. Ci sono tornato per studiare.- Ride e Stefan si unisce a lui.- Non fraintendermi,- precisa- adoro Londra, ma a volte si soffre un po’ di nostalgia per le cose buone dell’infanzia!
-E’ vero.- concede Stefan.- A me è piaciuto subito, qui.- chiarisce dopo.
Vincent annuisce.
-E’ comunque un dato molto positivo che tu abbia trovato la voglia di imbarcarti in un trasloco.- fa notare pacatamente.- Tanto più che ora come ora sarete anche impegnati…
-Per il disco, sì.
-Hai voglia di rimetterti al lavoro?- gli chiede Vincent.
Stefan si stringe nelle spalle.
-A lavoro, sì,- ammette.- di vedere Brian tutti i giorni per ore, no.- Sospira, distogliendo lo sguardo- C’è questo fatto che lui continui a cercarmi…a starmi addosso anche quando gli chiedo un po’ di tempo per respirare…
-Perché credi che lo faccia?
-Non lo so.- mormora a mezza voce Stefan, esausto.- Immagino che sia un po’ perché non riesce a stare da solo…tortura anche Steve e non lo fa con Alex solo perché lei passa il proprio tempo a rimproverarlo senza pietà!- afferma.- Un po’ credo che sia un modo per farmela pagare per averlo lasciato. Brian è molto vendicativo. E cattivo.
Vincent lo fissa perplesso, Stefan si volta e se ne accorge così modifica il tiro.
-Lo è quando vuole qualcosa, quando qualcuno gli fa del male, quando focalizza l’attenzione su qualcuno che odia…
-Pensi che ti odi?
-Lo fa senz’altro!- sbuffa Stefan in un accenno di sorriso spento.- Lo fa in un modo tutto suo, di cui probabilmente non si rende nemmeno conto.
-Non hai pensato che potrebbe semplicemente rivolerti indietro?- prova a suggerire Vincent.
-Sì, certo.- conferma Stefan con un cenno- Ed è anche così. Mi ossessiona perché sa che se ci ricadessi non troverei più la forza di andarmene. Non è facile liberarsi da Brian. È molto più che amore quello che lega a lui.
-…e tu non vuoi davvero liberarti, Stefan.- sussurra Vincent girando lui il viso stavolta.
Stefan lo fissa senza capire. Il suo sguardo interrogativo si punta sull’altro, scrutandolo in attesa di una spiegazione. Vincent respira a fondo e si tira dritto sulla sedia, solo quando ha la schiena bene eretta e le mani posate rigidamente davanti a sé torna a ricambiare gli occhi dello svedese.
-Se avessi voluto tagliare con Brian, sarebbe bastato mollare la band e non rivederlo mai più.- gli dice calmo.- Avrebbe fatto lo stesso male che fa ora, magari anche per un tempo più lungo, ma alla fine saresti stato completamente libero. La verità, però, è che tu non vuoi essere completamente libero, a te sta bene appartenergli e stai solo cercando di ridefinire i margini del vostro rapporto.- aggiunge.
Stefan non ribatte. Ha paura di chiedere, paura di capire fino in fondo. Sa inconsciamente che tutto quello che gli viene detto è vero, non è rimasto accanto a Brian per la band, è rimasto con lui per quella promessa. E nel farlo ha ammesso con se stesso e con Brian che il legame che li tiene assieme esiste ancora ed è forte proprio come lo è sempre stato.
Così ha paura.
Di sentirsi dire che torneranno a stare insieme, ad esempio.
Ma anche di sentirsi dire che magari Brian non condivide quello stesso sentire. E che lui magari ci arriverà a tagliare di netto il filo invisibile che li unisce.
Ha paura. Di dirsi quanto lo ama ancora.
***
-Dunja…?
Lei sorride.
Ha un viso avvenente, nonostante non sia più una ragazzina. Anzi, avrà sicuramente più di cinquant’anni e li dimostra anche tutti quanti: i capelli di un biondo incolore tipico delle persone un po’ avanti con l’età e che si curino senza eccessi; un volto ed un corpo, magri e spigolosi, vestiti di chiaro in accordo con la chioma, acconciata sulla testolina piccola con un enorme fermaglio da cui si liberano vaporosi ciuffi ricciolosi, che cadono attorno al volto in una corona ideale. La fascia che è sistemata intorno alla testa, la gonna ampia in stile gitano, il maglioncino di lana a trama larga e la collana d’avorio e conchiglie contribuiscono ad un quadro New Age che fa molto “figlia dei fiori” e che suona inquietante.
…ed il rosa confetto dovrebbe essere tra i colori vietati per i lucidalabbra superati i venti.
-Brian.- ritorce lei con quella sua aria svampita un po’ fattucchiera buona di Harry Potter un po’ santona pranoterapeuta e veggente ad ore.
-…che razza di nome è Dunja?- continua lui imperterrito.
-Il mio, direi.- ribatte lei serafica.- Potrei chiederti che razza di nome sia Brian, ma anni di banalizzazione ti hanno esonerato da simili domande. Del the?- s’informa senza soluzione di continuità.
Brian riflette sulla possibilità di risponderle per le rime, ma prima che possa farlo, Dunja ha già versato un the odoroso ed inebriante, che riposava nel bollitore di fianco a lei, e gli ha piazzato sotto il naso una tazza fumante ed un piatto di…biscotti fatti in casa.
-C’è qualcosa di surreale in questa situazione- afferma Brian scostando la tazza con due dita, come se solo toccarla lo disgustasse.
-Cielo, no!- protesta inorridita Dunja. Ed ha una voce profonda affatto adatta al suo aspetto- E’ solo the al gelsomino!
-E questo cosa c’entra?!- scatta Brian infastidito.
-Questo dovresti dirmelo tu, Brian, sei tu a trovare la situazione “surreale”.- gli fa notare lei amorevole, respingendo la tazza verso di lui attraverso il piano.- Su, bevi il tuo the prima che si freddi.
-Ho smesso di bere il the quando avevo quindici anni, è conformismo spicciolo!- afferma bruscamente lui, ricacciando la tazza con molta meno gentilezza, cosicché oscilla e schizza il ripiano.
Dunja non si scompone, tira fuori da un cassetto un tovagliolo di stoffa e pulisce le gocce, commentando con indifferenza.
-Anche truccarsi da donna lo è, ma io sono più educata e non te lo faccio notare.- Brian arrossisce violentemente, ma lei non fa sentore di averci fatto caso e lascia cadere il fazzoletto al suo posto.- In ogni caso, immagino che sia proprio da questo che dipende il tuo nervosismo.- specifica spingendo ancora la tazza davanti all’altro.- Questo ed il karma negativo che ti aleggia addosso. Dovremmo verificare il tuo quadro astrale, sono quasi certa che sia pessimo.
Brian spalanca occhi e bocca, fissandola come fosse un marziano.
-Il mio quadro astrale.- ripete.
-Sì.- annuisce lei.
-Il mio quadro astrale?!- ribadisce Brian sottolineando le parole.
-E’ quello che ho detto.- conferma Dunja.
-Io non credo in Dio e dovrei verificare il mio quadro astrale?!- sbotta Brian come se questo fosse esaustivo del concetto.
-Oh, non pensare!- ritorce lei agitando una manina sottilissima, nervosa e dalle dita lunghe.- Non credere in Dio non influenzerà minimamente il tuo quadro astrale.
Brian si alza di colpo, scaraventando la sedia dietro di sé e fissandola incredulo.
-Voglio ben sperare, dottoressa!- afferma risoluto.
-Dunja.- lo corregge lei per nulla impressionata.
-Se non c’è altro, dottoressa – ribadisce Brian incolore.- io andrei a consultare un astrologo, così da risolvere i miei problemi di quadri astrali e karma negativi!
-A te non farebbe piacere se io ti chiamassi “cantante”.- gli fa notare lei pazientemente.
-“Cantante” non è un titolo, “dottoressa” sì.- ritorce lui, braccia incrociate sul petto e sguardo ostile.
-Piuttosto inflazionato di questi tempi, si perde tragicamente in individualità a servirsene. Ora siedi, Brian, è molto più facile parlare quando si sta alla stessa altezza, la mia cervicale non mi permette di tenere il viso alzato per molto tempo.- lo invita lei indicando la stessa poltrona che lui ha allontanato bruscamente.
-…lei non ha capito.- mormora Brian in tono pericolosamente basso.- Io me ne vado da qui e non ci rimetterò più piede finché campo e…
-Che pessima sconfitta.- lo interrompe lei con un sorrisetto divertito. E Brian ammutolisce, squadrandola perplesso.- Finora hai fatto in modo che fossero gli altri a rinunciare ed io ti batto in una sola seduta di…- getta uno sguardo all’orologio a pendolo che se ne sta sul muro di fronte.- quattordici minuti e sedici secondi.
-E’ il trucco più vecchio del mondo.- fa notare lui a mezza voce agitando il capo con una smorfia incredula.- Poteva fare di meglio.- aggiunge quindi- Ha fatto di meglio per ben quattordici minuti e sedici secondi!
-No, ora sono ventitre.- lo corregge lei.
-…è davvero surreale.
-Lo hai già detto.- gli fa osservare.- Siedi, Brian, il the è freddo e freddo è disgustoso.- nota posizionando ancora la tazza di fronte al ragazzo bruno.
Lui sospira, sbuffando poi una protesta poco convinta, afferra la sedia trascinandosela vicino e si lascia cadere sulla seduta.
-So già che me ne pentirò.- ammette.
-Oh, dillo che ti diverte.- ridacchia lei versandogli ancora del the dalla teiera di rame.- I biscotti li ha fatti mia nipote.- gli confida poi in tono complice.- E’ molto brava.
***
Vincent Cavendish fa il proprio lavoro da molto tempo ormai. E lo fa bene. Per acclamazione corale, lo fa bene. Ha imparato da un grande maestro del resto, una persona di cui lui è un fervente seguace – perché appartiene a quel genere di individui di cui non puoi essere semplicemente uno studente – e del quale applica le teorie con convinzione, oltre che con impegno.
Tuttavia, sebbene il Prof. Robert Chapman sia un teorico di una nuova tipologia di rapporti che devono legare paziente ed analista, ci sono alcune regole… “classiche” della psicologia che non possono essere ignorate ed i cui principi devono essere tenuti ben fermi.
Una di queste regole riguarda il coinvolgimento emotivo.
Vincent sa che il coinvolgimento emotivo, nel suo caso, non coincide con la partecipazione alle vicende che vedono protagonista Stefan ed il suo ex compagno, vive tutto questo con il distacco professionale richiesto dall’etica del suo lavoro. Perché fare il suo lavoro gli piace e farlo bene gli piace ancora di più. Il coinvolgimento emotivo, per quanto lui abbia faticato a riconoscerlo per ciò che era, riguarda molto più semplicemente Stefan stesso e, se si è ritrovato con tanta facilità a chiedersi cosa ci sia in lui che riesce a farglielo vedere in un’ottica completamente distorta, significa che c’è qualcosa di sbagliato di partenza. E significa che lui è moralmente tenuto a porvi rimedio.
Non si stupisce che possa essere andata in questo modo. Di Stefan ha imparato davvero tanto in uno spazio incredibilmente breve, un mese appena e gli sembra di avercelo davanti da una vita intera.
Di lui ha imparato che, pur non essendo bellissimo, ha quell’eleganza naturale ed un po’ indolente che gli da un fascino tutto suo. Ha uno sguardo sincero, che si accorda bene a quello che è il suo sentire, altrettanto sincero, semplice e privo di ombre. Del resto, il modo stesso in cui ha vissuto e vive la sua storia con Brian a Vincent appare in una prospettiva ben precisa, che magari Stefan non coglie perché è preso in un mondo personale fatto di rimorsi e ripensamenti, ma che lui afferra appieno da fuori e che restituisce allo svedese la piena luce su quello che è e che prova. Non è da tutti riuscire a dire “basta” ad una storia dalla quale si è tragicamente presi come lo è ancora Stefan, e non è da tutti riuscire a tenere fermo il proprio proposito, pur senza troncare i rapporti e senza sparire e far sparire l’oggetto dei propri desideri. Non è da tutti voler ostinatamente ricostruire un equilibrio partendo da un punto assolutamente traballante. Quel gioco pericoloso su una corda sospesa è qualcosa di così assurdamente difficile da portare avanti che Vincent, malgrado proprio, non può non trovarsi ad ammirare la persona che lo persegue con tanta determinazione.
Quindi sì, sa di avere infranto una regola fondamentale della psicologia classica. E sa esattamente che è proprio dovere porvi rimedio.
E sa anche come fare.
Alex arriva con un sorriso enorme stampato in faccia. Vincent, seduto ad un tavolino fuori dal caffè dove le ha dato appuntamento, la vede da lontano, incedere sicura e leonina sui tacchi alti, il tailleur attillato ed un po’ troppo bizzarro per una donna in carriera ed il trucco perfetto, da trentenne decisamente avvenente che comunichi al mondo la propria posizione di forza ed ai maschi la propria disponibilità. Sorride anche lui, più di una testa si è voltata a guardarla tra gli uomini per strada intorno a lei, Alex è bella e viva esattamente come se la ricordava e lui vorrebbe dirglielo perché un po’ gli è mancato quel modo di camminare e di essere così travolgente.
Così, quando lei gli arriva davanti e si china a baciarlo sulla guancia – avvolgendolo in una nuvola di profumo maschile che s’intona perfettamente al suo look – lui lo fa.
-Sei splendida più di quanto ricordassi.- le confessa, stringendole un braccio in segno di saluto, un momento prima che lei si sollevi ridendo e si lasci cadere su una sedia davanti a lui.
-Non farmi i complimenti!- protesta vivace.- Sono io che devo ringraziarti, non tu! Mi hai fatto due favori enormi!- argomenta.
Vincent accenna un assenso vago ed indefinito, sistemandosi dritto sulla sedia mentre lei affastella cappotto e borsa su quella libera accanto a sé. Scosta indietro i riccioli ribelli, agganciandoli al fermaglio spesso che ne regge la massa maggiore, e sbuffa un sospiro soddisfatto.
-Sono talmente di buon umore da aver voglia di fare shopping.- afferma a quel punto, guardandosi attorno per cogliere in un’occhiata d’insieme le vetrine colorate dei negozi intorno alla piazza.
-Sei una donna strana!- ridacchia Vincent.- Di solito lo shopping è un rimedio al malumore, no?
-No, io preferisco tapparmi in casa e fissare il televisore con sguardo spento.- confessa Alex semplicemente. Si volta di nuovo e riporta su di lui i propri occhi verdi, sottolineati dalla matita chiara. Sorride.- Mi fa piacere vederti.- gli dice serena.- Avrei dovuto chiamarti prima.- annuisce poi.
-Avresti dovuto.- concorda Vincent.- Ma avrei potuto anche io, quindi siamo pari. E poi immagino che il tuo lavoro ti porti via un mucchio di tempo.- le concede.
-Mmh.- mugugna lei.- Non me lo ricordare, tra un’ora devo essere in ufficio!- sbotta stizzita.- Comunque, ti devo davvero due favori enormi.- ribadisce quindi.- Dunja è semplicemente meravigliosa ed oggi Brian è arrivato in orario alla riunione, ha protestato tutto il tempo borbottando contrariato, ma ha lavorato come tutti: ha seguito, è intervenuto, ha fatto osservazioni pertinenti… Credo non succedesse da anni!- esclama soddisfatta.- E la cosa stupenda è stata che lui e Stefan si sono comportati civilmente!- aggiunge con euforia crescente.- Niente trincerarsi da un lato della stanza, da una parte, e passare il tempo a punzecchiare in modo cattivo, dall’altra!
-Non durerà.- la disillude lui lapidario.- Lo sai.- commenta subito dopo, affrontando con tranquillità lo sguardo ferito di Alex.- Erano entrambi psicologicamente preparati a rivedersi ed affrontare questa riunione, ma non saranno mai preparati a fronteggiare gli imprevisti di una convivenza prolungata. La tensione salirà e loro riprenderanno ognuno il proprio metodo di difesa.
-…non parlare dei miei ragazzi come se fossero uno dei tuoi innumerevoli casi!- ringhia lei infastidita.- Sono i miei ragazzi!- ribadisce.
Vincent ride senza lasciarmi fuorviare dal tono inferocito ed Alex sbuffa e si mette comoda sulla poltrona.
-Al telefono hai detto che dovevi parlarmi.- ricorda all’improvviso, mentre una cameriera carina e sorridente si avvicina loro per prendere le ordinazioni.
Vincent aspetta che entrambi abbiano comunicato le proprie preferenze e che la ragazza si sia allontanata con un cenno di assenso prima di rispondere.
-Sì, infatti.- conferma per prima cosa.- E non ti piacerà.- ci aggiunge per prepararla.
Alex inarca le sopracciglia e lo fissa in attesa.
-Si tratta di Stefan.- esordisce Vincent con qualche difficoltà.- Io non posso continuare a seguirlo. Ti darò il nome di un collega che lo faccia al posto mio…- le comunica precipitosamente.
Alex sbotta una risata ironica ed appena isterica, interrompendolo in modo brusco.
-Un collega?- ripete lei.- Hai una vaga idea di cosa mi sia costato convincere Stefan a farsi seguire da qualcuno in questa storia, Vincent?- domanda poi retoricamente, sporgendosi sulla sedia, tesa come una corda di violino.- Si fida di te per non so quale miracolo di Dio e tu speri che io riesca a dirgli “dovrai finire la terapia con qualcun altro”?! Mi manderà piacevolmente al diavolo, Vin!- esclama sconvolta.- E tu non puoi farmi questo adesso!
Vincent sospira paziente.
-Credimi, Alex, la mia non è una presa di posizione gratuita, è una necessità. Se potessi continuare ad aiutarti lo farei volentieri e, per quello che posso, lo farò anche. Ma non posso più seguire Stefan.- sottolinea con calma.- Non è un capriccio.
-Ci mancherebbe che lo fosse!- scatta Alex infuriata.
Volta di scatto il viso, incrociando le braccia al petto e tirando su il viso per non doverlo guardare in faccia. Vincent interpreta con facilità la sua chiusura, ma non dice nulla e sospira ancora mentre aspetta e la cameriera carina torna con le loro ordinazioni. Mentre lui fa girare tra le dita il bicchiere dell’aperitivo, Alex sembra lentamente riprendersi e comincia ad agitarsi sulla sedia, piccoli scatti nervosi come se volesse rimettersi comoda e dovesse farlo su una seduta di spilli. Alla fine si volta ancora verso di lui, agitando le mani come per iniziare un discorso, ma non apre bocca e si capisce la difficoltà evidente che ha nel trovare le parole migliori per esprimere quel concetto.
Probabilmente vorrebbe solo chiedergli delle spiegazioni, ma sa che in fondo non ha molto diritto di continuare a contestare la decisione che lui ha preso.
-…ti…rendi conto che io ho un dannatissimo album da registrare ed una band di tre elementi in cui due si parlano a stento?!- esclama alla fine esasperata.- Come puoi dirmi che devo arrangiarmi da sola?!
-Non è quello che ho fatto.- le fa notare Vincent.
-Beh, è qualcosa di molto simile, Vin!- sbuffa lei.
-Alex.- la richiama lui piano.- C’è un problema, ed io non posso semplicemente cancellarlo ed andare avanti come se niente fosse.
-Che cavolo di problema puoi avere che non si possa risolvere?!- ritorce lei.
Vincent prende fiato profondamente, si lascia andare all’indietro contro lo schienale e la guarda. Così Alex si ferma improvvisamente e, nel ricambiare il suo sguardo, si ritrova ragazzina a condividere il segreto troppo pesante del proprio migliore amico, di cui è pazzamente innamorata da sempre. Quel pensiero la calma improvvisamente, insieme con la tristezza malinconica che le mette addosso in qualche modo le trasmette una sorta di empatia strisciante, che la porta a capire la natura del “problema” di Vincent ancora prima che lui lo dica esplicitamente.
-Mi piace Stefan.- le comunica lui comunque.
Lei però lo sa già e non ne è davvero sorpresa. Si sgonfia come un palloncino sulla sedia, si appoggia con i gomiti al tavolo ed incastra il mento tra i pugni chiusi, guardandolo con aria afflitta e rassegnata.
-Ti odio.- gli comunica provocando una risatina nervosa.- Non posso nemmeno dire che tu non ne abbia motivo.- aggiunge poi in un borbottio sofferto.
-Ah beh…- sbotta lui senza sapere che dire. E si rifugia nel bicchiere per non dover dire altro.
-Stefan lo sa?- s’informa Alex, sconfitta.
Vincent scuote la testa mentre mette giù l’aperitivo.
-Chiaramente no.- esplicita – Non potevo dirglielo. Non al momento, almeno.
-Al momento?- ripete lei.- Quindi conti di dirglielo.
-Certo.- annuisce Vincent senza alcun problema.
-…Stefan è ancora innamorato di Brian.- sussurra Alex dopo un momento in cui lo ha scrutato così intensamente da fargli credere che potesse arrivare fino in fondo alla sua anima e ritorno.
Vincent ricorda che c’è stato un tempo in cui è successo davvero.
-Credo di essere la persona che ne è maggiormente consapevole al mondo, in questo periodo.- le ricorda con un sorriso spento.
-E allora cosa intendi fare?- insiste lei pressante.
Vincent si concede un sospiro pesante e poi si stringe nelle spalle, ricambiando lo sguardo preoccupato di lei.
-Niente, Alex. Ci sono cose che si dicono senza aspettarsi niente in cambio.- spiega ancora.
Lei gli sorride. Un sorriso tirato che ricambia quello spento di lui.
-Avrei voluto che non fossi gay.- ammette fingendo un divertimento che non prova.- Saresti stato perfetto per le mie esigenze.
-Non avresti nemmeno dovuto pagarmi per occuparmi dei tuoi ragazzi.- annuisce lui, afferrando un’oliva dal piattino degli stuzzichini.
***
-Secondo me è a posto così.
-Sì, lo penso anch’io.
-…fa schifo.
Steve e Stefan ridacchiano e  poi lo guardano. Brian, perplesso, ricambia le loro occhiate con la propria espressione interrogativa e sgrana un po’ di più gli occhioni già enormi.
-Fa schifo!- ribadisce indicando la partitura davanti a sé.- Dai, lo sapete anche voi che fa schifo!- ribadisce concitato.
Nessuno dei compagni di band si spreca a rispondergli. Altro scambio di occhiate complici tra Stef e Steve e nuovo coro di risatine divertite.
-…voi due mi state prendendo per il culo, vero?- s’informa il cantante in tono colloquiale.
La porta si apre sulla risata del bassista e del batterista, impendendo qualsiasi forma di protesta o di ritorsione del brunetto. Alex entra insieme con quello che sarà il regista del primo singolo in uscita – almeno a seguire gli appuntamenti segnati in agenda, perché nessuno dei tre ragazzi lo ha mai visto prima.
Brian raccoglie la partitura e la mette via ordinatamente all’interno di una cartelletta, liberando il tavolo che torna ad essere vuoto e lucido sotto le luci al neon.
-Buonasera.- esordisce il nuovo arrivato con un sorriso enorme.
-Salve.- ricambia Brian per tutti ed Alex respira e si rilassa, come sempre quando le cose sembrano mettersi per il verso giusto.
***
Stefan si è seduto davanti alla scrivania. Vincent gli ha sorriso come tutte le altre volte. Gli chiede come vada il trasloco, Stefan gli dice che è quasi tutto a posto e che nel fine settimana spera di trasferirsi lì. Vincent gli fa i migliori auguri e Stefan ride e gli dice che adesso saranno “vicini”.
Poi il centro dei pensieri del bassista si sposta impercettibilmente.
-Abbiamo cominciato a lavorare all’album nuovo.- annuncia.
-E come va con Brian?- s’informa Vincent con un cenno di assenso, portandolo subito dove lo svedese voleva arrivare.
-Bene. Sembra si sia calmato. Parla solo di lavoro in questo periodo.
-…ti dispiace che lo faccia?- domanda Vincent, esitando un momento di troppo e pregando che Stefan non lo noti.
E lui sembra non notarlo davvero. Sorride ed ammette:
-Sì. Un po’ sì. Ma va meglio così, no?
Dovrebbe dire anche a lui che non durerà. Dirgli che arriverà un momento in cui Brian ricomincerà a stare male – perché Dunja è brava, ma non è la psicoanalisi a cancellare i sentimenti dal cuore delle persone – dirgli che quando succederà Stefan ricomincerà ad avercelo contro. E magari anche in modo diverso, Brian in tutto quel tempo maturerà energie e pensieri nuovi e li indirizzerà in modo differente. Dovrebbe dirgli tutto questo, ma non lo fa e nel proprio silenzio si rende conto più che mai della necessità di essere chiaro con l’altro.
-Non posso più continuare a seguirti nella terapia, Stefan.- gli annuncia senza guardarlo.
Segue un silenzio carico, che viene venato appena del sospiro paziente e stanco che Vincent si concede. Non può dare spiegazioni, irrazionalmente prega che Stefan non gliene chieda neppure, sa che sarà difficile che non succeda però e si prepara mentalmente a trovare un modo per sfuggire senza dire nulla.
-Perché?- domanda ovviamente Stefan dopo un po’.
Finalmente Vincent trova la forza di guardarlo negli occhi. Stefan non ci legge niente dietro, la solita calma glaciale e gentile freddezza di sempre.
-Si è creata una situazione di incompatibilità, non posso continuare il mio lavoro nel modo corretto.- articola girandoci attorno.
Stavolta è lo svedese a sospirare e ruotare gli occhi sulla stanza. Un po’ gli mancherà il marrone caldo di quell’ambiente, riscalda davvero il cuore.
-Non penso che dovrei interrompere la terapia adesso.- ritorce arrabbiato.
Vincent registra quella rabbia, registra la sfumatura che la voce di Stefan prende quando i suoi sentimenti mutano in quel senso. Non alza la voce, non è aggressivo, non attacca quando si arrabbia, diventa solo più freddo e distante e mette i propri sentimenti in gioco davvero, li mostra, anche solo un momento, ma li mostra completamente.
E ci riesce solo con una sfumatura.
Sa che non dovrebbe farlo, perché è scorretto e sbagliato, ma decide comunque che dal momento stesso in cui gli ha comunicato di non poter continuare ad essere il suo analista il loro rapporto professionale sia da considerare interrotto. Quindi, tutto quello che dirà da questo momento in poi farà parte di un diverso rapporto. Molto più personale.
Si mette dritto sulla sedia ed affronta gli occhi scuri di Stefan quando il loro giro si conclude su di lui.
-Non farlo, allora.- gli risponde seccamente.- Ho già detto ad Alex che vi avrei dato il nome di un collega, molto bravo, che è anche un mio amico, lei sarà felice di sapere che tu sei d’accordo nel proseguire la terapia.
-Non con un altro specialista.- ribatte Stefan pacatamente.
Vincent ride.
-Non cominciare a comportarti da ragazzino anche tu, Stefan, credo che Brian sia sufficiente in questo senso per i nervi di Alex.- lo redarguisce ironico.
-Non sono capricci.- ritorce lui.- Non penso davvero di poter essere in grado di ripartire da zero con qualcun altro. Non al momento. Ho bisogno di un minimo di serenità e di sicurezza, devo potermi fidare…
-Il mio è un lavoro come un altro.- lo interrompe Vincent abbastanza brusco, pur se in tono educato.- Un professionista vale l’altro, purché sia preparato. Puoi “fidarti” di uno qualunque di noi.
-Sai perfettamente che non è quello che intendo. Voglio dire che il rapporto di fiducia che si crea con una persona, non si ricrea automaticamente con chiunque.
Vincent scuote la testa ed affonda inesorabile.
-Si riproduce esattamente con chiunque allo stesso modo. Siamo pagati per fare in modo che sia così.
Stefan si morde la lingua per non ribattere in modo velenoso sull’evenienza di considerare quella una sorta di “prostituzione intellettuale”. Si rende conto prima di dirlo ad alta voce che anni di relazione con Brian lo hanno decisamente forgiato in modo sbagliato riguardo alle discussioni con un'altra persona. Vincent però lo capisce lo stesso, quello che stava per dire, glielo legge in faccia che era una battuta cattiva e gratuita e Stefan si sente immensamente stupido ed anche immensamente esposto sotto i suoi occhi. Non sono affatto gentili adesso, sono irridenti e fanno dannatamente male mentre lo scrutano in quel modo.
-Io non ti seguirò più, Stefan.- ribadisce Vincent.- Peraltro sono convinto che, se davvero non ritieni di trovare un altro analista, sarai perfettamente in grado di gestire da solo la situazione con Brian…
-Stai mentendo.- lo interrompe Stefan senza variare il tono incolore con cui si è espresso finora.
-Sì, ma non posso certo costringerti a continuare qualcosa contro la tua volontà.- risponde Vincent con semplicità, stringendosi nelle spalle.- Puoi provare con qualche esercizio più classico, tipo…comprare una pianta o un animale, per vedere se sei in grado di prendertene cura e poter dire di essere guarito.- lo deride con uno scherno educato e discreto.- Magari alla fine deciderai da solo di trovare qualcuno.
Lo svedese si alza. Il tono, il discorso ed il modo di fare dell’altro lo hanno irritato, ma lui controlla rigidamente la postura e l’atteggiamento fin nei minimi particolari mentre allunga una mano per stringere le dita gelide di Vincent in un saluto formale.
-Ti ringrazio per quello che hai fatto per me, Vincent.- dice atono un momento prima di ritirare la mano e voltarsi.
-Dovere.- risponde lui allo stesso modo.
Ma quando la porta si chiude dietro Stefan sa già che il passo successivo sarà perfino più difficile di questo. E sa che lo farà lo stesso, perché ha mentito anche ad Alex ed in fondo qualcosa vuole aspettarsela davvero da tutta quella storia.
***
-Non mi fai entrare?
Stefan lo guarda. La risposta corretta è “no”. La cosa giusta da fare è chiudere la porta, voltarsi, tornare a sedersi sul divano e riprendere a leggere il giornale da dove il suono del citofono lo ha interrotto.
Il punto è che non avrebbe nemmeno dovuto rispondere al citofono.
Di fatto, già nel permettere al portiere di lasciarlo passare si è arreso all’idea di ritrovarselo davanti come in quel momento succede. Di ritrovarsi i suoi occhi chiari, limpidi, luccicanti, puntati addosso in modo sfacciato, allusivo. Di dover tornare ad affrontare le proprie paure, quelle stesse che gli fanno stringere convulsamente lo stipite della porta ma non gli danno comunque la forza sufficiente per scegliere di richiuderlo. O in alternativa di spostarsi ed affrontarle.
Sospira profondamente, lascia cadere il braccio lungo il corpo in un gesto che è un arrendersi stancamente all’impossibilità di fuggire. Brian è più forte di lui, a suo modo ma lo è.
Il bruno accentua quel sorriso plastificato che lo contraddistingue, ci lascia guizzare lo stesso accenno di soddisfazione che colora gli occhi, poi attraversa la soglia scivolandogli di fianco – perché Stefan è stanco anche per precederlo e spostarsi – ed entra, sfilando il cappotto in un gesto elegante e morbido.
-Che ci fai qui, Brian?- chiede in un sussurro strozzato il bassista.
Lui ridacchia, fingendosi divertito.
-Cosa vuoi che ci faccia?- ritorce stringendosi nelle spalle magrissime sotto la maglietta nera. Abbandona il cappotto su uno dei divani che occupano l’ingresso-salone.- Ero curioso di vedere come ti eri sistemato.
Stefan vorrebbe rispondergli che non è vero, che di come si sia “sistemato” non gliene importa nulla e che questo è evidente anche se Brian finge, gira attorno lo sguardo catturando l’immagine del salotto bianco ed enorme – quasi vuoto, per lasciare che la luce lo riempia il più possibile – si concede un borbottio di approvazione ostentata. Quella casa rispecchia Stefan, rispecchia il bisogno spasmodico di luminosità, di pace e di silenzio che lo ha afferrato da quando la loro storia è finita. Il legno chiaro, i tessuti altrettanto incolore – impalpabili – l’assenza di superfluo, rispecchiano la necessità di equilibrio.
Ma a Brian tutto quello non interessa davvero.
L’abbaiare concitato di qualcosa che arriva rapidamente dalla porta aperta della cucina richiama l’attenzione di entrambi. Il qualcosa ruzzola ai piedi di Brian, continuando a manifestare vivacemente il proprio dissenso, e lui abbassa gli occhi ed individua il cucciolo bianco e marrone ai propri piedi, fissandolo perplesso.
-Cos’è?- s’informa.
Stefan un po’ ringrazia quell’intrusione provvidenziale. È un rifugio sicuro dove infilare i pensieri prima che prendano percorsi non voluti.
-Lei è Abba.- presenta.
Si muove subito dopo, ignorando l’abbaiare del cane, che sposta la propria attenzione dal bruno al padrone in un pietoso tentativo di rendere evidente a quest’ultimo la propria volontà di cacciare il disturbatore. Stefan condivide la sua opinione, ma le regole della buona educazione e le esigenze di lavoro sono più forti della sua semplice volontà. Punta alla cucina, annunciando in tono blando.
-Preparo un caffè.
Brian si aggrappa all’invito implicito nelle sue parole per seguirlo con scioltezza, mentre la cucciola, contrariata, gli va dietro continuando a trotterellare in un silenzio ringhioso.
-No.- commenta intanto, vagamente- E’ Pongo!- specifica.- Pongo gli sta molto meglio come nome.
Il cantante si arrampica su uno degli sgabelli che girano attorno all’isola centrale, in cucina, si sistema lì sopra, appollaiato come un cucciolo di rapace, e solleva gli occhi chiari a seguire la schiena di Stefan armeggiare vicino al ripiano dei fuochi. Cerca qualcosa per attirare l’attenzione del bassista, un argomento di conversazione che sia utile a sciogliere un po’ della tensione fastidiosa – e giustificata – che lo ha accolto al suo ingresso in casa. Sa che non dovrebbe trovarsi lì, stava andando tutto bene seguendo i consigli di Dunja, il lavoro procedeva tranquillamente e lui avrebbe dovuto accontentarsi di questo.
Ma poi è successo che Alex lo ha chiamato. Gli ha detto “Brian, ho una buona notizia per te” e poi gli ha anche comunicato la buona notizia. Gli ha detto che l’appartamento era sistemato, che lui poteva anche lasciarlo perché lei era riuscita a trovare un acquirente e che doveva solo comunicarle dove volesse trasferirsi, perché avrebbero pagato quelli della casa discografica.
Sapere di dover lasciare la casa che avevano diviso insieme è stato un piccolo colpo. Uno scossone leggero, perché in fondo lui non ci tornava seriamente a vivere da settimane ormai. Ma è stato sufficiente. Aveva preso le chiavi dalla tasca, si era fatto portare lì da un taxi e si era infilato in casa, osservandosi intorno con aria stupita, come se non riuscisse più a riconoscere l’ambiente colorato e chiassoso che aveva attorno. Quando lo avevano comprato, anche quel posto era luminoso – esattamente come la casa di Stefan ora – ma poi lui, Brian, lo aveva talmente riempito di roba da renderlo quasi invivibile. Stefan aveva subito l’invasione delle cianfrusaglie inutili con lo stesso stoicismo con cui subiva qualsiasi cosa da Brian e lui aveva preso a trasformare l’appartamento in una “tana” tutta loro, che li rispecchiasse fedelmente.
Non è così assurdo che adesso separarsene in via definitiva lo colpisca.
Ad Alex ha risposto solo che un posto lo ha già trovato, le ha dato l’indirizzo ed il recapito dell’Agenzia che se ne occupa. E’ un loft in pieno centro, non è grandissimo ma arredato in modo talmente essenziale da sembrare vuoto, grigio come i palazzi attorno, infilato in un condominio di lusso e costoso come poche altre cose sono mai state nella sua vita, ha una vetrata gigantesca che si apre su Londra. Lui lo trova tragicamente in accordo con i propri pensieri, sogna di sedersi dietro la vetrata e guardare in basso, le persone che corrono come formiche microscopiche, costruendoci attorno una trama intessuta di storie ipotizzate a tempo perso.
Alex si è limitata a dirgli di sì e Brian la conosce abbastanza da sapere che già domani avrà le chiavi del loft in tasca ed un contratto di affitto al sicuro in un cassetto della scrivania della manager. E sa anche che già domani se ne starà davvero seduto dietro la vetrata, osserverà Londra finché non si svuoterà di tutte le sue formiche ed a quel punto si alzerà, prenderà il cappotto ed andrà a dormire da Steve.
Perché da solo non ce la fa proprio.
Ma ora s’impone di smettere di pensarci. S’impone di tornare al presente fatto dei gesti meccanici di Stefan che sono comunque eleganti come sempre, perché quando si muove sembra che sia stato creato per farlo occupando solo lo spazio indispensabile nel mondo, accordandosi a tutto ciò che gli sta attorno in modo da fondersi con l’aria stessa. Il suo esatto contrario. L’esatto contrario del suo modo cattivo e maldestro di imporsi, di far baccano per farsi vedere, di arrogarsi il diritto esistere e di farlo con l’attenzione degli altri fissa su di sé.
-Dov’è finito Pongo?- sbotta all’improvviso Brian.
Lo dice per dire qualcosa. Una cosa che spezzi il silenzio e riporti le spalle di Stefan verso di lui ed i suoi occhi addosso. Si sporge oltre il tavolo sondando il pavimento a piastrelle, intravede la cucciola che scodinzola girando attorno al padrone ed ogni tanto gli rivolge un’occhiata per assicurarsi delle sue manovre.
-Ehi, Pongo, vieni qui!- la apostrofa Brian, battendosi una mano sul ginocchio.
Stefan sospira.
-E’ anche femmina, Brian.- la difende lo svedese.
Posa tra loro il caffè e si siede sullo sgabello dall’altro lato del tavolo, le tazze fanno un rumore sordo quando urtano il ripiano di legno e poi strisciano attraverso lo spazio per essere posizionate ai due lati dell’isola.
Brian intercetta la propria con le dita, pensando a quante volte si sono seduti a quel modo in casa loro la mattina per fare colazione – anche se con la “mattina” l’orario al quale si tiravano fuori dal letto aveva di solito poco a che fare. Sorride a quel pensiero e sente Stefan sospirare, così immagina che i suoi ricordi abbiano seguito la stessa strada.
-…non dovresti essere qui.- borbotta Stefan sorseggiando il caffè ed infilandoci dentro a forza le proprie parole.
Brian lo imita, per prendersi il proprio tempo.
-Comunque che cos’è?- chiede puntando un dito verso il cane ed eludendo l’affermazione di Stefan e la necessità di rispondergli.
-Un bulldog americano.- risponde il bassista.- Sarebbe meglio che tu mi chiamassi prima di presentarti a casa mia.- aggiunge subito dopo, deciso quanto mai a non lasciargliela vincere con tanta facilità.
-Non capisco perché tu abbia comprato un cane. Una volta te l’ho anche chiesto perché non prendevamo un animale e mi hai detto che non ne volevi per casa.- ricorda l’altro senza dargli retta.
-Avevo già te.- sbuffa Stefan in modo talmente scontato da annoiare perfino se stesso.- Brian, ti prego!- scatta quindi esasperato.- Smettila!
La parola fa un suono sordo esattamente analogo a quello della tazza sul ripiano di legno. Lo stesso suono che la accompagna peraltro, perché Stefan scaraventa entrambi – l’ordine secco e sfinito e la tazza ancora piena – sul tavolo in mezzo a loro due. Brian osserva per un po’ il bordo di coccio tra le mani dell’altro, quasi in quel punto si fosse concentrata anche la forza dell’esasperazione che ha sentito nella voce di Stefan. Si chiede come siano arrivati fin lì, si chiede se valga la pena di insistere e continuare a trascinare la realtà in un gioco che ha smesso di essere tale tanto tempo prima e che ora esige un prezzo terrificantemente alto. Loro lo hanno già pagato e dovrebbero cominciare a scontarlo…
-…magari lo prendo anch’io, un animale.- ricomincia invece a parlare, sollevando in viso al bassista lo stesso muso sfacciato ed arrogante di sempre. Quel sorriso finto che fa sospirare lo svedese e gli fa capire che è una guerra da cui uscirà molto peggio che sconfitto. Stefan si alza portandosi dietro la tazza.- Però penso che preferirei un gatto…Un cane è eccessivamente impegnativo per me…
-Per te è impegnativo chiunque, Brian.- ritorce Stefan volutamente cattivo.
Il caffè scorre giù lungo il tubo del lavandino, lui posa la tazza al centro ma non si volta.
-Pensi che non saprei prendermene cura?- ridacchia Brian ignorando i sottintesi nella frase di Stefan.
Lui ragiona sulla possibilità di tirare avanti il discorso, di parlarne seriamente. Ma siccome sa che Brian non ha voglia di essere serio – o, dannazione, avrebbe capito che trovarsi lì in quel momento è un fottutissimo errore! – ci rinuncia e non gli risponde.
-Alex ha venduto l’appartamento.- si decide ad informare la voce del bruno, forse sperando di vederlo tornare a voltarsi.
Ma Stefan non lo fa, registra l’informazione e si scopre indifferente.
-Ah sì?- chiede aprendo l’acqua per lavare la tazza.
No. Non indifferente. Sollevato.
-Sì.- riprende Brian.- Non so a chi, però, non mi ha spiegato i dettagli. Immagino li comunicherà ad entrambi, comunque.
Sta quasi per dirgli che non ha importanza e può anche tenersi i soldi, ma si ferma in tempo. Sarebbe fuori luogo e cattivo, come voler “pagare” Brian per ciò che loro due sono stati e non sono più, ma Stefan ha sempre rifiutato di Brian quell’immagine di “puttana” che da di sé ed arrendercisi adesso, anche solo per un errore nel formulare un concetto, sarebbe qualcosa che non potrebbe mai perdonarsi. Così lascia perdere la casa, perché quello che vorrebbe dire è un concetto più complesso, che ha che fare con la soddisfazione al pensiero di aver messo un altro paletto fisso per non poter tornare indietro.
-E tu?- domanda invece.- Dove andrai?
-Ho trovato un altro appartamento.- spiega Brian in modo piano, stringendosi nelle spalle per dire che non importa, anche se Stef non può vederlo.- Ma penso che per un po’ continuerò ad approfittare dell’ospitalità di Rita.- sghignazza sincero.
Stefan ride con lui. Uno sbuffo che non può evitarsi e che tradisce il suo affetto. Non ha mentito a Steve, sono entrambi più tranquilli a sapere Brian con il batterista e sotto il suo controllo. Stef posa la tazza sul portapiatti, osservando un momento le gocce che cadono e si raccolgono sul fondo piatto dello scolapiatti argentato. Richiude l’anta e si volta.
-…devo andare, vero?- chiede Brian quando il silenzio tra i loro sguardi si fa troppo pesante.
Stefan annuisce soltanto.
Brian sospira, voltando attorno gli occhi ed osservando il cagnolino affannarsi a girare intorno al suo sgabello studiando il modo per cacciarlo fuori.
-Il tuo cane mi odia.- notifica indicando la bestiola.
Stefan non ribatte. Che lo pensi, se serve a farlo stare meglio.
Brian stende le gambe davanti a sé e si lascia cadere giù, mentre la cucciola si sposta rapida per osservarne sospettosa i movimenti. Per tutta la strada che fa a ritroso verso il salotto, il cane lo segue insieme con Stefan, si ferma a spiarlo quando Brian si ferma ad infilare il cappotto, e poi si siede di fianco alla porta aspettando che esca.
-Ci si vede, Stef.- saluta Brian.
Lui apre il battente tenendolo aperto accanto a sé.
-La prossima volta chiamami, per favore.- chiede nonostante sappia che è inutile.
Ed infatti Brian se ne va senza acconsentire alla sua richiesta. Continuerà a presentarsi lì a qualunque ora del giorno e della notte, senza nessun preavviso e senza nessun rispetto. Continuerà a farlo con l’arroganza prepotente di un bambino viziato. E sarà così fino a quando lui, Stefan, non si sarà riabituato ad averlo intorno e quelle apparizioni improvvise avranno smesso di essere motivo per desiderare di non essersi mai alzati dal divano.
 

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Capitolo 4
*** 4 ***


-Ti piace?
-Ci fa un freddo cane.
-Accendi i riscaldamenti!
-Ci fa freddo lo stesso, Alex.
-…vai a dormire da Steve allora, Brian, io ci rinuncio.
***
La nicotina scivola in circolo. Unica droga concessa, ormai. A parte l’alcool certo. Ma almeno sul breve periodo la nicotina ha anche meno effetti negativi, e quindi se la concede con più facilità, con maggiore spensieratezza.
Ad esempio quando, come in quel momento, si sente troppo pieno, troppo teso e troppo pesante per continuare a restare seduto con gli altri in una stanza vuota, in cui l’aria è viziata dopo le ore che ci hanno passato dentro e greve per tutte le cose che aleggiano sopra la musica e che con la musica non hanno nulla a che fare. Stefan e Steve sono rimasti dov’erano, attorno al tavolo e con decine di fogli pasticciati davanti, stavano ancora parlando tra loro dell’opportunità di scegliere tra l’una e l’altra versione della canzone…cazzo! non riesce nemmeno a ricordarne il titolo.
Sbuffa. Una nuvola piena e densa, l’ultima, che consuma definitivamente il mozzicone tra le sue dita. Lo osserva un po’, poi si decide e lo butta oltre il muretto su cui se ne sta a gambe incrociate, mentre già riflette sull’opportunità di accenderne un’altra.
Lui in realtà ha smesso in fretta di ascoltarli. Ha provato un paio di interventi privi di alcun interesse reale, ha cercato blandamente di orientare la discussione verso la soluzione che gradiva di più e poi – quando Stefan ha reagito zittendolo – ha preferito non soffermarsi sulle implicazioni di un litigio ed è rimasto seduto in silenzio per i dieci minuti successivi, fissandosi la punta delle scarpe allungate davanti a sé. Quindi si è alzato ed ha annunciato che usciva a fumare.
Davanti agli Studi la giornata è grigia e pesante anche lei. Fa anche un po’ freddo e lui rabbrividisce nel maglione troppo leggero e si pente di non aver preso il cappotto prima di uscire. Gioca con l’accendino e con il pacchetto di sigarette, fissando distrattamente il piazzale davanti al palazzo, un gruppo di tecnici passa spingendo un carrello colmo di casse di legno, parlano a voce alta e ridono forte. Sospira e sfila dal pacchetto un’altra sigaretta.
-Ciao.
È la voce di una donna. Non la conosce, per cui si volta a guardare e cerca di capire chi sia. Ma no, non la conosce davvero: bassa, carina, capelli e pelle scura, occhi scuri anche loro. Non bellissima, anzi…una come tante. Molto curata, però. La classica tipa alla moda, l’aspetto ed il modo di fare della donna rampante e sicura di sé.
Ah. E poi asiatica. Almeno di origine.
-Brian Molko, giusto?- s’informa lei con un sorriso che, quello sì, è molto bello.
-…complimenti per la perspicacia.- la deride lui lieve.
Lei non si offende, ride con una sincerità spontanea che è contagiosa.
Brian sbuffa un sorriso anche lui, nonostante tutto.
-Tu invece non hai idea di chi io sia, vero?- domanda lei avvicinandosi.
Brian lascia trasparire la propria perplessità.
-Dovrei?- ritorce.
-Non esattamente.- ammette lei fermandoglisi di fronte ed allungando una mano.- Helena Berg.- si presenta.- Sono la nuova fotografa.- spiega quindi.
Lui stringe la mano che gli porge.
-Mi piacerebbe rispondere “Brian Molko”, ma mi sentirei incredibilmente stupido.- dice poi.
Helena annuisce con una smorfia comprensiva.
-Sì, suonerebbe stupido.- ne conviene.
-Piacere, io.- articola a quel punto Brian con convinzione e lei scoppia a ridere di nuovo e scioglie le dita dalle sue, accomodandosi sul muretto accanto a lui.
-Me ne offri una?- s’informa intanto, indicando il pacchetto che Brian tiene tra le mani, così come la sigaretta già pronta accomodata tra due dita.
Brian esita un istante, poi le rivolge l’imboccatura stretta del pacchetto e lei afferra uno dei filtri con dita smaltate di rosso acceso.
-Grazie.- sussurra intanto.
Lui non risponde, accende per sé e poi per lei, che gli tende il viso socchiudendo gli occhi scuri e profondi.
No, non è bella. Ma ha qualcosa che gli piace istintivamente e che lo fa sentire a proprio agio. Mentre Helena torna a raddrizzarsi al suo fianco, Brian si chiede cosa sia, distrattamente perché non è davvero un argomento che possa interessarlo ma è un argomento come un altro per tenere impegnata la mente e non dover tornare a concentrarsi sull’opportunità di filarsela via.
O sulla necessità di non farlo e di tornare invece dentro a cercare di concludere qualcosa.
La frustrazione di quelle sessioni inutili sta diventando intollerabile. Si accumula e lui comincia a sentirsene soffocare. Vorrebbe dirlo anche ad Alex, la sua pervicacia nell’imporre loro il prolungarsi di ore di tortura è assolutamente fuori luogo e controproducente…
-Non pensavo che fossi un tipo così silenzioso.
La fissa, riportando l’attenzione su di lei anche se il suo sguardo – almeno ufficialmente – non l’ha mai abbandonata, studiando quel profilo dai tratti un po’ troppo duri e spigolosi per una donna, che però si accordano bene all’idea di forza pacata che filtra da lei.
Anche quello gli piace.
-Non sono un tipo silenzioso.- ribatte, voltandosi per ricominciare a fumare anche lui.
Aspira una boccata lunga, mentre lei ridacchia appena in modo insolente. Si lascia trasportare per un momento da quel suono, pensando che dovrebbe essere infastidito dall’eccessiva dimestichezza che lei manifesta nello stargli accanto.
-Allora sono fortunata.- lo deride Helena.
Brian si lascia scappare un sorriso che rovinerà inevitabilmente qualunque tentativo di rimbrottarla. Ci rinuncia in partenza e le scocca solo un’occhiata complice.
-Sì, sei fortunata.- le concede malizioso.
-Ti spiace se approfitto ancora un po’ della mia fortuna?- ritorce Helena storcendogli contro la sua stessa malizia in uno sguardo sottile e penetrante.
Ma ha gli occhi troppo fondi, si rende conto Brian, sono immancabilmente sinceri e vellutati in un nero intenso tra le ciglia lunghissime e scure. Non riuscirebbe ad ingannare nessuno con quella scorza costruita ad arte da donna in carriera. È troppo vera, troppo donna, per giocare con lui a fare la ragazzina intrigante.
Solo che invece di dirglielo resta in silenzio ancora. E la fissa un po’ sorpreso, perché lo sorprende sempre il modo in cui le persone mascherano se stesse solo per essere smascherate dal proprio corpo. Allunga una mano in modo involontario, le dita sfiorano la fronte della donna e scostano via una ciocca di capelli caduta in avanti sul volto, la agganciano dietro l’orecchio nonostante lei lo scruti senza capire, seguendo il movimento leggero della sua mano fino a che non torna a posarsi sul muretto, tra i loro corpi.
-Scusa.- si affretta a farsi sfuggire Brian. E se ne pente subito, perché lui non chiede mai “scusa” e meno che meno quando è palesemente nel torto come in questo momento.
Ma lei ride e si rimette dritta, rinunciando a continuare quel gioco di sguardi e battutine sottili ed insinuanti.
-Sei molto bello.- dice invece senza nessun legame con il discorso precedente e senza guardarlo, aspirando una boccata dalla sigaretta accesa.
È il turno di Brian di concedersi una risatina divertita, mettendo da parte quella punta d’imbarazzo che ha preso il sopravvento nonostante tutto il suo autocontrollo. Ma l’autocontrollo, del resto, sta andando a farsi benedire nell’ultimo periodo e, dunque, perché non godersi gli effetti benefici di una chiacchierata imbarazzante con una sconosciuta.
-Scommetto che lo dici a tutti quelli che vuoi portarti a letto.- ribatte cattivo.
Lei dovrebbe offendersi a questo punto.
Oppure ribattere in modo allusivo, giusto per confermargli che sì, portarselo a letto non le dispiacerebbe. E Brian magari ci starebbe anche, e ne sarebbe felice perché una simile prospettiva la riporterebbe nell’alveo delle “persone comuni”, quelle con cui ha a che fare di solito.
Invece, potrebbe semplicemente stare al gioco e rispondergli allo stesso modo.
-Oh beh, è ovvio no? E tu? Ci provi con tutti i fotografi nuovi?
Ed in quel caso, magari, sarebbe più difficile limitarsi a metterla da parte come qualcosa di “già visto”.
-No.- sbuffa buttando via anche il secondo mozzicone e guardandola.- Solo con quelli bruni e carini che abbiano meno di trentanni.
Lei storce il naso.
-Trentacinque, spiacente.- scrolla le spalle.
-Che sfortuna, eh?- ride Brian.
-Che vuoi farci, il destino.- sospira lei.
Brian balza giù dal muretto, le allunga la mano per aiutarla a scendere ma lei lo ignora – fingendo di non accorgersene – e salta giù accanto a lui nonostante i tacchi alti e la gonna troppo stretta.
-Hai detto di chiamarti Helena, vero?- chiede Brian mentre entrano affiancati agli Studi.
***
-Alex? Posso salire?                                               
Alex Weston lo scruta attraverso il citofono, Stefan Olsdal non può vederla ma intuisce comunque la sua presenza oltre la videocamera. Un dito sfiora il pulsante che apre la cancellata, Stefan la spinge ed entra seguendo la propria voce, su per i fili metallici che la portano all’appartamento della manager.
Alex gli apre e già sorride, Stefan si piega a schioccarle un bacio sulla guancia, poi entra mentre la ragazza chiude la porta.
-Come va?- s’informa lei tranquillamente.
-Pensavo fossi furiosa.- ribatte il bassista senza risponderle.
Alex sospira.
-Per le registrazioni?- chiede, ma non ha bisogno che lui confermi.- Stef, Vincent mi aveva avvisato che sarebbe finita così, per cui diciamo che mi aspettavo che la bomba esplodesse già da un po’.
Lo precede all’interno dell’appartamento, camminando scalza sul parquet fino a raggiungere la cucina. Recupera sulla soglia un paio di improbabili ciabatte rosa, due pattine con disegni di orsacchiotti e cuoricini stampigliati su, che fanno un adorabile pendant con i pantaloni larghi della tuta-pigiama altrettanto rosa che Alex sfoggia.
-Dio, sono un disastro!- realizza la donna con un altro sospiro, sconfortato, lasciandosi cadere sul primo sedile disponibile.
Stefan ride, raggiungendola anche lui dopo aver appeso il cappotto all’ingresso.
-Sta piovendo?- domanda Alex stordita, gettando un’occhiata alla finestra.
-Non ancora, ma le previsioni dicono che pioverà. Evita i tacchi quando esci.- consiglia lui.
Lei gli punta un dito contro.
-Dovresti rimproverarmi perché non ho decenza!- afferma seccamente. Tira un lembo della tuta indicandosi.- Dirmi che non è modo di presentarsi alla porta!- rincara.
-Servirebbe a convincerti dell’opportunità di stare in tailleur anche in casa?- domanda lui serafico, muovendosi con padronanza nella cucina per mettere su il bollitore del the.
-Stef, che stai combinando?- sbotta lei girando su se stessa per metterlo a fuoco mentre apre sportelli ed ante della cucina.
-Rilassati. Te lo meriti.- ridacchia lui continuando tranquillamente la propria opera.
-Mi merito un uomo!- ritorce Alex imbronciandosi.- Uno vero! Non voi tre checche isteriche!- protesta.- Uno che mi porti alle Maldive…E paghi lui! E che mi organizzi una festa tutta per me, per il mio compleanno, e mi regali un diamante gigantesco chiedendomi di sposarlo…Ed invece sono tutti gay! È come la maledizione di “In & Out”!
Stefan non le bada, lasciandola sproloquiare felice mentre la teiera inizia a fischiare discretamente, la spegne e torna al tavolo con tazze, cucchiaini, miele e tisane.
-Steve non apprezzerebbe questa generalizzazione.- fa notare sedendosi davanti a lei.
-Steve è l’unico che mi ami davvero.- annuisce Alex con convinzione.- Ed ovviamente è già sposato!
-Ovviamente.- ammette Stef.- A questa età sono tutti sposati, gay o…Brian.
-Quello è tutto tuo!- strilla lei roteando gli occhi sconfortata. Affoga il naso nella tazza, pensandoci su un momento prima di riemergere e borbottare.- Forse dovrei proporre a Steve una relazione clandestina.
-No, sarebbe un disastro.- confida Stefan.- Steve non è tipo da relazioni clandestine, è completamente assoggettato a sua moglie come ogni etero che si rispetti.
Alex annuisce, ritornando ad affondare nella tazza per un po’.
-Come stai?- ripete ancora quando emerge in via più stabile. Posa la tazza davanti a sé ed osserva Stefan fare altrettanto e stringersi nelle spalle.- Brian ti ha detto della casa?- domanda ancora.
-Sì, ma è ok, tranquilla.- la rassicura lui brevemente.
-Beh, lieta di sentirtelo dire, perché lui, tanto per cambiare, è scoppiato!- ridacchia debolmente Alex.- E sì che ha preteso un loft che costa di affitto quanto una piccola reggia…
-Davvero?- chiede Stefan senza nessun interesse reale.
-Tanto mica paga lui!- sogghigna Alex.
Stefan si unisce ridendo, ma poi torna serio quasi subito.
-E dorme ancora da Steve.- aggiunge al discorso della manager.
-Ti ha chiamato per lamentarsi?- s’informa lei stringata.
-Avevi dubbi? Uno rompe le scatole a te, l’altro a me. Un’equa distribuzione.
-Ma io ho anche te!- si lamenta Alex senza troppa convinzione. Così che Stef non si spreca ad offendersi e ribattere, ma registra la battuta e la lascia cadere.- Hai pensato alla possibilità di riprendere la terapia?- indaga titubante.
Il ragazzo scuote la testa, mettendo da parte quella possibilità e la propria tazza. Spinge entrambe fino al bordo del tavolo e le lascia lì.
-Io credo di stare bene, Alex.- spiega piano.- Non bene tanto da dirti che non fa più male,- specifica ricambiando il suo sguardo scettico.- ma bene abbastanza da potermela gestire.
-…preferirei sentirti dire “bene abbastanza da avere un’altra storia, con un’altra persona, di cui sono follemente innamorato”. Allora sarei sicura che non menti.- sospira sconfortata la donna.- E preferirei ancora di più sentire dire la stessa cosa a Brian.
Stefan si stringe nelle spalle. L’idea di Brian e qualcun altro è un’ipotesi che non vuole affrontare ancora, ma non lo dice ad Alex. Così come non le dice che non crede di essere pronto nemmeno lui a sostituire Brian con qualcun altro che non sia Abba e la sua presenza silenziosa.
***
“Eppure il mondo si ostina a camminare sui propri binari senza mai considerare i nostri desideri”.
Stefan lo pensa in un lento flashback che lo riporta con la mente ai pensieri che solo il giorno prima nascondeva ad Alex, seduto nella sua cucina davanti a lei – così come ora è seduto nella propria cucina davanti a lui.
Vincent.
Poi però la mente sfila avanti veloce, riduce al minimo le distanze che separano il filo dei due ragionamenti e le due situazioni che li hanno prodotti. Così ricostruisce quell’incontro che di casuale non ha mai preteso di avere nulla, in cui lui torna a casa, infila le dita nella tasca del cappotto e cerca le chiavi sul fondo della stoffa. E quando alza lo sguardo non è da solo, perché i suoi occhi incrociano quelli chiarissimi di Vincent, che gli sorride fermo davanti al portone del palazzo, in una posa che è quasi speculare con le mani affondate anche lui nelle tasche.
-Ciao.- lo saluta in modo piano.
Stefan resta in attesa. Non sa cosa rispondere, accenna con il capo per ricambiare il saluto ma non parla lo stesso.
-Sì, lo so.- ridacchia il ragazzo più grande a quel punto- Non ho nemmeno un valido motivo per essere qui.
-…io non l’ho detto.
Il resto ha il sapore di un film di quelli dalla trama scontata, che guardi al cinema solo perché passano per film “d’autore”, cervellotici, di quelli in cui si mettono a nudo i sentimenti e poi finisce che nude ci restano solo le meschinità. Stefan non li ha mai sopportati quei film, i loro luoghi comuni gli danno la nausea, la loro presunta intelligenza da salotti socialmente impegnati è disgustosa, ma ci si ritrova dentro ugualmente e quindi si attiene al copione.
Lo invita a salire. Vincent accetta di prendere un caffè assieme. Il silenzio sembra carico di aspettative mentre l’ascensore li accompagna al piano e li abbandona lì. Le chiavi nella toppa fanno un rumore discreto e la porta si apre sul salotto.
…l’arrivo scodinzolante di Abba dalla cucina riempie la scena con un diversivo più vero e rompe la monotonia della pellicola.
-E questa?- s’informa Vincent con una nota genuinamente umana nella voce.
-Abba.- presenta Stefan sorridendo.- Ribattezzata di recente Pongo ad opera di Brian.- aggiunge poi divertito.
Ma quando si siedono intorno al tavolo e tra le chiacchiere – “sai che scherzavo quando ti ho detto di prenderti un animale?!” - ed il caffè viene fuori quella confessione un po’ innocente ed un po’ sinceramente imbarazzata, il sapore di pellicola torna di nuovo e Stefan riavvolge il nastro dei propri pensieri, considerando che il mondo si ostina davvero a tentare di smentire ogni nostro proposito.
-Non ti sto chiedendo nulla, Stefan.- si sente in dovere di specificare Vincent nonostante lui lo ascolti solo in parte e, comunque, non abbia detto niente.
Era solo ieri che ammetteva con se stesso di non essere affatto pronto alla prospettiva di andare avanti, di superare Brian per gettarselo davvero alle spalle.
-Mi rendo conto che una situazione come quella che si è venuta a creare tra noi…l’inevitabile…intimità di un rapporto tra terapista e paziente pregiudica qualunque tua decisione di approfondire la conoscenza in altro senso.- spiega Vincent suonando quasi professionale mentre analizza i propri sentimenti ed i suoi.
Era solo ieri che si diceva che l’idea di avere qualcun altro riusciva a terrorizzarlo. Quasi quanto l’idea che fosse Brian ad avere qualcun altro…
-Ma credevo che fosse giusto…- ci ripensa – corretto, nei tuoi confronti e nei miei, dirti le cose per come stanno davvero.
“E stanno davvero nel modo più sbagliato in questo momento”.
-…ho scelto Abba perché era la cucciola più brutta del negozio e mi sono detto che nessuno l’avrebbe comprata.- afferma laconico Stefan, quando abbassando gli occhi si ritrova davanti il cagnolino scodinzolante che fa le feste al suo ospite.
Vincent segue il suo sguardo, incocciando anche lui negli occhi fondi dell’animale. Le sorride.
-I bulldog sono cani molto affettuosi.- dice.
-Sì. La proprietaria del negozio mi ha detto che sono anche possessivi. Che non accettano gli estranei e, anche quando è il padrone ad invitarli in casa, si dimostrano diffidenti.- ricorda Stefan.
Abba si arrampica sulla gamba di Vincent, tende le zampe tozze per raggiungere il suo ginocchio, che è troppo in alto per lei. Vincent le avvicina la mano per aiutarla ed accarezzarle il muso.
Ci sono almeno un migliaio di risposte possibili nella testa di Stefan mentre osserva Vincent giocare con la cucciola. Hanno tutte a che fare con lo stesso concetto, peraltro. Ma siccome non riesce a sceglierne nessuna, Stefan preferisce lasciar perdere e non porsi nemmeno le domande. Che siano più o meno implicite nel discorso razionale che Vincent ha esposto con tanta cura. Spera che neanche lui torni a porle, perché in quel caso ignorarle sarebbe inutile ed un risposta dovrebbe sceglierla per forza.
***
Respira.
Prende fiato, riempie i polmoni, lo trattiene. E poi espira.
Lo ripete dieci, venti, trenta…un migliaio di volte.
Lo ripete con la stessa tempistica studiata. Meccanicamente, ma razionalmente. S’impegna a farlo diventare qualcosa di volontario. Lo trascina anche se sente i polmoni bruciare. Ed alla fine non espira affatto, trattiene l’aria e si lascia scivolare giù nell’acqua.
Conta.
I secondi scanditi mentre osserva le mattonelle che ricoprono il bordo della piscina.
Conta e non lo sta facendo coscientemente, quello no. Respirare sì, contare no. Le mattonelle si riempiono di immagini traslucide come la vernice che ricopre il cotto. Il ricordo del video di “36 Degrees”, loro tre che provano per ore e fa un freddo cane. Lui che protesta, si annoia, stare bagnato tutto quel tempo lo infastidisce ed alla fine gli manca il fiato per davvero a buttarsi in acqua e trattenerlo sotto la superficie. Il manager che lì seduto sul bordo della vasca, lo rimprovera, gli dice di piantarla di fare il ragazzino. Brian alza un dito e gli fa un segno osceno in cambio, Stefan ride e lo afferra di colpo, per trascinarlo via mentre l’uomo inveisce a voce alta ed il regista si lamenta, lo spinge sott’acqua ancora una volta e Brian quasi affoga, si dimena liberandosi e riemerge sputando il sapore di cloro che gli invade la bocca.
“Vaffanculo, Stef!”, strilla inseguendolo nella vasca.
Le mattonelle diventano opache, lo sguardo si vela e Brian spinge con i piedi sul fondo della piscina e si tira su di colpo, riemergendo e tirando il fiato nello stesso istante.
-Tentavi di affogarti o ti stai allenando per le Olimpiadi?- chiede una voce irriverente.
-Affogarmi.- ammette lui senza nemmeno voltarsi.
Nuota fino al bordo, in uno sciabordio silenzioso che la risata sottile di lei copre del tutto. Raggiunge la parete e si tira su a braccia, sedendo sul parapetto basso e fissandola da lì, l’acqua a separarli.
-Ciao, Helena.- riconosce a voce alta.
-Ciao, Brian.- lo saluta anche lei, camminando per raggiungerlo.- Altri programmi per stasera? Dopo che ti sarai ucciso intendo.
-Nah.- scrolla le spalle lui.- Non lo trovi abbastanza impegnativo?- s’informa.
Lei ride ancora e si ferma davanti a lui, mani sui fianchi e sguardo luminoso. Come sempre.
Ci si lavora bene con Helena, è una delle poche con cui in effetti Brian riesce a lavorare bene in questo periodo. Quando lui ha qualcuno dei suoi attacchi di isteria da star, lei lo deride senza pietà e lui finisce per ripescare dal fondo in cui si è cacciata la vena di sarcasmo cinico che lo contraddistingue nei suoi momenti brillanti. Così si è creata una certa intesa, fatta di una complicità affatto educata e basata su un mix cattivo e tagliente di dialoghi al vetriolo, ammiccamenti che non sono davvero tali e discorsi arguti su argomenti futili.
Piacevole.
Permette a Brian di ritrovare un “io” decisamente migliore, che non lo fa stare “bene” nel senso pieno del termine, ma lo fa stare abbastanza bene da potersi concedere di dimenticare le scene madri, i drammoni melodrammatici ed i più o meno concertati tentativi di far impazzire le persone intorno a sé.
-Beh, se non hai altri programmi, allora te ne propongo uno io.- gli spiega intanto Helena. Brian si limita a continuare a gocciolare con pacata indifferenza, in un ticchettare costante che a soffermarcisi su sarebbe irritante ma così di sottofondo è quasi gradevole. La guarda ancora e lei gli si accuccia di fianco per poter ricambiare il suo sguardo senza approfittare della posizione di inevitabile predominio che ha dall’alto.- Bisognerebbe dare un’occhiata ai provini che abbiamo scattato, Alex vorrebbe avere entro sabato gli scatti definitivi e siamo un po’ indietro con il lavoro.
-…il tuo concetto di programma è chiedermi di lavorare fino a tardi stasera?- arguisce lui contraendo il viso in un accenno di smorfia per evitare di ridere.
Helena si accorge di quelle manovre e capisce che il tono quasi arrabbiato con cui glielo ha chiesto è una finzione. Scuote il capo, tentando anche lei di nascondere un sorriso e di suonare minacciosamente seria.
-Non sono abituata a lavorare di fretta e male, Sig. Molko.- lo informa seccamente.- Sembra invece che lei e la sua band non abbiate idea di cosa sia comportarsi in maniera professionale.- asserisce quindi, fissandolo con espressione severa.
-Vero.- ammette lui senza problemi, voltandosi per fissare la superficie immobile della piscina.
Oltre le vetrate il cielo si sta oscurando in fretta, segno che si sta davvero facendo tardi; appena considera l’orario Brian sente improvviso ed inaspettato un senso pieno e stuzzicante di fame. Sono giorni che non mangia decentemente, ragiona subito dopo.
-E se lo proponessi io, un programma?- si ritrova a domandare irrazionalmente. Lei lo fissa interrogativa, in attesa, e Brian non si da il tempo di pensare e prosegue- Cena con me.- butta fuori d’un fiato.
Helena sgrana gli occhi. Brian volta la testa di nuovo e se ne accorge. Ma poi lei ride, in modo istintivo e coinvolgente come sempre e lui arrossisce e si sente molto stupido.
-Cos’è?- chiede lei indisponente, smettendo di ridere solo per affrontare il suo disagio imbarazzato. Brian distoglie gli occhi di scatto e finge di sistemarsi a sedere sul parapetto della piscina, saltellando irrequieto sulle braccia.- Una specie di invito?- indaga Helena maliziosamente.- Non ti capita molto spesso di invitare fuori una donna, vero?- sghignazza quando lui annuisce appena, quasi di nascosto.
Brian borbotta qualcosa e lei solleva le sopracciglia per fargli capire che non ha sentito. Lui sospira e ripete ad alta voce.
-Ad essere onesti, no.- ammette quindi.- Al liceo ero troppo sfigato per uscire con qualcuno e dopo non è che abbia avuto molte occasioni per dover essere io ad invitare una donna ad uscire, di solito mi si buttano addosso da sole…
-Sbruffone!- esclama Helena tirandogli una manata così forte da rispedirlo dritto in acqua. Si solleva di scatto per evitare gli schizzi e ride, fissandolo dall’alto.- Comunque sei un disastro.- lo informa quando Brian riemerge, scuotendo la testa per liberarsi dall’acqua.
Lui si avvicina nuovamente al bordo, posando su le braccia ed alzando gli occhi a cercare quelli della ragazza.
-Allora?- chiede.- Accetti?
-Meglio che lavorare tutta la notte.- annuisce Helena divertita.- Però domattina guarderai i provini con me.- ordina poi puntando un dito.
-Se mi porterai caffè e ciambelle.- ritorce lui sorridendo.

Nota di fine capitolo:

Mi sembra veramente poco educato continuare a non ringraziare chi legge la storia e la commenta! >_<
Per cui, chiedo scusa a Stregatta e Chemical Kira per non averlo fatto prima e le ringrazio per i commenti che ci hanno lasciato ç*ç
Ringrazio anche tutti coloro che hanno letto e leggeranno la storia ^_^
E mando a tutti un bacione da parte dell'Easily
MEM
 

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Capitolo 5
*** 5 ***


-Ciao, Stevey. Hai del tempo per me?
-Alex?! Che succede, piccola?
-Mah, Stef è sparito, Brian è irrintracciabile e nessuno sembra avere più bisogno di me…Ci si sente soli quando succede così all’improvviso!
***
-Caffè.- annuncia Helena posando i bicchieri di Starbucks. Una busta di carta colorata segue subito dopo ed occupa quasi interamente il suo spazio visivo, Brian sorride e smette di scrivere, spingendo da parte carta e penna.- E ciambelle.- completa la donna, lasciandosi cadere a sedere di fronte a lui subito dopo. Agita una cartelletta scura che posa con un colpo deciso sul tavolo.- Provini.- aggiunge in tono intimidatorio.
Brian ride.
-Sì, immaginavo che non si mangiasse anche quella.- sogghigna.
Helena si scioglie dalla giacca, liberandosene con gesti impacciati mentre il brunetto infila risolutamente il naso nel sacchetto di carta.
-Sembrano deliziose.
-Sì, ma non sono opera mia.- confessa Helena, aprendo la cartelletta davanti a sé.- Ho incrociato Alex, le ha comprate lei per te ed i ragazzi. Dice che mangi poco, le ho risposto che ieri sera non mi è parso proprio.
-Le hai detto che siamo usciti assieme?- realizza Brian in tono piano tirando un morso alla ciambella.
-Noi non siamo usciti assieme, Brian!- esclama Helena scartabellando nervosamente tra le foto.- Non nel senso in cui la stai mettendo adesso, quanto meno.
-Quale senso?- finge di non capire lui.
Helena sospira e tira fuori gli scatti, appoggiandoglieli sul tavolo perché lui possa sfogliarli.
-O.k, ora non toccarli, li giro io. Altrimenti li sporchi.- ordina ignorando volutamente l’ultimo scambio di battute.- Tu dimmi solo quali ti piacciono e quali dobbiamo rifare.
Brian non ribatte, allunga una mano ad afferrare uno dei bicchieri di caffè e se lo porta affianco.
***
Vincent valuta che, nonostante tutto, questa amicizia con Stefan non è affatto spiacevole.
Nonostante tutto.
Perché al momento è solo questo: un’amicizia. Una cosa molto più informale del rapporto di lavoro che esisteva quando il ragazzo era in cura da lui, una cosa molto più soft e con meno difficoltà comunicative. Man mano che le cose vanno avanti, che il tempo passa ed il rapporto si approfondisce su quelle nuove basi, Vincent acquista mezzi per capire meglio ciò che lega il bassista e l’ex ragazzo. La natura della relazione tra i due, che aveva colto sotto una sfumatura meno personale e più fredda nelle lunghe ore passate allo Studio, ora gli appare sotto la luce molto più intima delle confessioni fatte ad un amico. Stefan si mostra in tutta la debolezza che la cicatrice di Brian ha lasciato, ed è una cicatrice profonda, che lo segna in un modo difficile da superare. Per certi versi, ciò che aveva solo intuito – la volontà di Stefan di non allontanarsi davvero, di non perdere completamente Brian e l’eredità della loro storia assieme – diviene una realtà concreta, fatta della consapevolezza che Brian è un’ossessione per l’altro, un qualcosa che continua ad essere vivo e presente in modo intollerabilmente vivido.
Stefan ama ancora Brian. Ma se si tratta di una verità che a Vincent non è mai sfuggita in tutti quei mesi di conoscenza, solo ora riesce a coglierne appieno il significato. E riesce a capire che per quanto lui – o chiunque per lui riuscirà ad occupare, alla fine, il posto lasciato vuoto da Brian – possano ottenere l’affetto di Stefan, Brian non potrà essere dimenticato, non sarà superato e non potrà “scomparire”.
Per assurdo, la consapevolezza di tutte queste piccole scoperte non rappresenta per Vincent un vero motivo per lasciar perdere. Razionalmente sa che si tratta di storie pericolose, che partono da presupposti sbagliati ed il cui trascinarsi inevitabilmente rovina la vita di tutti coloro che sono coinvolti, ma tutto ciò che scopre di Stefan invece di convincerlo dell’opportunità di allontanarsi da lui, finisce per avvicinarglielo. In tutti i suoi errori consapevoli, in tutte le sue debolezze così umanamente accettate, con tutti i limiti che l’altro non prova neppure a nascondere o dissimulare, Vincent trova Stefan qualcosa di assolutamente ammaliante, da cui non riesce a staccarsi. Qualcosa…qualcuno per cui vale la pena almeno di provare.
Così si ostina anche lui a mettere da parte la natura reale dei propri sentimenti. E si ostina a reimparare il proprio ruolo, ad assumere quello corretto di amico e confidente, appunto. Lo fa in modo sincero, perché sa che Stefan ha bisogno di questo e lui non vuole in alcun modo aggiungere sbagli ad altri già fatti.
E del resto, sa bene che è meglio così per entrambi.
Stefan gira lo sguardo intorno. Il locale è immerso in una penombra fatta di luci blu, basse e posizionate in punti strategici. È un posto di classe, in cui la musica jazz si diffonde ad un volume contenuto, idoneo a permettere la conversazione al tavolo e sufficiente a coprirne il senso per coloro che sono seduti agli altri. È uno dei posti preferiti di Vincent, Stefan lo sa perché è anche uno dei primi posti dove lui lo ha portato quando gli è toccato “scegliere il locale”. Così ha scoperto che a Vincent piace la musica jazz, oltre che quella classica, che di rock non sa nulla – ma questo lo ha scoperto quando è stato il suo turno di introdurlo negli ambienti del proprio “giro” - ed ha riso non poco nel vederlo fronteggiare con eleganza gaffe imbarazzanti con colleghi perplessi. Ha scoperto anche che gli piace ascoltare la musica dal vivo, in posti come quello, suonata da persone che la musica la sanno fare davvero e la vivono in un modo quasi religioso, mistico e ragionato. Non gli è dispiaciuto, anche se non era il suo mondo ci si è trovato bene quasi subito.
-A cosa pensi?
È una domanda ma suona comunque male, perché Vincent la accompagna con un sospiro quasi esasperato che induce Stefan a smettere per un momento di girovagare con gli occhi sulle persone chine nella penombra e bisbiglianti in tono accorto. Gli getta un’occhiata per studiare il suo viso ed accertarsi che non sia davvero così arrabbiato, stufo e deluso quanto gli sembra da quelle poche sillabe.
Ma Vincent non lo è. È solo sinceramente preoccupato, perché Stefan questa sera è più silenzioso del solito – e già di solito ci sono volte in cui fatica a strappargli di bocca qualche parola onesta su quello che gli passa per la testa. E lui ha paura di scoprire i motivi di questo silenzio così profondo e raccolto.
-Nulla di importante.- ribatte invariabilmente il bassista, allungandosi verso il tavolino tra loro per prendere il bicchiere alto in cui riposa il suo cocktail.
Si bagna le labbra per prendere tempo, mentre Vincent increspa la fronte in un’immagine evidente del proprio scetticismo e decide se sia il caso di farsi più insistente e provare a varcare le difese del suo naturale riserbo. Stefan abbassa lo sguardo sul contenuto del proprio bicchiere, studia le sfumature che prende nel blu del locale e così s’impedisce di soffermarsi a valutare l’espressione interrogativa del proprio interlocutore.
-È successo qualcosa con Brian?- prova ad indagare il ragazzo più grande.
-No, anzi.- si affretta a rispondere Stefan. Con esagerata sollecitudine per non destare sospetti. Abbassa il bicchiere sul tavolo producendo un suono educatamente misurato.- È tutto a posto ed il lavoro ha ricominciato a procedere speditamente.
-Davvero?- s’informa Vincent con falsa cortesia.
-…sì.- rincara Stefan meno convinto di prima.
Ed il fatto che continui a non guardarlo, preferendo affondare l’attenzione degli occhi castani tra le pieghe e le grotte che scava nel ghiaccio con l’estremità della cannuccia, da il senso esatto della menzogna che gli sta dicendo.
-Allora magari è proprio questo il problema.- sussurra Vincent quasi casualmente.
La frase cade tra loro con pesantezza. Si schianta tra i pensieri di Stefan obbligandolo a prenderne coscienza ed a sospirare rumorosamente, mentre Vincent, paziente come sempre, si sistema nella propria poltrona, posa il capo sul pugno chiuso ed aspetta.
-Non lo so.- mormora il bassista con difficoltà- Credevo onestamente che una volta che avesse smesso di darmi il tormento saremmo stati entrambi meglio…
-Ma ora ti manca davvero.- completa per lui Vincent. Stefan lo guarda e non conferma. Ma non smentisce nemmeno.- Prima, nel bene o nel male, ce l’avevi sempre attorno. Ti esasperava perché dovevi resistere alla tentazione di toccarlo, baciarlo, tornare a fare l’amore con lui…Ora però non sai cosa gli passa per la testa, cosa vuole…se stia ancora pensando a te…
-Non sta affatto pensando a me.- butta fuori Stefan con maggior amarezza di quella che avrebbe voluto concedersi. Ed anche con maggiore asprezza. Respira a fondo, rendendosi conto del senso esatto delle proprie parole e del tono usato, e poi spiega- Quando parliamo è solo di lavoro. Sembra che mi eviti volutamente, cerca di non restare mai solo con me, quando siamo rientrati agli Studi lunedì non mi ha neppure chiesto come fosse andato il weekend….
-E lo fa solo con te, immagino.
-Se lo facesse anche con Steve ed Alex penserei solo che non gl’importa, che ha altro per la testa. Ma fino a qualche giorno fa sembrava che io non potessi fare un passo senza dovergli in qualche modo rendere conto ed adesso è assolutamente assente…!
Vincent sorride, Stefan ricaccia in fondo alla gola il resto della frase, perché si rende conto di aver alzato la voce e si rende anche conto del fatto che ammettere così quanto quella cosa lo ferisca non serve a nulla se non a dargli l’esatta misura di come Brian sia ancora una presenza costante che gli avvelena il sangue. Sospira, afflosciandosi sulla sedia, come sgonfiandosi, lascia ricadere le braccia inermi lungo i fianchi e ricambia lo sguardo affettuoso di Vincent.
-Te lo dico onestamente, Stefan.- mormora lui in modo pacato.- Hai solo due strade davanti a te in questo momento: puoi cominciare davvero a dimenticarti di Brian, oppure ammettere con te stesso e con lui che hai fatto un errore e tornare da lui.
Sa che non dovrebbe essere così schietto. Che Stefan in questo momento è tragicamente fragile, che rigettarlo – o rischiare di farlo – tra le braccia di Brian è immensamente semplice ed allo stesso tempo immensamente pericoloso. Perché Stefan non ne uscirebbe illeso e Brian non è in grado, al momento, di mettere in piedi con chicchessia una relazione adulta e matura.
La cosa logica sarebbe che lui provasse a separarli davvero.
E sarebbe logico per aiutare Stefan, certo. Per fare in modo che si liberi del tutto dalla schiavitù di un amore finito e tragicamente ingombrante ed oppressivo.
Ma sarebbe logico anche per se stessi. Egoisticamente logico. Perché in un momento in cui Stefan è fragile ed ha bisogno solo di prendere le distanze da sé e dalla propria vita, è facile e logico riuscire a trovare un posto in cui accomodarsi all’interno di quelle macerie e metterci radici per offrire un riparo confortevole.
Vincent vaglia tutte queste considerazioni. Lo fa nel silenzio che segue a quell’ultimo scambio di battute, il silenzio in cui finiscono di bere e lui chiama una delle ragazze che servono ai tavoli per chiederle il conto, pagare ed uscire. La musica di sottofondo resta nel locale, sostituita dal rumore altrettanto artificiale ed altrettanto piacevole della brezza nel parco di notte e del fruscio delle foglie. Il jazz-bar non è lontano da casa di Stefan, lui gli chiede in tono sommesso se gli vada di accompagnarlo a piedi e Vincent annuisce. Ha la macchina lì vicino, tornerà a prenderla dopo con comodo. Attraversano il parco nello stesso silenzio, mentre le riflessioni prendono il medesimo corso della sonnolenza torpida del liquore.
Vincent considera che in fondo lui non deve nulla a Brian.
Magari deve qualcosa ad Alex. In nome di una vecchia amicizia fatta di complicità e comprensione.
Ma non deve niente nemmeno a Stefan. Se non nella misura in cui si concede di essere una persona onesta.
E pensare a tutto questo ridimensiona le considerazioni che hanno occupato la sua mente nel bar, le preoccupazioni per la vita degli altri. La sua di vita ha un corso proprio ed è già difficile da seguire, ed in fondo lui, nel momento in cui ha ammesso con Alex e con Stefan di non poter continuare a svolgere il proprio lavoro, ha esaurito anche gli obblighi connessi con la propria onestà.
Così quando si fermano sotto il portone e Stefan tira fuori le chiavi di casa, tutta quell’assurdità senza senso ha preso un gusto molto più vago. Torpido proprio come il liquore, ma altrettanto saporoso.
-Ti va di salire?- domanda il ragazzo più giovane.
E Vincent si risponde che la cosa giusta da dire è “no”. Ma sa anche che la risposta sincera, quella che tirerà fuori, è diversa.
Ed in fondo, lui a Brian non deve nulla.
Ed a Stefan dovrà qualcosa solo nella misura in cui avrà sbagliato davvero.
….però…ora come ora non lo sa, se sia un errore dire di “sì”.
***
-Si vede che hai fatto già un corso di fotografia…
-Sai che pensavo di non ricordare niente!
-Mah, generalmente è difficile dimenticare cose meccaniche come questa. Adesso però stai attento, ché se lasci l’obiettivo troppo aperto finisci per bruciare la pellicola.
Steve sospira e tira dentro il viso. Le figure di Brian ed Helena – in piedi sulla terrazza, macchine fotografiche alla mano e Londra ai propri piedi – scompaiono oltre il parapetto della finestra e lui si volta alla porta mentre questa si apre.
Alex entra ed intercetta l’occhiata perplessa del batterista, un momento prima che lui la faccia sparire dietro un più consono grugno burbero.
-…Steve?- lo interroga la donna, ferma sulla soglia.
Lui finge di non capire. Si siede al tavolo, preleva una rivista musicale a caso dal ripiano di cristallo ed inizia a sfogliarne con interesse le pagine, mentre alza i piedi sul piano ed il viso sulla donna.
-Cosa?- ritorce rispecchiando nella voce il medesimo grugno burbero che ancora sfoggia.
-Non me la racconti giusta.- afferma Alex avanzando verso di lui, mani sui fianchi e sguardo attento.- Cosa stavi guardando?- chiede quindi, sollevando quasi nello stesso momento l’attenzione sulla finestra.
Mentre lei avanza da quella parte il batterista sospira e si tira frettolosamente in piedi.
-Alex…- prova ad intervenire in tono preoccupato.
La donna non ha bisogno di affacciarsi: la risata di Brian e quella piccola e cristallina di Helena risalgono la parete degli Studi, infilandosi di prepotenza dentro la stanza, e le strappano un sorriso spento. Si appoggia al davanzale, tirando fuori la testa anche lei per vederli, poco sotto, confabulare tra loro. I capelli scuri di Helena si agitano al vento, sfiorano il volto di Brian e quando lei prova a raccoglierli indietro loro ricadono ancora in avanti, in un abbraccio quasi intimo…
-Sono carini.- sussurra la manager al batterista dietro di sè.
-…salvo il fatto che Stefan ci starà uno schifo appena li vedrà…- borbotta Steve, sporgendosi anche lui a guardare giù.
Lei si volta, si stringe nelle spalle e poi scuote la testa leonina.
-Stefan ha un altro.- confessa.
Steve la guarda. Alex riavvolge nella propria testa la telefonata del giorno prima con Vincent: lui le ha detto che le cose con Stefan sono cambiate, da un paio di settimane, non di più, ma adesso sono una coppia.
Le ha anche detto che Stefan ama ancora Brian e solo lui.
-Non stupirti così!- sbotta tirando una manata alla spalla del batterista, che non fa una piega ed incassa il colpo senza subirlo affatto.- Sai che a Stef non piace parlare dei fatti propri.
-Brian lo sa?- s’informa Steve.
-Certo che no.- risponde lei facendo spallucce.- E sarà meglio non dirglielo al momento.
-Ma lui ed Helena…-mormora Steve indicandoli, come se questo fosse già esaustivo.
Alex torna a guardare nella direzione di quella mano e poi sussurra solo.
-Sono amici e basta, Steve.
***
Helena sfoglia le fotografie con una riverenza quasi maniacale. Sì, perché la sua è riverenza e non semplice accortezza. Cura del particolare ma anche cura del mezzo espressivo. Guardare le sue dita, le unghie perfette che sfiorano la superficie lucida della stampa fotografica è quasi ipnotizzante. Quando picchiettano sul piano laccato, quelle stesse unghie producono un suono ticchettante, indice del suo nervosismo e della stanchezza che si accumula intorno agli occhi cerchiati di scuro. Il trucco si è sciolto, sbavando sull’angolo dell’occhio, Brian la guarda senza che lei se ne accorga e pensa che è presumibile che anche il trucco intorno ai suoi di occhi abbia avuto la stessa sorte: la matita si sarà allungata fin quasi a sparire ma avrà lasciato una macchia appena più scura, un alone buio che affonda lo sguardo e lo rende più fosco, e tira le rughe che il sonno disegna attorno al viso…
-Dovremmo piantarla qui.- sbotta all’improvviso, scostando da sé le stesse foto che la ragazza muove con attenzione.
Lui di attenzione non ce ne mette affatto ed osserva invece Helena mentre si affaccenda per raccogliere gli scatti ed evitare che i suoi gesti bruschi li sciupino irrimediabilmente.
-Sono stanco.- protesta intanto Brian.
Lei sospira ed inizia a raccogliere tutto nella cartelletta di pelle che porta sempre con sé a questo scopo.
-Sono stanca anch’io, Brian, ma domani questa roba deve andare in stampa…- spiega con pazienza.
-Non ce la faccio a restare concentrato ancora, Helena!- esclama lui esasperato, interrompendola solo per lasciarsi andare in avanti sul tavolo e sollevare le mani a strofinare gli occhi arrossati dalle ore passate al chiuso negli Studi.- Non avresti dovuto vedere con Alex queste cose? Perché tutto deve passare per me?!- afferma arrabbiato.
-Perché tanto alla fine se non sta bene a te non se ne fa nulla.- ritorce lei stizzita. Armeggia con la borsa, cacciando i provini, al sicuro nella cartelletta, tra le pieghe pesanti della pelle marcata. Roba di lusso, pensa Brian distrattamente mentre osserva le borchie firmate sui lati e sulla chiusura dorata. Respira a fondo, prendendo fiato per tentare di mantenere viva la concentrazione ed evitare di dire sciocchezze per via della stanchezza, Helena parla ancora e lui si concentra su quello che sta dicendo.- Alex pensava che coinvolgendoti nel processo decisionale si sarebbero potute evitare inutili perdite di tempo.- sta dicendo lei nello stesso modo piccato, litigando inutilmente con la borsa che non vuole accogliere e custodire il lavoro di giorni…- Se dobbiamo mandare alla produzione, poi far tornare indietro i provini per farli vedere a quelli della redazione e poi comunque aspettare che tu ci dica se possiamo mandare in stampa…
-Alex vuole solo che io tenga la mente impegnata- la interrompe Brian atono.
Helena lascia perdere. La borsa si apre di nuovo mentre lei sospira sconfitta e si volta, le foto e la loro custodia semirigida ricadono sul piano del tavolo e lei tira indietro i capelli la cui piega ormai è praticamente disfatta e si volta a ricambiare stancamente lo sguardo apatico dell’uomo di fianco a sé. Spalle all’indietro, la donna si abbandona contro la spalliera della sedia e punta gli occhi sul ripiano laccato.
-Riprendiamo domattina presto…
-Helena, io mi rifiuto di alzarmi all’alba dopo che stasera…- inizia precipitosamente Brian.
-…finiamo per ora di pranzo, mandiamo tutto alla redazione entro le tre…
-È una cazzata grossa come una casa pensare che in due possiamo fare il lavoro che dovrebbe fare un intero team di persone!- ringhia il bruno inferocito.
-…alle cinque massimo è tutto in stampa e per la presentazione di dopodomani siamo a posto.
-Volete per caso ammazzarmi per liberarvi di me?!
Nel silenzio fastidioso che si allarga, le poltrone di pelle scricchiolano quasi all’unisono mentre entrambi si muovono a disagio alla ricerca di una posizione maggiormente confortevole. Ma il fastidio che tira sotto la cute non accenna a diminuire nonostante quelle scossette educate di assestamento ed entrambi si concedono sbuffi esasperati che si diffondono nell’aria in successione asimmetrica.
Si guardano. Un sorriso identico, ugualmente stanco e frustrato si allarga sui volti di tutti e due, rispecchiandosi allo stesso modo nelle maschere similari di trucco ed acconciatura in disordine.
-…ti va il giapponese?- s’informa lui.
-…niente. Non impari proprio come s’invita una donna a cena.- ritorce lei scrollando appena il capo, come se un movimento eccessivo potesse costarle la capacità stessa di mantenersi dritta eretta con schiena e collo.
Brian ridacchia.
-Ho fame. E se domattina devo anche alzarmi presto, stasera pretendo di cenare bene.- notifica.
Lei ride. Esasperazione pura e semplice, a cui fa eco anche quella di Brian. Alla fine accetta l’invito – “o quello che è”, rimarca mentre prende la borsa e si alza, infilando la giacca.
Il ristorante Brian lo sceglie nel giro di quelli che frequentava quando lui e Stefan stavano assieme. Riuscire ad entrarci, sedersi ad un tavolo ed ordinare – sentendosi chiamare per nome ed apostrofare con familiarità da persone che s’informano su come stia e dove sia finito tutto quel tempo – è una vittoria che gusta e che ha un sapore ben diverso da quello che si era immaginato. Non sa di liberazione. Non sa nemmeno di gioia vera. Il sapore è molto più sottile, profumato come Helena, come l’odore ormai sfumato di profumo costoso. Raffinato e di classe, di lusso, come la borsa e come ogni cosa che circondi la donna. La osserva di sottecchi mentre ordina da mangiare, e poi quando inizia a litigare con le bacchette, ostinandosi ad usarle comunque nonostante la difficoltà.
Helena è una creatura costruita, proprio come lui, è una donna che per raggiungere i propri obiettivi nella vita si è forgiata nel modo che la vita le richiedeva. Ha fatto delle rinunce, probabilmente, ed ha fatto delle scelte, molto più spesso. Ha accettato di dover indossare abiti firmati – magari le piace anche farlo – di truccarsi per sembrare più giovane e bella di quello che è, di presentarsi come una vincente in qualunque situazione, di dare di sé un’immagine di posata affidabilità, di solidità costante e di professionalità accompagnata ad eleganza, buon gusto e raffinatezza…
Eppure quello che gli piace di lei è che litighi con i bastoncini per tirare su pezzetti di sushi che invariabilmente ricadono nel piatto.
Dopo cena le propone di fermarsi a bere qualcosa. Helena gli fa notare giustamente che l’indomani non possono concedersi di restare a poltrire fino a tardi, Brian però non l’ascolta ed indica al taxi che li sta accompagnando il nome di un locale alla moda, in una diversa zona della città. Mentre la macchina li accompagna lì, Helena protesta, ma quando si fermano davanti l’ingresso sospira e lascia che Brian scenda per primo dall’auto, dopo aver aperto la portiera, e l’aiuti a scendere tenendola aperta per lei. Non saprà come s’invita fuori una donna, ma di sicuro è molto galante, pensa ridendo. Dentro si siedono distanti dalla confusione, anche se di confusione vera non ce n’è perché è uno di quei posti dove la gente va per stare in pace e, quindi, è discreto ed ampio e lascia ad ognuno i propri spazi. Ordinano da bere entrambi e non si risparmiano la scelta di liquori forti ed intensi, che danno in fretta alla testa ed aiutano le confidenze.
Perché quando Brian la scruta in silenzio per troppo tempo, Helena se lo sente sulla pelle che quella che seguirà sarà una confessione. Non sa spiegarsi la ragione per cui accadrà, pensa che somigli molto a quelle situazioni improbabili eppure reali in cui due perfetti sconosciuti all’improvviso si trovano incredibilmente vicini. E dura lo spazio di una notte come quella, poche ore tirate assieme per non si sa che ragione contingente, ma è talmente forte che vale a superare tutti gli ostacoli che le distanze sociali impongono.
Per questo non è stupita quando Brian le racconta di Stefan – e, intelligentemente, si guarda dal dirgli che lo sa già, perché nei corridoi degli Studi non si parla di altro – e non è stupita nemmeno quando Brian le confessa della droga, dei motivi per cui è entrata nella sua vita e di quelli per cui ne è uscita. O almeno lui spera che lo sia. Ed ancora una volta Helena tace e non dice che anche questo circola in fretta ed in modo cattivo nei sussurri spietati di quegli stessi corridoi. Osserva invece Brian balbettare quelle cose tra un sorso e l’altro, tra un bicchiere e l’altro. E lei ne beve molti meno e non è così ubriaca come Brian quando lui decide di averne abbastanza e di voler tornare a casa.
E visto che non è così ubriaca.
Magari dovrebbe pensarci meglio.
Invece non pensa affatto.
***
Brian solleva la testa dal cuscino ed il suo primo pensiero è che stare in un loft ha un sacco di inconvenienti quando non ci stai da solo.
Ad esempio, il rumore che produce Helena, nel muoversi dall’unico ambiente spazioso al cucinino claustrofobico infilato oltre la “zona notte”, è spaventoso se hai la testa che rimbomba maleficamente. Ed è altrettanto spaventoso che lei canticchi a labbra chiuse mentre si muove, e tu ti domandi con esattezza se ci sia da ricordare un motivo specifico per il quale debba essere così felice, un motivo che tu hai rimosso nell’attimo stesso in cui hai chiuso gli occhi la notte prima…
Si rigira nel letto tra le coperte, approfittando che lei sia tornata a svanire dietro la porta scorrevole del cucinino, solleva la mano appiccicandosela alla fronte che pulsa dannatamente. Alza indietro i capelli arruffati ed incollati dal sudore alla pelle e tenta di mettere a fuoco gli eventi del giorno prima.
E di mettere a fuoco le valutazioni – se ci sono state, s’intende – che li hanno generati.
Helena tarda ad uscire, un odore denso di qualcosa di caramellato e dolciastro irrompe attraverso il vetro della porta scorrevole. Brian si mette a sedere, infila boxer, jeans ed una maglietta a caso, larga e comoda, poi si tira dritto, recuperando un elastico dalla mensola accanto al letto e legandoci frettolosamente i capelli in un codino arruffato che non reggerà. Apre la porta del cucinino e si appoggia allo stipite, perché tanto lì dentro non c’è affatto lo spazio per due persone.
Helena si volta.
Ha un sorriso più bello quando non è truccata ed in ordine, nota Brian.
-Buongiorno!- lo accoglie divertita, scrutando la sua espressione non troppo vigile.
Lui se ne rende conto e sbuffa un sorriso a propria volta, sollevando la mano per stropicciarsi gli occhi e cercare di darsi una svegliata seria.
-‘Giorno.- ritorce quindi pacatamente.- Che stai facendo?- s’informa poi, rinunciando al proprio tentativo per lasciar ricadere il braccio lungo il fianco con aria fiacca.
-Preparo la colazione.- risponde lei sogghignando, la cosa è così evidente che deve sembrare davvero ridicolo che lui lo chieda.
Brian strizza gli occhi.
-…sì, ma dove l’hai trovata quella roba?- si decide a specificare.
Lei lo fissa sorpresa, sollevando a mezz’aria la paletta che sta usando per rigirare il pancake.
-…nel frigo. O nella dispensa.- risponde lentamente, come se si stesse domandando seriamente dove abbia sbagliato.
-C’era del cibo in casa?- chiede quindi Brian genuinamente stupito.
Helena ride, capendo finalmente dove sia il problema.
-Sì!- ribatte- C’era del cibo in casa.- esplica poi.- Immagino che Alex si sia preoccupata di assicurarsi che non morissi di fame…
-Non ci mangio mai a casa. E non ci dormo nemmeno.- risponde lui voltandosi per tornare nella stanza principale.- Vado da Steve, è più comodo.
-Per te o per Steve?- sghignazza Helena seguendolo con il piatto ricoperto di pancake ed il flacone dello sciroppo d’acero.
Brian si lascia ricadere su una delle sedie intorno al tavolo, si appoggia con i gomiti al ripiano e sistema tra le mani aperte un faccino angelico e sorridente con cui la accoglie mentre lei posa piatto e flacone davanti a lui.
-Per Steve, ovviamente.- risponde cinguettante- Così non ha motivo di ingelosirsi di Stefan.- spiega.
Helena gli si siede davanti ridendo e contestando che dubita che Steve abbia di questi problemi al momento. Lui la guarda e pensa ai motivi per cui la sera prima le ha chiesto di salire a casa, di fermarsi per la notte. Gli stessi motivi che l’hanno spinto a baciarla ed a fare l’amore con lei.
Sono i motivi per cui Helena sorride felice, quelli che la inducono a parlare, scrutandolo di sottecchi ogni tanto per poi riprendere senza soluzione di continuità da dove aveva finito un momento prima. Brian s’interroga sull’opportunità di metterli a tacere subito, quei motivi, dandogli il giusto peso e riordinandoli nell’ottica corretta. Non vuole che Helena si faccia male, perché con Helena sta bene – in un modo così diverso da quello che condivideva con Stefan – e quello che c’è tra loro va bene così, lui non avrebbe dovuto complicarlo ma gli sembrava quasi assurdo continuare a guardarla da lontano senza neppure sfiorarla. Era solo questo che voleva fare, in fondo, toccarla ed assicurarsi che fosse vera e che non svanisse tra le sue mani come un’apparizione…
-Sai che all’inizio credevo che, vedendoti senza trucco, sarei rimasta spiacevolmente impressionata!- sbotta lei ad un certo punto. Brian torna a concentrarsi sulla sua presenza concreta e sorride senza dire nulla.- Mi sono talmente abituata a vederti in tiro! Trucco, capelli…vestiti…
-Già.- ribatte pacato lui, spostando il piatto da cui ha spilluzzicato appena.
-Invece sei solo un’altra persona.- continua Helena con meno brio ma più decisione.- Sei solo diverso. Non migliore o peggiore, solo diverso.
Brian la guarda alzarsi per raggiungere la propria borsa, ancora nell’angolo in cui la sera prima l’ha fatta cadere senza pensarci. Helena annuncia a gran voce la necessità di mettersi al lavoro, che di tempo ne hanno perso abbastanza e comunque devono consegnare quei provini. Ridacchia su quella frase, soffermandosi allusiva sul “comunque” che pesa come un macigno sulla testa di Brian.
“Diglielo adesso”.
Si muove con la familiarità distratta che prendono le persone quando si adattano in fretta ad un ambiente. Getta occhiate intorno a sé per assicurarsi del luogo in cui si sta muovendo, ne misura le distanze per paura di urtare i mobili.
“Dille che è stato tutto un tragico errore. Che non volevi. Che ti dispiace.”
Si assicura di trovare un proprio spazio, di conformarcisi anche quando si siede sul divano, tra i cuscini che sprimaccia di lato, cominciando a rovistare maggiormente a proprio agio nella cartelletta di pelle in cui ha riposto i provini.
“Diglielo. E poi torna a vivere la tua vita.”
-…allora?- domanda Helena puntandogli addosso uno sguardo morbido come il velluto.
Il punto è che con lei ci sta bene.
In un modo diverso da quello che condivideva con Stefan. Ma ci sta bene.
E fa decisamente meno male.
-Pranziamo assieme?- s’informa Brian alzandosi anche lui per raggiungerla sul divano.
-Dove?
-Qui.- ribatte lui sedendo e spostando nuovamente i cuscini per ammonticchiarli tra di loro.- Tanto c’è Alex che si occupa di fare la spesa.- ridacchia.
 
Fine.
 
A volte le cose finiscono
 
-Mi piacerebbe che tu venissi, Brian… Mi piacerebbe che voi due vi incontraste.
…in realtà, le cose finiscono quasi sempre.
-Non lo so, Stef, devo anche vedere se ad Helena va bene esserci…Sai…è comunque a lei che devo rendere conto ora come ora…non mi va di metterla in imbarazzo.
Solo che a volte fa male.
 
-…che vuol dire che ha detto che dipendeva da me, Stef?
Ed alcune di queste volte, fa così male da non avere nemmeno la forza di chiudere e basta.
-Vuol dire che mi ha mentito, Helena, nient’altro.
Così le cose, anche se finite, si trascinano.
 
E gli strascichi di una storia finita sono peggio, a volte, di tutto quello che di male.
Di cattivo.
Di doloroso ci si sia scambiati stando assieme.
 
Di come lo ha scoperto non si ricorda più.
Probabilmente ha origliato una discussione tra Steve e Stefan, che ne parlavano tra loro.
Di come ha scoperto che Vincent era andato a vivere da Stef se lo ricorda bene, perché è stato Stefan a dirglielo quando gli ha anche annunciato che lo avrebbe presentato loro – a lui, Steve ed Helena, s’intende, perché Alex lo conosceva già – quel pomeriggio stesso, quando Vincent li avrebbe raggiunti lì dopo il soundceck.
Il resto non ha bisogno di ricordarselo, perché lo sa.
Sa delle fughe con scuse idiote pur di non incontrarlo, sa dei tentativi ripetuti – infiniti – di Stefan per riuscire a stringerlo nell’angolo e costringerlo a parlargli…o almeno a vederlo. Sa di Helena che gli dice che così non può continuare – e glielo dice continuamente, tanto che Brian ha perso il conto delle volte e non le bada più, la sera prima di andare a dormire, quando lei lo insegue fino alla porta del bagno tentando invano di ottenere una risposta. Sa anche di Vincent, perché Alex gliene parla, sa di tutte le volte che attraverso lei cerca una mediazione “per il bene di Stefan”.
E sa che del bene di Stefan non gliene è mai importato così poco.
Sa tutto questo quando Stefan gli chiede di esserci. E sa che Helena ha lo sguardo fisso su di lui, quando la cosa viene fuori e lui – che ha mentito di nuovo – si sente sotto accusa e non ha voglia di affrontarla.
-E’ il compleanno di Stefan, Brian. Fai uno sforzo.- ordina la voce calda della donna, in una frase spezzata e secca da cui traspare il velo di esasperazione che l’affligge.
Sa tutto questo e cammina incontro alla verità di quella storia finita. Ci va perché ha bisogno di farlo e di mettere davvero la parola “fine” al termine di quella storia.
E quando Vincent si avvicina e gli parla, fuori dalla terrazza, lui guarda in giù. Si dice che è alto da morire, che a camminare sul bordo si rischia di cadere e che lui è davvero troppo grande – ormai – per continuare a fare l’equilibrista in bilico sul muretto dell’aiuola.
Vincent ha proprio ragione a rimproverarlo.
“Without you, I’m nothing”
2008
                                                                                                                      Easily Forgotten Love
 
Nota di fine capitolo:
Fa un po’ strano dirsi che è terminata, perché mi ci ero affezionata abbastanza.
Fatto sta che è terminata. Non so nemmeno io quanto tempo è che volevo fosse scritta, Without stata qualcosa a cui ho tenuto per un bel po’ e senza ragioni reali. È una storia che trovo molto amara ma piuttosto realistica, non fosse per il suo andamento apatico, smorzato e vagamente noioso la troverei decisamente migliore.
Considerazioni sceme di fine storia, comunque XDDD
A nome dell’Easily si ringraziano tutti coloro che hanno seguito la storia, in particolare Stregatta e Chemical Kira per averla anche commentata. Si dà un bacio enorme a tutti e ci si vede alla prossima.
MEM

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